Debt of Promise di Nereides (/viewuser.php?uid=924825)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 1 *** I ***
Debt of Promise
I
-Il suo nome?-
-Diane Leslie.-
-Non è autorizzata.-
-Da chi?-
A quella domanda la segretaria dalle labbra rosso fuoco alzò il viso con fare irritato.
-Solo i familiari possono entrare. Lei non è una parente della signorina Hansen.-
Diane sospirò esasperata e si appoggiò con un gomito al banco della reception, per poi portarsi una mano alla tempia. Aveva aspettato un’ora nella sala d’attesa dell’ospedale prima di poter entrare e non appena aveva messo piede nel reparto di terapia intensiva una guardia l’aveva rispedita indietro dicendole di tornare quando avrebbe avuto l’autorizzazione. Scettica e piuttosto contrariata aveva seguito il consiglio. La clinica Serendipity non era certo una clinica qualunque. Era una per gente benestante, con uno stile moderno, ampie vetrate e rivestimenti in legno. L’arredamento richiamava sempre il blu, le pareti erano blu, i serramenti erano blu, persino la luce aveva una sfumatura blu. Lo scopo era di infondere serenità, ma a Diane sembrò di entrare in un’incubatrice.
-Cioè non c’è modo che io veda Hilary Hansen. Questo mi sta dicendo?- chiese alla segretaria. Quest’ultima annuì e incrociò le braccia in attesa che se ne andasse. Sobbalzò sulla sedia quando la vide oltrepassare la reception e spalancare la porta di vetro che portava al reparto.
-Signorina!- la chiamò, ma Diane continuò imperterrita. Il suo sguardo puntava su un obbiettivo ben preciso e si trovava all’interno della hall. I capelli folti e neri come una notte senza fine non erano il tratto che distingueva la persona che stava raggiungendo, ma lo erano i suoi occhi dall’azzurro artico.
-Tu sei Mark, vero?- gli domandò piazzandosi di fronte. Non aveva alcun dubbio che fosse lui, l’aveva visto spesso in università e conosceva fin troppo bene la sua fama. Non era solo il suo sguardo ad essere di ghiaccio.
-Mi dispiace, signor Hansen, non sono riuscita a fermarla!- si scusò pietosamente la segretaria.
-Ci penso io- rispose infastidito, facendola tornare dietro la sua scrivania con espressione delusa. A quel punto tutta la sua attenzione fu focalizzata su Diane. -Tu saresti?- le domandò senza troppa gioia per quell’interruzione.
-Diane- rispose, tendendogli la mano. Il suo interlocutore la guardò, ma non la strinse. Si forzò di continuare con l’educazione dovuta, anche se sembrava essere la sola a farlo. –Sono qui per vedere tua cugina Hilary, ma dicono che non ho il permesso di entrare. Tu puoi fare qualcosa?-
Le sopracciglia del ragazzo scattarono in alto e un sorriso rischiarò il suo volto dai tratti marcati. Se una statua avesse potuto sorridere avrebbe avuto quell’espressione.
-Secondo te? Non so nemmeno chi sei.-
-Una sua amica- rispose con tanto di alzata di spalle. Non era vero, ma Mark aveva ignorato la sua esistenza fino a qualche secondo prima quindi la sua bugia aveva basi più che solide; e per di più, tutto il mondo sapeva che non correva buon sangue tra i due cugini. Di certo non passavano le serate a chiacchierare davanti a una tazza di thè.
-Preferisci andartene per conto tuo o devo chiamare la sicurezza?-
Diane lo guardò come se fosse pazzo, e in cambio ricevette uno sguardo minaccioso. Mark Hansen era un pugile grosso il doppio di lei, con un carattere tutt’altro che pacifico e un’indole che in modo infantile ma efficacie si può definire malvagia. Era un panzer, pur di raggiungere i suoi obbiettivi schiacciava con i cingolati tutto ciò che lo ostacolava, senza provare rimorso.
-Forse sei tu che dovresti andartene. Questo posto si chiama Serendipity e tu sei tutt’altro che sereno. Di sicuro sei l’ultima persona che dovrebbe stare accanto ad Hilary. Non sei tu quello che l’ha derisa pubblicamente lo scorso autunno?-
Sorpreso e inasprito dal trovare resistenza, Mark raddrizzò le spalle, ergendosi intimidatorio. Il suo sguardo, che già si era rivolto ad altro nella convinzione di aver vinto, tornò a sfidarla con ancor più ostilità e si abbassò su quella ragazza minuta dai capelli rossi. Gli occhi verdi di Diane assorbirono senza risentirne tutta quella tensione.
-Vattene- tuonò.
-Chi è che ti permette di stare qui? Un pazzo, sicuramente. Forse dovrei fare quattro chiacchiere con il medico di Hilary- insistette imperterrita. –Non sanno che razza di persona sei.-
-Fuori!- gridò. Tutti i presenti si voltarono verso Mark. Per imprimere più carica al suo ordine si era avvicinato, distava meno di un passo da Diane, ma ora anche la ragazza manifestava la sua determinazione. Aveva alzato il mento con fierezza e teneva le mani lungo i fianchi, pronta a respingerlo se avesse osato avvicinarsi ancora.
-Che cosa succede qui?- Un medico interruppe quell’attimo di silenzio con il rumore ritmato dei suoi tacchi. Alla comparsa del camice bianco, sia Mark che Diane si allontanarono, ma non smisero di guardarsi storto.
-Deve andarsene- intimò Mark. La dottoressa ascoltò neutrale le sue parole, poi guardò Diane.
-Piacere- le disse. –Sono la dottoressa Stevens, medico curante della signorina Hansen. Tu sei … ?-
-Nessuno, non ha il diritto di stare qui.- L’invadenza del ragazzo fece infuriare Diane, che fu sul punto di esprimere tutta la sua frustrazione quando fu interrotta per la seconda volta.
-Non ho chiesto a te, Hansen.- Una volta messo al suo posto il presuntuoso pugile, la dottoressa tornò a concentrarsi su di lei, aspettando che rispondesse.
-Un’amica di Hilary, Diane.-
Questa volta la sua mano venne accettata e stretta.
-Se sei qui per vederla, mi dispiace, ma non è possibile- le disse, abbattendo del tutto le sue speranze. Mark incrociò le braccia al petto vittorioso. –Ma le dirò che sei passata. Devi dirle qualcosa in particolare?-
Diane esitò. La presenza di un terzo paio di orecchi in quella conversazione non invogliava le confidenze, ma non aveva altra scelta. –Solo che non mi sono dimenticata della promessa.-
-Che frase sibillina- commentò quasi divertita. Mark invece si rabbuiò e la osservò come se cercasse una risposta da qualche parte addosso a lei.
-Come posso fare per vederla?- chiese un attimo prima che il medico si allontanasse. Questa lanciò una breve occhiata a Mark, poi infilò le mani nelle tasche e alzò impercettibilmente le sopracciglia.
-Devi chiedere un permesso agli Hansen- rispose con tono che tradiva la sua neutralità. –Quando è stata ricoverata, Hilary ha dato il permesso affinché fosse la famiglia a prendere le decisioni al posto suo, e suo padre ha deciso di non permettere altre visite, a scopo tutelativo.-
Mark si godette ogni secondo della sua indiretta vittoria, mentre Diane ringraziò la dottoressa, che tornò al suo lavoro, e rimase nella sua posizione mordendosi un labbro nervosa: la presenza incalzante dell’alto pugile rendeva le sue riflessioni ancora più difficili.
-Non finisce qui- gli disse poi. Mark rise, per nulla intimorito dalla minaccia e rimase a guardarla finché non sparì dalla sua vista.
Non appena Diane uscì all’aria aperta, il rumore del traffico la infastidì. C’era davvero un silenzio innaturale in quella clinica e se n’era accorta solo tornando nel mondo reale. Una mano alzata richiamò la sua attenzione e una giacca dall’insolito colore giallo acido le fece tornare il sorriso. Jay la stava aspettando vicino alla macchina.
-Scusa, ho avuto un po’ di problemi.-
Gli raccontò con rabbia e delusione di non essere riuscita a vedere Hilary e di aver litigato con Mark. A sentire quel nome, il suo migliore amico sbagliò ad ingranare marcia e quasi bruciò la frizione.
-Ma sei matta?!- sbraitò. –Quello è fuori di testa, cosa ti è saltato in mente di provocarlo?!-
Jay conosceva bene Mark. Nonostante fosse molto più magro e meno imponente dell’Hansen, anche lui era un pugile. Si allenava quasi ogni sera nella stessa palestra del campus e sapeva che, oltre ad avere una forza e un’astuzia straordinaria, Mark era senza pietà. Jay lo detestava ed era così desideroso di fargli abbassare le arie che lo sfidava ogni volta che poteva. Inutile dire che l’Hansen si prendeva la vittoria infierendo gratuitamente con i suoi pugni.
-E’ insopportabile, un animale!- esclamò Diane, lasciando che la frustrazione trovasse finalmente sfogo. –Chi si crede di essere?-
-Uno che ha più ego che soldi, e con questo chiudo il discorso. Non ti avvicinare mai più a lui.-
-Non è tanto stupido da usare la forza con me.-
Jay inchiodò e si voltò a guardarla. Il suo migliore amico era un tipo strambo. Amava i colori accessi, meglio se fosforescenti, ed era eccentrico. Aveva un viso piuttosto comune, anche se era difficile definirlo bello, con degli occhi dalla strana forma tondeggiante. Il naso da pugile non migliorava di certo l’insieme, ma aveva un cuore d’oro.
-Stammi bene a sentire- le disse, piantandole l’indice davanti alla faccia. –Mark Hansen è un criminale. Tutto quello che hai sentito su di lui? E’ vero. Sì, anche la storia che abbia ucciso una matricola potrebbe avere un fondo di verità. Hai mai più visto Jane O’Connel?-
-Si è trasferita a Londra.-
-Questa è la versione ufficiale- continuò, e Diane alzò gli occhi al cielo. –Voglio solo dire che non puoi giocare con lui, non ci si può fidare. Ha i soldi, i muscoli e un cervello geniale. Tu cos’hai? Un debito degno del crollo di Wall Strett del ventinove e un andamento scolastico discutibile.-
-Grazie, Jay.-
-Ti metto di fronte alla realtà!-
Riprese a guidare e concluse così la paternale. Diane non replicò. Sapeva che aveva ragione, lei riusciva a restare a galla a malapena in quel mondo a cui sentiva di non appartenere più da molto tempo. L’élite di Darbydale, fatta di antiche famiglie o di nuove arricchite casate, mandava i suoi figli all’esclusiva e costosissima Darbydale University. Jay stesso era così ricco da potersi permettere un atollo ai caraibi, gli Hansen potevano permettersene anche tre, gli Hamilton probabilmente l’intera Cuba. Non tutti però erano così benestanti, c’erano le vie di mezzo, che potevano permettersi di pagare la retta grazie alle borse di studio o a meriti sportivi. Diane faceva parte di una categoria a sé stante: i caduti in disgrazia. Quando si era immatricolata aveva all’incirca la stessa agiatezza di Jay, ma poi suo padre aveva perso tutto. Non poteva più permettersi di mandarla alla Darbydale University, ma, per fortuna, a differenza degli Hansen i Leslie non avevano mai dimenticato di essere umili. Grazie agli ingenti contributi donati negli anni alla scuola, Diane aveva avuto la possibilità di restare pagando solo un terzo delle spese. La restante parte era stata colmata da un cuore ancor più generoso.
-Susan!- La sua creditrice era una ragazza che portava enormi occhiali rotondi, figlia di Charles Coyle, manager di una importante industria farmaceutica. Studiava medicina con ottimi risultati e la sua miopia non ne era di certo aiutata. –Sei riemersa dai tomi di fisiopatologia finalmente! Ti avevo dato per dispersa, ormai!-
Essere state compagne di banco al liceo aveva rafforzato la loro amicizia ormai quasi decennale e poteva dire di conoscerla come una sorella. Il futuro neurochirurgo era nota per alternare momenti di insicurezza galattici a gesti di puro istinto, come quello che l’aveva spinta a farle un prestito pur sapendo che sarebbero passati lustri prima di riavere tutta la cifra.
-Questa sessione d’esame mi ha prosciugato anche il sangue- si giustificò.
-E per riprendere la tua vita sociale organizzi una cena al ristorante della Mediateca?-
Quella sera i rappresentati degli studenti, Susan Coyle e Thomas Finneran, incontravano i più volenterosi studenti della Darbydale University per organizzare la festa di inizio anno. Tra questi c’erano Jay Lee, Diane Leslie, Chris Howes e Sophie McShera, e tutti si erano ritrovati nel centro nevralgico dell’università: la Mediateca, un raffinato complesso in cemento armato degno delle migliori prigioni di massima sicurezza che ospitava, oltre alla biblioteca e a un labirinto di aule studio, anche un ristorante.
La Darbydale University era una scuola all’avanguardia. Nella gestione degli studenti aveva adottato un antico ed efficacie metodo, risalente ai tempi della repubblica di Roma: i consoli. Non c’era, quindi, un unico rappresentante degli studenti, ma due, un maschio e una femmina, che si dividevano compiti e potere. Susan era stata eletta a pieni voti per due anni di fila e per entrambi i mandati aveva dovuto spartire il trono con il popolare ed esuberante Thomas Finneran, quoterbach della squadra di football, famoso per essere allergico ai noiosi compiti burocratici. In pratica Thomas interpretava il volere della massa, con iniziative del tutto discutibili, e Susan sgobbava per realizzarle. Erano una coppia vincente, quando funzionavano.
-Dov’è quello scimmione?!- sbraitò la console. –Howes, gli hai detto che si mangiava messicano stasera?-
Chris Howes era invece il più brillante studente che la Darbydale University avesse mai posseduto. Quoziente intellettivo sopra la media, corteggiato dalle più importanti figure del mondo finanziario, aveva un futuro assicurato davanti a sé. Ed era una vera fortuna che avrebbe raggiunto il successo senza fare troppa fatica perché il menefreghismo era insito nel suo DNA. Se era lì, era perché Sophie McShera, campionessa nazionale di ginnastica artistica, l’aveva costretto.
-Ehm … - esitò. Sia lo sguardo di Susan che della bionda McShera lo trapassarono da parte a parte. L’unico modo per convincere Thomas a fare il suo dovere da rappresentante era di offrirgli una cena a base di burrito. –Potrei essermelo dimenticato.-
-Non ti dimentichi qual è il centocinquantesimo numero primo e ti dimentichi di fare una telefonata?!-
-Ottocentosessantatré- rispose, rischiando di innescare una reazione violenta.
-Non preoccuparti Susan, vado a cercarlo io!- intervenne Jay, alzandosi di scatto e offrendosi volontario. La caffetteria non era lontana dal campo sportivo, dove si aveva la certezza di trovare Finneran. Come aveva appena dimostrato, Jay era pieno di intraprendenza e non si tirava mai indietro di fronte alle sfide, e non solo quelle degli eventi universitari che organizzava.
-Possiamo ordinare lo stesso?- domandò Diane, il cui stomaco brontolava sonoramente. La sua presenza era molto meno sensata delle altre e lo sapeva bene. Per guadagnare qualcosa organizzava il tutoring per gli studenti. Un compito ingrato, che la faceva passare per secchiona, quando in realtà avrebbe avuto bisogno lei di aiuto, e in più la costringeva a partecipare attivamente all’organizzazione degli eventi.
La sua richiesta fu comunque approvata all’unanimità. I loro piatti non erano ancora arrivati che Susan si era già messa ad illustrare le sue idee per la festa. Una ad una furono bocciate da Sophie.
-Una festa stile Big Bang Theory?! Ma sei matta?!-
-E’ l’anniversario della teoria della relatività di Einstein. E’ una ricorrenza importante!-
-Non ci verrà nessuno se bisogna vestirsi da sfigati!- replicò, per poi portarsi una mano alla fronte. –Quando arriva Thomas?-
-Perché pensi sempre che Thomas abbia idee migliori delle mie? Quest’anno voglio fare qualcosa di diverso, di originale. Non le solite orge con fiumi di alcol!-
-Quindi una festa noiosa!-
-Una festa di classe, degna della nostra rispettabile università.-
-Diane, tu cosa ne pensi? Non sarai d’accordo con questa svitata dai fondi di bottiglia al posto degli occhi!-
La ragazza, che si stava gustando il suo piatto di fajitas in santa pace dovette ammettere di non aver ascoltato una parola. Entrambe le ragazze sospirarono esasperate, ma nessuna delle due batté l’espressione di totale apatia che si era impossessata di Chris.
-Che seccatura, di questo passo staremo qui fino a stanotte- commentò aizzando di nuovo le ire di Susan.
-Hai pure il coraggio di lamentarti?! Dovevi avvisare tu Thomas!- sbraitò.
-Lo sapete che non potete contare su di me per queste cose. In realtà non dovreste contare su di me neanche per questa storia del ballo perché, francamente, non me ne frega un … -
Un rumore improvviso interruppe Chris e fece scattare tutti in piedi. Sophie gridò e Susan si portò le mani alla bocca. Una delle pareti in vetro del locale si era appena frantumata facendo un rumore terribile. Milioni di schegge riempivano il pavimento, dove due figure giacevano distese dopo aver sfondato con i loro corpi la lastra neanche troppo sottile. Di quelle, una era attesa al loro tavolo.
-Thomas! Stai bene?- Susan corse verso il ragazzo ancora steso a pancia in su. Era dolorante, ma non era ferito. Il secondo responsabile del disastro si trovava a carponi su quel tappeto di schegge e tentava di rimettersi in piedi. Diane, che si era avvicinata per dare una mano all’amico, si fermò di colpo. Mark Hansen aveva un taglio sul braccio e sanguinava, colorando di rosso i riflessi del vetro sotto i suoi piedi. Urla di paura accompagnarono il suo scatto verso l’avversario ancora a terra. Mark afferrò Thomas per il bavero della maglietta e lo colpì con un pugno in pieno viso. I muscoli delle braccia erano tesi, pronti a liberare la loro forza, incrollabili anche dopo che avrebbero dovuto essere già stati battuti. Non era scalfito nemmeno dal dolore di quella ferita che gocciolava sugli abiti di Thomas e la sua resistenza scoraggiò ogni tentativo di fermarlo. Era troppo pericoloso.
-Finneran, me la pagherai cara- gli ringhiò preparandosi a colpirlo un’altra volta. Il volto, trasformato dal desiderio di colpire di nuovo, pietrificò il suo avversario, che inerme si preparò ad subire l’inevitabile. Non aveva nessuna speranza contro Mark. Il suo sguardo glaciale lo incatenava a terra, uccidendo ogni tentativo di ribellarsi di fronte a quella furia animale.
-Basta così!- esclamò qualcuno, facendosi avanti. Era il cameriere del locale, un ragazzo alto, ma non in grado di reggere il confronto con Mark. Nessuno avrebbe potuto, era un pugile alto quasi due metri che si esercitava ogni sera a mandare a terra altri uomini. Eppure quel cameriere lo afferrò senza paura, incatenandogli le braccia con le sue e trascinandolo indietro di peso. Da solo non riuscì a far altro che portarlo a una distanza di sicurezza dal viso già conciato di Thomas e solo quando intervennero ad aiutarlo riuscirono ad allontanarlo del tutto.
Mark si lasciò domare, facendo calare la tensione tra gli spettatori di quello scontro, che impotenti rimasero a guardare. E mentre il cameriere continuava il suo atto di eroismo interponendosi tra Mark e il suo obbiettivo, Susan correva ad aiutare Thomas, che non si muoveva da terra. Gli occhi chiusi e gli arti lasciati cadere senza energia fecero temere il peggio. Tutti avevano visto il colpo che aveva subito e da allora Thomas non aveva più reagito. La sua rigidità evocava un unico angosciante pensiero.
-Lo ammazzo … - lo sentirono poi sussurrare, mentre Susan controllava le sue pupille. Diane fu la prima e l’unica che distolse lo sguardo dalle ferite di Thomas per guardare quelle di Mark. Il cameriere stava ancora inveendo contro di lui, quando comparve alle sue spalle.
-Ehi, stai indietro ragazzina. Questo qui è fuori di testa- le disse fermandola un attimo prima che facesse un passo di troppo. Non era che un ragazzo, all’incirca della sua stessa età, con un cipiglio deciso e selvaggio. I suoi occhi con una sfumatura ocra le ricordarono quelli di un gatto, così come le sue movenze sicure e calibrate. Lo sguardo che invece le riservò Mark riconoscendola era trasparente, tanto da sembrare vuoto, se non fosse per l’ostilità che non smetteva di manifestare e la rabbia che ancora covava.
-Non mi farà niente- gli disse.
-No, io non ti lascio avvicinare- insistette, afferrandola per un braccio. Diane guardò la sua mano che cercava di impedirle di mettersi in pericolo. Quel ragazzo sembrava davvero un eroe, e lo guardò grata, ma non riuscì a fermarla quando sorridendogli si liberò dalla sua presa protettiva.
Mark le diede le spalle non appena si accorse del suo arrivo. Era un modo per dirle di lasciarlo in pace, non una reazione difensiva. Un combattente non posa come se niente fosse le armi né la sensazione di eccitazione che ha animato il suo corpo smette di fluire all’improvviso. Il nervosismo era percepibile come un profumo sospeso nell’aria.
-Hai ottenuto la tua vendetta?- gli domandò con fermezza. Mark si voltò di scatto e Diane non si nascose dietro uno sguardo come stava facendo lui. Lasciò che entrasse nella sua mente, non senza sentirsi violata da degli occhi così penetranti, ma come si aspettava, non appena capirono, lasciarono cadere l’ascia di guerra. –Ora possiamo andare al pronto soccorso?-
Il cameriere della caffetteria guardò quell’incauta ragazza tamponare con un fazzoletto la ferita del colosso che aveva appena sfondato una parete di vetro spesso due centimetri e rischiato di mandare in coma con un pugno il quoterbach dei Darbydale Panters. Persino il proprietario di quel braccio insanguinato ne sembrava sorpreso e la osservava farsi beffa della sua mole minacciosa per costringerlo ad allontanarsi insieme a lei. La preoccupazione per la sua incolumità sparì come vapore in una giornata fredda quando lo vide seguirla senza protestare.
