Kingdom Come

di Neverland98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Sangue e Martiri ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I - Sangue e Martiri ***


Angolo autrice:
Salve a tutti! Volevo ringraziarvi per avere aperto questa storia: avete dimostrato della fiducia
e interesse, e non posso che ringraziarvi! Spero che questo capitolo sia all'altezza delle
vostre aspettative, ma non dimenticate che è solo l'inizio ;)
Se la storia avrà successo, intendo andare moooolto avanti ...
Buona lettura! <3



I
Il fumo. E gli spari. Il rumore. La puzza di sangue rappreso, cadaveri e polvere da sparo.
Le urla. I pianti. Gli insulti.
La terra che si tinge di rosso. I corvi che gracchiano. Il dolore. La paura. La sofferenza.
La guerra è una dea crudele e famelica. Si nutre di speranze e rigurgita rimpianti. L'odio l'alimenta, il terrore l'inebria. Ride degli uomini. Miseri, sciocchi che per lei erigono altari e distruggono mondi.
- Strausse! Collin! Grezen! - la voce del comandante sovrasta il rumore che ci circonda e il gracchiare dei miei pensieri.
- Sì, signore!- rispondiamo in coro.
Il nostro comandante guida lo schieramento, cavalcando spedito verso le fila nemiche. Io sono poco dietro di lui, la sua voce mi entra direttamente nel cervello.
- Sapete cosa dovete fare! Vai! Buona fortuna!- strilla.
Io annuisco, decisa. Galoppando sul mio cavallo mi allontano dallo schieramento dei miei compagni. La stessa cosa fanno gli altri due, prendendo direzioni diverse.
 La pioggia imperversa furiosa. La punizione divina per la nostra crudeltà.
L'esercito nemico ha l'abitudine di spargere nei pressi del campo di battaglia delle sentinelle, se così possono essere definite. Non appena qualcuno si avvicina, loro sparano un razzo segnalatore rosso come il sangue. A quel punto il gruppo di soldati meno impegnato nella lotta e più vicino, si precipita sul posto.
Il mio compito è quello di eliminare le suddette sentinelle.
Non è un compito facile, anzi. Quei bastardi sono attentissimi, a volte, nonostante tutte le premure, riescono a lanciare l'allarme.Certo che so cosa devo fare. Io e altri due dei migliori della nostra legione. Il mio compito è aprire un passaggio ai miei compagni. Li devo assalire per prima, eliminare quelli che trovo da soli o in piccolissimi gruppi e raggiungere il punto in cui infuria la battaglia.
La nostra legione è, in generale, una delle più forti. Non attacca mai da sola nè per prima. Dobbiamo rimanere riparati il più a lungo possibile. Tuttavia, non ci allontaniamo mai troppo dall'esercito vero è proprio così da poter essere richiamati e intervenire immediatamente in caso di disperata necessità. Più volte il nostro intervento ha capovolto le sorti della battaglia.
Una volta che i nemici hanno accerchiato e stanno facendo strage dei nostri, un superstite lancia un razzo di segnalazione di fumo nerissimo. A quel punto noi interveniamo immediatamente. Sfruttando l'effetto sorpresa, accerchiamo i nemici che a loro volta avevano accerchiato i nostri compagni. Quelli dell'Ovest, quindi, si ritrovano intrappolati dall'esterno e dall'interno, poichè gli ultimi sopravvissuti dell'esercito non esitano ad attaccare e a battersi fino all'ultimo.
La mia legione si è divisa in tre gruppi. Ciascuno segue uno di noi tre soldati scelti. A debita distanza, riparati dagli alberi e dalla pioggia. Compatti. In questo modo, una volta che ci saremo introdotti sul campo di battaglia, eliminando chi ci si para davanti, il resto dei soldati potrà comparire all'improvviso e assalire i nemici. A tale scopo, noi non ci fermiamo negli accampamenti nè ci spostiamo in maniera vistosa come il resto dell'esercito. Noi, proprio come giaguari, talvolta ci muoviamo da un albero all'altro, mescolando i nostri cavalli a quelli dell'esercito che procede a piedi. Ma è molto raro, per fortuna. Possiamo rimanervi sopra per settimane, finchè non è richiesto il nostro aiuto. Cosa che purtroppo, ultimamente, è sempre più frequente.
Siamo abituati a vivere in condizioni estreme. Sappiamo costruire un ponte e smantellarlo in pochissimo tempo. Sappiamo resistere a lungo alla fame e alla sete.
Dal momento in cui indossiamo l'uniforme, le nostre identità si annullano. Non abbiamo più un nome o un'età o anche un sesso. Siamo soldati. Soldati della Legione Speciale
Sono fradicia, ho la vista annebbiata, ma accellero.
Sguaino la spada. 
Tra gli alberi individuo  due  soldati nemici che hanno tutta l'aria delle sentinelle. Ai loro piedi brilla una pozzanghera di acqua e sangue. Poco lontano un corpo giace nel fango. E' steso supino. Sul mantello leggo lo stemma della mia nazione.
Non sento più niente. Nè i rumori, nè la pioggia, nè il freddo. E' tutto lontano anni luce. L'odio mi acceca. L'adrenalina mi rende insensibile ad ogni stimolo esterno. La morte non è solo un'ombra lontana, ma una presenza concreta che mi scruta dall'alto.
Il cuore mi martella nel petto. Man mano che avanzo, le sagome dei tre dell'Ovest si fanno sempre più nitide.
Estraggo dalla cintura un pugnale e lo scaglio contro la pistola che sta per sparare il razzo segnalatore. La colpisce con il manico, facendola cadere a terra. Una frazione di secondo prima che il colpo sia stato esploso.
Non aspetto che la seconda sentinella faccia lo stesso. Lancio il secondo pugnale, e questa volta disarmo l'altra molto prima che possa sparare.
Si chinano velocemente per raccogliere le pistole, ma le loro armature li rallentano spaventosamente (non capisco proprio perchè si ostinino a portarle) e il mio cavallo è veloce.
Devo sfruttare il mio vantaggio.  .
E' in questi istanti che percepisco la guerra, nel vero senso del termine. Tutta la mia vita, improvvisamente, assume la consistenza di un castello di sabbia. Ciò che ho costruito, i risultati che ho raggiunto, gli affetti che ho creato. Ogni cosa è fragile, in balia del mare impetuoso in cui io, di mia spontanea volontà, ho scelto di tuffarmi.
Perchè è questa la verità. Nessuno mi ha obbligata ad essere un soldato. E' stata una mia scelta, e non me ne pento.
Il primo dell'Ovest, grasso e opaco nell'ingombrante armatura di ferro, fa roteare la sua ascia sopra di me. Un urlo gli esplode nel petto e la lama sporca di sangue sta per staccarmi una gambai. E' un attimo. Il mio cavallo si impenna, evito il colpo per un soffio. Scivolo giù, la spada sguainata, e paro il colpo successivo. L'uomo digrigna i denti per la rabbia. Il suo amico, più alto ma egualmente robusto, mi assale alle spalle. Purtroppo per lui, il clangore dell'armatura mi avverte della sua presenza. Tiro un calcio all'indietro, quel tanto che mi basta per allontanarlo. Il tempo di evitare la pioggia di colpi alla quale l'uomo con l'ascia mi sta sottoponendo. Se non altro, la pioggia (quella vera) ha cessato. E io, tra l'altro, non porto armature di metallo.
Mentre i due si rialzano, io, con l'agilità di un felino (e di anni e anni di addestramento), mi arrampico sull'albero più vicino. I due fanno per arrampicarsi. Non devono essere molto svegli. Li vedo salire e salire, colmi di rabbia. Aspetto che siano a cinque metri d'altezza, cioè che mi abbiano praticamente raggiunto. Dopo di che, sfodero la pistola che porto alla cintura e sparo ai rami a cui si stanno tenendo. Non posso colpire loro direttamente, poichè le armature che portano lasciano scoperti solo i polpacci e la faccia, ma, in questo momento, non sono visibili.
Il primo colpo scuote violentemente il ramo, mentre frammenti di legno e foglie secche si librano in aria. Il secondo e il terzo lo spezzano. Il primo soldato cade, silenzioso. Quasi rassegnato alla propria sorte.
Tocca terra con un "tud" sordo e qualcosa scricchiola. L'armatura ha attutito il colpo, ma cinque metri sono cinque metri. Non è morto, si sta ancora divincolando come un insetto ferito. E' quello che sembra da quassù. Piccolo e nero nella sua armatura rumorosa e metallica.
Ora che è steso, prone, riesco a vedergli la faccia. Mi basta un attimo per prendere la mira. Sparo. Sento una vibrazione simile ad una scossa risalirmi dalla mano fino alla spalla. Mi fa male il braccio, è indolenzito e pesante, ma almeno, quando mi affaccio di nuovo, l'uomo a terra non ha più una faccia.
Il suo amico, ancora attaccato ad un ramo, strilla di frustrazione. Volge lo sguardo sul suo compagno caduto, e quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me potrei giurare che siano rossi. - Maledetta!- lo sento mormorare.
E' molto più agile del suo amico. Si arrampica come un ragno, ma fa l'errore di mostrarmi la faccia. Anche se per pochi secondi. Cade, e l'ascia gli sfugge di mano, toccando terra quasi silenziosamente.
Gocce di sangue e tessuto osseo mi si sono appiccicate addosso. Ho sparato ad una distanza troppo ravvicinata.
Non mi piace usare le pistole. Mi sembra un'arma da vigliacchi. Per questo quando li ho assaliti, all'inizio, la prima cosa che avevo fatto era stata sguainare la spada.
Però, si sa, in guerra tutto è lecito.
Mi concedo meno di dieci secondi per tirare un sospiro di sollievo. Sono ancora viva.
Mi giro. Il gruppo della mia legione che doveva seguire me è ben nascosto. Io, però, lo percepisco. Non so spiegare come, ma è così. Forse è l'odore. Un odore che conosco bene quanto conosco il mio. Dev'essere così. Ad ogni modo, non ho bisogno di vederli per sapere che ci sono.
So che hanno visto tutto. Ho tracciato loro una direzione. Dobbiamo fare in fretta se vogliamo raggiungere l'esercito principale. Ormai sono già passati più di cinque minuti da quando hanno lanciato il segnale di aiuto.
Guardo in basso. Il mio cavallo mi sta aspettando. Lia è molto fedele. Si è allontanata durante lo scontro, ma è tornata subito dopo. Come sempre. Onestamente, l'idea di scendere mi ripugna. Non voglio passare accanto a quei due cadaveri senza volto. Chiamatemi pure codarda, ma non ce la faccio. Non sono i primi che ho ucciso (decisamente no) e non saranno gli ultimi (decisamente no), ma ogni volta la sensazione di repulsione è forte come la prima.
E comunque, non ho tempo di scendere.
Gli alberi in questo bosco crescono molto vicini gli uni agli altri.
Salto da un ramo all'altro, avanzando verso il punto in cui, poco fa, è brillato il segnale d'aiuto.
Mi oriento tramite il cielo, ormai sempre più chiaro. E' buffo che possa uscire il sole in una giornata come questa. Magari gli uccellini cinguetteranno. Le farfalle voleranno leggiadre. E sotto di loro solo disperazione e carne putrefatta.
Avanzo rapidamente. Sono abituata a stare in bilico sugli alberi. So distinguere i rami troppo sottili da quelli abbastanza spessi. Mio padre mi portava spesso nei boschi, quand'ero bambina. Facevamo delle escursioni. Non ci portavamo dietro nulla se non lo stretto indispensabile. Neanche una tenda.
Lo scopo era imparare a sfruttare le risorse del territorio. Imparare prima di tutto a riconoscerle, poichè ogni ambiente ha i suoi punti favorevoli. Oltre alla resistenza e alla capacità di adattamento, questo particolare allenamento ha influito sul mio intuito e sulla capacità di osservazione. Spesso vedo cose che gli altri non vedono.
Non a caso vado in avanscoperta.
Proseguo ancora. So di essere arrivata ancora prima di vedere la battaglia vera e propria.
Quello di cui parlavo: il fumo. E gli spari. Il rumore. La puzza di sangue rappreso, cadaveri e polvere da sparo.
Le urla. I pianti. Gli insulti.
La terra che si tinge di rosso. I corvi che gracchiano. Il dolore. La paura. La sofferenza.
Poi c'è l'odore. La puzza di sangue. Di vomito. Di urina.
Frammenti molli di carne che penzolano dai rami più bassi. Chiazze di sangue nerastro e arti troncati.
E' questo l'oceano in cui sto per tuffarmi.
Con tutto il fiato che ho in gola, urlo: "Adesso!"
I miei compagni rispondono urlando più di me. Emergono dal folto della vegetazione. Proprio come pensavo, non avevano perso il passo. Li osservo dall'alto e, credetemi, è una sensazione singolarissima. Per un breve istante mi sento una dea. Dunque è così che siamo visti dall'alto. Un branco di formiche folli che si calpestano a vicenda.
Non mi piace per niente quello che vedo.
Scendo rapidamente, afferro la spada e la pistola (a mali estremi) e, urlando, mi getto nell'inferno.
Percorro i rami a ritroso. Quando sono ormai a un metro da terra, lascio la presa e salto. Atterro sulle spalle di uno dei nemici. Prima che abbia il tempo di realizzare cosa lo abbia colpito, gli assesto un pugno in piena faccia (punto debole). Fiotti di sangue rossastro gli colano dal naso. Estrae la spada e incrocia la mia. Le lame si scontrano più volte. Dal mondo in cui ci muoviamo, grottescamente aggraziato, sembra che stiamo conducendo una sorta di macabra danza.
D'un tratto un dolore lancinante mi assale allo stomaco. Non sono riuscita a parare il calcio. Indietreggio e cado ai piedi dello stesso albero da cui, poco fa, mi sono lanciata. Sento l'intestino sotto sopra. Possibile che me l'abbia spappolato? Probabilmente no, non sarei ancora in piedi, ma vi giuro che è quello che sembra.
Stringo i denti. Il nemico rotea la spada su di me, sta per colpirmi. Mi getto di lato, sento già ritornarmi le forze. I miracoli di un duro addestramento.
Balzo in piedi. La lama della sua spada affonda nella corteccia quasi fino all'elsa. Un brivido mi pervade all'idea dello stesso colpo che centrava me.
A volte mi capita di domandarmi come morirò. Mi chiedo se sarà doloroso, o se sarà un rapido colpo di spada dritto al cuore. Oppure, dal momento che tutto è possibile, potrei anche sopravvivere alla guerra e morire ottuagenaria nel mio morbido letto, circondata dagli affetti.
E' un'ipotesi assolutamente improbabile, ma mi piace pensarci. E' vero, prima o poi tutti moriremo comunque. Ma la differenza sta proprio nel come. In fondo, se ci pensiamo, tutte le nostre scelte roteano intorno alla morte. Se scegliamo di avere una famiglia numerosa, di dedicarci ad essa, inconsciamente stiamo pensando che in questo modo non moriremo soli. Se ci dedichiamo ad una causa, ad un lavoro, ad una passione, inconsciamente vogliamo dare un senso alla nostra vita, così da non avere rimpianti in punto di morte.
Rifletteteci. Se ripassate le scelte che avete fatto o che siete in procinto di fare, domandatevi il perchè. Perchè è la vostra passione? La vostra vocazione? E perchè? Se indagate a fondo, vi troverete d'accordo con me.
Macabro che la vita giri intorno alla morte, non è vero?
Ci penso proprio mentre combatto. In questi momenti riesco quasi a vederla, la morte. Mi fissa. Si domanda quando potrà avermi. Aspetta il minimo passo falso, la minima esitazione. La morte ama la guerra.
Allo stesso modo in cui un intenditore ama un buon ristorante.
La spada del mio avversario è incalzante, i movimenti sono ritmici e precisi. Ho capito la sua tecnica. Non vuole attaccarmi. Vuole sfinirmi.
Poi, se sarà generoso, mi darà il colpo di grazia.
Sono in trappola, penso.
Non posso fare nulla. Mi ha trascinato nella sua trappola mortale. Se provassi ad attaccare, sarebbe la fine. La sua spada i colpirebbe in pieno. Sono costretta a continuare a parare i colpi, ancora e ancora finchè non avrò più forza.
Inizio già a sentire un certo dolore alle spalle. L'acido lattico si sta diffondendo lungo le braccia. No, maledizione, no.
Posso solo continuare a difendermi. Un sorrisetto malvagio gli illumina il viso. I suoi occhietti rotondi, all'ombra dell'elmo pesante, risplendono di gioia.
Mi sfida con lo sguardo. Cosa puoi fare?, sembra dirmi. Sei una stupida e stai per morire.
Cerco di guardarmi intorno. I miei compagni si stanno battendo valorosamente. Ma con la coda dell'occhio faccio in tempo a registrare un numero enorme di nostri soldati riversi nel fango. Il terreno sembra tappezzato dai loro mantelli.
Se cadiamo, quelli dell'Ovest avranno conquistato Tharin, uno dei più produttivi satelliti industriali dell'Impero.
Non possiamo permetterlo.
Con orrore, sento i capelli appiccicarmisi al viso. Goccioline di sudore mi ricoprono il viso. Se sto sudando con questo freddo, significa che tra poco cadrò.
