Diamond Dreaming Eyes

di Son of Jericho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - 10.12 (Prologo) ***
Capitolo 2: *** II - iLostYou ***
Capitolo 3: *** III – Near, Far, Wherever you are ***
Capitolo 4: *** IV - iDon'tWannaRunaway ***
Capitolo 5: *** V - Cards In The Deck ***
Capitolo 6: *** VI - iCanOnlySeeTheClouds ***
Capitolo 7: *** VII - Since Day 1 ***
Capitolo 8: *** VIII - i'mLookingIntoYou ***
Capitolo 9: *** IX - Sparks & Sunlights ***
Capitolo 10: *** X - iFaceMyMistakes ***
Capitolo 11: *** XI - Warm Winds, Broken Wings ***
Capitolo 12: *** XII - iFeelSelfishInThisWorld ***
Capitolo 13: *** XIII – Behind The Curtains ***
Capitolo 14: *** XIV - iAmMyDemon ***
Capitolo 15: *** XV – Burning Hands ***
Capitolo 16: *** XVI - iTruth ***
Capitolo 17: *** XVII – Corporate Dinner ***
Capitolo 18: *** XVIII - 09.12 ***
Capitolo 19: *** XIX – December 10th ***



Capitolo 1
*** I - 10.12 (Prologo) ***


Premessa / Angolo dell'autore:
Salve a tutti! La storia che sto per presentarvi, Diamond Dreaming Eyes, è il sequel di "How can I know you, if I don't know myself?", pubblicata al link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3143056&i=1
Per chi non l'avesse letta, il mio consiglio è di recuperarla prima di iniziare questa, in modo da avere così qualche nozione in più sui fatti che saranno narrati.
Diamond Dreaming Eyes è ambientata due anni dopo il primo racconto, e riprenderà e seguirà le vicende di Beck&Jade, Freddie&Sam, Robbie&Cat e Andre&Tori attraverso i loro rispettivi percorsi.

Vi propongo questo primo capitolo, il prologo, come anteprima, in attesa della pubblicazione definitiva della storia.

Auguro a tutti una buona lettura!


 

I - 10.12 (Prologo)

 

Los Angeles, 10 Dicembre, ore 01:25

 

Una stella piangeva dal cielo, poteva sentirla.

Seduto sullo scalino del portico, Freddie osservava distratto la pioggia cadere impetuosamente alla luce di un lampione. La grondaia lo riparava dall’acqua, e lui si lasciava cullare dal martellare delle gocce sull’asfalto e dal ruggito di qualche auto. I brividi che provava non erano dati solo dal freddo.

Non sarebbe riuscito a prendere sonno, si era rassegnato. Almeno, non dopo ciò che lei gli aveva rivelato quel giorno.

E adesso, immerso nella quiete di una notte tra tante, non poteva fare a meno di ripensarci.

Anche la sera in cui era arrivato pioveva. Un ironico segno di benvenuto, mentre l’aereo atterrava e lui si univa al flusso di passeggeri, prima ordinati allo sbarco, subito dopo pronti a separarsi ognuno per la propria strada.

Si era ritrovato subito solo. Solo, esattamente com’era stato negli ultimi anni.

In passato era andata bene così, perché per quanto fosse stato da deboli, lasciare tutto com’era gli aveva permesso di rimanere al sicuro da tutto quello che temeva.

Ripresentarsi lì invece aveva significato fare un passo indietro, ritrattare una decisione all’epoca dolorosa e sofferta.

Allora si era fidato di se stesso, si era convinto di aver fatto bene. Questa volta no.

Ormai faticava persino a ricordare perché si trovasse a Los Angeles. Si stava chiedendo se volare fino a lì fosse stata la scelta giusta, se potesse ancora trovare un posto da chiamare “casa”, se avesse davvero senso ripartire da quella città dopo averla evitata per tanto tempo.

In verità non si sentiva più sicuro di niente, e forse nemmeno sapeva cosa potesse sperare. I suoi sogni e le sue aspirazioni erano rimasti indietro, non lo avevano seguito, oggi come quattro anni prima.

Com'era la battuta di quel famoso film?

"Non può piovere per sempre", diceva un eroe.

Vero, così com’è vero che nel cuore di alcune persone, certi temporali non si placano mai.

E lui, dell'eroe, non aveva un bel niente.

 

*****

 

In un appartamento lontano appena un paio di isolati, Beck Oliver stava riposando serenamente al termine di una giornata di lavoro. La serranda abbassata aveva fatto precipitare la camera nell’oscurità, e dalla finestra soltanto filtravano soltanto pochi fasci di luce, a disegnare strisce argentate sul pavimento.

A un tratto un fastidioso e insistente rumore strappò il ragazzo dal mondo onirico. Beck si rigirò nervosamente nel letto, cercando di mettere a fuoco cosa fosse.

Si voltò verso il comodino e intravide un intenso bagliore proiettato sul soffitto, accompagnato dal ronzio della vibrazione. E mentre allungava pigramente la mano per afferrare lo smartphone, si maledisse per non averlo spento e lasciato in cucina.

Con gli occhi ancora socchiusi se lo portò all’orecchio. – Pronto? –

La sua voce era ancora impastata, quella dall’altro capo invece sembrava bella vispa. - Beck? –

Il canadese mugugnò qualcosa.

- Scusa se ti disturbo a quest’ora, è solo che… -

- Ma chi sei? – lo interruppe bruscamente.

L’altro esitò un secondo. – Sono Freddie. –

- Freddie? - ripeté confuso – Che succede? –

Adesso si era fatto più incerto. – Possiamo vederci? –

- Adesso? Cavolo, amico, sono le… – Beck contrasse la fronte e sbirciò lo schermo. – Le due del mattino! Io domattina devo alzarmi presto. E’ così importante? –

- Sì, lo è. Dobbiamo parlare. –

Beck si tirò faticosamente su e si stropicciò le palpebre. – E va bene. Dove sei? –

- Sotto casa tua. –

Te l’avevo detto che era importante, Beck.

 

*****

 

- Mi hai mentito! - Faceva male anche solo pensare a quelle parole, e lo faceva ancora di più sapendo di doverle pronunciare contro di lei.

Confusa e infreddolita, Tori si bloccò sulla soglia. I vestiti e i capelli fradici, per il temporale che si stava abbattendo per le strade. Le gocce che colavano dal cappotto stavano formando una pozza ai suoi piedi. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quello del ragazzo, mentre vento e gelo le percuotevano la schiena.

Andre la stava aspettando, immobile di fronte a lei. Il tono colmo di rancore, gli occhi annegati nella delusione. La stava fissando come fosse un’estranea.

Nascondendo il tremore della mano, Tori si chiuse la porta alle spalle. – Di che stai parlando? –

Gli sfuggì un sospiro. Non credeva sarebbero arrivati a quel punto. – Dove sei stata? –

- Ero da Jade. –

- Ha chiamato Cat un’ora fa, ti cercava. –

- Te l’ho detto, ero… -

- Smettila di prendermi in giro, ti prego. - la voce si stava incrinando, come corrosa da un boccone troppo amaro da buttare giù. – Cat era con Jade. Aveva bisogno di te, e tu non c’eri! –

Tori cercava di mantenere la calma, ma il respiro era sempre più rarefatto e il suo cuore sembrava battere al contrario. Un sottile rivolo di pioggia iniziò a calarle dalla fronte fino a inumidirle l’occhio, per poi andare a posarsi sulle labbra.

Si stavano perdendo dentro un silenzio che avrebbe potuto durare tutta la notte.

Era difficile capire cosa stessero provando l’un l’altro, ognuno perso nelle proprie elucubrazioni, senza curarsi se fossero giuste o sbagliate.

E malgrado fossero consapevoli della criticità del momento, nessuno dei due si dimostrava in grado di dire ciò che sarebbe servito.

- Pensavo tu fossi l’ultima persona al mondo da cui potermi aspettare una cosa del genere. Evidentemente mi sbagliavo. – Andre le voltò le spalle, mentre il tono si faceva ancora più aspro, quasi macchiato dalla crudeltà. – Buonanotte. –

Sbatté la porta di camera con rabbia. Forse avevano ragione gli altri: nel bene o nel male, il loro rapporto non era come lo aveva sempre immaginato.

 

*****

 

Freddie aveva bisogno di parlare con qualcuno, e sapeva che nel momento del bisogno avrebbe potuto contare su Beck. Sarebbe rimasto ad ascoltarlo, così come aveva fatto lui, a parti invertite, tanto tempo prima.

I pomeriggi trascorsi in quel pub dalla vaga aria irlandese riaffioravano, mentre Freddie gettava fuori tutto ciò che lo stava opprimendo.

Erano seduti al tavolo della cucina, uno di fronte all’altro. Due tazze di caffè fumante facevano da contorno al racconto.

Beck, in canottiera e boxer, risentiva ancora della brusca sveglia. Con la mano immersa tra i capelli e le palpebre pesanti, cercava comunque di seguirlo con attenzione.

Suonavano familiari le parole dell’amico, eppure doveva ammettere di non averlo mai visto così e di non averlo mai sentito esprimersi in quei termini.

Qualcosa lo stava tormentando. E quando Freddie gli rivelò cos’era successo quella mattina, Beck ebbe chiaro cosa fosse.

- Mi dispiace, amico. So quanto tenevi a lei. – fu soltanto in grado di commentare. Era uno dei pochi a conoscere l’intera storia alle spalle di Freddie, e almeno in parte, comprendeva il suo stato d’animo.

Freddie si portò la tazza alla bocca e distolse lo sguardo. Avrebbe dovuto essere felice per lei, eppure non lo era. Non stava nemmeno provando ad esserlo.

Essere felice avrebbe voluto dire mostrare maturità. E lui, a quanto pare, era molto meno maturo di quanto credesse.

Un ragazzo intelligente, gran studioso, onesto e riflessivo, gli ripetevano da sempre. E per cosa? Poteva dire di essere davvero così?

Era un codardo, ecco cosa. Il mondo era andato avanti e la sua vita fremeva per fare lo stesso, ma lui aveva preferito tenerla legata sotto una campana di vetro. L’università, la macchina, il lavoro: tutte illusioni pur di non affrontare ciò che avrebbe potuto essere. Aveva pensato che rifiutare ogni cambiamento e lasciare tutto com’era gli avrebbe permesso di stare meglio.

Aveva scoperto di essersi sbagliato. Era stata la paura a parlare. La paura di un bambino che non vuole crescere, non quella di un ragazzo adulto e maturo.

Carly se n’era andata e lui non aveva fatto niente.

Spencer e Gibby se n’erano andati e lui non aveva fatto niente.

Sam se n’era andata… e nemmeno in quel caso era stato in grado di fare niente.

Perciò era giusto che fosse andata a finire così. In fondo, se lo meritava.

 

*****

 

Jade aveva sempre adorato le tenebre, le donavano pace e le conferivano una particolare forza.

Non quella notte, però. Distesa con gli occhi sbarrati a fissare il nulla, era come se un fuoco amico stesse cercando di intaccare la sua dura corazza. Nel buio della sua camera, poteva avvertire il peso del dolore che le persone cui voleva bene stavano attraversando.

Poteva sentire Cat piangere nella stanza accanto, i singhiozzi sommessi e le lacrime a bagnare il cuscino. Una dolce ragazza a cui stavano strappando via la fiducia negli altri e nel mondo, con la sola colpa di essere innocente in un mare di squali.

Il terreno svanisce da sotto i piedi, quando realizzi che una persona non è quella che avevi idealizzato.

Ripensò anche alla telefonata di Andre di un paio d’ore prima. Aveva percepito la frustrazione nella sua voce, e le sembrava di poterla avvertire anche adesso. Poche parole ma, ne era convinta, sufficienti per condizionare in maniera irreversibile il rapporto tra lui e Tori.

Nessuno è perfetto, e uno sbaglio, per quanto piccolo, in certe occasioni può significare molto. La sincerità non dovrebbe essere un’opzione in un rapporto.

Hollywood era destinata a non dormire, e Jade non sapeva cosa fare.

Fin da piccola aveva imparato a vedere la vita con occhi cinici, ad affrontarla con la testa alta e i pugni chiusi, così da mostrarsi più forte di lei. Ma sapeva che non sempre le cose vanno come previsto.

A volte la persona a cui affidi tutta te stessa e che credi fondamentale per la tua felicità, può rivelarsi la più potente fonte di sofferenza. Quando non riconosci più chi hai davanti, e non ricordi nemmeno perché ti sei innamorata.

Aveva provato sulla sua pelle che, in quei momenti, il passato non importa più, il presente è un inferno e il futuro è un orizzonte sfocato.

Jade si era ritrovata una profonda cicatrice sul cuore a dimostrazione di tutto questo, che ancora oggi non aveva smesso di fare male.

E che tutti i giorni le ricordava perché non credeva più nell’amore.

 

*****

 

Anche di notte le strade principali di LA erano trafficate come in pieno giorno. Mentre Freddie percorreva a ritroso i due isolati dalla casa di Beck, immaginava che, se era la quiete ciò che stava cercando, era decisamente nel posto sbagliato. Gli sfrecciò accanto una cabrio con quattro ragazzi esaltati, probabilmente diretti alla spiaggia e quasi certamente ubriachi. Per fortuna aveva smesso di piovere.

Erano rimasti a lungo in silenzio, lui e Beck, al tavolo della cucina. Non che ci fosse poi molto da dire, dopo quello che gli aveva raccontato. Il canadese aveva capito che, piuttosto che una risposta, Freddie aveva bisogno di sfogarsi e soprattutto di pensare. Ascoltandolo, Beck si era chiesto cosa avrebbe fatto al suo posto, cosa gli avrebbe suggerito l’istinto. Non era riuscito a rispondere neanche a se stesso.

Serviva tempo per accettare la notizia e una mente lucida per reagire. E se esisteva qualcuno che poteva farcela, quello era Freddie Benson.

Freddie rientrò al suo appartamento quando gli orologi segnavano quasi le tre. Dormire era ancora fuori discussione.

Senza accendere le luci, prese qualcosa dal frigorifero e andò in soggiorno. Si sedette al tavolino e accese il portatile, mentre lasciava che lo sguardo vagasse per un po’ fuori dalla finestra.

Aprì Skype e attivò la webcam. C’era un’altra persona che avvertiva disperatamente il bisogno di sentire. Guardò l’orologio: non avrebbe corso nemmeno il rischio di svegliarla, in fondo in Italia era già mattina inoltrata.

Fece partire la videochiamata al contatto Carly Shay.

Ebbe un certo effetto rasserenante l’apparizione del volto della ragazza sul monitor, qualche secondo dopo.

- Ciao, Carly. – esordì rigido.

- Ciao, Freddie! – lei sembrava veramente felice di vederlo. – Mi hai trovata appena in tempo, stavo per uscire. Come stai? -

Freddie si sforzò di abbozzare un sorriso. – Mi concedi un minuto? Vorrei parlare un po’ con te. –

- Certo… - l’amica aggrottò la fronte, preoccupata. – Che succede? Va tutto bene, tesoro? –

Freddie esitò di fronte a quella domanda. Evidentemente, la luce soffusa e la sgranatura della webcam non erano bastate a nascondere il suo sguardo assente.

Era deluso, ecco cosa avrebbe voluto rispondere. I suoi timori alla fine si erano avverati, e quello che avrebbe dovuto essere un passo verso il domani, si era rivelato un passo nel vuoto. Si sentiva smarrito. E sentiva anche di aver perso un’importante parte di sé.

- Si tratta di Sam. E di me. –

C’erano parecchie cose da raccontare.

 

 

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Capitolo 2
*** II - iLostYou ***


II - iLostYou


 

Seattle, tre mesi prima

 

- Io non ho più niente qui, mamma! –

Le dure parole di Freddie avevano inondato l’appartamento al Bushwell Plaza, urtando le pareti come un terremoto. Lo sguardo di sua madre si era fatto incredulo e sconcertato.

La vita di Freddie Benson scorreva tranquilla a Seattle.

Dopo il liceo si era iscritto alla facoltà di economia e aveva continuato il suo trend positivo, risultando agli occhi dei professori sempre uno dei migliori ai loro corsi. Non era arrivata la tanto agognata borsa di studio sognata da Marissa Benson, ma poteva dirsi comunque soddisfatta dell’andamento del figlio.

Per contribuire alle spese di casa e mettere qualcosa da parte, Freddie aveva trovato anche un lavoretto. Tre giorni a settimana aiutava il padrone del bar accanto al Bushwell Plaza, dandosi da fare tra servizi e pulizie.

Il tempo che gli rimaneva lo spendeva sui libri e ogni tanto in qualche appuntamento senza particolare importanza.

Sembravano lontani i giorni di iCarly, del volto dietro la telecamera, dei conti alla rovescia incompiuti. Si ritrovava sempre più raramente a pensare al web show, a Carly e a Sam, come se fossero ormai ricordi prossimi a dissolversi. Sembrava far tutto parte di un’altra vita, considerato che quella che aveva adesso non gli stava per niente stretta. Aveva trovato un suo personale equilibrio, senza troppe pretese.

Era bastata però una semplice telefonata, la sera prima, per farlo accorgere di quanto fosse fragile quell’equilibrio, basato su anni di bugie a se stesso.

Erano state le parole di Gibby a spezzarlo bruscamente.

Da quasi due anni, Il suo vecchio amico si era unito a un gruppo di giovani esploratori specializzati in speleologia, e aveva cominciato ad essere coinvolto in lunghi viaggi in giro per il mondo. Freddie sapeva che era stato in diversi paesi dell’Asia e dell’Africa, e per quanto ne sapeva, adesso si trovava in Bahrain per una ricerca su alcuni antichi reperti. Le comunicazioni tra loro erano già ridotte al minimo e, di fatto, da quando era partito non lo aveva più rivisto.

Tuttavia, qualche giorno prima, Gibby gli aveva comunicato che sarebbe riuscito a liberarsi per l’estate, e che gli sarebbe piaciuto tornare a Seattle per trascorrerla. Inutile dire quanto Freddie ne fosse stato felice, nonostante i loro rapporti non fossero più quelli di un tempo. Erano cresciuti, avevano sviluppato vite e interessi diversi, ma questo non significava che la loro amicizia dovesse essere finita.

Freddie era corso al telefono aspettando di sentirsi dire quando Gibby sarebbe arrivato, ma non era stato così. L’amico lo aveva informato che sarebbe rimasto lontano dagli Stati Uniti ancora per un po’, prima di imbarcarsi per un’altra traversata.

- Non riesco a tornare a Seattle per l’estate. –

E in qualche modo era stato proprio questo, un’idiozia che in qualunque momento avrebbe superato senza problemi, a far saltare l’ultimo filo che lo teneva legato.

I pensieri che già da tempo affollavano la mente di Freddie, occultati alla sua stessa ragione, erano riusciti a sfuggire al suo controllo. Si erano insinuati prepotentemente davanti ai suoi occhi, e lui si era ritrovato a fronteggiarli uno per uno.

Troppo a lungo aveva ingenuamente creduto di poter resistere in quel modo, confinando le rare incertezze che ogni tanto facevano capolino in qualche remoto anfratto.

Avrebbe dovuto sopportare l’ennesima delusione, ma stavolta voleva che fosse l’ultima della lista.

- Di che stai parlando, tesoro? – Marissa non poté fare a meno, almeno all’inizio, di pensare che suo figlio stesse scherzando. – L’università, il lavoro… -

Freddie si sentiva come guidato da un’ombra. – L’università serve solo a illudermi, e a nient’altro. Credi davvero che a qualcuno interesserà la mia media, dopo la laurea? Sarò bloccato comunque in quel “lavoro”, come lo chiami tu, che doveva essere soltanto un modo per racimolare qualche spicciolo. –

- Hai degli amici… -

- Quelli sono compagni di classe, punto e basta. Gli amici? Mamma, gli unici amici di cui mi importasse veramente se ne sono andati! Tutti! –

Aveva deciso di dare finalmente ascolto a quell’idea che si dibatteva e gli urlava in testa, da più tempo di quanto riuscisse a ricordare. Troppe volte aveva messo nel mirino quel desiderio, per poi fare un passo indietro. Ne aveva abbastanza.

- Parto per Los Angeles. – Ne aveva bisogno, sentiva solo questo.

Sapeva quanto fosse complicato separarsi dalla propria base e dai propri effetti, ma era giunto anche per lui il momento di andare avanti. Di afferrare il borsone e la prenotazione per il biglietto aereo, di sola andata, che aveva preparato la notte precedente.

 

*****

 

Il cielo della California trovò un particolare modo di accoglierlo, quasi volesse irriderlo: non era freddo, ma pioveva a dirotto.

Entrato nel terminal, in attesa di ritirare il bagaglio, Freddie si ritrovò per la prima volta faccia a faccia con ciò che Los Angeles stava rappresentando. Lo sguardo vagò distratto tra i tabelloni illuminati, i passeggeri che ancora aspettavano di imbarcarsi e quelli che erano appena atterrati. Era già stato in quella città, ma stavolta sembrava tutto diverso.

Il ricordo di un giorno di qualche anno prima iniziò a farsi spazio nella sua mente. Anche allora aveva mollato tutto e si era precipitato all’aeroporto. Aveva fatto tutto in fretta e furia, senza pensare, perché credeva che la sua presenza fosse stata disperatamente richiesta. Perché aveva creduto che ci fosse qualcosa di importante a Los Angeles. C’era, ma non proprio quello che sperava.

Quel pensiero fu per lui una scintilla, e finalmente si accorse delle farfalle che gli si stavano agitando nello stomaco. Durante il viaggio aveva dormito tutto il tempo, forse per evitare le sue stesse domande e i suoi stessi dubbi. Dubbi che ormai non tollerava più.

Con la valigia salda tra le mani, salì sul primo taxi che gli passò davanti e dette istruzioni all’autista di portarlo al motel più vicino che conosceva.

Una soluzione misera ma provvisoria, ciò che gli serviva per superare la prima notte. In fondo non aveva detto a nessuno del suo sbarco a Hollywood.

Si era buttato sul letto a fissare il soffitto, nell’oscurità della stanza e con le braccia incrociate dietro la nuca, mentre si imponeva di non pensare a ciò che lo aveva portato così lontano da casa. Ma fu proprio allora che le farfalle tornarono a farsi vive e mostrarono la ragione della loro esistenza. Freddie comprese chiaramente che si trattava di una sensazione inevitabile, da cui non sarebbe potuto scappare, che si era portato dietro e che aveva semplicemente cercato di occultare fino ad’ora, sia a Seattle sia in volo.

Sapeva cosa c’era là fuori, ma non cosa lo stava aspettando. Era come se fosse sceso da quell’aereo alla cieca, e questo gli faceva dannatamente paura. L’aveva sempre fatto, e in fin dei conti era questa la ragione che lo aveva tenuto ancorato a Seattle per tutti quei lunghi anni.

Non poteva negarlo, ma adesso si sentiva stanco. Stanco di essere lontano da tutto ciò che contava per lui. Stanco di tante cose che non vedeva l’ora di cambiare. E Hollywood era da sempre considerata la terra delle grandi opportunità, giusto?

 

*****

 

- Sei a Los Angeles?! – la voce di Carly, tanto acuta da far squillare anche le cuffie, lo aveva fatto balzare sulla sedia.

La mattina aveva trascorso un paio d’ore a confidarsi con l’amica riguardo la sua idea di lasciare Seattle, e della ragione che lo aveva spinto a farlo.

Era importante per lui poter parlare con Carly: era grazie a lei se, da piccolo, era riuscito a vincere le sue ansie e le sue insicurezze, e ad aprirsi con gli altri. Col tempo, quasi naturalmente, Carly si era trasformata nella persona perfetta su cui contare in ogni momento e per qualsiasi cosa, una spalla pronta a sorreggerlo ma anche ad ascoltarlo piangere, semmai ce ne fosse stato bisogno. Era l’amica a cui Freddie aveva sempre rivelato per prima i suoi segreti.

Come quello del suo primo bacio…

Freddie cercò di scacciare quell’immagine dalla testa e tornò a guardare lo schermo del portatile. Carly lo stava fissando attraverso la webcam con uno sguardo misto tra l’allibito e lo sbalordito, ma Freddie sapeva che aveva capito.

Non avrebbe cercato di fermarlo e nemmeno di farlo ragionare. D’altronde sapeva che, quando si trattava di lei, tutto il raziocinio di Freddie volava via con un soffio di vento.

Erano le undici passate quando il ragazzo uscì dalla stanza del motel e chiamò un taxi per raggiungere il centro.

Non gli importava quanta paura avesse avuto negli ultimi anni e quanta ne avesse oggi. Era giusto che lui fosse lì, questo era tutto ciò che sentiva.

Durante il tragitto, mentre lanciava occhiate distratte fuori dal finestrino, gli venne in mente che sarebbe stato meglio noleggiare un’auto, così da permettersi spostamenti più rapidi ed economici. Era una sciocchezza, ma forse per certi versi aveva ragione sua madre, quando diceva che non aveva niente a Los Angeles, specialmente degli amici.

Uno sì, in realtà, ed era proprio da lui che si stava dirigendo. Dopo Seattle erano rimasti in contatto per un po’, ma alla fine la distanza e le diverse strade avevano preso il sopravvento e li avevano lentamente allontanati. Ripensò con un velo di dispiacere al fatto che fossero passati quasi nove mesi, dall’ultima volta in cui avevano parlato.

Si fermò all’ingresso di un’enorme biblioteca, dalle facciate rosso scuro e un aspetto moderno. Freddie tirò fuori dalla tasca un bigliettino con l’indirizzo: era l’ultimo recapito che aveva, e sperava vivamente che fosse ancora lì. Trasse un lungo respiro, come per infondersi coraggio, ed entrò.

All’inizio sembrò perdersi con lo sguardo, in mezzo all’infinità di corridoi e scaffali pieni di libri.

Beck era impegnato a sistemare alcuni testi di un letterato britannico, quando Freddie lo scorse in quell’ampio labirinto.

- Buongiorno. – gli si avvicinò alle spalle camuffando la voce. – Sto cercando “La settima arte di Beck Oliver”, può aiutarmi? –

- Come ha… - il resto della frase gli rimase in gola quando, voltandosi, si ritrovò davanti al sorriso dell’altro. – Freddie. –

Non era una domanda, e per la verità non sembrava nemmeno così sorpreso della sua presenza. Come se in cuor suo avesse sempre saputo che, un giorno o l’altro, Freddie avrebbe ceduto al richiamo di Los Angeles.

- Dovrei chiederti perché sei qui, ma non lo farò. In fondo, so quale sarebbe la risposta. – Non c’erano giudizi nelle sue parole, soltanto una vecchia storia che riaffiorava.

Beck era cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto, portava i capelli più lunghi, il pizzetto e un paio d’occhiali da lettura. - Ne sei sicuro? –

Il sorriso di Freddie si allargò ulteriormente. – Stavolta sì. –

Il canadese posò velocemente sullo scaffale un paio di tomi e guardò l’orologio al polso. – Allora ecco cosa faremo: tra poco stacco per la pausa pranzo, dammi dieci minuti e aspettami là, poi ti accompagno. C’è una cosa che devo farti vedere, prima che tu faccia… quello che devi fare. –

Freddie accettò l’invito e andò a sedersi sulle poltroncine accanto alla porta principale. Afferrò una rivista da un raccoglitore e iniziò a sfogliarla, senza però mostrare minimamente attenzione a quello che scorreva. Continuava ad accigliarsi, chiedendosi a cosa l’amico si stesse riferendo.

Intorno a mezzogiorno, dopo aver parlato col direttore ed essersi cambiato la camicia, Beck lo raggiunse. – Andiamo. –

Freddie lo fermò sulla soglia e gli si accostò. – Mi dici come sei finito a lavorare qui? – gli chiese abbassando la voce, chiaramente sarcastico.

- Te lo racconterò un’altra volta. –

- Perché non adesso? –

Beck rise. - Perché ho solo cinquanta minuti di pausa pranzo, e perché non sono io quello che si è fatto 900 miglia per venire qua. –

Andarono al parcheggio e salirono sulla Pontiac gialla del canadese. Era ancora una bellissima macchina, con la carrozzeria tirata a lucido, ma iniziava a sentire il peso degli anni.

Appena Beck ebbe messo in moto, Freddie ripartì. - Allora, com’è che lavori qui? -

- Non vuoi proprio lasciar perdere, eh? –

Freddie scosse il capo. – No. –

- Conosci la mia passione per il teatro, e in questo posto c’è… beh, tutto. Un mondo intero che voglio scoprire. Mi piace qui. –

- Se non ricordo male, però, l’ultima volta mi hai detto che questo doveva essere soltanto un impiego temporaneo, per poterti concentrare sulla tua carriera. –

Vide Beck stringere la presa sul volante, con gli occhi sempre fissi sulla strada. – Diciamo che non è andata come immaginavo. –

- Cos’è successo? –

Beck svoltò a destra, girando il volante con una certa tensione. – Dopo. –

Freddie si appoggiò al poggiatesta. – Vuoi svelarmi almeno dove stiamo andando? –

- Te l’ho detto, devo mostrarti una cosa. –

- Mi devo preoccupare? –

- E’ giusto che tu lo sappia. -

A un paio di isolati di distanza, Beck iniziò a rallentare e a guardarsi intorno. Fermò l’auto dietro ad una Volkswagen già parcheggiata, come se non volesse farsi vedere.

- Di solito veniamo qua a mangiare. – esordì indicando un bar a una quarantina di metri da loro. – E’ abbastanza vicino a dove lavoriamo, così possiamo ritrovarci tutti i giorni. –

Il gruppetto di amici era seduto intorno a un tavolino. – Credo tu li conosca già, Cat, Tori e gli altri. – fece una pausa. - Soprattutto lei. –

Fu lì che Freddie la vide, per la prima volta dopo quattro anni. Eccola, la sua occasione di essere felice.

- Sai, Beck, da quando sei ripartito da Seattle, non hai idea di quante volte mi sia pentito di non aver seguito il tuo consiglio. –

Sentiva di non aver fatto il viaggio a vuoto. Buffo, quanto fosse nel torto.

Si voltò verso l’amico, ma Beck continuava a guardare distante.

Quell’atteggiamento lo stava insospettendo. - Cosa volevi… -

- Aspetta. -

Come nelle migliori sceneggiature, Beck sembrava aver lasciato il colpo di scena, il plot twist, per ultimo. Successe tutto in fretta davanti agli occhi di Freddie, che assisteva da invisibile spettatore.

Un ragazzo sconosciuto che si avvicinava al tavolino, che prendeva una sedia e si metteva a ridere e scherzare con gli altri. Uno sconosciuto che posava le labbra su quelle di Sam, in un bacio lontano ma appassionato.

- Andiamo a mangiare qualcosa, magari da un’altra parte. – mormorò Beck, prima di rimettere in moto e partire a razzo tra le strade assolate di Hollywood.

 

 

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Capitolo 3
*** III – Near, Far, Wherever you are ***


III – Near, Far, Wherever you are
 

 

- Da quando porti gli occhiali? –

Freddie e Beck si erano fermati a mangiare in una piccola pizzeria, non troppo lontana dalla biblioteca, e stavano conversando come due buoni amici.

- Da quando ho scoperto, a forza di leggere libri e copioni, di aver perso un decimo e mezzo all’occhio sinistro e due al destro. – fece il canadese, indicandoseli con la forchetta.

- E con le battute come fai? –

Beck azzannò un pezzo di pizza. - Non ne ho più bisogno. –

Freddie gli lanciò un’occhiata interrogativa, bloccando le posate a mezz’aria.

- Ho chiuso con quell’ambiente. – l’altro scosse il capo. - Spettacoli, piccolo o grande schermo che sia… per adesso non c’è più niente. –

Per la prima volta, Freddie notò come anche il tono di Beck fosse cambiato. C’era ancora quell’aria affabile, ma sembrava più duro, quasi graffiato dal tempo. Sembrava cresciuto molto di più rispetto alla sua età.

- Ora ho capito il perché del lavoro in biblioteca. –

- Lo adoro, non fraintendermi. E non pensare che sia per i problemi alla vista che ho smesso con la recitazione. –

Freddie fu quasi sorpreso dalla risposta. – Non è per quello? –

L’amico scoppiò a ridere, una manifestazione di allegria che sembrava nascondere qualcos’altro nel profondo. - Assolutamente no. Mi sono diplomato l’estate di… di Seattle, insomma. Mi hanno fatto recuperare gli ultimi esami che mi restavano e, grazie ai miei ottimi voti, mi hanno promosso senza problemi. Immagino di dover ringraziare tanta gente all’interno della Hollywood Arts, se sono state disposte a passare sopra alla mia piccola fuga. Dopodiché ho continuato gli studi autonomamente, girando tra scuole, corsi e agenzie. –

- E hai ottenuto delle parti, immagino. –

- Alla fine sono riuscito ad entrare nello show business. Una serie tv su un network privato e una breve fiction, e in entrambe recitavo come protagonista. Purtroppo, però, quelli che credevo buoni progetti si sono rivelati dei fallimenti. La serie è stata cancellata dopo appena una stagione, a causa di ascolti bassissimi, mentre la fiction è andata leggermente meglio, ma non abbastanza per essere in prima serata. –

- E dopo che hai fatto? –

Beck mandò giù un altro paio di bocconi, come se prendesse tempo per pensare. – E’ un periodo difficile per i giovani che vogliono sfondare. Se non hai una boy-band o non sei la star di un telefilm per ragazzini, non sei nessuno. Ed è proprio ciò che ero diventato dopo quelle due produzioni, un Signor Nessuno. Le reti non avevano intenzione di affidare ruoli importanti ad un attore che, non solo non ha grande esperienza, ma ha alle spalle anche due sonori flop. Capirai che non è un bello sponsor. Ho aspettato per mesi un nuovo ingaggio, ma non è più arrivata una telefonata. –

Si fermò per bere, immaginando la domanda successiva di Freddie. – Per fortuna mi è rimasto il lavoro in biblioteca. Lì c’è una vita intera da imparare. E se un giorno qualcuno mi chiamerà dicendo che mi vogliono per un film o qualsiasi altra cosa, deciderò che fare. –

- Il teatro? –

Una parola che doveva essere innocente e incoraggiante, ebbe invece l’effetto di far scattare qualcosa nello sguardo di Beck. – Non ha funzionato nemmeno quello. – tagliò corto.

E per la seconda volta, Freddie ebbe l’impressione che ci fosse di più nella testa di Beck, qualcosa che evidentemente non era ancora pronto a confidargli.

Per un attimo gli tornò in mente anche il discorso che aveva fatto alla madre, riguardo il lavoro e l’università. Magari anche lui avrebbe finito per restare legato allo stesso impiego per anni, senza avere però la fortuna di amarlo, come invece faceva Beck.

- Come va invece con… con Jade? –

L’ombra tornò ad oscurare gli occhi del canadese. – Ne parliamo un’altra volta, ok? -

– Certo. - Freddie cercò di non forzare la mano, ma c’era una domanda che premeva ancora di più per uscire. - Perché non mi hai detto nulla di… - se ne uscì all’improvviso, eliminando la parte della frase che più lo turbava.

Il sospiro di Beck dimostrò che si aspettava quella domanda. – Non me lo hai mai chiesto, e io non ero sicuro che avresti voluto saperlo. All’inizio non c’era nessuno accanto a lei. -

- Ma da quant’è che stanno… -

- Quasi un anno e mezzo. – fece una pausa per studiare la reazione dell’amico. – Pensavo che alla fine avessi fatto pace con te stesso e fossi andato avanti. –

Freddie abbassò gli occhi per un istante. – Era questo, Beck, era venire a Los Angeles il mio andare avanti. –

- Adesso cos’hai intenzione di fare? –

- Devo almeno incontrarla. -

 

*****

 

Ogni volta che si vedevano era come se fossero ancora uno accanto all’altra. I sorrisi risplendevano, e i loro occhi si tuffavano attraverso lo schermo, cercando di catturare più immagini possibili.

Erano passati due anni dall’estate di Seattle, eppure sembrava che certe cose non fossero minimamente scalfite dal tempo o dallo spazio.

Cat si era seduta di fronte al computer con la consueta gioia che continuava a distinguerla. E quando il volto di Robbie era comparso dall’altra parte, quella sensazione si era ulteriormente intensificata.

Parlare con lui era il momento preferito della sua giornata. Era l’unico modo per sentirlo così vicino, nonostante la loro lontananza.

Robbie aveva recentemente terminato il primo ciclo di studi in Germania, al quale ne sarebbe seguito un altro di diciotto mesi, per poi poter accedere alle specializzazioni. Non aveva mai negato di sentire la mancanza di casa, ma aveva fatto una scelta ed era determinato a seguirla fino in fondo.

Era un sogno che duellava costantemente con i sentimenti rimasti in lui.

Da qualche tempo aveva smesso di chiedere a Cat di raggiungerlo. Aveva capito che lei non avrebbe mai lasciato Los Angeles, e insistere avrebbe reso le cose tra loro soltanto più complicate di quanto lo fossero già.

“Saresti divina di fronte alla mia telecamera”, le diceva spesso Robbie. Lei si imbarazzava, ma era la sola a sapere quanto apprezzare quelle parole.

La vita di Cat non era cambiata granché negli ultimi due anni. Inseguiva le sue aspirazioni di diventare una cantante, e si occupava ancora di fare la babysitter nell’attesa di un vero ingaggio. Era rimasta a vivere nella casa di sua nonna, ma non la condivideva più con Sam. La bionda aveva trovato un altro lavoro e aveva affittato un appartamento più vicino al centro, non dimenticandosi comunque di lei. Adesso la nuova coinquilina di Cat era Jade, rimasta senza una sistemazione dopo che il quartiere in cui abitava era stato raso al suolo per costruirci un supermarket e un parcheggio. Cat era felicissima di questa sistemazione, e Jade era riuscita a farsela andare bene.

- Hai fatto qualcosa ai capelli oggi? – domandò Robbie.

Cat si passò una mano tra le ciocche. – E’ stato il bambino che ho curato stamattina, mi ha scambiata per il suo pony! -

Il ragazzo sorrise. – Scommetto che non aveva mai giocato con un pony dalla criniera rossa... –

Lei si finse addolorata. – E non credo che lo farò giocare la prossima volta. –

- Vuoi farlo stare da solo con Jade? –

- Oh mamma, no! – esclamò Cat, portandosi una mano davanti alla bocca. – Non… non so cosa potrebbe fare! –

- Per questo rimani la miglior babysitter di Hollywood. -

Robbie riuscì a farla ridere, come succedeva ogni volta che si sentivano, e in quei momenti Cat si sentiva davvero felice.

Non aveva dimenticato quella sera in teatro, in cui aveva finalmente compreso quanto significasse avere Robbie accanto. Ma l’aveva capito troppo tardi. Ricordava la tristezza che aveva provato la mattina dopo, all’aeroporto. Gli occhi lucidi che lo vedevano prendere il volo verso la Germania, verso un’altra vita, lontana da lei.

Ormai non le rimaneva che questo. Perché allora si erano promessi che il loro non sarebbe stato un addio, ma per ogni giorno che passava, crederci diventava sempre più difficile.

 

*****

 

Una semplice parola era stata sufficiente a far scatenare un vortice di ricordi.

Non ci aveva pensato per settimane, ma era bastato che Freddie menzionasse il teatro per farlo ripiombare in quell’abisso senza pace.

Un freddo sipario che si abbassava sulla cosa più importante che credeva di avere, una luce che si spengeva sulle loro speranze, un’uscita di scena che significava buttare al vento mesi di duro lavoro.

Lo sguardo di Beck vagava distratto tra le copertine dei libri, mentre l’attenzione era tutta rivolta al passato.

Era trascorso più di un anno da quando era successo, eppure ogni volta che tornava indietro con la mente, sentiva di non essere ancora in pace con se stesso. Si era chiesto se lo sarebbe mai stato, radicato così profondamente a quella storia.

Aveva cercato di superarlo, e forse lo aveva fatto nel peggiore dei modi.

Non se l’era sentita di rivelare a Freddie la verità. Non se l’era sentita di dirgli che aveva mollato tutto, il cinema, la tv e la recitazione per qualcosa che era andato storto, nonostante gli sforzi per evitarlo. Una delusione tanto opprimente da non farlo più andare avanti, così forte da trasformarsi in fobia e ossessione.

Aveva ceduto, di nuovo, e aveva finito per abbandonare il suo sogno.

Era condannato a vivere con quel tormento, presenza da cui nel bene o nel male non avrebbe potuto allontanarsi, e senza il potere di far funzionare le cose.

Facile è noioso. In fin dei conti, si era maledetto da solo.

 

*****

 

Alla fine Freddie si era lasciato convincere ad entrare al Franklin, il bar che quella mattina aveva visto soltanto da lontano. E adesso, seduto comodamente su una poltroncina e con una tazza fumante in mano, quel punto di ritrovo faceva meno paura.

Era una caffetteria dall’aria piuttosto vintage, con forse vent’anni di attività alle spalle. La parte inferiore delle pareti era coperta da travi disposte verticalmente e le mattonelle erano consumate anche se lustrate di recente. Sulla sinistra c’era un lunghissimo bancone al quale lavoravano due camerieri, e alle loro spalle erano schierate tre macchinette.

Erano circa le sei, e Freddie e gli altri si erano sistemati nell’area più comoda del locale, nell’angolo più distante sia dal banco sia dalla porta.

La conversazione verteva tra il lavoro ed altri impegni, intorno ad un tavolino coperto da piattini e tovaglioli. Beck era di fronte a lui, quasi completamente sdraiato su un divanetto, e alla sua sinistra c’era Andre, appoggiato allo schienale di una sedia al rovescio.

- Ho in mente qualcosa, ragazzi. – affermò con trasporto Andre.

- Chiedere a quei due se hanno bisogno di una mano coi caffè? – fece Beck, senza nemmeno muoversi.

L’amico fece il verso di una risata. – Molto simpatico, solo perché attualmente sono l’unico... in cerca di un impiego. –

- Senza un impiego. – lo corresse prendendolo in giro.

- Diversamente occupato, prego. –

- Disoccupato, si dice ancora così. –

Freddie rise, e Andre proseguì. – Ad ogni modo, ho letto su Internet che c’è un concorso lanciato da una… marca di bevande, mi pare, che mette in palio la partecipazione ad un videoclip. Bisogna presentare entro quattro mesi un proprio video musicale, e chi verrà scelto avrà poi l’opportunità di realizzarne un altro, con i mezzi dell’azienda, e di essere trasmesso in tv! –

Beck alzò la testa. – Perché un’azienda di bevande dovrebbe voler fare un videoclip? –

- Si chiama marketing, Beck. Non avete niente del genere in biblioteca? – lo canzonò Andre.

Il canadese si girò allora verso Freddie per avere una spiegazione.

– Con un’iniziativa come questa, loro diventano lo sponsor e il marchio appare dappertutto durante i tre, quattro minuti della canzone. Tante ditte ultimamente stanno adottando questa strategia, anche se diciamo che non è proprio la più trasparente del mercato. –

- Trasparente o no, è un’ottima opportunità. – intervenne Andre. – E noi abbiamo del materiale molto buono da proporre. –

- “Noi” chi? – scattò Beck.

- Ho intenzione di coinvolgere anche Cat e Tori. Tranquillo, amico, non voglio metterti in mezzo. E soprattutto, non so quanto staresti bene in minigonna… –

Mentre i tre scoppiavano a ridere, la porta dal lato opposto del locale si aprì lasciando entrare Cat. E dietro di lei, Sam.

Andre fu il primo a scorgerle, salutandole per richiamare la loro attenzione. Beck si tirò su dal divano e si voltò verso Freddie: il sorriso dal volto dell’amico era sparito.

Cat raggiunse baldanzosa il tavolino, appena si fu accorta della presenza del ragazzo di Seattle. – Freddie! Ciao! –

Freddie si lasciò andare ad un breve sorriso. Cat era esattamente come la ricordava, euforica, un po’ svampita e piena di affetto per gli altri. Lei gli si gettò al collo, e lo sguardo di Freddie finì per proiettarsi oltre la sua spalla. – Ciao, Cat. Come stai? – mormorò senza convinzione. Non c’era niente da fare, il suo sguardo si era già agganciato a quello di Sam.

Rimasero immobili a fissarsi per degli interminabili secondi. Erano cambiati l’uno agli occhi dell’altra.

- Samantha. –

- Benson. – anche il modo di pronunciare il suo nome era diverso.

Nel loro saluto non ci furono abbracci o baci, solo una palpabile tensione a fare da muro. Tornarono a sedersi e a bere con gli amici, mentre Andre iniziava a spiegare, in particolare a Cat, le sue idee per il videoclip.

L’attenzione di Freddie, però, era tutta per quel demonio biondo. Occhiate fugaci e nascoste per non farsi beccare, ignorando ciò che aveva intorno e, soprattutto, sforzandosi di non pensare al bacio che lei aveva dato a un altro.

Era bellissima. Dall’ultima volta i suoi capelli erano leggermente accorciati e di una tonalità di biondo più scura; aveva acquistato qualche centimetro, anche se restava più bassa di lui, e il tempo le aveva donato un seno florido e dei fianchi ancor più pronunciati.

Era l’unico essere sulla faccia della Terra che fosse in grado di fargli provare certe sensazioni, fatte di turbamento, eccitazione e terrore, tutte sotto la sua pelle.

Dopo quattro anni, voleva ancora che Sam facesse parte della sua vita, non importava con quale ruolo.

Freddie si alzò, sopprimendo un sospiro. – Vado a prendere qualcos’altro da bere. –

Si diresse al bancone e ordinò un caffè, appoggiandosi col gomito sul piano a guardare dall’altra parte. Poco dopo qualcuno lo raggiunse alle spalle. – Ciao. –

Quella voce lo fece girare come un robot. Era Sam. – Ciao. –

Si stavano parlando come fossero due estranei, ma nonostante questo, lei fu la sola a rivolgergli la domanda che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di fare. – Sei venuto per restare? –

 

 

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Capitolo 4
*** IV - iDon'tWannaRunaway ***


IV - iDon'tWannaRunaway

 

 

L’effetto che gli aveva fatto rivederla, dopo così tanto tempo, era esattamente quello che si aspettava. Una freddezza a mascherare l’agitazione che, era sicuro, era montata in entrambi nella stessa misura.

In fondo non poteva essere altrimenti, non aveva pensato nemmeno per un secondo che lei lo avrebbe accolto con baci e carezze, gettandosi al collo sussurrandogli quanto le fosse mancato.

Quella non sarebbe stata Sam Puckett, ed era per lei, solo per lei, che Freddie era andato a Los Angeles.

Sei tornato per restare?”, gli aveva domandato, e lui non era riuscito neanche a rispondere. Si era chiuso in un silenzio che aveva tanti significati e non ne aveva nessuno, mentre combatteva la tentazione di dirle “dipende da te”.

No, non dipendeva da lei, e Freddie lo sapeva bene. Perché cedere all’idea di viaggiare fino a Hollywood aveva significato dare uno strappo a se stesso, ammettendo che tutto quello gli era mancato più di qualsiasi altra cosa.

E ritrovarla non aveva fatto altro che aiutarlo a comprendere, una volta per tutte, quanto fosse importante per lui quel demone biondo.

Aveva avuto la conferma al bar, quando i suoi occhi avevano incrociato quelli di Sam dopo anni e chilometri di distanza: teneva ancora a lei.

Potevano essere successe tante cose, ma i sentimenti che provava non erano mutati.

Quello che non poteva sapere era cosa ci fosse sull’altra faccia della medaglia. Sam non era come lui, e immaginare quali fossero i suoi pensieri, le sue reazioni, o il rapporto che si aspettava sarebbe stato impossibile.

Forse era proprio per questo che Freddie ingenuamente continuava a focalizzarsi solo sul loro incontro, durante il quale era stato inondato dalle stesse emozioni che lo avevano tenuto lontano da lei, e che lo avevano infine trascinato di nuovo a Los Angeles.

C’erano tante domande che in quel momento rifiutava di porsi, ma che erano destinate a riaffiorare prepotentemente e prima di quanto immaginasse.

Soltanto il tempo avrebbe detto se Freddie aveva ragione o no.

 

*****

 

Tori si era presa una breve pausa a metà mattina, e aveva chiesto ad una sua collega di coprirla alla cassa per non più di dieci minuti. Aveva bisogno di una boccata d’aria. Si era appartata nell’angolino vicino al magazzino e stava facendo uno spuntino con un pezzo di schiacciata. Faceva sempre più fatica a sopportare il suo lavoro.

Sentiva ancora una certa rabbia dentro di lei, ripensando a quando era uscita dalla Hollywood Arts con un diploma in mano, ottimi voti, e i suoi sogni ancora intatti e realizzabili.

Sogni che si erano invece infranti contro la dura realtà del mondo, che non le aveva offerto mai abbastanza in relazione alle sue reali capacità. E fare la cassiera in un supermarket non poteva certo essere considerata la sua più grande aspirazione.

Ne aveva parlato spesso con Andre, Cat e Beck, tutti loro malgrado invischiati nella stessa situazione. Che fosse il periodo negativo, l’economia, l’evoluzione del mondo dello spettacolo, nessuno era riuscito a sfondare nel proprio settore.

Certo, all’inizio era stato più facile. Grazie alle notevoli raccomandazioni e, inutile negarlo, al suo bell’aspetto, era riuscita a conquistare alcuni ruoli, a teatro e in tv. Ma nonostante tutta la sua buona volontà, quei progetti si erano rivelati dei fuochi di paglia: un paio di film dagli incassi piuttosto scarsi, e una serie tv, come nel caso di Beck, cancellata dopo appena una stagione. Dopodiché, il nulla.

E allora, tra un provino e l’altro, aveva accettato il lavoro al supermarket. All’inizio lo considerava come una sistemazione temporanea, ma dopo più di dieci mesi, sinceramente, cominciava ad averne abbastanza.

L’unico lato positivo era la sua indipendenza: aveva lasciato la casa dei suoi genitori, non appena era riuscita a mettere qualche risparmio da parte, e adesso condivideva un appartamento con Andre, rimasto solo dopo che sua nonna era andata in una casa di riposo.

Il telefono prese a vibrarle in tasca. – Ciao, Andre. – rispose Tori risollevata, come se l’amico le avesse appena risolto la giornata.

E in un certo senso poteva essere proprio così. Andre iniziò a spiegarle del concorso indetto dall’azienda di bevande, del videoclip e delle sue intenzioni per realizzarlo. Tori seguì tutto questo con trasporto, le piaceva l’idea ed era convinta anche lei che potesse essere una buona opportunità.

Ad un tratto, però, la sua attenzione fu distratta da qualcosa che l’allontanò dalla telefonata. Lo sguardo cadde sulla porta d’ingresso, da cui stava entrando un ragazzo. Era alto, portava i capelli rasati e un giubbotto di pelle. Tori si accorse che anche lui stava guardando nella sua direzione.

Come se non ci fosse altro intorno, si ritrovarono a fissarsi da lontano contro la loro volontà, fino a quando lui non scomparve dietro uno scaffale, e lei sembrò svegliarsi da un sogno.

Nel frattempo Andre aveva continuato a parlare, e Tori si era persa almeno venti secondi di conversazione. – Scusami, Andre, puoi ripetere? Non prende bene qui. – tentò di rimediare.

- Dicevo che potremmo fare qualcosa di noir, magari col pianoforte. –

Tori annuì. – Certamente. -

Stava ascoltando le altre idee di Andre, quando si sentì battere sulla spalla. Si voltò, e per poco il telefono non le cadde di mano. Aveva di fronte il direttore del negozio, con la sua solita aria severa, e quel ragazzo dagli occhi color nocciola, tanto affascinanti quanto impenetrabili.

Tori ci si era già persa completamente. – Scusa, ti richiamo… - farfugliò ad Andre, quasi senza fiato, prima di riattaccare bruscamente.

Il direttore allargò il braccio verso il nuovo arrivato. – Tori, ti presento Thomas, il tuo nuovo collega. –

Tori lo accolse con un sorriso. Benvenuto, Thomas.

 

*****

 

Beck aveva raggiunto il bar per la pausa pranzo, e quel giorno ci aveva trovato solo Jade, intenta a leggere. Si era fatto coraggio, aveva preso un panino e si era seduto vicino a lei. Si erano salutati, ma non era stato niente di più di un semplice convenevole.

Erano rimasti in silenzio a lungo, scambiandosi appena qualche occhiata, quasi fossero chiusi ognuno nella propria cella di vetro.

I problemi tra loro non si erano risolti, e stavano imparando sulla loro pelle che il tempo e la volontà non bastano sempre a guarire tutte le ferite.

Erano passati quasi sei mesi dalla loro ultima rottura. Beck ripensò al periodo immediatamente successivo, a quando non riuscivano nemmeno a stare nella stessa stanza, senza che uno dei due si innervosisse e se ne andasse sbattendo la porta. Comportandosi così, stavano facendo preoccupare anche le persone a loro più care. Tori, Andre e Cat assistevano al tentativo dei loro migliori amici di distruggersi a vicenda, e non sapevano più che fare. Era come se si sentissero in dovere di scegliere tra l’uno e l’altro, e questa era l’ultima cosa che volevano fare. Sembrava impossibile anche parlare in maniera civile, tanta era la rabbia e la sofferenza che si portavano dietro.

