Ars longa, vita brevis.

di charliespoems
(/viewuser.php?uid=847270)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prendi l'arte e mettila da parte. ***
Capitolo 2: *** Famiglia. ***



Capitolo 1
*** Prendi l'arte e mettila da parte. ***


1.
Prendi l’arte e mettila da parte.
 

     Svegliarsi presto la mattina non era mai stato un problema, o almeno non per lui. Sin dai tempi del liceo era abituato ad andare a correre, farsi una doccia veloce ed entrare a scuola. Da sempre era una persona puntuale, e questo comportava svegliarsi ad una certa ora per poter fare il tutto. Quindi no, svegliarsi presto non era un problema, a meno che il proprio fratellastro e la dolce sorellina non decidessero di fare un mega festino nel salotto della loro casa. A quel punto un po’ di problemi iniziavano ad esserci. Sentiva ancora la musica ticchettante risuonare nelle orecchie, mentre si levava le coperte di dosso. Non ricordò quante ore – non era certo nemmeno che fossero ore, in realtà – avesse dormito, ma il dolore alla testa era abbastanza forte da farlo imprecare mentalmente. Dopo essersi sciacquato la faccia si guardò attentamente allo specchio.

    Alexander Gideon Lightwood, venticinque anni, capelli di un nero che più nero non si può, occhi chiarissimi e pelle pallida, quasi eterea, ora rovinata da due profonde borse colme di stanchezza accumulata. Sbuffò, pensando alla mattinata che avrebbe trascorso. Sarebbe andato al corso, avrebbe corso fino ad arrivare a casa per poi mettere due cosette sotto i denti, avrebbe svolto i suoi compiti e guardato con gioiosa vendetta i suoi fratelli pulire casa. Alec – così come preferiva farsi chiamare – frequentava la facoltà di Arte e delle Scienze della NYU (New York University), la più prestigiosa università di New York. La sua famiglia godeva di grande notorietà grazie al suo cognome, in quanto i suoi genitori – specialmente sua madre – gestivano l’Istituto di cultura di New York, fondato da lontani parenti italiani e che al momento spiccava come uno degli istituti più importanti della metropoli.

    Probabilmente era grazie alle sue radici genealogiche – quelle italiane – che l’arte cominciò ad essere fondamentale nella sua vita. Da piccolo si divertiva a ritrarre i personaggi preferiti dei fumetti che leggeva – da Steve Rogers a Tempesta degli X-Men – e poi, crescendo, si cimentava in ritratti ed esperimenti con colori, acquerelli e stili tutti differenti l’uno dall’altro. Le matite, i pennelli, i pennarelli, erano tutti diventati prolungamenti naturali del suo braccio. Fare delle bozze, sporcare il foglio e successivamente ritrovarsi con le dita tutte sporche di colore era una sensazione così piacevole da far contorcere lo stomaco. Essere un artista è uno dei mestieri più difficili del mondo, era questo che pensava, nonostante nessuno desse così tanta importanza ad un lavoro come quello.

    I primi erano i suoi genitori che, come da programma, esigevano il suo allontanamento repentino dall’arte. Lui, il maggiore della famiglia Lightwood, l’erede con la E maiuscola, colui che avrebbe sicuramente diretto l’istituto dopo di loro, non avrebbe mai potuto andare in giro come un poveraccio a vendere qualche disegnino fatto ad olio su tela. Convincerli a farlo iscrivere alla facoltà di Arte era stato quasi un suicidio. Aveva passato così tante serate ad ingoiare il rospo che una sera aveva creduto di soffocare. Se non ci fosse stata Isabelle probabilmente non ce l’avrebbe mai fatta, e un po’ se ne vergognava. Toccava a lui aiutare lei, a darle il buon esempio, non il contrario.

    Si ritrovò fuori dalla porta in un batter d’occhio, mentre prendeva la macchina per poter raggiungere la sede della facoltà. Quella mattina avrebbe avuto copia dal vero – di nuovo. Non che gli dispiacesse, ma le statue greche non erano mai state il suo forte e il professor Fell ne sembrava ossessionato. Per lo più avrebbe dovuto sopportare quell’odiosa ragazzina dai capelli rossi con cui condivideva l’attrezzatura e collaborava, e la voglia di ficcarle i pennelli negli occhi era davvero tanta, delle volte. Quando entrò in aula la vide seduta su uno sgabello, mentre mangiucchiava le unghie e distrattamente si passava tra le dita una ciocca di capelli color rosso fuoco. Sarebbero stati dei bei capelli da ritrarre, se solo non fossero stati i suoi. «Sei in anticipo, meno male» si diresse da lui in fretta e furia. «Ragnor ha detto che dobbiamo esercitarci sull’ombreggiatura. Tu sai scurire molto bene mentre io ho bisogno di pratica. Tu devi migliorare il punto luce e io posso aiutarti, quindi facciamo squadra» «Non dovresti chiamare il tuo professore con il nome proprio» borbottò lui, sistemando la sua cartella vicino alla sua postazione. «Dio, Alec, non cominciare. E poi è anche il tuo professore» alzò gli occhi al cielo, lei.

