Così è se vi pare. di Awesomissima123 (/viewuser.php?uid=788876)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parla più piano. (Het!SpAus) ***
Capitolo 2: *** E dimmi tu com'è possibile. (PruAus) ***
Capitolo 1 *** Parla più piano. (Het!SpAus) ***
[
Dunque, dunque, dunque.
Con le
introduzioni faccio davvero pena ma credo che qui sia d'obbligo.
Davanti
a cosa vi trovate? Semplice, una raccolta. Ah-ah.
Più
che altro, mentre venivo schiavizzata dalla mia migliore amica per
scrivere una fanfiction, m'è venuto il lampo di genio,
qualcosa per dare una spinta all'ispirazione. Ho chiesto alla bella
gente sul fandom di facebook di darmi una Ship/pg ed un particolare
(canzone, oggetto, periodo storico, laqualunque), per ogni proposta, io
proverò a scrivere un pezzo di questa raccolta.
Quindi,
bando alle ciance ed iniziamo.
Mi hanno
assegnato:
SHIP:
Het!Spaus; Antonio Fernandez-Carriedo, Roselind Edelstein.
Particolare:
una canzone, "Parla più piano", nella versione di Placido
Domingo.]
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Nel 23 ottobre 1530, Carlo V,
viene incoronato imperatore del Sacro Impero Romano.
«Non
dovete volermi bene per forza.»
Le
aveva detto quelle parole, un pomeriggio dopo averla accompagnata in
una delle loro silenziose passeggiate nei giardini. Austria aveva gli
occhi imperturbabili di una donna e l'alone austero che stonava quasi
con l'aspetto da ragazza che scavalcava da poco l'adolescenza. Non gli
aveva risposto, lui non aveva mai capito se lo ritenesse immeritevole
delle sue parole, dei suoi pensieri, persino del suo sguardo ma s'era
fatto bastare il dubbio e la possibilità di starle accanto,
seppure in silenzio (questo sì, ogni tanto risultava
particolarmente difficile).
L'aveva vista la prima volta, sull'altare eppure prima aveva provato a
scriverle, con parole dei trovatori. Uno scambio epistolare a dir poco
deludente: anche sulle pergamene, la donna era risultata un muro e lui
aveva pensato ingenuamente si trattasse di timidezza ma -per quanto gli
si rimproverasse di non saper leggere l'atmosfera- incontrati gli
occhi, dopo aver alzato il velo, gli era stato chiaro che Austria non
era timida: Austria era impietosa.
[Parla più piano e
nessuno sentirà
il nostro amore lo
viviamo io e te.
Nessuno sa la
verità
neppure il cielo che ci
guarda da lassù.]
S'era
impegnato a scanagliare oltre la coltre di ghiaccio che lei aveva
costruito intorno a sé, come fosse un artista, come avesse
un piccolo scalpello, in maniera quasi certosina, dava un colpetto ed
un po' di difese cadevano.
Difese? Era la parola giusta?
Roselind aveva bisogno di difese?
«Voi
avete mai amato qualcuno?»
«Sono arrivata illibata al matrimonio, se vi preme
saperlo.»
«Non intendevo dire questo, scusatemi. Vi ho
offesa?»
«No, affatto.»
Aveva
ripreso a suonare l'arpa e lui era rimasto di nuovo in silenzio ad
ascoltare la melodia, 'chè pur non avendo risposto alla sua
domanda a lui sembrò di capire ed ebbe una speranza: se lei
aveva amato una volta, poteva tornare a farlo.
«Non
ho mai pensato voi fosse solo un cavillo politico per arrivare ad una
maggiore potenza. E non ho intenzione di esporvi come un trofeo,
Roselind. Dovreste permettermi di dimostrarvelo.»
[Insieme
a te, io resterò, amore mio.
Sempre così.]
