This is our town of Hetaween

di Gwen Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una notte al museo ***
Capitolo 2: *** Cenere alla cenere ***
Capitolo 3: *** Beware what you wish for ***
Capitolo 4: *** Nothing scarier than mother ***
Capitolo 5: *** Rendez-vous dans la brume ***
Capitolo 6: *** Il Lupo di Ferro ***
Capitolo 7: *** Nel buio ***
Capitolo 8: *** Dolcetto o scherzetto? ***
Capitolo 9: *** If life gives you lemon ... ***
Capitolo 10: *** A midnight spirit ***
Capitolo 11: *** La prossima volta passo col rosso ***
Capitolo 12: *** Distorsione ***
Capitolo 13: *** Tirando i fili ***
Capitolo 14: *** Still life ***



Capitolo 1
*** Una notte al museo ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party -La Grande Zucca ”a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 944
• Prompt/Traccia: A fa il guardiano notturno presso il Museo Nazionale; B è un/a ricercatore/trice. Notte di Halloween. B ha dimenticato qualcosa nel suo ufficio. Si sentono strani rumori dalla sezione egiziana.


Una notte al museo
 
Alexis sapeva poco dello schivo guardiano notturno del museo, sebbene le occasioni per approfondire la conoscenza non fossero mancate. Persino il nome dell’altro uomo gli era stato riferito da terzi, insieme all’invito a non farsi ingannare dal suo giovane aspetto.
“È qui da più tempo di tutti noi.”
Alexis aveva scosso la testa, sorvolando sull’informazione come una dovuta esagerazione, l’unica spiegazione razionale che fosse disposto ad accettare. Nemmeno lui, tuttavia, poteva ignorare il fatto che in dieci anni di lavoro al museo, il signor Hassan non fosse invecchiato di un giorno. Nel salutarlo prima di avviarsi verso il proprio ufficio, si sforzò di trovare sul viso altrui una ruga che provasse errate le sue convinzioni, ma senza successo. Lo vide allontanarsi verso l’entrata est dell’edificio, lungo i corridoi decorati a zucche e ragni finti per la settimana di Halloween.
Alexis proseguì in direzione opposta, con la fronte corrugata. Dimenticare in ufficio un anno di ricerca in documenti non era stato di certo fra i suoi piani. Stava discutendo con sé stesso circa la sua costante distrazione, quando un tonfo lo distrasse dai suoi pensieri.
Si fermò nel corridoio deserto, sotto lo sguardo severo delle repliche di busti greco-romani. Silenzio. Alexis rimase immobile, in attesa. Ancora silenzio. Poi, quando stava per attribuire il suono udito alla stanchezza e alla tensione, eccolo di nuovo, un pesante strofinio, come se qualcosa di massiccio fosse trascinato sul linoleum. Pareva provenire da un punto imprecisato alle sue spalle.
Forte di tale convinzione, Alexis fece dietro front e affrettò il passo, arrestandosi in ascolto ogni volta che il silenzio veniva spezzato. Udì cigolii e strani stridii e ticchettii. Seguirono fruscii e, ci avrebbe messo la mano sul fuoco, persino colpi di tosse. Tutto, fuorché la cacofonia del sistema di allarme, pensato per avvertire della presenza di un intruso. Avrebbe scambiato due paroline col tecnico.
Si accorse di stare correndo, la mente che si andava via via riempiendo di ipotesi per nulla logiche, tutte infine incentrate sul misterioso guardiano notturno. Il guardiano che non aveva saltato un giorno di lavoro. Il guardiano che dimostrava vent’anni da sempre. Il guardiano che sembrava prediligere la sezione egizia più di qualsiasi altra. Alexis si portò una mano al cuore, perché era da lì che giungevano i rumori. Ancora pochi passi e sarebbe stato davanti al fatto, giusto il tempo di voltare a destra. Tastò le tasche per trovare la mini-torcia che portava sempre con sé. La prese e accese con le dita che tremavano come non avevano mai fatto prima. L’entrata alla sala dei sarcofagi era ormai a pochi passi.
Si fece coraggio e saltò nel quadrato di luce. C’era il guardiano notturno, seduto su una sedia pieghevole ai piedi di uno dei sarcofagi. Nulla di strano, se non fosse stato per il fatto che il sarcofago avesse il massiccio coperchio aperto e che una figura dalle fattezze femminili vi stesse seduta, visibile solo fino alla cintola. Delle bende si aggrovigliavano sul pavimento. Alexis trattenne il respiro. Davanti ai suoi occhi la mummia si erse in tutta la sua altezza, aiutata dal guardiano a uscire dal sarcofago. Da principio solo un cadavere, sotto gli occhi di Alexis stava rinascendo a nuova vita, come se millenni non fossero trascorsi dalla sua morte.
“I miei gioielli sono al solito posto?” la udì domandare.
“Sì, madre” rispose il guardiano, porgendole la chiave di una delle teche. D’accordo, questo era troppo. Una persona dotata di buon senso sarebbe fuggito, ma Alexis era insieme così affascinato e terrorizzato dalla scena da aver scordato come muovere le gambe. Le mani lasciarono la presa sulla torcia, che rotolò fino a sbattere contro la parete.
La donna si voltò a fronteggiarlo.
“Chi c’è?” chiese con la voce imperiosa di una regina.
“Nessuno” ribatté il guardiano con noncuranza. Alexis si accorse troppo tardi che si stava muovendo verso di lui, gli occhi accesi di un’innaturale luce verdastra, le labbra curvate a ripetere una formula incomprensibile.
Aprì la bocca per urlare, ma il torpore si era già impadronito di lui.
La mattina dopo si svegliò tutto intorpidito su uno dei divanetti nell’ingresso, con un violento mal di testa proprio in mezzo agli occhi. Se li stropicciò con energia.
“Che cosa è successo?”
“Vi ho trovato svenuto vicino all’ala egizia. Cosa ci facevate lì in piena notte?”
La spiegazione era giunta da una delle donne che si occupavano della pulizia del museo. Alexis, tuttavia, vi prestò poca attenzione. La sua mente, infatti, liberata dal torpore, stava già ricostruendo gli avvenimenti della sera prima. Alexis corse fino alla sezione egizia, il cuore che batteva all’impazzata, già pronto a confermare con le i fatti le immagini che si agitavano nella sua testa come frammenti di un sogno.
“Non è possibile!” gridò invece, battendo i palmi sul sarcofago sigillato. Si voltò verso la teca, chiusa e con tutti i gioielli al loro posto. Si inginocchiò sul pavimento, alla disperata ricerca di un qualsiasi segno, un’impronta, un capello. Nulla.
“Cercate qualcosa?”
Il guardiano notturno lo fissava dall’ingresso, il viso impassibile nella sua enigmatica serietà. Alexis lo afferrò per le spalle, vomitandogli addosso un torrente di domande: “Voi! Vi ho visto! Chi siete? Cosa siete?”
Il guardiano si portò un dito alle labbra. “Avete sognato.”
“Ma!”
“Avete sognato. è per il vostro bene” ripeté, liberandosi senza difficoltà dalla stretta e allontanandosi. Le iridi scintillarono una volta di quel verde mortale. Alexis allungò una mano per trattenerlo, nel protestare la propria sanità mentale, ma già l’interesse per il fatto andava scemando. Nella sua testa ora c’era la nebbia.
Un sogno.
Già, un sogno.
 
Note: AU. Alexis è Cipro. Hassan è Egitto e la mummia è Antico Egitto.

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Capitolo 2
*** Cenere alla cenere ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party – La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 823
• Prompt/Traccia: “Ti dico che le zucche ci stanno fissando!” “Lascia stare le zucche! Quello spaventapasseri si è mosso!”
 
