L'Inaccettabile

di Lady R Of Rage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Cartello ***
Capitolo 2: *** Notte Di Terrore ***
Capitolo 3: *** Glitter E Polvere ***
Capitolo 4: *** Il Cerchio Nero ***
Capitolo 5: *** Qualcuno Non Ci Sta ***



Capitolo 1
*** Il Cartello ***


Il Cartello

-Grazie per avermi accompagnato, fratello.-
-Figurati, fratello. E’ un piacere.-
Quella sera, Sans era di ottimo umore. Da quando la Barriera era stata frantumata, molte cose erano cambiate. Il lavoro burocratico alla neonata Ambasciata dei Mostri pressi gli Umani era duro, ma aveva un senso di appagamento. Di solito, ad occuparsene erano Asgore, Toriel e Undyne; tuttavia a Sans piaceva trascorrere del tempo coi suoi amici, persino se se si trattava di svolgere un lavoro per il quale, dopotutto, poteva sempre mettersi in pausa per qualche ora.
Ma quella sera non c’era nulla di cui preoccuparsi. C’era soltanto l’attesa prima di una bella serata tra fratelli.
Quando la piccola Frisk aveva rivelato a Papyrus che c’erano, sulla Superficie, dei ristoranti dedicati solamente al servire pasta, aveva dovuto immaginare che suo fratello l’avrebbe presa in quel modo. Dal momento in cui erano ascesi sulla superficie, lo scheletro alto non aveva fatto altro che insistere di andare a provare, il prima possibile, tutte le magnifiche specialità di pasta che l’Umanità aveva da offrire. E finalmente, in occasione del suo compleanno, Sans lo aveva accontentato.
“Il cibo umani è meglio se servito e preparato secondo le tradizioni umane, nyeh!” aveva sentenziato Papyrus con aria fiera, mentre lui rideva di gusto di fronte a quello che, per lui, non era che un modo in più per far felice il suo adorato fratellino.
Per l’occasione, Papyrus si era persino tolto il corpo da battaglia, che indossava sempre ogni giorno anche sulla terra, e lo aveva sostituito con un frac preso dal fondo dell’armadio, con tanto di fascia e cilindro, un completo assolutamente improbabile che aveva strappato risate sonore a Toriel nel momento in cui li aveva visti uscire.
Sans si era limitato a indossare una camicia pulita e un paio di pantaloni di velluto larghi e comodi. Aveva prenotato un’automobile per portare suo fratello in tranquillità, e un posto a sedere con vista sulla piazza del centro; era stata una fatica quasi insormontabile, ma ne era andato fiero: suo fratello era eccitato come un bambino davanti al suo supereroe preferito.
A un tavolo all’ingresso era seduto un umano sulla ventina, annoiato, con corti capelli marroni.
-Oh, Sans…- pigolò Papyrus stringendo le mani guantate tra di loro. -Non vedo l’ora! La pasta ci attende!-
Sans sorrise sornione:-Sei pronto, frasteggiato?-
-Il Grande Papyrus è sempre pronto, nyeh!- rispose l’altro, saltellando sui propri piedi. 
-Voglio provare carbonara, amatriciana, nero di seppia, persino quella con quel nome bruttissimo, quella che iniziava per P.-
Era così eccitato da ignorare persino la terribile battuta, e accortosene Sans si sentì arrossire di tenerezza.
Si avvicinò al ragazzo della reception, appoggiandosi al tavolo con i gomiti.
-Ho prenotato per due, a nome Gaster.- disse. -Per le nove. Vista sulla piazza.- 
Il ragazzo lo guardò, alzando un sopracciglio con aria scettica. 
-Eravate voi?- domandò, come se Sans avesse chiesto dove potesse comprare un elefante domestico.
-Sissignore. Abbiamo prenotato. E’ il compleanno di mio fratello, e lui desiderava tantissimo provare la pasta.- rispose Sans, cercando di mantenere intatto il proprio sorriso. C’era qualcosa di terribilmente irritante in quell’umano: non sapeva se fosse il suo sguardo, le sue movenze meccaniche, o i suoi generici capelli tagliati corti. 
Il ragazzo squadrò i due scheletri con uno sguardo traboccante di disprezzo:
-Non vuol dire niente.- disse. -Qui non potete entrare.-
Alle sue spalle, Sans percepì Papyrus irrigidirsi, e capì che qualunque cosa avesse in mente quello spocchioso umano, non gli avrebbe mai permesso di infastidire il suo adorato fratellino.
-Spiegati meglio.- sibilò. L’umano alzò le spalle.
-Non hai visto il cartello, sgorbio? Questo locale è interdetto ai mostri.-
Sans dilatò le orbite, trasalendo. Una goccia di sudore freddo scivolò rapida lungo la sua colonna vertebrale.
-Papyrus.- disse, prendendo per mano il fratello. -Vieni con me.-
Lo scheletro alto annuì timidamente. Sans lo guidò verso l’esterno del locale, senza dire una parola. E così fu: un grosso cartello bianco, incollato alla porta a vetri con dei pezzi di nastro adesivo, esibiva la scritta in grossi caratteri stampatelli “VIETATO L’INGRESSO AI MOSTRI”.
