Armony's Enlistment

di Leonhard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Guerriero della Luce ***
Capitolo 2: *** Firion ***
Capitolo 3: *** Luneth - Cavaliere Cipolla ***
Capitolo 4: *** Cecil Harvey ***
Capitolo 5: *** Bartz Klauser ***
Capitolo 6: *** Terra Branford ***
Capitolo 7: *** Cloud Strife ***
Capitolo 8: *** Squall Leonhart ***
Capitolo 9: *** Gidan Tribal ***
Capitolo 10: *** Tidus ***



Capitolo 1
*** Guerriero della Luce ***


GUERRIERO DELLA LUCE


Era finita con un'esplosione di luce. Per qualche istante, solo qualche istante, ebbe paura che l'avrebbe bruciato, ma era della luce che si trattava: non era possibile che lo ferisse. Chaos era stato sconfitto e la luce aveva trionfato, ma non se l'era sentita di chiamarla vittoria né di definire la scomparsa di Garland come morte.

Erano finiti in un ciclo temporale.

Garland sarebbe tornato, e così anche l'oscurità.

Ma in quel momento preferì non pensarci.

A Cornelia i festeggiamenti erano durati per una settimana intera e quella era la prima sera in cui poteva godersi il silenzio del regno, spezzato solo dal ritmico e pacifico frinire dei grilli, dalla delicata brezza che scuoteva le fronde degli alberi e che smuoveva lievemente le tende della sua stanza. Si alzò si affacciò alla finestra, guardando i braccioli dell'armatura con sguardo lucido ma assente.

Il pellegrinaggio con i suoi compagni tra deserti, tundre, caverne e santuari infestati di mostri era ancora fin troppo fresca perché lui potesse pensare di dormire senza armatura: l'elmo era un conto, ma quella...senza corazza si sentiva nudo, indifeso e scoperto come un bambino in fasce. Il vento giocherellò con i suoi capelli argentei e la luce della luna li illuminò, facendoli quasi risplendere.

Fece vagare i suoi pensieri ripercorrendo la campagna in cui si era ritrovato assieme ai suoi compagni: Garland, Astos, il vampiro delle terre di Melmond, i quattro demoni elementali. Non si erano fatti mancare nulla, ma avevano assolto al compito donato loro dai cristalli senza fare troppe domande, ma tutti quei nemici, quei mostri oscuri non avevano fatto che aumentare i loro sensi e la loro prudenza fino a livelli quasi patologici.

Lui non riusciva a dormire senza la sua armatura ed anche gli altri non erano messi meglio: chi teneva i pugnali sotto il cuscino, chi lanciava magie di contenimento alla porta della camera e chi piazzava trappole farcite con la magia Oblio. Quella in particolare la vedeva fantasiosa, elaborata, ma un po' estrema dato che nessuno aveva idea della fine che facevano le vittime di quella magia.

La luna era particolarmente chiara quella sera, la luce perlacea era brillante ed intensa. Si riscosse ed uscì dalla stanza, azzardando a sé stesso che una passeggiata sulle mura del castello lo avrebbe distratto e magari conciliato il sonno; del resto, non poteva aspettarsi che tutto tornasse alla normalità dopo tutto quel tempo passato a dormire quando capitava, a viaggiare e camminare per giorni, sempre con le armi a portata di mano, a fare turni di guardia quando, spesso ma non per questo volentieri, si erano accampati fuori dalle sicure mura delle città.

Sul terrazzo, tuttavia, la luce della luna era così intensa da farli male gli occhi: evidentemente c'era qualcosa che non andava per il verso giusto. Davanti a lei, avvolta da un fascio abbagliante di luce, vi era una figura; era snella, bionda e dalla bellezza ultraterrena. Gli occhi azzurri non lo perdevano di vista con un'espressione benevola che gli fece nascere, in mezzo allo smarrimento ed al nervosismo che sentiva, un moto di pace, di tranquillità, ma anche d'amore, di dedizione: sentiva che per quella donna, se solo glielo avesse chiesto, sarebbe stato pronto a fare qualsiasi cosa.

Rimase immobile. La figura non parlò subito: per qualche secondo si limitò a studiare il suo volto, la sua corazza che riluceva la luce che sprigionava, il suo sguardo smarrito che la guardava. Poi parlò: la sua voce era dolce, suadente e pregna di tale bontà da farlo quasi commuovere.

“Guerriero della Luce” chiamò. “Io sono Cosmos, la dea dell'Armonia”. Una dea, certo: cos'altro poteva essere? Il cavaliere, dopo qualche secondo, cadde in ginocchio.

“La dea dell'Armonia?” ripeté. “Mi perdoni, mia Signora, se mi presento davanti a lei armato”. La figura rise; una risata pura come il gorgoglio di una sorgente contro le rocce.

“Non fa niente, mio guerriero” rise. “Sono qui perché ho bisogno del tuo aiuto”.

“Come posso servirti mia Signora?”.

“Puoi chiamarmi Cosmos” sorrise la dea. “E dammi pure del tu”.

“Non mi permetterei mai”.

“Mi offenderesti se continuassi a parlarmi così”. La voce non presentava toni di avvertimento, ma nemmeno di risentimento. L’uomo osò alzare uno sguardo su di lei: la sua espressione era diventata preoccupata.

“Di cosa si tratta mia Sig…Cosmos?” chiese. La dea sospirò.

“Devo chiederti di prendere parte ad una guerra” rispose.

“Una guerra?”.

“Sono in guerra con il Dio della Discordia, Chaos”. Quel nome bastò per fargli dimenticare ogni gesto di umiltà e sottomissione: si drizzò di scatto in piedi ed avanzò di un passo.

“Chaos?!!” esclamò. “L’abbiamo sconfitto. Abbiamo combattuto e vinto Chaos!”. Subito dopo si chiese se l’avessero veramente fatto. E se fosse stato vero, per quanto tempo sarebbe stato sconfitto? Che fosse quello il risultato del loop temporale in cui Garland aveva intrappolato il mondo intero?

“Temo di no, valoroso guerriero” rispose lei, cupa. “Io e Chaos siamo impegnati in una guerra senza quartiere; ha nelle sue file dei soldati fuori dal comune che combattono per lui: in poco tempo, i miei battaglioni sono stati spazzati via dalla loro brutalità ed io mi trovo a corto di combattenti. Devo radunare quanti più guerrieri posso per poter far fronte a questa minaccia: se fallirò, il mondo intero sarà avvolto nella più fitta oscurità”. Il cavaliere non sentì di dubitare di quella figura: la sua espressione, il suo tono, persino la luce che emanava aveva un che di preoccupato.

“In questo momento, mentre parlo con te, sto cercando altri guerrieri in posti lontani e spero in nel loro assenso: non voglio costringervi a prendere parte ad una guerra che non è vostra, ma temo di non avere altra scelta. Non posso affrontare Chaos e i suoi guerrieri, non da sola e non tanto a lungo da rimediare una vittoria: ho bisogno di voi”.

“Su una cosa ti sbagli, Cosmos” replicò lui, scuotendo la testa. “Se c’entra Chaos, questa guerra è anche la mia. Puoi contare sulla mia spada, sul mio scudo e sulla mia luce”.

Tornò finalmente il sorriso sul volto della dea e fu con quel sorriso impresso negli occhi che il Cavaliere della Luce venne avvolto da un’abbagliante raggio bianco.

“Non avere paura: ti condurrò sul campo di battaglia”.



NOTA DELL’AUTORE:

E finalmente eccomi qua. Questo è un progetto che mi è venuto in mente ormai due anni fa, ma che ha richiesto un lungo lavoro per la sua preparazione e solo adesso posso finalmente tentare di metterlo in piedi.

Rigiocare a tutti i Final Fantasy, dal primo al decimo, per preparare queste OneShot è stato arduo e faticoso, ma per un amante della saga come il sottoscritto è stato anche un piacere, soprattutto a pensare che in questo modo avrei aumentato la credibilità e la possibilità di fare una bella raccolta.

Spero che siate in molti a seguire questa serie e ovviamente spero che piaccia.

Un saluto a tutti voi.

Leonhard

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Capitolo 2
*** Firion ***


FIRION


Si era parlato di un sacco di cose durante la riunione dei membri di quelli che una volta era il gruppo di ribelli: erano diventato un comitato di restauro subito dopo i festeggiamenti e l'incessante lavoro che imponeva tale iniziativa non lasciava molto tempo ai ricordi.

Firion, Maria e Guy erano diventati gli occhi, le orecchie e le braccia di Hilda: si spostavano di città in città, paese in paese, provincia in provincia che ancora non avevano avuto il tempo di pensare loro stessi, a come l'esperienza con Mateus li avesse cambiati, a tutti i compagni...gli amici che avevano sacrificato la loro vita spinti dalla fede nelle loro capacità. Firion aveva avuto a malapena il tempo di rallegrarsi al pensiero che avevano esaudito il loro ultimo desiderio, ovvero fermare l'Imperatore: ormai loro erano in pace.

Del resto, era assurdo che dovessero combattere Mateus anche nell'aldilà...no?

Si stava godendo uno dei rari momenti di pausa: la sacralità del pranzo era una cosa che Guy per primo adorava e non gli era parso vero quando li avevano informati che i lavori si sarebbero interrotti per due ore. Firion aveva mangiato rapidamente e si era ritirato sulla collina: da quell'altezza poteva vedere il panorama di un mondo finalmente in pace, luminoso e quieto, accarezzato da una pacifica brezza fresca. Riscoprì le piccole gioie dei suoni e colori della natura da cui era stato brutalmente strappato via da Fynn quel giorno: il fruscio del vento contro le fronde degli alberi, il lieto cantare delle cicale, il ronzio di un sonacchioso calabrone che gli passò accanto e tirò dritto, non trovando nulla di particolarmente interessante in quel ragazzone in armatura circondato da armi di ogni tipo.

