Tu sei il mio infinito

di kissenlove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Innamorati ***
Capitolo 2: *** 2- Presta-ombrello ***



Capitolo 1
*** 1 - Innamorati ***


TU SEI IL MIO INFINITO       
                                                                                  1 - Innamorati 



«Buongiorno!»
Iris si girò convulsa nelle calde coperte del suo giaciglio.
La voce gracchiante del cronista di Radio Kiss Italia intanto riprendeva. 
«Che fate ancora addormentati? Oggi chi dorme non piglia pesci, lo sapete!»
Pessima battuta, pensò Iris sfilandosi il cuscino da sotto per lanciarlo contro quell’insulso oggetto. 
«Ebbene cari ascoltatori, oggi ognuno di voi troverà la sua anima gemella. Chi al supermercato, chi in treno o fra i banchi di scuola, non disperate! Il tanto atteso quattordici febbraio, giorno che tutti i fidanzati attendono impazienti è finalmente tra noi.» 
Iris si ritrovò a fare una smorfia. Era l’unico essere umano sulla faccia della Terra che malediva, dal più profondo del cuore, chi aveva avuto la brillante idea di creare quel giorno, per il semplice motivo che lei non aveva nessuno con cui poterlo condividere, tranne che con sua madre, o al massimo, con zio Carlo. 
«E voi single? Sì, dico proprio a voi! Non fate nulla?»
«Io non lo voglio un ragazzo!» ribatté lei. 
«E allora starete soli per tutta la vita!» rispose quello come se avesse potuto afferrare la risposta di Iris. 
«Meglio soli che mal accompagnati allora.» replicò di nuovo la diciannovenne. 
Se avesse potuto quel numero, per lei, sarebbe sparito per sempre dal calendario nel mese di febbraio. Sarebbe stato divertente cancellare dalle vetrine dei negozi i cupidi, i palloncini a forma di cuore e le coppie che passeggiavano mano nella mano, fermandosi solo per attaccare le loro bocche come sanguisughe. Sua cugina era la peggiore, non faceva altro che limonare col suo ragazzo nella sua camera, per strada, a scuola, dovunque si trovasse, persino davanti a lei e a San Valentino Iris era costretta da quella cospiratrice a partecipare allo shopping per scegliere il regalo ideale. Vanessa non ci sapeva fare in fatto di sorprese, mentre Iris invece sì, nonostante il suo carattere da “avanzo di galera” che allontanava chiunque ci volesse provare. 
Iris non permetteva a nessuno di prendersi gioco dei suoi sentimenti. Non dimostrava molta fiducia nei rapporti umani, e fin da piccola aveva capito che questi prima o poi erano destinati a finire. Quando una persona si rivelava l’esatto opposto di quello che si era dimostrata lasciava un vuoto incolmabile dentro, quasi quanto... l’infinito. Nessun rapporto durava così tanto, e Iris recideva il legame alla radice prima del taglio vero e proprio, evitando la sofferenza. Anche se questo provocava cicatrici invisibili pur non volendolo, sopratutto se quella persona era stata il tuo infinito. Iris aveva rinunciato in poco tempo alle persone che era sicura di aver conosciuto alla perfezione negli anni precedenti. Aveva più volte cercato di salvare un rapporto già al capolinea. Aveva sprecato cinque anni della sua insignificante vita a cercare di adeguarsi, dare il meglio di sè a persone che non la meritavano finendo per soffrire il doppio. Aveva regalato sè stessa senza riserve. Aveva donato il suo infinito sperando diventasse il loro, e con pacatezza aveva cercato di ricostruire i pezzi che si erano lacerati, ma nulla era tornato come prima. Aveva dato tutto, ma alla fine quello che aveva ottenuto era stato solo il disprezzo e silenzio, silenzio incessante e insopportabile, che le aveva fatto capire dettagli importanti che prima, forse per sdegno, aveva preferito ignorare, per non soffrire ancora, per non doversi rimproverare la sua stupidità, perché quello era stata per tutto quel tempo: una stupida, un ripiego, una seconda scelta. “Il suo infinito era solo suo”. Nessuno sarebbe stato degno di curare le sue ferite, solo lei avrebbe potuto. Nessuno le avrebbe fatto cambiare idea, ormai non credeva più nell’amicizia, nel vero amore, erano tutte fandonie. Esistevano sì, nelle favole, il lieto fine, i vissero felici e contenti.. la sua non lo era e non poteva essere considerata esattamente una favola.
«Ah, chiudi il becco che mi hai già rovinato la giornata!» e schiacciò il pulsante rosso, che spense quella sveglia-radio, idea di sua madre, facendo tornare la tregua. 
Provò a tornare nel mondo dei sogni, dove non ci sarebbero stati palloncini rossi o cupidi muniti di frecce che le ricordassero la sua penosa situazione sentimentale. Quando era bambina colui che le regalava qualcosa in quella data era suo padre. Si presentava al cospetto della sua bambolina di porcellana recando con sé un pacco enorme, e Iris lo accettava con gli occhi luccicanti di gioia scartando l’ennesimo peluche. Suo padre sapeva che le piacevano e ogni volta per ogni occasione, né approfittava per regalargliene uno nuovo da aggiungere alla collezione. A Iris piacevano. Si sentiva amata, protetta, coccolata e non le importava di quello che avrebbe trovato fuori, a lei bastava quel regno creato dai suoi genitori con la loro unione. Poteva perdere e incontrare tante persone ogni giorno, poteva essere ferita, tradita, emarginata, ma Iris aveva la cosa più importante che la teneva ancora in piedi, e quello era la sua straordinaria famiglia. 
Purtroppo come tutti gli infiniti che aveva avuto, anche quello fu destinato a finire, quando suo padre continuò a sorriderle da un posto lontanissimo, un posto che Iris non poteva né toccare né vedere dove andavano tutti quelli che non c’erano più. Iris perse per sempre il suo infinito e questo la costrinse a cambiare. Quella data funesta, suo padre, i suoi regali, tutto era finito troppo presto e dolorosamente conviveva con questa pena nel cuore. 
