Jealous Gods

di xiaq
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


Salve a tutti. Sono 86221_2097 e questo è il mio primo tentativo di traduzione. Si tratta di una storia che ho adorato. E' suddivisa in 24 capitoli, che tenterò di aggiornare settimanalmente. La storia è completa ed è collegata ad un'altra fanfiction che l'autrice ancora non ha completato: Phaedrus. Se questa fanfiction verrà apprezzata molto probabilmente inizierò a tradurre anche l'altra.
Questo è il link alla storia originale: http://archiveofourown.org/works/1442002/chapters/3033136
Per qualsiasi critica, consiglio, commento sulla mia traduzione e/o sulla storia non esitate a lasciare una recensione, sono sempre ben accette! Nel caso in cui vogliate far sapere il vostro parere sulla storia all'autrice vi basterà recensire e io farò in modo di farle ricevere i vostri commenti.
Buona lettura!

                                                                                                       Capitolo 1

C’è un orologio.

Sa che c’è un orologio perché puó sentirlo, più forte dei battiti del suo cuore. Rumoroso. Lento. Un’eternitá tra-ogni-solenne-ticchettio.
Troppo lento. Decisamente troppo lento. Sbagliato.

I ticchettii dell’orologio segnano i secondi. Pensa. Un ticchettio. Un secondo. Ma ci sono troppi secondi. L’orologio si sbaglia. No, realizza, io mi sbaglio. Per qualcuno che ha ragione cosí spesso è uno shock sgradevole.

Sherlock apre gli occhi- un ospedale dunque- e resiste all’infantile, ma oh cosí impellente impulso di lamentarsi.

Ospedale. Di nuovo. Il rumore della macchina che ronza si confonde con le luci rosse e verdi sul monitor. I colori fanno rumore nella sua testa. Come a Natale. Pensa. E poi: No, non come a Natale. Stupido.

Il ritmo del suo cuore è stabile. Bene. Ossigeno ma non respiratore artificiale. Bene.

La sua attenzione si sposta a piccoli tratti verso la curvatura pallida del suo gomito sinistro. Non si sofferma sulle giá esistenti tracce di aghi. Noioso. Ma ci sono due drenaggi endovenosi al posto dell’uno solito e la sua attenzione si sposta velocemente alle corrispondenti sacche appese.

Fluidi e sangue. Sangue? Sangue. Non bene.

Il familiare peso della Morfina gli sta rendendo difficile pensare.

Tutto è lento e rumoroso e accecante.

Sherlock chiude gli occhi di nuovo e respira profondamente. Fa male. Si ferma un momento per apprezzare la concisa chiarezza del pensiero che accompagna il dolore.

Costola rotta. Pensa. No-Costole? Respira di nuovo. Costole.

Prova a catalogare il resto del corpo ma non sembra trovarlo. Prova a ricordare cosa sia successo ma non riesce a fare neanche questo. Infine cede di nuovo al canto di sirena del sonno medico, pensando che forse il sapore del sangue nella sua bocca non dovrebbe risultargli cosí familiare.

***
Sherlock Holmes.

Sono passati 5 anni dall’ultima volta in cui John si è permesso di pronunciare ad alta voce il nome. Lo fa ora, cercando di analizzare le incomprensibili annotazioni sulla cartella clinica.

Non è stato lui ad accettarlo.

Non è stato lui a farsi prendere dal panico mentre uno straziato agglomerato di quello che era stato un uomo veniva trasportato per il pronto soccorso. Non era stato lui ad ordinare una trasfusione di sangue o a suturare la ghignante apertura di una ferita causata da un coltello che abbracciava la curva della sua costola destra. Non era stato lui a tirare fuori Sherlock da un arresto cardiaco quando il suo cuore era collassato in un affaticato arresto sotto il peso delle droghe e della perdita di sangue e della sua lotta senza fine per tenere il suo stupido, incredibilmente stupido padrone, vivo. Non era stato lui a curare le conseguenti bruciature sul suo petto. Perchè non l'aveva saputo.

John non riesce a decidere se sia una cosa buona o cattiva. Il fatto che non abbia saputo che Sherlock fosse qui, cercando di morire, qualche ora prima. Probabilmente buona, pensa. Buona per la sua sanità mentale, buona per il suo lavoro. Probabilmente. Ma questo stato di cose non lo fa sentire meno infuriato.

Sherlock.Lo dice di nuovo, solo perchè ora ha una scusa per farlo.

Il nome viene fuori suonando come una maledizione.

Sa che probabilmente dovrebbe chiamare la dottoressa Allen, dirle che non può seguire questo paziente. Dirle che hanno un passato. Ma questo implicherebbe poggiare la cartella clinica di Sherlock e lasciare la stanza e non essere in grado di osservare i suoi parametri vitali e continuare ad essere certo che, si, il suo cuore sta ancora battendo e, si, è ancora vivo. Quindi John non lo fa. E' già concentrato sui suoi altri pazienti. Ci sono quattro reduci delle passate settimane e uno ricoverato la notte scorsa, come Sherlock. Sa di avere quarantacinque minuti prima dei turni e sa che dovrebbe str bevendo la sua terza tazza di tè della mattina o star prendendo in mano il lavoro d'ufficio o star comprando in caffetteria qualcosa che potrebbe passare per un pasto, e sa anche che non farà nessuna di queste cose.

Al contrario, si siede sulla sedia dei visitatori nell'angolo e rilegge la cartella clinica di Sherlock per la quinta volta e prova a non guardarlo troppo o a non ricordare troppo o a non preoccuparsi troppo su cosa succederà quando si sveglierà.

Non ci riesce molto.

Ma non è il guardare o il preoccuparsi che causa il problema. E' il ricordare. Perchè come può non farlo? Sono passati cinque anni, e si, cinque anni sono un tempo dannatamente lungo, ma mentirebbe se dicesse che gli importa. Non con Sherlock. Quell'uomo è impossibile da dimenticare almeno quanto è esasperante. John ha ancora la stessa conflittuale urgenza di picchiarlo e abbracciarlo che aveva il giorno in cui era salito su quell'aereo mezzo decennio fa pensando che avrebbe rivisto Sherlock undici mesi dopo. Sherlock era ancora un ragazzo all'epoca. Come John del resto.

Lascia che il treno dei pensieri faccia dietrofront, riavvolgendo la pericolosa linea temporale fino a fermarsi su ricordi più sicuri, meno dolorosi, come il giorno in cui si sono conosciuti. Sherlock è così incredibilmente giovane nella bobina precipitosa dei fotogrammi nella sua testa. E' difficie conciliare il dodicenne Sherlock con la sua espressione altezzosa e i suoi occhi spaventati con la desolata realtà del diciottenne Sherlock nel letto d'ospedale di fronte a lui. Diciotto? No. Diciotto era la stima sulla sua cartella clinica ma non era esatta. Ne ha venti adesso, quasi ventuno. Cinque anni dall'ultima volta che l'ha visto. Otto da quando si sono incontrati. Più tempo da estranei di qualsiasi altra cosa.

John allunga la mano a dispetto di se stesso, le sue dita che trovano il battito del polso pallido. Può vedere i valori sul monitor, ma il bisogno di toccare Sherlock sovrasta la logica. Chiude gli occhi, conta i battiti e si perde nei ricordi.

John ha incontrato Sherlock per la prima volta davanti all'ufficio dello strizzacervelli; due settimane dopo il suo diciassettesimo compleanno e tre settimane dopo il suicidio di suo padre. Era un venerdì. Non il giorno in cui ha incontrato Sherlock, il giorno in cui suo padre si è ucciso. Era un venerdì e aveva usato la sua pistola 9mm. Jhon aveva gli allenamenti di football dopo la scuola e si era dimenticato i tacchetti e sapeva che l'allenatore sarebbe andato fuori di testa perchè era la seconda volta quel mese. Quindi tra la quarta e la quinta lezione era corso a casa a prenderli. Quello fu il momento in cui trovò suo padre. Venerdì. Pistola. Pavimento della cucina. John aveva saltato gli allenamenti di football quella sera.

John ha incontrato Sherlock per la prima volta davanti all'ufficio dello strizzacervelli dieci minuti prima della sua prima seduta. Sherlock sembrava entusiasta di essere lì almeno quanto lo era John. Che non lo era per niente. John era lì sotto costrizione. Pensava fosse abbastanza normale, viste le circostanze, che i suoi voti fossero calati vertiginosamente e che i suoi incubi comprendessero un'ampia gamma di urla, ma sua madre pensava che lui fosse depresso e che quache mese di terapia lo avrebbe guarito. Aveva acconsentito pur di farla smettere di piangere.

La sala d'attesa era piccola e bianca e pervasa di tutto ciò che uno possa figurarsi mentalmente quando sente le parole "sala d'attesa dell'ufficio dello strizzacervelli". C'era una libreria e un acquario e quattro sedie che sembravano molto scomode appoggiate al lungo muro. E lì è dove ha incontrato Sherlock.

Il ragazzo era seduto sulla sedia più lontana, una caviglia agganciata sull'altra, braccia incrociate dietro la testa, occhi chiusi. Se fosse stata eseguita da chiunque altro Jhon suppone la posizione sarebbe stata definita rilassata. In qualche modo riusciva a sembrare pericoloso, il che era assurdo, considerando che Sherlock all'epoca pobabilmente non pesava più di 30 kg. Con i suoi ricci neri e la sua pelle quasi traslucida sarebbe potuto benissimo essere una caricatura dell'innocenza infantile, ma c'era qualcosa di bestiale in lui, qualcosa di sbagliato. John si ricordò di una gita scolastica allo zoo, quando aveva pigiato i palmi sudati al vetro appannato e aveva sbirciato i gatti della giungla mentre camminavano all'interno delle loro recinzioni. Lui era così, aveva deciso John. Una specie di creatura da guardare-ma-non-toccare. Il tipo che avrebbe potuto lasciarsi accarezzare in un primo momento e decidere di mangiarti il momento dopo.

Quando John si era seduto, una sedia a dividerli, Sherlock aveva aperto gli occhi e per un attimo tutto era diventato un po' indefinito. Il ragazzo più giovane lo aveva esaminato con un'espressione che combaciava con il suo aspetto per ugual ferocia e, di nuovo, la mente di John venne ricondotta a palmi sudati e predatori che camminavano.

"Cosa c'è che non va con te, quindi?" la voce di Sherlock, quando aveva parlato, era stata sorprendentemente dolce.

"Niente." aveva risposto John istintivamente.

"Il dottor Sebring non si occupa di pazienti banali. Se sei qui ci deve essere qualcosa che non va in te."

Parlava come un adulto. Pronunciava ogni sillaba di ogni parola con precisione spaventosa. Aveva guardato John: senza battere le palpebre, come un gatto della giungla, fino a che John non era stato sgomento abbastanza da rispondere sinceramente.

"Mio padre si è suicidato. Sono stato io a trovarlo."

Nelle settimane passate John aveva notato che la maggior parte delle persone, una volta messe a parte dell'informazione, tendevano a scusarsi senza ragione, guardarlo con quello che aveva imparato a riconoscere come "lo sguardo di compassione" e poi, generalmente, a dare inizio a quache sorta di contatto fisico. Sherlock non aveva fatto nessuna di queste cose. L'unico movimento che aveva fatto era stato protendersi verso di lui leggermente, le mani poggiate sulla sedia che li separava. Aveva mani incredibilmente piccole, persino per uno della sua età.

"Come?" aveva detto Sherlock, riportando l'attenzione sulla sua faccia.

"Cosa?" aveva chiesto John.

"Come si è suicidato?" Sherlock era sembrato infastidito, come se non fosse abituato a ripetersi.

A John era venuto in mente che si sarebbe probabilmente dovuto risentire per quella reazione, ma l'aveva trovata rinfrescante abbastanza da non curarsene."Pistola" aveva risposto, picchiettandosi la tempia destra. "Una glock da 9 millimetri.".

Stava ancora attendendo le scuse e la compassione. Nuovamente, non arrivarono.

"Perchè?" aveva chiesto Sherlock, aggrottando leggermente le ciglia.

"Perchè si è suicidato?" aveva ribadito John.

"Si."

Non era riuscito ad evitare di ridere, ed era sembrato che Sherlock trovasse la cosa interessante.

"Mi piacerebbe saperlo," aveva risposto.

Sherlock si era seduto di nuovo sulla sua sedia, le braccia che si muovevano per incrociarsi dietro la sua testa. "Curioso," aveva detto, chiudendo nuovamente gli occhi.

"E tu invece?" aveva chiesto John, sentendo di doverne tirar fuori qualcosa da tutto ciò. "Perchè sei qui?".

"Disturbo antisociale di personalità." Lo aveva detto in modo chiaro e uniforme. Come se lo avesse detto mille altre volte prima. Come se fosse un fatto.

John aveva letto abbastanza nelle passate settimane della pagina di psicologia di Wikipedia per riconoscere il termine.

"Sei un sociopatico, quindi?"

Se il ragazzo più giovane era stato impressionato dalla sua conoscenza, non l'aveva dato a vedere. "Si." aveva risposto semplicemente.

"Deve essere bello."

"Cosa?" gli occhi di Sherlock si erano aperti di nuovo, aveva osservato John in una maniera tale da farlo sentire come una preda.

"Non provare emozioni," aveva mormorato John. "I sociopatici non sono in grado di provare emozioni, giusto? Deve essere bello."

Sherlock gli aveva lanciato uno sguardo nuovo, uno sguardo di considerazione, come se John lo avesse stupito, come se fosse stato un animale che improvvisamente aveva mostrato una propensione alla parola.

"Si," aveva concordato. "Si, lo è."

***
"Dottor Watson?"

John si alza con un rapido, meraviglioso movimento che gli lascia la sensazione di capogiro ed in un certo senso di imbarazzo, come se fosse stato beccato a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Devia lo sguardo dall'attuale figura di Sherlock al viso del dottor Stamford, un altro tirocinante al terzo anno, e sospira, sfregandosi il palmo della mano sulla fronte, tentando inconsciamente di rimuovere ricordi vecchi di otto anni, nascosti al di sotto di strati frustranti di pelle e ossa. L'altra mano ancora stringe la cartella clinica di Sherlock, le dite ancora colpevolmente poggiate ai suoi bordi, come se l'avesse trovata per caso e non l'avesse imparata a memoria qualche attimo prima.

Stamfors aggrotta le ciglia nella sua direzione, avanzando ulteriormente nella stanza. Abbassa la voce, gli occhi neri seri dietro gli occhiali sbilenchi.

"Stai bene, John?"

Mike Stamford è un amico, o la cosa più vicina ad un amico che abbia avuto da quando ha iniziato la scuola di medicina. Fanno i turni insieme, Escono per un drink una volta o due al mese e ogni tanto rubano i biscotti dall'armadio delle scorte quando dovrebbero essere a suturare. Ma Mike non sa di Sherlock e di tutto ciò che implica e John non ha nessuna intenzione di dirglielo.

"Sto bene. Sono solo stanco," risponde,"C'è la dottoressa Allen?"

"Si, è l'ora del giro di visite."

"Bene."

John si alza, accettando i raccoglitori dei due pazienti aggiuntivi che Mike gli porge. Li sistema automaticamente per fare in modo che quello di Sherlock sia in cima, e poi, infastidito con se stesso, mette di proposito quello di Sherlock al di sotto dell'altro.

Segue Mike nel corridoio, cercando di ascoltare il roco timbro della voce del collega, mentre allo stesso tempo prova ad ignorare il fatto di non poter più sentire il polso di Sherlock. Sposta la cartella clinica tra le braccia mentre Mike preme il pulsante dell'ascensore. Tocca il pollice con l'indice, tentando di ricorare la sensazione della gelida pelle di Sherlock fra di loro. Gelida. Aveva freddo? Forse aveva bisogno di un'altra coperta.

La porta dell'ascensore si apre e lui si riconnette velocemente a quello che sta dicendo l'altro tirocinante.

"La dottoressa Allen vuole iniziare con il signor Lawson al quarto piano, ci sta aspettando lì," Mike lancia un'occhiata ai raccoglitori che ha in mano mentre sale sull'ascensore, poi fa un cenno verso John. "Penso di averti dato Lawson."

"Ok."

John si ferma per un attimo, pensando ancora a pelle gelida e coperte e, stranamente, ad una gita da giovane allo zoo, e poi realizza che Mike lo sta fissando, le nocche pigiate sul pulsante "porte aperte". L'ascensore sta producendo un fastidioso ronzio.

"John, vieni?"

"Certo, si."

Entra dentro scusandosi con un alzata di spalle mentre l'altro dottore lo osserva con occhi preoccupati ed un po' troppo consapevoli.

"Sei sicuro di stare bene?"

"Scusami," borbotta John, sembrando appropriatamente imbarazzato. "Non dormo da un po'. Ero di turno la notte scorsa. Sai com'è."

Il suo amico geme, poggiando per un attimo la testa sulla superficie specchiata antistante. "Oh, si che lo so."

Successivamente l'altro dottore procede raccontando una storia riguardante una straziante settimana che aveva avuto a Luglio nella quale era andato avanti con sonnellini di 10 minuti e biscotti Jammie Dodgers per 52 ore filate, ma John lo sta ascoltando solo in parte. Il suo pollice, pelle secca e screpolata a causa del continuo uso di disinfettante per le mani, continua a muoversi contro il callo sul suo indice, tentando di richiamare il fantasma del peso di un pallido polso venato di blu, che giace rilassato e flessibile tra di loro.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

NOTE DELL'AUTRICE: Un capitolo un po' corto, ma il prossimo sarà lungo quasi il doppio, grazie a chi lo leggerà!




Sherlock Holmes si è svegliato in un ospedale sedici volte negli ultimi dieci anni. Cinque di queste volte sono state intenzionali, ma oggi, la sedicesima, sicuramente non lo è.

Indugia per esattamente sette secondi, poi apre faticosamente gli occhi impastati dal sonno. Le ciglia ai lati rimangono incollate insieme, viscose e maledettamente presenti nella sua visione periferica.

Muco, pensa, dal greco. Sostanza composta di mucosa rilasciata dalla cornea. Mancanza di movimento delle palbebre durante i cicli del sonno ne permette la creazione. Oh. Sonno. Stavo dormendo. Ho dormito. Per quanto tempo?

Si ricorda di un orologio incredibilmente rumoroso con vaga apprensione e sbatte le palpebre una volta, rendendo chiara la vista, prima di guardarsi intorno.

E' questo il momento in cui lo vede.

John Watson.

E' seduto sulla sedia all'angolo. Capelli biondi, pelle abbronzata. Camice bianco. Arruffato. La testa china e le dita annodate insieme sotto le ginocchia. Sherlock non può vedere il suo viso ma sa che è John. I suoi gomiti, i suoi pollici, la leggera inclinazione delle sue spalle: sono tutte cose dolorosamente familiari.

John.

Un metro e settantadue (ha sempre mentito e detto un metro e settantacinque). Forma esteticamente piacevole. Capelli corti (li portava lunghi prima, si arricciavano dietro le orecchie quando li portava lunghi). Tirocinante. E' un dottore ora. E' sempre voluto diventare dottore.

Sherlock chiude gli occhi di nuovo, velocemente. Lecca le labbra screpolate e prende respiri leggeri e rifiuta di lasciare che la volgarità delle emozioni influenzi la sua situazione fisiologica.

Cinque anni e centoventisei giorni dall'ultima volta che l'ha visto.

No. Fermati.

"Sherlock?"

Si vergogna nel realizzare che il suo battito cardiaco ha allertato John del fatto che si sia svegliato. E' molto più veloce ora, più veloce di quanto non fosse prima. Da' la colpa al dolore.

"Sherlock." John lo dice di nuovo e la sua voce è la stessa. La stessa dei suoi ricordi. Ma più roca.

Guarda perchè deve farlo. Deve sapere quanto quei cinque anni e centoventisei giorni abbiano cambiato il viso di John. Vuole toccare i soffici principi di rughe agli angoli dei suoi occhi. Vuole catalogare ogni nuova lentiggine, cicatrice e piccolo, inconsistente cambiamento della linea della sua mascella. I suoi occhi, nonostante tutto, i suoi occhi sono ancora irragionevolmente blu ,come Sherlock li ricordava. La sua bocca ancora esasperatemente interessante.

Suppongo che certe cose non cambino. Pensa. E poi: No. Fermati.

"Sherlock." John lo dice di nuovo, e lui si sente costretto a rispondere.

"John."

Spezzata, ma fredda. Non perfetta, ma meglio di quanto non si aspettasse.

"Ti ricordi di me, allora?"

Sherlock risponde prima che prevarichi il buon senso di non farlo.

"Certo che mi ricordo di te."

Il viso di John si torce. Sbatte la cartella clinica di Sherlock sulla sedia mentre si alza. "Si? Potresti avermi stupito."

John viene avanti e c'è qualcosa che non va nella cadenza dei suoi passi. Qualcosa di diverso. Qualcosa di sbagliato.

Evita di sforzare la gamba sinistra. Non dolore. Solo disagio.Oh. Ferita?

Non ha l'occasione di chiederglielo perchè, quasi all'improvviso, John inizia ad urlargli contro.

"Come hai potuto fare questo a me, Sherlock? Hai una vaga idea di come sia essere nel bel mezzo dell'inferno ed essere abbandonato dal tuo unico contatto con la salute mentale che ha deciso che non gli servi più. Davvero, Sherlock, che non gli servi. Come se questo fosse tutto quello che sono stato per te- una sorta di divertimento. Questo è stato il peggiore- in assoluto il più crudele modo in assoluto di concludere un'amicizia con qualcuno, lo capisci vero? Le persone non fanno, cazzo, questo alle altre persone. O almeno le persone normali non lo fanno. Suppongo che tu lo faccia."

John si passa una mano fra i capelli, più corti ora, ma il gesto è, nonostante ciò, dolorosamente facile da ricordare.

"Ti avevo avvertito." dice Sherlock.

"Stronzate."

"Il primo giorno," continua Sherlock, ignorandolo. "Fin dal primo giorno ti ho detto che cosa ero. Non ho mai fatto finta di tenerci."

Vorrebbe non essere collegato ai monitor. Il suo viso è impassibile. Le sue mani sono ferme. Ma il battito del suo cuore lo smaschera e al momento è violentemente veloce, punti rossi di luce sullo schermo oscurato. John però non lo nota. E' troppo arrabbiato. Bene. No-Male. Entrambe le cose?

"Ho risposto alla tua e-mail, sai?" dice John. Non sta più urlando, ma in qualche modo è peggio. "Ho usato ogni fottuta occasione che ho avuto in tre mesi per provare a trovarti. Ti ho spedito delle lettere. Ho anche parlato con Mycroft. L'ho chiamato dopo il quarto mese e ho implorato."

Le parole escono fuori come una confessione, qualcosa di aberrante che non voleva condividere ma che è costretto a condividere in ogni caso.

Sherlock sbatte le palpebre ed inizia a recitare la tavola periodica nella sua mente.

Idrogeno. Elio. Litio. Berillio.

"Sai quanto tempo è passato?" chiaramente una domanda retorica, chiaramente vuole continuare. "Sai quanto tempo è passato da-"

Sherlock si ferma. (Magnesio) e lo interrompe.

"Cinque anni. Centoventisei giorni."

John non dice nulla per qualche secondo.

Alluminio. Silicio. Fosforo. Zolfo. Cloro. Argon. Potassio.

"Hai tenuto il conto?"

Non bene.

"Ovviamente no,"(bugia) "semplice matematica."

John ride senza gioia. "Bene. Scusa. Mi ero dimenticato con chi stavo parlando."

Il viso di John cambia, diventa impassibile. Non è completamente privo di emozioni, la rabbia è ancora presente agli angoli dei suoi occhi e nella parte finale a destra del suo labbro superiore. C'è tristezza nella sua mascella serrata. Ma solo per Sherlock. Per chiunque altro la sua espressione sarebbe assente.