Si volse verso la tavolata poco lontana: Guy stava russando amabilmente sul tavolo, e Maria era intenta ad intrattenere i bambini del villaggio. Guardandola si scoprì a pensare a Leon: chissà dov'era finito, se stava bene e semmai sarebbe arrivato il giorno in cui fosse riuscito a pendonare sé stesso per quella fame di potere che l'aveva spinto tra le file di Mateus. Poteva intuire che il Cavaliere Nero fosse ancora presente in lui e per questo non aveva fatto questioni quando aveva deciso di andarsene.

Maria era distrutta ed affogava la sua ansia nel lavoro di ristrutturazione. Era di notte il problema: quando tutto quello che c'era da fare era rilassarsi e pensare al giorno dopo, l'aveva sentita parecchie volte piangere e chiamare il fratello con una voce così sofferente e bisognosa da far scendere anche a lui qualche lacrima. Quella guerra ci avrebbe messo un po' a finire del tutto e non sarebbe stato indolore.

“Firion...” si sentì chiamare. Si volse e davanti a lui comparve Hilda; arrossì di botto e distolse immediatamente lo sguardo. Quella volta non era stata veramente lei, ma da quando aveva cercato di sedurlo, dopo il salvataggio dalla Dreadnought, faticava anche solo a guardarla in faccia.

“Imperatrice Hilda...” salutò rispettosamente. La donna emise una risatina e si avvicinò.

“Era una Lamia, Firion” rimbeccò; non c'era nessun rancore nella voce, ma solo il soddisfatto divertimento di una donna in grado di far arrossire un ragazzo come lui. “E poi adesso sono sposata: una relazione extraconiugale sarebbe deleteria da ogni punto di vista”. Il ragazzo scosse la testa e cercò di dire qualcosa che nemmeno lui sapeva. L'imperatrice lo fermò con un cenno della mano.

“Come sta andando la restaurazione?” chiese, aprendo finalmente un discorso che non facesse andare Firion nel pallone. Sospirò.

“Abbiamo molto lavoro da fare” disse. “Ci sono intere aree da ricostruire, bocche da sfamare...ne avremo per un bel po'...”.

“Avevo pensato di nominare dei ministri che gestiscano queste aree...” cominciò lei, soprappensiero. “Ministri che abbiano pieno potere sull'area e sulla popolazione, ma che rispondano direttamente a me”.

“Mi sembra un'idea eccellente” annuì il ragazzo. “E nel caso di difficoltà o di pericolo l'impero avrebbe modo di correre in soccorso”.

“Il fatto è che non posso mettere a ricoprire cariche così importanti il primo che passa” continuò Hilda. “E va anche detto che la corte non ha così tanti ministri da impiegare nelle provincie, a meno di svuotarmi la corte e far rimanere la capitale un po' troppo indifesa”. Mentre parlava occhieggiava nella sua direzione e lui si chiese il motivo.

“Quindi cosa intende fare?” chiese. La donna sorrise.

“Beh, di tutti gli uomini fidati di cui dispongo voi tre siete quelli di cui mi fido di più” disse. “Quindi vorrei chiederti se te la senti di ricoprire la carica di ministro in una provincia: avevo pensato di farti reggere Altair, ma naturalmente se hai altre preferenze...”. S'interruppe; Firion la stava guardando con un'espressione incredula. L'ari attorno a loro stagnò per qualche secondo, poi parlò.

“Mi sta mettendo...al governo di una provincia?” mormorò. Hilda annuì.

“E ti sto conferendo pieni poteri” puntualizzò. “Gli unici a cui dovrai sottostare sarà la corte imperiale di Fynn, quindi a me e a Gordon. Farò la stessa offerta a Maria, ma a Guy chiederò di sottostare anche ad uno di voi due: perdonami, ma non mi ha mai dato l'impressione di un uomo con un intelletto molto acuto”.

“Hilda, io sono un soldato” disse Firion, dimentico del fatto di star parlando con l'imperatrice. “Non credo di essere fatto per reggere un paese”. Lei annuì comprensiva.

“Posso capire che l'idea ti scuote, ma ho veramente bisogno di uomini; la ribellione è stata faticosa, ma ormai avrete capito da soli che ricostruire un mondo devastato da un tiranno è molto peggio” disse. “Non si tratta più di far parlare le spade, Firion: adesso bisogna agire con diplomazia e studiare le mosse in maniera molto più accurata. Non posso più rivolgermi a persone in grado di combattere, ma a persone che siano anche giuste. Il tuo senso di correttezza è sempre stato esemplare ed è anche grazie a questo che siete stati proprio voi a sconfiggere Mateus anche nel castello del Pandaemonium”.

Hilda guardò Firion e si sentì intenerire: sul volto era dipinta un'espressione turbata, impaurita. Per un breve istante non vide in lui l'eroe che aveva ucciso il tiranno, ma un ragazzo appena diciassettenne a cui stava offrendo una responsabilità che molto probabilmente non sarebbe riuscito a gestire. Ma dall'altra parte non aveva scelta: era un'imperatrice ed aveva imparato a spese sue che quella carica comprendeva anche il dover prendere decisioni, non per convenienza ma per correttezza e talvolta per necessità.

“Capisco il tuo turbamento, Firion: dico davvero” disse. “Non insisterei così tanto se non fossi con l'acqua alla gola”. Lo guardò impallidire e strinse le labbra. “Ti lascerò tempo fino a stasera per pensarci: spero che per quel momento tu acconsenta a questa carica o che mi porti una valida alternativa. Sei stato un leale soldato e sei un fedele amico: ti prego, non costringermi ad ordinartelo”.

Firion rimase solo con i suoi dubbi ed i suoi nuovi pensieri: lui alla guida di un paese.

Lui.

Tornò a guardare il panorama davanti a lui, senza tuttavia riuscire a goderselo come prima. Il potere dava alla testa, questo l'aveva sempre saputo, ed una lunga sfilza di nomi lo provavano: lui avrebbe avuto il potere di fare del bene, ma sarebbe stato in grado di gestirlo? E se quel potere avesse risvegliato in lui il desiderio di più potere? Sarebbe arrivato mai a fare come Mateus, a vendere l'anima al diavolo per ottenerlo?

Il vento gli smosse il mantello e, qualche secondo dopo, a pochi passi da lui comparve un fiore: nacque, crebbe e sbocciò nel giro di pochi secondi, con movimenti talmente armonici da sembrare un evento normale. Il ragazzo scattò in piedi, stupito da una simile visione, e si trovò davanti una donna.

Una calda, pulsante luce circondava i suoi capelli dorati e l'espressione benevola nei suoi occhi azzurri scacciò tutti i dubbi e tutti gli affanni che le parole di Hilda gli avevano dato. Un abito bianco le copriva il corpo snello ed un velo di tulle sottile circondava le braccia candide.

“Firion?” chiamò. La sua voce era calda, dolce, ma distante come se provenisse dall'altra parte di un tunnel. “Io sono Cosmos, la dea dell'Armonia”. Il ragazzo apparve spaesato: scrutò la donna con occhi stupiti e lei restituì un'espressione benevola. Con movimenti lenti si chinò e colse il fiore ai suoi piedi: era grande e ricoglioso, di un bel rosso acceso. Accostò il fiore al volto ed assaporò il profumo. “È molto gradevole, non pensi?”.

“Ah...ehm...beh, io...” balbettò il ragazzo, confuso. La donna emise una risata, bella e limpida.

“Non devi sentirti a disagio, Firon” disse. “Sono qui perché ho bisogno dei tuo aiuto”.

“Il mio aiuto?” ripetè il ragazzo. Parve riprendere coscienza di sé: s'inginocchiò e cercò di dare alla voce la sicurezza e la compostezza del soldato che era diventato. “In cosa posso essere utile, mia signora?”.

“Oh, non c'è bisogno di tutto questo” disse la voce della dea. “Alzati: puoi chiamarmi Cosmos, se ti aggrada”. Il ragazzo obbedì e rimase in ascolto. “Ho bisogno che tu prenda parte ad una guerra”.

“Una guerra, Cosmos?” ripetè lui.

“Sì” annuì. “Contro il dio della Discordia...Chaos”. Quel nome gli era nuovo, ma il fatto che fosse anch'esso un dio gli diede una chiara idea di cosa avrebbe dovuto affrontare. “Sta seminando la distruzione tra le mie armate: sono quasi tutti caduti sotto i colpi dei suoi campioni. In questo momento sto radunando le poche forze che ho ancora a disposizione, ma non resisteranno a lungo”. L'espressione sul suo volto si era fatta sconsolata ed un velo di mortificazione comparve nei suoi occhi.

“Vuoi che io prenda parte a questa guerra?” chiese Firion. “Io...non credo di avere le capacità di ribaltare le sorti di uno scontro come questo...”.

“Non sarai solo” puntualizzò Cosmos. “Avrai al tuo fianco dei compagni che ti daranno supporto: li sto arruolando in questo momento”.

“Veramente...io qui...” cominciò lui, ma s'interruppe: non sapeva se fosse saggio dire ad una dea che aveva altro da fare. Lei tuttavia sorrise.

“So che sei impegnato a ricostruire il tuo mondo: quello che è successo qui è una conseguenza dell'operato di Chaos” disse. “Se preferisci restare qui, lo capirò e non ti obbligherò a seguirmi. Ma vorrei che tu sapessi che se dovessimo fallire...se io dovessi perdere la guerra...tutti i mondi sprofonderebbero nella rovina più oscura e non esisterebbe più nulla in grado di sconfiggerla.

“A differenza dell'imperatrice Hilda, temo di non poterti dare molto tempo per pensarci, Firion...”. Il ragazzo la interruppe scuotendo la testa.

“Non ne ho bisogno, Cosmos” disse. “Verrò: lo farò per te e per il mio mondo”. Il viso della dea si schiuse un un candido sorriso e la luce attorno a lei si fece più intensa. Gli porse il fiore.