Il sole è alto nel cielo, ma è un sole invernale. Tiepido, distante.
Provo a immaginare cosa accadrebbe se morissi qui. Probabilmente rimarrei a fare da cena alle iene o ai giaguari. Dal momento che molto probabilmente perderemo la battaglia, quelli dell'Ovest non restituiranno mai i corpi dei caduti.
Non che mi importi, dopo tutto. Una volta che sei morto, non sei più da nessuna parte. Non esisti più. Che differenza fa cosa ci fanno col tuo corpo?
I funerali sono per i vivi. Così come le tombe o i vasi di ceneri. Non è forse vero che il peso più grande della morte lo portano i superstiti?
Sono loro a soffrire, ad aver bisogno di un posto in cui sfogare il proprio dolore. Di poter piangere davanti all'immagine muta di un ritratto.
Il mio pensiero va alla mia famiglia. A chi si troverà in questa condizione atroce di avermi persa, e non poter piangermi da nessuna parte. La consapevolezza di avere i resti di qualcuno caro vicini, ti fa sentire in pace.
Sarebbe atroce, certo. Se solo avessi qualcuno che pensi a me.
Mia madre. La sola idea mi fa venire da ridere. Proprio qui, in questo momento. Posso immaginarla che rotea gli occhi, seccata. Scola una bottiglia di vino e squote le spalle: "Quell'incapace di mia figlia". Poi si vestirà di nero, come consuetudine, e interpreterà il ruolo della madre affranta. Indirà grandi banchetti e cerimonie di commemorazione in "mio" onore, così da poter essere il centro dell'attenzione e circondarsi dei nobili più importanti. In effetti, penso proprio che con la mia morte, la sua vita migliorerebbe.
Se poi non trovassero il mio corpo, sarebbe il massimo. Avrebbe una serie di motivi in più per piangere e contrirsi. Ossia una serie di motivi in più per ricevere visita da generali, capitani e nobili che mi hanno conosciuta.
Nonostante abbia solo ventun'anni (lo dico senza falsa modestia), ho una carriera lunga e brillante nell'esercito. E sono la figlia di un generale famoso, per cui casa nostra sarebbe letteralmente invasa dalle personalità di spicco.
Già, a proposito di mio padre.
Schivo un altro colpo di spada. Indietreggio lentamente. Il mio avversario mi incalza.
Forse mio padre sarebbe l'unico a dispiacersi per me. Non troppo comunque. Non lo vedo ormai da due anni. Da quando è scoppiata la guerra vera e propria, le sue abilità di stratega sono state richieste nella capitale. Ha un milione di cose per la testa. Se gli dicessero che la sua unica figlia è morta, la stessa che lui aveva addestrato fin da bambina. Che aveva portato nei boschi per insegnarle a cacciare all'età di sei anni. A cui aveva messo in mano una spada prima di una penna, probabilmente si concederebbe un paio di secondi di profondo rammarico. Poi ritornerebbe ai suoi doveri.
No, in effetti non farebbe proprio differenza se morissi qui.
Solo che c'è un problema. Io non voglio.
L'istinto di sopravvivenza ha preso il sopravvento. Non ci si sente mai più vivi di quando si sta per morire. I problemi, le preoccupazioni che un tempo ci apparivano senza uscita, diventano irrilevanti. Scompaiono.
Ogni fibra del mio essere urla una sola cosa: "vivere!"
Io voglio vivere. Non voglio morire. Non voglio. Non voglio.
Il mio corpo mi implora di fermarmi, ma la mia mente non è mai stata così lucida.
Cosa diceva mio padre? Studia il territorio. Sfruttane ogni risorsa.
Ma certo.
Continuo a parare i suoi colpi, ma comincio ad indietreggiare progressivamente. Il mio avversario non se ne accorge. E' convinto di avermi già uccisa. Prende il mio arretrare come un segno del mio imminente cedimento. Povero illuso.
Mi segue passo passo. Impercettibilmente, mentre con un braccio paro i suoi colpi, l'altro, senza spada, si allunga all'indietro. Le dita sfiorano la corteccia ruvide di un tronco. Ottimo.
La mia spada continua a parare la pioggia di colpi, ma, nel frattempo, con la mia mano libera afferra un ramo sopra di me. Tiro un calcio al mio avversario. Lo colpisco sul torace protetto dall'armatura, quindi non mi aspetto di fargli male. Volevo solo allontanarlo un poco.
Con uno scatto fulmineo mi volto, afferro il ramo con entrambe le mani e, facendo pressione sui muscoli delle braccia, ormai allo stremo delle forze, mi isso sul ramo.
Tutto questo, in meno di cinque secondi. Il tempo esatto in cui il mio avversario, urlando di frustrazione, torna all'assalto. Ma io sono lontana. Il ramo a cui mi sono aggrappata è relativamente basso, poco più di un metro d'altezza. Mi serviva come punto di partenza.
Salgo sempre più in alto. Il mio avversario non si abbatte. Devo ammettere che è in gamba. Con la spada tra i denti, inizia ad arrampicarsi.
Però è molto più pesante di me: l'armatura lo ostacola nei movimenti. E l'elmo pesante gli limita la visuale.
Lo faccio avvicinare sempre di più. Nel momento esatto in cui mi ha raggiunta e afferra la spada che stringeva tra i denti, commette l'errore di mostrarmi il collo. Con un gesto rapido e preciso, la mia spada gli recide la pelle sopra la trachea.
Si sente un rumore, come uno strappo. Una gonna di cotone che rimane impigliata nella porta.
Il sangue zampilla come da una fontana, in parte riversandosi su di me. Rimane in piedi sul ramo qualche secondo, vacillando pericolosamente. Dalla bocca fuoriesce sangue denso e nero misto a bile e saliva schiumante. Lo sento rantolare ed emettere suoni gutturali e animaleschi. Ha gli occhi quasi fuori dalle orbite. Sta soffocando nel suo sangue.
Il volto è una maschera di dolore. Pallido come un foglio di carta, le vene sono incredibilmente visibili sotto la pelle.
Sta per cadere all'indietro. Decido di aiutarlo. Lo spingo io.
Un calcio sul petto, e piomba giù, rantolante. Siamo a otto metri d'altezza. La caduta gli ha dato il colpo di grazia.
Mi accascio sul ramo. Per fortuna era molto spesso e solido abbastanza da non spezzarsi sotto il peso dell'agonia del mio avversario.
Il suo volto mi si è impresso in mente, come quando vi scattano una foto col flash e continuate a vederne la luce per un po'.
In fondo, è sempre così.
Ansimante, mi siedo.
Dentro di me una serie di emozioni si alternano come su un'altalena.
Il primo ad arrivare è il sollievo. Non sono morta. L'adrenalina si ritira dal mio corpo simile alla marea che lascia la costa.
Poi c'è il dolore fisico. Ora che l'effetto dell'adrenalina è svanito, avverto una fitta atroce alle spalle e ho le braccia indolenzite. Sono esausta, il solo pensiero di rialzarmi è terribile.
Infine, affiora la stanchezza. Desidero solo dormire. E mangiare, ora che ci penso. Ho una fame incredibile.
Ma devo resistere.
Scendo dall'albero, con la massima velocità consentitami dagli arti doloranti.
Sfodero la spada. Sono pronta a rituffarmi nella mischia. In quanto ad uscirne viva, ho i miei dubbi. In queste condizioni non posso dare il cento per cento, il chè significa morte certa.
Però non posso arrendermi. Anche i miei compagni sono stremati, ma si tengono in piedi e difendono il nostro popolo fino all'ultimo respiro.
A poca distanza per me, un soldato della mia squadra è appena inciampato a causa di un calcio ben assestato al ginocchio. Dalla smorfia di dolore sul suo viso, deve essersi rotto.
A differenza dei nostri avversari, noi non portiamo armature. E' un vantaggio poichè ci rende dieci volte più rapidi e agili nei movimenti, ma, ovviamente, ha i suoi punti deboli.
Il soldato nemico sta per trafiggerlo con la spada.
Corro più veloce che posso. Un'altra volta, il dolore è lontano. La mia mente si svuota. Io sono la mia spada. Sono un'arma. Sono fatta per uccidere.
Con un salto dell'ultimo secondo, proprio nell'istante in cui la lama nemica sta per calare, piombo alle spalle del suo proprietario (essere privi del clangore dell'armatura è un altro vantaggio negli attacchi a sorpresa).
Gli trafiggo il polpaccio. Un grido di dolore e sorpresa gli esplode in gola.
Nonostante il dolore alla gamba, si volta con uno scatto fulmineo. Solo adesso mi accorgo di quanto sia grosso. Dev'essere alto almeno due metri ed è largo poco meno. La lunga barba è incrostata di sangue rappreso e fango.
Mi mostra i denti in un ghigno animalesco.
In che guaio mi sono cacciata?, mi domando, mentre salto per evitare la sua spada.
Quell'accidenti di lama deve pesare quanto me, e lui la maneggia come fosse uno stuzzicadenti.
Sono spacciata.
Paro i suoi colpi, senza pensare a nulla. Soffoco i pensieri negativi sul nascere. Se lasciassi loro il tempo di crescere e avvolgermi con la loro nebbia, sarebbe la fine. Soccomberei per colpa di me stessa.
Siete mai stati colpiti da un fulmine? Neanche io. Però è proprio quello che sembra il dolore esplosivo alla spalla.
Non ho il coraggio di guardare. Con la coda dell'occhio esamino il lato destro del mio corpo. Esattamente sotto l'omero, fiotti di sangue denso e nero scorrono lungo il braccio.
Sembra che un cane mi stia azzannando e non si decida a lasciare la presa.
Provo a muovere il braccio, ma non risponde ai miei comanti. Che abbia danneggiato qualche nervo? Per la frustrazione, vorrei piangere. E' finita.
Cerco di parare i colpi impugnando la spada con la mano sinistra. Me la cavo molto bene, certo, ma non abbastanza. In guerra non esistono le mezze misure: o sopravvivi, o muori.
Arretro sempre di più. Anche questo qui vuole usare la strategia del suo amico che ho ucciso poco fa.
Potrei fare la stessa cosa. Saltare su un albero. Tuttavia, con l'unico braccio funzionante impegnato ad usare la spada, sarebbe difficilissimo. E poi non ci sono alberi qui intorno. Sono tutti troppo lontani. Dovrei mettermi a correre, ma non ne avrei il tempo.
Ma questo qui come fa ad essere agile e temibile con un polpaccio trafitto? Cos'è? Ce l'hanno sotto pelle l'armatura, adesso?
Questo stupido braccio destro. Vorrei tagliarmelo. E' inutile e pesante e ingombrante. Ogni volta che lo muovo di pochissimo il fulmine mi colpisce di nuovo.
Paro un altro colpo, così forte da farmi vibrare in tutto il corpo. Il mio avversario approfitta dell'attimo di incertezza e mi colpisce al petto con lo stivale pesante.
Temo che mi abbia sondato la cassa toracica. Mi manca il respiro.
Finisco a terra.
Ma, nonostante le condizioni pietose in cui mi trovi, è un bene. Colpisco l'altro polpaccio. Sento il nemico digrignare i denti dal dolore.
Affondo la spada fino all'elsa. Devo avergli spezzato qualche muscolo, perchè finalmente inizia a vacillare.
Non prima di calare la spada in direzione della mia testa. Rotolo di lato appena in tempo. Non ho la forza di alzarmi, quindi devo farlo cadere se voglio avere qualche possibilità.
Il gigante ricoperto d'acciaio barcolla in maniera sempre più violenta, nel disperato tentativo di non accasciarsi. I muscoli del suo enorme braccio guizzano mentre con la lama tenta nuovamente di colpirmi.
Rotolo di lato. Nella terra e nel fango. Nel sangue rappreso.
Il ronzio delle mosche, a questa altezza, è così forte da lasciarmi stordita. So perchè si trovano qui. L' odore di carne putrefatta che mi avvolge mentre rotolo è lo stesso che le fa diventare fameliche.
Muovermi è un agonia. Nel petto, dove sono stata colpita, sento ancora qualcosa rimbombare a tutto spiano. E il braccio destro, beh.
Lasciamo perdere.
So che la ferita aperta sulla spalla si sta infettando. Vedo la terra incrostarsi sul sangue e un bruciore acuto si unisce al vecchio dolore. Il cane immaginario non molla la presa.
Però, nuovamente, la paura della morte, l'istinto di sopravvivenza ha la meglio su tutto.
Stringo l'elsa della spada e mi sposto, rotolando e strisciando, il più lontano possibile.
Il mio avversario fa per inseguirmi, ma tra l'armatura e le gambe lacerate, è assurdamente lento.
Quando sono abbastanza lontana, estraggo la pistola. A mali estremi, estremi rimedi.
Prendo la mira e gli sparo in piena faccia. Per un attimo ho il terrore che neanche il proiettile possa ferirlo. Me lo vedo che continua ad avanzare con mezza faccia disintegrata.
Per mia fortuna, però, è anche lui un essere umano. Crolla all'indietro e raggiunge terra con un tonfo sordo.
Il soldato che avevo salvato, col ginocchio rotto, zoppica fino a me.
Mi tende la mano per aiutarmi a rialzarmi. E' un tacito ringraziamento. In certi momenti, non si ha la forza nemmeno di dire "grazie".
Vorrei rifiutare, considerando che non so effettivamente quanto sia stabile la sua presa, ma non voglio offenderlo. E ho comunque bisogno d'aiuto se non voglio marcire qui.
Afferro la sua mano è sporca di sangue e fango, sulla fronte un brutto taglio fa mostra di sè.
Nell'altra mano impugna la pistola, ancora fumante. Ha continuato a combattere, persino col ginocchio a pezzi. Strisciando, proprio come me, come un verme. Dev'essersi arrampiacato su un albero, a giudicare dalla direzione da cui arriva, e deve aver sparato finchè non ha esaurito i colpi.
Se non ha sparato al mio gigante, è perchè era troppo lontano. E se non gli ha sparato prima, mentre stava per spaccargli il cranio con la spada, è perchè non aveva il tempo di estrarre la pistola. Tutti noi proviamo una vaga avversione verso questo tipo di armi, per cui ci ricorriamo solo se costretti.
Di sicuro sarebbe alquanto sleale in un corpo a corpo, e per noi l'onore è tutto.
Come me, questo soldato ha potuto estrarre la pistola solo dopo aver messo una certa distanza tra se stesso e il gigante.
Riesco ad alzarmi, ma sento le ginocchia cedermi. Non voglio pesare troppo sul corpo mal ridotto del mio compagno, quindi mi sforzo. E mi faccio ancora più male.
Però sono in piedi, ed è già qualcosa.
- Dov'è il tuo cavallo?- mi domanda.
- Non molto lontano.- rispondo. Conoscendo la mia adorata, è rimasta ai piedi dell'albero famoso su cui ho iniziato la battaglia di oggi.
- Il tuo?- replico.
- Insieme a quelli degli altri. Un po' più indietro.-
Il resto della squadra, quella che segue un soldato scelto in avanscoperta, è solita lasciare i cavalli in un punto molto lontano dal luogo della battaglia. Il resto del percorso lo fanno di corsa (siamo molto bene allenati) o saltando da un ramo all'altro. I cavalli sono la risorsa principale in caso di ritirata. Non possiamo permetterci di perderli.
Io e il mio compagno ci diamo un'occhiata in giro. La situazione è drammatica. Decine dei nostri sono caduti o stanno per farlo.
Ci scambiamo uno sguardo. Vorremmo entrambi scappare, lo sappiamo. Non siamo in condizioni di combattere. Lui ha finito i colpi alla pistola e io, se anche volessi usare la mia in maniera utile, dovrei arrampicarmi su un albero per prendere bene la mira sulla mischia. Ma gli alberi sono lontani, e io ci metterei troppo ad arrivarci.
Siamo costretti a combattere corpo a corpo, e, in queste condizioni, non abbiamo davvero speranza.
E' questo che si dicono i nostri occhi.
Proviamo lo stesso terrore, la stessa disperazione e la stessa rabbia.
Ma siamo soldati di una legione scelta.
Le nostre espressioni cambiano all'unisono.
Impugniamo le spade.
Lui inizia a zoppicare il più rapidamente possibile verso il fulcro della battaglia. Cade, ma si rialza e riprende.
Le mie gambe, almeno, funzionano, però è come se al posto del braccio destro avessi un tronco di legno. Ingombrante e doloroso. La ferita si è sicuramente infettata, se sopravviverò mi amputeranno il braccio.
E ho perso molto sangue, prima che la terra sporca si appiccicasse sul foro e tappasse, in qualche modo, il flusso.
Per non parlare del petto. Faccio fatica a respirare. Ogni volta che la cassa toracica si muove, il dolore si rinnova.
Però avanzo. E' il mio dovere e il mio destino.
Siamo a pochi passi quando, finalmente, ad un fischio acuto segue una scia di fumo nerissimo che si disegna nel cielo pomeridiano.
E' il segnale della ritirata. L'altro soldato ed io ci guardiamo negli occhi, estremamente sollevati, anche se non potremmo ammetterlo.
Perchè la ritirata col fumo nero significa una cosa sola: sconfitta.
Abbiamo perso uno dei centri industriali più importanti.
Un'altra regione in mano loro. Di questo passo, oltre alle battaglie, perderemo la guerra.