       Adorava il corso d’arte. Adorava il silenzio. Adorava il mischiare colori completamente diversi per formare opere sempre più originali e magnetiche. Adorava essere attratto talmente tanto da un’opera da non poter smettere di guardarla, e il suo sogno era riuscire a crearne una del genere. Adorava alla follia ciò che studiava, ma lei. Lei, che diamine. Nelle sue vite precedenti doveva aver fatto qualcosa di terribile per meritarsi una compagna così. La cosa che più lo infastidiva, poi, era che insieme facevano davvero un’ottima squadra. Si completavano a vicenda e le collaborazioni risultavano capolavori. Aveva sempre immaginato di lavorare con persone colme di rispetto nei suoi confronti e che lui stesso avrebbe ricambiato, ma quell’impertinente ragazzina era così chiacchierona e aveva quello stupido modo di parlare così veloce e lo sguardo così stupidamente luminoso che- «Ma mi ascolti? Non abbiamo l’eternità, Lightwood, vediamo di sbrigarci!» la sentì dire. Sospirò. Era troppo giovane per compiere un omicidio. E il suo sangue addosso non lo voleva: avrebbe potuto essere tossico.

    «Oggi dobbiamo ritrarre la venere di Botticelli, solamente il suo primo piano. Una passeggiata, insomma» continuò, mentre prendeva l’occorrente. Era davvero bassa rispetto a lui: uno scricciolo tutto pepe che sembrava un angelo all’esterno tanto quanto un demone all’interno. «Allora, da dove vuoi iniziare?» chiese lui con fare sbrigativo. Prima avrebbero iniziato meglio sarebbe stato. Sentiva le punte delle dita fremere all’idea di mettere mano su un’opera simile tanto da renderla propria. «Stai avendo gli spasmi alla mano, sei impossibile» lo prese in giro, passandogli dei pennelli. «Non è il momento di scherzare, Clarissa. Da dove vuoi iniziare?» «Ti ho detto mille volte di non chiamarmi così. Inizia pure a sistemare la tavola, io vedo di ricordare dove Ragnor ha messo il quadro» e poi, ad un’occhiataccia del più grande, si corresse: «Sì, sì, del signor Fell, come vuoi tu».

    La vide sparire per un paio di minuti, per poi sentire un rumore fastidioso di qualcosa che si rompeva e la sensazione di panico mista al totale nervoso assalirgli lo stomaco. Aveva combinato qualcosa, ne era certo. Sperò fosse caduta e che almeno avesse sbattuto la testa, ma le sue preghiere morirono nel sentirla scoppiare a ridere. «Dio, che imbecille che sono, era da tutt’altra parte» borbottò silenziosamente. «Sto bene comunque, non preoccuparti!» E chi si preoccupa, pensò Alec. Scoprì poco più tardi che l’intelligentissima ragazzina aveva cercato di prendere un quadro nascosto da un lenzuolo in un punto un po’ troppo alto per la sua misera statura, scoprendo poi che il quadro a lei assegnato era da tutt’altra parte. Dopo essersi garantito che la rossa non avesse combinato nulla di catastrofico, iniziò – finalmente – a disegnare.

    La bozza era inizialmente qualcosa di indefinito, di grezzo. Delle linee continue e sparse sulla tela a rappresentare in modo bonario e a volte un po’ osceno quello che sarebbe stato il risultato finale nonché capolavoro. Il polso si muoveva molto velocemente, mentre con cura osservava la riproduzione del dipinto e tracciava, tracciava, tracciava. Sentire la tela grattare sotto le sue dita era una sensazione assurdamente unica.  A bozza terminata, si perse a guardare quei lineamenti così ricurvi e storpi, cominciando ad immaginarsi ciò che sarebbe venuto dopo. «Bene, ottimo lavoro. Solo una cosa» Clary – come preferiva essere chiamata – si sporse un poco per modificare l’occhio destro. Disegnare gli occhi perfettamente identici era un problema davvero grosso, e se si può dire per lui un vero e proprio tabù. Ma se lui non riusciva negli occhi, Clary era capacissima di aggiustarli, e se lei faceva pena con le labbra e i denti, Alec migliorava il tutto con il suo tocco. Questa collaborazione ad incastro perfetto lo faceva uscire fuori di testa, ma la parte fondamentale era il raggiungimento di un’opera valida e per quello non poteva di sicuro lamentarsi.

    Clarissa Fray era una ragazzina tremendamente bassa, con capelli color rosso fuoco acceso, un paio di occhi verde prato perennemente illuminati, un sorriso sbarazzino e una spruzzata di lentiggini su tutta la faccia. Nonostante avesse un viso angelico, il suo comportamento la faceva sembrare tutto fuorché una creatura perfetta e mistica. Parlava continuamente e di cose inutili, faceva paragoni non pertinenti, si prendeva una confidenza che non doveva prendersi, gesticolava troppo e aveva la voce acuta. Inoltre, solo in pochi sapevano che tutto le passasse per la testa. E Alec, in fondo, pregava per quei pochi. Non avrebbe mai voluto essere tra loro, nemmeno per tutte le opere d’arte del mondo. Però, un pregio unico e puro di quella ragazza era il fatto che fosse terribilmente intelligente in fatto di arte. Faceva commenti pertinenti e usava il cervello sono in pochi casi, ma la storia dell’arte era uno di quelli. Era molto portata, sapeva sfruttare colori e stili con giusto carisma e forza di volontà. Un pochino – ma pochino pochino – l’ammirava per quello.