Capì
di dover conquistare le sue attenzioni, s'impegnò a parlarle
con parole della sua lingua, s'impegnò a farsi ascoltare con
la stessa melodia e ogni partenza, ogni lontananza, fu scandita da alte
missive, imparò la maestria della metrica, la
musicalità delle rime e la potenza reale delle
parole.
Ed ogni volta che tornava, lei gli concedeva una piccola dimostrazione:
ora uno sguardo, ora un lembo di pelle del polso, ora una parola. Gli
sguardi diventarono intrecci, la pelle carezze e le parole diventarono
discorsi. Laddove Antonio risultava fantasioso, astratto e sognatore,
Roselind preferiva la freddezza della praticità, della
realtà. Qualcosa, però continuava a cambiare:
sospirava ogni volta che lui apriva la bocca. Non sospiri d'amore, ma
sospiri teneri e snervati di chi conosceva quali voli pindarici
potevano uscire da quelle labbra e -a ben vedere- Spagna li preferiva
ai sospiri d'amore: erano la palese dimostrazione che Roselind l'aveva
ritenuto degno di conoscerlo e nel conoscerlo, non seppe mai se
volontariamente, o involontariamente, lei aveva iniziato a farsi
conoscere.
Tempi
di tumulto, portarono battaglie e nostalgie, lei gli concesse il
proprio fazzoletto da portare sul fronte e lui lo portava al naso ogni
volta che il marciume gli arrivava ai capelli, ogni volta che era
troppo distante, ogni volta che il sangue gli sporcava l'anima e gli
pareva che fosse un detergente perfetto. Assenza prolungata, nessuna
lettera e nessuna notizia: nessuna notizia che potesse o dovesse
arrivare ad una donna, lui sapeva -senza alcuna presunzione- lui
sentiva l'ansia annichilente dell'attesa, di lei che non lo vedeva
tornare e che non poteva sapere, non poteva immaginare che il
fazzoletto restava stretto tra le dita.
La immaginava guardare le grandi porte, la immaginava scivolare tra i
corridoi umidi ma non avrebbe mai immaginato di trovarla nelle sue
stanze, la notte del ritorno.
Non c'era stato bisogno di parole, di spiegazioni anche se lei aveva
provato a parlare. Lui l'aveva zittita passando un indice sulle labbra
sottili e l'aveva sentita tremare quando l'aveva baciata, senza
accorgersi che anche lui tremava.
[Parla
più piano
e
vieni più vicino a me.
Voglio sentire gli occhi miei
dentro di te.]
S'accorse,
lui s'accorse di averle lasciato un pezzo di anima. S'accorse che con
l'unione dei corpi, il proprio spirito aveva raggiunto le
più alte vette di appagamento e tenendola a sé,
nella mollezza del mattino, nel torpore seguente il piacere carnale,
s'accorse anche di quanto lei fosse alta, più alta di
qualunque madonna, più luminosa e irraggiungibile di
qualunque astro e quasi provò vergogna d'averla toccata,
timore d'averla sporcata, donna angelo più che creatura.
S'accorse che avrebbe potuto fare qualunque cosa solo per arrivare a
lei, che l'aveva già fatto e che avrebbe continuato pur
restando un gradino più in basso e più in ombra
di una tale presenza celeste.
S'accorse
troppo tardi di essere stato accecato.
S'accorse troppo tardi che troppa luce inebetisce i sensi.
Troppa
luce ma non abbastanza per colmare il buio che aveva dentro.
Quando il seme del dubbio, inizia a rosicare dall'interno,
c'è poco da fare: la vox
populi cozzava con l'immagine che Antonio aveva di
Roselind.
E preferì ancora stare in silenzio, ancora tacere e covare
all'interno il marcio, perché non doveva toccarla,
perché i pensieri solo avrebbero potuto offendere.
I pensieri, però, iniziarono ad annichilirlo, a snervarlo, a
tendere all'infinito i suoi nervi. La vox populi si
scagliava esattamente dove anche il suo esercito perdeva legioni.
