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Titolo:Ringing Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski, Un po’ tutti Pairing: DerekxStiles
[Sterek] Rating: Verde Genere: Sentimentale, Soprannaturale, Generale Avviso: AU, Slash
1° Capitolo
Ogni scuola è sempre in continuo fermento ed in ognuna
di esse vi è un particolare.
«Credi che ad Allison potrebbero piacere?» domandò il messicano con una piccola
nota indecisa, ma trepidante, come se non riuscisse più a contenersi.
Stiles si sentì chiamare in causa ed osservò la mano del suo migliore amico che
gli veniva mostrata, in cui erano ben visibili due anelli uguali al centro del
palmo, lucenti e placcati in argento. «Sei davvero intenzionato a darglielo?».
«Può sempre rifiutarmi» disse con semplicità Scott, annuendo con convinzione
alle proprie parole. «In più vedo come guarda con invidia quello di Lydia».
Lydia, colei che portava un anello in coppia con Jackson Whittemore
da mesi, colei che Stiles amava dall’età di otto anni. «Ragazze» proferì senza
alcun entusiasmo, sordo al significato di quei simboli.
«È diventata una tradizione, Stiles. Nessuno può essere accusato di questo»
dichiarò pragmatico il moro, cogliendo i pensieri della sua controparte.
«Come se fosse importante» proferì il castano con noia, tamburellando con
disinteresse le dita sul banco.
«Stai scherzando?» chiese il messicano con tono retorico, ingrandendo gli occhi
e guardandolo quasi allucinato. «Tutti controllano chi sta indossando quale
anello su quale dito».
Da diversi anni si era diffusa una strana mania nel liceo di Beacon Hills, una
a cui nessuno sembrava voler rinunciare. Nessuno sapeva come fosse cominciata e
quando, ma la storia degli anelli si era espansa a macchia d’olio, prendendo
sempre di più il sopravvento e diventando quasi essenziale, perché il suo
linguaggio era esplicito ed evidente.
Esistevano tre tipi di collocazioni per gli anelli, ognuno con il suo simbolo
specifico: due anelli uguali sull’anulare destro indicava amicizia,
due uguali sull’anulare sinistro indicava coppia, un singolo anello
sul medio destro indicava l’essere single.
Poco importava mettere in evidenza che Stiles possedesse proprio un anello sul
medio destro. «Non perdo il mio tempo in questo modo».
«Come se non sapessi che se un giorno l’anulare sinistro di Lydia fosse
sprovvisto di anello, tu ti esibiresti in piroette sgraziate» disse con
divertimento crescente il messicano, con aria saputa e di chi lo stava
prendendo bonariamente in giro. «E vuoi o non vuoi, anche tu stai comunicando
qualcosa» annunciò schiettamente, alludendo all’oggetto che si trovava sulla
sua mano destra.
Stiles gli scoccò un’occhiata risentita, guardandolo con giudizio pressante.
«Ho questo anello da anni, senza che sia collegato a queste frivolezze; non ho
intenzione di toglierlo per qualche congiunzione mistica».
«Lo so bene» affermò convenevole il moro, ben consapevole di che cosa
rappresentasse per il ragazzo.
Delle voci più alte sovrastarono le loro, portando l’attenzione degli studenti
alle spalle del castano, indirizzata verso il fondo dell’aula. Un tintinnio
argentato e tondo riecheggiò tra le pareti con un nuovo rifiuto chiaro e
preciso, che non ammetteva alcuna replica.
«Ho la vaga sensazione che qualcuno sia appena stato respinto e che la
motivazione sia sempre la stessa» annunciò Scott al suo migliore amico,
indicando con gli occhi la coppia che si era appena divisa e il ragazzo che
raccoglieva l’anello che accidentalmente era caduto per terra; proprio quello
regalato.
«Derek Hale» dissero in coro, consapevoli che quella fosse ormai l’unica
risposta.
«Quell’Hale non deve nemmeno impegnarsi» disse con stizza il nuovo membro che
si aggiunse alla conversazione, osservando la ragazza che si scusava con il
malcapitato, esponendogli le sue motivazioni.
«Il fascino che comporta l’essere il capitano della quadra di basket» proferì
Stiles con un sorrisetto saccente, rifilando un’occhiata affilata al loro
disturbatore. «Non sei tipo in competizione con lui, Jackson?».
«Se non l’avessi notato, io ho una ragazza» graffiò con abilità il biondo,
disegnando un ghigno vittorioso sulle labbra.
«Fidati, l’ho notato» rispose prontamente il castano, senza dargli alcuna
soddisfazione.
«Non ci sarebbe comunque partita, lui è dell’ultimo anno, noi del secondo.
Capitano o non capitano» affermò il messicano con un’ingenuità genuina, ma che
metteva in risalto le differenze ben visibili tra le situazioni, bocciando il
fatto che Jackson fosse a capo della squadra di lacrosse.
«Se fossi in loro gli starei alla larga» disse Stiles sovrappensiero, componendo
un ritmo muto con la punta delle dita. «Ha un non so che di animalesco».
Scott e Jackson gli dedicarono la loro totale attenzione, dimenticando la
conversazione che avevano tenuto fino a qualche secondo prima. «Una creatura
della notte, davvero, Stiles?».
«Perché no. Magari ulula alla luna» proferì con sottile divertimento, curvando
gli angoli della bocca e rilasciando una risata cristallina che si diffuse in
tutto l’ambiente. «E magari è proprio lei ad essere il suo unico anello».
Per Stiles era difficile dimenticare una conversazione e non rimuginarci su, a
volte passava ore sullo stesso argomento senza che ci fosse una reale ragione e
si soffermava su parti che tutti gli altri ignoravano o lasciavano perdere. Era
più forte di lui e scacciare quei pensieri era quasi impossibile, ci
fantasticava sopra e spesse volte trovava la soluzione, ma subito dopo se ne
dimenticava.
I suoi pensieri erano rimasti fermi a quel nome che era stato pronunciato
quella mattina, in una risposta che spiegasse le dinamiche che si aggiravano
intorno ai continui rifiuti che da anni caratterizzavano quella scuola: Derek
Hale.
Freddo, calcolatore, con lo sguardo che gelava il sangue e che fin troppe volte
impediva la classica azione di respirare, costringendo chi lo incontrava a
trattenere il fiato.
Il suo volto era sempre una maschera priva di espressioni, se non quella
costantemente arrabbiata ed infastidita, di chi trovava noia in tutto quello
che lui non identificava come interesse. A tutto si accompagnava il suo essere
uno studente poco sopra la media e l’essere l’elemento fondamentale della
squadra di basket, in cui ricopriva il ruolo di playmaker e capitano, un vero
fuoriclasse; senza però dimenticare l’appartenenza alla famigerata e facoltosa
famiglia Hale di cui faceva parte, la più abbiente dell’intera città. Le
ragazze sembravano impazzire per lui, e non solo loro, e non vedere oltre la
sua figura. Se solo avessero smesso di alitare sul suo collo, Derek avrebbe
potuto anche prenderle in considerazione, ma lui non prestava attenzione a
nessuno. Stiles non ricordava di averlo mai visto in compagnia di una persona
in particolare da quando aveva messo piede nell’istituto scolastico l’anno
prima.
Ma i brividi di allerta che si diffondevano nel suo corpo forgiato dagli scarsi
allenamenti di lacrosse portavano Stiles ad ignorare la sua presenza,
preferendo sopra ogni cosa stargli lontano; in linea di massima.
Quando entrò nel bagno degli studenti, togliendosi il prezioso anello ed
adagiandolo con cura sul lavabo – perché non avrebbe mai permesso che si
ossidasse o rovinasse –, si gettò nel flusso d’acqua fresca che fuoriusciva dal
rubinetto, bagnandosi i polsi e sfregando le dita, sciacquando il viso in mosse
tonificanti.
«Tieni» pronunciò una voce calda e profonda – una che era sicurissimo di aver
già sentito, ma che i sensi annebbiati dall’acqua non colsero – mentre
sgocciolava le mani sul lavandino e le stille rimanevano incastonate tra le
ciglia lunghe, portandolo a chiudere le palpebre più volte per cancellarne
buona parte e girandosi per incontrare ciò che gli veniva offerto – che non
erano altro che salviette di carta con cui asciugarsi –, incrociando due gemme
boscose che lo piantarono sul posto.
«Derek» proferì in una nota sfuggita, rimanendo fermo dov’era e senza sbilanciarsi
per prendere quello che gli serviva.
Il moro inarcò un sopracciglio con scetticismo, aggrottando la fronte. «Ci
conosciamo?».
«No» geniale, Stiles. Non potevi presentarti in modo migliore.
«Certo che no».
«Allora non dovresti permetterti certe familiarità» annunciò nefasto il
maggiore, glaciale e per nulla tollerante. Familiarità? Aveva solo detto il suo stupido nome per sbaglio,
lasciandoselo scappare senza nemmeno farci caso; certamente non poteva
rivelargli che stava pensando a lui fino ad un secondo prima e che
l’inevitabilità del suo infame fato glielo avesse parato davanti. «Sia mai che
non si porti rispetto al re della scuola».
Derek sembrò piccato da quelle parole e dal tono di sarcasmo pungente che era
stato usato, irrigidendo la schiena e sembrando improvvisamente più alto di
quanto fosse apparso da quando gli occhi si erano posati sulla sua figura.
«Rispetto? Proprio quello che ti manca. Le nuove generazioni non usano più
ringraziare?». Ringraziare per cosa? Soltanto in quel momento si rese conto di che cosa
gli venisse ancora porto, messo in evidenza e per nulla intenzionato a sfuggire
dalla sua vista finché non l’avrebbe afferrato con le mani. Era un gesto di
carineria? Derek Hale non era conosciuto per la sua gentilezza, ma per il suo essere
distaccato con il mondo, senza prestare particolare interesse a qualcosa che
andasse oltre la sua cerchia privata, come Erica Reyes,
Isaac Lahey e Vernon Boyd –
sua sorella Cora e sua cugina Malia erano obbligatorie, insieme alla squadra di
basket. Perché aveva scelto proprio lui per mostrargli quella caratteristica?
L’aveva scambiato per qualcun altro? «Se fossi meno saccente e dominante
sarebbe più facile».
«Modera i termini, ragazzino. Non ti conviene» disse ammonitore il capitano,
con fermezza ed evidente minaccia.
«Altrimenti? Mi mangerai?» lo sfidò il minore con le perle ambrate che
brillavano nefaste, guardandolo fiero.
Derek gli si avvicinò di un passo e Stiles indietreggiò malamente di
conseguenza. «Non provocarmi, so quanta paura hai di me».
Stiles irrigidì la schiena, piantando i piedi ben saldi sul pavimento e
lanciandogli uno sguardo piccato, fronteggiandolo. «Non ho paura di te».
Derek era ad un soffio dal suo viso ed una mano si strinse attorno alla sua
mandibola, tenendolo fermo ed inchiodato esattamente dov’era, senza dargli
alcuna possibilità di scampo, obbligandolo a guardarlo dritto nelle iridi
verdi, da cui Stiles giurò di veder emergere piccoli ed incontrollati riflessi
blu metallico. «Ne sei sicuro, Stiles?» pronunciò con scherno direttamente
sulle sue labbra nel momento in cui un brivido incontrollabile percorse tutta
la colonna vertebrale del giocatore di lacrosse, ingoiando un nodo di saliva di
un fremito terrorizzato ed a disagio.
Stiles detestava il potere che stava mostrando avere su di lui.
Si divincolò dalla presa ferrea, agganciando una mano sul suo polso e
circondandoglielo per allontanarlo e liberarsi. «Ciao, Derek»
proferì con lascività ed astio, prendendo l’anello dal lavabo ed uscendo dalla
porta del bagno senza degnarlo di alcuna occhiata. Se prima il suo istinto lo
invitava a stargli lontano, adesso si sarebbe mosso di conseguenza
consapevolmente.
Come d’abitudine infilò l’anello sul solito dito, il posto a cui apparteneva,
ma quello non riuscì ad entrare in alcun modo e Stiles lo guardò senza capire,
ma come colpito da un fulmine a ciel sereno si accorse di un dettaglio che gli
urlava a squarciagola nelle orecchie: Derek Hale conosceva il suo nome.
Stiles non riusciva proprio a capire e durante tutta l’ora di chimica era
rimasto ad osservare l’anello che si presentava improvvisamente estraneo ai
propri occhi.
Nel palmo teneva in mostra l’oggetto cilindrico, placcato in argento e nel cui
centro vi era una striscia di uguali dimensioni placcata in oro rosso, in cui
emergeva una singola triscele intagliata nel metallo; spiccava fiera tra i due
colori, richiamando la sua attenzione. Stiles ne era certo, era la sua, unica
ed irripetibile, eppure lo stava rifiutando.
«Mi sento respinto» proferì a se stesso con tono
provato, rigirandosi tra le dita il cilindro, osservando ogni suo particolare e
trovandolo stranamente rinvigorito. Gli oggetti non possono
rinvigorirsi.
«Qual è il problema?» domandò Scott seduto davanti a lui, poco attento alla
lezione, ma chiamato in causa dai pensieri poco chiari del suo migliore amico.
«Non riesco più ad indossarlo» rispose in un’unica spiegazione, perché
continuava ad esserne sprovvisto.
«Magari ti è solo ingrassato il dito» esordì il messicano nella più convincente
delle teorie che era riuscito a concepire.
Stiles alzò il capo, guardandolo allibito e stralunato, giudicandolo
apertamente. «Scott, le dita non ingrassano in meno di cinque minuti» né gli
oggetti cambiano la loro dimensione, apparendo come immacolati.
«Ma possono gonfiare, prova tra un po’» convenne il moro, non del tutto pronto
a lasciare la sua idea che riteneva, tra l’altro, geniale.
«No, è come se non fosse il mio» strascicò il castano con voce profonda e
rivelatrice, incredibilmente tradita. Quell’anello era troppo perfetto, non
presentava nemmeno un graffio casuale ed era come se fosse appena uscito dal
negozio o quasi, era ben curato e protetto e per quanto Stiles tenesse a
quell’oggetto, prestandogli le sue continue attenzioni e mostrandosi
meticoloso, il suo era vissuto e attraversato dalle intemperie che l’avevano
rincorso nell’arco della sua breve vita, composta da tre anni.
Scott si girò verso di lui dubbioso e la campanella che annunciava la fine di
quell’ora riecheggiò in tutto l’edificio. «Forse l’hai scambiato».
Scambiato? Scambiato con chi? Era un anello che apparteneva ad un passato
prossimo, una linea che non esisteva più e che aveva trovato con casualità.
Aveva quella sensazione che fosse un pezzo unico, nessuno in quella scuola
poteva possedere il suo gemello.
La porta dell’aula improvvisamente si spalancò e parte degli allievi era già
fuori le mura, poi una figura alta, scura e prestante la varcò ed un piccolo
mormorio di sorpresa si diffuse tra le mura, finché l’ombra si fermò davanti al
suo banco e Stiles non ebbe nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse
accadendo; l’anello con cui giocava gli scivolò sull’anulare sinistro e vi si
incastrò perfettamente. Ebbene sì,
a distanza di quasi un anno ritorno a popolare questo fandom
che di idee me ne dà anche troppe ed a volte non è molto salutare; la Sterek rimane troppo radicata in me e poi mi costringe a
darle voce.
Lavoro a questa storia da più di un anno e anche se per un periodo è stata
posata per protesta, dopo qualche mese ha bussato molto forte nella testa e ha
urlato per farsi sentire ed alla fine l’ha avuta vinta, ottenendo tutta la mia
attenzione e il mio tempo e quello della mia Beta(EarthquakeMG) e della mia terza
voce (kira_92), che ringrazio con tutto il cuore –
anche se prima o poi la mia Beta smetterà di rispondere ai miei messaggi
seccanti.
C’è da aggiungere che questa storia è ispirata ad un manga che ho amato diversi
anni fa, Only Ring Finger Knows, e che, prendendo alcuni elementi chiave, poi
prosegue per la sua strada, senza guardarsi indietro.
Credo sia, anzi, è il progetto più lungo a cui abbia mai lavorato e spero
vogliate continuare questo viaggio insieme a me ed a questi due che amo con
tutta me stessa. Ci faranno vivere numerose e, spero vivamente, imprevedibili
avventure ed a qualcuno di loro vorrete sicuramente tirare le orecchie,
trascinandoli per tutte le vie delle vostre città.
Alla prossima settimana, Antys
Nell’aula cadde un silenzio agghiacciante ed assordante e il tempo si
congelò all’istante.
Stiles guardava con sorpresa ed orrore l’anello che capeggiava con la sua
maestosa presenza su quel dito sbagliato, in cui troneggiava indiscusso e
faceva bella mostra di sé, togliendogli il fiato e schiacciandogli il cuore
quando riuscì ad indentificare la figura oscura, che lo metteva a terra con una
sola occhiata, come Derek Hale.
Quello che non si aspettava di vedere era l’eguale sorpresa che si
dipingeva nelle sue gemme di smeraldo, attraversate da una scarica elettrica
che riuscì a contenere con maestria. Sembrava restio dal distogliere lo sguardo
dal luogo in cui si era incastrato l’oggetto d’argento e scosso da ciò che
rappresentava.
«Quello è mio» disse glaciale il diciottenne, gutturale e fulminandolo a
vista, esigendo quello che gli apparteneva indietro. Forse quello che vi aveva
visto se l’era immaginato, perché sparì in una frazione di secondo decisiva.
Stiles lo guardò per un attimo senza che riuscisse ad inquadrare la
situazione e quando la consapevolezza lo colse, il cuore perse vari battiti e
il respiro divenne pesante, perché non
poteva essere. «Questo avrebbe il suo senso» proferì con gli occhi quasi
annebbiati, osservando l’anello perfettamente lucido ed improvvisamente consono
di quanto gli fosse estraneo.
Derek gli rifilò un’occhiataccia spazientita e per
nulla comprensiva. «E tu dovresti essere quello brillante. Non hai minimamente
pensato che fosse quello sbagliato?».
Brillante? «Certo che l’ho fatto» esclamò adirato ed
infastidito il castano, guardandolo torvo. «Stavo anche cercando di capire a
chi appartenesse».
«Lo vedo» disse il playmaker tagliente come una lama affilata e di burla,
indicando con evidenza il gioiello che sferzava sull’anulare sinistro
affusolato e lungo, com’erano tutte le dita del più giovane. «Vuoi
restituirmelo o preferisci che te lo strappi?».
Restituirlo. Non l’aveva già fatto? Gli occhi ambrati tornarono sul
cilindro argentato, trovandolo ancora annidato dove l’aveva lasciato, comodo ed
a suo agio. Perché non se n’era ancora sbarazzato? «Brutale come sei non
stenterei a crederci, ma ci tengo ai miei arti» proferì con sarcasmo pungente,
procedendo a togliere l’anello e provando un brivido d’incompletezza quando
l’estrazione avvenne. Tutto il suo essere gli urlava che era quello il luogo a
cui apparteneva, che non doveva separarsene e che era nelle mani ideali.
L’oggetto tornò nelle grinfie del suo padrone e Stiles ebbe compassione per
esso.
Ora era stranamente nudo senza che alcun ornamento di metallo lo coprisse.
Si sentiva abbandonato ed era una sensazione peggiore dell’essere rifiutato da
qualcosa che credeva appartenergli e che poi si era rivelato l’esatto opposto,
facendo subentrare il sentimento di essere voluto e ricercato. Atteso
trepidamente. Doveva togliersi quell’idea sconcertante dalla mente.
«Questo non lo rivuoi?» domandò il capitano con una mola sottile e calda
che Stiles non riuscì ad interpretare.
Il castano fu richiamato in causa, risvegliato dai suoi pensieri e dalle
strane sensazioni che si erano impadronite del suo corpo, posando le iridi di
miele sulla mano destra del giocatore di basket che si apriva mostrando un anello
identico a quello appena restituito. Sembrava essere stato protetto fino a quel
momento. «Ce l’hai tu?» era una domanda molto stupida che poteva risparmiarsi,
ma l’impeto e lo sconcerto di vederlo proprio lì, tra le mani dell’ultima
persona che si sarebbe aspettato di scorgere, lo guidarono senza freni
inibitori.
«Sì, Stiles» asserì con una strana riverenza che accompagnava chi doveva
essere guidato.
Ancora? Il modo in cui Derek pronunciava il suo nome
aveva una cadenza speziata e scivolava sulle sue labbra come se fosse naturale
e giornaliera la formulazione di quell’insieme di suoni un po’ ostici. Sembrava
quasi non rendersene conto. «Credevo di… averlo perso».
«No e posso assicurarti che è il tuo» dichiarò il moro con sicurezza certa,
quasi onirica, come se non potesse essere altrimenti e avesse le prove di
quanto affermasse. «Li hai scambiati quando sei corso via».
«Oh, grazie» grazie di che, se è per
colpa sua se ti sei allontanato in fretta e furia. Ma per quanto la propria
mente lo stesse rimproverando, mettendogli davanti la
realtà dei fatti, quella parola fu pronunciata con riconoscenza autentica e
possedeva un peso enorme.
Le dita affusolate del minore percorsero l’aria, titubanti ed indecise se
potessero prendere l’oggetto direttamente dalle mani del capitano – quelle
stesse mani che l’avevano stretto ed imprigionato e di cui sentiva ancora la
presa bollente sul mento –, ma l’anello sembrò avvicinarsi e le falangi si
mossero autonomamente, sfiorando con le punte il suo palmo ed agganciando il
cilindro.
Quando lo prese tra le mani fu come se avesse dimenticato tutto il teatro
che si stava rigettando tra quelle pareti e lo indossò lasciandolo scivolare
sul dito corretto, dove trovò la sua perfetta collocazione. «Ciao» pronunciò
con amorevolezza e nostalgia ritrovata, salutando un vecchio e fedele amico che
gli era terribilmente mancato e che adesso poteva riabbracciare.
Derek lo guardò per tutto il tempo con il fiato trattenuto in fondo alla
gola e soltanto con la coda dell’occhio Stiles notò che si fece scivolare
l’anello gemello sul medio destro.
Possedevano lo stesso oggetto nel medesimo luogo.
«Amico, ma che diavolo è successo?» domandò uno Scott spiazzato e confuso
con le iridi castane enormi, guardandolo fisso.
«A che proposito?» chiese in risposta il suo migliore amico del tutto
estraneo ai fatti e concentrato soltanto a raggiungere la prossima aula.
«Tu e Derek Hale» disse il messicano con poche parole che racchiudevano
tutto quello che era avvenuto solamente pochi minuti prima. «Un attimo prima vi
stavate per sbranare – letteralmente, Stiles. Letteralmente – e quello
successivo… non so nemmeno a cosa ho assistito».
«Non spremerti troppo le meningi, Scott» proferì benevolo e con una punta
di sarcasmo morbido, accarezzando istintivamente la triscele dell’anello.
«Devi credermi, Stiles. È stato strano» dichiarò con un’insolita sensazione
al petto e un mormorio soffuso che prendeva un’inconsueta nota nella voce. «Era
come se per lui esistessi solo tu».
«Comprensibile. Era me che stava cercando e voleva qualcosa che gli
apparteneva indietro» gli fece ben presente la sua controparte, riflessivo e
con la risoluzione del caso ben visibile davanti agli occhi. «Non se ne sarebbe
andato senza».
«Era molto più di questo» rivelò il moro, fermando il passo e bloccandosi
davanti alla porta della classe appena raggiunta. «Non riusciva a distogliere
lo guardo da te. Fino all’ultimo».
«Avanti, Stilinski, non ti costa nulla dirmelo» lo esortò la ragazza che
gli si parava davanti e che non aveva alcuna intenzione di lasciarlo andare
finché non gli avesse rivelato ciò che pretendeva.
Erano stati giorni pieni ed estenuanti in cui file interminabili di ragazze
gli avevano rubato ogni attimo di respiro, tormentandolo con le domande e
supplicandolo con tutte le armi che avevano a disposizione, cercando di farlo
cedere e cadere dalla loro parte almeno per un momento. Stiles ne aveva odiato
ogni minuto. «La risposta è sempre la stessa per te e le altre: non ricordo
dove l’abbia preso».
«Pensi davvero che ti creda?» domandò retorica la bionda ossigenata che lo
squadrava dall’alto in basso, fulminandolo ad ogni secondo e probabilmente
maledicendolo in tutte le lingue esistenti.
«Non ho nulla per te» disse esaustivo e caparbio nell’ultima risposta che
le avrebbe dato, invitandola cortesemente a togliere il disturbo ed a lasciar
perdere quella storia, mettendovi la parola fine.
La ragazza lo penetrò con sguardo assassino fin dentro le pupille e
borbottò un insulto poco lusinghiero quando uscì dall’aula. Lei non sarebbe
stata l’ultima.
«Non ce la faccio più. Ho bisogno di una vacanza» esclamò esausto e quasi
privo di energie vitali, accasciandosi sul banco e sospirando amaramente.
Da quando una settimana prima era accaduto quel siparietto pittoresco tra
lui e il capitano della squadra di basket tutta la scuola appariva in
agitazione crescente, senza che si potesse arrestare o quantomeno placare e
tutto era accompagnato dall’immagine che gli studenti si erano costruiti di lui
e Derek Hale che avevano incontri clandestini e si scambiavano anelli come la
grande coppia da fiaba che rappresentavano; come se il destino li avesse uniti
e fosse impossibile separarli: una coppia scelta dal fato.
Quello stesso giorno, dopo nemmeno un’ora, tutto il liceo era a conoscenza
del fatto che Stiles Stilinski e Derek Hale possedessero il medesimo anello.
Era stata una voce che si era espansa come una macchia d’olio letale e crudele,
ma era stata placata dalla rivelazione che i due oggetti fossero nelle dita
sbagliate e per Stiles era cominciato l’inferno. Perché ogni ragazza
interessata al diciottenne si presentava alla sua porta pretendendo di sapere
dove avesse comprato quell’anello, desiderosa di avere lo stesso identico
gioiello del playmaker.
«Tieni duro, Stiles. Presto le voci si affievoliranno e smetteranno di
tormentarti» proferì Allison candida e con comprensione, accarezzandogli i
capelli castani amorevolmente con il tocco di una madre che era in grado di
cancellare le pene più grandi. Sull’anulare sinistro faceva la sua bella comparsa
l’anello d’argento regalatole da Scott, lo stesso che portava quest’ultimo.
Il sedicenne mugolò in approvazione, abbandonandosi a quell’unico gesto
affettuoso e rilassante che gli veniva concesso in quei lunghi giorni di
agonia. «Non sapevo nemmeno ne portasse uno» ad un primo approccio, Stiles non
ci aveva fatto caso; non aveva pensato che in realtà tutta quella storia
comportasse il fatto che Derek Hale possedesse un anello, un anello che teneva
sul medio destro e che probabilmente tutti avevano adocchiato, ma allora perché
la bufera si era scatenata soltanto quando si era scoperto che il suddetto
anello aveva un gemello?
Stiles l’avrebbe notato, avrebbe visto che su una qualsiasi falange di
Derek Hale vi era un cerchio argentato che portava fieramente ed invece, in
tutto quel tempo, per quanto passasse i propri pomeriggi in un’area isolata e
delimitata, all’interno della palestra di basket, sugli spalti e sommerso dai
libri, non aveva mai adocchiato quel particolare ornamento. Non aveva neanche
fantasticato sulla possibilità che il playmaker ne potesse possedere uno,
condividendolo con qualcuno.
Ma era sul medio destro ed era esplicito e chiaro che in realtà non lo
condividesse con nessuno e, se davvero lo indossava, voleva dire che durante
gli allenamenti lo riponeva nell’armadietto assegnatogli negli spogliatoi per
non perderlo. E se anche fosse stato vero e logico, davvero non l’aveva mai
incrociato da nessun’altra parte per potersene accorgere?
«Lo porta, invece» rivelò il capitano della squadra di lacrosse, apparendo
dietro le loro spalle con le orecchie tese e il riguardo che dopotutto prestava
ad ognuno di loro, menefreghista in superficie, ma conscio di ciò che gli
girava intorno.
Il gruppo si voltò interamente verso di lui e Jackson si ritrovò tutti i
loro occhi su di sé, attenzione che in un contesto diverso ed in un’occasione
completamente differente avrebbe apprezzato e di cui avrebbe beneficiato,
esaltando maggiormente se stesso, ma non quando riceveva degli sguardi
interrogativi ed indagatori ‒ soprattutto quello dello Stilinski, a cui
non sfuggiva mai nulla ‒ che apparivano chiaramente chiedergli come
facesse a saperlo; avrebbero nuovamente ripuntato il dito sul fatto che fosse
in competizione con il diciottenne ‒ benché quest’ultimo non ne sapesse
nulla ‒ e che lo studiasse in modo quasi ossessivo. «Lo indossa, a volte.
Tiene il simbolo rivolto verso l’interno, in modo che possa vederlo soltanto
lui» non aveva proprio voglia di giustificarsi e spiegare perché avesse notato
quei particolari; in realtà si domandava come potesse non essersene accorto
nessuno di loro. L’anello saltava spesso fuori, senza una regolarità o un
motivo preciso; non c’era nessun intervallo in mezzo. Appariva quasi come per
magia e lo accarezzava distrattamente come se fosse l’oggetto più importante
dell’universo e non potesse mai separarsene. «Ma la maggior parte delle volte
lo tiene al sicuro».
«Al sicuro?» gli fece eco Stiles, strabuzzando gli occhi e sentendo
l’anulare sinistro formicolare. «Perché dovrebbe tenerlo al sicuro?».
«Dovresti immaginarlo» proferì l’Argent, immedesimandosi nella posizione in
cui si trovava il capitano della squadra di basket. «Se davvero ha un rapporto
particolare con quell’anello, non avrebbe mai voluto condividerlo con il mondo
e soprattutto con la schiera di ragazze che gli ronza intorno».
Era un ragionamento ovvio e razionale, quasi elementare, lui era il primo a
ritrovarsi in quella situazione ed a provare quel medesimo desiderio,
soprattutto con quella caccia alle streghe che si era aperta e che prevedeva
l’estrazione forzata del proprio prezioso anello con tanto di amputazione di
dito o, nel peggiore dei casi, con il taglio netto della mano o del braccio ‒
no, grazie.
La cura e la meticolosità che Derek aveva messo nel proteggere l’esistenza
di quell’ornamento, non doveva apparirgli così folle e senza senso, soprattutto
se preveniva quella pazzia che si era abbattuta su di loro ‒ anche se
probabilmente Stiles non era implicato nell’equazione ‒ ed
improvvisamente tutto quell’esercito di ragazze esageratamente esagitate
sarebbe andata in giro con una copia di quell’anello senza che ne conoscessero
il significato e la possibile importanza che Derek Hale gli infondeva. «Tutto
finirebbe prima se lui si decidesse a sceglierne una» ma lo lascerebbero in
pace a quel punto? Si arrenderebbero all’evidenza che il diciottenne avesse
finalmente qualcuno al suo fianco?
«La vedo ardua, le ha sempre rifiutate tutte» riferì Allison meditando
sull’ipotesi appena presentata dal ragazzo, scostandogli una ciocca castana
dagli occhi ambrati.
«Davvero?» domandò sorpreso il messicano, seduto davanti alla sua
controparte e testimone di tutti gli avvenimenti che si abbattevano su di lui
senza esclusione di colpi. Voleva davvero aiutare il suo migliore amico, ma non
aveva idea di come muoversi.
«Sì, almeno per gli ultimi due anni ne ho la certezza» asserì la mora con
convinzione, tornando indietro con i ricordi fino a dove ne avesse accesso.
«Deve essere un’esperienza orribile essere rifiutate da quello scorbutico
musone, ho quasi pena per loro» disse Stiles con un tono quasi rammaricato e di
chi si immaginava perfettamente la scena, ma tutto era offuscato
dall’avversione che provava per loro in quel momento. Un giorno gli sarebbe
passata.
«Ti sbagli, Stiles» fece la sua comparsa la bionda fragola, intromettendosi
nella discussione e facendo primeggiare la sua persona – lei si era unita al
gruppo dopo l’arrivo di Allison ed il suo evidente coinvolgimento con Scott. Il
sedicenne notò quanto fosse differente il suo nome pronunciato dalle labbra di
ciliegia di Lydia e da quelle di Derek, ma preferì scacciare quel pensiero. «Le
rifiuta con garbo e gentilezza».
«Gentilezza? Derek? Non credo che possano coesistere queste due parole
nella stessa frase» sproloquiò il castano con poca convinzione nata
dall’incredulità dell’esistenza di tale personalità nel più grande.
Lydia sbuffò seccata, roteando gli occhi. «Forse non la gentilezza classica
che intendiamo noi, ma a loro basta» riferì con convinzione come se fosse in
possesso delle prove che avallassero la sua causa. «Fa presente l’impossibilità
e il perché non può ricambiarle e loro si ritrovano il cuore meno ferito».
«Deve essere uno che sa far valere le sue ragioni ed un buon oratore»
sentenziò Allison con un piccolo cipiglio sul volto, scavando nella mente
parole e possibilità che potessero permettere qualcosa del genere.
Stiles avrebbe voluto ribattere che Derek
non è per niente un buon oratore.
«Fa molto di più» affermò Lydia con una strana aura intorno a lei ed uno
scintillio affascinato nelle iridi verdi. «Le ragazze passano dalla sua parte e
lo sostengono silenziosamente».
Stava decisamente scappando, scappando a gambe levate perché non sarebbe
più riuscito a reggere quella situazione per altri due minuti.
Le ragazze che aveva affrontato erano una più spaventosa dell’altra,
insistenti ed ossessionate e poche di loro apparivano controllate e propense ad
abbandonare quella battaglia, dedicandosi ad altre risoluzioni per il problema.
Stiles voleva soltanto essere lasciato in pace, almeno durante l’ora della
mensa, visto e considerato che durante tutta la giornata quella fila di svitate
non ne voleva sapere di smorzarsi.
Era stato trattenuto fino al minuto precedente e nel momento in cui aveva
risposto nuovamente con una negazione, si era ritrovato ad essere fissato da
due gemme ferite. Insomma, non è certo
colpa mia. Non era riuscito a reggere e prima che una nuova combattente gli
tagliasse la strada, aveva fatto inversione ed era corso su per le scale
anti-incendio poste al lato dell’edificio e le aveva percorse tutte, fino ad
arrivare sul tetto. Era solito rifugiarsi lì durante quella lunga ed estenuante
settimana.
«Sono innamorata di te» pronunciò una voce femminile con tono sommesso,
facendo ricadere tutta l’attenzione su di lei proprio nel momento in cui Stiles
giunse all’ultimo gradino metallico, fermandosi di botto ed accucciandosi
contro la scala, spalmandosi addosso al muro per quanto gli fosse concesso per
non essere visto. Oh, ma andiamo, non è
possibile. Stava davvero assistendo ad una dichiarazione? Quella dichiarazione?
Derek era proprio a pochi metri da lui, vigile e si ergeva in tutta la sua
stazza, fronteggiando la ragazza che gli stava aprendo il suo cuore, speranzosa
e carica di aspettativa. Era davvero bella, fresca e del tutto devota a lui,
come avrebbe potuto rifiutarla? Com’era anche solo stato capace di rifiutarne
una?
«Mi dispiace, ma non posso corrispondere i tuoi sentimenti» pronunciò Derek
con una cadenza speciale e calda, una che scaldava il cuore e rasserenava come
un morbido abbraccio, liberando dai pensieri negativi lentamente.
Stiles doveva essere accidentalmente caduto in un universo parallelo,
perché quello non poteva assolutissimamente essere il Derek che aveva
incontrato.
La ragazza sembrò colpita in pieno petto in un primo momento, ferita e
quasi distrutta, ma in fondo agli occhi poteva vedere la consapevolezza che non
sarebbe andata diversamente e che l’avrebbe accompagnata per tutto il tempo.
Stava cercando solo conferme? «C’è qualcun altro?» domandò con la certezza che
quella fosse l’unica motivazione per quella sfilza di rifiuti che si
accumulavano uno dopo l’altro.
Gli occhi di Derek erano sempre stati impenetrabili ed impossibili da
decifrare, vi era sempre uno scudo a proteggerli e non lasciavano mai
trasparire nulla. Erano insondabili e perfetti. Ma in quel momento, proprio in
quello, il verde delle sue iridi si accese. «Sì».
Stiles si sentì soccombere, con un peso eccessivo sul petto, per
l’intensità con cui fu pronunciata quell’unica affermazione. Era inviolabile ed
eterna e faceva male.
«Perché non è con te?» chiese la ragazza guidata da una missione di cui si
stava facendo carico o soltanto dalla curiosità che la spingeva ad indagare
sulla sua rivale in amore.
«A differenza tua, non mi è neppure permesso di fantasticare su
un’ipotetica dichiarazione» annunciò il moro con nessuna sfumatura nella voce,
ma che raggelò comunque il sangue di Stiles, perché era carica di rammarico e
mancata occasione. E sembrava soffrine molto.
Lei apparve soppesare le parole e gli occhi le caddero sul lato destro del
ragazzo, osservando un punto che il sedicenne non seppe identificare, e
riportando lo sguardo sulle sue gemme boscose. «Se è chi penso io, dovresti
provarci».
Derek abbozzò un sorriso di circostanza quasi nostalgico, mentre la mano
destra si chiudeva in un pugno. «Forse. Un giorno».
Lei annuì in risposta e forse lo stava rimproverando per quella mancanza di
coraggio che stava dimostrando, ma si congedò subito dopo senza pronunciare più
alcuna parola e Stiles la vide sparire dietro la porta che conteneva le scale
interne.
«Esci fuori o hai ancora intenzione di rimanere nascosto?» domandò il
diciottenne al vuoto con una nota piccata e derisoria.
Poteva essere così sfortunato? Com’era possibile che avesse percepito la
sua presenza, era stato così attento e meticoloso e lui voleva soltanto
andarsene e dimenticare quel momento imbarazzante.
«Stiles» esclamò in un richiamo obbligato ed un chiaro ordine imposto.
A-ah, e ora come ne usciamo fuori? «Non volevo origliare, sono qui per caso e
non mi interessa nulla di questa storia, ne ho abbastanza delle tue ragazze»
gracchiò in una parlantina fluida ed accartocciata, investendolo con le sue
parole nel momento in cui ebbe l’audacia di uscire dal suo nascondiglio ed
affrontarlo, salendo l’ultimo gradino e poggiando i piedi sul tetto.
«Ti credo» disse il moro come un’onda anomala e fredda, investendolo
all’improvviso, sorprendendolo.
«Sul serio? Perché?» chiese stralunato e basito il sedicenne. C’era
qualcosa di diverso in lui e Stiles stava divenendo testimone di troppi
aspetti.
«Perché sei qui?» domandò a sua volta Derek, ignorandolo bellamente.
Stiles lo guardò dritto nelle iridi di giada, osservandolo per scovare una
spiegazione a quello strano dialogo. «Volevo soltanto due minuti di tregua,
quindi sì, sono letteralmente scappato».
«Lo fai spesso» dichiarò il maggiore a se stesso
con una sfumatura soffusa.
«Scappare?» chiese il sedicenne con una nota piccata ed offesa, ma era come
se si fosse intromesso in una sua riflessione privata.
«Venire qui» proferì in un’unica nota. E
lui come fa a saperlo? «Ti danno molto fastidio?».
«Il tuo fanclub di scalmanate? Che sarà mai
essere odiato da tutto il popolo femminile della scuola perché impedisci il
loro sogno d’amore» proferì il castano con sarcasmo ed ironia pressante,
sorridendo di sbieco e con stanchezza.
«Sogno d’amore?» domandò l’altro poco convinto, aggrottando le sopracciglia
scure.
«Sei tu, Derek» annunciò Stiles con evidenza e con voce convenevole. «Sono
un po’ ossessionate e spaventose. Davvero spaventose e metà di loro non le
avevo nemmeno mai viste – forse più di metà».
Derek annuì come se avesse compreso, ma era probabile che se la stesse ridendo sotto i baffi. «Ed in che modo glielo
staresti impedendo?».
Ahi. Stiles si accarezzò d’istinto l’anello,
improvvisamente più pesante del quotidiano. «Non ricevono la risposta che
vorrebbero e la storia degli anelli le ha fatte impazzire».
«Non solo quella» rivelò il playmaker con una nota piccata, ma ancora una
volta sembrava che stesse parlando tra sé e sé.
Stiles lo capì al volo che si stesse riferendo a loro due e alle voci che
li circondavano. «Perché non hai scelto lei?» Derek lo guardò spaesato e con
espressione interrogativa e lui sbuffò interiormente. «La ragazza di poco fa».
«Ti farebbe molto comodo, liberandoti da tutto questo» e lo disse con un
astio premente e quasi arrabbiato, come se lo stesse
tradendo.
Stiles lo guardò di rimando e con le gemme d’ambra che brillavano
intensamente. «Sì, mi aiuterebbe. Smetterei di essere il nemico delle donne e
mi lascerebbero finalmente in pace, invece di essere accusato di essere quello
che ti porta via da loro. Ne basterebbe una, una soltanto di loro».
«Nessuna di loro è quella giusta, Stiles» ed era nefasto ed imperativo e
non ammetteva alcuna replica.
Perché sembrava che fosse colpa sua? Perché ogni colpa ricadeva su di lui?
«Tu conosci il mio nome» appariva come un’accusa, una forte, una che indicava
che non sarebbe dovuto esserne in possesso.
Derek innalzò un sopracciglio, guardandolo criptico e c’era il lieve
luccichio di chi fosse appena stato messo nel sacco. «È un reato?».
Avrebbe voluto rispondere di sì, perché l’aveva quasi sbranato quando si
era fatto scappare il suo nome al loro primo incontro ufficiale. «No,
semplicemente sorprendente» ed era sincero e stupito, ma era certo che tutto
quello nascondesse qualcosa e che qualsiasi scusa gli avesse propinato non sarebbe
stata creduta.
«Sei il figlio dello sceriffo» e quello doveva valere come ogni motivazione
possibile, che suonava tanto: tutti sanno
chi sei.
«Tutti si limiterebbero ad indentificarmi con il mio cognome, non come
Stiles» e lo sapeva bene, perché lui era quello che passava inosservato in
mezzo alla folla anche se aveva il potere di risultare unico ed irripetibile.
Perché era quello che era cresciuto senza una madre e che era il piccolo figlio amato dello sceriffo
della contea, quello che era cresciuto in fretta e si era preso carico della
famiglia rimastagli, quello intelligente che spiccava nei test attitudinali, ma
possedeva un nome soltanto nella sua piccola cerchia ristretta, che una volta
si limitava a soli tre membri – suo padre, Scott e Melissa, la madre di
quest’ultimo – e che lentamente si era allargata grazie alla presenza di
Allison –Jackson continuava
imperterrito a chiamarlo Stilinski.
«Non è così che ti fai chiamare?» ed il sedicenne sentì un brivido
percorrergli tutta la colonna vertebrale per l’allusione fondata che l’altro
aveva lasciato trapelare, con guardo tagliente e conoscitore e Stiles ebbe la
certezza che Derek Hale possedesse fin troppe informazioni su di lui, fino ad
arrivare ad un nome che in realtà era fittizio e che nascondeva quello reale,
ma che non riconosceva come tale. «Sono il re della scuola, ricordi?» doveva
avere un’espressione al limite del ridicolo e completamente basita se Derek
sentì il bisogno di dovergli dare ulteriori spiegazioni o forse voleva soltanto
depistarlo e salvarsi. E si stava beffando di lui.
«Quello era un insulto» puntualizzò il figlio dello sceriffo.
«In effetti mi sono sentito profondamente insultato» dichiarò il moro con
ilarità piccante, convenevole e fintamente provato.
«Era sarcasmo? Derek Hale sa fare del sarcasmo?» domandò retorico e con
un’incredulità premente nelle iridi poco abituate, mentre il suo schema
continuava a modificarsi e ad aggiornarsi.
Derek aveva una strana piega sulle labbra che assomigliava un po’ troppo ad
un sorriso trattenuto e non si era neppure accorto che si era avvicinato così
tanto a lui. «È colpa tua» un sussurro, un mormorio così indefinito che Stiles
non seppe nemmeno come riuscì a percepirlo e ad identificarlo.
«Derek» proferì con il fiato in gola in una domanda silenziosa e confusa,
mentre una mano dell’altro si avvicinava al suo viso e lo sfiorava, proprio
quella dove faceva mostra di sé l’anello d’argento; riusciva a sentire il
metallo carezzarlo.
«Puoi dirglielo» acconsentì il diciottenne, alzandogli il mento ed
incastrando le perle di smeraldo in quelle d’ambrosia. «A tutte loro. Dagli la
risposta che vogliono e smetteranno di girarti intorno. Non mi importa se
possiederanno quest’anello».
Era strano il permesso che gli stava concedendo, aveva un sapore
concentrato e con la missione di liberarlo, eppure trapelava quanto per lui
valessero poco quelle copie e che confluisse il reale significato soltanto in
quelli che appartenevano a loro due. «A me sì» il tocco di Derek sembrò
vacillare e tremare, ma era così impercettibile che pensò di esserselo sognato.
«Per me è importante e non ho mai sopportato chi possiede le mie stesse cose;
non ci rinuncerò per causa loro» proferì con quella convinzione che gli
attraversava tutto l’organismo, guardandolo dritto negli occhi. «Condividerlo
con te è già abbastanza, soffocante e schiacciante. Mi fa sentire circondato».
Le iridi di Derek si tinsero di una nuova sfumatura, piccole pagliuzze di
blu elettrico, e il sangue di Stiles gelò, perché non poteva seriamente
esserselo fatto scappare.
Derek gli afferrò la mano destra e la imprigionò tra le dita, mentre le
labbra si posarono sulla triscele rossa dell’anello di Stiles, schioccando un
bacio incandescente. «Se questo è quello che provoco in te dovresti
rifletterci, perché non rinuncerò al mio».
Dietro le spalle lasciò uno Stiles al limite dello sbigottimento, con il
cuore a mille e l’ossigeno assente nei polmoni, con l’anello che si stringeva
sempre di più sul dito medio, circondandoglielo e bruciandolo.
Povero Stiles, quante
probabilità potevano esserci che l’anello che accidentalmente aveva scambiato,
fosse proprio quello della persona da cui stava fuggendo? La dea bendata deve
divertirsi molto con lui.
Nessuno si immagina
un Derek gentile, è un’idea insostenibile e Stiles ne è pienamente testimone,
peccato che ci sia sempre qualcosa che glielo presenti in modo differente e per
quanto sostenga la sua visione, con Derek che non fa nulla per cambiarla, poi
inevitabilmente scopre un mondo nuovo a cui non può credere e ci sono fin
troppe cose a cui non può credere e molte si sono già manifestate in questo
secondo capitolo.
La battaglia tra loro
due è molto ardua e particolare, testarda e con una supremazia non esattamente
identificabile. E come se non bastasse c’è ben altro in mezzo a loro e
quell’esercito di ragazze un po’ fissate ed esagerate crea, a loro insaputa, un
canale diretto tra Stiles e Derek; anche se Stiles ne farebbe volentieri a meno
e Derek… è Derek, un’incognita.
Ringrazio chiunque
stia dando una possibilità a questa storia, che ha ancora tanta strada davanti
e che è soltanto all’inizio; chi l’ha messa, dal suo primo capitolo, tra le
preferite, ricordate e seguite, chi ha lasciato un commento e chi si limita
semplicemente a leggere in silenzio.
«Un amore impossibile dici?» ripeté Lydia in forma di domanda,
sovrappensiero e con la mente che raccoglieva informazioni – quindi le ragazze passano dalla sua parte e lo sostengono perché si
trovano nella sua stessa situazione.
«È un’ipotesi» rispose Stiles prontamente, giocando distrattamente con il
cibo non bene identificato che si ritrovava sul vassoio. «Ha detto che non
potrebbe nemmeno ambire a dichiararsi, anche se non credo lo farebbe comunque».
A volte lui e Lydia si ritagliavano una quantità di tempo notevole per
confrontarsi, per mettere le nozioni che avevano guadagnato a disposizione e
permettere alle loro menti affini, che erano dotate di particolarità diverse,
di scovare cavilli e risolvere misteri, accrescere la loro conoscenza e
dilettarsi con argomenti che al resto del gruppo erano estranei e ostici. Altre
volte avevano semplicemente bisogno di vedere con gli occhi dell’altro, poter
scorgere ciò che uno dei due dava per scontato o che non notava neppure. Il
loro acume ed intelligenza procedevano su binari differenti e il più delle volte
si rivelavano essere delle risorse preziose ed essenziali.
Quella volta il bisogno di misurarsi con Lydia era stato un richiamo troppo
forte e durante lo spazio di tempo dedicato alla mensa era stata messa al
corrente di tutto quello che passava per la mente del ragazzo, con dettagli
accurati, accresciuti dalla curiosità insaziabile della sedicenne.
Quello era il tipo di rapporto che loro due avevano instaurato, leale ed
amichevole, di pari e complici e Stiles sapeva molto bene che non sarebbe mai
sfociato in nient’altro e che il grande amore fanciullesco ed adolescenziale
che provava per lei sarebbe rimasto per sempre dentro di lui, senza mai avere
la possibilità di essere esternato e che, al contrario, con il tempo sarebbe
potuto crescere o scemare. Stiles non sapeva proprio in cosa dover sperare.
«Non sarai troppo duro con lui?» gli fece presente la bionda fragola,
addentando la sua pietanza con grazia.
«È Derek Hale, quello che non si piegherebbe mai davanti ad una cosa del
genere e che ha il mondo ai suoi piedi» le rammentò il sedicenne con tutte le
prove a testimoniarlo, facendo riferimento alla memoria che possedevano
entrambi ed ai dettagli che non si lasciavano sfuggire.
«Forse è proprio questo il problema» annunciò pragmatica la ragazza.
«Magari desidera qualcuno che sappia fronteggiarlo e tenergli testa e non
qualcuno che bacia la terra dove cammina».
«Allora gli auguro tanta fortuna» sentenziò con scherno il figlio dello
sceriffo, addentando una patata al forno che era, tra l’altro, l’unica cosa commestibile.
«Qualcuno a cui non può dichiararsi» ripeté a se
stessa la Martin, come se fosse essenziale quel particolare. «Magari è una
donna sposata».
Stiles per poco non si strozzò con l’acqua di quell’inconsistente
bottiglietta, che sarebbe stata comunque fatale. «Ma con tutte le donne che ci
sono al mondo per forza una sposata?».
Lydia lo guardò per niente scomposta, abbozzando un sorriso malizioso.
«Derek è prestante, dannatamente bello e attira gli sguardi di chiunque quando
cammina. Ed uno come lui, che si ritrova tutte le porte aperte, potrebbe ambire
a qualcosa di pericoloso ed eccitante. Quindi sì, una donna sposata è una buona
candidata».
«Non sono convinto» la interruppe il giocatore di lacrosse, prima che lei
si lasciasse andare a chissà quale grande descrizione con protagonista il
capitano della squadra di basket. Lydia amava quel genere di cose. «Lei, la
ragazza della dichiarazione, sembrava sapere chi fosse. Quindi o sono tutte
delle grandi stalker o è in questa scuola».
«Un’insegnante? Un’insegnante sposata?» gettò la Martin, riprendendo subito
la palla al balzo e non lasciandosi scappare l’occasione.
«Questo argomento ti entusiasma esageratamente» la rimbeccò esausto il
castano, prendendosi i capelli tra le mani, inorridito dall’immagine che gli si
stava dipingendo davanti agli occhi. «Ma appoggio qualsiasi donna sposata se
togli dall’elenco la Blake».
La bionda fragola arricciò il naso indispettita, correndo alla sua
bottiglietta d’acqua. «Quella donna è stucchevole e fa una corte spietata a Derek».
«Già» articolò l’altro con i brividi che gli percorrevano tutto il corpo e
che lo costrinsero ad abbracciarsi d’impeto.
La professoressa Jennifer Blake insegnava letteratura e sapeva sempre come
rapportarsi con i suoi studenti e come lasciare impressa la propria materia, ma
possedeva anche quella carta che giocava per via della sua veemenza e magnifica
presenza. La sua bellezza spesso faceva da padrona e, la maggior parte delle
volte, non tratteneva il suo essere civettuolo e provocante. Derek Hale era la
sua preda preferita. «Derek la detesta» ma a volte Stiles conosceva troppe cose
che aleggiavano attorno al diciottenne.
Lydia rimase con la bottiglia sospesa in aria, con la presa morbida e
salda, e lo guardò per un lungo momento, studiando i lineamenti del suo viso.
«C’è qualche altra nozione che non mi stai riferendo?».
Stiles riemerse dal suo guscio protettivo, lasciando le braccia incrociate
sul tavolo della mensa vuoto che ospitava soltanto loro due e sbattendo le
palpebre più volte come a voler fuggire o risvegliarsi, mostrando le iridi di
miele puro. Che mi ha baciato? Non
baciato, baciato, ma mi ha baciato, era qualcosa, che a distanza di un
giorno, non riusciva ancora a rimuovere dalla mente. «Lei l’ha incitato a
provarci e per quanto le sue parole sembrassero di sostegno, i suoi occhi
dicevano ben altro» si fermò e prese un lungo respiro, guardandola attentamente.
«Lo stava rimproverando, rimproverando per la sua mancanza di coraggio e come
può essere possibile se Derek appariva così perso quando parlavano di questa
persona».
«Stiles» lo richiamò all’attenzione la ragazza, risvegliandolo da
un’immagine che non riusciva a scrollarsi di dosso e l’anello prendeva a
stringersi, diventando incandescente, ricordandogli dove le labbra dell’Hale si
erano posate. «Hai mai pensato che potrebbe trattarsi di un ragazzo?».
«Un ragazzo?» le fece eco lui, annebbiato ed offuscato, completamente in
balia delle onde. «Un ragazzo e Derek Hale?» era troppo assurdo per le sue
orecchie. Ma era davvero così assurdo se accompagnava il gesto di dispetto e
sfida che gli aveva lanciato, marchiando l’anello con l’impronta della sua
bocca? Stiles non riuscì a non lanciare un’occhiata all’ornamento d’argento,
stringendo le dita tra loro e sentendo la sua consistenza farsi sempre più
prossima e calda. Era una maledizione, solo una maledizione dettata dalla sua
mente facilmente suggestionabile.
«Riflettici» lo esortò la rossa, mettendosi dritta sulla seduta. «Lui ti ha
detto che nessuna di loro potrà mai essere quella giusta, forse perché non
esiste alcuna lei. E la ragazza della
dichiarazione ha parlato di qualcuno,
non qualcuna. È andata dritta al
sodo» fece una pausa e le iridi verdi – erano troppo diverse da quelle di lui – si specchiarono in quelle d’ambra.
«Aggiungici tutto il resto e colma le parti mancanti».
«Sono solo prove circostanziali» asserì il ragazzo, entrando in un campo
che conosceva come i palmi delle proprie mani. «La scelta di pronomi non
esclude nulla e se davvero fosse un ragazzo, non dovrebbe trasformarlo in un
problema inaffrontabile».
Lydia rimase immobile per un tempo incalcolabile, la bottiglia d’acqua
sospesa e le gemme di smeraldo fisse sulle sue. «Come?».
«Non è indifferente ai ragazzi» la sua convinzione era concreta e non
tentennava, poiché aveva tutte le prove che potevano testimoniarlo, decine di
momenti e situazioni, un pubblico vasto e la certezza di aver visto gli occhi
del panorama maschile indugiare troppo sul capitano della squadra di basket.
Per lui non era nemmeno così strano.
«È molto più complicato di così» rivelò la ragazza piena di conoscenza.
«Esiste l’invidia, l’odio e la poca tolleranza. Derek non è davvero amato da
tutti ed è circondato da molte insidie. Come potrebbe isolare tutto questo?».
Stiles scosse l’aria con un movimento musicale sordo creato con precisione
dalle sue dita, appesantendo l’ambiente con le sue certezze. «Può farlo».
Era strabiliante ed intossicante come Stiles credesse nelle potenzialità di
Derek, come se vedesse qualcosa che era precluso a tutti gli altri, come se
conoscesse delle caratteristiche che erano permesse solo a lui. Lydia adorava
poterli studiare. «E se fosse qualcuno che non prova alcun interesse?».
«Ti direi che è un masochista cronico» rivelò il figlio dello sceriffo con
ironia svezzata, ma che poteva essere reale.
«Sarebbe da lui» meditò la ragazza, portandosi una ciocca rossa dietro un
orecchio e guardandosi furtiva in giro. «Conosci la sua storia tragica?».
«Quale storia?» domandò il castano con sorpresa e smarrimento, non
afferrando a cosa si stesse riferendo la sua interlocutrice.
«Derek al primo anno aveva una ragazza. Lei studiava il violoncello e non
c’era verso che prestasse attenzione ad altro se non al suo strumento» dichiarò
la sedicenne con leggerezza programmata e con cura, ricevendo uno sguardo
interrogativo da parte della persona seduta di fronte a lei che sembrava
chiederle delucidazioni. «Erano una coppia molto chiacchierata» si giustificò
senza aggiungere spiegazioni, infastidita dalla perplessità del suo
ascoltatore.
«Non eravamo nemmeno qui tre anni fa e sono terrorizzato dalle tue capacità
di cacciatrice di gossip» chiarì turbato lo studente del secondo anno. «A cosa
mi serve conoscere questa storia?».
«Potrebbe aiutarci a comprendere meglio i suoi comportamenti» semplificò
spicciola la bionda fragola, senza tergiversare e camuffando abilmente la
febbricitante voglia che aveva di raccontare i fatti.
Stiles parve a disagio e si passò una mano tra i capelli con la vana
speranza di scacciare via quella sensazione sgradevole che l’avvolgeva e che
gli suggeriva di non approfondire. «Non credo di volerla conoscere».
Lydia l’osservò per diversi momenti, pigiando sulla chiusura a scatto della
bottiglietta d’acqua. «Lei è morta».
La testa di Stiles scattò nell’immediato, sgranando gli occhi
all’inverosimile e rimanendo con la mano sospesa nel vuoto. «Come?» non era
certo di aver capito.
«Tre anni fa, dopo qualche mese che avevano iniziato la frequentazione e
vivevano il loro momento idilliaco e di scoperta reciproca. L’ha trovata Derek
stesso al limite della foresta, aggredita da una belva che non è mai stata
identificata» raccontò la rossa con tono moderato ed attento, calamitante ed
ipnotico.
Stiles era sconcertato e depistato ed un’inquietudine malvagia si annidò
intorno al suo cuore. «Era con lei?».
Lydia esitò e si morse accidentalmente le labbra scarlatte. «Non lo so,
possibile. Esistono molte versioni, ma non conosco quella vera».
Stiles sospirò ed avvitò definitivamente il tappo nella sua bottiglietta.
«Sei convinta che non voglia qualcuno per non rivivere l’esperienza?».
La ragazza negò con un unico gesto del dito indice, socchiudendo appena la
bocca in un no silenzioso. «Se esiste
davvero questa persona tanto speciale per lui, credo voglia proteggerla da se stesso».
Il suo nome era Paige. Per tutto il giorno Stiles aveva continuato a
ripensare alle parole di Lydia ed a ciò che rivelavano, non era riuscito a
togliersele dalla testa nemmeno per mezzo secondo e in seguito, la storia era
stata narrata, ma erano poche le nozioni che aveva estrapolato e che avevano
davvero importanza.
Derek aveva amato una sola ragazza, aveva avuto occhi solo per lei e
ritagliato ogni momento per passarlo in sua compagnia. Dopo la sua morte il
comportamento del ragazzo era variato e benché frequentasse ancora il suo
gruppo selezionato, che Stiles aveva etichettato dal primo minuto come branco,
il suo coinvolgimento con le persone era diminuito sempre di più e l’aura di
mistero ed intolleranza l’aveva circondato anno dopo anno.
Il figlio dello sceriffo non ci aveva messo molto a ricordarsi di quel caso
di cui si era occupato suo padre diversi anni prima, delle circostanze
misteriose in cui era morta la quindicenne, aggredita da un animale non bene
identificato, ma che analizzando i morsi ritrovati sul suo corpo
corrispondevano a quelli di un lupo e non era affatto fattibile, perché non se
ne vedeva uno in California da oltre sessant’anni.
Ricordava anche che, sì, Derek Hale era stato trovato sul luogo del
ritrovamento, ma anche che era sporco del suo sangue dappertutto, come se
l’avesse stretta a sé per tutto il tempo e fosse rimasto con lei fino alla
fine, aspettando che emettesse l’ultimo respiro; l’ipotesi che lui fosse stato
con lei fin dall’inizio, e che magari fosse stato testimone dell’accaduto, non
era qualcosa che sarebbe mai potuto essere scartato, ma Derek non ne parlò mai
e farfugliò poche parole che le autorità si fecero bastare; i dettagli di un
attacco animale erano poco importanti se non si aveva un colpevole da
inseguire. Il caso fu semplicemente archiviato e chiuso.
Derek non aveva tutti i torti per essere quello che era diventato.
«So che non vuoi rivelarlo a nessuno, e riuscirei a tenerlo segreto, ma
puoi confidarlo almeno a me» disse con accuratezza e moderando come meglio
poteva le parole la ragazza biondo cenere che gli si parava davanti, con un
piccolo sorriso timido e di incitamento.
«Heather, anche tu?» domandò con spiazzamento e scoraggiamento, rimanendo
con il tomo di chimica appena poggiato sul bordo dello scaffale
dell’armadietto, lontano perfino dalla metà del suo percorso per tornare al
proprio posto ed essere sostituito da un nuovo libro.
Heather arrossì completamente, apparendo imbarazzata e beccata in
flagrante. «È un bell’ornamento».
Certo, ornamento. Possibile che tutti volessero quel maledetto
anello? «E lo possiede Derek».
La ragazza sembrò pizzicata sul viso ed arretrò di scatto con la testa,
causando non intenzionalmente l’allargamento delle pupille. «Derek? No- cioè,
sì. Derek. Certo!».
Stiles era perplesso e disorientato, colpito dalle numerose variazioni di
tono della ragazza con cui era cresciuto e con cui condivideva i parziali
ricordi di sua madre. «Heather, ti voglio bene, ma davvero, non ricordo affatto
dove l’ho acquistato».
«Oh» soffiò scoraggiata e delusa la ragazza, abbassando gli occhi
sull’oggetto placcato in argento che emergeva tra le dita del suo
interlocutore. «Certo, scusa per il disturbo».
Il figlio dello sceriffo la osservò allontanarsi con la testa china e
raggiunta subito dopo da un’amica, che aveva tutta l’aria di volere degli
aggiornamenti; gli dispiaceva molto per lei, in un altro contesto e con
un'altra storia, una che non implicava lui stesso, l’avrebbe sicuramente
aiutata.
In realtà non aveva veramente mentito, non ricordava davvero dove avesse
acquistato il suo prezioso anello, ma a quanto pareva nessuno in quell’edificio
voleva credergli.
«Lei non è interessata a me» rivelò una voce maschile, calda e profonda,
che gli penetrò il nervo acustico, insinuandosi sotto l’epidermide.
Stiles sussultò nell’esatto momento in cui la voce si scontrò con il suo
orecchio sinistro, prendendolo alla sprovvista di spalle e l’enorme volume di
chimica, che non era ancora stato riposto, gli cadde dalle mani, atterrandogli
su un piede. «Derek, dannazione! Potresti evitare di causami infarti con le tue
capacità sovrannaturali» sbraitò con un tumulto nel cuore e lo spavento a
chiare lettere, aggrappandosi all’anta di metallo, causando la caduta di tutti
gli altri libri e mordendosi le labbra per non lasciarsi scappare un urlo di
dolore per il peso eccessivo che si era depositato sul piede.
«Capacità sovrannaturali?» gli fece eco il capitano della squadra di basket
con scetticismo ed innalzando un sopracciglio.
«Sì. No. Lascia perdere» ciarlò il castano con stanchezza, chinandosi per
recuperare tutti gli averi persi e scaraventarli dove trovava posto.
«Vuoi una mano?» chiese Derek con tono vagamente disinteressato, ma pronto
per entrare in azione.
«Per carità. Mi mancherebbe soltanto che mi aggrediscano perché ci sono le
tue impronte sui miei libri» straparlò il giocatore di lacrosse con isteria sfinita,
prendendo gli ultimi volumi da terra. «O forse no, aiutami, così magari me li
rivendo e almeno guadagno qualcosa. No, col cavolo, c’è tutto il mio lavoro qua
dentro, che se li scordino».
«Stiles» lo ammonì il ragazzo più grande, ordinandogli di fermarsi.
Stiles sospirò stordito, completamente alla mercé delle forze che gli
venivano meno e che lo costrinsero ad appoggiarsi al braccio piegato ed
incollato all’armadietto aperto. «Potremmo andarcene via» propose con
stanchezza, girando il capo alla sua sinistra per incontrare la figura
dell’altro che si era sistemato vicino a lui.
«Insieme?» domandò Derek con un’esitazione che venne subito mascherata,
aggrottando le sopracciglia e guardandolo a lungo.
«Perché no, Der. Io e te» rispose bonariamente il
figlio dello sceriffo, illuminandosi di un sorriso che si proiettava nel futuro
e che preannunciava avventure fantastiche. «Potremmo girare il mondo, arrivare
dove nessuno potrebbe trovarci ed incontrare personalità bizzarre e
affascinanti. Potremmo arrivare fino in Transilvania».
«Quindi vuoi scappare da ragazze assatanate per affrontare vampiri?» chiese
il capitano con scetticismo evidente e pressante, innalzando le sopracciglia
con fare allusivo e fissandolo come se non fosse davvero sorpreso della cosa.
«Certamente» assicurò il ragazzo iperattivo con entusiasmo,
nell’atteggiamento che lo caratterizzava perfettamente, e strizzandogli un
occhio con complicità assicurata. «Troverei anche la dimora perfetta per te,
insieme ai tuoi simili».
Derek roteò gli occhi annoiato ed infastidito, come se fosse stato offeso e la sola idea lo disgustasse. «Non sono un vampiro».
Un risolino leggerò si alzò dalla parte di Stiles e le labbra rimasero
curvate verso l’alto, scuotendo la testa con fare negativo. «No, certo che no.
Nemici mortali».
Le perle di giada si soffermarono sul sedicenne per un tempo notevole,
sondandolo e scandagliandolo a fondo, cercando una risposta ad una domanda che
conosceva soltanto lui e rimanendo nel silenzio più assoluto.
«Ci stanno osservando?» domandò lo studente del secondo anno ad un certo
punto imprecisato, mentre continuavano a fissarsi indisturbati, con un tono che
andava dal curioso alla consapevolezza di conoscere già la risposta.
Derek si riprese con un secondo di ritardo di troppo e dovette immediatamente
ritornare sul canale corretto che gli permettesse di seguire il flusso dei
pensieri di Stiles ed i suoi cambi repentini. «Possibile» non gli serviva
chissà quale indizio per capire che si riferisse agli studenti che li
circondavano e che mascheravano le proprie conversazioni per guardarli,
inventando nuove teorie e fantasticando su di loro.
Stiles mugugnò sofferente, spalmandosi meglio sul braccio ancora piegato e
soffiando come un gatto braccato. «È come essere osservati da lupi famelici con
i loro grandi occhi infuocati che aspettano soltanto di cibarsi delle mie
carni».
«Occhi infuocati?» ripeté l’altro in una domanda sottile e quasi
trattenuta, come se il respiro fosse incastrato in gola.
«Occhi rossi, come quelli degli Alpha» specificò con accuratezza il figlio
dello sceriffo, senza badare troppo all’attenzione del suo interlocutore.
Le iridi di smeraldo tornarono a scrutarlo allo stesso modo di poco prima,
quando gli argomenti vampiri e nemici mortali erano venuti a galla.
Quasi tutti sapevano, secondo le leggende classiche, chi erano i nemici mortali
dei principi della notte. «Non leggerai troppi libri?» gli domandò con scherno
ed astuta noia sull’argomento, facendo riferimento anche agli evidenti gusti
del minore.
«Oh, leggo sicuramente tantissimo e- aspetta. Leggere? Libri?» Stiles si
voltò verso di lui con lo stupore evidente dipinto sulla sua espressione,
scostandosi automaticamente dall’armadietto.
«Ti ho insultato per caso? Una mente brillante come la tua non si abbassa a
leggere libri? Meglio fumetti?» la derisione maligna nella voce del giocatore
di basket era chiara e definitiva, ma Stiles vedeva soltanto uno scudo che era
stato alzato nell’immediato.
«No, che cosa? No, i libri vanno bene, vanno benissimo» Stiles sentiva
un’ondata di terrore e fame di sapere che in quel momento lo stavano divorando.
Fumetti. Ho la faccia di uno che legge
fumetti? «Solo che-» si fermò di botto, mordendosi a sangue le labbra. Lui
possedeva talmente tanti libri e fumetti che non avrebbe più saputo dove
metterli e non era così strano che la gente presumesse che si dilettasse con
tali passatempi, ma sentirli nominare da Derek Hale facevano suonare diversi
campanelli d’allarme.
«Hale. Stilinski» lì richiamò all’attenti la figura autoritaria che apparve
dietro di loro e che dedicò una nota speciale e diversa per i due cognomi. Per
il primo speziata e lasciva e per il secondo di vera avversione e fastidio.
«Professoressa Blake» la salutò con garbo e cura il capitano della squadra
di basket, riservandogli un pio sorriso di circostanza, ma che dava la giusta
allusione.
Stiles si limitò a trattenere lo sbuffo infastidito ben evidente e ad
accennare un gesto netto del capo per convenevolezza.
«Le lezioni sono ricominciate, non bighellonate nei corridoi e lei,
Stilinski, farebbe meglio a darsi una mossa considerati i suoi numerosi ritardi
alle spalle» li rimproverò candidamente la professoressa, aggiungendo un
richiamò speciale per il minore dei due.
«I migliori si fanno attendere» rispose con pura ironia dovizia il figlio
dello sceriffo, sfoderando un sorriso furbo che si dipinse sull’intero viso.
«Non sfidi la sorte, Stilinski e non influenzi negativamente il nostro
capitano» l’apostrofò per bene, lanciandogli un’occhiata velenosa e una
ammiccante al moro, dandogli successivamente le spalle e proseguendo verso la
sua classe.
«Influenzare negativamente. Fa la smemorata per dimenticarsi che sono il
migliore nei suoi corsi» la rimbeccò, facendole il verso il sedicenne,
evidentemente infastidito dalla sua presenza.
«Ignorala» gli suggerì caldamente l’altro, apparentemente poco interessato
alla vicenda e probabilmente ritenne che fosse arrivato il momento di
allontanarsi e ritornare alla sua lezione, proprio quella con la Blake, ma
quando provò a muoversi, la maglia scura che portava fu tirata indietro,
costringendolo a fermarsi.
«Non andare da lei» gli intimò il castano, trattenendo l’indumento dalla
mano sinistra ed ancorandolo al posto dov’era rimasto per tutto il tempo.
«Non mi mangerà» lo disse con un tono così indefinito che Stiles ebbe
l’impressione che Derek potesse leggergli dentro e sentire tutte le sue
emozioni contrastanti.
«Non ne sono così sicuro» proferì con voce soffusa e ilare, aumentando la
presa sulla maglia.
«Ritira gli artigli, volpe. So gestirla» gli fece ben presente Derek,
chiara allusione agli anni passati.
Volpe? Soltanto suo padre tendeva a chiamarlo in
quel modo, articolandolo per bene quando voleva fargli notare la similitudine
del suo comportamento con quello del mammifero, quando la sua furbizia e
scaltrezza uscivano fuori anche nei momenti più quieti e Stiles non aveva mai
saputo dire se fosse un complimento o un’offesa; per lui era semplicemente il
suo modo di essere. Ma dalla parte di Derek cos’era? Era una parola del tutto
casuale o avrebbe dovuto indagare? «Sei troppo gentile con lei» era impossibile
non notare il rimprovero che il giocatore di lacrosse gli stava rigettando
contro, additandolo pesantemente.
Derek sembrò scottato e l’espressione dura che gli si dipinse sul viso non
placò lo studente del secondo anno. «Si chiama buon viso a cattivo gioco».
Stiles indugiò con la presa che si faceva sempre più sentire e l’incapacità
di lasciarlo andare tra le grinfie di una gatta oscura e astuta. «Non mi piace.
Non mi piace come ti guarda, come ti gira intorno e come ti corteggia. È
disgustoso».
«Stiles, puoi lasciarmi» il suo nome era una confortevole coperta che lo
circondava in ogni dove e la morbidezza della voce con cui lo invita a
lasciarlo, assicurandogli che nulla sarebbe accaduto, era come acqua di un
ruscello depurato da ogni intervento esterno.
La mano destra si posò sulla sua a sottolineare che andava bene, che poteva
farlo e Stiles si ritrovò ad osservare quell’arto da cui emergeva in tutta la
sua fierezza l’anello identico al proprio, quello che Derek gli aveva baciato
con dispetto e burla, giocando con lui, soltanto due giorni prima; l’anello che
sentiva ancora bruciare dopo quel gesto.
Stiles si tirò indietro di scatto, lasciando immediatamente la presa e
scrutando con orrore la sua stessa mano che agiva con vita propria e desiderosa
di tornare dov’era un attimo prima. «Sì, certo, scusa» nell’ingarbugliamento
delle sue parole, sparate a manetta, estrasse libri casuali – materie che quel
giorno non avrebbe avuto – e sbatté l’anta metallica dell’armadietto in un
tonfo assordante, procedendo a passo spedito, fin troppo veloce e pressante
nella direzione opposta a quella del capitano della squadra di basket.
Se avesse provato a voltarsi, una sola occhiata sfuggente, avrebbe trovato
Derek Hale ad osservarlo svoltare l’angolo nell’identica posizione in cui
l’aveva lasciato.
Certe cose Stiles riesce a tenerle per sé,
senza svelarle a nessuno e perfino a se stesso, ma
altre deve quasi sbandierarle; anche se Lydia è una persona fidata e sa che
sillaba non sarà pronunciata oltre quel tavolo.
C’è qualche spunto interessante qui ed i
ragionamenti di Stiles sono appena iniziati, l’amo che Lydia gli lancia è solo
un assaggio e sì, la morte di Paige ha dei risvolti importanti, che ci
accompagneranno per un po’.
Al momento i capitoli fungono solo da parte
introduttiva, che segue i due protagonisti nel loro percorso che costruirà il
loro rapporto o quello che sarà; quindi sono solo piccoli passi a cui dovremmo
assistere con pazienza. In realtà credo che avremo molto bisogno di pazienza in
generale.
Stiles mostra degli strani atteggiamenti verso
Derek, che non comprende nemmeno lui stesso, ma è così istintivo e guidato
degli impulsi e dalla sua iperattività che spesso comanda per lui, che è
inevitabile che si spinga oltre, per poi pentirsene e chiedersi il perché.
E Derek è semplicemente Derek e non lo è. Una
scatola dei misteri.
Nuovamente ringrazio chi segue questa storia,
chi lascia un piccolo commento – che sono sempre graditi –, chi legge e chi
l’aggiunge alle preferite/ricordate/seguite.
Stiles possedeva un’abitudine che era iniziata un anno prima, poche
settimane dopo l’inizio del suo primo anno al liceo di Beacon Hills, che
manteneva costante e di cui aveva imparato a non fare a meno.
All’interno della palestra, durante gli allenamenti di basket, passava i
suoi pomeriggi di studio intensivo, trascinandosi tutti i libri e gli appunti
che gli sarebbero potuti servire e trafficando con il cellulare quando gli
serviva una spiegazione in più o un anello di congiunzione.
Si ritirava nel suo mondo privato dove nessuno vi aveva accesso e dove non
avrebbero potuto trovarlo, accompagnato soltanto dalle voci dei giocatori e dal
palleggio continuo della palla che si era trasformata nella sua personale e
rasserenante colonna sonora.
Quando era lì dava il meglio di sé come se niente avesse potuto toccarlo e
difficilmente alzava il capo per lanciare un’occhiata fugace al campo,
estraniandosi completamente da ciò che accadeva fuori dalla sua bolla
protettiva.
«Attenzione!» a volte capitavano invece incidenti non prevedibili – anche
se lui era uno sfigato cronico e non era estraneo a certi tipi di avvenimenti.
L’enorme pallone da basket di seicento grammi si schiantò ad una velocità
stratosferica sul viso di Stiles, costringendolo a lasciar cadere tutto quello
che aveva in mano e ad emettere un urletto di dolore non propriamente virile.
Sentiva il naso pressato e schiacciato, quasi come se non l’avesse più e faceva
un male cane.
«Boyd, vuoi per caso farti uccidere dal nostro
capitano?» lo rimproverò abilmente e con una sfumatura di malizia provocatoria
l’unica ragazza che seguiva regolarmente gli allenamenti con lui, ma che
rimaneva sempre vicina al campo, a differenza sua che soggiornava sugli spalti
più alti. «Ehy, Stiles, fammi vedere. Stai bene?»
partì nell’immediato, avvicinandosi in un balzo che Stiles credette essersi
immaginato nella confusione e nello scombussolamento dei sensi offuscati dalla
pallonata.
Il figlio dello sceriffo inspirò dal naso ed il dolore crebbe maggiormente,
accrescendo lo schiaffo di cuoio dal peso considerevole. «Se sposto le mani
sono sicuro mi cadrà».
La bionda lo guardò con attenzione perforante, arricciando il setto nasale
con grazia e scrutandolo attraverso il passaggio lasciato dalle falangi
affusolate del ragazzo. «Avanti, Cappuccetto Rosso, fammi vedere il danno».
Stiles non ebbe nemmeno il tempo di spostare le mani e rimproverarla
nuovamente per quel soprannome che gli aveva appioppato l’anno precedente per
una motivazione a lui estranea – e non poteva essere così banale da riferirsi
soltanto al suo abbigliamento composto da felpe rosse con completo di cappuccio
–, che lei gli stava già toccando la parte lesa, infierendo. «Ahi, Erica, fa
male!».
«Non sembra rotto» semplificò lei senza alcun pizzico di scuse, sfiorandolo
con le punte delle dita e giurò di vedere le vene abilmente nascoste dalle
maniche lunghe tingersi di puro inchiostro nero. «Ma forse dovrai metterci del
ghiaccio».
«Grazie, dottoressa Reyes. E dove lo troverò mai
del ghiaccio qui?» pronunciò con sarcasmo sofferente il sedicenne, roteando gli
occhi e tornando a constatare con le proprie mani in che condizioni fosse il
setto nasale.
Le labbra rosse della bionda si tinsero di un sorriso malizioso e
predatorio che Stiles non apprezzava particolarmente, soprattutto considerando
che Erica trasudava pericolo da ogni poro e
no, grazie non era quello che gli serviva in quel momento. «Se vuoi
posso-».
«Me ne occupo io» la interruppe il capitano con voce baritonale ed
imperiale, fermandola all’istante. «Stiles, vieni con me» e l’ordine era
assoluto anche per lui.
Il sedicenne spostò lo sguardo da Erica al ragazzo per riportarlo indietro
e ricominciare da capo, non si sentiva al sicuro con nessuno dei due, ma Derek
lo guardava con durezza, lasciando trapelare che non avrebbe accettato un
rifiuto e la diciottenne per un momento era apparsa sgomenta e poi aveva
sorriso ilare, cedendogli il posto.
Stiles sbuffò sconfitto e si alzò dagli spalti, superando di poco la bionda
e lanciandole un cenno di saluto. «Ciao, Erica».
«Ciao, Cappuccetto Rosso; attento a non farti mangiare dal lupo cattivo»
ricambiò abile e furba, dedicandogli un nuovo sorriso di scherno sopraffino e
di sfumature variopinte, scuotendo la mano in un gesto aggraziato di ulteriore
saluto.
Da Derek ricevette un’occhiata tagliente che la inchiodò sul posto e che
lei accolse con aria compiaciuta.
«Voi continuate il vostro allenamento senza ulteriori interruzioni» impartì
letale il diciottenne, rimproverandoli in anticipo con gli occhi di ghiaccio
che non accettavano discussioni.
Poi Stiles fu costretto a seguirlo negli spogliatoi della squadra.
Non vedeva Derek da due settimane, da quando la sua parte apprensiva e
protettiva era venuta fuori senza che ce ne fosse alcun motivo e Stiles ancora
non riusciva a spiegarselo. Se non si fosse risvegliato cos’altro si sarebbe
lasciato sfuggire?
Rivederlo gli causava emozioni che non era capace di raggruppare e la
tensione che gli cresceva dentro non l’aiutava in alcun modo.
Derek si diresse verso la zona di pronto soccorso immediato, prendendo da
una valigetta colorata un sacchetto di ghiaccio secco, da cui ne erano visibili
molti altri, e rompendolo, per passarlo successivamente nella mano tesa del
sedicenne ed aspettare che lo poggiasse sulla parte lesa.
«Grazie» proferì il figlio dello sceriffo nel momento in cui lo accettò e
lo portò sopra il setto nasale, sospirando di sollievo quando il contatto
avvenne. «Molto meglio».
«Starebbe meglio se evitassi di tornare qui» lo riprese il capitano della
squadra di basket, poco incline alle sue scelte.
«Non è certo la prima volta» lo smontò il castano, mettendolo al corrente
delle sue disgrazie sportive.
«No, decisamente non è la prima volta» c’era solo consapevolezza e
conoscenza nella sua voce profonda, come se sapesse esattamente di cosa
parlasse e avesse bene in mente le immagini che ritraevano tutto quello.
Possibile che Derek Hale avesse notato in quell’anno e in quello appena
cominciato tutto quello che era accaduto intorno a lui? «Mi piace stare qui, mi
rilassa e studio meglio».
Le sopracciglia del diciottenne si aggrottarono in simultanea e lo sguardo
era più perplesso che mai dietro quella corazza di impassibilità. «Credo che tu
abbia preso un colpo più serio di quello che pensavo».
Stiles ridacchiò consapevole delle follie che uscivano dalla sua bocca e la
risata riecheggiò nello spogliatoio, lasciando una traccia evidente sulle
labbra piegate. «No, Der. Non so come spiegartelo, ma
è così. È stato così dall’inizio, da quando casualmente sono entrato in
palestra e voi vi stavate allenando. Ero stracolmo di compiti e non avevo un
attimo libero, non sapevo nemmeno da dove iniziare, ma poi è cambiato tutto ed
ero talmente immerso nei libri che non notavo nulla, se non la semplicità con
cui mi stavo muovendo, la calma nella mia mente e il gioco di palla».
«Il gioco di palla?» gli fece eco Derek assorto nelle sue parole che ad
orecchie esterne avrebbero equivalso a pazzia genuina.
«Mh, sì» annuì sovrappensiero il minore,
sporgendosi meglio sulla panca in cui era seduto ed avvicinandosi maggiormente
al suo interlocutore, togliendo accidentalmente il ghiaccio secco dalla parte
del viso ancora arrossata e costellata di punti bianchi. «Ogni giocatore, anche
le riserve, ha un tocco ben preciso, soprattutto nel palleggio, uno che lo
identifica e che lo rappresenta e tra una materia e l’altra ho imparato a
riconoscervi tutti da quel singolo movimento. È diventato un sottofondo
fondamentale e ce n’è uno specifico che riesco ad individuare ed a isolare
rispetto agli altri».
L’espressione di Derek era indecifrabile e Stiles si preoccupò così tanto
che pensò di aver commesso un errore. «Qual è? Qual è quello che riconosci
meglio?» alle orecchie allenate di Stiles suonava come un bisogno fisiologico
conoscere la risposta a quella domanda, una lunga tortura che fremeva di cessare,
ma che quasi sperava non arrivasse mai la sua fine.
«Oh» accidentaccio alla sua boccaccia che parlava sempre a sproposito e che
non si fermava mai, straparlando talmente tanto da sfuggire continuamente al
suo controllo. Perché riusciva sempre a parlare così tanto senza darsi un
limite? E proprio con Derek Hale. «Il tuo» l’imbarazzo e la consapevolezza di
aver rivelato qualcosa che possedeva una consistenza enorme lo invasero
all’istante.
Le perle di smeraldo si ingrandirono incautamente e piccole pagliuzze di
blu elettrico comparvero. «Perché?».
Lo sgomento e lo sbigottimento in Derek non sarebbero stati evidenti agli
occhi di esterni, ma Stiles riusciva a vedere quella singola piega scura che lo
smascherava e l’agitazione in lui non poté che aumentare. «Non ha importanza. È
un dettaglio che non ha rilevanza».
«Stiles, dimmi perché» era perentorio, autoritario ed intransigente e non
era una buona combinazione.
«Combacia con il mio battito cardiaco, sempre» era la cosa più intima e
segreta che si fosse mai lasciato scappare. «Però è una cosa buona, perché mi
permette di regolare il respiro e non lasciarmi trascinare dall’ansia o dal
nervosismo».
Il diciottenne non appariva per nulla convinto del lato positivo appena
espresso e guardava le sue mani come se si stesse domandando è questo che faccio? «Accade anche
durante le partite?».
Le iridi d’ambrosia si aprirono splendendo nefaste e Stiles si sentì
intrappolato. «Non lo so, forse. C’è troppo rumore, urla e schiamazzi e sono
troppo sovraeccitato per concentrarmi su me stesso».
«Stiles» lo riprese con ferocia, esigendo la verità.
Il figlio dello sceriffo era seccato ed infastidito dal fatto che Derek non
dovesse credergli e fosse in grado di smascherarlo senza fatica. «È possibile,
è molto possibile».
Derek si alzò in una frazione fulminea, dandogli le spalle ed imprecando
sottovoce e Stiles fu costretto a seguirlo. «Derek, aspetta» l’aveva superato
senza sapere come ed improvvisamente si trovava con le spalle al muro e con il
ragazzo davanti a sé, in una trappola casuale. Non sapeva nemmeno perché fosse
così importante riparare ad un danno di cui nessuno aveva colpa, ma la reazione
del diciottenne era troppo eccessiva e lo preoccupava oltremisura; tutto quello
lo metteva a disagio ed aveva un pessimo senso di autoconservazione. «Non
voglio che quando giochi pensi che qualcosa non vada e che non devi fare quel
qualcosa in un certo modo, cambiando il tuo gioco. E non voglio neppure essere
etichettato come visionario ed uno che ha troppo fantasia. Mi sta bene, mi sta
bene così com’è» era fondamentale, era una piccola tacca della sua vita e Derek
Hale c’era sempre stato nelle retrovie del suo mondo fatato; non avrebbe mai
accettato che cambiasse e si modificasse e non avrebbe mai permesso che il
playmaker perdesse la sua firma; una firma indelebile per le proprie orecchie.
Sulle labbra del capitano si disegnò una piega triste ed esausta,
respirando direttamente dalla bocca del sedicenne posta vicino alla sua. «Non
potrei cambiarlo nemmeno volendo e sì, Stiles, hai tantissima fantasia, ma non
è questo il caso».
«Mi credi?» chiese con sgomento e stupore l’altro, schiudendo le labbra per
la sorpresa.
«Sì» e l’intensità con cui lo disse lo annebbiò all’istante.
«Oh, bene» bofonchiò appena Stiles, rilassando le spalle e poggiandole
leggermente sulla parete dietro di sé.
Nel momento in cui socchiuse gli occhi, Derek gli sfiorò con i polpastrelli
il setto nasale con cura, procurandogli un repentino brivido che gli partì dal
fondo della colonna vertebrale fino a raggiungere la cima. «Dovresti rimetterci
del ghiaccio».
«Mh» brontolò il figlio dello sceriffo con
sofferenza e dolore riacquistato, soccombendo alla morbida carezza del ragazzo
dinnanzi a sé. «Non dovevi ricordarmelo, pessima mossa».
Un sorriso di sbieco si dipinse sul volto del capitano della squadra di
basket e il divario tra loro diminuì ancora. «Vuoi che ti distragga?».
Stiles era troppo incantato e rilassato per dare un effettivo significato
alla scena pittoresca in cui si trovavano, precipitandovi senza alcun freno.
«Sarebbe un’ottima idea».
Il respiro di Derek lambiva le sue labbra e la punta del naso sfiorava il
suo, mentre le dita bollenti toccavano appena il mento, alzandoglielo verso
l’alto per permettergli di vederlo meglio ed a Stiles poteva andare bene anche
così. Poteva stare bene. «Dovresti andare, gli allenamenti stanno per terminare»
ma la magia poteva essere spezzata e Stiles riportato con i piedi per terra.
Derek era già più lontano e con lui anche il suo calore e Stiles doveva
ammettere di sentirsi smarrito e destabilizzato, soprattutto perché non
riusciva ad inquadrare cosa fosse successo. No,
è impossibile. «Sì, hai ragione» proferì con voce ovattata, graffiandosi
accidentalmente il setto nasale e mal trattenendo un lamento di dolore. «Mi
dispiace di averti interrotto».
«Avevo finito» era una bugia, Stiles sapeva bene quanto tempo Derek
rimanesse sul campo, anche dopo che l’orario degli allenamenti si era concluso e la squadra era tornata negli spogliatoi per lavarsi e
sistemarsi. Soltanto il suo branco tornava indietro per un po’ di tempo, ma
quello che solitamente rimaneva fino alla fine, insieme alle numerose materie,
era proprio lui.
Stiles annuì soltanto, anche se entrambi erano a conoscenza della verità, e
si avviò per andarsene via prima che potesse cambiare idea ed esporre domande
che non avrebbe dovuto fare.
«Stai attento a dove metti i piedi» proferì il diciottenne con una nota
snodata e forte che voleva essere disinteressata, ma che non suonò come tale.
Come Stiles non avrebbe dovuto guardarlo così intensamente, fermando la sua
avanzata verso l’uscita. Chi dei due stesse fremendo per non separarsi
dall’altro non era ancora chiaro. «Non posso promettertelo» e l’ironia dolce,
insieme al divertimento che lo caratterizzavano, la fece da padrone, spezzando
una situazione confusionaria.
Ma forse c’erano tante e troppe cose che non avrebbe potuto promettergli.
«Gliel’hai chiesto?» domandò Lydia con moderata cura quando arrivò dietro
le sue spalle, sedendosi precipitosamente, ma con eleganza, sulla panca della
mensa, accanto a lui.
Stiles ingoiò il suo pasticcio di carne confezionato e la guardò con un
interrogativo ben stampato in faccia. «Cosa dovevo chiedere ed a chi?».
«A Derek, della sua persona speciale» disse la ragazza con disinvoltura,
come se fosse la cosa più ovvia del mondo e non esistessero altre alternative.
«Perché dovrei chiedergli una cosa del genere?» domandò con sgomento e
perplessità, fissandola con fare allusivo. «E perché presupponi che abbia avuto
occasione di farlo?».
La rossa scosse le spalle con classe, guardando un punto oltre la sua
schiena. «Intuito».
«Il tuo intuito è pericoloso e spesso mi mette nei guai» articolò il figlio
dello sceriffo per nulla convinto e preoccupato dalle ripercussioni – anche se
il proprio intuito aveva messo in situazioni assurde Scott e continuava a
farlo.
«Però non sbaglia mai» gli fece ben presente la bionda fragola con fervore
genuino, enfatizzando la sua superiorità. «Quindi?».
«Forse mi ci sono imbattuto qualche volta» e ho ancora impressa l’ultima volta in cui sembrava volesse baciarmi –
e non aveva nulla a che vedere con il bacio che gli aveva stampato sull’anello.
Ma Stiles scacciò immediatamente l’immagine perché era troppo assurda e fuori
discussione e mai parola doveva uscirne, men che meno con la
numero uno del gossip incallito.
Lydia lo guardò sbalordita e delusa, come se avesse tradito se stesso e non lo riconoscesse. «E non l’hai sommerso di
domande».
«No» confermò il sedicenne con una sfumatura che Lydia non riuscì a
definire.
«Stiles-» ma non riuscì mai a chiedergli cosa la tormentava in quel momento
e uno scenario terribile e crudele le si parò davanti le gemme di smeraldo.
Stiles non credeva di aver mai esagerato quando definiva le ragazze di Derek maniacali, folli e
fuori controllo e di essere melodrammatico quando si lasciava andare con il
diciottenne alle sue lamentele sulla loro pericolosità e con il possibile
agguato sempre dietro l’angolo. Non diffidava dalla concretezza con cui gli
avrebbero strappato gli arti e se lo sarebbero mangiato, ma credeva che
esistesse un limite anche per loro. Le aveva sottovalutate.
L’intera capienza di un vassoio contenente i cibi più liquidi e ripugnanti
della mensa gli fu versato in testa nella sua interezza, scivolandogli sugli
occhi ed in tutto il viso, riducendo i vestiti in un colabrodo, mentre i
rimasugli cadevano a pezzi condensati sul pavimento lercio. I mormorii ed i
sussurri striduli dei presenti echeggiavano per tutta la sala.
«Vuoi ancora mentirci, Stilinski?» domandò retoricamente e con cattiveria
suprema la più accanita tra le ragazze di Derek, quella che con uno sguardo ben
assestato suggeriva di fuggire a gambe levate se si teneva alla pelle e che
teneva tutte le altre sull’attenti, con la probabilità che si sarebbe cibata
anche di loro: Kate Argent; purtroppo imparentata con l’adorabile Allison, sua
compagna di malefatte sotto lo sguardo rassegnato di Scott McCall.
Le perle ambrate di Stiles erano sgomente e sotto-shock, non aveva nemmeno
la capacità di parlare e doveva ancora registrare ciò che era appena accaduto,
isolare il cattivo odore che sentiva su di sé e dare un senso alle avversità
che si stavano abbattendo senza che lui comprendesse nulla.
Lydia era saltata sulla seduta, alzandosi immediatamente in piedi e
schivando l’ondata di cibo che si era riversata al suo affiancato. Gli occhi
verdi precipitarono su di lei con la rabbia e la ferocia che urlavano il suo
sdegno e l’incredulità del gesto. «Sei impazzita?».
Kate gli lanciò un’occhiata di sfida, intimandole di starne fuori e di
averne anche per lei in caso contrario. «Il tuo amichetto deve solo stare al
suo posto».
Ma di cosa stavano parlando? Che cosa avrebbe dovuto fare lui?
«Stiles» una mano gentile e confortevolmente calda, che gli sembrava
vagamente conoscente, gli rimosse quel che poteva dagli occhi, scostandogli i
capelli appiccicati e pieni di residui disgustosi, buttandoli per terra mentre
il mormorio intorno a lui cresceva a dismisura, senza riuscire a classificarlo.
«Der» soffiò il figlio dello sceriffo quando si
rilassò a quel contatto, normalizzando il battito cardiaco e riprendendo
possesso del respiro rimasto congelato, immobile ancora sulla panca in cui era
e voltato di qualche grado verso la postazione in cui si trovava la bionda
fragola che aveva lasciato il posto per affrontare il diavolo squilibrato in
persona – Derek si era avvicinato con passo così felpato e silenzioso,
destreggiandosi nello schiamazzo con maestria ed era giunto subito da lui,
occupando, ancora in piedi, il luogo che era appartenuto precedentemente alla
Martin.
Derek gli accarezzò piano uno zigomo, rispondendogli con il tocco e
continuando la sua ispezione. «Va bene, ci penso io a te».
«Che cosa stai facendo?» domandò con spiazzo ed ira la bionda che teneva
ancora il vassoio del crimine tra le mani, curate minuziosamente e con le
unghie laccate di rosso sangue.
Derek non la degnò di alcuna occhiata e l’aria intorno a loro si fece
pesante ed irrespirabile. «Rimedio ai tuoi casini».
La bocca di Kate si schiuse appena con sorpresa ed incredulità e la presa
sul rettangolo di plastica dura divenne più premente, tanto che poteva essere
spaccato con un ulteriore pressione leggera. «Stai preferendo lui a me» il
veleno nella sua voce era letale e lo sguardo più maligno e minaccioso che mai.
Il capitano della squadra di basket invitò uno Stiles ancora inebetito ad
alzarsi ed a seguirlo, ignorando la sua molestatrice e gli sguardi di tutta la
mensa su di loro.
«Derek, fermati subito» ordinò con stizza l’Argent maggiore, sbattendo il
vassoio sul tavolo sporco dei residui dell’arma usata sul figlio dello sceriffo
e muovendosi per seguirlo e toccarlo.
«Non provarci nemmeno» l’intimò il diciottenne per tempo, un secondo prima
che lei provasse a bloccare la sua avanzata poggiando una mano sul suo braccio.
«Dovresti essere tu ad imparare a stare al tuo posto» gli occhi di giada erano
furenti e pietrificanti e non lasciavano via di scampo. «Avvicinati a lui, respira
la sua stessa aria, e non mi riterrò responsabile delle mie azioni» la minaccia
era pesante e burrascosa, non ammetteva scivolate ed errori casuali, neppure un
colpo d’occhio accidentale.
Si voltò con aria circospetta tutto intorno, scrutando alcuni volti ad uno
a uno e rincarando la dose. «Questo vale per tutte voi».
Nello sgomento della sala Derek Hale trascinò Stiles Stilinski con lui.
Stiles fu portato negli spogliatoi della squadra di basket, benché lui
appartenesse a quella di lacrosse e con tanto di armadietto al suo interno con
le proprie cose, anche se era vuoto e privo di ricambi perché quel giorno non
aveva alcun allenamento.
Derek lo posizionò davanti il soffietto della doccia, deponendo alcuni
vestiti di sua proprietà sul muretto lì vicino, con accanto un telo-doccia
asciutto e pulito, sparendo subito dopo dal suo campo visivo e lasciandogli la
sua intimità.
Quale intimità? Cosa doveva fare?
Guardò appena le maniche della sua felpa, impregnata di brodaglia inodore e
zuppa di funghi essiccati o chi faceva per loro.
Nella nebbia in cui era caduto convenne che fosse il caso di toglierla,
lanciandola per terra, seguita dal resto dei vestiti e dalle scarpe.
L’acqua calda e meticolosa si aprì immediatamente e si immerse sotto il suo
getto con trepidazione instabile, lasciandosi accarezzare lentamente e ripulire
dalla cattiva sorte che era precipitata su di lui e che appariva vogliosa di
macchiarlo.
Pian piano il liquido trasparente lavò ogni traccia del sudicio che gli era
caduto addosso, accompagnato dal suo sfregare che era iniziato lentamente, ma
che poi aveva dominato, lasciando che alcuna traccia fosse più visibile. Che
cosa stava usando? Erano i prodotti di Derek quelli con cui si stava lavando?
Avrebbe avuto il suo odore?
Quando lo scorrere dell’acqua fu chiuso, l’enorme asciugamano fu preso e se
l’avvolse tutto intorno, fin sopra la testa, abbracciandosi di conseguenza e
stringendosi forte, confortandosi tacitamente. Poteva essere che anche quello
possedesse l’odore di Derek? Stava uscendo completamente fuori di testa? Cosa
sarebbe accaduto una volta indossato i suoi vestiti?
Rimase a crogiolarsi nei suoi pensieri avvolto dal telo-doccia per qualche
minuto, finché l’esigenza di vestirsi non fu imminente e le mani andarono a
prendere ciò che gli occorreva, facendogli indossare i pantaloni della tuta blu
notte di Derek, che dovette stringere notevolmente con il laccio elasticizzato
incorporato, contro la sua volontà e una maglia più scura di qualche taglia più
grande, priva di alcun disegno e che gli arrivava a metà coscia. Il suo essere
ridicolo poteva solo aumentare.
Raccattando ed arrotolando i suoi averi sporchi, uscì dalla zona riservata
alle docce e trovò il diciottenne che lo stava ancora aspettando. L’aveva
ascoltato per tutto il tempo?
«Grazie» mormorò monocorde, abbassando di poco il capo troppo abbattuto e
mortificato per poterlo guardare negli occhi, rimanendo nella penombra della
stanza e permettendo a piccole gocce non ancora asciugate di irrigargli il
viso, causate dai capelli asciugati a tentoni.
«Stai bene?» domandò il capitano quando lo vide arrivare, stretto in se stesso e con un rotolo di abiti ammucchiati che
frapponeva tra sé e chiunque vi fosse davanti, trasformandolo in uno scudo
precario.
«Umiliato, ma dovrei averci fatto l’abitudine. Non che non mi aspettassi
che un giorno qualcosa del genere sarebbe accaduto, ma ignoravo che ne saresti
stato la causa» sproloquiò il figlio dello sceriffo con amarezza dominante e
sospirando internamente.
Derek gli si avvicinò lentamente, parandosi davanti a lui e scrutandolo con
attenzione dovizia. «Nessuno ti ha mai fatto questo».
«Non importa» affermò il sedicenne con una cadenza forte e lontana che
dissolveva gli avvenimenti accaduti alla propria persona. «Ho solo abbassato la
guardia».
«Non dovresti nemmeno tenerla alzata» rettificò il maggiore con poca
indulgenza, adombrando lo sguardo ed indurendo i tratti del viso.
La mano di Stiles si mosse in un gesto che sembrava imitare la
cancellazione di qualcosa, qualcosa di poca importanza e quello stesso qualcosa
che a Derek non piacque molto. «Lei lo sa?».
Il moro non dovette metterci molto per capire a chi si stesse riferendo
l’altro, l’insistenza e l’ossessione di Kate Argent era conosciuta a tutti.
«Che cosa?».
Le spalle del giocatore di lacrosse si incurvarono, ma si abbandonarono
parzialmente alla parete posta dietro di sé, anche se il suo istinto lo
incitava ad andar via. «Che sei seriamente interessato a qualcuno» non avevano
mai toccato quell’argomento, entrambi erano consapevoli che l’altro sapesse e
viceversa, ma da muto accordo, dopo che Stiles inconsapevolmente e senza alcuna
intenzione ne era venuto a conoscenza e Derek si era semplicemente limitato a
far finta di nulla, ignoravano la cosa.
«Lo sanno quasi tutte» affermò il capitano con assenteismo, raggruppando
tutte coloro che gli correvano dietro.
«E ancora non si rassegnano?» domandò il sedicenne con stupore vivido,
sgranando gli occhi di miele e alzando la testa per poterlo guardare.
«Alcune sono più temerarie di altre» semplificò il playmaker, sottolineando
l’ovvio.
«Mh, sicuramente Kate Psicopatica Argent lo è»
sbuffò con divertimento e pericolo in agguato, ma l’espressione di Derek cambiò
e Stiles lo guardò con un interrogativo enorme impresso sul viso. «Che c’è?».
«Ho avuto qualcosa con lei» rivelò Derek alla fine con una nota stonata ben
controllata e Stiles non sapeva bene come avrebbe dovuto interpretarla.
«Oh» mormorò con stupore autentico, cogliendo nell’immediato il significato
di quella rivelazione e cosa comportasse effettivamente qualcosa. «Pessima scelta, Der».
Derek mugugnò in approvazione, poggiandosi appena alla parete adiacente con
la spalla, così vicino a Stiles da poterlo sfiorare. «Ero al secondo anno e non
era il mio periodo più florido. Ed onestamente non mi importava con chi ero e
cosa facevo».
Le perle d’ambrosia erano totalmente catturate della figura del capitano e
l’attenzione era tutta radicata su di lui. Stiles sapeva esattamente il perché
dell’indifferenza verso il mondo e delle conseguenze che per Derek sembravano
non esistere, l’inesistenza degli eventi e l’assenza di sapore nelle cose; la morte di qualcuno che hai amato è
devastante. Ma com’era quando l’hai tenuta tra le braccia fino al momento
dell’ultima espirazione? «E poi?».
«Le cose sono cambiate» anche quello era evidente, ma a Derek sembrava
piacere eccessivamente sottolinearlo, risparmiandosi di pensare e formulare
nuove parole.
Stiles esitò e si morse le labbra per reprimersi, perché sapeva esattamente
che stava entrando in un campo minato, uno in cui aveva tacitamente promesso di
non addentrarsi. «Ti sei innamorato».
Le iridi di smeraldo si depositarono in quelle di miele puro ed il respiro
di Stiles si mozzò. «Sì» confermò con voce morbida e devota e Stiles desiderò
che non lo guardasse in quel modo così speciale e pieno di significato, come se
il diretto interessato fosse lui e faticasse sempre di più a tenerlo per sé.
«L’ho fatto».
Avrebbe voluto chiedergli quando, in quale anno fosse, com’era avvenuto e
chi fosse, ma avrebbe dovuto far morire tutte quelle domande dentro di sé. «È
una buona cosa» ma a volte si chiedeva se Derek non si sentisse in colpa nei
confronti di Paige.
L’intensità dello sguardo del moro divenne così affilata e tagliente che avrebbe
potuto infilzargli il respiro e strappargli il cuore. «Sei ancora dell’idea che
dovrei sceglierne una tra loro?».
Le sue ragazze. Poteva esisterne almeno una in tutta quella cerchia di
sciroccate e fissate, una che avrebbe saputo come trattarlo e cosa dirgli,
allietandogli le giornate e risollevandolo dalla sua cupezza, far scomparire il
senso di colpa del sopravvissuto e far sparire la convinzione di non essere
all’altezza della persona di cui era realmente innamorato? «No, meglio tenerle
alla larga, a costo di immolarmi per la causa».
Le labbra di Derek simularono uno sbuffo di risa e Stiles avrebbe pagato
oro per non perderselo. «Non dovresti farlo, non dovresti nemmeno essere qui»
quello non era un rimprovero da parte del capitano, ma nascondeva un’amarezza
sofferta che soffocava dentro di sé.
«Oh, va bene. Meglio io che la tua persona speciale» disse con leggerezza e
spensieratezza, senza notare di aver pronunciato con facilità le parole con cui
identificava quello specifico individuo astratto per cui il playmaker provava
qualcosa.
Derek non disse niente in proposito e passò oltre, senza distogliere lo
sguardo da lui per un solo secondo. «Vuoi fare il martire?».
«No, ma perché dovrebbe affrontare quella massa di scalmanate, quando la
sua unica colpa è quella di essere amata da te» proferì il sedicenne con
solennità e dovizia, abbassando piano la testa e riportando gli occhi sugli
indumenti ancora imbrattati e maleodoranti. Quasi si pentì di aver parlato
tanto, di aver espresso ad alta voce sentimenti che Derek non aveva nemmeno
suggerito tacitamente. Amare qualcuno era qualcosa di immenso e totale e non
aveva alcuna prova che fosse già in quell’ultima fase.
«E la tua? Qual è la tua colpa?» domandò il capitano della squadra di
basket con un tono così profondo, radicato ed intimo che Stiles tremò tutto.
Probabilmente il non sbarazzarmi di questo
anello. «La testardaggine e cocciutaggine» pronunciò sornione con un sorriso così
largo ed accattivante che non lasciava indice di dubbio, stringendo sotto il
mucchio di vestiti sporchi quell’oggetto metallico che bruciava come fuoco sul
suo dito.
La mano destra di Derek si posò sulla sua guancia, risalendo verso
l’attaccatura dei capelli ancora umidi e ricoprendogli l’orecchio, lasciando
percepire il freddo metallo del suo anello gemello sulla pelle e costringendo
Stiles ad alzare il volto per renderlo più vicino al proprio. «Sì, ne hai da
vendere» soffiò con voce forte e compatta, sfiorandogli con la punta del naso
la tempia e soffermandovisi per un tempo eccessivamente prolungato. «Questo
odore andrà via presto».
Stiles per tutto il tempo l’aveva guardato con occhi giganti e così pieno
di interrogativi da non farne emergere nemmeno uno, con il battito talmente
accelerato e sconclusionato che aveva la certezza che gli sarebbe scoppiato nel
petto senza che se ne accorgesse, scappando dai segnali confusi che Derek
continuava a lanciargli, mettendolo in situazioni equivoche che possedevano
significati ben precisi.
La vicinanza con Derek non faceva altro che metterlo in crisi, dubitando di
tutto quello che aveva intorno. «Non usare i tuoi super sensi lupeschi su di
me» mugolò scontento quando una via d’uscita gli fu presentata, permettendogli
di rallentare il battito cardiaco e riprendere possesso di se
stesso. Ma nell’esatto momento in cui pronunciò quella frase, il tormento a
quale dei due odori si riferisse lo sovrastò: l’evidenza dello sfortunato
incidente o la sua essenza?
«I miei cosa?» chiese stralunato ed incerto il diciottenne, innalzando le
folte sopracciglia scure e scostandosi dal suo tepore per poter incontrare i
suoi immensi occhi comunicatori.
Stiles avvertì immediatamente il calore dell’altro allontanarsi e
l’interrompere del loro contatto, contatto che veniva mantenuto dalla mano
ancora premuta contro di lui. «Der, dovresti
ignorarmi quando dico queste cose, non darmi corda».
«Mh» meditò il moro, accarezzandogli con il
pollice lo zigomo e soppesando le parole appena udite. «Ti ignorano spesso?».
«Dovrei dirti di no, che sono osannato e che tutti pendono dalle mie
labbra, che sono fantastico e meraviglioso. Ma no, non attiro molte attenzioni»
corse come un fiume, riempiendolo di parole e concetti senza valore ed
ipotetici, quelli che gli avrebbe confidato per pavoneggiarsi. Ma Derek era
troppo bravo a smascherarlo ed era inutile provarci.
«È un vero peccato» gli confidò ammaliatore direttamente nel nervo acustico
che lo attraversò completamente, offuscandogli il cervello. «Non sanno quello
che si perdono dal tuo straparlare».
Stiles soffiò offeso, assestando un colpo privo di forza sul torace del
ragazzo, rubandogli un secondo sbuffo di risa e costringendolo a rompere
completamente il contatto fisico tra loro. «Nessuno ti costringe ad
ascoltarmi».
Nel momento in cui Derek avrebbe dovuto rispondere, la campanella che
informava della fine dell’ora ricreativa risuonò rombante in tutto l’edificio,
cogliendo i due completamente impreparati e sovrapponendosi tra loro.
Immediatamente Stiles ricadde nella realtà della vita ed in tutto quello
che gli era accaduto soltanto mezzora prima, la consapevolezza che avrebbe
dovuto affrontare un intero istituto che aveva la sua storiella sulla punta
della lingua, parlandone a ripetizione e cambiando i fattori, finché la storia
non si sarebbe trasformata del tutto, dipingendolo come un mangiatore di uomini
che aveva stregato ed incantato il loro beneamato capitano, sottraendoglielo. Che sciocchezze. «La pacchia è finita».