Angolo autrice:
Alloooora? Che ne pensate? Non vedo l'ora di saperlo!
Bacioni! <3 <3 <3


 
 

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Capitolo 2
*** II ***


II



 

La guerra è scoppiata circa due anni fa.
Mese più, mese meno: ha davvero importanza?
Dopo che, secoli or sono, a seguito di fortissime scosse di assestamento, l'assetto mondiale è stato stravolto, i continenti sono più piccoli e numerosi di quanto lo erano prima. Almeno questo è ciò che traspare dalle cartine e i mappamondi antichi.
Per fortuna, gran parte della documentazione di allora si è conservata. Merito delle tecnologie avanzate di cui erano in possesso i nostri progenitori.
Oggi non esiste una cosa come Internet. La progettazione di satelliti di quel tipo, atti a quello scopo, è troppo complicata per essere riprodotta. In compenso abbiamo ancora i computer. E le televisioni. E le macchine fotografiche. E i telefoni. Fissi, però. I cellulari superefficienti sono un ricordo lontano.
Allo stesso modo, non ci sono più tratti somatici caratteristici di una certa area.
I nuovi continenti inglobavano parti di nazioni molto diverse tra loro. Col passare del tempo e con l'avvicendarsi delle generazioni, essi si sono fusi, fino a svanire. Per esempio, è vero che esistono ancora persone con gli occhi a mandorla, ma non è detto che debbano avere i capelli corvini e i tratti del volto schiacciati, com'erano un tempo.
Non esistono più persone dalla carnagione marrone come il cioccolato.
Alcuni tratti somatici tipici (le labbra carnose, la mandibola pronunciata) si ritrovano ancora. Ma i loro capelli non sono per forza ricci e neri, e la loro pelle non va oltre una tonalità che rasenta l'abbronzatura.
Il mondo di un tempo era preciso, in un certo senso.
Schematico e ordinato.
Quello in cui vivo, non lo è affatto. Però mi piace di più. Non penso avrei potuto vivere in quel tipo di società. Ma forse, chissà, ne sono convinta solo perchè non l'ho mai conosciuta. Se ci fossi nata, non avrei immaginato un mondo diverso, quindi non ci avrei pensato. In realtà, a dirla tutta, c'è qualcosa che rimpiango: i viaggi.
I nostri antenati potevano attraversare l'oceano per spostarsi da un continente all'altro. Noi, invece, no. Il mare è inquinato, il clima instabile. Sono molto frequenti le tempeste: un viaggio troppo lungo implica la morte.
E noi non abbiamo idea di quanto disti il nostro continente da un altro. Persino gli aerei sono esclusi.
O meglio: li possiamo usare per gli spostamenti intercontinentali, e, volendo, potremmo anche avventurarci in viaggi extracontinentali, ma, oggi come oggi, è l'ultima delle nostre preoccupazioni.
La guerra ha il monopolio su ogni altra attività.
Fino a circa vent'anni fa, il nostro continente si divideva in Terre dell'Ovest e Terre dell'Est.
Nelle prime, essendo caratterizzate da terreni molto fertili e grandi corsi d'acqua, ci si dedicava particolarmente all'agricoltura, all'allevamento e alla pesca. Erano sostanzialmente queste le industrie su cui si basava l'economia, oltre, in parte, all'ingegneria e alla medicina.
Nelle seconde, invece, spiccavano la produzione tessile e l'elettronica in generale.
Sebbene vi fossero industrie mediche e farmaceutiche, bisogna ammettere che fossero parecchio indietro rispetto a quelle dell'Ovest. La cosa, tuttavia, era irrilevante, poichè la grande passione nelle Terre dell'Est erano le arti. Filologia. Filosofia. Musica. Scultura.
Prevaleva lo studio della storia e della geografia. Le indagini sul passato.
Non a caso siamo in possesso di numerosi documenti, tra cui, non ultime, cartine geografiche e mappamondi.