Non ricordava bene se fu il fuoco che scoppiettava nel camino, se la
freddezza dei gesti di Austria nel voltare le pagine del suo libro. Nel
guardarla, iniziò a notare delle ombre che le danzavano sul
viso.
E provò a calmarsi, lui provò a calmarsi e a
tornare alla realtà solo che la realtà che lui
desiderava sembrava iniziare a schernirlo, due figure della stessa
donna lo portavano alla nevrosi e quando le prese il braccio per farla
alzare dalla poltrona, capì che aveva messo troppa irruenza
dal verso strozzato della donna.
Non riuscì, lui non riuscì ad allentare la presa,
la strinse maggiormente mentre s'abbassava a guardarla negli
occhi.
Aveva
avuto ragione, Austria
era imperturbabile.
«Voi
non sopportate più la mia vista. Vi annoio? Vi spavento in
questo momento? I vostri pensieri sono rivolti a qualcun
altro.»
E
lo sussurrò senza aggiungere altro, senza muoversi. Neanche
lei si mosse, non lamentò alcun fastidio al polso,
assottigliò lo sguardo e non rispose ma smise di essere
imperturbabile 'chè schiuse le labbra per prendere aria.
Spagna corrucciò le sopracciglia ed improvvisamente la luce
si fece più fioca, lei iniziava a perdete le ali:
impossibile, non era possibile. Doveva esserci qualche problema, lui
doveva avere qualche problema. Poggiò entrambe le mani ai
lati delle spalle dell'altra e si chinò ancora su di lei per
osservarne meglio il volto.
«Voi
non avete paura di me. Voi temete quello che potrei dire. Ho fatto
qualunque cosa per voi, v'ho amata come nessun'altro sarebbe capace,
v'ho stimata come persona. E voi... Non c'è bisogno
rispondiate.»
L'aveva
lasciata, perché il disgusto s'era unito ad in dolore
lancinante, il sogno s'era accartocciato e bruciava da solo, lo
specchio s'era rotto.
Non riuscì a guardarla, non più, la luce era di
fiamme cocenti ed ustionanti, le diede le spalle e quando la
sentì muoversi alzò una mano, tra le dita strette
a pugno, il fazzoletto immacolato.
[Nessuno
sa la verità
è un grande amore e mai più grande
esisterà.]
«Non
avvicinatevi. Eravate la mia Madonna, la mia rosa celeste ed ora non
riesco a vedere altro che una volgare prostituta degli
ottomani.»
Aprì
la mano, il pezzo di stoffa scivolò a terra.
«É
sporco.
Addio.»
Era un grande
amore e mai più grande esisterà.
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A belli,
semo arrivati fin qui, eh?
Complimenti!
Insomma. Grazie a chi ha letto, grazie a chi recensirà e
grazie pure a chi se ne passa per l'anticamera del cervello.
Grazie
alla mia migliore amica che m'ha messo sotto torchio (no in
realtà, te pozzino.).
E nulla,
belli. Ci si vede presto, si spera.
Nu
bacion!
|
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Capitolo 2 *** E dimmi tu com'è possibile. (PruAus) ***
PruAusMorgan
[ E
dunque, eccoci con la seconda sfida.
Mi hanno assegnato:
Ship - PruAus
Particolare: https://www.youtube.com/watch?v=o0CUELSGEvE
Vi lascio alla lettura e lascio tutte le note per la fine. ]
-10 Novembre 1989-
Sigarette e cioccolato fondente: le prime nella manciata di minuti tra
un capitolo e l'altro del grande libro di Storia che studiava
meticolosamente, ossessivamente, per capire quel che non era andato e
che, perciò, non sarebbe mai andato nonostante le
ostinazioni umane, ed il cioccolato a sciogliersi sulla lingua come
quel diavolo di amore che lui non fu capace di fermare.
