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di taisa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solo una settimana ***
Capitolo 2: *** Messaggio e messaggero ***
Capitolo 3: *** Fai quel che devi, non quel che vuoi ***
Capitolo 4: *** Figliol prodigo ***
Capitolo 5: *** Questione di abitudini ***
Capitolo 6: *** Perle di saggezza ***
Capitolo 7: *** Vittima ***
Capitolo 8: *** A tutti ***
Capitolo 9: *** Le parole di un profeta ***
Capitolo 10: *** Necessità di parlare ***
Capitolo 11: *** Qui per me ***
Capitolo 12: *** Lontano da qui ***



Capitolo 1
*** Solo una settimana ***


FAMILY

 

Solo una settimana

 

“Sei sicura di aver preso tutto?” domandò osservando le due borse al centro del salotto. La prima piena di abiti e cianfrusaglie che sembravano tutte di vitale importanza, accanto ad essa lo zainetto rosa ricolmo di libri. “Sì” le rispose con prontezza, mentre gli occhi azzurri di sua madre la fissarono con uno sguardo indagatore, “Davvero?” le rispose poco dopo, “Allora perché nel tuo zaino non vedo il libro di matematica?” volle sapere con una punta di severità nel tono di voce, incrociando le braccia. “Ehm… devo averlo dimenticato” farfugliò alla ricerca di una giustificazione, cercando di distogliere lo sguardo dalla donna, sapendo di mentire. “Bra…” mormorò sua madre al limite dell’esasperazione, “Il fatto che tu sia fuori dal mio controllo per una settimana non vuol dire che puoi evitare i tuoi doveri” l’ammonì, costringendo la bambina ad osservarsi le scarpe, colta in fallo. Bulma sospirò “Vai a prenderlo, veloce” ordinò attendendo di essere ubbidita, ed infatti la piccola roteò su sé stessa in direzione della propria cameretta.

Tornò pochi istanti più tardi, mostrando alla madre il libro che aveva sperato di abbandonare. Bulma si chinò accanto allo zainetto, cercando di far entrare il testo di matematica insieme a tutti gli altri tomi scolastici che risiedevano nella piccola borsa. “Non ci sta, vedi? Forse è meglio che lo lasci qui” azzardò la bambina, osservando con soddisfazione la fatica con la quale la madre stava cercando di far rientrare il libro tra quello di geografia e storia. “Non ci provare, signorina” l’ammonì invece la donna, riuscendo nell’intento e sigillando la borsa con la zip. Poi si voltò verso la bambina, osservando lo sguardo deluso. Intenerita dal broncio di sua figlia, Bulma le fece cenno di avvicinarsi “Vieni qui” le disse, Bra ubbidì, permettendo a sua madre di stringerla in un abbraccio. “Mi mancherai, lo sai vero?” le sussurrò la donna in un orecchio. La bimba annuì “Anche tu mi mancherai” la rassicurò, ma Bulma sapeva che era solo una mezza verità che tuttavia si sentì in obbligo di accettare.

Il campanello costrinse madre e figlia a separarsi, e se la prima fece una smorfia delusa non volendosi separare dalla sua bambina, Bra non fece nessuna obbiezione, volgendo lo sguardo alla porta in evidente trepidazione. Bulma si alzò, “Sei pronta?” le chiese a malincuore, “Sì” le rispose la piccola e con un sospiro la donna afferrò la borsa più grande e pesante. “Ricordati di prendere la giacca” le rammentò, lasciandola da sola in salotto. Alle sue spalle, Bra annuì entrando in cucina per recuperare il soprabito.

Quando aprì la porta, Bulma lasciò cadere il borsone ai piedi dell’uomo che a braccia conserte stava aspettando notizie dall’interno dell’abitazione. “Non ha ancora finito i compiti di matematica per domani. Assicurati che li faccia” gli disse lei, senza preamboli, volgendo lo sguardo al corridoio in attesa di veder comparire la figlia. “Hn” rispose lui, senza aggiungere altro. Poi scese il silenzio.

“Ciao papà!” lo salutò con entusiasmo Bra, appena raggiunse l’ingresso, zainetto sulle spalle e giacchetta stretta in una mano. “Ciao” mormorò Vegeta, scostando gli occhi sulla bambina che non impiegò molto a varcare la soglia di casa, portandosi al fianco del genitore. Vegeta afferrò la borsa che gli era stata affidata, sollevandola con notevole facilità, poi sfilò la giubba dalle mani della figlia, “Andiamo” disse solamente. Senza aggiungere una sola parola cominciò a percorrere il vialetto di casa che si affacciava sulla strada.

“Bra” la richiamò sua madre quando la bambina fece cenno di seguire il padre, la figlia si fermò trovandosi ad osservarla. Bulma si chinò all’altezza della ragazzina, la guardò negli occhi senza riuscire a nascondere un velo di tristezza. “Fai la brava con tuo padre, d’accordo?” si raccomandò. Era quello che le diceva tutte le volte e, come da tradizione, Bra la avvolse con le sue piccole braccia “Sì mamma” rispose dandole un leggero bacio sulla guancia. Ed infine raggiunse il padre che si era fermato ad osservare in silenzio la scena.

Vedendola andare via, Bulma parve sul punto di aggiungere altro, ma si trattenne. Sorrise, ed in silenzio richiuse la porta di casa.

Una volta raggiunta la propria auto, parcheggiata non troppo distante dall’abitazione, Vegeta aprì la portiera del passeggero ed attese che la bambina scivolasse sul sedile posteriore. Quando Bra si fu accomodata, il padre aprì il cofano facendo sparire il pesante borsone e la giacca che vi poggiò sopra. Richiuso il baule tornò alla figlia, “La cintura di sicurezza?” le domandò sbirciando all’interno della vettura, e Bra gli mostrò che con solerzia l’aveva già allacciata. Soddisfatto, Vegeta richiuse la portiera, poi trovò il suo posto dietro il volante. Prima di mettere in moto diede un’ultima occhiata alla figlia per assicurarsi che tutto fosse in ordine, ancora un secondo ed infine il rombo del motore anticipò l’inizio del viaggio.

Passarono alcuni minuti prima che suo padre parlò di nuovo, “Dovrai passare il pomeriggio nel mio ufficio, torneremo a casa più tardi” disse e Bra ebbe la certezza che non avrebbe più ricevuto alcuna spiegazione spontanea da lui. La bambina si sporse in avanti, afferrando il sedile che aveva di fronte a sé, “Perché?” s’informò avendo imparato a riconoscere i silenzi del genitore nei suoi sei anni di vita. “Perché devo lavorare” rispose lui, osservando nello specchietto retrovisore, “E siedi composta” aggiunse. La figlia fu costretta ad ubbidire, ma non si sentì troppo dispiaciuta, le piaceva andare a lavoro con papà.

 

***

 

Trovava sempre molto interessante andare nell’ufficio di suo padre. C’era un continuo via vai che l’affascinava, costringendola ad osservare le persone di tutti i tipi che entravano ed uscivano dai vari ingressi. Quello nella quale suo padre era solito farla passare era quello riservato ai dipendenti, tuttavia Bra si ritrovava spesso a volgere lo sguardo in direzione dell’accesso riservato ai cattivi, dove le autovetture con le brillanti luci luminose si alternavano tra il rosso e il blu e dove le persone strambe venivano trasportate. Suo padre non l’aveva mai fatta passare da quella parte e sebbene la bambina fosse troppo piccola per capire, comprese che non tutte quelle persone erano piacevoli, una volta viste da vicino.

Vegeta parcheggiava sempre sul retro, dove serviva il pass per oltrepassare un gabbiotto, dalla quale un inserviente sollevava la sbarra appena riconosceva l’auto. Anche quel giorno ripeté la procedura. Trovò un parcheggio accanto alle vetture dei suoi colleghi, scese dall’auto per poi aprire la portiera alla figlia. Bra saltò giù dal sedile, ma prima ancora di poter cantare silenziosamente vittoria, sentì suo padre dire “Prendi i tuoi libri”, costringendola ad osservarlo con supplica. “Tua madre mi ha detto che devi finire i compiti per domani, quindi li farai” ordinò risoluto e la figlia sbuffò, “Ma lo zaino è pesante” brontolò la bambina. Con suo sommo disappunto, suo padre fu lesto ad afferrare lo zainetto per poi passare i lacci sopra una spalla. “Muoviti e non farmi perdere tempo” le disse tenendo ancora aperta la portiera. Ancora una volta sconfitta, dai suoi genitori e dalla matematica, Bra poggiò i piedi sull’asfalto del parcheggio un po' controvoglia, ma tutto sembrò dimenticato quando cominciò ad addentrarsi nel grosso edificio nella quale lavorava il suo papà, affrettando il passo per riuscire a seguire l’uomo. Poco prima di raggiungere le grandi porte, Bra afferrò la mano del suo papà come a volergli ricordare la sua presenza.

Oltre al continuo andirivieni, ciò che più piaceva a Bra erano le persone. Sebbene molti dei colleghi di suo padre fossero spesso impegnate ed immusonite, nessuno le negava mai un sorriso. A cominciare con la receptionist davanti al bancone che era solita rispondere alle telefonate, interne e non. La donna dall’aspetto canino aveva sempre una buona parola per lei e, quando non era impegnata, le regalava un paio di caramelle. Aveva dei nipotini all’incirca dell’età di Bra, le aveva spiegato una volta, e questo era bastato per far entrare anche la bambina nelle sue grazie.

Oggi, purtroppo, era impegnata ed intenta a parlare con uno dei compagni d’ufficio di suo padre. L’uomo aveva un aspetto piuttosto spaventoso, aveva pensato Bra la prima volta che lo aveva incontrato. Era alto con uno sguardo truce e la carnagione verdognola che gli conferiva un aspetto quasi inquietante. Sul capo portava sempre un buffo cappello, Bra non l'aveva mai visto senza.

A discapito di tutto ciò, quando l’uomo riconobbe suo padre gli fece un leggero cenno del capo in segno di saluto, pochi istanti dopo quando i piccoli occhi neri notarono anche lei camminare al fianco del genitore, le sorrise con gentilezza. Quello era il motivo per la quale lo strano individuo le stava simpatico. Bra rispose con un cenno della mano che aveva libera, mentre trotterellava accanto al padre.

Pochi istanti più tardi Bra si ritrovò nell’ufficio che il genitore occupava assieme al collega che in quel momento trovarono stravaccato sulla propria sedia con i piedi sulla scrivania. In mano una confezione di quello che sembrava essere ramen che voleva essere uno snack.

“Togli i piedi da lì, Kakaroth” ordinò suo padre, dando un prepotente schiaffo alle scarpe dell’altro che, colto di sorpresa, rischiò di versarsi la zuppa calda sull’abito. L’uomo si soffiò sulle dita che si era scottato a causa delle goccioline calde che erano fuoriuscite dal contenitore, Bra gli udì ripetere “Ahi” più volte, prima di poggiare il ramen sulla scrivania. Nel frattempo Vegeta raggiunse il lato opposto della stanza, lasciando cadere lo zaino di sua figlia sul pavimento accanto alla sedia libera. In seguito si liberò della giacca che lasciò scivolare sullo schienale dello stesso sedile, esponendo così la pistola d’ordinanza che fino a quel momento era rimasta nascosta.

Quello era un altro motivo per la quale le piaceva andare a lavoro con papà. Suo padre sembrava un vero duro con un'arma da fuoco sempre a portata di mano e il distintivo appeso alla cintura, entrambe nascosti sotto la giacca della quale si era appena liberato. “Siediti al mio posto e comincia a fare i compiti” le ordinò sollevando le maniche della camicia. “Mi piace meno quando mi dice di fare i compiti” pensò tra sé la bambina, ma senza protestare, accompagnata da uno sbuffo, si vide costretta a fare quanto le era appena stato ordinato.

“Ehilà, Bra!” la salutò Goku che solo in quel momento si accorse della sua presenza, “È la settimana con tuo padre?” le chiese poi, poggiando i gomiti sulla scrivania. Bra, che nel frattempo aveva preso posto dove era solito accomodarsi suo padre, annuì. Le due scrivanie erano poste una di fronte all’altra, permettendo ai due agenti di guardarsi in faccia durante le ore d’ufficio, a separarli c’erano solo due monitor che speculari occupavano un angolo sulla superficie del tavolo.

Vegeta usò un fascicolo appena raccolto dalla propria scrivania per colpire il collega sulla testa, “Non distrarla, Kakaroth. E pensa agli affari tuoi” brontolò con espressione infastidita. Goku si grattò la testa, come se avesse subito un duro colpo, osservando l’altro di sottecchi. A Bra scappò una risatina divertita, ma quando lo sguardo autoritario di suo padre si posò su di lei se ne pentì ben presto, decidendo che era meglio dedicarsi alla matematica.

“Cos’è questo?” domandò Vegeta al socio, mostrandogli il fascicolo che aveva appena usato per colpirlo. Come se non lo avesse mai visto prima, Goku sbirciò i fogli che l’altro stava ora cominciando a leggere, “Ah, è un nuovo caso. È arrivato mentre eri via” spiegò, ricordandosi improvvisamente del ramen che aveva lasciato da parte, per poi tornare a mangiare.

Leggendolo con vago interesse, Vegeta scoprì che la vittima era un uomo tra i trenta e i quarant'anni che era stato trafitto da un oggetto che pareva essere simile a una lancia. Immerso nella lettura, spalle alla porta, non si accorse che l’uscio si era nel frattempo aperto.

“Vegeta, devo parlare con te” s'introdusse Piccolo, osservando la stanza per un istante, prima di soffermarsi sulla bambina che con curiosità lo stava a sua volta guardando. Contrariamente a ciò che aveva fatto al loro ingresso, questa volta Piccolo le riservò uno sguardo serio e concentrato, poi tornò a Vegeta che nel contempo aveva seguito un percorso simile. Dopo aver fissato la figlia per alcuni istanti si ritrovò ad osservare il collega, comprendendo un discorso che non voleva essere espresso a voce. Annuì, lasciando cadere le cartacce che aveva in mano sul tavolo a lui più vicino, in seguito seguì l’altro ispettore fuori dalla stanza. Prima di chiudersi la porta alle palle lanciò un ultimo sguardo alla bambina in una silenziosa ammonizione di continuare a svolgere i propri doveri. Ed infine sparì.

Colto il messaggio, Bra riprese nei suoi studi, ma dopo alcuni istanti cambiò idea. Alzò lo sguardo sull’altro uomo che, dopo aver seguito la scena con vago interesse, era tornato al proprio pasto. “Signor Goku” cominciò, attirando su di sé la sua attenzione, “Perché il mio papà ti chiama con quello strano nome?” volle sapere con la curiosità tipica dei bambini. Goku fece spallucce, poi sorrise “Kakaroth?” chiese e Bra confermò con un gesto del capo, “Non so. Conosco tuo padre da troppi anni ormai, ho dimenticato perché ha iniziato a chiamarmi così”. Ci pensò per alcuni istanti, “Forse l’ha dimenticato anche lui, credo lo faccia per abitudine” rise, grattandosi la nuca. La bambina gli sorrise.

 

***

 

Bra riemerse dalla camera da letto di suo padre alcune ore più tardi, dopo essere rientrati nel piccolo monolocale dove l’uomo viveva. Come le era stato ordinato lasciò il suo zaino in un angolo della stanza che l’avrebbe vista ospite per i prossimi giorni, poi tornò in cucina. Non c’era molto spazio in quella piccola casa e su una delle sedie Bra non poté fare a meno di notare il cuscino e le lenzuola che suo padre avrebbe usato per dormire sul divano.

Per un attimo i suoi occhi si scostarono sull’uomo, notando ancora una volta la fondina legata attorno alle spalle nella quale era presente la sua pistola. La bambina si era ormai abituata a vedere l’arma sotto il braccio di suo padre, pertanto non lo trovò poi tanto strano.

“Hai comprato un tappeto nuovo” constatò Bra, avendolo da subito notato nella camera da letto. “Hn…” mormorò Vegeta, “L’altra volta ti sei lamentata che il pavimento era troppo freddo” le ricordò, poggiando un piatto sul tavolo, davanti alla quale Bra trovò posto. “Cos’è?” chiese osservando la cena. “Okonomiyaki” le rispose lui aggiungendo un secondo piatto sul tavolo apparecchiato per due. Per alcuni istanti la piccola osservò la sua pietanza, che apparve un po' bruciacchiata. “L’hai fatto tu?” volle sapere, rivolta a suo padre la quale fece una smorfia, “Vedi forse qualcun altro nei paraggi?” domandò di rimando, senza celare l’evidente sarcasmo. “No” confermò Bra, afferrando un paio di bacchette per cominciare a mangiare. Quando la pietanza toccò le sue labbra, si accorse che il sapore non era troppo male, a discapito dell’aspetto.

Dopo aver ingurgitato un secondo e un terzo boccone sollevò lo sguardo sul genitore, che a sua volta aveva cominciato a mangiare, dopo essersi assicurato che la figlia fosse soddisfatta. “Papà… sono contenta di passare la settimana con te” gli disse con un sorriso sincero. Vegeta la guardò di sottecchi per appena un istante, “Tsk” commentò “Sta zitta e mangia”. Tuttavia, in gran segreto, anche lui si sentì felice di poter passare del tempo con la sua bambina.

 

CONTINUA…

 

È passato molto tempo dall’ultima volta che ho pubblicato un racconto a capitoli.

Perché non scopriamo insieme se sono ancora in grado di intrattenervi con una storia?

Prima però è doveroso un piccolo avvertimento. Spero non siate sensibili ad un linguaggio… colorito. XD

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Capitolo 2
*** Messaggio e messaggero ***


FAMILY

 

Messaggio e messaggero

 

C’era una specie di tradizione in quel particolare ufficio, ogni nuovo indizio che riguardava un caso sulla quale stavano lavorando seguiva una procedura non scritta. Il primo a visionarli era sempre Vegeta, per il semplice motivo che a Goku non dispiaceva aspettare il suo turno, mentre il collega non aveva la pazienza di aspettare i comodi degli altri. Con gli anni di servizio, e per il quieto vivere, Goku aveva imparato ad attendere di poter leggere i documenti con estremo ritardo, mentre Vegeta si prendeva tutto il tempo per esaminare e verificare i fatti che gli venivano consegnati comparandoli con i suoi appunti scritti sulla scena del crimine.

Quel giorno in particolare era rimasto quasi una mezz’ora ad osservare le foto scattate dagli esperti. La testa china e una mano al mento in segno di profonda concentrazione. Dall’altra parte delle due scrivanie, Goku sorseggiò una bevanda energetica dondolando con apatia sulla propria sedia. “Cos’è questo?” domandò all’improvviso il collega, sollevando una delle fotografie e portandola più vicina al viso per esaminarla meglio. Goku inarcò un sopracciglio, non avendo ancora neanche dato un’occhiata ai referti. “Di cosa parli?” chiese a sua volta, sporgendosi per vedere ciò che aveva attirato l’attenzione dell’amico.

Vegeta lasciò cadere l’istantanea sulla superficie del tavolo, che scivolò in direzione dell’altro. Osservandola con attenzione, Goku non vide nulla di particolare, almeno non in un primo momento. Era una normale fotografia che ritraeva la scena di un crimine così come ne aveva viste a decine. Impiegò ancora alcuni istanti per capire cos’aveva attirato così l’attenzione del collega. Sullo sfondo notò qualcosa di peculiare sotto un cespuglio all’interno dell’immagine. “Sembra una palla” affermò dopo alcuni istanti, afferrando lo scatto per guardare meglio, come aveva fatto Vegeta poco prima. “Non c’è una foto in cui si vede meglio?” domandò poi, girando l’istantanea da un lato all’altro nella speranza di capire. Vegeta era già un passo davanti a lui, avendo cominciato a sfogliare le altre fotografie nella speranza di avere una migliore prospettiva sulla strana sfera dai brillanti colori arancioni.

Era stato proprio quello il motivo per la quale quel particolare oggetto aveva attirato la sua attenzione… in nessuna altra foto si vedeva nulla del genere. Vegeta poggiò sotto il naso dell’amico una seconda istantanea scattata da una prospettiva diversa, che però inquadrava lo stesso cespuglio. “Qui non c’è” affermò additando il punto in cui la prima foto mostrava la pallina misteriosa. Goku osservò con attenzione la seconda immagine, portando la sua attenzione da una all’altra, “Accidenti! Hai ragione!” esclamò pochi istanti più tardi, “Com’è possibile?”. L’altro ispettore si poggiò una mano al mento, pensieroso. “È tornato sulla scena” concluse Vegeta, “È qualcosa di importante ed è tornato per riprenderlo mentre la scientifica stava ancora lavorando”. Goku lo guardò con sgomento “Ehh! Stai scherzando?!” mormorò, poi si ricordò che Vegeta non aveva nessun senso dell’umorismo.

Mentre Goku stava ancora elucubrando sulla nuova scoperta, Vegeta si alzò dalla propria sedia dando un’occhiata all’orologio da polso. “Devo andare a prendere Bra da scuola” annunciò. Il collega sollevò lo sguardo su di lui, ricordandosi solo allora che l’amico aveva la figlia in custodia. Nel frattempo un pensiero passò per la sua mente “Ehi, Vegeta… come sta Bulma? È da tanto che non la vedo” chiese Goku, osservando l’altro. Vegeta era sul punto di afferrare la giacca dallo schienale della sedia, ma i suoi gesti si bloccarono all’improvviso. Ci fu un secondo di silenzio. “Si può sapere perché lo stai chiedendo a me?” mormorò l’ispettore a denti stretti, guardando l’amico di sottecchi. “Non ti sta ancora parlando?” continuò Goku, ma a questo Vegeta non rispose subito. Indossò la propria giacca, poi un risoluto “No” giunse dalle sue labbra.

Goku lo osservò per diversi istanti ancora. Le parole di sua moglie Chichi gli tornarono alla mente. Qualche tempo fa, mentre il discorso era finito sui due amici, Chichi aveva insinuato che a suo dire Vegeta era ancora innamorato della ex moglie. Per tutta risposta Goku l’aveva guardata come se fosse impazzita. Dopo aver chiesto spiegazioni lei gli aveva risposto “Perché ogni volta che qualcuno parla di Bulma ha sempre un’aria molto triste”. In quel momento aveva faticato a credere che quelle parole potessero essere vere, ma sua moglie aveva un certo intuito per queste cose. Più di vent’anni prima, quando Goku introdusse il suo nuovo irascibile collega alla sua esuberante amica d’infanzia, Chichi era stata la prima ad insinuare che tra i due ci fosse del tenero. Quando Bulma e Vegeta erano davvero finiti a fare coppia fissa, Chichi era stata l’unica a non esserne sorpresa.

In quel preciso istante, Goku vide lo sguardo triste di cui parlava sua moglie sul viso dell’amico.

Vegeta era a pochi passi dalla porta quando Goku richiamò la sua attenzione per l’ultima volta. “Tu e Bra potreste venire a mangiare a casa mia, una di queste sere. A mia nipote piace giocare con tua figlia” lo invitò. Per un attimo il collega sembrò pensarci, poi uscì dall’ufficio seguito da un “Hn” che detto da chiunque altro non avrebbe avuto molto senso. Nel linguaggio di Vegeta poteva essere interpretato con un “Vedremo”.

 

***

 

Quando uscirono dall’ufficio di papà stava già cominciando a calare la sera. Mezz’oretta di macchina più tardi, Vegeta trovò un parcheggio a cinque minuti di cammino dalla sua palazzina. Quella zona era un vero incubo per i posteggi e in molti avevano cercato di farlo notare a chi di dovere. Nel frattempo, mentre i cittadini stavano ancora aspettando di vedere una soluzione al loro problema, i residenti erano costretti ad accontentarsi. Vegeta non aveva nessun problema a camminare per cinque, dieci minuti o anche più a lungo per arrivare al suo appartamento, ma con Bra la situazione era diversa. Fu contento di aver trovato un parcheggio così vicino quel giorno, ma l’aria fredda della sera che stava ormai calando sulla città lo preoccupò un po'.

Guardò sua figlia scendere dalla vettura, lo zainetto sulle spalle e la giacca sbottonata. Non soddisfatto chiuse la portiera che le stava ancora tenendo aperta ad imitazione di uno chauffeur. Si chinò davanti alla bambina. Bra osservò le mani di suo padre allacciarle la giacchetta, “Non ho freddo” si lamentò, “Non m’interessa” le disse lui alzandosi e cominciando ad incamminarsi.