E' stridentemente non familiare, questa espressione. Sherlock non l'ha mai visto indossare questa terribile maschera prima ed è troppo simile alla mia, pensa, John non dovrebbe mai apparire così. John è sempre stato il tipo di persona facile da leggere e facile da ferire. Non hai mai tenuto il cuore nella sua custodia, lo ha sempre trasportato con le mani e l'ha affidato fiducioso ad estranei e l'ha lasciato liberamente sanguinare di conseguenza. Sherlock si chiede cosa gli abbia insegnato a proteggere i suoi sentimenti, se sia stato l'esercito o la scuola di medicina o qualcos'altro- qualcosa come lui.

Non è più un problema tuo interessartene, si dice. Calcio. Scandinio. Titanio. Vanadio.

"Ho chiamato tuo fratello circa un'ora fa." Le parole di John sono come ghiaccio.

"No."

John ride di nuovo. Troppo stridente. John non ha mai riso così. Era bello. Quel rumore invece non lo è.

"Si, in realtà. Ha un volo di ritorno domani. Pare che abbia dovuto interrompere un viaggio d'affari. Non è contento."

Sherlock non parla. Non può parlare.

"Quindi. Vuoi dirmi cosa è successo?" continua John.

Sherlock aveva pensato che nulla potesse essere peggio di quella risata, ma no. Questo, il tono di voce di John ora, questo è peggio.

"Vuoi spiegarmi perchè eri così fatto da non trovare apparentemente necessario fermare qualcuno dal tentare di, cazzo, ucciderti?"

Si. No. Fermati. Cromo. Manganese. Ferro.

John realizza che Sherlock non ha intenzione di rispondere, e si passa le mani fra i capelli un'altra volta.

"Merda. Merda. Vado a casa. Sarei dovuto andare a casa ore fa. Avrei dovuto sapere che parlare con te sarebbe stato inutile. Buonanotte."

Esce dalla stanza.

Notte. Notte? Finalmente guarda l'orologio. 21:48. Notte.

Osserva John andarsene. Chiude gli occhi di nuovo.

Cobalto. Nikel. Rame. Zinco.

(Zinco)

John indossava ancora la collana.

L'insignificante fatto rende Sherlock irrazionalmente felice.

***
John prende in considerazione l'idea di andare al pub prima di decidere che sarebbe in definitiva una pessima idea. Conosce i comportamenti auto-distruttivi e conosce se stesso e sa che se iniziasse a bere stasera probabilmente non si fermerebbe.

Quindi si dirige a casa con le spalle curve ed il peso del troppo tutto che grava sulla base del suo collo incurvato. Mangia gli avanzi di pasta del fine settimana e prova a prestare attenzione ad un episodio registrato di Dr. Who ma lascia perdere quasi subito. Sa di non essersi fatto la doccia per quasi due giorni interi, ma non riesce a costringere se stesso a trovare l'energia necessaria per farlo. Invece, controlla i  messaggi sul cellulare- nessuno- nessuna sorpresa a riguardo- Angela non l'ha contattato ed è quasi una settimana ormai. Ancora un'altra relazione finita. Si chiede se lo chiamerà, fornendogli la familiare lista di non ti vedo mai, voglio di più, mi dispiace o se ignorarlo sarà la sua linea d'azione. Sospira, inserisce l'allarme e va a dormire. O almeno ci prova. Quanto a riuscirci, non molto.

Perchè non pensare a Sherlock sembra semplicemente non essere un'opzione.

Si rifiuta, all'inizio, di accogliere i ricordi, ma è esausto, fisicamente e mentalmente, ed a un certo punto si arrende. Inoltre, i ricordi iniziali, quelli che tentano al momento di materializzarsi nella parte interna delle sue palpebre, non sono quelli brutti. Quindi lascia che dita inconsapevoli tocchino il ciondolo che porta al collo e li lascia scorrere.

La seconda volta che aveva visto Sherlock era stata una settimana dopo il loro primo incontro. Stesso orario. Stesso posto.

Aveva salutato lo strano ragazzo con un esitante ciao ma Sherlock non si era mosso da quella che John aveva iniziato a riconoscere come la sua posizione abituale: testa all'indietro, occhi chiusi, la personificazione di una statua. Dopo qualche momento in attesa di una risposta aveva realizzato che non ne avrebbe ricevuta una.

La terza settimana John gli aveva chiesto il suo nome.

"No." aveva risposto senza aprire gli occhi, e John aveva deciso che in ogni caso non avrebbe dovuto tentare di fare amicizia con un sociopatico.

La quarta settimana fu la settimana in cui le cose iniziarono a diventare interessanti.

Dopo essere arrivato nell'ufficio, ed aver occupato il suo solito posto nella sala d'attesa, il telefono di John aveva iniziato a squillare. Era sua madre, che gli aveva chiesto della giornata e dei suoi progetti per la sera e che gli aveva fatto sapere che, ancora una volta, sarebbe tornata a casa tardi.

Quando aveva attaccato, Sherlock lo stava osservando.

"Perchè hai mentito?"

La sorpresa di John nel sentire finalmente Sherlock che gli parla eclissa le parole stesse per un momento, e John si volta nella sua sedia per guardarlo in faccia, dicendo stupidamente, "Cosa?"

I suoi occhi si stringono per l'irritazione."Tua madre, proprio ora. Le hai detto che la tua giornata è stata bella. Non è vero. Perchè hai mentito?"

"Non stavo mentendo," John aveva risposto precipitosamente," la mia giornata è andata bene."

"Bene non vuol dire bella. Semantica. A proposito, stai ancora mentendo."

"Ok, bene," aveva ammesso."La mia giornata è stata schifosa. Contento?"

Sherlock aveva continuato a guardarlo con aspettativa e John aveva realizzato che stava ancora aspettando una risposta alla sua domanda iniziale.

"Non voglio che si preocccupi. Quindi ho mentito. Tu non l'hai mai fatto?"

"Mentire?" Sherlock aveva sorriso ed in qualche modo era sembrata un'azione di violenza più che di piacere."Certo."

John aveva roteato gli occhi."No, intendo, hai mai mentito a tua madre quando ti chiede com'è andata la tua giornata, per non farla preoccupare?"

Il suo sorriso era retrocesso. Le sue labbra si erano increspate. "Questo sembra implicare che mia madre mi chieda come sia andata la mia giornata"

"Non lo fa?"

"No." Era sembrato quasi divertito dal pensiero.

"Oh." John non era molto sicuro di cosa avrebbe dovuto dire a riguardo, ma era stato risparmiato nel rispondere oltre quando l'atlro ragazzo si era alzato, fronteggiandolo, e aveva chiesto, "Cosa ha reso la tua giornata schifosa?"

"Niente," John aveva scrollato le spalle. "Lo è stato e basta."

Sherlock aveva sorriso. Troppo ampio per essere gentile."Falso," aveva detto.

"Non sto mentendo."

"Falso," aveva ripetuto.

John aveva lasciato uscire un suono di fastidio, che gli era sembrato compiacesse Sherlock. "Bene," aveva confessato, " Non ho passato un esame. Sono vicino alla media della C nel corso e se non passo il prossimo esame potrei essere bocciato. Mia madre sarà furiosa quando lo scoprirà."

"Vero," aveva mormorato, più a se stesso che a John. "Quale corso?"

John aveva deciso di rinunciare alle sue domande."Inglese."

"Argomento?"

"L'esame della scorsa settimana era su Beowulf. Abbiamo appena iniziato Amleto."

"Non ti piace Shakespeare."

Era stata più un'affermazione che una domanda ma lui aveva risposto comunque.

"No."

L'espressione di Sherlock era stata quasi di disappunto. "Peccato. Shakespeare è uno dei pochi autori che non sono completamente da buttare"

John non aveva detto nulla e dopo un momento Sherlock si era proteso in avanti, una mano sulla sedia che li separava, e aveva inclinato la testa, guardando John in modo molto simile a quello in cui la professoressa di scienze del ragazzo guardava le amebe al microscopio. John aveva trovato la posizione abbastanza inquietante.

"Cos'è che non ti fa piacere la letteratura?" aveva chiesto Sherlock.

"Niente, davvero, non mi sono mai sentito portato."

"Falso," aveva sospirato, sembrando annoiato.

"Potresti smettere di farlo?"

La frustrazione di John era parsa compiacere l'altro ragazzo. "Smettila e lo farò."

"Come fai a sapere che sto mentendo?"

Sherlock gli aveva lanciato uno sguardo che sembrava implicare il suo essere di un'intelligenza sotto la media. In realtà, la maggior parte dei suoi sguardi sembravano implicarlo. "La tua postura," aveva mormorato,"Il tuo viso. Non stai neanche provando a nasconderlo."

"Il mio colore preferito è il blu." aveva detto John improvvisamente, solo perchè era infastidito e voleva dimostrare che l'altro aveva torto.

Sherlock aveva sogghignato."Falso."

"Mi piace il succo d'uva."

"Falso."

"Mio padre era nell'esercito."

"Vero."

John aveva socchiuso gli occhi. Aveva provato a mantenere il suo volto impassibile.

"Il mio colore preferito è il verde."

"Vero."

"Mi piace correre."

"Vero."

"Ho una sorella."

Sherlock non aveva risposto immediatamente, e poi aveva sorriso come se John avesse fatto qualcosa di sorprendente."Falso."

"Sbagliato," aveva replicato felicemente,"Io ho una sorella."

"Non biologica." Aveva detto Sherlock, sembrando compiaciuto.

Questo aveva fatto fermare John. "E' la mia sorellastra, ma la considero comunque parte della famiglia."

Sherlock aveva inclinato la testa nel lato opposto, sembrando stranamente simile ad un volatile."Falso," aveva detto lentamente,"Ma vorresti che fosse vero. Interessante."

Porca miseria.

"Come riesci a fare questo?!" aveva chiesto John.

Sherlock aveva vagamente indicato il viso di John, sembrando di nuovo annoiato."E' tutto qui," aveva risposto disinvolto, come se quella fosse stata una risposta. E poi si era girato improvvisamente, lasciando che la sua testa si poggiasse al muro, e aveva chiuso gli occhi di nuovo.

John lo aveva preso come un segnale della fine della conversazione.

Non lo aveva fermato dal fissare Sherlock fino a quando non era stato chiamato nell'ufficio, tuttavia.


Note della traduttrice:
Salve a tutti! Inanzitutto volevo ringraziare tutte le persone che hanno messo questa storia tra le seguite e tra le preferite ed ovviamente quelle che l'hanno recensita. Non avete idea di quanto ciò sia gratificante.

Detto questo, due considerazioni:
1. Gli scrittori inglesi, compresa xiaq, hanno la tendenza ad usare la parola "fucking" quasi a modo di intercalare, non essendo in grado di tradurre letteralmente i suoi significati ho provato a tradurla in modo che si adattasse al modo di dialogare italiano. (Questo per tutti coloro che hanno potuto apprezzare la storia in originale e abbiano notato la leggera variazione nella traduzione)
2. Nella storia originale Sherlock dice "Truth" e "Lie" durante la conversazione con John. Ho peferito tradurlo con "Vero" e "Falso" più che usare una traduzione letterale perchè pensavo rendesse di più il ritmo del dialogo.

Grazie mille ancora per aver letto il capitolo!!  
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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

NOTE DELL'AUTRICE: Non ho idea di come funzioni il sistema scolastico di medicina inglese, quindi ho supposto fosse uguale a quello americano. Se non lo fosse, sentitevi liberi di correggermi! Spero che apprezziate un piccolo assaggio di Mycroft.


Mycroft Holmes aveva sempre desiderato un fratellino.

Due settimane prima del suo sesto compleanno sua madre gli aveva chiesto cosa volesse come regalo per quell'occasione speciale. Era un bambino intelligente già allora, e sua madre si era aspettata che lui rispondesse un telescopio o un set di chimica o anche un cucciolo perchè si, era un sicuramente un bambino brillante, ma pur sempre un bambino. Aveva valutato la domanda per otto secondi esatti prima di rispondere solennemente," un piccolo fratello."

Aveva ricevuto un telescopio.

Quando la domanda gli era stata posta l'anno successivo, la sua risposta non era cambiata.

E così si era andati avanti, per altri tre anni, fino a che William Sherlock Scott Holmes non fu dato alla luce.

Sherlock era nato il primo di Dicembre. Non era arrivato in tempo per il compleanno di Mycroft, ma il dodicenne non se l'era presa. Aveva tenuto in braccio Sherlock costantemente per tutte le vacanze invernali, mentre era a casa per due settimane da Eton.  Durante quelle prime due settimane, quando Mycroft aveva tenuto fra le braccia il neonato che si contorceva guardandolo obliquo, aveva deciso che non avrebbe mai avuto bisogno di un altro regalo di compleanno.

Il suo appagamento, tuttavia, durò ben poco.

Dire che Sherlock fosse stato un bambino difficile sarebbe un eufemismo. Era brillante, si, ma strano. I precettori di Mycroft lo avevano adorato.  Non era solo intelligente ma anche affascinante e di buone maniere. E sebbene sua madre si fosse disperata per i suoi capellli rossi e per le sue lentiggini senza fine , era comunque stato,  a tutti gli effetti, il figlio perfetto.  Sherlock no. Era bello, certamente, ma la sua condotta era...scoraggiante, a dir poco.  Non aveva rispetto per tutti coloro che riteneva meno intelligenti di lui ; praticamente chiunque avesse mai incontrato, quindi.  A volte si rifiutava di parlare o di mangiare per giorni,  e aveva la sconcertante abilità di scoprire esattamente cosa stesse pensando un persona,  specialmente se quello che stava pensando era qualcosa che non desiderava diventasse di pubblico dominio.

Mycroft gli voleva bene comunque.

Era stato strano per fratelli nati con così tanto distacco temporale essere così legati, soprattutto perchè uno dei due era stato costantemente lontano a causa della scuola.  Mycroft anzi era stata l'unica persona la cui presenza il fratello non solo non evitava, ma occasionalmente cercava.  Ogni volta che Mycroft era tornato a scuola Sherlock aveva continuato a chiamarlo due volte a settimana per poi parlare per esattamente un'ora. Avevano preso a giocare a scacchi a distanza, occhi chiusi alle parti opposte del pianeta, dirigendo alfieri e torri  mentre il gioco andava avanti al di sotto di palpebre sincronizzate.  Sherlock aveva sempre chiesto a Mycroft di raccontargli dei suoi corsi di chimica o di spiegargli parti di articoli di microbiologia o anche, a volte, di prendere la sua copia dell'Amleto e leggere Rosencrantz al suo Guildestern. Mycroft aveva regalato
una versione in pelle della tragedia quando aveva sei anni e per il suo settimo compleanno lo aveva completamente memorizzato.

Sherlock era diventato un membro del MENSA all'età di otto anni. I suoi genitori erano troppo preoccupati  per i crescenti problemi sociali di Sherlock per esserne orgogliosi, ma Mycroft aveva silenziosamente preso la lettera dalla scrivania di suo padre e l'aveva incorniciata. L'aveva appesa nel suo piccolo nuovo ufficio al governo accanto ad una lettera identica che lui aveva ricevuto all'età di sei anni. Il suo piccolo ufficio era stato scambiato con uno più grande tre mesi dopo, e con uno ancora più grande un anno dopo,  ma la lettera si era sempre mossa con lui. Era la prima cosa ad essere appesa e l'ultima ad essere tirata giu con cautela, avvolta nella carta, e spostata nel posto successivo.

Due settimane dopo il compimento dei suoi dieci anni, Sherlock aveva smesso di chiamare Mycroft.

Mycroft aveva continuato a tenerlo d'occhio, ovviamente. Aveva usato le risorse di suo padre e la sua stessa ben sviluppata intelligenza. Era tornato in visita ogni volta che aveva potuto ed aveva osservato con pacata tristezza Sherlock che si estraniava dal resto del mondo. Aveva guardato come Sherlock avesse preso in mano pianoforte, violino e violoncello e li avesse padroneggiati alla perfezione con la stessa facilità con cui faceva qualsiasi altra cosa. Aveva notato come le abitudini di Sherlock diventassero più preoccupanti man mano che l'innocenza infantile lo abbandonava.

Durante il Natale in cui Mycroft era diventato un membro fisso del Diogenesis club aveva sorpreso per la prima volta suo fratello a fumare una sigaretta rimediata da un pacchetto. La loro madre era isterica perchè erano tre giorni che Sherlock non mangiava ed era andato vicino ad avvelenarsi con l'alcohol la settimana prima. Mycroft aveva ventiquattro anni. Sherlock dodici.

"Cosa diavolo pensavi di fare?" Mycroft aveva urlato e Sherlock si era limitato a sorridergli, prendendo un'altra boccata con grazia consapevole prima di scambiare la sigaretta nella sua mano con un archetto, muovendosi con una sorta di terribile, distaccata eleganza mentre si sedeva alla finestra con il suo violino.

"E' un esperimento, Mycroft," aveva detto, gli occhi sbarrati mentre strimpellava una scala di note discordanti. "Non essere drammatico."

Era stato in quel momento che Mycroft aveva compreso con sicurezza che Sherlock non era più suo. Non era più il bambinno che Mycroft aveva richiesto. Apparteneva alla sua stessa autodistruttiva, forse troppo intelligente, persona. Realizzarlo lo aveva ucciso. Non aveva dubbi che la cosa, prima o poi, avrebbe ucciso anche Sherlock.

Era stato proprio durante quelle vacanze che Mycroft aveva incontrato John Watson.

Sherlock non aveva amici. L'unica  persona con la quale aveva mai mostrato una propensione a passare del tempo era stato Mycroft durante quei pochi anni. Quindi quando un adoloscente con una camicia infilata malamente e delle scarpe che calzavano male era arrivato alla porta degli Holmes la vigilia di Capodanno sostenendo che Sherlock lo avesse invitato, Mycroft era stato in qualche modo sconvolto. Aveva condotto il ragazzo all'interno dove si era unito al resto degli ospiti ed era rimasto fermo, leggermente a bocca aperta, sembrando incredibilmente fuori posto. Quando Sherlock si era accorto della presenza di John aveva sorriso, veramente sorriso, e aveva preso l'orlo della manica del ragazzo trascinandolo al di là della libreria, dove Sherlock generalmente usava nascondersi per evitare ogni evento sociale.  Era stato il primo contatto fisico che Mycroft avesse visto avviare da Sherlock in tutti quegli anni.  Durante la serata Mycroft era riuscito a parlare con John solo per pochi secondi, ma la conversazione lo aveva lasciato ancora più confuso.

"Come hai conosciuto Sherlock?" aveva chiesto. E John aveva risposto, "L'ho incontrato in terapia. Viene a casa mia dopo scuola praticaamente tutti i giorni. Mi da ripetizioni di Inglese."

"Perchè?"

John aveva scrollato le spalle, sembrando disorientato dalla domanda, "Perchè siamo amici."

Mycroft l'aveva osservato ritirarsi con una bottiglia di sidro e due bicchieri, perplesso,  perchè per quanto aveva potuto vedere, John Watson era assolutamente ordinario.  Aveva diciassette anni,  piccola borghesia,  gentile ma non eccessivamente simpatico, buoni voti, ma non particolarmente intelligente, attraente, ma non in maniera esagerata. Non aveva niente da offrire a Sherlock. Eppure,  nella seguente settimana di pausa natalizia, John aveva passato praticamente tutto il suo tempo a casa loro.

Per alcuni anni, le cose erano andate bene. Sherlock e John, separati una volta all'università,  continuavano a vedersi ogni fine settimana. Quando John era entrato nell'esercito ed era partito per la sua prima missione dopo essersi laureato al college, Sherlock si era liberato dai suoi impegni ogni Giovedì,  passando le giornate con Skype aperto nella speranza che John riuscisse a chiamarlo. Sherlock era paziente con John in un modo che Mycroft non era mai riuscito a capire e sebbene la strana amicizia lo avesse sconcertato, l'aveva incoraggiata. John Watson, ordinario com'era, era in grado di far sorridere Sherlock. E questa non era affatto un'abilità ordinaria.

La morte dei loro genitori aveva rovinato tutto.

Mycroft aveva pensato fosse stato lo shock, all'inizio,a guidare le azioni di Sherlock. L'insonnia, la depressione, le droghe. Ma quando le settimane erano diventate mesi e la spirale di autodistruzione del fratello non si era fermata, aveva iniziato a preoccuparsi.

Mycroft aveva provato a parlare con lui una volta, dopo che due mesi erano ormai passati e la depressione di Sherlock era profonda abbastanza da far trascurare a Mycroft il lavoro, spaventato di andarsene perchè in pensiero di cosa avrebbe potuto trovare una volta tornato a casa.

"Perchè non chiami John?" aveva detto.

Sherlock aveva poggiato la tazza di tè sul tavolo di fronte a lui, poi aveva allungato uno scarno dito, e lentamente aveva rovesciato la tazza di porcellana sul tavolo. Aveva osservato con interesse accademico Mycroft pulire la confusione risultante, poi si era ritirato nell'attico a suonare il violino.

Dopo quel giorno, Mycroft non aveva più menzionato il ragazzo, e dovettero passare altri sei anni prima che John Watson entrasse nuovamente a far parte della sua vita.

***
Mycroft Holmes siede sulla sedia dei visitatori accanto al fratello dormiente e si chiede, non per la prima volta, quanto ancora durerà la sua fortuna. Un giorno, probabilmente presto, pensa, si siederà accanto ad una bara e non ad un letto d'ospedale.

Non ha idea di cosa fare.

Sherlock stava andando meglio. Durante i due anni che avevano seguito la sua prima overdose, quando Mycroft lo aveva costretto a mantenersi pulito, Sherlock si era laureato con ogni sorta di encomi e offerte di lavoro, ma non ne aveva accettata nessuna. Mycroft non aveva voluto forzarlo, quindi l'aveva lasciato fare, alzandosi con il suono del violino proveniente dall'attico ogni mattina e tornando a casa con il silenzio ogni pomeriggio. E poi, un giorno, Sherlock se ne era andato. Mycroft aveva portato un vassoio con la cena nella sua stanza, sapendo che molto probabilmente non sarebbe stata mangiata, e l'aveva trovata vuota. Quando aveva salito la scaletta per l'attico e si era accorto che il violino di Sherlock non c'era, aveva capito che suo fratello non aveva intenzione di fare ritorno in tempi brevi. Aveva passato la settimana successiva usando ogni mezzo a sua disposizione per localizzare suo fratello, ma ad un certo punto aveva dovuto spostare la sua attenzione su altre cose. Sherlock era giovane, ma era anche sveglio. Se non voleva farsi trovare, non l'avrebbe trovato.

Quando Mycroft finalmente lo aveva localizzato, sei mesi dopo, era in un ospedale sotto cura per quella che i dottori avevano definito un'overdose intenzionale. Quando era arrivato il giorno successivo, ancora un po' sgualcito a causa del viaggio notturno, aveva trovato un uomo decisamente non sgualcito già al capezzale di suo fratello e le braccia conserte del visitatore sembravano implicare che lui fosse il fratello maggiore e Mycroft l'estraneo.

"Tu chi sei?" aveva chiesto Mycroft, e l'estraneo aveva risposto," Greg Lestrade. Scotland Yard. E tu chi diavolo saresti?"

La conversazione era semplicemente diventata molto strana dopo di quello.

Mycroft si passa le mani fra i capelli, resistendo all'impulso di tirarli. Dopo la seconda overdose aveva tenuo Sherlock sotto costante controllo fino al giorno in cui aveva compiuto diciotto anni. Da quel momento in poi non aveva potuto più fare nulla quando Sherlock era scomparso di nuovo. Mycroft aveva visto solo una volta suo fratello da allora; sempre all'interno di un'ospedale, ma in quel caso non aveva avuto niente a che fare con l'eroina.

"Vedo che ti appassiona ancora nasconderti."

Mycroft sospira, sollevando la testa da dove l'aveva tenuta a riposare, fra le sue mani.