Cimentarmi in una storia originale è per me una sfida enorme. Indecisione e insicurezze a parte, spero che questo primo capito abbia suscitato un po’ di curiosità e che sia stato piacevole da leggere.
La storia avrà un'ambientazione universitaria, che cercherò di rendere il meno banale possibile dando un po' di carattere alle facoltà. Diane, come avrete capito, è la protagonista, ma alla sua storia se ne intrecceranno altre, tra cui quella di Susan. Per qualsiasi domanda, dubbio o curiosità, non esitate a scrivermi! A presto,
Nereides |
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Capitolo 2 *** II ***
Debt
of Promise
II
Avevano quasi finito di
attraversare la piccola piazza su cui si apriva la caffetteria quando
Diane scorse un taxi fermo dall’altra parte della strada. La
caffetteria faceva parte dell'Archivio, frequentatissimo di giorno
dagli studenti, quanto deserto di notte. L’edificio si apriva su due
piani, con una scala al centro che portava al terrazzo; qui si trovava
il solitario locale, unica fonte di sostentamento durante le dure
sessioni d’esame, circondato dalle aule studio dell'Archivio. Era
un’oasi per gli studenti fuori sede, che combattevano la solitudine
studiando e pranzando in compagnia, un punto di riferimento per
incontrarsi. Vederlo deserto era strano come quando si cambia la
posizione dei mobili del salotto di casa propria. Bisogna farci
l’abitudine.
Nonostante non ci fosse anima viva in giro, l’esperienza suggerì a
Diane di affrettarsi a fermare l’unica auto gialla con l’insegna bianca
sul tettuccio nei paraggi. Non sarebbe salita insieme a Mark, lo
avrebbe semplicemente caricato e spedito all’ospedale più vicino,
sperando che a Thomas non venisse la stupida idea di andare al pronto
soccorso. Nonostante fosse a terra, apparentemente svenuto, Diane
conosceva abbastanza bene l’amico per sapere che era avvezzo alle
scenate drammatiche e aveva visto il pugno che l’aveva colpito. Mark
non si sarebbe trattenuto se avesse voluto fargli davvero del male. Non
era stupido, un labbro rotto o un occhio nero si risolvono in fretta,
un trauma cranico si risolve con una denuncia, e non era quello che
voleva o non si sarebbe fatto domare tanto facilmente.
-Posso guidare.-
Non sentiva la sua voce da quando aveva minacciato Thomas. Era stato
quel ringhio sommesso, risalito dai meandri più oscuri della sua anima,
a farle capire il motivo di quella rissa, e a farla sprofondare nei
suoi, di meandri. Si fermò e lo guardò scettica. –Hai tre braccia,
Hansen?-
Mark non replicò ma continuò a camminare, deviando leggermente la
traiettoria. Il lampione sotto il quale si fermò permise a Diane di
riconoscere una moto nera di grossa cilindrata parcheggiata sul ciglio
della strada. Con una mano, aprì il sottosella ed estrasse il casco.
Diane non sapeva se scoppiare a ridere per quell’assurda prova di
forza, che lo rendeva a tutti gli effetti un gorilla poco evoluto, o
correre a strappagli di mano le chiavi per impedirgli di finire
ammazzato contro un palo. A toglierla da quella situazione ci pensò
l’arrivo provvidenziale di una luce aranciane in uno scenario di
oscurità.
-Che diavolo stai facendo?- Tornando alla caffetteria, Jay Lee aveva
avuto pochi dubbi su cosa fosse successo e sentendo che Diane aveva
seguito Mark non aveva perso tempo ed era corso a cercarla. Diane
temette che quella frase fosse rivolta a lei, dopo la raccomandazione
di quella stessa mattina di non avvicinarsi mai più a Mark, ma invece
gli occhi tondi dell’amico puntavano proprio sulla fonte dei loro guai.
-Non fare l’idiota, ho la macchina parcheggiata su questa strada.-
Senza troppe cerimonie afferrò Mark per il braccio sano e lo allontanò
dalla moto. Diane trattenne il respiro. Temeva che Jay risvegliasse il
mostro dormiente che aveva appena distrutto un locale ed era già pronta
a mettersi in mezzo, quando Mark si lasciò fare. Esterrefatta, guardò
l’amico gestire magistralmente il più rognoso dei pugili, che non fiatò
nemmeno quando gli rubò le chiavi di mano. Cominciò a protestare solo
nel momento in cui le lanciò a lei, dicendole di occuparsene.
-Ridammele!- esclamò in un misero tentativo di liberarsi. Poi si
rivolse direttamente a Diane. –Non sto morendo, posso farcela da solo.-
-Domani te le ridarà- rispose Jay al suo posto, riprendendolo per il
braccio. -Vuoi morire dissanguato qui?-
Di fronte all’evidenza Mark fu costretto a seguirlo e Diane lo osservò
andare via impensierita. Non si fidava di lui neanche se aveva un
braccio fuori uso. Di sicuro non si meritava tanta premura, ed era
stupita che non avesse reagito quando Lee l’aveva afferrato. Doveva
stare molto male per non riuscire a dare il meglio di sé.
***
Da quell’incidente in caffetteria si scatenò il panico nel consiglio
pro-festa. Il console Thomas era stato sospeso fino a tempo
indeterminato facendo precipitare Susan in un vortice di insicurezza
che la rese isterica. Chris, che quella sera se l’era svignata alla
prima buona occasione, era sparito e nessuno aveva avuto più sue
notizie, nemmeno Sophie, che era infuriata con lui per averla fatta
andare a casa da sola di notte.
E mentre il console veniva circondato da studenti, e soprattutto
studentesse, preoccupate per il suo stato di salute raccontava la sua
versione con orgoglio. Mark era noto per il suo caratteraccio e il suo
umore perennemente nero, e quella sera aveva deciso di prendersela con
una povera matricola che aveva osato urtarlo. La poveretta, in evidente
difficoltà di fronte alla sua furia senza senso, stava per soccombere
quando era intervenuto repentinamente a difenderla. Le si era parato di
fronte, prendendosi lo schiaffo che altrimenti avrebbe sfregiato il
viso dell’innocente matricola ma aveva respinto tutti gli altri colpi.
Mark non aveva sopportato l’affronto e si era lanciato su di lui come
una bestia, finendo a sfondare la vetrina del ristorante.
Né Diane né Susan credettero a quella storia, e per fargli capire di
abbassare le arie, Susan sbagliò un movimento mentre controllava che la
sua spalla fosse tutta intera, facendolo gridare di dolore. Diane,
invece, rientrò al dormitorio chiedendosi quanto ci avrebbe messo Mark
per trovarla.
Impiegò molto meno di quanto si aspettasse, il tempo che il sole
sorgesse. Il mattino dopo le scale del dormitorio scendevano granitiche
aprendole non più la strada per fermata del tram, ma per quel ragazzo
dal braccio fasciato, appoggiato con le braccia incrociate al cancello
d’ingresso. Mark Hansen non passava inosservato, e le poche studentesse
che nel mese di giugno risiedevano ancora nel campus ne rimanevano
affascinate al primo sguardo, ma al secondo acceleravano il passo
sperando che non si fosse accorto della loro sfacciataggine. Mark,
oltre ad essere un bel ragazzo, aveva anche l’aria di uno con cattive
intenzioni.
-Non mi dai neanche il tempo di iniziare la giornata con un caffè?- gli
chiese, scendendo lentamente. –Sono contenta, comunque, che stai bene.
Direi dieci punti, ad occhio e croce.-
-Puoi anche smetterla di far finta che te ne importi qualcosa- replicò
duro. Diane fece gli ultimi gradini sentendo un peso chiuderle lo
stomaco che poco prima reclamava una brioches al cioccolato e tanto,
tanto caffè.
-Ho appena visto Thomas- gli disse, fermandosi di fronte a lui. –Sarai
soddisfatto del risultato, la sua faccia è gonfia come quella
dell’omino Michelin. Ma visto che abita proprio qui, cosa ne dici di
cambiare aria?-
Mark non rispose, ma si staccò dell’inferriata e la seguì lungo il
marciapiede senza protestare. Diane si chiese cosa potessero sembrare,
insieme. Non si erano mai viste due persone meno felici di passeggiare
una accanto all’altra, né espressioni tanto scure esistevano in un
campus universitario d’estate, il regno dei balocchi, patria
dell’anarchia post-esami. Diane conosceva ogni metro di quella strada
che da cinque anni la conduceva verso il giorno in cui avrebbe avuto il
capo cinto di alloro, ma quel breve tragitto non le era mai pesato
tanto. Il fornaio, il market dei pakistani, il ristorante cinese: fu
come se li vedesse per la prima volta con occhi che non le
appartenevano. Mark le camminava a fianco, cupo come le nuvole nere
prima di un temporale, e quella tensione irrequieta nell’aria non solo
la faceva sentire diversa, ma anche nervosa. Si fermò a metà strada, in
un piccolo parco ritagliato tra i marciapiedi, così nascosto che solo
chi ci vive può conoscerlo. Quanti libri aveva letto sulla panchina
protetta dai rami della quercia, quante persone aveva incontrato dando
una carezza ai cani più affettuosi, che osavano interessarsi al lei con
curiosità. L’ambiente familiare la rassicurava come un caldo abbraccio,
ma temeva che i ricordi piacevoli potessero essere violati da parole
taglienti, che l’avrebbero ribattezzato dandogli una nuova identità.
Guardò Mark: quanto avrebbe voluto cavargli quelle stalattiti affilate
che si trovava al posto degli occhi.
-Prima di tutto, restituiscimi le chiavi- esordì lui allungandole il
palmo della mano. Diane strinse il portachiavi che aveva in custodia
dalla sera prima e che non aveva ancora lasciato la tasca dei suoi
pantaloni.
-Credo che prima dovremmo scambiare due parole- propose, osservando le
dita tese verso di lei richiudersi come petali infastiditi dal freddo
della notte. Rimase in silenzio, nonostante averlo contraddetto avesse
riacceso la sua aurea di ostilità. Diane si chiese se prima o poi
l’avrebbe visto calmo e rilassato, o se si facesse di testosterone. Non
era possibile che fosse costantemente arrabbiato. –Immagino tu sia qui
perché vuoi scoprire cosa so di quella notte- disse, percependo il
calore di un solitario raggio sbucare dalle fronde degli alberi e
colpirla. Solo in quel momento si accorse di avere le mani gelate.
-Immagini bene- rispose e attese che continuasse.
-Non so cosa sia successo esattamente ad Hilary- gli disse. –So solo
che non è la prima volta che gira quella roba a una festa di Thomas.
Non credo, però, che l’abbia portata lui, è solo un’idiota che non
capisce dov’è il limite.-
Le sopracciglia di Mark scattarono in alto in un’espressione poco
convinta. -A che gioco stai giocando?- sbottò deluso. –Sai o non sai
qualcosa?-
-Potrei- rispose sibillina.
-Un “potrei” non è una risposta sufficiente- replicò brusco. La sfida
silenziosa che le lanciò fu facile da sostenere, all’inizio. Non si
sentiva affatto in debito con Mark né sentiva che si meritasse la sua
completa sincerità. Era un attaccabrighe sempre nervoso e scortese, e
probabilmente se Lee l’avesse vista in sua compagnia l’avrebbe
afferrata di peso e portata a distanza di sicurezza. Tutti le avrebbero
detto di non aver niente a che fare con Mark Hansen, ma lei non era
tutti. Sospirò e alzò gli occhi al cielo. –No- rispose scocciata. –Ho
solo usato la logica. Tu sei cugino di Hilary, Hilary è in ospedale
dopo aver assunto cocaina a una festa e la festa era di Thomas. E’
logico che tu l’abbia attaccato per cercare vendetta. Tutto qui.-
-Mi hai solo fatto perdere tempo- mormorò irritato. –Dammi le chiavi e
sparisci.-
-Ecco, a tal proposito- lo contraddette di nuovo, facendogli ritirare
un’altra volta la mano. Lee l’aveva avvertita, non è saggio giocare con
un Hansen, tanto meno quello con chiari problemi di gestione della
rabbia. Tuttavia continuò imperterrita. Era la sua unica possibilità.
–Avrei una proposta da farti. Io te le ridò, se tu mi lasci parlare con
Hilary per un quarto d’ora … da sola.-
-Scordatelo- replicò secco.
-Mi sembra inutile specificare che la moto non è più dove l’avevi
lasciata ieri sera, nel caso te lo stessi stupidamente domandando-
continuò con una tranquillità che irritò ulteriormente Mark.
-Dimentichi chi sono? Me ne posso comprare altre cento.-
-Io non credo- la risposta pronta fu il colpo che fece scattare la mina
su cui aveva appoggiato il piede. Mark fece un passo avanti, sfruttando
il suo metro e novanta per farle sapere che aveva altre armi da
sfoderare, mentre lei solo parole e minacce. Diane trattenne l’impulso
di allontanarsi e sopportò con tenacia il suo sguardo glaciale. -Sei un
Hansen- continuò, cercando di mantenere un tono fermo,- ma del ramo
sbagliato della famiglia. Tu dipendi in tutto e per tutto da tuo zio,
il padre di Hilary, e non mi sembri il tipo da andare a lamentarti per
aver perso una moto. Non
faresti certo un bella figura, non ti pare?-
-Hai fatto ricerche su di me?- le domandò con voce così bassa da
sembrare un ringhio.
-Io ci ho provato con le buone, ma non hai voluto starmi a sentire-
replicò. Mark strinse i denti, e le ossa della mandibola misero in
risalto la sua mascella scolpita. Aveva una bellezza sporca, che non
risaltava in un volto sempre così scuro e ancor più indurito da tratti
marcati. Nessuno sarebbe stato invogliato a rivolgergli la parola per
il semplice fatto che non permetteva ad anima viva di avvicinarsi. Solo
da così vicino Diane poté studiarne bene i lineamenti e riuscì a
trovare delle somiglianze con la cugina. Hilary era la ragazza più
bella che avesse mai visto, eterea ed elegante, e anche lei non sapeva
di esserlo.
-Dieci minuti, e se dopo non mi ridai le chiavi me la riprendo da solo,
visto che so dove le tieni- replicò, indicando con un cenno la tasca in
cui nascondeva ancora la mano.
-Affare fatto!- cinguettò Diane, ignorando la sottile minaccia. –Tu hai
qualche impegno questa mattina?-
***
L’aria profumava di primavera e il cielo invocava l’estate quando Diane
arrivò di fronte alla clinica Serendipity. Non aveva più freddo, anzi,
rimpiangeva di non aver indossato dei pantaloncini visto l’inizio già
afoso della giornata, quando l’aria condizionata della hall le dimostrò
di aver fatto involontariamente una scelta oculata. Sorrise
soddisfatta, mentre si avvicinava alla segretaria che il giorno prima
l’aveva trattata come un’appestata. Stesso rossetto, stessi artigli che
si muovevano ticchettando sui tasti del computer, e stesso sguardo
seccato.
-Mi sembrava di essere stata abbastanza chiara ieri- le disse
stringendo le labbra in un’espressione contrariata. –Lei non può
entrare.-
Diane addolcì il viso. Anche senza voltarsi sapeva che Mark, una volta
pagato il taxi, l’avrebbe raggiunta e capì di averlo alle spalle quando
la donna fremette sulla sedia. Rimase ad osservarla mentre nervosa
cercava nell’elenco degli autorizzati il nome di Mark, pur avendolo già
visto e nonostante il suo aspetto rivelasse senza ombra di dubbio la
sua identità. Mark sbuffò infastidito per quella noia burocratica, con
Diane accanto che si godeva la vittoria sorridendo sardonica.
L’antipatia della segretaria per lei non sarebbe bastata ad impedirle
di entrare, e dopo due minuti, sfoggiando un sorriso tirato, diede loro
il permesso di passare.
La stanza di Hilary era al terzo piano, nel reparto di terapia
intensiva. Dopo un breve e silenzioso viaggio in ascensore e lo scontro
con il tipico odore ospedaliero che impregnava anche i muri, Diane si
ritrovò impietrita di fronte a una porta di colore blu, con il naso che
era diventato insensibile.
-Allora?- le chiese Mark, vedendola esitare. Diane si scosse e abbassò
la maniglia. Quando entrò, si lasciò alle spalle la luce e la frenesia
delle corsie per immergersi nella semioscurità. Le tende tirate
impedivano al sole di entrare, creando un’atmosfera cupa, più che
soffusa, e l’aria era resa pesante dal riscaldamento alzato. Nel letto
al centro della stanza, sotto un lenzuolo di cotone bianco, c’era una
figura minuta e magra. Hilary condivideva con il cugino lo stesso
colore ipnotico degli occhi, di un azzurro cristallino, ma le lunghe
ciglia nere li rendevano più dolci, anche se la sua sorpresa non era
sicuramente celata.
-Ciao, Hilary. Ti ricordi di me? Sono Diane. Come ti senti?-
-Diane?- La forma ovoidale del viso e le labbra ben modellate le
conferivano l’aspetto di una bambina troppo cresciuta. Solo che quelle
labbra erano secche e trascurate, e le guance pallide, prive di
vitalità. I segnali delle macchine che circondavano il suo letto resero
Diane ancor più tesa e preoccupata. Forse era troppo presto.
-Io … ho chiamato io l’ambulanza quella sera- le disse, sperando che la
sua rivelazione non la turbasse troppo. I grandi occhi di Hilary ebbero
un guizzo e si rattristarono, ma subito dopo tornarono a posarsi su di
lei incuriositi.
-Sei tu che hai detto alla dottoressa Stevens quella frase? Quella
della promessa?- le domandò. Diane annuì sorridendo. –Perché non sei
venuta ieri?-
-Ah. Bè, è una storia complicata- rispose. Ripensando a quello che
aveva appena fatto, non ne andava più molto fiera: ricattare le persone
non è esattamente un’azione nobile. –Neanche adesso dovrei essere qui,
ho solo pochi minuti.-
-Io non ricordo niente di quella sera- le disse, tornando a spegnersi.
–Mi dispiace, non so che promessa io ti abbia fatto, ma sono sicura che
potremo ringraziarti nel modo che preferisci.-
Quando Diane colse il significato delle sue parole ci rimase talmente
male che si avvicinò e le sfiorò una mano. Il saturimetro aveva
rovinato la pelle liscia andando ad arrossare la zona in cui l’ago si
inseriva in vena. Hilary sussultò al suo tocco, facendo oscillare la
sacca di glucosio, ma non si ritrasse. Rimase ad osservarla sorriderle
con gentilezza.
-La promessa l’ho fatta io a te- le disse. –E intendo mantenerla. Ti ho
promesso che non ti avrei lasciata da sola.-
L’immagine di Hilary che pian piano perdeva conoscenza le comparve di
fronte agli occhi e le sembrò di cadere in uno degli incubi che da
quella notte la tormentavano. I lunghi capelli corvini sparpagliati sul
pavimento, il sudore che le appiccicava la frangia sulla fronte e il
pallore cadaverico le avevano fatto credere di essere arrivata troppo
tardi; ma poi aveva visto i grandi occhi azzurri spostarsi verso di lei
e le labbra aperte, in un grido di aiuto che non era riuscita nemmeno a
pronunciare, si erano mosse, implorandola di non lasciarla sola. Diane
aveva promesso e le aveva tenuto la mano finché i paramedici l’avevano
fatta allontanare per portarla via in ambulanza. Pensava che sarebbe
morta prima di arrivare in ospedale, invece Hilary era di fronte a lei
e la guardava con gli occhi lucidi.
Mark ebbe almeno l’accortezza di bussare prima di spalancare la porta
ed entrare. -Ora devi andartene.-
-Troverò un modo, Hilary- continuò, sentendosi poi afferrare per un
braccio. La ragazza si mosse dal letto, pregando Mark di fermarsi, ma
il cugino non l’ascoltò e trascinò via Diane. Una volta fuori le si
avvicinò con fare intimidatorio, ma questa volta non trovò resistenza.
Diane infilò una mano in tasca e gli porse le chiavi.
-E’ dove l’avevi lasciata, non mi sognerei mai di salire su
quell’affare- gli disse. –Grazie per la comprensione. Come sempre,
gentilissimo.-
Diane se ne andò senza dargli il tempo di risponderle o di fare i
suoi strani giochetti con lo sguardo. Aveva visto e sentito fin troppo,
così tanto da non darle nemmeno il tempo di arrivare fuori dalla
clinica prima di mettersi a piangere. Hilary era stata ad un passo dal
non esistere più, e sarebbe stata colpa sua. L’aveva vista farsi
convincere ad arrotolare la banconota da un dollaro, tra le risate
divertite dei più esperti che la iniziavano a quel gioco pericoloso di
cui non si conosce l’esito. L’aveva guardata piegarsi verso la strisce
bianca e aspirarla con la cannuccia improvvisata, suscitando cori di
approvazione. Chiamare l’ambulanza non l’avrebbe redenta. Tenerle la
mano mentre andava incontro alla morte non l’avrebbe assolta. Perché
lei sapeva i rischi, lei che da un anno passava le giornate a contatto
con quella polvere bianca, dall’aspetto innocuo della farina ma più
velenosa dell’arsenico. Le faceva lei le analisi nel laboratorio di
tossicologia forense di ciò che rimaneva di chi ne rimaneva ucciso, per
dare una diagnosi di morte scontata a quelle persone corrose anche
esternamente da pochi grammi di polvere, e non aveva fermato Hilary.