Derek parve intercettare ciò che si nascondeva nel suo animo e la
concretezza che avrebbe dovuto affrontare una volta uscito da quel luogo sicuro
ed appartato. «Sono certo che riuscirai a gestirle, ma puoi riferirmi ogni
cosa».
«Non ce n’è bisogno, non vorrei che le divorassi e distruggessimo il loro
sogno idilliaco» scherzò il figlio dello sceriffo con una conca gravosa che si
creava intorno al cuore, semplificando tutto con un gesto della mano di
sufficienza.
«Verrò a saperlo comunque» sottolineò Derek caldamente, con precisione e
l’evidenza della cosa.
Le labbra di Stiles si curvarono verso l’alto, scuotendo la testa
rallegrato e conoscitore delle sue grandi doti di raccoglitore di informazioni.
«Non mi aspetterei nulla di diverso, re della scuola» proferì con scherno
leggero, strizzandogli un occhio con complicità e divertimento, congedandosi
con un cenno appena visibile ed uscendo dal suo campo visivo.
Quando rientrò nei corridoi affollati
dell’istituto e gli occhi dei presenti si piazzarono tutti nella sua direzione,
l’odore intossicante e rassicurante di Derek lo avvolse completamente ed i loro
sguardi e bisbigli non filtrati divennero un sottofondo incorporeo ed
inconsistente, scivolandogli addosso senza possedere alcun potere.
Questo capitolo è
stato scritto mesi prima che avvenisse il fatidico incidente a Dylan e per un
momento ho pensato: uao, certo che gliele auguriamo proprio le cose;
poi penso sia semplicemente la sfiga di Stiles e quindi si va avanti.
C’è un fattore che
urla davvero molto in questo quarto capitolo, anche se negli altri si è
mostrato comunque in qualche modo; questi due flirtano in modo spietato, senza
nemmeno sbattere ciglio e ci porta a chiederci se se
ne rendano conto o se sia completamente privo di malizia. Continueranno anche
in futuro?
Per quanto riguarda
il discorso “gioco di palla”, possiamo paragonare il modo in cui un giocatore
palleggia come il tipo di passo che una persona possiede; con il tempo si
impara a distinguere le persone che ci stanno più intorno, senza vederle, con
il rumore dei loro passi. In questo caso è stata applicata la stessa logica,
anche se probabilmente dice molto sui nostri protagonisti.
La burrasca con cui
le ragazze di Derek si abbattono su Stiles si rivela ancora una volta essere
quel legame un po’ forzato che unisce Stiles e Derek e che è contro la loro
volontà; in tutta onestà se lo sarebbero risparmiati volentieri e Stiles non
sarebbe soggetto di bullismo come in realtà accade. Derek ha molti motivi per
cui dovrebbe essere furioso con loro, finché lo esterna completamente. Ma
esisteranno altre conseguenze?
Mi piacerebbe
conoscere la vostra opinione e teoria e magari potreste anche sfogarvi su
qualche personaggio in particolare.
La situazione non era poi cambiata molto, l’aria era sempre incredibilmente
pesante ed elettrica, per quanto le cose sembrassero quiete e parzialmente
tranquille, ma Stiles veniva attanagliato dalla sensazione di essere
costantemente sotto osservazione e da quel momento di stasi pronto ad esplodere
in qualunque istante. Aveva come la certezza che qualcosa dovesse ancora
scatenarsi o forse stava semplicemente diventando paranoico.
«Sei sicuro di star bene?» domandò Lydia con una leggera sfumatura di
apprensione e preoccupazione, osservando i suoi movimenti studiati e quanto mai
impacciati con cui si destreggiava nel suo armadietto per prendere l’occorrente
che gli sarebbe servito nell’ora successiva.
«Ancora, Lyds? Sto bene, come due giorni fa,
un’ora fa e cinque minuti fa appena scattati» la rassicurò il figlio dello
sceriffo con sana esasperazione genuina ed un sorriso criptico sulle labbra.
La ragazza indugiò sullo studio del suo viso che gli suggeriva ben altro,
inclinando di un millimetro il capo e stringendo meglio su un fianco l’unico
libro che si portava dietro. «E Derek?».
Stiles si strozzò con la sua stessa saliva, ruotando la testa e sgranando
gli occhi allucinati. «Cosa c’entra Derek?».
«È qualcosa che tocca entrambi, tormentano tutti e due e hanno preso di
mira te, quindi come sta Derek?» articolò minuziosamente la rossa con faccia
tosta e senza scomporsi, ripetendo con chiarezza la domanda.
«Perché sei convinta che io sappia sempre cosa gli ronzi nella testa?»
chiese retoricamente, ma con sincero interesse il giocatore di lacrosse. «E perché
credi che questa storia lo turbi?».
«Perché a differenza di tutti noi, tu sai decifrarlo, anche quando non vi
rivolgevate la parola» asserì serafica la ragazza, testimone oculare delle sue
prodezze e perfettamente conscia di ciò che affermava.
«Non siamo dei gran chiacchieroni, Lyds» sbuffò
annoiato il sedicenne, roteando gli occhi ed ignorandola volontariamente.
«Sono sicura che riesci comunque a sfinirlo» ammiccò con portamento
perfetto la bionda fragola, curvando le labbra in una piega che Stiles descrisse
come terrificante e poco rassicurante.
Stiles la guardò con durezza e giudicandola severamente, per niente incline
alla sua fantasia troppo sbilanciata e che vedeva lui come protagonista,
qualunque fosse il senso delle sue continue frecciatine. «Non hai risposto alla
mia domanda e sei pregata di farlo».
Lydia seccata soffiò una bolla d’aria, perfettamente conscia che per pregata intendesse malvagiamente obbligata. «È intervenuto per
soccorrerti, ha mosso pesanti minacce a chiunque fosse in quella stanza ed
altrove e la sua ira era palpabile, quindi direi che la parola turbato è un eufemismo».
«Si sentirà soltanto responsabile di una storia che nessuno ha capito e di
cui si stanno creando castelli che non esistono» semplificò nei minimi termini
il figlio dello sceriffo, scrollando le spalle e dando poca importanza a fatti
che la ragazza elevava.
La sedicenne negò vistosamente con il capo, annullando le sue parole. «Tu
non hai visto com’era. Hai visto soltanto la parte che si è presa cura di te,
quella che ti ha portato via con sé e che ti ha fornito i propri indumenti per
proteggerti» l’intensità della voce crebbe e il ragazzo si vide completamente
riflesso nelle iridi di smeraldo della sua interlocutrice. «Non hai assistito a
quella parte che sarebbe capace di radere al suolo l’intero istituto se
qualcuno osasse anche soltanto sfiorarti con la mente».
Stiles fu avvolto da un velo che lo intrappolò totalmente, mentre una
scarica elettrica gli attraversava tutta la colonna vertebrale e la mente
collocava il giusto significato nel luogo apposito. «Non è così».
Lo sguardo di Lydia si fece limpido e pieno di così tante verità e spiragli
da fargli girare la testa, sottraendogli una bolla d’ossigeno che si incastrò
nella trachea. «Ne sei convinto?».
Nel momento in cui la sua mente tentava di partorire una risposta sensata e
che non lo portasse a picco, il figlio dello sceriffo fu attaccato da una
piovra bionda ed avvenente, incredibilmente bella, che gli avvolse le braccia
al collo, stringendoselo contro e stroncandogli il fiato. «Vieni alla partita
stasera?» domandò con voce velata, ma perfettamente studiata direttamente nel
nervo acustico.
«Ciao, Erica» salutò come unica risposta il ragazzo, voltando di poco la
testa per poterla guardare e farle intendere di averla riconosciuta senza alcun
problema, abituato alle sue strane manie di protagonismo e al suo essere amante
di ogni possibile contatto umano, espansiva e senza alcun pudore, ma usando
quella spolverata non proprio sorda che metteva in evidenza il modo corretto in
cui due persone normali si salutano quando si incontrano. Era una battaglia un
po’ persa, ma Stiles era temerario e ad Erica piaceva stuzzicarlo.
«Dai, Stiles. Non puoi perdertela e non puoi lasciarmi da sola. Sei l’unico
che mi fa compagnia in queste occasioni» perseverò la bionda con tono lamentoso
ed abbagliante, cercando di ammaliarlo e portarlo dalla propria parte.
Il sedicenne roteò gli occhi verso l’alto, ormai – quasi – immune alle
tecniche di conquista della ragazza e conoscitore della verità. «C’è Isaac».
Erica brontolò, scuotendo la testa con fare negativo ed imbronciandosi
teneramente, anche se l’aggettivo tenero
era l’ultimo che le si potesse associare e il solo averlo pensato traumatizzava
Stiles. «Isaac sta sempre con la squadra di lacrosse a spettegolare».
«Non credo che Scott sappia cosa significhi spettegolare» intervenne il sedicenne con perplessità ed orrore,
ingrandendo leggermente gli occhi e rendendosi conto di essere stato
magicamente estratto dall’appartenere alla squadra di lacrosse; non che fosse
un problema, fare la riserva era il massimo delle sue ambizioni in quel
momento.
«Ti prego, Stiles» piagnucolò la diciottenne, mettendo maggiormente e con
classe in evidenza il labbro imbronciato e stringendolo ancora più forte. A
volte sapeva essere così infantile che era impossibile gestirla. «Ti prego, ti
prego, ti prego».
«Va bene, verrò» asserì sfiancato, ma allo stesso tempo energicamente,
rispondendo al suo bisogno di compagnia che consisteva soltanto nel torturarlo
e divertirsi con lui a sue spese – non era vero, lui non riusciva a resisterle.
«Sapevo di poter contare su di te» proferì Erica languidamente e con
perfetto controllo, ritornando padrona di se stessa in
meno di una frazione di secondo e dedicandogli un sorriso accattivante e
provocatorio, schioccandogli un bacio pieno di implicazioni sulla guancia
sinistra e pasticciandola di un rossetto rosso così evidente che emergeva in
modo destabilizzante sulla carnagione nivea di Stiles, mettendo in mostra la
perfetta impronta delle sue labbra. «Derek sarà entusiasta» dichiarò con vigore
tra sé e sé, ma con la chiara intenzione di farsi sentire dai suoi
interlocutori, sciogliendo la presa dal ragazzo ed accennando un gesto di
saluto ipnotico. Erica era sparita com’era arrivata.
In quale universo? Stiles sospirò, ignorando le strane allusioni
che Erica continuava a lanciargli, e si tastò la guancia dove era stato
depositato il bacio, provando a cancellare la macchia di rossetto che gli aveva
lasciato in eredità, ma con scarsi risultati. «Grandioso, adesso avrò una
tresca con lei e sarò il mostro che spezza il cuore di Derek Hale».
«E tu mi hai nascosto una vita amorosa così interessante?» chiese
fintamente offesa ed oltraggiata la rossa che era rimasta in silenzio a
gustarsi la scena, traendo più informazioni possibili.
Stiles le lanciò una tale occhiata di fuoco, così risentita e profondamente
tradita che avrebbe dovuto farla ritornare sui suoi passi, cosa che ovviamente
non sarebbe accaduta. «Sei una pessima amica, Lydia».
Lydia ammiccò sopraffina, strizzandogli un occhio compiaciuta e tendendogli
un fazzoletto di carta pulito. «Vedi di non spezzarglielo davvero il cuore».
Il figlio dello sceriffo lo prese tra le mani, passandoselo sul viso e
cancellando come meglio poteva l’impronta cremisi che piano piano sfumava.
«Sarebbe più facile il contrario».
«Sei più forte di lui» asserì come unica verità la sedicenne, con una
profondità così abissale che avrebbe potuto perdersi.
Stiles indugiò scioccato e stupito, bloccandosi a metà strada e guardandola
come se fosse la prima volta. «Forse non sei così pessima».
La ragazza roteò gli occhi per nulla sorpresa, ma quasi come se avesse
arrecato offesa al suo onore, e lo spinse verso la porta del bagno come unico
messaggio, che non ammetteva molte interpretazioni.
Stiles le dedicò un ghigno furbo ed accattivante, con la vittoria nelle
tasche, come una vera volpe e Lydia si ritirò per non mostrare la sconfitta.
Non era una gran novità, ma faceva sempre un grande effetto vedere la
palestra dove si rintanava per sfuggire al mondo ricolma di urla e schiamazzi
portati dalle persone pronte per il tifo ancor prima che iniziasse la partita.
Eppure da due anni faceva quella vita e il palcoscenico era lo stesso ogni
volta ed il popolo femminile e maschile diventava un tutt’uno e non era bene
identificabile chi urlasse di più, ma era evidente che non esistessero nemmeno
posti in piedi e lui aveva costantemente la fortuna di averne qualcuno già
preso, quasi vicino al campo, ma con la visuale più alta.
La prima volta non era stato così fortunato, aveva dovuto costringere Scott
ad andare con lui, promettendogli mari e monti, perché la curiosità era troppo
alta ed aveva perfino partecipato ai loro allenamenti e non poteva proprio
perdersi la prima partita di campionato; se si fosse annoiato, avrebbe cambiato
i suoi piani.
E non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione per vedere il famoso
Derek Hale stracciare la squadra avversaria ed anche capire perché il mondo lo
amasse.
Gli allenamenti non erano propriamente elettrizzanti e Derek si impegnava
molto poco in quei momenti, come se fosse una tranquilla passeggiata nel bosco
in primavera. Era legittimo, non doveva giustificarsi con nessuno.
Ma Scott era stato lento ed avevano perso tempo e
di certo lui non si aspettava una cosa del genere, non tutta quella confusione
e le grida esagerate, l’ammasso di persone accalcate e la visuale quasi
inesistente. Era certo che ad un concerto della band del momento ci fossero
meno ragazzine urlanti.
Non aveva visto quasi niente, aveva fatto di tutto per sfruttare la sua
corporatura mingherlina ed ancora non forgiata dagli allenamenti di lacrosse –
non che fosse uno sportivo e dedito alla forma fisica, e parecchi allenamenti
li aveva anche saltati, ma avevano comunque dato i loro frutti – e si era
districato tra i corpi delle altre persone, passando in mezzo alle gambe,
saltellando e facendo dei sorpassi, ma non ne aveva tratto molti risultati e
comunque il suo migliore amico era rimasto indietro, poco interessato ed anche
sorpreso e scoraggiato dalla folla.
Era stato un vero disastro e si era dovuto accontentare dei vari spirargli
che riusciva a scovare, ma anche quelli a lungo andare non erano bastati e
Scott, spuntato chissà dove e quando, l’aveva afferrato dalla maglia con la
stampa della primissima locandina del primo film di Star Wars
e l’aveva guardato eloquentemente e con un messaggio ben chiaro e Stiles
dovette arrendersi e ritornare sui propri passi, senza neppure aver potuto dare
uno sguardo al tabellone e scoprendo soltanto il giorno dopo chi avesse vinto.
Loro.
La seconda volta era andato da solo – Scott l’avrebbe raggiunto insieme a
tutta la squadra di lacrosse –, un po’ timoroso ed insicuro; forse era arrivato
troppo presto e la palestra era ancora vuota, benché tutta la squadra fosse
negli spogliatoi, e vicino agli spalti e sul campo c’era soltanto Erica Reyes.
All’epoca non si erano mai rivolti la parola, Stiles nei pomeriggi degli
allenamenti arrivava in silenzio, trascinandosi lo zaino ed i numerosi libri, e
si sedeva sul penultimo gradino degli spalti, mentre Erica era sempre in prima
linea a vederli giocare. Isaac la raggiungeva quasi alla fine o a volte non si
faceva proprio vedere.
Stiles era rimasto a metà della soglia, dentro la sua enorme felpa rossa
con il cappuccio calato a metà, non sapendo se potesse entrare e prendersi il
suo meritato posto e quando si era avvicinato alle gradinate senza aver ancora
deciso, lei furtivamente era giunta e se n’era uscita con ma guarda chi abbiamo qui. Ciao,
Cappuccetto Rosso, gli aveva ammiccato e contemporaneamente gli aveva
indicato il posto accanto al suo.
Finalmente si era goduto la partita come avrebbe voluto ed in quel primo
anno e in quello che era appena iniziato, Erica glielo
aveva sempre riservato, occupandone dei nuovi per ogni membro che si aggiungeva
a quella combriccola di tifosi improvvisati. Ma spesso si chiedeva come fosse
prima che scoppiasse l’innamoramento di massa per Derek Hale.
La partita era avviata ed erano già all’inizio del terzo periodo, gli
schiamazzi di incitamento erano sempre nell’aria e dietro di lui persisteva il
brusio portato dalla sua squadra di lacrosse, con tanto di Scott ed Isaac che
commentavano allegramente, mentre Jackson continuava a proferirsi migliore di
Derek – Stiles c’era abituato e ormai più nessuno ascoltava i lamenti del loro
capitato, Lydia più di tutti, che lo ignorava bellamente e si accostava a
Stiles insieme ad Allison.
Ma ad un certo punto l’esito della partita divenne incerto.
Derek si era lasciato sottrarre la palla più di una volta ed i suoi
giocatori non ricevevano più alcun passaggio corretto, gli avversari sembravano
confusi come chiunque di loro e quelli più svegli e pronti all’azione
sfruttavano quel momento di debolezza, quella falla portata da Derek Hale.
Erica si sporse eccessivamente dagli spalti ed aguzzò la vista, pensierosa
e criptica. «C’è qualcosa che non va».
Stiles la intercettò immediatamente e gli occhi tornarono sulla figura del
diciottenne che rimaneva in piedi sul campo come se in quel momento gli fosse
estraneo. Sembrava quasi come se fosse in ascolto di qualcosa, con le orecchie
tese e la capacità uditiva portata al massimo.
Ad un certo punto riprese possesso della palla, ma rimase fermo nella sua
posizione a palleggiare senza superare il suo avversario per più di
ventiquattro secondi, finché il segnalatore acustico a sirena riecheggiò per
tutto il capo, costringendolo ad interrompere la sua azione per aver lasciato
scadere il tempo.
Subito dopo seguirono dei falli uno dietro l’altro e l’allenatore fu
costretto a chiamare un time-out, interrompendo il gioco e costringendo la squadra
di Beacon Hills ad avvicinarsi e richiamando i giocatori all’ordine.
«Le cose si complicano» proferì Erica a se stessa
con preoccupazione e disagio, lanciando un’occhiata ad Isaac che le si avvicinò
lentamente con la stessa espressione.
Sotto lo sconcerto vocale e collettivo, Derek Hale lasciò il campo senza
voler ascoltare nient’altro e sparendo dentro gli spogliatoi.
Erica guardò la scena sbigottita, lanciando un lungo sguardo ad un Boyd sudato e con la stessa identica loro espressione, che
si avvicinava a bordo campo per risponderle con un solo cenno di
incomprensione. Evidentemente nessuno di loro tre sapeva cosa stesse accadendo.
La partita ricominciò immediatamente, nonostante l’assenza del loro
capitano.
«Devi andare da lui» disse la bionda con decisione e senza tergiversare,
sicura che fosse l’unica soluzione.
Stiles si guardò intorno per capire con chi stesse parlando, ancora
piuttosto provato dalle azioni errate del diciottenne che mai a sua memoria
aveva commesso. Ma poi intercettò i suoi occhi seri e l’illuminazione lo colse.
«Vorrai scherzare. Non ho alcun motivo per cui dovrei andare da lui».
«Sì, invece» asserì poco pragmatica la diciottenne, incalzando con
fierezza. «Dobbiamo indagare e capire cosa sia successo e con te è più incline
al dialogo».
«Quale dialogo? Questa parola non è nemmeno presente nel vocabolario di
Derek» enfatizzò il figlio dello sceriffo con tutte le prove a carico e con la
poca esperienza che gli gravava sulle spalle.
Erica negò vigorosamente con il capo, oscillando i suoi lunghi capelli
dorati. «Ti darà ascolto».
Stiles la guardò allibito e corrucciato, poco convinto delle sue parole e
poco propenso a volerne sapere di più di quella storia. «Siete voi il suo
branco».
Le iridi della Reyes slittarono stupefatte verso
quelle chiare di Isaac, trovandole adombrate e sbigottite, per poi riportarle
su quelle ambrate del suo giovane interlocutore, cacciando via quell’apparente
scivolata nel suo viso perfetto. «Il suo cosa?».
Al sedicenne non era sfuggito quello scambio frazionato dei loro sguardi,
ma in quel momento poco gli importava, non poteva discutere di quello anche con
loro – soltanto perché Derek glielo lasciava fare, rafforzando i suoi concetti
fantasiosi, non voleva dire che altri esterni a loro due avessero lo stesso
spirito di accondiscendenza e malcelato divertimento. «Senti, sono l’ultima
persona che vorrebbe vedere. Anzi non sono nemmeno presente nella sua lista,
non sono niente per lui».
L’espressione di Erica cambiò ancora, ma fu talmente repentina la sua
cancellazione che credette di aver assistito ad un’allucinazione. «Forse è
vero, ma hai un potere incredibile e riusciresti a far crollare chiunque,
perfino lui. È di questo che ha bisogno adesso».
Il giocatore di lacrosse sbuffò risentito e non particolarmente colpito, ma
non era carino farglielo notare. «Non è un gran bel complimento».
«Non ho mai detto che lo fosse» ammiccò impudica la diciottenne, entusiasta
di aver raggiuto il suo obiettivo. «Ti ascolterà. Derek lo farà» era una
carezza morbida ed ammaliante, che riusciva a penetrare fin dentro la sua
coscienza, stuzzicando la natura curiosa e dedita al prossimo del ragazzo.
A Stiles non rimasero molte alternative.
Era una pessima idea. La più pessima che potesse mai essere concepita ed
ancora non capiva a chi fosse venuta in mente e come fosse riuscito a farsi
incastrare in quel modo.
Andare da Derek Hale. Che cosa c’entrava lui con quella storia e quale
grande sollievo poteva dare all’altro se le uniche occasioni in cui si
rivolgevano parola erano sempre critiche e piene di problemi, mai semplici e
disinteressate. C’era sempre qualcosa di negativo in mezzo a loro, eppure
continuavano ad esserne attratti per crearne delle nuove.
Era davvero la cosa più pessima a cui potesse partecipare e doveva imparare
a dire di no ad Erica.
Quando la diciottenne ottenne quello che voleva con l’approvazione di
Isaac, che non fiatò completamente, e uno strano sguardo incomprensibile di
Lydia, Stiles fu costretto ad abbandonare la propria postazione, addentrandosi
tra le fila di persone mai viste ed a cui non aveva rifilato alcuna occhiata,
uscendo indisturbato dalla folla senza che nessuno si accorgesse di lui e
proseguendo verso l’ingresso della palestra che lo avrebbe riportato nei
corridoi della scuola, per fare il giro lungo e raggiungere gli spogliatoi dove
Derek si era rintanato. Sperando fosse ancora lì.
Da dentro lo spogliatoio non proveniva alcun rumore, era come se al suo
interno non ci fosse nulla e nemmeno le urla del pubblico riuscissero a
perforare le mura di quel luogo immacolato.
Era stato lì dentro per ben due volte e non gli aveva mai dato quella
sensazione di brividi scaturiti dalla sua spettralità, al contrario, con la
presenza di Derek accanto a lui era sempre un posto piacevole dove stare e sentirsi
al sicuro – magari quando era gremito di ragazzi sudati e nudi non era proprio
il massimo.
Percorrendo i corridoi creati dagli armadietti e districandosi tra le
panche poste in mezzo, della traccia del playmaker non vi era accenno e Stiles
cominciava seriamente a dubitare dell’azzardo che aveva fatto.
Soltanto quando giunse vicino alle docce, agli armadietti più vicini,
riuscì a trovare qualcosa.
Derek era privo di maglietta ed a petto nudo, con il telo-doccia già in
mano e pronto per metterselo in spalla e di certo la sua presenza non era
gradita. «Stiles, che cosa ci fai qui?» domandò non particolarmente entusiasta
di vederlo e, come preventivato, piuttosto seccato ed adirato.
Da dove poteva cominciare? «Beh, sono successe tante cose una dietro l’altra
ed i tuoi lupacchiotti erano un po’ preoccupati, ma non così coraggiosi da
affrontare il grande Alpha scorbutico e non proprio in sé, quindi hanno mandato
l’agnello sacrificale per il lavoro sporco. O per salvarsi la pelliccia, una
delle due» sproloquiò senza freni il figlio dello sceriffo, non impressionato
dall’avversione che Derek mostrava nei suoi confronti e non particolarmente
colpito dal suo astio. Forse era davvero un martire.
«Due secondi e ho già mal di testa» disse secco il capitano della squadra
di basket, con sguardo torvo e nauseato.
«Oh, Derek, non farmi sentire così amato, ti prego» proferì il sedicenne
con sarcasmo puro e viscerale, tirando verso l’alto un angolo della bocca in
una smorfia da vera volpe rossa.
Derek roteò gli occhi in chiaro segno di mancanza di pazienza, benché si
fosse soffermato per un tempo notevole a guardare la capacità della sua natura
di mostrarsi. «Veloce, Stiles» e sbatté in un tonfo l’anta metallica
dell’armadietto, dandogli le spalle e mettendosi il grande asciugamano su una
di esse, cadendo a picco su un lato della larga schiena, e lasciando intendere
che gli concedeva soltanto il tempo che ci avrebbe messo per percorrere il
tragitto che lo separava dalle docce.
A Stiles il fiato si ghiacciò e si intrappolò al centro della trachea,
impedendogli di respirare.
Derek si fermò improvvisamente, come se avesse percepito tutto quello che
stava avvenendo nell’organismo del sedicenne, e si girò subito dopo per
controllare le sue condizioni e comprendere quel cambiamento improvviso,
trovandolo perfettamente immobile dove l’aveva lasciato e con gli occhi
talmente grandi e acquosi come non li aveva mai visti. «Stiles» chiamò soffice
e guardingo, attirando la sua attenzione e cercando di riportarlo al presente.
Stiles inspirò forte e sbatté le palpebre più volte, facendo mente locale e
ravvedendosi da ciò che aveva visto. «Non-» scosse la testa sommerso dalle
miriadi di emozioni contrastanti che si abbattevano su di lui, procedendo in
avanti di un passo, sentendosi chiamato e guidato – era così simile al richiamo
che aveva sentito tempo addietro, da esserne terrorizzato. «Posso vedere?»
domandò con voce interrotta e sopraffatta, senza esserne padrone ed indicando
un punto imprecisato dietro le spalle del diciottenne.
Il capitano non aveva la più pallida idea a cosa Stiles si stesse riferendo
ed i suoi occhi verdi erano quasi del tutto sprovvisti della maschera di
controllo che costantemente portava addosso. «Cosa?» ma non gli diede nemmeno
il tempo di far attecchire quella parola, ricevendo la sua risposta, che Stiles
era già di fianco a lui, con movenze che non aveva nemmeno notato, e gli stava
scostando il telo-doccia dalla schiena, scoprendola.
L’asciugamano cadde a terra e la schiena fu completamente in bella vista,
mostrando orgogliosa e fiera l’enorme triscele tatuata e nera che sferzava
sulla porzione di pelle, indelebile ed immune ad ogni intemperia; quella stessa
triscele che continuava a chiamarlo imperterrita. «Il sole, la luna, la verità»
recitò in modo soffuso ed ammaliante, con una tale intensità da costringere
chiunque fosse nei paraggi a chinarsi al suo cospetto, e sfiorando con la punta
delle dita la spirale più vicina a lui, quella destra, seguendo imprudentemente
la sua forma.
Derek si scostò immediatamente a quel contatto, attraversato da un brivido
pericoloso, e voltandosi al contempo per guardarlo dritto negli occhi, freddi e
penetranti, non proprio rassicuranti per la persona di Stiles.
Il figlio dello sceriffo si svegliò all’istante, con la mano ancora sospesa
nel vuoto e le lunghe falangi ancora snodate, ma una volta riacquistata la
padronanza di sé ed incontrato le severe iridi di giada, non sapeva bene che
cosa volesse dire quello sguardo duro in cui era magistralmente nascosto lo
sbigottimento dell’altro, ma era certo che non fosse nulla di buono. «Mh, no, forse per te sarebbe meglio qualcosa come: Alpha,
Beta, Omega. O qualsiasi altra cosa, va tutto benissimo».
«Come conosci questi mantra?» domandò Derek con un’unica voce poco interpretabile,
ghiacciando il sangue del suo interlocutore ed irrigidendo le enormi spalle.
Stiles si sentì molto a disagio, perché non aveva mai avvertito quella
sensazione di doversi scusare perché conosceva determinate cose e la curiosità
la faceva da padrone, proprio quel tipo di informazioni che non potevano
nuocere a nessuno; non come quando bighellonava tra i casi di suo padre,
leggendo i fascicoli di nascosto ed entrando in possesso di dettagli delicati
che non avrebbe nemmeno dovuto sfiorare – a volte ne rubava qualcuno e li
portava perfino in classe. «Ne possiedo una anch’io» disse con risolutezza,
alzando la mano destra e mostrando l’anello che entrambi conoscevano fin troppo
bene, chiaro riferimento alla triscele che vi era incastonata. «Non è mia
abitudine indossare simboli senza conoscere quanti più significati possibili e
soprattutto quelli che dovrebbero rappresentarmi».
«Hai conoscenze che non dovresti avere» proferì imperiale il diciottenne,
risuonando come un’accusa solenne e così austera ed intransigente che non
ammetteva alcuna via di scampo.
La reazione di Derek era talmente esagerata e fuori controllo che sembrava
quasi gli avesse sottratto un segreto che aveva celato con tutte le sue forze.
E non solo le sue.
Nel bel mezzo della loro conversazione sempre più spinosa, il segnalatore
acustico a sirena annunciò la fine del terzo periodo e l’inizio della
rispettiva pausa di due minuti, che avrebbe anticipato l’arrivo del quarto ed
ultimo periodo, avvicinandosi sempre di più alla conclusione della partita.
«Torna a casa» disse con tono fermo il capitano della squadra di basket,
che suonava più come un ordine che come una cortesia, rendendosi conto del
reale trascorrere del tempo.
«Lo farò dopo la conclusione della partita» rispose irremovibile il
sedicenne, senza vedere il motivo per cui avrebbe dovuto obbedirgli e seguire
le sue parole. Qualcosa era cambiato, Stiles lo sapeva, tutto l’assetto di
Derek era cambiato da quando la sirena era arrivata fin alle loro orecchie,
come se si fosse improvvisamente accorto che il tempo a sua disposizione stesse
per scadere.
«Torna a casa, ora» intimò ferreo e glaciale, per nulla intenzionato a
scendere a compromessi e del tutto sordo all’ostilità del minore.
Stiles lo guardò colpito e seriamente offeso, implacabile davanti alla
brutalità dell’altro. «Mi stai davvero dando degli ordini? E speri davvero che
io ti dia retta?».
«Tu non dai mai retta a nessuno» ringhiò esasperato il moro e, sempre più
autorevolmente, meno propenso al dialogo, trafiggendolo con i suoi occhi
glaciali. «Devi tornare a casa, adesso».
«Perché?» chiese con evidenza il figlio dello sceriffo, del tutto estraneo
alle motivazioni del capitano. «Che cosa potrebbe accadermi se non lo
facessi?».
Le labbra di Derek si serrarono nell’immediato, mentre dalle iridi di
smeraldo trapelava più di quanto avrebbe dovuto.
Stiles si irrigidì e la sua memoria tornò all’intervallo tra il secondo ed
il terzo periodo durante la partita, quella che il maggiore aveva giocato
meravigliosamente poco prima ed in cui subito dopo era subentrata la sua
distrazione, portandolo a commettere numerosi errori ed a lasciare il campo nei
minuti successivi per sua scelta, qualcosa che lui non avrebbe mai fatto se
nulla l’avesse turbato. Il suo atteggiamento durante quella serata era cambiato
totalmente e non aveva fatto altro che prestare orecchio ad un qualcosa che
soltanto lui poteva sentire. «Sono io? Tutto quello che è accaduto stasera è a
causa mia?» domandò rauco, puntando gli occhi d’ambra in quelli di giada e cercandovi
la risposta che tenevano serrata. «Che cosa hai sentito?».
«Niente» proclamò Derek con un’unica voce, con l’intenzione di smentire
qualsiasi teoria la mente del sedicenne stesse analizzando.
«Sei un pessimo bugiardo, Derek» soffiò univoco, tirando le labbra in una
linea appena accennata e forse c’era un po’ di scoraggiamento in quella
smorfia.
«Allora va’ via» proferì il diciottenne come ultimo tentativo, senza
delicatezza o rimpianto per le azioni commesse, ma indirizzato verso un unico
scopo.
«Accidenti» bofonchiò Stiles, portandosi una mano tra i capelli castani,
disarmato e privo di difese e facendola ricadere sul volto, coprendogli metà
viso e lasciando libero un solo occhio che illuminava tutta la stanza,
ricevendo dall’altro un’occhiata interrogativa ed un sopracciglio innalzato. «È
proprio per questo tuo modo d’agire che questa storia non finirà mai».
«Quale storia?» non che Derek avesse davvero bisogno che qualcuno gli
spiegasse passaggio per passaggio, ma evidentemente trovava gratificante ignorare
qualcosa che era palese ad entrambi.
«La nostra, Derek» sottolineò con ovvietà il figlio dello sceriffo, mentre
la parola nostra echeggiava per tutto
lo spogliatoio, prendendo una cadenza distorta che non avrebbe dovuto
possedere, facendo rabbrividire il loro animo. «Le tue ragazze non mi
lasceranno mai in pace se continuerai a mostrarti protettivo nei miei confronti.
Gli stai dando quello che vogliono, la certezza che ti importa di me ed il
motivo per cui possono continuare a tormentarmi».
Lo sguardo di Derek era una maschera di tutti i sentimenti negativi e furiosi
che Stiles conosceva in minima parte, gli altri gli erano del tutto estranei.
«E cosa dovrei fare? Lasciarti alla loro mercé?».
«Sì, Derek. Sì» esclamò energicamente, alzando la voce e lasciando che gli
arrivasse chiara e decisa fin dentro al nervo acustico. «Lasciale sbollire,
permettigli di progettare tutti i piani che vogliono, lascia che mi
ridicolizzino e che diano fiato a tutti gli insulti che immaginano ed alla fine
la smetteranno e si dimenticheranno di me. Di tutta questa storia pazzesca».
«È ridicolo» proferì austero e severo il diciottenne, per niente persuaso
dalla sua teoria strampalata ed escludendo categoricamente di permettere uno
scenario simile.
«No, è follia. Pura follia» enfatizzò Stiles stremato e al limite della
sopportazione, investito da quel mondo che gli cadeva addosso e che non sapeva
gestire, che non capiva e di cui non ne comprendeva l’esistenza. «Sei andato
via ed io ti ho seguito. Questo, tutto questo, ci sta sfuggendo di mano»
l’episodio appena vissuto poteva essere isolato ed archiviato, un solista fuori
dal coro, ma la verità era che quel tipo di avvenimento si stava ripetendo
sempre più spesso e l’evidenza di quante volte si ritrovasse a seguirlo era
imbarazzante.
«Ti stai colpevolizzando quando sono le azioni degli altri a creare
problemi?» era un’accusa bella e buona, Derek non poteva proprio tenerla per
sé, l’irragionevolezza di quel pensiero era un’assurdità colossale.
Stiles intercettò immediatamente la missione di cui si stava facendo carico
il diciottenne, completamente sordo all’invito obbligato che gli stava
estorcendo con la forza. «Stanne fuori» gli ordinò senza controllo, fendendo
una mano tra loro a sottolineare il concetto ed a non oltrepassare quella linea
invisibile che stava costruendo. «Non intervenire. Non dire niente. Non fare
niente. Non pensarlo nemmeno» era categorico e stava esagerando, ma non aveva
alcuna alternativa se voleva sopravvivere in quella gabbia di matti. «Devi
starne fuori».
«Cavatela da solo, allora» dichiarò il capitano senza alcuna sfumatura
nella voce, così sottile ed indifferente
da creare una spaccatura nel cuore di Stiles. «Non voglio saperne niente».
Derek con quelle ultime parole gli diede le spalle, agguantando al volo un
altro asciugamano che emergeva da una pila precaria di simili, lasciando quello
che aveva perso per terra, davanti ai piedi del figlio dello sceriffo, ormai
sporco ed inutilizzabile.
Stiles rimase soltanto un minuto nel silenzio tombale dello spogliatoio
della squadra di basket, esattamente al centro, dove Derek l’aveva lasciato,
gelandolo.
Alla fine tornò a casa prima che il segnale acustico della sirena
annunciasse la fine della partita, stremato ed a corto di forze, con la mente
talmente piena di ogni possibile pensiero da farla surriscaldare, temendo nella
sua ingenuità immaginaria che potesse esplodere.
Scott lo tempestò di messaggi per tutta la sera, ma Stiles non gli rispose
mai.
Se qualcuno li
capisce faccia un fischio.
In questo capitolo la
presenza di Derek è molto minima, quasi contata minuziosamente, ma è
ingombrante e in qualche modo il suo nome esce sempre come se lui fosse lì e
fosse vitale che Stiles ne prendesse coscienza. Ma Stiles lo vedrà in quel
modo?
Per quanto Lydia
corrisponda alla voce della sua coscienza sapiente ed Erica sia quella che lo
incastra in vie senza uscite, lui ne esce piuttosto indegne e senza ammaccature,
come se non lo riguardasse; il che è vero.
Ma forse questo suo
disinteresse e il potere di esserne immune sta collassando e le increspature
cominciano a mostrarsi.
Che coincidenza
pazzesca, questo sabato ho finalmente battezzato kira_92 a Star Wars (doveroso episodio IV) e questo è il primo capitolo
dove salta fuori. Star Wars è un perno nella vita di
Stiles e nella mia ed io ho delle pessime amiche che devo istruire e prima o
poi riuscirò nella mia missione. Con la mia Beta ho fatto un ottimo lavoro in
cui ci siamo immerse per un intero Capodanno a recuperare sei film – poi ci
siamo strappate i capelli una volta uscito l’episodio VII (nonno) e comprati i
biglietti del cinema un mese prima.
E niente, presumo(?).
Ci rivedremo tutti qui per sapere come procederà la vita dei nostri
protagonisti dopo questo sconvenevole avvenimento. E potremmo avere qualche
risposta o magari ci prendono solo in giro.
La vita trascorreva normalmente, tra una corsa
e l’altra per giungere nell’aula corretta all’orario più appropriato,
serpeggiando tra le fila di alunni che si accalcavano davanti agli armadietti e
chi periodicamente gli rubava minuti per due chiacchere.
Alla fine non era successo nulla, niente era
accaduto. Era stato momentaneamente dimenticato, permettendogli di prendere un
respiro d’aria pura e tirare un sospiro di sollievo. Non che avesse abbassato
la guardia o fosse diventato paranoico, ma forse perfino le ragazze di Derek
avevano un limite ed una perseveranza che diminuiva a poco a poco, lasciando
perdere l’interesse e dimenticando qualsiasi loro piano malefico. Ma era quasi
certo che se fosse avvenuto qualcosa di diverso, qualcosa di più, un semplice
nuovo contatto, l’incubo sarebbe ricominciato e non ci teneva particolarmente a
testarlo.
«Lo stai evitando?» domandò Lydia con un tono
non del tutto casuale, quando lo raggiunse nei corridoi, alla fine della
lezione appena conclusa.
«No» rispose senza nemmeno pensarci, schivando
un ragazzo con la testa tra le nuvole e cieco a chi gli si parava davanti.
La bionda fragola lo guardò dubbiosa,
accelerando il passo e portandosi immediatamente al suo fianco. «Non ho nemmeno
specificato di chi si trattasse».
«Non ce n’era bisogno» proferì il figlio dello
sceriffo con non curanza, girando l’angolo e percorrendo un nuovo corridoio.
Era passata una settimana, un’intera settimana
dalla sera della partita, da quando era andato a cercarlo spedito da Erica
senza nemmeno sapere il perché ed incastrandosi in una conversazione che
avrebbe soltanto dovuto aiutarlo, mettere le cose in chiaro e cessare quel loro
strano modo di fare, ma alla fine, quando aveva avuto la situazione sotto
controllo, e forse lo stava perfino rimproverando senza alcun motivo, era stato
lui stesso ad uscirne ferito e sconfitto, ma almeno quell’ambiente
irrespirabile era diventato più sopportabile.
«Sapevo che non saresti durato. È dura essere
scaricati da Derek Hale» subentrò una voce arcigna e malvagia, così carica di
veleno e compiacimento che avrebbe fatto raggelare chiunque si trovasse di
fronte alla sua presenza, portandolo ad allontanarsi da Kate Argent.
«E tu lo sai meglio di tutti» ma Stiles non
aveva mai fatto parte del gruppo dei chiunque,
non era qualcuno che si tirava indietro anche se professava il contrario e
sapeva mettersi contro chi non avrebbe dovuto. Aveva una tale capacità dell’uso
della parola che era quasi impossibile poterle usare contro di lui e chi ci
provava ne usciva totalmente sbaragliato.
Le spalle di Kate si irrigidirono ed uno
scintillio inquietante si rifletté nei suoi occhi freddi e omicida, piccata e
colpita fin nel profondo. «Non giocare con il fuoco, Stilinski».
«Buffo» le labbra di Stiles si curvarono in
quella piega sinistra che ricordava sempre un po’ troppo quella di una volpe
che stava giocando con la sua preda, pregustandosi una vittoria schiacciante.
«Mi hai rubato le parole di bocca, Argent».
Lydia assisté a tutta la scena impotente,
guardando sgomenta ed inorridita il capovolgimento delle parti e trovandosi uno
Stiles in testa ed una Kate Argent che non riuscì a reagire in tempo, prima che
il sedicenne la sorpassasse a testa alta senza dare alcun segno di averla
percepita, evitando con classe perfino di sfiorarla e la rossa dovette muoversi
in fretta per non perderlo e ritrovarlo chissà dove e quando. «Smettila».
Stiles si voltò appena verso la sua direzione,
lanciandogli un’occhiata interrogativa e dubbiosa. «Di fare cosa?».
«Di combattere per lui» rivelò a tutta voce,
nel modo più evidente che potesse, mettendo in vista i fatti.
Il figlio dello sceriffo si fermò a metà passo,
scrutandola come se improvvisamente fosse diventata pazza. «Non è quello che
faccio».
Lydia aveva tutto il diritto di sentirsi offesa
e provata in quel momento, Stiles non l’aveva mai guardata in quel modo e non
aveva mai dubitato di lei, soprattutto senza argomentare e vedere il punto di
vista dell’altro. Stiles era quello che la conosceva meglio, quello che
rimaneva in religioso silenzio – qualcosa di totalmente ostico per lui – a
studiarla ed ammirarla, memorizzando a pelle tutto quello che la riguardava e
rispettandolo sempre. Le cose potevano essere cambiate tra loro ed avevano
creato un rapporto d’amicizia di pari, ma l’amore che Stiles provava per lei
non era mai cessato e si era evoluto, cambiato. Ma fino a che punto era
cambiato? Chi aveva la priorità adesso per lui? «È esattamente quello che fai».
Stiles era totalmente girato verso di lei,
muovendo un passo impercettibile nella sua direzione. «Quindi lo starei
evitando e starei combattendo per lui allo stesso tempo, senza far niente per
me stesso» la minaccia e la brutalità non erano caratteristiche che gli
appartenevano, ma ognuno dentro di sé possedeva la sua buona dose di lato
oscuro che usciva quando più serviva, soprattutto se sott’attacco o mentre gli
stavano sottraendo qualcosa, e Stiles aveva il lato oscuro più misterioso di
tutti e che quasi nessuno riusciva a vedere, ma quando emergeva, erano guai per
tutti. «Credi che mi piaccia essere nel mirino di ragazze che si raccontano una
storia per non ammettere di essere state rifiutate senza mezze misure,
lasciando ricadere la colpa su qualcuno che non c’entra niente?».
«Non intendevo questo» l’istinto di retrocedere
era troppo forte, ma Lydia era troppo testarda ed orgogliosa per mostrare
cedimenti, mostrare che Stiles poteva vincere anche su di lei. Non l’avrebbe
aiutato, non in quel momento.
«È esattamente quello che intendevi,
soprattutto se credi a quella storia» la certezza nella voce del ragazzo era
inequivocabile e Lydia si sentì smascherata e senza via d’uscita per rivoltare
la situazione dalla sua parte.
Ed anche se ne avesse avuto l’opportunità non
significava che Stiles avrebbe aspettato che trovasse le parole. Lo capì nel
momento in cui le diede nuovamente le spalle, procedendo verso una nuova meta
che lei non seppe interpretare. «Dove stai andando?».
«A combattere per Derek Hale» rispose con
sarcasmo lascivo in una burla premente, colpendola in pieno petto.
Lydia rimase esattamente al centro del
corridoio, intralciando chiunque dovesse passare e portandoli a scansarla ed a
sbuffare scocciati della sua presenza non molto sveglia, richiamando tutto il
brusio che prese vita intorno a lei e che le fece presente di dove in realtà si
trovasse, riportandola indietro e suggerendole che non aveva alcuna idea con
chi si fosse confrontata fino a quel momento.
Poi sentì la suola di una scarpa posarsi sul
pavimento gremito di ragazzi, proprio dietro le sue spalle e spinta dalla
sensazione di riconoscere la presenza che sostava proprio lì, si girò
meccanicamente, incontrando due gemme di smeraldo completamente diverse dalle
proprie, ma che aveva cominciato ad individuare senza problemi.
Lei e Derek Hale si guardarono per un tempo
incalcolabile ed in entrambi era riflesso qualcosa a cui non poteva ancora
essere dato voce.
Se lei credeva a quella storia? Sì.
Aveva capito che non poteva essere ignorata e
che una base di fondo doveva essere reale, che era ben visibile e che si doveva
imparare a guardare nel modo e nel posto giusto.
Credeva a quella storia, ma nessuno aveva detto
che fosse scaturita dalla parte di Stiles.
Stiles stava pranzando ai tavoli all’aperto da
solo, a volte accadeva, se il suo umore era altalenante e la sua voglia di
relazionarsi fosse sotto zero, tendeva a mangiare isolato e lontano dagli
altri, non che Scott lo permettesse tanto spesso, perché la solitudine era
qualcosa con cui il figlio dello sceriffo doveva avere a che fare il meno
possibile, ma a volte nemmeno lui riusciva in quell’intento e Stiles era così
bravo da raggiungere la mensa troppo presto o ritardare di proposito. O andare
nei luoghi meno affollati.
Era inverno e solitamente era aperta soltanto
la mensa interna, ma era una gran bella giornata e la temperatura non era così terribile,
ma erano pochi coloro che si avventuravano fuori e lui ne faceva parte.
Lydia gli scivolò proprio di fronte,
depositando il vassoio pieno sul tavolo ed accomodandosi come se nulla fosse,
trascinando un piatto ricolmo di patatine fritte fumanti e calde accanto a lui,
dipingendosi addosso una maschera da cui non traspariva nulla se non la
nonchalance. Stiles guardò il piatto e poi lei, adocchiandola studiosamente.
«Credevo fossero terminate».
«Ho corrotto l’addetta alla mensa» sorrise
felina la bionda fragola, strizzandogli un occhio di complicità fraterna.
Le labbra del sedicenne si curvarono in
risposta, scuotendo la testa ed addentando una patatina. «Donna subdola» la
bionda fragola riusciva sempre ad ottenere quello che voleva, che fosse con la
sua aria da leader indiscussa o con quella con cui si mostrava caritatevole e gentile
con il mondo, mostrando un broncio ed un’afflizione impossibili da cancellare
se non veniva esaudita anche la sua più piccola richiesta. Sia quel suo modo
d’agire che il piatto fumante di patatine fritte erano la sua richiesta di pace
ed il tentativo di riconquistarlo, non che ce ne fosse davvero bisogno – anche
se nemmeno lei poteva fare magie per reperirgli della maionese.
La ragazza sembrò soddisfatta e compiaciuta,
svitando la sua bottiglietta d’acqua e procedendo per saziare l’appetito che
reclamava energicamente. «Stasera c’è il concerto, hai intenzione di
raggiungerci?».
Stiles le lanciò un’occhiata piena di domande e
quando inghiottì la terza patatina, il ricordo riaffiorò. «L’avevo
completamente rimosso» la professa Blake aveva avuto la brillante e fantasiosa
idea di dedicare un’intera serata ad un concerto di musica classica, la cui
orchestra era totalmente formata dagli alunni che frequentavano il corso di
musica, seguiti e diretti dai loro professori che li avevano accompagnati passo
dopo passo. La presenza degli altri studenti era quasi obbligatoria, come la
partecipazione dei rispettivi genitori. Stiles non ricordava nemmeno perché era
stata indetta – il raccogliere fondi per chissà quale progetto –, ma la riteneva
una seccatura, anche se poteva aiutarlo a distrarsi un po’ ed a non passare
l’ennesima serata a casa da solo.
«Stiles, dove sei stato in questi giorni? Mi
sei mancato così tanto» piagnucolò provata e sofferta la bella bionda che gli
si parò dinnanzi, poggiando i palmi aperti sul tavolo e mostrando le lunghe
unghia perfettamente laccate di nero.
C’era sempre qualcosa di animalesco in lei,
anche quando mostrava quel broncio che gli dedicava sempre quando non otteneva
quello che voleva o quando sembrava che avesse mancato un appuntamento – anche
se l’appuntamento non era esattamente con lei. «Sono stato impegnato».
La bugia era palpabile, benché lui fosse un
ottimo attore e la menzogna fosse il suo pane quotidiano, ma Erica sembrò
percepirlo ugualmente e nei suoi occhi castani prese vita una sfumatura più
oscura, irrigidendo appena i lineamenti del viso. «Ma tornerai, giusto? Perfino
Isaac ha avvertito la tua assenza».
«Ti ricordi che siamo nella stessa squadra di
lacrosse?» gli fece ben presente il sedicenne con la giusta dose di retorica ed
uno sbuffo di ironia, guardandola con aria bonaria.
«Ma è diverso» si intestardì la diciottenne,
sintetizzando tutto il suo modo di vedere con quelle poche parole che riteneva
indiscusse e difficili da ribattere.
Stiles tirò le labbra in una linea piatta,
sventolando appena un paio di dita e solleticando l’aria che si smosse
impercettibilmente. «Non lo so, Erica».
Erica capì subito che quella sarebbe stata
l’unica risposta che avrebbe avuto da lui, che assomigliava molto di più ad una
negazione totale che ad un ripensamento ed a lei non piaceva per niente.
«Qualcun altro ha avvertito la tua assenza, molto più di noi» se ne andò senza
aggiungere una parola in più, tamburellando con le unghie sul tavolo in un
ultimo saluto.
Stiles doveva scacciare in ogni modo possibile
il reale suono di quella frase, quello che gli urlava nelle orecchie e che
graffiava per prendere dominio: qualcun
altro ha sentito la tua mancanza; follia. E doveva ignorare che quel noi implicava semplicemente lei, Isaac e
Boyd, perché Derek prendeva uno spazio così enorme ed assoluto che niente
poteva contenerlo se unito a qualcos’altro. Era devastante e distruttivo.
«Avevi detto che non lo stavi evitando» lo
rimproverò caldamente la rossa che aveva taciuto nel momento in cui Erica si
era unita a loro, totalmente concentrata su Stiles e del tutto disinteressata a
lei.
Il figlio dello sceriffo fu subito risvegliato
e riportato alla realtà, aiutandolo per un momento a mandar via quei pensieri
molesti, ma Lydia sembrava davvero furiosa per quella mancanza di veridicità e
onestamente non sapeva bene quale delle due cose era meglio affrontare. «Ed è
così».
«Se fosse così, non avresti rinunciato a quel
posto. Nemmeno per Derek Hale» Lydia sapeva bene dove si rintanasse il
sedicenne tutte le volte che non si avevano notizie di lui, dove studiava
indisturbato e fuori dal mondo, il luogo che aveva tenuto segreto e che
conoscevano soltanto i membri della squadra di basket che poco si curavano di
lui, procedendo indisturbati nei loro allenamenti.
Stiles era iperattivo, rumoroso e con una
scarsa capacità di concentrazione – benché avesse dei voti ottimi quasi quanto
i suoi –, ma quando entrava nella palestra dedicata al basket, le cose
cambiavano e si attivava qualcosa che riusciva a far convivere tutti quegli
estremi. Stiles aveva bisogno di sentire il mondo e la vita intorno a sé, di
allontanare il silenzio e la solitudine, riempiendolo con il rumore ed un ritmo
costante e ripetitivo. La sua concentrazione aveva individuato un filtro che
poteva lavorare al posto suo, permettendogli di controllare la sua iperattività
e l’inutilità di creare nuovo caos da sé.
Con un mondo concentrato dentro un solo luogo,
con le varianti che voleva lui e le giuste porte lasciate aperte, Stiles poteva
quasi studiare senza stress ed ansia, prendendo un respiro dalla propria vita
priva di suoni. Sapere che si fosse rifiutato di tornare nella sua oasi
casinista personale per più di una settimana era impensabile.
Stiles sospirò amaramente, spostando il piatto
di lato ed allontanandosi dal tavolo in cerca di nuovo spazio, tamburellando
nervosamente le dita di una mano sulla superficie di legno. «Ho solo ritenuto
fosse la scelta migliore».
Lydia non capiva, proprio non riusciva ad
arrivarci ed era un affronto alla sua intelligenza caparbia; cos’era che stava
tenendo per sé? Quei due non riuscivano nemmeno più a guardarsi e l’abilità di
evitarsi non era tutta farina del sacco del sedicenne. «Migliore per chi?».
Le perle d’ambrosia si alzarono verso l’alto,
incontrando la distesa azzurra limpida e sgombra da qualsiasi filtro potesse
nasconderla, non vi era una sola nuvola in cielo, nemmeno la più piccola ed
innocua né uno sprazzo appena accennato ed in un angolo in disparte, misterioso
e fiero di sé, figurava l’unico satellite della Terra, completamente visibile
in piena luce solare. «C’è la luna piena».
La bionda fragola sbatté le palpebre con
confusione, disorientata da quel cambiamento di argomento. Non era qualcosa di
nuovo o a cui non era preparata, con Stiles era facile perdere il filo del
discorso, catturato da qualcos’altro che attirava la sua attenzione. Era facile
per lui disorientarsi o perdere interesse per ciò a cui si era precedentemente
dedicato, mettendolo nel dimenticatoio; proprio per questo chi gli girava
intorno doveva trascinarlo nelle direzioni giuste, ricordandogli dov’era
rimasto, il più delle volte, e doveva imparare ad avere tanta, ma tanta
pazienza. «Potrai giocare con i tuoi amici licantropi più tardi».
Uno sbuffo di risa uscì dalle labbra di Stiles,
rimanendo curvate all’insù e scuotendo appena la testa. «Potresti rimanerne
sorpresa».
«Stiles» lo richiamò all’attenti, esigente e
poco propensa ad addentrarsi nel suo mondo immaginario, popolato di creature
mitologiche e leggendarie. Voleva una risposta e la voleva subito.
«Avevi ragione» l’aria si fece pesante e carica
di tensione e Lydia rimase in ascolto come se fosse stata catturata; aveva
mille motivi per cui avrebbe dovuto avere ragione. «È turbato».
Il fiato le rimase incastrato in mezzo alla
gola e lo sguardo di Stiles era indecifrabile, non le fu nemmeno permesso di
prendere coscienza di sé e di interpretarlo, perché lui tamburellò un’ultima
volta sul tavolo, con un ritmo preciso e melodioso, in perfetta sincronia con
la campanella che annunciava la fine del tempo ricreativo e l’inizio delle
nuove lezioni, lasciandola da sola con i suoi pensieri.
E tu perché sei turbato?
L’aria circostante l’auditorium presentava
ancora poche figure che non vi erano entrate, parlottando tra loro o fumando
l’ultima sigaretta prima della pausa a metà concerto, gli altri erano tutti a
prendere posto, occupando il numero per ogni membro che contenesse un gruppo o
una coppia. Alcuni venivano fatti slittare con parole educate come potreste e per favore per rendere quell’operazione più facile ed altri non si
muovevano di un solo millimetro, rimanendo fermi nei posti che si erano
accuratamente scelti e che avevano preteso un orario anticipato e meticoloso,
un po’ come faceva lui durante le partite di basket, mentre gli altri si
accontentavano come potevano.
A lui non importava granché dove sarebbe
finito, tanto Lydia sarebbe riuscita a far smuovere l’intero auditorium se le
andava ed a Stiles importava soltanto sedersi e poter bisbigliare senza
interferenze; solo se si fosse annoiato avrebbe ascoltato il concerto.
Ma quando entrò, alla sua sinistra vi era Derek
Hale che veniva investito dal fiume di parole di Erica, che lo teneva per un
polso e lo tirava nella direzione opposta, mentre lui non muoveva un muscolo e
lei cercava rinforzi da un Boyd che scrollava le spalle e da un Isaac che se ne
lavava le mani. Erica era davvero agguerrita, ma anche scoraggiata e sembrava
essere prossima a cedere.
Stiles si bloccò appena proprio sull’uscio
dell’enorme portone, superato da Scott ed Allison che si guardavano intorno
mano nella mano, e Lydia, insieme a Jackson, che perlustrava l’ambiente in
cerca di posti quantomeno decenti.
Per un momento temette che Derek fosse riuscito
ad intercettarlo, e non sarebbe stato carino farsi trovare mentre lo osservava,
ed Erica si sarebbe girata per accoglierlo nel suo modo espansivo e malizioso,
ma nessuno dei due gli prestò attenzione e continuarono la loro discussione che
veniva portata avanti interamente dalla bionda ed a cui il capitano rispondeva
freddamente, poco propenso a collaborare. Erica lo scuoteva perfino – o almeno
ci provava – e lui rimaneva fermo ed immune a qualsiasi stimolo. La curiosità
di Stiles crebbe così tanto che mancava davvero poco che si intromettesse o si
avvicinasse per origliare. Derek gli avrebbe spezzato l’osso del collo,
assicurato.
E in più che diritto aveva adesso? Quando mai ne hai avuto? Stiles si
spaventò pericolosamente a quel pensiero e l’unico istinto che aveva era quello
di fuggire, anche se era pietrificato esattamente dove si trovava e non
riusciva a scollarsi da lì. Lydia fu una benedizione quando tornò indietro per
riprenderlo, ma non gli sfuggì l’occhiata che lanciò al diciottenne quando
giunse da lui e comprese perché non si fosse mosso.
Non parlò, non emise neppure un fiato, ma Lydia
lo guardò dritto nelle iridi ambrate con una consapevolezza e con un
significato così pieno che Stiles li soppresse con tutto se
stesso, lasciandosi guidare da lei che lo prese per mano, portandolo nel lungo
corridoio davanti a loro creato dalla posizione delle poltrone e facendolo
sedere tra lei e Scott.
Non si dissero nulla per minuti interi e
toccava a Scott ed Allison argomentare qualsiasi cosa gli passasse per la
testa, mentre Jackson sbuffava e proferiva parole infastidite, ma almeno
riempivano il vuoto.
Di tanto in tanto Stiles buttava un’occhiata
dietro di sé, superava le tre file che si frapponevano tra lui ed il suo
obbiettivo e sbirciava con moderazione; non era cambiato molto da quando si era
allontanato, Erica era ancora lì, che lo teneva più saldamente di prima e Derek
continuava imperterrito a non darle ascolto. L’unica cosa che era cambiata era
Isaac che si era allontanato per prendere tre posti, suo compreso.
Quando fu annunciato l’inizio del concerto, non
si trattenne per gettare un’ultima occhiata e vedere la bionda che si arrendeva
e lo lasciava, sembrava rammaricata e sconfitta, mentre una mano
dell’afroamericano le si poggiava su una spalla, spostandosi e scortandola
verso il corridoio per raggiungere gli unici posti liberi. Derek rimase
esattamente dove l’aveva visto per tutto il tempo, da solo e con le spalle al
muro, in posizione d’ascolto.
Poi le luci calarono e gli fu quasi difficile
poterlo scorgere, ma questo non fermò il pianoforte che aprì il concerto,
seguito dai violini e poi dalle trombe.
Stiles sapeva che avrebbe dovuto smettere di
guardare e dedicarsi ad altro, era lì proprio per quello, per staccare la mente
e passare qualche momento in compagnia; invece il suo cervello non smetteva di
lavorare e non faceva nemmeno caso a chi avesse intorno.
Ad un certo punto un nuovo strumento a corde si
insidiò nell’orchestra e lo identificò come un violoncello.
Non avrebbe dovuto, non aveva alcun motivo per
cui avrebbe dovuto girarsi e vedere cosa stesse facendo Derek lì in fondo tutto
da solo, il perché Erica avesse insistito tanto senza avere alcun risultato, ma
quando l’archetto premette contro le corde, una scarica che partì dall’anello
gli investì tutta la mano, attraversandogli la colonna vertebrale e gli occhi
d’ambrosia si posarono immediatamente sulla figura del capitano della squadra
di basket, trovandolo pallido e sgomento.
L’orchestra proseguì indisturbata e il
violoncello emergeva più di qualunque altro strumento. Derek apparve
completamente distrutto e sopraffatto, le spalle si irrigidirono e le braccia
si contrassero, portando le mani a pugno, stringendole così forte da farle
diventare completamente bianche.
Lo stomaco di Stiles ebbe un singulto e la
preoccupazione crebbe immediatamente, aveva così tanti pensieri nella testa che
non riuscì a focalizzarne nemmeno uno e con un blocco del genere non aveva alcuna
idea di come avrebbe dovuto agire.
Derek si morse le labbra a sangue e quando
premette maggiormente le unghie sul palmo della mano, si tirò indietro, aprendo
metà portellone ed uscendo dall’auditorium, lasciandolo chiudersi dietro di sé.
Che cos’era appena successo? Che cosa si era
perso?
Il nuovo accordo del violoncello echeggiò per
tutto l’ambiente e Stiles tremò appena.
Il violoncello. Non poteva essere casuale quel cambiamento con quella sincronia perfetta;
aveva visto esattamente quando l’espressione del playmaker era mutata, quanto
fosse peggiorata e quanto poco riuscisse a rimanere bloccato lì dentro in mezzo
a tutti loro.
Il violoncello. Il violoncello. Stiles sbarrò gli occhi e l’anello prese a
scottare. «Paige» realizzò soltanto in quel momento, con un turbine di emozioni
contrastanti che si abbatterono su di lui.
Non resistette nemmeno cinque secondi e già si
era alzato per superare i due posti che lo dividevano dall’accesso verso il
corridoio per correre verso l’uscita.
Lydia lo afferrò per un braccio, tirandolo
indietro e bloccando la sua corsa. «Dove stai andando?».
«Devo allontanarmi per cinque minuti» rispose
immediatamente, rifilandole l’unica scusa patetica che gli venne alla mente –
non che fosse esattamente una bugia.
La bionda fragola lo tenne più stretto,
guardandolo attentamente negli occhi per leggervi le sue intenzioni e la
veridicità di quell’affermazione, girando di poco la testa per occhieggiare la
posizione dov’era certa avrebbe trovato Derek Hale. Ma lui non era lì e Lydia
non impiegò molto per trarre le somme. «Stiles, cosa stai facendo?».
Il tono di Lydia era molto preciso e Stiles
sapeva interpretarlo molto bene, ma come aveva fatto prima, lo ingabbiò per
sopprimerlo; non aveva tempo per quello. Doveva soltanto seguire il suo
istinto, quella preoccupazione che gli tamburellava dentro le orecchie. Doveva
soltanto agire. «Devo prendere aria, Lyds. Devo
andare».
Erano due cose completamente diverse, la
sedicenne lo sapeva bene; sapeva anche quanta premura Stiles stesse
rilasciando, insieme a molte altre cose che si scontravano tra loro e che erano
quasi impossibili da catalogare e contare.
Lasciò la presa senza staccare gli occhi da lui
e Stiles non perse una frazione di tempo e si fiondò verso l’uscita,
accompagnando il portellone per non creare rumore, permettendo che il concerto
continuasse senza interruzioni o fastidi.
Lydia sperò che nessuno si fosse accorto di ciò
che era successo e della loro scomparsa simultanea.
Stiles si confrontò con la notte, il sole
completamente calato ed il tramonto un ricordo lontano, mentre il cielo scuro
dominava incontrastato, tempestato di piccoli vortici di luce brillante che
insieme ad una sfera perfetta, che viveva di puro riflesso, illuminavano il
pianeta sottostante.
Non aveva mai visto una luna piena come quella,
unica protagonista nell’enorme distesa blu scuro, completamente esposta senza
che nulla potesse mascherarla o coprirla, sfocandola anche per un solo secondo.
Era raggiante e suprema, attirava tutta l’attenzione su di sé ed era talmente
luminosa e grande che era impossibile cercare di distogliere lo sguardo da lei.
Ma Stiles aveva una missione e non poteva
contemplarla per tutta la vita.
Si guardò attorno per capire la situazione e
cercare di individuare dove fosse finito Derek, in che condizioni fosse e cosa
aleggiasse nella sua mente, ma di lui non vi era alcuna traccia. Ci aveva messo
troppo tempo, aveva perso minuti – secondi – preziosi e adesso non possedeva
alcun indizio che potesse suggerirgli dove potesse trovarsi, come trovarlo.
Ma doveva farlo? Ne aveva il diritto? Una volta
che si fosse presentato davanti a lui che cosa sarebbe successo? Come avrebbe
reagito? Tutto sommato avrebbe potuto sbranarlo senza problemi, ne aveva tutte
le ragioni, buone motivazioni e Derek era un tale lupo scorbutico, acido e
musone che non avrebbe sentito ragioni.
Era un lupo. Un lupo. Dove vanno i lupi?
Per quanto Stiles ci scherzasse sopra e lo
riempisse di ogni riferimento possibile, ci credeva davvero alla sua natura
canide, a quella parte animale che in lui sfociava incontrastata,
manifestandosi e rendendolo quello che era. Stiles l’aveva vista, l’aveva
percepita, aveva perfino notato come Derek rizzasse le orecchie, irrigidendo le
spalle e prodigandosi all’ascolto, mettendo in secondo piano ciò che gli girava
intorno e prestando attenzione a qualcos’altro. A qualcun altro. A chi?
Derek era un lupo e nel cielo c’era la luna
piena più maestosa che mai, all’interno dell’auditorium procedeva indisturbato
il concerto, quel concerto che aveva scombussolato il diciottenne; il
violoncello che l’aveva fatto tornare indietro.
Da dove si osserva la luna per maledirla,
continuando a prestare orecchio, torturandosi, e allontanandosi quanto basta
dalla presenza soffocante delle persone?
Poteva sbagliarsi o avere ragione, magari Derek
era tornato perfino a casa sua e volendo avrebbe potuto controllare se al
parcheggio vi era ancora l’adorata Camaro, ma poteva anche averla abbandonata,
proseguendo a piedi; per quanto Derek amasse la sua auto, non disdegnava le
lunghe camminate, quelle che facevano riflettere e stemperare i disordini
interni. E c’erano tante variabili, così tante che non avrebbe avuto il tempo
di calcolarle tutte, perché doveva darsi una mossa ed il suo istinto non
vacillava mai, era sicuro di sapere dove trovarlo, quindi alla fine non gli
importò molto delle variabili e si diresse verso l’entrata principale della
scuola, fiondandosi per le scale per raggiungere il tetto.
Il tetto era il posto giusto, nella giusta ubicazione
ed era perfetto per rintanarsi, aveva abbastanza esperienza sulla propria pelle
per poterlo ignorare.
Sbatté i piedi sull’ultimo gradino, spintonando
con forza la porta d’acciaio e trovandola stranamente, e incoraggiantemente,
aperta, sbucando energicamente ed ansiosamente dall’altra parte. La lastra di
metallo fece un tonfo e Stiles si sporse per rendersi reattivo ed individuare
la figura che cercava o qualunque cosa potesse aiutarlo.
Poi la sorpresa e lo sgomento si impadronirono
di lui, costringendolo a trattenere una nuova ondata di ossigeno a metà
trachea, suggerendogli di inghiottirlo e tentare di razionalizzare la cosa.
Stiles e la razionalità avevano un rapporto
strano e controverso, disambiguo e fuori dall’ordinario. La sua razionalità non
aveva nulla a che fare con quella classica ed era per quel motivo che riusciva
a pensare ed a metabolizzare le cose in modo diverso dal consueto.
Derek si trovava in fondo, nella parte più
scura del tetto, lì dove vi era un’ombra che lo riparava dalla luce del
plenilunio per quanto gli fosse possibile, di qualche centimetro alla sua
sinistra. Era rannicchiato, buttato per terra, si contorceva su se stesso e ringhiava piano, cercando di contenersi e
riprendere il controllo; quando il rumore scaturito dalla porta sbattuta dal
figlio dello sceriffo lo investì e la sua presenza si palesò, non ebbe modo di
impedirsi di alzare lo sguardo ed incontrare il suo.
Fu in quel momento che Stiles le vide, due
gemme fredde di un blu metallico, sferzare l’oscurità ed emergere; erano le
uniche cose che riusciva a mettere a fuoco.
La sua mente non impiegò molto ad assimilare la
stranezza che si trovava dinnanzi, a riprendere possesso di una buona
respirazione ed a raccogliere il coraggio per avvicinarsi e aiutarlo.
Derek ringhiò, questa volta in modo nitido ed
udibile, mostrando i denti appuntiti ed i canini notevoli, facendo brillare
maggiormente gli occhi azzurri. «Vattene via».
Era un’intimidazione, un’autentica
intimidazione, e Stiles poté comprendere quanto del vero Derek ci fosse lì in
quel momento, di quanto fosse dura quella battaglia contro se
stesso e di quanto si stesse sforzando di non balzargli addosso e strappargli
la carotide. «No» pessima idea, Stiles,
ma non era propriamente conosciuto per far funzionare il suo sorprendente
cervello nei momenti più disparati, quelli più critici. O meglio, funzionava
eccome, ma tendeva a mettersi nei guai comunque.
Le iridi blu brillarono rabbiose ed un nuovo
ringhio echeggiò nel vuoto dell’aria che li circondava, serrando le spalle e
stringendosi sempre di più su se stesso. «Ti
ucciderò».
Non che fosse una grande sorpresa, il figlio
dello sceriffo aveva fantasticato anche troppo su quell’eventualità; in realtà
si aspettava che Derek compisse quella deplorevole azione fin dal loro primo
ufficiale incontro, ma così non era stato. Fortuna,
immaginava. Ma adesso era diverso, adesso qualsiasi azione Derek avrebbe
commesso non se lo sarebbe perdonato mai, avrebbe continuato a reprimersi ed a
torturarsi, ad inveire contro di sé, odiandosi più di quanto non facesse già.
Ti ucciderò. Derek era un lupo, un lupo che si nascondeva dalla luce della luna piena,
un lupo che combatteva contro se stesso, usando tutte
le sue forze. Era un lupo che stava soffrendo, un lupo dagli occhi di un blu
metallico, freddo ed incandescente. Non erano gialli come quelli di un Beta e
non erano rossi come quelli di un Alpha, erano blu come quelli di un Beta che
aveva stroncato una vita innocente.
Una vita innocente. Quale vita poteva essere stata? Quale aveva strappato? Non aveva nessun
motivo per credere che il playmaker avesse messo fine ad una vita per
capriccio, per la sola voglia di sangue, per assecondare la sua natura di
primate e predatore.
Derek soffriva, con ogni particella del suo
essere, si malediceva e si nascondeva dalla luna odiandola, ma amandola sopra
ogni cosa. Reprimeva la sua natura per averne il controllo, un controllo che
aveva perso quando il violoncello aveva preso vita.
Il violoncello. La vita di un innocente.
Le immagini, i pezzi di un puzzle scoordinato e
privo di classificazione, le voci che si accalcarono tutte nella sua testa in
un nano secondo. L’autoflagellazione che Derek si imponeva e la scomparsa di
quello che era un tempo e che Stiles non aveva mai conosciuto.
Uccidere era già terrificante, distruttivo e
lacerante, soprattutto per un animo come quello di Derek tempestato dai sensi
di colpa. Soprattutto quando dentro di sé si possiede un’altra natura, un altro
aspetto di se stessi, l’anima di una creatura della
notte. Un’anima che aveva spezzato quella che amava.
Il violoncello l’aveva soltanto riportato
indietro, indietro ad un tempo in cui si era macchiato le mani del sangue della
ragazza che aveva amato. Perché? Perché avrebbe dovuto sporcarsi per sempre,
mettendo fine all’esistenza di qualcuno a cui teneva così tanto? Era perfino
rimasto con lei, con Paige, fino alla fine, fino al momento della sua
esalazione. Ne era uscito distrutto, devastato e rotto, frammentato in mille
pezzettini che nessuno riusciva a rimettere a posto.
Stiles si avvicinò lentamente, chinandosi e
portando le mani ai lati del suo viso, incorniciandolo ed obbligandolo a
guardarlo dritto nelle iridi d’ambra, mentre Derek latrava e mostrava i denti,
lamentandosi ed intimandogli ancora di andarsene, di star commettendo un
terribile errore. «Sono bellissimi» soffiò ad una spanna da lui, con tutta la
convinzione del mondo e la pura ed autentica sincerità. «Sono davvero
bellissimi, Der».
Derek sembrò quasi annaspare a quelle parole,
al loro significato, alla scoperta e rivelazione che Stiles conoscesse il reale
significato del colore dei suoi occhi, gli
occhi di un assassino, e si tirò indietro a quel contatto, dalle sue mani
che lo circondavano e che non ne volevano sapere di lasciarlo andare. «Non sei
al sicuro qui».
Il sedicenne abbozzò una piega saputa, che
assomigliava tanto ad un morbido sorriso. «Non lo sono mai» ma era palese che
quella frase conteneva un per te
specifico, oltre a tutti i guai in cui Stiles si andava a cacciare
quotidianamente e che attirava come un faro luminoso che segnalava la sua
ubicazione.
«Devi andare via di qui» sottolineò ancora il
lupo, come se non si fosse spiegato abbastanza e non fosse evidente in che
condizioni fossero, a che turbine folle e pazzesco corrispondesse la sua vita.
«Non riesco a controllarmi, non ho pieno controllo su di me, non oggi» le mani
erano chiuse in un pugno che si strinse ancora di più, conficcando maggiormente
gli artigli da licantropo che aveva in dotazione nel palmo, infierendo sulla
ferita già creata e facendo sgorgare nuovo sangue.
Stiles le aveva notate precedentemente, le
falangi erano fin dall’inizio sporche di liquido vermiglio quando era arrivato
da lui, le unghie erano già conficcate e Derek stava cercando di non farsi
sopraffare dalla sua parte animale. Il
dolore rende umani. «Lo so, non è un problema. Possiamo risolverlo» le mani
si separarono dal volto del mutaforma e si andarono a
dedicare alle sue, toccandole con un movimento soffice ed inserendosi tra loro
con le dita, trovando il modo di farle aprire lentamente, permettendo agli
artigli di liberarsi dalla carne e di non infierire più, facendo combaciare i
loro palmi ed intrecciando le falangi. Gli arti di Stiles erano tutti sporchi
del sangue di Derek.
«Perché devi sempre essere fuori
dall’ordinario?» la domanda di Derek era legittima e vera, sentiva davvero il
bisogno di chiederglielo, di avere una risposta, era qualcosa che sembrava
turbarlo nel profondo e da tempo.
Stiles lo guardò dubbioso, forse perché era
concentrato nel trovare una soluzione e perché dopotutto si trovava davanti ad
un lupo mannaro. Uno vero, con tanto di artigli e denti, pieno di peli e con il
ringhio facile. Uno vero che poteva toccare, con cui poteva conversare – anche
se non era proprio il momento più adatto – e da cui poteva apprendere molti
segreti; non uno di quelli che popolava i suoi libri, quelli da cui aveva
appreso tutto e che in quell’istante gli stava tornando stranamente utile,
anche se non sapeva quali delle tante cose che conosceva fossero veritiere.
Come poteva essere lui quello fuori dall’ordinario se si ritrovava davanti ad
un licantropo in carne ed ossa? «Per sorprenderti e conquistarti» ammiccò con
ironia melensa, regalandogli un occhiolino giocoso.
Le dita di Derek si strinsero alle sue e Stiles
sentì la pressione aumentare ed il dolore che lo attraversava, ma serrò forte
le palpebre, arricciando le labbra senza protestare. «Peggiorerà, Stiles» lo
stava rimproverando, era evidente, mettendolo allo stesso tempo in guardia,
rabbuiandosi per quello che gli stava provocando.
Il figlio dello sceriffo scosse la testa,
irremovibile sulle sue decisioni. «Devi solo concentrarti sulla tua àncora».
Le iridi di Derek si illuminarono come mai
quella sera e la stretta vacillò, si sarebbe disfatta se Stiles non l’avesse
tenuta in piedi. «Cosa credi che abbia fatto finora?» era spinoso ed irritato,
ma era chiaro che la domanda fosse un’altra, indelebile nei suoi occhi: come puoi saperlo?
«Sì, giusto, hai ragione. Ma non funziona»
l’occhiataccia che ricevette dal lupo fu eloquente ed infastidita, era ovvio
che non funzionasse, altrimenti sarebbe andato tutto bene.
Che cosa avevano? Cosa potevano usare che andasse
bene e potesse aiutarli?
Le dita si strinsero, legandosi ancora di più,
ma non avvertiva alcun dolore, perché Derek si stava reprimendo, di nuovo.
Poteva ancora sentire il sangue su di sé e le ferite che non sembravano
intenzionate a rimarginarsi. Non andava bene, per niente. Derek doveva
ritornare ad averne il controllo. «Concentrati su di me».
Il licantropo lo guardò come se lo incontrasse
per la prima volta e fosse un folle da cui era meglio tenersi alla larga. «Sei
un aspirante suicida?».
«So che puoi farlo» negò vistosamente il
sedicenne, avvicinandosi di un ulteriore centimetro, evidenziando quanto ci
credesse. «So che non mi toccherai, che non permetterai che mi accada nulla».
«Posso ucciderti, senza che tu te ne accorga»
era veritiero, i fatti dimostravano esattamente quella prospettiva, la mancanza
di padronanza dell’altro gli suggeriva allarmatamente di fuggire ed andare il
più lontano possibile.
«Non lo farai» ma era difficile avere la meglio
sulla testardaggine di Stiles, quasi impossibile.
«L’ho già fatto» il ringhio era impetuoso e
ridondante e la rabbia era funesta e spaventosa.
«Mi fido di te, Derek» proferì come unica
verità, ineguagliabile conoscenza. «Mi fido di te e non ti lascio» slegò la
mano destra, quella dove emergeva l’anello che li univa, e la poggiò sulla
guancia del lupo, con il metallo che veniva a contatto con la pelle,
concedendogli di avere una presa leggera su di lui che gli permettesse di far
congiungere le due fronti, di fargli sentire la sua completa presenza ed il
totale credo che gli riversava. «Non ti lascio».
Non fu una notte tranquilla, fu tortuosa e
senza fine, con alti e bassi continui; fu la notte più lunga che avesse mai
vissuto – e di notti orribili ne aveva conosciute tante –, rimanendo per quanto
ne avesse le facoltà in quella posizione, a sussurrare continue parole che
calmassero l’animo di Derek, a limitarsi semplicemente a fargli percepire tutto
se stesso, la sua persona. A non abbandonarlo mai.
Le ferite si rimarginarono sotto il suo tocco,
il sangue sparì completamente, rimanendo testimone solo nelle mani di Stiles e
dopo ore intere ed interminabili, crollò, esausto e con la mente completamente
devastata di pensieri.
Ebbe l’impressione che Derek l’avesse seguito,
ma la mattina, quando il sole era già alto e la sveglia era prossima a suonare,
si ritrovò disteso nel suo letto, perfettamente accomodato e rimboccato fino
alla punta del naso; le mani erano completamente pulite e l’odore del lupo era
tutto su di sé.
Più in là, alla sua destra, proprio dalla
finestra, era individuabile uno spiraglio lasciato aperto, un pollice di
differenza, ma Stiles era così protetto dalle folte coperte che lo riscaldavano
completamente, che non percepiva il piccolo soffio d’aria fredda che penetrava
nella camera.
Ma qualcosa lo disturbava e lo lasciava
inqueto.
Non era l’essere entrato a conoscenza della
vera natura di Derek, dell’esistenza del sovrannaturale e dei lupi mannari, ma,
come quando si rese conto che il mutaforma conosceva
il suo nome e le piccole cose che aleggiavano intorno a lui e che si lasciava
sfuggire, Derek Hale conosceva la perfetta ubicazione di casa sua. Derek Hale
sapeva dove abitava.
Sentì l’insano e rassicurante bisogno di
nascondersi radicalmente sotto le coperte, tirandole fin sopra la testa per
sprofondarvi totalmente, fuggendo dalla luce solare e da tutto quello che
rappresentava, sospirando devastato e sopraffatto, avvertendo una fitta
all’altezza del petto ed ignorando la sveglia che prese a suonare
ossessivamente, bucandogli i timpani.
Gli diede le spalle, facendo scivolare il
cuscino al suo fianco e stringendoselo forte contro, portandosi in posizione
fetale e serrando le palpebre, divenendo sordo alla verità.
Ebbene sì, la vera natura di Derek, tanto
sospettata da Stiles, è stata svelata ed è reale.
Devono essere davvero poche le probabilità
in cui Stiles sia così fortunato da incontrare una delle creature di cui si
ciba con i suoi libri e immaginario ammesso; ottimo lavoro, Stiles. Forse,
però, un po’ te la sei cercata.
Tornando all’inizio del capitolo, sì, Stiles
è intrattabile e guerriero e questo spaventa parecchio Lydia, perché il lato
oscuro di Stiles esce soltanto in determinati momenti e in quelli più
inaspettati e certo, non avrebbe mai pensato che potesse mostrarsi proprio
nella direzione di Derek Hale. Il che ha una certa implicazione davanti ai suoi
occhi.
Di conseguenza tutto gira intorno al
malcontento ed a tutto quello che Stiles non esprime a voce e che Lydia
comprende e che Stiles non vede o non accetta.
Le sue ragazze preferite riescono a
conquistarlo in fretta, a loro modo, ma perdono nettamente davanti al mistero
che rappresenta Derek Hale e il cercare di accertarsi che tutto vada bene.
Forse per ricambiare il favore? O forse semplicemente perché quello è Stiles e,
in un modo o nell’altro, sia lui che Derek sono quasi costretti ad inseguirsi,
come se fosse un bisogno fisiologico. Mi chiedo dove potrebbe mai portarli
tutto questo e fin dove possa spingersi.
Ma la vera domanda è: quanto potrà incidere
la vera natura sovrumana di Derek nel loro rapporto?
A venerdì, nella speranza di avere qualche
delucidazione,
Alla fine la sveglia fu zittita dallo sceriffo
che entrò diversi minuti dopo, spalancando la porta e sbraitando qualcosa su
rumori molesti e crimini perseguibili, sulle orecchie che gli stavano
esplodendo e sull’inaffidabilità del figlio, soprattutto sull’impossibilità che
Stiles non l’avesse sentita per tutto quel tempo.
Ma Stiles non riemerse nemmeno quando fu spenta
e l’uomo rimase interdetto e senza parole, osservando la figura che rimaneva
raggomitolata sotto le coperte, senza che un solo accenno venisse fuori. «Stai
bene?».
Il ragazzo si morse le labbra, sopprimendo quel
sospiro burrascoso che gli invadeva la gola. «Sì» la risposta fu accompagnata
da un cenno appena visibile, che fece muovere a stento le coperte, ma che non
si scossero, rimanendogli incollate. A proteggerlo.
Lo sceriffo lo guardò dubbioso, poco convinto
da quella risposta pacata e senza la solita vitalità a caratterizzarlo; non che
Stiles fosse immune all’annebbiamento mattutino, ma era in grado di sovrastarlo
e gestirlo. Era, però, sicuro che in quel momento ci fosse qualcosa a bloccarlo
ed il fatto che si nascondesse sotto il piumone sosteneva la sua tesi. «Sei
sicuro?».
Stiles abbracciò d’istinto il suo cuscino, più
forte di quanto non avesse fatto in quei minuti e durante il suo risveglio,
premendogli contro la testa come se potesse liberarlo. Sarebbe rimasto in
quella posizione per ore, nascondendosi alla luce del mondo e alla valanga di
pensieri disturbanti che gli inquinavano il cervello. «Sì, papà. Va tutto bene»
dovette prendere coraggio per uscire dal suo antro protettivo, abbandonare il
conforto dato dalle lenzuola, ripiegare le coperte e far emergere la testa per
sottolineare quanto fosse vera la sua affermazione e sfuggire
all’interrogatorio del padre. «Non ho dormito molto».
L’uomo sembrò tranquillizzarsi quando incontrò
gli occhi assonnati del figlio, per quanto fossero già vigili e coscienti di
primo mattino, ma anche quella era una sua caratteristica data
dall’iperattività e dal suo modo di relazionarsi con l’universo. «Sei rientrato
tardi? Non ti ho sentito».
Nemmeno lui si era sentito. Non aveva la più
pallida idea di come ci fosse arrivato e quando, di come avessero fatto ad
entrare dalla finestra senza emettere un solo rumore. Derek doveva saper
gestire bene le sue abilità da licantropo e se c’era qualcosa di positivo in
tutto quello, era la conferma che fosse riuscito a riprendere il controllo di
sé, non cedendo agli istinti animali e alla trasformazione che sembravano avere
la meglio.
Dio, Derek era un lupo mannaro; uno autentico, uno che poteva staccargli la
testa come niente ed invece si era abbandonato a lui, alle sue mani e alle sue
parole. E l’aveva perfino riportato a casa senza un solo graffio, ripulendolo
dal proprio sangue ed adagiandolo sul letto senza svegliarlo. «Ero abbastanza
cotto, sono crollato subito» disse con evidenza, indicando gli abiti della sera
precedente che ancora indossava – gli aveva persino tolto le scarpe.
La sua non era nemmeno una bugia. Aveva passato
l’intera notte con Derek sul tetto della loro scuola, a farsi sentire in ogni
modo possibile, a trasmettergli la totale fiducia che aveva in lui ed aveva
accantonato la paura nel momento in cui aveva capito cosa in realtà fosse, la
creatura che rappresentava ed il mondo del sovrannaturale che si mostrava a
lui, facendo subentrare l’ansia e la preoccupazione nei suoi confronti, la
certezza che avrebbe dovuto fare qualcosa, senza scappare dagli incubi delle
persone comuni.
Era rimasto con Derek per ore infinite, quelle
più scure e fredde, e se non fosse stato circondato dal calore emesso dal lupo
mannaro, sarebbe congelato senza possibilità di fuga.
«Va bene» proferì convenevole e comprensivo lo
sceriffo, perché conosceva abbastanza bene quelle occasioni in cui Stiles si
stremava così tanto da non connettere più, poggiandogli una mano sulla fronte e
scompigliandogli i capelli – una mano amica, soprattutto quella di suo padre,
era quello che serviva a Stiles in quel momento. «Ma ti conviene alzarti se non
vuoi fare tardi e questa volta non ti abolirò nessuna multa per eccesso di
velocità».
«M-mh» mormorò il
sedicenne, godendosi quella piccola attenzione e chiudendo gli occhi per
assaporarla completamente –poteva evadere totalmente, poteva dimenticare Derek Hale e le
verità schiaccianti che si abbattevano intorno a lui ogni volta che il mannaro
diceva o faceva qualcosa in sua direzione –, ma fu un attimo fugace. Multa. Eccesso di velocità. Auto.
Dov’era la sua auto? «Forse dovrai darmi un passaggio».
La mano dell’uomo si allontanò, lasciando
scoperto il suo unico figlio. «Perché?».
Grandiosa domanda. Certamente Derek non aveva potuto pensare anche a quello; probabilmente
era ancora nel parcheggio della scuola, esattamente dove l’aveva lasciata. «Ho
prestato la Jeep a Scott; sai, un po’ di galanteria ogni tanto con Allison non
gli fa male. Non può vivere facendosi scarrozzare da me o lei e purtroppo per
noi, Scott ha una buona spalla che si sacrifica per lui».
La parlantina di suo figlio era decisamente
tornata, come tutti i giri di parole che facevano confondere la gente. «E tu
come sei tornato?».
Sulla spalla di un lupo mannaro con problemi di autocontrollo. «Lydia, sì, con grande scontento e vari sbuffi
poco graditi da parte di Jackson».
«E lui non ha bisogno di fare il galante?»
domandò retoricamente l’uomo con occhio critico, indagando con discrezione e
conoscendo perfettamente i pensieri della sua progenie.
«Pff, figurati»
proferì annoiato e seccato, agitando pigramente un braccio. «Avrebbe bisogno di
un corso di buone maniere, ma sa come tenersela stretta».
Lo sceriffo indugiò appena, conoscitore dei
sentimenti che suo figlio provava per la ragazza dai capelli rossi – biondo fragola, papà! – e dell’astio che
riversava contro Jackson Whittemore, la gelosia che
con gli anni era cresciuta insieme all’insoddisfazione e alla profonda
tristezza.
Non era stato facile per Stiles rincorrere
qualcuno che non riusciva a vederlo minimamente, che a stento sapeva della sua
esistenza – anche se per anni l’aveva ignorata – e che non riconosceva
minimamente. Ma non era stato altrettanto facile quando il cambiamento avvenne
e la conoscenza arrivò, l’inizio della loro amicizia e il ruolo di migliore
amica che lei si era ritagliata, imponendolo senza che Stiles potesse ribattere
e meditarci su.
Stiles era rimasto destabilizzato per diverso
tempo, senza capire a pieno cosa fosse successo e cosa fosse mutato, come
avesse fatto a non accorgersi del cambiamento e come si fosse trasformato da
uno spasimante incallito, con l’abilità di essere un osservatore attento e
acuto – si dice stalker, Stiles –, al
prolungamento del suo cervello, entrando a far parte completamente della sua
vita. Non avrebbe mai risolto l’arcano, ma Stiles gli sarebbe stato sempre
devoto. «Allora datti una mossa» disse semplicemente, tirandogli le coperte per
gioco e lasciandolo al freddo della stanza, uscendo come se nulla fosse dalla
porta.
Stiles fissò il punto dove sparì suo padre e
prese un profondo respiro, gettando la testa all’indietro e puntando le perle
ambrate sul tetto immacolato.
Era completamente incapace di reagire con il
turbine disturbante di pensieri che gli girava per la testa, ma dal cellulare,
dentro la sua tasca – insieme alle chiavi dell’auto –, provenne il suono
dell’arrivo di un nuovo messaggio e lo estrasse con lentezza, non
particolarmente interessato dal mittente – che non era nient’altro che Scott,
come ogni mattina –, fissandolo con non curanza e adagiandolo sul comodino
quando ebbe il coraggio di alzarsi ed affrontare la giornata.
I suoi occhi caddero sulla finestra lasciata
lievemente aperta e la guardò per così tanto tempo da perdere ogni cognizione,
sfiorando appena con la punta delle dita il bordo di legno e picchiettando
incerto con l’altra mano sul davanzale.
Dovette tornare completamente padrone di se stesso per farsi forza ed abbassare il vetro, chiudendo
l’imposta e lasciandola dietro di sé.
La sua preziosa auto, la sua bambina, era
esattamente dove l’aveva lasciata la sera prima, impeccabile e senza un graffio
e lo reclamava a gran voce, offesa per averla abbandonata lì tutta la notte. Ma
era meglio averlo fatto, che essere vittima della guida di una creatura della
notte che non riusciva ad avere padronanza di sé.
Padronanza di sé. Derek stava bene?
Non si rese minimamente conto di quanto
velocemente quella giornata scorresse, dell’impossibilità che gli si era
presentata nello scorgere il mannaro tra la folla, cercando il suo viso, i suoi
occhi; accertarsi che andasse tutto bene.
L’unica cosa che lo rasserenò fu la
tranquillità di Erica che prestava particolare attenzione al capitano della
squadra di basket, sembrava sollevata e meno apprensiva di quanto non fosse
apparsa quella sera, ma per quanto Stiles fosse rimasto ad occhieggiarli tra i
corridoi con tutta la discrezione che possedeva e che forse non voleva nemmeno
nascondere, Derek non aveva mai alzato lo sguardo su di lui ed aveva proseguito
la sua mattinata scolastica senza impedimenti o indugi. Lo sapeva, sapeva che
poteva sentirlo, ma il lupo lo ignorò comunque.
«Non sei più tornato ieri sera» elargì la rossa
quando lo raggiunse davanti all’armadietto, lo stesso dov’era rimasto davanti
per un quarto d’ora buono, senza muoversi e lasciando l’anta semplicemente
aperta.
Stiles la percepì appena, troppo concentrato
sul gruppo di quattro persone che stava al di là del corridoio, impegnati a
dialogare tra loro – cioè Erica, Derek era sempre impassibile ed Isaac
semplicemente disinteressato, appoggiato ad un armadietto qualsiasi, mentre
Boyd si limitava a rimanere al fianco della bionda. «Mh,
sono tornato a casa» ad un certo punto.
«Quando, esattamente? La tua auto era ancora lì
quando il concerto è terminato» accurò meticolosamente Lydia, fissandolo
attentamente ed intercettando a chi erano rivolte le sue attenzioni.
«Sul tardi» molto
tardi, aveva perso completamente la cognizione del tempo.
La ragazza metabolizzò l’informazione,
meditandoci su e lanciando un’occhiata furtiva alla direzione dove le iridi
ambrate di Stiles continuavano a tornare. «L’hai trovato, quindi».
«Sì, l’ho trovato» non aveva bisogno di
concretizzare o confermare la notizia che Lydia sembrava aver colto, ma non si
trattenne comunque dal farlo.
«E come sta?» stava diventando un po’
ripetitivo, Lydia si lasciava sfuggire spesso quella domanda, come se fosse
qualcosa di cruciale ed importante, come se potesse risolvere tutti gli arcani
del mondo. O quanto meno quelli che giravano intorno a Derek e Stiles.
«Sta bene, credo» soppesò mentalmente il figlio
dello sceriffo, partendo da una nota certa fino a sfumare ad una malferma.
Quello era sicuramente un passo avanti dopo le
settimane precedenti, dove vi era tutto tranne quella condizione. «E non te ne
sei ancora accertato personalmente?» era evidente, si vedeva dal comportamento
di Stiles, da come reagiva il suo corpo e da come fosse proteso totalmente
verso quello di Derek.
Stiles posò per la prima volta gli occhi su di
lei da quando le si era fiondata accanto ed avevano iniziato quella
conversazione a cui aveva prestato poca attenzione. «No, mi sta evitando».
Lydia ne rimase visibilmente sorpresa,
altalenando lo sguardo da una parte all’altra, tra le due figure dove vi era un
divario insostenibile. «Siete ridicoli, non è possibile. Vi date il cambio, per
caso?».
L’umano roteò gli occhi esasperato, quasi
immune alle parole della ragazza. «Ha le sue ragioni» proferì semplicemente,
poco propenso a voler fornire dettagli. «E va bene così».
Le perle di smeraldo si ingrandirono stupefatte
ed era come se Stiles fosse a conoscenza di qualcosa, qualcosa di profondamente
intimo e prezioso per Derek, qualcosa che non poteva essere divulgato, ma
protetto. Qualcosa a cui Stiles non avrebbe mai dato voce. O forse erano molte
di più. «Per ora».
Il quartetto si allontanò sotto le gemme
ambrate, con Erica visibilmente entusiasta aggrappata al braccio del playmaker
e sotto il suo sguardo scocciato, ma da cui lei non si sarebbe separata. «Posso
lasciargli un margine di tempo».
La sera arrivò cogliendolo irrequieto e Stiles
sentì il bisogno di affacciarsi per osservare la luna piena che si mostrava,
magnifica e bellissima come il giorno precedente, ma appariva meno imponente,
meno maestosa, come se avesse compiuto l’incarico che si era prefissata e che
aveva portato a compimento.
Era sciocco, ridicolo, ma non riusciva a
togliersi quell’idea pazzesca dalla testa, come non riusciva a distogliere lo
sguardo dalla sfera luminosa. Ebbe perfino l’impressione di sentire un ululato
in lontananza ed altri in risposta, e la sua ansia e preoccupazione crebbero
all’unisono, perché l’unica cosa che riusciva a pensare era in che condizioni
fosse Derek, se stesse bene e se l’episodio della scorsa notte fosse solo
passeggero, che non avrebbe portato ad un’ulteriore ricaduta ed a varchi
insuperabili.
Ma tra quegli ululati non vi era quello di
Derek, ne era quasi certo, avrebbe potuto scommetterci su – con quali prove? –,
come la convinzione che non fosse con il suo branco.
Dov’era?
«Dove sei, Der?» domandò in un mormorio ad una
stanza vuota, con il fiato caldo che si scontrava con il vetro freddo della
finestra a ghigliottina, creando un velo sottile di condensa. «Stai bene?».
Quando tornò tra le sue coltri, immergendosi
nelle lenzuola e coprendosi – le stesse con cui Derek si era preso cura di lui
meno di ventiquattro ore prima –, avvertì una risposta sottile, una sensazione
morbida che partiva dall’anello, la stessa che provava quando il lupo mannaro
era nelle vicinanze.
Ebbe l’illusione che fosse lì con lui, da
qualche parte, per rassicurarlo e tranquillizzarlo.
O forse era Derek stesso ad averne bisogno.
Il suo margine
di tempo scadde proprio il giorno dopo, la pazienza e l’attesa non erano le
doti migliori che lo caratterizzavano, anche se aspettava la stessa ragazza da
otto anni.
Per tutta la mattinata scolastica, come quella
precedente, Derek non diede alcun segno di notarlo o qualunque altra cosa ed a
Stiles non rimaneva che guardarlo da lontano, cercando di capire se fosse una
sua impressione o se stesse impazzendo del tutto.
Aveva una sola idea ed una sola possibilità per
intercettarlo, se l’avesse lasciata sfuggire non sarebbero mai tornati indietro
e Stiles avrebbe dovuto tenere quel segreto per sé per sempre, senza nemmeno
poter proferirne parola con lui.
Quando le lezioni volsero al termine e ciò che
rimaneva erano soltanto i vari laboratori e gli allenamenti giornalieri delle
squadre, non gli restò che aspettare dove sapeva avrebbe trovato il playmaker,
senza che avesse una reale scusa per non presentarsi e sviarsi da lui.
Stiles aspettò per quasi mezz’ora appoggiato al
muro del corridoio ombrato che dava sugli spogliatoi della squadra di basket,
con lo zaino buttato per terra ed il picchettare continuo delle dita sulle
tasche per la noia e l’agitazione.
Era ironico e burlesco, gli aveva intimato di
non immischiarsi, di non immergersi nella faida che le sue ragazze stavano
creando con lui, di stare praticamente fuori dalla sua vita – era implicito,
gli era sfuggito, non lo pensava nemmeno – ed adesso stava disubbidendo alle
sue stesse parole e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era proprio il lupo.
«Mi stai tendendo un agguato?» era una domanda
buttata nel vuoto, qualcosa che doveva semplicemente rompere il silenzio e
richiamare Stiles dai pensieri in cui era caduto; onestamente a Derek non sembrava
interessare un granché, ma pareva molto infastidito e nemmeno tanto sorpreso di
trovarselo lì.
Derek arrivava sempre prima di tutti gli altri
agli spogliatoi, una delle sue tante abitudini che l’umano aveva imparato a
registrare stando al di là del bordo campo, e gli altri lo raggiungevano molto
più in là, prendendosela comoda.
A differenza di Stiles, Derek aveva bisogno di
silenzio e di tempo per se stesso e quello era
soltanto uno dei modi con cui poteva ottenerli.
Quasi saltò in aria quando la sua voce lo
riportò nel mondo reale ed i suoi occhi ambrati si voltarono subito per
incontrare quelli di giada, per accertarsi che fosse proprio lui, che fosse lì
e che non stesse fuggendo – da lui? Improbabile. «Non ne sarei capace, dovresti
essere tu l’esperto» il sarcasmo ilare che rendeva il figlio dello sceriffo
quello che era difficilmente faticava ad affiorare e sapeva sempre dove
colpire, anche se Derek riusciva a gestirlo al meglio.
«Lo sono, infatti» disse tagliente il moro, con
l’aspetto da predatore che viveva in lui.
Sottile minaccia, sì, il sedicenne poteva
riuscire a percepirla senza difficoltà ed il mannaro poteva portare chiunque a
credere di essere caduto in un tranello – avrebbe potuto farlo –, ma il modo
con cui gli stava tenendo testa, senza abbassare il capo e distogliere lo
sguardo, sembrava consumargli molte energie. Era così difficile guardarlo?
«Continuerai ad evitarmi?».
Le iridi verdi brillarono appena, come se
fossero state stuzzicate dalla sua domanda e le pupille si dilatarono
impercettibilmente. «Sai cosa sono, non c’è altro da aggiungere».
Non era proprio la risposta che si aspettava,
era consapevole che sarebbe stato liquidato immediatamente, senza aggiungere
chissà quali parole o creare una situazione di stallo, ma il modo in cui il
licantropo riusciva a tagliarlo fuori lo angustiava un po’ e non lo liberava
dalle sue preoccupazioni. «C’è ancora la luna piena».
Il diciottenne lo guardò in modo strano, un
modo che Stiles non riuscì bene ad identificare – che avesse detto qualcosa di
sciocco? Di sbagliato, prendendo un enorme abbaglio? «La luna piena dura
soltanto una notte».
«Sì, è vero, ma…» una volta al mese la luna si
mostrava nella sua forma completa, durava soltanto un millesimo di secondo –
anche meno –, ma i suoi effetti persistevano per molto più tempo e ad occhio
umano manteneva quella forma per qualche giorno; quattro, per l’esattezza –
tre; la notte prima dell’effettiva luna piena non contava. «Oggi ha il 98% di
visibilità e credo abbia comunque degli effetti su di voi».
Derek apparì meravigliato e stupito, quasi come
se non avesse calcolato che Stiles fosse in grado di avere accesso a quelle
informazioni o anche la sola curiosità di consultarle. Ma le aveva addirittura
apprese e sapeva sostenerle. «Nessuno ti strapperà la gola con i denti».
L’umano rabbrividì appena quando quella
rappresentazione fotografica entrò a far parte del suo immaginario – non era
difficile rendere protagonista di quell’azione Derek –, senza che la sola idea
l’avesse accarezzato, ma dopotutto si trovava dinnanzi ad un lupo mannaro ed
avrebbe dovuto metterlo in conto. «Non è questo che mi preoccupa».
Derek raddrizzò le spalle e le riportò
indietro, quasi scottato da quella rivelazione che l’attraversò in pieno. «Sei
preoccupato per me?» fu pronunciata a
metà di una domanda trattenuta, troppo assurda per essere anche solo pensata ed
ancora di più per prestarle voce.
Era così assurdo? Era così assurdo che pensasse
a lui in quel modo, che cercasse di trovare una soluzione e tentasse di
aiutarlo? Derek doveva viverla così male? «Potresti venire da me, a casa mia,
ed affrontarla insieme» forse lo era davvero, una volta data forma concreta ai
suoi pensieri.
«Hai idea di cosa stai dicendo? Di cosa stai
proponendo» lo riproverò il mannaro con voce pressante, facendo esaltare la
follia che andava comunicando. «Posso ucciderti in qualsiasi momento».
Stiles si sentì punto sul vivo, messo con le
spalle al muro ed accusato di essere un vero pazzoide suicida. Non gli piaceva
essere ripreso in quel modo. «Non rifilarmi la solita manfrina».
Il capitano sospirò esausto, scrollando le
spalle ed avvicinandosi di un passo. «Tu vuoi chiuderti in una stanza non
attrezzata, con un lupo mannaro e la luna piena alta nel cielo».
Forse così suonava un po’ pazzesco e da veri
squilibrati, ma non aveva bisogno di Derek per sapere come stavano i fatti.
«Esattamente».
«Hai davvero istinti suicidi» sentenziò il
licantropo in conclusione, ma non suonava affatto come una risposta positiva ed
appariva sempre più propenso a non avvicinarsi troppo.
La conversazione sembrava essere terminata,
proprio lì, proprio con quelle parole e loro non avevano più alcun motivo per
intraprendere qualsiasi tipo di interazione o qualsiasi altra cosa che potesse
legarli. Ma non era Stiles a mettere dei paletti e dei muri chilometrici che
avrebbero dovuto separarli, senza neppure dare la possibilità di guardarsi ed
adocchiarsi, nessuno sguardo accidentale di sfuggita. Forse era proprio quello
che Derek voleva, far cessare qualsiasi rapporto tra loro e non doverlo
guardare; d’altronde non l’aveva evitato per due giorni per niente, senza
essere capace di alzare gli occhi sui suoi. Era della sua natura che si
vergognava? Del fatto che si fosse mostrato per quello che era? O semplicemente
di essersi fatto scoprire, per poi essere stato aiutato proprio dall’essere
umano più fastidioso dell’intero istituto?
Aveva svelato il suo mondo, non era qualcosa di
poco conto e Stiles riusciva a capirlo, anche lui probabilmente avrebbe agito
di conseguenza, ma a differenza del lupo, nessuno doveva strappargli le parole
di bocca. «Hai paura che sveli il tuo segreto? Che non sappia mantenerlo?».
Derek intercettò subito la sua voce, la
conversazione che era appena ripresa ed il timore della sfiducia che il figlio
dello sceriffo si sentiva addosso. «Sai mantenerli. Almeno quelli importanti».
Oh, eccolo di nuovo. Il Derek che sembrava conoscerlo così bene, che si
lasciava scappare le cose senza nemmeno rendersene conto; il lupo che aveva
prestato orecchio. «E allora cosa c’è che non va? Perché non riesci a
guardarmi?».
La testa del mannaro fece un unico scatto, uno
scatto in avanti per poi tirarsi indietro, colpito e preso in contropiede. La
rigidità del suo corpo si mostrò all’istante.
Non sei l’unico a saper osservare. «Der» chiamò piano e con parsimonia,
prestando ascolto ed aspettando con pazienza.
«Non sono un Alpha» disse come unica e sola
risposta, quella che gli avrebbe dato ciò che voleva, quella che lo
mortificava, ma che non poteva cambiare perché non era nella sua natura. Era
solo un Beta, un Beta dagli occhi blu metallici; gli occhi di un assassino.
A Stiles parve come se l’avesse deluso, come se
le sue aspettative e l’averlo sempre associato ad un grande Alpha fossero
andate in frantumi. Sembrava colpevolizzarsi di averlo ingannato, di non essere
come si era immaginato, affidandogli un ruolo a cui credeva ciecamente.
Pensava di avere un grande capo, un Alpha con
il comando, che sapeva prendersi cura del proprio branco, mettendolo al primo
posto e con dei grandi occhi infuocati, quelli che sembravano piacergli tanto.
Invece si ritrovava soltanto un lupo che valeva poco, che non figurava nemmeno
nei primi tre posti più vicini alla successione, e che aveva unicamente le mani
sporche di sangue, sangue innocente.
Stiles agì d’istinto, non poteva proprio vedere
quello sguardo che fuggiva da lui, che si puniva per qualcosa che non aveva
nemmeno fatto, per delle aspettative che non erano mai esistite. Stiles vedeva
solo quello che c’era. «Lo sei» disse con totale convinzione, allungando il
braccio destro ed afferrandogli la mano che gli era di fronte e che ricadeva
abbandonata lungo il corpo. «Lo sei per me» proferì in una cantilena premurosa
che invase il nervo acustico del mutaforma, mentre
l’umano l’attirava a sé, portandolo sempre più vicino e toccandolo maggiormente
ad ogni attimo. «Sei un Alpha per me».
Derek era completamente soggiogato, abbandonato
nuovamente alle mani dell’umano che lo stavano vezzeggiando, intrecciando le
dita e limitandogli ogni via di fuga. Era lui il predatore, era compito suo
mettere alle strette gli altri, ma la delicatezza e la testardaggine del figlio
dello sceriffo erano ineguagliabili e non gli permettevano alcuna salvezza.
«È solo una proposta, Der» soffiò con
raffinatezza ed accuratezza, incendiandogli i timpani e portandolo indietro.
«Puoi stare con il tuo branco, puoi affrontarla con chiunque vorrai e quando lo
desidererai» articolò con maestria, sottolineando punti cardine e le abitudini
che probabilmente il moro già possedeva. «Ma la mia porta è sempre aperta e
puoi raggiungermi in qualunque momento ne avrai bisogno. Devi solo sapere che
sono lì, per te».
Il lupo mannaro soppresse il respiro affranto
che gli bruciava i polmoni, rispondendo alla stretta che Stiles gli infondeva e
che accentuava. «Ti metterai in un mare di guai».
«Sono la mia specialità» ammiccò da vera volpe
predatrice, curvando le labbra nella piega che più la caratterizzava,
insinuandosi totalmente in lui. «Non farmi aspettare troppo».
L’attesa era l’ultimo dei problemi, perché da
Stiles Stilinski non si scappava.
La luna era già alta nel cielo, con la stessa
luminosità dei giorni precedenti ed agli occhi di Stiles appariva completamente
piena e tonda, ben sapendo che non era possibile. Era comunque il suo ultimo
giorno del mese in quella forma, poi avrebbe dovuto attendere prima di
rincontrarla. Come sarebbero state le cose per allora?
L’anello d’argento mandò una scarica tiepida
lungo il dito, scemando successivamente in tutto il corpo e poco dopo un tenue
rumore appena accennato gli arrivò all’udito.
Sorrise di sbieco quando aprì la finestra a
ghigliottina, piegando un gomito che premeva sul davanzale e poggiando una
guancia sulla mano aperta, curvando tutto il corpo. «Gentile da parte tua
passare di qui».
Derek lo guardò accigliato e per nulla convinto
delle sue scelte, perfettamente a suo agio in piedi su un tetto nel cuore della
notte. «Mi avresti dato il tormento».
Le labbra dell’umano si curvarono in una linea
felina, quasi ad accogliere e confermare quanto detto, come se non ci fosse
nulla di più vero. «Mi conosci proprio bene».
Il mannaro lo ignorò volutamente, sorpassando
alla velata allusione che lo stuzzicava oltremodo, sbuffando scocciato con
classe.