Sherlock è sveglio, ha il suo solito cipiglio, nella solita posizione.

Si alza, è meraviglioso dopo più di un'ora nella stessa posizione, e muove i piedi fino al letto.

"Vedo che ti appassiona ancora andare in overdose"  risponde velocemente Mycroft.

"Non essere drammatico. Sono qui perchè qualcuno ha tentato di uccidermi, non perchè ho tentato di uccidermi."

"Cosa è successo?"

Sherlock sorride leggermente, di proposito. "Non mi ricordo."

Mycroft sospira una seconda volta. "Dimmelo, per favore. Vorrei evitare di perdere tempo e risorse utili a scoprirlo da solo."

"Ho fatto un leggero errore di calcolo."

"Si. E' quello che succede quando diventi dipendente dall'eroina."

"Non ne sono dipendente."

"Per favore,"  incrocia le braccia, il fruscio dell'abito inamidato spezza il silenzio circostante."Forse non avrò le tue particolari abilità ma non prendermi per un idiota."  sonda la faccia scarna e ostinata di suo fratello, poi sospira di nuovo. " Offrirei una casa di terapia di nuovo ma suppongo il tuo interesse a riguardo non sia cambiato dall'ultima volta che ne abbiamo discusso."

"Supponi correttamente."

"Bene. Ma Sherlock, questa storia finisce qui. Sei quasi morto. In realtà, sei stato morto, per due minuti e sedici secondi. Questo non succederà di nuovo. Se succederà ti farò internare in una casa di cura, che tu mi dia il permesso o meno. E' chiaro?"

Mycroft è sicuro che Sherlock stia prendendo in considerazione l'idea di rispondere con qualcosa di irrispettoso come mi piacerebbe vederti provare.  Ma non lo fa, perchè Sherlock sa molto bene che per Mycroft non sarebbe per niente difficile introdurlo contro la sua volontà in un qualsiasi programma di riabilitazione.

"Chiaro." Sherlock risponde brevemente.

"Quindi." Mycroft sposta le braccia sui fianchi. "Di cosa ti sei occupato negli ultimi mesi? Almeno sei tornato tutto intero questa volta. Quell'affare in Bolivia l'anno scorso era semplicemente ridicolo."

Sherlock lo ignora.

"No? Non vuoi condividere cosa stessi facendo? qualcosa al di fuori dei miei radar in qualche luogo caldo, giudicando dalla tua abbronzantura. Davvero, Sherlock, dovresti comprare della crema solare o avrai un cancro alla pelle per quando avrai trent'anni. Immagina semplicemente che modo noioso di morire sarebbe."

Mycroft osserva il braccio disteso del fratello, la stoffa sulla pelle scurita e sulle lentiggini raggruppate: il risultato di numerose bruciature parzialmente guarite, ognuna perfettamente integrata nella successiva. Ha notato che il ritmo del suo parlare è lento. Accento spagnolo? E' un'ipotesi probabile considerando gli ultimi resoconti di notizie.

"Cos'era questa volta?"  chiede," Un perfido dittatore? Contraffazioni? Ho sentito che il Messico è splendido in questo periodo dell'anno. Dimmi, come procede il cartello della droga in questi giorni?"

Sherlock lo premia con un sorriso. Non uno vero, uno di quelli non lo vede da anni, tuttavia pur sempre un sorriso.

"Le tue abilità sono sprecate in politica, Mycroft" dice.

"Davvero, sprecate? Di cosa hai bisogno tu per mostrare la tua intelligenza, Sherlock? Tracce di aghi e suture? Ustioni ripetute? Io uso i miei doni per realizzare qualcosa.  Tu li sperperi."

Sherlock rotea gli occhi. La sua maschera si incrina per un attimo prima che sia in grado di controllarlo. "Nel caso in cui tu non ti sia tenuto aggiornato con le notizie, la lista dei più ricercati dall'FBI è appena stata rilasciata senza le sue due maggiori stelle, visto che ora sono sotto la custodia federale. Vuoi sapere chi li ha messi lì? Vuoi sapere chi ha passato due mesi vivendo in uno squallore assoluto nella parte peggiore di Nueva Laredo solo per metterli lì? Il cartello delle droghe, visto che ti sei così cortesemente informato, è probabilmente in amorevole caos, grazie a me. Non c'è dubbio che si riuniranno in breve ma nonostante ciò ci sono sei miliardi di dollari in cocaina che non stanno attraversando il confine americano questo mese, se te lo stessi chiedendo."

"Ironico. Considerando che hai celebrato la vittoria tornando a casa e drogandoti."

Sherlock arriccia le labbra, come se Mycroft stesse diventando noioso. "Per favore, non toccherei mai la cocaina."

"Scusami. Questo dovrebbe farmi sentire meglio?"

Sherlock sogghigna di nuovo ed è il tipo di espressione che porta Mycroft a chiedersi se sia rimasto qualcosa del bambino che suo fratello era stato.

"Preferirei non sentissi nulla," dice Sherlock, "ti renderebbe decisamente più interessante."

Mycroft non parla per alcuni secondi, poi sospira.

"Non essere così ostile verso di me, ti prego. Indipendentemente da quanto impossibile tu possa essere, io ti vorrò sempre bene."

Il sogghigno si trasforma in palese disinteresse. "Lo dici come se per me avesse qualche importanza."

Mycroft sceglie di ignorare l'asserzione volutamente provocatoria per ottenere più informazioni. "Quindi." accenna al gomito di Sherlock, pallido in contrasto con l parte esterna del braccio. "I tuoi datori di lavoro a Scotland Yard sanno che abusi di droghe tra un caso e l'altro e lo ignorano? O generalmente nascondi queste indiscrezioni meglio di così?"

"Non ho datori di lavoro," risponde Sherlock, con calma. "Quando hanno bisogno di me mi chiamano, escluso questo, mi lasciano da solo. Abbiamo un accordo."

"Be', tutti gli accordi possono essere spezzati."

Il tono di Sherlock non cambia. "Non osare interferire, Mycroft. Potrai avere il mondo politico tra le tue mani, ma non provare ad immischiarti nel mio, ti ritroveresti surclassato."

Mycroft decide di non discutere sull'argomento."Con chi lavoravi in Messico? Sicuramente non con il governo americano."

Sherlock chiude gli occhi, Mycroft inizia ad annoiarlo. "Un amico degli anni in cui Lestrade era militare lavora alla CIA ora. Aveva sentito del caso Leeds l'anno scorso e li ha convinti ad assumermi come consulente. In realtà è la seconda cosa che ho risolto per loro. Ero a New York sei mesi fa.  Ho preso in considerazione l'idea di mantardi una cartolina. Penso ti sarebbe piaciuto lì. Tanti cheesecakes. Posso usare il tuo cellulare?"

Mycroft ride senza convinzione."Assolutamente no. Non ho interesse nel rendere pubblici i documenti sul mio cellulare di nuovo."

Sherlock lo guarda come se quella fosse una ragione stupida. "Bene, puoi controllare se qualcuno qui ha il mio? Penso che fosse nella tasca dei miei pantaloni quando mi hanno portato dentro. Potrei aver perso un messaggio importante." Sottolinea l'ultima parola con un leggero schiocco della lingua.

"Se lo trovo acconsentirai ad essere rilasciato sotto la mia custodia?"

L'espressione di Sherlock si adombra. "Non tornerò in quel mausoleo che ti ostini a chiamare casa."

"Bene. Possiamo rimanere nel tuo appartamento. Mi sono liberato dagli impegni della prossima settimana. Permettimi solo di occuparmi di te per qualche giorno fino a quando non ti sarai ripreso." Si fa forza, le labbra serrate. "Per favore."

"Veramente?"  la bocca di Sherlock si arriccia. "Un'intera settimana, Mycroft? Avevo l'imrpressione che il governo inglese non potesse funzionare senza di te."

"Non può," risponde semplicemente. "Ma i fratelli  imbecilli hanno la precedenza."

Sherlock prende in considerazione la cosa per un agonizzante momento, l'attenzione totale del fratello sul suo viso, e poi produce un sottile rumore di disgusto; lascia che la testa ricada sui cuscini e chiude gli occhi di nuovo.

"Cellulare." dice Sherlock, stendendo una mano, il palmo verso l'alto.

Mycroft decide che questa è la cosa più vicina ad un sì che riuscirà ad ottenere.

***
John lascia la cartella clinica di Sherlock per ultima.

Ha procrastinato il momento passando tre ore sul lavoro d'ufficio arretrato, ha controllato due volte gli altri pazienti, e ha anche fatto qualche test in laboratorio per Stamford. Evitarlo ha reso la giornata estremamente produttiva. Ma in ogni caso non può ignorare l'orario, o il fatto che le sue scuse stiano diventando sempre più patetiche, quindii prende in mano a malincuore la cartella di Sherlock, si prepara mentalmente, e scende nella sala.

Quando entra nella sala non è molto contento di vedere che qualcuno ha ritrovato il cellulare di Sherlock e glielo ha riconsegnato. E' persino più infastidito nel vederlo seduto, mentre lo usa per parlare con qualcuno. Non si accorge della presenza di John quando questo entra dentro.

"No, non mi stai ascoltando," dice Sherlock in modo brusco a chiunque ci sia dall'altra parte, "non stava lavorando per loro, lavorava con loro."

Rotea gli occhi di fronte alla risposta che quelle parole suggeriscono all'interlocutore, "Perchè suo padre era il capo Barrio Atzeca che certamente non avrebbe lasciato che suo figlio-"

Si ferma, agitandosi sempre di più man mano che l'altra persona continua a parlare.

"No, idiota, non Santana. il suo padre biologico. Perchè pensi fosse a Suarez?"

John può sentire la voce dall'altro capo del telefono, leggermente. Non abbastanza alta da distinguere le parole, ma abbastanza da capire che sono frustrati.

"Si, ne sono sicuro Dimmock," dice bruscamente, "ne sono sempre sicuro. Fai un test sul loro sangue se non i credi. Santana è O negativo, sua moglie B positivo. Vasquez è AB negativo. Questo è fisiologicamente impossibile. Il nostro capo, tuttavia, è A negativo."

Rotea di nuovo gli occhi.

"Dio, cosa vi insegnano nelle scuole americane di questi tempi? Sì. B positivo e A negativo possono portare ad un bambino AB negativo. Cerca di stare al passo. In ogni caso, guarda gli zigomi, sono chiaramente collegati."

Sherlock da' un'occhiata a John mentre questo viene avanti, sembrando annoiato per qualsiasi cosa stia ancora dicendo la persona sull'altra linea.

"Sì. E' esattamente quello che sto dicendo. Vasquez era uno dei corrieri di Carillo ma lavorava anche per il capo oltre confine. Questo è tutto quello che posso ricavarti dalla chiavetta, non so perchè tu-No, non posso venire."

John Sospira.

"Perchè disprezzo l'idea di volare senza motivo. Inoltre sono in ospedale...perchè sono in ospedale? Non vedo come questo abbia una qualsiasi attinenza con la conversazione in corso."

John si avvicina di un altro passo e sospira una seconda volta, più profondamente. "Dimmock devo richiamarti. Organizza una conferenza video se ti serve. Sarò tutt'altro che risolutorio ma almeno vi darò qualcosa su cui lavorare. Sì. Bene. Domani mattina. Alle sei."

Riattacca senza neanche salutare e poi guarda male il telefono tra le sue mani.

"Cosa c'è?" chiede Sherlock, senza neanche guardare John.

John si schiarisce la gola. "Devo controllare le tue suture."

Sherlock indica vagamente il suo corpo. "Be' fallo allora."

"Bene."

John non è mai stato bravo a nascondere le sue emozioni. Sherlock glielo aveva detto così tante volte, in passato. Mentre alza con cautela la maglietta non può fare a meno di ricordarsi un'altra situazione simile, quando aveva sollevato la parte bassa della t-shirt di Sherlock ed era inorridito di fronte alla pelle lacerata che vi aveva trovato sotto.

"E' soltanto un graffio, John.," aveva detto Sherlock, dodici anni e già un maestro nell'arte del mostrarsi costantemente superiore. "Non essere così drammatico. La tua espressione è ridicola."

Si chiama paura, aveva pensato John tentando di contrastare l'imminente panico. Si chiama tenerci. Tu non capiresti.

Tuttavia non ha più sedici anni. Non è più il preoccupato, quasi riluttante amico di un prodigio tendente all'autodistruzione. Ha ventisei anni. E' un dottore. E non mostra più le sue emozioni come una volta. L'esercito aveva aiutato con quello, e il suo anno di tirocinio aveva cementato la cosa. Persone erano morte. Spesso, ed in confusionari e a vollte terribili modi. A volte delle persone avevano ucciso altre persone. Avevano tradito, rubato, abbandonato i loro bambini o i loro amici. E aveva ritrovato se stesso a tenerci sempre di meno.

La pelle di Sherlock è pallida sotto la tunica dell'ospedale, in immediato contrasto con le sue braccia ed il suo viso. Le sue costole sono troppo sporgenti, è dolorosamente visibile ogni volta che respira. John tocca con mani esperte attorno al segno procurato dalla ferita, dove la pelle perfetta diventa rossa e ruvida e rovinata, persino dura intorno alle cuciture nere. Poggia un dito nella curva che si forma tra due costole e Sherlock prende aria.

"Sei troppo magro."

Sherlock non risponde.

John controlla altre cose, il livido dall'altro lato del corpo di Sherlock-tre costole rotte-il taglio sullo zigomo sinistro, le due dita fratturate della mano destra. Sembra che non sia la prima volta che vengono rotte.

Quando esamina il viso di Sherlock lo fa velocemente e senza guardarlo negli occhi, se non per il tempo necessario a controllare la velocità di reazione delle pupille. Li evita perchè i suoi occhi sono pericolosi. Nessuno ha occhi come quelli di Sherlock.

"Quindi," dice Sherlock ad un certo punto, stranamente incline alla conversazione, "suppongo che le congratulazioni siano dovute. Sei sempre voluto diventare un dottore."

"Sì," risponde John, spostandosi dal letto. Scrive qualche appunto sulla cartella, segnalando i dati LED che non sembrano giusti, occhieggiando Sherlock con non poca perplessità.

"Hai appena iniziato il terzo anno come tirocinante?" chiede Sherlock, la voce più alta del normale, quasi cordiale.

"Sì."

L'espressione di Sherlock non cambia. "Impressionante."

"Sì," risponde ancora John, iniziando ad aggrottare le ciglia, "perchè stai facendo così?"

Sherlock sorride lentamente, in modo innocente. "Facevo solamente un'amichevole conversazione."

"Noi non siamo amici."

Sherlock ha l'audacia di mostrarsi ferito. "Lo eravamo."

Le dita di John si stringono sulla cartella del paziente. "Nota l'utilizzo del tempo passato."

"Aiuterebbe se mi scusassi?"

"No. Perchè non lo faresti sul serio. Cosa vuoi Sherlock?"

La voce dell'altro uomo riacquista il suo tono abituale. Squadra John con l'equivalente per Sherlock di un cipiglio, le leggermente arricciate e il segno del suo fastidio sul sopracciglio destro.

"Un portatile. Per domani mattina alle sei. Dubito che Mycroft mi porterà il mio, se non sotto costrizione."

"E dimmi, cosa ti fa pensare che io sarei più disposto ad aiutarti? Pensavo fossi intelligente." Forse il suo sarcasmo è un po' troppo marcato, ma si ripete quanto se lo sia meritato, e la Dottoressa Allen, d'altra parte, difficilmente verrà lì a fargli la predica.

"Ho delle informazioni," dice Sherlock alla fine,  come se John lo avesse forzato a dire qualcosa di sgradevole.

"Hai sempre delle informazioni," replica John, voltandosi verso la porta, "Ma non me ne potrebbe importare di meno di sapere chi abbia dormito con chi o quale infermiera abbia rubato i noodles dall'armadio degli alimentari. Non ti disturbare."

"E riguardo al Dottor Stamford? Tieni a lui?"

John detesta la superiorità nel tono di Sherlock, ma questo non lo ferma dal voltarsi di nuovo.

"Bene." John si passa la mano libera sul viso, gesticolando verso Sherlock con la cartella nell'altra, "Vai avanti."

"Il tuo Dottor Stamford è al verde. Molto al verde. Ha perso il suo appartamento una settimana fa, forse due, ma è troppo orgoglioso per ammetterlo con chiunque. Al momento vive qui, in ospedale. Nessuno lo ha notato perchè i tirocinanti passano tutto il loro tempo qui in ogni caso. Ma qualcuno lo farà, prima o poi, e lui si troverà in guai ancora più seri. Suppongo tu non voglia che questo accada."

"Idiota," dice John, più a se stesso che a Sherlock, "perchè non lo ha detto a nessuno?"

"Orgoglio," dice Sherlock, perchè Sherlock non ha mai capito il senso delle domande retoriche.

"Ok." il peso della stanchezza si è immediatamente raddoppiato. "Questo vale un computer. Te lo porto domani, dovrei riuscirci per le cinque di mattina o giu di lì."

Sherlock annuisce, come se se lo fosse aspettato. Non c'è nessun "Grazie", ma John non se lo aspettava. Si ferma con la mano sulla porta, poi si volta di nuovo.

"Come hai fatto a capirlo?"

"Dubiti di me?"

"No. Ti conosco. Solo che mi è sempre piaciuto ascoltare come riuscissi a capire le cose."

Un'espressione particolare attraversa il volto di Sherlock, ma sparisce prima che John possa notarla. Sherlock increspa le labbra.

"I suoi vestiti non sono stati lavati bene. Sono troppo rigidi, quindi o nutre una particolare avversione per gli ammorbidenti oppure li lava a mano. Questo e portano l'odore del sapone dell'ospedale. Aspro. Un prodotto chimico. L'unico motivo per cui una persona possa avere quel particolare odore così forte addosso e se ci hanno lavato sia i vestiti che loro stessi. Sta iniziando a danneggiare i suoi capelli, il che porta la mia stima ad una settimana e mezzo. Inoltre, gli ho offerto la mia colazione stamattina quando ha controllato le mie suture prima dei turni. Ha probabilmente provato lo stesso senso di colpa che ha provato per il sapone, ma ha mangiato fino all'ultima briciola di quell'ammasso tragico di farina che fate passare per focaccine. A causa di ciò, era in imbarazzo durante i turni. E' per questo che saltellava così tanto. Lo avrai notato."

Lo aveva notato.

John sospira, ricollegando numerose occasioni nei mesi passati in cui aveva chiesto a Stamford se voleva comprare qualcosa da mangiare o andare a bere una birra e l'altro uomo aveva sempre tirato fuori flebili scuse per evitarlo. Aveva smesso di comprare gli snack dalla macchinetta e beveva solo il caffè gratis della sala break. John avrebbe dovuto notare che qualcosa non andava.

"Nient'altro?" chiede John.

Il labbro superiore di Sherlock si alza leggermente. "No. Il cibo è la prova finale. Soltanto qualcuno veramente disperato avrebbe mangiato quella roba."

John ride prima di riuscire a fermarsi, e poi stringe le mani per contrastare l'orrore che la cosa gli provoca.

No. Non farlo.

Si volta bruscamente, prendendo di nuovo in mano la cartella di Sherlock, e esce senza salutare.

 


Note della traduttrice: Grazie mille a tutti coloro che hanno letto, recensito, messo tra le seguite, ricordate e preferite questa storia, rendete tutto il mio lavoro incredibilmente più facile! Grazie ancora.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
Note dell'autrice:  ancora un po' di Mycroft, perchè è il mio preferito. Ma non preoccupatevi, settimana prossima tornano Sherlock e John a pieno regime. Nel capitolo 5 ci saranno anche più parti sulle deduzioni. Grazie a tutti coloro che leggeranno!

La prima volta che John aveva visto Sherlock ferito era stato sei settimane dopo averlo incontrato, la sesta settimana di terapia. La settimana prima aveva saputo il suo nome.

La quinta settimana, John non si era disturbato a salutare quando si era seduto. Ormai aveva capito che se Sherlock fosse stato interessato a parlargli, lo avrebbe fatto. Altrimenti, non lo avrebbe fatto.

Aveva preso lo zaino, tirato fuori l'Amleto, e preso a fissare furioso le pagine per qualche minuto come se fossero un affronto personale.

"Ti piace la matematica."

John aveva guardato Sherlock da sopra il dorso del suo libro, e poi aveva posato l'Amleto con un sospiro. Non è che stesse facendo molti progressi, in ogni caso.

"Sì."

Non sembrava incline a dire nient'altro e per qualche ragione l'idea che quella sarebbe rimasta l'unica interazione della giornata sembrava intollerabile a John.

"Come fai a saperlo?" aveva chiesto John.

"Perchè," Sherlock aveva gesticolato verso il corpo di John, parole lente. "tutto ciò che ti riguarda è strutturato. Organizzato. Arrivi ogni giorno allo stesso orario. Il tuo zaino è davvero troppo ordinato per un ragazzo della tua età. Il tuo cellulare è sempre nella tasca destra, mai nella sinistra. " le parole di Sherlock diventano più veloci, si sovrappongono le une sulle altre. "Ti siedi sempre nello stesso modo, ricicli sempre le stesse tre espressioni e stai molto attento a non agitarti. Ti piace l'ordine. La matematica è ordine. Si può prevedere. Impari le regole. Le segui. Due più due farà sempre quattro. E' costante. Ti piace perchè è qualcosa che puoi controllare." si era seduto di nuovo, sembrando quasi sorpreso di se stesso, e poi aveva aggiunto, quasi sovrappensiero, "E' noiosa."

"Quindi, per estensione, io sono noioso?"  aveva chiesto John. Aveva deciso di non commentare il resto.

"Non ho detto questo," aveva risposto. "Se fossi noioso non starei parlando con te."

In qualche modo era riuscito a far suonare la frase come un insulto.

John era resistito all'impulso di alzare gli occhi al cielo.

"E tu quindi?" aveva chiesto invece.

"Io?"

"Io sono bravo in matematica. Tu in cosa sei bravo?"

"Io sono bravo in tutto." non c'era niente di ciò che ci si sarebbe aspettati nel suo tono: nessuna vanteria, nessun orgoglio. Aveva pronunciato quelle parole come se fossero un fatto.

"A che livello sei a scuola?" aveva chiesto John.

"Sesto."

"Mi prendi in giro?"

"No."  la sua espressione sembrava dire, "ovviamente."

"Quanti anni hai?"

"Dodici."

John aveva fischiato rumorosamente. "Be', suppongo che tu sia veramente bravo in tutto, allora."

Di nuovo, quell'espressione.

John aveva ricordato la settimana prima con un sorriso.

"Ho una collezione di monete," aveva detto all'improvviso e le labbra di Sherlock si erano curvate leggermente, l'accenno di un sorriso, e aveva risposto. "Falso."

Non saprebbe dire perchè poi lo avesse fatto, ma aveva obbedito all'improvviso impulso di tendere la mano e dire, "Il mio nome è John, John Watson,"  aspettando con forse troppo ottimismo, nella speranza che l'altro replicasse al gesto.

L'altro ragazzo lo aveva osservato per un momento.

La sua mano aveva toccato quella di John, brevemente, un sussurro sulla pelle, prima di ritirarla di nuovo.

"Sherlock Holmes," aveva detto.

La sesta settimana John aveva salutato Sherlock con una dichiarazione.

"Odio il succo d'arancia."

"Falso," aveva risposto senza aprire gli occhi, e John si era seduto con un sospiro.

"Ascolto i The Clash mentre studio," aveva continuato.

Sherlock aveva riso, una risata vera, la prima che John avesse mai sentito, e si era voltato a guardarlo. "Vero. Probabilmente è per questo che vai male in Inglese."

John aveva fatto una smorfia in risposta. "Be', tu cosa ascolti quando studi?"

Sherlock aveva riso ancora, più forte questa volta, ma in modo meno reale. "Io non studio."

"Per niente?" aveva chiesto.

