Libro terzo: Il cuore di un drago

di charly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bonaccia e mareggiata ***
Capitolo 2: *** Issa mia, che te specchi nell'onde ***
Capitolo 3: *** Sfortunati quattordici ***
Capitolo 4: *** Solo perché puoi non vuol dire che devi ***
Capitolo 5: *** Sciegleire di desiderare ciò che non si vole ***
Capitolo 6: *** Ad ogni azione ***
Capitolo 7: *** Odore di cenere e sangue nel vento ***
Capitolo 8: *** Un tesoro incustodito e il suo drago ***
Capitolo 9: *** il tempo di uccidere e quello di amare ***
Capitolo 10: *** il cuore del drago ***
Capitolo 11: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Bonaccia e mareggiata ***


NOTE INIZIALI. Bentornati per l’ultimo libro di questa mia storia: “Il cuore di un drago”. Questo, visto che Deja cresce e alla fine avrà 18 anni, mi è venuto un peletto più esplicito e lo sto censurando senza pietà, comunque c'è una versione con rating rosso, cercatela se vi interessa!
Buona lettura!

AGGIORNAMENTO FEBBRAIO 2017: ho sistemando errori e impaginatura. I cambaimenti sono minimi

I. BONACCIA E MAREGGIATA
 
 
Deja aveva dormito poco sull’aeronave, girandosi e rigirandosi tra le lenzuola, tale era stata l’eccitazione e il desiderio di rimettere piede sulla terra natia e rivedere l’amato padre. Suo padre che non vedeva da quasi cinque mesi e che le era mancato terribilmente. Ne aveva sentito la mancanza come un vuoto nel cuore che si acuiva ogni qualvolta aveva avuto l’impulso di riferirgli qualcosa, o per cercare tra le sue braccia conforto, le era mancato il suo calore, il suo profumo, il suo bacio della buonanotte, il suono della sua voce e il tempo che aveva trascorso sull’aeronave da sola, senza la presenza di Zaron o di Perla a distrarla, era stato un’agonia passata nel ricordo di lui. Si era vestita di azzurro per l’arrivo indossando, oltre alla collana con zaffiro, anche i braccialetti che erano stati di sua madre e che aveva recuperato dal tesoro di Zaron, a cui erano stati aggiunti come dono di nozze. Larissa, eccitata quasi quanto lei, le aveva raccolto i capelli e li aveva legati in tante piccole trecce a sostegno della corona. Quando Zaron venne a prenderla, nel primo pomeriggio del secondo giorno di viaggio, per scortarla a terra, sorrideva così tanto che le dolevano i muscoli delle guance.
- Mia signora, sei davvero radiosa.
Aveva commentato lui, poggiandosi la mano della ragazzina sull’incavo del braccio.
- Sono molto felice, mio signore, grazie di avermi riportata a casa per il mio compleanno, è il regalo più bello che potessi mai farmi.
Deja rivolse il viso verso di lui, stringendogli il braccio e Zaron fu incantato da come i suoi occhi brillavano animati da un’incontenibile gioia.
- Sono molto lieto di averti resa felice, mia piccola regina.
Sussurrò lui, indirizzandole un caloroso sorriso.
Il luogo dove avevano attraccato non era un campo, ma uno spiazzo che era stato approntato espressamente per permettere l’atterraggio delle aeronavi e si trovava in vista delle mura basse di Issa. Ad accoglierli c’erano numerosi rappresentanti della nobiltà issiana e tutti gli uomini rakiani che Zaron si era lasciato alle spalle per controllare che Issa si assestasse nel suo nuovo ruolo di regno annesso all’impero. Davanti a tutti c’era il padre di Deja. Vedendola scendere per la passerella un sorriso commosso incrinò la sua espressione serena, che assumeva in ogni occasione pubblica, si inchinò a Zaron e poi, più profondamente, verso sua figlia.
- Sire, mia regina. Permettetemi di darvi il bentornato a Issa. Siamo onorati della vostra presenza e oltremodo felici che abbiate scelto di festeggiare in patria il compleanno della nostra beneamata sovrana.
Deja lasciò il braccio del marito e allungò entrambe le mani verso il padre, che le prese, stringendole con affetto.
- Grazie padre, è bello essere tornati a Issa, anche se la visita è breve.
Si rivolse ai nobili e alla popolazione che se ne stava assiepata ai margini del campo, dietro un cordone di guardie issiane e rakiane.
- Grazie a tutti voi per essere venuti qui ad accoglierci.
I nobili si inchinarono con deferenza, a lei e a Zaron, i rakiani portandosi le mani al petto, mentre la popolazione issiana esplodeva in un boato di gioia.
Aborn aiutò la regina a salire sulla carrozza aperta che li attendeva e su cui era salito pure lui, dopo aver ceduto il passo a Zaron che lo aveva fissato con espressione distesa ma non amichevole prima di sedere al fianco della moglie lasciando all’altro solo il posto difronte.
Aborn non riusciva a staccare gli occhi da sua figlia né a smettere di sorriderle. Nonostante le assicurazioni dell’imperatore, era stato certo che sarebbe passato moltissimo tempo prima di rivederla. Le lettere che si erano scambiati, e che erano state caute e superficiali pur piene d’amore, non erano state sufficienti per la sua anima ferita dal distacco dalla sua bambina. Ora lei era lì. Forse era la sua impressione, ma lei sembrava cresciuta, il viso più fanciullesco che infantile; aveva scrutato con discrezione ogni parte di lei che l’abito lasciava scoperto, in cerca di lividi o altri segni di abuso. Lei gli aveva scritto che si trovava bene a Halanda e che era in salute, ma Aborn si era tormentato per tutti quei mesi, come se fosse stato steso su braci ardenti, incapace di trovare pace al pensiero di quello che poteva esserle capitato. I primi messaggi ricevuti da lord Ostin e lady Asill, a cui aveva chiesto di riferirgli ogni cosa riguardante la regina, erano stati allarmanti, soprattutto quelli del soldato. L’idea che il khan rakiano avesse relegato Deja nel suo harem e il racconto angosciante del suo primo giorno a Palazzo Reale lo avevano impietrito, per contro il resoconto della nobile guaritrice, giunto alcuni giorni più tardi, era stato più cauto e ottimista e aveva riferito che la regina non aveva mai richiesto la sua assistenza e che pareva serena e in salute.
Ora, sulla carrozza che li conduceva a palazzo, Deja appariva radiosa, gli sorrideva e salutava la folla festante scesa in strada ad accoglierla. Aborn era felice, l’unica ombra la figura impassibile del sovrano straniero seduto accanto a sua figlia, che la teneva per mano. Lui non volle lasciarla andare neanche quando scesero davanti alla scalinata, Aborn aveva teso la mano verso la figlia ma l’imperatore aveva insistito per essere lui ad aiutarla a scendere e per scortarla all’interno. Mentre camminavano per i corridoi si rivolse prima a Zaron e poi a sua figlia.
- Ho fatto preparare gli appartamenti reali per voi, sire.
Zaron annuì, altero.
- Per te, mia cara, ho fatto preparare la tua vecchia stanza.
Il sovrano rakiano si fermò di botto, con espressione tempestosa. Deja guardò prima lui poi il padre, allarmata.
- Mia moglie risiederà con me per tutta la durata della visita. Mi spiace che la tua servitù abbia preparato una stanza in più per niente.
La voce di Zaron era minacciosa e non lasciava possibilità di replica.
- Fa come dice, padre. Onestamente, perché hai fatto preparare la mia vecchia camera da letto? Sono sposata adesso, è giusto che stia con mio marito.
Deja aveva cercato di assumere un tono allegro, come se fosse stato tutto un malinteso divertente, ma la tensione che poteva percepire tra suo padre e suo marito era preoccupante e la riempiva di inquietudine.
- E dimmi, padre, hai modificato gli appartamenti reali o sono ancora com’erano quando li occupavi tu?
La regina si era buttata sull’argomento in preda alla disperazione, desiderosa di riempire il silenzio opprimente che si era creato. Non aveva neanche immaginato che suo padre potesse aver lasciato gli appartamenti che aveva sempre occupato da quando era divenuto re, ma la cosa aveva senso: lui non era più il re e ora che lei era regina quelle stanze erano sue di diritto. A dire la verità non aveva neanche considerato che Zaron avrebbe voluto dormire con lei per la durata del loro soggiorno a Issa ed era stata anche lei, come suo padre, sicura che avrebbe nuovamente occupato gli appartamenti che erano stati suoi prima del matrimonio.
- Nulla è cambiato, mia signora. Sono solo più spogli: le mie cose e i miei libri non ci sono più.
Zaron aveva ripreso a camminare.
- Immagino, suocero, che avrai già organizzato i festeggiamenti per il compleanno di mia moglie.
L’altro aveva annuito, cercando di riprendersi.
- Sì. Cominceranno nel primo pomeriggio, con gli auguri e la consegna dei doni, ci sarà un banchetto nel parco e una festa danzante che proseguirà fino alla mezzanotte quando…
- Bene, bene.
Lo interruppe distrattamente Zaron.
- Desidero vedere i ministri rakiani il prima possibile.
Aborn fece un respiro profondo per calmarsi.
- Ci stiamo proprio dirigendo alla sala delle riunioni, dove ci raggiungeranno anche i suoi… amministratori.
- Se è così, io gradirei ritirarmi.
Si intromise Deja.
- Se per il mio signore va bene, vorrei visitare il palazzo e i suoi giardini e conversare con mio padre.
Zaron si fermò nuovamente e annuì con riluttanza. Si portò alle labbra la mano di Deja e le baciò le nocche.
- Finché non saremo nuovamente insieme, mia signora. Sentirò la mancanza della tua presenza al mio fianco.
Poi proseguì verso l’incontro con i suoi uomini, lasciando padre e figlia da soli.
- Vieni, figlia mia. Hai fame? Sete? Ho fatto preparare un piccolo rinfresco per due nella mia anticamera.
Deja annuì e si strinse al suo braccio e insieme si diressero verso i nuovi appartamenti di Aborn in silenzio, consci delle guardie rakiane che non avevano proseguito con il loro khan ma si erano accodate alla scorta issiana che accompagnava la regina e il Lord Protettore.
Aborn aveva davvero fatto preparare un rinfresco nel salottino, con tartine, dolci e succhi di frutta. Deja si fece servire del thè dopo essersi seduta e lo sorseggiò mentre suo padre licenziava la servitù, dicendo che di lì in poi avrebbero fatto da soli.
Poi si sedette dirimpetto a lei, con espressione ansiosa.
- Deja, piccola mia. Dimmi la verità: stai bene?
Lei gli sorrise e annuì, poi poggiò la tazza con mano tremante.
- Papà, mi sei mancato tanto.
Disse prima di alzarsi e buttarsi in braccio a lui. Gli strinse spasmodicamente il collo con entrambe le braccia e teneva premuto il viso contro la sua spalla, singhiozzando. Anche Aborn si mise a piangere tenendola al sicuro tra le sue braccia e depositando baci leggeri sui suoi capelli intrecciati.
- Bambina mia, bambina mia…
A Deja ci volle un po’ per calmarsi.
- Ti ho bagnato la camicia.
Osservò con occhi arrossati e voce rauca.
- Non è niente, adesso vedrai che si asciuga.
Deja rise per l’assurdità della situazione e si alzò in piedi. Aborn cercò debolmente di trattenerla ma lei volle tornare a sedere al suo posto. Bevve un altro sorso di thè, ormai a malapena tiepido, per cercare di ridarsi un contegno. Aborn era angosciato e la sua ansia era chiaramente riflessa sul suo viso.
- Deja, ho bisogno di saperlo, ti prego, sii sincera. Lui, lui… ti ha…
Sua figlia divenne scarlatta in viso.
- Padre!
Esclamò, imbarazzata.
- Zaron ha mantenuto la promessa, padre. Non devi essere preoccupato.
Aborn si accasciò di sollievo, poi ribatté.
- Però vuole dividere gli appartamenti reali con te per i prossimi dieci giorni, Deja! C’è un letto solo…!
La ragazzina sbuffò, roteò gli occhi e fece un gesto disdegnoso con la mano. Suo padre rimase interdetto da tale comportamento.
- Nulla di strano, padre. Siamo sposati, dopotutto. Se ti può essere di conforto non è la prima volta che dividiamo un letto: dormo regolarmente negli appartamenti di Zaron e lui non mi ha mai toccata.
Poi aggiunse con una smorfia.
- Credimi, non è interessato a me.
- Ma ho saputo di quello che è successo la mattina dopo il matrimonio. Mi hanno riferito che lui ti aveva lasciato dei lividi.
Deja si portò una mano alla gola, arrossendo nuovamente e abbassando lo sguardo, piena di imbarazzo ma un attimo dopo sollevò nuovamente gli occhi, pieni di stizza.
- È stato tutto un malinteso. È stato lord Ostin a riferirtelo, o lady Pastis? Sono due impiccioni! Zaron non mi ha fatto nulla, servivano prove che avesse… fatto… qualcosa. Quindi le abbiamo fabbricate. Avresti dovuto vedere come gli ho graffiato io la schiena!
Suo padre era impallidito mentre lei arrossiva: quel gesto, quel rossore… gli lasciarono chiaramente intuire la natura del livido di cui Ostin e lady Asill gli avevano parlato nelle loro lettere. Emise un verso strozzato mentre immaginava quello che doveva essere successo e l’atto a cui il marchio, lasciato presumibilmente dalla bocca di Zaron, e i graffi, di cui Deja aveva parlato, avrebbero dovuto implicare.
- Voglio cambiare argomento padre, sono stanca di dover difendere mio marito contro tutti, almeno tu dovresti sapere che non mi ha toccata. Ho imparato a conoscerlo in questi mesi: è un uomo d’onore e noi abbiamo sbagliato a dubitare di lui e della sua parola.
Deja trasse un profondo respiro.
- Parlami ora dell’accordo commerciale con Valturq, negli ultimi rapporti che ho ricevuto avevi detto che il governatore della regione faceva resistenza. Avete risolto la questione?
 
Verso sera Zaron entrò per la prima volta negli appartamenti reali, che prima della sua conquista di Issa erano stati di re Aborn. Erano aerati, ben illuminati e ammobiliati secondo il gusto issiano che preferiva le linee semplici ma raffinate. Nell’anticamera, seduta a un tavolo con la schiena rivolta a una finestra aperta da cui entrava una brezza che sapeva di mare, sedeva Deja. Davanti a lei, sulla sua destra, vi era un’alta pila di documenti, alla sua sinistra una pila più bassa. La regina con uno stilo faceva piccoli appunti a margine del documento che stava studiando.
Zaron si avvicinò lentamente e lesse alcune parole al contrario. Era il rapporto di una seduta del consiglio che si era tenuta settimane prima.
- Sto cercando di mettermi in pari.
Disse Deja sollevando lo sguardo e stropicciandosi gli occhi prima di poggiare il capo contro lo schienale della sedia. Zaron fece il giro del tavolo e le carezzò con leggerezza la fronte.
- Sembri stanca, mia piccola regina.
Le sussurrò. Era innervosito quando era entrato negli appartamenti, ancora infastidito per il comportamento del padre di lei, ma vederla china sui documenti, intenta a svolgere diligentemente l’attività amministrativa che era la parte più noiosa del comando, lo aveva intenerito e le parole che aveva inteso pronunciare e che di sicuro l’avrebbero fatta irritare gli erano morte in gola.
- Mi sono presa la libertà di ordinare una cena per tre da consumare qui in camera, se Perla ci vuole raggiungere…?
Zaron scosse il capo.
- Perla cenerà da sola. Dopo passerò a visitarla, per vedere come si è sistemata, prima di ritirarmi.
Deja annuì.
- D’accordo, avviserò la servitù.
Si alzò e uscì per un attimo, rientrando subito dopo.
- Ho detto di far portare subito la cena. Sono davvero stanca, ma prima di andare a letto volevo finire il rapporto e farmi un bagno. Seguimi, ti mostro le stanze.
Deja mostrò a Zaron la sala da pranzo privata, con la tavola apparecchiata da cui una cameriera stava togliendo un coperto, uno studio completamente spoglio che fece realizzare a Zaron che lei si era messa nell’anticamera apposta per intercettarlo al suo ingresso, e poi lei gli indicò la sala da bagno, piccola come quella degli appartamenti che gli erano stati assegnati durante la sua prima permanenza a Issa, e vedendo la sua faccia Deja gli sorrise stancamente.
- Lo so, è piccola! Mi hai viziato con la vasca interrata che ho a Halanda, in compenso qui c’è l’acqua calda!
- Come arriva?
Chiese incuriosito Zaron. Deja entrò nella sala da bagno e si mise vicino a un profondo lavabo di marmo, indicando i due beccucci con manopole che Zaron sapeva servivano per far uscire acqua calda e acqua fredda.
- Ci sono delle tubature installate nel muro. Mi ricordo quando le hanno messe, avevo circa sette anni, gli operai sono andati avanti mesi a rompere i muri e a ricostruirli. I tubi dell’acqua fredda c’erano già ma hanno dovuto istallare una nuova condotta appositamente per quella calda. Parte dalle cucine, dove l’acqua viene riscaldata dai forni che sono sempre accesi e poi è spinta in alto, in tutto il palazzo, grazie alla pressione. L’unico intoppo è che i tubi devono essere piccoli per far arrivare l’acqua all’ultimo piano e le stanze che sono più lontane dalle cucine ricevono acqua meno calda di quelle che vi sono vicine.
- Affascinante. Prima di andar via voglio fare un giro per vedere come funziona.
Mormorò Zaron e Deja gli rivolse un’occhiata incuriosita. Poi uscì dal bagno e lo condusse nella camera da letto.
- Questa è la camera, ovviamente. Da quella porta si entra nello spogliatoio del re, e da questa in quello della regina.
Deja indicò le due porte ai lati del letto, più piccolo di quello che Zaron aveva a Halanda.
- Sai,
Proseguì Deja con voce nostalgica.
- Quando ero bambina venivo a giocare qui, entravo nello spogliatoio che era stato di mia madre, toccavo i suoi abiti, che mio padre non aveva voluto togliere, e mi mettevo i suoi gioielli preferiti, che lei aveva tenuto sul suo mobile per il trucco.
Si toccò i braccialetti.
- All’epoca non pensavo che un giorno avrei occupato queste stanze e che i miei abiti sarebbero stati appesi dove un tempo erano i suoi.
Prima che Zaron potesse dire niente Deja si riscosse e gli sorrise.
- Mi sembra di aver sentito entrare la servitù con la cena.
Deja non aveva esagerato dicendo di essere stanca. Al suo ritorno dalla camera di Perla, Zaron la trovò già a letto, addormentata. Si mosse silenziosamente, per non svegliarla. Si tolse gli abiti nello spogliatoio, indossando i pantaloni larghi e la camicia che portava sempre quando divideva il letto con lei e mise alcuni coltelli in giro per la stanza e uno sotto il suo cuscino prima di spegnere il lume che lei gli aveva lasciato acceso. La luce della luna, grande e argentea pur non essendo ancora piena, che si rifletteva nella baia entrava dalle finestre lasciate aperte, filtrata dalle leggere tende bianche che si muovevano per la brezza. Si stese a letto lentamente, per non scuotere il materasso; tuttavia, mentre poggiava il capo sul cuscino, lei emise un gemito e rotolò a pancia in giù, tirandogli un calcio allo stinco. Zaron sobbalzò: Deja si agitava parecchio nel sonno, rivoltandosi numerose volte nel corso della notte e solo la larghezza del letto impediva che loro si toccassero e che Zaron fosse preso a calci e schiaffi. Tallia era l’unica delle sue concubine ad agitarsi allo stesso modo. Mira e Cara amavano essere strette tra le sue braccia e dormire raggomitolate sul suo petto, Perla e Tallia odiavano essere toccate nel sonno, Oscia invece stava incollata al suo fianco ma non voleva essere abbracciata. Deja di sicuro non avrebbe gradito svegliarsi premuta contro di lui, anche se Zaron era fortemente tentato di immobilizzarle gambe e braccia per salvarsi da lei. Rassegnato, le diede la schiena e si mise il più possibile sul bordo del letto.
 