Cenere alla cenere
 
“Ci siamo persi!”
I lumini delle zucche intagliate rischiaravano, insieme ai lampioni e alla luce dietro le tende alle finestre, la via deserta salvo qualche cane randagio. Le foglie secche scricchiolavano o scivolavano sotto la suola di gomma delle scarpe. Una lieve foschia circondava la falce di luna. 
“Ci siamo persi!” 
A pronunciare di nuovo tale affermazione, questa volta con voce più convinta, era stato un bambino con un paio di baffi da gatto disegnati sulle guance paffute e delle orecchie da orso che facevano capolino dalla capigliatura bionda. Matthew, questo era il suo nome, allungò la mano che non reggeva il cestino dei dolciumi per afferrare il braccio di suo fratello Alfred. Quest'ultimo indossava un costume da Superman di cui andava molto orgoglioso. 
“Non è vero! Basterà andare avanti ancora un po’. Col buio sembra tutto così diverso.”
Matthew annuì poco convinto, ma si strinse ad Alfred e accettò di proseguire. 
Dieci minuti dopo la situazione non era affatto migliorata. Anzi, le case iniziavano a farsi sempre più rare e la strada sempre più buia.
“Torniamo indietro” propose Matthew, succhiando una mela caramellata per distrarsi. Alfred, la bocca occupata da un lecca-lecca gigante, scosse la testa. Poi indicò una casa dalle finestre illuminate, là dove la via piegava a sinistra prima della fine del paese. Come tutte le altre, anche quella villa era decorata per l'occorrenza. 
“Chiediamo informazioni” propose Alfred.
“Non ricordavo che qui ci fosse una casa” rifletté Matthew ad alta voce. Un cancello basso circondava il giardino della dimora. Alfred provò a spingere il cancellino, che con sua sorpresa si aprì con un sinistro cigolio. Matthew si strinse ancora di più al fratello. Di nuovo suggerì di fare retro-font.
“Sono un eroe! Gli eroi non tornano indietro!” balbettò Alfred gonfiando il petto, muovendo i primi passi sul vialetto. Tutt'attorno brillavano gli occhi rossastri delle zucche sparse sul prato.
“Quelle zucche ci stanno fissando!”
“Non scherzare!”
“Ti dico che le zucche ci stanno fissando!”
“Lascia stare le zucche. Quello spaventapasseri si è mosso!”
Alfred si fermò di botto. Matthew sollevò l'indice verso un'ombra che prima era loro sfuggita. La sagoma di uno spaventapasseri si palesava ora ai loro occhi. Alfred deglutì, con Matthew che stringeva la presa sulla sua mano. “Avrai visto male” ipotizzò. Eppure, spinto dalla curiosità, deviò dal sentiero per avvicinarsi al fantoccio, sempre col fratello attaccato al braccio.
Lo spaventapasseri indossava un elegante panciotto, un frac e un cappello a cilindro sotto il quale sfuggiva qualche filo di paglia. Sul viso rotondo era stata disegnata un'espressione seria, resa ancora più arcigna da un paio di folte sopracciglia aggrottate. L'omino mancava della parte inferiore del corpo, sostituita da un'asta conficcata nel terreno. 
“Ehm, salve!” salutò Alfred a provare l'assoluta immobilità dello spaventapasseri. Quindi batté ogni record di salto in alto da fermo quando il fantoccio si riscosse, piegando la testa verso il bambino. “Non è educato entrare in casa d'altri senza permesso.”
I bambini lo fissarono, paralizzati dalla paura. Il rumore dei loro denti che battevano doveva sentirsi a chilometri di distanza. 
“Sta-sta p-p-parlando?”
“Perché non dovrei? Non è forse Halloween la notte in cui tutto è possibile?” 
I bambini tremarono ancora di più. Sarebbero fuggiti se le gambe non si fossero trasformate di colpo in gelatina. Fu Matthew a racimolare sufficiente coraggio per balbettare un indistinto mormorio. Si schiarì la voce: “Ci scusi. Ci siamo persi. Volevamo chiedere ai padroni di casa una mano.”
Alfred annuì con foga.
“Uhm” fece lo spaventapasseri, portando la lunghe dita nodose a sfiorare la fronte. “I padroni sono usciti. Tuttavia ...” e qui voltò la testa rotonda a esaminare il giardino. “Ah, si, perfetto! Quella zucca” - la indicò - “Sì, quella piccola. È una zucca magica. Ditele l'indirizzo della vostra dimora e vi condurrà a casa.”
Detto ciò tacque. I gemelli lo pregarono di aspettare, chiesero ulteriori spiegazioni, ma lo spaventapasseri era tornato perfettamente muto, senza segno che si fosse mai mosso o avesse mai parlato. I gemelli si guardarono, poi fissarono la zucca, decidendo che un tentativo non avrebbe nuociuto. Con loro sorpresa, quando con voce chiara comunicarono il loro indirizzo, sull’ortaggio comparve una freccia luminosa, che lampeggiò una volta come un invito a seguirla. Li guidò fino a casa, dove Alfred e Matthew la abbandonarono sulla soglia, attaccandosi al campanello.
“Dove siete stati!” li accolse con apprensione la madre. Raccontarono con entusiasmo la loro piccola avventura. La paura era scomparsa, lasciando il posto a un infantile entusiasmo. Sulla fronte della donna comparve una ruga.
“La casa che avete descritto è bruciata un secolo fa. Dicono sia stata colpa di un fulmine che colpì lo spaventapasseri messo come decorazione la notte di Halloween. Le fiamme divorarono la dimora e il suo unico occupante.”
I bambini si fissarono a lungo, prima di esclamare “la zucca magica!” all’unisono.  Corsero fuori per recuperare l’unica prova di quanto vissuto quella notte, ma la zucca era scomparsa.
Al suo posto, solo un mucchietto di cenere.
 
Note: Ed ecco la prova che non so scrivere racconti del mistero.

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Capitolo 3
*** Beware what you wish for ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party -La Grande Zucca “a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 844
• Prompt/Traccia: Pozzo dei desideri

Beware what you wish for

Emil si sporse a fissare il fondo del pozzo, le mani poggiate sulla grata messa a protezione per evitare che qualche sprovveduto ci lasciasse le penne.
“Non sembra un pozzo magico” borbottò verso il fratello che lì l’aveva condotto. Già, pareva un pozzo per attingere l’acqua identico a centinaia di altri. Anche il fatto che si trovasse al limite di una foresta perdeva buona parte del suo fascino quando bastavano pochi passi per essere di nuovo inghiottiti dal paese. Non dubitava che un tempo i villani avessero dovuto camminare per chilometri per raggiungere il pozzo, ma ora qualche fermata del bus era sufficiente. Il fascino si disgregava così tra le dita.
“Le apparenze ingannano.”
Emil si strinse nelle spalle, allontanandosi. “La mamma ti ha letto troppe fiabe.”
Questo succedeva tre anni prima, quando Emil ancora non immaginava che il desiderio di non aver mai avuto un fratello sarebbe diventato così forte da fargli perdere la ragione. Lo soffocava. Il fatto che lo trattasse come un poppante nonostante fosse ormai un adulto lo mandava in bestia, accecava i suoi pensieri. Il furioso litigio di un paio di giorni prima era stata la goccia necessaria far traboccare il vaso. Emil era rimasto per ore a fissare il soffitto, livido di rabbia, finché un ricordo non si era fatto strada nella sua coscienza.
Il pozzo.
Di colpo tutto era diventato così limpido e chiaro da cancellare ogni incertezza. Come in trance, Emil era sgusciato fuori casa, infilando un giaccone sopra il pigiama e gli stivali di gomma.

La pioggia batteva con violenza sui vetri della macchina, il forte vento rendeva difficile rimanere sulla strada. A tratti un lampo illuminava la via. Emil premette sull’acceleratore, le mani strette sul volante. Quando gli abbaglianti colpirono il pozzo, il giovane frenò sollevando un’ondata di fango ed erba. Come in preda alla frenesia, aprì la portiera e si gettò fuori. Le dita stringevano già una moneta. Emil si sporse sull’orlo del pozzo , come la prima volta che Lukas lo aveva portato lì, ma questa volta gli occhi sotto i ciuffi bagnati avevano la determinazione della follia. Le dita si aprirono. Il pozzo inghiottì la moneta e il desiderio.
Che Lukas sparisse dalla sua vita.