L'aquila aveva
spiccato il volo estremo, prima di essere inghiottita dall'atmosfera ed
a lui restavano solo le endorfine a sfrigolare sotto il palato. O
chissà dove, in quel suo imperscrutabile organismo. Le iridi
si bloccarono e solo allora si accorse di leggere lo stesso rigo da
almeno un'ora ed, in effetti, non aveva neanche idea che cosa
esplicasse. Scosse il viso e spostò lo sguardo sulle tende
pesanti e chiuse, non le aveva più riaperte e nonostante
questo, un fascio di luce, prepotente aveva sfidato il pesante velluto;
come un lampo tagliava la stanza. Si tolse gli occhiali mentre
osservava il pulviscolo danzare nel raggio e si chiese, per un istante,
se quella polvere s'era adagiata anche sulle proprie membra, sulle
mani, sulla testa, nella mente. Si chiese se gli era entrata nell'anima
ed istintivamente il volto assunse un'espressione infastidita da
pensieri che giudicò patetici
Si mosse
lentamente per avvicinarsi al pianoforte e sentiva moviola nell'animo
esattamente laddove c'era flemma nel corpo, lui che era sempre stato
così raramente preda di picchi emotivi, raramente scomposto,
aveva sempre imparato a tacere i tumulti ed i turbamenti, giudicati
dall'inizio dei tempi, punti deboli, lui aveva le sinapsi scordate.
Inarcò un
sopracciglio e passò una mano leggera sui tasti, la
sollevò all'altezza degli occhi e sfregò i
polpastrelli: c'era polvere anche lì e non reggeva
più la scusa dell'essere mancato per anni, non reggeva
giacchè con il corpo lui era ritornato diversi mesi prima.
Non reggeva
più la scusa della stanchezza, non quando la psicosi l'aveva
portato a dimostrare quanto potesse essere forte un animo sfaldato
seppur in braccia debilitate.
Sibilò
innervosito e sfiancato, prese posto e lasciò che il ritmo
incalzante di Ravel prendesse possesso delle fiamme che divampavano.
Non potè fare a meno di sentirsi ancora più
miserabile nel cadere in un cliché di dubbio gusto,
perché il rosso delle lingue di fuoco faceva presto a
confondersi con lampi rossi in occhi troppo conosciuti.
Tirò un
profondo respiro perché ancora i ghirigori della mente erano
scappati al proprio controllo, velocemente avevano raggiunto ricordi
che lui stesso aveva lasciato ad un passo dal dimenticatoio. Non s'era
mai interrogato sul perché non ce li avesse gettati dentro:
mancanza di forza o volontà di tenerli? Consciamente geloso
di qualcosa che era di difficile interpretazione persino per
sé stesso e giaceva entro l'ombra e l'anima.
C'era poca armonia nel
buio di quelle arcate mentali, poca chiarezza e troppa
tempestività, esattamente come il concerto per la mano
sinistra di Ravel.
Che disastro.
"Also
seien Sie bitte nett wenn ich' m ein Durcheinander.": gestire le reminescenze, la
remembrance
era
impossibile e Roderich s'apprestò a viaggiare nel tempo,
esattamente mentre le pareti della stanza perdevano i contorni. C'erano
due momenti esatti in cui ricordava di aver detto quelle parole, per
quanto i momenti stessi fossero sfocati, dalla psicosi uno, dal dolore
l'altro.