***
Reazione di ipersensibilità, questo era successo ad Hilary. Lo aveva
capito un secondo dopo averla vista impallidire e accasciarsi sul
divano, mentre tutti attorno a lei scappavano e facevano sparire ogni
traccia di cocaina. Una reazione rara e insolita, ma non tanto da non
essere riportata sui libri che aveva studiato. Imprudente e negligente
verso quello che sarebbe voluto essere, ipocrita e insensibile per la
brava persona che credeva di essere. C’era voluta una tragedia sfiorata
per farle aprire gli occhi.
-Dove diavolo l’hai presa?- Thomas giaceva sconsolato nel suo letto a
sole due camere di distanza da quella di Diane nel dormitorio del
campus. Come si aspettava, non era andato in laboratorio di chimica
forense conciato in quello stato. Avrebbe perso almeno due settimane di
tesi inventandosi una scusa qualsiasi e approfittando della debolezza
che il loro professore aveva per il sorridente e strafottente Finneran.
Thomas si tirò su a sedere, senza neanche avere la decenza di indossare
dei pantaloni, ma rimanendo in boxer e mostrando, con un certo
orgoglio, le sue ferite. L’occhio nero, ancora troppo gonfio per
riuscire ad aprirlo, era messo meglio del livido che gli copriva metà
della spalla destra.
-Di cosa stai parlando?- le chiese.
-Lo sai benissimo- replicò con un sibilo. –Dove hai preso la cocaina?-
Il suo famoso sorriso, anche questa volta, gli fece da scudo. Con una
mano si scompigliò i capelli che sembravano aver rubato la luce al
sole, tanto erano biondi, e la sua aria innocente creò l’incantesimo di
protezione che da sempre gli permetteva di passarla liscia. Nessuno
avrebbe dato la colpa a una persona così ingenua, o stupida, a seconda
dei punti di vista. –Ah, quella. Non ho idea di come sia finita qui
dentro.-
-Smettila di prendermi in giro.- Diane ruppe il sortilegio e smascherò
il vero volto di chi l’aveva lanciato. Più osservava la vendetta
dell’Hansen marchiata sulla pelle chiara di Thomas, più si rendeva
conto che non sarebbe stata sufficiente. Non si pentiva di aver
nascosto la verità a Mark, ma ora la responsabilità di quanto era
accaduto pesava come un macigno sulle sue spalle. Thomas non si sarebbe
fatto spaventare da un po’ di dolore fisico, aveva fatto a botte così
spesso da aver perso il conto; no, Thomas era spaventato solo da una
cosa, i legami.
-Sono andata a trovare Hilary- gli disse. –Lo sai che è un miracolo se
è viva?-
-Non l’ho costretta io- replicò.
-No, ma sei tu che hai rubato la cocaina dal laboratorio per una
stupida festa!- esclamò cercando di non urlare. Se l’avessero sentita
sia lei che Thomas avrebbero rischiato molto di più che l’espulsione
dalla più prestigiosa università di Darbydale.
-Non ho fatto niente del genere.- All’ulteriore resistenza di quello
che fino a qualche giorno prima considerava un amico, oltre che un
collega, Diane non riuscì più a trattenersi. Bastarono pochi passi per
raggiungerlo e mettergli di fronte al naso la prova che stava mentendo.
-Ho controllato- cominciò a spiegare, mentre Thomas leggeva il foglio
che gli aveva messo in mano. Tutto ciò che c’era scritto erano due
misure, due pesi, per la precisione. –Tu hai rubato della cocaina da un
carico sequestrato due settimane fa. La matematica non è un’opinione,
Thomas, qui mancano duecento grammi, ed eri tu che ti stavi occupando
delle analisi. Dimmi adesso, quali conclusioni dovrei trarre se non che
li abbia presi tu?-
Thomas fissò il pezzo di carta come se sperasse che si
incenerisse. Messo all’angolo, non sembrava altro che un bambino
capriccioso che si intestardisce e non vuole ammettere di aver
sbagliato. –Lo sai che non lo dirò a nessuno.- La rassicurazione di
Diane arrivò inaspettata, e il profondo occhio blu del ragazzo si posò
su di lei come se lo stesse salvando dall’affogare. –Ma una ragazza è
finita in ospedale per colpa tua, è quasi morta. Ti rendi conto di cosa
vuol dire? Potevi ucciderla!-
Thomas sussultò. Era irresponsabile, testardo ed infantile, ma non
insensibile. Se c’era qualcuno che aveva conosciuto la sofferenza,
quello era lui. –Mi dispiace, Diane- le disse con voce debole. –Non so
perché faccio queste cose, non so perché non penso mai alle
conseguenze. Come sta Hilary? Si riprenderà?-
-Adesso te ne importa?- gli chiese velenosa.
-Me n’è sempre importato. Ho provato ad andare a trovarla, ma non mi
hanno lasciato salire. Mark è poi venuto a spiegarmi il motivo per cui
ero indesiderato, e non posso che dargli ragione.-
Diane sospirò e scosse la testa. -Sta bene- gli rispose, e vide il
sollievo distendergli i tratti del viso. –Ma credo che quella ragazza
abbia bisogno di aiuto. Quanto uscirà dall’ospedale tu andrai a
trovarla e le chiederai scusa.-
-Non credo sia una buona idea- rispose, tornando a incupirsi. –Non
vedi? So solo far del male alle persone. Mi merito il doppio, di questi
lividi.-
-Già, Mark non avrebbe dovuto trattenersi visto l’immensità della tua
idiozia.-
-Non posso vedere Hilary, non posso rischiare di farle ancora del male.
Lei è così … pura. Cosa potrei mai fare io per farla stare meglio?
L’unica cosa che potrei fare è rovinarla.-
-Devi, Thomas, o non imparerai mai.-
-Fallo tu per me, almeno finché non trovo la forza di cambiare. Ti
prego, Diane, non lasciarmi da solo, aiutami.-
Diane rientrò nella sua stanza di due metri per due che distava un solo
piano da quella di Thomas e si appoggiò alla porta appena chiusa con un
sospiro. Sentirsi soli in un dormitorio universitario è difficile, ma
quella sera si sentiva più sola che mai. Due promesse, due pesi, due
debiti che aveva stretto senza sapere se sarebbe riuscita a colmarli.
Un segreto pericoloso, che rischiava di rovinare tutto ciò che aveva
costruito con tanta fatica se solo fosse uscito da quelle mura di
cartongesso, così leggere, fragili e inaffidabili. Delle mura a cui
bastava appoggiare un orecchio per sentire tutto della vita privata del
proprio vicino. Diane lo sapeva, ma la stanza di Thomas era isolata: da
una parte la fine del corridoio e dall’altra una stanza vuota che
nessuno voleva a causa delle abitudini chiassose del console della
Derbydale University.
Almeno fino a quella mattina.
Sperando che questo capitolo crei un po' più entusiasmo del primo,
vorrei precisare che l'aggiornamento lampo non sarà la regola, anzi,
probabilmente l'intervallo di aggiornamento sarà di settimane, a
seconda degli impegni.
Visto che siamo entrati un po' più nel vivo della storia, mi
preme sapere che sia tutto chiaro (almeno quello che dev'esserlo) e che
i personaggi non si confondano l'uno con l'altro! Diane studia per
diventare tossicologa forense così come Thomas, ed entrambi sono
all'ultimo anno di università. Mark e Hilary sono cugini e fanno parte
di una delle famiglie più importanti di Darbydale. Su di loro si
scoprirà di più nei prossimi capitoli.
Piccola anticipazione: nel prossimo farà il suo ingresso il più
affascinante e tenebroso dei personaggi!
A presto,
Nereides
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Capitolo 3 *** III ***
Debt
of Promise
III
Edward Hamilton guardava
sprezzante le vie di una città che conosceva fin troppo bene. Con animo
insofferente muoveva lo sguardo oltre il finestrino oscurato e
rimpiangeva solo che nessuno, a parte l’autista, vedesse il suo
disprezzo. Odiava tutto di quella città, l’aria stessa con quella
pesantezza salata del mare gli dava fastidio. A volte si chiedeva come
avesse fatto a resistere fino ai vent’anni prima di andarsene e cercava
di dimenticare che, per quanto lontano fuggisse, sarebbe sempre dovuto
tornare.
-Aspettami qui, non ci
metterò molto.-
Toccò il suolo della sua
città natia dopo quasi due anni e nonostante avesse frequentato solo
per pochi mesi la Darbydale University si ricordava ancora la strada
per l’ufficio del rettore. L’ultima volta che c’era stato Thomas
Finneran era talmente dolorante da aver perso la voglia di scherzare.
Sorrise senza accorgersene, ma le due studentesse che incrociò lungo le
scale si fermarono a guardarlo con occhi sognanti. Era la sua
maledizione quella di non passare mai inosservato, sia per il cognome
che portava sia per il suo aspetto da bello e dannato. Sorriso
affascinante, sguardo pericoloso e una movenza particolarmente
accattivante lo rendevano il sogno proibito di molte donne. Anche di
quella con enormi occhiali rotondi seduta fuori dalla porta del rettore
e che sembrava sul punto di avere un attacco di panico. Susan Coyle lo
osservò bussare alla porta e aspettare con le mani sprofondate nelle
tasche il permesso di entrare, senza avere il coraggio di fargli notare
che c’era prima lei. Non l’aveva nemmeno vista, nascosta dietro il
ficus della sala d’aspetto, ma ne fu felice. Non si era mai sentita a
suo agio con Edward nei paraggi.
Il faldone che teneva sulle
gambe scivolò a terra spaventando più lei che l’oggetto dei suoi
pensieri. Quando Edward si voltò, Susan era già intenta a raccogliere i
fogli per evitare la pessima figura di doverlo salutare e sentirsi
rispondere che non si ricordava nemmeno chi fosse.
-Coyle, sei tu?- Sentendosi
chiamare per nome, Susan alzò gli occhi verdi sull’erede della famiglia
più potente di Darbydale e si sforzò di sorridere. Era cambiata molto
in due anni, mentre gli occhi di ossidiana che la stavano fissando
erano esattamente come se li ricordava. Un salto nel buio, adrenalinico
e tentatore.
-Edward- lo salutò tornando
composta e sistemandosi gli occhiali sul naso. –Non sapevo che fossi
tornato in città.-
-Sei diversa- le disse, e
senza il minimo rispetto la squadrò da capo a piedi. Susan rise
nervosamente. L’ultima volta che aveva visto Edward era ancora una
ragazzina romantica che indossava abiti in pizzo e passava notti
infernali con scomodi bigodini per avere i capelli mossi. Il
cambiamento era stato radicale e persino l’impassibile Hamilton ne
sembrava colpito. Susan aveva dato un taglio netto ai capelli optando
per un deciso long bob che le conferiva carattere ed eleganza al tempo
stesso. Portava occhiali dalla montatura nera e indossava quasi
esclusivamente abiti della stessa tonalità, possibilmente di Chanel e
possibilmente attillati.
-Tu invece sei sempre lo
stesso. Ti fermerai molto?-
-Ne dubito- rispose,
terminando l’ispezione e ricordandosi che nessuno ancora gli aveva
risposto. Provò a bussare di nuovo, questa volta con più impeto.
-Credo ci sarà da aspettare
parecchio. C’è Thomas dentro.-
-Che novità- replicò
sarcastico, per poi andare a sedersi di fronte a lei. La ragazza era
tornata a leggere con estrema attenzione i fogli che aveva sulle gambe,
ignara di essere ancora oggetto del suo interesse. Professionale,
raffinata e con lunghe gambe coperte solo da una gonna di cotone: la
novità stuzzicò la curiosità di Edward, che si era già immaginato una
giornata noiosa e priva di emozioni.
-Sei stata eletta alla
fine?- le domandò.
Susan alzò distrattamente
gli occhi. –Per due anni di fila, ma probabilmente questo sarà il mio
ultimo giorno da console, a meno che tu non abbia un’idea brillante per
la festa di inizio anno. Thomas si è fatto sospendere e non ha portato
a termine l’unico compito che aveva promesso di fare. E ora è troppo
tardi.-
-Il solito idiota.-
Susan annuì, ma a quanto
pare anche il suo interesse quasi maniacale per lui era cambiato
insieme al suo aspetto e tornò alla sua lettura. Due anni prima quella
ragazza che ora lo ignorava senza troppi problemi era talmente
innamorata di lui da essere imbarazzante. Ridicola nei suoi miseri
tentativi di attirare la sua attenzione. Solo una volta Edward le aveva
concesso una piccola soddisfazione e l’aveva baciata. Non le aveva
detto, però, che si trattava di una scommessa e l’aveva lasciata che
pendeva fisicamente dalle sue labbra. Ora, invece, quelle labbra che
due anni prima non l’avrebbero mai tentato erano le più invitanti che
avesse mai visto e si rivolgevano a lui con sprezzante indifferenza.
-In Europa vanno molto di
moda i galà.-
Susan si stupì di essere
stata interrotta per la terza volta, ma l’argomento le interessava.
Aveva fatto quella domanda a Edward perché era disperata, non perché
sperava davvero che potesse aiutarla.
-Cioè vestiti da sera e
guanti fino ai gomiti?- gli domandò, scoprendo che non era poi così
difficile reggere il suo sguardo.
-Esatto.-
In quel momento la porta
dell’ufficio si spalancò. Thomas ne uscì con le spalle incurvate e
un’espressione afflitta. Dietro di lui l’imponente Mark Hansen cercava
di mantenere un contegno più civile anche se lo sguardo truce con cui
seguiva ogni passo di Finneran tradiva il suo stato d’animo. Il rettore
stava ancora finendo con le raccomandazioni quando si bloccò
all’improvviso.
-Edward Hamilton- disse,
guardando sorpreso il ragazzo in giacca e cravatta che gli stava
tendendo la mano.
-Oh signore santissimo-
borbottò Thomas, alzando finalmente lo sguardo dai suoi piedi. –Non ci
posso credere. Sei davvero tu?!-
-Thomas, neanche il tempo di
arrivare e tu ti sei già fatto buttare fuori.-
Il biondo Finneran gli diede
una pacca sulla spalla così forte e lo investì di così tante domande
che tutti, tranne lui, si accorsero dell’evidente fastidio che il suo
entusiasmo suscitava nell’amico di vecchia data.
-Coyle, tocca a te giusto?-
il rettore interruppe quel momento senza troppe cerimonie. La ragazza,
trovandosi improvvisamente al centro dell’attenzione, scattò in piedi e
arrossì.
-Oh, in realtà ho risolto il
mio problema- disse con un filo di voce. –Ma grazie lo stesso,
signore.-
Se ne andò sorridendo e
lanciando un breve sguardo di intesa con Edward, che la guardò
allontanarsi chiedendosi come avesse fatto a non notare prima le sue
gambe. Thomas però reclamò con infantile insistenza la sua attenzione e
fu costretto a fermare la sua fantasia per concentrarsi sulla marea di
parole che gli vomitava addosso. Innervosito, per toglierselo di dosso
gli promise che più tardi si sarebbero incontrati per una birra e seguì
il rettore nell’ufficio. L’unico che non gli fece le feste fu Mark, ma
Edward non se ne curò. L’antipatia reciproca risaliva alla nascita
dell’universo.
-Finneran, facciamola
finita in fretta. Sono stanco di vedere la tua faccia- disse Mark,
incamminandosi senza aspettarlo. Il sorriso di Thomas si trasformò in
una smorfia di sofferenza ricordandosi di quanto era appena successo
nell’ufficio del rettore. Non li aveva sospesi e aveva classificato
l’avvenuto come incidente, e per quello Mark avrebbe dovuto
ringraziarlo fino a che fosse campato perché, anche se l’idea era stata
del calcolatore Hansen, aveva scelto
di non dire la verità sull’aggressione. Il fatto che si sentisse
responsabile passava in secondo piano non appena vedeva la faccia
altezzosa di Mark. In fin dei conti, quindi, se l’erano cavata
piuttosto bene e aveva anche riavuto la sua carica di console. L’unico
problema erano il prezzo che avevano dovuto pagare per tanta gentilezza.
-E’ in arrivo nuova
manovalanza!- esclamò felice come una pasqua la professoressa Katrina
Smith. Thomas non aveva mai messo piede nella biblioteca del campus e
non se l’aspettava di certo così. Ampie finestre circondavano la parete
più lunga, permettendo di avere un’ottima visuale sul giardino interno
e sui suoi folti frassini. Non c’era un labirinto di scaffali in cui si
era già immaginato di perdersi né l’odore di chiuso e di vecchio, ma
scrivanie con computer e tablet a disposizione di ogni studente. Non
sapeva nemmeno che ce ne fossero tre, di piani così.
La professoressa fece loro
strada fino a un tavolo libero dove Thomas riconobbe una figura che
conosceva bene. I suoi indomabili capelli rossi erano unici in tutto il
campus, così come il suo impegno come insegnante di ripetizioni. Diane
non ricambiò il suo sorriso quando lo riconobbe.
-Occupatene tu, Leslie.
Hanno sessanta ore da smaltire e siamo autorizzate ad assegnare loro i
casi più disperati.-
-Ma professoressa … - tentò
di protestare Diane, ma la professoressa Smith se n’era già andata
prima che le replicasse che i casi disperati li aveva davanti a sé.
Erano tre anni che frequentava la Darbydale University e in tre anni
non aveva mai scambiato una parola con Mark Hansen. Ora erano tre
giorni che si vedeva costretta a stare nella sua stessa stanza contro
la sua volontà. La coincidenza non sembrava piacere nemmeno allo Hansen
che, vedendola, aveva alzato gli occhi al cielo.
-Diane, tu non hai idea di
chi ho appena incontrato!- esclamò Thomas, investendola con un’ondata
di esaltazione ad un volume troppo alto. Metà biblioteca si girò a
rimproverarlo e lui urlò uno “scusate” in risposta. Poi tornò a
piantare gli occhi blu sull’amica. –Edward!-
Le sopracciglia di Diane
scattarono in alto. -Hamilton?- chiese. Mark sorrise
impercettibilmente. C’era un unico Edward a Darbydale e portava un
cognome che tutti conoscevano. La sua domanda era davvero stupida.
-Sì sì, lui! Ci credi? E’
tornato! Questo posto non sarà più un mortorio finalmente!- Thomas
riuscì ad esprime tutta la sua gioia anche sussurrando. Diane non poté
che dargli ragione. Deglutì e tornò a concentrarsi sul suo compito, ma
Thomas non aveva ancora esaurito del tutto l’entusiasmo.
-Stasera ci incontriamo. Ci
sarai anche tu vero? Chiederò anche agli altri, dobbiamo dargli un
benvenuto come si deve!-
-Oh, mi dispiace- disse
Diane. –Stasera ho gli allenamenti.-
-Avete intenzione di fare
salotto tutto il pomeriggio?- si intromise Mark. –A differenza vostra,
non ho tempo da perdere.-
Diane lo guardò storto e
Thomas sbuffò sonoramente, borbottando qualcosa sulla sua
insopportabile pesantezza, ma non si oppose.
-D’accordo- cominciò Diane.
–Come ve la cavate con la matematica?-
-Ehm … - fece Thomas.
-Nessun problema- rispose
invece Mark.
-E con la fisica o
l’inglese?-
-Con fisica intendi
educazione fisica, vero?- chiese Thomas, guadagnandosi un’occhiataccia
da parte di Mark e lo sguardo rassegnato di Diane.
-Facciamo così- esordì poi.
–Thomas, tu aiuterai me nella digitalizzazione dei libri e in casi
straordinari darai ripetizioni di chimica. Almeno le ossidoriduzioni te
le ricordi?-
-… Hai una tavola periodica
da prestarmi?-
Diane sospirò e decise di
investire i suoi sforzi sull’altro candidato. –Hansen, tu mi sembri un
po’ più ferrato sulle materie scientifiche.-
-Un po’ più ferrato? Sono il
migliore della facoltà di ingegneria!-
Diane quasi spaccò la matita
che aveva in mano pur di resistere all’impulso di cacciarlo fuori a
calci. –Perfetto- disse con un sorriso sforzato. –Allora, se non avete
altre domande, potete cominciare subito.-
Spedì Thomas al secondo
piano, lontano da ogni tentazione di lanciarsi un’altra volta contro
Mark e assegnò a quest’ultimo lo studente peggiore che avessero.
Matthew Potter, nipote del rettore, scansafatiche professionista dalle
capacità di attenzione di un criceto russo, la faceva dannare fin dal
primo anno. Era il classico studente che non ha voglia di studiare, ma
viene costretto dalla famiglia e non osa ribellarsi per non perdere il
favore del paparino ricco sfondato. Diane non lo sopportava, ma non
poteva liberarsene senza che anche il rettore lo venisse a sapere.
Sorrise soddisfatta
osservando Mark mettersi le mani tra i capelli e placare con difficoltà
l’istinto naturale di tirargli il libro in testa pur di farlo rimanere
concentrato. Ci era passata anche lei e ora aveva ottenuto una duplice
vendetta. Matthew non avrebbe avuto il coraggio di fare tanto lo
sbruffone con Mark Hansen come insegnate, e Mark avrebbe dovuto
sforzarsi di essere civile una volta tanto. Era certa che sapesse chi
fosse il suo insopportabile studente e non era così stupido da
inimicarselo.
Si sbagliava. Dopo neanche
mezzora, Matthew si alzò spostando la sedia con un tale fracasso da
battere l’urlo di Thomas e si diresse battagliero verso la sua
postazione. Capelli in disordine e aspetto trasandato a parte, tutto in
lui sembrava esprimere per la prima volta determinazione.
-Io con quello non ci voglio
stare!- esclamò. Come Thomas, interpretò il verbo sussurrare in modo
del tutto soggettivo.
-Non è bravo?- gli chiese.
Sfidava che gli dicesse il contrario, Mark era un genio.
-E’ insopportabile!- Diane
sorrise divertita. –Ha detto che sono un troglodita senza cervello. Non
può rivolgersi così a uno studente! Se non fai qualcosa lo riferirò a
chi di dovere. E che diavolo vuol dire troglodita?!-
La responsabile delle
lezioni guardò il suo nuovo assunto sedere imbronciato, con le braccia
incrociate al petto e lo sguardo chiaro puntato in avanti con tenacia.