La mattina seguente Deja la spese con suo padre e i consiglieri, a occuparsi delle questioni di governo più urgenti che erano state messe in sospeso in previsione del suo ritorno. Fece un pranzo leggero, portandosi avanti con la lettura dei rapporti e poi prese la carrozza per recarsi a casa di Anka. La famiglia della sua amica fu estremamente deferente e solo quando Anka la portò in camera sua e Deja intimò alle sue guardie del corpo, due issiane e due rakiane, di rimanere fuori dalle porte della camera da letto privata della sua amica, che le due ragazzine si rilassarono e si abbracciarono con trasporto, non più regina e suddita, ma due semplici amiche che si incontrano nuovamente dopo mesi di lontananza. Si sedettero sul letto di Anka e cominciarono a parlare, tenendosi per mano.
Anka era visibilmente turbata.
- Lo so che ormai sarai stanca di sentirtelo chiedere, Deja. Ma come stai?
La regina le strinse la mano e le sorrise.
- Bene, benissimo adesso che sono a casa. Non sai quanto tutto mi sia mancato! Papà, tu, la città… Lo sai che il cielo è diverso a Halanda? Sembra più lontano...
Anka fece una smorfia.
- Io intendevo con tuo marito. Mamma si è sentita male quando lo ha saputo. Anche io, ho pianto tanto! È terribile quello che ti è successo. Fa tanto… male?
Deja abbassò lo sguardo sul copriletto rosa e seguì con un dito i ricami di fiori viola che lo decoravano.
- Il mio matrimonio non è stato… orribile.
Anka era la sua migliore amica, quando era stata piccola suo padre l’aveva circondata di altre bambine della sua età, per farla giocare con delle coetanee ma quando era cresciuta solo Anka era rimasta; con le altre Deja non era mai riuscita a legare altrettanto strettamente e i loro interessi erano divenuti via via troppo diversi, solo con Anka si era trovata a suo agio a fare discorsi “da grandi”; mentre le altre volevano solo giocare con le bambole, con Anka poteva parlare di politica e letteratura. Non sempre l’amica riusciva a seguirla, ma almeno stava ad ascoltare e crescendo aveva cominciato a partecipare apportando le sue idee. Le sarebbe stato impossibile dire quando e perché Anka fosse diventata la sua migliore amica, da che aveva memoria lei era sempre stata lì, come una sorella, tanto che quando erano piccole giocavano a fingere di esserlo per davvero, dato che avevano entrambe gli occhi azzurri e i capelli lisci e castani, e quindi volle metterla a parte del segreto che riguardava il suo matrimonio.
Si chinò leggermente su di lei, che era di qualche centimetro più bassa, e le sussurrò all’orecchio.
- Non è un matrimonio vero, Anka. Lui non mi ha sfiorata, ma non deve saperlo nessuno, capito? Nessuno, devi giurarlo.
Lei aveva spalancato la bocca e gli occhi per la sorpresa e poi l’aveva abbracciata, stringendola forte.
- Lo giuro! Oh, Deja, sono così contenta…!
Dopo, sempre sussurrando, le chiese arrossendo.
- Ma allora perché ti ha sposata se non voleva, beh, quello? Ho sentito papà dire alla mamma, quando pensavano che non sentissi, che doveva essere un pervertito perché gli piacevano le bambine. I miei genitori erano contenti di essere riusciti a fuggire dalla città, prima che cadesse. Erano preoccupati per me, per quello che avrebbe potuto succedermi, avevano paura che potesse capitare a me quello che era capitato a te. Hanno detto che i rakiani sono dei barbari. Erano molto arrabbiati e molto spaventati, Deja.
Deja si sentì sconfortata al pensiero che la reazione dei genitori di Anka dovesse essere quella della maggioranza della popolazione.
- Si sono sbagliati, Zaron è molto diverso da come appare. Almeno lo è con me.
Deja parlava a bassa voce. Era la prima volta che si confidava con qualcuno: non aveva voluto parlare del suo rapporto con Zaron neanche con il padre, che le era apparso subito ostile nei confronti di suo marito, come d’altra parte Zaron era parso inspiegabilmente ostile con lui.
- Zaron è divertente, cortese. Molto sollecito, pensa che ha preso nota dei miei cibi preferiti e quando mangiamo da soli li fa preparare apposta per me. Vuole che passiamo del tempo insieme e, soprattutto, ha fatto numerose concessioni alla mia cultura a discapito della sua. A Rakon le donne non hanno molta libertà, Anka. Una ragazza non sposata non esce quasi mai di casa, a meno che non sia accompagnata da un parente. Anche le donne sposate non escono quasi mai senza i mariti, solo per andare a trovare un familiare e di certo non viaggiano: nessuna è venuta con noi a Issa. Alle feste che Zaron ha dato a Palazzo Reale uomini e donne siedono a due tavoli separati, ma Zaron ha fatto preparare un tavolo appasta per noi, così che possiamo sedere vicini. I suoi ministri sono tutti uomini ma Zaron mi fa partecipare alle sedute del suo governo, anche se non posso prendere la parola e avresti dovuto vedere le facce dei suoi ministri le prime volte che ho seduto con loro. Lo sai che a Rakon per uomini e donne è sconveniente toccarsi in pubblico? Ma Zaron mi offre sempre il braccio e mi tiene la mano. Non è un barbaro, è molto intelligente e curioso, tra i doni di nozze quello che ha preferito di più è stato il fonografo.
Anka la guardò con un’espressione incuriosita.
- Sei sicura che non ti stia corteggiando? Perché da come lo descrivi, a me sembra che si comporti come un innamorato che corteggia la fidanzata. E tu sembri, non so… Non è che a te lui piaccia?
Deja era violentemente arrossita.
- No, ti sbagli, su entrambe le cose. Lui non mi sta corteggiando. È che... lui ha detto che deve far vedere a tutti che mi preferisce a qualunque altra. Ma la verità è che ha già una preferita. Io non gli interesso. Dovresti vedere le sue concubine: sono tutte donne bellissime e sono tutte grandi, la più giovane avrà di sicuro almeno dieci anni più di me. Sono… molto diverse da me. E poi c’è lei. Io credo che lui l’ami.
Deja si era fatta incredibilmente triste.
- Chi è lei?
- La sua concubina preferita. Sono coetanei e si conoscono da prima che io nascessi. Lui non si separa mai da lei ed è l’unica che abbia voluto con sé durante questa visita.
Anka le poggiò entrambe le mani sulle spalle.
- Deja, sei sicura che lui non ti piaccia, almeno un pochino? Sarebbe normale, sai? E poi non ti ho mai sentita parlare così mai di nessun ragazzo, neanche Ostin.
Deja fece una smorfia infelice.
- No! Non sono innamorata di lui, Anka, che discorsi fai? Ostin poi, cosa c’entra?
- Mi pare solo buffo il fatto che ti dia fastidio che lui abbia una favorita e che quella favorita non sia tu!
Deja sospirò.
- Ha trentasei anni, Anka. Trentasei! Cosa vuoi che gli importi di una ragazzina di tredici? È ovvio che preferisca una donna matura, della sua età. Non è un pervertito a cui piacciono le bambine, come invece pensa tuo padre!
Deja si lasciò cadere sul letto, guardando il soffitto, e Anka si distese al suo fianco.
- Quindi… non ti ha sfiorata neppure. Niente?
- No!
Deja asserì con fermezza, poi si bloccò, arrossendo fino alla radice dei capelli.
 - Ah!
Esclamò vittoriosa la sua amica.
- Allora qualcosa è successo.
Deja si portò una mano al collo, carezzandosi un punto sotto l’orecchio sinistro.
- Mi ha baciato, in un certo senso. La mattina dopo il matrimonio lui ha detto che doveva sembrare che avessimo, lo sai… consumato… E così mi ha baciato il collo, lasciandomi un’ecchimosi scura che ci ha messo più di una settimana a sparire. Ma è successo una volta sola, poi a parte baciarmi la mano quando siamo in pubblico e sfiorarmi la schiena o la testa ogni tanto, non mi tocca mai.
- Sembri quasi delusa…
Deja ci rifletté un attimo. Era delusa del fatto che suo marito non dimostrasse nessun interesse fisico nei suoi confronti? Era stato piacevole quando lui le aveva usato la bocca per lasciarle quel livido, ma voleva che la cosa si ripetesse? Voleva che lui la baciasse sulla bocca, che la toccasse altrove? Un brivido d’ansia le percorse la schiena e le fece chiudere la bocca dello stomaco. No, non lo voleva, le andava benissimo che per il momento Zaron non l’avesse mai guardata o toccata come un’adulta. Ma Anka aveva anche lei ragione. Se non lo voleva, allora perché era delusa che lui non la volesse?
- No, non è che voglio che lui, che lui… No. Non so spiegarmi, Anka, sono confusa… Forse… forse è perché siamo sposati e l’idea che lui non mi amerà mai è… triste.
Le due amiche rimasero in silenzio per un po’, poi Anka spezzò l’atmosfera seria che si era venuta a creare.
- Guardaci: l’imperatrice di tutta Zabad e la sua migliore amica, che spettegolano di uomini! Adesso magari ci faremo le trecce a vicenda e discuteremo di qual è il colore più alla moda di quest’anno!
Deja scoppiò a ridere e le diede una spinta scherzosa che Anka restituì, ridendo anche lei.
 
Si soffermò a casa di Anka più del previsto ed era quasi sera quando rientrò a palazzo. Trovò una guardia rakiana ad attenderla che si inchinò con deferenza e, senza incrociare il suo sguardo, le riferì che il khan l’attendeva e che doveva scortarla da lui.
La portò in giardino, dove Zaron stava duellando con una guardia issiana. Deja attese pazientemente che terminassero.
- Desideravi parlarmi, mio signore?
Zaron si asciugò il viso e le braccia madidi di sudore, le rivolse uno sguardo cupo e annuì, senza parlare. Le prose il braccio e insieme rientrarono.
- Vieni con me, mia signora, desidero discutere con te di una questione. Accompagnami alle nostre stanze, presto sarà ora di cena ed è il caso che mi cambi.
Lui sembrava adombrato, ma forse era solo la fatica causata dallo sforzo fisico. Comunque, rifletté Deja, era strano che si stesse allenando a quell’ora: Zaron preferiva farlo al mattino.
Una volta entrati nei loro appartamenti e rimasti soli, Zaron le afferrò il polso con forza e la trascinò velocemente in camera da letto, chiudendo tutte le porte che li separavano dalle guardie appostate in corridoio. A Deja balzò il cuore in petto: l’espressione di lui era mutata dopo che la prima porta si era chiusa alle loro spalle, si era rabbuiata, le labbra strette in una smorfia inflessibile e la mano sul suo polso la stringeva crudelmente. Con un gemito spaventato gli afferrò il braccio.
- Zaron, rallenta, aspetta! Cosa succede?
Lui la spinse nella camera da letto facendole quasi perdere l’equilibrio e chiuse la porta, appoggiandovi la schiena contro e afferrando con entrambe le mani la maniglia. Respirava quasi affannosamente e quando parlò lo fece con voce tonante, furiosa.
- Dove sei stata tutto il pomeriggio?
Deja lo guardò, incredula.
- Dalla mia amica Anka! Mio padre sapeva dov’ero! Non sono sgattaiolata via in segreto!
Si massaggiò il polso, con occhi velati di lacrime. Lui le faceva improvvisamente molta paura e non c’era modo di sfuggirgli se fosse divenuto violento.
Lui ringhiò, dando uno strattone alla maniglia.
- Ti avevo detto di non uscire mai senza di me! Ti avevo detto che se volevi vedere qualcuno dovevi farlo venire da te chiamandolo a palazzo. Cosa ti è saltato in mente di uscire, senza dirmi nulla?
Deja tremava e le sfuggirono alcune lacrime.
- Ma… ma…
Lui la interruppe, alzando ulteriormente la voce.
- Tuo padre sapeva dov’eri? Te lo immagini che figura che avrei fatto se avessi dovuto chiedere ad Aborn se per caso sapesse dov’era finita mia moglie, perché io non lo sapevo?!?
Deja si mise a singhiozzare e Zaron diede un altro strattone alla maniglia. Lei si chiese se lo facesse per impedirsi di usare quelle mani su di lei. La paura si trasformò in indignazione e poi in rabbia.
- Come osi!
La voce le uscì stridula e sembrò sorprendere Zaron, che evidentemente non si aspettava una replica del genere.
- Questa non è Halanda. Qui siamo a Issa, qui io sono la regina! Mi sposto dove e come voglio, non sono tenuta a richiedere prima la tua approvazione, capito? E tu non mi trascinerai mai più in giro, come se fossi una bambina disubbidiente, sono stata chiara?
Così dicendo agitò nella sua direzione l’avanbraccio sinistro, che lui aveva stretto con violenza.
- E adesso togliti di lì, voglio uscire. Oppure sono tua prigioniera?
Zaron si fece da parte, impassibile e silenzioso e Deja ne approfittò, spalancando la porta, tremando di paura all’idea che lui avrebbe potuto fermarla e si rifugiò nello studio, sbattendo con forza il battente, sentendo che Zaron faceva lo stesso con quello della camera da letto e che poi lo colpiva, ripetutamente, con calci e pugni. Si rannicchiò sotto la scrivania, reggendosi le ginocchia e piangendo.
Quando lui bussò, molto tempo dopo, Deja aveva finito di piangere, anche se singhiozzava ancora, ogni tanto. Sentì che lui la chiamava, con voce sommessa.
- Che vuoi?
Gli urlò da sotto il tavolo.
- Deja, posso entrare?
- No!
Ci fu un tonfo sordo dall’altra parte della porta, poi un sospiro.
- Ti prego, Deja perdonami. Apri la porta, permettimi di parlarti faccia a faccia.
Lei uscì dal suo nascondiglio e gli aprì, strofinandosi gli occhi arrossati. Lui se ne stava fermo sulla soglia, con le mani poggiate sullo stipite.
- Mi sono comportato in maniera indegna e riprovevole. Ti prego, perdonami, non sei la mia prigioniera, non sei una mia proprietà e io non avevo nessun diritto di metterti le mani addosso. Ti ho fatto male?
Deja, senza parlare, gli offrì il braccio sinistro, rivolgendo l’interno del polso verso l’alto, mostrandogli le quattro macchie scure che erano comparse, dove le sue dita si erano piantane nella carne.
- Oh, dei…
Zaron si coprì il volto con le mani.
- Pensavi sarebbe stato… cosa? Umiliante? Chiedere a mio padre dov’ero andata? Pensa a come mi sentirò io domani quando tutti vedranno questo. Quando mio padre lo vedrà. Come lo spiegherò? Cosa dirò? Ti ho sempre difeso…
La voce di Deja cominciò a tremare.
- Ti ho sempre difeso, quando tutti pensavano che tu mi facessi del male, quando mi guardavano le braccia e il collo, in cerca dei segni evidenti dei tuoi a-abusi… Come farò a guardarli in faccia e dire che tu non mi picchi, che sei rispettoso e corretto nei miei confronti?
Zaron cadde in ginocchio difronte a lei. Con esitazione e delicatamente le prese la mano sinistra, chinandovi sopra il viso.
- Ti prometto Deja che non succederà mai più. Te lo giuro!
Lei sfilò la mano dalla sua debole stretta e lo afferrò per il mento, sollevandoglielo fino a incrociare il suo sguardo.
- Sarà meglio così, Zaron. Non sei mai venuto meno a una tua promessa fino ad oggi. Vedi di non cominciare con questa.
Lui annuì, chiudendo gli occhi. Dopo che lei era scappata via, dopo che aveva sfogato la sua frustrazione contro la porta, si era calmato e la vergogna per il suo atteggiamento lo aveva travolto. Quando si era reso conto che Deja non era più a palazzo, quel pomeriggio, si era irritato e mentre le ore passavano e lei non tornava, l’irritazione era montata in rabbia. Non aveva voluto chiedere al suocero dove lei fosse, il suo orgoglio non glielo aveva permesso e così si era arrabbiato con lei, che non era rimasta al suo posto, come avrebbe dovuto, come una brava, sottomessa moglie rakiana avrebbe fatto. Quando lei era infine rientrata Zaron aveva avuto ore in cui la sua rabbia era cresciuta fino a raggiungere il limite del suo autocontrollo. Aveva tenuto stretta quella dannata maniglia per non mettersi a colpire i mobili, per non spaventarla ulteriormente. L’idea di colpire lei non lo aveva neanche sfiorato ed era ora umiliato dal fatto che quella era l’impressione che lei aveva avuto: che quell’orribile livido sul suo polso fosse voluto, che lui avesse inteso arrecarle dolore. La paura sul suo viso, le sue lacrime, i suoi singhiozzi… come durante la loro prima notte, mai più avrebbe voluto vederli, ma era successo e questa volta lei aveva avuto una buona ragione per piangere, per avere paura. Mai più, giurò a sé stesso. Mai più Deja avrebbe avuto motivo di avere paura di lui.
La sua piccola regina si appoggiò alla porta, passandosi le mani sulle guance arrossate, un’espressione sfinita sul viso.
- Mi dispiace di essere uscita senza dirti niente. Avrei dovuto farlo, mandarti un messaggio non mi sarebbe costato nulla, appena un attimo. Non ci ho pensato. Non era mia intenzione farti adirare.
Zaron scosse il capo.
- Tu non hai colpa. Ho reagito in maniera spropositata. Hai ragione: non siamo a Halanda. Non devi sottostare agli usi rakiani quando sei in patria. Il mio atteggiamento è stato imperdonabile, e tuttavia ti chiedo di perdonarmi.
Lei annuì e poi, sorprendentemente, sorrise anche se era un sorriso debole e stanco.
- Abbiamo appena litigato?
Lui sorrise a sua volta, parte della tensione che lo attanagliava al pensiero di aver incrinato la sua fiducia lo abbandonò.
- Credo di sì.
Deja si sedette per terra e gli poggiò il capo sul petto, lasciando che Zaron l’abbracciasse e le carezzasse i capelli, con mano tremante.
- Non fare mai più una cosa simile, d’accordo? Mi hai fatto quasi morire di paura.
Sussurrò lei. Lui la strinse un po’ più forte e poi confermò la sua risoluzione.
- Mai più.


 
NOTE DELL’AUTRICE: E così li ho fatti litigare per la prima volta! Il prossimo capitolo sarà Deja a mostrare i denti e Zaron a essere quello perplesso che si chiede che diavolo succede. Vi prego non odiatelo, è sempre stato così gentile e premuroso con lei ma non è normale e non è realistico non arrabbiarsi mai. E’ naturale e sano litigare, solo discutendo delle nostre differenze e delle nostre opinioni possiamo farci capire dagli altri. Quello che non è MAI scusabile è l’utilizzo della violenza. Usare la forza bruta, che sia fisica o psicologica per sopraffare qualcuno non è mai un comportamento accettabile. Picchiare qualcuno per costringerlo a sottomettersi non è “averla vinta” ma ammettere di essere un fallimento come essere umano su tutti i fronti. Asimov ha scritto che “la violenza è l’ultima risorsa delle sciocco”. Chi è vittima di abusi dovrebbe sempre ribellarsi e denunciare, perché se pensa che vada bene così, che tanto la cosa si risolverà da sola, sbaglia di grosso: un uomo che picchia la moglie/compagna/membro della famiglia, lo fa una volta e lo farà sempre, non importa quanto contrito possa essere dopo o quante volte chieda scusa. MAI subire in silenzio, perché gli fai credere che sia lecito rifarlo.
Detto questo, Zaron non è un uomo violento, lo vedrete nel prossimo capitolo quando sarà Deja a saltargli alla gola e lui non alzerà un dito per difendersi.
 

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Capitolo 2
*** Issa mia, che te specchi nell'onde ***


II. ISSA MIA, CHE TE SPECCHI NELL’ONDE*

 
 
