Blackvoyant

di FioreDArgentoWattpad
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Sarebbe stato difficile per chiunque descrivermi, forse perché nessuno si era mai impegnato a capire davvero cosa mi passasse per la testa. Nell'Heddem Institute non era usuale avere amici, io stessa conoscevo a stento le iniziali di ognuno. Una peculiarità del mio strano collegio infatti era che non ci si rivolgeva chiamandosi per cognome o nome, bensì utilizzando l'iniziale. Io ad esempio ero una delle molteplici A, la mia irritante compagna di stanza W. Ma si sa, un nome costituisce un'identità. E un'identità in quella prigione costituiva guai.

Forse mi ero sempre sentita diversa perché io il mio nome, a differenza degli altri, lo conoscevo. Quando ero sola, alcune volte lo sussurravo alle pareti grigie della mia stanza; lo ripetevo quanto bastava a ricordarmi di non essere solo una lettera simile alle altre. E allora i miei pensieri correvano velocemente verso la persona che me l'aveva affibbiato per poi privarmene, colei a cui dovevo tutto e al contempo niente. Kathleen. La donna dal viso sottile che di tanto in tanto si affacciava nella mia mente, colei che aveva scandito con la sua voce rassicurante i miei primi anni divita. Ricordavo confusamente il suo sorriso sempre rovinato dalla nota amara che rammentavo soltanto adesso, quasi che aggiungessi volutamente dettagli alla fievole immagine ogni volta in cui la richiamavo a me. Alcune volte mi domandavo quanto fosse vero e quanto falso, nel ritratto che baluginava nella mia memoria. Non l'avrei mai scoperto.

A lei non dovevo nulla, poiché aveva lasciato mi rinchiudessero in questo luogo d'inferno. Eppure se sapevo chi ero, se sapevo il mio nome, era solo grazie a lei.
"Amira." mormorai rigirandomi tra le lenzuola, mentre il suono delicato del mio nome si propagava sulle labbra e affondava le proprie radici nel mio spirito, legandomi a sé indissolubilmente.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I

Capitolo I

Era opinione popolare che il preside Mark Hedd fosse un uomo di bell'aspetto, e concordavo, se non fosse stato per la costante paura che gli deformava viso. Gli occhi stralunati erano d'un azzurro scolorito, sembrava che non avessero mai visto la luce del sole per assorbirne la brillantezza e la vivacità cristallina. I capelli poco curati gli cascavano disordinati sulla fronte perennemente aggrottata e una barbetta dorata gli copriva il mento tozzo, che tremava insieme al labbro inferiore mentre parlava alle assemblee (uniche occasioni in cui lo vedevamo). Avrebbe potuto avere una ventina d'anni o aver superato la cinquantina, possedevo troppi pochi termini di paragone. La maggioranza dei docenti della scuola era costituito di donne, e agli scarsi insegnanti maschi non avrei sicuramente potuto domandare l'anno di nascita.

Gli uomini che avevo conosciuto nella mia vecchia vita invece, erano maschere cineree che sfumavano nella memoria ogni giorno di più. Io del resto preferivo lasciarle andare, non mi prendevo la briga di rammentare i colori o i tratti di gente che non avrei visto mai più. Avevo appena tre anni il mattino in cui Kathleen (avevo cessato di chiamarla mentalmente mamma) mi aveva trascinata con l'inganno su una nave, la stessa nave su cui quel dì sarebbero giunti i neomarchiati, la stessa nave straripante di culle che di tanto in tanto si affacciava nei miei incubi. Concentrai di nuovo lo sguardo sul preside, che stava sciorinando il discorso d'inizio anno con la passione che avrebbe messo W nel mangiare gli spinaci.

"Q-Quest'oggi desidero in-inaugurare il centocinquantesimo anno di attività dell'Heddem Institute che da sempre fornisce grazie all'infallibile metodo Hedd una preparazione adeguata a noi m-marchiati, presentandovi..." si schiarì la gola, sistemandosi per la centesima volta la cravatta verde pallido. "... presentandovi la novità d-del corpo docenti. L'anno scorso Paul Serringard, vostro educatore all'uso del marchio, è andato in pensione dopo un onorevole carriera. Vi invito per la sua sostituta, la signorina Key."

Un rumore quieto si levò dalla folla, ma fui probabilmente l'unica ad osservare davvero la donna che, sbucando dalla penombra, si era seduta silenziosamente di fianco al preside. Il cappello gocciolante le celava parte del volto, ma sulla pelle chiara scorsi un sorriso compiaciuto. Se lo tolse con un unico movimento aggraziato, liberando una cascata di capelli albini bagnati sulle punte. Fui scossa da un brivido quando ci rivolse uno sguardo penetrante, rivelando gli occhi grigi affilati come la lama di un coltello.

Diedi una gomitata a W, che m'ignorò volutamente. Tra l'altro me lo sarei dovuta aspettare, W con il suo portamento compassato e l'espressione imperturbabile incarnava perfettamente i valori dell'Istituto. Avevo avuto la sfortuna che mi fosse assegnata lei in qualità di compagna di stanza, che in teoria sarebbe dovuta diventare la mia maggior confidente. O almeno così recitava il Manuale di Easton e Marcus Hedd, i fondatori dell'Istituto. Io con W avevo soltanto un rapporto di sussistenza, il necessario a non impazzire rinchiusa tra quelle quattro mura.

"Sono desolata per il ritardo Mark, ero andata che tutto fosse in regola al porto."

La signorina Key si sedette tra i colleghi nella prima fila, non aggiungendo altro. I miei compagni si lanciarono occhiate di disapprovazione, ma il preside non parve aver nulla da ridire.

"Quest'oggi come sapete arriveranno i marchiati. Vi p-pregherei perciò..." Un colpo di tosse sommessa lo interruppe e il preside si guardò intorno con occhi spauriti.

"S-Samantha?" sussurrò bianco in volto.

La sorella del preside, nonché insegnante di Letteratura all'Heddem Institute, si alzò dal suo posto e gli mormorò qualcosa a voce troppo bassa per essere udita. Carlos tremò visibilmente sotto lo sguardo accusatore della sorella e riprese:"Vi vieto perciò di g-girare per l'Istituto dopo il termine dell'assemblea."
Strofinò nervosamente una mano sudata lungo i pantaloni, navigando nel dubbio con espressione sofferente. Per un attimo provai un moto di pietà verso quell'uomo, ma ricordando di chi si trattava, lo soffocai subito.

"Direi che la fine dell'assemblea è a-arrivata. Tornate nei vostri dormitori!" concluse con gioia folle e temetti che avrebbe scagliato lontano il microfono per la felicità. In fondo sarebbe stato divertente assistere ad un gesto così avventato, così umano, così poco consono all'istituto. Tuttavia si limitò a posarlo cautamente su una sedia, come se fosse una bomba pronta ad esplodere.

"A? A? Mi senti?" Riscuotendomi dal torpore, posi lo sguardo sul viso lentigginoso di W. "Dobbiamo tornare nei dormitori, muoviti!" La sua voce aveva l'intenzione di suonare perentoria, ma gli occhi verdolini mi guardavano supplicanti.
"Non voglio essere l'ultima!" sbottò, non ricevendo risposta. In effetti intorno a noi erano rimasti cinque o sei studenti, che diligentemente si dirigevano verso l'uscita principale. All'improvviso in allerta saltai su, afferrando il polso ossuto di W. Anch'io detestavo l'idea di giungere per ultima nei dormitori, ma per motivi ben differenti.

"Ma cosa fai?" sibilò W, scuotendo la mano dolorante. Sulla rampa di scale che portava al secondo piano, nei dormitori femminili, le ragazze erano disposte ordinatamente in fila e nel più assoluto silenzio si avviavano verso le camere. Sospirai di sollievo, la maggior parte non erano ancora arrivate.

"Corri." mi limitai a sussurrare a W, che sgranò gli occhi scandalizzata.

Ignorandola sgusciai tra le ragazze in abito grigio, spintonandole se necessario. Quando passavo loro di fronte mi lanciavano occhiate poco rassicuranti, ma la loro forza di volontà era pari a quella di una bambola di pezza.

Con il fiato corto scavalcai l'ultimo gradino, trovandomi di fronte ad un corridoio grigio. Porte bianche tappezzavano le pareti, l'una la perfetta copia della precedente. Vidi una W ansante raggiungermi, le ciocche rosso chiaro sfuggite alla coda le donavano un'aria ancora più sconvolta.

"Ma cosa ti salta in testa?" farfugliò. Io però l'ascoltavo a stento, avevo già iniziato a contare le porte che sfilavano di fianco a me mentre camminavo lentamente.
1...
2...
"Correre!"
5...
6...
"Spingere!" 
12...
13...
"Avrai infranto metà del regolamento dell'Istituto!"
17...
18...
19...
Velocizzai il passo, c'eravamo quasi.
"Ti rendi conto?" terminò irata.
23!

Mi concessi finalmente di concentrarmi su W, che rossa in volto mi squadrava con aria di rimprovero.

Scrollai le spalle, non era di certo la prima volta che violavo il regolamento. E neanche l'ultima.

"Perché siamo arrivati fin qui? Le altre camere erano libere." affermò W, di colpo dubbiosa.

Io sorrisi nervosamente, se avesse scoperto il mio segreto sarebbe stato difficile evitare che spifferasse ai professori tutto.

"Non me n'ero accorta." mentii, girando in basso la maniglia della nostra stanza. In realtà noi non avevamo il diritto di possedere alcunché, avremmo dovuto cambiare stanza ogni giorno lasciando la borsa nell'armadio prima di cena. Al ritorno una stanza valeva l'altra, poiché tutti avevano gli stessi libri e gli stessi appunti.