Del viaggio di ritorno a casa, Emil ricordava poco. Era sicuro di aver guidato fino all’appartamento che condivideva con Lukas la testa vuota, come se una volta sfogata la rabbia in lui non fosse rimasto nulla.
“Sono a casa!” annunciò. Non ricevette risposta. “Sono a casa!” disse ancora, un poco più forte, togliendosi gli stivali umidi e poggiando le chiavi sul tavolo di una cucina troppo silenziosa. Mancava l’abituale aroma del caffè che lo accoglieva ogni mattina. Eppure la stanza aveva sempre profumato di caffè, da quando ne aveva memoria.
Emil aprì di scatto l’armadietto dove Lukas era solito conservare il barattolo di caffè in polvere. Solo che il contenitore era scomparso.
La tazza di Lukas: introvabile.
Il suo cappotto: sparito.
Emil cominciò a correre per la casa, aprendo cassetti e ribaltandone il contenuto, senza trovare un singolo oggetto che provasse l’esistenza del fratello, col petto oppresso da quel silenzio innaturale. Uno scherzo, già doveva trattarsi di uno scherzo. Uno scherzo di Halloween molto ben congeniato. L’avrebbe fatta pagare a Lukas, sì, non appena lo avesse trovato. Già. Una bella strigliata. Perché non era possibile che il suo folle desiderio si fosse avverato. no? Quella del pozzo era solo una leggenda, una stupidissima leggenda.
Una leggenda.
“Lukas! Fratello!” chiamò ancora e ancora, con voce sempre meno ferma, mente l’ansia saliva verso la gola. Chiamò con maggiore intensità. Gridò fino a sgolarsi, tanto da attirare l’attenzione dei vicini.
“Emil, cosa succede?”
“Mio fratello, l’avete visto?”
I vicini si guardarono con le fronti aggrottate come davanti a un pazzo. “Emil, tuo fratello è morto anni fa. Ce lo hai detto tu. Non ti ricordi?”
Emil indietreggiò verso la porta di casa. Voleva allontanarsi da quelle persone. Doveva allontanarsi da loro e dalle loro bugie.
“D’accordo, basta scherzare. Dov’è mio fratello.”
La signora grassoccia della porta accanto gli andò incontro. “Emil, tuo fratello non c’è più da quando eravate ragazzi. è morto con i tuoi genitori. Hai vissuto da solo da allora.”
Emil scosse la testa così forte da temere che il cervello si sarebbe spappolato. No. Non era possibile! Mentivano. Mentivano tutti.
Rientrò in casa, sbattendo la porta. Poi si lasciò cadere sul pavimento, col viso sepolto nelle ginocchia, le mani che stringevano ciuffi di capelli chiari.
Il pozzo!
Sollevò lo sguardo umido verso il vuoto. Il pozzo! Era così ovvio. Avrebbe sistemato tutto. Tutto. Il pozzo, doveva solo tornarci. Solo che si accorse di non ricordarsi dove si trovava. Doveva uscire dal paese verso nord e poi … poi? Girare a sinistra. No, destra. Almeno credeva.
Si fermò. Di colpo si sorprese delle proprie lacrime. Piangeva per una persona che non era mai esistita. O forse era esistito in un tempo molto lontano. Suo fratello? Aveva avuto un fratello? Sì, ma erano passati così tanti anni. Solo che a volte ne sentiva ancora la mancanza e allora si immaginava cose che non c’erano. Il dottore aveva parlato di allucinazioni. Sì, ora ricordava.
“Lukas, domani verrò al cimitero.”

Note: queste storie sembrano la brutta copia de “I piccoli brividi”.

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Capitolo 4
*** Nothing scarier than mother ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 503
• Prompt/Traccia: Halloween è la notte perfetta per fare un’evocazione.
 
A: Marty, questa è per te

Nothing scarier than mother

Ricevere una telefonata intercontinentale nel cuore della notte non era qualcosa che facesse saltare Evelyn di gioia. Quello che sentì portando il cellulare all’orecchio, tuttavia le fece piegare le labbra in un ghigno soddisfatto che poco aveva di rassicurante.
“Lascia fare a zia Irlanda, caro.”
Che poteva dire, aveva sempre avuto un debole per il nipote americano, che aveva accolto tanti della sua gente. Se poi l’obiettivo era di far piangere come un bambino quella palla al piede che era Inghilterra, tanto meglio.
“Ah, Samhain. Soo-wiin. Non Halloween” aggiunse, prima di riattaccare.
Comunque si volesse chiamare la notte di Ognissanti, non c’era momento migliore per rompere la barriera tra il mondo dei viventi e quello degli spiriti. La sera in cui il di qua e il di là si mescolavano. Quando la Unseelie Court terrorizzava i viandanti ignari.
Evelyn sfilò la chiave della cantina dalla catenella che portava al collo. Per la maggior parte dell’anno la usava come ripostiglio per tutti quei ricordi che non si era ancora decisa a buttare o a regalare ad un museo. Certe volte, tuttavia, ne allestiva un angolino per i suoi rituali, che fossero maledizioni verso i soliti noti o semplici magie per la casa.
Un pesante odore di muffa la investi quando mise piede sul primo gradino. Sollevò l’orlo della tunica, complimentarsi per aver già portato giù tutto il necessario quel pomeriggio; le candele, le offerte, i gessetti, un oggetto personale del defunto
Cominciò a canticchiare mentre si inginocchiava per tracciare il pentacolo inscritto in un cerchio. Su ciascuna delle punte della stella collocò uno dei cinque elementi: un po’ di terra in una ciotola, un bastoncino di incenso, un bicchiere d’acqua e una candela. Il centro del cerchio andò ad ospitare una vecchia spada avvolta in un panno che aveva ormai perso il suo colore originario.
Irlanda si sfregò le mani soddisfatta. Controllò di avere in tasca il sale e il ferro - precauzioni sempre dovute - infine iniziò la propria cantilena. L’aria fresca che filtrava dal piccola finestra le causò la pelle d’oca sulle braccia nude quando le sollevò e le maniche del vestito scivolarono sino ai gomiti. Gli occhi socchiusi mostravano solo il bianco della sclera.
Ci fu un lampo di luce, prima che la stanza tornasse ad essere abbracciata dalla penombra. Ora, tuttavia, una persona si ergeva nel cerchio, la donna che aveva imparato a considerare come madre.
Britannia scosse la selvaggia chioma ramata. La lancia fantasma scompariva nella pietra del pavimento . Guardò un momento la sua vecchia spada, quasi con nostalgia, poi posò i suoi occhi spettrali su Evelyn.
"È sempre bello vederti. Perché questa chiamata.”
Evelyn glielo spiegò. Britannia sorrise nello stesso modo di Irlanda quando America le aveva illustrato la sua richiesta. Un ghigno davanti a cui era saggio fuggire. Irlanda vide sua madre scuotere la chioma e gridare l’urlo di guerra che aveva atterrito tanti nemici. Che poi si trattasse di far venire un infarto al più giovane dei suoi eredi poco importava.
Ah, Evelyn amava la notte di Samhain.

Note: c’è un mio ragionamento contorto per cui Irlanda non ha legami di sangue diretti con Britannia (si considera che le popolazioni sulle due isole si siano evolute in maniera indipendente per secoli), ma per comodità ho ipotizzato una sorta di "adozione” basata sulla stima reciproca. Comunque in questa semi-AU solo Irlanda è in versione nyo (perché adoro Evelyn).

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Capitolo 5
*** Rendez-vous dans la brume ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 410
• Prompt/Traccia: Londra, epoca vittoriana. La nebbia è fitta, le figure non si distinguono. Le strade sembrano piene di bisbigli inconsistenti, ogni tanto qualcosa si muove e si nasconde. A ha i brividi e spera che B arrivi presto.