Bra lo seguì con lo sguardo per diversi istanti, poi lo raggiunse afferrandogli la mano, com’era sua abitudine. “Cosa mangiamo stasera, papà?” gli chiese. Vegeta ci pensò su, “Cosa vuoi?” s’informò ed il responso non si fece attendere. “Gelato!” rispose subito la bambina di sei anni e il padre sbuffò, “Tsk, quella non è la cena è soltanto un dolce” la informò solo vagamente seccato. Bra mise il muso, osservò i propri piedi, poi rivolse i suoi brillanti occhi azzurri sul viso del genitore illuminato dalle luci dei lampioni che stavano cominciando ad entrare in funzione. “Però posso averlo lo stesso?” incalzò lei, mentre cercava di mantenere il passo. Questa volta fu Vegeta ad assumere una smorfia, “Dipende” rispose vago.

“Mangeremo verdure” decretò infine l’uomo, cercando di ricordarsi il contenuto del proprio frigo. “Non mi piacciono le verdure” si lamentò Bra, mostrando la lingua con disgusto in un atteggiamento infantile. Vegeta ringhiò, “E allora cosa diavolo vuoi?” brontolò sull’orlo della propria pazienza. “Ah!” esclamò Bra additando suo padre, “Hai detto una parolaccia! La mamma non vuole che si dicano parolacce” affermò svoltando un angolo. Il padre roteò gli occhi in segno d’insofferenza, “Io non ho det…” si bloccò.

All’improvviso Bra sentì la mano del suo papà stringere la propria. Avvertì un leggero strattone che la riportò sui suoi passi, scoprendo ben presto di essere stata trattenuta dietro il muro che stavano aggirando un secondo prima. “Papà?” domandò con voce insicura, cercando di guardare l’espressione del genitore, avvolto nella penombra. Vegeta osservò dietro il muro per un istante più a lungo, poi fece alcuni passi indietro, costringendo la figlia a seguirlo. La fece roteare su sé stessa e prima che la piccola Bra potesse comprendere quanto stesse avvenendo, vide suo padre inginocchiarsi di fronte a lei.

“Bra” cominciò Vegeta in tono serio, “Ascoltami molto attentamente e non perdere una sola parola di quello che sto per dirti” lei annuì in un gesto automatico, per quanto si sentisse molto confusa. “Torna indietro, dove abbiamo parcheggiato. Non voltarti, non parlare con nessuno. In quella strada c’è un ristorante, non entrare dall’ingresso principale. Prendi la via parallela e bussa alla porta sul retro. Non dire chi sei e non fare nomi, chiedi di vedere urgentemente il proprietario” fece una breve pausa, “A lui e solo a lui devi dire che ti ho mandato io, lui capirà il resto. Digli che deve tenerti al sicuro finché non verrò a prenderti”. Ci fu un’altra pausa, questa volta più lunga, “E stai lontano dalle finestre” aggiunse.

In tutta la sua vita non aveva mai sentito il suo papà fare un discorso tanto lungo, ed unito allo sguardo misterioso che le stava rivolgendo la giovane comprese che non era quello il momento di fare domande. Ciononostante una certa paura cominciò a pervaderla. “Ma… papà?” mormorò confusa la bimba. “Non discutere con me, Bra. Dimmi solo se hai capito quello che ti ho detto” le ordinò, poggiandole le mani sulle spalle, Bra annuì. “Ripetimelo” impose, lo sguardo più serio del solito mentre scrutava gli occhi della figlia. Bra ubbidì. “Ripetimelo un’altra volta” ribadì suo padre, e di nuovo la bambina fece quanto detto.

Solo dopo aver sentito le istruzioni una seconda volta Vegeta parve soddisfatto. Si alzò, “Adesso vai. Ti raggiungerò tra pochi minuti” fu l’ultimo comando, ma questa volta la piccola esitò, “Vai, ho detto!” sbraitò l’uomo e la figlia, sul limite delle lacrime causate da una paura che non capiva, cominciò a correre nella direzione dalla quale erano venuti. Vegeta attese, senza mai perderla di vista, e solo quando fu certo che lei fosse abbastanza lontano si permise di sbirciare dietro la parete che lo stava riparando.

Alla luce di un lampione un uomo si era appoggiato al muro della palazzina a lui più vicina. Si stava guardando attorno con impazienza, attendendo di scorgere una persona in particolare. Era lì per lui, Vegeta non aveva dubbi.

In un gesto che aveva ripetuto più volte scostò la giacca per esporre il distintivo ancora allacciato alla sua cintura. Slacciò la fondina per permettergli di accedere all’arma in essa contenuta, la estrasse e verificò che fosse tutto sotto controllo, poi la rimise dove l’aveva presa. Tuttavia si assicurò di essere pronto ad estrarla in qualsiasi momento… non poteva rischiare. Un ultimo sospiro ed uscì allo scoperto.

L’uomo che lo stava aspettando lo riconobbe pochi istanti più tardi, gli sorrise in un’espressione malevola, attendendo di essere raggiunto. Lui era enorme, dalle spalle larghe, rese ancora più grandi dall’abbigliamento troppo piccolo che minacciava di esplodere, e dall’immensa statura che sembrava voler mettere in ombra l’intera via. Soprattutto se confrontato con il poliziotto, che in altezza non spiccava di certo. Vegeta però non aveva paura di lui.

“Guarda guarda, il piccolo Vegeta” lo accolse l’uomo, quando fu raggiunto dall’altro. “Cosa vuoi?” gli rispose, senza preamboli, osservandolo dal basso con aria tutt’altro che amichevole. “Ti sembra il modo di salutare una vecchia conoscenza dopo tutti questi anni?” disse l’altro affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. Vegeta lo guardò per un attimo, gli afferrò il bavero della camicia e lo costrinse ad abbassarsi alla sua altezza “Non mi piace ripetermi, Nappa. Ti ho chiesto cosa vuoi” ringhiò.

Il sorriso dell’uomo vacillò per un momento, “Ehi calma, io sono solo il messaggero” spiegò alzando le braccia in segno di resa. L’ispettore lo lasciò andare, ma solo dopo averlo spintonato, “Qualunque cosa tu abbia da dirmi sappi che non me ne frega un cazzo” Vegeta incrociò le braccia, lo sguardo fisso sull’altro con estrema serietà. Nappa si sistemò il colletto, ma scelse d’ignorare l’ultimo commento. Tossicchiò, “È arrivata la sentenza definitiva” cominciò “L’hanno condannato a due anni di carcere per falso in bilancio” spiegò, cercando di trovare la compostezza persa un secondo prima. Vegeta non mutò la sua espressione, “Hn, è allora?” volle sapere senza reale interesse… sapeva già tutto questo.

“Non vuole restare rinchiuso per due fottuti anni e vuole parlare con te” concluse Nappa, causando sul viso del suo interlocutore un’espressione contrariata. “Spero vogliate scherzare” rispose Vegeta, dopo svariati istanti, “Tu e il tuo capo potete andare a farvi fottere” “Andiamo, Vegeta” cercò di farlo ragionare l’energumeno in una specie di supplica. “No!” sbottò il poliziotto, poi fece un passo in avanti “Stammi a sentire, brutto deficiente, ti consiglio di sparire da qui. Sempre ammesso tu non voglia portare la nostra conversazione altrove” sibilò scostando la giacca quel tanto che bastava per permettere al distintivo di scintillare alla luce dei lampioni. Con grande soddisfazione vide l’altro poggiarvi sopra lo sguardo, comprendendo il suo messaggio.

Nappa tentennò per alcuni istanti, ed infine fece un passo indietro. “Mi farò di nuovo vivo” gli disse voltandosi per allontanarsi. Vegeta ringhiò, “Non osare, o il tuo capo dovrà trovarsi un altro leccaculo” lo minacciò, osservando l’altro allontanarsi con la coda tra le gambe.

 

***

 

Bra stava piangendo. Non era stata in grado di capire cosa fosse successo, ma aveva percepito la gravità della situazione. Aveva ubbidito ad ogni singola parola di suo padre, aveva fatto quanto ordinato senza fiatare.

Il proprietario del locale si era rivelato un uomo dal portamento gentile. Appena era stato convocato si era precipitato alla porta e l’aveva condotta nel piccolo ufficio sul retro, poi l’aveva ascoltata con pazienza. “Sei la figlia” aveva intuito dopo averla osservata per pochi istanti, quando lei aveva adempiuto alle istruzioni e in lacrime aveva fatto il nome di suo padre. L’uomo dalla bassa statura le aveva sorriso, “Avrei dovuto capirlo subito, sei uguale a tua madre” l’aveva rassicurata.

Sapendo che il proprietario del ristorante conoscesse entrambi i suoi genitori servì a farla sentire meglio, ma ancora non aveva smesso di piangere. Voleva il suo papà e avrebbe voluto affacciarsi alla finestra per sapere se stesse arrivando, ma lui glielo aveva proibito. Così trovò rifugio in un angolo della stanza, sedendosi sul pavimento e stringendo a sé le proprie ginocchia.

Aveva rifiutato qualsiasi tipo di refrigerio che il proprietario e quella che doveva essere la moglie le avevano offerto. Non si era nemmeno liberata di giacca e zaino che ancora reggeva sulle spalle.

Le sue lacrime si arrestarono solo quando udì delle voci provenire da dietro la porta. Tese le orecchie. Poi, con passi pesanti e fiato corto a causa della corsa, suo padre entrò nella stanza, seguito dal proprietario. Si guardò attorno, fino ad individuarla nel suo angolo, “Bra” la chiamò in un fil di voce. La bambina si alzò, andandogli incontro, “Papà!” urlò lei correndo per abbracciarlo, Vegeta s’inginocchiò. “Ho avuto paura” gli confessò la figlia e lui la strinse a sé. Fu solo quando sentì le esili braccia della bambina attorno al proprio collo che il cuore di Vegeta riprese a battere.

“Ehi, Vegeta. Si può sapere cos’è successo?” gli chiese l’uomo dal volto gentile, sulla quale era però dipinta un’espressione preoccupata. Non ottenne un’immediata risposta. Infine il poliziotto si voltò a guardarlo, “Crilin, mi serve subito un telefono” ordinò.

 

CONTINUA…

 

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Capitolo 3
*** Fai quel che devi, non quel che vuoi ***


FAMILY

 

Fai quel che devi, non quel che vuoi

 

Le otto e mezza erano passate da un po', quando Dende si affacciò alla porta del suo capo, “Signor Piccolo, io dovrei andare a casa” disse. L’altro non sollevò nemmeno il capo dalle copie dei documenti sulla quale stava scrivendo alcuni appunti. “Vai pure” gli rispose, “Ci vediamo domani” lo congedò appuntando un nuovo pensiero sul pezzo di carta che aveva davanti.

Piccolo non aveva una sua famiglia, non aveva nessuno che lo stesse aspettando a casa. Il suo lavoro era la sua casa. Pertanto era sempre l’ultimo ad abbandonare l’ufficio e il primo a rientrare, ritenendo la cattura dei criminali la cosa più importante.

Erano passati appena pochi istanti da quando il suo assistente lo aveva salutato, quando squillò il proprio cellulare che aveva abbandonato sulla superficie della scrivania. Con estrema calma scostò lo sguardo su di esso, notando che il display non riconosceva il numero che lo stava cercando. Ancora non sapeva cosa farsene di quella informazione, ma per abitudine lo appuntò mentalmente.

“Piccolo” annunciò portandosi il ricevitore all’orecchio, “Tu e la tua squadra siete dei bastardi buoni a nulla!” urlò una voce che l’uomo non faticò a riconoscere. “Di cosa parli Vegeta?” domandò con calma, avendo notato una punta di panico nel tono del collega. “Sapevo che non dovevo fidarmi di nessuno. Né di te, né di nessun altro… cazzo!” continuò Vegeta dall’altro capo della linea telefonica.

“Calmati” mormorò Piccolo “Se vuoi che ti aiuti devi dirmi cos’è successo” s’informò, pragmatico come da sua abitudine. “Mi avevi assicurato che li avresti tenuti alla larga da me! Mi avevi detto che sarebbero stati fuori gioco mentre lui era in galera! E invece me li sono trovati quasi sotto casa!” stava sbraitando l’altro ispettore, senza prendere fiato. “Quanti erano?” volle  sapere, appuntando su un foglio le informazioni che stava cercando di ottenere dal suo interlocutore, per quanto Vegeta sembrasse agitato. “Non farmi domande idiote, Piccolo! Sai benissimo quanti erano” Piccolo ci pensò per meno di un secondo, “Nappa” disse. “Chi altri?! Quel brutto stronzo” sbraitò Vegeta, “Cosa voleva?” cercò ancora di capire lui, scrivendo veloci annotazioni su un nuovo pezzo di carta. “Vai a fanculo Piccolo! Secondo te sono anche rimasto lì ad ascoltarlo?” urlò Vegeta più di quanto non avesse fatto fino a quel momento, poi cadde in un silenzio pensieroso.

“C’era Bra con me” aggiunse un secondo più tardi a fil di voce. “Cosa?!” sbottò ora Piccolo agitandosi per la prima volta, lasciando cadere la penna e portando il busto in avanti sulla scrivania sulla quale si appoggiò con i gomiti, “Non l’ha vista, vero?” s’informò con urgenza. Dopo pochi istanti Vegeta rispose con un semplice “No” tornando al suo solito modo di esprimersi monosillabico.

Piccolo ci pensò per alcuni istanti, “Vegeta…” riprese a dire, “Loro non sanno che hai una figlia, vero?” “Cazzo no!” tornò ad urlare l’altro. L’uomo alla propria scrivania annuì “Bene. Lasciami fare qualche telefonata” ci pensò, lasciando correre tra loro un breve silenzio, poi riprese, “Senti Vegeta, mi dispiace dovertelo dire, ma penso che dovrai considerare l’idea di rivedere i tuoi piani” “Lo so… stai zitto” mormorò dall’altra parte della cornetta. Piccolo lo sentì imprecare un’ultima volta, prima di chiudere la conversazione. Rimasto solo con i suoi pensieri, comprese perché aveva chiamato da una linea telefonica diversa da quella di casa o dal proprio cellulare.

 

***

 

“Rivedere i tuoi piani” gli aveva detto. Al diavolo, sapeva bene cosa doveva fare, non aveva certo bisogno di lui per saperlo. Buttato giù il telefono sulla piccola scrivania nell’ufficio di Crilin, forse con troppa veemenza, Vegeta sentì il profondo desiderio di prendere a pugni qualcuno. Peccato non avere tempo di farlo.

Si costrinse ad uscire dallo studio, mentre stava combattendo una battaglia tra quello che voleva e quello che doveva fare.

Vegeta osservò la scena che si presentò ai suoi occhi una volta uscito dall’ufficio. Sua figlia era seduta attorno a uno dei tavoli ormai vuoti del ristorante, al suo fianco Crilin stava facendo di tutto per distrarla in una conversazione frivola. Appena lo vide apparire sulla soglia della porta, Bra scivolò giù dalla sedia sulla quale era seduta. “Usa il telefono nell’ufficio” le disse prima che lei potesse anche solo comprendere quanto stesse per dirle, “Chiama tua madre, dille che ti sto riportando a casa” concluse camminando verso l’ingresso. “Cosa? Perché? Io voglio restare con te papà” si lamentò la bambina, ma Vegeta preferì ignorarla piuttosto che raccontarle una bugia… o la verità.

Si rivolse al proprietario del locale “Io vado a casa a prendere la sua roba, tu fai in modo che faccia quella telefonata” ordinò, ricevendo in responso un cenno affermativo del capo. Vegeta scoprì un senso di gratitudine per l’amico della moglie.

 

***

 

Di norma il tragitto tra la sua abitazione e quella di Bulma durava solo pochi minuti, ma quel giorno Vegeta preferì non rischiare. Guidò in lungo e in largo per la città, arrivando mezz’ora più tardi rispetto al consueto tempo necessario. Era meglio evitare sguardi indiscreti.

Quando parcheggiò l’auto davanti al vialetto della piccola casa dalle mura gialle, Bra si era addormentata sul sedile posteriore. Era sera tarda, per lei l’ora di andare a letto era passata da un pezzo. Ed era stanca, dalla giornata, alle emozioni e dal pianto. Per parte del tragitto, prima di cedere al sonno, aveva piagnucolato e aveva accusato il padre di non volerla. Benché amareggiato, Vegeta non disse nulla e non tentò nemmeno di difendersi dalle critiche così infantili.

Decise di svegliarla solo dopo aver poggiato le borse della bambina davanti al portone di casa e dopo aver suonato il campanello. Bra si svegliò, ma quando si ricordò degli ultimi avvenimenti e di trovarsi davvero davanti all’abitazione della madre, mise il broncio e cominciò a camminare a testa bassa.

Pochi istanti dopo aver udito il citofono, Bulma aprì l’ingresso. Sul viso un’espressione preoccupata. Li stava aspettando, ma l’urgenza e il mistero dietro quella decisione doveva averla messa in allerta. Era una donna intelligente.

Bra la ignorò, decidendo di entrare nell’appartamento strascicando i piedi, arrabbiata triste ed offesa. Vegeta da prima non disse nulla a sua volta, spintonò le borse dietro la donna che stava ancora tenendo la porta e solo allora si decise a guardarla.

Bulma scostò lo sguardo, si assicurò che Bra fosse dentro al sicuro, poi fece un passo in avanti e chiuse l’ingresso, restando fuori. Le mani ancora strette attorno alla maniglia. “Vegeta, cosa diavolo è successo?” volle sapere con urgenza. Lui incrociò le braccia, senza dare alcuna risposta.

“Ho incontrato Nappa” disse senza guardala e lei si poggiò una mano alla bocca, “Cosa?! Non avrà visto…?” “No” si affrettò ad assicurarle. Bulma guardò il terreno ai propri piedi, un silenzio scomodo s’insinuò tra loro. “Per questo l’hai riportata qui. Pensi che sia più al sicuro con me che non con te” intuì infine la donna, “Sì” mormorò il poliziotto.

Bulma si voltò, dando segno di voler rientrare in casa, ma prima che potesse aprire il portone, Vegeta la richiamò. “Bulma… dille che…” poi si bloccò, esitando. Per un attimo sperò quasi che lei lo guardasse negli occhi, ma ciò non avvenne. La donna si era fermata ad ascoltarlo, ma preferì osservare il pesante legno della porta. “Le dirò che sei dispiaciuto” concluse per lui. Attese alcuni istanti ancora, come a volersi assicurare che l’uomo alle sue spalle non avesse nulla da aggiungere. Vegeta non parlò e ben presto vide la porta aprirsi e chiudersi, seguito dal rumore del chiavistello che la bloccava dall’interno.

Il momento più difficile di tutti era sempre quando doveva riportare sua figlia a casa della madre. Lo lasciava con la triste consapevolezza che per tre lunghe settimane non l’avrebbe più rivista. Si era sempre convinto che non esistesse nulla di peggiore. Purtroppo si era sbagliato.

Quella era la sensazione peggiore di tutte. La sensazione di averla avuta con sé per poco più di ventiquattro ore senza sapere quando l’avrebbe rivista. In quel preciso istante si sentì solo come non lo era mai stato. Nemmeno quando solo era stato davvero, ben prima di conoscere la donna che avrebbe in seguito sposato e che, oggi, gli aveva chiuso la porta in faccia senza remore.

Rimase lì per alcuni secondi, lottando contro sé stesso e il desiderio di rivedere la propria decisione. Infine tornò alla propria auto, sparendo con essa nel traffico notturno.

 

***

 

Bulma aprì la porta della cameretta di sua figlia per assicurarsi che stesse bene, ma come aveva previsto lo scenario non era quella di una bambina al culmine della gioia. Bra si era rintanata sotto le coperte, la giacca abbandonata sul pavimento assieme alle scarpe.

“Bra?” la chiamò, ma la piccola ignorò la madre, fingendo di dormire. Tradendosi tuttavia con un singulto. “Bra, so benissimo che non stai dormendo” le disse la donna, trovando posto sul bordo del letto, “Avanti Bra, vieni fuori” le ordinò sua madre in un tono gentile, scostando le coperte per vedere la sagoma della bambina rannicchiata su sé stessa. Gli occhi serrati, che stava cercando di tenere chiusi in un infantile tentativo di fingersi addormentata. “Ascolta, tesoro è meglio se parliamo per un po'. Non voglio che ti faccia l’impressione sbagliata” le scostò una ciocca di capelli dalla fronte ed attese per avere una reazione. Infine Bra aprì gli occhi, ancora pieni di lacrime, “Non voglio stare qui. Voglio tornare dal mio papà” mormorò con voce rotta dal pianto.

Bulma s’impose di non prenderla sul personale. La bambina non intendeva offenderla e forse non si era nemmeno resa conto di averlo fatto. Tuttavia l’accoltellata le arrivò dritta al cuore. Sua figlia adorava il padre e Bulma era felice che fosse così, ma questo non rendeva meno dolorosa tutta la situazione. Cercò d’ignorare la sua sofferenza.

“Lo so” le disse augurandosi di non tradirsi dal tono. “Credimi anche lui preferirebbe stare con te” mormorò a stento, per quanto fosse sincera. Bra si mise a sedere sul materasso, “Davvero? Allora perché mi ha riportato qui?” sbottò guardando sua madre con un broncio. Bulma riscontrò una tale similitudine con l’espressione di Vegeta che si vide costretta a guardare altrove.

Si morse un labbro ed osservò il soffitto per alcuni istanti. Tornò a fissare la figlia, poggiandole un braccio attorno alla spalla. La strinse.

“Tuo padre…” cominciò, ma fu obbligata a fare una pausa per mandare giù un boccone amaro, “Tuo padre ha avuto un impegno imprevisto e per questa settimana non può stare con te. Però mi ha detto che è molto dispiaciuto”.

Bra abbracciò sua madre, senza più contenere le lacrime che bagnarono la maglietta indossata dalla donna che la cinse più forte a sé. Nel silenzio della stanza i singhiozzi della piccola echeggiarono come un frastuono.

“Senti cosa facciamo…” si sforzò di dire Bulma, facendo leva su tutto il suo coraggio, “Se tuo padre non è impegnato la prossima volta che andrai da lui, possiamo chiedergli se vuole tenerti con sé per più tempo. Cosa ne pensi?” propose. Bra alzò lo sguardo “Davvero?” esultò con ritrovata speranza. Bulma annuì “Certo!” rispose abbozzando un sorriso dietro la quale nascose tutte le sue paure e le sue preoccupazioni a beneficio della figlia.

 

CONTINUA…


 

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Capitolo 4
*** Figliol prodigo ***


FAMILY


Figliol prodigo


“No! Puoi scordartelo. Assolutamente NO!” stava urlando Vegeta, camminando avanti e indietro per l’ufficio di Piccolo che a braccia conserte lo stava osservando con sguardo indecifrabile da dietro la propria scrivania. Vegeta sembrava un leone selvaggio rinchiuso in gabbia. “Allora trovamela tu un’altra soluzione” mormorò l’altro con con voce pacata e seria al tempo stesso.

Vegeta si fermò per un istante, osservando il collega con rabbia, “È il tuo lavoro, non il mio!” gli ricordò ringhiando. “Vedo che te ne ricordi, quando ti fa comodo” mormorò Piccolo con sarcasmo, guadagnandosi l'ennesima occhiataccia, prima che l’altro ricominciasse a camminare nella sua gabbia immaginaria.

Con lo sguardo seguì i suoi movimenti per alcuni istanti, “Senti, questo è sempre stato il piano. Lo abbiamo incastrato con qualcosa di piccolo, ora possiamo approfittare che sia rinchiuso e trovare le prove per le cose più gravi” gli rammentò, ma Vegeta non parve tranquillizzato dalla prospettiva. Fissò l’altro di sbieco per una frazione di secondo, senza mai smettere di camminare. “Abbiamo due anni per prendere ciò che ci serve” continuò Piccolo.

Infine l’altro si fermò, additando l’interlocutore con visibile rabbia, “Due anni un cazzo! Non intendo aspettare due anni in cui te la puoi prendere comoda” si avvicinò a grandi passi alla scrivania “Trova un modo per incastrarlo” “Ti ho detto da dove possiamo cominciare, ma tu mi hai risposto di no” gli rammentò Piccolo, sempre con la più assoluta calma.