Sherlock lo aveva guardato con un'espressione che sottolineava chiaramente che queste attività fossero troppo prosaiche per acquisire un qualche interesse per lui.

"Bene, ottimo."

John si era abbassato per cercare l'Amleto nel suo zaino e aveva realizzato, da quella visuale, che Sherlock fosse scalzo.

"Dove sono le tue scarpe?"

"Non ne ho idea"  aveva risposto Sherlock, completamente indifferente.

L'attenzione di John si era spostata sulle dita pallide, scurite dalla camminata sull'asfalto, arrossate sotto lo sporco.

"Come fai a non saperlo?"

La voce di Sherlock era diventata tagliente. "Penso che la cosa si spieghi abbastanza da sè, ma posso tirare a indovinare, se vuoi."

John era slittato dalla sedia e si era accucciato per terra, per prendere una delle caviglie di Sherlock, ma quando questo aveva realizzato le sue intenzioni, aveva tirato le gambe al petto, lontano dalla sua portata, sembrando quasi spaventato.

"Cosa stai facendo?"

"Credo che tu stia sanguinando, solo-" John aveva accennato verso di lui con una mano, "fammi controllare."

Sherlock aveva lentamente abbassato il piede a cui John si stava avvicinando e si era preso un momento per guardarlo prima di muovere anche il secondo. Erano un disastro. Le dita nere di Sherlock erano ferite, l'arcata e i talloni dei suoi piedi erano costellati di piccoli sassi.

"Cosa diavolo hai fatto? Corso sulla ghiaia?"

"Sì." aveva risposto Sherlock.

John non l'aveva detto seriamente, ma la risposta solenne aveva ricondotto la sua attenzione al viso di Sherlock.

"Cosa? Perchè?"

"Perchè sembrava un'idea migliore dell'alternativa."

John aveva osservato il piede straziato tra le sue mani, le dita strette facilmente attorno alla caviglia e aveva aggrottato le ciglia.

"Qual'era l'alternativa?"

Sherlock aveva scrollato le spalle, "Essere preso."

"Qualcuno ti stava inseguendo?"

Ancora una volta, quell'espressione che sembrava dire "ovviamente".

"Quindi hai perso le scarpe mentre cercavi di scappare da qualcuno che voleva farti male?"

"No." Sherlock aveva scansato le mani di John, riportando le ginocchia al petto. "Loro hanno preso le mie scarpe pensando che mi avrebbe impedito di correre. Una svista da parte loro, in realtà."

Come sempre non c'era parvenza di emozione nella sua voce. Nessun autocompatimento, nessun dolore. Solo un banale trasferimento di informazioni.

"Loro?" aveva ripetuto John.

Per un attimo era parso che Sherlock si sarebbe profuso in qualche rimbrotto sarcastico sulla ripetizione e sul fatto che Sherlock fosse noioso, ma dopo aver osservato John per un altro momento, il viso di Sherlock era sembrato arrendersi.

"Non piaccio molto alle persone." aveva detto brevemente, come se questo spiegasse tutto. E poi aveva poggiato dietro la testa, chiudendo gli occhi.

Fine della discussione, diceva la postura.

John aveva lasciato perdere.

Ma aveva scoperto che non poteva. Non veramente. Era rimasto seduto sul pianerottolo fuori dalla porta del palazzo dopo il suo appuntamento, ma non era riuscito a forzarsi ad andarsene. Aveva tirato fuori l'Amleto e si era rassegnato ad aspettare. Mezz'ora dopo Sherlock era uscito dall'edificio, la testa incurvata, le mani in tasca, e John si era avvicinato ai suoi piedi, non molto sicuro di come procedere.

"Hey!" eloquente. Un inizio perfetto.

Sherlock aveva voltato il viso verso di lui, e poi aveva compiuto un esitante passo avanti, come insicuro del fatto che John si stesse effettivamente rivolgendo a lui.

"Sì?"

"Fatti prestare le mie scarpe di riserva," aveva detto, indicando con il pollice il suo zaino. "I tuoi piedi sono un disastro."

"Sto bene."

"Falso," aveva detto John brevemente, facendo del suo meglio per imitare la voce di Sherlock.

L'ombra di un leggero sorriso, e dopo una veloce deliberazione Sherlock si era fatto più vicino. "Le sporcherò di sangue."

"Niente che non abbiano visto prima," aveva detto John, facendo scivolare lo zaino via dalla sua spalla per poterci frugare dentro. "Ecco. Sono un po' vecchie , ma comunque."

Sherlock aveva preso le scarpe, sembrando quasi spaesato, e si era seduto a terra per indossarle. Come John aveva aspettato, erano eccessivamente grandi, ma l'espressione sul viso di Sherlock era parso stranamente soddisfatto quando si era alzato di nuovo.

"Grazie," aveva detto Sherlock con cautela.

Avevano iniziato a camminare.

"Dove sei diretto?" aveva chiesto John.

"Biblioteca."

"Ma non per studiare."

"Io non studio."

"Quindi perchè la biblioteca."

"E' preferibile all'alternativa."

John aveva aggrottato le ciglia. "L'alternativa sarebbe casa tua?"

"Sì."

"Posso chiedere perchè la biblioteca sia preferibile a casa tua?"

"Sì."

Era rimasto silenzioso per alcuni secondi e John si era ritrovato a ridere. "Perchè la biblioteca è preferibile a casa tua?"

"Perchè, tutto è troppo vicino o troppo rumoroso lì. Mio padre raramente è a casa e a mia madre non piaccio." Nessuna emozione. Nessuna inflessione nel tono. Solo parole unite insieme per formare frasi.

"Non piaci a tua madre?" aveva ripetuto John.

"Per niente."

"Perchè?"

Sherlock aveva serrato le labbra, ma era rimasto per il resto senza espressione."Perchè, ha paura di me."

Gli era servito un attimo per processare la cosa. "E tuo padre?"

"Penso che abbia paura anche di lui."

John aveva riso, nonostante la conversazione non fosse affatto divertente. "Intendo, cosa pensa tuo padre di te?"

Sherlock aveva aggrottato le ciglia, come se non avesse mai considerato prima la questione. "Dubito che abbia una forte opinione in un senso o nell'altro. Non ha passato abbastanza tempo con me per formarne una. Non ho dubbi che preferisca mio fratello maggiore, comunque."

"Tuo fratello?" aveva incitato.

"Mycroft. Dodici anni più grande di me. E' in politica."

"Quindi lui è come te, molto intelligente, intendo?"

"Molto simile a me," aveva concordato. "Ma solo le parti buone."

"Cosa intendi?"

"Sociopatico," gli aveva ricordato Sherlock, il dito sulla tempia destra.

"Lui non lo è, giusto?"

"No."

"Sembra simpatico."

Sherlock lo aveva guardato in un modo che John non era riuscito a decifrare. "Non molto."

"Se lui è in politica, tu cosa vuoi fare? Quando diventerai grande, dico."

"Voglio fare lo strizzacervelli."

Sherlock lo aveva detto in modo così solenne che a John era servito un attimo per capire che fosse uno scherzo ed era scoppiato a ridere.

"Falso," aveva detto di nuovo John, con un'imitazione adeguata del tono freddo dell'altro ragazzo.

"Sì," aveva assentito Sherlock, fermandosi davanti alla liberia.

"A volte canto l'Opera quando cucino," aveva detto John, continuando a camminare.

"Vero," gli aveva sbraitato contro Sherlock. "Pensi di continuare a farlo? Stai diventando fastidioso."

John non aveva risposto, aveva fatto un cenno e aveva guardato Sherlock salire i gradini della libreria da oltre la spalla. Era difficile da dire con sicurezza, ma aveva pensato che l'altro ragazzo potesse star sorridendo.

***
"John?"

Si sposta dolorosamente dai ricordi al presente, aprendo gli occhi, e socchiudendoli velocemente per colpa della luce che permane la sala d'attesa.

"Scusa, scusa," Stamford si trascina dentro. "Sono le 4:30. Mi avevi chiesto di svegliarti non appena fossi arrivato."

"D'accordo."

John strofina la punta delle dita sugli occhi gonfi, sapendo di non essersi neanche lontanamente avvicinato ad una notte completa di sonno. Quando li apre di nuovo, Stamford gli appare decisamente imbarazzato.

Consegna a John le chiavi senza guardarlo negli occhi. "Grazie per avermi permesso di stare nel tuo appartamento l'altra notte. Te lo giuro, è solo fino a che non trovo un altro posto..."

John lascia correre la bugia. "Hai portato il computer?" chiede.

"Sì." Stamford sfila lo zaino da sotto la spalla, estraendone un cavo per la carica ed un macbook. "Questo?"

"Mm."

L'altro tirocinante interpreta il mugugno di John come un assenso.

"Ok, grazie di nuovo. Ci vediamo ai turni."

"Sì."

La porta sbatte dolcemente mentre si chiude, e John si alza, tenendo il computer ed il suo caricatore con un braccio, l'altra mano che tenta di conferire una parvenza di ordine ai suoi capelli.

Classifica la cosa come una causa persa e decide di adempiere alla sua promessa prima di venire trascinato da qualche parte per un'emergenza.

La porta si apre di nuovo e lui si gira, aspettandosi che Stamford si sia dimenticato di dirgli qualcosa, invece si ritrova faccia a faccia con Mycroft Holmes.

L'uomo sembra impossibile da concepire: una camicia perfettamente stirata, la giacca piegata con precisione su di un braccio, senza pieghe, e lo sguardo decisamente troppo attento per essere le quattro di mattina.

"John," dice Mycroft, un sottile accenno di sorpresa nel tono, come se fosse una felice coincidenza l'essersi incontrati.

"Mycroft," risponde John, concentrato sulla sua respirazione.

Non picchiarlo. Continua a ripeterselo. L'uomo potrà anche essere un insopportabile stronzo, ma è anche spaventosamente potente.

Il fratello di Sherlock lo studia per un momento, osservando le sue occhiaie e le sopracciglia aggrottate.

"So che probabilmente sei ben lontano dall'essere soddisfatto di me," inizia.

"Leggermente." mugugna John.

Mycroft inclina la testa "In ogni caso. Non hai idea di quanto ti sia grato per aver chiamato. Mio fratello è..."

"Stupido? Incosciente? Totalmente esasperante?"

Ride educatamente. "Tutto vero, ma intendevo dire che è di vedute fastidiosamente ristrette per essere un genio. Pensavo che la situazione dell'eroina fosse sotto controllo. Chiaramente mi sbagliavo."

John si massaggia il retro del collo con la mano libera. "Quindi cosa hai intenzione di fare a riguardo?"

Mycroft alza le spalle. "L'ho minacciato. Ha detto che smetterà."

"E tu gli credi?"

"No."

"Quindi cosa hai intenzione di fare a riguardo?" ripete John.

Mycroft gli lancia uno sguardo quasi severo. "Aspettare. Osservarlo con più attenzione. Forse sarò costretto ad intervenire in modo più drastico."

John lascia uscire una roca imitazione di una risata. "E ora non è il momento? E' quasi morto, Mycroft. Presumo tu abbia letto la sua cartella."

"L'ho fatto."

"Quindi, cosa c'è, la morte non è un motivo sufficentemente urgente per intervenire?"

Lo sguardo severo si intensifica. "Ho le mie ragioni. Non mi è necessario condividerle con te."

"Questo rende tutto incredibilmente chiaro, grazie."

Mycroft sospira. "Sembri tremendamente interessato alla sua salute per essere uno che non lo vede da cinque anni."

"Cinque anni e centoventisette giorni." dice automaticamente, ricordandosi del veloce calcolo di Sherlock. Poi realizza di averlo detto e si ritrae.

Mycroft sembra quasi ferito. "Sono davvero dispiaciuto, John." dice.

"Non ho potuto contattarti. Se fosse stata una mia scelta, lo avrei fatto. Eri buono per lui. Lo riconosco, anche se lui non lo ha fatto."

John realizza che le sue mani sono serrate. Si prende un momento per distendere lentamente le dita.

"Non ho intenzione di perdonarti," dice. Non c'è rabbia nelle sue parole, solo una riluttante verità.

"Lo so," per un momento, Mycroft sembra stanco almeno quanto si sente John. "Ma se potessi," fa una pausa, spostando l'ombrello in modo da poterlo tenere in mano, "Solo...sii gentile con lui. Sei stata l'unica persona, se escludi me, con cui ha volontariamente passato nel tempo. Io sono stato una definitiva delusione. Ma tu, John..."

Il suo tono implica l'impossibile.

"Lo tratterò con la stessa gentilezza con cui tratto tutti i miei altri pazienti." dice John conciso. "Ora, se vuoi scusarmi, ho del lavoro da fare."

"Suppongo che il computer sia per Sherlock," continua Mycroft, senza muoversi.

John digrigna i denti, ma si ferma anche lui. "Sì. Problemi?"

"No. Sono solo sorpreso che sia riuscito a guadagnare un favore da te così in fretta."

"Sherlock ottiene quello che vuole," risponde.

"Sì," concorda Mycroft.

John prende in considerazione l'idea di andarsene a quel punto, ne è veramente tentato, ma non lo fa. Si inumidisce le labbra con una veloce passata della lingua e tenta di rilassare la linea delle spalle. Se vuole informazioni dovrà sacrificare un po' del suo ego. "Ho accidentalmente ascoltato un'interessante conversazione al telefono, ieri." inizia esitante, e Mycroft sorride.

"Sì, Sherlock ha intrapeso una carriera quantomeno particolare dall'ultima volta che lo hai visto."

"Sembrava..." chiude gli occhi per un momento, troppo lentamente per essere un battito di ciglia, e sospira. "sembrava che stesse parlando-di questi uomini, che erano su tutti i telegiornali, quelli arrestati negli Stati Uniti."

"Sì." concorda Mycroft, esasperantemente calmo. "Non conosco i dettagli, ovviamente, ma Sherlock è stato in qualche modo coinvolto nelle procedure al confine la scorsa settimana. Sono sicuro tu abbia notato lo stato terribile della sua pelle. Non ha mai avuto interesse nell'uso della crema solare. Ma," scuote la testa, come momentaneamente sopraffatto. "Sai che mio fratello ha talenti praticamente unici. Li usa nel modo che crede più adatto, ed io ho l'impressione che sia molto bravo in quello che fa. Qualunque cosa sia."

John si passa le mani sulla fronte, chiudendo gli occhi di nuovo.

"Quindi mi stai dicendo che è una specie di investigatore privato? Che cattura boss della droga?"

"No," dice Mycroft evasivo, "non proprio."

"Ma qualcosa di simile?"

"Be'" ammette Mycroft con un sospiro simile a quelli di John. " preferisce definirsi consulente investigativo. Suppongo che se qualcuno avesse mai dovuto inventarsi un lavoro, sarebbe stato Sherlock. Tu capisci."

"Ah," dice John, senza aver capito nulla. "capisco."

Note della traduttrice: Scusate enormemente il ritardo nella pubblicazione. Circostanze esterne mi hanno precluso l'uso del computer.
Grazie a tutti coloro che leggono, seguono e ricordano la storia. Grazie ancora e...lasciate una recensione ;)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

Note dell'autrice: In sostanza in questo capitolo si va avanti con la trama e Sherlock sfoggia la sua intelligenza. Ci vediamo la prossima settimana!

Cinque anni, centoventisette giorni.

E' un male che stia ancora contando? Sherlock pensa che probabilmente lo sia.

John porta con se' ricordi di ginocchia sbucciate e lunghi giorni d'estate pieni di piacevoli silenzi e brusii di conversazioni a bassa voce. Il suo viso emaciato, cui chiaramente manca il sonno, è decisamente più interessante del portatile che gli sta offrendo. E' simile alla differenza tra l'acqua ed il ghiaccio, pensa Sherlock: identico nella composizione chimica: due atomi di idrogeno in legame covalente con una molecola di ossigeno. Eppure uno dei due talmente più inospitale dell'altro.

Realizza che John non se ne è andato. E' ancora lì, senza motivo, le braccia incrociate, osservandolo con uno sguardo tagliente e freddo ed è tutto sbagliato.

Sherlock accende il portatile come scusa per distogliere lo sguardo.

"Devo farti da babysitter oggi," dice John. Le parole, rilasciate dalle labbra serrate, suonano esagerate.

"Scusami?"

"Il mio superiore, la dottoressa Allen. Mi ha chiamato la notte scorsa. A quanto pare tuo fratello è preoccupato che tu possa esagerare con il lavoro. Mi ha ordinato di prendermi cura di te mentre porti a termine l'affare urgente di cui ti stai occupando, qualunque questo sia."

"No."

John ride ed è ancora tutto sbagliato.

"Non hai facoltà di opinione in merito, in realtà. Credimi, ho provato a tirarmene fuori, ma a quanto pare quando Mycroft Holmes richiede qualcosa, si è obbligati a fare qualsiasi cosa in nostro potere per esaudire la sua richiesta."

Mycroft, pensa. Ovviamente.

Osserva la postura di John. E' quasi violenta, a dispetto dell'esausta curva della sua schiena. John lo odia ora, realizza Sherlock, lo detesta completamente e visceralmente.

Giustificato, pensa.

Avrebbe dovuto esserne soddisfatto, lo sapeva. Quell'ultima mail era stata mandata proprio in aspettativa di quella reazione, l'odio. Ma anche la più piccola parte di compiaciuto orgoglio è inghiottita da una crescente scia di orrore paralizzante. La sua presenza aveva prodotto un disagio fisico in John. Questo era stato abbastanza facile da capire. E mentre generalmente non aveva mai mostrato remore nel far sentire gli altri a disagio, Sherlock provava ancora un'avversione inspiegabile nel causare dolore a John, la stessa che aveva provato cinque anni e centoventisette giorni prima, quando John era salito su quell'aereo, la testa inclinata verso la spalla destra, la mano alzata a salutare, e Sherlock non aveva pianto perchè sapeva che lo avrebbe fatto arrabbiare.

Certo, Sherlock non aveva mai pianto, come regola, quindi John probabilmente non aveva realizzato il sacrificio.

Sentimenti. Se lo ripete. E poi, proprio lì, l'orribile, insano desiderio di rendere John felice, questo era il motivo per cui l'email era stata spedita. Andava spedita. Non aveva messo in conto di dover osservare, o ancora meno di dover affrontare, le conseguenze, ma ora è costretto a farlo; deve utilizzare il silenzio, l'indifferenza e la crudeltà neanche troppo sottintesa affinata con anni di pratica. In questo modo, quando Sherlock avrebbe lasciato l'ospedale tre giorni dopo-tre?- aveva preso in considerazione i punti di sutura ed il loro tendersi quando respirava, poi aveva letto la cartella che John teneva tra le mani. Tre. Due, se era fortunato.- in questo modo, quando se ne fosse andato, John non avrebbe provato a cercarlo di nuovo e lui sarebbe potuto tornare ad una vita beatamente libera da John Watson e da tutte le emozioni che implicava.

"A che ora inizierai ad occuparti di questo tuo affare?"

Sherlock sobbalza, la cruda realtà della voce di John interrompe i suoi pensieri. Il risultante strattone momentaneo alle sue costole lo porta a produrre un rantolo invece di un respiro, immediatamente seguito da un imbarazzata occhiata che non dura più di tre secondi. Quando lo osserva di nuovo vede che John è in preda ad un interessante conflitto di emozioni. C'è rabbia, sicuramente, ma c'è anche preoccupazione, una preoccupazione riluttante, perchè è pur sempre John e ci tiene sempre troppo, anche se adesso lo odia abbastanza da non mostrarlo.

"Sei di mattina," Sherlock lo dice con una cattiveria tale che riesce a percepirlo. "Sei libero di evitarmi fino ad allora."

"Bene."

John si gira per andarsene nonostante Sherlock sappia che dovrebbe esaminarlo ed aggiornare il raccoglitore che al momento stringe, forse troppo stretto, tra le mani contratte. Non c'è dubbio che abbia deciso di tornare dopo, quando è meno arrabbiato, perchè anche se questa è una versione sbiadita del suo John, nonostante Sherlock sia stato ben più che crudele e se lo meriti ampiamente, John non ha comunque intenzione di fargli male.

Questo deve cambiare, pensa. E quindi Sherlock parla.

"John."

John si ferma, già parzialmente fuori dalla stanza, e si volta per guardarlo, in attesa, gli occhi socchiusi, come se già a conoscenza di quello che Sherlock sta per dire.

Sherlock sorride con freddezza. "Indossi ancora la  collana."

E' un affermazione intenzionalmente crudele, pronunciata con deliberata malignità.

John lo fissa per qualche secondo, completamente impassibile, prima di dire. "Tu no."

Poi John si volta e continua a camminare verso la porta andandosene e lasciando Sherlock con una strana, persistente oppressione sul petto e la sensazione di non essere forse l'unico ad avere imparato come essere crudele.

***
John ritorna alle sei precise, non un attimo prima. Sherlock sta parlando con qualcuno in vivavoce, il blackberry in precario equilibrio su un ginocchio mentre tenta di guardare il computer di John che posa, ugualmente precario, sull'altro ginocchio.

"Sì, Dimmock," lanciando un'occhiata a John quando questo entra, "Vedo la ripresa ora. La qualità è terribile."

"Be', è il massimo che abbiamo potuto fare, viste le circostanze," risponde una voce esausta dal telefono. "Sei comunque in grado di fare...quello che fai?"

"Certo, non essere ridicolo. Nessuno di questi uomini è particolarmente bravo a nascondere le emozioni. Ah." si avvicina allo schermo del portatile, sussulta, e lo sposta più lontano in modo da poter vedere meglio senza sforzare le costole malmesse. "Vedo che iniziamo con Ramon. Eccellente. Chi lo sta interrogando?"

John, curioso, si muove verso la testa del letto. Il video sullo schermo del portatile è in bianco e nero. Una parte è la ripresa di una videocamera sul soffitto della stanza degli interrogatori dove un uomo è accasciato, jeans e maglietta bianca, sul tavolo. Le mani sono ammanettate di fronte a lui. L'altra parte dello schermo mostra chiaramente lo stesso uomo nello stesso posto, ma l'angolatura è frontale e concentrata sul torso e sul viso. O lo sarebbe, se fosse seduto bene. Al momento John può vedere i suoi capelli neri e la curva della spina dorsale sotto il cotone della maglietta. Chiunque sia dovrebbe mangiare di più, mormora la parte medica del cervello di John, è troppo magro.

"Se ne sta occupando l'agente McKale," dice la voce al telefono. C'è esitazione nella risposta, e John ne comprende il motivo quando Sherlock si lascia sfuggire quello che può essere interpretato solamente come un gemito di completo disgusto.

"Imbecille. Probabilmente rovinerà tutto. Onestamente, Dimmock, McKale?"

L'uomo sull'altra linea, che apparentemente risponde al nome di Dimmock, suona esasperato mentre risponde. "Senti, tranne te e Victor è quello che se la cava meglio con la lingua e conosce il caso, e visto che Victor non risponde al telefono e che tu sei in ospedale per qualche misterioso motivo, era il meglio che avessi. Ora.."

Sullo schermo del portatile, un secondo uomo entra nella stanza. I due smettono di discutere preferendo guardare.

"Puoi procurarmi l'audio?" chiede.

C'è un sospiro spezzato. "No. Ci ho provato. Dovrò tradurlo."

"Oh eccellente. Così adesso dobbiamo combattere contro un video sgranato e contro la tua terribilmente parafrasata traduzione dallo spagnolo."

John schiarisce la gola e lancia a Sherlock uno sguardo infastidito, per abitudine. E' un abitudine morta da tempo, ovviamente, ma Sherlock lo vede ed in risposta apre la bocca, iniziando a scusarsi, anche lui per abitudine, prima di chiuderla di nuovo facendo sbattere i denti con un sonoro click. Poi lancia a John uno sguardo che sembra invitarlo ad andare all'inferno.