Brandiva quella che
era stata un'abat-jour, quando Erzsébet l'aveva trovato e
nel mezzo della stanza, osservava la carta da parati strappata, lo
scrittoio a pezzi ed i propri guanti macchiati di sangue,
ricordò il dolore acuto alle cuticole, ricordò
gli occhi dell'Ungherese infossati su un viso smagrito. Lei aveva
trasalito e lui aveva notato d'aver davanti una donna spogliata dalla
sua corazza di guerriera. Nella follia gli fu chiaro che quella guerra
aveva cambiato chiunque e ciò non contribuì a
sedare le eco della frustrazione, le aveva intimato di allontanarsi
'ché non c'era spazio, non c'era modo, non c'era motivo per
cui tutto dovesse fingere di essere blandamente perfetto ed armonioso,
'ché non c'era nulla di giusto in quella finta calma "quindi,
per favore, perdonami, se sono un disastro", lo aveva detto allora prima
di sferrare un ultimo colpo alla parete specchiata. Nel silenzio
ascoltò i singhiozzi di Erzsébet e
giudicò bastassero anche per lui e non ebbe la forza di
tornare a guardarla, non ebbe la lucidità di fermarsi a
parlare; nessuno dei due ne avrebbe più parlato. Nessuno
sarebbe più ritornato a quel 25 febbraio del 1947.
Ma più di
un secolo prima, quella stesse parole erano stata esalate tra il dolore
di una perdita e l'ira dell'impossibilità di accettarne la
responsabilità, neanche toccando le guance gelide di un viso
giovane era riuscito a capacitarsi che la vita non le avrebbe
più tinte di rosa alla vista di una certa figura italiana,
neanche davanti alla croce bianca era stato capace di prenderne atto
eppure la presa sulla propria spalla, fu ristoratrice per qualche
istante. Non s'era mosso eppure l'altro aveva stretto di
più, come avesse capito e Roderich aveva spostato lo sguardo
sul terriccio bagnato di pioggia, poi sui propri stivali macchiati di
fango e Gilbert aveva sbuffato, s'era abbassato ed aveva passato una
manica della propria divisa sulla punta delle scarpe austriache poi
aveva alzato il viso e l'aveva scosso. "Sei un
disastro, Österreich." e l'aveva detto con un mezzo
sorriso amaro, per lui fu troppo, s'accorse di avergli sferrato un
calcio sotto il mento solo quando lo vide lungo disteso e seppe che
Prussia aveva deciso di non reagire, lo vide spalancare la bocca ed
iniziare a ridere e si convinse di non aver notato i sigulti dietro le
risate e di non aver udito quel flebile "è
colpa nostra"
, perchè preferì sostituirlo con uno sputato "è
colpa mia, quindi, per favore, perdonami se sono un disastro." l'ironia di cui erano
impregnate le parole punse persino sé stesso e Gilbert smise
di ridere all'istante. Strappò la targhetta dalla croce
bianca e gli afferrò la mano, lo costrinse ad aprirla e la
poggiò nel suo palmo. Poi gli aveva dato le spalle e s'era
allontanato.
Ricordò di
essere rimasto con il pugno chiuso e lo sguardo su quelle spalle che si
facevano sempre più piccole, più lontane.
Non c'è
soluzione alle decisioni della mente perché, diametralmente,
proprio quelle stesse spalle lo portarono ad un contesto diverso.
Non erano lontane, non
erano sporche di fanghiglia ma erano vibranti e tangibili, guizzavano
sotto le proprie dita. Ricordò di averne saggiato ogni
cicatrice, ogni segno, ricordò di esservici afferrato, di
averle segnate lui stesso mentre le labbra non avevano avuto il
coraggio di riempirsi del suo nome e la mente fingeva di non essersi
ancora arresa ma non c'era risposta migliore delle carni molli. Stava
lì, con le dita tra i suoi capelli e c'era nei
suoi baci una foschia, sembrava un temporale con la pioggia ed i
fulmini dentro gli occhi ed irruento lo prendeva, lo avvolgeva di
quello che, se non era amore, ne era almeno imparentato.
Gli avrebbe chiesto
cos'era quel suo tenerlo a lui, sulle lenzuola indolenzite dal freddo
mattutino, avrebbe voluto chiedergli cosa voleva, cosa si aspettava ma
sembrò che a lambirlo con le labbra, a segnarlo con le mani,
a dondolare con la testa sul petto non poteva esserci davvero una
domanda e migliore risposta non avrebbe ghermito.