Stiles era davvero deliziato, quasi euforico e
vincitore, perseverando ad osservarlo dal basso della sua posizione con occhi
maliziati e sopraffini, senza togliere il sorriso da volpe furba che tanto lo
caratterizzava. «Cosa stai aspettando?» domandò quando lo vide ancora immobile
sul suo tetto, con le mani dentro le tasche del giubbotto di pelle nera e senza
accennare ad un solo passo verso la sua direzione. «Hai bisogno che ti inviti
ad entrare?» lo derise bonariamente, allargando il suo sorriso saccente e
pizzicandolo su ciò che gli dava fastidio. «Puoi entrare».
«Non sono un vampiro» lo riprese con assenza di
carineria, irritato dalle continue frecciatine dell’altro che lo associavano a
creature disgustose e che non avevano nulla da spartire con lui.
Il figlio dello sceriffo ridacchiò trionfale,
divertito ed orgoglioso del potere che aveva sul lupo. «Non ne sarei così
convinto».
Derek lo fulminò volutamente e severamente,
prima di attraversare la finestra una volta che il sedicenne si fu scostato,
lanciandogli un ulteriore invito a varcarla con un unico gesto della mano.
Stiles era già seduto a gambe incrociate in
bilico sul bordo del letto, ma sembrava mantenere l’equilibrio con calma
perfetta, incurante della totale mancanza di controllo del proprio corpo, come
se non esistesse il suo essere scoordinato per natura e fosse pronto ad
affrontare chiunque obiettasse su quello.
Derek era ancora restio ad avvicinarsi. Per
quanto avesse compiuto il grande passo di entrare in casa alla luce del sole e
con tanto di testimoni ed avesse accettato in silenzio la sua compagnia, gli
era ancora difficile completare il cerchio. Non aveva idea di cosa fare, perché
fosse lì, come avrebbe dovuto comportarsi. L’unica cosa che gli rimaneva da
fare, era restare esattamente dov’era in quel momento, un po’ spostato verso il
centro della stanza, ma più vicino alla finestra, come se fosse ancora in tempo
per tornare indietro ed uscire; come se potesse ancora scappare. Stiles non
l’aveva nemmeno chiusa, soltanto abbassata un po’, giusto perché fuori faceva
un freddo cane e lui non era propriamente immune alle basse temperature né
riusciva a gestirle come i licantropi.
«Non devi davvero farlo» esalò Derek di punto
in bianco, persistendo nel rimanere esattamente dov’era, senza accennare un
solo movimento che potesse scuoterlo.
Stiles notò come non si stesse guardando
intorno, lanciando occhiate furtive ad angoli casuali della sua stanza o
lasciando emergere un vago sentore di curiosità. Derek guardava solo lui,
esattamente davanti a sé, senza mai staccargli gli occhi di dosso o farli
scivolare giusto un po’; sapeva esattamente dove dovesse guardare e non è che
credesse alla sua natura interessata, stuzzicata appena dal voler conoscere chi
lo circondava – Derek era pur sempre un pezzo di ghiaccio indifferente –, ma
era qualcosa che stimolava il continuo girare dei suoi ingranaggi, senza che
potesse fermarli e non si cullava nella semplice spiegazione che il lupo fosse
entrato tra quelle mura esattamente quarantotto ore prima ed avesse taciuto la
sua parte non discreta – non che sapesse quanto tempo Derek fosse rimasto lì
dentro con lui –; era qualcosa di diverso, qualcosa al di là del coro, quasi
come se conoscesse già tutto quello che si trovava tra quelle pareti, a
menadito. «Voglio farlo».
«È stato soltanto un episodio isolato»
specificò e chiarì il mannaro, senza che volesse ci fossero fraintendimenti e
lui fosse così sciocco ed inesperto da non saper controllare la sua parte
animale, il suo lupo, il suo stesso io.
Aveva superato da tempo quel momento della sua
vita, quando la luna aveva completo controllo su di sé ed era quasi impossibile
reprimersi. Quando aveva bisogno di sua madre, il suo Alpha, o di suo zio per
imparare a controllarlo, facendo sacrifici immani ed urlando nel cuore della
notte per il dolore. Quando doveva stringersi a sua sorella maggiore che aveva
imparato a gestire la sua natura soltanto da poco e che cercava di spronarlo a
fare lo stesso. Quando lui stesso aveva presenziato alla lotta che Cora e Malia
avevano affrontato, identica, nel momento in cui era diventato sicuro di sé ed
il controllo gli scorreva nelle vene come sangue. Era lontano dall’essere un
lupo mannaro alle prime armi.
«Ne sono certo» Derek era un lupo, un lupo in
ogni suo aspetto; era quello che aveva sempre visto in lui. Stiles confidava
nella sua natura e nel suo essere, nell’avere completa padronanza di sé e
nell’aver affrontato un trauma così grande come quello della perdita di Paige,
che ancora si trascinava dietro e che in occasioni estreme lo faceva perdere.
Tutto quello che era accaduto due sere prima, era soltanto il connubio di più
fattori messi insieme, qualcosa che aveva fatto scattare la scintilla e che
aveva premuto lì dove la cicatrice non si era ancora sanata totalmente; era
bastato semplicemente un punto scoperto. Stiles non aveva alcun motivo per
giudicarlo.
Il lupo mannaro lo guardò ancora per un
momento, un lungo e prolungato momento, e Stiles arretrò, scivolando verso il
centro del materasso fino ad arrivare a poggiare la schiena semi curva sul
muro, lasciando l’altra metà del letto completamente libera e pronta per essere
occupata da chiunque volesse raggiungerlo.
L’esitazione di Derek la vide chiaramente,
insieme al groppo in gola che tratteneva e che poi ingoiò, seguito dal
movimento fluido del suo pomo d’Adamo. Dopo poco il mutaforma
lo seguì, togliendosi solamente le scarpe ed irremovibile dal disfarsi della
sua giacca di pelle.
Stiles non disse niente stretto nel suo pigiama
vissuto, si limitò unicamente a scostare le lenzuola dalla propria parte ed a
seppellirsi per metà, incitando l’altro a fare lo stesso.
Tra un movimento e l’altro, lento e calcolato,
alla fine entrambi furono sotto le coperte, con Derek coricato di schiena a
fissare il soffitto e Stiles posizionato di lato verso la sua direzione.
«Non mi chiederai nulla?» domandò il capitano
della squadra di basket quando il silenzio tra loro calò per troppo tempo.
«Dovrei?» chiese di rimando il padrone di casa,
sollevando appena il capo per posizionarsi meglio sul cuscino, dandogli la
possibilità di ampliare il suo campo visivo.
«Dovresti» sentenziò il mannaro con voce cruda,
senza alcuna possibilità di scampo e doveroso che dovesse conoscere come
stessero le cose.
«Goditi questo momento, Derek; ad un certo
punto sarai sommerso dalla mia sete di conoscenza» rivelò con leggerezza e quel
segno distintivo di divertimento, curvando appena le labbra verso l’alto.
Derek rilasciò uno sbuffo appena trattenuto,
dedicandogli un’occhiata di sbieco. «Esistono solo estremi con te».
«Io sono un estremo» convenne il sedicenne,
ammiccando deliberatamente ed orgoglioso del suo essere. «Lo sei anche tu».
«E a te sta bene, quello che sono, quello che
rappresento» suonava come una mezza domanda piena di consapevolezza, ma anche
come l’assurdità che una cosa del genere potesse essere vera e che Stiles non
avrebbe mai dovuto accettarla; soprattutto non con quella spiccata fiducia in
lui ed il suo essere così sereno.
Non era difficile capire a che cosa si stesse
riferendo, alla parola assassino che
si tatuava automaticamente negli occhi pieni di sensi di colpa e vergogna, con
tanta rabbia verso se stesso. «È solo un colore,
Derek. Pigmenti, chimica, una reazione che è accaduta, non rappresenta quello
che sei».
Derek fu accecato dalla certezza e dalla
concretezza che Stiles sapesse esattamente cosa indicava il colore dei suoi
occhi da lupo e per quanto ne avesse avuto un assaggio pochi giorni prima,
aveva ancora un forte ascendente quella consapevolezza totale. «È così che
funziona».
«No» asserì assoluto il figlio dello sceriffo,
allungando la mano destra per prendere quella dell’altro, l’incontro per la
prima volta dei due anelli gemelli che rilasciarono un tintinnio ultraterreno,
come se si fossero riconosciuti. «Tu combatti per dimostrare il contrario, per
non essere qualcuno che viene identificato da un colore, per non piegarti ad
una sete di sangue che potrebbe vincerti».
Il mannaro fu apertamente colpito dalle sue
parole e le iridi verdi si illuminarono appena, ma ricaddero subito nella
penombra, con la verità che si dimenava dentro di sé. «Sai così poco. Le tue
sono solo supposizioni».
Le dita di Stiles si intrecciarono a quelle di
Derek e gli anelli si toccarono e rimasero in contatto. «Non sbaglio mai un
colpo, Der. E domani potrai raccontarmi a monosillabi tutto quello che vorrai»
era un domani simbolico, Derek
avrebbe potuto non raccontargli mai la verità, non prendere mai l’argomento.
Stiles poteva perfino aver perso l’unica occasione in cui avrebbe parlato, ma
sarebbe stato forzato e pieno di dolore e non voleva che fosse così. Sarebbe
comunque stato dispendioso e la verità era che nessuno dei due era ancora
pronto per affrontare la realtà dei fatti, ciò che si sarebbero ritrovati
dinnanzi e senza sapere se fossero stati in grado di superarlo.
Stiles si limitava a vedere ciò che era messo
in vista, le azioni che Derek compiva ed il suo modo di rispondere al mondo. Al
momento non gli serviva nient’altro e non voleva cadere nello sconforto di non
poter essere di alcun aiuto al mutaforma, di non poter
tenere in piedi i pezzi che si andavano staccando. Non voleva vederlo crollare
e doveva tenersi in allerta per poter raccogliere i cocci. Almeno per quella
sera si sarebbe accontentato di condividere il letto con lui.
Derek rimase in silenzio per un attimo
incredibilmente longevo e poi le sue sopracciglia si contrassero. «Sarebbe la
tua buonanotte?».
Stiles soffiò una risata delicata, alleggerendo
e ripulendo tutta l’aria pesante ed irrespirabile che si era creata intorno a
loro. «Dipende. Ti troverò al mio risveglio?».
«Non credo» suonava molto di più come un te lo puoi scordare, ragazzino. Stiles
apprezzò comunque.
«Buonanotte» proferì in un sospiro morbido e
caldo, circondandolo tutto, portando le mani intrecciate in una trama
sconosciuta esattamente in mezzo a loro, ad equidistanza. «E buongiorno, lupastro».
Prima che Morfeo lo accogliesse completamente
tra le sue braccia e la coscienza di se stesso andasse
perduta, sentì Derek girarsi verso di lui, in un fruscio appena udibile e così
impercettibile da non far muovere le coperte dove si trovavano, ricambiando la
stretta alle dita.
Entrambi gli anelli rilasciano la dolce
temperatura tiepida che prendeva vita quando erano nelle vicinanze, annunciando
la presenza dell’altro, e fondendosi in un unico calore complementare che
emergeva soltanto quando erano insieme.
Non credo di avere molto da aggiungere,
insomma, Stiles è in bilico dal voler essere sordo a qualcosa che riguarda
Derek, ma dall’altra parte è del tutto reattivo ad ogni aspetto dell’altro,
tanto da dargli del tempo per assestarsi e comprenderlo, rimanendo un po’
ferito dal fatto che lo ignori. Ma siccome Stiles è Stiles, le sue parole
valgono molto poco quando ha ben altre intenzioni e quelle riguardano il
licantropo di cui ormai è a conoscenza. Quindi questo tempo che voleva
concedergli si è assottigliato notevolmente e… se lo porta a casa, nemmeno
fosse un randagio che ha trovato per strada ed a cui vuole dare un tetto sulla
testa.
E Derek, mh… Derek
sembra aver bisogno di quello, anche se vorrebbe tirarsi indietro, ma poi
resta, resta eccome.
Lo scorso venerdì non ho nemmeno avuto il tempo
di aggiungere qualche parola sull’inizio della sesta stagione di Teen Wolf e adesso siamo addirittura al secondo episodio e… il
tema dei ricordi, del cancellare una persona è qualcosa che mi tocca parecchio,
soprattutto considerando che gli ho dedicato un’intera storia lo scorso anno e
sì, voglio proprio vedere quanti frame avremo in tutta la stagione di Stiles.
La mattina successiva, quando le iridi
d’ambrosia si aprirono al nuovo giorno, incontrò il letto sfatto e vuoto; non
vi trovò nemmeno il calore restante. Si chiese da quanto tempo fosse andato
via.
Passarono due giorni prima che poté
adocchiarlo, sabato e domenica, ed un altro ancora per condividere le stesse
mura.
«Sei tornato» disse Erica con una nota onirica,
sul penultimo gradino che conduceva agli spalti prediletti dal figlio dello
sceriffo.
Stiles sollevò la testa dal libro di economica
su cui stava scribacchiando, aggiungendo annotazioni varie e bigliettini
colorati ed adesivi che ampliassero l’argomento, attaccandoli meticolosamente
nei posti corretti. «La routine mi reclamava» enfatizzò con un sorriso
affabile.
Erica lo guardò di traverso, inclinando appena
il capo e scrutandolo attentamente, era sicuro che potesse sentire ciò che
l’animava dentro. «Non ho avuto occasione di farlo, ma ti ringrazio per quello
che hai fatto per Derek».
Un brivido gli attraversò tutta la colonna
vertebrale e le immagini di quei tre giorni l’assalirono immediatamente,
insieme alla conferma di ciò che lei era ed erano forse anche tutti gli altri
che giravano intorno a Derek proprio come un branco. «Non ho fatto nulla».
«Hai fatto molto, più di quanto credi»
rettificò la bionda, certa e fiera delle sue parole. «Noi… non avevamo capito
in che condizioni fosse» appariva quasi rammaricata e combattuta, con una nota
speziata di risentimento verso se stessa.
«Sta bene» disse soltanto il sedicenne,
scacciando le brutte emozioni che la ragazza stava provando, prendendosela con
la sua stessa persona. «È un lupetto acido sorprendente».
Fu immediato, i loro occhi che si posarono
sulla figura che adempiva ai suoi allenamenti programmati, senza saltarne uno e
continuando ad essere d’ispirazione per la sua squadra; era tutto nella norma.
«Ai suoi occhi qualcun altro è sorprendente» Erica non si astenne dallo
spostare l’attenzione su di lui.
Stiles la percepì bene quell’attenzione nei
propri riguardi con una sfumatura che gli avrebbe tolto il fiato se non
l’avesse scacciata dalla mente. «La sua àncora funzionerà?» sviò con abilità,
incentrandosi su qualcosa che lo incuriosiva e preoccupava molto.
La lupa sgranò gli occhi e le pupille si
dilatarono coprendo quasi a metà le iridi castane. «Sai anche di quello?» che cos’altro sai? Quanto conosci?
Stiles riusciva a sentirle.
«Non dubito di Derek ed ho piena fiducia in
lui» così tanta da rimanere tutta la notte legato a lui, con la sua forma mezza
incompleta e con gli occhi blu che Derek tanto odiava. «Ma la sua àncora è
abbastanza forte?» l’aveva visto perderla, allentarsi e soffrirne per non
riuscire a prenderla, ad afferrarla, costringendosi a causarsi dolore fisico
per sostituirla e richiamarla. Forse quello che causava maggior dolore al
licantropo era la separazione che si stava creando con essa.
«L’àncora di Derek è tra le più forti
esistenti» dichiarò Erica con una profondità devastante, avvicinandosi di un
passo e concentrandosi su di lui, vedendolo tramutarsi. «Dubiti di questo?».
«Credo sia collegata ad una persona» al ricordo
di Paige? Alla sua persona speciale? «E non so quanto sia funzionale» non era
mai un bene quando un’àncora era legata ad una persona, l’aveva letto tante
volte nei suoi libri, era maledettamente facile che sfuggisse via.
La sorpresa in Erica era molto evidente, senza
che riuscisse a nasconderla e lo guardava per la prima volta con occhi nuovi.
«È vero, è così» confermò senza giri di parole, accostandosi a lui. «Ma è molto
più di questo. È quello che prova per quella persona, insieme al suo desiderio
di proteggerla» proteggerla dal mondo,
dal dolore e da lui stesso, Stiles riusciva a percepire la spiegazione che
continuava nel silenzio perpetuo. «Ma anche se è così forte, rendendola
speciale ed unica, può tentennare se si è in conflitto con se stessi ed aveva
solo bisogno di qualcosa che sanasse quella discordia» la voce soave gli invase
tutto l’apparato uditivo, arrivandogli dritta come una lama nel cervello.
«Aveva bisogno di te».
Le iridi di ambrosia si legarono a quelle della
lupa ed il sospetto crebbe così tanto che faticò notevolmente per cacciarlo
nelle retrovie, per non illudersi e cadere in qualcosa che in realtà non
esisteva.
Si sentì un tonfo più alto del solito, un
passaggio che Boyd stava mancando – e non ne mancava mai uno, creando il duo
perfetto Boyd-Hale – e l’attenzione di entrambi gli spettatori si incollò alle
due figure che si allenavano e all’ostinazione di Derek di non voltarsi,
irrigidendo le ampie spalle.
Boyd mandò un’occhiata di rimprovero alla bionda,
invitandola caldamente a tacere come se avesse parlato troppo e rimandando la
palla al capitano; lei non sembrò scomporsi, ma batté in ritirata. «Solo…»
provò prima di andarsene, indecisa e pensierosa, incidendosi il labbro
inferiore calcato di rossetto rosso. «Averti intorno gli fa bene, spero possa
ancora beneficiarne».
Stiles tamburellò sul libro con la parte
superiore della penna che teneva in mano, ondeggiando ad un ritmo preciso e
sconosciuto, appuntandosi qualcosa ad un angolo della pagina che stava
studiando. «Sa quello che deve fare».
Le pupille nere di Erica serpeggiarono dall’uno
all’altro, cercando chissà quale segreto tra loro che le stavano omettendo e
poi fu colta da un dettaglio che fino a quel momento aveva scartato. «Non hai
paura di noi» era tornato dopo che aveva scoperto la natura di Derek, che aveva
dato per scontato anche quella di chi lo circondava, non si reprimeva né li
evitava ed invece, instaurava delle vere e precise interazioni con loro, mettendo
in campo le nozioni che possedeva sulla licantropia. Manteneva il segreto e si
lasciava circondare dalla loro presenza.
Il figlio dello sceriffo era quasi sicuro di
aver affrontato quell’argomento, di aver già rassicurato chi gli aveva posto un
simile quesito, ma d’altronde si era dedicato solo a Derek su quel fronte.
«No».
La certezza e la sicurezza dell’umano le
alleggerirono il cuore ed una sorta di speranza crebbe esponenzialmente. «Non
potevi essere che tu» disse più a se stessa che al suo interlocutore, curvando
le labbra scarlatte in un sorriso incoraggiante, voltandogli le spalle nello
stesso medesimo momento e scendendo le scale degli spalti, ritornando a
bordocampo.
Stiles non aveva idea di cosa stesse parlando.
Stiles trafficava dentro il suo armadietto
personale, spostando libri da una parte all’altra e vari quaderni pieni fino
all’ultima riga, comprese le copertine dal lato colorato, e buttando gli
oggetti senza importanza dove capitava; non era mai stato tanto disordinato, ma
per quanto cambiasse le loro posizioni, prendendoli in mano ed esaminandoli,
mettendoli di lato e trovandogli nuove ubicazioni, non riusciva a trovare
quello che stava cercando e ci aveva lavorato così tanto il giorno prima –
giusto mezz’oretta scarsa con interruzioni varie e distrazioni annesse, ma a
Stiles bastava eccome ‒ e non poteva proprio inimicarsi troppo il
professore di economia, nonché coach della squadra di lacrosse, perché ne
avrebbe risentito durante gli allenamenti, in qualche modo; aveva abbastanza
pensieri per la mente e gatte da pelare per tenere testa anche a lui.
«Sei proprio un disastro ambulante» disse una
voce con vile sarcasmo, irrompendo nella sua ricerca e distraendolo così tanto,
prendendolo alla sprovvista, da tentare con scarso successo di non far cascare
tutto quello che teneva in bilico dentro il suo armadietto; alla fine perfino
il suo zaino messo precariamente su una spalla raggiunse il pavimento
dell’istituto scolastico e ricevette un’occhiata che confermasse quanto detto
prima.
«Smettila di attentare alla mia vita, Derek!»
esclamò piccato e con risentimento, afferrando tutto quello che era riuscito a
bloccare con la caduta della cartella, infilando tutto alla meno peggio dentro
l’armadietto.
Derek se la rise sotto i baffi, compiaciuto e
fiero di se stesso, allungandogli un libro a cui Stiles non aveva nemmeno
rifilato uno sguardo. «Se proprio devi studiare in palestra, non disseminarla
delle tue cose».
Stiles lo guardò senza capire, abbassando gli
occhi verso il tomo che gli veniva offerto e che la sua mente registrò
immediatamente, riconoscendo l’oggetto della sua faticosa e lacera ricerca.
«Sono salvo» proferì con sollievo, accettando il libro di economia che gli
veniva riconsegnato e guardandolo ancora con incredulità.
«Il tuo posto fisso come scaldapanchina
è assicurato» lo derise con sopraffino divertimento, quello nascosto sotto la
sua facciata impassibile e che concedeva a pochi eletti; ergo Stiles Stilinski.
Il figlio dello sceriffo gli rifilò un’occhiata
torva e poco amichevole, aprendo il volume e facendo scorrere le pagine sotto
le dita, prendendo quella da cui aveva studiato il pomeriggio prima durante gli
allenamenti di basket e ritrovandola esattamente come l’aveva lasciata, con le
sue annotazioni ed i foglietti colorati incollati con gli ulteriori
approfondimenti. Era un lavoro minuzioso e prezioso, com’era tutto quello che
faceva. «Quindi dov’era, tra gli spalti?».
«Sì» confermò il lupo mannaro, poggiando appena
una spalla all’anta di metallo che confinava con quella di Stiles. «Non è la
prima volta, dovresti fare più attenzione alle tue cose».
Mh, era vero, nell’anno precedente ed in quello
attuale spesso dimenticava le cose in palestra, esattamente nel posto nel quale
aveva studiato durante le ore in cui si radunava la squadra di basket, ma
solitamente era Erica a riportarglieli indietro, quella svolta aveva
dell’incredibile e gli metteva una nuova pulce nell’orecchio. «Erica tende a
distrarmi» si giustificò, come se quello contenesse tutte le spiegazioni del
mondo e fosse legittimo che accadesse.
«Ho una vaga idea di quanto ti distragga» lo
fulminò sul posto il licantropo, con una sfumatura pressante ed allusiva.
L’umano arrossì senza controllo, ben
consapevole che quel pomeriggio lui ed Erica si fossero concentrati
esclusivamente sulla persona del playmaker, dando vita a parole e fatti che
dovevano rimanere secretati ed aveva il vago sentore che il suo attuale
interlocutore li avesse ascoltati. «Scusa».
Derek si accigliò, guardandolo con fare
interrogativo. «Perché ti stai scusando?».
Il sedicenne spostò lo sguardo da lui al suo
libro di economia, stringendoselo di riflesso al petto. «Abbiamo parlato di
te».
«Quindi?» incalzò il capitano, innalzando un
sopracciglio con eloquenza.
«Forse abbiamo parlato troppo e sono emerse
cose che magari non volevi emergessero» annunciò in una cavalcata di parole
agitate, una sopra l’altra, facendo nascere nuovo scompiglio dentro di sé.
«Non sono responsabile di ciò che dice o fa
Erica» rivelò spensierato il lupo, per nulla turbato da quel fiume di parole
accidentate.
Stiles inghiottì un groppo in gola con disagio,
alzando nuovamente le iridi di miele in quelle di giada e trovandole in attesa
di lui; continuava a fare male. «Ha risposto solo a delle mie domande».
«Non mi aspetto che tu non faccia domande,
soprattutto se trovi qualcuno così bendisposto con te» disse con semplicità il
diciottenne, corrispondendo il suo sguardo e conoscitore della sua curiosità.
Forse era vero, d’altronde l’ultima notte di
luna piena, quando Derek aveva accettato di raggiungerlo a casa per affrontarla
insieme, gli aveva dato quasi carta bianca su quel fronte e qualsiasi altro e
lui aveva rimandato ad un futuro prossimo. «Dovrei farlo con te» forse era
disposto a condividere certe realtà con lui, rispondere ad ogni curiosità che
gli veniva alla mente e stemperare la sua sete di sapere, ma non toccava ad
esterni quel compito.
Derek espirò forte nella sua pacatezza, come se
dovesse prendere un profondo respiro per riuscire a gestire ciò che Stiles
rilasciava ai quattro venti. «Lo farai» hai
così tante cose da chiedermi continuò per lui il figlio dello sceriffo,
mentre il mannaro faceva schioccare due dita della mano destra a contatto con
la sua fronte, pizzicandolo e rendendo frivole le sue preoccupazioni,
alleggerendogli l’animo.
Stiles la scostò da sé prima che il braccio
dell’altro ricadesse al suo fianco, bloccandola a mezzaria e stendendo del
tutto le falangi incurvate, dedicando un’attenzione scrutatrice al palmo
aperto, studiandolo meticolosamente e trovandolo perfetto, senza alcuna
cicatrice o ricordo delle notti precedenti, senza alcuna ferita che si era
autoinflitto con i suoi stessi artigli, mettendo ancora una volta in mostra la
verità della sua natura sovrannaturale. «Stai bene?».
Derek lo osservò dall’alto della sua posizione,
mentre l’umano era concentrato a studiare la sua mano, sfiorandogli con la
punta delle dita il palmo steso da lui stesso. «È evidente».
L’umano rialzò le iridi ambrate, tentando di
leggere l’autenticità di quella risposta. «Intendevo in generale».
L’arto si curvò appena intorno a quello di
Stiles, sfiorandogli le falangi ed il sedicenne accarezzò le sue di
conseguenza. «Sì».
Stiles non apparì molto convinto della cosa e
percorse ancora la conca del palmo ricurvo, incontrando solo pelle liscia. «La
tua àncora è la tua persona speciale?».
«Ti piace proprio chiamarla così» realizzò il
mutaforma con una cadenza speziata.
Il figlio dello sceriffo tentò di trattenere il
nuovo imporporare che minacciava di tingere i suoi zigomi. «È un modo per darle
un nome» si giustificò girandoci intorno, imbarazzato più che mai. «Nel caso
dovessimo parlarne per richiamare la tua àncora o qualsiasi altra cosa».
«Ho tutto quello che mi serve» rivelò il lupo
mannaro con una profondità disarmante, bucandogli il timpano e Stiles non
riusciva a capire se si riferisse a qualcosa di astratto o alla concretezza che
stringeva tra le mani e si sentì incredibilmente male quando si accorse di
quanto i loro arti si attirassero rispettivamente.
«Mi dirai se c’è qualcosa che non va?» chiese
l’umano con moderazione, ma con vera preoccupazione e voglia di conoscere.
«Ancora così ostinato a volermi nella tua vita»
non era una domanda, non risuonava come tale, anche se era abilmente camuffata,
ma era qualcosa a cui bisognava dare risposta.
«Scherzi?» esalò Stiles con gli occhi giganti e
le iridi che brillavano di eccitazione e contentezza. «Ho sempre voluto
incontrare un lupo mannaro e adesso ne ho uno di fronte a me, con cui
interagire – più o meno; diciamocelo, Derek, non sei il miglior conversatore
del mondo – e tormentarlo con tutto quello che mi passa per la testa. È tipo il
sogno della mia vita».
Derek roteò gli occhi per niente sorpreso,
investito totalmente dall’entusiasmo del ragazzino iperattivo che non aveva
limiti. «Attento a ciò che desideri».
Stiles lo guardò stralunato, per nulla
intenzionato a lasciarsi scoraggiare dal lupone
accigliato e brontolone che si prendeva gioco di lui con leggerezza ed abilità.
«Sei proprio un sourwolf» dopo tutti i vari vezzeggiativi, Derek meritava un
soprannome che lo identificasse in pieno.
Il lupo gli rifilò un’occhiata giudicante e
Stiles sorrise trionfante, lasciando collidere ed intrecciare le loro dita,
lambendo l’anello che lo richiamava a sé, che continuava a chiamarlo da quando
arbitrariamente si era depositato, incastrandosi perfettamente, sul suo anulare
sinistro edi cui lui persisteva a
cacciare via la sensazione. «Me lo dirai?» ritentò con più parsimonia,
lasciandosi vezzeggiare dalla sua temperatura corporea.
Derek lasciò che le loro falangi si
incontrassero e rispose in egual misura alla sua stretta, senza rivelare niente
di sé. «Ti dirò tutto ciò che vuoi sapere».
E gli anelli gemelli presero a scaldarsi.
Stiles era da solo seduto ad uno degli ultimi
tavoli della mensa, quelli più lontani e riservati, mentre scribacchiava e
riempiva le pagine di un foglio protocollo, con un libro aperto da un lato ed
un altro a facilitargli la scrittura, sbirciando al suo interno di tanto in
tanto e spostandolo a seconda della sua comodità.
Non vi era alcuna traccia dei suoi compagni
d’avventura.
«Sei troppo pigro per metterti in coda?»
domandò con malcelato interesse il capitano della squadra di basket che si era
avvicinato al luogo del delitto con passo silenzioso e felpato, poggiando il
vassoio pieno di leccornie sulla lastra di legno e sedendosi senza chiedere il
permesso.
Il figlio dello sceriffo curvò le labbra
sapientemente, in un ghigno camuffato, continuando la sua stesura senza alzare
il capo. «Devo terminare questo saggio entro la prossima ora» spiegò spicciolo
e con tranquillità, azzardando un’occhiata alla fila che persisteva a sostare
davanti al banco della mensa, non annunciando il suo termine. «Scott dovrebbe
occuparsi del mio pranzo, ma probabilmente sarà un miracolo se si ricorderà di
se stesso» tra l’altro di Scott non c’era nemmeno l’ombra.
Derek non disse nulla e non emise nemmeno un
fiato, ma allungò un piatto ricolmo di patatine fritte – aveva un che di
déjà-vu –, mettendolo proprio vicino al suo interlocutore, accompagnato da
alcune bustine gialle contenente maionese. «Prendi» disse soltanto come unica
spiegazione ai suoi occhi ambrati allibiti e confusi.
Stiles dovette metterci alcuni momenti per far
riprendere a girare i suoi ingranaggi e metabolizzare ciò che era appena
accaduto, la reazione che aveva ottenuto dopo che implicitamente aveva fatto
capire che probabilmente quel giorno non avrebbe addentato un granché e quello
strano allarme che riecheggiava nella testa con l’aspetto di patatine fritte e
maionese.
Maionese. Niente Ketchup nascosto sotto piatti o tovaglioli o qualsiasi altra cosa
potesse esserci. C’era solo maionese. Bustine singole di plastica gialla
contenente un intruglio di bianco sporco e giallastro. «Cosa dovrei farci?» domanda stupida, Stiles.
«Mangiarle» proferì con ovvietà il lupo
mannaro, innalzando giudicante un sopracciglio nero e folto; stava
probabilmente rivalutando la sua intelligenza e perspicacia.
«Insieme a te?» chiese con la stessa sfumatura
e oddio, suonava davvero molto male.
Derek lo guardò in modo strano, probabilmente
stava ancora rivedendo quella cosa sulla perspicacia e l’intelligenza, non era
molto lusinghiero. «Puoi tenertele».
«Non ne vuoi nemmeno un po’?» domandò il
sedicenne di rimando, perplesso da quel modo di fare.
«No» sillabò il mannaro con tono asciutto ed
inflessibile.
«Perché?» chiese l’umano di conseguenza,
rifiutandosi ancora di appropriarsi del piatto.
«Non sono di mio gusto» riferì il diciottenne
con distacco, con la pazienza che pian piano scemava.
Stiles lo guardò senza capire, osservando le
gustose ed untuose patatine fritte e le bustine gialle, erano troppo evidenti per
poterle ignorare. «Perché le hai prese allora?».
«Stiles, mangiale e basta» ringhiò tra i denti,
dissolvendo completamente il suo grado di tolleranza e lanciandogli un’occhiata
di rimprovero.
L’aria intorno a loro divenne improvvisamente
pesante e Stiles si tirò quasi indietro, una retrocessione impercettibile delle
spalle e gli occhi di miele che rimanevano legati a quelli di giada.
Il figlio dello sceriffo distolse l’attenzione
dal suo interlocutore e la dedicò al piatto che si presentava davanti a lui,
ancora fumante e caldo – erano state preparate appositamente? Aveva aspettato
che arrivasse l’ultima sfornata? –, richiamato prepotentemente da quelle
singole bustine giallo acceso che sostavano ad un soffio dalle proprie dita.
«Maionese, eh» non sapeva nemmeno perché lo stesse sottolineando tanto.
«L’ho trovata» pronunciò il mutaforma con
immediatezza, allontanando quella reazione fuori controllo che era scattata.
Stiles allungò le dita, toccando le bustine e
prendendole tra loro, conversandovi silenziosamente per conoscere il loro
segreto. «Non si trovano quasi mai qui, si avvicinano alla rarità».
«Lo so» e Stiles non poteva ignorare quella
retrovia che parlava per lui: ti lamenti
sempre di questo. Nessuno, quasi nessuno, eccetto Scott, che tendeva a
dimenticarlo, ed Allison accompagnata da suo padre, conoscevano l’amore
incondizionato che provava per quella strana accoppiata creata dal connubio
perfetto di patatine fritte e maionese, che la maggior parte delle genti del
mondo disdegnava. Era qualcosa che proprio non riusciva a rimandare nelle
retrovie del suo cervello per scappare a quella rivelazione disturbante, a
quell’aspetto così palese che si mostrava davanti ai suoi occhi e che era
firmata e controfirmata. E bollata con cera calda e rossa con annesso di
sigillo reale.
«Stiles, hai finito?» chiese la bionda fragola
che si avvicinava lungo il corridoio creato dal posizionamento ordinato dei
tavoli, priva di qualsiasi vassoio o simile. «Jackson ha preso un tavolo con
gli altri, Scott sta terminando ed Allison si è occupata del tuo pranzo».
«Sia benedetta quella donna» esclamò entusiasta
e rincuorato il figlio dello sceriffo, tamburellando contento con le dita e
trascrivendo una nuova frase nel suo saggio. «Ultimi ritocchi e vi raggiungo».
«È maionese quella?» domandò Lydia una volta
giunta davanti alla lastra di legno a cui erano seduti Stiles e Derek,
impegnati in attività del tutto differenti ed improvvisamente consapevole di
aver interrotto una delle loro interazioni che si contavano sulla punta delle
dita, notando le bustine monoporzione della salsa creata dall’emulsione di
tuorli d’uovo ed olio. «Non sapevo nemmeno ce ne fosse».
Stiles interruppe a metà la parola che stava
scrivendo, lasciando la penna sospesa ad un millimetro dal foglio e quasi
restio ad alzare gli occhi verso la figura della ragazza, che implicitamente
aveva sganciato una nuova bomba. «Evidentemente non sei l’unica ad avere una
tresca con la cuoca» scherzò con leggerezza, dedicandole un occhiolino di
gioco.
Lydia lo guardò attenta, reclinando di poco la
testa e notando quanto i due ragazzi si stessero evitando intenzionalmente, ben
sapendo che fino ad un attimo prima erano impegnati in una conversazione o
qualsiasi cosa facessero; quella battuta non poteva essere riferita che al moro
dagli occhi verdi e Lydia realizzò soltanto in quel momento cosa ci fosse su
quel tavolo e cosa mancasse sul vassoio del diciottenne, chiaro segno lasciato
dalla circonferenza fantasma sul rettangolo di plastica. «Maionese, eh».
Stiles dovette trattenere un brivido che gli
avrebbe percorso la schiena, vertebra per vertebra, ignorando il tono lascivo
ed allusivo usato dalla bionda fragola e l’occhiata significativa che gli
lanciò prima di andarsene per sedersi accanto a Jackson.
Erano di nuovo loro due, solo lui e Derek,
piombati in un silenzio che non avrebbero rotto se non costretti ed era pesante
ed orribile e Stiles non sapeva gestire la mancanza di suoni.
Con un sospiro incastrato a metà trachea, si
apprestò a riporre uno dentro l’altro gli oggetti che stava utilizzando per
studiare, facendo schioccare la punta della penna verso il massimo esterno, per
ritrarsi dentro la sua corazza di plastica dura. Era finita, stava andando via
senza aver proferito una sola sillaba, lasciandoli al loro silenzio
schiacciante e privo di spiegazioni, con la prova evidente di quanto Derek
sapesse di lui.
Quando si fu alzato dalla sedia con quel
terribile peso sul cuore, mettendosi al lato del tavolo per raggiungere il suo
gruppo e sorpassarlo, indugiò, rimanendogli di fianco e tamburellando frenetico
ed indeciso sul legno liscio, con un ritmo fuori sincrono ed impercettibile.
Ributtò i libri uniti a formare un unico tomo
sul tavolo con un sospiro grave e combattuto, afferrando il piatto di patatine
fritte che stavano iniziando a raffreddarsi e poggiandolo sopra quel vassoio
improvvisato, sbracciandosi per prendere le bustine di maionese e mettersele in
tasca; non poteva lasciarle lì quando Derek le aveva prese per lui, facendosi
un turno che non doveva, rimanendo in fila ad aspettare che fossero pronte,
invece di proseguire ed andare avanti, gustarsi il suo pranzo senza troppe
attese e giri di parole poco graditi e scomodi.
Derek l’osservò nella sua pratica per tutto il
tempo rimanendo immobile, con le braccia abbandonate sulla lastra di legno ai
lati del suo vassoio ancora intoccato e Stiles con un movimento leggero e
calcolato, gli toccò le dita della mano destra, quella più vicina a lui,
accarezzandole con un tocco soave e morbido, di puro apprezzamento ed affetto.
«Grazie, Der».
Derek strinse le falangi tra le proprie in un
gesto appena accennato in risposta, frenetico e di sfuggita, prima che la trama
si sciogliesse e Stiles scivolasse via da lui.
Subito dopo Erica, Boyd ed Isaac lo raggiunsero
e Stiles dovette reprimere il suggerimento che quello non fosse altro che un
salvataggio disperato.
Stiles se l’aspettava.
Non poteva proprio negare che quella situazione
non si sarebbe ripresentata, ma certamente non immaginava che sarebbe accaduto
così presto.
Venne agguantato e sbattuto contro un muro, con
la testa che collideva all’indietro con la parete, creando un tonfo sordo che
riecheggiò nell’aria, lasciando i testimoni di quell’azione con gli occhi
preoccupati e le labbra socchiuse, mentre Stiles tratteneva il lamento di
dolore tra i denti, sbarrando le palpebre nel momento dell’impatto e serrando
la bocca, senza volerle lasciare quella soddisfazione.
«Hai ripreso a gironzolare attorno a Derek»
disse Kate Argent con astio e rimprovero, il veleno che le scendeva dalla
lingua biforcuta, gli occhi ostili e malvagi, pressandolo con forza contro il
muro che gli bloccava qualsiasi via di fuga.
Lui non gironzolava intorno a nessuno, ma
doveva essere un concetto piuttosto complicato e complesso per le ragazze di
Derek Hale. «Ancora con questa storia, Kate?»
si burlò con il suo stesso veleno, guardandola del tutto indifferente, come se
tutto quello non lo toccasse minimamente e gli fosse estraneo.
Kate aumentò la presa, spingendolo maggiormente
ed in malo modo sulla parete, rifilandogli un’occhiata da pazza omicida. «Eri
stato avvisato, Stilinski».
«Eri stava avvisata anche tu» sopraggiunse
spietata e calcolatrice la voce maschile che proveniva da dietro di lei e Kate
la riconobbe subito, costringendosi a voltarsi per incontrare le gemme di
smeraldo che la guardavano con disapprovazione e per nulla propense al perdono.
Erano pericolosi quegli occhi e facevano male, soprattutto se accorrevano per
Stiles Stilinski.
«Vieni a salvare la tua donzella in pericolo?»
domandò la ragazza con malvagia ironia e perfida allusione annessa,
regalandogli un ghigno infame.
Derek la guardò dall’alto in basso, senza mai
distogliere le pupille da lei ed il suo sguardo rimaneva inflessibile e non
turbabile. «Non ti darò un secondo avviso».
Cavolo, faceva sul serio e Stiles, dalla sua posizione non tanto vantaggiosa, da
dove aveva un pessimo punto d’osservazione, poteva vedere quella battaglia di
sguardi che si stavano scambiando, la lotta che stavano sostenendo ed una
guerra silenziosa e micidiale che avrebbe mietuto molte vittime.
Kate allentò la presa, sciogliendo le dita che
si erano aggrappate alla maglia sformata del sedicenne, abbandonandolo
completamente e scostandosi da lui. Nel momento in cui lo fece, benché Derek
rimanesse una macchia di espressioni inesistenti e restasse immobile nella sua
posizione, notò quanto si stesse trattenendo dal correre dal sedicenne per
accertarsi delle sue condizioni. Nessuno era riuscito a smuoverlo tanto in
quegli anni.
«Se non vuoi che lo salvi» articolò il lupo
mannaro quando lei era già diretta verso la direzione opposta. «Smettila di
dargli il tormento».
Era chiaro, era un ragionamento logico e
facile, quasi meccanico e non faceva acqua da tutte le parti, non serviva un
genio per arrivare a quella conclusione, ma tutto quello veniva messo nel
dimenticatoio quando si veniva sconfitti ancor prima di iniziare a gareggiare.
«Magari fosse così semplice».
Stiles intercettò subito quella strana cadenza,
quel tono che lasciava trapelare più di quanto volesse dire, le implicazioni
nascoste e mute che non venivano rivelate e la vera natura che faceva muovere
Derek Hale verso di lui.
Non saprebbe dire se Kate Argent avesse
finalmente cominciato a lasciarlo in pace, ma era certo che lei non si
riferisse alle sue stesse azioni, ma alle priorità del mannaro, in qualsiasi
situazione.
«Stai bene?» chiese il lupo quando la maggior
parte del pubblico si fu dissolto, insieme alla creatrice dello spettacolo.
«Magnificamente» esclamò con finto entusiasmo
il figlio dello sceriffo, mostrando un sorriso a trentadue denti sbarazzino. «È
sempre un’esperienza fantastica avere così tante attenzioni dalle tue ragazze».
Stiles sgranò le iridi d’ambrosia, scostandosi
dal muro e guardandolo fisso. «Non devi farlo, va bene così» ed improvvisamente
le labbra si curvarono in una piega soave, ridipingendo tutto l’ambiente
circostante. «Un po’ le capisco, sai. Vado dietro alla stessa ragazza da otto
anni; confrontate a me, le tue ragazze sono delle vere dilettanti».
«Non hai mai torturato nessuno» precisò il
licantropo, mettendo in evidenza la chiara distinzione che esisteva tra lui e
loro, il differente modo di agire e la correttezza del modo di fare. Certamente
non aveva mai rincorso qualcuno per estorcere informazioni legate a quella
specifica persona ‒ quelle riusciva benissimo a reperirle da solo, senza
nemmeno farsi scoprire ‒, non aveva bersagliato qualcuno con atti crudeli
e denigranti e non aveva messo nessuno all’angolo, sbattendolo contro un muro
per arrecargli dolore fisico.
«Ehy, con la mia
parlantina potrei stendere un elefante» o
un lupo, esclamò l’umano fintamente provato, indispettito dalla mancanza di
riconoscimento delle sue incredibili doti e dall’inesorabile e disturbante
potere di cui si lamentavano tutti quelli che lo circondavano.
Derek lo ignorò come se non avesse proferito
alcuna parola, del tutto immune a quel decantato potere a cui alludeva ed
allungò un braccio verso di lui, portandolo dietro la sua testa separata di
qualche centimetro dalla parete e toccando la parte lesa, da cui Stiles si
scostò, avvertendo il risveglio di quel dolore lieve e quasi inconsistente, che
sarebbe sparito nel giro di pochi minuti.
Fu costretto ad avvolgergli il polso in
risposta, impedendogli di avvicinarsi ulteriormente. «Niente vene nere, Der»
non c’era alcun motivo per cui Derek avrebbe dovuto assorbire un dolore
inesistente; non c’era alcun motivo per cui Derek avrebbe dovuto assorbire
qualunque cosa in qualunque momento.
L’arto del mutaforma rimase a mezzaria,
bloccato dalla mano di Stiles e Derek lo ritirò ed il suo sguardo sembrava
dirgli: sai anche questo? «Non
accetti ancora il mio aiuto?».
Il tono del mannaro era ferito ed oppresso e
Stiles riusciva a sentirlo così bene che una parte di lui soffrì di riflesso.
Derek credeva davvero nel suo perpetuo rifiuto ed era come se lo stesse
respingendo concretamente. «È solo un mini bernoccolo che avrò dimenticato tra
due secondi» chiarì cauto e con una nota dolce, poggiando il pollice sulla vena
più grande che pulsava vigorosamente. «Non sprecare i tuoi doni lupeschi per
così poco».
Gli occhi del mannaro caddero sulla presa che
aveva creato l’umano e che persisteva a mantenere, entrando in possesso
dell’accesso al suo battito cardiaco. «Non andrebbero sprecati».
Stiles pressò sulla vena in evidenza in
automatico, senza nemmeno rendersene conto ed incapace di controllarsi; Derek
Hale l’avrebbe fatto ammattire. «Sourwolf, così non mi aiuti» disse laconico e
sbuffando lievemente, lasciando scivolare la mano verso le sue dita,
abbandonando il polso ed intrecciandole appena, senza chiudere la stretta. «È
un segreto. Il nostro segreto» e di tutto
il tuo branco e dei licantropi mondiali. «Non puoi svelarlo a nessuno. Non
puoi mostrarlo a nessuno» tanto meno ad
un corridoio gremito di adolescenti che credono a qualsiasi cosa.
Derek lo sapeva bene, Stiles ne era
consapevole, non aveva bisogno di ricordarglielo e di mettergli in mostra la
realtà del mondo in cui vivevano, il mannaro apparteneva a quell’universo da
sempre per quanto ne sapesse e lui non era altro che un ragazzetto appassionato
di sovrannaturale, fantasy e fantascientifico che aveva appena mosso un passo
in punta di piedi. Derek non aveva bisogno della sua voce, ma a volte aveva
l’impressione che il lupo avrebbe fatto di tutto per lui, incurante di
qualsiasi conseguenza, ed era estenuante e pericoloso e Stiles non riusciva
davvero a capire come si sentisse a riguardo.
Il playmaker annuì di riflesso, un gesto quasi
invisibile ed il figlio dello sceriffo gli sorrise incoraggiante e contento,
azzerando quasi il divario che li separava e sfiorandogli la fronte con la
propria; se fossero stati soli, lontani da occhi indiscreti e fantasiosi, le
avrebbe congiunte. «Bravo il mio lupone».
Derek chiuse definitivamente la trama delle
loro dita.
Erano passati quattordici giorni da quando
Derek Hale aveva dormito con lui l’ultima notte di luna piena e non pensava di
vederlo tornare quanto prima, al contrario credeva che non si sarebbe più fatto
vivo, che avrebbe tentato di tagliare i ponti con lui, ma erano quasi due
settimane che si incontravano ogni giorno, scambiandosi un mezzo saluto o solo
un accenno, intavolando conversazioni vere e proprie e passando quei dieci
minuti insieme; l’ultima cosa che Derek voleva era separarsi da lui.
Ma valeva anche per la condivisione dello
stesso letto?
Derek sostava davanti alla finestra quasi del
tutto chiusa, se non fosse stato per quello spiraglio da cui fuoriusciva l’aria
e Stiles si spaventò e preoccupò nel vederlo così sconfitto ed addolorato, un
pallido riflesso di se stesso.
Abbandonò tutti i suoi molteplici evidenziatori
di vari colori e il libro di storia, fiondandosi verso l’imposta e spalancandola,
facendo entrare tutto in una volta il freddo di metà novembre; fu colpito in
pieno dal gelo, ma l’unica cosa che gli importava era accertarsi delle
condizioni del lupo. «Derek, che succede? Va tutto bene? Stai bene? Entra
immediatamente».
Ma il lupo non si mosse, restò impalato
esattamente dov’era, rigido ed estraneo a qualsiasi cosa lo circondasse, con
gli occhi vitrei e spenti.
Stiles dovette quasi uscire completamente dalla
finestra a ghigliottina per afferrarlo e portarlo dentro con sé, prendendogli
la mano ed aspettando che l’accettasse; sembrò rendersi conto della sua
presenza soltanto quando il calore umano entrò a contatto con la sua pelle.
«Non posso tornare a casa» rivelò monocorde,
atono e frammentato nel momento in cui Stiles lo condusse all’interno della sua
camera di adolescente, lasciando la finestra ad un lontano ricordo, insieme al
freddo polare che vi entrava.
Stiles non l’aveva mai visto così distrutto
come in quel momento, così piegato ed incapace di reagire; non aveva nulla a
che vedere con la battaglia a cui aveva assistito quando la prima luna piena di
quel mese si era mostrata e Derek aveva combattuto per non cedere alla sua
parte animale; erano due cose che non si sfioravano nemmeno e che mostravano la
complessità di cui era composto. Derek non si sarebbe mai eclissato in quel
modo senza una motivazione valida, cedendo allo sconforto e al dolore. «Rimani
qui. Puoi rimanere qui» pronunciò a raffica, tirandogli la maglietta
all’altezza delle spalle, suggerendogli concretamente quanto quello fosse
possibile. «Questo è il tuo porto sicuro».
Derek indirizzò il suo sguardo intenso verso
gli occhi d’ambrosia pura e la mano destra, da cui era visibile l’anello che li
accomunava, come se le fosse impossibile separarsi, si immerse nel lato
sinistro dei suoi capelli castani, tenendogli morbidamente ferma la testa e
lambendogli la fronte aperta con le labbra bollenti ed asciutte, accarezzandola
con il respiro infuocato e sostituendo quel contatto fantasma con la
congiunzione delle loro fronti, dalle temperature corporee completamente differenti.
Sembrava dirgli grazie e sei tu il mio porto
sicuro e Stiles si sentì morire dentro.
Fu complicato aspettare che Derek si lasciasse
guidare da lui, che gli permettesse di toccarlo a sua volta e gli desse il
consenso di liberarlo dalla giacca di pelle nera, posandola sulla spalliera
della sedia, e di togliergli le scarpe una volta arrivati al letto senza aver
compreso bene come.
Dovette salire sul materasso, rimanendo sulle
ginocchia e prendendolo per mano per incitarlo ad imitare il suo comportamento,
invitandolo a stendersi accanto a lui – aveva già fatto una cosa simile due
settimane prima, ma in quel caso era stato di una facilità disarmante – e Derek
ancora lontano da lui e con gli occhi persistentemente persi, lo lasciò fare,
senza emettere un solo respiro di dissenso.
L’attenzione del mannaro, una volta che si
distese sul materasso, fu catturata nuovamente dal soffitto bianco ed
immacolato, senza mostrare alcun segno che gli suggerisse che Stiles fosse lì
con lui.
Stiles non sospirò, non diede vita ad alcun
fiato e cercò di controllarsi il più possibile, ben sapendo che Derek poteva
sentire tutto quello che si agitava in lui e tutto lo scompiglio che avvertiva
dentro doveva rimanere fuori da quella situazione ingestibile, senza urtarlo e
dargli nuovi impicci.
Rimase lì, con la schiena ricurva e poggiata al
muro, le ginocchia piegate e strette al petto, le braccia allacciate tra loro
senza sapere cosa farci, se gli fosse stata data la possibilità di toccarlo o
se potesse indisporlo ulteriormente. Non gli rimaneva che aspettare un
qualunque segno, uno anche solo accennato che gli suggerisse cosa fare.
«Il branco periodicamente si riunisce con gli
alleati» rivelò Derek in un momento imprecisato con voce grave, rimanendo
imperturbabile nella sua posizione e quello sembrò bastargli, come se avesse
terminato e lì fosse compresa la risposta ad ogni domanda silenziosa del figlio
dello sceriffo, ogni spiegazione possibile e l’umano seppe che quello sarebbe
stato tutto ciò che avrebbe lasciato trapelare.
Stiles non fece domande.
Quando la mezzanotte fu scattata e la
stanchezza ed il sonno di Stiles si fecero più evidenti e pressanti, allungò un
braccio per afferrare il suo cuscino libero, portandoselo sopra le ginocchia
ancora piegate e stringendolo forte a sé, immergendoci la testa e traendo un
beneficio fulmineo; avrebbe anche potuto addormentarsi così se fosse stato
necessario, lasciando tutto il letto al licantropo ed accontentandosi di quel
quadrato ristretto; lui riusciva a dormire in qualsiasi posizione.
«Amavo davvero Paige» disse Derek ad un tratto,
senza aver lasciato alcun segno che indicasse l’intenzione di voler iniziare
una qualsiasi conversazione. «L’amavo come un quindicenne assolutistico e pieno
di sé poteva fare».
Stiles fu richiamato immediatamente
all’attenzione, scacciando il sonno ed alzando la testa verso di lui,
abbassando il guanciale per poterlo guardare meglio, senza avere barriere che
potessero impedirglielo o offuscarlo.
«Desideravo ardentemente averla con me sempre,
senza che nessuno potesse separarci» continuò il lupo, completamente sordo a
ciò che lo circondava. «Avevo scelto per lei la vita che avremmo dovuto
percorrere, la decisione di trasformarla senza interpellarla, senza che lei
avesse il minimo cenno della mia reale natura» Stiles trattenne il fiato e
Derek persistette a non guardarlo. «C’era quest’Alpha, Ennis,
che aveva appena perso un membro del suo branco ed era in cerca di uno nuovo;
io la vidi come una buona opportunità e, benché fossi diviso a metà, gli
proposi Paige e lui accettò. Accettò anche di lasciarci stare insieme» si
zittì, socchiudendo le labbra e chiudendo per un attimo le palpebre. «Mia madre
non avrebbe mai accettato, Ennis era l’unico Alpha a
cui potessi rivolgermi» chissà perché,
Stiles riusciva a sentire l’amara ironia che tratteneva nel suo racconto, le
labbra che si piegavano appena in una smorfia; Derek avrebbe sofferto sempre
per quello. «Quando arrivò il fatidico momento e capì di aver commesso un
enorme sbaglio, li cercai dappertutto, mi scontrai con Ennis
per impedirgli di toccarla, ma era troppo tardi e lei non stava reagendo bene
al morso» Derek trattenne il sospiro opprimente che gli torturava l’esofago,
mordendosi le labbra. «La portai dove riuscì ad arrivare e lei stava soffreddo
ed agonizzando, non riuscivo a toglierle il dolore in alcun modo, non riuscivo
nemmeno ad allievarlo, non ero abbastanza forte. Stava morendo per colpa mia,
in un concentrato di dolore e stava rassicurando me, perdonandomi, nei suoi
ultimi momenti» l’aria nella camera si fece più pesante ed il dispiacere
dilagava in entrambi, ma Stiles rimaneva immobile. «Sapeva chi ero, proprio
come te, ma non aveva mai detto niente, mi accettava e basta» gli sarebbe bastato,
Stiles era quasi sicuro di quello, ma la crudeltà della vita non glielo aveva
permesso. «Mi ha chiesto di aiutarla, di risparmiarle tutto quel dolore. Mi ha
chiesto di aiutarla a morire» Derek tacque e Stiles morì ancora un po’ dentro
di sé. Aveva letto quel rapporto quando fu stilato e lo rilesse qualche giorno
prima, cercando qualcosa che confermasse il suo credo smisurato nel licantropo,
la certezza della sua innocenza e la realtà dei fatti.
Contusioni, graffi causati da artigli, morsi
animali vari su tutto il corpo ed uno davvero brutto, proprio sul fianco, che
le aveva portato via parte della carne. Il reperto tossicologico non aveva
riscontrato nulla di identificabile, ma era certo che qualcosa la stesse
uccidendo dall’interno, come un parassita o un virus. Il reperto parlava dello
spezzamento del collo, causa finale della morte; un atto di carità o d’amore,
era l’unico modo in cui poteva essere classificato ‒ non aveva mai saputo
se Derek fosse stato perseguibile. «Dovevo scegliere se vederla morire
agonizzare, lentamente ed atrocemente o liberarla» liberarla, amandola fino
alla fine, quella era la risposta giusta. Scegliere di macchiarsi per sempre le
mani e rinunciare alla propria innocenza; lasciare che il colore dei propri
occhi cambi, permettendo che parlino da soli, creando pregiudizi senza che
nessuno sappia la verità. «Sono rimasto con lei finché non ci hanno trovati».
Derek aveva stretto il corpo senza vita della
ragazza che amava per ore, nel gelo della notte e non stava aspettando nulla;
semplicemente era così vuoto ed in balia di se stesso che non aveva notato il
trascorrere del tempo, la realtà che era caduta su di lui e la devastazione che
l’aveva accompagnata. Era soltanto lui con un corpo morto e Stiles stava
soffrendo, perché non poteva fare niente.
«Non è stata colpa tua» esalò il figlio dello
sceriffo nel silenzio della camera da letto, frastornato da tutto quello che il
ragazzo idolatrato dall’intero liceo aveva passato, le emozioni che aveva
vissuto e l’anima che si era spezzata.
Derek si voltò verso di lui ed era la prima
volta che lo guardava da quando l’aveva condotto su quel materasso, aiutandolo
a distendersi. «L’ho uccisa nel momento in cui ho preso quella decisione».
Un tuffo al cuore lo colpì, investito dall’odio
verso se stesso che il lupo stava provando, quello che provava da quel fatidico
giorno e che con il trascorrere del tempo peggiorava, logorandolo e
cambiandolo; cosa sarebbe rimasto con tutto quell’accanimento verso la propria
persona? «Hai fatto una scelta azzardata, egoistica, ma avevi quindici anni,
Derek; nessuno pensa lucidamente a quindici anni ed hai capito il tuo errore,
hai cercato di rimediare. È stata una tragedia, è questo il suo nome».
Derek lo fulminò all’istante con quella
tempesta boscosa che aveva negli occhi e Stiles deglutì con difficoltà. «Tu non
l’avresti fatto».
Stiles fu colpito in pieno, perché quell’uscita
nascondeva più di quanto in realtà volesse comunicare e celava un passato, uno
studio meticoloso dietro e qualcosa su cui non doveva proprio indagare. Sai com’ero a quindici anni, Der? «Non
puoi saperlo, prendo anch’io delle pessime decisioni».
«Nelle sciocchezze, nelle piccole cose che poi
dimentichi, ma mai nelle decisioni importanti» replicò il lupo mannaro,
rimettendolo al suo posto e guardandolo bene. «Hai più buon senso di me,
perfino adesso».
Porca miseria, perché doveva sempre sapere tutte quelle cose su di lui? «Derek» proferì
in una nota soffusa e decisa, snodando le lunghe gambe e scivolando verso il
mutaforma. «Non è stata colpa tua» disse di nuovo ad un passo dal suo corpo,
prendendogli il viso tra le mani e facendo incontrare le iridi dorate con
quelle di giada. «Non è stata colpa tua» ripeté ancora con morbidezza e
determinazione, scandendo bene le parole tra loro e permettendo alle loro
fronti di congiungersi e respirare l’uno nella bocca dell’altro. «Avevi
quindici anni, a quell’età tutti si credono immortali e tu hai più ragioni di
sentirti in quel modo; credevi che per Paige fosse lo stesso, che poteva
funzionare, che l’avrebbe accettato per l’amore che provava per te, che sarebbe
stata più forte e meravigliosa, brillante e fiera» Derek lo guardava con gli
occhi sgranati ed incandescenti e Stiles aumentò semplicemente la presa.
«Sarebbe andato tutto bene e lei sarebbe stata per sempre con te, con la
sicurezza che lei potesse difendersi da sola e superare tutto quello che per
gli umani è più difficile e complicato; nessun graffio, nessuna infezione,
niente che potesse arrecarle dolore e che te la portasse via prima del tempo.
Era stupendo e straordinariamente facile e tu avevi tutto a portata di mano,
non avevi alcun motivo di credere che per lei non andasse bene, che potesse
rifiutare o che non potesse farcela. Non potevi sapere che il veleno dell’Alpha
sarebbe stato deleterio per lei» Derek tremò, leggero e quasi impercettibile,
ma Stiles teneva le mani su di lui, la fronte che premeva in una carezza per
tenerli uniti e poteva sentire tutto quello che si ostinava a tenere per sé,
quel controllo disumano che non crollava mai; poteva sentirlo disfarsi sotto le
sue dita. «Lui, in quanto Alpha, in quanto adulto, avrebbe dovuto dissuaderti,
rifiutare la tua offerta, farti capire il perché e il pericolo, il dolore, che
sarebbe nato. Invece si è approfittato di te, ha colto l’occasione al volo e
non gli è importato di nessuna conseguenza. Chi è che ha sbagliato, Der? Chi è
il vero colpevole che possiede le mani sporche di sangue innocente?».
Derek espirò sulle sue labbra, agganciando le
mani intorno ai suoi polsi ed allontanandoli dal proprio viso. «Lui è qui» disse
soltanto, interrompendo il contatto che il figlio dello sceriffo aveva creato,
ma tenendo gli arti vicini e sospesi in aria, mantenendo la presa su di loro.
«Ogni volta che lo sento arrivare devo allontanarmi il più possibile. Potrei
scoppiare e non finirebbe bene».
Stiles comprese il perché Derek si trovasse lì,
che cosa significasse il branco
periodicamente si riunisce con gli alleati e lo stato comatoso ed
irriconoscibile con cui se l’era trovato dinnanzi; si riduceva sempre in quelle
condizioni quando vi era una riunione tra branchi? Era così distrutto ed
ingestibile, abbandonato a se stesso? Nessuno notava la sua assenza o
semplicemente facevano finta di nulla? «L’hai dimenticato? La mia porta è
sempre aperta. O nel tuo caso, la finestra» gli ricordò con un sorriso
sopraffino, facendogli un occhiolino di complicità e divertimento. «Non hai dei
limiti, non hai dei giorni definiti; hai carta bianca, hai ogni singolo giorno
dell’anno, hai la mia completa disponibilità ogni volta che ne avrai bisogno».
«Sei davvero assurdo» dichiarò il mutaforma,
nemmeno tanto impressionato, ma quasi arreso; era un dato di fatto. «Dopo
quello che ti ho raccontato, dopo tutto quello che sai di me, tu mi vuoi ancora
qui».
«Forse non ho tutto questo buon senso»
rettificò sarcasticamente e con ironia delicata, piegando le labbra in una
curva scaltra.
Derek pizzicò la fronte del sedicenne con lo
schiocco dell’indice e del pollice, innalzando gli occhi al cielo e Stiles
agguantò quella mano, legando le loro falangi come facevano ormai troppo
spesso. «Vuoi andartene?».
«No» certo
che no,Stiles sentiva anche
quello nella voce della creatura della notte, come la stretta che lo
ricambiava.
Stiles si coricò al suo fianco, costringendo
Derek a seguirlo di nuovo, che a sua volta tirò le coperte per coprirli e la
mezzanotte era passata da un pezzo ed il padrone di casa aveva riacquistato
tutta la sua sonnolenza ed aveva un peso più leggero sul petto, con Derek che
era pronto a schernirlo come d’abitudine; non stava bene, ma era un segno di
ripresa, un segno che il lupo stava uscendo dalla caterva di sentimenti
burrascosi che l’aveva accompagnato per tutta la sera.
«Non era lei» proferì Derek nel cuore della
notte, con Stiles che era sempre più vicino a cadere tra le braccia di Morfeo
più che incline a ciò che lo circondava.
L’umano aprì le palpebre, rivelando occhi
ambrati umidi portati dalla sonnolenza e nelle iridi verdi vedeva Derek
riflettersi nelle proprie e la sua domanda era lì.
«Se avessi aspettato, l’avrei saputo» disse il
lupo mannaro, rispondendo alla sua domanda inespressa, senza realmente dire
nulla, ma per Stiles si aprì il cielo ed una nuova consapevolezza lo investì
come un treno in corsa, sprovvisto di freni funzionanti. La persona che
reclamava il suo cuore? Colei con cui avrebbe voluto passare il resto della sua
vita? La compagna e l’amore con cui avrebbe voluto conoscere il mondo?
Non era lei.
Per la prima volta Stiles si chiese per cosa realmente si colpevolizzasse
Derek: di aver contribuito alla morte di Paige o di aver scelto la ragazza
sbagliata, condannandola senza alcuna motivazione.
Credo che in questo capitolo si accaduto di
tutto.
Abbiamo avuto un incontro consapevole tra
Stiles ed Erica che mette tutto nero su bianco, come se l’avessero sempre fatto
e non ci fossero segreti e proprio perché parliamo di Erica, lei non ha peli
sulla lingua e sa sempre come colpire per lasciare il segno.
C’è da chiedersi se sia Stiles che non sappia
stare lontano da Derek o se sia una cosa inversa; magari anche reciproca. Ma
tra questi due, quando si incontrano, nascono costantemente delle strane
conversazioni di promesse solenni ed è tutto molto più pesante, più reale, come
se esistesse qualcosa che conoscono solo loro, ma che non riveleranno mai a
nessuno, nemmeno all’altro.
E poi accadono avvenimenti in cui il nostro
lupetto preferito si allarga anche un po’ troppo e si scopre quanto in realtà
sappia di Stiles, anche nelle piccole ed insignificanti cose che quasi nessuno
conosce. E Stiles è talmente combattuto che non sa cosa dovrebbe fare e cerca
di non ferire nessuno e fare uscire interi entrambi. Anche se parliamo
semplicemente di patatine fritte e maionese.
Ed infine le bolle scoppiano e ci sono cose che
nemmeno Derek Hale può controllare e che lo conducono in una strada ben
precisa, venendo accolto a braccia aperte dall’unico figlio dello sceriffo.
Stiles doveva cominciare ad abituarsi all’idea che la mattina si sarebbe
risvegliato da solo, mentre la notte avrebbe avuto un corpo caldo accanto al
proprio.
Nemmeno quella seconda mattina Derek era lì ed il materasso era nuovamente
freddo al tatto e lui accuratamente rimboccato; Derek fuggiva prima che lui si
svegliasse, prima che tutto prendesse una piega più reale, perché il risveglio
del giorno dopo avrebbe avuto un sapore diverso ed avrebbe messo più carte in
tavola, completamente scoperte, ma non andava via se prima non lasciava un
segno della sua premura; se lo facesse volontariamente o senza nemmeno
rendersene conto, al sedicenne non era dato saperlo.
Stiles sbadigliò per tutta la prima ora di lezione, sotto l’occhio curioso
ed impensierito di Scott, che non riusciva a capacitarsi di quel comportamento
anomalo e raro; che avesse avuto una notte agitata?
Poi Scott lo vide sparire all’improvviso e quello era, a differenza, un comportamento
molto normale; era la sua firma indiscussa, anche se non lo faceva mai di
proposito, ma era uno spirito libero ed indomabile, una volpe acuta e sempre in
cerca di avventure, costantemente alla ricerca di qualcuno che riempisse il
vuoto che aveva dentro e che non sapeva colmare, buttandosi a capofitto
nell’aiutare il prossimo; era impossibile stargli dietro.
Le sparizioni di Stiles non erano mai volute o programmate, ma sempre più
spesso Derek Hale era con lui.
«Hai squartato qualche animaletto?» chiese il figlio dello sceriffo con
bonario sarcasmo, ammiccandogli impudicamente.
Il messicano vide perfettamente come Derek lo guardò impassibile, roteando
appena gli occhi e mostrando tacitamente quanto lo urtasse la sua presenza
invasiva. «No, Stiles» strascicò tra i denti, dandogli corda.
Un po’ era strano, per Scott sicuramente, non riusciva a capire e ad
abituarsi al rapporto che quei due stavano creando, alla chimica e all’intesa
che avevano. A volte facevano dei discorsi totalmente a sé stanti che non
potevano essere compresi a meno che non si parlasse il loro linguaggio cifrato
e nessuno sembrava capirlo.
«Devo andare a controllare? Informarmi?» rincarò la dose il castano, senza
abbandonare la sua posa divertita.
«Magari dovrei squartare te» gli rispose prontamente il capitano della
squadra di basket, minaccioso e pronto per rendere concreata quella
possibilità.
Stiles non apparve intimorito o pronto a scappare per togliersi dalla sua
vista, come invece aveva professato prima dell’episodio dello scambio degli
anelli; al contrario, gli sorrise, di cuore. Era un sorriso così luminoso e
dedito soltanto a Derek, che Scott sentì un languore allo stomaco.
Poi non seppe cosa accadde, cosa si fosse perso nella sua visuale
seminascosta ‒ e non stava spiando o origliando, semplicemente si era
ritrovato vicino al loro casuale punto d’incontro ‒, ma all’improvviso
sembravano più vicini, più intimi, come se si dovessero confessare un segreto
tutto loro e nessuno aveva il privilegio di poter entrare in possesso di una
sola parola. Poteva quasi vedere le teste congiungersi, le fronti sfiorarsi.
«Quindi, stai bene?» chiese l’umano con voce decisa, prima di sfumare in
una interrogativa e titubante, seriamente interessata alle sue condizioni.
Scott non si aspettava in alcun modo quel tipo di domanda tra loro.
Derek lo guardò in modo strano, un modo che il messicano non riuscì ad
identificare, ed era intenso e magico e non poteva credere che il suo migliore
amico non se ne accorgesse. «Sì» Scott riusciva a sentire una marea di
significati in quella semplice e concisa affermazione positiva e portavano
ognuno il nome di Stiles.
«Sei tornato a casa?» domandò allora il minore degli Stilinski,
incatenandolo con le sue iridi dorate.
A Scott sembrò strano anche quello; perché mai Stiles avrebbe dovuto porre
una domanda simile? Dove sarebbe dovuto essere il diciottenne? Era così
importante quella risposta?
«Sì» disse di nuovo il moro, dandogli la risposta che voleva senza
guardarlo male o giudicarlo apertamente per quell’intrufolarsi nei suoi affari
privati senza inibizione; Derek odiava chi troppo voleva sapere, soprattutto se
riguardava la propria persona. L’invadenza era qualcosa che non sopportava
minimamente.
«Nessuna conseguenza?» chiese con più moderazione ed apprensione il suo
migliore amico, come se quella confidenza fosse fondamentale.
«No» sillabò Derek, scandendo la negazione e rendendola più vera e certa,
senza che l’altro dovesse preoccuparsi ulteriormente, alzando gli avambracci ed
aprendo completamente i palmi delle mani, mettendogliele davanti.
Scott non comprendeva il gesto, era inconsueto e fuori contesto, non
riusciva a dargli una spiegazione; era come se lì fosse contenuto un
significato segreto e supremo, uno che attestasse il loro essere immacolate,
l’inesistenza di gesti avventati e non c’era alcun motivo per cui una cosa del
genere potesse interessare al suo migliore amico, ma Stiles le seguì con le
pupille d’inchiostro nero e le osservò bene nel momento in cui avvicinò le sue
dita e tracciò un segno immaginario sulla pianta delle mani, finché non le unì
tra loro, legate dall’intreccio delle loro falangi di tonalità diverse,
accostando ed unendo le fronti e curvando le labbra in un sorriso pieno quando
avvenne il contatto, chiudendo per un secondo le palpebre in quel preciso
momento, per poi mostrare delle perle ambrate brillanti e fiere che si
incatenarono a quelle magnetiche di smeraldo. «Sei un bravo lupone».
Era impossibile non capire cosa stesse accadendo.
Derek era malleabile tra le mani di Stiles, bisognoso del suo contatto, di
rassicurarlo e di alleviarlo da più preoccupazioni possibili, anche se era
impressionato e compiaciuto da quell’interesse senza alcun secondo fine. Era
facilmente propenso ad ascoltarlo e a lasciarsi riempire dalle domande che
Stiles gli gettava a raffica, rispondendo a tutte, in tutti i modi in cui era
capace di farlo, che fossero vocali o espressive, parole o ringhi camuffati,
consapevole che il sedicenne avrebbe saputo interpretarli e farseli bastare. Ed
era propenso a lasciarsi toccare da lui, a non possedere uno spazio personale,
a lasciarsi sopraffare dall’uragano gesticolante che era il figlio dello
sceriffo; non lo schivava mai e non gli lanciava alcuno sguardo severo che
avrebbe dovuto sollecitarlo ad allontanarsi e a non riprovarci; al contrario,
se non era Stiles a toccarlo, era proprio lui a creare il contatto tra loro.
Derek non era mai stato così, non permetteva a nessuno di avvicinarsi, se
non alla sua stretta cerchia e nemmeno quella poteva avere chissà che privilegi
con lui ‒ tranne Erica, ma lei se li prendeva arbitrariamente e poco le
importava e gli sguardi severi e poco raccomandabili di Derek se li guadagnava
tutti ‒; se qualcuno lo sfiorava doveva correre lontano e sperare che non
gli accadesse niente; chi lo tempestava di domande non otteneva niente da lui,
se non il suo disinteresse ed il suo sguardo di fuoco che lo giudicava
inflessibilmente e non mostrava alcun tipo di interesse per il prossimo ‒
per il suo gruppo era quasi obbligato.
Quindi sì, Scott aveva capito molte cose in quel momento fatidico.
Si chiese se Stiles l’avesse notato o se ci stesse passando sopra.
Anche se, dal modo in cui Stiles sapeva gestire Derek, la consapevolezza
era presente.
Stiles
era affacciato al cornicione del tetto, stando bene attento a non sporgersi
troppo, sia perché era una pessima idea, sia perché non era propriamente
permesso frequentare quel particolare luogo del liceo; quel tipo di regole se
l’era sempre lasciate scivolare addosso.
Non
era con nessuno e semplicemente lasciava vagare lo sguardo nel vuoto infinito,
fin dove potevano arrivare i suoi occhi e scrutare quello che di Beacon Hills
poteva vedere, accompagnato dal freddo dell’ultimo giorno di novembre ed
affrontandolo con un abbigliamento poco consono e leggero; ottimo per la sua
distrazione e la poca cura di sé.
La
porta che conduceva al terrazzo si aprì e Stiles non si voltò nemmeno a
controllare chi fosse, continuando a fissare l’orizzonte. «Una nuova dichiarazione?» chiese soltanto con
divertimento leggero ed un sorriso abbozzato quando la figura del nuovo intruso
gli si avvicinò.
«Continuano a tormentarti?» domandò invece Derek, senza rispondere alla sua
richiesta, anche se Stiles poteva trarre le sue conclusioni senza problemi.
«No» riferì immediatamente il figlio dello sceriffo, un po’ spensierato, ma
pronto a bloccare qualsiasi missiva il lupo si stava prefissando ancor prima di
conoscere il suo verdetto. «Le tue ragazze sono calme. O arrese. O entrambe le
cose» sconfitte, forse. Era un po’ di
tempo che non accadeva nulla, che nessuna lo stuzzicasse o lo cercasse per
avere informazioni su quell’anello, che non lo accerchiassero o gli tendessero
un attacco a sorpresa; niente più brutti episodi e momenti imbarazzanti,
momenti in cui avrebbe voluto scusarsi senza sapere il perché.
Girava una strana aria, non la classica aria da la quiete prima della tempesta, ma un momento di stallo, un’alzata
di bandiera bianca, innalzata e sventolante; il massimo che riusciva ad
incontrare erano sguardi ostili o accomodanti. Quello però non le avrebbe
fermate dal continuare a tentare di dichiararsi a Derek Hale ed avere una
risposta diversa dal fatidico e ripetitivo no.
«Perché sei qui, allora?» chiese il licantropo di riflesso, osservandolo
attento con le sopracciglia aggrottate.
Stiles scrollò le spalle senza una reale risposta, poggiando il mento sulle
braccia incrociate adagiate sul cornicione, curvando la schiena e lasciando
scivolare i piedi per terra per una posizione più comoda e con meno pieghe. «Si
avvicina il plenilunio» proferì con una cadenza dolce ed univoca, indicando la
luna, che emergeva dal cielo diurno, nell’ultima fase di Gibbosa Crescente.
Derek non pronunciò alcuna parola a riguardo e si limitò ad osservare il
punto indicatogli dall’umano, porgendogli un sacchetto di carta marrone, uno
strappato alla mensa chissà come.
Il figlio dello sceriffo si voltò appena quando intercettò quel nuovo
oggetto entrare nel suo campo visivo, frapponendosi tra loro e, con una certa
diffidenza e sorpresa, l’afferrò con la mano destra, scostandosi dal muretto
che lo divideva dal vuoto e lo reggeva ed aprendolo subito dopo. All’interno
c’erano quattro panini imbottiti, ognuno con un contenuto diverso e tutti nelle
grazie del suo palato, con annesso di bottiglietta d’acqua.
Spostò gli occhi dal contenuto a Derek, per poi riportarli indietro e vide
l’immagine, stampata nella mente, del lupo che si accorgeva della sua assenza
all’interno della mensa e nei dintorni, della sua mancanza d’intenzione di
raggiungere i suoi amici e mettersi in coda per prendere il suo pranzo,
accomodandosi ad un qualsiasi tavolo già occupato dagli altri del gruppo;
probabilmente non avrà nemmeno sentito il suo odore, scartando la possibilità
di esserci già stato tra quelle mura. Doveva aver dedotto che era altrove, proprio
dove si rifugiava per scappare all’esercito esagerato di ragazze, e non solo,
che lo infastidiva.
Aveva fatto una fila diversa, aveva preso tutti condimenti che a lui
piacevano ed aveva afferrato i primi quattro panini, uno per ogni tipo,
facendoseli mettere proprio in quella busta che gli stava porgendo, senza
dimenticarsi dell’acqua, perché era molto probabile che si sarebbe strozzato
tra un morso e l’altro. «Tutti per me?».
«Non so cosa ti piaccia» rispose disinteressato il diciottenne, senza
scomporsi.
Era una bugia, Stiles lo sapeva bene, Derek non aveva sbagliato un colpo su
quel fronte; dubitava che sarebbe accaduto in futuro. «Non butto mai niente»
qualsiasi cosa si trovasse al suo tavolo e fosse destinato a lui,
automaticamente sarebbe entrato nel suo stomaco; non poteva permettersi di
giocare con il cibo, di fare lo schizzinoso e di scartare le cose; ciò che
rimaneva, sarebbe stato consumato il giorno dopo.
In più, era proprio lui ad occuparsi della dieta di suo padre, a
selezionare ciò che poteva mangiare e cosa dovesse essere comprato: il tipo di
carne, rossa o bianca, il taglio, la verdura più appropriata, i giusti
carboidrati e frutta a volontà; aveva una tabella, a cui aveva cominciato a
lavorare dopo il primo principio d’infarto del padre, aveva nove anni e non era
un periodo florido per loro, erano soli, erano soltanto loro due ad un anno
dalla scomparsa della madre; Stiles non poteva permettersi di perdere un altro
pezzo della sua anima.
Si sedette per terra, tenendo il sacchetto in alto ed incrociando le gambe,
appoggiando la schiena al muretto; dall’altro lato c’era solo una rete che li
divideva dal vuoto, era facile guardare il panorama da lì anche da seduti.
«Mangiali insieme a me, non possiedo il tuo stomaco da predatore nella vetta della
classifica della catena alimentare» disse sornione, mettendogli sotto gli occhi
la busta aperta, da cui era visibile l’interno ed era facile estrarre ciò che
catturava la sua attenzione. Era sicuro che Derek non avesse messo nulla sotto
i denti per premurarsi di raggiungerlo.
«Mangi anche più di me, volpe» dichiarò il mannaro con una ripresa sottile
e peculiare, storcendo la bocca in una smorfia felina, pallido sorriso che
prendeva vita soltanto alla presenza del sedicenne.
Stiles gli dedicò quella curva magistrale delle sue labbra carnose che si
stendevano esattamente nella forma della volpe scaltra citata e Derek gli si
sedette accanto come unica mossa da fare davanti a quello scacco, afferrando il
primo panino imbottito che gli capitava e che sicuramente era guidato dal suo
naso di lupo; l’umano lo seguì subito dopo. Era la prima volta effettiva che
mangiavano insieme, dopo che Stiles era praticamente scappato nell’unica
occasioni che si era presentata.
«Mancano due giorni alla luna piena» gli ricordò il figlio dello sceriffo,
ben sapendo che non ce ne fosse alcun bisogno. Era passato quasi un mese da
quell’episodio, da quando aveva visto Derek per metà trasformato, lottando
contro la sua natura animale e se stesso. Un ciclo di ventotto giorni; ogni
ventotto giorni il plenilunio si mostrava, attivando maree e la natura
sovrannaturale nascosta; ne erano passati solo ventisei. «Verrai da me?» dopo
l’episodio in cui Derek era fuggito da casa propria per non incontrare il
colpevole della dipartita di Paige, era tornato a trovarlo soltanto una notte,
senza alcuna parola o spiegazione, nessuna scusa o reticenza. Aveva
attraversato la finestra, lasciata aperta di qualche centimetro, e se l’era
richiusa dietro. Era tardi, il cielo quasi nero ed era vicino all’ora fatidica
delle streghe; non avevano proferito parola e Stiles era a letto già da un bel
pezzo, l’aveva accolto a mezza dormiveglia e si era scostato d’istinto,
riconoscendo la sua presenza e calore; Derek si era semplicemente infilato
sotto le coperte e si erano addormentati quasi subito.
«Forse» pronunciò, addentando il suo panino con classe, criptico e sospeso,
come se dovesse seriamente pensarci su e valutare i pro ed
i contro, se valesse davvero la pena e non ci fossero complicazioni scomode.
Stiles sbuffò spigliato attraverso gli angoli della bocca tirati verso
l’alto, lanciandogli un’occhiata di sbieco e mordendo il suo pranzo per fargli
verso. «Muoio di freddo, io».
Derek roteò gli occhi con noia, percependo una duplicità in
quell’affermazione scontata che aveva solo il pretesto di riportargli alla
mente che di sovrannaturale non aveva niente e che sarebbe rimasto ad
aspettarlo con la finestra aperta agli inizi di dicembre, con la temperatura
che andava sempre di più ad abbassarsi. Ma anche in quel momento l’aria era
pungente ed invasiva, pizzicando la pelle e procurando tagli di gelo, e Stiles
manteneva i brividi a stento.
Il lupo si scosse un po’, sciogliendo il lieve intreccio delle sue gambe
mai chiuso e poggiando il ginocchio sulla coscia del figlio dello sceriffo con
nonchalance, come se fosse un gesto del tutto casuale ed improvviso, dovuto
alla scomodità della posizione acquisita. Stiles fu subito colto dal calore che
partì da quel preciso punto, fino ad espandersi in tutto il suo organismo,
abbracciandogli il cuore.
Sorrise grato, nascosto nel nuovo morso che strappò al panino che era stato
espressamente preso per lui.
«Hai un libro sulla licantropia sul comodino?» chiese Derek con la
meraviglia nascosta nel suo solito tono di voce controllato ed impassibile,
quando entrò dalla finestra durante la notte del primo plenilunio e vide un
tomo scuro, consumato e piuttosto datato, sul mobile vicino al letto.
Stiles scosse le lenzuola, afferrando i vari libri e quaderni che aveva
buttato lì in quel pomeriggio di studio e che stava ancora usando nel momento
in cui il lupo era entrato in casa. «Come credi che sappia tante cose
sull’argomento?».
«Passando ore davanti al computer» elargì il moro con ovvietà, lanciando
un’occhiata accennata e scrutatrice al volume messo in bella vista.
«Faccio anche quello» confermò il padrone di casa, poggiando tutti i libri
scolastici sulla scrivania e facendo attenzione a non urtare il portatile. «Mi
avvalgo di ogni fonte possibile».
Era inequivocabile, gli occhi boscosi di Derek si posarono sulla libreria
posta sulla stessa parete della porta, attaccate e permettendo lo spazio
soltanto agli infissi per facilitarne l’apertura; era piena di ogni argomento
riferito al mondo del sovrannaturale: streghe, fate, leprecauni, folletti di
ogni specie, vampiri, banshee, un dizionario contenente ogni creatura esistente
o solo nominata da deliri, in ordine alfabetico e con tanto di immagine
raffigurativa, ed un discreto numero di volumi, che superava tutti gli altri,
dedicati alla licantropia. Erano un tesoro inestimabile per Stiles e li
trattava tutti con cura.
Derek distolse la sua attenzione da quella pila infinita e le sue mani
sfiorarono la copertina del libro che per qualche ragione sembrava avere un
trattamento speciale, un occhio di riguardo; non era al massimo della sua
forma, era macchiato e consumato, strappato un po’ sui bordi e con un piccolo
buco sotto il titolo, a spezzare il sottotitolo e il nome dell’autore quasi
completamente cancellato; le pagine erano giallicce e non combaciavano
perfettamente, i vari moduli erano tutti divisi in modo netto, e la rilegatura
presentava delle macchie ancora più gialle delle pagine in sé, il dorso era
quasi completamente andato. Era un vero disastro, uno di quelli il cui unico
posto era il cestino della spazzatura, sommerso di tutto il resto che si poteva
gettare per fare in modo di tenerlo il più lontano da sé e dimenticarsene; non
avrebbe avuto ancora lunga vita, ma lì era contenuto il cuore di Stiles. «È
piuttosto vecchio» disse invece senza alcuna sfumatura nella voce, aprendo
appena un capitolo qualsiasi e rubando giusto due parole; l’inchiostro nero era
stranamente stabile, duraturo ed irremovibile, come se avesse tutta
l’intenzione di narrare le sue storie e la sua conoscenza per molto tempo;
forse finché il piccolo umano ne avrebbe avuto bisogno.
«Perché lo è» confermò il figlio dello sceriffo con accondiscendenza ed un
sorriso accattivante, avvicinandosi al letto e prendendo il libro tra le mani,
strappandolo al vago interesse del lupo. «Avevo uhm… sei anni forse; mamma mi
aveva trascinato a questo mercatino dell’usato vicino al confine della città.
Si riunisce ogni sei mesi nello spiazzo libero che conduce alla foresta, ha un
che di atmosferico; fa un po’ il giro della California, le piccole cittadine
con un po’ di storia e mistero, è come se avesse un tema ben preciso e non
volesse tradirlo mai; non lo troveresti mai in una grande città» cominciò a
raccontare, immergendosi nella sua capacità di narrazione che partiva appena
vedeva uno sbocco e lui ne individuava sempre uno, la differenza stava nel
fatto che Derek l’ascoltava davvero. «Siamo capitati davanti questa bancarella
strapiena di libri, tutti vecchi e tutti polverosi, non nelle migliori
condizioni» ed era evidente, ma lui sfiorava le sue pagine ingiallite comunque
con affetto. «E c’erano tutti i più svariati argomenti senza limiti e senza
riserve; questo era aperto su una pagina casuale probabilmente, ma era sommersa
da molti altri libri ed era nascosto e messo un po’ di lato. Non so bene perché
li abbia spostati tutti ‒ ed erano volumi anche più grandi di me ‒,
staccandomi da mia madre, ma cercai di arrivarci e capire cosa fosse
raffigurato su quella pagina ed era un disegno immenso che si estendeva in
entrambe le due pagine, e c’era questo enorme lupo grigio dagli occhi rossi, i
denti digrignati e la bava alla bocca, feroce e spietato, immensamente bello ed
attrattivo, sembrava che stesse per alzarsi in piedi, tenersi saldo solo su due
gambe ed affrontare il mondo; lo trovavo stupendo e il timore che avrebbe
dovuto suscitarmi non c’era, ero solo ammaliato e rapito e lo volevo
disperatamente» il volume si aprì magicamente proprio su quell’immagine quando
le sue dita arrivarono al centro e Derek poté vedere con i suoi occhi di cosa
parlasse e cosa l’avesse attirato tanto; c’era una fitta boscaglia dietro di
lui, da cui usciva il lupo mannaro, gli artigli bene in vista, pronto a colpire
la nuova minaccia o bersaglio, la nuova possibile preda; per Derek sarebbe
stato ragionevole chiudere il libro ed allontanarsi, ma agli occhi curiosi ed
attenti del piccolo e forse non tanto ingenuo Stiles, quello doveva essere uno
spettacolo senza eguali. «Mamma l’ha guardato con diffidenza e scetticismo,
studiando bene le condizioni in cui fosse e trovandole davvero pessime, ma io
non riuscivo a vedere alcun difetto, era bellissimo così com’era ed avrei fatto
di tutto per prendermene cura ed imparare ogni parola di quelle pagine,
immagazzinare tutte le figure che vi erano stampate. È un libro per grandi, diceva, sarà
molto difficile per te leggerlo, forse dovrai aspettare di crescere un po’,
forse voleva davvero che aspettassi o forse voleva che me ne dimenticassi; era
davvero titubante, questo lo ricordo, ma lo posò e per lei era come se ci
avesse messo una pietra sopra. Guardammo altre bancarelle e lei comprò qualche
oggetto che attirava il suo interesse ed io le calavo semplicemente la testa o
la indirizzavo verso qualcos’altro di più sbarazzino; comprava anche quello, ma
la mia mente era sempre rivolta a quella bancarella ed a quel lupo grigio dagli
occhi di fuoco, era un pensiero che non riuscivo a togliermi e spesso mi
incantavo e mi fermavo di punto in bianco, mamma veniva sempre trattenuta dal
mio braccio teso che faceva un po’ di resistenza senza che me ne accorgessi» la
pagina cambiò e mostrò la figura di un uomo nella sua trasformazione beta, gli
artigli, il volto cambiato e simile ad una bestia, ma sempre legato alla sua
forma umana ed aveva gli occhi dorati di un Beta non contaminato dall’azione di
un omicidio. «Quando le fu evidente che non riuscissi a pensare a nient’altro,
tornò indietro e lo comprò. Il mio primo libro sui licantropi e su qualsiasi
creatura sovrannaturale» si esaltò a quel ricordo, manifestando tutto il suo entusiasmo
e sfiorando in una carezza accennata lo spessore del numero sproporzionato di
fogli macchiati che conteneva quel tomo. «Ero così eccitato che presi a
sfogliarlo in macchina ed a decifrare le parole scritte, ma mamma me lo
sequestrò, perché non fa bene agli occhi
leggere in movimento; mi sentì un po’ vuoto e scontento, ma avrei potuto
riprendermelo una volta arrivati a casa, ma lei non era molto entusiasta
dell’idea e sapeva benissimo che l’avrei buttato sul letto, sporcando tutte le
lenzuola di polvere sconosciuta e raccolta nel tempo. Cercò di pulirlo il più
possibile, di togliergli tutti quegli strati e di fargli prendere un po’ d’aria
ed io non riuscivo a stare fermo, trottolavo nella cucina insieme a lei e
l’asfissiavo. Pensavo che una volta che avesse finito di fare quello che stava
facendo, me l’avrebbe restituito e per quanto lei mi spiegasse perché ancora
non potevo averlo, io diventavo un po’ sordo; alla fine cedette e me lo
restituì prima di cena, confidando in un linguaggio ostico che avrebbe potuto
scoraggiarmi» Stiles abbozzò un sorriso nostalgico e lieto, aprendo la pagina
sul primo capitolo del libro. «Povera donna, non li raggiunsi mai per cena e
furono costretti a salirla fino in camera mia. Avevo già letto più di trenta
pagine con il mio piccolo vocabolario accanto e non contento, mi ero
arrampicato per prendere quello grande, nella più probabile possibilità che lì
vi fossero più parole che potessi trovare» il suo vocabolario personale era già
ricco di parole ostiche e gigantesche, con la conoscenza del giusto significato
e la capacità di cercare quasi con precisione le parole che non conosceva;
aveva iniziato a leggere a cinque anni, divorando tutto quello che tenevano in
casa e che la sua mente riusciva ad immagazzinare. Era partito dalle letture
più elementari fino a quelle più complesse, con i suoi limiti ovviamente; il
suo primo libro sulla licantropia era il più difficile e per adulti su cui
avesse posato le mani fino a quel momento; non volle mai l’aiuto di sua madre
per decifrarlo, ma la informava di tutto quello che vi era contenuto e lei
l’ascoltava paziente, senza sminuirlo, anche se cominciava ad essere distratta
e con la testa da un’altra parte. A volte doveva richiamarla e riattrarla a sé
e come risposta si ritrovava degli occhi vacui che poi riprendevano colore;
ancora non sapeva quale processo fosse iniziato all’interno di quel cranio, il cervello
che avrebbe smesso di funzionare entro un paio d’anni, consumandola. «In pochi
giorni l’avevo divorato e appena concluso, ricominciai a leggerlo diverse
volte».
Stiles si abbandonò sul letto una volta terminato il monologo, sedendosi a
gambe incrociate sul bordo del materasso ed adocchiando le prima parole di quel
capitolo, le prime che aveva letto dieci anni prima. Terminato il periodo,
occhieggiò Derek con titubanza e curiosità, come se si fosse dimenticato che
stesse parlando di licantropi proprio con un licantropo in carne ed ossa. «Che
c’è?».
Gli occhi verde foresta erano seri ed inespugnabili e rimanevano a
guardarlo dall’alto della sua posizione. «Un fissato» solo a me poteva capitare un fissato di lupi mannari era quello che
in realtà era contenuto in quella dichiarazione e che a Stiles arrivò dritto e
chiaro.
Le labbra del sedicenne si imbronciarono offese e gli scoccò
un’occhiataccia arrabbiata ed era evidente il sorriso sotto i baffi che il lupo
nascondeva. «È un bene che ti abbia trovato questo fissato quella notte».
La mano calda e grande del mannaro si immerse tra i suoi capelli castani e
Stiles sentì perfettamente il metallo freddo del suo anello gemello accostarsi
alla cute. «Sai perché mi hai trovato quella notte?» domandò solennemente e
criptico, alzandogli la testa per incontrare le sue gemme d’ambrosia,
premendogli le dita e trattenendo le ciocche. «Perché conoscevi già la mia
natura. Chi fossi. Cosa fossi».
Il fiato dell’umano si spezzò in piccole porzioni di frammenti e la gravità
della sua voce gli entrò tutta dentro, portandolo sempre un po’ di più a
cedere. «Non è mai stato un segreto, Derek. Sei un lupo».
«Sì» confermò il diciottenne, curvandosi un po’ ed accorciando la distanza
che li separava. «Ai tuoi occhi» un lupo solitario, uno che stava lontano dagli
altri, che non voleva rapporti e relazioni umane, fuorché quelle obbligatorie,
e che aveva sempre uno sguardo di sufficienza e poco interessato; quello era il
tipo di lupo che gli altri vedevano, che osservavano da lontano e che
idolatravano.
«Avevo ragione» rettificò il figlio dello sceriffo, facendosi valere e
mettendo in evidenza quanto vera fosse quell’affermazione. «Eri un lupo, avevi
un branco. In ogni tua espressione, movimento, l’aria che aleggiava intorno a
te urlava quanto lupo fossi; era quello che vedevo, era quello che percepivo da
te. Sapevo per certo cosa del lupo ci fosse in te, ma non sapevo fino a che
punto».
Derek lo fissò ancora, non abbandonando la posa perfetta, lasciando
scivolare il pollice fino all’attaccatura dell’orecchio. «Fantasticavi su di
me?».
«Sì» rispose Stiles senza alcuna esitazione, ma si rese immediatamente conto
di cosa avesse detto e dell’espressione compiaciuta ed allusiva che si dipinse
sul volto del capitano della squadra di basket, cambiando tutto il suo assetto.
«No, no, no. Derek! Non in quel senso» sbraitò incespicando, agitato e preso in
contro piede, scivolando dalle dita ancora legate ai suoi capelli e spostandosi
verso il muro, la parte ufficiale del suo letto ‒ l’altra era evidente
che fosse diventata di Derek.
Derek ammiccò vittorioso e Stiles lo guardò furioso e teatralmente tradito,
ma si era spostato comunque, lasciandogli il suo spazio ed il licantropo non
perse tempo a seguirlo.
«Eri uguale alle raffigurazioni dei miei libri» si giustificò il figlio
dello sceriffo, benché non ce ne fosse alcun bisogno, nel momento in cui Derek
si stese vicino a lui, senza scarpe e la fedelissima giacca di pelle.
Il diciottenne si voltò verso di lui, dedicandogli un’occhiata indicativa
ed amara e Stiles capì subito cosa stava per dire. «Non sono un’Alpha» gli
ricordò atono, pur sapendo che per entrambi non era necessario, facendo chiaro
riferimento all’immagine che prima gli aveva mostrato e che dieci anni prima
l’aveva incantato. «Né l’altro» non era un Beta dagli occhi dorati, puro e
senza alcuna macchia che sporcasse la sua anima, come quello che si era mostrato
nella seconda illustrazione che si era aperta sotto i polpastrelli.
Stiles non sperava di certo che Derek l’avesse superata, che avesse smesso
di colpevolizzarsi e di odiare la sua natura da Beta dagli occhi blu metallici,
ma confidava che non fosse così distrutto quando quella realtà emergeva fuori,
quando trovasse qualsiasi riferimento che colpisse la sua vera indole.
Stiles non voleva nemmeno riferirsi a quello, voleva semplicemente fare
presente quanto dei tratti dei lupi, i suoi lupi, quelli con cui era cresciuto
e che aveva amato, trovasse in Derek; non aveva alcuna importanza la
distinzione di Alpha, Beta ed Omega. Derek era un lupo, il suo primo lupo, il
suo lupo dagli occhi blu elettrico che sferzavano l’oscurità. «Ci sei anche tu
qui» rivelò con tutta l’intenzione di smentirlo, facendo scorrere le pagine tra
le sue dita ed aprendo il libro ad un punto preciso, poco dopo la metà della
sua capienza.
Fu in quel momento che agli occhi di Derek si parò una tavola che prendeva
tutta la pagina, dipinta con i colori ad olio.
Era un grande lupo nero, il pelo folto e morbido, le zampe forti e solide,
il muso minaccioso e fiero, insieme alle grandi e sferzanti iridi blu
metalliche, abbaglianti ed uniche, così vive e sfavillanti da dare l’illusione
che l’intero animale potesse uscire dal suo involucro di carta e diventare
reale. Un vero e concreto lupo completo.
«È così che ti vedo» bello e dannato,
grandioso ed incomparabile, ma quello, considerò Stiles, era meglio che lo
tenesse per sé. «È così che appari ai miei occhi. Sempre» dal primo giorno, dal primo giorno che ho capito chi sei.
Le falangi di Derek si piegarono su se stesse e sembrava come se volessero
propendersi ed afferrare qualcosa, qualcosa che avevano già toccato, qualcosa
da cui tornavano sempre; Stiles sapeva che Derek voleva toccarlo,
semplicemente. Voleva tenerlo con sé. «Sono lontano dall’essere un lupo
completo».
I lupi completi erano una rarità, una manifestazione a tutto tondo del loro
io, la forma massima che un licantropo poteva raggiungere; chi riusciva ad
ottenerlo, a conquistare quella forma, veniva ricoperto di grande rispetto e la
sua parola aveva un livello del tutto diverso, questo Stiles l’aveva imparato
quasi subito leggendo quel libro e Derek non era proprio il tipo che gliela
desse vinta e che si accontentava di quello che era, benché avesse la
sensazione che la sua unica prerogativa e preoccupazione fosse data dal timore
che potesse deluderlo, che fosse già una delusione. «Cosa importa, tu sei
questo» quando in realtà gli aveva regalato la cosa più grandiosa che potesse
capitargli.
Alla
fine le dita di Derek tornarono tra i suoi capelli, le due teste premute sui
rispettivi cuscini, ma erano così vicini che li separavano soltanto due soffi. «Ti basta?».
Come poteva chiedergli una cosa del genere? Come poteva chiedergli se gli
bastasse avere a che fare con un vero lupo mannaro, uno di quelli che l’avevano
accompagnato per quasi tutta la sua vita e che l’avevano portato a collezionare
svariati volumi che trattassero di loro, ad inondarsi di fumetti e romanzi, a
girovagare per ore tra internet, biblioteche e mercatini dell’usato; tutto il
resto era stato consequenziale. «Sei la cosa più fantastica che potesse piovere
nella mia vita».
Le labbra di Derek si curvarono verso l’alto, appena visibile, ma sul suo
volto sempre serio e privo di espressioni emergeva in modo distinto, ed era una
piega un po’ dolce ed un po’ rasserenata, ma aveva quel retrogusto di presa in
giro che doveva nascondere la nota lieta. «Sei proprio un fissato».
Stiles gli sbuffò contro risentito, ma gli si accostò un po’ di più,
portando le rispettive fronti a sfiorarsi; probabilmente e sicuramente si
sarebbero addormentati in quel modo e non avrebbero fatto nulla per separarsi.
Ci tieni a questo fissato, ma non lo disse mai.
Perfino Scott, se pur con fatica, si accorge
delle cose e queste cose riguardano il suo migliore amico; nulla di poco conto.
In più abbiamo un lupetto che gira intorno al
nostro logorroico preferito e capisce quando non c’è e dov’è e lo nutre perché
Stiles fa cose strane e passa dall’abbuffarsi al digiunare, immerso nei suoi molteplici
pensieri di cui, uhm… qualcuno di nostra conoscenza ne fa certamente parte.
Panini, dopo le patatine fritte con tanto di
maionese, spuntano i panini farciti con i condimenti preferiti di Stiles. Ahi,
ahi, Stiles, ma quanti allarmi staranno risuonando dentro di te.
E sì, Stiles possiede dei libri, dei libri sul
soprannaturale e in particolare sulla licantropia ed in un monologo riassume
tutto quello che di più prezioso esiste per lui a Derek.
Ma c’è molto di più, c’è sempre molto di più
tra loro.
«Sei un nato lupo?» chiese il figlio dello sceriffo la seconda notte di
luna piena.
Derek l’aveva raggiunto il giorno successivo al primo plenilunio senza
nemmeno farselo ripetere, senza aspettare una mezza parola da Stiles e subito
dopo cena, quando figlio e sceriffo ebbero finito e rimesso tutto a posto,
dividendosi nelle attività che solitamente svolgevano a tarda sera, con il
sedicenne già avvolto nel suo pigiama e concentrato a scrivere l’ultima
osservazione sul libro di chimica, insieme a foglietti svolazzanti con esercizi
più o meno svolti ‒ quella era la materia che più gli andava di traverso
e soltanto se costretto si applicava seriamente; aveva comunque il secondo
miglior voto del suo corso, ovviamente dopo Lydia Martin.
«Sì» rispose il licantropo privo di ulteriori indugi, già psicologicamente
pronto a vedersi protagonista delle numerose domande dell’umano.
Stiles si voltò un po’ di più dal lato di Derek, sbucando dalla punta del
cuscino per avere una visione più libera, senza stoffa che potesse dimezzargli
la visuale. Era estasiato ed euforico e benché l’avesse intuito, era comunque
strabiliante averne una conferma ed avere un vero licantropo di sangue puro
accanto a lui; nessun morso e nessun graffio, ma solo generazioni e generazioni
di autentici licantropi. «Sono tutti lupi mannari nella tua famiglia?».
«Solo dalla parte di mia madre» rivelò il diciottenne, che automaticamente
implicava i figli a carico, lui, Laura e Cora. «Malia è un coyote mannaro».
Stiles balzò sul letto, sgranando i grandi occhi ambrati ed alzando la
testa per vederlo meglio, mostrando la sua completa incredulità. «Davvero? Un
vero coyote mannaro?».
Derek lo guardò di traverso, investito da tutte le emozioni eccitate e di
sgomento che si scatenarono dentro l’umano e quasi voleva rimetterlo
sull’attenti, ma era una battaglia persa a priori con lui. «Sai anche di
loro?».
«Un po’» dichiarò il figlio dello sceriffo, tamburellando con le dita sulle
coperte e risistemandole dopo aver scomposto tutto il letto. «Le dinamiche sono
più o meno simili alle vostre».
«Sì, stessa luna, stessi occhi, stessa capacità di guarigione ed
assorbimento del dolore; stesso valore del branco» elencò Derek con voce
lontana, come se non lo riguardasse e semplicemente si limitasse a dargli le
dovute conferme. «Ma lei può trasformarsi in un coyote completo».
Stiles stava per rimbalzare nuovamente sul materasso, facendo cadere tutte
le coperte dal letto e scoprendo entrambi, ma Derek non avrebbe apprezzato e
gli avrebbe assestato un’occhiata assassina che era meglio evitare quando nel
cielo vi era ancora una luna piena al 99%. Ma
cavolo, un vero coyote mannaro, nemmeno nei suoi sogni più proibiti si
immaginava una cosa simile. «Mi piacerebbe vederla».
Derek rimase immobile dal suo lato e Stiles si sentì improvvisamente
richiamare, con la sensazione che avesse detto qualcosa di sbagliato; che si
fosse esaltato troppo per una versione che Derek non poteva o non era ancora
riuscito ad ottenere. «Scusa, so che non mi è permesso vederla» d'altronde non
faceva parte del branco, probabilmente nessuno sapeva che lui era a conoscenza del
loro mondo e nel caso l’avessero scoperto, Derek sarebbe stato nei guai? La
prima regola del mondo del sovrannaturale era di non svelare mai la sua
esistenza agli umani, doveva rimanere nascosta e protetta.
«Non esistono regole scritte, Stiles» affermò il mutaforma, ruotando di
alcuni gradi verso la sua figura, incontrando i suoi occhi bassi mortificati.
«Nessuno ti verrà a cercare per farti tacere e non mi aspetto che nascondi i
tuoi desideri; è un mondo che ti affascina molto e la tua natura curiosa ed
assetata di conoscenza freme per poter apprendere ancora di più, sempre di più;
non c’è alcun motivo per cui debba frenarti» continuò con tranquillità,
perforandogli il timpano ad ogni parola e mettendo ancora una volta in rilievo
quanto sapesse di lui, di chi era, di come agiva, di cosa gli piacesse e come
vi si relazionasse. «Ma per lei è complicato; non sa relazionarsi al di fuori
del branco e non ha mai incontrato qualcuno di esterno, umano, che sapesse di
noi; non so come reagirebbe».
Non sapeva molto di Malia Hale, anzi, non sapeva proprio nulla; la vedeva
sempre in compagnia di Cora, sua cugina e unica compagna con cui si
intratteneva, al di fuori di quel duo, raggiungeva soltanto Derek, insieme ad
Erica, Boyd ed Isaac; per il resto delle attività la
si doveva trascinare e doveva sempre esserci uno di loro cinque per
rasserenarla; le bastava semplicemente vederli, sapere che erano lì, non doveva
essere per forza attaccata a loro, l’importante era che rimanessero nel suo
campo visivo o di percezione. Ma Malia non era sempre appartenuta al nucleo
Hale, quella era l’unica cosa di cui era a conoscenza.
«L’argento non ha alcun effetto su di te» disse invece, dirottando la
conversazione e lasciandosi quella precedente dietro le spalle; evidentemente
era un discorso che doveva essere affrontato con le pinze e probabilmente non
era corretto che se ne occupasse proprio Derek. «Altrimenti non potresti tenere
l’anello e se è uguale al mio, è composto da argento e oro rosso».
«L’anello è identico al tuo» disse con voce profonda e peculiare ed era la
semplice conferma che no, l’argento non aveva alcun effetto su di lui.
«Quindi niente proiettili d’argento» rifletté il figlio dello sceriffo tra
sé e sé, cancellando una voce dalla sua lista astratta ed una delle idee con
cui era cresciuto che si svelava errata.
«Volevi spararmi?» domandò Derek con un sopracciglio inarcato di
perplessità, dedicandogli un’occhiata oblunga.
«No» negò il giocatore di lacrosse, dimenando le mani per sottolineare il
concetto. «Voglio solo capire cosa c’è di vero nelle informazioni che ho
appreso e cosa c’è di sbagliato».
Derek si limitò a guardarlo per attimi di troppo, come se lo stesse
studiando e cercasse di capire se le sue parole fossero vere, sincere, anche se
era propriamente quello che si aspettava da lui; si limitò semplicemente ad
annuire ed a lasciargli carta bianca.
«Lo strozzalupo può ucciderti?» chiese allora, stimolato a continuare con
le sue domande.
«Sì» confermò il lupo mannaro, imperturbabile ed indifferente a tale
proprietà.
«Soltanto il morso o il graffio di un’Alpha può trasformare?» domandò con
più moderazione, anche se era già entrato in possesso di quella nozione nel
momento in cui Derek gli aveva raccontato di Paige.
«Sì» confermò ancora il licantropo, rispondendogli pazientemente, anche se
aveva già fornito quella risposta.
Stiles quella sera, con lo sceriffo già a letto e loro due avvolti nelle
coperte, incuranti del resto, si perse nella continua formulazione di domande,
a cui Derek non si sottrasse, rispondendo ad ognuna e colmando le sue lacune.
Chiese del sorbo, delle sue proprietà e del potere che aveva di fermare le
creature sovrannaturali, chiese se potesse trasformarsi in lupo mannaro al di
fuori della luna piena, della capacità di guarigione e dell’assorbimento del
dolore altrui, se i colori degli occhi che potevano assumere fossero soltanto i
tre di cui avevano parlato, cosa sentisse quando il plenilunio si avvicinava e
quali forme poteva prendere un’àncora. Chiese tanto e molto, completamente a
ruota libera e Derek non sbuffò mai o trattenne le risposte, gli dava
semplicemente ciò che voleva.
«A quale conclusione sei arrivato?» domandò allora il diciottenne, quando
Stiles cadde in un silenzio ristagnante in cui stava riflettendo sulle risposte
che aveva avuto e le stava inglobando in se stesso, riflettendo su di esse e
vedendole da una nuova prospettiva.
«Che la maggior parte dei miei libri dice fandonie» rivelò l’umano con
risentimento, profondamente tradito da quei volumi così cari a lui e raccoglitori
di frottole; non glielo avrebbe mai perdonato.
Derek ridacchiò leggero al broncio provato e risentito di Stiles, così
rancoroso verso gli oggetti inanimati con cui era cresciuto ed a cui aveva
creduto, che l’avevano formato e portato a quel mondo fantastico e al di fuori
della natura classica. «Non ne sono così stupito» affermò per niente colpito,
conscio di quanto fosse impossibile che il reale vivere della sua gente fosse
messo su carta. «Ma hai un buon libro guida».