Non avrebbe mai addolcito i modi e non avrebbe mai fatto uno sforzo per
qualcosa di cui non gliene importava nulla. Diane, quindi, si vide
costretta a fare marcia indietro e a mettere da parte il piacere
personale. Spedì Mark al secondo piano e mise Thomas con Matthew.
Andò meglio e, inoltre,
senza la presenza ingombrante di Mark, il clima era molto più disteso.
Poté quindi concentrarsi sul suo di studio e concludere il pomeriggio
in tutta tranquillità.
La biblioteca sembrò
ingrandirsi man mano che si svuotava e si riempiva di echi solitari. La
luce aranciata del tramonto entrava dalle enormi finestre e rendeva più
piacevole la fine della giornata. Le ultime lezioni terminarono e i
professori si unirono alla massa di studenti che si dirigeva alla
stazione della metropolitana. Anche la professoressa Smith, dopo aver
verificato che Mark e Thomas avessero fatto il loro dovere, se ne andò.
E mentre Thomas cercava di convincerla per l’ennesima volta ad unirsi
ai festeggiamenti per il ritorno di Edward, Mark disse che aveva fretta
e fece per andarsene.
-Andate nello stesso posto,
offrile almeno un passaggio- lo bacchettò Thomas.
-Il centro sportivo è qui
dietro, ci vado a piedi- replicò scocciato, ma la sua precisazione non
risolse il problema. Mark e Diane erano costretti ad andare nello
stesso posto e inevitabilmente si incamminarono uno accanto all’altro.
In religioso silenzio, attraversarono il giardino interno del campus,
illuminato solo da fiochi lampioni, e imboccarono la via che portava
direttamente alla palestra. Diane non aveva previsto quell’eventualità
e si trovò a corto di idee.
-Come sta Hilary?- gli
domandò. Non che ci tenesse particolarmente a fare conversazione con la
persona meno loquace sulla faccia della terra, ma il peso delle sue due
promesse cominciava a farsi sentire. –E’ tornata a casa?-
-Sì, oggi pomeriggio- gli
rispose, per poi voltarsi a guardarla. –Ancora non ho capito come la
conosci.-
Diane si strinse
nervosamente le mani. –Non la conosco, in realtà. Volevo vederla perché
quella notte, alla festa di Thomas, ho chiamato io l’ambulanza, ed ero
in pensiero.-
Mark, all’improvviso,
scoppiò a ridere. La tenue luce artificiale creava uno strano gioco di
ombre sul suo viso, lasciando intravedere i suoi denti bianchi ma
nascondendo il suo sguardo. Diane si chiese come potesse un atto di
gioia come un sorriso esprimere tanto disprezzo.
-In pensiero!- le fece eco.
–Certo, in pensiero per la ricompensa che ti aspetti di ricevere.
Hilary è stata generosa? Quanti zero ha dato alla sua inutile vita?-
Diane si fermò,
sperando di aver sentito male. Non credeva possibile che avesse appena
accostato l’aggettivo inutile alla parola vita. Le vennero i brividi, e
non solo perché si stava riferendo a sua cugina, sangue del suo sangue;
era terribile solo il fatto che potesse concepire un’idea tanto malata.
–Chi ti credi di essere per giudicare inutile una vita?- gli chiese, e
questa volta era il suo sguardo ad essere desideroso di ferire.
-Ti prego, Leslie, non
venirmi a fare la morale. Tu hai fatto molto peggio di me.-
-Io non ho chiesto nessuna
ricompensa ad Hilary, che razza di persona lo farebbe?- chiese,
indignata. Ma subito dopo averlo chiesto, ebbe la risposta, ed era più
semplice di quanto pensasse. –Tu. Tu lo faresti.-
-Non stiamo parlando di me,
ma di te- replicò Mark, ricominciando a camminare come se niente fosse
e scansando lo sguardo di puro disprezzo che gli rivolse. –Colei che
appena mentito sul fatto di conoscere Hilary e mi ha ricattato per
poterla vedere. Cosa nascondi?-
-Io non nascondo proprio
niente!- esclamò. –Sei tu che mi hai costretto a tanto! E hai accetto,
per una stupida moto! Ti importa così poco di tua cugina?-
-Anche meno- rispose con una
freddezza che la lasciò senza parole. Aveva sentito tante voci
sull’anima nera di Mark Hansen, così tante che non credeva fossero
vero. Nessuno arriva a farsi una nomea degna di Attila senza che vi sia
del falso in quelle dicerie tanto sconvolgenti quanto poco credibili.
Invece erano tutte vere: Mark non solo aveva il ghiaccio al posto del
cuore, ma non aveva nemmeno un’anima. Per la prima volta Diane ebbe
paura di lui, e quando si voltò a guardarla, ferma qualche metri prima
di lui, sussultò.
-Cosa c’è? Non avevi
allenamento? Ah già, anche quella era una menzogna, come ho fatto a
dimenticarlo?-
Diane rimase immobile,
subendo il suo sguardo di disprezzo, senza riuscire a contrastarlo.
Osservò il profilo delle sue spalle allenate pensando di aver
intrapreso una guerra contro un avversario impossibile da battere.
Uno che si lanciava contro
la parete di una caffetteria e se ne andava senza farsi il minimo
scrupolo. Che pensava di poter fare tutto da solo, persino guidare una
moto con un braccio ferito e sanguinante.
Uno che andava ad allenarsi
nonostante i dieci punti di sutura a quello stesso arto.
Uno che non era in grado di
provare emozioni né sentimenti.
Ringrazio Be_My_Friend e J Blaise per aver inserito "Debt
of Promise" tra le seguite e Larylallax addirittura tra le
preferite!
A presto,
Nereides
|
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Capitolo 4 *** IV ***
Debt
of Promise
IV
Susan sedeva al tavolo della
caffetteria sorseggiando un caffè americano. L’articolo sull’efficacia
del Glatiramer acetato nel trattamento della SLA era il solo il primo
di una lunga serie, esattamente come la tazza che aveva tra le mani.
Per fortuna Dio aveva concesso all’umanità anche il dono della
pasticceria e il profumo del brownie al cioccolato che la cameriera le
portò migliorò il suo umore. Se ne fregava delle fissazioni di Sophie
sulla dieta, la colazione non era colazione senza un sano dolce ricco
di acidi grassi insaturi.
-Quello andrà dritto sulle tue
chiappe.- Gli occhi cristallini dell’amica la sorpresero nell’istante
in cui i suoi denti affondarono golosi. Con un’alzata di spalle
continuò ad assaporare il frutto proibito di ogni nutrizionista finché
non ne rimase neanche una briciola.
-Chris non c’è, mi ha appena scritto che si è addormentato sul treno e
ha perso la fermata- le comunicò, per poi osservare divertita la
reazione della ginnasta. Tutte le volte che si arrabbiava le sottili
sopracciglia si piegavano verso il centro, creando due rughe parallele
che rendevano umana anche la sua bellezza divina. La natura era stata
particolarmente generosa con lei: gambe magre, seno prosperoso e lunghi
capelli biondi.
-Tanto sarebbe stato inutile- commentò acida. Chris era l’unico uomo
che non si sarebbe voltato a guardare le sue gambe accavallate, coperte
solo dalla corta gonna plissettata, e per assurdo era l’unico uomo che
Sophie desiderava. L’inconsapevole genio della seduzione aveva messo in
atto la strategia vincente: ignorando una ragazza abituata ad avere su
di sé tutte le attenzioni maschili aveva fatto la mossa giusta per
conquistarla.
-Sei sicura di non volere anche tu del cioccolato?- le domandò coprendo
il sorriso con la tazza di caffè. Peccato che Chris non fosse
interessato. Non gli piacevano le sfide e Sophie era la sfida delle
sfide: dopo averla conquistata bisognava continuare a viziarla.
-Bè, magari solo uno- rispose abbattuta, ordinando un secondo brownie
alla cameriera. –Non capisco cosa diavolo gli passi per la testa.-
-Credo che siano pochi al mondo quelli che possono riuscirci, e metà di
loro ha il Nobel.-
-Dolce non va bene, seducente neanche. Ho imparato persino a giocare a
scacchi per cercare di piacergli!-
-Forse dovresti provare a fare il suo stesso gioco. Ci hai mai
pensato?-
-Ignorarlo? Ne sarebbe solo felice!- esclamò amareggiata. –No, mi serve
qualcosa di drastico, qualcosa che lo faccia andare fuori di testa.
Conosci qualcuno che insegna la pole dance?-
Susan rischiò di sputarle il caffè in faccia e arrossì sentendo gli
sguardi incuriositi provenire dagli altri tavoli.
-Abbassa la voce!- la intimò.
-Guarda che la pole dance è uno sport rispettabile e difficilissimo.
Non è da tutti avere gli addominali per farla e si dà il caso che io li
abbia. Quindi perché non provare?-
-Sì, magari inseriscilo nel curriculum, sono certa che ti aprirà molte
porte nel mondo del lavoro.-
-Coyle, il tuo perbenismo è davvero molesto. Dammi dei consigli utili
invece che farmi ogni santa volta la ramanzina!-
-Bene!- esclamò la rosa. –Te li darò. Cosa vuole Chris dalla vita?-
-Quello che vogliono tutti, successo.-
-No, Sophie, Chris aspira alla banalissima normalità. Fosse per lui
farebbe un tranquillo lavoro d’ufficio che gli permetta di essere a
casa per le cinque, giusto il tempo per giocare un po’ con i bambini, e
la sera tutti a letto presto. Quindi il mio consiglio è di pensaci bene
prima di perdere tempo con uno a cui non interessi e con cui non hai
niente in comune.-
Sophie rimase in silenzio prendendosi il tempo per digerire le sue
parole. Susan temette di aver esagerato di fronte alla sua espressione
insolitamente seria e stava già per scusarsi, quando la cameriera
arrivò e portò il dolce.
-Non sei stupida come sembri, quattrocchi- le disse, prendendo il primo
morso. –Il cioccolato aiuta, ma i tuoi consigli fanno veramente
schifo.-
Susan alzò gli occhi al cielo. Si era preoccupata per niente, far
cambiare idea a Sophie era come cercare di far sorgere il sole ad
ovest: semplicemente impossibile.
Poco dopo arrivarono anche Diane, Jay Lee e Thomas. Quello era il
secondo meeting per la preparazione della festa di fine anno e Susan li
aveva convocati tutti per proporre la sua idea.
-Che diavolo è una serata di gala?- chiese Thomas, per nulla convinto
di quelle parole troppo altisonanti.
-Una serata in cui non ti rivolgerai a una ragazza con la parola
“diavolo”, tanto per cominciare- replicò stizzita.
-E’ un’idea grandiosa Susan!- esclamò Jay Lee. –Potrò finalmente
mettere in pratica le lezioni di liscio!-
-Liscio? Si balla il liscio?!- chiese disperato Thomas.
-Corsetti, spacchi vertiginosi, giarrettiere … mi piace! Non riesco
ancora a credere che sia una tua idea!-
Susan fece buon viso a cattivo gioco e prese le parole di Sophie come
un complimento. Non serviva che dicesse loro che in realtà l’idea era
di Edward. Era la prima volta in due anni che approvavano un’iniziativa
proposta da lei e non da Thomas, e non le sembrava poi così sbagliato
godersi quel merito. Inoltre Edward non era presente per assistere al
suo piccolo atto di egoismo.
-Buongiorno.-
L’intero tavolo si zittì nel momento in cui l’affascinante miliardario
rivolse loro il saluto. Thomas, in men che non si dica, l’invitò ad
unirsi a loro e il celebre Hamilton accettò l’offerta solo dopo aver
ordinato un caffè nero. Susan si sentì morire dentro e abbassò lo
sguardo, sperando che la conversazione non toccasse più l’argomento
festa di fine anno e la sua coscienza la scampasse.
-Hamilton, aiutami a far cambiare idea a questi sfigati sul tema della
festa di fine anno- esordì Thomas, guadagnandosi un’occhiataccia da
parte della collega console.
-E quale sarebbe questa idea?- chiese.
-Una serata di gala! Hai mai sentito niente di più orribile?-
Edward sorrise e i suoi profondi occhi scuri si posarono su Susan, la
quale guardava preventivamente da un’altra parte. –Che idea originale-
disse, facendo imbestialire Thomas e ottenendo ciò che voleva. Lo
sguardo smeraldino di Susan si alzò su di lui, ma maliziosamente
sottrasse subito il suo.
-Diane! Tu non hai ancora detto niente. E’ perché pensi che sia una
pessima idea, non è vero?-
Thomas si aggrappò alla sua ultima ancora di salvezza. La ragazza
spostò una ciocca ribelle dietro all’orecchio e sorrise nervosa
all’esuberante amico.
-In realtà sono d’accordo con gli altri- disse, per poi tornare a
rifugiarsi nella tazza di caffè latte che le avevano appena portato.
-Il rettore Potter ve la boccerà di sicuro!- esclamò Thomas, ormai
messo alle strette di fronte all’assenso unanime di tutti gli altri.
-L’ha già approvata- lo corresse Susan, facendo voltare l’intero tavolo.
-E allora perché ci hai fatto riunire tutti?- domandò Sophie.
-Per organizzarla. Io ci ho già messo l’idea, ora tocca a voi fare
qualcosa.-
-Ma come ha potuto approvarla senza che ci fosse il mio consenso?-
chiese Thomas disperato.
Susan lo fulminò con lo sguardo. –Tu eri sospeso per aver sfondato una
vetrina.-
Thomas smise ogni forma di protesta e si arrese. La colazione proseguì
con le insistenti domande di Sophie sul viaggio durato due anni di
Edward. Non era un mistero per nessuno che la bellissima atleta e il
tenebroso Hamilton avessero un passato, ma le continue allusioni di
Sophie non vennero mai raccolte. Susan studiava da dietro le lenti dei
suoi occhiali le reazioni del ragazzo. Edward aveva distolto lo sguardo
così in fretta che non era riuscita a capire se era arrabbiato. Nel
tentativo di cogliere un segnale, passò un’ora a fissarlo, finché si
fece così tardi che tutti scapparono ai loro impegni.
-Senti Edward … - Approfittò di quell’attimo di dispersione per
richiamarlo.
-Non ho tempo adesso- tagliò corto.
Susan rimase ferma sul marciapiede, con un plico di articoli
scientifici in mano e uno stato d’animo che profumava di passato.
Osservò Edward, perfetto nella sua camicia bianca, in contrasto con il
nero dei suoi occhi e dei suoi capelli, allontanarsi e diventare
un’altra volta irraggiungibile. Si morse un labbro e si voltò
dall’altra parte. Non gli avrebbe permesso di farla sentire di nuovo
un’insicura ragazzina.
***
Edward vide con la coda dell’occhio Susan ferma davanti alla
caffetteria. Il suo piano aveva funzionato e sorrise soddisfatto. Ora
la studentessa di medicina sarebbe stata tormentata dal desiderio di
sapere cosa gli passasse per la mente, ne era certo, visto che aveva
passato tutto il tempo ad osservarlo. Ma la sua sicurezza sparì quando
la vide allontanarsi dalla parte opposta. Non aveva passato abbastanza
tempo a desiderare che si voltasse. Innervosito da quell’insuccesso,
attraversò il campus in fretta, deciso a risolvere una questione che
era ancora più urgente del suo piano di far cadere Susan ai suoi piedi.
-Potevi anche salutarmi- disse a Diane, facendola sobbalzare. I suoi
occhi dell’insolita sfumatura cinerea si posarono sull’Hamilton
sorpresi, ma si spostarono subito dopo, come se temesse che incrociare
il suo sguardo potesse tramutarla in pietra.
-E’ davvero quello vuoi? O sei qui solo per infastidirmi?- gli domandò,
togliendo i libri dallo zaino e posandoli sulla scrivania. La
biblioteca era ancora vuota, visto l’orario mattiniero. Non erano
nemmeno le otto e mezza. Susan sceglieva sempre orari assurdi per le
loro riunioni.
-Credevo che tuo padre non avesse più un soldo- continuò Edward senza
risponderle. –Come fai a frequentare ancora questa università?-
Diane piegò la testa da un lato, facendo scivolare la chioma rossa come
fosse una criniera.
-Non penso siano affari tuoi- replicò.
Edward rise. –Dovevi pensarci due volte prima di metterti contro un
Hamilton, allora.-
Diane indurì lo sguardo, ma Edward fece altrettanto e con molta più
decisione. Il buio inghiottì la ragazza, facendola precipitare in una
galassia fredda e lontana.
-Io non ho dimenticato e non dimenticherò mai quello che hai fatto- le
disse, infierendo di nuovo, e questa volta funzionò. Diane cedette e
vide la sua sofferenza nel goffo tentativo di sottrarsi alla sua
crudeltà abbassando il viso. I capelli andarono a coprirle la fronte
con fare protettivo, ma non riuscirono a nascondere lo specchio umido
che le coprì gli occhi. Quando si rialzarono erano quasi impauriti e le
mani cercarono subito di cancellare ogni traccia dell’unica lacrima
solitaria che le era sfuggita. La vide muoversi nervosa sulla sedia e
sfogliare nervosamente i fogli che aveva sulla scrivania.
-Arrivo subito, Mark- disse. Edward capì che il momento era già finito
e ritornò calmo con molta più scioltezza, tanto da essere sicuro che
nemmeno l’acuto Hansen si fosse accorto della sua trasformazione. Con
un sorriso cortese si preparò a incontrare i suoi spettrali occhi
indagatori. Era certo che la reazione di Diane non fosse passata
inosservata e conosceva bene l’insopportabile mania di quella famiglia
di avere uno sguardo su tutto.
-Mark- lo salutò. –Che strano trovarti qui. Non eri il migliore
studente della facoltà di ingegneria?-
-Lo sono ancora- replicò, e come previsto lo osservò con attenzione.
-Ah, quindi ti servono soldi? Ancora più strano. Te lo posso dare io un
lavoro, se tuo zio è messo così male.-
Mark non rispose, preferì ignorarlo e non cogliere la provocazione.
Tornò a rivolgersi a Diane, che nel frattempo si era alzata e aveva
voltato loro le spalle. Il tenue rumore metallico di un mazzo di chiavi
fece da sottofondo al movimento dei suoi piedi verso i due ragazzi.
-Ti accompagno al secondo piano- disse a Mark, avviandosi verso la
porta.
Edward rimarcò la sua presenza muovendosi contemporaneamente a loro.
–Bè, Diane, è stato un piacere rivederti- le disse, costringendo
entrambi a fermarsi. –E tu, Hansen, potevi anche dirmelo che ti
piacevano le rosse, invece di fare tanto il misterioso. Le chiavi sono
un vero tocco di classe.-
Edward se ne andò continuando a sorridere. Diane rimase in
silenzio stringendo i denti fino a sentir dolore, pur di trattenersi
dal replicare, ma Mark sembrava molto meno incline ad essere
tollerante. Non la seguì quando in tutta fretta si incamminò nella
direzione opposta ad Edward, ma rimase a fissarlo come se sperasse che
il suo sguardo potesse trafiggerlo e farlo cadere a terra in un bagno
di sangue.
-Hamilton, non hai ancora imparato a tenere chiusa quella bocca?- gli
chiese, ma l’unica reazione che ottenne fu una risata. Ancora più
irritato, Mark si voltò verso Diane, che nel frattempo si era fermata,
e le riversò addosso la fiele di cui non era riuscito a liberarsi.
-Muoviamoci- abbaiò, superandola.
Mark camminava talmente in fretta da riuscire a stento a stargli
dietro. Era evidente che fosse un tipo permaloso e che l’insinuazione
di Edward non fosse stata affatto apprezzata. Non le dispiacque, anche
se sapeva che in realtà quella cattiveria aveva un unico bersaglio,
lei. Non per niente Edward si era trattenuto dal raccogliere la sfida
di Mark. Se fosse stato davvero interessato non ci avrebbe pensato due
volte, e se fosse stata lei a dirgli di tenere la bocca chiusa sarebbe
tornato indietro per distruggerla. Aprì la sezione della biblioteca del
secondo piano e lasciò che Mark continuasse con il lavoro del giorno
precedente. Non ci teneva a stargli troppo vicino dopo la loro ultima
chiacchierata.
-Non provarci mai più.-
La sua voce la raggiunse come una freccia tra le scapole, improvvisa e
traditrice. Sarebbero bastate quelle poche parole per chiarire un
concetto che entrambi avevano compreso, ma Diane non riuscì ad ignorare
quel colpo lanciato solo per farle dispetto, inutile e capriccioso.
-E’ una minaccia?- lo provocò.
-E’ un consiglio- rispose. A Diane venne da ridere. Non osava
immaginare come suonassero le sue minacce, se quello era solo un
consiglio, né riusciva a capire se il suo fosse sarcasmo o pessimo
umorismo.
-Allora non ti posso promettere che lo seguirò.-
-Faresti meglio a seguirlo e a non ripresentarti mai più a Coral
House.-
L’immagine di un imponente palazzo rinascimentale le comparve di fronte
agli occhi come la scena sgranata di un vecchio film. Non erano passate
neanche ventiquattro ore da quando aveva suonato il campanello di
quella che era a tutti gli effetti una dimora regale, nonché dimora
della famiglia Hansen, e ancora ricordava la sensazione di nullità che
aveva provato trovandosi di fronte un viale alberato degno di
Versailles. Stringeva le mani sul cancello in ferro battuto e guardava
sbigottita l’immensità della fontana che chiudeva il viale, quando
l’occhio artificiale che vegliava l’ingresso si era destato puntandole
una lampeggiante luce rossa addosso, neanche potesse sondarla e
memorizzare le sue fattezze. Una voce innaturale le aveva chiesto
l’identità e il motivo della visita senza troppi giri di parole, e
altrettanto sinceramente lei aveva dichiarato di essere lì per vedere
Hilary. Si stava già chiedendo quanto ci avrebbe impiegato a percorrere
tutto quel viale, quando il silenzio non ancora rotto fece nascere il
primo dubbio. “Mi dispiace, ma lei non è la benvenuta” le aveva
risposto la voce, e prima che potesse ribattere la luce rossa si era
spenta e il microfono chiuso. Era già il secondo giorno di laboratorio
che perdeva a causa dei sensi di colpa e di promesse troppo pesanti, e
per la seconda volta aveva concluso ben poco e senza uno straccio di
spiegazione. Per questo trovarsi di fronte un appartenente di quella
famiglia tanto arrogante da vietare ogni tipo di contatto con una
ragazza con seri problemi riuscì solo ad alimentare il suo desiderio di
giustizia. Poco le importava se sarebbe andata a sbattere contro un
muro per la seconda volta.