     «Molto meglio rispetto a quello che pensavo. Stendo la prima base di colore e poi inizi con le ombre. I miei complimenti, specie perché insomma, la donna non è proprio il tuo genere» ridacchiò, facendogli sentire caldo dalle spalle in giù: Alec sentiva il nervoso salire e scendere pian piano dal suo corpo. «Che diavolo intendi? Credi di essere spiritosa? Solo perché esci con mio fratello non significa che tu sia in grado di prenderti così tante libertà con me. Stai al tuo posto, ragazzina» la gelò, volendo chiudere il discorso. «Il mio nome non è ragazzina. E comunque non devi prendertela così a cuore, sei tu che dovresti-» «Quando avrò bisogno di un tuo consiglio te lo verrò a chiedere, va bene? Non che succederà mai, in ogni caso, ma basta che stai zitta ora» la interruppe con uno sguardo così di ghiaccio che il pennello tremò dalle mani di Clary. Sussurrò solo un: «Che insopportabile».

     La vide poi stendere la prima base di colore sui capelli color oro, facendo molta attenzione ad ogni ciocca, ad ogni onda. La sua mano si muoveva veloce, guizzando da una parte all’altra del capo della donna raffigurata. D’un tratto lo squillo improvviso del suo cellulare la fece distrarre, provocando una linea dorata su buona parte della tela – dove non doveva esserci. Clary imprecò ad alta voce, mentre ripulendosi le mani rispondeva al telefono. Come da programma il mittente era Simon, il suo migliore amico: petulante ragazzino con una insulsa passione per la musica punk e dotato della lingua più lunga e noiosa del mondo. La rossa parlava delle loro avventure per tutto il tempo, come se a lui potesse davvero importargliene qualcosa, di quei due. Decise che era meglio non incrementare il nervoso con l’ennesimo istinto omicida di quella mattina, così cercò di rimediare all’errore appena compiuto dalla sua carissima collega.

       «Cosa diavolo significa che è scappato? Sei fuori di testa?» aveva alzato un poco la voce, lei, mentre fissava con gli occhi verdi sbarrati un lato della stanza. «Simon non puoi farmi questo, devi trovarlo, dobbiamo fare qualcosa. Serviva per il suo regalo di compleanno, diamine» pestò un piede a terra, ricordando ad Alec una bambina di cinque anni a cui veniva negato un leccalecca appena visto in una bancarella. Sarebbe sembrata tenera, con le codine scombinate all’aria e le guance piene. Sbuffò mentalmente, pensando a quanto sprecato fosse il suo aspetto per poi concentrarsi al quadro. Inutilmente, dato che la ragazza continuava a sbraitare accanto a lui. «E allora vedi di fare qualcosa, diamine! È importantissimo per lui, non possiamo averlo perso» piagnucolò, persino. Alec continuò a stendere il colore dopo aver rimediato allo scempio da lei compiuto, cercando di concentrarsi su ciò che stava facendo e non sulla voce stridula della ragazza al suo fianco. Era impossibile starle accanto, davvero impossibile. Pensò che dovesse chiedere a Jace cosa diavolo ci vedesse in lei. Non che non glielo avesse mai chiesto in precedenza, ma in quel momento gli sembrava difficile anche solo guardarla, mentre dimenava gambe e braccia e passeggiava compulsivamente intorno a lui, formando un cerchio sul pavimento.

      «Dio, che casino» si mise una mano nei capelli, dopo aver chiuso la chiamata. «Non puoi capire che-» «Non mi interessa» la fermò in anticipo, borbottando; la voce camuffata dalla vicinanza del suo viso alla tela: stava tracciando un particolare piuttosto complicato, al momento. «Te lo dico lo stesso. Questo fine settimana è il compleanno di un caro amico di famiglia e come regalo avevo pensato di regalargli un ritratto del suo gatto. Ci tiene tantissimo, è come se fosse il suo migliore amico e, bé, Simon lo ha perso» accompagnò il movimento con un grande gesto delle mani, esasperata. Alec si accigliò. Se il gatto era di un amico di famiglia perché lo aveva quell’idiota? No, si disse, non aveva tempo per le cavolate della ragazzina. «Lo abbiamo portato a casa sua in modo che potessi fare il ritratto una volta uscita da qui, ma a quanto pare è scappato e non so come fare. Magnus mi ucciderà, me lo sento. Charmain Meow è importantissimo e -Oddio, mi sta venendo da piangere» sussurrò alla fine. «Non provarci, Fray» sibilò lui, con lo sguardo più minaccioso – per quanto lui potesse fare sguardi minacciosi – del solito.

      «Senti, ti dispiace se terminiamo un’altra volta? Ragnor e gli altri non sono ancora arrivati, non penso sia un problema se per oggi salto la lezione. Potresti dire che ho avuto un impegno? Devo trovare quel gatto il prima possibile a costo di fare New York – Brooklyn avanti e indietro» prese tutte le sue cose e uscì dal portone lasciandolo solo, con un pennello e le dita sporca di tempera dorata e lo sguardo più accigliato del secolo – in quello era veramente bravo, invece. Mentre la vide uscire si chiese se avesse avuto scelta, sbuffando qualcosa di incomprensibile. «Donne, e chi diavolo le capisce»

       Notò solo dopo che la ragazza aveva dimenticato buona parte del suo materiale. D’altronde loro due arrivavano in aula mezz’ora prima rispetto al resto dei compagni proprio per quel motivo: erano tremendamente lenti a sistemare il proprio occorrente. Un altro punto che li rendeva simili ma che sicuramente non giocava a favore di Alec. Salutò borbottando i suoi compagni di corso che pian piano che questi entravano e si radunavano intorno a lui, accomodandosi nelle proprie postazioni. Vide dopo poco il professor Fell entrare, seguito da quella testa rossa che era la sua collaboratrice. Si chiese cosa diavolo ci facesse ancora lì.