Era servito un miracolo, per far riacquistare loro una sorta di stabilità, comunque pericolante per ogni scossa potesse passarci vicino. Avevano ricominciato a frequentare gli altri, e finalmente anche ad accettare di stare vicini.

- Credevo partecipassi anche tu al progetto di Andre. Non gli dai una mano? – fece Jade, alzando gli occhi dalla rivista.

Beck colse una punta di provocazione in quelle parole. L’espressione si fece cupa e la voce si abbassò. – Lo sai che ho lasciato quel mondo da quando è successo… quello che è successo. –

Non aveva più messo piede in un teatro da quel giorno.

Il ricordo si aggirava ancora vivido nella sua mente. La suggestione che gli aveva pervaso il corpo appena varcata la soglia per la prima volta, con la sensazione che tutto ciò che aveva intorno appartenesse a lui. Folgorato dalle luci del palco deserto, con le vertigini alla vista della sterminata distesa di sedie vuote, pronte ad essere occupate da centinaia di persone che lo avrebbero solo applaudito. Camminare tra i corridoi del backstage, sognando di poterlo fare, prima o poi, anche a Broadway.

Aveva tutte le carte in regola per essere qualcosa di grande, di veramente importante per lui e per Jade.

Non poteva però immaginare che tutto quello avrebbe portato a uno dei giorni più brutti della loro vita.

Il momento in cui avevano realizzato che le cose non potevano funzionare, e che forse non lo avrebbero mai fatto.

Nessuno dei due aveva dimenticato. Perché da allora, la parola “teatro” era sinonimo di dolore per Beck, e di tradimento per Jade.

 

*****

 

Quel pomeriggio Andre aveva chiamato Cat per parlare anche con lei del suo progetto.

Aveva in mente un paio di idee per il videoclip, ma prima di tutto doveva sapere su chi poter contare. Poteva essere praticamente certo di Tori, malgrado non gli avesse dato una vera e propria conferma, così come era sicuro che Beck stavolta non sarebbe stato dei suoi.

A Jade invece non aveva provato nemmeno a chiederlo: la riteneva un’incognita, capace magari di accettare entusiasta all’inizio, per poi mandarlo al diavolo un attimo dopo. E una scheggia impazzita era forse l’ultima cosa di cui aveva bisogno.

Quel concorso era più importante di quanto volesse ammettere agli altri.

Esattamente come nel caso di Beck e Tori, anche la carriera di Andre stentava a spiccare il volo. Dopo il diploma aveva provato a proseguire gli studi autonomamente, frequentando un corso di musica, da cui però non aveva ottenuto niente di più di un semplice attestato.

Erano seguite le prime collaborazioni con la Hollywood Arts, sotto forma di colonne sonore composte per spettacoli scolastici o motivi per le classi di musica.

Poi era arrivato il periodo, per la verità piuttosto breve, dei jingle pubblicitari. Tori era riuscita a trovargli un aggancio ad una compagnia che cercava qualcuno che componesse i motivetti per i loro spot. Ne aveva realizzati quattro, e quello poteva essere definito il punto più alto della sua carriera, fino ad ora.

Da allora, non c’era stato più niente per Andre Harris a Los Angeles. Da tre mesi a questa parte andava avanti solo grazie a lavoretti saltuari e al denaro di sua nonna. Per questo il videoclip rappresentava un’opportunità di rivalsa, e lui era quello che tra tutti ne aveva più bisogno.

Come previsto aveva dovuto rispiegare a Cat tutto da capo, prima di poterle esporre ciò a cui stava pensando.

- Potremo ambientare le scene in un locale, qualcosa tipo anni ’60, mentre uno di noi è al piano e l’altro sul palco a cantare. E intanto intorno a noi si intrecciano varie storie, che ne dici? –

- Sì, appariremo in tv! – esclamò Cat, con una reazione del tutto estemporanea.

Andre aggrottò le sopracciglia: lui era convinto di cosa aveva appena detto, ma era possibile che la sua voce suonasse diversa alle orecchie di quella ragazza ancora così stramba?

- Certo… - proseguì rassegnato. – Che ne dici, allora, ci stai? –

- Ho sempre adorato cantare! –

- Potremmo vederci. Io, te e Tori e… -

- Però un video musicale è un bel po’ di lavoro! –

Il giovane scosse la testa di fronte a quello sproloquio. – Non capisco, ci stai o no? –

Stavolta la voce della rossa si fece attendere. – Cat, mi rispondi? –

Niente, era come se stesse parlando da solo. Almeno finché, d’un tratto, Andre non cominciò a sentire del trambusto all’altro capo del telefono. Prima gli squilli di una suoneria lontana, poi una sedia mossa in fretta, e infine un tonfo sul pavimento.

Adesso ne aveva abbastanza: era già la seconda persona che gli riattaccava in faccia quel giorno. – Cat, sei ancora lì? -

Trascorsero alcuni secondi di silenzio, prima che Jade raccogliesse lo smartphone dell’amica da terra. – Andre. –

- Jade? –

- Sì. –

- Dov’è Cat? –

- E’ dovuta scappare in camera. –

- Ma perché… lasciamo perdere. – Sarebbe stato come combattere contro i famosi mulini a vento, e sentiva già un accenno di emicrania.

- Meglio per te. – evidentemente c’era qualcuno di più importante, ma non c’era bisogno che Andre lo sapesse. – Comunque, se te lo stai ancora chiedendo: la risposta è sì. -

- “Sì”, cosa? –

- Ci sta. –

- Come lo sai? –

- Lo so perché lo so. -

Andre smise di porsi troppi interrogativi e tirò un lieve sospiro di sollievo. – Ok, perfetto. –

C’era tuttavia ancora una domanda, e dovette pensarci su un po’ prima di formularla. – E tu invece, Jade… -

Un click interruppe bruscamente la comunicazione. Come non detto.

E con quella facevano tre.

 

*****

 

Sam stava trascorrendo una tranquilla serata a casa, dopo una giornata di lavoro e senza molta voglia di uscire. Erano finiti i tempi in cui Sam Puckett passava intere ore a poltrire sul divano guardando la tv e a rimpinzarsi di pollo. Adesso si rimpinzava di pollo solo durante i pasti, e aveva persino trovato un impiego nel centro città. Era nel reparto marketing di un’azienda di elettrodomestici, una posizione che lei aveva ritenuto abbastanza divertente da mantenere.

Sam stava sfogliando una rivista al tavolo della cucina, con un bicchiere di succo in mano, mentre il suo ragazzo, seduto vicino a lei, stava tentando invano di riparare il telecomando.

La bionda alzò il capo. – E’ rotto, Gabriel. Buttalo. –

– Così dovremmo restare senza tv, stasera. – sbuffò lui, accigliandosi.

- Almeno impari a non lanciarlo più durante le partite di basket. Non ti sentono dal Minnesota, lo vuoi capire? –

- Prima o poi lo faranno. –

- La prossima volta lancia la lavatrice. – si divertiva a prenderlo in giro la sua passione per la pallacanestro, senza però mai esagerare o sfociare in battute troppo cattive. Era cambiato anche quel lato di lei.

Vide che Gabriel continuava ad armeggiare con i circuiti. – Buttalo, amore. – ripeté. – Domani andiamo a ricomprarlo. –

Lui non demordeva. – Posso ripararlo. –

- No, non puoi. – E mentre lo diceva, una presenza si insinuò nei suoi pensieri, facendole sfuggire un sorriso. Forse lui l’avrebbe saputo riparare.

- Freddie è tornato in città, sai? –

Questo fu sufficiente a far staccare Gabriel dal telecomando. – Quel tuo amico di Seattle? –

Sam annuì. Ecco come Gabriel conosceva Freddie: l’amico di Seattle.

Non gli aveva mai raccontato tutta la storia, i trascorsi che avevano avuto, il passato che c’era tra loro e che si stava intrecciando di nuovo con la sua vita. Gabriel non avrebbe capito.

Era sempre stato un rapporto estremamente fragile, quello tra lei e il giovane Benson. Una volta c’era Carly a fare da collante tra quei due poli, opposti e talmente potenti da attrarsi e respingersi senza sosta. Ma da quando l’amica se n’era andata, le cose tra lei e Freddie non avevano potuto fare altro che precipitare.

E adesso, averlo lì come non fosse successo niente, come se gli anni trascorsi lontani non fossero mai esistiti, significava rimettere in discussione la loro amicizia, se poteva essere chiamata tale.

Un equilibrio nato già maledettamente complicato in origine, e che sapeva sarebbe stato ancora più difficile da mantenere. Come camminare su un filo, la cui integrità avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro.

- Giusto per curiosità - fece Gabriel, – questo Freddie com’è? –

Un altro motivo per cui Sam non gli aveva rivelato tutto: se c’era un difetto in particolare in Gabriel, era la sua gelosia per chiunque gravitasse intorno a lei. E proprio perché lo conosceva, sapeva che, a torto o ragione, la presenza di Freddie avrebbe potuto scatenare la sua paranoia.

– Beh, Freddie è… - distolse lo sguardo per riflettere, ma il sorriso scappò per la seconda volta al suo controllo. – Freddie è sempre Freddie. –

 

 

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Capitolo 5
*** V - Cards In The Deck ***


V – Cards In The Deck

 

 

Jade la sentiva ridere ed entusiasmarsi quasi ogni pomeriggio, nella stanza accanto. Era ormai diventato un rituale, vedere Cat chiudersi in camera per poi precipitarsi al computer, e uscire un’ora o due dopo con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro.

E benché Cat continuasse a chiudere la porta, Jade sapeva che il suo “appuntamento” era sempre con la stessa persona. Quella, se non la sola, che anche in passato riusciva a risollevare Cat e a mantenerla serena anche durante i momenti tristi. Robbie Shapiro, l’unico della compagnia che aveva preso il coraggio a due mani e, nonostante le previsioni, era riuscito a costruirsi un solido futuro. Non credeva che sarebbe mai arrivata a dirlo, ma cominciava ad ammirarlo.

Non che fosse difficile notarlo, ma quando Cat parlava con Robbie era come se fosse sempre accanto a lei, ed era chiaro come il sole che tenesse ancora a lui. Jade era contenta della gioia che avvolgeva l’amica, ma avrebbe mentito se avesse detto di non essere preoccupata. Era proprio perché voleva bene a Cat, che temeva che quella sensazione si rivelasse effimera e labile, alla fine dei giochi.

Certe volte desiderava soltanto che la piccola Cat crescesse e che vedesse il mondo per quello che era, con tutte le trappole che può riservare.

Perché non sempre le cose vanno come le abbiamo immaginate. Non importa quanto tu sia innamorata, non sempre vale la pena aspettare un ragazzo, come se fosse il Principe Azzurro.

Basta un istante, uno solo, perché la fiducia si trasformi nel dolore più straziante che si possa mai conoscere.

I ricordi la riportarono indietro di sei mesi.

Si era imposta di tenerli a freno quando, qualche giorno prima, Beck aveva menzionato il teatro. Il loro teatro, quello a cui, evidentemente, nessuno dei due era ancora riuscito a smettere di pensare.

I primi giorni erano stati fantastici. L’organizzazione delle prove, la stesura delle sceneggiature, la gestione delle quinte. Era come avere il mondo nelle loro mani, e i loro sguardi, ogni volta che si incrociavano, mostravano tutto l’amore che provavano.

Avevano deciso di riprovarci, di concedersi una seconda possibilità, dando ascolto ai sentimenti che nemmeno la fuga di Beck a Seattle aveva placato. Era stata una decisione coraggiosa e, come avrebbero scoperto quand’era ormai troppo tardi, un azzardo perdente.

Era nata proprio da Jade l’idea di mettere in scena un altro spettacolo, ad un anno e mezzo di distanza dal primo. Si era fatta aiutare dai professori della Hollywood Arts, Sikowitz su tutti, e coinvolgere anche i vecchi alunni della scuola non era stato difficile. “Up to the sky”, com’era stato chiamato in seguito alla trasmissione, aveva avuto un discreto successo, e per quei ragazzi tornare sul palco significava ritrovare degli amici e soprattutto assaporare un altro boccone di notorietà.

Ma Jade aveva una ragione in più per spingere verso la realizzazione di una nuova commedia. Lei era stata forse l’unica a non apprezzare la serata della prima al Comedy Dreaming. L’ultimo giorno legato alla Hollywood Arts, era stata costretta a recitare con qualcuno di cui non le importava, e aveva dovuto sopportare persino la sfuriata di quello stesso idiota che non accettava il suo rifiuto.

Era una notte che voleva rimpiazzare a tutti i costi con un altro spettacolo, ancora più bello, e questa volta con Beck al suo fianco.

Quella volta ci aveva creduto, aveva creduto veramente che le cose potessero funzionare.

Ma tutto è destinato ad avere una conclusione. E il loro personale spettacolo non aveva avuto il lieto fine.

 

*****

 

Da qualche tempo, Freddie aveva cominciato a frequentare il gruppo di amici di Beck.

All’inizio non era stato facile per lui, introverso e abituato a poche e intime amicizie. A Seattle era sempre stato così: con iCarly, oltre a Sam e Carly, c’erano stati solo Spencer e Gibby, e anche all’università, Freddie preferiva i piccoli gruppi di studio alle confraternite.

Ritrovarsi in una compagnia era stato un cambiamento, ma appena aveva imparato a conoscere meglio gli altri, era riuscito a inserirsi piuttosto bene.

Aveva chiaramente il rapporto migliore con Beck, con cui poteva parlare di tutto. Andre e Tori si erano rivelati tipi alla mano e sempre disponibili, mentre Cat era sempre la stessa, adorabile nella sua innocenza ma a tratti addirittura snervante per l’eccessiva euforia.

Per quanto riguardava Jade, invece, Freddie aveva la costante impressione che fosse arrabbiata col mondo intero, pronta a incenerirlo con un solo sguardo. Gli veniva da sorridere, ogni volta che ripensava alle storie che Beck gli aveva raccontato.

Poi c’era Sam, ed era proprio con lei che le cose si facevano complicate. Si erano visti appena due volte dal loro nuovo primo incontro, e di progressi nemmeno l’ombra. Erano ancora percepibili una tensione, una distanza e un disagio che sembravano non volerli abbandonare. Nelle rare occasioni in cui si erano parlati, lo avevano fatto come se si conoscessero a malapena, con un’insolita discrezione, quasi non volessero superare un impercettibile confine.

Qualcosa li teneva divisi anche quando si trovavano a pochi metri l’uno dall’altro. Era distante quella complicità che li aveva uniti in passato. Doveva essere difficile per entrambi riprendere da dove avevano lasciato.

Era la sera del 14 Settembre, quando Freddie finalmente conobbe il ragazzo di Sam.

I ragazzi si erano riuniti fuori dal bar in piazza e stavano aspettando soltanto lei, in ritardo come al solito.

Quando la vide spuntare da dietro un’auto, Andre pensò bene di accoglierla con una simpatica frecciatina: - Il tuo ragazzo ti ha lasciata da sola anche stasera? –

Le ultime volte Gabriel non era riuscito a unirsi a loro, impegnato a lavoro fino a tardi, e Freddie non aveva ancora avuto modo neppure di vederlo, al di là della lontana immagine del bacio a Sam.

L’infelice battuta fu però abbastanza per far perdere al giovane Benson il sorriso. Se ne accorse Beck, che non perse tempo e rifilò ad Andre una secca gomitata al costato. Il gemito di quest’ultimo spinse Freddie a voltarsi verso di loro, e incrociando lo sguardo compiaciuto del canadese scoppiò a ridere. Non avrebbe mai saputo se quel colpo fosse stato per l’ironia di pessimo gusto, o per riguardo nei suoi confronti.

- Bravo, Beck. – fece Sam, vedendo Andre piegato su se stesso. – Anche perché stasera non sono sola. Sta arrivando. –

Un istante dopo, troppo breve per potersi preparare, Freddie si ritrovò davanti Gabriel.

Un ragazzo poco più alto di lui, dal fisico asciutto e atletico, che sembrava avere anche tre o quattro anni in più. Aveva i capelli ricci e folti, baffi e pizzetto appena accennati, e la tonalità del viso richiamava chiare origini latine.

Freddie lo fissò negli occhi, mal celando ogni emozione, mentre gli stringeva la mano. La voce di Sam irruppe come una scossa. – Gabriel, lui è Freddie, l’amico di Seattle di cui ti parlavo. –

L’amico di Seattle”, suonava ancora così strano, dopo tutto questo tempo.

Eppure, come ebbe modo di notare durante la serata, Sam aveva perfettamente ragione.

Freddie Benson, attualmente, non era niente di più che un lontano conoscente che si rifà vivo dopo anni di assenza, e con cui non è rimasto altro che un saluto da scambiare. Si sentiva una presenza quasi superflua nella vita di Sam, nella quale chiacchiere e risate sarebbero continuate ad esistere, con o senza di lui.

Erano ancora come due estranei che non hanno niente in comune, inseriti per caso nella stessa comitiva di amici, ma come se non esistessero l’uno agli occhi dell’altro.

Si rivolgevano a stento la parola, preferendo sempre la compagnia di qualcun altro, piuttosto che rimanere a parlare da soli. Sam parlava e scherzava con Gabriel, con Jade, con Tori, con tutti ma mai con Freddie.

E il giovane Benson restava così nelle retrovie, in disparte, ad osservare Sam passeggiare tra le vie di Los Angeles, come un muto spettatore. Ricordava il passato, i bei momenti trascorsi insieme, lontani un’eternità da adesso, e quelli che avrebbero ancora potuto avverarsi.

I pensieri erano liberi di viaggiare per loro conto, e di portare nel cuore di Freddie tutto il dolore che trovavano.

Il senso di rabbia e tristezza che gli attanagliava la bocca dello stomaco gli stava suggerendo quanto odiasse quella situazione.

Odiava essere invisibile per lei, mentre sviluppava l’inutile certezza che i suoi sentimenti non erano esauriti né scomparsi. Erano sempre lì, in ogni sguardo che sfuggiva al suo controllo e andava a posarsi su di lei, in ogni volta che avrebbe voluto abbattere il muro che si ergeva tra loro, in ogni attimo di amarezza che provava vedendola mano nella mano col suo compagno.

Soltanto più tardi, guardandosi intorno, Freddie si accorse di non essere il solo a dover lottare contro quei demoni interiori.

Beck camminava al suo fianco, in fondo al gruppo, e nei suoi occhi si aggirava un’ombra identica alla sua. Sembrava in grado di combatterla e tenerla in gabbia, ma non di nasconderla, almeno non a lui.

Ancora una volta, le loro storie sembravano destinate a incrociarsi. Beck stava chiaramente vivendo, e Freddie non poteva sapere da quanto, il suo stesso stato d’animo.

Anche lui soffriva per la lontananza da una persona a cui teneva ancora, ma per la quale era consapevole di non contare più niente. Una persona che non lo guardava più come in passato, con il loro rapporto ridotto ormai ad un’insipida amicizia di facciata. E la protagonista di questo drammatico teatrino non poteva che essere Jade West.

Era chiara l’indifferenza che mostrava nei confronti di Beck, esattamente come quella che aleggiava tra Sam e il giovane Benson.

Freddie lasciò che lo sguardo cadesse per l’ennesima volta su Sam e Gabriel, mentre l’invidia prendeva possesso delle sue membra.

Non era quello il rapporto che desiderava e che si aspettava di avere con lei.

Cercò di arrivare al termine della serata, con la mente ormai invasa dai dubbi. Freddie Benson sarebbe mai stato qualcosa di più de “l’amico di Seattle”?

 

*****

 

Sempre più spesso Tori sorprendeva se stessa a fissare quegli occhi. Fin dal primo istante ci aveva visto qualcosa di magnetico, di così ammaliante da catturarla qualsiasi cosa stesse facendo.

Era appena il quarto giorno di lavoro di Thomas al supermarket, ma per Tori era come se si conoscessero da una vita. Si erano intesi subito molto bene, sia a livello lavorativo sia personale. Lui era stato assegnato allo stesso reparto di Tori, perciò era naturale che passassero praticamente tutta la giornata insieme. Riuscivano a organizzarsi le mansioni in maniera precisa ed efficiente, sempre col sorriso sulla bocca e con la battuta pronta.

Tori per prima aveva sentito gli effetti di questa nuova situazione. Da quando Thomas era entrato, il lavoro le sembrava molto meno pesante e noioso. Affrontava le giornate con maggior voglia, sapendo di poterle condividere con qualcuno che le avrebbe offerto una gradevole compagnia.

E poi c’erano quegli occhi. Di un morbido color nocciola, a volte la giovane Vega ci si perdeva per dei secondi interi, in cui il resto intorno a lei non esisteva più.

- Ti dico che è stato un colpo di fulmine, Andre! – aveva esclamato, quando aveva raccontato di Thomas all’amico. Per un pomeriggio intero, non aveva fatto altro che esaltare i suoi grandi occhi marroni e il sorriso da perdere la testa.

- Sono contento per te, ma io non credo in queste cose. Sono convinto che sia fondamentale conoscere bene una persona, prima di lasciarsi trasportare. –

- Andiamo, non ti è mai capitato di sentire le farfalle nello stomaco la prima volta che hai incontrato una ragazza? O di fare qualcosa di stupido per lei? –

Andre sogghignò prima di ribattere. – Ne ho fatte tante, di cose stupide. Ma sapevo sempre per chi. Tu questo Thomas lo conosci appena, e già dici di essere… -

- Io non ho detto niente del genere, Andre. –

- Ma ci sei vicina, non è vero? –

- Te l’ho detto, è stato… -

Andre era scoppiato a ridere. - Un colpo di fulmine… sì, ho capito. -

Lo era stato veramente per Tori, e si era ripetuto un paio di giorni dopo, una mattina di Settembre.

Thomas era appena arrivato e si stava cambiando nello spogliatoio, togliendosi il giubbetto di pelle per indossare la divisa del negozio.

Il destino volle che proprio in quel momento, per raggiungere il magazzino, Tori passasse davanti alla stanzina. La porta era appena socchiusa e lo sguardo della ragazza, attraverso la fessura, si posò istintivamente su di lui.

Rimase bloccata come una statua, ad ammirare il suo fascino. L’attenzione fu poi dirottata su un altro particolare.

- Quel tatuaggio è stupendo. – le sfuggì dalla bocca, tradendo la sua presenza.

Con tutta la naturalezza del mondo, Thomas spalancò la porta trovandosi faccia a faccia con la ragazza. – Grazie. –

Il battito di Tori aumentò notevolmente di fronte al sorriso che le stava rivolgendo. Cercò di controllare il respiro e abbozzò anche lei un sorriso, ma con scarsi risultati. Gli occhi erano tutti per i muscoli ben definiti che risaltavano dalla canottiera, e per il dragone raffigurato sulla sua spalla sinistra. – Non sapevo che avessi… – farfugliò. – Insomma, non l’avevo visto… -

- Adoro i tatuaggi, e un mio amico ha un negozio qua vicino. – rispose lui, continuando tranquillamente a vestirsi. – Tu ne hai? –

Tori deglutì a fatica. – No, ma ho sempre sognato di farmene uno… -

Thomas le sorrise di nuovo. – Per te vedrei bene una stella. -

 

*****

 

Al termine di un’uscita con gli amici, Freddie si fece riaccompagnare a casa da Beck. Non solo perché gli serviva un passaggio in auto, ma anche perché sarebbe stata una buona occasione per parlare a quattr’occhi con lui.

Era chiaro per entrambi cosa stesse affrontando l’altro. E per Freddie, se c’era qualcuno con cui confidarsi della sua situazione con Sam, quello era proprio il canadese. Pochi segreti con lui e destini, a quanto pareva, tristemente simili.

Si fermarono sotto il portone per dare voce ai loro demoni.

- Non te l’ho ancora chiesto, perché immagino che non sia semplice per te. – esordì Freddie, cercando di spostare il discorso, almeno all’inizio, lontano da sé. – Che cosa succede con Jade? –

Beck si incupì all’istante, pungolato sul suo nervo più scoperto. Un sospiro gli sfuggì dalle labbra. – E’ vero, è tutto tranne che semplice, sono convinto che te ne sia accorto da solo. Non c’è mai stato un giorno facile con Jade, e chissà se il Cielo me ne riserverà mai uno. –

Freddie si appoggiò con la schiena al muro e incrociò le braccia. - Ho l’impressione però che ci sia dell’altro che non mi stai raccontando. –

- Forse perché non voglio raccontarlo, almeno per ora. –

- Arriverà il momento? –

- Suppongo di sì. – Beck si sforzò di sorridere. – Che mi dici invece di te e Sam? –

Di Sam c’era sempre stato tanto da dire, a volte pure troppo.

Più passavano i giorni, più Freddie aveva la conferma della natura dei suoi sentimenti per lei.

Purtroppo però, vederla insieme a Gabriel e ogni volta posare le labbra sulle sue, gli stava rendendo chiaro anche quale sarebbe stato il suo ruolo. Una comparsa, un attore di primo piano che torna per il capitolo successivo, ma a cui viene riservato soltanto un piccolo cameo.

Ma in fin dei conti, aveva davvero il diritto di essere geloso?

Da quando Carly era partita per l’Italia avevano lasciato che i giorni senza sentirsi si trasformassero in settimane, mesi, per poi allontanarsi definitivamente.

E allora come poteva pretendere che nel mondo di Sam ci fosse ancora lo stesso spazio per lui?

Era stato messo davanti alla realtà, eppure questa era una domanda a cui non intendeva rispondere.

– Ricordi le nostre conversazioni a Seattle? – fece il canadese.

Freddie aggrottò le sopracciglia e annuì.

- Pensa a cos’è che ti ha impedito di salire su quell’aereo con me. –

Era stato il timore di non essere più accettato da Sam, il timore di essere diventato un signor Nessuno per lei.

Beck però aveva ragione. Adesso faceva di nuovo parte della sua vita, anche se semplicemente come l’amico di Seattle. Ogni sua mossa non avrebbe fatto altro che accelerare il corso della sua paura. Forse sarebbe servito del tempo per tornare quelli che erano, ma l’aveva ritrovata. E sapeva che sarebbe bastato un errore, una sola mossa sbagliata, per rischiare di rovinare tutto e perderla ancora una volta.

Sam era felice, poteva riconoscerlo ogni volta che la guardava, anche se non avrebbe voluto. E mettersi in mezzo avrebbe significato solo mettere a repentaglio quella felicità.

Aveva cercato di sconfiggere le sue angosce salendo su quell’aereo a Seattle, con il desiderio di andare avanti, o almeno di provarci. E Sam era una parte troppo importante a cui rinunciare.

Per questo, guardando in faccia la realtà, si sarebbe anche accontentato di avere il suo nome tra i titoli di coda.

Era il momento di fare la cosa giusta. E per il bene di entrambi, la cosa giusta era continuare a ingabbiare le emozioni e restare al fianco di Sam come non aveva fatto per quattro lunghi anni.

 

 

 

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Capitolo 6
*** VI - iCanOnlySeeTheClouds ***


VI - iCanOnlySeeTheClouds

 


 

Per certi versi, le preoccupazioni di sua madre non erano totalmente infondate. Spostarsi in un’altra città senza progetti e senza neanche troppi soldi in tasca non era la cosa più semplice del mondo.

Erano trascorse quasi due settimane da quando era arrivato a Los Angeles, e Freddie continuava a vivere in quello squallido motel vicino all’aeroporto. Era ancora senza lavoro, i fondi che si era portato dietro da Seattle erano contati e questo rendeva impossibile trovare un’altra sistemazione.

Giorno dopo giorno stava affrontando le difficoltà di una vita che, se non si è pronti, non lascia scampo. E ad affliggerlo ancora di più, era ovviamente Sam.

Solo nella sua stanza, i pensieri presero a viaggiare verso di lei e, di conseguenza, verso Gabriel.

Doveva dire la verità, non gli aveva fatto una brutta impressione. La sera in cui si erano conosciuti ci aveva scambiato giusto due parole, pronunciate a denti stretti, ma la prima idea che aveva avuto di lui era, tutto sommato, positiva. Sembrava un tipo a posto, tranquillo e convinto di sé, e perfino simpatico.

Un bravo ragazzo, e nessuno sapeva quanto pesasse a Freddie ammetterlo.

Non poteva certo nascondere il fastidio che gli provocava saperlo e vederlo accanto a Sam, o il disturbo che lo avrebbe accompagnato ogni volta che si sarebbero incontrati, ma doveva provarci, o almeno fingere.

Freddie fu improvvisamente distratto dallo squillo del cellulare. Rispose senza prestare attenzione al numero.

- Pronto? –

- Ciao, Freddie. –

La schiena gli si irrigidì all’istante, mentre lo sguardo andava a sbattere contro il muro.

- Sam? – aveva riconosciuto benissimo la sua voce.

- Come stai, Benson? –

- Bene… - balbettò. – Abbastanza bene. –

- Ieri sera ho parlato un po’ con Beck. –

Freddie finse spavalderia. – Beck? Non sapevo foste così uniti. –

- Ci conosciamo quanto basta, credimi. –

Lui abbozzò una mezza risata. – Ok, ok… e posso chiedere di cosa avete parlato? -

- Di te. -

- Di me? -

- Esatto, e mi ha detto che ancora non hai né un lavoro né un posto dove stare. E’ così? –

Sempre dritta al punto. Freddie si trovò subito a corto di fiato. – Beh, veramente io… -

- Non raccontarmi storie, Benson. Sono più portata a credere a Beck che a te, diciamoci la verità. Allora, è così? –

Il tono di Sam era deciso ma privo di inflessioni, e Freddie faticava ancora a capire il senso di quella telefonata. – E’ vero. – confessò abbassando gli occhi.

- Ascoltami, ho pensato a una cosa. Nell’azienda dove lavoro si è liberato un posto nel reparto informatico, potrei organizzarti un colloquio, conosco il tizio. Potrebbe interessarti un vero lavoro da nerd? –

- Come… -

- E non ho finito! – lo interruppe. – In questi giorni hanno liberato un appartamento non lontano dal mio. Da quello che ho visto non è ridotto male, e l’affitto è discreto. -

Freddie non sapeva più che pensare. All’inizio aveva creduto si trattasse di uno scherzo, specialmente conoscendo Sam, ma ora cominciava a prenderla in considerazione. E per un attimo si sentì disorientato.

Le barriere tra loro sembravano essere crollate di colpo, abbattute da una franchezza che Freddie non si aspettava. Lei lo stava mettendo di fronte a una scelta, al di là dell’essere stanco del motel, o della consapevolezza che i soldi non sarebbero durati in eterno.

Era stata Sam a fare il primo passo. Un enorme primo passo.

- Sam, io… -

- Non perdere tempo a ringraziarmi, Benson. –

- Sai che devo farlo. – lasciò che le parole gli uscissero direttamente dal cuore, anche a costo di rendersi ridicolo. – Nonostante tutto, i nostri problemi e quello che abbiamo passato, sei una delle migliori amiche che abbia mai… -

- Freddie! – lo interruppe di nuovo. – Credi davvero che in questi quattro anni io sia diventata una fan dei tuoi discorsi ottusi e melensi? –

Freddie sorrise. Era vero, certe cose di Sam Puckett non sarebbero mai cambiate. – Ho capito… grazie, comunque. –

Stava per riattaccare, quando sentì ancora la voce di Sam. – Freddie! -

Riaccostò il cellulare all’orecchio. – Che c’è? –

- E’ bello riaverti intorno. -

 

*****

 

Jade stava ascoltando alcune canzoni sul portatile, così da coprire le fragorose risate di Cat nella stanza accanto. Non c’era bisogno di chiedersi il motivo di tanta allegria, quando sapeva benissimo che si trattava ancora di Robbie. In un certo senso, per quanto le facesse piacere per l’amica, adesso la sua situazione cominciava a darle sui nervi. Cat non poteva essere così ingenua da continuare a credere di vivere nel mondo delle favole.

In quel momento la rossa uscì dalla camera e incrociò Jade, seduta al tavolo della cucina. Aveva ancora il sorriso stampato sul viso. – Ciao Jade! –

L’altra alzò le mani dalla tastiera e la fissò incuriosita. – Ti senti bene, Cat? –

Cat si diresse al frigo per prendere qualcosa da bere. – Benissimo! – rispose, con la testa immersa tra i ripiani ghiacciati. Uscì poi con un succo di frutta, tenendo lo sportello aperto per metà. – Perché me lo chiedi? –

- E’ lui, vero? –

Cat si girò di scatto. Odiava quando Jade la guardava così, con quegli occhi da inquisizione spagnola. – Lui chi? –

Jade inclinò la testa. – Non fare così con me, non ti serve a niente. E’ sempre lui, lo so. –

La rossa combatté la tensione regalando un nuovo sorriso. – Era Robbie, sì! –

- Vi sentite spesso. – Jade osservava compiaciuta la gioia di Cat, ma come aveva avuto modo di pensare altre volte, questo non la lasciava tranquilla. Si sentiva in dovere di preoccuparsi per Cat, visto che lei non era in grado di farlo da sola.

- Mi racconta delle sue giornate in Germania. – la voce tradiva un po’ di imbarazzo. In fondo, aveva sempre cercato di nascondere a tutti i suoi assidui contatti con Robbie. Non ci era riuscita, ma poco importava. – Si sta preparando per il prossimo test di ammissione, sta studiando… una materia di cui non mi ricordo il nome. Ha dei bellissimi progetti per un cortometraggio, vuoi che te li racconti? –

- Un’altra volta, Cat, magari un’altra volta. Tu invece che gli racconti? –

Cat aggrottò lievemente la fronte. – Che intendi? –

- Gli hai detto che ti manca? –

- Un’infinità di volte! Ovviamente, gli ho fatto sapere che manca anche a voi. –

Jade riprese a fissarla intensamente. – Non allo stesso modo, giusto? –

Stavolta Cat non rispose, di nuovo preda dell’imbarazzo.

- Andiamo, Cat, l’ho capito. E’ chiaro come il sole, che provi ancora qualcosa per lui. –

Negli occhi della rossa la felicità lasciò presto il posto ad una sensazione molto simile al terrore. Aveva sempre visto quello che aveva con Robbie come qualcosa di esclusivamente suo, come un tesoro da custodire gelosamente. Dopo quello che aveva passato, il loro primo e unico bacio d’addio, il dolore per la sua partenza, ammettere ad alta voce che quei sentimenti non si erano dissolti era veramente troppo difficile per lei.

- Io… io… - balbettò incerta. – Io vorrei solo che fosse di nuovo qui! –

Jade cercò di calmare l’amica con un sorriso e annuendo comprensiva, come se quella fosse la cosa più giusta del mondo.

“Forse sarebbe meglio se fosse qui”, pensò, mentre lasciava che Cat sparisse dietro la porta di camera, immersa nella timidezza e nei pensieri per Robbie.

E non appena fu rimasta sola, l’espressione sul suo volto fu oscurata da una dolorosa ombra.

Non era stata sincera con Cat. Avrebbe voluto avvertirla che questo non è il mondo delle favole, che non è tutto rosa, che le cose non vanno come nei film. Avrebbe voluto dirle che le relazioni a distanza sono destinate a non funzionare. Ma non l’aveva fatto.

Perché la verità serve soltanto a fare male, e non è quasi mai la scelta migliore. Cat era una cara amica, e Jade avrebbe maledetto se stessa a vederla soffrire.

Esattamente come la verità aveva fatto soffrire lei circa sei mesi prima. Non esiste rapporto che non ponga le proprie basi sulla lealtà e sulla sincerità, eppure a volte questo non basta. Quando le parole risuonano più dei sentimenti, anche le migliori intenzioni portano a danni profondi e irreparabili.

Forse Beck aveva creduto veramente di fare la cosa giusta, rivelando ciò che ancora si teneva dentro. Volevano ripartire da zero, senza più segreti o menzogne tra loro. E Beck aveva deciso di raccontare tutto, le ragioni che lo avevano portato a Seattle e lontano da lei, i suoi pensieri, e soprattutto, di Sonja.

Aveva sbagliato, per l’ennesima volta.

Da quando aveva scoperto quello che era successo a Seattle, Jade aveva trascorso notti intere senza dormire. Aveva nascosto a Beck la sua reazione, aveva finto che andasse tutto bene, quando in realtà non era per niente così.

Sapere di Sonja era stato un durissimo colpo al cuore. Si era rivelato uno scoglio che, per quanto ci avesse tentato, non era riuscita a superare.

Non era solo per quello che c’era stato tra loro, l’intimità e il tradimento. Ma era perché sapeva cosa Beck aveva cercato in Sonja: il desiderio di trovare un’altra, diversa da Jade, come se volesse dare un calcio a tutto ciò che fino a quel momento aveva dichiarato di amare.

E allora come poteva Jade essere certa che, malgrado tutte le promesse di un nuovo inizio, a Beck andasse bene com’era? Era sicura che lui l’amasse ancora?

Nei giorni a seguire, nascondendo i pensieri dietro le prove a teatro, la sua fiducia nei confronti di Beck aveva iniziato a vacillare, mentre la gelosia faceva capolino per l’ennesima volta.

Aveva tentato di superare i suoi tormenti, ci aveva provato davvero. E all’inizio forse ci era pure riuscita, almeno finché il sipario non si era alzato sulla loro storia, svelando un orizzonte tutt’altro che luminoso.

 

*****

 

Sam aveva mantenuto la sua promessa, organizzando per Freddie un colloquio con il responsabile informatico dell’azienda.

Erano circa le nove quando Freddie si presentò fuori dal portone, con la sua camicia migliore e tanto nervosismo. C’erano molti motivi che lo portavano ad essere così teso, dall’importanza che poteva avere quel lavoro, decisamente diverso da quello che aveva a Seattle, a ciò che significava per lui e per Sam.

Dall’esterno, l’edificio dava subito l’impressione di un ambiente all’avanguardia e a tratti addirittura futuristico. In alto, l’insegna era predominata da un blu elettrico e recava il nome dell’azienda a caratteri cubitali. Lo stabile, dalle pareti bianche e fresche di tinteggiatura, era sviluppato molto più in larghezza che in altezza. Presentava una sola fila di finestre sull’ala est, e aveva due entrate, una per gli uffici e l’altra per i laboratori.

Freddie varcò la soglia, stringendo ancora più forte il curriculum, e si ritrovò come catapultato in un’altra realtà. Gli piacque subito quel posto, dove il silenzio regnava sovrano tra i corridoi. C’era un diffuso senso di organizzazione e ordine in mezzo alle varie postazioni, gestite da facce concentrate sul proprio lavoro. Gli scappò da ridere, pensando a come facesse Sam a stare lì.

Si avvicinò alla scrivania della segretaria, una donna molto elegante sulla trentina. Quando lo vide, lo accolse con un sorriso di circostanza. Freddie deglutì per allentare il groppo alla gola. – Buongiorno, sono… -

- Freddie! – una voce fin troppo familiare lo colpì alle spalle.

Fu raggiunto dal demonio biondo, mentre il peso gli scendeva dalla gola fino allo stomaco. Quella mattina, una parte di sé aveva sperato di non incontrarla, ma si era trovata a scontrarsi con l’altra che invece pareva aver disperatamente bisogno di lei. E come spesso accadeva quando si trattava di Sam Puckett, non c’erano stati né vincitori né vinti. Freddie aveva l’impressione di essere l’unico ad aver perso.

Sam gli diede una sonora pacca sulla schiena, prima di rivolgersi, allegra ma decisa, alla segretaria. – Lui è qui per un colloquio. Puoi dire a Martin che Freddie Benson è arrivato? Secondo me lo sta aspettando. –

Mentre la donna componeva il numero di un interno, Sam si voltò verso di lui. – Secondo me ti sta aspettando. – ripeté. – Sei in ritardo, Benson. –

Freddie guardò stupito l’orologio. – No! Io… -

Sam non gli concesse nemmeno un secondo per ribattere. – Sai, Freddie, non ti presenti bene a un lavoro se non riesci a dire nemmeno chi sei e cosa ci fai qui. Ma l’hai mai fatto un colloquio? –

Il ragazzo aveva iniziato a sudare. – Sei tu che mi hai interrotto… -

- E tu sei sempre il solito. – lei lo afferrò per la spalla sorridendo. – Andiamo. –

Decise di accompagnarlo verso la sezione informatica, i cui uffici erano esattamente dalla parte opposta dello stabile. Nonostante il tempo che potevano condividere, Freddie non riusciva a dire una parola. Non sapeva se a turbarlo così tanto fosse l’idea del colloquio o la presenza di Sam. Anche se per poco, erano di nuovo loro due. Da soli, senza Beck, Cat e gli altri. Insieme, come lo erano stati un tempo.

Dopo due corridoi e una rampa di scale, Sam si accorse di quanto fosse taciturno Freddie. – So cosa stai pensando. –

Il giovane Benson fu preso dal panico. – Davvero? Come… -

- Ti stai chiedendo come abbia fatto una come me a trovare un lavoro qui. –

Non esattamente, pensò lui. Gli era appena passato per la mente, ma scelse comunque di lasciarglielo credere. – Esatto. -

- Non ci crederesti se ti dicessi che è stato grazie a iCarly. –

- Infatti non ci credo. –

- Dovresti, invece. Hanno visto in me del talento per la pubblicità, a quanto pare. Dicevano che sapevo come catturare l’attenzione dello spettatore e raggiungere il loro cuore, e che il marketing non è niente di diverso. Bisogna saper parlare alla gente, che sia davanti a uno schermo o su un volantino. E così mi sono ritrovata a prendere in giro casalinghe annoiate per convincerle a comprare frigoriferi e lavatrici. -

- Sono felice per te. –

- Lo sarei anch’io, se mi pagassero un po’ di più. – scherzò.

– Immagino non sia facile, però, essere la novellina che viene da un web-show per ragazzini. Insomma… -

- Ho capito cosa intendi. – indurì il tono. – Ma io non permetto mai a nessuno di mettermi i piedi in testa. Dovresti saperlo, Benson. -

Freddie annuì, mentre rifletteva su quelle parole.

Nei minuti successivi Sam gli raccontò dell’azienda, del suo lavoro e di qualche aneddoto. Freddie sentì il nodo allo stomaco sciogliersi lentamente, realizzando quanto stesse di nuovo bene accanto a lei. Eppure, niente di tutto ciò che stava ascoltando lo interessava.

Adesso che erano da soli, c’era soltanto una voce che lo assillava. Il tormento legato all’unica ragione che gli impediva di godere della presenza di Sam, che gli negava la possibilità di essere felice, o almeno di provarci, e che lo stava relegando ad un ruolo che non meritava. Voleva sapere di Gabriel, l’altro.

– Come… - iniziò, senza tuttavia considerare quanto il tempo, a volte, sia un nemico inesorabile.

- Sei arrivato. – Sam si fermò all’imboccatura di un corridoio stretto e semi-nascosto, e gli fece cenno di proseguire. – La seconda porta a sinistra. –

E in quell’istante, Freddie si ritrovò a provare uno strano senso di abbandono. Sulla soglia, fu colto dalla tentazione di rinunciare perfino al colloquio, pur di continuare a parlare con Sam. Si girò d’istinto, proprio mentre lei si allontanava verso le scale. – Aspetta! – la chiamò speranzoso.

Sam si fermò e lo guardò perplessa. – E adesso che c’è? –

Niente, in fin dei conti. Se non la prima risposta che gli passò per la mente. – Non mi hai detto niente di… di cosa dovrei fare, di chi… -

Lei lo salutò con lo stesso gesto di un militare al congedo. – Perché non ce n’è bisogno, Freddie. Quel posto è già tuo, me lo sento. -

 

*****

 

Tori non poteva negare che Thomas stesse diventando una parte sempre più importante della sua giornata. Da quando aveva fatto la sua comparsa, il ragazzo le stava regalando nuova linfa, soprattutto per il lavoro. Il supermarket non sarebbe mai diventato una boutique di lusso, ma almeno non sembrava più una bettola abbandonata.

Stava legando molto con lui, più di quanto avesse mai fatto con gli altri suoi colleghi. C’era una buona complicità, che li portava a parlare e scherzare spesso, in qualunque cosa fossero impegnati.

Ancora più spesso, però, Tori si perdeva in pensieri e fantasie su Thomas. L’immagine di quei grandi occhi nocciola che si posavano sui suoi le rimaneva impressa nella mente per ore, fino a che non veniva riportata sulla Terra.

Da un paio di giorni, dal loro incontro nello spogliatoio, i dubbi avevano cominciato a scatenarsi nella mente di Tori. Si chiedeva cosa potesse pensare Thomas di lei, se anche lui vedesse le stesse cose, se si stesse davvero sviluppando qualcosa, o se fosse tutto soltanto un film nella sua testa.

Ebbe una risposta piuttosto chiara quel pomeriggio, alla fine del loro turno.

Tori si era diretta al parcheggio e aveva raggiunto la sua auto, felice di poter tornare a casa a riposarsi. Mentre apriva lo sportello per riporre la borsa sul sedile, notò che pochi metri più in là, era posteggiata una bellissima moto dalla carrozzeria nera cromata.

La fissò meravigliata per dei secondi, prima di avvicinarsi per ammirarla meglio. Non era un’esperta in materia, ma le ricordava quelle da corsa che le era capitato di vedere in tv.

- Ti piace? – spuntò una voce alle spalle.

Tori si destò di scatto, trovandosi improvvisamente di fronte al volto compiaciuto di Thomas. Annuì con particolare imbarazzo. – E’ tua? –

- Già, sorpresa! –

Il ragazzo sollevò il sottosella per riporci lo zaino. – E’ una Kawasaki ER del 2009, l’ho appena rimessa in strada. – iniziò a raccontare. – Ho un amico che ha un’officina, mi sono fatto dare una mano da lui. Abbiamo risistemato il motore e i pistoni, e il telaio ora è come nuovo. E’ stato un duro lavoro, ma il risultato è grandioso. –

- Hai ragione, è magnifica. -

Thomas si girò verso Tori, e si accorse di come lei non riuscisse a staccargli gli occhi di dosso. La moto non era l’unica cosa che stava osservando a bocca aperta.

– Ti va di farci un giro? –

La giovane Vega si sentì mancare il fiato, ma non ebbe nemmeno bisogno di pensare alla proposta. La luce proveniente dagli occhi e dalla bocca di Thomas bastò ad attirarla, e a convincerla che non si trattava di un film.

– Andiamo. –

 

*****

 

Per riuscire a portare avanti il progetto del video-clip, Andre aveva affittato un piccolo locale per le prove. Era lontano dal centro ma si trovava in una zona tranquilla, nascosto in una stradina interna e poco trafficata.

Aveva capito che continuare a lavorare nel garage di sua nonna non avrebbe portato lontano nessuno di loro, in un momento così difficile per dei giovani artisti emergenti.

Quel pomeriggio, aveva invitato tutti i suoi amici per fargli visitare il posto e sapere cosa ne pensassero.

Tori e Cat erano già arrivate e stavano chiacchierando con Andre nella saletta audio, mentre Jade aveva chiamato dicendo che sarebbe passata più tardi.

Verso le quattro e mezzo si presentò anche Freddie, accompagnato da Beck alla fine del suo turno alla biblioteca.

Andre li salutò da lontano attraverso il vetro, lasciando poi i due a guardarsi intorno. La stanza era piuttosto ampia, di circa 60 metri quadri, ma ancora in attesa di essere arredata con l’attrezzatura necessaria. C’erano giusto tre sedie accatastate in un angolo e un rotolo di moquette appoggiato al muro.

Beck emise un urlo per costatare l’effetto dell’eco.

- Ha un buon sound? – chiese Freddie.

- Mi sembra leggermente troppo chiuso, come una caverna. Ma sono sicuro che i nostri amici laggiù ne sappiano più di me. – sorrise. - Il canto non è mai stato il mio forte. Dammi Shakespeare da leggere per due ore intere e lo farò, ma non pensare di mandarmi su un palco a intonare l’inno americano. Sai che ho scoperto di essere più stonato di quanto credessi? –

Freddie scoppiò a ridere. – Ti farei conoscere un mio vecchio amico di Seattle, nemmeno lui era esattamente Freddie Mercury… -

Beck fece per tirare giù una sedia, ma rinunciò non appena vide quanto fossero polverose. – Com’è andato il colloquio stamattina? –

L’amico ebbe una strana reazione in viso. – Di per sé è andato alla grande. Il lavoro è semplice, si tratterebbe di gestire le reti aziendali e di fare manutenzione ai computer interni. Hanno un CED che… -

- Un “CED”? –

- Centro Elaborazione Dati, scusa. Ci lavoravano tre ragazzi, ma uno si è trasferito e adesso hanno bisogno di qualcuno che dia una mano. –

Il canadese aveva tuttavia letto la sua espressione. – Non ti vedo convinto, però. Non ti hanno preso? –

- In realtà cominciò lunedì, e anche la paga non è così male. –

- E allora cosa c’è che non va? –

- Quello che c’è stato dietro il colloquio, ecco cosa. –

- Dov’è il problema? Sei la persona giusta e ti hanno assunto! –

- Non intendevo questo, Beck. È il modo in cui sono arrivato a questo lavoro. Se non fosse stato per Sam, forse sarei ancora a letto a fissare il soffitto. –

- Si è comportata da buona amica. –

Freddie annuì. – Bravo, è questo il punto. –

Beck aggrottò le sopracciglia. – In che senso? –

- Che io… non capisco. Non capisco perché l’abbia fatto, non capisco come dovrei vederla, non capisco nemmeno cosa dovrei pensare. Non so cosa aspettarmi da lei. –

Beck tentò di entrare nel flusso dei pensieri dell’amico. – Che rapporto credi di avere con Sam? –

Freddie lasciò andare un sospiro e scosse il capo. – Non lo so, Beck. Lo hai visto anche tu, quando siamo insieme, come ci comportiamo. Ci sentiamo come due estranei. Poi però vedo tutto quello che ha fatto per me, il lavoro, l’appartamento, e la vedo come fosse la migliore amica del mondo. Tra noi c’è sempre stato qualcosa di strano, che andava al di là dell’odio, dell’affetto o dell’amore. Eravamo due mine vaganti, l’uno per l’altro. –

- E adesso? –

- E adesso non so più cosa considerarla, o cosa considerarmi io per lei. Sapevo che, venendo a Los Angeles, non avrei trovato la stessa Sam Puckett di quattro anni fa, ma non credevo sarebbe stato così complicato. Io dovrei conoscerla meglio di chiunque altro, eppure quello che vedo non riesco a farlo assomigliare a niente. Sembra una persona diversa, e io fatico a riconoscerla. –

- Siete cresciuti. –

- Non è solo quello. Non sto parlando soltanto di quello che ha deciso di fare per me, ma anche di quello che ha con Gabriel. Beck, sinceramente, io non ho mai visto Sam così felice come quando è con lui. –

Freddie non poteva evitare di mettere a confronto la sua storia con quella del presente, e Beck lo aveva capito. Anche lui aveva un passato che non sembrava volerlo abbandonare.

- Nella vita succedono tante cose, e quasi mai riusciamo ad avere il controllo su di esse. Ma di una cosa sono sicuro: possono passare gli anni, ma le persone non cambiano. Dai tempo a te stesso e a lei, Freddie, e capirai che quella è sempre la Sam che conoscevi, di cui eri innamorato a Seattle, e di cui sei innamorato ancora oggi, a Hollywood. –

Beck lo aveva provato sulla sua pelle. Bruciava ancora il ricordo della reazione di Jade, quando lui le aveva aperto il cuore e le aveva confessato di Seattle e di Sonja.

Voleva che la loro relazione stavolta avesse basi solide, fondate sulla sincerità. Era stata la cosa più dolorosa che avesse mai dovuto dirle, ma insieme l’avevano superata.

Eppure, una vocina lontana continuava a perseguitarlo con un’altra verità, cioè la convinzione che la gelosia di Jade non se ne sarebbe andata così facilmente.

Aveva ragione.

E Beck aveva scoperto che persino il muro più resistente, a forza di essere colpito, prima o poi finisce per crollare.

 

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Capitolo 7
*** VII - Since Day 1 ***


VII – Since Day 1

 

 

Erano circa le sei del mattino quando Freddie accese il portatile e si precipitò a lanciare Skype.

Gli occhi puntavano continuamente verso l’orologio, con la sensazione che i minuti fossero sempre lì a mordergli le caviglie. La mente carica di timori e preda di una naturale preoccupazione, che sembrava volerlo preparare a ciò che lo aspettava un paio di ore dopo.

Era sorto il primo giorno di lavoro per il giovane Benson e, nonostante la sua preparazione, vederlo come il primo vero impiego non lo faceva sentire affatto pronto. Aveva bisogno di una sorta di conforto, e nessuno poteva garantirglielo meglio di Carly Shay.

La risposta dell’amica non si fece attendere. La ragazza era in pausa pranzo e gli rispose dal cellulare.

- Ciao Freddie! –

- Ciao Carly. – rispose, cercando di farsi calmare dal sorriso che vedeva sullo schermo.

- Tutto ok? –

- Abbastanza, direi. –

- Non ci sentiamo da settimane, quindi immagino che tu abbia delle novità. Come sta andando? –

Freddie osservò il bar in cui si trovava Carly: l’ambiente era completamente diverso da quello a cui era abituato, molto più affollato e rumoroso. L’amica si era seduta a un tavolino in un angolo, in modo da sentire più facilmente la voce di Freddie.