“Prendilo” disse. “Credo che tu debba conservare un piccolo frammento del tuo mondo...finchè non tornerai qui”.

Firion prese il fiore ed annuì. Finché non ritornerò qui.

(Se ritornerò qui) pensò, mentre la luce sprigionata dalla dea lo accecava, avvolgendolo sempre più.



NOTA DELL'AUTORE:

Ed anche Firion è stato arruolato. Ho voluto dargli una personalità più matura, ma comunque provata dalla guerra contro Mateus appena conclusa piuttosto che il carattere da sempliciotto con cui affronta le vicende del secondo capitolo: spero di aver fatto un buon lavoro, ma soprattutto coerente.

Il prossimo che verrà arruolato sarà Luneth, il Cavalier Cipolla: per lui prevedo un lavoraccio, perché è l'ultimo capitolo su cui sono riuscito a mettere su le mani...

Stay Tuned

Leonhard

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Capitolo 3
*** Luneth - Cavaliere Cipolla ***


LUNETH


Francamente non capiva il motivo per cui doveva sentirsi così afflitto; cioè, lo capiva ma quello che continuava a chiedersi era il motivo per cui quel ricordo così lontano, fosse ancora capace di fargli provare le stesse sensazioni di allora. Non c’era stato molto tempo per godersi la compagnia di Aria prima che il Kraken la colpisse a morte.

Li aveva benedetti tutti e quattro, ma la verità era che quella era stata una benedizione dura da mandare giù e Xande era stato un ottimo bersaglio per la sua rabbia. Lui e Nube Oscura. Il suo divenire bellicoso non era stato propriamente un atteggiamento da guerriero prescelto dal Cristallo, ma doveva anche fare i conti con il fatto che lui era un essere umano, vittima di sentimenti ed emozioni. Era arrabbiato e doveva, doveva porre fine alla sua rabbia; altre persone avrebbero perso la casa, i cari o molto di più.

Non poteva permetterlo: bastava la sua, di rabbia.

E con la sconfitta di Nube Oscura tutto era finito: la rabbia, il caos, anche il quartetto che l’aveva combattuta. Lui e Arc erano tornati a Topapa ed il suo amico stava per entrare nel consiglio dei saggi, decisione molto controversa e dibattuta per via della giovanissima età. Ma si sa, i saggi erano gelosi ed orgogliosi del loro intelletto e mal tolleravano che un ragazzino di quattordici anni avesse tutte le carte in regola per entrare nella loro cricca. Ingus era tornato a Sasune, a servire la sua principessa che, Luneth sperava sinceramente, con il tempo avrebbe avuto un rapporto un po’ più…come dire…definito. Refia lavorava come apprendista con il padre, sebbene ci avessero messo il loro per convincerla; la sua natura ribelle mal si sposava con la sedentarietà e la solitudine della rovente fucina dove il padre aveva lavorato per tutta la vita.

E lui? Beh, lui passava le sue giornate gironzolando per il villaggio, spingendosi alle volte fin alla grotta del cristallo. Ma un’anima curiosa come la sua non traeva nessun piacere a vedere luoghi per la seconda volta: era una cosa che, nonostante la sua intelligenza, non aveva pensato quando era partito con l’amico, eccitato all’idea di vedere il mondo e senza pensare alla missione che gli era stata assegnata con la dovuta serietà e gravità. Quello era un compito che era spettato ad Arc.

Avrebbe voluto viaggiare, ma stessa storia: aveva visto tutto, fatto tutto e andato dappertutto. Che senso aveva rivedere gli stessi luoghi? Era andato persino nell’Oltremare e aveva visto cosa c’era. Il tempo di vederlo bene ed era tornato, con tutti i suoi amici: Doga e Unei avevano deciso che quello non era il posto per loro e se lo era non era ancora arrivato per loro il momento di andarci. Ma poteva lui non desiderare di vederlo bene, di avventurarsi in quel mondo nuovo, sconosciuto a tutti tranne che a loro?

Ebbene, non lo desiderava: quello era l’unico posto che non avrebbe mai voluto visitare. Lo avrebbe fatto, quello era inevitabile, ma sapeva che sarebbe stata la sua ultima avventura, il suo ultimo curiosare in una terra che nessuno conosceva e sapeva che ciò che avrebbe visto non lo avrebbe mai raccontato ai saggi di Topapa.

Quello che voleva vedere, nonostante il dolore al petto, era quel panorama, quel paesaggio; un paesaggio sempre uguale ed allo stesso tempo sempre diverso. Gli ricordava chi era, cosa aveva fatto e per chi, ma soprattutto quanto era costato.

A distrarlo fu un lampo di luce poco lontano da lui: volse lo sguardo lentamente, soprappensiero, come se non avesse molta importanza un’abbagliante luce che nasceva dal nulla. Anche la figura che ne uscì non ottenne se non un’occhiata lontana, davanti a cui sorrise benevola.

“Luneth, il Cavalier Cipolla?” chiese. La voce era profonda, dolce, ma in un certo senso distante. “Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia”. Ecco, quella era una cosa che fece tornare l’attenzione del ragazzo tutta di colpo; vacillò leggermente sotto la consapevolezza di essere al cospetto di una dea. Rimase immobile ed in silenzio, senza sapere come comportarsi. Lei emise una piccola risatina, come se avesse percepito la sua titubanza. “Rilassati, va tutto bene”.

“Ehm…salve…no, scusi…omaggi…nemmeno questo…cosa posso fare per lei?” chiese impacciato. La dea smise di ridere ed un’espressione grave distese il suo viso perfetto.

“Ho bisogno del tuo aiuto” rispose. “Sono impegnata in una guerra contro il dio della Discordia, Chaos, e sto radunando dei campioni che combattano per l’Armonia”.

“Una guerra?” ripeté Luneth. Subito dopo s’impose di stare calmo e di riflettere. Cosmos annuì gravemente.

“Ho bisogno del tuo aiuto” ripeté. “Sono mortificata a chiederti un compito così pericoloso nonostante la tua giovane età, ma tu sei il guerriero più valoroso di questo mondo…”.

“Aspetta un attimo…” disse di getto Luneth, senza pensare che non era molto rispettoso interrompere una dea. “Hai detto…questo mondo? Ci sono altri mondi?”.

“Certamente” annuì lei. “E sto cercando i guerrieri più valorosi da ognuno di loro”. Musica per le sue orecchie: altri mondi, che aspettavano solamente lui. Fece per accettare, ma Cosmos parlò nuovamente, anticipandolo. “Bada bene che quello che ti sto chiedendo è di combattere una guerra che deciderà le sorti di tutti i mondi, compreso il tuo: non ti obbligherò a prenderne parte se tu non vorrai, ma se accetterai vorrei che tu capissi la gravità di tutto ciò ed il motivo per cui questo conflitto sarà vitale da entrambe le parti”.

“Cosmos, non c’è bisogno di aggiungere altro” disse lui, sorridendo. “Qui ho stabilito la pace assieme ai miei amici ed è mio compito preservarla. Tutti hanno trovato il loro posto, mentre io…”.

“Pensi a questa come un’occasione per trovarlo?” chiese lei: non c’era biasimo nella sua voce, ma Luneth avvertì comunque una nota di rimprovero.

“Credimi Cosmos: so bene in cosa mi stai chiedendo di entrare a far parte; ma se hai scelto me vuol dire che nessun altro potrà se io rifiuto. E poi…” sorrise e si batté un dito sulla tempia. “Ho sempre l’esperienza: è tutta qui dentro e so che mi aiuterà nel momento del bisogno. Per me non è un’occasione per trovare il mio posto nel mondo, ma per dargli un significato”. La dea stette immobile per qualche secondo, poi annuì.

“E sia” disse. “Ti ringrazio, Cavalier Cipolla”. E la luce lo investì.




NOTA DELL’AUTORE:

Probabilmente mi davate per morto o disperso, ma alla fine sono tornato.

Luneth è stato un personaggio abbastanza difficile da delineare e non sono nemmeno sicuro di aver fatto un buon lavoro, ma quest’ultima parte la lascio decidere a voi lettori. Il ragazzino cresciuto rapidamente è stato duro da portare avanti in contemporanea con altri lavori e progetti, ma alla fine ho fatto il meglio che ho potuto.

Il prossimo sarà Cecil: spero che con lui le cose vadano un po’ più lisce…

Stay Tuned

Leonhard

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Capitolo 4
*** Cecil Harvey ***


CECIL HARVEY

Aveva passato tutta la sua vita ad inginocchiarsi. A qualche passo da quei gradini, che lui non aveva mai avuto l’autorità di calpestare, c’era una mattonella particolare anzi un punto ben preciso in cui doveva fermarsi ed inginocchiarsi, mostrando il collo ad un uomo che in quel momento doveva riconoscere come suo re.

Non aveva mai messo in dubbio l’autorità della corona e sapeva quello che gli sarebbe successo se fosse capitato in lui un pensiero che non fosse di assoluta fedeltà. Al tempo, in cui ancora non sapeva che quei pensieri non solo sarebbero arrivati, ma avrebbero guidato le sue decisioni e le sue azioni, si era più volte fermato a pensare, all’interno della sua armatura nera, che ogni cavaliere aveva il dovere, l’obbligo di inginocchiarsi davanti al re: era una forma di rispetto, di sottomissione.

Ma non al re. Il fatto stesso che la figura del re cambia durante gli anni era la prova di quel pensiero che aveva dato genesi a tutti gli altri. Un pensiero troppo debole per guidarlo, ma al contempo troppo forte per essere ignorato.

I cavalieri non si inginocchiano al re, ma alla corona che il re porta sulla testa.

