Anime riflesse - il buio si riflette in iridi dorate

di Sbasby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Anime riflesse

- Il buio si riflette in iridi dorate -



 
 
Quando morte e vita più non distingui,
nella notte più oscura,
nel più nero degli abissi,
confondi, viandante, il caos e la pace,
 perché il buio si riflette in iridi dorate.
 
“Ti scopriranno.” Piccoli sbuffi di vapore le scaturirono dalle labbra schiuse. Osservò le proprie parole addensarsi nell’aria appena lasciata la sua lingua; poteva sfiorarle, passare le mani nel filo di lettere che si dipanava dalla sua bocca fino al groviglio intricato che le si torceva nello stomaco.
Così concrete, così reali.
Talvolta si dimenticava che lei fosse vera, tanto pareva innaturale e incredibile la sua esistenza.
“E ti uccideranno.” Cercò di far risultare duro e sprezzante il tono della propria voce, ma aveva sempre l’impressione di apparire troppo docile.
Troppo debole.
“Morire non è nulla, non vivere è spaventoso.” Le sussurrò la rossa contro la pelle sensibile del seno.
Il suo alito caldo le fece correre brividi lungo tutto il corpo e in un lampo i denti affondarono nella morbida carne della guancia. Passò distrattamente le dita sulla sua schiena, tracciando linee invisibili che percorrevano il suo corpo dal fianco destro alla nuca scoperta. Lo sguardo le cadde inevitabilmente sui capelli rosso sangue, così diversi da quelli color carota delle ragazze del nord, sparsi a raggiera intorno alla testa. Non poteva fare a meno di paragonarli a fiamme uscite dal più profondo degli inferi e, quando vi passava le dita per saggiarne la consistenza, quasi temeva di rimanerne scottata.
“Anche essere torturati a morte da Dalach, però, non deve essere la migliore delle fini.”
La risata di scherno che le soffocò sul petto le fece alzare gli occhi al cielo per l’esasperazione, mentre la speranza di essere presa sul serio scivolava via come acqua sulle rocce.
Caharis le piantò le unghie nella pelle candida del ventre, strappandole un mugolio di fastidio.
Una fiera che sfodera gli artigli.
“Come se quell’incapace fosse in grado di torcermi anche solo un capello.” Sbuffò, sfoggiando un sorriso arrogante degno del suo inattaccabile orgoglio.
Si scostò dal suo corpo con un movimento sinuoso e repentino che la portò seduta al suo fianco. Niamh non poté fare a meno di fissarle incantata la schiena nuda e la curva dolce dei fianchi, che sparivano nel groviglio di lenzuola che le abbracciava entrambe. La vide scostare il tessuto bianco e sottile dalle proprie gambe e spostarsi verso il bordo del letto, mentre lei si trovava a mordersi le labbra, ripetendosi come un mantra che per quella notte di lei ne aveva avuto abbastanza.
Impossibile essere sazia di lei.
L’avrebbe voluta ancora e ancora: affondare le mani nella cascata di fuoco dei suoi capelli e marchiare, con le unghie e con i denti, ogni centimetro del suo corpo.
Con uno scricchiolio sinistro i piedi di Caharis si posarono sul parquet malandato, affondando in una pozza di luna, i cui raggi penetravano obliqui dalle vetrate alte e strette. Allungò le braccia verso l’alto, nella sua espressione distesa si potevano scorgere il sollievo delle vertebre che si rilassavano una a una e la tiepida coltre di benessere che la avvolgeva in un abbraccio. La chioma sanguigna le ondeggiava sulla schiena con pericolosa grazia, lambendo sinuosamente le spalle, come fiamme che divampano sulla seta.
“Perché rischiare tanto?”
Le puntò addosso uno sguardo indignato: gli occhi sgranati, la fronte aggrottata, le sopracciglia alzate e le labbra serrate. Non l’aveva mai vista tanto arrabbiata.
Tanto umana.
“Perché mi chiedi?” Sputò con amara ironia.
