Così è se vi pare.

di Awesomissima123
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parla più piano. (Het!SpAus) ***
Capitolo 2: *** E dimmi tu com'è possibile. (PruAus) ***



Capitolo 1
*** Parla più piano. (Het!SpAus) ***


[ Dunque, dunque, dunque.

Con le introduzioni faccio davvero pena ma credo che qui sia d'obbligo.

Davanti a cosa vi trovate? Semplice, una raccolta. Ah-ah. 

Più che altro, mentre venivo schiavizzata dalla mia migliore amica per scrivere una fanfiction, m'è venuto il lampo di genio, qualcosa per dare una spinta all'ispirazione. Ho chiesto alla bella gente sul fandom di facebook di darmi una Ship/pg ed un particolare (canzone, oggetto, periodo storico, laqualunque), per ogni proposta, io proverò a scrivere un pezzo di questa raccolta.

Quindi, bando alle ciance ed iniziamo.

Mi hanno assegnato:

SHIP: Het!Spaus; Antonio Fernandez-Carriedo, Roselind Edelstein.

Particolare: una canzone, "Parla più piano", nella versione di Placido Domingo.]

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Nel 23 ottobre 1530, Carlo V, viene incoronato imperatore del Sacro Impero Romano.

«Non dovete volermi bene per forza.»

Le aveva detto quelle parole, un pomeriggio dopo averla accompagnata in una delle loro silenziose passeggiate nei giardini. Austria aveva gli occhi imperturbabili di una donna e l'alone austero che stonava quasi con l'aspetto da ragazza che scavalcava da poco l'adolescenza. Non gli aveva risposto, lui non aveva mai capito se lo ritenesse immeritevole delle sue parole, dei suoi pensieri, persino del suo sguardo ma s'era fatto bastare il dubbio e la possibilità di starle accanto, seppure in silenzio (questo sì, ogni tanto risultava particolarmente difficile).
L'aveva vista la prima volta, sull'altare eppure prima aveva provato a scriverle, con parole dei trovatori. Uno scambio epistolare a dir poco deludente: anche sulle pergamene, la donna era risultata un muro e lui aveva pensato ingenuamente si trattasse di timidezza ma -per quanto gli si rimproverasse di non saper leggere l'atmosfera- incontrati gli occhi, dopo aver alzato il velo, gli era stato chiaro che Austria non era timida: Austria era impietosa. 

[Parla più piano e nessuno sentirà
il nostro amore lo viviamo io e te.
Nessuno sa la verità
neppure il cielo che ci guarda da lassù.]

S'era impegnato a scanagliare oltre la coltre di ghiaccio che lei aveva costruito intorno a sé, come fosse un artista, come avesse un piccolo scalpello, in maniera quasi certosina, dava un colpetto ed un po' di difese cadevano. Difese? Era la parola giusta? Roselind aveva bisogno di difese?

«Voi avete mai amato qualcuno?» 
«Sono arrivata illibata al matrimonio, se vi preme saperlo.» 
«Non intendevo dire questo, scusatemi. Vi ho offesa?» 
«No, affatto.»

Aveva ripreso a suonare l'arpa e lui era rimasto di nuovo in silenzio ad ascoltare la melodia, 'chè pur non avendo risposto alla sua domanda a lui sembrò di capire ed ebbe una speranza: se lei aveva amato una volta, poteva tornare a farlo.

«Non ho mai pensato voi fosse solo un cavillo politico per arrivare ad una maggiore potenza. E non ho intenzione di esporvi come un trofeo, Roselind. Dovreste permettermi di dimostrarvelo.»

 

[Insieme a te, io resterò, amore mio.
Sempre così.]

Capì di dover conquistare le sue attenzioni, s'impegnò a parlarle con parole della sua lingua, s'impegnò a farsi ascoltare con la stessa melodia e ogni partenza, ogni lontananza, fu scandita da alte missive, imparò la maestria della metrica, la musicalità delle rime e la potenza reale delle parole. 
Ed ogni volta che tornava, lei gli concedeva una piccola dimostrazione: ora uno sguardo, ora un lembo di pelle del polso, ora una parola. Gli sguardi diventarono intrecci, la pelle carezze e le parole diventarono discorsi. Laddove Antonio risultava fantasioso, astratto e sognatore, Roselind preferiva la freddezza della praticità, della realtà. Qualcosa, però continuava a cambiare: sospirava ogni volta che lui apriva la bocca. Non sospiri d'amore, ma sospiri teneri e snervati di chi conosceva quali voli pindarici potevano uscire da quelle labbra e -a ben vedere- Spagna li preferiva ai sospiri d'amore: erano la palese dimostrazione che Roselind l'aveva ritenuto degno di conoscerlo e nel conoscerlo, non seppe mai se volontariamente, o involontariamente, lei aveva iniziato a farsi conoscere.