Questo pensiero si era tramutato in certezza, la certezza in assoluta verità, ma poi era crollata miseramente quando quella stessa corona era finita sulla sua di testa: l’aveva sempre guardata da lontano e gli era sempre apparsa come un ornamento importante, pesante da portare. Quando quel cerchietto d’oro venne appoggiato delicatamente sui suoi capelli, si era segretamente stupito di quanto leggero in realtà fosse. Lì per lì non ci aveva dedicato più di qualche secondo poi Rosa, la sua Rosa, gli aveva preso la mano ed indirizzato verso di lui uno sguardo sereno, con cui gli comunicava tutta la gioia e l’orgoglio che provava in quel momento, seduta accanto a lui, in veste di regina. Da quanto tempo il regno non aveva una regina? Due reggenti garantivano stabilità, nonché l’unico confronto a cui anche il re doveva partecipare, conscio che poteva anche uscirne in torto.

E non era sbagliato se qualche volta un re avesse avuto torto.

Era passata una settimana dalla sua incoronazione e si sforzava di entrare nei panni del re, non senza certe difficoltà: le avventure, le campagne, le visite agli amici erano ormai un ricordo ed anche il tempo che poteva passare con Rosa era centellinato e si limitava alla sera, quando si ritirava nelle camere private talmente stressato da desiderare solo una passeggiata con lei, da soli, nel grande giardino reale bagnato dalla luce che le due lune emanavano ed ammirare la bellissima tonalità bianca luminosa che aggiungeva al verde degli alberi, al grigio delle mura, ai variopinti fiori che adornavano e decoravano le aiuole.

Rosa già dormiva. Era crollata sul letto senza nemmeno coprirsi; la luce che filtrava attraverso le tende illuminava i delicati lineamenti ed i capelli biondi che vaporosi scendevano sul viso e sul corpo, come una dorata cornice che abbelliva ed impreziosiva la sua sposa. Il ragazzo rimase fermo a guardarla ed ammirarla finché non aprì gli occhi: lo fece di sua spontanea volontà e, incrociando gli occhi del marito gli rivolse un tenero sorriso stanco.

“Cecil…” mormorò, con la voce impastata dal sonno. “Scusa, mi sono addormentata…”.

“Hai avuto una lunga giornata” rispose lui, venendole accanto e bloccandola delicatamente sulla lenzuola, fermando il suo tentativo di alzarsi. La sistemò sul letto e la coprì. “Dormi, Rosa: io andrò a farmi una passeggiata nel parco”. Lei sorrise e si accomodò meglio sotto le coperte.

“Non fare tanto tardi” disse, chiudendo gli occhi. “Lo sai che non mi piace…dormire sola”. Finì la frase che già si era riaddormentata. Cecil sorrise e, posato delicatamente un bacio sulla tempia della ragazza, uscì.

Il cortile era silenzioso e piacevolmente fresco a quell’ora. Le uniche forme di vita erano le sentinelle appostate sulle mura, attente ad ogni movimento e strano rumore. Cecil fece loro un cenno di saluto, ricambiato da un inchino.

Svoltò l’angolo dietro le mura ed una luce accecante lo investì, impedendogli di fare qualunque cosa non fosse schermarsi gli occhi. Quando la luce si estinse, li riaprì e davanti a lui vide una donna: era circondata da una sorta di aura candida, che fremeva e riluceva pacifica; i lunghi capelli biondi le circondavano il viso e gli occhi azzurri lo guardavano con un’espressioni benevola.

“Cecil” chiamò. Aveva una voce dolce, ma permeata da una strana preoccupazione. “Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia”. Lui la guardò sorpreso, prima di ricordarsi che una dea era una delle poche figure davanti a cui anche un re doveva inchinarsi. E lo fece.

“Sono Cecil…” disse, senza realmente sapere cosa dire. La dea sorrise.

“Alzati pure, Cecil” invitò Cosmos, benevola. “Va tutto bene”. Il paladino obbedì, cercando tuttavia di non guardarla direttamente. Dopo qualche secondo di silenzio, parlò nuovamente. “Veramente…ho bisogno del tuo aiuto…”.

“Cosa?” borbottò lui, alzando senza riflettere gli occhi su di lei. “Il mio…aiuto?”.

“Ho bisogno del tuo aiuto per combattere Chaos, il dio della Discordia” disse lei. Seguirono attimi di interdetto silenzio, in cui Cecil elaborò la notizia. “Sto radunando guerrieri da tutti i mondi: mi sono rimasti pochi soldati ed ho bisogno di tutte le forze che posso trovare o avrò la peggio…”.

“Aspetta un attimo…” disse lui. “Chaos…il dio della Discordia…sta vincendo? Cosa vuole?”.

“Gettare i mondi nel caos” fu la risposta. “Lo sto combattendo da ormai troppo tempo e le mie forze sono allo stremo. Ti chiedo di poter contare su di te in questa guerra”.

“Una…guerra?” ripeté lui. Cosmos sorrise rassicurante.

“Mi rendo conto di chiederti molto” disse. “Non ho intenzione di costringerti in nessun modo; se rifiuterai io capirò e non ti chiederò di nuovo una cosa simile…ma vorrei che tu sapessi che la situazione è veramente grave. Se l’Armonia avrà la peggio, Chaos invaderà e distruggerà tutti i mondi che riuscirà a raggiungere”. Sospirò. “In questo momento, sono l’unica a frapporsi tra lui ed il suo scopo…ed ho bisogno di tutto l’aiuto che posso trovare. Ti chiedo di aiutarmi a fermare un dio…”. Cecil scosse la testa.

“Il mio regno è tutto ciò che ho…” disse. “E come re ho il dovere di difenderlo; verrò con te, Cosmos”. La dea, a quelle parole, sorrise radiosa.

“Ti prometto che farò quanto è in mio potere per farvi tornare tutti a casa” disse, prima di investirlo con la sua luce. Cecil, percependo il tepore della dea, ripensò a Rosa e, in qualche modo certo che potesse sentirlo, si scusò: la sua passeggiata sarebbe stata più lunga del previsto.



NOTA DELL’AUTORE:

Arruolato Cecil; un sistemato, accasato, maritato Cecil. Il suo personaggio è stato più semplice di Luneth, ma non meno impegnativo. Ma alla fine tutto è bene quel che finisce con Cosmos, no?

Il prossimo, ovviamente, è Bartz: un personaggio che sinceramente non mi ha mai detto granché, ma non ha senso trattarlo in modo diverso dagli altri. Vi saluto e vi rimando al prossimo aggiornamento.

Stay Tuned

Leonhard

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Capitolo 5
*** Bartz Klauser ***


BARTZ KLAUSER


Il vento era la sola cosa che aveva nelle orecchie e Bartz non riusciva a pensare a qualcosa che gli mancasse in quel momento. Il tocco dell’erba contro la nuca, un piccolo stelo incastrato tra i denti, il vento che giocherellava con le fronde di quell’albero sotto cui aveva trovato un ottimo posto dove schiacciare un pisolino. Sentiva il vivace cinguettare di Boko poco lontano, che ruspava in cerca di vermi, semi o radici di erba Ghisal a voler tentare la fortuna.

Erano passate meno di due settimane da quando lui ed i suoi compagni avevano sconfitto ExDeath, e la sua Lama del Coraggio che gli pendeva alla cintura a testimoniarlo: la spada non era molto conosciuta per il suo aspetto o per il suo caratteristico color vermiglio quanto per il nome. E parlando di nomi, le identità dei quattro guerrieri che avevano salvato il mondo erano ormai di pubblico dominio. Tutto quello non poteva durare.

Lenna era diventata sovrana del regno di Tycoon, com’era suo diritto e dovere. Faris aveva provato a far parte di quel mondo, ma era finita come entrambe le sorelle avevano previsto; lei era un pirata, una donna di mondo, abituata a solcare i mari e proprio quello aveva preso quando, appena qualche giorno dopo, aveva capito che quella vita di corte non faceva assolutamente per lei.

Lui? Beh, lui non c’entrava nulla in quella storia e dopo un po’ si era accorto che erano Lenna, Faris, Krile e Galuf, pace all’anima sua, che non c’entravano veramente. Alla fine, era stato un gruppo senza nulla in comune ad aver sconfitto Exdeath e, scomparsa quell’unico elemento in comune non aveva più trovato motivo per interrompere il suo viaggio. Boko era stato ben contento di riprendere a seguire il vento malgrado il rapporto che si era venuto a creare con Lenna in quei pochi giorni che lui passò a corte; la neo regina l’aveva coccolato e viziato con succulenti cespugli di erba Gishal e Bartz era stato quantomeno sorpreso dalla felicità che la bestiola aveva dimostrato quando si era presentato davanti a lui con la coperta che usava per sella.

E via per il mondo: aveva cavalcato verdi praterie ed attraversato alte montagne, fitte foreste e torridi deserti. Aveva viaggiato per qualche giorno prima di rendersi conto che tutti quei posti li aveva già visti durante i suoi pellegrinaggi: a quella consapevolezza era seguita molto velocemente l’idea di dover trovare altri luoghi inesplorati, posti nuovi, posti che valesse la pena vedere, spazi per cui valesse la pena viaggiare.

Voleva, doveva trovare delle nuove praterie in cui lanciare Boko al galoppo, assaporare la sensazione di libertà che ricordava le prime volte, gustarsi il fresco del vento che giocava con i suoi capelli e gli pungeva la faccia, godersi il veloce e regolare galoppare delle zampe di Boko unito al frusciare dell’erba calpestata: tutto quello non significava nulla se non c’era a condirle la sensazione di star correndo dall’ignoto verso l’ignoto.

E così il suo pellegrinaggio era ripreso ed interrotto nel giro di poche ore: da lontano, poteva ancora scorgere le guglie del castello del regno di Tycoon e sotto quell’albero il tempo sembrava non passare. Dormire o far finta non cambiava più di tanto: sentiva sempre gli uccellini cinguettare, Boko ruspare il terreno ed il fruscio delle fronde al vento. Aprì gli occhi e sbadigliò; cavolo, quasi sentiva la mancanza persino di Gilgamesh: almeno con lui avrebbe potuto farsi un bel duello.