La mattina dopo Deja aveva coperto il livido optando per indossare i numerosi bracciali che Zaron le aveva regalato, sei per braccio così che non scivolassero rivelando i segni che lui le aveva lasciato. Solo Larissa li vide e strinse le labbra in segno di disapprovazione e di leggero allarme. Larissa sapeva che non vi erano altri lividi nascosti dai vestiti e che quelli erano i primi a comparire sulla sua pelle. E anche gli ultimi si era ripetuta mille volte Deja, cercando di rassicurarsi: lui manteneva sempre le sue promesse. Nonostante tutto, ogni volta che lasciava il palazzo Deja si premurava sempre di cercare suo marito per informarlo dei suoi spostamenti o, se lui non era a palazzo, gli lasciava un messaggio. Deja provava una segreta e colpevole soddisfazione nel vederlo mortificato da quella sua premura. Solo una volta capitò che lui volle accompagnarla: in una delle visite di Deja all’Accademia delle scienze. Lei aveva voluto mettersi in pari con le novità sulle ricerche dei suoi scienziati preferiti e Zaron aveva immediatamente accantonato quello che stava facendo per seguirla. L’imperatore era parso affascinato dalle invenzioni meccaniche, passando la maggior parte della visita alla facoltà d’ingegneria civile, subissando i ricercatori di domande, cercando di farsi spiegare come funzionavano i macchinari su cui stavano lavorando e rivolgendosi a Deja per farsi spiegare in termini più comprensibili alcune cose. Neanche lei era sempre in grado di capire il funzionamento di alcune macchine, ma era tuttavia lieta e soddisfatta che lui sembrasse condividere quella sua passione.
L’interesse di Zaron sembrò concentrarsi sugli utilizzi del motore a vapore.
- Perché viene impiegato solo per le aeronavi? Non si potrebbe usare per far spostare altri mezzi? Si potrebbe provare a installarne uno anche su una nave, per esempio. Invece di centinaia di braccia che remano basterebbe utilizzare un motore che non si stanca mai.
Deja lo guardò, incuriosita.
- Le navi issiane solcano i mari e per spostarsi utilizzano le vele, non i vogatori.
- Il mio impero ha molti fiumi navigabili in cui le barche seguono la corrente per scendere verso il mare e vogatori per risalire la corrente. È un lavoro che spezza la schiena e che rallenta il traffico. Immagina se ci fosse un motore che spinge i remi…
Mastro Rutief, che li stava ascoltando e che aveva scosso il capo per tutto il tempo, sembrò illuminarsi di colpo e interruppe l’imperatore, senza badare minimamente all’infrazione d’etichetta che stava compiendo.
- Non remi, ma una pala!
Corse al suo tavolo da lavoro e prese un foglio e una matita, chinandosi per fare uno schizzo frettoloso. Deja e Zaron guardarono da sopra la sua spalla.
- Guardate, vostre maestà! Una nave, con una ruota, come quelle dei mulini ad acqua, solo che invece di essere la ruota a essere spinta dall’acqua corrente, è il motore che spinge la ruota, facendo muovere in avanti la nave! E se il motore la fa muovere a ritroso la nave va all’indietro! Certo, non so quanto durerebbe in alto mare, ma su un fiume…!
Poi, mentre i sovrani guardavano lo schizzo che, a dire la verità, non somigliava affatto a una nave, Mastro Rutief sembrò essere preso da un’altra idea.
- I mulini, ma certo!
Borbottò, parlando da solo.
- Per macinare senza sforzo anche se non c’è acqua**…!
Deja tirò delicatamente il braccio di suo marito.
- È meglio che andiamo: quando è così potrebbe anche crollargli in testa il tetto che lui non se ne accorgerebbe neppure.
Tornando a palazzo in carrozza Zaron le tenne la mano sinistra, carezzandole la pelle sotto i braccialetti, dove l’impronta delle sue dita era quasi svanita.
- Tra un paio di giorni è il tuo compleanno.
Deja lo ascoltò, chinando il capo incuriosita.
- La visita a Issa si è quasi conclusa. Questo ti intristisce?
Lei annuì.
- In parte. Sono contenta di essere qui e cerco di non pensare al fatto che tra cinque giorni ripartiremo. Issa mi mancherà.
Lui le baciò le dita della mano.
- Ti piacerebbe festeggiare qui ogni tuo compleanno?
Deja si illuminò.
- Davvero? Oh, sarebbe magnifico! Anche mio padre te ne sarà incredibilmente grato!
Zaron fece una smorfia scontenta a sentir nominare il padre di lei e Deja sbuffò esasperata.
- Vuoi dirmi una volta per tutte perché tu e mio padre non riuscite ad andare d’accordo?
Zaron fece un mezzo sorriso, quasi ridendo di sé.
- È una cosa da uomini, mia piccola signora.
Deja aggrottò la fronte, scontenta.
- Bella scusa per non dover rispondere. Quando l’ho chiesto a mio padre lui ha detto: non capiresti!
Zaron rise al pensiero di essere d’accordo con l’altro uomo, almeno in questo.
- Se può aiutarti a capire ti dirò solo questo: probabilmente avrò voglia di far sbattere in una segreta buia e puzzolente ogni pretendente alla mano delle mie figlie quando per loro verrà il momento di cercare marito.
Deja roteò gli occhi al cielo e borbottò sottovoce qualcosa che suonava vagamente come un epiteto poco lusinghiero rivolto verso gli uomini in generale e al loro bisogno di gonfiare i muscoli l’uno difronte all’altro.
Zaron sapeva che Aborn non gli avrebbe mai perdonato di aver strappato con il ricatto l’assenso al matrimonio con Deja, né di averla costretta alle nozze così giovane. Sapeva che se qualcuno avesse osato allungare anche solo un dito con intenzioni disonorevoli sulle sue figlie, avrebbe ucciso quel qualcuno a mani nude, quindi in parte comprendeva l’altro uomo. Allo stesso tempo però provava rancore per il fatto che Aborn lo trattasse con velato disdegno, al riparo da ogni ritorsione e minaccia, protetto dall’amore incondizionato della figlia che Zaron non voleva in alcun modo turbare. Zaron avrebbe lasciato che la loro piccola faida personale proseguisse solo fino a che l’altro non avesse cercato di mettergli contro sua moglie. Se Aborn avesse anche solo osato cercare di maldisporre l’animo di Deja nei suoi confronti l’avrebbe allontanato e non avrebbe più permesso nessun contatto tra i due. Questa era la promessa che gli aveva fatto, il primo giorno di permanenza a Issa e l’altro aveva capito e chinato il capo.
Visitare l’Accademia era stato esaltante, la sua mente ne era stata stimolata e aveva parlato di persona con il rettore della possibilità di aprire sedi anche in altre città. Non ad Halanda, non subito: Rakon non era pronta ancora; ma la provincia di Pudja, la prima a essere conquistata, si era ripresa dalla guerra e stava attraversando un periodo di ricchezza e sviluppo.
Zaron stava trovando stancante Issa, per il semplice fatto che sembrava esserci qualcosa che lo spingeva a litigare con Deja. In cinque mesi a Halanda non avevano mai alzato la voce l’uno con l’altra mentre in pochi giorni a Issa lo avevano fatto due volte.
Il loro secondo litigio era avvenuto proprio la notte prima del compleanno di Deja e aveva lasciato Zaron più confuso che arrabbiato.
Quasi ogni notte Zaron passava alcune ore con Perla, prima di coricarsi con la moglie. La concubina era confinata nei suoi appartamenti, impossibilitata a uscirne e Zaron le aveva chiesto più volte se si sentisse sola ma lei aveva replicato che le faceva bene un po’ di quiete, lontano dal caos organizzato che poteva essere l’ala femminile del Palazzo Reale. Passava le sue giornate a leggere e a scrivere poesie e la sera a conversare con Zaron. Lui la lasciava addormentata tra le lenzuola e poi passava agli appartamenti accanto e stendersi al fianco della sua regina, che già dormiva.
La notte prima del suo compleanno, al suo ritorno negli appartamenti reali, Zaron la trovò ancora sveglia. Era seduta a letto, in camicia da notte e vestaglia, che leggeva e Zaron, dopo essersi cambiato e disteso, ebbe la malaugurata idea di compararla a Perla, a come lei lo avesse atteso sveglia, seduta sul suo letto e con il naso in un libro, la notte dell’incoronazione di Deja.
Sua moglie si era visibilmente irrigidita e aveva stretto il libro fino a farsi sbiancare le nocche. Poi, lentamente, si era voltata verso Zaron e lo aveva fulminato con lo sguardo.
- Hai addosso il suo profumo, lo sai?
Gli aveva ringhiato. Zaron era rimasto interdetto, perché non l’aveva mai udita esprimersi con tale astio.
- Potresti almeno fare lo sforzo di darti una lavata prima di venire a letto con me!
Lui si era alzato a sedere, voltandosi completamente verso di lei, genuinamente confuso.
- Di cosa stai parlando?
Lei si era chinata verso di lui, annusandolo.
- Hai addosso il profumo che Perla indossa sempre, ce l’hai sulla pelle.
Zaron aveva scosso il capo, perplesso.
- Certo: sono stato da lei fino ad adesso. Lo sai che sto con lei prima di venire qui.
Poi, ancora incredulo e incapace di comprendere quale fosse il problema di Deja, aggiunse.
- Non ti piace il profumo che usa Perla?
- Non mi piace che mio marito abbia addosso il profumo preferito della sua amante quando viene a letto con me!
Gli urlò in faccia lei. Zaron fece un balzo indietro, quasi cadendo dal materasso perché, per rispetto degli spazi di sua moglie, dormiva sempre sul bordo. Poi scese dal letto, tirandosi in piedi e alzando anche lui la voce.
- Deja, si può sapere che ti prende?
Per la costernazione di Zaron lei scoppiò a piangere.
- Suvvia, non fare così, piccola mia, non piangere…
Lui aveva allungato una mano, per confortarla, ma lei lo aveva respinto, usando il libro chiuso come un’arma, per colpire l’arto teso. Zaron ritirò immediatamente la mano, incredulo e offeso. Si arrabbiò, finendo per dire parole di cui poi si pentì immediatamente, non appena furono uscite dalla sua bocca.
- Lo sai che vado da lei per non dare fastidio a te! Lo sai che lo faccio per avere quello che tu non puoi darmi!
Deja rantolò, impallidendo e poi, prima che Zaron potesse scusarsi, gli scagliò contro il libro, colpendolo sul braccio che aveva alzato per difendersi il viso.
- E allora va’ a dormire da lei!
Urlò Deja, con tutta la voce che aveva.
- Magari lo farò!
Rispose in egual tono Zaron prima di raccogliere il pugnale da sotto il cuscino, infilarselo nella manica e uscire, a piedi nudi e sentendosi leggermente ridicolo, dai suoi appartamenti e rientrare in quelli di Perla. Tornò nella camera da letto della concubina sbattendo la porta, svegliandola di soprassalto.
Perla uscì dal letto e si affrettò ad accendere dei lumi.
- Zaron, che ci fai qui? Che ora è?
Zaron si era seduto sul bordo del letto e aveva seguito con gli occhi Perla che, dopo aver acceso le luci, si era coperta con una vestaglia.
- Ho appena litigato con Deja.
Le disse, con voce piatta.
- E non ho idea del perché.
Concluse con tono perplesso. Lei si sedette al suo fianco, preoccupata, sapendo cos’era accaduto l’ultima volta.
- Raccontami cos’è successo.
Lui lo fece, ancora confuso per come una semplice osservazione avesse scatenato la furia della sua giovane moglie. Quando lui ebbe finito il suo resoconto, Perla fece una strana smorfia, le labbra cominciarono a tremarle e poi scoppiò in una fragorosa risata, ricadendo con la schiena sulle lenzuola sfatte.
- Non c’è nulla di divertente, Perla: le ho detto una cosa orribile.
Perla annuì, con le lacrime agli occhi dal gran ridere e cercando di recuperare fiato. Zaron era leggermente irritato.
- Mi sembra evidente che tu abbia capito cosa sia successo e che la cosa ti diverta molto. Ti spiacerebbe condividere con me, così magari riderò anch’io?
Proseguì acidamente.
- Oh, Zaron!
Disse Perla, tirandosi su e asciugandosi gli occhi.
- Tua moglie era gelosa!
- E di cosa?
Perla lo guardò, con un’espressione simile alla pietà.
- Tua moglie,
Cercò di spiegargli, parlando lentamente e scandendo le parole.
- È infatuata di te ed è gelosa del fatto che passi del tempo con me, gelosa che io abbia il tuo favore e probabilmente ferita dal fatto che, come hai poco elegantemente sottolineato, io posso darti qualcosa che lei non è pronta a darti.
Zaron scattò in piedi, agitato dalle parole di lei.
- Ti sbagli, Perla, ti sbagli. Deja trova probabilmente gradevole la mia compagnia, ma lei non… è una bambina, Perla, solo una bambina. Non può di certo amarmi, non come intendi tu.
Perla lo guardò camminare, nervoso e turbato.
- Mi hai frainteso.
La concubina era seria e non rideva più.
- Non ho detto che è innamorata di te o che ti desidera.
Zaron fece una smorfia disgustata all’idea.
- Tredici anni… è un’età difficile in cui una fanciulla, soprattutto se nobile e dall’infanzia protetta, come tua moglie, è fragile e impressionabile. È facile che si lasci… influenzare e che sviluppi un attaccamento, spesso totalmente innocente, verso un uomo. Tu sei suo marito, la tratti con cortesia e la riempi di attenzioni, quando siete in pubblico le dimostri un particolare favore che implica un rapporto speciale e intimo tra voi due, che però non c’è davvero, non quando siete da soli. Quindi è probabile che si sia infatuata di te: hai tutte le caratteristiche dell’innamorato e in più con te si sente al sicuro, perché sa che non la toccheresti mai.
Lui aveva scosso il capo, negando le parole di Perla.
- Ti sbagli, è una bambina, solo una bambina. Magari era nervosa per il suo compleanno, o arrabbiata perché tra pochi giorni ripartiremo.
Perla aveva sollevato le spalle,
- Se è questo che ti piace pensare. Però, ti prego, accetta il mio consiglio. Lavati, se il mio profumo la disturba: le farà capire che l’hai ascoltata e cedendo su questo le dimostrerai che i suoi bisogni per te contano. Ma torna da lei, non lasciare mai, mai che vada a letto arrabbiata con te. Chiedile scusa se credi che possa aiutare, ma fate pace.
- Ma se lei…
- Zaron!
Lo interruppe Perla che con un gesto perentorio gli indicò la porta. Zaron se ne andò, sbuffando dal naso.
Si diresse per prima cosa nella sala da bagno, cercando di ignorare i singhiozzi di sua moglie che giungevano dalla porta della camera che lui, nella fretta di andarsene, aveva lasciato spalancata.
Rientrò nella camera da letto reale, avvicinandosi alla forma semisepolta dalle lenzuola e dai cuscini.
- Deja…
Si sedette sul bordo del letto, poggiandole con delicatezza una mano sulla schiena. Lei fece capolino tra le lenzuola, tirando su con il naso, come una bambina piccola.
- Mi dispiace, Zaron.
Esordì lei, con un filo di voce.
- Non so cosa mi sia preso… Lo so che vai da Perla, mi fa piacere che tu stia tanto tempo con lei. Anche io la vado a trovare almeno una volta al giorno, visto che lei non vuole uscire. Sei arrabbiato con me?
Zaron le aprì le braccia.
- No, non sono arrabbiato.
Le disse con voce bassa e calma. Lei uscì timidamente dal suo guscio di stoffa e lo abbracciò poggiando il capo contro il suo petto e notando il profumo di sapone.
- Non dovevi lavarti! Oh, sono mortificata, non è vero che mi dà fastidio il profumo di Perla! Sei stato davvero da lei, adesso? Non le avrai mica detto le cose orribili che ti ho urlato contro? Si è offesa?
- A dire la verità ha riso di me. Non preoccuparti, credo che ti abbia dato ragione. E a proposito di cose orribili, mi dispiace per quello che ho detto, non lo pensavo davvero. Non pretenderei mai che tu… assolvessi… ai tuoi doveri di moglie. Questo lo sai vero?
Deja era arrossita e con un gemito di vergogna aveva sbattuto la fronte contro lo sterno di Zaron.
- Lo so…
Aveva mugolato, avvilita.
- Quindi, è tutto finito?
Aveva chiesto Zaron dopo un po’ schiarendosi la voce.
- Sì, scusami ancora.
Aveva risposto lei, sciogliendosi dal suo abbraccio.
- Possiamo riposare allora?
Deja aveva sospirato.
- Sì, sì.
Poi aveva aggiunto, con un pizzico di malizia.
- Dopotutto le persone anziane hanno bisogno del loro riposo.
Zaron aveva sorriso e, dirigendosi dalla sua parte del letto, aveva replicato, fingendo di fraintenderla.
 - Ma Deja, a tredici anni non sei ancora anziana, su di morale!
Lei aveva riso alla sua battuta e Zaron si era addormentato serenamente.
 
La mattina dopo era stato lui a svegliarla, scuotendola per una spalla e sussurrando il suo nome.
Deja aveva aperto un occhio e lo aveva guardato attraverso i capelli che le coprivano il viso, gemendo e cercando di nascondere la testa sotto il cuscino.
- Svegliati Deja. È già metà mattina. La tua cameriera è nell’anticamera che aspetta.
Lei si era tirata a sedere, scostandosi i capelli dagli occhi, sbadigliando e stiracchiandosi.
- Che ore sono?
Lui le aveva sorriso, indulgente.
- Buon compleanno, mia piccola regina.
Deja si era immobilizzata e poi aveva sorriso anche lei.
- Grazie!
- Volevo essere il primo a dirtelo, per questo sono ancora qui: stavo aspettando che ti svegliassi, ma tu sembravi voler dormire tutta la mattina.
Deja guardò allarmata fuori dalla finestra, al sole alto nel cielo azzurro.
- Perché non mi hai svegliata prima?
Urlò, suscitando l’ilarità del marito.
- Perché le persone anziane hanno bisogno del loro riposo!
Rispose lui, guadagnandosi un cuscino lanciato in faccia.
Ridendo si alzò dal bordo del letto, mentre sua moglie chiamava Larissa, e andò ad aspettarla in sala da pranzo, per stare con lei mentre faceva colazione.
Quando finalmente Deja si sedette a tavola e cominciò a mangiare, Zaron prese un pacco che aveva tenuto in grembo, lontano dalla sua vista, e glielo allungò. Deja bevve un sorso di thè e lo prese.
- Buon compleanno.
Lei guardò trasfigurata il pacchetto, prendendolo in mano intuì subito di cosa si trattasse e guardò stupita suo marito.
- Be’, aprilo.
Disse lui con espressione nervosa. Sorridendo lei strappò la carta che lo avvolgeva e con amore accarezzò la copertina di cuoio rigido del libro, aprendolo e leggendo il titolo scritto sull’intestazione.
- Il saggio di Brino Caanf sulla Repubblica di Fariun! Oh, mia dea, dove l’hai trovato?
- Ti piace?
Le chiese con una punta d’ansia.
- È meraviglioso! Non sono mai riuscita a trovarne una copia! Era tanto che lo volevo leggere… Come hai fatto a sapere…?
Lui si mosse a disagio.
- Devo ammettere di essermi fatto aiutare nella scelta da Oscia. Mi ha consigliato lei il titolo. E… magari a Issa e Halanda il libro è introvabile ma a Fariun ce ne sono ancora alcune copie.
Deja saltò in piedi e gli si avvicinò, buttandogli le braccia al collo e baciandolo sulla guancia. Come aveva visto fare alle sue figlie, si ricordò Zaron, come una figlia bacerebbe il padre e con questo pensiero mise da parte la teoria di Perla per cui Deja si fosse infatuata di lui. Non c’era nulla di ambiguo nel modo in cui lei lo trattava, nulla di suggestivo nel modo in cui lo toccava, gli sorrideva o lo baciava. Solo innocenza e affetto infantile. Si sentì più tranquillo e il disagio che lo aveva colto da quando aveva conversato con la concubina si dissipò del tutto.
La giornata per Deja fu perfetta e felice. Nel primo pomeriggio ricevette il dono del padre: da quando aveva dieci anni e aveva iniziato a partecipare alle feste a palazzo suo padre le faceva preparare un abito a sorpresa che Deja avrebbe indossato alla sera durante la festa. Quell’anno era blu oltremare con ricami dorati che si muovevano sinuosi sulla gonna, a simboleggiare le onde. Una volta indossato Larissa, costernata, guardò il bordo che non toccava il pavimento: la punta delle scarpette di raso era chiaramente visibile.
- Le scarpe sono strette.
Si lamentò la regina.
- E la gonna è corta!
Sussurrò esterrefatta la domestica. Le scarpe furono sostituite e la sarta chiamata in tutta fretta per scucire l’orlo e guadagnare quel centimetro necessario per rendere l’abito decente. La sarta era mortificata ma la regina rideva felice al pensiero di essere cresciuta senza neanche accorgersene.
Dopo il banchetto aprì le danze con suo padre, come faceva ogni anno e Aborn era raggiante e felice di avere la figlia tutta per sé, ancora una volta: quando avevano detto a Zaron che avrebbe dovuto essere lui a ballare con Deja, questi si era categoricamente rifiutato, asserendo che non avrebbe mai ballato, per nulla la mondo, neanche per far contenta la sua sposa il giorno del suo compleanno.
- Non ti preoccupare, non sono offesa.
Lo aveva placato lei.
- Neanche io amo molto danzare, ma è tradizione e cortesia che il padrone e la padrona di casa ballino insieme il primo ballo, prima di lasciare la pista agli altri ballerini. Mi accompagnerò a mio padre, come ho sempre fatto.
- A Rakon a danzare sono solo ballerine professioniste, gli uomini non ballano. Sai,
Aveva proseguito con malizia.
- Non vedo l’ora di vedere le facce dei miei ministri quando vedranno i nobili e le nobildonne issiane ballare insieme***.
Poi aveva aggiunto, con voce preoccupata.
- Tu ballerai solo con tuo padre, vero?
Deja aveva riso.
- Sì. Essendo la regina nessuno può chiedermi di ballare: devo essere io a farlo. Essendo minorenne posso ballare solo con i miei parenti maschi e quindi con mio padre, il mio zio materno, che non balla, e con te, che sei mio marito.
- Sono felice di notare che voi issiani non siate totalmente dei barbari.
Aveva osservato Zaron con voce ironica e sorridendo, per farle capire che scherzava e non intendeva insultare.
- Per tua informazione c’è un’etichetta piuttosto rigida che riguarda i balli: a chiedere di danzare è sempre quello con il rango maggiore e, se sullo stesso livello, sempre l’uomo. Se un uomo chiede a una ragazza non sposata di danzare per più di tre volte in una sera questo indica l’interesse a corteggiarla. È cortesia accettare sempre il primo invito poi, se l’interesse non è corrisposto, è possibile rifiutare. Per questo neanche mio padre balla mai: può chiedere solo a me o alla moglie di mio zio, e lui ha già divorziato quattro volte e quindi mio padre non si avvicina mai alla moglie di turno. Se invitasse qualcun’altra a ballare potrebbe sembrare che abbia intenzione di risposarsi.
Zaron aveva sollevato un sopracciglio, sorpreso. Poi aveva chiesto, incredulo.
- Tuo zio ha divorziato quattro volte?
Deja aveva annuito.
- Non riesce ad avere figli. Le sue mogli dicono che è colpa sua e dopo qualche anno chiedono il divorzio, ma lui non si è ancora arreso. Mio padre mi ha detto che sta cercano la moglie numero cinque.
Zaron scosse il capo, divertito: a Rakon tutti avrebbero pensato ovviamente che il problema fosse della donna, ma se lo zio di Deja aveva già cambiato moglie quattro volte evidentemente era lui a non riuscire ad avere figli.
Durante i festeggiamenti serali, al banchetto e alla festa, Zaron si era divertito moltissimo a osservare le reazioni dei nobili che lo avevano seguito da Halanda a Issa. A tavola uomini e donne erano distribuiti a seconda dei gruppi familiari: mogli vicino ai mariti, figli accanto ai genitori, con l’eccezione dei nobili rakiani che erano raggruppati insieme e passarono la prima parte del banchetto a fissare sbalorditi le moglie e le figlie dei loro vicini che sedevano gomito a gomito con altri uomini e conversavano allegramente con loro. Dal canto suo Zaron era lieto che Deja sedesse tra lui e suo padre: se lo scandalo che poteva leggere nelle espressioni dei suoi connazionali lo divertiva, trovava confortante che l’onore della sua regina fosse conservato agli occhi delle tradizioni della sua terra. 
Durante il ballo osservò con attenzione dove Deja e suo padre si toccavano: la mano desta di lui stringeva quella sinistra di lei e la mano sinistra di Aborn reggeva il gomito destro di Deja, che gli teneva la mano poggiata sul braccio. Alle prime note padre e figlia, che erano al centro della sala da ballo circondati dei nobili issiani, cominciarono a muoversi in unisono mentre Zaron e i suoi se ne stavano in disparte, vicino al trono. Aborn guidava la figlia, che si muoveva a ritroso, in cerchi aggraziati e regolari. Subito dopo altre coppie si unirono a loro e presto la regina e suo padre smisero di ballare, spostandosi verso l’imperatore. Appena furono fuori dalla pista i ballerini si bloccarono all’improvviso e le donne si mossero tutte insieme, facendo tutte qualche passo a desta e cambiando compagno di danza. Al suo fianco esplose il mormorio indignato e turbato dei suoi nobili e Zaron sorrise alla sua regina che era tornata al suo braccio, lasciata andare a malincuore dal padre.
- Vieni,
Disse lei, tirandolo.
- Usciamo.
Lei lo condusse nuovamente in giardino, dove i tavoli e le sedie venivano rapidamente portati via dalla servitù. Deja sospirò contenta.
- Non mi avevi detto che il ballo prevedeva un cambio di compagno.
Osservò lui; lei lo guardò, sollevando un sopracciglio e incurvando il labbro in un sorriso divertito.
- Secondo te perché apriamo sempre la prima danza ma non finiamo mai di ballarla? Io perché non posso, e mio padre perché non vuole ballare con nessuna. Non da quella parte Zaron, restiamo sul cammino principale.
Deja lo trattenne dal dirigersi verso una zona seclusa del parco.
- Perché?
Chiese lui, incuriosito. Deja arrossì leggermente.
- Le feste sono occasioni per socializzare e a volte alcuni innamorati che non hanno occasione di incontrarsi altrove ne approfittato per… appartarsi. Non voglio sorprendere nessuno, quindi restiamo in aree aperte.
- Stai scherzando, vero?
Deja rise, rovesciando la testa.
- No, affatto. È così che ho conosciuto Famira: sono quasi inciampata in sua sorella e il suo fidanzato che si baciavano dietro un cespuglio! Oh, che imbarazzo!
- Barbari!
Disse lui, ridendo insieme alla moglie.
- Siete dei veri barbari!
Lei gli diede un buffetto scherzoso sulla spalla.
- Non è vero, si stavano solo baciando, niente di che e comunque si sono sposati un paio di mesi dopo.
Deja si sedette su una panchina di pietra, davanti a un’aiuola fiorita. Guardò in alto, nel cielo e Zaron seguì il suo sguardo. La luna era piena, bianca e vicina alla terra e le stelle brillavano piano, la loro luce offuscata dal fulgore del satellite notturno.
- È una notte meravigliosa,
Esordì Deja con voce sognante.
- Lo sai che porta fortuna avere la luna piena nel giorno del compleanno? Buona sorte tutto l’anno, la dea Lona veglierà su di te e ti farà avere un anno proficuo e felice.
Zaron la guardò: Deja teneva la testa rovesciata all’indietro, il viso rivolto verso il cielo. La pelle era pallida alla luce argentea della luna e gli occhi apparivano scuri. Sembrò adulta, sembrò bella e lui distolse in fretta lo sguardo, rivolgendolo alle stelle.
Rimasero su quella panchina per il tempo restante della festa, con la musica che giungeva lieve dalle porte spalancate della balconata e Deja che raccontava a Zaron le leggende sugli dei issiani.
- Quindi la dea Lona non ha marito?
- No,
Rispose Deja.
- Sua figlia, la dea bambina Naraìs, è figlia di un mortale. Quando lui è invecchiato lo ha preso con sé in cielo e lo ha fatto addormentare in un sonno eterno in cui loro possono stare insieme nei suoi sogni****.
- Sei sicura di non voler rientrare, Deja? È la tua festa di compleanno e tu la stai passando in giardino da sola.
Lei scosse la testa.
- È qui in giardino che possiamo godere meglio dello spettacolo principale. Amo i fuochi d’artificio.
Ci fu un sibilo acuto, che fece sobbalzare Zaron, e una fiamma si accese nel cielo, seguita da un botto sordo, che gli fece tremare i timpani.
- Eccoli!
Esclamò entusiasta sua moglie, indicando il fiore verde che si era aperto contro il cielo notturno.
Altri botti e altre luci comparvero nel cielo e se Deja li guardava sorridendo, con le labbra socchiuse dalla meraviglia, Zaron fissava quelle esplosioni colorate con sguardo preoccupato.
- Come sono fatti?
Le chiese.
- Sono composti da una polvere che prende fuoco. Li hanno inventati i nostri chimici. A seconda delle sostanze che ci aggiungi ottieni colori diversi. Non sono bellissimi?
- Una polvere che prende fuoco? Quanto in alto possono arrivare?
La sua voce era stranamente severa e Deja si voltò brevemente a guardarlo.
- Non lo so, perché?
- Immagina che danni uno di quei graziosi fuochi d’artificio potrebbe fare se puntato contro un’aeronave.
Lei spalancò gli occhi e guardò i fuochi con una nuova consapevolezza.
- Oh…
- Già.
Ribatté Zaron cupamente.
I fuochi d’artificio che segnalavano la conclusione dei festeggiamenti per il compleanno della regina andarono avanti parecchio. I colori sgargianti e luminosi dei fuochi si riflessero sui volti puntati verso il cielo di Zaron e Deja che li osservarono silenziosi.
Zaron passò la notte insonne, torturandosi per quei dannati giochi di luce notturni e volle conoscere tutto della loro produzione, insistendo per far visita al laboratorio dove venivano prodotti. Il luogo era isolato, fuori città, e la piccola famiglia che si occupava della loro realizzazione e commercio conservava con gelosia paranoica il segreto della loro fabbricazione. Zaron si sentì più rincuorato constatando che nessuno aveva ancora mai pensato agli usi bellici della polvere pirica e che i fuochi d’artificio venivano considerati unicamente come un costoso svago per le feste dei nobili e dei ricchi. Tuttavia se ci aveva pensato lui poteva farlo qualcun altro e così, di comune accordo con Deja, furono promulgate leggi severe che regolamentavano la distribuzione e l’utilizzo dei fuochi d’artificio, leggi che all’apparenza favorivano i produttori e aumentavano la sicurezza costringendo gli acquirenti a utilizzare tutti i fuochi comprati sotto la stretta vigilanza della compagnia produttrice che diveniva la sola autorizzata a maneggiarli.
L’unica cosa che confortava Zaron era che le aeronavi volassero troppo in alto per essere raggiunte dai razzi e che i soli momenti in cui erano vulnerabili erano quelli del decollo e dell’atterraggio.
 