Sans strinse istintivamente le nocche. Sentì l’occhio destro palpitare di rabbia, e guardò Papyrus: l’espressione di suo fratello era confusa, disorientata, come un Gyftrot preso dai fanali di un’automobile, la mascella aperta e le pupille fisse nel vuoto.
-Che significa, Sans?- domandò stringendosi con l’ulna attorno al corpo.
-Lo vedremo.- rispose lui. Senza aggiungere altro si voltò verso la porta a vetri e la varcò sbattendola con una violenza inaspettata.
Il ragazzo all’ingresso sobbalzò tanto da far cadere la matita mangiucchiata che teneva in mano. 
-Devo ripeterlo un’altra volta?- domandò, squadrando Sans con sufficienza. Lo superava di almeno mezzo metro. -Qui i mostri non possono entrare.-
-Mio fratello vorrebbe provare la pasta per il suo compleanno.- rispose Sans senza scomporsi. -Abbiamo denaro in abbondanza. Non vedo perché non potremmo entrare.-
-Perché non potete.- la voce proveniva da una donna sulla quarantina seduta a un tavolo, assieme a un uomo e quattro adolescenti.
-In questo locale i mostri non possono entrare. E’ vietato. Quindi andatevene via, sgorbi che non siete altro.-
-Helen…- l’uomo grasso seduto a capotavola cercò di afferrarla per il braccio, ma lei non fu intaccata. 
-Vi avverto: non porterò più i miei figli a mangiare qui se non cacciate subito fuori ‘sti due scheletri.-
-La signora ha ragione.- imprecò un uomo stempiato da un altro tavolo. -Fateli subito uscire.-
-Mandateli via!- gridò un altro uomo.
-Mandateli via! Mandateli via! Mandateli via!- . Le grida dei presenti si facevano sempre più forti. Li circondavano da ogni lato come api infuriate. Sans si avvicinò al fratello, prendendolo per mano. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
Poi, un ragazzo afferrò il suo piatto di rigatoni alla carbonara e lo lanciò verso di loro. Papyrus urlò di sorpresa mentre la pasta lo ricopriva. Se avesse potuto impallidire, Sans era certo che l’avrebbero fatto.
Anche gli altri ragazzi dello stesso tavolo lanciarono la loro pasta: paccheri all’arrabbiata, penne al pomodoro, spaghetti alle vongole e linguine al pesto volarono nella loro direzione, illuminati con forza dalle luci giallognole del locale.
Papyrus liberò la mano dalla stretta del fratello e fece un passo indietro. Fu una decisione infausta: il ragazzo che aveva lanciato la pasta sollevò il piede e lo fece inciampare.
Cadde sull’osso sacro, facendo cadere a terra il cilindro, tra le ovazioni e gli applausi degli altri clienti.
-Quello è il vostro posto.- ruggì l’uomo dell’ingresso. -Fuori, dovete andare. Fuori.-
Fu allora che Sans non ci vide più.
-Lasciatelo stare.- la voce dello scheletro basso era un ruggito. Il suo occhio palpitò nuovamente: in un guizzo di nocche, cinque grossi Gaster Blaster presero forma sospesi sopra i tavoli.
Il terrore dei presenti fu come un tonico per la sua rabbia. Le dita si mossero appena, l’occhio pulsò di eccitazione. Anche i Gaster Blaster pulsavano, illuminati dall’interno dei laser che in qualunque momento avrebbero potuto scagliare.
-State per passare un brutto momento.- sogghignò Sans, salendo sul tavolo dell’ingresso, sotto il quale si era rifugiato, tremante, il ragazzo che li aveva scacciati.
Prese un profondo respiro, inspirando il terrore che appesantiva l’aria nella stanza del ristorante. Il suo occhio luminoso squadrò la stanza in cerca di un obbiettivo.
-Sans! Fermati!-
All’udire la voce del fratello minore, la furia di Sans traballò. Papyrus si era inginocchiato ai piedi del tavolo, giungendo le mani verso il fratello, gli occhi illuminati da una luce arancione fredda e traballante.
-Ti prego, basta.- implorò ancora Papyrus. Lacrime arancio iniziavano a formarsi nelle sue orbite.
-Non mi da fastidio. Andiamo via, ti prego. Non fare del male agli umani.-
Sans abbassò la mano e lasciò spegnere i Gaster Blaster con rassegnazione. Scese dal tavolo, senza dire nulla, e preso per mano il fratello si diresse verso l’uscita. 
Tornarono alla macchina senza dire alcuna parola, e si sedettero fianco a fianco ai sedili posteriori. Papyrus si accoccolò fra le braccia del fratello, piangendo fiocamente. Sans gli accarezzò il teschio con le dita e gli asciugò gli occhi con delicatezza.
-Mi dispiace tanto.- disse in tono mesto. -Ti ho rovinato il compleanno.-
-Non è colpa tua, fratellone.- rispose lui singhiozzando piano. -Sono stati loro… gli umani… sono stati cattivi… ci hanno buttato fuori… ma perché?-
-Non lo so, Pap. Mi dispiace davvero.- disse Sans gravemente. Lasciò che suo fratello si sdraiasse fra le sue braccia, stringendolo a sé con gentilezza. Non riusciva a smettere di pensare a ciò che era appena accaduto, ed era sicuro che anche lui non vi riusciva.
-Io non capisco.- mormorò Papyrus. -Proprio non capisco.-
Sans sospirò con tristezza, stringendo suo fratello ancora di più a sé. 
-Nemmeno io.-