Le principali materie di studio nelle scuole erano le scienze e le belle arti.
In un primo momento, i rapporti tra le Terre dell'Ovest e le Terre dell'Est (separate da alte catene montuose) erano pacifici. Si limitavano al commercio.
Successivamente, però, gli abitanti dell'Est si resero conto di qualcosa di importante. Man mano che trovavano e analizzavano documenti riguardanti le antiche civiltà, in particolar modo quella Greca, notarono una differenza enorme tra se stessi e gli abitanti dell'Ovest.
Quest'ultimi non erano che pastori. Umili agricoltori. Non avevano interesse per lo studio e la ricerca, almeno non quanto avrebbero dovuto.
Gli antichi greci, li avrebbero definiti barbari.
Fu esattamente ciò che fecero i miei connazionali.
Dapprima si trattò solo di parole. Gli altri. Quelli là. I Barbari.
Ma le parole, si sa, sanno essere pericolose.
Proprio come scintille, se lasciate vagare incustodite, scatenano un incendio.
Le trattative commerciali divennero complesse.
I nostri pretendevano che i prezzi fossero più bassi da parte loro, ma esigevano che aumentassero i pagamenti verso di noi.
Divenne intollerabile, ai nostri occhi, dover fare affari con un popolo tanto inferiore. Era necessario che comprendessero la nostra superiorità e si comportassero di conseguenza, senza tracotanza.
Finchè le discussioni non sfociarono in vere e proprie liti, e le divergenze d'interessi non divennero pretesto di guerra.
Circa trent'anni fa, il nostro esercito invase le Terre dell'Ovest.
Noi conoscevamo bene l'arte della guerra. L'avevamo studiata. Ne avevamo letto da autori provenienti da parti diverse del mondo antico.
Essere soldati rappresentava un onore e procurava ricchezze e vantaggi politici.
I nostri ingenui avversari, al contrario, erano quasi del tutto sprovveduti. Non si aspettavano lo scoppio di una vera guerra. Il loro esercito aveva più che altro un ruolo figurativo. C'era, sì, ma tanto non sarebbe mai servito.
E invece.
Inutile dire che persero la guerra in men che non si dica. Poco più di due settimane e la capitale, Iustera, cadde.
Il loro re fu imprigionato insieme ai funzionari e ai nobili più importanti. A farne le veci, dall'Imperatore dell'Est di allora fu mandata un'ambasciata nostrana.
Il primo ministro prese pieno potere sul popolo sconfitto, diventando ai loro occhi, un nuovo re.
Le loro Terre divennero le nostre colonie.
Ormai il continente era unificato sotto un'unica bandiera: la nostra.
Una pantera che ruggisce all'alba, all'interno di una cornice dorata e dai ricami complessi.
Sotto una certa ottica, la vita di quelli dell'Ovest non cambiò poi così tanto.
Continuarono ad essere agricoltori, pastori e tessitori. Solo che le ore di lavoro triplicarono, e il guadagno finiva quasi interamente nelle casse del ribattezzato Impero Continentale.
In fondo, a loro che servivano tutti quei guadagni? Li avrebbero sperperati. Spesi in macchinari agricoli e cose del genere, quando, a tale scopo, erano sufficienti molto meno del ricavo totale. Il resto poteva essere investito nella ricerca, per il progresso. Ma che ne sapevano loro?
I nostri soldati, i quali si trovano in grandi quantità nella maggior parte dei centri abitati, avevano il compito di tenere sotto controllo la situazione e sedare possibili rivolte.
Potrei quasi dispiacermi per l'Ovest. Potrei.
Il fatto è che anch'io la penso come i miei concittadini.
Non sfruttavano il dono dell'intelletto come avrebbero dovuto. Stava praticamente nell'ordine naturale delle cose che si sottomettessero a noi.
Inoltre, dalla nascita dell'Impero Continentale, la vita nell'Est è migliorata.
Le infrastrutture, già ben funzionante, rasentano l'eccellenza. Le scuole, ad esempio, sono più attrezzate e degne di infondere il sapere antico alle nuove generazioni. Possiamo produrre e studiare nuove armi, sempre più comode ed efficienti.
Gli aerei sono stati perfezionati e resi più veloci, così come il resto dei dispositivi tecnologici. Gli stipendi sono aumentati esponenzialmente.
Insomma: la povertà è scomparsa.
Mio padre, il generale Strausse, distintosi nella guerra di trent'anni fa, a soli venticinque anni, riscosse un enorme successo e ammirazione. Gli garantì l'amicizia della nuova Imperatrice, tutt'ora in carica, all'epoca appena diciassettene.
Fu ricompensato, insieme agli altri eroi, con terre e tesori preziosi.
Mio padre potè finalmente godersi la propria vita in pace e prosperità, dopo anni e anni di sacrifici e lotte.
Trascorse diversi anni in solitudine, studiando e frequentando la Corte Imperiale, finchè non incontrò (in circostanze a me misteriose) mia madre.
Vent'anni più giovane di lui. Si sposarono immediatamente ed ebbero un'unica figlia. Faelyn Strausse. Me.
Finchè, due anni fa, la situazione si è capovolta.
Un uomo misterioso, pare sia addirittura giovanissimo, ha fatto la sua comparsa sul piano militare, minando le fondamenta del nostro stato e capovolgendo ogni certezza. Infrangendo la pace e la ricchezza tanto faticosamente raggiunta.
In maniera subdola, silenziosa, e assolutamente incomprensibile, è riuscito a radunare uno stuolo di seguaci.
Erano così discreti e scaltri nelle loro intenzioni da passare inosservati ai nostri soldati di pattuglia nell'Ovest.
Se devo essere sincera, credo che questi ultimi si crogiolassero nella pace e nella ricchezza a tal punto da reputare quasi impossibile una rivolta. Del resto, non ce n'erano mai state. Neppure sommosse. Nessuno ha mai pensato che fosse strano. Ci si può aspettare altro, forse, da un popolo così arretrato?
Tuttavia, le rivolte scoppiarono all'improvviso.
Prima nei piccoli centri. I ribelli uccidevano facilmente i soldati ubriachi e li derubavano delle armi. In questo modo, nessuno poteva denunciarli.
L'Impero scoprì la gravità della situazione solo quando scoppiò la battaglia per la presa di Iustera.
Battaglia durata mesi che, infine, data l'impreparatezza dei nostri soldati ormai da troppo tempo a riposo, terminò con una bruciante sconfitta.
Impiccarono il nostro Primo Ministro e i suoi funzionari. Filmarono la scena e la mandarono in diretta TV, su quel canale che un tempo si occupava di mostrare il funzionamento delle industrie e la vita nell'Ovest.
Alla fine del macabro video, lo schermo fu oscurato e una voce parlò. Una voce limpida, quasi cristallina, ma incredibilmente autorevole.
"Il nostro popolo è fiero!" affermava, seguito da un coro di esultazioni ed esclamazioni d'orgoglio. "Vi faremo pagare per quello che ci avete fatto.
Ci avete strappato le nostre terre senza alcun diritto. Ma le cose sono cambiate. Mentre voi vi crogiolavate nella noia e nel lusso che noi, col nostro sangue, vi garantivamo, abbiamo trovato il modo di studiarvi. Le vostre tanto acclamate tecniche di guerra. Le vostre armi. Ci siamo allenati. In silenzio. Mentre voi brindavate e ballavate e facevate l'amore. Adesso, preparatevi. Ci riprenderemo quello che ci avete tolto. Con gli interessi."
A seguire, un nuovo scoppio di euforia e infine il silenzio netto.
Il caos che questo video comportò nell'Impero fu indescrivibile. Mio padre fu immediatamente richiamato a corte, per studiare nuovi piani di battaglia, e poi spedito al fronte. Allora, io ero parte dell'esercito già da diversi anni, sebbene, come i miei compagni, mi trastullassi tra risate e divertimenti. Fummo anche noi mandati a combattere, senza aver praticamente mai visto una battaglia. Le mie abilità, tuttavia, riuscirono comunque ad emergere e molto presto divenni membro della Legione Scelta.
Dove ho il grande privilegio di assistere, quasi regolarmente, alla nostra disfatta.
Sospiro e reclino la testa all'indietro, poggiandola contro la testiera del sedile.
Sono in aereo ormai da cinque ore. Ancora un paio e dovrei essere a casa. Non che il pensiero mi alletti particolarmente.
Ad aspettarci c'è la mia cara mamma col suo sarcasmo e le bottiglie di vino. Però sono stanca e ho bisogno di un letto vero.
Il mio letto. Morbido. Caldo. Il solo pensiero ha un effetto calmante sulla mia anima.
Sebbene mi senta a pezzi. Mentalmente e fisicamente. Una sorda disperazione si è insinuata dentro di me ormai da un po'.
Più che disperazione, ad essere sinceri, lo chiamerei terrore.
Abbiamo fallito un'altra volta. Abbiamo perso Therin. Ormai non si tratta più solo di riprenderci i loro territori. Si tratta di difendere i nostri.
Chiunque sia a guidarli ( e circolano parecchie voci a riguardo) devo ammettere che sa il fatto suo.
E' determinato e accecato dall'odio. Anche troppo bravo per essere un barbaro.
I nostri servizi segreti, nati proprio in seguito alla guerra, sono riusciti a stabilire per certo che si tratta di un uomo di età compresa tra i venti e i venticinque anni. Non si sa altro. E, francamente, mi domando anche come siano entrati in possesso di queste informazioni.
Il finestrino mi offre la visuale su un lembo di cielo scurissimo e stellato. Ho molto sonno, ma non riesco a dormire.
In parte è colpa del dolore alla spalla. Secondo i medici, è un miracolo che abbia ancora il braccio destro.
Quando abbiamo raggiunto il centro medico più vicino, dopo una giornata intera a cavallo, eravamo un numero esiguo di superstiti. Il mio compagno col ginocchio rotto giaceva esanime su uno dei pochi carri che trasportavano le provviste (ridotte all'osso) e i feriti (ridotti all'osso).
Per lasciare posto ai miei compagni ridotti molto peggio di me, io mi ero fatta forza a cavallo della mia Lia.
Bruciavo di febbre. La spalla ormai sembrava andare a fuoco e sono stata davvero sul punto di recidermi il braccio con un colpo di spada. Faceva orrore solo a guardarla. Sporca e nera, la zona intorno allo squarcio si era colorata di un blu malsano. Si poteva addirittura intravedere l'osso. Puzzava incredibilmente e, di tanto in tanto, sembrava fuoriuscire una specie di pus schiumoso e nero.
Per non parlare dello sciame di mosche che non vedeva l'ora di divorarlo.
Quando i medici l'hanno visto, dopo una rapida occhiata, erano praticamente convinti di doverlo amputare. Poi, uno di loro, un ragazzotto dal volto rassicurante e occhiali spessi come fondi di bicchieri, si è ricordato di un rimedio molto usato nell'Ovest in circostanze analoghe.
I nostri medici ne erano entrati a conoscenza nel lungo periodo in cui abbiamo avuto a portata di mano le loro risorse.
Purtroppo, anche in questo campo, l'ignavia ha preso il sopravvento. Non c'era fretta, si ripetevano i ricercatori.
Quel tipo di risorse sarebbero state sempre e comunque a nostra disposizione. Che bisogno c'era di sbrigarsi?
Non sono riusciti a riprodurre l'impacco autonomamente, poichè pare che la combinazione degli ingredienti e il dosaggio sia molto particolare, ma ne è rimasta qualche scorta. Così hanno applicato parte del composto, dal colore bluastro e dalla consistenza grumosa, sulla ferita.
Una puzza incredibile si è diffusa nel piccolo ambulatorio.
Ho passato la notte con quella specie di melma sulla spalla, stesa su uno dei carri che ci portava all'areoporto più vicino (la buona notizia è che si era liberato un posto. La cattiva è che non era guarito nessuno. Se mi capite.)
La mattina dopo, però, un lieve rossore e una ferita dai margini leggermente slabbrati figuravano al posto dello spettacolo rivoltante del giorno prima.
Avrei voluto prendermi a schiaffi per quel sentimento così simile alla gratitudine che ho provato, per un secondo, nei confronti di quelli dell'Ovest.
E' bastato che, autonomamente, (ormai ci eravamo già allontanati dal centro medico nella regione adiacente a Therin), me lo sciacquassi con dell'acqua che mi avevano lasciato portare, e me lo fasciassi. In quest'ultima fase mi ha aiutato il mio comandante. Con la mano sinistra non ho ancora la stessa precisione che ho con la destra. Ci sto lavorando, però.
Arrivare all'areoporto è stato un miracolo.
Non credevo ce l'avremmo realmente fatta. Siamo saliti a bordo del piccolo aereo, ci hanno servito del pane, un po' di frutta e dell'acqua, (tutto ciò che erano riusciti a farsi mandare) e molti di noi si sono addormentati immediatamente.
Anch'io penso essermi appisolata. Il tempo che i ricordi della battaglia appena vissuta riaffiorassero sotto forma di incubi. Una nebbia scura offusca ad alternanza i miei ricordi.  Ho la testa che mi scoppia, ma non riesco ad abbandonarmi al sonno. Semmai riesco a cadere in un torpore febbricittante da cui mi risveglio dopo pochi minuti.
Una hostess, nella sua lunga tuta blu dai bordi dorati, mi si avvicina sorridente. Ha gli occhi a mandorla e i capelli rossi tirati indietro in una stretta coda di cavallo. Sorride, ma le rughe sul suo giovane viso segnalano la stanchezza e la pressione degli ultimi giorni. Tutta colpa di quelli dell'Ovest. Oh, quanto li odio. Altro che gratitudine.
- Signorina.- mi chiama, a voce bassa. I sedili sono incanalati uno dietro l'altro. E' un aereo apposito per gli spostamenti militari. C'è persino un reparto dove tengono i cavalli.
- Sì?- rispondo. La mia voce mi arriva roca e lontana. Sembra che a parlare sia stata un'altra persona. Qualcuno che non conosco.
- Desidera una coperta? Non sapevo se la volesse. Dormiva così placidamente e non me la sono sentita di svegliarla. Dev'essere stanca.- tra i suoi capelli scintilla qualcosa. E' il cerchietto dorato che portano tutte le hostess. Mi piace molto, devo ammettere. Il cartellino appuntato al petto dice: Shanna.
Cos'è che ha detto, Shanna? Dormivo placidamente? Non riesco a crederci.