Tempi di tumulto, portarono battaglie e nostalgie, lei gli concesse il proprio fazzoletto da portare sul fronte e lui lo portava al naso ogni volta che il marciume gli arrivava ai capelli, ogni volta che era troppo distante, ogni volta che il sangue gli sporcava l'anima e gli pareva che fosse un detergente perfetto. Assenza prolungata, nessuna lettera e nessuna notizia: nessuna notizia che potesse o dovesse arrivare ad una donna, lui sapeva -senza alcuna presunzione- lui sentiva l'ansia annichilente dell'attesa, di lei che non lo vedeva tornare e che non poteva sapere, non poteva immaginare che il fazzoletto restava stretto tra le dita.

La immaginava guardare le grandi porte, la immaginava scivolare tra i corridoi umidi ma non avrebbe mai immaginato di trovarla nelle sue stanze, la notte del ritorno. Non c'era stato bisogno di parole, di spiegazioni anche se lei aveva provato a parlare. Lui l'aveva zittita passando un indice sulle labbra sottili e l'aveva sentita tremare quando l'aveva baciata, senza accorgersi che anche lui tremava. 

[Parla più piano 

e vieni più vicino a me. 

Voglio sentire gli occhi miei dentro di te.]

S'accorse, lui s'accorse di averle lasciato un pezzo di anima. S'accorse che con l'unione dei corpi, il proprio spirito aveva raggiunto le più alte vette di appagamento e tenendola a sé, nella mollezza del mattino, nel torpore seguente il piacere carnale, s'accorse anche di quanto lei fosse alta, più alta di qualunque madonna, più luminosa e irraggiungibile di qualunque astro e quasi provò vergogna d'averla toccata, timore d'averla sporcata, donna angelo più che creatura. S'accorse che avrebbe potuto fare qualunque cosa solo per arrivare a lei, che l'aveva già fatto e che avrebbe continuato pur restando un gradino più in basso e più in ombra di una tale presenza celeste. 

S'accorse troppo tardi di essere stato accecato. S'accorse troppo tardi che troppa luce inebetisce i sensi. 

Troppa luce ma non abbastanza per colmare il buio che aveva dentro. Quando il seme del dubbio, inizia a rosicare dall'interno, c'è poco da fare: la vox populi cozzava con l'immagine che Antonio aveva di Roselind. E preferì ancora stare in silenzio, ancora tacere e covare all'interno il marcio, perché non doveva toccarla, perché i pensieri solo avrebbero potuto offendere. I pensieri, però, iniziarono ad annichilirlo, a snervarlo, a tendere all'infinito i suoi nervi. La vox populi si scagliava esattamente dove anche il suo esercito perdeva legioni. Non ricordava bene se fu il fuoco che scoppiettava nel camino, se la freddezza dei gesti di Austria nel voltare le pagine del suo libro. Nel guardarla, iniziò a notare delle ombre che le danzavano sul viso. E provò a calmarsi, lui provò a calmarsi e a tornare alla realtà solo che la realtà che lui desiderava sembrava iniziare a schernirlo, due figure della stessa donna lo portavano alla nevrosi e quando le prese il braccio per farla alzare dalla poltrona, capì che aveva messo troppa irruenza dal verso strozzato della donna. Non riuscì, lui non riuscì ad allentare la presa, la strinse maggiormente mentre s'abbassava a guardarla negli occhi. 

Aveva avuto ragione, Austria era imperturbabile.

«Voi non sopportate più la mia vista. Vi annoio? Vi spavento in questo momento? I vostri pensieri sono rivolti a qualcun altro.»

