Il ragazzo rapito

di FRAMAR
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


 
Il ragazzo rapito


 
Sono un giovane di trenta anni e mi chiamo Ciro, napoletano. Vivevo solo con la mamma, in una casetta della campagna vicino a Napoli e avevo un negozio di tessuti in città. Trascorrevo una vita serena e metodica, finché una sera tornando in città dalla casa materna, in una strada buia, illuminai con i fari dell’auto un’ombra che si muoveva. Era un ragazzo giovane quasi senza abiti. Il ragazzo non parlava, poi appena si riprese un po’ dallo choc disse che era stato rapito, ma non ricordava nulla. Non ricordava neppure il suo nome. Gli diedi un nome Angelo, e lo tenni con me. Ben presto Angelo si innamorò di me e non voleva  che  lo lasciassi.

 
“Domani andiamo al paese. A prima mattina”, promisi più a me stesso che a lui.”

La luce del giorno porta conforta, dice mia madre e infatti, quella mattina, io mi sentivo euforico, felice mentre mi sbarbavo di là Angelo rifaceva il letto e cantava. Altri due giorni con me, pensavo, oggi e domani, poi si vedrà.

“Sono pronto”, comunicò Angelo, al di là della porta.

“Anch’io, fra cinque minuti”, risposi, e mi affrettai.

Il cielo era tanto chiaro che pareva un nulla opalescente, l’aria, ancora carica del freddo della notte, era dolce e frizzante.

“Dove andiamo?”, chiese Angelo.

“Ti porto prima a Positano, dove pernottiamo e poi domani a Sorrento e al mio paese”.

“A casa tua”, disse lui. “Voglio conoscere e farmi conoscere da tua madre”.

Il grigio monotono dell’autostrada, i tanti paesi e poi la via che va a Positano: si snoda piena di curve, a sinistra spunzoni di roccia che la mano dell’uomo non ha potuto addolcire, una roccia nei punti dove è stata tagliata, grigia e possente dove è intatta, a destra un basso parapetto che cela soltanto per brevi tratti il mare azzurro impreziosito dalla luce del sole, abbrunato dove posa l’immensa ombra di Capri, tagliato dalla scia del battello che unisce la terraferma alle isole, accarezzato dalle chiglie leggere delle barche di solitari pescatori.

E poi, Positano, che dalla collina spinge e accompagna folti agrumeti, alte palme e bianche case verso il suo mare turchino.

Lasciata l’auto su, in un ampio parcheggio, scendemmo verso la spiaggia per gli ampi scalini, stretti fra  due file di case, ville, giardini, su cui il sole ricamava  giochi di ombre e luci. 

“E’ bellissimo”, diceva Angelo e si fermava a curiosare nelle bottegucce buie, dove un calzolaio cuciva un paio di sandali in cinque minuti, o una sarta modellava la gonna o il corpetto in poche ore, o l’artigiano con pinze piccolissime e  fili di rame, ferro o argento creava un bracciale, una collana o un orecchino in un attimo.

“Voglio quello”, disse Angelo e indicò un cappellino di tela gialla. Entrammo e ne scelse un altro completamente diverso da quello indicato prima: da marinaio, di tela blu con la visiera corta su cui spiccava un’ancora bianca. Se lo ficcò in testa e sembrò più giovane e più sbarazzino.

“Voglio andare in barca”, disse appena arrivammo sulla spiaggia e io noleggiai una barca a motore col marinaio.

L’acqua si arricciava e sottolineava il nostro passare con tante bollicine bianche ai lati, proprio vicino ai bordi, era limpida trasparente incolore, più lontano, verso la linea dell’orizzonte, celeste cupo, sotto le alte aguzze rocce della costa, invece, verde smeraldo. I gabbiani, stupiti o intimoriti dell’improvviso borbottio del motore, si alzavano in volo se erano posati su sporgenze rocciose, o anfano a rifugiarsi fra arbusti verdastri se erano in volo. Soltanto uno pescò vicino a noi e portò su, nel becco, un pesce grosso, ancora guizzante e vivo, che gli sfuggì e tonfò nell’acqua, mentre Angelo applaudiva contento.