“Perché mi mancano il sole della mia terra, il calore del mio popolo e la consapevolezza di essere parte di un clan, di discendere da una stirpe più pura di quella del re stesso! Perché voglio essere guardata come l’ottima combattente che sono e non come lo stupido oggetto di piacere degli uomini del Regno. Perché, dannazione Niamh, desidero la mia libertà e mi sorprende che tu non lo capisca!”
La mora si portò le ginocchia al petto, fissando lo sguardo su qualsiasi cosa non fosse il viso dell’altra.
“Devo andarmene da qui! E devo farlo prima di non esserne più in grado!”
La mora sentì un forte fastidio invaderla a queste parole e non poté fare a meno di scattare.
Strinse leggera le dita attorno al suo polso e sentì il sangue pompare con calma forza sotto la pelle ambrata. Quel lento battere aveva il potere di farla innervosire e vergognare profondamente al tempo stesso, mentre la sua cassa toracica pareva sul punto di esplodere. La corsa forsennata che aveva intrapreso il suo cuore non sembrava voler cessare e Niamh non riuscì più a sostenere lo sguardo dorato dell’altra.
Come un’occhiata potesse risultare fredda e contemporaneamente scottante, non riusciva proprio a capirlo. Sentiva le pupille scandagliarla come se la gelida lama di un pugnale la stesse trafiggendo da parte a parte, mentre le iridi gialle la stavano sprofondando in un inferno senza fine. Si accorgeva di quanto potesse essere tremendo il Regno della Notte solo quando si trovava davanti Caharis che la osservava con quella spietata intensità. Poteva vedere le fiamme degli inferi ardere sul fondo dei suoi occhi, costrette dalle nere sbarre che erano le sue ciglia.
Lei era Fuoco.
Scrollandosi dal polso la sua debole presa, si allontanò da lei e raccolse da terra i pantaloni e la camicia, entrambi troppo grandi e dal taglio decisamente maschile. Con un silenzio tombale sceso sulla stanza, si rivestì frettolosamente, come un marito pentito che scappa dal bordello per tornare al focolare.
D’altro canto, per lei non era niente più di questo: una puttana. Un facile mezzo per sfogare un semplice prurito carnale. Una parte di lei la odiava per questo, ma preferiva convincersi che fosse tutta colpa della sua natura: che altro poteva aspettarsi da una Figlia della Notte?
Sin da bambina si era sentita raccontare storie terribili sul popolo dell’Ovest. Si diceva fossero creature senz’anima e prive di qualsiasi morale, capaci solo di uccidere e che si aggirassero nell’oscurità a dorso di belve costituite di pura ombra. Le madri di tutta Varrel sussurravano all’orecchio dei bambini disubbidienti di guardarsi dai Figli della Notte, che sarebbero venuti a rapirli nel sonno se non si fossero comportati a dovere. Quale pargolo non conosceva la loro capacità di stregare le persone, leggere la mente e dissolversi nel buio?
Lei era Notte.
Caharis allungò la mano verso l’unico, piccolo tavolo della stanza e recuperò il pugnare da caccia, cominciando a rigirarselo tra le mani come un giocattolo.
“Non hai ancora capito, vero? Qui non siamo altro che strumenti di sterminio, è come se fossimo il braccio della Morte. Se devo uccidere, preferisco che sia per qualcosa in cui credo, altrimenti tanto vale morire.”
Lei era Morte.
“Devi insegnare loro a temerti e, perdonami, ma con quel visino da cerbiatto inseguito dai cani non andrai da nessuna parte.” Impugnò più saldamente lo stiletto e le si avvicinò con un sorriso furbo.
Niamh si ritrasse istintivamente con uno scatto felino e dalle labbra carnose di Caharis uscì una risata limpida.
“Non fare la bambina, dai! Fidati di me!”
Fidarsi di lei?
La stava abbandonando, non faceva che ripeterle che l’avrebbe lasciata sola in quel posto di matti e di sadici.
La ragazza avanzò di un altro passo e protese una mano verso di lei, un chiaro invito a lasciarla fare. Diffidente, Niamh si sporse e, con sua sorpresa, vide il pugnale avvicinarsi pericolosamente alla sua nuca e reciderle una grossa ciocca di capelli. La prese per mano e, tirandola in piedi, la condusse davanti al piccolo e sudicio specchio che si trovava precariamente appeso dirimpetto alla finestra.