        La vide avvicinarsi in fretta e furia, con il fiatone. «Cambio di programma, è un codice rosso che più rosso di così si muore. Oggi ci resto secca sul serio, me lo sento» iniziò a sputare parole su parole, ottenendo come risultato lo sguardo perplesso e le sopracciglia che quasi si toccavano di Alec. «Sono nella merda, per la miseria!» continuò. Non che aiutasse a migliorare la situazione. «Okay, va bene, allora. Devo pensare a qualcosa. Forza Clary, pensa, pensa pensa» ripeté come un mantra, mentre gli camminava in tondo. Il ragazzo sentì di nuovo la fitta allo stomaco e l’ipertensione del nervoso scorrergli su e giù lungo tutto il corpo. Le avrebbe volentieri dato una testata.

       Si spaventò quando la ragazza urlò di scatto. «Magnus! Che bello vederti, che ci fai qui?» era tesa come una corda di violino e lui si ritrovò ancora più confuso.  «Buongiorno biscottino, non sei felice di vedermi?» questo sorrise. Ad Alec per poco non venne un colpo. Avrebbe voluto scavare una voragine sotto le piastrelle del pavimento e sistemarsi lì, le ginocchia strette al petto e la testa fra le mani. Quell’uomo era senz’altro uno degli uomini più belli che avesse mai visto, con degli occhi verdi così magnetici da far girare la testa, un sorriso tutto denti e un fascino bizzarro ma piacevole da guardare. Tutti quei pensieri gli fecero incrementare il mal di testa, seguiti da una spiacevole sensazione nella bocca dello stomaco che decise di ignorare. «Meches blu stavolta, mh?» chiese la ragazza, cercando evidentemente di non sembrare così spaventata – e sperando che Magnus non le chiedesse del suo gatto.

        «Variare fa sempre bene. Simon mi ha detto che ha avuto dei problemi con il piccolo Charmain, sta per caso facendo i capricci? Solitamente sta molto per conto suo, in realtà. Spero solo che stia bene» missione fallita Fray, adesso sì che capisco tutto, pensò Alec, che da spettatore seguiva battuta per battuta. Gli venne quasi da ridere. «Oh, ma certo che sta bene! Emh, anzi, st-sta benissimo. Alla grande!» Clary ridacchiò, incespicando su alcune parole. «Anzi, non è più da Simon perché sua madre ha avuto qualche problema con lui. Abbiamo scoperto che lei e il pelo del gatto non vanno molto d’accordo e-e-bé, ecco, ti presento Alexander!» si schiarì la gola, cercando di mantenere lo sguardo fermo sugli occhi del suo ormai complice assicurandosi che non la tradisse. Il ragazzo cominciò a sudare, pregando ancora di poter sparire da qualche parte. Cosa diavolo stava facendo, quella stupida? «D-Devi sapere che lui è di fondamentale importanza! Sì, ecco. Infatti A-Alec sta ospitando Charmain in modo tale che, bé, che io possa restituirtelo prima di questo sabato!» sorrise con apparente genuinità: in fondo a quei denti bianchi e le guance tirate c’era qualcosa di spietato, lui ne era sicuro. Allo sguardo dell’uomo rivoltò a lui, Alec pensò di sentirsi male. Voleva uccidere Clary così come voleva poche cose dalla vita.

        «Oh, scusami, non mi sono nemmeno presentato. Magnus Bane» gli porse la mano. Alec pregò cinque divinità diverse che le sue guance non prendessero fuoco, così quando le sentì pizzicare si morse la lingua. «A-Alec Lightwood» balbettò. «Quindi tu sei il collaboratore di Clary e anche colui che si è preso il mio gatto?» l’uomo rise, mostrando la dentatura perfetta. Alec non seppe cosa dire, sperò solo che qualcuno lo tirasse fuori da quella storia il prima possibile, l’istinto omicida primordiale che di nuovo incombeva su di lui. Come aveva pensato quell’idiota di ficcarlo in una situazione del genere? Il cervello doveva esserselo bevuto al posto della prima minestrina. Avrebbe voluto sparire e invece eccolo qui, a raccontare balle su balle per “coprire” una stupida ragazzina viziata che non sapeva farsi gli affari suoi e che doveva per forza seccare le vite altrui.

        «Dovresti piantarla di disturbare i miei alunni, Magnus» il professor Fell si fece strada tra loro e ad Alec quasi vennero le lacrime agli occhi per la commozione: doveva ringraziare quell’uomo. La situazione stava degenerando. «Non mi permetterei mai, lo sai. Se siamo sicuri che Charmain stia bene allora sto bene anch’io. Di che parlavamo, prima che vada?» si rivolse al professore che, prendendolo sotto braccio, lo avviò verso il portone dell’edificio. Magnus se ne andò proprio com’era arrivato: in silenzio. Notò solo dopo il suo abbigliamento non indifferente e le ciocche striate di blu cosparse di glitter nei suoi capelli.