E lo sussurrò senza aggiungere altro, senza muoversi. Neanche lei si mosse, non lamentò alcun fastidio al polso, assottigliò lo sguardo e non rispose ma smise di essere imperturbabile 'chè schiuse le labbra per prendere aria. Spagna corrucciò le sopracciglia ed improvvisamente la luce si fece più fioca, lei iniziava a perdete le ali: impossibile, non era possibile. Doveva esserci qualche problema, lui doveva avere qualche problema. Poggiò entrambe le mani ai lati delle spalle dell'altra e si chinò ancora su di lei per osservarne meglio il volto.

«Voi non avete paura di me. Voi temete quello che potrei dire. Ho fatto qualunque cosa per voi, v'ho amata come nessun'altro sarebbe capace, v'ho stimata come persona. E voi... Non c'è bisogno rispondiate.»

L'aveva lasciata, perché il disgusto s'era unito ad in dolore lancinante, il sogno s'era accartocciato e bruciava da solo, lo specchio s'era rotto. Non riuscì a guardarla, non più, la luce era di fiamme cocenti ed ustionanti, le diede le spalle e quando la sentì muoversi alzò una mano, tra le dita strette a pugno, il fazzoletto immacolato.

[Nessuno sa la verità
è un grande amore e mai più grande esisterà.]

«Non avvicinatevi. Eravate la mia Madonna, la mia rosa celeste ed ora non riesco a vedere altro che una volgare prostituta degli ottomani.»

Aprì la mano, il pezzo di stoffa scivolò a terra.

«É sporco. Addio.»

Era un grande amore e mai più grande esisterà.

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A belli, semo arrivati fin qui, eh?

Complimenti! Insomma. Grazie a chi ha letto, grazie a chi recensirà e grazie pure a chi se ne passa per l'anticamera del cervello.

Grazie alla mia migliore amica che m'ha messo sotto torchio (no in realtà, te pozzino.).

E nulla, belli. Ci si vede presto, si spera.

Nu bacion!

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Capitolo 2
*** E dimmi tu com'è possibile. (PruAus) ***


PruAusMorgan [ E dunque, eccoci con la seconda sfida.
Mi hanno assegnato:
Ship - PruAus
Particolare: https://www.youtube.com/watch?v=o0CUELSGEvE

Vi lascio alla lettura e lascio tutte le note per la fine. ]
















-10 Novembre 1989-









Sigarette e cioccolato fondente: le prime nella manciata di minuti tra un capitolo e l'altro del grande libro di Storia che studiava meticolosamente, ossessivamente, per capire quel che non era andato e che, perciò, non sarebbe mai andato nonostante le ostinazioni umane, ed il cioccolato a sciogliersi sulla lingua come quel diavolo di amore che lui non fu capace di fermare.

L'aquila aveva spiccato il volo estremo, prima di essere inghiottita dall'atmosfera ed a lui restavano solo le endorfine a sfrigolare sotto il palato. O chissà dove, in quel suo imperscrutabile organismo. Le iridi si bloccarono e solo allora si accorse di leggere lo stesso rigo da almeno un'ora ed, in effetti, non aveva neanche idea che cosa esplicasse. Scosse il viso e spostò lo sguardo sulle tende pesanti e chiuse, non le aveva più riaperte e nonostante questo, un fascio di luce, prepotente aveva sfidato il pesante velluto; come un lampo tagliava la stanza. Si tolse gli occhiali mentre osservava il pulviscolo danzare nel raggio e si chiese, per un istante, se quella polvere s'era adagiata anche sulle proprie membra, sulle mani, sulla testa, nella mente. Si chiese se gli era entrata nell'anima ed istintivamente il volto assunse un'espressione infastidita da pensieri che giudicò patetici