Si posizionò alle sue spalle e continuò a passarle la lama tra i capelli, tagliandoli prima cortissimi sulla nuca, poi appena sotto le orecchie e, ai lati del viso, lunghi fino al mento.
Niamh non sapeva se i suoi brividi fossero causati dal tetro suono dello stiletto contro la sua chioma o dall’alito caldo di Caharis che le lambiva il collo. L’unica cosa che riusciva a percepire erano le scariche che le scendevano lungo la schiena ad intervalli regolari.
“Così è molto meglio!” le sussurrò la rossa all’orecchio, sfiorandole carezzevolmente il lobo con le labbra.
“Ora sembri quasi una Figlia della Notte” soffiò scendendo lungo la mascella e il collo.
Niamh sussultò quando l’altra le affondò i denti nella pelle nivea della spalla e, mentre la sua bocca vagava senza sosta tra la linea della clavicola e le labbra morbide, le sue mai sembravano essere ovunque contemporaneamente.
“Sai, da dove vengo io, i vestiti non servono a coprire, ma a mostrare” mormorò sfregando il naso contro la pelle soffice della gola, mentre le stringeva i fianchi in una presa possessiva.
Sulla bocca di Niamh spuntò un sorriso divertito, un lampo di denti come un fulmine a ciel sereno. Le dita le si serrarono sui bordi sfilacciato della canotta grigio antracite che le fasciava malamente il busto.
Che pessima idea era stata il rivestirsi!
Le spalline di lana vecchia sembravano, oltre che darle la solita sensazione di prurito, scottarle la pelle. Con un gesto delicato come la carezza di una piuma, Caharis scostò quella labile e inutile barriera. L’indumento scese lentamente, scoprendo prima i seni piccoli e sodi, poi l’addome scolpito che rivelava anni di allenamento intensivo, cadendo poi con un suono attutito.
Niamh scrutò la figura della rossa attraverso lo specchio e tutto di lei, dalla pelle ambrata scurita dal buio della notte al luccichio dorato dei suoi occhi, le materializzava nella mente un’unica parola.
Inquietante.
Sapeva ormai da un po’ che le voci malevole, le favole raccontate per spaventare i bambini, erano per lo più vere e la ragazza alle sue spalle ne era la prova. L’aveva vista più volte sfruttare alcune delle doti per cui doveva ringraziare il sangue divino che le scorreva nelle vene. Chiaramente, quelle più evidenti erano state l’incredibile velocità e l’abilità in combattimento, anche se non era certa se il merito di queste fosse della sua stirpe o dell’addestramento ricevuto all’interno del clan.
Col passare del tempo, però, aveva notato l’ascendente che aveva sulle altre reclute, un’influenza innaturale. Non era semplicemente questione di carisma, piuttosto un maltrattamento psicologico, quasi fosse impossibile non credere ed obbedire a qualsiasi parola uscisse dalle sue labbra.
L’unica volta in cui si era attentata a porre una domanda a riguardo era riuscita a strappare a Caharis una vaga affermazione sul potere di cui non era riuscita a terminare l’addestramento prima che l’esercito del Regno facesse un’imboscata e la rapisse.
Un potere incompleto.
Niamh in seguito si era chiesta più volte cosa sarebbe stata in grado di fare se avesse avuto il pieno controllo. Già allo stato attuale ogni suono emesso dalla sua bocca sembrava stregarla, anche se era certa che la colpa di questo non fosse solo delle sue doti magiche.
Il vero problema era che, a prescindere dalla sua natura, ogni cosa che Caharis dicesse o facesse sembrava essere eccessivamente psicologica. La sensazione che accompagnava costantemente la mora era che l’altra fosse sempre un passo avanti a lei, come se avesse precedentemente calcolato ogni suo movimento, ogni sua parola, ogni suo pensiero.
Era una partita a scacchi infinita e lei aveva capito di trovarsi di fronte un’avversaria imbattibile.