Noi però, all'insaputa di W, stavamo nella stessa da quattro anni. Mi piaceva l'idea che quel luogo fosse mio, anche se equivaleva ad infrangere le regole. Inoltre la finestra si affacciava sul piccolo porto in cui, una volta l'anno, approdava la nave che recava scritto sulla fiancata il nome dell'Istituto. Nonostante l'orrore imbrattasse e confondesse i ricordi, sapevo che si fermava in diverse località per permettere ai bambini e i professori d'imbarcarsi verso l'isoletta sperduta delle Bahamas. Era l'unica informazione che ci era concesso sapere.

La vista del mare che ondeggiava dolcemente intorno al porto era rilassante, seppur la vista della nave che proprio la sera prima era arrivata mi nauseasse. Ero forse la sola, oltre al preside e i professori ovviamente, a conoscenza di ciò che stava accadendo. I bambini venivano spogliati dei loro averi ed erano sottoposti a rigide visite mediche, prima che fosse tatuato loro il marchio.

Lo shock adombrava il resto, ricordavo soltanto che quando degli uomini avevano tentato di sottrarmi il mio talismano, una pietra dura che tenevo in tasca, l'avevo lanciato in mare purché non finisse nelle loro mani rozze.

"Miss. Key non ci ha detto una parola, solitamente i professori nuovi preparano un discorso." osservò W ad alta voce, distraendomi. Negli anni avevo imparato a conoscerla e sapevo che alle volte, senza rivolgersi direttamente a me, esprimeva i suoi dubbi ad alta voce perché io dessi la mia opinione. Era un rapporto singolare il nostro.

"Sempre meglio delle patetiche frasi fatte che ci propinano gli altri." dichiarai tagliente. W mi guardò sbigottita dal letto e aprì la bocca, serrando le labbra sottili un secondo dopo. Era un tacito accordo, se chiedeva il mio parere non si poteva aspettare che fingessi la lealtà assoluta nei confronti dell'istituto. Lealtà che poteva avere lei, ma non io.

"L'anno scorso Serringard non ci ha mai fatto provare a... a convertire. Secondo te lei ce lo permetterà?" cambiò argomento W, mentre si scioglieva la coda rossa per la notte.
Un brivido gelido mi percorse la schiena. Il professor Serringard ci aveva istruito riguardo alla teoria ma non aveva mai lasciato che facessimo un tentativo, anche con un oggetto piccolo. L'anno prima una volte gliene avevo domandato il motivo e, con un misto di rabbia e spavento, aveva gridato che il professore era lui e non dovevo provare a contraddirlo. Non mi sarebbero mancati né il suo caratteraccio, né i suoi sputi mentre spiegava, ne ero certa.

"Trasformare la materia in non-materia, sta tutto lì." ripetei le sue esatte parole assorta.

Odiavo lo scarabocchio che avevo sul braccio, sapevo che Kathleen mi aveva ripudiato a causa sua. D'altro canto era indelebile e scoprire a cosa servisse o anche soltanto perché si trovasse lì, era l'unica consolazione che potevo avere.

W mi lanciò un'occhiata interrogativa, era raro che ascoltassi le lezioni, ricordarmele ancor di più.

"Blaterava la stessa frase per un'ora." mi affrettai a spiegare, ritornando con lo sguardo puntato sulla spiaggia.

Mi accorsi che un paio di pullman neri si stavano inoltrando nel sentiero che si dirigeva verso l'Istituto. In quel breve tragitto dei neonati si stavano giocando tutto: il nome che non avrebbero mai saputo, il compleanno che non avrebbero mai festeggiato, la famiglia che non avrebbero mai visto, le origini che avrebbero sempre ignorato. Le cose a cui, dodici anni prima, avevo dovuto rinunciare io.
Avrei voluto gridarglielo, fino a sgolarmi, ma non sarebbe servito a nulla. Perché delle persone, in quel momento, stavano perdendo tutto e neanche lo sapevano.

"Arrivano." mormorai semplicemente, con la bocca impastata.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II

Capitolo II

Come al solito la Prima Campanella non aveva ancora suonato quando aprii gli occhi, che già guizzavano vigili lungo il perimetro della stanza. Lunghe spade di luce dorate trafiggevano la penombra della stanza, solleticandomi delicatamente gli occhi.

Amavo l'alba.

Con la mia prima professoressa di Letteratura, la signorina Kuffner, in una lezione avevamo letto dai nostri appunti che i poeti traevano spesso ispirazione dalla natura.

Non avevo potuto fare a meno di chiedere perplessa:"Cosa ci trovano di speciale?"

Il resto della classe mi aveva fissato impaurito, convinto che avrei ricevuto una sgridata da parte del professore.

Mai interrompere una lezione.

Mai dubitare della correttezza degli appunti.

Avevo infranto coscientemente due punti del Regolamento in una volta sola, ero già rassegnata ad essere spedita nell'ufficio della signorina Hedd. A uno studente davvero ribelle, capitava sì e no una volta nella carriera di finire nel "covo" di Samantha Hedd.

Io però, avevo affrontato così tante volte la mezz'ora di tiritera condita di minacce della signorina Hedd, che ormai rispondevo placidamente con un sorriso ai suoi rimbrotti.

Sorrisi tranquillamente anche allora, riposando gli occhi annoiati sulla carta stampata.

La signorina Hedd non mi avrebbe mai ferita o espulsa così come non avrebbe mai ferito o espulso un altro alunno qualsiasi.

Gli occhi della signorina Kuffner balenarono stranamente di vita e con mia somma sorpresa ribatté:"Hai mai visto un'alba?"

"Quando ci svegliamo il sole è già sorto." affermò W piatta.

"Almeno un tramonto?" ritentò indefessa la signorina Kuffner, continuando a rivolgersi a me.

Scrollai le spalle:"Ceniamo a quell'ora."

"Ma c'è una finestra. Stasera guardalo e la prossima volta dimmelo, cosa c'è di speciale."

Non rividi mai più la signorina Kuffner.

Tuttavia quella sera mi ricordai di lei, e osservai il sole incendiarsi attraverso la finestrella della Mensa.

Anche il mattino dopo, mi alzai in punta di piedi e mi gustai i colori pastello dell'alba.

Glielo avrei voluto confessare, che li trovai entrambi belli, splendidi, meravigliosi... ma non speciali.

Glielo avrei voluto dire, ma non ci fu occasione.

Rimase così soltanto l'amaro in bocca, mentre cercavo invano di comprendere cosa ci fosse di speciale nella normalità.

Intanto amavo l'alba.

Non perché animasse in me il desiderio di scriverci sopra una poesia, o ritrarla in un quadro, o osannarla in un romanzo.

L'amavo perché in quegli unici attimi della giornata, ero Amira. Ero qualcuno.

Non riuscivo a datare quella mia strana abitudine di svegliarmi presto, avrei dovuto spingere allo stremo la mia memoria per ricordarmi l'esatto momento in cui mi ero posta quell'obiettivo.

Pensavo risalisse ai primi anni all'Istituto, quelli che avevo trascorso rinchiusa in una stanzetta sullo stesso piano dei neomarchiati, isolata dagli altri studenti.

Un imprevisto, mi aveva definito la signorina Hedd stizzita, prima di rinchiudermi in quelle quattro pareti scrostate e macchiate d'umidità. L'avevo odiata già da allora.

Avevo iniziato a svegliarmi presto, per la necessità di essere libera anche soltanto pochi minuti, prima che la campanella suonasse dando inizio ad un alternarsi serrato di professori nella mia stanza. Era stressante essere sottoposti di continuo ai loro sguardi di sufficienza o sorrisi derisori, di cui inoltre non capivo l'origine.

Fu C a spiegarmela.

Fu lei a spiegarmi molte cose.

C era la cameriera che mi portava i piatti di cibo, direttamente nella stanza. L'avevo soprannominata tra me e me Cenerentola, come la protagonista della fiaba che spesso Kathleen mi leggeva prima di andare a dormire.

In realtà non aveva il viso cosparso di cenere, o una matrigna cattiva, o due sorellastre insopportabili.

Aveva la pelle dello stesso colore del cioccolato fondente, un'indomabile massa di ricci scuri le circondava il viso sul quale spiccavano due occhi nocciola brillanti di vivacità.

Il nostro primo incontro era ben impresso nella mia memoria.

Ero stufa di essere rinchiusa in quella stanza angusta, mi trovavo lì già da più di un giorno.

Avevo rifiutato di mandare giù un solo boccone, sebbene diversi camerieri si fossero presentati alla mia porta con il medesimo vassoio d'argento coperto da un panno. Lo stomaco serrato non accennava a mostrare appetito, ma la gola secca reclamava un bicchiere d'acqua. Persino le lacrime non scendevano più sul mio viso, sfinite quanto me da quella lotta persa in partenza.

Era un incubo, non poteva trattarsi di altro.

Mamma mi avrebbe svegliato presto, con un delicato bacio sulla fronte e avrei scordato quel brutto sogno.

Toc toc.

Nessuno aveva avuto l'accortezza di bussare nelle ultime ore, di fatti mi rizzai a sedere velocemente.

"Posso?" domandò una voce argentina da dietro la porta.

Io disorientata sussurrai a voce appena udibile:"S-sì."

Con un cigolio sommesso la porta si aprì, svelando una ragazza minuta.

Non doveva avere più di dodici anni, ma per me era come un'adulta e provai subito un moto di ammirazione nei suoi confronti.

"Ciao." mormorò in tono gentile.

Io non ricambiai il saluto, abbassando diffidente il viso.

Anche lei portava un vassoio, ma invece di pormelo sbrigativa davanti agli occhi pretendendo che m'ingozzassi, lo posò con noncuranza sulla scrivania.