Angolo della Lady:
Non so perché, e da come, mi sia venuta l'idea di raccontare storie di pregiudizio e razzismo nel mondo di Undertale. 
Mi è venuta un'idea così, di botto, e in un attimo avevo già pronti tutti i punti di trama.
Questa storia sarà una raccolta da cinque capitoli, ognuno con una storia a sé stante, ma accomunate da una tematica: appunto, scene di pregiudizio e violenza razziale ai danni dei mostri.
Nel secondo capitolo avremo la storia di Undyne e Monster Kid; nel terzo quella di Mettaton; nel quarto quella di Alphys, nella quale faranno una comparsata anche altri due personaggi che per ora non anticipo. Il quinto capitolo sarà una storia con protagonista Frisk, che farà da chiusura a tutte le altre storie.
La forza della tematica aumenterà di capitolo in capitolo. Già nel secondo, direi che è palese, ci scapperà il morto.
Per la scena del ristorante ho preso ispirazione da questa scena di The Butler - Un Maggiordomo Alla Casa Bianca, pregevolissimo film biografico di qualche anno fa. Per chi non l'avesse visto, la scena riguarda uno dei figli del protagonista, un uomo di colore che serve alla Casa Bianca di Washington come maggiordomo dalla gioventù alla vecchiaia, assistendo ad anni ed anni di storia americana, che assieme alla sua ragazza (anch'essa nera) e ad altri ragazzi compiono una protesta pacifica mettendosi a sedere in un ristorante negli anni 70 nei posti riservati ai bianchi, mentre il padre e gli altri maggiordomi preparano una grossa cena dal presidente. Verso la metà della scena arriva un gruppo di estremisti arrabbiatissimi, che picchiano e umiliano in ogni modo i ragazzi di colore, fino a che la polizia non li conduce via in manette.
Una scena a mio parere bellissima, molto forte. Ve la linko qui in inglese: https://www.youtube.com/watch?v=5aAhGGY6Dec

Ci vediamo presto, con la storia di Undyne.
Lady R

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Capitolo 2
*** Notte Di Terrore ***