Si mosse lentamente per avvicinarsi al pianoforte e sentiva moviola nell'animo esattamente laddove c'era flemma nel corpo, lui che era sempre stato così raramente preda di picchi emotivi, raramente scomposto, aveva sempre imparato a tacere i tumulti ed i turbamenti, giudicati dall'inizio dei tempi, punti deboli, lui aveva le sinapsi scordate.
Inarcò un sopracciglio e passò una mano leggera sui tasti, la sollevò all'altezza degli occhi e sfregò i polpastrelli: c'era polvere anche lì e non reggeva più la scusa dell'essere mancato per anni, non reggeva giacchè con il corpo lui era ritornato diversi mesi prima.
Non reggeva più la scusa della stanchezza, non quando la psicosi l'aveva portato a dimostrare quanto potesse essere forte un animo sfaldato seppur in braccia debilitate.
Sibilò innervosito e sfiancato, prese posto e lasciò che il ritmo incalzante di Ravel prendesse possesso delle fiamme che divampavano. Non potè fare a meno di sentirsi ancora più miserabile nel cadere in un cliché di dubbio gusto, perché il rosso delle lingue di fuoco faceva presto a confondersi con lampi rossi in occhi troppo conosciuti.
Tirò un profondo respiro perché ancora i ghirigori della mente erano scappati al proprio controllo, velocemente avevano raggiunto ricordi che lui stesso aveva lasciato ad un passo dal dimenticatoio. Non s'era mai interrogato sul perché non ce li avesse gettati dentro: mancanza di forza o volontà di tenerli? Consciamente geloso di qualcosa che era di difficile interpretazione persino per sé stesso e giaceva entro l'ombra e l'anima.
C'era poca armonia nel buio di quelle arcate mentali, poca chiarezza e troppa tempestività, esattamente come il concerto per la mano sinistra di Ravel.
Che disastro.

"Also seien Sie bitte nett wenn ich' m ein Durcheinander.": gestire le reminescenze, la remembrance  era impossibile e Roderich s'apprestò a viaggiare nel tempo, esattamente mentre le pareti della stanza perdevano i contorni. C'erano due momenti esatti in cui ricordava di aver detto quelle parole, per quanto i momenti stessi fossero sfocati, dalla psicosi uno, dal dolore l'altro.
Brandiva quella che era stata un'abat-jour, quando Erzsébet l'aveva trovato e nel mezzo della stanza, osservava la carta da parati strappata, lo scrittoio a pezzi ed i propri guanti macchiati di sangue, ricordò il dolore acuto alle cuticole, ricordò gli occhi dell'Ungherese infossati su un viso smagrito. Lei aveva trasalito e lui aveva notato d'aver davanti una donna spogliata dalla sua corazza di guerriera. Nella follia gli fu chiaro che quella guerra aveva cambiato chiunque e ciò non contribuì a sedare le eco della frustrazione, le aveva intimato di allontanarsi 'ché non c'era spazio, non c'era modo, non c'era motivo per cui tutto dovesse fingere di essere blandamente perfetto ed armonioso, 'ché non c'era nulla di giusto in quella finta calma "quindi, per favore, perdonami, se sono un disastro", lo aveva detto allora prima di sferrare un ultimo colpo alla parete specchiata. Nel silenzio ascoltò i singhiozzi di Erzsébet e giudicò bastassero anche per lui e non ebbe la forza di tornare a guardarla, non ebbe la lucidità di fermarsi a parlare; nessuno dei due ne avrebbe più parlato. Nessuno sarebbe più ritornato a quel 25 febbraio del 1947.
Ma più di un secolo prima, quella stesse parole erano stata esalate tra il dolore di una perdita e l'ira dell'impossibilità di accettarne la responsabilità, neanche toccando le guance gelide di un viso giovane era riuscito a capacitarsi che la vita non le avrebbe più tinte di rosa alla vista di una certa figura italiana, neanche davanti alla croce bianca era stato capace di prenderne atto eppure la presa sulla propria spalla, fu ristoratrice per qualche istante. Non s'era mosso eppure l'altro aveva stretto di più, come avesse capito e Roderich aveva spostato lo sguardo sul terriccio bagnato di pioggia, poi sui propri stivali macchiati di fango e Gilbert aveva sbuffato, s'era abbassato ed aveva passato una manica della propria divisa sulla punta delle scarpe austriache poi aveva alzato il viso e l'aveva scosso. "Sei un disastro, Österreich." e l'aveva detto con un mezzo sorriso amaro, per lui fu troppo, s'accorse di avergli sferrato un calcio sotto il mento solo quando lo vide lungo disteso e seppe che Prussia aveva deciso di non reagire, lo vide spalancare la bocca ed iniziare a ridere e si convinse di non aver notato i sigulti dietro le risate e di non aver udito quel flebile "è colpa nostra" , perchè preferì sostituirlo con uno sputato "è colpa mia, quindi, per favore, perdonami se sono un disastro." l'ironia di cui erano impregnate le parole punse persino sé stesso e Gilbert smise di ridere all'istante. Strappò la targhetta dalla croce bianca e gli afferrò la mano, lo costrinse ad aprirla e la poggiò nel suo palmo. Poi gli aveva dato le spalle e s'era allontanato.
Ricordò di essere rimasto con il pugno chiuso e lo sguardo su quelle spalle che si facevano sempre più piccole, più lontane.
Non c'è soluzione alle decisioni della mente perché, diametralmente, proprio quelle stesse spalle lo portarono ad un contesto diverso.
Non erano lontane, non erano sporche di fanghiglia ma erano vibranti e tangibili, guizzavano sotto le proprie dita. Ricordò di averne saggiato ogni cicatrice, ogni segno, ricordò di esservici afferrato, di averle segnate lui stesso mentre le labbra non avevano avuto il coraggio di riempirsi del suo nome e la mente fingeva di non essersi ancora arresa ma non c'era risposta migliore delle carni molli. Stava  lì, con le dita tra i suoi capelli e c'era nei suoi baci una foschia, sembrava un temporale con la pioggia ed i fulmini dentro gli occhi ed irruento lo prendeva, lo avvolgeva di quello che, se non era amore, ne era almeno imparentato.
Gli avrebbe chiesto cos'era quel suo tenerlo a lui, sulle lenzuola indolenzite dal freddo mattutino, avrebbe voluto chiedergli cosa voleva, cosa si aspettava ma sembrò che a lambirlo con le labbra, a segnarlo con le mani, a dondolare con la testa sul petto non poteva esserci davvero una domanda e migliore risposta non avrebbe ghermito.
Quindi s'era semplicemente alzato, le natiche scoperte e le cosce toniche sporche di umori, aveva fatto una smorfia -chissà di quale significato- e se n'era andato.