"Sai, ci stai facendo impazzire giù in cucina. Hai proprio un bel caratterino!" scherzò. "Ti dovrei ringraziare, di solito scorre tutto in modo così monotono..."

Scoppiò a ridere, contagiando anche me che sorrisi lievemente. Sembrava simpatica. Appuntata sulla sua divisa, c'era una targhetta su cui era incisa una lettera. C.

"Anche tu sei... anche tu sei come me?" La indicai titubante.

"Non esattamente." rispose quasi dispiaciuta. "Ma forse adesso sono la persona più simile a te dell'Istituto, sì."

Si avvicinò con cautela, sedendosi sul letto sfatto.

"E... e anche tu hai questo?" Scoprii il braccio, mostrando il marchio scuro.

La ragazza si rabbuiò, ma non si scompose, e alzò una manica della divisa. Anche sul suo braccio scuro s'intravedeva un disegno simile al mio.

"Come ti chiami?" chiesi curiosa.

"C." rispose poco convinta.

"Io invece mi chiamo Ami--" Svelta la ragazza mi coprì la bocca con una mano.

"Shhh. Non puoi rivelarmi il tuo nome intero. Se vuoi trascorrere serena i prossimi anni, ti conviene non rivelarlo a nessuno." m'intimò, senza che dalla sua voce trapelasse un filo di timore.

"Lo so. Me l'hanno già detto... ma credevo che tu... " balbettai. Non proseguii, lasciando che le parole fluttuassero nell'aria.

Credevo fosse diversa, almeno lei. Credevo che non avrebbe mozzato il mio nome, accettandolo integralmente, accettandomi integralmente.

"Non è colpa mia." sussurrò per la prima volta imbarazzata. Restò alcuni minuti in silenzio, formulando pensieri che non potevo ascoltare.

"Il tuo nome è speciale. Non dimenticarlo, anzi, tienilo come un tesoro prezioso. Sappi semplicemente che nessuno in questo istituto merita di conoscerlo." affermò convinta d'un tratto.

"E tu?"

"E io?"

C mi fissò interrogativa, ma un lampo di consapevolezza percorse i suoi occhi, ancor prima che precisassi: "Anche tu nascondi il tuo nome, perché nessuno merita di conoscerlo?"

"Non oggi." ribatté pensierosa. "Un altro giorno ti racconterò la mia storia, ma non oggi."

La ragazza improvvisamente turbata si alzò di scatto e riprese il vassoio abbandonato sul tavolo. Poggiandolo sulle coperte morbide, un sorriso luminoso le increspò le labbra:"Fai solo un torto a te stessa non mangiando. Inoltre la pasta che prepara Sergio è deliziosa, sai, è uno chef italiano."

"Rimani qui con me?" la pregai.

"Certo, perché no?"

Affiancandosi a me, tolse il panno dal piatto che emanava un profumo invitante. Presi la forchetta sentendo la pancia brontolare e mi accorsi che, sorprendentemente, non stavo trattenendo le lacrime.

In seguito mi confessò il suo nome, ma io continuai lo stesso a soprannominarla mentalmente come Cenerentola, perché quel giorno avevo scorto in lei la scintilla di coraggio ribelle dell'eroina fiabesca.

Il frastuono della sveglia interruppe il filo dei miei pensieri. Sbuffai, udendo uno sbadiglio levarsi dal lato opposto della stanza. Anche W si stava destando.

Balzai di scatto giù dal letto e, prima che la mia compagna di stanza abbandonasse del tutto il mondo dei sogni, mi precipitai nell'unico bagno della camera.

"A!" strillò W, rendendosi conto di essere arrivata troppo tardi anche quella volta.

La ignorai deliberatamente, squadrando la me allo specchio. I capelli neri avevano lo stesso taglio di quelli delle altre ragazze dell'Istituto, appena sopra le spalle, e le ciocche ondulate mi circondavano l'ovale pallido del viso. Su questo spiccavano due occhi ambrati, che mi restituivano uno sguardo perplesso attraverso il vetro.

Ero Amira.

Dovevo provare a non dimenticarmelo anche quel giorno.

Aprii il rubinetto e misi a coppa le mani sotto il flusso d'acqua, gettandolo sul mio viso subito dopo. Il contatto gelido mi provocò un brivido lungo la spina dorsale e strinsi i denti. Almeno mi ero svegliata.

Mi affrettai a finire sentendo le proteste di W dall'altro lato della porta, e una volta uscita le lanciai un'occhiata diveritita.

Stava ritta in mezzo alla stanza sottosopra, i capelli scarmigliati le cadevano disordinatamente sulle spalle e gli occhi verdolini sembravano volermi incenerire.

"Se hai la prontezza di una lumaca, non è colpa mia!" puntualizzai sibillina.

W soffocò in un sospiro insofferente gli insulti che di certo mi voleva rivolgere, e si limitò ad entrare nel bagno e sbattere con violenza la porta.

Mi sfuggì un risolino, la mia compagna di stanza teneva davvero tanto alle regole.

È severamente vietato attuare un litigio con altri studenti dell'Heddem, a eccezione di legittima difesa nei confronti di uno/a alunno/a che ha contravvenuto al Regolamento. Si è pregati in tal caso di renderlo noto a chi di competenza.

Era uno dei trenta punti del Regolamento e W si sforzava di seguirlo al meglio, nonostante io mettessi a dura prova la sua pazienza. Non capiva che non reagendo, m'invogliava ancora di più a continuare.

Dieci minuti dopo W uscì dal bagno, la calma già tornata a regnare sul suo viso.

"Andiamo." mormorò semplicemente, tirando la porta a sé.

Nel corridoio le studentesse ancora intontite si dirigevano verso la rampa di scale che scendeva verso il basso, nella mensa. Eravamo le ultime, nulla di nuovo.

Trascinai W dietro di me, quasi correndo, verso i gradini di marmo e nell'intercettare per un secondo lo sguardo spaurito della mia compagna, mi scontrai con una persona.

"Ci dispiace.... desolate... non volevamo..." colsi solo sprazzi di ciò che W stava dicendo, incespicando nelle sue stesse parole.

La mia attenzione era stata catalizzata completamente dalla signorina Key, che invece di guardare l'imbarazzatissima W, teneva i propri occhi fissi su di me. Sembrava incuriosita più che arrabbiata.

"Non era nostra intenzione disturbarla. Ci perdoni." scandii con voce incerta.

La donna fece un gesto con la mano e sentenziò infastidita:"Avrei dovuto stare io più attenta."

Io meravigliata non mi mossi di un millimetro, qualunque altro insegnante ci avrebbe spedito direttamente dalla vicepreside.

W sbalordita balbettò ringraziamenti sconnessi, ma la signorina Key la interruppe spazientita:"Andate!"

Rossa di vergogna la mia compagna di stanza si precipitò giù per le scale e io la seguii in fretta.

"Strana, vero?" domandai a W nella Mensa.

La mia compagna però replicò con convinzione:"È il suo primo giorno, di sicuro l'abbiamo colta alla sprovvista."

Evitai di controbattere che tutto mi era sembrato la signorina Key, meno una persona disorientata, e addentai un biscotto.

Per tutta la colazione non riuscii a togliermi di dosso la brutta sensazione di essere osservata, costantemente.


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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III

Capitolo III


"La lezione di Educazione all'Uso del Marchio si terrà nell'Aula XXII, come da orario prestabilito dopo il suono della Seconda Campanella."

Una cameriera lesse in fretta l'avviso, e per poco non mi strozzai con l'ultimo boccone del pane con la marmellata. Deglutii a fatica e volsi gli occhi in direzione della cameriera, che però con le guance rosse era già scomparsa dietro la porta delle cucine.

L'Aula XXIII era uno dei molti misteri dell'Heddem Institute, sebbene impallidisse in confronto ad altri interrogativi.

Si trattava di una stanza dei sotterranei adiacente all'Aula Magna e in disuso dall'anno del mio arrivo, o almeno così sosteneva W.

Nelle rare occasioni in cui mi capitava di passarci davanti mi soffermavo sempre un po' di più degli altri, e guardavo incuriosita quella porta blu elettrico. Risultava quasi fuori posto tra le sfumature smorte dell'Istituto.

Alcune volte pensavo che non eravamo poi così diverse, io e quella porta.

Entrambe ci distinguevamo dai nostri simili, per il nostro colore, per la nostra originalità non richiesta.

Ed entrambe dovevamo limitarci, serrarci per volontà altrui, pur non riuscendo lo stesso ad eliminare quei piccoli dettagli che ci separavano dal resto.

Formulati questi pensieri mi davo della sciocca, non potevo paragonarmi ad una porta.

Quella avrebbe potuto facilmente essere ridipinta di un colore più tenue, con meno pretese.

Io invece, per quanto avrei provato a ritinteggiarmi, sarei rimasta sempre così.

Amira.

E in fondo non mi dispiaceva.

"Andiamo?"

Sbattei le palpebre ritornando bruscamente alla realtà. W era già in piedi con un biscotto mangiucchiato nella mano destra e impaziente indicava l'uscita della Mensa. Era davvero buffo vederla così agitata, lei che di solito non si scomponeva mai.

"Non voglio tardare alla prima lezione! Andiamo?" ripeté con occhi imploranti.

Avrei voluto suggerirle di avviarsi da sola, ma sapevo che non avrebbe infranto un'altra regola dopo la figuraccia con la signorina Key.

Mai allontanarsi dal proprio compagno/a, a meno che questo/a non sia convocato da un professore o dal preside stesso.