Rendez-vous dans la brume

Rose alitò sulle mani nude, sfregandone i palmi a pochi centimetri dalla bocca dipinta di vermiglio per l’occasione. I piedi calzati in un paio di stivaletti battevano con impazienza sul selciato e l’orlo del vestito scuro faceva capolino dalla mantella del medesimo colore allacciata sotto il mento. La donna sollevò il cappuccio, appiattendosi contro la parete del palazzo quando sentì le prime gocce di pioggia picchiettare sulla testa. Una coltre di nebbia così densa da essere soffocante era scesa sulla vie della città e solo la luce soffusa dei lampioni permetteva di distinguere i contorni sfocati dei palazzi.
Ogni tanto dalla bruma uscivano sobbalzando le carrozze dei giovanotti della borghesia londinese diretti alle feste organizzate in tutta la città. Apparivano di colpo, con un gran fragore di ruote e di zoccoli. I cavalli nitrivano come bestie vomitate dall’Oltretomba.
Rose si strinse ancora di più nel mantello, controllò di avere ancora con sé la busta con l’invito, poi sospirò. Una figura indistinta le passò tanto vicino da sfiorarle il gomito. Sentì i brividi correre sotto le braccia e lungo la schiena. Un vorticare di gonne apparve dall’altro lato della strada, insieme allo scintillare di una chioma argentea e alla risata rauca di una vecchia. Rose scivolò ancora di più nell’ombra.
Il suo cavaliere le aveva chiesto di attenderlo fuori dalla villa dove si sarebbe tenuto il party, ma di lui ancora nessuna traccia. Rose aggrottò la fronte candida, giocherellando con la maschera nera infilata nella borsetta. Soppesò poi l’idea di salire da sola al piano padronale, lasciando al portiere l’onere di avvisare il suo fidanzato. Un altro sospiro le scosse le spalle quando una goccia più grande delle altre le cadde sul nasino. Con la coda dell’occhio scorse una bambina pallida come un cadavere.
“Vi trasformerete in un pipistrello quando la luna sarà alta nel cielo?”
Si voltò con lentezza verso la fonte di quella voce familiare. Nel sollevare la testa il cappuccio si tirò indietro a scoprire il viso.
“Sei in ritardo, Francis” lo accolse con freddezza. Poi prese la maschera e se la sistemò sul naso, non prima di aver tolto e riposto gli occhiali in un piccolo astuccio.
“Désolé.”
Poi le porse la mano. “Andiamo?”
Rose annuì.

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Capitolo 6
*** Il Lupo di Ferro ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 1055
• Prompt/Traccia: A sa che non dovrebbe inoltrarsi nella foresta, di notte, con la luna piena. Ma ha visto B sparire oltre gli alberi ed è preoccupato/a.

Il Lupo di Ferro

A cinque anni Toris aveva incontrato, il Lupo di Ferro, lo stregone che abitava nel cuore della foresta dove persino gli esploratori esperti perdevano la via. Lo aveva incontrato al limite del bosco, ora belva, ora uomo senza tempo coperto di pelli.
Non avrebbe dimenticato quello sguardo severo.
Il Lupo di Ferro popolava le leggende dei vecchi del villaggio. Si doveva rispetto al Lupo di Ferro. E si doveva temere la foresta.
A otto anni la famiglia di Toris si era trasferita in città. Il ragazzo aveva frequentato l’università a Vilnius e trascorso due anni in America. La paura per la foresta, però gli era rimasta.
Feliks, purtroppo, non era dello stesso avviso. Toris gli aveva raccontato della foresta durante quello strano periodo in cui avevano cominciato ad essere una coppia senza sapere di esserlo. Feliks ne era rimasto affascinato - almeno per quei cinque minuti in cui era stato attento - tanto da insistere per visitarla di persona. Quando Feliks si fissava su una cosa, infine la otteneva.
Erano anni che Toris non tornava al villaggio.
La stazione più vicina distava due ore a piedi e c’era un solo bus, che passava due volte al giorno, alle cinque di mattina per raccogliere chi andava a lavorare e alle nove di sera, per riportarli indietro. Toris noleggiò un auto.
“Siamo, tipo, in mezzo al nulla. E io sono tipo stufo” protestò Feliks dando dei calci annoiati al cruscotto.
“Manca ancora qualche chilometro” cercò di blandirlo Toris. “E poi sei tu che hai insistito per venire.”
Feliks sporse in fuori il labbro inferiore. “Questa macchina va davvero troppo piano.”
E tossiva fumo nero dal tubo di scarico, singhiozzando di protesta quando Toris premeva appena di più sull’acceleratore. Sebbene gli fosse stato assicurata la completa affidabilità della vettura, iniziava a nutrire dei dubbi. Aveva appena formulato tale pensiero che l’auto tossì un’ultima volta prima di arrestarsi del tutto. I tentativi di riavviare il motore andarono a vuoto.
Toris sospirò e Feliks pestò i piedi.
Si trovavano nel punto in cui la strada cominciava a costeggiare la foresta, facendo una larga curva prima di piegare a est e offrire il villaggio alla vista. Se avessero tagliato per il bosco avrebbero accorciato notevolmente la via, ma nessuno aveva mai osato avanzare una simile proposta.
Toris strinse il volante. Pur camminando a passo svelto non sarebbero comunque arrivati al paese prima di due ore. D’altra parte, trascorrere la notte in macchina non avrebbe cambiato il fatto che fossero in piena campagna e senza campo.
“Ti va di cammina- “
Si era voltato per conoscere l’opinione di Feliks, solo per scoprire che l’altro era scomparso, mentre egli era tanto immerso nei propri pensieri da non sentire il rumore della portiera che si chiudeva. Oh, non andava bene, per nulla bene.
Cercando di mantenere il sangue freddo, il giovane prese la propria torcia, la accese e la puntò sulla strada. Davanti a lui: nulla.
Si girò per controllare alle spalle. Ancora nulla.
Con una certa reticenza mosse il fascio di luce a sfiorare i confini della foresta, giusto in tempo per vedere una sagoma farsi strada tra i primi abeti.
“Oh, Feliks.”
Forse aveva deciso di cercare una scorciatoia. O magari aveva sentito un impellente bisogno di svuotare la vescica.
Quali fossero state le ragioni, Feliks si era inoltrato nella foresta, mentre la luna piena sorgeva in cielo. Toris ricordava bene le raccomandazioni degli anziani.
Bisogna stare lontani dalla foresta, soprattutto durante il plenilunio.
Il Grande Lupo di Ferro mangia i bambini durante il plenilunio. E altri racconti del genere. La maggior parte serviva a mettere i più giovani a letto quando facevano i capricci e non volevano dormire, ma le testimonianze di ululati nel bosco erano troppe per essere ignorate. Il Lupo di Ferro faceva sentire la sua voce animale solo quando la luna si mostrava in tutto il suo splendore.
Toris raccolse il proprio coraggio per muovere i primi passi verso la foresta e oltre i confine con la strada. Un manto di aghi e mischio copriva il terreno e qualche radice sporgeva tra i sassi, costringendo il giovane a muoversi con cautela, con la torcia puntata ai suoi piedi, per non inciampare. A tratti chiamava il compagno, quando non sbirciava preoccupato la luce lunare che argentava le fronde più alte.
D’un tratto un grido acuto ruppe il silenzio. Toris vi riconobbe la voce di Feliks, coperta da ringhi e ululati e grugniti, mentre correva seguendo il suono. Corse con i rami che gli schiaffeggiavano la faccia. Corse tra tronchi così fitti da impedire il passaggio. Corse alla cieca, incespicando in un groviglio di radici mai toccate dall’uomo. Corse fino a trovarsi faccia a faccia con il lupo di ferro. Ai suoi piedi del lupo di ferro stava Feliks, coperto di sangue e apparentemente senza vita. Toris vide il Lupo di ferro chinarsi sul corpo del ragazzo.
“No!” gridò allora, gettandosi in avanti con le mani protese verso la mascella della belva. Sentì le dita stringersi su un ciuffo di pelliccia grigia prima di essere sbattuto con violenza a terra. Una zampa premette sul suo petto quando il Lupo di Ferro avvicinò le fauci fetide al suo viso. Toris aveva iniziato a perdere le speranze quando l’animale arricciò il muso e gli sfiorò la fronte col naso umido. Per un istante Toris fu sommerso dai pensieri, dai ricordi della creatura, da un’intera esistenza vissuta tra uomo e bestia. Vide la macchia confusa di chi si era avventurato nella foresta per li incontrare la morte e seppe che quella sarebbe stata la sua fine se il Lupo di Ferro non avesse riconosciuto in lui il bambino che sedeva ai limiti del bosco.
Toris non osò muoversi o distogliere lo sguardo o anche solo respirare finché il Lupo di Ferro non si fu allontanato. Solo allora, come uscendo da un gelido torpore, corse da Feliks che stava rinvenendo. Per fortuna le sue ferite erano meno gravi del previsto. Si inginocchiò per sollevarlo tra le sue braccia - non sembrava, ma Toris era forte.
“Andiamo a casa.”
La foresta si aprì al suo passaggio.

Note: alla fine non ho avuto il cuore di trasformare i due ciccini in licantropi.

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Capitolo 7
*** Nel buio ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 656
• Prompt/Traccia: A e B corrono nel cimitero, inseguiti da qualcosa.