       Alec guardò la rossa balbettante al suo fianco mentre cercava di dirgli qualcosa. Di ringraziarlo, forse. Avrebbe voluto prendere tutte le tempere disposte sul bancone e fargliele mangiare fino a morire. Fra tutte le situazioni in cui si poteva cacciare, proprio quella? Per Dio.
«Clary Fray, un giorno ti ucciderò con le mie stesse mani. È una promessa»







Angolo di una persona uscita totalmente di senno:
buon pomeriggio, pargoli. Questa è la prima storia che scrivo in questo fandom, è un AU senza pretese (così com'è riportato in quella schifezza che è la trama) che tratta di un Alec Lightwood circondato da colori e ragazzine dai capelli rossi pronte a tutto pur di farlo uscire di testa.
Questo primo capitolo è solo un assaggio di quello che succederà, diciamo. Ho sempre pensato che il rapporto fra Clary ed Alec fosse interessante (non nel senso amoroso per carità divina, odio la gente che scrive storie su un presunto Alec etero perché insomma non si fa, se poi con Clary ancora peggio). Ho pensato fosse divertente vedere come in una situazione simile si sarebbero comportati, tutto qui.
Vorrei sapere qualche vostro parere, se continuarla o meno, se può sembrare interessante, se ci sono cose da migliorare o se il metodo di scrittura è troppo noioso e ci sono parti da tagliare. Anche le critiche costruttive sono più che accettate!
Essendo il primo non ci rivela tantissimo, se non che Alec vorrebbe ammazzare Clary 24/7 e che adesso si trova in una situazione abbastanza scomoda. Nei prossimi parleremo di Isabelle e Jace, del suo rapporto con Clary, di Simon e di un piccolo Charmain che deciderà di mostrare al nostro protagonista chi comanda.
Spero davvero di poter leggere qualche commento e che questa storia possia piacervi almeno un minimo!
Un bacione,
Charlie;

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Famiglia. ***


 
2.

Famiglia.

     Il viaggio per tornare a casa era durato troppo, come tutte le cose che si aspettano impazientemente. L’unica cosa che Alec desiderava al momento era stendersi sul divano del suo salotto e aspettare che la morte lo venisse a prendere come una vecchia amica. Dopo aver pensato che Harry Potter non lo avrebbe salvato dal suo freschissimo problema, aprì la porta di casa pregando che Isabelle non stesse cucinando. Aveva un principio di desiderio di morte, sì, ma morire avvelenato gli sembrava un tantino esagerato. «Ciao fratellone, com’è andata oggi?» vide il centro dei suoi pensieri scendere le scale con passo svelto, dargli un sonoro bacio nella guancia e poi svoltare proprio verso la cucina. Ad una sua occhiata interrogatoria la ragazza lo rassicurò: stava cucinando Jace, il che non fece altro che preoccuparlo ulteriormente.

      «Rimarrai vedovo ancora prima di sposarti» proclamò entrando in cucina e salutando suo fratello. «Quello che hai appena detto non ha senso, Alec» gli rispose l’altro, mentre leggeva attentamente un libro che doveva sicuramente essere traboccante di ricette. «Lo avrà, se mai avrai intenzione di sposare Clary. Perché ho intenzione di strangolarla prima che accada» sbuffò, sedendosi e poggiando la testa sul grande tavolo della cucina. Sentì Isabelle ridere e pensò che non ci fosse nulla di divertente, in tutto quello. «Andiamo, non è così male» disse. «È che l’hai presa in antipatia. Lo sappiamo che ti ci vuole del tempo prima di andare d’accordo con persone nuove, ma prima o poi andrete d’accordo, fidati di me» «Oh, ma certo. Infatti una rompiscatole con un chiacchiericcio assordante, la risata più brutta del secolo e lo sguardo più stupido del mondo che tra l’altro impiccia nei suoi casini persone praticamente estranee che lei tratta come amici intimi è sicuramente l’essere umano più piacevole dell’universo!» sbottò, scattando in piedi.

      «Ti ha messo nei casini?» chiese Jace, alzando lo sguardo su di lui, accigliato. Un po’ Alec si sentiva meglio, vedendo quello sguardo. Per un momento aveva pensato che liquidasse la faccenda come solo lui sapeva fare, ma dal suo sguardo si capiva che qualunque cosa lei avesse fatto per metterlo in una situazione scomoda non gli facesse piacere. Infatti Jace le aveva ripetuto diverse volte di non prendersi troppe libertà con Alec, ma testarda com’era non aveva ascoltato una parola. E un po’, doveva ammetterlo, a lui piaceva anche per quello. Jace Herondale/Lightwood era consapevole di essere un bellissimo ragazzo e faceva di tutto per metterlo in mostra. Se voleva un qualcosa lo otteneva, non perdeva tempo in ragionamenti vari, non pensava come un quasi adulto faceva, se era necessario avere un “piano d’attacco”, il suo piano era attaccare e basta. Soprattutto, non si sprecava in ragionamenti inutili e contorti perché insomma, perché ci sarebbe Alec altrimenti? Quando aveva conosciuto Clary molte cose erano cambiate, specie nella sua testa.

     Ciò che provava per lei non cambiava, però, ciò che provava per la famiglia. L’aveva sempre messa al primo posto, dopo di che c’erano gli amori occasionali. Jace era uno che si amava il sesso, ma aveva avuto anche qualche storia seria nella sua vita. Non sapeva amare perfettamente, ma ci provava. Secondo lui amare era difficile, era distruttivo, ma portava a sensazioni imparagonabili ad altre. Nonostante questo l’amore per la famiglia era un qualcosa in indistruttibile. Avrebbe protetto i suoi fratelli e i suoi genitori adottivi a qualsiasi costo, o almeno questo era quello che si ripeteva fin da bambino. Il suo rapporto con Alec, soprattutto, era sempre stato particolare. Era la sua guida, la schiena a cui poggiarsi, la sua guardia. Sapeva che per quel qualsiasi cosa Alec sarebbe stato lì, col cipiglio arrabbiato e le braccia conserte, ad aspettarlo. Anche se lui delle volte non c’era. Il rapporto che aveva con il ragazzo più grande era diverso da quello che avrebbe mai potuto avere con qualsiasi altro e in un certo senso ne era felice, fiero.

