L'ombra della solitudine

di onewayoranotheroned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Torna ***
Capitolo 2: *** Giulio ***
Capitolo 3: *** Stefano ***
Capitolo 4: *** Puoi restare ***
Capitolo 5: *** Corridoi bianchi ***
Capitolo 6: *** Non verrà nessuno ***
Capitolo 7: *** Lo so e basta ***
Capitolo 8: *** Adesso siamo soli ***
Capitolo 9: *** Nuovi vicini ***
Capitolo 10: *** Ciao Lea ***
Capitolo 11: *** Edoardo ***



Capitolo 1
*** Torna ***


 
Torna


-Pronto?- biascico rigirandomi nel letto.
-Ciao-
-Sono le cinque di mattina-
-È importante-
-Da dove chiami?-
-Cabina telefonica-
-E i soldi?-
-Li ho rubati-
-Cosa vuoi?-
-Volevo dirti che torno-
-Vaffanculo Giulio-
-Tra mezz'ora al parco-
-D'accordo- riattacco.

Bacchetto le dita sul lavandino di questo bagno squallido, non sono a casa mia, non ci metto piede da quella sera, quando se n'è scappato dopo avermi riempita di botte.
Apro l'armadietto a specchio e prendo quanto è più possibile. Mi medico il taglio sul viso e conto i lividi sul corpo, li nascondo con un paio di jeans lunghi e infilo una felpa.
Con un lembo della manica spazzo via le siringhe e i lacci dal ripiano, lo ripulisco da ogni merda e faccio un sacco da buttare.

«Non ci provare» sussulto nel sentire Robbie steso ancora a terra.
Ha gli occhi chiusi ma sente ogni mio passo.

«Non ti preoccupare, le pasticche rimangono lì dove sono Rob, ora però devo andare»

Prima di lasciare lo squallore di questa abitazione do una sistemata al ragazzo. Gli sposto il braccio dalla tazza del cesso e lo trascino sul materasso liso.

«Ci sentiamo amico» mi chiudo la porta sfasciata alle spalle ed esco.

Mi avvio sotto la pioggia, indecisa sul da farsi, penso a Giulio, che muoio dalla voglia di rivedere e nello stesso tempo vorrei che non fosse mai esistito.
Metto piede nel parco. Sorpasso la sua figura da cane bastonato e mi rifugio nel tubo di cemento.
La pioggia riecheggia rumorosa sopra la mia testa, tiro fuori la coperta e mi copro fin sopra il mento, stropiccio gli occhi ancora assonnata e lo osservo.
Lui è la mia ombra, 18 anni e gli occhi neri della cattiveria.
Deve essere molto che aspetta, lo capisco dal colore della felpa ormai scura a causa dell'acqua. Il ciuffo bagnato non gli si scolla dalla fronte e a testa bassa fa l'ultimo sboffo, poi getta il mozzicone a terra.
Rimane imbambolato sotto la pioggia qualche minuto, poi esausto si avvicina.

«Sei scappata di casa vero? Te ne vai sempre quando...» gli esce piano dalle labbra, non ci vediamo da tre giorni e deve riabituarsi alla mia presenza, a parlarmi.

«Quando mi spacchi la faccia?»

«Più o meno. Dove sei andata?»

«Al Rifugio»

«Ti hanno messo le mani addosso?»

«No» mento. 
In realtà ci hanno provato gli amici tossici di Robbie, ma erano troppo fatti per concludere qualsiasi tipo di approccio.

«Quando torniamo a casa Silvia ci ammazza, sarà preoccupata»

«Ammazzerà me vorrai dire. E ammazzerebbe anche te, se sapesse cosa fai a sua figlia» gli rimprovero ancora. 

«Se scappassi d'ogni tanto, invece di placare la mia ira, magari non le prenderesti» acciglia.

«Wow, placare la mia ira» sorrido divertita «se non ti fermassi io quando vai fuori di testa, saresti capace di uccidere chiunque. Ma che t'importa, tanto te ne corri sempre via»

«Me ne vado per non ammazzarti Malia, lo vuoi capire o no?»

«Va al diavolo»

Si scosta dal tubo innervosito. Ma i miei occhi continuo a fissare la sua sagoma che gioca con le pozzanghere e mi dico che siamo ancora una volta un punto a capo.
Mi sale una nota di odio. Forse non voglio che torni, sarebbe tutto uguale a prima.

Penso alla prima volta che Silvia mi portò nello studio di Anne, la psicologa, disse che ero troppo grande per un amico immaginario, ma a causa della separazione da mio padre, potevo vedere in lui la figura paterna che sarebbe mancata nella mia vita.
Non hai paura di lui? È la domanda che mi pone sempre più sovente. E forse ha ragione, dovrei averne.
Giulio è arrivato nel momento del bisogno, quando nessuno mi voleva, era una manna dal cielo, mi sentivo così fortunata. Ma avrei capito ben presto che la sua presenza forse era una punizione, Dio mi odia così tanto.
Con il tempo mi sarei impegnata la mente con altro e lo avrei dimenticato, dicevano.
Mamma era solita a comprarmi tutto quello che volevo in quel periodo, anche di sua iniziativa: bambole, libri, pupazzi e quant'altro.
Voleva che mi prendessi da oggetti materiali senza badare a lui, ma tutto questo è inattuabile. Quando gli tiro i pizzicotti sente male e mi tira i pugni di riflesso. Mangia, dorme e si ammala proprio come accade a me. Abbiamo avuto la varicella insieme, la febbre e dei normalissimi raffreddori, non è irreale tutto questo, è fisicamente al mio fianco, giorno per giorno.




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Purtroppo non mi chiamo Joanne Rowling e non sono una scrittrice professionista. Spero che piaccia ugualmente nella mia semplicità :)
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Giulio ***


 
Giulio



«Tra poco devo vedere Anne» sbuffo sperando che mi ascolti.
Scosto la manica dal polso e leggo l'ora. È tardi.

Scrolla la testa dalle infinite gocce di pioggia e infila il cappuccio avvicinandosi «fatti in là, lasciami sedere».

Lascio strisciare i miei vecchi jeans sul cemento per spostarmi, prende la coperta e si appollaia vicino a me. Mi afferra bruscamente le spalle per adagiarmi al suo petto, poi posa la testa sopra la mia e rimaniamo in silenzio.
Gioco con le pellicine delle labbra e sfioro la spaccatura che mi ha procurato.
Sussulto dal dolore mentre mi torna in bocca il sapore ferreo del sangue. Appena nota le mie dita sporche si irrigidisce, si passa le mani nei capelli come per scacciare il pensiero di quel che è avvenuto. Poi le posa sulle mie e le pulisce. Lì noto le sue nocche spaccate, i tagli, i cerotti e la benda al polso.
Ammicco un sorriso triste e rimaniamo qualche minuto ad ascoltare la pioggia.

«Pensavo...se devo proprio andarci, ci vado da sola, non voglio che interferisci questa volta» dico calma «l'ultima volta ti stavi per trasformare»

«Fai quel che ti pare» sbotta.

Sono poche le volte in cui mi trovo sola, poiché il fatto che lui non possa avere il controllo sulla mia persona lo fa innervosire. La mia ombra, oltre ad essere tale, diventa una sorta di demone, o almeno gli ho affibbiato questo termine senza trovarne uno più adatto.
Diventa tale quando dubitano della sua esistenza, o quando cerco di ignorarlo allontanandolo. Tutto ciò lo porta ad entrare nell'oscurità lasciando spazio a cicatrici e lividi.
È una situazione in cui il corpo è padrone della mente.
Come ha detto lui, dovrei scappare, ma se ne avessi solo il coraggio mi abbandonerebbe per paura di farmi del male. Per questo ho promesso a me stessa di soffrire per le botte piuttosto che per la sua assenza.