- Qualche novità sì, ce l’ho. –

- Te ne sei andato finalmente da quella baracca? –

Freddie sorrise. – Quello no, però ho… trovato un lavoro! –

- Grande! Di che si tratta? –

- Informatico aziendale, assistenza locale e remota e amministrazione di sistemi. –

- Non so cosa tu debba fare e non lo voglio nemmeno sapere. – lo prese in giro. – Però suona come un vero lavoro da nerd. Sembra proprio cucito apposta per Freddie Benson, insomma! –

Freddie sollevò un sopracciglio. – Sarà, ma sono un po’ preoccupato… -

Carly inclinò il capo con aria comprensiva. – Perché? –

- Non lo so… - scrollò le spalle. – E’ la prima volta che mi trovo di fronte a un’azienda grande come quella, che non è esattamente come il bar di quartiere. Lo sai che lì c’è un sacco di gente che va in giro in giacca e cravatta? –

La ragazza scoppiò a ridere. – Da qualche parte lo fanno, sì, ma è tutta questione di abitudine. –

- Ma io non voglio sembrare uscito da una cresima! –

- Vedrai che non ti faranno vestire come un avvocato per riparare due mouse. –

Le battute di Carly gli servirono davvero ad affrontare tutto con più serenità, almeno fino a una domanda che avrebbe preferito evitare.

- Alla fine sei stato fortunato a trovare un lavoro del genere, come hai fatto? –

Freddie si incupì nuovamente ed esitò un paio di secondi prima di rispondere. – Sam, è lei che mi ha organizzato il colloquio. –

Carly ne fu sinceramente sorpresa. – Davvero? –

Il ragazzo annuì.

- Bene, sono contenta che vi siate ritrovati almeno voi. –

Freddie aggrottò la fronte. – Ecco, in realtà è proprio di questo che volevo… -

- Di Sam? Perché, che succede? –

- E’ strano, Carly, non so proprio come spiegartelo… -

- Provaci. – lo esortò ironica l’amica. – Soprattutto perché tra quindici minuti devo rientrare. –

- Parlo sul serio, faccio una fatica enorme a capire quella ragazza. Un attimo prima si comporta normalmente, mi tratta da persona normale e sembra persino gentile, mentre un’ora dopo è come se non esistessi, oppure nel migliore dei casi, la considerazione che ha di me è pari a quella di una scarpa. –

- Io non ci vedo niente di strano, anzi, mi sembra tutto nella norma. Ricordi com’eravate quando giravamo iCarly? Quante volte hai rischiato di ritrovarti appeso a testa in giù dal balcone? –

- Non è questo il punto. Non è più come quattro anni fa, Carly, è… diversa. –

La ragazza scosse la testa. – Non so che dirti, ma forse è solo una tua impressione. Dopotutto vi siete rivisti dopo tanto tempo. –

- Tu non hai mai notato niente di strano in lei? – si fermò per la stranezza della richiesta. – Insomma, voglio dire… -

- Sì, ho capito cosa intendi, ma non posso dirti granché, purtroppo. Quando sono arrivata in Italia io e Sam abbiamo continuato a sentirci come se fossimo ancora coinquiline, ma la cosa non è durata a lungo. Sam lo sai com’è, non è molto incline al dialogo, e io ero completamente presa dai miei impegni. La lontananza e pure il fuso orario non ci hanno aiutato. Dal telefonarci tutti i giorni siamo passate lentamente a farlo una volta la settimana, per arrivare poi a un paio di chiamate e qualche messaggio in un mese. Alla fine, non erano rimaste che le email di auguri per il compleanno e per le feste, ma a dire il vero, sono andate a sparire anche quelle. Perciò non posso dire di conoscere la Sam di Los Angeles più di quanto possa conoscerla tu, Freddie. –

- Ho capito. – E aveva capito anche che il pensiero di Sam non se ne sarebbe andato così facilmente.

Carly si voltò verso l’orologio appeso alla parete del bar. – Adesso devo andare, scusa. Ci risentiamo presto, ok? –

Il ragazzo era ancora assorto. – Ok. –

- Un’ultima cosa, per il lavoro… - gli ammiccò prima di staccare la comunicazione. – Vai tranquillo e fai vedere a tutti chi è Freddie Benson. –

 

*****

 

Il locale adibito a studio di registrazione era un ottimo posto per pensare. La radio e le sue canzoni pop accompagnavano le riflessioni di Andre, assorbito completamente dal suo progetto.

Lui era quello che trascorreva più tempo nello studio. Mentre Cat e Tori erano sempre impegnate e si fermavano solitamente non più di un’oretta, Andre passava quasi metà delle sue giornate a studiare e inventare.

Ma se doveva dire la verità, le idee latitavano e quelle poche che aveva non lo convincevano ancora a pieno. Aveva poco più di una base, su cui però non riusciva a costruire nient’altro.

Guardò sconsolato l’orologio: erano ancora le dieci, e non aveva alcuna voglia di spendere inutilmente altre tre ore senza scrivere nemmeno un paragrafo.

A quel ritmo, del videoclip non sarebbe stato pronto nemmeno il titolo. Decise allora di chiedere consiglio alle sue amiche, Cat e Tori, sperando che tre teste funzionassero meglio di una.

Estrasse il cellulare e aprì WhatsApp, accedendo al gruppo creato ai tempi della scuola. Col tempo qualcuno, come Robbie e Trina, lo aveva abbandonato, ma gli altri erano sempre lì e ancora oggi risultava frequentato.

Ragazze, avrei bisogno di una mano”, esordì Andre.

La risposta si fece attendere, ma dopotutto se lo aspettava. Tori, con ogni probabilità, era presa dal lavoro e dal resto chiamato Thomas; a Cat, invece, sarebbe servito un miracolo perché si accorgesse di aver ricevuto un messaggio entro dieci minuti.

Il ragazzo si lasciò andare con la schiena sulla sedia, a fissare nuovamente il portatile con una pagina quasi vuota e un motivetto musicale appena abbozzato.

Poco dopo il telefono vibrò sul tavolo.

Tori: “Ciao Andre.. scusa ma non potevo staccarmi dalla cassa.”

Figurati”

Tori: “Che succede?”

Sono un po’ bloccato con il video.”

Cat: ”Anch’io su YouTube.. problemi di linea”

Tori: “Non quel video Cat”

Cat: “Io stavo guardando American Idol”

Il videoclip ragazze”

Cat: “ :) ”

Tori: “Cosa c’è che non va?”

Sono un po’ a corto di idee”

Non riesco a scrivere la scena”

Tori: “Non avevamo detto una storia d’amore?”

Veramente no”

Cat: “Sì!!! Una storia d’amore!”

Tori: “Una musica romantica”

Cat: “Un incontro al chiar di luna”

Tori: “La pioggia?”

Cat: “No la pioggia no!”

Tori: “Ok.. Un giardino pieno di rose”

Cat: “Mi piacciono!”

Tori: “Una storia tormentata.”

Tori: “Due ragazzi che si amano ma che non possono stare insieme”

Cat: “Bella!”

Tori: “Andre? Che ne pensi?”

Andre spense il cellulare e lo lanciò sul tavolo. Preferì abbandonare la conversazione, piuttosto che continuare a vedere quanto poco aiuto potessero dargli sia Tori che Cat. Schiacciato contro lo schienale della sedia, si portò una mano alla fronte e iniziò a massaggiarsi le palpebre.

Possibile che quelle due per la testa non avessero altro che l’amore?

 

*****

 

Uscito dalla biblioteca, Beck decise di andare a trovare Andre allo studio.

Sapeva quanto quel progetto fosse importante per l’amico, e nonostante non partecipasse attivamente, voleva comunque garantirgli il suo appoggio.

Era un pomeriggio mite, ma dal cielo plumbeo e minaccioso; il sole si avviava rapidamente verso il tramonto, mentre Beck, stretto nel suo cappotto, raggiungeva il locale.

Varcò la soglia annunciandosi: - Andre! Sono io! –

Non ricevendo risposta, si fermò a guardarsi un po’ intorno. Poi, da lontano, riuscì a intravederlo in sala registrazione, e lo richiamò con un cenno. L’amico si accorse finalmente di lui e, attraverso il vetro, rispose al saluto.

Ma quando uscì per andargli incontro, Beck si accorse che Andre non era solo.

E in quell’istante sembrò che tutte le nuvole, che fino a poco prima aveva visto sopra di sé, si fossero concentrate in quella stanza.

Jade.

- Ciao, Beck. – il tono indicava come neanche lei fosse felicissima di incontrarlo.

Una coltre di indifferenza si abbatté tra loro, con Beck che si limitò appena a ricambiare, annuendo senza convinzione.

- Stavamo parlando della clip. – intervenne Andre, come se tentasse di giustificarsi. – Jade mi stava dando delle buone idee. –

Beck annuì nuovamente, sforzandosi di sorridere.

Andre decise di tornare a lavorare al portatile, lasciando i due nel silenzio più totale e nella difficoltà di sostenere persino lo sguardo.

Dopo alcuni interminabili secondi, Jade fu la prima a staccarsi e a riprendere la via per la saletta.

Beck la seguì a debita distanza. - Non mi aspettavo di vederti qui, pensavo che nemmeno tu partecipassi al progetto di Andre. – disse, sicuro che l’amico non potesse sentire.

Jade si voltò di scatto e lo fulminò con lo sguardo. Ma Beck si sentiva ormai immune alle sue occhiatacce, e sorrise soddisfatto della sua frecciatina.

La ragazza proseguì dandogli le spalle e ostentando indifferenza, cosa che le riuscì solo fino alla successiva frase di Beck. – Non credevo ti interessasse un granché. –

Ogni volta era uguale. Da quando si erano lasciati per l’ennesima volta, tra loro era una sorta di guerra fredda. Era impossibile intavolare una conversazione senza cadere in provocazioni, rivendicazioni o insulti. E tutti i sentimenti che un tempo provavano, adesso giacevano sepolti sotto il ghiaccio.

A quelle parole, Jade sentì di aver già raggiunto il limite di sopportazione. Irritata, si fermò e si girò puntandogli il dito contro. – Non ti azzardare a dirmi di nuovo una cosa del genere. –

Gli occhi di lei erano inondati dalla rabbia, mentre quelli di Beck tradivano tante emozioni che non riusciva a controllare.

- E perché? Di solito, se una cosa non riguarda te allora non conta. – insistette lui.

- Qui non si tratta né di te, né di me! Si tratta di un amico! –

- Giusto, quando ti pare hai anche degli amici. –

- Andre è un amico per me quanto lo è per te. Cos’è, vuoi anche l’esclusiva? –

Sentito il proprio nome, Andre uscì dalla saletta e, preoccupato per la piega che la discussione stava prendendo, si avvicinò ai due. – Ragazzi, che sta succedendo? –

Nessuno però gli prestò attenzione. - Dico che continui a vedere le cose come ti pare e piace. Come hai sempre fatto, in fondo. –

Alla durezza nella voce di Beck, Jade rispose alzando il tono. – Sul serio? Pensaci bene, perché non sono io quella che ha fatto i propri comodi! –

- No, tu sei quella che non ha rispetto per niente e nessuno. –

Andre provò a mettersi nel mezzo. – Ragazzi, calmatevi. – ma ancora una volta fu ignorato.

Jade era furibonda. – Non venire a parlarmi tu di rispetto! Forse dovresti guardarti allo specchio tutte le mattine, prima di pronunciare la parola “rispetto”. –

Beck la guardò in cagnesco, ma Jade non si fermò. – Tu ne hai avuto per me? –

Era chiaro a tutti cosa intendesse con quella frase. Il passato tornava a galla, come un demone che non rinunciava a tormentarli.

– Continui a rinfacciarmi la solita storia, anche se non c’entra un accidenti! - Il canadese ne ebbe abbastanza. – E non ho intenzione di rovinarmi un’altra serata per te. –

- Non ti preoccupare, di serate ne abbiamo rovinate già a sufficienza. –

- Hai ragione. – Beck si richiuse la zip del cappotto e si rivolse all’amico, che li osservava perplesso. – Scusa per il disturbo, Andre. Io me ne torno a casa. –

- Bravo. – sibilò Jade.

Beck le lanciò un’ultima occhiataccia, prima di allontanarsi e chiudersi la porta alle spalle.

Rimasta sola, Jade sentì i nervi rilasciare la tensione, ma questo non bastò per evitarle un piccolo crollo. Si sedette, con la testa bassa, e una lacrima iniziò a scenderle involontariamente verso le labbra. – Dispiace anche a me, Andre. –

Lo stesso pensiero si era insinuato nella mente di entrambi. Per quanto il loro rapporto fosse ormai deteriorato, nel bene o nel male, tra loro non sarebbe mai finita.

 

*****

 

In fin dei conti, Andre aveva ragione. Tori lo stava realizzando lentamente, ma Thomas era la persona a cui pensava più volentieri durante la giornata. La sua compagnia le piaceva, e negli ultimi tempi stava aumentando la sensazione, oltre alla speranza, che la cosa fosse reciproca.

Tori non aveva mai legato particolarmente con i colleghi del supermarket, fin da quando era entrata dieci mesi prima. Non le era mai interessato frequentare qualcuno di quel posto, che a malapena sopportava, preferendo mantenere una distanza sufficiente a permetterle di andare avanti.

Ma con Thomas era tutto diverso. Con lui era rinato quell’interesse che le era sempre mancato, e la voglia di approfondire la sua conoscenza il più possibile.

Spesso si ritrovavano a parlare anche dopo il turno di lavoro, dei loro interessi o di qualunque argomento gli venisse in mente.

Tori aveva imparato che Thomas era appassionato di moto da corsa, di cui seguiva le gare non solo in tv, ma più di una volta recandosi al circuito per vederle dal vivo.

Tutto questo suonava però come un mondo nuovo per Tori, del quale dimostrava di non capirne granché. Per questo il ragazzo si divertiva a prenderla in giro e inventarle storie, con Tori che stava al gioco, fino a quando scoppiavano a riderci sopra.

Erano le cinque e trenta quando Tori staccò dal supermarket per tornare a casa. Quel giorno i loro turni non erano combaciati: Thomas aveva fatto la mattina, mentre lei il pomeriggio.

Questo non aveva impedito ai due di continuare a scambiarsi messaggi, che accompagnarono Tori per tutto il tragitto fino al suo appartamento.

Erano finiti a parlare dei loro gusti musicali, scoprendo una notevole diversità. Mentre Tori professava il suo amore per il pop e per band come One Direction e Coldplay, Thomas era un ragazzo cresciuto tra il rock e il metal.

Da ormai più di un’ora stavano dibattendo sulla qualità della musica, sull’uso degli strumenti e sull’effetto che una canzone dell’uno o dell’altro genere potesse suscitare.

Tori stava camminando verso il portone quando ricevette l’ennesima notifica sullo smartphone. Provò un diffuso senso di gioia quando vide che si trattava sempre di Thomas, a dimostrazione di come anche lui apprezzasse parlare con lei.

Si trattava di un post sul suo profilo Twitter, composto da una breve frase che recitava “Ecco perché amo il rock”, e un’immagine poco sotto. Su uno sfondo che richiamava un cielo stellato, erano impresse alcune righe che andavano a parafrasare il testo di Nothing Else Matters dei Metallica.

 

Ti sento sempre vicina, non importa quanto tu sia lontana.

Non puoi essere così lontana dal mio cuore.

Ricorda sempre ciò che siamo, perché nient'altro ha importanza.

 

Non mi sono mai aperto in questo modo,

La vita è nostra, e voglio viverla a modo nostro.

Tutte queste parole tra noi, nient'altro ha importanza.

 

Non pensare a quello che fanno,

non pensare a quello che dicono,

Io ci sono per te, e nient'altro ha importanza.

 

Non le importava nemmeno se quelle parole fossero rivolte a lei, a qualcun altro o semplicemente al mondo. Tori le rilesse più di una volta, per assicurarsi di non trovarsi in un sogno. Ma forse sì, quello era davvero un sogno.

Rientrò in casa, ancora visibilmente emozionata, e si precipitò da Andre, in cucina a preparare qualcosa per la cena.

- Andre! -

Il ragazzo si voltò e, notando quel sorriso irradiato di felicità, aggrottò amichevolmente le sopracciglia. – Che succede? –

Tori afferrò il cellulare, lo accese sulla pagina di Twitter e gli mostrò il post di Thomas. – Guarda qui! Non è bellissimo? –

Andre rispose con una risata. Quel colpo di fulmine doveva essere stato veramente forte, tanto da assomigliare ormai a una vera e propria tempesta.

 

 

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Capitolo 8
*** VIII - i'mLookingIntoYou ***


VIII - i'mLookingIntoYou


 

 

Sabato mattina, Freddie era andato presto al Franklin, doveva aveva incontrato Beck e Andre. Avevano fatto colazione, e si erano messi a parlare dei loro impegni per il week-end.

- Che facciamo stasera? – chiese infine Andre.

Beck aveva appena finito il suo caffè. – Usciamo! – affermò con decisione. – Senza dubbio, mi sembra che ne abbiamo tutti bisogno. –

Andre e Freddie si erano scambiati un’occhiata e avevano annuito. – E’ vero – fece il primo. – Devo uscire da quella stanzina, o le note finiranno per uscirmi dalle orecchie. Dove andiamo? –

Beck ci pensò un attimo, rovesciando la testa all’indietro verso il soffitto. – Che ne dite del Rox? –

- Aspetta, è quello sulla settima, accanto alla tipografia? – domandò incerto Freddie, che ancora non aveva imparato la geografia di L.A.

- Esatto. –

- Per me va bene. – disse Andre. – Basta che non sia pieno di matricole universitarie, agitati e ubriachi come l’ultima volta. –

Il canadese fece spallucce. – Non lo posso sapere, non sono io il proprietario. –

- Ma sarebbe tutto più semplice se uno di noi possedesse un locale! – intervenne Freddie ridendo.

- Sante parole, amico. – concordò Andre. – Risolveremmo tanti problemi. Vada per il Rox, allora, ma a Cat lo spiegate voi come arrivarci. L’altra volta aveva imboccato l’autostrada per Las Vegas! –

Beck si rassegnò. - Ho capito, passerò io a prenderla… -

- Non può accompagnarla Jade? – chiese Freddie.

- Non vuole farla salire sulla sua macchina, dice che c’è troppo affezionata… -

- Ok… - sollevò un sopracciglio, perplesso. – Ma ricordati che devi portare anche me. –

- E quando ti deciderai a prendere una tua auto? – lo provocò ironicamente l’amico.

- Finché non mi danno il primo stipendio, posso permettermi al massimo la bicicletta. –

Beck si mise a trafficare un po’ sullo smartphone. – Prenoto un tavolino? –

- Assolutamente sì! – si fece sentire Andre. – Non voglio ritrovarmi di nuovo in mezzo alle matricole… -

- … universitarie, sì, l’abbiamo capito. Mando un messaggio ai ragazzi, facciamo per sette? –

- Sette? Chi è che non stai contando? –

- Gabriel, so che non può venire. –

- Nemmeno stavolta? –

Beck scosse il capo sghignazzando e gli fece il verso. – Deve lavorare. –

Freddie contrasse i muscoli della fronte. Gli faceva sempre uno strano effetto parlare del ragazzo di Sam. – Lavora anche il sabato sera? –

- Evidentemente sì. –

Era forse la prima volta che andavano più a fondo nell’argomento Gabriel. – Ma cosa fa? –

Beck ostentò indifferenza, forse per metterlo più a suo agio. – E’ in una steakhouse, fa il cameriere, il sommelier… qualcosa del genere, insomma. E, a quanto pare, questa settimana il suo capo gli ha affidato il turno di sabato sera. –

- Che sfiga. – disse, mentre in realtà ne era segretamente contento.

- Secondo me nemmeno tanta. – si inserì Andre.

- Ci raggiunge dopo? –

- Io non credo. – ammiccò malizioso. – O se lo farà, lo vedremo già piuttosto cotto? –

Freddie inclinò la testa, aggrottando le sopracciglia. – Che significa? –

- Io dico che non avrà bisogno di venire al locale. Lo sappiamo benissimo che… - la frase interruppe su un gesto eloquente, che mimava il versarsi qualcosa in gola.

Mentre Andre scoppiava a ridere e coinvolgeva anche Beck, Freddie iniziò a preoccuparsi. Un sottile brivido, ma dai tratti orrendi. – Beve? –

Il canadese si ricompose. – Eh, diciamo che col vino non ci va leggero. –

Il giovane Benson fu sconvolto dall’aver scoperto quel lato oscuro di Gabriel. I pensieri presero a correre all’impazzata, volgendo subito verso il peggio. Aveva sentito a dozzine di storie, di uomini prede dell’alcolismo che trascinano le compagne nel loro stesso baratro, o che fuori controllo arrivano a maltrattarle. I notiziari e i giornali erano pieni di casi del genere.

- Ma… - balbettò. – Se ha davvero questo problema… e Sam… -

Beck si accorse del suo turbamento, e si sporse dalla poltroncina. – Tranquillo, Freddie, lo stavamo solo prendendo in giro. –

Anche Andre cercò di rassicurarlo. – A un drink non dice di no, ma un po’ come tutti. –

Beck posò una mano sulla spalla dell’amico e gli diede una pacca. – Ti preoccupi troppo. –

In quel momento, Freddie si sentì un completo stupido. Beck aveva ragione, lui si era sempre preoccupato troppo per Sam e per la sua felicità. E ancora oggi, non si riteneva abbastanza forte per smettere.

 

*****

 

Le lezioni della mattina erano giunte al termine, concedendo agli studenti la libertà di recarsi alla mensa per il pranzo. A differenza di tanti altri, Robbie non si era fiondato fuori dalla classe al suono della campana, ma aveva preferito fare con calma e fermarsi a riordinare prima il banco e poi l’armadietto. Era, come lo era sempre stato, uno studente modello, e i professori lo adoravano anche per questo.

Arrivato al bancone, si era riempito il piatto con una fetta di polpettone e una dozzina di patate al forno, e aveva sdraiato sul vassoio una bottiglietta d’acqua. Cercando di farsi spazio tra la folla di ragazzi, era poi partito alla ricerca di uno spazio in cui sedersi. Evitò accuratamente le tavolate delle confraternite, che non frequentava, scovando un angolo ben più tranquillo. Era un tavolino a quattro posti, per il momento completamente vuoto, accanto alla finestra che dava sul giardino.

Mentre si dirigeva alla meta scelta, il cellulare prese a vibrargli ripetutamente in tasca. Superato il sobbalzo che per poco non gli fece scivolare il vassoio di mano, non ebbe neanche bisogno di guardare lo schermo per sapere chi fosse.

Nemmeno sua madre lo chiamava con la puntualità che aveva Cat.

Si sedette appoggiando tutto sul tavolo, ed estrasse il telefono. Sorrise, notando come la ragazza gli avesse inviato già sette messaggi su WhatsApp, senza neppure aspettare che lui li leggesse. Si mise a scorrerli, mentre addentava voracemente il pranzo.

Di Los Angeles, Cat era l’unica con cui aveva mantenuto i contatti con costanza. La trovava ancora un’ottima compagnia, decisamente più simpatica di monti tedeschi.

Immerso nella sua conversazione, Robbie non si rese conto che i suoi compagni di corso, Stefan e Kendra, lo avevano raggiunto e si erano accomodati di fronte a lui. Si scambiarono un’occhiata d’intesa, osservando divertiti come l’attenzione di Robbie fosse, per l’ennesima volta, in tutt’altro mondo.

Il primo, Stefan, originario di Dusseldorf e di buona famiglia, frequentava quell’università soltanto perché la casa dei genitori si trovava a meno di un chilometro di distanza. Biondo scuro, aveva un fisico estremamente magro, mascherato sempre bene da camicie di una taglia più stretta. Era solare e sempre con la battuta pronta, il che gli conferiva un discreto seguito tra le ragazze.

Kendra invece, come Robbie, si era trasferita in Germania per inseguire la sua passione per il cinema. Originaria del Galles e rossa di capelli, aveva una personalità spesso difficile da comprendere, fatta di simpatia, gentilezza e giudizio, ma talvolta anche di eccessiva fantasia e impulsività.

Frequentavano quasi le stesse classi ed erano diventati i migliori, nonché unici, amici di Robbie in Germania.

Stefan incrociò le braccia, fingendosi offeso. – Credi che prima o poi si accorgerà della nostra esistenza? – scherzò, mentre Robbie continuava imperterrito ad avere gli occhi incollati sullo schermo.

- Io dico di no. – lo prese in giro anche la ragazza.

- E se provassi a bucargli il braccio con la forchetta? –

- Userei l’altro. – si destò finalmente Robbie, provocando una risata collettiva.

- Deve essere qualcuno di importante, - fece Kendra poco dopo, - Se non riesci a guardare altro che WhatsApp. –

Robbie spense il telefono e lo posò sul tavolo. – E’ solo un’amica di Los Angeles. – disse, con un sorriso dal tratto nostalgico.

Stefan guardò fuori dalla finestra. – Los Angeles… non ci sono mai stato. Una volta sono andato a Chicago, è vicino? –

– Nemmeno un po’! – Kendra scoppiò a ridere, tentando di nascondersi la bocca con la mano. Si fece poi più seria, rivolgendosi all’altro. – Ora che ci penso, però, tu però sei sempre stato molto misterioso riguardo al tuo passato. Cosa facevi a Los Angeles? –

Robbie buttò giù un paio di patate e scrollò le spalle. – Più o meno le stesse cose che faccio qui, solo con due anni di meno. –

- E com’era la vita ai piedi di Hollywood? –

La domanda lo spiazzò per un istante. - Era… diversa. Era un’altra vita. – lo sguardo gli cadde d’istinto sul cellulare, abbandonato sul tavolo, e un’improvvisa goccia di malinconia andò a mescolarsi alla gioia.

Quello che non avrebbe ammesso era quanto, quella vita, lui la sentisse così lontana e ormai quasi dimenticata.

 

*****

 

Il lavoro era esattamente come Freddie se lo immaginava, alla Crystal-Tech. Il team di informatica si occupava principalmente di manutenzione hardware, aggiornamenti software e amministrazione delle reti aziendali. Con le conoscenze che aveva gli risultava piuttosto semplice, senza contare che operare in quel mondo gli era sempre piaciuto un sacco.

Lo avevano preso per due settimane in prova, con la prospettiva di un contratto di sei mesi con opzione per un ulteriore anno, se le cose fossero andate bene. Non era il massimo, ma l’ultima cosa che voleva era lamentarsi di quell’opportunità. “A caval donato non si guarda in bocca”, era uno dei detti che sua madre adorava ripetere. E Freddie sapeva benissimo che, per un ragazzo come lui e in un momento del genere, quel contratto era oro.

Faceva circa un’ora di straordinario tutti i giorni, un po’ per fare buona impressione sui superiori, un po’ per stare il più lontano possibile da quella desolante camera d’albergo.

Una di quelle sere, impegnato sulla struttura di alcuni database, non si rese conto di essere rimasto praticamente solo in azienda. I suoi colleghi avevano già staccato da almeno trenta minuti, gli uffici si erano svuotati ancora prima, e a popolare i corridoi erano rimaste soltanto gli inservienti.

Raccolte le proprie cose e riposte nello zaino, Freddie spense i computer e si preparò ad uscire. Salutò rapidamente Carmela, la signora messicana delle pulizie, e proseguì per andare a timbrare il cartellino. La macchinetta, con il tabellone delle schede dei dipendenti, si trovava al piano di sotto vicino all’ingresso.

Arrivato giù e sbrigate le pratiche, notò come uno degli uffici, nonostante l’orario, fosse ancora ben illuminato e operativo.

Conosceva bene quell’ufficio. Era quello del reparto marketing. Era quello di Sam.

Spinto da una forte curiosità, Freddie si avvicinò con cautela per vedere chi ci fosse dentro. Non era detto che fosse proprio Sam, e comparire dal nulla alle spalle di una collega semi-sconosciuta, non gli avrebbe certo fatto guadagnare punti agli occhi dei capi.

Si era sbagliato di nuovo. Quando si affacciò sulla soglia, la vide. Era sola e di spalle, con lo sguardo preso dallo schermo e le mani sulla tastiera, perciò non si era ancora accorta di lui.

Freddie la vide come un’opportunità da non mancare. – Ancora qui? –

Sentendo la voce del ragazzo, Sam si voltò di scatto verso di lui. Si leggeva chiaramente lo stupore nel vederlo lì, ma l’espressione sul suo volto rimaneva per gran parte indecifrabile.

- Già, devo lavorare. – gli rispose, tornando subito dopo a fissare il video.

Bastò quel tono, freddo e colmo d’indifferenza, a convincere Freddie a tornare sui suoi passi. Gli balenò di nuovo per la mente il pensiero di quanto Sam sembrasse cambiata: trattenersi fino a tardi, e preferire lavorare piuttosto che fermarsi a fare due chiacchiere con un amico, non era della ragazza che conosceva.

Si era appena avviato verso la porta d’uscita, quando la voce di Sam lo rincorse e lo raggiunse come una freccia. – Freddie! –

Il giovane ritornò indietro. – Che c’è? –

Con un gesto della mano, Sam lo invitò a entrare. – Vieni qua. –

Freddie si avvicinò con diffidenza, chiedendosi se quella fosse ancora la stessa persona di dieci secondi prima.

- Ho bisogno di un parere esterno. – gli indicò lo schermo. – Dai un’occhiata. –

Freddie si ritrovò a osservare due fogli bianchi, disposti paralleli: quello di sinistra era pieno di scritte in caratteri diversi, mentre sull’altro c’erano alcune figure geometriche colorate, un paio di foto e qualche effetto grafico.

- Che cosa sto guardando? –

- Il mio nuovo progetto di marketing. – sprofondò sulla sedia sospirando. – L’ho cominciato tre giorni fa, ma sono già a corto di idee. Non so più dove sbattere la testa. –

- E vuoi sul serio il mio aiuto? –

- Magari, partendo da qualche tua idea brutta, me ne vengono in mente di migliori. –

Una breve risata coinvolse entrambi, mentre Freddie sottraeva la sedia a un’altra scrivania e si metteva accanto a Sam.

Gli erano mancati questi momenti con lei. Un po’ come in passato, quando passavano i pomeriggi scrivendo i copioni di iCarly.

Sam gli spiegò quale prodotto doveva pubblicizzare, e quale avrebbe dovuto essere il risultato finale. Nella sua testa aveva un’immagine più o meno definita, ma riportarla in digitale era tutta un’altra cosa.

Trascorsero una buona mezz’ora a parlare del lavoro, con una rinnovata complicità che non poté che far piacere a Freddie. Sapeva che il cammino sarebbe stato lungo, forse interminabile, ma era contento di aver stabilito almeno l’inizio.

Alla fine, Sam lanciò il lapis sulla scrivania, rassegnata. – Forse è il caso di staccare per oggi. Meglio dormirci sopra, lo riprenderò in mano domani. –

Freddie accettò col sorriso. Si alzò, ripose la sedia dove l’aveva presa e raccolse lo zaino. – Ci vediamo fuori. –

Sam stava già spengendo ordinatamente il computer e tutti gli altri interruttori dell’ufficio. – Chiudo, timbro e arrivo. -

Il giovane Benson si diresse verso il parcheggio, ancora sorridente, mentre il sole aveva iniziato a nascondersi dietro l’orizzonte.

La sua espressione mutò radicalmente appena varcata l’uscita. Nella stradina che costeggiava il capannone, a fianco dell’auto di Sam, c’era una seconda vettura. Una Ford chiara, forse grigio metallizzato, difficile stabilirlo al crepuscolo. E appoggiato allo sportello, con le braccia incrociate, c’era Gabriel.

Freddie gli andò incontro con i muscoli contratti, consapevole di dover passare necessariamente davanti a lui.

- Ciao, Freddie. –

- Gabriel. – replicò con un impercettibile movimento del capo. – Che ci fai qui? –

- Sono passato a prendere Sam. Ho deciso di farle una sorpresa e portarla a cena. –

Che bello… bravo”, si disse Freddie, mentre annuiva fingendosi colpito. Fece per allontanarsi, ma Gabriel lo fermò immediatamente.

- Noi non abbiamo ancora avuto modo di conoscerci bene. Non abbiamo mai parlato granché. –

- Sono un tipo molto riservato. –

- Hai scelto la città sbagliata per esserlo, allora. – rise alla sua stessa battuta, mentre Freddie si sforzava di esibire un sorriso di circostanza. – E così tu vieni da Seattle, giusto? –

- Già. –

- Sam mi ha raccontato che eri un secchione a scuola. Andavi all’università o lavoravi? –

Il giovane Benson cercò di trattenere l’irritazione che stava montando in lui. Non provava una gran simpatia per Gabriel. – Tutte e due, facevo qualche lavoretto per potermi permettere la facoltà. –

- Avrai lasciato anche qualcos’altro laggiù: famiglia, amici… la ragazza? –

Freddie decise di darci un taglio. Scelse un tono deciso, ma provocatorio a tal punto da sembrare sarcastico. - Senti, Gabriel: è tardi e ho pure freddo. Se vuoi sapere anche qual è il mio numero di scarpe, porto il 43. -

Non aveva più voglia di aspettare Sam, né di spendere un altro minuto con Gabriel. – Ci vediamo. –

- Vuoi un passaggio? –

- Prendo l’autobus. –

Anche Sam rimase sorpresa quando, arrivata al parcheggio poco dopo, si ritrovò davanti il solo Gabriel. Lui la accolse con un sorriso smagliante, lei con una domanda. – Dov’è finito Freddie? –

Il ragazzo scrollò le spalle. – Se n’è andato a casa. -

 

*****

 

Era una serata come tante a casa di Tori e Andre. Lui se ne stava stravaccato sul divano, in soggiorno, davanti alla tv con un sacchetto di patatine in mano, mentre l’amica era in camera, a navigare su Internet sul suo portatile. Passava svogliatamente dalle pagine dei social network ai blog di moda e ai siti di musica, aspettando solo di essere sopraffatta dal sonno. Buttarsi sotto le coperte, al caldo, in vista del buongiorno della mattina successiva non era una prospettiva così malvagia.

A un tratto, ridestandola dal torpore, lo smartphone vibrò sulla scrivania. Tori si alzò dal letto, stiracchiandosi e come attirata da quel richiamo.

Aprì la notifica di WhatsApp: “Ciao Tori, che fai di bello?”

Tori non riuscì a fare a meno di sorridere. La sua speranza, più o meno nascosta, si era avverata. Ormai i messaggi tra lei e Thomas si erano fatti sempre più fitti, ma quella era la prima volta che le scriveva anche dopo cena.

Afferrò il telefono e tornò a sdraiarsi sul letto. “Di bello niente, sono al computer”.

Turno pesante oggi al lavoro?”

Non più di tanto, a parte qualche vecchina insolente”. In realtà, quello che avrebbe voluto digitare era che ogni turno era insuperabile, se non lo condivideva con lui. Da un paio di giorni, per colpa del direttore, molte rotazioni erano state cambiate, e lei e Thomas non si erano più visti. Restava ancora WhatsApp, per fortuna.

Ti va di fare un giro?”

Tori si trovò immediatamente combattuta tra la voglia di accettare e qualche freno che ancora le era rimasto. “Adesso?”

E quando altrimenti? L’hai detto tu che non stai facendo niente.”

La ragazza guardò l’orologio, cercando una scusa più con se stessa che con Thomas. “Ma è tardi, devo alzarmi presto domattina.”

Anch’io, e allora?”

Tori si sentiva segretamente conquistata da tanta ostinazione. “E’ freddo per uscire in moto.”

Ho la macchina”.

Non sapeva più cosa inventarsi, e così finì per non rispondergli. Poco dopo, vedendo il suo silenzio, Thomas tornò alla carica. “Sei ancora lì?”

Certo”, gli scrisse molto lentamente.

Ho capito, per convincerti devo giocarmi il jolly.”

Quale jolly?”

Sai dove sono?”

Dove sei?”

Sono sotto casa tua”.

Tori si pietrificò.

E non accetterò un altro no come risposta.”

Passarono altri interminabili secondi di mutismo da parte della giovane Vega, in cui ogni parola le passasse per la mente veniva puntualmente scartata.

Allora, scendi?”

Sono già in pigiama.”

Sono sicuro che stai benissimo anche così”.

Tori non vedeva più una ragione per dirgli di no. Scattò su dal letto e digitò qualcosa al volo, mentre apriva l’armadio. “Ok, dammi cinque minuti. Mi cambio e scendo.”

Meno di cinque minuti dopo, Tori era seduta nella macchina di Thomas. Era una Toyota color antracite, con parecchi anni sulle spalle. Il cruscotto era vecchia scuola, con il contagiri che sporgeva in alto a sinistra rispetto al tachimetro. I sedili, foderati di cuoio beige, portavano i segni dell’usura, ma nonostante questo Tori li trovò subito comodissimi.

Thomas ingranò la marcia e partì con un certo slancio verso un’imprecisata meta. Accanto a lui, Tori sentiva una particolare emozione correrle lungo la schiena, qualcosa a metà tra eccitazione e nervosismo. Lo osservava guidare con la coda dell’occhio, chiedendosi cosa stesse pensando lui in quello stesso momento. Il silenzio regnava sovrano nell’abitacolo, finché non fu proprio il ragazzo a spezzarlo. – Hai provato a sentire almeno qualche gruppo, tra quelli che ti ho suggerito? –

Una domanda all’apparenza innocente, ma il suono della sua voce, nella quiete della sera, non fece altro che accentuarle il brivido. – Non ancora. – ammise Tori.

- Proprio nessuno? –

Lei scosse il capo con innocenza. – No, ma prometto che lo farò. –

- Prima o poi, come sempre. – rise – In queste cose sei una delle ragazze più inaffidabili che conosco. –

Tori, punta sul vivo, ribatté piccata alla battuta. – E sentiamo un po’, Ghost Rider… nelle altre cose come sono? -

Il ragazzo mantenne gli occhi saldi sulla strada. – Fantastica. –

Le sfuggì un sorriso, incapace di ribattere. Non era certo il primo complimento che riceveva, ma uscito dalla bocca di Thomas, aveva tutto un altro suono. Mentre si distraeva inseguendo il significato, si accorse che lui aveva iniziato a rallentare e si stava avvicinando al ciglio della strada.

Si trovavano in una via poco fuori dalla zona industriale, ben illuminata ma poco trafficata. Thomas accostò e spense il motore, sotto lo sguardo interrogativo di Tori. Lui continuava a fissare solo la strada, con il volante ancora tra le mani, il che rendeva la ragazza ancora più tesa.

- Sai… - disse infine. – E’ strano. Quando ho saputo di essere stato assunto al market, avevo più di un dubbio. Lo consideravo un lavoro come tanti altri, e a dire il vero, non ne avevo nemmeno tanta voglia. Quello che non sapevo, però, è che sarei arrivato a conoscere una come te. -

Tori lo stava ascoltando come se fosse in un film, mentre per la mente stava passando un treno di immagini.

Quando Thomas si voltò verso di lei, scoppiò in una risata nervosa. – Scusami, non sono molto bravo con le parole. Di solito sì, ma non con questo genere di discorsi. – ammise, per poi abbassare ulteriormente la voce. – Insomma, tra noi c’è qualcosa, Tori. –

Gli occhi della giovane finirono per perdersi, per l’ennesima volta, in quelli di Thomas. Quella sera, però, c’era qualcosa di diverso. Sentiva l’attrazione crescere più forte, fino al punto in cui capì che sarebbe stato inutile e stupido continuare a combatterla.

Per questo, quando Thomas si sporse verso di lei per baciarla, Tori si abbandonò completamente al vigore delle sue braccia e al soffice impeto delle sue labbra.

 

 

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Capitolo 9
*** IX - Sparks & Sunlights ***


IX – Sparks & Sunlights


 

Tra le mansioni di Freddie alla Crystal-Tech ce n’era anche una che poteva essere definita “sul campo”, ovvero interventi sui computer dei vari uffici, che si trattasse di un semplice programma bloccato o di guasti al server centrale.

Una mattina, una ragazza dal reparto marketing segnalò al CED che il suo account di posta elettronica era stato invaso da spam e allegati indesiderati. Sospettando che potesse trattarsi di un tentativo di truffa telematica, Freddie si armò di antivirus sulla sua chiavetta USB e si diresse verso l’ufficio.

Quello che non aveva considerato, e che realizzò soltanto quando arrivò davanti alla porta, era l’inevitabile incontro con Sam.

Gli faceva ancora uno strano effetto, ogni volta che sapeva di dover stare nella stessa stanza. Una parte di lui era felice di poter trascorrere del tempo con lei, rubando ogni momento possibile, mentre l’altra provava un senso di imbarazzo e turbamento.

Certo, si erano già incrociati all’interno dell’azienda, ma ogni giorno sembrava sempre più difficile.

Quella mattina, non appena ebbe varcato la soglia, fu come sprofondare in un incubo, nell’istante in cui gli occhi di Sam si posarono sui suoi.

Freddie raggiunse il computer sul quale doveva operare, immergendosi nel suo lavoro, almeno finché non si ritrovò a fare di nuovo i conti con la presenza di Sam. Il giovane si voltò alla sua destra, e la vide proprio accanto alla scrivania, accovacciata verso il ripiano inferiore di uno schedario in cerca di una pratica.

Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai.

Così vicini, tanto che poteva perdersi estasiato nell’intenso aroma dei suoi capelli, chioma lucente e regale come la criniera di un leone.

Avrebbe dato qualunque cosa al mondo perché lei si accorgesse del suo sguardo, di tutta la passione che conteneva, di ciò che significava. Perché per quanto combattesse i suoi sentimenti, per quanto provasse a seppellirli in profondità, questi continuavano a risorgere. Erano forti, e in fondo non potevano fare altrimenti. Era solo per quelli che Freddie aveva abbandonato Seattle per Hollywood.

Si dovette però accontentare di un minuto come tanti altri, speso sì al suo fianco, ma come se non ci fosse realmente. Una presenza inconsistente, trasparente e passeggera. Una lieve brezza che non l’avrebbe nemmeno sfiorata.

Sam disse qualcosa, ma alle orecchie di Freddie giunsero solo suoni senza senso. Ogni parola perdeva importanza, quando tutto ciò che contava per lui era cercare di vivere ancora un secondo di più vicino a lei.

Si ritrovò incapace di emettere anche il più flebile sussurro.

Che fossero i polmoni inondati dal suo profumo, che fosse il cuore spinto a velocità irraggiungibili, o che fosse il sangue che bruciava nelle vene, Freddie non lo avrebbe mai capito.

Stregato, si accorse solo del fiato che gli veniva strappato, quando Sam si allontanò e tornò ai suoi normali impegni, come se nulla fosse.

E come quell’istante svanì, insieme all’aria, se ne andò anche tutto ciò che avrebbe potuto dirle.

 

*****

 

Robbie era appena uscito dalla biblioteca, stringendo con aria trionfale la copia di un saggio. Si trattava di un testo, scritto da un luminare australiano, che descriveva i cinque sensi sul palco. Era piuttosto breve, ma Robbie aveva scoperto recentemente di essere l’unico del corso a non averlo ancora letto. Per questo, approfittando di un paio d’ore vuote, si era precipitato in biblioteca per cercarlo, e adesso anche lui possedeva il suo tanto agognato libro.

Lo stava per riporre nello zaino, quando incontrò Kendra. La rossa fu quasi sorpresa di vederlo. – Robbie, ciao! –

Lui le fece un cenno col capo.

- Che ci fai in giro tutto solo? Pensavo avessi lezione. –

- E’ saltata la classe di regia. –

- Che fortuna! – gli tirò uno scherzoso pugno sulla spalla. – Io, invece, negli ultimi cinquanta minuti ho dovuto sorbirmi 347 tipi di espressione da tenere sul palco! –

- Già, fortunato… - ripeté lui, massaggiandosi la spalla realmente dolorante. – Peccato che adesso non possa evitare psicologia. –

- Mamma mia… - si portò una mano alla fronte.

Robbie si mise lo zaino in spalla. – Anzi, forse è meglio che vada. Quella se non ti vede arrivare con almeno un quarto d’ora d’anticipo, è capace di fartela pagare per il resto dell’anno. – Rise tra sé e sé, ritornando per un attimo con la mente alle strambe lezioni di Sikowitz.

- Non ti invidio per niente… Io non vedo l’ora che arrivino le vacanze di Natale, non ce la faccio più. Ormai i libri mi stanno uscendo anche dalle orecchie! –

- Già, è stato un semestre abbastanza pesante. –

Kendra gli sferrò un’altro pugno. – Ma non prendermi in giro! Tu sei sempre il primo della classe. Anzi, il primo di tutte le classi! –

Robbie gongolò compiaciuto per quelle parole, almeno finché Kendra non gli rivolse una domanda scomoda. E allora, l’allegria fu contaminata dalla stessa malinconia che aveva provato pochi giorni prima.

- Hai intenzione di tornare a Los Angeles per Natale? –

I dubbi resero Robbie incapace di replicare prontamente. Negli ultimi due anni non era mai tornato a Los Angeles, inventando scuse sul fatto che il viaggio sarebbe stato troppo lungo o che i giorni di vacanza fossero pochi. In realtà niente di ciò era vero, un modo lo avrebbe sempre trovato, ma per qualche ragione finiva ogni volta per rinunciare.

Era lontano da Los Angeles, da Hollywood e da tutto quello che c’era laggiù, e per adesso andava bene così.

Il flusso di pensieri venne interrotto dall’arrivo di Stefan. Trascinava lo zaino in malo modo e aveva un’aria stanca e irritata.

- Non la sopporto più! – esordì.

Kendra si voltò verso di lui. – Chi? –

- Quella di storia del cinema. In ogni lezione spiega per cinque minuti, e poi si mette a raccontare barzellette per il resto dell’ora. –

- Dov’è il problema? –

- Primo: che sono battute orribili, senza capo né coda. Secondo: al prossimo esame, credi che alla commissione possa raccontare la barzelletta del pinguino e dello Yeti? –

Kendra scoppiò a ridere. – Ecco perché ci servirebbe staccare un po’… sentite, avrei aspettato stasera per chiedervelo, ma già che siete qui entrambi lo faccio subito. Io e le ragazze volevamo organizzare una festa di metà corso, prima di Natale. Posso contare sulla vostra presenza? –

- Io senz’altro. – accettò immediatamente Stefan.

La ragazza si rivolse poi all’altro amico. – Robbie? –

- Con quelli della confraternita? –

Kendra annuì.

Robbie inclinò lievemente il capo. - Lo sai che non mi piace molto frequentare quella gente. –

- Ma mica te la devi sposare! – intervenne Stefan, seguito poi dall’amica.

- Andiamo, non ti far pregare tutte le volte! –

Robbie sorrise, consapevole che i due non si sarebbero arresi finché non l’avessero convinto. – E va bene… -

- Ce l’abbiamo fatta. – Stefan e Kendra si scambiarono il cinque, dopodiché il ragazzo riprese lo zaino e si diresse in classe per l’ora successiva. – Io vado, ci vediamo a pranzo. –

Salutato l’amico, Robbie si accorse di aver lasciato un pensiero in sospeso. Si accigliò, prima di rispondere soprattutto a se stesso. – Comunque credo di no. –

Kendra si girò di scatto, non capendo a cosa si riferisse. – “No”, cosa? –

- Non tornerò a Los Angeles. –

 

*****

 

La tentazione di chiamarla era forte.

Il display brillava nel palmo della sua mano. Il suo nome, impresso a lettere bianche e maiuscole, risaltava sullo sfondo nero come una stella nel cielo. E un pulsante verde, che sembrava invitarlo a premerlo.

Freddie continuava a fissare il telefono, e schiacciava ogni tanto un punto qualsiasi per evitare che cadesse in stand-by, e che andasse così ad oscurare il numero di quel contatto che tanto turbamento gli stava procurando.

Aveva solo voglia di risentirla, malgrado non fossero passati più di trenta minuti da quando si erano salutati al parcheggio dell’azienda, al termine di una giornata come altre.

Ma trenta minuti erano già abbastanza. Avvertiva la sua mancanza.

Mentre un rigido vento invernale gli sferzava il cappotto, sulla strada verso casa, lui si lasciava lentamente conquistare dal bisogno di ascoltare la sua voce.

La mano, tuttavia, pareva non voler rispettare la sua volontà, rimanendo a mezz'aria sopra lo schermo.

Cosa le avrebbe detto? Probabilmente niente.

C’erano tante cose che avrebbe potuto dirle, tanti pensieri che gli scorrevano per la mente, eppure niente di tutto ciò sembrava avere importanza.

Non c’era un solo valido motivo che avrebbe potuto riempire una telefonata tra lui e Sam, se non silenzi carichi di sospiri e parole prive di significato.

Era inutile mentire a se stesso: non sarebbe stato facile affrontare tutto ciò che lo attendeva. Un rapporto fondato su basi incerte, sentimenti repressi, un’amicizia fine a se stessa, cercata soltanto per attenuare il dolore.

La cosa giusta non è quasi mai quella più semplice.

Eppure, almeno quel pomeriggio, Freddie non voleva arrendersi così vigliaccamente. Sarebbe bastato trovare una scusa, una qualsiasi.

Pensa, pensa…”

Si sforzò, ma tutto quello che trovò fu il niente.

Lasciò che il display si rabbuiasse, prima di riporre il cellulare in tasca e dire “basta” a se stesso. L’ennesima menzogna.

Un immenso quanto vano desiderio che si scontrava con un capriccio del cuore.

Anche la sola idea di poterla disturbare, o di finire a parlare con Gabriel, gli fecero comprendere che non ne sarebbe valsa la pena.

Avrebbe semplicemente atteso il giorno successivo, dove lei avrebbe rappresentato l’aurora di una nuova alba.

Freddie chinò il capo e si lasciò percuotere da una folata particolarmente forte.

Non era sicuro che sarebbe mai riuscito a trovare le parole giuste con lei.

Non è mai importante cosa diciamo, se non esce direttamente dal cuore.

 

*****

 

Da soli al Franklin, Freddie pensò che fosse l’occasione giusta per chiedere a Beck tutto ciò di cui ancora non gli aveva parlato. Sapeva che doveva trattarsi di qualcosa che lo rendeva ogni volta pensieroso e taciturno, e proprio per questo voleva cercare di aiutarlo. Avrebbe fatto di tutto per liberarlo di quel peso, così com’era stato a Seattle due anni prima.

- Prima o poi dovrai raccontarmelo. – esordì il giovane Benson.

Beck lo guardò confuso. – Che cosa? –

- Quello che è successo negli ultimi sei mesi. –

- Te l’ho già detto. –

- Non di Jade. –

Il canadese si lasciò andare ad un forte sospiro. – Non è importante. –

- Non è quello che sembra. Da quando sono arrivato qui, ho visto soltanto che non riuscite a stare nella stessa stanza, e che continui ad evitare il discorso. –

- Dammi tempo. –

- Ne è passato un bel po’, Beck. – lo stava spronando a sfogarsi, lo stava spingendo oltre un limite che fino ad allora sembrava non voler superare. Forse stava esagerando, ma era sicuro che ce l’avrebbe fatta.

Beck lo fissò con aria cupa. Nemmeno Andre e Tori conoscevano i dettagli di ciò che era accaduto tra lui e Jade, nonostante avessero vissuto quei momenti accanto a loro.

Li avevano visti tornare insieme, litigare furiosamente, riappacificarsi, e infine rompere di nuovo.

Eppure la loro ultima rottura aveva colpito entrambi nel profondo. Li aveva cambiati, molto più di quanto mostrassero.

Avevano però fatto di tutto per non coinvolgere i loro amici, per non caricarli di ulteriori pesi e preoccupazioni, dopo quelle a cui avevano già dovuto assistere.

Ma forse, adesso, Freddie poteva essere la persona giusta per condividere il proprio demone.

– l’inizio della storia lo conosci. Quando sono tornato da Seattle, ho dovuto affrontare un difficile periodo d’assestamento. Le cose non sono mai state facili, ma dopo quel periodo trascorso lontano, il rapporto tra me e Jade aveva bisogno di essere resettato. Non potevamo continuare come prima, ma non potevamo nemmeno ripartire da zero da un giorno all’altro. Sono seguite settimane in cui facevamo fatica persino a parlarci, frenati dalla vergogna e dall’imbarazzo. Ma l’amavo, e sono sicuro mi amasse anche lei. Ci abbiamo pensato a lungo, ma alla fine abbiamo deciso di darci un’altra possibilità, l’ennesima. Abbiamo dato tutto per far funzionare questa storia, ci abbiamo provato davvero. A volte, però, per quanto possiamo combattere per certe cose, il destino ci costringe a cambiare strada. E noi non siamo più riusciti a tornare su quella giusta. E’ inutile stare a chiedersi di chi sia stata la colpa, il punto è che, dopo quello che è successo, non siamo più stati noi. –

Freddie lo stava ascoltando da buon amico, ma si era accorto che c’erano ancora delle parti di quella storia che Beck non voleva menzionare. Decise di non forzarlo ulteriormente, sapeva che ci sarebbe stato un tempo e un luogo per tutto.