       Quando Alec finì di raccontare ciò che il piccolo impiastro aveva fatto, Isabelle si era dovuta tenere la pancia dalle risate. «E tutto questo per un gatto? Oddio, sto per piangere» rise, facendo sospirare Alec, che si girò a guardare il suo migliore amico in cerca di conforto. «Bè, vediamo di trovare il gattaccio e poi rispediamolo al mittente. Son curioso di sapere chi è il pazzo che tiene così tanto ad un animale» sollevò un sopracciglio, scettico. «Jace, tu hai paura delle anatre» protestò Alec, beccandosi quasi una sediata in viso. Pensò che quello fosse il momento buono per svignarsela e buttarsi a capofitto nel letto della sua camera, cercando di trovare la poca pace rimasta nei suoi pensieri.

      La sua camera aveva le pareti totalmente dipinte di blu, sfumato con delle onde a formare l’oceano marino visto dal fondale. Il soffitto andava pian piano verso il celeste, a rappresentar il cielo fuori dall’acqua. Era piacevole da guardare. Qualche anno prima aveva pensato di decorare la camera disegnando qualche pesce qua e là, giusto per renderlo un po’ più realistico, ma i pupazzetti di Nemo e del migliore amico di Ariel – non ricordava nemmeno come si chiamava, non aveva mai visto La Sirenetta – bastavano a sufficienza. A primo impatto Alec Lightwood sembrava una persona anonima, probabilmente con la tipica stanza dalle pareti monocolore e l’ordine maniacale. Sì, era una persona ordinata, ma non sempre. Aveva letto da qualche parte che l’ordine mentale rispecchiava esattamente l’ordine fisico che lo circondava. Trovava quella frase molto appropriata alla sua vita. Quando si sdraiò – finalmente – spostò il mega pupazzo di Dori e se lo strinse in grembo, cercando di chiudere gli occhi e appisolarsi un pochino. Già sapeva che prima che il pranzo fosse pronto sarebbero passati minuti, forse ore e certamente qualche padella ustionata.

 
~~
 
      Senza saperlo, Simon aveva lasciato sgattaiolare Charmain Meow fuori dalla finestra e, quando se n’era accorto, era ormai troppo tardi. Aveva cercato ovunque, persino nello scarico del water, ma niente: del micio non c’era traccia. Era una palla di pelo così piccola che poteva essersi rintanata da qualsiasi parte, e l’immagine del gattino completamente schiacciato sull’asfalto da una macchina continuava a terrorizzarlo. Sapeva quanto Magnus tenesse a quell’animale: ci dormiva insieme, lo portava a lavoro con lui, gli faceva fare delle passeggiate – gli comprava persino i giubbottini! – e ci parlava, ci parlava continuamente nemmeno fosse il suo migliore amico. Magnus non era psicopatico – al contrario, aveva un’intelligenza fuori dal comune – ma quello stupido gatto era un qualcosa per cui avrebbe dato la vita e il fatto che proprio lui lo avesse perso lo faceva sentire malissimo. Sperò solo che Clary arrivasse il prima possibile ad aiutarlo.
Charmain Meow, per quanto gli riguardava, era tranquillamente acciambellato sul tetto della casa: una stupida farfalla aveva cercato di dargli fastidio e, tra una cosa e l’altra, mentre cercava di afferrarla era salito sino al tetto. Dal cunicolo del camino usciva fumo e calore, lui stava bene e, perché no?, una bella dormita ci stava eccome.
 
     Mentre Clary, appena arrivata, cercava di dare una bella lezione a Simon – perché come diavolo aveva fatto a farselo scappare? Era un micetto indifeso, poteva essere sotto le grinfie di chissà quale cane, al momento – il ragazzo restava in silenzio, cercando di far sfogare l’amica e arrivare al punto della situazione. «Che hai detto a Magnus?» «Che Alec vuole uccidere me e te insieme» Simon rimase perplesso da quella risposta. «Alec? Che c’entra Alec?» chiese. «Già, appunto. L’ho dovuto mettere in mezzo perché non sapevo come uscirne fuori. Ho detto a Magnus che Charmain è da lui perché tua madre è allergica al pelo del gatto» spiegò lei, mentre metteva sottosopra il cassetto pieno di magliette con i loghi di Star Wars, mischiandole con quelle di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli. «Emh, ho impiegato così tanto per separar-» «Il tempo che non hai impiegato per guardare Charmain, non è così?» alzò la voce lei: era evidentemente ancora furiosa. Non aveva idea di come fare. Non poteva chiedere a Jace di aiutarla, perché lo avrebbero saputo anche i suoi fratelli e Alec la odiava già abbastanza per i suoi gusti. «È stata un’idea geniale, comunque. Alec come l’ha presa?» «Lasciamo perdere. Se non mi vede per i prossimi tre anni è meglio»

    Simon cercava di pensare a qualcosa per migliorare la situazione: avrebbe potuto chiedere a Magnus quale fosse il cibo preferito del gatto, ma bisognava contare se questo fosse troppo lontano per sentire l’odore, o nel peggiore dei casi una mandria di altri gatti sarebbero apparsi dal nulla e tutto sarebbe finito a catafascio. Oppure avrebbero potuto dividersi e setacciare ogni zona da casa sua a Brooklyn, avrebbe certamente funzionato, ma e se il gatto avesse completamente cambiato strada? Forse se fossero stati più di due delle idee sarebbero arrivate. «E se chiedessimo agli altri?» «Gli altri chi? Jace, Isabelle e Alec? Non hai sentito che mi vuole morta e sepolta? E non posso nemmeno biasimarlo, che rabbia!» sbatté un piede a terra, lanciando all’aria un calzino. «Sai che ci aiuterebbe, è troppo mamma-della-questione per lasciarci soli. Soprattutto ora che è dentro al casino quanto noi» continuò, cercando di convincerla.  «Sai cosa? Hai ragione, tanto vale provare» I due uscirono di casa con passo veloce, cercando di arrivare il prima possibile in casa Lightwood. Avevano molto di cui parlare e decidere.