“Fanculo!” sbottò Vegeta, tirando un calcio al tavolo che lo separava dell’interlocutore. Poi chinò il capo e serrò i pugni, parve essersi calmato, ma Piccolo lo conosceva abbastanza bene da non illudersi. “Dovevo passare la settimana con Bra” mormorò “Invece l’ho dovuta riportare da sua madre” ci fu un istante di silenzio, l’altro ispettore attese con pazienza. “Non rischierò di passare due anni senza mia figlia!” tornò ad urlare.

Piccolo si alzò, le braccia ancora incrociate, “Vegeta, non posso incastrarlo se non ho le prove” con un pugno Vegeta fece tremare la scrivania, “Se avessi avuto le prove te le avrei date anni fa!” “Questo lo so benissimo”. Ci fu un breve silenzio teso nella quale i due si fissarono.

Il momento fu interrotto da un secondo pugno dato alla superficie di legno che li separava. Piccolo si limitò ad osservarlo, poi sospirò, “Sei proprio un testardo” questo era un eufemismo “Sai bene che se qui c’è qualcuno che può aiutarmi a rinchiuderlo per il resto della sua vita, quello sei tu. Eppure ti rifiuti di collaborare” disse con tutta calma, attendendo un responso che non parve voler arrivare.

“Che cosa vuoi da me?” mormorò Vegeta, la mano stretta a pugno ancora immobile sulla scrivania. Piccolo continuò a parlare con parsimonia “Te l’ho già detto. Ha chiesto di parlare con te… vai a fargli visita” gli ripeté “Sei un poliziotto, è il tuo lavoro riuscire ad estorcere informazioni dai criminali” in silenzio attese che le sue parole lo raggiungessero. “Mi rendo conto che per te è dura, ma se non vuoi che…” “Stai zitto!” lo interruppe Vegeta. L’altro attese.

Dopo un infinito silenzio, Piccolo comprese di essere riuscito a portarlo dal lato della ragione “Allora Vegeta, parlerai con tuo padre?”. Per tutta risposta Vegeta uscì dall’ufficio sbattendo la porta.


***


Come si può spiegare ad un bambino che l’attività lavorativa di suo padre non era delle più pulite? Che la legalità non era ciò che gli dava da mangiare. Che suo padre aveva le mani sporche di sangue e che il destino voleva far sì che il figlio ne seguisse le orme.

Vegeta era quel bambino.

Non aveva mai capito molto di ciò che faceva suo padre, era sempre avvolto nel mistero e fin dalla più tenera età Vegeta intuì che doveva essere qualcosa di grosso e segreto, ma l’innocenza dei suoi anni gli permisero di non comprendere.

Ogni volta che a scuola qualcuno gli poneva la domanda “Che lavoro fa il tuo papà?” lui aveva imparato a rispondere che era un uomo d’affari. Tuttavia quando gli venivano chiesti più dettagli era solito mandare tutti al diavolo dicendo che non erano affari loro. Così come si sentiva rispondere a sua volta quando poneva le medesime domande a casa.

Un giorno, stufo e frustrato dall’essere sempre messo in disparte, pretese risposte da un gruppo di colleghi di suo padre che di sovente si fermavano a parlare di affari con lui. Uno di questi, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo, gli rispose con un ghigno “Tuo padre ha un’attività di famiglia. Vende medicine ci fu un momento di silenzio nella stanza, in cui tutti gli adulti avevano guardato l’uomo con sguardi che andavano dallo sgomento all’ostile e Vegeta comprese che gli era appena stato detto qualcosa di scioccante, ma era ancora troppo piccolo per capire.

Non aveva mai più visto quell’uomo, scomparso nel nulla senza nessuna spiegazione. E se in un primo momento si scoprì incuriosito da quel peculiare dileguarsi senza apparente ragione, notò ben presto che tutti erano più reticenti del solito a rispondere alle domande di un bambino. Non solo quelle che erano seguite alla spartizione di quell’individuo, ma anche qualsiasi altra. Poco tempo dopo tutti i dipendenti di suo padre cominciarono a non presentarsi più così spesso a casa. Tutti ad eccezione di Nappa, che al contrario sembrava essere diventato l’ombra di suo padre.

Quello fu il momento in cui Vegeta comprese che era meglio non fare più nessuna domanda.

Era sempre stato un bambino particolare, crescendo in una casa in cui i dialoghi erano pochi e misteriosi, aveva imparato anche a scuola a tenersi alla larga da tutti. Non aveva amici e non socializzava con i coetanei. Di conseguenza non si era mai accorto di quegli sguardi pieni di paura che lo seguivano per i corridoi da parte di chiunque avesse la sventura d’imbattersi in lui. Dai propri compagni di scuola ai loro genitori e persino da parte degli insegnanti.

A sette anni decise di intraprendere uno sport. Scelse di dedicarsi alle arti marziali, un’attività che non richiedesse alcuna interazione di gruppo e che gli consentisse di restare più a lungo a scuola, evitando di tornare a casa dove stava cominciando a respirare un’atmosfera pesante.

Affacciandosi dalla finestra della palestra, un giorno, si accorse di un uomo seduto su una delle panchine appena fuori dall’ingresso della propria scuola. Aveva attirato la sua attenzione perché, a discapito della calura dei primi giorni di giugno, l’uomo indossava una giacca pesante. Per il resto non aveva nulla di particolare, sembrava una persona qualsiasi immersa nella lettura di un giornale.

Tuttavia all’uscita dagli allenamenti, alcune ore più tardi, l’uomo era ancora lì. Vegeta prese la propria bici e come faceva ogni giorno cominciò a pedalare in direzione di casa. Incontrato un semaforo rosso si fermò e, guardandosi casualmente attorno, riconobbe lo stesso uomo in una macchina poco distante. Si appuntò il tipo e la targa dell’auto, per poi individuarla di sovente nei giorni successivi.

Non comprese appieno l’attività dell’uomo fino a quando lui stesso non avrebbe scelto la stessa carriera, per il momento tuttavia ritenne importante riferire al padre la sua scoperta. Il genitore gli aveva rivolto un sorriso nefasto e gli aveva suggerito di non preoccuparsi di nulla.

Quando il giorno dopo Vegeta rincasò, tutti i documenti dall’ufficio di suo padre erano spariti, lasciando solo cassetti vuoti e una libreria polverosa che nessuno toccava da anni.

Sebbene fosse tenuto all’oscuro dei particolari, all’età di sedici anni aveva ormai da tempo compreso in cosa consistesse davvero il lavoro di suo padre e si promise di tenersene alla larga. Tuttavia, lo shock più grande doveva però ancora arrivare.

Entrando in classe, un giorno in particolare, Vegeta notò diverse espressioni scure che lo fissarono da dietro i banchi, e persino da parte dell'insegnante. In un primo momento non diede troppo peso a quello che per lui era diventata la norma. Le cose precipitarono ben presto, quando si scoprì ad ascoltare una conversazione tra alcuni ignari compagni di scuola.

I due ragazzi erano sicuri che non ci fosse nessuno nei paraggi e cominciarono a discutere di una ragazza dell’ultimo anno. Secondo i pettegolezzi il fratello maggiore della giovane era deceduto la notte precedente, a causarne la morte era stata un eccesso di stupefacenti. I due non si premurarono nemmeno di nascondere il sospetto che la fonte fosse il clan della zona. Vegeta comprese subito che era tutto vero.

D’un tratto tutti gli abiti che indossava, il cibo che mangiava e persino i suoi studi cominciarono ad emanare una sensazione di sporcizia.

Nei due anni che seguirono, Vegeta prese tutte le misure possibili per creare una distanza tra sé e suo padre. Al compimento dei diciotto anni annunciò di voler abbandonare quella casa maledetta. La lite che seguì echeggiava ancora per i corridoi della magione e Vegeta udì suo padre urlargli che se voleva tornare sarebbe dovuto tornare strisciando.

Vegeta non strisciava, non l’aveva mai fatto. Aveva imparato fin troppo bene a badare a sé stesso. Orfano di madre e con un padre evasivo era inevitabile che cominciasse a mostrare segni d’indipendenza fin dalla più giovane età. Gli tornò molto utile quando ormai da solo aveva deciso di intraprendere la strada opposta a quella di suo padre, entrando nell’accademia di polizia e trovando lavori part-time per mantenersi.

Con il distintivo sul petto, cominciò a lavorare in vari dipartimenti della grande città, ma le sue origini continuarono a fluttuare nefaste nella sua memoria. Non aveva mai dimenticato il potere di suo padre e per evitare di essere rintracciato si era abituato a chiedere il trasferimento ogni paio d’anni, con la scusa che sempre nello stesso posto si annoiava.

Dopo diversi lavori e diversi compagni di squadra con la quale non aveva nessun legame, fu assegnato al suo attuale collega. Non avevano cominciato con il piede giusto, Vegeta era troppo sboccato ed irritabile e Goku sembrava prendere la vita con tutt’altra filosofia. Fu lo stesso interesse per le arti marziali a dare a Vegeta qualcosa che non aveva mai avuto prima, un amico.

Tuttavia Goku, o Kakaroth come Vegeta lo aveva ribattezzato a seguito di una qualche stupida battuta, non era la sola cosa che servì ad incatenarlo in quel posto. La simpatia che il nuovo collega provava per lui lo costrinse a presentargli Bulma. E se in un primo momento neanche con lei le cose erano state delle migliori, il tempo aveva cambiato anche quello.

Bulma aveva qualcosa di diverso e l’attrazione che provava per lei non era soltanto una cosa passeggera. Si era scoperto innamorato di lei e per quanto avesse cercato di dimenticarsene in diverse occasioni, Bulma era una forza della natura e sembrava avere un vero talento per ricordarglielo.

Che diavolo! Aveva pensato al tempo, era passata più di una decade da quando aveva lasciato urlando la casa paterna. Valeva ancora la pena preoccuparsene? Suo padre era fuori dalla sua vita e Vegeta decise che se proprio doveva scegliere un posto dove restare era lì, in quel momento. Suo padre non l'avrebbe mai più cercato.

Quello era stato un errore.


***


Per lavoro Vegeta aveva messo piede in diversi carceri. Avevano tutti le loro regole, ma le prassi erano sempre abbastanza standard. Gli incontri tra carcerati e ospiti avvenivano in luoghi più o meno privati a seconda dell’importanza del posto. In alcune prigioni c’era il divario di un vetro, in altre a separarli c’era soltanto un tavolo.

Quello che ospitava suo padre era organizzato in piccole sale. Non c’era molto all’interno a parte un tavolo e un paio di sedie. In un angolo una telecamera mostrava la conversazione ad un paio di dipendenti seduti in uno stanzino alla fine del corridoio diviso nelle apposite stanzette.

C’erano due ingressi, uno dei quali era l’uscita per il visitatore che doveva passare attraverso le solite procedure per la sicurezza. L’altra porta si affacciava alle carceri, dalla quale entravano i prigionieri. Accanto ad entrambe un secondino restava vigile per monitorare da vicino gli eventi nella stanza.

Vegeta era rimasto in piedi, ignorando la sedia che era assegnata ai visitatori. Le braccia incrociate e lo sguardo che di tanto in tanto si scostava sulla telecamera che silenziosa lo stava guardando.

Naturalmente per motivi di sicurezza la pistola gli era stata sequestrata all’ingresso assieme alla giacca, tuttavia il distintivo era rimasto ancorato alla sua cintura in una silenziosa ammonizione per chi osasse dimenticarsene.

Una persona qualunque non si sarebbe mai accorta della sua impazienza e del suo nervosismo, nella sua posizione stoica. A tradirlo c’era solo il continuo tamburellare di un dito sul proprio bicipite.

Quando si aprì la porta che dava alle prigioni, Vegeta lasciò cadere le braccia, stringendo forte i pugni per contenere una calma che non aveva. Nel momento in cui rivide il viso di suo padre, invecchiato dall’età, ringraziò di non avere a disposizione la propria arma da fuoco.

L’uomo era accompagnato da due carcerieri, che al suo fianco lo seguivano con espressioni serie e concentrate. Le mani del carcerato erano legate insieme dalle manette. Vegeta lo osservò mentre si avvicinava con lentezza nella tuta arancione che indossava sulla quale aveva stampato un numero.

Il genitore si avvicinò al tavolo, gli sorrise con quello sguardo nefasto che Vegeta ricordò di odiare con ogni fibra del suo essere. “Ah…” gli disse, “Il ritorno del figliol prodigo”. Quelle parole gli bastarono.

Prima che chiunque potesse rendersene conto, il pugno di Vegeta si posò con tutta la sua forza sul viso del padre che, a causa delle manette, dell’età e della sorpresa, finì al suolo. “Bastardo” sibilò l’agente, mostrando all’uomo la mano ancora stretta e ora sanguinante sulle nocche a causa dell’impatto.

Impreparati, i secondini che lo avevano condotto fin lì restarono a fissare la scena per un secondo. Infine il più anziano dei due si chinò accanto al prigioniero per aiutarlo ad alzarsi. L’altro custode, di molto più giovane ed inesperto, cercò invano un suggerimento dal collega, che però non arrivò.

L’uomo guardò terrorizzato Vegeta, rendendosi conto ben presto che sembrava intenzionato a ripetere il gesto. Gli poggiò le mani sulle spalle per spingerlo indietro, ma quando lo fece capì subito che se l’ispettore avesse voluto colpire, lui sarebbe sbalzato via come un fuscello. Era un ragazzo alto e mingherlino, l’esatto opposto dell’uomo che avrebbe dovuto fermare.

Suo padre tornò ad alzarsi, sputò al suolo un grumo di sangue, senza mai smettere di guardare il figlio. “È questo il modo di trattare tuo padre? Io sono la tua famiglia” gli ricordò. Vegeta fece un passo in avanti e vedendo il collega in difficoltà, anche il secondo carceriere si prodigò nel tentativo di trattenerlo. “Figlio di puttana!” sbraitò il poliziotto, “Mio figlio è morto per colpa tua!” tuonò pronto a tirare un altro pugno all’espressione divertita del padre.

Dopo aver visto gli sguardi supplichevoli degli altri agenti, uno dei guardiani davanti alla porta decise di intervenire. Più grosso e muscoloso degli altri due riuscì quantomeno ad evitare una nuova collisione, ma anche con il suo aiuto non fu affatto facile trascinare l’incollerito agente verso l’uscita. Sebbene fosse più basso di tutti e tre i custodi, Vegeta sembrava avere ancora la meglio su di loro.

“È tutta colpa tua, bastardo! Trunks aveva solo tredici anni!” stava ancora urlando a squarciagola, quando riuscirono a trascinarlo oltre la soglia. L’ultima cosa che vide di suo padre fu un ghigno ricoperto di sangue su un viso che si stava già gonfiando.

“Lasciatemi!” ordinò Vegeta, quando l’uscio era stato richiuso e lui perse la visuale del genitore. In un gesto si liberò di tutti e tre gli agenti che stavano cercando d’immobilizzarlo. Quello grosso fu solo sobbalzato all’indietro, il più anziano ringraziò di avere la parete alle proprie spalle che gli evitò la caduta, il più giovane fu meno fortunato, trovandosi gambe all’aria.

Girandosi, Vegeta incrociò lo sguardo con Piccolo che appoggiato sul muro dall’altra parte del corridoio a braccia conserte commentò “Un perfetto esempio di professionismo” senza nemmeno premurarsi di nascondere il sarcasmo. “Chiudi quella cazzo di bocca” gli rispose, camminando con passo pesante verso l’uscita. Sul tragitto si prese il tempo di tirare un violento calcio ad un cestino che con un frastuono si schiantò al suolo. Vegeta voltò l’angolo sparendo dalla vista.

Tutti, ad eccezione di Piccolo, restarono sgomenti ad osservare la scena, udendo chiaramente un “Levatevi dai piedi” urlato a qualcuno lontano dai loro occhi, forse guardie accorse a controllare l’origine degli schiamazzi. Pochi secondi più tardi qualcos’altro andò in frantumi.


CONTINUA…



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Capitolo 5
*** Questione di abitudini ***


FAMILY


Questione di abitudini


Bra aveva ancora il broncio quando sua madre venne a prenderla da scuola, il giorno dopo. Aveva sperato in cuor suo di trovare il padre ad attenderla davanti ai cancelli scolastici, per poi trovarsi di fronte ad una grossa delusione.

“Hai parlato con papà?” le chiese Bra salendo in auto, senza nemmeno salutare la donna. Bulma soppresse la sensazione di essere indesiderata, “No” le rispose mettendo in moto “Non ho avuto tempo questa mattina. La mia pausa è durata solo un paio di minuti e quando ho provato a chiamarlo il suo cellulare era spento” spiegò osservandola dallo specchietto retrovisore. “Mettiti la cintura, per favore” aggiunse pochi secondi più tardi. Bra incrociò le braccia in un’inconsapevole imitazione del padre, dopo aver obbedito agli ordini della madre. “Mi dispiace” ripeté Bulma, “Proverò a richiamarlo stasera” promise, immergendo la propria auto nel traffico cittadino.

Passarono alcuni istanti di silenzio, nella quale Bra si limitò ad osservare la strada che scorreva al di là del finestrino. “Dove stiamo andando?” chiese una volta riscontrato di non conoscere le vie e i negozi che stavano superando. “Nel mio ufficio” rispose sua madre “Cosa? Noooo! È noioso!” brontolò Bra, come una bambina quale era, “Non posso tornare a casa?” lagnò. “E rischiare di farti trovare da quel farabutto di tuo nonno? Non penso proprio” pensò tra sé Bulma, tuttavia rispose solo “No”.

Sapeva che Bra avrebbe protestato, si rendeva conto che il suo non era il lavoro più interessante del mondo, per una bambina di sei anni, ma non aveva altra scelta. Infondo il padre indossava distintivo e pistola, lavorando in un dipartimento di polizia, Bulma era solo una ragioniera. Passava tutta la sua giornata dietro una scrivania a calcolare dati e riportarli su un computer. Non poteva neanche competere.

D’altra parte questa era la settimana di Vegeta e per lei equivaleva alle ore massacranti per ripagare debiti e favori fatti ai colleghi. Era una madre che si prendeva da sola cura della figlia piccola, non poteva contare su nessuno a parte sé stessa e si vedeva spesso costretta a chiedere a qualcuno di prendere il suo posto quando doveva riportare a casa la bambina. L’unico motivo per la quale i suoi colleghi non esitavano a darle una mano era per l’assoluta consapevolezza che lei avrebbe ripagato. Bulma passava tutta la settimana in cui Bra era dal padre per recuperare, immergendosi negli impegni di lavoro pur di non tornare a una casa vuota e solitaria infestata dai demoni del passato.

“Lo so che è dura, Bra, ma per il momento non ho scelta. Mi inventerò qualcosa e domani troveremo un’alternativa” le promise, stringendo le mani al volante. “Ok” mormorò poco convinta la figlia. Sapevano entrambe quale soluzione avrebbe più volentieri trovato lei.


***


Trunks entrò in cucina con un sorriso smagliante, prendendosi un secondo di tempo per guardarsi attorno. “Buongiorno mamma!” urlò riconoscendo la donna seduta al tavolo apparecchiato, intenta a sorseggiare l’acqua da un bicchiere. Bulma alzò lo sguardo da una rivista che stava leggendo, osservando il figlio camminare a grandi passi verso la più vicina delle sedie. “Sei piuttosto sveglio per essere le sette di mattino” mormorò lei con voce impastata dal sonno. Trunks allargò il sorriso e si allungò per afferrare una brioche da un piatto posto al centro del tavolo, “Oggi è il grande giorno, mamma” le rammentò, facendo sparire il cornetto tra le proprie fauci.

Sua madre gli sorrise “Lo so, lo so. È da ieri che continui a ripeterlo” disse con un falso sospiro esasperato. “Sarà fantastico!” continuò il ragazzo con entusiasmo, dopo aver ingurgitato il primo morso, “Io e papà andremo in giro con la macchina della polizia per tutto il giorno e mi farà vedere come catturare i criminali” riprese a masticare.

Era una giornata davvero speciale, la scuola era chiusa per ferie, ma suo padre doveva ancora recarsi a lavoro. Così, Trunks lo aveva convinto a portarlo con sé per una giornata. In cuor suo stava valutando l’idea di seguire la carriera paterna, quando avrebbe avuto l’età per farlo. Per ora aveva solo tredici anni, ma un giorno…

“Goten mi ha detto che suo padre gli ha insegnato come si arresta una persona” stava continuando Trunks, ignorando lo sguardo di disapprovazione sul volto di sua madre. “Tuo padre non te lo insegnerà” gli disse lei, in un tono fermo e deciso. Il suo non era un suggerimento. Quando il bambino aprì la bocca per protestare, la donna lo anticipò, “Ad ogni modo ti conviene fare una buona colazione se vuoi essere in forze” gli suggerì alzandosi dalla sedia con movimenti goffi causati da una gravidanza che stava cominciando ad essere piuttosto evidente. “Vuoi del latte con la tua brioche?” gli chiese avvicinandosi al frigo. Trunks ci pensò, poi annuì.

Pochi minuti dopo un bicchiere pieno del fresco liquido bianco gli fu posato davanti. “Senti mamma, secondo te papà mi farà vedere come si addestrano a sparare?” Trunks vide sua madre aprire la bocca per rispondere, ma non fu sua la voce che tuonò “Levatelo dalla testa”.

Madre e figlio si voltarono verso la soglia della cucina, osservando Vegeta avanzare a braccia incrociate. “Ma papà” lagnò Trunks, “Ho detto no” concluse l’uomo avvicinandosi al tavolo per afferrare uno dei croissant rimasti nel piattino. “Vuoi del caffè?” gli chiese la moglie, ma Vegeta rispose con un cenno negativo del capo, “Non abbiamo molto tempo se dobbiamo prendere i mezzi pubblici” le ricordò, infilando il cornetto in bocca e stringendo la fondina attorno alle sue spalle. “Mi dispiace” si scusò Bulma, “Se avessi saputo prima che Trunks voleva venire con te oggi, avrei provato a spostare la visita medica e voi potreste prendere la macchina” si giustificò, poggiando una mano al grembo in un gesto che il figlio le vedeva fare sempre più spesso. In risposta Vegeta seguì le dita della moglie e per un istante si soffermò ad osservare il nascituro, poi alzò lo spalle con noncuranza.

A suo padre non piacevano i mezzi pubblici, Trunks lo sapeva bene, ma comprese che preferiva lasciare l’auto di famiglia alla mamma.

“Adesso sbrigati Trunks, dobbiamo andare” gli disse l’uomo, ora rivolto a lui. “Oook!” esclamò il ragazzo, saltando giù dalla sedia. Per un attimo osservò suo padre avviarsi verso l’uscita della stanza, ma prima di raggiungerlo ebbe un pensiero, “Mamma, posso salutare il bambino?” le chiese. Bulma sorrise al figlio, “Certo che puoi” concesse, lasciando campo libero al ragazzo. Trunks poggiò una mano e un orecchio sul grembo di sua madre per ascoltare qualcosa che neanche lui sarebbe stato in grado di dire. Dopo alcuni istanti sollevò di nuovo il capo, “Ciao piccolino. Quando sarai nato papà porterà anche te con noi” promise, prima di incamminarsi verso il padre che a braccia conserte stava ancora aspettando.

“Trunks” lo richiamò la donna quando il giovane si trovava già a pochi passi dal genitore. Lo raggiunse, “Fai il bravo con tuo padre, d’accordo?” si raccomandò, regalando al figlio un breve abbraccio. “Sì mamma” le disse lui un po' imbarazzato, uscendo per primo dalla stanza. Alle sue spalle i suoi genitori si scambiarono un bacio fugace sulle labbra, poi anche Vegeta lo seguì.

Molte persone credevano che suo padre fosse sempre arrabbiato. Si sbagliavano. Se volevano davvero vederlo irritato dovevano incontrarlo quando costretto a prendere i mezzi pubblici o tra la folla.

Quando scese dall’autobus, Vegeta era ancora di pessimo umore, ma per fortuna la camminata per arrivare alla centrale lo avrebbe di certo calmato. Trunks lo comprese dal passo veloce del genitore che sembrò tranquillizzarsi dopo ogni falcata.

Tuttavia senza preavviso l’uomo si fermò, “No” gli sentì sussurrare il ragazzino, costretto a sua volta ad arrestarsi. “No” ripeté Vegeta, lo sguardo fisso davanti a sé, e Trunks si voltò per comprendere cosa stesse guardando, trovandosi ad osservare due uomini avanzare nella loro direzione. I misteriosi individui si bloccarono ad un passo da loro e Trunks ebbe l’occasione di studiarli.