- Ci siamo lasciati poco più di sei mesi fa. – continuò Beck, con lo sguardo languido. – Probabilmente, entrambi sapevamo come sarebbe andata a finire, solo che ci rifiutavamo di vederlo. –

Beck fu costretto a tornare con la mente a quel periodo. Ricordava di aver trascorso notti intere a chiedersi perché la loro storia non potesse funzionare, perché per quanto provassero a costruire qualcosa di importante, finivano per distruggersi e farsi male a vicenda.

- Da allora, ho scoperto che era altrettanto complicato andare avanti. Jade non era scomparsa dalla mia vita, e magari nemmeno volevo che lo fosse. Non mi è più interessato avere relazioni serie, perché sentivo di non avere niente da condividere con le ragazze che conoscevo. Storie di una notte, senza alcuna importanza. Erano semplicemente ragazze da sedurre, portare a letto e non chiamare più la mattina successiva. –

Freddie vide l’ombra che si aggirava dietro gli occhi dell’amico. Beck non aveva superato un bel niente, ma era il primo ad esserne consapevole. Era sincero il modo in cui la guardava tuttora, ogni volta che la incontrava.

- Non volevo un’altra Jade. L’amavo, e forse l’amo ancora. –

 

*****

 

Erano passati tre giorni da quando Tori e Thomas si erano baciati per la prima volta, sotto la luna.

Le emozioni erano state liberate dalla gabbia, e soprattutto lei, sembrava vivere all’interno di una favola. La felicità le si poteva leggere chiaramente in viso, in ogni espressione, in ogni sorriso sognante che rivolgeva al mondo.

Thomas, dal canto suo, mostrava più autocontrollo e dei ragionevoli dubbi. Sapeva quanto la loro situazione potesse essere delicata, specialmente sul posto di lavoro. L’aveva invitata a considerare che le relazioni tra colleghi non erano ben viste, e potevano essere soggette a scherni e pettegolezzi che avrebbero finito per portare frizioni tra loro.

All’inizio, alle orecchie di Tori queste sembravano preoccupazioni infantili e inutili, ma più lui ne parlava, più si convinceva che avesse ragione.

Avevano dunque deciso di fare, almeno al supermarket, come se non fosse successo niente. Ovviamente, l’attrazione tra loro era troppo intensa per essere ignorata, e spesso si ritrovavano a fissarsi con occhi carichi di desiderio. Desiderio che si manifestava solitamente alla fine del turno quando, nel parcheggio, si lasciavano andare a baci appassionati.

Una sera, vinta dalla voglia di rivederlo, Tori saltò in macchina e si diresse verso la zona ovest della periferia. Non era mai stata a casa di Thomas, e nonostante conoscesse vagamente i dintorni, ci mise un bel po’ per trovarla.

Controllando l’indirizzo, fermò l’auto quasi in fondo alla via, di fronte a un condominio di quattro piani. Accostò sul lato opposto, spense fari e motore e si mise a osservarlo. La strada, a fondo cieco, era larga ma non molto illuminata, con solo una mezza dozzina di lampioni. Il quartiere non era dei più ricchi, e la facciata della palazzina sembrava avere parecchi decenni sulle spalle. Aveva due file di appartamenti, divise dalla colonna centrale riservata alle scale e all’ascensore.

Tori si sentiva elettrizzata, la stessa sensazione che aveva provato quando era salita sulla Toyota di Thomas tre giorni prima.

Scese e attraversò senza guardare, consapevole di come quel tratto fosse poco trafficato, specialmente la sera. Arrivò a suonare il campanello con un nodo allo stomaco, che si allentò solo quando sopraggiunse la voce di Thomas.

- Chi è? –

- Sono io! – era felice di annunciarsi. Lo fu un po’ meno, però, quando dall’altro capo iniziò a sentire una certa agitazione e frenesia.

- Accidenti… - mormorò Thomas in sottofondo, per poi di tornare al citofono parlando a bassa voce. – Resta lì, scendo io. –

Il silenzio si abbatté su Tori come una scure. Rimase fuori dalla porta, confusa dall’incoerente comportamento di Thomas, e dal tipo di reazione che certo non si aspettava.

Quando finalmente Thomas uscì, lei lo accolse con un ampio sorriso. – Ciao! –

Ma avrebbe dovuto accorgersi che qualcosa non andava. Trafelato, nervoso, con indosso una tuta dei grandi magazzini, non assomigliava nemmeno al ragazzo che conosceva. E soprattutto, sembrava piuttosto turbato dalla sorpresa che gli aveva fatto Tori.

- Tori! Che… che ci fai qui? –

- Sono passata a salutarti… -

Lui iniziò a guardarsi intorno, come se volesse accertarsi di non essere né visto né sentito. – Come hai fatto a sapere dove abito? –

- Il direttore l’ha detto a Mary, e Mary l’ha rivelato a me. – rise. – Devi stare attento, quella ragazza è una gran pettegola, sai? –

Gli andò incontro per abbracciarlo, ma lui la respinse e fece un passo indietro. Tori aggrottò la fronte, sempre più perplessa. – Che sta succedendo? –

- Non puoi restare qui. – suonava quasi come un ordine.

- D’accordo, perché allora non andiamo su? –

- No. – Thomas stava per esaurire il fiato, tra la fatica e la tensione. – Torna a casa. –

Lei continuava a non capire. – Perché non puoi farmi salire? –

- Devi tornare a casa, Tori. – ripeté. – Ti prego. –

Provò a metterle una mano sulla spalla, ma stavolta fu lei a ritrarsi. – Non mi vuoi in casa tua? Ho fatto qualcosa di sbagliato? –

Thomas scosse il capo e sospirò. – No, ma… -

- E allora perché? –

- Ora non posso spiegarti… -

- Thomas! – lo richiamò alterata. Non se ne sarebbe andata senza una risposta.

Risposta che lui non avrebbe voluto dare, e lei, se avesse saputo, si sarebbe rifiutata di ricevere.

Alla fine Thomas le si accostò a muso duro, guidato da un impulso di pura frustrazione, e sputò il suo segreto. – Perché su c’è la mia famiglia! –

Tori sbarrò gli occhi, mentre il cuore accelerava il battito all’impazzata. Quelle parole non appartenevano al ragazzo che aveva conosciuto, o che almeno credeva di conoscere. Nello sguardo di chi aveva davanti vedeva soltanto un estraneo, un mostro.

- Tu-tua moglie? – balbettò. – Sei sposato? –

Thomas si vergognava delle sue stesse parole e non fu capace di replicare. O più probabilmente, non voleva.

- E quando pensavi di dirmelo? – gli urlò in faccia.

Lui, di contro, abbassò gli occhi. – Non credevo di doverlo fare. –

- Sul serio? - Il mondo le stava crollando addosso, e la prima cosa a spezzarsi fu la voce. - Quindi prendermi in giro e usarmi come un giocattolo faceva parte del tuo piano fin dall’inizio? –

- No! Io non avevo programmato un bel niente! – Thomas fu preda di un sussulto, ma subito dopo il suo tono acquistò uno strano effetto, dolce e amaro allo stesso tempo. – Te lo giuro. Tra noi è successo tutto così in fretta, non lo so nemmeno io che… -

Lui le si avvicinò nel disperato tentativo di confortarla, ma Tori arretrò ancora, rischiando di inciampare su uno scalino. – Stammi lontano! –

- Fammi spiegare, ti prego. –

Ma Tori non era più disposta ad ascoltare una sola parola da lui. - Mi fai schifo! –

Il silenzio e l’addio seguirono la rabbia e il dolore, come la quiete dopo la tempesta. E mentre Thomas rimaneva inerme sulla soglia, a guardarla scappare, Tori si gettò in macchina e sbatté la portiera. Fece una repentina e pericolosa inversione e, combattendo contro la lacrima che stava per cadere sul volante, affondò il piede per correre verso casa.

Ma quella sera, Andre non la vide tornare.

Alle sue chiamate, il telefono continuava a squillare a vuoto.

Quello che non poteva sapere era che, a pochi chilometri da lì, Tori avrebbe trascorso la notte in auto, a piangere disperata sull’inganno di un amore perduto.





Angolo dell'autore:
Per prima cosa, un saluto e buone vacanze (praticamente a fine, purtroppo) a tutti!
Mi sono poi accorto di non aver inserito note in nessuno dei capitoli precedenti, per cui voglio recuperare il tempo perduto: un ringraziamento di cuore a chi mi sta accompagnando in questo nuovo e lungo viaggio, a chi ha inserito questa storia tra le preferite/ricordate/seguite, e a chi ha utilizzato un po' del suo prezioso tempo per recensire.
Detto questo, vi invito tutti, vecchi e nuovi lettori, a farmi sapere cosa ne pensate di questo racconto, se avete domande o considerazioni.
A presto!


S.o.J.

 

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Capitolo 10
*** X - iFaceMyMistakes ***


X - iFaceMyMistakes


 

Erano ormai cinque giorni che Tori non si presentava a lavoro. E cinque giorni che Thomas che non aveva notizie di lei.

Aveva lasciato scorrere il primo giorno, preferendo far finta di nulla e lavorando come al solito. Ma già dal secondo, quando gli altri avevano cominciato a farsi domande, Thomas si era ritrovato da solo a fare i conti con la sua assenza.

Perché la giustificazione che aveva usato Tori, un’improvvisa influenza, poteva aver funzionato con il direttore e con i colleghi, ma non con lui. Era una scusa che poteva stare in piedi per tutti, tranne che per chi la conosceva veramente.

Per lui era chiara come il sole, la ragione per cui Tori avesse smesso di venire a lavoro.

Ma ogni mattina, Thomas era obbligato a nascondersi dietro una maschera e comportarsi come se fosse tutto tranquillo. Non poteva permettersi di rivelare a qualcuno quello che c’era stato con Tori, o quello che era successo quella maledetta sera di Ottobre.

Nessuno doveva sapere, ne andava del suo matrimonio.

Le cose con Tori si erano svolte così rapidamente, tanto travolgenti da non lasciargli tempo e modo di realizzare quanto fosse difficile la situazione. Si era lasciato sopraffare da un attimo di debolezza, da un legame basato sulla complicità, sull’eccitazione di un bacio. Non sentiva di dover rimpiangere ciò che aveva fatto, ma ancora oggi non riusciva a trovare una spiegazione alle sue azioni.

Avrebbe voluto soltanto sapere come gestire tutto questo, e l’unica persona con cui desiderava parlare, era anche l’unica che non gli rispondeva al telefono.

Chiamate rifiutate, messaggi ignorati. Tori sembrava essere sparita dalla sua vita nel giro di poche ore.

Ogni giornata che passava Thomas si malediceva per essere arrivato a questo, per averla fatta scappare, ma non voleva darsi per vinto. Stava male, e stava male anche per lei. Credeva di capire cosa provasse, ma più di tutto aveva bisogno di sentire di nuovo la sua voce.

Provò per ore a telefonarle, sul cellulare e a casa, ma mai nessuno si faceva vivo dall’altro capo.

Giunto al quinto giorno, nonostante continuasse a provare, le speranze si erano ridotte al lumicino. Thomas aveva appena terminato il suo turno e, nel parcheggio davanti alla sua moto, si stava preparando a riattaccare l’ennesima chiamata inascoltata.

Stavolta, però, fu Andre a spezzare un silenzio che durava da troppo. Ne aveva abbastanza di essere tempestato di telefonate mattina e pomeriggio, ma soprattutto, di vedere la sua migliore amica sempre in lacrime. Aveva dunque deciso di prendere il coraggio a due mani, e intromettersi in una questione già dannatamente complicata.

Appena sentì aprirsi la comunicazione, Thomas ritrovò un barlume di fiducia. – Pronto, Tori? Tori, sei lì? –

Si trovò subito a scontrarsi con Andre, già seccato. – No, non sono Tori. –

Thomas non chiedeva altro che poter parlare con lei, provare a chiarire, semmai ci fosse stato un modo per farlo. – Puoi passarmela? –

Andre si voltò verso l’amica, a un paio di metri da lui. Era raggomitolata sul divano, avvolta in una calda coperta e con il viso ancora rigato dal dolore. Gli si spezzava il cuore, a vederla così per colpa di un ragazzo che aveva saputo accontentarsi di ciò che aveva nella vita.

- Non ci penso nemmeno. –

Thomas trasse un profondo respiro. – Andre, per favore, lasciami parlare con lei solo per un minuto. –

- Tu non meriteresti di parlare nemmeno con me, ma mi sono stufato di questa storia, e mi sono stufato di te. –

- Lasciami provare a spiegare… -

- Non mi interessa! Cosa credevi di fare, eh? Divertirti un po’ e poi, all’improvviso, ricordarti di essere già sposato? –

Thomas si passò la mano sopra le palpebre, mentre nel petto cresceva un brivido di inquietudine. - E va bene, se non vuoi passarmi Tori, lo capisco. Però credimi almeno tu, e ti prego, cerca di convincere anche lei, che non avrei mai voluto farle del male. Io ho provato davvero qualcosa per Tori. -

Andre era corroso dalla rabbia, e non stava credendo ad una sola parola. – Tu non hai la minima idea di quello che le hai fatto. L’hai ferita, non puoi immaginare neanche quanto profondamente. Sta soffrendo per te, bastardo! Tori credeva in quello che c’era tra voi, e tu l’hai tradita! –

Gettò un’altra occhiata sull’amica, afflitta e con gli occhi gonfi, e questo bastò a fargli riacquistare il controllo. Il suo sogno si era trasformato in un incubo. – Perciò non farti più sentire. Smetti di chiamarla, di scriverle, non ti azzardare nemmeno a presentarti a casa nostra. –

Thomas soffocò un sospiro. – Andre, dì a Tori che… -

- Sta lontano da lei. – lo zittì e, lapidario, gli chiuse la conversazione in faccia.

Thomas ripose il cellulare in tasca e si appoggiò sul sedile della moto, giocherellando nervosamente con le chiavi tra le mani.

Non biasimava Tori, aveva tutte le ragioni del mondo per essere distrutta e per non volerlo più vedere. Ma se anche lui si sentiva nello stesso modo, significava che di lei gli importava più di quanto immaginasse.

Forse non si trattava solo un capriccio. Forse era qualcosa di più, che ancora doveva inquadrare.

Ciò di cui era sicuro, però, era che prima o poi avrebbe rivisto Tori, e allora le avrebbe dimostrato che non intendeva arrendersi con lei.

 

*****

 

Terminare il turno in compagnia di Sam stava diventando la parte migliore della giornata di Freddie. Lei rimaneva sempre un po’ più a lungo dei suoi colleghi per continuare il suo progetto di marketing, mentre lui non aveva problemi a fare degli straordinari, approfittandone anche per racimolare qualche dollaro in più.

Finivano così per trascorrere insieme un’ora nell’ufficio di Sam, da soli fino all’arrivo delle donne delle pulizie. Si scambiavano punti di vista, provavano e riprovavano diverse combinazioni di colori, scrivevano e cancellavano scritte e slogan, senza comunque rinunciare alle battute. Sam, com’era prevedibile, prendeva in giro i suoi collaboratori, e non si risparmiava in commenti acidi e provocatori sui superiori. Freddie, invece, rispettando il suo ruolo e la sua indole, preferiva rimanere nel suo e limitarsi a ridere e annuire.

Si era rivelato utile alla causa di Sam molto di più di quanto avesse immaginato. Nonostante la bionda continuasse, di tanto in tanto, a rifiutare categoricamente i suoi suggerimenti, stava riconoscendo la loro bontà. In pochi giorni aveva sviluppato un’idea ben più definita, e aveva fatto passi da giganti per arrivare a metterla in pratica.

Il giovane Benson era consapevole che non sarebbe mai stato ringraziato, ma gli bastava sapere di averla aiutata nel momento del bisogno. E soprattutto, adorava quei momenti passati insieme a lei.

Senza scadere in discorsi potenzialmente scomodi, stavano ritrovando una certa complicità, e sembrava potessero parlare senza restrizioni o filtri. Freddie vedeva le cose tornare lentamente al loro posto, ma ovviamente non riusciva a fare a meno di essere sopraffatto dai dubbi.

Ogni volta che si trovava vicino a lei, che scambiava un’occhiata o una risata, si domandava cosa significasse. Si stavano riavvicinando, ma fino a che punto?

Non era più come in passato, non c’era più iCarly, erano rimasti soltanto dei sentimenti che Freddie continuava a nascondere insieme all’amarezza. Per quanto sarebbe stato in grado di apprezzare quello che stava ricostruendo con Sam? Sapeva di andare contro se stesso e contro i suoi propositi, ma il pensiero sembrava non volerlo abbandonare.

Stava combattendo una sanguinosa battaglia contro le sue stesse emozioni. Da una parte c’era ancora la vita che aveva rincorso da Seattle, che non aveva smesso di sognare da quando Sam se n’era andata. Dall’altra la dura realtà. Il timore di perderla di nuovo, il dover farsi da parte per lasciare spazio ad un altro, la mancanza di coraggio per non incappare in errori, l’essere costretto ad accontentarsi per un po’ di pace.

Una sola costante, una sola variabile: non importava come, ma Sam doveva far parte della sua vita ad ogni costo.

Stretto nei suoi tormenti, aveva finora evitato di chiedersi cosa potesse pensare Sam. Ma presto, avrebbe incontrato un’altra faccia della realtà.

 

*****

 

Robbie era atteso da un rilassante pomeriggio libero, una volta uscito dalla classe di regia. Le lezioni erano sempre le più lunghe, di tre ore tra teoria e pratica, eppure erano anche quelle che lo appassionavano e lo coinvolgevano di più. Era contento di poter occupare gran parte della settimana dietro una telecamera, o a studiare i comportamenti e le espressioni degli attori sul set.

L’università di Dusseldorf, esattamente come aveva sperato, lo stava instradando verso la sua vera vocazione. Certo, suonava ancora la chitarra e di tanto in tanto intonava qualche canzone, ma niente lo rendeva più soddisfatto che sentire di avere il pieno controllo sulle scene.

Che si trattasse di cortometraggi, video improvvisati o riprese in giro per l’istituto, Robbie stava realizzando quale fosse la sua strada per il futuro.

Ogni tanto, però, succedeva che questo suo entusiasmo venisse fiaccato da un pensiero, un rimpianto, da cui ancora non si era staccato del tutto.

Ripensò a quando Kendra gli aveva chiesto del suo passato a Los Angeles. Tuttora sentiva la mancanza dei parenti e degli amici, ma sapere di essere sempre stato sostenuto e incoraggiato, aveva fatto sì che non si pentisse della sua decisione nemmeno una volta.

Poi però riaffiorava il volto di Cat. Quel viso sempre sorridente, pieno di vita e di gioia verso il mondo, quelle labbra morbide che aveva assaggiato solo per pochi secondi, quell’addio che non era mai stato realmente un addio. E rivederla gli faceva sperare che, un giorno, lei avrebbe accettato quella lontana proposta, fatta alla luce offuscata di un teatro di Hollywood, sarebbe saltata su un aereo e sarebbe volata da lui.

Robbie si sedette di fronte al portatile, dopo aver gettato la cartella sul letto, e chiamò Cat attraverso Skype. Erano circa le quattro e mezzo, ed era sicuro che l’avrebbe trovata pronta a rispondergli.

Qualche istante dopo, la ragazza comparve sulla parte superiore dello schermo del computer. – Robbie! – lo accolse esultando.

Robbie, conquistato da tanto trasporto, non poté fare a meno di reagire con una risata. – Ciao Cat, come stai? –

- Alla grande! – ogni volta che si rivedevano, seppur attraverso una webcam, era come se fosse sempre la prima dopo un secolo. Era chiaro quanto le mancasse, più che a chiunque altro.

Robbie iniziò a raccontarle della sua giornata all’università, dalla quale usciva veramente di rado. Si soffermava su ciò che lo prendeva di più, come le lezioni di regia, e tendeva a sorvolare sulle cose che lo mettevano un po’ in difficoltà. Sapeva quanto Cat fosse empatica con lui, perciò evitava sempre di trasmetterle nervosismo o tensione, anche da lontano.

Gli piaceva invece vederla sorridere, quando lui le parlava delle sue mille idee che gli passavano per la testa, come partecipare al prossimo film di Leonardo di Caprio o al musical di Grease.

Si parlavano come a uno specchio, senza nascondere alcuna emozione.

A un tratto, Robbie notò che c’era qualcosa incastrato tra i capelli di Cat. Si sporse leggermente verso lo schermo per guardare meglio. – Che cos’hai… - si indicò i riccioli per mimarle la posizione.

Cat si passò la mano tra le ciocche e tastò la zona, fino ad afferrare quello che pareva un pezzo di stoffa, rosa e dalla strana forma.

Robbie lasciò che il buffering migliorasse la qualità dell’immagine per capire cos’era. Era a tutti gli effetti un calzino.

- Ecco dov’era! – esclamò con sorpresa Cat.

- Perché… - balbettò, aggrottando la fronte. – Che ci faceva un calzino tra i tuoi capelli? –

- E’ della bambina a cui ho badato questa mattina. La madre doveva fare delle commissioni, così l’ha lasciata a me per qualche ora. – si interruppe inclinando il capo. – Ha anche pagato bene, a dire il vero. –

- Bene, ma non hai ancora spiegato il perché di quel calzino… -

Cat assunse un’espressione scherzosa. – Quella bambina deve essere tornata a casa senza. Sai com’è, abbiamo litigato un po’… -

Robbie sollevò un sopracciglio. – Ma quanti anni aveva? –

- Sette. –

- E per quale motivo avresti litigato con una bambina di sette anni? – le chiese, palesemente basito.

- Mi ha battuta un sacco di volte a Ruzzle. –

- E te la sei presa con lei perché… perché ha vinto? –

- Ma barava sempre! E io non volevo più giocare con lei. –

Robbie abbassò lo sguardo sulla tastiera, confuso più dai suoi pensieri che dalle parole di Cat.

Confuso perché pur conoscendo cosa lo stava turbando, si rivelava estremamente complicato da affrontare.

Quella con cui continuava a parlare, a ridere e a scherzare da due anni, era sempre la solita Cat. Da quando se n’era andato, poteva giurare che non fosse cambiata di una virgola.

Pur adorando quella ragazza, qualcosa dentro di lui lo stava spingendo ad ammettere che ci fosse qualcosa che non andava per il verso giusto.

Mentre lui aveva inseguito e trovato il suo sogno in Germania, Cat dimostrava di non avere idea di cosa fare nella vita.

Lui aveva afferrato il destino a due mani, era partito lontano da casa e dagli affetti, lei era ancora impegnata a rincorrere gli unicorni, e a non capire come funzionasse il mondo.

Lui stava crescendo, e vedeva Cat rimanere sempre più indietro.

Dio solo sapeva quanto fosse doloroso ammetterlo, ma non poteva più rinunciare alla verità. Per troppo tempo di era nascosto dietro un ideale, illusioni e sentimenti giovanili destinati però, prima o poi, a cambiare e infine a spezzarsi.

Robbie tornò a guardare il monitor, dove il volto sereno di Cat lo stava ancora aspettando. Chissà, forse ci sarebbe sempre stata.

Ma in fondo al cuore, sapeva che la ragazza che desiderava non lo avrebbe mai raggiunto.

 

*****

 

- Non ti preoccupare, ci vediamo appena starai meglio. –

Jade chiuse la telefonata cercando di mostrare tutta la sensibilità che poteva. Non era facile per lei, ma in questo caso si era imposta di fare un piccolo sforzo.

In fondo Tori era un’amica, al di là delle loro differenze, dei contrasti e delle divergenze che avevano affrontato. Forse non sarebbero mai state sorelle, ma per una volta Tori meritava che lei non infierisse o mettesse il dito nella piaga.

Jade non era mai stata empatica, non le interessava interpretare le sensazioni degli altri, eppure quello che Tori stava passando, lo capiva benissimo.

L’amore fa male, soprattutto se lo regali alla persona sbagliata.

Quando, un paio di giorni prima, Andre le aveva raccontato tutto, lei aveva ascoltato senza dire una parola.

Aveva compreso il dolore in cui era sprofondata Tori, tanto forte da impedirle di confidarsi, e da non farla uscire più di casa.

Una delusione tanto cocente che non le permetteva più di gioire, un pugno tanto violento da metterla al tappeto.

Jade, come gli altri, aveva provato a scuoterla proponendole di uscire, di fare qualcosa, anche delle semplici serate tra ragazze. Ma Tori, intrappolata in un vortice di malinconia, si era chiusa in se stessa e si stava lentamente isolando.

Jade non se la sentiva di condannarla, perché poteva capirla, ma nemmeno di assolverla del tutto.

Ascoltando la storia di Andre, aveva realizzato come in Tori fosse mancato un elemento fondamentale per qualsiasi relazione: il cervello.

Il buon senso di voler conoscere per bene una persona, prima di concedersi completamente. Il cinismo di sapere che, nella maggior parte dei casi, il genere maschile gioca con i sentimenti e poi li sputa per terra. Lo scrupolo di ascoltare la propria dignità, prima di cedere alla passione.

Non avrebbe giudicato la sofferenza di Tori, ma non l’avrebbe neanche giustificata. Se avesse prestato più attenzione, forse avrebbe potuto evitare tutto questo.

Come richiamata dal passato, Jade tornò con i ricordi a più di sette mesi prima.

Dopo la confessione di Beck su Seattle, su Sonja e su tutto il resto, Jade aveva iniziato a sviluppare l’impressione di non conoscerlo più come prima. Non importava quando dimostrasse di tenere a lei, Beck era diventato un’altra persona ai suoi occhi.

Non era più sicura di quello che potesse fare o di quello che volesse realmente. Si chiedeva cosa cercasse ancora in lei, dopo quello che aveva trovato in qualcun’altra.

Si era domandata perché Beck avesse deciso di tornare a Los Angeles, se non per farle male di nuovo.

La gelosia cresceva in lei giorno dopo giorno, e lei non faceva niente per contrastarla. Un equilibrio precario, che finì per portare sull’orlo di una profonda crisi sia la loro relazione, sia loro stessi.

Un rapporto complesso, distruttivo, che nessuno dei due era disposto a riconoscere né ad abbandonare.

Avevano appena cominciato a preparare lo spettacolo, e dovevano ancora sistema tanti dettagli, dalle sceneggiature ai ruoli, dai costumi alle scenografie. Beck e Jade erano rimasti un pomeriggio a casa per parlarne, e presto avevano scoperto quanto fosse realmente il lavoro da fare, forse perfino al di sopra delle loro possibilità.

- Chi si era occupato di tutto questo, l’ultima volta? – aveva domandato alla fine Beck, con qualche perplessità.

Jade, invece, sembrava molto più calma di lui. - Robbie e Cat. -

Il ragazzo aveva sgranato gli occhi. – Da soli? –

- Certo che no, i compagni di classe hanno dato una mano, altrimenti non ce l’avrebbero mai fatta. –

- E’ più di quanto mi immaginassi. –

- Lo so, si sono dovuti impegnare molto. – aveva sibilato Jade tra i denti. – Ci sono già passata. –

Distratto e preso dal progetto, Beck non era stato in grado di cogliere il mutamento nella voce della fidanzata. Jade si era fatta improvvisamente seria, concentrata ma anche impegnata a rincorrere i propri pensieri. – Tu non potevi saperlo, non c’eri. –

A quella frase, Beck aveva finalmente alzato la testa. – Come hai detto? –

Lei era sicura che avesse capito. – Ti vedo preoccupato. Se hai dei dubbi dimmelo subito, almeno evitiamo di replicare quella parte della commedia. –

Beck l’aveva fissata intensamente negli occhi. Non aveva avuto bisogno di chiederle a cosa si riferisse, sapeva che non stavano più parlando dello spettacolo. – Stavolta funzionerà. –

- Come fai ad esserne tanto sicuro? –

- Grazie all’impegno e alla volontà di farcela. – aveva affermato. – Insieme. –

All’inizio, le parole di Beck erano riuscite davvero a conquistarla. Ma purtroppo, stavolta non era bastato.

 

*****

 

Quando calava la sera, tra Freddie e Sam era completamente diverso. Sembrava come se tutto quello che si dicevano, le risate e le battute che si scambiavano tra le mura della Crystal-Tech andassero dimenticate.

Freddie se ne rese conto non appena arrivò a porsi una domanda fondamentale: cosa ne pensasse Sam del loro rapporto.

La prima sera fu una casualità, la seconda una coincidenza, la terza iniziò a trovare delle risposte che non gli piacevano per niente.

Si era ritrovato con gli altri fuori dal Franklin, e Sam li stava raggiungendo dopo aver parcheggiato lontano dalla piazza. Freddie vide che nemmeno quella volta era accompagnata da Gabriel e ne fu estremamente felice, sperando nella possibilità di parlare molto più liberamente con lei, così come facevano a lavoro.

Ma bastarono pochi minuti per rovinare quell’idea.

Il sorriso con cui provò ad accoglierla si dissolse nel nulla, passando quasi inosservato. Lo sguardo di Sam si posò di sfuggita su Freddie, che non ottenne in cambio altro che un saluto freddo e stentato.

La bionda si diresse subito da Jade e Cat, lasciando quello che avrebbe dovuto essere uno dei suoi migliori amici in disparte.

Freddie non poté fare a meno di sentirsi disorientato per un istante, mentre nei suoi occhi albergava una forte perplessità.

Il resto della serata non fu diverso. Il giovane Benson rimase nelle retrovie, osservando Sam chiacchierare, scherzare e ridere con Jade, Cat, Tori… con tutti tranne che con lui.

Arrivò presto al punto di sentirsi geloso di tutti quelli che lo circondavano, tanto che avrebbe scambiato il suo corpo con quello di chiunque altro, pur di far parte delle conversazioni della ragazza.

Rimasto in fondo al gruppo, come spesso accadeva, Beck notò l’aria tenebrosa dell’amico. – Che succede? –

Freddie ci mise un po’ ad accorgersi della domanda. E ad un tratto, gli fu impossibile non chiedersi perché Sam si comportasse così con lui.

Scosse il capo, facendo capire a Beck che non era il momento di parlarne. Per quella notte, voleva restare solo con i suoi pensieri.

Si stava perdendo nella confusione. Quella non era la Sam Puckett con cui spendeva il pomeriggio in azienda, che lo stava ad ascoltare, che condivideva con lui le sue idee e le sue preoccupazioni. Non capiva che senso avesse per lei avvicinarsi quando erano in ufficio, per poi allontanarsi nuovamente, e senza ragione apparente, quando erano in compagnia.

Era come se lui non facesse parte dello stesso gruppo, quasi non fosse all’altezza degli altri amici di Sam Puckett. Si sforzò di mascherare il suo disagio, ma poteva ammettere di cominciare a sentirsi di troppo.

I dubbi presero a viaggiare per la mente di Freddie come un treno fuori controllo. Si interrogava su quale fosse la cosa più giusta a cui credere.

Che avesse ragione Carly, le importava davvero così poco di loro?

C’era qualcosa di reale su cui si basasse la loro ritrovata amicizia?

Freddie continuò a passeggiare per le vie di Los Angeles, ai piedi delle colline di Hollywood. Le luci illuminavano a giorno le vie, e le auto gli sfrecciavano a fianco portando con sé una scia di musica ad alto volume. Aveva intorno a sé un gruppo di amici a cui forse non avrebbe mai rinunciato, ma quella sera, si sentiva solo come non era mai accaduto.

 



p.s. Innanzitutto, mi scuso per l'incostanza con cui sto aggiornando, ma nell'ultimo periodo diverse vicissitudini mi hanno tenuto lontano dal pc. Voglio comunque ringraziare tutti coloro che stanno continuando a leggere questa storia, seppur, mi rendo conto, forse inferiore alla prima.
Ringrazio in particolar modo l'utente Farkas, che imperterrito prosegue nella sua opera di recensione. Mi dispiace un po' che sia l'unico, e che tante persone che prima lasciavano un loro pensiero, adesso non lo facciano più. Mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate, se credete che stia andando nel verso giusto, o eventualmente cosa no.
Ad ogni modo, grazie a tutti e alla prossima!

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Capitolo 11
*** XI - Warm Winds, Broken Wings ***


XI – Warm Winds, Broken Wings


 

Gli occhi di Freddie si ritrovarono a fissare il buio, mentre la campana batteva i rintocchi delle due.

La finestra gli sorreggeva coraggiosa la testa. Lo sguardo si gettava disperatamente al di là del vetro, fino a perdersi nelle tenebre.

Dormire sembrava ormai fuori discussione. Non riusciva a chiudere gli occhi, senza che il volto di Sam si ripresentasse a lui.

Le palpebre sbattevano sempre più lente e pesanti, il fisico era messo a dura prova dalla fatica. Combattuto tra il bisogno di riposo e quello di restare sveglio, con la presunzione di non voler perdere neanche un attimo di quell’immagine impressa. Per quanto il corpo lo richiedesse, non voleva smettere di pensare a lei.

Perché nemmeno sapere di poterla rivedere la mattina successiva, stava dando sufficiente pace alle sue membra stanche.

Anche allora desiderava averla lì, per riempire le pareti sempre troppo vuote della sua stanza e quell’assillante silenzio.

Per quanto provasse, non riusciva a rinunciare al pensiero di Sam, al suo sorriso, alla fantasia di poter godere del suo corpo. Non importava quanto cercasse di allontanarli, i sentimenti per lei tornavano prepotenti, gridando come un’ossessione.

Non averla accanto, ecco il suo incubo. Saperla tra le braccia di un altro, immersa in una felicità di cui lui non faceva parte.

Sam era il suo tormento, ovunque andasse.

Smarrito osservava la luna, elegante dama dell’oscurità, mentre un ostinato tarlo gli domandava cosa avesse il potere di fare per stare meglio.

Forse niente, se non chiudere gli occhi e continuare a pensare a lei.

Riposa sereno, angelo mio. Stanotte sarò io a vegliare su di te.

 

*****

 

Una brezza appena accennata accompagnava Beck verso lo studio di Andre. Si era reso conto di non passare a trovare il suo amico da almeno una settimana, così appena terminato il turno alla biblioteca, si era incamminato per il quartiere, imboccando stradine sempre più interne.

A volte si era pentito di non aver partecipato al progetto del videoclip, almeno per staccare la mente da libri e per stare insieme agli altri. Eppure, finiva sempre per accorgersi quanto poco avrebbe potuto contribuire, che fosse stato al testo, alla melodia o alle scene. La musica non era proprio il suo campo, punto e basta.

Entrò nel locale sovrappensiero, senza neanche bussare. Subito, però, notò come la temperatura si fosse abbassata appena varcata la soglia.

- Perché è più freddo qui che in strada? – esclamò, richiamando l’attenzione di Andre dalla saletta di registrazione. L’amico lo salutò attraverso la vetrata e lo invitò ad avvicinarsi.

Beck si mosse con passo svelto. - Hai acceso l’aria condizionata? – domandò secco, appoggiandosi allo stipite.

Andre si allontanò con la sedia dal banco su cui stava lavorando. Sorrideva, ma aveva l’aria tutt’altro che soddisfatta. – Fino a ieri ero convinto che questo posto non ce l’avesse nemmeno, un condizionatore. Ma per fortuna ho trovato il telecomando. Come si dice: il freddo aiuta a stimolare il cervello. –

Il canadese inclinò il capo. – Come sta andando? –

Andre si lasciò andare a un sospiro. – Mettiamola così: la scoperta dell’aria condizionata è stata la parte più interessante degli ultimi tre giorni. –

- Sei fermo? –

- Non solo, ma sono pure in ritardo. Qui è passato un mese, e io sono riuscito a mettere insieme sì e no dieci righe. Non ho una base, non ho un testo e non ho uno straccio di idea di come andare avanti. – incrociò le braccia dietro la nuca. – Mi spieghi come faccio a preparare un video se non ho pronta nemmeno una canzone? –

Beck si tolse il giubbotto e lo posò su un’altra sedia. - Potresti usarne una che hai già scritto. Non lo so, una di quelle composte a scuola, o tirare fuori qualcosa dai tuoi vecchi jingle. -

L’altro scosse la testa rassegnato. – Non ci penso nemmeno. Sai che figura, se qualcuno si accorgesse che mi sono presentato con una canzone riciclata? Qui parliamo di scala internazionale, non del cortile della Hollywood Arts. Ti ringrazio ma no, non voglio correre questo rischio. –

- Cat e Tori hanno proposto qualcosa? –

Andre sollevò lo sguardo verso il soffitto per un istante. – Niente, ecco cosa. E’ da quando abbiamo iniziato che ho l’impressione che abbiano la testa da tutt’altra parte. Cat, quando non è con i bambini, è sempre chiusa in camera e non si stacca dal pc o dal telefono. E tutti e due sappiamo con chi passa le ore a parlare. Non fraintendermi, sono felice per lei, ma avrei preferito che prendesse questa cosa con un po’ più di serietà. Tori, invece… che vuoi che ti dica? Non voglio metterle troppa pressione addosso. Non sta ancora bene, era veramente presa da Thomas. –

- A proposito di Tori, come sta? Tu lo sai sicuramente meglio di me. – prese il cellulare e scorse le ultime conversazioni di WhatsApp. – Ho provato a mandarle un messaggio l’altro giorno, ma non mi ha risposto. –

- Non risponde praticamente più a nessuno. – commentò. – Noi due parliamo giusto perché viviamo insieme. Non si è ancora ripresa, anche se cerca di mostrarlo il meno possibile. Ma a volte, la notte, io la sento piangere ancora. La capisco, ha bisogno di un po’ di tempo per se stessa, per rimettere a posto le idee e venirne fuori. –

- Ce la farà, Tori è una delle ragazze più forti che conosca. –

Andre pensò che fosse una buona idea non menzionare Jade. – Hai ragione. – annuì distrattamente.

Beck rimase allo studio un’ora, tornando a parlare della canzone e della clip. Un paio di suggerimenti, puntualmente scartati, qualche battuta, e fu tempo di tornare a casa.

Non appena il canadese si fu congedato, con appuntamento per il giorno dopo, Andre decise di tornare di fronte al portatile, il cui schermo presentava una desolante pagina vuota per più di metà.

Cercò di immergersi nuovamente nel lavoro, sperando che la visita dell’amico avesse portato consiglio, e a un certo punto, fu colto da un’illuminazione.

Gli tornò in mente quello che si erano detti su Tori, su quello che stava passando, e le immagini presero a scorrere come un film.

Andre si era chiesto diverse volte come avrebbe potuto aiutarla, e finalmente forse aveva una risposta.

Chiuse il testo appena abbozzato e si precipitò a creare un nuovo documento. Le dita si muovevano velocemente sulla tastiera, e guidato dalla sua stessa voce, le parole iniziarono a prendere forma da sole.

Ecco l’idea che cercava, ecco l’idea per rialzare il morale di Tori.

La vecchia canzone sarebbe presto finita nel cestino. Ce ne sarebbe stata un’altra, più bella e più vera.

Ispirata al dolore che Tori stava attraversando, ai demoni dell’amore e del rancore. Votata, come un inno, alla rivalsa nei confronti di un insensibile traditore.

Sarebbe stata una sorpresa. La rinascita di una ragazza.

 

*****

 

Quella stessa notte, mentre Freddie Benson si struggeva e annegava nei rimpianti, Sam scopriva ancora una volta di aver trovato la sua felicità insieme a Gabriel.

Era da poco passata la mezzanotte, quando i due rientrarono nell’appartamento del ragazzo. La chiave infilata dopo diversi tentativi nella toppa, la porta aperta lentamente, quasi non riconoscessero il posto. I primi passi mossi a tentoni nel buio, dimenticandosi persino dell’interruttore. Le camminate barcollanti, con quel minimo di coordinazione e lucidità che bastava per arrivare a destinazione. Una leggera risata di Sam, quando Gabriel sbatté il piede contro il tavolino. Gli occhi pesanti e gli sguardi offuscati, le pupille implose quando la luce finalmente si accese.

I corpi eccitati, Il sangue inondato dall’alcol di una serata non troppo fuori dagli schemi.

Era Giovedì, ma avevano comunque deciso di uscire insieme agli amici di Gabriel. Erano andati in un pub nella zona di Beverly Hills, dove avevano bevuto almeno due pinte di birra ciascuno, senza contare le bottiglie di vino. Avevano trascorso una serata all’insegna del divertimento senza che nessuno ponesse dei freni.

Forse era proprio questo che rendeva la compagnia di Gabriel diametralmente opposta a quella di Sam.

Gli amici di Gabriel, tre ragazzi tutti provenienti dal quartiere latino e coetanei, non erano esattamente come Tori, Beck e gli altri. Erano cresciuti sempre insieme, abituati a fare tutto da soli, e a vivere al limite delle regole.

Facevano tutti lavoretti saltuari, o almeno questo è quello che sapeva Sam, senza stare a indagare su eventuali extra. Vivevano la vita giorno per giorno, senza particolari obiettivi o ambizioni.

Tra questi, chi aveva la testa più sulle spalle era proprio Gabriel. E probabilmente era proprio questo che piaceva a Sam: quella sensazione di libertà, di ribellione, ma senza valicare il limite della stupidità. Ogni tanto Sam si sentiva a metà strada, ma lui la faceva sentire sicura e con il mondo ai suoi piedi.

Gabriel era un americano di seconda generazione. I nonni materni erano di origini messicane, legati alla propria terra e al loro negozietto aperto dal 1942. Avevano tuttavia lasciato che la loro figlia si trasferisse nella famosa Los Angeles, per inseguire il sogno di una vita migliore e, soprattutto, per amore.

Gabriel era nato ventisei anni prima, e portava con sé l’orgoglio e il sangue di due dinastie. Il padre era diventato un impresario dalla media importanza, e aveva iniziato a girare per gli Stati Uniti in cerca di nuovi contratti e proposte. Aveva invece perso la madre, a cui era particolarmente legato, quando lui aveva appena sedici anni, in un incidente stradale.

Da allora aveva abbandonato la scuola e aveva gettato tutta la sua passione sul basket. Non potendo frequentare college, si era dovuto arrangiare in squadrette di quartiere, dove le partite finivano quasi sempre in rissa. Tutto quello che riguardava una palla arancione o un bicchiere di vino, lo rendevano in pace col mondo.

Aveva avuto la fortuna di essere assunto come cameriere in una steakhouse, con un titolare di buon animo che gli aveva assicurato un posto fisso e discretamente retribuito. E infine, la sua fortuna più grande era stata innamorarsi di Sam.

I due si gettarono sul letto intatto, quando l’orologio segnava mezzanotte e venti. I giubbotti lanciati alla meglio sul divano, e le scarpe rovesciate sul pavimento.

Si sdraiarono su un fianco, uno di fronte all’altro. Sorridevano felici, non solo per l’alcol.

- Domattina dovremmo andare a lavorare. – bisbigliò Sam.

- Ho il turno di pomeriggio. –

- Ma io no. Sto pensando di darmi malata. –

Lui le accarezzò i capelli. – Non ce ne sarà bisogno. Non c’è niente che non passi con una bella doccia. –

Non riuscivano a staccarsi gli occhi di dosso. I loro corpi fremevano, le loro bocche tanto vicine da sentire ancora l’odore del vino.

Le loro mani si incrociarono. Prima di Gabriel, Sam non ricordava di aver provato altri momenti così. Il suo spirito da lupo solitario aveva sempre portato a rapporti burrascosi con quei pochi ragazzi che credevano di aver conquistato il suo cuore.

Ma con Gabriel era tutto diverso, e anche lei si sentiva diversa. Gabriel le stava facendo provare qualcosa di nuovo, che non aveva mai provato.

Con un rapido movimento, Sam si alzò sulle ginocchia. – Allora, visto che ci siamo… - mormorò con aria provocante, sfilandosi la maglietta e lasciando che lo sguardo del ragazzo si posasse estasiato sul seno procace.

Gabriel schiacciò la schiena contro il materasso, e Sam gli salì sopra a cavalcioni. Sentiva già dura ed evidente la sua eccitazione, che premeva come un ossesso contro l’inguine.

Si chinò verso di lui, gli afferrò la nuca e lo trascinò in un bacio appassionato, preludio a una notte di solo amore.

Una notte in cui non sarebbe esistito niente e nessun altro, a partire da Freddie.

 

*****

 

- Io non so più cosa pensare. –

Beck si portò alla bocca la tazza ancora fumante, affondandoci dentro lo sguardo. Nascose un leggero sorrisetto nel caffè, mentre immaginava cosa potesse passare per la mente di Freddie.

Quando, a mezzogiorni meno dieci, aveva sentito il cellulare squillare insistentemente, aveva subito intuito che fosse lui, senza nemmeno guadare il display.

Di solito si ritrovava al Franklin con gli altri per trascorrere l’ora di pausa pranzo, ma il fatto che Freddie lo avesse chiamato e invitato in un altro posto, significava che aveva bisogno di parlargli.

Avevano mangiato due panini ripieni, e adesso si stavano godendo il caffè e gli ultimi minuti prima di dover rientrare a lavoro. E nel frattempo, tante parole spese su Sam.

- Non sai mai se sei di fronte a Dr. Jekyll o Mr. Hyde. – provò a sdrammatizzare il canadese, abbozzando una risata.

- Qualcosa del genere, ma sto parlando sul serio. –

Freddie aveva l’aria assorta, come quasi ogni volta che parlava di Sam. Si vedeva chiaramente, che quella ragazza occupava gran parte dei suoi pensieri. – Lo so. –

- Non capisco quale lato di lei dovrei riconoscere. – iniziando a raccontare, Freddie si era scaldato. – Ti dico la verità: quando siamo a lavoro, mi sembra di essere tornato indietro di cinque o sei anni. Stiamo insieme, ci divertiamo, siamo complici. E per un po’, mi illudo che tra noi possa davvero esserci qualcosa. Non so spiegarti bene cosa, ma sento che c’è. –

Decise di prendersi una breve pausa. Finì la sua bevanda e riportò la tazza al bancone. Quando tornò, si lasciò andare a un sospiro prima di ricominciare. La seconda parte era ancora più difficile.

- Ma fuori dalla ditta, è come se fossi catapultato in un altro mondo. Quando usciamo, quando ci siete anche voi, è come se io non esistessi nemmeno. L’hai visto anche tu, l’altra sera, mi ha a malapena salutato, e non mi ha mai rivolto due frasi di seguito. –

- Forse doveva parlare di qualcos’altro con le ragazze. –

Freddie scosse il capo, per niente convinto. – Lo sai che da quando sono qui, non sono mai riuscito a prendere un caffè con lei? Non pretendevo certo un appuntamento, eppure non ho mai avuto l’occasione di fare nemmeno due chiacchiere che non fossero di lavoro. Tre volte l’ho invitata, e tutte e tre le volte ha detto di avere già degli impegni. –

L’amico sollevò un sopracciglio. – Magari era vero. –

Freddie scosse la testa con maggior veemenza. – Andiamo, non raccontiamoci sciocchezze. Io non capisco, non ci arrivo. Non vedo perché dovrebbe comportarsi in due modi così diversi con me. Non è più come in passato, ok, è inevitabile. Ma non capisco perché debba continuare a mettere questi muri tra di noi. –

Beck si tirò su sulla sedia, incrociò le braccia e aggrottò la fronte. Sembrava stesse rincorrendo un pensiero, e fosse sul punto di raggiungerlo. – Vediamo se ci sono: te ne sei andato da Seattle perché ritenevi che non ci fosse più niente per te. Sei corso qui a Los Angeles inseguendo il tuo sogno, ma poi scopri che Sam nel frattempo è andata avanti e sta con un altro. Dici di essere ancora innamorato di lei, eppure adesso sembri accontentarti di fare soltanto la parte dell’amico. Dovresti essere venuto qui per spaccare il mondo, e invece te ne stai qui a chiederti perché non ti rivolge la parola. Pensavo volessi sconfiggere la tua paura. Vorresti stare con lei, ma il massimo che stai sperando è di recuperare il vostro vecchio rapporto. Dimmi una cosa: sei sicuro di sapere cosa vuoi veramente? –

Freddie si era raggelato di fronte alle parole del canadese, sorpreso di dover guardare in faccia una realtà tanto dura. Si ritrovò incapace di rispondere.

Prima di proseguire, Beck tornò con i ricordi a qualche mese prima. Ecco qual era il pensiero che stava inseguendo. Il tarlo aveva finalmente acquisito un volto e una voce.

Anche lui si era trovato nella stessa situazione, quando ancora credeva che le cose con Jade stessero andando bene. Quello che non aveva compreso, era quanto la sua fuga a Seattle avesse rovesciato le carte in tavola. Magari non in superficie, ma nel profondo, ognuno di loro portava almeno una piccola cicatrice.

Troppo tardi aveva realizzato di non essere mai riuscito a rimettere ordine nel suo cervello.

E in quella nebbia, forse nemmeno lui sapeva cosa voleva realmente.

- Perché tu non sembri innamorato. – riprese infine. – Sembri confuso. E stai cercando a tutti i costi una ragione per restare a Los Angeles. -

 

*****

 

Robbie era riuscito ad evitare la prima chiamata, ma non aveva potuto nulla alla seconda.

Così la faccia gioiosa di Cat aveva invaso lo schermo del suo portatile, i capelli rossi e un po’ arruffati a fare da cornice.

Al saluto caloroso della ragazza, Robbie aveva risposto mascherando quello strano senso di disagio che stava provando. Non riusciva a spiegarlo neanche a se stesso, eppure lo accompagnava ogni volta che sapeva di dover rivedere Cat.

E la prima domanda che gli fece, poco dopo, lo mise ancora di più in difficoltà. Il sorriso di Cat non bastava a renderla meno complicata. Fu come una coltellata nel petto. – Quest’anno tornerai a casa per Natale? -

Robbie lasciò scorrere tra loro alcuni secondi di silenzio. Si tolse gli occhiali, afferrò il cencio che teneva sulla scrivania, e si mise a pulire un’inesistente polvere sulle lenti. Era l’unico modo che aveva per distogliere lo sguardo.

Aveva letto tutta la speranza nelle parole di Cat. Ed era proprio per questo, che sapere di mentirle faceva dannatamente male.

Da due anni continuava ad annullare impegni, rimandare inviti, rovinare promesse. Soprattutto alla ragazza che gli era stata più vicina, l’amica a cui teneva di più.

Si era aggrappato a così tante scuse che ormai aveva perso il conto. Ogni volta si vergognava, ogni volta diceva di smettere, e di cedere a quella parte di se che desiderava rimettere piede a Los Angeles. Ma finiva per accadere sempre il contrario. Natale, in particolare, era il periodo più difficile da superare, con parenti e amici che lo pregavano di tornare a casa, anche solo per qualche giorno.

Robbie inforcò gli occhiali, sicuro di cosa fare. Anche quest’anno, avrebbe utilizzato la risposta dello scorso.

- Mi dispiace, ma non credo di farcela. Sono pieno di impegni, tra l’università e i prossimi esami. –

Niente di tutto ciò. Soltanto la consapevolezza di aver deluso per l’ennesima volta la fiducia di Cat.

Quel pomeriggio, la chiacchierata fu molto più breve del solito. Il rifiuto di Robbie pesava come un macigno sul tono di entrambi, che per ragioni diverse sembravano trattenersi l’uno nei confronti dell’altra, come se non avessero altro da dirsi.

Appena Cat si fu congedata, Robbie chinò il capo. Vedere quell’aria triste impadronirsi di lei, rabbuiarle il volto, gli spezzava il cuore. Eppure, non era così sicuro di aver sbagliato a mentirle.

In fondo, ogni volta che la vedeva attraverso lo schermo, aveva l’impressione di vedere la stessa ragazza di due anni prima.

Aveva davvero un senso continuare così?

Tante notti si era interrogato su quello che aveva con Cat. Sentimenti, sogni lontani, sentire la sua mancanza, lasciarsi cullare dalla sua voce. C’era tutto questo, certo, ma cosa avevano in realtà?

Non avevano costruito niente per loro. Centinaia di chilometri a dividerli, la linea web come unico contatto, il ricordo di quell’unico bacio che puntualmente riaffiorava e faceva ancora più male. Non era questo che desiderava avere con Cat.

Esisteva un modo per definire la sua storia con lei?

Purtroppo sì. Niente.

 

*****

 

Dopo una settimana, Tori riuscì a trovare la forza per dipanare la nebbia che la stava attanagliando.

Aveva fatto appello a tutta la sua determinazione, alla sua voglia di crescere, persino alla sua testardaggine, per non arrendersi di fronte al dolore. Voleva dimenticare i lunghi pianti, rannicchiata nel letto o davanti allo specchio, struggendosi per una delusione come ce ne sarebbero state tante altre.

Quel giorno, Tori afferrò con vigore la borsa e si decise a tornare a lavoro, incoraggiata anche da Andre, amico sempre presente.

Riordinò un po’ le idee prima di attraversare la soglia del market, studiando una qualche strategia per superare almeno la prima giornata. Pochi passi, incerti e da fare uno alla volta.

Il primo, gestire le domande dei colleghi e del direttore. Tutti sapevano che lei era rimasta a casa con l’influenza, perciò era fondamentale che quella rimanesse la versione ufficiale. Certificati medici, ricette del dottore, medicine prescritte, riposo al caldo. Come un disco rotto, ripeté nella prima mezzora le stesse cose ai ragazzi che lavoravano lì, curiosi o semplicemente preoccupati per lei.