La partenza di Deja da Issa questa volta fu meno straziante. Il fatto che avvenisse in pubblico, davanti al popolo e ai membri della nobiltà, aveva costretto Aborn e la regina a salutarsi precedentemente. Il padre era stato terribilmente restio a lasciare andare nuovamente la sua bambina, neanche la consapevolezza che l’avrebbe rivista entro un anno lo rasserenava: un anno era un periodo lunghissimo, in cui si sarebbe perso una grossa parte della sua vita, chissà come le sarebbe apparsa cambiata Deja a quattordici anni e come sarebbe maturato il suo rapporto con l’uomo che aveva sposato. Aborn aveva trovato allarmante la familiarità, l’amicizia quasi affettuosa con cui Deja lo trattava. Allarmante e incomprensibile. Come era riuscito quell’uomo a conquistare la sua fiducia in così breve tempo? Cosa le aveva fatto? Cosa le aveva detto? Con lui Zaron era stato minaccioso e antagonistico, sorvegliando Deja come un mastino fa con il suo osso, come un drago con il suo tesoro. Deja gli aveva giurato che lui non l’aveva sfiorata e la presenza della concubina rakiana che lui visitava ogni notte sembrava corroborare le sue parole, ma quanto gli era costato farli dormire nella stessa stanza, nello stesso letto! Deja sarebbe stata più vecchia l’anno seguente, più matura e dopo i quattordici anni presto sarebbero seguiti i quindici e la maggiore età e a quel punto cosa avrebbe fermato più Zaron? Cosa gli avrebbe impedito di pensare che quattordici fosse l’età ideale per reclamare la sua sposa? E Deja… Deja che non aveva più paura di lui, che si appoggiava al suo braccio, che gli porgeva la mano con un sorriso sulle labbra. Con fiducia. Aborn non riusciva a credere che lui non l’avrebbe delusa, che quello straniero, quel conquistatore, fosse l’uomo giusto per lei, che quello fosse l’uomo in grado di renderla felice, un uomo non scelto da lei ma impostole con la forza.
Nessuno dei suoi dubbi era trapelato durante la permanenza di Deja a casa, neanche durante il loro addio aveva potuto dirle niente, con Zaron che aleggiava vicino, osservandoli e che non appena Aborn l’aveva lasciata, ne aveva reclamato la presenza al proprio fianco.
Anche per Deja era stato difficile lasciare suo padre, si era stretta a lui per molto tempo, piangendo nuovamente contro il suo petto, e poi si era aggrappata a Zaron e al suo braccio fermo che l’aveva sostenuta. Aveva sorriso ai suoi cittadini e ai suoi nobili, ringraziandoli pubblicamente per l’ospitalità ricevuta e l’affetto e il calore che le avevano riservato. Solo una volta salita sull’aeronave che l’avrebbe riportata ad Halanda si era lasciata andare, mostrando senza ritegno quanto casa sua le sarebbe mancata. Zaron l’aveva accompagnata al ponte d’osservazione che permetteva di guardare il terreno che si allontanava e Issa dall’alto, bianca e dorata, che si specchiava nel mare cristallino della baia.
- Ho una sorpresa per te, Deja.
Le sussurrò Zaron alle spalle, poggiandole una mano sulla schiena per confortarla.
- Non volevo parlartene fino a che non fosse stato tutto completato, doveva essere una sorpresa, ma sei così afflitta che spero possa tirarti su di morale.
Si chinò, abbassando la testa in modo da essere allo stesso livello di quella di sua moglie e indicò fuori dalla finestra appoggiando quasi la guancia a quella di Deja in modo che lei potesse seguire la linea immaginaria tracciata dal suo indice.
- Li vedi quei pali che a distanza regolare sono stati piantati al di fuori delle mura di Issa?
Deja annuì e poi inspirò sorpresa, riconoscendoli.
- Telegrafo…? Ma vanno nella direzione sbagliata…
Zaron sorrise.
- No, vanno nella direzione giusta: verso Halanda. Impossibile prevedere quanto tempo ci vorrà, ma Issa sarà collegata alla capitale dell’impero e a tutte le città principali lungo il cammino. Potrai comunicare istantaneamente con la tua patria ogni volta che lo desidererai, scambiandoti messaggi con tuo padre ogni qualvolta lo vorrai, ricevendo risposte immediate.
Deja si voltò tra le sue braccia, cingendogli la vita e stringendolo forte.
- Grazie!
Poi dato che in quella posizione lui era tanto più alto di lei, gli diede un leggero bacio sul collo invece che sulla guancia. Zaron si irrigidì leggermente, prima di carezzarle fugacemente i capelli e staccarsi da lei. Deja si voltò nuovamente verso la finestra, guardando fuori la sua città che si allontanava sempre di più e sorridendo con nostalgia.



 
*Né mai più toccherò le sacre sponde/ ove il mio corpo fanciulletto giaque,/ Zacinto mia, che te specchi nell’onde/ del greco mar, […]: E’ l’inizio di “A Zacinto” di Foscolo. 
** Ed ecco perché ci sono i dirigibili e niente altro, tipo macchine o treni: Issa è una città portuale, e quindi non pensa al trasporto su ruota. Per la nave con la ruota mi sono ispirata ai battelli del Mississippi. Oltretutto penso che Mastro Rutief abbia appena fatto il primo importante passo verso l’industrializzazione: una volta che capisci che puoi usare un motore per macinare il grano il prossimo, logico passo è la filatura e da lì la tessitura e poi la strada è tutta in discesa, come l’industrializzazione in Inghilterra.
*** Uomini e donne che ballano insieme: mi ricordo, tanti, tanti anni fa, in un film un personaggio indiano (dell’India) che dice, conversando con un nobiluomo inglese, quanto trovasse barbarica e scandalosa la consuetudine europea per cui uomini e donne ballavano insieme. È stata una cosa che ha colpito la mia mente giovane: come gli usi possano risultare così diversi che qualcosa che noi facciamo con naturalezza possa essere considerato osceno da un’altra cultura.
****La dea della luna e un mortale. Qui mi sono spudoratamente ispirata alla storia della dea della luna Selene e il pastore di cui si era innamorata: Endymion.
 
NOTE DELL’AUTRICE: Rieccoci. Vi è piaciuto come ho fatto fare la figura della scimmietta che non sente, non vede e non parla a Zaron? È in piena fase di diniego, poverino. Inizialmente lui e Deja dovevano avere una conversazione molto matura sulla differenza tra l’amare e l’essere innamorati e lui doveva far capire a Deja che ama sì Perla ma non è innamorato di lei, non più. Ma Zaron non si è rivelato ancora pronto per toccare un simile argomento, e quindi sono stata costretta a rimandare; forse, nell’ultimo capitolo di Il dio della guerra, che ho intitolato “metter via le cose infantili”, alcuni avranno pensato che mi riferissi a Deja che deve smettere di essere una bambina, ma io pensavo a Zaron che, pur essendo un uomo adulto, in alcuni aspetti è ancora immaturo e non è pronto ad affrontare certe realtà e certi argomenti, come il suo colloquio con Perla ha indicato. Per questo ha problemi a gestire le situazioni che non riesce a controllare, come quando Deja si allontana da palazzo e lui non sa dov’è o la sua competizione con il suocero per avere le attenzioni della moglie. Si troverà sempre più a disagio con una Deja che matura e farà una fatica tremenda ad accettare che lei sia cresciuta e che lo ami, perché non riesce a vederla come una donna, avendola fermamente relegata nella sua testa con l’etichetta di bambina: guarda quant’è graziosa ma non toccare e non desiderare.

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Capitolo 3
*** Sfortunati quattordici ***


III. SFORTUNATI QUATTORDICI

 
L’anno che seguì mantenne solo in parte la promessa di buona sorte e felicità che la luna piena aveva annunciato al compleanno di Deja.
Al suo ritorno nella capitale la regina passò un periodo di profonda infelicità. La visita a casa aveva acuito la nostalgia invece di lenirla e Deja si ritrovava a piangere all’improvviso, senza nessun motivo apparente. Cercava di limitare quelle crisi di pianto alla sera, quando era sola nei suoi appartamenti, per non preoccupare nessuno: non sapeva perché le lacrime le sgorgassero così copiose, senza freni, sapeva solo che non aveva voglia di trattenerle, che si sentiva stanca e triste, tutto il tempo. Durante il giorno gli impegni di governo e la compagnia di Zaron la distraevano ma di sera si lasciava andare, sfogando la sua infelicità. All’insaputa di Deja il suo umore era stato notato dalla maggior parte delle persone e suo marito e coloro che le erano più vicino ne erano allarmate, ma ogni volta che accennavano alla questione Deja si metteva sulla difensiva. Le uniche che riuscissero a tirarla su di morale erano le bambine che, istigate dalle madri e dal padre, passavano tutto il tempo che la regina trascorreva nell’harem con lei, chiedendole di giocare o di raccontare loro storie. Le ci vollero più di tre mesi per riprendersi, tre mesi in cui Zaron si sentì costantemente sulle spine, frustrato dall’impossibilità di aiutare la sua piccola regina, impotente davanti al suo dolore. Aveva una mezza idea di rifiutarle la prossima visita a Issa, ma le aveva promesso di trascorrere ogni compleanno col padre e aveva intenzione di mantenere la parola, anche se gli costava molto, ma non a discapito della salute mentale di sua moglie. Per fortuna lei migliorò, anche se lentamente, e al matrimonio di lady Asill con il nobile Fuldir era rilassata e felice e rideva alle sue battute.
Zaron era molto soddisfatto di quel matrimonio, il primo a essere misto dopo il proprio, anche se al banchetto nuziale che si era tenuto al palazzo del padre dello sposo, il nobile Rilisk, e a cui erano stati ovviamente invitati non avevano potuto parlare perché seduti a due tavoli diversi. Al ritorno a Palazzo Reale, nell’harem, raccontando alle concubine come si era svolta la giornata, lui e sua moglie avevano fatto a gara a descrivere come lo sposo avesse avuto un’aria vagamente sorpresa e incredula durante tutta la cerimonia, di come la sposa fosse apparsa truce ma determinata e la suocera e le cognate visibilmente scosse. Deja e le concubine avevano riso fino alle lacrime, per qualcosa da cui Zaron era escluso; lui aveva scosso la testa, rinunciando a capire, e il suo atteggiamento rassegnato aveva suscitato un altro scoppio di irrefrenabile ilarità. Era stato bello vedere Deja ridere di nuovo, piegata in due e con le guance rosse; lui non aveva resistito e con espressione dolce le aveva sfiorato il viso sorridente e quel gesto di tenerezza non era sfuggito agli occhi attenti di Perla e Tallia.
- Si sta affezionando a lei.
Aveva detto la donna più giovane a notte inoltrata, quando era andata a visitare la concubina anziana nei suoi appartamenti. Perla se ne stava reclinata pigramente sul suo letto mentre l’altra donna passeggiava irrequieta per la stanza.
- È già affezionato a Deja, solo che prima i suoi gesti erano studiati. Ora ogni dimostrazione d’affetto comincia a essere naturale e spontanea.
Aveva sottolineato Perla, che aveva avuto modo di osservarli più da vicino e di parlare con entrambi. Aveva riferito a Tallia della scenata di gelosia che Deja aveva fatto a Zaron a Issa, ma non aveva riferito a nessuno del litigio che li aveva coinvolti il primo giorno, e non lo avrebbe fatto: erano affari di Zaron e Deja.
- Credi davvero che lei sia infatuata di lui?
Perla aveva annuito.
- Sì, è evidente: lo segue sempre con gli occhi, cerca un contatto fisico ogniqualvolta che può e si illumina quando Zaron rivolge la sua attenzione esclusivamente a lei. Ma non so se sfocerà in amore. È molto facile, ma non è sicuro. Dipende da Zaron e da come la tratterà quando ammetterà a sé stesso che i sentimenti di Deja vanno oltre l’affetto infantile.
Tallia aveva sollevato un sopracciglio e Perla spiegò.
- Lui la vede come una bambina piccola, incapace di provare desideri e pulsioni e crede che l’ammirazione di cui lo fa oggetto sia pura e innocente.
Tallia era parsa preoccupata.
- Pensi che se ne approfitterà? Di lei e dei suoi sentimenti intendo. Se lei crede di amarlo sarà facile convincerla a concedersi prima del tempo.
Perla scosse il capo con fermezza, sbuffando divertita.
- No! Zaron è scattato come una gazzella spaventata all’idea che Deja possa provare dei sentimenti profondi per lui. È come ho detto io: la considera una bambina e lui non tocca le bambine, non le vede affatto come oggetti di desiderio. Quello che intendevo era che lui potrebbe respingerla e ferirla profondamente, trattando i suoi sentimenti come poco importanti, le fantasie folli di una bambina inesperta che non sa quello che vuole.
- E nessun demone cova rancore quanto una donna ferita nei sentimenti dal suo amante*…
Concluse Tallia, citando un vecchio adagio.
- È una situazione delicata,
Sentenziò Perla, con un sospiro.
- Che potrebbe risolversi meravigliosamente per il nostro Zaron: potrebbe conquistare il cuore della sua regina, la soluzione più favorevole per lui e per la buona riuscita del matrimonio. Voglio che sia felice, Tallia. Voglio che ami e sia amato come merita!
La concubina anziana aveva assunto un’espressione determinata.
- È un uomo buono, giusto e leale e si merita il meglio, si merita di vivere l’amore che non ha mai avuto, quel sentimento che noi non abbiamo mai provato!
- Non c’è niente di peggio per una cortigiana che innamorarsi: fai l’amore, ma non provarlo mai.
Sussurrò Tallia, recitando la regola d’oro della loro professione.
- Avevo sperato, con Mira… È dolce e lo ama, ma alla fine i suoi sentimenti si sono risolti in qualcosa di troppo…tiepido. Forse avrei dovuto aggiungere più fanciulle: è più facile che una ragazza dia il cuore al suo primo e unico amante, ma non ho voluto affollargli l’harem. Troppa scelta equivale spesso a nessuna scelta.
Perla sospirò ancora.
- Non avrei mai puntato su Deja: troppo giovane, troppo diversa. Ma forse è la scelta giusta: i loro caratteri si sono rivelati sorprendentemente combacianti, si trovano bene insieme, vanno d’accordo. Se sul piano fisico andassero altrettanto d’accordo… Cederei con gioia la mia posizione di favorita, Tallia. Se lui volesse solo lei, se l’amasse così tanto da non cercare più né me, né un’altra, sarei felice, per lui.
Tallia aveva scosso il capo, non essendo d’accordo con l’altra donna.
- Prima di tutto lui non ci manderebbe mai via: ce l’ha promesso e poi ci sono le bambine, Zaron adora le sue figlie. Ha insistito che tutte noi avessimo almeno un figlio da lui, tu sei stata l’unica a non volerlo accontentare…
Perla la interruppe, con un gesto perentorio.
- È un vecchio discorso, perché rivangare? Sono troppo vecchia per fare figli.
- Inoltre non so se Deja da sola potrebbe soddisfarlo: è ancora così giovane, Perla. Non sempre Zaron è un amante tenero e premuroso, lo sai.
Perla si era passata le mani sugli occhi.
- Se le facesse del male, anche solo inconsapevolmente, le prime volte, sarebbe un disastro!
- La prima volta è fondamentale per cementare nella mente di una fanciulla il suo approccio al sesso.
Concordò Tallia, scambiando uno sguardo complice con l’altra donna. Non avevano mai parlato delle loro esperienze, ma ciascuna riteneva che l’altra avesse vissuto una simile iniziazione. Perla sapeva di essere stata fortunata, rispetto a Tallia: lei apprezzava sinceramente le attività che si svolgevano nel talamo, ma allo stesso tempo ogni sua azione, ogni sua risposta appassionata era una reazione studiata e artificiosa, che ormai faceva con tale naturalezza da non riuscire a immaginarsi altro. Amava Zaron, come amava Tallia, Mira, Oscia e Cara, e provava piacere a giacere con lui, ma tra la sfera fisica e quella emotiva non c’era nessuna sovrapposizione, non provava nessun coinvolgimento profondo. Se il giorno seguente fosse stata costretta a lasciare l’harem le sarebbe dispiaciuto di più non rivedere le altre donne e le bambine, piuttosto che non dividere più il letto con il khan, e sapeva che per Tallia era lo stesso.
- Ma non dovrebbe esserci nessun rischio di questo tipo: Mira canta ancora le sue lodi.
- Ma Mira non è innamorata di lui,
Obbiettò Perla.
- E non aveva nessuna aspettativa quando è entrata nel suo harem: è venuta qui non aspettandosi di provare nessun piacere nel suo letto.
- Siamo passate dalla semplice infatuazione all’innamoramento, Perla?
Chiese con tono mite ma provocatorio la donna più giovane. Perla fece un gesto vago ed emise un verso frustato.
- Sai cosa intendo!
Aveva obbiettato e l’altra aveva ribattuto, terminando la loro conversazione.
- Io credo che tu stia correndo troppo. È presto: maturando Deja potrebbe davvero cambiare idea e vedere Zaron come una figura paterna e questo sì che sarebbe un disastro. Possiamo solo aspettare e sperare per il meglio, e cercare di guidare quei due l’uno verso l’altra.
 