John fa un passo indietro, non completamente sicuro di cosa sia appena successo. Apparentemente cinque anni non sono abbastanza per eliminare certi schemi. Decide che il loro veloce scambo sarebbe interessante da analizzare da un punto di vista antropologico, ma allo stesso modo decide, molto velocemente, di non pensarci e di spostare piuttosto l'attenzione sulla conversazione in corso.

"Ovviamente sta mentendo," sta dicendo Sherlock, gesticolando verso il video. "Guarda le sue spalle. Di' a McKale di--No aspetta." tocca lo schermo con un dito, aggrottando le sopracciglia. "Cos'è che gli ha appena detto McKale?"

"Uhh," Dimmock si prende un momento per rispondere, chiaramente tentando di tradurre nella sua mente. "Ha detto che non ha senso mentire perchè suo padre ha già confermato la sua colpevolezza. Ha detto che sarebbe meglio per lui darsi una mano da solo visto che la sua famiglia non sembra avere intenzione di aiutarlo."

Sherlock picchietta sullo schermo, le sopracciglia ancora aggrottate. "Di' a McKale di chiedergli perchè odia suo padre."

Dimmock, sconcertato, obbedisce.

Un secondo dopo Sherlock sogghigna verso lo schermo del portatile. "Avete preso la sua ragazza, giusto? Piccola, formosa, si chiama Maria?

"Uh-Sì, ma-"

"Portatela dentro. E' incinta. Sarà di aiuto molto maggiore se lo saprà."

"Aspetta-come fai a sapere che- aspetta, perchè lui non lo sa? E come fai tu a sapere che lui non lo sa?"

"Nel primo interrogatorio che le abbiamo fatto, Maria teneva le mani sopra lo stomaco, in maniera protettiva. Quando le abbiamo chiesto se aveva dei bambini ha risposto di no ma non era la verità, non una bugia, ma neanche la verità. Deve essere incinta. Ma quando abbiamo chiesto a Ramon se avesse dei figli ha detto di no, che aveva solo una ragazza. Non una bugia. Non una colpa. Non lo sa. Ma vuole dei bambini. Odia suo padre, vorrebbe essere un padre migliore, ama la sua ragazza. Se sapesse che è incinta sono sicuro che sarebbe molto più disposto a cooperare se questo volesse dire passare meno tempo dietro le sbarre e tornare prima dalla sua piccola famiglia."

"Questo è- bene. Aspetta un attimo."

Il telefono vibra improvvisamente e, all'inizio, John pensa che Dimmock abbia messo Sherlock in attesa o qualcosa del genere. Poi vibra di nuovo e realizza che si tratta di una chiamata in arrivo.

Sherlock lo guarda male. "Dimmock, ho una chiamata da Scotland Yard. Torno in un attimo."

Tocca con un dito lo schermo del blakberry sul suo ginocchio, la voce che si fa tagliente. Be', più tagliente.

"Cosa, Lestrade. Sono nel bel mezzo di qualcosa."

"Può aspettare," dice la nuova voce, suonando preoccupata almeno quanto quella di Dimmock, se non di più. "Ho bisogno di te in Belgravia entro un'ora."

"Non posso. Sono in ospedale."

"Oh per l'amor di Dio. Che cosa- non importa. Tra quanto puoi essere lì?"

Sherlock guarda John, le sopracciglia alzate, e stringe le labbra. "Tre giorni," sussurra John.

Lo ripete all'uomo sull'altra linea e questo impreca.

"Lestrade," dice Sherlock, la voce piena di condiscendenza, "ho la CIA sull'altra linea, potresti trattenere le tue esternazioni drammatiche fino a quando non ho finito con loro?"

"Coinvolge la CIA," dice Lestrade. "Un diplomatico ungherese è stato trovato morto nella stanza d'albergo di Victor Trevor e Trevor non è rintracciabile da quasi una settimana."

"Cazzo."

E' la prima volta che John sente Sherlock imprecare. Trasalisce, non solo per la stranezza dell'avvenimento, ma anche per l'espressione di Sherlock. Non è rimasto nulla dell'usuale imbassibilità, c'è solo terrore.

Nell'attimo in cui Sherlock si accorge che John lo sta guardando, cambia velocemente espressione e torna a sembrare vagamente infastidito.

"Sei sulla scena?" chiede.

"Sì. Senti, posso cavarmela senza di te ma-"

"Assolutamente no. Trevor è la persona più competente con cui ho lavorato, non lascerò che voi, banda di idioti, combiniate un disastro. Preferirei trovarlo vivo tra una settimana che come cadavere tra sei mesi."

Lestrade sospira dall'altra parte. "Posso farti vedere la scena, se vuoi. Non ho fatto entrare nessuno."

John aveva capito molto tempo prima che insieme all'intelligenza di Sherlock fossero previsti il sarcasmo e l'arroganza. A quanto pare Lestrade, chiunque egli fosse, era giunto alla stessa conclusione.

"Ottimo. Hai un Iphone, giusto?" chiede Sherlock a Lestrade.

"Sì ma-"

"Ti richiamo. Non far toccare niente a nessuno."

Riattacca senza salutare, e poi torna all'altra chiamata. "Dimmock?"

"Sì, sono qui."

"E' successo qualcosa. Ti richiamo entro un'ora."

Conclude la chiamata pigiando violentemente sui tasti, poi sposta sia il cellulare che il portatile, che ancora trasmette immagini sgranate, via dalle sue ginocchia con un gesto rapido, irritato.

"Ho bisogno del tuo cellulare."

A John serve un momento per realizzare che si sta rivolgendo a lui. "Cosa?"

"Il tuo cellulare." Sherlock gli mostra una mano, inisistente, dimenando le dita con agitazione. "Ora. Mi serve. I blackberries non hanno facetime."

Non chiede come faccia a sapere che possiede un Iphone, è Sherlock, dopotutto. Anzi, John fa quello che gli è stato chiesto, cercando nella sua tasca, e poi posando il cellulare sulla mano in attesa.

Nessun grazie. Come sempre.

John si sposta per sedersi sulla sedia, guardando Sherlock mentre questo richiama e tiene il cellulare fin troppo vicino al viso quando l'uomo inizia a guidarlo all'interno della scena del crimine.

John cerca di tenere il passo, ma la maggior parte dei discorsi vanno al di là della sua comprensione. C'è un ungherese morto nella camera di uno dei colleghi di Sherlock, gli hanno sparato una volta, al centro della fronte. Il collega è scomparso. Se si esclude questo, non è che John stia seguendo molto.

"Cos'è quella?" dice improvvisamente Sherlock dopo quasi mezz'ora di conversazione sommessa. John resiste all'impulso di protendersi in avanti per dare un'occhiata allo schermo.

"E'...è una sigaretta." risponde Lestrade.

"Controlla nelle tasche."

La voce di Sherlock lascia trapelare un interesse vago, ma il suo viso è un tumulto di emozioni malcelate.

"Chiavi. Portafogli. Cellulare." risponde Lestrade. "Questo sembra...un biglietto del parcheggio sotterraneo. Sì, lo è."

"Niente sigarette?" chiede Sherlock

"No."

Getta uno sguardo al piccolo schermo. "Che tipo di sigaretta è?"

"Quale? Quella per terra?"

"No, una delle altre sigarette nelle stanza, ovviamente quella per terra."

Lestrade emette un suono di malcontento. "Come diavolo dovrei saperlo? La raccolgo, vediamo se riesco a tirarne fuori il DNA."

"Devo sapere che tipo è," ripete Sherlock.

"Bè," risponde Lestrade imitando il suo tono, "potrò darti questa informazione non appena il laboratorio l'avrà esaminata."

"Dio. Voi persone siete inutili." mugugna Sherlock.

"Cosa? Come se tu fossi in grado di dirmi che tipo di sigaretta sia semplicemente guardandola."

"Ne sono in grado, in realtà. I suoi polsi. Descrivimeli."

Lestrade sospira e l'audio gratta leggermente. "I suoi polsi? Pallidi. Un orologio della Rolex sul destro. Niente di interessante."

"Le sue dita. Annusale."

"Cosa?"

"Annusale. Dimmi se odorano di nicotina."

C'è una pausa, il suono di un respiro, e poi un secondo di silenzio prima che parli di nuovo.

"No. Magari la nostra vittima non ha fumato la sigaretta, allora. Magari è stato l'assassino."

"Non essere stupido," dice Sherlock. "Annusa la sua bocca."

"Ma-"

"Oh per l'amor del cielo, fallo e basta. C'è della nicotina lì?"

Un'altra pausa. Un altro respiro.

"Sì. Decisamente."

Sherlock ha il viso così vicino allo schermo dell'Iphone che il naso praticamente lo sta toccando.

"Aspetta! Togligli i guanti."

C'è un momento di silenzio. Lestrade emette un suono di sorpresa, Sherlock sembra deliziato e John cede finalmente all'impulso di protendersi in avanti.

Sullo schermo vede una mano dalla pelle grigia, pallida in un modo tipico unicamente tra i cadaveri. Ma la cosa interessante riguardo questa mano, è che manca la punta a quasi tutte le dita. Sono smussate dalle amputazioni , ancora leggermente visibili a causa delle cicatrici.

"Morbo di Burgers." mormora Sherlock, nello stesso momento in cui la mente di John lo pensa. "Questo spiega alcune cose."

"Ah sì?" dice Lestrade. ""Cos'è il morbo di Burgers?"

"Sono allergico alle noccioline," risponde Sherlock.

"Scusami?"

John prova a soffocare una risata di fronte alla pura confusione nella voce dell'altro uomo e quasi si strozza.

"Sì," continua Sherlock, ignorandolo. "basta che qualcuno che ha mangiato un panino col burro d'arachidi mi respiri addosso e vado in shock anafilattico. Terribilmente inconveniente, lo so. Fortunatamente non ne ho mai avuto il piacere, perchè mio fratello anche è terribilmente allergico e mi ha fatto fare il test prima che qualcuno mi uccidesse involontariamente."

"Per quanto questo sia eccitante," dice Lestrade, con una sfumatura di esasperazione nel tono, "ha un qualsiasi scopo?"

"Pazienza," risponde Sherlock, quasi annoiato. "Ora, sono sempre stato tremendamente curioso su quale dovesse essere il sapore delle noccioline, principalmente perchè mi sono proibite. E ho spesso pensato che, se mi fosse data l'opportunità, se fossi sul mio letto di morte consapevole che di lì a qualche ora, o magari minuto, sarò morto, deciderei di passare i miei ultimi momenti mangiando noccioline."

Lestrade non risponde per qualche secondo. Sherlock attende con aspettativa.

"Scusa," dice alla fine. "Era questo il punto?"

Si adagia sui cuscini, fa una smorfia, poi trasforma la smorfia in un cipiglio. "Certo che era questo il punto, imbecille. Non riesco a capire perchè ancora provo a spiegare le cose. La vittima era affetta dal morbo di Burgers. Raro. Quando il sangue si ferma sulle appendici si blocca e poi le fa marcire. Causato dal fumo. Non esiste cura se non l'amputazione e, ovviamente, non fumare mai più un'altra sigaretta. Quindi perchè fumarne una stanotte? Sapeva benissimo che una sola boccata avrebbe portato ad un altro dito mancante."

"Stai dicendo che sapeva che sarebbe stato ucciso." mormora John, e poi chiude velocemente la bocca.

"Finalmente. Qualcuno che non è completamente incompetente." alza gli occhi di fronte alla brusca asserzione di Lestrade riguardo la discrezione ed il coinvolgere civili negli affari del governo.

"John è il mio dottore. La sua discrezione è assicurata. Ora annusa di nuovo le dita della vittima, quelle della mano senza il guanto."

C'è uno sbuffo di fastidio, ma Lestrade fa chiaramente come gli è stato detto, perchè un momento dopo dice, "Nicotin. Sì. Quindi questo vuol dire che si è tolto i guanti, ha fumato, e poi se li è rimessi?"

"Apparentemente," Sherlock sogghigna, picchiettandosi la testa mentre osserva qualsiasi cosa ci sia sullo schermo. "Oh, questo è eccellente. Veloce, prendi il suo portafogli. Aprilo."

"Va bene. Preso."

"Cosa c'è dentro?"

"Carta d'identità. Un paio di carte di credito.. e uno scontrino."

"Lo scontrino. E' per le sigarette, giusto?"

"Sì.Sono Light parliament e....hmm, questo è strano, per una rivista femminile chiamata Indipendent."

I suoi occhi si aprono di nuovo. "Qual'è l'orario di stampa?"

"20.21"

"Nome del cassiere?"

"Uhh. Nessuno segnato. Cassa automatica."

Sherlock si allunga improvvisamente in avanti, aprendo il computer, e John automaticamente fa un passo verso di lui. Sherlock ha probabilmente strappato qualche punto con quel movimento brusco.

Le dita di Sherlock slittano sui tasti ed il suo sorriso si fa, se possibile, ancora più ferino.

"Oh era intelligente, sì che lo era," mormora, con un tono completamente differente. "Tibor Henerisc."

"Scusami?"

"Tibor Henerisc," ripete, "E' questo l'indizio che ci ha dato."

"Non sto seguendo."

"Hai detto che la vittima è ungherese, con un visto." dice Sherlock lentamente, come se stesse parlando ad un bambino.

"Sì."

"Quindi. Ungherese. La marca di sigarette: Parliament. L'orario di stampa, le otto e ventuno. Il ventuno di Agosto. E' stato il giorno delle elezioni a Budapest. Il titolo della rivista: Indipendent. C'è stato un indipendente eletto l'anno scorso nel parlamento ungherese: Tibor Henerisc."

"Cosa-come lo sai?"

Sherlock sembra vagamente compiaciuto. "Google. Ora. Ti suggerisco di guardare nei dati del signor Henerisc e controllare se c'è qualche connessione tra lui e la nostra vittima. Nonostante, guardando la sua foto, sarei portato ad ipotizzare che la connessione sia il DNA."

"Scusa?"

Si protrae in avanti, arrecando senza dubbio ancora più danni alle sue suture, e si poggia il portatile davanti. "Sto guardando la foto del signor Henerisc proprio ora. Assomiglia molto al tuo cadavere lì. Vedi?" avvicina il cellulare allo schermo in modo che Lestrade possa guardare la fotografia. "Una scelta migliore per quanto riguarda i taglio di capelli, ma le stesse orecchie e lo stesso mento. Probabilmente cugini. Ora, se te lo fossi dimenticato, ero nel bel mezzo di un affare abbastanza importante con la CIA quando mi hai bruscamente interrotto. Dovrei tornare ad occuparmi di quello, ora. Fammi sapere cosa hai trovato su Henerisc. Oh, voglio le copie dei dati del cellulare di Trevor e dei file sul suo computer."

"Posso avere i dati del cellulare entro un'ora, ma non ho la password del computer-"

"La password è Alcatraz. A maiuscola, cinque al posto della Z."

Lestrade sospira, "Come fai a sapere la password di Trevor?"

"Abbiamo vissuto insieme per sei mesi durante il caso di New York. So tutto di lui. Fammi avere quei files."

"Lo farò."

Sherlock riattacca e porge il cellulare a John. Quando si accorge dell'espressione di disapprovazione di John inizia ad alzare gli occhi, ma interrompe bruscamente il movimento, prendendo in mano il suo blackberry.

"Sto bene. Dammi mezz'ora per concludere con Dimmock e poi potrai controllare le mie suture, e mettere a tacere la preoccupazione."

Considerando che Sherlock sta già componendo il numero e che non sembrano esserci gocce di sangue sul lenzuolo del suo lettino, John torna a sedersi con un sospiro.

"Sì, Dimmock?"  dice Sherlock, poggiando nuovamente il cellulare sul ginocchio, "Dove eravamo rimasti?"

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

E' impressionato, John. E' in grado di dirlo perchè cinque anni o no, John è ancora John ed è ancora affascinato da Sherlock e dal fatto che veda cose che gli altri non possono vedere. Quando Sherlock fa qualcosa di particolarmente straordinario il sopracciglio destro di John ancora si inarca e la sua bocca ancora si alza leggermente e la cosa finisce con John che si morde il labbro superiore per fermare sorrisi che trova senza dubbio inappropriati.

Non è importante. Questo si dice Sherlock, e non lo è. Ma lo nota in ogni caso.

Sherlock si mette seduto, togliendo dalla carica sia il cellulare che il computer una volta che il lavoro è finito, osservando con distaccato interesse John mentre questo esamina le varie ferite di Sherlock. Le mani di John sono fredde, asciutte, e Sherlock prende in considerazione l'idea di proporgli di investire del denaro in una qualche crema idratante perchè il suo uso eccessivo di disinfettante sulle mani sta chiaramente rovinando la sua pelle. Non lo fa tuttavia, perchè non ha più una scusa per interessarsi della salute di John, non in generale, nè certamente di qualcosa di così irrilevante quale lo stato delle sue cuticole.

"Credo di dovermi congratulare," dice John, le dita poggiate leggermente sull'addome di Sherlock. "Sembra che tu abbia trovato la tua strada."

"E' possibile. Non mi è ancora venuto a noia, ma potrebbe ancora succedere."

"Cos'è che fai, esattamente?"

La domanda è in qualche modo imbarazzante; come se John sapesse di non avere il diritto di chiederlo, ma lo facesse comunque.

Sherlock sussulta mentre John tampona un po' di sangue che esce da un angolo di una ferita, poi risponde come se non l'avesse fatto.

"Sono un consulente investigativo. La CIA mi ha definito in modo completamente ridicolo riguardo al mio lavoro, però. Analista delle micro-espressioni facciali o del comportamento o qualcos'altro senza nessun senso."

"Inglese, Sherlock," sospira John, e l'affermazione rassegnata è così familiare, nonostante gli anni, che Sherlock si ferma per un attimo più del necessario per ricomporsi.

No. Fermo.

"Sono un investigatore, inanzitutto" dice. "Principalmente fornisco consulenza a Scotland Yard, ma ho mostrato competenze in altre aree che mi hanno permesso di ramificare il mio lavoro in campi, per così dire, precari."

John sbuffa in risposta all'attenta formulazione della frase, "Campi precari che significa...cosa? Infiltrarsi in organizzazioni criminali internazionali?"

"Sì," dice, con calma, "esattamente."

John lascia bruscamente cadere l'angolo della vestaglia da ospedale di Sherlock, spostandosi per gettare i guanti nel cestino.

"Hai scucito uno dei punti all'angolo, ma credo che un'applicazione di Dermabond sarà sufficiente al suo posto. Ricontrollerò con la Dottoressa Allen durante i turni," lancia un'occhiata all'orologio. "A proposito, sarà qui tra meno di dieci minuti ed ho un disperato bisogno di caffeina. Non sei in attesa di altre chiamate, giusto?"

John è improvvisamente ansioso di andarsene, sebbene Sherlock non riesca a localizzare una qualsiasi parte della conversazione in cui abbia detto qualcosa che possa giustificare questo cambiamento nel modo di comportarsi.

"No," risponde Sherlock lentamente, osservando ancora i movimenti di John. "Non sono in attesa di nient'altro per qualche ora."

Ma non è che il suo lavoro sia esattamente cadenzato da un orario. Le persone raramente vengono uccise ad orari convenienti, pensa.

Alza gli occhi, prendendo in considerazione l'idea di esprimere il pensiero ad alta voce, è il genere di cose che John trovava divertente una volta, ma la disperazione malamente celata sul volto dell'altro uomo lo forza a restare in silenzio.

"Ok," John si muove verso la porta, "Ci vediamo tra pochi minuti."

"John."

John si ferma, e quando si gira per fronteggiare Sherlock la sua mascella è serrata.

"Sì?"

"Sono sicuro che non sia necessario dirlo. Ma voglio essere sicuro che tu capisca che tutto ciò che è stato detto nel corso della mattinata è strettamente confidenziale."

"Ne sono consapevole," scatta John, e Sherlock è sorpreso dal veleno nella sua voce. "Non sono stupido."

"Lo so," risponde Sherlock in modo gentile, ed in qualche modo questo rende tutto peggiore.

John sbatte la porta un po' più violentemente del necessario quando se ne va.

***
John si prepara una tazza di earl grey con movimenti violenti e imprecazioni proferite sottovoce.

Inglese, Sherlock. Lo ha detto, nello stesso identico modo in cui l'aveva detto cento altre volte prima in almeno cento differenti e più felici scenari. E non ha neanche realizzato di averlo detto fino ad un minuto dopo.

Lui non lo ha notato, ed è bastato questo a rendere la sua reazione decisamente peggiore.

Ha messo in chiaro che non gli interessa, si ripete John, almeno fai finta di provare lo stesso.

Collassa sul divano malamente rattoppato della sala dei tirocinanti, chiedendosi per un attimo perchè la stanza odori sempre di pop corn, e poi lascia che i suoi occhi si chiudano, la tazza posata sul petto. E' una calda presenza familiare ogni volta che respira.

Inglese, Sherlock.

Sa che dovrebbe alzarsi e bere il suo tè e trovare Stamford, perchè perdersi in ricordi vecchi di cinque anni può essere difficilmente considerata un'attività produttiva, ma non lo fa. Perchè i suoi ricordi di Sherlock sono decisamente più piacevoli dell'attuale versione di lui, tutta sorrisi affettati e ferite e cosparsa dalle tracce di aghi, due piani più sotto.

Inglese, Sherlock.

La prima volta che lo aveva detto era stato il giorno in cui le cose erano cambiate tra di loro. Certo, le cose erano cambiate dopo l'incidente con la scarpa mancante e la passeggiata verso la biblioteca e la lieve perdita di fascino per il personaggio che era Sherlock. Ma il giorno in cui le cose cambiarono sul serio fu quando John lo vide correre.

Era un Martedì, non era giorno di terapia, e John aveva rischiato di non vederlo affatto. Alla madre di John servivano delle cose dai negozi e lui stava tornando a casa da scuola, passando per una specie di strada panoramica, così da potersi fermare e prendere qualche cosa per la cena, quando aveva visto Sherlock.

Stava correndo, cosa che John immediatamente trovò sbagliata. Inanzitutto, perchè Sherlock era scalzo di nuovo, secondo poi perchè non stava correndo in una maniera che potrebbe essere anche lontanamente definita attinente ad un'attività scolastica. Stava correndo con lo stesso tipo di paura per i predatori con cui corrono i piccoli animali inseguiti dai cani. John era rimasto a guardare mentre Sherlock slittava dietro l'angolo di una stazione di benzina, piegandosi sotto una recinzione a catena, e poi, un momento dopo, John aveva capito. Tre ragazzi, quasi uomini, in realtà, erano apparsi poco dopo, seguendo Sherlock dietro l'angolo e arrampicandosi oltre il cancello con un coro di imprecazioni che John era riuscito facilmente a distinguere dal suo punto d'osservazione, quasi una via più in là. Non si era davvero fermato a pensare prima di ficcare la lista della spesa nel portafoglio e correre loro dietro.

Li aveva raggiunti abbastanza facilmente nel giardino sul retro di una residenza vuota qualche attimo dopo. Avevano messo Sherlock all'angolo, tra un muro di pietra ricoperto di edera e una rimessa in parte distrutta e John non era affatto riuscito a vedere molto di Sherlock oltre ad una serie di teste di adolescenti abbassate e mani che si muovevano con violenza.

Non ha nessun senso, aveva pensato John. Tre ragazzi, come minimo della sua età, forse più grandi, che si coalizzavano contro un dodicenne? A che pro? Forse stavano solo provando a spaventarlo? Ma mentre John si faceva strada attraverso il cancello, le mani degli altri ragazzi si erano strette a formare dei pugni e i respiri affannati di Sherlock si erano trasformati in soffocate espirazioni causate dal dolore. Non solo tattiche intimidatorie, quindi.

Sherlock si stava difendendo, aveva realizzato John mentre gli correva incontro. I movimenti di difesa di Sherlock erano precisi e d'effetto. Ma lui era soltanto una persona molto piccola e nonostante l'evidente abilità non aveva nessuna possibilità contro i suoi tre, decisamente più grandi, avversari.