- No, grazie.- rispondo.-Sto bene così. Quanto manca?-
- Poco più di due ore, signorina.-
Come immaginavo.
- Grazie, Shanna.-
Mi sorride e si allontana, silenziosa.
La ferita inizia a prudere, ma la fasciatura mi impedisce di grattarmi. So che è la pelle che si sta riformando, ma desidererei ardentemente strapparmi la stoffa a morsi e grattarmi fino a sanguinare.
Poggio la testa contro il finestrino, esausta e stordita.
Quando chiudo gli occhi rivivo le uccisioni di cui sono stata artefice due giorni fa. Nelle orecchie ho ancora il ronzare delle mosche. Così vicino, così reale che mi sembra che stiano per entrarmi nel cervello.
Faccio un respiro profondo. Chiudo gli occhi. Io sono forte, mi ripeto. Sono molto forte.
Ripetendomelo come un mantra, piombo in un sonno nero e senza sogni.
Quando li riapro, l'aereo sta toccando terra. Rimbalzo sul sedile diverse volte, mentre il pilota esegue l'atterraggio. Il prurito alla spalla è peggiorato, e, come se non bastasse, sento quel po' di pane che mi sono sforzata di mandare giù  arrampicarsi pericolosamente verso la bocca.
- Tutto bene?- domanda una voce alle mie spalle. E' così flebile che devo averla sentita solo io.
Mi giro lentamente. Una forte e improvvisa sinusite mi impedisce nei movimenti.
- Sono Andreja. Quello che hai salvato l'altro giorno.-
Strizzo gli occhi un paio di volte. In effetti è proprio lui. La luna gli illumina i contorni ben definiti del viso. E' seduto proprio dietro di me.
Lo guardo, interrogativa. Non ce la faccio a parlare, perciò, se proprio devo farlo, preferisco dosare le parole e limitarmi a quelle strettamente indispensabili. Con la coda dell'occhio mi accorgo che gli hanno fasciato il ginocchio. Non credo si riprenderà tanto presto. Anzi, ad essere sinceri, sono certa che zoppicherà per sempre. La sua vita nell'esercito è finita. In buona sostanza, la sua intera vita è finita. Per un soldato, uno che nella sua vita sa solo ed esclusivamente combattere, non poterlo più fare è la fine. In tempi più felici, l'Imperatrice si sarebbe presa cura di lui. Gli avrebbe garantito una pensione, o qualcosa del genere, ma in questo periodo di crisi, ogni centesimo conta. E' terribile dirlo, ma i feriti devono essere abbandonati a se stessi.
Se vai in guerra, o muori o sopravvivi. Nel mezzo è molto peggio.
La carenza dei fondi è, come tutto il resto, colpa di quelli dell'Ovest.
Cerco di nascondere la compassione che provo. Non è un bel sentimento, anzi. E' offensivo per quelli come noi. Ringrazio l'oscurità.
- Sì, mi ricordo.- dico, senza aprire troppo la bocca. Temo di rimettere da un momento all'altro. Uno "splash" poco rassicurante riecheggia nel mio stomaco ad ogni rimbalzo dell'aereo. Accidenti al pilota.
- Hai fatto una bella dormita?-
Mi domando proprio dove trovi l'energia. Sul serio. Riesce addirittura ad essere ironico. E' una bella cosa, l'ironia. Un simpatico modo di esprimere disperazione. Sicuramente è consapevole che da questo momento in poi la sua vita potrà solo peggiorare, ma si fa forza, e io ammiro le persone che si fanno forza.
Sul suo volto è dipinto un mezzo sorriso. In qualche modo, mi contagia.
- In realtà non sapevo di aver dormito.- confesso.
- Oh, eccome.- afferra il mio schienale per evitare di volare via dal suo sedile. Il nostro pilota non dev'essere molto capace. Sono cinque minuti buoni che sobbalziamo. -Questo aereo ha il singhiozzo.- commenta Andrejia, facendomi l'occhiolino.
- Immagino di sì.- la mia voce è ancora gutturale. Cerco di schiarirmela, ma è inutile.
- Vedo che ti hanno sistemato la spalla.-
Annuisco. Ecco, ora mi sono ricordata del prurito. Non che me ne sia mai dimenticata, ma stavo pensando ad altro.
- Che farai ora che torni a casa? Andrai dal tuo innamorato?-
Sbaglio o un'ombra di malizia luccica nei suoi occhi? E poi da quando siamo così in confidenza? Sembra un'altra persona rispetto al soldato determinato cui ho salvato la vita.
- Non credo che ti riguardi.- commento, secca. Non mi piace questo tipo di domande. Non mi piace che si ficchi il naso nella mia vita privata. Nella mia vita in generale.
Lui si stringe nelle spalle.-Hai ragione, scusa. Ma, vedi, mi hai salvato la vita e, visto che non potrò sdebitarmi in combattimento- con lo sguardo indica il ginocchio fasciato. Di nuovo mi maledico per la compassione che provo.- Pensavo almeno di esserti amico. Sai, una spalla su cui piangere o roba del genere.-
- Non è così che si diventa amici.- sbotto, irritata.
-Ah, no?- sembra sinceramente sorpreso. I riccioli scuri gli rimbalzano sulla fronte, sincronizzati con i rimbalzi dell'aereo.
Adesso ho il pane praticamente in gola. Ha un sapore disgustoso, ma stringo i pugni e lo ricaccio giù. Non mi sembra il caso di vomitare addosso al mio compagno ferito.
- No! Non funziona così.-
- E tu lo sai?-
Apro la bocca per replicare, ma poi mi ricordo che non posso. Io non ho amici. Ho solo commilitoni.-No.- ammetto.-Ma so per certo che non si fa così.-
Mi guarda con una serietà improvvisa che mi sorpende.
So che sta per dire qualcosa, ma, finalmente, atterriamo.
Le portiere si aprono.
Mi alzo rapidamente, afferro il mio borsone logoro, e corro fuori senza guardarmi indietro.
Giusto in tempo per vomitare l'anima sull'asfalto.
Aspetto qualche minuto. Fanno scendere i cavalli, anche loro visibilmente provati dal volo e, in particolare, dall'atterraggio. Rintraccio la mia e le accarezzo il muso striato di bianco. -Tesoro.- sussurro. Forse, dopo tutto, la so qualcosa in fatto di amicizia.
La accompagno sul carro che la trasporterà, insieme agli altri, nelle scuderie dell'esercito.
Gli altri soldati scendono e raggiungono i propri cavalli, dopo di chè si dirigono verso le macchine che li aspettano.
Tutti loro hanno qualcuno ad attenderli.
Vicino alle macchine parcheggiate vedo innamorate e innamorati in lacrime. Padri e madri commossi. Figli, addirittura, che strillano in braccio ai genitori e protendono le manine verso l'aereo.
La gioia e la commozione sono palpabili nell'area. I musi lunghi dei miei commilitoni scompaiono non appena scorgono i loro cari.
Non c'è nessuno che si sente solo.
A parte me.
Persino Andreja lo vedo abbracciare una ragazza giovane dai capelli corvini. Dal modo in cui si stringono devono essere innamorati. Lei lo aiuta ad entrare in macchina. Dà un'occhiata al suo ginocchio. Lui le bisbiglia qualcosa, col suo immancabile sorriso ironico. "Non compatirmi", le sta dicendo, forse. Lei replica qualcosa. Sorride, ride. Avrà fatto una battuta. Deve essere una ragazza simpatica. Ride di gusto, ma quando si allontana per sedersi avanti, accanto all'autista, ha le lacrime agli occhi.
Provo una stretta al cuore. Mi riprometto di rimanere in contatto con Andreja.
Ma accidenti alla mia spalla che prude.
- Tutto bene? Qualche problema?-
E' il mio comandante. Alto, robusto quasi quanto il gigante che mi ha trafitto la spalla. Ha il volto solcato da una profonda cicatrice che scende dall'attaccatura dei capelli fino alle labbra sottili, vicino alle quali sembra ramificarsi in segmenti piccoli e pallidi. E' di carnagione scura, indossa una tuta completamente nera, come la mia, quella di "riposo" di noi soldati, ma sulla sua manica destra compare una fascia dorata.
Porta i lunghi capelli corvini tirati all'indietro, legati in una bassa coda di cavallo. Ha gli zigomi alti, un naso largo e occhi nerissimi quasi a mandorla.
Posa la sua mano pesante sulla mia spalla sana, e mi accorgo che ci entra tutta tra le sue dita.
- Non hai un passaggio di ritorno? Vuoi che ti accompagni?-
Seguo il suo sguardo fino alla macchina blu scuro parcheggiata poco lontano. E' una delle ultime rimaste. Anche lui è solo. Nessuno è venuto a prenderlo, ma almeno ha giocato d'anticipo. Ha ordinato all'autista di trovarsi in quel posto a una certa ora. Mi maledico per non aver avuto la stessa pensata.
Dovrei smetterla di essere così ottimista da pensare che a qualcuno importi di me.
Il cielo è sempre più nero man mano che si avvicina l'alba.
Vorrei accettare l'offerta ma, francamente, mi sento in imbarazzo. E' pur sempre un mio superiore. Per quanto disponibile, non saprei come comportarmi. Mi sembra di fare qualcosa di sbagliato.
- No, la ringrazio.- rispondo, accennando un sorriso riconoscente. - Sono sicura che la mia macchina sta arrivando.- mento.
Lui segue il mio sguardo, verso la strada. Ma non c'è nessuno. Ho telefonato a casa da una cabina telefonica prima di partire. Mi ha risposto Maddesse, la storica governante dalla pelle scura. L'ho avvisata dei dettagli dell'arrivo. E' stata felice, come sempre. Sono sicura che avrà avvertito mia madre e, sono altrettanto sicura che lei se ne sia scordata. Sarà crollata sul letto dopo l'ennesima sbronza.
Sospiro. Rischio sul serio di rimanere qui.
- Non vorrei creare disturbo...-esito, incapace di sostenere lo sguardo del comandante.
Lui sorride benevolo.-Non preoccuparti. Non mi aspetta nessuno, quindi non farò tardi.-
Cerco di mascherare la sorpresa. Non me l'aspettavo. Chissà perchè ero convinta che avesse una famiglia. Un po' come mio padre. Ora che ci penso, inconsciamente li ho sempre associati.
Entriamo in macchina. Il comandante si siede davanti, accanto all'autista in smoking di seta. Io prendo posto dietro, stringendomi al borsone per affogare il disagio.
Riferisce all'autista il mio indirizzo. Ha avuto modo di conoscere mio padre, quindi ricorda dove abita. Come dimenticarlo, dopo tutto? Non è da tutti avere l'onore di essere invitati dal pluripremiato generale Strausse.
Ho il terrore che da un momento all'altro possa chiedermi come mai nessuno sia venuto a prendermi. Perciò prego che non dica nulla. Certe volte il silenzio è confortante.
Non vorrei ritrovarmi a spiegargli che mia madre non mi sopporta, perchè sono un soldato e non la nobildonna elegante e civettuola che aveva sempre desiderato. Che ce l'ha anche con il marito, colpevole di lasciarla sola a causa del suo lavoro. Che, sostanzialmente, trascorre giornate intere a bere. A comprare abiti vistosi che non indosserà mai. A guardare la televisione: soprattutto i canali ufficiali dell'Impero, dove non si fa altro che propaganda autocelebrativa.
Non vorrei dover ammettere che anche io non ho nessuno ad aspettarmi.
Il mio comandante ha almeno il doppio della mia età, perciò è logico credere che la solitudine sia stata una sua scelta. A me, invece, è stata imposta. E me ne vergogno. Perchè, vedete, non voglio essere compatita.
Per nessuna ragione. Proprio come Andreja.
Non voglio che mi si guardi con benevolenza, come se fossi un cucciolo smarrito. Io sono un soldato, uno dei migliori. So badare a me stessa, e lo dimostro ogni volta che torno a casa viva con tutte le ossa apposto. O quasi, insomma.
Sul petto ho un ematoma violaceo dai contorni slabbrati e indefiniti, simile ad una macchia enorme.
E ,sotto la felpa pesante, le bende intorno alla spalle continuano a procurarmi un prurito da stringere i denti.
La macchina corre veloce e silenziosa sulla strada buia. Tra poco ci sarà l'alba, e, nei minuti precedenti, il cielo sfoggia la sua migliore tonalità di nero.
Casa mia è fuori città, perciò non è molto distante dall'areoporto. Appena tre quarti d'ora, forse.
Realizzo che il comandante non ha ancora detto niente, e tiro un sospiro di sollievo. Sebbene la stanchezza inizi a farsi sentire (io e il mio corpo non ci ricordiamo di aver dormito, in aereo.) e faccia fatica a tenere gli occhi aperti, mi impongo un contegno. Sono pur sempre a bordo della macchina di un superiore. Se cedessi al sonno, non me lo perdonerei mai.
Mi concentro sugli alberi e la vegetazione ai lati della strada. I rami sono ormai quasi tutti spogli, sebbene alcune foglie tentino un'ostinata resistenza. L'inverno non è rigido come lo è stato l'anno passato. L'ultima volta ha nevicato ininterrottamente per giorni e quando, finalmente, ha smesso, le strade e le case erano ricoperte da coltri di neve spessissime. Ci è voluto parecchio sale per risolvere la situazione, il chè ha comportato spese enormi. Il sale marino è molto costoso, considerata la difficoltà per procurarlo. Oltretutto, eravamo già impegnati nella guerre, e le casse dell'Impero erano in procinto di prosciugarsi. Abbiamo pagato tasse altissime. Sebbene non abbia influito sul mio tenore di vita, era chiaro che se anche questo inverno si fossero presentate condizioni simili, l'Impero avrebbe seriamente rischiato la bancarotta.
Inoltre, l'anno scorso le spedizioni nei boschi innevati, al freddo e al gelo, sono state pericolosissime. Molti soldati morivano di ipotermia lungo il tragitto. Non era raro vedere dita di mani e piedi andare in cancrena e staccarsi come rami secchi. Le spedizioni effettuate in quelle condizioni, fortunatamente, sono state poche. Erano egualmente ardue per i nostri nemici, perciò ci si accordò su una tacita tregua durata fino agli inizi della primavera.
- Sei stanca?-
La voce del comandante mi richiama bruscamente dai miei pensieri, sempre meno inconsistenti mentre scivolo inconsapevolmente nel sonno.
- Un po'...- balbetto, fingendo di essere perfettamente attiva.
Il riflesso dei suoi occhi indagatori mi scruta dallo specchietto retrovisore. Sorride.- Cerca di riposarti in questi tre giorni. Abbiamo bisogno di te.-
Quest'ultima affermazione mi riempie d'orgoglio. Sento le guance arrossarsi. - Ci proverò, signore.-
- Voi che andate in avanscoperta siete fondamentali per le sorti della battaglia. Senza di voi tracciarsi un percorso nascosto sarebbe un problema. Non potremmo coglierli di sorpresa.-