     Isabelle aprì la porta e, vedendoli, non poté fare a meno che sorridere estremamente divertita dalle loro facce sconvolte. «Se non fossimo in questo stato non saremmo qui, te l’assicuro» bisbigliò Clary, imbarazzata. Si erano fatti una corsa dell’ultimo minuto: avevano i capelli appiccicati alla fronte, il sudore che gocciolava un po’ ovunque e i vestiti quasi come una seconda pelle. E dire che fuori faceva un freddo polare. La donna di casa gli fece accomodare in salotto, facendogli togliere tutti gli indumenti in eccesso. «Emh, I-Isabelle, ti dispiacerebbe dirmi dov’è il bagno?» chiese Simon, improvvisamente arrossito. La bellezza della ragazza lo metteva ancora in soggezione nonostante fossero passati dei mesi da quando la conosceva. Bè, d’altronde tutto si poteva dire di Isabelle, ma non che fosse brutta. Con quei capelli ed occhi color ebano, le curve morbide perfettamente modellate nei punti giusti, le labbra piene e quel sorriso luminoso faceva girare la testa a chiunque la guardasse per più di qualche secondo. E lui non era di certo immune, anzi. Quello sguardo da cerbiatta lo stregava ogni volta.

      «Di sopra, vai pure: ultima porta a destra. Solo, attento a non svegliare Alec» gli disse, per poi sparire in una parte della casa a lui ignota. Probabilmente stava andando a chiamare il biondone ossigenato. Continuava a chiamarlo così solo per dargli fastidio, tra l’altro. Lui e Jace non erano andati molto d’accordo agli inizi e – diciamo – stavano ancora imparando a conoscersi. Tra una battuta sarcastica e l’altra, certo, ma era pur sempre qualcosa. L’unico problema era che non riusciva a fidarsi totalmente di lui: era in costante appresione per Clary. Non lo vedeva come una persona reale e sicura, non per lei. Un po’ perché sapeva che avrebbe dato tanto per essere al suo posto, un po’ perché c’era qualcosa nella sua faccia che proprio non andava, nossignore. La sua cotta per Clary durava da anni, non si ricordava nemmeno lui da quando era iniziata, ma in fondo aveva sempre saputo che lei non vedeva il posto accanto a sé riservato a lui, bensì a qualcuno di più misterioso, virile, macho, biondo (ossigenato, ovviamente) e con occhi d’ambra.

     Preso da quei pensieri non si accorse dell’ultimo gradino e finì addosso ad una porta completamente nera. Fu un miracolo che non l’avesse aperta, perché aveva dato una botta assurda e adesso la sua spalla doleva. Pregò solo dopo di non aver fatto così tanto rumore, fin quando Clary non accorse alla base delle scale per chiedergli se andasse tutto bene, seguito da un «Ssssh!» di Isabelle e da quella porta nera che ormai stava fissando aprirsi molto – troppo – lentamente. Simon trasalì quando vide la faccia un poco assonata di Alexander osservarlo con un misto fra curiosità e fastidio. «Oh, emh, sì, buongiorno!» aprì le braccia, quasi a stringergliele contro sperando di non averlo fatto arrabbiare troppo, mentre le sopracciglia del ragazzo di fronte a lui quasi si toccavano dal disappunto. «Io non ci posso credere» lo sentì sbuffare, per poi chiudergli la porta in faccia con un più o meno sonoro bam. Intanto Jace era salito per le scale – forse sperando che Simon fosse caduto faccia in terra o che Alec lo avesse rispedito a calci giù dagli scalini. In ogni caso, scoppiò a ridere. «Appena scendi vieni in cucina, seconda porta a destra» gli disse, prima di sparire. Non si era mai sentito tanto frustrato in vita sua.

      Una volta riuntiti intorno al tavolo, piatti e posate al loro posto, due invitati in più e un po’ di nervosismo generale – specie da parte di una persona – tutti iniziarono a parlottare e a mangiare. «Pensavo che dovremmo dividerci e cercarlo, più siamo meglio è» annunciò Simon, seguito da un «Che pensata, non ci sarei mai arrivato!» di Jace. Dopo che i due si lanciarono un’occhiataccia, Clary prese la parola. «Il punto è che: e se è andato troppo lontano? Se si è allontanato da Brooklyn e da New York? Quel gatto è davvero minuscolo» sospirò. «Prendetegliene un altro, no? Che sia identico, della stessa grandezza e con gli stessi colori. Possiamo passare al gattile più tardi, se volete» disse Isabelle, alzando le spalle. «Izzy, questo qui vuole il ritratto del suo gatto per il suo compleanno, ti pare che non lo riconosca?» chiese Jace, sempre più scettico. «Non vuole il ritratto del suo gatto, è la tua ragazza che vuole fargli un regalo del genere» commentò Alec, per la prima volta. «Potresti non parlare come se io non fossi qui, per piacere?» commentò Clary, stufandosi. Alec alzò semplicemente gli occhi al cielo.