John tuttavia, l'aveva.

"Hey," aveva urlato John, "Che cazzo pensate di fare?"

Il più giovane degli assalitori di Sherlock chiaramente non si era aspettato compagnia. Avevano fermato il loro assalto, girandosi automaticamente per fronteggiare John mentre questo rallentava la sua corsa. Uno di loro aveva in mano una delle cinghie dello zaino di Sherlock, l'altra cinghia ancora stretta intorno alla sua spalla. Si era strappata, facendo cadere Sherlock come una massa scordinata di arti per terra; come un burattino con i fili tagliati.

Nessuno di loro era sembrato incline a rispondere alla domanda di John. Erano tutti vestiti con la stessa uniforme di Sherlock ed avevano tutti le stesse espressioni di relativo disagio. Venivano dall'alta società, avevano volti genericamente piacevoli, denti bianchi e mani delicate. Non sapevano nulla di come combattere. Troppo facile, aveva pensato John, e si era avvicinato, troppo vicino alla loro zona di sicurezza apparentemente, visto che tutti e tre fecero un passo indietro in risposta.

Era bastato come incoraggiamento.

"Sparite, cazzo," aveva ringhiato.

E loro avevano fatto esattamente quello.

John li aveva osservati andarsene con un ghigno, e poi aveva spostato la sua attenzione su Sherlock, piegandosi sui talloni vicino al ragazzo più giovane.

Sherlock era in piedi, le braccia ferme sulle ginocchia piegate, sembrando impassibile come sempre, o quantomeno impassibile quanto lo potesse sembrare una persona che aveva appena rischiato di essere presa a calci.

"Questo non era necessario," aveva detto Sherlock, usando il retro di una mano per asciugare il sangue sul suo naso. Aveva osservato il rosso che sporcava le sue nocche con interesse accademico, e poi aveva spostato il polso per poggiarlo sul ginocchio. "Non avevano intenzione di uccidermi o cose del genere."

"Non c'è di che," aveva risposto John ironicamente, offrendogli una mano. "Andiamo, ti tiro su."

Per un attimo John aveva pensato che intendesse ignorare il gesto, ma dopo una breve considerazione, Sherlock aveva accettato il suo aiuto, con studiata attenzione, "grazie."

John aveva sorriso in risposta e per un fugace momento potrebbe giurare che Sherlock fosse sembrato compiaciuto di se stesso.

John aveva sollevato il mento di Sherlock tra il suo indice ed il suo pollice, osservando l'area ormai ferita sulla sua tempia, e poi aveva toccato con le dita entrambi i lati del naso. Non era rotto, perlomeno, aveva deciso, prima di spostare la sua attenzione sul taglio che divideva perfettamente a metà il suo labbro inferiore.

"Dio, Sherlock." aveva detto. "Stai di merda."

"Anche tu hai un aspetto simile a quello della merda," aveva replicato Sherlock riluttante.

John si era fermato, osservando l'espressione vagamente speranzosa dell'altro ragazzo. "Quella era una battuta?"

"Perchè?" aveva chiesto Sherlock, serio. "Era divertente?"

John aveva riso, passando la mano tra i ricci di Sherlock, cercando qualche ferita nascosta.

"Sì. E tu stai molto peggio di come non stia io."

"Non hai dormito," aveva risposto Sherlock, abbassandosi per raccogliere il suo zaino. "Incubi, immagino. Il tuo viso non ha un bell'aspetto."

John non aveva commentato ed i due si erano mossi in silenzio verso la strada.

Quando avevano raggiunto l'angolo della ventiduesima Sherlock aveva iniziato ad attrevarsare la strada e John lo aveva fermato.

"Dove pensi di andare?"

"In biblioteca," aveva risposto. Non si era disturbato a nascondere un "ovviamente" nel suo tono.

"Falso. Vieni a casa con me. Non c'è modo di sapere se quegli imbecilli ti stanno aspettando da qualche parte. Inoltre, non puoi semplicemente andare in giro così."

John aveva indicato il volto di Sherlock come prova, poi aveva stretto tra le dita il polso di Sherlock, tirandolo di nuovo verso il suo lato della strada. "Ti accompagno a casa non appena ti sei ripulito, ok?"

Sherlock lo aveva guardato torvo, ma non aveva risposto. John aveva capito che questa sarebbe stata la cosa più vicina ad un sì che avrebbe potuto ottenere.

"Quindi. Vuoi dirmi perchè tre adolescenti sentivano il bisogno di picchiarti senza motivo."

Sherlock aveva scrollato le spalle. " Mi è capitato di informare uno dei nostri docenti di qualche indiscrezione commessa da parte loro, la natura delle quali ha portato alla loro espulsione e al successivo interesse nel danneggiare la mia persona."

"Inglese, Sherlock." aveva sospirato John.

"Hanno imbrogliato," aveva borbottato. "Io li ho smascherati. Loro lo hanno scoperto e non ne sono stati felici."

"In cosa hanno imbrogliato?"

John aveva notato che Sherlock stava camminando in maniera un po' divertente, e aveva osservato l'irregolarità dei suoi passi mentre questo rispondeva.

"Il cinquanta percento del nostro voto finale è costituito da una tesi di laurea che bisognava consegnare la settimana scorsa. Le tesi con cui si sono presentati non erano produzioni loro. Le aveva scritte qualcun altro."

"Come fai a saperlo?"

"Perchè sono stato io a scriverle."

John si era fermato, e Sherlock aveva fatto una pausa, voltandosi verso di lui con uno sguardo tranquillo. "Cosa c'è?"

"Tu hai scritto le loro tesi?"

Sherlock aveva ripreso a camminare, e John lo aveva seguito per abitudine.

"Ho dodici anni," aveva risposto disinvoltamente Sherlock, "Non posso lavorare e mio fratello monitora le mie finanze. Scrivo tesi per guadagnare un po' di soldi da spendere quando mi servono. Questo è stato il problema, però. Io ho scritto le loro tesi, loro hanno ricevuto i voti che desideravano, ma si sono rifiutati di pagarmi."

"Quanto ti fai pagare?"

Aveva scrollato le spalle, la voce ancora impassibile. "Dipende dalla richiesta. I saggi normali dalle venti alle trenta sterline. Le tesi di laurea sono differenti. Duecento per una A, centocinquanta per una B, cento per una C. Loro volevano tutti una A ed è quello che hanno ottenuto, ma non hanno pagato."

John aveva quasi smesso di camminare di nuovo mentre Sherlock faceva la sua lista di compensi in denaro. Poi, aveva fischiato.

"Quindi li hai smascherati?"

"Sarebbe stato difficile. Poi mi sarei trovato in guai ben peggiori. Ho postato le loro tesi online in un forum per studenti sotto un profilo anonimo, e poi ho mandato via e-mail al loro docente la lista dei loro nomi ed il link al forum. L'indirizzo e-mail non è registrato a mio nome, quindi era anonimo anche quello. Il docente ha pensato che avessero copiato da qualchee professionista online. Non verrò mai sospettato."

John aveva fischiato di nuovo, sogghignando. "Ottimo. Cosa è successo a loro?"

"Sono stati espulsi tutti e tre, come ho detto. Non sono ben disposti nei miei confronti."

John aveva accennato con il capo verso una strada laterale, lasciandogli capire che stavano per abbandonare la strada principale. "Quindi perchè lo hai fatto? Avresti dovuto sapere che se la sarebbero presa con te."

"Perchè alle persone non piaccio, e questo va bene. Non ho bisogno di piacere loro. Ma voglio che mi rispettino, e se le lasciassi andare senza farli pagare, avrei perso il loro rispetto. Cosa avrebbe fermato altri nel fare lo stesso in futuro se non l'avessi fatto? Era necessario."

I passi di Sherlock si erano incrociati mentre scendeva dal marciapiede e John aveva afferrato il suo gomito prima che potesse cadere.

"Va tutto bene?"

"Tutto bene," aveva risposto, scrollando la mano.

"Falso." aveva detto John impassibile.

Sherlock aveva roteato gli occhi, ma dopo qualche attimo di silenzio aveva ammesso, "Credo di essermi slogato la caviglia."

John aveva spostato un pollice verso la sua schiena, "Vuoi un passaggio?"

Sherlock gli aveva lanciato uno sguardo che sanciva chiaramente che quello non sarebbe mai successo.

"Nonostante io l'abbia offerto," aveva riso, invece aveva preso lo zaino di Sherlock, "almeno fammi portare questo."

Sherlock gli aveva lanciato un altro sguardo torvo, ma non aveva protestato una volta alleggerito dal peso.

"Quindi..hai qualche amico?" aveva chiesto, sinceramente curioso.

Sherlock si era voltato per studiare la sua espressione, chiaramente aspettandosi una qualche sorta di malizia nascosta. Quando si era accorto che non ce n'era aveva fatto passare la lingua sul suo labbro inferiore, dissolvendo il grumo formatosi. Sangue fresco si era riversato, muovendosi lentamente per attardarsi sulla curva del suo mento.

"No," aveva detto Sherlock. "I ragazzi della mia età non mi capiscono e gli studenti della mia scuola pensano che io sia strano, nel migliore dei casi. Te l'ho detto prima. Non piaccio alle persone."

John aveva scrollato le spalle, "A me piaci. Voglio dire, sì, vedo la parte strana. Ma, non sei così male."

Sherlock non aveva risposto a quello, ma John non si era realmente aspettato che lo facesse. Non avevano parlato molto per la successiva mezz'ora fino a quando non aveva fatto entrare Sherlock nella tutt'altro che solenne casa e aveva medicato le sue numerose ferite.

Sherlock era seduto sul divano di John con del ghiaccio sulla caviglia e John aveva provato a fare i compiti mentre Sherlock guardava qualche programma sui detective in tv. Sherlock aveva indovinato il colpevole dopo i primi sei minuti, deriso vari personaggi, elencato tutti i motivi per cui la trama era fallace, e per la fine del programma aveva definito la cosa un completo spreco di tempo. John aveva cambiato programma e aveva scelto un documentario sui batteri che aveva completamente catturato l'interesse di Sherlock. John era ritornato alle pagine dell'Amleto con un sospiro, cercando di non sorridere mentre Sherlock si spostava dal divano al pavimento per avvicinarsi allo schermo televisivo.

Potrà anche essere un genio, aveva pensato John, ma è ancora un bambino.

John si era offerto di accompagnare Sherlock a casa alla fine del secondo programma, che per fortuna non aveva portato a commenti sprezzanti. Sherlock aveva declinato l'offerta, aveva fatto una breve, quasi monosillabica chiamata sul suo cellulare, e qualche minuto dopo una limousine nera aveva parcheggiato sotto la casa.

Sherlock aveva notato il suo arrivo prima di John e si era alzato, mettendo a tracolla sulla spalla lo zaino. Aveva riconsegnato il ghiaccio a John.

"Grazie," aveva detto di nuovo, nello stesso modo serio e attento in cui l'aveva detto la prima volta.

John si era accertato di sorridere in risposta e non era rimasto deluso quando Sherlock aveva ricambiato il gesto. Certo, era un sorriso molto stentato, ma era qualcosa.

"Ci vediamo Venerdì," aveva detto John, accompagnandolo alla porta.

Sherlock non aveva risposto, aveva semplicemente zoppicato per il viale, aperto la portiera sul retro per i passeggeri, ed era scomparso alla vista. I finestrini erano troppo scuri per permettergli di vedere all'interno, ma John aveva dubitato che Sherlock avesse ricambiato il saluto mentre la macchina era uscita dal viale per imboccare la strada principale.

Bene, aveva pensato, sembra che io abbia fatto amicizia con un sociopatico.

****
Il cercapersone di John si scarica e lui quasi si rovescia tutto il tè addosso. Fortunatamente si ricorda che la tazza è posata sul suo petto nello stesso momento in cui fa per alzarsi, quinsi solamente poco si rovescia sulla giacca prima che riesca a prenderla. Osserva la macchia scura per un momento, e poi decide che non gli interessa. La giacca ha già visto un'eccessiva varietà di macchie, il tè è sicuramente una delle meno disgustose.

Prende qualche veloce sorso, tentando di bloccare le ultime immagini rimaste nella sua testa del dodicenne Sherlock, poi si alza, getta il tè rimanente, e torna ai suoi turni.

Note della traduttrice: Scusate per l'immane, assurdo ritardo nella pubblicazione di questo capitolo...ma il computer mi ha abbandonato e tutto il lavoro già fatto era irrecuperabile...tenterò di postare il più puntuale possibile d'ora in poi. Grazie a tutti coloro che seguono, ricordano e mettono tra le preferite questa storia! Le recensioni, critiche e non, sono sempre bene accette e mi aiutano a migliorare, quindi non siate timidi ;)
Alla prossima, 86221_2097

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 Note della tradutrice: Sono in ritardo, non è una novità....però mia cara Ms Bennet, ce l'ho fatta! Tutto per te!
Tenterò di essere più frequente con gli aggiornamenti soprattutto ora che estate, il mio computer ha ripreso ha funzionare e dovrei avere un po' più di tempo....Buona lettura!! Come sempre grazie a chi legge, segue o recensisce!!
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Sono stato innocente, una volta, pensa Sherlock, toccandosi con dita caute la piega interna del braccio. La pelle sottile in quel punto è un agglomerato di  tracce di aghi ancora fresche e cicatrici sbiadite. Il passsato e il presente che convergono attorno ad una minuscola punta di sangue essiccato causato dalla sua recente trasfusione endovenosa.

L'area attorno ( regione antecubitale)  è ipersensibile e i movimenti delle sue dita callose ( Tredici anni passati a strofinare corde di violino) tendono a diventare quasi dolorosi quando traccia la sottile mappatura venosa sul suo avambraccio. Rende il suo tatto debole.

Nonostante la morfina ancora in circolo nel suo sistema può percepire il peso delle sue ferite. I punti tirano e i cerotti prudono e lui probabilmente non ha mai desiderato così tanto scappare dal rumore e dalla luce eccessiva e dalla generale confusione destabilizzane che gli causa respirare e sbattere le palpebre e recitare la parte dell'essere umano. Vuole scappare lontano- lontano da tutto e da tutti e smettere semplicemente di pensare e percepire e osservare e catalogare e ipotizzare ed essere. Vuole l'oscurità, il silenzio. E può averli. Sa esattamente come farli arrivare, ma questo è il motivo principale che l'ha portato qui, e Mycroft ha senza dubbio controllato tutti i suoi nascondigli e li ha ripuliti da ogni residuo di sanità che avrebbe potuto trovarci. Sherlock può essere abbastanza intelligente da eludere una squadra della narcotici, ma Mycroft è Mycroft, e quindi tutta un'altra storia.

Stringe le dita, osservando i tendini del braccio flettersi; osservando la pelle danneggiata muoversi al distendersi dei muscoli al di sotto. Considera il lieve mutare della struttura corporea e non può fare a meno di riconoscere, seppure per breve tempo, la fragilità della sua stessa vita. Questo, aggiunto ai persistenti sintomi dell'astinenza e al dolore pulsante del fianco, è abbastanza per farlo gemere. E' un gemito silenzioso, sommesso, ma nonostante ciò udibile. Vuole andare a casa. E sì, vuole buio e quiete e calma e tutto il resto ma allo stesso momento ciò che vuole di più è semplicemente essere in qualunque posto dove non ci sia John Watson. Perchè questo è l'esatto tipo di caotica vulnerabilità che porta a decisioni stupide e lui ne ha già sperimentate un eccesso quando è coinvolto John.

Sentimenti, pensa, e preme la parte superiore delle mani sugli occhi.

"Sherlock."

Vai via. Per favore vai via. Non posso farcela adesso. Per favore.

No. Fermo.


Sposta le mani. Apre gli occhi.

"John."

Perfetto. Non c'è nessun monitor per il battito cardiaco attaccato a qualche dito traditore questa volta. Lascia che le palpebre cadano a mezz'asta. Cerca di raddrizzarsi senza sussultare.

"Sono libero di andare?" chiede.

"Sì. Mycroft deve solo finire una chiamata fuori. Sarà qui con una sedia a rotelle tra un attimo."

Non risponde nulla perchè non c'è nulla da dire, e perchè al momento il silenzio sembra l'opzione più sicura.

"Sherlock,"

La voce di John è sbagliata. Non sbagliata in un confronto passato-presente, ma sbagliata in una maniera relativa al tipo sbagliato di emozioni. John ingoia qualsiasi fossero le parole che intendeva pronunciare, e ricomincia.

"Sherlock, so che non è più il mio ruolo ma..."

"John. Fermati."

Idrogeno. Pensa velocemente, Elio. Litio.

"Questo non cambia nulla, " (Berillio ) "se stai sperando in una qualche sorta di riconciliazione, la mia opinione in materia non è cambiata, indipendentemente dalle circostanze attuali."

Boro. Carbonio. Azoto.

Il volto di John fa questo nuovo orribile movimento per cui la sua mascella si idurisce e la sua espressione scompare e Sherlock può leggere indizi solamente negli angoli degli occhi e nella curva delle dita strette a pugno e ferisce Sherlock quasi quanto ciò che John fa subito dopo.

"In ogni caso," dice John. "qui c'è il mio corrente biglietto da visita." poggia un pezzo di carta ripiegato vicino al ginocchio di Sherlock, attento a non toccarlo. Incontra i suoi occhi per un attimo e Sherlock lo lascia accadere prima di riuscire a prevenirlo.

Ossigeno. Fluoro. (Dio, i suoi occhi) Neon, Sodio, Magnesio.

"Non lo perdere," continua John, un dito ancora sulla carta. "Sai, in caso possa rendermi nuovamente utile."

Magnesio...Fosforo. No. Non è esatto. Cazzo.

Sherlock sbatte le palpebre ma i suoi occhi restano chiusi troppo a lungo per sembrare un gesto naturale. Non è stato un movimento intenzionale ma ciononosante accade e un secondo dopo ci sono passi che si dileguano- forse John pensa che Sherlock lo stia ignorando, forse pensa che sia un invito ad andarsene, non ha idea di cosa pensi John, non più, ma, in ogni caso, quando apre di nuovo gli occhi, John se ne è andato.

Raccoglie il pezzo di carta con movimenti accorti; piegandolo e poi piegandolo di nuovo.

Sa che dovrebbe buttarlo, ma non lo fa.

****

Il loro rapporto non è mai stato normale. John lo sa. Dubita che la parola "normale" possa essere applicata ad una qualsiasi sfaccettatura della vita di Sherlock. Ma provare a descrivere la passata amicizia con l'uomo è praticamente impossibile. Nessuno l'aveva capita all'epoca, men che meno lui, e tentare di comprenderla dopo quel che è successo è non meno impossibile. Aveva sedici anni quando si sono conosciuti per la prima volta, buoni voti, titolare nella squadra di football. Sherlock ne aveva dodici, era innopportuno, spaziava dall'essere socialmente inadatto all'essere spaventosamente intuitivo nel giro di pochi secondi, era maleducato, generalmente detestato, e completamente senza amici. La madre di John aveva commentato quando Sherlock aveva iniziato ad andare a casa loro dopo scuola. All'inizio lo aveva preso in giro. Di nuovo a fare il babysitter, John? poi era stata confusa, e poi, improvvisamente, aveva smesso di farci caso, perchè Sherlock era diventato in qualche modo una consuetudine. Una consuetudine durata quattro anni. E sembrava che John stesse ancora soffrendo i residui della sua fine.

Sta tentando di dare senso alle cose; tentando di catalogare come il loro strano rapporto si sia traasformato in un'amicizia, tanto per cominciare. E' iniziata con i piedi nudi, pensa, o magari il giorno in cui l'ha salvato. Dopo l'incidente riguardante i tre collegiali fraudolenti, un labbro sanguinante e la perfetta ricostruzione di un telefilm sui detective, John si era aspettato che le cose tra lui e il suo bizzarro conoscente tornassero come prima. Ma il Venerdì seguente, quando era arrivato nell'ufficio dello psicologo, Sherlock non era nella sua solita posizione, ne' aveva ignorato John quando questo si era seduto. Sherlock era seduto a gambe incrociate, dita intrecciate sul grembo. Aveva aggrottato le ciglia verso John come se il ragazzo avesse fatto qualcosa per cui essere punito.

"Rimani dopo il tuo appuntamento, oggi," aveva detto Sherlock.

"Hey. Felice di vederti anche io," aveva replicato.

Sherlock non aveva risposto e John aveva sospirato.

"Scusami, perchè dovrei rimanere dopo?"

Il ragazzo più giovane non aveva risposto, ritornando alla sua posizione a mo' di effigie, e John aveva sospirato una seconda volta, prendendo in mano la sua copia malamente tenuta dell'Amleto.

Era rimasto.

Sherlock lo aveva raggiunto sul marciapiede una volta conclusa la seduta.

"Ho intenzione di aiutarti a passare la tua classe di Inglese." aveva detto, colloquiale.

John non era stato sicuro di come rispondere a quello. "Um. Okay. Perchè?"

"Perchè sì. E' dovuto."

"Dovuto?"

Sherlock aveva fatto un gesto, infastidito, "Per Martedì,"

"Senti, non è- Non mi aspetto niente per quello. Non è che io l'abbia fatto così da- Solo, no. Non ti preoccupare per quello.".

"Lasciamelo fare. Per favore.".

Sherlock aveva pronunciato quelle parole come un'affermazione, non una richiesta. Non c'era un'intonazione diversa all'inizio della frase rispetto alla fine. La sua espressione era solenne.

John aveva osservato il volto di Sherlock, ancora malconcio, dove i lividi erano sfumati in un giallo malaticcio, e aveva aggrottato le ciglia.

"Sei serio?"

"Io non scherzo mai."

John aveva sbuffato. "Mai?- mi sembra di ricordare che tu abbia detto di voler essere uno strizzacervelli da grande."

La bocca di Sherlock si era sollevata appena all'angolo. "Scherzo raramente," si era corretto.

"Bene. Non rinucerò ad un aiuto. Biblioteca?"

"Certo."

John aveva riflettuto riguardo alle occhiate curiose che avrebbe potuto ricevere se qualcuno della sua scuola l'avesse visto mentre prendeva ripetizioni da un dodicenne. "O...potremmo andare di nuovo a casa mia, se per te è lo stesso."

"Certo," aveva ripetuto Sherlock.

"Devo metterti in guardia," aveva detto John, alzandosi, "sono senza speranza."

"Non completamente," aveva detto Sherlock, e per qualche ragione questo aveva prodotto in lui un'irrazionale ondatat di orgoglio.

Sherlock gli aveva spiegato il primo atto dell'Amleto quella sera. E dannazione se non l'aveva fatto sembrare comprensibile. John aveva chiesto rassegnato se avrebbe potuto spiegargli non solo l'Amleto, ma anche i libri precedenti e Sherlock aveva accettato, a condizione che John lo accompagnasse a casa da scuola durante le ultime tre settimane di scuola. In questo modo non sarebbe stato indifeso in caso di un altro incidente riguardante le scarpe. John aveva scosso la mano che Sherlock aveva gravemente proteso senza esitazione.

La settimaana seguente era stata strana, a dir poco. John aveva recuperato Sherlock ai cancelli della sua scuola assurdamente ricca esattamente alle 15:15 ogni giorno. Erano andati a casa di John, avevano arrangiato una sorta di merenda, e poi lui si era seduto sul pavimento e aveva ascoltato mentre Sherlock spiegava i rapporti tra Amleto e Ofelia e la pretesa pazzia del principe. Avevano finito l'Amleto il Mercoledì e avevano passato il Giovedì ripassando Beowulf. Il Venerdì, Sherlock aveva chiesto a John di portare l'Iliade, il primo libro che la sua classe aveva studiato, alla terapia con lui e avevano iniziato a rivederlo in sala d'attesa.