-Perché? Altrimenti cosa fate? Sguinzagliate i cani e mi lanciate
frecce dalle feritoie? Non siete i padroni di Hilary.-
Mark appoggiò il libro che aveva in mano e si alzò in
piedi. Forse non avrebbero sfoderato le balestre medievali, ma se tutti
avevano lo sguardo di Mark il risultato sarebbe stato simile.
Perforante era un eufemismo.
-Faresti meglio ad essere più prudente con la mia famiglia- cominciò
con voce baritonale. –Tu non sei nessuno, e non ci penserebbero due
volte a toglierti di mezzo se osi intralciarli. Oggi hanno avvertito
me, ma la prossima volta potresti non essere così fortunata.-
-Quindi sarei fortunata ad avere a che fare con te?- esclamò Diane
divertita. Non poteva dire sul serio. –Se tu sei il più simpatico, non
oso immaginare le cene di Natale quanto possano essere spassose.-
-Scherza quanto vuoi, quello che ti ho detto è la verità. Avrei anche
potuto tenere la bocca chiusa e lasciare che fosse mio zio ad occuparti
di te, ma mi fai un po’ pena e avevo pensato di aiutarti avvertendoti.
Ora sta a te, Leslie.-
Diane strinse i pugni e si morse la lingua. Ora non era più il
desiderio di giustizia a guidarla, ma vera e propria rabbia. –Bene, se
è questo che pensi di me, smetterò di farti pena e cambierò il mio modo
di agire- esordì, per poi prendere un profondo respiro. –So che tra
meno di un mese hai un incontro e avevo avuto la mezza idea di
venirti incontro con le sessanta ore, ma questo è quello che farebbe
una debole persona pietosa. Quindi, grazie per avermi aperto gli occhi.
Ora sta a te, Hansen.-
Se ne andò, raccogliendo la vittoria senza esultare. Si era già
inimicata un Hamilton, ora aveva anche un Hansen da tenere a bada.
L’unica consolazione era che adesso il suo avversario dallo sguardo
glaciale si trovava in posizione di svantaggio. Mark avrebbe dovuto
supplicare per ottenere ciò che la sua espressione contrariata le
confermò desiderasse e a quel punto lei avrebbe dovuto semplicemente
pronunciare una sillaba per ottenere la sua vittoria.
Ringrazio flaffylovethenet e Megara X per aver
inserito "Debt
of Promise" tra le seguite. Megara X, grazie anche per le gentili
recensioni!
Chiedo scusa per la brevità del capitolo, ma nel prossimo ...
festa! Ci saranno un bel po' di scintille per il compleanno di Sophie :)
A presto,
Nereides
|
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Capitolo 5 *** V ***
Debt
of Promise
V
La battaglia vinta con Mark si
trasformò in una lama a doppio taglio nel momento in cui Diane realizzò
di essersi bruciata la sua unica possibilità di poter rivedere Hilary.
I giorni passavano e insieme al tempo si consumava anche la sua
promessa, ma ogni volta che il suo sguardo indeciso si posava sulla
imponente figura di Mark, china a spiegare lo studio di funzione a un
malcapitato studente, ogni dubbio spariva. Conosceva già la risposta
alla sua domanda.
La frustrazione di non poter fare niente si diffuse per capillarità dai
suoi pensieri alle sue azioni. Distratta, ricominciò a rileggere per la
quinta volta lo stesso paragrafo. Non arrivò nemmeno a metà che la
testa era già da un’altra parte. Susan e Sophie la osservarono ridendo
sotto i baffi.
-Che c’è?- chiese loro, accorgendosi improvvisamente dei loro
sghignazzi.
-Povera Diane, è innamorata!- la canzonò Sophie. –Chi è quel bruto che
ti fa sospirare così sommessamente?-
-Sei impazzita? Io non sospiro affatto!-
-Avanti Diane, a forza si sottolineare quelle tre frasi hai scavato un
solco nel foglio- intervenne Susan, e il suo sguardo divenne
improvvisamente malizioso. –E stai attenta, potrebbe sentirti.-
-Chi?- fece eco Diane. Se prima non capiva niente di quello che stava
leggendo, ora non capiva niente nemmeno di quello di cui stavano
parlando. Dopo aver passato la mattinata in laboratorio era riuscita ad
infilarci un paio di ore di studio alla caffetteria, insieme a Sophie e
Susan. Tuttavia, non solo la sua capacità di concentrazione si era
volatilizzata come vapore nell’aria fredda, ora ci si mettevano anche
quelle due con insinuazioni che non stavano né in cielo né in terra.
-Come chi?! Il cameriere, quello che ti voleva salvare da Mark Hansen!-
esclamò Susan, lanciando un’occhiata furtiva al ragazzo che stava
servendo un aperitivo qualche tavolo più avanti.
-Dai, Diane, sa cosa portarti prima ancora che lo ordini, non te ne sei
accorta? Sbava letteralmente ogni santa mattina non appena ti vede
entrare- precisò Sophie.
Diane era appena riuscita a collegare il nome con il viso quando si
rese conto che in effetti non ordinava più la colazione da secoli. Il
cameriere gliela portava e basta, chiedendole solo se voleva altro. Non
aveva ancora collegato che si trattasse dello stesso cameriere che
senza paura aveva osato mettersi tra Mark e la sua preda, il
biondissimo Thomas Finneran.
Di fronte alla sua espressione sbigottita le due compagne di studio
scoppiarono a ridere.
-Non te ne sei davvero accorta?!-
-E’ solo gentile, niente di più- concluse, rimettendosi a fissare il
libro.
-Vorrebbe mangiarti come fai tu con la brioches alla crema- continuò
Sophie, stampandosi in viso un sorriso sfacciato. –E io sarò colei che
lo renderà possibile. Lo inviterò alla mia festa di compleanno e tu,
cara la mia Diane, porrai fine alle sue sofferenze.-
-Scordatelo- borbottò, causando un altro scoppio di ilarità. Diane, a
differenza delle sue storiche amiche, non era mai a suo agio quando si
parlava di problemi di cuore o, peggio ancora, di letto. Non perché
fosse timida, ma perché era riservata. Non esporsi era una sorta di
corazza protettiva che preveniva eventuali delusioni da aspettative
troppo elevate. Ad esempio, se avesse detto ad alta voce che in effetti
anche era rimasta colpita dal suo coraggio nel pararsi di fronte a Mark
ora avrebbe avuto il fiato di due megere ficcanaso sul collo, e non ci
teneva per niente. Sotto pressione lei non funzionava, punto.
Prendendosi i suoi tempi e perdendosi nelle sue riflessioni, avrebbe
deciso con calma cosa fare.
Se solo avesse avuto la libertà di scegliere.
-Sophie! Fermati!- cercò di gridare sommessamente, ma l’agile ginnasta
sfuggì dalla sua presa e ondeggiando raggiunse il bancone dietro cui il
cameriere stava lavorando. La vide attaccare bottone con una scioltezza
che lei non avrebbe mai posseduto e quando entrambi si voltarono verso
il loro tavolo fece finta di leggere. Susan rise per quel suo misero
tentativo di non farsi scoprire a guardarlo e la fece arrossire come
una dodicenne.
-Bene, è fatta!- esclamò Sophie tornando al tavolo con un sorriso
soddisfatto. –Si chiama Steven e verrà alla festa, dove gli ho promesso
che troverà anche la ragazza dai capelli di fuoco che continuava a
lanciare sguardi furtivi verso di noi.-
-Sophie! La tua crudeltà è veramente senza limiti!- la rimproverò
Diane. –A me non interessa, cosa diavolo ci devo fare alla festa?-
-Mah, non lo so, giocarci a scarabeo?- le domandò sarcastica,
guadagnandosi uno sguardo truce.
-Intendevo, cosa gli ha detto? Che mi interessa? Queste cose le odio.
Non mi piace espormi per prima, ora si aspetterà chissà che cosa.-
-A titolo puramente informativo, sia chiaro, gli ho detto che gli
riserverò una stanza al secondo piano.-
Diane impallidì e sentì qualcosa dentro di lei morire. Probabilmente il
senso del pudore, calpestato dalla sfacciataggine dell’amica, che
subito dopo scoppiò a ridere, seguita a ruota da Susan. Offesa, si
lasciò cadere sulla sedia e incrociò le braccia al petto. –Non l’hai
nemmeno invitato- borbottò piano.
-Certo che l’ho invitato! Ma se continuava a guardare verso di te, non
è sicuramente colpa mia. Io non ti ho nemmeno nominato, cara la mia
Diane. E’ stato lui a chiedermi se ci saresti stata anche tu, e solo a
quel punto ha accettato. In effetti, è stato un po’ maleducato da parte
sua.-
E mentre Sophie cercava di decidere se ritenere oltraggioso lo scarso
interesse del ragazzo verso la sua innegabile bellezza, Diane sentiva
una sensazione più calda e gradevole nascere nel petto e schiudersi sul
volto in un sorriso.
Persino quella giornata insolitamente autunnale di fine luglio le
sembrò piacevole. Sentiva il profumo dell’estate sotto tutta quella
pioggia, percepiva i raggi del sole dietro le nuvole grigie. Prima o
poi le pozzanghere sarebbero evaporate e al loro posto ci sarebbe stata
l’ombra delle fronde rinate degli alberi. Doveva solo aspettare e
qualcosa di nuovo sarebbe successo. Ma le sorprese quel giorno non
erano ancora finite.
-Una conferenza? Io?-
Quando il dottor Prawn, suo relatore di tesi, l’aveva convocata nel suo
ufficio aveva temuto che la volesse rimproverare per le troppe ore di
assenza delle ultime settimane e si era presentata con la testa già
fasciata. Non si aspettava di certo di ricevere una notizia del genere.
-Solo una parte. Il lavoro dell’effetto della cocaina sui neuroni è
stato accettato e verrà pubblicato, per cui terremo una conferenza in
università per presentarlo. E’ un grande successo, a cui hai
contribuito anche tu e non vedo perché non dovresti partecipare.-
-Crede che possa farcela?- chiese, terrorizzata ed emozionata al tempo
stesso.
-Devi dirmelo tu.-
-Mi impegnerò al massimo!- esclamò dopo qualche istante. Non le
sembrava vero, lei che parlava a una conferenza! Non sapeva da che
parte cominciare, ma era al settimo cielo. Si rendeva conto che quello
era il primo passo verso la vita che l’aspettava dopo l’università, la
vita che aveva progettato e sognato da tanto tempo, e si sentiva
elettrizzata. Fare la ricercatrice, presentare al mondo il suo lavoro,
costruire il futuro. Era questo che desiderava più di ogni altra cosa.
-Permetti una parola?- Fu come se la svegliassero da un sogno
bellissimo. La disillusione della realtà aveva il colore cristallino
delle pozze artiche e il sapore aspro di ricordi che si vorrebbero
dimenticare. Con il dito indice trascinò il simbolo del telefono rosso
sul touch screan del cellulare sul cui schermo splendeva in bella vista
il viso di sua madre. Era già fastidioso che Mark Hansen sapesse in
quale Dipartimento dell’Università trovarla, non le andava che
origliasse anche le sue conversazioni private.
-No- gli disse, e maledette il suo vizio di dimenticarsi perennemente
l’ombrello. All’andata era stata Susan a tenerla all’asciutto, ora
doveva aspettare Jay Lee e il suo passaggio in macchina fino alla
palestra. Si strinse nella giacca e attese l’arrivo dell’amico,
apparentemente dimentica della presenza inquietante alla sua sinistra.
-Ti dimentichi l’ombrello quando sono tre giorni che piove?- le chiese.
-Senti, non ho intenzione di fare conversazione con te. Quindi vedi di
andartene- lo aggredì senza girarci troppo intorno. Era stanca di
subire, di accettare la sua cattiveria gratuita senza reagire. Aveva
imparato da tempo che anche la bontà deve avere un limite e non avrebbe
commesso un’altra volta lo stesso errore.
-Dipartimento di Scienze della Vita- disse lui, leggendo la targa
appesa fuori dall’atrio. Il rumore della pioggia che cadeva dalla
tettoia precedente l’ingresso si fece martellante. –Cosa studi?
Biologia?-
-Immagino tu l’abbia già scoperto, cosa studio- gli rispose secca,
continuando a guardare dritto di fronte a sé.
-Sei una scienziata, dovresti essere curiosa. Eppure non mi chiedi cosa
ho da dirti.-
Di fronte a quell’affermazione senza senso si decise a guardarlo. -Caso
mai dovresti dirmelo tu, visto che sei venuto a cercarmi fino a qui. Ma
non mi interessa, quindi risparmiati la fatica.-
-Sei assurda, lo sai?-
Diane si tirò la giacca sulla testa e uscì sotto la pioggia che
insistente non accennava a calmarsi. La sua capacità di sopportazione
si era azzerata con la velocità di un conto in banca di un giocatore
d’azzardo dopo che terminazioni nervose scoperte e poco pazienti erano
state nuovamente infastidite. Il suo “mi fai pena” le riecheggiava
ancora nella mente.
Non ci volle neanche mezzo secondo che le scarpe si infradiciarono e i
jeans assunsero una tonalità più scura. La giacca di finta pelle non
riuscì a ripararle nemmeno i capelli che al solo sentore di umidità
avevano iniziato a ripiegarsi in riccioli disordinati e che ora erano
riccioli bagnati. Quando Jay Lee la trovò e la caricò in macchina
ormai il danno era fatto. Arrivata in palestra, fu felice di trovare un
ricambio asciutto ad aspettarla, ma lo starnuto che le solleticò il
naso fu solo il primo di tre giorni passati con il fazzoletto
perennemente sul viso. Mark Hansen era stato anche in grado di farle
prendere il raffreddore, e fu un motivo in più per odiarlo. Solo quando
si impose di evitarlo come la peste, si accorse di averlo sempre
intorno. Nei due pomeriggi di lezione, in palestra e persino per un
tratta di strada fino all’Università. Prendeva il tram da cinque anni e
non l’aveva mai notato? Forse non si era accorta fino a quel momento di
quanto spesso lo incontrasse perché non aveva mai sentito su di sé il
suo sguardo, che ora invece la seguiva come un setter inglese con la
volpe.
Ma poi arrivò il weekend: due giorni di libertà assoluta, senza alcun
pensiero e senza alcuna preoccupazione. Solo una piacevole ansia
accompagnava l’attesa: mancavano poche ore alla festa di Sophie, e
Susan si era offerta di ridisegnare i tratti del suo viso con
fondotinta e correttore per nascondere le occhiaie e il naso rosso,
altra conseguenza spiacevole di fare quattro chiacchiere con Mark
Hansen. Diane non aveva più rivisto il cameriere dai tratti selvaggi
per il semplice fatto che era rimasta a letto per tre giorni di fila,
intorpidita da un principio di febbre e dal lavoro in più per la
conferenza che la costringeva a stare sveglia fino a notte fonda.
Niente colazione per tre giorni, nessuna idea di cosa potesse pensare
di lei. Sperò solo che non interpretasse la sua sparizione come un modo
indiretto per comunicargli che non gradiva le sue attenzioni. Perché le
gradiva, e non vedeva l’ora di conoscerlo, nonostante si intestardisse
a dire il contrario con le amiche.
-Ecco, così sei perfetta!- esclamò Susan, spostandosi finalmente dallo
specchio e permettendole di vedere il risultato delle sue tre ore di
lavoro. Aveva pensato a tutto, capelli, trucco e abito. Sembrava fosse
lei ad avere un appuntamento, tanto era agitata.
-Cavolo, Susan, non mi riconosco nemmeno. Sei stata bravissima!-
esclamò dopo qualche istante in cui cercò di capire come avesse fatto a
trasformarla. I capelli non erano lisci come le piaceva portarli, ma
nemmeno ricci naturali. Erano lava che fluiva con eleganza fino a metà
schiena, eleganti onde appena abbozzate ma ben definite. Le lentiggini
che le decoravano il naso erano sparite, coperte da creme colorate che
però non appesantivano il suo incarnato della stessa tonalità del
latte. E mentre si guardava, non riconosceva nemmeno quegli occhi di
quel verde-grigio insignificante, ora resi più intensi dallo strategico
smookye eye nero di Susan.
-Dove diavolo hai imparato a fare … questo?- chiese indicando la sua
faccia con moventi circolari dell’indice.
-Si chiamano tutorial, Diane, youtube ne trabocca- rispose, come se
niente fosse. Diane era ancora frastornata da quel cambiamento che non
riuscì a trattenersi dal riempirla di altri complimenti. Poi, però,
guardò più in basso. –Magari il vestito è un po’ scollato, non credi?-
Susan le scoccò uno sguardo di rimprovero, mentre finiva di incipriarsi
il naso. -Diane, la tua ingenuità è quasi commovente- replicò. –Sei
perfetta così. Ascoltami, una buona volta.-
-Ma mi è appena passato il raffreddore, così mi prenderò una polmonite!-
Susan aveva marcato lo sguardo con ciglia finte e molto, molto più
nero, tanto che il verde acqua dei suoi occhi sembravano brillare di
luce propria e il lampo scocciato che le rivolse bastò per chiarire il
concetto. Basta capricci. Le passò la borsa, poi aprì la porta
facendole segno di seguirla.
***
La casa di Sophie non era ai livelli della reggia degli Hansen, ma
quasi. Ciò che colpiva a prima vista era l’abbondanza di fiori che
decorava ogni angolo e trasformava un ambiente tanto maestoso in un
piccolo e accogliente angolo di giardino. Dopo i primi giorni di
pioggia, luglio si era rifatto regalando un paio di giornate
tipicamente estive, quindi la festa si sarebbe svolta all’aperto. Sotto
l’ampio porticato che richiamava le ville toscane erano stati preparati
tavoli con aperitivi e cocktail, mentre la luce soffusa proveniente
dalla piscina regalava riflessi celesti che si infrangevano sugli
ospiti già arrivati. Lusso e eleganza, un tratto caratteristico degli
studenti della Darbydale University, principali partecipanti a quel
party di inizio estate e a cui Diane non era molto avvezza. Per scelta,
anni prima aveva smesso di frequentare posti e persone che credevano di
vivere ancora nella corte di Maria Antonietta. L’ancien régime era
finito da un pezzo per lei.
-Susan, Diane!- La padrona di casa e madrina della festa indossava un
succinto abito rosso, in perfetto accordo con la cascata di capelli
biondi che le cadevano sulle spalle. Le baciò sulle guance, sfiorandole
con le labbra dello stesso colore del vestito, e rimase a guardare
stupefatta la trasformazione di Diane. Sophie, nonostante non volesse
sembrarlo, era diversa da quella marea di barbie imbellettate e ken in
giacca e cravatta. Amava lo sfarzo ed essere ammirata, ma non sfoggiava
mai la sua ricchezza. Voleva essere amata per quello che era, per
questo non portava mai gioielli.
-Diane, e quelle dove le tenevi nascoste?- le chiese, fissando
spudoratamente la sua scollatura. Il suo abito nero non era corto come
quello di Sophie, ma lasciava ben poco all’immaginazione, e la sua
domanda la fece diventare dello stesso colore dei capelli. Sophie poi
la informò che l’ospite più atteso, il cameriere Steven, non era ancora
arrivato. Per compensare a quella piccola delusione, le due amiche
l’afferrarono per le braccia e la trascinarono a prendere da bere.
Dopo il primo gin lemon, Diane cominciò a divertirsi. La musica si
alzò, e i suoni martellanti dei bassi la sedussero, spingendola a
seguire le amiche tra la folla che si muoveva a ritmo delle canzone di
David Guetta. Ballava e si sentiva libera. Non c’erano più
preoccupazioni nella sua mente, ma solo il piacere di lasciarsi
trasportare dalla musica, di ridere di fronte ai passi imbarazzanti ma
divertenti di Jay Lee, di lasciarsi guardare da occhi che trovavano
della bellezza in lei. Poteva smettere di essere la ragazza delle
promesse, la tesista piena di impegni, la responsabile e riservata
Diane per la durata di una notte. Si era dimenticata quanto pochi
centilitri di alcool e un brano coinvolgente potessero essere curativi.
Finché d’un tratto il respiro le morì in gola.
L’immagine dell’ultima festa a cui aveva partecipato le si palesò di
fronte agli occhi con la violenza di uno schiaffo. Si fermò tramortita,
e subito sentì la mano di Jay Lee raggiungere il suo braccio. Con un
tacito ma significativo sguardo le chiedeva se andava tutto bene. Diane
annuì, ma l’adrenalina era sparita. Perché la sua coscienza era tanto
masochista da metterle il viso morente di Hilary di fronte agli occhi?
Non stava forse facendo di tutto per rimediare a quello sbaglio?
All’improvviso il motivo le fu chiaro. Con urgenza si fece spazio tra
il numero sempre maggiore di ospiti e raggiunse Sophie, intenta a
ballare con un ragazzo.