Caharis posò per l’ennesima volta le labbra sul suo collo, dove sapeva esserci un punto particolarmente sensibile, risalendo poi lungo la curva della mascella. L’altra  reclinò il capo all’indietro per permetterle un facile accesso alla sua bocca e, con passi frettolosi, le sospinse entrambe di nuovo verso il letto. Si voltò di scatto verso la rossa e, afferratala per i fianchi, la buttò senza troppi complimenti sul materasso. La risata della rossa risuonò cristallina nella piccola stanza e le iridi argentate dell’altra brillarono di malizia e di lussuria.
Niamh si trovò a mordersi le labbra mentre rifletteva sul modo in cui voleva farla sua quella volta e, con un sorriso complice, la raggiunse sul letto.



La mattina Niamh aprì gli occhi con la consapevolezza che, se avesse controllato la porzione di materasso alla sua destra, l’avrebbe trovata vuota e fredda. Una sensazione di amara comprensione si addensò dentro di lei, impregnandole le membra.
Di malavoglia si mise a sedere, percependo i raggi aranciati dell’alba che entravano dalla finestra. Improvvisamente, il suono pieno e tonante le Corno d’Adunata, rimbombò nel corridoio, appena fuori la sua porta. In una frazione di secondo, i suoi riflessi da soldato si risvegliarono e lei scattò in piedi, afferrò i primi vestiti a disposizione e, infilati frettolosamente gli stivaletti di cuoio, si precipitò fuori dalla camera.
Le altre reclute erano già tutte schierate davanti al Lord dei Pugnali e una realtà opprimente le si parò davanti.
Devo andarmene da qui! E devo farlo prima di non esserne più in grado!
Caharis non c’era e Niamh già sapeva qual era l’ordine che l’Avvoltoio stava per impartire loro.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Anime riflesse

-il buio si riflette in iridi dorate-



Capitolo I




Demone dei sogni, mio incubo ricorrente,
ombra nella notte che offuschi la mia mente,
mia anima dannata dammi tregua nel riposo
e nascondi nel passato il ricordo mio mostruoso.


 
Le fiamme ardevano alte, divorando pareti e mobili, mentre una cortina di fumo denso oscurava la vista e bloccava il respiro. Le urla terrorizzate dei bambini risuonavano strazianti tra i corridoi avviluppati dal fuoco, scorrendo come brividi freddi lungo le schiene di chi si trovava ad assistere al tremendo spettacolo. Come un rosso demone che stende le braccia per attirare quelle anime bianche nel Regno della Notte, l’incendio sembrava protendersi verso i giovani abitanti dell’orfanotrofio della capitale. Un fetore nauseante di carne bruciata impregnava l’aria e, sul ciglio della strada, capannelli di ragazzini sudati e sconvolti si accasciavano su loro stessi nel disperato tentativo di trattenere i conati. Invisibili disperate correvano da ogni parte, radunando i fortunati ragazzi che erano riusciti a scampare al disastro. Le secchiate d’acqua, inutilmente lanciate contro il palazzo, colavano in rivoli fini, insinuandosi tra le pietre che lastricavano la strada maestra. Goccia dopo goccia, si riunivano in piccole pozze che, come torbidi specchi, rimandavano l’immagine delle pareti lignee che una ad una crollavano in un fracasso di assi e travi riarse.
Un battere di zoccoli sul selciato fece voltare qualche testa con supplichevole speranza e, come spiriti  salvatori, comparvero cinque cavalieri del re. Lo stemma delle spade incrociate avvolte dai rovi riluceva sui mantelli neri, come se la luce lunare si stesse convogliando sul simbolo del potere. In formazione perfetta, si arrestarono davanti all’edificio in fiamme, scandagliando con lo sguardo le persone accorse in strada per arginare le vampate. In testa alla guardia, un uomo nerboruto che portava sulla cappa la spilla di capitano fece un cenno ai compagni alla sua sinistra e indicò il capannello di bambini che, con ancora le loro logore vesti da notte, si aggrappavano alle gonne delle Invisibili. I due soldati smontarono da cavallo e con scarsa gentilezza li afferrarono uno alla volta per il braccio, osservando con sguardo critico i loro gracili corpi. Alla protesta indignata di una delle sacerdotesse seguirono un teatrale ma preciso movimento del braccio del cavaliere e uno schiaffo che sembrò rimbombare nel vicolo buio. La giovane donna portò una mano alla guancia offesa, ricacciando indietro lacrime che erano un misto amaro di rabbia e dolore.