Quando il dottor Sebring aveva aperto la porta alle 15:45 per chiamare il nome di John aveva sollevato le sopracciglia, ma non aveva commentato il fatto che il suo paziente sociopatico avesse la testa piegata vicino ad un altro essere umano, dita distese a sottolineare una citazione nel libro condiviso, mentre spiegava accuratamente l'inesauribile amore che il coraggioso Ettore provava verso la moglie ed i figli.

La settimana seguente era proseguita più o meno allo stesso modo, fino a Venerdì mattina, quando John era stato svegliato da un messaggio di un numero sconosciuto.

Fuori città. Ti ho mandato via e-mail una recensione per il tuo esame. Mi aspetto che tu prenda una A se la usi in modo appropriato. Ci vediamo Venerdì prossimo in terapia_ SH

Come hai recuperato il mio numero? 
aveva replicato John.

Non sorprendentemente, non aveva ricevuto una risposta.

John aveva usato la recensione ed il Venerdì successivo era entrato nell'ufficio con un sogghigno.

"Ho preso una A," aveva detto a Sherlock.

"Hai usato la recensione in modo appropriato, quindi."

"Allora, cosa vuoi fare per festeggiare?" aveva chiesto John, "Possiamo ordinare qualcosa e guardare la tv stasera. Ho registrato quel documentario sulle formiche brasiliane che volevi vedere."

Il volto di Sherlock aveva fatto una strana smorfia. "Gli esami sono finiti. Ci sono le vacanze. Non ti servo più. E tu non servi più a me."

"Oh. Lo so, ho solo pensato...non importa."

Sherlock si era spostato, apparendo stranamente fuori  posto. "Non è abituale per gli adolescenti accogliere l'inizio dell'estate con amici, musica e bevande alcoliche ottenute illegalmente?"

John non era riuscito a decidere se avrebbe dovuto ridere o sospirare. "Sì, ma...non ho realmente amici, ormai," aveva ammesso. "Non dalla cosa con mio padre. Tutti mi guardano un po' strano adesso."

Sherlock si era passato una mano tra i capelli, poi era sobbalzato quando la porta del dottor Sebring si era aperta.

"Sì," aveva detto mentre si alzava.

"Cosa?"

"Sì." aveva ripetuto Sherlock. "E' da tempo che voglio vedere il documentario sulle formiche brasiliane."

"Oh. Bene. Okay." aveva acconsentito John.

E questo era stato quanto.

Sherlock aveva passato quasi ogni giorno a casa di John quell'estate. Era una personcina sdegnosa, orgogliosa e pedante, e per la metà del tempo mandava John completamente fuori di testa. Poteva citare intere pagine di Shakespeare ed elencare la tavola periodica degli elementi a memoria, cosa che faceva, spesso e ad alta voce, quando John aveva fatto qualcosa per contrariarlo, ma Sherlock sapeva veramente poco riguardo le persone. Poteva essere innocente e garbato e perfettamente educato in maniera inquietantemente ponderata quando gli andava, come nei rari momenti in cui la madre di John era in casa. Ma le piccole recite di normalità erano solamente questo: parti di un copione. John non era riuscito a decidere se doversi sentire onorato o meno del fatto che Sherlock fosse assolutamente senza remore una volta solo con lui. Il ragazzino era esasperante. Ma era anche brillante e questo, quantomeno all'inizio, era ciò che aveva trattenuto John dal cacciarlo fuori di casa.

Quando John aveva confessato di voler diventare medico, Sherlock aveva iniziato a portargli articoli di riviste di medicina e lo aveva aiutato a cercare Università che fossero buone per studenti di Medicina. Aveva comprato online un testo di Biochimica e avevano provato ad affrontarlo insieme quando l'afa si era fatta eccessiva ed erano stati costretti a rimanere dentro casa.

Alcune volte avevano osservato le persone. Avevano passato ore seduti mentre John indicava una persona dopo l'altra e Sherlock descriveva che tipo di persona fosse. "Guarda la sua postura," diceva, "guarda il modo in cui torce i suoi anelli, il modo in cui la sua espressione cambia quando parla con suo figlio." Sherlock dichiarava le persone decenti e buone lavoratrici o bastarde adultere basandosi su poche occhiate e poi spiegava il perchè a John e John sogghignava e sceglieva la loro nuova vittima. Era stata la migliore estate della sua vita. E quando il nuovo anno scolastico era iniziato c'era stata una silente intesa sul fatto che la loro amicizia sarebbe continuata. E così aveva fatto, quantomeno per altri tre anni, fino a quando l'intera inusuale situazione si era dissolta in un disastro incontenibile.

****

John aspetta fuori dalla camera di Sherlock, facendo un cosciente sforzo per non lasciare che la sua espressione rifletta i suoi pensieri, e quando Mycroft gira l'angolo, spingendo una sedia  a rotelle vuota, John stacca le spalle dal muro e si muove per accoglierlo.

"Vedo che hai provato ad avere una sorta di rovinosa conversazione riconciliante con mio fratello," dice Mycroft con delicatezza.

"Qualcosa del genere," concorda John.

"Deduco che non sia servito."

"Per non dire altro."

Mycroft lo osserva, le sopracciglia aggrottate nel più lieve dei cipigli.

"Cosa ti disturba, John?" chiede, rassegnato. "C'è chiaramente qualcosa che vuoi dirmi."

"Io..." abbassa gli occhi, resistendo all'istinto di girarsi a guardare Sherlock attraverso il vetro. "Cosa gli è successo, Mycroft? Non capisco."

"Cosa intendi?"

John scuote la testa davanti alla finta confusione di Mycroft. "E' diverso. Diverso in maniera brutta. Voglio dire, è sempre stato spaventosamente intelligente o completamente inappropriato. Ma così? Non è mai stato così. Neanche nei suoi periodi peggiori. E'- è crudele adesso, Mycroft. Costantemente. E non penso neanche che lo faccia di proposito. E' come se fosse programmato per essere perfido."

John sospira, alzando la mano per sfiorare il ciondolo prima di interrompere il movimento violentemente.

"Non ho mai creduto che fosse un sociopatico prima," dice, lasciando cadere le braccia. "potrei essermene convinto adesso."

Mycroft lo osserva con un'espressione imperscrutabile. Picchietta le dita sulla sedia a rotelle e distoglie lo sguardo velocemente. "Il tempo cambia le persone, John. Può accadere molto in cinque anni."

"Ovviamente."

Nessuno dei due dice niente per qualche secondo, e John allunga la mano rassegnato. "Suppongo non ci vedremo di nuovo."

L'altro uomo accetta l'offerta, afferra la mano con leggermente più forza del necessario.

"Spero di no," concorda. "senza offesa."

"Si figuri."

Si dividono senza un'altra parola e cinque minuti dopo Sherlock Holmes è trascinato via in una BMW nera mentre John Watson lo osserva da una finestra quattro piani più in su.

Non rivede Sherlock per altri sei mesi.



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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8
 
Sono le quattro di mattina e John è di turno da ormai sedici ore quando il suo cellulare squilla. E' un numero che non riconosce. lo ignora ficcando nuovamente il viso nel cuscino ruvido nella sala dei turnisti. Qualche secondo dopo lo schermo si riaccende.

Risponde con fastidio malamente celato.

"Pronto?"

"Sì, salve. Conosce per caso Sherlock Holmes?"

John prende in considerazione l'idea di lanciare il telefono contro il muro più vicino, ma si contiene.

"Sì. Chi parla?"

"Sono l'Ispettore Lestrade. Non sono riuscito a contattare la signora Hudson e lei è l'unico altro contatto registrato sul cellulare, oltre a Mycroft." c'è una pausa. "E chiamare Mycroft non sarebbe l'idea migliore al momento, non credo."

John si alza, stropicciandosi con dita arrabbiate -con troppa violenza- gli occhi. "Scusa, cosa?"

"Io-" si sente il microfono strofinarsi su del tessuto e la voce sull'altra linea si interrompe. "Senta, potrebbe passare alla stazione a prenderlo per caso? Di solito lo porto a casa con me ma sono nel bel mezzo di un lavoro e non voglio lasciarlo chiuso qui tutto il giorno. Specialmente non così. E' completamente fatto."

"Cazzo." dice John, perchè, onestamente,cos'altro c'è da dire.

"Questo è un si?" risponde l'Ispettore.

John comincia a mettersi la maglietta, dimenticandosi di avere il cellulare all'orecchio, e poi interrompe il movimento.

"Sì, certo. Sto arrivando."

"Dica che sta cercando me quando arriva, va bene?"

"Sì. Ok, ciao."

John finisce di mettersi la maglietta e schiaffa i piedi nelle scarpe, mentre compone il numero di Stamford.

Risponde al secondo squillo. "John? Che succede?"

"Hey, ti compro il pranzo per un mese se copri il resto del mio turno, che inizia tra..." lancia un'occhiata all'orologio, "dieci minuti."

"Andata. Ce la fai per il giro di visite o devo coprirlo al posto tuo?"

"Non ne ho idea," risponde.

"Va bene. Buona fortuna, qualunque cosa sia," dice il suo amico.

"Grazie."

John riattacca e corre verso l'anscensore domandandosi perchè diavolo stia tirando fuori dei soldi dal portafoglio per un taxi alle quattro di mattina per recuperare un uomo che non ha nessuna interesse ad essere salvato.

Il commissariato è quasi vuoto quando arriva, mani infilate con forza nelle tasche, sbattendo le palpebre contro la luce improvvisa mentre entra.

"Sto cercando l'Ispettore Lestrade?" dice, l'affermazione che viene fuori come una domanda.

La donna alla reception annuisce distrattamente, poi gira la sedia per urlare dietro di sè. "Hey Lestrade! Il tuo uomo è qui."

Pochi secondi dopo un uomo attraente con capelli prematuramente grigi arriva correndo da dietro l'angolo, sembrando sollevato.

"John?" chiede, sporgendosi sulla scrivania per stringergli la mano. "Greg Lestrade."

"Sì, piacere di conoscerti, senti....vuoi spiegarmi cosa sta succedendo qui, perchè sono davvero confuso."

"Giusto, sì." Greg piega la testa da un lato ed un attimo dopo apre il tramezzo, facendo passare John dietro la scrivania. "Seguimi, ti spiego mentre andiamo."

Vagano per un labirinto di scrivanie vuote, poi passano per una doppia fila di cubicoli prima di incamminarsi su di una scala.

"Cerco di controllarlo una volta a settimana o quasi," dice Lestrade, " Niente di formale o cose del genere, solo se sono vicino al suo appartamento, sai, no? La maggior parte del tempo è al lavoro ma quando non lo è... be', quando non ha qualche puzzle da risolvere diventa un po' ingestibile."

"Ti riferisci all'eroina?" chiede John bruscamente. L'altro uomo sussulta, tenendo aperta la porta della tromba delle scale. "A volte, sì. Ma andava meglio ultimamente, pulito per mesi, da quando gli è successo l'ultima volta, venire pugnalato e tutto. E' per questo che sono rimasto sorpreso quando l'ho visto così, be' così com'è, stanotte."

Indica a John di attraversare le porte scorrevoli di fronte a se', che conducono ad un altro corridoio semi-fluorescente.

"Come sta, esattamente?" chiede John, nonostante non voglia veramente sentire la risposta.

"Fuori di se'. Molto. E' ancora nella fase tranquilla, ma in poche ore starà male sul serio. Ho chiamato la signora Hudson per vedere se poteva controllarlo, ma non ha risposto e, in ogni caso, dubito che dovrebbe essere lasciata a gestirlo mentre è in questo stato. Non so che ruolo tu abbia nella sua vita, ma devi essere qualcuno di importante se sei nel suo elenco telefonico."

"Importante," ripete John, "certo."

L'altro uomo non sembra notare il sarcasmo.

"Comunque, tecnicamente dovrei sbatterlo dentro ma," scuote la testa con un'espressione imbarazzata. "be', facciamo tutti delle eccezioni per Sherlock, credo."

Greg apre la porta di un ufficio, e poi accende le luci. "Se non menzionassi questa faccenda a nessuno, lo apprezzerei."

John smette di prestare attenzione all'imbarazzato poliziotto non appena vede Sherlock nell'angolo. E' rannicchiato su se stesso, un lenzuolo di feltro arrotolato sulle curve del suo corpo magro. La guancia destra poggiata sul ginocchio sinistro. I suoi occhi sono tutti pupilla.

"John," dice, sorprendentemente lucido.

"Sherlock," risponde John, accucciandosi vicino a lui.

Sherlock non protesta quando John passa le nocche sulla sua fronte ne' quando gli controlla il battito.

"Puoi camminare?" chiede John.

Sherlock non risponde, si limita a guardarlo, gli occhi enormi e malinconici.

"Ho dovuto portarlo io," dice Greg dietro di lui, "il che è probabilmente una cosa buona in realtà. Se non fosse ridotto in queste condizioni, non sarei mai riuscito a farlo entrare nella mia auto."

John si muove in avanti, passando un braccio dietro la schiena di Sherlock, e facendolo alzare. Greg tiene la porta aperta, poi afferra Sherlock dall'altro lato mentre tornano nella sala principale.

"Ha qualcosa contro la tua auto?" chiede John, "O contro di te personalmente?"

Lestrade ride. "Non gli piacciono le auto. Da di matto se lo infili dentro una macchina. Cammina ovunque o prende la metro."

"Cazzate," borbotta John, "passava tantissimo tempo nei taxi con me quando eravamo ragazzini."

"Be'," Greg scuote le spalle mentre scendono le scale, lentamente questa volta. La sua espressione è improvvisamente attenta. "Non lo fa più."

"Come lo hai conosciuto a proposito?" chiede John. Quasi cade quando Sherlock improvvisamente volta il viso verso il collo di John. Strofina il naso avanti e dietro due volte, poi incava la fronte più vicino, respirando sulla pelle di John.

"Lunga storia," dice Greg. C'è un po' di incredulità nel suo tono, mentre tiene aperta la seconda porta. "storia strana. Magari te la racconto quando finisco il turno, se ti va. Non ho tempo ora. Già così, sto sfidando la fortuna abbastanza."

Accompagna John ed il suo carico all'uscita, e poi tira fuori il cellulare. "Vuoi darmi il tuo indirizzo? Posso passare quando finisco il turno per dargli un'occhiata e, credo, spiegarti un paio di cose." guarda John di nuovo con il suo sguardo attento. "Sembra che tu non sia a conoscenza di alcune cose."

"Cosa?" John aggrotta le sopracciglia, guardando la testa riccioluta di Sherlock, e poi di nuovo l'ispettore. "Quali cose?"

"Senti," dice Greg scusandosi, mentre chiama un taxi. "devo davvero andare...indirizzo?"

John glielo da', e poi sistema Sherlock nel taxi che si ferma frenando.

Sherlock ride, e poi si ricompone immediatamente quando John gli solleva il mento.

"Qualcosa di divertente?" chiede John.

Sherlock allunga una mano, e tocca il sopracciglio destro di John, lasciando cadere le dita sul suo viso, lasciandole vagare sul braccio disteso di John, fino a posarle sulla mano del medico che riposa sulla sua stessa guancia. "John," dice semplicemente, e John sospira, scanandosi.

"Ti sto portando nel mio appartamento," mormora, spostandosi verso l'altro lato. "so che probabilmente non sei abbastanza coerente per capirlo, ma suppongo tu debba saperlo."

Sherlock non risponde ma John non si aspettava che lo facesse.

Gli occhi di Sherlock rimangono fissi sul volto di John per l'intera durata del viaggio.

John praticamente trascina Sherlock al piano di sopra, ricevendo un'occhiata di riprovazione dalla vicina del primo piano, che siede sul piccolo portico sorseggiando tè mentre passano. Una volta dentro, John prende in considerazione l'idea di lasciare Sherlock sul divano, ma scaccia il pensiero prima ancora che questo abbia il tempo di formarsi del tutto. Invece John lo sistema, con il lenzuolo logoro e tutto, sul letto ancora sfatto, dove Sherlock trascina al petto uno dei cuscini di John, producendo strani suoni di appagamento. I suoi occhi finalmente si chiudono e John guarda Sherlock arrotolarsi attorno al cuscino, la testa pressata sulla parte superiore, le ginocchia nascoste sotto.

John lo lascia così, la porta della camera aperta, e torna in cucina per preparare una colazione. Sicuramente sarà una lunga giornata.

Quando Sherlock incespica fuori dalla camera di John quattro ore dopo, sembra distrutto.

E non appena vede John, che sta leggendo sul divano, si ferma, vacillando, un'espressione di totale smarrimento sui lineamenti marcati. "John?"

"Sherlock," risponde John. Poggia il libro verso cui stava aggrottando le sopracciglia e si alza mentre Sherlock tenta di compiere un altro passo senza realmente riuscirci. Finisce sul pavimento prima che John abbia la previdenza di afferrarlo.

Sherlock lancia un'occhiataccia a John mentre questo lo osserva, braccia conserte, un metro più in là.

"Sembra che tu abbia avuto una ricaduta," dice John giovialmente.

"Fottiti," risponde Sherlock. La veemenza intesa nell'affermazione si è tuttavia persa da qualche parte, considerando che il detective si trova in una pila di lenzuola a terra. "dov'è il mio cellulare?"

"Immagino l'abbia ancora l'Ispettore Lestrade," dice John, offrendogli una mano. "E' quello che ti ha affidato a me. Un tuo amico?"

Sherlock arriccia il labbro superiore, ignorando la mano offerta da John, e dopo un momento John la lascia cadere.

"In ogni caso, non sono sicuro di capire cosa si aspetti che io faccia. Probabilmente dovrei semplicemente chiamare tuo fratello."

Il volto di Sherlock impallidisce al di sotto dei rimasugli di un'abbronzatura che ancora indugia sulla sua pelle. Deglutisce una volta prima di rispondere con una voce considerevolmente intimidita. "Per favore, no."

"Lo prenderò in considerazione se mi spieghi qualche cosa."

Sherlock trascina le ginocchia al petto, il mento poggiato nella piega tra di queste e devia lo sguardo dalla luce che proviene dalle persuane aperte. Chiaramente non ha intenzione di abbandonare il pavimento. "Chiedi," mormora, chiudendo gli occhi.

John sospira, spostandosi per sedersi vicino a lui.

"Cosa hai preso?"

"Eroina," risponde piatto. "domanda stupida."

"Come?"

"Endovena."

"Quanta?"

"150 milligrammi."

"Maledizione, Sherlock." John inspira lentamente attraverso il naso, espira dalla bocca. Si passa le mani sulla fronte. "Prima di oggi, quando è stata l'ultima volta che ti sei drogato? E intendo qualsiasi cosa, non solo eroina."

"Io uso solo eroina," mormora, sembrando insultato.

"Da quanto?" ripete.

"Cinque mesi, tre settimane, quattro giorni. Dimmi che ore sono e ti calcolo anche ore e minuti."

John ignora il tono maligno dietro le parole. "Perchè oggi?" chiede, "Quasi sei mesi pulito, cosa ha causato questo?"

"E' un Martedì," risponde Sherlock, come se questa sia una risposta accettabile.

"Perchè dovrebbe importarti?"

"Perchè sì. I martedì sono noiosi."

John resiste, seppure a fatica, all'impulso di schiaffeggiarlo. "Sono serio, Sherlock."

"Lo sono anche io."

"Spiegami allora. Perchè questo Martedì? ci sono stati altri martedì negli ultimi sei mesi."

Sherlock avvicina le ginocchia ancora più vicino, dondolandosi leggermente sulle punte. "Non posso spiegarlo. Non a te. Non hai idea di come sia, essere torturati dalla propria stessa mente."

"Davvero?" dice bruscamente, e il tono di voce di John deve sbloccare qualcosa in Sherlock perchè questo apre leggermente gli occhi, osservando il volto di John.

"Mi dispiace," sussurra, e sembra che sia sincero.

Sherlock osserva John, gli occhi socchiusi più del necessario alla luce del pomeriggio e poi sbatte le palpebre, lentamente.

"Ti hanno sparato."

E' un'affermazione, non una domanda, e non c'entra assolutamente nulla con la situazione in cui si trovano, ma John risponde comunque.

"Sì."

"A distanza ravvicinata."

"Sì," concorda nuovamente.

"Dove?"

John alza un sopracciglio. "Suppongo che tu, tra tutti, sia in grado di capirlo da solo."

"Spalla." risponde prontamente. "Ovvio." i suoi occhi spaziano, catalogando il corpo di John con una serie si veloci movimenti. "Zoppichi quando sei stanco però. Psicosomatico?"

"Questo è quello che dice la mia terapista."

"Oh." e la lieve esalazione è quasi impercettibile. "Posso vedere?"

"No."

"Perchè no?"

"Perchè no."

John si alza, muovendosi verso la cucina così da non dover più guardare Sherlock. Usa come scusa l'ospitalità.

"Vuoi qualcosa da bere? Da mangiare?"

Non risponde e John gli lancia un'occhiata. "Sherlock?"

"Acqua," dice, e poi, piuttosto a disagio, "penso di avere bisogno di dormire ancora un po'."

"Bene."

John gli riempie un bicchiere, poi si muove verso di lui, porgendogli la mano. "Ti aiuto a tornare a letto."

Questa volta le dita di Sherlock si stringono intorno alle sue senza domande.

"Hai intenzione di chiamare Mycroft?" chiede.

John lo osserva, appoggiato al suo fianco, mentre si tiene in piedi più grazie a John che a se stesso, e sospira.

"No. Non adesso, almeno."

Sherlock non dice grazie mentre viene sistemato sotto le coperte, ma l'espressione sul suo volto basta come ringraziamento.

"Dormi bene. Sono in salotto sei hai bisogno di me."

Non ricevendo una risposta nemmeno a questo, ritorna al suo libro con un sospiro, le dita che inconsciamente si muovono a stringere il ciondolo.

Che diavolo stai facendo? Si chiede.

Per quanto gli riguarda, non sembra essere in grado di darsi una risposta soddisfacente.









 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


L'ispettore Lestrade si presenta poco dopo le cinque del pomeriggio alla porta di John. Il poliziotto porta con se' una ventata di aria fresca ed una borsa di plastica piena di cibo cinese. Sherlock sta ancora dormendo.

Rimangono fermi all'entrata della camera da letto, osservando il lento alzarsi ed abbassarsi della cassa toracica di Sherlock, e poi, con un sospiro congiunto, tornano in salotto.

"Quindi, come si è comportato?" chiede Greg.

John apre una scatola di noodles fritti, alzando le spalle, "E' stato coerente per quasi dieci minuti intorno all'ora di pranzo, poi è tornato a letto. Ha continuato a dormire per le ultime sei ore o giù di lì.

Greg annuisce come se questo sia un avvenimento comune, e divide in due le sue bacchette, facendole battere tra di loro con fare predatorio.

"Il tuo cognome è Watson per caso?" chiede Greg, esaminando il cibo.

"Sì," risponde John, corrugando le sopracciglia, "Perchè?"

"Sherlock ha una collana con il tuo nome sopra."

L'ha tenuta, pensa John, e non è in grado di pensare a nient'altro per qualche secondo.

"Com'è fatta?" chiede John, tanto per essere sicuro.

"Mmm, catenina d'argento, piccolo ciondolo rotondo di metallo con su scritto 'proprietà di John Watson, restituire se ritrovato, per favore'." Greg fa un gesto con le sue bacchette per un attimo, l'equivalente di una scrollata di spalle, "Sembra ci fosse anche un numero sul retro, ma è troppo rovinato per leggerlo ormai. Ci siamo tutti chiesti cosa fosse, chi prima chi poi. Nessuno si è preso la briga di chuiedere però, non è che sia proprio il tipo da dirti qualcosa solo perchè hai voglia di saperla.

John non dice nulla per qualche secondo, osservando il poliziotto mentre questo si infila dei noodles in bocca. Tocca il ciondolo della sua collana attraverso il tessuto della maglietta. Lancia un'occhiata alla camera da letto e resiste all'istinto di controllare la gola pallida di Sherlock. "Non la indossa ora," dice John, consapevole di quanto la sua voce esca fuori sbagliata.