Nel buio

Rimanere chiusi nel cimitero la notte di Halloween era un’esperienza di cui Lída avrebbe volentieri fatto a meno.
“Niente, non funziona” dichiarò rassegnata dopo il fallito tentativo di scavalcare il cancello arrampicandosi sulle spalle di Vladimir. Sentiva di essere sul punto di perdere l’equilibrio, sbilanciata su un lato, con una mano premuta sulla testa del fratello e l’altra stretta alla sua.
“Allora puoi scendere, sei pesante!” ribatté il ragazzo. Giusto il tempo di pronunciare queste parole, che il piede della giovane scivolò all’indietro, trascinando l’altro nella caduta. Atterrò di schiena sull’addome di Vladimir.
“Così impari a fare scherzi idioti!”
Perché solo una persona con i grilli al posto del cervello poteva pensare che fosse divertente giocare a nascondino in un cimitero la notte di Halloween.
“La notte di Halloween.”
Lo ripeté ad alta voce, perché il suo disappunto fosse ben chiaro. Poi estrasse il cellulare dalla tasca, solo per constatare che non c’era campo. Vladimir non ebbe maggiore fortuna.
“Credo che dovremo passare la notte ...”
In quel momento il suono secco di una rametto spezzato ruppe il silenzio.
Lída tacque di colpo. Si portò in dito alle labbra, muovendo la testa di qua e di là come se volesse scorgere con la coda dell’occhio un movimento sospetto. Vladimir la imitò, pur con minore convinzione.
“Hai sentito qualc-”
Zac. Di nuovo quel suono, accompagnato dallo strofinio delle foglie bagnate e da un rumore più cristallino.
“Campanelli?” La ragazza espresse ad alta voce i propri dubbi, la fronte corrugata mentre sondava l’area, rimpiangendo di non essere a casa immersa fino al mento nell’acqua calda. Il singulto strozzato di Vladimir la strappòd alle sue fantasie. Si sentì afferrare il polso. “Corri!”
Obbedì, trasmettendo il comando alle gambe, mentre con la coda dell’occhio scorgeva un’ombra scura e ululante. Un’ombra scura e ululante che fluttuava a un paio di metri da terra, per essere precisi.
Gocciolava qualcosa sul terreno. Lída si convinse che fosse sangue. La sua bocca urlò. I suoi piedi si mossero come se dotati di una volontà propria.
Corsero zig-zagando tra le tombe.
Le lapidi erano troppo alte perché le si potesse saltare con facilità. Quelle più semplici arrivavano al ginocchio, le più elaborate esibivano statue complete di aAngeli e madonne piangenti.
“Maledizione!” sbottò Lída. Aveva cercato di lasciare la mano di Vladimir perché le fosse più facile muoversi, ma il fratello si era attaccato al suo polso così forte da minacciare di strappaglielo. Si voltò d’istinto, mancò un passo, per lo slanciò volò in avanti nell’esatto momento in cui l’essere misterioso gli sbarrava la strada.
Non era un cimitero molto grande, in effetti.
Finirono a rotolare contro il cancello, lei, Vladimir e il “fantasma”, stranamente solido. E legnoso. La ragazza si massaggiò la testa, nel districarsi dal groviglio in cui era invischiata. Un peso in tasca le ricordò di avere ancora il cellulare. Lo puntò contro la creatura, premendo il pulsante per aumentare al massimo la luminosità dello schermo, il pollice già pronto a scattare la foto incriminante.
In quel momento Vladimir Pensò cosa una buona idea caderle addosso. Lída vide una testa castana essere illuminata un secondo dal flash e scomparire.
“Ecco, è andata! I miei complimenti!” Sbuffò, con un gemito per il dolce peso del ragazzo sulle sue costole. ”Lascia stare, vediamo di uscire da qui.”

Nascosta nell’ombra la creatura li osservava. Batté le manine facendo sventolare le lunghe maniche della propria tunica. Un cucciolo della sua razza, sollevò gli occhi verso il fratello maggiore.
“Allora, sono stato bravo?”
Il fratello gli stropicciò i capelli con fare affettuoso. “Bravissimo.”
Nel sorridere di orgoglio i canini della creatura scintillarono.

Note: biscottini a chi indovina chi sono i personaggi

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Capitolo 8
*** Dolcetto o scherzetto? ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 463
• Prompt/Traccia: Cupcakes

Dolcetto o scherzetto?

Louis aveva rifiutato di prendere il vassoio che Oliver ancora gli porgeva e, soprattutto, si era ben guardato bene da anche solo sfiorare i cupcake dipinti di colori vivaci che su di esso erano stati allineati.
“Sono sicuri?”
Non aveva detto “commestibili”. Sarebbe stato inutile. Del resto, sapeva già come qualsiasi cosa uscisse dal forno del suo psicopatico fidanzato non fosse fatta per essere ingerita, a meno di non avere uno stomaco assuefatto al cianuro. Eppure a quello ci aveva fatto l’abitudine - persino a morire tra atroci dolori per un boccone di dolcetto.
Questi cupcake, però, non solo scintillavano di un inquietante bagliore dal sapore radioattivo, ma emettevano anche un rumore troppo simile al ticchettio di una bomba ad orologeria per i gusti di Louis.
Aveva vissuto troppo a lungo con Oliver per illudersi che il suo sarebbe stato uno scherzo innocente, dove al massimo ci sarebbe stato uno spargimento di crema pasticcera. No, con Oliver c’era da aspettarsi come minimo la perdita di qualche falange – che la nazione avrebbe di sicuro riutilizzato in una delle sue folli ricette.
Oliver fece un sorriso a trentadue denti così ampio che Louis fu quasi sul punto di abbandonare la propria abituale apatia, temendo che il viso del compagno si sarebbe spaccato a metà. Tuttavia non ricevette alcuna conferma circa la sicurezza dei cupcakes ora disposti con cura in un cestino da Cappuccetto Rosso. Un Cappuccetto Rosso dal quale il lupo sarebbe dovuto fuggire a zampe levate.
“Sono sicuri … per me.”
Calcò sulla seconda parte della frase.
“Suona come una minaccia, sai” gli fece notare Louis scuotendo la cenere della propria sigaretta sui fornelli della cucina. Oliver odiava quando lo faceva, né perdeva occasione per ricordaglielo con il simpatico uso di un coltello da cucina piantato con noncuranza dove fino a un istante prima si trovava la mano del francese. Senza battere ciglio Louis gettò il mozzicone nel lavandino.
“Non so se temere più i tuoi dolcetti o i tuoi scherzetti.”
Oliver accarezzò i propri cupcake con aria gelosa e possessiva, dondolando il cestino come la culla di un neonato. “Oh, lo sai che da me non devi temere nulla.”
“Il mio stomaco è di un altro parere” ribatté Louis. Si avvolse nel mantello staccato dall’appendiabiti, si calcò in testa un cappello a falde larghe e indossò una maschera bianca che gli lasciava scoperta metà del volto. Oliver si sistemò il fiocco gigante della mantellina cremisi.
“Ti ho sempre rimesso a posto le viscere” cinguettò, saltellando fuori dalla porta sul vialetto decorato a festa con orribili zucche rosa confetto. Louis fece spallucce. Gli ospedali avrebbero avuto un improvviso picco di attività quella notte.

Note: questa è stata servita su un piatto d’argento. Si usano i nomi umani, ma sono nazioni

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Capitolo 9
*** If life gives you lemon ... ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 749
• Prompt/Traccia: “C’è un cavaliere senza testa nel tuo giardino, lo sapevi?”

If life gives you lemon ...