- Già, eppure abbiamo perso un'altra volta.- mi accorgo troppo tardi di averlo detto a voce alta, e avvampo, maledicendomi mentalmente. Vorrei scomparire.
Il comandante sembra stupito, ma non si direbbe arrabbiato. Non è che l'abbia proprio contraddetto. Ho solo fatto dell'assolutamente inappropriato sarcasmo. Colpa della genetica materna. In questo mia madre ed io ci somigliamo. Solo che lei non pone freni alla propria graffiante ironia. Io ci provo. Però, ogni tanto, fallisco.
- Loro erano molto più numerosi di noi.- mi spiega, ma mi accorgo di come ha distolto lo sguardo.
Lo faccio anch'io, sovrappensiero.
- Però - riprende, dopo un po'. - Tu non hai rimpianti. Hai combattuto molte battaglie per la tua età, e ne sei sempre uscita viva. Ho visto come ti sei battuta. Me ne accorgo sempre. Hai un grande potenziale. Detto tra noi, Strausse, credo che se abbiamo ancora qualche possibilità di vittoria è solo grazie a quelli come te. Il problema, appunto, è che sono troppo pochi.-
Questa volta l'orgoglio non basta a risollevarmi il morale.
La macchina svolta finalmente nel viale di casa mia. Sebbene definirla "casa" sia decisamente inappropriato.
Circondata da ettari di prato verde che si estendono a perdita d'occhio, abbelliti da cespugli dalle forme artistiche, fontane in stile classico e una vasta piscina circondata da lampade e sdraio ergonomiche, si erge una villa a dieci piani. Estesa in lunghezza quanto in larghezza, ha le pareti ,ricoperte in certi punti dall'edera, perfettamente curate. Un colonnato si affaccia sul portico esterno. Adesso che è sera, una serie di piccole luci bianche, disseminate intorno al viale d'ingresso, luccicano come stelle dal terreno.
La macchina si ferma appena prima del grande cancello. Scendo, zoppicando per il dolore alla spalla e la stanchezza.
- La ringrazio molto, signore. - di tutto, vorrei aggiungere. Ma stavolta mi trattengo.
Fa un cenno con la testa e sorride, prima che la macchina faccia retrofront e scompaia sulla strada.
Sospiro. Casa dolce casa, eh? Invidio chiunque abbia un posto dove non vede l'ora di tornare. Un posto che solo a pensarci lo riempie di gioia, gli ricorda di avere una ragione per andare avanti. Provo una profonda invidia.
Mi sporgo col viso davanti al sensore incastonato al lato del cancello. Un raggio bluastro mi percorre il viso, ronzando impercettibilmente. Si ritira. Sul piccolo schermo compare una mia foto e il mio nome.
Le porte del cancello si spalancano.
Ormai inizia ad albeggiare. Una brezza fresca si insinua tra i cespugli. Comincio ad avere seriamente freddo.
Mi dirigo il più veloce possibile alla porta d'ingresso, sebbene la distanza dal cancello, percorsa a piedi, porti via una buona mezz'ora.
Quando arrivo, devono essere ormai le cinque passate.
Dai balconi inizia ad affacciarsi la servitù, alle prese con le prime faccende del giorno.
Qualcuno di loro si accorge della mia presenza e sorride con deferenza.
Mi avvicino alla porta e consento una nuova scannerizzazione del mio viso. Finalmente posso entrare. Il raggio di luce così forte, puntato negli occhi, mi lascia intontita.
- Miss Faelyn!-
Provo una piacevole stretta al cuore. Quanto mi era mancata quella voce.- Maddesse!- guardo in alto, sorridente.
La mia governante è affacciata al balcone, le mani artigliate alla ringhiera. Ha gli occhi umidi e un sorriso commosso le illumina il volto. Vedete, Maddesse non è una semplice governante, per me. Nè, tantomeno, una banale istitutrice. Direi che è quanto di più vicino a una madre io abbia mai avuto. Mi ha cresciuta lei. Si è presa cura di me fin da quando sono nata, mentre mio padre si trastullava a corte e mia madre svuotava le dispense alcoliche di casa.
- Mi aspetti lì, signorina. - esclama, raggiante, prima di scomparire in casa.
Io, nel frattempo, inizio ad entrare. Non appena oltrepasso la porta d'ingresso, un insieme di sensazioni contrastanti si scatena dentro di me. Da una parte c'è la nostalgia. L'odore di casa, sapete. Quell'odore di cui non ci accorgiamo mai, ma che, dopo essere stati via a lungo, ci abbraccia nel momento in cui torniamo, e lo troviamo inconfondibilmente nostro. Odore di casa.
Persino io possiedo un ricordo del genere.
Per quanto mi riguarda, è il profumo di pane appena sfornato proveniente dalle cucine. Un odore forte e accogliente, che si propaga nell'atrio. Poi c'è il profumo del legno del pavimento e delle molteplici varietà di fiori e piante che crescono per tutte le stanze. Tuttavia, l'armonia che avverto è avvelenata da una punta sgradevole. Mi tornano in mente tutta la tristezza, il dolore, le lacrime versate qui dentro. Il senso di inadeguatezza, le litigate con mia madre. Le offese. Il terrore inconscio di trovarla stesa a russare da qualche parte, immersa nel proprio vomito, con una bottiglia vuota rovesciata accanto. Il sentimento di compassione che mi procura il solo pensiero. Che mi spinge a provare pena nei suoi confronti, ad aiutarla. A lavarla e a metterla a letto, perchè, malgrado tutto, mi si spezza il cuore al pensiero della servitù che la trova in quello stato misero, e dei pettegolezzi che potrebbero correre a corte. Perchè, nonostante tutto, le voglio bene. Non so, onestamente, se sia un amore ricambiato. Probabilmente no, ma non posso dimenticare che quella donna che si diverte a tormentarmi, è la stessa che mi ha dato la vita. Che mi ha cresciuta dentro di sè. In fondo, penso che un tempo deve avermi amata. Fosse anche solo per un istante, mentre le mie cellule non erano neppure del tutto formate. Se non ha impedito la mia nascita, vuol dire che deve avermi amato. Una donna con la sua astuzia (e un marito lontano) avrebbe trovato mille modi per mascherare un aborto in modo che nessuno ne sapesse niente. No, lei mi ha voluta. Probabilmente aveva grandissime aspettative. Sperava di trovare in me qualcuno che le tenesse compagnia, che, a differenza del marito, non la lasciasse sola. Sperava di aver trovato una ragione di vita.
Se adesso è tanto perfida nei miei confronti, è perchè l'ho delusa nel modo peggiore. Ai suoi occhi, le ho voltato le spalle per seguire le orme d mio padre. L'ho ferita profondamente. E odio il modo in cui questo pensiero mi torni in mente ogni volta che sto per risponderle a tono. Che sto per gridarle in faccia che la odio, la detesto. Invece, mi blocco. A furia di ingoiare alcool e rimpianti, è diventata una donna detestabile. Persino adesso, di ritorno da una delle più dure battaglie della mia vita, mi sento rabbrividire al pensiero di dover affrontare mia madre. Mi domando in che condizioni sarà. Spero sia lucida, e al contempo lo temo. Vederla ubriaca mi atterrisce, ma da sobria mi vomiterebbe addosso tutta la frustrazione che cova.
- Bambina mia!-
I miei pensieri sono interrotti in modo bruscamente dolce dalle braccia di Maddesse. Mi stringe forte al petto, e la sento singhiozzare tra i miei capelli. Ricambio volentieri. Avevo proprio bisogno di questo calore.
Calore materno.
La stringo forte. Odora di detersivi e erba fresca e un sentore di qualcos'altro. Qualcosa di suo.
Rimaniamo strette a lungo, e io potrei rimanerci ancora, ma lei decide che è meglio separarci. Mi scosta dolcemente, con le mani posate sulle mie spalle. I suoi occhi mi scrutano, colmi di tenerezza.-Bambina, che bello rivederti!-
Posso solo sorriderle. Mi accorgo di non riuscire a parlare. Se lo facessi, scoppierei in lacrime. Sento già gli occhi bruciarmi. Maddesse è una donna di oltre cinquant'anni, eppure innegabilmente bella. Di quella bellezza che solo le donne di una certa età possiedono. Una bellezza materna. Nonostante non abbia figli.
Indossa il suo solito completo. Una maglietta a girocollo di cotone blu, la cui estremità è infilata nella gonna dello stesso colore, lunga fino al ginocchio. Porta scarpe basse di vernice nera e una collana di perle, abbinata agli orecchini. Un mio regalo. Il primo che le abbia mai fatto, entusiasta com'ero del mio primo stipendio da soldato.
Ha la pelle scura e due penetranti occhi color nocciola. Le labbra carnose e gli zigomi alti sono coperti da un velo impercettibile di rughe, il quale, anzichè imbruttirla, le addolcisce ulteriormente i lineamenti. I suoi capelli corvini, striati di grigio, sono appuntati in un folto chignon sulla nuca. Sul lato destro del petto, compare la piccola spilla dorata con lo stemma delle Terre dell'Est.
- Come stai?- mi domanda, a bassa voce, in un tono confidenziale che adotta solo quando siamo io e lei. Ed è l'unica dalla quale posso accettarlo volentieri.
Faccio un respiro profondo per recuperare il controllo. Detesto essere così emotiva. In genere riesco a tenere a bada i miei sentimenti, ma ci sono dei momenti, momenti come questo, in cui vengo sopraffatta. Dimentico persino il dolore alla spalla. Lo odio. Non mi piace non avere il controllo su me stessa.
- Sono stanca...- riesco a mormorare, con voce roca.
Maddesse mi accarezza il viso.- Ho già fatto preparare le tue stanze. Ti aspettavamo con ansia dalla tua telefonata.- sorride, sollevata.-Mi fa piacere che la signora abbia mandato una macchina a prenderti. Quasi temevamo che si dimenticassa...- distoglie lo sguardo, imbarazzata.
- Infatti non ha mandato nessuno.- rispondo, con un tono gelido che stupisce anche me.
Maddesse spalanca gli occhi.-Cosa? Ma... Allora come sei tornata?-
- Mi hanno dato un passaggio.-
La mia governante scuote la testa, sconvolta.- Mi dispiace tanto, davvero. Sai, mi sembrava inopportuno da parte mia sollecitare la signora. Non le sarebbe piaciuto affatto. Poi, francamente, temevo ma non pensavo che...-
- Fa nulla.- taglio corto. Non mi va di parlarne. La piacevole stretta al cuore che ho sentito poco fa, adesso è dolorosa. La spalla ha ricominciato a pulsare.
- Herb!- chiama Maddesse, col tono autorevole con cui si rivolge alla servitù. Questo, oltre alla sua benevolenza, le garantisce la piena obbedienza degli altri servi.
- Si, signora Maddesse?- si precipita un cameriere in maglietta e pantaloni lunghi grigi. Ha la pelle dai riflessi ambrati e lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo.
- Accompagna la signorina nelle sue stanze. Portale il bagaglio.-
Herb annuisce e mi si rivolge, con deferenza.-Prego.- allunga una mano per prendere il borsone che gli porgo. Non riesco a trattenere una smorfia di dolore nel muovere la spalla.
A Maddesse, ovviamente, non sfugge.-Miss Faelyn! E' ferita?- domanda, allarmata.
- Niente di grave.- la tranquillizzo.-Mi hanno curata. Prude un po', tutto qui.-mento. Maddesse lo sa, ne sono certa. Ha sempre capito quando mento. Tuttavia non mi contraddice davanti ad Herb e ai servi che ci passano accanto, intenti a svolgere le loro faccende. Si limita a fissarmi con uno sguardo a metà tra il benevolo e il rimprovero, della serie "so che mi stai mentendo, e ne riparleremo, signorina."
Ma io sento le forze abbandonarmi definitivamente.
Seguo Herb verso l'ascensore. Entriamo, lui preme il pulsante del secondo piano. Secondo su dieci.
Mentre aspetto, un inaspettato brontolio giunge dal mio stomaco. Avvampo e scruto Herb di sottecchi. Sicuramente ha sentito, ma rimane immobile. Dritto e impettito, come ci si aspetta da un servo della famiglia Strausse. Non vedo. Non sento. Non parlo.
Le porte dell'ascensore, decorate dall'interno con ricami in legno pregiato, si schiudono sul secondo piano, interamente mio. Vi è la mia camera da letto, il mio salottino, i miei due bagni e un'enorme libreria. Già mi sento meglio.
- Poggialo pure là, quello.- indico il letto a Herb, che lascia cadere il mio borsone.-C'è altro?- mi domanda.
Sto per dire niente, ma il mio stomaco protesta.-Sì. Dì alla signora Maddesse di prepararmi qualcosa da mangiare.-
- Sarà fatto. Desidera che glielo porti?-
- Non c'è bisogno. Scendo tra un paio d'ore.-
Herb abbozza un inchino e sparisce dietro le porte dell'ascensore.
Mi affretto ad inserire la combinazione che impedisce all'ascensore di fermarsi al secondo piano. Potrà continuare a salire e a scendere, ma questo è il mio territorio, e ho tanto bisogno di dormire.
Faccio una piccola sosta in bagno, il tempo di rinfrescarmi un po' e alleggerire la vescica.
Entro nella stanza da letto e chiudo la porta a chiave. Non si sa mai. Non basta l'ascensore. Ho sempre il terrore che mia madre si materializzi davanti a me. So che dovrò affrontarla, prima o poi, ma preferisco farlo dopo una bella dormita. Sono sicura che, non appena sarà in piedi (se sarà in piedi, ovviamente) e avrà saputo del mio arrivo, si precipiterà da me per darmi il suo personalissimo benvenuto. Facendo un rapido calcolo, si alzerà tra circa un paio d'ore, e io starò ancora dormendo. Almeno ho il diritto di scegliere il momento migliore in cui farmi insultare.
Perciò preferisco barricarmi qui.
Spogliarmi e indossare il pigiama mi causa un dolore non da poco. La spalla protesta ogni volta che uso il braccio destro. Però ce la faccio. Una volta abbottonata la camicia di seta rosata, mi infilo sotto le coperte e affondo tra i cuscini del mio adorato letto a baldacchino. Quanto mi era mancato.
Ormai è mattina, e i raggi del sole si infilano prepotenti attraverso l'ampia finestra che occupa quasi interamente la parete accanto al letto.
Premo un pulsante del telecomando posato sul comodino, e due strati di tende spesse e pesanti coprono i vetri. La stanza sprofonda nel buio più totale. Il tempo di accorgermene e crollo addormentata.