I piccoli, confusi e infreddoliti, non riuscivano a decidere se sperare di essere rispediti verso le donne o se essere mandati verso gli altri cavalieri ed essere caricati in sella fosse motivo di speranza.
La maggior parte di loro si vide fissare con un’occhiata di disappunto, per poter poi tornare nella disperazione dell’aver perso l’unico luogo che avessero mai considerato come una casa.
La tensione, ormai altissima, sembrava aver preso il posto del fumo nell’appestare l’aria. I cavalieri compivano la loro cernita nel più totale silenzio, mentre i singhiozzi dei ragazzini quasi rimbombavano nella notte scura, illuminata solo dalle fiamme che andavano calando.
Gli occhi grigi di una bambina di nove anni osservavano terrorizzati la scena da dietro la schiena di un’anziana Invisibile. La Vecchia Rose, questo era il nome con cui la chiamavano all’orfanotrofio, era ormai alla soglia degli ottant’anni e la sua pelle, solcata da profonde rughe, era pallida come la neve di gennaio. I suoi capelli, raccolti nella semplice treccia tipica del suo ordine, erano grigi e rovinati e la tunica nera di cui era vestita rivelava a malapena la gobba tra le scapole e l’eccessiva ampiezza dei suoi fianchi.
“Silenzio bambina mia” sussurrò con voce ruvida la Vecchia Rose quando sentì un sottile gemito di paura provenire dalla creatura alle sue spalle.
Per tutta risposta la bambina abbassò il capo, deglutì faticosamente e strinse con forza le proprie manine attorno alla sua gonna.
“Tu, donna!” Urlò all’improvviso il capitano ancora a dorso di cavallo.
L’uomo scavalcò con la gamba destra la schiena dell’animale e, dopo un salto, i suoi stivali atterrarono sul suolo bagnato con un rumore simile a quello di uno schiaffo. Avanzò a passo spedito tra la gente che si faceva indietro al suo passaggio. Il mantello ondeggiava alle sue spalle e il cipiglio serio rifletteva un carattere deciso e intransigente.
La ragazzina avvertì la schiena dell’Invisibile irrigidirsi, mentre l’uomo le si parava davanti, il busto eretto e i pugni piantati sui fianchi.
“Spostati!” Le intimò con voce ferma.
La donna non mosse un muscolo, rimanendo immobile sotto l’occhiata fiammeggiante del soldato.
“Ho detto …” Cominciò lui, evidentemente alterato.
“Ho sentito cos’avete detto, buonuomo. Ma forse vi sfugge il fatto che io non sono uno dei vostri uomini. Io non ho consacrato la mia vita al re, ma al servizio del popolo e degli dei e solo da quest’ultimi prendo ordini.”
Le ultime parole non si erano ancora spente sulle sue labbra quando il dorso guantato della mano del capitano colpì il suo viso con forza.
“Beh, vedi di prendere i loro ordini lontano dal mio cammino o la prossima cosa che prenderai sarà la mia spada al centro del petto” E con un gesto rude quanto sbrigativo spinse di lato la monaca, fissando i suoi occhi scuri sulla bambina che l’osservava tremante.
“Ve n’è sfuggita una, razza d’idioti!” Sbraitò rivolto ai propri cavalieri.
“Quanto ci vuole a trovare qualche ragazzino che non sia scheletrito o moribondo?”
Diede una seconda occhiata più approfondita alla creatura che gli stava di fronte e, afferratala per un braccio, la spedì di malagrazia verso i compagni.
“Portiamo anche la mocciosa”
“Ma signore, una femmina …”
“Credi che per Lui cambi qualcosa quello che questi figli di puttana hanno fra le gambe?”