Riposammo nella camera della pensione che si affacciava sul mare e poi uscimmo di nuovo per andare in un locale in cui si ballava. Ballammo fino a quando i quattro componenti del complesso non posarono gli strumenti.

Stanchi, dormimmo otto ore di fila e io, allorché mi svegliai mi arrabbiai per averlo fatto. Lui, ora, era lì. Dopo, fra un giorno non ci sarebbe stato più. Avrei dovuto goderne tanto da sentirmene stanco e non lo avevo fatto. Mi accorgevo di amarlo anche così, anche se mi avessero detto che non dovevo toccarlo mai più. Ma come, o Dio! Come si poteva non toccarlo, carezzarlo, quando sorrideva appena sveglio e tendeva le braccia magre da adolescente?

“Dove si va?”, chiese e il suo sorriso fu la deliziosa promessa del nuovo giorno.

“Si va via”, dissi. “A Sorrento e poi a casa mia”.

Attraverso vie alberate, ora strette, tra la costa precipite sul mare e la parete rocciosa, ecco il quieto profilo di Sorrento. Piena di verdi aranceti e argentei ulivi.

Ci fermammo in piazza S. Antonio per bere, poi andammo nelle stradine laterali tenendoci per mano, incuranti della gente che ci guardava scandalizzata. Mangiammo un gelato enorme, fatto di palline variegate dal sapore diverso.

“Andiamo al tuo paese”, disse lui e risalimmo in auto.

Passammo per lo stesso posto in cui l’avevo trovato otto giorni prima, seminudo e spaurito.

“E’ qui”, dissi.

“Qui che cosa?”, chiese Angelo meravigliato.

“Niente”, risposi e non sostai, temendo che lui ricordasse oltre al luogo anche il resto.

Quando imboccai la via alla fine della quale c’era soltanto il mio paese e il mare, mi domandai perché mai stessi portando lì Angelo. Forse desideravo vederlo fra le mura povere della mia infanzia, nella casa in cui mi ero fatto uomo, per constatare quanto lui ne fosse estraneo e umiliarsi o, forse, speravo che una volta giunti, per una magia infernale o celeste, lui avrebbe scelto di rimanervi per sempre.

Mia madre era là, fuori la porta, sulla sedia impagliata.

“O Ciro!”, disse e si alzò. Guardò Angelo. “E’ un ragazzo?”, chiese e strizzò gli occhi per vederlo meglio.
“Sono il suo fidanzato”, disse Angelo ed io sorrisi.

“Ne avevi uno così bello e non me lo avevi mai detto!”, mi rimprovero mia madre meravigliandomi e ci precedette in casa. “E’ tutta qui la nostra abitazione, ma è sempre piena di sole”, disse e sembrò giustificare il povero arredamento e le modeste cose. “Vi preparo il caffè”, aggiunse e sparì in cucina.

Come sempre, mi tolsi la giacca e l’appoggiai sulla spalliera di una sedia, allentai il nodo alla cravatta e mi sbottonai il primo bottone della camicia e stavo per andare a sedermi fuori, quando Angelo disse: “E’ tutto semplice e genuino”. E sospettai che semplice nascondesse povero e genuino significasse volgare, comune.

“Si”, dissi e ritrovai la via della porta e della seggiola.

Fu lui a porgermi la tazzina di caffè  e a riportarla dentro. Aspettai che uscisse di nuovo, ma ne sentii la risata, il parlare sommesso, i gridolini di meraviglia e mi feci forza per non raggiungerlo.

Ecco, alla sommità degli scalini, che dalla spiaggia portavano su al paese, spuntare la figura grassoccia di Lidia che agitò alto una mano per salutarmi e affrettò il passo.

“Come va sei di nuovo qui? Non dovevi venire il mese prossimo? Tonino mi ha detto di averti incontrato a Napoli”.

Angelo si materializzò, improvviso, al mio fianco. “Tu sei Lidia, vero?, cinguettò con un sorriso bonario di chi si sente vincitore.

“Si, tu come lo sai?,  si meravigliò Lidia.