Aveva l’aria spossata e abbattuta, gli occhi ancora gonfi e arrossati, ma era convinta di poter nascondere tutti questi sintomi con quelli della febbre.

Ciò che più la preoccupava, era ovviamente il pensiero di rivedere Thomas. Sapeva di non poterlo evitare per sempre, in fondo condividevano mansioni e reparto, ma per adesso, le sarebbe bastato stargli lontano per un solo giorno.

Il turno le fu parzialmente favorevole. Thomas staccava alle due, mentre Tori iniziava a mezzogiorno. Furono due ore di fuoco.

Appena lo vide, si rese conto di non essersi ripresa del tutto. Era stata stupida anche solo a pensarlo. Come avrebbe potuto dimenticare o passare sopra a quello che era successo, se poi tornava a fissare quei grandi occhi marroni? Allora schivava lo sguardo, cambiava direzione, taceva e si nascondeva in magazzino alla prima opportunità.

Il solo percepire la sua vicinanza la faceva sentire ancora fragile. Non era più come in passato, ma c’era sempre qualcosa che la rendeva inquieta, insicura, confusa.

Lui, invece, sembrava stranamente timoroso. Con gli occhi bassi, Thomas aveva lavorato in silenzio per l’intero turno. Non aveva provato a salutarla, a rivolgerle la parola, nemmeno a chiederle come stava. Soltanto qualche occhiata fugace, puntualmente rifiutata.

Quando Tori lo vide uscire dal market, con il casco in mano alle due e dieci, tirò un profondo sospiro di sollievo. Sarebbe stato impossibile continuare così, ma essere incolume al termine del primo giorno, era comunque per lei una piccola vittoria.

Ottenne dal direttore il permesso di staccare un’ora prima, e alle cinque in punto, fu di nuovo libera di respirare all’aria aperta.

Tutto il respiro, però, le si mozzò in gola quando arrivò al parcheggio. Appoggiato alla sua moto, stretto nel giubbotto e con il bavero rialzato, Thomas sembrava averle teso un agguato. Aveva parcheggiato proprio dietro la sua auto, impedendole quindi di uscire.

Tori decise di proseguire, ma sentiva il sangue scorrerle sempre più violentemente ad ogni passo che faceva verso di lui. Gli si fermò di fronte, stringendo la borsa come un’ancora di salvataggio.

Il momento della verità era arrivato prima di quanto avesse immaginato. Non era pronta, faceva ancora troppo male.

Cercava di non farsi sfiorare dall’espressione seria e pensierosa che albergava sul volto di Thomas, e combatteva il tremore dentro di lei con la rabbia.

- Devo tornare a casa. – esordì decisa.

Thomas non pareva sorpreso. Infilò le mani in tasca e si preparò al confronto. - Ti stavo aspettando. -

- Il tuo turno è finito quasi tre ore fa, credevo te ne fossi andato. –

- Ho fatto un giro in moto e sono tornato qui. –

Tori reagì con una risatina nervosa. - Bravo. –

Lui le si fece improvvisamente più vicino, accostando il viso al suo. - Dovevo parlarti. –

- Io non ho niente da dirti. – replicò lei, facendo un passo indietro ed estraendo le chiavi della macchina dalla borsa.

Thomas corrugò la fronte, deglutendo pesantemente. - Lo so, ma non ti lascerò andare via così. –

- Fai come ti pare. Io ingrano la retromarcia, che dietro ci sia o no la tua moto non mi interessa. –

- Io non mi muovo da qui. -

Lei, per la prima volta, fu sul punto di perdere il controllo. – Che cosa pensi di fare? Io non sono tua moglie… -

Thomas mostrò di essere stato colpito nel vivo. Esitò, prima di trovare le parole successive. – Tori, io… -

- Io sono stanca e non ho voglia di parlare, ma solo di andare a casa e godermi un bel tè sul divano. –

Provò a raggiungere l’auto, ma lui le si parò davanti. – No. Non potrai continuare ad evitarmi in eterno. –

- Togliti di mezzo. –

- Tori, noi dobbiamo parlare. –

- Non mi interessa. Sposta la moto! –

Incenerito dalla voce della ragazza, Thomas decise di abbandonare la prima contesa. La lasciò passare, spostando la moto un paio di metri indietro per non farsi investire. La fissò attraverso il vetro, mentre lei armeggiava nella borsa, avviava il motore e partiva subito ad alti giri.

All’uscita del parcheggio, i loro occhi si incrociarono per un solo istante, pieno di emozioni contrastanti.

Appena Tori fu abbastanza lontana perché non potesse vederlo, Thomas afferrò il casco e lo indossò rapidamente. Niente è mai finita dopo un solo round.

Tori percorse il tragitto verso casa dominata da un brivido che si estendeva dalla testa ai piedi. Teneva le mani incollate al volante per non lasciarle tremare, i denti digrignati e gli occhi puntati sull’asfalto.

Ma concentrata sulla guida, non fu in grado di accorgersi della moto che, a distanza di sicurezza, la stava seguendo.

Soltanto quando fu arrivata sotto casa, rimase sconcertata. Vedere quelle due ruote accostare di nuovo dietro la sua macchina, significava dover ricominciare a lottare, e stavolta senza forze.

Con una frenata energica, arrivando a sfiorare il bagagliaio dell’auto di Tori, Thomas saltò giù e lanciò il casco sul sedile.

- Vorrei solo che tu mi ascoltassi. –

Tori sentì una crepa alla bocca dello stomaco, e il silenzio fu l’unico modo che trovò per difendersi.

Lui percepì il minuscolo spiraglio in cui giocarsi le sue carte. – Io non ho mai voluto niente di tutto questo. E adesso, l’ultima cosa che voglio è che tu stia male per colpa mia. C’è stato qualcosa tra noi, non puoi negarlo. Qualcosa che è andato oltre quello che immaginavamo, io per primo. –

- Davvero? E come credi che mi sia sentita? Mi hai preso in giro come una stupida! – gli strillò contro, mossa da un sussulto.

Lui abbassò il capo e lo scosse. – Lo so, lo so. Ma io non avevo pianificato nulla. Non esisteva nessuna strategia, nessun piano di cui tu facessi parte. E’ successo e basta. Sei entrata a far parte della mia vita con la stessa forza di un… meteorite che spazza via tutto il resto. –

La voce di Tori si stava lentamente incrinando. – Ma… tu hai una moglie… tu sei sposato! –

- E le sono sempre stato fedele. Anni di matrimonio, le cose non vanno bene tra noi adesso, ma non l’ho mai tradita. Ma quando stavo con te, era come se tutto il resto sparisse. – Poche parole, non aveva molto tempo per spiegare. Doveva riuscire a convincerla, e non c’era margine di errore.

- E che mi dici di quello che c’è stato tra noi? Quello che abbiamo fatto? -

- Non lo rimpiango nemmeno per un secondo. Era un tormento dover tornare a casa, ogni giorno, e mentire in faccia a mia moglie. Ma per tutto quel tempo ho creduto davvero in noi. –

Il brivido in Tori si trasformò in una scossa, e una piccola lacrima iniziò a formarsi all’angolo dell’occhio. – Ma hai mentito anche a me! Perché, se tutto ciò che dici è vero, mi hai trattato come se non contassi niente? Mi spieghi perché dovrei ricominciare a fidarmi di te? O perché dovrei restare ancora ad ascoltarti? –

- Perché avevo paura. – il tono di Thomas si era improvvisamente abbassato, mostrando le emozioni che dominavano anche il suo cuore.

- No, perché sei stato un bastardo! –

In un attimo, le ultime difese crollarono definitivamente. Tori gli si lanciò contro guidata da un senso di disperazione, cominciando a prenderlo a pugni sul petto tra le lacrime e i singhiozzi. Voleva fargli del male, così come lui lo aveva fatto a lei.

- Sei stato un bastardo! – ripeteva. – Perché mi hai fatto questo? –

Più che i colpi sullo sterno, Thomas percepiva proprio la debolezza della ragazza. La resa di qualcuno che si è visto portar via la felicità. La strinse a sé in un abbraccio caldo e vigoroso. No, la loro felicità non era ancora finita.

Tori non cercò di divincolarsi. Sorpresa e confortata dalla stretta, finalmente alzò lo sguardo, lucido e arrossato. Essere a contatto con lui, così vicina, era un tipo di brivido diverso. Un fremito a cui non aveva saputo resistere in passato.

Era più forte di lei.

Di nuovo quegli occhi marroni…

E prima che potesse pensare a qualsiasi cosa, si era già abbandonata tra le braccia e le labbra di Thomas.

 

 

 

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Capitolo 12
*** XII - iFeelSelfishInThisWorld ***


XII - iFeelSelfishInThisWorld

 

 

Era scattata una scintilla tra loro, che non trovava spiegazione, ma alla quale non erano riusciti a resistere.

Non era più una questione di perdono, di bugie, di giustizia o di rabbia. Era solo l’istinto, un impulso primordiale, che aveva catturato i cuori di entrambi e non sembrava intenzionato a lasciarli andare.

Tori, al di là di quello che la ragione le suggeriva, si era riscoperta attratta da Thomas in maniera quasi incontrollabile, inerme e in balia delle sue pulsioni.

Lui vedeva soltanto lei. La faceva sentire unica al mondo, la sola cosa buona dei suoi giorni, come se tutto il resto fosse soltanto un errore da cancellare. Quando stavano insieme, vedevano qualcosa di più importante del semplice tradimento.

Egoisti, forse, ma senza dubbio persi l’uno negli occhi dell’altra.

L’appartamento di Thomas era diventato il teatro dei loro inconfessabili incontri. Approfittavano di qualsiasi momento disponibile per accedere alla loro intimità, lasciando il resto del mondo fuori.

Una dipendenza che si sviluppava forte e incontrollata nelle loro membra, una via d’uscita verso il loro personale paradiso.

Da un paio di settimane, Tori e Thomas sembravano aver ricominciato da zero, passando sopra ai propri errori, alle menzogne e al senso di colpa. Nessun timore nelle occhiate cariche di trepidazione che si lanciavano a lavoro o per la strada, in attesa solamente di lasciar sfogare la loro voglia.

Un pomeriggio di inizio Novembre, avevano approfittato del turno mattutino al supermarket per organizzare l’ennesimo rendez-vous a casa del ragazzo. Sua moglie non sarebbe tornata da lavoro prima di sera, e i bambini erano ancora a scuola.

Tori si era lasciata afferrare con vigore da Thomas, permettendo alle sue mani esperte di esplorarla, mentre il desiderio cresceva in lei. Il tocco non era delicato, ma impetuoso, avido della sua carne, eccitante. Avevano avuto un rapporto intenso, profondo, fino a che i loro corpi non erano stati così stanchi da tremare per lo sforzo.

Raggiunto il culmine del piacere, si abbandonarono esausti tra le coperte. Tori posò la testa sul petto del ragazzo che, poteva sentirlo, pareva sul punto di esplodere. Thomas le cinse la spalla e si lasciò inebriare dal profumo dei suoi capelli, mentre il cuore batteva ancora all’impazzata.

Rimasero abbracciati, immobili e persi nella loro gioia, per degli interminabili secondi. A un tratto, lo sguardo di Tori cadde ai piedi della finestra, su una maglietta rosa, troppo piccola per appartenere ad una donna adulta.

Le sfuggì un sottile sorriso. – Quella non è tua, vero? –

Thomas si voltò di scatto. – E’ di Lisa, deve essere caduta dalla cesta del bucato. –

- E’ molto carina. –

- Già. – mormorò tornando a fissare il soffitto.

Nessuno dei due aveva intenzione di muoversi dal letto. Sapevano di avere ancora almeno un’altra ora per concedersi coccole ed effusioni.

Eppure, nella testa di Thomas, quella maglietta era una visione che avrebbe volentieri evitato.

 

*****

 

Immersa nel suo incontro con Thomas, Tori aveva finito per perdere la cognizione del tempo, e con essa gli impegni che aveva preso per quel pomeriggio.

Andre, allo studio di registrazione con Cat, guardò per l’ennesima volta l’orologio: le cinque e dieci. Il sole era in piena fase discendente, e a poco a poco si stava nascondendo dietro i palazzi più alti e lontani.

La rossa infilò timidamente le mani nelle tasche. - Vuoi che riprovi a chiamarla? -

- Ormai non verrà più. – sibilò Andre, visibilmente seccato.

La stavano aspettando da quasi due ore, ormai. Si erano dati appuntamento per le tre, per continuare a lavorare alla clip e, soprattutto, verificare se la nuova canzone poteva funzionare o no. Le idee erano ancora poche e da sviluppare, e per ottenere un buon risultato, l’unico modo era dedicargli quanto più tempo possibile.

Ma nonostante questo, Tori non si era fatta vedere.

- E’ già la seconda volta questa settimana, la terza nelle ultime due. – pensò ad alta voce.

Nel tempo a disposizione aveva lavorato con Cat, esercitandosi su diverse tonalità e mettendo su carta possibili concetti per il video. Ma per tutto il pomeriggio, il crescente ritardo di Tori proprio non era riuscito a superarlo. Lo infastidiva profondamente sapere che la sua migliore amica si era dimenticata, o peggio, disinteressata di ciò che avrebbero dovuto e potuto fare insieme.

Lei sa quanto questo progetto sia importante per me”.

Andre conosceva perfettamente il motivo della sua assenza. E ad essere sinceri, sapere che in quel momento Tori si trovava in compagnia di Thomas, lo disturbava ancora di più. C’era ancora qualcosa, in quel ragazzo, di cui non si fidava. Aveva visto Tori passarci sopra e tornare da lui nonostante tutto, ma Andre no, non riusciva a vedere altro che le menzogne che aveva raccontato.

- Ne ho abbastanza. – sbottò alla fine, chiudendo lo schermo del portatile e afferrando il giubbetto.

Cat gli lanciò un’occhiata tenera e stranita. – Perché non la proviamo noi la canzone? –

Il ragazzo si fermò e scosse il capo. Non era dell’umore giusto per sopportare l’ingenuità della rossa. – Pensaci bene, Cat. Come facciamo a provare la canzone principale del video, senza la protagonista che dovrebbe cantarla? -

 

*****

 

Fu notevole la sorpresa negli occhi Robbie, quando scoprì di essere stato aggiunto da un nuovo contatto su Skype.

Non succedeva così spesso. Lui non era esattamente tra i più popolari sui social. Non lo era stato al liceo, quando il più fedele compagno era un pupazzo, e doveva ammetterlo, la situazione non era cambiata neanche all’università.

La sua timidezza, la sua riservatezza e, perché no, pure la sua stravaganza, lo rendevano poco adatto a confraternite o cose del genere.

Era principalmente per questo che la sua lista di contatti su Skype comprendeva soltanto Kendra, Stefan e Cat.

Insistere con persone di cui in fondo non gli importava un granché, solo per andare incontro a un rifiuto o pure peggio, non faceva per lui.

E soprattutto, non abituato ad avere qualcuno che mostrasse interesse nei suoi confronti, oltre alla sua cerchia ristretta di amici.

Robbie si sedette davanti al computer e si mise ad analizzare la richiesta ricevuta. Trovò subito qualcosa di strano: proveniva da un certo J.W. Black, un nominativo chiaramente fasullo, non c’erano messaggi allegati, e nemmeno sulla scheda del profilo era presente alcuna foto o informazione personale.

Da prima pensò di rifiutarla, temendo chissà quale bot o frode fantasma potesse circolare su Internet. Ma appena ebbe un secondo per studiare meglio quel nome, ci trovò qualcosa di stranamente familiare che lo spinse ad accettare.

E l’interlocutore, dall’altra parte, non si fece attendere.

Pochi minuti dopo, Robbie ricevette una videochiamata da J.W. Black, ma titubò di nuovo prima di rispondere.

Lo sconosciuto contatto, di fronte alla sua indifferenza, mostrò di non volerlo mollare. “Rispondi”, gli scrisse.

A quel punto, spinto forse più dalla curiosità che da altro, Robbie accese la webcam e cliccò sulla cornetta.

E il nome J.W. Black assunse finalmente un significato.

Il volto severo di Jade comparve al centro del monitor, con la parete della cucina a farle da sfondo, e lo sguardo di ghiaccio che pareva voler attraversare oceano e schermo.

- Ciao Robbie. –

Il ragazzo non riuscì a nascondere lo stupore. – Jade! Che… -

- Come stai? – aveva esordito con tono pacato, impassibile.

- Io bene, bene. Indaffarato, sommerso dagli esami e con appena un paio d’ore al giorno libere, ma tutto sommato mi sto trovando alla grande. Mi hai fatto una bella sorpresa, sono veramente contento di rivederti. Voi come state? –

Jade non replicò il largo sorriso che si era disegnato sulla bocca dell’amico. – Il solito, in fondo lo sai anche tu come sta andando qui. –

Robbie capì a cosa si riferiva. Sapeva di lui e Cat, delle loro lunghe chiacchierate, e di come lei gli raccontasse tutto ciò che era accaduto a Los Angeles da quando se n’era andato.

- Credi che quest’anno tornerai a trovarci? – proseguì lei.

Di nuovo quella domanda. Robbie si accigliò, ma cercò anche di non darlo a vedere. – Non lo so, Jade. Non credo di riuscire a liberarmi per quei giorni. Ho sempre tanti impegni, tante cose da fare… Posso provarci, ma non ne sono sicuro. –

Jade annuì. – Già, Cat mi aveva detto che avresti risposto così. -

Lui aggrottò ulteriormente la fronte. – Che intendi? -

- Che forse dovresti rifletterti allo specchio, prima di guardare me o lei. -

– Io non capisco… - balbettò sconcertato.

- Cat tiene ancora a te, e dovresti essere uno stupido per non essertene accorto. Lo vedo come parla di te, so cosa pensa e cosa prova. Lei forse non lo ha ben chiaro, ma io sì. E spero anche tu. –

Robbie abbassò il capo sulla tastiera. – Sì, lo so. –

- Bravo. – il tono si stava indurendo. – Eppure, tu sei dall’altra parte dell’oceano, a un mondo di distanza. Per questo ti chiedo di guardare in faccia la realtà, e pensare bene a quali siano le tue vere intenzioni. –

- Io… -

- Non mi interrompere. So come funzionano queste cose, sono sempre complicate, se nessuno ci mette il cervello. Cat è una ragazza dall’animo dolce e sincero, ma è anche ingenua e testarda. Io non voglio che si illuda, e soprattutto, che venga illusa. Non lo saprebbe riconoscere fino alla fine, e non riuscirebbe a sopportarlo. Lei ti vuole bene, ma se un giorno dovessi scoprire che la stai ingannando, salterò sul primo aereo e verrò a cercarti fino in capo al mondo. –

Robbie ricambiava lo sguardo della ragazza in assoluto silenzio, ma non sembrava in grado di reggerlo. Lo costringeva a riflettere, ad affrontare pensieri che già affollavano la sua mente.

- Ascolta e tieni a mente le mie parole. – concluse Jade. - Se la farai soffrire, giuro che te ne pentirai così tanto da desiderare di scappare ancora più lontano. –

 

*****

 

Il computer era tenuto occupato dagli aggiornamenti di sistema, e a quanto indicava la percentuale di progresso, ne avrebbe avuto ancora per una buona mezz’ora.

Freddie ne approfittò per riposare la vista, e lanciò un’occhiata liberatoria fuori dalla finestra.

Ecco la parte che odiava di più dell’ambiente informatico: aspettare che Windows facesse i propri comodi. Se mai un giorno fosse riuscito a entrare al quartier generale della Microsoft, e a parlare con il responsabile di questa funzionalità, gliene avrebbe cantate quattro.

Questa inoperatività, tuttavia, portò istintivamente la sua mente a navigare tra un mare di pensieri. E dovunque svoltasse, ce n’era sempre uno più assillante degli altri, quello che in fin dei conti aveva dettato le sue azioni in quel periodo.

Nelle ultime due settimane, la situazione con Sam non era cambiata affatto. Freddie aveva sempre l’impressione di star procedendo su due strade sì parallele, ma destinate infine a due universi lontanissimi l’uno dall’altro.

Fino alle cinque del pomeriggio, finché si trovavano nei locali della Crystal-Tech, il nastro pareva riavvolgersi di qualche anno, fino a mostrarli migliori amici.

Ma appena il sole tramontava, e nelle loro serate rientravano Gabriel e gli altri, lei spariva dal radar.

Non c’era più la confidenza che condividevano a lavoro, non c’erano più le chiacchiere e le battute che si scambiavano. Non c’erano più loro, e basta.

Tornò ad osservare lo schermo per un secondo, notando come la percentuale fosse cresciuta di un misero 10%.

Scosse il capo in maniera impercettibile. Aveva sperato di distrarsi rimanendo in azienda a fare degli straordinari, ma evidentemente la cosa gli era riuscita solo in parte.

Pesava, domandarsi ogni singolo giorno che trascorreva lì, vicino a Sam, cosa dovesse realmente pensare o vedere, o a quale versione di lei credere.

Tornò a fare capolino anche la voce di Beck.

Ricordi le nostre conversazioni a Seattle?”, gli aveva chiesto una sera.

Sì, le ricordava perfettamente. La paura che lo aveva bloccato a lungo, troppo a lungo. Quella di non sapere più cosa potesse essere nella vita di Sam. Poi il grande passo, lasciando i timori alle spalle e saltando su quell’aereo verso la scoperta di un nuovo ruolo, di un significato, di una ragione. Adesso conosceva tutto questo, ma non riusciva ad accettarlo. Era e sarebbe rimasto soltanto “l’amico di Seattle”?

Sei sicuro di sapere cosa vuoi veramente?”

Forse. Voleva stare con lei, voleva costruire qualcosa. Voleva fare di tutto per non perderla di nuovo.

Era stato accecato dai sentimenti. Si era lasciato trasportare così lontano da non riuscire più a vedere le cose con la giusta prospettiva.

Aveva permesso a Sam di approfittare di lui, di prendersi gioco delle sue emozioni. Di servirsi del suo aiuto con il lavoro, quando ne aveva avuto bisogno, per poi scaricarlo come un vecchio straccio. Come aveva sempre fatto.

Tu non sembri innamorato. Sembri confuso. E stai cercando a tutti i costi una ragione per restare a Los Angeles.”

Forse. Stava ancora inseguendo un futuro a cui aggrapparsi. Un futuro che ormai iniziava ad apparire sempre più distante, sfocato, indefinito. Un futuro che, forse, non era mai esistito.

Con il sospetto di aver sì trovato una ragione per restare, ma quella sbagliata.

Perché, forse, prima o poi avrebbe capito di essere innamorato di un ideale, appartenente a tanti anni prima, e non della vera Sam.

- Freddie! – si sentì riportare al presente.

Guardò prima il monitor, con la percentuale di avanzamento che continuava a prenderlo in giro, poi si voltò alla sua sinistra. Il ragazzo alla postazione accanto gli stava indicando lo smartphone posato sulla scrivania. – Ti stavano cercando. –

Probabilmente aveva tentato di avvertirlo più di una volta, ma Freddie, perso nelle sue riflessioni, non si era accorto di niente.

Il giovane Benson afferrò svogliatamente il telefono.

1 chiamata persa.

Sam.

Quel pomeriggio non si era fatto vedere nell’ufficio della ragazza, rifugiandosi dietro il muro degli straordinari. Evidentemente, adesso lei voleva sapere dov’era stato. Perché non si era lasciato sfruttare, perché non aveva perso un’ora del suo lavoro per stare dietro al suo.

Decise di spengere il display e ignorare la notifica. La domanda però che non poteva evitare era: sarebbe sempre stato così difficile con lei?

 

*****

 

- Ma è sempre così difficile con Freddie? – Gabriel, sul divano a guardare la tv, si girò oltre lo schienale in direzione della cucina. C’era un velo di rimprovero nel suo tono, soprattutto nei confronti del giovane Benson, e un pizzico anche della sua ragazza.

Sam posò rassegnata il cellulare sul tavolo. – Non risponde. –

Non si spiegava perché nell’ultimo paio di giorni, Freddie avesse smesso di raggiungerla in ufficio, a fine turno, per lavorare al progetto di marketing, ormai prossimo al completamento.

Lui le aveva detto di avere del lavoro arretrato da sbrigare, ma la scusa dello straordinario non era risultata del tutto convincente. Sam aveva l’impressione di vederlo distante, quasi insofferente. E adesso stava anche evitando la sua chiamata.

- Lasciatelo dire, Freddie è un po’ strano. – riprese Gabriel. – Da come ne avevi parlato, me lo immaginavo in tutt’altro modo. Un tipo sveglio, un mezzo genio… uno giusto, insomma. –

Sam sollevò un sopracciglio, e lanciò un’occhiata distratta allo schermo scuro dello smartphone.

Sentire il suo compagno esprimersi in quei termini, giudicare un suo vecchio amico con sufficienza, a tratti persino con arroganza, avrebbe dovuto infastidirla, o quantomeno metterla a disagio.

Eppure, lo fece meno di quanto immaginasse.

Gabriel, ad ogni modo, non aveva finito. – Non lo capisco proprio, quel ragazzo. Voglio dire, faccio davvero fatica a inquadrarlo. Per esempio, hai idea del perché oggi non sia venuto ad aiutarti? No, e nemmeno io. Lo vedo sempre in disparte, si isola, non racconta mai niente. Parla solo con Beck e Andre. Io non sono mai riuscito ad avere un’intera conversazione con lui. E’ come se la nostra compagnia non gli interessasse affatto. –

Lei scrollò le spalle e si sedette al tavolo della cucina.

- Freddie è fatto così, è un solitario. Lo è sempre stato, fin da quando eravamo bambini. –

- Però adesso non lo siete più. –

Sam ripensò alla parte della storia che Gabriel ancora non conosceva.

– Già. E forse è pure per questo che, in fondo, va accettato così com’è. -

 

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Capitolo 13
*** XIII – Behind The Curtains ***


XIII – Behind The Curtains


 

Davanti allo schermo di un computer, le giornate scorrevano tutte uguali. Ore a fissare le solite icone, a premere i soliti tasti, ad avviare i soliti programmi.

In quella sua passione, che adesso era riuscito a trasformare in lavoro, c’era sempre stato il lato noioso che si contrapponeva a quello più esaltante del risolvere problemi. Eppure, spesso la gente faticava a distinguerli e finiva per deriderlo. Nessuna novità, insomma.

Quella mattina, invece, l’inimmaginabile bussò alla porta del suo ufficio.

Fu la scialba voce del collega ad annunciarlo. – Benson, credo stia cercando te. –

Freddie alzò lo sguardo e lo proiettò in direzione della soglia. Se avesse avuto qualcosa in mano, gli sarebbe senza dubbio caduto. – Sam? – era la prima volta che si presentava, di sua spontanea volontà, in quella zona. - Che ci fai qui? –

La bionda si appoggiò con la schiena allo stipite, incrociando le braccia. Un sottile ma sfrontato sorrisetto le colorava il volto. – Ho bisogno di assistenza tecnica. –

Freddie superò in fretta lo stupore e inarcò un sopracciglio. – Sul serio? –

Sam abbozzò una risata e si decise a entrare. – Certo! –

Manteneva la stessa espressione, ma lo sguardo si era fatto più profondo. Si avvicinò alla scrivania e batté due leggeri colpi sul legno. – Tutto ok? –

Lui riconobbe di avere difficoltà a ricambiare le occhiate di Sam. Lo disturbava, per qualche ragione, sapere esattamente a cosa si riferiva quella domanda.

Era però anche convinto che, dopotutto, la risposta non avesse molta importanza. Annuì, sforzandosi di apparire convincente. Fare il suo lavoro, poi, in quel caso faceva parte dello sforzo. – Hai problemi col computer? –

- Vieni, ti faccio vedere. –

Freddie la seguì nel corridoio, prendendo la via delle scale. – Che è successo? –

Pochi passi, e Sam si fermò. – Volevo parlarti un attimo. – si voltò verso di lui. – Ma non avevo intenzione di farlo davanti all’altro sosia di Steve Jobs. –

Freddie sorrise, ma soprattutto per il nervosismo. Non c’erano mai stati colloqui privati tra loro, tantomeno cercati da Sam.

- Ricordi cosa ti avevo detto qualche tempo fa? –

Freddie sollevò nuovamente il sopracciglio. – Certo, come no, un sacco di cose. –

- Ti avevo parlato di quell’appartamento, non lontano dal mio. L’avevano messo in affitto, più di un mesetto fa, ma è stato preso praticamente subito. Non mi hai fatto sapere più nulla, ma anche se lo avessi fatto, saresti comunque arrivato in ritardo. La coppia che ci era andata ad abitare, però, ha già deciso di lasciarlo per trasferirsi in uno più grande, senza né preavviso né altro. Quindi, se sei interessato, sappi che è tornato disponibile. –

Il ragazzo la fissò come intontito. Ricordava l’offerta che Sam gli aveva fatto qualche settimana prima. Il lavoro e l’appartamento. Lui aveva approfittato soltanto del primo, perché appena arrivato a Los Angeles, contando i pochi risparmi che gli erano rimasti, sostenere un affitto era francamente impensabile.

Ma adesso, l’idea di fuggire da quell’ignobile stanza del motel cominciava ad allettarlo. Con un posto di lavoro e un paio di stipendi in più in tasca, poteva permettersi una casa tutta sua.

- Conosco il tizio che gestisce le trattative. – proseguì la bionda. – Posso riuscire a farti avere un prezzo veramente buono. –

La domanda successiva, per Freddie, aveva un peso ben diverso. – Perché lo stai facendo? –

- Perché ormai, visto che sei qui, non puoi certo continuare a vivere come un senzatetto. –

Freddie non si sentiva soddisfatto della risposta, ma in fondo, non poteva aspettarsi niente di diverso.

E riaffioravano i dubbi.

Poteva fidarsi dell’aiuto che gli stava offrendo? Doveva temere che ci fosse qualcosa sotto? Doveva credere che a Sam importasse davvero di lui?

- Dove sta la fregatura? –

- Sei sempre il solito, Benson, pensi troppo. Nessuna fregatura. Mi occupo io di organizzare la cosa, tu… tieni il cellulare acceso. -

Freddie annuì timidamente. – D’accordo. –

- Sapevo che ti avrei convinto. Per quanto testardo tu possa essere, quella topaia non puoi chiamarla casa. E poi, diciamo che adesso siamo pari. –

Lui aggrottò la fronte. – Che intendi? –

- A Seattle… sei stato tu a trovare l’appartamento a Beck, non è vero? –

Freddie fu colto alla sprovvista, e tentennò per un istante. – Come fai a saperlo? – Tremava di fronte all’idea di cosa potesse aver spifferato il suo amico canadese.

La bionda ammiccò. – Jade mi ha raccontato qualcosa. –

Si tranquillizzò, ma aver sentito nominare Seattle gli aveva fatto uno strano effetto. Erano trascorsi due anni, quattro da quando se n’era andata, in silenzio e in piena notte.

E dopo tutto quel tempo, in quattro anni, gli sembrò il momento giusto per dare voce a una parte dei suoi pensieri. Un proposito nobile, seppur di una difficoltà immane. – Com’è stato da quando te ne sei… mentre io non… insomma, passare da Seattle a Hollywood? –

- E’ stata la mossa giusta. Avevo bisogno di cambiare, di respirare aria nuova, di incontrare gente nuova. E diciamoci la verità, conoscendo Cat ho potuto vedere tutti i lati più strani della razza umana. Ho trovato una mia dimensione, un’altra forse più adatta a me dopo iCarly. E tu, invece? –

- Il solito, come puoi immaginare. La mia vita non è fatta per essere avvincente. Ho finito il liceo col massimo dei voti… -

- Niente di meno. –

- … e poi ho iniziato l’università, come voleva mia madre. Il resto è storia. –

Sam annuì, ironicamente impressionata. – Hai ragione, un racconto davvero sconvolgente. Che mi dici invece del lato sentimentale? –

Freddie scrollò le spalle. Le rispose sinceramente, per quanto fosse strano finire a parlare con lei di questo. – Qualche ragazza qua e là, ma niente di serio. Al contrario di te, da quanto ho visto. –

Al solo menzionare l’altro, un largo sorriso si dipinse sul viso della bionda. – Gabriel… lo ammetto, sono stata fortunata ad averlo incontrato. Non credevo di essere il tipo da storia importante, ma con lui è stato diverso, più di quanto mi immaginassi. Ha un grande ruolo nella mia nuova dimensione. –

- Da quanto… - finse di non saperlo.

- Un anno e mezzo. –

- Avete fatto più strada voi della macchina di Beck. – commentò sarcastico, con l’intenzione di mascherare tutta l’amarezza che aveva dentro. - Sono contento che alla fine si siano sistemate le cose, per te. Avete altri progetti seri? -

- E’ già abbastanza seria di per sé, senza dover forzare la mano. Ancora non viviamo insieme, ma in pratica è come se lo facessimo già. E te l’ho detto, non me lo sarei aspettato nemmeno da me stessa. Andiamo, noi ci conosciamo da sempre, perciò dimmi la verità: fino a qualche anno fa, ti sembravo in grado di ascoltare e considerare i sentimenti degli altri? O peggio ancora, di cedere ai miei? –

Freddie conosceva la vera risposta, ma evitò di pronunciarla. – Magari avevi solo bisogno di qualcuno che ti aiutasse a scoprire quel lato di te. -

Suonava strano, ritrovarsi a parlare con lei del suo stesso ragazzo. Era ironico e crudele, conversare di qualcuno di cui avrebbe voluto prendere immediatamente il posto. E nella mente, si sovrapponeva la sua immagine di una vita insieme a Sam.

D’un tratto, sentì la necessità di trovare un motivo per andarsene. Guardò frettolosamente l’orologio al polso. – Credo sia meglio rientrare in ufficio, adesso. Non so quale dei nostri capi possa fare più storie, se stiamo fuori troppo a lungo. -

- Probabilmente il mio. Voi nerd siete più solidali. -

Il ragazzo rise e, sempre più nervoso, le rivolse un occhiolino d’intesa. – Fammi sapere dell’appartamento, ok? -

Sam fece un leggero cenno col capo, mentre il giovane informatico riprendeva la strada per l’ufficio, alla volta di altri computer da sistemare.

Anche lei era tornata con i ricordi a due anni prima. Un flebile sussurro le uscì dalle labbra, troppo sottile perché Freddie, ormai lontano, potesse sentire. – Non avevo bisogno di venire a Los Angeles per conoscere me stessa. Me la ricordo la tua lettera, Benson. -

 

*****

 

Nei corridoi dell’università, il viso scuro di Robbie si poteva notare da un chilometro. Stefan e Kendra, i primi a vederlo, furono anche gli unici ad andargli incontro. E fino a quando non gli furono praticamente davanti, Robbie non si accorse nemmeno degli amici.

- Ragazzi… - si bloccò per evitare di sbattergli addosso. Teneva il libro sotto il braccio, tanto stretto che sembrava volerlo stritolare. Era chiaro che qualcosa non andava.

- Hai dimenticato la password del portatile o hai semplicemente una giornata storta? – lo apostrofò Stefan, scambiando un’occhiata con l’amica.

Il ragazzo della California scosse il capo e fece una smorfia. – L’esame di oggi… non è andato bene. –

A questa notizia, il tedesco si mostrò seriamente preoccupato. – Quanto? 21 o 22? –

Robbie abbassò lo sguardo. – 27… -

L’altro sbarrò gli occhi e si voltò di scatto verso Kendra. – Ho sentito bene? 27? – puntò il dito verso Robbie. – Quando i suoi esami vanno male prende 27, mentre io non ho mai visto più di un 4 accanto a un 2? –

- Ok, ok. – intervenne la giovane rossa, cercando di placare gli animi. – Abbiamo appreso di questa immane catastrofe, che rovinerà al nostro caro Robbie la sua eccellente media del 30,00 periodico. E Stefan, credo sia già tanto se continui a vedere un 2, sui tuoi punteggi. -

Il nativo di Dusseldorf annuì, ragionevolmente soddisfatto, mentre Robbie manteneva il silenzio.

- Che è successo, Robbie? – gli chiese Kendra. – Era una vita che non fallivi un esame. –

- Non lo so, credo… credo che avessi la testa da un’altra parte. –

Invece lo sapeva benissimo. La testa era rimasta in parte davanti al computer, ancora bloccata alla chiacchierata con Jade.

Era come se fosse stato messo davanti a uno specchio, costretto ad osservare, una volta per tutte, il suo riflesso. Una versione di sé stesso che però non gli piaceva, alterata rispetto a ciò che immaginava, piena di contraddizioni. Piena di dubbi a cui, solo fino a poco tempo prima, non aveva prestato alcuna attenzione, e responsabilità verso le persone a lui più care.

Cat…

Non avrebbe mai voluto metterla in una posizione così difficile.

- Sei sempre tra noi, Shapiro? –

Al richiamo, lui si ridestò. – Come? –

- Ho capito, la testa non è ancora tornata al suo posto. Ma non c’è bisogno di essere così giù di corda, perché ho io quello che fa per te. – altra occhiata d’intesa con Stefan. – Appena quattro parole: festa di metà semestre. Due settimane da oggi. –

- Tecnicamente sarebbero otto parole. –

- Tecnicamente sono quattro più quattro, ok? –

- Va bene. – rise. – Ma non credo sia il caso, non mi sento in vena di festeggiare un granché. –

Stavolta fu la ragazza a puntargli il dito contro. – Mi avevi dato la tua parola, ricordi? –

- Nessuno mi ha mai considerato un tipo affidabile. –

Lei fece un passo verso di lui e indurì l’espressione. – Non voglio sentire storie. Non mi va di vederti così, perciò che ti piaccia o no, tu verrai con noi. –

Robbie tentennò perplesso. Forse c’era davvero qualcosa di diverso da Los Angeles. Era passato da qualcuno che minacciava di rincorrerlo fino in capo al mondo, a qualcun altro che insisteva per averlo a tutti i costi a una festa.

Strano, il mondo oltre oceano”, pensò mentre annuiva, continuando a sorridere.

 

*****

 

Per quasi tutti si sarebbe trattato del lavoro più noioso del mondo, ma non per Beck. Anche risistemare i volumi sui vari scaffali aveva il suo fascino. Significava immergersi nella vita di un autore, attraversare i suoi periodi, osservare la sua evoluzione, sperimentare le sue stesse esperienze.

Certo, c’era sempre il tipo più avvincente e quello più noioso, ma alla fine, ognuno di loro aveva la sua particolarità che lo rendeva degno di essere insieme agli altri.

I testi inglesi erano quelli più diffusi in quella biblioteca, seguiti poi da quelli italiana e spagnoli. Poesie, saggi, racconti brevi e opere teatrali: Beck avrebbe voluto leggere tutti quei libri dal primo all’ultimo, pur sapendo che non ce l’avrebbe mai fatta.

Chissà, un giorno forse avrebbe trovato la strana voglia di laurearsi in letteratura e tuffarsi, una volta per tutte, in nuovo a scintillante scenario.

Fu distolto dalle sue fantasie da una tenera voce femminile alle sue spalle. – Scusa se ti disturbo… -

Il canadese si voltò e si trovò davanti una ragazza minuta, dai lunghi capelli biondi e lisci. Indossava dei jeans fino alla tibia e una maglietta rossa, e una borsa a tracolla che dava l’idea di essere alquanto pesante. Doveva essere una studentessa del liceo, del terzo anno al massimo.

- Figurati… dimmi pure. –

- Tu lavori qui? –

Beck abbassò lo sguardo. La camicia con lo stemma della biblioteca non mentiva. – Esatto. –

- Spero tu possa aiutarmi, sono almeno venti minuti che giro a vuoto in questo labirinto! –

- Cosa stai cercando? – le sorrise gentilmente.

La ragazza si guardò intorno con aria insicura. – Ecco… qualcosa su Macbeth. –

Beck annuì. – Sei nella sezione giusta allora: autori stranieri e letteratura europea. Tornò a rivolgersi agli scaffali, scorrendo con le dita sulle copertine. – Gran bella scelta, il Macbeth. Com’era quel passaggio? “Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte”. –

- Già, ma sono abbastanza convinta che quello sia “Il mercante di Venezia”. –

Il canadese si bloccò un istante, rendendosi conto dell’errore, per poi proseguire nella ricerca. Forse una laurea non era un’idea così brutta, con tutte le cose che ancora ignorava.

Notò che c’erano molti volumi sull’opera di Shakespeare. – Hai bisogno di qualcosa in particolare? Voglio dire… biografia dell’autore, analisi dei personaggi, studio del contesto storico… -

- Direi che sarebbe meglio l’opera completa. –

Beck si girò a guardarla, stupito. – Tutta? –

La studentessa annuì e sorrise. – Dobbiamo portarla in scena tra qualche settimana. –

Lui ricambiò il sorriso. – Sul serio? –

- Già. I nostri insegnanti, per la recita di fine anno, stavolta hanno optato per un grande classico. Bello sì, non lo metto in dubbio, ma sinceramente io devo ancora capire bene di cosa parla. –

- Se ti può tranquillizzare, per quello che mi ricordo, le parti maschili sono più difficili di quelle femminili. –

E non appena ebbe terminato la frase, e gli occhi tornarono nuovamente a scrutare tra i libri, un pensiero gli attraversò la mente alla velocità della luce. Tanto improvviso da travolgerlo e portarlo via con sé.

Era quasi un anno prima.

Il teatro che avevano scelto cominciava ad acquisire la sua forma definitiva, tra strutture e attrezzature.

I ragazzi si erano impegnati molto nelle prime settimane, qualcuno mosso realmente dalla passione, qualcun altro dalla speranza di finire in tv o dai ricatti di genitori e docenti.

Fatto sta che i piani di produzione erano, più o meno, tutti rispettati. Adesso era il momento di completare le scenografie e di procedere con i casting.

Sia Beck sia Jade avevano deciso di partecipare ai provini in qualità di selezionatori, insieme ad un consulente della Hollywood Arts, che si era reso disponibile ad aiutarli.

Ma presto, il giovane canadese aveva capito che qualcosa non stava funzionando come avrebbe dovuto.

Erano troppi i “no” di Jade, troppi i profili scartati, troppe le bocciature e le critiche, talvolta anche pesanti e ingiustificate.

E fin troppo precisamente perché si trattasse di un caso, il giudizio negativo ricadeva su ogni ragazza che si presentava davanti a loro.

Man mano che passavano le ore, Beck non poté fare a meno di chiedersi se ci fosse qualcosa sotto. Se nonostante Jade assicurasse di stare bene, ciò che stava accadendo avesse a che fare, direttamente o meno, con lui.

Non poteva leggere nella testa della sua ragazza, ma il suo comportamento assomigliava sempre più ad una reazione nei confronti di una minaccia incombente, una specie di meccanismo di difesa.

Un chiaro segnale della gelosia che ancora le avvelenava il cuore, e della totale perdita di fiducia nei suoi confronti.

Ed era difficile da accettare.

Ovviamente, chi lavorava con loro non poteva immaginare quale fosse la ragione di tanto accanimento verso ragazze valide e preparate. Per loro, Jade appariva estremamente severa e selettiva, niente di più.

Ma alla fine della giornata, la voce di Beck era riuscita a sfuggire alla gabbia dei polmoni. Il canadese aveva raggiunto Jade e l’aveva fermata, ponendosi faccia a faccia con lei. – Non puoi continuare in questo modo. –

L’espressione della ragazza si era irrigidita. – Di che stai parlando? –

- Di quelle ragazze che hai mandato via. Così non andiamo da nessuna parte. Non so cosa stai vedendo, ma io… io sto facendo del mio meglio per far funzionare tutto quanto. -

Aveva sperato che le sue parole l’avrebbero spinta a riflettere. Si sbagliava.

Scusa…”

Avrebbe voluto sentirlo dire allora da Jade, invece che da quella studentessa bionda che stava ancora aspettando la sua copia del Macbeth.

- Riesci a trovarlo questo libro oppure no? –

Beck tornò frettolosamente al presente e, dopo un altro paio di occhiate, individuò il volume giusto.

- Perdona l’attesa, eccolo qui. – lo porse alla ragazza, che lo infilò nella borsa e lo ringraziò.

E mentre questa si dirigeva verso una delle postazioni di lettura, al centro della biblioteca, Beck immaginò tutto il mondo intorno alla famosa opera di Shakespeare.

– Buona fortuna. –

 

*****

 

Una serata tra sole ragazze era qualcosa che non facevano da tanto, troppo tempo. Ognuna presa dai propri impegni personali, sembravano non poter più trovare un attimo libero.

Significava staccare la spina, separare la testa dal resto della giornata, senza tuttavia dover uscire a fare baldoria o andare a sbronzarsi in un pub.

Bastavano tre calici e una bottiglia di vino, che con ogni probabilità sarebbe avanzata e sarebbe tornata nella credenza alla fine dell’incontro.

Si erano ritrovate a casa di Tori, la quale era riuscita a convincere Andre a lasciarle l’appartamento per una sera. L’amico si era mostrato da subito riluttante, tra il sospetto di cosa volessero fare, e la voglia di stare a poltrire sul divano di fronte alla tv. Alla fine, tra Sentieri e Masterchef, aveva deciso di andare da Beck per una birra e due chiacchiere.

Jade e Cat arrivarono alle 21.30, portando in dote un piccolo vassoio di pasticcini. Dopo aver appeso i soprabiti, si accomodarono in soggiorno, loro due sul divano, Tori sulla poltrona di fronte.

- Sam non ce la fa a venire. – esordì Jade, mentre ricontrollava i messaggi sul telefono. – Ha detto che doveva stare con Gabriel. –

Cat impuntò un broncio. – Ha preferito la sua compagnia alla nostra? –

La mora scrollò le spalle e ammiccò. – Magari avevano impegni particolari per stasera… -

- Sai per caso cosa volevano fare? –

- Non sono la loro segretaria, ma immagino uscire e andare in qualche bar, come al solito. Ormai ne hanno girati così tanti che devono uscire dalla California per provarne di nuovi. -

- E quindi siamo solo noi tre. – commentò Tori.

Jade fece finta di contare. – La matematica non era il mio forte, ma sembrerebbe di sì. -

Dopo aver disposto i bicchieri sul tavolino, Tori prese la bottiglia di vino e si mise a leggere l’etichetta. – Ragazze, questo ha sette gradi. –

- Rosso o bianco? –

- Rosso. –

- Sicura di non esserti confusa con il succo d’uva? –

- Abbastanza. Ora però capisco perché era così economico… - Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa. – E a proposito di bar, ho dimenticato il cavatappi in cucina. –

Jade si mise ancora più comoda contro lo schienale del divano. – Fai pure, intanto io controllo che non ci sia qualcun altro nascosto dietro le tende. – si voltò poi verso Cat. – Tra l’altro, potevano benissimo invitare anche Andre e Beck . –

Cat aggrottò la fronte. – Perché? Non doveva essere una serata per sole ragazze? –

- Appunto. – rise. – Mi pare che, ultimamente, gli attributi li abbiano lasciati un po’ in disparte. Voglio dire, uno è tutto preso a scrivere, cancellare e riscrivere, e l’altro fa il garzone in una cartoleria. –

La rossa non abbandonò quell’espressione dubbiosa, tra l’ilarità dell’amica.

Poco dopo, Tori fece ritorno dal corridoio. – Ti ho sentita, Jade. – le puntò il cavatappi contro, ma si lasciò sfuggire anche un sorriso. – Questa era cattiva. E non è una cartoleria, è una biblioteca cittadina. –

La mora fece spallucce. – Fa lo stesso. –

L’amica si mise a scartare la parte superiore della bottiglia e si apprestò a rimuovere il sughero. – E’ un lavoro come un altro, non dovresti giudicarlo. – le lanciò un’occhiata inquisitoria. – E so che anche Andre si sta impegnando molto! –

Cat si morse un labbro per non rispondere. Non voleva rivelarle che Andre in realtà era piuttosto arrabbiato con lei, per tutte le prove saltate e per i ritardi sui piani di lavorazione. Pensò che una discussione non fosse il modo migliore di iniziare la serata.

Tori riuscì finalmente a versarsi due dita di vino nel bicchiere. – Ma sentiamo un po’, Jade. Tu che hai da dire? –

- Io ho dei genitori che mi vogliono molto bene e una coinquilina felicemente occupata. –

- In pratica “Cat lavora e porta a casa la grana, mamma e papà mi passano il contante, e io non ho nessun bisogno di lavorare”. –

Jade si servì dal tavolino e buttò giù un sorso, soddisfatta. – Direi che hai fatto un ottimo riassunto. Ma non ho intenzione di fare la mantenuta in eterno. Ho grandi progetti per me. Giusto, Cat? –

La rossa alzò lo sguardo al soffitto. – Già, a casa non si parla d’altro. –

Tori sollevò ironicamente un sopracciglio. – Credo di aver capito, ancora con quella storia della… -

- Esatto! – annuì Jade con vigore. – Sappi che un giorno aprirò davvero la mia casa di moda. –

- Colori dominanti: il nero e il nero, perché sfinano e vanno bene con tutto. –

Continuarono a parlare a lungo del lavoro, accompagnate dal flusso dei pasticcini e del vino.

Cat raccontò molti strani aneddoti legati ai bambini che curava, da quelli pestiferi a quelli che si addormentavano dopo dieci minuti davanti alla tv, da quelli che urlavano contro il cellulare a quelli che non staccavano lo sguardo dal cielo. Dopo tanto tempo, però, non si era ancora stancata di fare la babysitter, forse proprio per questa varietà di persone che poteva incontrare ogni giorno. La paga era discreta, appena sufficiente per contribuire all’affitto, ma era quanto le bastava. In fondo, Cat non era mai stata così ambiziosa come i suoi amici. Aveva perso interesse verso il teatro, il cinema o la musica. Partecipava ancora a qualche progetto, se ce n’era bisogno, ma la sua strada era ancora tutta da decidere.

Jade invece sapeva benissimo cosa fare: essere il capo di se stessa. Voleva assecondare le sue passioni, senza restrizioni e senza dover rendere conto a nessuno. Da qualche mese si era messa in testa di voler istituire una sua casa di moda, un suo brand. Era un’idea impegnativa e sicuramente difficile da realizzare, ma se c’era una che poteva farcela, quella era proprio Jade West.

- A proposito di lavoro. – aggiunse la mora. – Vedo che finalmente stai meglio, Vega. –

- E’ vero! – intervenne anche Cat. – Adesso sei più… raggiante! –

Tori sorrise imbarazzata e si passò una mano tra i capelli. – Lo ammetto, le cose sono ripartite nel verso giusto. Non ho più paura di guardarmi allo specchio o di uscire di casa, perché so di avere qualcuno al mio fianco, qualcuno che non voglio perdere di nuovo. –

Ogni parola che usò per descrivere il suo rapporto con Thomas si trasformava in lode, e nient’altro. Si era lasciata trasportare da quella relazione, tanto che sembrava felice solo quando pensava a lui. Così come aveva notato Andre, attualmente nella testa di Tori non esisteva altro che Thomas e i loro incontri passionali e fugaci.

Cat, ascoltando il racconto dell’amica, non poté trattenere l’emozione. Un sorriso sognante si allargò sul suo volto. – E’ bellissimo. La vostra storia sembra uscita direttamente da un film. –

Tori ricambiò con un’occhiata affettuosa. – Non vale solo per me, Cat. Sono convinta che anche tu, un giorno o l’altro, avrai qualcuno che ti farà sentire in questo modo, come se avessi le ali, come se potessi toccare il cielo con un dito. –

La malinconia si mescolò alla gioia nell’espressione di Cat. Odiava ammetterlo ad alta voce, ma c’era stato un solo ragazzo in grado di regalarle quelle sensazioni. E in quel momento, era ad un continente di distanza.

Jade, rimasta in silenzio per gli ultimi minuti, comprese dove si stavano dirigendo i pensieri di Cat. Nella direzione sbagliata.

Svuotò il bicchiere, lo posò sul tavolino e trasse un lungo respiro. – Ragazze, nessuna di voi due ha idea di cosa sta dicendo. L’amore non è un film. Non è come nei libri o negli spettacoli teatrali, non c’è il tasto “rewind” per correggere ciò che non va. Una relazione ha bisogno di attenzione, di prudenza, oppure qualcuno finisce per farsi male. Nel migliore dei casi, è uno solo a soffrire. –

Tori si tirò su sulla poltrona, perplessa. – Di che stai parlando? –

- Non ci sono basi su cui fondare qualcosa che può sfidare il tempo, Vega. Non le hai tu e non le ha Cat. Potete parlare quanto volete dei vostri compagni, ma solo perché non avete mai ragionato lucidamente fino in fondo. –

Fece una pausa quando notò che Cat la stava guardando con gli occhi spalancati, l’aria quasi terrorizzata. Era la prima volta che le diceva la verità e metteva in discussione il suo rapporto con Robbie.