Ingoiando le lacrime continuava a far vivere la memoria di suo padre attraverso tutti quei pupazzi senza anima che la osservavano dall’alto del suo armadio. Sperava di sentirsi più vicina a lui, mentre la vita bastonava più duramente del solito regalandole solo sporadici momenti di felicità, che erano esattamente la somma dei suoi infiniti messi insieme. Quanto avrebbe dovuto ancora sopportare prima di poter scrivere la parola fine. Iris aveva promesso a suo padre che non si sarebbe arresa e avrebbe trovato il suo vero infinito, in qualsiasi posto se fosse stato necessario. Al momento brancolava nel buio, e il suo infinito era solo l’inferno dove era costretta a vivere e respirare dopo che lui l’aveva lasciata prematuramente. 
Le mancava molto. La sua presenza in casa, i suoi sorrisi, altrettanto gli abbracci, e non averlo con lei la faceva stare male, come se una parte della sua vita passata fosse stata sradicata via dal vento impetuoso di un male indistruttibile. Con lui la piccola Iris provato la sicurezza di non poter essere scalfita da alcun nemico, nemmeno dal mostro verde nascosto nel suo armadio. Lui gli aveva donato una dimensione senza spazio, senza tempo con la sua vita, ma a causa della malattia che se l’era portato via, lei adesso vagava sola, insicura, in un mondo disonesto.
Iris rimpiangeva a morte di non aver potuto impedire che accadesse, ma a quel tempo non avrebbe potuto fare nulla se non lasciare semplicemente che la tragedia avvenisse, e che l’infinito faticosamente ottenuto le scivolasse via dalle mani senza tentare di riprenderselo. Dopo qualche mese aveva ripreso coscienza di sé maledicendo quello che la vita malvagiamente aveva orchestrato per rendere il suo piccolo regno infelice, strappandole senza permesso, il suo eroe.
Era accaduto dodici anni fa, dodici anni fa lui era andato via.
«Buongiorno!» cantilenò sua madre sull’uscio.
Iris evitò il suo sguardo.
«A proposito tesoro, dimenticavo... buon San Valentino.» continuò, rigirando il dito nella piaga, come ogni dannato anno, riaprendo una ferita mai cicatrizzata.
Iris sbuffò contrariata. «Non è affatto buono..» irrigidì la mascella e il suono che fuoriuscì graffiò stridulo come un’unghia sulla lavagna. 
«Certo.»
«Ci ha già pensato quello stronzo del cronista a ricordarmelo. Non ti ci mettere pure tu, ti prego.» la implorò Iris, stanca di dover sentire come un disco rotto che quello era il giorno degli innamorati e che lei, in quell’atmosfera di puro sentimentalismo, non c’entrava per niente. 
«Speravo avessi cambiato opinione su questo giorno.» confessò la donna, mentre si inoltrava nel territorio minato della figlia. Iris sbatté le palpebre incredula. 
Cambiare opinione? Che intendeva quella donna con queste assurde supposizioni? Iris non avrebbe mai potuto rimuovere dal suo cervello il pensiero che lì, nello stesso posto occupato prima da lei, c’era stato invece lui, tempo fa, col suo regalo di San Valentino. 
«Anche se ne dovessero passare anche venti, io mai dimenticherò mio padre.» non esitò a dirle la ragazza, guardando la madre con evidente disgusto, perché lei, a differenza sua, aveva impiegato poco tempo a dimenticare suo marito, come se da parte sua non ci fosse stato niente che l’avesse indotta a sposarlo. 
«Hai fatto presto, mamma.» le rimproverò Iris, facendola girare nella sua direzione. 
La donna sulle prime parve fingere molto bene di non capire le frecciatine della figlia, anche se il suo sguardo colpevole e basso parlava per lei.
«Ti sei già gettata tra le braccia di un altro, mi sembra.»
«Parli di Luca?» sostenne vaga.
«Luca eh.» ripetè Iris avvertendo l’amaro in bocca. «Allora è vero? Fate le cose serie quindi.»
«Dipende.» rispose sbrigativa la più adulta e con una mano tirò via le tende per far entrare nella camera un po’ di luce. «Se con cose serie intendi “cena”— fece le virgolette con le dita— mi ha solo invitato e io non ci trovo nulla di male in una semplicissima cena.»
«Certo, tu e lui ad una cena.» Iris strinse un lembo del lenzuolo nel pugno. «Non essere idiota, mamma! Ti ha invitato ad una cena, sicuramente non giocherete, ma io non capisco con che faccia ti presenterai lì da lui. Sono passati dodici anni.» la guardò in volto. «Dodici anni! Non capisci? Stai tradendo mio padre, e anche se è morto non hai il diritto di infangare la sua memoria spassandotela con un altro.» 
La donna corrugò la fronte.
«Io non sto affatto infangando la memoria di mio marito, Iris. Io l’ho amato ti ricordo, più di me stessa, l’ho perso troppo presto, ma questo non vuol dire che amerò Luca allo stesso modo.»
Iris si tolse le coperte di dosso. Era guerra aperta quando discuteva delle nuove conquiste di sua madre, sopratutto ora che aveva scoperto che Luca, il suo datore di lavoro, era entrato così presto e seriamente nella vita di una donna vedova. Iris lo vedeva come un tradimento, ma sua madre non era dello stesso parere. Finivano sempre ai ferri corti in questi casi, e Iris pur di non condividere il suo stesso ambiente era capace di girovagare, a digiuno, fino a tarda nottata, fin quando rincasando non avrebbe trovato nessuno alzato che la reguardisse sull’orario.
«Senti, Iris.» si inginocchiò ai suoi piedi. «Lo so che è difficile, ma credimi, io non voglio e non posso dimenticare il bene immenso che ho voluto a tuo padre-» si interruppe per increspare un sorriso. «Ora credo di poter avere un’altra possibilità.. con Luca. Dopo il dolore che ho patito, la vita mi ha concesso di essere felice finalmente.»
Iris distolse lo sguardo dal volto supplichevole della madre.
«Concedimelo e appoggiami, figlia mia.»
«Fa come vuoi, mamma.»
La donna s’illumino di gioia.
«Sei una donna adulta e vaccinata. Spero però che tu sia cosciente della grande delusione che darai a me e a zio Carlo quando questo sconosciuto si trasferirà a casa nostra.» Iris sospirò, cercando di analizzare i pro e i contro e in testa alla classifica c’era la felicità di sua madre. 
«Ora scusami ma faccio tardi a scuola.» tagliò corto alzandosi e in silenzio si rifugiò nel bagno, dove avrebbe affogato le sue preoccupazioni con una doccia rilassante.