La melodia si interruppe ed è meglio dire che fu lui ad interromperla perché d'un tratto s'era sentito mancare il fiato sentendo la bocca arida esattamente quant'era acuta l'aridità che avvertiva dentro. Guardò le dita sottili e nodose e gli sembrarono quasi grigie.
Oh, poveri uomini secolari che avevano scoperto il meglio del sesso ma a cui era stato inflitto il peggio dell'amore.  Ed era sempre stato impossibile scindere le loro persone dalle loro nazioni, ogni battaglia, ogni guerra, loro la combattevano con l'orgoglio personale ed ogni corno di vittoria, ogni marcia batteva impietosa sui loro petti.
 Roderichi aveva sempre considerato le mezzemisure, Gilbert di mezzemisure non ne conosceva.
Gilbert amava gli estremi, Gilbert era i suoi estremi e lui s'era sempre trovato nel mezzo. Lì dove batteva il grande ego Prussiano, lui aveva scoperto l'insicurezza maggiore e s'era attracchita alla propria anima da diventare anima stessa. C'era stato un momento, sì, c'era stato un momento in cui entrambi avevano pensato d'aver tempo per sempre quando avrebbero dovuto sapere che il tempo è la prima cosa che scarseggia: in guerra, nelle relazioni, nella vita.
E Roderich l'aveva imparato. A quale prezzo, poi?
Il tempo non è galantuomo, perché s'accavallava sulle sue spalle, lo inglobava e lo soggiogava.
I giorni di assenza erano diventati mesi ed i mesi avevano fatto presto a diventare anni e confusione prima di lasciare posto alla crudele consapevolezza.
Il suono sgraziato del campanello tagliò a metà i propri pensieri come il fascio di luce aveva fatto con la stanza e lui fu costernato: tornare alla realtà così bruscamente fu quasi traumatizzante.
Ma nulla fu più traumatizzante di quello che trovò.





«Ci risiamo: io mezzo morto e tu mezzo vivo. E dimmi tu come cazzo è possibile.»