La ragazzina si unì agli altri sette bambini che i soldati avevano raggruppato accanto ai cavalli, muovendosi a passi piccoli e svelti e incassando la testa fra le spalle.
“Tu sei Niamh, giusto?” Le chiese a bassa voce uno di loro, spostandosi dalla fronte una ciocca bionda troppo lunga.
Lei annuì debolmente, stringendosi le braccia attorno al corpo esile, che tremava sotto i soffi gelidi del vento notturno.
“Io sono Dannen.”
Sembrava un ragazzino buono, ingenuo come ne aveva conosciuti pochi in quel posto. Il suo sguardo era privo di quel luccichio furbo che aveva imparato a riconoscere come portatore di guai. Una sfumatura maliziosa che ormai riusciva a carpire con una sola occhiata, negli occhi di chi provava a fregarla. Quando non si ha nessuno e non si può contare su niente, di solito ti capitano due cose, prima impari a non fidarti degli altri e poi a comportarti in modi per cui gli altri non si fideranno mai di te. Ne aveva incontrati tanti di bambini troppo svegli per la loro età, e probabilmente lo era anche lei, era facile diventare così crescendo in un orfanotrofio, ma lui non sembrava il tipo. Non aveva lividi evidenti sul viso o sulle braccia, quindi era abbastanza certa che non fosse il tipo che si buttava a capofitto in una rissa. La osservava con un sorriso gentile, incoraggiante, sembrava volerla convincere che tutto si sarebbe sistemato, in qualche modo. La sua espressione non trasmetteva altro che la ferma convinzione che abbandonare l’istituto, seguendo i cavalieri, non fosse uno spaventoso salto nel vuoto, ma una possibilità, un nuovo capitolo per le loro giovani vite.
Ricambiò debolmente il sorriso di Dannen e alzò gli occhi sull’uomo che le si era avvicinato, questi le portò le mani sotto le braccia e la issò sul cavallo in tutta fretta. Niahm guardò la testa dell’animale con occhi sbarrati, non ne aveva visto uno più di cinque volte in tutta la sua vita e non avrebbe mai nemmeno sognato di salirvi. Certo sapeva che fossero alti, ma non credeva che standoci sopra ci si sentisse anche così instabili. Strinse le ginocchia ossute e leggermente tremanti ai fianchi della bestia, tentando così di mantenersi più salda. Il capitano squadrò la sua espressione intimorita con un sorriso divertito e con un unico movimento fluido infilò il piede sinistro nella staffa, fece forza e montò in sella dietro di lei. Circondandola con le braccia, afferrò le redini davanti a lei e appena il resto della sua truppa fu a cavallo, chi con uno chi con due ragazzini tremanti, fece segno di partire e si lanciò al galoppo. La bambina dovette appoggiare entrambi i palmi sul collo dell’animale, per evitare che lo slancio inaspettato la facesse sbilanciare e cadere da sotto il gomito del cavaliere. Le ci volle un po’ per abituarsi all’andamento ondulatorio della bestia e per capire che irrigidire la schiena non l’avrebbe aiutata affatto, ma dopo non molto cominciò a percepire quel movimento quasi come un cullare accelerato. Lottò con la stanchezza per quella che le parve un’eternità, tenendo gli occhi più spalancati che poteva e concentrandosi, prima sui suoi compagni di disavventura ormai abbandonatisi al torpore, poi sulla strada che si snodava davanti a loro e che si perdeva tra questa e quella collina. La luna piena e il cielo limpido permettevano l’avanzata, nonostante il profilo dell’orizzonte apparisse come uno sfocato confine tra il nero dei boschi in lontananza e quello del cielo.
E dopo un po’ fu questo colore l’unica cosa che rimase, un nero indistinto e totale, un’oscurità densa come l’inchiostro, soffocante e terribile. Improvvisamente non c’erano più né la strada, né i soldati, né il movimento cadenzato del cavallo.
Solo buio.