«Allora è meglio che vada» lo avviso.

Senza indugio m'incammino verso l'uscita, lasciandogli la coperta ormai bagnata.
Supero le altalene arrugginite, tendo la catena facendola ondeggiare, emettere un suono stridulo e fastidioso, ormai non ci gioca più nessuno. Passo sotto il ponticello di legno dello scivolo, leggo qualche scritta nuova già slavata e tiro dritto verso l'uscita.

Sento Giulio correre nella mia direzione ed inorridisco per tutto il fango sotto le suole che si porta dietro.

«Aspetta» e prima ancora di rendermene conto, d'un tratto mi blocca, afferrandomi il polso.

Mi volta, portandomi verso di lui. Scruta qualche secondo il mio viso. Si asciuga gli occhi, tenendoli socchiusi per colpa della pioggia. Poggia delicatamente la mano sulla mia guancia e con il pollice sfiora il labbro.

«Senti... scusa, mi dispiace» dice piano «ascolta, ho deciso che andrò via ancora, per qualche giorno, forse è giusto così. Non posso ancora farti questo» indica la parte più evidente dei segni che mi ha lasciato.

«In questa situazione non ci sei solo tu. È qualcosa che coinvolge anche me, non puoi sempre scappare»

«Quanto mi fai incazzare Malia, sei proprio una bambina. È che tu, sola non ci vuoi proprio stare»

Ci guardiamo qualche secondo. La pioggia inizia ad affievolirsi assieme alla nostra voglia di litigare.
«Lo faccio solo per te» aggiunge.

«Se lo ritieni giusto, vai, non dovevi nemmeno tornare» mi volto e vado, senza aggiungere altro.

Penso al rapporto che avevamo un tempo. È cambiato in modo drastico negli anni. Quasi lo odiavo da bambina, certe volte fingevo di non vederlo, era sempre così appiccicoso. Si odiava per questo e io gli davo un motivo in più per farlo. Ero cattiva e lui solo.
Adesso l'approccio è esattamente l'opposto, io appaio insicura senza di lui, e Giulio tutto il contrario.
È una persona chiusa, devo tirargli fuori i pensieri con le pinze, ha paura di disturbare, non ne parla mai, sa che non posso entrare nella sua solitudine.
L'unica verità si cela nei suoi occhi verdi immensi, così belli e così tristi quando non trovano pace.
Prima di entrare nelle vesti di demone si colorano di nero, l'unico segnale che mi fa capire cosa accadrà, e in loro non traspare nessuna emozione, se non la paura. 

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Capitolo 3
*** Stefano ***


 
Stefano



Ad Anne racconto veramente il minimo, mi reputa matta e mi tratta da tale.
Ho una certa ansia quando varco la via del suo studio. Ma purtroppo manca poco e prima di suonarle il campanello mi volto per respirare l'aria della libertà.
Suono. Magari non c'è, spero che si sia ammalata.

«Prego» mi accoglie con un sorriso ed io inizio a piangere dentro.
Apro il piccolo cancello sormontato da centinaia di rose bianche. Supero il giardino, poggiando un piede su ogni mattonella, stando attenta a non toccare l'erba. Percorro il salotto, fino ad arrivare nel suo studio.
Ripenso alle parole di Giulio, che mi sono rimaste in gola, non vogliono scendere.

«Come stai Malia?» accenna con la mano di accomodarmi sulla solita poltrona verde.
È una donna noiosa, a cui non importa realmente dei miei problemi, ma purtroppo è l'unica che possiamo permetterci e mamma ci tiene veramente tanto.

«Bene» rispondo senza indugio.
Fisso il quadro a sinistra alle sue spalle, è sempre appeso storto.

«Come sta Giulio?»

«Come potrebbe stare qualcuno che non esiste?» scherzo stando al gioco.
Butto ancora un occhio alla mia sinistra, lo guardo meglio. Raffigura una macchia nera, simile a due persone che cercano sicurezza l'uno nell'altro, tenendosi stretti.
Poi guardo la targhetta: "Farfalla". Rimango comunque dell'opinione precedente.
Mi annoiano a morte questi dipinti, li ho analizzati tutti nei momenti di silenzio come questo. Vorrei regalargliene uno nuovo delle volte. Per solidarietà verso gli altri "carcerati". Avranno qualcosa di nuovo da osservare mentre OggettiStorti parla da sola. La chiamo così con mamma, pure i suoi occhiali rosa caramella penzolano tutti da un lato.

Purtroppo il tempo passa lento e non proferiamo parola da soli due minuti.
Mi guardo intorno un'ultima volta, aspettando che mi domandi ancora di lui.

«È stato Giulio a farti male?» nota il labbro e i segni visibili.
Odio quando mi pone domande del genere, sembrano prese in giro.

«No... sono solo caduta» evito il suo sguardo, non riesco mai a mentire come si deve.

«Perché è così difficile con te?» sospira «eppure ci conosciamo da anni Malia, dovresti fidarti»
Quasi rassegnata al mio silenzio, rivolge il suo sguardo là, dov'è posato il mio.

«Detesto quella macchia, non ci ho mai visto una farfalla» ammette.

«Forse è l'unico che merita di restare appeso» bisbiglio.

«E' buffo come ogni paziente riesca a trovare qualcosa di unico e diverso»

«Io vedo due persone»

«Un ragazzo l'altro giorno ci vedeva un cadavere, forse la mente influenza quello che vediamo non trovi?»
Rimango in silenzio, non capendo a cosa voglia arrivare.

Sospira per l'ennesima volta «eh Malia, Malia. Insomma, perché mi hai chiesto di vederci se non vuoi parlare di problemi seri?»

«Non ho richiesto io questa seduta» incrocio le braccia al petto «lo sa benissimo che vengo per il volere di mia madre»

«Ma tesoro, mi hai chiamata piangendo giusto tre giorni fa»

«Forse si confonde con qualcun altro»

«Non penso proprio che piangessero perché Giulio non tornava»

E adesso lo vorrei qui, per ammazzarlo, per fulminarlo con lo sguardo e dirgli di correre, che se lo prendo non torna integro. Non ricordo minimamente l'azione di chiamarla in lacrime.

Rimango basita qualche secondo, poi sento il cellulare dello studio suonare, così Anne corre a rispondere e mi prendo una pausa.
Porto la testa ad un braccio della poltrona e lascio cadere le gambe sull'altro.
Lo uccido prima o poi, lo faccio fuori.
Sento camminare avanti e indietro con passo pesante e ansioso. Chiude presto la chiamata e ritorno composta prima che entri.

«Tesoro devo scappare in ospedale, mia madre ha bisogno. Visto che manca ancora una mezz'ora buona vieni con me, mio fratello ha l'ora libera, potresti conoscerlo e dirmi come ti trovi con lui, okay?» tiene stretto il telefono tra le mani, annuisce nervosamente spalancando gli occhi, come per chiedere per favore «dobbiamo sistemare questa cosa»

«Ma non saprei se... insomma, non ho mai parlato con lui»
Mi tira in piedi dalla poltrona e mi spinge fuori dalla stanza. Infila il cappotto, la sciarpa e prende la borsa di camoscio. Apre la porta del suo studio e tutta di corsa cerca le chiavi della macchina in giro, mentre urla al fratello da una stanza all'altra.