Aprì la manopola e l’acqua tiepida filtrò dal doccione centrale coprendo tutti i rumori provenienti dall’esterno. Si spogliò velocemente. Posò il pigiama, appoggiandolo sulla lavatrice, e nuda entrò nel vano doccia chiudendolo. Il getto la investì con violenza e si svegliò del tutto. Cominciò a massaggiarsi il corpo e i lunghi capelli neri, applicando bagnoschiuma al muschio bianco e shampoo, uno di quelli che usava sempre suo padre, quando dopo una giornata di lavoro necessitava di rilassarsi un po’. L’acqua scivolò sul suo fragile corpo percorrendolo. Le preoccupazioni però restavano come un chiodo fisso. Un miscuglio di sensazioni negative sul nuovo ragazzo di sua madre, Luca, che già detestava senza neanche conoscerlo di persona e constatare con i suoi stessi occhi la bellezza europea che tanto aveva affascinato sua madre come una puerile scolaretta. Chiuse e uscì. Il suo corpo grondava ancora acqua che gocciolava sul pavimento, ma non le importò. Si fasciò con un asciugamano, e procedette spedita fin dentro la sua camera. Indossò i suoi jeans della Pepe a sigaretta, una maglia gialla, di due taglie più grandi, con scritto “out” che le si afflosciava sui fianchi. Evitò il trucco pesante, e lasciò gli occhi cerulei al naturale, così come le guance senza un filo di cipria. Inserì una mano nella chioma umida e la spostò dietro la schiena. Aprì l’armadio e sfilò dalla gruccia una giacca di pelle nera infilandosela. Ci mancava solo un bracciale con le borchie per finire, come quelli che possedevano tutti i ragazzi ribelli, e si sarebbe sentita perfetta e dura come da tutti era classificata. 
Iris non era una bambola di porcellana, anche se quel viso diafano dimostrava il contrario. La porcellana era delicata e al minimo contatto col pavimento o con qualsiasi altro oggetto si sarebbe frantumata in mille pezzi. In passato lo era stata fragile, debilitata, arrendevole al volere degli altri, ma poi anche lei aveva imparato che la fiducia bisognava tenersela stretta ed era stata costretta a diventare questo tipo, esclusivamente per merito degli altri, che non avevano saputo trattarla, capirla, apprezzarla, preferendo persone nettamente peggiori a lei. 
Iris non aveva nulla di sbagliato. Era la persona più ingenua che avreste potuto trovare al mondo. Una fortuna poter condividere lo stesso spazio perché ordinata, godere della sua leale compagnia e vivacità, parlarle apertamente senza alcun timore perché sapeva tacere molto bene, chiederle favori senza nulla da dare in cambio, eppure tutto questo non era bastato. Lei non era bastata a quegli egoisti, approffittatori, traditori... avevano vinto quel che volevano.
Quella persona non esisteva più. Iris Valenti era svanita.
Era stata seppellita dal dolore, dalla vergogna, dalla rabbia di non poter fare nulla per cambiare le cose, solo accettare a capo chino la sconfitta, che distruggeva il cuore o quello che era rimasto.
Un cuore spaccato, grondante sangue, chiuso col lucchetto, scordando la combinazione.
Iris aveva preferito così, sigillare i rimasugli di ciò che era stata nel profondo impenetrabile delle sue viscere per non permettere a nessuno di quei babbei di accedervi per deluderla ancora. 
La delusione ardeva dentro di lei come fuoco vivo, non si era mai spenta dall’ultima volta, ma lei non lo dava a vedere, ci provava a sorridere, doveva somigliare a una persona forte che prendeva a pugni il mondo e si inceneriva i polmoni con le sue preziose chesterfield.
Niente avrebbe potuto rompere il muro di indifferenza che l’accerchiava, era invalicabile persino per il più cocciuto, era anche a prova di idioti, lo aveva progettato a regola d’arte. Era molta la paura di soffrire. Quella barriera invisibile fungeva da protezione, senza quella si sarebbe sentita constantemente in pericolo.
Recuperò il pacchetto delle sigarette dal cassetto, da persona ribelle qual era sua madre non era a conoscenza di questo vizio. Iris lo nascondeva molto bene con l’ausilio delle golia, e quando sua madre le chiedeva perché i vestiti emanassero quel nauseante odore di tabacco, lei rispondeva di essere rimasta a lungo nel bagno. Se la beveva tutte le volte, mentre Iris continuava a distruggersi i polmoni ingoiando fumo ad ogni ora del giorno, tranne la domenica. Aveva cominciato da circa due anni e non solo con le sigarette, ma anche cannabis, gentilmente offerta da un ragazzo ripetente come lei che la stava preparando sul tetto della scuola. Faticò per nascondere anche questo alla madre, ma il suo effetto adrenalinico momentaneo la spinse a continuare a scroccarne altre a quel ragazzo, nonostante fosse un perfetto sconosciuto.
Iris non si chiedeva il perché, ma quel ragazzo era la sua persecuzione e al tempo stesso la sua ancora di salvezza, nonostante la canna. Si infilò il pacchetto nuovo nella tasca del pantalone, e uscì munita di monospalla verso la rampa di scale per fare colazione.