Sospirai, in quei momenti avrei voluto domandare a Easton e Marcus Hedd la ragione di alcuni punti del Regolamento. Dalla fondazione dell'Istituto del 1878, questo era rimasto pressoché identico, eccetto qualche modifica legata al cambiamento esterno. Constava in trenta punti, trenta invisibili sbarre che imprigionavano ogni alunno dell'Istituto.

Ingurgitai il latte rimasto nella tazza e seguii W verso le scale che sprofondavano nel buio. Per fortuna suonò presto la Seconda Campanella e le luci sul soffitto si accesero una dopo l'altra, emanando un bagliore biancastro.

Ci accorgemmo soltanto alla fine di essere effettivamente le prime per una volta. Dietro di noi non c'erano che gradini di pietra.

Mi concessi un secondo per gettare un'occhiata alla porta blu, stranamente conscia che da quel giorno non sarebbe più stata tanto speciale.

W spinse con delicatezza la porta, che si aprì senza opporre resistenza.

L'Aula XXII era una stanza sgombra, priva di qualunque arredamento. Il legno del pavimento era graffiato e segnato da piccoli solchi e la pittura originariamente azzurrina delle pareti doveva essersi ingiallita con il tempo. Illuminata solo da una lampada giallognola che pendeva dal soffitto, la stanza aveva una bellezza vissuta, come un giovane che torna dalla guerra con le cicatrici, sul corpo e nel cuore.

"Perché è vuota?" domandò W ad alta voce, rompendo il silenzio.

Non ebbi modo di rispondere perché una folla di studenti disorientati si riversò rumorosamente nella stanza. Le voci sorprese incominciarono a intrecciarsi e scontrarsi, finché non si trasformarono in un groviglio indistinto di parole.

Io mi rintanai in un angolo della stanza, avevo smesso da troppi anni di pormi domande sull'organizzazione dell'Istituto. Sapevo infatti che appartenevano a due categorie: quelle di cui non avrei mai ricevuto risposta e quelle di cui avrei ricevuto risposta a breve. Inutile specificare che la prima era decisamente più consistente.
W mi raggiunse presto con un'espressione infastidita.

"Non ci dovremmo separare."

"Siamo nella stessa stanza W, dove credi possa scappare?" replicai scettica.

"La signorina Key è in ritardo." proseguì ignorando la battuta.

"Arrive--"

Mi bloccai udendo il rumore dei tacchi scendere le scale. Non dovetti essere l'unica, poiché anche il chiacchericcio cessò di colpo.

"Che ti avevo detto?" mormorai acida, fissando la figura che era comparsa sulla soglia.

Notai che la signorina Key si era truccata da quando l'avevo scontrata, prima della colazione. Si era messa un rossetto scarlatto e una spessa linea di matita le correva lungo le palpebre, rendendo ancora più taglienti i suoi occhi grigi. Da che avevo memoria nessuna professoressa dell'Heddem Institute aveva osato tanto.

Miss. Key sfilò di fronte a noi con un'eleganza gelida, e si soffermò qualche secondo su ciascun alunno. Studiava impassibile i nostri volti, come se fossimo quesiti che non meritavano soluzione.

Realizzai che ci disprezzava.

Ci disprezzava e non si preoccupava di nascondercelo.

Parve indugiare più del dovuto su di me, e giurai di scorgere un sorriso divertito incresparle le labbra.

Ebbi la netta sensazione che stesse guardando me. Non A, non una semplice studentessa, ebbi l'impressione che mi scandagliasse nel profondo laddove celavo ad occhi indiscreti Amira.

Ma era soltanto la mia immaginazione.

Lei non poteva saperlo.

Me ne convinsi fermamente, mentre turbata la seguivo con gli occhi fino al centro della stanza.

"Non mi piace fare la colazione già truccata." dichiarò, come se bastasse a spiegare i dieci minuti di ritardo.

"Inutile." bofonchiò e lasciò intenzionalmente che il registro le scivolasse dalle mani.

Al tonfo sussultammo, non era mai accaduto niente del genere. Più che spaventata, come W al mio fianco, ero incuriosita da quei comportamenti singolari.

"Miss. Key, e l'appello?"

La domanda stridula proveniva da un alunno dell'ultima fila, S mi sembrava.

Lei gli riservò una risata derisoria e con la voce che trasudava sarcasmo ribatté:"Non c'è bisogno del registro per ripetere l'alfabeto."

"Chiariamoci subito. Questa non è una materia come le altre. Qui o siete eccellenti, o in tutti i casi non m'interessa, saranno affari vostri. Qui non si fa l'appello, perché esserci o non esserci è irrilevante. Qui non conta nulla eccetto ciò che esce dalla mia bocca. Intesi?" scandì perentoria, con occhi crudeli.

Nessuno si azzardò a fiatare, e sentii W vicino a me trattenere il respiro durante il discorso.

"Perfetto." sillabò soddisfatta, gustandosi le espressioni terrorizzate dei miei compagni.

Io invece sostenni con fierezza il suo sguardo, senza chinare mai il capo.

Non avrebbe piegato me così facilmente.

"Scopritevi il braccio destro. Ora." ordinò e immediatamente gli alunni ubbidirono, incominciando a sbottonarsi i polsini della camicia dell'uniforme.

W mi lanciò un'occhiata severa, vedendo che non avevo la minima intenzione di accontentare Miss. Key.

"A, non fare stupidaggini!" sussurrò impaurita.

Scrollai le spalle, incapace di spiegarle che il mio gesto non era una semplice violazione del Regolamento.

Io non potevo farlo.

C era stata chiara nel spiegarmelo.

Erano passate circa due settimane dal mio arrivo all'Heddem Institute. Le giornate trascorrevano nella loro banalità, tra qualche lezione con maestri dalla dubbia simpatia e gli incontri con C, che attendevo con ansia.

Quel giorno C venne prima del previsto.

Aveva cinque o sei stampelle in mano che teneva in bilico davanti a sé, stando attenta a non far sfiorar loro terra.

"Buongiorno A. So che è noioso..."

Camminò goffamente verso il letto, rischiando continuamente di inciampare nei suoi stessi piedi.

"Lungo..." proseguì.

Buttò sul letto gli abiti sbuffando e si abbandonò lei stessa sul materasso.

"Ma per loro è necessario che tu provi ognuna di queste stupide uniformi."

Gesticolò verso gli abiti che giacevano sulle coperte e trattenni a stento una risata. Era davvero buffa.

"E ora è necessario anche per me, dopo aver fatto due intere rampe di scale con questi trabiccoli di stampelle." aggiunse, asciugandosi melodrammaticamente l'invisibile sudore sulla fronte.

A quel punto scoppiai a ridere incontrollatamente e un sorriso spuntò sulle labbra di C.

"Senti un po', di chi stai ridendo?"

"Nessuno!" risposi scaltra, ostentando un'espressione angelica.

"Meglio. Ora sbrighiamocela in fretta che ho fame."

Iniziai a togliermi allegramente la maglietta decisamente troppo piccola con cui mi ero arrangiata e la gettai insieme al resto dei vestiti sul materasso, restando in canottiera.

C mi porse annoiata una camicia grigia.

"Non so... ecco... non so come si chiude." balbettai avvampando, colma di vergogna.

La ragazza mora senza pronunciare una parola si alzò e mi venne in aiuto, insegnandomi come si abbottonava.

"Vedi? Così." stava sussurrando quando la sua attenzione si spostò sul braccio sinistro, dove io stavo maldestramente provando ad abbassare la manica arrotolata.

Me lo afferrò di colpo e lo rigirò con forza, il terrore presente nei suoi occhi.

"È... è... lì."

Indicò il marchio scuro che risaltava sulla pelle candida e io scrollai le spalle.

"Ce l'hai anche tu." dissi sorridendo. Non c'era niente di cui scandalizzarsi.

"Ma è lì." insisté rimarcando il concetto.

"Sul braccio, come il tuo."

Stavo incominciando anch'io ad avere dei dubbi, ma ero sicura che pure il suo si trovasse là.

"No. Il mio è sul destro A. Il tuo è sul sinistro. Sai cosa significa?" chiese impaurita, fissandomi con i suoi occhi scuri.

"Io... a dire il vero..." annaspai sull'orlo delle lacrime.

Non sapevo perché mia madre avesse scelto di abbandonarmi.

Non sapevo perché mi trovassi in quell'istituto.

Non sapevo perché ero rinchiusa in quel buco soffocante.

E ora non sapevo nemmeno quello.

"Io non so niente!" strillai con frustrazione sentendo gli occhi bruciare.

Non era giusto.

Il cuore prorompeva nel petto, scandendo la stessa frase.

Non era giusto.

"Shh A, smetti di piangere. Devi solo ascoltarmi. Qualcuno l'ha visto?"

"Forse... il preside e... e Miss. Hedd..." balbettai.

"Bene. Non farlo vedere a nessuno, neanche a un professore d'ora in avanti. Me lo prometti?"

"Perché C? Perché?"

Arrabbiata mi liberai dalla sua stretta, gettandomi sul letto.

"È difficile da spiegare. Fidati di me." mi pregò.

"Perché dovrei fidarmi di te? Non so nemmeno il tuo nome! Perché dovresti essere diversa dagli altri?" gridai, le lacrime ormai che copiose mi scendevano sulle guance.

C mi fissò a lungo, seria in viso.

L'avrei voluta scacciare dalla stanza, ma non ne avevo la forza. Ero stanca, desideravo soltanto ridestarmi da quell'incubo.

"Corinne." mormorò infine atona. "Il mio nome è Corinne."

Si massaggiò le tempie con gli occhi lucidi, d ripeté con più fermezza: "Adesso me lo prometti?"

"Te lo prometto."