«Lei è Malia ti lascio il suo fascicolo, occupatene tu, te ne prego» trova le chiavi sventolandole come se avesse vinto a bandiera «corro dalla mamma»
La porta sbatte con un tonfo e sobbalzo.
Sono in piedi sulla sua porta, imbambolata, e lo guardo interrogativa sul da farsi.

«Dai coraggio, mettiti comoda, non mordo» mi rassicura la sua voce calda, così sorrido e mi siedo.
Il suo studio è più luminoso e accogliente rispetto l'altro. I quadri sono appesi dritti e i fiori non si possono contare, scommetto che tutte le sue pazienti li portano cotte marcie.
«E così tu sei Malia giusto?» si schiarisce la voce mentre sfoglia la mia cartella. Poi si lascia scappare un: «Oh.»

«Oh?»

«Giulio»
Sospiro e domando alla me stessa di anni fa perché ha ammesso di vederlo.

«Dicono che parlare ad un estraneo sia più facile. Potresti approfittarne per essere semplicemente te stessa. Questa cartella non la voglio proprio leggere, penso che ognuno abbia le proprie idee di persona»
Bacchetta sulla cartella con la penna, poi la porta alle labbra. La sua apparenza curata da quarantenne mi rassicura più di OggettiStorti. Sarà stato sicuramente adottato, non è possibile che sia così affascinante ed ordinario, non sarebbe geneticamente possibile.
Si passa le dita nei capelli brizzolati per sistemarli da un lato, poi inclina la testa, guardandomi dritto negli occhi.

«Vorrei iniziare io per primo, concedi?»
Annuisco fissando il parquet chiaro ai miei piedi.

«Anche io avevo un amico da piccolo» comincia a raccontare «si chiamava Paul, giocavamo sempre a baseball insieme, ma non era molto ingamba. Dovevo rincorrere la palla per lui, battere e andare alla base. Ammetto che era abbastanza noioso» inizia a ridere nervosamente «sai, delle volte litigavo per questo con la mia famiglia. Mi era appena morto l'unico vero amico che avevo, si chiamava proprio come lui, era il mio cane. Dicevano che dovevo superarla, che ormai era andato per sempre e avere un'amico immaginario a quell'età era troppo»

«Lo vedevi realmente?» chiedo curiosa, appezzando la sua sincerità.

«Non te lo saprei dire, forse no. Ma nel ricordarlo lo vedo realmente lì, presente, accanto a me»

«Però Giulio lo vedo davvero, ma nessuno vuole credermi. Fanno finta, ma in realtà mi tirano della matta, lo so»



«A questo mondo solo i matti possono vedere cose invisibili agli occhi dei comuni mortali. Ma non credere, anche io sono matto, e trovo che tu sia una ragazza a posto. Anne scrive un mucchio di stronzate» sfoglia velocemente tutto e butta nel cestino la mia cartella «ascolta me. Ricominciamo tutto da capo. Non me ne frega chi eri un mese o due anni fa, voglio prenderti io adesso. Voglio sentire tutto quello che hai da dire e immagino che siano tante cose»
Inarca un sincero sorriso e continua «ti lascio libera adesso, a patto che tu torna la settimana prossima. Ci penso io ad Anne»

«Dice davvero?» fremo sulla sedia.

«Sì, e ti prego dammi del tu» si alza dalla sedia e mi porge la mano «sono Stefano» sorride e mi accompagna fuori.
Sosta sulla porta prima di lasciarmi andare «Malia, se hai bisogno, chiama me, capito?» fruga nelle tasche e mi lascia il suo biglietto «mi dispiace quasi averti fatto percorrere la strada sotto la pioggia per venire qua, ma sento che devo andare anch'io in ospedale. Settimana prossima non mi scappi. Ciao allora»







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Se vi va lasciate una recensione e ditemi cosa ne pensate, mi farebbe davvero tanto felice!
Ci vediamo al prossimo capitolo :)

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Capitolo 4
*** Puoi restare ***


 
Puoi restare



Mi lascio alle spalle quella villa e corro sotto la pioggia fredda di Settembre che mi fa arricciare le dita dei piedi. Le calze umide iniziano ad appiccicarsi alla pelle dandomi fastidio, mi ammalerò forse, ma non ci penso e continuo a correre verso il parco. Pensavo che Giulio non resistesse dalla tentazione di origliare durante la seduta, e invece è lì dove l'ho lasciato mezz'ora fa.
Prima di varcare la soglia prendo un respiro profondo, porto il capo verso il cielo, per sentire la pioggia bagnarmi il viso. Ho una sorta di armonia con lei, siamo tristi nello stesso momento e piangiamo con la stessa frequenza e lo stesso dolore.
Mi passa sotto le palpebre chiuse un'immagine: la prima volta che incontrai Giulio. Fu una tempesta di sabbia, troppe emozioni nuove in una sola volta. Successe poco prima che papà lasciasse casa; quel tardo pomeriggio sentii mamma lontana, nascondeva bene il suo dolore, ma non abbastanza da buttare tutti i fazzoletti con i residui di trucco e muco, usati dopo i suoi lunghi pianti. Le chiesi di fare un giro al parco, giusto per riprendersi dopo la litigata avuta con lui. Avevo 6 anni ma ero abbastanza grande da capire che a quei livelli nessuno poteva farcela.

Quella sera d'autunno di ben 11 anni fa il parco delle "passeggiate con mamma" era freddo e desolato, camminavo attaccata al suo braccio, perché le luci dei lampioni quella sera non si accesero. A nostra insaputa, nel frattempo, papà stava preparando le valige per andarsene dalla sua nuova metà. Mamma forse lo temeva e non me lo perdonerò mai, se quella sera fossi rimasta, lui forse, non se ne sarebbe mai andato.
In quelle settimane la mia sicurezza si era nascosta per la paura, la mia solita prepotenza si era trasformata in tristezza e piagnistei continui. Troveremo la pace, ripetevo a me stessa, e forse fu davvero così, perché in quel parco giochi trovai proprio Giulio.

Non so chi si spaventò di più tra i due quella sera. Lui non poteva quasi crederci, prima d'ora non lo aveva mai visto nessuno.

«S-stai bene?» chiesi in preda al panico.
Si scompose e indietreggiò fin laddove il buio poteva nasconderlo.

«Tu mi vedi?»

«No che non ti vedo! Esci, possiamo accompagnarti a casa io e la mamma... se ti sei perso»
Gattonò fino all'uscita e mise il muso fuori per guardarmi. Si passò una manica sotto il naso, come se gli prudesse e iniziò a toccarmi la gamba con l'indice. Non riuscivo proprio a capirlo sul momento. Pensavo fosse matto, che fosse orfano e che non lo volesse nessuno perché aveva i pidocchi.
Si alzò per spolverarsi pantaloni e felpa e tese la mano verso la mia.

«Mi chiamo Giulio, piacere»

«Malia...» accennai, indietreggiando fino alla mamma.
L'afferrai per una manica e mi rivolse un sorriso.

«Hai trovato un gattino?»

«Non proprio»

«E con chi parlavi?»

«Con quel bambino»

Indicai quell'ammasso di carne ossuta davanti a noi.
Aggrottò le sopracciglia preoccupata «di cosa parli piccola?»