Si mise seduto, attratto da qualcosa poco lontano da lui. era come un luccichio, una piccola molecola che brillava a mezz’aria. Ebbe appena il tempo di pensare che era un momento strano per vedere le lucciole, quando il puntino luminoso si espanse a formare un luminoso ed accecante fascio di luce. Quando riaprì gli occhi si trovò al cospetto di una donna.

Guardando la sua figura esile e minuta, i suoi voluminosi capelli biondi ed i suoi occhi blu non poté non pensare a come la bellezza di Faris passasse rapidamente in secondo piano. La donna gli rivolse un’occhiata gentile, prima di salutarlo con un lieve cenno del capo.

“Bartz Klauser” chiamò. Aveva una voce bella ma profonda. “Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia”.

“Oh” commentò il ragazzo, alzandosi in piedi: probabilmente avrebbe potuto esprimersi in modo più sagace o almeno intelligente, ma il suo cervello si era spento. “Ci sono dei problemi?”.

“Temo proprio di si, Bartz” annuì lei, incupendosi. “Il tuo mondo…anzi, tutti i mondi sono in pericolo. Chaos, il dio della Discordia, presto li conquisterà e li distruggerà se non facciamo qualcosa”.

“Chaos?” ripeté lui, senza capire.

“Io e lui stiamo combattendo una guerra” spiegò la dea. “Una lunga ed estenuante guerra, che purtroppo sta volgendo in suo favore. Sono alla ricerca di guerrieri disposti a combattere per me contro i suoi campioni”.

“Quindi, ti serve il mio aiuto?” chiese Bartz. La dea annuì.

Bartz sospirò: andare il guerra non era esattamente la soluzione ottimale alla carenza di luoghi da esplorare. Prima di aver modo di pensarci, si trovò ad annuire.

“Verrò con te” disse. “Se ci saranno luoghi nuovi da esplorare, ci sto”.

“Bartz…” sospirò Cosmos. “Dovrai combattere; esplorerai posti sconosciuti, ma molto probabilmente ostili. Anche con questa consapevolezza vuoi comunque rispondere alla mia richiesta?”. Il ragazzo annuì nuovamente e alla dea non servirono altre conferme. Quando la luce lo investì, si volse verso Boko: aveva alzato il muso da terra e lo guardava incuriosito. Stretto nel suo becco, un grosso verme si contorceva nella speranza di una fuga estrema.

(Tornerò Boko) pensò. (Stai tranquillo, tornerò: lo faccio sempre, no?). E quello che rimase fu bianco.



NOTA DELL’AUTORE:

scusate la brevità del capitolo, ma su Bartz non c’era effettivamente molto da dire. Siamo al giro di boa, cinque eroi sono stati arruolati: la prossima sarà Terra, online al più presto.

Stay Tuned

Leonhard

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Capitolo 6
*** Terra Branford ***


TERRA BRANFORD


La vittoria su Kefka aveva fatto scomparire la magia; così le avevano detto e quello era ciò che aveva visto tornando a Moblitz. L’assenza di qualsivoglia percezione magica nella sua testa le aveva smosso i capelli sciolti ed era tornata ad essere per gli orfani una figura di riferimento. A lei poco importava se la chiamavano mamma o sorella: stava facendo qualcosa di utile e tanto le bastava per sentirsi felice e libera.

Finalmente libera.

Era una sensazione nuova per lei occuparsi degli orfani senza secondi fini, senza il desiderio di tenere la mente occupata per evitare di pensare a ciò che ribolliva dentro di lei, desiderosa di uscire. Era una sensazione nuova, appagante, liberatoria.

Era durata appena una settimana.

Quella mattina, svegliandosi, si sentì come pervasa da un leggero ma sommesso crepitare, come se ci fosse una qualche corrente che scorreva assieme al suo sangue, qualcosa che la bruciava, che accendeva ed accelerava le sue molecole, irretiva i suoi sensi e le faceva sentire l’impellente impulso di correre.
Decise di non voler pensare che quella sensazione la conosceva bene e decise su due piedi di ignorarla; la presenza dentro di lei non apprezzò la cosa e, nel giro di poche ore, si ritrovò a correre per le pianure fuori Moblitz, indifferente al rischio di incontrare mostri.

Sentì mancarsi la terra sotto i piedi e non fu una bella sorpresa quando si sorprese a fluttuare a mezz’aria. Si agitò e gesticolò in preda al panico, come se fosse una cosa nuova per lei. Sentiva crescere dentro di lei il potere, rinascere, rivivere, svegliarsi da quel torpore in cui sembrava essersi assopito dalla morte di Kefka e tornò a farsi sentire, premendo ogni cellula del suo corpo nel tentativo di uscire completamente, in ogni direzione.

Si sentì mancare e fluttuò a terra, terrorizzandosi della facilità con cui lo fece, come se non avesse mai perso quegli infernali poteri che avevano causato tanto dolore, tanta devastazione.

Un bagliore luminoso e davanti a lei comparve una donna. Era alta e magra, con dorati boccoli che le ricadevano lungo il vestito ed incorniciavano un volto gravato da un’espressione seria e pensierosa. La fissò per qualche istante, poi parlò.

“Terra Branford?” chiese. Aveva una voce dolce, quasi ultraterrena. Terra si stupì del repentino sopirsi dei suoi poteri: al suono della voce, quella pressione che sentiva dentro di sé si affievolì quasi del tutto.

“Chi…chi sei?” mormorò, più stupita che intimidita. Lei sorrise.

“Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia” rispose. “Percepisco un grande potere dentro di te”.

“Io…”mormorò lei, distogliendo lo sguardo.

“Ed anche paura” continuò lei. “Hai paura di quello che sei. Di quello che senti dentro di te”.

“Non puoi capire” scosse la testa lei. “Non puoi…io non voglio fare del male a nessuno!”.

“Certo che non vuoi” assentì lei. “Mi rendo conto che una cosa del genere è un fardello molto pesante da portare per la tua giovane età”. Sospirò. “Credimi, ti capisco perfettamente. E so che troverai meschino quello che sto per chiederti, ma ho bisogno del tuo aiuto”. Terra si torse le mani, temendo di sapere ciò che la dea stava per chiederle.

“Vuoi che…combatta, vero?” chiese titubante. Cosmos annuì lentamente.

“Ho bisogno del tuo aiuto” disse. “Sono coinvolta in una guerra contro il dio della Discordia, Chaos. I miei schieramenti si stanno indebolendo ed ho bisogno di altri guerrieri che combattano sotto il mio vessillo”.

“Mi chiedi una cosa del genere…perché?” mormorò Terra. “Io non voglio combattere…io odio combattere…”.

“Lo so, Terra” annuì lei. “Ma ho bisogno della tua forza per vincere questa guerra. È imperativo che esca vittoriosa, o tutti i mondi soccomberanno nell’oscurità e nella distruzione”.

Distruzione. Ancora quella parola. Evidentemente nessuno si rendeva conto di quanto suonasse distorta e pericolosa, di quanto fosse sgradevole il suo suono, dello strano sapore agrodolce che lasciava sulla lingua e sul palato. Agrodolce; era proprio questo che la terrorizzava.

Il pensiero che Kefka non fosse del tutto trasportato dalla sua pazzia quando seminava desolazione.

Il sospetto che ci fosse qualche recondito angolo lucido nella sua mente massacrata dal Magitek che si godesse ogni singola scena e ne ridesse, ne gioisse.

“Distruzione…” mormorò, sentendo per l’ennesima volta quel sapore, udendo quel suono, vedendo le immagini che richiamava. “Perché sono sempre tutti pronti a provocarla se non sanno nemmeno cosa significa?”.

“Oh, ma Chaos lo sa cosa significa” scosse la testa Cosmos. “Non concepisce altro: vive per crearla. Ed io sono stata incaricata di fermarlo e distruggerlo…ma non posso farlo da sola. Ho bisogno del tuo aiuto”.

“Perché pensi che io riuscirei?” chiese. La dea sorrise.

“Perché, mia cara” rispose. “Il potere che tu temi tanto può contribuire a salvare molto mondi oppure a distruggerli: sei tu che li controlli e quindi tu puoi decidere se e come usarli. E perché non sarai sola: avrai degli alleati che ti guarderanno le spalle e che potranno darti il coraggio e la forza che senti di non avere.

“Ma questa è una decisione che spetta a te; se deciderai di non intervenire io non insisterò. Rispetterò la tua decisione e non ti chiederò più una cosa del genere”.

“Va bene” mormorò. “Verrò con te: voglio aiutarti a difendere questo mondo e tutti gli altri”. Cosmos esibì un sorriso sollevato.

“Ne sono felice, Terra” annuì sincera. “Vieni: ci metteremo pochi attimi”. La ragazza si volse verso Moblitz, ridotta ad una sagoma lontana, simile ai villaggi disegnati dai bambini all’orfanotrofio.

“Tornerò” sussurrò tra sé e sé. “Più forte. Più sicura”. E la luce la avvolse.

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Capitolo 7
*** Cloud Strife ***


CLOUD STRIFE


La questione non era perché farlo: andava fatto, punto e basta. Cloud sospirò, guardando Midgar. Così lontana sembrava la carcassa annerita di un gigantesco mostro; il cielo era ancora puntinato e frammenti della Meteor continuavano a cadere sottoforma di una pioggia di stelle cadenti.

Un desiderio per ogni stella cadente che vedi, gli aveva detto una volta sua madre: nell’unico ricordo che aveva di lei, lo accompagnava sopra la torre dell’acqua di Nibelheim e gli faceva posare la testa sul suo grembo, accarezzandogli i capelli biondi e guardandolo negli occhi. Sapeva che in un tempo ormai lontano, di cui non esisteva altro che quel ricordo, lui aveva gli occhi color grigio piombo.