 

 

Angolo autrice:
Salve a tutti! Innanzitutto grazie di essere arrivati fino a qui, siete splendidi <3 <3 <3
Volevo ringraziare, in particolare, chi segue/ricorda/ha tra i preferiti questa storia: vi voglio bene! Ma non tanto quanto a chi ha recensito <3 <3
Anche questo è un capitolo un po' lento, me ne rendo conto, ma era necessario per inquadrare un po' il contesto in cui ci muoviamo. Dal prossimo le cose si faranno seriamente movimentate, ve lo prometto!
Un bacione grande grande!

 

 

 

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Capitolo 3
*** III ***


III


 
 
Avanzo lentamente. La nebbia fitta intorno a me ostacola la visuale. E' così densa che la si potrebbe tagliare con un coltello. Nera, grigia e, in alcuni punti, di un pallore bianco. E il suo odore fastidioso e penetrante mi fa girare la testa, pizzicandomi le narici e graffiandomi la gola. Tossisco un paio di volte. No, questa non è nebbia. E' fumo.
Un terrore sordo e implacabile si fa strada dentro di me. I battiti del mio cuore accellerano vertiginosamente. Li sento rimbombare nelle orecchie. Come se non bastasse, il fumo mi fa girare la testa. E' la prima volta che mi capita. Non l'ho mai trovato tanto denso. Una cappa plumbea e maleodorante che mi si incolla addosso, penetra attraverso i pori della mia pelle.
Il silenzio è improvvisamente rotto dal gracchiare dei corvi. Alzo lo sguardo al cielo, dove uno stormo nerastro e grottesco sta offuscando quel poco di luce che c'era.
D'un tratto, con la chiarezza di una rivelazione, una certezza si impossessa di me. So dove mi trovo. Come ho potuto non accorgermene subito? E' un campo di battaglia.
Non saprei dire quale (ne ho visti talmente tanti), ma l'odore e l'atmosfera è inconfondibile.
Con una certa ansia mi domando come accidenti sia arrivata qui. Tre giorni sono già passati? Okay che il tempo vola, ma così non ha nemmeno aperto le ali.
Istintivamente mi tocco i fianchi e rabbrividisco non trovando alcuna arma. Abbasso lo sguardo sul mio corpo e impallidisco. Non indosso neppure la divisa. Solo pantaloni attillati neri, una lunga sformata camicia bianca e stivali di cuoio consunto.
Decisamente non è da me.
Che accidenti ci faccio qui?
Si alza una brezza leggiera, trasportando con sè il cattivo odore di carne putrefatta e polvere da sparo. Già, a proposito. Dove sono le urla? E gli spari? E il clangore delle spade che cozzano l'una con l'altra?
Mi concedo un sospiro di sollievo. Non c'è nessuna battaglia. Almeno, non più. Deve essere terminata poco fa, a giudicare dalla quantità di fumo che persiste nell'aria. Però, se non altro, non c'è traccia di esseri umani. Neanche i gemiti o i rantoli agonizzanti dei feriti. Niente di niente. Che strano.
Intorno a me, gli alberi non sono mai sembrati così alti. Per un momento ho la netta sensazione, quasi la certezza, che si congiungano al cielo. Così come le sbarre di una prigione sono incollate al soffitto.
Non sono mai stata claustrofobica, credetemi. Eppure, in questo momento, mi sembra che il mondo che mi circonda mi si stia restringendo addosso. Potrei giurare che il terreno e gli alberi e tutto il resto si muovano verso il centro della terra, dove mi trovo io. Mi si chiudono gli occhi. Mi manca l'aria. Mi gira la testa.
Le mie ginocchia cedono. Sbattono con un tonfo sordo sul terriccio umido e le foglie secche.
Ad un tratto, uno scricchiolio, come un ramo che si spezza, mi fa voltare di scatto la testa di lato.
C'è qualcuno che si nasconde, dietro i cespugli. Ho paura. Sono disarmata e l'unica cosa intelligente da fare sarebbe andarmene in fretta, ma non posso. Mi sento inevitabilmente attratta da qualunque cosa si celi tra le foglie. Un'attrazione fatale, e al contempo perversamente irresistibile. I miei piedi hanno vita propria. Mi rialzo, cammino verso il cespuglio incriminato. Man mano che avanzo un terrore sordo si impossessa di me. Andarmene! Urla una voce nella mia testa. Devo andarmene! Andarmene!
Ma non posso. La mente e il mio corpo non collaborano, hanno preso strade diverse.
Avanzo, e avanzo ancora.
I corvi gracchiano. Il cattivo odore è pungente e aspro.
Qualcosa si agita dietro l'alto cespuglio. Adesso ci sono, lo vedo.
Ho capito cos'è, ma...
Urlo.
Impossibile.



Apro gli occhi di scatto e mi sollevo sui gomiti, sollevandomi dal materasso come spinta da una molla.
E' buio pesto. Le tende impediscono al minimo raggio di sole di farsi strada.
Artiglio le coperte fino a sentire le unghia lacerare il sottile strato di seta.
Il cuore mi rimbomba nelle orecchie. Ho la fronte imperlata di sudore, ma non solo. Mi sembra di andare a fuoco, e allo stesso tempo sono completamente bagnata.
Annaspo per almeno cinque minuti, prima di regolarizzare gradualmente il respiro fino a riportarlo alla normalità. Ho davvero temuto di avere un infarto. Per una frazione di secondo, ho quasi percepito il cuore sbattere contro le ossa della gabbia toracica.
Mi passo una mano tra i capelli. Sono sporchi di sudore e appiccicosi. Alcune ciocche sono come incollate. Secche e incrostate di qualcosa. Di fango e sangue.
Ora ricordo. Ero talmente stanca che mi sono infilata sotto le coperte così com'ero: sporca e ferita.
A proposito.
Una fitta lancinante alla spalla destra mi ricorda che non avrei dovuto tirarmi su così all'improvviso.
Lentamente mi metto a sedere per bene, appoggiando la schiena all'alta e morbida testiera del letto.
Nel buio della stanza, cerco a tentoni sul comodino il telecomando per aprire le tende. Lo trovo e lo aziono. I numerosi strati di stoffa scarlatta si aprono con un ronzio metallico, offrendomi la visuale su un cielo nero e stellato.
Accidenti. Mi domando quanto abbia dormito.
Ricordo di aver affermato che mi sarei alzata dopo massimo un paio d'ore.
E invece.
Premendo un altro tasto del telecomando, le numerose lampade nella stanza si accendono, illuminando l'ambiente di luce forte e bianca.
Strizzo gli occhi un paio di volte. L'orologio appeso al muro segna le nove di sera. Devo aver dormito una giornata intera. Ammesso che questo sia lo stesso giorno in cui sono tornata a casa. Beh, deve essere così. Mia madre non mi avrebbe mai concesso una così lunga tranquillità. Piuttosto avrebbe sfondato a calci la porta del mio piano.
Una melodia squillante e ripetitiva, composta da tre note che si riproducono all'infinito, mi informa che qualcuno ha premuto il campanello di questo piano.
Il display incastonato nel muro, accanto alle porte dell'ascensore, mostra i contorni di un viso che conosco molto bene. Mia madre. Oh, accidenti a me. Vorrei spingere il pulsante rosso del telecomando, quello che fa comparire una bella X fosforescente sullo schermo del lato esterno. Giusto per essere chiari e precisare il mio scarsissimo desiderio di incontrarla.
Ho un mal di testa fortissimo, come se un serpente avesse avvolto le sue spire intorno al mio cranio e stringesse sempre di più. Quasi mi sembra che gli occhi stiano per schizzare fuori dalle orbite.
Per non parlare della spalla. Prude e lancia fitte dolorose a ripetizione.
Sì, sono proprio tentata di non rispondere.
Tuttavia, riflettendoci con quella poca lucidità di cui dispongo, realizzo che prima o poi dovrò confrontarmi con mia madre. A questo punto, meglio togliersi il pensiero. Sospiro e, dopo un'ultima esitazione, premo il tasto verde.
Il cuore mi martella in petto. Davvero, verrebbe da ridere. Mi sento come se stessi per andare in guerra.
Scatto giù dal letto, non voglio che mia madre mi trovi assonnata e stordita. Vedermi vulnerabile stimolerebbe la sua cattiveria.
Avverto un capogiro nel momento in cui i miei piedi scalzi toccano il marmo freddo, ma lo ignoro.
Le porte dell'ascensore si spalancano con uno sbuffo.
Già me la vedo, mezza ubriaca, che incespica verso di me, tutta sorridente, pregustando i suoi attimi di gloria. Mi maledico per essere sempre così impotente davanti a lei. E' una lotta impari, maledizione. Le regole della guerra sono semplici. Tu hai una spada. Il suo avversario alla sua. Lo attacchi. Lui attacca te. O vivi o muori. E' semplice. So sempre cosa fare, e lo faccio bene.
Ma quest'altro tipo di lotta? Non sono brava a parare attacchi verbali. Non so come comportarmi, accidenti. Sono una preda facile. Ringrazio che la guerra non si combatta in questo modo.
Mia madre entra trotterellando sui tacchi alti. Indossa un lungo abito cobalto, molto elegante. Stretto in vita, i bordi sfiorano il pavimento in delicati ricami di pizzo azzurro.
Per un attimo rimango a bocca aperta. Sta benissimo. Molto meglio di quanto l'abbia mai vista.
I capelli color miele sono raccolti in un delizioso chignon alto, da cui sfuggono riccioli e ciocche più chiare in studiato disordine.
Non so spiegare perchè, ma anzichè sentirmi sollevata, la cosa mi preoccupa ulteriormente.
- Madre...- pronuncio, con un filo di voce.
Mia madre sorride.
Non ci posso credere. E' sicuramente un sogno.
Un sorriso puro, senza alcuna traccia di sarcasmo o di scherno. Luminoso, bello, bianco.
Le sue labbra carnose scoprono una linea di denti piccoli e regolari, disegnando due fossette agli angoli della bocca.
E' indubbiamente bellissima. Persino adesso, malgrado l'alchool e il passare degli anni, è riuscita a mantenere il proprio fascino. Posso capire il perchè mio padre se ne sia innamorato. Se è così adesso, non oso immaginare come doveva essere da giovane. Prima dei rimpianti e delle delusioni.
Non riesco a reprimere un moto d'orgoglio.
Mi ritrovo a ricambiare il sorriso.
- Cara.- mi si avvicina, fluttuante e posa delicatamente le sue labbra sulle mie guancie.
Devo sforzarmi per contrastare l'impulso che mi spinge a ritrarmi. Quand'è stata l'ultima volta che mi ha dato un bacio? Non riesco a ricordare.
Rabbrividisco. In maniera piacevole, però. Non mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato questo contatto.
E la cosa che più mi rende felice, è che non c'è traccia di cattivo odore dovuto al vino. Solo un buon profumo di fiori freschi.
Sento le lacrime pungermi gli occhi. Ma da quando sono così emotiva? Maledizione. E' impressionante. A volte, nella vita, fai tanto per diventare forte, per costruirti una corazza dentro e fuori. Ti senti quasi invincibile. E poi basta un gesto, una parola, per mandare tutto in frantumi.
- Come sei accaldata, tesoro.- mi guarda, preoccupata. - Stai bene?-
Il suo tono è dolce. Vellutato, come una carezza. Eppure, con un brivido stavolta per nulla piacevole, mi rendo conto che c'è dell'altro. Qualcosa di studiato, quasi programmato, nella sua gentilezza.
- Sì, sto bene. Adesso faccio un bagno e-
- Sarà meglio che ti sbrighi.- mi interrompe, voltandomi le spalle.
Crash.
E' il suono che sento riecheggiare dentro di me.
Un vaso di porcellana che precipita sul pavimento. Il vetro infranto di una finestra.
Crash.
Se dovessi descrivere cosa provo in questo momento, direi che ho fatto crash.
Sospiro, ricacciando indietro le lacrime. Lacrime di rabbia e risentimento.
- Abbiamo ospiti.- mi informa, voltandosi verso di me. Il suo sorriso di scherno riappare trionfante sul suo volto.- Ospiti importanti.- le brillano gli occhi.
- E immagino che dovrai recitare la parte della madre amorevole, tanto per cambiare.- replico, a denti stretti.
Amplia il sorriso.- Come sei ingiusta. Io sono sempre amorevole. -
- Come un fucile.- sussurro.
- Cosa hai detto?- si volta di scatto, con la velocità di un predatore.
Reggo il suo sguardo.-Niente.-
- Meglio così. Vedi di darti una ripulita. Fai venire la nausea.-
Nonostante gli anni. Nonostante le atrocità cui ho assistito e preso parte. Nonostante l'abitudine e l'esperienza. Ogni parola cattiva che esce dalle sue labbra mi colpisce con rinnovato dolore.
- Sono stata in guerra.- faccio presente, stringendo i pugni.
Un lampo di rancore purissimo le balena negli occhi. -Lo so bene, cara.-
L'accento che pone sull'ultima parola quasi mi spaventa. Sciocca io che ho tirato in ballo la guerra. Non è proprio quest'ultima la ragione del suo astio nei miei confronti? Ho scelto di diventare un soldato e, ai suoi occhi, di voltarle le spalle.
Faccio un respiro profondo e mi mordo la lingua. Riecco affiorare nella mia mente tutte quelle considerazioni sul bene che deve avermi voluto un tempo, e su come io debba averla delusa.
- Mettiti un vestito elegante. E lavati, per carità. Puzzi come un uomo e hai un aspetto terribile. I tuoi capelli sono sempre stati così secchi? I miei, alla tua età, erano morbidi e lucenti come il miele.- afferma con aria sognante, accarezzandosi una ciocca di capelli che le ondeggia sulla fronte.
Preme il tasto sulla parete per richiamare l'ascensore. Dopo pochi secondi le porte si aprono.
- Quanto tempo ho?-
- Non più di un'ora. Mando Careen a darti una mano. E' evidente che da sola sei buona solo a tagliare gole.-
E sparisce dietro le porte dell'ascensore. Lasciandomi sola con l'immagine del soldato schiumante di sangue cui ho tagliato la gola pochi giorni fa.