A Paesi Bassi Portogallo tutto sommato stava simpatico. Erano stati spesso alleati e anche nel ventunesimo secolo avevano mantenuto buoni rapporti. Sufficientemente buoni, almeno, perché Ian perdonasse ad Alfonso l'essersi presentato alla sua porta senza invito o preavviso.
"Festeggiare Halloween da soli non è divertente" aveva detto Portogallo, sulla soglia di casa sua nei suoi vecchi abiti da esploratore.
Lussemburgo avrebbe partecipato a una festa esclusiva con costumi il cui prezzo avrebbe di certo causato un attacco cardiaco ad Olanda. Belgio era stata invitata a festeggiare con Spagna e Romano.
Paesi Bassi aveva preferito declinare l’invito, adducendo impegni improvvisi, nonostante Amber l’avesse quasi supplicato e cercato di corromperlo con la sua migliore cioccolata. Invece Portogallo aveva deciso di scombussolare i suoi piani di quiete casalina. Lo aveva persino convinto a travestirsi da vampiro.
"Anche se non succhi sangue ma soldi" rise Alfonso, poggiando le dita sul vetro della finestra che dava sul giardino. La aprì, si aggiustò il cappello piumato sulla testa e si accese una sigaretta, attento a non far cadere la cenere sul prato. La passione per il giardinaggio di Paesi Bassi era nota, tanto quanto le terribili storie di chi era incorso nella sua ira per aver rotto un fiore o calpestato un prato perfettamente curato.
Perciò, vedendo qualcosa - qualcuno- muoversi nel cortile, il primo istinto di Portogallo fu di urlargli di andarsene prima che il padrone di casa si accorgesse della sua presenza. Le parole gli morirono in gola quando le luci del vialetto illuminarono il misterioso visitatore. Fermo vicino alla piccola fontanella in pietra, un uomo attendeva in sella a un destriero così scuro da essere quasi invisibile. Lo sconosciuto era alto, dal portamento fiero, avvolto in un mantello scuro, e se avesse avuto la testa questa sarebbe stata dritta è sicura. Già. Se. Perché dove sarebbe dovuto esserci il capo dello sconosciuto, c’era solo l’oscurità e il vuoto. Il cavaliere teneva le briglie strette nel pugno guantato. Il suo cavallo di pece sbuffava e pestava gli zoccoli nervosi sul terreno. Ogni tanto sollevava il muso con le froge allargate ad annusare l’aria notturna.
Portogallo si allontanò con calma dal davanzale. Non era il genere di persona che si spaventava facilmente – in tutta la sua vita aveva visto numerose cose anche più terribili – ma un cavaliere senza testa era qualcosa che non si vedeva tutti i giorni.
“C’è un cavaliere senza testa nel tuo giardino, lo sapevi?”
“È uno scherzo?”
Olanda sollevò le sopracciglia con aria dubbiosa, mordicchiando il bocchino della propria pipa lunga e sottile. “Sicuro di non aver fumato qualche allucinogeno prima di venire qui?” aggiunse, conscio dell’ambigua fama di cui godeva la propria capitale.
“Ti assicuro che sono lucidissimo. Vieni a vedere!”
Paesi Bassi sbuffò un anello di fumo perfettamente circolare, di nuovo guardò Portogallo e, vedendo che egli non desisteva, si decise ad attraversare la stanza.
“Se vuoi chiamo Arthur, il cavaliere senza testa è una delle sue leggende. Cioè, credevo che fosse una leggenda. Per sapere come mandarlo via” continuò Alfonso. Ian tuttavia gli intimò di tacere, senza voltarsi. Si sporse fuori percorrendo visualmente il proprio cortile, immacolato se non fosse stato per l’uomo a cavallo che scalpitava tra i nanetti regalo di Amber. “Cosa facciamo?” ripeté Portogallo. Nella sua voce ora si udiva una nota di paura che prima non era riuscito a nascondere. Olanda attese qualche minuto, prendendosi il proprio tempo per studiare la situazione.
“Davvero, i cavalieri senza testa sono pericolosi!”
“Non direi.”
Non c’era preoccupazione sul viso di Paesi Bassi quando si girò di nuovo verso l’amico. Al contrario nei suoi occhi brillava una luce che Alfonso aveva imparato a conoscere.
“Dimmi che non stai pensando quello che credo” lo pregò Portogallo. Gettò un’altra occhiata al giardino e al suo ospite inatteso, per poi seguire l’altra nazione nel suo studio privato. Ian prese da un cassetto un grosso foglio. “Il cavaliere non è una minaccia. Anzi, mi è sembrato spaesato.”
Poi stappò una stilografica, sordo ormai alle proteste dell’altra nazione. Nulla infatti riusciva a far tornare Ian sul pianeta Terra quando partiva per l’universo del denaro. Né un amico di vecchia data, né un essere soprannaturale di sconosciuta provenienza. Portogallo mise con discrezione Arthur sulla chiamata veloce, giusto nel caso in cui le cose si fossero messe male.

“Venite a vedere il Cavaliere senza Testa. Solo tre euro!”

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Capitolo 10
*** A midnight spirit ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party - La Grande Zucca” a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 349
• Prompt/Traccia: Scheletro


A midnight spirit

C'è uno scheletro nell'armadio di Natalia. Non è una metafora. Non è nemmeno la prova di una colpa efferata. È lo scheletro di una ragazza vissuta tanti anni prima, una delle poche amiche che la nazione abbia mai avuto.
Natalia ne ha trafugato lo scheletro qualche decennio dopo la sua morte, per placare la propria cupa ed eterna solitudine. I parenti della defunta, finché sono stati in vita, non hanno mai sospettato di lei. Poi gli anni sono passati e di generazione in generazione il fatto ha perso di importanza fino a scadere nell’oblio.
Di morti Bielorussia ne ha visti tanti, più di quanti un essere umano possa sopportare, ma lei non è umana e se decidesse di tagliarsi la gola, la ferita non le sarebbe fatale. Né lascerebbe una cicatrice.

La notte di Halloween è fredda, umida ma limpida. Celebrarlo non è tradizione del suo Paese, ma Natalia ha trascorso abbastanza tempo in compagnia di Romania da conoscere e apprezzare il mistero della ricorrenza. Allora è l'occasione per accendere le candele e leggere i tarocchi nella penombra di una cucina profumata di erbe aromatiche. Quest’anno ha persino scavato una zucca da mettere sul davanzale perché nel profondo di se stessa, dopotutto, trova divertente il pensiero. Ora la zucca sorride di un sorriso sghimbescio ai rari passanti.
La nazione sta accendendo l'ultimo lume, con una certa trepidazione che corre sotto le braccia nude, quando le campane battono la mezzanotte e dalla sua camera arriva l'ormai familiare suono di ossa battute dal vento. Lo scheletro si anima dello spirito di una persona con cui Natalia ha riso tanti, tanti anni fa, perché ad Halloween per qualche ora i morti possono parlare con i vivi. E a Natalia non importa che seduto alla sua tavola ci sia uno scheletro ingiallito di polvere o che a fissarla siano un paio di orbite vuote, perché la voce è quella dei suoi ricordi e per una notte può chiacchierare con una vecchia amica.

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Capitolo 11
*** La prossima volta passo col rosso ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party -La Grande Zucca ”a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 787
• Prompt/Traccia: A è un cacciatore di creature sovrannaturali e B si trova coinvolto.