-Hai invitato Mark Hansen?!- le chiese. Gli occhi chiari dell’amica la
guardarono senza capire, eppure Diane era certa di averlo visto. I suoi
lineamenti, così simili a quelli della cugina, avevano tratto in
inganno la sua mente. Non erano quelli di Hilary i capelli corvini né
gli occhi della sfumatura acquamarina. Erano quelli di Mark, intento a
parlare con una ragazza dai folti capelli ricci.
-Non l’ho invitato certo io né ho invitato quella sgualdrina d’oriente-
replicò, osservando Jasmine Abu avvicinarsi a Chris Howes e salutarlo.
Era raro che il genio della matematica manifestasse interesse o una
qualsiasi altra forma di entusiasmo, per questo tutti si erano accorti
del suo debole per l’esotica studentessa in erasmus. Sophie era così
sconvolta che Diane dovette distrarsi per un attimo dal suo stalker e
concentrarsi su di lei.
-Ok, riunione d’emergenza. Dove diavolo è finita Susan?-
***
Il liquido trasparente scivolò nel lavandino senza il minimo rumore.
Poteva benissimo essere confuso con acqua se non avesse avuto l’odore
pungente caratteristico della vodka, che Susan detestava. Aveva
espressamente richiesto un analcolico e si era ritrovata a ingurgitare
etanolo. Il solo pensiero che il suo corpo, il suo tempio, venisse a
contatto con alcool puro le faceva venire da vomitare. Vino, il vino
era decisamente meglio. Polifenoli, resveratrolo, antiossidanti. Queste
erano le parole magiche con cui giustificava il calice di vino italiano
che si concedeva alla fine di ogni giornata. Quello di etanolo andava
bene, c’erano studi scientifici a dimostrarlo e lei era una donna di
scienza che si serviva della cantina della sua migliore amica senza
farsi troppi problemi.
Edward Hamilton, l’ospite più atteso della serata, aveva fatto il suo
ingresso e le era passato accanto senza nemmeno salutarla. Così lei si
era rifugiata nella cucina dei McShera e si era messa alla ricerca di
un Chianti d’annata. Aveva bisogno di un bicchiere di vino, uno bello
forte, e non perché Edward Hamilton era tornato ad ignorarla come tre
anni prima, ma perché Edward Hamilton le ricordava costantemente chi
era stata una volta e quanto si era resa ridicola.
-Per un dannato, comune, banale, come-ce-ne-sono-a-miliardi ragazzo-
borbottò facendo roteare il liquido dai riflessi rubini e prendendo il
primo sorso. Sentì il sapore dei tannini solleticarle la lingua e sì
sentì subito meglio. Si voltò, appoggiò il fondoschiena alla credenza e
continuò a sorseggiare, e avrebbe continuato a farlo finché si fosse
dimenticata di aver pensato, per un impercettibile istante, che se
quella sera Edward Hamilton avesse alzato lo sguardo su di lei sarebbe
stata felice.
-Idiota- disse guardando il bicchiere.
Si sarebbe costruita da sola la sua felicità, non avrebbe aspettato che
lo facesse lo sguardo di un uomo, neanche se apparteneva a quello che
era appena entrato nell’open-space della cucina.
-Bel modo di salutare, Coyle.-
Con una mano sprofondata nella tasca e l’altra che sorreggeva un
bicchiere, Edward si era fermato aprendo leggermente le lunghe gambe
infilate nello smoking d’alta moda. Susan si sentì avvampare e si pentì
di aver bevuto due bicchieri di vino, che di certo non l’avrebbero
aiutata a rimanere lucida.
-Non mi riferivo a te- rispose, turbata dal materializzarsi dei suoi
pensieri.
-Non sarebbe l’appellativo peggiore che mi hanno dato, se ti può
consolare.-
Edward riprese a camminare, scese i due gradini che lo separavano dalla
cucina e in pochi passi le fu accanto. Quando rovesciò il drink nel
lavandino il ghiaccio colpì l’acciaio con un fastidioso rumore
metallico. Poi aprì un’anta, afferrò un calice e tese una mano verso
Susan.
-Posso?-
La ragazza spostò lo sguardo smeraldino verso la mano che le tendeva.
Nell’ottocento il solo tocco che non veniva visto come scandaloso o
inappropriato tra un uomo e una donna era proprio quello: una mano
tesa. Allora le danze si aprivano, lo sfiorarsi di dita diventava lo
sfiorarsi di corpi, che normalmente non potevano nemmeno essere
guardati, e dalla sensazione di pochi centimetri di pelle poteva
nascere un amore.
Invece lei gli passò la bottiglia di vino.
-Immagino tu sia qui per il mio stesso motivo- disse.
Per insultarti? Pensò Susan, che però si limitò a sgranare gli occhi.
-Perché il barman fa dei cocktail che farebbero vomitare anche il più
accanito degli alcolisti- rispose allora Edward. –O forse è perché ti è
venuta fame- disse, guardandosi attorno.
-Se ho fame mi basta comporre un numero di telefono- replicò.
-Non sei brava ai fornelli, Coyle? Strano, pensavo fossi brava in
tutto.-
-Non ho semplicemente tempo né interesse nell’aspettare che l’acqua
bolla o la torta lieviti. Hanno inventato il take away apposta per chi,
come me, ha di meglio da fare- rispose superiore. Andava fiera delle
sue scarse doti da casalinga, la facevano sentire emancipata e una vera
donna in carriera. Diane era l’unica nel loro piccolo gruppo che di
tanto in tanto si azzardava ad utilizzare la cucina comune. Lei non
sapeva nemmeno dove tenessero il sale.
-Non ti piace l’attesa?- La voce di Edward si era fatta più bassa e un
sorrisetto beffardo era comparso sul suo viso perfetto. Susan non
mostrò alcun segno di imbarazzo e lo guardò spavaldamente dritto negli
occhi. Due buchi neri, che nascondevano galassie, che risucchiavano
stelle, paurosi e incredibilmente attraenti.
-No, di solito vado dritta al sodo- replicò, prendendo un sorso di
vino, ma il suo calice era vuoto. Allora Edward si fece avanti, afferrò
la bottiglia e si piegò verso di lei per riempirglielo. Quando il suo
sguardo si spostò dal calice al suo viso, la sensualità velata con cui
le parlò fu più offuscante del sapore intenso del liquido cremisi che
le aveva appena versato.
-Niente preliminari insomma, me lo ricorderò.-
Susan fece finta di niente, lasciando che si allontanasse con un
sorriso.
-E tu? Cucini?-
-Sì, sono piuttosto bravo.-
-Non ti credo- replicò sinceramente sorpresa. Tutto si aspettava
fuorché fosse bravo ai fornelli.
-Coyle, il tuo scetticismo mi ferisce.-
-Fammi vedere allora- lo sfidò.
Lo sguardo magnetico di Edward assunse la stessa sfumatura maliziosa
del sorriso. Senza dire nulla, andò verso il frigorifero e afferrò un
cartone di uova.
-Ti preparerò la migliore omelette che tu abbia mai mangiato- cominciò
a spiegare mentre, dopo aver aperto metà cucina, trovava una padella e
la posizionava sul fornello a conduzione. –La ricetta è francese. Sai
cos’altro è francese?-
-Un sacco di cose sono francesi.-
-Il mio premio sarà francese, se quello che cucino ti piacerà. E sì, mi
riferisco alla sottoveste del tuo Chanel- con il capo accennò al suo
vestito, -e alla lingerie coordinata che c’è sotto.-
Susan arrossì. Non si aspettava un approccio tanto diretto, anche se
era Edward Hamilton, dongiovanni specializzato. Il suo imbarazzo lo
fece sorridere soddisfatto, e fece sprofondare lei
nell’autocommiserazione. Come poteva una persona del genere,
superficiale, amorale e totalmente opposta a lei farle perdere
completamente il lume della ragione? Si sentiva debole, perché lui la faceva sentire debole, e
odiava sentirsi insicura. La scelta più facile sarebbe stata quella di
scappare via, lontano dalla fonte di tanta umiliazione, che in quel
momento apriva le uova con destrezza, ed evitarlo fino alla fine dei
suoi giorni. Era una soluzione così semplice che iniziò a fare il primo
passo indietro. Poi un secondo, e un terzo … finché si fermò. Fino a
quando sarebbe dovuta scappare? Fino a dove? Non era quella la
soluzione. La soluzione era molto più semplice. Doveva ricordarsi che
era forte, e per farlo avrebbe dovuto far sentire debole Edward
Hamilton.
Si avvicinò, stando attenta a non farsi sentire, e quando il suo
braccio destro sfiorò Edward da dietro, il ragazzo smise di aprire le
uova. La mano di Susan era troppo in basso perché si trattasse di un
abbraccio e il brivido che lo scosse all’improvviso aveva un’origine
ben precisa. Le dita sottili sfiorarono il cavallo dei suoi pantaloni e
rimise l’uovo al sicuro nella confezione, sorridendo sorpreso e
appagato.
-Attento.-
Il sussurro gli sfiorò l’orecchio, insieme al suo respiro caldo e al
suo profumo dolce. La mano sinistra fece capolino dall’altra parte,
circondandogli i fianchi. Sentiva il suo seno premergli conto la
schiena, morbido e sodo, e già immaginava di stringerlo possessivo,
quando la speranza che il suo tocco si facesse piacevolmente invadente
svanì vedendo un lembo di stoffa coprirgli la vita e le gambe.
-Non vorrei che ti sporcassi- continuò, mentre le mani si spostavano
sulla sua schiena per legare i fili del grembiule. -Grazie per
l’omelette, Edward, ma non ho fame. Magari un giorno assaggerò
qualcos’altro.-
Susan si allontanò soddisfatta e non aspettò che si voltasse. Il rumore
ritmato dei suoi tacchi percorse il parquet della cucina e ne ascoltava
la musicalità da marcia vittoriosa quando non riuscì più a compiere
neanche un passo. Edward l’aveva afferrata, l’aveva fatta voltare e si
era fiondato sulle sue labbra catturando tra le sue il sospiro di
sorpresa.
… e con il dubbio se Susan prenderà a schiaffi Edward o meno si
conclude il quinto capitolo. Nel prossimo i protagonisti assoluti
saranno l’imbucato Mark Hansen, l’appuntamento al buio detto Steven e
la piscina di Sophie. Vi aspetto! Ma prima voglio ringraziare
infinitamente Lifeisover per
aver inserito la storia tra le preferite e allemari tra le ricordate.
A presto,
Nereides
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Capitolo 6 *** VI ***
Debt
of Promise
VI
-Sophie, stai calma. Tieni, bevi.-
La principesca Sophie McShera stava per avere un crollo emotivo di
fronte a lei. La vide tracannare in un solo sorso ciò che rimaneva del
suo terzo gin lemon, ma nemmeno l’alcol riuscì a frenare il pianto che
le solleticava gli occhi. La sicurezza della più popolare studentessa
della Darbydale University stava crollando con la stessa facilità di un
aquilone quando cala il vento, e Susan non si trovava da nessuna parte.
Era lei quella forte del gruppo, quella empatica e comunicativa. Diane
era brava con i fatti, non aveva la minima idea di come impedire che
quegli occhi lucidi si trasformassero in lacrime salate.
-Cosa ho io che non va? Perché il suo stupido cervello non gli dice che
io potrei amarlo per quello che è? Non dovrebbe nemmeno fare la fatica
di convincermi! Dannazione, perché io non riesco a farmene una ragione
e dimenticarlo?- le chiese, facendo avverare il suo incubo. Diane
l’abbracciò e la rassicurò, ma tutto ciò a cui riuscì a pensare era che
Chris Howes non si meritava l’attenzione di due ragazze del genere.
Sophie sarà anche stata la Regina delle Nevi, ma Jasmine era la Regina
del Deserto. Pelle ambrata e lineamenti disegnati con finezza, occhi
scuri come l’onice e capelli da leonessa. Si muoveva con la grazia e la
sicurezza di una regina egizia, Cleopatra tornata in vita dall’Amenti.
Ed era arrivata con Mark Hansen.
-Diane, ti prego, vacci a parlare- mormorò tra le lacrime.
- Con Jasmine?-
-Con Chris!- esclamò, come se solo il sentir nominare il nome della
egiziana scatenasse impulsi omicidi. Poteva farlo, Chris era un suo
amico, Jasmine invece le metteva i brividi. Le promise che sarebbe
tornata presto e la lasciò seduta sul sofà di una delle centinaia di
stanze di villa McShera. Mazzi di rose bianche sbucavano da vasi a
forma di àncora romana e piogge di mughetti cadevano delicati in ogni
angolo, richiamando l’idea della stanza di una sposa. Ma non c’era
niente della gioia di una giovane promessa sul viso perfetto dell’amica
che, al contrario, piangeva per quel desiderio di felicità,
trasformatosi in tormento.
Diane tornò alla festa desiderando di non avere degli affari alti dieci
centimetri ai piedi che non facevano altro che distrarla dalla sua
missione. Quando ricomparve, in giardino nulla era cambiato. Gli ospiti
continuavano a divertirsi con la musica e il tasso alcolico sempre più
alti, senza neanche chiedersi che fine avesse fatto la padrona di casa.
Diane fece una smorfia di disgusto e tornò a concentrarsi sul suo
obbiettivo. Non sarebbe stato difficile trovare il più pigro e annoiato
genio della statistica che si fosse mai visto a Derbydale: era lì dove
lo aveva lasciato, sul comodo divanetto di tessuto bianco a bordo
piscina su cui si era seduto appena arrivato e su cui, poco ma sicuro,
avrebbe trascorso l’intera serata. Solo che su quel morbido sofà
c’erano anche le cosce abbronzate e ben tornite di Jasmine Abu.
Diane deglutì e andò loro incontro. Non sapeva cosa avrebbe detto a
Chris per convincerlo a staccare gli occhi da tutto quell’ambrato
bendidio e l’istinto le diceva di temere quella ragazza così maestosa,
bella e sicura di sé. Dovette mettere da parte il suo sesto senso
perché ormai era di fronte a loro, poteva persino sentire il profumo di
fiori di loto di Jasmine. Tuttavia, nonostante continuasse a stare
impalata a meno di un metro da loro, erano così impegnati a parlare che
nemmeno si accorsero della sua presenza.
-Chris … -
-Leslie.-
Camicia bianca, pantaloni neri e uno sguardo raggelante, Mark aveva
l’eleganza di un vampiro scandinavo pronto a strapparle la vita. Era
sbucato all’improvviso e tra le mani teneva due bicchieri di champagne.
-Che diavolo ci fai qui?- gli domandò avvicinandosi quel tanto perché
nessuno, a parte lui, potesse sentirla.
Mark non rispose subito. Rimase ad osservarla per qualche istante,
finché le allungo uno dei due calici. Diane accettò con la spontaneità
di un automa.
-Immagino lo stesso che ci fai tu- replicò serafico.
-Sophie non ti ha invitato né ha invitato quella specie di regina
d’Egitto!-
-Si chiama Jasmine ed è la figlia del console egiziano. Io ne parlerei
con un po’ più di rispetto- replicò.
Mark l’aveva perseguitata per una settimana con la sua costante e
indesiderata presenza, ma non credeva che fosse tanto ossessionato da
spingerlo a imbucarsi in casa della sua migliore amica. La sua
insistenza la spaventava, quasi più del suo carattere irruento.
-Mi stai seguendo?- gli chiese senza troppi giri di parole. Jasmine
poteva anche essere figlia del faraone Tutankamon, non gliene importava
niente, ma voleva mettere in chiaro che doveva lasciarla in pace.
-Mi stai evitando?- domandò di rimando.
-Certo! Tutte le volte che ho a che fare con te mi insulti. L’ultima
volta mi hai detto che sono … -
-L’ultima volta non mi hai fatto finire di parlare- la interruppe
sovrastandola. –Ti ho detto che sei … -
-Assurda!- esclamò lei rabbiosa.
-Già, assurda. Perché non scendi a compromessi, come fanno le persone
normali- Mark finì la frase interrotta tempo prima, sotto una pioggia
scrosciante. Diane con un gesto delle mani fece segno che ne aveva
abbastanza. –Normali, certo. Figurarsi se ero normale, per te. Stammi
alla larga, Hansen.-
Gli voltò le spalle, rincuorata che avesse finalmente messo in chiaro
le cose, quando si sentì afferrare per il braccio. Mark la stava
trattenendo. Il suo sguardo, reso felino dal trucco, guardò le sue dita
stringersi attorno alla pelle scoperta del suo avambraccio. Mark era a
meno di un passo da lei e la sensazione vulnerabilità scatenata dal suo
tocco indesiderato si trasformò in paura.
Tutti le avevano detto che non bisognava fidarsi di lui, che era
pericoloso, e ora i loro ammonimenti si stavano realizzando. Quel
contatto fisico non era gradito, specialmente con indosso un abito
troppo scollato e troppo corto, che lanciava messaggi facilmente male
interpretabili. Mark Hansen aveva scoperto dove abitava, dove studiava
e aveva cercato di incontrarla per una settimana. Il campanello
d’allarme era scattato solo in quel momento, ma forse avrebbe dovuto
farlo prima.
-Se speri che ti supplichi di aiutarmi ti sbagli di grosso- le disse
infine con durezza, lasciandole il braccio ma senza allontanarsi. Diane
era così confusa da non capire di cosa stesse parlando. –Ti propongo un
accordo. Tu mi scali li ore, io ti faccio vedere Hilary.-
Aveva archiviato la possibilità di una loro collaborazione nel momento
in cui le aveva chiaramente espresso di non sopportarla, e in realtà la
sua idea di collaborazione si basava più sull’empatia e gentilezza
umana, che su un vero e proprio accordo. Ed ecco spiegato perché non
era normale, ai suoi occhi, ed ecco la sua idea di compromesso. Non le
era nemmeno passato per l’anticamera del cervello di scalargli davvero
le ore, l’aveva detto solo per provocarlo. Ma aveva dimenticato con chi
stava parlando. Mark Hansen, che avrebbe chiesto una ricompensa in
denaro per aver chiamato un’ambulanza.
-Sei davvero spregevole- gli disse, cercando di esprimere il più
possibile il suo disgusto.
-La tua opinione non mi interessa, voglio solo una risposta- replicò
secco.
Diane spostò lo sguardo, non riuscendo più a mascherare di essere a
disagio. Voleva davvero mantenere la promessa fatta ad Hilary, ma
accettare la proposta di Mark era un prezzo che avrebbe macchiato la
sua coscienza. La sua mente cercò disperatamente un altro modo per
arrivare ad Hilary, ma ci aveva già provato, e sapeva che non esisteva.
Quando alzò lo sguardo su Mark aveva preso la sua decisione e si
sentiva bruciare dentro.
-D’accordo- gli disse a denti stretti. –Ma decideremo insieme quali ore
potrai saltare. La professoressa Smith non deve accorgersene, chiaro?-
Mark annuì. –E io sarò presente ad ogni incontro con Hilary.-
-Cosa?! Non ti voglio ad origliare i nostri discorsi!-
-Non so chi sei, non sei sua amica e hai già mentito al riguardo-
replicò con sicurezza. –Sarei un’irresponsabile se non prendessi le mie
precauzioni. Nemmeno mio zio Jeff deve accorgersene.-
Diane sapeva che aveva ragione, ma non riuscì ad accettarlo. –Solo i
primi tre incontri, gli altri da sole, se Hilary non ha nulla in
contrario.-
-Ad orari in cui ci siamo entrambi- precisò Mark, indurendo lo sguardo.
Diane sospirò con il naso e lo fissò con la stessa determinazione.
-Affare fatto- gli disse, allungando la mano destra, ma Mark non la
strinse. Confusa, alzò lo sguardo. Il suo viso si era improvvisamente
indurito e i suoi occhi erano tornati ad essere affilati come lame
appena molate, puntate dietro le sue spalle. Diane si voltò: Thomas si
stava avvicinando con un’espressione ben diversa da quella che era
solita vedergli. Non c’era niente di solare in quello sguardo furioso,
né c’era allegria tra quelle labbra tese.
-Di al tuo amico di starmi alla larga- sibilò Mark.
Diane ascoltò il consiglio e andò incontro a Thomas. Riuscì a fermarlo
solo perché la sua mano andò a posarsi sul suo petto e lo respinse
indietro, ma gli occhi dei due ragazzi, della stessa sfumatura di
azzurro eppure così diversi, continuarono a sfidarsi: quelli cobalto di
Thomas, intensi ed espressivi, un pozzo di emozioni, cozzavano contro
quelli duri e inflessibili di Mark, tanto chiari da sembrare due
specchi. I segni dell’ultimo sconto erano ancora visibili nei lividi
sul viso del biondo e nel braccio fasciato del pugile.
-Thomas, cosa stai facendo?- gli domandò.
-Cosa ci fa lui qui?- le domandò in un ringhio basso.
-Gli ho già detto di andarsene, non c’è bisogno di fare scenate.-
Thomas si voltò verso di lei con espressione scioccata. -Gli stavi per
stringere la mano- disse. –Perché gli stavi per stringere la mano?-
Diane indietreggiò d’istinto. Thomas le faceva improvvisamente paura.
Quel viso, che era abituata a vedere solare e gioioso, era una maschera
di rabbia e di odio, e non sembrava riconoscerla.
-Perché Diane?!- gridò. Ora persino Chris e Jasmine avevano smesso di
chiacchierare tra loro e li stavano guardando. Non sapendo come
reagire, Diane indietreggiò di un altro passo, finché si accorse di
avere Mark accanto.
-Finneran, falla finita- esordì diretto. L’aveva raggiunta e le stava
ponendo il flûte di champagne, che Diane prese. Ora anche Mark aveva
entrambe le mani libere.
-Che diavolo vuoi da Diane?!- esclamò di nuovo Thomas.
-Non credo che siano affari tuoi.-
-Ti conviene lasciarla in pace, Hansen.-
Mark sorrise. -O altrimenti?-
Thomas si lanciò in avanti con un ringhio sommesso. Urtò Diane, ma non
se ne accorse. La sua rabbia cieca gli fece vedere solo la sua preda,
la quale aspettò l’impatto con calma magistrale. Abituato ad essere
predatore, Mark sapeva bene come difendersi da un attacco e quando le
mani tese di Thomas furono sul punto di afferrarlo per il colletto
della camicia, semplicemente si scansò.