      «Possiamo dividerci ulteriormente: io posso andare al gattile, dato che conosco bene Charmain lo potrei riconoscere più in fretta, mentre Clary può andare con Jace e controllare vicino a casa mia, mentre voi due controllerete a New York. Vi passiamo una foto così da riconoscerlo più facilmente» propose Simon, sempre più convinto della sua idea. «Sì, sarebbe perfetto! Ma sei sicuro di voler andare da solo?» gli chiese Clary, guardandolo attentamente. Lui le sorrise, tranquillo: era solo un gatto. «Commovente, sul serio. Avete finito?» chiese Alec, alzandosi. «Alexander, la frutta!» lo rimproverò lei. «Il ruolo di mamma apprensiva non ti si addice, Izzy» le diede un bacio sulla tempia, per poi uscire dalla cucina. «Tutto questo lo rende nervoso» commentò Jace. «È qualcosa in cui non c’entra assolutamente niente» «Sì, e poi mi odia» sorrise ironicamente Clary. «Ad Alec non piace nessuno, non particolarmente almeno. Se non noi» fece l’occhiolino a sua sorella, che ammiccò.  «È perché di noi si può fidare e lui lo sa» lo appoggiò Izzy, lo sguardo perso nel vuoto, probabilmente pensando a qualche ricordo con il fratello maggiore. «Il nome Alec gliel’ho dato io» rise, poi, chiedendosi se Alec lo ricordasse.

      E il fratello, poggiato al muro accanto alla porta, lo ricordava eccome. «Mamma e papà lo hanno sempre chiamato Alexander. Lui lo odiava, non so nemmeno il perché. Alexander è proprio un bel nome. Comunque, al tempo non riuscivo a dire la x, quindi chiamarlo anche solo Alex era un problema. Lo chiamavo Auec» rise al ricordo di lei, piccolissima, che lo inseguiva da una parte all’altra per improvvisargli chissà quale capigliatura. Era piena di nastrini e fiocchetti multicolore e Alec era un santo perché non si lamentava mai abbastanza per quel trattamento giornaliero. Jace aveva ragione: quando si trattava di loro due, il fratello maggiore aveva una pazienza fuori dal comune. Erano l’eccezione alla regola per la maggior parte delle cose, specie dopo vari avvenimenti. «Così ha iniziato a farsi chiamare Alec. Sono sempre stata piuttosto fiera di quel soprannome, in realtà» accavallò le gambe, spostando una ciocca di capelli dietro la spalla. Vista da fuori sembrava una vera regina. «É piaciuto a tutti, effettivamente» alzò le spalle Jace, per poi cominciare a pulire la tavola.

       «Da come ne parlate voi sembra una persona completamente diversa. Io mi prendo delle libertà con lui, è vero. A volte faccio commenti che non devo fare, anche questa mattina mi è capitato, ma non me ne rendo conto» bisbigliò Clary, sentendosi in colpa. Si chiese come fosse vedere Alec dal loro punto di vista. «È perché sei un po’ impicciona» le rispose Isabelle, priva di grazia. Jace la guardò di traverso, mentre Clary sentiva le guance andare a fuoco. «Che c’è?» chiese la mora. «È la verità. Sai com’è fatto Alec, potresti tenere la lingua a freno qualche volta, tutto qui. E per la cronaca, metterlo in un pasticcio simile non ti ha avvantaggiata di sicuro» continuò. «Lo so» rispose lei, a voce bassa. «Ma anche lui potrebbe cercare di capire, insomma. Non gli stiamo chiedendo di fare il simpaticone, ma sforzarsi un poco non-» «Alec fa quello che si sente di fare» Isabelle interruppe Simon, per poi uscire dalla stanza prima di iniziare qualsiasi tipo di discussione.

      «Iperprotettività. Siamo miracolosi in questo, lo so. Volete andare a riposarvi e poi iniziamo le indagini sul gattaccio?» chiese dunque Jace, guardando l’orologio. «Possiamo vederci per le tre e mezzo» «Per le tre sarebbe meglio. Se non è un problema per te, ovviamente» abbassò la voce nell’ultima parte della frase, alzandosi in piedi anche lei. Simon si sentì costretto ad uscire dalla stanza, lasciandoli soli. «Sai che non lo è» rispose Jace, accarezzandole una guancia e dandole un delicato bacio a fior di labbra. «E io so che il gattaccio è importante per te, quindi faremo del nostro meglio» continuò. «Anche Alec»









Angolo autrice:
dopo secoli, rieccoci.
Chiedo venia per il ritardo: sono stata a Berlino e successivamente l'influenza (ancora in corso, tra l'altro) ha deciso di farmi visita.
In questo capitolo abbiamo visto molto più rapporto familiare - come dice il capitolo stesso - tra i Lightwood.
Ho voluto mettere in chiaro che il rapporto Parabatai esiste ugualmente, nonostante non siamo nel mondo Invisibile. Mi sembrava giusto che fosse così. E poi l'iperprotettività mi sembrava una cosa buona e giusta.
Nel prossimo capitolo è possibile che rivederemo Magnus, ma non voglio svelare niente.
[Quanto sono scemi con Charmain sopra il tetto di casa di Simon? Troppo.]
Spero di ricevere alcuni dei vostri pareri. Grazie mille a chi ha recensito, a chi ha messo nei preferiti/seguite/ricordate e a chi legge soltanto!
Perdonate eventuali errori.
Un bacione e a presto,
C;

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3568585