Prima della Shin-ra, prima dei SOLDIER, prima del Mako e di quei quattro anni in infusione. Prima di Zack, di Sephiroth, di quella maledetta spedizione al monte Nibel.

Aveva gli occhi grigi ed aveva paura. Più precisamente, la sentiva.

Quante volte durante la loro crociata si era sentito dire che era forte, che era coraggioso, che era impavido. Non lo era per nulla, anzi: era una delle persone più fifone sulla faccia della terra. Quanto tempo di aveva messo a decidersi a seguire Tifa quando aveva fatto quella spedizione infantile sulla montagna? Aveva continuato a camminare combattendo con tutte le sue forze contro la paura e tenendo lo sguardo fisso su di lei.

Era il Mako nelle sue vene a renderlo così. Aveva paura, l’aveva sempre avuta. Il piccolo inghippo era che lui non la sentiva: era completamente insensibile alla paura, alla fatica, al dolore.

Lui non era coraggioso, era una macchina e come tale non sentiva sentimenti ed emozioni.

Ma per fare quello per cui era venuto sin lì, persino il Mako non poté fermare quel moto d’ansia. Sulla tomba di Zack, una rupe in pietra senza nulla che testimoniasse il passato, soffiava un vento secco e l’impercettibile suono delle sterpaglie e dei cespugli secchi accarezzavano il silenzio che permeava quella valle.

La Buster Sword appesa sulla sua schiena improvvisamente gli sembrò più pesante di quanto non lo fosse mai stata. Ma forse era sempre stata così gravosa: era lui che non sentiva la fatica nel sollevarla e maneggiarla come se fosse una comune spada. La sganciò dal supporto magnetico della divisa SOLDIER e la portò davanti a sé, soffermandosi per la prima volta sul tendersi dei suoi muscoli. Guardò i vani Materia poco sopra l’elsa ed appoggiò la fronte contro il freddo metallo.

Pensò fugacemente che non poteva esserci lapide più azzeccata per Zack. Adesso lo ricordava; ricordava cosa aveva fatto per lui e meritava una commemorazione da parte dell’unica persona al mondo che conosceva la sua storia, sapeva il punto esatto in cui piantare una croce a forma di Buster Sword.

Una forte luce bianca esplose poco lontano da lui e ne uscì una donna. A colpo d’occhio, Cloud non seppe definirne l’età né le intenzioni, ma non percepì l’impulso di mettere la lama tra lui e la figura. Era alta e magra, con una carnagione diafana e luminosa sotto una cascata di capelli dorati. Gli occhi, di un immacolato azzurro, lo guardavano corrucciati.

“Cloud Strife?” chiamò. Non sembrava una domanda. Il SOLDIER abbassò la lama e si volse nella sua direzione.

“Chi lo vuole sapere?” chiese guardingo. Lei abbassò il capo, in un sottinteso saluto.

“Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia” rispose. Cloud scosse la testa.

“Mai sentita, spiacente” replicò. “Posso fare qualcosa per te?”. La dea ignorò completamente la domanda: volse lo sguardo sulla spada, schierata accanto alla gamba del ragazzo.

“È una spada pesante quella” osservò. “Dimmi: riesci a maneggiarla?”. Per tutta risposta, Cloud la fece volteggiare sopra la sua testa un paio di volte, riponendola infine contro la piastra magnetica dell’imbragatura. Le scoccò un’occhiata di sfida prima di sospirare e distogliere lo sguardo.

“A volte non è facile…” ammise. La dea annuì comprensiva.

“Si, certo” assentì. “Non è un’arma che può essere usata con leggerezza: ci va una grande forza per impugnarla”. Emise un sospiro stanco, come se non le piacesse quello che stava per dire. “Cloud…posso chiederti un po’ della tua forza?”.

“Cosa vuoi da me?” chiese. Era la stessa domanda che aveva fatto pochi secondi prima, ma questa volta sentiva una strana sensazione alla bocca dello stomaco, quasi fosse in attesa. La dea gli piantò negli occhi luccicanti di Mako un’occhiata sconsolata, quasi come se lo stesse pregando di farle almeno concludere la richiesta.

“Ho bisogno della tua forza” disse. “Sono impegnata in una guerra contro Chaos, il dio della Discordia. Le sue forze si sono moltiplicate ed hanno decimato le mie: ho bisogno di guerrieri che combattano per me in questa guerra”.

“Una guerra…” borbottò lui. Era una parola che avrebbe dovuto farlo reagire in un modo che gli esperimenti della Shin-ra non gli permisero: rimase calmo e posato, mentre soppesava quella parola che voleva dire tutto ma che in quel momento era come qualunque altra nel vocabolario. “Perché?”.

“Chaos intende portare la distruzione e la morte in tutti i mondi” continuò la dea. “Se non troverò abbastanza eroi che combattano i suoi campioni, ci riuscirà: i miei poteri si sono molto indeboliti e non ce la farò da sola a fronteggiarlo”.

“Combattere un dio non rientra nelle mie competenze” borbottò lui, automatico. “Non sono interessato”.

“Capisco…” replicò lei. “Sai…non è mia abitudine insistere, ma con te voglio fare un’eccezione: è veramente una spada straordinaria quella che stringi tra le mani. Può diventare più pesante, ma allo stesso modo potresti trovare il modo di alleggerirla un po’…”.

“Questa spada non è mia” ammise, distogliendo lo sguardo. “Io…la sto restituendo al suo proprietario”.

“Beh…se te l’ha prestata per così tanto tempo, non credi che potrebbe lasciartela ancora per poco?” obiettò Cosmos. Lo guardava con occhi supplici, in cui lesse tutta la disperazione e l’urgenza che gravava sulla situazione appena descritta. “Ho bisogno di un soldato come te, Cloud. Se non vorrai, io capirò: me ne andrò e non mi vedrai mai più, ma sappi che il tuo contributo potrebbe essere importante per la sconfitta di Chaos”.

Il SOLDIER fissò la spada. Era ancora stretta nel suo pugno e rifletteva la luce dei raggi del sole. Quasi sembrava scalpitare dalla voglia di entrare in gioco.

Abbraccia i tuoi sogni e l’onore dei SOLDIER

Il mantra di Zack in quel momento sembrava così contraddittorio nella sua semplicità che Cloud si sentì svuotato. Sospirò, scuotendo impercettibilmente la testa.

“Va bene, Cosmos” disse infine. “Verrò”. Il viso della dea si schiuse in un sorriso sollevato.

“Posso chiederti perché hai cambiato idea?” chiese. “Non devi rispondermi per forza”. Lui scosse la testa.

“Un pensiero…” disse, evasivo. La guardò mentre allungava una mano verso di lui, la luce irradiata dal suo corpo farsi sempre più intensa ed abbagliante e chiuse gli occhi.

“Abbraccia i tuoi sogni” mormorò piano, tra sé e sé. “E proteggi l’onore dei SOLDIER…”.

Era ora di cambiare mantra

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Capitolo 8
*** Squall Leonhart ***


SQUALL LEONHART


Poca gente poteva dire di aver visto Squall Leonhart parlare, solo una persona poteva vantarsi di averlo visto in mutande e nemmeno quella era in condizioni di poter giurare di averlo visto fumare. Una sigaretta ogni tanto, mediamente tre all’anno.

Una sigaretta serviva per festeggiare, per concedersi uno sgarro alla regola come regalo oppure per smaltire una solenne irritazione. Squall era seduto sulla carcassa di un Archeosaurus, dietro un cespuglio del Centro Addestramento, a guardare con occhi assenti la spessa nuvola cancerogena che aleggiava davanti al suo viso. Facendo un rapido calcolo, quella era la quarta sigaretta dell’anno e per un istante la paura della dipendenza galoppante gli invase la mente, prima che il suo innato buon senso e sangue freddo gli facessero presente che era stupido definire la quarta sigaretta dell’anno una dipendenza.

Aspirò una boccata e trattenne a stento un colpo di tosse: era così diverso da quando giocavano alla guerra all’Orfanotrofio. Nel loro immaginario collettivo, il padre di famiglia modello fumava almeno la pipa e si erano sempre arrangiati a riprodurre con un ramoscello ardente quella figura enorme ed il cipiglio severo del focolare domestico che loro non avevano e che esisteva solo nella loro mente da bambini.

Quel ricordo era ormai svanito, ma anche se così non fosse stato, la mente di Squall era tutta presa dal motivo per cui aveva pescato quella sigaretta da dietro l’imbottitura della fodera del suo Gunblade.

A te non importa nulla di nessuno!

La boccata successiva non portò un colpo di tosse, ma solo un saporaccio di catrame. Il ragazzo storse la bocca e rabbrividì di disgusto: la nicotina aveva un effetto tranquillizzante, ma come ogni medicina efficace aveva un sapore che nulla aveva da invidiare a quello che aveva la morte. E lui di morte era un vero intenditore.

Si appoggiò alla lama del Gunblade conficcata a fondo nell’occhio della bestia e le zampe ebbero uno spasmodico sussulto perfettamente ignorato dal ragazzo, che continuò imperterrito a pensare alla sua ragazza ed alla litigata che avevano avuto quella mattina. Rinoa l’aveva attaccato in un campo a lui sconosciuto e lui non aveva potuto fare altro che incassare ed incassare, finché non era arrivato un colpo critico che l’aveva costretto alla fuga.

Come diavolo ho fatto ad innamorarmi di uno come te!

Certe volte se lo chiedeva anche lui: una come Rinoa probabilmente non era fatta per stare con lui e probabilmente lui non sarebbe riuscito a gestire una come Rinoa, così solare, energica e piena di vita. Lei era una che prendeva la vita per le corna, lui uno che toglieva la vita prendendo la vittima per le corna: la dissonanza era evidente, l’epilogo praticamente già scritto, eppure non poteva fare a meno di sentire una sorda pesantezza dentro di sé, unita al groppo alla gola che ostinato non voleva saperne di soffocare sotto quel cancerogeno aerosol.