Il tuffo in piscina fu spettacolare e richiamò l’attenzione di tutti
gli invitati. La chioma bionda di Thomas riemerse insieme a un respiro
profondo e all’umiliazione, ma il contatto con l’acqua fredda fece
calmare del tutto il suo spirito infuocato. Rimase fermo, immobile, con
lo sguardo che sapeva di malinconia.
-Thomas.-
Diane si sporse e gli tese una mano. Non gli importava se l’aveva
appena fatta cadere né se stava per prendere a pugni Mark, Thomas
sembrava sul punto di crollare in mille pezzi tra le onde delicate e
l’odore pungente del cloro. E quando si voltò ebbe la certezza che le
gocce sul suo viso non fossero semplice acqua. In silenzio e con lo
sguardo abbassato, afferrò la sua mano e uscì dalla piscina.
-Vuoi riprovarci Finneran?- lo provocò Mark. Thomas fecce un passo in
avanti, ma all’improvviso la distanza tra i due fu colmata da un paio
di braccia altrettanto robuste.
-Credo che sia il caso di finirla qui. Non vi è bastata la vetrina del
mio locale?-
Steven, il cameriere della caffetteria, si era messo tra i due ponendo
finalmente fine alla lite. Mark lo perforò con lo sguardo per essere
intromesso, ma non replicò.
-Forse è il caso se lo porti via- disse a Diane, indicando Thomas con
un cenno del capo. Diane, ancora sorpresa per il suo intervento,
arrossì e annuì.
***
Susan uscì da quella che sperava essere una qualsiasi stanza per gli
ospiti sistemandosi il vestito con fare nervoso. Se tirava in giù la
gonna, il petto si scopriva e viceversa. Era talmente stravolta da non
riuscire nemmeno a ricomporsi. Si era persino messa a cercare gli
occhiali per poi ricordarsi che quella sera aveva le lenti a contatto.
Andare a letto con Edward era stata una pessima, pessima idea. Sentiva
di aver infranto un giuramento sacro e di non poter far più niente per
rimediare. Aveva ceduto e si era ritrovata stretta tra quelle braccia
che pochi istanti prima le erano sembrate il paradiso ma che adesso
capiva essere la porta dell’inferno.
Doveva andarsene subito o Sophie e Diane avrebbero capito con un solo
sguardo il suo tradimento, e sapeva che per Diane scoprire quello che
aveva fatto era lo stesso che considerarla morta. Di gran lena,
attraversò il porticato evitando ogni sguardo e ogni mano alzata in
segno di saluto.
-Tu non sei della Derbydale. Che diavolo ci fai qui?-
-Lo deduci dal fatto che non indosso un abito che potrebbe sfamare
centinaia di bambini?-
Quella conversazione tra mille attrasse la sua attenzione.
Distrattamente, alzò il volto per individuare a chi appartenessero
quelle voci, e ciò che vide la lasciò senza parole. Mark Hansen e il
cameriere della Caffetteria erano soli e stavano parlando. Diede una
seconda occhiata più approfondita e notò la distanza che li separava, i
corpi in posizione rigide. Non stavano parlando, si stavano studiando
come due capobranco inorgogliti. Quei metri che li separavano erano un
tacito accordo tra i due, che entrambi sapevano di non dover superare.
-E’ molto più semplice, se fossi del Dipartimento di Belle Arti ora
avresti uno scarabocchio incomprensibile tatuato da qualche parte in
bella vista; se fossi uno di Scienze dalla Vita te ne staresti in un
angolo a parlare di orbitali atomici con i tuoi simili fissati per
l’arancione; di Comunicazione? Saresti già ubriaco. E per finire, se
fossi uno di Tecniche, sapresti che ti converrebbe moderare i termini
con me.-
-Bè, complimenti Sherlock, ci hai preso. E ora cosa intendi fare? Farmi
arrestare?-
Mark fece un passo in avanti, varcando quel limite invisibile che
delimitava il comportamento civile da quello privo di regole. Si
avvicinò a Steven con le movenze di un sovrano che fieramente tiene in
equilibrio la corona che ha sul capo. Steven invece rispose con la
calma del guerriero vissuto, completamente padrone di se stesso.
-Credi che io sia incapace di controllarmi?-
-Non ci vuole una laurea per capire che sei un piantagrane violento e
irragionevole- replicò.
Mark sorrise.
-Proprio come pensavo.-
E si allontanò dandogli le spalle.
-Sono qui per lei- disse Steven, facendolo fermare. Mark si voltò
indietro, e questa volta fu il ragazzo apparentemente meno minaccioso a
farsi avanti. –Per Diane- precisò, -e se ti vedo un’altra volta darle
fastidio dovrà essere qualcun altro ad evitare che ti arrivi un pugno
in faccia.-
Il viso di Mark si scurì, ma Steven se ne andò prima che avesse tempo
di replicare.
Susan percepì l’aria diventare improvvisamente più leggera, ma scoprire
che Mark Hansen creava problemi a Diane le fece diventare il respiro
ancor più faticoso. Tutti sapevano che non c’era da scherzare quando si
parlava della famiglia Hansen. Si guardò attorno in cerca dell’amica,
la cui sicurezza era decisamente più importante del suo sentirsi
sporca, ma non la trovò. Al suo posto individuò un paio di occhi
annoiati e una bocca storta in una naturale smorfia di insofferenza per
l’umanità.
-Chris, che cosa è successo? Di cosa stavano parlando Mark e
Steven?-
-Mmm?- domandò distratto. –Chi?-
Era impossibile che non avesse assistito alla scena, il divanetto di
cui si era impossessato e che difendeva come l’Inghilterra difendeva le
sue colonie nel diciottesimo secolo si trovava di fronte a dove poco
prima c’erano Steven e Mark. Irritata dal dovergli spiegare una seconda
volta quando sapeva benissimo a cosa si riferiva, prese un respiro
profondo e si preparò ad armarsi di pazienza.
-Un ragazzo stava per saltare addosso a Mark, Mark l’ha evitato
facendolo finire in piscina e quel tizio dai gusti estetici discutibili
che a quanto pare si chiama Steven, si è messo in mezzo per fare l’eroe
della situazione, quando era chiaro che Mark avesse tutto sotto
controllo.-
A parlare era stata la proprietaria delle gambe chilometriche che
sbucavano alla destra di Chris. Jasmine Abu si sollevò con le spalle e
si sporse verso di lei. Occhi ambrati, labbra morbide e definite come
dune del deserto. La sua bellezza era indiscutibile e intimorente.
-E tutto perché Mark stava parlando a una ragazza dai capelli rossi.
Questo, in sintesi, è quello che è successo.-
Susan capì perché Sophie era sparita. Doveva averli visti, seduti uno
accanto all’altro, a chiacchierare amabilmente, dimentichi del rumore,
della musica, del resto del mondo. Doveva aver notato la serenità che
si apriva sul volto di Chris quando era compagnia di Jasmine, di come
la sua espressione corrucciata si distendesse in un sorriso e di come
fosse incuriosito da lei. Era la sua mente ad affascinarlo, oltre a
tutto il resto. Non era mica cieco.
-Non ho chiesto a te- abbaiò improvvisamente furiosa. –Perché non vai a
farti un giro?-
Chris alzò lo sguardo su di lei, ma Susan non toglieva gli occhi di
dosso a Jasmine. Sì, è una minaccia, voleva dirle, continuando a
fissarla come una tigre acquattata in mezzo alla savana. Jasmine
rispose alla sfida senza timore, ma poi guardò Chris. Il ragazzo le
fece un cenno con la testa e lei, a malincuore, si alzò.
-Complimenti console, ottima politica di accoglienza- ironizzò Chris
una volta che furono soli.
-Proprio stasera dovevi fare lo stronzo?!- lo aggredì Susan. –Ti vanti
tanto di essere intelligente e ti comporti come se nessuno fosse alla
tua altezza, ma voglio darti una notizia, Chris, una che avrebbero
dovuto darti tanto tempo fa: tu non ha proprio niente di diverso da
tutti gli altri. Non è certo il cervello l’organo con cui stai
ragionando! E normalmente non mi sarei nemmeno sforzata di esprimerti
il mio disgusto, ma dato che ti vanti tanto di essere un passo avanti a
tutti noi comuni mortali e che con il tuo comportamento stai ferendo
Sophie alla sua festa di compleanno -in casa sua dannazione!- qualcuno
deve dirti che sei un idiota, un ipocrita e un vero stronzo!-
Susan se ne andò con gli occhi di tutti puntanti addosso. Il suo
tentativo di defilarsi senza essere notata era appena fallito, ma la
soddisfazione di aver finalmente detto a Chris quello che pensava di
lui era impagabile. Non c’era niente di più insopportabile di
quell’egoismo subdolo di cui Chris Howes traboccava. Non era stupido,
sapeva che Sophie era innamorata di lui, quindi le faceva del male
volontariamente. Forse avrebbe dovuto aggiungerci uno schiaffo a quella
sfuriata.
E riguardo a Diane, Jasmine le aveva dato la risposta che cercava.
C’era già qualcuno che vegliava su di lei, tanto da aver avuto il
coraggio di sfidare Mark Hansen. Era una reazione in tipico stile
Thomas Finneran, ma non l’aveva visto alla festa, quindi con ogni
probabilità doveva trattarsi di Jay Lee.
Ora che le sue due migliori amiche erano al sicuro, poteva tornare a
concentrarsi su se stessa e sul vuoto che sentiva stava per squarciarle
il petto.
Nereides
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Capitolo 7 *** VII ***
Debt
of Promise
VII
-Thomas, calmati!- esclamò Diane,
rivivendo un deja-vu.
-Sono calmo.-
-Non mi sembra proprio- replicò Diane, incrociando le braccia al petto.
Stava iniziando a innervosirsi. L’espressione di Thomas era quella di
un cucciolo abbandonato, ma aveva appena aggredito Mark e ora andava
avanti e indietro per la cucina dei MacShera senza trovare pace. Quindi
no, non era per niente calmo.
-Mi vuoi spiegare cosa diavolo ti è preso?-
-Te lo volevo levare di torno, è così difficile da capire?!- esclamò
alla fine, strizzando per la centesima volta la camicia nel lavabo.
Diane inspirò profondamente. –Stavamo solo parlando e tu gli sei
saltato addosso. Quindi sì, mi è difficile capire dove sta la logica in
tutto questo.-
-Logica?! Non è questione di logica Diane! Mark è un figlio di puttana
e ti sta tirando dentro uno dei suoi casini, me lo sento! Quindi
scusami se ho cercato di difenderti, scusami, non lo farò mai più,
visto che ti dà tanto fastidio!-
-Mark mi aiuterà a incontrare Hilary- affermò Diane con fermezza. Era
decisa a mettere fine alla sua sceneggiata melodrammatica e a scoprire
la verità. Se era in quelle condizioni c’era un motivo. Quando
ricominciò a parlare la voce le tremava di rabbia.
-Cosa hai preso?-
Thomas si fermò e spalancò i grandi occhi blu. –Eh?-
-Cosa hai preso- ripeté.
-Pensi che io sia fatto?-
-Cocaina? Amfetamina? Cosa, Thomas?- insistette Diane, impassibile come
una statua. Non l’avrebbe perdonato, non questa volta, anche se la
guardava con quell’espressione tradita e delusa. Conosceva fin troppo
bene i suoi giochetti, non ci sarebbe cascata. Era alterato, nervoso e
non riusciva a controllare le sue azioni. Se non c’era un vero motivo,
voleva dire che era qualcos’altro a farlo agire in quel modo. Qualcosa
capace di scorrere nelle vene, penetrare negli organi e cambiarne la
fisiologia.
-Non ho preso niente- affermò con convincente calma.
-Non ti credo.-
-Vuoi farmi le analisi del sangue qui, adesso?- la provocò.
-No, lunedì, le tue urine- replicò Diane, per poi voltargli le spalle.
Non sopportava più nemmeno la sua vista. Quel viso innocente e aperto,
che invita a fidarsi, a volergli bene incondizionatamente per il solo
fatto che il suo sorriso è più caldo e pacifico del sole stesso, ora le
dava la nausea. Era falso, meschino e ipocrita. Come aveva potuto
lasciarsi abbindolare per tutto quel tempo? Avrebbe dovuto capirlo dal
modo in cui si era comportato con Hilary. Non aveva nemmeno avuto il
coraggio di incontrarla, lui, che si professava tanto coraggioso e
spavaldo. Era stato vile, codardo, inetto.
-Hai ragione!- le gridò nel tentavo di fermarla. Diane sospirò sentendo
una fitta di dolore al petto e tornò a guardarlo. Una ceramica crepata,
un cielo grigio, il mare in tempesta. Tutto questo le sembrò il suo
volto.
-Mi sono comportato in modo insensato, non avrei mai dovuto aggredire
Mark. Questa volta lui non c’entrava … anche se sono convinto ci sia
sempre un buon motivo per prenderlo a pugni.-
-Thomas.-
-Sì, scusa!- si sbrigò ad aggiungere. Poi tornò serio. –Non ho preso
niente Diane, il motivo per cui sono così nervoso è perché …. – esitò,
come se ricordare e parlare al tempo stesso fosse troppo faticoso. -Ho
visto Susan insieme a Edward.-
La bocca di Diane si aprì, ma non ne uscì una parola. Continuava a
guardare Thomas, i suoi occhi bassi, in cui cercava di nascondere un
dolore ancora fresco e una rabbia difficile da controllare. Thomas
aveva perso la testa per Susan dal primo momento che l’aveva vista, il
primo anno di università, durante la prima cena insieme al dormitorio.
Si era innamorato di lei e da allora aveva iniziato a sperare che un
giorno anche Susan si sarebbe resa conto di amarlo, che l’avrebbe visto
con occhi diversi. Non era accaduto, ma la sua speranza non si era
spenta. Nonostante si fosse costruito la fama di dongiovanni, Diane
sapeva che nessuna delle storie che aveva avuto era stata seria. Non
riusciva a togliersi Susan dalla testa … e Edward era stato il suo
migliore amico, prima che partisse, il suo complice, il suo confidente.
Sapeva cosa provava per Susan, e lo aveva rispettato anche quando, per
crudele ironia, Susan si era innamorata di lui. Ma l’Edward di due anni
prima era molto diverso da quello di adesso, Diane lo sapeva meglio di
tutti, e ora anche Thomas avrebbe dovuto accettarlo.
Lo aveva tradito nel modo più crudele e doloroso che esistesse.
- … sei sicuro?- gli domandò con filo di voce.
-Li ho visti con i miei occhi. Erano qui, in cucina, e poi sono saliti
al primo piano. A quel punto me ne sono andato, ho visto te e Mark … e
il resto è storia.-
-Susan non lo farebbe mai- affermò.
Una risata strozzata morì nel petto di Thomas. –E’ molto meno probabile
il contrario.-
Diane non lo contraddette. Lo abbracciò e lo lasciò con la promessa che
sarebbe andato a casa a farsi una bella dormita. Thomas si offrì di
darle comunque le sue urine, ma Diane rifiutò l’offerta con un certo
disgusto.
Tornò all’aperto, dove nel frattempo una brezza notturna si era alzata
e portava sollievo dall’afa estiva. Si stava facendo tardi, molti
ospiti se ne stavano andando, la musica era più bassa. Si chiese dove
fosse Sophie e si intristì, perché non era riuscita a parlare con Chris
come le aveva chiesto. Si chiese dove fosse Susan e la tristezza
divenne preoccupazione. Non poteva aver ceduto ad Edward, non adesso,
non dopo tutto quello che era successo.
-Ho chiesto al barman di fallo bello forte.-
La voce che si infilò tra i suoi pensieri era calma e morbida,
piacevole come le fusa di un gatto. Steven era così diverso dai ragazzi
che era abituata a incontrare per le vie del campus o a lezione che
vederlo di fronte a lei, con indosso un paio di jeans e una semplice
maglietta bianca, le sembrò irreale quanto un sogno.
-Ma se preferisci ti prendo qualcos’altro- continuò, accennando al
secondo bicchiere che reggeva tra le mani. Chissà per quanto tempo
doveva averla cercata, vagando con quei due bicchieri in mano.
-Ti prendo un analcolico- si sbrigò a dire, facendo per andarsene.
-No, va benissimo- si avvicinò e sorridendogli grata, afferrò il
bicchiere. –E’ esattamente quello di cui ho bisogno.-
***
La festa di Sophie ebbe l’effetto opposto dello scopo di una festa:
Diane rimase senza amici. Susan era sparita, Sophie la evitava per
evitare Chris e Thomas non usciva dalla sua stanza. L’unico che ancora
le rivolgeva la parola e si mostrava vagamente interessato alla sua
esistenza era Jay Lee. Costante nella sua anormalità, continuava a
sfoggiare il giallo del dipartimento con orgoglio dando a tutti almeno
una certezza nella vita. Curioso, visto che se c’era qualcuno che
doveva sentirsi perso era lui. Non era un tipo routinario, amava
inventarsi nuovi passatempi ed era sempre in cerca di novità. Per
questo Diane aveva temuto il peggio quando la sua fidanzata era partita
per un anno di erasmus, lasciando il più irrequieto degli studenti ad
attendere il suo ritorno. Jay Lee non aveva pazienza, odiava le attese
e si buttava a capofitto in tutto ciò che faceva. Anche nelle relazioni
era così, e la sua eccessiva fretta era stata spesso la causa di
rotture poco serene. Era come un cucciolo di labrador in perenne
ricerca di attenzioni, e se non le riceve se le va a prendere sfociando
nell’invadenza. Diane credeva che non ce l’avrebbe fatta a rimanere
buono e a cuccia per un anno, invece erano sei mesi che aspettava il
ritorno di Amy ed era più sereno che mai.
-Belle le tue occhiaie Jay Lee- gli disse, mentre insieme scendevano le
scale. Alle quattro in punto di ogni giorno si incontravano con il
camice ancora indosso per andare a bere un caffè al distributore
automatico. Il laboratorio chimica farmaceutica si trovava al secondo
piano, mentre quello di sintesi chimica al terzo e da quando erano
entrati entrambi in tesi avevano preso l’abitudine di spezzare il
pomeriggio con una pausa nell’area ristoro del Dipartimento.
Abbandonavano provette e spettrometri di massa per scambiare due
parole, visto che la mattina Jay Lee preferiva andare a correre
piuttosto che fare colazione insieme a Sophie e Susan, e alle loro
chiacchiere.
-Lascia perdere. Ieri sera Amy ha fatto tardi e sono rimasto sveglio ad
aspettarla- le rispose, e il tono amareggiato con cui lo disse non
prometteva niente di buono. Che finalmente la sua natura si fosse
ribellata? –Mi sono addormentato dopo dieci minuti a dir tanto, con
skype acceso, e quando mi sono risvegliato avevo un rivolo di bava che
mi colava sul mento. Che figura! Per fortuna anche Amy si era
addormentata e non ha visto niente. Ti immagini se si fosse accorta?
Non voglio nemmeno pensarlo!-
Diane rise. Gli AmyLee, come erano solita chiamare la coppia Sophie e
Susan, erano indistruttibili e non avrebbe dovuto dubitare. Errore suo,
ed era felice di essersi sbagliata. Desiderava solo il meglio per Jay
Lee, il suo migliore amico dai discutibili gusti estetici.
-Sally, dove ha lasciato il bastone oggi?- chiese Lee, mentre si
avvicinavano al distributore. Sally era la bidella con un chiaro
disturbo psichiatrico del Dipartimento di Scienze della Vita. La
leggenda narra che in origine fosse una farmacista, impazzita durante
il corso di studi che continuava a vagare come un’anima tormentata per
aule e laboratori. Sguardo perso, capello a caschetto sul viola malva e
gonna sotto il ginocchio dello stesso colore. Girava sempre con un
bastone che infilava sotto le macchinette alla ricerca di spiccioli.
Parlava da sola, oltre che con i distributori, e aveva la dote di
prevedere il futuro. Non c’era studente che non l’adorasse.
-Sally, dacci i numeri del lotto- le stavano chiedendo due ragazzi
mentre sgranocchiavano un pacchetto di patatine.
-No, domani- rispose lei, guardando dentro un cestino della spazzatura.
-Dai, Sally, dacci i numeri!- insistettero.
-Va bene: a, b e c.-
-Ma Sally questi non sono numeri!- fece notare uno dei due.
Sally sventolò un braccio in aria. –L’esame, le risposte dell’esame!- E
si allontanò borbottando qualche insulto, tra le risate dei due
ragazzi. Diane prese il bicchierino che il braccio robotico del
distributore le offrì e si fece da parte, mentre Jay Lee digitava
“caffè lungo” e “extra zucchero”. Amava quella amara bevanda dal gusto
unico e inimitabile, quell’aroma che delizia le narici e seduce il
palato. Era una dipendenza, inserita tra l’altro nel Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ma era l’unico vizio che
si concedeva. Era divertente, poi, pensare che avesse qualcosa in
comune con Sally, la quale nel frattempo era ritornata nell’area
ristoro brandendo il suo fedele bastone.
-Ehi tu, depresso!- la sentirono esclamare. –Fuma che ti fa bene!-
Sia Jay Lee che Diane si voltarono a guardare chi fosse il malcapitato
studente a cui era rivolto il caloroso invito. A Diane quasi cadde il
caffè di mano e Jay Lee interruppe il primo sorso per poter spalancare
bocca e occhi di fronte ad un Mark Hansen confuso e perplesso. Sally
agitò il bastone dicendo questa volta qualche sconceria ad una ragazza
che camminava tranquillamente tenendo per mano il fidanzato, mentre
Mark continuava a guardare la tozza bidella con circospezione.
Quando si voltò verso di loro, Jay Lee non riuscì a trattenersi dalle
risate.