Il matrimonio di lady Asill e il nobile Fuldir sembrò spianare la strada per un fiorire di fidanzamenti tra donne issiane e nobili rakiani, per la sorpresa di Zaron che aveva pensato più semplice far sposare fanciulle rakiane ai lord issiani. Invece le nobili connazionali di sua moglie si erano rivelate più intrepide e intraprendenti del previsto.
Un fidanzamento eccellente avvenne a ridosso del matrimonio della nobile guaritrice con il suo sposo, che anche dopo il matrimonio aveva mantenuto quell’aria stupita e perplessa e che trattava la sua moglie straniera con grande deferenza, doppiamente grato e contento della scelta effettuata perché il khan aveva chiesto espressamente di lui per un posto di amministrazione nella capitale, dimostrando apertamente di favorire la sua unione.
Ogni mattina la regina e il suo gruppo di nobili accompagnatrici passeggiavano nei giardini del Palazzo Reale e ogni giorno passavano vicino a dove il khan svolgeva i suoi esercizi mattutini.
I cortigiani che accompagnavano il khan guardavano le donne e a loro volta quelle guardavano loro. Fu così che appena una settimana dal matrimonio di lady Asill, una mattina, mentre passavano vicino al campo d’addestramento, Famira si staccò dal fianco della regina che si fermò a guardare cosa avesse catturato l’attenzione dell’amica.
La giovane donna si era diretta con decisione verso i cortigiani, che si erano voltati a guardarla, rivolgendole occhiate di sorpresa o aperta ammirazione, a seconda dell’uomo. Famira aveva ignorato le occhiate d’apprezzamento dei nobili e si era fermata davanti a uno dei generali di Zaron, un uomo dal portamento serio, austero, che dimostrava il doppio dei suoi anni.
- Ciao, io sono Famira Assiben.
Gli aveva detto, guardandolo negli occhi senza vergogna, con la schiettezza che le era solita e poi, tra i sussurri scandalizzati dei rakiani che li circondavano, gli aveva allungato la mano, dorso in alto, aspettandosi la stessa deferenza che un issiano le avrebbe dimostrato: prendendole la mano, inchinandosi leggermente difronte a una signora, e rispondendo con il proprio nome.
L’uomo aveva spalancato gli occhi scuri, incredulo difronte al gesto scandaloso della ragazza. Aveva guardato la mano che gli veniva porta e poi il viso determinato della fanciulla e gli occhi di lei che si riempivano di dubbi mano a mano che gli attimi passavano e lui non diceva né faceva nulla. Con lentezza si era mosso, ignorando i nobili che lo guardavano e anche il khan che aveva interrotto l’allenamento per vedere cosa stesse capitando. Le aveva preso la mano e con reverenza se l’era portata alle labbra, baciandole le nocche e guardandola in viso, con occhi pieni d’emozione.
- Io sono Bors Dimanik, mia cara fanciulla. Sono profondamente onorato della tua attenzione.
Deja aveva guardato con occhi sgranati la scena, conscia di come la mano tesa di Famira era stata interpretata dall’uomo. Quando lui le aveva baciato la mano, come era lecito fare solo a un futuro marito, si era allarmata, ma solo per un attimo, prima di ricordare la strana espressione pensosa e i sospiri che Famira aveva fatto negli ultimi tempi e come si era sempre voltata verso il gruppo di uomini che circondava suo marito ogni volta che vi passavano accanto. Aveva intimato alle sue accompagnatrici di riprendere il cammino e a lady Asill di rimanere indietro, con Famira, che aveva ripreso a parlare con il militare rakiano.
- Se non avete altri impegni, vi andrebbe di accompagnarmi nella mia passeggiata?
Bors si era voltato verso il suo khan che aveva fatto un cenno d’assenso prima di rivolgersi nuovamente verso il suo avversario e riprendere l’allenamento. Poi, come aveva visto fare innumerevoli volte al suo signore, porse il braccio sinistro alla ragazza che gli poggiò la mano sull’incavo del gomito e cominciò a camminare, seguendo le donne della regina, che ogni tanto si voltavano a guardarli. Rivolse un’occhiata fugace alla lady che camminava serena e imperturbabile alla sinistra della ragazza.
- Mia giovane signora, siete cosciente di ciò che implica il gesto da voi fatto, di cosa simboleggia il baciamano, qui a Rakon?
- Sì.
Aveva replicato lei a denti stretti, piantandogli le dita nel braccio e allungando il passo, camminando quasi più velocemente di lui.
- Perché, graziosa fanciulla? Perché io?
- Potremmo parlarne un’altra volta, non trovate?
Aveva replicato con falsa giovialità Famira, facendo un discreto cenno verso lady Asill.
- Domani per esempio. Potrei aspettarmi una vostra visita, nel primo pomeriggio?
Bors non era riuscito a trattenere una risata davanti a tanta sfacciataggine, che era risuonata per il giardino, e poi aveva annuito con occhi brillanti e pieni d’aspettativa.
Il giorno dopo si era presentato al palazzo Azzurro chiedendo della nobile Famira ed era stato scortato in un salottino, dove sedevano la ragazza e la madre di lei. Entrambe erano abbigliate alla maniera issiana, secondo una moda che era ormai divenuta familiare agli occhi del generale, che aveva anche notato come la ragazza avesse prestato particolare cura al proprio aspetto, acconciando i capelli in maniera elaborata e indossando gioielli. Bors aveva salutato con deferenza lady Jolina e poi era rimasto in silenzio, incerto sul da farsi.
Famira aveva roteato gli occhi e si era rivolta in maniera quasi scortese alla madre.
- Madre, non hai niente di meglio da fare? Credo che lady Garisa volesse parlarti, prima.
Invece di indignarsi, come Bors si sarebbe aspettato, la madre della ragazza scattò in piedi con un sorriso e li lasciò soli, ma solo per un attimo: una ragazza più giovane, che non aveva mai visto, entrò nel salottino e si lasciò cadere di malagrazia e con un’espressione afflitta su una sedia in un angolo, a leggere un libro.
- Non badare a lei, è mia sorella minore Aduna ed è qui per proteggerti da me!
Scherzò Famira. Bors le sorrise con calore.
- Mia cara fanciulla…
- Famira,
Lo interruppe lei, con voce esitante.
- Ti prego, chiamami Famira.
- Mia cara Famira. Cosa ti ha spinta a scegliere me?
Lei sembrò improvvisamente timida e abbassò lo sguardo.
- Ho visto come mi guardavano gli altri, come se fossi un succulento pezzo di carne scelta esposto sul banco del macellaio.
Bors era sorpreso dalla franchezza della ragazza e dal suo linguaggio, nessuna fanciulla rakiana di nobile nascita avrebbe mai parlato così a un uomo che aveva appena conosciuto e a cui era promessa. Ma, concesse Bors, provando un sentimento di esaltazione al ricordo, nessuna fanciulla rakiana, di nobile o infima nascita, avrebbe mai avuto l’audacia di fare, no, di pretendere, una richiesta di matrimonio da parte di un uomo. E quella bella, coraggiosa fanciulla aveva scelto lui.
- Tu mi hai sempre guardata diversamente.
Continuò Famira, valutando la sua reazione attraverso le ciglia.
- Mi hai sempre guardata negli occhi e il tuo sguardo non è mai sceso. L’ho trovato… cortese. Hai dei begli occhi. Ho pensato che sarebbe stato interessante conoscerti, ma non ce n’è mai stata l’occasione. Ti osservavo ai banchetti e vedevo che anche tu mi osservavi, ma non mi era concesso avvicinarti e tu non facevi mai il primo passo!
Il tono di voce di Famira si fece esasperato.
- E così il primo passo l’ho fatto io!
Concluse, alzando il mento e fissandolo, sfidandolo a rimproverarla per la sua audacia. Lui chinò il capo nella sua direzione.
- E di questo ti sarò sempre riconoscente, audace Famira.
Avevano cominciato a parlare, stentando a trovare un argomento di conversazione, lui era stato pronto a recitarle poesie e riempirla di complimenti, ma lei lo stupì, chiedendogli di parlarle delle sue campagne militari. Bors temeva di annoiarla, ma la ragazza lo ascoltava con le labbra socchiuse, coinvolta nel suo racconto, e Bors capì di essersene perdutamente, irrazionalmente innamorato, come un ragazzino che incontra per la prima volta una donna.
- Come facevi a sapere che non ero già sposato?
Le aveva chiesto, incuriosito. Se avesse porto la sua mano a un uomo già sposato, la cosa non sarebbe stata solo scandalosa ma oscena e la sua reputazione ne sarebbe risultata macchiata per sempre.
- È semplice: mi sono informata prima. Ai banchetti sei sempre venuto solo, mentre chi è sposato si fa di norma accompagnare dalla moglie. Quindi ho chiesto se la tua fosse malata o lontana, al che mi hanno risposto che eri vedovo.
- Ho quarantatré anni e due figli,
L’aveva informata con voce esitante.
- Che sono di poco più giovani di te, mia Famira. E ho sei concubine che mi hanno dato altri otto figli… Le nostre usanze sono diverse, sono stato a Issa e ho visto come le donne issiane pretendono l’esclusività dell’affetto dei loro mariti. Io non te la posso dare.
Famira lo aveva guardato socchiudendo gli occhi, improvvisamente vigile.
- Perché non ti sei risposato?
Bors aveva chinato lo sguardo.
- Perché provavo un affetto sincero per mia moglie e la sua perdita mi ha… ferito.
Non si sarebbe mai immaginato di dimostrare una tale fragilità a una donna, ma quella fanciulla così temeraria e schietta meritava sincerità e altrettanta schiettezza.
- Sono consapevole del fatto che le usanze rakiane siano diverse. Da un marito rakiano non pretenderei mai lo stesso che da uno issiano. Ciò che invece mi aspetto, ciò che pretendo da qualcuno che si impegna a passare il resto della sua vita con me, che mi chiede fedeltà e rispetto, è fiducia, senza cui l’amore non può esserci. Voglio essere amata e rispettata. E prima di accettare di sposarti voglio conoscere le tue concubine. Diciamo pure che voglio conferme sul tuo carattere.
- Ma … tu hai già acconsentito di sposarmi, ieri, quando mi hai permesso di baciarti la mano…
- E chi ha parlato di matrimonio? Solo perché ti ho concesso la mia mano non vuol dire che … beh, ti abbia concesso la mia mano. Che complicati i vostri usi!
Lui rimase interdetto, sentendo una voragine aprirsi nel petto.
- Ma,
Proseguì lei, forse impietosita dalla sua espressione allarmata.
- Potrai chiedermelo, di sposarti, intendo. Finora ho rifiutato tutti i pretendenti che mia madre aveva selezionato per me. Tu sei il primo corteggiatore che io abbia scelto da sola, quindi direi che hai buone probabilità di ricevere una risposta affermativa, ti prego dunque di chiedermelo.
- Vuoi sposarmi?
Aveva replicato lui. Famira aveva riso, con gli occhi illuminati.
- È ancora presto, ci conosciamo appena. Richiedimelo più avanti.
E lui lo aveva fatto, ogni volta che si erano incontrati, al termine di ogni passeggiata che avevano fatto assieme, nei giardini del Palazzo Reale e a ogni visita di lui al Palazzo Azzurro. Famira aveva sempre risposto di no, con un sorriso e invitandolo ogni volta a non desistere, finché i suoi no erano divenuti un forse e infine un sì**.
 
Dopo il matrimonio di Famira con il suo generale in seconda, Zaron aveva proposto a Deja di visitare con lui la provincia di Pudja. Come le aveva anticipato, voleva portarla a vedere il suo impero e farla conoscere ai suoi sudditi e la tranquilla e prospera Pudja gli era sembrata la scelta migliore. La città principale era Mabdisa, che era stata le seconda città più influente del regno dopo la capitale, fino a che l’esercito rakiano non l’aveva rasa al suolo facendo di Mabdisa il nuovo capoluogo della regione.
Si erano spostati in aeronave, trasformando in poche ore il viaggio di giorni. Ad accoglierli c’era il governatore, il nobile Farik che si era inchinato con reverenza prima al suo khan e poi alla sua regina, rivolgendo il suo benvenuto a entrambi. Zaron ne era stato soddisfatto: Farik era sempre stato un uomo intelligente ed era evidentemente ben informato delle novità di corte e si era adattato di conseguenza.
Zaron era stato orgoglioso della sua regina che, pur apparendo abbigliata come si conveniva a una regina rakiana, si era presentata secondo il suo stile personale, parlando con il governatore, cavalcando al fianco del marito e rivolgendo saluti e sorrisi alla folla che si era assiepata per le vie principali della città ad accogliere la coppia imperiale.
La sorveglianza era stata strettissima ma osservando la popolazione Zaron aveva notato con compiacimento gli abiti curati dei pudjiani, i loro sorrisi sinceri e la pulizia delle strade e degli edifici. I pudjiani sembravano davvero prosperi e sereni, lo scotto maggiore della conquista l’aveva pagata la nobiltà mentre la popolazione, che non si era mai ribellata e per cui evidentemente un padrone valeva l’altro, ne era uscita indenne e anzi aveva prosperato sotto la mano severa ma onesta di Farik.
Deja si guardava intorno entusiasta. I pudjiani erano affascinanti: uomini e donne avevano la carnagione scura, occhi neri e capelli ricci dello stesso colore. Vestivano con stoffe dai colori sgargianti e le donne indossavano fazzoletti annodati in fogge stravaganti e molte avevano le capigliature intrecciate in un’infinità di treccine che terminavano in perline colorate. Sembravano ben nutriti e benestanti, soprattutto sembravano a loro agio sotto la dominazione rakiana, cosa che confortò molto la regina. Gli edifici erano squadrati, bassi e in mattoni e l’aria era calda e umida, pregna di odori pungenti. Le guardie vestite di rosso che costeggiavano il cammino fino al palazzo del governatore sembravano rilassate e la folla non faceva nessun tentativo di rompere il cordone da loro costituito.
Il palazzo del governatore era di recente costruzione, in stile rakiano, e gli appartamenti assegnati al khan e alla sua regina erano nuovi, progettati espressamente per loro e mai usati. Questa volta Zaron aveva lasciato a casa le sue concubine, anche Perla, che aveva preferito rimanere a Halanda. Deja era rimasta stupita della decisione dell’altra donna, tanto quanto Zaron, ma ne era stata anche segretamente lieta, contenta di avere suo marito tutto per sé.
Quando la regina aveva seduto a fianco del khan mentre il governatore Farik gli presentava il suo rapporto, quest’ultimo aveva reagito con leggera sorpresa, ma poi aveva proseguito imperterrito, ogni tanto spostando lo sguardo su di lei prima di riportarlo velocemente sul suo signore, valutandone la reazione. Ci fu un festeggiamento per onorare la visita dell’imperatore, con uno spettacolo che si svolse nella corte del palazzo, in cui si esibirono acrobati pudjiani che maneggiavano torce infuocate che poi usavano per sputare lunghe lingue di fuoco, strappando un urlo di sorpresa a Deja, che arrossì imbarazzata per la propria reazione. I balli furono molto elettrizzanti: la musica suonata era principalmente di tamburi, accompagnati dalle voci concitate dei ballerini che salivano e crescevano mentre ballavano in una danza veloce intorno alle ballerine in una specie di botta e risposta in cui uomini e donne si giravano intorno e si mischiavano, ma senza mai toccarsi. I cibi erano principalmente di carne e le bevande a base di frutta con aggiunta di alcool, tanto che Deja ne bevve quattro coppe prima che suo marito se ne accorgesse e le togliesse di mano in tutta fretta la quinta; alla fine della serata dovette camminare appoggiata a Zaron e a un certo punto lui fu costretto a prenderla in braccio.
Deja sospirava felice, trovava ogni cosa perfetta e sentiva la testa leggera, come se il mondo che la circondava non fosse reale. Strinse le braccia attorno al collo di Zaron e gli poggiò il capo sulla spalla, con il naso premuto contro il suo collo. Rientrati nei loro appartamenti lui la depositò sul letto e le cominciò a toglierle i gioielli, perché lei non aveva voglia di farlo. Le tolse borbottando velo e fermagli, gli anelli, le collane e i bracciali, poi lei decise di collaborare, mettendogli i piedi in grembo, per farsi togliere le cavigliere.
- Mi fai il solletico!
Disse ridendo, mentre suo marito cercava di sfilarle i cerchi metallici evitando il più possibile di toccarle le gambe e guadagnando un calcio nello stomaco.
- Hai anche intenzione di spogliarmi?
Chiese lei ridendo, sistemandosi più comoda sulle lenzuola del letto.
- Dormirai vestita,
Brontolò lui.
- E domani ti pentirai amaramente di aver bevuto così tanto.
- Hai delle belle mani,
Rispose lei, con voce sognante. Lui sobbalzò.
- Sono grandi e calde, immagino che non saresti disposto a massaggiarmi le caviglie, vero?
Gli chiese ridacchiando e affondandogli le dita dei piedi nell’addome. Lui le spinse via gli arti con decisione, poggiandoli sul letto.
- No, dormi.
- Non ne ho voglia!
Protestò Deja, petulante. Poi, con una velocità di cui Zaron non avrebbe mai sospettato visto lo stato di ebbrietà di lei, gli salì in grembo, sedendo di traverso sulle sue ginocchia, rannicchiandosi sul suo petto e poggiando la testa sotto il suo mento. Lui le carezzò la schiena, incerto: ci mancava solo che si mettesse a piangere, cosa probabile visto che lo stadio ilare era già passato.
Deja gli sfiorò il petto, seguendo i ricami della camicia con un dito.
- Hai un disegno qui, sopra il cuore. Me lo ricordo dalla nostra prima notte di nozze. Me lo fai rivedere?
- No, Deja.
Le parole di Zaron erano esasperate. Poi fece quasi un salto quando lei infilò una mano sottile e affusolata nella scollatura della camicia, per toccare il suo tatuaggio. Gliela sfilò velocemente, tenendola per il polso.
- Perché devi essere così testardo? Lo voglio vedere! È un drago, vero? Come quello sul tuo sigillo personale…
- Sì, è un drago, Deja. Adesso smettila!
Lei gli poggiò il palmo sul cuore, sopra il tatuaggio.
- Un drago… Perché hai un drago sul petto?
- Se ti racconto la storia tu poi ti metti a dormire, come una brava bambina?
Lei annuì.
- Che ne dici di metterti sotto le lenzuola mentre te la racconto?
Deja scosse il capo con violenza, aggrappandosi con una mano alla camicia e con l’altra al collo di lui che sospirò, frustrato.
- D’accordo, resta dove sei… Allora, il tatuaggio me lo sono fatto quando ero ancora molto giovane, è stata una stupidaggine a pensarci adesso, ma all’epoca sembrava una buona idea…  stato dopo la mia prima missione, mi era stato affidato il comando della mia unità: avevo la responsabilità della vita di cinquanta persone nelle mie mani e le perdite sarebbero state ingenti se il mio piano fosse fallito. Il mio superiore mi aveva dato fiducia, facendomi anche capire che se qualcosa fosse andato storto tutto il biasimo sarebbe ricaduto sulle mie spalle. Ero… nervoso ma anche eccitato dalla possibilità che mi era stata data. E poi, quando tutto andò per il meglio e il nemico fu sconfitto senza che noi subissimo nessuna perdita… Mi sentii invincibile. I miei uomini urlavano il mio nome e ripetevano Drago, Drago! Un soprannome che mi hanno dato sul campo. Adesso mi sembra arrogante e vanaglorioso, ma all’epoca mi fece sentire pieno d’orgoglio, tanto che me lo sono fatto tatuare sul petto e poi l’ho utilizzato nel mio sigillo. Di solito per il sigillo reale rakiano viene usato un rapace, non un mitologico rettile alato.
Zaron rise di sé stesso e di quanto folle fosse stato da ragazzo.
- I draghi non sono famosi per essere avidi?
Chiese Deja dubbiosa.
- I draghi accumulano tesori e poi li custodiscono con gelosia, ma sono anche creature sagge e forti. È per questo che mi piaceva il soprannome: perché implicava che la forza di cui dispongo è guidata da una mente saggia. 
Lei mugolò qualcosa di incomprensibile e poi, stringendolo forte, cominciò a depositare piccoli baci sul suo collo. Zaron si impietrì.
- Cosa stai facendo, Deja?
Le chiese con un filo di voce.
- Un’altra cosa che ricordo del nostro matrimonio,
Disse lei, con voce roca.
- È il bacio che mi hai dato… Perché non me ne dai un altro?
Rovesciò il capo, offrendogli la gola ma Zaron si girò di scatto la testa, guardando da un’altra parte.
- Perché non dormi adesso?
Come aveva temuto la ragazza si mise a piangere.
- Perché non mi vuoi baciare? Perché? Mi era piaciuto. Tanto. Vorrei che tu lo rifacessi ma tu … tu…
Zaron quasi la fece cadere dal letto per la fretta con cui la spinse giù dal suo grembo.
- Adesso ti prendo un bicchiere d’acqua.
- No!
Urlò lei.
- Adesso tu mi baci!
E cercò di abbracciarlo nuovamente.
- Facciamo così,
Propose lui con tono disperato.
- Adesso cerchi di dormire e se sei brava io ti darò ciò che desideri domani mattina, al tuo risveglio. Una specie di premio, d’accordo?
- Promesso?
Chiese lei con voce sospettosa, ma lasciandosi guidare sotto le lenzuola.
- Assolutamente!
Confermò lui e poi, per quietarla, le baciò la fronte e le carezzò i capelli.
- Dormi adesso…
Le sussurrò e lei chiuse gli occhi e scivolò nell’incoscienza, mentre Zaron si lasciava cadere in ginocchio, a lato del letto, con espressione smarrita.
Al mattino dopo Deja aveva un mal di testa spaventoso e si coprì il viso con il cuscino, cercando di tenere lontana la luce del sole che le feriva gli occhi. Le pulsavano le tempie e aveva la bocca secca e la gola riarsa. Gracchiò il nome di suo marito.
- Sono qui, mia piccola cara, bevi.
Giunse una voce al suo fianco, dove poteva sentire il materasso appesantito dalla forma di Zaron.
Aprì un occhio, esitante, e gemette di dolore, ma prese il calice che lui le offriva e si tirò a sedere, bevendo.
- Come stai?
Le chiese con voce sommessa.
- Male.
Mugugnò lei.
- Cosa mi è successo?
Lui rise piano.
- Le bevande di ieri sera contenevano alcolici. Ti sei ubriacata mia piccola regina, per la prima volta. Cosa ricordi di ieri notte?
- Che il pavimento continuava a spostarsi, che tu… mi hai preso in braccio?
Lui le carezzò con delicatezza la fronte.
- Esatto: non ti reggevi più in piedi. Non sei stata neanche in grado di cambiarti, hai dormito vestita. Faccio entrare la tua cameriera e ti consiglio un bagno con acqua tiepida e una colazione leggera. Io farò un giro della città e ispezionerò la guarnigione, tu è meglio se per oggi te la prendi comoda e ti rilassi in camera o fai una passeggiata nei giardini. Ci vediamo a cena e ricorda che domani partiamo per Gosian, cerca di rimetterti in forze: dovremo cavalcare.
Lei aveva annuito e si era rifugiata nuovamente sotto le lenzuola, con il cervello intontito dal dolore, e aveva implorato Larissa di lasciarla dormire un altro paio d’ore.
Per l’ora di cena era tutto passato e Deja aveva promesso a sé stessa che non avrebbe mai più bevuto, comprendendo finalmente appieno la ritrosia di suo padre a consumare bevande forti e perché le considerasse una debolezza.
I giorni seguenti si svolsero regolarmente; secondo la tabella di marcia stabilita da Zaron visitarono tutte le principali città di Pudja spostandosi a cavallo e tornando sempre a Mabdisa alla fine di ogni visita. Per Deja fu stancante, dopo cena crollava sempre addormentata a letto e alla mattina le sembrava di non aver mai dormito, tanto si sentiva ancora assonnata. Zaron la osservava preoccupato, vedendo comparire delle leggere ombre scure sotto i suoi occhi, ma lei insisteva che stava bene, che poteva andare avanti, finché, al ritorno dalla città di Nyssar, non scivolò quasi giù da cavallo, perdendo i sensi. Zaron, che non aveva voluto lasciarla mai durante il loro viaggio assicurandosi sempre che lei fosse a portata della sua mano, l’afferrò al volo prima che cadesse. Il gruppo che li accompagnava si fermò, le fu versata dell’acqua sul viso, ma nulla riusciva a svegliarla: bruciava di febbre. Ritornarono di corsa a Mabdisa, con Deja retta tra le braccia del marito, seduta di traverso davanti a lui sulla sua sella. Presero l’aeronave e tornarono subito a Halanda. Durante il viaggio la regina aveva aperto gli occhi un paio di volte, ma erano lucidi e si guardava intorno senza vedere nulla, lei aveva aperto la bocca solo per dire che le faceva male tutto il corpo e poi era piombata nuovamente nell’incoscienza.
La misero immediatamente a letto, nelle sue stanze, e cercarono di abbassarle la temperatura coprendola di pezze bagnate con acqua fredda. Lady Asill fu chiamata al suo capezzale e le somministrò delle medicine che assicurò le avrebbero abbassato la febbre e così fu, ma lei ancora non si svegliava.
Zaron passò due notti e un giorno nella sua stanza, sedendo per terra, con la schiena contro il letto e il polso di Deja nella mano, ad ascoltare il pulsare ritmico del suo cuore: l’unica cosa che riusciva a dargli pace. Alla fine le concubine lo trascinarono via di peso, mettendolo a dormire nel letto di Perla e sedettero loro, a turno, al capezzale della regina.
Lei riaprì gli occhi cinque giorni dopo essere svenuta sulla strada per Nyssar, sentendosi debole e febbricitante e riuscendo appena a chiedere una bacinella prima di vomitare il magro contenuto del suo stomaco: i pochi liquidi che erano riusciti a farle deglutire. Ma almeno era sveglia e lady Asill riuscì a convincerla a bere qualche sorso d’acqua ogni ora e poi del brodo.
Avvisarono all’istante Zaron che si precipitò dalla moglie. Fece uscire tutti dalla stanza della malata e poi cadde in ginocchio al suo capezzale. Larissa l’aveva aiutata a sedersi, appoggiata a molti guanciali; era bianca come il latte, con profonde occhiaie nere sotto gli occhi grandi e lucidi nel viso smagrito dalla malattia. Zaron le prese una mano e vi chinò sopra il viso, singhiozzando senza lacrime.
- Zaron…
Gracchiò lei con voce debole, sfiorandogli il viso con le dita.
- Potevi morire, Deja!
Gemette lui, premendo la guancia contro il suo palmo.
- La tua guaritrice non capiva perché tu non ti svegliassi… Non riuscivamo a capire cosa avessi… Se tu fossi morta io… io… Mi dispiace, è stata colpa mia.
- Sono io ad avere la febbre ma sei tu quello che vaneggia…
Cercò di scherzare la ragazza, sorridendo stancamente.
- Eri stanca, affaticata ma io ti ho fatto andare avanti comunque. È colpa mia.
Ribadì lui, baciandole il palmo e il polso.
- Non essere sciocco. Non saresti riuscito a fermarmi: lo sai quanto sia testarda.
Finalmente riuscì a strappargli un sorriso esitante.
- E poi sto meglio adesso, no?
- Non sembri star meglio, mia piccola cara. Fai spavento.
Le poggiò una mano sulla guancia bianca, confortato dal fatto di sentirla fresca.
- Sono così brutta?
Scherzò ancora lei.
- Non dire sciocchezze, Deja, non potresti mai essere brutta. Ma sei pallida e debole. Devi riprenderti. Devi!
Lei poggiò una mano stanca su quella di lui, premendola contro il proprio viso e con un sospiro si lasciò andare contro i cuscini, chiudendo gli occhi.
- Ho sonno, Zaron. Come posso avere sonno, se ho dormito per cinque giorni?
- Perché non hai riposato: hai combattuto, mia coraggiosa regina, combattuto contro la tua malattia e ne sei uscita vincitrice.
- Come un drago coraggioso…
Mormorò lei prima di riaddormentarsi.
Deja ricominciò lentamente a mangiare cibi solidi e dopo una settimana a letto pretese di rialzarsi, ma le gambe tremanti non ressero il suo peso e fu aiutata nuovamente a distendersi.
Nei due mesi seguenti la febbre tornò ancora un paio di volte, ma senza la virulenza iniziale, lasciandola spossata e stanca e ogni sforzo fatto per recuperare le forze veniva vanificato. Le ci vollero altri due mesi per tornare alle condizioni in cui era prima della malattia. Il suo quattordicesimo compleanno venne e passò e lei lo festeggiò nel giardino dell’harem, con le concubine, Zaron e le bambine. Stette tutto il tempo reclinata su una sedia, con molti cuscini dietro la schiena e una leggera coperta sulle gambe. Quella sera, dopo essere rimasta sola, pianse amare lacrime di delusione per aver mancato all’appuntamento con il padre.
Zaron le aveva detto di aver tenuto Aborn informato sulla sua malattia, facendogli avere bollettini giornalieri che lo informassero dell’andamento della sua salute. Deja era stata grata dalla sua sollecitudine, ben sapendo che i due non andavano d’accordo. Suo marito le aveva giurato che a un mese esatto da quando lady Asill l’avesse dichiarata guarita, sarebbero andati a Issa e Deja si era impegnata doppiamente per migliorare, accettando il riposo forzato impostole e tenendo la mente ben concentrata sull’obbiettivo di ristabilirsi.
Così era riuscita ad ottenere da lady Asill la conferma della guarigione ottenuta e, come promesso, a un mese esatto aveva rimesso piede a Issa. Era dispiaciuta del fatto che sarebbe stato solo per pochi giorni, dato che suo marito non voleva stancarla troppo, ma almeno non ci furono impegni di governo o festeggiamenti a turbare la sua vacanza. Passò quasi ogni giorno con Anka e suo padre, godendosi il soggiorno nella città natale come una parentesi rilassante.
Aborn era rimasto stupefatto nel vedersela davanti. Deja non aveva ancora un bell’aspetto, i telegrammi che aveva ricevuto da lady Asill lo avevano tranquillizzato, perché parlavano di un recupero totale e della scomparsa di ogni sintomo della malattia improvvisa e misteriosa che l’aveva colpita, ma la sua bambina era magra, pallida e si stancava facilmente. Zaron non la lasciava un minuto, era anche più protettivo di prima, assicurandosi sempre che lei avesse la mano sul suo braccio, oppure cingendole la vita o sostenendola con una mano sulla schiena. Una piccola parte del rancore che covava, e che avrebbe sempre covato, nei suoi confronti lo abbandonò, difronte al legame formato dalla comune preoccupazione per la ragazza. All’inizio il nobile issiano aveva pensato che fosse una facciata, dopotutto se Deja fosse venuta a mancare Zaron avrebbe perso il suo appiglio al trono, ma l’altro uomo sembrava sinceramente preoccupato per Deja e la ricopriva di attenzioni e sollecitudini, come Aborn stesso avrebbe fatto se Zaron gliene avesse dato l’opportunità e il modo. Un’altra cosa che lo aveva colpito di sua figlia, che ormai non vedeva da più di un anno, era stato quanto fosse cresciuta; era sì spaventosamente magra e ossuta e per il suo sollievo non aveva nulla delle morbide forme di una donna, ma era divenuta più alta: se al matrimonio la sommità del suo capo sfiorava appena il mento del marito, ora gli arrivava al naso. I lineamenti del suo viso si erano fatti più definiti e, anche se non erano ancora maturi, lasciavano intuire quello che sarebbe stato il suo aspetto da adulta. Non era più una bambina, non era più la sua bambina, pensava Aborn, vedendola sorridente e sicura al braccio di Zaron.
Vedendoli assieme Aborn fu costretto ad ammettere quello che sua figlia aveva cercato di dirgli in occasione della sua ultima visita: che Zaron non le avrebbe fatto del male, che lui la trattava con rispetto e correttezza e, si sorprese a considerare l’uomo più anziano, con affetto. No, non le avrebbe fatto del male, non intenzionalmente, e un peso gli si tolse dal cuore. Non che il rapporto tra i due fosse migliorato di molto: a volte Deja si sentiva come un osso conteso tra due mastini, ma erano due mastini che amava, pensava con calore, e sopportava il loro contrasto, cercando di mediare tra i due.
Questa volta, quando dovette salutare il padre, non ci furono lacrime ma un sorriso felice e la promessa di riabbracciarlo in soli dieci mesi, al suo quindicesimo compleanno.
 