La sigaretta era già a metà e lui aveva tirato si e no cinque boccate. Si affrettò ad inspirare la sesta, chiedendosi il motivo per cui quella lite era cominciata. Analizzare: analizzare gli errori commessi per anticiparne l’epilogo qualora fosse successo nuovamente. Aveva sempre fatto così, ma probabilmente quello era un campo in cui non funzionava quella tattica, oppure era talmente vasto e variegato che fare una previsione era praticamente impossibile.

Certo, aveva notato in Rinoa una curiosa tendenza a sistemarsi i capelli ogni volta che passava, ma l’aveva attribuita ad un torcicollo: mai più avrebbe pensato che era andata dal parrucchiere e nemmeno sospettava che il suo commento distaccato quando alla fine, esasperata, glielo aveva fatto notare, avrebbe scatenato in lei una reazione talmente violenta da farlo correre al suo vizio occasionale e proibito.

E già sentiva i commenti dei suoi comp…amici, probabilmente alla sua ricerca: a quell’ora, Rinoa si era già sfogata con Selphie, che aveva avvertito Irvine, che aveva celermente informato Zell, che era corso ai ripari ed aveva chiesto a Quistis di aiutarlo nella sua ricerca. Tutti a rassicurarlo, a dirgli che Rinoa era impulsiva e parlava prima di pensare, di bersi una gazzosa e non pensarci più, che la sua ragazza aveva sicuramente le sue cose oppure che mamma mia, Squall! Possibile che tu non abbia notato che Rinoa era andata dal parrucchiere?

Schiacciò il filtro fumante della sigaretta a terra e la steccò distrattamente in fondo alla gola dell’Archeosaurus, prima di uscire dal cespuglio dietro cui si era rifugiato. Davanti a lui ci fu un’esplosione di luce e, quando tornò a vedere, scorse una figura: era alta, con lunghi capelli dorati ed un vestito bianco a coprire il corpo snello. Brillava di luce propria e gli occhi azzurri avevano un tono affranto e pensieroso.

“Squall Leonhart?” chiamò. Il ragazzo non rispose: rimase a guardarla con occhi sterili, acuendo i sensi e trattenendo i riflessi, pronti a scattare al minimo cenno di pericolo. “Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia”.

(Una dea…) pensò. (Molto divertente devo dire…).

“I visitatori non possono accedere alle aree del Garden senza un accompagnatore” snocciolò, passando oltre. “Sei pregata di tornare nella hall e cercare una guida”.

“Non sono qui per un giro turistico” rispose lei. “Ho bisogno del tuo aiuto”.

“Deve rivolgersi al preside per farsi assegnare delle unità” rispose lui meccanico, senza fermarsi. “Prendi l’ascensore nella hall e sali al terzo piano”. Una volta nella hall si accorse che la donna l’aveva seguito. Si fermò all’entrata del centro e si volse nuovamente verso di lei. “Posso fare qualcosa per te?”.

“Te l’ho detto” replicò lei paziente. “Ho bisogno del tuo aiuto. Non come soldato, ma come guerriero”. Il ragazzo sospirò e si volse, dandole le spalle.

“Non sono dell’umore giusto per parlare” borbottò.

“Allora limitati ad ascoltare” assentì Cosmos. “Sono impegnata in una guerra contro il dio della Discordia, Chaos”. Lanciò un’occhiata al ragazzo: le dava ancora le spalle, ma non si era mosso. “Le sue forze stanno rapidamente prevalendo sulle mie: se continua così, sarò sopraffatta ed allora il mondo…tutti i mondi saranno preda di distruzione e morte”.

“E quindi?” borbottò la sua voce. “Cosa c’entra con me?”.

“Ho bisogno di uomini che combattano per…” replicò lei, facendo una pausa. “…di uomini che combattano con me per la propria casa”.

“La mia casa è questa” osservò lui. “Se devo difenderla, tantovale stare qui no?”.

“Se Chaos arriverà in questo mondo, sarà troppo forte per chiunque” obiettò lei. “E poi verrà con i suoi campioni…nemmeno il mio esercito è riuscito a fermarli”. Squall si volse verso di lei.

“Perché fai questa richiesta proprio a me?” borbottò. “Ci sono soldati molto più esperti di me”.

“Io lo sto chiedendo a te” osservò lei. “Non vuoi difendere la tua casa? Le persone a cui tieni?”.

Le persone a cui tieni…le persone a cui teneva era tutte in quel Garden. E, ironia della sorte, l’avevano visto e stavano accorrendo nella sua direzione.

“Io sono un SeeD” borbottò. “Lavoro sotto pagamento”.

“In cambio dei tuoi servigi ti offro la possibilità di salvare la tua casa, il tuo mondo e tutte le persone che ci vivono da un destino orribile” replicò lei con un lieve sorriso. “Posso considerare la tua risposta come un sì?”. Lui incrociò le braccia e distolse lo sguardo.

“Chissenefrega…” borbottò.

Con la coda dell’occhio scorse i suoi amici, le loro espressione preoccupate in cui lesse la sgradevole sensazione che poteva portare la vista di uno come Squall che annuiva ad una donna ricoperta di luce. La hall fu invasa da un lampo accecante e dal richiamo di una Strega verso il suo Cavaliere.

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Capitolo 9
*** Gidan Tribal ***


GIDAN TRIBAL


Lui non aveva paura della morte. Sarebbe stato surreale, visto che in un’altra vita l’avrebbe dominata. Garland era stato chiaro, addirittura lapidario, addirittura traumatizzante e Kuja ne aveva pagato lo scotto con il suo equilibrio mentale.

La morte faceva paura, certo. Era una presenza costante nella vita di tutti i giorni, un capolinea che sembra sempre lontano fino al giorno in cui è davanti ai propri occhi. Kuja era crollato quando si era ritrovato a vedere per la prima volta quel traguardo e quando era ormai arrivato aveva capito cosa voleva dire vivere.

Forse chi diceva che si comprende il viaggio quando finisce aveva capito tutto…

L’albero di Lifa era laggiù, lontano; una macchia leggermente più scura stagliata nell’azzurro limpido del cielo ormai sgombro dalla Nebbia e sotto di esso il fratello che aveva tentato di salvare. Il motivo non lo ricordava o non l’aveva mai avuto, ma a chi importava? E a che sarebbe servita?

Non serve un motivo per aiutare qualcuno: ci aveva sempre creduto e sempre aveva seguito quel pensiero che gli aveva procurato persone care da cui tornare. Si volse e camminò fino ad un masso particolarmente grosso su cui potersi riposare.

Baciato dal sole e giocherellando distrattamente con la punta della coda, Gidan ripensò a quello che avevano passato in tutto quel tempo; sembrava quasi il giorno prima che avevano rapito la principessa Garnet, o meglio la principessa Garnet gli aveva chiesto di rapirla: in tutta sincerità, non riusciva a ricordare richiesta più bizzarra che aveva accontentato più volentieri. Lui e Garnet, intrepidi fuggiaschi in giro per il mondo: in quel momento era sembrato così emozionante e romantico. Che diamine, a Conde Petit si erano addirittura sposati!

E poteva giurare di aver visto un pizzico di divertimento confuso nella crudele indifferenza con cui l’aveva fatto. Dopotutto, aveva fatto divertire una donna e quella era la chiave del successo: perché avrebbe dovuto prendersela solo perché si era divertita un po’ alle sue spalle.

Sospirò: suo fratello era morto sotto le spire dell’albero di Lifa appena tre giorni prima e tutto quello a cui riusciva a pensare con lucidità era a Garnet.

No, non Garnet: a Daga.

Daga, la ragazza con cui aveva condiviso le avventure più assurde. Daga, con cui aveva scoperto le sue origini ed il motivo per cui era vivo. Daga, con cui aveva fronteggiato tanti di quei nemici da riempire un libro. Lei sapeva cos’era e lui sapeva come si chiamava veramente lei. E poi, lui aveva un debole particolare per le ragazze con i capelli corti.

Si sforzò di tornare con la mente sul fratello e si sorprese a trovare un pizzico di vergogna per l’impegno che richiedeva. Era un pazzo narcisista che più volte aveva preso la sua vita come un’eterna piéce teatrale, ma era pur sempre suo fratello.

Ma era veramente giusto che loro due si definissero fratelli? Allo stesso modo in cui Vivi chiamava nonno il Qu che lo aveva allevato: loro avevano acquisito la conoscenza da Garland e probabilmente per puro caso era venuto fuori che erano fratelli.

No, non era il termine adatto: lui era il sostituto di Kuja, il pezzo di ricambio. Aveva sempre rifiutato di pensare a quelle parole, buttandosi anima e corpo nella loro avventura e tenendo la mente occupata da ciò che c’era sul loro cammino.

Ancora mostri. Un altro nemico. Ancora uno. Un altro ancora.

Senza più appigli ne scuse, si ritrovò a pensarci: di tempo ne aveva da passare in solitudine e la strada verso Alexandria era lunga. Lanciò una fugace occhiata alla coda che oscillava placida a mezz’aria e si chiese cosa effettivamente rappresentasse. Il suo scontrino? La sua garanzia?

Ci fu un bagliore di luce che lo accecò. Velocemente estrasse le daghe e si preparò al combattimento, guardando altrove e pregando che nessuno lo attaccasse in quel momento. Quando la luce si dissolse, il Jenoma si ritrovò a contemplare una figura alta e snella dai lunghi capelli biondi ed un paio di corrucciati occhi azzurri.

“Gidan Tribal?” chiese. Lui rimase per qualche secondo come imbambolato, poi si riebbe con un sorriso smagliante.

“Per servirti, o luce del deserto” disse. Ripose le armi e spinse il suo sorriso verso la figura. “Non dire nulla: tu non puoi che essere una dea”. Il suo subconscio dalle origini sconosciute parlò nella sua testa.

Tanto per sapere, che fine ha fatto la tua Daga?