Sua madre stava infilzando un pancake al miele per darne uno allo zio Carlo, che intanto - come ogni mattina - leggeva il giornale per essere sempre informato sulla cronaca.
Iris sospirò esausta, ed entrando nella cucina gettò il monospalla a terra sedendosi vicino alla tavola senza accennare un saluto ai commensali. Sua madre la fissò interrogativa, da tempo aveva smesso di decifrare l’ambiguo comportamento della figlia. Stava crescendo, - una delle sue ridicole spiegazioni - era normale alla sua età sviluppare simili atteggiamenti di intolleranza verso gli altri - altra inutile spiegazione - come se Iris ce l’avesse col mondo intero e con ogni essere che lo popolasse. Senza rivolgerle una parola spostò la frittata nel suo piatto e si accomodò. Carlo ripose il giornale accanto al piatto, e alzando gli occhi sussultò vedendo Iris.
Non si era minimamente accorto che la nipote si era degnata di scendere a colazione, troppo impegnato nella lettura. 
«Giorno, Iris.»
«Giorno, zio.» salutò anche lei, sorseggiando del caffè.
«Ah, quasi scordavo, buon San Valentino, cara.» cambiò discorso lui. 
Iris serrò le labbra per evitare di dire parolacce. Era la terza persona, quel giorno, a ricordarle quel giorno fastidioso, e non le sarebbe costato nulla mollargli un bel ceffone.
«Carlo, ti prego.» lo implorò la cognata, poggiando una mano sulla sua. «È uno dei giorni no di Iris.» 