La gomitata di W mi sottrasse ai ricordi facendomi ripiombare nell'Aula XXIII.

"Adesso alzate il braccio!" ringhiò Miss. Key.

Mano a mano i miei compagni levarono in alto il braccio nudo, e io mi rintanai dietro a W. In altri casi non mi avrebbe preoccupato essere scoperta, ma in quella occasione non potevo rischiare che mi costringesse a farle vedere il marchio.

"Questo è ciò che vi rende diversi. Questo è ciò che vi rende speciali. Tenetelo a mente."

Puntò lo sguardo su ciascun alunno ed ebbi un fremito quando lo percepii, incombente e pesante, opprimermi il petto. Stupendomi però non si soffermò più di qualche secondo e passò avanti, ignorando la mia insubordinazione.

E lo rividi, quello stesso sorriso che prima avevo creduto di essermi immaginata, campeggiare sul suo volto.



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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Capitolo IV

Era stata la mattina più lunga della mia vita.

Avevo speso il tempo gettando occhiate fugaci all'orologio appeso al muro, ed era stato un sollievo quando finalmente il suono della Quinta Campanella aveva sovrastato la voce acuta di Miss. Harrison.

Dovevo parlare con Corinne.

Non ero riuscita a pensare altro dalla fine della lezione di Miss. Key.

I quesiti che mi affollavano la testa avevano bisogno di risposte e sapevo che C era l'unica a potermele dare.

Trasportata dai miei pensieri non mi accorsi di star imboccando involontariamente le scale per i dormitori femminili e tirai W per una manica verso di me, sottraendola al flusso ordinato di ragazze che stava salendo le scale.

"Che succede adesso?" si lamentò.

Dobbiamo fare una piccola... deviazione." azzardai titubante.

W mi fissò inebetita per qualche secondo, come per accertarsi che fossi seria.

Io sostenni il suo sguardo con un sorriso angelico, fingendo che fosse una richiesta assolutamente normale.

"Tu sei pazza." affermò W rompendo il silenzio.

"Da legare. Andiamo?"

Le indicai le scale che scendevano in basso, e lei sgomenta seguì con gli occhi il mio dito.

La forza di volontà svanì via via nei suoi occhi verdolini, e seppi che stava lentamente accettando l'idea.

"Un minuto e basta però."

"Un minuto." concordai spazientita.

Le presi un polso e la trascinai giù per i gradini, di corsa.

"Posso sapere almeno dove stiamo andando?" domandò con il fiato corto mentre scendevamo la seconda rampa di scale.

"Nella Mensa."

"Nemmeno ti chiedo cosa devi fare poco prima di pranzo nella Mensa!" esclamò ironica W.

"Saggia decisione."

Eravamo quasi arrivate quando lo udii.

Un canto delicato.

Proveniva dalla Mensa e si espandeva lungo il corridoio come il profumo di un fiore.

Velocizzai il passo.

W troppo occupata a seguirmi non se n'era accorta e mi guardava interrogativa.

Instintivamente la bloccai con una mano appena dietro la porta, e mi posi un dito sulle labbra.

"Ascolta." le intimai.

Le frasi appartenevano ad una lingua che non conoscevo, ma la melodia mi rassereneva. Le parole traboccanti di tranquillità s'insinuavano dolcemente nella mia anima e placavano l'ansia che l'aveva impregnata per l'intera mattina. Mi soffermai un po' sulla soglia, indecisa se entrare o meno. Non volevo che quella musica si fermasse. Accadeva così raramente che delle note fluissero nei corridoi dell'Istituto.

"È... bella."

La voce di W, poco più di un sussurro, spezzò per un attimo l'incanto della musica.

Avrei voluto restasse in silenzio.

Alle volte serviva che il tempo non fosse riempito da inutili parole.

Vidi troppo tardi W appoggiarsi involontariamente alla porta socchiusa, e questa si aprì con un cigolio sommesso.

La mia maldestra compagna di stanza si ritrasse subito, ma ormai il danno era fatto.

Il canto venne improvvisamente interrotto da un grido strozzato. Udii il fragore di posate che cadevano a terra, e spalancai la porta di scatto.

Nel mezzo della stanza, il volto rosso fuoco, riconobbi la ragazza minuta che ci aveva letto l'avviso quella mattina. Teneva i capelli biondissimi legati in una coda e ci fissava con gli occhi sgranati, le iridi azzurro cielo brillanti d'imbarazzo.

"Mi spiace... io... sono... in ritardo... forse..." ansimò.

S'inginocchiò sul pavimento e iniziò a raccogliere le forchette sparse sul suolo.

Corsi ad aiutarla, e lei nell'accorgersi del mio gesto strabuzzò gli occhi.

"Non... non c'è bisogno."

"Lo so." replicai, continuando a raccattare le posate.

"Qual è il tuo nome?" le domandai di getto.

Incapace di proferire parola indicò la propria targhetta, il rossore che le colorava le guance.

I.

Abbozzai un sorriso e precisai:"Il tuo vero nome."

I sussultò, incredula.

Poi rispose con un filo di voce:"Inez."

"È un bel nome." commentai.

La timidezza le bloccava le labbra, ma vidi lo stesso nei suoi occhi il desiderio di pormi domande indiscrete.

"Canti davvero bene."

La mia osservazione dovette stupirla parecchio, poiché le scivolò di mano la forchetta che stava prendendo.

Le guance le s'infuocarono nuovamente e si sminuì: "Grazie... ma davvero, non sono..."

"Oh, invece sì. Posso farti una domanda?" la interruppi.

Inez annuì timidamente.

"In che lingua stavi cantando?"

La ragazza sorrise nostalgica e abbassò lo sguardo, rapita da riflessioni lontane.

"In svedese. È... è la mia lingua madre." confessò infine, gli occhi fissi nel vuoto.

Intuii che non aveva voglia di continuare la conversazione e abbassai gli occhi sul pavimento, accorgendomi però che era già sgombro.

Dovette rendersene conto anche Inez perché si alzò di scatto, pulendosi il grembiule.

Accorgendomi che guardava preoccupata i tavoli vuoti la rassicurai: "Il pranzo comincia tra quindici minuti. Siamo noi in anticipo."

"Voi?"

Realizzai solo in quel momento che W era rimasta dietro la porta per tutto quel tempo e scoppiai a ridere.

"W, vieni! So che sei lì!"

Il viso lentigginoso della mia compagna di stanza fece capolino dalla porta della Mensa e Inez le sorrise gentilmente.

W si precipitò verso di noi e si rivolse a Inez, ignorandomi.

"Siamo desolate, interrompere così il suo lavoro è stato più che maleducato. La prego di perdonarci."

La diretta interessata si sciolse in una risata, e con un gesto minimizzò: "Non è successo nulla di irreparabile."

"E dammi del tu, siamo coetanee." aggiunse, voltandosi verso W.

Quest'ultima chinò gli occhi verdolini verso terra, e io mi sentii d'un tratto in colpa.

Mi aveva seguito contravvenendo al Regolamento, con l'unica promessa che avrei impiegato solo un minuto per sbrigare la mia faccenda.

Promessa che non avevo affatto mantenuto.

Ciò nonostante lei non si era mossa di lì.

"I, per caso c'è C? Vorrei parlarle." andai diritta al punto.

Inez si strinse nelle spalle: "Sta cucinando in realtà."
Notando la mia espressione delusa Inez si affrettò ad aggiungere: "Se vuoi posso lasciarle un messaggio da parte tua."

"Bene. Allora, per favore, dille che vorrei una nuova forchetta. Utilizza queste stesse parole." dichiarai, dopo aver tergiversato a lungo.

Erano passati quattro anni dall'ultima volta in cui avevo utilizzato quel nostro "linguaggio".

Quando Corinne era ancora una semplice cameriera e io non godevo dell'ora di conversazione giornaliera, comunicavamo in quel modo.

A pranzo io facevo accidentalmente cadere la mia forchetta a terra, e gliene domandavo una nuova. Soltando noi due sapevamo cosa significava davvero.

Corinne tornava con una nuova forchetta e se la posizionava a destra del piatto voleva dire che ci saremmo potute incontrare, se la metteva a sinistra voleva dire che quel giorno non poteva.

W aveva l'abitudine di coricarsi molto prima del coprifuoco, perciò di sera sgattaiolavo con facilità fuori dalla stanza, prima che le porte venissero chiuse a chiave.

Io e Corinne c'incontravamo nella sua stanza, trascorrevamo un'ora o due insieme, e al ritorno era lei stessa che mi forniva la chiave per riaprire la porta.

Poi C si era diplomata ed era stata promossa ad aiuto-cuoco, e a me era stata concessa un'ora libera al giorno.

Questa consisteva in un lasso di tempo durante il quale potevamo conversare con gli altri studenti, seppur controllati costantemente dai professori.

Poiché coincideva con il tempo libero del personale delle cucine, io e Corinne avevamo iniziato ad incontrarci lì.

Stavamo attente a non sfiorare certi argomenti, ma in fondo pensavo fosse stato un sollievo per lei non doverli affrontare più.

E forse anche per me.

"Glielo riferirò."

La voce sottile di Inez mi riportò alla realtà.

"Grazie." mormorai.

Fu in un silenzio tombale che io e W andammo nella nostra stanza.

Esasperata da quel silenzio una volta giunta nella nostra stanza eruppi: "Non mi fai nessuna domanda?"

W mi diede le spalle e ripose la borsa sotto il letto, fingendo di non avermi sentita.

"W?" la chiamai.

La ragazza allora sollevò il capo di scatto, gli occhi un misto di rabbia e tristezza.

"Tu mi daresti qualche risposta?"

La sua risposta dura mi colpì.

W non si era mai comportata in quel modo.