*Nessun demone cova rancore come una donna ferita: C’è un simile modo di dire in inglese: Hell heat no fury like a scorned woman (L’inferno non cova una rabbia simile a quella di una donna tradita).
** Famira e Bors: Quando entrambe le parti sono innamorate, adulte e mature trovo in parte romantica la differenza d’età, romantica e tragica perché uno è destinato a perdere troppo presto l’altro. Per farvi un esempio, in Ragione e Sentimento la coppia che ho trovato più romantica è stata quella di Marianne e il colonnello Brandon, con lui che attende pazientemente che lei lo noti e le rimane vicino nonostante lei viva una turbolenta relazione (turbolenta per i canoni di J. Austen) con un altro.
 
NOTE DELL’AUTRICE: Duh, e io che pensavo di non riuscire a riempire il capitolo, rendendolo abbastanza lungo. Non finiva più! Tanto che avevo anche pensato di tagliarlo.
Oh, Perla e Tallia, come siete impiccione, e povero Zaron che non immagina neppure come la sua concubina preferita gli stia organizzando la vita!
Vi è piaciuto come ho fatto schizzare fuori dalla sua pelle Zaron quando Deja ha preteso che lui la baciasse? E no: non ricorda ciò che è successo quella notte, l’idea del drago coraggioso le è balzata in mente provenendo dal subconscio, ma Zaron di sicuro si è preoccupato non poco!
Inizialmente Deja doveva prendersi un brutto malanno e basta ma poi…
 

 

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Capitolo 4
*** Solo perché puoi non vuol dire che devi ***


IV. SOLO PERCHÈ PUOI NON VUOL DIRE CHE DEVI*

 
 