Uno dei tanti giorni in cui Iris si svegliava dalla parte sbagliata del letto, avrebbe voluto aggiungere, ma preferì stare zitta.

« E quando mai un giorno per Iris è dritto?» 
«Fai del sarcasmo, zio?» s’intromise la diretta interessata con la forchetta nella bocca, intenta a masticarla con rabbia.

«No, ovvio che no. Ho solo detto che non sopporto questa tua nuova...» alzò gli occhi al soffitto della cucina come se stesse decidendo quale termine utilizzare per spiegarsi quel drastico mutamento. «Personalità.» terminò, sollevando il mento ricoperto da una fine peluria rossiccia.
«Dove sarà mai finita la nipotina estroversa, simpatica e gentile che eri? Vorrei proprio saperlo.»

«È morta.»


 

 

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Capitolo 2
*** 2- Presta-ombrello ***


TU SEI IL MIO INFINITO       
                                                                                      2 - Presta–ombrello      



                                                  



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«È morta

Quella risposta rimbombò tra i muri come se in quella stanza ci fosse l’eco. Per la prima volta Iris aveva dato voce ai suoi più intimi pensieri, pensieri che nessuno si sarebbe sognato di ascoltare, pensieri troppo profondi per essere rivelati così, a cuor leggero, senza un minimo di anestesia. Ecco cosa era successo a quella ragazzina debole e insicura, quella che aveva paura della sua ombra e davanti agli altri teneva il capo chino. Ammazzarsi sarebbe stato troppo “facile” bastava prendere una fune abbastanza robusta, camminare, allontanarsi per un po’ e trovare un silenzio posto dove lasciarsi penzolare giù, mentre l’agghiacciante rumore di muscoli afflosciati, tendini malconci e ossa spezzate fendeva il vento per una sola volta. Ci aveva pensato molte volte, quando era sola nella sua stanza e non aveva nulla da fare che maledire la sua esistenza, ma il coraggio le era mancato in più d’un occasione. Iris aveva preferito uccidere il suo spirito e farne sopravvivere un altro più vigoroso e impenetrabile. Abbandonò la forchetta nel piatto, ormai anche il cibo più buono sapeva di fiele, e il suo stomaco non avrebbe sopportato altri bocconi chiuso com’era. 
Sua madre smise di mangiare e reclinò il capo, con le mani chiuse a pugni tra i capelli. Zio Carlo continuava a far tintinnare il manico della forchetta contro la tazza di porcellana, l’unico rumore percepibile nell’aria stantia. Iris, invece, immobile non reagiva a nessun stimolo. Non badò alla metà del pancake che non aveva voluto mangiare, né a quei due diventati due pezzi di ghiaccio a quella dichiarazione, voleva solo alzarsi, lasciare quella stanza e sbattersi la porta d’ingresso prima che quel “è morta” diventasse il centro di una successiva discussione. Si alzò e abbassandosi recuperò il monospalla, poi uscì senza dire nulla, come un fantasma senza artè né parte. Dietro alle sue spalle si lasciò sguardi carichi di paura. 