“L’ho capito subito, Ciro mi ha parlato di te”, aggiunse con malizia.

“Davvero?”, domandò perplessa Lidia.

“Si mi ha detto che tu sei la più bella ragazza del paese”.

“Davvero?”, ripeté speranzosa Lidia, ma fu allora che Angelo, vezzoso, sognante mi prese sottobraccio e mi appoggiò la testa su una spalla.

“Ci siamo fidanzati otto giorni fa”, disse e guardò Lidia dritto negli occhi.

Mamma ruppe il silenzio che, improvviso e tangibile, era caduto fra noi: “Venite dentro, è ora del pranzo.”
“Io vado”, disse Lidia, “Buon appetito”.

Le posate, la tovaglia, i piatti mi parvero ancora più miseri fra le mani di Angelo, ma lui non sembrava notarne la pochezza, anzi lodava tutto: il sugo, i broccoletti, il mare, la carne, la pianta  d’edera variegata che s’abbarbicava alla porta, la mela, il letto d’ottone, lo sciale un po’ sfilacciato ai bordi che mamma aveva sulle spalle. Non capivo se era finzione o era tanto contenta di essere lì, da non vedere le cose come erano. Avrei voluto gridarglielo: ehi Sandro Fucile, non esagerare! Come puoi apprezzare questa casa, questa povera vecchia e me, tu che sei abituato a ben altre case, ad altre mamme ed amici ed amori diversi? Gliel’avrei detto più tardi, quando, tonando a casa, avrei fermato l’auto nel punto preciso  in cui l’avevo trovato otto giorni prima.

“Sei di Napoli?”, chiese mamma.

“Si”.

“Dove abiti? Come vi siete conosciuti?”.

Intervenni: “Dobbiamo andar via, perché voglio mostrarti il resto del paese e lo sai che non mi piace guidare al buio”.
 

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


 
Capitolo 2

 
Arrivammo all’altezza dell’acacia, fermai l’auto: “Qui ti ho trovato otto giorni fa”.

“Ebbene? Perché ci fermiamo?”.

“Ti ricordi? Era buio e a stento ti ho visto. C’era minaccia di pioggia e un vento maledetto”.

“Ricordo,  ma perché ti sei fermato?”, chiese di nuovo lui.

“Perché ho da confessarti una cosa”.

“Allontaniamoci da qui, ti prego, mi mette paura”.
“No. Ho bisogno di dirti tutto e tu hai il dovere di ascoltarmi”.

“Bene. Allora mi metto comodo”, disse lui stendendo le gambe e appoggiando il capo al sedile. “Confessa i tuoi peccati, t’ascolto”.

“Tu ti chiami Sandro Fucile”.

Lui si raddrizzò: “Chi te lo ha detto?”.

Su un giornale. Due giorni fa. Sei il figlio unico del famoso Fucile, il re delle calzature. I tuoi genitori ti cercano. Pare che tu sia stato rapito, che sia stato pagato il riscatto, ma tu  non sei mai arrivato a casa. Ti ho trovato io, capisci?  Quando ti hanno lasciato e ti ho portato con me. E’ enorme quello che è successo, quello che ho fatto. E’ vero che tu l’hai voluto, ma io l’ho accettato, perché mi piaceva vederti per casa, mi esaltavo nel fare all’amore con te, mi sentivo diverso quando ti guardavo, mi terrorizzava il solo pensiero di non poterti vedere più, di non trovarti al mio ritorno e mi innamoravo ogni giorno, ogni ora di più. Ora debbo o lasciarti qui e cancellare  questa settimana dalla mia vita, o accompagnarti in questura e confessare tutto, o non so”.

“Sei sicuro che io sono proprio quel Sandro lì?”.

“Si, la foto sul giornale era la tua”.

“Quello che non capisco è perché ti preoccupi tanto. Se tu sai, io non ricordo e perciò posso continuare a stare con te”.

“No”, dissi. “Ora so, ora è diverso”.

“Perché?”.

“Sono onesto e mai come in questo momento me ne faccio una colpa. Allora che cosa decidi?”.