Non trovando parole per controbattere incassai il colpo.

Alle volte il tempo non doveva essere riempito da inutili parole.

Quella sera Inez mi fece l'occhiolino e posizionò la mia forchetta a destra del piatto.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V

Capitolo V

"W, non pensi sia ora di spegnere la luce? Tra poco scatta il coprifuoco."

La mia compagna stava leggendo "Storia dell'Heddem Institute", sdraiata sul letto opposto al mio. Le spirali rosse del suoi capelli sparse sul cuscino, gli occhi verdolini intenti nella lettura.

"Come, all'improvviso sei una studentessa devota al rispetto del Regolamento?" ribatté acida, senza staccare lo sguardo dai fogli ingiallite.

Sapevo bene che stava fingendo, conosceva a memoria ogni parola di quel piccolo volume.

Tutti noi da piccoli avevamo speso tempo prezioso, imparando a decifrare quelle righe. Era l'unico libro che fosse concesso leggere agli studenti e, per quanto ne sapessi, anche l'unico presente nell'intero Istituto.

"Sono molto stanca." mentii.

"Avresti potuto riposarti prima di pranzo. In quel momento però non mi sembra che tu avessi così a cuore il Regolamento." Con noncuranza voltò un'altra pagina.

Ero scioccata.

I nostri litigi non erano mai durati più di mezz'ora. Di solito W si limitava a serrarsi in un silenzio offeso, tenendosi sempre lontana da un vero scontro.

Cosa le era successo? Aveva deciso di meritare un briciolo di rispetto nel momento meno opportuno?

Non sembrava nemmeno lei.

"Giuro solennemente che da domani riprenderò ad ignorare il Regolamento! Ora, per cortesia, potresti spegnere quella stupida lampada?" ironizzai esasperata.

"Non è tra le mie priorità."

La sua flemma era snervante.

"Spegnere la lampada o avere una compagna incosciente come me?" azzardai.

W chiuse di scatto il libretto e si mise a sedere, rivolgendosi finalmente a me. Mi squadrò in silenzio per qualche minuto, consapevole di star mettendo a dura prova i miei nervi.

La voglia di schiaffeggiarla cresceva di attimo in attimo. Ma non potevo darle quella soddisfazione.

"Entrambe direi. Mi sembra che invece siano tra le tue di priorità."

Avevo raggiunto il limite della sopportazione.

"Infatti. Vorrei tanto avere una compagna incosciente, al posto di una noiosa come te!" sbottai, la voce intrisa di veleno.

W s'irrigidì di colpo e gli occhi le si velarono di lacrime. Accorgendomi di averla ferita ebbi una stretta allo stomaco. Forse avevo esagerato.

"W..." la chiamai titubante.

"Hai ragione, anch'io sono stanca."

Mi diede le spalle mentre armeggiava con la lampada, una cortina di capelli rossi a scenderle sul viso.

"Ma..."

"Buonanotte." m'interruppe e una coltre di buio calò sulla stanza.

Mi rannicchiai sotto le coperte, reprimendo l'istinto di riaccendere la luce. In fondo il giorno dopo sarebbe tornata la solita W, accadeva sempre così.

"Avere una compagna di stanza incosciente non è facile. Parlo per esperienza."

Sussultai nell'udire la voce sottile di W. Pensavo si fosse già addormentata.

Sarebbe stato più facile se le avessi spiegato tutto.

Ma non potevo metterle in mano un'arma così preziosa. C me lo aveva fatto intendere, seppur non mi avesse mai vietato esplicitamente di tenere all'oscuro W.

Sospirai, gettando un'occhiata furtiva verso di lei.

Era chiaro che non desiderava davvero una risposta da me, perché il suo respiro si era regolarizzato. Doveva essere già avvolta dal calore del sonno.

Tuttavia trovavo rischioso uscire subito, avrei atteso ancora qualche minuto.

Involontariamente i miei pensieri si dirottarono verso il mio primo, strano incontro con W.

"Non essere così tesa!" eruppe C con una risata.

Io strinsi i denti, strofinando l'una contro l'altra le mani gelide per l'agitazione. Era ovvio che Corinne non comprendesse.

Quel giorno avrei cenato con gli altri alunni dell'Istituto, sarei scappata da quel buco inospitale in cui ero stata costretta negli anni passati.

E avevo paura, una di quelle paure che seccano la gola e mozzano il fiato.

Paura che quella volta potesse essere l'ultima.

C non lo sapeva, ma io avevo sentito i professori discutere riguardo al mio destino. La conclusione era stata brutale.

O quella sera avrei convinto loro che l'isolamento mi avesse addomesticata, o avrei trascorso il resto dei miei giorni tra quelle quattro pareti.

"Corinne... gli altri bambini come sono?" domandai d'un tratto.

La ragazza mi stava chiudendo la treccia con l'elastico, ma questo le sfuggì di mano nel sentirmi. Sbuffò e lo raccolse di nuovo, subendosi la mia risatina derisoria.

"Cosa dicevi?" s'informò ostentando indifferenza.

"Gli altri bambini..."

"Oh." Corinne ricominciò a separare le ciocche, in apparenza ignorando la mia domanda.

"Corinne...?"

"A, sono diversi da noi due." dichiarò con voce incerta.

Incuriosita mi girai d'istinto verso di lei, a cui di conseguenza risfuggirono i miei capelli.

"In che senso?"

C esalò un gemito insofferente e prese il mio capo, voltandolo con forza verso lo specchio.

"Rimani così." ordinò.

"Dunque..." Sospirò ripetutamente. "Dunque, sono diversi perché loro non conoscono il loro nome. O la loro terra d'origine."

"Be', io so di essere inglese, nulla più." Scrollai le spalle.

Corinne scoppiò a ridere e mollò la presa sulla treccia, che si sciolse. Di nuovo.

La ragazza si curvò su di me, gli occhi scuri brillanti di divertimento.

"A, tu non hai nemmeno idea di quanto sia vasto il mondo. Le persone sprecano la loro vita alla ricerca del loro posto su questa superficie immensa, infinita. Tu sai già di essere inglese. È un passo avanti."

Mi piaceva quando si abbandonava a quel fiume di parole, spesso per me incomprensibili. Mi piaceva ascoltarla, con la consapevolezza che avrei serbato nel cuore e nella memoria quelle conversazioni, fino a quando non avessero acquistato un significato anche per me.

"Non temere, andrà tutto bene." mi rassicurò C a bassa voce.

"Corinne..." Ebbi un sussulto e m'interruppi. "Noi non ci vedremo più. Se loro decideranno di assegnarmi, non avrò più bisogno che tu mi porti il cibo."

Mi rivolsi a lei, il cuore che batteva all'impazzata.

"Non voglio!" urlai e gli occhi mi si riempirono di lacrime. "Non voglio Corinne, mi comporterò male, io..."

"Piantala di dire stupidaggini e pensa ad impegnarti stasera! Qui non c'è solo in ballo il luogo in cui dormirai di notte!" m'intimò brusca C.

"Continueremo a vederci, te lo prometto." scandì, con un tono talmente sicuro da rasserenarmi subito.

Allora rilassai i muscoli, abbandonandomi sulla sedia di legno. Era importante che l'ansia non mi sopraffacesse, Corinne aveva ragione.

"Non trovi che i capelli sciolti ti stiano meglio?"

Divertita le lanciai un'occhiata e lei alzò le mani, uno stupore esagerato dipinto sul viso.

"Ehi, il mio era un consiglio totalmente disinteressato!"

"Certo, chi potrebbe mai avere dubbi!" la assecondai, costringendomi a non ridere.

Corinne guardò distrattamente l'orologio e si rabbuiò.

"È tardi. Devi andare." mormorò, aggiustandosi il grembiule mezzo slacciato.

Mi tese una mano gentilmente e io saltai su, pronta ad affrontare la cena.

Corinne mi accompagnò lungo la rampa di scale che scendeva verso il basso, stringendomi una mano sudata. La sicurezza che avevo provato nella mia stanza cominciò a sfumare, gradino dopo gradino.

Quando giunsi dinnanzi alla porta della Mensa, la fame era svanita per la tensione e il mio colorito non doveva essere dei migliori.

"A?" mi chiamò Corinne con dolcezza.

Spostai il mio sguardo su di lei in automatico.

"Ora devi proseguire da sola." Si morse un labbro mortificata. "Tutto bene?"

"Sì..." riuscii a rispondere con voce fiebile.

C mi guardò preoccupata un'ultima volta e sussurrò, facendomi l'occhiolino: "Ci vediamo dentro."

Poi si allontanò verso l'entrata destinata al personale con passo veloce.

Ero da sola. Completamente sola.

Non mi attardai ancora nell'osservare la porta chiusa e la aprii, con una spinta decisa.

Una folla di bambini vestiti con l'uniforme della scuola erano seduti intorno a tavoli bianco latte e addentavano dei rigatoni al sugo, in un innaturale silenzio. Qualcuno di loro mi notò e alzò gli occhi dal piatto ma nessuno sembrava porsi delle domande o avere un po' di curiosità nei miei confronti.

Da una parte ne fui rasserenata, dall'altra ne fui quasi intimorita.

A sbloccarmi dalla mia posizione fu l'irruzione di C nella Mensa, la quale mi dedicò un sorriso incoraggiante, prima che la perdessi di vista nel viavai dei camerieri.

Respirai a fondo e decisi di puntare verso una delle bambine che mi aveva fissato per più tempo. Spiccava per i suoi capelli rossi chiari, che fino a quel momento non avevo mai visto.

Scostai una delle sedie accanto a lei e mi sedetti, cercando di sistemarmi la gonna dell'uniforme. Erano passati quasi tre anni e ancora non mi ero abituata.