-L’ha chiamato depresso!- esclamò, mentre si teneva una mano sulla
pancia. Mark nel frattempo aveva abbandonato lo studio di quella rara
specie di homo sapiens e li stava raggiungendo con espressione
impassibile. A Diane passò del tutto la voglia di scherzare.
-Spero che ti vada di traverso il caffè.-
Fu la prima cosa che disse una volta raggiunti.
-Scusami davvero tanto Mark- continuò Lee. –Ma non ho da accendere!-
-Certo che ce né di gente strana nel vostro Dipartimento- replicò
velenoso, mentre Lee finiva di ridere e Diane guardava da un’altra
parte mandando giù il velato insulto che le era parso di cogliere. Era
come l’attesa prima dello strappo di un cerotto.
-Sta tornando, sta tornando!- esclamò con gioia Jay Lee. Sally,
guardando con sospetto ogni studente che incrociava la sua strada, si
avvicinava ai distributori con le movenze rozze di un armadillo. Era
destino che tra tutti notasse il più vistoso del loro trio. Piantò gli
occhi acuti sul viso di Mark, che non solo era alto il doppio di lei,
ma per di più indossava una maglietta nera, simbolo del Dipartimento di
Meccanica. Non a caso l’aveva preso di mira.
-Prendi le barrette energetiche- gli consigliò probabilmente notando la
sua notevole stazza. Poi, per essere più precisa, picchiettò sul vetro
del distributore con il bastone e gliele indicò. –Quelle lì straniere.
Così ti vengono i pettorali grossi e le donne ti amano.-
Jay Lee proruppe in un’altra fragorosa risata e anche Diane questa
volta non riuscì a trattenersi. L’espressione di Mark era impagabile.
Vagamente imbarazzato, sicuramente preso in contropiede. Se avesse
saputo che sarebbe bastata Sally per metterlo a disagio l’avrebbe
trascinato prima nell’area ristoro del Dipartimento. Il suo sguardo
sempre tanto spavaldo e pronto a sottomettere chiunque osasse sfidarlo,
guardava smarrito la bidella ora accovacciata a terra. Brandendo il
bastone, aveva infilato tutto il braccio sotto il distributore e
affermava di vedere una banconota da cinquanta dollari.
-Mark, dovresti ascoltare i suoi consigli. Non ho l’accendino, ma ti
posso prestare degli spiccioli per le barrette- lo stuzzicò ancora Lee.
Diane lo guardò storto. Non era lui che diceva di non giocare con il
pericoloso Mark Hansen?
-Cosa è quella?- chiese, non riuscendo a smettere di guardare le gesta
di Sally.
-Quella è Sally-macchinetta-del-caffè e ciò che dice è legge qui
dentro. Quindi, straniero del Dipartimento delle Merendine, non osare
insultarla!-
Diane finì il caffè e andò a gettare il bicchierino di plastica, mentre
Mark diceva qualche altra cattiveria a Jay Lee. Dalla festa di Sophie
non l’aveva più visto né sentito, quindi era abbastanza chiaro che
fosse lì per un motivo ben preciso e non per prendere un caffè in
compagnia della pazza del Dipartimento. Infatti, quando tornò a
voltarsi, era lei che stava guardando.
-Io devo tornare di sopra- disse Jay Lee, non sospettando minimamente
che Mark fosse lì per lei. –Mark, dovresti venire più spesso a prendere
il caffè qui … o le barrette straniere, o a farti una sigaretta, come
preferisci!-
Ricevendo uno sguardo glaciale dal diretto interessato, se ne andò non
senza prima rivolgere il doveroso saluto a Sally. –Ciao Sally!- esclamò.
-Ciao, cerca di bruciare tutto.-
Diane sorrise, vedendo Lee fare il segno dei pollici alzati con il
sorriso stampato in viso. Quando vide la porta richiudersi, incrociò le
braccia e alzò gli occhi su Mark. –Immagino tu sia qui per dirmi
qualche cosa.-
-Andiamo da Hilary.-
-Ora?-
-Sì.-
Diane lo fissò contrariata. Non gli avrebbe certo detto di no dopo
tutto quello che era successo, ma la sua insolenza nel presentarsi
senza nemmeno avvisare era davvero insopportabile.
-Sei fortunato che per oggi ho già finito di lavorare- gli disse
allargando le braccia e mettendo in bella mostra il camice bianco. Poi
infilò una mano in tasca ed estrasse il cellulare. –Segna il tuo
numero, io mi devo cambiare.-
Quando scese indossando solo jeans e maglietta, Diane lo trovò seduto
su una delle sedie dell’area ristoro a studiare di nuovo Sally.
Sembrava davvero incuriosito dal caso umano e quasi non si accorse del
suo arrivo. Infatti, non appena la vide, scattò in piedi e le porse il
cellulare senza dire una parola.
-Hai what-up?- gli chiese, mentre lo seguiva fuori dal Dipartimento
controllando che avesse fatto tutto come si deve. –Cosa è la tua
immagine? Tubi di metallo?-
-Un motore - rispose secco. –Di quella moto in particolare.-
Diane alzò lo sguardo dallo schermo e riconobbe il veicolo che aveva
preso in ostaggio qualche settimana prima.
-Non penserai che io salga su quel coso- gli disse categorica. –Andiamo
in tram.-
-Sì, così ci metteremo tutto il giorno- replicò aprendo il sottosella
ed estraendo un casco, nero anch’esso, che le porse. Diane rimase a
fissare il suo braccio teso verso con un’espressione per nulla
convinta.
-Prendo un taxi- sbottò.
-E’ l’ora di punta, vuoi rimare incastrata nel traffico?-
Diane incrociò le braccia. Anche se aveva bocciato una ad una le sue
proposte con motivazioni ragionevoli, non voleva ancora rassegnarsi a
un viaggio in stretto contatto con Mark Hansen, su una moto poi, di cui
aveva il terrore.
-Jeff non starà via per sempre- tuonò Mark, cominciando a innervosirsi.
Messa alle strette, Diane sbuffò, sciolse le braccia e accettò il
casco. Mark indossò il suo, poi con disinvoltura salì in sella e accese
il motore. Il solo rumore fece trasalire Diane che dopo aver litigato
anche con l’allacciatura si ritrovò a guardare con timore il destriero
nero e il suo cavaliere. Non impazziva dalla voglia di accucciarsi
dietro a Mark e stringersi a lui, ma si sforzò di farlo.
-Vai piano- lo intimò, dopo che ebbe sistemato i piedi e cinto
timorosamente le braccia attorno alla sua schiena. Instabile e
terrorizzata dall’idea di rotolare a terra alla prima curva, sperò che
il suo consiglio fosse accettato.
Arrivarono a destinazione. Un secondo dopo che il rombo si spense,
Diane era già con i piedi saldamente piantati a terra. Aveva capito che
era stata una pessima idea accettare il passaggio dopo il primo
rettilineo. Lei, che si era preposta di mantenere le distanze, aveva
dovuto stringersi ancora più di più per paura di cadere, fino ad
appoggiare la guancia alla sua schiena, paralizzata dalla paura.
-Che cuor di leone- la schermì Mark togliendosi il casco e mostrandosi
fieramente soddisfatto. Con il cuore che le batteva ancora a mille e
l’aria terrorizzata, anche Diane liberò i capelli, ma a differenza del
ragazzo sembravano terrorizzati quanto la proprietaria. Odiava le moto
e odiava Mark.
-Non sei divertente!- esclamò, piantandogli il casco contro il petto.
Stargli così vicino andava contro ogni suo istinto. Sentiva di doversi
allontanare con la stessa forza che respinge di due magneti opposti.
Mark l’afferrò ridendo, mentre Diane si allontanava da quell’idiota che
guidava come un criminale nel tentativo di smettere di tremare.
-Non ti hanno ancora arresto per come guidi?- chiese cercando di
riprendere fiato e di sfogare la tensione.
-Sei più codarda di quanto pensassi.-
Diane lo fulminò con lo sguardo, e solo voltandosi verso di lui si
accorse di non essere davanti all’imponente inferriata di Coral House,
ma a un cancello decisamente più piccolo e nella norma. Durante il
viaggio aveva chiuso gli occhi e non aveva idea di che strade avesse
imboccato, quindi non aveva nemmeno la certezza che l’avesse realmente
portata nella dimora di suo zio e sua cugina.
-Dove siamo?- gli chiese.
-A Coral House- rispose, rimettendo a posto i caschi e raggiungendo il
cancello. –Non avrai pensato che ti facessi entrare dall’ingresso
principale. Quello si apre solo nelle occasioni importanti, e tu hai
già avuto il tuo momento di gloria.-
-Ho solo suonato il campanello- replicò.
-Sei stata notata in ogni caso. Questo è l’ingresso secondario, che
usiamo io e Hilary.-
-Anche tu vivi qui?-
-Ti sembra che stanze manchino?- rispose sarcastico finendo di aprire
la porta. All’improvviso si fece serio. –Nessuno sa e deve sapere che
tu sei qui, ricordatelo.-
Diane annuì e lo seguì dentro. Non appena oltrepassò la soglia le
sembrò di entrare in un altro mondo. Un prato perfettamente curato si
apriva dolce, attraversato solo dal vialetto in pietra su cui stavano
camminando. Dei pini in lontananza rompevano il correre sconfinato
dell’erba e lasciavano intravedere un immenso edificio rinascimentale.
Il vialetto che stava percorrendo, infatti, non portava alla dimora
regale, ma a una casa più piccola.
-Questa è casa tua?- gli chiese fermandosi ad ammirarla. Era più
piccola, relativamente parlando, e manteneva lo stesso tenore regale
della principale. Pareti bianche, imposte in legno scuro e cornicioni
incisi in decori floreali. Di fronte all’ingresso, preceduto da
colonne, si apriva un piccolo spiazzo dove una fontana zampillava e
ricchi vasi di fiori rossi le ballavano attorno.
-Sì- rispose, superandola spazientito.
Diane seguì Mark che imboccò un altro viale lastricato in pietra,
costeggiando il lato sud della casa. Il prato cominciò a inclinarsi e
presto comparvero dei gradini. Diane osservò la scalinata scendere
armoniosa tra i fili d’erba e i gelsomini, che ad arco si chiudevano
sopra le loro teste creando un tunnel profumato. Ma non aveva tempo per
meravigliarsi, Mark aveva fretta e continuava a voltarsi.
-Ci siamo- le disse, una volta fatto l’ultimo gradino. Un enorme albero
di noce si alzava verso il cielo con la sua chioma dalle foglie chiare;
davanti ad esso era stato preparato un piccolo tavolo bianco con delle
sedie, e Hilary era lì. Si alzò in piedi non appena li vide arrivare.
Indossava un sorriso tenue e timido, debole come la fiamma di una
candela sul bordo di una finestra aperta. I lunghi capelli neri
cadevano lisci come seta sulle sue spalle esili e gli occhi azzurri
brillavano gentili in un volto di porcellana. Riusciva ad essere bella
nonostante fosse evidente che non si fosse ancora ripresa. La maglia di
cotone bianco a maniche lunghe nascondeva un corpo troppo magro, a cui
non basta il calore della prima estate per placare i brividi. I capelli
erano sì incantevoli, ma sembravano sul punto di spezzarsi; così come
la pelle, senza imperfezioni ma della pallida sfumatura della luna.
-Buon pomeriggio- le disse, unendo le mani e rimanendo composta. –Mi
dispiace accoglierti nell’angolo più remoto e meno curato del giardino,
Diane. Spero che potrai scusarmi.-
Il prato che sembrava disegnato con un pennello si interrompeva
aprendosi in macchie scure e sgradevoli appena sotto l’albero. I fili
d’erba sopravvivevano a fatica, la terra brulla era infertile e
spoglia.
-Il noce fa questo brutto scherzo- replicò quasi sovrappensiero.
Hilary alzò lo sguardo verso le fronde sottili. Persino la corteccia
della pianta era poco piacevole: grigia, secca e con scanalature che
sembravano scavate da artigli di enormi felini. I rami erano possenti,
ma fragili, eppure portavano foglie larghe e dal colore brillante.
-Credevo che il problema fosse la terra- replicò, stranamente
interessata.
-Oh, no, la terra è sempre la stessa. E’ il noce, che produce una
sostanza che impedisce alle altre specie di crescere troppo vicine, in
modo che non gli rubino le sostanze nutritive. Una tecnica difensiva
efficace, anche se esteticamente non delle migliori.-
Hilary fu soddisfatta della spiegazione e tornò a guardarla. –Studi
biologia?-
-Sono cresciuta in campagna. Studio chimica- rispose Diane, accettando
poi la sedia che le veniva offerta. Era finalmente seduta davanti a
Hilary e stava mantenendo le sue promesse. Poco le importava adesso il
modo in cui era arrivata al fine, l’importante era averlo raggiunto.
Tuttavia, dopo che le ebbe versato un bicchiere di limonata, non seppe
più che cosa dire. Non conosceva Hilary se non di vista, non sapeva
cosa studiasse, né che gusti avesse. Non sapeva niente di niente, ed
era difficile parlare del niente.
-Tu, invece, che cosa studi?- le chiese.
Hilary si rabbuiò all’improvviso. -Economia.-
Il cambiamento d’umore non sfuggì a Diane. –Dipartimento di
Comunicazione. E ti piace?-
-Sì- rispose in un sussurrò. –Anche se la mia vera passione è la
letteratura classica. Però cosa me ne faccio, nel mondo reale, di due
lingue morte come il greco e il latino?-
Sebbene la voce fosse quella di Hilary, Diane ebbe la sensazione che
quelle parole non provenissero delle sue labbra, ma che qualcun altro
l’avesse obbligata a pronunciarle. E sospettava anche chi fosse quel
qualcuno. Hilary Hansen, erede di Jeff Hansen, il più spietato e abile
uomo d’affari di Darbydale non avrebbe potuto studiare altro se non
economia, visto il futuro che l’aspettava. Le lingue morte, come le
aveva lei stessa definite, dovevano rimanere un sogno rilegato nel
cassetto della fantasia. Diane cominciò a capire il motivo della
sofferenza di Hilary e del suo viso perennemente triste.
-Tuo cugino, comunque, potrebbe farsi la stessa domanda sullo studio di
funzione- rispose lanciando un’occhiata a Mark, che si era accomodato
mantenendo però una certa distanza. Se doveva rimanere ad origliare
tanto valeva divertirsi un po’.
-Tieni la bocca chiusa se non sai di cosa parli, Leslie- replicò
lapidario.
-Oh oh!- Diane rise e incrociò i suoi acuti occhi azzurri.
-Dipartimento di Meccanica, dei veri bruti!-
-Dipartimento di Scienze della Vita, dei veri palloni gonfiati!-
-Almeno noi non dimentichiamo le tabelline non appena sentiamo una
fragranza femminile nell’aria.-
-Neanche le sapete le tabelline.-
-Tu quale preferisci?- continuò Diane ignorando la replica. -Vento del
deserto? Fiori di Loto?-
Lo sguardo di Mark si indurì. Il suo intero volto sembrò essersi
tramutato in pietra, i tendini ai lati del collo emergevano nervosi ad
ogni respiro profondo che prendeva. Il tiro mancino di Diane lo fece
infuriare, e Mark si preparò a replicare, quando venne anticipato.
-Scusa, Hilary- disse Diane, abbassando lo sguardo. -Non sono venuta
qui per litigare con Mark. Penserai che sono fuori di testa.-
La ragazza, stancamente appoggiata allo schienale della sedia come se
non avesse nemmeno la forza di tenere sollevata la testa, sorrise. –Un
po’ lo pensavo già- rispose, -ma in senso buono. Non ho idea di chi tu
sia né perché ti interessi così tanto della mia salute. Eppure sei qui,
che tieni testa a Mark come non ho mai visto fare a nessuno, e continuo
a non sapere niente di te.-
-Non c’è molto da sapere- continuò Diane. –Mi chiamo Diane Leslie,
vengo da Sheffield e studio Scienze della Vita. E anche io non so
niente di te.-
-Qualcosa sai- replicò con inaspettata prontezza.
-E so anche che è molto più complicato di quanto sembri.-
Alla risposta pronta di Diane, gli occhi di Hilary, che si erano
spostati verso il basso, tornarono a risollevarsi. Diane non aggiunse
altro, ma quella singola frase di comprensione bastò perché la ragazza
alzasse il mento dal petto e non si rinchiudesse in se stessa.
-Hai detto che vieni da Sheffield. Da quanto sei a Derbydale?-
-Da quando ho quattordici anni.-
-Vi siete trasferiti qui?-
-No, la mia famiglia è ancora ad Sheffield.-
-Quindi vivi qui da sola da quando hai quattordici anni?- chiese
sorpresa.
-Dovevo avere la migliore istruzione possibile per superare gli esami
ed entrare nella Derbydale University.-
Hilary rimase in silenzio. Dalla sua espressione intimorita era chiaro
che sapesse benissimo cosa dire, ma le parole non trovavano il coraggio
di lasciare le sue pallide labbra. Il motivo, Diane lo capì dal breve e
invisibile sguardo che riservò al cugino seduto di fianco.
-Hansen, non hai un sacco da prendere a pugni o qualcosa del genere?-
-Limonata?- Hilary si alzò in piedi all’improvviso e con la fragilità
di un giunco sferzato dal vento si mise a riempire i bicchieri che
erano stati preparati sul tavolo. Mark ignorò l’atto di gentilezza
della cugina, aprire un foro sulla fronte di Diane con lo sguardo era
più urgente. Quest’ultima capì di aver fatto un passo falso e si ritirò
nelle retrovie. Che il rapporto tra Mark e Hilary fosse strano era
chiaro, ma non aveva capito che il limite da non valicare fosse così
vicino. Hilary temeva Mark come niente al mondo, e non era difficile
capire perché.
-Riprenderai l’università a settembre?- domandò. Avrebbe desiderato
saperne di più, ma non poteva. Hilary era pallida come un fantasma.
-Non credo- rispose. -Sto pensando di studiare da casa.-
-Dovresti invece!- esclamò Diane. –La festa di inizio anno sarà la più
bella dell’ultimo decennio. Ti devi iscrivere solo per quella!-
-Sei nel comitato che l’organizza?- le chiese, mostrandosi interessata.
L’ombra scura era sparita un’altra volta.
-In teoria- rispose Diane ridendo. –Dovrei trovare il posto adatto per
una serata di gala, ma non so da che parte iniziare. Dove lo trovo un
posto tanto elegante a Darbydale? Esisteva nell’ottocento, forse.-
Non appena pronunciò la domanda ad alta voce la risposta le comparve di
fronte agli occhi. Susan era stata chiara, quasi lapidaria, nella mail
che aveva mandato a tutti gli organizzatori e in cui assegnava a
ciascuno un compito. Il suo, malauguratamente, era quello di trovare la
location adatta.
-No.-
Secco e brusco, il no di Mark interruppe il flusso dei suoi pensieri,
che già gioivano per aver risolto un problema senza faticare troppo.
-Perché no?- chiese Hilary, mostrando per la prima volta un barlume di
entusiasmo. –Coral House sarebbe perfetta!-
-Perché abbiamo già attirato abbastanza l’attenzione.-
Diane fremette sulla sedia. Farla sentire in colpa non l’avrebbe di
certo aiutata a guarire e purtroppo sospettava che non solo Mark si
mostrasse insensibile verso Hilary, ma la sua intera famiglia.
Finalmente sapeva come mantenere la sua promessa.
-Hilary- la chiamò. –Per te sarebbe un problema se passassi alla sera a
trovarti? Di giorno sono impegnata con il lavoro di tesi.-
-Per me non fa alcuna differenza- rispose con voce debole.
-Cosa ne dici di martedì e giovedì alle nove?- le chiese.
Annuì. Trovò la forza di alzarsi solo perché sapeva che l’avrebbe
rivista da lì a pochi giorni, e sarebbero state sole. La salutò osando
un abbraccio, poi seguì Mark che l’accompagnò al cancello.
-Dov’è la fermata del tram più vicina?- gli chiese una volta fuori.
Mark, però, non le rispose, ma la guardò con aria di rimprovero.
-La sera non va bene- replicò. –Mio zio sarà sicuramente in casa.-
-Anche nella tua?- domandò, facendolo sospirare esasperato.
-Il giovedì non ci sono io, non va comunque bene.-
-A me sembra perfetto.-
A quella risposta, la fronte di Mark si rischiarò, quasi imitasse la
sua mente, che finalmente aveva capito il piano di Diane. Così come lui
conosceva le sere in cui andava in palestra, anche lei sapeva gli orari
dei suoi allenamenti.
-Leslie, stai giocando con il fuoco- le disse minaccioso. Il suo
sguardo glaciale era ritornato aggressivo. Aveva preso in contropiede
il geniale Hansen, ma sapeva di non dover gioire troppo per quella
piccola vittoria. Non essere riuscito a prevedere la sua mossa era per
Mark una sconfitta difficile da digerire.
-Vuoi o non vuoi che ti scali le ore?- replicò senza mezzi termini.
L’unico modo per non soccombere sotto la valanga di ghiaccio e neve
della sua freddezza era cercare di non rimanerne investita.
-Ti avverto- le disse, facendosi avanti e abbassando di un tono la
voce. –Fai del male a Hilary e non sarò io quello che ti tenderà la
mano per tirarti fuori dalla fossa. Mio zio, a differenza di me, salta
le minacce e passa direttamente ai fatti.-
-Correrò il rischio- rispose, sostenendo il suo sguardo senza esitare.
Mark era forte, sicuro di sé e determinato, ma lei dalla sua parte
aveva motivazioni che vincevano di gran lunga sul semplice desiderio di
apparire arrogante.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto.
In realtà sto pensando di rivedere completamente la storia perchè credo
che ci siano dei passaggi poco chiari e degli aspetti che mi piacerebbe
sottolineare di più.
Ogni consiglio è ben accetto!
Nereides
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