Non s'era girato neanche a guardarlo, restando seduto sulle scale del portico ma aveva avvertito la sua presenza prima ancora che aprisse la porta, era rimasto immobile con il rischio ed il terrore che potesse scompaire, che potessero scomparire entrambi e si chiede se l'avrebbe visto cambiato, se prima di parlare, l'austriaco, avesse deciso di prendere un archetto per darglielo dritto in fronte. Scosse il viso e sbuffò divertito anche se da ridere c'era poco. A ben vedere, s'era catapultato appena ne aveva avuto le facoltà senza neanche informarsi se lui abitasse ancora lì ed ora, che ce l'aveva a pochi passi, non riusciva a trovare la forza per reggerne lo sguardo. Assurdamente divertente per chi aveva sempre proclamato la propria magnificenza. Gli occhi cremisi sondarono il vialetto asfaltato e non sapeva, Gilbert davvero non sapeva, se la debolezza fosse dovuta a reali deficit fisici o allo sguardo dell'altro che gli gravava sulla schiena neanche fosse un masso di una tonnellata.
Nell'abbraccio di Ludwig, solo ventiquattro ore prima, aveva trovato ristoro ma non cura ai propri affanni e per quanto fosse un ottimo attore ed un bravissimo dissimulatore, s'era trovato a vagare nei meandri della propria anima. Non c'era stat modo per restare lucido se non rivolgergli qualunque pensiero, che fossero cose in sospeso o sensi di colpa, che fosse la dicotomia di un uomo che si divideva tra quello che era e quello che non sarebbe stato più, la sua dicotomia prendeva fattezza umane e, nella fattispecie, sembianze di Roderich. Nei pochi istanti di immobilità gli parve di cadere in una stasi dei sensi in cui la realtà perdeva i contorni  e si sentì deprecabile nell'apprendere che forse non erano cresciuti entrambi. Si domandò se entrambi avessero perso ormai troppo, se Roderich si fosse rotto quanto lui. Si fermò a riflettere in quanti cocci lui si fosse frantumato e su quanto sarebbe stato impossibile rimetterlo insieme, rimetterli insieme perché combaciassero alla perfezione, visto che molti pezzi di lui, dell'austriaco, di loro, erano andati perduti per sempre. Inclinò lievemente il busto per guardarlo, finalmente, ed entrambi furono sospesi in quel momento: lo vide più magro, forse persino invecchiato nello sguardo ed, ancora, si chiese come fosse possibile.

Schioccò la lingua contro il palato e scrollò le spalle perché quel silenzio era avvilente ed annichilente. Avrebbe preferito mille volte delle urla, degli insulti e non quell'espressione imperturbabile, 'ché gli faceva fare i conti con qualcosa a cui aveva provato mnemonicamente a sfuggire: sé stesso. E si vide, vi si specchiò e si giudicò deprecabile, debole e lo spettro di quel che era. Lo trovò quasi divertente ma le labbra non si piegarono verso su, si storpiarono in una linea amareggiata ed infastidita. Avesse potuto alzarsi e scuotere Roderich, urlargli di non sbattergli in faccia la loro realtà ma non ci riusciva: le iridi erano affamate dei dettagli del suo corpo, dopo essere state troppo tempo a guardarlo solo nei ricordi sbiaditi. Sondavano il corpo dell'austriaco imprimendo ogni curva nella memoria, imprimendola a fuoco come se dovesse scomparire ancora. Lui, di quel corpo e di quella mente conosceva tutto anche se non l'avrebbe ammesso. Deglutì e giurò che se non fosse accaduto qualcosa, probabilmente uno dei due si sarebbe sgretolato al suolo e scosse il viso abbassando lo sguardo sulle mani del pianista. Si umettò le labbra e s'accorse che nella moltitudine di parole e discorsi che s'erano affollati nella sua mente, non riusciva a distinguerne mezzo: si accomumlavano tutti sulla lingua e bloccavano la possibilità di parlare.
Herr Niemand: c'era stato un tempo in cui Österreich aveva preso a chiamarlo così, tante primavere prima e lui, in realtà, l'aveva sempre trovato divertente proprio perché gli era sembrato un nomignolo sbagliato ed impossibile da appioppargli, lui non sarebbe mai stato Nessuno, secoli prima aveva pensato che brillare immensamente era condizione necessaria per essere sempre Qualcuno e s'era sbagliato. S'era sbagliato ed era stato accecato quando dopo quel 12 marzo 1938 aveva preso a chiamarlo, per crudele contrappasso, lui Herr Niemand, l'austriaco. Calò le palpebre sugli occhi e scosse ancora il viso, come se al gesto fisico, potesse conseguire il movimento dei propri pensieri, perché si allontanassero da quei momenti, 'chè già risultava complicata anche solo così.