Quindi s'era
semplicemente alzato, le natiche scoperte e le cosce toniche sporche di
umori, aveva fatto una smorfia -chissà di quale significato-
e se n'era andato.
La melodia si
interruppe ed è meglio dire che fu lui ad interromperla
perché d'un tratto s'era sentito mancare il fiato sentendo
la bocca arida esattamente quant'era acuta l'aridità che
avvertiva dentro. Guardò le dita sottili e nodose e gli
sembrarono quasi grigie.
Oh, poveri uomini secolari che avevano scoperto il meglio del sesso ma
a cui era stato inflitto il peggio dell'amore. Ed era sempre
stato impossibile scindere le loro persone dalle loro nazioni, ogni
battaglia, ogni guerra, loro la combattevano con l'orgoglio personale
ed ogni corno di vittoria, ogni marcia batteva impietosa sui loro petti.
Roderichi aveva sempre considerato le mezzemisure, Gilbert di
mezzemisure non ne conosceva.
Gilbert amava gli estremi, Gilbert era i suoi estremi e lui s'era
sempre trovato nel mezzo. Lì dove batteva il grande ego
Prussiano, lui aveva scoperto l'insicurezza maggiore e s'era
attracchita alla propria anima da diventare anima stessa. C'era stato
un momento, sì, c'era stato un momento in cui entrambi
avevano pensato d'aver tempo per sempre quando avrebbero dovuto sapere
che il tempo è la prima cosa che scarseggia: in guerra,
nelle relazioni, nella vita.
E Roderich l'aveva imparato. A quale prezzo, poi?
Il tempo non è galantuomo, perché s'accavallava
sulle sue spalle, lo inglobava e lo soggiogava.
I giorni di assenza erano diventati mesi ed i mesi avevano fatto presto
a diventare anni e confusione prima di lasciare posto alla crudele
consapevolezza.
Il suono sgraziato del campanello tagliò a metà i
propri pensieri come il fascio di luce aveva fatto con la stanza e lui
fu costernato: tornare alla realtà così
bruscamente fu quasi traumatizzante.
Ma nulla fu più traumatizzante di quello che
trovò.
«Ci risiamo: io mezzo
morto e tu mezzo vivo. E dimmi tu come cazzo è
possibile.»
Non s'era girato
neanche a guardarlo, restando seduto sulle scale del portico ma aveva
avvertito la sua presenza prima ancora che aprisse la porta, era
rimasto immobile con il rischio ed il terrore che potesse scompaire,
che potessero scomparire entrambi e si chiede se l'avrebbe visto
cambiato, se prima di parlare, l'austriaco, avesse deciso di prendere
un archetto per darglielo dritto in fronte. Scosse il viso e
sbuffò divertito anche se da ridere c'era poco. A ben
vedere, s'era catapultato appena ne aveva avuto le facoltà
senza neanche informarsi se lui abitasse ancora lì ed ora,
che ce l'aveva a pochi passi, non riusciva a trovare la forza per
reggerne lo sguardo. Assurdamente divertente per chi aveva sempre
proclamato la propria magnificenza. Gli occhi cremisi sondarono il
vialetto asfaltato e non sapeva, Gilbert davvero non sapeva, se la
debolezza fosse dovuta a reali deficit fisici o allo sguardo dell'altro
che gli gravava sulla schiena neanche fosse un masso di una tonnellata.
Nell'abbraccio di Ludwig, solo ventiquattro ore prima, aveva trovato
ristoro ma non cura ai propri affanni e per quanto fosse un ottimo
attore ed un bravissimo dissimulatore, s'era trovato a vagare nei
meandri della propria anima. Non c'era stat modo per restare lucido se
non rivolgergli qualunque pensiero, che fossero cose in sospeso o sensi
di colpa, che fosse la dicotomia di un uomo che si divideva tra quello
che era e quello che non sarebbe stato più, la sua dicotomia
prendeva fattezza umane e, nella fattispecie, sembianze di Roderich.