La prossima volta passo col rosso

Romano di rogne ai semafori ne aveva avute tante e di altrettante era stato testimone.
Tuttavia avere la moto rubata, con lui ancora in sella, da una ragazza sbucata dal nulla doveva ancora aggiungerlo alla lista. La sconosciuta lo aveva colto alla sprovvista, mentre faceva riposare un momento le braccia, per sedersi nello spazio tra lui e il manubrio.
"Scusami, ma è un'emergenza. Ora reggiti e tieni questo!"
La ragazza gli passò una specie di pistola modificata, prima di far schizzare la moto sulla strada non appena il semaforo diventò verde.
"Per sicurezza. A proposito, mi chiamo Abigail."
Romano avrebbe desiderato volentieri informare Abigail di quanto poco gli importasse di tale informazione e di quanto poco fosse contento della piega presa dagli eventi, ma per il momento riusciva al massimo ad aggrapparsi alla ragazza e ad urlare di paura. La guida di Abigail più che spericolata era suicida. Eppure non era ancora nulla in confronto a quello che Romano vide poco dopo. Sentì qualcosa come un paio di artigli grattare sul suo casco e di istinto gettò la testa all’indietro.
"Quella cos’era?" gridò, indicando un’ombra che a prima vista sarebbe potuta sembrare un grosso rapace.
"Un’arpia. Rare in questi luoghi e pericolose. È una settimana che la inseguo!"
Il furioso strombettare di un clacson coprì il resto della spiegazione quando Abigail decise di fare un'inversione a U nel mezzo del traffico cittadino.
"Prendi il controllo della moto!" gli ordinò. Nemmeno il tempo di dire "bah" e aveva lasciato la presa. Il mezzo sbandò a destra e si inclinò da un lato. Con un ginocchio contro l'asfalto, Romano tirò giù dal paradiso tutti i santi del calendario, oltre a qualche divinità presa in prestito da altri pantheon, perché avrebbe gradito festeggiare il giorno dei morti dal di qua ancora per molti anni. Allungò le mani davanti a sé, ma Abigail gli impediva i movimenti e la visuale. O dio, si sarebbero schiantati contro una macchina o contro il guardrail. Cazzo, era troppo giovane per morire. Ne avesse avuto il tempo si sarebbe chiesto perché nessun altro avesse notato la donna-uccello che a tratti scendeva in picchiata sui tetti delle vetture. O perché si considerasse ancora sano di mente dopo aver visto qualcosa che fino a un giorno prima stava solo nei libri delle fiabe. Di nuovo tentò di afferrare il manubrio.
Nulla. Una bici li evitò per un soffio. Abigail aveva estratto dalla giacca una specie di fune con attaccati dei pesi alle estremità. Si chinò e si sporse fuori dalla moto. Romano colse l'occasione per riprendere il controllo del mezzo. Cercò di sfruttare il peso del proprio corpo per sollevare il mezzo da terra. Non era una moto particolarmente pesante, ma il giovane senti comunque un dolore lancinante alla spalla destra. Strinse i denti, diede un brusco strattone e la moto tornò in piedi, a un soffio dal finire fuori strada. Allo stesso tempo Abigail fece roteare le bolas e le lanciò verso l’alto. Romano giurò di averla sentita trattenere il fiato prima che l’aria fosse scossa da un grido di acuta frustrazione, seguito da un urlo di pura euforia. La bestia e la cacciatrice.
"Presa!"
Romano frenò bruscamente. No, non gliene importava un fico secco di essere in mezzo alla strada, non dopo che una pazza sbucata dal nulla lo aveva quasi mandato al Creatore anzitempo.
“Grazie!”
Il fiume di insulti gli morì in bocca, davanti all’espressione di sincero trionfo sul viso della ragazza e nell’entusiasmo dei suoi occhi chiari. “L’avrei persa di nuovo. Hai del talento. Potresti essere il mio aiutante” continuò Abigail. Romano la fissò, il casco ora sotto il braccio, con la fronte corrugata di chi cerca di capire se è vittima o meno di una colossale presa per il culo. Nemmeno era sicuro di averla vista, l’arpia. L’unica cosa che sapeva, per ora, era che aveva sfiorato la morte per una tizia che sembrava uscita da uno dei libri fantasy che andavano tanto di moda tra i giovani negli ultimi tempi. Invece si limitò a risalire in moto, invitando Abigail a fare lo stesso.
“Mi ci vuole un caffè. Anche a te, giusto per schiarirsi le idee, fidati, ne hai tanto bisogno visto che sei da ricoverare. Ma prima dobbiamo recuperare la tua preda. Hai visto dove è caduta?”
Abigail, ora seduta dietro di lui, gli cinse la vita con le braccia e gli sussurrò un incrocio all’orecchio.

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Capitolo 12
*** Distorsione ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party -La Grande Zucca ”a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 550
• Prompt/Traccia: “È vero o è un incubo?”

Distorsione

Xiao Mei urlerebbe se la voce uscisse dal fondo della gola. Invece quando apre le labbra dalla bocca non esce alcun suono, come se un'ombra malvagia l'avesse avvolta in una bolla di silenzio. Si guarda le mani e vede il rosso cupo del sangue. Si tocca le guance striate di pianto e le sente appiccicose di sangue. Con lentezza fissa il pavimento e si scopre a piedi nudi in una pozza viscida e cremisi, in camicia da notte, stringendo nella mano sinistra un coltello che non ricorda di aver preso. Eppure ora è lì, che gocciola su un viso cereo che Xiao Mei conosce troppo bene. Lanh Hue, la sua migliore amica, sua sorella, giace immobile riversa su un lato e mostra sul fianco uno squarcio di cui Mei si scopre responsabile.
Se solo si ricordasse che cosa è successo.
Gli occhi di Lanh Hue sono grandi, scuri e opachi e la fissano in una muta domanda che non parla di accusa quanto di tristezza e delusione. La fissano, rigidi, vuoti, mentre Xiao Mei è così paralizzata dal terrore da non avere nemmeno la forza di chinarsi e chiudere le palpebre di Lanh Hue, che sta lì, pallida e immobile, con i capelli scuri sparsi attorno alla testa come un’aureola di pece.
La mano si apre e il coltello cade a terra con un tintinnio che risuona per la cucina insieme ai passi di Xiao Mei che sta correndo via, lontano da quel corpo che ha il viso di sua sorella, lontano da quegli occhi che non vedono ma sembrano leggerle l’anima, via dove poter lavare il sangue e il suo immondo odore.
Il getto della doccia è bollente sulla pelle, ma Xiao Mei non vi presta attenzione e sfrega, sfrega, sfrega, sfrega fino a scorticarsi e poi continua a sfregare perché così si sveglierà dall’incubo dove è precipitata, un incubo dove un genio malvagio ha distorto le sue percezioni.
Ha trasformato sua sorella in un mostro violento. Ha spinto la sua mano verso il coltello e l’ha guidata contro la creatura.
Xiao Mei si lascia bruciare dall’acqua e comincia a ricordare. Ricorda le fauci della belva a pochi centimetri dal suo viso, il suo alito così fetido da levare il respiro. Ricorda il ruggito della belva. Ricorda i suoi occhi gialli. Ricorda i brandelli dell’abito di Lanh Hue ancora attaccati ai suoi artigli e ricorda di come la paura abbia guidato la sua mano fino ad affondare la lama nel fianco della bestia.
E di colpo la bestia era scomparsa e al suo posto c’era solo Lanh Hue, timida e seria, morta. Morta! Morta, morta!
Per questo Xiao Mei deve svegliarsi e si torce la pelle tra le dita sotto il getto che ormai è diventato freddo. I mostri non esistono! Gli spiriti non esistono! Il corpo rigido di Lanh Hue non la sta aspettando in cucina con gli occhi freddi e spalancati.
Le mani tremano quando infine riesce a chiudere il rubinetto. Barcolla fuori dalla doccia, afferra l’accappatoio alla cieca, si muove come ubriaca. L’odore metallico del sangue non accenna ad andarsene, se guarda verso il basso vede ancora una pozza densa e cupa. Se solo riuscisse a svegliarsi!
Poi ecco dei passi, di piedi nudi sul linoleum. Xiao non osa voltarsi. Sente una voce che la chiama.
“Lanh, meno male sei qui! Ho fatto un incubo terribile!”


Note: Xiao Mei è Taiwan, Lanh Hue è Vietnam

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Capitolo 13
*** Tirando i fili ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party -La Grande Zucca ”a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 560
• Prompt/Traccia: A è un fantasma che si impossessa delle persone. Peccato che non lo sappia fare e B, la sua vittima, rimane cosciente di avere un ospite.

Tirando i fili

Che la possessione non fosse andata a buon fine fu chiaro nell'istante in cui il corpo spettrale di Gilbert si fuse con quello della vittima designata.
"Si può sapere cosa ci fai nella mia testa?" sbottò una fiera voce femminile. Il genere di voce in grado di ottenere l’assoluto silenzio con una sola sillaba.
La mente di Gilbert formulò un'imprecazione.
"Ehi, sono io qui quella che ha il diritto di lamentarsi!" fece di nuovo la voce.
Gilbert aveva scelto con cura la propria vittima, come uno stratega sul campo di battaglia. L'aveva osservata per giorni, ne aveva studiato le abitudini per comportarsi esattamente al contrario quando l'avrebbe manovrata come una marionetta. Pregustava già l'euforia del controllo - come una scossa elettrica, così gliel'avevano descritta.
Tutto perfetto, se non fosse stato per il non insignificante particolare che era la goffaggine di Gilbert quando si trattava di infestare un vivente. Gli altri fantasmi dicevano che bastava sfiorare la vittima e rilassarsi, come scivolare in un sogno. Dicevano che bisognava svuotare la mente. Ecco, di svuotare la mente a Gilbert non era mai davvero riuscito, nemmeno quando era in vita.
"Sei abbastanza ridicolo, sai?"
"Sarai tu ad essere ridicola quando avrò finito con te!" minacciò. "Eliza!"
Elizavetha. Non passavi una settimana a pedinare una persona senza impararne almeno il nome.
Gilbert fece mente locale. Era pur vero che la donna non fosse punto caduta in trance, ma allo stesso tempo non pareva in grado di liberarsi di lui. Poteva infatti avvertire la sua rabbia e frustrazione.
"Puoi inginocchiarti e supplicare e forse potrei essere magnanimo!" rispose con una gracchiante risata psichica all'invito di levare le tende. Quindi provò a far cambiare direzione a Elizavetha.
“Cosa credi di fare?” protestò Elizavetha e Gilbert poteva sentire la donna lottare contro il suo ordine, contrarre i muscoli delle gambe e premere i piedi sul cemento dell’asfalto. Era forte, in vita sarebbe stata in grado di tenergli testa, ma più i minuti passavano più il fantasma guadagnava terreno dove Eliza cedeva alla stanchezza. Gilbert si concentrò sul piede destro della ragazza e pian piano lo vide sollevarsi da terra, mentre Elizavetha dichiarava il suo odio imperituro nei suoi confronti. Inutilmente.