Un buio che si espandeva ogni secondo, riempiendo i polmoni, comprimendo l’esistenza stessa. Dopo quelli che potevano essere anni o istanti, quell’oscurità si ritirò lentamente, accartocciandosi su se stessa come un foglio che brucia.
Quando riaprì gli occhi, la bambina vide per prima cosa un paio di iridi castane, coperte appena da qualche ribelle ciuffo biondo. Sobbalzò per la sorpresa, maledicendo Dannen, il suo viso punteggiato di lentiggini e la sua espressione elettrizzata.
“Niahm, svegliati! Siamo arrivati.” Le bisbigliò all’orecchio, fremente d’impazienza.
Lei gli rivolse uno sguardo confuso, strofinandosi gli occhi ancora assonnati con il dorso della mano.
“Arrivati dove?”
“Siamo arrivati a casa” Disse, regalandole un sorriso rassicurante.
Niahm non sapeva se sarebbe più stata in grado di sentirsi a casa, dopo tutto quello che era successo, ma vedeva un’incrollabile speranza negli occhi di quel bambino appena conosciuto. Se lui fosse rimasto così sereno e speranzoso, si disse, avrebbe potuto cominciare a crederci anche lei.
 
 

 
Il sole splendeva cocente e impietoso sull’accampamento allestito nella regione dei laghi, nelle vicinanze della costa a  ovest, distante chilometri e chilometri dalla capitale.
Nel campo rettangolare adibito a zona d’addestramento, le giovani reclute erano già all’opera dalle prime luci dell’alba. Una fila di paglioni si stagliava ai margini dell’area, bersagliata a più riprese dagli arcieri sotto allenamento. Sugli altri due lati stavano dei rudimentali manichini di legno a disposizione dei ragazzi che si esercitavano nel lancio dei coltelli. Al centro, invece, c’era un’area il cui limite era stato tracciato a punta di spada e in cui due uomini si stavano affrontando in combattimento. Uno aveva poco più di diciotto anni e alcuni ciuffi biondi scappavano, come di consueto, a coprirgli gli occhi castani.
Il viso di Dannen era sporco, tumefatto e profondamente cambiato dalla notte dell’incendio. L’espressione era stata indurita dalla paura e dagli orrori che il tempo e l’addestramento gli avevano messo davanti e il corpo era mutato a causa della tanta fatica. Un rivolo di sangue colava dal suo labbro inferiore spaccato, perdendosi nella barba bionda che aveva lasciato crescere appena, unico segno di ribellione verso il loro lord. Si portò una mano al viso, pulendosi il mento con il dorso per poi sputare a terra un misto di sangue e saliva.
“Dai ragazzo, non dirmi che è tutto qui!” urlò la Volpe in tono di sfida.
Il loro istruttore non era chiamato “volpe” tanto per la chioma fulva e liscia che teneva compostamente legata dietro la nuca, quanto per la forma appuntita del suo viso che lo faceva assomigliare tremendamente all’animale.
Dannen emise una risata bassa e rauca rispondendo alla provocazione del proprio maestro con lo sguardo di chi vuole dimostrare di essere grande.
No, di essere il migliore.
Niamh sorrise tra sé e sé, scuotendo leggermente la testa di fronte ad una scena a cui aveva assistito almeno cento volte. Iniziavano all’alba con le prove di combattimento, un po’ di sangue  finiva nella polvere del campo, le provocazioni si susseguivano una dietro l’altra e poi tutto dall’inizio.
Andava avanti così la Volpe, con sfide continue, conoscendo alla perfezione le frasi e i gesti che avrebbero tirato fuori solo il meglio da ognuno di loro.
Dannen puntò le proprie iridi in quelle del suo istruttore, per poi lanciare una fugace occhiata alla propria spada, che giaceva nella polvere un paio di metri davanti a lui, sulla sinistra. Non passò che una frazione di secondo e il ragazzo si slanciò improvvisamente in quella direzione, cercando di afferrare l’arma in una capriola.
Prima di poter anche solo sfiorare l’elsa d’acciaio, fu bloccato a terra, con lo stivale della Volpe premuto al centro del petto e una lama piantata nel terreno a pochi millimetri dalla sua mano.