Uno dei due era anziano e ben vestito, il secondo calvo e con la stazza di una montagna. “Questa sì che è una piacevole sorpresa” attaccò bottone l’attempato sconosciuto. “Cosa vuoi da me?” chiese suo padre e nella sua voce, il bambino riconobbe una certa diffidenza. Il signore sorrise con un ghigno, “Dopo tutti questi anni, ti sembra il modo di parlare al tuo vecchio?” “Cosa vuoi da me… padre?” si corresse Vegeta digrignando i denti con l’ultima parola, tanto che anche Trunks non poté fare a meno di notarla. Il padre di tuo padre per definizione dovrebbe essere il nonno, comprese il bambino. Aveva un altro nonno oltre a nonno Brief? Possibile? Perché nessuno gli aveva mai parlato di lui?

“Dalla tua voce deduco che sei arrabbiato con me. Eppure anch’io ho motivo di essere deluso, figlio mio” gli occhi dell’uomo scivolando sulla cintola del figlio, osservando con attenzione ciò che vi era agganciato, “Di tutte le cose che potevi diventare… il sangue del mio sangue mi ha tradito diventando uno sbirro” sibilò e per la prima volta Trunks percepì una certa cattiveria. Per istinto cercò protezione al fianco del genitore, afferrandogli la mano. “Posso vivere con la tua delusione” stava nel frattempo dicendo Vegeta.

Il gesto del bambino attirò su di sé l’attenzione dei due sconosciuti, che per la prima volta parvero accorgersi della sua presenza. Trunks sentì i muscoli di suo padre tendersi, spingendo il figlio alle proprie spalle. “Cosa abbiamo qui? Chi è il ragazzino, Vegeta?” chiese l’anziano, “Non sono affari tuoi” gli rispose l’altro.

Nel frattempo però, nonno e nipote si fissarono per la prima volta, e mentre il primo riconobbe il taglio degli occhi, la carnagione e i lineamenti del viso, l’altro notò l’intensità dello sguardo, l’attaccatura dei capelli e la struttura del naso. “Tuo figlio” farfugliò l’anziano con la più innegabile delle certezze.

Si voltò verso l’altro uomo, “Guarda, Nappa. A quanto pare ho un nipotino” “Congratulazioni signore” gli rispose l’energumeno, parlando per la prima volta. “Come ti chiami ragazzo?” domandò ora al giovane. Vegeta aprì la bocca per fermarlo, ma quando sentì il bambino dire “Trunks” era ormai troppo tardi. “Trunks… è un bel nome” mormorò l’uomo e nel modo in cui lo disse, il ragazzo non riuscì a comprendere se fosse sincero o se nascondesse qualcosa di molto diverso in quelle poche parole.

“Adesso basta!” sbottò Vegeta, “Toglietevi di torno” urlò spingendo il figlio in avanti per evitare altre interazioni con suo padre, costringendo lo stesso a spostarsi assieme alla sua guardia del corpo.

Fecero appena pochi passi, quando la voce di quello che era a tutti gli effetti suo nonno lo raggiunse “Ci rivedremo presto… Trunks” gli disse. Nel voltarsi, il bambino incrociò per un’ultima volta lo sguardo con l’uomo, scoprendosi terrorizzato quanto attratto da quel misterioso legame di parentela appena scoperto. E prima che suo padre lo fece voltare verso la strada che stava percorrendo, Trunks vide suo nonno fargli un vago cenno di saluto con una mano.


***


Bulma alzò lo sguardo dalla propria pietanza giusto in tempo per vedere sua figlia mandare giù l’ultimo boccone della sua cena. “Andava bene?” le chiese osservando il piatto vuoto della bambina, che annuì appena. “Vuoi qualcos’altro?” Bra sembrò rifletterci, “Posso avere un dolce?” chiese e sua madre non si sentì di negarlo. La piccola era stata di malumore a causa degli ultimi eventi, ma sembrava migliore ora che era a stomaco pieno.

La donna si alzò, aprendo l’anta del frigorifero per verificare se vi fosse qualche sfizio all’interno, “Abbiamo ancora una fetta della torta che ho comprato alcuni giorni fa” la afferrò e si fermò ad osservarla, “Anche se non è molto” constatò. La spesa non aveva avuto modo di farla. Un’altra di quelle abitudini che variavano durante la settimana d’assenza della figlia. Restando da sola e passando molto del suo tempo in ufficio non riteneva necessario andare al supermercato, preferendo fast food o i pasti alla mensa assieme ai colleghi.

“Va bene lo stesso” le disse la bambina, vedendosi poggiare il piattino sotto il naso. Bulma le sorrise, “Ok” disse, afferrando una forchettina dal cassetto che nascondeva le posate.

Il campanello suonò all'improvviso, costringendo entrambe a voltare la loro attenzione verso l’ingresso. “Tu resta qui” ordinò la donna, “Vado a vedere chi è” disse, uscendo dalla stanza e percorrendo il piccolo corridoio che si affacciava alla porta principale.

Per precauzione, tesa a causa dei recenti avvenimenti, Bulma sbirciò dallo spioncino e quando riconobbe la persona che sostava davanti alla porta si ritrovò a sorridere. Con un sospiro di sollievo sbloccò la porta per poi spalancarla.

Dall’altro lato dell’uscio la stava aspettando una donna dai corti capelli biondi che appena la vide comparire da dentro la casa lasciò cadere ai propri piedi una pesante sacca. Poi allargò le braccia, “Allora” disse, “Chi ha ordinato una babysitter?” sorrise.

Bulma l’abbracciò con tutta la sua forza, “Sono felice che tu sia qui” le sussurrò in un orecchio, “Grazie per essere venuta con così poco preavviso” la strinse di più. “Figurati” le rispose l’altra, cingendola a sua volta, “Per te questo ed altro”.

Incuriosita, Bra uscì dalla cucina, trovandosi ben presto ad osservare la scena, riconoscendo l’ospite. “Zia Tights!” esclamò.


CONTINUA…

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Capitolo 6
*** Perle di saggezza ***


FAMILY


Perle di saggezza


“...alla fine, quando l’abbiamo tirata giù dal palo elettrico, tua madre mi guarda e mi dice stavo solo cercando di parlare con gli alieni” seguì una risata generale. “Punto primo” la corresse Bulma, l’unica che non stava ridendo, alzando il dito di una mano, “Avevo solo cinque anni” puntualizzò sollevando un altro dito “Punto secondo è stato tuo nonno a mettermi in testa che dovevo trovare un posto migliore per ricevere un segnale”. “Davvero?” chiese scettica Bra, osservando sua madre poggiarsi al lavandino mentre sorseggiava da una tazza di caffè. Tights con la bambina seduta sulle proprie ginocchia, fissò a sua volta la sorella minore, “Personalmente sto aspettando di scoprire come giustificherai la parte che riguarda il gatto”.

Bulma si prese del tempo per pensare bevendo il caffè, “Quello l’hai aggiunto tu” concluse ostentando tutta la sua sicurezza. Sua sorella rise, “Sai bene che non è vero” “Tights… sei venuta fin qui per umiliarmi davanti a mia figlia?” le domandò con superbia.

A Bra piaceva zia Tights. Era divertente e sapeva sempre raccontare un mucchio di storie divertenti, alcune inventate sul momento, altre no. Ad ogni visita della zia, Bra scopriva sempre cose nuove e divertenti, come i dettagli inerenti all’infanzia di sua madre ad esempio. “Zia Tights, raccontami un’altra storia” le domandò, ma la risposta della zia fu anticipata. “Si è fatto tardi Bra, domani devi andare a scuola e tua zia sarà stanca dopo il lungo viaggio in treno” s’intromise la madre e la bambina mise il broncio. “Ti preeegooo” mugugnò con aria supplichevole. “A me non dispiace raccontargliene un’altra” le diede manforte Tights. Bulma le guardò entrambe a turno, sospirò “E va bene… ma solo una!” concesse, poggiando la tazza ora vuota nel lavabo alle proprie spalle.

“Ok, che storia vuoi sentire, Bra?” le chiese subito la zia e la piccola ci pensò per qualche istante. Sul suo viso si delineò uno sguardo serio. Ponderò sui propri pensieri per un breve attimo, poi guardò negli occhi la donna che la stava tenendo in braccio, “Puoi raccontarmi una storia di quando la mia mamma e il mio papà erano felici?” chiese nella sua infinita innocenza.

L’atmosfera nella stanza sembrò congelarsi all’improvviso. Le due sorelle si scambiarono un’occhiata per un periodo che parve infinito. “Per favore” insistette la piccola. Tights esitò “Solo se la tua mamma non ha nulla in contrario” disse fissando gli occhi azzurri della minore. Bulma indugiò, si morse il labbro inferiore e fissò le lastre del pavimento. “Immagino… immagino che non ci siano problemi” farfugliò tornando alla sorella, che dai suoi occhi attese ed ottenne una conferma ulteriore.

“Allora ti racconterò di quando ho incontrato tuo padre per la prima volta” cominciò Tights catturando la più assoluta attenzione della bambina, “All’inizio tua madre non faceva altro che parlarmi di lui. Ogni volta che ci sentivamo per telefono continuava a descrivermi questo Vegeta”. Bra si voltò a guardare sua madre, trovando quasi difficile da credere al racconto della zia. Era raro infatti che parlasse di papà e la piccola si chiese perché avesse smesso di farlo.

Dal canto suo, Bulma ricordava quel periodo. Al loro primo incontro lo aveva trovato un gradasso egocentrico. Aveva cercato di evitarlo per mesi, ma grazie, o a causa, di Goku finiva sempre per incontrarlo in diverse occasioni.

Le telefonate che Tights stava raccontando erano state molto romanzate a beneficio della bambina. Bulma aveva passato ore a descrivere alla sorella questo poliziotto antipatico che non sopportava.

Tuttavia poco alla volta i sentimenti che provavano l’uno per l’altra cominciarono a mutare e prima che potessero rendersene conto scoprirono una reciproca attrazione.

Di conseguenza, le chiacchierate con Tights erano diventate sempre più contraddittorie tra loro, dando alla maggiore un’immagine piuttosto confusionaria dell’uomo di cui Bulma si stava innamorando.

All’annuncio, ormai inevitabile, che Bulma e Vegeta avevano deciso di diventare una coppia a tutti gli effetti, Tights aveva espresso il desiderio di conoscere l’uomo del mistero che faticava ad inquadrare.

Quel weekend Bulma era stata molto nervosa. Teneva molto all’opinione di sua sorella e sapeva fin troppo bene che Vegeta non dava mai una prima buona impressione. Solo a posteriori Tights le aveva raccontato che per la maggior parte del tempo avrebbe voluto prendere da parte Vegeta per avvisarlo che spezzare il cuore alla sua sorellina era severamente vietato, ma fu solo all’ultimo che comprese cosa si nascondesse dietro il poliziotto taciturno e dall’aria severa.

“... così abbiamo deciso di andare a fare un picnic all’aria aperta e approfittare della bella giornata” stava continuando a raccontare zia Tights, mentre Bra pendeva dalle sue labbra, “Poi è arrivata la pioggia improvvisa” la narratrice fece una pausa strategica per creare l'atmosfera giusta. La piccola fissò la zia con i suoi grandi occhi azzurri, “E cosa è successo?” chiese, “Beh abbiamo dovuto trovare un riparo alla svelta perché stava diluviando. Ci siamo nascosti sotto un albero, ma anche lì non era molto all’asciutto”. Bulma lo ricordava, sembrava una bella giornata e non avevano ombrelli, la pioggia primaverile era arrivata dal nulla e li aveva colti alla sprovvista.

“Allora ci ha pensato tuo padre. Ha dato la sua giacca a tua madre per riparlarla ed è andato a prendere lui la macchina, portandola il più vicino possibile per farci salire” Tights rise “Quando è tornato era completamente fradicio, e questo mi ha fatto capire quanto il tuo papà volesse bene alla tua mamma” concluse.

L’ultimo dettaglio che Tights aveva omesso era che, nei giorni successivi, Vegeta si era ammalato. Bulma aveva dovuto lottare per convincerlo a restare a letto anziché andare a lavoro.

Bra si sentì soddisfatta della storia, ma nonostante ciò un nuovo pensiero le passò per la mente, “Posso farti una domanda, zia Tights?” chiese all’improvviso, attirando l’attenzione delle due donne. “Dimmi tutto” la esortò e Bra non se lo lasciò ripetere, “Perché nessuno parla mai di mio fratello Trunks?” domandò tutto d’un fiato.

Bulma scostò lo sguardo, cercando di evitare contatti visivi con chiunque. Il suo cuore era ancora troppo ferito e nonostante gli anni trascorsi da allora non si era rimarginato. Tights, ad una sola occhiata, comprese che doveva essere lei a prendere le redini del discorso. “Perché tutti sentono la sua mancanza” le rispose, ma la bambina assunse un’espressione confusa. Bulma sentì una stretta alla bocca dello stomaco e decise che era ora di allontanarsi. Afferrò il pacchetto di sigarette che aveva abbandonato sul tavolo. Il gesto attirò l’attenzione delle altre e lei si trovò a dire “Vado a fumare” per evitare altre domande. Senza aggiungere una sola parola si allontanò in silenzio.


***


Bulma era uscita nel piccolo giardino sul retro, trovando posto su una panchina appena fuori dalla portafinestra che dava all’esterno. Fissava con intensità la profonda notte senza realmente vederla, gli occhi pieni di lacrime che le rigavano il viso senza sosta. Tra le labbra quella che era già la sua seconda sigaretta.

Non era una fumatrice accanita, ma ripensare a Trunks e a quanto le mancasse il suo bambino la costringevano a trovare conforto nel fumo. Con una mano si asciugò le lacrime che copiose continuavano a percorrere i suoi zigomi nivei.

Alle sue spalle udì la porta aprirsi e richiudersi, seguiti dai passi di qualcuno che l’aveva appena raggiunta. Bulma non si girò nemmeno a constatare di chi si trattasse. “Ho messo Bra a letto” la informò la sorella, restando in piedi accanto alla panca sulla quale la padrona di casa era seduta. “Grazie” le rispose solo, tirando una boccata dalla sigaretta, come se si fosse appena resa conto di averla ancora stretta tra le labbra.

Tights la fissò con un’espressione compassionevole. Le sorelle erano sempre state molto vicine, sebbene avessero una notevole differenza d’età. La maggiore aveva quindi vissuto per riflesso tutto il dolore che la sorellina aveva subito. Nonostante ciò era difficile, se non impossibile, riuscire a comprendere fino in fondo la sofferenza di una madre alla quale era stato strappato il figlio nel peggiore dei modi.

“Bulma, stai bene?” le domandò, dopo essersi presa del tempo per osservare i lineamenti della donna alla luce della luna alta nel cielo. Seguì un lungo silenzio, Bulma osservò con ostinazione l’interno del giardino, soffiò una boccata di fumo e solo allora sembrò riflettere sulla domanda, “No” ammise infine con voce sottile.

Sua sorella la guardò con tristezza, poi trovò posto al suo fianco fissando i propri occhi scuri nell’intensità della notte. “Mi dispiace” si scusò sentendosi colpevole dello stato d’animo dell’altra, almeno per quella sera. La minore accennò un responso negativo con il capo, “Non è colpa tua” disse “E nemmeno di Bra” la rassicurò. Ci fu un breve lasso di tempo nella quale nessuno disse nulla. “È colpa di quegli stronzi che mi hanno portato via il mio bambino” concluse con dolorosa rassegnazione.

Tights restò in silenzio, osservando ora la sua interlocutrice come se potesse percepirne i pensieri. Dal canto suo Bulma non poté fare a meno di tornare indietro con la memoria, ricordando i tempi nella quale poteva svegliarsi tra le braccia del suo Vegeta. Quando poteva sentire la voce di Trunks raccontarle i piccoli avvenimenti della sua giornata, mentre lo vedeva crescere giorno per giorno. In un tempo in cui, tutti e tre, stavano aspettando con pazienza che anche Bra entrasse nelle loro vite.

Un magone si strinse attorno alla sua gola, “Qualcuno deve dirmi come posso spiegare a mia figlia cos’è successo a suo fratello senza traumatizzarla” domandò a nessuno in particolare, asciugandosi le lacrime con il dorso di una mano, lasciando cadere la sigaretta ormai ridotta all’osso nel posacenere poggiato sul bracciolo della panca.

Tights le circondò le spalle con un braccio e la strinse a sé, “Non lo so sorellina. Trunks era il bambino più dolce che io abbia mai conosciuto, è stato ingiusto quanto gli è accaduto” le disse con delicatezza. L’altra si lasciò coccolare dalla sorella per un istante, singhiozzò “E io e Vegeta siamo rimasti con questo dolore che non andrà mai più via” mormorò, la testa poggiata sulla scapola di Tights. Le braccia di Bulma si strinsero attorno alla vita della maggiore che si sentì impotente. “Mi dispiace tanto Bulma, nessuno di voi se lo meritava” le sussurrò nella speranza vana di consolarla.

Seguì l’ennesimo momento di silenzio, rotto solo dal pianto soffocato della più giovane.

“Come sta Vegeta?” chiese Tights e Bulma si staccò dall’abbraccio asciugandosi gli occhi per l’ennesima volta. Alzò le spalle in un gesto sconfitto, “Non lo so…” ammise “Non riesco ancora a parlargli” sussurrò con voce fioca. Questa volta fu Tights a restare in silenzio, immersa nelle sue elucubrazioni. Nei suoi occhi si annidò una luce di consapevolezza quando disse “Non riesci a parlargli per quello che è successo a Trunks o perché non hai mai smesso di amarlo?” le domandò con una certa sagacia.

Per la prima volta dall’inizio della loro conversazione, Bulma si vide costretta ad osservare la sorella, “Dannazione Tights!” pensò tra sé.


***


Alcuni minuti più tardi, Bulma si affacciò alla porta della cameretta di sua figlia, per accertarsi che stesse dormendo. In un iniziale momento ebbe l’impressione che la bambina fosse addormentata, ma nel richiudere l’uscio la voce della piccola le giunse all’orecchio. “Mamma?” la chiamò da sotto le coperte, costringendo Bulma a riaprire la porta “Dovresti dormire a quest’ora Bra” la rimproverò con gentilezza. La figlia ignorò l’ammonizione “Mamma, mi dispiace per averti fatto piangere” le disse sedendosi sul materasso. La donna scosse il capo con vigore, accese la luce e prese posto sul letto accanto alla bambina, “Oh! No, tesoro, tu non hai fatto nulla di male” le disse cingendola in un abbraccio.

Bra restò in silenzio alcuni istanti, “Zia Tights dice che tu e papà non riuscite a parlare di Trunks perché gli volevate tanto bene” riferì, costringendo sua madre a mollare la presa. Bulma la fissò per pochi secondi, poi fece una smorfia indecifrabile “A tua zia piace assumere il ruolo di vecchia saggia” commentò più a sé stessa. La figlia la fissò, “Ma è vero?” domandò con esigenza e la donna annuì “Sì” le rispose senza mezzi termini.

“Allora farò la brava e non vi chiederò più nulla” decise la piccola, chinando il capo con tristezza. Bulma la guardò sbigottita per un attimo, poi addolcì lo sguardo accarezzarle il capo dai folti capelli azzurri, “No! Bra, tesoro mio, tu hai tutto il diritto di chiederci quello che vuoi su tuo fratello, ed è nostro dovere rispondere” le disse, fece una pausa e dopo aver mandato giù un boccone amaro continuò “Anche se è molto doloroso” sospirò “Ti chiediamo solo di avere molta pazienza con noi” la rassicurò. Bra tornò a guardarla “Anche con papà?” “Soprattutto con tuo padre” le afferrò la mano e la strinse tra le sue.

La bimba ci pensò “Allora...” riprese “Posso chiedere una cosa?” cominciò con timidezza, osservando con più attenzione gli occhi arrossati di sua madre, che annuì “Tutto quello che vuoi” esortò. Bra ci pensò, cercando le parole giuste, “Che tipo di persona era il mio fratellone?” chiese infine. Bulma strinse la mano di sua figlia, osservando il suolo in cerca di aiuto. Fu facile rivedere nella sua mente l’immagine del piccolo Trunks, “Beh… lui era…” mormorò appena, “Era... forte e coraggioso come il tuo papà, bello ed intelligente come la tua mamma e…” tornò ad osservare la figlia “Aveva il cuore grande e generoso come il tuo” concluse, regalandole un timido sorriso sincero. “Mamma, pensi che Trunks mi avrebbe voluto bene?” chiese con curiosità e in responso ottenne un deciso cenno affermativo del capo, “Certo che sì! Trunks ti voleva già molto bene prima ancora che tu nascessi”. Bulma non aveva mai dimenticato la reazione del figlio alla notizia che sarebbe diventato un fratello maggiore. L’entusiasmo dei mesi successivi, le domande curiose di un bambino che stava crescendo e che si divertiva a fantasticare su ciò che lui e il nascituro avrebbero potuto fare insieme. Trunks non aveva mai saputo che era una bambina, Bulma e Vegeta avevano optato per il mistero, sebbene più volte lei stessa aveva cercato di scoprirlo alle spalle del marito. Ed in quel momento una parte di lei avrebbe voluto che Trunks ne fosse stato a conoscenza.

“Hai altre domande?” chiese infine Bulma, tornando al presente che per un secondo aveva dimenticato. Bra la guardò, studiò i lineamenti di sua madre, le mani strette attorno alla sua, gli occhi di un bel blu vivace ottenebrati da una grande tristezza, l’espressione cupa. D’un tratto la bambina si lasciò sopraffare da un sentimento che non aveva mai conosciuto prima, si sentì addolorata per la madre. Troppo giovane non riconobbe quello che un adulto avrebbe interpretato come compassione.

Aveva sì tante domande. Voleva sapere molto di più di quel fratello che non aveva mai conosciuto, ma comprese che ogni parola stava costando molta fatica alla sua mamma e decise che per quella sera aveva sofferto abbastanza.

Scosse il capo, “No” rispose in tono piatto, scostando lo sguardo. Bulma la fissò, per cercare di capire se fosse sincera, ma Bra parve convinta della sua ultima decisione. “Ok” disse infine la donna, alzandosi dal letto e lasciano la presa sulle dita della bambina. Le carezzò il capo e la baciò sulla tempia “Adesso però è davvero ora di andare a dormire” disse.

Bra tornò a sdraiarsi sul proprio letto, seguendo i movimenti della donna che si avvicinò alla porta riportando il buio nella stanza tramite l’apposito interruttore. In quel momento, la piccola decise che aveva un’altra cosa da dire e che quello era l’attimo perfetto, “Mamma?” la richiamò. Bulma si fermò con la mano poggiata già alla maniglia, si voltò a guardarla, “Dimmi” la esortò, restando in attesa. La figlia esitò un secondo ancora poi le sorrise “Ti voglio bene” le disse avendo la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta quando poté ammirare il viso della donna illuminarsi, “Anch’io te ne voglio” rispose lei.

Bra chiuse gli occhi, augurandosi di aver davvero aiutato sua madre a sentirsi meglio.


CONTINUA…


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Capitolo 7
*** Vittima ***


FAMILY


Vittima


Dalla scuola di Trunks a casa bastavano una quindicina di minuti a piedi, dieci se la percorreva correndo. Doveva attraversare il grande parco appena fuori dai cancelli della scuola e sbucare nella zona del centro cittadino dove le vetrine dei negozi eleganti esponevano le loro merci che nessuno era davvero in grado di comprare. Poi svoltava l’angolo dopo il concessionario, scoprendosi a fermarsi spesso ad ammirare le nuove autovetture che esponevano, per andare a raccontare a sua madre cosa aveva visto. A discapito dell’aspetto, la sua mamma era una patita di auto e ne sapeva più lei che non il rivenditore, Trunks ne era convinto. Infine doveva zigzagare tra le vie che conducevano alla zona residenziale. Ancora pochi minuti ed era arrivato.

Aveva imparato a percorrerla da solo da qualche tempo ormai. Sapeva a memoria ogni svincolo ed era riuscito a convincere i suoi genitore di essere autosufficiente e di poter tornare a casa da solo. A suo vantaggio aveva giocato la gravidanza di sua madre, che la limitavano sempre di più e quindi cercava di evitare i viaggi superflui. Per quanto riguardava suo padre invece, lui lavorava dall’altra parte della città e non aveva molto tempo per andare a prendere il figlio a scuola. Così Trunks aveva vinto.