«Mamma, lui» insistetti agitando il braccio «Giulio. Il bambino»
Si accucciò alla mia altezza e mi prese per le spalle, guardandomi negli occhi «adesso andiamo a casa, okay? E' tardi.»
Mi prese in braccio, coprendomi la testa con il cappuccio della mantellina. Nascosi la testa tra i suoi capelli lunghi al profumo di miele, e cercai di dimenticarlo. Ma invano, una volta a casa, sotto le coperte per dormire sonni tranquilli, sentii qualcosa muoversi sulla moquette sotto il letto. Mi affacciai per vedere cosa fosse e la sua testa spuntò all'improvviso. «Ciao Malia!»
Ricordo che strillai a voce spiegata, come se fosse un incubo. Silvia si precipitò in camera mia, urlando anche lei.

«Che succede!?»

«Sotto al letto c'è un bambino!» saltellavo coprendomi gli occhi dalla paura.

«Hai la febbre o stai delirando?» si fiondò su di me, poggiandomi una mano sulla fronte «oh no, hai preso freddo vero? Devo prepararti un the caldo così ti senti meglio? Mi prendo un giorno di malattia così non rimani a casa da sola va bene?!»

«Mamma sto bene!» odiavo quando faceva così.
La spinsi fuori dalla porta chiudendola alle mie spalle. Ci scivolai contro fino a sedermi a terra. Ciao Malia, pensai.
Non era altro che il bambino del parco.

Mi coricai sul pavimento e guardai sotto al letto.

«Esci da lì sotto!»

«Cavolo ma perché devi sempre urlare?»

«E tu perché sei a casa mia? Non hai una famiglia? Ti staranno cercando»
Non aprì bocca, si limitò a guardarsi intorno.

«Non ce l'ho mai avuta una famiglia e la tua casa mi piace, posso restare?»

«Perché la mamma non ti vede?»

«Non lo so, nessuno mi vede... penso che tu sia l'unica, per adesso»
Si grattava spesso la testa e non facevo altro che pensare alle pulci e ai pidocchi.
All'epoca credevo a BabboNatale, un bambino invisibile non mi sembrava tanto strano. Anzi, pensai di essere fortunata.
Va bene Malia, facciamolo restare, può sempre picchiare quell'antipatico di Jamie, mi dissi.
Così presi il pigiama più maschile che avessi nell'armadio e glielo porsi.

«Okay Giulio, puoi restare.»









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Se vi va lasciate una recensione e ditemi cosa ne pensate, ne sarei davvero felice. Ci vediamo al prossimo capitolo :)

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Capitolo 5
*** Corridoi bianchi ***


 
Corridoi bianchi

Dopo aver lavato scarpe e calze mi fermo per prendere il respiro, è nel tubo di cemento con il cappuccio che gli copre il volto. Passo per passo lo raggiungo felice e inizio a saltellare davanti a lui.
Senza scomporsi rimane con le ginocchia al petto e la testa nascosta, poi cupo, dopo qualche secondo, si degna della mia presenza.
«Pensavo che tornassi più tardi...» dice.

«Non mi volevi?»

«S-no.»

«Pensavo che te ne andassi»

«Non mi vuoi?» ribalta la domanda.

«No» rispondo di getto, non voglio dargli soddisfazioni «tira su la testa per favore»

«Ci vediamo a casa, ora vai» mi scosta bruscamente le gambe facendomi indietreggiare.
Mi riavvicino piano, come si fa con i gatti per strada, mi avvicino senza far rumore per paura che scappi. Così alzo il braccio e con la mano provo a tirargli su il mento, ma d'istinto mi afferra il polso e sussulto dallo spavento.

«Non fare cazzate Malia, ti ho detto di andare»

Ed io lo so che gli prende, ma spero solo di sbagliarmi.
«Guardami Giulio»

Esausto alza il capo, i miei occhi vanno dritti ai suoi, sono neri.
Invece di starmi lontano resta, mi guarda, mi fissa con quegli occhi iniettati di veleno. E quasi mi viene da piangere a pensare che possa toccarmi ancora in quel modo.
Con un grosso nodo alla gola mi chino su di lui, prima che la sua mente prenda il controllo.

La pioggia mi corre addosso e se non ci muoviamo mi ammalerò.
Così prendo il suo volto tra le mani e lo guardo, sperando che si ricolorino. Ultimamente funziona così.
Penso a cos'avrà combinato nel frattempo che ero via, se si è fatto male o se l'ha fatto a qualcun altro. Ma comunque sono felice che sia rimasto ad aspettarmi, senza scappare come al solito.

«Cazzo Malia, se non mi vuoi vattene allora»
Taccio, mentre mi fissa con quel sorriso cattivo e quegli occhi maledetti. Mi ricorda momenti rivoltanti, manate, calci e pianti.
Scosta le mie mani e si alza di scatto, buttandomi a terra.

Gli occhi tornano color smeraldo e le sue spalle si rilassano appena in tempo.

La prossima volta non mi andrà così bene.

«Stupida» sputa «quante volte dovrò dirti di lasciarmi stare?»
Mi aiuta a rimettermi in piedi e rimanendo impassibile, ammette di non essere rimasto buono al parco. Ha preso il primo che gli è capitato davanti gli occhi, ancora una volta.

«Ti ho fatto male?» chiede piano, come se potesse ferirmi con quelle parole.

«No, mi sono solo spaventata»

D'un tratto mi incanto a fissare il terreno. Noto le mie mani tremare e le caccio in tasca prima che se ne accorga.
La mia mente ripercorre a quando mi chiudevo in un angolo a 9 anni, a quando urlavo il nome di mia madre per farle vedere che esisteva davvero.
Ricordo ogni sua espressione una volta normale; quando mi vedeva a terra, legata o nascosta invano poichè una scia di sangue mi tradiva sempre ed era facile trovarmi.

«Dai vieni» dice riportandomi alla realtà.
Così mi trascina per un braccio e ci dirigiamo in un vicolo vicino per farmi vedere la nuova vittima. Non appena vedo il ragazzo a terra cerco di capire se è ancora vivo. Ho sempre il terrore che ne ammazzi uno prima o poi.

«Devo ancora chiamare l'ambulanza» sospiro.

«Ma non gli ho fatto niente alla fine, è caduto da solo dalla moto...»

Lo fulmino con lo sguardo e alzando gli occhi al cielo usa la parola magica: «va bene cavolo, scusa!»

«Sì sì, adesso levati che chiamo»

«C'hai sempre da lamentarti te» sbuffa calciando i sassi a terra.

Finita la chiamata mi accovaccio e fisso il biondo a terra. Gli scosto i capelli scomposti, sporchi anch'essi di sangue e sospiro per l'ennesima volta.

«È carino»

«E allora portatelo a casa»

Inizio a ridere «e cosa potrei mai dire a mia mamma?»

«Anche Silvia lo preferirebbe a me»

«Anche?»

«Sì, anche»

«Ma non ho detto di preferirlo a te»

*

Le sedie dell'ospedale sono fredde e scomode. Conto le gocce di pioggia che cadono dai miei capelli e bagnano il pavimento biancastro, inizio a starnutire per l'ennesima volta.
Mi hanno offerto una coperta e un the caldo.
«Spero che ci rimanga secco» blatera Giulio affianco a me.
Quando siamo in posti affollati è difficile rispondergli e forse adesso è un bene, lo riempirei di parolacce.

Purtroppo è ora di pranzo e tra poco ci butteranno fuori. Osservo le infermiere che camminano veloci da una parte all'altra. Stiamo aspettando da un'ora buona, è passato dal pronto soccorso ad una stanza d'ospedale e aspetto solo loro notizie. È la prima volta che attendo, di solito scappo subito dopo la telefonata.