Notte Di Terrore

Undyne si svegliò di soprassalto, muovendo le mani nell’aria come per difendersi da un attacco a sorpresa. 
La radiosveglia di fianco al suo letto segnava le undici e mezza di notte. La guerriera emise un sospiro infastidito: era andata a dormire presto quella sera, proprio per essere in forma il giorno dopo, per un allenamento straordinario. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era che qualcuno si divertisse a fare scherzi suonando il citofono del suo appartamento, men che meno a quell’ora.
Si alzò dal letto, stropicciandosi gli occhi con le mani unghiute. Il rumore del citofono continuava imperterrito, con regolarità impressionante. Doveva essere il burlone più persistente della terra, se andava avanti a suonare per più di un minuto. 
La guerriera si sporse dalla finestra e intravide una figura minuta al di sotto di un lampione. La luce giallognola, trasversale, la illuminava nella sua interezza, e al vedere quell’inconfondibile sagoma, Undyne sospirò nuovamente di irritazione.
Era quel ragazzino, ancora lui. Quello che l’aveva seguita per tutte le cascate mentre cercava di catturare l’umana Frisk: il suo ammiratore numero uno, se era cosa da guerriera avere ammiratori. Il piccolo dinosauro giallo aveva la testa reclinata contro il muro del suo palazzo, e con un ramoscello che reggeva in bocca premeva ripetutamente il pulsante del citofono collegato all’appartamento nel quale viveva in fase provvisoria.
“Come fa a sapere che abito qui?”.
La guerriera si allungò il più possibile oltre la finestra. -Ehi, ragazzino!- esclamò dal davanzale. -Cosa stai facendo? Sto cercando di dormire!-
Il piccolo dinosauro alzò la testa, fissandola con due occhi grandi e lucidi come ciliegie. 
-Undyne…- gridò, con voce tremolante. -Mi devi aiutare, Undyne!-
Un singhiozzo improvviso interruppe le sue parole. Il ragazzino lasciò cadere il ramoscello che teneva in bocca e piombò a sedere sul marciapiede, chinando il capo al suolo.
Per qualche ragione, Undyne ne fu spaventata.
-Dove sono i tuoi genitori?- domandò al piccolo, cercando di scacciare il brivido che si arrampicava sulla sua schiena.
-Undyne… ti prego, aiutami!- fu la risposta, che il ragazzino pronunciò con voce ancor più tremolante, tirando fragorosamente su col naso.
La guerriera strinse le mani attorno al davanzale, deglutendo. Un sudore freddo le imperlava le spalle e trapelava oltre la stoffa del suo pigiama decorato con un motivo a pesciolini.
-Scendo.- gridò al ragazzino. -Spostati da sotto.-
Undyne si arrampicò sul davanzale reggendosi al vetro della finestra. Piegò le gambe con precisione e si gettò in salto verso il marciapiede, atterrando con violenza sulle piante nude dei piedi.
Mentre si tirava su, osservò il viso del ragazzino. La larga bocca era aperta in un’espressione di sorpresa e ammirazione, ma c’era qualcosa di poco allegro nel suo sguardo e nel suo manierismo. A un esame più ravvicinato, si accorse che stava tremando.
-Cosa ti prende, ragazzino?- domandò, chinandosi in modo da arrivare alla sua altezza,
Il mostriciattolo tirò di nuovo su col naso, e si avvicinò tremando alla donna guerriera; poi allungò il corto collo tozzo, e strofinò la grossa testa contro il suo stomaco.
-Ti prego, Undyne.- sussurrò. -Proteggimi.-
Cosa stava succedendo? Undyne allungò le braccia attorno alle spalle del piccolo, cercando di placare i suoi tremori. Proteggerlo da cosa, esattamente?
-Ti hanno fatto del male, piccolo?- domandò. -Chi ha osato?-
-Gli umani.- disse lui in tono assente.
Un pugno di Undyne raggiunse il terreno, lasciando uno squarcio nel cemento. I denti della guerriera si strinsero con impeto, mentre dalle sue labbra usciva un ruggito soffocato.
-Quali umani?- disse di nuovo, in tono da comando.
-Non urlare, ti prego.- rispose il bambino. -Ho paura. Se ci sentono torneranno e uccideranno anche noi.-
-Anche?- la voce di Undyne era fredda come una lama. -Hanno ucciso qualcun altro? Cos’è successo?-. Strinse la mano attorno alla spalla del bambino, avvolta in un poncho giallo strappato e sbrindellato. 
Per tutta risposta, il bambino iniziò a piangere violentemente, incapace di articolare alcuna parola.
Undyne rabbrividì. Fissando le lacrime sul volto del piccolo, che scendevano ormai senza controllo, si rese conto di aver esagerato.
Qualunque cosa stesse accadendo in quel momento, pareva davvero qualcosa di grave. Per venirne a capo era disposta persino a mostrarsi materna.
Sollevò il bambino al petto, cullandolo con un solo braccio, mentre con l’altro si arrampicava lungo il palo di un lampione, stringendosi ad esso come a una pertica con i forti muscoli delle sue gambe. Quando arrivò in cima le bastò dondolarsi alla parte alta del lampione, nel punto in cui esso si incurvava proiettando la sua luce sopra la strada buia, per arrivare nella propria stanza dalla finestra da cui era uscita.
Appena fu nuovamente in camera, Undyne accese la luce e si concentrò sul ragazzino in braccio a lei. Nonostante continuasse a piangere fiocamente, sembrava più tranquillo e rilassato vicino a lei e lontano dalla strada.
Lo avvolse in una coperta e lo fece sedere sul suo letto, poi, dalla cucina, gli portò un tè caldo ai fiori gialli, con molto zucchero. Quando la tazza fu vuota, il ragazzino riuscì a raccontare tutto.
Stava tornando dal cinema a piedi, con i suoi genitori. Ad un tratto, un gruppo di ragazzi erano sbucati fuori da un vicolo, armati di coltelli e mazze metalliche. Li avevano circondati, mettendoli all’angolo.
“Morte ai mostri!” aveva gridato quello che sembrava il capo.
I suoi genitori avevano sfoderato le zanne e le code, pronti a una battaglia fino all’ultimo. Anche lui, il bambino, si era preparato a combattere, ma i genitori non gliel’avevano permesso.
-Stai dietro di noi.- aveva detto la mamma. 
-Rimani nascosto.- aveva detto il papà.
E lui si era nascosto, rannicchiato sotto una macchina parcheggiata. Gli aggressori non avevano badato a lui, probabilmente non si erano nemmeno accorti della sua presenza.
Aveva sentito voci, urla, pianti, gemiti, che non era riuscito a identificare. Poi tutto si era placato. 
Nel silenzio, il piccolo mostro era scivolato fuori dal nascondiglio, aspettandosi di trovarsi davanti la mamma e il papà, pronti ad accoglierlo in un abbraccio e a rassicurarlo che tutto sarebbe andato bene.
Invece aveva trovato un vicolo vuoto e due mucchietti di polvere. 
-Poi non ricordo bene.- aveva detto stringendosi il più possibile alla sua eroina. -So solo che stavo camminando, e ho riconosciuto casa tua… e ho pensato che tu mi potevi aiutare… ora che i miei genitori non ci sono più… posso stare con te: tu li mandi via, i cattivi.-
Undyne era basita, inorridita addirittura. Sentiva una miriade di sensazioni contrastanti nel profondo di sé: odio, paura, rabbia, disgusto, orrore, senso di rivalsa, ma sopra ogni cosa, una grande tristezza. 
-Dormi, piccolo.- disse piano, in tono inaspettatamente materno. -Adesso sei con me. Nessuno ti farà più del male.-
-Grazie, Undyne.- sussurrò il bambino, accucciandosi fra le braccia della guerriera. -Almeno ci sei tu a proteggermi.-
Undyne lo cullò come un neonato, con tutta la sua dolcezza, cercando di farlo addormentare. Il buio della notte impregnava la stanza come una cappa umida e pesante, ammutolendo ogni rumore.
-Li prenderò, quei cattivi.- disse con veemenza. -Gliela faremo vedere.-
Il bambino fece segno di no con la testa. -Non mi importa.- piagnucolò. -Anche se li prendiamo, la mamma e il papà non torneranno più.-
Undyne deglutì. Sentiva la tristezza che la opprimeva farsi sempre più forte, ma si impose di non darlo a vedere, non davanti al suo piccolo ammiratore.
-Lo so.- disse al bambino, osservando teneramente i suoi occhi che si chiudevano dalla stanchezza. -Devi essere forte.- 
“Devi essere forte: come si può chiedere una cosa del genere a un bambino?” pensò atterrita la guerriera, adagiando il corpo dormiente del piccolo sul suo divano e preparando una coperta in cui avvolgerlo.
“Nulla da dire: non capisco.”