Nei pochi istanti di immobilità gli parve di cadere in una
stasi dei sensi in cui la realtà perdeva i contorni
e si sentì deprecabile nell'apprendere che forse
non erano cresciuti entrambi. Si domandò se entrambi
avessero perso ormai troppo, se Roderich si fosse rotto quanto lui. Si
fermò a riflettere in quanti cocci lui si fosse frantumato e
su quanto sarebbe stato impossibile rimetterlo insieme, rimetterli
insieme perché combaciassero alla perfezione, visto che
molti pezzi di lui, dell'austriaco, di loro, erano andati perduti per
sempre. Inclinò lievemente il busto per guardarlo,
finalmente, ed entrambi furono sospesi in quel momento: lo vide
più magro, forse persino invecchiato nello sguardo ed,
ancora, si chiese come fosse possibile.
Schioccò la lingua contro il palato e scrollò le
spalle perché quel silenzio era avvilente ed annichilente.
Avrebbe preferito mille volte delle urla, degli insulti e non
quell'espressione imperturbabile, 'ché gli faceva fare i
conti con qualcosa a cui aveva provato mnemonicamente a sfuggire:
sé stesso. E si vide, vi si specchiò e si
giudicò deprecabile, debole e lo spettro di quel che era. Lo
trovò quasi divertente ma le labbra non si piegarono verso
su, si storpiarono in una linea amareggiata ed infastidita. Avesse
potuto alzarsi e scuotere Roderich, urlargli di non sbattergli in
faccia la loro
realtà ma non ci riusciva: le iridi erano affamate dei
dettagli del suo corpo, dopo essere state troppo tempo a guardarlo solo
nei ricordi sbiaditi. Sondavano il corpo dell'austriaco imprimendo ogni
curva nella memoria, imprimendola a fuoco come se dovesse scomparire
ancora. Lui, di quel corpo e di quella mente conosceva tutto anche se
non l'avrebbe ammesso. Deglutì e giurò che se non
fosse accaduto qualcosa, probabilmente uno dei due si sarebbe
sgretolato al suolo e scosse il viso abbassando lo sguardo sulle mani
del pianista. Si umettò le labbra e s'accorse che nella
moltitudine di parole e discorsi che s'erano affollati nella sua mente,
non riusciva a distinguerne mezzo: si accomumlavano tutti sulla lingua
e bloccavano la possibilità di parlare.
Herr Niemand:
c'era stato un tempo in cui Österreich aveva preso a chiamarlo
così, tante primavere prima e lui, in realtà,
l'aveva sempre trovato divertente proprio perché gli era
sembrato un nomignolo sbagliato ed impossibile da appioppargli, lui non
sarebbe mai stato
Nessuno, secoli prima aveva pensato che brillare
immensamente era condizione necessaria per essere sempre Qualcuno e s'era
sbagliato. S'era sbagliato ed era stato accecato quando dopo quel 12
marzo 1938 aveva preso a chiamarlo, per crudele contrappasso, lui Herr
Niemand, l'austriaco. Calò le palpebre sugli occhi e scosse
ancora il viso, come se al gesto fisico, potesse conseguire il
movimento dei propri pensieri, perché si allontanassero da
quei momenti, 'chè già risultava complicata anche
solo così.
«Niemand.»
Sussurrò con un verso gutturale e roco che doveva somigliare
ad una risata ma si ridusse ad esserne l'imitazione scarna e patetica e
si estinse in un colpo di tosse. Non era mai stato semplice intuire
tutte le sue perplessità, in generale, c'era sempre stata
una certa incomunicabilità tra loro.