«Ti interessa tanto sapere come sta?» sbuffa.
Annuisco. Nel frattempo passa un'infermiera e la fermo scattando dalla sedia.

«Come sta il ragazzo?»

«Ha il setto nasale rotto... ma vai a casa tesoro, sei tutta bagnata. Abbiamo contattato la famiglia, qui è in buone mani» sorride e si trascina dietro le sue ciabatte di gomma blu, entrando nella stanza.

«Forza Giulio andiamo» lo spono.

«Aspetta ragazza» si affaccia dalla porta «qui c'è qualcuno che vuole ringraziarti»

«Oh, no lasci perdere» che vergogna.

«Almeno dimmi il tuo nome»

«sono Malia»
Mi volto e guardo Giulio, pronto a lamentarsi «torniamo a casa?»
Annuisco per l'ennesima volta e percorriamo i lunghi corridoi bianchi.
Usciamo dall'edificio e osservo il cielo coperto di nuvole.

«Tieni» mi porge la sua giacca e la infilo, poi mi cinge con un braccio la spalla e camminiamo per un quarto d'ora verso casa.

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Capitolo 6
*** Non verrà nessuno ***


 
Non verrà nessuno



Spingo le chiavi nella serratura ed entro annunciando il mio ritorno. Sono fuori casa da qualche giorno e Silvia nemmeno se n'è accorta.
Presa da se stessa, dal lavoro, dai soldi e dai suoi mille corteggiatori mai presi sul serio, a me non bada, devo pensare a me stessa da anni.

«Com'è andata con la matta?» chiede per cortesia, senza ascoltare una possibile risposta.

«Come sempre»

«Mh mh» annuisce distratta, e capisco che è inutile cercare le sue attenzioni.

Mamma guarda cos'è successo alla mia faccia, ai miei vestiti neri e bagnati, guarda cos'è successo ai miei occhi che si stanno spegnendo. Mamma guardami.

Vorrei poterle dire tante cose, ma non le ruberei mai il suo "tempo prezioso". Così salgo le scale due a due, corro in camera per poi chiudere rumorosamente la porta alle mie spalle.
Non mi vuole più. Non ci sta più dentro, sono di troppo.
Mi avvicino alla finestra e guardo il tempo che continua ad essere malinconico e, non potendo scappare dal mondo, decido di lavarmi i pensieri. 
Faccio qualche passo verso il mio disordinatissimo bagno e apro l'acqua calda della vasca.
Lascio vestiti ed intimo sul pavimento e mi siedo sul bordo, mi incanto davanti alla specchio e penso.
Potrei farla finita qui, adesso, che nessuno se ne accorgerebbe.
Scrollo la testa ed entro piano nell'acqua lasciandomi andare completamente.
È colpa del tempo, trovo la solita scusante. 
Tiro un lungo sospiro e mi immergo da testa a piedi. Trattengo quanto più possibile il respiro e mi corico sul fondo, guardando il soffitto colorarsi di azzurro grazie all'acqua.

In questo periodo sono sempre stanca, rimarrei solo a letto, ma Giulio è sempre pronto a buttarmi giù dal materasso e farmi uscire.
Ma questa monotonia ormai scoccia. Mi nascondo sempre nel solito posto con le stesse perone; al parco, al bar o vicino alla Serra, il quartiere dei drogati. Che poi non ho paura di quel posto, è uno dei più belli di questa città dimenticata.

Rimango sul fondo un po' più del dovuto, tant'è che mi fa male la testa. Afferro i bordi della vasca per evitare che il mio corpo salga in superficie.
Poi penso seriamente. Non verrà a salvarmi nessuno nemmeno questa volta.
Così decido di riemergere, prendendo una boccata d'aria più grande dei miei polmoni.
Che stupida, non lo voglio davvero.
Appoggio la testa che è diventata pesante e rimango così qualche minuto.

A spezzare il silenzio sono il suono di passi avvicinarsi al bagno. D'istinto mi mangio il labbro e penso a come coprire la cicatrice al sopracciglio.
«Ho fame cazzo» borbotta Giulio da dietro la porta «tua madre non se ne va»

Dal sollievo do una risposta ormai ovvia alle sue orecchie: «butta giù un altro vaso in sala, così corre lì e puoi andare in cucina»

«Sono finiti i vasi. Ricordi?» picchia con la testa sulla porta e piagnucola «posso entrare?»

«Sei fuori di testa per caso?»

«Ma da piccoli facevamo sempre il bagno insieme»

«Appunto, da piccoli»

«Dai fammi entrare, non guardo giuro! Ti devo parlare»

Mi immergo fin sopra il muso e mugugno una specie di sì. Così entra alla cieca, con la mano che copre gli occhi.
«Okay, mi appoggio qua a terra» annuncia.

«Giulio...»

«Dimmi Lea»
Mi chiama così delle volte, e mi fa sorridere, lo fa solo quando è tranquillo e fuori dai guai.

Ho bisogno di te, vorrei dirgli. Ma non lo faccio.
Poi mi passa in testa il biondo e mi sale l'angoscia
«Starà bene il ragazzo?»

«Sì» sbuffa, non volendo ricordare la vicenda.

«Non so, era messo male. Forse dovevo entrare»

«Malia basta» sbotta.
Porto le ginocchia al petto cingendole in un abbraccio. Non mi piace quando cambia atteggiamento.
«Di cosa volevi parlare?» chiedo cambiando argomento.

«Della scuola, inizia settimana prossima»
Un brivido mi percorre la schiena.
«E se ti trovi male anche in questa?» continua.

«Non mi troverò mai bene in nessun posto. Non ci voglio stare in mezzo a quelli. Io la voglio lasciare la scuola, non m'importa»

«Non fare la scema, magari ti trovi qualcuno. Qualcuno di speciale»

«Non è così semplice...»

«Piacerai a tutti vedrai, ne sono sicuro. Però ricordati di me»

«Io mi ricordo sempre di te» e forse è questo il problema.

«...dimmi la verità Lea, tu stai bene?»
E mi trovo a dover rispondere ad una domanda tanto semplice a cui vorrei dare tante risposte diverse. Eppure mi trovo sempre a sputar fuori un "sto bene, non ti preoccupare".
Avrei altre mille parole da aggiungere, ma non lo faccio mai. E la mia vita andrà sempre così, mi ruberanno tutte le parole. A nessuno importerà mai abbastanza da farmi aprir bocca.
Con lui so che è diverso, starebbe ad ascoltarmi per ore, ma la mia mortalità non la comprende a pieno, non capisce.
Così lascio che i miei pensieri mi divorino poco a poco, aspettando qualcuno che mi salvi. Qualcuno che non arriverà mai.

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Capitolo 7
*** Lo so e basta ***


 
Lo so e basta


Dopo aver pranzato ci mettiamo in cammino verso il centro città.
Il discorso di Giulio mi ha ricordato quanti pochi vestiti possiedo nell'armadio e non vorrei dare nell'occhio a scuola. Penso che gli abiti siano il primo aspetto da migliorare.

Il centro brulica di persone: giovani coppie, amiche, amici, adulti e anziani. Non riesco ad individuare un solo viso familiare e per la prima volta capisco quanto sono realmente sola.
Eppure esco anche io d'ogni tanto.
Cammino a testa bassa e conto i passi, chissà perché, l'ho sempre fatto e non riesco a togliermi quest'abitudine.
Tiro dietro le orecchie qualche ciocca e avvisto l'ennesimo negozio.
«Ti prego basta! È il sesto in cui entriamo, tanto le cose da femmina non ti piacciono»

«Fanculo Giulio» gli tiro un pugno per farlo tacere. Poi mi giro per vedere se qualcuno mi ha vista.