***

Iris arricciò le labbra in un sorriso quando uscendo di casa i suoi occhi cangianti inquadrarono nuvoloni grigiastri, ammassati nel cielo, carichi di pioggia. Amava la pioggia per molti motivi per cui altri la odiavano. L’aria uggiosa invase le sue narici, solleticandole i polmoni di prima mattina. La pioggia le ricordava, quando da bambina saltava con al piede gli stivaletti di gomma in delle piccole pozzanghere, schizzando acqua e improvvisando una danza spensierata mentre suo padre, poco più in là con l’ombrello sulla testa, la ammirava rapito mentre le sue labbra si piegavano in un sorriso. Non era mai triste in queste giornate così piovose, segno che l’inverno era alle porte e della bella stagione non c’era più nulla. Il cortile di casa era il suo palcoscenico. Balzava, come nel gioco della settimana, da una pozzanghera a un’altra affondandoci i piedi, sentendo l’acqua piovana scorrerle tra le dite. A causa dell’avanzare della malattia suo padre era costretto a controllarla dalla finestra in salone, ma quel sorriso – nonostante le complicanze avute – non l’aveva abbandonato fino al suo ultimo giorno di vita e alla fine di quel calvario piovò forte. Iris osservò le goccioline che scendevano in piccoli rivoli contro quella superfice, mentre un viavai initerrotto di persone non smettevano di invadere casa sua, seduti su qualche sedia, accanto al corpo senza vita di suo padre. Anche quel giorno la pioggia avrebbe tenuto testa al flebile sole, ed era in giornate come queste che la diciannovenne avvertiva la presenza di suo padre più che mai. La viscida pioggia, quella sostanza capace di infradiciarti, era la carezza che suo padre cercava di donarle dal cielo. Camminò nel vialetto in pietra senza ombrello, non voleva nulla che la riparasse. Ogni volta che la pioggia percorreva copiosa le sue guance era il padre che gliele accarezzava come aveva sempre fatto. Nessun ombrello avrebbe ostacolato questo gesto, questo miracolo che possedeva solo lei. Una goccia scese giù dal cielo e le colpì la guancia. 
Iris sollevò lo sguardo.  «Grazie, papa.»
Arrivò al cancello nero arruginato e lo oltrepassò chiudendoselo alle spalle.
Svoltò a destra e si immise nella strada principale per arrivare alla fermata dell’autobus che sarebbe arrivato alle sette e quindici, mentre la pioggia le bagnava i capelli. In pochissimo tempo la pioggia cambiò d’intensità, diventando un vero e proprio diluvio, allagando strade, ponti, sottopassaggi. Iris non aveva
l’ombrello, era zuppa dalla testa ai piedi, ma non le interessava. Procedeva come se niente fosse sul marciapiede, con il diluvio che la investiva e il vento furioso che la spingeva indietro. Il giorno degli innamorati, il giorno che lei odiava non era mai stato più bello di quello. Un po’ di pioggia non avrebbe fatto male a nessuno, non avrebbe guastato niente. Tutti erano al corrente che l’unione di due bocche inumidite dalla pioggia scrosciante era un gesto romantico. Doveva ringraziare suo padre per questo dono. Non avrebbe sopportato la rivoltante visione di Vanessa e di tutte le altre ragazze che baciavano, ruotavano, consumavano la bocca dei propri ragazzi, mentre i caldi raggi del sole scolpivano la loro pelle bronzea. La pioggia di quella mattina le aveva fatto ritrovare il buon umore. Si ritrovò a canticchiare allegra, come se fosse un po’ brilla dai fumi dell’alcol, mentre intravedeva la panchina della fermata vacante. La giornata le stava andando una meraviglia. Era in orario, pioveva, non aveva avvistato baci nelle vicinanze e persino il posto libero assicurato. Qualcuno lassù, a quanto pareva, aveva avuto pietà per lei almeno per il quattordici
«Che cosa fai?» si fermò dopo aver udito quella voce. Un ombrello nero con le strisce bianche apparì d’improvviso sulla sua testa. Si voltò per fissare il volto del suo proprietario.
«Ho visto che eri tutta zuppa, Iris.» aggiunse, facendo un cenno con la mano alla situazione pietosa dei suoi capelli attaccati al suo volto. «Perché non ti prendi mai l’ombrello?»
«A te cosa importa?» rispose, come suo solito, acida. «Non mi pare di averti chiesto di ripararmi.» cercò di farlo allontanare da lei, non voleva nessuna compagnia in quel momento, ma lui non la ascoltò. 