Stiles lo guardò di riflesso e subito dopo spostò gli occhi sul libro
vecchio e malridotto, quello che Derek aveva adocchiato il giorno prima e di
cui l’umano aveva cantato le lodi.
Durante quel periodo di continue domande ed altrettante risposte, avevano
sfogliato il libro insieme, soffermandosi sulle immagini datate e dipinte ad
olio, così incredibilmente realistiche da sembrare vere; tutto ciò che vi era
riportato era corretto e Derek ne era rimasto straordinariamente colpito,
benché tendesse a non darlo a vedere, ma se il lupo era capace di smascherarlo
e mettere a nudo le sue bugie, Stiles era capace di leggere benissimo le sue
espressioni facciali, anche quelle che mutavano in modo quasi invisibile e gli
sorrideva contro da volpe sapiente e vittoriosa, perché Derek non era l’unico a
saper interpretare l’altro. «Il primo amore non si scorda mai» enfatizzò con
fare birichino, distendendo le labbra in un sorriso a trentadue denti e
sfiorando una pagina in una carezza affettuosa, proprio la pagina dove
affiorava il disegno del lupo nero dagli occhi blu metallici.
Derek gli sbuffò quasi addosso, questa volta sì, del tutto rassegnato al
suo modo di fare.
Ma era evidente che il momento delle chiacchiere e del confronto stava
volgendo al termine e Stiles chiuse il tomo in un tonfo sordo, stringendolo a
sé e portandoselo al petto, affondando il viso sul cuscino, mentre Derek tirava
verso l’alto le coperte, sistemandole al meglio e provvedendo a rimboccarli il
più possibile ‒ poco importava se il lato di Stiles fosse quello che
riceveva maggiori cure.
Il figlio dello sceriffo sbadigliò a bocca aperta, chiaro segno di quanto
la sonnolenza stesse avendo la meglio su di lui, e si impedì di coprirlo,
lasciando che la mano destra si legasse, come da prassi, a quella del mannaro,
permettendo ai due anelli gemelli di incontrarsi, mentre l’altra rimaneva
avvolta al volume schiacciato contro il suo corpo. «Derek» chiamò a mezza voce,
facendo morire un nuovo sbadiglio contro il guanciale.
«Mh» mormorò il licantropo in assenso, pronto a
seguirlo a ruota nel mondo di Morfeo.
Stiles scivolò un po’ sul suo cuscino, avvicinandosi alla trama formata
dalle loro dita incrociate e avvolgendole con il respiro bollente. «Puoi amare
come un lupo?».
La presa di Derek si allentò ed un brivido non identificabile attraversò il
medio, circondando tutto l’anello; se non fosse stato per la fermezza data
dalle falangi di Stiles, l’intreccio si sarebbe sciolto. «Cosa intendi dire?».
Stiles si morse immediatamente le labbra, rendendosi improvvisamente conto
di cosa avesse lasciato trapelare, a cosa avesse dato voce sotto forma di
domanda, il tormento che a volte non gli dava tregua, insieme ad un’altra che
teneva segretamente nascosta nell’oscurità della mente. «Lascia perdere, è una
sciocchezza».
Si stava tirando indietro, era lampante ed intuitivo e Derek poteva
captarlo bene. «Stiles» chiamò con voce modellata, scivolando sul cuscino come
aveva fatto prima l’altro e prendendogli il viso con la mano libera, alzandolo
verso di lui per richiamare la sua attenzione ed impedirgli di fuggire. «Lo sai
che posso sentire il battito accelerato del tuo cuore? Quando rallenta,
tentenna e si velocizza tutto insieme; quando menti o dici la verità, quando
sei preoccupato o sicuro di te» proferì in una domanda a metà retorica,
osservando le sue grandi iridi ambrate allargarsi maggiormente e inoltrandosi
nella ricerca di capire dove volesse andare a parare. «Posso sentire l’odore
delle tue emozioni, la costante contraddizione che ti assale, l’ansia perpetua
che impregna i tuoi vestiti e che trasuda anche in questo momento; posso
sentire la tua agitazione e tutto quello che ti affligge anche a chilometri di
distanza» Stiles espirò quasi a corto di energie su di lui e quell’indomabile
istinto di ritrarsi e fuggire via si stava manifestando in tutta la sua
pienezza. «Non puoi
nascondermi niente».
Il
figlio dello sceriffo lo fissò per un momento, assorbendo tutte le sue parole e
dovette prendere un lungo respiro, uno che gli riempisse completamente i
polmoni e che calmasse la battaglia interiore che si stava svolgendo
all’interno del suo organismo, abbassando gli occhi sull’unica fuga che gli era
concessa, il massimo che gli era consentito per ritornare padrone di se stesso.
«Ho fatto un pessimo affare» disse con uno sbuffo mal controllato, con una
nota speziata di divertimento precario, inclinando la fronte verso di lui,
mentre Derek permetteva che vi si abbandonasse, lasciandole incontrare e
toccare.
La mano del diciottenne si fece più morbida nella curva della sua guancia,
e, continuando a rimanere aderente alla sua pelle nivea, la portò tra i suoi
capelli castani e lisci, vincitori della battaglia contro il gel che utilizzava
e che si disputava ogni giorno, immergendo le dita completamente, tanto da
vederle inglobate in quella matassa indomabile. «Sì, l’hai fatto».
Stiles curvò le labbra in un sorriso di apprezzamento e concorde con lui e
Derek poteva quasi sentirlo sulla propria pelle per quanto fossero vicini in
quel momento. «I lupi scelgono un compagno tra tanti, uno soltanto e sarà
quello per tutta la vita; non vedranno mai qualcun altro» argomentò il
sedicenne quando ritrovò il coraggio, materializzando un’altra delle sue
conoscenze sulla natura di quei canidi specifici. «Un solo compagno che
ameranno per sempre».
«Sì» confermò il mutaforma, senza girarci intorno ed accarezzandogli con
movimenti accurati la cute, un massaggio leggero attraverso i capelli. «Nessuno
è più fedele di un lupo».
Stiles
rialzò lo sguardo, percorrendo quell’ascesa a contatto con la fronte di Derek e
guardandolo dritto nelle gemme di giada. «Puoi amare come un lupo?».
«Non siamo lupi fino a questo punto, Stiles» dichiarò il capitano della
squadra di basket, specificando per bene la differenza che c’era tra loro e la
natura dei licantropi; una differenza fondamentale.
«Non era questa la domanda, Der» intercettò il
figlio dello sceriffo, richiamandolo per riportarlo nella via indicata e non
verso un cambiamento di rotta.
Derek rimase in silenzio per diversi attimi e perfino il suo respiro era
inudibile, l’unica cosa che accertava che fosse ancora lì, era la stretta quasi
nulla delle loro mani destre e quella sinistra che rimaneva ramificata tra i
capelli castani del minore, la fronte che combaciava ancora con la sua e gli
occhi seri che lo ricambiavano. «Non darti queste pene» disse soltanto il
mannaro, univoco e glaciale, mentre i suoi arti scappavano dall’umano,
sciogliendo le prese.
«Derek» chiamò con voce spezzata nel momento in cui avvertì la divisione e
corse per muoversi a fermarlo e ripristinare il loro contatto, il legame che li
teneva uniti, quello di cui avevano un disperato bisogno. «Lo faresti? Ameresti
la tua persona speciale come un lupo?».
Derek non rispose, lo guardò e basta e quel tipo di sguardo, quello in cui
era tutto impenetrabile e non vi era alcuna via d’accesso, conteneva talmente
tante risposte che probabilmente non avrebbe mai condiviso con lui; mille
discorsi e spiegazioni, centinaia e centinaia di segreti che teneva per sé e
che non avrebbe mai esternato. Se esisteva una risposta a quella domanda, una
di quelle che lo angustiava di più, Derek non gliel’avrebbe rivelata. Forse
mai, forse soltanto per quella sera. Forse Derek non gli avrebbe mai detto la
verità; qualunque essa fosse. Chiunque ne facesse parte.
Ma era chiara una cosa, per quella notte la conversazione era finita, volta
al suo termine e nulla sarebbe valso a riprenderla, ad insistere. Non ne sarebbe
uscito nulla di buono e Derek comunicava con lui più di quanto facesse con
chiunque altro.
Okay, Stiles si sistemò con fare definitivo sul suo
prezioso cuscino, accarezzando con il pollice la copertina del libro che teneva
stretto ancora a sé e schiacciando con la mano destra il guanciale, proprio il
lato che si affacciava davanti agli occhi di Derek.
Gli diede la buonanotte con un ultimo sguardo carico di significato ed un
respiro profondo, pronto per cadere tra le braccia di Morfeo, com’era prima che
la sonnolenza venisse messa in secondo piano.
Derek ricambiò nel suo silenzio perpetuo e per quella notte le loro dita
non tornarono ad intrecciarsi.
Stiles era convinto che Derek non sarebbe tornato la notte successiva, che
l’ultima luna piena di quel mese l’avrebbero passata separati, lontani l’uno dall’altro
e, a buon intendere, non gliene avrebbe fatto alcuna colpa se avesse agito in
quel modo, soprattutto e ben calcolando, quanto si fosse intromesso nella sua
sfera privata, portandolo ad ammettere più di quanto gli fosse congeniale.
Derek aveva dei limiti, limiti che nessuno avrebbe dovuto mai superare,
confini che non potevano essere sorpassati, dei blocchi enormi e dal peso
eccessivo che non potevano essere scavalcati o spostati; semplicemente nessuno
aveva accesso a chi fosse veramente, ai pensieri che gli vorticavano nella
testa e ai problemi che li accompagnavano, alle sue opinioni ed idee;
all’occasione di poter instaurare un dialogo con lui. Derek non permetteva
nulla di tutto quello, ad eccezione del suo branco che riusciva comunque a capirlo
con un increspamento delle sopracciglia e dall’odore che rilasciava; magari
riuscivano perfino a trascinarlo in qualche discussione, ma loro erano speciali
ed appartenevano ad un mondo a se stante.
Stiles si era arbitrariamente inserito nella lista dei tipi che non
avrebbero mai fatto parte della vita di Derek Hale, sia fisica che mentale,
figurarsi la sola idea di potersi intrattenere in una qualsiasi conversazione
con lui o porgergli una domanda. Lo sconvolgimento e l’arbitrariamente stava
proprio nel fatto che il lupo gli avesse permesso molto altro e gli avrebbe
concesso altro ancora.
Stiles apparteneva ad una lista diversa da tutti gli altri, separata dai
tipi qualsiasi ed opposta a quella del branco; Stiles apparteneva ad una lista
in cui figurava il suo solo nome, ma non aveva ancora accesso al suo titolo,
alla sua definizione. Stiles era semplicemente Stiles per Derek ed aveva paura
di aver osato troppo e di aver perso quel privilegio.
Con arrovellanti pensieri inutili ed uno scontento mal calcolato, rimanendo
sulle spine tutto il giorno, Derek si presentò quella sera come se nulla fosse,
coricandosi al suo fianco sotto gli occhi vigili e sbigottiti del padrone di
casa, che lo seguì a ruota.
Derek non si limitò a quella singola sera, al contrario le sue visite si
fecero più costanti e l’una di seguito all’altra, senza alcuna spiegazione che
potesse giustificarle; Stiles le accettò di buon grado e si rincuorò ad ogni
nuova notte.
«Sei qui anche oggi?» domandò la voce disinteressata del licantropo che
proveniva stranamente da vicino a lui, cosa che perplesse non poco il giocatore
di lacrosse.
Stiles alzò gli occhi dal libro di letteratura che stava evidenziando con
un azzurro acceso, inglobando tutte quelle parole e frasi che servivano al suo
apprendimento, e trovandosi davanti la figura del capitano della squadra di
basket, situato sulla gradinata poco più bassa alla sua. «È ancora il mio posto
preferito» proferì con un sorriso pieno sulle labbra carnose, sottolineando,
stavolta, con l’evidenziatore verde un nuovo periodo.
Non c’era nessuno oltre loro due nell’ala dedicata al basket, il campo era
vuoto come lo spogliatoio e non vi era neppure Erica ad osservarli giocare,
mentre Stiles si intratteneva con il suo studio, accompagnato dal brusio del
gioco e dal palleggiare del pallone.
Era l’ultima settimana prima delle vacanze natalizie, prima dell’avvento
della grande vigilia e dello spacchettamento compulsivo dei pacchi regalo; le
attività venivano annullate e rimandate alla metà della terza settimana di
gennaio, poco dopo il rientro a scuola; quindi non vi era nessun laboratorio
pomeridiano o allenamento di qualche tipo, niente nuoto, lacrosse o basket,
tutti i campi erano del tutto sprovvisti dei loro giocatori e le aule si
svuotavano in fretta, senza che quasi nessuno rimanesse all’interno
dell’istituto scolastico.
Era tutto una desolazione, un po’ deprimente in effetti, ma sia Stiles che
Derek continuavano a rispettare le loro abitudini, come l’anno o gli anni
precedenti, rimanendo gli unici abitanti sul campo da gioco; uno persistendo
nell’allenamento e l’altro immerso nei suoi libri.
«Funziona comunque?» chiese il diciottenne con scetticismo, riferendosi
agli strani bisogni che Stiles manifestava, rintanandosi come se nulla fosse
cambiato nel luogo dove si rifugiava durante tutto l’arco scolastico.
Il figlio dello sceriffo tracciò una freccia con la matita che collegava
una frase finale ad un concetto già superato ed evidenziato di arancione,
appuntando un numero minimo di due parole che legasse il tutto, ed alzò i suoi
occhi ambrati per posarli in quelli boscosi, per poi spostarli sul campo da
basket vuoto e sprovvisto di tutti quei suoni che solitamente l’accompagnavano,
senza alcuna palla che venisse lanciata da una parte all’altra ed il canestro che
rimaneva immacolato. Il suo sguardo tornò in quello di Derek. «Mi stai
chiedendo se mi basti?» di lì a poco l’unico suono che avrebbe impregnato
l’aria sarebbe stato il gioco solitario del lupo mannaro, l’unico che l’avrebbe
accompagnato in quell’ultima settimana prima delle vacanze natalizie e al
rientro, esattamente com’era avvenuto un anno prima.
L’espressione immutabile del mutaforma vacillò per un momento fulmineo e
Stiles si rese conto delle possibili implicazioni che potessero essere
contenute in quella domanda che gli era uscita di getto. «Sappiamo entrambi di
quanto rumore ti circondi».
La matita di Stiles picchiettò sulla pagina su cui stava studiando un
attimo prima e le sopracciglia si inarcarono di riflesso. «Proprio per questo
dovresti sapere quanto tempo io abbia passato da solo con te, con il tuo gioco;
proprio qui, seduto in questo posto tre volte a settimana, ben oltre l’orario
concordato per gli allenamenti. Soltanto tu ed io» non era mai andato via
prima. Gli allenamenti terminavano e la squadra si ritirava negli spogliatoi,
sotto abbondanti getti d’acqua e vestiti puliti; perfino Erica levava le tende
dopo un po’ ed in palestra rimanevano solo lui e Derek Hale.
La prima volta si era svuotata in fretta, in campo non era rimasto più nessuno
e la lupa si era volatilizzata, il silenzio era calato come un fantasma ed era
stato fastidioso e lacerante; tornare a casa sarebbe stata la mossa più saggia
per lui e la sua psiche, ma era così vicino a finire di studiare l’ultima
materia che si sarebbe ritrovato il giorno dopo, che rimase comunque, il tempo
sufficiente che gli sarebbe servito per terminare. Ma un pallone palleggiò nel
silenzio perpetuo, rompendolo e districandolo, echeggiando in tutta l’aria
circostante e Stiles alzò immediatamente gli occhi colpito e frastornato,
incredibilmente curioso di capire cosa fosse successo e chi avesse prodotto
quel suono che stava cominciando ad imparare.
Per la prima volta incontrò gli occhi verdi di Derek Hale rivolti verso di
lui, consapevoli della sua presenza e carichi di quella scintilla lupesca che
riconobbe all’istante e che gli attribuì da lì in poi, benché fosse un
immaginario già radicato in lui.
L’attimo dopo la palla riecheggiò nuovamente ed il diciasettenne gli diede
le spalle, ignorandolo ed estraniandolo dalla sua bolla privata.
Stiles rimase in quell’eccezione che classificò come tale, ma che si ripeté
nell’allenamento successivo ed in quello dopo ancora, fino a ricoprire un anno
intero e perdurare in quello che gli susseguì e che stavano ancora vivendo.
«Sei molto più di abbastanza, Der».
Derek lo guardò fisso, irremovibile e statuario com’era sempre stato, da
cui era difficile riuscire a scorgere qualcosa, i veri pensieri e gli stati
d’animo in cui si trovava; sarebbe rimasto sempre un enigma finché non avesse
svelato tutti i suoi segreti. «E come farai, una volta a casa?».
Stiles fu incredibilmente colpito da quella domanda, dal modo sinceramente
interessato e da quell’alone sbiadito che mostrava, ancora una volta, quante
cose conoscesse di lui, il silenzio minaccioso della casa che l’avrebbe
accolto. «So cavarmela» quasi tutta la sua vita era incastonata tra quelle
mura; la scuola, gli allenamenti di lacrosse, i lunghi pomeriggi con Scott e
quelli riservati alla squadra di basket erano soltanto la via per fuggire un
po’, il caos di cui aveva bisogno per sentirsi parte del mondo.
Il mutaforma non apparve entusiasta di quella risposta e probabilmente non
si aspettava nemmeno qualcosa di diverso, ma nella sua posa austera e
controllata, poteva vedere riflessa la sua immagine sconsolata e solitaria che
veniva avvolta dal silenzio, la percezione che Derek aveva di lui.
«Tu, invece, potrai rilassarti un po’ lontano dalle tue ragazze» scacciò
immediatamente quella diapositiva di se stesso, sperando di cancellarla anche
nel diciottenne, rifilandogli una curva saputa sulle labbra carnose.
«Non credo proprio» rettificò il lupo mannaro, accigliandosi vistosamente,
per nulla soddisfatto dal siparietto che gli attraversò la mente. «La mia
famiglia è piuttosto rumorosa e le mie sorelle fanno concorrenza a qualsiasi
esercito di ragazze; vincendo, tra l’altro».
Stiles ridacchiò deliziato ed immediatamente si immaginò un Derek
corrucciato e per nulla ben disposto alla confusione che si creava in casa,
all’invadenza della famiglia e alle molteplici domande con cui l’assalivano,
mentre le voci acute del popolo femminile lo sovrastavano.
Si chiese che ruolo avesse Malia in tutto quello, se si estraniasse,
rimanendo in un angolo o se partecipasse attivamente; doveva essere divertente
mettere in imbarazzo quel lupone acido e sempre sulle
sue. «Dev’essere bello avere una famiglia numerosa. Niente segreti e spazi
privati, l’impossibilità di nascondere le bugie e i rapporti personali
costretti, urla in tutta la casa e porte che sbattono con furia per l’ennesimo,
inutile e piccolo litigio» anche se probabilmente, con la forza sovrumana che
si ritrovavano, era meglio evitare di sbattere le porte.
«Desideri una famiglia numerosa?» domandò il licantropo con incrinatura sospesa,
quasi trattenuta, come se gli facesse male conoscere il responso di quel
desiderio e gli fosse costato tutto l’autocontrollo di cui disponeva per
chiederlo.
«Sì. No. Forse» il figlio dello sceriffo fu riportato immediatamente con i piedi
per terra, strappato al vortice fantasioso in cui era caduto.
Sospirò, lievemente confuso, non conoscendo perfettamente il responso di
quell’ipotetica possibilità. Non se l’era mai domandato, aveva sempre preferito
passarci sopra. «Probabilmente non saprei gestirla, non saprei starle dietro. I
componenti della mia famiglia non si contano neppure in tutte le dita di una
sola mano e alcuni dei suoi membri sono stati acquisiti senza alcun legame di
sangue, conosco solo questo. Ma immagino che, sì, mi piacerebbe averla».
«Bambini che scorrazzano sull’erba rigogliosa, con la pelle pallida ed i
capelli rossi?» ipotizzò Derek per lui, con le labbra tirate che mantenevano la
sua corazzata di disinteresse, imperturbabile a quella vignetta pittoresca.
«Sono prevedibile, eh» Stiles abbozzò un sorriso sbarazzino, quasi timido
ed un po’ imbarazzato ‒ imbarazzato perché Derek Hale sembrava conoscere
il suo amore non tanto segreto per Lydia Martin? ‒, ma nella semplice
leggerezza con cui il diciottenne aveva dato voce a quella fotografia così
surreale e sempre più prossima dall’essere abolita, non poté non notare la
scintilla quasi piegata che macchiò quelle iridi boscose, quelle che ad ogni
nuovo passo gli erano dedite. «Ma potrei benissimo accontentarmi di soli occhi
verdi».
Com’era già successo, il fiato di Derek scomparve, intrappolato dentro di
lui o era così leggero che non gli era data la possibilità di sentirlo, di
percepirlo; se fosse stata una pallida illusione creata dal suo cervello, non
avrebbe potuto saperlo. «Niente di pretenzioso, quindi».
No, niente di pretenzioso, gli occhi verdi di Lydia sarebbero bastati,
sarebbero stati un buon risultato, la prova che ci fosse riuscito e cosa c’era
di più bello di quelle gemme brillanti?
Forse soltanto gli smeraldi incastonati sul viso di Derek, quelle iridi
magnetiche che nascondevano così tante sfumature da confonderlo, quelle da cui
poteva ancora estrarre il vecchio bagliore ambrato dei suoi occhi di Beta,
quelli che non avrebbe mai conosciuto, e da cui poteva scorgere, quando erano
incredibilmente vicini e sembravano attivarsi davanti quella barriera che
spariva, le pagliuzze blu elettrico che splendevano nefaste, senza che si
rendesse conto di quanto sfuggissero al suo controllo.
Gli occhi di Derek erano superiori a qualsiasi altro. «In realtà andrebbe
bene qualsiasi cosa» esordì il sedicenne, accogliendo tutto quello che potesse
capitargli, il tipo di vita che avrebbe affrontato e le sorprese che aveva in
serbo per lui.
Una volta aveva dei progetti, dettagliati e scritti su carta; li aveva
stilati in una notte dei suoi otto anni e mezzo, quando non riusciva a
togliersi dalla testa quella bellissima bambina dai capelli biondo fragola e le
iridi di giada pura; era la persona più stupefacente e meritevole di attenzione
che avesse mai visto ed il suo amore fanciullesco non faceva che crescere e
l’unica cosa a cui riusciva a pensare, era condividere la propria vita per
sempre con lei; tutta una vita.
Erano iniziati i piani di conquista, quelli che servivano semplicemente per
rivolgerle il primo saluto, la prima parola e che lei ignorava stabilmente,
sorda e cieca alla sua presenza ed insieme a tutto quello c’erano i progetti
della loro vita insieme, che avrebbe portato a compimento quando l’avrebbe
finalmente conquistata. Ma mentre gli anni passavano e lui cresceva ed in
contemporanea i piani di vita si allungavano e diventavano sempre più
fantasiosi e strampalati, quel loro avvicinarsi non era mai avvenuto e quando
le cose erano cambiate, non vi era alcuna possibilità di apparire agli occhi
della ragazza diverso dall’essere un solo amico.
Anche l’ultimo progetto era andato in malora e la sua sfiducia era scesa
così in basso, che semplicemente aveva cominciato a farsene una ragione, ma
ancora non era pronto ad abbandonare il suo antico primo amore e tentare di
guardarsi intorno. Dubitava fortemente che qualcuno l’avrebbe aspettato, che
qualcuno lo stesse già aspettando; finché… «Qualsiasi tipo di famiglia è
perfetta» finché due paia d’occhi verdi non si erano sovrapposti a quelli di
Lydia Martin.
L’aria ricadde spaventosamente pesante intorno a loro, con le iridi di
Derek che lo scrutavano con delle sfumature ed un’intensità che non aveva mai
incontrato prima e Stiles non poteva credere di aver dato vita proprio a
quell’insieme di parole, a quella frase che conteneva troppi significati
impliciti, alle miriadi di implicazioni che vi erano contenute e alla
buonissima possibilità che sarebbe stato disposto a creare una famiglia con
lui, una famiglia con Derek Hale, che l’avrebbe accolta e che sarebbe stata perfetta.
Una famiglia perfetta con Derek Hale. Una famiglia perfetta con una volpe
malandrina ed un lupo scorbutico.
Non poteva davvero credere di aver commesso un passo falso come quello.
Le dita della mano destra di Derek solleticarono l’aria, un gesto
incredibilmente simile a quello che compiva lui quand’era sovrappensiero o
semplicemente quando gli era impossibile rimanere fermo ‒ quasi sempre,
quindi ‒, e si tesero verso di lui, insieme a tutto il braccio, come se
volesse toccarlo, sfiorarlo e scostagli le ciocche ribelli con cui
costantemente si intratteneva; dalle sue iridi di smeraldo si vedeva quanto si
stesse trattenendo dal proferire qualcosa, qualsiasi cosa e Stiles ne fu
distrutto, perché aveva appena perso ciò che aveva guadagnato. «Passa delle
buone vacanze, Stiles» disse soltanto, con la voce quasi atona e buia,
riportando la mano esattamente dov’era e mantenendola immobile.
Con il respiro incastrato dentro la trachea, l’umano lo vide allontanarsi,
dirigendosi verso gli spogliatoi e sparendo al loro interno, uscendo poco dopo
con indosso la divisa della squadra ed un singolo pallone da basket che
l’avrebbe accompagnato finché non si sarebbe sentito soddisfatto del proprio
gioco, coincidendo sempre con il tonfo sordo dei libri di Stiles che si
chiudevano per annunciare la conclusione di quella sessione di studio.
Quella era la routine che avevano instaurato un anno prima e con tacito
accordo, senza mai rivolgersi la parola e che pensava sarebbe rimasta finché
Derek Hale non si sarebbe diplomato proprio quell’anno; ma in quel momento si
chiese se per quel giorno le cose sarebbero cambiante, se ad un certo punto uno
dei due si sarebbe tirato indietro, battendo in ritirata e rendendo vano il
primo contatto che avevano creato, la prima abitudine che li aveva resi
consapevoli l’uno dell’altro, persistendo nell’ignorarsi al di fuori di quella
bolla eccezionale nata dal nulla.
Il pallone riecheggiò nella palestra, scontrandosi sul parquet e ridondando
di nuovi palleggi, per poi essere lanciato ed uscire vincitore da un canestro
perfetto e di cui solo lui era stato il testimone.
La palla balzò ancora, in un ritmo perfetto e fin troppo conosciuto, e gli
occhi di Derek furono di nuovo nei suoi, con l’illusione che non si fossero mai
separati ed il cuore riconobbe il tocco gemello di quel battito, così in
simbiosi da non poter essere un errore, un mero scherzo creato dalla propria
mente.
All’ennesimo palleggio, quando ne fu certo e non ci fu alcun margine di
equivoco, Stiles ritornò padrone del suo respiro, ispirando nuovo ossigeno.
Derek tornò a rivolgergli le spalle e Stiles riprese confidenza con i suoi
libri.
Era il ventiquattro dicembre, la vigilia di Natale, e Stiles era chiuso da
solo tra le mura domestiche, completamente nella sua solitudine con niente e
nessuno che gli facesse compagnia.
Lo sceriffo aveva il turno di notte ed a Stiles toccava passare l’ennesima
vigilia da solo – non era propriamente esatto, ma le cose erano cambiate dall’ultimo
Natale e lui non aveva ancora trovato un sostituto, un rimpiazzo, qualcosa o
qualcuno con cui intrattenersi in quelle specifiche giornate.
Aveva fatto di tutto per tenersi impegnato quel giorno, si era perfino
portato avanti con i compiti lasciati per le vacanze ‒ cosa inaudita ‒
ed aveva trafficato per casa comportandosi come una perfetta casalinga ‒
poco lusinghiero ‒ ed aveva risistemato la libreria in ordine di
argomento, perché a volte si annoiava davvero e si stufava in fretta delle cose
che lo circondavano, ma continuava a non trovare il suo prezioso libro antico e
mal conservato sulla licantropia ed era convintissimo di averlo sempre lasciato
sopra il comodino, soprattutto considerando che da quando Derek Hale versione
lupo era entrato nella sua vita tendeva a ripassare un po’ tutto quello che
aveva sempre saputo sulla tematica ed a ampliare e ad immergersi in nuove
ricerche, rileggendo i libri che conosceva a menadito ed a passare delle ore
davvero considerevoli davanti al computer.
A volte chiedeva semplicemente a Derek, perché poteva fare tutte le
ricerche che voleva e trovare un intero universo contenuto in un altro, ma non
aveva alcuna prova che attestasse che tutto quello fosse vero, che
corrispondesse alla realtà, e il suo licantropo personale poteva fornirgli
tutte le risposte che desiderava e colmare le sue lacune, anche se Stiles non
amava per niente essere impreparato e proprio per quella ragione si affaticava
nelle sue ricerche e quindi era tutto un enorme circolo vizioso di cui Derek
rideva, meschinamente.
Morale della favola? Il libro non c’era e se per un momento era andato in
panico ‒ cosa che gli riusciva particolarmente bene ‒,
successivamente l’aveva classificato come la sbadataggine del suo disordine e
chissà dove l’avesse lasciato; prima o poi sarebbe saltato fuori.
C’era, però, qualcosa che non si aspettava saltasse fuori.
«Derek?» chiamò in una domanda intontita e dubbiosa, con in mano l’ultimo
libro che doveva riporre e che era stato accatastato insieme agli altri sulla scrivania
‒ erbe e rimedi, con un notevole elenco delle facoltà dello strozzalupo ‒,
mentre il cui citato l’osservava dalla finestra, seduto comodamente sul
davanzale.
«Pulizie di primavera?» chiese il lupo mannaro con nessuna sfumatura
particolare, guardandolo senza battere ciglio dalla sua postazione.
Stiles ci impiegò diverso tempo per afferrare quella domanda e dargli un
senso; per un momento era apparso completamente smarrito e proprio non capiva a
cosa l’altro si riferisse, poi era subentrato quel brivido che scaturiva quando
Derek faceva una battuta, anche se non era mai quello lo scopo e non era mai
intenzionale, ma era il suo solito modo di beffeggiarsi con stile di lui. «Uhm,
immagino di sì, anche se non so se sono in anticipo o spaventosamente in
ritardo» rispose con una leggera nota di ironia, fissando il volume che ancora
teneva tra le dita e passandosi la mano libera tra i capelli in un gesto
distratto.
«La seconda» dichiarò certo il mutaforma senza scomporsi e privo di
titubanza.
Anche quelle risposte erano tipiche di Derek, così da lui e conformi alla
personalità che vedeva nel sedicenne. Il colpo di scena? Stiles corrispondeva
perfettamente alla visione che Derek Hale aveva di lui. «Che ci fai qui, Der?».
Il capitano della squadra di basket fece spallucce, del tutto
disinteressato a quella forma di interessamento ed interrogatorio. «Non avevo
molto da fare».
Le pupille nere di Stiles si dilatarono completamente per l’incredulità,
accompagnata dalla perplessità di trovarlo lì senza una vera ragione valida.
«Tu, la notte della vigilia di Natale che trascorri con la tua numerosa
famiglia, nonché branco, rumorosa ed invasiva, probabilmente anche festaiola,
con tanto di super cenone e carne al sangue, che si concluderà con lo scartare
dei regali allo scoccare della mezzanotte, non avevi molto da fare?».
«Non scartiamo i regali allo scattare della mezzanotte» lo corresse il lupo
mannaro, persistendo nel suo comportamento statuario.
L’umano lo guardò quasi con la bocca aperta e dovette aspettare prima di
rendersi conto che null’altro sarebbe stato aggiunto. «È tutto quello che hai
da dire?».
«Sì» confermò il mutaforma con semplicità e fermezza.
Stiles sospirò esasperato, inserendo il libro, che ancora si poneva tra
loro, nell’apposita sezione, la sua nuova casa che non sarebbe stata nemmeno
l’ultima, prima di girarsi completamente verso di lui e prestargli la sua
totale attenzione. «Non c’è la luna piena nel cielo, non sei fuori di te e
spero vivamente non ci sia un’emergenza. Non è un giorno qualsiasi in cui puoi
e vuoi infilarti nella mia camera perché preferisci un ambiente diverso da casa
tua o qualsiasi altra ragione di cui al momento sono sprovvisto e non voglio
insistere sul perché non dovresti essere qui durante la vigilia di Natale, ma…»
sospirò ancora, prendendo un lungo respiro prima di mettere tutto sul fuoco.
«Tra meno di un’ora scoccherà la mezzanotte e sarà il tuo compleanno; che cosa
ci fai qui, Derek?».
Derek trasalì vistosamente e le gemme di smeraldo si posarono fisse su di
lui, improvvisamente non certo di chi avesse dinnanzi. «Hai letto il mio
fascicolo?».
Il rubandolo era sottointeso,
chiaro e nitido, e non era per nulla lusinghiera l’allusione di volpe ladra che
gli stava affibbiando. Anche se spesso si intratteneva nella conoscenza di
fascicoli scolastici o cartelle private dei casi del padre, irrisolti o meno,
lui prendeva semplicemente in prestito e poi restituiva. Se poi nessuno era a
conoscenza di quel prestito, era un altro discorso. «Sì. Cioè no. Cioè sì;
voglio dire-» si incartò com’era tipico di lui, soprattutto quando veniva
smascherato, ma solitamente riusciva a cavarsela molto meglio di così,
specialmente quand’era lontano da Derek; quelle battaglie perse in partenza
erano un duro colpo per la sua abilità di salvarsi dai guai. «Le tue ragazze
parlano molto e sono sempre lì a lamentarsi sull’impossibilità di non poterti
dare il loro regalo di compleanno, perché cade proprio il giorno di Natale e…
sono cose che, se continuamente ripetute, apprendi senza volerlo» in realtà
Derek Hale era ancora un diciassettenne, sempre più vicino ad entrare nel suo
diciottesimo anno che gli veniva impropriamente affibbiato. Quell’errore banale
veniva creato non perché non si conoscesse la sua effettiva data di nascita, ma
perché si aveva quella convinzione che il capitano della squadra di basket
fosse tra i membri più grandi del suo corso di studi – dimenticando invece che
era tra i più piccoli –, accompagnata dal suo fisico statuario e ben piazzato
che traeva in inganno. Ad ogni nuovo anno scolastico, benché il suo compleanno
fosse lontano, entrava automaticamente a coincidere con l’età che doveva ancora
raggiungere e si portava quell’appropriazione non voluta fino al nuovo rientro
scolastico.
Il mannaro era scivolato dal davanzale della finestra durante il monologo
del padrone di casa e si era portato davanti a lui che teneva la testa china,
postura incondizionata che chiedeva tacitamente delle scuse, e non si trattenne
dall’immergere le dita della mano destra nella chioma folta e sbarazzina del
suo interlocutore. «Sei il male minore».
Il capo di Stiles scattò verso l’alto e si scontrò con le sue iridi boscose,
serie ed imperscrutabili, completamente concentrate su di lui; riuscivano a
stordirlo come niente. «Cosa? Che intendi dire?».
«La confusione, il rumore, gli schiamazzi ed i festeggiamenti; tu sei il
male minore» proferì Derek in un elenco dettagliato, conoscitore di tutto
quello a cui aveva dato voce.
Stiles indugiò un momento, guardandolo in tralice e riconoscendo un enorme
difetto in quelle parole, in quel concetto che voleva soltanto Derek lontano
dalla ribalta e da ciò che ne conseguiva. «Sono piuttosto certo di essere molto
rumoroso».
Derek si avvicinò di un nuovo passo e le dita si immersero ancora di più,
con il palmo aperto che si poggiava sul viso, proprio all’altezza dello zigomo.
«È quello intorno a te ad essere privo di suono».
Stiles trasalì vistosamente, tremando tutto da capo a piedi, e fu
completamente tramortito dalle moltitudini di parole che Derek non gli stava
comunicando, dalle motivazioni che teneva per sé, da quel pizzico fastidioso e
malvagio che premeva nella sua mente e che puntava a mostrare la sua vita
com’era, scialba e vuota; era così che Derek la vedeva? «Derek» era tutto
quello che riusciva a dire, tutto quello che riusciva a formulare, le domande
che erano tutte racchiuse in quell’unico nome che prendeva una connotazione
enorme e che lo schiacciava. Aveva sempre più bisogno di risposte.
«È per questo che non vuoi mai tornare a casa, soprattutto quando non sei
costretto» gli allenamenti di lacrosse, l’intrufolarsi nella palestra di basket
ed assistere ad un gioco che nemmeno conosceva, ma di cui aveva appreso tutti
gli orari e gli schemi, una palestra in cui tornava quando non c’era nessuno e
l’unico altro abitante, che arrivava dopo di lui, non era nient’altri che Derek
Hale, a fargli compagnia, ad alleviare il vuoto. «Non vuoi tornare in una casa
dove ti accoglierebbe il silenzio; un silenzio che non riesci a riempire per
quanto ti sforzi a farlo. Ad aspettare qualcuno che tornerà tardi o il mattino
dopo, ma da cui corri quando sai di trovarlo già qui».
Stiles era disorientato, completamente succube e privo di vocaboli,
talmente compresso da quella nuova rivelazione che Derek gli aveva fatto, che
gli era nuovamente scappata come tutte le altre; l’ennesima testimonianza di
quante cose sapesse di lui, di quanto riuscisse a leggergli dentro e di quanto
l’avesse osservato. No, l’aveva
osservato? Quando? Come? Dov’era lui? «Sei qui per me» proferì spiazzato ed
illuminato, la voce ovattata e piena di incredulità; lo guardò come se l’avesse
incontrato per la prima volta. «È per questo che continui a tornare? Perché non
vuoi lasciarmi da solo?» nella sua immensa solitudine solitaria, con fin troppa
assenza di rumori e presenze e da quel poco che aveva, ne prendeva tutto il
necessario, facendo scorta per i tempi morti, ma non bastava mai. Non bastavano
mai.
«Lo faccio perché mi va» specificò il mannaro, scacciando le azioni buone e
altruiste che Stiles gli stava attribuendo.
Le labbra dell’umano si curvarono verso l’alto e quello era così da Derek
che non avrebbe dovuto sorprendersi, che non c’era niente di nuovo
nell’abitudine che aveva di nascondere chi era davvero, quali fossero le sue
intenzioni e la predisposizione a preoccuparsi per gli altri. Cora, Malia, il
branco e la famiglia, Derek era molto di più dell’apparente corazza inviolabile
che si portava addosso, quella che tagliava fuori chiunque non gli importasse e
benché la scala fosse molto ristretta ed i muri molto alti, Stiles non sapeva
ancora come avesse fatto ad entrare nel mondo selezionato e ritagliato di Derek
Hale, ma aveva tutta l’intenzione di non uscirne mai più. «Manterrò il tuo
segreto, Sourwolf» disse con una nota allietata e la piccola piega divertita
che macchiava un angolo della bocca, e, approfittando del divario che si
azzerava sempre di più, scivolò verso di lui, incastrando la testa sotto
l’incavo del suo collo e vi trovò il grande calore che l’accoglieva sempre, l’odore
della sua pelle che inspirò a pieni polmoni, accompagnato dalla mano del lupo
che spostò sopra il capo, permettendo a quell’incontro di avvenire e di non
avere alcun ostacolo che rendesse fastidiosa quell’azione. Era la cosa che più
si avvicinava ad un abbraccio ed era così stupefacente ed inaspettato; la
facilità con cui riuscivano ad unirsi, il bisogno che avevano di cercarsi e
toccarsi e non c’era niente che potesse torturarlo e tormentarlo perché si era
arreso così facilmente a lui.
Poteva farlo, poteva lasciarsi viziare un po’ da quel lupo brontolone che
lo metteva su un piedistallo senza proferire mezza parola, senza mai farglielo
sembrare strano o fuori luogo. Era un bene averlo nella sua vita, era un bene
che gli occupasse le giornate ed era tonificante averlo lì, perché
probabilmente avrebbe trascorso la sua serata a pulire la grondaia, per quanto
fosse disperato. «È un buon regalo di Natale» per la grondaia un po’ meno.
Derek accompagnò quell’incontro, quella piccola oasi pacifica, con una presa
più morbida tra i capelli, solleticandogli la cute con i polpastrelli che la
sfioravano appena; era un vizio che probabilmente non si sarebbe più tolto. «In
realtà, ho qualcosa per te».
La voce di Derek gli attraversò immediatamente il nervo acustico e gli
occhi si spalancarono, era quasi sicuro di essersi perso qualche pezzo per
strada, di aver saltato parte delle loro conversazioni, di aver fatto un balzo
per arrivare in un punto di cui non conosceva nulla. «Hai qualcosa per me?»
ripeté in una domanda arrancata, con la gola quasi strozzata per quel dolore
latitante che non riusciva nemmeno a capire da dove provenisse.
Si scostò da lui, uscendo da quell’antro protettivo, costringendo l’altro
ad abbandonare la presa tra i suoi capelli, che un attimo prima l’aveva avvolto
e che stranamente combaciava con le sue esigenze, come tutto il resto, e le
gemme di ambra pura corsero immediatamente in quelle di giada.
Il mannaro non si mosse, nemmeno un singolo movimento del capo per
rispondere tacitamente a quella domanda ridondante che conteneva già il
responso; l’unico gesto che si permise di fare, fu mettere in mostra il braccio
sinistro che per tutto il tempo era rimasto dietro la schiena o parzialmente
nascosto, dettaglio che era sfuggito del tutto ad uno Stiles concentrato solo
sulla presenza fisica e materialista di Derek, del significato che l’aveva
portato fin lì.
Nella mano era trattenuto un parallelepipedo rettangolare che a quegli occhi
mielati appariva del tutto sconosciuto, benché le dimensioni gli erano
spaventosamente familiari ed al suo interno vi era contenuto un ulteriore
parallelepipedo rettangolare bianco; dalla base fuoriusciva la parte finale di
un laccetto largo un paio di centimetri e dallo spessore sottile. «Mi hai preso
un libro?» non era una vera domanda, era così confuso e costernato che non
riusciva a capire cosa avrebbe dovuto dire, con quale intonazione si sarebbe
dovuto esprimere. Era completamente in alto mare e sentiva di stare per
annaspare.
«Guarda meglio» disse il licantropo, allungando il braccio e portandolo
proprio sotto gli occhi del sedicenne.
Stiles lo guardò dapprima completamente smarrito e quando l’oggetto
inquisito gli si avvicinò, le pupille non riuscirono a restare ferme e caddero
su di esso, per poi saettare ancora una volta verso le iridi boscose senza
sapere esattamente cosa fare.
Avvicinò le mani di poco, tremanti e titubanti, sospese in aria e vicine a
quel regalo del tutto inaspettato e il cui significato era sconosciuto.
Quando riuscì a prenderlo tra le proprie dita, permettendo a Derek di
lasciarlo, l’incertezza di aprirlo ed esaminarlo era ancora troppo grande. Al
centro della copertina verde scuro, di pura pelle, vi era incisa un’unica lineare
ed essenziale parola che aveva letto per anni e che da qualche tempo era
entrata completamente nel suo ordinario giornaliero: licantropia.
Era il titolo più semplice e banale che potesse esistere, talmente
superficiale che era estremamente facile passare avanti e dedicarsi ad altro;
non aveva nulla di speciale rispetto a tutti gli altri che avevano trattato tale
argomento. Per Stiles non era mai stato così.
Poggiò i polpastrelli sulla pelle scura, sentendo sotto di essi il rilievo
del titolo, era come se apprendesse soltanto in quel momento l’esistenza di
quella specifica parola ed era quasi tentato di non andare oltre, che
quell’unica cosa gli sarebbe bastata. Ma le dita avevano vita propria ed il suo
corpo spasimava, la sua mente era divisa in due come il suo cuore; la
differenza era che la curiosità ed il bisogno di sapere erano tutto ciò che
dominava in lui e che lo portavano ad essere quello che era, quindi fu
inevitabile aprire il volume appena ricevuto e trovarvi dentro tutto quello che
i suoi occhi avevano incontrato per anni, bevendone ed ingurgitandone
avidamente, tentando di imprimersi ogni singola lettera e concetto, perdendosi
nella contemplazione di quelle illustrazioni dipinte con colori ad olio che
erano incastonate nella retina. Era tutto quello che aveva conosciuto ed amato. «È il mio libro» no, come poteva esserlo? Il suo libro era un ammasso di pagine che
manteneva la rilegatura con chissà quale miracolo, i fogli erano completamente
gialli e macchiati, i colori erano vicini a spegnersi e la copertina era quasi
distrutta. Quello non assomigliava per niente al suo libro.
Sembrava appena uscito dalla stampa, l’odore era incantevole, le pagine
erano più bianche che gialle ed erano pulite, i colori erano così vivi che non
poteva distogliere lo sguardo nemmeno volendo; ed aveva una copertina in pelle.
Vera pelle, verde come le foglie degli alberi, delle foreste, l’ambiente
naturale dei lupi, il colore più adatto che potesse esistere ed era del tutto
intatto.
Era maestoso ed era bellissimo e probabilmente sarebbe stato quello
l’aspetto del suo prezioso libro nei suoi giorni di gloria.
«Ho pensato che non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo» dichiarò il lupo
mannaro, rispondendo ad una domanda che Stiles non aveva nemmeno elaborato
perché nella sua mente non aveva ancora preso una forma; forse non l’avrebbe
presa mai perché gli appariva troppo lontano da loro. «L’ho portato da un
rilegatore».
Un tuffo al cuore pervase senza alcun avviso il figlio dello sceriffo e fu
inevitabile che gli occhi saettassero in quelli di Derek con lo sgomento e la
confusione che, invece di scemare, si dilatava, aumentando il suo smarrimento.
«Un rilegatore?» era qualcosa di più grande, di più immenso, di talmente
importante e pieno di significato che se non avesse avuto i piedi ben piantati
a terra, sarebbe caduto in un imbarazzante tonfo, sotto gli occhi scrutatori
del suo lupo.
Dovette guardarlo meglio quel libro, accertarsi di non star volando troppo
con la fantasia e di non star prendendo una batosta.
Conosceva così bene quelle pagine, quelle parole, quelle che l’avevano
accompagnato per una buona fetta della sua vita, il momento in cui il
sovrannaturale era diventato il migliore dei suoi amanti; nulla sarebbe mai
stato messo a paragone, nessuno avrebbe retto. «È davvero il mio libro».
Soltanto in quel momento Derek sembrò rendersi conto da quale animo fosse
stato investito il corpo dell’umano, di quali incertezze e dubbi l’avessero
accerchiato; forse, nella parte più nascosta e buia, si era sentito tradito.
«Sostituirlo non era considerabile».
Stiles dovette sedersi sul letto, posizionandosi proprio sul bordo e
permettendo alle gambe di toccare il pavimento per continuare a prendere
coscienza di quello che lo circondava. «Hai fatto rilegare il mio libro»
proferì con la voce più modulata e ragionevole che riuscisse a possedere in
quel momento, continuando a sfogliare il volume ed a sentire la consistenza
della carta rinata, il suo spessore e la pesantezza, il nuovo odore che lo rivestiva
completamente. «È pulito, le immagini sono come nuove e ha una copertina di
pelle» non aveva mai avuto un libro rivestito di vera pelle, pelle animale,
quella estremamente costosa e che lo accostava a quei libri incredibilmente
antichi e preziosi.
Lui l’aveva cercato per più di una settimana, senza sapere più dove
guardare e setacciando ogni angolo della casa, e mentre lui era immerso in
quella ricerca, Derek l’aveva preso con sé da chissà quanto tempo, senza che
lui se ne accorgesse minimamente, ed intenzionato semplicemente a
restituirglielo una volta che il lavoro sarebbe stato portato a termine, nel
modo più appropriato. «Io non ho niente per te» disse con mortificazione,
abbattuto ed affranto, rigirandosi il libro tra le mani e chiudendolo con un colpo
sordo, mentre la testa si chinava per la seconda volta in quella serata ad
indice di scuse.
Derek si avvicinò di qualche passo, portandosi esattamente davanti alle sue
gambe, ma rispettando il suo spazio personale. «Sai benissimo che non mi
occorre niente».
«Sì, lo so, ma…» sospirò abbattuto, quasi con il senso di colpa che
cresceva inevitabile, adocchiando la sveglia che sferzava sul comodino,
l’orologio digitale che si avvicinava sempre di più e pericolosamente alla
mezzanotte. «Ancora pochi minuti è sarà Natale e, come se non bastasse, anche
il tuo compleanno ed io non ho niente per te, mentre tu avrai speso una fortuna
per rimettere in sesto un mio libro» perché non se lo poteva permettere ed era
qualcosa che aleggiava tra di loro, ma a cui nessuno avrebbe dato voce.
Derek si inginocchiò davanti a lui, prendendogli il mento tra l’indice ed
il pollice, alzandogli il viso per poterlo guardare dritto negli occhi e
distruggere quel muro che inconsciamente stava creando per poterli separare.
«Non l’ho fatto perché volessi qualcosa in cambio da te, ma perché è qualcosa a
cui tieni e che ami. Avresti preferito vederlo distruggersi completamente
davanti ai tuoi occhi?».
«No. Forse. Non lo so» l’umano sospirò completamente affondato, colpito in
pieno petto e conscio che quell’eventualità era più vicina di quanto avesse mai
immaginato; non avrebbe potuto fare nulla per salvarlo, per quanta cura ci
mettesse nel tentare di stabilizzare la sua condizione e per quanto cercasse di
conservarlo nel modo più appropriato, le cose non sarebbero migliorate e
sarebbero solo peggiorate. Prima o poi non avrebbe più potuto sfogliare quelle
pagine di cui amava tanto deliziarsi. «È la prima vigilia che passo
completamente da solo» disse invece, cambiando completamente rotta ed entrando
in un territorio che non avevano ancora esplorato. «Papà tenta sempre di
prendersi questo turno, così possiamo passare il Natale indisturbati ed a volte
lo chiamano, altre no; cerco sempre di stare al mio posto e di lasciarlo libero
di svolgere il suo lavoro e rispondere alle sue responsabilità. Proprio per
questo passo sempre la Vigilia con Scott ed il giorno di Natale raggiungiamo
lui e sua madre dopo pranzo. Ma le cose sono cambiate nell’ultimo anno ed
adesso c’è Allison e io l’adoro, davvero, ma non mi piace fare il terzo
incomodo, soprattutto quando è così evidente, quindi ho preferito rimanere a
casa mia, da solo».
«Ma domani starete tutti insieme» affermò il diciottenne, ricordandogli
quel passaggio che era stato saltato, ma che rimaneva presente.
«Sì» confermò il padrone di casa, accarezzando il bordo di quel libro
appena ricevuto. «Una strana famiglia allargata» papà, Melissa, Scott ed Allison. «È molto bello così, proprio per
questo avevo accettato l’idea di starmene un po’ da solo; l’indomani avrei
fatto indigestione di gente e compagnia» le iridi d’ambrosia si alzarono verso
quelle di smeraldo ed improvvisamente le mani erano più nervose del solito e
doveva trattenersi dal pasticciare con quel volume che Derek si era premurato
di rimettere a nuovo. «Ma adesso tu sei qui e non c’è prova più concreta che
attesti quanto io abbia sbagliato» dovette prendere un profondo respiro,
svuotare e riempire i polmoni, liberare quella trachea che graffiava e che lo
torturava lentamente. «Tu metti in discussione tutta la mia vita» qualunque
parte della sua vita. Sperava soltanto di essersi spiegato bene, di non aver detto
parole contrastanti, concetti che in realtà volevano dire l’esatto opposto, ma
era così stanco e stremato e Derek gli aveva fatto un regalo ‒ benché il
lupo non l’avrebbe mai chiamato in quel modo ‒ così enorme e gigantesco,
e forse era più di uno, ma il mannaro lo scombussolava così tanto e gli faceva
abbassare tutte le difese senza che se ne rendesse minimamente conto ed era
sfiancante e liberatorio e non avrebbe mai barattato il modo, i modi, in cui
Derek lo faceva sentire con niente al mondo.
La fronte del lupo si congiunse alla sua, spostando la mano sulla sua
guancia, e quella era la vetta massima che poteva raggiungere in quel momento,
la congiunzione finale che li caratterizzava tanto e li lasciava completamente
in balia di se stessi. «Va tutto bene, Stiles».
Stiles espirò sollevato, annuendo contro di lui e curvando appena le labbra
in una piega allietata. «Resti a dormire qui stanotte?».
«Sì» rispose con fermezza il mutaforma, senza tergiversare o prendere
tempo; riflettere sulla proposta era stato scartato a priori. Probabilmente
perché l’intenzione era quella fin dal primo momento.
Il silenzio cadde per qualche secondo, interrotto solo dai loro respiri
regolari che si mescolavano incessantemente, rimanendo in quella posizione
scomoda che sorvolavano entrambi, senza avere alcuna intenzione di spezzarla e
dividersi.
All’improvviso i numeri sull’orologio digitale cambiarono completamente e
la sveglia suonò in un unico segnale acustico, echeggiando per tutta la stanza
ed annunciando lo scoccare della mezzanotte piena e il subentrare del giorno di
Natale. «Buon compleanno, Derek».
Derek gli rispose con un mormorio secco e Stiles gli sorrise di
conseguenza, accontentandosi di quella minima reazione.
Forse il suo regalo per Derek consisteva proprio in quello e forse il suo
lupo scorbutico preferito non desiderava nient’altro.
Ahi, Stiles, hai
questo brutto vizio di cominciare bene e poi giungere ad argomenti spinosi e
scomodi che potrebbero rivelare un po’ troppo e che lasciano Derek nudo. Il
tema dell’amare come un lupo è pesante.
E non potendoci
dimenticare che parliamo di Stiles e si faccia abbastanza problemi sulle cose,
soprattutto quando sbaglia e pensa di aver perso Derek, ricalca la dose ed esce
altro. Come se già non fosse sufficiente quello che accade intorno a loro e
all’intimità che stanno raggiungendo. La famiglia è un altro argomento
delicato.
E poi, nemmeno a
farlo di proposito, arriva il Natale – un Natale scritto a Pasqua, ma chi fa
caso a queste cose – ed è, tra l’altro, anche il compleanno del nostro lupone preferito e questo giustamente Stiles lo sa, perché
quando mai il caro figlio dello sceriffo non sa le cose? E sì, Derek quelle
prime ore le passa con Stiles. Sceglie di trascorrerle con Stiles. E non
contento, gli fa perfino un regalo. Uno di quelli enormi, costosi e
preventivati e davvero mia cara volpe, come fai ancora a non crollare?
Ma forse dovremmo
chiederlo anche a quell’altro, che si limita a dormigli a fianco.
«Ammettilo» esclamò il figlio dello sceriffo, balzando sul letto e
smuovendo tutte le lenzuola.
«Stiles» lo richiamò il lupo mannaro tra i denti, con la pazienza che
scemava sempre di più e la tolleranza che minacciava di togliere i battenti.
«Avanti, ammettilo» ripeté il sedicenne, del tutto propenso a voler
ottenere la risposta che desiderava. «Eri quel tipo di bambino» lo punzecchiò
con un sorriso sornione e fatiscente, smuovendo ancora il letto con il suo
mancato senso del controllo. «Eri quel tipo di bambino che si imbronciava
perché riceveva i regali una sola volta l’anno».
Era ancora il giorno di Natale, il compleanno di Derek, un Natale piuttosto
inoltrato di un tardo pomeriggio e le cose più o meno si erano svolte come
aveva elencato la sera prima Stiles stesso. Lo sceriffo era rincasato presto,
poco dopo l’alba ed aveva abbozzato un’occhiata alla camera del figlio, per
accertarsi che stesse bene e se dormisse ancora; aveva preferito rimandare il
loro incontro mattutino ad un’ora più congeniale e si era buttato sul materasso
in un tonfo morbido, arrancando nel cercare di afferrare le coperte e
buttarcisi sotto.
Soltanto dopo mezzogiorno si era alzato, con Stiles già fuori dal letto e
con la colazione già fatta.
Si erano scambiati reciprocamente i loro regali e preparandosi in fretta,
si erano accinti ad uscire di casa per giungere in quella dei McCall e passare il tradizionale pranzo di Natale tutti
insieme, con la straordinaria presenza di Allison Argent, presenza che,
probabilmente, sarebbe diventata fissa; in svariate occasioni.
Ma com’era più volte accaduto, e come aveva preventivato Stiles, lo
sceriffo fu richiamato a correre alla centrale poco dopo aver terminato il
pranzo e Stiles, consapevole del riserbo che desiderava la coppietta e del suo
posto che si faceva sempre più stretto e piccolo, aveva preferito tornare a
casa, da solo ed a piedi.
Poco dopo che si fu cambiato e che ebbe digitato qualche parola sulla
tastiera, facendo partire la ricerca, Derek fece il suo ingresso trionfale,
quelli che amava tanto fare, presentandosi davanti alla finestra e scivolando
sul davanzale con classe; Stiles avrebbe cominciato a stupirsi sempre meno.
«Troppo rumore in casa, Sourwolf?» domandò il padrone di casa con sarcasmo
velato alla sua figura che entrava dentro casa, senza nemmeno più aspettare il
permesso o un invito.
«Ne avranno ancora per molto» riferì il mutaforma con una spruzzata poco
entusiasta, sedendosi sul bordo del letto.
Aveva il sentore che una famiglia numerosa con tanto di branco al seguito
prolungasse i festeggiamenti più di quanto fosse lecito e non era affatto un
luogo dove Derek avrebbe volentieri passato il tempo; non più del dovuto,
perlomeno. «Per tua fortuna hai un terzo di letto tutto per te» ed avrebbe
scacciato quella vocina cattiva e perfida, molto giocherellona, che gli
ricordava che Derek si prendeva molto più spazio di quello citato e che
l’equidistanza che una volta esisteva tra di loro, dividendo il materasso in
due perfette metà e gestendoselo come meglio volevano, stava diminuendo sempre
più. L’annullamento di un divario che cessava di esistere.
Stiles aveva dimenticato il portatile, che poi si era spento da solo,
raggiungendo il lupo ed avevano passato quel pomeriggio, divenuto sera, nel
classico modo in cui passavano il tempo, senza nemmeno rendersene conto; finché
Stiles non aveva monopolizzato la conversazione, dirottandola da tutt’altra
parte e torturando il povero sventurato.
Derek roteò gli occhi seriamente seccato, rifiutandosi di rispondere e
Stiles ammiccò deliberatamente, trionfante. «Eri proprio quel tipo di bambino»
dichiarò con entusiasmo, liberandosi in una risata fragorosa e percuotendo il
suo interlocutore.
«No» negò vigorosamente il capitano della squadra di basket, rifilandogli
un’occhiata severa e per nulla propenso a quel gioco infantile.
«Sì» persistette il sedicenne, buttandosi a peso morto proprio al centro
del materasso, a completo contatto con la coscia del mannaro. «Ho
quest’immagine di te, con annesso di broncio e sopracciglia aggrottate»
cominciò a raccontare, prendendo la posa e l’aria di un cantastorie. «Un
piccolo lupacchiotto dagli occhi verdi che fremeva per avere il suo giorno
speciale, un’intera giornata a lui dedita, pieno di regali e dolci,
manifestazioni di allegria ed affetto e auguri a tempesta. Ma quando si svegliava
dal suo bel lettino, con la passata esperienza degli altri familiari, compresa
di sorella maggiore, la sua giornata speciale era un giorno di festa per tutti
gli altri e non perché fosse il suo compleanno, le candeline che aumentavano e
le dita delle mani che si alzavano per formare un nuovo numero, ma perché era
un giorno di festa in tutto il mondo, da duemila anni a quella parte ed il
piccolo lupacchiotto riusciva a contare fino a venti e non aveva idea di quanto
grande fosse il numero duemila, di quante dita ci volessero per arrivare a
contarlo» fece ondeggiare le falangi, muovendole a turno e formando numeri
casuali. «Ma era il giorno di Natale e tutti si scambiavano auguri e
spacchettavano regali di ogni dimensione, perfino la sorella maggiore, e cosa
c’era di speciale nella sua giornata speciale, se tutti ricevevano qualcosa e
festeggiavano tra loro, senza metterlo per una volta al centro dell’attenzione
quando tutte quelle persone avevano avuto una giornata tutta per loro? Dovevano
per forza prendersi la sua giornata di tante che ne esistevano?» i suoi tratti
si piegarono un po’, prendendo connotazioni tristi ed abbattute, manifestando
parzialmente i sentimenti che quella situazione potesse suscitare. «Quindi il
piccolo lupacchiotto con il suo broncio si nascondeva nell’ultimo angolo della
grande casa, uscendovi di tanto in tanto, giusto una toccata e fuga per
agguantare qualcosa da mettere sotto i denti, e veniva assalito da nuovi scambi
di auguri a lui riferiti, auguri generali. Soltanto dai membri familiari più
stretti ed intimi riceveva quelli che contavano davvero, ma erano sempre messi
per secondi; prima venivano quelli per il Natale e poi successivamente,
specificando, arrivavano quelli del suo compleanno, come se lo ricordassero
soltanto all’ultimo momento» Stiles scivolò dalla sua postazione, portandosi
davanti alle gambe serrate del mutaforma e poggiando la mano destra da cui era
ben visibile l’anello con la triscele su un ginocchio. «Il lupacchiotto è
cresciuto sapendo che le cose non sarebbero cambiate mai, che sempre meno gente
si sarebbe ricordata del suo compleanno e che non avrebbe mai avuto una
giornata tutta per sé, niente doppi regali o festeggiamenti. Il broncio sarebbe
persistito e tutto il suo viso sarebbe stata una maschera di impassibilità, con
tanto di sopracciglia tese e giudicanti».
«Voli troppo con la fantasia, Stiles» lo riprese il lupo mannaro,
smontandolo lentamente ed assorbendo del tutto il suo entusiasmo, cestinando
quella versione.
Stiles non si sorprese della cosa, non sarebbe stato Derek altrimenti, e
con un piccolo broncio, quasi a fargli verso, che gli increspò le labbra rosee,
si abbandonò a quella mano che persisteva a rimanere sul ginocchio dell’altro,
poggiandovi la testa. «È difficile vivere con qualcuno che costantemente può
fiutare ciò che provi davvero?» era sicuro della sua versione, almeno una buona
parte, ed era quasi certo che tutti quelli che possedevano le abilità da
licantropo, potessero sentire cosa vivesse davvero nel piccolo Derek che non
avrebbe mai avuto un vero compleanno e che nella sua ingenuità fanciullesca, in
cui le priorità erano le piccole cose che alimentavano il cuore di un bambino,
non avrebbe mai ricevuto regali in un giorno diverso da quello in cui il mondo
intero poteva scambiarseli. Qualcuno se n’era mai accorto? Qualcuno aveva fatto
qualcosa di speciale solo per lui? O aveva dovuto aspettare di crescere e
decidere di passare quel particolare giorno con chiunque volesse?
Derek scosse lievemente le spalle, abbandonandole subito dopo contro muro e
rilassandole. «Ci fai l’abitudine. È naturale per noi e non siamo attivi tutto
il tempo».
Forse no, ma quant’era difficile per un bambino nato lupo riuscire a
gestirlo ed a comprenderlo? Sapere costantemente che chiunque ci fosse a
circondarlo, gli odori delle sue emozioni sarebbero sempre state a portata di
naso e che, per quanto le si volesse nascondere, era quasi del tutto
impossibile.
C’erano un’infinità di episodi in cui l’unico desiderio era non rivelare
niente a nessuno e tenere determinati segreti per sé, non avere sempre qualcuno
che ne sapesse più di se stessi e che volesse sempre mettere bocca su tutto o
mostrare la sua espressione comprensiva senza che si fosse proferito parola.
Doveva essere frustante e soffocante e spesso l’unico desiderio poteva essere
quello di allontanarsi da quei poteri invadenti che non avevano un limite. Era
quello uno dei motivi che spingevano Derek a passare più notti con lui di
quante fossero necessarie? «Faccio impazzire il tuo olfatto?» domandò con una leggera
piega spensierata che si dipinse sulle labbra, ben conoscendo la moltitudine di
emozioni che lo investivano e la costante ansia che lo avvolgeva.
«A volte» proferì il lupo mannaro con voce profonda, senza soffermarsi un
secondo sull’esito di quella risposta e confermando l’esistenza
dell’iperattività perfino nelle emozioni del figlio dello sceriffo e Stiles gli
sorrise quasi vittorioso, come se fosse entrato in possesso della conoscenza di
un’arma di distruzione e lui potesse essere classificato come un essere unico e
raro, ma, insieme, mimò delle parole di scuse. «Hai più fiuto di molti di noi»
disse invece, annullando quelle scuse che non erano necessarie.
Stiles strusciò il capo sulla gamba del lupo, poggiando il gomito libero
sull’altro ginocchio ed alzando appena la testa dalla sua posizione comoda e
calda, guardandolo meglio con un piccolo accenno di ghigno sulle labbra
carnose. «Vuoi dire che ci ho preso?» chiese con il chiaro riferimento al ruolo
di cantastorie di cui si era appropriato incautamente.
«Può darsi» proferì il licantropo senza alcuna flessione nella voce,
rimanendo vago ed altisonante.
Stiles si inserì tra le gambe di Derek che quest’ultimo aprì
immediatamente, lasciandogli completo campo libero ed il sedicenne accostò la
schiena su una di esse, mentre abbassava la propria e la infilava sotto l’arco
creato da quella del mannaro, sfiorandogli con le dita dei piedi il tallone.
«Non ho ancora un regalo per te, ma…» sovvenne con tono sospeso e quasi
meditativo, picchiettando nervosamente sul proprio ginocchio semi-piegato,
guardandolo di sottecchi, come in cerca di qualcosa. «Auguri di buon
compleanno, Der» quella era la combinazione perfetta,
l’esatto augurio che doveva e voleva ricevere. Niente generalizzazioni o auguri
esclusivi al Natale ‒ probabilmente di quelli gli importava molto poco ‒,
ma la giusta specificazione del coretto augurio per quella giornata, la sua
giornata, che non poteva e doveva essere confuso con nessun altro.
Probabilmente il piccolo Derek si sarebbe accontentato di quello, di quella
piccola attenzione riservata soltanto a lui in quella montagna di confusione,
dove badavano poco alla sua presenza e dove non gli riservavano il giusto posto
nemmeno per pochi minuti. Era arrivato tardi, ma avrebbe fatto di tutto per dargli
quella piccola soddisfazione, quel piccolo tassello di appartenenza.
La gamba a cui era poggiato Stiles si irrigidì e gli occhi di giada lo
scandagliarono attentamente, senza lasciarsi sfuggire alcun particolare. «Non
sei obbligato».
«Lo so» proferì il figlio dello sceriffo, alzando di poco la testa e di
conseguenza anche lo sguardo, incrociando quello del suo interlocutore. «Ma ho
ancora un po’ di tempo e posso darti una parte di quella giornata che doveva
essere solo tua, dedicata soltanto a te».
Gli occhi verdi di Derek si accesero e quelle pagliuzze blu metallico, che
a volte si materializzavano nel cuore della notte, si mostrarono, pretendendo
di emergere in tutta la loro completezza e Stiles sempre più spesso si chiedeva
se il mannaro se ne rendesse conto, se comprendesse che quella parte del lupo
che voleva nascondere usciva senza il suo permesso quando erano insieme. Poteva
contare le volte in cui accadeva, il numero che superava le dita di due mani;
forse molte di più. «Non ho più cinque anni, Stiles».
L’umano ammiccò deliberatamente, la volpe che prendeva il proprio posto e
che annullava il suo nascondiglio con maestria, avvolgendo con le braccia la
gamba davanti a sé che apparteneva al mannaro e poggiando la testa esattamente
sul ginocchio, rigorosamente riversa verso di lui. «Continuerò a ripetertelo
fino allo scattare della mezzanotte» disse disinteressato e per nulla abbattuto
da quella mancanza di partecipazione, scrollando le spalle e procedendo di
iniziativa propria; non avrebbe potuto dire o fare nulla per scoraggiarlo ed
impedirgli di proseguire nella nuova missione che si era prefissato. Nell’unico
regalo che poteva fargli. «Auguri di buon compleanno, Sourwolf».
Derek sbuffò indispettito, ma lo lasciò fare e Stiles continuò a
ripeterglielo per tutta la sera, nei momenti più impensabili, interrompendo di
punto in bianco una qualsiasi conversazione che stavano intrattenendo, o nei
momenti morti.
Lo fece fino alla fine, nel dormiveglia della notte e dopo che lo sceriffo
rincasò e Derek si allontanò il tempo necessario per permettere ai due di
passare le ultime ore del bianco Natale insieme.
Erano le 23:59 ed erano accoccolati sul letto, con la sveglia che
troneggiava sul comodino, le coperte quasi del tutto rimboccate e le teste
poggiate sullo stesso cuscino, benché ve ne fossero di diversi e Stiles odiava
separarsi dal proprio, e le braccia di Morfeo erano più vicine di quanto non lo
fossero mai state, ma Stiles glielo ripeté ancora una volta, un’ultima volta, e
Derek allungò un braccio, avvolgendogli le spalle ed avvicinandoselo ancora un
po’, immergendo il viso tra i suoi capelli castani.
Quello, per Stiles, era la cosa che più si avvicinava ad un grazie da parte sua.
E forse stava comunicando molto di più di quello che avrebbe voluto.
«Quindi tua madre è l’Alpha» realizzò Stiles ad un certo punto, benché di
indizi lungo il percorso ne avesse incontrati a dozzine.
«Sì» confermò il lupo mannaro, leggendo l’ultima riga del suo libro di
economia e commercio e voltando la pagina per iniziare un nuovo capitolo.
Lui e Derek avevano aggiunto qualcosa di nuovo nella loro quotidianità,
portata specificatamente dal mutaforma, e durante quelle vacanze natalizie
avevano passato diversi pomeriggi insieme a studiare, ognuno le proprie materie
del corretto anno di frequentazione.
Derek passava di lì ogni volta che Stiles non era con Scott o Lydia o
chiunque altro potesse esserci nella sua vita, trascinandosi dietro il libro
della materia scelta e sistemandosi su qualsiasi superfice gli fosse
congeniale; non avevano posti fissi e ruotavano inesorabilmente.
La
prima volta che Derek si era presentato di primo pomeriggio, cambiando
completamente le abitudini del loro orario fisso, che era sempre dopo cena e
tralasciando i giorni del Natale, che non erano compresi nel conto, Stiles era
rimasto piacevolmente sorpreso e stordito, perché aveva quel leggero timore che
ci fosse sempre qualche brutta notizia dietro, ma il diciottenne era
semplicemente lì per lui e per nessun’altro e Stiles cominciava seriamente a
capire che Derek fosse lì per entrambi, che non si limitava semplicemente ad
appagare un proprio bisogno non bene classificato e nemmeno quello di colmare
il silenzio che circondava il figlio dello sceriffo. Erano uno strano connubio
che riusciva a stabilirsi quando erano insieme nello stesso luogo ed andava
bene. Quindi, in effetti, non c’era voluto molto prima che quel singolo
pomeriggio della prima settimana delle vacanze invernali, si estendesse a
quello successivo e quello ancora dopo; così come non erano cessate le notti
che passavano nello stesso letto, sotto le medesime lenzuola; quelle al
contrario, potevano solo aumentare.
Stiles
lo guardò pensieroso ed assorto, seduto sulla sua bella poltrona girevole che
restava voltata per metà verso il letto in cui soggiornava l’altro, quasi
indeciso se porgere o meno quella domanda che gli balzava nella testa e
rendendo rumorosi e visibili i suoi pensieri, gli ingranaggi che ruotavano
instancabili. «Ha ucciso qualcuno per diventare un’Alpha?» ma si sa, Stiles non era
proprio un portento nel tenere determinati pensieri per sé.
Quasi
il libro di economia non cadde dalle mani del mannaro ed i suoi occhi verdi ed
inquisitori si incupirono e c’era traccia di allarme e turbamento. «No» forse non era proprio ottimo accusare la
madre di qualcuno di essere un’assassina a sangue freddo che uccideva per
ottenere potere. In verità, nessuno vorrebbe mai che la propria madre fosse
accusata di omicidio. Soprattutto se si ha a che fare con Derek Hale che aveva
un rapporto davvero conflittuale con quel tipo di circostanza. «Non è così che
funziona nella mia famiglia. L’ha ereditato».
«Oh, scusa. Non volevo dir-. Cioè non intendevo… non volevo fare accuse»
sapeva così poco di quel mondo, l’unica cosa che gli veniva alla mente, l’unico
modo che conosceva con cui si poteva ottenere quello stato, era uccidere un
altro Alpha. Quello e il Vero Alpha, ma quante probabilità aveva di incontrare
un caso così eccezionale?
Derek l’osservò di sottecchi, scrutando l’ennesimo episodio di
mortificazione del padrone di casa, che era consapevole di aver commesso un
nuovo errore e che sarebbe stato difficile ritrattare.
Il lupo soppresse lo sbuffo disinteressato che minacciava di prendere vita.
«Sarà Laura il nuovo Alpha dopo di lei».
Laura. Laura. Laura era sua
sorella maggiore, quella che mancava all’appello e all’albero genealogico di
Derek Hale che aveva stilato nella mente. Si chiese se fosse simile a lui e
Cora o se fosse completamente diversa. «Vuoi dire che lo stato di Alpha passa
da generazione in generazione?».
«La famiglia Hale è molto antica ed è nata come un branco, lo stato di
Alpha è sempre passato da un primogenito ad un altro. È così che funziona nei
branchi veterani» spiegò il lupo mannaro con poche parole e sintetizzando il
concetto, era quasi sicuro che Stiles avrebbe colmato le lacune da solo.
Stiles meditò silenziosamente, fissando un punto fermo sul volume che
teneva tra le gambe piegate malamente e picchiettando distratto con le dita.
«Quindi funziona come qualsiasi eredità, deve sopraggiungere la morte».
Il diciottenne percepì subito il cambiamento d’atmosfera nella stanza che
li circondava, l’aria che si faceva più fitta e fastidiosa, gravosa, quasi
propensa a pizzicargli il naso, torturando il suo olfatto. I cambiamenti
d’umore in Stiles erano sempre imprevedibili e non era possibile schivarli. «Molto
meglio di un brutale omicidio».
«Immagino di sì» Derek non era l’unico ad avere un pessimo rapporto con
quel tipo di situazioni, la morte era un tabù per entrambi e Stiles sapeva bene
cosa volesse dire crescere senza madre, non averne più una. Sperava con tutto
se stesso che il lupo avrebbe conosciuto quel tipo di dolore il più tardi
possibile.
«Stiles» ma i sensi da lupo erano troppo sviluppati e Derek era sempre e
comunque troppo attento a lui, alle sue agitazioni e ai suoi turbamenti, al suo
modo di muoversi e rispondere con il linguaggio del corpo. C’erano cose che non
avrebbe mai potuto eclissare.
Il figlio dello sceriffo agitò le mani in senso di diniego, sminuendo ed
appiattendo la situazione, invitandolo a rimanere al suo posto. «È solo una questione
personale, non ha alcuna importanza» probabilmente non aveva mai detto una
bugia tanto grossa, ma era qualcosa che non voleva affrontare e di cui non
voleva minimamente parlare.
Derek lo guardò in silenzio, mentre Stiles evitava il suo sguardo e si
buttava a capofitto su quella pagina che dovette leggere nuovamente e di cui
aveva afferrato a stento due parole in croce.
Per quanto fosse evidente che Derek volesse dire qualcosa, alla fine lasciò
correre e Stiles lo ringraziò silenziosamente un po’ per quello.
«Sarai il braccio destro di tua sorella» dedusse il sedicenne, girando e
rigirando il foglio degli esercizi di chimica che gli apparivano come un puzzle
irrisolvibile, monopolizzando il letto in cui si trovava.
«Mh» mormorò il lupo mannaro con apparente
distacco, voltando una pagina del suo libro di letteratura e imperturbabile a
tutto lo spazio che l’altro si prendeva senza alcun controllo del corpo.
«È una buona cosa, Der» dichiarò il figlio dello
sceriffo, captando immediatamente la nuova battaglia interiore che si stava
dibattendo al suo interno, il ruolo che pensava di non meritare, di non esserne
all’altezza. «Sarai fantastico come comandante in seconda e rimetterai in riga
gli indisciplinati».
«Se saranno tutti come te, mi aspetta un ingrato lavoro» proferì il
mutaforma con noia, rubando una delle matite che Stiles aveva abbandonato tra
le lenzuola ed apportando una modifica sul libro di testo.
«Io sono una specie a parte» rivendicò il giocatore di lacrosse, abbozzando
un sorriso felino e combina guai, non lasciando presagire nulla di buono. «Le
volpi sono indomabili».
Derek alzò lo sguardo verso di lui, non terminando l’ultima parola che
stava trascrivendo ed incatenando gli occhi ai suoi e Stiles sentì
perfettamente l’anello riscaldarsi e trasformarsi in un principio di brivido
incontrollabile. «Purtroppo» e Derek lo stava spietatamente prendendo in giro.
Stiles sbuffò offeso e gli fregò la matita dalle mani con dispetto, del
tutto intenzionato a non restituirgliela e ad impedirgli di usufruire di
qualunque cosa gli appartenesse; l’unico difetto in quel piano infallibile
stava nel fatto che Derek passasse più tempo con lui e nel suo letto che in
qualunque altro luogo.
Derek gli dedicò un ghigno tutto suo e riservato alla sua sola persona e
Stiles lo ignorò indispettito, rituffandosi negli esercizi di chimica che tanto
detestava.
Ma Stiles non era proprio un campione nel tenere il muso a qualcuno per più
di qualche secondo, forse soltanto nelle cose veramente serie, e la sua mente
era sempre un fiume in piena nella tempesta più rumorosa e florida che potesse
esistere. «Non ce l’avevi» ed a volte era il primo a non usare soggetti e
complementi.
Il capitano della squadra di basket dovette abbandonare nuovamente la sua
lettura ed alzare il capo per guardarlo, aggrottando le sopracciglia, e capire
a cosa si riferisse ed in quale nuova conversazione si stesse lanciando. «Che cosa?».
Il figlio dello sceriffo fece un mentale calcolo veloce, abbozzando il
risultato di quel nuovo quesito di chimica su un angolo e dedicando un’occhiata
veloce verso la mano destra del suo interlocutore, lasciando bene intendere a
cosa alludesse. «L’anello. Prima non lo indossavi» anche se Jackson non era
esattamente di quel parere.
Il lupo intercettò subito il soggetto a cui si stava riferendo,
all’argomento che non avevano mai preso. Chiuse le dita quasi a pugno, come se
dovesse nasconderlo. «Sì» confermò senza sbilanciarsi, tenendo i grandi segreti
per sé, non sembrava particolarmente contento di voler condividere
quell’informazione. «Ma lo portavo sempre con me. Soltanto a volte lo
indossavo, quando ne sentivo l’esigenza» quella precisazione, quel continuare a
condividere qualcosa che teneva per se stesso, sembrava importante. Stiles
sentiva che era un’informazione di vitale importanza.
«Perché soltanto a volte?» domandò il sedicenne con curiosità sempre più
evidente e con un nuovo campanello d’allarme che risuonava nel suo timpano.
«Non conosci la risposta?» chiese retoricamente il licantropo, con gli
occhi verdi più eloquenti di quanto non fossero mai stati. «Abbiamo avuto prove
visive e fisiche che tenerlo per me era la scelta migliore».
«Oh, sì» fu istintivo per Stiles portarsi una mano tra i capelli castani ed
intrecciarvi le dita, come se il terribile episodio in cui Kate e tutte le
altre si erano accanite contro di lui si stesse ripetendo. Probabilmente se le
ragazze di Derek ne fossero venute a conoscenza molto prima, la caccia sarebbe
iniziata da tempo ed in giro ci sarebbero state mille copie diverse dei loro
anelli. E forse, la cosa che più premeva in Derek, era mantenere il segreto. «È
colpa mia se non puoi più tenerlo nascosto».
Derek aveva guardato senza battere ciglio quel gesto casuale che Stiles
aveva commesso, il ricordo di un brutto episodio che tornava in superficie e
che forse non se ne sarebbe più andato via. E per cosa? Perché qualcuno non
sapeva ricevere delle risposte negative? «Non ha importanza. Adesso non c’è più
alcun motivo per cui non dovrei indossarlo».
«È importante?» domandò di getto, senza controllare la lingua e dando voce
alla prima cosa che gli veniva alla mente. «Cioè, certo che è importante. Ma la
triscele è il simbolo della tua famiglia, giusto? È per quello? L’appartenenza
al branco?» anche se era piuttosto sicuro che né Cora né Malia ne avessero uno
simile; che ne avessero proprio uno, di qualsiasi specie.
«No, non è collegato ad esso» rispose negativamente il licantropo,
accarezzando distrattamente il metallo dell’anello con il pollice con l’affetto
più grande che Stiles gli avesse visto mostrare. «È stato creato per me. Chi
l’ha fatto pensava ne avessi bisogno».
Stiles sentì la trachea contrarsi ed un piccolo capitombolo all’altezza del
petto e non poté non domandarsi se fosse stata la sua persona speciale a
crearlo o se ci fosse qualcos’altro dietro. «Ed era così? Ne avevi bisogno?»
quell’anello era stato perfino creato. Creato. Di iniziativa di qualcuno e per
chissà quale motivo. Era stato creato per Derek, solo per Derek. Il suo
impallidiva al confronto.
Derek lo guardò dall’alto verso il basso, distogliendo lo sguardo dal
gioiello che aveva adocchiato per qualche minuto, come se stesse tacitamente
comunicando con esso. «No, per molto tempo non ne ho voluto sapere nulla».
«E poi?» lo incitò Stiles, piegando appena la testa verso la sua direzione
e mostrando l’interesse lampante nelle iridi d’ambrosia che brillavano nefaste.
Era così sicuro che ci fosse dell’altro, che fosse lì a portata di mano e che
doveva soltanto chiedere per avere tutte le sue lacune colmate.
Derek richiuse la mano a pugno e l’anello poteva apparire scomparso o
nascosto, protetto in quell’involucro di carne, ma la triscele intagliata
nell’argento e nell’oro rosso brillava senza riserve, manifestandosi in tutto
il suo splendore, dominando e pretendendo l’attenzione che si meritava. «Le
cose sono cambiate».
C’era così tanto in quelle parole, in quegli innumerevoli significati, che
Stiles non riuscì neppure a contarli tutti e molti continuarono a sfuggirgli,
senza che riuscisse ad afferrarli in alcun modo e scivolando perfidi dalle sue
grinfie. Ma era quasi sicuro, ancora una volta, che lui rientrasse
nell’equazione e la sola idea gli spaccava il cervello.
«Il mio non ha alcun significato» toccava a lui confidare qualcosa,
contraccambiare quello scambio di informazioni e tendergli la mano. In realtà
non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo. «Quando l’ho comprato era
solo un oggetto inanimato senza alcun significato, senza alcuna storia. Credo
che fosse la prima volta che vedessi una triscele e non conoscevo praticamente
niente di essa» Stiles abbassò gli occhi sull’anello in questione e le spalle
del playmaker si irrigidirono. «Ma sai, era in questo negozietto un po’
ignorato da tutti; gli passavano tutti davanti e nessuno gli prestava
particolarmente attenzione ed io invece stavo aspettando che Scott mi
raggiungesse, ma è un vero asso nel farmi aspettare, e quindi non avevo granché
da fare. Sono entrato solo per curiosare e sono uscito con un anello» prese un
respiro corto, sfiorando con i polpastrelli il simbolo inciso e sorpassando
sugli occhi verdi che non volevano saperne di staccarsi da lui. «Non sono mai
stato interessato a questo tipo di oggetti, ma lì ce n’erano davvero tanti e
tutti un po’ anonimi o troppo sfarzosi, ma c’era questo, unico e solo in mezzo
a tutti gli altri. Era diverso e singolare e per quanto dovesse passare
inosservato e alla prima occhiata saresti andato avanti, improvvisamente era
come se ci fosse soltanto quello. Un unico anello in tutto il negozio. Forse in
tutto il mondo» abbozzò un sorriso velato e nostalgico e la piega dei fatti
appariva sempre più grande ed enorme e completamente incontrollabile alle sue
azioni. «Era come un richiamo. Mi sono sentito chiamare e sapevo che ai miei
occhi ci sarebbe stato soltanto quello, che non potevo lasciarlo lì e che era
doveroso che lo prendessi con me».
«Ti sei sentito chiamare?» domandò Derek in un eco spento e frastornato, le
spalle sempre più rigide e negli occhi quel luccichio appena visibile di
sconcerto e turbamento.
Stiles aprì e chiuse le dita per ripristinare la circolazione sanguigna e
annuì in risposta. «Sì, è un pensiero degno di me: un oggetto che mi aspettava
e reclamava» mai quanto l’anello gemello che apparteneva a Derek Hale. Non si
era mai sentito chiamare in quel modo, voluto e desiderato come quell’unica
volta. L’incredibile appartenenza che aveva sentito nel momento in cui l’anello
gli era caduto nell’anulare sinistro, calzandogli come un guanto.
Sentiva quello stesso richiamo tutte le volte che erano insieme, tutte le volte
che si toccavano ed era frustrante e lo faceva uscire fuori di testa. «Ma è
stato un bene. Sai perché ci affezioniamo agli oggetti?» domandò retoricamente,
senza aspettarsi davvero una risposta e lanciandogli distrattamente un lungo
sguardo, trovandolo un po’ più pallido e con il viso leggermente più contratto
di come l’avesse lasciato. «All’inizio non sono niente, ma con il tempo
iniziano ad entrare nel tuo quotidiano e piano piano non puoi più farne a meno
e se li perdessi o non riuscissi più a trovarli, sarebbe come se una parte di
te fosse stata strappata. Gli conferisci le tue storie e i tuoi momenti, gli
attribuisci significati che in realtà non hanno e diventano dei compagni da
custodire gelosamente» Stiles lo sfilò per la prima volta, passandoselo tra le
dita e mettendolo in evidenza completamente, mostrandolo nella sua interezza.
«È questo. È un compagno, è una parte di me ed è per questo che non ho mai
voluto condividerlo con nessuno, soprattutto con qualcuno che mi molesta per
averlo» aveva difeso così tanto il suo anello dalle ragazze di Derek, ma aveva
sempre il terrore che trovassero il modo di averlo, anche a costo di
strapparglielo dalle dita o di tagliargli quello in cui lo indossava. Adesso lo
avrebbe difeso per motivi del tutto diversi o meglio, sommati a tutti quelli
passati. «Lo trovi sciocco?» l’anello ruotò e tornò al suo posto.
«No» proferì il lupo mannaro, sfiorandogli la mano che tratteneva la matita
– che dalla destra era passata alla sinistra, permettendo all’anello di essere
sfilato e mostrato –, che precedentemente gli aveva rubato e riprendendosela
per sé, strappandogliela con condiscendenza. «È degno di te».
Stiles aprì le dita per lasciargliela prendere senza troppi impedimenti e
gli sorrise grato, gustandosi i momenti in cui il mannaro riusciva davvero a
capirlo a dispetto di tutti gli altri.
E benché pensasse che la questione fosse finita lì, Derek non si rilassò
mai durante quel pomeriggio e, nell’apatia delle sue emozioni, si dimostrò
molto distratto, tagliandolo fuori.
Stiles pensò che la questione fosse appena iniziata.
Stiles non l’aveva mai fatto di proposito o per avere un secondo fine, in
realtà non ci aveva mai pensato ed agiva semplicemente come gli suggeriva la
mente, anche se era più il suo essere impulsivo ed istintivo a metterlo in
moto.
Aveva cominciato per caso, in un giorno comune e senza alcun significato;
semplicemente si era fermato al tavolo di Derek e del branco, che fosse per
salutarlo quando non si vedevano per tutta la mattinata o per punzecchiarsi
com’era di rito; la motivazione non era importante, ma il risultato sì.
Le sue soste si erano protratte e le volte in cui accadeva si erano
ripetute spesso, fin quasi a sfiorare il quotidiano e soltanto dopo tutta
quella recita si dirigeva verso il tavolo occupato dai suoi amici, che ogni
tanto gli lanciavano delle occhiate interrogative, ancora increduli di quella
situazione, con i loro vassoi già quasi svuotati o in procinto di allontanarsi;
difficilmente lo aspettavano. Forse l’unica era Allison che sfiorava il suo
piatto soltanto per riempire un po’ lo stomaco ed alleviare la presa di vuoto,
ma si riattivava a mangiare quando Stiles prendeva il suo posto. Probabilmente
fu per quello che ad un certo punto e senza alcun preavviso, Lydia si sedette
con tutto il vassoio appena riempito al tavolo del capitano della squadra di
basket, trascinando Jackson, Allison, Scott e pochi altri, con disinvoltura e
senza battere ciglio, come se fosse una cosa assolutamente normale e ripetuta
nel tempo.
Stiles fu il primo a guardarla interrogativo e confuso e Derek innalzò così
tanto un sopracciglio da arrivare all’attaccatura dei capelli, Cora e Boyd rimasero imperturbabili, Isaac accettò di avere parte
della sua squadra di lacrosse con lui ed Erica sorrise felina in direzione di
Stiles e Derek. Con Malia fu un po’ più complicato.
Non
che guardasse tutti con astio ed insopportazione, ma era la cosa più vicina che
potessero trasmettere i suoi occhi. Probabilmente era quella più a disagio tra
tutti a quel tavolo che mai aveva visto tale composizione.
L’ironia
della situazione? Stiles era l’unico ad essere rimasto in piedi e senza posto
in cui sedersi.
Non
proprio una cosa positiva e rimase per un minuto buono esattamente dov’era: in
piedi e con il vassoio sospeso in aria, accanto alla postazione di Derek che
solitamente si trovava vicino al confine della panca.
L’espressione
del figlio dello sceriffo era smarrita ed una vocina in fondo alla testa gli
suggeriva che probabilmente avrebbe fatto meglio a cercarsi un altro tavolo e
mentre lanciò uno sguardo vago ed indeciso, il lupo scivolò dal suo posto,
prendendo tutta la parte finale della panca e creando un posto a misura di
Stiles tra lui e Malia.
Il
sedicenne, guardando tutta la scena con un certo languore nel cuore, comprese
immediatamente il messaggio ed un attimo dopo aveva già poggiato il vassoio
sulla sua parte di tavolo e stava scavalcando la panca per sedersi.
Fu
strano e d’impatto vederli tutti lì, riuniti intorno alla stessa lastra di
legno, due mondi completamente differenti che non si erano mai incontrati prima
che Stiles e Derek li congiungessero.
«Oh, questo sì che sarà un bel pettegolezzo» esultò Erica con entusiasmo
frizzante, ammiccando ad un tavolo vicino, in cui tutti i suoi occupanti
distolsero lo sguardo immediatamente. «Siamo già sulla bocca di tutti».
L’umano si irrigidì a quella rivelazione e gli occhi vagarono ai tavoli
confinanti ed a quelli un po’ più distanti; Erica aveva ragione su quella
visione. «Scusa, Der. Non è stata una mia idea».
«Non importa» dichiarò il lupo mannaro del tutto indifferente alla
situazione ed ingoiando un sorso d’acqua dalla sua bottiglietta. «L’importante
è che non si verifichi alcuna molestia» e non era difficile capire a chi si
stesse riferendo in particolare ed una piccola postilla gli suggeriva che
forse, il mutaforma aveva scelto quella particolare assegnazione di posti
perché sarebbe stato molto più facile individuare minacce future ed intervenire
per tempo, appianando le discordie e riducendo gli incidenti; se Stiles fosse
stato nuovamente preso di mira, sarebbero dovuti passare prima su di lui.
«Se prendi Stiles, prendi tutto il pacchetto, mio caro Derek Hale» rivelò
la bionda fragola con perfidia calcolata ed un sorriso criptico che si dipinse
sulle labbra di ciliegia.
«Quando avrei firmato questo contratto?» domandò Derek con glacialità, per
nulla propenso ad ascoltare le battutine della sedicenne.
«Questo dovresti dircelo tu» proferì Lydia in una stoccata vincente,
allargando quel ghigno trionfante che la portava in testa e che alludeva a
qualcosa di non espresso.
Stiles raggelò e Derek la guardò in cagnesco.
«Mi piace questa ragazza» esclamò colpita ed ammirata Erica, scatenando un
sorrisetto furbo sul viso di Cora ed una finta posa statuaria da parte di Boyd. «Possiamo tenerla?».
Stiles si schiaffò una mano sul volto, dimenando il capo e tentando
inutilmente di nascondersi. «Ci sarà qualche allineamento astrale da qualche
parte, l’apocalisse sta arrivando».
Derek spinse il piatto più vicino al figlio dello sceriffo, addentando
indisturbato il suo pasticcio di carne. «Mangia e non pensarci».
Era tutto troppo strano per Stiles e gli suscitava delle sensazioni che non
riusciva ad identificare; era lo scenario più assurdo a cui avesse partecipato,
l’incontro di due mondi completamente opposti e che non si erano mai cercati,
il completo ignorarsi gli uni con gli altri. Erano pochi gli anelli di
congiunzione, ma improvvisamente si rendeva conto del passo enorme che aveva
fatto, che avevano fatto e di quel passo indietro che non poteva più essere
compiuto. Dove stavano andando? Cosa stava accadendo?
Se li guardava adesso, tutti insieme allo stesso tavolo, studenti
dell’ultimo anno conversare con quelli del secondo e mangiare insieme, c’era
una pittoresca fitta che gli stringeva il petto e che lo faceva sentire fuori
posto, emarginato e totalmente estraneo, come se non avesse compreso una
risposta lampante che si manifestava davanti agli occhi.
«Stai ancora pensando» proferì Derek poco dopo, osservando con la coda
dell’occhio il vassoio dell’umano che non era stato toccato, mentre il proprio
si svuotava velocemente.
Stiles sbatté le palpebre intontito, ticchettando con la punta delle dita
sulla lastra di plastica rigida e guardando davanti a sé con sguardo assente.
«È solo-» indugiò, non sapendo cosa avrebbe dovuto effettivamente dire e
trafficando distrattamente con le posate usa e getta. «E come se due famiglie
fossero venute a conoscenza l’una dell’altra, sembra… sembra una presentazione
ufficiale» non voleva nemmeno dare un nome alla sensazione e al riferimento che
gli era sfuggito, ma era difficile ignorarlo e passare oltre. La vita con Derek
aveva anche quel retrogusto.
Il playmaker volse la testa verso di lui, ignorando il suo piatto ancora
fumante e dedicandogli la totale attenzione che nascondeva con maestria. «È
solo una sensazione e sarà soltanto per oggi».
Stiles si girò verso di lui con un sorriso mesto e pio, come se apprezzasse
quell’ingenuità e ne avesse compassione, non sapendo cosa lo aspettasse. «Ne
sei convinto? Non si schioderanno mai più da questo tavolo».
«Possono benissimo prenderselo» era difficile capire se fosse una battuta
da parte del lupo o un disinteresse che non aveva alcuna conseguenza davanti
alle sue iridi verdi. Forse a quel branco di traditori e doppiogiochisti
avrebbe permesso tranquillamente di sedersi al loro tavolo, di unire tutte le
volte che lo desideravano quei mondi che non avrebbero dovuto incontrarsi. Forse
per Derek non esisteva alcuna differenza con o senza di loro.
«Mh» Stiles era pensieroso e poco convinto, non
completamente propenso a quel tipo di convivenza, di scenario, era qualcosa che
ancora gli era ostico e che non riusciva bene ad inquadrare senza cadere in un
attacco di panico da cui non sarebbe uscito.
Il mannaro spostò la gamba verso la sua direzione, facendole congiungere ed
investendolo con il suo calore che Stiles sapeva riconoscere ad occhi chiusi e
quello era l’unico contatto che potevano permettersi davanti quel popolo di
occhi indiscreti e curiosi, sempre alla ricerca di nuovi fatti di cui
spettegolare. «Va tutto bene, Stiles».
Le perle ambrate si specchiarono in quelle di giada e le labbra del figlio
dello sceriffo si curvarono in una piega lieve, quasi riconoscente ed un po’
rinvigorita.
Essere salvato da Derek Hale sarebbe sempre stato qualcosa di stupefacente.
Va tutto bene un corno, soprattutto se al suo fianco vi era Malia
Hale che guardava tutti con sguardo torvo e che appariva più smarrita e fuori
posto di quanto si sentisse lui.
Era quasi certo di essere entrato con la forza nel suo territorio e di
averlo invaso, insieme a tutti gli altri e per una coyote mannara non era
esattamente il massimo, soprattutto se aveva problemi con i rapporti sociali di
cui suo cugino Derek era un campione.
«Ciao Malia» salutò con un gran sorriso incoraggiante e trasportatore
quando si rese conto di chi avesse esattamente di fianco dall’altro lato,
incontrando le sue spalle rigide ed il tentare di ignorare chiunque di nuovo si
fosse unito a loro. «Sono Stiles, noi frequentiamo lo stesso corso di-» era sicuro
che ce ne fosse almeno uno di corso in comune, forse storia o matematica o
tutt’e due o molti altri; Malia era quel tipo di persona che se ne stava per i
fatti suoi e che non voleva attirare l’attenzione, in alcun modo. Il suo strano
modo di rapportarsi era soltanto qualcosa che la caratterizzava, ma di cui non
conosceva le ragioni ed onestamente non si era mai preso la briga di indagare,
i suoi pensieri erano sempre rivolti ad altro ed in classe era costantemente
richiamato dai professori per il suo chiacchiericcio perpetuo con Scott e la
sua disattenzione; probabilmente quello non sarebbe stato un punto a suo favore
per istaurare un qualsiasi dialogo con la coyote se non ricordava nemmeno quali
corsi avessero in comune.
«So chi sei» sbottò fredda la ragazza, indifferente ed indispettita,
guadagnandosi una lunga occhiata severa dalla figura che soggiornava a contatto
con Stiles, spostando le iridi castane su quelle di giada per dedicare
un’attenzione precaria al sedicenne che le rivolgeva la parola.
«Sì, certo, scusa» bofonchiò il figlio dello sceriffo, incartandosi con le
lettere e muovendo scompostamente il corpo, guadagnandosi un sopracciglio
contratto da parte della ragazza. «Mi dispiace per questa invasione e
confusione».
Le sopracciglia di Malia si aggrottarono ancora di più ed una strana
espressione indecifrabile le si disegnò sul viso. «Sei strano» disse con
naturalezza, senza soffermarsi sul vero significato che quella parola
rappresentava e voltandosi per tornare al suo vassoio e ad interagire, in minima
parte, con Cora.
Le iridi di Stiles si ingrandirono notevolmente e lo sgomento si estese su
tutto il volto, scaturendo una risata grave e quasi silenziosa da parte di
Derek. «Vuoi ingraziarti mia cugina, Stiles?»
domandò con malizia e con una strana implicazione nella voce che era del tutto
fuori luogo.
Fu questa volta Stiles l’artefice di quello sguardo torvo che colpì in
pieno il licantropo, senza comunque riuscire a togliergli quella curva
divertita che rimaneva stampata sulle sue labbra; alla fine lo ignorò
deliberatamente. «Mi sembrava fuori fase, cioè…» sospirò abbattuto, non sapendo
bene come spiegarsi e mettergli in mostra la situazione, giocando con la
forchetta nell’insalata di pollo che non aveva ancora toccato. «Non è abituata
agli estranei e gli unici con cui ha un minimo di relazione siete voi ed
improvvisamente si è vista arrivare questo esercito sgangherato che prende
posto in quella che dovrebbe essere la sua aria riservata, dove nulla può
toccarla ed in cui può stare tranquilla» spostò uno dei pezzetti più grandi
della carne bianca con i denti della posata di plastica, creando un piccolo
vortice con le foglie di lattuga, completamente immerso nei suoi pensieri. «È
stata una vera invasione e si è ritrovata spaesata nel suo stesso territorio.
Si è vista portare via una cosa che le apparteneva e… volevo soltanto distrarla
un po’».
L’attenzione di Derek era sempre molto accurata nei riguardi di Stiles, ma
a volte era così evidente la sua sorpresa ed il modo in cui quest’ultimo lo
stupiva, che gli era quasi impossibile riuscire a nasconderlo, a celarlo.
Diventava sempre più facile riuscire a leggerlo attraverso quelle piccole
pieghe che si dipingevano sul suo viso, rivelando ciò che il lupo teneva
dentro. «Non devi farti carico di tutti i problemi degli altri, di trovare
soluzioni e di salvare situazioni scomode causate da terzi» proferì dopo
un’attenta analisi, percependo perfettamente ciò che viveva nell’animo
dell’umano e cosa lo smuovesse tanto, cosa lo portasse ad agire e ad immolarsi
per chi lo circondava. «Ogni tanto puoi mettere in pausa il cervello,
rallentare i pensieri e prendere le cose così come sono».
Stiles appariva ancora poco convinto ed il ritratto che Derek aveva fatto
di lui gli calzava a pennello. Era così facile da comprendere? Da decifrare? E
benché Derek fosse provvisto di doni su cui la maggior parte dell’umanità
fantasticava soltanto, gli risultava davvero così facile comprenderlo come se
lo conoscesse meglio di se stesso? «Trasversalmente è un problema creato da me»
che i suoi amici agissero come meglio volevano era un dato di fatto.
Quelli erano sensi di colpa, Derek riusciva a fiutarli come se nei pressi
più vicini vi fosse una fonte d’acqua potabile, pulita e priva di qualsiasi
inquinamento. Nessuno più di lui aveva affinità con quel tipo di nemico
interiore. «Prima o poi sarebbe comunque accaduto, non vivrà per sempre sotto la
nostra ala protettiva» dichiarò come unica voce profetica, ben consapevole
delle proprie parole e conoscitore del tempo che sarebbe giunto, delle
difficoltà che nel futuro si sarebbero presentate. «E poi non siamo così
territoriali come credi».
L’umano indugiò per un momento, addentando per la prima volta i suoi
bocconcini di pollo e disegnando sulle labbra un ghigno malizioso e
doppiogiochista, così simile alla volpe che lo rappresentava. «Tu sei
territoriale, Derek».
Senza alcuna previsione calò uno strano silenzio tra loro, accompagnato dai
mormorii del nuovo gruppo che si era creato e che iniziava ad interagire;
quelli servivano molto poco a spezzare quel pittoresco avvenimento, eppure era
sicuro che fossero passate soltanto innocue frazioni di secondo. «Sì, lo sono».
Stiles notò innumerevoli dettagli in quell’affermazione che gli dava
totalmente ragione, mettendo inchiostro su carta, sbilanciandosi ancora una
volta e rendendo concreti fattori che non erano mai stati rivelati.
Il modo in cui Derek tornò alle sue occupazioni, distogliendo lo sguardo da
lui ed impegnandosi nel tenere le mani occupate, risuonò ancora una volta come
un campanello d’allarme.
E gli venne naturale accostare quel suo essere territoriale, ammettendolo e
costruendo un nuovo tassello, alla sua scelta di amare come un lupo.
Stiles era sconvolto e terrorizzato.
Questa cosa dei capitoli
dedicati al Natale non erano per nulla programmati che coincidessero con
l’arrivo delle nostre effettive feste natalizie, soprattutto a due giorni da
quello reale, ma evidentemente Stiles e Derek volevano augurarvi un buon Natale
a modo loro. Che dolci creature.
Peccato che il loro
rapportarsi come una coppia persista, ma non ne vogliano proprio sapere di
renderlo concreto.
E poi c’è Stiles che
fantastica un po’ troppo su un piccolo lupetto e Derek che fa fatica a
trattenersi dal mangiarselo vivo.
Successivamente il
tema del magico mistero dell’acquisizione del ruolo di Alpha salta fuori, come
la grande bomba che contiene in sé l’anello di Derek. Stiles si sente sminuito
da un oggetto che è stato creato per Derek stesso, quando quello suo gli è capitato
per caso. Non li ritiene alla stessa altezza. Ma Derek ha uno strano potere e…
sei troppo fortunato Stiles.
E oh, due famiglie si sono appena unite ed
arrivederci a tutti. Stiles, ormai, non puoi più scappare.
Buon Natale a tutti
voi ed alla settimana prossima,
Con il tempo era diventato meno traumatico sedersi allo stesso tavolo e
scambiarsi aneddoti ‒ chi più di altri ‒ e Stiles aveva lasciato
correre, lasciandola trasformarsi semplicemente in una nuova abitudine.
Non era niente di incredibile alla fine, cercava di convincersene, e le
grandi bocche che non sapevano farsi gli affari propri dopo un po’ avevano
smesso di parlare. Forse un giorno avrebbero smesso anche di lui e Derek.
Quando il figlio dello sceriffo si sedette al suo posto ormai assegnato,
tra Malia e Derek, vide la ragazza con un enorme broncio ed un’Erica divertita
che sembrava più punzecchiarla che venirle incontro, mentre Cora cercava di
rimediare alla situazione con scarso successo.
«Che succede?» domandò a bassa voce, ben sapendo che era fatica sprecata
con un tavolo abitato per metà da creature leggendarie, a Boyd,
che gli sedeva proprio di fronte, intento a mangiare il suo pasto e quasi
indifferente alla scenetta che si stava svolgendo a pochi centimetri da lui.
«Malia non si era accorta che oggi c’erano i cupcake
alle carote e quando l’ha notato erano già finiti» riferì l’afroamericano con
tono pacato, spicciolando un’unica frase che sintetizzasse tutta la situazione,
indicando il suo cupcake al caramello e burro
d’arachidi.
«Oh» sillabò l’umano con una piccola nota sorpresa e rammaricata,
osservando la smorfia della coyote che non accennava a diminuire e che si
impuntava a fissare con astio il suo vassoio traditore. Appariva come una
bambina a cui avevano sottratto il suo giocattolo preferito, o in questo caso,
il suo dolce preferito, con la consapevolezza che sarebbe stato difficile far
sparire quella piega curva sulle labbra, sostenuta dai suoi capricci che
difficilmente emergevano. Forse Malia era semplicemente quello, qualcuno che
non aveva vissuto come avrebbe dovuto la sua vita e che improvvisamente si
vedeva trasportata nel mondo degli adulti, saltando tutte le tappe e
ritrovandosi a volte ad inciampare, perché non sapeva come comportarsi o
rapportarsi, facendo uscire quella parte infantile che la caratterizzava tanto
e che probabilmente non sarebbe scomparsa facilmente. Forse era quello il suo
unico capriccio.
Stiles osservò il proprio vassoio, con la torta salata di zucca al centro,
le patate al forno per contorno e il cupcake alla
carota che troneggiava indisturbato; non aveva nemmeno notato quali altri gusti
fossero stati presentati quel giorno, si era fiondato immediatamente su quello
color arancione di cui facevano pochi esemplari per scarsa richiesta; lui era
uno dei pochi che lo prendeva ogni volta, senza mai optare per altro, tranne
quando arrivava troppo tardi e Scott o Allison non erano riusciti a prenderlo
prima.
Una volta ogni due settimane veniva allestita una speciale vetrina dedicata
interamente ai dolci, portata avanti dalla pasticceria più famosa della città
che era anche lo sponsor maggiore della squadra di basket: il New Moon ‒
ed aveva un che di ironico, perché proprio all’interno della squadra vi erano
due lupi mannari che idolatravano quel satellite che illuminava la Terra nelle
notti scure.
Il tema cambiava periodicamente, permettendo di fare un panorama sui vari
tipi di dolci, senza scontentare nessuno ed i cupcake
ritornavano in esposizione ogni tre mesi. Stiles aveva un dolce preferito per
ogni occasione. «Puoi prendere il mio, se vuoi» propose senza soffermarcisi più
di tanto, richiamando l’attenzione della ragazza ed indicandogli il dolcetto
decantato.
Malia ci impiegò qualche attimo a comprendere a chi il sedicenne si stesse
riferendo, voltando la testa verso di lui e seguendo il movimento della mano
che puntava verso il cupcake arancione ed ancora
intoccato ‒ in realtà l’intero vassoio era immacolato. «Perché?» perché me lo stai offrendo, decifrò
Stiles; aveva una discreta conoscenza del linguaggio degli Hale.
Le dita affusolate dell’umano solleticarono l’aria, non sapendo bene come
rispondere e preso leggermente in contropiede, si aspettava più una
contrattazione che una spiegazione; quant’erano complicati gli Hale. «Perché
non sei riuscita a prenderlo» e sei
triste e scontenta.
«Rimarrai senza» Malia, impegnandosi a guardare attraverso i suoi occhi,
non comprendeva l’utilità di quella proposta, di quell’offerta che non avrebbe
visto due vincitori o uno scambio, ma semplicemente la privazione di uno dei
due e per la sua mente da predatore incallito era qualcosa che non si sposava
bene con la sua natura. A quello si era unito il fatto che Stiles era dopotutto
un estraneo e non aveva alcun legame con lei.
«Non è un problema» la rassicurò il figlio dello sceriffo, placando le
acque e rivelandogli un sorriso ampio. «Riesco a mangiarlo molto spesso, le
occasioni non mancano e lo sceriffo è, mio malgrado, un cliente affezionato
della pasticceria che li prepara» per quanto Stiles fosse sempre attento e con gli
occhi aperti, vigile ed intransigente sulla dieta del padre, l’uomo riusciva
sempre a trovare un modo per fare un salto alla pasticceria, prendendo tutto
quello che più lo pizzicava ed invogliava. A volte Stiles riusciva a
prevenirlo, altre trovava la scatola in auto, per metà già svuotata, ed altre
volte entrava direttamente in casa, come a sfidare la sorte e non potevano
mancare le innumerevoli occasioni in cui lo beccava in ufficio.
Sull’espressione del padre compariva sempre quella piccola vergogna di un
bambino trovato con le mani nel vasetto della marmellata, con il dolcetto già
tra i denti e pronto per essere masticato. La maggior parte delle volte Stiles
sequestrava tutto quello che aveva comprato dietro le sue spalle e in alcuni
casi lasciava correre, quando il suo buon cuore era particolarmente ispirato.