Passo accanto ai maglioni e inorridisco.
«Sei fortunato che i miei vestiti ti vadano, non posso spendere un capitale anche per i tuoi stracci» gli dico piano avvicinandomi.

«A me vanno, è a te che stanno larghi. Delle volte penso che tu li prenda grandi solo per farli stare giusti a me.»
Ed è vero, ho iniziato a vestirmi così per poterli dare anche a lui. A Giulio stanno bene, io sembro uno spaventapasseri, le maniche troppo lunghe, le maglie poco sopra il ginocchio. Ma poco importa. L'unica cosa che possiamo permetterci di comprare sono i jeans, che quelli da donna non se li può mettere.

«E dai Lea, prenditela qualche cosa da ragazza»

«Non c'ho il fisico»

«Ma devi farti vedere dagli altri, se no come fai a trovartelo il tipo»

«A me basti tu, non li voglio gli altri»

«Ma che centra, non ci può fare tra fratelli»

Faccio finta di cercare una taglia, mentre passa una signora sulla quarantina. Resto in silenzio fissando il pavimento, tanto non gli avrei risposto, capirebbe che vorrei mettergli le mani addosso dalla rabbia.
Prendo la prima maglia e la porto in camerino. Uso quello più lontano per abitudine e la provo.
Prima ancora dell'abito noto i capelli fuori posto, le labbra secche, le occhiaia e tutto il resto. Penso che dovrei dormire più spesso, ma a star con Giulio ho imparato che è già tanto chiudere occhio.

«Come ti sta?» chiede dietro la tenda.

«Male»
Rimango seduta sullo sgabello, non mi sono ancora guardata.

«Sei bella Malia»

«Come fai a saperlo, non sono ancora uscita»

«Lo so e basta»
Non apro bocca. Esco dal negozio e decido di tornare a casa a mani vuote.
Non importa quel che la gente possa 
pensare di me, con questi abiti sono io. Sono Malia.
Ripenso a quando eravamo bambini, a quando girava nudo piuttosto di indossare i mei vestiti. Era un essere libero di ogni indumento, portava le mutande con il fiocchetto, che puntualmente tagliava, o delle volte rimaneva con il pigiama, quello che gli regalai la prima sera.
Crescendo feci finta di amare il genere maschile. Le maglie non dovevano essere rosa, con cuori o paillettes. Avevo giusto qualche paio di jeans che adoravo, il restante erano tute anonime da potergli dare. La prima paghetta la spesi per lui, per un paio di scarpe che gli andassero, le mie converse nere ormai erano troppo piccole. Crescevamo insieme, ma ogni anno diventava sempre più altro così era difficile stargli dietro. Ricordo che veniva a scuola con me, stava qualche ora, poi si annoiava e andava in giro. Nell'ora di ginnastica entrava negli spogliatoi e rubava qualche indumento, quello che gli stava. Purtroppo era una delle poche soluzioni che avevamo trovato. Dopo il quinto furto però, il preside fece mettere gli armadietti a combinazione, era stufo di vedere bambini tornare a casa con i calzoncini in inverno, anche se a Giulio faceva sempre ridere.
Una volta finite le elementari iniziai le medie e all'età di 13 anni cominciai a comprare vestiti maschili, sia per me che per lui e quante litigate che facevo con mamma. Sei bella, diceva, non ti devi nascondere sotto queste taglie larghe. 
Ma io sto bene così ma'.





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Come sempre, se vi va, lasciate un vostro parere e ditemi cosa ne pensate. Ci tenevo anche a ringraziare chiunque sia arrivato anche a questo sesto capitolo, a chi mi ha scritto e recensito (vvb) Ci vediamo al prossimo :)

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Capitolo 8
*** Adesso siamo soli ***


 
Adesso siamo soli

Arrivati lancio le chiavi sul tavolo e mi sistemo sul divano. Chiamo Giulio per capire se è entrato in casa, ma a rispondere è mia madre.
«Come scusa?» strilla.

Scatto su due piedi cercando una scusa plausibile, inizio a guardare in giro, gesticolare, dire frasi senza un nesso logico; ma quando alzo gli occhi mi accorgo che è alle prese con gli auricolari.

«Mi hai chiamata Lea? Sono al telefono» scuoto la testa con il fiato sospeso.
Rinfila le due cuffie nelle orecchie e si avvia alla macchina per andare al lavoro.
«A domani» sorride e chiude la porta dell'ingresso.
Tiro un sospiro e poggio la mano sul petto, mi sono presa un bello spavento. Mi spalmo nuovamente sul divano e chiudo gli occhi coprendoli con l'avambraccio.
Ci è mancato poco.
Solo sentir pronunciare il suo nome la porterebbe fuori di sé.

«Ti stavi per fottere da sola» sbuca Giulio in salotto.

«Pensavo se ne fosse andata» sospiro.

«Adesso siamo soli»
Sento i suoi passi sempre più vicini al divano. Poi si fermano e il materasso pende da un lato, concentrato sul suo peso. Apro gli occhi e lo trovo in piedi.

«Ma cosa fai?»

«Ho intenzione di farti alzare»

«Dio no, siamo appena arrivati!»

«Se dormi in camera almeno vengo anche io» si abbassa e prova a buttarmi giù.

«Non ti ci voglio appiccicato»

«E chi si appiccica, ho sonno» mi tira le gambe per il lungo e ci si siede sopra.

«Vacci tu a letto»

Poggia le mani sui miei fianchi, avvicina le labbra al mio orecchio e sussurra irritanti "ti prego". Ma fingo di dormire nella speranza che se ne vada. Non voglio stargli addosso, sono ancora turbata dall'episodio del negozio. Sul momento l'ho odiato, poi mi sono fatta triste. Non ce lo vedo proprio come fratello, non riesco.

«Sei una rompi coglioni» si alza e mi afferra un piede, trascinandomi a terra «adesso vieni con me»
Mi prende in braccio e mi porta in camera salendo gradino per gradino con fatica, così rido e lo lascio soffrire, pensando che sia la punizione migliore. Poi ci adagiamo a letto, mi copre e si infila a sua volta sotto le coperte.

«Adesso dimmi grazie» dice.

«Va bene, grazie»

«Non mi volevi per davvero?»

«No, scherzavo» 
Si avvicina cercando il mio sguardo, ma io ho così sonno che non ho voglia di tenere gli occhi aperti «perché mi tratti bene tutto d'un tratto?» oso.

«Non ti ci voglio trattare di merda»

«Pensi che facendo così io ti perdoni?»

«Sì»

«Cosa te lo fa pensare?»

«Tu non mi lasceresti mai Lea» prende una ciocca dei miei capelli e inizia a giocarci «anche se lo neghi, io lo so»

«D'accordo, adesso dormi?»

«Era un sì?»

«Dormi»
Mi cinge per la vita e incastra la testa nello spazio che si forma tra la mia spalla e il mio collo. Il contatto per lui è un ente estranea, non ama particolarmente essere toccato e posso sentire il suo enorme sforzo in tutto questo. Gli sento il dispiacere addosso, tutto quanto.

«Non è necessario, davvero» provo a dirgli.