“Allora cosa?”, urlò lui. “Io qui in questo buio non ci resto, in questura non ci vengo, perché io voglio stare con te. Anche se tu non l’hai capito io mi sono innamorato di te”, disse e scoppiò a piangere.

L’abbracciai gli baciai il viso tenendolo fra le mani, poi lo scostai da me e misi in moto. Percorremmo in silenzio l’autostrada frastornati nel rumore della città.

In piazza Garibaldi lui disse: “Lasciami qui. In questura ci vado da solo”, e mi fermai.

Lui aprì piano lo sportello, scese, richiuse e poi si chinò e batté le nocche sul finestrino. Abbassai il cristallo e sporsi il viso a sentire: “ti amerò sempre Ciro”.

Si girò, salì sul marciapiede e si perse fra la gente.

Da quel giorno comprai quotidiani, rotocalchi e ascoltai i radiogiornali, quando ero al negozio e i telegiornali, quando ero a casa. Il mio amore era condizionato dalle varie notizie.

 
Il martedì mattina i titoli in grassetto: “Sandro Fucile torna a casa, ma soffre di amnesia. Abbraccia i genitori angosciati e perplessi”. La televisione: “Il giovanissimo Sandro non riconosce la madre.” Un rotocalco  mette in prima pagina una fotografia di Sandro e sotto: “La tortura, la fame e lo spavento gli hanno fatto dimenticare chi era. Il padre lo porta in clinica”.

Il mercoledì alla radio: “… ha vagato per otto giorni, finché s’è diretto in questura. Non ricorda dove i suoi rapitori lo hanno lasciato…”. Il quotidiano: “i medici l’hanno trovato in ottime condizioni fisiche, ma lo stato mentale è confuso”.

Giovedì: “Sandro riconosce una sua amica e l’abbraccia piangendo…”.

Il sabato una rivista: “Il padre dichiara che Sandro comincia a ricordare e che deve essere soltanto lasciato in pace…”.

Poi più nulla, per una settimana.

Soffrivo di questo silenzio, ma capivo che non faceva più notizia un giovane ormai ritrovato. Il settimanale più lacrimevole e che viveva di queste storie, il venerdì, riportò la storia completa di Sandro: piccolo in braccio alla madre, ragazzino mentre cavalcava un pony, adolescente in una gita scolastica, diciottenne ad un ballo, Sandro a fianco a un bell’uomo, l’ingegnere Arturo Sallustro, ricco costruttore edile, alto, bruno e un naso importante. E’ finita, pensai e avrei pianto. Stupido, che mi ero illuso e innamorato come uno scolaretto, ora bisognava trovare il gusto di vivere la vita di tutti i giorni, cercare un’altra compagnia, magari femminile, chiudere il negozio e tornare al paese, sposare Lidia, o un’altra qualsiasi e semplicemente, ubriacarsi e ridere stupidamente come stavo facendo.

Mi svegliai con un tremendo mal di testa, mi bagnai la fronte e le tempie, bevvi un caffè forte, bruciai il giornale con le foto e lo buttai con rabbia, nella spazzatura.

Al negozio andai a piedi.

“Ehi, Ciro, mi chiamò il fioraio. “Hai visto qui?” e mi tenne aperto davanti al viso il foglio del giornale con la foto di Sandro.

“Perché?”

“Ma non è il giovane che è stato con te?”

“Somiglia, eccome!” dissi con un tremito. “Immagina un po’ se questo stava con uno come me”.

“Già”, convenne, ma perdinci!, mi pareva lo stesso”.

Durante il giorno, ogni volta che mi affacciavo sulla soglia del negozio, vedevo il fioraio che mi faceva l’occhietto e sospirava.

A casa tornai di notte, quando già le strade erano deserte e mi ficcai a letto, sperando di prendere subito sonno per le due pasticche di sonnifero ingoiate poco prima. E il sonno venne, pesante e pieno di incubi. Mi svegliai stanco, debilitato e con un tremito alle mani che mi spaventò. Mentre mi lavavo decisi di chiudere il negozio per alcuni giorni e andarmene. Ma dove? Al paese non avrei sopportato gli interrogativi negli occhi di mia madre. E le solite facce degli amici e lo stesso mare e le stesse vie. A Taormina: ecco dove volevo andare da tempo. Una settimana, un mese a Taormina, fino a consumare quei pochi soldi che avevo e poi avrei ricominciato da capo.