Deja aveva atteso con trepidazione l’arrivo del suo quindicesimo compleanno. Con la maggiore età si aspettava che la sua vita cambiasse, soprattutto temeva e desiderava che la sua vita matrimoniale cambiasse. Presto sarebbe stata un’adulta e di sicuro suo marito l’avrebbe vista con occhi diversi. Di sicuro.
Non era ben certa di quando si fosse innamorata di lui ma un giorno, semplicemente, si era resa conto di esserlo. Zaron era la stella attorno cui lei orbitava, un suo sorriso poteva scatenarle una gioia incontrollata nel petto e ogni suo tocco veniva sentito come la carezza di una fiamma viva. Persino il suo aspetto, che l’aveva tanto spaventata quando aveva avuto dodici anni, ora l’attraeva: se prima aveva guardato le sue braccia muscolose e aveva temuto la violenza che esse potevano applicare, ora pensava a come quelle braccia avrebbero potuto stringerla, a quanto protettive fossero; i suoi occhi scuri e il suo piglio severo l’avevano intimorita ma ora le suscitavano un’emozione tenera e uno sfarfallio inaspettato, perché per lei quell’espressione diveniva gentile e quegli occhi brillavano d’affetto. Si sorprendeva a fantasticare per ore sulle sue mani, grandi e calde, che le sfioravano il viso e le si posavano sulla spalla con naturalezza e che le suscitavano un imbarazzante desiderio di essere toccata altrove. Soprattutto le sue labbra erano oggetto delle sue fantasie notturne: riviveva ancora e ancora quell’unica volta in cui si erano posate su di lei e nei suoi sogni a occhi aperti lei non aveva avuto paura, ma gli stringeva la nuca e gli guidava il viso per ricevere altri baci. Desiderava ardentemente ricevere il suo primo bacio sulle labbra e più il suo compleanno si avvicinava, più quel desiderio si acuiva. Se anche lui non avesse voluto fermarsi a un semplice bacio non le importava, si sentiva pronta, e cercava di ricacciare nel fondo della sua mente gli spasmi di timore che il pensiero di dividere per davvero il suo letto, come moglie e marito, riusciva ancora a suscitarle. Lui non le avrebbe fatto del male, ne era sicura. Lei voleva… non sapeva esattamente cosa, ma ricordando il consiglio di Perla aveva cominciato a toccarsi, seppellita sotto le coperte del proprio letto, rossa d’imbarazzo, senza mai riuscire ad arrivare fino in fondo, ottenendo solo lacrime di frustrazione davanti alla propria incapacità e immaturità. Lei, che si era sempre ritenuta più matura per la sua età, non riusciva a spingere le proprie mani al di sotto della cintola, neanche quando era sola, nell’intimità della propria camera e nascosta nel proprio letto. Era sicura che Zaron avrebbe risolto il suo problema, che con lui non sarebbe stata così disperatamente timida, ma ogni volta che cercava di figurarselo, le mani di suo marito su di sé, dove le proprie non andavano, le si formava un bollente groppo in gola e le membra le tremavano.
Quante volte aveva pianto, disperatamente, quando notava che era il turno di Perla di intrattenersi con Zaron. Voleva molto bene alla concubina, lei si comportava quasi come una madre con lei, e apprezzava sinceramente gli sforzi che questa faceva, e che Deja aveva notato con stupore, di avvicinarla a suo marito. Ma non poteva fare a meno di essere gelosa, terribilmente gelosa, per come lui la trattava, della familiarità, dell’affetto che li legava. Una vita passata insieme con cui Deja non credeva di poter competere. Tuttavia era così smaniosa del suo amore che si sarebbe accontentata persino delle briciole se lui avesse voluto dargliele.
Il problema, con Zaron, era che se in pubblico la trattava come la sua amante preferita, quando erano nell’harem la trattava come una delle sue figlie. Mai uno sguardo allusivo si era poggiato sulle sue labbra, mai i suoi occhi le avevano guardato il seno anche se, doveva ammetterlo, a differenza delle concubine Deja non era mai uscita dalle sue stanze private senza il blouse. Non che ci fosse granché da vedere, pensava con frustrazione: le concubine di Zaron avevano seni floridi e fianchi larghi mentre Deja rimaneva sottile come una ragazzina, il seno si era sviluppato ma era rimasto piccolo e i fianchi stretti e crescendo in altezza aveva acquisito un fisico asciutto, divenendo alta ma restando magra.
Il suo più grosso problema era che non poteva parlare con nessuno di quello che l’affliggeva: discuterne con le concubine che la vedevano tutti i giorni era fuori questione, sarebbe stato troppo imbarazzante, Famira, anche se ora era sposata e aspettava il primo figlio, non sapeva che suo marito ancora non l’aveva ancora toccata e non doveva saperlo, Anka… lei era l’unica con cui sentiva di potersi confidare, forse l’unica che avrebbe capito dato che aveva intuito anche prima di lei il mutare dei suoi sentimenti nei confronti di Zaron. Ma lei era troppo lontana e, come Deja, terribilmente inesperta, anche se almeno avrebbero potuto condividere la loro inesperienza e Deja si sarebbe sentita meno isolata.
Perla l’aveva presa da parte e le aveva detto, in confidenza, che se aveva qualcosa, qualsiasi cosa, di cui desiderasse parlare, lei l’avrebbe ascoltata e consigliata, senza giudicare e senza tradire la sua confidenza. Ma Deja non era riuscita a parlare con lei del desiderio che la tormentava e dell’amore che le era sbocciato in cuore, non con lei, non dopo quello che le era capitato di vedere.
Era stata una notte chiara e calda e Deja non era stata in grado di prendere sonno. Stava meglio fisicamente, le occhiaie erano sparite, non aveva più crisi di debolezza, ma tutti insistevano a farla riposare il più possibile durante il giorno, con il risultato che la sera faceva fatica ad addormentarsi, così aveva cominciato a leggere per stancarsi abbastanza ma quella notte in particolare non aveva funzionato. Frustrata, era uscita dal letto indossando la sua leggera veste da camera sopra la lunga camicia da notte e, prendendo spunto dal libro di astronomia che stava sfogliando, era uscita in giardino per osservare le stelle. Era notte inoltrata e tutti erano già a letto da ore e non si aspettava di trovare nessuno ancora in piedi, soprattutto in giardino. Deja si era mossa al buio, facendosi guidare dalla luce della luna e delle stelle e nell’oscurità aveva notato un bagliore: in una parte seclusa, tra piante fiorite e cespugli verdi, distesi sull’erba, c’erano Perla e Zaron. Accanto a loro c’era un piatto con della frutta, due coppe e una bottiglia di vino vuota. Lei era seduta e alla luce di alcune candele leggeva a voce alta da un libro di poesie il cui argomento fece venire le orecchie rosse alla ragazza, Zaron era disteso, con il capo poggiato sul grembo della donna e guardava il cielo, accarezzandole pigramente una gamba. Deja se ne stette immobile e poi con lentezza si nascose nell’ombra per non essere sorpresa a spiare. Zaron si voltò su un fianco, dando la schiena a Deja, e infilò il braccio sotto la gonna di Perla, attraverso lo spacco laterale, e la ragazza si rese conto che lei non indossava i tipici pantaloni di seta. La voce di Perla si fece ansimante, poi chiuse il libro e lo poggiò sull’erba, prima di rovesciare la testa all’indietro, chiudendo gli occhi e spalancando la bocca, lasciandone uscire un prolungato gemito roco. Zaron la seguì mentre si distendeva supina, baciandole con passione il seno e poi la bocca e scostandole la gonna, posizionandosi tra le gambe scure della donna, che lo cinsero con forza. Deja ne approfittò per voltarsi e fuggire, tenendo entrambe le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Si era rifugiata nel suo letto, piangendo e dandosi della stupida. Lui l’ama, si ripeteva, lui l’ama, non essere sciocca, certo che lui l’ama come non potrà mai amare te: lei è bellissima e intelligente e non ha il corpo di un ragazzo.
Quindi aspettava i suoi quindici anni, quando sarebbe stata adulta e lui di sicuro avrebbe voluto finalmente consumare il loro matrimonio, magari non l’amava, magari non la desiderava neppure, ma erano sposati e il matrimonio andava consumato prima o poi perché Deja doveva dare al trono un erede. Si ripeteva che non le importava se lui non l’avrebbe mai amata o cercata come faceva con Perla, che si sarebbe accontentata della dolcezza con cui trattava Mira e Cara, dell’apprezzamento con cui mirava le forme di Oscia e persino della malizia e della tensione che c’erano tra lui e Tallia. Qualsiasi cosa che non fossero gli affettuosi buffetti sulla testa che riceveva in privato al pari delle sue bambine. Sapeva che le possibilità che lui la toccasse a Issa erano nulle, non lo avrebbe fatto nel letto che era stato del padre di lei, ma forse, una volta tornati a Halanda, in una di quelle notti che passava nelle sue camere, forse…
Quando finalmente il suo compleanno arrivò e si recarono a Issa, nuovamente accompagnati da Perla a cui si era aggiunta Cara, per la prima volta Deja desiderò che il tempo della sua visita scorresse in fretta così da lasciare la sua città natale e tornare presto a casa, a Halanda. Suo padre era stato nervoso e sulle spine e Deja con un lampo imbarazzato si rese conto che temeva ciò che Deja invece desiderava: che le attenzioni di suo marito si volgessero finalmente verso di lei. Con il suo compleanno oltretutto il suo ruolo di Lord Protettore veniva a cadere e Deja gli accordò un posto permanente nel suo consiglio, licenziando con soddisfazione uno dei consiglieri impostole quasi tre anni prima da Zaron e che non aveva superato positivamente la valutazione dell’imperatore sul suo operato.
Con gli anni, come aveva previsto Aborn, i membri del consiglio avevano imparato a collaborare e la maggioranza dei nobili rakiani si era adattata sorprendentemente bene alla vita a Issa, incoraggiati dal comportamento del loro khan, alcuni addirittura prendendo moglie lì. Soprattutto il loro atteggiamento nei confronti della regina era cambiato rispetto ai primi tempi: Zaron la sosteneva in tutto, trattandola come una sua pari e mostrando di favorire coloro che adottavano costumi issiani, per cui anche loro si adattarono al cambiamento, inchinandosi con sincera deferenza e rispetto alla loro regina. Solo due andavano controcorrente, facendo resistenza ad accettare la mutata situazione e, pur essendo rispettosi e deferenti, rimanevano saldi nei loro usi di considerare gli affari di stato come un’attività non consona al genere femminile, snobbando l’unica donna del consiglio e discutendo sempre contro le disposizioni della regina, per il semplice fatto che era lei a proporle.
La cosa più positiva della sua permanenza a Issa fu la possibilità di parlare a quattr’occhi con Anka. La sua amica aveva compiuto gli anni tre mesi prima ed era stata quindi da poco introdotta in società e aveva già ricevuto due richieste di corteggiamento che l’avevano lasciata interdetta e preoccupata.
- Papà pensa che sia perché siamo amiche, lo sai?
Le aveva detto, quando finalmente avevano potuto parlare e confidarsi al riparo da occhi e orecchi indiscreti.
- Ma lui li ha rifiutati entrambi senza neanche chiedermelo prima, e a ragione! Avevano chiesto di ballare con me al mio debutto ma non mi erano piaciuti.
Anka sospirò.
- Non me ne è piaciuto nessuno!
Si lamentò con Deja.
- Forse è semplicemente ancora presto. Hai appena compiuto i quindici anni, puoi aspettare tutto il tempo che vuoi per fidanzarti e poi un fidanzamento può durare molti anni in cui hai tutto il diritto di cambiare idea.
Aveva saggiamente osservato la regina. La sua amica l’aveva guardata di sottecchi.
- Basta parlare di me e della mia inesistente vita sentimentale, raccontami piuttosto di te e di lui.
A Deja era venuta voglia di piangere e Anka si era allarmata vedendo la sua espressione, balzando subito alle conclusioni sbagliate.
- No Anka!
Aveva dovuto dire Deja, frustrata ed esasperata.
- Lui non mi guarda neppure: è questo il problema!
- Vuoi dire,
Aveva suggerito esitante l’amica.
- Che adesso tu vuoi che lui ti noti?
- Sì! Io… io… oh, Anka credo di amarlo!
Deja si era coperta il viso con le mani ed era scoppiata in lacrime per la costernazione dell’altra ragazza che l’aveva abbracciata cercando di consolarla.
- Perché piangi, Deja? Non dovrebbe essere meraviglioso essere sposate con l’uomo che si ama?
- Non se lui non ti ama, non se lui ama un’altra e ti tratta come una bambina piccola, come una delle sue figlie!
Si era sfogata la regina.
- Non mi ha mai baciata sulle labbra, non mi ha mai toccata, non mi ha neanche mai guardata come se fossi una donna, mai! E se anche lo facesse sarebbe solo un dovere a cui assolve perché deve… Questo mi fa soffrire.
Anka le aveva asciugato le lacrime.
- Hai mai provato a parlarne con lui?
Le chiese e Deja scosse la testa.
- Non ci riesco, mi… vergogno.
- E di cosa?
Aveva replicato stupefatta l’amica.
- Sei sua moglie, non sei un’estranea!
Inaspettatamente Deja si mise a ridere, ma non c’era gioia, solo rimpianto nella sua risata.
- Se penso a quando ci siamo sposati, alla paura folle che avevo che lui mi avrebbe costretta! E adesso guardami, mi consumo di lacrime al pensiero che lui non mi vuole e non mi ha mai voluta!
- Secondo me dovresti parlargli,
Aveva insistito Anka.
- E dirgli quello che provi per lui. Potrebbe esserne lusingato, oppure magari non ti avvicina perché pensa che tu non lo voglia. Magari,
La ragazza si illuminò, trasportata dall’idea che aveva avuto.
- Lui sta aspettando che sia tu a fare il primo passo perché non vuole spaventarti né farti pressioni o essere rifiutato!
Deja era evidentemente dubbiosa.
- Tu dici?
- Ma certo, che può esserci di peggio che vivere nell’incertezza? Tu non sei felice della situazione e lui non sembra intenzionato a fare nulla da quel che mi dici. Quindi tocca a te essere propositiva e farti avanti, visto che è lui quello che esita!
Anka sembrava molto orgogliosa del suo discorso e strappò un sorriso tremolante a Deja.
- Lo sai? Magari seguirò il tuo consiglio. Alla peggio confermerà di non potermi amare, ma dovrà trattarmi come la moglie che sono. Non può continuare a ignorarmi in eterno.
E così Deja aveva pazientato, non dando nessun segno dei suoi intendimenti durante la sua visita a Issa, aspettando di tornare a Halanda, aspettando di rimanere da sola con lui nei suoi appartamenti e nel suo letto prima di farsi avanti con suo marito.
A differenza di quello che pensava Deja, Zaron aveva notato la maturazione fisica di sua moglie e aveva semplicemente deciso di guardare da un’altra parte. Ogni volta che lei lo abbracciava e lo baciava sulla guancia, ogni volta che il suo occhio distratto cadeva sulla curva del suo piccolo seno, lui si ripeteva con decisione che lei era ancora una bambina, che non era ancora venuto il momento giusto, che solo un uomo spregevole avrebbe approfittato di tanta innocenza e fiducia. E così guardava altrove, interpretando volutamente male i suoi sorrisi e i suoi abbracci e i suoi timidi baci. Una bambina, si ripeteva come un mantra, è ancora una bambina e aveva finito per convincersene, riuscendo finalmente a tornare a suo agio con lei, dopo il disastro che era stato il suo involontario abuso di alcolici a Mabdiba, quando lei aveva così maldestramente cercato di farsi baciare come un’adulta. È il liquore a parlare, si era detto, lei non lo vuole davvero, e di sicuro non vuole te: ricorda le sue lacrime, la sua espressione di terrore la prima volta che avete diviso la camera da letto. Al mattino dopo lei non ricordava nulla e Zaron aveva tirato un sospiro di sollievo, non sapeva cosa avrebbe fatto se Deja avesse preteso il bacio promesso, di sicuro non glielo avrebbe dato, lei aveva avuto solo tredici anni e l’idea di toccare in modo disonorevole una ragazzina così giovane lo aveva nauseato.
Poi Deja si era ammalata e a Zaron era crollato il mondo addosso. Aveva avuto paura, per la prima volta in tanto tempo. L’idea che lei sarebbe morta lo aveva lasciato inebetito e aveva vegliato al suo capezzale fino a che non era crollato. La prospettiva che quella splendida ragazza, così piena di vita e che gli era divenuta così cara, potesse morire lo aveva annichilito. Dopo, quando lei si era ristabilita, non si era dato pace e aveva messo al lavoro i migliori guaritori del suo impero per capire cosa avesse minacciato la vita della sua regina. Alla fine, scoraggiati dalla mancanza di risultati, la maggioranza dei guaritori aveva suggerito un avvelenamento e Zaron era stato preso da una furia inarrestabile. Aveva dovuto allontanarsi alcuni giorni, approfittando del fatto che una piccola crisi a Myanam aveva avuto bisogno della sua supervisione. Deja, nel suo stato, non si era neanche accorta della sua assenza, durata appena tre giorni e due notti. Zaron aveva voluto che fosse scoperto il veleno, il modo di somministrazione e soprattutto il colpevole. Alla fine era stato ipotizzato l’uso del distillato di fukirtup, una piccola pianta di palude, pressoché sconosciuta, che era inodore e insapore e che colpiva il cervello delle vittime, causando febbre alta, allucinazioni, delirio e morte dopo sette giorni. Fu suggerito che il dosaggio fosse stato fatto malamente oppure che qualcosa che la regina aveva mangiato o bevuto assieme al distillato ne avesse modificato gli effetti, perché non c’erano state allucinazioni né deliri, solo una febbre alta e persistente che l’aveva lasciata indebolita. Cupamente Zaron aveva ordinato che tutte le persone con cui sua moglie era entrata in contatto durante la sua visita a Pudja fossero controllate minuziosamente.  Era stato un lavoro difficile che aveva richiesto settimane e alla fine aveva dato risultati parziali: otto persone tra il personale di servizio dei luoghi che avevano visitato erano diventati irraggiungibili dopo la visita dell’imperatore e dell’imperatrice. Sei erano stati trovati e interrogati, ma senza risultato, due erano morti: uno era stato ucciso dall’amante e l’altro era stato trovato impiccato. Le indagini avevano rivelato che l’uomo era già morto quando gli avevano avvolto la corda attorno al collo e nonostante le ricerche effettuate non si riuscì a capire chi lo avesse ucciso per tappargli la bocca. Zaron era frustrato e allarmato per non essere riuscito a trovare chi avesse attentato alla vita di Deja e aveva quindi aumentato la sorveglianza adducendo come scusa la convalescenza della regina per indurla a muoversi il meno possibile, relegandola più che poteva nell’harem, in cui era certo che lei fosse al sicuro, avendo un ferreo controllo sulla servitù di palazzo che veniva regolarmente controllata a campione e a sorpresa. Sapeva tuttavia che chi aveva attentato alla sua vita ci avrebbe provato ancora.
Lui e le sue ragazze assieme alle bambine avevano fatto quadrato attorno a Deja ma alla fine Zaron aveva dovuto concederle il recupero delle sue libertà, notando quanto frustrata e nervosa stesse diventando la sua piccola regina, rispondendo bruscamente a Perla e riservandogli a volte sguardi pieni di rancore. Aveva anche a malincuore dovuto prometterle una vacanza veloce a Issa, durante la quale lei gli era rimasta vicina di sua volontà, lasciando il suo fianco solo per passare del tempo con la sua giovane amica, che Zaron aveva finalmente avuto l’occasione di conoscere perché lei era venuta a palazzo per stare accanto a Deja. Con gioia e soddisfazione aveva anche notato come sua moglie preferisse la sua compagnia a quella del padre e l’aveva stretta a sé in ogni occasione in cui il suocero poteva vederli e ribollire di rabbia impotente. 
Dopo il suo quindicesimo compleanno aveva notato un preoccupante cambiamento nell’atteggiamento di Deja e nelle sue abitudini notturne. Lei lo guadava con un’intensità inconsueta, mordendosi il labbro pensierosa, come a considerare un complicato problema di cui non riusciva a trovare il capo con uno sguardo che Zaron non riusciva a interpretare. A Issa Deja, solitamente così agitata nel sonno da prendere maggior parte dello spazio disponibile nel letto, lo aveva cercato tra le lenzuola, rotolando dalla sua parte finché non si era ritrovata premuta contro il suo fianco. Zaron non aveva avuto modo di allontanarsi dato che già si trovava sul bordo del materasso e, immobile e incredulo, aveva sentito sua moglie poggiargli la testa sulla spalla e buttargli un braccio sul torace, sospirando contenta nel sonno prima di insinuare i piedi sotto i suoi polpacci.
Zaron aveva dormito poco, preoccupato che un suo movimento potesse svegliarla in quella posizione compromettente. Con il braccio imprigionato tra il proprio corpo e quello di lei riusciva a sentire la forma morbida del seno di sua moglie attraverso la leggera camicia da notte, percepire il calore della sua pelle e l’espandersi del suo torace a ogni respiro. Il profumo dei suoi capelli gli riempiva le narici e al mattino la reazione involontaria del proprio corpo lo aveva disturbato. Aveva iniziato a levarsi prima dell’alba, agitato e irritato per la propria mancanza di autocontrollo, timoroso che lei si svegliasse e pretendesse di sapere cosa lo turbasse tanto. Aveva dovuto andare da Cara, sperando che lei non gli chiedesse il perché di quelle visite mattutine e una volta, mentre era avvolto nel suo abbraccio, affondato nel corpo morbido e arrendevole della concubina, si era sorpreso a pensare a Deja. Aveva chiuso gli occhi, immaginando le gambe lunghe e chiare di sua moglie avvinghiate al proprio bacino, i suoi capelli sparsi sul cuscino mentre lei rovesciava indietro il capo, scoprendo la pallida curva del collo. Si era figurato i suoi occhi azzurri farsi scuri di passione, la sorpresa e poi il piacere sul suo viso, mentre la prendeva, la sensazione che avrebbe provato, a essere accolto nel suo copro innocente. Le spinte di Zaron erano divenute lente e i suoi baci languidi, delicati, e aveva accarezzato ad occhi chiusi le forme di Cara. L’odore, il gusto di lei, lo avevano riscosso e con vergogna si era ritrovato a dover strizzare forte le palpebre, cercando di richiamare alla mente i gemiti che aveva emesso Deja quando l’aveva baciata sul collo, solo così era riuscito a terminare quello che stava facendo. Da quella volta aveva lasciato dormire Cara fino a tardi, preferendo un bagno ghiacciato all’ignobile piacere che quel pensiero gli aveva procurato. Aveva considerato con parziale ansia l’avvicinarsi del loro appuntamento mensile, quando la sua regina avrebbe dovuto mostrare di passare la notte nel suo letto. Il suo presentimento infausto si era rivelato veritiero quando lei lo aveva affrontato, rendendogli finalmente chiara la natura dell’inquietudine che l’aveva colta.
Mentre cenavano insieme lei era parsa nervosa, ridendo con voce acuta alle sue battute e non incrociando i suoi occhi, arrossendo spesso e tormentandosi il labbro inferiore con i denti, come le aveva visto fare spesso ultimamente. Si quietava con un sorriso radioso e contento solo quando lui la toccava, sfiorandole la mano o il braccio e quando le aveva accarezzato la fronte, invitandola a ritirarsi con lui in camera da letto, lei aveva chiuso gli occhi evidentemente compiaciuta del suo tocco e aveva piegato il capo per seguire il movimento della sua mano e prolungare il più possibile il contatto. Lui aveva ritirato velocemente l’arto e si era schiarito nervosamente la voce.
Zaron era solito cederle l’uso della sala da bagno per cambiarsi prima di recarvisi anche lui, e al suo rientro in camera Deja era abitualmente già sotto le lenzuola.
Quella sera invece lei si sedette sul letto, dopo essersi tolta i gioielli, e cominciò a giocherellare con le dita delle mani, guardando il pavimento e arrossendo violentemente.
- Zaron…
Aveva iniziato con voce sicura, solo per interrompersi e serrare con forza gli occhi, ansimando.
- Cosa c’è Deja?
Aveva chiesto lui, immediatamente preoccupato, accovacciarsi difronte a lei e prendendole le mani. Deja aveva riaperto gli occhi e gli aveva sorriso debolmente.
- Zaron,
Aveva ricominciato.
- Il mio quindicesimo compleanno è passato, da mesi ormai. Sono… un’adulta adesso.
Deja era impallidita e i suoi occhi avevano iniziato a vagare per la stanza. Zaron aveva una mezza idea di dove lei stesse andando a parare e stava per aprire la bocca per dirle che non aveva nulla da temere da lui, che non l’avrebbe costretta a fare nulla, perché era ancora troppo giovane per il talamo nuziale, ma lei lo interruppe, continuando a parlare.
- Siamo sposati da anni e io ho imparato a conoscerti bene e a provare un… affetto profondo nei tuoi confronti. Non ho paura di te, non più.
Anche mentre diceva quelle parole Zaron poteva vedere il timore adombrarle gli occhi, le strinse ancora di più le mani.
- Deja…
- Se tu volessi consumare finalmente il nostro matrimonio…io… Lo vorrei anch’io, Zaron.
Lei si era chinata su di lui, avvicinando i loro visi come per baciarlo sulle labbra e Zaron era scattato in piedi, allontanandosi di qualche passo. Deja si era impietrita, gli occhi sgranati dalla sorpresa.
- No, Deja. Non devi, non sei costretta a…
Le aveva poggiato una mano sui capelli, carezzandole la testa, cercando di tranquillizzarla e confortarla.
- Non pretendo che tu sia pronta solo perché adesso hai quindici anni. Sei praticamente ancora una bambina, mia piccola cara. È presto.
Lei aveva guardato fisso difronte a sé, il volto pallido paralizzato dall’incredulità e poi i suoi occhi avevano cominciato a riempirsi di lacrime.
- Non mi vuoi?
Aveva chiesto con un filo di voce, mentre le lacrime cominciavano a solcarle le gote.
- Perché non mi vuoi?
Aveva ripetuto con un singhiozzo angosciato. Zaron non sapeva cosa fare, non sapeva cosa dire.
- Ma Deja…! Sei solo una ragazzina, lo sai che io non tocco le ragazzine, non potrei mai volerti…
Prima che potesse finire la frase lei era scattata in piedi con un urlo, sollevando un braccio e colpendolo al petto.
- Ma vuoi lei, vero? Tu ami solo lei, vero?
Zaron l’aveva guardata completamente confuso e la mente gli era tornata al loro litigio, a Issa, quando Perla aveva detto che Deja era stata gelosa di lei perché infatuata di lui.
- Di cosa parli? Ti riferisci a Perla?
Sentendo nominare la concubina i singhiozzi di Deja si erano fatti più violenti e profondi.
- Allora è vero: tu la ami!
Zaron si era coperto il viso con le mani, non riuscendo a capire come il discorso potesse essere andato a finire sui suoi sentimenti per Perla. Tuttavia doveva dire qualcosa, lei si era lasciata ricadere sul bordo del letto, era sempre più isterica e piangeva così forte che le mancava il fiato. Si era seduto e l’aveva attirata contro il proprio petto. Lei era stata rigida inizialmente, ma poi aveva accettato il suo conforto, aggrappandosi a lui e nascondendo il viso contro il suo collo.
- Ascoltami Deja, ascoltami bene. Io amo Perla. Così come amo Cara e Mira e Oscia e anche Tallia, nonostante litighiamo in continuazione. Perla è la mia più cara e vecchia amica ma…
Aveva esitato, cercando di trovare parole che lei avrebbe compreso.
- Ma non sono innamorato di lei. Lo sono stato, in gioventù, ma il sentimento che provo ora per Perla è… diverso, meno intenso e non prevede il legame unico e speciale che tu sembri credere che ci sia.
- Non capisco…
Aveva ammesso Deja, che si era in parte calmata.
- Lo so che non riesci a capire.
Aveva detto lui, con tono indulgente, stringendola forte e baciandole la tempia.
- Questo perché sei giovane, così giovane ancora, Deja. Non avere fretta: sarai pronta quando sarai pronta e non un attimo prima. Io non ti forzerò in alcun modo.
Lei aveva emesso un gemito frustrato, ma poi si era rilassata tra le sue braccia, continuando a piangere silenziosamente. Zaron l’aveva cullata per un po’, insoddisfatto dalla propria incapacità di confortarla e di cancellare ogni suo dubbio. Alla fine lei si era sciolta dal suo abbraccio ed era andata a cambiarsi in sala da bagno. Non era felice però, qualcosa ancora la turbava e Zaron non riusciva a farsi dire cosa. Quella notte Deja si addormentò piangendo, Zaron cercò di toccarla sulla spalla, per offrirle conforto, ma lei si irrigidì e quando lui ritirò la mano, scoraggiato, lei pianse ancora più forte.
Da quel giorno Deja era sempre apparsa infelice e Zaron si era sentito impotente difronte alla propria incapacità ad aiutarla. Avrebbe voluto che le cose tornassero a com’erano prima, a quando lei aveva avuto dodici anni e il loro rapporto era stato semplice, quando lui non aveva avuto bisogno di ripetersi in continuazione che lei era solo una ragazzina, troppo giovane per lui, quando l’aveva considerata una bambina graziosa e la sua vicinanza tra le lenzuola non l’aveva mai turbato.
Alla fine si era arreso e aveva cercato il consiglio di Perla. Lei si era strattonata i capelli, in un inusuale dimostrazione di frustrazione e gli aveva dato dell’idiota. Questa volta però Zaron si era arrabbiato e avevano finito per litigare.
- Si può sapere cosa volete da me?
Aveva tuonato.
- Lei ha solo quindici anni, Perla, quindici! E io ne ho trentanove! È piccola ancora.
Lei aveva socchiuso gli occhi, sibilando rabbiosa.
- Sapevi qual era la differenza d’età quando l’hai sposata. Sapevi di essere ventiquattro anni più vecchio di lei, e questa distacco non si colmerà mai, Zaron: sarai sempre di ventiquattro anni più vecchio di lei. Aspettando la distanza che vi separa non si accorcerà magicamente!
- Ma lei sarà più vecchia.
Aveva continuato lui, cocciutamente.
- Adesso è ancora una ragazzina, non è pronta.
- A cosa non è pronta, Zaron? A te? Nessuna fanciulla è pronta, il momento in cui si concede a un uomo per la prima volta è sempre velato di paura perché l’ignoto suscita timore. Sei stato paziente e hai aspettato che maturasse, quanto ancora hai intenzione di aspettare? Che le vengano i capelli bianchi come a me?
Zaron con un grido inarticolato diede un calcio a una sedia, rovesciandola. Perla sobbalzò ansimando di sorpresa: lui non era mai aggressivo davanti a lei. L’uomo sembrò rendersi conto di aver superato il limite, raddrizzò la sedia e vi si accasciò, con espressione sconfitta.
- Cosa volete da me?
Ripeté con tono sfinito. Perla gli carezzò il capo, sussurrandogli le proprie scuse per averlo fatto adirare.
- Sei sicuro di non essere tu quello che non è ancora pronto?
Gli aveva chiesto, affondando le dita nei capelli corti dell’amante mentre lui l’attirava in grembo e poggiava il capo sul suo seno.
- Non posso Perla… la mia coscienza…
Aveva mormorato senza guardarla. Lei aveva sorriso, cingendogli le spalle, perché lui aveva detto che non poteva, non che non voleva.
- Sii sincero con me Zaron. In confidenza, cosa provi per lei?
Aveva sussurrato la domanda, sperando che lui avrebbe accettato di confidarsi e non si sarebbe chiuso in sé stesso.
- In confidenza? Non … non lo dirai a nessuno?
- Nessuno, solo io e te. Non posso aiutarti se non so cosa vuoi.
- Io…
Aveva ammesso lui, con la voce roca e bassa di chi confessa un terribile delitto.
- Io la voglio, Perla. Averla al mio fianco di notte è… una tortura. La desidero e… me ne vergogno.
La mano di lui si strinse spasmodicamente sul fianco della donna.
- A volte penso a lei quando giaccio con voi. Cerco di non farlo ma non ci riesco, l’immagine di lei si sovrappone a quella della donna con cui sono. Il ricordo della mattina dopo il nostro matrimonio, quando le ho lasciato quel livido sul collo, i gemiti che ha fatto… mi chiedo come sarebbero adesso, se la baciassi così di nuovo, se la toccassi dove non devo. È disgustoso, io sono disgustoso…
- No, Zaron, no…
Aveva cercato di consolarlo.
- Non sei disgustoso e il tuo desiderio non è disgustoso. Deja non è più una bambina ma se a livello fisico te ne sei accorto, a livello mentale ancora non vuoi accettarlo, perché?
E alla fine, con un gemito soffocato di vergogna, la verità era venuta a galla.
- Io non sono mio padre…
La donna si era raggelata. Sapeva che Zaron era rimasto profondamente turbato dall’apparente preferenza del suo genitore naturale per le ragazzine giovanissime, ma forse non si era mai resa conto di quanto lui ne fosse stato colpito.
- Certo che non sei lui!
- Ma... Deja ha solo un anno più di mia madre quando lui… Hai visto anche tu com’erano le sue concubine. Non potrei tollerare che la mia Deja avesse la stessa espressione smarrita e spenta. Non per colpa mia, non perché io non sono riuscito a frenare la mia lussuria. È presto.
Aveva ribadito ringhiando, con determinazione.
- Quindici anni è troppo presto.
Difronte a tale, indomita volontà, Perla aveva dovuto lasciar cadere l’argomento. Zaron non era semplicemente pronto ad affrontare una relazione fisica con sua moglie, se Perla avesse insistito, se Deja avesse cercato di forzargli la mano, il risultato poteva essere positivo, oppure poteva essere un disastro, con uno dei rari e incontrollati scoppi di violenza di Zaron, che avrebbe potuto spingerlo a fare qualcosa di imperdonabile. 
Pela non aveva più sollevato l’argomento né ne aveva parlato con Tallia o Deja e aveva dovuto aspettare, come la regina, che il tempo scorresse e che il passare dei mesi la facesse maturare a sufficienza per i canoni di suo marito.

 
* “Solo perché puoi non vuol dire che devi”: anni fa sono stata in Inghilterra e mi sono presa un libro da leggere in aereo, tale “Acheron” di Sherrilyn Kenyon e per mia enorme sorpresa mi sono ritrovata tra le mani un libro di vampiri e dei dell’Olimpo. Poi ho scoperto che quello che avevo comprato era l’ultimo di una lunga serie, ma che i libri essendo autoconclusivi potevano essere letti singolarmente. Acheron, che è il capo dei cacciatori, all’insaputa dei suoi compagni è anche una divinità infernale ma a causa della vita da mortale che aveva vissuto (in cui aveva subito terribili abusi) aveva sviluppato questo motto: solo perché hai il potere, la forza di fare qualcosa, non vuol dire che tu la debba fare (anche se sei un dio che può scatenare l’apocalisse quando vuole non vuol dire che lo farai solo perché ti girano). Una nota infinita per spiegare da dove viene il titolo. Scusate.
 
NOTE DELL’AUTRICE: E finalmente Deja e Zaron hanno avuto la discussione che avrebbero dovuto avere al capitolo II…Anche se non avevo avuto intenzione di tirar fuori dal cassetto la pedofilia del padre di Zaron, mi è semplicemente… venuto. Ho bisogno di sapere se da questo capitolo si capisce che Zaron si sta innamorando di Deja senza rendersene conto e che la sua reazione fisica a lei è legata al suo coinvolgimento emotivo, e non viceversa. È importante sapere per me se sono riuscita a dare il giusto messaggio, perché non sono sicura di esserci riuscita.
 