Era sovrappensiero quel giorno e non si avvide della presenza fino a quando non gli andò a sbattere quasi contro. Trunks strinse i lacci dello zaino, alzando con circospezione lo sguardo fino ad osservare l’enorme uomo che gli sbarrò la strada e che pareva essere uscito dal nulla. Lo guardò per alcuni istanti ed il bambino si rese conto ben presto che lo aveva già visto da qualche parte.

Si ritrovò sul punto di commentare quando una voce giunse alle proprie spalle, “Trunks. Dico bene?” domandò questa, costringendo il ragazzo a voltarsi. Anche il secondo uomo gli risultò familiare, ma questa volta fu molto più facile da identificare. In fin dei conti gli occhi intensi e lo sguardo serio erano difficili da confondere. Tanto simili quanto diversi da quelli del suo amato padre.

Questo era suo nonno.

“Sì” rispose il giovane, dando le spalle all’energumeno e non senza sentirsi a disagio. Gli rivolse un’ultima occhiata, prima di voltarsi verso il nonno. “Ti ricordi di me, vero?” gli chiese l’anziano, avvicinandosi di un passo e fissando il piccoletto negli occhi. Trunks annuì, “Sì” disse una seconda volta.

Come era accaduto nella prima occasione, nonno e nipote si scrutarono con intensità, ma questa volta era concesso loro tutto il tempo necessario per quello scambio di sguardi, avendo modo di esplorare i particolari dietro i rispettivi occhi. Trunks era indeciso, c’era troppa similitudine con il padre da poterla ignorare, l’uomo era suo nonno su questo non vi era alcun dubbio. Tuttavia c’era anche qualcosa di diverso, gli occhi di papà erano severi, torvi, intensi; questi erano enigmatici dietro la quale era nascosto un sentimento che Trunks non comprese e lo costrinse a stare sull’attenti.

“Bene” disse l’uomo, dopo un lungo momento di contemplazione, nella quale anche lui aveva raggiunto le sue misteriose conclusioni. “Tuo padre ti ha mai detto nulla di me?” volle sapere l’anziano con voce pacata. “No” rispose Trunks, scuotendo il capo con diniego. Ancora un lungo silenzio, “Beh, devi sapere che molti anni fa io e tuo padre abbiamo avuto una… divergenza di opinioni” spiegò “E il tuo caro paparino, ovvero mio figlio, ha deciso di allontanarsi dalla sua famiglia” “Papà è andato via?” chiese Trunks, utilizzando una frase completa per la prima volta dall’incontro con il nonno. L’uomo annuì “Non ti ha mai raccontato questa storia, immagino” “No… papà non dice molto” confessò il ragazzino, guardandosi alle spalle per verificare la presenza dell’accompagnatore del nonno, tornando poi all’anziano che rise.

“Quando è andato via mi ha spezzato il cuore. Lo capisci questo, vero?” domandò di nuovo il nonno. Trunks percepì qualcosa di strano in quella frase, di sforzato, ma non fu in grado di capire cosa fosse. L’espressione che pareva tutt’altro che addolorata, forse. Oppure il tono piatto e controllato con la quale lo disse. Eppure, non riuscì a distrarsi, magnetizzato da quel modo di fare quasi regale, che per molte piccole cose gli ricordavano il padre. “Lo… capisco” mormorò in risposta, pur non essendo del tutto convinto. L’uomo sorrise, qualcosa di losco nei suoi occhi, “Dimmi, Trunks, tu non vorresti che tuo padre possa tornare ad avere un papà come te?”domandò.

Una strana e sgradevole sensazione s’impossessò del bambino. Per un istante seppe con assoluta certezza che la risposta a quella domanda era no. Aprì la bocca per dare il suo responso, esprimendo la necessità di tornare presto a casa. Tuttavia il suo istinto gli suggerì un’altra storia. Voleva davvero rischiare di portare quest’uomo da sua madre e dal suo fratellino o sorellina che ancora non aveva visto il mondo? Anche questa volta la sua risposta fu no e il suo spirito di protezione gli fece dire, “Io cosa c’entro?”.

Il nonno sembrò soddisfatto, gli sorrise con le labbra, ma non con gli occhi che per un breve istante restarono gelidi, “Tu, puoi farmi un favore” rispose, costringendo Trunks a fare un passo indietro, ma alle sue spalle l’altro uomo non si era ancora spostato. Il bambino deglutì, “Che tipo di favore?” chiese a disagio.


***


C’era sempre un lugubre silenzio in quel luogo. Un silenzio adatto solo dove i visitatori portavano con sé il loro dolore. D’altra parte che altro c’era da aspettarsi in un cimitero?

Quando Bulma trovò la tomba che stava cercando si soffermò ad osservarla sentendo il peso della lapide sulle proprie spalle, quasi come se fosse sempre costretta a trasportarla ovunque andasse. Contemplò la fredda pietra per un tempo indeterminabile. La data di nascita che ben ricordava, quella di morte indelebile nella sua mente. Due date troppo vicine tra loro.

Poi fissò la fotografia, il bambino sorridente che con entusiasmo osservava la vita, ancora troppo piccolo per capire quanto male si nascondeva dietro ogni angolo. Bulma posò le dite sull’immagine incastonata nella pietra, come se potesse toccargli i folti capelli lilla. Gli regalò un sorriso triste, poi diede il via al suo rituale.

C’era un rubinetto qualche lapide più in là, Bulma tolse l’acqua stagnante dal vaso che ornava la tomba del figlio e lo riempì con quella fresca e pulita. Infine aggiunse un ricambio di fiori, eliminando quelli che aveva portato l’ultima volta che era andata a trovarlo. Il sepolcro era ricoperto di terra e senza troppa sorpresa Bulma si accorse che nessuna erbaccia cresceva sul suolo.

Poggiò il vaso da dove lo aveva raccolto e si inginocchiò accanto a lui. “Ciao, piccolo mio” gli disse come se lui potesse sentirla, accarezzando la foto come se quel gesto potesse in qualche modo raggiungerlo. Fece una lunga meditativa pausa, cercando di liberarsi del groppo alla gola che stava cominciando a stringere. “Ieri la tua sorellina mi ha chiesto di te” gli raccontò dopo alcuni minuti, “Sareste andati così d’accordo, tu e Bra” continuò, le dita ancora ferme sulla fotografia.

Sentì i passi alcuni secondi prima di vederlo. Lui apparve con le mani in tasca e l’aria severa che non lo abbandonava mai. Restarono in silenzio entrambi per qualche tempo, fissando la lapide fredda. “Sapevo che eri tu a portargli i fiori” disse infine lui, Bulma non alzò lo sguardo, “Sapevo che eri tu ad estirpare le erbacce” rispose. “Tsk” mormorò Vegeta dopo pochi istanti.

Bulma si alzò, ma il silenzio sembrava avere ancora il predominio sul dialogo. “Come sta Bra?” s’informò il poliziotto. Lei annuì, gli occhi ancora fissi sulla lapide del figlio, “Meglio. Tights è venuta in città per darmi una mano” gli rispose ottenendo un lieve cenno del capo in risposo.

Per la prima volta, la donna distolse la sua attenzione, osservando Vegeta di sottecchi, poi tornò a Trunks. “Le ho promesso che la prossima volta potrà stare più a lungo con te” gli riferì, ma l’agente non parve aver sentito, eppure lei sapeva che non era così. Attese per qualche istante, prima di notare, sempre con la coda dell’occhio, che Vegeta aveva estratto la mano destra dalla tasca, soffermandosi ad osservarla. “Bulma… io non posso tenere Bra con me” disse aprendo e chiudendo le dita che stava guardando.

Solo in quel momento, Bulma si accorse della fasciatura che ornava il palmo dell’uomo. “Che accidenti hai combinato alla mano?” gli domandò allarmata. Vegeta non sembrò notarla in un primo momento. “Ho detto a mio padre quello che pensavo” rispose enigmatico, stringendo il pugno. “Vegeta…” mormorò lei con un fil di voce, “Pensi che questo ci ridarà il nostro Trunks?” volle sapere, tra l’esasperazione e il rimprovero. Ci fu un altro istante di silenzio, “No” rispose infine lui.

Bulma studiò le dita ancora strette dell’uomo, “Cosa allora? È per sentirti meglio?”. Seguì un lungo silenzio. La donna studiò la postura del poliziotto, ricordandosi che lo conosceva fin troppo bene, rendendosi pertanto conto che la mancata negazione per Vegeta era sempre una conferma. “Funziona almeno?” chiese poi, vagamente sarcastica. Ancora nessuna risposta.

“No” ripeté lui, riportando la propria attenzione sulla tomba ed incrociando le braccia in un gesto a lui consono. Bulma sospirò, “Dannazione Vegeta” bisbigliò a nessuno in particolare, seguendo la direzione dello sguardo di lui ed imitandolo.

“Dovevo proteggerlo” disse l’uomo senza preavviso, “Ero suo padre… e dovevo proteggerlo” digrignò i denti. “Vegeta, tu hai fatto del tuo meglio” Bulma osservò il suo profilo “Tu sei una vittima, esattamente come Trunks. Non è colpa tua” lo rassicurò. Tuttavia, quando lui scostò le profonde pupille nere su di lei, la donna guardò altrove. “Davvero?” sibilò con tono severo, “Se è davvero così che la pensi allora spiegami una cosa Bulma. Perché dopo tutti questi anni ancora non riesci a guardarmi negli occhi?” le domandò con crudele rimprovero.

Bulma strinse i denti, osservando la punta delle proprie scarpe. “Vuoi sentirti dire che ti accuso di tutto? Che ti ritengo responsabile per la morte di Trunks? Speri che questo ti faccia sentire meglio?” nessuno si mosse, “Beh ti sbagli! Sapevo da che tipo di famiglia provenivi, ma ti ho sposato lo stesso e volevo che fossi tu il padre dei miei figli” Bulma deglutì, indecisa se continuare. Attese, ponderò, poi riprese, “Il motivo per la quale non riesco a guardarti negli occhi è un altro” Vegeta la fissò dietro le aggrottate sopracciglia scure, prestandole tutta la sua attenzione. Era la prima volta che la sentiva confessare la mancanza di un contatto visivo.

“Io… io non riesco a guardarti negli occhi perché ogni volta che lo faccio mi ricordo quanto Trunks ti somigliava. È lui che rivedo quando ti guardo e questo mi ricorda che vi ho persi entrambi” Bulma fece una pausa, “Ho perso lui perché ci è stato portato via e ho perso te a causa del dolore” sospirò “Vorrei davvero che le cose fossero diverse, ma questa è la realtà e nessuno può farci niente. Né io né te potremmo mai sentirci meglio” fine della discussione. E con ciò si voltò incamminandosi verso l’uscita con notevole fretta, lasciando Vegeta da solo.

Per un’ultima volta l’uomo guardò la tomba del ragazzino e sorprendendo anche sé stesso si ritrovò ad urlare “Maledizione!”.


***


Non era un favore difficile da fare, si accorse Trunks dopo aver ascoltato le brevi e precise istruzioni che gli erano state date. Doveva solo deviare il suo percorso di pochi minuti, bastava allontanarsi dalla zona dei negozi e sviare per quella dove risiedevano gli alberghi di lusso. Per ovvie ragioni Trunks non era mai entrato in profondità in quel punto della città che prometteva comfort di cui non aveva bisogno. Tuttavia gli era già capitato di passarci accanto per raggiungere altri punti d’interesse della città. Pertanto non gli fu difficile trovare l’hotel che gli era stato indicato.

Lo guardò dall’esterno, come aveva fatto tutte le volte che gli era capitato di passargli accanto, domandandosi per la prima volta cosa potesse esserci all’interno. Si guardò attorno con titubanza, come a volersi assicurare che non ci fosse nessuno nei paraggi, a cominciare da suo nonno. Era stato facile arrivare fin lì, ma quella sensazione di disagio che aveva provato pochi minuti prima non era ancora passata. Aveva percorso la strada continuando ad osservarsi alle spalle, aspettandosi un’imboscata da un momento all’altro. Come se questo fosse possibile.

Esitò ancora un secondo, ed infine varcò la soglia dell’edificio, zainetto scolastico ancora aggrappato alle proprie spalle. Si scoprì in un ingresso sontuoso degno di un grande albergo. La hall era grande e spaziosa, abbellita di ogni ricchezza inimmaginabile, “Wow” commentò tra sé, sentendosi un pesce fuor d’acqua in un luogo tanto splendente. Era solo un bambino di tredici anni figlio di un poliziotto e una ragioniera, non aveva mai visto tanta prosperità.

Dopo un breve minuto di contemplazione adocchiò la reception dietro la quale un giovane inserviente era impegnato a digitare informazioni su un computer. Trunks si avvicinò con passo incerto, voltando il capo da destra a sinistra, notando che non c’era nessun altro nei paraggi. Tutto questo lusso e nessuno che fosse lì per goderselo, pensò.

“Salve” disse una volta raggiunto il bancone, poggiando i gomiti sul pesante legno di mogano per alzarsi quei pochi centimetri in più che lo aiutarono ad osservare meglio l’uomo ben vestito che stava prestando servizio. Il receptionist non doveva aver raggiunto nemmeno i trent’anni, e con curiosità si voltò ad osservare il bambino, “Ciao” gli rispose con un sorriso “Ti sei perso?” domandò, trovando molto peculiare la presenza di un cliente così giovane non accompagnato. Trunks scosse il capo, “No, sono qui solo perché devo parlare con una persona” gli rispose, come era stato istruito. Il sorriso dell’uomo si congelò “Ah” mormorò ora più insicuro “Vuoi lasciare un messaggio a uno dei nostri ospiti?” chiese l’uomo, una vaga insicurezza nel tono di voce.

Il bambino inarcò un sopracciglio, notando la trasformazione lenta nella condotta del suo interlocutore. Alzò le spalle “Non posso, devo dire tutto direttamente a lui. Mi è stato detto che non devo parlare con nessun altro” l’inserviente tossì, “Va… bene, come si chiama la persona con la quale devi parlare?”. Trunks ricercò nella mente il nome che gli era stato riferito, “Un certo Toma, mi pare” rispose il ragazzo, allungandosi sopra il bancone per cercare con lo sguardo lo schermo del computer, come a voler scavalcare il receptionist e trovare da solo le sue informazioni. “To… ma” mormorò l’altro, osservando il piccolo Trunks con uno strano sguardo, “Sì, è qui?” chiese di nuovo il bambino tornando a guardare l’uomo.

Ci fu un secondo di silenzio, “Devo… fare una telefonata” bisbigliò con voce appena percettibile. Senza attendere una risposta, l’inserviente sparì dietro una porta vetrata alle proprie spalle. Trunks lo osservò per diversi istanti, notando che l’uomo stava usando un cellulare per eseguire la chiamata all’apparenza tanto urgente. I suoi occhi si scostarono sul telefono poggiato sul banco della reception, domandandosi per quale ragione non avesse utilizzato quello. Con fanciullesca impazienza cominciò a tamburellare sul legno del banco.

Passarono alcuni minuti, ed infine l’uomo riapparve. Era sudato molto più di prima, notò Trunks, studiando il viso arrossato del giovane che in un gesto teso si allargò il colletto della camicia. “Il… il signor Toma è stato informato. Dovrai aspettare qui per un po'” lo informò, la voce stridula, portando la propria attenzione al computer senza attendere alcuna risposta. “Ok” rispose comunque Trunks, seguendo le sue parole con un’alzata di spalle e voltandosi ad osservare la strada visibile dalle grosse vetrate all’ingresso dell’hotel.

Uno, forse due, secondi più tardi vide una macchina sfrecciare sull’asfalto con notevole fretta. La vettura attirò la sua attenzione nel momento in cui svoltò l’angolo. Trunks la seguì con gli occhi fino a quando non fu a pochi passi dall’uscio dell’edificio. I finestrini del velivolo erano abbassati e per un solo istante vide qualcosa luccicare.

Infine, in una cacofonia di suoni, tutto seguì in un battito di ciglia. Il rombo degli spari, la tappezzeria e gli abbellimenti che esplosero in un frastuono.

Il dolore in pieno petto che Trunks sentì all’improvviso. Fu come ricevere un poderoso pugno. Poi sentì la propria maglietta bagnata ed appiccicosa. Nell’istante che impiegò ad abbassare lo sguardo comprese che la macchia rossa che si stava allargando sulla t-shirt era sangue. Cadde all’indietro, dove non esisteva più il bancone, tra macerie e detriti. Sentì il desiderio di respirare, annaspando come se qualcosa di molto pesante si fosse seduto sui propri polmoni.

Rimase lì disteso, riverso nel liquido cremisi che si stava allargando sotto di sé, alla disperata ricerca di ossigeno. “Mamma, papà.. aiutatemi” pensò Trunks negli ultimi agonizzanti momenti della sua breve vita.


CONTINUA…


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Capitolo 8
*** A tutti ***


FAMILY


A tutti


Vegeta stava stilando una lista. C’era qualcosa di particolare su quella misteriosa sfera e la loro prima intuizione portava ai negozi d’antiquariato. Avevano stabilito che era qualcosa di vecchio e antico, così si erano ritrovati a cercare tutti i negozi di antiquarie della città. Doveva essere un compito veloce ed indolore, ma questa si era rivelata una prospettiva lontana dalla realtà. Purtroppo si scoprirono al cospetto con una ricerca piuttosto tediosa, avendo compreso loro discapito che esistevano ben più esercizi del genere di quanti avessero previsto e nessuno era risultato utile.

C’era un motivo se Goku e Vegeta erano un buon team. Vegeta era quello preciso e organizzato, ma dal carattere intrattabile ed irascibile, Goku quello calmo e pacato che non sarebbe stato in grado di organizzare neanche una gita al parco. Così in ordine con i rispettivi caratteri, il primo era solito coordinare le operazioni elencando tutti i luoghi d’interesse per il caso in corso, il secondo era quello che faceva le chiamate.

Inutile dire che il contrario sarebbe stato un disastro. Goku avrebbe perso il filo del discorso prima di arrivare ad una conclusione, Vegeta avrebbe urlato come un folle al telefono pretendendo tutte le informazioni nei primi due minuti.

Così invece funzionava perfettamente.

Quando Vegeta arrivò all’inizio del terzo foglio, Goku rientrò in ufficio con le mani piene di snack raccolti alle macchinette della centrale. Questa era un’altra di quelle cose che negli anni avevano testato e perfezionato per non darsi reciprocamente sui nervi. Avevano entrambi la tendenza a richiedere una certa quantità di cibo, rendendo quindi necessaria una tappa ai distributori per rifornirsi di stuzzichini che finivano a rapida velocità durante la giornata. Per pura casualità, o perché Vegeta sapeva come sfruttare l’ingenuità del collega, era sempre Goku quello che si vedeva costretto a fare la gita. Ritenendola più un’opportunità per sgranchirsi le gambe che un’incombenza, non gli dispiaceva uscire di sovente dall’ufficio. Dei due il più sociale usciva per parlare con i colleghi in corridoio, sentire le novità ed ascoltare chiunque avesse qualcosa che voleva condividere con lui.

“Che ci fai qui?” gli domandò Goku, osservandolo come se lo trovasse fuori posto. Vegeta non si premurò di alzare nemmeno lo sguardo, “Sto lavorando, al contrario di te” scrisse un nuovo nome sull’elenco, “Comincia a fare quelle telefonate” brontolò in seguito, additando con la propria penna il foglio che aveva poggiato sulla scrivania dell’altro. Goku fece scivolare accanto ad esso gli snack che reggeva con entrambe le mani, “Non volevo dire questo, pensavo che fossi con Piccolo” specificò. Solo in quel momento le pupille scure e profonde del compagno di squadra si sollevarono dal foglio. La biro immobilizzata a metà di una frase, “Di cosa diamine stai parlando Kakaroth?” chiese a denti stretti, mal celando un certo fastidio.

L’altro alzò le spalle, “Beh, l’ho incontrato in giro dieci minuti fa, ha detto che aveva una riunione sul suo caso…” fece una pausa, “Pensavo ti avesse avvertito” “Quando?” domandò Vegeta. Goku lo guardò come se fosse impazzito, “Ti ho appena detto, diec…” “Non quello, cretino. Quand'è questa riunione?” volle sapere l’altro, poggiando la penna con forse troppa foga. “Bho, adesso credo. Perché, non ti ha detto nulla?” spiegò vago, aprendo il primo pacchetto di patatine che gli capitò a tiro.

“Brutto stronzo” imprecò Vegeta alzandosi con evidente nervosismo, mentre il collega si trovò a domandarsi a chi fosse indirizzato l’insulto, senza però dar troppo peso all’offesa. Con passo pesante Vegeta raggiunse la porta, ma poco prima di oltrepassarla si girò ad osservare Goku, sorprendendolo a cacciarsi una patatina in bocca, “Vedi di fare quelle telefonate” ordinò additandolo con la mano fasciata. “Ok” farfugliò di rimando con la bocca piena, osservando il socio uscire di fretta dalla stanza.


***


Con gli occhi scorse i segni dei pneumatici sull’asfalto appena fuori dall’albergo trivellato di colpi alla quale dava le spalle. Era un pessimo scenario, gli suggerì l’istinto di poliziotto. Un regolamento di conti in piena regola.

“Qual è la situazione” chiese al suo assistente e con estrema prontezza Dende estrasse un taccuino sulla quale aveva già annotato i primi appunti. “Undici morti” cominciò, il primo Piccolo lo scorse sul lato della strada, coperto da un telo bianco, “Un passante”, confermò il giovane al suo fianco. “Due cameriere che stavano pulendo la stanza accanto” continuò e Piccolo sollevò lo sguardo al secondo piano, dove si trovava la maggior parte delle vittime, ma i colpevoli non si erano soffermati a prendere la mira e avevano sparato con caotica precisione. Le due donne erano vittime del caso. “Poi?” esortò l’ispettore, Dende riprese “Tre guardie del corpo” Piccolo annuì, “Una donna non ancora identificata, forse uno dei legami che ancora non abbiamo nei nostri database” poi fece una lunga pausa, scrutando il capo di sottecchi. “Chi altri, Dende” lo esortò questi, avendo notato l’esitazione, “T… Tamburello” mormorò “Cosa?!” esclamò Piccolo, “Dannazione!” aggiunse a denti stretti. “C’è dell’altro” continuò l’assistente, “Fammi indovinare… Toma?” domandò Piccolo, trovando riscontro con un cenno del capo. “Caz…” bisbigliò tra sé il superiore. Un poliziotto in incognito e l’uomo che stava per smascherare… il lavoro di mesi appena finito in frantumi. Tutto da rifare.

“Ok, ne mancano due. Chi sono?” riprese Piccolo che non aveva perso il conto, incamminandosi verso l’albergo ed evitando detriti e staff che indaffarato si muoveva nell’adempimento dei propri doveri. “Il receptionist” disse Dende, proprio mentre i due superarono l’ingresso distrutto “E…” “Trunks” bisbigliò l’uomo, riconoscendo il corpo senza vita del bambino che giaceva in un lago di sangue su quel che restava del bancone all’ingresso. Pochi metri più in là anche il giovane receptionist.

Seguì il silenzio, mentre Piccolo osservò gli uomini della scientifica che sapienti erano intenti a muoversi per la scena, così come li aveva visti fare decine di volte.

Piccolo si ritrovò a fare il punto della situazione. Quattro vittime innocenti: il passante, le due cameriere, l’uomo all’ingresso. Un poliziotto, Tamburello. Cinque uomini al servizio del padre di Vegeta: Toma, le tre guardie del corpo e una misteriosa donna. Poi c’era Trunks, che balzò agli occhi dell’ispettore come anomalo.

All’apparenza la scena sembrava opera di un clan rivale, qualcuno che voleva vendicarsi per un torto subito. Nel suo lavoro ne aveva visti diversi e queste erano le modalità spesso riscontrate. Tuttavia non poté fare a meno di notare che tutte quelle vittime erano mine vaganti, persone che stavano per incriminarlo. Un poliziotto sotto copertura, l’uomo che stava per smascherare; chi fosse la donna era irrilevante per il momento. Piccolo intuì che nessuno di questi sarebbe mancato al capo, anzi… essersi liberato di loro era un grande vantaggio. Eppure, Trunks… il nipote? Possibile che avesse fatto premere il grilletto contro il nipote?