Non era mai stato semplice abbassare le barriere per entrambi ed, in
effetti, non l'avevano mai fatto e, se mai fosse successo, non era mai
stato un processo conscio e, comunque, troppo duraturo. Ricordava bene
quanto l'austriaco poteva essere meraviglioso oltre la coltre di
austerità e di regole, solo che non glielo aveva mai detto
e, probabilmente, non lo avrebbe fatto.
Non era mai stati semplice trovare il modo di disinfettarsi l'anima.
Tra le mani gli era ormai rimasto solo uno stralcio di sogno e s'era
rivisto, riflesso allo specchio: non s'era riconosciuto, non come negli
occhi di Roderich. Si vedeva e si riconosceva. Sembrò statua
di sale e credette si fosse ormai pietrificato.
Come gli avesse letto nel pensiero, Austria si mosse. Gli porse la mano.
«Alzati.»
C'era sempre stata
imcomunicabilità tra di loro, 'chè le parole
risultavano sempre ridondanti, superflue e mai adatte. Roderich seppe
di dover agire prima di dire qualcosa di inopportuno o -più
probabilmente- prima che lo dicesse l'altro. Dopo il trauma della sue
presenza ma prima di qualunque domanda, prima di qualunque spiegazione,
lui lo vide vivo davanti a sé. Prima di sentirlo mortalmente
magro, prima di giudicare la voce fastidiosa, capì quanto
fosse stata davvero importante la sua voce.
E cosa contava l'armonia delle spiegazioni, l'armonia dei modi, la
posatezza delle azioni, la linearità dei pensieri quando
divampava la completezza.
Si sentì trafitto dall'abbraccio, 'ché giammai il
prussiano si sarebbe limitato a prendergli la mano: foss'anche solo per
non seguire un consiglio o per andare contro un ordine travestito da
consiglio, quello s'era slanciato a circondargli il collo con le
braccia.
E andava bene così, ci sarebba stato tempo per tornare sulle
ferite, sui segni, sulla lontananza e sui cambiamente. Ci sarebbe stato
tempo per gettarsi sangue e veleno addosso, ci sarebbe stato tempo per
ritornare ad essere piccati ed orgogliosi.
In un momento di scoordinata felicità e di totalizzante
confusione, lui non sentì il bisogno di porsi dei limiti,
degli estremi.
Perché Gilbert era i suoi estremi.
E fu il prussiano a scorrere la schiena dell'altro con le mani, a
capacitarsi che fosse lì tangibile e non più il
miraggio di una mente resa folle dagli stenti della prigionia. Si
concesse di lasciare che le dita tremassero sul collo sottile altrui,
sui contorni della mascella più squadrata dalla magrezza.
Si concessero entrambi l'illusione bella e cheta d'essere completi ed
appagati.
Ci sarebbe stato tempo per vomitarsi dolore ed incomprensione, per
aprire il vaso di Pandora.
Si concessero l'illusione di aver suggellato una promessa tacita con un
bacio che parve durare una vita.
Tacita perché le parole non avevano mai funzionato e
perché ciò che c'era d'importante, l'avevano
sempre detto in silenzio.
Una vita era poco e non bastava ma per il momento andava bene
così.
Una vita per chi è a cavallo mezzo morto, per chi lo
è mezzo vivo.
"E dimmi tu come cazzo
è possibile."
[Allora.
Allora.
Io devo ringraziare Morgan (che m'ha fornito il video di cui
è ideatore. Quindi se avete aperto i rubinetti come me, non
è colpa mia) perché m'è piaciuto tanto
scrivere questa cazzatina. Sono davvero contenta che la mia prima
PruAus sia stata ispirata da una cosa così carina.
In generale, m'è venuto in mente che potrei mettere in forse
la creazione di una serie proprio ispirata a questa fanfiction (e
quindi al video). Vedrò.
Magari sarebbe meglio terminassi almeno una delle tante ff che ho in
sospeso.
E dunque.
Grazie a chi ha letto e a chi recensirà!
Un bacione! ]
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