Riempii una valigia con la mia biancheria e mi ficcai in auto.

Mandorli in fiore, zagare di limoni e di arancio, alti ciuffi di ginestre, poderose tronchi di fichidindia fiancheggiavano il chilometrico viale che immette a Taormina. Lasciate giù le case, le vie asfaltate, andai incontro a giardini, alberghi, ville candide e odorose e mi fermai alla prima pensione che incontrai. Una giovane donna bruna dagli occhi neri e le lunghe ciglia mi accolse con gentilezza.

“Si, c’è una camera con la vista sul mare: E’ la numero dodici. Quanto tempo si trattiene?”

“Di certo una settimana”, risposi.

“Va bene, comunque nei prossimi giorni dovrà essere più preciso, giacché c’è tanta affluenza in questa stagione”.

“Lo farò non si preoccupi”, risposi:

Sistemato nell’ampia camera, dato uno sguardo al mare quasi falso per quel colore turchino intenso, su cui si adagiava un’isoletta verde, uscii in  strada, dopo aver preso dal banco una guida turistica. Seduto al tavolino di un bar, feci il programma per sei giorni e ripromisi di rispettarlo: L’elegante lido di Mazzarò, il teatro greco da cui si gode il panorama incomparabile del golfo di Nasso e della cima nevosa dell’Etna, la severa facciata del duomo, la Badia Vecchia dall’elegante alternarsi di pietra bianca e quella nera, le ville, i fiori…

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


 
Capitolo 3


 
Tornavo stanco per il pranzo e la cena e dormivo contento di non pensare. Dopo il terzo giorno, il mio girovagare non fu più solitario: un delizioso svedese mi fece compagnia. Biondo, dalla pelle rosata. Gli occhi grigi e un incedere da gazzella. Mi seguiva dappertutto, anche a letto, e fu più facile non pensare. Ci capivamo a gesti, a parole smozzicate e con sorrisi. Era dolce e arrendevole di carattere,  morbido e tenero nell’amore. Era un impiegato in vacanza e al suo paese, si era appena lasciato dal suo compagno. Fi-ni-to, diceva, sillabando e ridendo, forse perché era felice di essere libero. Anche io avrei voluto sillabare fi-ni-to, ma non potevo ancora, perché lì, in un angolo della mia mente, c’era sempre quel dolore che avrei voluto cancellare.

La proprietaria della pensione mi chiese dopo sei giorni: “Che cosa ha deciso? Resta?”.

Esitai, contai mentalmente il denaro rimastomi e dissi: “Vado via martedì”.

Mi ero concesso altri tre giorni e quando seppi che lo svedese, si tratteneva fino a quando c’ero io, ne fui contento.

Furono i giorni più pazzi della mia vita: cantai a tutto volume una canzone napoletana fra le mura del teatro greco, feci il bagno in un mare ancora freddo, ballai in una movimentata  sfilata di costumi e strumenti musicali regionali, salii su uno degli ippocampi che adornano la fontana di piazza Duomo e percorsi tutto il corso Umberto I su un carretto siciliano, venuto per il raduno dei carretti antichi.

Venne il martedì mattina: baciai il mio bel svedesino , promisi di scrivergli e di andare in Svezia, pagai il conto e salii in auto. Lui mi salutò agitando la mano e disse: “Ritornerò”.

Il viaggio lo feci tutto d’un fiato, fermandomi solo una volta per uno spuntino ed era notte quando arrivai a Napoli.

Stavo aprendo il negozio, allorché il fioraio mi chiamò con un cenno della mano e con un’aria complice: “E’ venuto ieri”.

“Chi?”

“Lui, il ragazzo che stava con te. Visto da vicino somiglia sempre di più a quel Sandro Fucile”.

Il battito del cuore lo sentii in gola.

“Che cosa voleva?”.

“Te. Ha detto che non ti aveva trovato nemmeno a casa”.

“Stai scherzando?”.