Trunks sembrava la conferma che fosse opera di un rivale, ma perché doveva trovarsi lì? Piccolo conosceva entrambi i genitori del bambino più o meno bene, sapeva che abitavano ad una certa distanza dal luogo del delitto. Sapeva inoltre che l’amabile nonno non aveva mai avuto contatti con Vegeta e la sua famiglia. Piccolo non era arrivato dov’era semplicemente fidandosi del prossimo. Aveva fatto dei controlli sul collega appena aveva scoperto il legame. Vegeta non era un doppiogiochista ne aveva le prove concrete.

Possibile che…

“Cosa ne pensi, Piccolo?” chiese Dende all’improvviso, incuriosito dal silenzio. “È dannatamente furbo” commentò il superiore incorniciando le braccia, “Vuole farci credere che è stato qualcun altro, ma questa è opera sua. Vuole dare un messaggio” “A chi?” domandò l’altro. “A tutti. Ai suoi, ai rivali, a noi...  a Vegeta” ponderò per un secondo, “Tamburello stava per prendere Toma, un poliziotto e un uomo compromesso. Entrambi eliminati. Un punto in meno per noi e un avviso per i suoi” si voltò ad osservare la strada “Non so se ha solo simulato un clan rivale o se è stato lui stesso a fare la soffiata. In ogni caso questo istigherà i suoi ad aprire il fuoco. Così ha una scusa per eliminare anche i suoi nemici” tornò ad osservare il bambino disteso al suolo “E un messaggio per Vegeta” non aggiunse altro.

Il problema era che, a parte il suo intuito, non aveva nessuna prova.

Dende sembrò sul punto di vomitare, distolse lo sguardo dalla scena e preferì leggere i propri appunti alla ricerca di qualcosa. Il superiore non seppe se lo lesse lì o se al giovane fosse venuto in mente per coincidenza, ma quando disse “Accidenti, ma la moglie di Vegeta non è quella incinta?” l’informazione gli suonò corretta, annuì. Piccolo provò molta pena per quella coppia che avrebbe messo al mondo un figlio, subito dopo doverne seppellire un altro. “Spero vivamente che tuo padre non lo sappia Vegeta, o avrà un altro modo per mandarti un messaggio” pensò tra sé.

“Quanto tempo vi serve ancora in questa zona?” chiese poi a uno dei laboriosi agenti, l’uomo si guardò attorno, “Una mezz’oretta” rispose, riprendendo a lavorare come se nulla fosse. Piccolo si voltò verso il suo assistente, leggermente sbiancato. Sapeva che non amava molto le scene del crimine, Dende era più il tipo da scrivania. “Ascoltami con attenzione” ordinò, costringendo l’altro a guardarlo, “Chiama in centrale, avvisali di aspettare venti minuti prima di informare Vegeta. Devono dirgli di venire qui” fece una lieve pausa “È preferibile che ci sia anche Son Goku” un amico gli sarà utile, pensò. Dende registrò le istruzioni nella propria mente ed annuì, ma Piccolo non aveva concluso. “Poi vai dagli agenti di guardia, riferisci loro che appena lo vedono arrivare lo devono bloccare. Vegeta non deve entrare in questa zona per nessun motivo” Dende annuì ancora, “Non m’importa quanto creativo diventa con i suoi insulti, nessuno si deve muovere fino a nuovo ordine” un nuovo cenno del capo. “Tu resta lì con loro e appena lo vedi arrivare corri ad avvisarmi” Piccolo sospirò. Intuendo di avere il via libera, e grato per poter lasciare il perimetro, Dende fece un primo passo verso la porta, ma prima di farne un secondo fu richiamato. “Dende, qualunque cosa tu dica e con chiunque parlerai non dire una sola parola riguardo a Trunks. Non voglio correre il rischio che sia qualcun'altro a dare la notizia a Vegeta” “Ricevuto” disse il giovane, che diligente andò a svolgere i suoi doveri.

Rimasto con i suoi pensieri, Piccolo osservò il viso pallido della giovane vittima, gli occhi azzurri ora senza vita. “Spero tu non abbia sofferto troppo” pensò sentendosi affranto… proprio non sopportava vedere il dolore inflitto ai bambini. In fondo aveva il cuore tenero.


***


Con uno spintone scostò un agente che si stava muovendo nella direzione opposta. L’uomo sembrò infastidito, lo guardò sul punto di protestare, ma quando lo riconobbe tacque preferendo continuare per la propria strada. Un secondo malcapitato ebbe sorte simile e anche questi decise di ignorare l’adirato ispettore che a suon di spintoni stava attraversando controcorrente la scia di persone. Non per nulla in centrale Vegeta era descritto come quello basso e sempre arrabbiato.

Se in un primo momento era troppo impegnato a farsi largo tra i colleghi per notarlo, dopo la terza o quarta spallata si rese conto che tutti i poliziotti intravisti fin lì appartenevano alla squadra di Piccolo. Pertanto una brutta sensazione s’impossessò di lui, rendendolo ancora più violento mentre smuoveva la folla da una parte o dall’altra.

Quando entrò nella stanza il suo presentimento si rivelò esatto. Nella sala riunioni erano rimasti solo Piccolo e l’assistente che lo seguiva come un’ombra. L’assemblea era già finita. “Che cazzo, Piccolo!” esordì avvicinandosi a grandi passi alla cattedra, sulla quale erano poggiate le carte che l’ispettore stava esaminando.

“Qual è il problema?” domandò questi, senza nemmeno sollevare lo sguardo da ciò che era intento a leggere. “Si può sapere perché non mi hai avvisato?” esclamò Vegeta, poggiando una mano sul punto del foglio che pareva essere di grande interesse per il collega. Piccolo restò immobile per alcuni secondi, poi si rivolse a Dende, che sembrò volersi trasformare nella parete. A lui regalò un lieve cenno del capo in congedo e il giovane collaboratore non si lasciò ripetere due volte l’ordine. Afferrò parte dei fogli, quelli che riuscì a prendere, e con molta fretta prese la strada della porta.

Piccolo sollevò il busto solo quando sentì l’uscio richiudersi. Incrociò le braccia ed osservò l’altro dall’alto dei suoi due metri d’altezza. “Io non ho nessun obbligo di informarti delle riunioni con la mia squadra. Della quale, vorrei ricordarti, tu non fai parte” Vegeta aggrottò le sopracciglia e digrignò i denti, “L’unico motivo per la quale ti aggiorno è per mero rispetto professionale”.

Vegeta intrecciò le braccia a sua volta, senza mai smettere di fissare il suo interlocutore da dietro le sopracciglia aggrottate. “Senza contare” riprese a dire Piccolo, “Che l’ultima volta in cui ti ho chiesto aiuto non hai fatto altro che peggiorare la cose” lo informò. “Che diamine stai dicendo?” chiese l’altro, preso alla sprovvista.

Piccolo sospirò, “Tuo padre ha fatto sapere tramite i suoi avvocati che non vuole più parlare con la polizia perché dice di non voler rischiare un nuovo assalto” “Cosa?! Sono tutte stronzate! Spero che tu non sia tanto idiota da credergli”. Il secondo sbuffo servì all’agente per mantenere la calma, meglio ignorare gli insulti. “No, ma lui voleva una scusa per evitare di parlare con me e i miei uomini e tu sei stato tanto gentile da fornirgliene una” “Figlio di puttana” ringhiò Vegeta, stringendo la mano fasciata attorno al proprio bicipite.

“Già che ci siamo, Vegeta. Ti comunico che sei in debito con me” riprese Piccolo, “Figuriamoci…” brontolò l’altro, cocciuto come sempre. L’uomo dalla carnagione verde fece spallucce, “Beh, sappi che i piani alti volevano sospenderti… o peggio. Non è successo solo perché sono riuscito a convincerli che eri lì in veste di figlio, non come poliziotto” Piccolo abbassò lo sguardo sulla scrivania e cominciò a raccogliere i fogli lasciati lì da Dende, “Dovrai solo pagare una multa” concluse. Vegeta inarcò un sopracciglio, “Quale multa?”. L’altro lo fissò per un lungo austero momento, poi tornò alle carte, “Ti arriverà” disse.

Con passo deciso e senza fretta si avviò verso la porta, poggiò la mano libera sul pomello e si bloccò, “Vegeta questa stanza mi serve esattamente così com’è. Sei pregato di non fare troppo casino qui dentro” concluse Piccolo, che senza attendere risposta uscì dalla sala.

Rimasto solo, Vegeta osservò per la prima volta la bacheca sulla quale erano stati appuntati tutti i nodi cardine delle indagini. I suoi occhi cominciarono a scorrerla in lungo e largo. C’erano tutti i sospetti, le congetture e tutti i dati di fatto, ma nessuno che arrivasse conclusivo a suo padre. Erano segnati i traffici di droga, le faide con clan rivali, il riciclo di denaro sporco… la sparatoria all’hotel.

Nella sua mente ripercorse gli sviluppi delle indagini di quell’evento, come un mantra. Era stato rinvenuto un cellulare sconosciuto sul luogo del delitto, ma non pareva appartenere a nessuno. Le impronte digitali avevano confermato che era stato usato dall’uomo al banco. Il numero chiamato era stato rintracciato ed era apparso un legame con il clan rivale e con gli uomini che avevano compiuto l’attacco. Mesi dopo i loro cadaveri erano stati ritrovati a seguito di un’altra sparatoria.

Tuttavia era nel frattempo emerso che il giovane receptionist era stato minacciato dagli aguzzini affinché desse loro il via libera dopo aver ricevuto il segnale. Stando alle prove e alla deduzione, il segnale era stato fornito dall’unica altra vittima nella hall… Trunks.

Gli artefici del delitto sapevano che al secondo piano si stava svolgendo una riunione tra Toma e una nuova recluta, Seripa, che erano l'obiettivo della scarica di proiettili. Entrambi, l’uomo e la donna, erano deceduti. Da quanto aveva intuito Piccolo, gli assassini sembravano sapere fin troppo bene in quale stanza si stesse svolgendo l’incontro. Infatti a parte le due malcapitate cameriere nella suite accanto, nessun’altra camera era stata colpita. C’era stata una soffiata, qualcuno che conosceva bene il luogo e l’ora dell’incontro e che avrebbe potuto escogitare un modo semplice per dare il segnale di aprite il fuoco. Tutti sapevano la risposta a quella domanda, ma nessuna prova sembrava legare il vero colpevole all’evento.

Trunks non era una casualità. Era stato ordinato di uccidere l’uomo al banco perché sapeva troppo e chiunque si trovava nella hall in quel momento era destinato a morire all’istante. Trunks aveva involontariamente fornito il segnale e si era esposto al fuoco.

Chi aveva spifferato tutto sapeva ogni ragguaglio nei dettagli, non perché era ben informato, ma perché ne era l’organizzatore. Suo padre aveva dettato luogo e ora dell’incontro facendo in modo che tutte le pedine scomode si trovassero lì. Scegliendo inoltre un posto facilmente accessibile a Trunks… il vero obiettivo. Tuttavia non c’era nessuna prova.

Vegeta scorse le foto delle vittime per lui senza nome appiccicate con cura alla bacheca. Infine si soffermò ad osservare l’immagine di suo figlio e su di lui indugiò per un lungo istante. Pensò a Bulma, “Ho perso lui perché ci è stato portato via e ho perso te a causa del dolore” aveva detto al cimitero, qualche ora prima.


CONTINUA…


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Capitolo 9
*** Le parole di un profeta ***


FAMILY


Le parole di un profeta


Goku sapeva svolgere il proprio lavoro. Aveva passato la giornata precedente a fare telefonate e, con somma soddisfazione, aveva trovato qualcuno che poteva aiutarli a scoprire qualcosa di più sulla misteriosa sfera. Un uomo lo aveva informato che la persona giusta a cui chiedere era la proprietaria di un negozio chiamato Uranai, in periferia.

Così, Goku ed il suo compagno di squadra avevano attraversato la città in cerca del posto nella speranza di ottenere informazioni da una donna che non sembrava avere un telefono. Al riguardo Vegeta aveva brontolato, non che questa fosse una novità, ma nel loro lavoro avevano riscontrato cose molto più strane, di conseguenza le sue obiezioni erano state messe a tacere… più o meno. “Spero che questa non sia solo un’inutile perdita di tempo” stava infatti dicendo quando i due agenti entrarono nell’edificio. Goku si limitò ad una risatina, prima di rivolgersi all’inserviente che sedeva dietro il bancone.

“Salve” lo salutò il poliziotto, osservando il simpatico fantasmino che incorporeo li studiò da dietro un buffo cappello di paglia, “Salve” disse in responso. Goku fece comparire un bigliettino da una tasca e lo lesse, “Siamo qui per parlare con la Sigilla Baba” “Sibilla Baba” lo corresse il cassiere. L’ispettore controllò meglio sul pezzo di carta, “Ah già!” commentò grattandosi la nuca in un gesto imbarazzato. “Che idiota, non sai leggere manco la tua stessa scrittura” brontolò Vegeta, che a braccia conserte sbirciò oltre la spalla del collega per verificare a sua volta quanto riportato sull’appunto. Goku si limitò a ridere.

Il fantasmino osservò con attenzione i clienti. Uno alto e un po' tonto, uno basso ed irascibile. Sorrise. “Molto bene, la mia padrona vi sta aspettando” annunciò, fluttuando da dietro il bancone e mostrando agli agenti la porta sul retro del piccolo negozio con un gesto della mano. Goku lo guardò sorpreso, scambiò uno sguardo col collega, scoprendo che anche lui apparve sbalordito, “Ehm… ma noi non avevamo un appuntamento” precisò confuso. Lo spettro allargò l’enigmatico sorriso, poi cominciò ad ondeggiare in direzione dell’ingresso che aveva indicato, sapendo che lo avrebbero seguito.

Goku e Vegeta si scambiarono una seconda occhiata, consumando un dialogo espresso nel più assoluto silenzio e decidendo infine, di comune accordo, di accodarsi al loro accompagnatore.

La stanza nella quale furono condotti era la perfetta descrizione della parola esoterico. Dove un'aura di mistero sembrava opprimere gli occupanti che con circospezione furono costretti a guardarsi attorno per ammirare le più enigmatiche chincaglierie che ornavano gli scaffali. Tre le cose che colpirono di più l’attenzione di Goku ci fu una piccola statua di quello che pareva un demone seduto su un water e una gigantesca sfera posta in una grossa teca dal lato opposto dell’indecifrabile stanza.

Dopo aver inarcato un sopracciglio, il poliziotto cercò per la terza volta lo sguardo del compagno di squadra, ma questa volta Vegeta era impegnato ad osservare qualcosa davanti a sé e Goku seguì la traiettoria dei suoi occhi.

Seduta dietro una grossa scrivania sedeva una strana donna dalle dimensioni minute che con circospezione sembrò studiare gli agenti. Sul capo portava un buffo cappello nero che ricordava quelli delle streghe nelle fiabe per bambini. Il suo assistente le bisbigliò qualcosa all’orecchio e lei annuì, senza mai smettere di osservare i due sconosciuti.

Il fantasma chinò il capo e senza dire più una singola parola si allontanò, lasciando sola la vecchietta ed i suoi ospiti, chiudendo poi la porta dalla quale erano entrati. Ci fu un lungo silenzio, nella quale nessuno parve interessato a parlare. E se Vegeta si trovava a suo agio nell’inerzia, Goku cominciò ben presto a dare segni d’impazienza.

“Salve” fu infatti lui a dire, alzando una mano in segno di saluto. Per alcuni secondi la donna non disse ancora nulla, “Siete qui per la sfera del drago” bisbigliò infine, contemplando le loro reazioni. “Oh” farfugliò sorpreso Goku, “Come fai a sapere per cos…” “Che cosa sai di questa sfera, vecchia?” lo interruppe Vegeta, dando uno spintone all’amico ed avvicinandosi alla scrivania con grandi passi. Una volta raggiunta sbatté entrambi le mani sulla superficie. L’anziana Baba scostò su di lui lo sguardo per un lungo intenso istante, “Io so molte cose” mormorò enigmatica, poi ridacchiò tra sé. Vegeta assottigliò lo sguardo, fissando la donna con malcelato scetticismo.

Baba allungò una mano in direzione di Goku, “Fammi vedere” gli disse, lasciando l’ispettore esterrefatto. Pochi secondi più tardi comprese, tirando fuori dalla tasca un ingrandimento della sfera che gli era stata fornita dalla scientifica. Si avvicinò a sua volta alla cattedra e fece scivolare la foto sul palmo dell’anziana.

La donna studiò con estrema cura l’immagine, “Sì” disse infine, “È una sfera del drago” confermò, restituendo la fotografia all’uomo che gliela aveva fornita. Goku guardò la sfera, “A cosa serve?” domandò curioso, ma il suo quesito fu ottenebrato dallo squillo di un telefono.

Era stato il cellulare di Vegeta a dare un segnale di vita, vibrando nella tasca del poliziotto che tuttavia non parve intenzionato a rispondere, restando a fissare la donna dopo aver ritrovato la consueta postura a braccia conserte. Baba attese, senza dar peso alla domanda che le era stata posta, solo dopo alcuni secondi si rivolse a Vegeta, “Le conviene rispondere, Ispettore. Potrebbe essere importante” suggerì, guardando l’uomo di sottecchi, un sorriso criptico appena percettibile sulle labbra. L’uomo esitò, indeciso se darle ragione o se ascoltare il proprio orgoglio ed ignorarla.

Con il passare dei secondi, e l’insistenza del cellulare, apparve chiaro che la misteriosa anziana aveva ragione, solo un messaggio importante o urgente poteva suonare così persistente. Vegeta estrasse il telefono e lesse il display che riconobbe il numero come scuola Bra, ed in quel momento un brivido gli percorse lungo la schiena. Senza ulteriore indugio accettò la chiamata e si allontanò di qualche passo per interloquire con chiunque lo stesse cercando.

“Sono molto preziose” riprese la donna, riportando l’attenzione di Goku su di sé, che nel frattempo aveva seguito i movimenti del collega. “Ne esistono solo sette al mondo e una sola di queste vale in oro quanto l’intera città” stava continuando a dire lei. Il poliziotto la studiò per un momento, si poggiò una mano al mento e parve riflettere, “Allora è per questo che è tornato a prenderla” mormorò tra sé e la donna annuì con un piccolo cenno del capo.

Vegeta riapparve un secondo più tardi “Devo andare” annunciò, “Tu fatti dire tutto quello che puoi dalla vecchia” ordinò compiendo un primo passo verso l’uscita. “Ehi aspetta un secondo! Se tu vai via, io come torno in centrale senza macchina?” gli urlò dietro Goku, udendo la risposta del collega un istante dopo averlo visto sparire “Che cazzo ne so! Arrangiati!”.

Rimasto solo con l’anziana, Goku sospirò con lo sguardo verso la porta. Alle sue spalle la vecchia Baba commentò empatica “Perdere un figlio dev’essere molto doloroso”. “Già” concordò sovrappensiero l’agente “Ehi! Ma tu come…?” esclamò un secondo dopo, voltandosi a guardala. L’anziana poggiò una mano sulla teca che conteneva la sfera, sorrise, “Io so molte cose” ripeté.


***


Aveva parcheggiato la macchina in tutta fretta e senza perdere un minuto di tempo aveva precorso la strada che portava alla scuola di corsa. Ogni secondo era prezioso e nemmeno uno di essi poteva essere sprecato. Ignorò il dolore ai piedi causato dalle scarpe non adatte.

All’ingresso i suoi occhi scorsero la segreteria, dietro la quale un’indaffarata segretaria stava osservando le proprie dita digitare con estrema abilità sulla tastiera di un computer. Raggiunto il banco poggiò le mani sulla sua superficie e si prese un solo istante per prendere fiato e per permettere alla donna di sollevare lo sguardo dal proprio lavoro. “Mi scusi, sono qui per…” “Bulma” la chiamò qualcuno alle proprie spalle, costringendola a voltarsi e trovare la persona che aveva pronunciato il suo nome. Non ebbe bisogno di molto per riconoscere la voce dell’uomo, né ad identificarlo tra i corridoi della scuola elementare tappezzati dai disegni fatti con cura dai bambini.

Vegeta la fissò per pochi secondi, la figlia stretta tra le braccia, e Bulma li raggiunse in un battito di ciglia, imprecando mentalmente per aver scelto di indossare dei tacchi proprio oggi. “Cos’è successo? Stai bene?” chiese poggiando una mano sulla schiena della bambina che la guardò tramite occhi arrossati. Bra annuì, il capo sulla spalla del padre. Solo in quel momento Bulma si ricordò l’antica arte del respiro, cominciando a rilassarsi. Per quanto la paura non l’aveva ancora del tutto abbandonata.

“È solo una distorsione. È caduta durante l’ora di ginnastica” la informò Vegeta “L’infermiera ha detto che le passerà tra un paio di giorni” gli occhi della donna scivolarono sulla caviglia della figlia, sulla quale una leggera fasciatura era stata legata e che sbucava da sotto il calzino. La scarpa mancante nella mano, anch’essa bendata, dell’uomo.

Quando aveva sentito il proprio cellulare e la voce di Vegeta avvisarla di raggiungerlo alla scuola della bambina, Bulma pensò di aver sfiorato un infarto. La scena le aveva rammentato in modo fin troppo vivido la volta in cui era stata avvisata di un incidente ben più grave.

“Perché hanno avvertito prima te?” gli chiese, sfregando la schiena della bambina nella speranza di darle conforto… o di darlo a sé stessa. In ogni caso parve funzionare per entrambe. “In segreteria è segnato che Bra è sotto la mia custodia questa settimana” le ricordò lui, “Ah già” rammentò stupidamente lei. Nessuno parlò per un po'.

Bra, in cuor suo, si sentì protetta quanto mai prima di allora. Sorretta dalle forti braccia di suo padre e le dita di sua madre strette sulla propria schiena. Avrebbe voluto che fosse sempre così.

“Ok… Bra, se te la senti possiamo tornare a casa adesso” le disse sua madre, sciogliendo quel piccolo attimo nello scorrere del tempo che la bambina non aveva ancora smesso di assaporare. “No” rispose aggrappandosi alla giacca del genitore, “Voglio restare con papà” disse, spaventata che tutto potesse finire così in fretta. Bulma la guardò con tristezza, ma per chi si sentisse afflitta non sarebbe stata in grado di dirlo. Per la figlia, per sé stessa, per Vegeta o per tutti loro.

Mestamente la donna chinò il capo, “Bra…” mormorò con un filo di voce, “Tuo padre ha del lavoro da fare, ricordi? È molto impegnato in questi giorni” la frase era diretta a Bra, ma non era a lei che era stata rivolta.

Vegeta strinse i denti, lui che voleva separarsi dalla bambina ancora meno di quanta lei ne avesse di essere lasciata andare. Ci pensò per un secondo, valutando tutte le sue opzioni e per un attimo passeggero le nocche sfregiate della sua mano pizzicarono sotto le fasciature. Avrebbe tanto voluto tornare da suo padre, tirargli un altro pugno e urlargli “E questo è per tenermi lontano da mia figlia”.

“Posso solo accompagnarti fino a casa di tua madre” rispose infine, utilizzando lo stesso sistema indiretto che aveva innescato Bulma, che di rimando annuì. “Ma…” cominciò la piccola, “Non farmi arrabbiare, Bra. Vai in braccio a tua madre e torna a casa con lei. Io vi raggiungo lì” stabilì Vegeta, decretando a modo suo la fine della discussione.

Bra mise il broncio, ma decise di obbedire. Riconosceva quel tono autoritario e quel modo d’imporsi. Quando suo padre faceva così non c’era molto verso di fargli cambiare idea, tanto più se sua madre gli stava dando man forte. Malvolentieri accettò il compromesso, chinandosi verso la donna e circondandola con le piccole mani per farsi prendere in braccio. Fu con somma sorpresa che si accorse che la madre stava leggermente tremando.