- Per me ti stai preoccupando troppo. – intervenne nuovamente Tori. – Io e Thomas ci amiamo. Certo, la nostra relazione è un po’… come dire… fuori dalle righe, ma ciò non la rende meno importante delle altre. Solo perché non ci sono i soliti vincoli non significa che non ci sia qualcosa di reale tra noi. –

- Non puoi esserne sicura. Non lo conosci abbastanza da sapere se ha un lato nascosto, o se ha la forza necessaria da non cambiare idea tanto facilmente. Così come, alla fine, non sai nemmeno fino a dove tu puoi spingerti. –

Si voltò poi verso Cat, che continuava a fissarla in silenzio. – Prendi anche Cat, per esempio. Non metto in dubbio quello che sta provando. Dico solo che la persona che dovrebbe ricambiare, o almeno comprendere, i suoi sentimenti si trova dall’altra parte dell’oceano. Come si fa a pretendere di sapere cosa è reale e cosa no? –

- Ti stai facendo trascinare dai tuoi ricordi. – La frase di Tori suonò come un’accusa più di quanto volesse.

- Non è solo per quello. E’ perché so che anche nelle storie che sembrano più semplici, più lineari, c’è sempre quell’incognita che non ti aspetti. Per questo, nonostante possa sembrare una mancanza di fiducia da parte mia, vi chiedo di non abbassare mai la guardia. –

 

*****

 

L’illusione era un mostro che si stava stancando di combattere.

C’era una realtà davanti a lui, non quella del passato, non quella che immaginava di trovare. Una realtà che non poteva ignorare né combattere. Una verità che faceva male.

Le persone non aspettano in eterno.

Rientrato nel suo modesto alloggio dopo aver consumato un panino al fast-food, Freddie stava ancora pensando all’offerta di quel pomeriggio.

Sam che si proponeva di aiutarlo a trovare una nuova casa, dopo aver fatto lo stesso col lavoro, il racconto della sua storia importante con Gabriel, vecchie memorie di Seattle rivangate e poi lasciate a bruciare al sole. Erano un bel po’ di cose da elaborare, in effetti.

Ma se avesse voluto essere totalmente sincero con se stesso, come lo era stato in passato, allora non doveva fare altro che accettare. Per una volta, lasciare da una parte le questioni di principio, le ripicche e l’invadente orgoglio.

Senza andare a scavare troppo in profondità, per non correre il rischio di trovare qualcosa di indesiderato.

Si trattava di una nuova sistemazione e basta. Una casa, magari non quella di Seattle, ma pur sempre una casa. Sua madre gli avrebbe già fatto firmare il contratto ad occhi chiusi.

Pensò per un secondo anche a cosa avrebbe fatto Carly al suo posto: probabilmente la stessa cosa.

Afferrò il cellulare sul comodino. Al di là di qualunque ragionamento potesse fare, si sentiva in dovere di dirle almeno qualcosa.

Grazie”.

Fu semplicemente questo che decise di scriverle. Voleva farle sapere che apprezzava ciò che aveva fatto. Troppe parole non sarebbero comunque servite a nulla.

Pochi secondi dopo, il sistema di WhatsApp lo avvertì che Sam aveva letto il messaggio.

Non era troppo chiedere una risposta, non era troppo aspettarsi che lei comprendesse un gesto che, per quanto marginale potesse sembrare, aveva il suo particolare significato.

Invece niente.

Quando ricevette il messaggio, Sam si trovava nel soggiorno di casa sua, comoda sul divano accanto a Gabriel. Trasmettevano il basket in tv, grande passione del ragazzo. La partita non era nemmeno tanto interessante, la squadra in calzoncini rossi aveva quasi quaranta punti di vantaggio su quella coi calzoncini blu, all’inizio dell’ultimo quarto.

Non odiava il basket, sia chiaro. Lo riteneva uno sport dinamico e avvincente, molto più del tennis che tanto piaceva a Carly o dell’hockey che seguiva Beck.

Stare a guardare le partite con Gabriel, poi, che fosse alla tv o nei palazzetti locali, era un’attività che faceva sempre molto volentieri, specialmente per la presenza del suo ragazzo. Ma da qui a conoscere i nomi di tutte le squadre dell’NBA, delle divisioni inferiori e dei campionati internazionali, ce ne correva.

La squadra in tenuta blu aveva appena segnato un canestro dalla lunetta quando il cellulare le vibrò in tasca. Si aspettava che fosse Cat, che, presa da una delle sue tante note di nostalgia, le aveva inviato una foto di un peluche rosa, per ricordarle le loro serate insieme.

Niente di tutto questo, anzi, decisamente peggio.

Freddie Benson.

Fu colta da una strana sensazione, leggendo il suo nome sul display. Non era per il messaggio, che in fondo non rappresentava granché per lei, bensì per il fatto che fosse la prima volta che le scriveva così tardi.

Lanciò un’occhiata a Gabriel, immerso nel suo basket e intento a lanciare rimproveri agli allenatori e all’arbitro.

L’idea le balenò subito per la mente. Lo smartphone si oscurò e tornò rapidamente nella tasca, prima che lui potesse accorgersi di qualcosa.

Una risposta non sarebbe servita a niente. Gabriel l’avrebbe vista digitare e avrebbe insistito per sapere con chi, Sam non aveva alcuna intenzione di inventare una scusa e tantomeno di raccontargli la verità, e Freddie… beh, Freddie si sarebbe semplicemente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Meglio lasciar correre, e rimettersi a sperare nell’improbabile rimonta del team coi calzoncini blu.

Dall’altra parte, però, Freddie era rimasto in attesa di qualcosa che, forse, non sarebbe mai arrivato.

Di nuovo quei dubbi…

Perché impegnarsi tanto, se lei era la prima a cui non interessava?

Un tarlo che, nonostante tutto, continuava ad abitare i suoi pensieri.

Una consapevolezza che faceva molto male.

Quella che per lui, alla fine dei giochi, Sam non ci sarebbe mai veramente stata.

 

 

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Capitolo 14
*** XIV - iAmMyDemon ***


XIV - iAmMyDemon

 

 

Era trascorsa una settimana, da quando Sam gli aveva illustrato la possibilità di un appartamento tutto suo e, non da meno, a buon mercato.

Da allora, non aveva avuto più notizie al riguardo, così aveva creduto che non ci fosse più niente in ballo.

Invece, quella mattina, Sam si presentò sulla soglia del suo ufficio, sollecitando l’attenzione del giovane Benson. Era appena la seconda volta che Sam saliva di piano e si spingeva fino al regno degli informatici, per cui non poteva trattarsi di una semplice coincidenza.

Un breve saluto da lontano e, ignorando completamente i suoi colleghi, chiamò Freddie nel corridoio.

Una sensazione di dejà-vu per lui, che si ritrovò di nuovo faccia a faccia con la ragazza, con il sole che filtrava dalla finestra alla sua sinistra e una flebile speranza che faceva da contorno.

- Sorridi, Benson, ho novità per te. – esordì lei con espressione fiera.

Adesso la concentrazione di Freddie era tutta per lei.

- Ho dovuto fare più telefonate di quante mi aspettassi, ma ci sono riuscito. L’appartamento è sempre libero, e sembra che nessuno vada a vederlo da giorni, ormai. Quindi se ti interessa, sei ancora in corsa. –

- Certo che mi interessa! – esclamò il ragazzo, la cui voce si acuì tanto da echeggiare nel corridoio.

Sam annuì. – Bene, perché altrimenti penso che ti avrei spezzato un braccio. Ho parlato con il tizio che conosco, e ti ho organizzato una visita all’appartamento. –

- Per quando? -

- Per stasera! Per quando, sennò? Non mi do mica da fare per aspettare un altro mese! –

Freddie rise divertito. – Ok, grazie. –

- Ringraziami dopo aver sentito l’ultima cosa. L’affitto: lascia stare quello che c’è scritto sull’annuncio. Sam Puckett ti farà avere un contratto a prezzo stracciato. -

Il sorriso sul volto del ragazzo si espanse fino agli zigomi.

Sam allargò le braccia e inclinò il capo, compiaciuta di se stessa. – Te l’avevo detto che avrei pensato a tutto io. O le cose le faccio per bene o non le faccio proprio. –

Freddie non sapeva che dire. Era rimasto completamente assuefatto dalla voce della bionda, e per una volta, senza preoccuparsi di chiedersi se tutto quello volesse dire qualcosa o no.

- Ho fissato per le 18.30. – gli diede una pacca sulla spalla. – Mi raccomando, non fare tardi e non farmi fare brutte figure. –

Mentre Sam riprendeva la via per le scale, Freddie si ridestò e realizzò di avere ancora una domanda. – Aspetta! – la fermò, facendola voltare indietro.

- Ci sarai anche tu stasera, vero? –

- Ci vediamo dopo. – gli fece l’occhiolino. – Fidati di me. –

 

*****

 

In mensa, durante il pranzo, l’attenzione di Robbie non andava al di là del proprio piatto di pasta.

Una mano reggeva la forchetta e infilzava svogliatamente i maccheroni, l’altra teneva ben saldo lo smartphone. Il pollice digitava e navigava più velocemente di quando il cibo raggiungesse la bocca e lo stomaco.

Robbie sedeva solo al tavolo vicino alla finestra, ma se anche qualcun altro si fosse avvicinato per fargli compagnia, era molto difficile che se ne potesse accorgere prima di qualche minuto.

Rimbalzava tra siti di cinema, WhatsApp, testate giornalistiche e ancora WhatsApp. Spesso e volentieri, riapriva la schermata solo per vedere se avesse ricevuto qualche nuovo messaggio.

I suoi contatti non erano molto numerosi, per cui non era nemmeno difficile immaginare chi aspettasse ogni volta così ostinatamente.

Quel giorno, Stefan lo raggiunse un po’ in ritardo rispetto al solito, e ciò dette a Robbie la possibilità di perdersi completamente nel suo mondo virtuale. A volte, era molto più accogliente di quello reale.

Posando cautamente il vassoio sul tavolo, il tedesco si accomodò alla destra di Robbie, ovvero dalla parte opposta a quella dove era puntato lo sguardo dell’amico. In altre parole, Robbie avrebbe potuto non notare la sua presenza per tutto il pranzo.

Stefan lo osservava divertito ma anche leggermente indispettito. Non aveva mai capito che senso avesse varcare l’oceano, per poi continuare a bramare il luogo da cui si è partiti.

Oltretutto, quella che gli sembrava di scorgere era la stessa espressione di qualche giorno prima, quando con Kendra avevano parlato del party di metà semestre.

La stessa fronte tesa, gli stessi occhi pensierosi e malinconici. Una parte di lui era sui libri, l’altra era chissà dove.

Eppure, a dire la verità, non c’era bisogno di chiedersi se tutto quello avesse a che fare con quel dannato telefono.

Dopo una decina di minuti di silenzio assoluto, decise di provare a ridestare il suo amico americano.

- Ma ci sono almeno le donne nude sul tuo cellulare? – gli sussurrò, sporgendosi verso di lui.

Robbie, come colto di sorpresa, finalmente drizzò il capo e distolse gli occhi dallo schermo. Sorrise imbarazzato, mentre si precipitava a ingurgitare un altro boccone.

- Ingannavo il tempo. – asserì facendo spallucce.

- Sai cosa potresti fare, invece? – ribatté Stefan. – Ricordarti della festa di Kendra, questo sabato. –

Robbie si guardò intorno per un istante e scrollò di nuovo le spalle. – Ok. –

Non c’era un briciolo di convinzione nella sua voce, e Stefan se ne rese perfettamente conto.

- Ascolta, questa te la devo proprio dire. – riprese, appoggiando i gomiti sul tavolo e congiungendo le mani. – E’ una mia opinione, ed è probabile che non siano affari miei. Però non sono neanche l’ultimo arrivato, e l’ho capito che c’è qualcosa che ti sta passando per la testa. Per me, forse dovresti concentrarti di più su quello che hai qui in Germania, provare a lanciare uno sguardo verso il futuro, piuttosto che continuare a voltarti indietro e rincorrere ciò che hai lasciato a Los Angeles. -

Robbie non replicò subito. Inutile cercare una sola parola sbagliata tra quelle dell’amico. Inutile negare che, in conclusione, non avesse affatto torto. Il suo punto lo aveva centrato.

E all’improvviso, un pensiero decise di volare inspiegabilmente verso Kendra.

- Va bene. – annuì assorto, mentre iniziava a capire cosa intendesse realmente Stefan. – Lo terrò presente. –

 

*****

 

Era finita da poco la pausa caffè delle 16, quando il cellulare le vibrò ripetutamente in tasca. Sam staccò le mani dalla tastiera e, cercando di non farsi vedere dai suoi colleghi, lo estrasse lentamente per controllare.

Non che fosse legalmente vietato usare smartphone o tablet in ufficio, non esisteva nessun regolamento interno, ma vigeva una convenzione di lunga data che impediva di utilizzarli per questioni personali. Alla fine, però, distinguere tra uso privato o lavorativo era una zona grigia mai interpretata.

Sam sbirciò furtivamente lo schermo, e per tre volte lesse il nome di Gabriel. Tre messaggi ravvicinati, nel giro di un minuto. Nel primo c’era scritto “Amore”, nel secondo “Puoi prenderti un secondo?”, e nel terzo “Chiamami appena puoi”, con uno smile alla fine.

Con un filo di apprensione, Sam si alzò con noncuranza e si diresse verso la porta. Giunta in corridoio, riprese il cellulare e selezionò il numero del suo ragazzo.

- Gabri, che succede? –

- A che ora pensi di staccare stasera? –

Sam ci pensò un attimo. – Verso le cinque. –

- Perfetto, allora non ci dovrebbero essere problemi. Te lo ricordi il mio amico Theo? –

- Certo. –

Aveva incontrato Theo soltanto un paio di volte, insieme al resto della compagnia, e l’ultima risaliva a parecchi mesi prima. Di origini latine, anche lui viveva quasi esclusivamente di basket, musica e birra. Ci aveva scambiato giusto due parole, e aveva scoperto che, mentre la palla rappresentava un semplice hobby, il suo sogno era di diventare un rapper come il suo idolo Jay Z.

Da quanto ne sapeva, Theo si era poi trasferito in Missouri per proseguire la sua “carriera”. Non lo aveva sentito più nominare, per cui, gli veniva da pensare, inutilmente.

E cosa potesse avere a che fare con lei adesso, francamente lo ignorava.

- Il suo volo arriva stasera. – fece Gabriel.

- E’ tornato? – chiese lei, in realtà poco interessata.

- Voleva risalutare gli amici. Con i ragazzi andiamo ad accoglierlo all’aeroporto, e poi pensavamo di andare tutti insieme a cena. Vieni anche tu, vero? –

- A che ora atterra? –

- Alle sei. –

- D’accordo. –

- Grande, ci vediamo dopo allora. Ti amo, Sam. –

- Anch’io. –

Mentre tornava verso l’ufficio, una volta chiusa la telefonata, un flash la colpì come una stilettata.

Freddie!”

Accidenti, si era completamente dimenticata di lui e della visita all’appartamento.

Tirarsi indietro da uno qualsiasi dei due impegni era impensabile. Gabriel contava sulla sua presenza, e lo stesso valeva per Freddie, che sembrava averne davvero bisogno.

Una promessa era pur sempre una promessa, e non avrebbe voluto dire di no a nessuno dei due.

Diede una rapida occhiata all’ora sul cellulare e provò a ragionare.

L’aeroporto non era lontano dalla Crystal-Tech, perciò le sarebbe bastato restare un po’ di più a lavoro, e andare direttamente laggiù, senza passare da casa. Aveva mezz’ora a disposizione, ma con il volo in orario, se la sarebbe cavata rapidamente tra saluti e convenevoli. A quel punto, avrebbe raggiunto Freddie all’appartamento. L’agente che gestiva gli affitti la conosceva, quindi l’avrebbe sicuramente aspettata anche in caso di leggero ritardo. Su Freddie, in ogni caso, non aveva alcun dubbio. E alla fine, si sarebbe riunita con Gabriel e gli altri al ristorante, per il resto della serata.

Sicura di avere tutta la situazione sotto controllo, Sam rientrò tranquillamente in ufficio e riprese a lavorare al suo progetto di marketing.

Un paio d’ore più tardi, avrebbe scoperto l’esito del suo audace piano.

 

*****

 

Quel pomeriggio, dopo il lavoro, Freddie era capitato nella zona dello studio di Andre, e aveva deciso di fermarsi per un saluto.

Lo aveva trovato impegnato nelle prove di un paio di pezzi insieme a Cat, lui alla tastiera e lei al microfono, niente di particolarmente difficile. La ragazza lo accolse con un largo sorriso, tanto era felice di avere un pubblico, seppur formato da un solo spettatore.

Andre, invece, dava l’impressione di non essere per niente convinto. Era come se gli stesse mancando qualcosa, come se ci fosse qualcosa che non stava funzionando. Ed effettivamente, in molte parti del brano c’era una voce femminile di meno.

Poco dopo, anche Cat se ne andò abbracciando calorosamente entrambi, e Andre tornò a rintanarsi nella saletta audio, in compagnia del suo portatile. Scriveva e cancellava, scriveva e cancellava, rincorrendo una fantomatica idea ancora troppo fragile.

Dopo averlo osservato a lungo, Freddie era intervenuto e lo aveva convinto ad uscire per prendere una boccata d’aria, con la scusa di accompagnarlo verso l’appartamento che doveva visitare, lontano poco più di tre isolati da lì.

- Come sta andando? – gli chiese Freddie, appena fuori dallo studio.

Andre chiuse la porta a chiave, si voltò verso di lui e scosse mestamente il capo.

- A rilento. – ammise, mentre si incamminavano verso la piazza. – Voglio essere sincero, sto cominciando ad avere dei dubbi. –

- Riguardo cosa? –

- Che riusciremo a farcela, che verrà fuori un buon lavoro, che raggiungeremo qualcosa. Forse mi sono lanciato nel proverbiale passo più lungo della gamba. –

- Non mi sarei aspettato che fossi proprio tu a dirlo. –

- Già, ero io quello che ha cominciato tutto, che ci credeva di più e anche l’unico che sembra preoccuparsene. –

Freddie lo guardò confuso. – Che cosa c’è che non va? –

- Per usare una metafora sportiva… diciamo che la squadra non è più così competitiva come in passato. –

L’amico aggrottò perplesso le sopracciglia. – Non perché non sia un appassionato di sport, ma non ti seguo. –

Andre si lasciò andare ad una breve risata nervosa. – Intendo… prendi Cat. E’ una bravissima ragazza, ed è una delle migliori amiche che si possa desiderare. Si impegna, mette il cuore in quello che fa, ma… ha i suoi limiti. Dispiace dirlo, ma ho la sensazione che oltre un certo punto non riuscirà mai ad andare. –

Freddie annuì moderatamente. Conosceva Cat ormai da qualche anno e, doveva ammetterlo, concordava con l’amico.

- Tori, poi, mi sta facendo impazzire. – continuò Andre. – Non so cosa le stia passando per la testa. O meglio, lo so, e per essere più precisi, “chi” e non “cosa”. Eppure non pensavo che si sarebbe dimenticata di tutto il resto del mondo. –

- Non è concentrata? –

- Fosse solo quello. Ormai si presenta alle prove una volta ogni tre, e nel peggiore dei casi, non la vediamo per una settimana intera. Dice che non ha tempo, che ha da fare, che deve fare tardi a lavoro o che deve uscire con Thomas. Pensa che ci sono giorni in cui la incontro soltanto la sera, quando torna a casa. –

Freddie alzò gli occhi verso l’orizzonte, e li fece scorrere tra i tetti delle case circostanti. C’era qualcosa di familiare nelle parole di Andre. Il tono si abbassò di un’ottava. – E’ molto presa da Thomas, a quanto pare. Credo che… dovresti capirla. –

- Io la capisco benissimo, non fraintendermi. Ci sono passato anch’io, ho avuto le mie storie e sono stato innamorato. Ciò però non giustifica il suo essere così distaccata, disinteressata. Questo progetto è davvero importante per me, e lei questo lo sapeva. – fece una breve pausa e tirò un sospiro. – Non mi piace come stanno andando le cose, Freddie. –

Procedettero in silenzio per un altro centinaio di metri, prima che Andre tirasse fuori la frase che gli pesava di più.

- E soprattutto, non mi piace Thomas. –

Il giovane Benson si limitò ad un’occhiata comprensiva, senza rispondere. Per qualche ragione, si aspettava un commento del genere.

- Io credo a Tori quando dice che tutto si è sistemato, eppure c’è ancora qualcosa che non mi quadra. Non posso e non voglio ripensare a come lui ha trattato Tori all’inizio o a tutte le menzogne che le ha raccontato. Probabilmente non è affar mio… ma è un uomo sposato, per l’amor del Cielo! Ieri pomeriggio, per esempio, girando per il centro sono passato davanti alla scuola elementare, e lui era lì, per riprendere la figlia all’uscita. Avresti dovuto vederlo, tutto rilassato e sorridente. Da bravo papà l’ha abbracciata, le ha preso lo zaino e l’ha riportata a casa in auto. –

Freddie fece per replicare, ma Andre lo intercettò. – E allora? Questo è giusto un… -

- “Un dettaglio”, stavi per dire. E avresti avuto ragione. Cosa c’è di strano? Niente! Se non fosse che la famiglia da cui lui torna ogni sera, come se nulla fosse, è la stessa cui agisce continuamente alle spalle. Io voglio molto bene a Tori, ma in questo caso, Thomas non è una persona che si merita la mia fiducia. –

- E se ti stessi sbagliando? – stava riponendo in quella domanda le stesse valutazioni che allora aveva fatto su Gabriel.

- Vorrà dire che almeno l’avrò fatto in buona fede. –

Giunti a mezzo isolato dal possibile nuovo appartamento di Freddie, Andre si fermò ed estrasse lo smartphone dalla tasca. Erano le 18.15.

- Da qui in poi ti lascio proseguire da solo. A meno che tu non abbia bisogno di qualcun altro che ti tenga per mano. –

L’altro scoppiò a ridere. – Non importa, ma grazie comunque per l’offerta. –

Subito dopo, da divertita, l’espressione di Andre si fece più seria. – Grazie a te. Diciamo che un po’ d’aria fresca era quello che mi serviva. – guardò in lontananza e gli fece un cenno col capo. - Adesso vai, vai a prendere ciò che ti interessa veramente. -

 

*****

 

** Circa un anno prima **

Quando Beck e Jade erano tornati al teatro, dopo un paio di giorni di vacanza, lo avevano trovato molto più affollato di quanto ricordassero.

Decine di facce nuove, alcune vagamente familiari, altre totalmente sconosciute. La maggior parte si aggirava tra le zone abiti e trucco, fino a spingersi addirittura sul palco.

Avanzando per i vari antri del locale, era stato difficile per entrambi non provare la strana sensazione di aver sbagliato posto.

E mentre Beck era sembrato capace di mantenere un certo controllo, Jade aveva iniziato subito a guardarsi intorno in cagnesco. Aveva sempre odiato le sorprese.

- E questi chi diavolo sono? – aveva chiesto con tono aspro, incurante di chi potesse sentirla.

Beck, lanciando qualche occhiata in giro, si era accorto di come le new-entry fossero prevalentemente ragazze. E sapendo sotto quali auspici era nata la faccenda, la reazione di Jade non l’aveva sorpreso affatto.

Avevano proseguito uno accanto all’altra fino al backstage, dove si erano scontrati con il consulente della Hollywood Arts.

- Che diavolo sta succedendo qui? – aveva esclamato immediatamente la mora. – Sembra di stare ad un mercato, qui. Da dove è saltata fuori tutta questa gente? –

L’uomo si era sistemato gli occhiali con fare flemmatico. – Sono le nuove aggiunte al cast. Figuranti, comparse, manodopera davanti e dietro le quinte. –

E chi li avrebbe selezionati? –

- Io. – si era pronunciato con una certa vanità.

Jade, invece, si era già infiammata. – Quando? –

- Ieri. –

- Che cosa? E’ uno scherzo, vero? – si era voltata incredula verso Beck. – Siamo stati via due mesi, per caso, e non me ne sono accorta? –

Poi era tornata a rivolgersi all’uomo. – Così, in nostra assenza, ha deciso di assumere chi le pareva, anche profili che avevamo scartato, senza nemmeno interpellarci! –

- L’ho fatto per il bene dello spettacolo. Ed erano tutti d’accordo con me. –

Jade lo aveva fulminato con un’occhiataccia.

- Non ho paura a dirlo. Tu avevi scartato tutti i profili, e se avessimo continuato di questo passo, non avrebbe lavorato nessuno qui. – si era riassestato la giacca ed era passato in mezzo ai due ragazzi. - Adesso scusate, ma ho dell’altro lavoro da sbrigare. –

**

- Non ci posso credere! Quel damerino borioso e insignificante ha fatto tutto alle nostre spalle! Ma ti rendi conto? Ci ha escluso dai provini del nostro spettacolo! –

Beck non aveva risposto.

Non voleva dirle che stavolta non sarebbe stato dalla sua parte.

Che anche lui si era preoccupato, che il consulente aveva ragione, che c’era qualcosa che andava fatto.

Non voleva dirle di essere stato proprio lui a proporre di tagliarla fuori.

**

Quella sera, Beck e Jade si erano trattenuti fino a quando il teatro non si svuotato.

Era tardi, avevano saltato la cena, eppure nessuno dei due sembrava cercare una scusa per tornare a casa.

Il buio avvolgeva protettivo il silenzio della ragazza.

Lo sguardo freddo del canadese non la abbandonava, ma non rivelava la menzogna.

I passi risuonavano tra le travi di legno delle navate e dietro le quinte, i respiri echeggiavano dal palco alle sedie in platea.

Lui l’aveva afferrata con vigore e l’aveva rivolta verso di sé. Gli occhi scuri si erano intrecciati nella più assoluta quiete. Poteva vedere l’immagine della sua tristezza come nello specchio di un lago.

Le aveva stretto i fianchi e aveva posato delicatamente le labbra sulle sue.

Non rimpiangeva ciò che aveva fatto.

Jade non avrebbe capito, non avrebbe creduto all’amore che si celava dietro quel gesto così pieno di vergogna.

Aveva affondato il bacio, infrangendo le flebili resistenze della ragazza e andando ad assaporare la morbida carne.

Per una notte, quel posto sarebbe stato soltanto loro, e di nessun altro.

Una notte nel loro mondo, per provare a salvare almeno i pezzi rimasti della loro storia.

 

*****

 

L’orologio segnava circa le 18.25, quando Freddie arrivò all’indirizzo che aveva ricevuto.

A grandi linee conosceva già la zona in cui abitava Sam, perciò non ebbe problemi a ricollocarsi geograficamente. Se il caseggiato della bionda non risultava ancora come periferia, allora non lo sarebbe stato nemmeno l’altro.

Si trovava in una stradina traversa, in fondo a un lungo viale alberato. Non era molto trafficata, ma era facilmente raggiungibile anche in auto. A una prima occhiata, lo stabile sembrava composto da tre blocchi di appartamenti, disposti su due piani. Si accedeva alle scale da tre cancelli separati, e dalle cassette della posta si potevano contare non più di quattro appartamenti per blocco.

Il parcheggio era ampio, abbastanza da poter evitare discussioni con i vicini su diritti e posti assegnati.

Freddie scese dalla macchina e si guardò brevemente intorno. L’attenzione, prima ancora che dalla casa, fu catturata dal ripetitore e dai cavi dell’alta tensione, visibili in lontananza al di là dei tetti.

Almeno il wi-fi dovrebbe prendere bene”, pensò mentre richiudeva lo sportello.

Si incamminò verso il primo cancello, dove l’agente immobiliare lo stava aspettando.

Era un ragazzo sulla trentina, dall’aria sofisticata, con dei pantaloni color cachi e un giubbotto grigio chiaro. Non era molto alto, portava i capelli impomatati all’indietro e gli occhiali da sole, nonostante ormai la luce non fosse più così accecante.

Il tipo di persona che, a prima vista, il giovane Benson avrebbe evitato volentieri.

- Lei deve essere Freddie. – fece l’agente, appena lo vide.

- Esatto, ma dammi del tu. – rispose, allungando il braccio. Non gli era mai piaciuta tanta riverenza, lo faceva sentire vecchio.

- D’accordo. Io sono Alan. – gli strinse la mano. Una stretta, notò Freddie, piuttosto melliflua. – L’agenzia per cui lavoro sta trattando questo stabile, e da quello che mi ha detto Sam, sei interessato ad uno degli appartamenti. –

- Sì… - Sentir nominare l’amica spinse Freddie a riguardare l’ora sul cellulare. Era già in ritardo.

- Allora andiamo. – fece per aprire il cancello. – Vieni, ti faccio strada. –

Il ragazzo di Seattle, invece, continuava a guardare la strada, preoccupato. – Non dovremmo aspettare Sam? Ha detto che sarebbe venuta anche lei. –

- Non lo metto in dubbio. – replicò Alan, con tono saccente e fastidioso. – Ma per ora, io qui non la vedo. –

**

- Stupido idiota! – imprecò Sam alla vettura davanti alla sua, ferma in coda, così come decine di altre per i successivi due chilometri.

Quando era uscita dall’aeroporto, salutando Gabriel e dando appuntamento a lui e agli altri al ristorante, erano le 18.10. Un rapido abbraccio di bentornato a Theo, qualche risata ed era saltata in macchina. Aveva pensato di essere perfettamente in orario, e che venti minuti le sarebbero stati più che sufficienti per tornare all’appartamento.

Purtroppo per lei, però, in venti minuti aveva raggiunto appena l’imbocco dell’autostrada. Adesso davanti a lei si parava una sterminata fila di auto immobili, con i conducenti attaccati alla frizione e al clacson.

Mentre stringeva furiosamente il volante, pensò a cosa avrebbe fatto Freddie se fosse stato lì con lei. Le avrebbe sicuramente detto che il suo piano non era stato stilato correttamente, che non aveva tenuto conto di tutti i fattori e di tutte la variabili. Le avrebbe fatto l’ennesima lezione da professore, ma la cosa peggiore era che avrebbe avuto ragione.

In una situazione del genere, per una questione così importante, un dettaglio come il traffico, Freddie non lo avrebbe lasciato al caso.

**

- Insomma, che vuoi fare, Freddie? – gli aveva chiesto Alan, sempre più pressante.

Era trascorso un altro quarto d’ora, ma di Sam non c’era nemmeno l’ombra.

- Io ho un’altra visita fissata per le 19. Non è lontano da qui, ma non posso restare ad aspettare in eterno. Se non vuoi andare dimmelo subito, che ci organizziamo per un altro giorno. –

Freddie aggrottò la fronte e abbassò gli occhi sull’asfalto.

- D’accordo. - Lo spaventava, l’idea di poter perdere quell’appartamento. Ma ancora di più, lo faceva imbestialire essere da solo.

Salì in silenzio fino al pianerottolo, seguendo Alan che intanto aveva iniziato a esporgli tutto quello che gli veniva in mente. – C’è l’ascensore… una signora fa la pulizia delle scale due volte a settimana… le spese di condominio ammontano a circa 30 $ al mese. –

L’agente estrasse la chiave dalla tasca, si pulì le suole sul tappetino e varcò la soglia.

Freddie fece lo stesso, percependo appena entrato un lieve odore di chiuso. I locali, anche se inabitati, sembravano ben tenuti. Il pavimento in mattonelle color ruggine e i mobili erano tirati a lucido, quasi a farli apparire nuovi.

- Questo è l’ingresso, angolo cottura. – espose Alan, mentre andava ad aprire le imposte per far entrare aria e luce. – Quello che vedi, chiaramente, è compreso nell’affitto. –

L’ambiente era carino, ma in realtà, quello che Freddie stava vedendo era un arredamento scarno e minimale, e guardando con più attenzione il muro, poteva notare alcune tracce di umido.

- Da quella porta si passa a un piccolo disimpegno. – proseguì Alan. – Di là c’è la camera, e a destra c’è il bagno. Letto, mobili e sanitari sono tutti inclusi. –

Freddie osservò le altre due stanze, e l’impressione che aveva avuto all’inizio fu confermata.

Per quanto l’appartamento fosse piccolo, per una persona sarebbe stato più che sufficiente. E riguardo al resto, un affitto basso avrebbe comunque fatto pendere la bilancia in parità.

- Mi piace. – disse infine il giovane di Seattle. – Sembra ciò che fa per me. Lo vorrei prendere. –

Tanto più che aveva già disdetto la camera al motel.

- Prima di firmare qualunque cosa, però, parliamo di verdoni. –

Alan annuì e si mise a giocherellare con le chiavi. – Sono 500 $ al mese. –

Freddie fu colto un po’ alla sprovvista. – Questo è… -

- Questo è ciò che chiedono. - L’agente non fece una piega. - Non trattabile. –

- Ma… dovrebbe essere più basso… - almeno 200$ di meno. Cercò di ribattere senza sembrare troppo intimorito. - Insomma, Sam ha detto che vi conoscete… che ci avrebbe pensato lei, e che vi sareste messi d’accordo. –

– E perché allora Sam non è qui? – quella domanda faceva estremamente male. – Siamo solo tu ed io, a quanto pare. –

Negli occhi di Freddie, dietro un’ombra opaca, si celava una strana luce, fatta di rabbia, delusione e frustrazione.

Frustrazione, per essere costretto a scendere a patti con quel viscido agente immobiliare in modo da non finire per strada.

Delusione, per la consapevolezza di essere rimasto solo.

Rabbia, per aver creduto ciecamente in una persona che invece, con la sua fiducia, non aveva fatto altro che giocare fin dal primo giorno.

Aveva sbagliato, di nuovo. Ma questa volta, promise a se stesso, sarebbe stata l’ultima.

 

 

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Capitolo 15
*** XV – Burning Hands ***


XV – Burning Hands

 

 

Freddie, fin da bambino, era sempre stato lodato per la sua bravura, la sua gentilezza e il suo altruismo. Era il classico “bravo ragazzo” che, nel mondo, doveva stare attento a tutto per evitare di finire fregato. E forse, era proprio per questo che sua madre si era comportata in maniera così protettiva con lui.

C’era un lato del suo carattere a cui Freddie era particolarmente legato, ma che nel corso della sua giovane vita, aveva faticato a trovare negli altri.

Un dettaglio che gli permetteva di fidarsi della gente, di integrarsi, di guadagnarsi dei veri amici.

E se c’era una cosa che, nella sua sensibilità, gli faceva perdere il controllo, era realizzare che la persona in cui aveva riposto la sua completa fiducia, non aveva fatto altro che prenderlo in giro.

Quella mattina, Freddie arrivò alla Crystal-Tech veramente arrabbiato.

Saltò l’appuntamento con la macchinetta del caffè e, dopo aver acceso il computer e lasciato lo zaino alla scrivania, si precipitò nuovamente verso le scale per tornare al piano di sotto.

Il passo era deciso e frenetico, e nei suoi occhi ardeva una fiamma che sembrava nata direttamente dall’inferno.

Raggiunse l’ufficio di Sam e, senza bussare, varcò la soglia come se volesse fare irruzione.

Sam sedeva di spalle rispetto alla porta, perciò la prima a vederlo fu la responsabile di reparto. Una donna sopra la cinquantina, capelli rossi fluenti e trucco pesante nel fragile tentativo di coprire le rughe.

Lo accolse con inopportuna allegria. – Buongiorno, genietto del computer! – gli strizzò l’occhio. – Franky, giusto? –

Lo innervosiva, il fatto che quella signora con tanti anni alle spalle, ancora non avesse nemmeno imparato il suo nome. Dopotutto, seppur in maniera anonima e ufficiosa, aveva partecipato alla realizzazione di un intero progetto di marketing per lei.

- Freddie. – la corresse, e finalmente anche la bionda si accorse della sua presenza. – Devo parlare con Sam, mi scusi ma devo portargliela via per un istante. – si rivolse a lei. – Puoi uscire, per favore? –

Mentre la accompagnava in corridoio, vicino al portone d’ingresso, il giovane Benson mostrava di essere pronto a rilasciare il tornado che infuriava sotto la sua pelle. Poteva affrontarla a testa alta, come forse non aveva mai fatto.

- Freddie, ascolta, io… - provò a esordire, ma lui la interruppe subito. Non avrebbe sentito storie.

- Stavolta ha davvero superato il limite, Sam! –

Lei fu colta un po’ alla sprovvista e incrociò le braccia. – Stai parlando di ieri sera? –

- No, del Natale scorso. –

- E’ andata così male? –

Il ragazzo ricorse al sarcasmo, almeno inizialmente, per camuffare l’acidità nel tono. – Se è andata così male? Aspetta, fammici pensare… ma no, è andato tutto a meraviglia! –

Sam cercò delle contromisure per un Freddie come non lo aveva mai visto. – Senti, stamattina mi sei piombato in ufficio senza dire nulla, e non c’è bisogno che continui con queste battutine del cavolo. Che accidenti ne so io? Ieri sera ti ho scritto, scusandomi anche per aver fatto tardi, e tu non mi hai nemmeno risposto. –

La maschera cadde definitivamente. – Quindi adesso sarei io lo stronzo? E’ evidente che non avessi tutta questa voglia di parlare con te, dopo quello che era successo. Oh, e tra parentesi, grazie mille. Grazie, perché adesso, ho uno stipendio che a malapena coprirà l’affitto e le bollette, e dovrò inventarmi qualcosa per riuscire a mangiare, senza che i miei amici debbano offrirmi il pranzo ogni giorno! –

- Se era così alto, perché non hai rifiutato? –

- Già. Perché non ci ho pensato prima? – si passò una mano tra i capelli. – Ah, ecco… perché altrimenti sarei finito a dormire per strada! Avevo già disdetto la camera, credendo di aver fatto bene a mettermi nelle mani tue e del tuo amico galletto. Che cos’era, il classico scherzo a Freddie Benson, come quella volta in cui sabotasti la mia domanda per il campo estivo? Spero che almeno vi siate divertiti. –

- Ti ho già detto che mi dispiace, e ti ho spiegato che non ce l’ho fatta perché… -

- Non mi interessa, hai capito? – non l’avrebbe lasciata parlare, ma doveva essere bravo a scegliere le parole. – E’ sempre stato così con te! Ogni volta che prendi un impegno, poi trovi una scusa per tirartene fuori, che sia un imprevisto con un fantomatico parente, una commissione che non puoi rimandare, o una qualsiasi altra cosa dell’ultimo minuto. Non avrei dovuto darti ascolto. Oggi come allora, non sei cambiata affatto. Se il mondo non ruota intorno a Sam Puckett, allora può smettere di girare. Tu non hai mai prestato attenzione agli altri, eppure ho commesso l’errore di pensare che tra noi potesse essere diverso. Lo sai quant’è difficile sapere di non poter contare su di te neanche per questo? Sono qui da mesi, ormai, e nonostante tutte le tue belle parole, non sei mai riuscita a trovare cinque minuti per me. E sai una cosa? Io non ho intenzione di sprecare un altro pomeriggio chiedendomi e chiedendoti quando ci potremmo vedere. Io mi sono stancato, Sam! Sono stanco di essere sempre l’ultimo della tua lista, e di vedere continuamente altri che mi passano avanti. Sono stanco di essere l’idiota che c’è sempre quando hai bisogno, per poi vedere invece che, nel momento in cui serve a me una mano, tu sparisci. Siamo stati lontani quattro anni, Sam, indipendentemente da quello che… provo. Per quanto mi riguarda possono passarne altrettanti. Io non voglio rincorrere più nessuno. –

 

*****

 

Bisognava ammetterlo, lavorare in biblioteca non era esattamente come stare sotto i riflettori del piccolo o del grande schermo.

Niente assistenti personali, camerini privati o copertine di riviste, ma anche nessun regista incontentabile o collega capriccioso e incompetente.

La biblioteca lo rilassava. Nelle giornate più stressanti, il peggio che poteva capitargli era dover riordinare la sezione dei manuali di botanica.

Indipendentemente da ciò che era accaduto, la sua carriera da attore aveva imboccato un periodo di flessione, e lui aveva preferito frenare e farsi da parte, prima di raggiungere il baratro del dimenticatoio.

Ma come gli piaceva pensare, non c’è niente di definitivo nella vita.

E al momento adatto e con l’occasione giusta, sarebbe saltato di nuovo in sella e avrebbe ripreso le redini dei suoi sogni.

Per adesso, era piacevole anche stare tra i libri per bambini.

Era come una sorta di mondo in miniatura. Erano sempre le solite facce quelle che si aggiravano tra gli scaffali: si andava dagli studiosi con le camicie a quadri e gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, alle casalinghe in cerca di qualcosa per ingannare il tempo, passando per i ragazzini che si nascondevano con lo smartphone dietro gli atlanti.

Quella mattina, tuttavia, fu una in particolare a catturare la sua attenzione. Una giovane studentessa, bionda, minuta.

Quando gli passò vicino, Beck riconobbe in lei un’aria vagamente familiare. Teneva in braccio una pesante pila di volumi, di diversi spessori, che posò a fatica sul tavolo.

Spinto dalla curiosità, Beck si avvicinò con noncuranza alla postazione di studio. E non appena vide l’ultimo titolo in fondo al cumulo, anche la ragazza acquistò un’identità.

- Macbeth! – esclamò il canadese.

La studentessa alzò il capo, sorpresa. – Helen, in realtà. –

- Beck, piacere. – annuì sorridendo, per poi indicare il libro. – Ma io intendevo l’opera. –

- Oh, certo… scusa! – rise imbarazzata anche lei. – Non ti avevo riconosciuto dall’altra volta. Grazie ancora per l’aiuto. –

Beck si guardò intorno. Era una giornata piuttosto calma, non c’erano molte persone, e nessuno sembrava aver particolarmente bisogno di lui.

- Figurati. – decise di prendersi una piccola pausa e si sedette al banco. – A proposito di questo, com’è andata? –

- Che cosa? –

- Mi hai detto che dovrete metterlo in scena... immagino abbiate fatto dei provini. –

- Già, quello… - Helen fece una smorfia e scrollò le spalle. – Insomma, così e così. Hanno detto che sono andata bene, ma onestamente non mi pare di aver fatto granché. E poi sto avendo delle difficoltà enormi con il testo. La prima prova ce l’hanno fatta fare con il copione davanti, ma la prossima volta non so come riuscirò a superarla. –

Prese il volume e lo aprì casualmente a metà. – Il linguaggio è… strano, è complicato, più di quanto mi aspettassi. Ci sono dei termini che non ho mai nemmeno sentito, e dei passaggi che proprio non riesco a capire. – gli segnalò un punto col dito. – Guarda questo, per esempio, che diavolo significa? –

Beck, comprensivo, sollevò un sopracciglio. Quell’opera la conosceva abbastanza bene. - Vuoi che ti dia una mano con le battute? –

 

Vuoi che ti dia una mano con le battute?”

Considerando le ultime comparse, i nuovi commedianti e i suoi ex compagni della Hollywood Arts, Beck era senza dubbio uno di quelli con maggior esperienza teatrale. Inoltre, avendo partecipato alla stesura della commedia, poteva affermare di conoscerla bene come pochi altri.

Per questo, quando non aveva compiti di direzione, gli piaceva raggiungere gli altri sul palco e partecipare alle prove. Molti di loro erano dilettanti e spesso andavano in difficoltà, ma anche in quei casi, non si tirava mai indietro e faceva di tutto per aiutarli.

Chi non condivideva il suo metodo, tuttavia, era proprio Jade.

Beck avrebbe potuto chiederle quale fosse realmente il problema, ma dopotutto, sarebbe stato inutile. Lui lo aveva già capito, e lei non lo avrebbe mai ammesso.

Ricordava benissimo gli occhi gelidi di Jade puntati addosso, le occhiate di fuoco che lo lambivano ogni volta che prendeva un copione in mano.

Quella spiacevole sensazione di essere costantemente osservato, controllato, giudicato.

Vittima di una percezione sbagliata, colpevole soltanto di condividere il palco con altre attrici, con altre ragazze.

Più di una volta erano finiti a discuterne in camerino.

- Mi spieghi perché perdi tempo dietro a quelli là? –

- Anche loro sono attori, o quantomeno sperano di diventarlo. Mi sbaglio? –

- Nobile da parte tua trasformarti nel buon samaritano, ma è gente che non abbiamo selezionato nemmeno noi, quindi perché non può essere quello spocchioso damerino a insegnargli come si recita? –

- Perché non possiamo lasciarli così in alto mare. –

- Ma non è un nostro problema! –

- Sì, invece, se vogliamo che questa volta funzioni. E’ una ruota, un ingranaggio che non si deve fermare. Se falliscono loro, fallisce lo spettacolo, falliamo noi. –

 

*****

 

Andre guardò per l’ennesima volta l’orologio e sbuffò rumorosamente, sotto lo sguardo apprensivo di Cat.

Quel pomeriggio, avevano fissato le prove allo studio per le 14.30, ma alle 15.10, soltanto due partecipanti su tre si erano presentati.

Di Tori, Andre non riusciva ancora ad avere notizie. Ad ogni chiamata, il cellulare della ragazza rispondeva con la voce meccanica della segreteria e lo invitava a lasciare un messaggio. E la cosa lo stava facendo seriamente innervosire.

- Vuoi che cominciamo noi, intanto? – propose Cat, giocherellando col microfono.

- Stavolta no. – replicò brusco. – Scusa, Cat, ma comincio ad averne abbastanza. –

Andre si diresse al portatile e si mise a navigare per ingannare l’attesa. Stavolta avrebbe affrontato la questione, non importava che ora fosse.

Diversi minuti dopo, Tori fece il suo ingresso. Teneva la giacca stretta nella mano destra, l’aria trafelata.

- Eccomi, ragazzi. – appoggiò frettolosamente la borsetta sulla sedia e si riassestò i capelli.

- Dov’eri? – la interrogò subito l’amico, mantenendo il tono calmo.

- Con Thomas. Siamo andati a pranzo fuori, poi siamo tornati a casa sua, e… - le scoppiò un sorriso imbarazzato. - … e ho perso la cognizione del tempo. Ma adesso sono qui e sono pronta a cantare. Dai, cominciamo. –

Andre, rimasto in disparte a fissarla per quegli istanti, chiuse il portatile con un gesto risoluto. – Al diavolo le prove di oggi. –

Entrambe le ragazze si voltarono sbalordite verso di lui.

- Che ti prende? – chiese Tori.

- Che mi prende? – ripeté. – Tanto valeva che ti presentassi con il sole già tramontato, o che rimanessi direttamente a casa del tuo uomo. –

- Andiamo, dov’è il problema? – lanciò una fugace occhiata a Cat in cerca di supporto. – Ok, ho fatto un po’ tardi, scusami. Ma non c’è bisogno di fare storie per mezz’ora. –

- E’ più di mezz’ora, e soprattutto, non è la prima volta che succede. –

- Piantala, Andre. –

- Sto parlando sul serio. –

Mentre le amiche lo guardavano attonite, Andre iniziò a spengere l’impianto e a rimettere il computer nella borsa. – Per oggi mi è passata la voglia. E visto come stanno andando le cose anche per te, Tori, quella è la porta. –

La giovane Vega aggrottò la fronte e si impuntò. – Mi spieghi che cavolo ti sta succedendo? –

Il ragazzo sospirò e lasciò sbattere il palmo sul tavolo. – C’è che da quanto frequenti quel Thomas, non hai più tempo per niente e per nessuno! –

- Quindi è di questo che si tratta? Vorresti che rinunciassi ad avere un ragazzo perché senti che tu e la tua vita sociale non avete abbastanza attenzioni? –

- Non è di questo che sto parlando. –

- E allora, per favore, spiegami di cosa si tratta. Perché, ti giuro, non ti sto seguendo. –

- Da quando stai con Thomas, sembra che del tuo mondo non faccia parte nient’altro. Ti stai dimenticando di noi, i tuoi amici. Ci stai lasciando in panchina, io ho addirittura l’impressione che non abitiamo più nemmeno sotto lo stesso tetto! –

Cat si era rintanata in un angolo e si era timidamente stretta nelle spalle, mentre Tori pareva sinceramente affranta.

- Ho trovato qualcosa che fino ad ora nella mia vita non c’era. Non è qualcosa che accendi o spengi come una lampadina, lo vivi e basta. Ed è ciò che sto facendo. E’ importante per me, pensavo lo avresti capito. –

Come un fiume in piena che si avvia verso la cascata, Andre non aveva alcuna intenzione di fermarsi.

- Così com’era importante questo progetto. Sapevi cosa significava per me, sapevi che avevo bisogno di te al mio fianco. E invece lo stai ignorando perché, evidentemente, non è più così “interessante”! –

Una corda nella gola di Tori si incrinò. – Non puoi dirmi una cosa del genere. –

- Mi avevi fatto una promessa all’inizio, te la ricordi? E adesso stai buttando tutto all’aria per… cosa? Per un ragazzo che, per quanto ne sappiamo, potrebbe averti preso in giro sin dal primo giorno. –

A quelle parole, una scintilla scattò nella mente di Tori, e la sua espressione mutò profondamente.

- Di nuovo con questa storia? – si mise le mani nei capelli. – Mio Dio, non possiamo continuare a ripetere la stessa conversazione all’infinito, Io non ce la faccio più! –

- Mi sto preoccupando per te, è così sbagliato? –

- Sì, se in fondo è solo per te stesso che ti stai preoccupando. –

- Allora guardami negli occhi e dimmi, con assoluta certezza, che conosci veramente Thomas e che non ti sta nascondendo più nulla. –

- Ma che accidenti ne sai, tu? Sei per caso nella sua testa a leggere i suoi pensieri? –

- No, ma sono convinto di aver letto abbastanza bene le intenzioni dei suoi pantaloni! –

Cat rischiò di lasciarsi sfuggire un’inopportuna risata, ma fortunatamente riuscì a trattenersi in tempo.

Tori se ne accorse comunque. Trasse un profondo respiro e scosse il capo. – Ok, vediamo di calmarci tutti. Credo sia il caso di finirla qui, per oggi. – afferrò la borsetta e la giacca. – Prove terminate. Andiamo, Cat, ti accompagno a casa. –

Continuare a urlarsi contro non sarebbe servito a nessuno. Forse avevano bisogno di riposarsi, di fermarsi a riflettere, di mettere tutto quanto in pausa per un pomeriggio.

Prima di raggiungere la porta, Tori si voltò e un ultimo sguardo incrociò quello dolorante di Andre.

C’era amarezza nei loro occhi. C’era la consapevolezza che, per entrambi, il loro rapporto andava ben al di là dell’amicizia. E c’era il timore di riconoscere che, in fin dei conti, ciò che si erano detti era tutto vero.

- Tori… -

- Io mi fido di Thomas, speravo che questo ti sarebbe bastato. E mi dispiace, Andre, ma non mi scuserò per essermi innamorata di lui. -

 

*****

 

La sera era calata sulle colline di Los Angeles, ma non sulla mente di Sam.

Anche a casa di Gabriel, sdraiata sul divano a guardare la tv, la voce di Freddie sembrava non volerla abbandonare. Per quanto avesse tentato di scacciarlo, quel tarlo continuava a vagare e ad assillare i suoi pensieri.

Ciò che le aveva detto quella mattina era forte e difficile da accettare, e una reazione del genere era decisamente sopra le righe. Aveva esagerato. Dopotutto, un errore non è concesso a tutti?

Eppure, qualcosa le aveva impedito di mandarlo al diavolo e lasciarlo a piangere nel corridoio.

Forse era stata l’oscurità che aveva visto negli occhi di Freddie, o la punta d’odio che macchiava la sua voce. Un tono così duro e incrinato, un’espressione che il suo volto non aveva mai assunto.

O forse era perché, inascoltata in fondo alla sua coscienza, una parte di lei stava suggerendo che Freddie non aveva detto niente che non fosse vero.

Faceva male, sapere che quelle parole erano state pronunciate dal suo migliore amico.

Si sentivano entrambi feriti, ma non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta.

 

Siamo stati lontani quattro anni, Sam, indipendentemente da quello che… provo.”

- Adesso è il mio turno di parlare. Dimmi, Freddie, perché sei venuto a Los Angeles? –

Un silenzio incerto.

- Non c’è bisogno che tenti di inventarti una risposta, lo so. E so benissimo anche quello che… non dici di provare. –

- Davvero? Credi di saperlo? –

- Certamente. Non sono così egocentrica e incapace di guardarmi attorno come mi hai disegnata. Certe cose le vedo anch’io. E diciamo che, nel tuo caso, non sei mai stato bravo a nascondere quello ti passa per la testa. Il problema è che per questo sono io a non avere una risposta. Mi hai accusata di non concederti spazio, ma come al solito non hai capito un bel niente. Credi che io non ripensi mai a Seattle? Credi che in questi “quattro anni”, come li hai chiamati tu, non abbia mai sentito la mancanza tua, di Carly o degli altri? Poi d’un tratto, un giorno, ti ripresenti qui e pretendi che tutto sia come prima. Non funziona così. Adesso nella mia vita c’è anche Gabriel. Pensi che sarebbe semplice spiegargli chi sei veramente, o il rapporto che avevamo? Secondo te esisterebbe un modo per fargli capire, e soprattutto accettare, quello che c’è stato tra di noi, la nostra storia, il nostro passato? Te lo dico io: no, con te fisicamente qui, poi. Sarebbe troppo rischioso. E con Gabriel voglio smettere di rischiare. Lo sai cosa rappresenta per me. Perciò, se devo tenerti a distanza, specialmente in sua presenza, sappi che lo faccio anche per te. –

 

Avrebbe voluto che quella parte della conversazione fosse avvenuta. Non necessariamente sarebbe servita a rimetterli in carreggiata, ma ad ogni modo Freddie non le aveva dato il tempo. Dopo aver finito di urlare, si era rintanato di corsa nel suo ufficio, e non si era fatto più rivedere per tutto il giorno.