«Niemand.»

Sussurrò con un verso gutturale e roco che doveva somigliare ad una risata ma si ridusse ad esserne l'imitazione scarna e patetica e si estinse in un colpo di tosse. Non era mai stato semplice intuire tutte le sue perplessità, in generale, c'era sempre stata una certa incomunicabilità tra loro.
Non era mai stato semplice abbassare le barriere per entrambi ed, in effetti, non l'avevano mai fatto e, se mai fosse successo, non era mai stato un processo conscio e, comunque, troppo duraturo. Ricordava bene quanto l'austriaco poteva essere meraviglioso oltre la coltre di austerità e di regole, solo che non glielo aveva mai detto e, probabilmente, non lo avrebbe fatto.
Non era mai stati semplice trovare il modo di disinfettarsi l'anima.
Tra le mani gli era ormai rimasto solo uno stralcio di sogno e s'era rivisto, riflesso allo specchio: non s'era riconosciuto, non come negli occhi di Roderich. Si vedeva e si riconosceva. Sembrò statua di sale e credette si fosse ormai pietrificato.
Come gli avesse letto nel pensiero, Austria si mosse. Gli porse la mano.





«Alzati.»




C'era sempre stata imcomunicabilità tra di loro, 'chè le parole risultavano sempre ridondanti, superflue e mai adatte. Roderich seppe di dover agire prima di dire qualcosa di inopportuno o -più probabilmente- prima che lo dicesse l'altro. Dopo il trauma della sue presenza ma prima di qualunque domanda, prima di qualunque spiegazione, lui lo vide vivo davanti a sé. Prima di sentirlo mortalmente magro, prima di giudicare la voce fastidiosa, capì quanto fosse stata davvero importante la sua voce.
E cosa contava l'armonia delle spiegazioni, l'armonia dei modi, la posatezza delle azioni, la linearità dei pensieri quando divampava la completezza.
Si sentì trafitto dall'abbraccio, 'ché giammai il prussiano si sarebbe limitato a prendergli la mano: foss'anche solo per non seguire un consiglio o per andare contro un ordine travestito da consiglio, quello s'era slanciato a circondargli il collo con le braccia.
E andava bene così, ci sarebba stato tempo per tornare sulle ferite, sui segni, sulla lontananza e sui cambiamente. Ci sarebbe stato tempo per gettarsi sangue e veleno addosso, ci sarebbe stato tempo per ritornare ad essere piccati ed orgogliosi.
In un momento di scoordinata felicità e di totalizzante confusione, lui non sentì il bisogno di porsi dei limiti, degli estremi.

Perché Gilbert era i suoi estremi.

E fu il prussiano a scorrere la schiena dell'altro con le mani, a capacitarsi che fosse lì tangibile e non più il miraggio di una mente resa folle dagli stenti della prigionia. Si concesse di lasciare che le dita tremassero sul collo sottile altrui, sui contorni della mascella più squadrata dalla magrezza.
Si concessero entrambi l'illusione bella e cheta d'essere completi ed appagati.
Ci sarebbe stato tempo per vomitarsi dolore ed incomprensione, per aprire il vaso di Pandora.
Si concessero l'illusione di aver suggellato una promessa tacita con un bacio che parve durare una vita.
Tacita perché le parole non avevano mai funzionato e perché ciò che c'era d'importante, l'avevano sempre detto in silenzio.
Una vita era poco e non bastava ma per il momento andava bene così.
Una vita per chi è a cavallo mezzo morto, per chi lo è mezzo vivo.




"E dimmi tu come cazzo è possibile."

















[Allora. Allora.
Io devo ringraziare Morgan (che m'ha fornito il video di cui è ideatore. Quindi se avete aperto i rubinetti come me, non è colpa mia) perché m'è piaciuto tanto scrivere questa cazzatina. Sono davvero contenta che la mia prima PruAus sia stata ispirata da una cosa così carina.
In generale, m'è venuto in mente che potrei mettere in forse la creazione di una serie proprio ispirata a questa fanfiction (e quindi al video). Vedrò.
Magari sarebbe meglio terminassi almeno una delle tante ff che ho in sospeso.
E dunque.
Grazie a chi ha letto e a chi recensirà!
Un bacione! ]

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