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Capitolo 3
*** Glitter E Polvere ***


Glitter E Polvere

Entrarono nel Resort a mezzogiorno in punto, vestiti con giacche a vento nere e coi volti coperti da dei passamontagna. Impugnavano ciascuno una grossa mitragliatrice. 
Il MTT Resort non era ancora stato ricostruito (Mettaton aveva in mente di riprogettarlo daccapo, più grande, più bello e con più glamour), ma il palazzo a noleggio che la star aveva affittato per sostituire la sede sotto terra, un luogo di solito adibito all’organizzazione di eventi e congressi, che la diva metallica aveva arredato con ogni sorta di sciccheria glitterata e riempito di poster che ritraevano il suo elegante corpo in posa plastica.  
-Avanti.- disse uno di loro, sollevando l’arma di fronte a sé.
Quando i mostri che si trovavano all’interno del locale li video, non fecero in tempo a reagire, prima che il capo del trio iniziasse a sparare all’impazzata, seguito dagli altri.
Il primo proiettile colpì il piccolo usciere dalla forma a stella, gettandolo riverso sul pavimento come una figura di cartoncino a poca distanza dall’uomo che l’aveva colpito. Non riuscì ad emettere che un rantolo strozzato prima di dissolversi in un mucchio di polvere.
La portinaia dalla testa a forma di mano fu polverizzata da una scarica di colpi mentre premeva freneticamente il pulsante d’emergenza nascosto sotto il bancone. L’inserviente dal corpo fatto di melma verde non fece in tempo ad alzare la testa dal pavimento, che puliva con solerzia da ore sempre nello stesso punto, prima di essere crivellato. La segretaria del ristorante, dall’aspetto di un grosso pesce verde pallido, pregò e pianse gorgogliando suppliche ai misteriosi assalitori, ma nemmeno quello bastò a salvarla: rimase a boccheggiare per un intero minuto, distesa sul pavimento dell’albergo, mentre una scia di sangue nero le scorreva da più buchi sotto lo stomaco, fino a che anche lei non si smaterializzò definitivamente. 
Continuarono a colpire alla cieca tutti i mostri che vedevano, gridando frasi piene di odio, agitando nell’aria le loro grosse mitragliatrici, prendendo a calci senza pietà i pochi che, ancora feriti, cercavano disperatamente di sgusciare via. Mostri grandi e piccoli, squamosi e pelosi, caddero uno dopo l’altro; alcuni piangendo, altri cercando una via di fuga, altri ancora abbracciando per l’ultima volta i loro cari. 
Furono lunghissimi minuti d’inferno, mentre i colpi di proiettile rimbombavano come tamburi funerari per tutta la stanza, e i pianti e i gemiti dei pochi feriti si spegnevano in sbuffi di polvere.
-Facciamoli neri tutti.- ringhiò il capo dei terroristi. -Uccidiamo questi fenomeni da baraccone.-
Con un gesto del braccio indicò ai compagni la corta scalinata che conduceva ai piani superiori. 
Improvvisamente una porta a vetri si aprì, sbattendo con forza contro le pareti.
-Adesso basta!- ordinò una profonda voce metallica.
Mettaton EX si ergeva in cima alla scala della hall, le braccia sollevate in posizione di guardia e i pugni stretti, un’espressione di disprezzo inveterato incisa sul volto d’acciaio e smalto. Non perse tempo ad ammirare le reazioni disorientate del trio, che probabilmente non si aspettava di trovarsi davanti un robot infuriato: allungò la mano destra, tenendo aperto il palmo, e lanciò uno spesso raggio laser verso i suoi nemici.
Caddero in un attimo, in un mucchio confuso di braccia e gambe, lasciando cadere a terra le ormai inutili mitragliatrici. Solo uno di loro, quello che aveva guidato l’assalto, riuscì ad afferrare un’ultima volta l’arma, e a sparare una nuova scarica contro Mettaton. L’automa riuscì a schivare quasi tutti i proiettili, scavalcando di scatto la ringhiera della scala; un’unica pallottola lo colpì di striscio al fianco schizzando di olio il tappeto coperto di polvere.
Mettaton gemette di dolore, mentre con un nuovo gesto della mano dirigeva quattro piccoli robot dalla forma rettangolare verso il suo aggressore. Le loro piccole mani lo ancorarono al terreno come manette, tenendolo stretto mentre Mettaton vi si avvicinava.
-Basta.- ripeté la voce della star, mentre il suo stivale rosa col tacco a spillo lo colpiva al lato della testa con un calcio iroso.
Privo di sensi, l’uomo si lasciò ricadere all’indietro con tutto il corpo, inerte. Sul lato del passamontagna si formò una macchia liquida. 
Mettaton digrignò i denti, portando la mano al fianco che gocciolava olio. Le sue bellissime gambe erano sul punto di cedere. Si lasciò cadere sul pavimento polveroso, tremando di paura e terrore.
Morti. Tutti morti. Cadaveri di amici, dipendenti, clienti, ridotti a un ammasso informe di polverina grigiastra.
Il robot era talmente spaventato da non sentire nemmeno il dolore al fianco. Il silenzio della stanza pesava su di lui come una cappa di piombo, intrisa di morte e della polvere delle vittime.
-Ma come si può… come?- domandò a nessuno in particolare, accarezzando con il guanto uno dei mucchietti di polvere. 
Chiuse gli occhi, attendendo la discesa delle lacrime. 
L’aria rarefatta del locale aveva assunto un odore di cadavere che penetrava persino nei sistemi meccanici del conduttore robotico. Non sapeva come liberarsene, non osava nemmeno tentare di fuggire. Anche se il fianco non gli avesse fatto male, si sarebbe comunque sentito in trappola.
-Capo…- gridò improvvisamente una voce.
Mettaton parve ridestarsi da un coma lungo mille anni. Con le gambe traballanti riuscì ad alzarsi da terra, e ad arrancare verso il punto da cui proveniva il richiamo: il bancone dei Glamburger e degli Starfait.
Burgerpants giaceva di fianco al tavolo, con la schiena appoggiata contro il muro e le labbra strette in un urlo soffocato. 
Mettaton arrancò nella sua direzione, inciampando nei suoi stessi piedi. 
-Tesoro… tu…-
Il mostro felino tossì violentemente, stringendosi il petto con le zampe macchiate di sangue.
Sangue? Mettaton trasalì visibilmente. Un buco rossiccio si era formato nella polo color salmone che il giovane indossava, una spanna sotto l’ascella. Un buco piccolo, tondo, dal quale gocciolava un’inconfondibile traccia cremisi.
Mettaton allungò le mani coperte dai guanti verso le spalle tremanti del suo dipendente, accogliendolo in un abbraccio. Burgerpants si acciambellò nel suo grembo, gemendo piano. La mano del robot accarezzò con delicatezza il pelo sulla sua testa, strappandogli alcune flebili fusa.
-Andrà bene, tesoro.- sussurrò Mettaton stringendo la zampina tremante dell’altro nella stretta dell’altra mano. -Cerca di restare sveglio.-
La sua voce si spezzò: -È il tuo capo che te lo ordina.-
Burgerpants sorrise docilmente:-Mi sa… che ho finito di lavorare.-
-Non dire così, tesoro.- disse Mettaton, cercando di mantenere un tono allegro. -Sei sempre il benvenuto al MTT-Brand Emporium. Ti farò curare e…-
Ma il ragazzo sembrava preso da altri pensieri. -Dopotutto cosa importa?- rantolò, la voce strozzata da un miagolio di dolore. -Non ho nessuno… non mancherò a nessuno… posso anche…-
-Per favore, non pensare così.- la mano di Mettaton si posò sul muso di Burgerpants, interrompendo con garbo il monologo dell’altro. -Non voglio che tu vada. Sei importante. Tutti sono importanti. E per me, tu conti davvero.-
Il robot tacque per un attimo, senza smettere di accarezzare il pelo arancione del micio.
-Forse non sono bravo a mostrarlo… ma tu mi piaci tantissimo. Non ti cambierei con nessun altro al mondo. E non voglio che tu vada via. Te lo giuro sulle mie gambe: sentirei davvero la tua mancanza.-
Mettaton strinse con rabbia i denti d’avorio, mentre le lacrime cominciavano a scendere lungo il suo volto. Ebbe bisogno di tutte le sue forze per tornare a guardare il gatto morente.
Burgerpants sorrideva. E non si trattava del suo solito sorriso teso, traboccante di rimorsi e rancore: era un sorriso sincero, di chi non ha nessuna preoccupazione al mondo
-Addio, capo.- disse, chiudendo lentamente gli occhi. -Non credevo di dirlo, ma… anche tu mi mancherai.-
Un attimo dopo, tra le braccia di Mettaton non c’erano che una polo rosata e un cappellino di stoffa con su ricamata una M, assieme a un mucchietto di polvere bianchiccia e setosa.
Il robot portò le mani al volto, atterrito, ansimando come un vecchio affamato d’aria. Lacrime grosse e copiose scesero dai suoi occhi mentre le dita tremanti accarezzavano la polvere che era stato il suo dipendente principale.
Cadde in ginocchio sul freddo pavimento coperto di polvere, singhiozzando, urlando al cielo e ai morti tutto il suo dolore, colpendo coi pugni coperti dai guanti insanguinati le piastrelle e il bancone.
Così lo trovarono le forze dell’ordine, quando vennero a prendere i tre terroristi. 
L’unica cosa che riuscì a dire, mentre i poliziotti gli porgevano una coperta e gli chiedevano se stesse bene, fu “Non capisco".

 

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Capitolo 4
*** Il Cerchio Nero ***