***


Bulma finì di leggere il paragrafo ed alzò lo sguardo, “Non capisco” commentò guardando la sorella seduta accanto a lei, attorno al tavolo della cucina, “Perché al tuo editore non piace?” le domandò riportando il portatile davanti alla bionda. Tights osservò le ultime parole scritte sullo schermo. “Non gli piace il personaggio dello scienziato. Dice che sembra uscito da un fumetto” spiegò con un’alzata di spalle. “Ma, lo scienziato… è papà” chiarì Bulma, inarcando un sopracciglio con scetticismo. Sua sorella la studiò per un secondo, “Si capisce che mi sono ispirata a lui?” le domandò e la minore tornò a sbirciare lo schermo. “Grossi baffi bianchi… una sigaretta sempre tra le labbra… un gatto nero poggiato sulla spalla…” lesse, “È decisamente papà!” confermò la padrona di casa. Tights sorrise, “Già… e immagina cos’avrebbe detto l’editore se avessi inserito un personaggio ispirato alla mamma”. Al solo pensiero le due donne scoppiarono in una corale risata.

In quel preciso istante, Vegeta comparve sulla soglia della cucina, le mani nelle tasche e l’immancabile sguardo imbronciato. Studiò la scena e l’unico commento fu un leggero incresparsi del sopracciglio. “Oh, Vegeta! Sei riuscito a mettere Bra a letto?” gli chiese Bulma, trovando l’improvviso impulso di riporre alcuni bicchieri nel lavandino. L’uomo assottigliò lo sguardo, avendo notato ancora una volta che non gli era stato concesso alcun contatto visivo. Le avrebbe voluto urlare “Guardami negli occhi, dannazione”, ma preferì il silenzio e un singolo “Sì” in risposta della domanda.

“Posso offrirti qualcosa da bere, prima che tu vada?” gli domandò aprendo l’anta del frigo e lui ne seguì le gesta, “No” mormorò. Tights studiò la scena con scrupolosa attenzione, “Accidenti Vegeta, sei sempre il solito chiacchierone” commentò sarcastica. Da quando erano rientrati, ore prima, Vegeta si era limitato ai suoi monosillabi e poco altro; e dire che non si vedevano da anni. La donna si domandò se potesse ispirarsi al cognato per un personaggio in uno dei suoi libri.

Vegeta si limitò a lanciarle un’occhiata vaga, e come a confermare le sue parole, non disse nulla tornando ad osservare Bulma, che nel frattempo si stava versando un bicchiere d’acqua. Le riservò un lungo momento di contemplazione, poi afferrò la propria giacca rimasta su una delle sedie e la indossò. “Ti accompagno alla porta?” gli chiese nuovamente la padrona di casa con cortesia, “Non ne ho bisogno” affermò lui girando sui tacchi in direzione dell’uscita.

Aveva abitato in quella casa, seppur per un breve periodo. Dopo la morte di Trunks avevano deciso di cambiare zona, troppi ricordi nel quartiere. Così, poco dopo la nascita di Bra avevano trovato un posto più in periferia per provare a ricominciare, ma non era bastato. Il dolore e la rabbia si erano insinuati come una pestilenza tra loro e alcuni mesi dopo la prima candelina sulla torta della figlia erano arrivate le carte del divorzio. Di comune accordo, Bulma aveva preso la casa, Vegeta la macchina.

“È stato bello parlare con te Vegeta” lo salutò la pungente cognata, quando lui era già svanito tra i corridoi dell’abitazione. Pochi istanti più tardi udirono lo sbattere della porta d’ingresso.

Tights osservò la sorella che stava ancora fingendo di bere dal bicchiere che aveva appena riempito e non poté fare a meno di notare che la più giovane lo aveva seguito con lo sguardo solo dopo che il poliziotto le aveva dato le spalle. “Sarà anche di poche parole, ma è un bravo padre” commentò Tights, “Lo so” rispose Bulma senza esitazione. D’altra parte avrebbe combattuto chiunque osasse sostenere il contrario.

Sua sorella maggiore la fissò per un lungo minuto, “La sai una cosa, sorellina, se tu non fossi così occupata a non guardarlo negli occhi ti accorgeresti quanto ci tiene a te” le disse in un velato, ma non troppo, rimprovero.

Bulma poggiò con veemenza il bicchiere nel lavabo, “Lo so!” ripeté in tono deciso, “Ma cosa ci posso fare?! Ci ho provato, cosa credi? Vorrei tanto poterlo guardare come facevo un tempo, ma…” “Trunks” concluse la sorella e lei annuì appena. Tights continuò a scrutarla con i suoi intensi occhi neri, lasciando passare un momento di silenzio. “Ascolta Bulma, pensi che per lui sia tanto diverso? Chi credi che veda ogni volta che guarda Bra?”. Ora fu Bulma ad osservare la sorella con attenzione, a questo non aveva mai pensato. “Tights, mi spieghi perché ti diverti sempre così tanto a parlare come una grande profeta?” le domandò. L’altra alzò le spalle, “È una dote naturale” rispose.


CONTINUA…


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Capitolo 10
*** Necessità di parlare ***


FAMILY


Necessità di parlare


“La terza si trova in un museo a nord del continente” stava spiegando Goku, richiudendo la portiera dell’auto dalla quale era appena sceso, “Le altre sono un mistero” concluse leggendo da un taccuino sulla quale aveva riportato in maniera caotica le informazioni ricavate da Baba il giorno precedente. “No, una è in mano al nostro assassino” gli ricordò Vegeta, incamminandosi verso la centrale di polizia. “Ok, ma… noi non sappiamo dov’è” gli fece presente il collega.

Vegeta ringhiò, “Allora rispondi a questo, cosa ci faceva la vittima con una di queste preziosissime sfere del cazzo?” gli domandò. Goku ci pensò per diversi istanti, “Mmm… forse non sapeva cosa fosse, gli è piaciuta e ha pensato di tenersela” ipotizzò. “Bene, diciamo pure che la vittima era un idiota qualunque che ha deciso di tenersi questa cavolo di sfera. Se l’assassino è andato fin lì per rubarla, perché l’ha abbandonata rischiando di prenderla mentre la scientifica era sul luogo?” gli fece presente Vegeta e Goku si soffermò sul posto a pensarci. Nessuna risposta plausibile gli balenò nella mente.

L’altro lo fissò per un secondo, poi riprese a camminare verso l’edificio nella quale erano diretti, “Ehi Vegeta che ne dici di questo, forse l’ha dimenticata” congetturò recuperando il passo con il compagno di squadra. “Non dire stronzate. Se sei un assassino che vuole qualcosa e non si fa scrupolo per ottenerla non dimentichi quello per la quale sei andato lì” “Forse è stato scoperto” insistete Goku. “No” mormorò Vegeta “Non si è fatto nessun problema a tornare sul luogo mentre c’era la polizia” “Giusto” concordò l’altro poliziotto.

“Ah! Magari non sapeva che aspetto avessero queste sfere del drago e si è confuso” Vegeta scosse il capo alla nuova ipotesi. “L’hai appena detto tu, una sfera è in un museo. Se era tanto preziosa e la voleva a tutti i costi, prima si sarebbe assicurato di sapere che aspetto avessero”. Goku sbuffò, “Non riesco più a pensare… e mi sta anche venendo fame” brontolò, seguendo l’altro appena all’interno della centrale, trascinando i piedi in un gesto fanciullesco.

Vegeta si voltò a guardarlo con sguardo infastidito. Parve sul punto di dire qualcosa, ma all’improvviso la sua espressione mutò, “Ne aveva altre!” “L’assassino aveva altre sfere?” domandò Goku, alzando lo sguardo e soffermandosi ad osservare un punto oltre le spalle dell’amico. “Non l’assassino, la vittima” stava nel frattempo chiarendo l’altro, “Ehi, Vegeta…” “Ne aveva più di una e l’assassino lo sapeva…” “Vegeta…” “Le ha raccolte credendo di averle tutte, ma a metà strada si è accorto che ne mancava una…” “Senti, Vegeta…” “Così è tornato indietro per riprendersela, rischiando di essere scoperto…” “Vegeta, ascolta…” “Cosa cazzo c’è?!” Goku additò dietro il compagno di squadra, costringendolo a voltarsi.

Lì, con suo grande stupore, Vegeta vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere… “Bulma” bisbigliò quando la donna si avvicinò. “Ciao” li salutò entrambi lei. “Ehi Bulma! Sono felice di rivederti” rispose Goku, con quella sua immancabile allegria innata. Lei annuì, “Sì, mi sei mancato Goku” ammise, rivedendo l’amico d’infanzia che dal suo divorzio aveva incontrato sempre più di rado, trattandosi pur sempre del compagno di squadra dell’ex marito.

Vegeta, che per una volta era rimasto ammutolito non di propria iniziativa, ritrovò la voce. “Cosa ci fai qui?” le domandò squadrandola. Stava per domandarle se era successo qualcosa a Bra, dopotutto lo spavento del giorno prima non si era ancora del tutto dissipato. “Ho bisogno di parlare con te” gli rispose.

Goku diede un’amichevole pacca sulla spalla all’amico e un sorriso all’amica, in congedo. Fece pochi passi portandosi le mani dietro la nuca. “Vado a cercarmi qualcosa da mangiare” disse a nessuno in particolare. Quando raggiunse la segreteria all’ingresso fu richiamato dalla donna al banco, costringendolo a fermarsi per un momento.

“C’è un posto dove possiamo parlare tranquillamente?” domandò Bulma, scoprendosi a trattenere il fiato. Per un attimo temette che lui le dicesse che non aveva nessuna voglia di parlare, ma alla fine Vegeta annuì. “C’è un nuovo bar dall’altra parte della strada” suggerì. Lei sorrise, “Va benissimo” concordò. L’uomo la guardò, confuso per un altro istante, poi decise di mettere in atto il piano d’azione appena definito.


***


La donna al banco della segreteria gli aveva consegnato i messaggi ricevuti mentre lui e il collega erano fuori. Goku lesse senza troppo interesse i vari bigliettini. Un paio di analisi dal laboratorio, la scientifica che richiedeva il ritiro di alcuni documenti.

Sua moglie, che lo aveva cercato e non lo aveva trovato e gli chiedeva pertanto di richiamare quando gli era possibile. Questo era un bene non dimenticarselo, Chichi diventava davvero nervosa quando lui si scordava questo genere di cose.

Mise gli appunti nella tasca e si diresse verso le macchinette. C’era coda, notò con disappunto, e con un grosso sbuffo Goku fu costretto ad attendere dietro un collega in divisa.

“Che fine ha fatto il tuo amico?” gli domandò una voce alle sue spalle, costringendolo a voltarsi, per poi trovarsi a guardare Piccolo. L’uomo lo stava scrutando con vivo interesse, dietro il cipiglio imbronciato che a Goku ricordava sempre un po' quello di Vegeta.

La domanda era legittima, stava valutando tra sé Piccolo, in fin dei conti i due compagni di squadra lavoravano sempre insieme, difficile incontrarli separati. Imbattersi in Goku da solo era come trovarsi davanti alla mano destra, senza sapere dove fosse la sinistra.

L’agente fece spallucce, additando nella vaga direzione nella quale si trovava la porta d’ingresso. “Bulma è passata a trovarlo” rispose senza aggiungere molte altre spiegazioni. L’altro assottigliò lo sguardo, “Bulma? Parli di sua moglie?” Goku annuì, “Sì”.

Piccolo si ricordava di lei in modo approssimativo. L’aveva incontrata come tutti, in una delle riunioni che organizzava il dipartimento che coinvolgeva famiglia, amici e parenti degli agenti. Lei si era presentata lì dapprima come amica di Son Goku, poi come ragazza ed infine come la moglie di Vegeta.

Non le aveva mai parlato per più di due minuti, per lo più perché lui non era il tipo di persona che amava intrattenersi in inutili convenevoli con estranei. Per tale ragione non avevano mai stretto amicizia e Piccolo poteva affermare di conoscerla solo a livello superficiale.

Se proprio doveva essere sincero l’aveva trovata troppo… rumorosa, per i suoi gusti. Pertanto si era tenuto alla larga da quella donna chiassosa che riempiva la stanza con la sua presenza ovunque andasse.

Piccolo aveva tante qualità, sapeva fare bene il suo lavoro e il suo intuito lo aiutava spesso e volentieri ad ottenere ottimi risultati. Su una cosa aveva delle lacune che mai avrebbe colmato, e quelle voragini riguardavano interamente le questioni di cuore. Vegeta era un tipo taciturno e riservato, in questo erano uguali, per tal motivo Piccolo si era sempre domandato come una persona tanto asociale potesse avere un qualsiasi interesse per una donna stordente come quella. Non lo avrebbe mai capito.

Tuttavia negli anni della loro relazione aveva notato che l’indole di Vegeta era diventata più docile. Lo aveva visto andare in escandescenza più di rado rispetto a quando era arrivato in quella centrale di polizia. Era parso più propense a sopportare molte più cose che un tempo lo avevano indotto a sbottare con rabbia.

Fino alla tragedia.

L’ultima volta che Piccolo aveva visto Bulma era stato al funerale. Per lavoro il poliziotto aveva visto molte onoranze funebri. Un collega che aveva perso la vita, cosa che nel suo reparto era capitato in più occasioni. La vittima innocente di un omicidio brutale.

In ognuna di queste occasioni Piccolo aveva imparato ad osservare con estrema attenzione, perché nel dolore così come nella felicità è più facile riscontrare reazioni vere. Negli anni aveva visto vedove piangere con isteria, mariti costretti all’ultimo saluto all’amata. Genitori che si sostenevano in cerca di conforto.

Mentre la bara di suo figlio veniva inabissata nella fossa che lo avrebbe per sempre visto ospite, Bulma non aveva pianto. Piccolo aveva notato che in silenzio i genitori del ragazzo erano rimasti inamovibili nel loro dolore silenzioso e composto. Lui con quel suo solito sguardo imbronciato che mai dava a vedere i suoi sentimenti, per quanto gli occhi vacui erano fissi su qualcosa che non vedevano realmente. Lei una mano sul grembo gonfio da una gravidanza più che evidente, l’altra stretta a quella del marito, una sola singola lacrima ai bordi dei suoi occhi azzurri.

Si era domandato, nel guardarli, se la loro compostezza fosse dovuta più alla determinazione di tenere dentro il loro lutto; o se fosse solo per la riservatezza di Vegeta che aveva l’abitudine a prendere le distanze da qualunque situazione, forse anche da quella, e che di riflesso aveva finito per trasmettere alla moglie.

“Mh” mormorò all’improvviso, più a sé stesso che a Goku ancora in coda per arrivare ai distributori automatici e che lo fissò con un’espressione confusa.


***


Il bar era a pochi passi della centrale ed avendo tale ubicazione era sempre pieno di poliziotti che entravano ed uscivano dall’ingresso, tra una pausa e l’altra. Con tutte quelle forze dell’ordine nei paraggi, Vegeta sentì di poter essere al sicuro. Scelse però un tavolo in un angolo all’ombra da tutto e tutti. Lo scelse apposta lontano dalle finestre. Un’abitudine sviluppata dopo che suo figlio era stato trivellato da colpi d’arma da fuoco tramite le grandi vetrate luminose di un albergo.

Oggi, nel bar, sedeva dall’altra parte del tavolo rispetto a Bulma. In mezzo tra loro bicchieri di bevande che in realtà nessuno voleva, ma che avevano ordinato più per far scena. Di fatto al momento erano rimaste lì dove la cameriera li aveva lasciati, intonsi.

Vegeta sedeva con le braccia incrociate, osservando la donna che nel contempo trovava più interesse in un punto imprecisato del tavolo, le mani strette tra loro in cerca di coraggio. C’era silenzio al tavolo, dopo il primo scambio di battute e i convenevoli riguardo posto e ordinazioni, nessuno aveva più parlato.

“Stavo pensando a quanto ci siamo detti l’altro giorno” come previsto fu Bulma ad aprire la conversazione e lui si limitò a fissarla con vivo interesse. “Credo di essere stata molto ingiusta con te” Vegeta inarcò un sopracciglio, “Il punto è che non ho mai pensato come potessi sentirti tu… per il fatto di non guardarti negli occhi” Bulma si zittì di nuovo.

L’uomo attese, non aveva intenzione d’interrompere il silenzio, restò ancorato al suo mutismo ed osservò le dita della donna tamburellare sulle nocche dell’altra mano in uno stato di leggero nervosismo. Dal canto suo, Bulma rifletté con estrema attenzione sulle parole, sul perché ora si trovava lì, in quel bar al cospetto dell’uomo più importante della sua vita. Alla fine si decise, non era una codarda e non sarebbe stato questo il giorno in cui avrebbe cominciato ad aver paura. Trasse un lungo sospiro, poi con estrema calma sollevò gli occhi dal tavolo e li posò sul viso di lui, incorniciando infine quelle profonde iridi nere che per anni aveva evitato.

Colto alla sprovvista, Vegeta sollevò le sopracciglia. Tuttavia il gesto fu talmente millimetrico che persino un righello avrebbe avuto difficoltà a riconoscere la differenza.

Guardandola negli occhi, dopo tanto tempo, fu come se qualcuno gli avesse dato uno spintone talmente forte da costringerlo a tornare indietro negli anni. Con la mente si ritrovò nel momento migliore della sua vita, quando poteva fissarla così ogni volta che voleva. Dalle prime luci dell’alba alle ultime del tramonto, alla notte dove invece non avevano bisogno di guardarsi. Quando la loro unica e più grande preoccupazione era quella di stabilire quali e quante delle loro abitudini sarebbero dovute cambiare per far spazio a Bra.

Anche Bulma sentì la nostalgia insinuarsi sotto la propria pelle. Per tutto questo tempo aveva evitato di guardarlo non sapendo lei stessa quale sarebbe potuta essere la sua reazione. Pianto, urla, isteria o più semplicemente rimorso. Aveva sempre sostenuto che se negli occhi dell’uomo che glielo aveva dato avesse rivisto il figlio defunto avrebbe rischiato un crollo emotivo che con fatica aveva cercato di mantenere intatto, per lei e per Bra, ma non fu così. Ciò che vide sul viso di Vegeta era il padre di Trunks, non Trunks. L’evidente similitudine, lo stesso taglio degli occhi, alcuni lineamenti del viso. In quel momento e con la più assoluta delle certezze, Bulma comprese che non avrebbe mai più potuto rivedere il suo bambino, ma almeno guardando Vegeta sarebbe stata in grado di intravedere la sua ombra.

“Bene. Non era poi così difficile” disse infine più a sé stessa che a lui, e gli sorrise. Dopo tanto tempo nella quale avrebbe voluto fissarla nei profondi occhi azzurri, Vegeta fu il primo a scostare lo sguardo. Com’era da sua abitudine quando era imbarazzato. Deglutì in silenzio, osservando con la coda dell’occhio le dita della donna che ora avevano spesso di muoversi. Titubante e a disagio prese la decisione di poggiare la propria mano su quelle di lei, quasi temendo che Bulma potesse scostargliela, ma non fu così.

I ruoli erano ora invertiti, lei stava fissando lui, lui preferiva il tavolo. Bulma rise dentro di sé, aveva dimenticato quanto fosse divertente constatare che dietro il cipiglio imbronciato, l’atteggiamento superbo ed orgoglioso e le costanti esplosioni di rabbia, Vegeta era in realtà un ragazzino timido che faticava a dimostrare le proprie emozioni. Questa era una cosa che solo lei aveva visto. Scostò una delle proprie mani da sotto quella di lui e la poggiò sopra, poi strinse la presa.

Il contatto della pelle, quella ruvida e forte dell’uomo e quella morbida e delicata della donna, servì a ritornare ai tempi in cui la loro relazione sembrava non dovesse finire mai. Come se non fosse cambiato nulla da allora.

“Hai mai pensato come sarebbe oggi Trunks?” gli chiese all’improvviso, ma Vegeta non ebbe bisogno di rifletterci, annuì e basta, “Avrebbe quasi vent’anni” ricordò lui. Fu Bulma a compiere un cenno d’assenso col capo, “Sì” disse “Sarebbe all’università. Poteva essere innamorato di una bella ragazza” fantasticò, e lui la fissò con un’espressione che sembrava volesse dire “Non credo proprio” tradendo il sentimento tipico dei genitori secondo la quale i figli restano sempre bambini, sempre troppo giovani.

Bulma rise per un attimo, poi divenne più seria “Te l’ho mai detto… Trunks voleva diventare un poliziotto” “Cosa?” esclamò Vegeta, colto alla sprovvista. Lei annuì di nuovo, “È stata una delle ultime cose che mi ha detto” ricordò nostalgica, “Mi disse, mamma, quando sarò grande voglio diventare un poliziotto come papà, così sarà orgoglioso di me” negli occhi della propria mente, Bulma riuscì a rivedere la scena. Era stata una delle ultime sere nella vita di suo figlio e così come allora sentì una stretta al cuore, anche se diversa. Vegeta la fissò per un istante, pensando tra sé “Ero già orgoglioso di lui” che però non espresse ad alta voce. Nonostante ciò si ritrovò a stringere la presa, comunicandole in modo indiretto quanto gli stava suggerendo la propria mente.

“Dobbiamo parlare” annunciò all’improvviso una voce, costringendo marito e moglie a scostare lo sguardo verso il bordo del tavolo. All’unisono i loro occhi si sollevarono scoprendosi ben presto ad osservare Piccolo, che dall’alto verso il basso e a braccia conserte stava fissando entrambi con espressione severa.


CONTINUA…


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Capitolo 11
*** Qui per me ***


FAMILY


Qui per me


La faccia gli faceva un male del cazzo. Era tutto un dolore, dallo zigomo sinistro alla mascella, al naso che si era rotto all’impatto. Il pugno era stato tirato da una persona che sapeva come farlo bene e lo aveva colpito nel modo più preciso per fargli male. Senza contare la forza dell’impatto. Una botta ben piazzata e servito con immensa forza.

Mangiare negli ultimi giorni era diventato un problema, non solo a causa del dolore, ma anche per le bende. Il naso fasciato lasciava solo intravedere le narici violacee quel tanto che bastava per permettergli di respirare ed il resto del viso era ricoperto da fasciature e cerotti per coprire i lividi che gli avevano gonfiato un intero lato del viso. Aveva sputato sangue e qualche dente, ma nonostante ciò si sentì piuttosto orgoglioso. Se non altro i soldi che aveva speso per mandarlo in palestra avevano dato i loro frutti. Il ragazzo era una furia.

“C’è una visita” annunciò un secondino, comparendo dall’altra parte delle sbarre facendo tentennare un mazzo di chiavi. Con vago interesse osservò il nuovo arrivato da dietro le bende, “Ho riferito ai miei avvocati che non voglio parlare con la polizia” disse sedendosi sulla propria branda. L’uomo non aggiunse nulla, si limitò a mostrargli un paio di manette come da prassi.

Si scoprì incuriosito. Se non erano poliziotti chi mai poteva essere? Nappa no di certo, aveva le sue istruzioni e fino a nuovo ordine non si sarebbe mosso e lui era l’unico dei suoi ad avere contatti diretti alla luce del sole per poi manovrare gli affari nell’ombra. Continuò a speculare sull’identità del misterioso visitatore per tutto il tragitto, domandandosi di chi si trattasse.

Attese davanti alla porta che lo avrebbe portato nella piccola sala per gli incontri e quando vi entrò si guardò attorno con curiosità. Si sorprese nel constatare che si trattava di una donna che non aveva mai visto prima di allora. La studiò, lei studiò lui.

“Sai chi sono?” gli chiese all’improvviso, e lui la fissò con maggiore intensità. C’era qualcosa di vagamente familiare in quegli occhi azzurri e si vide costretto a ricercare nella propria memoria. Poi il viso del bambino gli tornò alla mente. La prima volta che lo aveva visto aveva creduto che quella infantile caparbietà annidata nello sguardo provenisse da suo figlio, ma guardando la sconosciuta comprese che non era interamente così. “Posso indovinarlo” le rispose, mentre i carcerieri si allontanarono da lui per lasciarlo libero di muoversi, a discapito delle manette, per poi affidare la stanza ai colleghi davanti alle porte.

Sebbene potesse sembrare goffo o buffo con i lacci ai polsi e la tuta di un accecante arancione, il portamento non era molto diverso di quando indossava giacca e cravatta per svolgere i propri affari. Con passo sicuro e per nulla intimorito prese posto su una delle sedie attorno al tavolo, poi le fece cenno di accomodarsi.

Bulma lo studiò con attenzione. Era una trappola, lo capì nell’attimo stesso in cui lo vide muoversi. Le aveva dato una scelta limitata che in entrambi i casi l’avrebbe messa in svantaggio. Restarsene lì, a due passi dalla porta e dal guardiano che la stava vegliando, equivaleva a dirgli che era insicura e che aveva paura. Accettare l’invito sarebbe stato come diventare argilla nelle sue mani. “No, bastardo. Non sono io ad essere qui per te. Sei tu ad essere qui per me” pensò tra sé, scegliendo una terza opzione. Si avvicinò al tavolo e alla sedia rimasta libera, ma decise di non occuparla. Restando in piedi, osservando dall’alto l’uomo che era il suocero.