“No, tanto è vero che non scherzo, che ti ha lasciato questo”, disse il fioraio, e mi posò in mano un fogliettino grosso quanto una noce.

Lo strinsi nel pugno e ringraziai.

“Ehi, ma si può sapere chi è?”, chiese il fioraio, ma io ero già lontano per poter rispondere.

Ebbi la forza di servire il primo cliente e poi aprii il cartoccetto: in una velina c’era il bracciale portafortuna che io gli avevo regalato. Che cosa significava? L’addio definitivo dopo aver ricordato tutto o una promessa di ritorno? Certamente l’addio e la giusta conclusione di una storia malsana. Ficcai il bracciale nella tasca della giacca e continuai il mio lavoro, guardando sempre la strada, anche  nell’intervallo per la chiusura, restai lì con la serranda centrale abbassata e le due laterali delle vetrine alzate, attraverso le quali potevo vedere la via. Una speranza folle la mia. Come poteva, lui, tornato fra la sua gente e nella sua casa, aver nostalgia di me e delle mie povere cose?

Era buio quando chiusi il negozio. Mi avviai a piedi entrai in un bar e presi un caffè e mangiai un dolce, poi ripresi a camminare.  Mi alzai il bavero del giaccone e continuai ad andare senza una meta precisa sotto una pioggerellina fitta e sottile. Mi trovai davanti al portone del palazzo di Sandro e capii che, inconsciamente, avevo desiderato  di arrivarci. Al quinto piano abitava lui. Il balcone della sua camera da letto era quello centrale, come avevano detto i giornali. Alzando il viso me lo bagnai tutto e malinconicamente constatai di essere  un buffo uomo che rincorreva  un assurdo e impossibile amore. Mi allontanai e presi un pullman che mi riportò alla mia auto.

Dormii male e fumai moltissimo. Mi svegliai con la testa pesante e gli occhi che mi bruciavano. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, ma con chi? Tutti i miei amici erano al paese e seppure li avessi cercati non mi avrebbero potuto aiutare, perché gente semplice o retoricamente  attaccata a quei princìpi millenari che stabilivano il preciso confine  fra quello che sta bene e quello che non sta bene e non si fa.  Zio Ciccio  mi avrebbe ascoltato, fumando la pipa e sputando a terra di tanto in tanto,  e poi avrebbe detto: “Non è per te quella è gente diversa, viziata e tu sei un bravo ragazzo. Scordatelo. E poi scusa hai detto che è un uomo? Ma sei impazzito?  Ci vuoi fare svergognare e prenderci in giro da tutti”. Silvano, il barista, avrebbe ascoltato con occhi maliziosi e infine avrebbe steso i baffetti setosi su un sorrisetto furbo, dicendo: Beato te! Te ne sei visto bene”. Gennaro, il mio compagno dello scopone, giocato nei lunghi pomeriggi invernali ad un tavolo del bar in piazza  mentre fuori c’era vento e pioggia e i vetri si rigavano grigiastri, avrebbe ascoltato con meraviglia, sgranando gli occhi e arricciando la fronte. E avrebbe detto: “E’ molto bello! Io l’ho visto sui giornali. Vedrai, tornerà, tornerà, tornerà”, e avrebbe continuato a ripeterlo per impossessarsi e far suo quel sogno. A mia madre no, a lei non potevo dirlo, si sarebbe spaventata tanto per me, innamorato e infelice.

Sentii squillare il cellulare e sperai che fosse Sandro e invece era Lidia.

“Ciao Armando sei tu?”.

“Si, dimmi.”

“Tua madre non sta bene, stanotte volevano portarla in ospedale, ma non ha voluto. Per convincerla c’è bisogno di te”.

“Il dottore che ha detto?”.

“Ha avuti un ictus cerebrale e deve essere ricoverata”.

“Arrivo stamani, ciao”.

A casa trovai tanta gente e Lidia e il vecchio dottore dagli occhi bovini e la voce baritonale, che disse: “Devi portarla a Napoli, là sarà curata a dovere”.