Il Cerchio Nero

Aveva fame, sete, freddo, e non aveva mai avuto tanta paura.
Alphys non ricordava bene come fosse iniziato tutto. Potevano essere passate poche ore, come un mese intero. Il suo cervello si era trasformato in uno spazio vuoto, dove palpitavano pochi fragili ricordi come pesci in una secca.
Ricordava una sera, senza luna, con i primi freddi che iniziavano a insinuarsi sotto le scaglie, in cui lei stava rientrando a casa dopo aver concluso i lavori burocratici quotidiani assieme a re Asgore e alla regina Toriel. Un uomo l’aveva avvicinata, chiedendole in modo affabile se potesse aiutarlo con un guasto alla macchina.
Ricordava di essersi sentita orgogliosa di poter mettere le proprie capacità di scienziata al servizio degli altri; di essersi chinata sul cofano aperto, facendosi luce con la torcia dello smartphone, in cerca di un danno che avrebbe poi scoperto non esserci.
Poi, qualcuno le aveva coperto la bocca con un panno dal caratteristico odore di cloroformio. Da donna di scienza, lo aveva riconosciuto immediatamente, e subito dopo il terrore si era impadronito di lei. Aveva capito che non sarebbe andata bene.
Aveva ripreso i sensi legata e bendata, in un contenitore stretto che identificò come il baule di un fuoristrada. Due mani rudi l’avevano tirata fuori sollevandola di peso come un pacco dopo un viaggio d’inferno, con gli scossoni della vettura che la sballottavano a destra e a sinistra come una sassolino in un’onda. 
Aveva pensato che nulla di peggio avrebbe potuto capitarle. Ma si sbagliava, oh, come si sbagliava.
La stanza dove l’avevano condotta, dopo averla rinchiusa in uno sgabuzzino angusto e insalubre per quelli che le erano parsi giorni, era piena di polvere. Al percepirla sotto le zampe, Alphys aveva sentito un cieco terrore impadronirsi di lei.
Ripensare a quello che era successo dopo la faceva tremare e impallidire.
L’avevano picchiata, bruciata, frustata, ferita con pungoli e catene, incuranti delle sue urla e delle sue lacrime. 
-Mostro!- gridavano a ogni colpo. -Mostro! Scherzo della natura! Questo meritate, voi esseri immondi!-
Indossavano cappucci che nascondevano il volto, e portavano alle braccia delle fasce rosse con il disegno di un anello tondo nero. Alphys non aveva riconosciuto quel simbolo, ma anche se chiudeva gli occhi le pareva di vederlo davanti a lei, cavo come una bocca pronta a inghiottirla intera.
Dalla stanza accanto provenivano delle urla; erano vari minuti che andavano avanti. La piccola scienziata si chiese chi fosse la nuova vittima dei suoi carcerieri: a giudicare dalle grida, sembrava trattarsi di più persone. 
I brividi si impadronirono di lei. Cercò di raccogliere il suo coraggio, la sua speranza, i suoi HP, ma ogni secondo che passava si sentiva risucchiare dall’Inferno. 
“Cerca di stare calma.” si disse. “Potrebbe essere una svolta. Magari assieme ai nuovi arrivati possiamo pensare a un piano per andarcene. Sei sempre una scienziata, che diamine.”
Poi le urla cedettero. Mentre Alphys, per il poco che le catene e il dolore le permettevano, allungava la testa verso la stanza delle torture, cercando di captare altri suoni, la porta della sua cella si spalancò di colpo, abbattuta da un calcio poderoso.
Nella tenebra, due occhi inconfondibili la cercavano: un’occhio azzurro, scintillante di determinazione, e uno rosa, illuminato da una fredda luce metallica.
Alphys sentì lacrime di sollievo lambirle le palpebre.
-Undyne! Mettaton!- gridò, la voce strozzata dai singhiozzi e dai denti mancanti. 
Non riuscì a dire altro: un gigantesco nodo le serrò la gola e un pianto dirotto le inondò le guance insanguinate.
Erano proprio Undyne e Mettaton: la raggiunsero di corsa, circondandola con le braccia, gridando il suo nome come bambini di fronte alla mamma perduta e ritrovata.
-Attenti… il braccio… c-credo sia rotto.- riuscì a dire tra i singulti. Undyne la prese per mano, guardandola con amorevole preoccupazione. -Non avere paura.- disse piano. -E’ finita. Va tutto bene.-
Mettaton divelse il lucchetto con un solo colpo di laser. Mentre le sfilava le catene dai polsi, Alphys notò che era struccato, e che indossava una semplice tuta grigio perla anziché le sue solite magliette sgargianti e i pantaloni attillati.
-Ho avuto tanta paura… non riuscivo più a trovarti.- esclamò il robot stringendosi su sé stesso come se sentisse freddo. -Pensavo che… credevo…-
Alphys si sentì arrossire. Lasciò che la star prendesse la sua mano mentre Undyne la sollevava in un abbraccio protettivo. Anche la sua amata era priva di trucco: aveva i capelli scompigliati, le borse sotto gli occhi, e c’era nei suoi occhi un rossore inconfondibile.
-C-come avete fatto a… a t-trovarmi?- tossì, stringendosi il più possibile al petto accogliente della guerriera.
-Endogeny.- disse semplicemente Mettaton. -Il loro fiuto è imbattibile.-
La condussero fuori, avvolta in una coperta, attraverso la stanza nella quale i suoi rapitori l’avevano straziata nei giorni precedenti. Gli uomini giacevano a terra privi di sensi; una mezza dozzina di lance azzurre erano conficcate nelle pareti, nel pavimento e nel tavolo, e in ogni angolo era cosparsa della porporina rosa acceso. 
“Hanno combattuto per me” pensò Alphys. Si strinse ancora di più al petto di Undyne, respirando il suo profumo salato, e si asciugò le lacrime con la manica del braccio buono. 
L’aria del
-Movimento Di Superficie… che stupidaggine.- sibilò Undyne. Istintivamente, la piccola scienziata si riscosse tra le sue braccia.
-D-di c-c-cosa parli?- biascicò.
-Gli esseri che ti hanno presa.- rispose cupo Mettaton. -Si fanno chiamare Movimento Di Superficie. Sono stati loro a compiere quella strage nel mio albergo. Il cerchio nero è il loro simbolo.-
-Sono fondamentalisti.- continuò Undyne. -Dicono che noi mostri… non dovremmo stare qua. Dovremmo tornare al buio, sotto terra, nel Sottosuolo.-
Alphys si strinse ancora di più al petto di Undyne, tremando di paura.
-A-allora loro… m-m-mi avrebbero…-
Sentì il pianto salirle agli occhi, e per un attimo, il mondo si fece silenzioso.
-No, piccolina. Non lo permetteremo.- Undyne le accarezzò la testa con l’unghia. -Ti proteggeremo noi. Non abbiamo lottato per tutto questo tempo perché la libertà ci sia portata via così.-
Mettaton non parlava. Stringeva le mani l’una nell’altra, visibilmente distratto, come se qualcosa dentro di lui lo disgustasse.
“Ha sempre amato gli umani…- pensò la dottoressa.
-Io non capisco, Undyne.- disse alla guerriera. -Non capisco proprio.-

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Capitolo 5
*** Qualcuno Non Ci Sta ***