All’interno della scatola della pasticceria più famosa della città c’erano
sempre uno o due cupcake alla carota, particolare
dolciume che non entrava nelle grazie dello sceriffo, ma che non mancava mai;
Stiles lo interpretava come un tentativo di armistizio, arruffianandoselo un
po’, mischiato ad una piccola attenzione che aveva per il suo unico figlio.
No, i cupcake arancioni alla carota non mancavano
mai alla sua tavola.
Malia non sembrava particolarmente convinta e persuasa e quindi si
concentrò per diversi momenti, momenti molto lunghi che accrebbero l’imbarazzo
in Stiles, a fissarlo scrupolosamente, senza mai sbattere le palpebre e
valutando le implicazioni delle sue parole. Poco dopo se lo lasciò
semplicemente scivolare addosso, come se non fosse successo niente e del tutto
disinteressata alla questione; pareva aver cancellato l’intera conversazione e
si prodigò semplicemente ad allungare il braccio ed afferrare il dolce con una
mano dal vassoio ancora impeccabile di Stiles, spostandolo nel proprio e
ritornando a mangiare con tranquillità. Non una parola né un grazie sussurrato,
sul suo viso non vi era alcuna emozione particolare che potesse tradirla, né di
gioia né di fastidio, senza accennare un’ultima occhiata verso la persona che
aveva rinunciato al suo cupcake preferito per
renderglielo. Ma Stiles seppe che era contenta.
«Siete davvero interessanti da guardare» enunciò con sarcasmo perfido il
suo vicino, la creatura infame imparentata con la cucciola smarrita.
L’umano rizzò la schiena colto sul fatto e completamente inconsapevole di
avere avuto uno spettatore che li avesse ascoltati ed osservati per tutto il
tempo, voltandosi immediatamente sulla sua seduta e guardando con le
sopracciglia inarcate il suo vicino molesto. «Ti stai divertendo, Sourwolf?».
«Moltissimo» dichiarò con divertimento serpeggiante il mutaforma,
freddandolo all’istante sul posto.
Stiles lo guardò male, davvero malissimo e Derek ne rise volutamente,
portando l’altro ad ignorare il più possibile la sua presenza.
Ma era difficile per entrambi compiere tale azione.
Stiles tentò di mangiare in santa pace la sua torta salata alla zucca,
addentando qualche pezzo di patata tra un morso e l’altro e qualche minuto dopo
si accorse di Malia che mangiava piacevolmente colpita ed entusiasta il cupcake alle carote, senza perderne una sola briciola e
rincorrendole nel caso ne sfuggisse qualcuna. Era una scena piacevole
dopotutto, benché lanciando un’occhiata distratta alla sezione dedicata al
dolce nel proprio vassoio la trovò vuota e senza alcuna traccia del suo dolce
preferito.
Trattenendo un sospiro sofferto, adocchiò Derek trafficare nella sua
postazione, prendendo il coltello di plastica e tagliando in due metà perfette
il suo cupcake alla Red Velvet,
di un perfetto color rosso ciliegia, porgendogliene una parte. «Non sarà il tuo
preferito, ma puoi accontentarti».
Gli occhi del figlio dello sceriffo si fecero enormi e gli fu quasi
impossibile distogliere lo sguardo da quel gesto che non comprendeva a pieno e
Derek glielo consegnò direttamente sul vassoio, con un tovagliolo che separasse
il dolce della superficie di plastica dura. «Non dovevi farlo».
«Ormai l’ho fatto» semplificò il lupo mannaro, rifiutandosi di riprenderlo
indietro e scartando la possibilità di farlo. «Sei soddisfatto del tuo gesto?»
non servivano chissà quali parole per spiegare a cosa si stesse riferendo e
verso quali scelte si fosse mosso.
Stiles guardò la sua metà del cupcake alla Red Velvet che faceva la sua bella figura nella nuova
postazione e arrischiò un’occhiata finale al dolcetto alla carota quasi del
tutto divorato. «È contenta».
«Allora va bene» annunciò il licantropo con fare conclusivo, calando il
sipario su tutto il resto.
Il cupcake alla Red Velvet
non era un gusto che lo entusiasmava particolarmente, ma aveva un sapore del
tutto diverso una volta che gli era stato donato da Derek Hale.
Non si lamentò nemmeno quando il mannaro gli rubò parte delle patate al
forno direttamente dal piatto.
«Sei davvero qui» proferì la coyote mannara nel frastuono della palestra
creato dal continuo palleggiare dei palloni da basket.
Il figlio dello sceriffo rizzò la schiena e spostò lo sguardo alla sua
destra per individuare a chi appartenesse quella voce, guardandola con
sorpresa. «Ciao, Malia».
Malia lo guardò di traverso, inclinando la testa per una prospettiva
diversa e salì di un nuovo gradino che dava sugli spalti su cui sedeva l’umano,
avvicinandosi un po’ di più ed alzando la visuale. «Cosa fai?».
Stiles lanciò un’occhiata obliqua e veloce al volume di biologia che teneva
tra le mani e benché la risposta fosse evidente e la ragazza non fosse estranea
a captare gli indizi, seppe che era una domanda a più spessori, con diverse
direzioni e che doveva suonare più come cosa
fai qui tutto il tempo. «Studio per lo più, qualsiasi cosa ed a volte mi
limito a guardarli giocare».
«Guardi mio cugino?» domandò la ragazza senza peli sulla lingua e
nell’ingenuità tipica che la contraddistingueva.
Stiles sbarrò gli occhi, non sapendo bene come rispondere e come sarebbe
stata interpretata, ma l’unica azione che si manifestò fu il suo ridacchiare
indistinto. «Sì, immagino di sì; suppongo che guardi anche tuo cugino» forse
era meglio omettere che era molto più facile per lui concentrarsi su Derek,
d’altronde era la star della squadra e non si era guadagnato quel titolo e tutti
gli altri per un passaparola.
Malia si sedette sulla panca occupata dal sedicenne e lo fissava con una
tale intensità da cui era difficile scappare, lo scrutava con un’attenzione
così accurata e diffidente che gli era vietato nascondersi e lei appariva come
la bambina di nove anni a cui era rimasta bloccata, che ancora doveva scoprire
il mondo, che aveva bisogno delle sue classificazioni e che si fidava soltanto
dei propri sensi. Era come se dovesse imparare tutto dalla vita, a riconoscere
chi e cosa la circondasse. «Sai davvero di noi?».
Oh, quello Stiles proprio non se l’aspettava, non
per la domanda diretta in sé, ma per il retroscena che doveva esserci dietro e
che l’aveva portata ad accertarsene. Sapeva benissimo che Malia non aveva mai
avuto a che fare con qualcuno di completamente umano che sapesse della natura
sovrannaturale della sua famiglia e la sua curiosità era del tutto legittima.
Ma voleva anche dire che non era la sola a sapere di lui e che la voce si era
sparsa. «Sì».
«E non hai paura?» domandò la coyote di conseguenza, come ovvia risposta a
quella rivelazione confermata.
«No» affermò sicuro il figlio dello sceriffo, senza battere ciglio e del
tutto sicuro della sua risposta. Passava fin troppo tempo con un lupo mannaro
in carne ed ossa, trascorrendovi diverse lune piene da quando il segreto era
stato svelato e le loro vite si erano unite del tutto. L’astio che era esistito
tra loro era svanito nel nulla nella famosa notte del concerto e non era più
tornato. A volte si chiedeva se non fosse svanito troppo presto, se c’era altro
dietro il loro modo di rapportarsi, qualunque fosse.
Lo sguardo di Malia si fece più serio ed i suoi caldi occhi nocciola si
tinsero di un azzurro freddo e metallico, quasi identico a quello di Derek, se
non fosse che ognuno di loro trasmetteva tutto il rimpianto che avevano in
corpo, un rimpianto ed un senso di colpa del tutto differente e che
rispecchiava la loro anima. Era forse un peccato capitale che preferisse sempre
e comunque quelli di Derek a qualunque altro?
Per quanto Stiles rimase stupito dalla vera natura delle iridi della
ragazza, non si scompose minimamente e le sue espressioni rimasero invariate.
Attimi dopo l’azzurro fu inglobato dal castano e la magia svanì. «Non mi
giudichi» non era una domanda né un accenno di incredulità, era un dato di
fatto, un fatto che le era estraneo e che non aveva conosciuto lontana dalla
famiglia che l’aveva salvata e guidata. Chi era fuori dal branco non possedeva
quella delicatezza.
«Dovrei farlo?» domandò retoricamente l’umano, indurendo i tratti del viso
che si fecero seri e morbidi allo stesso tempo. «Non so chi sei, non conosco la
tua storia e non ho alcun diritto di giudicarti. Non ne avrei a prescindere».
Malia inclinò di nuovo la testa, tendendo meglio le orecchie ed ascoltando
qualcosa che era udibile soltanto a lei e che a Stiles sarebbe sempre stato
celato. «È questo quello che hai fatto con Derek?» era una domanda molto dolce
e modulata ed era un tono che non si sarebbe mai aspettato prendesse vita da
una ragazza così chiusa e guardinga com’era lei, ma Derek sembrava essere un
pezzo prezioso del loro branco ed avere un riguardo che tutti gli altri gli
cedevano senza farne parola.
Non aveva idea di che cosa avesse fatto con il lupo, come si fosse
sbilanciato e come l’avesse portato a fidarsi di lui, l’accusa che non aveva
mai provato verso i suoi riguardi ed un giudizio che non gli era mai passato
per l’anticamera del cervello. Non se li era nemmeno posti questi quesiti,
Derek non gli era così estraneo come potevano esserlo tutti gli altri. Era
stato così facile e così naturale che, se c’avesse riflettuto prima, ne sarebbe
stato terrorizzato. «Io… l’ho solo capito».
«Sei diverso» e oh, un passo
avanti dall’accusa di essere strano. «Forse è per questo che sei così speciale
per lui».
Speciale era un aggettivo un po’ particolare per
Stiles, gli aveva dato un valore che forse non avrebbe dovuto attribuirgli ed
era sempre stato messo in mezzo tra lui e Derek. Ma sentirlo accostato alla
propria persona gli scatenava uno spavento incontrollato ed uno scompenso nel
suo stato emotivo.
«Perché sei qui, Malia?» era un buon modo per cambiare argomento e non
mostrare quella parte di se stesso che veniva continuamente scombussolata, in
più era quasi lecito chiederlo, perché non l’aveva mai vista da quelle parti in
nessuna occasione in cui era presente e al contrario, la sua figura si mostrava
soltanto durante le partite del cugino, estraniandosi anche molto. Di certo non
poteva nemmeno ignorare la scatola rettangolare che teneva tra le mani,
accuratamente protetta, in cui vi era impresso il nome della pasticceria più famosa
della città a caratteri verdi e gialli. «Cercavi Derek?».
«No, cercavo te» dichiarò la sedicenne immediatamente, ignorando tutte le
presenze che vi erano nella grande stanza. «Mi hanno riferito che è il posto
più facile in cui trovarti» si guardò intorno, trovando tutti gli spalti vuoti
e desolati, ad eccezione della postazione occupata da Erica e da loro; doveva
ancora apparirgli ostica quella scelta del luogo di riserbo. «L’altra volta non
ti ho ringraziato e mi hanno spiegato che avrei dovuto farlo. È ancora qualcosa
di nuovo per me, sono abituata a prendere e basta» spostò le iridi sulla
scatola elegante e con il simbolo della fase di luna nuova che compariva in
varie parti, insieme al nome del negozio, creando un’armonia spensierata.
«Pete-… mio padre mi ha accompagnata alla pasticceria e mi ha riportata qui»
nascondendo il suo errore iniziale, gli porse la scatola.
Una vera predatrice in vetta alla catena alimentare che inciampava in un
ambiente che le era ostica ed in cui cercava di mettere piede, uno dopo
l’altro. «Tu sei quella ragazza, quella che hanno trovato un paio di anni fa
nel bosco. La figlia ritrovata» pessimo, pessimo argomento di conversazione, ma
gli era sfuggito così facilmente dopo quell’uscita che una persona normale ed
abituata all’interagire con il mondo esterno non avrebbe mai detto. Malia
appariva davvero come una bambina a cui doveva essere insegnata ogni cosa, a
partire dalle basi per un corretto confronto con il mondo esterno ed il galateo
più semplice per interagire con le persone esterne al suo branco.
Le pupille di Malia si dilatarono e l’espressione per nulla contenta prese
vita sul suo viso. «Leggi davvero i rapporti di tuo padre».
In realtà non avrebbe avuto bisogno di leggere i rapporti di suo padre,
quella notizia sensazionale e fuori dagli schemi era stata stampata su ogni
pagina della regione ed aveva preso la prima pagina del giornale locale. Ma i
dettagli sì, erano nel rapporto e lui l’aveva letto semplicemente spinto dalla
curiosità irrefrenabile.
Aveva letto ogni singolo foglio, fin dalla scomparsa di una bambina di nove
anni coinvolta in un incidente stradale in cui era morta tutta la sua famiglia;
madre, padre e sorellina minore, ma di cui non era mai stato ritrovato il
cadavere della più grande. Le ipotesi erano tante ed una più mostruosa
dell’altra, ma Stiles ricordava bene i morsi di un animale identificato come un
coyote che aveva dilaniato i loro corpi e le tracce sul terreno che erano
sparite con il sorgere del sole. Soltanto quando Derek Hale era entrato nella
sua vita aveva collocato quella terribile notte alla prima luna piena di quel
mese.
Malia, nel momento della sua ricomparsa, era stata riconosciuta da Peter
Hale come sua figlia, data in adozione in segreto da una donna, la madre biologica,
che non voleva saperne niente di lei, nascondendo la sua esistenza al padre che
ne avrebbe reclamato i diritti. Dopo quattordici anni di ricerche e tragedie
annesse, era riuscito a ritrovarla e portarla a casa, entrando a far parte del
grande nucleo familiare targato Hale.
Stiles arrivò alla conclusione che a quei tempi Malia non conosceva la sua
natura di coyote mannaro, patrimonio genetico di uno o entrambi i suoi genitori
biologici ‒ ma essendo Malia l’unica coyote nel branco Hale, era facile supporre,
e si andava per esclusione, che la madre biologica possedesse quella natura ‒,
e che quella natura nascosta e celata si fosse risvegliata all’età di nove anni
in quella prima notte di plenilunio.
Era convinto che non si fosse resa conto di cosa le stesse accadendo
intorno, della trasformazione che era avvenuta in lei e degli omicidi che
inconsapevolmente aveva commesso. «Hai vissuto da coyote in tutto quel tempo?».
«Sì» non sembrò stupita che lui sapesse della sua capacità di trasformarsi
in un coyote completo e si chiese quanto parlassero di lui in quella famiglia.
«Ricordavo a stento di essere stata umana».
Era la cosa più triste e crudele che avesse mai sentito e benché non
possedesse alcuna parola che potesse esserle di conforto, prese la scatola di
dolci che gli era stata appena regalata e la aprì, rivelando all’interno otto cupcake alle carote tutti uguali e tutti appetitosi. Ne
estrasse due con delicatezza e ne porse uno alla ragazza e li fece scontrare
come se fosse un brindisi. «È un bene che tu sia qui, umana e mannara».
Stiles morse il suo dolcetto terminando quelle parole e sfoderando un
sorriso dolce e complice e Malia, benché apparisse titubante ed un po’ confusa,
lo seguì a ruota.
Un’ulteriore mano, apparsa da chissà dove ed in religioso silenzio, si
materializzò tra loro, estraendo un terzo cupcake
arancione, addentandolo davanti ai loro occhi stupiti. «Non so proprio come
facciate a mangiarlo» disse un Derek un po’ stizzito dal sapore, che si era
allontanato dal campo di basket e che appariva fin troppo poco sudato, aiutato
dalla sua natura sovrannaturale che lo metteva sempre nelle condizioni
migliori.
«In realtà siamo degli adorabili coniglietti» rivelò con sarcasmo divertito
il figlio dello sceriffo, dando un nuovo morso, più corposo e grande, al suo cupcake alle carote, masticando con gusto evidente e
prendendolo giocosamente in giro.
«Io caccio i conigli» annunciò la coyote mannara con reale intenzione, non
riuscendo proprio a vedersi come un coniglietto. «È divertente».
Derek la ignorò volutamente e Stiles sgranò gli occhi, immaginandosi uno
spietato coyote che rincorreva dei teneri coniglietti bianchi per divertimento
nel bosco ed uccidendoli.
L’umano preferì dare il penultimo morso al suo dolcetto e cancellare
l’immagine che si era figurato. «Era il preferito di mia madre» confessò senza
rendersene conto, con l’amaro in bocca che si prodigava dopo averlo rivelato,
ricadendo nei ricordi.
Il lupo mannaro rimase in silenzio e Malia ritornò cosciente della completa
presenza del sedicenne tra loro e della storia che c’era in lui. «La tua mamma
è morta?».
«Sì» affermò il figlio dello sceriffo con tono asciutto, fissando con
sguardo vuoto l’ultimo boccone del cupcake arancione
che era rimasto.
«Anche la mia» rivelò la mannara con voce monocorde, rendendo tutto più
reale.
Stiles si risvegliò, consapevole della grossa perdita subita da parte della
ragazza e di cui era stata involontariamente la colpevole, macchiando per
sempre la sua anima e con la colpa sempre presente nelle sue iridi da beta.
Era uno strano trio maledetto quello e le loro rispettive famiglie non
brillavano di fortuna.
Stiles e Malia passarono quel pomeriggio nella palestra di basket a
svuotare la scatola di cupcake che era stata comprata
per lui, instaurando un particolare legame e Derek per dispetto rubò un secondo
dolcetto, ghignando vittorioso verso le loro espressioni contratte che lo
rimproveravano per delle papille gustative scadenti e per la cattiveria
dimostrata che li privava di un dolcetto in più che potevano condividere
insieme e che lui non apprezzava.
Stiles percorse tutto il corridoio creato dai tavoli della mensa fino ad
arrivare all’ultimo della grande stanza, lontano dalla luce e vicino alle porte
che davano all’aperto, da cui entravano spifferi e che tutti ignoravano,
preferendo scegliere altri posti dove sedersi e mangiare, più caldi e riparati.
Era da solo e guardava soltanto dritto davanti a sé, senza percepire nulla
del brusio che non smetteva mai di accompagnare la sala durante il pranzo.
«Cos’ha Stiles?» domandò Malia confusa, guidata dallo strano odore che
accompagnava l’umano e dal fatto che li avesse ignorati senza nemmeno farci
caso, superando il loro tavolo ormai designato ed un po’ troppo affollato,
senza degnarlo di alcuna occhiata e con la testa altrove. Non aveva nemmeno
balbettato una mezza parola di saluto o ritrovo, inquadrando lo strano gruppo
che si era coeso e dando inizio realmente al loro pranzo in compagnia; era una
cosa che non si sposava per niente con l’animo animato di Stiles.
Allison sembrò l’unica ad aver sentito la domanda e distolse lo sguardo dal
suo piatto, oltrepassando Scott, per intercettare la figura di Stiles che si
allontanava e si accomodava nel posto più isolato della intera mensa, dove si
andava a rintanare in particolari giorni dell’anno o quando aveva uno stato
d’animo non esattamente luminoso. «Non è un buon giorno per lui» spiegò senza
scendere nel dettaglio, sintetizzando tutto con quell’unica frase.
«Oh» soffiò la coyote mannara, ricordando quell’essenziale tassello che
faceva parte della vita del figlio dello sceriffo.
«Non dovrebbe andare qualcuno da lui?» chiese Erica con preoccupazione,
abbandonando l’aria maliziosa e giocosa che la caratterizzava sempre, puntando
il suo sguardo sulla figura isolata che mangiava distrattamente in completa
solitudine. Non era uno spettacolo a cui le piaceva assistere.
«Non è particolarmente loquace in questi momenti» riferì Lydia, smontando
ogni futura proposta o soluzione, armeggiando con distacco con l’insalata che
aveva smesso di mangiare.
Derek per qualsiasi altro sarebbe stato sordo e cieco, del tutto
disinteressato a quello che lo circondava e che non lo riguardava, eppure fu
ben visibile quella gamba che si muoveva e si irrigidiva per darsi forza ed
aiutarsi con la spinta per alzarsi dalla panca e raggiungere il sedicenne
logorroico.
«No» lo ammonì Scott nell’immediato, alzandosi completamente ed afferrando
il proprio vassoio con le mani, pronto per trascinarselo via. «È ancora un mio
compito questo» disse con durezza, la frecciatina precisa che arrivò dritto
alle fattezze del lupo mannaro, la consapevolezza del ruolo di migliore amico
che andava sempre più ad accorciarsi.
Ma tutti loro sapevano che non era il ruolo di amico che Derek stava
andando ad occupare.
Scott scavalcò la panca e sollevò il vassoio senza aspettare mezza parola e
si avviò verso il tavolo occupato dal figlio dello sceriffo, sedendoglisi
proprio di fronte e prendendo a mangiare insieme a lui.
Stiles lo occhieggiò per qualche attimo, pizzicando il piatto con la
forchetta di plastica e ricalando la testa, senza scacciarlo in alcun modo.
Su entrambi i tavoli perdurò il silenzio.
Stiles era buttato a peso morto sul letto, nella penombra della sua camera,
con la testa leggermente reclinata sul cuscino e lo sguardo vuoto che aleggiava
in un punto fisso senza guardarlo davvero.
Era in quella posizione da quando si era separato dal padre, poco dopo
l’ora di cena, infilandosi svogliatamente il pigiama e collassando sul
materasso; non aveva toccato una sola materia scolastica e non si era fatto
vedere agli allenamenti di basket. Aveva mangiato pigramente con suo padre e
borbottato poche parole dei tempi che furono.
Ogni anno era diverso ed ogni anno lo vivevano in modo differente, a volte
non faceva così male da sentirsi strappare il cuore dal petto, pulsante e
gocciolante di sangue vermiglio. A volte era fattibile, nostalgico e
ricordavano con il sorriso sulle labbra. Se c’era una causa scatenante per i
diversi modi di rapportarsi, Stiles non l’aveva ancora individuata.
Derek entrò silenziosamente in quella camera priva di suoni ed in cui non
era presente alcuna fonte di luce se non una piccola lampadina di atmosfera,
bianca e leggera che lasciava individuare cosa ci fosse all’interno delle
quattro mura; sembrava quasi che non vi fosse nessuno, per l’immobilità del suo
abitante e non era un aspetto molto confortante di benvenuto, ma la finestra
era stata lasciata aperta ed aveva ancora un suo significato quel piccolo
spiffero dalle dimensioni delle dita del lupo.
L’umano non mosse neppure la testa quando lo sentì entrare, scendendo dal
davanzale con maestria e grazia, senza provocare un solo tonfo sordo, ed
individuò la sua figura soltanto quando nella penombra si materializzarono gli
occhi ambrati e vacui, spostandosi senza forze verso la propria metà del letto
e lasciando l’altra al suo non tanto nuovo proprietario acquisito.
Derek tentennò per un solo momento, accertandosi che fosse davvero quello
che Stiles voleva, ma egli era già da un’altra parte, con il cuscino stretto al
petto ed il viso parzialmente nascosto da esso e non invadeva nemmeno per
sbaglio il lato che era stato destinato al licantropo. Derek era già con lui
senza lasciargli il tempo di sbattere le palpebre.
«Lo sai» quelle erano le prime parole che sentiva pronunciare al sedicenne
da ore, forse da tutto il giorno; lì dentro vi erano contenuti tutti i grandi
discorsi e le domande con cui in un momento diverso, in un giorno diverso, lo
avrebbe ricoperto.
«Sì» affermò il lupo mannaro, senza negare l’evidenza.
«Quante cose sai di me, Der?» non era un’accusa
per segreti che a quanto pareva non esistevano, ma una domanda così legittima e
candida che andava posta da tempo, fin dagli albori del loro strampalato
rapporto, da quando Derek l’aveva chiamato per la prima volta con il suo nome,
senza che si fossero mai presentati. E poi era stata una corsa in discesa,
senza freni e precipitando senza che si potesse rallentare in qualche modo.
Quello era solo il momento sbagliato in cui quella domanda fu formulata, ma era
anche l’unica occasione in cui non sarebbe riuscito a tenerla per sé.
«Abbastanza» non era una bugia, non era un’omissione, era qualcosa che
stava a metà, qualcosa che per una volta dava una mezza risposta alle miliardi
di domande che infestavano la mente dell’umano, qualcosa che, se affrontato in
un contesto differente, in un momento del tutto diverso, avrebbe scatenato un
putiferio. Ma Stiles era senza forze e completamente passivo per sottostare
agli eventi del mondo ed a realtà solo immaginate che aveva scartato. Non
voleva nemmeno pensare alle probabili implicazioni che quella risposta vaga e
netta possedeva.
Il figlio dello sceriffo sospirò lentamente, stringendo un po’ di più il
cuscino a sé ed immergendovi del tutto il viso, sparendo alla vista del
diciottenne. «Avevo otto anni ed era appena arrivata questa bambina bellissima
dai capelli rossi, fiera ed autoritaria, quella che avrei desiderato per
altrettanti otto anni e proprio in quel periodo fu dato il nome al malessere
che affliggeva mia madre da qualche tempo» la voce era incolore, eppure era
piena di sofferenza e rammarico, nascondendosi come meglio poteva dietro quel
piccolo oggetto rettangolare su cui riposava ogni notte e da cui era
impossibile separarlo. «Demenza Frontotemporale. Non è nemmeno un nome così
ostico ed incomprensibile come lo sono tutte le altre» sbuffò con un mezzo
sorriso di divertimento spento ed amaro. Forse non era così ostico perché era
sempre stato il più sveglio tra i suoi conoscenti, fin dalla tenera età.
«Iperattività, insonnia, deliri, allucinazioni, sono solo alcuni dei sintomi
che si possono manifestare e lei ne aveva un bel po’; era difficile non vederli
ed ignorarli, erano a portata di mano e non passò molto prima che papà la
spingesse ad accertamenti e controlli, medici qualificati ed esperti.
L’accompagnava ogni volta ed ogni volta risultava difficile e lei peggiorava ed
era sempre più complicato riportarla da noi» si dondolò un po’ sul posto,
trafficando con la federa del cuscino e sistemando orli che non dovevano essere
sistemati. «Hanno provato a non farmi notare niente, a tenermi lontano
dall’orribile verità ed a non farmi mai sentire il nome del malessere che la
tormentava, ma era quasi impossibile nascondermi qualcosa, che dei sussurri sfuggissero
alle mie orecchie. Ero quel bambino che durante una telefonata tra adulti
prendeva la cornetta da un’altra stanza ed ascoltava le loro conversazioni e
questo dovrebbe dirla molto su di me, perché illegalmente mi sintonizzo sulla
radio della polizia, soprattutto nei momenti di noia» stava sdrammatizzando, ma
era un comportamento che si era sempre portato dietro e che avrebbe continuato
ad accompagnarlo per il resto della vita. «Dopo un paio di mesi non era nemmeno
più pensabile provare a nasconderlo, le cose erano peggiorate e mia madre era
sempre meno cosciente di chi fosse e di dove fosse. Urlava, piangeva e si
dimenava; papà non poteva più lasciarmi con lei da solo ed io non potevo fare
niente per aiutarla o darle un po’ di sollievo, il mio essere bambino non le
serviva a niente».
Derek fu costretto ad afferrare il cuscino che veniva usato come barriera,
abbassandolo delicatamente e riscoprendo i suoi occhi di miele sofferenti ed in
balia dei ricordi dolorosi. Era una barriera, che per quanto pensasse di
aiutarlo, era solo d’intralcio e non aveva alcun senso quel monologo triste e
distruttivo se non lo guardava neanche.
Stiles sbatté più volte le palpebre disorientato e completamente smarrito,
sprovvisto dell’unico oggetto di conforto che si era permesso di tenere e di
usare, il muro che Derek stava abbattendo perché lui non ne era capace,
rintanato nel nero abisso che lo reclamava.
«Puoi smettere quando vuoi» gli riferì il lupo mannaro, che era molto
diverso dal non devi raccontarmelo, non
devi farlo se non vuoi. Non erano nemmeno passati da quella casella che
solitamente presenziava in confidenze personali e dolorose come quelle,
l’avevano semplicemente ignorata ogni volta, perché loro dovevano mettere al
corrente l’altro di ciò che era capitato nel passato prima che entrassero a far
parte delle attuali e rispettive vite. Non era esattamente un dovere, ma era
quello che si sentivano di fare e di cui avevano bisogno, era il loro modo di
dividersi il peso senza ipocrisie, caratteristica che non li rappresentava.
Stiles non sapeva più come sistemarsi, come sfuggire alla tenue luce che
illuminava la sua stanza e agli occhi verdi di Derek che non l’avevano mollato
un attimo; anche attraverso il cuscino poteva sentirli su di sé. «Non ti
stancherai di ascoltarmi?» non era un’allusione circoscritta a quel momento,
era una domanda che puntava a spazi più grandi, ad un futuro più prossimo e al
di là del tempo. Aveva avuto diversi ascoltatori nella sua vita, ognuno con un
modo tutto loro di prestargli attenzione, ma era molto difficile che perdurasse
per tutta una conversazione, senza piccole distrazioni dovute, ma Derek era un
caso del tutto diverso; per quanto fosse stoico e poco propenso al dialogo ed
alla confusione intorno a lui, era il miglior ascoltatore che Stiles avesse mai
avuto e che non si lasciava distrarre da niente se non da Stiles stesso. Era
qualcosa a cui non avrebbe rinunciato per nessuna ragione al mondo.
«No» rispose nettamente il lupo mannaro, era del tutto fuori questione
quell’ipotesi. «Qualcuno deve farlo. Qualcuno deve prendersi cura di te».
Lo sgomento prese possesso di tutto il corpo dell’umano e le iridi ambrate
minacciarono irremovibilmente di traboccare d’acqua, manifestando quanto quelle
parole lo stendessero completamente. «Mi ha rifiutato» disse d’impeto, in
risposta a quella forma di affetto, molto più vicino all’amore, con cui Derek
l’aveva rimboccato, facendolo precipitare ancora di più.
Gli occhi di Derek lo guardarono interrogativi ed interdetti, non
comprendendo proprio a cosa si stesse riferendo, in quali acque stessero
navigando e se avessero cambiato, senza rendersene conto, argomento.
«Mia madre, mi ha rifiutato» chiarì il figlio dello sceriffo, con il cuore
spezzato e tenuto insieme da ciò che il mutaforma gli trasmetteva. «Quando la
malattia è cresciuta e si è prodigata, non mi riconosceva più come suo figlio,
mi identificava come un essere malvagio che voleva ucciderla lentamente. Non
ero più suo figlio, la sua progenie, ero un’entità malvagia che doveva
estirpare» Stiles tremò vistosamente e le iridi si riempirono di lacrime non
versate e Derek gli si avvicinò un po’ di più, sfiorandogli con il ginocchio
una coscia, senza sbilanciarsi troppo, non sapendo come comportarsi. «Era il
principale motivo per cui non potevo più rimanere da solo con lei e con la
malattia che avanzava, fummo costretti a passare del tempo considerevole in ospedale,
finché smettemmo di portarla a casa e lei tentò spesso di togliersi la vita,
perché-» un singhiozzo spezzato e distinto gli sfuggì dalla bocca,
graffiandogli la trachea ed una lacrima solitaria gli rigò il viso, cancellata
immediatamente dagli arti torturati del sedicenne. «Perché preferiva scappare
in quel modo dall’essere malvagio che la stava uccidendo. Preferiva scappare da
me che passare un altro minuto della sua vita su questa terra. Preferiva
scappare che affrontare il demone che vedeva dentro di me».
«Non era lei, questo lo sai» disse il licantropo con serietà e severità,
non permettendogli in alcun modo di crollare, immergendo le dita della mano
sinistra tra i suoi capelli castani e costringendolo a guardarlo dritto negli
occhi, impedendogli qualsiasi via di fuga.
«Sì, lo so, erano le allucinazioni, ma…» era il primo a non avere lucidità
in quei momenti, a non riuscire a liberarsi dalla gabbia in cui si era
rinchiuso. «Ero così insistente, le occupavo tutto il tempo, io ero la sua
unica occupazione e se la mia iperattività, il continuo starmi dietro e la mia
logorrea infinita l’avessero fatta regredire più velocemente? La malattia che
le consumava il cervello, che avanzava senza freni perché ero impossibile? Se
fossi stato più composto e calmo e meno rumoroso ed impegnativo, magari non
sarei diventato il grande mostro che lei vedeva, la causa del suo peggioramento
così repentino» era una pazzia, una follia, non era nemmeno pensabile una cosa
simile, ma era quello che l’aveva torturato per tutta la vita, i sensi di colpa
che l’avevano accompagnato fino a quel giorno, logorandolo lentamente ed
ammaccandolo ad ogni nuovo inciampare.
«Non lo pensi davvero» proferì Derek con sgomento ed irritazione, il
malcontento a cui si stava abbandonando Stiles senza combattere, la tristezza
che gli riempiva il petto, offuscandogli il giudizio. «Dovresti essere il primo
a non credere a queste cose» tutto il percorso che avevano fatto non poteva
essere vano e non poteva essere cancellato.
«Avevo otto anni, Derek. Mia madre stava regredendo e mi accusava della sua
malattia. Mio padre era l’unico che riusciva a riportarla indietro, a farla
ragionare, e nel frattempo doveva anche occuparsi del suo stupido figlio
iperattivo che stava vedendo la sua famiglia andare in pezzi ed una madre
rifiutarlo, disprezzarlo. Nessuna ricerca che avevo fatto mi preparava al
disastro e all’orrore che avrei visto» sbottò in difesa, attaccato da quella
severità dell’unica persona amica che voleva soltanto riportarlo da lui. Non
era davvero arrabbiato o fuori di sé, ma era una situazione così fragile ed
irrespirabile che Derek stava cercando di affrontarla come meglio poteva, con
il tatto di cui era sprovvisto.
«Non è stata colpa tua» soffiò candido e nitido il mutaforma, intrecciando
maggiormente le dita tra le ciocche dei suoi capelli e sfiorandogli la fronte
con la propria. «Non è stata colpa tua».
Stiles si abbandonò a lacrime silenziose, impossibili da fermare ed arrestare,
la voce e la presenza di Derek erano qualcosa di inestimabile per il suo cuore
spezzato. «L’ho vista morire. Giorno dopo giorno l’ho vista morire, ma quando
ha emesso il suo ultimo respiro, l’unico presente ero io; papà, come era giusto
che fosse, stava svolgendo il suo incarico da vice sceriffo e certamente non si
aspettava che la fine fosse così vicina, soprattutto quando lui non era lì» per
quanto cercasse di non farsi travolgere da quel passato che stava riportando a
galla, lo sconforto e le immagini nitide che lo inseguivano erano difficili da
gestire. «C’ero soltanto io con lei, a tenerle la mano, in una stanza bianca ed
incolore, spoglia e senza anima. Era uno dei pochi momenti di lucidità in cui
ero soltanto Stiles, il suo bambino che frequentava la terza elementare, e in
cui mi permetteva di prendermi cura di lei come potevo, lasciando che la
toccassi ogni volta che ne avevo bisogno. È stato anche l’ultimo».
Derek gli depositò un bacio caldo sulla fronte aperta, dolce e
confortevole, una carezza voluttuosa che estirpava il malcontento che viveva
nell’animo dell’umano. «È ancora con te. Nei modi in cui la ricordi» il libro
sulla licantropia rimesso in sesto ed il continuo mangiare cupcake
alla carota erano solo gli esempi più visibili e rumorosi.
Stiles accettò di buon grado quel bacio che gli veniva donato, il secondo
che riceveva da lui ‒ con motivazioni del tutto opposte ‒ ed il
primo che avveniva completamente a contatto con la propria pelle. Era
un’attenzione piacevole e liberatoria e non dovette pensarci molto prima di far
congiungere completamente le loro fronti in risposta. «E se capitasse a me?»
Derek riattivò i sensi, riaccendendo l’attenzione ed il suo sguardo
interrogativo parlò per lui. «La Demenza Frontotemporale, sono predisposto. È
molto facile che si manifesti in altri membri della famiglia e la mia famiglia
termina con me, non c’è nessun altro».
«È questo che ti spaventa così tanto?» realizzò il lupo mannaro per la
prima volta, dilatando le pupille e guardandolo con occhi nuovi.
«Non ho nessuna abilità e non eccello in nulla, tutto quello che sono,
tutto quello che di più prezioso c’è in me, è il mio cervello, la mia capacità
deduttiva ed intellettuale, i miei ragionamenti veloci e la capacità di
cogliere i dettagli» elencò meticolosamente, mettendo bene in mostra la pasta
di cui era fatto, le doti che possedeva, l’affanno che gli viveva dentro. «Se…
se perdessi il mio cervello non sarei più io, non rimarrebbe niente di me e se
mi riducessi nelle condizioni in cui era mia madre, chi… chi riuscirebbe a
riportarmi indietro?» era quello che lo consumava dentro, che lo tormentava e
che gli lacerava il fegato. «Mio padre era il grande amore di mia madre e lei
era il suo, io non ho nessuno».
«Esistono diversi tipi di amore» gli ricordò il diciottenne con premura e
con la missione di aprirgli gli occhi.
Stiles curvò le labbra in un sorriso spento e sinistro, così
raccapricciante e sofferto da far male al suo interlocutore. «Quello materno
non è servito».
«La troverai» dichiarò risoluto il mannaro, convinto fino al midollo e
conoscitore di qualcosa a cui Stiles era estraneo. «Troverai una persona che
saprà amarti e che saprà riportarti indietro».
Stiles lo guardò a lungo con i suoi grandi occhi d’ambra, specchiandosi
completamente in quelli di giada e vedendovi l’assolutezza di quella verità che
sapeva gli sarebbe appartenuta.
Il figlio dello sceriffo scivolò un po’ di più sotto le coperte,
abbandonando la testa contro il petto muscoloso del lupo ed annuendo
impercettibilmente contro di lui; per quella sera sembrava aver finito le
parole e le forze per affrontare un qualsiasi argomento e Derek lo strinse di
riflesso a sé, acconsentendo al suo tacito silenzio.
Vorrei che qualcuno mi amasse come tu ami la
tua persona speciale, ma non seppe mai se lo disse ad alta voce o se rimase un pensiero
incastrato nella mente, collassata in un sonno profondo tra le braccia di Derek
Hale.
O grande e dolce Malia, siamo lieti di averla
tra noi e di averla osservata mentre istaura un rapporto da colpo di fulmine
con il nostro Stiles. I cupcake sono potenti,
diffidate, diffidate o nasceranno amicizie lodevoli.
Stiles è un grande altruista e si preoccupa per
tutti, perfino per qualcuno che non ha mai provato a rivolgergli la parola e
che capisce perfino; si sacrifica così tanto, rinunciato a ciò che gli piace.
Forse ha solo una prerogativa per i cuccioli mannari, altrimenti non si spiega.
E in più ha un lupo acido che condivide con lui
il suo cupcake per non lasciarlo a bocca asciutta.
Tutto nella norma, insomma.
Ma ciò che Stiles fa non si perde e non viene
dimenticato ed al contrario viene ricambiato ed apprezzato e poi nascono e si
fortificano nuovi legami e sopraggiunge Derek nemmeno dovesse marcare il
territorio.
O forse sì.
Il tema della scomparsa della madre di Stiles
prima o poi doveva toccarci e si conosce una parte di lui più oscura e
abbattuta, in cui tutto il suo carisma e la sua forza si disperde e non vuole
nessuno vicino a sé. Scott è un punto fisso della sua vita che conosce tutto di
lui, ma Derek… Derek è qualcuno che non potrebbe mai cacciare dalla sua vita e
averlo con lui perfino in un giorno tanto orrido come quello è importante e
curativo ed a Stiles basterebbe, se Derek non si prolungasse su di lui,
arrivando molto più in là di dove riescono a spingersi tutti gli altri. Se poi
a tutto quello si aggiungono i vari terrori di Stiles e Derek si muova per
tranquillizzarlo, è tutto un altro paio di maniche dove sopraggiungono nuove
verità inespresse in Stiles.
Quando Stiles aprì gli occhi la mattina dopo quella nottata riversa di
ricordi spossanti, incontrò per la prima volta le iridi di giada del lupo
accanto a lui, che gli riservava ancora una stretta leggera, ma tonificante.
Probabilmente non l’aveva lasciato per tutta la notte, benché l’umano fosse
scivolato dal suo petto possente al cuscino morbido da cui era impossibile
separarlo.
«Sei rimasto» disse con un’inclinazione tra lo stupito e la fermezza,
cercando di mettere a posto la mente ed inquadrare per bene la figura che aveva
aspettato il suo risveglio, rimanendogli accanto e non abbandonando le coltri
con l’arrivo dell’alba.
Lo sguardo di Derek era intenso e non sembrava in alcun modo offuscato
dalla sonnolenza di chi si fosse appena affacciato al mondo dei ridestati, al
contrario era reattivo e nitido e non si faceva piegare da raggi solari
dispettosi; i suoi occhi si erano abituati alla luce mattutina. Era scomodo
pensare che Derek avesse passato il tempo a guardarlo in attesa che
abbandonasse il regno di Morfeo? «Stai bene?» che aspettasse di accertarsi
delle sue condizioni?
«Mh, sì, va molto meglio» proferì il figlio dello
sceriffo con voce riposata e pulita, libera dalla negatività che l’aveva
afflitta per tutto il giorno precedente. «Grazie» e quel ringraziamento ne
conteneva così tanti che era davvero difficile riuscire ad individuarli tutti. Grazie per essere con me, grazie di capirmi
sempre, grazie di ascoltarmi e grazie per essere rimasto. In cuor suo
sapeva che Derek aveva gli stessi pensieri.
Le dita del mannaro gli scossero i capelli che gli ricadevano selvaggi sul
viso, scomposti ed indomabili, e Stiles risalì piano con la mano, intrecciando
le falangi tra loro e lasciandole lì dove sembrava piacere tanto al licantropo.
Derek gli accarezzò con il pollice la tempia scoperta e Stiles gli sorrise
caldamente, permettendosi di essere viziato un po’. «Che ore sono?» domandò
l’umano attimi dopo, notando l’innalzarsi sempre maggiore del sole, chiaro
invito ad abbandonare le comodità e la piacevole quiete in cui erano caduti.
«L’ora della sveglia» rispose prontamente il mutaforma, anticipando
l’allarme che prese a risuonare per tutta la stanza.
Stiles mugugnò sconsolato, incastrando le testa nel collo del diciottenne e
nascondendosi ai suoni molesti, mentre Derek scioglieva la trama delle loro
mani e spegneva alla cieca, ma guidato argutamente dall’udito, la sveglia.
Benché fosse evidente che nessuno dei due febbricitasse per alzarsi ed
abbandonare il letto, alla fine vinse il buon senso e l’avanzare delle
lancette, più la chiara e rumorosa presenza dello sceriffo che si arrangiava
per preparare la colazione.
Stiles strisciò sul materasso, gattonando a metà e raggiungendo il bordo,
per scendere sgraziatamente intrecciando gli arti in una matassa irrisolvibile
e catapultandosi davanti ai cassetti, aprendo distrattamente l’armadio ad
angolo, mentre Derek si portava in posizione seduta senza alcuna fatica. «Hai
il tempo di passare da casa?».
«No» negò senza alcuna bugia il lupo mannaro, senza nemmeno aver bisogno di
guardare l’orologio, ma buttando un’occhiata veloce alla sveglia digitale poco
lontana.
Chissà quanto tempo ci impiegava ad arrivare alla grande e sfarzosa villa
Hale da casa sua a piedi. Era un licantropo, su questo non c’erano dubbi, e la supervelocità non gli mancava, ma era piuttosto certo che
anche provvisto di quella, Derek ci impiegasse comunque una ventina di minuti
ed a quello doveva aggiungere il sistemarsi ed apparire come nuovo, fresco e
riposato, senza che suggerisse di aver passato la notte in una casa ed in un
letto non suo. Ma spesso si chiedeva se nella casa abitata da mannari si
accorgessero della sua assenza e sapessero dove passasse la notte per buona
parte della settimana. Era sicuro che sentissero perfettamente un odore
sconosciuto sul corpo di Derek, lo lasciavano fare comunque? «Forse non è il
caso che ti ripresenti con gli stessi vestiti di ieri» non che avessero fatto
nulla e nessuno poteva davvero sapere con chi il lupo avesse passato la notte o
cosa avesse fatto, ma le malelingue erano sempre in agguato e sia lui che Derek
erano sempre e comunque sulla bocca di tutti, sia che fossero separati sia che
fossero insieme ‒ quando erano insieme raggiungevano vette stratosferiche
‒, aggiungere ulteriori argomenti che accrescessero qualsiasi tipo di
voce non era il massimo.
Stiles aprì completamente l’anta dell’armadio ed estrasse una maglietta
nera priva di stampa, quella che Derek gli aveva prestato quando ogni traccia
della sua dignità era svanita e la cattiveria si era abbattuta su di lui.
«Credo che questa basterà. Cioè penso di sì, no?» si era già incartato di prima
mattina, inciampando nei suoi pensieri e stringendo la maglia a sé senza sapere
bene cosa fare, come non apparire patetico e con uno strano e particolare
imbarazzo che lo investiva in pieno. Che fosse perché l’aveva tenuta per tutto
quel tempo in camera sua? «Mi dimentico sempre di restituirtela, scusa» e chi
ci pensava più, era diventato un oggetto d’arredamento dentro l’armadio, sempre
presente ed al sicuro, come testimonianza che le cose potessero andare bene e
rimanere invariate, variando al tempo stesso.
Derek si era alzato dal letto con passo felpato, senza lasciarsi sentire e
si era avvicinato alla figura del padrone di casa in religioso silenzio, senza
commentare in alcun modo la valanga di pensieri e la strana cura attenta che
l’altro stava dimostrando. «Può andare» disse soltanto, acconsentendo senza
fare storie e prendendogliela dalle mani con delicatezza, aspettando che Stiles
gliela restituisse completamente con una convinzione più profonda. Ma la sua
espressione cambiò quando la prese e l’aprì, sciogliendola dalla piega ordinata
in cui era rimasta per tutti quei mesi, trovandola perfetta e magistralmente
stirata.
«Cosa c’è?» domandò il figlio dello sceriffo con preoccupazione ed
incertezza quando vide le pieghe del suo viso cambiare e le pupille nere
dilatarsi leggermente, mentre piccole ed invisibili pagliuzze di blu elettrico
facevano la loro presenza indisturbate nelle iridi di smeraldo.
«Ha il tuo odore» proferì il lupo mannaro con una strana cadenza speziata
ed una pittoresca consapevolezza che prendeva coscienza soltanto in quel
momento.
E oh, non andava bene. No, no, vero
che non andava bene? «L’ho lavata e stirata. L’ho fatto, giuro che l’ho
fatto» esclamò con un’ottava troppo alta ed un leggero panico che si
impadroniva di lui, muovendosi scompostamente ed agitando gli arti con un ritmo
scoordinato e troppo veloce. Non voleva, non voleva proprio che pensasse che ci
avesse fatto qualcosa di strano; lui l’aveva accuratamente messa a posto, in
attesa di restituirla al padrone. Non era colpa sua se poi Derek gli era
piombato completamente in casa e nella vita ed avesse del tutto rimosso quel
particolare.
«Ehy» soffiò Derek, poggiando la mano destra tra
i suoi capelli ed immergendovi completamente le dita, facendogli toccare quel metallo
freddo che gli circondava il dito medio, prodigandosi per calmarlo ed appianare
i suoi movimenti convulsi. «È qui da tanto tempo, è normale. Non agitarti».
Nemmeno avessero una tresca. O forse l’avevano? Che cosa erano esattamente
loro due? Che cosa avevano? «Tu mi agiti, tantissimo».
«L’ho notato» dichiarò risoluto il mannaro con un accenno di ghigno
predatore e divertito.
Stiles sospirò sconfitto ed un po’ risentito, scostandolo un po’ senza
riuscirci, ma azzerando quasi completamente il piccolo divario che si parava
tra loro. «Non compiacertene».
La curva sulle labbra di Derek si fece più evidente ed ampia e la sentì
anche quando gli scoccò un bacio morbido e vellutato sull’attaccatura dei
capelli, lasciandolo risuonare come unica risposta. Niente riusciva a farlo
sentire così amato come ogni piccolo e singolo gesto che Derek Hale gli
dedicava.
Ed era scioccante quanto facilmente si abbandonasse al lupo, pur
consapevole di quella sensazione e di quella fastidiosa e dispettosa pulce
nell’orecchio che non l’abbandonava da quando il mannaro era entrato a pieno
titolo nella sua vita. «Vuoi anche questi?» domandò come a stemperare
l’atmosfera idilliaca in cui si stavano cullando, pregustandola sempre un po’
di più ed allungandola ad ogni nuovo secondo.
Derek si scostò appena ed individuò i pantaloni della tuta che gli aveva
prestato insieme alla maglia completamente nera e che erano rimasti in egual
tempo nell’armadio dell’umano, senza che gli venissero mai restituiti. Anche
quelli avevano l’odore di Stiles. «No, potrebbero servire».
Fu repentino l’arrossamento delle gote del figlio dello sceriffo, la mente
che si domandava il perché Derek Hale avrebbe avuto bisogno che i pantaloni della
tuta rimanessero a disposizione per un futuro prossimo all’interno della casa e
il perché avrebbe dovuto cambiarsi proprio quelli in un momento non
identificabile.
Derek sogghignò da essere infame qual era e gli sfiorò con i polpastrelli
il lobo dell’orecchio imporporato, prima di separarsi completamente da lui e
cambiarsi deliberatamente davanti ai suoi occhi, senza alcuna timidezza o
impaccio, gustandosi le reazioni esagerate ed agitate che provenivano dal corpo
di Stiles ed abbandonando la maglia che si era appena tolto sul letto, tra le
coperte sfatte e l’ombra del risveglio congiunto che li aveva accompagnati.
Si diresse direttamente davanti alla finestra quando indossò la maglietta
nera che era appartenuta anche all’umano e che conservava il suo odore, come se
non avesse alcuna intenzione di separarsene, aprendo le imposte, pronte per
saltarci dentro e abbandonare l’abitazione.
«Vuoi un passaggio?» domandò Stiles d’impeto quando si rese conto che Derek
stava andando via e che quello era il loro arrivederci; molto tipico del lupo
in effetti. Ma quell’offerta comportava che il diciottenne sarebbe dovuto
rimanere nascosto finché lui e suo padre non avrebbero concluso la loro
colazione e Stiles fosse pronto per avviarsi verso la scuola. Forse non era un
piano perfetto e parlava molto a sproposito.
«Sono molto più veloce della tua carretta» rispose il licantropo con un
velo di saccenteria ed una presa in giro leggera, benché fosse la pura verità.
Le iridi dell’umano si ingrandirono ed una rabbia risentita emerse senza
eguali, facendo uscire il suo lato protettivo verso le cose a cui teneva. «Tu,
essere immondo, non ti permetto di parlare così della mia bambina».
Derek ne sembrò sinceramente divertito, tutto quello che Stiles faceva
creava degli effetti mai visti in Derek Hale ed era sicuramente e
principalmente per quello che si impegnava, ma nemmeno con tanto sforzo, a
turbarlo e scatenarlo. «Ci vediamo a scuola, Stiles» proferì in tutta risposta,
congedandosi e sparendo dalla visuale del sedicenne.
Stiles sospirò già esausto e quando gli occhi caddero sull’orario della
sveglia, che minacciava diffusamente la prossimità di un ritardo cronico, la
maglia abbandonata sul letto richiamò la sua attenzione ed avvicinandosi per
esaminarla e studiarla, identificandola seriamente per quello che era, la prese
tra le mani, ritrovandosi improvvisamente a non sapere cosa farci. Fantastico, ho un uomo che mi dissemina la
casa delle sue cose; ma seppure se ne lamentasse, nella strana inquietudine
che gli accompagnava l’animo per il pensiero appena scaturito, la piegò
accuratamente, riponendola nell’armadio sopra i pantaloni della tuta blu notte.
«C’è qualcosa che vuoi raccontarmi?» domandò Lydia con falso
disinteressamento e nonchalance, quando il professor Harris formò le coppie per
un lavoro in comune, con tanto di ampolle e materiali chimici.
«Cosa dovrei raccontarti?» chiese a sua volta il figlio dello sceriffo,
guardandola senza capire ed intento ad interpretare la consegna che era stata
assegnata ed a decifrare gli elementi chimici negli appositi contenitori.
«Ad esempio del perché Derek Hale indossi la maglia che fino a due giorni
fa era nel tuo armadio» propose con maestria e del tutto intoccata da quel
pittoresco dettaglio che non le era sfuggito.
«E da quando curiosi nel mio armadio?» domandò invece il sedicenne,
inarcando un sopracciglio e guardandola con giudizio evidente.
«Hai aperto le ante ed ho visto che era ancora lì» spiegò con semplicità la
bionda fragola, per niente colpita da quell’accusa impertinente che l’altro gli
stava rivolgendo, sventolando una mano con leggerezza ed unendo due elementi
chimici che Stiles non aveva ancora individuato, agitando l’ampolla e
mescolandoli.
«È sua» si limitò a riferire il ragazzo, ricordandole senza alcun problema
chi fosse il proprietario dell’indumento trattato.
«Questo non risponde al quesito» ribatté invece la rossa, del tutto
intenzionata a scoprire la verità ed a non demordere. «E il perché indossi gli
stessi vestiti di ieri, eccetto la maglia».
«È diventato un reato?» chiese un po’ scocciato il figlio dello sceriffo,
prendendo una nuova ampolla e versando un liquido alla volta.
«Stiles» lo richiamò chiara e nitida, intimandogli di parlare alla svelta
prima che la parte peggiore di se stessa potesse mostrarsi e la sua autorità
diventare fatale.
Stiles la guardò attentamente, riconoscendo lo sguardo sveglio ed
autoritario che pretendeva di conoscere come stavano i fatti, tutto quello che
girava intorno a loro, e che non avrebbe ceduto mai, continuando a tormentarlo
fino allo sfinimento; non c’era scampo per lui. «Ha dormito da me» ammise alla
fine, non particolarmente entusiasta di doverlo rivelare. «Ed eccezionalmente è
rimasto anche la mattina».
Lydia sgranò gli occhi, non sbalordita ed illuminata dal fatto che avessero
dormito insieme, gli indizi erano abbastanza evidenti, ma era qualcos’altro a
pietrificarla. «Che vuol dire eccezionalmente?»
c’era qualcosa di enorme in quell’unica parola e Stiles impallidì all’istante,
nel momento in cui capì l’errore che aveva commesso e quanto avesse parlato.
Parlava sempre troppo. «È rimasto la mattina» gli fece eco con la
consapevolezza degli avvenimenti che prendevano più consistenza e che mettevano
in campo più di quanto era stato effettivamente detto. «Tu, voi, da quanto tempo dormite insieme?».
Stiles voleva tanto schiaffarsi una mano in faccia ed evaporare in qualche
modo. Com’era possibile che riuscisse ad incastrarsi così maledettamente bene,
proprio lui che smascherava tutti gli altri? «Qualche mese» sembrava davvero
una valanga di tempo.
Non erano un paio di mesi, era qualche
mese ed era molto, ma molto più tempo, un’infinità per due tipi come loro
che negavano di avere qualcosa. Con Stiles che negava ci fosse qualcosa. «Ed
esattamente dove dorme? Mi ricordo abbastanza bene che non c’è una stanza degli
ospiti o un secondo letto in camera tua. Lo lasci dormire per terra?» era una
domanda più che legittima, anche se ne aveva trilioni e trilioni che le frullavano
nella mente e che andavano da quando avevano iniziato a quante volte Derek si
fermasse da lui e soprattutto alla motivazione che li spingeva a farlo.
Era caduto nella tela del ragno e non ne sarebbe più uscito vivo. «Dorme
con me».
Semplice e lineare e Lydia non poteva credere che Stiles fosse così
tranquillo sotto quella luce dei fatti. «Nello stesso letto?».
«Sì» affermò positivamente il sedicenne, rispondendo immediatamente e
togliendosi il dente per non soffrire troppo.
«Questo è pazzesco» sentenziò sbalordita la rossa, un po’ frastornata e
molto confusa; all’improvviso non sapeva più se vedesse cose che non ci fossero
o se loro stessero facendo uno strano gioco di cui ignoravano le regole.
«Perché non me l’hai detto prima?».
Stiles sbuffò e roteo gli occhi, immaginandosi perfettamente la scena che
si sarebbe scatenata se una mezza parola fosse uscita fuori; in più lui e Derek
avevano i loro segreti sovrannaturali da proteggere. «Perché stai facendo una
tragedia per un ragazzo che dorme con me, quando ho condiviso il letto con
Scott per una vita e continuo a farlo».
«Scott è tuo fratello, non può essere preso come campione di paragone»
smorzò semplicemente la sedicenne, facendo valere le sue motivazioni e mettendo
bene in risalto il ruolo che rivestiva il messicano nella sua vita. «Derek è
Derek Hale».
«Molto esaustivo, Lyds» confutò sarcasticamente
il figlio dello sceriffo, appuntando il risultato degli esperimenti svolti sul
foglio che era stato loro consegnato.
«Sai quello che voglio dire, non farmelo dire ad alta voce, perché non ti
piacerebbe affatto la risposta» prima o poi i nodi vengono sempre al pettine e
prima o poi lo strano rapporto che Derek e Stiles stavano costruendo sarebbe
saltato ed esploso ed avrebbe comportato delle vittime e dei problemi irrisolti
e la verità consisteva nel fatto che nessuno dei due era pronto per
affrontarli, ma vi si stavano spingendo senza frenare un momento, buttandovisi
a pesce.
«A proposito di voce alta, potresti tenerlo per te, non vorrei ritrovarmi
le ragazze di Derek sotto casa armate di forconi e torce» ed era uno scenario
molto, molto plausibile. Se solo una mezza parola fosse arrivata ad una
soltanto delle ragazze scalmanate di Derek, si sarebbe scatenato un putiferio peggiore
di quello che aveva già affrontato e non ci sarebbe stato alcun modo per
ritornare indietro, quando le prove del loro spettegolare e delle loro teorie
romantiche su di lui e il playmaker si fossero rivelate fondate. Era uno
scenario che lo faceva rabbrividire e che voleva a tutti i costi evitare, gli
bastavano le occhiate astiose che continuava a beccarsi ad ogni nuovo passo,
sia che fosse da solo, sia che fosse con il lupo in persona.
«Te lo meriteresti» elargì la bionda fragola con un piccolo broncio offeso
sul volto, rubandogli il foglio dalle mani per dispetto ed inserendo i suoi di
risultati ottenuti.
Stiles le dedicò un piccolo sorriso di comprensione ed affetto, lasciandola
fare. «Mi dispiace non avertelo detto, ma non l’ho fatto per cattiveria; è solo
successo» con una luna piena alta nel cielo e l’ululato di un lupo a fare da
colonna sonora. Era iniziata così e si era prodigata per molto altro, non aveva
idea di dove sarebbe finita. «È qualcosa che ci fa stare bene» e Stiles
cominciava ad avere problemi ad addormentarsi quando Derek non era con lui e le
sue visite diventavano sempre più frequenti e le motivazioni che portavano ad
avere bisogno l’uno dell’altro aumentavano e prima o poi Derek sarebbe entrato
da quella finestra ogni giorno per rimanere al suo interno.
Lydia non poté proprio ignorare l’implicazione di quelle parole e il tono
dolce ed affettivo con cui le avvolgeva, c’era una luce così splendente nei
suoi occhi ed un sorriso così vero, che avevano tutta un’altra musica rispetto
a tutto ciò che lo separava dal capitano della squadra di basket. «Non
scottarti».
Era troppo tardi.
Quando Stiles raggiunse il tavolo fin troppo popolato e pieno di brusio,
con scambi arbitrari di piatti e bottigliette di tutte le bevande possibili, si
sedette al solito posto tra Derek e Malia, scavalcando la panca e prendendo in
mano la forchetta ed il coltello di plastica per tuffarsi sulla cotoletta di
pollo fritta e nel purè di patate, sarebbe anche riuscito ad addentarlo quel
primo boccone di carne bianca se due occhi castani ed insistenti avessero
smesso di prestargli attenzione. «C’è qualcosa che non va?» domandò allora di
riflesso, abbassando le posate, ma lasciando per aria la forchetta e riponendo
il coltello sul piatto, incontrando le iridi attente della coyote che non aveva
ancora proferito parola.
«Stai bene adesso?» chiese invece la ragazza con una leggera apprensione
nel portamento statuario e senza sbavature, del tutto disinteressata a quello
che la circondava e con la priorità di nutrirsi messa in secondo piano.
Stiles rimase così sorpreso da quella domanda che per alcuni momenti non
aveva idea di cosa avrebbe dovuto rispondere ed il motivo per cui gli era stata
posta con così tanta importanza da diventare essenziale il responso.
Dovette metterci qualche secondo a carburare, a ripercorrere il giorno
precedente, l’apatia che l’aveva colto ed il distacco con cui aveva trattato
tutti, senza nemmeno individuarli nella propria bolla privata, escludendoli ed
optando per un isolamento totale. Li aveva completamente tagliati fuori ed a
nessuno di loro aveva dato una spiegazione, ripresentandosi al solito posto
come se niente fosse accaduto.
Per Stiles non era quasi esistito il giorno prima, il giorno della
ricorrenza della morte della madre, e non aveva considerato che qualcuno
potesse essere stato turbato dal suo comportamento o, da chi possedeva dei
sensi che andavano oltre quelli umani, dall’afflizione e dal dolore che emanava
sotto forma di odori e palpitazioni. Malia, cresciuta come coyote nel sottobosco,
era la più sensibile di tutti alle sensazioni di chi la circondava, non doveva
apparirgli così astratto quell’interesse e quella forma di apprensione che la
ragazza stava mostrando nei suoi confronti ed i sensi di colpa nell’umano
crebbero un po’ di più.
Senza rendersene conto scalpitava con le dita e senza sapere esattamente
cosa fare e come scusarsi, l’avambraccio gli scivolò un po’ di lato, sotto al
tavolo, proprio di fianco a Derek, incontrando il suo e sfiorandogli il palmo
con i polpastrelli, mentre il lupo apriva totalmente la mano e permetteva al
ragazzo di intrecciare le dita alle sue, stringendogliele un po’ più forte per
serrare la presa.
Stiles ricominciò a respirare più tranquillamente ed il leggero senso di
colpa sparì lentamente, lasciando emergere soltanto la premura e l’interesse
che gli altri provavano verso di lui.
Malia era davvero preoccupata, non le interessava se l’umano avesse escluso
quelli che considerava parte della sua famiglia ed avesse preferito affrontare
gli eventi da solo, voleva soltanto conoscere la verità del suo stato d’animo,
anche se era capacissima di scoprirlo da sola. «Sì, sto bene» confidò veritiero
il figlio dello sceriffo, con un sorriso caldo e di apprezzamento che si
disegnò sulle sue labbra. «Grazie, Malia».
Malia lo guardò ancora per un po’, come se stesse tastando il terreno e
dovesse accertarsi delle sue parole e mentre tentava di scoprire ciò, le iridi
nocciola le caddero sulla trama delle dita dei due ragazzi che ancora non
avevano disfatto e, riportando lo sguardo sul sedicenne, annuì lievemente,
ottenendo la risposta che l’ebbe soddisfatta.
«Sei sicuro che mi sia risvegliato nell’universo giusto? Potrei aver
sbagliato bivio durante il sonno» domandò il giocatore di lacrosse al suo
vicino, ancora intontito da quella forma di attenzione che Malia gli aveva
prestato.
«Sei solo entrato nelle sue grazie» gli rivelò semplicemente il capitano
della squadra di basket, sintetizzando la situazione con maestria.
«Avrei dovuto offrirle prima il cupcake» realizzò
il sedicenne, sminuendo con dolcezza divertita il percorso che avevano compiuto
insieme.
Derek lo ignorò bellamente e bevve dalla sua bottiglietta senza lasciarsi
toccare dai pensieri sconclusionati dell’altro. «Perché mi guarda in quel
modo?».
Stiles corrugò la fronte, puntando gli occhi su di lui che non dava alcuna
indicazione e rimaneva immobile nella sua posizione senza dare alcun
suggerimento e come se non avesse proferito nulla; Derek Hale era il peggior
soggetto da cui trarre degli indizi. «Chi?».
«La Martin» disse il licantropo con ovvietà, limpido come l’aria che non
potesse riferirsi a nessun altro.
L’umano si voltò verso la persona citata con gli occhi vigili e spietati
che scrutavano il moro. «E come ti starebbe guardando?».
«Come uno che ti ha sottratto l’innocenza» e c’erano davvero tanti tipi di
innocenza che poteva avergli sottratto e su alcuni punti era anche vero; Stiles
non era più l’adolescente sognante e fantasioso che cercava il sovrannaturale e
le sue amate creature mitologiche, con i lupi mannari in vetta alla classifica;
lui vi era proprio dentro e quasi ogni notte condivideva il letto con uno di
loro. Quel tipo di innocenza non sarebbe più tornata.
Ma era ad un altro il tipo di innocenza a cui si riferivano il diciottenne
e la bionda fragola. «Ehm… perché crede che tu l’abbia fatto» quasi non si
strozzò nel dirlo ad alta volte, preferiva proprio che quel tipo d’argomento
non si toccasse mai, soprattutto se implicava lui e Derek e già erano implicati
un po’ troppo per negare l’evidenza.
Derek si voltò di scatto, gli occhi verdi impenetrabili che lasciavano
fuoriuscire lo sgomento che lo stava cogliendo; era difficile scombussolare
Derek Hale e pietrificarlo, ma i momenti in cui lo vedeva in quel modo si
stavano moltiplicando senza eguali. «Come sarebbe giunta a questa
conclusione?».
Stiles sospirò internamente e le iridi gli caddero sulle mani ancora
intrecciate, il contatto fisico che aveva cercato senza rendersene conto e che
gli era stato concesso, quello che non avevano ancora interrotto. Forse non
erano così assurdi i pensieri di Lydia. «La maglia» disse come unica risposta,
disgregando la loro stretta e tirandogli l’orlo dell’indumento citato proprio
con la mano appena liberata, da cui emergeva in modo nitido ed inequivocabile, attraverso
lo sfondo nero, l’anello d’argento con la triscele rossa. «L’ha vista qualche
giorno fa nel mio armadio e si è chiesta come potessi averla riavuta in così
poco tempo e tra una presa di posizione e l’altra, sa che dormiamo insieme».
Derek continuò a guardarlo impassibile, senza proferire parola e Stiles si
ritrovava in una situazione di imbarazzo e completo smarrimento, aveva delle
scuse sulla punta della lingua che non riusciva a frenare ed in realtà non vi
era alcun motivo per cui dovesse sentirsi così, ma non riusciva proprio a farne
a meno. «Possiamo… possiamo parlane in un secondo momento?» era un argomento
spinoso che sarebbe degenerato e non era proprio il caso di affrontarlo in
mensa davanti a tutta la scuola, in più si chiese di cosa avessero davvero
dovuto parlare.
Derek gli dedicò ancora il suo sguardo e poi ritornò al suo pasto,
lasciando le cose a metà.
Stiles prese un lungo respiro e sperò che Derek non si innervosisse troppo
per l’invadenza senza freni della bionda fragola.
Stiles era seduto sul pavimento della propria camera da letto, con la
schiena poggiata al bordo del materasso e con il libro di letteratura sulle
gambe incrociate, a scarabocchiare parole chiave sull’analisi del testo che
stava studiando, mentre Derek gli sedeva accanto con le gambe dritte ed il
quaderno di matematica su cui stava lavorando su di esse.
Il padrone di casa stava curiosando da qualche minuto, cercando di
individuare a quale argomento il lupo si stesse dedicando e si avvicinò con
circospezione, guardando attraverso la sua spalla. «Ti conviene usare questo
metodo per dimostrare il teorema» gli suggerì candidamente, indicando il metodo
consigliato che si trovava in uno dei fogli svolazzanti che fuoriuscivano dal
quaderno ed a cui Derek aveva dato un’occhiata approssimativa, scegliendo di
testa sua.
Derek fermò la matita, smettendo di scrivere sul foglio a quadretti e
lanciandogli un’occhiata riluttante ed intensa. «È programma dell’ultimo anno»
gli ricordò, non tanto perché non credesse nelle capacità di Stiles di vedere
più lontano di lui, ma perché materialmente non poteva possedere le conoscenze
per arrivare a quella soluzione senza conoscere l’argomento.
«Lo so» convenne il sedicenne, senza scomporsi più di tanto e conscio dei
due anni di differenza che si ponevano tra loro, dei programmi completamente
opposti a cui erano soggetti i loro studi ed a quel lieve richiamo che gli
consigliava di stare un po’ al suo posto; fatica sprecata. «A volte quando
finiamo i compiti in anticipo e Lydia si annoia più del solito, ci imbarchiamo
in qualche nuovo argomento dei futuri programmi scolastici; ci portiamo un po’
avanti per non essere completamente a bocca asciutta» spiegò velocemente, senza
soffermarsi sui dettagli e su come reperissero certe informazioni, su quanto si
fossero portati avanti. «Lydia ha un particolare rapporto con la matematica ed
abbiamo affrontato quest’argomento diversi mesi fa» meglio non dire che
conoscevano tutto il programma del terzo anno di quella materia e l’avessero
concluso l’anno prima, perché la bionda fragola lo riteneva troppo semplice.
Procedendo di quel passo sarebbero passati direttamente ai programmi
universitari.
Derek non fiatò e corrugò soltanto le sopracciglia e forse li considerava
un po’ fuori di testa, perché nessuno sano di mente che si annoiasse, invece di
limitarsi a studiare le materie che già avevano nel loro orario scolastico,
portandosi, al massimo, un po’ avanti con quelle suddette materie, si sarebbe
imbarcato in uno studio totale di qualcosa che li avrebbe toccati soltanto nel
futuro. «Sempre la Martin» e Stiles non poteva proprio ignorare il modo astioso
che predominava quando si parlava di lei, quel tipo di fastidio e sentimento
che si avvicinava pericolosamente alla gelosia.
Stiles non disse niente e preferì non indagare, tornando al suo testo
poetico e lasciando Derek al suo teorema, teorema che risolse con il metodo
consigliatogli.
«Mi dispiace per oggi, per Lydia» proferì poco dopo il figlio dello
sceriffo, sottolineando un verso che lo colpiva particolarmente.
«Non c’è alcun motivo per cui dovresti dispiacerti» soprattutto perché
Stiles aveva la strana tendenza a scusarsi ed a prendersi sensi di colpa che in
realtà non esistevano e si faceva carico di pesi che
non erano necessari. Derek doveva ricordarglielo ogni volta.
«Non le ho detto niente, proprio niente, è questo che non sopporta» rivelò
l’umano, mettendolo al corrente di una conversazione lasciata a metà e senza
spiegazioni, di motivazioni che non le sarebbero state concesse. «E quindi trae
conclusioni errate» anche se tutti in quella scuola traevano conclusioni errate
quando si parlava di lui e Derek Hale.
«Vorresti dirglielo?» domandò Derek con cautela, guidato dalla strana
afflizione che prendeva vita dalla voce seminasale del sedicenne.
Stiles si voltò di botto ed ingrandì i suoi giganti occhi d’ambra,
guardandolo senza conoscerlo. «Del sovrannaturale, di te e del branco? Ci
resterebbe secca e sicuramente nemmeno mi crederebbe» elargì sbracciandosi,
scartando del tutto tale possibilità. «Va bene così, Der.
E poi non voglio condividerlo con nessuno; è nostro, solo nostro» ed era sicuro
di averlo già detto una volta o qualcosa di molto simile. Non c’era alcuna
ragione per cui quel segreto sarebbe dovuto essere rivelato, al contrario si
impegnava molto per proteggerlo e tenerlo celato. Stiles era come un eletto a
cui era stato permesso di conoscerlo e non aveva alcuna intenzione di tradirlo
e sventolarlo ai quattro venti. L’esistenza del sovrannaturale, la verità sulla
natura di Derek erano un qualcosa che doveva custodire gelosamente. «E poi non
ha mai avuto una buona opinione di te, con tutti quei cuori che spezzi ogni
giorno» rivelò con divertimento pungente, burlandosi affettuosamente di lui e
mostrando il sorriso da volpe scaltra che usciva fuori nei momenti propizi.
Derek sbuffò accigliato e per nulla sorpreso, ma non lo aggradava proprio
quella visione che avevano di lui. «Non è intenzionale, io sono chiaro».
Il sedicenne ridacchiò spensierato, divertito dalle pecche che esistevano
nella vita di Derek e che lo alleggerivano molto, soprattutto davanti alle sue
reazioni; se poi esistevano dei risvolti negativi anche per lui, era un’altra
storia. «Dovresti camminare con un cartello con su scritto: già mentalmente impegnato. Lasciatemi in
pace».
«Mentalmente?» gli fece eco il lupo mannaro, guardandolo con un
sopracciglio innalzato.
«Sì» confermò il padrone di casa, ammiccando con grazia. «Molto meno
romantico di: il mio cuore è già
impegnato e non vedo nessun altro. Non ripassate mai più».
Derek rimase per alcun attimi in silenzio, senza obiettare e Stiles non
sapeva bene su quale parte del suo annuncio strampalato si fosse fermato
l’altro, ma la sua mente caparbia e la consapevolezza degli occhi di Derek su
di lui, costanti ed inarrestabili, gli suggeriva che fosse proprio la parte del
non vedo nessun altro. «E tu sei
mentalmente impegnato?».
Stiles si mostrò impressionato e colpito, soprattutto perché era un
argomento che non avevano mai toccato, ma che era stato vagamente accennato da
lui stesso, senza mai approfondirlo o soffermarcisi. «Con Lydia, intendi
dire?».
«Sei innamorato di lei» proferì in punta di piedi il lupo mannaro, dando
voce a qualcosa che avevano solo bisbigliato. «Da otto anni» e quello era una
piccola ripassata per l’unico sbilanciamento a cui si era lasciato andare il
minore.
«Sembrano tanti, vero?» domandò retoricamente, lasciandosi andare ad un
sospiro trattenuto, liberando l’aria dai polmoni. «Era la mia isola felice
quando la malattia di mia madre si è manifestata e lei non sapeva nemmeno della
mia esistenza» sbuffò un po’, non risentito per la sua presenza invisibile, ma
per il destino avverso. «Ho preso coscienza per lei soltanto dallo scorso anno,
quando Allison è entrata nelle nostre vite e Scott si è innamorato al primo
sguardo. Ognuno ha messo qualcosa di se stesso con la formazione della loro coppia
e Lydia era già diventata la sua migliore amica, quindi ci siamo trascinati
tutti a vicenda» posò la matita al centro del libro ed abbandonò la testa sul
bordo del letto, ritrovandosi a fissare il soffitto – era così pericolosamente
vicino a quello che era accaduto tra lui e il licantropo. «Siamo amici».
«Non è così che si comincia?» lo incitò il mannaro, quasi a consolarlo ed a
lasciargli uno spiraglio aperto e Stiles si chiese se stesse confortando lui o
se stesso.
«No, dipende dalle persone, dalle situazioni e dal percorso che fanno» lo
smorzò il padrone di casa, mettendo in ballo varianti ed opzioni, la
complessità degli individui e della vita che affrontano. «Per noi è il
capolinea, è l’unico traguardo che potevo raggiungere».
«Sei cinico» rivelò il mutaforma con un’osservazione che forse gli era
sfuggita e che apprendeva per la prima volta, era come se avesse ancora tante
cose da imparare su di lui.
Stiles ridacchiò deliziato e strusciò il viso contro la sua spalla,
lasciando viaggiare la mano sinistra alla ricerca di quella destra dell’altro,
dove spiccava l’anello che li accomunava, e prendendogliela tra le dita. «Sai
qual è la verità, Der? Non provo più le stesse cose»
era una confessione che non aveva mai fatto nemmeno a se stesso, tenendola
radicata nei posti più nebulosi della mente, dove poteva ancora illudersi e
fantasticarci sopra. «È la mia migliore amica, sto bene con lei e provo ancora
un fortissimo sentimento nei suoi confronti, ma non credo sia più il sentimento
romantico che era una volta» giocherellò con le loro falangi, permettendo loro
di toccarsi e rincorrersi, accarezzando distrattamente l’anello che Derek
portava sul medio, ricalcando l’incisione della triscele rossa con cui si
teneva impegnato. «Ho avuto così tante cose per la testa che ho smesso di
pensarci ed a volte ritornava, lo ammetto, ma era qualcosa di fumoso senza
troppa consistenza» sospirò un po’ frastornato e malinconico, gli occhi un po’
opachi e lontani, un turbine di pensieri che lo stavano abbandonando. «È strano
realizzare di aver perso il tuo primo amore» ed aveva un che di amaro rivelarlo
proprio al licantropo che conosceva bene quella perdita, benché fosse di
fattezze completamente diverse e distruttive.
Derek allargò le dita, creando il vuoto tra una e l’altra, permettendo al
figlio dello sceriffo di fare qualsiasi cosa gli passasse per la mente,
consentendogli di giocare come meglio desiderava. «Ti innamorerai ancora». La
voce era calda e vellutata come una coperta morbida ed accogliente, una di
quelle che proteggeva dalle intemperie e che avrebbe affrontato qualsiasi male
per tenerlo al sicuro. Mi basteresti tu e
il mondo potrebbe anche scomparire, Stiles non riusciva più a controllare
bene i suoi pensieri e prendevano accesso alla sua mente come meglio volevano,
mettendo tutto a fuoco e rendendolo più concreto. «Ti ritroverò al mio
risveglio domani?».
«Vuoi che ci sia?» chiese in risposta il mutaforma, sbirciando dall’alto
della sua posizione, senza scostarsi o invitare Stiles a mettersi in una
posizione differente.
«Sì» affermò l’umano con convinzione morbida, inserendo le dita capricciose
tra gli spazi che Derek gli aveva creato per accontentare il suo divertimento.
«È molto più bello risvegliarsi con una persona accanto, soprattutto se ti eri
addormentato con lei. È davvero orrendo trovare il letto vuoto» e lo era per
davvero, Stiles cominciava a rendersene conto mese dopo mese, giorno dopo
giorno, la presenza di Derek era così vitale per lui che non ritrovarlo la
mattina successiva corrispondeva ad un abbandono in piena regola, come uno
strano scherzo della mente che prima lasciava comparire qualcosa e poi gliela
portava via, senza dare la certezza che fosse vero.
Ogni mattina doveva accertarsi che il rapporto che lui e Derek Hale avevano
creato fosse reale e che quasi ogni notte condividesse le lenzuola con il lupo,
cadendo nel più soporifero e meraviglioso sonno restauratore.
«Non ti starò viziando troppo?» domandò retoricamente il capitano della
squadra di basket, accettando le falangi che si incastravano alle proprie e
corrispondendo la stretta, creando definitivamente la trama tra le loro mani.
Aveva uno strano modo di smentire la cosa.
«È questo il bello» annunciò il figlio dello sceriffo con una curva abile e
birichina sulle labbra, rigirando la testa sulla spalla del mannaro ed
incontrando le iridi verdi che lo guardavano dall’alto, captando all’istante i
suoi movimenti. «Derek Hale, il ragazzo più corteggiato dell’istituto,
idolatrato da fanciulle e fanciulli che si prostrano ai suoi piedi, vizia
Stiles Stilinski, il ragazzino sfigato e logorroico invisibile a tutti gli
altri. Il grande lupo cattivo, feroce ed acido vizia una piccola volpe
indifesa».
«Sei una volpe ammaliatrice» lo corresse il grande lupo cattivo, parando il
tiro e smontando la visione che aveva appena creato di loro.
Stiles mostrò quella piega furba ed accattivante che spesso Derek
descriveva, con gli occhi vispi ed attenti, ammiccanti e travolgenti, come la
grande volpe rossa furba quale era. «Resta con me».
Fu impegnativo ritornare sui libri scolastici, con Stiles abbandonato
contro di lui e Derek a reggerlo impassibile.
Stiles aprì gli occhi con difficoltà poco dopo l’alba ed accanto a lui vi
era il corpo solido del capitano della squadra di basket, caldo e confortevole,
riparato dal freddo dell’inverno dalle coperte che cadevano su entrambi,
fasciandoli per bene.
Strisciò verso di lui, nei pochi centimetri che li dividevano,
appiattendovisi contro, mentre Derek si muoveva di conseguenza per permettergli
di accoccolarsi meglio. «Grazie per essere rimasto» proferì l’umano a contatto
con la pelle del mannaro, lasciandosi avvolgere completamente dalla sua
temperatura corporea.
Derek mugugnò nel dormiveglia, allargando le lenzuola e provvedendo a
ricoprire al meglio il padrone di casa, aprendo gli occhi soltanto per
incontrare quelli di ambrosia prima di ritornare a dormire. «Viziato» bofonchiò
con voce roca, mettendo nero su bianco la vera condizione in cui si trovava il
sedicenne.
Stiles gli sorrise sull’epidermide contento e compiaciuto e Derek lo
avvolse con un braccio, tirando le lenzuola, mentre l’umano mugolava in
apprezzamento.
Sei l’unico al mondo a viziarmi.
Aveva ancora qualche altra ora di sonno, ore di sonno da condividere con il
suo lupo, prima che la sveglia suonasse e li riportasse con i piedi per terra,
a correre per raggiungere in tempo la struttura scolastica.
Era certo che al suonare della sveglia Derek sarebbe stato ancora lì con
lui, a tenerlo stretto contro di sé, avvolgendolo totalmente ed aspettando il
suo completo risveglio.
Quello sarebbe stato il loro nuovo buongiorno e non era altro se non la
conferma confortante che, ogni volta che se ne sarebbe presentata l’occasione,
Derek sarebbe rimasto, affacciandosi al mattino insieme a lui.
Prima o poi doveva capitare che questi due si
svegliassero insieme la mattina, affrontando insieme il nuovo giorno e incontrando
un certo imbarazzo. Cosa che non è successa, ma Stiles qualcosa l’ha provata
nel momento in cui Derek si è preso in qualche modo gioco di lui; ma è un tenerello, gli passano strane idee nella testa e adesso
Derek corrisponde a: ho un uomo che mi
dissemina la casa delle sue cose, il che è tutto dire.
Mai che si possa nascondere qualcosa a Lydia,
santissimi dei del cielo!
Povero Stiles, non può nemmeno tenere segreto
il fatto che abbia un uomo per casa con cui condivide il letto ed i vestiti;
povero caro.
Ciao, Malia, ti voglio bene.
Oh, il triangolo LydiaxStilesxDerek
si fa sentire finalmente e mette in luce scomode verità che non affrontano e
poi affrontano e poi dicono cose a metà fino a risolvere teoremi di matematica
e rivelare di non essere più innamorati del loro primo amore. Okay, perfetto.
Ma possiamo dire le cose come stanno, per favore?
E concludendo in super sintesi… sì, Derek. Stai
proprio viziando tanto il nostro Stiles.
E oggi è l’Epifania quindi sotto con il
cioccolato!
«Non sbranare nessuno» si raccomandò il figlio dello sceriffo, riprendendo
un tratto tipico che rimproverava spesso nel lupo con sarcasmo.
Non vi era nessuno negli spogliatoi, non ancora, e gli unici abitanti di
quel luogo erano lui e Derek che si preparavano alla nuova partita di basket
come se scendessero in campo entrambi.
«Solo se qualcuno mi ruberà una palla di troppo» lo rassicurò tremendamente
il licantropo, godendo giocosamente delle precauzioni e dell’elenco che l’altro
stava stilando.
«Derek» sospirò il sedicenne quasi esasperato, guardandolo torvo. «Dico sul
serio».
«Andrà bene» disse soltanto il mutaforma con la sicurezza nella voce ferma.
Stiles si abbandonò contro la fronte del lupo, osservandolo di sottecchi.
«Starai bene? Stai bene?».
«Sì» convenne il capitano della squadra di basket, persuadendolo a mollare
la presa. «Non è la prima partita che gioco con la luna piena».
«Lo so» era il primo giorno di plenilunio, la luna era alta e completa,
splendente ed unica protagonista del cielo stellato. La sua ascesa era iniziata
da qualche ora e gli effetti sui lupi mannari erano già cominciati il giorno
prima e sarebbero perdurati per altre due notti. «Ma vorrei che pensassi solo a
giocare, non a contenere la tua natura».
«Anche questo fa parte della mia natura» e per Derek era sempre più facile
controllarla ed averne la supremazia, la preoccupazione era l’ultimo dei suoi
pensieri, ma non era lo stesso per Stiles. Stiles era sempre preoccupato, per
qualsiasi cosa.
L’umano alzò gli occhi e Derek si ritrovò completamente specchiato nelle
iridi di caramello. «Mi fido di te, Derek Hale, ma non fare l’orgoglioso in
campo» era un messaggio non tanto criptato in cui l’invitava a lasciare la
partita se le cose fossero degenerate, anche se la percentuale era pari quasi a
zero.
Il diciottenne annuì a contatto con la sua pelle e, facendolo contento,
acconsentì alle sue parole. «Ne ho già persa una».
Sembrava passata una vita intera, una vita passata con il suo lupo, ed
ancora non poteva dimenticare il gesto avventato che Derek aveva compiuto,
l’abbandonare il campo perché non poteva sopportare le voci che progettavano
piccole e tremende vendette verso il figlio dello sceriffo per quella stessa
sera; vendette che erano evaporate nel momento in cui l’umano non era stato più
presente all’interno dell’istituto scolastico al termine della partita. Stiles
spesso si chiedeva se avessero davvero rinunciato, mettendo da parte il colpo
per occasioni future o se Derek avesse fatto valere la sua voce pericolosa –
certe retrovie non le avrebbe mai scoperte. «Lo so, c’ero anch’io» e ti ho quasi perso.
Derek portò la mano destra sopra la sua guancia, tenendolo fermo e
permettendosi di schioccare un nuovo bacio tra la radice dei capelli castani,
rincuorandolo ancora un po’. «Non perderò il controllo e non cederò al lupo»
strusciò la fronte contro di lui, riportandolo nella posizione precedente,
incollando le iridi di giada a quelle di miele. «E tu sarai lì».
Era troppo facile, troppo facile per Stiles abbandonarsi ai tocchi delicati
di Derek, all’attenzione che aveva per lui, al suo metterlo al primo posto
occupandosi dei suoi bisogni invece che dei propri, ed era qualcosa che gli
faceva scoppiare il cervello, ma che gli colmava il cuore, sentendolo sempre
più pieno e pronto a straripare. «Non ho mai perso una partita».
«Lo so» c’era solo certezza e consapevolezza nel tono del mannaro, la
sicurezza che Stiles fosse sempre stato lì e fosse stato in grado di percepirlo
fin dalla prima partita di campionato l’anno prima.
Derek era sempre stato a conoscenza di lui?
«Piccioncini, potreste amoreggiare più tardi? Abbiamo una partita da
vincere» si intromise Boyd senza alcun problema,
senza una sfumatura particolare nella voce che attestasse con che tono avesse
pronunciato quella frase; ma era una sua caratteristica rimanere disinteressato
ed incline ad essere all’oscuro delle cose.
Boyd fu il primo ad entrare nello spogliatoio, seguito da tutto il resto della
squadra, che poggiava i borsoni nelle varie panche ed apriva gli armadietti
assegnati per sistemarsi, rivolgendo parole di saluto al figlio dello sceriffo.
Per nessuno dei membri della squadra era una sorpresa ritrovarlo lì, in
atteggiamenti intimi con il capitano che aumentavano ad ogni nuova occasione ed
in cui si accorciavano definitivamente le barriere che esistevano tra loro.
Stiles era sempre il primo ad arrivare negli spogliatoi, anticipando tutti
gli altri ed entrando quasi in contemporanea con Derek Hale, come se avessero
un casuale e stabilito appuntamento. Raggiungeva Erica soltanto quando si
dividevano e ritornavano alle rispettive mansioni.
La squadra non si era mai lamentata di averlo in giro e Stiles non aveva
retrocesso, al contrario avevano stabilito un buon rapporto di convivenza.
Stiles sbuffò tra le labbra di Derek e si scostò appena, indirizzando gli
occhi verso il nuovo arrivato, mentre il capitano lasciava ricadere a peso
morto il braccio sul fianco, togliendo la mano dal viso del sedicenne. «Ciao, Boyd. Tempismo perfetto» proferì con sarcasmo pieno di
malizia, sfoderando il suo ghigno da volpe rossa pieno di sfaccettature. «Hai
appena interrotto il nostro momento idilliaco».
«Partita. Priorità» tagliò corto l’afroamericano, senza lasciarsi incantare
dalle sue fattezze e giochi di parole.
«Va bene, va bene, vado via» proferì poco accettato l’umano, sbuffando
ancora una volta ed avviandosi per allontanarsi, separandosi dal suo lupo. «Tu
stai bene?» chiese invece, rimandando i saluti e guardandolo con attenzione,
seriamente interessato.
Gli occhi di Boyd si ingrandirono un po’ e
dovette seriamente guardarlo bene per capire se l’avesse chiesto realmente a
lui e se si stesse riferendo alla luna che sovrastava il cielo, manifestando il
potere che aveva su di loro. Dovette distogliere lo sguardo per incontrare
quello di Derek, non particolarmente stupito di quella manifestazione che si
presentava nel figlio dello sceriffo, preoccupandosi di ogni creatura
sovrannaturale che lo circondava e di cui era a conoscenza. Lo sguardo di Derek
era eloquente e non lasciava spazio a perplessità o dubbi, c’erano anche tracce
di orgoglio e fierezza nelle sue iridi verdi e non esistevano altre possibilità
oltre a quella.
In Derek c’era qualcosa che vedeva soltanto quando Stiles era nelle vicinanze
ed era quello che il branco intero proteggeva. Stiles era unico. «Sì, sto bene»
e l’unico.
Stiles era disteso scompostamente sul letto, a pancia in giù e con le gambe
che solleticavano l’aria, continuamente scomposta dai suoi movimenti che la fendevano,
mentre leggeva avido le nozioni del libro di sociologia, corso extra che era
iniziato da qualche settimana, che si teneva nell’ora dei laboratori
pomeridiani e di cui lui era l’iscritto più giovane. «Quando hai iniziato a
spedire le lettere d’ammissione al college?».
Derek sedeva sul pavimento, una gamba distesa e l’altra piegata che teneva
in equilibrio perfetto il volume di storia contemporanea, con la schiena
poggiata al bordo del materasso da cui faceva capolino il padrone di casa. «È
un po’ troppo presto per pensarci» che non era esattamente la risposta alla
domanda postagli, ma a quella intrinseca e sottintesa che non era stata emessa,
quella ansiosa e precoce che caratterizzava perfettamente colui che l’aveva
formulata.
«Sto solo chiedendo delle dritte, sei all’ultimo anno, sei la persona più
adatta» si giustificò prontamente il sedicenne, sbuffando un po’ offeso per
quella piccola ripresa che gli aveva fatto.
«Sono sicuro che hai tutte le tue risposte» proferì semplicemente il lupo
mannaro disinteressato, voltando pagina e continuando la lettura.
«È sempre un piacere parlare con te, Derek» lo pungolò con stizza l’umano,
con tono velenoso e risentito, soffiandogli contro come un gatto offeso e
togliendogli la sua attenzione.
Il lupo non sembrò badarci e perseverò nel suo studio.
«Le hai spedite almeno?» ritentò il castano, non contento della risposta
ricevuta e propenso a scavare ancora.
«Sì» lo accontentò con distacco, rubando uno degli evidenziatori colorati
di Stiles ed inglobando dei concetti chiave.
«Dove? A quale college hai fatto domanda?» era un argomento che non avevano
mai tirato in ballo, che non era mai esistito, che non era mai stato
considerato benché fosse risaputo ed evidente che Derek fosse all’ultimo anno e
che quando Stiles avrebbe frequentato la terza classe, lui non sarebbe più
stato nell’istituto. Niente più Derek Hale tra le mura, niente eserciti di
ragazze esagitate che lo tormentavano con una dichiarazione al giorno, a volte
all’ora; non l’avrebbe più visto giocare, allenarsi e vincere. Non l’avrebbe
più visto e basta.
Le labbra del diciottenne si sigillarono per un istante, guardando a
disagio un punto alla sua destra e scacciando tutto con la sua impassibilità,
cancellando quell’unico momento di umanità. «Uno vale l’altro».
Le iridi d’ambra si ingrandirono e la sua attenzione fu completamente
riposta sulla figura del mannaro, abbandonando il tomo della nuova materia
acquisita e spostando la parte superiore del suo corpo verso quello dell’altro,
girando la testa verso la sua per guardarlo e strappargli le risposte. «Uno vale l’altro? Vuoi dirmi che non ce
n’è uno che ti attira particolarmente?».
«No» ricalcò la dose il mutaforma, lievemente esasperato da quel concetto
già espresso.
«Quindi ti andrebbe bene qualunque ti accettasse?» chiese con un leggero
sconcerto che comprendeva soltanto a metà, non particolarmente affine con la
sua politica.
«Sì» convenne il licantropo con distacco, sottolineando ancora una volta la
sua risposta.
Stiles non poteva crederci, era una cosa che lo lasciava di stucco e senza
parole. «E i corsi? I dipartimenti? In cosa vorresti laurearti?».
«Deciderò in base al college» rivelò atono il capitano della squadra di
basket, mostrando ancora una volta il disinteresse per quella parte futura
della sua vita.
«Che sciocchezza è mai questa?» lo riproverò astiosamente l’umano,
irrigidendo il corpo ed investendolo con la sua aura nera, balzando sul letto e
mettendosi in posizione di seduta, richiamando la sua attenzione. «Non è così
che funziona, non è così che si sceglie e si affronta il futuro. Solo i
disperati lo fanno, chi non riesce a vedere ad un palmo dal proprio naso, ma
tu…» l’ira ed il turbamento crebbero di diverse ottave e se avesse fatto un
passo falso ed avventato sarebbe ruzzolato giù dal materasso. «Tu potresti
entrare dovunque vorresti, ogni college farebbe carte false per averti, per
averti nella loro squadra. Riusciresti a vincere una borsa di studio per il
basket e potresti seguire i migliori corsi del paese. Non posso credere che tu
non abbia minimamente pensato a questo».
«Non mi serve una borsa di studio» ribatté Derek per niente colpito e sordo
alle parole del sedicenne che si battevano per una causa persa.
Stiles tacque e lo guardò allucinato. «È tutto quello che hai da dire?».
«Sì» confermò freddamente il lupo mannaro, tagliando corto.
Per qualche minuto il silenzio cadde su tutta la stanza e l’unico suono era
il loro respirare, uno meno regolare dell’altro.
Poi Stiles si alzò all’improvviso, sbattendo i piedi nudi sul pavimento e
dirigendosi verso la scrivania, aprendo uno dei cassetti della cassettiera
incorporata e spostando qualche foglio protocollo, afferrando successivamente
un raccoglitore con anelli di medie dimensioni dal colore blu elettrico e
facendo dietrofront, piantandosi davanti alle gambe del lupo mannaro e
piazzandogli il suddetto raccoglitore già aperto sotto gli occhi. «Questa è L’HofstraUniversity, si trova a
New York, precisamente a Long Island. È piccola ed intima ed hanno dei
programmi sensazionali. È selettiva e scrupolosa, ma i loro corsi sono i
migliori e formano le persone più capaci del paese. Hanno un programma di
criminologia che non ha eguali, ma… ma questo non c’entra niente con te» frenò,
inciampando nei pensieri e sfogliando le pagine, estraendo gli opuscoli che
aveva collezionato negli anni. Ne aveva uno di ogni anno da quando ne aveva
undici ed aveva le idee già chiare sul suo futuro; erano tutti correlati e non
ne mancava nessuno.«Il loro programma
sportivo è qualcosa di eccezionale e hanno le migliori squadre dello stato; i
biglietti per le partite di basket terminano dopo qualche minuto ed il loro
simbolo è un leone, ma possiamo accontentarci, giusto?» un lupo che gioca con i
leoni, come poteva venirgli in mente? «Ti prenderebbero ad occhi chiusi ed
hanno perfino uno Starbucks e un supermercato al loro interno, non che sia
importante, ma è una lode in più».
«Conosco il loro programma» rivelò Derek, interrompendo il suo monologo e
le intenzioni che stava manifestando.
«Oh, sì, certo» si fermò come se fosse stato bloccato e dovesse
ricollegarsi per seguire il giusto fiume di pensieri e capire cosa avrebbe
dovuto fare. Saltò la sezione dedicata all’Hofstra e
si buttò a capofitto su tutte le altre possibilità. «C’è la Suny,
è sparsa per tutta la città, ma è un ottimo college. C’è anche la St. John'sUniversity e Le Moyne College. Ma forse non ti interessano, hanno tutti il
programma di criminologia» sfogliò ancora il raccoglitore, scartando tutte
quelle che aveva scelto per quel particolare tipo di dipartimento. «Ma ce ne
sono così tante, la Columbia, Stanford e Preston. Non ho niente su di esse
perché non hanno la facoltà di criminologia, ma posso trovarli, posso trovarli»
tremò quasi, in modo evidente ed indistinto, con quel nuovo attacco di panico
che minacciava di prendere vita e che gli urlava il pessimo stile di vita che
Derek aveva deciso di percorrere. «Scegline uno, puoi sceglierli tutti; li
condivido tutti con te» e gli donò tutto il prezioso raccoglitore a cui aveva
lavorato per anni, tracciando i piani del proprio futuro.
«Stiles, basta» esclamò imperativo il lupo mannaro, fermando le sue mani
agitate e mettendo fine alla discussione. «Conosco i loro programmi» ripeté,
scandagliando bene le parole ed inglobando tutti i nomi che il sedicenne aveva
nominato. «E ho già il mio piano da seguire».
Stiles sospirò esausto e per niente arreso, guardandolo con durezza ed accusatorio.
«È un piano penoso. A undici anni avevo un piano migliore».
«Perché parti in anticipo» gli fece presente il licantropo, ben sapendo che
non ce ne fosse alcun bisogno, ma sottolineando ancora una volta la sua vera
natura.
Il figlio dello sceriffo lo guardò in tralice, sporgendosi su di lui per
afferrare il libro che era stato abbandonato sul letto, spostandosi al suo
fianco per mostrarglielo meglio, costringendo l’altro a lasciargli le mani. «È
un libro di sociologia, frequento un corso di sociologia e sono il più giovane»
disse come se fosse la cosa più importante del mondo, mostrandogli la strada
che stava compiendo e quanto si stesse impegnando. «Criminologia è una branca
della sociologia e sarà la mia materia di base per tutti e quattro gli anni,
qualunque college io sceglierò. E sono il più giovane del mio corso e nessuno
dei frequentanti è interessato a criminologia».
«È il mio piano, Stiles, solo mio» lo ammonì caldamente il mutaforma, non
contento del giudizio che l’altro aveva di lui.
Il sedicenne abbassò il volume che minuti prima stava studiando, curiosando
avido e lo abbandonò tra le sue gambe semi aperto, inclinando appena la testa e
cercando di mantenere la calma, di vedere attraverso i suoi occhi. «Quindi
sceglierai la facoltà in base al college che ti accetterà» fece mente locale,
ignorando tutto il resto ed immedesimandosi, ricevendo un cenno positivo dal
lupo. «Ma non c’è una facoltà che ti piacerebbe frequentare? Lasciando perdere
le risposte che riceverai. Non ce n’è una che ti fa pensare: è questa?».
Derek indugiò, trattenendo la risposta e quasi sperando di dimenticare la
domanda, ma Stiles non avrebbe demorso ed avrebbe continuato a presentargli
programmi su programmi, finché probabilmente non avrebbe scatenato il predatore
che viveva dentro di lui. «Astronomia».
«Astronomia?» ripeté a se stesso il figlio dello sceriffo con sorpresa e
stupore, piegando le labbra in una piega accondiscendente e piena di
rivelazione. «Un lupo tra le stelle, è una bella immagine».
Derek non disse niente, non lo corresse e non parò il tiro; non gli disse
che le avrebbe soltanto guardate da lontano e che non doveva scambiarlo per uno
che ambiva a diventare astronauta; era certo che Stiles conoscesse bene le
differenze, ma si divertisse solo a fantasticarci sopra.
Stiles lo guardò bene, voglioso di tamburellare le dita su qualsiasi
superficie possibile, ma contenendosi per quanto gli fosse permesso, per quanto
riuscisse a controllarsi. «Se ti piace astronomia, perché non puoi puntare
direttamente a quella?».
Il mannaro sembrò colpito in pieno petto e si ritrasse, abbassando
erroneamente la guardia. «È complicato».
Stiles percepì in pieno ciò che in realtà Derek gli stava nascondendo, le
motivazioni che l’avevano portato a puntare ad un futuro così precario e
nebuloso. «Quando hai spedito le lettere d’ammissione?».
Derek lo guardò di sbieco, benché fosse la domanda che gli era già stata
posta, era stata pronunciata con un’inclinazione particolare e che sondava il
terreno in modo diverso. «Lo scorso anno».
Il figlio dello sceriffo si fece più guardingo ed il sospetto crebbe
inesorabilmente. Quasi nessuno spediva anticipatamente le domande d’ammissione;
soltanto chi ambiva ai più prestigiosi ed importanti prendeva l’iniziativa,
lavorando affannosamente per il suo biglietto da visita. «Tutti i college a cui
hai fatto domanda hanno la facoltà di astronomia?».
Il licantropo esitò per piccole frazioni di secondo, lanciando uno sguardo
al raccoglitore ancora aperto del padrone di casa e chiudendolo
automaticamente. «No».
Tutto il corpo di Stiles si irrigidì ed una rabbia mai provata prima lo
invase; il sospetto prese il sopravvento. «Chi stai inseguendo?».
Tutta la stanza si raggelò e le pupille di pece del lupo si dilatarono,
rifiutandosi di rispondere, ma Stiles riuscì a trarre comunque le sue
conclusioni.
«Derek» la voce era dolce e comprensiva, quasi come se capisse quello che
stava vivendo nell’animo tormentato del suo lupo mannaro. «Ne vale la pena?
Vale davvero il tuo sacrificio?» non c’era bisogno di specificare o fare nomi,
era chiaro e lampante che tutto ruotava intorno alla tanto decantata persona
speciale che faceva battere il cuore rotto del mutaforma.
«Non sacrifico nulla» ed eccola lì la risposta che tutti stavano
aspettando, quella che conosceva, ma che ignorava e quella che Stiles aveva
voluto strappargli; la conferma a gran voce delle scelte che Derek stava
compiendo, del perché e soprattutto per chi.
Stiles si sostenne con una spalla al bordo del materasso, poggiando la mano
destra, in cui brillava l’anello identico al capitano, sul viso del licantropo
e sfiorandogli i capelli corvini con la punta delle dita. «Non pensi a me?»
chiese retoricamente, con una morbidezza ed una latenza che annebbiarono le
membra del diciottenne. «Andrai via per inseguire qualcun altro».
«Stiles» Derek tremava lievemente sotto il suo tocco e Stiles poteva quasi
giurare che, sotto la sua scorza intaccabile, fosse perso e sconvolto,
completamente incapace di reagire e decifrare ciò che il sedicenne gli stava
riferendo.
Il figlio dello sceriffo abbandonò la fronte contro quella del mannaro,
diventando un tutt’uno ed i polpastrelli scivolarono tra i suoi capelli scuri,
immergendo parzialmente le falangi. «Sono gli ultimi mesi insieme, Der e poi andrai via e non avrò nemmeno la consolazione di
sapere che stai percorrendo la strada che vorresti intraprendere, gli studi che
vorresti seguire e la facoltà che vorresti frequentare» sospirò afflitto e
lontano dalle risposte che voleva sentire, guardandolo intensamente negli occhi
senza abbassare lo sguardo. «Come farò a sapere se stai bene?».
«Starò bene» disse il lupo mannaro, limpido e pulito, accarezzandogli il
profilo del naso con il proprio.
Quella sarebbe stata l’unica risposta che avrebbe ricevuto da Derek e che
avrebbe colmato tutte le vicissitudini che c’erano, la certezza che il lupo
stesse commettendo un errore per inseguire qualcuno che non riusciva a vederlo
e per cui avrebbe annullato se stesso. Che cosa ne avrebbe ricavato se non
provava nemmeno ad aprirsi con la sua persona speciale? «Spero che sceglierai
il college con la facoltà di astronomia, se proprio devi fare questa
stupidata».
Non era un lascia passare, ma a Derek sembrava andargli bene lo stesso.
«Vuoi andare a New York?».
Stiles si staccò da lui, abbandonando la fronte e separandosi
completamente, lasciando ricadere le mani sul proprio ginocchio. «Perché me lo
chiedi?».
«Tutti i college che hai nominato sono lì» e si riferiva a quelli che
contenevano il dipartimento di criminologia e non a quelli che aveva elencato
per persuaderlo a scegliere un percorso come si conveniva, degno di quel nome.
«Voglio andare all’HofstraUniversity,
ovunque si trovi» indipendentemente da dove
si trovi. Era stato amore a prima vista quando undicenne trafficava sul
portatile del padre e cercava tutto quello che fosse affine con la sua
carriera. Le parole criminologia e college si erano digitate da sole dopo
ore di ricerche incrociate e l’aveva trovata, in tutto il suo splendore. Per
anni aveva visitato il loro sito per rimanere costantemente aggiornato e con il
tempo aveva capito che era lì che voleva terminassero i suoi studi. Le altre
università di cui raccoglieva il materiale, erano soltanto il suo cuscinetto di
sicurezza, nel caso non sarebbe riuscito ad entrare.
«È il posto per te» la convinzione nella sua voce era ridondante ed univoca
e appariva anche certo della risposta che l’umano gli avrebbe dato, senza
tentennare.
Stiles venne colpito da un nuovo sospetto e si chiese quanto bene Derek
conoscesse l’HofstraUniversity.
«Davvero Derek non accetterebbe la borsa di studio?» erano solo lui e
Malia, rinchiusi in biblioteca a studiare matematica, in un angolo deserto ed
appartato, benché la sala dei libri fosse semi deserta e vi fossero una
manciata di studenti sparsi e tutti a conversare tra loro.
Da quando era nata l’amicizia tra il figlio dello sceriffo e la ragazza
mannara, due volte a settimana ed ogni volta che ne aveva bisogno, Stiles si
impegnava nell’aiutarla a recuperare dov’era più calante, cercando di
insegnarle quelle basi che le erano mancate per la sua vita forzata nel bosco
sotto forma di coyote completo.
Malia era ingenua e diffidente in tutte le cose, la maggior parte delle
volte si sentiva così sopraffatta e stordita da tutto quel cumolo di nozioni da
imparare che gettava la spugna prima del dovuto, certa di non riuscire ad
ottenere il risultato desiderato. Stiles doveva riprenderla con delicatezza,
guidandola con i mezzi giusti verso la risoluzione; non aveva importanza se
impiegava il triplo del tempo, riusciva comunque ad ottenere dei risultati e
lentamente Malia cominciava a camminare da sola.
«Ti ha detto così?» domandò la sedicenne con postura, senza staccare gli
occhi dal suo quaderno degli esercizi.
«Ha detto che non gli serve» non era esattamente la stessa cosa, ma nel
linguaggio stretto e contato del lupo mannaro poteva lasciare spazio a numerose
interpretazioni.
«È vero» confermò la ragazza, scarabocchiando sulla pagina bianca per metà
riempita ed allungandosi per afferrare la calcolatrice.
Doveva smetterla di intraprendere delle conversazioni che bisognavano di un
numero concreto di parole con i campioni del mutismo. «Quindi la
rifiuterebbe?».
Malia si fermò, distolse lo sguardo dagli esercizi di matematica e lo
rivolse attenta in quello ambrato. «Se lui accettasse, ce ne sarebbe una in
meno per chi ha seriamente bisogno».
Stiles era consapevole di quella verità, del fatto che potesse permettersi
di pagarsi l’università senza battere ciglio e senza nemmeno porsi il problema,
ma era quella la risposta giusta? «Derek otterrebbe una borsa di studio per lo
sport non perché ne abbia bisogno, ma perché se lo merita. È come una
qualifica, la sua qualifica. È un premio per il suo talento e le sue capacità».
«È così importante che lui l’accetti?» chiese la coyote con moderazione,
percependo l’agitazione e l’appassionata battaglia che Stiles stava compiendo
per il licantropo.
«Sì» confermò l’umano con immediatezza, senza soffermarcisi per un solo
attimo. «Smetterebbe di sminuirsi e punirsi».
Malia abbassò gli occhi, ben conoscitrice a cosa il ragazzo si stesse
riferendo e della piega che stava prendendo quella conversazione. Le scelte che
Derek aveva fatto e doveva ancora compiere nel campo riguardante il college
erano un argomento che il branco conosceva bene. «Non condannarlo prima di aver
ascoltato le sue ragioni».
«Mi ha fatto ben presente le sue ragioni» esclamò con il rimprovero netto
nella voce, spalancando le braccia ed agitandole energicamente.
«Conosci solo metà della storia» gli riferì la sedicenne con una nota un
po’ più dura del normale, che si pentì immediatamente di aver emesso.
Stiles ne fu vistosamente colpito e per quanto fosse pronto a ribattere ed
a smentire quanto detto, si rese conto di quanto fosse vero.
Benché lui e Derek avessero affrontato molte cose e conoscessero molte
parti l’uno dell’altro, comprendendosi e facendosi forza, scambiandosi le
energie per affrontare il mondo e divenire persone migliori, accettando se
stessi ed i propri errori, i demoni che vivevano dentro le loro anime, ci sarebbe
sempre stato qualcosa che Derek non gli avrebbe mai riferito, che avrebbe
tenuto per sé, custodendolo gelosamente. Derek non avrebbe mai condiviso con
lui ciò che si nascondeva dietro la sua persona speciale, che cosa lo bloccasse
e l’enorme muro che aveva innalzato per non arrivarci.
Potevano unirsi quanto volevano ma Derek non sarebbe mai stato
completamente sincero con lui, mettendolo all’oscuro di qualcosa che
evidentemente aveva più importanza di tutto il resto che avevano già condiviso,
ed era qualcosa che lo lacerava e lo straziava.