Mia madre, che non poteva parlare, perché aveva le labbra un po’ storte e tirate, si fece vestire da tante mani amiche, a cenni pretese il  suo scialle e sorrise, con gli occhi, quando io la sollevai in braccio per portarla in auto.

“Veniamo con te”, disse Lidia, indicando il fratello Tonino.

Durante il viaggio mamma si addormentò ed era tanto bianca in volto che pareva morta. Tonino parlava degli studi, del suo avvenire, di tante cose e pareva  stessimo facendo un viaggio di piacere se non fosse stato per qualche lamento della povera mamma e la voce querula di Lidia.

Arrivammo in ospedale e mamma se ne andò nella barella spinta da un’infermiera per un corridoio lungo  io la salutai con la mano, finché scomparve nell’ascensore.

“Oggi iniziamo gli accertamenti. Per le visite domani a mezzogiorno”, disse un dottore.

“Ed io non potrei starle vicino?”, gli chiese Lidia.

“Per ora no, se ci sarà bisogno, vedremo”.

In strada Lidia disse: “Noi rimaniamo qui. Come fai tu solo fra il negozio e l’ospedale? Veniamo Tonino ed io a casa tua, finché questa brutta malattia non finisce”.

Dieci giorni durò.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 
Capitolo 4


 
 
Dovetti comprare una branda e un materasso per dormire nella stanza da pranzo e lasciare così la camera da letto a Lidia e a Tonino. Lidia si alzava presto e mi portava il caffè a letto. Mi lavava e stirava le camicie, mi preparava il pranzo. Mi faceva trovare il pigiama con la giacca già sbottonata stesa sul letto e andava tutti i giorni all’ospedale. Un giorno a tavola, c’erano un mazzo di margherite bianche e un pacchetto.

“Cos’è?”, chiese.

“Auguri!”, disse Lidia e Tonino le fece eco.

“Oh”, dissi e ricordai compivo trentun anni e mi commossi. Aprii il pacchetto. “E’ il mio profumo preferito. Grazie, siete veramente gentili e affettuosi”.

Baciai Tonino e strinsi la mano a Lidia e notai che era particolarmente graziosa e le chiesi: “Hai un vestito nuovo”?”

“Ti piace? L’ha comprato al corso Umberto”, disse Tonino.

“Si”, aggiunse Lidia, abbassando gli occhi. “In città è diverso, senti il bisogno di farle certe cose”.

“Allora si deve andare in qualche posto, oggi. A passeggio, al cinema, dove voi volete”, dissi  guardando anche Tonino”.

“Io no, ho un appuntamento”.

“Allora sarà Lidia a decidere”.

“Ma io debbo andare all’ospedale”. Obiettò lei.

“Non hai detto che mamma sta molto meglio? E dunque?”.

Andammo al cinema. Nel buio le presi una mano e la sentii ruvida nel palmo e ossuta nelle nocche e ricordai l’altra mano. Per sfidare me stesso, in auto, le baciai prima una guancia e poi le sfiorai le labbra. Furono gli occhi chiusi di lei a spingermi a baciarla ancora.

A casa trovammo Tonino sprofondato in una poltrona, davanti al televisore.

“Tu sei già tornato?”, domandai.

“In verità non sono nemmeno uscito, perché c’era la partita”.

“E l’appuntamento?”.

Tonino non rispose, ed io capii che l’appuntamento era tutta invenzione.

Erano le tre di notte quando squillò il cellulare.

Mia madre morì dolcemente all’alba, mentre il cielo si schiariva e la città cominciava a vivere. Lidia fu l’unica a piangere, io rimasi inebetito e guardare quegli occhi ormai chiusi per sempre, quelle mani scure incrociate su un rosario dai grani lattiginosi e quei setosi capelli, che un spiffero d’aria, inutilmente, smuoveva sulla fronte dove erano più fini e più corti.

La seppellii al paese, in quel cimitero bianco e verde che era sulla collina e vennero tutti, a gruppi,  dalle case sul mare e dalla campagna con tanti fiori e da lassù parve una festa.

Lidia mi chiese: «Tornerai?», ma non attese la risposta e aggiunse: «Io ti aspetterò.»