«Zitta Lea» sussurra «adesso dormi»

Appena chiudo gli occhi sento rumori familiari nella testa. Il suono della campanella scolastica, i passi rumorosi degli studenti che calpestano i corridoi e i volantini che cadono ogni dove. Penso a Lunedì e mi passa il sonno, lo stomaco si stringe e spero solo di non ricominciare a stare male.
Devo iniziare tutto da capo, per l'ennesima volta. 

Guardo Giulio dormire, si è spostato. Spero con tutta l'anima che rimanga così per sempre, nella sua fase perdono, cercando di sistemare tutti i casini.
Scosto i riccioli che gli ricadono sulla fronte, come farei senza di te? Nel male o nel bene io ho bisogno di lui.





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Coincidenza vuole che anche io Lunedì inizi scuola. Un Giulio buono che mi faccia compagnia però non sarebbe male!
Vi lascio con questo ottavo capitolo sperando di rivederci presto, byebye.

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Capitolo 9
*** Nuovi vicini ***


 
Nuovi vicini


Arrivate le 19 mi sveglio infastidita dal baccano di Giulio.
«Tutto bene?» domanda.

«Tutto bene» stropiccio gli occhi.

«Silvia ha lasciato la cena in frigo, sono andato a scaldarla, scendiamo per magiare, ti va?»

«D'accordo» infilo le ciabatte morbide e vado dritta allo specchio.

«Ti aspetto giù Lea»
Annuisco.

Che disastro. Ho tutto il trucco spalmato sotto gli occhi e i capelli scombinati.
Li raccolgo in una coda fatta male e copro lo specchio con una felpa di Giulio.
Così va meglio.

Decido di scendere e mangiamo in silenzio finendo quella piccola porzione di pasta che ci tocca dividere da sempre.
«Sicura di stare bene?»

«Penso di sì» lascio cadere rumorosamente la forchetta nel piatto e li raccolgo per lavarli.

«A cosa pensi?»
Apro l'acqua calda sperando che la mia voce non gli arrivi «vorrei che rimanessi così»

«Lea... io, lo sai...» guardo il suo riflesso dal vetro della finestra.
«Non importa» lo interrompo prima che continui.
Finisco di lavare e poso tutte le stoviglie al proprio posto. Lascio il canovaccio sul bordo del lavabo e ci poggio i pugni fissando fuori.
«Si stanno trasferendo» dico.

«Dove? Nella villa?»

«Sì, strano, in questo quartiere di poveracci è venuto davvero qualcuno con i soldi»
Trascina la sedia per alzarsi e mi raggiunge alla finestra.
Scosta una tendina ed esclama con disprezzo: «ricconi di merda, potevano rimanere a sguazzare nelle loro sporche vie»

«Dici che dobbiamo dargli il benvenuto?»
Uscite quelle parole ci guardiamo dritti negli occhi e all'unisono ci diciamo: «nah»

«Ci penserà mia madre» aggiungo.

«Usciamo stasera?» propone di punto in bianco.

«Va bene» sorrido.
E detto quello andiamo alla Serra, compro il fumo a Giulio e ci nascondimo a casa di Robbie mentre è in giro.

La mattina arriva presto, torniamo alle tre, dopo una lunga passeggiata e ci svegliamo sei ore dopo.
D'istinto controllo dove sia finito Giulio e lo trovo con la bava alla bocca al mio fianco, tutto normale.
«MALIA» urla mia madre.

«Dimmi ma'»
Non esiste che urli già di prima mattina.
Il suo silenzio mi fa capire che dovrò alzarmi e scendere, così mi preparo.
Poggio i piedi sul pavimento gelido e rabbrividisco.
Scendo velocemente le scale e trovo mamma alle prese con il forno. Ci sono ciotole sporche, uova, farina, zucchero e mestoli ovunque.

«Cos'è successo?»

«I vicini Malia! I vicini!» sorride euforica «abbiamo dei vicini»

«Ma' li abbiamo sempre avuti, il signor Granda? Monica e Yuri?»

«Un malato di alzheimer e due spacciatori non valgono niente messi a confronto con aristocratici» spalleggia.

«Ma quali aristocratici, per venire a vivere in un quartiere come questo, devono spacciare tanto pure loro» afferro una mela e le do un morso.
Passo vicino alle ciotole impregnate di pasta per dolci e ci gioco con il mestolo.
«Dunque? Porterai loro dei biscotti?» domando.

«No, cup-cake, e sarai tu a presentarti»
Rido come se fosse una battuta «perché dovrei andarci io?»

«Sei bella, giovane, dolce e potremmo farceli amici per... sai, soldi, prestiti e cose da vicini»
Cose da vicini.
«Se non ho altra scelta» alzo le braccia in segno di arresa «ci andrò»
Tira fuori la teglia e li glassa.
Nel frattempo scende Giulio confuso, ci lanciamo uno sguardo d'intesa e ne rubo qualcuno già pronto per fare colazione.
Mi allontano dalla cucina e gli spiego la situazione.

«Li chiama aristocratici» scoppiamo in una risata.

«Certo, come no»

«Li hai visti tu?» gli chiedo.

«Sì, sono in tre e hanno un figlio fulminato»

«Devo lavorarmeli per i soldi»

«Possiamo sempre derubarli»

«Hai ragione» dico avvicinandomi alla finestra.
Sono riuscita a vedere solo la donna, una sulla trentina, circa l'età di Monica, della casa di fronte. Vestita normale, niente Chanel o Prada.
«Cosa ne pensi della tipa?» gli domando.

«Eh, bella figa»

«Ma se è vecchia» strabuzzo gli occhi incredula.

«Mi piacciono quelle mature» sogghigna.

«Come vuoi, come vuoi» agito la mano per scacciare le sue fesserie e ritorno da Silvia.
Lancio qualche ciotola nel lavabo e pulisco il cioccolato spalmato sul tavolo.

«Hai finito mamma?»
Sistema gli ultimi dolci sul vassoio e me li porge.
«Devo andare conciata così?»

«Sì, sei bellissima»

«D'accordo, grazie... allora vado» fingo di crederci ed esco dal retro.

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Capitolo 10
*** Ciao Lea ***


 
Ciao Lea


Il tempo è quel che è, ed è una merda, come il resto dei giorni. Così salto le pozzanghere rimaste tra le mattonelle rotte, mi volto per cercare sostegno e trovo mamma fissarmi dalla finestra.
Giulio non è uscito in tempo, così gli tocca stare in casa. Stupido.
Impedita apro il cancello di legno con un piede e cammino lungo il marciapiede umido. 
Arrivata alla staccionata della villa rallento il passo.
Ma cosa sto facendo...
Penso a quanto sarebbe bello poter vivere in una casa di quelle dimensioni. Con una famiglia che si interessa a te, che ti chiede come stai, che ti sgrida quando fai qualcosa di sbagliato e fa il possibile per darti un futuro migliore. Mi piacerebbe avere un cane per portarlo in giro e non sentirmi sola. Vorrei avere degli amici che gironzolano per casa con bottiglie di birra e sorrisi stampati. Ma mi guardo intorno e vedo Yuri che spaccia a ragazzini, Giulio che mi osserva seduto sul tetto e la mia vecchia casa che cade a pezzi.

Tiro un sospiro spezzato varcando il lungo giardino e mi piazzo sulla porta. Mi sistemo i capelli, i vestiti e busso. 

«Arrivo» sento una voce calpestare il parquet di casa e aprire l'uscio.

«Ciao sono la...» mi imbambolo fissando il familiare biondino con il naso rotto «...la vicina»

«Edoardo» sorride.