Qualcuno Non Ci Sta
 
Frisk sollevò la testa dal cuscino con gesto noncurante. Nonostante si fosse vestita di tutto punto, lavata e pettinata, come per iniziare un nuovo giorno, non si era mossa da quel cuscino da allora, e le quattro erano appena suonate.
Sollevò il cellulare e guardò il display. 
Nuovo messaggio da: Dunkle Sans.
La ragazzina sospirò. Dopo l’orribile rapimento subito dalla povera Alphys, la piccola scienziata si era messa a letto per la tensione e lo shock, e Sans e Papyrus se ne occupavano come fosse stata la loro sorellina.
“Hey, piccola. Vorrei dirti che oggi Al’ ha ricominciato a mangiare in modo regolare. Benediciamo gli spaghetti del mio fra’. Spero che tu stia bene. Un abbraccio da parte mia e di Pap. xoxoxo”.
“Un abbraccio anche a voi. Siete davvero degli angeli. Alphys è fortunata ad avere due amici come voi”, aveva risposto dopo una lunga riflessione, ma non riusciva a credere del tutto alle sue parole.
“Fortunata”, pensava con freddezza. “Fortunata ad essere stata rapita e torturata da dei fondamentalisti?”.
Si era sempre considerata una ragazza coraggiosa. Durante la sua avventura nel Sottosuolo si era sempre mantenuta determinata ad andare fino in fondo, senza mai arrendersi né voltarsi indietro. Ma in quel momento non si vergognava a pensarlo: era terrorizzata.
Aveva provato a distrarsi guardando un po’ di televisione, ma senza esito.
“Nuovi raid del MDS colpiscono zone urbane, almeno due mostri uccisi la scorsa settimana e altri sette feriti. Le forze dell’ordine promettono di prendere provvedimenti per…”
Non voleva più sentire altro. Aveva la testa piena dei nomi delle vittime, alcuni dei quali conosceva.
Frisk aveva sperato segretamente che i genitori di Monster Kid, il simpatico mostriciattolo che aveva conosciuto alle Cascate, fossero un caso isolato, ma le news non facevano che darle torto.
“… mostro dall’aspetto di dalmata, ex componente della Guardia Reale di Re Asgore, ucciso da polpetta avvelenata lasciata da membri del MDS…”
“…rapito da degli estremisti e ucciso in tre giorni di tortura. Il figlio, un aspirante comico, ha dichiarato che…”
“…entrati nella sua pasticceria e nonostante la resistenza della proprietaria e dei suoi ragni da compagnia sono riusciti a mettere mano alle pistole…”
Era forse quello, l’esito della sua avventura? Condurre al massacro un intero popolo? Procurare sofferenza a coloro che chiamava amici?
Il rumore di una porta che si apriva la strappò dai suoi pensieri. La cerimonia era finita. La mamma e il papà erano tornati da lei.
Si alzò dal letto con gesti meccanici e accorse alla porta, dove attendevano Re Asgore e la Regina Toriel.
-Bambina mia, eccoti qua!- esclamò la capra, allungando le braccia verso di lei. Indossava una tunica nera, priva di disegni, e anche il mantello di Asgore, che copriva una semplice armatura di ferro, era nero.
Toriel la prese a sé, stringendola al petto in un caldo e peloso abbraccio, e il marito le accarezzò la testa con un triste sorriso.
-E’ un peccato che non sia venuta.- disse cercando di mantenere  un tono allegro. -E’ stata davvero una cerimonia imponente. Mettaton ha cantato una canzone umana spettacolare… Amazing Qualcosa… avresti dovuto vederlo in abito nero.-
-Era splendido.- confermò Toriel. -Anche se… insomma, mantello di raso e veletta sul viso? Era davvero un po’ troppo. Poi Undyne è salita in alta uniforme… e ha tenuto un bellissimo discorso. Quella donna è eccezionale, sono così fiera di averla come Capitano delle Guardie.-
Frisk ascoltava appena, senza osar volgere gli occhi ai genitori caprini. Si sentiva la testa pesante, gli occhi gonfi, e il corpo in preda a una paralisi agghiacciante.
Era il peso del senso di colpa, e lei lo sapeva.
-Per favore, non voglio parlarne.- disse in tono monocorde. Scivolò via dalla stretta dei genitori pelosi e si avviò verso la sua camera, poi si gettò sul letto e si coprì il volto col cuscino, senza dire una parola. 
-Frisk?- le voci dei due mostri la seguivano al di sotto della stoffa. -Bambina? Non vuoi dirci come ti senti?-
-No, non voglio!- il tono era quello di una bambina capricciosa, ma non le importava. Non aveva voglia di parlare con nessuno, men che meno tirar fuori quegli eventi.
-Frisk, figlia cara.- disse Asgore da sopra al cuscino, accarezzandole la schiena con la mano pelosa. -Sappiamo che tu sia spaventata… ma non devi avere paura. Io e la mamma sappiamo difenderci bene. Non ci succederà nulla.-
-Non è quello!- ringhiò la bambina, svelando da sotto il cuscino un volto grondante di lacrime. 
Non ce la faceva più a trattenere tutto. Si gettò di nuovo nel petto della mamma e lasciò che il pianto scorresse, incontrollabile, assieme a una quantità di singhiozzi convulsi che la lasciavano senza fiato.
-Frisk…- ripetevano incessantemente Toriel e Asgore. -Frisk… bambina… Frisk…-
-Sì, Frisk: il nome di colei che vi ha rovinati tutti.- singhiozzò lei. Allontanò il volto dalla tunica della regina e si asciugò con violenza le guance con le nocche: il naso le colava e un filo di bava le scorreva dalla bocca. 
-Andiamo a lavarci la faccia, figlia mia.- propose dolcemente Toriel. Sorresse la ragazzina da sotto la spalla, guidandola verso il bagno. Frisk si lasciò guidare, senza smettere di piangere come una sciocca e inerme neonata.
La mamma e il papà le lavarono il viso in acqua calda, massaggiandole la schiena, le porsero salviette per soffiarsi il naso e un bicchiere d’acqua fredda da bere, poi la presero a sé come fosse stata una bestiolina abbandonata e la cullarono, sussurrandole parole dolci come pastiglie di medicina.
-Non ci hai rovinati, bambina. Affatto.- disse Asgore stringendo una mano della ragazzina. Toriel annuì prendendo l’altra mano. -Tu ci hai salvati, Frisk. Ti siamo tutti grati per averci permesso di fuggire da là sotto.-