“Prima o poi”, pensò Sam, lo sguardo fisso sul televisore che trasmetteva un quiz show. Sorridendo, lanciò una breve occhiata al suo ragazzo, seduto ignaro accanto a lei, e si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina.

Ma come fu in piedi, Sam sentì improvvisamente una strana sensazione pervaderle il corpo.

Prese forma e si susseguì tutto in una manciata di secondi. Una morsa allo stomaco fulminea e un dolore lancinante, la vertigine, e infine il senso di nausea.

Si lanciò verso il bagno in fondo al corridoio, con quel minimo di equilibrio rimasto, e schiacciò al volo l’interruttore della luce. Le mani si posarono come artigli ai bordi del lavandino, e in tre conati, l’ultimo pasto andò a finire nei condotti della rete fognaria.

Appena passato il malore, fece scorrere per un po’ l’acqua e si bagnò le labbra e il mento. Alzò il capo e osservò il proprio riflesso nello specchio, la pelle arrossata e gli occhi lucidi.

In quell’istante Gabriel si affacciò sulla soglia, chiaramente preoccupato. – Tutto ok, Sam? –

Lei si premette la mano sotto lo sterno e fece una smorfia. – Lo stomaco… credo. –

Sembrava una stupidaggine, ma… possibile che pensare a Freddie le provocasse addirittura malessere fisico?

 

*****

 

Se c’era qualcosa in cui gli USA battevano ancora facilmente la Germania, era la capacità di organizzare party. Che fosse la presenza delle confraternite, di una maggiore libertà concessa dai comitati, o più semplicemente di un talento ereditato dai Padri Fondatori, nelle università americane sapevano come divertirsi.

Robbie sorrise, al pensiero che nello stesso momento, a centinaia di miglia di distanza, probabilmente sarebbe stato a testa in giù a fare da bersaglio per le freccette.

Gli sforzi di Kendra e delle sue amiche erano stati encomiabili, ma il risultato, benché non fosse pessimo, non era esattamente quello si aspettavano.

La palestra, quella più piccola con il campo da basket, era stata riattrezzata e decorata per l’occasione. Ad uno dei canestri era appeso il cartellone della serata, che celebrava la fine del primo quarto di anno scolastico. Una ricorrenza insignificante, ma certo un’ottima scusa per festeggiare.

Mentre Stefan, già in cerca di prede, si intratteneva a conversare con una ragazza, Robbie decise di fare un giro e studiare l’ambiente. A memoria, era una delle prime volte che metteva piede lì dentro. Ci si era sempre tenuto alla larga, consapevole di come lui e una qualsivoglia attività fisica non potessero fare parte dello stesso universo.

Dal lato opposto del campo, praticamente sotto l’altro canestro, era stato allestito il palco per l’esibizione delle band. Si stavano alternando due gruppi locali, buon sound, discreto coinvolgimento, ma futuro pari a quello di una foglia in autunno.

In mezzo si era formata la pista da ballo, tuttavia molto meno affollata di quanto avesse immaginato. C’era chi si stava scatenando, ma l’impressione era che mancasse un sacco di gente dai corsi universitari.

Le transenne degli spalti erano anch’esse tappezzate da poster e striscioni, e nella zona in fondo a sinistra, erano state spostate le panchine in modo da creare un angolo di ristoro.

Robbie percorse la corsia di destra, a metà della quale erano sistemati i tavoli con le vivande. Un piccolo buffet, tra patatine, gamberetti e tante bibite. In particolare, tanto alcol, aggiunto clandestinamente anche dove non era previsto.

Robbie passò accanto a Stefan, ancora intento a parlare e ridere con una bionda molto carica, afferrò un paio di tartine e si versò un bicchiere di limonata “corretta”.

Non era male, ma assomigliava un po’ troppo a un party anni ’80, pensò divertito mentre proseguiva in direzione del palco.

Fu allora che incrociò Kendra. La ragazza si precipitò ad abbracciarlo con entusiasmo e gli schioccò un bacio sulla guancia.

- Ce l’avete fatta, finalmente! Dove vi eravate cacciati? –

- Abbiamo trovato traffico. – scherzò.

- Dal dormitorio a qui? –

Rise. Gli occhi di Kendra brillavano, e la voce pareva contenere un’euforia fuori giri. Era abbastanza chiaro che avesse avuto già parecchi drink prima del suo arrivo.

Poi si sentì tirare per il braccio. – Non vorrai mica restartene qui impalato per tutta la sera, vero? Andiamo a fare due salti! –

Lui guardò prima la pista e poi il palco. Ballare, francamente, non rientrava nella sua lista di cose da “da fare”.

- No, grazie, per ora non mi va. –

- Perché devi sempre farti pregare? Guarda, persino Stefan si sta divertendo! Vuoi essere più antipatico di lui? –

Robbie la riportò lentamente verso i tavoli del buffet. – Preferisco godermi tutto questo ben di Dio. Da dove mi consigli di partire? –

Kendra gli indicò il bicchiere vuoto che teneva ancora tra le mani. – Da un altro di questi. –

Quella che seguì fu una lunga serie di bicchieri pieni. E alla fine, tra le risate incontrollate, Robbie non fu più in grado di opporre resistenza e fu trascinato in pista.

I piedi si muovevano da soli in maniera improbabile, di fronte alla chioma rossa dell’amica che svolazzava da una parte all’altra.

- Come ti sembra che stia andando? – le chiese, avvicinandosi all’orecchio per farsi sentire.

Lei agitò un po’ le braccia, la voce sempre più impastata. – Non male, diciamo che ho visto scimmie ballare peggio di te. –

Le tirò uno schiaffetto sulla spalla. – Intendevo la festa! –

E in mezzo alla musica assordante, sotto la luce soffusa dei neon, anche un sorriso alcolico si fece triste.

Kendra si bloccò e, senza dire niente, cominciò ad allontanarsi tra la calca. Robbie la osservò spingersi verso la porta anti-incendio, o almeno ciò che supponeva tale. Aveva distinto del verde, ma con i riflessi che si ritrovava, non poteva pretendere molto di più.

Cercò di seguirla, con passo incerto, andando a sbattere due volte contro dei ragazzi.

Raggiunse la soglia dietro la quale era sparita l’amica, e per sua fortuna, trovò il maniglione già abbassato e l’anta socchiusa.

Una folata di aria gelida lo colpì in pieno viso, come approdò nel giardino esterno della palestra.

Intravide Kendra appoggiata con la schiena a un albero, con la testa bassa e le mani nelle tasche dei jeans.

- Ehi! – la chiamò, tentando nel frattempo di mantenere l’equilibrio e non inciampare nell’erba. – Cosa fai? Scappi così dalla tua festa? –

- Bella… sarebbe stato lo stesso anche se fossi rimasta a casa. –

Robbie arrivò a pochi metri da lei. – Che stai dicendo? –

Gli occhi della ragazza luccicavano ancora, ma stavolta per qualche altro motivo.

- E’ stata un fiasco! Hai visto quanta gente si è presentata, niente ha funzionato come avrebbe dovuto. Volevo fare qualcosa di grande, che colpisse… ma non era così che me l’ero immaginata. –

- Secondo me ti sbagli. Insomma, non so perché ma sei stata l’unica in tutto il campus ad avere questa idea, e avete fatto davvero un bel lavoro per organizzarla. Quindi non capisco perché una dozzina di persone in meno debba buttarti giù in questo modo. –

Lei gli lanciò un’occhiata velata di tenerezza. – Grazie. –

Robbie allungò il braccio e posò la mano sul tronco. Da dove gli fossero uscite tutte quelle parole era un mistero, considerato che faceva fatica persino a stare in piedi.

- Aspetta a ringraziarmi. Il mio parere potrebbe essere relativamente poco importante. Ormai dovresti conoscermi, sai che non sono un cosiddetto… animale da party. –

- Sei un mistero, Robbie Shapiro, ecco cosa. - un sorriso stanco tornò a fare capolino sul suo volto. – E’ dal primo giorno che cerco di capire come tu possa essere finito in questo posto. E’ come se appartenessi a un altro mondo. Sei così diverso dagli altri, e io mi chiedo cosa ho fatto per meritare di averti incontrato. –

Il fiume di alcol che scorreva nelle loro vene rendeva confusi pensieri e volontà. Le tre dimensioni si stavano appiattendo l’una sull’altra, e ciò gli impedì di realizzare che si trovavano fisicamente più vicini di quanto sembrasse.

Uno spostamento fulmineo, un sottile fruscio delle foglie, e le labbra di Kendra andarono a stamparsi su quelle del ragazzo.

Nessuna resistenza, all’istinto che comandava lingua e mani.

Robbie lasciò che le palpebre si chiudessero, mentre lui si abbandonava a quel bacio dal sapore di rum e ciliegia.

 

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Capitolo 16
*** XVI - iTruth ***


XVI - iTruth

 

 

Era di nuovo davanti alla porta dell’ufficio di Sam. Indugiò parecchi secondi, prima di decidersi ad afferrare la maniglia.

Stavolta non aveva a che fare direttamente con lei, ma sapere di doverla rivedere, dopo ciò che si erano detti la mattina prima, gli provocava uno strano effetto.

Cercò di scacciare quel pensiero e di concentrarsi piuttosto sul compito che aveva da svolgere.

Dal reparto marketing avevano chiamato per un problema alla scheda video di uno dei terminali, e dopo una conta molto professionale, il CED aveva mandato Freddie a intervenire.

“O la risolvo all’istante, o torno su a sostituirla”, rifletté fiducioso mentre si spingeva oltre la soglia.

Ad accoglierlo per prima, come la volta precedente, fu la responsabile, Evelyn Windsor. – Finalmente è arrivato qualcuno! Quanto deve stare fermo un operatore? – ancora con quell’irriducibile e fastidiosissimo sarcasmo da superiore.

Freddie rispose al saluto. – Mi scusi, sono sceso appena ho potuto. Allora, qual è il computer? –

La signora si alzò e lo guidò verso la zona sinistra della stanza, dove una ragazza, di fronte allo schermo nero, stava riordinando dei fogli.

- Lui è il paziente. –

Il giovane Benson raggiunse quella postazione, si sedette al posto dell’impiegata e iniziò riavviando il sistema.

Aggrottò la fronte. Attraversando l’ufficio, aveva notato che la scrivania di Sam era insolitamente ordinata e vuota. Si voltò verso la responsabile. – Oggi Sam non c’è? –

- Ha chiamato stamattina, non si sentiva bene e così è rimasta a casa. –

Freddie tornò a lavorare, perplesso, sul pc.

Una beffarda coincidenza? E se invece fosse stato vero? Cos’era successo?

Mentre fissava il video, sentì richiamare il suo nome. Si girò nuovamente.

- Non so se lo hai già sentito da qualcuno. – disse la Windsor. – Ma venerdì prossimo è stata organizzata una cena aziendale, prima delle feste natalizie. Un bel ristorantino con specialità di carne. Ovviamente, sono tutti invitati. Quando torni su, puoi farmi il piacere di riferirlo anche agli altri informatici? –

Freddie annuì. – Grazie. –

Poi gli venne da sorridere. Di solito, lui e tutti i suoi amici della categoria “nerd” non venivano mai invitati da nessuna parte…

 

*****

 

- Amico, ho bisogno di parlarti. –

- E’ una cosa seria? –

- Abbastanza. Ieri notte non sono riuscito a dormire. –

- Vuoi che passi da te quando stacco? –

- No, è meglio se mi raggiungi a casa di Cat. –

- Andiamo, fratello, proprio da Cat? Lo sai che lì sarei costretto ad incontrare anche… lei. –

- Esatto. Mi serve il parere di due universi all’opposto. –

 

*****

 

C’era una pratica che Cat aveva ereditato dalla sua precedente convivenza con Sam, ovvero contare minuziosamente il guadagno di ogni pomeriggio in cui lavorava come babysitter.

Sam le aveva insegnato a farlo in seguito ad una fregatura che avevano subito molto tempo prima. In quell’occasione, il padre di un ragazzino aveva fatto il furbo e, distraendole con un’abile parlantina, aveva dato loro poco più della metà di ciò che gli spettava. Cat aveva preso i soldi senza controllare e, inutile dirlo, l’amica si era arrabbiata molto quando lo aveva scoperto.

Così, da allora, Cat non si faceva sfuggire più un centesimo.

Era quasi mezzogiorno, e la bambina a cui badava era stata appena ripresa dalla madre. Facendo scorrere le banconote tra le dita, la rossa notò con piacere che ce n’era una da cinque dollari in più. Sorrise e le ripose soddisfatta nel borsellino.

Non sentiva un grande appetito, ed era ancora presto per mettersi a cucinare qualcosa per Jade, perciò le venne in mente di chiamare Robbie. Di solito rispondeva, intorno a quell’ora.

Prese lo smartphone dalla borsetta, cercò il ragazzo tra gli ultimi contatti e fece partire la telefonata.

Al primo squillo, ne seguì un altro a vuoto. Il terzo a vuoto. Il quarto a vuoto. Poi scattò la segreteria.

Riprovò, ma con il medesimo risultato.

Confusa, posò il cellulare sulla scrivania, accese il computer e aprì Skype. Robbie Shapiro risultava assente anche lì.

Poco dopo Jade, al portatile in sala da pranzo, osservò Cat uscire dalla propria camera a piccoli passi, incrociare le braccia al petto e appoggiarsi con la spalla allo stipite. Il volto era genuinamente imbronciato.

- Cat? – fece l’amica. – Qualcosa non va? –

- Robbie. Sono tre giorni che non mi risponde. –

A quelle parole, pronunciate con innocenza, lo sguardo di Jade si accese di una particolare luce. Una sensazione. Un campanello d’allarme.

Ci penso io.”

 

*****

 

Il pomeriggio, Jade decise di prendere in mano la situazione e scoprire cosa stava accadendo.

Non lo aveva dato a vedere, ma si era insospettita molto, quando Cat le aveva rivelato di non riuscire a contattare Robbie da tre giorni. Adesso ci avrebbe provato lei.

Anche se si fosse sbagliata, voleva vederci chiaro.

Cat e il ragazzino a cui stava badando erano in soggiorno, e per non essere disturbata, accostò la porta della camera.

Per prima cosa, controllò Skype. Robbie risultava assente, ma non era niente di strano. Dopotutto, se fosse stato fuori, difficilmente avrebbe utilizzato Skype.

Passò allora all’altra piattaforma, WhatsApp. Non avevano mai intavolato grandi conversazioni lì, ma in questo caso, era l’ultima frontiera contro la privacy. Jade distolse lo sguardo per un istante, assorta. Robbie aveva effettuato l’ultimo accesso quasi mezz’ora prima, perciò almeno la ricezione doveva essere pressoché perfetta.

Gli inviò un messaggio con un breve saluto. Ma dopo alcuni minuti di attesa, notò che, sebbene fosse giunto a destinazione, non era stato nemmeno letto.

Alla fine, scelse di passare all’approccio diretto.

Piuttosto irritata, assistette a diversi squilli a vuoto, finché non fu la segreteria a risponderle. Riagganciò e fece un altro tentativo, inutile.

Ormai spazientita, Jade lanciò lo smartphone sul letto. Incrociò le mani dietro la nuca e si spinse indietro contro lo schienale della sedia.

Il telefono di Robbie era acceso e libero, ma se… no, non voleva crederci.

Che stesse cercando di evitarle?

Un’idea le balenò per la mente.

Uscì rapidamente dalla stanza e raggiunse il soggiorno. Il ragazzino se ne stava sul divano a guardare i cartoni animati, mentre Cat era in cucina a bere una spremuta.

Jade si avvicinò al piccolo. – Ciao! Ti va di fare un gioco? –

Lui si voltò di scatto, con aria sognante. – Certo! Di che si tratta? –

La ragazza gli sorrise. – Funziona così: tu mi presti il tuo smartphone per cinque minuti, e in cambio Cat ti preparerà la miglior merenda che tu abbia mai fatto. –

Il ragazzino balzò sul divano. – Davvero? –

Jade annuì, poi si rivolse da lontano all’amica. – Ehi, Cat! Tratta bene il nostro ospite, mi raccomando! Mi sta molto simpatico questo giovanotto, sai? –

- Ok! – rispose la rossa dalla cucina.

Jade tornò alla sua personale trattativa. – Allora? –

- Affare fatto. –

Ottenuto ciò che voleva, Jade rientrò in camera e si chiuse la porta alle spalle. Non voleva che Cat sentisse, nel caso il piano fosse andato come doveva.

Digitò il numero di Robbie e rimase in ascolto. Stavolta, l’esito fu quello desiderato.

Dopo appena un paio di squilli, la voce del ragazzo uscì dall’altoparlante. – Pronto? –

Aveva ragione, purtroppo. – Robbie. –

Il silenzio calò dall’altra parte per degli interminabili secondi. Doveva aver riconosciuto il tono amaro e gelido. – Jade? –

- Proprio io, bravo. Cat mi ha detto che non riesce a rintracciarti da tre giorni… Stai per caso ignorando le sue chiamate? –

- Ma che dici? – balbettava, e stava chiaramente prendendo tempo. – No, ecco, io… sono stato impegnato… -

Jade grugnì indispettita. – Shapiro, c’è qualcosa che dovremmo sapere? –

Altri istanti di silenzio.

- Robbie, lo so che sei lì. Mi dici perché la stai evitando? –

L’insicurezza stava inquinando la voce del ragazzo. – Io non… -

- Stai nascondendo qualcosa? –

La domanda lo costrinse a trarre un lungo sospiro. – Mi dispiace. – mormorò.

Adesso era perplessa. - Per cosa? –

Stava esitando ancora. Era spaventato, e consapevole che non sarebbe potuto tornare indietro.

- Robbie, per cosa? – gli ripeté più forte.

Qualcos’altro adesso stava macchiando le parole del ragazzo, qualcosa che assomigliava molto al rimorso.

- Mi sono fatto prendere dal panico. Non sapevo che fare, e non sapevo come l’avrebbe presa se l’avesse scoperto… -

- Di che diavolo stai parlando? – Sentiva, dentro di lei, che le preoccupazioni che aveva avuto fin dall’inizio si stavano rivelando reali.

- Sabato scorso sono andato a una festa… - il senso di colpa gli aveva sempre impedito di mentire. Iniziò la confessione deglutendo a fatica. – Una festa dell’università. E c’era questa ragazza, Kendra… un’amica che ho conosciuto qui in Germania. La musica era assordante, abbiamo bevuto parecchio, abbiamo ballato… una cosa tira l’altra e… -

- E? –

– Ci siamo baciati. –

Sbarrò gli occhi incredula ma si trattenne dal gridare. - Ci hai fatto sesso? –

- No, è stato solo un bacio. –

Jade scosse il capo. Allontanò il cellulare dall’orecchio e digrignò i denti. – Io non ci posso credere. –

- Jade, ascolta… - sembrava senza fiato.

- Stai zitto, per favore, almeno quello. – era infuriata. – Sai, tu non sei mai stato un tipo a posto, e mi sta bene. Ma non pensavo che fossi così idiota da buttare all’aria la cosa più bella che avevi. –

- Ero ubriaco fradicio. Ti prego, fammi provare a spiegare… –

- Tu non mi devi spiegare proprio niente. Hai fatto quello che hai fatto, e non puoi cambiarlo. – si prese una pausa. – Ricordi cosa ti ho detto l’altra volta? –

Non ci fu replica.

- Robbie, te lo ricordi? –

- Sì… - era poco più di un flebile sussurro spezzato. – E’ che sono terrorizzato. Non so che fare, non so se dovrei dirlo a Cat… -

C’era una profonda delusione, sotto la dura scorza di Jade. In fondo, Robbie era uno dei suoi più vecchi amici, e quel tipo di conversazione era un punto a cui sperava di non dover mai arrivare.

Non era una decisione semplice, ma per quelle poche persone a cui teneva veramente, doveva scegliere il male minore.

- Non so se dovresti avere più paura di me o di Cat. Dire la verità è fuori discussione. Sai che non ti perdonerebbe mai, ti vuole troppo bene. Te lo dico io cosa farai. Io terrò la bocca chiusa. Ma tu sparirai, e non ti farai più sentire. –

 

*****

 

Non aveva raccontato una bugia a Beck, in fin dei conti. Sebbene fossero passate poco più di ventiquattro ore, per lui erano sembrate settimane.

Aveva pensato molto a quello che era successo, alle parole che erano volate, alle accuse reciproche e a tutto ciò che avevano trovato il coraggio di rinfacciarsi. Aveva provato a cercare scuse per se stesso e per lei, ma nessuna spiegazione era stata abbastanza plausibile da farlo stare meglio.

La notte prima, Tori non era tornata a casa.

Doveva averla trascorsa con Thomas, ne era certo. E forse era stato anche questo, l’idea che in qualche modo lui l’avesse spinta di nuovo tra le braccia di quel bugiardo, a tenerlo sveglio fino all’alba.

Per il resto della giornata, Andre si era chiuso in casa, avvolto tra le note dello stereo e il brusio nella sua testa. Si era promesso di non toccare il telefono.

Aveva ceduto solo un paio di volte. La prima, per mandare a Tori un breve messaggio, rimasto poi senza risposta. L’altra, per chiamare il suo migliore amico.

Aveva bisogno di aiuto, perché stavolta la questione era seria. Non si era mai trovato così in difficoltà nei confronti di una persona, qualcuno a cui voleva bene con tutta l’anima.

E per capirne di più, non c’era niente di meglio dell’opinione di due poli opposti.

Andre arrivò a casa di Cat e Jade alle sei in punto. Aveva l’aria stanca.

Suonò il campanello, e fu proprio la ragazza dai capelli corvini ad aprirgli la porta. Invece di farlo entrare subito, però, lo accolse incrociando le braccia al petto, ferma sulla soglia.

- Alleluia, finalmente ci sei anche tu. – il solito tono acido. – Dentro stavamo facendo la muffa. –

- Tu e Cat? –

- Cat è fuori. –

- Allora chi? – Andre aggrottò la fronte. – Beck? E’ già qui? –

Lei sollevò un sopracciglio. – Già. –

- Ero convinto che staccasse dalla biblioteca alle sei e trenta. –

- Evidentemente nessuno di voi due sa come organizzarsi. Dopo avergli offerto il primo caffè, hai idea di quanto sia difficile restare in silenzio con lui? –

Andre fece un cenno di comprensione col capo. - Da quanto mi state aspettando? Potevate provare a chiamarmi. –

- Lo abbiamo fatto. –

- Impossibile, avrei sentito il telefono. –

- Dagli un’occhiata. –

Andre estrasse convinto lo smartphone dalla tasca. Ma appena ebbe acceso lo schermo, dovette arrendersi alla verità. – Quattro chiamate perse. –

- Bravo. Due mie e due di Beck. –

- Forse stavo guidando… - farfugliò in piena ammissione di colpa.

- Dai, falla finita e entra. –

Jade si spostò e fece per tornare verso la cucina. Dietro di lei, Beck stava aspettando, seduto comodamente in poltrona a sorseggiare una bottiglietta di Coca Cola.

Lei se ne accorse e gli puntò il dito contro. – E quella dove l’hai presa? –

Il canadese sollevò il palmo della mano libera. – Dal frigo. Ovvio, no? –

- Non mi pareva di avertela offerta. –

- Probabilmente avevo la gola secca per i venti minuti di silenzio assoluto. E poi, Cat mi lascia sempre prendere qualcosa dal vostro frigo. –

Jade annuì in maniera quantomeno allarmante. – Vorrà dire che farò un bel discorsetto alla mia cara coinquilina, appena tornerà. –

Andre, sistemando il giubbotto all’attaccapanni, non poté fare a meno di ridere. A volte si chiedeva se quei due si odiassero davvero, o si divertissero semplicemente a giocare a “gatto e topo”.

Si accomodò sul divano e lanciò un’occhiata d’intesa all’amico.

- Se devi proprio levargli la bottiglia di mano, Jade, posso averla io? Sto morendo di sete. –

Mentre lei lo ignorava, Beck si sporse in avanti. – Non è divertente, amico. La prossima volta, alza il volume della suoneria. –

Andre abbozzò un sorriso beffardo. Beck gli lanciò la bibita. Jade li raggiunse sul divano. Sembrava la serata giusta per fare due chiacchiere.

Andre iniziò ad esporre la sua versione dei fatti con trasporto e in maniera più trasparente possibile. Parlò senza filtri e senza omettere alcun particolare, consapevole che quelle che aveva di fronte erano le uniche persone al mondo a cui poter rivelare i dettagli privati e personali della storia.

Dettagli che forse neanche la stessa Tori avrebbe voluto raccontare, eppure al momento non gli interessava.

Come aveva detto Tori? “Non mi scuserò per essermi innamorata di lui”.

Bene, e lui non si sarebbe scusato per provare ad essere un buon amico.

Perché tutto quello che adesso percepiva in lei, era una visione alterata delle cose, abbagliata dagli occhi, dal sorriso e dagli addominali del ragazzo che le aveva rubato il cuore.

Rubato”, ecco il termine giusto per quel maledetto bugiardo. E niente di ciò che avrebbe mai potuto dire o fare gli avrebbe fatto cambiare idea.

Ma c’era una possibilità che anche Tori tornasse con i piedi per terra?

Era giunto alla litigata del giorno prima, conclusa con l’allontanamento l’uno dall’altro.

Poi fece una pausa, e allora fu Beck a prendere la parola.

- Io probabilmente avrei fatto lo stesso. – ammise sospirando.

Andre si voltò speranzoso verso di lui.

- Voglio dire, è innegabile che Tori abbia agito di impulso e basta. E’ una ragazza passionale, si è sempre lasciata trascinare dalle emozioni, sul palco e fuori. Non è la prima volta che accade, tra l’altro. Ricordate a scuola, quando dovevamo mettere su quella “colletta”, o come cavolo l’aveva chiamata Robbie? Anche in quel caso dette buca alle prove per inseguire il mio amico. – ammiccò in direzione di Jade. – Come tutte voi, ragazze. Alla fine, ecco, pensavo che un episodio del genere avesse insegnato qualcosa. Su questo devo darti ragione, Andre. Non avrebbe dovuto trascurare il progetto. –

L’amico si era galvanizzato dalle parole del canadese. – Per inseguire quel bastardo, soprattutto. Non riesco a credere che, dopo tutto il male che le ha fatto, Tori alla prima occasione sia caduta di nuovo tra le sue braccia. Insomma, sbaglio a pensare che Tori meriti di meglio? –

- Io penso che abbiate sbagliato entrambi il tono. Sei sempre il suo miglior amico, dopotutto. Forse non immaginava che avrebbe ricevuto quelle critiche proprio da te. – cercò di conciliare. Beck si alzò per andare a prendere dell’acqua dal frigo, si riempì il bicchiere e tornò al suo posto.

- Diciamoci la verità, Tori non è mai stata molto fortunata in amore. Tornate di nuovo alla Hollywood Arts. Quanti, tra tutti i ragazzi che Tori ha frequentato, erano veramente tipi a posto? Per contarli, le dita di una mano avanzerebbero. – si soffermò per buttar giù un sorso e guardare Andre. - E questo Thomas, se è davvero come lo hai descritto, se ha davvero tutti quegli scheletri nell’armadio, temo non faccia eccezione. Magari anch’io mi sarei comportato come te, semplicemente per proteggerla. Nemmeno io avrei voluto vederla andare incontro a una delusione che, da quanto stai raccontando, è più una questione di “quando” che di “se”. Io non conosco Thomas, non credo di averlo mai incontrato. –

- Infatti, no. – confermò l’amico.

- Appunto. Però neanch’io, a istinto, mi fiderei di lui. Voglio dire, hai una moglie e dei figli, che cosa stai cercando? Non ti basta quello che hai? Stiamo parlando di una famiglia. Che razza di ragazzo è quello che abbandona ciò che ha di bello per correre dietro a… che cosa, una sbandata? Non meriterebbe né l’una né l’altra. Mi dispiace per Tori, le voglio bene, ma innamorata o no… -

Ad un tratto si bloccò, notando lo sguardo truce che Jade gli stava scagliando. Conosceva quell’espressione.

Un’altra parola e sei morto.

Jade era rimasta impassibile per tutto il tempo. Aveva ascoltato, aveva rimuginato, aveva lasciato che Andre si sfogasse.

Ma non aveva ignorato ciò che stava succedendo, decisamente no. Era tutto troppo vicino a lei per potersene tirare fuori. Non lo stava dando a vedere, ma la vicenda di Robbie e Cat le era rimasta impressa in mente, e adesso andava a intrecciarsi con l’avventura di Tori con Thomas.

Aveva deciso di rimanere in silenzio il più possibile, e lo aveva fatto, almeno fino a quando le parole di Beck non avevano assunto una nota stranamente familiare.

- Come al solito voi uomini non capite un accidente. – esordì piccata, facendo voltare stupefatti i due amici. – Non avete fatto altro che giudicare, ve ne siete resi conto? E non sarebbe neppure il vostro compito. L’amore non c’entra un bel niente. Mettetevelo bene in testa: l’amore non esiste. Tori ha soltanto ceduto, come qualsiasi essere umano. –

Andre aggrottò la fronte, confuso. Non si aspettava certo una consulenza matrimoniale, ma quell’uscita superava anche le sue aspettative.

Beck, invece, non ne fu sorpreso più di tanto. Conosceva Jade meglio di chiunque altro, e poteva immaginare cosa le stesse passando per la testa.

- E posso essere sincera, Andre? –

Annuì.

- Per me c’è dell’altro, che nessuno ha ancora detto. –

Le perplessità aumentarono.

- Di che stai parlando? –

Jade non batté ciglio. – Sei sicuro di preoccuparti per la cosa giusta? –

Andre si appiattì contro lo schienale del divano. – Non capisco. -

- Voglio dire… - inarcò leggermente l’angolo delle labbra. – E se non fossero le prove perse o le bugie di Thomas a disturbarti, in realtà? –

- Sul serio, non riesco a seguirti. –

- Sono piuttosto convinta di non sbagliare. Penso che tu ti sia arrabbiato non perché Tori ha saltato le prove, o perché non ha dato importanza al tuo progetto, o perché si ostina a correre dietro ad un uomo che non ti va a genio. Conosciamo Tori da, quanto, quasi dieci anni? Su una cosa Beck ha ragione: sei senza dubbio il suo migliore amico. Le sei stato vicino durante ogni storia che ha avuto. L’hai vista passare dalla gioia del primo incontro alla furia di una litigata, attraverso rotture e delusioni più o meno dolorose. Tanti ragazzi sono andati e venuti, nella sua vita. Ma in ogni caso, tu sei sempre rimasto al suo fianco. Stavolta però è diverso. Sei proprio tu, che la stai prendendo in modo diversa. –

Andre allargò le braccia. – E come? –

- Te lo devo spiegare io? E va bene. – scosse il capo. – Stai vedendo Thomas come una minaccia più per te che per Tori. –

Beck strinse il bicchiere tra le mani e intervenne. – Dove vuoi arrivare, Jade? –

L’amico tuttavia gli fece cenno di lasciar perdere. – Non scherziamo! – esclamò. – Una minaccia per cosa? –

La ragazza assottigliò gli occhi di ghiaccio e mitigò il tono. – Tori. - prese fiato. - La senti allontanarsi da te. Temi che lui te la stia portando via. Hai paura. Adesso, per la prima volta, hai paura di perderla veramente. -

Andre esitò un istante prima di rispondere. – Secondo te io sarei… - la guardava stralunato. - … geloso? -

Jade, alla fine, annuì in maniera impercettibile. Era francamente stupita che nessuno, tantomeno Andre, se lo fosse domandato fino ad ora.

– Dimmi una cosa: sei sicuro di non aver mai desiderato qualcosa di più, dalla tua amicizia con Tori? -

 

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Capitolo 17
*** XVII – Corporate Dinner ***


XVII – Corporate Dinner

 

 

- Insomma, che cosa speravi sarebbe successo? –

Un sospiro. Gli occhi di Carly lo stavano scrutando attraverso lo schermo.

- Non lo so. Forse cercavo di recuperare il tempo perduto. –

- Non funziona sempre così. –

- Te lo ripeto, non lo so. Pensavo che… -

- No, tu non hai pensato, è questo il problema. Sei stato impulsivo e, per dirla tutta, anche un po’ stupido. –

Gli sfuggì un triste sorriso. – Già, non sei la prima a farmelo notare. –

- Magari allora sei tu l’unico che non l’ha capito. Ecco perché sono rimasta sorpresa. Non è da te, Freddie. –

C’era aria di rimprovero, nella voce seppur comprensiva della sua migliore amica.

Ma lui non replicò. Inutile negare che avesse ragione.

- Le voglio bene. –

- Lo capisco. -

Il buffering di Skype gli impedì di sentire la frase che seguì. - Come hai detto? –

- Non posso criticarti, non ne ho alcun diritto. Però ci conosciamo da quando eravamo bambini, pensavi davvero che lei fosse cambiata? –

- Sinceramente? No. Era proprio la stessa ragazza, che volevo ritrovare. –

Carly sembrò inseguire un’idea. – Non ci credo che ti sia dimenticato di cosa vi siete detti nell’ascensore, quel giorno. –

Lo sguardo di Freddie si adombrò. – Non l’ho fatto. Ero solo stanco di aspettare che uno di noi diventasse più simile all’altro. Avrebbe potuto trascorrere un’eternità. –

- Tu sei rimasto laggiù. – scosse lentamente il capo. – Eri e sei ancora convinto che tu e Sam siate fatti per stare insieme. –

- Sì. –

- Bene, ma il fatto che tu sia corso da lei non lo rende più reale. Non lo eravate allora, e francamente, non sono sicura che potrete mai esserlo. –

Lui afferrò risentito il mouse. Non sapeva se avercela di più con Carly, con Sam o con se stesso. Forse con tutti e con nessuno.

- So che anche tra voi non è più come prima, ma mi dispiace, stavolta non sono d’accordo. –

- Ok, come ti pare. Sappi che per quanto mi riguarda, come tua migliore amica, spero sul serio che tu non stia commettendo un errore. –

Freddie annuì in maniera impercettibile. In ogni caso, non lo avrebbe mai ammesso.

Carly cercò di addolcire lo sguardo.

- Vorrei che almeno ti ricordassi questo vecchio detto: “La vera anima gemella è sempre nella tua vita. Se la chiami, che sia dall’altra parte della stanza o dall’altra parte del mondo, lei troverà il modo di risponderti.” –

 

*****

 

- Yo, Fred! –

- Ciao, Clark, che succede? –

- Per la cena di stasera, sto facendo un giro di telefonate. Ci sarai, vero? –

- Certo. Per che ora hanno fissato? –

- Mi pare per le 20.30. Vuoi uno strappo? Accompagno anche un altro paio di ragazzi, ma ho ancora un posto in macchina. –

- Ti ringrazio, ma avevo già deciso di venire con la mia. Se non altro, sarò libero di andarmene quando voglio. –

- D’accordo, bello. L’indirizzo te lo ricordi? –

- Già segnato sul navigatore. –

- A più tardi, allora. Puntuale, mi raccomando. –

- Ci vediamo là. –

 

****

 

- Beck, scusa se ti disturbo mentre sei al lavoro. Posso chiederti una cosa? –

- Dimmi pure. –

- Ti ricordi come si chiama il locale dove lavora il ragazzo di Sam? –

- Gabriel? In una steakhouse fuori città… Burglar’s Meat, se non sbaglio. Non ci sono mai stato, però. –

- Grazie al cielo. –

- In che senso? –

- Stasera ho la mia prima cena aziendale, e l’ultima cosa che voglio è ritrovarmi davanti Gabriel, e magari farmi servire al tavolo da lui… ma per fortuna è un altro posto. Pericolo scampato. -

- Meglio così. Ci sarebbe stato da ridere, altrimenti. –

- Già, da sentirsi male. –

- Buona serata, Freddie. –

- Grazie. –

 

*****

 

Erano le 20.10, quando Freddie raggiunse la “Tana del goloso”.

Un cartello giallo e polveroso, parzialmente occultato dalle frasche, lo avvertì che mancavano appena duecento metri a destinazione.

Svoltando a sinistra, le gomme abbandonarono il comodo asfalto per la ghiaia di una stradina dissestata. Questa conduceva al parcheggio, uno spiazzato sterrato delimitato da due staccionate basse e rinforzate.

Freddie fermò la macchina accanto a una Jeep e spense i fari. Doveva essere uno dei primi arrivati, perché molti posti risultavano ancora vuoti.

Il ristorante era situato sulle colline sopra Los Angeles, a circa seicento metri di altitudine. Circondato da una folta schiera di alberi, esteticamente richiamava un’accogliente baita di montagna. Dall’esterno sembrava costruito quasi interamente in legno, a parte il comignolo di sfiato che, nonostante il buio, doveva essere fatto di cemento.

Freddie lanciò un’occhiata fuori dal finestrino.

Solo il capo di un’azienda avrebbe potuto prenotare in un luogo del genere. Lontano e isolato, nascosto e poco illuminato. Se non avesse saputo di dover andare lì, non lo avrebbe mai trovato.

Scese, inalando una profonda boccata d’aria fresca, e si incamminò verso l’ingresso. Iniziò a giocherellare con le chiavi. C’era qualcosa, in quella serata, che lo rendeva nervoso.

- Ehi, Freddie! –

Si voltò in direzione della voce. Un gruppetto stava prendendo un aperitivo al tavolino sotto il portico, e nell’attesa, rideva e scherzava. Tra tutti, riconobbe soltanto Clark.

Il collega informatico alzò il braccio e lo invitò ad avvicinarsi. – Benson! Insomma, quando ti deciderai a presentarti con un mezzo un po’ più elegante? -

Freddie gli resse il gioco. Dall’atteggiamento, era chiaro che Clark stesse cercando di farsi bello agli occhi di un paio di ragazze. – Quel carretto sfida i limiti della decenza, non è in linea con il decoro dell’azienda! –

Freddie sorrise e si girò a riguardare la sua vecchia utilitaria.

- L’ho appena comprata, perché dovrei già liberarmene? –

 

*****

 

Due settimane prima

 

- Quanto hai in tasca? –

- Vediamo un po’… - aveva frugato nei pantaloni. – 18 dollari. Anzi 17, uno è canadese. –

- Beck ne sarà contento. Vuoi passare all’ATM? –

- Sì, e secondo te, se avessi avuto una carta di credito adesso sarei qui con te? –

- Irrispettoso ma legittimo. Ok, escludiamo il pagamento in contanti. – ci aveva pensato un attimo. - Firmagli un assegno, non dovrebbe fare troppe storie. –

Freddie aveva scrollato le spalle e, con Andre al suo fianco, aveva varcato il cancello d’entrata.

Aveva aggrottato la fronte, contro il sole e la perplessità. C’erano almeno una decina di cartelli, ognuno sul suo piedistallo di ferro, sparsi per il piazzale. Tutti identici all’insegna sulla strada, tutti riportanti un nome: AL’s.

Non lo aveva preso come un buon segno.

Subito oltre il cancello, cominciava una distesa di sabbia che si estendeva per un centinaio di metri, fino ad un gabbiotto bianco in PVC.

Disseminate come foglie su un vialetto, senza soluzione di continuità, erano esposte le vetture in vendita. Un cartoncino scritto a pennarello, incastrato sul parabrezza, sotto la spazzola del tergicristallo, ne recitava il prezzo.

Freddie si era messo a dare qualche rapida occhiata.

Era giunto il momento di comprare un’auto propria, o perlomeno qualcosa che avesse un volante. Era stanco di chiedere passaggi, di dover fare il tragitto casa-lavoro sempre in autobus, o di dover girare Hollywood in taxi.

Sarebbe stato un altro passo verso l’indipendenza. Un piccolo passo, per la verità, considerando le disponibilità economiche alquanto ristrette.

- Ripetimi perché mi sono lasciato accompagnare da te e non da Beck. –

- Perché Beck ti avrebbe convinto ad acquistare una Camaro, una Plymouth, o qualche altro bolide decappottabile e super costoso. Invece, con me, puoi sentirti libero di acquistare un bel rottame arrugginito. –

- Quindi, per lo stesso principio, se ad accompagnarmi fosse stata Cat, sarei tornato a casa con un pony? –

- Probabile. –

- Sei un grande, Andre, lo sai? –

- Sì, me lo dicono in tanti. E poi, non dimenticarti che conosco Al da quando avevo cinque anni. Ha sicuramente quello che fa per te. –

- Tipo una bicicletta? Perché non credo di potermi permettere molto di più. –

- Aspetta a dirlo. –

In quel momento, era uscito dal gabbiotto un ragazzo di colore, alto e allampanato. Indossava dei jeans di almeno due taglie più grandi, stretti in vita da una cintura di tela, una canottiera bianca e una bandana rossa. Aveva squadrato i due ragazzi da lontano per un istante, proteggendosi, con il palmo, la fronte dal sole.

Appena riconosciuto Andre, si era lanciato in uno scatto per raggiungerli. E scivolando con le suole, aveva frenato proprio davanti a loro.

- Il mitico Harris! – aveva esclamato. – E’ da un po’ che non ti si vede in giro, come te la passi? –

- Ho ancora tutti i denti, per cui non mi posso lamentare. – gli aveva dato il cinque. – Ero in zona, ti volevo presentare il mio amico Freddie. –

Si erano stretti la mano. – Tu devi essere Al. –

- Scherzi? Magari! Al è mio padre, questa è tutta roba sua. Io sono Tyrone, sto semplicemente imparando il mestiere e racimolando qualche dollaro. –

- Bene. – fece Andre. – Perché potremmo aver bisogno del tuo aiuto. Vedi, il qui presente Freddie è alla disperata ricerca di quattro ruote. –

Tyrone si era strofinato le mani sui jeans e aveva annuito. – Allora non ti sei fermato solo per salutare. Bravo, Harris, mi hai addirittura portato un cliente! –

Da venditore provetto, non aveva perso tempo e li aveva portati a fare il giro completo della rimessa. Aveva mostrato loro tutti i modelli che c’erano, soffermandosi ovviamente su quelli più interessanti e, per lui, più redditizi.

Alla fine, si era fermato di fronte alla porta dell’ufficio e si era rivolto a Freddie. – Visto qualcosa che ti piace? –

Il giovane Benson si era passato le dita tra i capelli, lievemente imbarazzato. – A dire il vero, mi piacerebbe qualcosa con uno zero di meno nel prezzo. -

L’altro, senza fare una piega, aveva risposto con un gesto eloquente. – In questo caso, seguitemi. –

Avevano fatto il giro del gabbiotto ed erano andati sul retro, nell’area in cui veniva relegato tutto ciò che era a un passo dallo sfasciacarrozze.

Andre aveva fatto schizzare in alto un sopracciglio, mentre Tyrone presentava le ultime macchine della lista.

A un tratto, Freddie aveva puntato il dito. – Quella. –

- Sicuro? –

- E’ lei. –

Design old-school, assetto vagamente sportivo, tinta rosso fuoco, l’aria di aver percorso un’infinità di chilometri. - La prendo. -

Una Dodge Neon del 1998.

 

*****

 

- Ciao, ragazzi! –

Ore 20.35. Un’altra voce lo fece voltare di nuovo verso il parcheggio, che nel frattempo si era riempito quasi del tutto.

E stavolta, dovette posare il bicchiere con il drink sul tavolino.

Era stata una ragazza a salutarli. Capelli corvini e occhiali da vista, piuttosto bassa di statura, la riconobbe subito come impiegata dell’ufficio marketing.

E dietro di lei, c’era Sam.

Freddie deglutì a fatica, mentre le dita stringevano ancora il vetro. Per quanto provasse, non riusciva a distogliere lo sguardo. Al tenue bagliore delle lanterne del portico, la ragazza splendeva di luce propria.

Si odiò per questo, per la sua debolezza.

Odiava se stesso, ma non era in grado di odiare lei.

Era bellissima, quella sera. Un filo di trucco accentuava la profondità degli occhi, le labbra erano di un rosso carnoso e vivo. I capelli, lisci per l’occasione, le addolcivano il viso e ricadevano elegantemente fino alle scapole. Sotto il piumino blu brillante spuntava una camicetta bianca di seta, che, insieme ai pantaloni attillati, non faceva nulla per nascondere le sue forme procaci. Le scarpe, con un tacco non eccessivamente alto, le conferivano una postura e una camminata da diva.

Freddie, al solo vederla, provò una pulsione maschia.

Ingollò il resto dell’aperitivo come deterrente, ma non servì a molto.

Aspettò che lei gli andasse incontro. I loro sguardi si incrociarono per un istante. Eppure, appena gli fu abbastanza vicina, ebbe l’impressione che Sam ostentasse indifferenza nei suoi confronti.

Erano rimasti dove si erano lasciati.

Un odio che non sarebbe mai sparito tra loro. Ma nonostante tutto, nonostante fosse ancora convinto di avere ragione, qualcosa lo spinse a fare il primo passo. Un assurdo senso di colpa, l’incapacità di rimanere arrabbiato con lei. Dopotutto, era sempre stato lui quello più debole.

- Ciao, Sam. – era poco più di un sussurro in mezzo alle chiacchiere, ma bastò per attirare la sua attenzione.

La risposta fu fredda. - Ehi. –

Freddie scese dal portico e si portò vicino a lei. – Non ti ho vista né a lavoro né al bar per giorni, pensavo non saresti venuta neanche stasera. Tutto ok? –

Sam scrollò le spalle e annuì.

- Bel posticino, vero? Un po’ fuori mano, magari, ma… –

- Già. –

- Non ti pare un po’ piccolo, però, per tutti i dipendenti? –

Finalmente Sam incanalò una risposta che superasse la sillaba. - Proprio per questo hanno prenotato l’intero salone a nome della Crystal-Tech. – il tono non era cambiato, si era fatto quasi polemico, ma almeno adesso una conversazione suonava possibile. – L’unica cosa è che, da quanto ho sentito, i capi sembrano intenzionati a dividere i tavoli tra “uffici” e “officina”. –

- Non ci credo, sarebbe una vergogna. –

- Concordo, battaglie per l’uguaglianza un corno. –

Lui tentò di abbozzare un sorriso. – Secondo te, gli informatici in che categoria rientrano? –

- A casa. –

- Non so se finiremo a sedere vicini, ma, a proposito… - prese fiato. – Mi aspettavo di vedere Gabriel, con te. –

– Non ce l’ha fatta, purtroppo. Ha il turno di sera, stacca più tardi. Per questo mi sono fatta accompagnare da Peyton. Gabriel verrà a riprendermi dopo. –

Freddie lanciò un’occhiata prima all’orologio, e poi all’interno del ristorante. Le 20.45, i capi stavano cominciando a prendere posto.

Tra l’altro, sentiva anche una certa fame. – Vogliamo entrare? –

 

*****

 

Anche a cena, l’unica cosa capace di attrarre il suo sguardo era lei.

Sebbene fossero lontani almeno sei metri, con diversi altri colleghi nel mezzo, gli occhi di Freddie, come calamitati, finivano sistematicamente per posarsi su Sam. In maniera discreta, senza farsi notare, la stava praticamente spogliando con la fantasia.

Davanti a sé, il piatto emanava un profumo davvero intenso. La bistecca alla brace, fumante e con le inconfondibili scie della griglia, era accompagnata da una montagna di patate al forno e, accanto, da un ciotolino di salsa barbeque. Dopo i primi bocconi, le sue papille gustative erano andate già in estasi.

Doveva ricordarsi di quel posto, perché, era una promessa, ci sarebbe tornato in compagnia dei ragazzi. Andre e Beck lo avrebbero adorato, e anche se non lo avessero fatto, ce li avrebbe trascinati con la forza. Senza dubbio, meglio quello del sandwich del Franklin.

Il pettegolezzo che aveva sentito da Sam si era rivelato giusto: da una parte si erano seduti gli impiegati, dall’altra gli operai. Alla fine, però, tornavano tutti uguali davanti a una carne tanto buona.

Per quanto riguardava le sistemazioni, aveva avuto la fortuna di capitare di fronte a Clark. Di fortuna si era trattata, perché l’altro collega dell’ufficio informatico sedeva dalla parte opposta, e intorno, Freddie vedeva solo facce che non aveva mai visto se non di sfuggita. Già non si sentiva a suo agio, figuriamoci se avesse dovuto rinunciare anche a quel minimo di conversazione per tutta la sera.

Come aveva detto Beck: “Ci sarebbe stato da ridere, altrimenti.”

A un certo punto, l’uomo sulla quarantina di fianco a lui decise di rivolgergli la parola. – Da quanto lavori alla Crystal-Tech? –

Freddie buttò giù un altro pezzo di bistecca, prima di rispondere. – Poche settimane. –

- Fresco, io sono quattordici anni che non mi muovo dalla contabilità. Sei con l’agenzia? –

Il ragazzo si assicurò che i capi non fossero abbastanza vicini da sentirlo. Farsi beccare a criticare il proprio contratto non era esattamente un comportamento da “impiegato del mese”.

- A progetto, camuffato da tempo determinato. E poi, la prospettiva di un altro tempo determinato. –

L’uomo rise e scosse il capo. – Fottuto governo, non hanno fatto proprio un accidente per i giovani. –

Anche Clark si sentì chiamato in causa e sorrise divertito. – Sante parole! –

- Dimmi una cosa. – proseguì il signore, sporgendosi un po’ verso sinistra. – Sai già cosa vuoi fare da grande? –

Freddie lo fissò stranito. – Che intendi? –

- Non penserai mica di rimanere qui fino alla pensione, vero? –

Un sopracciglio balzò in alto. – Non dovrei? –

- Nessuno vuole restare alla Crystal-Tech tanto a lungo. –

- Tu l’hai fatto. –

- Lo so, e ho sbagliato. Mi sono adagiato e ho permesso alla corrente di portarmi via. Ma questo posto finisce per inglobarti nel suo mondo e succhiarti via ogni goccia di vita sociale. – gli fece un cenno col mento. – Pensaci. –

D’istinto, Freddie si girò nuovamente verso Sam. Stavolta più a lungo, quasi avesse bisogno di lei.

Fu allora che si rese conto di un inquietante dettaglio. Doveva ammetterlo, ma da quando si era messo a tavola, non aveva ancora visto Sam posare il bicchiere di vino. Troppo lontano dai suoi occhi luccicanti, dalle sue labbra accese, dalle sue amabili risate, era comunque sicuro che avesse bevuto troppo.

La cosa lo disturbò. Pregò che lei non perdesse il controllo, che i capi non si accorgessero di nulla. Non seppe spiegarsi il perché, ma si sentì in dovere di prendersene cura.

E la voce di Beck tornò prepotentemente a farsi viva.

Tu stai cercando a tutti i costi una ragione per restare a Los Angeles.”

 

*****

 

Fuori dal ristorante, Sam faticava persino a camminare dritta.

Freddie la osservò dal parcheggio, appoggiato con la schiena allo sportello della sua Dodge Neon. Era stata una delle ultime ad uscire, ma lui l’aveva aspettata.

“Ha esagerato, come sempre”, pensò amareggiato.

A pochi metri, sotto la veranda, Clark si stava intrattenendo con due ragazze. Tuttavia, queste sembravano del tutto immuni al suo fascino, e ben presto abbandonarono la conversazione per lanciarsi verso la macchina. Il collega incrociò lo sguardo di Freddie, lo salutò e, sorridendo per l’ennesimo fallimento, gli andò incontro.

L’attenzione del giovane Benson, però, era ancora tutta su Sam.

Stava scendendo a piccoli passi dal portico, in equilibrio precario sui tacchi. Si era fermata, aveva posato una mano sullo steccato. Aveva iniziato a guardarsi intorno spaesata.

Dopo alcuni secondi, aveva estratto lo smartphone dalla borsa e si era messa a digitare, con ogni probabilità, un messaggio.

Attese, fissando lo schermo, finché il cellulare nella sua mano non iniziò a squillare. Si scostò i capelli e se lo portò all’orecchio.

Freddie era troppo distante per sentire, ma dall’espressione, non dovevano essere buone notizie.

Clark, intanto, l’aveva raggiunto. – Che succede? –

Freddie mosse il capo in direzione della bionda.

- Carina, è vero. Perché ti interessa tanto? –

- E’ arrivata qui con una collega, che ormai se ne sarà già andata. – sospirò. - Il suo ragazzo sarebbe dovuto venire a riprenderla, dopo la cena. Ma ho l’impressione che ci sia qualcosa che non va. –

Difficile non avere ragione. Sam aveva gettato con violenza lo smartphone nella borsetta, e si era accovacciata sugli scalini con la testa tra le mani.

- Non verrà. – sentenziò alla fine.

Con i sassolini che saltavano al suo passaggio, si incamminò verso di lei, armato di coraggio.

- Sam? – la richiamò, appena giunto al portico. Il tono pacato, a voler dimostrare di essere lì quasi per caso.

Non ottenne risposta, e nemmeno un movimento dalla ragazza.

– Sam. – ripeté, afferrandola delicatamente sotto il braccio e tirandola su.

Scossa, lei aprì gli occhi e si ritrovò a fissarlo intensamente. Ma fu solo una breve sensazione, perché quello sguardo era tanto vuoto e annebbiato, che forse non lo aveva neanche riconosciuto.