«Malia»

«Ah! Ma per caso sei tu quella che...»

«Quella che ti ha portato in ospedale»

«Mi sembrava. Sai, non è molto comune il tuo nome »
Fisso la sua benda piazzata in mezzo alla faccia e realizzo che in realtà è stata colpa mia quell'incidente, così mi sento terribilmente a disagio.
«Ho portato questi, li ha fatti mia mamma per darvi il benvenuto»

«Siete i primi, ti ringrazio» si scosta dalla porta e li prende «senti, vuoi entrare?»
Una figura femminile gli passa dietro con un carico di scatoloni tra le mani.
«Mamma?» la chiama senza risposta.

«Vedo che ti hanno rimesso, come stai?» chiedo evitando la sua domanda.

«Non c'è male» sentiamo il tonfo degli scatoloni a terra e mille imprecazioni.

«Era la porcellana delle mia pro zia. Santo cielo Edo, non mi dai mai una mano, sei un figlio ingrato!» urla dall'altra stanza.
Si insultano così gli aristocratici?
Il ragazzo strizza gli occhi in una smorfia e si lascia passare le brutte parole della madre addosso.
«Forse è meglio che vada» dico torturando le maniche della felpa.

«Tranquilla, a lei ci pensa Massimo»

«Massimo?»

«Il mio patrigno»

«Oh»

«Non preoccuparti» ammicca « non vorrei essere sfacciato, ma ti andrebbe di fare un giro?» rimango impassibile un attimo nell'udire ancora le urla della madre «ho dell'erba buona» aggiunge.

«Ti ringrazio dell'offerta, ma devo proprio andare»

«Peccato, allora un'altra volta magari» che non ci sarà.
Dalle scale scende l'ultimo membro della famiglia, frettoloso scansa il figlio con i cup-cake e ne assaggia uno.
«Massi lei è Malia, la vicina»
Distacca gli occhi dal dolce e li posa sui miei. Vorrei correre ma le mie gambe si paralizzano, una fitta mi trapassa i polmoni lasciandomi senza fiato, sembra di vedere un fantasma.
«Papà...» esce roca quella parola che non usavo da anni.
«Ciao Lea»

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Capitolo 11
*** Edoardo ***


 
Edoardo


«Mamma non è possibile! Non è possibile!» inizio a camminare avanti e indietro.

«Malia calmati ti prego, è una sorpresa anche per me, cosa credi»

«Vedo che abitate ancora nella stessa casa, pensavo vi foste trasferite. Sai com'è, l'affitto, le bollette e bla bla bla» le riporto le parole di Massimo imitando la sua voce «che razza di stronzo»

«Hei signorina attenta con le parole, è sempre tuo padre»

«Non me ne frega niente se è mio padre!»

«D'accordo... vedo che non ragioni più quindi lasciamo stare»
Prendo una pausa bloccandomi in mezzo alla cucina e inizio a piagnucolare con le braccia conserte «lo odio» dico poggiandomi alla parete.

«Lo so piccola, lo so» si avvicina e poggia la mia testa sulla sua spalla, avvolgendomi in un abbraccio «lo odio anche io»

Dopo qualche minuto di coccole compassionevoli e cioccolato, salgo da Giulio che non vede l'ora di sapere com'è andata. Metto piede in quella stanza, sempre buia, sempre sbagliata. Penso di voler dormire tutto il giorno e sostando sullo stipite della porta lo osservo rigirarsi nel letto. Quando alza il capo incontra i miei occhi e accenna di coricarsi insieme a lui. 

«Hai gli occhi tristi» osserva.

«Non è andata molto bene...» dico stendendomi al suo fianco.

«Allora hai bisogno di un maxi abbraccio dal sottoscritto»

«Mi piacciono i maxi abbracci»
Così facendo la razione di coccole aveva raggiunto i massimi livelli e un sorriso dovevo pur concederlo a qualcuno. Il primo a riceverlo però è stato Edoardo che è venuto a cercarmi.

Mamma l'ha squadrato da capo a piede e si è chiesta se papà la tradiva già prima che io nascessi. 
L'ha fatto accomodare sul divano e mi ha trascinata in cucina.


«Sarà mica tuo fratello eh?» dice piano.

«Sarebbe solo un buon motivo per odiare ancora di più Massimo, ma per il resto mi auguro di no»
Lo raggiungiamo in salotto dove siede imbarazzato.

«Merda è ancora vivo!» urla Giulio dalle scale e per la prima volta penso che sia una fortuna che nessuno possa sentirlo.

Silvia gli ronza intorno, cercando qualche particolare che ricordi Massimo, ma invano storce il naso, come se non avesse trovato molto.
«Ehm» si gira guardando mia madre storto per poi posare gli occhi sui miei «volevo sapere come stai, te ne sei scappata via così e penso che tu voglia delle spiegazioni»

«Sì sì le vuole, le vuole!» incita lei.

«Edoardo, forse è il caso di uscire» quasi gli ordino.

«D'accordo...» prende la giacca dal divano e si alza «salve signora e grazie per i cup-cake»

«Non tornare tardi Malia» dice accompagnandoci alla porta.

Usciamo dando un primo sguardo al cielo grigio e decido di andare in piazza, giusto per ripararci da una possibile pioggia.


Camminiamo lungo i marciapiedi consumati, con le mani fredde in tasca. Siamo silenziosi ed io estremamente a disagio. Se non fosse per Massimo un ragazzo del suo calibro non rivolgerebbe mai la parola ad una come me, ma adesso siamo qui e ci tocca fare questa cosa.

«Dove andiamo?» chiede.

«In un posto abbastanza sicuro»

«Al sicuro da cosa?»

«Da gente che potrebbe piazzarti un coltellino dietro la schiena solo per i tuoi vestiti»

«Oh»
Sinceramente non ho mai capito come ci si comporta con le persone. Ho imparato a conoscere mia madre e poi Giulio. Nessun altro.
So cosa vogliono le donne, i bambini, i tossici e le ombre. Quindi come dovrei comportarmi con lui?
Presto inizierà scuola e sarà un punto a capo. Non avrò capito niente di come ci si comporta e come al solito non saprò come approcciarmi.

«Malia...»

«Si?»

Mi volto per guardarlo e i suoi occhi sono fissi sulla mia mano.
Sento dentro di me la solita sensazione di sollievo dopo essermi scorticata la pelle con le unghie. Non mi capacito del fatto che una cosa del genere possa farmi piacere invece che provocare dolore.  Così, anche questa volta è successo senza che me ne rendessi conto.
Il mio primo pensiero va a lui, a cosa possa pensare adesso che è successa una cosa simile. 
Ed il secondo va a me, che mi odio, per essere me, per far accadere situazioni che non riesco a controllare.

«Forza, vieni» dice prendendomi per mano.
A passo svelto mi porta nel negozio di Aldo, il primo sulla strada.
«Resta qui» dice.
Ed io resto sul ciglio della strada ad osservare come gesticola all'interno del locale.
Inizio a percepire il dolore della ferita ma non riesco a levarmi di dosso la sensazione piacevole di essere stata toccata da mani diverse. Da mani delicate che cercano di aiutarmi.





_____________
Sto attraversando l'ennesimo periodo difficile della mia vita e forse mi concentrerò più sulla scrittura, giusto per scappare da una realtà triste.
Non vi ho dimenticati, per voi ci sarò sempre e vi ringrazio se siete arrivati fino a questo capitolo. Grazie di cuore, ci vediamo al prossimo!

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