"È così scomoda!" mi lamentai, sperando di attirare la sua attenzione.

"Be', qualcosa dovremmo pur indossare." osservò in tono distaccato la bambina.

"In effetti non penso sia il caso di girare nudi per la scuola..." scherzai.

Lei non reagì e ingoiò un altro boccone.

"Io mi chiamo Am..." Mi bloccai, stavo già per combinare un disastro. "A. A e basta."

La bambina però non sembrava nemmeno avermi sentita, così ripetei a voce più alta: "Mi chiamo A."

Dei bambini udendomi si posero un dito sulle labbra, infastiditi, e la sconosciuta divenne rossa come il pomodoro che era rimasto nel piatto.

"Non si può parlare nella Mensa!" sibilò a denti stretti.

"Io volevo solo sapere il tuo nome." mormorai.

Era assurdo.

"W. Mi chiamo W, contenta?"

Non parlammo più fino all'arrivo del secondo.

Appena esaminò il contenuto la vidi storcere il naso.

Carne e spinaci.

Rimasi zitta e mangiai la mia porzione, finché non mi accorsi che W stava accantonando gli spinaci ad un lato del piatto seppur questo fosse vuoto.

"Non ti piacciono."

"Sì che mi piacciono!" mi contraddì lei stizzita, prendendo la forchetta e radunando un boccone sulle punte.

"È normale, non c'è nulla di cui vergognarsi."

Forse si sentiva a disagio perché a me piacevano e a lei no.

"Io odio le patate, ad esempio. E non gradisco molto il tonno." ammisi con sincerità.

"Ma a me piacciono. Devono piacermi." affermò testarda W. Poi si ficcò la forchetta in bocca e iniziò a masticare lentamente, inghiottendo infine con le lacrime agli occhi.

"Se vuoi posso finirli io." le proposi.

Indignata W scosse il capo: "Sarebbe un gesto molto maleducato verso chi ha cucinato."

Ma chi le aveva inculcato quelle idee in testa? C non si era mai offesa quando avevo lasciato qualcosa nel piatto.

"Ti assicuro che loro non si arrabbiano." riprovai.

"Basta A, stai zitta che altrimenti ci mandano nell'ufficio o peggio, in isolamento!"

Evitai di confessarle che io ci ero stata negli ultimi due anni e ricominciai a mangiare i miei spinaci, ammutolita.

Ritornai alla realtà. Quella era stata la prima volta in cui mi ero scontrata veramente con le norme rigide dell'Istituto. Andai con lo sguardo all'orologio appeso al muro e mi sforzai per guardare oltre le tenebre.

Trattenni un gemito.

Persa nei miei ricordi il tempo era sfuggito e mancavano solo due minuti allo scoccare dell'Ultima Campanella. Dovevo sbrigarmi.

Mi alzai in fretta e corsi verso la porta, pregando me stessa di non inciampare.

Lanciai un'ultima occhiata furtiva verso W. Dormiva profondamente.

"Scusami W." mormorai, prima di spalancare la porta.

I faretti del corridoio si stavano spegnendo l'uno dopo l'altro, lasciando che l'oscurità invadesse lo spazio. Presto Miss. Hedd sarebbe passata per vedere se il sistema automatico che monitorava le porte avesse funzionato.

Incominciai a salire, quasi correndo, le scale che portavano all'ultimo piano.

Il luogo dove riposavano i neomarchiati, il personale delle pulizie e in via del tutto eccezionale io.

Era proprio come lo ricordavo.

Il pavimento rovinato sepolto sotto un tappeto verde bosco, uno dei pochi arredi colorati dell'Istituto. Una finestra grande sulla parete destra, la serranda a mezz'asta, che dava sulla folta vegetazione intorno all'Istituto.

L'atrio si diramava in due corridoi: a sinistra i neomarchiati, a destra il personale delle pulizie.

Ero tentata di girare a sinistra per vedere se davvero la stanzetta, che per due anni aveva costituito il mio mondo, fosse diventata uno sgabuzzino.

Non ebbi modo di rifletterci tuttavia, perché d'un tratto avvertii distintamente il rumore di passi.

Provenivano dalle stanze del personale.

Seguendo l'istinto arretrai e ripercorsi i miei passi, correndo giù per qualche scalino.

Accadeva spesso che i camerieri andassero a controllare le condizioni dei neomarchiati, ma di solito io li udivo a notte fonda.

Era strano che lo facessero poco prima dell'Ultima Campanella.

Se avessi mantenuto la calma, non sarebbe successo nulla.

I passi si avvicinavano, più di quanto avessi supposto. Perché non andavano diritti verso i dormitori dei neomarchiati?

M'imposi di non agitarmi, ma il battito accelerò contro la mia volontà.

Erano troppo forti, troppo per trovarsi nel corridoio di sinistra.

Mi raggomitolai nell'angolo che segnava la svolta della rampa, schiacciata contro la parete liscia.

Goccioline di sudore m'imperlavano la fronte, il cuore vibrava nel mio capo stanco.

A quel punto potevo solo affidarmi alla fortuna.



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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

Capitolo VI

"A? Non preoccuparti, sono solo Inez."

Rilassai di colpo i muscoli, il battito che ancora pulsava nelle mie orecchie. Era raro che il panico s'impadronisse in quel modo di me, annebbiando la lucidità con cui avevo imparato ad affrontare i problemi con il passare degli anni.

Cosa mi stava succedendo?

Sembrava che l'arrivo di Miss. Key avesse scatenato i fantasmi che popolavano da bambina i miei incubi, quelli da cui mi risvegliavo con le lacrime agli occhi e il cuore a mille.

Faticavo ad ammetterlo, ma negli anni passati avevo cominciato lentamente a considerare l'Heddem Institute una casa. Ed era la prima volta da molto tempo che, là dentro, non mi sentivo al sicuro.

"A? Ci sei?"

Un fascio di luce m'investì, strappandomi alle mie riflessioni e socchiusi le palpebre. Tesi una mano in avanti alla cieca, mentre i contorni della figura magra di Inez si facevano più definiti.

"Scusa." mormorò I colma d'imbarazzo. "Ti ho spaventata?"

"No, assolutamente. Avevo già in programma di rimanere quasi accecata." replicai ironica.

Le guance della giovane cameriera s'imporporarono e la torcia le scivolò via dalle mani sudate, spegnendosi e cadendo con un tonfo sul marmo delle scale.

"Me l'ha prestata C, non sapevo fosse così potente." farfugliò imbarazzata Inez.

Mi sollevai in fretta da terra, scuotendomi di dosso la polvere.

"Stai be--"

"Perfettamente." tagliai corto.

Soltanto in quel momento osservai Inez. Le ombre le scavavano il viso e serpeggiavano sui capelli chiari, raccolti sulla nuca. Uno strano pezzo di stoffa verde le avvolgeva le spalle, coprendo il pigiama dell'Istituto.

"Ma voi potete vestire degli indumenti che non siano l'uniforme o il pigiama con il logo dell'Istituto? C mi aveva raccontato che valeva pure per voi."

Inez sgranò gli occhi azzurri, con l'aria di chi è stato sorpreso nel commettere un furto.

"Con me puoi stare tranquilla. Non sarò certo io a farti la predica." la rassicurai, forzando un sorriso.

"È di mia madre. C l'ha trovato nella mia valigia e l'ha nascosto, in modo che sopravvivesse all'ispezione." riuscì a confessare, dopo qualche minuto di silenzio.

Stavo per aggiungere qualcosa, ma Inez m'interruppe con impazienza: "Dobbiamo andare. C ti aspetta."

"Dove?"

Inez non mi rispose. Voltò le spalle e iniziò a salire le scale, i capelli una scia albina dietro di sé.

La seguii interdetta.

"Puoi tornare a dormire, capisco che Corinne non si fidi della mia memoria ma ricordo dov'è collocata la sua camera."

Inez si fermò e respirò a fondo, lo sguardo stanco.

"C non dorme più lì. È stata promossa ad aiuto-cuoca. Quella è la stanza della nuova coordinatrice delle cameriera, e ti assicuro che uno scontro con lei non sarebbe piacevole."

Ricominciò a salire gli scalini, come se la spiegazione scarna bastasse a soddisfarmi.

"Dunque andiamo nella sua nuova stanza?" insistetti.

"No."

Ci ritrovammo presto al bivio dei due corridoi. Mossi con sicurezza un passo a sinistra, ma Inez mi afferrò per un braccio.

"A destra?" chiesi dubbiosa.

"Sì." Inez sciolse la presa, un rossore soffuso sulle guance. "Conosci la strada meglio di me."

Spostai l'attenzione sul corridoio, riempito da una fitta trama di tenebre.

"Vuoi dire che..." Mi bloccai, accorgendomi di essere l'unica nel corridoio. Inez se n'era andata.

D'altronde c'era solo una stanza da quella parte.

Presa da un'impazienza irrefrenabile, corsi a perdifiato lungo l'intero corridoio. Un'ondata di nausea mi assalì quando la scorsi, incastrata nella parete grigia, quella porticina sgangherata che da piccola consideravo il solo limite tra me e il resto del mondo.

Paura. Nostalgia. Affetto. Un fiume di sensazioni differenti m'invase.

Afferrai con mano tremante la maniglia, accarezzando con il pollice la vernice scrostata.

Quella stessa porta, un po' più levigata.

Quella stessa maniglia, un po' meno arrugginita.

Quella stessa bambina, un po' meno cresciuta.

Le lacrime offuscarono la mia vista, mentre immagini confuse scorrevano dinnanzi a me.

E fu con quei ricordi che si sovrapponevano nella testa, e quella confusione comune che regnava nel cuore, che io e quella bambina sospingemmo la porta.