Malia rimuginò a lungo silenziosamente, osservatrice del turbine tenebroso
in cui si stava gettando l’umano, non ritenendosi all’altezza del lupo; era
qualcosa che dava dell’incredibile. «Il tuo anello è identico a quello di
Derek».
Il figlio dello sceriffo fu ripescato agilmente dalla voce profetica della
coyote mannara, attirando tutta la sua attenzione e rivolgendole uno sguardo
interrogativo, spiazzato da quell’osservazione su un argomento che non avevano
mai trattato e che pensava si fosse concluso tempo addietro. «Sì».
La ragazza sbatté sul foglio, in un unico gesto non ripetuto, la parte
superiore della penna, quasi pensierosa ed indecisa se proseguire o lasciar
cadere l’argomento. «Sai nulla del suo anello?».
«Soltanto che è stato creato per lui» non aveva bisogno di pensarci su, era
una cosa che gli era rimasta impressa e che non si era più tolto dalla mente,
come il fatto che fosse stato creato per lui perché ne aveva bisogno. Il
pollice si mosse all’istante ad accarezzare il gioiello.
Malia annuì a confermare, sbattendo un altro colpo con la penna
distrattamente. «È stata Laura, lei si diletta in queste cose; è molto brava»
Stiles aveva pensato a tutto, ad ogni genere di persona, ma non si sarebbe mai
aspettato che fosse stata la sorella maggiore a creargli l’anello; quella che
un giorno sarebbe divenuta l’Alpha, quella di cui Derek sarebbe diventato il
braccio destro. «Non so molto, non ero ancora arrivata; ero ancora un… animale»
la mannara si fermò, raccogliendo le idee e cercando di metterle a fuoco.
«Glielo diede quando iniziò il pessimo periodo di Derek, non so per quale
motivazione, ma c’era una piccola speranza e promessa che aveva tramutato in un
oggetto. In oggetti» lo sguardo si fece intenso e carico di significato ed il
cuore dell’umano perse vari battiti. «Gli anelli erano due».
«Due?» due anelli identici o due anelli e basta? Stiles rischiava di
perdersi seriamente in un nuovo attacco di panico che non lo coglieva da anni,
ma che da quando Derek Hale era entrato nella sua vita, non faceva altro che
minacciarlo. «Dov’è adesso il secondo?».
«Non lo so» rispose la sedicenne, riprendendo in pugno la biro e ritornando
a cimentarsi nei suoi esercizi di matematica. «Laura l’ha portato via con sé».
Laura aveva quattro anni in più di Derek ed era all’ultimo anno di college,
a New York. Questo era tutto quello che Stiles sapeva su di lei, oltre alla sua
natura mannara e al futuro ruolo che avrebbe avuto.
Se davvero Laura aveva fabbricato quegli anelli e glieli aveva dati nel
periodo più nero della vita del lupo, le uniche cose che gli venivano alla
mente erano la morte di Paige ed il consequenziale intrattenersi in ogni modo
possibile con qualunque essere umano che provasse attrazione per lui ‒
particolare che Derek gli aveva lasciato semplicemente intendere, non
approfondendo mai il discorso.
Derek era al suo primo anno di liceo e Laura gli aveva creato un anello con
una speranza e una promessa.
Chi l’ha fatto pensava ne avessi bisogno.
Derek aveva quindici anni ed aveva ricevuto quell’anello tre anni prima.
E tre anni prima Stiles aveva comprato il suo in un piccolo negozietto
invisibile agli occhi dei passanti e si era sentito chiamare.
Laura l’ha portato via con sé.
Stiles aveva il terribile sospetto di sapere esattamente dove Laura Hale
avesse portato il secondo anello e dove si trovasse.
L’anello d’argento e oro rosso con la triscele incisa sul metallo prese a
scaldarsi velocemente, scottandogli e bruciandogli il dito medio; il figlio
dello sceriffo fu costretto a chiudere la mano a pugno e sopportare il dolore e
l’allarme incessante che risuonava nel nervo acustico.
Stiles era stato irrequieto ed irruente per tutta la sera, quasi impedendo
a Derek di addormentarsi accanto a lui e allo stesso tempo aveva proferito
poche parole, cadendo nella sua fase taciturna e meditativa che escludeva tutti
quelli che lo circondavano.
«Vuoi che vada via?» domandò costretto il lupo mannaro, percependo
quell’ostilità ed inquietudine che convergeva su di lui.
Il figlio dello sceriffo era completamente in un altro mondo pieno di
soluzioni ed alternative, possibili scenari e teorie campate nel vuoto, ma
quando Derek aveva dato vita a quella domanda l’aveva riportato indietro,
ancorandolo alla realtà e Stiles non sapeva bene quale fosse la migliore
situazione. «Perché dovrei volerlo?».
«Sei agitato e non dormi» gli fece ben presente il diciottenne, corrugando
le sopracciglia e dedicandogli uno sguardo grave.
In poche parole la sua presenza non serviva a nulla se il padrone di casa
non provava nemmeno a prendere sonno. «Non voglio che tu vada via, Der» Stiles era completamente voltato verso il licantropo,
guardandolo intensamente negli occhi e comunicandogli le sue vere intenzioni.
«Non voglio mai che tu vada via».
Le iridi di Derek brillavano nefaste ed erano così improntate su di lui che
non sarebbe mai riuscito a resistergli ed a negargli qualcosa. «Qual è il
problema?» chiese allora il mutaforma, non riuscendo a vedere quale fosse la
ragione che turbava tanto il sedicenne, impedendogli di accoccolarsi contro di
lui privo di pensieri.
Le labbra di Stiles si socchiusero e non passò un solo filo d’aria,
ripromettendosi di non dare voce a nessuna parola che potesse affondarli e
mettere nero su bianco tutto ciò che aleggiava nella sua mente; erano pensieri
pericolosi e catastrofici. E la confusione era tutto ciò che riempiva gli
ingranaggi interni.
«Stiles» lo esortò il mannaro quando diversi momenti erano passati e
l’umano non aveva borbottato alcuna parola ‒ si sarebbe accontentato
anche di quello ‒, sfiorandogli il viso con la punta delle dita ed
immergendole completamente tra i capelli setosi che lo inghiottirono.
Le palpebre calarono sulle iridi d’ambrosia quando il contatto avvenne,
leggere e spensierate, senza alcun pensiero disturbante che potesse toccarle e
sconsacrarle, gettandole in qualcosa che ancora non sapevano gestire. Il tocco
di Derek era sempre dolce e protettivo, calmante e rassicurante e non poteva
accadere nulla di male se stavano insieme, se niente poteva separarli e
dividerli.
La fronte combaciò con quella del diciottenne, respirando la sua epidermide
e sfiorandogli il setto nasale in una soave carezza con la punta del naso.
«Resta semplicemente con me».
Derek restò muto, senza voce, con la mano sinistra catturata dalle ciocche
castane del figlio dello sceriffo, mentre quest’ultimo legava le loro
reciproche mani destre, lasciando incontrare gli anelli come ogni notte, con le
tenebre che calavano inesorabilmente, lasciando i loro segreti sospesi
nell’aria.
Era molto raro, non accadeva quasi mai, di solito la prima cosa che
incontrava la mattina erano le iridi smeraldo di Derek che aspettavano il suo
risveglio, augurandogli a suo modo un buongiorno tacito ed impeccabile, prima
di alzarsi dal letto ed aprire l’armadio, prendendo una delle sue maglie che
aveva cominciato a lasciare lì, per permettersi di cambiarsi, almeno in parte,
in tutte quelle occasioni in cui rimaneva con Stiles fino al suono della
sveglia.
Ma Stiles non incontrò le gemme di giada, non c’era Derek ad aspettare il
suo risveglio ed a valergli come sveglia umana che lo incitava ad alzarsi ed a
ricordargli i doveri scolastici.
Il lupo mannaro stava ancora dormendo, bello e beato, senza che nulla
potesse toccarlo, senza che nulla potesse sottrargli quell’angolo di paradiso
che aveva trovato e che non voleva più lasciare; quello era il luogo in cui
Derek era più felice.
Forse non era il luogo a rendere Derek Hale felice.
Stiles sospirò silenziosamente, incassando il viso sul cuscino e
nascondendosi al mondo; che cosa stava combinando?
Un occhio gli cadde sul lato sinistro su cui si era addormentato, quasi
spalmato completamente contro il corpo del più grande e lì, proprio lì,
all’altezza dei loro cuori, vi era la trama delle loro mani destre che era
rimasta immutata, perfetta ed impossibile da mettergli fine. Non c’era nulla
che lo destabilizzasse più di quello.
Aprì leggermente le dita della mano incriminata, avvicinandosi un po’ di
più e portandosi all’altezza dell’anello che gli aveva sconvolto la vita.
La triscele intagliata sul metallo, che racchiudeva entrambi i colori in un
solo simbolo, si ergeva incontrollata, brillando senza tregua e ridendogli beffarda,
conoscitrice di qualcosa che gli era stato negato.
La sfiorò proprio con il polpastrello del medio destro, assorbendo il
calore dell’argento riscaldato dalla temperatura corporea sempre elevata del
lupo mannaro, sperando di entrare in possesso della grande verità che non gli
era concessa.
Derek si svegliò proprio in quel momento, quando le grandi domande di
Stiles non facevano che crescere, e lo illuminò con i suoi occhi verdi,
entrando nel suo scenario giornaliero e beccandolo sul fatto.
Stiles lo notò con qualche attimo di ritardo, con le iridi color miele che
erano state chiamate da quel nuovo dettaglio periferico per caso, facendo
crescere l’esigenza di accertarsi di quel nuovo fattore che si era aperto alla
mattina.
Ritirò le dita d’istinto, con il fiato corto e le palpitazioni più veloci,
l’ossigeno che gli creava scherzi e la mente che urlava di essere stato
smascherato e di correre ai ripari. Ma dove poteva correre? Come poteva
correre? Quella era casa sua, la sua camera da letto, il suo regno indiscusso
che nessuno avrebbe dovuto toccare, il posto in cui era più al sicuro.
Ma quel posto era stato toccato, quel regno era stato condiviso e non aveva
più un luogo dove andarsi a nascondere, un luogo dove poteva proteggersi da
Derek Hale.
Derek intercettò subito le sue azioni e frenò la sua corsa fuggiasca,
bloccandogli le falangi con le proprie, impedendogli di sciogliere la presa che
avevano mantenuto per tutta la notte e tutte quelle precedenti. «Stiles».
Quella voce era così soave e così carica di qualcosa che Stiles non era
ancora pronto ad identificare, che lo fece raggelare sul posto con un tono che
aveva più consapevolezza e che sembrava aver capito cosa lo tormentasse. «Torna
a dormire, Der. È ancora presto».
«Chiedimelo» disse invece il capitano della squadra di basket, ignorando
spietatamente quella mossa astuta che voleva semplicemente depistarlo e far
cadere qualsiasi discorso avrebbero potuto intraprendere.
Stiles tremò e sbiancò nell’immediato e non era propriamente certo di cosa
volesse che gli chiedesse; c’era così tanto e così ben protetto e riparato che
esprimerlo finalmente a parole lo sommergeva completamente di paura; diventava
la paura stessa.
Derek scivolò maggiormente verso di lui, ostruendogli qualsiasi possibilità
di una futura fuga ed obbligandolo a rivolgere lo sguardo soltanto a lui; era
l’unico raggio d’azione che gli permetteva. «Chiedimelo».
Sei innamorato di me?
Stiles era nel panico più totale, completamente andato ed impossibile da
andare a recuperare. Non c’erano strade, non c’erano scappatoie e non c’era
alcun modo per scappare da tutto quello.
Pungolò sull’anello, proprio dove si trovava la triscele intagliata,
imprimendosi la sua forma sotto i polpastrelli. «I nostri anelli hanno un
segreto?» ignorò completamente la domanda che Derek avrebbe realmente voluto
sentire, quella che aleggiava tra loro da quando lo scambio degli anelli era
avvenuto, dal momento esatto in cui il gioiello appartenuto a Derek si era
incastrato sul proprio anulare sinistro, aderendo perfettamente e con l’unico
desiderio di non sfilarsi mai più.
Da quel momento, da quel singolo ed unico momento in cui le strade si erano
incrociate e Stiles era venuto a conoscenza totalmente di Derek Hale, l’anello
di proprietà del lupo mannaro non aveva fatto altro che chiamarlo,
costantemente ed incessantemente, reclamandolo ed esigendolo, invogliandolo e
pregandolo e Stiles stava annaspando ed affogando e non sapeva come salvarsi e
riemergere, tornare completamente in possesso delle proprie facoltà mentali;
rientrare in possesso di se stesso e non del desiderio di legarsi a
quell’anello per fondersi unicamente con Derek Hale.
«Sì» confermò univocamente il licantropo, radendo al suolo tutte le
speranze poco concrete che il figlio dello sceriffo aveva creato nella propria
mente, indicendosi a farsi forza.
Non esisteva più il singolare, non esisteva più l’unicità e non esisteva
più la perfetta distinzione tra di loro. Ma era mai esistita? Erano sempre
state due entità uniche e separate? Stiles ricordava di aver usato in modo
sproporzionato il plurale e di averli uniti più volte in un noi; erano sempre stati un noi. «Mi è dato conoscerlo?» sono pronto? era la vera domanda che si
nascondeva dietro quelle parole, le reali intenzioni e ciò che risuonava nel
silenzio della camera, isolata dal mondo intero.
«No» rispose sfavorevolmente il lupo mannaro, certo e conoscitore di quella
negazione. Non ancora. Forse mai.
Stiles si sentì dilaniato e straziato, una pugnalata al cuore da dove
sgorgava sangue ferito ed impuro. Era la persona più terribile che potesse
esistere.
Derek inspirò candidamente dai suoi capelli castani, sfiorandoli con il
naso e circondando parzialmente con un braccio il corpo dell’umano, attutendo
la sua afflizione. «Va tutto bene, Stiles».
Stiles soffocò un singhiozzo con fatica e si ritrovò ad affondare il viso
nel collo del mannaro, trovandolo già pronto e predisposto per accoglierlo; per
prendersi parte delle sue sofferenze.
Non andava bene, non andava bene proprio per
niente.
Derek avrebbe continuato a metterlo al primo posto a prescindere da tutto
quello che sarebbe potuto accadere e lui avrebbe continuato ad impersonare
l’antagonista della storia.
Era la persona più orribile che potesse esistere.
Ebbene, da dover
partiamo?
Sì, loro amoreggiano
negli spogliatoi e sì, lo fanno davanti a tutta la squadra di basket e Boyd è l’unico che dice le cose come stanno, prendendosi un
po’ gioco di loro nei suoi modo molto alla… Boyd,
insomma.
L’argomento college è
molto, molto importante. Diciamo che la storia è stata fondata anche su questo
principio e alla fine ci ha messo più tempo del previsto ad arrivare. Ma… non
dimenticatene. E un po’ di ragione Stiles ce l’ha nel reagire in quel modo, lui
che è una pietra miliare dei piani, soprattutto quelli a lungo termine; che
Derek non ne abbia e che al contrario si basino sull’inseguire qualcuno, beh…
lo destabilizza molto e gli fa giudicare malamente il lupo.
Stiles e Malia
studiano insieme e fin qui tutto okay, ma va a finire sempre che si parla di
Derek in qualche modo e poi boom! Una bomba viene lanciata dalla nostra
adorabile coyote che tutto sa e tutto dice, ma si trattiene come può.
Se non ci fosse stata
lei, Stiles non avrebbe nemmeno mai pensato di chiedere qualcosa di quel
particolare argomento a Derek, figurarsi La domanda che continua a tenere per
sé, ma che finalmente ha formulato almeno nella mente.
Povero, povero Derek;
sei diventato un santo per Stiles.
«Ciao, Stiles. Potresti-» Heather era quel tipo di ragazza che sapeva stare
al suo posto, il più delle volte, quando flirtava con ragazzi diversi senza mai
lasciarsi andare veramente e senza perdere completamente se stessa. La sua
mente e il suo cuore erano sempre da un’altra parte, a pensare a qualcun altro
e ad immaginare quel qualcun altro; non c’era mai stato realmente posto per
qualcuno diverso da lui o quantomeno non ci aveva mai riflettuto davvero,
benché di occasioni ne avesse avute molte e diverse ed almeno quelle ricambiavano
il suo interesse, la guardavano con occhi diversi da quelli che sprigionavano
amore fraterno o quello che gli si avvicinava di più.
Era vista dagli altri, ma non dal suo qualcun altro.
E la guardava sempre meno da quando lui
era entrato nella vita del suo qualcun altro.
«Quando andrai via, dove passerò i miei pomeriggi di studio?» chiese il
figlio dello sceriffo con la voce mascherata dalla spensieratezza, la domanda
posta come un gioco, distante e senza che davvero potesse toccarlo, come se
Derek Hale l’anno successivo non sarebbe stato al suo primo anno di college e
si sarebbe dimenticato della sua esistenza.
Dimenticato? Heather lo sapeva benissimo, era così chiaro e visibile, che
Derek Hale non avrebbe mai dimenticato Stiles Stilinski.
«La squadra ti conosce» quindi non ti
butterà fuori come farebbe qualsiasi persona sana di mente, quello era il
tipo di pensiero che Stiles avrebbe tratto dalle quattro parole che il
diciottenne aveva pronunciato con distacco e senza increspature, con quella
spolverata di noia, di qualcosa che non lo toccava e non lo riguardava.
Se fosse stato vero, se davvero Derek Hale fosse stato immune a tutto
quello che rappresentava Stiles Stilinski, alle sue problematiche, ai suoi
tormenti, alle mille chiacchiere e parole da cui veniva sommerso, le teorie ed
i piani ben strutturati e meticolosi che progettava continuamente e la
solitudine che gli viveva dentro, non avrebbe mai ricambiato la stretta delle
loro mani intrecciate davanti al suo armadietto, raggiunto dal sedicenne alcuni
istanti prima, ed immersi nel corridoio affollato del liceo durante il cambio
d’ora.
Sarebbe stato immune, implacabile, una roccia ferma sul letto di un fiume
in tempesta che si affaccia su una cascata in picchiata.
Derek Hale la tempesta ce l’aveva dentro ogni volta che il figlio dello
sceriffo gli girava intorno.
«Le squadre cambiano ogni anno, non è detto che sia così fortunato» i
provini per formare nuove squadre si tenevano ogni anno, regolarmente, ma i
giocatori più forti, i titolari, che nelle passate stagioni avevano dato prova
di sé e lo confermavano, venivano presi senza giri di parole.
«Li conquisterai con le tue molestie» proferì Derek beffardamente, senza
scomporsi e senza rovinare l’espressione controllata che si prendeva gioco del
sedicenne.
Stiles sbuffò risentito, rifilandogli un’occhiata di disapprovazione e
pronto per obiettare ed urlargli che lui non l’aveva mai molestato, che era un
po’ una bugia, ma forse era stato vero prima che le loro vite si incrociassero
con lo svelarsi degli anelli gemelli. «Nessuno di loro è sincronizzato con me»
pronunciò invece, scartando del tutto quella difesa verso la propria persona e
rivelando qualcosa che conoscevano soltanto loro due.
Il cuore di Heather aveva smesso di battere per qualche secondo ed una
bolla d’ossigeno si era incastrata nella trachea, impedendole di respirare per
qualche attimo.
Non era inusuale che quei due si scambiassero quel tipo di confessioni e
che le reciproche mani fossero alla costante ricerca l’una dell’altra, unendole
in un intreccio obbligatorio che li soddisfaceva; ma era per quella leggera
pressione da parte di Derek sulle dita di Stiles, quella piccola carezza fatta
con il pollice sul dorso della mano, quello sguardo significativo, morbido,
caldo e pieno d’amore che gli rivolgeva, confermando tacitamente quello che
Stiles blaterava, rimanendo sempre stupito dalle sue parole e dalla
considerazione che aveva per lui; quella piccola vittoria che rappresentava per
se stesso.
Forse Heather ne avrebbe gioito, rinunciando a Stiles, se la gelosia non
fosse stata così nera e cieca e se lo stomaco non si fosse rivoltato.
Heather si era fermata di botto, con la frase a metà ed assistendo a tutto
quello e Derek Hale sembrò intercettarla soltanto in quel momento. «Qualcuno ti
cerca» disse al figlio dello sceriffo con lo sguardo rivolto verso di lei ed il
mancato significato di entusiasmo.
Stiles lo guardò perplesso, non riuscendo a capire a chi si riferisse ed a
chi potesse cercarlo in quel momento davanti agli armadietti del lupo mannaro.
«Oh. Ciao, Heather» salutò quando si girò verso la direzione indicatagli dagli
occhi del licantropo e rivolgendole un sorriso ad accompagnare il tutto. «Ti
serve qualcosa?».
Era inammissibile, davvero inammissibile che si rivolgesse a lei quando
ancora teneva la mano di Derek Hale stretta nella sua, senza mostrare alcuna
vacillanza da parte dei suoi tessuti muscolari che volessero lasciarla. «No, me
la caverò da sola» proferì con glacialità e stizza, una lama che poteva nuocere
al suo interlocutore.
Ma quando Stiles era con Derek non c’era nulla che lo potesse nuocere ed il
suo cuore spezzato doveva farsene una ragione, ma per orgoglio e per la sua
anima ferita, portargli rancore ed andarsene via con sdegno era la miglior
ritirata che potesse fare.
Stiles assistette alla scena senza riuscire a spiegarsela e dovette
voltarsi dal playmaker al punto in cui si era volatilizzata la ragazza per
rendersi seriamente conto che se n’era andava via, ben avendo una richiesta d’aiuto
per lui, con una rabbia profonda e lesa. «Mi è sfuggito qualcosa, non è vero?».
«Davvero non l’hai capito?» domandò retoricamente il mutaforma, con quella
freddezza e lieve irascibilità che sembrava aver preso in prestito dalla figura
femminile che si era appena disciolta.
Il sedicenne si voltò completamente verso di lui, lasciando indietro il
luogo incriminato e rivolgendogli un’occhiata confusa e perplessa, captando
all’istante il cambiamento d’umore nell’altro. «Capito cosa?».
«Non posso crederci» affermò il lupo mannaro con repulsione e scetticismo,
l’ingenuità non era una caratteristica che si associava alla figura del figlio
dello sceriffo.
«Perché ti stai arrabbiando?» chiese l’umano irrigidito dal comportamento
che il mutaforma stava sviluppando e dall’amarezza che riversava in lui.
«Non sono arrabbiato» dichiarò tra i denti il capitano della squadra di
basket.
«Sì che lo sei. Sei una furia» ribatté il sedicenne con prontezza, mettendo
ben in evidenza ciò che Derek gli stava trasmettendo ed il nuovo muro che stava
costruendo tra loro. «Che cosa ho fatto?».
Derek ruppe l’intreccio creato dalle loro dita e lo sguardo divenne
penetrante ed affilato, una falce di ghiaccio puro. «Ti accorgi sempre di
tutto, ma non di quello che le persone provano per te».
Persone. Persone, plurale. Quante
ne aveva individuate il licantropo in tutto quel tempo? «Soltanto perché non
dico niente, non vuol dire che non me ne accorga» no! No, no, no. Era la cosa più sbagliata che avesse mai potuto
dire in quel momento, in quel momento così precario e fallace, un momento in
cui erano stati ad un passo dal mettere tutto sul tavolo, alla luce del sole ed
a dare un taglio netto alla cosa. Qualunque sarebbe stato, qualsiasi responso
sarebbe uscito fuori, qualsiasi risposta positiva o negativa sarebbe emersa, ma
avevano nascosto la testa sotto la sabbia e, in quel preciso istante, le
avversità stavano sorgendo e l’irascibilità delusa di Derek era palpabile.
In un primo momento lo sguardo di Derek era apparso ferito e sorpreso, come
se non si aspettasse una mossa così scorretta da parte sua e che in realtà
fosse a conoscenza di quello che gli girava intorno, ma la sua rabbia, che si
sentiva giocata e manipolata, prese il sopravvento e tutto quello che aveva per
lui in quel momento, oltre all’amaro rammarico, era la sola e pura ostilità nei
suoi confronti.
Derek sbatté l’anta metallica del suo armadietto in un rumore assordante ed
atroce, con tutta la delusione e il risentimento che echeggiavano nei corridoi
dell’istituto scolastico, sotto gli occhi sgomenti degli studenti e del figlio
dello sceriffo.
Lo sorpassò volutamente, evitando accuratamente di sfiorargli la spalla o
qualsiasi arto potesse bloccare la sua avanzata e lo lasciò lì in mezzo ai
brusii dei loro compagni di scuola, febbricitanti di dare un contesto a quella
scena pietrificante di cui avevano afferrato poche parole.
Stiles restò impalato, fermo ed immobile davanti all’armadietto del
capitano della squadra di basket, con gli occhi vitrei e spenti, incapace di
capacitarsi di cosa fosse accaduto.
Scacco, un’ultima mossa sbagliata ed avrebbe perso il
suo re.
Per i successivi due giorni non si guardarono neanche e quando uno
incrociava l’altro nelle arie comuni, con maestria cambiava strada senza dare
nell’occhio, benché tutti all’interno dell’istituto scolastico l’avessero notato.
Non sedevano nemmeno più allo stesso tavolo; Stiles tendeva ad andare in
mensa il prima possibile, trascinandosi chiunque volesse seguirlo ed occupando
uno dei tavoli più lontani da quello di cui ormai si era impadronito il branco
Hale.
La prima volta erano rimasti interdetti e chi si era diretto verso il
solito posto, aveva dovuto fare retromarcia una volta che aveva individuato
tutto il gruppo e la mancanza totale nel nuovo vecchio tavolo.
Improvvisamente il grande gruppo del secondo e dell’ultimo anno era
separato, come lo erano sempre stati prima che Derek Hale e Stiles Stilinski si
rivolgessero la parola.
Il figlio dello sceriffo aveva mancato uno degli allenamenti della squadra
di basket e l’unico contatto era rimasto con gli appuntamenti settimanali con
Malia, nel solito luogo e alla stessa ora; ma lei non proferiva alcuna sillaba
e Stiles non prendeva mai l’argomento e non chiedeva del mannaro.
Per due intere notti Derek non si fece vedere e non era una grossa sorpresa
da parte dell’umano, ma in cuor suo sperava sempre di vederlo comparire,
spalancare la finestra e riprendersi il suo posto nel letto accanto a lui.
Alla terza notte Stiles era appena uscito da una doccia tonificante e
restauratrice, gocciolante e zuppo d’acqua, avvolto nel grande asciugamano e
propenso ad asciugarsi.
Raggiunse la propria camera da letto con indosso uno dei suoi pigiami
preferiti appena estratto dal cassetto e con un asciugamano azzurro sulla
testa, a tamponare i capelli per far smettere di scendere le gocce d’acqua e
renderli asciutti prima di gettarsi sotto le lenzuola e superare quel nuovo
giorno, seppure fosse quasi impossibile addormentarsi separato da Derek, con
tutti quei pensieri che gli vorticavano nella mente ed il loro ultimo incontro
che si ripeteva a rotazione davanti ai suoi occhi.
Quasi non urlò spaventato e d’orrore quando socchiuse con una spinta la
porta dietro di sé, trovandosi davanti le iridi blu metallico di Derek, gli
occhi del lupo che squarciavano le tenebre, e lui completamente rivestito da
brandelli di abiti tutti ricoperti di sangue, lo stesso sangue che gli sporcava
la pelle e da cui spiccava, con le ferite che andavano a rimarginarsi,
lasciando le loro tracce di liquido vermiglio. L’aveva dappertutto, ovunque
Stiles riuscisse a posare gli occhi; perfino tra i capelli corvini vi era
sangue secco che gli colpiva il volto in uno schiaffo spietato.
«Derek» esclamò allarmato, lanciando l’asciugamano bagnato sul letto e
correndo verso di lui, frenando nel momento in cui se lo ritrovò ad un palmo dal
viso, sotto la luce del lume che si trovava sul comodino e con la finestra
lasciata aperta e l’impronta rosso cremisi della grande mano del mutaforma sui
rivestimenti di legno bianco. «Che… che cosa è successo?» non sapeva se poteva
avvicinarsi, se poteva toccarlo e se si fosse lasciato toccare. Non aveva
alcuna idea di cosa avrebbe dovuto fare e il panico cresceva, opprimendogli
l’aria con cui respirare.
Derek non fiatò, non emise una sola vocale e rimaneva imbambolato
esattamente dove l’aveva trovato, con gli occhi spenti e vuoti su di lui.
«Derek» ripeté ancora una volta con preoccupazione rumorosa, notando la
mancanza delle scarpe ai piedi del mannaro e l’inesistenza della luna piena
alta nel cielo; era così lontana, non poteva in alcun modo avere effetti sul
capitano della squadra di basket, eppure Derek era completamente soggiogato dal
lupo che viveva dentro di lui e che combatteva per uscire ed adempiere al suo
compito. Ma c’era ancora qualcosa che lo teneva al suo posto. «Derek, ti prego»
lo stava supplicando in modo inaudito, aveva bisogno di capire cosa fosse
accaduto, in quale guaio si fosse cacciato, se potesse aiutarlo e doveva in
tutti i modi accertarsi delle sue condizioni.
Non esitò troppo a scivolare su di lui, portando entrambe le mani sul volto
pieno di cicatrici che si stavano curando automaticamente, ma che lasciavano le
tracce di sangue, sporcandolo tutto. Era uno spettacolo agghiacciante.
«È qui» gracchiò il licantropo con la voce arrocchita e tirata,
completamente persa e deturpata, il terrore e la ferocia che gli vivevano
dentro. «È qui. Senza… senza aver avvisato» e Stiles non dovette metterci molto
a capire a chi si stesse riferendo, all’incubo che rappresentava l‘Alpha Ennis per Derek, alle continue riunioni di branco che si
tenevano ogni due mesi, lontane dal plenilunio, ed a tutte quelle che evitava
per non incontrarlo perché non sapeva come avrebbe reagito. Ma alla fine aveva
reagito; male, immensamente male, probabilmente perché l’aveva sentito arrivare
senza alcun annuncio, senza una ragione valida che motivasse la sua presenza
lì, una visita che non aveva nulla a che vedere con le riunioni dei branchi
alleati che si tenevano con regolarità.
Derek doveva essere impazzito per esserselo ritrovato lì privo di
avvisaglia. «Vuole portarsi via le persone a cui tengo» le persone che amo, completò Stiles per lui.
Era il delirio, era la paura a parlare per Derek, la costante angoscia di
vedere la storia ripetersi; il vedersi sottratto atrocemente tutto quello che
per lui contava, tutto quello che proteggeva e che metteva prima di se stesso.
«Vuole portarti via da me».
Il cuore di Stiles scoppiò, un tuono che echeggiò nel petto, investendo
tutti gli organi vitali e procurandogli brividi in tutto l’apparato scheletrico
ed il fiato gli si incastrò in fondo alla gola, impedendogli di respirare e di
proferire qualunque parola e Derek nello sconvolgimento del suo essere e nel
terrore che lo stava investendo in tutto il corpo, lo circondò con le braccia,
stringendolo forte a sé e nascondendo il viso illuminato dagli occhi blu
elettrici, così accesi e luminosi, nel collo dell’umano. «Non gli permetterò di
portarti via da me».
Stiles stava annaspando, non riusciva a prendere possesso del suo respiro e
la trachea si stringeva e bruciava, gli arti formicolavano e lo stomaco si
contorceva, pizzicandogli le budella; il tepore che gli attaccò gli organi lo
lasciava completamente senza forze, con l’ignoranza di non sapere come reagire,
di come avrebbe dovuto reagire, del pessimo momento in cui quella rivelazione
era stata mostrata al mondo ed a lui. Era una verità che era sempre esistita
tra loro e non poteva più ignorarla.
Ma non era quello il momento per lasciarsi prendere dal panico e
dimostrarsi del tutto incapace di fronteggiare quella verità che Derek aveva
costantemente cercato di nascondergli con scarsi risultati. Doveva essere forte,
doveva reagire e sostenere Derek; doveva farlo uscire da quel vortice di
emozioni esasperanti e distruttivi che scatenavano il suo lupo e che lo
portavano a buttarsi nella mischia, scatenando lotte per proteggere ciò che
amava. Per proteggere lui. Da una minaccia che probabilmente non esisteva, ma
che era radicata nella mente e nei ricordi deturpati del lupo mannaro. La
figura di Ennis sarebbe sempre stata associata a
tutto quello che sentiva gli sarebbe stato strappato. «Nessuno mi porterà via
da te».
Derek era creta tra le sue mani e doveva toccarlo con tutta la delicatezza
di cui era disposto, sfiorarlo con leggerezza e prendersi cura di lui come se
fosse la cosa più fragile del mondo; e lo era, lo era davvero ed era la cosa
più spaventosa a cui avesse mai assistito.
Corse in bagno per prendere una bacinella qualsiasi, quella che gli
capitava tra gli arti, riempiendola d’acqua e fiondandosi, di ritorno, nella
propria camera, munito di tutti quei vecchi asciugamani che avevano fatto il
loro tempo e che potevano essere dimenticati e gettati nella spazzatura.
Dovette con accuratezza togliere i brandelli di vestiti che erano rimasti
appiccicati al lupo, che ricadevano come unica veste e che non sarebbero più
stati recuperabili. Stiles avrebbe dovuto buttare molte cose quella sera.
Derek era nudo, completamente nudo e senza veli, con il mucchio del ricordo
degli abiti gettati ai loro piedi, seduto sul letto e Stiles a ripulire ogni
escoriazione e traccia di sangue, la pelle completamente rigenerata e privo di
qualsiasi cicatrice futura, se non quella nella mente e nel cuore.
Gli pulì il viso, completamente imbrattato, pieno di schizzi di liquido
vermiglio che gli incrostavano le ciglia e le sopracciglia, che gli scurivano
la pelle e che venivano illuminati dagli occhi ancora di quel blu metallico che
Derek odiava con tutto se stesso; non aveva nemmeno provato a riportarli
indietro, a mostrare quelle straordinarie iridi verdi che Stiles tanto
contemplava, era ancora troppo frastornato dal fare qualsiasi cosa che non
implicasse seguire le mani del figlio dello sceriffo.
Stiles tamponò i capelli corvini con l’asciugamano bagnato, tentando invano
di togliere le incrostazioni del sangue che li macchiavano, asciugandoli con
uno nuovo quando sembrò averli tolti tutti.
Ne immerse un altro nella ciotola il cui liquido trasparente si era
colorato di rosa scuro, strizzandolo e privandolo di troppo concentrato d’acqua
e passando a ripulirgli le braccia e, ad una ad una, le dita.
Notò soltanto in quel momento che sulla mano destra, sul dito medio, non vi
era più alcun anello che facesse coppia con il proprio, quell’anello che
nascondeva così tanti segreti e sussurri nell’oscurità che gli erano stati
negati; era sparito, lasciando un piccolo cerchio più chiaro nella pelle scura
del mannaro, unica testimonianza della sua esistenza. Un richiamo per un anello
che non c’era più, il rammarico dell’anello che era sopravvissuto e la
nostalgia che era già iniziata.
Avrebbe voluto chiedergli dove fosse finito, dove l’avesse perso, fargli
notare che l’oggetto a cui era tanto legato non era più lì, volatilizzato, ma
non era qualcosa che avrebbe potuto dire ad un Derek Hale conciato in quel
modo, incapace ancora di riprendersi.
Sarebbe impazzito del tutto se l’avesse saputo e passò avanti.
Sottrasse ogni traccia del liquido di rubino secco su ogni parte del corpo
del licantropo, mischiato a residui di terra nera che si trovavano sugli arti
superiori ed inferiori, sui palmi delle mani e sulla pianta dei piedi.
Gettò tutti gli asciugamani accanto alla pila dei filamenti di vestiti
sporchi, mentre l’ultimo ricadeva nella ciotola piena d’acqua rossastra, e
strofinando le mani macchiate sul pigiama ormai sporco di sangue a causa
dell’abbraccio di Derek, si diresse verso l’armadio, aprendo le ante e
prendendo quei pantaloni di tuta blu notte che il diciottenne gli aveva
prestato mesi passati e che gli aveva permesso di tenere. Afferrò anche una
delle maglie in disuso che Derek regolarmente gli portava e che servivano da
cambio quando la mattina restava da lui. Un quinto del suo armadio apparteneva
agli averi di Derek Hale.
Lo vestì con cura, una gamba alla volta, con i suoi tempi e nei modi che il
lupo preferiva, distese la maglia rossa appena estratta dalle ante e gliela
infilò dalla testa, prendendo un braccio dopo l’altro e guidandolo lui stesso
verso le maniche corrette, lasciandola ricadere sul torace possente.
«Derek» disse con dolcezza e comprensività, ma con tono deciso; arrivava la
parte più difficile. «Ora devi sdraiarti e provare ad addormentarti» era quasi
certo che sarebbe crollato all’istante, nel momento in cui sarebbe entrato a
contatto con la morbida superficie del cuscino, come voleva crollare lui
stesso.
Doveva esserci qualcosa di sbagliato in quello che aveva detto, perché i sensi
del lupo mannaro si attivarono e le iridi blu si incollarono a quelle d’ambra
pura. «Dove vai?».
«Da nessuna parte» era la mancanza di plurale che metteva in agitazione il
mutaforma? Il non aver detto ora dobbiamo
sdraiarci e provare ad addormentarci? Era così sensibile a quelle
distinzioni ed a capire le sue intenzioni? «Devo soltanto sistemare la stanza»
doveva sbarazzarsi di tutto quello che aveva tra quelle quattro mura, buttare
ciò che rimaneva degli indumenti e degli asciugamani sporchi di sangue, molto
sangue che ancora non sapeva a chi appartenesse e se fosse tutto di Derek. Non
poteva far trovare quella situazione disperata ed equivoca a suo padre che si
trovava soltanto al piano inferiore. Sarebbe stato il caos, sarebbe entrato nel
panico e non avrebbe saputo cosa dire per spiegare quella situazione, ma la sua
stanza era piena di cose sporche di sangue e vestiti ridotti a filamenti e la
parola pericoloso gridava in tutta la
casa.
Derek l’afferrò per un polso, trattenendolo nella posizione accucciata in
cui era per essere alla sua altezza ed interagire da pari. La presa era forte e
non ammetteva repliche e c’era tanta paura e possessività in quel gesto. «Non
andare via».
Il fiato gli si bloccò in gola. «Non devo…» che pessima, pessima
situazione; nelle condizioni in cui era, nel terrore di perderlo che si
manifestava in ogni sua mossa, Derek non avrebbe mai permesso che si
allontanasse da lui. Lo voleva lì, esattamente al suo fianco ad accertarsi che
fosse incolume e presente. E Stiles era nei pasticci. «Ci metterò pochi minuti»
gettò un’occhiata veloce al disastro e alla scena scabrosa che gli stava di
fianco; avrebbe gettato tutto dentro un sacchetto e lo avrebbe nascosto da
qualche parte, aspettando di poterlo buttare prima che passasse il camion della
raccolta dei rifiuti.
«No» era imperiale ed univoco, non c’era possibilità di scelta e nemmeno il
tempo di cercare una soluzione.
Stiles sospirò internamente, esausto e provato, portando la mano libera sul
viso e con la punta delle dita che si intrecciavano alle ciocche scure del
mannaro, appoggiando con meticolosa dolcezza la fronte sulla sua, respirando il
suo stesso ossigeno. «Lascia almeno che mi cambi».
Derek non si mosse per qualche attimo e non emise alcun fiato, si limitò a
recepire la richiesta e ad annuire impercettibilmente contro di lui, dandogli
campo libero.
L’umano non perse tempo, non lasciandosi scappare l’unico lasciapassare che
avrebbe avuto in un momento tanto delicato, in cui l’unico desiderio e briga
che aveva il mannaro era quello di saperlo esattamente accanto a lui, lontano
da qualsiasi pericolo ed a portata dei suoi sensi; soprattutto del suo corpo
che sarebbe entrato in azione al minimo segnale di allarme.
Si sfilò da lui, tentando di ignorare quella pila color porpora che
compariva vicino al letto, dirigendosi verso la cassettiera vicino l’armadio ed
aprendo il penultimo cassetto, quello dei pigiami.
Si tolse in fretta quello che meno di un’ora prima aveva estratto proprio
da lì, che profumava di pulito e dell’ammorbidente alla lavanda; lo buttò ai
suoi piedi, calciandolo in un angolo ed indossando un nuovo pigiama immacolato,
poi ritornò di comune accordo.
Salì direttamente sul materasso, avvicinandosi al punto in cui aveva
lasciato Derek e trovandolo esattamente nella posizione in cui era stato per
quasi mezz’ora. «Sono qui».
Derek lo percepì bene, il materasso che si abbassava sotto il suo peso e il
camminare a gattoni per raggiungerlo, sfiorandogli una spalla.
Si girò verso di lui quando sentì la sua voce e lo avvertì dietro di sé.
«Sei qui» proferì sommessamente, completamente in balia delle emozioni che gli
vivevano dentro e del tutto fuori dal suo controllo.
Gli lambì uno zigomo con la punta delle dita, delicatamente e prestandogli
massima cura, ricoprendolo totalmente con la mano ed alzandogli il viso per
poterlo guardare meglio, scrutare nelle sue iridi d’ambra ed accarezzargli
amabilmente il setto nasale con il proprio, inspirando parte del suo odore ed azzerando
la distanza tra le loro fronti, socchiudendo infine gli occhi.
Davanti ad una scena come quella, se si fosse presentata durante un
contesto diverso, una crisi tachicardica non gliel’avrebbe risparmiata nessuno
e sarebbe rimasto lì, come uno stoccafisso, incapace di respirare e muoversi,
con le gambe bloccate ed incapace di capire dove si trovasse e cosa stesse
accadendo.
Derek non era in grado di controllare ciò che provava per lui, la
manifestazione di ciò che provava per lui, ed ogni gesto e le poche parole che
riusciva a pronunciare, rivelavano soltanto quanto in realtà gli fosse caro;
quanto fosse importante. Se Derek fosse stato consapevole di ciò che stava
accadendo, non si sarebbe perdonato. E forse avrebbe odiato entrambi.
«Dormi con me, Der» disse con voce calda e
pacata, confortevole e pieno di premura, con il battito cardiaco leggero e
sincero, la coperta su cui il lupo mannaro poteva raggomitolarsi. «Siamo
soltanto tu ed io» il mondo esterno non esisteva, non vi era alcun licantropo
malvagio con cui si era scontrato per difendere ciò che amava, che potesse
sottrargli ogni cosa. Non vi era nessuno che l’avrebbe reclamato e l’avrebbe
portato via di lì, lontano dal suo porto sicuro, lontano dall’unica persona che
sapeva prenderlo e renderlo docile.
Derek trasse un profondo respiro, uno vero, uno pulito, uno che lo
liberasse dalla completa angoscia e dal senso di pericolo che sentiva tutto
intorno a sé.
Annuì ancora una volta contro di lui, sulla sua pelle, sulla sua anima e
sotto le palpebre socchiuse.
Il bagliore blu metallico venne inglobato da una luce più tenue e boscosa,
mettendo a riposo il lupo territoriale, il grande lupo Alpha che Stiles
continuava a vedere in lui, che aveva difeso ciò che contava davvero per se
stesso; era a casa e stava bene.
Stiles poté rientrare in possesso di nuovo ossigeno fresco, restauratore e
pacificatore, scongiurando la catastrofe che si era abbattuta su di loro,
lasciandoli senza via di scampo e ad un passo dal non tornare più indietro.
Derek si addormentò dopo una mezz’oretta abbondante, ancora guardingo, ma
abbandonato al tocco delicato del sedicenne che gli scompigliava le ciocche
corvine. Stiles non aveva idea, benché fosse stremato, se l’avrebbe raggiunto.
Ma uno spiraglio della porta si aprì, lasciando entrare un raggio della
luce che proveniva dal corridoio acceso e da cui compariva la figura severa del
genitore, eloquente all’inverosimile.
Stiles fu costretto a correre ai ripari, lanciando un’occhiata veloce al
licantropo ed accertandosi che stesse ancora dormendo e che l’entrata in scena
dello sceriffo non lo turbasse.
Scivolò con attenzione fuori dalle coperte, gattonando alla meno peggio sul
materasso e scendendo a piedi nudi sul pavimento freddo, attento a non fare
rumore e precipitandosi davanti alla porta con l’ansia costante che il padre si
fosse accorto del mucchio di roba da buttare macchiata di sangue e
dell’impronta scarlatta stampata sulla finestra.
Gli si parò proprio davanti, limitandogli il campo visivo, uscendo
parzialmente dalla camera e fermando la chiusura totale della porta con una
spalla.
«Perché Derek Hale è in casa nostra e nel tuo letto?» nessuna sorpresa che
il padre sapesse esattamente chi fosse, come sceriffo della contea conosceva
quasi tutti, almeno di vista, ma con Derek Hale c’erano dei trascorsi ed erano
molto poco felici. Era un punto a svantaggio di entrambi, ma ancora di più
c’era l’ignoranza del padre su come le loro due vite si fossero congiunte; non
sapeva nemmeno se si fossero mai visti e ancora meno, se si fossero mai rivolti
la parola e senza sapere nulla, Derek Hale era in casa sua e nel letto del
figlio.
«Lui…» che cosa doveva dire? Che cosa doveva dire? Non aveva alcuna idea di
come spiegare le cose a suo padre e cercare di non risultare fuori di testa.
«Aveva bisogno di un posto in cui rifugiarsi» o grandioso, pessima mossa, Stiles. Rifugiarsi da cosa? Non c’era
cosa peggiore da dire ad un pubblico ufficiale, soprattutto se era la più alta
carica della città ed era il proprio genitore ed unico.
«Tutte le volte deve rifugiarsi in casa nostra?» chiese l’uomo con sguardo
lungo, impeccabile nella sua posa perfetta da alto ufficiale ed ottimo
genitore.
Stiles sbiancò all’istante, frastornato e sbalordito ed in quel momento
ebbe paura, seriamente molta paura, perché poteva gestire lupi mannari
incontrollati con la luna piena alta nel cielo, ma un genitore consapevole di
non essere partecipe dei segreti del figlio, era tutta un’altra storia. «Come?
Di che parli?».
«Credi davvero che non sappia che dorme quasi tutte le notti qui?» domandò
retoricamente lo sceriffo, per nulla propenso a quel gioco in cui il figlio
mostrava di essere innocente ed all’oscuro dei fatti, completamente in buona
fede. «Per mesi è entrato dalla tua finestra, addormentandosi accanto a te e
non lasciandosi trovare la mattina dopo. Sono lo sceriffo di questa città, non
puoi nascondermi cose del genere».
«Noi non facciamo niente» disse il ragazzo in sua difesa, scuotendo braccia
e mani e parando qualsiasi colpo gli sarebbe stato assestato. Gli mancava
soltanto che suo padre pensasse che avesse rapporti di qualsiasi genere con un
ragazzo, nel proprio letto e sotto lo stesso tetto, con lui dentro casa.
«Lo so, è per questo che vi ho lasciato fare» rivelò lo sceriffo con una
tonalità più morbida e comprensiva che stonò con quello che Stiles aveva
classificato come ramanzina. «Era qui la notte di Natale, probabilmente anche
quella della vigilia, ed era qui per la ricorrenza della morte di tua madre»
quelle erano le occasioni che più gli erano rimaste impresse, quelle più
importanti, ma era certo ce ne fossero molte altre che tenevano per sé e
certamente lui non aveva passato tutto il suo tempo a controllarli quando erano
tutti e tre insieme nella stessa abitazione. «Tu eri distrutto ed io avevo il
cuore spezzato per questo, ma lui ha un’influenza positiva su di te, come tu
l’hai su di lui. Benché sia un ragazzo complicato e con una tragedia alle
spalle, che tutt’ora lo segna, passa volentieri il suo tempo con te» il
discorso si interruppe, dando l’illusione che fosse concluso, che non avesse
nient’altro da dire e che non ci fossero future ripercussioni, ma quello era suo
padre e lo conosceva fin troppo bene. «Che cosa sta succedendo?».
Il tra te e lui era implicito e
risuonava a grandi lettere, ma quella era la domanda che più lo spaventava, ed
onestamente non sapeva se preferisse dargli una risposta o rivelare che Derek
Hale era un lupo mannaro, compreso di tutto il pacchetto: lunghi peli, artigli
e denti affilati, facendosi rinchiudere in qualche manicomio.
Sospirò, quasi privo di forze e con tutto quello che era accaduto nel giro
di due ore scarse, non sapeva più come reggere la serata ed affrontarla,
uscendone incolume.
Aveva un licantropo nel letto, uno vero e reale, che aveva avuto una brutta
nottata e che aveva affrontato il suo incubo più grande, che consisteva nella
paura di vedersi strappato ciò che amava; che consisteva nella paura di perdere
lui.
Aveva un licantropo sul letto con cui condivideva un anello gemello, che
nascondeva un segreto che probabilmente li univa indelebilmente e di cui il
superstite avvertiva la sua assenza nel corpo del mannaro, come se fosse stato
reciso violentemente dalla metà che lo rendeva intero. «Non lo so, papà.
Proprio non lo so» ed era così frustrante ed inaccettabile, ed era così confuso
e provato, che non riusciva in alcun modo ad identificare una risposta, una
risposta che tutti si aspettavano di ricevere. «Sto cercando di capirlo».
Lo sceriffo vide bene la difficoltà in cui si trovava il figlio, la domanda
scomoda che gli aveva fatto e che lo metteva in crisi; era qualcosa di più
grande di lui. «Non può stare qui, Stiles» annunciò di netto, rompendo il
momento di confessione reciproca, che metteva al corrente entrambi dei fatti
che li circondavano e che non erano tanto segreti.
Stiles sgranò gli occhi, colpito da quella parte che era apparsa così
semplice e che aveva sempre permesso di mantenere la presenza del lupo in casa.
Sembrava avere la soluzione, il non dover davvero nascondere tutto a suo padre,
seppur gli impedisse di vedere la montagnetta di vestiario distrutto ed
asciugamani vecchi ormai color porpora stagno. «Non mandarlo via» esclamò nel
panico, partendo subito in quarta e pronto a battersi a spada tratta. «Ti
prego, lascia che resti qui. Ha bisogno di stare qui, non può andare da
nessun’altra parte e se davvero apprezzi quello che fa per me, permettimi di
ricambiare il favore. Permettimi di aiutarlo».
Lo sceriffo sospirò, suo figlio non avrebbe reso le cose facili e sarebbe
stato difficile fargli capire le sue motivazioni. «Ha una casa, Stiles. Se ha
bisogno d’aiuto, è lì che deve trovarlo».
«No» tuonò a gran voce il ragazzo, impuntandosi e facendo valere le sue
ragioni. «Non può andare a casa sua. Non capisci, papà? È proprio da lì che
deve stare lontano oggi. Lascialo qui soltanto per un giorno. Permettigli di
restare».
Non si sarebbero mossi di un passo, non sarebbero andati avanti ed
avrebbero passato tutte le ore notturne a discutere di quello, finché il sole
non sarebbe sorto e Derek Hale avrebbe comunque passato la notte da loro, ma
lontano dalla persona che cercava disperatamente e da cui trovava sollievo. «Vi
concedo una notte» perché era una cosa che facevano insieme e non avrebbe avuto
alcun senso non includere entrambi nell’equazione.
Stiles emise un lungo respiro sollevato, pronto a ringraziare suo padre per
quella concessione che gli aveva strappato, ma dall’interno della camera
provenne un movimento più accentuato, segno che l’occupante del letto sentiva
le loro voci e si stava ridestando per quella confusione.
Mise un piede dentro la propria camera, pronto a raggiungere Derek in un
istante, per tranquillizzarlo e riportarlo tra le braccia di Morfeo, ma si rese
conto di non essersi congedato e di non aver pronunciato alcuna parola di
apprezzamento verso il genitore. Si girò per dire qualcosa, ma la sua
espressione era piuttosto eloquente, come il corpo completamente propenso verso
l’interno della camera da letto, nella direzione in cui si trovava il lupo
mannaro.
«Vedi di capirlo» disse invece lo sceriffo, sbalordendolo del tutto e
lasciandogli intendere a cosa si stesse riferendo. Evidentemente la questione
tra lui e Derek era qualcosa che, tutti coloro che li circondavano, volessero
che si risolvesse.
Stiles annuì in risposta, non del tutto certo, ma con la briga di ritornare
da Derek e quando lasciò uno spicchio di porta aperta, da cui continuava a
filtrare la luce del corridoio, lo sceriffo seguì il suo percorso, con il
figlio che si districava tra gli ostacoli della stanza, raggiungendo il
materasso e riacquistando il suo posto accanto all’Hale.
«Stiles» chiamò con voce impastata dal sonno il licantropo, a mezza veglia
e con la sensazione che l’umano non fosse più accanto a lui, aprendo un mezzo
occhio e tastando il letto con una mano.
«Shh, sono qui» lo tranquillizzò il sedicenne,
scivolando nuovamente tra le lenzuola e rispondendo alla ricerca della mano che
lo stava cercando, intrecciando le dita con le sue ed avvertendo perfettamente
l’assenza del cerchio metallico che per mesi aveva incontrato sul medio destro;
era una privazione che lo logorava. «Non vado da nessuna parte».
Derek si rasserenò all’istante, riconoscendo il calore del suo corpo ed il
suono della sua voce, ricongiungendosi completamente con lui.
Stiles lo guardò rassicurarsi ed immerse la mano libera nelle ciocche
scure, aumentando la calma nel lupo, e distanziando le loro teste di pochi
millimetri, tanto che le due fronti, ad un occhio esterno, sembravano più unite
che separate.
Lo sceriffo, testimone di quella scena riposta ed affine, era convinto che
suo figlio avesse capito perfettamente.
Ad un orario non bene identificato il campanello della porta d’ingresso
suonò, riecheggiando in tutta l’abitazione e riportandolo nel mondo dei vivi.
Stiles era esausto, spossato e si reggeva in piedi per un miracoloso
miracolo.
Aveva passato quasi tutta la notte a vegliare su Derek, accertandosi che
stesse bene e che continuasse a dormire senza ripercussioni e
controindicazioni.
A metà della notte si era alzato per far sparire tutti gli oggetti che
riportavano le macchie di sangue, pulendo l’impronta vermiglia, svuotando la
bacinella piena d’acqua nel lavandino scuro ed inserendo il pigiama con
evidenti tracce di liquido color porpora tra la biancheria sporca, benché non
nutrisse grandi speranze nella sua salvezza, ed aveva messo tutto il resto in
un sacchetto di plastica che sarebbe stato gettato poco dopo il loro risveglio,
nascosto in un angolo buio ed appartato della camera, quando lo sceriffo
sarebbe uscito di casa per dirigersi verso il comando di polizia.
Era riuscito a chiudere occhio soltanto dopo le quattro del mattino.
Suo padre aveva gettato un’occhiata veloce al letto prima di uscire,
scambiandosi un cenno d’intesa a metà veglia e poi Stiles si era stretto a
Derek, tornando a dormire.
Si era svegliato così, con la testa sul petto del lupo mannaro e con il
braccio di quest’ultimo che lo circondava completamente, proteggendolo da
qualsiasi catastrofe potesse abbattersi su di loro.
Quando arrivò davanti alla porta principale, che dava sul soggiorno, non
aveva alcuna idea di chi si sarebbe trovato davanti.
«Mio fratello è qui?» domandò Cora Hale con immediatezza, senza convenevoli
e dritta al punto.
Stiles fu accecato dal sole già alto nel cielo, ancora assonnato ed
impastato dal sonno, incontrando l’espressione accigliata della sorella minore
del ragazzo che dormiva nel suo letto e quella impenetrabile di Malia che
sembravano scalpitare per irrompere in casa e raggiungere le scale.
Si passò una mano sul viso, tentando inutilmente di scappare ai sensi
offuscati portati dalla sonnolenza, scompigliandosi i capelli e sbadigliando a
metà bocca. Dubitava che avessero seriamente bisogno di chiedergli se Derek
fosse lì, probabilmente avevano seguito la scia del suo odore e molto più
possibile, sapevano esattamente dove trovarlo.
Annuì in assenso, rispondendo tacitamente alla sua domanda e spostandosi di
lato per lasciare passare le ragazze.
Dopo aver chiuso la porta, le superò, anticipandole sulle scale e facendo
loro strada, benché fosse certo che non necessitassero di quella formalità.
«Sta ancora dormendo».
Non dissero niente, ma procedettero con calma e quando arrivarono davanti
alla camera da letto e lui entrò per primo, loro rimasero sulla soglia ad
aspettare che lo svegliasse.
Stiles si inginocchiò per terra, appoggiando il petto sul bordo del
materasso, proprio dove si trovava la figura del playmaker, accostandosi un po’
di più e sfiorandogli con le dita le ciocche di capelli che sfuggivano al suo
aspetto impeccabile.
Il mannaro si mosse nel suo sonno immacolato e, accompagnato dalle morbide
carezze che lo attiravano nel mondo reale, cominciò ad affacciarsi al mattino
inoltrato, specchiandosi come primo impatto nelle iridi di miele che lo aspettavano.
«Ciao» proferì con voce tirata e roca, allietato dal suo buongiorno e lontano
dalla terribile notte che aveva affrontato, che avevano affrontato.
«Ciao» soffiò candidamente il figlio dello sceriffo, curvando le labbra in
una piega soffice ed accogliente, abbandonando parzialmente il capo pesante sul
letto, vicino alla testa del lupo e sfiorandogli il naso con il proprio, come
ulteriore saluto affettivo e complice. «Hai intenzione di sbranare qualcuno
nell’immediato futuro?» chiese con una leggera nota di divertimento, calda e
venerata.
«No» bofonchiò il licantropo, con l’unica intenzione di rassicurarlo anche
nell’innocente domanda che gli era stata posta.
«Allora sono un ragazzo fortunato» proferì con ancora quella voce leggera,
sorridendogli sornione e continuando a scostagli, in tocchi studiati, le
ciocche corvine che ricadevano davanti alle gemme di smeraldo.
«Spaventosamente» convenne il mutaforma, rispondendo in egual modo a quel
gioco e lasciandosi vezzeggiare dalle mani del ragazzo. «Che ore sono?» chiese
quando si rese conto che vi era troppa luce nella stanza e che il sole era
eccessivamente alto per l’orario mattutino che doveva essere.
«È tardi» rispose l’umano, avendo riconosciuto la posizione dell’astro
solare e, una volta entrato nella camera da letto, aver incontrato parzialmente
la sveglia digitale che segnava mezzogiorno passato. «Abbiamo boicottato
entrambi la scuola, siamo dei pessimi soggetti».
Derek non proferì parola, probabilmente ripercorrendo mentalmente tutti gli
avvenimenti della sera prima, lo scontro che aveva avuto luogo e le
ripercussioni che l’avevano condotto lì, proprio nella casa del figlio dello
sceriffo, che si era occupato di lui per tutta la notte. Era consapevole di
tutto quello che era accaduto e delle cose che aveva detto? Il modo in cui si
era comportato?
«Der» lo chiamò delicatamente, attirando la sua
attenzione e riportandolo da lui, senza che dovesse crogiolarsi nei sensi di
colpa. «Ci sono delle persone per te».
Le pupille di Derek si dilatarono, dando un’occhiata interrogativa al
padrone di casa e lasciando vagare gli occhi verso la porta aperta dove
figurava parte della sua famiglia che lo guardava reciprocamente in religioso
silenzio.
Stiles picchiettò con i polpastrelli su una tempia del mannaro, dandogli
un’ultima carezza di ben svegliato ed alzandosi dalla sua postazione,
scostandosi e lasciando libero accesso alle due ragazze, mentre il mannaro si
portava in posizione seduta, accogliendo le sue visite.
«Non potevi andare da nessun’altra parte, eh» disse Cora con tono screziato
ed ovvio, comprendendo le dinamiche che vivevano nel fratello ed avvicinandosi
lentamente al letto. «Non farlo mai più» lo riproverò seduta stante, uscendo
dal suo temperamento calmo e colpendolo violentemente con un pugno su una
spalla.
Stiles era sicuro che quel colpo l’avesse sentito eccome.
Derek non mormorò parole di scuse né ci provò, ma la sua espressione
colpevole e mortificata era evidente e alla lupa sembrava andar bene anche
così.
Malia invece rimaneva ai margini, osservando la scena e il cugino che si
trovava ancora a letto, senza accennare a volersi avvicinare e Derek spostò
immediatamente la sua attenzione su di lei, in attesa ‒ forse di un’altra
manifestazione violenta ‒, dandole il suo tempo.
Da una tasca la coyote estrasse un piccolo oggetto cilindrico argentato,
tenendolo dalla punta delle dita e mostrandolo chiaramente. «Ho il tuo anello».
Conseguentemente le iridi boscose del lupo caddero sulla mano destra,
sprovvista di qualsiasi ornamento che solitamente emergeva incontrastato,
circondandogli il dito medio. Si rese conto della sua sparizione soltanto in
quel momento a causa della grande confusione che aveva affrontato e che l’aveva
colto e il senso di colpa ed il sollievo si percepirono all’istante. «Grazie» di averlo recuperato.
Le iridi di Stiles si illuminarono ed un profondo affetto scaturì per la
sua piccola coyote.
Malia avanzò il minimo indispensabile, la giusta distanza che le permetteva
di restituirgli il gioiello, bramato dalle mani del ragazzo che
impercettibilmente ed in modo controllato, si tendevano per rientrarne in
possesso. Derek lo indossò all’istante, senza rifletterci un solo attimo ed
entrambi i possessori degli anelli gemelli ritornarono a sentirsi completi.
«Mamma ti rivuole a casa, prima dell’ora di cena» rivelò la lupa mannara,
interrompendo il momento idilliaco che era durato anche troppo per i suoi
gusti. «Peter ha cacciato Ennis fuori dalla città
senza aspettare il consenso dell’Alpha».
«Peter?» chiese il diciottenne facendole verso, non credendo minimamente
alle sue orecchie.
«Già, incredibile» rispose in egual modo Cora, sorpresa e scettica quanto
lui.
Stiles ritenne che fosse necessario uscire dalla stanza ed andare in
qualunque altra parte della casa, lasciando i mannari presenti a ritrovarsi ed
a colmare le lacune dovute alla fuga di Derek; probabilmente c’erano fattori
che per lui era troppo presto ascoltare e, in ogni caso, non faceva parte del
branco e non poteva entrare a far parte della loro politica. A Stiles bastavano
quelle poche parole che il licantropo aveva pronunciato nell’intorpidimento
della sua mente nella sera trascorsa.
Quando raggiunse la cucina, allontanandosi quanto bastava dal piano
superiore, fu seguito da Malia che lo scrutava ostentatamente, come se volesse
comunicare con lui in qualche modo. «Devi chiedermi qualcosa?».
«Cosa sai?» domandò senza peli sulla lingua la ragazza, tendendo bene le
orecchie.
«Quasi niente» rivelò l’umano, aprendo il frigorifero ed afferrando una
bottiglia d’acqua minerale, raggiungendo lo stipetto accanto, che conteneva i
bicchieri di vetro. Aveva così tanta sete ed un bisogno primario di schiarirsi
le idee, che avrebbe ingurgitato tutto il contenuto della bottiglia. «Derek
l’ha sentito arrivare e l’ha attaccato».
«Lo stava uccidendo» rivelò diretta la ragazza coyote, intensificando il
suo sguardo. «E si stava facendo ammazzare» se
nessuno fosse intervenuto a fermarli.
Per quanto Stiles fosse arrivato a quella conclusione più di quattordici
ore prima, avere la conferma dei suoi timori, espressi a gran voce e proprio da
un tipo istintivo e propenso all’azione qual era Malia, gli chiuse lo stomaco,
gelandogli la testa e la bottiglia d’acqua che poteva rappresentare il suo
unico sollievo fu dimenticata. Non riuscì a formulare una sola parola.
Malia si guardò attorno circospetta, come se stesse cercando qualcosa e
dovesse accertarsi di essere libera di parlare. «È successo qualcosa in quello
scontro» svelò con circospezione, richiamando tutta l’attenzione del suo
interlocutore ed invitandolo a prestarle ascolto. «Si è trasformato».
E non c’era nulla di strano in quello, Stiles aveva visto parzialmente la
forma che Derek assumeva quando la natura mannara che era in lui prendeva il sopravvento,
amplificando i sensi ed aumentandogli la forza; la forma che lo
contraddistingueva da qualsiasi essere umano.
Trasformarsi durante uno scontro che metteva in ballo due vite era la cosa
principale e più istintiva che si potesse fare. Ma nel modo in cui si stava
porgendo Malia, così circospetto ed inquieto, c’era qualcosa che andava ben
oltre quello. «Non ti riferisci alla sua forma beta, vero?».
L’espressione di Malia divenne mortalmente seria e priva di fraintendimenti
e Stiles sentì i polmoni esplodergli ed il fegato contrarsi. «È un lupo
completo adesso» per te.
Ebbene, non ho proprio idea di dove dovrei
cominciare.
Diciamo soltanto che questo, tutto questo, è
sempre stato un caposaldo della storia, fin dagli albori e che ci ha messo un
po’ ad arrivare, anche se era progettato da tanto tempo.
Loro si comportano da coppietta quale sono, ma
non dicono e poi scoppiano le cose, perché una diga non può reggere per sempre.
Succede ciò di cui Derek ha più paura al mondo
e l’unico posto in cui riesce ad arrivare, ridotto a brandelli com’è, è solo da
Stiles, che è tra l’altro tutta la gran motivazione di quegli incresciosi avvenimenti,
di quella battaglia interiore e corporea in cui Derek si è gettato per
proteggere ciò che ama, ciò che ha il terrore di perdere e che gli venga sottratto
come è già accaduto. Ma è più forte e deleterio e… avviane un cambiamento
sostanziale.
Davvero, Stiles non poteva farla in barba al
proprio padre e perfino lo sceriffo sa cosa sta accadendo tra loro e Stiles…
beh, è difficile ignorarlo adesso. Prima o poi dovrà prenderne coscienza.
Stiles non sapeva bene perché, ma Malia gli
aveva dato appuntamento ai confini della tenuta Hale, spiccicando una materia
qualsiasi ‒ chimica, aveva
detto lei. Ma non abbiamo il corso di
chimica insieme, aveva ribattuto lui ‒ e chiudendogli il telefono in
faccia senza aggiungere altro. Non aveva avuto molta scelta.
Quindi adesso si trovava lì, proprio davanti
all’inizio dei territori della famiglia Hale, con la Jeep azzurra abbandonata
sul ciglio della strada ed una tracolla troppo vissuta contenente ciò che sarebbe
servito loro per studiare.
Peccato che la coyote mannara avesse altri
progetti per il loro intenso pomeriggio di studio e, quando lo vide arrivare e
scendere dall’auto, si precipitò verso di lui, trascinandoselo via per mano,
senza nemmeno dargli il tempo di prendere la borsa che aveva preparato in due
minuti, cronometrati e molto frettolosi, dovuti allo scarso tempo di preavviso.
«Malia, dove stiamo andando?» domandò lui
disorientato, non capendo le intenzioni della ragazza e sballottato da una parte
all’altra, senza curarsi minimamente della sua persona.
«Penso che dovresti vederlo» disse invece la
mannara, non lasciandosi scoraggiare e fermare dall’ostilità dell’umano.
«Cosa dovrei vedere?» chiese allora il figlio
dello sceriffo, prendendo fiato ogni volta che pensava di poterlo fare, ma
venendo tirato in malo modo ad ogni occasione ed aguzzando la vista per
intravedere una qualsiasi cosa a cui si riferisse la sedicenne.
«Sta imparando a controllarlo» proferì lei,
ignorandolo ancora una volta e rispondendo a domande che Stiles non aveva mai
formulato, soprattutto perché non aveva la più pallida idea di cosa stesse
parlando e dove lo stesse conducendo.
«Questa conversazione mi lascia perplesso» ed
insoddisfatto e lo faceva credere un po’ fuori di testa, perché non potevano
seriamente essere così incompatibili ed incomprensibili.
Malia si fermò di botto, senza avvisare il suo
interlocutore che le andò a sbattere contro, ma lei non sembrò notarlo né si
infastidì. «È qui».
Stiles, una volta che si fu scostato
dall’ostacolo su cui aveva urtato, aprì malamente le palpebre, incontrando
un’enorme distesa verde, piena di fiori di campo ed alberi sempreverdi di ogni
forma e dimensione, così alti ed imponenti da toccare il cielo con le loro
cime. Era uno spettacolo ed era una parte di foresta che apparteneva alla
famiglia del sovrannaturale. «Cosa c’è qui?» perché per quanto fosse maestoso e
pazzesco, non riusciva proprio a capire l’urgenza della ragazza coyote,
costringendolo quasi con la forza a trovarsi lì proprio in quel momento, come
se potesse scappare.
Ma si dimenticò immediatamente della sua
domanda nel momento in cui capì cosa ci fosse lì.
«Derek?» proferì alla sommità della natura
quando vide un enorme e splendido lupo nero che si aggirava nel verde della
privatissima tenuta Hale, con imponenti ed enormi occhi blu metallico. Era il
lupo che compariva nelle sue raffigurazioni, nel libro che sua madre gli aveva
comprato anni prima e che era abbellito di ogni metamorfosi che un lupo mannaro
potesse affrontare. Era il lupo che guardava nelle notti, sotto il chiaro di
luna, nel suo letto e nell’immaginario che l’aveva accompagnato per tutto quel
tempo. Quello era il lupo nero dagli occhi blu metallico di cui si era
innamorato. «Derek, sei tu?».
Il lupo parve percepire la loro presenza
soltanto in quel momento, alzando di qualche centimetro il muso e rivolgendolo
verso di loro, richiamato dal suono che proveniva dalla sua sinistra.
Annusò l’aria e le iridi blu elettrico
incontrarono quelle di ambrosia pura e si tirò indietro.
«Derek, aspetta» non ci pensò un secondo di più
a lasciare la presa della ragazza e fiondarsi nella direzione presa dal nuovo
lupo completo, che scappava innegabilmente da lui, sottraendogli la possibilità
di farsi guardare in quella forma. «Aspetta».
Il richiamo per l’animale doveva essere troppo
forte, perché si fermò proprio quando fu pronunciata l’ultima preghiera
disperata e supplichevole, voltandosi circospetto verso il ragazzo, non ancora
convinto di quella scelta e quasi costretto a doverlo fare.
Stiles rallentò, incespicando sui passi fino ad
arrestare la corsa completamente, ritrovandosi faccia a faccia, scrutandosi
negli occhi. «Der, sei davvero tu?» non aveva bisogno
di certezze o prove, conosceva perfettamente quegli occhi blu così provati e
sofferti, quelli che riuscivano a scavargli l’anima e che rispecchiavano tutta
quella di Derek Hale.
Aveva passato un’ora intera, tre giorni prima,
con quelle iridi che ripudiavano se stesso, ma che si erano manifestate quando
il suo incubo aveva attraversato i territori dell’unico branco presente a
Beacon Hills, scatenandosi e svegliando completamente il lupo che giaceva in
lui.
Derek non aveva mai affrontato l’argomento
quando era tornato a casa sua, dopo che Malia gli aveva confidato la verità e
lui non aveva osato chiedere, ma ora quel lupo l’aveva davanti e non poteva
ignorarlo.
Uno scintillio provenne da sotto la testa del
quadrupede, rievocato e stuzzicato dal sole che procedeva nella sua discesa,
per completare il suo giro orbitale alcune ore più tardi.
Stiles lo notò subito e ne fu attratto,
riconoscendo il piccolo cilindro metallico che veniva trattenuto da un lungo
laccio marrone scuro, appeso al collo. La triscele d’oro rosso ed argento si
mostrava indisturbata. «Sei tu» Derek non avrebbe mai sopportato di essere
nuovamente separato dal suo anello, non dopo averlo perso una volta ed in quel
momento gli mostrava il suo totale attaccamento ed il desiderio e l’impegno di
non smarrirlo mai più e di portarlo con sé in ogni forma che avrebbe assunto.
Il canide indietreggiò di un passo, non
confermando o negando nulla, ma la certezza nella voce di Stiles era
predominante e non lasciava spazio alle incertezze; era la sola verità che
potesse esistere.
Com’era vero che il lupo completo non si sarebbe
avvicinato, più propenso a volersi allontanare il più possibile che ad
affrontare il figlio dello sceriffo e ciò che aveva da dire.
«Va bene» disse l’unico umano a distanza di
miglia, sedendosi per terra ed incrociando le gambe sull’erba verde ed incolta,
accerchiato dai fiori di campo e con vari tronchi d’albero a fargli da sfondo.
«Aspetterò qui finché vorrai» e Derek poteva anche decidere di non raggiungerlo
mai, di ignorarlo, guardarlo un’ultima volta e battere in ritirata, dedicandosi
al resto della tenuta Hale che aveva a disposizione.
Entrambi si erano dimenticati completamente
della presenza della ragazza coyote.
Il lupo gli fu davanti agli occhi diversi
minuti dopo, a distanza di sicurezza, annusando l’aria con il naso bagnato ed
indeciso se proseguire, studiando ciò che si trovava dinnanzi.
Stiles lo guardò un po’ sorpreso, non
aspettandosi che la sua attesa fosse così breve, ma non poteva cantare vittoria
finché non avrebbe azzerato completamente la distanza che si poneva tra loro,
rendendo completamente reale l’esistenza della sua forma da lupo completo,
quella che si era manifestata quando il desiderio ossessivo e vero, totalmente
dedito a ciò che amava, aveva sopraffatto ogni logica, dandogli la forza e la
potenza di non farsi più sottrarre ciò che gli era più caro.
L’umano mosse le dita, tendendo la mano destra
annessa di anello, sporgendola oltre il ginocchio e lasciandola a mezz’aria,
sotto le iridi blu elettrico che non si staccavano guardinghe da lui.
Il naso nero si mosse, riconoscendo l’odore che
proveniva da quell’arto che si faceva più intenso, le lunghe dita affusolate
che aspettavano di essere riconosciute e di poterlo toccare, affondare nel suo
pelo folto e morbido.
Il lupo si avvicinò, odorando la mano di Stiles
quasi a contatto con la pelle, con una zampa non completamente avanzata e
sicura della sua scelta, lasciandosi un ultimo margine di fuga nel caso non
fosse stato convinto e volesse tirarsi indietro, non permettendo
quell’incontro.
Ma la zampa si mosse in avanti e le dita del
figlio dello sceriffo scivolarono sul lato della testa dell’animale, pizzicate
dal pelo scuro che lo invogliava, lasciando poggiare la mano direttamente sulla
pelliccia, entrando finalmente a contatto e lasciando cadere qualsiasi
reticenza.
Stiles trattenne il fiato stupito e folgorato,
muovendo appena le falangi non totalmente certo delle proprie azioni e del
completo lasciapassare del licantropo. «Ciao, Sourwolf» lo salutò con ardore e
sentimento, immergendo tutta la mano ed assaporando la magnificenza che era
quella pelliccia, morbida al tatto e confortevole. «Sei bellissimo» disse con
l’autenticità premente nella voce, unica verità ed accettazione, un balsamo
eterno per il tormento del lupo che si fece circondare da entrambi gli arti
dell’umano, che presero ad accarezzarlo amorevolmente, prima di sbilanciarsi ed
abbracciarlo, poggiando il capo su quello dell’animale. «Davvero bellissimo».
Derek non lo scacciò minimamente, ma l’accolse
come nella forma umana non avrebbe mai fatto, lasciandosi vezzeggiare e
corteggiare dall’apprezzamento che Stiles gli stava infondendo, l’affetto e
l’accettazione con cui lo inondava sempre, accompagnato dall’enorme entusiasmo
ed eccitazione costante che non l’abbandonavano mai.
«Sei il lupo dei miei sogni» rivelò il figlio
dello sceriffo con una nota dolce e scherzosa, burlona e leggera, quella che
sapeva avrebbe indispettito il mutaforma, portandolo a roteare gli occhi e a
guardarlo giudicante, perseguitato dalla fissazione perenne per lupi e lupi
mannari che Stiles aveva sempre dimostrato. Purtroppo per Derek, corrispondeva
perfettamente all’immaginario di Stiles.
Dopo una quantità di tempo minima, il lupo
completo tese le orecchie e si mosse appena, chiamando il corpo di Stiles che
rispose all’istante, allargando le braccia e scostandosi appena, mentre Derek
si rivolgeva alla loro destra ed il sedicenne lo imitava.
«Malia?» davanti a loro vi era uno splendido
coyote con varie sfumature, il pelo alternava tra grigio scuro, grigio chiaro e
bianco, dagli occhi blu metallico come quelli di Derek ed uguali a quelli che
più di una volta si mostravano sul viso della ragazza quando ringhiava verso
qualcuno o qualcosa che le faceva un dispetto e tutto il branco, più Stiles,
doveva correre ai ripari per salvare la situazione.
Malia era proprio lì, nella sua forma da coyote
completo, esposta e messa sotto lo sguardo di un estraneo, di un ragazzo non
appartenente al branco che l’aveva presa con sé, reintegrandola nella famiglia
e prendendosene cura, dandole tutto quello che le era stato sottratto e quello
che aveva perso.
Al di fuori della famiglia Hale e dei branchi
alleati, non si era mai mostrata e mai nessuno si sarebbe aspettato che
l’avrebbe fatto proprio dinnanzi ad un ragazzo umano, invaghito del loro mondo.
Quella era la piena fiducia che riponeva in Stiles Stilinski.
Ma nella mente di Malia, ancora ingenua e
diffidente al mondo, viveva l’immagine di uno Stiles che accettava tutto ciò
che vi era in Derek Hale, dalla sua parte più mostruosa ed omicida a quella più
premurosa e paziente.
Accettava la sua natura di lupo mannaro,
accettava i suoi occhi blu metallici testimonianza dell’abominio di cui si
erano macchiati ed accettava la sua ultima forma di lupo completo.
Non solo le accettava, ma le esaltava.
E faceva lo stesso con lei e sperava che
continuasse a farlo.
La coyote rimase a pochi passi dal ragazzo con
il suo lupo nero e, mentre Stiles continuava a circondare con un braccio il
collo del quadrupede, sfiorandogli un orecchio, tese la mano libera verso di
lei, muovendo le dita ed incitandola a raggiungerli.
Malia non aveva bisogno di accertarsi
dell’odore buono e genuino del figlio dello sceriffo, quello stesso odore che
non avrebbe arrecato alcun danno a nessuno di loro, quello che li avrebbe amati
per ciò che erano e per le fantastiche creature che rappresentavano; Malia
semplicemente si lasciò sedurre dal tocco leggero dell’umano, quello pieno di
sentimento e meraviglia. «Sei bellissima anche tu».
Derek strusciò il muso sul collo di Stiles e
Malia si fece più vicina, lasciandosi catturare completamente dall’abbraccio
del ragazzo che li conteneva entrambi, senza avere alcuna intenzione di
lasciare che uno dei due si allontanasse.
Quelli erano i suoi mannari, quelli erano il
suo lupo e la sua coyote che si mostravano a lui in tutta la loro forma, con
tutte le loro difficoltà e complessi. Si mostravano a lui sapendo di essere
giudicati e con il timore di essere rifiutati, ma Stiles provava soltanto
profondo amore per quelle creature straordinarie ed uniche; quelle creature che
si fidavano ciecamente di lui. «Siete bellissimi tutti e due».
L’allarme della sveglia risuonò nefasto per
tutte le quattro mura, entrando con perfidia dentro il nervo acustico,
assordandolo e lasciandolo dimenarsi tra le lenzuola.
Stiles mugugnò offeso e colpito a tradimento,
proprio dietro le spalle e precisamente in mezzo alle scapole, scappando ai
raggi solari che lo bersagliavano proprio all’altezza degli occhi e che gli
bruciavano la retina, costringendolo ad alzarsi e ricordandogli di correre.
Stiles non aveva alcuna intenzione di
abbandonare quel letto, le sue belle e confortevoli lenzuola che lo
proteggevano dalle temperature ancora gelide, benché la primavera fosse sempre
più prossima, e si appallottolò contro il torace del lupo mannaro che gli
dormiva a fianco, intrecciando le gambe con le sue ed incastrandosi nell’antro
caldo fatto su sua misura, creato dal corpo del capitano della squadra di
basket.
Sulle labbra del figlio dello sceriffo vi era
una curva lieta e benevola, completamente assuefatto dalla posizione perfetta
in cui si trovava, che l’accoglieva come se lo aspettasse da tempo immemore.
«Dobbiamo alzarci» ma Derek Hale aveva un
talento innato per distruggere tutto quello che di buono Stiles trovava.
Gli sbuffò contro, ignorandolo deliberatamente
e divenendo sordo alla sua voce, raggomitolandosi meglio su di lui.
«Stiles» lo ammonì il lupo completo,
riportandolo alla realtà e conscio del tempo che stava scorrendo e che si
sarebbe fatto sempre più corto per quel ritardatario cronico che era Stiles
Stilinski.
«Non mi va» bofonchiò l’umano con fare
infantile, immergendo la testa nell’ascella del licantropo e sfuggendo alla
luce mattutina che penetrava nella stanza. «Voglio rimanere qui, si sta così
bene. Posso anche perderlo un altro giorno di scuola».
«Sono piuttosto sicuro che hai un esame oggi»
lo riprese il mutaforma, spegnendo i sogni proibiti e casalinghi del sedicenne,
che desiderava semplicemente rimanere accoccolato contro di lui e continuare a
dormire per tutte le ore mattutine.
Il figlio dello sceriffo piagnucolò sconsolato,
trascinato contro la sua volontà verso la perfida realtà che l’attendeva, la
dura vita da studente che gli rodeva gli organi, annientando la sua felicità
spensierata e genuina. «Che importa, posso recuperarlo un altro giorno» tutto
da solo, ma non gli cambiava granché.
Derek gli solleticò la cute, scompigliandogli i
capelli e depositandogli un debole bacio tra di essi, prima di alzarsi e
raggiungere l’armadio, aprendo le ante ed afferrando una nuova maglietta pulita
e stirata, liberandosi di quella con cui aveva dormito, che lanciò ai piedi del
padrone di casa, ed indossando la nuova arrivata; in tutto quel percorso era
stato accompagnato dai mormorii sconsolati del sedicenne. «Avanti, o farai
troppo tardi».
Stiles non era entusiasta per niente, era
ancora bloccato nell’offuscamento che gli dava il risveglio, il terribile
trauma che aveva subìto nel momento in cui la sveglia aveva suonato e l’aveva
strappato al magnifico ed adorante mondo dei sogni; avrebbe carburato con molta
difficoltà quel giorno ed una sola colazione non sarebbe servita. Ma, a
differenza sua, Derek Hale aveva già tutti i sensi attivi, nessun annebbiamento
o riluttanza, nessuna incapacità motoria o intorpidimento dei muscoli. Era
sveglio e pronto ad affrontare il nuovo giorno con la sua cupezza ed era già
davanti alla finestra, appena aperta e pronta per essere varcata. «Non c’è
bisogno che levi le tende» lo fermò un attimo prima che Derek fosse pronto a
scavalcare il davanzale e trasformarlo nel saluto che li rimandava ad ore più
tardi. «Puoi rimanere».
Rumori molesti di posate e porcellana
provenivano dal piano di sotto, stipetti che si aprivano e sportelli che
sbattevano, uniti al passo pesante dello sceriffo che si aggirava per tutta la
cucina, non lasciando equivoci alla mattina che si era appena affacciata.
Derek si permise di ascoltare quei suoni così
casalinghi e di quotidianità per qualche secondo, giusto il tempo di imprimerli
nella mente e definirli. «Ci vediamo a scuola, Stiles» aveva l’incredibile
abilità di svanire in un turbine di nuvole.
Stiles sospirò rassegnato, totalmente immune
alle sue uscite e rimase altri cinque minuti buttato a letto, con le lenzuola
che lo ricoprivano fino alla testa.
Stiles scese al piano di sotto ancora
assonnato, nemmeno l’abbondante acqua che si era gettato in faccia aveva avuto
effetto e si era rassegnato decidendo di raggiungere direttamente il padre,
sperando di riempirsi lo stomaco e di scacciare via quella malia che gli
offuscava le membra.
Si strinse nel suo pigiama, cercando riparo dal
freddo e sedendosi svogliatamente e senza forze su una sedia, afferrando la
tazza che l’uomo aveva riposto sul tavolo e che riempì di latte caldo,
passandogli la scatola dei suoi cereali preferiti al miele.
Benché fosse una pessima idea per la sua
iperattività che quella mattina scarseggiava, si permise di macchiare il suo
latte bianco ed immacolato con del caffè nero ed amaro ‒ il miele dei
cereali avrebbe addolcito l’insieme appena creato.
«È andato via?» domandò con disinvoltura lo
sceriffo, porgendogli un cucchiaio appena estratto dal cassetto delle posate.
«Sì» confermò la sua progenie, sbadigliando
incontrollatamente a bocca aperta e tuffando il cucchiaio nel latte, versando una
dose considerevole di occhielli al miele.
«Potresti anche informarlo che può rimanere a
fare colazione» lo sceriffo si era ormai arreso; in verità non ci aveva nemmeno
provato seriamente, qualunque cosa avesse fatto o impedito, Derek Hale avrebbe
continuato ad entrare dalla finestra della camera di suo figlio come se fosse
la porta principale, in piena notte ed incurante della situazione incresciosa
che poteva creare, infilandosi dentro il letto ed addormentandosi con Stiles
spalmato su di lui e la sua volpe astuta, che corrispondeva alle fattezze del
suo unico figlio, avrebbe permesso quelle continue visite senza vederne alcuna
ripercussione e lasciandogli completamente campo libero, sordo al rimprovero
del padre che gli aveva concesso un’ultima notte due settimane e mezzo prima.
Lo sceriffo poteva anche provare a controllare
le volte in cui era presente, le visite che Derek Hale faceva alla sua casa ‒
quelle pomeridiane non avevano restrizioni ‒, ma una volta crollato sul
materasso, non aveva modo di scoprire se il tenebroso diciottenne irrompesse
nella camera di Stiles, ristabilendo la loro quotidianità notturna e
scomparendo alle prime luci dell’alba com’era stato agli inizi e per mesi
interi. Ma non poteva nemmeno sapere se, una volta che aveva il turno notturno,
quei due si fossero comportati come meglio credevano.
Alla fine si era dato costretto a lasciarli
fare e ad essere messo minimamente al corrente delle loro mosse.
«Mh, la prossima
volta» proferì Stiles con la mente altrove e distante mille miglia, prendendo
la sua bella tazza che raffigurava un lupo nero dagli occhi di rubino su sfondo
bianco ‒ se n’era innamorato all’età di sette anni e lo sceriffo si era
visto obbligato a comprargliela, come la madre che ogni mattina doveva fargli
trovare la tazza perfettamente pulita e pronta per contenere il suo latte
caldo; quell’accuratezza ricadeva sull’unico genitore che gli era rimasto ‒
e bevendo il liquido caldo che gli riscaldò la gola e tutti gli altri organi,
cullandolo dolcemente. «La prossima volta rimarrà».
Il figlio dello sceriffo si sedette a peso
morto sulla panca che solitamente occupava, privo di vassoio e leccornie al
seguito e poggiando la testa cadente sulla spalla di Derek, abbandonandosi
completamente, senza che quello lo scacciasse infastidito.
Era un gesto insolito, che non manifestava mai
in pubblico, ma la mente continuava ad essere offuscata ed a pulsare,
impedendogli di pensare lucidamente e di controllare la familiarità che aveva
con il corpo di Derek Hale.
«Hai in programma uno sciopero della fame?»
domandò con sorpresa Erica, vedendo tutta la scena e trovando la postazione di
Stiles ancora vuota e senza nemmeno una bottiglietta d’acqua.
«No, in realtà ho molta fame o qualcosa di
simile» mugugnò l’umano con un lamento debole in fondo alla gola, la bocca
secca e gli occhi che faticava a tenere aperti. «Non ho le forze per mettermi
in fila» e la coda alla mensa era sempre molto lunga, indipendentemente
dall’ora e Scott, Allison e tutto il gruppo del secondo anno non era ancora arrivato
e non poteva delegare quell’ingrato compito a nessuno di loro.
«Stai male?» chiese Malia dritta al punto, che
si era appena seduta al suo fianco, con il vassoio pieno di ogni squisitezza
che forniva la cucina della scuola.
«Ho solo sonno» la rassicurò il sedicenne,
abbozzando un pio sorriso e sminuendo la cosa.
«Chi ti ha tenuto sveglio, Stiles?» si
intromise la bionda con una cadenza maliziosa ed allusiva, rivolgendo un ghigno
pieno di doppi significati al lupo mannaro che sosteneva la figura del figlio
dello sceriffo.
«Ha studiato fino a tarda sera» spiegò
brevemente il capitano della squadra di basket, rivolgendo alla lupa
un’occhiata di sdegno per quel riferimento inesatto e che lo accusava di colpe
inesistenti.
«Vado io» tutti erano sicuri che Erica ne
avrebbe sparata un’altra delle sue, ma fu interrotta da un Boyd
che si alzò dalla panca e si allontanò velocemente.
Stiles lo vide avviarsi in lontananza,
strizzando gli occhi e tentando di focalizzare la figura che si era separata
dal gruppo. «Dove va?».
«A prenderti qualcosa da mangiare» rispose la
lupa mannara per tutti, una carezza morbida ed affettuosa che racchiudeva tutta
l’essenza di una famiglia, quella che Stiles aveva acquisito da quando Derek
Hale era nella sua vita.
«Oh» soffiò l’umano sbalordito ed intontito,
strusciando una guancia sulla spalla del diciottenne. «Grazie. Siete tutti così
carini con me».
Improvvisamente tutto il tavolo smise di far
rumore e di mangiare, spostando tutta l’attenzione sul figlio dello sceriffo
che era sempre più propenso a lasciarli per raggiungere le braccia di Morfeo.
«Come puoi avere ancora così tanta sonnolenza?»
domandò Derek per il branco intero, benché lui fosse stato presente al
risveglio di Stiles, dandogli il suo buongiorno ed invitandolo a rivedersi più
tardi all’istituto scolastico dov’erano attesi.
«Oh, uhm. A volte succede. Non ricarico le
pile» ed era un’eresia sentire una cosa simile dalle labbra del logorroico
iperattivo per eccellenza, che perfino alle prime luci del sole poteva
conquistare il mondo.
Derek si girò con circospezione, senza muoversi
troppo e sballottolarlo o indurlo a scostarsi da lui, chiara evidenza che fosse
l’unica cosa a reggerlo. «È soltanto questo, bisogno di dormire?» era troppo
strano per il mutaforma, Stiles riusciva a studiare per notti intere di fila;
quella sera non era certo stata la prima e non sarebbe stata l’ultima ed ogni
mattina, benché ci mettesse qualche attimo di troppo a carburare, saltava giù
dal letto pronto per investire con il suo eccessivo entusiasmo e vitalità
chiunque incontrasse. Quella reazione così pacata e spenta non lo rispecchiava
in alcuna maniera.
Stiles lo guardò senza capire, senza riuscire a
cogliere l’allarmismo che sprigionava la sua voce controllata che non si
lasciava dominare dalle emozioni. «Sto bene, Der».
Lo sguardo di Derek era dubbioso e poco
propenso a credergli, anche se le pulsazioni che arrivavano dall’umano
sembravano sincere, ma non per quello dovevano essere veritiere. «Quando hai il
tuo compito in classe?».
«Alla prossima ora» rispose svogliatamente il
sedicenne, sentendo tutto il peso delle ore del giorno precedente passate a
studiare sulle spalle.
«Quando avrai finito, ti riaccompagnerò a casa»
disse assoluto il lupo completo, senza ripensamenti o trattative, ma in un
chiaro ordine che non lasciava spazio ad ulteriori possibilità.
Stiles si scostò immediatamente dal corpo di
Derek, abbandonando il suo caldo e pacifico sostegno, sbattendo ripetutamente
le palpebre e guardandolo come se fosse un alieno. «Cosa? No. C’è ancora tutta
la giornata davanti e ci sono gli allenamenti. Non posso lasciare la scuola
così» anche se quella stessa mattina era proprio quello il suo magnifico piano
per la giornata.
L’espressione del mutaforma si fece più dura e
severa, sempre più vicina all’autorità, girandosi completamente verso di lui.
«Ti riaccompagnerò a casa. Non dovevo nemmeno permetterti di alzarti dal letto»
e forse, forse, c’era un senso di colpa in agguato, pronto ad emergere ed a
prendersi responsabilità che non erano sue.
«Ma sto bene, sto bene» farfugliò l’umano,
agitandosi sul posto e lasciando vagare gli arti in ogni direzione possibile,
ma i suoi occhi erano vitrei e pieni d’acqua.
Derek gli prese il viso con entrambe le mani,
fermando all’istante le movenze confuse ed ingarbugliate del figlio dello
sceriffo, costringendolo a guardarlo dentro le iridi ed a prestargli ascolto.
«Andremo a casa» ed era imperativo ed univoco e non avrebbe mai dato retta alle
pessime decisioni del sedicenne.
Stiles spostò le pupille da una parte
all’altra, come se cercasse delle risposte indelebili impresse in quelle del
lupo mannaro e l’unica certezza che poteva trovargli, era la testardaggine con
cui Derek avrebbe compiuto quell’unica azione. «E la mia bambina? Non voglio
lasciarla un’altra volta qui» erano passati secoli da quell’unica volta,
quell’unica volta in cui la Jeep azzurra era rimasta al parcheggio per tutta la
notte e Derek l’aveva condotto tra le mura di casa senza nemmeno conoscerlo ‒
o era quello che si raccontava in un primo tempo. Quell’unica volta accaduta
quasi cinque mesi prima, la luna piena che l’aveva condotto a quel tetto
specifico della scuola, trovando un Derek rannicchiato contro se stesso,
combattendo ciò che gli viveva dentro, reprimendolo e causandosi dolore
volontario. Quella era stata la prima volta che aveva incontrato i suoi occhi
da lupo, quelli blu metallici che Derek tanto odiava, ma che Stiles amava in
modo quasi disperato. Ed era stata la prima luna piena che avevano affrontato insieme.
«La porteremo con noi» Stiles non era lucido e
non connetteva com’era solito fare, ma se l’avesse fatto, si sarebbe ricordato
che l’amata Camaro che Derek Hale sfoggiava in ogni occasione possibile e che
sostava costantemente al parcheggio della scuola, testimonianza della sua
presenza lì, era ormai più di un mese che non si faceva viva, se non in rare
occasioni, proprio perché il mannaro non aveva più il tempo materiale per
ritornare a casa e cambiarsi, prendendo le sue cose e raggiungendo l’istituto
scolastico con la sua auto.
Derek restava il più possibile dentro la camera
del figlio dello sceriffo, in sua compagnia sul letto che ormai condividevano
regolarmente; il tempo che gli rimaneva, una volta varcata la finestra, era
necessario a raggiungere in tutta calma il liceo, entrare in palestra e
cambiarsi completamente con ciò che lasciava dentro l’armadietto. Si cambiava
tutto, eccetto la maglia che era impregnata dell’odore di Stiles.
La Jeep azzurra era l’unico mezzo che avevano a
disposizione in qualunque caso.
Le iridi d’ambrosia si ingrandirono, stuzzicate
dalla luce elettrica che illuminava la grande sala e che gli urtava la vista.
«Tu la disprezzi, non hai mai voluto che ti dessi un passaggio e adesso vuoi
guidarla?» Stiles poteva anche essere poco se stesso e con la reattività sotto
zero, ma aveva quei barlumi di lucidità che potevano spaventare e allo stesso
tempo far tirare un sospiro di sollievo.
Derek appoggiò la fronte contro quella
dell’umano, irradiandolo con il suo calore ed avvolgendolo, intensificando
l’intreccio dei loro sguardi che si scrutavano da due altezze quasi identiche.
«Mi dispiace» Stiles non se la prendeva seriamente perché il mannaro si burlava
spesso della sua adorata auto, nessuno l’apprezzava seriamente a parte lui stesso
ed era qualcosa a cui aveva fatto il callo, seppur la difendesse sempre a spada
tratta, facendo riecheggiare la sua voce; ma era il rifiuto implicito da parte
del lupo che l’urtava ad ogni nuova occasione, ogni volta che la proposta
veniva rinnovata e che semplicemente veniva lasciata aperta, pronta per essere
accolta in ogni momento. Ma Derek non si muoveva mai verso quella direzione e
per Stiles era una piccola scheggia incastrata in mezzo al petto.
Stiles annuì contro di lui, non ancora
convinto, ma completamente con la testa da un’altra parte, annebbiata ed
immersa in una foschia confusa e poco chiara. «Va bene» acconsentì alla fine,
consapevole che non sarebbe riuscito ad uscire vincitore da quella battaglia,
era nettamente in svantaggio.
Derek gli scompigliò i capelli, trattenendosi
dallo scoccargli un nuovo bacio sulla fronte e Boyd
arrivò nell’immediato, depositando il vassoio appena riempito davanti alla
postazione del sedicenne.
L’umano lo guardò un po’ di traverso, non
riuscendo a capire che cosa gli sfuggisse ad una prima analisi, sfiorando il
bordo del piatto e trovando tutte le cibarie che in un altro momento avrebbe
scelto. «Come mai tutto il branco sembra sapere cosa mi piace mangiare?».
«Siamo degli impeccabili osservatori» rivelò
Erica con una buona dose di divertimento mascherato e leggerezza, sorridendogli
cordiale e complice.
«E perché dovreste osservare proprio me?»
domandò con ingenuità, guidato da quella foschia che non gli permetteva di
ragionare e di trarre le soluzioni autonomamente com’era abituato a fare, senza
porre davvero quesiti che in un contesto e momento diverso, con il controllo
delle sue facoltà mentali, non avrebbe mai formulato.
Un silenzio attanagliante scese su tutto il
tavolo, molto diverso dal primo che era avvenuto durante l’ora del pranzo,
interrompendo il loro pasto. Tutto intorno a lui era immobile.
Stiles si girò con circospezione, incerto di
essere stato ascoltato e che avessero davvero una risposta. A volte buttava lì
delle domande senza che avessero davvero bisogno di una replica.
«Ho preso la torta alle carote, vuoi
assaggiarla?» gli propose la coyote mannara con nonchalance, mostrandogli il
piattino in cui era stata adagiata la fetta del dolce in questione ed appoggiandola
in mezzo ai loro vassoi per condividerla meglio.
Stiles la guardò in un primo momento senza
riuscire bene ad identificarla, accertandosi di cosa realmente Malia gli stesse
offrendo, ed una volta che l’ebbe inquadrata e che il profumo gli invase le narici,
corteggiandolo, sorrise alla ragazza in apprezzamento, pronto a fare quella
nuova esperienza in due e dimenticandosi completamente della reazione
pittoresca che aveva scatenato con quel quesito innocente di cui non aveva più
memoria.
Il viaggio in macchina fu estremamente
silenzioso, così lontano dalla realtà che solitamente li coglieva quando Derek
ascoltava nel suo mutismo l’irrefrenabile Stiles, avendo già perso la battaglia
in partenza.
Ma Stiles non era irrefrenabile e non aveva
nulla da dire a Derek; era seduto sul sedile del passeggero anteriore, la
cintura allacciata e la testa abbandonata contro lo sportello chiuso, con le
palpebre abbassate ed il respiro sereno e profondo di chi fosse prossimo ad
addormentarsi.
Il lupo cercò in ogni modo di non disturbare la
sua quiete.
Quando giunsero alla casa del figlio dello
sceriffo, Derek parcheggiò nel vialetto, dove mancava l’auto della massima
autorità della città e scese dal mezzo, precedendo il sedicenne, ed andandogli
ad aprire lo sportello, per scortarlo dentro l’abitazione, ma quando Stiles
riaprì gli occhi ed incontrò le gemme boscose di Derek, riconoscendole con
distanza, si avviò da solo, aprendo distrattamente la porta e fiondandosi
traballando verso le scale per raggiungere la propria stanza da letto ‒
quella era la prima volta che Derek usava l’ingresso principale e vedeva un
ambiente diverso dalla camera di Stiles.
Avrebbe quasi mancato il materasso se il
licantropo non fosse stato più veloce di lui, riuscendo a fargli centrare
l’obiettivo.
Si arrampicò con fatica, lasciando i piedi a
penzolare nel vuoto senza nemmeno togliersi le scarpe, scarpe di cui si occupò
il mannaro, seguendolo a ruota subito dopo.
«Tu stai covando qualcosa» sentenziò il lupo
completo, osservandolo scrupolosamente dalla sua postazione e trattenendosi
dall’ispezionarlo come si conveniva.
L’umano ridacchiò deliziato, strusciando una
guancia tra le coperte e girando il capo verso di lui. «Ti preoccupi troppo, Der. Devo solo farmi una bella dormita. Ho davvero tanto,
tanto sonno».
Non aveva bisogno di vedere l’incredulità e la
diffidenza di Derek per sapere che era lì, impressa nel suo volto che non si
permetteva nemmeno di sbattere le ciglia per non perderlo di vista. Di fatti,
il mutaforma scivolò verso di lui, scostandogli le ciocche con la punta delle
dita e scoprendogli la fronte, dove vi depositò le labbra, imprimendole per
bene. «La tua temperatura è più alta» che nel linguaggio del lupo cattivo per
eccellenza voleva dire che l’influenza e la febbre erano in agguato.
«Avrò preso un colpo di freddo, passerà in
fretta» sintetizzò in breve il figlio dello sceriffo, senza dargli la giusta
importanza ed ignorando il malessere che lo portava ad un letargo in ritardo.
«Se non ti ostinassi a tenere la finestra
aperta in pieno inverno, questo non accadrebbe» lo rimproverò poco magnanimo il
licantropo, descrivendogli una diapositiva chiara e d’impatto che riassumeva le
avventatezze dell’altro.
Stiles mugolò in diniego, scuotendo la testa
negativamente, bocciando nell’immediato quell’accusa che gli veniva impartita.
«Devo tenerla aperta, altrimenti come entreresti con le tue entrate ad effetto
portandomi sempre più vicino ad un principio d’infarto?».
Derek sbuffò a quell’uscita, perfino quando la
lucidità era l’ultima cosa presente nel ragazzo iperattivo, il sarcasmo
pungente la faceva da padrone. «So aprirla dall’esterno».
Stiles lo sapeva bene, se lo ricordava
perfettamente, non aveva mai dimenticato la prima volta che Derek era stato lì
mentre lui era incosciente, abbandonato alle braccia di Morfeo e trasportato da
quelle di un lupo mannaro. Derek l’aveva condotto fin dentro casa sua con il
presente ostacolo di una finestra chiusa, una finestra chiusa di cui non
avrebbe dovuto conoscere la sua ubicazione. «Voglio tenerla aperta. Devo
tenerla aperta» rivelò nella nebbia che lo avvolgeva, con l’ansia ed il timore
che crescevano a dismisura, senza che il mannaro potesse capirne la ragione.
«Se… se un giorno tu dovessi trovarla chiusa, potresti fraintendere. Potresti
pensare che non ti voglia qui, che non sei gradito, che non c’è posto per te e
che non ti voglia in giro. Non voglio che tu trovi una finestra chiusa che ti
sbarri le porte e che ti tenga lontano da me».
Derek rimase per alcuni momenti completamente
ammutolito, investito in pieno dalle parole del sedicenne che avevano abolito
qualsiasi filtro e lo toccò con le falangi, facendogli sentire la sua presenza
ed il suo calore vivo e pulsante, accarezzandogli uno zigomo con le nocche.
«Non lo penserei, perché posso sentire ciò che provi. Lo saprei immediatamente
se non mi volessi».
Stiles sospirò stremato e rincuorato, con un
enorme peso che gli gravava sul cuore e che si andava lentamente ad
alleggerire, vezzeggiato dalle movenze del diciottenne che lo tenevano ancorato
a sé. «Non riesco più ad immaginare la mia vita senza di te, Der. Sei troppo importante per me».
Derek respirò direttamente nella sua bocca,
lambendogli le labbra e facendo congiungere le loro fronti; quello era il
contatto più intimo a cui si lasciavano andare. «Lo sei anche tu».
Il figlio dello sceriffo mugugnò in
apprezzamento contro di lui, chiudendo le palpebre ed incastrandosi
perfettamente con il suo corpo. «Potremmo trovare un compromesso, per quanto
riguarda la finestra».
«E sarebbe?» domandò il capitano della squadra
di basket guardingo e sospettoso, percependo una nuova proposta improbabile e
che non gli sarebbe piaciuta.
Stiles strusciò il naso contro quello del
mannaro, sorridendogli con quella sfumatura scaltra che ricordava
spaventosamente una volpe rossa, una volpe che aveva la situazione in pugno.
«Potrei essere protetto da un bellissimo e caldissimo manto nero».
Derek gli schioccò due dita davanti gli occhi,
colpendogli parte del setto nasale e della fronte, indispettendolo non poco, ma
scatenandogli una risata leggera. «Ed io dovrei trasformami per compiacerti e
provvedere ai tuoi capricci?».
«Amo quel lupo» proferì Stiles con un piccolo
broncio che si disegnava su tutte le labbra carnose, provando ad ingraziarsi il
suo interlocutore con scarsi successi. «Amo davvero quel lupo».
«Lo so» sovvenne il mutaforma, conoscitore dei
sentimenti positivi che l’umano manifestava ogni volta che il lupo nero
compariva o si parlava di lui; era un amore sconfinato e perpetuo ed era
evidente il desiderio di Stiles di incontrarlo più spesso. Il lupo nero si
lasciava andare a gesti più plateali che sembravano piacergli molto,
lasciandosi viziare dalla cura e dall’affetto che il bipede gli dava; erano
delle osservazioni che Derek non avrebbe mai dovuto tenere sottogamba.
«E mi piaci anche tu» dichiarò il figlio dello
sceriffo senza accorgersi di cosa stava rivelando, con la piccola malia portata
dalla sonnolenza che gli ingarbugliava i pensieri e la lucidità. «Amo quel
lupo, lo amo davvero, ma anche tu mi piaci. Mi piaci tantissimo, forse anche
più del lupo e… tu sei Derek. Sei il mio Derek».
Il corpo di Derek che tremava era percepibile a
contatto con il suo, Stiles non avrebbe potuto ignorarlo in nessuna
circostanza, nemmeno se si fosse tappato le orecchie ed avesse serrato gli
occhi, allontanandosi da lui così tanto da non avvertire più la sua presenza.
Ma avrebbe percepito sempre la sua presenza, perché Derek era nella sua testa,
era in ogni cosa che faceva e diceva, era in ogni suo gesto e parola ed era
sempre al suo fianco, indipendentemente dalle circostanze avverse che potevano
abbattersi su di loro.
«Stiles» era l’unica cosa che la creatura della
notte riusciva a pronunciare, un richiamo che voleva quasi imporre un punto, un
allarme, un freno che l’umano avrebbe dovuto sentire e tirare; qualcosa che lo
svegliasse da quella mente intorpidita che stava giocando un brutto scherzo ad
entrambi.
«Mi dispiace, non è quello che avresti voluto
sentire» espirò affranto, il diaframma che si incendiava ed il bisogno di
ricevere nuovo ossigeno che si faceva sentire, implorando di cercarne ancora,
di prendere nuove boccate d’aria e di spegnere tutto, di darsi una calmata e di
cedere alla sonnolenza che lo stava reclamando. «Stai aspettando da così tanto
ed io continuo a non avere una risposta. Sono così confuso, Der;
ho così tanti pensieri nella testa ed in ognuno ci sei tu» strizzò gli occhi,
aprendoli subito dopo come se si aspettasse una rivelazione, una visione
diversa e più chiara, la risposta che tutti e due stavano attendendo. «Non
riesco ancora a visualizzarla, è così intricata e sfuggente, ma ci sono quasi, Der. Sono così vicino».
«Stiles, non devi darmi alcuna risposta» la
menzogna nella sua voce era qualcosa che perfino uno Stiles a metà tra il mondo
dei ridestati e dei dormienti poteva udire, classificandola per quello che era
e con l’unica scappatoia che Derek si permetteva ancora di tenere a
disposizione, tentando di salvare sia lui che l’umano.
La mano destra di Stiles saettò sul letto,
cercando quella del suo interlocutore che si parava ancora dalle sue parole e
dalle sue rivelazioni, sfiorandogli le dita ed accarezzandogli con il
polpastrello del pollice il cilindro d’argento da cui non si separava in alcun
caso, perfino quando era sotto le vesti di un lupo completo. «Aspettami ancora
un po’».
Le dita del mannaro si aprirono, creando gli
spazi tra una falange e l’altra, dando l’opportunità al figlio dello sceriffo
di fare quello che riteneva opportuno, mettendo un cancelletto nell’unica via
d’uscita che gli era rimasta. «Aspettarti è quello che faccio» era fregato.
Ogni singola cellula dell’umano vibrò tutta e
le gemme ambrate si accesero, concentrandosi unicamente sulle perle di giada
che aveva di fronte e che cedevano ad ogni suo mormorio contorto, a quella
mancanza di controllo che aveva avuto per tutto il tempo sul definire il loro
rapporto, senza mai permettersi di cadere in domande scomode; ma alla fine aveva
ceduto, alla nebbia che gli offuscava il cervello e il senso critico, il buon
senso e il riconoscimento del momento più adatto per rivelare quello che c’era
sempre stato tra loro.
Stiles sfilò l’anello dal dito medio di Derek,
facendolo oscillare e strofinare contro la punta delle sue dita, come se non
fosse ancora certo di poterlo fare e toccandolo, come se potesse andare a
fuoco, senza alcuna via di salvezza.
Lo accostò alla mano sinistra, sfiorando il
polpastrello dell’indice che si attivò, defibrillando tutto ed arcandosi verso
l’oggetto che gli veniva posto, precipitando verso la falange ed incastrandosi
perfettamente.
A distanza di quel primo mese del suo secondo
anno, l’anello tornò ad impossessarsi del suo posto sull’anulare sinistro di
Stiles Stilinski. «È questo il loro segreto?» che segreto non era, perché tutti
quelli che avevano assistito al loro primo incontro ufficiale erano stati
testimoni di quell’incidente che non si era più ripetuto.