“Cosa vuoi fare? Che trucchi hai in serbo?”
Elizavetha aveva rotto il gelido silenzio dietro il quale si era barricata nell’ultima ora. Gilbert si era limitato a farla muovere nella direzione voluta. C’era sarcasmo nei pensieri della donna, non una traccia di paura o anche solo di preoccupazione. Era la fierezza che aveva visto in certi martiri alla televisione o al cinema.
“Mi farai vomitare color porpora? Ruotare la testa a trecentosessanta gradi?” insistette la ragazza. Gilbert la ignorò il tempo sufficiente a dare teatralità alle sue successive parole. “No, ma credo che sarà un spettacolo vedere la coraggiosa Elizavetha urlare di paura davanti alle maschere più banali.”
“Non lo –“ ma già Gilbert poteva parlare attraverso la sua bocca. Sarebbe stato uno spasso sentirla strillare come una di quelle femminucce di quando andava al liceo, che si muovevano e parlavano come se avessero avuto un solo cervello da condividere. Elizavetha augurò la morte a lui e ai discendenti che non avrebbe mai avuto.
Si stava facendo buio.
“Sarai magnifica nel ruolo della principessa da salvare!”

Note: stiamo giungendo alla fine e si cerca di finire almeno una delle wip lasciate da parte. Ne ho un altro paio, in caso vedrete almeno un'altra mini flash. Altrimenti ci si saluta qui. Ringrazio tutti quelli che hanno messo tra i preferiti, tra le seguite e le persone che hanno recensito. Personalmente mi sono davvero divertita con questa sfida.
Alla prossima!

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Capitolo 14
*** Still life ***


• Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Halloween Party -La Grande Zucca ”a cura di Fanwriter.it!
• Numero Parole: 829
• Prompt/Traccia: A lavora in un obitorio e a B piace fare scherzi pesanti.

Still life

Il direttore dell'obitorio era stato chiaro a proposito della sua tolleranza zero sulla presenza di cibo sul posto di lavoro.
Kiril tuttavia riteneva che l'essere stato bloccato con un morto la notte di Halloween fosse un fastidio sufficiente per meritarsi una deroga alla regola. A sottolineare suddetta convinzione, il cucchiaio in plastica grattò sul fondo del vasetto di yogurt alla fragola, per pulirlo per bene prima che questo fosse gettato nel cestino all'altro capo della stanza con la precisione di un giocatore di pallacanestro professionista.
Rifocillato, Kiril tornò a dedicare la sua attenzione al cadavere, per il momento ancora coperto da un lenzuolo. Qualcuno doveva aver pensato che farsi - o far fare - un volo di dieci piani vestito da fantasma fosse una buona idea per celebrare Halloween.
"Allora, come va?" chiese al morto, come sua abitudine.
"Ho un po' di torcicollo."
Kiril cessò il gesto di scoprire il corpo, pizzicandosi la radice del naso e soppesando l'idea di aprire un altro yogurt. La carenza di zuccheri poteva causare butti scherzi. Optò invece per chinarsi a controllare che qualche burlone non si fosse nascosto sotto la barella. Nulla. Tastò il corpo, trovandolo rigido e immobile come si addiceva a un morto. Forse se lo era solo immaginato.
Con un gesto secco mise a nudo il torace del cadavere. In quel momento uno stridore attirò la sua attenzione. Si voltò verso la porta, ora aperta sul corridoio deserto. Strano, era sicuro di averla chiusa.
"Sarà stato il vento."
"Se lo dici tu!" rispose la voce di prima. Kirl la ignorò. Non poté però ignorare che il cadavere avesse deciso di incrociare la braccia sul petto. Strizzò gli occhi, contando fino a dieci, ripetendosi che fosse tutto il frutto della stanchezza di una lunga giornata di lavoro.
Li riaprì giusto il tempo per vedere un bisturi sollevarsi dal tavolo, sfrecciando a pochi millimetri dalla sua guancia. Si conficcò nel fragile cartongesso del muro. Le luci crepitarono, poi si estinsero ad una ad una. Kirl indietreggiò. Le mani percorse da un tremito cercarono a tentoni il pomello della porta, ma la trovò chiusa a chiave, cosa che era certo di non aver fatto.
“Credo che farò una passeggiata.”
Di nuovo quella voce, ora troppo chiara per essere solo un’allucinazione, seguita da un chiaro rumore lenzuola scostate e di piedi nudi sul pavimento in una stanza dove sarebbe dovuto essere l’unico a respirare.
Clack. La scodella metallica in cui di solito teneva le forbici chirurgiche cadde a terra.
Thud. Qualcosa – o qualcuno – doveva aver sbattuto contro il tavolo operatorio. Approfittando di quell’attimo di distrazione, Kiril tornò a tirare la porta con tutte le proprie forze. Quando si ricordò della chiava di riserva che portava sempre in tasca, il cadavere si era già ripreso.
I suoi passi si facevano sempre più vicini.
Qualcosa gocciolò sulla testa e sul naso del povero dottore, viscoso e pesante, dall’odore inconfondibile. Sangue.
Ora il cadavere aveva le sue mani sulle sue spalle. Kiril strillò come una ragazzina.
Il cadavere rise.

“Avresti dovuto vederti!”
Le luci erano tornate e il morto se ne stava tranquillo al proprio posto, dal quale non si era mai mosso. In compenso Andrei stava ancora sghignazzando.
“Mi hai fatto perdere un infarto!” sbottò Kiril, scosso per lo scherzo. Aveva deciso che preferiva prendersi una bella strigliata il giorno dopo e scusarsi personalmente con i parenti della vittima che rimanere un secondo di più in quella stanza. La caffetteria unta era un luogo migliore dove parlare. Andrei terminò la propria coca-cola.
“Credevo che uno che passa buona parte della sua vita a contatto con i morti non ne avesse paura.”
“I miei morti hanno la decenza di starsene tranquilli. Non parlano, non camminano e soprattutto non lanciano coltelli. A proposito, come hai fatto?”
“Fili invisibili” spiegò l’amico. “E il piccolo Vasile sa come funziona un contatore elettrico” aggiunse, anticipando la domanda sulle luci. Kirl assottigliò gli occhi, puntò un dito al soffitto e proseguì: “Il sangue?”
“Una sacca semi-permeabile, messa in modo che cominciasse a gocciolare quando saresti stato in posizione.”
“Le chiavi.” Con sorpresa di Andrei, Kiril aveva allungato la mano a palmo in su, scuotendola appena ad indicare il suo desiderio che qualcosa fosse restituito. Andrei ghignò e liberò una singola chiave dalla catenella che aveva attorno al collo. “Il calco non era perfetto, ma puoi sempre tenerla come riserva. Dovrei venirti a trovare più spesso.”
In fondo aveva un animo gentile, per quanto burlone, e non desiderava che i suoi scherzi costassero il lavoro all’altro. Certo, Kiril non sapeva che non aveva distrutto il calco della chiave, né aveva fatto parola a riguardo.
Aveva giusto un anno per preparare lo scherzo perfetto.

Note: Kiril è Bulgaria, mentre Andrei e Vasile sono Romania e Moldavia. Questa volta è davvero la fine. Ancora grazie!

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