Cercai a tentoni l'interruttore, finché la mia mano non trovò il piccolo riquadro.

La lampada si accese, emanando un bagliore instabile. Era appesa al soffitto da un filo di metallo sottile, così sottile che da bambina avevo temuto cedesse mentre dormivo.

La stanzetta mi parve ancora più piccola di quanto avessi memoria, giusto lo spazio perché una bambina di quattro anni riuscisse a respirare. L'aria viziata stagnava nella camera, l'unica finestrella circolare serrata. Doveva essere passata molto tempo dall'ultima volta in cui era stata aperta.

Sulle pareti spoglie, passate dal bianco originale a un giallino malsano, erano ancora visibili le sagome dell'antico mobilio.

Ebbi una stretta al petto. Delle scope spennacchiate e un secchio ossidato avevano sostituito il mio letto.

La mia vecchia camera era davvero diventata uno sgabuzzino.

"Sì, qualche mese fa Miss. Hedd ha deciso che non eri più a rischio e ha ordinato di buttare il tuo letto e l'armadio."

Un brivido mi percorse la schiena, nemmeno mi ero accorta di essermi espressa ad alta voce.

"Corinne!" la riconobbi.

"In persona."

Non feci nemmeno in tempo a voltarmi, che un abbraccio mi travolse.

Un abbraccio che odorava di limone e tranquillità.

Un abbraccio che, per quanto ne avessi esperienza, sapeva di famiglia.

Bastò quello a cancellare l'ansia che avevo provato per l'intera giornata.

All'improvviso C s'irrigidì e si staccò da me. I suoi occhi castani mi squadrarono vigili da capo a piedi, come a volersi accertare che ciascuna parte del mio corpo fosse al posto giusto.

"Inez mi ha riferito il tuo messaggio." enunciò alla fine, il tono incerto.

"Era sospettosa?"

"Perplessa, direi. Immagino lo sarebbe stato chiunque." ribatté C.

"Quale bugia le hai raccontato?" Sogghignai.

"Nessuna."

"Cosa?" Saltai su indignata.

"Calmati."

"Le hai rivelato tutto." sibilai a denti stretti, incredula.

"L'indispensabile." mi corresse Corinne indispettita. "Inoltre bisogno di aiuto. Inez manterrà il segreto."

"Come puoi esserne sicura?" la attaccai ostile.

"Non lo sono."

"Come posso esserne io?"

"Non lo sei." rispose. "È vero, di questo non sono certa nemmeno io, ma so che Inez è arrivata all'Istituto appena un anno fa. So che si è separata dalla sua famiglia d'adozione e dalla sua terra d'origine. So che ha lasciato in Svezia due fratelli e una sorellina in procinto di nascere. So che forse non la conoscerà mai. Ora dimmi, secondo te parlerà?"

Tacqui, non trovando nulla con cui replicare. Sapevo che Corinne aveva ragione, seppur la mia testardaggine m'impedisse di parlare.

"Terrà la bocca cucita." ribadì.

"Sembra affidabile." le concessi a bassa voce.

Soddisfatta C schiuse le labbra in un sorriso e domandò: "Di cosa dovevi parlarmi?"

All'improvviso mi sentii un verme. Ciò che fino a qualche attimo prima avevo ritenuto di vitale importanza, mi sembrò frutto di vaneggiamenti insensati.

"Ti ricordi il giorno in cui hai visto il mio marchio?" chiesi titubante.

La ragazza si morse un labbro, ma non rispose.

"Corinne...?" la richiamai.

Pareva essersi persa nei suoi pensieri, come quando da ragazza s'incantava nel decantare le meraviglie di un mondo che io non avevo mai conosciuto.

"Amira, giungi dritta al punto."

Ebbi un sussulto. Non ero abituata a udire il mio nome da una voce che non fosse la mia. Sebbene lo avessi svelato molti anni prima a C, lei lo usava raramente. Preferiva tenerlo per i momenti più solenni, quasi che pronunciarlo troppo ne riducesse il valore.

"Stamattina Miss. Key ci ha ordinato di scoprire il braccio destro. E io non l'ho fatto."

Corinne non si scompose di un millimetro, limitandosi a mantenere lo sguardo fisso nel vuoto.

"Hai qualcosa da dire o ti sembra un comportamento ordinario?" azzardai.

"Sì, avrei molto da ipotizzare o domandare. Ma penso che tu non abbia voluto incontrarmi qui perché ti confondessi ancora di più."

Si sedette sul pavimento impolverato, la schiena appoggiata a una parete. Anch'io mi accovacciai, le ginocchia strette al petto.

Restammo così un'infinità. Entrambe sapevamo che quella conversazione avrebbe pesato. Non sapevamo su cosa, non sapevamo in che modo, ma lo sentivamo.

Perché quei momenti cruciali, quei momenti che si ricordano per il resto della vita, si sentono. Anche quando non sono ancora arrivati.

"Amira?"

Forse era passata un'ora quando Corinne si azzardò a chiamarmi. Forse erano passati solo cinque minuti.

"Abbiamo rimandato troppo a lungo questa conversazione. Sappi che quello che conosco è davvero poco. Troppo poco." sussurrò.

"Non te ne faccio una colpa."

"Lo so." La voce di Corinne tremò. "Fammi una promessa. Promettimi che, qualunque cosa ti rivelerò, tu non commetterrai l'errore di sentirti imprigionata."

"Ma io sono imprigionata. In questo Istituto, in questa stanza, in questo marchio, in questa lettera." dissi con amarezza.

Corinne volse il volto verso di me, gli occhi lucidi di lacrime, i ricci appiccicati al volto.

"E lo sarai per sempre. Non smetterai mai di essere imprigionata. Ma promettimi che non concederai mai a te stessa di sentirti tale."

Sembrava così decisa, così disperata, che annuii senza riflettere.

"Bene." Si rasserenò e tornò la fiduciosa, ferma C di sempre. La sporgenza del dirupo a cui mi ero aggrappata per non cadere nel vuoto.

"Sono pronta."

"Bene." ripeté la giovane donna. "Da dove vuoi cominciare?"

"Dal Marchio. Perché si trova a sinistra e non a destra?"

Sfiorai inavvertitamente la pelle su cui, impresso come un disegno, c'era il marchio che mi perseguitava dalla nascita.

"Sai come siete chiamati, tu e il resto degli studenti?"

"Marchiati." risposi di getto.

"Il termine in realtà è inesatto. Per Marchiati s'intendono tutte le persone che portano quello scarabocchio sul braccio, su qualunque braccio."

Lo stupore si fece strada sul mio volto, mentre una strana adrenalina mi attraversava come una scarica elettrica.

"Questo significa che--"

"Sì A. Non sei da sola." m'interruppe, un sorriso malinconico dipinto sul viso.

"E gli altri dove stanno?" Mi trattenni a stento dall'urlarlo.

"Fuori. Esistono delle Comunità, a quanto so. Ma A, non è il posto dove si trova il Marchio a determinare la categoria a cui appartieni, quella è una mera formalità." spiegò Corinne.

"E cosa allora?" la incalzai, gli occhi brillanti d'entusiasmo.

"Come ne fai Uso." disse in un soffio.

"Uso? Significa che loro non trasformano la materia in...?"

"No, non trasformano la materia in non-materia. Loro..." Indugiò, mordendosi un labbro.

"Loro?"

Quell'attesa era esasperante.

"Loro si staccano dalla realtà." disse alla fine con un filo di voce.

"Non capisco." Agrottai le sopracciglia.

"Nemmeno io ne so tanto a dire il vero. Ho udito Miss. Hedd parlarne con i miei genitori, poco prima che venissi spedita qui." svelò a bassa voce. "Poi ho udito qualche conversazione occasionale, nulla più. Tra queste quella che si svolse tra Miss. Hedd e un professore di cui non ricordo il nome."

"Sul serio?"

"Sì. Dovevo portare una tazzina di caffé nell'ufficio di Miss. Hedd. Lui stava dicendo che saresti diventata una di loro, che se si apparteneva alla nascita a loro, si sarebbe appartenuti a loro fino alla morte." narrò Corinne.

"E Miss. Hedd?"

Corinne assunse un'espressione grave e distolse lo sguardo.

"Lei ha detto che ti sarebbe stato impossibile nell'Istituto, che lei te lo avrebbe reso impossibile." rispose dopo qualche minuto, riluttante.

Io aprii e richiusi la bocca, incapace di proferire parola.

Perché quel professore credeva che sarei diventata una di loro? Cosa avevo di diverso rispetto agli altri alunni, eccetto la posizione del Marchio che, a quanto sembrava, non aveva valore?

"A, non allarmarti. Ci sono io e ti aiuterò, qualunque sarà il tuo desiderio." promise, la voce traboccante di sicurezza.

"Penso sia tardi." mormorai fredda.

"A ma--"

"Penso sia tardi." ripetei con veemenza. "Devo tornare nella mia stanza, la solita."

"D'accordo." si arrese C, incominciando a frugare nelle sue tasche.

Io mi avvicinai alla finestra e la spalancai, forzando il meccanismo arrugginito. Il vento fresco filtrava nel mio pigiama leggero. Mi sarei beccata un raffreddore forse, ma non m'importava poi tanto. Avevo bisogno di respirare aria pulita, aria chiara, aria priva di punti interrogativi.

"Trovate!" esultò debolmente Corinne alle mie spalle, riportandomi alla realtà.

Richiusi la finestra con un colpo secco.

Corinne mi lasciò scivolare una chiave nella mano e con noncuranza aggiunse, le labbra accostate al mio orecchio: "Vengono chiamati Neroveggenti."

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