Derek non rispose e Stiles era troppo in là per
insistere, troppo provato e corteggiato dalle braccia di Morfeo per costringere
il mannaro a confessare ed a dirgli tutto, a mettere in chiaro le cose,
cancellando tutti i segreti che girano intorno alle loro vite.
Stiles si abbandonò completamente al proprio
cuscino, afferrandolo dall’alto e portandolo giù, ancora privo della forza di
ricoprire tutto il materasso nella posizione più comoda, e socchiuse le
palpebre, lasciandosi vezzeggiare dall’esperienza confortevole che il suo letto
poteva dargli e di cui necessitava con ogni atomo del corpo.
La mano che si era impadronita dell’anello di
Derek stringeva il guanciale, mostrando tutta l’essenza di quel piccolo
cilindro metallico, mentre la mano destra sostava sul materasso, accanto al
corpo nel mannaro, trattenendogli parte della maglia con il mignolo piegato.
Derek sfiorò le dita con delicatezza, partendo
dal più piccolo per arrivare a quello centrale che conteneva l’anello d’argento
di Stiles, gemello al proprio. Lo toccò appena, quasi incerto di poterlo fare seriamente
e scoccando un’occhiata veloce alla figura incosciente che gli stava a fianco;
gli sfilò l’oggetto, guardandolo con occhi nuovi e con una nuova
consapevolezza, facendolo ruotare tra le falangi come aveva fatto il sedicenne.
Ma lo studio di Derek era molto diverso da
quello più attento ed interrogativo del figlio dello sceriffo che aveva domande
che gli risuonavano, echeggiando nella scatola cranica, bersagliandolo così
tanto da fargli scoppiare il cervello.
Era uno studio approssimativo, di chi conosceva
già ogni risposta e lato nascosto. Assomigliava molto di più ad un bentornato a casa.
L’anello appartenente a Stiles Stilinski, che
indossava sul medio destro, gemello ed affine a quello del lupo mannaro, fu
indossato egregiamente e con portamento perfetto sull’anulare sinistro di Derek
Hale, calzandogli a pennello. «È questo».
Stiles assistette inerme ed attonito davanti a
quella rivelazione, strappato alla coscienza dalla divinità greca dei sogni.
Ebbene, qui abbiamo il primo incontro tra Stiles il nostro lupetto
preferito.
Siccome Malia si è sentita tanto invogliata e incoraggiata dalla reazione
di Stiles alla vista di Derek, ha voluto provare anche lei e… Stiles accetta
tutti.
Accadono piccole cose qui, un padre che si è arreso a voler separare quei
due, ma che vorrebbe Derek a colazione perché non ha senso andarsene via prima,
un branco che sa anche troppe cose intorno al piccolo Stiles ed un Derek
eccessivamente iperprotettivo – ah, ma quella non è una novità.
E poi… arrivano parole pesanti, confessioni a metà da mezzo ubriaco di
sonnolenza e verità che tutti conoscono, ma a cui nessuno a
voluto dare voce, perché… sono tanto complicati. E confusi. Indecisi e non sicuri.
A quanto pare il segreto degli anelli è appena stato svelato, siete
riusciti a coglierlo completamente?
Le lancette stanno per arrivare al rintocco dell’ora fatidica, non c’è più
molto tempo per temporeggiare.
Stiles si svegliò poco dopo l’ora di cena, completamente avvolto dalla
malia e dalla nebbia che la sonnolenza, accompagnata dal risveglio, gli
infondeva, stordendolo ed adombrandogli le membra, non permettendo un completo
ed immediato avvio delle facoltà mentali.
Cosa ci faceva nel suo letto? Come ci era arrivato? Non ricordava nulla di
tutto quello, della giornata che era trascorsa e del suo spostamento misterioso
dall’istituto scolastico alla propria abitazione.
Che cosa si era perso?
Sbadigliò a bocca aperta, senza fare in tempo a portarsi una mano per
tapparla, scompigliandosi accidentalmente i capelli ed immergendovi le dita per
trovare un po’ di sollievo ed aspettare che l’offuscamento del suo cervello si
defilasse, permettendogli di prendere più coscienza di se stesso e trovare,
allo stesso tempo, il coraggio di alzarsi, scendere in cucina ed addentare
qualcosa; il brontolio del suo stomaco era un dettaglio che non poteva
trascurare.
Ma quando immerse le falangi tra le ciocche castane, riportandole indietro
e liberandosi della barriera che gli ricadeva sulle iridi, parte di esse si
incastrò appena in qualcosa che si trovava su una delle dita, scappando a
quell’ostacolo subito dopo con facilità estrema e Stiles quasi l’ignorò,
lasciando correre, ma subito dopo appoggiò quella stessa mano, la mano
sinistra, sulla fronte, con il palmo verso l’alto ed il dorso che gliela
ricopriva, e l’impatto inaspettato con un metallo freddo che era sicuro non si
fosse mai trovato lì.
Strabuzzò gli occhi, incerto e confuso, completamente basito e non
perfettamente convinto di doversi fidare dei propri sensi ancora annebbiati e
che pian piano e con lentezza si andavano a svegliare.
Scostò la mano dalla testa, girandola dal lato interno e portandola
all’altezza degli occhi ed in un primo momento non si rese conto dell’enorme
nota che stonava e dell’allarme che risuonava in modo nefasto dentro il nervo
acustico, bucandogli i timpani.
Sgranò gli occhi e il cuore perse vari battiti quando ruotò nuovamente
l’arto sinistro, incontrando definitivamente quel cilindro metallico argento e
oro rosso, con una triscele che racchiudeva i due colori e gridava a perdifiato,
rivelandogli finalmente la verità. Ma Stiles non sembrava pervaso da quello e
dovette farsi violenza per non correre immediatamente a spostare la sua
attenzione verso la mano destra che da tre anni a quella parte, ogni giorno e
per tutti i millenovantacinque che si erano
susseguiti, aveva indossato.
Non c’era.
Il suo prezioso anello non era lì.
Le perle d’ambrosia ritornarono sull’anello che sostava sull’anulare
sinistro e li comparò con la mano destra su cui non vi era più nulla che
ricordasse l’esistenza di un oggetto simile, soprattutto identico, a quello che
in quel momento soggiornava sull’arto sinistro, mettendo fine ad un’epoca.
Raccontarsi che l’anello che indossava sull’anulare sinistro fosse lo
stesso che per anni aveva posseduto sul medio destro era la più grande bugia di
cattivo gusto che potesse propinare a se stesso, offendendo volutamente
l’intelligenza perspicace di cui si vantava.
Conosceva le dimensioni del suo anello, l’ubicazione perfetta in cui era
possibile incastrarlo senza che si potesse perdere o che desse troppo fastidio.
Il medio destro era l’unico luogo in cui quel cilindro d’argento poteva
trovarsi e c’era un solo altro anello che poteva incastrarsi perfettamente su
un dito diverso da quello.
Un solo altro anello che non era il proprio e che in quel frangente gli era
stato affidato, facendo scomparire quello di sua proprietà.
Non era difficile immaginare dove fosse.
Su chi fosse.
E il gelo si impadronì del suo cuore.
Stiles giunse alla cucina qualche minuto dopo, percorrendo le scale incerto
e guardandosi attorno come in cerca di qualcosa, di un qualsiasi tipo di
indizio e seguendo i rumori che il padre stava riproducendo sparecchiando la
tavola. «Hai visto Derek?» domandò quando varcò la soglia della sala da pranzo,
le finestre che si affacciavano su un paesaggio scuro e notturno ed una padella
vuota abbandonata sul fornello spento, mentre l’adulto riponeva le ultime cose
nel frigo.
«Avrei dovuto?» chiese in risposta lo sceriffo, girandosi verso di lui e
trovando il figlio ancora assonnato a stropicciarsi gli occhi per svegliarsi
del tutto.
Suo padre era rientrato da ore ormai, se Derek fosse stato lì al suo
ritorno se ne sarebbe accorto. Dopo quanto tempo il lupo mannaro si era
volatilizzato dal suo letto? «Non stavo bene e, sotto suo ordine, mi ha
riaccompagnato a casa».
Lo sceriffo sembrò capire soltanto in quel momento le vicende che si erano
susseguite in quella giornata, soprattutto la presenza di Derek Hale in casa
sua e la ricerca di Stiles senza risultati. «Questo spiega il biglietto».
«Il biglietto?» domandò il sedicenne senza capire, sgranando gli occhi e
guardandolo con espressione interrogativa. «Quale biglietto?».
«Quello che mi invitava a lasciarti dormire» rispose prontamente l’uomo,
dirigendosi verso il piano cottura ed afferrando il suddetto pezzetto di carta
che aveva adagiato lì dopo averlo letto, porgendolo alla sua progenie.
Stiles si ritrovò a stringere un post-it verde chiaro, come la prateria in cui
aveva incontrato per la prima volta il suo lupo completo, uno dei suoi, uno che
soggiornava sulla scrivania insieme a molti altri di vari colori e che usava
per ampliare i concetti che gli interessavano e che non elargivano grandi
spiegazioni, vedendosi costretto ad immergersi in nuove ricerche per sopperire
alla mancanza, e che attaccava alle pagine adiacenti.
Non lo svegli riportava il biglietto colorato con inchiostro
blu, al suo centro, con una scrittura elegante e curata, dritta e perfetta,
senza pendere verso un lato particolare, a differenza della propria che non
rispettava nemmeno le righe dei quaderni prestampati, figurarsi un rigo
invisibile e che inventava di sana pianta per facilitare la lettura al
prossimo. Quel biglietto era così tipico di Derek che avrebbe voluto strapparlo
ed urlare a squarciagola.
«È successo qualcosa?» si vide costretto a chiedere lo sceriffo,
ritrovandosi l’espressione sconcertata e basita del figlio, che rimaneva
immobile in mezzo alla stanza a fissare il post-it senza parole e che non
riusciva a mettere in ordine i pensieri che si affollavano nella mente,
prendendo a girare e girare, confondendolo così tanto da non riuscire a capire
in quale direzione avrebbe dovuto procedere.
Stiles fu riportato alla realtà soltanto quando la voce del padre entrò a
contatto con il nervo acustico, distogliendo gli occhi dal foglietto verde
chiaro e spostandoli verso la figura dell’adulto che gli rivolgeva un’occhiata
pensierosa e dubbiosa, come se dovesse prepararsi ad intervenire subito per
salvare la situazione. Ma subito dopo le iridi caddero sulla mano sinistra, lì
dove troneggiava l’anello che risiedeva sull’anulare, risvegliando i sensi e
tornando padrone del caldo abbraccio confortante e disperato che l’aveva
cercato, richiamandolo a sé dalla prima ed unica volta che l’aveva assaggiato.
Riaffiorò il desiderio che Stiles aveva sempre espresso tacitamente di
poterlo conoscere e di rientrarne in possesso, anche soltanto per un’ultima
volta che non si sarebbe più ripetuta, ma che gli avrebbe concesso di
comprendere meglio quella sensazione che gli scaldava l’animo quando era nei
dintorni e soprattutto quando gli si era incastrato sull’anulare sinistro.
Voleva soltanto capirlo, conoscere il segreto che Derek gli aveva tenuto
nascosto e comprenderne i misteri. Ma Derek si era spinto troppo in là, senza
che Stiles fosse pronto ad accettarlo. «Vorrei saperlo».
Stiles non riusciva nemmeno a concentrarsi sul contenuto che si trovava
all’interno dell’armadietto scolastico, non aveva alcuna idea su quale materia
dovesse soffermarsi e quali sarebbero stati gli strumenti più adeguati per
affrontarla. Non riusciva a focalizzare l’aula in cui si sarebbe dovuto
dirigere e se si fosse adoperato per svolgere i compiti a casa che gli erano
stati assegnati. Non riusciva a metabolizzare il passo che avrebbe dovuto
compiere di lì a qualche minuto, prima che suonasse la prima campanella che
annunciava l’inizio delle lezioni e con cui avrebbe dovuto tenere il ritmo per
tutta la giornata che gli si parava davanti.
Erano due giorni. Erano passati due giorni da quando lo scambio degli
anelli era avvenuto nelle tenebre della propria mente. Due giorni in cui non
vedeva Derek Hale, in cui non poteva mettersi in contatto o affrontare di petto
la calamità che si era abbattuta su di lui senza che avesse gli attrezzi giusti
per gestirla, per sopravvivere e tenergli testa.
Un sabato e una domenica. Non vedeva Derek da venerdì pomeriggio e, ad una
prima analisi abbozzata, conoscendo i precedenti, non era insolito che non
vedesse il lupo proprio in quei giorni, erano casi rari che il licantropo si
presentasse a lui nei fine settimana, soprattutto perché entrambi erano
occupati con qualcos’altro, con qualcun altro. Anche se, se ci pensava
seriamente, perfino quella separazione periodica era diminuita sempre di più e
Derek si era presentato spesso sia il sabato che la domenica e forse stava
farneticando e non era più cosciente delle cose, contraddicendo se stesso.
Doveva ragionarci seriamente, doveva capire come funzionasse la loro routine
che variava costantemente, senza che lui si rendesse realmente conto dei passi
giganti ed enormi che avevano percorso, delle libertà che si permettevano l’uno
con l’altro, delle barriere che non esistevano più, rompendo tutti i muri.
Davvero non si era accorto della familiarità che si era instaurata tra
loro, facendo divenire Derek una parte fondamentale della propria vita?
Senza nemmeno rendersene conto, sordo ed estraneo a tutto quello che lo
circondava, si ritrovò Lydia proprio davanti l’anta dell’armadietto da cui non
aveva ancora estratto nulla. «Sei tutto intero?».
«Non dovrei esserlo?» chiese di riflesso il figlio dello sceriffo, non
captando all’istante a cosa si riferisse la rossa e rifilandole un’occhiata
interrogativa e perplessa.
«Tre giorni fa Derek ti è venuto a prendere di peso direttamente in aula,
mi chiedevo se ci fosse qualcosa di importante ed allarmante dietro» spiegò
semplicemente la bionda fragola, scuotendo le spalle con nonchalance e nessuna
vera premura verso di lui, ma affamata di notizie succose e succulenti, come se
ne capitasse sempre una quando Stiles Stilinski e Derek Hale erano insieme.
Non era vero, non era proprio vero che Derek era entrato in aula e l’aveva
portato via di peso.
Aveva semplicemente aspettato che tutta la classe si svuotasse, accostato
accanto al muro e confinante con gli altri armadietti che erano disposti in
quell’ala della scuola; aveva semplicemente aspettato che Stiles consegnasse il
suo compito ed abbandonasse l’aula, senza convenevoli ed afferrando soltanto le
proprie cose. Solo in quel caso se l’era trascinato via, davanti agli
spettatori composti dai suoi compagni di corso, che erano usciti prima e dopo
di lui, assistendo alla scena pittoresca che si stava presentando davanti ai
loro occhi; non era ancora mai accaduto che Derek Hale passasse a prendere il
figlio dello sceriffo direttamente in classe. «Non era niente. Derek è troppo
apprensivo e si allarma facilmente» quando non scava la fossa ad entrambi.
«Derek è apprensivo con te» disse la sedicenne con tono chiaro e nitido,
guardandolo dritto nelle iridi ed indirizzandogli un’occhiata eloquente e piena
di ogni significato possibile.
«Questo non è vero» ribatté prontamente l’adolescente, percependo a pelle
il suo riferimento e mandandolo indietro. Era una bugia grande quanto una casa
di sette piani. Il mannaro mostrava tutta la sua preoccupazione verso il suo
intero branco, dedicandosi tempestivamente ad ogni membro, soprattutto quando
si parlava di Cora e Malia; specialmente di Malia, che aveva bisogno di
un’attenzione particolare e di tutti i sensi attivati per poter intervenire
rapidamente e darle ciò di cui aveva bisogno. Ma la cura stava anche nel fatto
di non doverle mai far pesare nulla e di non mostrarsi troppo dediti a lei,
annullando se stessi. Era un lavoro a tempo pieno di cui l’intero branco si
occupava, spalleggiandosi l’un l’altro. «Non ci sono soltanto io nella sua
vita».
«Okay, è vero» Lydia fu colpita in pieno petto dal quel fulmine scatenato
dalla voce graffiante di Stiles, gli artigli che scattavano dalle corde vocali,
pronti a squarciare qualsiasi cosa si ponesse sulla sua strada. Dovette correre
ai ripari ed addolcire la pillola, moderare il tono e procedere con cautela.
«Ma con te è più evidente. Non riesce a controllarlo».
Derek non riusciva a controllare un sacco di cose, una valanga di cose, una
dopo l’altra, senza che ne avesse scampo, senza che potesse illudersi di
riuscirci. Forse non si era neanche mai posto il problema, forse agiva e basta,
come l’animale istintivo che viveva in lui. Forse ci aveva pensato così tanto e
per così tanto tempo, che una volta che se lo ritrovava davanti, non aveva più
freni inibitori. Derek seguiva soltanto il suo cuore. «Già».
«Stiles, stai bene?» domandò la ragazza con preoccupazione evidente,
osservando il crollo emotivo che si stava manifestando nel sedicenne, pronto a
cedere ed a non uscirne più. C’era qualcosa di sinistro in quell’accettazione,
qualcosa di più radicale e con radici più profonde, una visione a cui non le
era permesso di dare un’occhiata.
«No, per niente» rivelò il figlio dello sceriffo, nefasto e con la voce a
livelli critici, sospirando distrutto e passandosi la mano sinistra sul volto,
strofinando gli occhi come se quello potesse aiutarlo a vedere un quadro
migliore, a mitigare la visione e ad entrare in possesso di un approccio
diverso. «Ho solo bisogno di…».
Ma Lydia trattenne il fiato e sgranò gli occhi e per un paio di secondi
smise perfino di respirare, serrando le labbra e concentrandosi sullo
sbigottimento che quella scena le stava mostrando. «Che cosa è successo?».
Stiles scostò la mano, disorientato e spaesato, con la risposta alla
domanda precedente bloccata in gola e l’improvvisa incapacità di poterla
esprimere.
Cercò di incontrare le sue iridi verdi, certo che le avrebbe trovate lì ad
aspettarlo ed a chiedere delucidazioni, ma il suo sguardo era rivolto in tutt’altra
direzione, seguendo dei movimenti ben precisi. «Lyds,
cos’hai visto?».
La bionda fragola rimase in silenzio per notevoli secondi, con le parole
incastrate in gola e l’incisivo che picchiava sul labbro interno. «Perché hai
l’anello di Derek?».
Il figlio dello sceriffo fu colpito direttamente sullo sterno ed un fulmine
a ciel sereno lo pervase tutto e soltanto in quel momento si rese conto che le
pupille della ragazza seguivano i movimenti sconnessi della sua mano sinistra,
dove figurava in tutto il suo splendore l’anello d’argento e oro rosso dove vi
era intagliata una triscele perfetta, incastonato sull’anulare. Non vi erano
altre interpretazioni. «Dai per scontato che sia l’anello di Derek».
Lydia gli scoccò nell’immediato un’occhiata pietrificante, giudicandolo
apertamente e rimproverandolo per quell’insulto falsamente velato rivolto alla
sua intelligenza. «Sì, lo do per scontato. Non saresti così turbato
altrimenti».
Stiles ritirò la testa e la inclinò appena verso il basso, osservando di
sottecchi il cerchietto argentato che circondava l’anulare sinistro, impregnato
ancora di quelle sensazioni che l’avevano colto dal primo momento in cui era
entrato in contatto con esso. Non riusciva a sbarazzarsene in alcun modo. «Non
so quando è successo, non so perché li abbia scambiati. Io… devo avergli detto
qualcosa, ma non so cosa. Questa cosa mi sta facendo scoppiare il cervello».
Lydia non aveva bisogno di sentirselo dire, lo vedeva benissimo da sola quanto
Stiles fosse a pezzi, quanto si reggesse appena sulle gambe, procedendo
lentamente con un passo dopo l’altro, per evitare di perdere l’equilibrio e
ruzzolare a terra senza provare nemmeno a rallentare, a riparare al danno. «Lui
ha il tuo?».
Stiles espirò rumorosamente, provocando un bruciore costante ai polmoni ed
irritando la trachea. «Deduco di sì» avvertiva perfettamente l’assenza sul
medio destro ed il lampo improvviso della sua estrazione.
La ragazza lo guardò con un’intensità tale che gli si gelò tutto il sangue,
vedendosi tutte le vie di fuga soppresse ed annullate, senza la possibilità di
una piccola scappatoia nei meandri più oscuri ed opprimenti. Non c’era scampo.
«È piuttosto evidente il suo significato» era gentile da parte sua non chiedergli
dove si collocasse l’anello che in quel momento possedeva il lupo, ma non era
così stupido da non capire che lei lo desse per scontato, arrivati a quel
punto.
E non si riferiva affatto a quello che lui aveva detto a Derek nel suo
delirio da mancanza di sonno, senza peli sulla lingua e senza che il suo
controllo potesse bloccare tutto quello che la sua mente avrebbe voluto
comunicargli.
Tutto si riduceva e ruotava intorno al significato degli anelli, quegli
stessi che avevano portato entrambi, proteggendoli da esterni e che si
permettevano di toccare nel cuore della notte, quando l’unica luce che poteva
illuminarli ed assisterli era creata dai raggi lunari di madreperla. Che stolto
era stato. «Devo parlare con lui, ho bisogno di parlare con lui».
Lydia tacque di nuovo ed il silenzio cadde tutto attorno a loro, con
l’irrefrenabile esigenza di Stiles di doversi urgentemente confrontare con
Derek; spirava da ogni poro e l’intero corpo non riusciva a stare fermo,
propenso interamente a voltarsi ed a procedere in una direzione qualsiasi, alla
sua ricerca. «Non l’ho visto».
Il figlio dello sceriffo si pietrificò all’istante ed i vasi sanguigni si
congelarono nell’immediato, provocando una seria fitta al muscolo cardiaco che
accelerava le sue palpitazioni con delle lame incastrategli. Non riusciva a
capire più nulla, non riusciva ad identificare il mondo che ruotava intorno a
lui; si trovava completamente in un universo alternativo dove ogni legge fisica
e morale era allo sbando. «Che cosa vuoi dire?».
«Derek è sempre tra i primi ad arrivare, soprattutto da quando dorme da te»
anche quando lei non ne sapeva niente e non aveva collegato i due avvenimenti.
Non avrebbe nemmeno mai potuto immaginare che quei due condividessero il letto,
quasi ogni notte, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Nessuno avrebbe
mai potuto dirle che quei due necessitassero di trovarsi nello stesso spazio
vitale, perfino quando erano nel regno dei sogni. «Non l’ho ancora visto» ed
era strano, incredibilmente strano. Se Derek Hale non si faceva vedere in giro
prima del momento in cui la prima campanella suonava, con tutti gli studenti
che armeggiavano tra gli armadietti, estraendo l’occorrente che gli serviva per
affrontare parte della giornata scolastica, allora lasciva intuire che lui non
era lì, non quel giorno, esattamente com’era accaduto quando sia Derek che
Stiles non si erano presentati nella stessa giornata scolastica. «Derek non è
qui».
E l’universo di Stiles, sia parallelo che reale, si sgretolò.
«Dov’è?» Stiles si piantò davanti all’armadietto di Erica come un tornado
in prossimità di distruggere tutto quello che incontrava, con il fuoco negli
occhi e la rabbia che sgorgava senza che ci fosse alcun modo per controllarla,
per quietarla, per domarla e sperare nel passaggio incolume della tempesta.
«Dov’è quel lupastro misantropo e codardo?».
«Stiles» proferì la bionda con turbamento e profondamente disorientata,
attaccata con malvagità dall’ira che l’umano sprigionava da ogni poro.
«Dimmi dov’è» insistette il figlio dello sceriffo, senza lasciarsi
ammaestrare da quella nota più controllata e destabilizzata della lupa. «Dimmi
dove si nasconde».
«Non è qui» disse semplicemente la mannara, senza aggiungere altro o
provare a spiegare, dando delle delucidazioni che non le toccavano nemmeno.
«È proprio per questo che ti sto chiedendo dove sia» la ribeccò il
sedicenne con stizza, già esausto e non incline a nessuna perdita di tempo,
esigendo la sua risposta senza giri di parole ed interamente intenzionato a
raggiungere il licantropo, evitando chiacchere inutili.
Erica prese un lungo respiro dentro di sé, preparandosi al peggio e conscia
di stare per essere inghiottita da una bufera. «Non è qui a Beacon Hills».
Un silenzio attanagliante cadde a perdifiato su di loro e gli occhi di
Stiles si sgranarono così tanto da far paura, con il colorito della pelle che
andava a schiarirsi ad ogni attimo.
«Cosa? Come? Di cosa stiamo parlando?» l’umano sbatté le palpebre più
volte, incerto ed atterrito, completamente frastornato da quella rivelazione inaspettata,
con la spada di Damocle che incombeva su di lui, facendosi sempre più vicina,
pronta per lacerargli gli organi. «Io… non capisco».
«È partito stamattina presto, era la sua ultima occasione per visitare uno
dei college a cui è interessato» era quasi d’obbligo che quelli dell’ultimo
anno partissero per visitare uno o più dei college a cui volevano fare domanda
o su cui cercavano le ultime certezze, la conferma finale. Quella era l’ultima
settimana prima che i giochi fossero fatti e che il tempo utile per spedire le
domande scadesse, non lasciando più alcuna via di salvezza. Erano molti gli
studenti che si riducevano all’ultimo minuto. «Tornerà tra tre giorni» ma Derek
Hale non era mai stato uno di loro.
Se il mondo non gli fosse già caduto addosso, quello sarebbe stato il
momento migliore in cui tutto avrebbe perso significato. «È partito?» domandò
in ripetizione, sempre più pallido e vicino ad un collasso che non voleva
risparmiarlo. «Adesso? Proprio adesso?» era incredulo, era pura follia. «È partito
adesso dopo aver fatto questo?» e non era intenzionale alzare le mani e
metterle in mostra, dare libero accesso a ciò che era capitato tra loro, quando
lui era dovunque tranne che nel presente, completamente in balia degli eventi
ed abbandonato dalla presenza di Derek che racchiudeva il significato di casa e
famiglia dentro di sé. «Quel lupo dei miei stivali è partito adesso, dopo aver
fatto questo, per il college. Quale college?» che gioco di cattivo gusto era
quello, quando il diciottenne si era sempre dimostrato disinteressato
all’università che avrebbe frequentato, al dipartimento a cui si sarebbe
dedicato anche se non era la strada che desiderava. Era il peggior tiro mancino
che potesse fargli.
Erica sbiancò nell’immediato quando vide l’anello che accumunava Stiles e
Derek sull’anulare sinistro del primo, sprovvisto completamente del gemello che
teneva sempre e costantemente, come un gioiello prezioso, sul medio destro. Vi
era soltanto una piccola differenza tra i colori del suo incarnato, quella lieve
abbronzatura che figurava davanti a quella linea cerchiata più bianca, che
circondava tutto il dito in questione, lasciando un ricordo sbiadito
dell’oggetto che vi era stato per anni, ogni giorno. «Li ha scambiati».
Era una sorpresa devastante anche per lei, del tutto inaspettata e come se
non si aspettasse che il lupo completo si spingesse a tanto, ma Stiles non era
minimamente intenzionato a quello dopo che il mannaro se l’era data a gambe.
«Quale college, Erica».
La voce imperiale ed autoritaria dell’umano gli scavò i timpani e la
riportò da lui, esigendo la sua totale attenzione e delle spiegazioni. «Non
gliel’hai mai chiesto?».
L’accusa che la bionda gli stava indirizzando non era lusinghiera e
leggera, improvvisamente era come se la colpa non fosse totalmente del
licantropo. «Certo che gliel’ho chiesto. Ho insistito, l’ho pregato e gli ho
urlato contro, ma non ha mai accennato mezza parola».
«Accidenti» proferì la lupa mannara più esausta e spossata di quanto non lo
fosse mai stata, e lei affrontava ogni mese un plenilunio e combatteva contro
licantropi per passatempo, dovendo gestire l’accozzaglia indomabile che si
ritrovava come branco. «È sempre il solito sostenuto».
«Erica, ti prego» Stiles non ce la faceva più, stava perdendo tutte le sue
energie e quelle arrancavano da quel venerdì che a mezza veglia aveva visto il
proprio anello che aveva tanto amato incastrarsi sull’anulare sinistro di Derek
Hale, con la verità che quest’ultimo aveva sempre conosciuto, ma che aveva
continuato a celargli. «Devo sapere dov’è, ho bisogno di parlare con lui. Io
devo capire».
«Si è impegnato così tanto per rientrare nei requisiti e poter avere
qualche possibilità di essere accettato» il tono di voce di Erica si ammorbidì,
ma era impregnato di scuse e pietà, con una morsa addolorata che non sarebbe
svanita.
Derek era stato uno studente mediocre i primi due anni, si limitava
semplicemente a fare il suo dovere senza eccellere, senza dover imbattersi in
rimproveri per i suoi scarsi voti e puntando con semplicità allo sport, al
basket; era quello che eccelleva per lui. Ma durante il terzo anno Derek ebbe
un’impennata e non era soltanto lo sport ad essere curato. «Se tu avessi una
vaga idea di dove lui sia adesso, capiresti. Avresti le risposte che stai
cercando, ma non posso essere io a dartele».
«Lui è-» no! Non doveva pensarci,
non doveva nemmeno provarci. Non doveva far vagare la mente e non doveva
collegare quei pochi pezzi di cui disponeva e che erano stati seminati lungo la
strada, ad ogni piccola parola e gesto. Doveva passare oltre, doveva
dimenticarsene, doveva smettere di illudersi e di credere che Derek fosse così
avventato da fare una scelta simile. «Dov’è, Erica? Dov’è Derek?» quello
stupido, stupido lupo che aveva deciso di partire quando doveva rimanere con
lui e chiarire la situazione, mettere dei punti, dare voce alle cose e rendere
concreta la verità che si ostinava a tenere per sé. «Gli avevo chiesto di
pazientare. Gli avevo chiesto di aspettarmi» l’aveva tutto in mente quel
pomeriggio di nebbie e foschia, fotogramma per fotogramma, quello in cui non
era totalmente in sé ed aveva reso a parole parte dei pensieri che lo
torturavano e che erano sempre stati lì, in agguato e pronti a balzare e ad
afferrare ciò che riteneva suo, messo in bella vista e preparato per essere
agguantato. «Ancora per un po’» le immagini di quel venerdì si accalcavano
davanti alle iridi ambrate ed erano così intense e nitide, come se le stesse
vivendo in quel preciso momento. Ma era lontano e distante e Derek non era lì e
lui stava rientrando in possesso di quella parte della loro vita soltanto in
quell’istante, quando sentiva il cielo pesargli sulla schiena e spiaccicargli
la colonna vertebrale. «Aveva detto, mi aveva assicurato, che mi avrebbe
aspettato» e poi aveva scambiato gli anelli – anche se la colpa era un po’ sua
e doveva punirsi per quello – e si era volatilizzato, senza una parola o una
spiegazione, rimandando ogni cosa ad un futuro non identificato. Lontano, così lontano, aveva davvero
intenzione di aspettarlo? «E adesso dov’è?».
L’allarme era in agguato ed Erica non sapeva più cosa fare, Stiles stava
cedendo, piegandosi su se stesso, non riuscendo più a sostenere il suo stesso
peso e non c’erano vie di salvezza, qualcosa che potesse aggiustare la
situazione. «Stiles, non devi viverla così. Derek non farebbe mai nulla che
potesse turbarti o nuocerti» peccato che, inconsapevolmente, l’avesse fatto.
«È la sua prima luna piena da lupo completo e lui ha preferito passarla
lontano da me» doveva smetterla di essere sempre così preoccupato per quel vile
traditore, così dedito alla sua causa e con l’ansia perenne che potesse
capitargli qualcosa. Aveva visto il Derek padrone di se stesso e del suo lupo,
ma entrambi sapevano che la vera prova si sarebbe mostrata quando il plenilunio
sarebbe giunto ed il dado sarebbe stato tratto. Soltanto in quel momento
avrebbero potuto tirare un sospiro di sollievo. «Non abbiamo mai passato una
luna separati» non da quando erano insieme, non da quando le loro vite si erano
intrecciate così tanto da ingarbugliarsi, fondendosi così tanto da non trovare
un inizio né tanto meno una fine.
Il peso del mondo era eccessivo, i polmoni venivano compressi e la trachea
graffiava e graffiava, attentando alle corde vocali e squarciando tutta
l’anidride carbonica che doveva essere espulsa per essere cambiata con ossigeno
fresco e pulito, quello che l’aiutava a respirare ed a rientrare in possesso
del suo organismo, sconfiggendo l’oppressione che incombeva su di lui e che lo
annientava.
La gabbia toracica veniva oppressa ed il cuore pulsava senza freni, con la
pressione che si alzava e le vie respiratorie che venivano bloccate, sbarrate e
precluse dal loro compito, tagliando i ponti con il mondo esterno e con gli
elementi chimici di cui necessitava.
«Malia. Malia, va’ a chiamare Scott» elargì Erica, alzando la voce e
concentrandosi su una direzione precisa, indirizzandola nel corridoio giusto e
tentando di controllarsi e non chiedere aiuto a squarciagola, intervenendo
direttamente, senza sapere come muoversi e temendo di fare solo danni – ma la
coyote era lì? Passava casualmente da quelle parti? O era la persona che
prestava più orecchio dell’intero branco? «Stiles ha un attacco di panico».
Era un attacco di panico con i controfiocchi, uno che vivisezionava i
polmoni ed intorpidiva le pulsazioni del muscolo cardiaco, facendoglielo
arrivare fino in gola, impedendo qualsiasi possibilità di respirare
autonomamente.
Erica lo prese in disparte, davanti a quella massa di studenti che si
accalcava per raggiungere le aule corrette e che buttava un’occhiata criptica
ed affamata di sapere nella loro direzione, rizzando le orecchie, e lo condusse
nell’anticamera degli spogliatoi di lacrosse, facendolo sedere sul pavimento e
sperando che si riprendesse.
«Amico, cosa mi combini?» domandò retoricamente Scott quando li raggiunse
davanti agli spogliatoi, seguito da Malia che sbirciava dalla sua spalla. Aveva
sperato ingenuamente di trovarlo in una situazione migliore.
Stiles boccheggiò con gli occhi vitrei ed acquosi, faticando a prendere un
respiro dopo l’altro, che proprio non ne volevano sapere, seguendo a tentoni la
nuova voce che entrava a far parte di quello scenario da dimenticare. «Ho un
attacco di panico» annunciò come se non fosse evidente e alla portata di tutti
i testimoni che si trovavano negli stessi metri cubi. «Ho un stupido attacco di
panico per colpa di Derek Hale».
Doveva essere dura, deleterio per Stiles ammetterlo, ammettere quanto Derek
fosse talmente importante da scaturire le sue peggiori paure ed era un percorso
che aveva compiuto tutto da solo.
Scott non ne sembrò sorpreso, quasi convenne con lui, come se non ci fosse
stata altra scelta, benché le cose si sarebbero potute affrontare in modo
differente e più salutare. «Hai un attacco di panico».
Le vie respiratorie si contrassero, chiudendosi quasi del tutto ed il
figlio dello sceriffo impallidì ancora, con le pulsazioni che andavano così
veloci da non riuscire a scandagliare il loro ritmo; il messicano scivolò verso
di lui immediatamente, mettendosi al suo fianco e lasciando la coyote mannara
dietro di lui, con Erica che si trovava in piedi, dal lato opposto. «Non ho un
attacco di panico da anni. Anni, Scott!» Stiles ne aveva sofferto subito dopo
la morte della madre, prima era riuscito a contenerli ed a rimandarli, sopprimendoli
così tanto da lacerarlo dentro, finché non avevano preso il sopravvento quando
la grande disgrazia si era abbattuta su di lui, lasciando frammenti di se
stesso e lo sceriffo non aveva avuto un attimo di tregua, dedicandosi
interamente all’unico membro della famiglia che gli era rimasto. Stiles era
tutta la sua vita. «Quando Derek era qui, quando accadevano determinate cose
tra noi» cose di cui Scott non sapeva assolutissimamente nulla, «avevo sempre
un principio pronto ad esplodere, a colpirmi ed a mettermi al tappeto, ma Derek
interveniva prima che potessero sfociare in qualcosa, sapendo esattamente cosa
doveva fare e come doveva dirla» il tubo esofageo bruciò in modo deleterio,
infiammando la trachea e scatenando in modo minaccioso il pulsare dell’arteria
carotidea; era una bomba pronta a detonare. «Ma lui non è qui ed ho un attacco
di panico per colpa sua».
«Dovrai farglielo presente» l’intento di Scott era solo quello di lasciarlo
sbollire e permettergli di parlare a raffica, sperando che tale distrazione lo
allontanasse dal malessere che lo stava logorando, impedendogli di ragionare
lucidamente.
«Io lo prenderò a calci» ribatté il figlio dello sceriffo con astio e
rabbia, liberandosi in un colpo di tosse che gli sottrasse quel poco di energie
vitali che conservava e portando la testa all’indietro, accostandola alla
parete e chiudendo le palpebre sugli occhi umidi.
Scott lo guardò a lungo, cercando di trattenere il dolore che quella
visione ammaccata del suo migliore amico gli dava; c’era qualcosa di
profondamente radicato in lui. «So che lo desideri, ma non lo farai».
Eccome se desiderava farlo. Non solo l’avrebbe preso a calci, insultandolo
verbalmente, ma l’avrebbe scuoiato vivo, appropriandosi della sua bella
pelliccia nera che tanto adorava. «È andato via senza dirmi niente e lui ha
fatto questa stupida cosa che…» non riusciva nemmeno a dirlo, a formularlo,
perfino la sua
mente si rifiutava di dargli un corpo.
«Tornerà e potrai sommergerlo di parole, esigere delle spiegazioni» perché
erano quelle che in fondo Stiles voleva, gli sarebbero perfino bastati pochi
vocaboli, anche sconnessi e lui ne avrebbe tirato le somme, quelle giuste e le
cose si sarebbero aggiustate ed avrebbe dimenticato di aver avuto un attacco di
panico perché Derek Hale non era lì con lui.
«Non voglio che torni» negò il ragazzo iperattivo con violenza, spronandosi
per rimandare indietro quell’attacco, facendolo scomparire del tutto. «Non
voglio vederlo».
Era una colossale bugia, una di quelle potenti a cui non avrebbe creduto
nessuno, nemmeno Stiles stesso, ma Scott doveva ancora dargli un po’ di lenza e
lasciarlo fare, quindi non obiettò e non lo corresse.
«Malia, dovremmo andare» sussurrò Erica alla sedicenne, facendole un segno
della testa verso la direzione da cui erano venute e premurandosi di
abbandonare l’anticamera ed allontanarsi il prima possibile.
Malia la guardò con sguardo interrogativo, non afferrando perché dovessero
andarsene, abbandonando l’umano in quelle condizioni ed in compagnia dell’amico
non tanto sveglio che non sembrava avere tante parole per lui. Derek avrebbe
agito sicuramente in modo diverso, avrebbe calmato quell’attacco di panico
senza che si manifestasse sul serio, rimandandolo nel dimenticatoio e Stiles
avrebbe goduto della presenza del mannaro lì al suo fianco. Ma forse era
proprio la mancanza del lupo completo a rendere tutto così difficile?
Annuì in risposta, anche se era riluttante e non propensa alla cosa e quasi
si mobilitò a seguirla, ma fu Scott stesso a richiamare la sua attenzione con un
gesto della mano, invitandola a rimanere e tranquillizzandola, accettando ben
volentieri la sua presenza lì.
Se Stiles fosse stato più vigile e reattivo, non avrebbe mai voluto che se
ne andasse, anche se non sapeva bene quanto fosse una buona idea averla lì
quando probabilmente avrebbero parlato male del cugino.
Erica si fermò un momento, giusto quello che le serviva per valutare la
situazione e vedendo la ragazza coyote così premurosa nei confronti del figlio
dello sceriffo e bisognosa di sapere che stesse bene, la lasciò fare,
allontanandosi in silenzio.
«Erica ha detto una cosa, su dove si trovi Derek» proferì ad un tratto
Stiles, allentando il respiro che lentamente si era fatto più regolare e
deglutendo con parsimonia per non andare troppo a fuoco, bruciando la gola.
«Qualcosa che ha a che fare con il college che ha scelto e sul fatto che se lo
sapessi, capirei» Scott appoggiò soltanto una spalla alla parete in cui si
trovava il suo migliore amico, abbandonando pigramente le gambe in direzioni
varie e ruotando appena il busto verso la sua direzione, lasciandogli tutto lo
spazio aereo di cui necessitava, e tendendo le orecchie. «Riesco a pensare
soltanto ad un posto, credi sia lì?».
Non era difficile capire a quale luogo si stesse riferendo, Stiles non
parlava d’altro da anni e tutto il suo impegno era rivolto al futuro che lo
avrebbe atteso finiti gli ultimi giorni da liceale. «Non saprei, ne avete mai
parlato?».
Le palpebre di Stiles si alzarono ed il messicano ricevette uno sguardo
eloquente fino al midollo; almeno era un buon segno di ripresa. «Credi che con
Derek si possa parlare?».
Scott fece spallucce, come se la cosa non lo riguardasse e non ne sapesse
abbastanza. «Sei quello che gli si avvicina di più, tra un ringhio e l’altro».
Il figlio dello sceriffo sbuffò risentito, lanciandogli un’ultima occhiata
giudicante. «Mi ha detto che conosceva il loro programma» e quelli di tutti i
college che gli aveva proposto.
«Magari è solo uno che si informa» ma dall’occhiataccia del suo migliore
amico doveva scartare immediatamente la cosa, come se non l’avesse mai
pronunciata. Neanche mai pensata. «Ti ha mai confidato cosa gli piacerebbe
studiare?».
«Non la metteva proprio su quel piano» e Stiles si era imbestialito
tremendamente a quella prospettiva, rivoltandosi contro il lupo mannaro e
lasciandogli un piccolo lasciapassare perché sapeva perfettamente che non
l’avrebbe avuta vinta. Ma in quel momento aveva il tremendo sospetto che tutto
quello che Derek faceva e aveva fatto, fosse per lui ed aveva una paura tremenda
e voleva urlargli contro e farlo rinsavire. «Ma gli piacerebbe astronomia» un
lupo tra le stelle ad ululare direttamente sulla sua amata luna.
«Astronomia. E c’è il dipartimento all’HofstraUniversity?» quel gergo non l’avrebbe mai appreso se non avesse
frequentato Stiles così tanto, già proiettato verso la prossima mossa, con
piani su piani sempre aggiornati e ben programmati. Se c’era qualcuno che
poteva saperlo, quello era lui, avendo memorizzato a menadito tutto quello che
ruotava intorno a quel college.
«Sì, credo di sì» Stiles era titubante semplicemente perché non aveva la
mente sgombra ed era offuscata da quell’attacco di panico che pian piano si
allontanava, facendo perdere completamente le sue tracce. In un contesto
diverso e con una mente più sveglia, avrebbe saputo rispondere con più
sicurezza. «Mio Dio! È davvero lì» l’illuminazione lo colse impreparato,
abbagliandolo e dirottandolo, facendogli sgranare così tanto gli occhi che i
bulbi oculari potevano cadergli da un momento all’altro. «Era questo il suo
folle piano?».
«Seguirti, anticipandoti?» chiese retoricamente il messicano con
leggerezza, seguendo con un po’ di fatica il ragionamento del ragazzo
logorroico.
«È un pessimo piano. È tremendo ed è una pazzia» dichiarò il figlio dello
sceriffo con sconcerto, dilatando enormemente le pupille da ingoiare l’ambrato
delle iridi, facendolo agitare sul posto. «Che cosa vuole fare? Se davvero ci
riuscisse, dovrebbe aspettarmi per due anni. Due anni! E cosa farebbe? Si
limiterebbe a scorgermi tra la folla?».
«Forse era quello che voleva all’inizio» ed un po’ Scott di queste cose se
ne intendeva, anche se quello che gli si avvicinava di più era Stiles stesso,
con la sua eterna cotta per Lydia Martin che poi era sfociata in ben altro. Era
così complicato mettersi nei panni del diciottenne? «Forse voleva soltanto
guardarti da lontano».
«E poi?» lo supplicò quasi il suo migliore amico, aspettandosi una
qualsiasi risposta sensata che annullasse tutta quella situazione disastrosa ed
ipotetica. Le perle mielate di Stiles erano degli specchi perfetti in cui
riflettersi.
«Ha scambiato gli anelli» e Scott l’aveva notato quel cerchietto metallico
che risiedeva sull’anulare sinistro e che l’aveva visto incastrarvisi mesi
addietro, quando vi fu il primo incontro ufficiale tra lui e Derek ed il
protagonista era stato proprio lo scambio di quegli oggetti. Sapeva benissimo
che la misura dell’anello di Stiles coincideva soltanto con il medio destro,
come sapeva, essendone stato testimone, che quello dell’Hale si incastrava
perfettamente su quella falange specifica, rifiutando tutti gli altri. In più
Lydia parlava molto quando qualcosa di eclatante e sconvolgente avveniva e
Malia aveva proferito qualcosa riguardante
attacco di panico e Derek quando
se l’era ritrovata davanti per condurlo da Stiles. E Stiles non si perdeva in
qualcosa come un attacco di panico per qualcosa di poco serio e l’assenza di
Derek e lo scambio degli anelli erano la cosa più seria e tangibile che potesse
affrontare in quel momento.
Il figlio dello sceriffo sospirò affranto e distrutto, muovendo la mano
colpevole e mettendo in evidenza il cerchio metallico che troneggiava
indisturbato. «In parte è colpa mia. Ero troppo andato per rendermi conto di
cosa stava accadendo e l’ho preso senza pensarci seriamente, ma non avevo
questa intenzione. Non avevo alcuna intenzione» l’immagine era indelebile, la
domanda che aveva formulato rimbombava nei timpani, perforandogli il nervo
acustico ed aveva ancora impressa l’espressione sgomenta, magistralmente
trattenuta, del lupo che lo seguiva passo dopo passo. «Deve essergli scattato
qualcosa in quel momento».
Scott lo ascoltò in silenzio, insieme a Malia che non si era mossa, se non
per sistemarsi inizialmente dal lato opposto dell’anticamera, sedendosi sul
pavimento per imitazione; era una buona presenza pacifica la sua.
«Non riesco a toglierlo» dichiarò il figlio dello sceriffo con voce lontana
e combattuta, accarezzando la triscele intagliata con il mignolo che gli era
accanto, imponendosi di non dargli maggior contatto. «Più lo guardo, più non
riesco a togliermelo» lo sapeva che era suo, che era di sua proprietà, che lo
stava aspettando da tempo e che l’aveva reclamato da quando l’aveva incontrato
la prima volta. Il suo abbraccio caldo e confortevole era qualcosa che ancora
gli inebriava il cervello e che lo faceva volare lontano. Separarsene era
l’ultima cosa che desiderava. «Non so che cosa devo fare».
«Sei confuso, lo capisco» disse il messicano in soccorso, vedendo
manifestarsi una nuova crisi che non era mai andata via. «Ma non è qualcosa che
devi affrontare nell’immediato».
«No, no» protestò con diniego il figlio dello sceriffo, rimandando indietro
le parole del suo migliore amico. «Lui…» inspirò profondamente per la prima
volta in quei minuti, sentendo la trachea dilatarsi e la fruizione
dell’ossigeno che procedeva senza troppi intoppi. «Lui sapeva già tutto di me»
ed era lampante ed evidente e l’aveva costantemente avuto sotto gli occhi,
senza fatica e ben visibile. Derek non era mai riuscito a nasconderglielo
seriamente, perché non riusciva a farlo.
«Lui sapeva già tutto di te» era una conferma, una conferma che conoscevano
entrambi e tutti quelli che li circondavano, ma lo stavano realizzando soltanto
in quell’occasione. «È strano essere dall’altra parte» proferì il messicano con
leggerezza ed una piccola nota di divertimento, ben consapevole che quel ruolo
di osservatori esterni gli era sempre calzato a pennello, soprattutto a Stiles
che ne aveva fatto un’arte. Ma era evidente che Derek Hale l’avesse
completamente battuto a mani basse.
«Quel lupo stalker spelacchiato» borbottò Stiles risentito, inveendogli
contro e sbuffando con risentimento anche se lui non era lì per vederlo. «Non
ho nemmeno il suo numero. Non posso sommergerlo di messaggi pieni di insulti o
di messaggi vocali o di qualsiasi mezzo per insultarlo spietatamente» ah,
l’avrebbe fatto, l’avrebbe fatto eccome, gliene avrebbe dette talmente tante
guidato dall’impulso della situazione e se ne sarebbe pentito subito dopo, a
cosa fatta.
«Non credo mancheranno occasioni» proferì con condiscendenza la sua
controparte, ben consapevole che al rientro del capitano della squadra di
basket la situazione si sarebbe fatta più impegnativa.
Stiles si guardò intorno, con gli occhi ancora umidi ed un po’ appannati,
ripiegando le gambe contro se stesso e gettando un’occhiata accennata alla
parte in cui si trovava Malia. «E se stessi sbagliando? Se stessi prendendo una
cantonata? Se lui non fosse minimamente interessato a me?» l’agitazione stava
tornando, il timore lo stava investendo e l’ansia e la paura di commettere
errori erano dietro l’angolo e stavano insorgendo. «Non so niente, non ho
niente, se non deduzioni ed indizi sparsi qua e là, ma potrebbero essere
errati, potrei aver frainteso. Potrebbe essere la più grande batosta della mia
vita».
Scott l’osservò dall’alto, in una posizione più privilegiata e composta,
del tutto opposta a quella scomposta ed arruffata del suo migliore amico, che
invece di uscire da quella voragine oscura in cui stava cadendo, vi si buttava
a capofitto. «Allora sarà una batosta che affronteremo insieme».
Stiles sospirò esausto e privo di forze, abbracciando le gambe ed
abbandonandovi il capo, nascondendo appena la testa e voltandosi leggermente
verso di lui, per incontrare i suoi occhi castani e calmi. Era nettamente
difficile che Scott perdesse la calma e si lasciasse trascinare dagli eventi,
al contrario di lui che si faceva cogliere impreparato da ogni raffica di vento
e si perdeva nelle tempeste; la sua àncora di salvataggio era al suo fianco e
l’altra era troppo lontana. «Lui non è qui, adesso, ed io non so come
interpretarlo» tornava sempre lì, era il suo chiodo fisso perché aveva due
semplici scelte: o Derek era davvero un codardo cronico o in realtà non gli
importava di lui.
«Non è stata una decisione improvvisa» si intromise la coyote mannara senza
pensarci due volte, entrando nella conversazione con il suo impeto
incontrollato e gestito dall’istinto, richiamando l’attenzione dei due ragazzi
che si trovavano nell’anticamera dello spogliatoio di lacrosse, che in
quell’istante gli lanciavano delle occhiate interrogative ed ansiose. «Aveva
progettato questo viaggio da qualche settimana, anche se non ne era
particolarmente entusiasta» ma era una cosa che doveva fare, perché i tempi
erano stretti e quella era la sua ultima occasione. «Non era una cosa
premeditata» abbandonarti in questo modo.
Stiles la guardò con interesse nuovo, più indagatore che giudizioso e la
scrutò come se gli stesse nascondendo qualcosa. «Perché non è partito prima?
Perché si è ridotto all’ultimo minuto?» perché
non mi ha detto niente?
Malia si sentiva un po’ sotto accusa, sotto corte marziale, anche se
probabilmente non era una cosa completamente voluta da Stiles, ma le azioni di
suo cugino l’avevano destabilizzato così tanto, che gli era difficile riuscire
a rimanere imparziale e non sondare ogni terreno; credere che tutti gli
omettessero qualcosa che era sempre stato in bella vista. «Non voleva allontanarsi».
Le iridi d’ambrosia la guardavano con estraniazione e le orecchie di Stiles
si protesero così tanto che avrebbe potuto udire tutto quello che accadeva
oltre le mura che li circondavano. «Perché?».
Gli occhi di Malia lo guardarono con intensità, con la risposta chiara che
emergeva a grandi lettere, senza che potessero esserci fraintendimenti. «Non
riesci ad immaginarlo?».
Non voleva allontanarsi da te, quello era un duro colpo da digerire e non
aiutava la sua psiche, forse era una manna dal cielo per la sua autostima, ma
non l’agevolava in alcun modo a saper reagire davanti a quella serie di eventi,
a quelle rivelazioni che gli piovevano addosso.
Le labbra di Scott si curvarono liete verso l’alto, rilassando la schiena e
le spalle, osservando con attenzione tutto quello che si trovava intorno a
loro. «Forse non prenderemo alcuna batosta».
Vorrei mettermi a
ridere o ad imprecare. Una delle due o tutte insieme. Soprattutto dopo il
finale di stagione che abbiamo appena avuto ed in cui dovremmo rifarci.
Questa fanfcition è troppo tempestiva nella sua ironia.
Quando le cose stanno
per prendere una direzione diversa, che finalmente si evolve, in cui servono
chiarimenti e spiegazioni, cosa succede? Derek non è lì.
Sì, è un capitolo in
cui manca completamente la figura di Derek, ma direi che si sente abbastanza la
sua presenza e se ne parli anche troppo.
Stiles è in un
momento difficile, un momento in cui ha troppe domande, dove tutto gli è stato
presentato agli occhi senza chiedergli il permesso e nel momento in cui meno se
lo sarebbe aspettato. È messo davanti ad una situazione che lo sconcerta e con
una prova evidente che parla sulla sua mano sinistra, quella che pensava non
sarebbe più stata toccata anche se lo desiderava.
Non avere lì Derek lo
soffoca, la destabilizza e gli fa perdere il contatto con la realtà, perché non
ha lì colui con cui dovrebbe confrontarsi, ma allo stesso tempo è circondato da
persone che sanno, ma non parlano.
Le briciole di pane
non posso aiutarlo e Stiles è costretto ad aspettare ancora, con indosso un
anello che lo lega a Derek. In modo totale.
Il brusio all’interno di un istituto scolastico era normale e quasi
obbligatorio e quando cadeva il silenzio c’era sempre qualcosa che non andava.
Ma era anche vero che il mormorio costante delle voci degli studenti si
alzava parecchio quando Stiles Stilinski e Derek Hale si trovavano nella stessa
area, ai due poli opposti di un’ala, anche se non si stavano guardando e non
interagivano in alcun modo.
Ma erano esattamente tre giorni che non vedevano il capitano della squadra
di basket percorrere i corridoi del liceo di Beacon Hills e il ragazzino
iperattivo e logorroico per eccellenza che si rapportava con lui, eppure ne
erano accadute di cose in quel frangente di settantadue ore e Derek Hale,
benché non si fosse visto per tutto quel tempo, ma fosse giustificato ad ogni
sua assenza per quelle tre mattine, si stava dirigendo proprio verso la figura
del figlio dello sceriffo che non lo degnava di alcuno sguardo e che, al
contrario, era concentrato su Erica Reyes che parlava
spensieratamente con lui e con Malia Hale che appariva come un corvo
appollaiato sulla sua spalla che scandagliava tutto ciò che vi era intorno e
che minacciava con i suoi occhi neri di non avvicinarsi e toccarlo, o che si
comportava come un canide che proteggeva il suo padrone; in entrambi i casi, il
messaggio era chiaro e comunicava di stargli alla larga.
«Sono sicura che li farai neri, mio caro Cappuccetto Rosso» disse la bionda
con convinzione e leggera malizia, ammiccando come suo tratto distintivo e non
sconvolgendo in alcun modo il ragazzo che si parava dinnanzi a lei e con cui
aveva passato quei giorni senza che qualcuno del branco o dei suoi amici lo
lasciasse veramente solo.
La voce di Erica entrò subito a contatto con il nervo acustico del lupo
mannaro, senza sapere in alcun modo di cosa stessero parlando e rimanendo del
tutto estraneo – c’era una partita in ballo? Stiles aveva ottenuto con un colpo
di fortuna la possibilità di giocare come titolare? –, e Derek fu spinto con
maggiore premura a raggiungere il trio che si estendeva davanti agli armadietti
del sedicenne, prima che la campanella di inizio giornata suonasse del tutto.
«Ciao» e Derek era proprio lì, esattamente in quel punto, dove gli occhi
delle due ragazze e dell’umano potevano vederlo, ad un passo da loro, con la
minima distanza di spazio personale che a volte esisteva ancora tra lui e
Stiles – più agli occhi degli esterni, che quando erano nel loro regno privato
– e che in quel momento sorgeva come una vetta irraggiungibile ed in scalabile,
dove la cima non si mostrava nemmeno, nascosta dalle nuvole basse che la
inghiottivano e che allontanavano la visione della meta.
Erica lo intercettò immediatamente, come la coyote mannara, spostando lo
sguardo su di lui, senza che ce ne fosse davvero bisogno, considerando che
entrambe erano a conoscenza del suo rientro; soprattutto l’ultima con cui
condivideva la casa. Derek non era minimamente interessato a loro, non voleva
salutarle e non vi era alcuna ragione per cui avrebbe dovuto farlo; tutto
quello era per Stiles. Piedi di piombo che forse non sarebbero bastati.
La schiena del figlio dello sceriffo si irrigidì immediatamente al suono della
sua voce e, ancora estraneo alla sua presenza lì – benché fosse molto bravo con
i calcoli, soprattutto quelli semplici – ed indirizzato verso altre sponde, non
poté negare la figura che si instaurava davanti a lui, richiamando tutta la sua
attenzione ed accarezzandogli i timpani con la voce modulata, adeguata e con
quel riguardo che voleva mostrare soltanto in quel momento.
Le perle d’ambra si scostarono da quelle nocciola della lupa mannara e si
posarono in quelle verde bosco, guardandolo per un attimo di sfuggita e
chiudendo l’anta dell’armadietto di metallo in un tonfo sordo, troppo
controllato e fittizio. «Ciao, Erica. Malia» perfino le sue iridi contenevano
il vuoto e l’accanimento che fremeva dentro di lui, graffiandogli il torace e
sospingendolo verso il basso, senza permettergli di emergere in superficie.
«Derek» era come se non lo vedesse neanche, cieco al cospetto del lupo che si
sarebbe prostrato ai suoi piedi. Era un sassolino fastidioso nella scarpa di
cui disfarsi e di cui si sarebbe dimenticato nell’immediato.
Sparì in un vortice fin troppo aggraziato per lui, ma degno della sua
natura di volpe rossa, sotto gli occhi sgomenti del licantropo, a corto di
quelle poche parole che avrebbe dovuto avere per Stiles.
Fu istintivo per lui voltarsi verso la lupa mannara e la ragazza sedicenne,
che aveva ignorato dal primo minuto in cui aveva messo piede sul territorio
scolastico, ricevendo da entrambe un’occhiata di rimprovero pressante ed una
più mirata ed accentuata da parte della coyote completa.
Non aveva bisogno di interpretazioni o spiegazioni aggiuntive per capire il
guaio in cui si era cacciato.
Stiles era sul tetto dell’istituto scolastico, osservando il paesaggio che
si espandeva davanti agli occhi e con il sole che si impegnava a raggiungere il
picco nel cielo, illuminando quella parte di pianeta per poi sorgere in quella
opposta.
Aveva saltato la prima ora di lezione.
Dopo essersi lasciato Derek alle spalle ed essere stato investito dalle
miriadi di emozioni e sensazioni che si scontravano tutte tra loro e che lo
stordivano, portandolo a non comprendere più alcun pensiero ed a distinguerlo
dall’altro, tentando di affogarlo e di sommergerlo con quel tornado che voleva
risucchiarlo, non era nemmeno riuscito a raggiungere la classe, lasciandosi
sorpassare dai suoi compagni e vedendoli entrarvi tutti dentro.
Era rimasto a fissare gli infissi della porta, ancora aperta ed intenta ad
accoglierlo, pronta per chiuderlo dietro di sé e trascinarlo in una nuova
lezione, tentando invano di distrarlo. Ma come uno stoccafisso non aveva mosso
un passo e, con ancora la cartella al seguito ed i due libri che teneva in
mano, l’aveva osservata spaesato, prima di voltarsi e lasciarla indietro. Non
era riuscito a tornare sui propri passi.
Sospirò con abbandono e la presenza di Derek Hale non era mai stata così
reale.
Derek era lì, era tornato e non era minimamente colpito dagli eventi che si
erano sviluppati tra loro e per quanto avesse voluto odiarlo e riempirlo delle
parole più cattive che potessero venirgli alla mente, non riusciva a smettere
di pensarlo. E come uno sciocco si era rintanato nel luogo che li aveva visti
protagonisti molto spesso.
Era lì il primo momento in cui aveva appreso che per Derek Hale esisteva
una persona così importante da far impallidire tutto il resto e che ne era così
innamorato e perso da non prestare attenzione a ciò che lo circondava,
tagliandolo completamente fuori.
Era lì che era stato testimone per la prima volta della sua reale natura di
lupo mannaro, con gli occhi blu metallico e gli artigli, scalpitando contro se
stesso e chiudendosi a riccio, come se quella posizione potesse aiutarlo a
controllarsi meglio. Quella notte rappresentava il loro vero inizio, un inizio
che Stiles non si era lasciato scappare, che non avrebbe mai permesso che
scappasse, tendendogli una mano e trascinandolo con sé. Ma non sarebbe stato
possibile se Derek Hale non fosse stato del tutto incapace di dirgli di no.
Ed era lì che era avvenuto il loro primo vero pranzo insieme e con quello
ne erano susseguiti molti altri e altri ancora, che si espansero alla tavola
della mensa, trasportando i loro rispettivi gruppi, e ritagliandosi dei momenti
particolari in cui percorrevano le scale insieme o separatamente,
ricongiungendosi esattamente su quel tetto per condividere quei piccoli momenti
che riuscivano a ritagliarsi perfino in quelle fasce orarie così invivibili e
sempre affollate.
Era stata una pessima mossa nascondersi su quella terrazza, ma erano tre
giorni che vi soggiornava regolarmente.
Era stata una terribile mossa nascondersi da Derek Hale.
Fu quando concepì quel pensiero a cui non poteva sfuggire, che sentì la
porta aprirsi e chiudersi qualche attimo più tardi, accompagnata con leggerezza
e con la cura di non fare troppo rumore; se fosse stata lasciata a se stessa il
tonfo metallico sarebbe echeggiato per tutto il circondato e non vi sarebbe
stata alcuna sorpresa.
Sorpresa che in Stiles non esisteva.
Non si voltò, non osò farlo; si vietò violentemente di non commettere
un’azione tanto sciocca e restò statuario nella posizione in cui si trovava,
affacciato al muretto che circondava tutta la terrazza dell’edificio e con lo
zaino abbandonato ai suoi piedi, in posizione precaria e del tutto instabile;
non se ne curava minimamente. «Per quali college hai fatto domanda» non era
un’interrogazione o una richiesta innocente, era qualcosa che doveva sapere,
qualcosa di essenziale ed evidente di cui doveva entrare in possesso; conoscere
finalmente la risposta che il capitano della squadra di basket si era sempre
tenuto per sé, riempiendolo di mezze parole che non dicevano quasi niente e che
l’avevano tormentato per giorni, settimane, fino a fargli sbattere il cranio
violentemente contro una parete di cemento solido con una terribile verità che
non era nata dalla voce del lupo mannaro, ma che era giunta da qualcun altro,
facendogli crollare la terra sotto i piedi.
Derek era immobile dietro di lui, a distanza di sicurezza, che non era
costituita da qualche centimetro, ma da più di un metro ed improvvisamente si
rese conto che era il divario più grande che si fosse posto tra loro per tutto
quel tempo, da quando erano quasi diventati una cosa sola. «HofstraUniversity, Suny, St. John'sUniversity, Le Moyne College, St. Louis, University
of California, Florida State University e tutte
quelle che hai nominato anche una sola volta».
L’elenco era immenso, Stiles ne possedeva uno
dettagliato ed accurato, con note sparse per tutto il raccoglitore, con fattori
positivi e negativi. I nomi che Derek aveva pronunciato, stilando una lista
breve e concisa, facendo emergere quelli che meritavano più attenzione, erano
solo una piccola parte di un grande insieme che Stiles conosceva perfettamente
e che a quanto pareva, conosceva bene anche il mannaro e il figlio dello sceriffo
si chiese quali potessero essere le università che aveva nominato anche una
sola volta. «Florida, Derek?» era il luogo che meno si sposava con il lupo
completo.
«Nebraska, se preferisci» proferì senza vergogna il playmaker, come se
tutto quello non lo scalfisse minimamente e fosse completamente immune; come se
una follia come quella non fosse in agguato e non fosse stato proprio lui a
metterla in atto. Era la cosa più naturale che potesse fare.
«Dio mio, Derek!» esclamò allibito l’umano, voltandosi con eccessiva
velocità verso di lui e mostrandogli i suoi occhi sgranati ed increduli – il
Nebraska era l’ultima spiaggia, come il Canada. «Fai sul serio? Sei serio?».
«Sì» asserì il licantropo senza scomporsi, serio come lo era sempre stato
ed implacabile agli avvenimenti.
«Dimmi che stai scherzando» ribadì il figlio dello sceriffo, con quella
nota di supplica che emergeva incontrastata, guardandolo con insistenza. «Dimmi
che stai scherzando».
Lo scherzo non era qualcosa che caratterizzava il mutaforma in alcun modo,
era quasi da pazzi aspettarsi una cosa del genere, ma Derek rimase a ricambiare
il suo sguardo fermo ed immobile, carico di ogni risposta e le vene si
congelarono all’istante. «Stiles-».
«No! No, no» lo ammonì immediatamente l’umano, zittendolo prima che potesse
continuare e togliendogli la parola. «Non puoi. Non puoi fare questo. Non puoi
essere così sconsiderato» l’aria arrancava nei polmoni ed il bisogno di
respirare tornò a graffiare e squarciare, impedendogli di trovare un nuovo
sbocco. «Non puoi progettare la tua vita su di me».
«Non c’era alcun progetto prima di te» rivelò lapidario e veritiero, con il
passato che tornava a farsi sentire e la vita che Derek aveva permesso
scivolasse via, sbattendo la testa dove non avrebbe dovuto e vivendo nell’indifferenza
pura verso se stesso e gli altri.
Stiles dilatò le pupille e l’annaspamento era così vicino e sentito che non
avrebbe mai potuto nasconderlo. «Non mi aiuti, Derek. In questo modo non mi sei
di alcun aiuto».
Il lupo lo guardò a lungo, in silenzio, fermo nella sua posa perfetta al
centro del tetto dell’istituto scolastico e non sbavava il suo portamento in
alcun modo. «Volevi la verità, è questa la verità».
«Quale verità? Io non la conosco. Non so quale sia, che cosa dovrei dire e
cosa dovrei fare. E tu…» Stiles si agitò nell’immediato, colpito e dirottato,
con il torace che si contraeva ed i polmoni che bruciavano. Tutto bruciava: la
testa, le mani, gli occhi e la bocca e stava esplodendo e il panico stava
dilagando e le troppe informazioni si stavano raggruppando tutte in quel
momento, pulsando dentro il cranio. «Tu hai… hai spedito le domande
d’ammissione lo scorso anno. Lo scorso anno!» sapeva a malapena chi fosse Derek
Hale l’anno precedente, le loro vite non si erano mai incontrate; eccetto
durante gli allenamenti di basket in cui ambedue erano dediti a ben altro e non
prestavano attenzione a ciò che li circondava. I loro sguardi si erano
incrociati così poche volte in quelle occasioni, da contare la rarità estrema
e… «C’erano già tutti? Tutti i nomi della mia lista?» ed era tutta una bugia.
«La maggior parte» ed era evidente che i college che figuravano nei primi
cinque posti – dieci e venti – tra le scelte di Stiles fossero state le prime
domande ad essere stilate e spedite.
«Sei incredibile» perché Derek Hale non si era limitato a spedire le
domande in un’unica volta, ma le aveva inviate in due momenti differenti,
dividendoli tra la fine del terzo anno e l’inizio del quarto, come se potesse
perderne qualcuna, lasciarsi sfuggire un nome e perdere un’occasione mancata.
Nella sua fretta, temperamento e precipitazione degli eventi, guidato dalla sua
impulsività, il mannaro era comunque consapevole di dove stesse andando e delle
scelte che avrebbe dovuto compiere; manteneva un cuscinetto quasi inesistente
di sicurezza, ma anche quello non era per se stesso. «Ed è un insulto» il
mutaforma non doveva provare in alcun modo a fraintenderlo.
«Mi sento profondamente insultato» proferì il lupo completo in risposta con
la stessa cadenza speziata e burlona con cui gliel’aveva comunicato in un tempo
passato, quando erano ancora agli inizi e quella era stata la loro prima vera
conversazione, tra un ribecco e l’altro.
Il figlio dello sceriffo trasse un profondo respiro, annusando quella nota
più leggera che alleviava l’animo e rendeva tutto più vivibile, calmando la
bestia che affilava le unghie nella sua gabbia toracica. «Che cosa devo fare
con te, Der?».
«Devi permettermi di seguire il mio progetto» come se tutto dipendesse da
Stiles e ad una sua sola parola contraria avrebbe mandato tutto all’aria.
L’avrebbe fatto sul serio?
«È un’assurdità, Derek. Lo sai, vero?» non doveva nemmeno domandarglielo,
nemmeno provare a ragionarci; avrebbe dovuto stroncarlo sul nascere, impedirgli
di fare qualcosa di così avventato da segnarlo per sempre.
«Non lo è per me» disse candidamente il licantropo, senza che vedesse la
calamità in cui si stava gettando di propria iniziativa, come se l’avesse già
scartata o non l’avesse nemmeno presa in considerazione. Ma Stiles sapeva bene
che Derek non era così avventato ed incauto, anche se era la strada che aveva
scelto.
«Quando? Come? Com’è potuto accadere?» domandò l’umano alla sua risposta,
facendo risuonare per l’ennesima volta come follia pura le parole del lupo
mannaro che aveva abbandonato la razionalità chissà quanto tempo prima.
«Non hai mai voluto chiedermelo» non vi era alcuna accusa nella voce del
capitano della squadra di basket, ma era un’attenta descrizione dei fatti che
si erano sempre posti tra loro, non permettendo mai che quella domanda fosse espressa a voce alta, mettendo tutto nero su
bianco ed affermando ciò che aleggiava nell’intreccio delle due vite che
avevano unito; il concreto era stato messo di lato e Derek non gliene aveva mai
fatto una colpa.
«Come avrei potuto? Credi che sia così eccentrico e pieno di me da averne
la certezza? Credi che abbia le carte per averne la sicurezza? Che me ne
compiaccia e ci sguazzi dentro?» Stiles si irrigidì immediatamente, mettendosi
in posizione di difesa e lasciando emergere la furia che ancora si portava
dentro e che non aveva completamente esternato, cambiando il colore limpido
delle iridi d’ambrosia con uno più scuro. «Non ho niente. Continuo a non avere
niente. Le mie deduzioni, intuizioni e tutto quello che ti sei fatto scappare
in tutto questo tempo non sono delle prove valide. Non sono degli elementi
concreti su cui possa basarmi, su cui possa trarre delle conclusioni» la
trachea si chiuse di nuovo ed il fiume di parole gli si bloccò in gola,
galleggiando nell’esofago ed ostruendogli tutte le vie respiratorie. «Posso
sbagliarmi. Posso aver frainteso tutto. Posso essermi costruito una realtà illusoria
che non esiste e non esisterà mai, perché ho un’immaginazione così elevata che
non posso controllarla» singhiozzò frammentato, tirando la voce e chiudendo le
dita di una mano in un pugno, da dove brillò l’anello che soggiornava ancora
sull’anulare sinistro. «Posso aver sbagliato tutto. Potrebbe essere l’errore
più grande della mia vita».
Derek era ad un soffio da lui e lo lambiva con il suo respiro, impedendosi
di toccarlo con il proprio corpo, azzerando tutte le barriere che esistevano
tra loro. A volte non era un bene che possedesse le abilità di un lupo mannaro;
affatto. «Chiedimelo e basta».
Stiles ingrandì gli occhi, trovandolo ad una spanna di distanza,
osservandolo dall’alto e scrutando con attenzione le iridi di giada. In quegli
specchi boscosi vi era riflesso soltanto lui. «Derek».
Le dita calde del diciottenne salirono lentamente, solleticando l’aria
esattamente come facevano quelle di Stiles quand’era agitato o gli sfuggiva
qualcosa, ma le falangi del lupo volevano afferrare e colmare il divario che si
era creato tra loro, annullare i centimetri che si frapponevano tra i due corpi
e sfiorargli la pelle. Ed accadde esattamente quello quando allungò le dita e
gli lambì il viso, risalendo verso una delle ciocche di capelli castani che si
paravano durante il suo percorso, immergendole completamente nella chioma.
«Chiedimelo e basta».
Le palpebre del figlio dello sceriffo si socchiusero appena, vezzeggiato
dal tocco del lupo ed erano trascorsi cinque giorni, cinque lunghi giorni
d’agonia dall’ultima volta che aveva sentito la temperatura corporea del
mannaro entrare in contatto con la propria, invadendogli tutto l’organismo. Era
così facile, sembrava così facile. «Sei innamorato di me?».
«Sono innamorato di te» ammise Derek senza remore alcuna, alzandogli di
qualche millimetro il capo e guardandolo dritto nelle perle d’ambra pura,
investendolo di tutto il sentimento che provava per lui. «Sono innamorato di te
dal tuo primo giorno da liceale. Da quando hai varcato la soglia dell’ingresso
principale ed eri carico e timoroso di affrontare qualcosa di nuovo,
accompagnato dal tuo migliore amico che avresti trascinato ovunque, non
permettendogli di fermarsi o rallentare» Stiles non ricordava nemmeno il suo
primo giorno di scuola, quando aveva percorso le scale e si era buttato a
capofitto dentro l’istituto, afferrando Scott con lui ed avviandosi con
sovraeccitazione verso l’ubicazione degli armadietti, che si trovavano ai lati
opposti e non erano combaciati nemmeno l’anno successivo. La consolazione
l’aveva trovata nel frequentare buona parte dei corsi con il messicano,
soprattutto il primo giorno, poi tutto il resto si era susseguito con
regolarità e dimenticando quell’entusiasmo iniziale che l’accompagnava in ben
altre cose; Derek non l’aveva dimenticato affatto. «Sono innamorato di te dal
momento in cui ho visto l’anello brillare sulla tua mano, trattandolo come se
fosse la cosa più importante del mondo, dedicandogli attenzioni particolari e
proteggendolo dalle avversità esterne, mentre il mio l’avevo rifiutato e
rinnegato» l’amarezza emerse malvagia nella formulazione delle ultime parole,
mettendo in evidenza l’avversione che aveva provato e provava verso se stesso,
avendo rigettato quello che avrebbe rappresentato qualcosa di fondamentale ed
un legame perpetuo, che si sarebbe instaurato all’insaputa di entrambi. «Sono
innamorato di te da quando sono venuto a conoscenza della tua esistenza».
Stiles impallidì ad ogni parola, una dopo l’altra, tramortito da una verità
che non aveva nemmeno preso in considerazione e di cui era completamente
estraneo, messo al corrente di scenari che non aveva mai ipotizzato, ma di cui
era stato protagonista. Era rimasto sotto il suo sguardo per tutto quel tempo e
lui non se n’era mai accorto. «Io credevo… ti avevo chiesto di aspettare, di
darmi ancora un po’ di tempo e pensavo saresti stato disposto a darmelo, ma tu
sei andato via, senza dirmi niente, senza una parola e pensavo non ti
importasse nulla di me, che avevo sbagliato e che avevo parlato troppo e che
non avessi interpretato correttamente i tuoi gesti e le tue parole» ma non
aveva capito niente. Proprio niente. «Due anni. Sono quasi due anni che tu…» si
stozzò senza nemmeno accorgersene e sbatté le palpebre per cacciare indietro il
liquido che gli riempiva le iridi, annebbiandogli la vista e facendogli vedere
sfocato. Non era qualcosa che gli serviva, doveva essere vigile ed osservare
tutto nel pieno possesso delle sue facoltà. «Sono io, sono sempre stato io.
Abbiamo parlato sempre di me» e fu in quel preciso istante che la persona tanto
speciale per Derek Hale ebbe un volto, un volto che Stiles si era sempre
imposto di non associare.
«Sì» affermò il lupo completo con autenticità, ben consapevole che non ve
ne fosse bisogno, ma per quanto l’umano fosse capace di trarre le conclusioni
da solo, fornendo schermi, parole, prove e tratti evidenti, con un’ottima base
di ragionamento ed un’argomentazione valida, aveva sempre e comunque bisogno di
conferme.
Come risvegliato, Stiles scurì lo sguardo e si scostò dalla presa leggera
del mannaro che avrebbe voluto tenerlo con sé, come aveva sempre manifestato,
ma che in quel momento quel gesto risuonava in modo diverso. Tutto aveva un
suono differente. «Ero così arrabbiato con te. Sono così furioso con te e vuoi
passare altri due anni ad aspettarmi. A sperare di vedermi, a trovarmi
semplicemente nella tua orbita, in ogni modo ti venga consentito» non ci voleva
un genio per capire le intenzioni che il lupo aveva avuto nei suoi riguardi, il
progetto di seguirlo anticipandolo. Di andare ovunque potesse sentire la sua
presenza, anche se era un fiocco di neve sciolto ed inconsistente, un fantasma
della sua persona. Derek si sarebbe accontentato di quello, avrebbe vissuto per
quel legame fittizio e senza sbocchi.
Ma esistevano troppe variabili, troppi impedimenti e possibilità mancate.
Derek avrebbe potuto attendere molto più di un paio d’anni e forse aspettare
per sempre.
Se non fossero stati accettati entrambi allo stesso college il traguardo
dei due anni sarebbe sembrata una bazzecola ed un’attesa che non sarebbe
servita a nulla. Stiles avrebbe potuto non raggiungerlo mai.
Era proprio per quel motivo che l’inseguimento perpetuo che aveva
instaurato nella figura del figlio dello sceriffo non si limitava alle sue
prime scelte, ma ad ogni possibilità che lo ancorasse a lui. Era la cosa più
morbosa e pericolosa che potesse capitare ed era guidato dal lupo che viveva
dentro di sé. Era Stiles la persona che Derek aveva scelto di amare come un
lupo vero.
«Non ho bisogno del tuo permesso» ribatté prontamente il capitano della
squadra di basket, ingessandosi e lanciandogli un’occhiata ostile, del tutto
disinteressato ai rimproveri che l’umano aveva in mente per lui, ben
consapevole che ce ne fossero molti e tutti per motivi differenti e che quella
fase non sarebbe scemata con tanta leggerezza. Stiles l’avrebbe ripreso ogni
volta, forse per tutta la vita.
«Dovevi dirmelo!» esclamò adirato l’umano, sbattendo i piedi per terra e
serrando la mascella, ricambiandolo con lo stesso sguardo ostile che non doveva
nemmeno permettersi di avere. «Dovevi dirmi che eri innamorato di me. Dovevi
dirmi che era me che stavi inseguendo. Dovevi dirmi che era me che volevi» la
rabbia stava crescendo, insieme alla furia e al temperamento aggressivo che
sarebbe sfociato di lì a poco se non avesse cominciato ad imparare a
contenerlo. E c’era tanto rimpianto al limite di quei rimproveri, che celava
dietro il risentimento che provava verso il licantropo e la sua mancanza di
coraggio. «Non hai detto niente. Perché non mi ha detto niente? Non hai nemmeno
mai provato ad avvicinarti» per più di un anno il capitano si era tenuto
lontano da lui, senza provare neanche a sfiorarlo, ad urtarlo o ad imbattersi
casualmente in lui. Era stato Stiles stesso ad inciampare in Derek Hale l’anno
successivo.
«Ero inesistente ai tuoi occhi» svelò la creatura della notte come unica
risposta delle proprie azioni, guidate da un muro che non avrebbe mai potuto
abbattere e che si rivelava troppo ripido da scalare, impedendogli anche di
tentare. «Non ero niente per te» non avrebbe mai osato avvicinarsi.
Stiles fu colpito in pieno petto, scagliato dall’altra parte del pianeta ed
atterrando così lontano da essergli impossibile vederlo. Era il colpo peggiore
che avesse potuto ricevere. «Sei stato il mio mondo per mesi. Sei entrato nella
mia vita ed io sono entrato nella tua. Sono precipitato nella tua vera natura e
nella realtà in cui vivi e sono rimasto e ne ho goduto ed ho amato tutto. Ogni
cosa» era qualcosa di cui entrambi erano a conoscenza, era una verità che li
aveva accompagnati dal loro primo incontro e che avevano ignorato di comune
accordo e Stiles sapeva bene che il freno che Derek si era dato, impedendosi di
interagire con lui e svelargli ciò che provava, era guidato da ben altro e dal
fantasma di Paige che si portava dietro con tutte le conseguenze annesse. Con
la paura costante che potesse sbagliare e perderlo, metterlo in un pericolo
così grande che scaturiva da lui stesso e dal sovrannaturale che lo circondava.
Stiles l’aveva visto, ne era stato testimone, aveva visto Derek sbriciolarsi
alla sola idea che potessero portarglielo via ed aveva reagito in modo
avventato ed aggressivo verso la minaccia che aveva riconosciuto come tale –
era perfino diventato un lupo completo per lui –, benché nessuno conoscesse
l’esistenza dell’umano, eccetto il branco. Ma il sospetto ed il tormento erano
qualcosa che non avrebbero mai lasciato l’anima ferita del lupo mannaro e non
si sarebbe mai perdonato se fosse accaduto qualcosa a Stiles. Qualunque sua
azione era rivolta soltanto alla sua protezione e si era imposto di non
sfiorarlo mai nemmeno con un dito. «Ti vedo e sei importante per me» Stiles si
avvicinò ed azzerò quel divario che era stato lui stesso a creare, afferrandogli
la mano e tenendola tra la propria. «Sei tutto il mio mondo adesso» e Derek era
stato trattenuto anche dalla confusione che si era instaurata nella mente
dell’umano, dalla confusione della natura dei sentimenti che provava per lui;
Stiles era sempre stato lontano da una risposta concreta.
Derek non distoglieva gli occhi dai suoi, rimanendo immobile e fermo
esattamente nel punto in cui si era congiunto all’umano, assottigliando la
distanza che inferzava tra di loro ed accorrendo in suo aiuto, liberandolo ancora
una volta dal peso eccessivo che si portava sulle spalle ed aprendogli le vie
respiratorie, ma non accennava ad un qualche tipo di reazione.
«Lo capisci, Derek?» chiese retoricamente il figlio dello sceriffo,
assicurandosi che il lupo lo stesse ancora seguendo e gli stesse prestando la
sua attenzione, ascoltando le sue parole e le confessioni che continuava a
donargli, senza più trattenersi o eclissarsi, nascondere la testa sotto la
sabbia o celare la verità che non aveva mai osato rivelargli. «Porto ancora il
tuo anello; un anello che combacia con il mio e che ha entrambi creato tua
sorella» era una cosa con cui aveva fatto i conti, era una coincidenza che non
poteva essere ignorata ed era una certezza in cui si era andato ad imbattere
dopo che Derek li aveva scambiati una volta per tutte, rivelando le reali
posizioni di ambedue, senza lasciare alcun equivoco. «Porto ancora questo
anello, che tu mi hai affidato mettendomi con le spalle al muro, perché non
riesco a separarmene. Perché non riesco a separarmi da te» le dita si
intrecciarono automaticamente a quelle del mannaro, scivolando completamente
sotto di lui e catturando la totale attenzione che gli era già dedita. «Sei
tutto il mio mondo, Derek».
Le dita del lupo salirono con meno lentezza della prima volta, ma con più
delicatezza, solleticandogli la pelle della guancia destra e poggiandovi a
palmo aperto la mano sinistra, da cui brillava nefasto il tanto decantato
anello che gli circondava l’anulare e che non sembrava averlo estratto in alcun
modo ed in alcuna occasione da quando ne era entrato in possesso. «Tu sei il
mio» e Stiles si sentì rinato.
Laura entrò come un tornado nella camera del fratello minore, piantandosi
proprio davanti a lui ed infischiandosene dei vari divieti appesi dal lato della
porta esterna e di quelli verbali che il mannaro si era premurato di comunicare
con un ruggito precedentemente. «Così non va bene».
Il Derek quindicenne era sdraiato scompostamente sul proprio materasso, con
il libro di letteratura aperto, ma che veniva letto svogliatamente e con poco
interesse, memorizzando una parola su quindici ed una su venti quando non ci
metteva alcun impegno. I suoi voti scolastici erano calati drasticamente
rispetto all’inizio del suo primo anno, arrancando e tenuto in piedi soltanto
dalla spinta del suo talento nello sport – anche quello svolto con distacco –;
se non avesse ingranato la marcia, almeno un po’, avrebbe perso l’anno. «Non
sei la benvenuta».
Non si era nemmeno degnato di prestarle attenzione, scostare il volume e lanciarle
una rapida occhiata. Laura non apprezzava in alcun modo quell’atteggiamento
maleducato e cupo; una volta la spensieratezza era una caratteristica valida
nel fratello, del tutto scomparsa ed assorbita dall’indifferenza. «Voglio che
riprendi in mano la tua vita».
«Sto bene così» proferì con noia il licantropo, sfogliando una pagina di
cui non aveva completato la lettura, ma che avrebbe zittito la sorella.
«Stai uno schifo» ribatté accigliata la lupa mannara, strappandogli il
libro creando malcontento ed obbligandolo a guardarla. «Sei in uno stato
penoso, stai distruggendo te stesso e quello che eri».
Derek le rivolse un’occhiata ostica ed acida, piena di rabbia e scontento,
rimettendola al suo posto e quella valse più di mille parole che non avrebbe mai
pronunciato.
Laura sospirò scoraggiata ed esausta, portando dietro ad un orecchio una
ciocca di capelli neri che le ricadevano sulle iridi verdi, incredibilmente
simili a quelle del ragazzo, e prendendo un respiro profondo. «Non riesci a
vedere il bene che c’è in te» Derek l’avrebbe cacciava via a morsi se avesse
prestato attenzione con quella vitalità che non emergeva più e per la lupa non
ci sarebbe stata alcuna via di scampo, ma il licantropo era troppo distaccato
dal mondo per curarsene seriamente. E quello le permise di accucciarsi davanti
alla sponda del letto, inginocchiandosi sul pavimento, poggiando un gomito sul
materasso per comodità e lasciando vagare la mano libera dentro una tasca. «Ho
fatto qualcosa per te» disse con delicatezza e lieve speranza, estraendo due
piccoli oggetti cilindrici di metallo da quella tasca con cui stava
trafficando. «Spero che ti possano piacere».
La curiosità non era mai stata una caratteristica di Derek Hale, perfino
prima che la sua vita cambiasse, prima che le iridi ambrate venissero inglobate
da due blu metalliche e si ritrovasse le mani macchiate del sangue dell’unica
ragazza che avesse mai amato.
Ma c’era un richiamo speciale che l’attirava a sé e che esigeva almeno un
suo sguardo rapido, la giusta quantità di tempo per imprimersi il loro disegno
e lasciare che scegliesse da sé.
Quella fu la prima volta che le pupille nere del lupo mannaro si posarono
sulla fisionomia dei due anelli identici, ma di misure differenti, quasi
impercettibili, ma agli occhi attenti di una creatura sovrannaturale era quasi
impossibile che sfuggisse.
Erano entrambi d’argento puro, con in mezzo una striscia di autentico oro
rosso, che divideva le due parti di metallo in modo equilibrato, senza che una
delle tre piccole fasce sovrapponesse l’altra. Ed al centro figurava una
triscele intagliata con precisione che rappresentava il simbolo del branco
degli Hale sin dalla sua formazione originaria. Derek ne fu completamente
catturato.
«Avevo materiale solo per questi due modelli» si giustificò la
diciannovenne, mettendoli in mostra e sotto lo sguardo attento del ragazzo.
«Sono costati un po’, ma spero siano venuti bene» disse con apparente
spensieratezza, ma osservandoli con occhio critico e spostando gli occhi in
varie direzioni, accertandosi di aver fatto un buon lavoro. «Sono due pezzi
unici, non ne troverai di simili né di uguali».
«Cosa dovrei farci?» domandò indispettito il giocatore di basket,
ritornando nella sua posa impassibile ed indifferente.
«Provarli, ovviamente» rispose logicamente la ragazza, prendendosi gioco
del fratello e dandogli con eleganza dell’ottuso. «C’è una tradizione nel
nostro – beh, più tuo ormai – liceo, riguardante gli anelli. Ed ho pensato che
questo potesse fare al caso tuo» non c’era davvero alcun bisogno che gli
spiegasse la tradizione che ormai da anni aleggiava nel liceo di Beacon Hills,
Derek ne era uno studente da quasi un anno ed era quasi impossibile esserne
estranei. «Provalo, avanti».
Derek guardò l’oggetto cilindrico come se potesse morderlo da un momento
all’altro ed in realtà gli appariva come una grande pagliacciata, ma se prima
era riuscito a tener testa a sua sorella, non voleva dire che ci sarebbe
riuscito due volte consecutivamente; soprattutto se si parlava delle sue
preziose creazioni che valevano come l’oro colato – c’era sempre il terrore che
riuscisse a svegliare anticipatamente l’Alpha dormiente che era in lei.
Prese il primo anello dalla mano della lupa con poco entusiasmo e profondo
scetticismo e non ci volle molto ad indovinare a quale dito corrispondesse la
misura di quell’ornamento. Scivolò sul medio destro come acqua calda.
«Ossì, è fatto proprio a posta per te» lo
beffeggiò con ilarità fintamente zuccherosa la sorella maggiore, sorridendogli
sornione. Lupo solitario.
Derek roteò gli occhi con insofferenza, ignorandola volontariamente e
passando oltre le sue reazioni dubbie. «E l’altro?».
Laura sembrò ricordarsene soltanto in quel momento, benché al licantropo
sembrava non essere convinta di porgerglielo, lanciandogli un’occhiata incerta.
«Non sono sicura».
Se Derek aveva già trovato l’anello della misura giusta, non aveva alcun
motivo per cui avrebbe dovuto provarne il gemello, ma lo fece comunque,
afferrandolo dalla mano titubante della matricola di belle arti e lasciandolo
vagare tra una mano e l’altra.
Ma gli bastò sfiorarlo con la mano sinistra, perché questo vi si
incastrasse perfettamente sull’anulare.
Derek osservò con sgomento i due significati contrari che rappresentavano
le posizioni di due anelli identici, ma del tutto opposti nella loro
comunicazione.
«Oh» soffiò la mannara con sorpresa e sbalordimento, facendo schizzare da
una parte all’altra gli occhi, imprimendosi a menadito quello scenario. «Questo
è del tutto inaspettato».
Derek lo sfilò immediatamente, gettandolo vicino alla sorella e
rinnegandolo. «Non lo voglio».
Laura riuscì a fermare la caduta dell’anello che si incastrava sull’anulare
sinistro soltanto grazie ai suoi sensi sviluppati, bloccandolo prima che
potesse superare il bordo del materasso. «Non l’avevo previsto, ma pensavo che
potevi darlo a qualcuno» un giorno, in qualsiasi momento e quando sarebbe stato
pronto.
«Non lo voglio» scandì il lupo mannaro con veleno autentico, dedicandole un
nuovo sguardo di rabbia e freddezza pura, colpendola in pieno viso.
«Lo so che credi che non ci sarà più nessuno dopo Paige, che non
permetterai che più nessuno ti si avvicini per paura di quello che potrebbe
accadere, ma…» Derek irrigidì tutto il corpo e la lupa lo sentì e lo vide
perfettamente e c’era nuova collera nelle iridi di giada, da cui emergevano
piccole pagliuzze di blu elettrico. Derek era sempre più propenso a scoppiare.
«Io so che esiste una persona per te. Che arriverà e che saprà vedere la tua
vera natura, che saprà vedere oltre il mostro dietro cui ti nascondi e che
saprà apprezzarti e farti vedere il mondo in maniera diversa; potrebbe addirittura
riuscire a fartelo apprezzare ed a farti accettare nuovamente te stesso».
«Dimentichi una cosa fondamentale, Laura» la riprese il giocatore di
basket, accentuando il suo diniego e la totale scelta di rifiutare
quell’oggetto. «Sono letteralmente un mostro. Chi pensi potrebbe mai accettare
il lupo che vive dentro di me?».
Laura non seppe rispondere, perché nessuno al di fuori della famiglia e del
branco, poteva conoscere la realtà che si nascondeva dietro il loro vero
essere, l’appartenenza al mondo sovrannaturale che li differenziava dal resto
dei comuni mortali, permettendogli di avere degli aspetti che non potevano
essere compresi e che dovevano essere celati per non scatenare il panico e per
proteggersi da una caccia cosparsa di sangue e che li avrebbe annientati. Era
un segreto che avrebbero dovuto portarsi nella tomba ed oltre, per sempre; non
c’era spazio per chi non apparteneva al loro ramo.
«Non esiste una persona del genere» ciò che Derek voleva, consisteva
proprio nell’essere accettato da qualcuno di esterno al loro branco, da chi
conosceva la loro vera identità. Voleva qualcuno che potesse vederlo
interamente, sia come umano che come essere sovrannaturale. Voleva qualcuno che
non differenziasse le sue nature e che lo vedesse come un essere unico: non
esisteva Derek senza lupo e non esisteva il lupo senza Derek. «E se esistesse,
non la vorrei».
Il cuore di Laura si strinse in una morsa struggente e lo sentiva piangere
per la vita del suo fratellino che sarebbe stata vissuta soltanto a metà, con
il costante odio verso se stesso, lasciandosi andare ad eccessi ed
infischiandosene della sua anima già frantumata. Le cose sarebbero soltanto
potute peggiorare sotto quella prospettiva, se un nuovo fattore scatenante non
fosse arrivato a risvegliarlo, facendolo reagire. Che fosse positivo o negativo
non aveva importanza, ma Laura sperava che potesse essere qualcosa, qualcuno,
che riuscisse a tenergli testa.
Guardò un’ultima volta il ragazzo, prima di uscire e portarsi al seguito
l’anello che Derek aveva rifiutato, chiudendosi la porta dietro di sé ed
abbandonandosi sconfitta contro la superficie, sospirando con tristezza.
Gli occhi le caddero sul piccolo cilindro argentato che stringeva con presa
leggera sulla mano, lasciandosi intravedere attraverso le dita e le aprì,
osservandolo con una nuova luce. «Piccolino, tutto ricade su di te» disse
all’ornamento come se potesse sentirla, in una carezza dolce e quasi disperata,
come unico gesto di conforto che le rimaneva, sfiorandolo con il polpastrello
del pollice. «Sei la mia unica speranza» perché in ogni oggetto che lei creava
condivideva un pezzetto della propria anima, infondendogli un po’ di vita e
rendendoli più speciali e magici. Ma in quei due lavori in particolare, che le
avevano richiesto tempo ed attenzione, cura nei dettagli e lo studio di ogni
linea perfetta, fondendo metalli così differenti che collimassero insieme,
aveva infuso tutto il suo amore, rendendoli inestimabili.
Quei due anelli, soltanto loro due, possedevano la sua anima e il suo
cuore. «Torna da lui».
Nel medesimo momento Derek aveva estratto l’anello che era diventato
automaticamente suo, guardandolo con disinteresse e ritenendolo una gran
quantità di tempo e materiali sprecati.
Aprì il terzo ed ultimo cassetto del comodino, quello che non apriva quasi
mai ed in cui era contenuto tutto quello che non usava e che finiva nel
dimenticatoio, gettandolo dentro senza alcuna grazia e riguardo, lasciando che
venisse risucchiato dall’oscurità del comò.
Derek, in quell’anno e mezzo, aveva completamente dimenticato l’esistenza
dei due anelli gemelli e del lavoro accurato che Laura aveva fatto per lui, per
sostenerlo e dargli un nuovo scopo nella vita; una piccola scintilla di
speranza.
Li aveva completamente rimossi finché Stiles Stilinski non spuntò
all’orizzonte, monopolizzandogli l’esistenza.
Ed aprì il terzo ed ultimo cassetto del comodino, che non era stato toccato
per tutto quel tempo, in quello stesso giorno, indossando l’anello all’istante.
Non se ne separò mai, finché non lo donò all’umano.
«Com’era l’Hofstra?» domandò con malcelato
disinteresse il figlio dello sceriffo, scendendo per le scale e guardandosi
attorno con una piccola piega allietata sulle labbra.
«Come te» rispose in modo criptico il lupo mannaro, procedendo al suo
fianco e confermandogli a modo suo la reale visita che aveva fatto a quello
specifico college durante i tre giorni appena trascorsi.
«Bellissimo e carismatico?» propose con eccessivo entusiasmo il sedicenne,
ammiccando sfacciatamente e procedendo velocemente sui gradini.
«Strepitante e snervante» obiettò il capitano della squadra di basket, con
voce modulata e perfetta, statuario ed impassibile.
«Ehy!» esclamò l’umano, fermandosi all’istante e
colpendolo offeso sul torace, non causandogli il minimo fastidio e smorzando
uno scopo che non era reale, ma un vero atto di protesta.
Derek lo trattenne esattamente da quell’arto che l’aveva colpito,
immobilizzandolo sul posto e divenendo l’unico panorama presente agli occhi del
sedicenne, senza che ci fosse altro o potesse spostare lo sguardo da lui. Erano
solo Stiles e Derek.
Stiles non comprese immediatamente le sue intenzioni, ma gli bastò vedere
quella stessa luce intensa e completamente dedita a lui che aveva già scorto in
passato, quel desiderio energico e quell’autocontrollo che tentava
costantemente di sfuggirgli, tutte le volte in cui aveva pensato che il lupo
volesse baciarlo; un pensiero che aveva sempre mandato nelle retrovie del
cervello, scartando all’istante quella possibile reazione che poteva scaturire
tra loro. Ma ora sapeva, che tutte le volte che quel bagliore balzava davanti
le iridi, facendogli prudere il naso e surriscaldare il padiglione auricolare,
era reale e che Derek doveva porsi molta violenza per non azzerare il divario che
persisteva tra i corpi e congiungersi con quello che desiderava e che lo
tormentava.
Quante volte si erano trovati così vicini, a completo contatto, da bastare
un minimo battito di ciglia per collimare quella distanza che appariva
necessaria.
«Der» sussurrò a mezza voce, riempiendo tutto il
nervo acustico del licantropo e divenendo l’unica cosa che poteva sentire – ma
lo era già, da tempo –, instaurando una base solida che gli permettesse di fare
tutto quello che voleva; un tacito consenso che non sarebbe stato necessario se
Derek avesse smesso di identificarlo come una creatura delicata ed onirica o
come se le sue attenzioni non fossero ben accette. Puoi farlo era tutto quello che avrebbe voluto dirgli senza
distruggere l’atmosfera che si era creata, non
devi chiedermi il permesso.
Derek respirò direttamente sulla sua bocca, come aveva fatto altre mille
volte, e gli sfiorò la punta del naso con la propria, alzandogli di qualche
millimetro incalcolabile il viso, sorreggendolo dalla mano sinistra che si era
posata sotto la mandibola, attraverso alcune dita che lo toccavano appena.
Gli lambì le labbra con il fiato caldo, vezzeggiandole con maestria ed
attirandole verso le proprie, un condotto d’aria bollente che le indirizzasse
soltanto verso quelle del mannaro.
Le sfiorò in modo impercettibile, sentendole schiudersi accennatamene sotto
le proprie ed attrarle verso di loro, mentre il desiderio e il bisogno di
rendere più concreto il contatto cresceva ed urlava nelle orecchie di entrambi
e Stiles aveva desiderato per diverso tempo, con vergogna e celandolo a se
stesso, di rendere nullo lo spazio tra le loro bocche; aveva sempre desiderato
che Derek Hale lo baciasse.
Ma il capitano della squadra di basket si sarebbe preso tutto il tempo del
mondo per compiere quell’azione che era vissuta nella sua mente in quegli anni,
osservandone ad occhi aperti ogni frazione di secondo.
Derek, spingendo Stiles contro la balaustra delle scale, pendente da un
lato per via dello zaino su una spalla e che già gli impediva enormemente di
muoversi, gli catturò le labbra tra le proprie, assaporando il suo sapore e la
carnosità della bocca rossa che sognava ogni notte, perfino quando gli dormiva
a fianco.
Gli accarezzò con la lingua il palato e gli incisivi, facendo fremere
l’umano, e poi si concentrò soltanto sulla consistenza delle labbra,
vezzeggiandole con tutto l’amore e il rispetto che provava per Stiles.
Il baciò si interruppe ed i loro respiri si miscelarono, alitando ognuno
nella bocca dell’altro che si sfioravano ad ogni emissione di nuovo ossigeno.
«Ha un buono osservatorio astronomico» confidò caldo il mutaforma ad un
millimetro dalla sua bocca, rispondendo alla prima domanda che il figlio dello
sceriffo gli aveva posto.
Stiles gli sorrise di sbieco, guardandolo ammiccando da vera volpe saputa
dalla posizione da cui non si era mosso, rimanendo intrappolato tra il corpo
del lupo completo e il corrimano delle scale del liceo. «Ma davvero?».
«Sì» e quella volta la calma ed il controllo furono totalmente abbandonati,
riappropriandosi delle labbra dell’umano senza tergiversare e facendogliele
schiudere completamente, impossessandosi interamente della sua cavità orale e
reclamandola come propria, mentre Stiles le curvava vittorioso ed ammaliante
contro le sue, lasciandosi catturare senza riserve.
«Era ora» disse una terza voce che si frappose tra loro, riportandoli alla
realtà e permettendogli di identificarlo come Scott McCall.
«Pensavo dovessi aspettare le partecipazioni di nozze».
«Sono mesi che hanno lo stesso odore» comunicò Isaac con noia, stanco di
aspettare e per niente sorpreso di quel cambiamento di eventi.
«Sì, l’hai notato? Ehy, aspetta, che vuoi dire?»
domandò a raffica il messicano, appoggiando il compagno di squadra e sbattendo
le palpebre subito dopo, rendendosi conto della cosa pittoresca e strana che
aveva detto.
«Voglio un nipotino» si intromise Erica con spavalderia, mandando Scott nel
dimenticatoio. «Voglio un bellissimo lupacchiotto o lupacchiotta. Boyd, domani compreremo qualche vestitino».
«Mi aggrego, voglio guardarmi intorno per quando gli organizzeremo la
cerimonia di nozze» si aggiunse la bionda fragola, approvando l’idea ed
immergendosi già in calcoli complicati perché l’evento riuscisse perfettamente.
«E l’addio al nubilato» ricordò Allison con concentrazione, stilando
mentalmente una lista e cominciando ad eliminare qualche voce.
«Mi occupo io di quello di mio fratello» affermò Cora senza reticenze,
pregustandosi già la scena e curvando le labbra perfida e piena di cattive
intenzioni.
Stiles li guardò completamente allibito, ancora intrappolato nella
posizione precedente e stretto alla mano del diciottenne, che li guardava
indecifrabile insieme a lui.
Erano tutti ai piedi della scala che li osservavano compiaciuti e con
prevedibilità – Malia annuiva in approvazione in fondo al gruppo e Jackson si
era limitato ad un davvero scontato
–, complottando in gruppo e prendendoli abbondantemente per i fondelli,
burlandosi della loro persona con scaltrezza e correndo eccessivamente nei loro
riguardi, annessi di progetti futuri, per accrescere quella forma di ironia
dilagante.
La campanella che comunicava la fine di quella seconda ora di lezione era
risuonata per tutto l’istituto senza che il figlio dello sceriffo ed il lupo
mannaro se ne rendessero conto, completamente concentrati sulla presenza
reciproca e del tutto divorati da quei baci agognati che erano sempre rimasti
nell’atmosfera, inespressi.
«Dimmi che non sta accadendo» lo implorò l’umano a mezzo tono,
supplicandolo quasi ed intimandogli di mettergli fine.
«Okay» proferì semplicemente il playmaker nella sua direzione, accontentandolo
senza troppo sforzo e del tutto disinteressato alla cosa.
Stiles gli lanciò un’occhiata accusatoria e di rimprovero e Derek non ne fu
colpito per niente, lasciandoselo scivolare addosso ed ignorandolo con
tranquillità.
«Ne avranno per un po’» disse soltanto la creatura della notte nella
direzione del gruppo scoppiato che complottava ancora, sorridendogli sornione.
Certo che ne avranno per un po’, per giorni, mesi e forse anni, punteranno il
dito nella loro direzione e gli ricorderanno costantemente che avevano sempre
avuto ragione, vedendo più lontano dei loro occhi e per nulla frenati dai
pensieri contorti che avevano accompagnato Stiles per tutti quei mesi. «Loro
posso gestirli» rivelò senza scomporsi più del dovuto, permettendogli il loro
momento di gloria.
Derek lo guardò dall’alto, con attenzione e quella piccola preoccupazione
che pulsava nell’anticamera del cervello. Non ci voleva molto a capire a chi si
stesse riferendo il sedicenne, a quale gruppo compatto e vivace, eccessivamente
espansivo, fosse difficile gestire e contenere, avendogli dato in passato
notevoli gatte da pelare ed umiliazioni che probabilmente non avrebbe
dimenticato. «Puoi fermarti, se vuoi».
I timpani dell’umano pizzicarono e l’attenzione si rivolse automaticamente
verso il lupo mannaro, trovando subito le iridi boscose che entravano dentro le
proprie. Stiles poteva individuare immediatamente il dubbio che stava
affliggendo le meningi del licantropo, la proposta che aveva lanciato e la
comprensione nei suoi riguardi nel caso volesse tirarsi indietro, perché troppo
estenuante ed invasivo l’accanimento che le ragazze di Derek avevano già dimostrato
in passato e che continuavano ad indirizzare verso di lui. Stiles ne aveva
passate fin troppe per colpa loro. «In passato sono stato accusato di
combattere per te» rivelò sinceramente, senza dimenticare quel periodo e la
persona che gli aveva suggerito di non farlo, di smetterla e di darsi una
calmata. Stiles si era comportato in quel modo senza nemmeno rendersene conto e
l’istinto ed il subconscio avevano agito da soli, senza premurarsi di
consultarlo. «Credo che adesso abbia una motivazione in più per farlo».
Derek lo sguardò stralunato, quasi incredulo e non del tutto certo di aver
decifrato correttamente ciò che il sedicenne gli stava comunicando e Stiles gli
sorrise con malizia e confortanza, immolandosi per la causa ed alleggerendo il
cuore del lupo che non avrebbe sopportato una separazione netta come quella,
così vicino alla meta che aveva sempre agognato. «Combatterò per te, Derek
Hale».
E nel momento in cui buona parte degli studenti era riversa nei corridoi,
guardando allucinata il siparietto composto dalla figura del capitano della
squadra di basket e dal figlio dello sceriffo confinati a metà della scalinata
principale, Stiles Stilinski baciò con trasporto Derek Hale davanti a
quell’esercito di occhi sgranati ed inebetiti.
Pensavate che non ce
l’avrebbero mai fatta e invece...
Ci hanno fatto sudare
un po’ e si sono ridotti all’ultimo minuto, come è tipico di loro e alla fine
qualche soddisfazione ce l’hanno data – magari più di una – ed è tutto qui,
nero su bianco.
Diciassette capitoli
di mezze verità, domande inespresse e dubbi esistenziali ed alla fine quelle
tanto decantate risposte sono arrivate, senza per forza avere una voce ed altre
semplicemente colmandole da sole. E magari qualche altra rimarrà in sospeso.
Nella conclusione mi
sono solo voluta prendere un po’ gioco di loro, finire tutto con più leggerezza
e una rivincita da quel gruppo che li aveva visti unirsi senza però proferire
parola.
E… per quanto questo
sia l’ultimo capitolo, non è questa la fine.
Preparatevi
psicologicamente e fisicamente per un epilogo lungo quanto la storia stessa –
magari esagero, ma non si sa mai.
A venerdì, con il
nostro ultimo aggiornamento e la loro immancabile compagnia,
Derek un
giorno lo chiamò all’improvviso, un giorno poco prima della cerimonia dei
diplomi, ed il cellulare squillò per quasi trenta secondi.
Stiles era
con la testa per aria, completamente sommersa dalle nuvole e così concentrata
nel pensare ad altro tranne che a quello,
che tentò di estraniarsi dal mondo in ogni modo possibile.
Le cuffie
erano ben inserite nelle orecchie e la musica era ad un volume eccessivamente
alto, con le stesse canzoni selezionate, le più rumorose, che si ripetevano in
un ciclo infinito ed intorno a lui, sul letto, erano sparsi libri di ogni
argomentazione; non doveva nemmeno più studiare, le varie prove e i test erano
terminati, ma non riusciva a smettere di consultarli. Si portava avanti per il
futuro, era quella l’unica scusa che si propinava.
Quando notò
il piccolo oggetto tutto schermo che si illuminava e vibrava, con tanto di nome
di Sourwolf che lampeggiava emergendo
al suo centro, si strappò gli auricolari e lì gettò di lato insieme al suo
iPod, senza nemmeno mettere in pausa la musica o spegnerlo. Si fiondò per
prendere lo smartphone e pigiò in fretta e con mani tremanti la scritta rispondi, ricevendo dall’altra parte un
pesante respiro.
Stiles non
perse tempo neanche con il convenevole pronto,
che non gli serviva minimamente, o con un saluto di circostanza, un ehy sbiadito, e
da quell’unico respiro capì tutto quello che il lupo voleva dirgli.
Terminò la
chiamata senza proferire parola e si premurò soltanto di indossare le scarpe,
afferrando i mazzi di chiavi di casa e dell’auto e teletrasportandosi
in essa, facendola partire al volo ed infischiandosene dei limiti di velocità –
nessuno gli avrebbe abolito quella multa meritata.
Si precipitò
a Villa Hale senza salutare la famiglia, trovandosi Cora ad aprirgli la porta e
Malia sulle scale, non salutò nemmeno loro e le ragazze non proferirono parola.
Derek era al
centro del soggiorno, lì dove vi era un tavolo circolare, ricoperto di carte e
lettere di accettazione. Il mannaro le aveva aperte tutte da solo e soltanto
dopo si era preoccupato di informare il sedicenne.