“Bel tentativo marmocchio, ma ti svelo un segreto. Se sei troppo ovvio nelle tue intenzioni, puoi considerarti già morto.” Un sorriso sghembo si apriva sul suo volto, mentre porgeva la mano al ragazzo per aiutarlo ad alzarsi.
Dannen si aggrappò al braccio del suo maestro con un’espressione vagamente frustrata, ma serena e si rimise in piedi, spazzando via con una mano la polvere dai vestiti. Per un attimo alzò lo sguardo e, come se sapesse esattamente dove trovarla incontrò l’occhiata incoraggiante di Niamh. Sul viso del giovane comparve un sorriso mozzafiato, che mostrava una fila di denti incredibilmente bianchi. Era sul punto di fare un cenno di saluto in direzione della ragazza, quando un colpo fortissimo al petto lo fece barcollare e lo rispedì nuovamente a terra. Il giovane guardò la Volpe con occhi sbarrati e il suo viso sembrava gridare una muta domanda: perché l’aveva fatto?
“Andiamo ragazzino, mi sembrava di avertelo già insegnato: mai abbassare la guardia.” L’uomo si accucciò accanto a lui e abbassò all’improvviso la voce “E, per la cronaca, se ti fai di nuovo mandare al tappeto per un paio di occhioni da bambolina, sta pur certo che ti farò correre scalzo per tutta la strada da qui alla Valle di Spine. Sono stato chiaro?”
Dannen annuì appena, mentre un velo d’imbarazzo gli passava sul viso,  e si tirò a sedere portando una mano al petto dolorante.
“Hai bisogno di aiuto bel biondino?” lo schernì Niamh, rincarando la dose con un’occhiata maliziosa.
Il giovane non fece in tempo a risponderle a tono che l’aria fu squarciata dal suono del corno, che li richiamò entrambi al dovere. Si disposero in fila al fianco delle altre diciotto reclute, sull’attenti.
Davanti a loro, si trovava nientemeno che Lord Bhrath  in persona, il comandante in capo della loro divisione militare. L’ordine che venne dato loro era semplice, chiaro e sconcertante.
Sarebbero finalmente scesi in campo, le loro abilità sarebbero state saggiate con l’azione, invece che con le competizioni fra loro. Niente più addestramenti, niente più combattimenti di prova, adesso nessun errore sarebbe stato ammesso, pena la morte.
Tra le reclute serpeggiava un’eccitazione che sapeva di adrenalina, di carica combattiva e di ingenuo, incosciente coraggio. I loro corpi giovani e atletici fremevano, in impaziente attesa, pronti a scattare ad un solo comando. Sulla lingua pregustavano già il sapore del sangue, che sarebbe sgorgato dai corpi dei ribelli periti sotto le loro spade, sentivano già sul palato il sapore della gloria, senza pensare per un solo momento che quello che stavano per ingoiare potesse essere un boccone amaro da mandare giù.
Niamh e Dannen si lanciarono un’occhiata in tralice, uno accanto all’altra, le mani che quasi si sfioravano, e un unico pensiero che aleggiava nell’aria tra loro due.
Erano pronti.
 





Note dell'Autrice:
Dire che scrivere questo capitolo è stato un parto sarebbe un eufemismo, dato che è da un anno e passa che rimaneva nascosto nei meandri del mio computer per essere rimanovrato una volta ogni morte di papa ed essere riscritto quasi da capo. Non ho intenzione di scusarmi, prima di tutto perchè credo che a seguire questa storia siano tre persone in croce (e le vedo tutti i giorni fuori, quindi non fanno molto testo) e soprattutto perchè scrivo principalmente per me stessa.
So di avere tempi biblici, ma non ho intenzione di forzarmi a scrivere più spesso se questo significa scrivere qualcosa che non mi piace o non mi convince del tutto. Quindi, se avrete la pazienza di aspettare l'uscita del prossimo capitolo di questa serie, per cui non mi sento di fissare una data, vi assicuro almeno che avrò avuto la maggior cura possibile nello scrivere la storia, che credo sia la cosa più importante.

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