Era più furba di quanto sembrasse, si ritrovò a pensare lui, constando che non era caduta nel tranello. Provò un’altra strategia, “Allora sentiamo. Cosa ci fa qui la puttanella di mio figlio?” le chiese sprezzante e Bulma si morse la lingua. Di norma ad un’ingiuria del genere gli sarebbe saltato alla gola a suon d’insulti, ma se lo avesse fatto sarebbe caduta nella seconda imboscata che le stava tendendo.

“Mantieni la calma, mamma” le suggerì la voce immaginaria di suo figlio, da qualche parte nella sua mente, “Sì, e tu restami vicino Trunks” rispose al suo invisibile fantasma. “Sono qui per vedere il lavoro di Vegeta” disse mantenendo il tono di voce più atonale possibile. Inclinò il capo da un lato, poi dall’altro e di nuovo verso sinistra, in un gesto tipico di chi è concentrato ad osservare un’opera d’arte della quale non sembra essere convinto, “Gli dirò che ha dimenticato un punto” concluse, additando il lato destro sul volto dell’uomo. Nei suoi occhi brillò una luce di fastidio, che si premurò di mascherare dietro un falso sorriso. Tanto bastò a Bulma per comprendere che la battaglia preliminare l’aveva vinta lei, ma ora arrivava il difficile.

“Sono molto sorpresa” riprese lei dopo un attimo di silenzio, “Ah davvero? E di cosa?” la imbeccò l’uomo, senza dare segni di sconfitta. “Sono sorpresa che nonostante avesse un padre così, Vegeta è diventato l’uomo meraviglioso che è” un nuovo cenno d’ira si fece strada sul volto di lui, “Non meriti di averlo come figlio” Bulma lo provocò, poi incrociò le braccia ed attese.

Se non avesse avuto le mani costrette dalle manette, il suocero avrebbe compiuto lo stesso gesto, si limitò ad intrecciare le dita. “Io sono curioso di sapere quante cazzate racconta lui di me invece” le sorrise con quello sguardo malvagio, privo di evidenti emozioni, “Ti avrà detto che sono un mostro, non è così? Mi avrà accusato di tutto quello di sbagliato della sua vita. Ma lascia che ti dica una cosa, sono stato io da solo a dargli da mangiare, a pagare per i suoi studi e per le sue lezioni di pugilato” “Arti marziali. Vegeta pratica le arti marziali” lo corresse lei. “Quel che è” replicò lui, additandosi il volto contuso. “Non l’ho allevato perché diventasse uno sporco sbirro o per mettere al mondo dei bastardi con la prima puttana che trova, abbandonando la sua famiglia” riprese lui.

Lei restò in silenzio, “Trunks non era un bastardo” il timbro della voce calmo e pacato, nonostante la voglia di finire il lavoro iniziato dal marito sul viso dell’uomo. “Giusto, c’è anche quello per la quale mi colpevolizza. Il suo prezioso figlioletto” ironizzò lui ridacchiando. “Vegeta ha ragione” riprese a parlare Bulma, dopo aver studiato l’interlocutore per alcuni istanti “Tutte le cose sbagliate nella sua vita sono a causa tua. Se tu fossi stato un uomo diverso Vegeta non se ne sarebbe mai andato. E adesso avresti un figlio e un nipote” concluse, riportando il silenzio nella stanza.

Lui la guardò per un lungo istante ed infine capì. Ecco perché tra tutte le donne nell’intero universo aveva scelto questa. Era forte e determinata, non aveva paura ed era in grado di tenergli testa, forse addirittura meglio di suo figlio e molti degli uomini sotto il suo comando. Questa tizia aveva le palle.

All’improvviso scoppiò in una breve risata, restando a fissarla con quegli occhi intrisi di veleno e quel sorriso bieco. “Tu mi piaci” disse “Saresti stata una buona aggiunta alla mia… famiglia” continuò in un sussurro. Bulma restò immobile per un secondo, non sapendo cosa dire. Poi sbatté entrambe le mani sul tavolo, “Trunks era la mia famiglia!” esclamò, dimostrando per la prima volta le sue emozioni. Lui si chinò in avanti, poggiò i gomiti sulla stessa superficie ascoltando il cigolio della sedia nell’istante in cui si mosse. Incrociò le dita e portò il viso deturpato ad un battito di ciglio dalla donna “Vegeta è la mia” le alitò in faccia.

La tensione nella stanza era talmente alta che alle loro spalle persino i secondini di guardia alle rispettive porte sentirono un brivido di paura. Bulma non si mosse, “No, Vegeta era la tua famiglia, ricordi? L’hai detto anche tu, ti ha abbandonato” replicò in un fruscio. In un impulso di rabbia che l’uomo non riuscì a nascondere picchiò i palmi sulla superficie che li separava, poi si alzò. “Nessuno può distruggere ciò che ho creato! Nemmeno mio figlio! Non avrebbe dovuto andarsene!” abbaiò con una punta di isteria.

Bulma guardò gli occhi nascosti dalle fasciature, constatando che quelle stesse fattezze erano state tramandate per ben tre generazioni, ma ogni volta diversi dalla precedente. Si alzò per fissarlo dritto in faccia, scoprendo che l’uomo al suo cospetto era più alto del marito. “È per questo che hai dato l’ordine di sparare su un bambino innocente, per punire Vegeta?” assottigliò lo sguardo “Volevi togliergli ciò che di più caro avesse al mondo e nel farlo hai simulato un’esecuzione. Volevi che pagassero tutti. I tuoi rivali, la tua… famiglia. Persino la polizia” “Non tollero di essere giudicato da te, ragazzina. Vegeta aveva bisogno di una lezione e io ho fatto in modo che la ricevesse!” ringhiò con rabbia. Il portamento quasi regale che aveva fino ad un istante prima svanì nel nulla. Ora c’era solo rancore. “Ho passato tutta la vita a costruire il mio impero. Tu non hai idea dei sacrifici che ho fatto per ottenere questi risultati”.

La donna riportò indietro il busto, osservò il suocero e la sua rabbia per un istante. “Hai ragione, non ce l’ho” cominciò a dire “Ma sono sicura che un giudice sarà interessato a sentirli” “Cosa?” mormorò l’altro con sorpresa, osservando gli occhi azzurro cielo, come quelli di Trunks, spostarsi sulla telecamera posta in un angolo della stanza, alla quale lui dava le spalle. Impiegò alcuni secondi, poi capì l’errore, “No” farfugliò.

Bulma fece un passo indietro “Sono curiosa di vedere cosa farai adesso. Racconterai la verità agli sbirri o lascerai che a giudicarti saranno gli uomini che hai appena tradito?” “No” mormorò una seconda volta. Lei si voltò camminando con tutta calma in direzione della porta, ma prima di andarsene si girò a guardare l’uomo sgomento al centro della stanza. “Volevi vendicarti di Vegeta, ma hai fatto un grosso errore a sottovalutare il dolore di una madre. Nessuno mi ridarà mai il mio Trunks, ma da oggi sono sicura che qualsiasi scelta farai la tua vita sarà un inferno” e con questo uscì.


***


Piccolo sapeva di aver fatto la scelta giusta nel momento in cui, ancora seduta attorno al tavolo del bar, gli aveva dato il suo consenso appena aveva ascoltato il suo piano. Era rimasto molto sorpreso, si era recato alla loro ricerca preparandosi mille argomentazioni per convincere la donna ad aderire. D’altra parte era comprensibile che potesse essere spaventata alla prospettiva di incontrare l’uomo che aveva fatto uccidere il figlio. Si era inoltre aspettato di ricevere il sostegno di Vegeta, per questo aveva sperato di trovarli ancora insieme, ma la situazione si era rivelata all’opposto.

Con somma meraviglia si era visto recapitare tutte le urla e insulti da parte di un reticente Vegeta e l’assoluta cooperazione dalla moglie.

Se anche dopo l’episodio Piccolo avesse avuto qualche dubbio nei meandri della propria mente, l’attimo in cui la vide rifiutare la sedia preferendo restare in piedi attorno al tavolo, capì che erano in ottime mani.

Lui, Dende e una squadra di tecnici erano tutti rilegati nello stanzino con i monitor di sorveglianza, in fondo al corridoio, osservando con il fiato sospeso l’intera scena. Il piccolo microfono nascosto sotto la blusa della donna donava loro un audio perfetto, riuscendo ad ascoltare ogni parola che veniva sussurrata o urlata nella stanza.

Piccolo diede un’occhiata al suo assistente, in attesa di conferme e solo quando vide il giovane assicurargli con un cenno del capo che ogni secondo era stato registrato e poteva essere considerata un’arma valida, si concesse un sorriso. Era andata anche meglio del previsto, lei era riuscita ad aprire un varco nella muraglia che circondava di mistero l’uomo che voleva a tutti i costi incastrare. Una confessione era un perfetto punto di partenza.

“Tua moglie è un poliziotto migliore di te, Vegeta” commentò Piccolo, in apparenza solo al vento. Alle sue spalle il collega aveva osservato la scena poggiato al muro accanto alla porta, come se fosse pronto a scattare da un momento all’altro. Vegeta, dal canto suo, restò in silenzio. Gli occhi fissi sul monitor ancora per un breve istante, osservando la moglie uscire vittoriosa dalla stanza. Decise d’imitarla, superando l’ingresso e ritrovandosi ben presto nel corridoio.


***


Solo quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle capì che poteva tornare a respirare. L’adrenalina che l’aveva tenuta in piedi fino a quel momento stava cominciando ad abbandonarla. Era sul punto di chiedere ad una guardia lì vicino dove potesse sedersi, quando udì lo sbattere di un altro ingresso aprirsi con urgenza. Sollevò lo sguardo dal suolo giusto in tempo per vedere Vegeta uscire dalla stanza dei monitor. In un sussurro inudibile bisbigliò il suo nome e sperò di poter restare sulle proprie gambe ancora per pochi secondi.

Il suo fisico glielo concesse, dandole la forza di percorrere il corridoio e per lanciarsi tra le braccia dell’uomo che sembrò percepire il suo desiderio di essere sorretta. Vegeta le cinse le spalle, stringendola con quanta forza avesse e Bulma pensò che adesso poteva anche lasciarsi cullare da lui per un po'. Gli poggiò la testa sulla spalla e sussurrò “Ce l’ho fatta” “Sì” rispose lui.

Una parte del suo cervello le ricordò che avrebbe dovuto lasciarlo andare, che sciogliere l’abbraccio era la cosa più giusta e sensata da fare. Tuttavia Bulma non riuscì a farlo, con tenacia disse al suo cervello di tacere, perché non aveva nessuna intenzione di separarsi dal suo Vegeta, ora che l’aveva ritrovato.


CONTINUA…


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Capitolo 12
*** Lontano da qui ***


FAMILY


Lontano da qui


“Pensavo fossero più grandi” affermò Goku, rigirandosi la fotografia che stava osservando tra le mani. L’immagine raffigurava la tanto evasiva sfera del drago accanto ad un righello che ne misurava la circonferenza. La stessa era stata rinvenuta in mano al loro assassino, alcuni giorni prima, quando l’uomo era stato catturato.

Il criminale aveva osservato i due poliziotti con i suoi sottili occhi neri, dichiarando che il suo arresto non sarebbe stata un’impresa facile. Goku e Vegeta si erano scambiati un’occhiata d’intesa e avevano dimostrato all’uomo, che con ironia indossava una maglietta sulla quale aveva stampato le parole kill you, quanto potessero essere letali due agenti addestrati e in perfetta sintonia.

“Smettila di perdere tempo, idiota! Finisci di scrivere il tuo rapporto!” sbottò all’improvviso Vegeta, strappando la foto dalle mani del collega, lasciandola poi cadere sulla scrivania. L’amico farfugliò risentito “Ok, non capisco perché te la prendi tanto” disse intrecciando le mani dietro la nuca, facendo dondolare la sedia e non prestando attenzione al monitor del proprio computer sulla quale il cursore lampeggiava su una pagina scritta solo a metà. “Kakaroth…” ringhiò l’altro, entrambi i pugni stretti e l’espressione di uno che stava meditando di estrarre la propria arma da fuoco dalla fondina.

Goku lo fissò per un secondo, poi fece spallucce, ricominciando a digitare con indolenza sulla tastiera. Scrisse appena un paio di parole, quando alle sue spalle giunse l’esasperata voce di Vegeta, “Museo si scrive con una sola s, razza d’ignorante” “Oh” commentò l’altro, fissando lo schermo “Giusto” aggiunse correggendo l’errore. Poi si girò a guardarlo, mostrandogli il pollice “Ottimo lavoro Vegeta. Siamo un’ottima squadra noi due.. siamo…” ci pensò “La squadra Vegeku” “No” “Vegeth?” “Scordatelo!” “Ahhh non fare così!” “Cosa state combinando voi due?” domandò all’improvviso una terza voce, costringendo entrambi a voltarsi verso la porta.

Piccolo li osservò per un istante, appena all’interno dell’ufficio, tra le mani un paio di fascicoli. “Ehilà!” lo salutò Goku, indifferente al broncio sul viso del compagno di squadra. “Piccolo, sei un bastardo” affermò invece Vegeta, ma il commento lasciò indifferente il terzo agente. “Davvero? Perché?” chiese infatti, mostrando la più completa calma.

In risposta, Vegeta additò un foglio abbandonato sulla propria scrivania, sulla quale lo stemma del dipartimento era ben visibile, “Che cazzo è quella? Mi spieghi dove li trovo i soldi per pagarla?”. Piccolo seguì la direzione che gli veniva indicata, increspò appena il lato della bocca verso l’alto, “Ah” disse “Ti è arrivata la multa”. Tornò ad osservare l’altro poliziotto che nel contempo incrociò le braccia in un gesto stizzito. “Beh, che vuoi che ti dica. Io ho cercato di ammorbidirla, ma i piani alti hanno insistito” per qualche motivo Vegeta si ritrovò a dubitare di ogni singola parola.

Incuriosito e sentendosi lasciato fuori da una parte del discorso, Goku allungò una mano verso il pezzo di carta, ma con una prontezza di riflessi considerevole, tenuto conto che gli stava anche dando le spalle, il compagno di squadra gli colpì le dita con un pugno. “Ahi!” esclamò Goku, ritirando la povera mano e soffiando nel punto che era stato colpito.

Piccolo si limitò ad osservare la scena con totale indifferenza, poi tornò a rivolgersi a Vegeta. “Ad ogni modo non sono qui per parlare di questo” afferrò il primo dei due fascicoli che reggeva in mano per mostrarlo agli altri due, “Ho delle novità che credo potrebbero interessarti” disse lasciando cadere il dossier sul tavolo. La cartelletta era spessa e l’impatto produsse un rumore sordo e compatto. Goku e Vegeta scrutarono le carte per un po'. Ne lessero la copertina.

Goku era a conoscenza dei fatti che riguardavano Vegeta, sapeva bene la sua storia e quella della sua famiglia, sebbene non nei dettagli. Piccolo, e a volte lo stesso amico, gli avevano dato alcune informazioni qua è là, abbastanza da aggiornarlo. Pertanto gli erano stati raccontati i fatti che, alcuni mesi prima, avevano permesso a Piccolo e alla sua squadra di aprire una feritoia nell’indagine, grazie all’aiuto di Bulma.

Quando riconobbe il fascicolo andò a cercare lo sguardo dell’amico per contemplarne la reazione, ma nessuna emozione si estese al suo viso. Qualsiasi cosa stesse provando fece in modo di tenerlo nascosto. Goku tentò la fortuna una seconda volta, avendo notato che il collega non aveva ancora fatto alcun tentativo di appropriarsi dei documenti. Poco prima che le sue dita ne toccassero la superficie, Vegeta fu più lesto. Leggendo i primi fogli si spostò, sedendosi alla propria scrivania ed ignorando gli altri due che, in attesa, lo fissarono per diversi istanti.

Risultò subito ovvio che Vegeta non avrebbe detto o chiesto nulla, pertanto Goku decise di avere le notizie in maniera più diretta dal messaggero che era venuto a portarle. “Siete riusciti a prenderlo?” domandò rivolto all’uomo in piedi accanto alla propria postazione di lavoro. Piccolo esitò ancora un secondo su Vegeta, poi scostò lo sguardo sull’altro, “Sì. Gli abbiamo dato una scelta. Poteva restare chiuso in una prigione assieme a tutte le persone che ha tradito, oppure poteva tradirne altre” fece una pausa per dare un’occhiata traversa al silenzioso poliziotto, “Ha preferito raccontarci parecchie cose interessanti”.

Goku si chinò sullo schienale della propria sedia, portandosi le mani alla nuca e stendendo le gambe, “Dov’è adesso?” domandò “Ai domiciliari in un posto sicuro, fuori città” Piccolo ora si voltò ad osservare Vegeta in maniera palese, l’amico lo imitò. “Non posso rivelare a nessuno dove lo abbiamo mandato, neanche a Vegeta” ancora nessuna reazione dal diretto interessato, immerso nella lettura.

“Siamo sicuri che non scapperà?” s’informò Goku inarcando un sopracciglio, tornando a guardare l’interlocutore. L’altro sorrise con evidente soddisfazione, “Non ha scelta. Se anche volesse i suoi nemici non esiterebbero a fargli la pelle. Con noi è più protetto, ma non è libero” “Capisco” concluse l’amico.

Scese il silenzio per l’ennesima volta e tutti attesero una replica che parve non voler arrivare con ostinazione.

Per evitare che l’obbligato mutismo diventasse opprimente, Goku osservò il secondo fascicolo nelle mani del collega, “Nuovo caso?” chiese additando ciò che stava guardando. Piccolo osservò la cartelletta come se le vedesse per la prima volta, “Sì” rispose, porgendola all’amico. Afferrandola, Goku lesse le prime righe del sottile dossier “Chi è questo tizio?” “Non sappiamo ancora molto di lui. È nuovo nella zona” spiegò incorniciando le braccia, ora che non stringeva più nulla tra le dita. “Freezer?” “Già”.

Vegeta richiuse il fascicolo che stava consultando, facendo quasi sobbalzare gli altri due che gli rivolsero lo sguardo. Ancora in attesa di conoscere la sua opinione lo fissarono mentre lui restò ad osservare inflessibile la copertina che ricopriva la documentazione nella quale era stata registrata la definitiva condanna di suo padre.

“Torna a casa, Vegeta” lo richiamò Piccolo, costringendolo infine ad alzare lo sguardo come se per la prima volta si fosse accorto di avere compagnia, “Vai a dire a tua moglie che grazie a lei tuo padre non è più una minaccia per la vostra famiglia” gli suggerì.

Determinato a restare stretto nel suo mutismo, Vegeta non disse una sola parola. Con una calma che non sembrava appartenergli si alzò dalla propria sedia. Afferrò la giacca che aveva adagiato sullo schienale e, sempre nel più testardo dei silenzi, uscì dall’ufficio.


***


La trepidante attesa stava per finire. Ancora pochi minuti e sarebbe iniziato tutto.

Bra, insieme ai suoi compagni di classe, stavano fissando l’orologio nell’aspettativa che la lancetta dei minuti segnasse lo scoccare dell’ora. E se anche gli altri bambini erano ansiosi di ottenere la libertà del venerdì pomeriggio e del conseguente week end, lei aveva ben più ragioni. Aspettava questo giorno da almeno due settimane e a separarla dal tanto agognato momento erano solo pochi secondi che sembravano non passare mai.

“Dai!” implorò al tempo, battendo un piede al ritmo delle lancette. Lo zaino già fatto era posto accanto al banco che era solita occupare e con le dita continuava a torturarne un lembo affinché potesse afferrarlo con velocità e prontezza.

Poi lo squillo.

Mai il trillo della campanella aveva avuto un suono tanto melodioso. Con un balzo la bambina si alzò prima dei suoi compagni e dentro di sé sollecitò la sua classe a darsi una mossa.

Come era politica della scuola tutte le classi uscivano dalle aule in ordine accompagnati dalle maestre che li scortavano fino all’ingresso per fare in modo che ogni alunno trovasse il rispettivo adulto. Ogni gruppo di studenti si muoveva ad agio per i corridoi e l’uscita le parve più snervante dell’attesa dietro il banco, ma quando alla fine vide la libertà, gli occhi azzurri di Bra scorsero la folla che in attesa cercava di individuare il bambino che era venuto a prendere. Per istinto e per abitudine seppe il punto dove volgere lo sguardo, consapevole che lì avrebbe trovato la persona che stava cercando e che trovò.

“Papà!” esclamò una volta raggiunto ai piedi di un piccolo albero sulla quale lui si era appoggiato a braccia conserte. Vegeta, che l’aveva vista arrivare e tenuta d’occhio, si scostò dal tronco cominciando a camminare nella direzione che li avrebbe portati a destinazione. Era tipico di suo padre, pertanto Bra non si scompose. Gli camminò accanto, cercando di seguirlo mentre lui proseguiva con il suo passo a cadenza quasi militare. Quando ritenne di essere abbastanza vicina gli afferrò una mano.

Sebbene in apparenza Vegeta non fece nulla per dimostrare affetto verso la figlia, quando sentì le piccole e sottili dita della bimba sulla propria mano si ritrovò a stringere la presa. “Senti papà, prima di partire possiamo mangiare un gelato?” gli domandò additando l’apposito esercizio a pochi metri di distanza. Lui alzò le spalle per un breve ed impercettibile istante, “Non è a me che devi chiederlo” le rispose senza fermarsi.

“Scusate il ritardo” disse una voce alle loro spalle, costringendo entrambi a fermarsi e a voltarsi. “Mamma” esultò la bambina, appena la riconobbe. A malincuore, Vegeta lasciò la mano della figlia che si precipitò ad abbracciare la donna.

Bulma si alzò, dopo aver ricevuto il gesto d’affetto da parte della piccola, poi volse lo sguardo verso l’uomo che la stava fissando in silenzio, “Allora? Pronti per un week end dalla zia Tights?” chiese ad entrambi. “Sìììì” esclamò la bambina, “Tsk” fu tutto quello che ottenne invece da Vegeta. “Molto bene. Le valigie sono in macchina” si voltò “Ho parcheggiato dietro l’angolo” aggiunse indicando un punto imprecisato dalla quale era venuta, poi tornò a guardare il poliziotto, “La tua borsa è quella blu con le strisce gialle, giusto?” “Sì” rispose lui. Gli sorrise.

“Allora andia...” “Mamma possiamo prendere un gelato?” la interruppe Bra. Sua madre inarcò un sopracciglio, “Ma tua zia abita sulla spiaggia! Avrai tempo per tanti di quei gelati in questi giorni che non ne vorrai più per mesi” le ricordò. La figlia mise il broncio “Però io ne volevo uno adesso” brontolò la piccola, “Ok, ok… un gelato prima di partire” “Evviva!” esclamò Bra, cominciando a saltellare sul posto. Prima che i suoi genitori potessero aggiungere una sola parola, la piccola cominciò a camminare verso la gelateria, lasciando i due adulti a seguirla con lo sguardo.

“Sentiamo, cosa ti ha riferito di tanto importante Piccolo che non volevi dirmi al telefono?” gli chiese Bulma una volta rimasti soli. Vegeta si voltò a guardarla negli occhi perdendosi in quell’immenso azzurro che per anni gli era mancato. Esitò per un momento, mentre anche lei riscoprì le dense iridi nere di lui.

“Mamma, papà! Muovetevi!” urlò Bra a qualche metro di distanza, incrociando le braccia in un gesto che Bulma riconobbe all’istante, trovando la similitudine piuttosto buffa.

Si voltò a guardare Vegeta, “Beh, qualcuno qui è parecchio impaziente” gli disse ed in risposta lui annuì. Quando Bra li vide incamminarsi verso la sua direzione si voltò, puntando verso la gelateria. Ciò che non vide furono i suoi genitori che, durante il tragitto, si presero per mano prima di raggiungere insieme la figlia.


FINE



Beh, questa storia è giunta al termine. Mi auguro sentitamente che vi sia piaciuta, nonostante i momenti tristi e malinconici. XD

Ringrazio tutti voi per aver deciso di aprirla e leggerla. ^_^


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