Ma quella
lettera, proprio quella, era diversa da tutte le altre. Era La lettera, quella
che stavano aspettando entrambi, quella che Derek aveva imbucato per prima
l’anno precedente, quella per cui si era deciso ad impegnarsi sul serio, a
mettercela tutta ed a tentare ogni strada per poter accedere proprio al nome
stampato a caratteri cubitali sulla busta.
Era l’unica
lettera per cui avrebbe aspettato Stiles.
«È arrivata» proferì il figlio dello sceriffo con un groppo alla gola e
quella facciata di entusiasmo. Era troppo confuso per capire cosa provasse
realmente, qualunque fosse stata la risposta, avrebbe passato comunque due anni
lontano da Derek ed era un’idea insopportabile. Ma sarebbe stata peggiore se il
verdetto fosse stato negativo e qualora fosse stato l’esatto contrario, toccava
a lui mettercela tutta per raggiungerlo settecentotrenta
giorni dopo – erano davvero troppi se doveva immaginarli senza di lui.
Derek lo sentì appena, un mormorio poco distinto, ma tutta l’ansia e
l’agitazione di Stiles poteva sentirle bene, con molto altro ancora, ma era
troppo concentrato sulla busta ancora sigillata per poter agire in qualche
modo, tranquillizzarlo e stringerselo contro – ora che poteva, ora che poteva
essere suo in ogni modo possibile.
Stiles si
avvicinò un po’, prima piccoli passetti quasi accennati e poi una timida
falcata che lo portò vicino al suo corpo, sfiorandogli il braccio e poggiandovi
sopra la mano sinistra, quella che soggiornava sul tavolo e da cui emergeva
l’anello che una volta gli era appartenuto, la propria, dove figurava lo stesso
oggetto di cui Derek era il precedente proprietario; il mannaro l’accolse
subito. «Derek».
Il mutaforma fece un unico cenno col capo, del tutto impercettibile,
riconoscendo appieno il calore dell’umano che gli invadeva i tessuti e la forza
che gli trasmetteva. Strappò la busta con un artiglio ed aprì la lettera in un
unico gesto, con Stiles che si appiattiva a lui per sbirciare meglio.
Il figlio dello sceriffo soffiò stremato e più leggero alla base del suo
collo, poggiando la fronte proprio lì e curvando le labbra direttamente sulla sua
pelle. «A quanto pare dovrò mettermi d’impegno».
Derek la rilesse soltanto un’altra volta, giusto per accertarsi di aver
compreso appieno il significato di quelle parole e che le emozioni contrastanti
che gli vivevano dentro non avessero contribuito a creare un brutto scherzo,
anche se la reazione di Stiles aveva sopperito a qualsiasi incomprensione –
Stiles era sempre stato più veloce di lui a leggere. Gli riprese la mano
sinistra tra la propria e fece intrecciare le loro dita. «Sei ancora libero».
«Non ti arrendi mai» Stiles non apprezzava quel suo modo di fare, quel modo
in cui Derek lo metteva su un piedistallo, girandoci intorno e volendo solo il
meglio per lui, infischiandosene di se stesso e sacrificandosi. Derek per
Stiles avrebbe rinunciato al mondo intero, ma era del tutto contrariato che
l’umano facesse la medesima cosa. «Ne abbiamo già discusso, tu andrai a New
York e tra settecentotrenta giorni ti raggiungerò».
Il licantropo lo guardò intensamente, inchiodando le iridi di giada in
quelle d’ambrosia. «Li hai già contati?».
Stiles si strozzò con la sua stessa saliva, avvampando come un pomodoro ed
imbarazzandosi oltre l’inimmaginabile. «Non proprio. Insomma, è un conto
facile, considerando che l’anno è composto da trecentosessantacinque giorni – trecentosessantasei nell’anno bisestile – e tu sei due anni
avanti a me e forse sembrano di meno da dire due anni, anche se settecentotrenta è un numero immenso e-» non ebbe mai modo
di finire quel suo sproloquio incontrollato, quel mucchio di parole messe a
caso una dopo l’altra, impilandole in un ordine che capiva soltanto lui; Derek
l’attirò immediatamente a sé e lo incatenò in un bacio mozzafiato,
sottraendogli tutto l’ossigeno ed impedendogli di proferire qualsiasi parola
che riempisse il vuoto e che cercasse solo di salvargli la faccia. Stiles era
perduto da molto tempo prima.
«È una battaglia già persa in partenza con te» dichiarò il lupo sulle sue
labbra, addentandogli quello inferiore per dispetto e tirandoglielo per
sottolineare il concetto. Ma poi gli schioccò un nuovo bacio a cui Stiles non
mancò di rispondere.
«Quindi andiamo a New York?» aveva un altro sapore adesso quel plurale,
quella promessa che doveva strappargli perché tu sei il mio cammino, Stiles; ma io non sono il tuo. Derek gliele
proponeva spesso quelle parole quando era troppo agitato e lo rimproverava
perché non poteva accettare che il mannaro gli dedicasse tutta la sua vita, ma
non gli era permesso fare lo stesso. Come se tutta la fatica dovesse farla
soltanto il lupo completo, rimanendogli fedele sempre e senza inciampare,
mentre lui poteva agire come meglio credeva, inseguendo i suoi sogni e
lasciando tutti gli altri indietro; lasciando Derek indietro. Era soltanto uno
stupido se quel lupastro acido pensava di avere a che
fare con quel tipo di persona; Stiles non l’avrebbe lasciato mai. Era
impensabile e fuori discussione.
Derek in tutta risposta lo rincatenò a sé e Stiles fu completamente perduto
in quel nuovo bacio che gli comunicava ogni cosa. Sì, andiamo a New York.
Andava tutto bene fino a quel momento.
«Mi manchi» disse quando sentì il respiro di Derek rispondere al telefono,
senza permettergli di emettere alcun suono e comunicandogli all’istante come stesse
in quel momento, l’assenza che gli vorticava dentro e la certezza che fosse
troppo presto per poterla colmare.
«Sono via da soli due giorni, Stiles» proferì pragmatico il lupo, alzando
gli occhi verso l’alto.
«Mi manchi lo stesso» sottolineò con cocciutaggine l’umano, ribadendo il
concetto e facendogli sentire quanto fosse vero. «Non manco anche a te?».
«Ero preparato» per due anni aveva considerato quella prospettiva, la
consapevolezza che non avrebbe potuto incrociare Stiles nemmeno per sbaglio, la
sicurezza che non avrebbero coabitato nella stessa città ed il tormento che
soltanto, e con tutte le parti del corpo incrociate, durante il suo terzo anno
avrebbe potuto vedere per caso il suo viso o la sua figura che sfrecciava tra i
vari campus, fiondandosi in numerose aule e tentando di seguire più corsi
possibili. Sarebbe stato estenuante cercare di stargli dietro ed il suo unico
desiderio era tentare di rimanere ad un passo dalla sua orbita, senza che
Stiles avesse mai saputo della sua presenza e del suo interesse.
«Non è una risposta, Der» precisò con la sua
esuberanza, la voce calda e sapiente, la stessa che sembrava conoscerlo così
bene. «E adesso è diverso».
Derek dovette soppesare quelle parole, assaporarle e tentare di estrarre
ogni significato possibile. Era diverso? Era qualcosa che non si era mai
aspettato, qualcosa su cui non aveva mai fantasticato ed a cui non avrebbe mai
ambito. Era enormemente diverso, era qualcosa che andava oltre ogni sua
immaginazione. «Sì, lo è».
«Ti amo» dichiarò Stiles in uno slancio, percependo appieno cosa fosse
contenuto in quelle poche e piccole parole, il tono profondo e pieno dell’amore
che Derek provava per lui, quello che esternava attraverso una chiamata
strappata a mille mila chilometri – 3.886,62 km, per l’esattezza –, mentre
probabilmente si stava ancora ambientando e trafficava per mettere a posto il
suo nuovo appartamento – uno tutto suo.
«Ti amo anch’io» era preparato ad aspettare per due anni il suo arrivo, a
scorgerlo tra i corridoi o alla caffetteria al suo terzo anno, era preparato a
contare i giorni che li separavano, lontano da lui, senza che Stiles sapesse
cosa provasse, senza che lo conoscesse o avesse cognizione della sua persona;
era preparato a non essere nulla per Stiles, ad amarlo in silenzio e
limitandosi a guardarlo da lontano, come aveva già fatto. Ma non era preparato
allo stravolgimento della sua vita, alla consapevolezza che quell’attesa e
quella separazione dovessero viverla in due, contando i mesi, i giorni e i
secondi separati l’uno dall’altro.
Non era preparato a condividere e sopportare la distanza reciproca, mentre
l’altro si trovava nella stessa identica condizione e non era preparato a
sentirsi dire di essere amato dall’altro capo del telefono, a chilometri e
chilometri di distanza, dallo stesso ragazzino che aveva aspettato nella sua
solitudine silenziosa.
Stiles curvò le labbra verso l’alto, in un sorriso pieno e traboccante di
felicità, perché era sempre dannatamente bellissimo sentirselo dire, ogni
singola volta. «Sono soltanto settecentoventotto
giorni».
Era una vittoria, microscopica, ma Derek sapeva quanto per Stiles fosse
importante il trascorrere del tempo, la vicinanza, enormemente lontana, del
traguardo che incombeva su di loro e che dovevano combattere ed affrontare insieme.
Sarebbe stato difficile, massacrante e sfiancante, sarebbero inciampati per poi
aggrapparsi l’uno all’altro ed avrebbero dovuto semplicemente aspettare che i
due anni scadessero, intervallati dagli unici momenti in cui potevano
incontrarsi faccia a faccia, affrontando le sette ore di volo che si
frapponevano tra loro. «Tornerò il prima possibile» avrebbe strappato ogni
minuto concesso per passarlo insieme a Stiles.
«Sourwolf, allora senti la mia mancanza» ammiccò sopraffina la volpe che
sogghignava dalla parte opposta della telefonata e Derek odiava quando riusciva
a trionfare, strappandogli la vittoria con scaltrezza. Ma in realtà non poteva
fare diversamente, e volente o meno, il suo lupo sarebbe sempre stato messo nel
sacco dalla sua volpe.
Esattamente dopo soli quattro giorni, Derek era di nuovo sul suolo della
calda California, davanti alla porta di Stiles a sfatare quanto in realtà
avesse sentito la sua mancanza.
«Sei appena diventato il mio numero
amico» rivelò con esaltazione uno Stiles che smanettava eccessivamente con
il cellulare, provando ad utilizzare le nuove opzioni attivate e studiando il
piano tariffario con più cura, leggendo anche le righe più piccole ed
insidiose.
«Amico?» domandò poco entusiasta il lupo dall’altro capo del telefono,
calcando dispregiativo quella parola.
«Sì, insomma- oh…» l’umano impiegò un momento di troppo per comprendere cosa
desse fastidio a Derek, il tono cupo che aveva usato e l’inclinazione
disturbata che aveva preso. «È solo un optional della mia nuova tariffa. Non
esiste il numero fidanzato o il numero del tipo che sta dall’altra parte del
paese o il numero del lupo brontolonee musone».
«A cosa ti serve una nuova tariffa?» domandò il mannaro con diffidenza,
ignorando il fiume di parole privo di logica del diciasettenne.
«Sul serio, sei arrabbiato per questo?» chiese con sbigottimento il
liceale, allontanando lo smartphone dall’orecchio per osservare la schermata
luminosa da cui emergeva a grandi lettere il nome del licantropo, con il
contatore dei minuti e secondi che andava avanti. «È solo uno stupido nome. Va’
a lamentarti con i gestori telefonici e fattelo cambiare».
Derek sbuffò scocciato dall’altra parte, battendo un piede per terra. «Non
sono arrabbiato».
«Sì che lo sei» affermò con convinzione il figlio dello sceriffo,
buttandosi a peso morto sul letto sfatto e passandosi una mano sul viso,
esausto. «Dio, Derek, è già difficile così, se reagisci in questo modo non
aiuti nessuno dei due».
«Mi dispiace» nel suo modo burbero e diretto, era sincero ed era
consapevole di quanto la loro situazione fosse difficile e complicata, di come
la distanza, in particolari occasioni, li opprimesse e li facesse scattare per
ogni singola fesseria.
Erano passati a malapena due mesi ed a loro apparivano come decenni, per
quanto continuassero a tenersi in contatto ogni giorno e le visite improvvisate
di Derek, a volte non bastavano a colmare la discrepanza e l’uno continua a
commettere piccoli passi falsi che l’altro doveva puntualmente correggere, per
evitare che si perdessero.
Stiles sospirò e piegò le gambe sul materasso, gettando un’occhiata alla
mano che gli copriva gli occhi e da cui troneggiava in bella vista l’anello che
una volta apparteneva a Derek e che era diventato successivamente di sua
proprietà, l’anello che sanciva il loro essere una coppia. «Volevo soltanto poter
chiamare l’uomo che amo in qualsiasi momento, stare per ore al telefono con lui
senza preoccuparmi della bolletta. È l’unico modo che ho per sentirti».
«Lo so» affermò il diciannovenne con voce calda ed inebriante, abbracciando
tutta l’essenza di Stiles. «Ma per me non è mai stato un problema, posso
rispondere ad ogni tua esigenza».
Stiles storse il naso, borbottando infelice. «Vuoi mantenermi a vita?».
«No» rispose prontamente il lupo mannaro, anticipandolo. «Mi manderesti sul
lastrico» e non l’accetteresti mai.
Stiles soffocò una risata fintamente offesa, soffiando come un gatto
maltrattato. «Antipatico».
Derek curvò appena le labbra nel momento in cui sentì la risata trattenuta
dell’umano, la voce era più colorata e viva ed era così da Stiles che era
incredibilmente doloroso poterla sentire attraverso un microfono, tra
interferenze e chilometri che si susseguivano tra loro. Era estremamente
difficile non essere lì con lui, non poterlo toccare e farlo tacere a suon di
baci. «Quindi, hai un numero amico».
Il tono era diverso adesso, più rilassato e la parola amico sembrava aver perso quella valenza ostica che Derek non
riusciva proprio a digerire, era più piacevole e gli stava dando una
possibilità. «O sì! Posso chiamare in qualsiasi momento, sia di giorno che di
notte, pagando un abbonamento mensile che rimane invariato – insieme a molto
altro – e sono illimitate. Derek, chiamate illimitate!».
«Sono già pentito della tua scelta» affermò il lupo già stremato ed
orripilato, aprendo e chiudendo la punta di una penna a sfera. «Ritorna alla
vecchia tariffa».
«Mostro!» esclamò teatralmente ferito, cullando lo smartphone e
rassicurando il suddetto numero amico,
per niente intenzionato a metterlo via.
Le giornate di Derek sarebbero state più chiassose che mai, ma lui le
trovava splendide ed insostituibili.
«Ho riflettuto su una cosa» rivelò Stiles di punto in bianco, a metà di una
delle loro conversazioni telefoniche – conversazioni che venivano tenute
insieme proprio da lui, mentre Derek si limitava a snocciolare poche parole e
ad ascoltarlo –, distaccandosi dall’argomento madre.
«Non è mai un buon segno» ironizzò il lupo mannaro, per niente
impressionato dalle sue uscite e dalla capacità straordinaria dell’umano di
ingarbugliare più argomentazioni possibili, passando dall’una all’altra e
ritrovando sempre il filo del discorso.
«Simpaticone» lo schernì bonariamente, impossibilitato ad ignorare i suoi
commenti affilati.
Derek lo sentì trattenersi, non sbilanciandosi ed evitando di proferire
qualsiasi parola casuale; nemmeno quello era un buon segno, ma lo era ancor di
più quando Stiles non proferiva nulla, mordendosi le labbra come per ammonirsi
e senza sapere bene se fosse il caso di dare voce ai propri pensieri o di
tenerli per sé. «Parla» a Derek serviva una mezza parola per calmarlo e fargli
capire che poteva sommergerlo di tutto quello che voleva, che avrebbe prestato
orecchio, senza mai smettere di ascoltarlo.
Stiles prese un profondo respiro, emettendo un mezzo singulto mal celato e
mordendosi un angolo della bocca per darsi più coraggio e spinta. «Potrei
diplomarmi in anticipo».
Il silenzio cadde immediatamente su di loro, come una lama affilata che
poteva trafiggerli in qualsiasi momento; la spada di Damocle che incombeva su
di loro.
«Stiles» lo richiamò all’ordine il mannaro, per nulla propenso a quella
proposta.
«Posso farlo. Ho buoni voti e posso impegnarmi tranquillamente per riuscire
a diplomarmi quest’anno. Devo mandare la richiesta entro un paio di giorni,
affiancandola all’iscrizione ed è fatta» disse tutto d’un fiato, evitando che
il mannaro potesse interromperlo in qualsiasi momento e non permettergli di
presentare il quadro generale.
«So benissimo che puoi, ma non devi farlo» dichiarò imperativo il
diciannovenne, conoscitore delle doti straordinarie dell’umano e della sua
capacità di portare a compimento qualsiasi progetto.
Stiles tentennò un momento, rimanendo in attesa e cercando di regolare il
respiro che andava di pari passo con il muscolo cardiaco che non annunciava a
rallentare. «Non mi vuoi lì?».
Quel tono di voce così addolorato ed insicuro era tra i suoni più terribili
che Derek avesse mai udito e non aveva nulla da spartire con il suo ragazzino
spumeggiante. «Certo che sì. Vorrei che tu fossi qui» dichiarò senza
tentennamenti, massaggiandosi le tempie ed adocchiando l’anello che
condividevano, l’unica cosa solida che gli era permesso toccare a così tanta
distanza. «Non immagini neanche quanto, Stiles».
Il fiato gli si incastrò in gola e gli occhi ambrati presero a pizzicare
minacciosamente, il cuore batteva ancora velocemente, ma ad un ritmo scostante
ed intenso. «Ma?».
«Goditi i tuoi ultimi due anni, vivili con i tuoi amici e passa più tempo
possibile con tuo padre» articolò il lupo, meticolosamente e con attenzione
morbida, accarezzandogli i timpani. «Lavora alla tua domanda come vorresti che
fosse, senza accelerare e perderti, raccogli tutti i crediti che ti servono.
Raggiungi il risultato a cui punti, non correre. Non hai alcun motivo per
correre, perché sarò sempre qui ad aspettarti».
Stiles si sentì morire dentro, come ogni volta che Derek usava quel tipo di
parole con lui, tutte quelle volte che gli dimostrava cosa provasse e quanto lo
amasse, perfino nelle piccole cose. Ma quelle non erano piccole e Derek voleva
soltanto che lui si godesse ogni attimo della sua adolescenza, che vivesse
quegli ultimi anni di liceo come un normale studente, procedendo passo passo ed evitando di trovarsi con l’acqua alla gola.
Godersi il suo ultimo anno insieme ai suoi migliori amici, senza trascurarli e
lasciarli indietro prima del tempo, per raggiungere un uomo che comunque
avrebbe camminato al suo fianco. «Quindi tu puoi sacrificarti per me, ma io non
posso fare lo stesso».
«Ho scelto questo percorso tempo fa» era il suo modo di dire sì, esattamente, ma era incredibilmente
vero. Derek aveva fatto le sue scelte fin dal primo momento in cui aveva messo
gli occhi su Stiles e più l’ascoltava ed apprendeva chi fosse, più era disposto
a seguirlo in capo al mondo, ad aspettare finché ce ne sarebbe stato bisogno,
ad attendere che lo sfiorasse appena, in modo del tutto casuale – si era
innamorato dell’astronomia dopo che aveva studiato il programma dell’HofstraUniversity, il college
che Stiles tanto amava, quello a cui puntava. Si era innamorato dell’astronomia
perché si era innamorato di Stiles Stilinski.
Ma Derek aveva ottenuto molto più di quello e non faceva che crescere ed
aumentare ed andava oltre qualsiasi immaginazione.
Stiles sospirò ed avrebbe voluto ribattere, dirgli che hai scelto senza di me, rinfacciargli in modo crudele quanto
l’avesse tagliato fuori, buttargli addosso tutto il rancore che quella distanza
stava facendo nascere ed inveirgli contro perché l’aveva lasciato lì, a contare
i giorni separato da lui. «Voglio solo stare con te» ma se ne sarebbe pentito
ed avrebbero litigato, non si sarebbero parlati per giorni, forse per
settimane, e sarebbe stato estenuante e distruttivo, li avrebbe ridotti a
pezzi, senza sapere come e chi avrebbe dovuto rimediare per primo. Non ne
sarebbe uscito nulla di buono. E qualcuno, ad un certo punto, avrebbe preso il
primo aereo per raggiungere l’altro.
«Sono qui, Stiles» proferì con voce calda e familiare, un toccasana per i
nervi provati dell’umano, liberandogli l’animo ferito. «Non vado da nessuna
parte».
«C’è la luna piena» non era un segreto o qualcosa di inaspettato, ma era
quasi diventata una frase di rito ed in quel momento era piena di malinconia e
nostalgia.
Stiles era in piedi davanti alla finestra a ghigliottina, a scrutare la
notte dal vetro chiuso ed aveva appena accantonato i libri, terminando di
studiare; non aveva nemmeno guardato a che ora fosse giunto ed aveva lanciato
una sola occhiata all’imposta, trovandola scura ed illuminata dal satellite, ed
aveva afferrato il cellulare buttato tra le coperte, spostando le lenzuola e
facendo partire la chiamata rapida.
«Sì» proferì con voce arrocchita il lupo mannaro, stringendosi tra le sue
coltri.
«È così bella anche lì?» domandò il diciasettenne ammaliante e con
curiosità celata, fissandola intensamente.
«Sì» Derek non aveva bisogno che Stiles gliela descrivesse, gli elencasse
passaggio dopo passaggio come si presentava a lui, quanto fosse brillante e
luminosa, senza alcun ostacolo che potesse nasconderla. Derek sapeva
esattamente a cosa si riferisse.
«Ti ho svegliato? Scusa, continuo a dimenticarmi la storia del fuso orario»
il figlio dello sceriffo impiegò più del solito a comprendere in che stato si
trovasse il licantropo – la sua capacità comunicativa non era delle migliori,
ma non sempre l’umano capiva tutto da una singola sillaba, soprattutto se aveva
la testa altrove –, e l’effettivo orario che aveva raggiunto senza scollarsi
dai libri. Erano le undici di sera e per Stiles erano bazzecole, anche se il
troppo studio portava a spossarlo un po’, ma voleva sentire Derek ed era
importante farlo, lo era molto di più in quella serata specifica. Ma a New York
erano le due di notte e c’era la luna piena alta nel cielo.
«Ero sveglio» dichiarò con tranquillità, rigirandosi tra le coperte e
portandosi nella direzione da dove poteva guardare la sfera d’argento.
A prescindere da qualsiasi situazione, Derek tendeva a lasciare il
cellulare acceso tutta la notte per le emergenze e per Stiles, anche se
quest’ultimo non aveva ancora compreso se facesse parte delle emergenze o fosse
qualcosa di a sé stante. Forse era entrambe le cose. «Come va?» chiese
automaticamente, quando realizzò il perché il mannaro fosse ancora sveglio.
«Procede» disse il diciannovenne con nessuna sfumatura nella voce,
stringendo forte il cuscino sotto di sé. Derek sapeva controllare la sua forma
da licantropo perfettamente, aveva imparato anni prima ed aveva dovuto
rimparare, in circa sei mesi, con il lupo completo che viveva in lui e
difficilmente sfuggiva dalla sua presa; ma la luna poteva sentirla comunque,
chiamarlo e risvegliare la sua natura ed i suoi istinti primordiali. Anche a
distanza di tempo era sempre difficile riuscire a resisterle e lontano dalla
sua Alpha lo era ancora di più. Ma al mannaro non importava nulla di tutto
quello e quelle sottigliezze poteva compensarle tranquillamente, senza alcun
problema; era qualcos’altro che non avrebbe potuto mai sostituire.
Negli ultimi anni era stata la presenza di Stiles a colmare tutto ciò che
aveva dentro – prima che irrompesse nella sua camera dopo una notte passata al
gelo su un tetto –, portandolo a sviluppare un autocontrollo del tutto nuovo e
l’àncora più forte che avesse mai avuto e precisamente un anno prima, aveva
passato quasi ogni luna piena proprio con l’umano, abbandonato nel suo letto e
stretto a lui. Nel suo nuovo appartamento non possedeva nemmeno una scia
sbiadita ed appena accennata del suo odore che lo calmava in quelle notti
difficili; viveva soltanto con il suo pensiero nella testa e la sua àncora che
si ripeteva in continuazione – che erano praticamente la medesima cosa.
Stiles inspirò piano, accennando una carezza affettuosa al davanzale della
finestra ed allontanandosi da essa, per rifugiarsi tra le coperte del proprio
letto; nessuno sarebbe più entrato da lì, finché Derek non sarebbe tornato,
saltuariamente. «È in queste notti che avverto di più la tua assenza» era
doloroso e sfuggente ed a volte faceva così male che doveva ripiegarsi su se
stesso, accucciandosi sul bordo del letto attaccato al muro ed abbracciare, per
quanto gli era possibile, l’anello d’argento che portava sull’anulare sinistro,
l’unico oggetto tattile che gli faceva sentire la sua presenza, che gli urlava
la sua esistenza e che manteneva parte del suo calore. Insieme a quello,
indossava sempre una maglia in disuso di Derek, che abbandonava lì nelle sue
visite più inaspettate e vicino al cuscino vi era il libro sulla licantropia
che sua madre gli aveva regalato anni prima e che Derek aveva fatto rilegare,
donandogli una nuova vita.
«Ti ho abituato male» ironizzò il mutaforma con abile maestria, sottile ed
innocua, una puntina che nessuno poteva percepire, curvando verso l’alto un
angolo della bocca.
«Derek» lo richiamò in un rimprovero bonario, gonfiando appena le guance e
sbuffandogli contro.
Le labbra del lupo si distesero in un sincero sorriso, figurandosi
perfettamente l’immagine e amava davvero tanto le sue reazioni, quelle
infantili e tipiche di Stiles, quelle che lo rendevano unico davanti ai suoi
occhi. «Vale anche per me, Stiles».
A Stiles mancò il fiato per un momento lungo più di un minuto e si sotterrò
sotto le lenzuola, ricoprendosi fin sopra alla fronte e stringendo il cuscino
che cedeva perennemente a Derek – non era per niente un valido sostituto. «Puoi
restare al telefono finché non mi addormento?».
«Sì» rispose immediatamente il mannaro, senza rifletterci minimamente. In
qualunque situazione era Stiles a crollare prima tra i due e Derek si lasciava
cadere nel sonno accompagnato dal respiro regolare dell’umano; era qualcosa che
funzionava straordinariamente bene. Non c’entrava affatto il suo assecondarlo
sempre e l’abitudine che aveva di viziarlo. Serviva ad entrambi, dovevano
sentirsi, soprattutto nelle notti di plenilunio.
Quando Stiles raggiunse le braccia di Morfeo e dall’altoparlante provenne
solo il suo respiro sereno, Derek interruppe la chiamata, raggiungendolo poco
dopo.
Da quella notte si creò una nuova abitudine, una che prendeva vita durante
l’apparizione della luna piena, una che portarono avanti nei due anni
successivi, finché Stiles non sarebbe stato con lui in carne ed ossa.
«Quando è arrivata?» domandò Derek immediatamente, prima che Stiles, una
volta risposto alla chiamata, potesse proferire qualsiasi parola, anticipandolo
sul tempo e deviandolo.
«Che cosa?» chiese a sua volta il figlio dello sceriffo, guardando di
sbieco lo smartphone e scrutandolo guardingo, come se potesse tirargli fuori la
risposta che gli serviva.
«Stiles» chiamò soltanto con un tono che non ammetteva repliche né perdite
di tempo, volendo giungere subito al dunque.
«Come puoi saperlo?» domandò allora il diciottenne, comprendendo appieno
l’antifona e riconoscendo la modalità della voce usata.
«Malia» rispose semplicemente il mutaforma, come se fosse la cosa più ovvia
del mondo.
«Malia?» gli fece eco Stiles interrogativo e con una leggera totalità di
isteria che prendeva mano a mano vita. «Come può Malia esserne venuta a
conoscenza?».
«Non lo sa, infatti» disse sbrigativo il ventenne, annoiato da quella
puntualizzazione e dall’abilità dell’altro di allontanarsi dall’argomento di
cui dovevano trattare. «Ha solo sentito il tuo odore cambiare e non le è
piaciuto, ho solo tirato le somme».
«Ed è subito corsa da te?» chiese in un’esclamazione, con acidità e
secchezza, stringendo con rabbia il cellulare.
«Stiles, è solo più sensibile di tutti noi e ci tiene molto a te, non
arrabbiarti con lei» gli ricordò, riprendendolo al volo, anche se fosse ben
consapevole che non avrebbe dovuto farlo, ma in quel momento nella mente di
Stiles c’era il caos e l’incertezza; sapere di essere stato controllato, anche
se era stato istintivo, non era qualcosa che apprezzava particolarmente,
soprattutto in quell’occasione.
Stiles sospirò esausto e privo di forze, cadendo a peso morto sulla sedia
vicino alla scrivania, portandosi una mano alla testa per scompigliarsi i
capelli con fare frustrato. «Lo so, lo so».
Derek riusciva a sentire lo scombussolamento e la stanchezza che viveva nel
figlio dello sceriffo in quel momento e non poteva fare nulla per aiutarlo ad
alleggerire quel macigno che ricadeva su di lui. Non poteva toccarlo né
sfiorarlo appena, non poteva baciarlo né stringerselo contro, non poteva in
alcun modo fargli sentire la sua presenza. Era minimizzato a presentarsi sott oforma di una voce che proveniva da un oggetto inanimato e
tecnologico. Stiles aveva soltanto quella, una voce. «Quando è arrivata?»
riprovò con più moderazione, dopo che un lauto silenzio cadde tra di loro,
facendo trascorrere il tempo giusto che sarebbe servito all’umano per
riprendere fiato.
«Stamattina» rispose il diciottenne senza esitazione, abbandonandosi
completamente allo schienale della poltrona, facendola ruotare un po’. «Il
postino si è presentato alla mia porta con la busta in mano quando stavo per
andare a scuola; tempismo perfetto. L’ho lasciata a papà».
Malia l’aveva chiamato soltanto quel pomeriggio, dopo le quattro, quando le
lezioni erano terminate e lei era tornata a casa; non sapeva nemmeno se
rivelarglielo o meno e stava combattendo contro se stessa, perché ancora non
riusciva a gestire ed a capire bene le relazioni umane e tendeva a rivelare
tutto senza filtri, con parole precise e dirette, ma senza interrogarsi più di
tanto. Quando si trattava di Stiles però le cose cambiavano un po’ e la
preoccupazione per il suo benessere prendeva il sopravvento e gli interrogativi
nascevano di conseguenza; l’unico a cui poteva chiedere, in quel particolare
caso, era proprio Derek, che riusciva a comprenderlo perfino a chilometri di
distanza. Al lupo non era rimasto che accertarsene di persona. «Ce l’ha ancora
lo sceriffo?».
«No» negò vistosamente, come se Derek potesse essere lì a guardarlo,
lanciando un’occhiata alla scrivania, vicino al computer, individuando una
piccola pila di buste di varie dimensioni ed una messa in evidenza, poggiata in
rilievo sulle altre; sembrava attirare una certa attenzione. «L’ha messa
insieme alle altre».
«Alle altre? Stiles!» domandò il maggiore con confusione, afferrando con un
secondo di ritardo il loro reale significato e pronunciando con rimprovero il
suo nome. «Da quanto tempo ricevi le lettere d’ammissione?».
«Una settimana, all’incirca» rivelò privo di mortificazione, come se quello
non avesse alcuna importanza, anche se il suo animo stava ribollendo ed
esplodendo.
«Una settimana? Le stai accumulando e basta» una settimana; Stiles riceveva
lettere d’ammissione da un’intera settimana e loro si erano sentiti per tutto
quel tempo, ogni giorno, senza saltarne uno, parlando per ore al telefono e
Stiles non aveva mai fatto cenno alla cosa, tenendola tutta per sé, senza
esternare nulla o tradirsi. Se non fosse stato per Malia, Derek avrebbe
scoperto di quella lettera?
«Non ci riesco, Der» rivelò a mezza voce, del
tutto scoperto ed impreparato. «So che dovrei aprirle, ma non ci riesco».
Derek non avrebbe dovuto stupirsene, Stiles tendeva a somatizzare tutte le
cose più importanti della sua vita, facendosene carico e soltanto nelle
occasioni più fortunate, quelle si manifestavano sotto forma di un attacco di
panico; era certo che ce ne fosse stato uno dietro l’angolo in tutti quei
giorni in cui il diciottenne si era dimostrato spensierato e tranquillo, con
l’ansia sempre in agguato, quando in realtà stava morendo dentro.
La cosa che più lo stendeva, era la consapevolezza che Stiles c’era stato
quando erano arrivate le sue lettere d’ammissione, quando era arrivata la più
importante e l’avevano aperta insieme; Derek non poteva essere lì fisicamente,
non ancora, ed a Stiles mancava qualcuno che lo sostenesse, come lui aveva
fatto per il suo lupo. «Puoi farlo, Stiles. Andrà bene».
«E se non fosse così? Se non ci fosse scritto niente di positivo?» chiese
il figlio dello sceriffo retoricamente, ben consapevole di quella prospettiva e
sempre più distrutto da quella realtà. «L’Hofstra
accetta soltanto il 53% delle richieste d’ammissione che riceve ogni anno, il
restante 47% resta a casa».
«Hanno ammesso me, Stiles» gli fece ben presente il ventenne, facendo
chiaro riferimento alla loro media scolastica che non aveva paragoni. «Non
resterai a casa» e pensare che voleva diplomarsi in anticipo e raggiungerlo un
anno prima; sembrava essersi dimenticato di quella proposta bocciata.
«Sei un asso nel basket, Derek, non ci hanno pensato due volte ad
ammetterti ed hai vinto perfino una borsa di studio per quello; chi è lo
stupido che ti avrebbe lasciato scappare?» riassunse l’umano abilmente,
mettendo in evidenza chi fosse realmente Derek Hale e di quanto potenziale
fosse in possesso.
«E tu sei geniale, maledettamente brillante, sarebbero degli stolti ad
ignorarti» ribatté il licantropo, dettandogli ancora una volta cosa pensasse di
lui e delle sue capacità intellettive, quelle che l’avevano costantemente messo
in risalto.
«Derek» lo supplicò, strozzandosi con la sua stessa saliva e sbriciolandosi
completamente. «Voglio davvero raggiungerti. Non voglio essere separato da te,
non ancora».
«Non devi pensare a questo» lo riprese bonariamente il mutaforma,
sospirando internamente, perché aveva lo stesso identico desiderio. «Hai sempre
aspirato a voler entrare qui, è stato il tuo desiderio per anni. Durante il tuo
primo anno non ho fatto altro che sentirtelo ripetere, io sono arrivato
soltanto dopo. Devi pensare a quello, non a me».
«Mi ascoltavi davvero» soffiò sbigottito ed affranto, accecato da quelle
rivelazioni che si manifestavano nei momenti più impensabili, sfuggendo al
controllo corazzato del licantropo.
A volte aveva ancora delle reticenze, il pensiero pazzesco che Derek Hale,
quel Derek Hale, l’avesse amato fin dal suo primo giorno da liceale;
l’assurdità che una cosa del genere fosse accaduta davvero e lui non se ne
fosse minimamente accorto. Eppure era vero, Derek, il capitano della squadra di
basket, quello idolatrato dal popolo femminile e silenziosamente da quello
maschile, aveva avuto occhi esclusivamente per un ragazzino logorroico ed
iperattivo invisibile a tutti gli altri e da quando si erano rivolti la parola
la prima volta, ringhiandosi reciprocamente, non aveva fatto altro che
farglielo notare. Il lupo in ogni modo possibile gli aveva dimostrato quanto
fosse importante per lui e quanta devozione gli dedicasse.
Le labbra di Derek si serrarono all’istante e dovette maledirsi un po’,
perché continuava a lasciarsi scappare le cose senza accorgersene – ci credo che parli poco, Der;
quando apri bocca ti tradisci. «Entrerai, Stiles» dichiarò con certezza
universale, come se avesse davanti tutte le prove che attestassero quanto
detto, eliminando qualsiasi eventualità di scarto. «E se così non fosse, hai
altre mille possibilità di scelta».
«Lontane da te» enunciò l’umano, ben consapevole di quali fossero le altre
candidate in lista e che quelle che figuravano a New York avessero i campus
sparsi per tutta la città ed il suo dipartimento collocato dalla parte opposta
a quella di Derek; non sarebbero riusciti a vedersi nemmeno per un paio d’ore
nei giorni buoni, la situazione sarebbe diventata più frustrante e dispendiosa
e Stiles avrebbe continuato ad avere una relazione con il suo cellulare.
«Troveremo una soluzione» sentenziò univoco, conoscitore della lista
stilata dal diciottenne; Derek aveva mandato le sue richieste d’ammissione ad
ognuna di quelle voci.
Il figlio dello sceriffo prese un lungo respiro, a metà tra un singhiozzo,
e si propense appena verso la scrivania, afferrando la busta messa in evidenza,
con il logo blu e giallo della HofstraUniversity che emergeva in modo chiaro e distinto, senza
alcuna possibilità di scambio; era preziosa ed importante e Stiles l’aveva
bramata per buona parte della sua vita, ma mai come in quel preciso e
fondamentale momento.
Si sentì il fruscio della carta, la busta che veniva strappata e la lettera
che giungeva per essere estratta, il foglio che si piegava appena e che andava
ad aprirsi per lasciarsi leggere.
Il fiato era trattenuto da entrambe le parti ed a Derek era permesso
conoscere solo il rumore della cellulosa smossa dalle mani tremanti e poco
stabili di Stiles; non avrebbe mai potuto dargli uno sguardo e provare a
rubargli la risposta come lui aveva fatto quando era arrivato il suo turno due
anni prima.
«Dimmi una cosa» proferì l’umano rocamente ed a mezza voce, schiarendosela
con un secondo di ritardo e ricevendo un assenso muto dall’altra parte della
chiamata. «Devo combattere con un altro fan club di scalmanate? Vorrei
prepararmi in anticipo».
Derek comprese immediatamente il significato di quella frase e la natura
scaltra della volpe con cui avrebbe trascorso i successivi anni; tutti quelli
che poteva. «Restatene a casa, non ti voglio qui».
Stiles se la rise di gusto, godendosela appieno e finalmente con il cuore
più leggero.
Strinse al petto la lettera di accettazione più forte che poteva.
Stiles varcò per la prima volta la soglia dell’appartamento dove Derek
aveva passato i primi due anni da universitario, con un certo languore ed
incredulità.
Avevano passato l’estate appena trascorsa insieme, come le due antecedenti,
e l’avevano impiegata a programmare e definire i dettagli – Stiles in realtà,
Derek gli aveva lasciato carta bianca come sempre –, ritagliandosi le giuste
quantità di tempo da passare insieme alla famiglia e agli amici – soprattutto
Stiles –, per poi iniziare ad impacchettare tutto quello che l’umano voleva
portare con sé, riempiendo la casa di scatoloni e facendo impazzire lo sceriffo
ed il lupo mannaro – Derek, portatelo
via, ora!; non era vero, lo sceriffo era l’ultima persona al mondo che
voleva vederlo andar via.
Stiles era la persona più sconclusionata del mondo e poteva far saltare i
nervi come niente, ma era stranamente abile nel seguire le sue liste e nel
mettere tutto in ordine; quelle scatole di cartone erano perfette, ottimamente
etichettate e non si poteva proprio sbagliare nel cercare ciò di cui si aveva
bisogno, ma Stiles era un ansioso cronico e per quanto fosse fiducioso nelle
sue capacità di gestazione, aveva controllato assiduamente i pacchi, aprendoli
in continuazione, finché Derek non lì spedì tutti in massa al loro nuovo
indirizzo, lasciandogli giusto una scatola ed una valigia per le ultime cose.
Stiles si era calmato e le ultime settimane erano state più serene.
Ma poi era arrivato il momento di affrontare l’argomento auto e Stiles non
ne voleva proprio sapere di lasciare indietro la sua amata Jeep, la sua
compagna fedele ed era stato difficile fargli capire che in una città come New
York piena di ogni mezzo pubblico e capitale di imbottigliamento del traffico,
non era il massimo integrare un nuovo motore a quattro ruote, soprattutto se
loro vivevano a due passi dalla facoltà.
«C’è la Camaro» semplificò il lupo, rivelandogli che dopotutto senza mezzi
non rimanevano.
«Vuoi dire che mi farai guidare la tua preziosa e costosa amante?» chiese
Stiles con gli occhi più eccitati che gli avesse mai visto, ghiotto come un
gatto.
Derek si pentì subito di averlo proposto, soprattutto perché Stiles era
impossibile da gestire e sapeva di non avere molta scelta. «Solo se
strettamente necessario» rabbrividì internamente per la sola idea.
Stiles si esibì nel più accecante e luminoso dei sorrisi, baciandolo di
punto in bianco. «Apprezzo lo sforzo».
Il mannaro ancora si chiedeva come avesse fatto a resistergli per tutto
quel tempo e quando Stiles lanciò un’occhiata rammaricata e di prossima
nostalgia alla sua beneamata bambina, Derek cedette – con il tempo aveva
appreso che quell’auto, proprio quella, appartenesse alla madre del ragazzo e
che era rimasta per anni dentro il garage senza che qualcuno la guidasse,
prendendo polvere, anche se lo sceriffo e Stiles le dedicavano amorevole cura,
lavandola con cadenza regolare. Riprese nuovamente vita quando Stiles raggiunse
l’età per guidarla ed abbandonarla equivaleva a separarsi da un nuovo pezzo
della memoria di sua madre. «Se ne avrai bisogno, torneremo a prenderla» perché
Stiles era ancora e sempre il più importante di tutti.
Il figlio dello sceriffo aveva acconsentito con un unico cenno del capo.
Ma ora era lì, nel loft dove il lupo mannaro si rintanava quando le lezioni
terminavano e passava ore seduto da qualche parte a parlare con lui al telefono
– non sarebbero esistiti più quei momenti.
C’era il tocco di Laura in quel monolocale immenso, era troppo ben arredato
e colorato per essere farina del sacco del ventunenne e c’era perfino un enorme
divano rosso di cui Stiles si innamorò immediatamente e, illuminate da una
gigantesca vetrata, sui mobili vi erano sparse delle foto che ritraevano i
componenti di casa Hale e Stilinski, compresi suoi assoli – evidentemente Derek
non era l’unico a tenerlo d’occhio – e all’ingresso soggiornava ancora qualche
scatolone che il mannaro aveva spedito settimane prima e che, evidentemente, la
lupa non era riuscita a sistemare in tempo.
Era perfetto. Era splendido. Ed era loro.
«Non posso credere che sei riuscito a nascondermelo in questi anni» esclamò
quando superò la soglia e fece un rapido sopralluogo visivo, prendendo
familiarità con gli occhi.
«Non c’era alcun motivo per cui dovessi vederlo prima del tempo» disse il
mutaforma entrando dopo di lui, poggiando l’ultima scatola sopra le altre ed
abbandonando le rispettive valigie sull’atrio. «È qui che trascorrerai i
prossimi quattro anni».
«È una promessa?» domandò il diciannovenne con tono intenso e
destabilizzante, incatenandolo con le profonde iridi di miele.
Derek lo guardò di rimando e si ritrovò privo di parole, consapevole che se
avesse pronunciato quella sbagliata non ne sarebbe uscito nulla di buono. «Se è
quello che vorrai».
Stiles indugiò ancora, senza abbassare gli occhi e mantenendo la stessa
carica, ma poco dopo si allontanò in una totale immersione di esplorazione.
Il mannaro non riusciva ancora a capire cosa vivesse esattamente nell’animo
dell’umano, quelle moltitudini di emozioni e sensazioni contrastanti, messe
continuamente in gioco ed in balia delle onde, quelle che si mischiavano tra
loro ed erano impossibili da snodare, trovando in quel caos il vero
capostipite. Era difficile ed incredibile e non c’era nulla che gli suggerisse
quanto Stiles poco apprezzasse quel suo modo di mettere costantemente i suoi
bisogni davanti ai propri, lasciandogli le redini del loro futuro e delle
successive decisioni che ne sarebbero susseguite; ma prima o poi anche quella
sarebbe passata e soltanto un lupo scorbutico e burbero come lui poteva trovare
una volpe ammaliatrice e scaltra che sapeva giostrarlo bene, intrappolata
dentro il corpo di un ragazzino logorroico ed iperattivo.
Stiles giunse davanti alla grande vetrata, perfettamente pulita ed
attraversata splendidamente dai raggi solari pomeridiani e dinnanzi vi era
collocato il grande letto matrimoniale, accarezzato dalla luce e poteva
immaginarsi senza difficoltà il perché Derek avesse scelto quella collocazione
e che esperienza fosse durante la notte, soprattutto quando la luna piena era
alta nel cielo.
Si buttò a capofitto sul materasso ordinato ed impeccabile, girandosi a
pancia all’aria e guardando la vetrata sottosopra. «È prerogativa degli
studenti di astronomia possederne una?» chiese con un guizzo curioso, alludendo
alla parete quasi interamente composta da vetro trasparente.
Il lupo lo intercettò immediatamente e colmò la distanza che li separava,
arrivando davanti al letto e consapevole che Stiles non si sarebbe mosso di lì
per ore – probabilmente fremente di veder giungere il tramonto, febbricitante
di poter osservare il nuovo ambiente colorarsi e la vetrata riempirsi di un
inedito panorama, testimone di uno spettacolo sublime –, fu costretto a sedersi
sul bordo, esattamente all’altezza del suo stomaco. «Mi piaceva».
«Oh, allora c’è qualcosa che ti piace» esalò divertito e compiaciuto,
aprendosi in un sorriso che gli illuminava tutto il viso, mettendo in risalto
le iridi mielate piene di malizia e giocosità.
C’era qualcosa di incantevole in quello che gli veniva proposto in quel
momento, qualcosa che nessuna delle sue stelle, costellazioni e lune potevano
adombrare o mettere in secondo piano, qualcosa che gli era stato privato per
molto tempo e di cui non aveva alcuna certezza, qualcosa che pensava non
avrebbe avuto mai e che appariva così lontana da essere irraggiungibile ed
intoccabile. Stiles era così luminoso ed entusiasta da riuscire a contenere un
segreto che aveva celato a chiunque, qualcosa che fremeva di comunicare, ma che
persisteva nell’aria perché non aveva alcun bisogno di essere sprigionato e
Derek ne era completamente infatuato.
Lo baciò lì, sul letto dove aveva soggiornato per due lunghi anni da solo,
intervallati da piccoli momenti portati dalle lunghe telefonate sconclusionate
del figlio dello sceriffo; proprio quel letto che non aveva condiviso con
nessuno e che silenziosamente stava aspettando il suo nuovo occupante che
soltanto più tardi sarebbe giunto.
Lo baciò con delicatezza e con ardore, gustandosi la compattezza delle sue
labbra e dedicandogli tutto il tempo e le attenzioni del mondo, condividendo il
suo segreto e lasciandolo a corto di ossigeno.
Stiles annaspò appena quando riprese fiato ed i suoi grandi occhi
d’ambrosia si incatenarono alle gemme di smeraldo, trovandole insaziabili e
piene di qualcosa che non riusciva ancora a decriptare. «E questo, per
cos’era?».
C’era ancora un mondo che Stiles doveva imparare ad interpretare e cogliere
e lui era del tutto propenso ad immolarsi. «Sei qui».
La voce di Derek appariva ancora incredula e sospesa nella sua
impassibilità controllata ed era univoca e pressante e riusciva a capire quanto
il loro essere lì, proprio in quell’appartamento, esattamente su quel letto, il
giorno prima dell’essere immatricolato nell’università a cui entrambi avevano
fatto domanda per motivazioni differenti, che poi erano diventate comuni, fosse
destabilizzante eppure reale, dopo la grande distanza che si era frapposta tra
loro ed il desiderio ardente di poter essere di nuovo insieme, senza alcun
impedimento che potesse loro nuocere. Ed in tutto quello erano compresi i
desideri che Derek aveva tenuto per sé ben prima che l’interesse divenisse
reciproco, quando la sua unica speranza era limitarsi a scalfire il suo campo
d’azione; non vi era alcuna vita insieme né un bacio né uno sfioramento nel suo
immaginario ed in quel momento, proprio in quello, al lupo veniva presentato un
futuro completamente intrecciato a quello del ragazzino che aveva amato nella
sua segretezza. Per quanto ne avessero parlato e programmato fino
all’inverosimile, nulla valeva quanto la prova inconfutabile che si trovava
sotto le sue dita, davanti ai suoi occhi ed a contatto con la sua bocca. «Siamo
qui» lo corresse l’umano con candore e profondità, depositando la mano sinistra
sulla guancia ispida, data dalla barba dei tre giorni, del lupo e lasciandovi
aderire la freschezza, insieme al calore, del metallo d’argento che gli
circondava l’anulare, dove vi era incisa la loro triscele personale. «Non
azzardarti mai più ad andartene senza di me».
Derek lo legò ad un nuovo bacio, delegandogli il responso della sua
risposta e Stiles lo trascinò via con sé.
«Derek. Derek!» Derek era appena uscito dalla caffetteria, bevendo il suo
caffè e prendendo una bottiglietta d’acqua, che gli sarebbe senz’altro tornata
utile durante e dopo gli allenamenti con la squadra di basket, insieme ad
alcuni compagni del suo corso dell’ora che era appena terminata, quando un
tornado senza inibizioni sbucò dai corridoi, superando i vari studenti con
varie scivolate ed urti e arrivando a lui ansimante e curvo.
«Non eri fuori sede oggi?» domandò nel momento in cui riuscì ad identificare
lo tsunami che gli si parava davanti con il fiatone, il busto piegato e le mani
aperte poggiate sulle cosce per riprendere fiato.
«Sì, infatti» farfugliò Stiles a corto d’ossigeno, piegandosi ancora un po’
e facendo forza sulle braccia per lanciargli un’umile occhiata, giusto per
constatare di essere arrivato davvero dove voleva. «Ho corso fino a qui».
«Lo vedo» constatò il lupo osservandolo bene e del tutto disinteressato
alle teste che si erano voltate verso di loro e al suo gruppo che si era fermato
per aspettarlo e, probabilmente, per curiosare. «Tieni» disse atono, allungando
il braccio verso di lui e porgendogli la bottiglietta d’acqua fresca appena
acquistata e già sprovvista di tappo.
«Oddio, sì! Ti amo da morire» esclamò il figlio dello sceriffo di tutto
cuore, afferrando l’oggetto che gli veniva offerto ed ingurgitando il liquido
trasparente con grossi sorsi che avrebbero fatto affogare chiunque – poi
sarebbe toccato a Derek intervenire.
Il licantropo non proferì nulla, del tutto immune alle reazioni di Stiles
che erano dettate dal puro istinto e dal suo filtro del tutto inesistente.
«Perché sei qui?» alcune lezioni del diciannovenne si tenevano fuori dal campus
a giorni alterni e mai fissi ed a volte Stiles doveva correre da una sede all’altra
per seguire tutti i corsi a cui si era iscritto, ed erano davvero tanti e
notevoli, e spesso non avevano nemmeno il tempo di un saluto veloce per poi
rivedersi ore più tardi. Ma era certo che quel giorno Stiles non avesse alcuna
lezione nel campus principale e quello esterno era a diciassette minuti di
distanza a piedi e otto con i mezzi, l’umano tendeva a usare quelli per
risparmiare tempo ed energie, quindi gli stonava un po’ ritrovarselo in quelle
condizioni: sudato, stremato e con ancora l’ossigeno rarefatto.
«Devo consegnare una relazione entro due ore» proferì quando ebbe finito di
svuotare quasi tutta la bottiglietta, restituendola alle mani del legittimo
proprietario che era pronto a riceverla, riavvitando il tappo. «Ma l’ho
dimenticata a casa, anche se ero sicurissimo di averla presa, e quindi devo
assolutissimamente ritornare a prenderla, ma ho dimenticato le chiavi; mi
presti le tue?» confidò alla velocità del fulmine, mangiandosi qualche sillaba
e fondendo alcune parole e mostrando due grandi occhi dolci, completamente
dorati, mortificati e da cucciolo indifeso.
Derek sbuffò appena, del tutto consapevole di quanto quelle iridi e quello
sguardo avessero potere su di lui, benché fosse conscio di quale disastro fosse
quel ragazzo e non del tutto sprovvisto di fronte a quell’eventualità portata
dalla sua distrazione persistente; era solo questione di tempo prima che Stiles
ne commettesse una delle sue. «Fa’ attenzione» disse quando le estrasse dalla
tasca con tanto di portachiavi incorporato – una splendida volpe rossa dagli
occhi ambrati, un oggetto unico ed irripetibile, che gli aveva regalato Stiles
stesso la sera prima che partisse per New York, per il solo ed esclusivo uso
delle chiavi del nuovo appartamento. Derek due anni dopo, davanti alla porta
del suddetto appartamento, gli aveva donato il pacchetto completo: le chiavi
del loft con un lupo nero dagli occhi azzurri –, depositandole in una mano già
aperta e pronta per afferrarle.
«Sì, certo» lo rassicurò l’umano con entusiasmo e l’agitazione che si
spegneva, dedicandogli un luminoso e riconoscente sorriso. «Sei il mio
salvatore».
Derek lo vide andare via com’era arrivato: in una nuvola di fumo che
investiva chiunque si trovasse davanti alla sua traiettoria.
Non gli rimase che vederlo allontanarsi, per poi voltarsi e proseguire
insieme al suo gruppo di compagni che persisteva a rimanere lì intorno ad
aspettare.
Fu voltato e tirato da una mano quasi subito, incatenato in un bacio
fremente, pieno di sentimento e gratitudine – per cosa esattamente non sapeva
dirlo –, morsa che ricambiò immediatamente, attirando il corpo dell’altro più
vicino al proprio. «Ti amo davvero, Derek» confessò Stiles con autenticità,
riempiendo tutto lo spazio circonstante con quella verità e l’amore immenso che
provava, scoccandogli un nuovo bacio.
«Potevi chiamarmi, te le avrei portate» disse il ventunenne ad un soffio
dalle sue labbra, scompigliandogli i capelli completamente sfatti di loro ed
accentuati dalla corsa improvvisa di quel pomeriggio.
«Hai gli allenamenti» gli ricordò il figlio dello sceriffo, abbandonandosi
al suo tocco e trattenendo le fusa.
«Posso saltarne qualcuno» proferì il mannaro, senza dovergli fare alcun
riferimento alla sua natura sovrannaturale e alla sua predisposizione per
quello sport.
«Lo so» ammise pienamente consapevole, ma del tutto poco incline a volerlo
strappare dai suoi doveri; Stiles dopotutto aveva una coscienza e non avrebbe
mai voluto che Derek abbandonasse tutto per lui. O meglio, che continuasse a
farlo.
Derek gli alzò maggiormente il viso, beandosi ancora delle sue gemme
d’ambra e riappropriandosi delle sue labbra, coinvolgendole in una nuova morsa
passionale e piena di loro; non si sarebbe mai stancato di averle su di sé.
«Non avevi fretta?».
Stiles mugugnò contrariato e scontento, riportato nel mondo reale con
crudeltà – con un bellissimo bacio ed incentivo, ma sempre con crudeltà – e
vile inganno. «Posso trascorrere cinque minuti con te».
Il lupo mannaro sapeva bene che quei cinque
minuti sarebbero diventati molti di più, non che disdegnasse, ma era
preferibile avere uno Stiles tutto per sé che con la mente altrove, a cercare
di trovare il modo di risolvere i suoi problemi – anche se li avrebbe risolti
con uno schiocco di dita. «Avanti, volpe» disse nel momento in cui gli schioccò
un bacio tenero sulla fronte libera, accarezzandogli il cuoio capelluto con la
punta del naso.
Le labbra di Stiles si curvarono automaticamente verso l’alto, lasciandosi
viziare ancora un po’ – Derek era l’unico al mondo a viziarlo, l’unico dopo la
morte di sua madre; non c’era stato più tempo e modo per quel tipo di
concessione. «Ci vediamo più tardi?».
«Sì» si sarebbero rivisti soltanto quella sera a casa, poco prima dell’ora
di cena – sempre se Stiles non avesse lasciato entrambi i mazzi di chiavi al di
là della porta chiusa.
Stiles si congedò con la promessa sulle labbra, salutandolo calorosamente e
ripartendo velocemente verso la sua destinazione e Derek si ricongiunse al suo
gruppo, di cui gli importava molto poco, e che lo guardava sbalordito ed un po’
imbarazzato – l’imbarazzo tipico scaturito dalle effusioni in pubblico e su cui
né lui né Stiles si soffermavano particolarmente –, prendendo successivamente
il cellulare in mano per avvisare Laura, che possedeva un terzo mazzo di
chiavi, nel caso un certo ragazzino iperattivo e logorroico li avesse lasciati
chiusi fuori casa.
«Stiles, potresti prestarmi i tuoi appunti?».
Non era una novità, Stiles dispensava i suoi appunti a chiunque ne avesse
bisogno, senza fare troppe cerimonie o tirandosela giusto un po’ perché era il
migliore in tutti i corsi. Aiutare gli altri faceva parte della sua indole, era
un tassello chiave del suo essere ed era abituato a condividere tutto con il
suo gruppo, soprattutto con Scott – Scott ne aveva un disperato bisogno –,
quindi non ci pensava molto a condividerli ed i professori usavano i suoi
schemi durante le sintesi conclusive di un programma, prima di affrontare
l’ennesimo test; quindi no, non aveva molto senso tenere segreto il suo lavoro
appena abbozzato, che rimetteva in sesto una volta rientrato tra le mura
domestiche – quello sì che non lo condivideva con nessuno. Eccetto Derek, che
durante i suoi periodi di noia e volendosi distaccare dai suoi studi, prendeva
a divorare tutto quello trascritto da Stiles, senza importargli dell’argomento,
perché l’umano aveva la capacità di rendere interessante anche l’inerzia più
estrema.
Ma Theo Raeken non era interessato unicamente ai
suoi appunti. «Sì, non c’è problema» non quando si attardava per aspettarlo
quando una lezione si concludeva ed ognuno era libero di andare dove voleva o
quando se lo trovava nelle vicinanze mentre sostava in coda alla caffetteria o
alla mensa e quando riusciva ad incrociarlo perfino in biblioteca, luogo sacro
per gli studenti intenti nella più nobile delle attività: superare un esame.
Theo abbozzò un sorriso accentuato, quasi di vittoria e si premurò di
afferrare la manciata di fogli, inglobati da una graffetta, che il figlio dello
sceriffo gli stava porgendo, estratti dalla magica cartellina plastificata di
verde che conteneva tutte le parole trascritte quel giorno. «Grazie».
Stiles rispose con un sorriso di circostanza, allontanando le dita quando
quello cercò di sfiorarle con la scusa delle pagine piene di scritte da
afferrare e nell’immediato una figura aitante e scura si materializzò al suo
fianco, con due bicchieri di caffè dello Starbucks del campus.
Il ventenne alzò gli occhi sulla figura ombrata, incontrando le gemme di
giada interamente dedite a lui ed allungò un braccio per prendere la bevanda
calda e sublime, con tanto di caramello sciolto ed una spruzzata di cannella,
che portava il suo nome scritto sul termos di cartone da un pennarello nero.
Stiles gliene fu riconoscente e sfiorò le sue dita con gratitudine. E amore.
«Sei Derek Hale» esclamò Theo sbalordito e spiazzato, anche se cercava di
nasconderlo molto bene, probabilmente perché non si aspettava di trovarlo lì,
nella biblioteca e con un caffè per ogni mano. «Il capitano della squadra di
basket».
A Stiles sembrò stranamente familiare quella composizione di parole, un
déjà-vu che proprio non ne voleva sapere di smettere di ripetersi e curvò le
labbra in modo irriverente, gustandosi il fastidio evidente del lupo nascosto
sotto la sua imponenza ed impassibilità.
Derek non avrebbe accertato che fosse proprio lui, cosa avrebbe dovuto
dire? Sì, sono io? Non gli interessava minimamente, si limitò semplicemente a
distogliere lo sguardo dall’umano per spostarlo verso il suo evidente compagno
di corso, lasciando che il nuovo costretto interlocutore ne traesse le sue
conclusioni, quelle che preferiva.
«Al secondo anno hai battuto il record di punti realizzati in una stagione,
raggiunto trent’anni fa dalla nostra università» rivelò Theo con uno strascico
di entusiasmo controllato ed incredulità – c’era fanatismo nell’aria? –,
sventolando tutto quello che i premi tenuti nella bacheca di vetro all’ingresso
della HofstraUniversity
mettevano in bella mostra. «Hai battuto il tuo stesso record lo scorso anno e
hai buonissime possibilità di stanziarne uno nuovo quest’anno».
Uh, come riassumere una carriera sportiva in
poche parole.
In realtà tutti in facoltà sapevano chi era Derek Hale e le sue fatiche,
dov’era giunto e cosa potesse fare ancora, l’essere tra i migliori nel suo
dipartimento di astronomia, ma era ovvio che i suoi risultati sportivi fossero
ciò che saltava di più all’occhio e che si entrasse in un tunnel di tifoseria,
esaltazione ed ammirazione radicata.
Chiunque incontrasse Derek, sebbene a conoscenza della sua appartenenza
alla più alta scala di asocialità, ma accompagnata dalla sua capacità di
sopportazione di ciò che gli era più ostico, pensava che parlare con lui,
esaltando le sue doti e facendogli capire di sapere esattamente chi fosse, li
facesse entrare automaticamente nelle sue grazie o almeno nella facciata della
buona convivenza. Derek, invece, lo trovava fastidioso e molesto e non si
impressionava minimamente; non gliene importava nulla se quelli che lo
circondavano lo ammirassero o idolatrassero ed automaticamente finivano nella
sua lista nera; lista incredibilmente lunga e quasi infinita – Derek, smettila di stilarla, l’unico nome
che manca è il mio, lo beffava prontamente l’umano quando vedeva quel
particolare sguardo omicida nei suoi occhi.
Posso aggiungerlo quando voglio, Stiles, ribatteva lui, del tutto sordo
alla sua insubordinazione.
No, Theo Raeken poteva rimanersene esattamente
dov’era. «Sì» disse soltanto il licantropo, un’affermazione che non voleva
comunicare nulla e che confermava ancora meno: sì, cosa?
Theo lo guardò per un lungo istante, con una sfumatura negli occhi che
proprio non gli piacque. Stiles sapeva benissimo quanto il coetaneo non
apprezzasse quando qualcuno non lo accettava, rifiutato e messo da parte, ma
ancora di più quando non attirava alcuna attenzione ed interesse e lui era
piuttosto abituato ad attirarle su di sé, a portare le persone dalla sua parte,
a giostrarle e manipolarle quel tanto che servisse per usarle.
Era una persona che a Stiles proprio non piaceva, lo irritava e lo trovava
quasi disgustoso nel suo essere subdolo e doppiogiochista con la maschera da
bravo ed onesto ragazzo che attirava le simpatie delle persone. Era falso e
finto, ma a differenza di Derek, il figlio dello sceriffo sapeva giocare bene
la carta della buona convivenza e tutto ciò che ne sarebbe uscito, sarebbe
stato un insignificante scambio di appunti.
Theo si rese conto troppo tardi di che cosa comportasse avere lì davanti
Derek Hale ed il suo possedere due caffè, diventato uno nel momento in cui
Stiles l’aveva preso dalla sua mano, accarezzandogli quasi con casualità la
punta delle dita e bevendo il primo lungo sorso quando attaccò ad elencare ciò
che sapeva sul capitano della squadra di basket. «Vi conoscete?» poteva
apparire una domanda stupida se Derek Hale era tornato dalla caffetteria con
due bicchieri extralarge di bevanda nera e fumante, porgendone uno al ragazzo
dagli occhi d’ambrosia, ma in un primo momento non aveva fatto molto caso alla
cosa ed in quell’istante, proprio quando Stiles aveva inghiottito il primo
sorso di caldo tepore ed aveva rivolto le sue iridi di caramello verso quelle
di smeraldo, dedicandogli un sorriso di apprezzamento e qualcosa di etereo che
non seppe interpretare, un allarme indefinito risuonò dentro di lui e quella
vocina fastidiosa che bisbigliava piano cosa
ci fanno due personalità così diverse ed opposte, un lupo solitario e una volpe
giocherellona e piena di vita, vicine? I loro mondi non si incontravano neppure.
«Uhm, sì, abbastanza» riferì Stiles senza alcun imbarazzo, prendendo un
nuovo sorso del suo caffè, che scese dolce come la composizione di zucchero
ambrato ed acqua che conteneva, stuzzicandogli il palato e la gola con la
cannella incorporata.
«Stiamo insieme» disse soltanto Derek, scandendo bene le parole e facendo
cadere un peso lodevole sull’unico periodo completo che aveva proferito.
Oh, il ventiduenne non rivelava mai il loro stato
di coppia di sua iniziativa, lasciava semplicemente che gli esterni lo
capissero da soli o, se proprio ci teneva, era Stiles a rivelare come stavano
le cose. A Derek non importava proprio, non aveva alcun motivo per cui avrebbe
dovuto comunicare ad esterni ed estranei cosa ci fosse nella sua vita e con chi
condividesse il letto, rotolandoci dentro. Non vi era alcuna ragione del perché
la gente dovesse immischiarsi nei suoi affari privati, conoscendo per filo e
per segno l’amore che provava per Stiles e che era a portata di tutti, se solo
avessero aguzzato gli occhi – era una bugia, non facevano che amoreggiare dalla
mattina alla sera, davanti a chiunque si trovasse tra loro o intorno a loro –;
semplicemente non aveva bisogno di un cartello che attestasse il loro stare
insieme – sei proprio un bugiardo, Der. Non è lo scopo dei nostri anelli? Derek lo
ignorava tutte le volte.
Derek aveva un unico motivo per cui avrebbe dovuto rivelare cosa ci fosse
esattamente tra loro, il territorio che doveva marcare ed il probabile
candidato e sfidante che si presentava alla sua porta. Lo avrebbe ridotto in un
mucchietto d’ossa, in cenere, quello era certo.
Fu consequenziale la rivelazione che si presentò agli occhi di Theo, il
chiacchiericcio che sormontava attorno alla figura di Derek Hale, all’esercito
di studentesse invaghite di lui, ma che non facevano mai un passo, perché il
capitano era già impegnato, fedele come nessuno – ha aspettato la sua controparte per due anni, nel loro appartamento,
non è romantico? –, ed aveva notato fin da subito l’anello d’argento con la
striscia d’oro rosso, con tanto di triscele al suo centro, che Stiles portava
orgogliosamente sull’anulare sinistro, senza toglierlo mai, ma non gli aveva
mai dato alcun peso ed in realtà gli ostacoli rendevano solo più ghiotto il
bottino. Ma adesso, in quel momento, vedeva lo stesso identico anello
sull’anulare sinistro di Derek Hale e non vi era alcuna partita da giocare. Sì,
decisamente, si conoscevano molto bene. «Appena avrò finito, ti farò riavere
gli appunti» dichiarò semplicemente, incapace di dire qualsiasi altra cosa,
congedandosi con un cenno del capo, ricambiato da un gesto di saluto dalle lunghe
dita di Stiles, e seguito dallo sguardo severo del lupo solitario. Non gli
servivano nemmeno quei maledetti appunti.
«Ehy, lupone» chiamò
piano il figlio dello sceriffo, facendo scivolare le dita della mano sinistra
in quelle della mano destra dell’altro, prendendole tra le proprie e tirandolo
verso di sé, per richiamare la sua attenzione e guidandolo alla sedia posta
vicino a lui. «Ha capito l’antifona».
Derek ricambiò la sua presa, stringendo le falangi tra loro e persistendo
nel guardare ancora torvo il ragazzo che era appena scappato via. «Lo spero per
lui».
«Guarda me» sussurrò avvenente e pretenzioso, lascivo e bisognoso di
attenzioni, scivolando dalla sua seduta scomposta verso il lupo, sfiorandogli
una gamba con la propria.
Il mannaro fu attirato immediatamente, riconoscendo il suo calore e la sua
forma da predatore, voltandosi verso le gemme d’ambrosia che brillavano alla
sua vista. «Sei proprio una volpe ammaliatrice» soffiò quando si chinò su di
lui, baciando quelle labbra accattivanti che si curvavano in una piega
malandrina e trionfale. Morsa a cui Stiles partecipò attivamente, legandolo a
baci sempre più lunghi ed invasivi.
«Hale! Stilinski! Non è il luogo più appropriato per le vostre effusioni»
li richiamò all’ordine una voce severa ed autoritaria che si stanziò tra loro,
interrompendo il loro idillio d’amore.
Stiles interruppe il loro contatto, soffocando uno sbuffo intransigente tra
le labbra del ventiduenne ed appoggiando una tempia sulla sua fronte in un
tocco che non gli permettesse di separarsi interamente da lui, adocchiando la
figura austera che si parava davanti a loro. «Ci scusi, signora Sherman» la signora Sherman era
la responsabile della biblioteca dell’università, a cui teneva particolarmente,
trattandola come se fosse una sua creatura preziosa e bisognosa d’attenzioni,
senza che le brutte abitudini delle nuove generazioni che vi entravano
potessero deturparla.
Era poco intransigente, se non veniva consegnato un libro entro la data di
scadenza, era lei stessa a rintracciare lo studente colpevole, intercettarlo ed
inseguirlo finché non glielo avesse restituirlo – tutti hanno il diritto di consultarlo, non è una tua proprietà –;
non ammetteva troppo contatto fisico tra gli studenti ed imponeva un silenzio
perpetuo che permettesse a tutti gli universitari di studiare tranquillamente,
ma era abbastanza caritatevole da lasciare libero spazio ai bisbigli
controllati – si tenevano intere conversazioni – e faceva finta di non vedere
chi entrava con un bicchiere di caffè che li salvava dalla stanchezza e dalla
sonnolenza che era tipico colpirli spietatamente. «Ma oggi non ci siamo proprio
visti» era vero. Derek era uscito quella mattina presto, lasciando Stiles nudo
ed avvolto esclusivamente dalle coperte che aveva rubato durante la notte,
schioccandogli solamente un bacio sulle labbra a mezza veglia e lasciandogli
del caffè appena fatto nel termos d’acciaio – edizione limitata di Star Wars -
L’Impero Colpisce Ancora, perché Stiles amava troppo quel tipo di cose –,
precipitandosi verso il portone a scorrimento ed afferrando di slancio le
chiavi di casa.
Stiles si era svegliato molto più tardi ed il caffè era ormai lievemente
tiepido, ma era un gesto che apprezzava con tutto il cuore.
La bibliotecaria li guardò per un lungo momento con i suoi occhi attenti e
scrupolosi, ignorando bellamente i bicchieroni stracolmi di bevanda nera e
bollente – quello di Stiles era già a metà e c’era il rischio che si bevesse
anche quello di Derek ad un certo punto. «Vi concedo tre minuti» quello era
inconsueto e stranamente piacevole. Solitamente tendeva a dargli trenta secondi
o nei momenti di massima ispirazione, si sbilanciava ad un minuto scarso. Ma
tre minuti, tre minuti erano troppi anche per lei. Che fosse particolarmente
caritatevole perché quel giorno vi era la partita di metà campionato – e che si
dica, era davvero importante?
La signora Sherman era forse tra le più accanite
tifose della squadra di basket; quando vi era una partita faceva sloggiare
chiunque vi fosse dalla biblioteca, perfino il preside, e non voleva sentire
storie, chiudendola con largo anticipo e precipitandosi per prendere i posti
migliori ed ogni studente doveva appuntarsi autonomamente il calendario
sportivo, se ci teneva alla pelle. Quindi sì, in qualche modo la signora Sherman era una grande e sfegatata ammiratrice di Derek
Hale e la sua preferenza nei loro riguardi era solo una lauta casualità.
«Perché vengo richiamato ogni volta che sono con te?» domandò retoricamente
il lupo mannaro quando la bibliotecaria si allontanò, lasciandoseli alle
spalle.
Stiles sbuffò un risolino nella sua bocca, baciandogliela con dispetto
studiato. «Perché ti sei scelto un attira guai».
Derek adagiò il suo bicchiere traboccante di caffè sul ripiano di legno,
tenendogli fermo il viso con una mano ed impossessandosi della sua bocca, in
una morsa profonda e carica di sentimento, impadronendosi totalmente
dell’umano. «Ti amo, immensamente».
Stiles boccheggiò in risposta, rimanendo immobile con il fiato rarefatto e
le iridi ambrate giganti e liquide. «Torna subito da me dopo la partita» disse
quando si sbilanciò per abbracciarlo, nascondendo la testa tra l’incavo del
collo e la spalla e stringendolo dal lato in cui teneva ancora il caffè al
caramello.
Non era più libero di raggiungerlo negli spogliatoi durante le partite e il
massimo che poteva fare era rimanere ad aspettarlo fuori, anche se i ragazzi
della squadra gli avevano dato campo libero, ma quando vincevano una partita
tendevano ad andare a festeggiare ed era giusto, quindi Stiles preferiva
restare al suo posto, limitandosi a guardarli giocare e tornandosene a casa
quando Derek rimaneva con loro; doveva soltanto aspettarlo.
Ma quel giorno sembrava davvero difficile farlo, comportarsi da persona comprensiva
ed ignorare la sua parte egoistica che saltava sempre nei momenti meno
opportuni.
Erano stati separati per molto più tempo, non doveva pesargli così tanto,
ma quando Derek gli confessava quanto lo amasse a voce alta, benché glielo
comunicasse sempre ed in qualunque modo, non riusciva proprio a trattenersi e
l’unica cosa che voleva era rimanere con lui in ogni attimo concesso, senza
alcuna divisione ed imposizione tra loro.
«Sì» soffiò convenevole il mutaforma, immergendo le dita della mano sinistra
tra i suoi capelli, mentre l’anello spiccava incontrollato, adagiando un bacio
bollente sull’orecchio, mentre Stiles si stringeva ancora più forte.
Quei tre minuti Derek se li prese tutti, fino all’ultimo millisecondo.
«Il tuo anello mi ricorda molto quello di Derek Hale» a Tracy Stewart
capitava spesso di intrattenersi con Stiles Stilinski tra una lezione e l’altra
o durante un recupero di gruppo. Avere Stiles nella squadra era sempre una
carta vincente ed era davvero difficile che negasse qualsiasi tipo di aiuto o
si astenesse dal farlo; era sempre ben disposto ed i suoi appunti e mappe
concettuali erano una manna dal cielo a cui nessuno riusciva a resistere,
quindi sembrava di assistere ad una continua gara quando qualcuno voleva
strappargli un pomeriggio di studio e Stiles concedeva a tutti il suo tempo –
tutti quelli che riuscivano a sopportare il suo chiacchiericcio continuo e la
sua iperattività –, finché non spariva magicamente o si dileguava con borbottii
di scuse, ma nessuno diceva nulla e facevano tesoro di quello che ottenevano.
Quindi dopo l’ennesimo pomeriggio di studio, formato da un gruppo ristretto
e con l’acqua alla gola, Tracy fu catturata per la prima volta da quell’anello
d’argento, con annesso di una striscia d’oro rosso ed una triscele incisa al
suo centro. Non che non l’avesse già notato prima, ma in quel momento la colpì
un lampo di ricordo, talmente veloce che l’acchiappò a malapena e dovette
costringersi per mantenere l’immagine fissa e frapporle tra loro.
Stiles fu chiamato in causa e, mentre prendeva i fogli sparsi sul tavolo da
lavoro improvvisato, mettendoli dentro la sua plastificata cartellina verde, si
girò verso di lei con sguardo confuso, posando poi gli occhi sull’oggetto in
questione ed afferrando un fascicoletto più fornito ed ordinato che inserì
nella cartellina blu elettrico. «Ah, sì? L’hai mai incontrato?».
«Qualche volta» era facile trovare Derek Hale per i corridoi, era sempre un
po’ dappertutto e spesso lo si trovava in fila alla caffetteria
dell’università, un caffè per mano, senza avere nemmeno più il bisogno di
specificare cosa volesse.
Quasi tutti accorrevano durante le partite di basket ed anche se gli
allenamenti quotidiani erano chiusi al pubblico, gli studenti riuscivano
comunque ad assistere e nessuno della squadra si era mai lamentato o aveva
fatto reclamo. Quindi sì, era facile incontrare Derek Hale, meno parlarci.
La maggior parte del suo tempo era da solo, doveva esserci una strana
congiunzione astronomica per vederlo con qualcuno ed una cometa in arrivo per
beccarlo a parlare con qualcun altro. «Una volta mi ha anche aiutato a
raccogliere tutti i libri che il professore di sociologia aveva richiesto, mi
sono ritrovata improvvisamente sepolta» era stato in quel momento che aveva
notato l’anello sferzare sull’anulare sinistro. Era talmente insolito e
significativo che non era riuscita a toglierselo dalla testa; dopo un po’
l’aveva rimosso.
Il figlio dello sceriffo abbozzò un sorriso e le due cartelline furono
allineate insieme, bloccate da tre tomi giganti e tutti della stessa materia.
«Doveva essere particolarmente ispirato».
«L’ho pensato anch’io» convenne la ragazza, riponendo con cura il materiale
raccolto. «Magari assisterò a nuovi prodigi in questi due anni. A quanto pare
ha chiesto di rimanere per sviluppare una ricerca» Derek Hale si era laureato
nell’estate appena trascorsa con un punteggio notevole, il quarto del suo corso
e prima di quel fatidico giorno, aveva già inviato la sua domanda per rimanere
come volontario di ricerca per i successivi due anni. «Ero convinta avrebbe
continuato con la carriera sportiva» invece aveva rifiutato tutte le miliardi
di offerte che aveva ricevuto da quasi tutto il paese, tentando di
accaparrarselo prima degli altri; nessuno aveva vinto e l’Hofstra
si era ritrovato con un ricercatore in più – quelli servivano sempre.
«Forse non era quello che voleva» proferì il ventunenne più a se stesso che
alla sua interlocutrice, collocando la sedia utilizzata sotto il tavolo da
lavoro ed indirizzandosi verso l’uscita dall’aula presa in prestito.
Tracy lo sentì bene, come notò la carezza involontaria che Stiles diede al
suo anello, quell’anello spaventosamente simile a quello di Derek Hale. Lo
tenevano perfino sullo stesso dito della medesima mano, per Giove!, non poteva essere una coincidenza. «Lo conosci?».
«Chi non conosce Derek Hale» rispose semplicemente il figlio dello
sceriffo, con l’ovvietà contenuta nella voce ed il leggero sorriso di
circostanza che spesso spuntava sul suo viso; era davvero bravo ad eclissare le
domande.
«Come pensavi di rientrare?» chiese la voce profonda ed annoiata che li
colse all’improvviso quando varcarono l’uscio della porta e si ritrovarono nel
corridoio quasi vuoto, prendendoli alla sprovvista e facendoli trasalire
nell’immediato.
Stiles riconobbe all’istante il proprietario di quella cadenza che a modo
suo si prendeva gioco di lui, rimediando ai suoi errori ed alle sue distrazioni
e che per quanto sbuffasse e gli dedicasse sempre un’espressione torva, correva
comunque in suo aiuto senza che glielo chiedesse. «Scusa, Der.
Ero convinto di averle prese, questa volta» disse quando i suoi occhi
incontrarono le iridi di giada che gli sventolavano davanti al viso le chiavi
del loro appartamento, con il lupo nero e dagli occhi blu di metallo che
dondolava spassionatamente.
Derek gli lanciò un’occhiata oblunga, chiaro segno di quanto poco gli
credesse e del tutto conoscitore della distrazione dell’altro. «Erano
esattamente dove le avevi lasciate».
Lo studente di criminologia soffiò sconfitto e quasi privo delle sue famose
energie, prendendo il mazzo di chiavi tra le mani e stringendole un po’,
osservandole attentamente. «Mi dispiace, non eri costretto a riportarmele».
L’attenzione del lupo mannaro fu accesa totalmente, percependo qualcosa di
anomalo nell’umano e facendo scattare i suoi sensi. «Il mio turno inizierà tra
poco».
«Sì, giusto» proferì abbattuto e provato il ventunenne, piegando il capo ed
adombrando le perle dorate, dando un’ultima stretta alle chiavi di casa e
confinandosele in una tasca dei pantaloni.
Derek una volta a settimana, o anche di più se capitava, teneva il turno di
notte all’osservatorio astronomico dell’università, in compagnia delle sue
stelle e dei suoi pianeti e cercando di portare a termine la sua ricerca. In
realtà Stiles non aveva mai voluto indagare fino in fondo su quello, volendo
che Derek si occupasse del suo progetto come più desiderava. Probabilmente
stava cercando una nuova cometa che passasse ogni triliardi di anni dalla terra
o qualunque cosa di cui Derek potesse occuparsi.
Sì, Derek non tornava tutte le notti a casa, spesso riuscivano ad incontrarsi
soltanto tra i corridoi del campus e la mattina non riuscivano mai a vedersi,
ognuno con l’orario più sballato dell’altro; ma la sera, quando il mutaforma
era lì, non c’era verso che passassero due secondi lontani l’uno dall’altro e
alla fine crollavano senza nemmeno rendersene conto.
Derek percepì la malinconia impossessarsi degli organi interni dell’umano,
insidiandosi dentro i muscoli e gli prese il mento tra il pollice e l’indice,
alzandogli il capo per guardarlo meglio e riuscire a leggere che cosa gli
nascondesse. «Stiles, cosa c’è?».
Stiles si sciolse subito a quel contatto, per quanto gli anni passassero,
non sarebbe mai diventato immune a tutto quello, al contrario ne cercava sempre
di più ed il lupo era sempre ben disposto a dargli tutto quello che voleva,
tutto quello che volevano entrambi. Il tocco di Derek era qualcosa che
allietava il suo animo. «Sono solo… va tutto bene» non sapeva nemmeno quello
che avrebbe dovuto dire.
Il ventitreenne gli accarezzò un lato della mandibola, schioccandogli un
bacio tenue e dolce sulla fronte aperta, completamente lasciata libera dai
capelli che andavano da tutte le parti, ed a cui Stiles sospirò liberatorio.
«Sei stanco» quando Stiles cedeva alla stanchezza, la sua negatività cadeva a
fiumi senza che riuscisse a gestirla o che ne avesse consapevolezza; accadeva e
basta. Si lasciava andare ad atteggiamenti miti che non sarebbero mai emersi se
fosse stato in possesso delle sue piene facoltà ed occorreva saperli cogliere,
per toglierlo dall’impiccio ed evitare che le cose peggiorassero. Erano solo
brevi momenti, che con il metodo giusto, spiravano via.
Stiles poggiò la fronte sotto il suo collo, abbandonandosi addosso al suo
torace e lasciandosi avvolgere dall’unico braccio con cui Derek se lo strinse
contro. «Posso gestirlo».
Era vero solo a metà, l’altra parte necessitava del calore di Derek e della
sua vicinanza, anche soltanto per un po’; una toccata e fuga. «Hai bisogno di
qualcosa?».
Stiles respirò dalla sua epidermide e Derek immerse le dita delle mani tra
i suoi capelli in risposta. «Soltanto di una buona notte di sonno» che quella
volta non avrebbe potuto condividere con lui.
«Non fare troppo tardi» anche quando l’umano era stremato, continuava
comunque a portare avanti il suo stile di vita, senza fermarsi e lasciando
scorrere le lancette dell’orologio come se nulla fosse, c’era sempre bisogno
della presenza di Derek che lo bloccasse e lo mettesse a letto; si divincolava
un po’ e protestava senza tentennamenti, ma poi la spossatezza vinceva e la temperatura
corporea del lupo aveva la meglio.
A volte doveva uscire di casa e recuperarlo da dovunque fosse, prendendolo
di peso e sordo alle sue lamentele, ma alla fine Stiles cedeva sempre e il
giorno dopo era come nuovo ed ancora più rinvigorito.
L’umano annuì contro di lui, mugolando in assenso e si staccò un po’, prima
che gli fosse impossibile separarsi da lui e fosse disposto ad infiltrarsi
segretamente nell’osservatorio di astronomia. «Svegliami quando torni».
Derek si ritrovò a fissare le brillanti iridi d’ambra, accertandosi di aver
capito bene. «Sarà l’alba» non era un modo di dire o un’esagerazione, il
ventitreenne sarebbe davvero rincasato alle prime luci del sole, abbandonando
la sua postazione prima che il cielo si schiarisse e gli impedisse di osservare
la distesa d’inchiostro blu notte tempestata di luci accecanti, quelle che con
l’inquinamento luminoso era sempre più difficile scorgere. Era impensabile
svegliare Stiles a quell’ora.
«Svegliami comunque» disse risoluto, certo della sua scelta e guidato dalla
voglia di poter condividere quegli istanti rubati con il suo lupo.
Stiles si sarebbe svegliato dopo qualche momento, riconoscendo il suo
calore ed accoccolandosi contro di lui, forse avrebbe borbottato qualche parola
vaga, che Derek avrebbe riconosciuto con l’intuito, e sarebbe ripiombato nel
mondo di Morfeo, stringendosi al corpo del mannaro. «Va bene» tutto quello che vuoi era il significato
letterale. Per quanto se ne dicesse, Stiles continuava ad essere l’unico di cui
gli importasse e gli avrebbe sempre dato carta bianca, accontentando ogni sua
richiesta, dandogli tutto quello che voleva e prendendosi tutto quello che
desideravano.
Derek lo salutò con un bacio, uno tutto loro, uno che continuava ad
escludere chiunque si trovasse nei dintorni e Stiles si rilassò molto a quel
contatto, sciogliendo tutti i nodi che gli vivevano dentro e che gli avvelenavano
l’esistenza. La nebbia si stava dissipando.
«Non credo che tutti conoscano Derek Hale in quel modo» sentenziò con una
nota velata e piccante la ragazza che era rimasta tutto il tempo con il fiato
trattenuto ed ai margini del loro mondo.
Derek Hale e Stiles Stilinski non possedevano un anello spaventosamente
simile, Derek Hale e Stiles Stilinski possedevano lo stesso identico anello,
nel medesimo posto e con l’uguale ed esatto significato.
Il figlio dello sceriffo si girò verso la figura che aveva estraniato e di
cui si era dimenticato, con sguardo colpevole e mortificato, avrebbe cercato di
farsi perdonare, in qualche modo. «No, decisamente no».
«Adesso è chiaro il perché sia rimasto» giravano delle voci intorno a Derek
Hale, anche se Tracy non era proprio tipo da pettegolezzi ed orecchie prestate
all’ascolto di ogni chiacchiericcio, ma certe cose non poteva ignorarle perfino
lei.
Si mormorava che il capitano della squadra di basket, titolo raggiunto al
suo secondo anno, non fosse interessato a nessuno, né donna né uomo, e che non
concedesse occhiate, se non quelle di circostanza. Aveva scelto di vivere al di
fuori del campus, optando per un appartamento tutto suo, privo di qualsiasi
coinquilino, anche se quello non era propriamente una cosa da non aspettarsi da
un tipo solitario e poco propenso alla compagnia come lui; tutto nella norma
insomma.
Ma le studentesse invaghite di lui affermavano molto altro chiacchierando
tra loro, probabilmente sostenendosi a vicenda, e parlavano del suo essere
inviolabile ed intoccabile, perché aveva già qualcuno nel suo cuore, già
qualcuno che possedeva ogni parte del suo essere e che non era ancora arrivato
tra loro – trascorreva tutto il suo tempo libero attaccato al cellulare, con la
stessa identica persona. «Ti sta aspettando» si diceva proprio che lo stesse
aspettando, che fosse rimasto in attesa per due anni, prima che lo
raggiungesse. Era arrivato alla fine, al suo terzo anno. Quindi era una matricola, si supponeva e condividevano la stessa
casa, finalmente.
Tracy avrebbe dovuto individuare prima gli indizi e risolvere il mistero,
perché era talmente palese che si parlasse di Stiles – tra l’altro anche lui
aveva deciso di vivere fuori dal campus e Stiles non possedeva che la sua borsa
di studio per sostenere le spese, non avrebbe mai potuto permettersi un
appartamento in solitario –; le sarebbe bastato beccarli una sola volta a
guardarsi per capire ogni cosa.
Lo sguardo di Derek era sempre ostico e pericoloso, portava il chiaro segno
di stargli alla larga, e poteva anche far pentire di averlo soltanto incrociato
per sbaglio; era freddo e tagliente e la sua mimica era quasi inesistente, ma
quando i suoi occhi si erano posati su Stiles le cose erano cambiate e la sua
maschera brutale non riusciva a nascondere ciò che in realtà provava per quel
concentrato di iperattività e logorrea, che sapeva gestire egregiamente. Tracy
non aveva mai visto uno sguardo così devoto e carico di sentimento come quello
che Derek riservava al figlio dello sceriffo – non credeva neppure che ne fosse
capace.
Credeva che Derek Hale e Stiles Stilinski non si fossero mai incrociati,
mai lanciati un’occhiata e che al massimo si fossero intravisti da qualche
parte – le partite non contavano, Stiles partecipava ad ognuna e lei ne aveva
vista giusto qualcuna, ma mai con lui –; invece stavano insieme e portavano
avanti una relazione, una vera, una che la maggior parte della gente sognava ed
agognava e condividevano perfino lo stesso appartamento – sono praticamente sposati, si mormorava ai limiti dei corridoi
quando li individuavano in compagnia l’uno dell’altro.
Buon per te, piccola volpe.
«Non ha più motivo di aspettare» smentì Stiles con risolutezza e
concretezza, stringendo le chiavi con il lupo nero dagli occhi blu all’interno
della tasca. «Sono suo da molto tempo».
Tracy ne fu sorprendentemente ed orgogliosamente stupita, senza nemmeno
sapere perché, e fremeva davvero per conoscere la loro storia tanto intricata
ed interessante.
Sperava che un giorno Stiles gliel’avrebbe raccontata e fino a quel momento
si sarebbe accontenta di vederli amarsi, sempre un po’ di più.
Derek era disteso sul divano rosso, con un libro abbandonato sul petto e la
luce lunare che filtrava dalla grande vetrata, illuminando tutto il loft; la
casa era avvolta dal silenzio e quei rari momenti erano affidati alla mancanza
dell’uragano dagli immensi occhi d’ambra e dalla parlantina incessante.
«Derek» soffiò il suddetto con morbidezza, come se avesse timore di star
infrangendo la pace dei sensi in cui era caduto, sfiorandogli il viso in
un’amorevole carezza che non aveva alcuna intenzione di svegliarlo.
Derek aprì le palpebre, dando spazio alle iridi di smeraldo, incontrando
quelle del ventiduenne ed intercettando immediatamente la sua presenza nel
monolocale. «Ciao» disse soltanto con calore, contenendolo stesso
sapore di quando gli aveva detto ben altre parole, tre anni addietro: sei qui.
«Ciao» lo salutò carico d’affetto il figlio dello sceriffo, concedendogli
un sorriso luminoso e sedendosi sulla punta del cuscino, attaccato al suo
fianco. «Scusa per il ritardo, questi gruppi di studio stanno diventando un po’
massacranti» Stiles era appena rientrato dall’ennesimo pomeriggio e serata
passata sui libri insieme ai suoi compagni di corso, dando delucidazioni su
ogni cosa che agli altri appariva ostica o che si erano persi ed appuntandosi
quello che lui non era riuscito a segnarsi.
Era l’ultimo anno ed erano tutti su di giri e prossimi ad una nevrosi,
costantemente con la testa sui voluminosi tomi e sulle miliardi di relazioni da
stilare ed erano soltanto al secondo trimestre, ma Stiles ricordava bene
com’era, c’era già passato con il lupo due anni prima – e lui aveva anche il
campionato di basket.
La differenza era semplice, il lupo non si intratteneva con nessuno, non
partecipava ad alcun gruppo di studio e non spartiva nulla del suo materiale
con chicchessia; l’unico da cui si faceva aiutare, se proprio costretto, era
Stiles ed era anche l’unico con cui condivideva i suoi ragionamenti – io li studio quelli, diceva ogni volta
che l’umano prendeva uno dei suoi grandi libri di astronomia, buttandosi sul
divano ed iniziando a sfogliarli. Io mi
annoio, lo ribeccava invece l’altro, perché era ovvio che una volta che
aveva terminato con i suoi studi di criminologia e sociologia e tutto il resto,
lui passasse a quelli su stelle e pianeti. Derek roteava gli occhi spazientito
e lo lasciava fare, perché la curiosità di Stiles e la sua sete di sapere non
avevano limiti e poteva posare quei libri dopo pochi minuti o passarci tutta la
notte, finché Derek non era costretto a strapparglieli di mano e lo buttava a
peso morto sul letto con tanto della sua controvoglia; controvoglia che veniva
magicamente annullata quando lo raggiungeva.
Stiles invece si sapeva bene com’era fatto, quindi non era assolutamente
strano che passasse determinate ore della settimana a condividere nozioni con
quante più teste poteva, finché non sopraggiungeva un attacco d’ansia
spaventoso e costringeva Derek a sigillare la porta ed a chiuderlo in casa,
infilando la testa dentro i libri senza dare alcun cenno di vita. Derek non ne
vedeva proprio il motivo – la tesi, Der, la tesi gracchiava Stiles con l’isteria mal
controllata. Stai lavorando a tre tesi
diverse e la prossima settimana ne avrai già pensate altre cinque ribatteva
il lupo con noia. Sei lo correggeva
l’altro con un sorriso a trentadue denti. Derek sbuffava, cancellandogli quella
curva impudente sulle labbra con le proprie, sei proprio senza speranza –, Stiles riusciva a memorizzare tutto
ciò che gli serviva già dalla prima lezione ed i suoi appunti riorganizzati,
accessoriati di mappe concettuali e molto altro, erano perfetti e gli
permettevano uno studio più calmo. Ma insomma, si parlava di Stiles e la parola
calma non figurava proprio nel suo
dizionario personale; al contrario era sostituita da una radicale e complessa
forma d’ansia.
«Non preoccuparti» semplificò sbrigativo il lupo mannaro con la piega della
sonnolenza che ancora annebbiava le sue piene facoltà.
Stiles poggiò la testa sul petto di Derek poco sotto il libro, strusciando
il viso in assenso ed il ventiquattrenne prese il volume tra le mani,
chiudendolo in un tonfo sordo e depositandolo sul pavimento, alla base del
divano, mentre l’umano si stendeva completamente su di lui, sfilandosi le
scarpe aiutato dai piedi ed aderendovi interamente.
«C’è la luna piena, vuoi guardarla?» chiese Stiles una volta assaporato il
calore del licantropo, accostando l’orecchio all’altezza del cuore ed
ascoltando il suo battito cardiaco.
«No, va bene così» rispose il mutaforma con voce profonda, immergendo
lievemente le dita tra i suoi capelli, accarezzandoli lentamente.
Era ancora qualcosa che li caratterizzava, era ancora la loro tradizione,
passare le notti di luna piena insieme, a qualunque costo, benché l’influenza
su Derek fosse mano a mano sempre più debole, avendone perfettamente il
controllo e possedendo Stiles accanto a sé, memore dell’importanza di
perseverare su quel potere. Era ciò che li aveva uniti e ciò di cui avevano
bisogno, non ne avrebbe mai avuto abbastanza.
«Stanco del tuo cielo?» domandò il figlio dello sceriffo con beffarda
ironia, ammorbidendosi alla temperatura corporea del lupo. «La tua cometa fa
ancora i dispetti?» era chiaro che a Derek andasse davvero bene così, lo stare
distesi l’uno sull’altro era più che sufficiente, lo scambiarsi gesti di
quotidianità e la chiara manifestazione dei sentimenti che perseveravano e che
aumentavano. Poteva vedere la sua luna in altre occasioni.
Derek non si occupava affatto di comete o del pianeta rosso più vicino a
loro, ma Stiles continuava a perseverare su quell’idea romantica e fiabesca ed
il licantropo non era nessuno per negargli quella visione. «Ho già la mia
cometa» e Stella Polare.
Fu istintivo per Stiles allungare la mano sinistra per afferrare la sua,
legare le loro dita in una trama indissolubile, da cui emergevano i due anelli
identici che mostravano fieri la triscele che li identificava.
Erano passati quasi sei anni, ma Stiles continuava a rimanere senza fiato e
colpito da quello che Derek provava per lui e forse sarebbe sempre stato in
quel modo, una prima volta che si ripeteva illimitatamente e che aveva un
potere perennemente più grande, talmente immenso che non accennava a voler
diminuire e che invece si era prefissato la missione contraria. «Derek» chiamò
piano, quasi senza nemmeno accorgersene, guidato da un tormento che a volte
spuntava fuori e che veniva cancellato poco dopo dalla vita incredibile che
condivideva con lui.
«Ti ascolto» proferì il mutaforma in risposta, perseverando quei tocchi
appena accennati sul cuoio capelluto dell’altro.
L’umano strisciò il mento sul torace, poggiandolo esattamente al centro del
petto, permettendo ai suoi occhi di miele di guardarlo ed a volte non riusciva
a credere che tutto quello fosse suo, che il suo cervello lavorasse così tanto
anche se aveva ogni certezza del mondo. «È ancora ciò che vuoi?».
Derek portò di qualche grado in avanti il capo, guardandolo di sottecchi ed
incontrando le sue gemme magnetiche; ogni volta erano un tumulto inarrestabile.
«Sempre».
Il cuore dell’umano mancò un battito e l’assolutezza della voce del lupo
completo era la stessa che aveva udito per tutto l’anno da sedicenne, per
l’anno intero che avevano trascorso insieme senza rivelarsi la verità anche se
era evidente e visibile, anche se la conoscevano entrambi e Derek era rimasto
ad aspettare. «Ogni sacrificio?».
«Ogni sacrificio» confutò il ventiquattrenne con autentica sincerità,
quella che non poteva essere abbattuta o piegata, né insinuata o capovolta.
Il figlio dello sceriffo indugiò un momento, schiudendo le labbra e
serrandole subito dopo, suggerendo la sensazione che volesse dire qualcosa,
affrontare il discorso e debellare quei dubbi che a volte, con tutto quel tempo
che era trascorso tra loro, si insinuavano serpeggianti dentro la testa,
bisbigliando qualcosa che non quietava totalmente la sua anima.
«Sei la mia àncora, Stiles» proferì il lupo mannaro con fermezza,
scostandogli quelle ciocche che minacciavano di ricoprire le iridi di miele ed
attirando totalmente l’attenzione che si era offuscata su di sé. «Sei la mia
àncora dalla prima luna piena del mio terzo anno di liceo» rivelò con prudenza,
modulando bene la voce e confessandogli qualcosa che il ragazzo ancora non
conosceva. «La prima luna dopo che ti vidi la prima volta» Stiles tremò sopra
di lui e Derek non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo. «L’àncora che
aveva retto fino a quel momento non aveva più effetto su di me, non riusciva a
tenermi legato, in piedi; il mio lupo la rifiutava» quell’àncora era cambiata
dopo la morte di Paige e quella con cui era cresciuto e con cui si era allenato
fin dall’età di sette anni era stata risucchiata dalla rabbia che Derek provava
verso se stesso. Non era mai stata salutare, peggiorava ogni singola volta,
venendo confusa con un odio feroce nei propri riguardi; c’era ancora da
chiedersi come il lupo l’avesse accettata per più di un anno e mezzo. «Stavo
combattendo contro qualcosa che dentro di me la ripudiava e che non accettava
vie di mezzo, ero nei guai. Ma poi tra i miei pensieri sei apparso tu, in tutto
ciò che ti identificava e non potevo sbagliarmi in alcun modo. Hai preso il suo
vecchio posto senza consultarmi, senza permettermi di realizzarlo ed in quel
momento ho capito che mi ero completamente perso. Perso in te» la stretta tra
le loro dita si intensificò e la presa di Stiles era così forte che avrebbe
potuto fargli male se l’uomo fosse stato un semplice umano.
Se Derek gliel’avesse confessato in un momento diverso, in un tempo
differente, lo Stiles sedicenne che temeva il sentimento incondizionato del
lupo e che viveva nella confusione più totale nei suoi confronti, sarebbe
collassato. «Eri il pensiero più puro e felice che avessi mai avuto».
Il fiato si bloccò dentro la trachea del figlio dello sceriffo ed il
muscolo cardiaco prese a pulsare così velocemente ed interrottamente da
assordare il nervo acustico del lupo completo, divenendo l’unico suono
all’interno del loft che poteva udire.
Derek si preoccupò un po’, anche se quel tipo di reazione era così tipica
dell’umano da non dover più far risuonare alcun campanello d’allarme. Ogni
volta che esternava una sola parola in più o qualcosa di inaspettato,
l’affermazione del sentimento profondo che provava nei riguardi di Stiles,
quelle si manifestavano in tutto l’organismo del ventiduenne, divenendo totali
e la sola risposta affermativa che avrebbe potuto dargli.
Il mannaro si mosse per alzarsi ed intervenire, rendere nulla quella
difficoltà respiratoria che spesso prendeva possesso del ragazzo, ma Stiles
scattò prima di lui e gli gettò le braccia al collo, stringendoselo contro.
«Provo le stesse cose, lo sai, vero? Devi saperlo. Devi sapere che provo le
medesime ed identiche cose» aveva sempre saputo di essere l’àncora di Derek, di
esserlo da ben prima che il lupo entrasse a pieno titolo nella sua vita, di
esserlo da quando Erica aveva affrontato l’argomento la prima volta senza fare
nomi, ma lasciandolo sospeso nell’aria tra loro, sperando che un giorno ci
arrivasse da solo. Lo era già allora e lo era stato fino a quel momento – e lo
sarebbe stato per molto altro ancora –, ma non aveva mai pensato che lo fosse
già dall’inizio del sentimento che Derek stava cominciando a provare per lui,
un sentimento già radicato ed incredibilmente forte, talmente predominante da
conquistare ogni natura del mutaforma.
Era l’àncora di Derek Hale da otto anni, otto lunghissimi anni. «Ti amo
così intensamente, Derek. Totalmente. Amo tutto di te».
Derek arrancò il colpo abbagliato, ricambiando la stretta e tentando di
sistemarlo meglio sopra di sé, permettendosi di averlo più vicino e alla sua
altezza.
Gli sfiorò il viso con le dita, sollevandogli il capo nascosto tra
l’attaccatura del collo e la spalla e catturandogli le labbra rosse in un unico
gesto, travolgendole completamente e rispondendogli con tutto l’ardore che
conteneva dentro di sé ed a cui Stiles non sapeva resistere in alcun modo.
Quando il bacio si concluse, gli respirò direttamente sulla bocca,
lambendola e vezzeggiandola, sfiorandogli il naso con il proprio ed
accarezzandolo con dolcezza. «Ti amo anch’io allo stesso modo».
Stiles inspirò a pieni polmoni il suo odore, liberando le vie respiratorie
ed imprigionandolo in un bacio profondo, completamente dedito a lui. «Sei la
mia famiglia» confidò a pieno carico, travolgendolo completamente e
rivelandogli qualcosa che era stata svelata a metà. «Mi hai dato la famiglia
più grande, numerosa, pazzesca ed unica che potessi desiderare» licantropi e
coyote mannari. Coyote completi e lupi completi. Ed aveva un lupo tutto suo,
uno vero, uno reale, uno che poteva toccare ed accollarcisi contro, lasciandosi
avvolgere dal manto nero che lo circondava totalmente, riscaldandolo e
riparandolo nelle lunghe notti d’inverno, quando le temperature si abbassavano
radicalmente e la neve ricopriva l’intera città di enormi strati bianchi e
candidi.
In un primo momento il ventiquattrenne lo guardò senza dire nulla, a corto
di parole e fulminato dalla rivelazione dell’altro. Era un argomento che
avevano toccato soltanto una volta, anni addietro, quando Derek lo amava in
silenzio e Stiles l’aveva introdotto a forza nella sua vita.
Avevano parlato di molte cose equivoche a quei tempi, come se fosse normale
e fosse esattamente il futuro che li avrebbe attesi; si erano comportati come
una coppia da quando avevano scambiato erroneamente gli anelli la prima volta e
l’avevano dato per scontato senza mai averlo esternato ad alta voce. «È proprio
il tuo mondo» la tematica famiglia era complicata ed avversa e nella sua mente
persisteva continuamente quella voce fastidiosa che gli ricordava di avergliela
sottratta, di avergliela negata e di averla sostituita solo con la solitudine,
che Stiles detestava, e con la convivenza con una persona scontrosa e difficile
da gestire, buia e contaminata. Aveva creduto di avergli tolto la possibilità
di crearsi la famiglia che Stiles desiderava, numerosa e piena di piccole
creaturine che portavano i suoi geni ed il suo Dna, di non avergli permesso di
riempire il vuoto che l’aveva accompagnato da quando sua madre era stata
portata via dalla malattia.
«Sei tu il mio mondo» ma Stiles amava in modo totale, unico ed irripetibile
la vita che Derek Hale gli aveva donato, senza limitazioni o compromessi. «E
voglio passare il resto della mia vita con te» l’avrebbe scelta ad occhi chiusi
in un altro ciclo vitale. E quello dopo. Ed in quello successivo. Ed in un
vortice infinito.
La serietà in Stiles era univoca e Derek rimase attonito per alcuni
momenti, quasi incerto che un giorno il suo ragazzino cresciuto potesse
comunicargli parole importanti come quelle, una promessa così a lungo termine
da non vederne la fine ed un impegno che li avrebbe uniti senza alcun limite.
«Lo voglio anch’io».
Stiles appoggiò la fronte contro quella del lupo mannaro, sorridendogli
amorevolmente e stracolmo d’affetto direttamente a contatto con le labbra,
stampandogli un bacio tenue, dolce e delicato sulla bocca e stringendosi
completamente a lui, fondendosi totalmente.
Le gambe si intrecciarono e Derek creò una perfetta conca in cui Stiles
potesse sistemarsi, accoccolandosi contro di lui ed usandolo comodamente come
cuscino e materasso, impedendogli di alzarsi fino alla mattina successiva.
La luna completa brillò intensamente, illuminando con i suoi raggi di
madreperla gli anelli identici che si trovavano rispettivamente sull’anulare
sinistro di entrambi, con le dita allacciate ed intrecciate in una trama
perfetta ed inscindibile.
Anelli che non sarebbero più stati estratti o scambiati, che sarebbero
rimasti incastrati in quelle falangi specifiche e che ogni giorno, negli anni a
venire ed in quelli successivi, avrebbero testimoniato il loro amore
intramontabile, il loro legame indelebile, bagnati dalla presenza positiva e
costante del plenilunio, che li avrebbe accompagnati fino alla fine dei tempi.
Gli anelli gemelli cominciarono a scaldarsi e lasciarono un tiepido tepore
quando l’intreccio delle loro dita divenne univoco, rispondendo al calore del
corpo dell’altro.
Al loro interno vi erano il cuore e l’anima del lupo nero e della volpe
rossa che avrebbero custodito eternamente.
Credo sia giunto il tempo di concludere il
cerchio.
Questa è la storia di come Stiles e Derek
imparano a conoscersi, ad apprezzarsi, a rispondere alle esigenze e ai bisogni dell’altro.
È la storia del loro percorso e di come arrivano ad innamorarsi l’uno
dell’altro, anche se uno dei due era parecchio in vantaggio e Derek l’amava già
da tempo, finendo per amarlo più di prima.
In realtà è la storia di come Stiles giorno
dopo giorno si innamora di un Derek totalmente perso di lui. Di Derek e basta.
L’epilogo racchiude sei anni della loro vita,
quella al college e quella in cui Derek è rimasto sia per la strada lavorativa
che ha scelto sia per Stiles, perché Stiles sarà sempre ciò che lo farà
muovere.
Non sono tutti momenti felici e non potevano
esserli, con tutta quella distanza che esisteva tra loro e la dura realtà della
vita che non gli permetteva di vedersi come avrebbero voluto, come si erano
abituati in quell’anno speciale in cui si erano uniti. Ma stanno insieme, in
modo totale e disperato. Sono una coppia, una coppia vera che cresce anno dopo
anno e giorno dopo giorno, amandosi sempre un po’ di più.
E per una volta abbiamo finalmente il punto di
vista di Derek e possiamo vedere le cose con i suoi occhi, capirlo meglio e
sapere quelle piccole cose che non aveva mai detto a Stiles a voce alta, ma che
il nostro umano aveva capito comunque.
La stesura di questo lungo epilogo è avvenuta
prima della trascrizione dell’ottavo capito, che vorrebbe dire ben prima che
più di metà storia vedesse la luce e non ha mai subito modifiche o nuove
iscrizioni, se non piccoli dettagli che si aggiungono sempre perché i dettagli
fanno la differenza.
Non sapete quanto è stato difficile trovare un
college che comprendesse sia la facoltà di criminologia che quella di
astronomia; ho fatto impazzire la mia Beta ed ogni volta cambiavo perché non
ero soddisfatta, finché non mi sono imbattuta nell’HofstraUniversity che è stata un colpo di fulmine.
Tutte le notizie che trovare in questa storia,
perfino le percentuali della luna piena, sono vere. Anche i famosi diciassette
minuti a piedi che Stiles percorre dal suo fuori
sede al college vero e proprio.
E questo è veramente tutto.
Ringrazio tutti coloro che sono passati di qui
trascorrendo del tempo con questa storia e con i nostri protagonisti preferiti,
chi l’ha apprezzata e chi l’ha amata, chi l’ha aggiunta tra i
preferiti/ricordate/seguite e chi ancora deve scoprirla.
E ringrazio per la pazienza, perché questi due
idioti ci hanno messo davvero troppo tempo, ma era un percorso che dovevano
fare.
Ringrazio chi mi lascerà qualche parolina,
ormai quelle finali, e chi si limiterà a leggerla.
Ringrazio la mia Beta (EarthquakeMG)
che è sempre a disposizione e che ha sempre troppo lavoro da fare con me (e lo
so che stai sudando freddo, lo so!) e la mia terza voce (kira_92), che con calma
arriva sempre (come ho fatto a vivere
ventiquattro anni senza Star Wars? Ah, se non ci
fossi io a colmare le vostre enormi lacune).