Non si mosse di un millimetro e continuò a sostenere l’ombrello sulle loro teste.
«Te ne pentiresti dopo. Con questa pioggia ti verrà una bella febbre da cavallo!»
Iris si mostrò indifferente alle sue parole, pur sapendo che a quel ragazzo le stava a cuore la sua salute. Fin da quando era piccola la sua salute era stata compressa molte volte, costringendola, anche per mesi, a restare inchiodata a letto per combattere la febbre che le debilitava il corpo. Non aveva mai goduto di buona salute, ricordava più un fragile giunco in estate. Il dottore le aveva spiegato che nonostante la debolezza fisica il suo corpo aveva combattuto e vinto con il valido aiuto di piccoli omini con una navicella speciale che aveva distrutto quei brutti mostri che la facevano stare male. Iris si divertiva a sentire quella strana favoletta, ma infondo era vero, essere cagionevole di salute impegnava il suo corpo in dure battaglie. Suo padre, a causa di questa sua predisposizione le aveva dato il soprannome di “bambolina di porcellana” perché fragile e destinata a disintegrarsi. 
«Se mi verrà, l’avrò voluto io.» replicò ancora più dura. Si girò di nuovo verso il presta ombrello. «Non devo darti alcuna spiegazione sul mio comportamento, non sei mia madre né mio zio, quindi stanne fuori–» si avvicinò di più. «per il tuo bene.» provò a seminarlo, ma quel testone la raggiunse a grandi falcate.
«Non posso fare questo.»
«E perché non puoi?» chiese fermandosi di colpo, e l’ombrello tornò a ripararli.
«Ho sempre avuto un debole per questi tipi di ragazze..» confessò picchiettando l’indice sul mento. La sua altezza vertiginosa la superava di molto. 
«Io non sono quel “tipo”– virgolettò con le dita– di ragazze che cadono ai tuoi piedi, Raggi.» protestò lei, mettendo in chiaro la sua posizione.
«Non mi riferivo a quello, ma a un’altra cosa.» fece lui, diminuendo le distanze tra quel corpicino esile e il suo, anche grazie alla presenza dell’ombrello, che li faceva irrimediabilmente avvicinare. «Io intendo che mi sono sempre sentito attratto dalle ragazze... coi tuoi occhi–» e agitò il dito contro quelli cerulei di Iris, mentre lei si arrovellava a capire il significato latente di quella dichiarazione. «Così espressivi. Nascondono tanto dolore e se potessero parlare... urlerebbero, un po’ come la tua anima.»
Iris distolse lo sguardo dal volto del presta ombrello. Al mondo aveva trovato solo quella persona, mentre gli altri l’avevano fatta sentire incompresa, incompresa nel suo muto dolore che le squarciava il petto. 
«E tu come lo sai? Sei per caso un veggente.»
«No, non lo sono. Ho imparato a leggere lo sguardo delle persone.»
«Forse è anche l’effetto delle canne.» gli fece notare ridacchiando. «Perché le fumi? Vuoi sfogarti?» si morse la lingua e l’odore metallico del sangue le giunse alle papille gustative. 
«Nessun sfogo in particolare. Fumo canna perché mi va.»
«Che razza di risposta!» obiettò lei. 
«Un po’ come le tue, no? Ora siamo pari.» strizzò un occhio e Iris sbuffò incassando la prima sconfitta del giorno dritto nel petto. La giornata non poteva continuare ad andare meglio, c’era sempre qualcuno che doveva - o voleva - rovinargliela. Incrociò le braccia delusa, tanto quanto lo sarebbero stati gli altri e i suoi familiari se avessero ricevuto quella risposta tanto vaga da lei. 
«Deficiente.» roteò un indice contro la tempia. «La canna ti avrà dato alla testa.»
«Beh, può anche essere..» sorrise quel tanto che bastava per far dissipare le nuvole in cielo e far tornare a splendere il sole in ogni parte di quella città. Iris non aveva mai visto Federico Raggi, il suo “procura canne” increspare un sorriso, neanche il più piccolo. Non ci aveva mai fatto caso, perché ogni volta che lo scontrava sul tetto o per i corridoi del liceo ne stringeva fra le labbra una preconfezionata e non era mai in sé.
Fumava quando poteva, canna o sigaretta non faceva differenza, entrambe gli davano quel piacere interiore che la vita gli negava. Se la accendeva solo se era veramente sicuro che nessuno lo scoprisse, altrimenti rimaneva nelle sue tasche. Quel giorno uggioso di febbraio infatti Raggi aveva la testa sulle spalle.
«Niente canna quest’oggi?»
Federico fece spallucce.
«Nemmeno una?»