Greg scuote la testa, deglutendo. "Non più. La catenina si è rotta nel bel mezzo di un caso a cui stava lavorando con me l'anno scorso e ha rischiato di affogare inseguendo quello stupido ciondolo quando è finito nel Tamigi." Greg nota l'espressione sul volto di John e ride, "Non chiedere. Comunque, la tiene nel suo appartamento ora, appesa sopra la lampada del suo comodino."

Greg arraffa un'altra manciata di noodles mentre John processa l'informazione.

"So che mi hai chiesto come l'ho conosciuto," dice Greg, "ma mi piacerebbe sentire anche la tu di storia se non ti dispiace."

John sposta la sua attenzione dal corridoio a Greg. Prende in considerazione l'idea di mangiare qualcosa e poi poggia le sue bacchette, avvertendo un vago senso di nausea.

"Ci siamo incontrati alle medie," dice infine, "lui aveva solo dodici anni allora ma frequentava già il liceo."

Greg considera l'informazione, mentre agguanta un involtino primavera. "Quindi cosa è successo?"

John non riesce a decidere se l'ispettore sia particolarmente perspicace o se sia semplicemente la sua espressione ad essere ovvia.

"Siamo stati molto amici. Per qualche anno, in ogni caso. Io mi sono arruolato nell'esercito subito dopo l'università, sono stato mandato in missione quasi subito. Ci siamo tenuti in contatto per qualche mese e poi..." John riprende le bacchette, perchè ha bisogno di fare qualcosa con le mani, e questa al momento è l'opzione meno violenta. "Comunque non lo sentivo da allora, fino a quando non si è presentato al pronto soccorso sei mesi fa."

"Sei un medico?" chiede Greg, evitando saggiamente di porre la domanda più ovvia.

"Già."

John si sposta in cucina e prende due birre dal congelatore, le bacchette ancora strette in una mano. "E invece tu? Qual'è la tua storia?"

Il poliziotto sogghigna. "Come ti ho detto, è un po' lunga."

"Abbiamo tempo." John passa a Greg una birra e questo la prende con un segno di ringraziamento.

"Be', la prima volta che l'ho incontrato avevo 24 anni, era il mio secondo anno come poliziotto. Mi avevano messo in strada a controllare le infrazioni di velocità,-alla uh- alla decima curva a destra prima di Bacher, conosci quel posto?"

John annuisce e lui continua.

"Be' erano le due di mattina o giù di lì e stavo provando a non addormentarmi, aspettando che qualcuno arrivasse accelerando dall'angolo, ed eccolo che arriva a più di cento all'ora, arrivato e scomparso così-" schiocca le dita. "Così gli vado dietro ma senza successo. Lo perdo di vista in meno di un minuto. Be', quando sto finendo il turno menziono la cosa ad uno dei ragazzi più anziani e lui mi chiede se fosse una moto rossa e se il motociclista fosse alto e magro. Quando dico sì. proprio così, conosci l'uomo? e lui dice non un uomo, un ragazzo. Il nome è Sherlock Holmes e d'ora in poi tu lo ignorerai.

Oh Dio, Sherlock su una moto,
pensa John. E poi ferma violentemente quel treno di pensieri. Lestrade continua.

"Comunque io chiedo al mio superiore di lui il giorno dopo. Lui mi racconta della famiglia di Sherlock e- tu sai della sua famiglia?"

John annuisce. Sfortunatamente.

"Bene. Quindi, per la settimana successiva mi siedo a quel maledetto angolo tutta la notte, ed ogni notte lui arriva sfrecciando intorno alle due ed io non posso fare nulla se non osservare la sua silouette mentre sparisce."

Greg scuote la testa, bevendo qualche sorso di birra. "Be' una notte non passa e io penso che sia parecchio strano, quindi tengo gli occhi aperti mentre torno in centrale, e proprio qualche chilometro dopo c'è una motocicletta completamente distrutta a lato della strada ed un ragazzo che avrà si e no sedici anni seduto lì accanto. Mi fermo e gli chiedo cos'è successo e se è ferito e se posso chiamare qualcuno per lui e lui mi risponde di andare con tutta cortesia a farmi fottere, altezzoso come se la moto l'avesse fatta schiantare di proposito."

"Sembra una cosa che farebbe," mugugna John, sorridendo controvoglia.

Greg ride. "Be' comunque, qualche minuto dopo appare Mycroft -conosci Mycroft?"

"Sì," dice John.

Greg fa un'espressione che John non riesce a decifrare e beve un altro sorso di birra prima di continuare. "Comunque, appare Mycroft e lancia a Sherlock uno zainetto e sembra sia sul punto di andarsene di nuovo. Be', gli chiedo dove stia andando e perchè non stia portando il ragazzo con se' e Mycroft dice che Sherlock non sale sulle auto e se ne va. Quindi a quel punto sono parecchio confuso e realizzo che Sherlock ha iniziato a camminare nella dimensione opposta e corro per raggiungerlo e gli chiedo se posso dargli un passaggio, eccetera. Ma lui scuote semplicemente la testa e continua a camminare e ad un certo punto lascio stare e torno alla mia auto. Il giorno dopo mi alzo per colpa di un messaggio da un numero che non ho mai visto prima su cui è scritto che vuole parlare con me e di passare a casa sua prima di andare a lavoro. Io lo faccio, perchè, voglio dire, non ho idea di come abbia rimediato il mio numero e sto morendo di curiosità, e dice che gli piacerebbe entrare in affari con me."

"Entrare in affari?" ripete John.

"Sì. Mi ha detto che se gli avessi dato accesso a dei vecchi casi mi avrebbe fatto diventare ispettore in due anni. All'inizio ho pensato mi stesse prendendo in giro, ma, be' lo sai com'è fatto, ho capito abbastanza in fretta che non era semplicemente un ragazzino che provava a prendermi per il culo."

Greg fa una pausa, chiaramente selezionando quelli che pensa siano i dettagli più importanti. "Comunque gli ho dato dei vecchi casi, lui li ha risolti, io mi sono preso il merito. Mi hanno fatto ispettore. Il più giovane di sempre." Scrolla le spalle. "Nella sua mente non siamo amici, solo colleghi. Ancora adesso mi chiede vecchi casi ogni tanto, mi aiuta se non riesco a cavarmela con quelli attuali. Ho...ho la sensazione di tenere a lui più di quanto lui non tenga a me. Non lo so. E' come se fosse un odioso auto-distruttivo fratello minore. Non posso arrestarlo per la droga, perchè so che la prigione distruggerebbe uno come lui. Ma d'altra parte non posso semplicemente ignorare la cosa. Quindi lo controllo come meglio posso. La cosa non lo entusiasma particolamente."

John si prende un momento per assorbire la storia dell'altro uomo, mentre finisce la sua birra.

"Quindi riguardo la cosa con le auto?" chiede alla fine. "Hai detto che non va più in auto, che si rifiuta di salirci. Perchè?"

La risposta di Greg è lenta, quasi contrita. "I suoi genitori..."

"Che c'entrano? Non vanno più in macchina neanche loro?"

"No." sospira Greg, "Sono morti in una macchina."

"I suoi genitori sono morti?" ripete, ricordandosi improvvisamente le pompose parole di Mycroft: Possono succedere molte cose in cinque anni, John.

Greg annuisce.

"Merda. Cos'è successo?"

"Incidente," risponde l'altro uomo, sollevando la sua birra. "un terribile incidente d'auto."

"In ogni caso," mormora John, passandosi una mano tra i capelli, "E' comunque un mezzo di trasporto più sicuro di una moto. Credo che una persona come Sherlock riesca a realizzarlo."

Greg scuote la testa. "Non capisci. Lui era lì."

"Cosa?"

L'ispettore poggia la schiena sul divano di John, incrociando le mani sullo stomaco.

"Sherlock era lì. La notte in cui sono morti. Era sul sedile di dietro, suo padre stava guidando. Erano sulla strada di ritorno per Londra dalla campagna e la macchina è stata presa in pieno. Era tardi, non c'era nessuno che abbia visto o abbia chiamato aiuto. L'altro guidatore è morto sul colpo. Sherlock è rimasto incastrato, cosciente, ma incapace di muoversi. E' rimasto lì tre ore prima che qualcuno passasse per la strada e chiamasse i paramedici."

Be' merda.

John non vuole chiedere ma lo fa comunque. "I suoi genitori. Sono morti sul colpo?"

John sa già quale sia la risposta dall'espressione sulla faccia di Greg.

"No. Ho controllato il report della polizia. So che non avrei dovuto ma..." scrolla le spalle come a scusare le sue azioni. "Secondo l'ufficiale in carica suo padre è rimasto sveglio e gli ha parlato per quasi un'ora dopo la collisione, ma aveva numerose ferite sulla parte superiore del corpo. Quando sono arrivatii paramedici aveva perso troppo sangue per essere salvato."

"Quindi Sherlock ha visto suo padre morire."

"Sì," dice Greg, scolandosi la sua birra.

"E adesso non sale sulle auto."

"Adesso non sale sulle auto." concorda lui.

John realizza di star stringendo il ciondolo e lo lascia andare, premendo i palmi delle mani l'uno contro l'altro. Qualcosa diventa improvvisamente chiaro ed il pensiero forza un sospiro fuori dai suoi polmoni e nuovamente nella sua bocca; non lo fa uscire, aria calda intrappolata tra la lingua e i denti. Il suo stomaco diventa una lastra di ghiaccio tra le costole.

"Che giorno era, il giorno dell'incidente?" chiede.

"Circa sei anni fa, nel 2008," dice Greg, "Er- il 22 Giugno, credo. Perchè?"

"Cazzo," risponde John, perchè è l'unica risposta sensata che riesce a produrre.

Il 22 Giugno 2008. Il giorno prima che Sherlock gli mandasse la maledetta e-mail che avrebbe rovinato tutto.

"Cazzo," dice di nuovo, e si passa le mani tra i capelli. "Ho bisogno di un'altra birra."

***
Sherlock siede sul pavimento della camera da letto di John, una tempia appoggiata alla serratura della porta semi-chiusa. Chiude gli occhi per contrastare il rimbombo del sangue nelle orecchie, si lecca le labbra screpolate, e ascolta Lestrade dare una sommaria spiegazione dell'Incidente. Si è svegliato un po' prima che arrivasse Greg e ha tentato di muoversi verso il salotto. Ma i muri si sono mossi quando si è alzato e è dovuto andare avanti strisciando. Quando li ha sentiti parlare di lui si è fermato, e quella pausa si è protratta per lunghi minuti mentre segreti venivano svelati e morti ricordate e John aveva imprecato in un modo che era così dolorosamente familiare da stringergli il cuore.

Ricorda com'è stato; Sentire così tanto così in fretta. La realizzazione che l'unica cosa peggiore della sensazione stessa sia la consapevolezza che possa accadere di nuovo: amplificata. E' il tipo di dolore che si ferma pesante ed indesiderato dietro ai suoi denti, il tipo che gli chiude la gola e gli rende difficile respirare. Aveva desiderato di non sentirsi mai più così.

Sherlock ricorda le ore spese ad aspettare in un intricato collage di metallo e cuoio; parole lente dalle sue labbra insanguinate e lente risposte dal sedile di fronte. Ricorda le bruciature ed il dolore quando si era dislocato il ginocchio destro in un ultimo violento tentativo di raggiungere suo padre quando aveva improvvisamente smesso di rispondere a Sherlock. Ricorda il silenzio dopo. Silenzio tranne che per le cicale ed il suo stesso respiro. Ricorda l'alba, ore dopo che i paramedici lo avevano portato via, quando il suo corpo era pesante e dolorante a causa delle medicine, quando Mycroft era arrivato in ospedale con occhi scuri e mani tremanti e un computer. Perchè a quel punto Mycroft sapeva che quella era l'unica conosolazione che era autorizzato ad offrire.

Ovviamente c'era un'e-mail nella posta di Sherlock, da parte di John, l'unica persona la cui morte avrebbe causato ancora più dolore per lui, un evento che non aveva neanche voluto prendere in considerazione dopo gli eventi del giorno precedente.

Ma aveva dovuto farlo, perchè l'e-mail era una lettera assolutamente tipica, scritta male, con una punteggiatura improbabile, che parlava di deserto e caldo e artiglieria, il cui scrittore aveva allegato una foto del suo viso sorridente segnato dal vento -denti bianchi contro la pelle scure. Teneva la pistola in una mano, in maniera così spensierata da far male, e nell'altra un gigantesco ragno -morto. John aveva concluso l'e-mail con uno sprezzante post scriptum riguardante il fatto di aver provato ad inviare la gigantesca aracnide a Sherlock come regalo per i suoi esperimenti ma di essere stato scoperto dal proprio comandante, che l'aveva trovato mentre cercava di infilare la carcassa in un contenitore e non ne era stato proprio contento. Aveva concluso l'e-mail scrivendo con affetto, John, il che non era una cosa particolarmente speciale; concludeva ogni e-mail in quel modo. Ma quel giorno era stato troppo.

Sherlock aveva lanciato il computer attraverso la stanza, urlato a Mycroft quando questo aveva provato a toccarlo e ad un certo punto avevano dovuto sedarlo. Quando aveva ripreso conoscenza, qualche ora dopo, aveva preso in prestito il blackberry del fratello, per scrivere una risposta alla mail di John. La risposta crudele e finale che avrebbe garantito una fine alle comunicazioni.

Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe stata la fine.

John non gli aveva creduto all'inizio. Aveva scritto una risposta confusa, poi una arrabbiata. Lo aveva chiamato, lasciando numerosi messaggi in segreteria dai toni bruschi e dalle eccessive profanità. Aveva anche contattato Mycroft, sebbene quale fosse stata la loro conversazione esatta Mycroft non glielo dirà mai. Alla fine, dopo quasi sei mesi Sherlock aveva ricevuto un ultimo messaggio. Mi arrendo. E apparentemente così era stato.

Sherlock ascolta Lestrade che fa le sue scuse a John in salotto, realizzando che John stia avendo probabilmente una qualche sorta di rivelazione e non voglia essere disturbato. Quando Greg si alza, chiede se John voglia che controlli lui Sherlock.

No. Per favore digli di no.

"No," risponde John bruscamente, "lascialo dormire. Mi prendo cura io di lui."

Sherock lascia cadere la testa su una spalla sollevato, cercando di bagnarsi ancora le labbra, ma la sua bocca è completamente secca. Effetti collaterali dell'eroina, gli viene in aiuto la sua mente. Probabilmente sei anche disidratato.

Aspetta che Lestrade se ne sia andato e poi riprova ad alzarsi, usando il muro come supporto.

"John?"

La sua voce è debole. Anche la sua mente, se è per questo. Normalmente è bello, essere in grado di non pensare in linea retta ma in improvvisi sprazzi di colore ma al momento vuole dare un senso alle cose, e la sue mente che vaga in un fangoso circolo indotto dalle droghe non è per niente d'aiuto.

Chiude gli occhi e quando li riapre John è di fronte a lui.

"Sherlock."

L'espressione di John non è più sotto controllo (bene), e il conflitto di emozioni che vi è rappresentato è immensamente interessante.

Preoccupazione. Rabbia. Confusione. Senso di colpa?

"Hey." John poggia due dita sotto la mascella di Sherlock, per controllare il battito, e poi alza il mento verso la luce, studiando i suoi occhi. "Come ti senti?"

"Terribilmente," risponde con sincerità, poi fa un gesto verso il corridoio, "bagno."

John lo guarda camminare, una mano sempre dietro di lui, e non fa il minimo sforzo per nascondere il suo sbigottimento.

"Sei un idiota," lo informa John, appoggiandosi fuori dalla porta del bagno.

"Sono un genio confermato," risponde bruscamente Sherlock dall'interno.

Scaricare l'acqua richiede un imbarazzante livello di concentrazione, così come abbottonarsi i pantaloni. Voltarsi verso il rubinetto, comunque, richiede più coordinazione di quanta riesca a radunare.

"John," dice Sherlock rasseganto, e John è dietro di lui un attimo dopo.

"Hai bisogno di aiuto?" chiede John, come se fosse una cosa perfettamente normale e nulla di cui vergognarsi.

"Sì."

John gli indica dove sedersi sulla vasca da bagno e inumidisce un asciugamano. Pulisce il viso di Sherlock per primo, e poi anche il collo, lavando via il sudore ormai asciutto dalla sua pelle. Si alza, bagna di nuovo l'asciugamano, e inizia a pulire le braccia di Sherlock, fermandosi con particolare attenzione sull'interno dei suoi gomiti.

"Per favore dimmi che usi sempre siringhe pulite," sussurra John.

"Certo, non sono stupido."

John ride in uno strano modo che sta a significare quanto non sia d'accordo.

E' silenzioso per qualche minuto prima che si fermi ad osservare le dita di Sherlock.

"C'è del sangue essiccato sotto le tue unghie."

"Sì," concorda Sherlock, chiudendo gli occhi. Tutta la sua attenzione è rivolta al rimanere in posizione eretta. Si sente incredibilmente vulnerabile senza un muro a cui appoggiarsi.

"Posso chiedere a chi appartiene?" dice John, cominciando a sfregare i polpastrelli.

Sherlock glielo dice perchè la testa gli fa male.

"Ti ricordi in ospedale, la seconda conversazione che hai ascoltato, quando Lestrade mi ha descritto la scena del crimine del diplomatico assassinato?"

"Sì, intendi l'uomo trovato nell'hotel del tuo amico? Quello che era scomparso."

"Non amico," corregge, "collega. Il suo nome era Victor Trevor."

"Era?" ripete John.

"Ho passato gran parte degli ultimi sei mesi a cercarlo. L'ho trovato ieri. Qualche minuto troppo tardi per essere d'aiuto."

"Quindi questo è il suo sangue?" chiarisce John, pulendo con attenzione la punta del pollice.

"Sì, ho provato a rianimarlo quando l'abbiamo trovato, anche se probabilmente è stata un'azione inutile fin dall'inizio. C'era molto sangue."

Le mani di John hanno smesso di muoversi. Ora stanno semplicemente stringendo quelle di Sherlock. Sherlock apre gli occhi e vede che John lo sta fissando.

"E' per questo che lo hai fatto?"

"Fatto cosa?" chiede, tanto per essere irritante. John muove la mano sinistra, il pollice che strofina contro i buchi freschi dell'iniezione nella parte interna del braccio di Sherlock.

"Questo," dice, spingendo abbastanza forte da far male. "Stavi soffrendo, e questo è l'unico modo in cui riesci a gestirlo, giusto?"

Sì, pensa Sherlock. "No," risponde.

John sospira, alzandosi, e lancia l'asciugamano nel lavandino. "Vieni."

Aspetta che Sherlock lo segua, poi gli circonda il busto con un braccio quando diviene chiaro che non ci riesce. John sta attento a non guardarlo mentre si muovono lentamente verso il divano, dove John lo sistema con un bicchiere d'acqua ed un toast.

Beve l'acqua ed ignora il toast ed aspetta l'inevitabile domanda.

Ad un certo punto John pulisce il tavolino, ci si siede sopra così da guardare Sherlock negli occhi, ed unisce le dita in una morsa stretta. La sua bocca si apre varie volte prima di riuscire a formare le parole.

"Perchè non me l'hai detto?" esce fuori più rassegnata che arrabbiata. "Riguardo i tuoi genitori."

Sherlock ricorda il blackberry tra le mani. I tasti duri mentre scriveva quelle tre terribili righe. Quanto il suo pollice fosse stato reclutante a pigiare l'invio ma l'avesse fatto comunque.

"Non era importante. Non siamo mai stati molto legati. Lo sai:"

"Erano i tuoi genitori. Anche se facevano schifo in questo. Non puoi guardare tuo padre morire e superarlo semplicemente."

"Non c'era nulla che avresti potuto fare," dice Sherlock, provando a risultare distante e fallendo miseramente. "eri a migliaia di chilometri di distanza."

"In ogni caso," John si muove, come a volerlo raggiungere e la presa che Sherlock ha sulle sue stesse dita si intensifica. "Avrei potuto esserci per te in altri modi. Voglio dire. Non avrei saputo cosa dire e probabilmente mi sarei approcciato all'intera questione del 'tentare di consolarti' in modo completamente sbagliato. Ma se me l'avessi detto, avrei provato ad aiutare, almeno avresti saputo che ci tenevo. Non saresti stato così solo, in questo modo."

"Avevi cose più importanti di cui preoccuparti."

"No," la voce di John diventa tagliente e Sherlock si sorprende a guardarlo. "Non osare. Non provare a far finta che fosse per il mio bene, come se tu sia stato una qualche sorta di martire, preoccupato per i miei sentimenti. Mi hai distrutto. Eri il mio unico amico. L'unica  cosa vicina ad una famiglia che mi era rimasta e lo sapevi. Non osare."

Sherlock abbassa gli occhi sulle mani, beve un sorso d'acqua per evitare di parlare.

Il tono di John diventa più gentile. "Perchè allora? Per favore, sto cercando di capire."

"Era terribile."

"Cosa?"

"Tenerci."

John sbuffa ed è abbastanza fastidioso da fargli alzare la voce, fino ad allora poco più di un sussurro. "Faceva male." dice Sherlock, sbattendo le palpebre mentre le parole si formano all'interno della sua gola. "Niente aveva mai fatto così male prima. Ed era terribile. Sentire così tanto. Sentire in generale. E poi, il giorno dopo ho ricevuto la tua e-mail, quella con la foto del ragno."

L'angolo delle labbra di John si alza al ricordo, ma per la maggior parte, la sua espressione rimane furiosa.

"E ho realizzato che dovevo liberarmi di te prima che tu potessi lasciare me, intenzionalmente o meno."

L'espressione di John fa una cosa divertente, Sherlock non riesce a decidere se voglia ridere o urlargli in faccia. Non fa nessuna delle due cose, ma si passa le mani sugli occhi, e poi sulle guance.

"Ti rendi conto che è incredibilmente stupido, vero?" dice John.

"Ha funzionato." risponde Sherlock all'improvviso. "Più o meno,"

"Hai tenuto il ciondolo," ribatte John e Sherlock sussulta prima di riuscire a fermarsi.

"Tu hai tenuto il tuo," risponde lui, "tu lo indossi ancora."

La voce di John esce fuori velocemenyte. Le dita strette. "Ti avevo promesso che l'avrei fatto."

E' silenzioso per qualche secondo e Sherlock prende un altro sorso d'acqua, aspettando che John parli di nuovo.

"Perchè tu hai tenuto il tuo?" chiede John. "Non ha senso."

Perchè ho provato a gettarlo via e non ci sono riuscito. Perchè non ho mai avuto un amico prima e sapevo che probabilmente non ne avrei mai avuto un altro e non riuscivo a sopportare l'idea di non avere più una prova del fatto che fosse accaduto. Perchè era l'unica parte di te che mi era concesso conservare.

"Perchè è mio," risponde.

"Sentimentale," dice John prendendolo in giro.

Lo so, pensa Sherlock.

Nessuno dei due dice nulla per qualche secondo.

"Eri serio?" chiede John, "Quello che hai detto in quella e-mail, riguardo..?"

Sherlock guarda giù. "Riguardo il fatto che non mi fossi più utile?"

E' sicuro del trasalimento di John, dell'improvvisa tensione delle sue mani e Sherlock è grato di aver avuto la previdenza di distogliere lo sguardo dal viso di John.

"Ah, sì. Quello." concorda John.

Certo che non ero serio, che domanda stupida.

"No."

"Bene," dice John, "D'accordo. Ok."

John sospira, poggiando il peso dui gomiti, lasciando che la sua testa vi si appoggi per un momento. Quando si alza la sua espressione è ancora sbagliata, ma non così brutta come prima.

"Mangia il tuo toast," dice John, muovendosi per riempire di nuovo il suo bicchiere. "Vediamo se c'è un documentario in onda.".













 






















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