Freddie, tenendola stretta a se, la sorresse quel tanto che bastava per portarla alla macchina. Aprì lo sportello del passeggero e la fece accomodare, quasi adagiandola, sul sedile.

Richiuse la portiera. Sam teneva la testa piegata di lato e le palpebre socchiuse.

- E’ nei guai, eh? – fece Clark.

- La riaccompagno a casa. –

- Se per te è un problema, posso farlo io. –

Freddie gli lanciò un’occhiataccia. – Non sei esattamente di strada. Certo, se lei fosse in grado di parlare, sceglierebbe senza dubbio di tornare con te. Ma me ne occupo io. –

- Come ti pare. Ci vediamo lunedì. –

Aspettò che Clark fosse ripartito, prima di salire in auto.

Accese i fari. Eccolo lì, di nuovo solo con Sam.

Avviò il motore e tolse il freno a mano. Aveva ancora quell’effetto su di lui.

Ingranò la prima e imboccò a ritroso il sentiero sterrato. Disagio.

Teneva gli occhi fissi sull’asfalto, e le mani strette come una morsa sul volante. La strada era buia e tortuosa, e nonostante gli abbaglianti, se non fosse stato attento, avrebbe potuto rivelarsi molto pericolosa.

Rinunciò a voltarsi verso la compagna di viaggio. Dal profondo respiro, capì che si era addormentata.

Sicuro di quello che stava per fare, iniziò a pensare ad alta voce. Sarebbe stato l’unico modo per esprimere ciò che aveva in mente. La mattina successiva, in ogni caso, lei non si sarebbe ricordata di niente.

- Sai, credevo che non sarei più finito così. A parlare di me, dei miei sentimenti, a vergognarmi di ciò che sto dicendo. Magari è meglio che tu non mi senta, tanto in fin dei conti non ti è mai importato. Avrei voluto rispondere, prima, a… non mi ricordo come si chiamava… quel tizio della contabilità, insomma. Mi ha chiesto se avessi intenzione di mettere le tende alla Crystal-Tech, di commettere il suo stesso errore o di scappare finché ne avessi avuta l’opportunità. E’ stato un bel dubbio. Mi ha fatto riflettere, su quella che per me è, è stata fin dal primo giorno e continua purtroppo a essere, la parte migliore di questo lavoro. Quella che tutte le mattine mi convince a mettere piede in ufficio, ad accettare la posizione di ultima ruota del carro, a non dare peso ai rimproveri o alle prediche di chiunque mi stia intorno. Quella per cui, addirittura, sto rischiando di non avere un futuro. Scoppieresti a ridere, se dicessi che sei tu. Eppure, non hai idea di quanto mi faccia incazzare questa cosa. Mi fa incazzare non capire che accidenti sto provando per te. Mi fa incazzare vedere Gabriel, e arrivare ad invidiare quello che ha. Mi fa incazzare sapere che è sbagliato. E mi fa incazzare vedere come è andata a finire tra noi. Ed è in serate come queste, che capisco tutto il tempo che ho perso, nel bene o nel male. –

Si sentiva nient’altro che uno stupido.

Mentre guidava, inspiegabilmente, gli tornò alla memoria una vecchia poesia francese, che aveva letto a scuola molti anni prima. Parlava di rimpianti, di occasioni perdute, di come un uomo non sia altro che una comparsa, un passante, nella vita di ogni donna.

Stavolta trovò il coraggio di guardarla.

Il suo sogno. La sua dipendenza. La sua malattia. La sua condanna.

 

*****

 

Arrivò sotto casa di Sam a mezzanotte e quaranta. L’auto di Gabriel non c’era.

Freddie imboccò appena il muso della sua Neon nel vialetto che portava al cancello, e spense il motore. Sam dormiva ancora pesantemente.

Le lanciò un’occhiata, mantenendo le mani sul volante. C’erano tante emozioni contrastanti in lui, ma forse, quella predominante, era un senso di rabbia e di impotenza.

Si era domandato tante volte perché continuasse a seguirla, a preoccuparsi per lei, quando lei stessa era la prima a fregarsene di tutto ciò che aveva intorno.

L’esempio dell’appartamento in affitto era stato lampante, e in qualsiasi altra situazione, avrebbe potuto fare da spartiacque.

Ma loro non erano due persone qualsiasi. Erano destinate a sopportarsi fino all’ultimo giorno. I loro litigi non sarebbero mai scomparsi, e forse, non importava come, lui l’avrebbe seguita per sempre.

Si maledisse, perché sapeva che sarebbe andata così.

Si avvicinò lentamente al volto di Sam, tanto da poter percepire l’alone di alcol nel suo respiro.

Le sue labbra erano a pochi centimetri, e non avrebbero opposto resistenza. Avrebbe dato tutto per poter dormire accanto a lei.

La tentazione di assaporare la sua pelle era logorante.

Eppure, ripensando a tutto ciò che avevano passato, non riuscì a fare altro che stamparle un morbido bacio sulla guancia.

Scese, fece il giro della macchina e, rassegnato, si portò dal lato del passeggero.

Aprì lo sportello e, nel silenzio di una città coricata al caldo, aiutò Sam a rientrare a casa.

Che rogna, essere sempre il più saggio.

 

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Capitolo 18
*** XVIII - 09.12 ***


XVIII – 09.12

 

Los Angeles, 09 Dicembre

 

Non le era mai piaciuto farsi tirare in mezzo dalle vicende degli altri, un po’ per istintivo distacco, un po’ per la sua totale incapacità di dare una mano.

Eppure, ultimamente stava accadendo sempre più spesso. Si sentiva coinvolta, interessata, quasi in obbligo di controllare i suoi amici. Era come se le sue percezioni si fossero affinate, e tra tutti, lei fosse quella più matura.

Si sorprendeva ogni volta che ripensava a questo. Forse era un naturale processo di crescita, o forse stare per anni in mezzo a gente così strana l’aveva fatta andare fuori fase.

Quella mattina, Jade decise di prendere di nuovo il toro per le corna e, così come aveva fatto per Cat, intervenire.

Tra Tori e Andre qualcosa non andava. Non era facile per lei ammetterlo, ma le dispiaceva vedere il loro rapporto cadere in rovina. In fin dei conti, teneva davvero ad ognuno di loro.

Uscì di casa di prima mattina, sotto un cielo plumbeo che nascondeva il sole e prometteva acqua per il resto della giornata.

Si fermò di fronte all’ingresso della biblioteca. Era lì che avrebbe trovato il suo miglior alleato, purtroppo.

Non poteva fare certo tutto da sola, e magari, due chiacchiere con Beck avrebbero portato a qualcosa.

Salì la breve scalinata e, appena entrata, si ritrovò in un ambiente che non aveva nulla a che fare con l’esterno. Neppure ricordava quando era l’ultima volta che era stata in una biblioteca che non fosse quella della scuola.

Aria chiusa, odore di carta stantia, e una dozzina di nerd che la fissavano insistentemente, come se non avessero mai visto una ragazza.

Jade scosse il capo e passò oltre, alla ricerca del suo vecchio ragazzo.

Era arrivata alla sezione dei libri storici, quando si bloccò dietro lo scaffale.

Eccolo là, Beck, con i suoi occhiali da studioso e la camicia dalle maniche arrotolate. Non da solo e immerso nella lettura, come era lecito aspettarsi, ma in compagnia di una ragazza, che aveva sì un libro, ma chiuso e sotto il braccio.

Li osservò da lontano, sbirciando dalla mensola. Lei, capelli biondo platino raccolti in una coda e fisico atletico, dava l’impressione di essere più giovane di loro. Una studentessa, forse.

Conversavano amabilmente, e ogni tanto, Beck le indicava qualcosa su un volume e ridevano.

Jade non volle andare oltre. Ritrasse la testa e, con un sorriso sardonico dipinto in volto, riprese la strada per l’uscita.

Difficile spiegare se in quel momento si sentisse infastidita o divertita. Impossibile restare indifferente.

Era stato come toccare gratuitamente un nervo scoperto, e in più, c’era qualcosa di vagamente familiare in quella scena.

Sulla soglia, capì cosa avrebbe dovuto ricordarle quella ragazza bionda.

Seattle.

Sonja.

 

*****

 

Sdraiato sul letto, Robbie guardò l’ora sullo smartphone: le 9.20. Ci sarebbe stata lezione di fotografia, cominciata venti minuti fa.

Spense lo schermo e chiuse gli occhi. Fa niente, avrebbe portato una fantomatica giustificazione al professore, tanto si fidava di lui.

Non aveva alcuna voglia di alzarsi. Trascorrere la giornata a dormire gli sembrava ancora una buona idea, lontano da tutto e tutti.

Ma poco dopo, sentì dei colpi decisi alla porta della camera. Si portò una mano alla fronte, rassegnato.

Le teste di Stefan e Kendra fecero capolino dalla soglia.

- Ehi, amico! – fece il ragazzo, entrando per primo. – Che cavolo stai facendo? –

Robbie incrociò le mani dietro la nuca, sorridendo. – Niente. –

- Ti aspettavano in classe. –

- E soprattutto - aggiunse Kendra – sono due giorni che non ti fai vedere in giro. –

Robbie girò la testa verso di lei. Non disse una parola, ma si limitò ad un’arrendevole occhiata.

- Amico, che ti prende? – gli chiese Stefan, sorpreso e preoccupato.

In risposta, Robbie tornò a fissare il soffitto.

Di fronte a quella reazione, Kendra si fece avanti e posò una mano sulla spalla di Stefan. – Lascia che provi a parlarci io. – gli sussurrò.

- Ok, ti aspetto fuori. Anche tu, Robbie. – gli lanciò un’ultima occhiata, prima di richiudersi la porta alle spalle.

Rimasta sola con l’amico, Kendra posizionò una sedia accanto al letto e ci si sedette al contrario, con le braccia sullo schienale. Lo sguardo era duro ma apprensivo. – Avanti, spiegalo a me cos’è successo. –

Ancora niente.

- Te ne stai qui, chiuso in camera, non ti sei nemmeno vestito. –

Robbie scattò a sedere sul materasso con le gambe incrociate. – Davvero? Sono di nuovo nudo? –

Scoppiarono a ridere. – Ma no, scemo! E’ che hai ancora il pigiama! –

- E’ una tuta dei grandi magazzini, in realtà. E non l’ho pagata neppure poco. –

I due si scambiarono una lunga occhiata, in silenzio, col sorriso sulle labbra. Al termine, però, quello di Robbie si spense nella malinconia.

- Non ne abbiamo mai parlato. -

Kendra sollevò un sopracciglio, presa alla sprovvista. – Di… ok, è vero. Ma andiamo, non starai mica così per… -

- Quella sera. – finì la frase, credendo di farle un favore.

- Stavo solo aspettando il momento giusto, non pensavo fosse un problema per te. – il tono tradiva una lieve incertezza. – Insomma, avevano bevuto un po’ troppo, ma nonostante questo, io credo che sia successo perché lo volevamo entrambi. -

Robbie distolse lo sguardo. Non si era pentito di quello che aveva fatto. Gli era piaciuto, e dopo tanto tempo, un bacio aveva di nuovo significato qualcosa per lui.

Non era più accaduto dal suo primo, e unico, bacio con Cat.

Eppure, la voce di Jade continuava a tormentarlo, e lui non riusciva a levarsela dalla testa.

Te lo dico io cosa farai. Io terrò la bocca chiusa. Ma tu sparirai, e non ti farai più sentire.”

Comunque fosse andata, avrebbe deluso qualcuno.

Intanto, Kendra aveva ripreso a parlare. – Non so quale sia il nostro prossimo passo, ma non voglio che la nostra amicizia si rovini per questo. –

Robbie si voltò verso di lei, per guardarla negli occhi.

- Abbiamo commesso un errore. –

- Non è vero. –

- Sì, invece. Io ho commesso un errore. –

Lo ammise, in realtà senza sapere quale.

 

*****

 

Era una strana sensazione, quella che stava provando Andre.

Se si guardava intorno, era come se si sentisse ospite nella sua stessa casa. Si lasciava trascinare dall’inerzia di una giornata come le altre, senza sussulti, senza un particolare scopo. Apparentemente, senza più nemmeno la sua migliore amica.

Si era alzato tardi, quella mattina, e alle 10 passate stava ancora facendo colazione. Se ne stava a tavola, davanti ad un giornale aperto e con una tazza di caffè in mano, come un infelice disoccupato.

Stava distrattamente scorrendo l’inserto sportivo, quando udì una serie di rumori provenienti prima dalla camera di Tori, e poi dal bagno.

Andre alzò il capo, e poco dopo, la ragazza comparve sulla soglia della cucina.

Posò la borsetta sul tavolo, quasi incurante della presenza dell’altro, e la aprì per cercare qualcosa all’interno.

- Non vai allo studio, stamattina? – gli chiese, senza nemmeno sollevare lo sguardo.

- No, non ho la giusta ispirazione. – buttò giù un sorso e la osservò perplesso. - E tu? Stai uscendo? –

- Sì. –

- Posso chiederti dove? –

- Ho il turno al supermarket, lo sai. –

Lui annuì. I toni erano aspri e affranti, e ancora resisteva un muro di ghiaccio tra loro. C’erano punte di imbarazzo e rancore, e c’erano l’orgoglio e la presunzione di voler avere ragione a tutti i costi.

Forse avevano solo bisogno di un po’ di tempo per superarlo. Prima o poi, qualcuno avrebbe messo da parte la propria testardaggine e le cose sarebbero tornate a posto.

Forse, se ci avessero pensato bene, lo avrebbero capito.

Tori richiuse la cerniera della borsa e si avviò verso l’attaccapanni all’ingresso.

- Ah, e più tardi… - si fermò per aggiungere, mentre si infilava il cappotto. – Quando stacco, faccio un salto da Cat e Jade. Probabilmente rimarrò a mangiare là e passerò la serata con loro. Ok? –

- Ok. –

Inutile gettare altra benzina sul fuoco. Ne aveva abbastanza di litigare.

Ne aveva abbastanza di sentire quanto fosse stronzo Thomas, e quanto fosse stupida la sua storia con lui. Ne aveva abbastanza di sentirsi rinfacciare tutti gli errori passati, e di essere trattata come una bambina che non sa che fare con i propri sentimenti.

Adesso, tutto quello che voleva, era evitare l’ennesimo rimprovero per una serata trascorsa con il ragazzo di cui era innamorata.

Afferrò la maniglia e spalancò la porta.

- Non aspettarmi alzato, Andre. Farò tardi. –

 

*****

 

Quando tornò a casa, Jade aveva soltanto voglia di rilassarsi. Staccare la spina, dopo gli ultimi giorni fin troppo movimentati.

Non le capitava spesso, di ritrovarsi così spossata a livello fisico e mentale. Evidentemente, chi le stava intorno la stava mettendo a dura prova, e lei non riusciva più a mantenere le distanze.

Forse faceva davvero parte della crescita dai tempi della scuola, ma la cosa non le piaceva affatto.

Si sedette sul divano e accese il portatile. Navigò svogliatamente per un po’ su Internet, tra notizie di cronaca, attualità e spettacolo, prima di tornare alla sua cartella personale.

File, grafici, 3D e design, tutto il materiale che lei custodiva gelosamente e che, era convinta, un giorno sarebbe stato la sua fortuna.

Ne parlava di rado e non lo dava molto a vedere, ma anche lei sembrava aver trovato il suo sogno nel cassetto. Lei non era mai stata il tipo da fantasie ad occhi aperti e testa fra le nuvole, e forse proprio per questo, aveva un gusto particolare.

Andava al di là del cantare una canzone o di partecipare ad un film. Si trattava di possedere la sua casa di moda, la sua personale linea di abbigliamento. Lasciare che la sua creatività si sfogasse senza restrizioni, e avere finalmente il controllo su tutto.

Era un’immagine bella, che sapeva di libertà, e ciò che le piaceva di più, era la convinzione che prima o poi si sarebbe realizzata.

In quel momento, Cat uscì dalla camera.

- Ciao, Cat. – le fece, continuando a scrivere sulla tastiera.

Ma dall’amica non giunse reazione. Con passo svelto, attraversò il soggiorno per andare nel cucinino, fiondandosi sul frigo per prendere da bere.

Jade si voltò verso di lei. – Cat? –

Cat continuava a non dire niente. I movimenti erano rigidi come quelli di un automa, e lo sguardo era fisso di fronte a sé, come se avesse la testa altrove. Si scolò l’intero bicchiere d’acqua e lo appoggiò sul tavolo.

- Cat, tutto ok? –

La rossa aggrottò la fronte e andò a sedersi sul bracciolo del divano.

- Cat, che c’è? – le domandò per l’ennesima volta, al limite della pazienza. – Sento che vorresti dirmi qualcosa. –

- Robbie. –

Jade si appiattì contro lo schienale e si passò una mano tra i capelli. – Sì. –

- Non riesco più a parlarci. Sul telefono è irraggiungibile, ai messaggi non risponde… sono giorni che non si fa più sentire! Ho paura che gli sia successo qualcosa! –

La mora scosse il capo. – Non gli è successo nulla, stai tranquilla. Forse è solo molto impegnato in questo periodo. –

- Ma il tempo per chiamarmi l’ha sempre trovato. –

– Evidentemente non può più farlo. –

- Perché? –

Jade dovette mordersi un labbro. – Non lo so. –

Cat la fissò inquisitoria per un paio di secondi, poi si sporse verso di lei. – L’altro pomeriggio hai detto che ci avresti pensato tu. Ci sei riuscita? -

Dal silenzio dell’amica capì che la risposta era affermativa. – Che ti ha detto? –

Jade sospirò. Eccola, l’immensa difficoltà nel tenersi dentro i segreti, nel manipolare le emozioni, nel mentire alle persone care. Le minacce non sarebbero servite a niente. Era sicura che, se Robbie avesse avuto la possibilità di parlarle, avrebbe rovinato tutto, ancora più di quanto non lo fosse già.

– Non c’è stato niente da fare. –

Bastarono poche parole, e negli occhi dolci di Cat Valentine si spense la scintilla. L’iride iniziò a farsi lucida, il collo a tremare, e la bocca a contorcersi in una smorfia di tensione.

Qualcosa si era spezzato, e non sarebbe stato sufficiente un abbraccio per ricostruirlo.

Jade lasciò che Cat saltasse con uno scossone giù dal divano, e che, ad un passo dalle lacrime, corresse a chiudersi in camera.

Richiuse il portatile, lo appoggiò sul cuscino accanto a sé e si portò una mano alla fronte.

Era appena a metà di una giornata come tante altre, ai piedi delle colline di Hollywood. L’ennesima giornata in cui, a quanto pare, faceva tutto schifo.

 

*****

 

Era tutta la mattina che la vedeva strana.

Era ancora più scostante del solito, si rivolgeva con nervosismo ai colleghi e con indisponenza ai superiori, e pareva aver rinunciato a qualsiasi forma di sarcasmo. Non si erano rivolti la parola, ma questo non gli aveva impedito di continuare ad osservarla.

A dire il vero, non si erano più parlati dalla sera della cena aziendale.

Era a questo che ripensava Freddie, mentre rientrava dalla pausa pranzo. Inutile cercare una spiegazione a ciò che era successo, così come era inutile sperare che qualcuno andasse a ringraziarlo.

In fondo, esattamente come aveva previsto, nessuno si ricordava un accidente.

Dopo aver timbrato il cartellino, Freddie decise di passare dall’ufficio marketing. Si presentò con la scusa di controllare che l’ultimo computer riparato fosse a posto, mentre ovviamente, ciò che voleva controllare era Sam.

Appena entrato, però, notò che lei non c’era. La postazione era vuota, in disordine, come se l’avesse abbandonata nel bel mezzo di un lavoro.

Fece comunque un rapido giro tra le scrivanie, poi salutò le altre impiegate e fece per tornare nella tana degli informatici.

Mentre saliva, la sua attenzione fu attirata dal portellone dell’uscita d’emergenza, rimasto inspiegabilmente aperto. Si avvicinò per chiuderlo, e fu allora che la vide.

Sam era seduta sul primo scalino, con la spalla e la testa appoggiate al corrimano, e i capelli sferzati dal vento.

Freddie esitò un istante. Lei non lo aveva visto, per cui sarebbe stato facile proseguire oltre senza fermarsi. Ma sapeva di non poterlo fare. Superò la soglia e si sedette accanto a lei.

Sembrava assorta nei propri pensieri, tanto da non accorgersi della sua presenza.

Gli serviva un motivo per rompere il ghiaccio.

- Sam, che ne è stato di quella famosa pubblicità? Non mi hai fatto sapere più nulla. La Windsor che ne pensa? –

Nessuna risposta, e lo sguardo della ragazza rimaneva perso nel vuoto.

Freddie trasse un profondo respiro e unì le mani. Non importava dove arrivasse la sua buona volontà, semplicemente, certe cose non sarebbero mai cambiate.

- Ok, ascolta. So che probabilmente ci sono migliaia di persone con cui parleresti più volentieri che con me, ma voglio che tu sappia che per qualsiasi cosa, io ci sono. Altrimenti, possiamo restare in silenzio fino a quando vorrai. –

Avrebbe potuto trascorrere un giorno, un anno, un secolo.

Sam non si mosse, ma qualcosa mutò nella sua espressione. Annuì in maniera impercettibile, prima di socchiudere le palpebre.

Era stato uno shock.

- Non credo che tu voglia saperlo. –

- Mettimi alla prova. –

- Ho un ritardo di dieci giorni. –

Freddie si voltò di scatto, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. – Hai… - il fiato gli si mozzò in gola.

Lei sorrise. Il classico sorriso alla Sam Puckett.

- Già… forte, vero? Ho fatto il test. Sono incinta. –

 

*****

 

Aveva finito per trascorrere l’intera giornata chiuso in casa. Aveva scambiato qualche messaggio con Beck, ma alla fine aveva declinato l’invito ad andare a trovarlo in biblioteca per passare del tempo insieme. Aveva trovato una telefonata persa da Freddie, ma aveva rinunciato a richiamarlo. Aveva inviato un messaggio a Cat, ma lei non gli aveva risposto.

La sera, dopo aver cenato da solo a base di sandwich, si era steso sul divano e aveva finito per addormentarsi davanti ad un film piuttosto noioso.

Era mezzanotte passata, quando l’insistente squillo del cellulare lo svegliò. A fatica, Andre si tirò su scostando il cuscino, e si sporse per afferrare lo smartphone sul tavolino.

Si stropicciò gli occhi e guardò lo schermo: Cat.

Si concesse uno sbadiglio, prima di rispondere. – Ehi, Cat! Non mi aspettavo una tua chiamata a quest’ora. Che mi dici? –

Dopo un attimo di silenzio, quella che udì fu una complicata sinfonia di singhiozzi, sospiri e suoni incomprensibili. La voce che dall’altra parte cercava di parlare era squillante e spezzata.

Cominciava a preoccuparsi. – Cat! Cat, stai bene? –

L’amica sembrava senza fiato, e le parole le uscivano appena abbozzate.

- … Tori … - balbettò alla fine, insieme ad altro che il ragazzo non capì.

Andre fu preso dal panico e balzò in piedi. – Tori? Le è successo qualcosa? State tutti bene? –

Cat respirava affannosamente tra le lacrime, ma riuscì in qualche modo a recuperare il controllo. Almeno, quanto bastava per formulare una frase intera.

- Lo so che è tardi, ma ho bisogno di Tori. E’ con te? Puoi chiederle di venire qua? –

Andre si sentì colpire da un potente pugno allo stomaco. Qualcosa non tornava.

- Come hai detto? –

- Ho provato a chiamarla sul cellulare, ma sembra staccato, non mi risponde. Per favore! -

- E… e Jade? – chiese con cautela, quasi timore.

- E’ qui, fuori dalla porta. Non vuole vedermi piangere. –

Il ragazzo si portò il palmo davanti alla bocca e deglutì a forza. Era impossibile.

Nel frattempo, qualunque cosa fosse successa, Cat sembrava aver davvero bisogno della sua migliore amica. - Andre? Ci sei ancora? –

D’istinto, strinse il pugno e serrò la mascella. Era persino in difficoltà a rispondere. – Mi dispiace… Tori non c’è. E’… è uscita. –

L’amica suonò sinceramente delusa. – E sai quando torna? –

A quel punto, non ne aveva la più pallida idea.

Resistette alla tentazione di lanciare via lo smartphone, ma un moto di rabbia aveva già iniziato a consumarlo. - Credimi, mi dispiace sul serio, Cat. –

Si rimise seduto, con la faccia tra le mani.

Ovunque e con chiunque lei fosse quella notte, e Andre era sicuro di saperlo, c’era una cosa ancora più importante, che lo stava facendo impazzire.

Tori gli aveva mentito.

 

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Capitolo 19
*** XIX – December 10th ***


XIX – December 10th


 

La mattina del 10 Dicembre, Freddie entrò a lavoro un paio d’ore dopo.

Si era giustificato con i superiori inventando un leggero malessere, anche se l’impressione che aveva avuto per telefono, era che a nessuno importasse un granché.

La notte quasi del tutto insonne aveva avuto un effetto devastante sul corpo e sulla lucidità della mente, che appariva ancora avvolta in un banco di nebbia.

Ogni gesto, ogni operazione gli comportava il triplo di fatica, per cui la mossa migliore per lui era stata mettersi di fronte allo schermo del suo computer e non staccarcisi più per le successive due ore. Con le palpebre pesanti come bandoni, si era dedicato ad aggiornamenti, sviluppi e report. Tutta roba inutile, ma perlomeno non impegnativa.

A mezzogiorno, poi, abbandonò l’ufficio per uscire per la pausa pranzo. Stava per varcare il portone principale, quando l’abbagliante figura di Sam si interpose tra lui e il parcheggio.

Lo sguardo della bionda era sul punto di perforarlo.

- Stai per caso cercando di evitarmi? – gli domandò a bruciapelo.

Freddie si pietrificò sul posto e, per reazione, alzò un sopracciglio. – Perché dovrei? –

Sam replicò il gesto, sarcastica. – Non lo so, dimmelo tu. –

Il ragazzo si passò nervosamente la mano sulla faccia. – Fai sul serio? Vuoi davvero parlarne qui e adesso? –

- Perché no? – fece spallucce. – Cosa c’è di meglio di una bella chiacchierata davanti a una pizza? –

Freddie continuava a fissarla stranito. Era reale o stava sognando? Sam voleva veramente proseguire quel discorso con lui? E per giunta lo stava invitando fuori a pranzo, solo loro due?

Si chiese perché tutto questo stava accadendo proprio ora. Ma alla fine, accettò e salì in macchina con lei verso la pizzeria più vicina.

- Sono sicura che tu abbia qualcosa da dirmi. – lo provocò, mentre forchetta e coltello si avventavano su una margherita fumante. Adulta, fidanzata o incinta che fosse, la fame di Sam Puckett non sarebbe mai sparita.

Freddie tagliò un trancio della sua capricciosa e gli diede due morsi consecutivi, seguiti da un lungo sorso di birra. Qualunque cosa avesse a disposizione era utile, pur di prendere tempo.

Era in enorme difficoltà persino a guardarla negli occhi. - Cosa te lo fa pensare? –

Sam evitò la contro-domanda, buttò giù il boccone e accennò un sorriso. – Vuoi sapere perché sei stato il primo a cui l’ho detto? Perché ero sicura che avresti reagito così. –

Lui trovò il coraggio di rialzare la testa, ma la sua espressione smarrita non fece altro che divertire ancora di più Sam.

- Bravo, è esattamente di questo che stavo parlando. Puoi mantenere quella faccia da pesce lesso anche tutto il pomeriggio, ma così la tua pizza si fredderà e finirai per rientrare tardi dalla pausa pranzo. –

Freddie cercò allora di ricomporsi. Insomma, che cosa si aspettava? Che facesse finta di niente?

- E quindi… non lo hai ancora detto a nessun altro? –

- Nessuno nessuno. – ripeté.

Gli interrogativi che affollavano la mente del giovane Benson erano molteplici, e banalmente, quello gli sembrò il momento giusto per spararli tutte.

- E’… è di Gabriel, vero? –

- No, è del macellaio dall’altra parte della strada. – gli lanciò un’occhiata storta. – Ma certo che è di Gabriel! –

- Scusa, domanda stupida, ma ero obbligato a farla. Di quanto saresti? –

- Quasi quattro settimane. –

A dire il vero, lei sembrava addirittura avere più voglia di lui, di parlare.

- E come avete… cioè, voglio dire, come… -

Sam scoppiò a ridere fragorosamente. – Mi stupisci sempre di più, Benson! Sul serio tua madre non ti ha mai spiegato come funzionano certe cose? Insomma, sapevo che era una tradizionalista, ma pensavo ti avesse raccontato qualcosa almeno sulle api e sui fiori… -

Freddie la seguì, ridendo imbarazzato e scuotendo il capo.

- Ma se ciò che volevi chiedermi è se era programmato… - proseguì lei. – Allora la risposta è: assolutamente no. –

Lui annuì, serio e comprensivo. – E Gabriel come l’ha presa? –

– Beh, ecco, sai com’è… - Stavolta, fu Sam a comportarsi in maniera evasiva.

Entrambe le sopracciglia di Freddie balzarono in alto. – Non lo hai detto neppure a lui? -

Lei negò con la testa, gettandosi di nuovo sulla pizza.

- Devi farlo. Di certo, prima o poi non potrai più nasconderglielo. Anzi, lui avrebbe dovuto essere il primo. –

- Lo so. –

- E hai già pensato a qualcosa? Voglio dire, cosa farai? –

Sam indugiò, facendo roteare la forchetta tra le dita. – Sinceramente? Non ne ho idea. –

 

*****

 

Gli occhi spenti fissavano lo schermo immobile del portatile.

Un foglio bianco, un mixer disattivato, uno spartito muto. Non importava quante volte cambiasse videata, la mente non riusciva a vagare al di fuori di quelle mura.

Andre si era rifugiato nello studio di registrazione, come un lupo che trova nella solitudine la sua pace.

Inutile insistere con le prove. Cat, qualsiasi cosa le fosse capitata, non sembrava essere in condizione di fare nulla. Meglio lasciarla a casa, piuttosto che assistere al suo ennesimo crollo nervoso. Avrebbe voluto aiutarla, Dio solo sapeva quanto, ma purtroppo non aveva idea di cosa fare.

Ecco, c’era una cosa che avrebbe potuto fare. La sera prima. Chiamare Tori e dirle di andare ad aiutare la sua migliore amica nel momento del bisogno. Ma Tori non c’era, e lì era finito il suo potere.

Non le aveva rivolto nemmeno la parola, quella mattina. L’aveva incrociata in cucina, mentre faceva colazione prima di andare al supermarket. Era volata un’occhiata, una sola, confusa, enigmatica e dolorosa.

L’aria che si respirava non era cambiata. Lui era rimasto lì solo per il tempo di versarsi una tazza di caffè, per poi afferrare lo zaino e uscire.

Silenzio per silenzio, preferiva stare in un posto che non gli facesse venire il mal di testa.

E adesso, galleggiando nel suo disagio, si trovava come di fronte a un muro.

Lo chiamano “blocco creativo”. Quando il cervello vorrebbe fare, sperimentare, e invece si ritrova fermo, incapace di incanalare anche una sola idea diversa dal solito.

Quel videoclip si stava trasformando in un incubo. I tempi si stavano stringendo, e di questo passo, avrebbe presentato appena il titolo e un pezzo di coro.

Per quanto lo riguardava, avrebbe potuto anche chiudersi in quel modo.

Ripensò a quanto si era impegnato, a ciò che aveva scritto, a chi lo aveva dedicato. Ripensò all’opportunità che credeva di aver colto, e di poter condividere con le persone vicine per lui.

Poi risentì la voce di Jade. E una domanda che aveva odiato.

Sicuro di non aver mai desiderato qualcosa di più, dalla tua amicizia con Tori?”

No, non era così, ne era sicuro.

Tutto quello che aveva fatto, tutte le dure parole che aveva usato, era stato solo per lei. Per proteggerla, perché Thomas non la meritava.

Ma era la sua vita, e allora era libera di infischiarsene, di mentire al suo migliore amico e di andare a sbattere la testa contro l’ennesima valutazione sbagliata.

Ed era andato tutto al diavolo.

Andre lanciò un’occhiata alla scrivania. Il telefono continuava a suonare a vuoto, tra i messaggi di Beck e le chiamate di Jade. E ogni tanto, nel mezzo, uno squillo di Tori.

Il ragazzo si adagiò contro il comodo schienale della poltroncina, incrociando le mani dietro la nuca.

Sarebbe uscito di lì quando sarebbe stato pronto.

 

*****

 

- Quindi io sarei il secondo in assoluto a saperlo? – chiese esterrefatto Beck, posando la tazza di caffè sul tavolino.

Freddie allargò le braccia e le lasciò ricadere sul divanetto. – Così pare. –

Il giovane canadese non era tipo da impressionare facilmente, ma stavolta c’era riuscito. – Ma nemmeno… -

- No, nemmeno Gabriel. – abbassò la voce e si sporse verso l’amico. – E preferirei, a questo punto, che il passaparola si fermasse qua. –

Beck scosse ripetutamente il capo e si voltò ad osservare il locale. Il Franklin era piuttosto affollato, quel pomeriggio. Alcuni uomini d’affari, in giacca e cravatta, avevano monopolizzato il bancone con noiose chiacchiere e aperitivi analcolici. Dall’altra parte, una mezza dozzina di studentesse si stava scambiando foto e pettegolezzi tra le risate generali.

- Come vuoi, fratello. –

Freddie annuì. – Grazie comunque per essere rimasto ad ascoltarmi. –

- Figurati. Non ti avrei certo lasciato fuori, sotto l’acqua, alle due di notte. Sembravi messo piuttosto male. –

- Inutile negarlo. E se devo essere sincero, non è che adesso vada molto meglio. –

- Ma sai che, da quando te ne sei andato, non ho più dormito nemmeno io? – disse Beck, riprendendo il caffè. - Avresti dovuto vedermi stamattina, in biblioteca. Sembravo uno zombie affamato di carne umana e copertine di enciclopedie. –

Entrambi scoppiarono a ridere, e ancora una volta, Freddie fu felice di poter condividere questi momenti con qualcuno.

- Ma a parte tutto. – riprese il canadese. – Com’è andato alla fine il pranzo con lei? –

Il giovane Benson mosse un sopracciglio, dubbioso. – Non saprei. Quello che ho capito, è che Sam non ha ancora deciso cosa fare con quel bambino. –

Beck aggrottò la fronte. – Intendi… se tenerlo oppure no? –

- Esatto. –

- Io penso che non dovresti farti di questi problemi. Insomma, ok, sei innamorato pazzo di lei, e certo, ti disturba che lei sia rimasta incinta di un altro che non sei tu. Ma io, fossi in te, mi accontenterei del fatto che è venuta da te, prima ancora che dal suo ragazzo. –

- Mi stai dicendo di lasciar perdere? –

- Diavolo, no, altrimenti non staremmo avendo questa conversazione. Però non è possibile che questa sia l’unica cosa a cui riesci a pensare. Una decisione del genere non è affar tuo. –

- Sam non ne sarebbe in grado. E Gabriel… -

- Gabriel lo conosciamo a malapena. Non puoi saperlo. -

- Sono convinto di sì, invece. –

- Andiamo, adesso stai dando i numeri. La cosa ti ha sconvolto, è chiaro, ma non puoi pretendere di ragionare così su tutto. –

Non era questo, il Freddie Benson che aveva conosciuto a Seattle. Non era mai stato obiettivo quando si trattava di Sam e dei suoi sentimenti per lei, doveva ammetterlo. Ma quella discussione, forse provocata dalla notte insonne e dalla traumatica notizia, sembrava quasi irreale.

In quel momento, Jade fece il suo ingresso al Franklin. Prese qualcosa da mangiare al bancone, poi, nel voltarsi, vide i due amici.

- Ciao, ragazzi. – esordì, andando a sedersi sul divano accanto a Freddie. – Allora, che avete di bello da raccontare? –

I ragazzi si scambiarono un’occhiata interrogativa, non solo per il doversi inventare qualcosa, ma anche per quella strana cordialità. Molto strana, trattandosi di Jade.

- Niente di che, sempre le solite cose. – fece Freddie.

Lei gli batté una pacca sul ginocchio, gesto che lo rese ancora più perplesso. – Sempre qui a non far nulla, voi due, eh? –

Ma quando si voltò verso Beck, quell’espressione affabile mutò sensibilmente. – Tu, per esempio, non dovresti startene in biblioteca? –

Il canadese si sentì colto alla sprovvista. Non seppe spiegarsi il motivo, ma era come se lo sguardo di Jade stesse cercando di forargli il cranio per entrarvi. Aveva già visto quello sguardo, ma ogni volta si preoccupava come fosse la prima.

- Ho staccato un’ora fa. –

- E sei sicuro di non avere altri impegni? –

- Di che parli? –

Il sorriso di Jade, soddisfatto, sembrava volerlo prendere sonoramente in giro. – Che il nostro bel canadese ci sta nascondendo qualcosa! –

Beck sbatté le palpebre confuso. – Non ti seguo. –

- Andiamo, il tuo nuovo passatempo! – quando non ottenne replica, decise di proseguire. – Ti ho visto ieri mattina, con quella biondina. Quando ce la presenti? –

Beck capì dove voleva arrivare, mentre Freddie si portava mestamente una mano alla fronte.

- Hai visto solo una studentessa che aveva problemi con Shakespeare. –

- Shakespeare, eh? – continuava a canzonarlo, ma adesso il ghigno era più minaccioso. – Sempre con i grandi classici, tu. –

- Aveva bisogno di una mano. –

- E tu gliel’hai data, vero? – gli ammiccò. – Le hai dato anche qualcos’altro? –

Il canadese era evidentemente a disagio. – Smettila, non sei divertente. –

- Dici? A me invece pare proprio di sì. – si voltò un secondo anche verso Freddie. – Però, insomma, anche tu dovresti scegliere più attentamente. Sembra quasi tua figlia! –

- Ok, adesso stai proprio esagerando. – si spazientì Beck. – A parte che non è così giovane, ma cosa dovrebbe essere questa, la brutta copia di una scenata di gelosia? –

La ragazza incrociò le braccia e strinse le spalle. - Perché no? –

- Perché stai ficcando il naso negli affari miei. –

- Quindi è di questo che si tratta? Ci sono ancora degli affari nella tua vita che non mi devono riguardare? –

Mentre Beck si adirava, Jade riusciva a mantenere una calma olimpica piuttosto irritante.

- Non hai più il diritto di fare così. –

- Già, forse hai ragione, non ho il diritto di dirti cosa devi fare. – Si alzò e fece due passi verso la porta, per poi girarsi di nuovo verso di lui. – Sei già abbastanza bravo a fare tutto da solo. –

Beck sostenne duramente il suo sguardo. – Ti ricordo che sei stata tu a volere che andasse a finire così. –

Jade scosse la testa e, con un sorriso plastico dipinto in volto, abbandonò il locale.

Freddie richiamò l’amico. – Beck, tutto ok? –

Il canadese abbassò gli occhi sulla tazza di caffè, ormai fredda. – Come no, non hai visto? –

Freddie lasciò scorrere alcuni secondi, prima di ripartire. - Ascolta, so di avertelo già chiesto, ma credo che questo sia il momento giusto per riprovarci. Mi spieghi che diavolo è successo tra te e Jade? –

– C’è un motivo per cui non l’ho ancora fatto, ma non prenderla sul personale. Nessuno del nostro gruppo conosce la storia per intero. Sanno solo quello che io e Jade abbiamo voluto raccontare. Lei, lo sai com’è, tende a non esternare assolutamente nulla. E io… mi sarei trovato in difficoltà per le scelte che ho fatto. - Si lasciò andare a una risata, nervosa e malinconica. – Però, ripensandoci bene, se la gente viene da te a rivelarti che aspetta un bambino, forse è il caso che, prima o poi, anch’io faccia un’eccezione. –

 

*****

 

- Mi spieghi perché le hai detto quelle cose? –

Lo sguardo di Stefan stava incenerendo le lenti degli occhiali del giovane Shapiro.

- Quali? – fece finta di nulla.

- Ci è rimasta molto male, lo sai? –

- Non so a cosa ti stia riferendo. –

- Non serve che cerchi di nasconderti. Kendra mi ha raccontato quello che è successo tra voi. E se devo dirla tutta, non ne sono nemmeno troppo sorpreso. –

Robbie lo fissò impietrito. – Sul serio? –

Stefan sollevò un sopracciglio e sorrise. – Avanti, sbaglio o ero stato io il primo a dirtelo? Evidentemente me ne ero accorto prima di tutti e due. –

– Accorto di cosa? Eravamo ubriachi e ci siamo lasciati prendere dal momento. – rispose contratto.

L’amico scosse il capo. – Robbie, non sei stupido, per cui non comportarti come tale. Avrai finto di non ascoltarmi allora, ma non commettere lo stesso sbaglio anche stavolta. Perché credi che Kendra non si sia più fatta vedere da ieri? –

- Non saprei… - si accigliò. – Sarà stata in imbarazzo. Mi sembrerebbe anche logico, no? –

- L’imbarazzo l’aveva superato già ieri, venendo qui e cercando di parlarti, nonostante sapesse perfettamente cosa stavi passando. Non hai pensato a questo? –

Robbie non replicò. Onestamente no, non lo aveva fatto.

Stefan andò a sedersi accanto a lui. – Ascolta, nonostante tu non ne abbia mai voluto parlare, abbiamo visto chiaramente che c’è qualcosa che ti porti dietro da Los Angeles. Qualcosa che ti segue, che ti fa male, che magari ha pure direttamente a che fare con il tuo trasferimento. Non lo so e, francamente, non lo voglio neanche sapere. Ma se dovessi tirare a indovinare… te ne stai spesso per i fatti tuoi, e vedendo la tua reazione ad un bacio, sono sempre più convinto che abbia a che fare con una ragazza. – studiò gli occhi dell’amico. – Dimmi che mi sto sbagliando. –

Robbie lasciò che fosse l’altro a immaginare la risposta.

Stefan si rialzò e s’incamminò assorto verso la porta.

- Io non voglio fare l’ambasciatore di nessuno. – proseguì, voltandosi di nuovo. – Ma il modo in cui Kendra ti guarda… non lo ritroverai così facilmente. Posso capire che il tuo cuore stia ancora correndo dietro al passato, ma ti assicuro che qui hai trovato altre persone che tengono a te. E Kendra… non credi che sarebbe giusto, per entrambi, darvi una possibilità? –

 

*****

 

- Sapevo che saresti venuta. – Jade fronteggiò l’amica sulla soglia. – A questo punto, però, stavo iniziando a chiedermi quando. –

Tori si rifiutò di raccogliere la provocazione e aggrottò la fronte. - Mi fai entrare? –

- Potremmo anche restare qui. - strinse la presa sullo stipite. – Per quanto mi riguarda, se non fosse per Cat, avrei smesso di aspettarti da un pezzo. –

- Sarebbe stato difficile credere il contrario. So cos’è successo. Fammi entrare, per favore. –

Jade sollevò un sopracciglio con diffidenza, prima di scansarsi e lasciare che Tori accedesse al suo appartamento.

- Ho fatto prima che ho potuto. – disse la giovane Vega, mentre adagiava borsa e soprabito sul divano.

Jade richiuse la porta e, continuando a darle le spalle, scosse lievemente il capo. – Già. –

Tori si voltò di scatto. - Lo giuro. Stamattina avevo il turno al supermarket. –

La mora sorrise. Si leggeva nel tono di entrambe, il senso di superiorità e la presunzione di giudicare l’altra, in qualsiasi momento.

- Vieni con me. – la invitò, attraversando il soggiorno.

- Dov’è Cat? –

- Nello stesso posto da ieri sera. Chiusa in camera sua. –

Jade la guidò in silenzio fino alla stanza di Cat. Ma con un cenno della mano, la fermò prima che potesse bussare. Avvicinò l’orecchio alla porta. Dall’interno proveniva solo qualche rumore sommesso.

Si voltò nuovamente verso Tori, studiandone lo sguardo preoccupato. – Che cosa sai? -

- Poco, in realtà. Andre mi ha soltanto accennato qualcosa al volo. Non aveva molta voglia di parlare. –

Jade annuì. Forse era il caos che si stava creando tra i suoi amici, a tirare fuori quel lato di lei spesso nascosto. – Ascolta, non so neanche se ha smesso di piangere, da ieri notte, o se alla fine è crollata per lo sfinimento. Per un po’ sono rimasta qui fuori, sentivo ogni lacrima che versava e ogni singhiozzo che faceva. Poi, quando ho provato ad entrare per starle più vicina, ho scoperto che aveva chiuso a chiave. Credo non sia più uscita. –

Tori sospirò. Dopotutto, apprezzava ciò che Jade aveva fatto con Cat. – Lascia provare me. –

Posò la mano sulla maniglia e provò a spingere. Niente da fare.

Lanciò una rapida occhiata a Jade, prima di bussare. – Cat? Sono io, Tori. Sono passata per vedere come stai. –

Attese alcuni secondi, ma non ricevette riscontro.

– Che stia dormendo? – chiese sottovoce a Jade.

L’altra scosse il capo. – Improbabile. –

- Cat, per favore. – ci riprovò. – Sono qui per te. Che ne dici di uscire e fare due chiacchiere? –

Aspettò. Ancora niente.

Jade incrociò le braccia e si appoggiò con la schiena contro la parete. Era convinta che avrebbe funzionato.

Tori sospirò, apprensiva. - So che stai passando un periodo difficile, ma… -

- No, tu non sai proprio un bel niente! – eruppe, improvvisamente, la voce di Cat dall’interno.

L’amica sobbalzò sorpresa e mise le mani sulla porta. – Cat, perché non mi spieghi che succede? Rispondimi, ti prego. –

- E tu mi hai risposto, ieri sera? – il tono era squillante, i nervi ancora tesi come corde di violino. – Avevo bisogno di te, e tu non c’eri! –

- Ma sono qui adesso! Avanti, Cat, esci e parla con me. –

Il silenzio calò nuovamente da entrambe le parti. Cat sembrava non avere nessuna intenzione di abbandonare il suo personale rifugio, e tantomeno, di sprecare altro fiato.

Tori premette la fronte contro il legno e chiuse gli occhi. – Che cosa le è preso? –

– Ha a che fare con Robbie. - Lo sguardo impassibile di Jade nascondeva la menzogna. – Vi avevo avvertito di stare attente, ma non mi avete voluto ascoltare. –

L’amica le lanciò un’occhiataccia. – Non mi sembra il momento giusto per giocare a “te l’avevo detto”. -

Jade si schiarì la gola. Non avrebbe infierito, ma in fin dei conti, se l’era cercata.

– Cosa avevi raccontato ad Andre, ieri? –

Tori fu sorpresa da quella domanda, ma scosse il capo. – Lascia perdere. –

Sarebbe stata la prossima cosa a cui pensare. E proprio allora, la voce triste di Cat riemerse dalla stanza.

- Forse è meglio che tu te ne vada. –

Tori si riaccostò alla porta, sperando di aver sentito male. - No! Perché dovrei? Avanti, ci sarà pure un modo per risolvere tutto questo. –

- Lasciatemi sola. – suonava a un passo dal versare l’ennesima lacrima.

– Cat, ti prego… -

– Torna a casa, Tori. -

Mentre la giovane Vega rimaneva immobile e rassegnata, Jade si scostò dal muro. Si rivolse a Cat con modi decisi, forse per ricordarle la sua presenza. – Io torno di là. Se mi cerchi, sai dove trovarmi. –

Prima di tornare in soggiorno, andò a posare una mano sulla spalla di Tori. – A quanto pare, stavolta non sono io a volerti cacciare di casa. -

 

*****

 

Non era la prima volta che litigava con sua moglie, e sicuramente non sarebbe stata l’ultima. Urla e insulti riempivano la stanza, volavano i “non è possibile”, i “non ce la faccio più” e i “ne hai fatta un’altra delle tue”. Qualsiasi fosse il motivo. Ce n’era sempre uno buono per darsi addosso.

Thomas si teneva la testa tra le mani per cercare di attutire la voce stridula della moglie, mentre lei continuava a inveire rinfacciandogli errori presenti o passati. Dopo poco, le parti si invertivano e la situazione si faceva apocalittica.

Nonostante la porta chiusa, le grida non riuscivano ad essere trattenute dalle pareti. Passavano attraverso e inondavano tutta la casa, fino a raggiungere inesorabilmente anche la cameretta di Lisa.

Fin da piccola, quella povera bambina aveva sempre sentito litigare i suoi genitori. Che ricordasse, non era mai passata una settimana intera senza almeno una discussione. Non per lei, non per suo fratello, ma semplicemente perché non tutte le coppie sono fatte per andare d’amore e d’accordo. E crescere in un ambiente che era tutto tranne che felice, non era la cosa più facile del mondo.

Thomas e sua moglie cercavano di non farsi sentire, ma dopo tanto tempo, ormai non importava nemmeno più di tanto. Che le cose non stavano funzionando era lampante. Che stessero tenendo duro solo per le figlie, lo era altrettanto.

L’unico segreto che ancora resisteva in quella casa, era l’infedeltà di Thomas. Impossibile che sua moglie potesse sospettare qualcosa.

Quella sera, Lisa sentì il bisogno di uscire dalla sua stanza. Gli occhi arrossati e pieni di lacrime, di una bambina che non ne poteva più di sentire le persone che amava di più scannarsi a vicenda.

Si chiuse la porta della cameretta alle spalle, lasciando la sorellina stretta tra i peluche, e si avviò barcollando mentre la camera dei genitori. Più si avvicinava, più le loro voci si facevano chiare, distinguibili, arrabbiate. Facevano paura.

E faceva ancora più paura entrare. Ma si fece forza e premette la mano sulla maniglia.

- Basta! – in quell’istante, il grido disperato della bambina spense ogni altro rumore.

Thomas e la moglie si voltarono in gelido silenzio verso di lei, che dalla soglia li stava fissando con occhi lucidi.

Le espressioni furiose avevano lasciato il posto ad uno strano senso di soggezione. Era la prima volta che venivano interrotti dalla figlia. E adesso, non sapevano come comportarsi.

Lisa, invece, non aveva bisogno di pensarci troppo. – Basta, vi prego. – mormorò, in preda ad ancora più lacrime. Il cuore scoppiava nel petto. Sotto lo sguardo attonito dei genitori, tornò di corsa in camera e riprese a piangere sotto le coperte.

Thomas si sedette sul letto e si passò una mano sul viso. Non c’era quasi più traccia della voglia di urlare o di sfogarsi. In mezzo a tutto, questa non se l’aspettava.

Non poteva andare avanti così, non era giusto. Non lo era per nessuno.

 

*****

 

Erano le nove passate, quando Andre rincasò.

Cercando di fare piano, sistemò il giubbotto sull’attaccapanni e posò lo zaino col portatile, prima di chiudere con una mandata la porta d’ingresso.

Si guardò intorno. Le luci erano accese, segnale che, almeno quella sera, non sarebbe stato da solo.

Regnava un silenzio asfissiante.

Andre si avviò lentamente verso la cucina, dove si aspettava di trovare la sua coinquilina.

E infatti, seduta al tavolo con un bicchiere vuoto davanti a sé, Tori era lì ad aspettarlo. Aveva i capelli un po’ in disordine e l’aria appesantita.

- Pensavo che non saresti tornato, stasera. – esordì la ragazza, con tono pacato.

Andre si diresse al frigo. – Ho pur sempre una stanza qui, no? –

Cercava di ostentare indifferenza, mentre sentiva lo sguardo di Tori puntato sulla schiena.

- Hai già cenato? – gli chiese lei, in un tentativo di suonare conciliante. In realtà, non aveva ben chiaro come rivolgersi a lui, cosa inseguire, e nemmeno che tipo di reazione sperare di ottenere.

- Ho mangiato un panino per strada. – rispose inflessibile, afferrando una bottiglietta d’acqua.

Nonostante la distanza, l’amarezza che aveva colorato la sua giornata non si era affievolita. E adesso, per quanto provasse a combattere il suo stesso stato d’animo, non riusciva neppure a guardare negli occhi quella che avrebbe dovuto essere la sua migliore amica.

Sospirò, e in un dejà-vu della sera precedente, continuando a darle le spalle, fece per tornare nella sua stanza. – Sono stanco, vado a dormire. –

Stavolta, Tori trovò la forza di fermarlo. – Aspetta, Andre. –

Non gli avrebbe chiesto dove fosse stato tutto il giorno, o perché si fosse reso irraggiungibile, ma qualcosa andava fatto. Non avrebbe lasciato correre.

- Non possiamo continuare a ignorarci così per sempre. –

Lui si voltò, i loro sguardi finalmente si incrociarono. Non riusciva a mascherare in viso tutta la fatica che stava provando. Stavolta avrebbero tirato fuori tutto quanto.

– Dobbiamo parlare. –

 




 


N.d.A. Un ritorno inaspettato, da me per primo. Ma se c'è ancora qualcuno che ha voglia di leggere e seguire questa storia, ben ritrovati.
Grazie a tutti, di cuore.

S.o.J.

 

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