La salutai fra gli altri, sentendo un po’ di affetto per tutti e desiderai di restare lì per abbandonarmi alle loro premure, ma furono loro stessi ad accompagnarmi all’auto, a spingermi al mio posto di guida e ad esortarmi:  Va, a Napoli ti distrai, e non pensare più a questa triste giornata.

Sveglia. Negozio e clienti. Cena davanti al televisore. Notte insonni a pensare: a Sandro, alla mamma, alla Lidia. Giorni sempre uguali e sofferti. Venne a trovarmi Tonino, accettai di andare a pranzo con lui e seppi che partiva per l’Inghilterra. Lo invidiai un poco, poi lo dimenticai. Lidia mi telefonò due volte e ogni volta mi chiese: Quando vieni? Mi commossi nel sentirla, ma non andai al paese. Il fioraio mi invitò a cena a casa sua e io accettai, ma una seconda volta rifiutai perché mi disturbava il vocio dei bambini e mi immalinconiva l’agitarsi premuroso della moglie.

Da un giornale seppi: Sandro Fucile è guarito. Ha festeggiato con gli amici i suoi ventidue anni in un locale sul lungomare. Due fotografie: lui che ballava guancia a guancia con un uomo: lui rideva con un bicchiere di spumante in mano.

Una sera, seduto sulla poltrona davanti al televisore, mi accorsi che stavo piangendo: Mi sentii buffo, imbecille, inutile e immaturo.
Capii che dovevo reagire se non volevo essere distrutto da quel magone che tenevo nel petto. Il giorno dopo bisognava andare al paese e sistemare le poche cose rimaste  di mia madre e parlare con Lidia. Dovevo chiederle di sposarmi. Sarebbe stato onesto. Le avrei detto tutto: di Sandro. Di pazientare con me, perché ero come uno ubriaco che non ritrova più se stesso, aspettare soltanto un altro poco di tempo e la sbornia sarebbe passata. Le avrei anche detto che io oltre a Sandro, l’unica persona a cui avevo pensato con affetto era lei. Bisognava dirgliele queste cose, perché Lidia era una donna onesta e innamorata. Napoli a Lidia piaceva, sarebbe venuta volentieri in quella casa  e io avrei sempre trovato il pranzo pronto, la biancheria pulita e avrei avuto tanti figli. Che forse non si dice, e lo ripetevo sempre quell’anima benedetta di mia madre, mogli e buoi dei paesi tuoi.

Mi alzai. Chiusi il televisore. Erano le tre. Decisi che sarei partito alle sei e verso le nove sarei stato da Lidia. Lungo la strada le avrei comprato dei fiori. O una scatola di cioccolatini. Le donne del mio paese non apprezzano il denaro speso per comprare i fiori perché loro i fiori li coltivano tra le viti e gli ulivi. Avrei comprato una scatola grossa così di cioccolatini.


 
Indossai il pigiama, caricai la sveglia, fissai la suoneria sulle sei, spensi la luce.

Bussarono alla porta.

Quel suono mi penetrò nel cervello con violenza. Mi alzai, intontito e gridai forte: chi è?, ma non avendo risposta, se non quel suono stridulo e continuo, andai a piedi scalzi e aprii.

Tanti capelli, due braccia esili ma forti nella stretta e una voce calda, allegra: «Sono io, Angelo. Chi vuoi che venga a bussare alla tua porta a quest’ora? Soltanto io. Dovevo venire, sai?», e alzò gli occhi azzurri a guardarmi. «Non ce la facevo più. L’ho detto agli altri: a mia madre, a mio padre. Alla mia vecchia zia e a lui, Vittorio. Prima era tanto, ora è niente», e con una mano mi carezzò il viso. «Quando ho ricordato tutto, ho capito che io stavo bene soltanto qui, con te e in questa casa. Se tu mi vuoi ancora, io resto», disse a appoggiò una guancia sul mio petto.

Chiusi la porta, lo sollevai tra le braccia, gli baciai piano le labbra e lo portai verso la camera da letto.

«Puniscimi , padroncino, sono stato cattivo, ti ho fatto soffrire!»

«Non posso punire chi amo, cucciolo.»
 

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