-E finire tutti ammazzati da un gruppo di fanatici estremisti?- 
Frisk urlò, senza vergogna né timore. Non aveva mai urlato addosso alla mamma e al papà, né aveva mai pensato di farlo: eppure eccola là, a fare le lagne contro i suoi genitori caprini, con dentro una rabbia che nessuno, nemmeno Chara, le aveva mai fatto sentire.
-Avete saputo di Alphys? E del MTT Resort? E dei genitori del mio amico Monster Kid?-
Pensare alle sue vittime le causò un’improvviso attacco di nausea, e si sentì collassare. Le forti braccia delle capre erano là per prenderla al volo, sorreggendola con celerità.
-No, bambina.- disse dolcemente Toriel. -Non è colpa tua. Noi volevamo essere liberi… tu non c’entri nulla.-
-Hai lottato per salvarci.- continuò Asgore. -Sei la nostra piccola eroina. Quegli esseri non c’entrano nulla con te.-
Frisk apprezzava la gentilezza dei suoi genitori, ma la consolazione non sembrava arrivare. 
-Forse…- disse piano, asciugandosi gli occhi.
-Forse avrei dovuto avvisarvi di come sono fatti gli umani.-
Toriel e Asgore si guardarono, rabbrividendo, incapaci di commentare.
Ma il silenzio fu presto spezzato da una quarta voce, traboccante d’irritazione.
-IDIOTI! SIETE TUTTI DEGLI IDIOTI! CIECHI COME TALPE!-.
Frisk corse in salotto, seguita a fatica dal re e dalla regina. Flowey non aveva parlato per tutta la mattina, non le aveva nemmeno chiesto come stava, sembrava quasi che le tenesse il broncio. E improvvisamente si era messo a urlare come un vecchio brontolone.
-Cosa ti prende adesso, Flowey?- domandò timidamente la ragazzina. Era ancora un po’ intimorita dal fiore nel quale si era trasformato il suo fratellastro, che nonostante si impegnasse spesso per trattenersi mostrava ancora, a volte, segni del suo vecchio caratteraccio. 
Flowey agirò i tentacoli su e giù come una cheerleader. 
-Sei un’idiota, Frisk. Un’idiota.- imprecò. 
-Che cos…-
-Guarda la TV, razza di cretina.-
Solo allora Frisk si accorse che il televisore era acceso. Stava passando un telegiornale, e sulle prime le immagini la intimorirono. Non aveva voglia di trovarsi davanti altre scene di morte.
Quello che vide, invece, fu qualcosa di inaspettato.
-Tori…- esclamò Asgore, incredulo quanto lei.
-Non posso crederci.- esulò Toriel.
Una folla di gente - umani - riempiva una larga e lunga strada. Non c’era un metro libero, accorrevano da ogni parte come un fiume in piena,  muniti di cartelli, striscioni, clacson, tamburi; alcuni indossavano parrucche dai colori vivaci, altri portavano sulla schiena delle bandiere a strisce arcobaleno, come dei mantelli. E tutti in coro gridavano qualcosa che Frisk non distingueva.
Un reporter umano in giacca e cravatta parlava sopra le immagini.
-… e vanno avanti da ore grandissime proteste in tutta America contro la discriminazione ai danni dei mostri emersi l’anno scorso dal Monte Ebott, portate avanti dall’associazione paramilitare conosciuta come Movimento Di Superficie, che hanno coinvolto diversi milioni di persone di tutte le nazionalità. L’indignazione per i trattamenti indegni subiti dai nostri nuovi concittadini crescono di giorno in giorno, e le associazioni umanitarie hanno già preso vari provvedimenti affinché…-
In preda a un’inspiegabile euforia, Frisk cominciò a scalare i canali. La protesta era lì, dovunque si spostasse: umani, umani in tutte le direzioni, che cantavano e manifestavano per i mostri.
-Il cellulare, cretina!- squittì Flowey lanciandoglielo contro. Frisk lo prese al volo e sbarrò gli occhi: una muraglia di messaggi copriva il display.
Messaggio da: DunkleSans. “Guardando la protesta proprio adesso. Siete davvero grandi, quando volete. Date coraggio a questo vecchio scheletro. :’-)”
Messaggio da: The Great Papyrus.E’ PIENO DI UMANI BUONISSIMI CHE LOTTANO PER NOI. PENSO CHE MI COMMUOVERÒ.
Messaggio da: StrongFish. “I loro cuori battono all’unisono. Mi sento più determinata solo guardandoli.”
Messaggio da: HottieBottie. “Io e i miei cugini vi ringraziamo di cuore, tesori. È per cose come queste che adoro gli umani.”
Messaggio da: BokuNoMewMew. “Sapere che c’è gente che combatte per e mi rassicura davvero tantissimo. Quando mi riprenderò tornerò a lottare con voi. (≧o≦)”
E tanti, tantissimi altri ancora: un coro senza fine di complimenti, ringraziamenti e incitazioni.
Frisk sorrise senza rendersene conto, un sorriso vero, che raggiungeva gli angoli della bocca. Guardò il suo fratellastro vegetale, la cui espressione irritata sembrava gradualmente ammorbidirsi, e i suoi genitori caprini, ancora vestiti di nero dalla cerimonia in memoria delle vittime del pregiudizio.
-Ora ho capito.- disse. -Ho capito cosa dobbiamo fare.-

Angolo della Lady:
Ho concluso in fretta e furia gli ultimi tre capitoli di questa storia. Avrei davvero voluto pubblicarli in una circostanza più felice, ma quello che è accaduto in America mi ha spaventata e atterrita, e non ho potuto più trattenermi dal mandare, anch’io, un messaggio a modo mio a tutti quelli che si sentono spaventati da Donald Trump e dai suoi miserrimi sostenitori. 
Non trovo davvero altre parole da usare, se non RESTATE DETERMINATI. Trump può far paura, ma non lasciamo che la paura ci zittisca. Non restiamo in silenzio, non chiudiamoci in casa. Lottiamo. Restiamo uniti. 
Vorrei dedicare questa storia a tutti gli esseri umani buoni, che prenderebbero parte a proteste come queste. A tutti quelli che tengono alto il nome dell’umanità.
So di aver trattato alcune tematiche molto forti con questa storia, ma vorrei chiudere con una nota positiva, un inno alla speranza e alla quiete dopo la tempesta.
Non lasciamo che l’Inaccettabile diventi accettabile.
Abbiate coraggio.
Restate determinati.
Lady R

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