 
***


 
Careen è la mia cameriera personale da quando avevo cinque anni. All'epoca, lei ne aveva appena quindici.
Ragazza molto carina. Minuta, magrolina, dalla carnagione ambrata e folti capelli corvini. I suoi occhi grandi da cerbiatta sprigionano bontà, così come il suo sorriso.
Mi aiuta a svestirmi e, con delicatezza, srotola la benda che mi fasciava la spalla. Noto con piacere che la ferita si è quasi completamente riemarginata.
Mi immergo nella vasca da bagno, sospirando di sollievo. Il profumo di buono, di fresco, mi inebria, cancellando, almeno per un po', il cattivo odore della guerra.
La schiuma bianca si tinge rapidamente di grigio. Careen mi strofina per bene la schiena e le spalle. Mi aiuta a districare i nodi dei miei capelli arruffati. Vorrei tanto poterli tagliare, come molte altre donne nell'esercito. Ma mia madre mi toglierebbe definitivamente il saluto. E' l'unica traccia di femminilità che mi rimane.
I miei lunghi capelli biondi, proprio come i suoi. Solo che lei, alla mia età, ce li aveva morbidi e lucenti come il miele.
Careen applica diversi balsami, prima di riuscire a far scorrere il pettine dalla radice alla punta delle ciocche.
Alla fine, dopo almeno mezz'ora, mi avvolge in un asciugamano morbido che profuma di Maddalene. Sorrido inconsapevolmente.
Careen mi asciuga i capelli con spazzola e fono finchè non ricadono lisci i e leggeri sulle spalle.
Persino la frangia ora sembra pesare molto meno.
Dopo aver applicato una lozione per il corpo e avermi cosparso di profumo, Careen mi aiuta anche nella toilette.
Da quando è arrivata, non ha detto una parola. Ha conservato un ossequioso silenzio, intervallato ogni tanto da sorrisi e occhiate significative. Non è mai stata una chiacchierona. Anzi, diciamo pure che non saprei riconoscere la sua voce se non la vedessi. Però, sapete, è proprio per questo che le sono affezionata. Non mi piacciono le persone rumorose, caotiche. Mi basta il rumore delle spade e delle pistole. Passo la maggior parte del tempo immersa tra urla e spari. Ogni volta che rientro a casa, sento la testa pesante, come un vaso troppo pieno d'acqua. L'unica cosa che desidero veramente è il silenzio. E con Careen è possibile. Ci intendiamo con uno sguardo, le parole che ci scambiamo sono calibrate e mai inopportune. So che mi vuole bene, e mi basta questa consapevolezza. Se ci prestassimo più attenzione, scopriremmo che il linguaggio dei gesti rivela molto più delle parole.
Nel modo in cui Careen si prende cura di me, mi massaggia il corpo, sceglie il vestito che dovrò indossare, in tutto questo è racchiuso il suo amore per me. E credo sia bellissimo.
Indosso un abito lungo, dal corpetto aderente, le lunghe maniche a sbuffi e la gonna che sfiora leggera il pavimento. Le scarpe, dello stesso rosa pallido, sono basse e raffinate.
Careen dispone i miei capelli in un'acconciatura elaborata, alta, dalla quale sfuggono ciocche di capelli ondulate in studiato disordine. Vi intreccia piccoli fiori dai perali chiari ed un pettine dai bordi perlati poco sotto la nuca.
Quando mi guardo allo specchio, stento a riconoscermi. Sono proprio io quella?
Potrei tranquillamente essere scambiata per la dama di corte, la figlia che mia madre ha sempre sognato. Se non fosse per il bendaggio sulla spalla che si intravede da quell'elegante apertura tra la manica e la spallina. Spezza l'armonia dell'insieme in maniera dolorosa.
Pazienza, però. Sono quello che sono. Faccio un respiro profondo. Mancano dieci minuti alle nove di sera. Sono stata puntualissima.
- Careen?- la chiamo. La mia cameriera, intenta a raccogliere gli asciugamani usati, si volta stupita. Sa che quando le parlo, è sempre questione di vita o di morte.
- Sì, signorina?-
- Chi sono i nostri ospiti di stasera?-
Si stringe nelle spalle.-Non so davvero, signorina. Sua madre non ha lasciato trapelare nulla. So solo che è da quasi una settimana che la signora ha informato i cuochi di procurarsi la migliore selvaggina in previsione di stasera. Ha preteso che fosse tutto impeccabile. Ha scelto le porcellane più pregiate e le tovaglie più belle. Mi creda, signorina, non so altro.-
Avverto un tuffo al cuore. Che cosa ha in mente mia madre? Quella donna è tanto imprevedibile quanto accanita nella sua avversione nei miei confronti. E' una settimana che organizza questa cena famosa. Ovviamente in previsione del mio arrivo, non sono così sciocca da credere in una coincidenza.
Improvvisamente, un'intuizione mi illumina la mente.
Mia madre sapeva eccome quando sarei arrivata. Non se l'era dimenticata. Peggio. Ha scelto deliberatamente di non mandare nessuna macchina all'areoporto.
Voleva abbandonarmi lì. Mettermi alla prova. Me la immagino, sghignazzante, a sorseggiare un calice di vino bianco. "Vediamo come se la cava, visto che è un soldato tanto speciale."
Fremo di rabbia. Ho le guance bollenti. Devo essere paonazza.
Careen se ne accorge immediatamente e avvampa, preoccupata.-Signorina, non volevo preoccuparla. Io...-
- Lascia stare.- la interrompo, dandole le spalle prima che sia troppo tardi. Prima che mi veda piangere di rabbia. - Ti ho fatto una domanda e tu hai risposto. Non c'entri niente. Mi sono solo ricordata di una cosa.-
Mi dirigo spedita verso l'ascensore.
Careen rimane a fissarmi, i suoi occhioni preoccupati sono fissi su di me. L'ultima immagine che ho di lei, prima che le porte di legno si chiudano davanti ai miei occhi, è di una ragazzina muta e terrorizzata.
Buffo. Careen è più grande di me, ovviamente. Eppure, mi viene istintivo pensare a lei come ad una ragazzina. Forse per via del suo aspetto gracile. Assomiglia ad un'eterna dodicenne. O, più probabilmente, perchè le cose che ho visto e fatto nella mia vita, mi hanno resa donna prima del tempo.
Mentre l'ascensore prosegue nella discesa, mi esamino un'ultima volta al grande specchio appeso lateralmente. Faccio scorrere le mani sulla gonna  per allisciarla. Mi sembra di essere intrappolata in questa specie di baco da seta. E' strettissimo e ingombrante. Non sono più abituata. In effetti, non lo sono mai stata. E i capelli, per quanto l'effetto visivo sia notevole, tirano da morire.
Faccio un respiro profondo. Sono curiosa di sapere quale sopresa mi ha riservato mia madre.
Dopo venti interminabili secondi, sono finalmente al piano dei salotti. Atterro sul marmo pregiato dalle tinte delicate. Un profumo di fiori e ottimo cibo si dissonde nell'aria. Il mio stomaco protesta. Tra una cosa e l'altra, ho dimenticato di mangiare.
La servitù, vestita con i migliori completi, sfreccia da una parte all'altro trasportando vassoi d'argento e parlottando concitatamente, mentre sistemano gli ultimi preparativi.
Mi dirigo nella sala da pranzo principale. Un maestoso lampadario dai numerosi cristalli scintillanti, dai riflessi dorati, pende da un soffitto a volta affrescato in sfumature cremisi.
Il grande tavolo in noce, rotondo e ampio, è coperto da una tovaglia bianca dai ricami dorati. E' abbellita da composizioni artistiche di piccoli fiori profumati e tovaglioli, ed è apparecchiata per cinque.
La cosa mi sorprende non poco. Tanto trambusto per tre ospiti? Mi domando di chi si tratti. A questo punto la curiosità è bruciante.
-Ah, sei qui.- esclama mia madre, correndomi incontro. E' passata un'ora dall'ultima volta che l'ho vista, e, nonostante tutto, la sua eleganza è perfettamente intatta. Il trucco non è sbavato e non c'è una ciocca fuori posto. Alla luce del grande lampadario, un velo dorato offusca la ragnatela di rughe che le attraversa il viso. Sembra ringiovanita di dieci anni. Sorride. Un sorriso falso, ovviamente. Costruito. Da attrice esperta. Scopre una fila di denti perfetti, in contrasto con il suo sguardo glaciale.
- La tua servetta deve aver faticato parecchio.- osserva, prendendomi il mento tra indice e pollice e scrutandolo. Le sue dita incontrano una ciocca di capelli e si ritraggono come se scottasse. Una smorfia di disgusto affiora sul suo viso.-Ma cosa sono? Fieno?-
Istintivamente, mi ritraggo. Non ho voglia di discutere. Temo che mi stia tendendo una trappola. Devo scoprire chi sono i nostri famosi ospiti.
- Hai dei capelli orribili, cara.- commenta mia madre.- Per fortuna hai preso i miei lineamenti, il chè ti rende gradevole. Ma quei capelli... Nessun uomo vorrebbe accarezzarli.-
Ripenso a tutte le volte che i soldati nemici me li hanno tirati e strappati in mille modi. Non posso fare a meno di sorridere. Erano uomini anche loro, dopo tutto.
Vorrei domandare a mia madre chi stiamo aspettando. Sento la domanda bruciarmi nelle viscere, ma so bene che non risponderebbe. Non posso darle questa soddisfazione. Piuttosto, preferisco mostrarmi tranquilla e a mio agio, come se l'incognita della serata non mi turbasse affatto.
- Signorina.- la voce di Maddesse richiama me e mia madre. La nostra governante trotterella verso di noi. Indossa l'abito da ricevimento. Un vestito di seta cobalto, lungo fino al pavimento, stretto in vita da una cinta candida: simbolo del ruolo che ricopre in questa casa.
Mi sorride. Sebbene i suoi denti siano per lo più storti e irregolari, è un sorriso mille volte più bello di quello di mia madre. Quello di Maddesse è vero. Sincero. Trasmette un calore reale, quasi tangibile.
E' impossibile non ricambiare.
- E' un incanto.- aggiunge la mia buona governante.
Se non ci fosse mia madre, l'abbraccerei immediatamente.-Grazie mille.-
- Non hai altro da fare, tu?- si intromette mia madre, la cui voce suona come il gracchiarei dei corvi su un campo di battaglia. - Invece di perdere tempo a lusingare questa sciocchina, dovresti prima di tutto portare a termine le tue mansioni. Non sai che attendiamo visite? -
Maddesse si rabbuia e china ossequiosamente il capo.-Chiedo venia, signora.-
- Vai!-
Mia madre sbuffa, stizzita. Sta per dire qualcosa, ma, per mia grandissima fortuna, non ne ha il tempo.
La voce del signor Arden, il maggiordomo, riecheggia imponente nel soggiorno.-Il signor padrone, il generale Christianus Joseph Strausse.-
Qualcosa dentro di me esplode. - Padre- pronuncio, in un soffio.
Mi volto istintivamente verso le scale. Mia madre è una figura lontana, sfocata. Anzi, diciamo pure che non esiste più. Sollevandomi gli orli della gonna mi precipito di sotto senza pensarci due volte.
- Come sei sgraziata.- sento mia madre commentare, ma non mi importa. Non mi importa nulla.
Percorro in pochi secondi la scalinata a chiocciola. Quando, finalmente, raggiungo il pian terreno, lacrime di gioia mi pungono gli occhi.
Credetemi, non sono un tipo particolarmente emotivo. Sebbene sembri il contrario, lo capisco. Però, vedete, alla fine io non piango mai. Letteralmente. Mi sembra di esserci vicina moltissime volte, nel corso della mia vita, ma poi nulla. Le lacrime non arrivano. Come quando vi prende una voglia bruciante di starnutire e non ci riuscite. Le narici vi bruciano e vi assale un vago senso di stordimento. Una sensazione passeggera ma sgradevole.
E poi, mio padre non lo vedevo da mesi. Per due come noi, due soldati, ogni volta che ci salutiamo potrebbe essere un addio. Io, in effetti, ci sono andata molto vicina ultimamente. Forse anche per questo sono così felice di essere qui, in questo momento. Su questa terra. A godere di ogni emozione che le giornate possono regalarmi. E' una possibilità che ho tolto a molti, con le mie mani.
Mi domando cosa stiano facendo in questo momento le loro famiglie. Io sono qui a festeggiare. Loro? Mogli, figli... Staranno piangendo? Si staranno disperando? Mi staranno maledicendo? Probabilmente.
Pensieri di questo tipo sono una nube scura che offusca la mia felicità.
- Faelyn!- il tono di mio padre esprime mille emozioni. Gioia. Sollievo. Incredulità.
Sono sicura che sta provando quello che provo io. Lo sappiamo entrambi. E' un legame dal quale mia madre sarà sempre esclusa.
Già, a proposito. Che sia questa la sorpresa che mi aveva organizzato? Non riesco a crederci. Mi si stringe il cuore. Ho passato la giornata nel tentativo di evitarla e, dopo averla vista, terrorizzata all'idea di quale diabolico scherzetto avesse escogitato. E invece.
Aspettava mio padre da tanto. Quanto aveva detto Careen? Due settimane, forse. Aveva fatto di tutto perchè coincidesse con il mio ritorno.
- Padre.- sorrido, avvicinandomi.
Indossa ancora l'alta uniforme. Appuntate sul petto svettano le numerose medaglie che si è guadagnato. Come lo ammiro.
Tra i corti capelli scuri compaiono sempre più evidenti chiazze bianchissime. Noto che gli è cresciuta la barba: ormai gli copre completamente le guance e il mento.
Eppure, malgrado la stanchezza dipinta sul suo viso e le cicatrici che gli sfigurano la pelle, è ancora bellissimo. Nei suoi occhi splende una luce inafferrabile. Indomabile. Ha lo sguardo di un guerriero. Di un uomo coraggioso e inarrestabile. Leale e temibile. L'affetto che provo per lui è indescrivibile.
Le sue labbra pallide dipingono un sorriso all'ombra della barba. - Sei davvero bellissima.-
- Grazie!- rispondo, al culmine della gioia. Qualunque complimento provenga da mio padre, di ogni natura, mi riempie di orgoglio.
- Generale Strausse, bentornato.- Maddesse si avvicina a fare gli onori di casa. - Sua moglie la aspetta di sopra.- sorride.
- Certo, grazie.- replica lui, poi si rivolge a me.-Quando sei tornata?-
- Ieri. Cioè, oggi.- l'aver dormito tanto ha sfasato la mia concezione del tempo.
Mio padre sorride comprensivo.-Sei stanca?-
Mi stringo nelle spalle.-Non particolarmente.-
Ma nel muovere le braccia, per un istante lascio intravedere le bende sotto le maniche sottili del vestito.
-Sei ferita?-
A mio padre, ovviamente, non sfugge.
- Niente di grave.- lo rassicuro.
Improvvisamente, si rabbuia. - C'eri anche tu a Therin, non è così?-
Il cuore mi martella in petto. Temo che voglia rimproverarmi.
Annuisco.
- E' stata davvero così terribile come dicono?- mormora.
Faccio nuovamente segno di sì con la testa.
Sembra riflettere, ma non aggiunge altro.
- Bene, andiamo a salutare tua madre.-
Ritorniamo al piano dei salotti. La grande tavola è ormai completamente imbastita.
Eppure.
Ci sono due posti vuoti. Qualcosa non torna.
- Forza, sedetevi.- ci corre incontro mia madre.
Non è strano che non abbia rivolto la parola al marito. I rapporti tra loro sono congelati da molto tempo.
Ci affrettiamo a prendere posto. Io al fianco destro di mio padre.
Osservo perplessa i due misteriosi posti vuoti. Non sto più nella pelle per la curiosità.
- Immagino che tua madre non ti abbia detto nulla.- sospira mio madre, evidentemente incrociando il mio sguardo. Non c'è da stupirsi, dopo tutto. Per un generale famoso come lui un'ottima capacità di osservazione è il minimo.
Mi stringo nelle spalle.-No, infatti.- il cuore mi martella in petto.-Tu lo sai?-
Annuisce.-Sì, certo.- sorride bonariamente.-Stai tranquilla. Ti assicuro che si tratta di una bella sorpresa.-
Mi sento notevolmente sollevata. Se è mio padre a rassicurarmi, allora va bene. Mi fido di lui più che di me stessa.
Il suono delle corde di un'arpa suonata alla perfezione si diffonde per il piano. E' il segnale d'ingresso. I fantomatici ospiti sono arrivati.
Mia madre ci compare davanti, trafelata. Si guarda intorno con fare frenetico. Controlla che ogni dettaglio sia sistemato. E' animata da quell'ansia bruciante tipica di ogni volta che riceve ospiti di un certo ceto.
La voce del maggiordomo risuona chiara e forte dal piano di sotto.- Il signor ministro Laurus Maxime e l'onorevole  Fabius Calliste. -
Il sangue mi si gela nelle vene. Non provavo tanto freddo dalla spedizione invernale dell'anno passato.
Ho incontrato molte persone importanti. Ho fatto la loro conoscenza, ci ho addirittura scambiato qualche parola. Ma nessuna di queste, vi giuro, era al pari di un ministro o di un onorevole. Cosa ci faranno a casa mia? Persino mio padre non ha mai ricevuto amici tanto altolocati.
Finalmente capisco l'ansia di mia madre. E non solo. La avverto anche io. Se fino a pochi secondi fa il mio vestito e lo stato dei miei capelli mi interessavano parecchio relativamente, adesso sono fondamentali. Mi pento di non aver prestato più cura nella scelta del vestito e mi maledico mentalmente per non essermi specchiata quando ne ho avuto l'occasione. Insomma, siamo praticamente pieni di specchi. Accidenti a me.
Mio padre coglie il mio nervosismo. -Sta' tranquilla.- mi rassicura. - Andrà tutto bene. Tu sei Faelyn Strausse. Non solo mia figlia, anche un'eccellente soldato. Coraggioso e capace. Ricordatelo.- e poi aggiunge, quasi in un soffio.- Hai affrontato cose peggiori.-
E' vero. Però, ribadisco, una battaglia mi terrorizzerà sempre meno di una cena nell'alta società. Mi sento un pesce fuor d'acqua, come se appartenessimo a speci diverse. I soldati e i civili. I predatori e gli esseri umani.
Io, quelli come loro, li uccido per mestiere.
- Mi raccomando.- mi intima mia madre tra i denti, un secondo prima che le porte dell'ascensore si aprano e ne emergano i nostri nobili ospiti, guidati da un cameriere in divisa impeccabile.
- Prego.- china il capo con reverenza, indicando loro la strada.
Mio padre fa un respiro profondo. Malgrado tutto, immagino che anche a lui non piacciano questi eventi. Solo che ci ha fatto l'abitudine. Si alza e sfoggia un sorriso che definirei di plastica. Preconfezionato. Di circostanza, ecco.
Si dirige da loro ostentando sicurezza e disinvoltura. Mentalmente registro ogni sua mossa e me la appunto. E' così che devo  comportarmi. Se è vero che gli esseri umani imparano per imitazione, allora sarò la migliore copiona.
- Buonasera. Grazie mille per aver accolto il nostro invito.- porge loro la mano.
I due uomini, uno molto alto, secco e rugoso come la corteccia di un albero, e l'altro nella media, ma poco più robusto, ricambiano a turno la stretta di mio padre.
Mia madre si avvicina per i convenevoli. Sorride e li accoglie con una grazia che nè l'alcol nè il tempo sono riusciti a portarle via.
- Questa è nostra figlia Falyn.- mi indica, sorridendo a trentadue denti. Fa male, sapete. Perchè è dannatamente brava a fingere e per un istante mi illudo che sia davvero fiera di me e che mi voglia bene tanto quanto splende il suo sorriso.
Mi alzo per salutare i due uomini. Quello che sembra un tronco d'albero è segnato da una calvizie incipiente che delimita un cerchio sul capo, mentre ciocche di capelli bianchissimi e folti continuano a crescere lungo il collo. Li porta tirati all'indietro, talmente impregnati di gel che sembrano brillare. Giudicando dal tipo di completo che indossa (nero ed elegante) e dalla spilla appuntata al petto, deve essere il ministro. Mi allunga una mano rugosa e sorride. -Molto piacere.- mi dice, ma c'è qualcosa di profondamente disturbante nella sua bocca spaventosamente tirata. Non mi piace per niente, anzi. Devo reprimere l'istinto di fare un balzo indietro. Inoltre, quando mi prende la mano, noto che la sua stretta è quasi inconsistente. Per natura, diffido delle persone che non sanno stringere la mano. Non so bene perchè, ma non mi sono mai sbagliata.
-Faelyn- mi spiega mio padre.- Quest'uomo è il dottor Maxime, Ministro della Difesa. Questi, invece, è l'onorevole Calliste.-
- Onoratissimo.- afferma, con voce incredibilmente nasale. Sul serio, sembra che parli con le narici. Anche lui è quasi calvo, ma, al contrario del suo amico, ha un volto colorito e pieno, simile a quello di un porcellino.
Neppure questo qui mi convince, ma, se non altro, dà la mano come si deve.
- Prego, accomodiamoci.- mio padre indica la tavola, intorno alla quale si è schierata una fila di camerieri e cameriere impettiti.
Prendiamo posto, e dopo pochi secondi una serie di cibi squisiti e ricercati riempiono la tavola.
I nostri ospiti mostrano una fame davvero notevole per essere due ricchissimi funzionari di stato.
In un primo momento parliamo poco, per lo più tramite frasi circostanziali. La guerra. Corte. Le mie rinomate abilità di soldato, eccetera eccetera.
Per tutto il tempo, mi sento agitata. Non ho ancora capito in cosa consista questa sorpresa. E' impossibile che i miei abbiano pensato di farmi cosa gradita invitando a cena un ministro e un onorevole. Se si fosse trattato di una sorpresa da parte di mia madre, allora avrei potuto capirlo. Mio padre, però. Non mi farebbe una cosa del genere, ci deve essere qualcosa sotto.
Finalmente, dopo ormai quasi due ore dall'inizio della cena, il ministro Corteccia (per me il suo nome è questo) decide di arrivare al dunque.
- Signorina Strausse- inizia, squadrandomi attentamente. Con la coda dell'occhio mi rendo conto che gli sguardi dei miei sono fissi su di me.
- Mi dica.-
- Come sa, la sua fama di soldato è arrivata fino a corte.- sorseggia un po' di vino. - E' così giovane, e già i migliori generali fanno a gara per averla nella propria legione. Ha combattuto numerosissime battaglie ed eccola ancora qui, bellissima, a cenare nel mondo dei vivi.-
Il cuore mi martella in petto. Ma perchè non arriva al punto? Abbozzo un sorriso.
- Ultimamente una grave preoccupazione affligge il cuore di Sua Maestà. Una preoccupazione di sedici anni, di nome Ann Karin.- mi guarda, eloquente. - La sua dolce figlioletta, infatti, rappresenta un bottino troppo prezioso per il nemico. E' l'unica erede al trono e se dovesse capitarle qualcosa, la mancanza di un successore getterebbe il regno nel caos, darebbe inizio a lotte interne tra i nobili, creerebbe enormi sconvolgimenti e per il nemico sarebbe l'occasione propizia per attaccare e distruggerci.-
Io, però, ancora non capisco il punto.-Certo, è evidente.-
- Per farla breve- si intromette il porcellino, con il suo sorrisetto mellifluo e le guance imperlate di sudore. Non credo sia normale una sudorazione tanto eccessiva.- Sua maestà sta riunendo una squadra speciale di guardie del corpo per la sua amata figliola. Sceglie i soldati personalmente, li seleziona tra centinaia con cura certosina. Infatti, sebbene il progetto sia stato iniziato lo scorso autunno, i fortunati sono ancora soltanto sei. E, insomma, lei è uno di questi.-
Cala il silenzio. I presenti puntano i loro occhi su di me, implacabili. Attendono una mia reazione, il più piccolo gesto, ma io sono senza fiato.
L'emozione mi annebbia la vista. Non mi aspettavo una cosa del genere. E' un onore troppo grande. Lavorare strettamente in contatto con sua maestà l'Imperatrice. La nostra grande sovrana. La dea. La donna cui ho dedicato la mia vita, per la quale ho passato la vita ad allenarmi, per la quale sarei disposta a morire senza batter ciglio. Lei ha scelto me. Proprio me. Mi ha selezionato tra tanti.
Sto per urlare al mondo la mia felicità. Per dire che non vedo l'ora di partire, di conoscere l'erede al trono e che sono onoratissima, ma un'ombra offusca la mia gioia.
Il volto del mio comandante.
Il volto di Andreija. Di tutti i miei compagni.
Loro contano su di me. Sono la mia legione, la mia famiglia. Tutti loro fanno affidamento sulle mie capacità. Il pensiero di abbandonarli mi atterrisce. Non credo di sopportarlo.
- Faelyn - mi richiama mia madre, melliflua.- Sei rimasta senza parole dall'emozione? E' assolutamente comprensibile, non credete?-
Io la ignoro, e con lo sguardo chiedo consiglio a mio padre.
Lui annuisce impercettibilmente.
E' deciso, non ho più dubbi.
- Sì, proprio così.- confermo, sorridendo. - Sono onoratissima, davvero.-
Mia madre appare notevolmente sollevata. Temeva che le avrei rifilato l'ennesima delusione.
Invece no. Non questa volta.
- Quando comincio?-




 
 
 
Angolo autrice:
Ma salvee! Scusate il ritardo tremendo, ma, come potete constatare, mi piace che i capitoli siano belli corposi lol e, considerati i miei tanti impegni, finisco per scrivere di notte o negli orari più disparati.
Insomma, finalmente entriamo nel nocciolo della questione. Spero vi piaccia! Un bacione e un grazie di cuore ai miei lettori e a chi ha la storia tra i preferiti/ricordati/seguiti. Vi abbraccio! Bacioni!
 
 

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