«Purtroppo no. Mi sono preso una pausa per superare le verifiche del prossimo mese e, diciamoci la verità, devo finalmente superare con un bel voto il mio secondo quinto anno.»
«La cosa allora è reciproca.» concordò Iris, visto che anche lei l’anno precedente era stata bocciata.
«Molto strano che succeda a una come te
Iris pensò che non ci fosse nulla di male ad avere almeno un anno storto nella vita.
«Sono umana, dopotutto.»
«Non l’avrai mai detto da una studente modello come Iris Valenti.»
«E invece mi dispiace deluderti, ma è così. Sono stata bocciata anche io.»
«Oggi è la festa degli innamorati.» fece un verso di disgusto. «Il 14 febbraio, giorno dei baci.» pensò ad altra voce senza guardare la coetanea, che intanto aveva arricciato il naso al sentire quella nefasta data.
«Allora regalerai qualcosa al tuo ragazzo, scommetto.» e si ritrovò di nuovo a osservare gli occhi cereulei di lei con un pizzico di ansia nel sentire la sua risposta, che non si fece attendere.
«Io n-non ce l’ho»
«Come?» finse di domandarle Raggi. 
«Vai da un otorino! Mettiti un apparecchio acustico, non ci senti per caso?» Federico si chinò verso di lei.  «Sono single per il momento.» terminò con un sospiro.
«Senti... senti un po’ qui.. » rimuginò sorpreso, ma in parte sollevato nel sapere che la scrocca canne non aveva nessun pretendente che le girasse attorno come un moscone.  «E come mai? Forse la tua tossicità è leggermente più alta del previsto e nessun ragazzo è capace di soppportarla?»
Iris gli lanciò un’occhiataccia. 
«Perché, genio, non sono interessata a nessuno semplicemente – sottolineò sollevando un sopracciglio – e ti correggo, la vostra tossicità è dannosa»
«La nostra tossicità?» ripetè.
«Quella di voi maschi. Credete che facendo gli spavaldi noi donne cadremo ai vostri piedi con così tanta facilità da non aver bisogno nemmeno di pregarci» il ragazzo continuò ad ascoltare l’arringa di Iris. 
«Con me però questo tuo atteggiamento malizioso non attacca. Io, a differenza di tutte quelle mezze galline, non cadrò mai ai vostri piedi–» e per dare più enfasi gli puntò un dito contro. «Afferrato il concetto? Afferrato la parola m-a-i
Federico sorrise teneramente, guardandola con i suoi occhi scuri intrisi di pietà.
«Se sei convinta tu.»
«Certo che né sono convinta! Altrimenti non lo direi proprio a te, mister senza-cervello!»
«Ma non sono io che scrocco canne ogni volta che posso per fumarmela..» ribatté lui, prendendola in contropiede.
Iris si vide costretta a ribattere. 
«Questo cosa vuol dire?»
«Beh, ovvio no?»
«Non ho ancora la laurea per capire il linguaggio dei deficienti come te.»
«Tu sei già alle mie dipendenze fin da ora, Iris»
«Ah, davvero?» esclamò sardonica. «E per cosa sarei alle tue dipendenze?» accennò una risata nervosa.
«Alle canne... e dopo quelle cosa pretenderai da me?»
La rabbia le fece andare in fumo l’ultimo neurone non ancora intaccato. Sentì il sangue bollirle nelle vene, mentre la vena del collo le si ingrossava al punto tale che sarebbe potuta scoppiare. La pioggia smise a poco a poco, mentre la sua mano si chiuse a pugno e le nocche delle mani divennero pallide. In un battito di ciglia affondò il pugno nella perfetta guancia del coetaneo.
«Vorrò questo, idiota» alzò la mano e gli diede un sonoro ceffone, che gli fece spostare la faccia dalla parte opposta. Non appena colpì la guancia si sentì subito meglio, come se tutta quell’energia negativa fosse fluita via via dal suo corpo.
«Posso dartene ancora, se vuoi.»
«Sto tremando.» la sfidò lui.
Iris fece un sorrisetto, e finalmente notò che la pioggia aveva smesso. Sollevata potè allontanarsi dal suo ombrello senza il rischio di bagnarsi ancora di più. Dopo la prima ora di Pirozzi con la sua lunga spiegazione sulla follia e la lanterninosofia, urgeva una canna, qualsiasi cosa perché potesse calmarsi, ma era certa che non l’avrebbe scroccata a lui. Lo superò velocemente, perché lui non aveva mosso un solo muscolo.
Non l’aveva neanche seguita. Se ne stava lì, immobile come una statua, con una mano poggiata sul livido violastro e con l’ombrello ancora sulla testa. Iris si voltò e divertita gli fece il segno del dito medio. Si accasciò stanca sulla panchina, infilò le cuffie nelle orecchie, la musica inondò i suoi sensi isolandola dal mondo.






 

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