(Da qui ad Alexandria la strada è lunga…).

Anche la convalescenza dopo che lei ti avrà dato una ripassata lo sarà…

(Ho promesso che sarei tornato: non si è fatta parola del come).

“Sì…” commentò Cosmos. “Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia”.

“Dell’Armonia?” commentò Gidan scuotendo la testa. “No, non è possibile: come minimo la dea dell’amore…ah ce l’ho! Tu sei la dea della bellezza!”. La figura ridacchiò divertita.

“Tu sei il primo guerriero che mi fa i complimenti” commentò. “È…strano”.

“Sono i tuoi guerrieri ad essere strani” replicò lui. “Devo avere gli occhi foderati di fette d’arrosto come minimo!”.

“Ho bisogno del tuo aiuto…” cominciò lei. “Sono impegnata in una guerra con il dio della Discordia, Chaos”.

“Fate l’amore non fate la guerra” commentò Gidan.

Sei una cosa atroce…

(Ah, stai zitto!).

“Le mie forze stanno venendo decimate dalle sue truppe e se continua così presto avrò la peggio: ho bisogno della tua forza” continuò la dea.

“Aspetta un secondo, hai detto un dio?” chiese il Jenoma, stranito. “Dovrei combattere contro…un dio?”.

“Se Chaos dovesse vincere porterà rovina e distruzione in tutti i mondi” puntualizzò Cosmos. “Distruggerà ed ucciderà finché ci sarà luce ed armonia…e non posso permetterlo”.

“Ci mancherebbe!” commentò Gidan. “Beh, se una fanciulla ha bisogno del mio aiuto come posso negarglielo? Non si fa, dico bene?”.

“Quindi…posso contare sul tuo appoggio?” chiese la dea con un sorriso. Lui sorrise.

“Ma certamente!” esclamò lui. “Ruberò la vittoria e te la porterò in dono”. Ci credeva veramente alle sue parole. Forse. O almeno gli avrebbe permesso di non pensare a cose più importanti.

Bravo, procrastina…

(Non parlare come Kuja, ti prego…). Un bagliore lo avvolse, mentre un pensiero non formulato invase la sua mente.

Un altro nemico. Ancora uno. Un altro ancora.

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Capitolo 10
*** Tidus ***


TIDUS


L’abbraccio era stato sentito, sincero: avrebbe detto che Yevon gli era testimone, se solo non l’avessero appena ucciso. Sapeva che avrebbe pianto se fosse rimasto su quell’aeronave ancora qualche secondo. Correva perché aveva paura di quello che gli sarebbe successo: il pensiero che non stava veramente morendo non era esattamente confortante, anzi forse sarebbe stato meglio se così fosse stato. Insomma, cosa voleva dire essere un sogno?

Era ormai incorporeo e sapeva che era solo una fortuna se gli altri potevano vederlo correre verso il limite della carlinga. Sentiva lo sguardo di Yuna su di lui ma non si volse indietro: la stava abbandonando, ma desiderava giurare di non starlo veramente facendo.

Era il dopo: era quello che lo spaventava maggiormente: cosa ne sarebbe stato di lui una volta trascorsi quei pochi secondi che ancora lo separavano dal dopo? Sarebbe rinato? Sarebbe scomparso? Avrebbe vagato in qualche mondo desolato e pieno di nulla per l’eternità? E quanto sarebbe durata l’eternità?

Cos’era l’eternità? Ci sarebbe stato qualcosa dopo?

Fece quello che aveva fatto per buona parte del viaggio: andò avanti, senza voltarsi indietro. Quello che era stato era stato e lui l’aveva fatto per Spira, per quel mondo che proprio quando stava cominciando a sentirlo proprio gli avevano detto che non lo era né lo sarebbe mai stato.

Yuna, devo andare…

E lui avrebbe potuto fare qualcosa se non accettarlo? Certo che poteva: poteva andarsene con il botto ed era esattamente ciò che stava facendo. Avrebbe potuto fermarsi, lasciare che le cose seguissero gli eventi che erano sempre stati: Yuna avrebbe ucciso Sin, che sarebbe successivamente rinato e gli intercessori avrebbero continuato a sognare.

No.

Era una felicità provvisoria quella che Spira aveva sempre avuto. Una felicità finta, una bugia che lui non era assolutamente disposto a regalare: Sin sarebbe scomparso e la felicità sarebbe stata quella autentica, quella duratura, un Bonacciale lungo quanto la vita del mondo. E se c’era da sacrificare tutto quanto per poterla far vivere, beh…allora voleva dire che quel mondo in cui era piombato così prepotentemente l’avrebbe perdonato per la sua irruenza.

Arrivò al limitare della nave e saltò, incurante del nulla che vedeva oltre il bordo, incurante dei richiami che mentalmente urlavano i suoi amici dietro di lui ma che non si osavano esprimere. Se ne sarebbe andato con il Rito del Trapasso di Yuna ancora negli occhi, con gli Eoni che svanivano in sprazzi di luce e per ultimo Sin stesso: lui se n’era andato con un’esplosione sibilante luminosa e scintillante come un gigantesco fuoco d’artificio.

Scusa se non ti ho portato a Zanarkand

Saltò, ma non gli sembrò di cadere: piuttosto di fluttuare, di cavalcare le nuvole dorate sotto quell’aeronave che sarebbe stata nei suoi ricordi per ancora qualche secondo, quelli necessari perché gli intercessori smettessero del tutto di sognare.

Eppure, non sentiva di odiarli: insomma, nemmeno loro dovevano essere molto entusiasti di starsene a dormire per secoli anche se conosceva gente che ci avrebbe messo la firma. Andava bene così. Era giusto così: continuava a ripetersi queste parole mentre planava dolcemente in quelle nubi.

Continuava a scendere verso il suo destino, ripensando a ciò che era stato prima ed a quello che era stato molto prima, in un passato ormai lontano che ormai sentiva di non essere mai appartenuto e…ma non era Braska quello che aveva appena intravisto? E poi Auron, che lo guardavano con occhi strani: si sarebbe detto pacifici, sereni.

…addio

Un’esplosione di luce e si sentì immobile, fermo in mezzo all’aria, in uno stato che nemmeno lui seppe bene come definire. Si ritrovò davanti una donna dalla bellezza ultraterrena, con lunghi capelli biondi ed occhi corrucciati che stonavano così tanto dalla sensazione di quiete che sperava di trovare. Lo guardò negli occhi e sembrò sollevarsi.

“Ti ho trovato, Tidus” disse. Aveva una voce dolce, ma profonda. “Se avessi tardato anche solo di un attimo…”.

“Chi sei?” chiese, stupendosi di essere ancora in grado di parlare.

“Io sono Cosmos, la dea dell’Armonia” rispose. “Sei stato molto coraggioso a scegliere il tuo cammino, Tidus: un valore del genere non passa inosservato”.

“Io…sto svanendo vero?” chiese, dando finalmente un che di ufficialità a ciò che gli stava accadendo. Lei scosse la testa.

“No” rispose. “Ho bloccato il processo”.

“Perché?” chiese. L’espressione della dea tornò greve.

“Perché ho bisogno del tuo aiuto” fu la risposta. “Ho bisogno che tu acconsenta a mostrarmi nuovamente il coraggio che hai già dimostrato”.

“Accidenti, proprio adesso che mi ero finalmente rassegnato a svanire…” borbottò lui, cacciando un sorrisetto poco convinto. Lei sospirò, senza ricambiare.

“Sono impegnata in una guerra” spiegò. “Con il dio della Discordia, Chaos. I suoi campioni hanno decimato le mie forze e ormai non mi restano più abbastanza eroi per contenerli”. Si prese un attimo, poi continuò. “Chaos deve essere sconfitto: se avesse la meglio scatenerebbe la distruzione su tutti i mondi”.

“Perché lo fa?” chiese Tidus, riconoscendo subito dopo il motivo per cui il dio della Distruzione portava distruzione.

“Non mi è possibile comprendere la malvagità di Chaos” replicò la dea. “Come la mia Armonia è un concetto a lui del tutto sconosciuto: incarniamo due valori diametralmente opposti ed entrambi siamo in grado di elargire solo il nostro”.

“E immagino che se rifiutassi…” borbottò il blitzer, senza sentire una reale voglia di farlo. “…mi lasceresti svanire?”.

“Di norma non faccio proposte simili con insistenza” spiegò la dea. “Se rifiuti, ovviamente io mi tirerò indietro, ma la mia scomparsa da questo luogo riavvierebbe il tempo e con esso la tua scomparsa: vorrei salvarti, ma sarebbe molto complicato ed io necessito di tutte le energie che possiedo per contrastare Chaos”.

“Capisco” borbottò. “In ogni caso, avevo già intenzione di accettare: non voglio che un dio minacci il mondo che ho salvato a prezzo della mia esistenza. E poi, un dio l’abbiamo appena ammazzato…”. Cosmos si schiuse in un sorriso sereno, ma vagamente incuriosito.

“Avete ucciso un dio…?” commentò. Tidus scosse la mano.

“Ah, storia lunga” disse. “Ed anche vagamente complicata da raccontare: se cercavi una squadra di deicidi, io ho anche delle referenze”.

“Allora verrai con me, Tidus” dichiarò Cosmos, irradiandolo di luce. “E grazie per il tuo aiuto”.



NOTA DELL’AUTORE:

Salve a tutti; dopo un bel po’ di tempo (molto più di quello che pensavo) anche Tidus è entrato nelle file di Cosmos. Con lui, siamo arrivati alla metà esatta della storia e ci tenevo a ringraziare tutti voi per aver seguito un’altra delle mie fic dall’aggiornamento casuale XD

Dal prossimo capitolo in poi vedremo il ritorno dei guerrieri nel rispettivo mondo, quindi abbiate ancora un po’ di pazienza perché i miei proverbiali ritardi non hanno finito di presentarsi.

Alla prossima, stay tuned

Leonhard.

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