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Capitolo 5
*** Sciegleire di desiderare ciò che non si vole ***


V. SCIEGLIERE DI DESIDERARE CIÒ CHE NON SI VUOLE

 
 
Il rifiuto di Zaron aveva profondamene ferito Deja. Dopo quel disastro era stata lieta di non essere riuscita a trovare il coraggio per confidargli i suoi veri sentimenti: se gli avesse detto di essere innamorata di lui e lui avesse sminuito il suo amore, facendosi scudo della sua giovane età per minimizzarlo, Deja ne sarebbe stata devastata. Così almeno aveva conservato le briciole del suo orgoglio e della sua dignità, trovando la forza di andare avanti e continuare come se nulla fosse accaduto. Ma con una persona si era confidata, finalmente era riuscita a confessare tutto il suo turbamento e i suoi desideri repressi a qualcuno e questa persona era stata, sorprendentemente, Tallia.
Al ritorno dagli appartamenti di Zaron Deja si era mossa come un cadavere animato ma una volta attraversate le porte dell’harem non era riuscita a mettere un freno alla sua tristezza ed era scoppiata nuovamente a piangere, coprendosi il viso con le mani e scappando nei suoi appartamenti, mandando via Larissa e le altre domestiche. Tallia era entrata a forza, scostando a gomitate la sua ancella e si era richiusa la porta alle spalle, chiudendo fuori le proteste della ragazza prima di marciare con passo determinato fino a Deja che singhiozzava riversa nel letto. Con mano tremante l’aveva fatta voltare verso di sé.
- Deja, dimmi cos’è successo.
Lei aveva scosso il capo, non sapendo da che parte iniziare.
- Ti prego, dimmi: Zaron ti ha fatto del male?
La ragazza aveva smesso subito di piangere, sconvolta dalla domanda, che dopo anni si ripresentava.
- No!
Aveva negato con veemenza e la donna si era quasi piegata in due dal sollievo.
- Come puoi pensare una cosa simile, Tallia?
Poi Deja era scoppiata nuovamente a piangere e aveva sbottato in preda alla disperazione e all’incomprensione.
- È l’esatto opposto: piango perché lui non mi vuole!
- Cosa intendi dire?
Aveva voluto sapere la concubina, carezzandole i capelli.
- Come fai a sapere che non ti vuole?
- Gli ho detto che sono pronta a… a consumare il matrimonio, che non ho paura e sai cos’ha fatto lui? Mi ha dato una pacchetta sulla testa, come se fossi ancora una bambina e mi ha detto che sono troppo giovane. Io… io volevo farlo, davvero: volevo lui; sogno la sua bocca, di essere baciata da lui, desidero le sue mani su di me, volevo che finalmente mi vedesse e mi trattasse come una donna e invece… Sono brutta, Tallia? Perché mio marito non mi vuole?
La concubina aveva sbattuto le palpebre per la sorpresa.
- Non sei brutta Deja, cosa dici?
- Guardami!
Si era lamentata la ragazza.
- Sono piatta e non ho fianchi… Voi siete così belle… Come potrò mai interessargli io? Ci credo che mi reputa ancora una bambina: ho ancora il corpo di una bambina!
Tallia l’aveva presa con forza per i polsi, avvicinando i loro visi.
- Ti sto guardando,
Aveva detto con fiera serietà, catturando l’attenzione della ragazza che aveva smesso di piangere, trattenendo il fiato.
- E sai cosa vedo? Una bellissima giovane donna. Hai occhi azzurri come il cielo prima dell’alba, chiari e puri, un viso dotato di lineamenti delicati, pelle chiara e perfetta, persino le tue lentiggini sono attraenti e non vedo perché un uomo non dovrebbe volerle contare, baciandole una a una.
Le baciò le guance, asciugandole le lacrime.
- Hai labbra carnose dalla linea sensuale, del colore del corallo che aspettano solo il loro primo bacio da un’amante.
Le sfiorò il labbro inferiore con la punta dell’indice.
- Quando arrossisci le tue guance si tingono del più delicato rosa immaginabile… Dovresti arrossire sempre per deliziarci tutti con la perfezione del tuo incarnato.
Come a comando Deja arrossì. Le parole di Tallia la lusingavano e la turbavano: quanto avrebbe voluto che fosse Zaron a dirgliele!
- E poi passiamo al tuo corpo, che tu definisci infantile,
Le lasciò le mani e le sbottonò il blouse, aprendolo sul davanti.
- Hai un seno perfetto, pallido e sodo, capezzoli piccoli e chiari, la mano di un uomo lo coprirebbe interamente… Zaron ancora non l’ha visto Deja, pensa al suo stupore davanti a tale spettacolo, sono sicura che le sue dita tremerebbero dal desiderio di toccarlo.
Il dito di Tallia scivolò dal suo mento allo sterno, passò in mezzo ai seni e le solleticò l’addome fino all’ombelico.
- Hai una pelle bellissima, così morbida…
La mano di Tallia si poggiò sul suo ginocchio, scostando la gonna e scoprendo i pantaloni.
- Vogliamo parlare delle tue gambe? Hai gambe aggraziate, dritte e lunghe come quelle di una gazzella… Zaron è uno sciocco se non desidera accarezzarle.
La mano di Tallia risalì fino a metà coscia e il sorriso della concubina si addolcì, pieno di affetto e tenerezza*.
- Non c’è niente di brutto in te. E se Zaron non ti vuole allora è attratto solo dagli uomini e la presenza mia e delle altre concubine, nonché l’esistenza delle nostre figlie, dovrebbero dirti che non è così. Non so perché ti abbia rifiutata, Zaron sa essere esasperatamente complicato per essere un uomo, ma ti assicuro che non è colpa tua o del tuo aspetto.
La donna l’abbracciò con calore e le baciò la fronte.
- Grazie Tallia.
Sussurrò con un filo di voce la regina.
- Ho detto solo la verità, lo sai che non mi faccio problemi in merito e che non mento per accontentare nessuno. Vuoi che vada da lui e gliene dica quattro?
- No,
Disse Deja, poggiandole il capo sulla spalla.
- Va bene così.
Quella notte Deja ripercorse il tragitto fatto dalle mani di Tallia, pensando nuovamente alle sue parole, immaginando che l’impressione lasciata dalle mani della concubina fosse il tocco di suo marito, figurandosi dietro le palpebre serrata il suo viso e i suoi occhi, sgranati e pieni di desiderio difronte alla sua nudità, proprio come Tallia aveva suggerito. Finalmente riuscì a giungere dove non era mai arrivata prima e fu strano ed esaltante e struggente e dopo, mentre il respiro le tornava lentamente regolare e il cuore le si calmava in petto, una lacrima solitaria le scivolò sul cuscino. Quando lui l’avrebbe toccata nello stesso modo?
 
Intanto a corte cominciavano a circolare voci: le nobili signore rakiane guardavano con insistenza l’addome della regina, discutendo se si fosse ingrossato o meno, aspettando con impazienza l’annuncio della prima gravidanza della sovrana. Annuncio che non arrivava e che non poteva arrivare perché il matrimonio era ancora solo di nome e l’imperatore doveva ancora prendere la sua sposa e farne una moglie. Cominciavano ad arrivare consigli non richiesti su come risolvere problemi derivanti dall’infertilità e Deja era costretta a stringere i denti e a far finta di non sentire; persino sua cognata, la principessa Sali, aveva discretamente consigliato alla regina di smettere di prendere l’infuso di silfio e Deja si era sentita sprofondare dallo sconforto: non era lei il problema, era Zaron a rifiutarla.
Deja era infelice, nervosa e frustrata e qualcun altro se ne era accorto, qualcuno che in quegli anni aveva vigilato su di lei, silenzioso e persistente: Ostin. L’uomo aveva avuto la stima e l’amicizia di re Aborn ed era stato incoraggiato a credere che un giorno avrebbe potuto avere la possibilità di corteggiare la principessa e conquistarne la mano. Nella sua mente quindi si era prefigurato tutto il suo futuro, una visione che non si era mai realizzata perché il khan di Rakon aveva preso con la forza il regno e strappato con un ricatto abominevole l’assenso alle nozze con la principessa. Khan Zaron gli aveva rubato il futuro e Ostin aveva a lungo covato un feroce rancore nei suoi riguardi. Il suo odio sarebbe stato validato se il suo rivale si fosse dimostrato il mostro che Ostin si era figurato, se la principessa, poi regina, avesse dimostrato di soffrire per il matrimonio impostole, se avesse dimostrato di temere suo marito o recato segni evidenti di abusi e maltrattamenti. Ostin allora avrebbe potuto vivere meglio con sé stesso, perché il suo desiderio di salvare Deja da quel matrimonio sarebbe stato giustificato. Lei invece sembrava trovarsi a suo agio con quello che a rigor di logica avrebbe dovuto essere il suo aguzzino, il suo nemico, e il loro, dopo una partenza traballante, sembrava davvero un matrimonio felice. Ostin non riusciva a comprendere come fosse successo, come quel barbaro sanguinario avesse potuto sedurre in quel modo la principessa che avrebbe dovuto essere sua. A Ostin lei avrebbe dovuto sorridere, al suo braccio aggrapparsi, Ostin lei avrebbe dovuto chiamare marito. La cosa lo ossessionava e il fatto che Deja avesse sempre rifiutato i suoi sospetti sul carattere del marito difendendolo a oltranza, lo aveva spinto in un offeso isolamento. Aveva finito per accontentarsi di seguirla ovunque come un’ombra: invisibile e muta, ma sempre presente. Mentre tutti gli altri soldati che lo avevano seguito a Halanda stringevano amicizie e relazioni con la popolazione, passando nella Città Nuova il loro tempo libero, con amici e donne, Ostin non usciva praticamente mai dal Palazzo Reale, solo di notte, quando i cancelli si richiudevano e solo la servitù e le speciali guardie rakiane chiamate faliq rimanevano all’interno, Ostin si ritirava nei quartieri della guarnigione a dormire e ad allenarsi, divorato dal suo assillo. Non avendo praticamente una vita privata Ostin aveva conoscenze solo tra i suoi uomini e le guardie faliq con cui divideva il compito di guardare la regina. Il capitano Hikij, la sua controparte rakiana, un giovane con meno di trent’anni dal portamento fiero, un senso dell’umorismo particolare e espressivi occhi neri, era divenuto il suo unico amico e compagno di bevute. Quando Hikij gli aveva rivelato la natura della speciale divisione di cui faceva parte, Ostin era rimasto senza parole per la sorpresa e per un po’ aveva guardato con occhi diversi il suo amico, ma lui non gli era parso diverso, il suo portamento era sempre marziale e serio e sembrava ancora lo stesso uomo che aveva imparato ad apprezzare e con cui aveva stretto amicizia. Tuttavia era pur sempre un rakiano e non gli aveva mai lasciato intendere il tarlo che lo divorava.
Ostin aveva dunque trascorso tre anni a guardare la sua regina trasformarsi dalla ragazzina che aveva conosciuto e con cui aveva sempre liberamente conversato in una giovane donna molto bella che non gli rivolgeva mai più di uno sguardo sfuggevole o una parola di circostanza. Quando finalmente il rapporto tra lei e suo marito sembrò incrinarsi, con Deja che diveniva infelice in sua presenza e il khan che pareva frustrato e preoccupato, Ostin ritenne che fosse venuto il suo momento, che forse lei ora avrebbe ascoltato e compreso la sua opposizione nei confronti di Zaron e magari sarebbe stata comprensiva e grata per le sue attenzioni. Gratitudine e affetto era quello che Ostin sperava di ottenere da lei e la conferma che il suo rancore nei confronti dell’imperatore fosse motivato. Non aveva avuto intenzione di farle del male e mai avrebbe immaginato quanto profondamente stesse errando nei suoi intendimenti o la reazione violentemente negativa di lei al suo proporsi come alternativa al marito.
Aveva atteso pazientemente, come ormai era divenuta sua abitudine, che il momento propizio si presentasse, aveva atteso anni, cos’erano poche settimane? Gli unici momenti in cui lei era alla sua portata era quando si occupava della gestione in remoto del governo di Issa, spesso rimanendo sola a contemplare i rapporti che le venivano dalla capitale e a riflettere, dopo che i rappresentanti del consiglio la lasciavano. Due guardie issiane rimanevano sempre con lei e due guardie rakiane vigilavano all’esterno. Fu in una di queste occasioni che Ostin decise di poter finalmente esternare i suoi veri sentimenti per lei: le chiese un colloquio privato e Deja ordinò all’altra guardia di attendere fuori.
- Di cosa volevi parlarmi?
Lei pareva stanca, non come quando era stata malata, ma sfinita emotivamente.
- Mia signora, mi è profondamente penoso vedervi soffrire così.
Lei parve interdetta e si alzò dalla scrivania, poggiando le mani sulla superficie del tavolo, tra i documenti e i suoi appunti.
- Di cosa parli?
Ostin si era fatto avanti, lasciando la sua postazione vicino alla porta, finché solo la scrivania li divise.
- Siete infelice, mia signora. Lui vi rende infelice.
La regina si era coperta gli occhi, emettendo un gemito frustrato che Ostin interpretò come disperato. Con passo leggero girò intorno al tavolo finché non le fu innanzi, senza nessun ostacolo tra di loro. Quando lei abbassò le mani corrugò la fronte vedendolo così vicino.
- Ciò che accade tra me e mio marito non sono affari tuoi. Ti ringrazio per la tua sollecitudine ma non è necessaria. Procede tutto bene.
- Questa è una bugia Deja e lo sai.
Aveva sussurrato lui e la regina aveva sobbalzato, ansimando di sorpresa. Ostin aveva sorriso debolmente.
- Ti ricordi quando eravamo a Issa, quando mi avevi concesso l’uso del tuo nome? Ti trovavi bene con me, dicevi che ero divertente. Ti piaceva la mia compagnia.
Lei aveva fatto un passo indietro, quasi inciampando nella sedia e Ostin si era velocemente allungato verso di lei e l’aveva retta, prendendole le braccia.
- Cosa fai? Lasciami andare, immediatamente!
Aveva sussurrato la regina, sollevando le mani come per spingerlo via.
- Non lo pensi veramente…
Aveva replicato lui con tono disperato.
- Noi eravamo amici, ti fidavi di me, prima che quel maledetto bastardo rovinasse tutto. Lo sapevi? Non è neanche il figlio legittimo del khan precedente, sua madre era una concubina d’infima estrazione sociale. Non è degno neppure di guardarti, figuriamoci toccarti!
Lei era impallidita alle sue parole e, incoraggiato, Ostin si fece più temerario.
- Il modo abominevole in cui ti ha trattata, usandoti violenza quando eri solo una bambina… Come fai a stare al suo fianco senza tremare di disgusto?
Lei si era imporporata e aveva ripetuto, senza alzare la voce e in tono soffocato.
- Lasciami. Ora!
Aveva cercato di divincolarsi e Ostin aveva dovuto stringere con forza le sue braccia, scuotendola per farla calmare.
- Smettila di agitarti così, io sono dalla tua parte, non lo capisci? Io ti amo!
Gli occhi di lei si erano fatti enormi e sbarrati e aveva spalancato la bocca per la sorpresa e a Ostin era parso un invito a baciarla.
Si era chinato su di lei e aveva poggiato le proprie labbra sulle sue, chiudendo gli occhi per assaporare il momento. Quello era il suo primo bacio e, anche se le circostanze non erano quelle che aveva sempre immaginato era… piacevole, anche se leggermente deludente, per la manciata di secondi in cui durò, prima che lei approfittasse della loro vicinanza per affondargli le unghie della mano destra nella guancia e contemporaneamente cercare di colpirlo all’inguine con un ginocchio. La lasciò andare di colpo, spingendola indietro, facendola davvero inciampare sulla sedia e cadere a terra con un tonfo.
Si udì un leggero bussare e la voce di una guardia che chiedeva se andava tutto bene.
- Non è nulla!
Si affrettò a replicare ad alta voce la regina, rialzandosi con l’aiuto del tavolo. Poi si rivolse a Ostin con occhi furiosi e sibilando minacciosa.
- Fuori di qui e non comparire mai più in mia presenza! Ti consiglio vivamente di partire oggi stesso, prima del tramonto, e di fare immediatamente ritorno a Issa. Non so che follia ti abbia preso, ma per l’amicizia che un tempo ci legava ti do la possibilità di salvarti. Io amo mio marito e tu sei quello che mi disgusta.
Poi alzò la voce, urlando.
- Sparisci! Fuori di qui!
Ostin non se lo fece ripetere e abbandonò lo studio in tutta fretta, passando difronte al suo compagno issiano profondamente stupito e alle guardie rakiane che lo fulminarono con lo sguardo. Temendo la reazione del khan al suo gesto, fece in fretta i bagagli e abbandonò la capitale neanche due ore dopo la sua discussione con la regina, fermandosi appena il tempo per conferire l’incarico al suo sostituto e per salutare Hikij.
- Te ne vai?
Aveva chiesto incredulo il suo amico. Poi il rakiano aveva notato il graffio sulla guancia che bruciava come il suo orgoglio ferito.
- Cos’hai fatto Ostin?
Gli chiese con un sussurro.
- Un errore di valutazione, amico mio. Un grosso errore.
Replicò amareggiato l’issiano. Hikij gli poggiò una mano sulla spalla.
- Un errore a cui non puoi rimediare?
Ostin si passò le dita tra i capelli prima di confidarsi, tra le lacrime.
- È la regina… Io… Prima che khan Zaron la sposasse, avevo pensato che lei avrebbe sposato me, un giorno. Per tutto questo tempo ho sempre pensato a lei e ho invano sognato il futuro che mi era stato negato. L’ho accostata, oggi…
La mano di Hikij si strinse convulsamente sulla sua spalla mentre il viso gli si riempiva d’orrore.
- Dimmi che non hai osato toccarla…
Sussurrò con un filo di voce.
- Lei non ha gradito.
Ammise Ostin, piegando il capo.
- Mi ha detto che non vuole mai più vedermi, che ama lui e che sono stato un folle. E… forse ha ragione… L’ho baciata, pensando, pensando… Non ho provato nulla! Niente! Pensavo di volerla, pensavo d’amarla ma…
Hikij gli prese il viso tra le mani, scuotendolo in preda all’ira.
- Idiota! Pazzo suicida! Doppiamente pazzo per aver confessato a me il tuo crimine. Dovrei ucciderti, sarebbe la cosa più pietosa da fare, perché se il khan dovesse prenderti… Ma sei mio amico e io… io ti amo.
Lo baciò, con passione e disperazione e poi lo spinse verso la porta e Ostin incespicò, sconvolto dall’emozione che l’aveva colto a quel bacio e dalle lacrime che ora solcavano il viso del rakiano.
- Fa’ come ti ha detto la regina: fuggi, veloce e lontano…
 
Dopo lo spaventoso scontro con Ostin, Deja si era ritirata nei suoi appartamenti, dicendo che voleva restare da sola. La rabbia l’aveva sostenuta per tutta la mattina ma poi era stata colta dalla disperazione: Ostin le aveva portato via qualcosa di molto prezioso, senza saperlo le aveva rubato il suo primo bacio, quello che lei custodiva pazientemente per suo marito. Si era lavata il viso, in preda ai singhiozzi, grattandosi le labbra, sentendosi crudelmente defraudata e inspiegabilmente violata, tradita da qualcuno di cui aveva sempre pensato di potersi fidare. Poi, con il calare della sera la rabbia era tornata, non verso Ostin ma nei confronti di Zaron. Se lui non l’avesse respinta ora lei non si sarebbe sentita così e il suo primo bacio sarebbe stato donato all’uomo che amava e non carpito da Ostin. Tremante di rabbia aveva chiesto a Perla di poter avere un colloquio con suo marito quella notte, prima che la concubina andasse da lui.
Aveva atteso il suo ritorno negli appartamenti di Zaron, camminando su e giù, senza posa, nel suo salottino. Lui era stato sorpreso di trovarla lì e le si era avvicinato con espressione preoccupata.
- Mia piccola cara, cosa succede? Ti vedo turbata.
Deja era esplosa.
- Turbata è dire poco! Non hai idea di cosa mi sia successo oggi, ed è colpa tua!
Zaron fu preso alla sprovvista dalle sue parole e poi si allarmò.
- Dimmi cosa ti è capitato.
- Lord Ostin, ecco cosa è successo! Un altro ha preso ciò che avrebbe dovuto essere tuo ma che tu non vuoi!
La voce di Deja si era fatta acuta e Zaron trasalì come se lei lo avesse colpito, poi il suo viso si contorse in una maschera di rabbia. In due passi le fu vicino e l’afferrò per le braccia, dove l’aveva stretta Ostin quel mattino, strappandole un urlo di dolore perché le mani dell’issiano si erano lasciate dietro dei lividi che lei aveva coperto optando per un abito rakiano che con il blouse le nascondeva le ecchimosi scure. Zaron ignorò il suo grido, attirandosela vicino e sibilandole in faccia.
- Cosa vuoi dire? Spiegati in fretta, prima che io perda la poca pazienza di cui al momento dispongo.
Deja era impallidita, non aspettandosi una simile reazione, ma poi aveva replicato con eguale furia.
- Ostin ha pensato che ci fossero dei problemi tra di noi, ha pensato di potersi fare avanti con me, che avrei accolto le sue attenzioni…
L’ira l’abbandonò, lasciandosi dietro solo la desolazione del tradimento e lo sconforto della delusione. Singhiozzò e si mise a piangere.
- Mi ha baciata, mi ha baciata come tu non hai mai voluto fare… Mi sento, mi sento… come se mi avesse rubato qualcosa… Perché lui mi ha baciata e tu no?
La voce di Deja era debole, si aggrappò agli avambracci di Zaron, non aveva paura di lui, era solo terribilmente triste.
- Ti ha… baciata?
Replicò lui incredulo, lasciandola andare. Poi in un attimo la sua espressione si fece nuovamente cupa.
- E tu glielo hai lasciato fare?
- Lasciato fare?
Strillò lei.
- Cosa credi che sia capitato? Pensi che lo abbia incoraggiato?
Davanti al silenzio di lui Deja boccheggiò, sconvolta.
- Tu pensi… Tu osi credere… Lui mi teneva, mi ha lasciato dei lividi sulle braccia perché mi divincolavo, l’ho graffiato, l’ho colpito…
- Dov’erano le guardie?
Replicò lui, ancora furioso, ma guardandole ora le braccia, ricordando il dolore che lei aveva espresso quando lui l’aveva afferrata.
- Fuori dalla stanza! Ostin aveva chiesto di parlarmi privatamente, come potevo immaginare… lui è il capo delle mie guardie del corpo: avrebbe dovuto difendermi, non aggredirmi!
Ricominciò a piangere, proseguendo con tono infelice.
- Mi fidavo di lui… E sai una cosa? Ciò che mi ferisce di più non è il fatto che lui mi abbia baciato senza il mio consenso, ma che tu non lo abbia mai voluto fare… Pensavo che ci fosse qualcosa di sbagliato in me… Ma lui mi voleva, sei tu che non mi vuoi!
Zaron rovesciò indietro il capo e urlò di rabbia, allontanandosi da lei e cominciando a prendere a pugni il muro e a calci i mobili. Deja osservava muta quell’esplosione di violenza, finché non si quietò, divenendo immobile e spaventandola.
- Lo ucciderò.
Sussurrò lui, ansimando, senza guardarla.
- Lo sai qual è la pena per chi osa toccare la donna di un altro, per chi osa poggiare anche solo un dito sulla moglie del khan? Morte. Per il folle che osa tentare di fare violenza alla regina la pena è lo squartamento. Il condannato viene legato mani e piedi a quattro cavalli che poi vengono aizzati in direzioni diverse finché le sue gambe e le sue braccia non vengono strappate dal suo corpo. È molto tempo che questa pena non viene inflitta… Godrò molto nel vederlo morire, nell’udirlo urlare.
- No.
Si oppose con decisione Deja.
- Tu non farai una cosa del genere.
Zaron si voltò verso di lei, aveva le pupille dilatate e sembrava impazzito.
- No?
Le chiese con voce sommessa.
- E chi me lo impedirà, tu? Adesso che ci penso, perché non ne ho saputo nulla prima di adesso? Perché le guardie non sono accorse quando lui ti ha aggredita? Hai almeno urlato?
Deja cercò di calmarsi e di spiegargli il perché non avesse chiesto aiuto.
- Non ho urlato perché non volevo che le guardie accorressero.
Zaron si irrigidì, facendosi livido per la furia.
- Non per difendere Ostin, se è questo che pensi: l’ho fatto per difendere me stessa, per difendere noi!
Si giustificò Deja, battendosi un pugno contro il petto. Zaron tremava di rabbia.
- Spiegati.
Ringhiò a denti stretti.
- Come pensi che sarebbe parsa la cosa se loro avessero fatto irruzione e ci avessero visti? Le mani di Ostin su di me, le sue labbra sulle mie?
Zaron strizzò gli occhi, cercando di bandire quell’immagine dalla propria mente.
- La mia reputazione ne sarebbe uscita danneggiata per sempre. Se persino tu hai pensato che io lo abbia incoraggiato, se persino tu dubiti di me…
La voce di Deja si fece tremante.
- Pensa a cosa avrebbero creduto loro. Se tu adesso lo fai imprigionare e lo accusi di avermi aggredita tutti sapranno. Il mio onore ne uscirebbe infangato, anche se non è successo nulla. Ci sarà chi crederà che lui era il mio amante e che tu lo hai fatto giustiziare per gelosia, il sospetto non mi abbandonerà mai più e la gente crederà che se ti ho tradito una volta lo posso fare ancora e se avremo dei figli ci sarà chi li riterrà i bastardi di una mia relazione clandestina. È questo quello che vuoi per me, per noi?
L’ira di Zaron sembrò abbandonarlo tutto d’un tratto e lui ondeggiò, come se facesse fatica a mantenere l’equilibrio. Si lasciò cadere su una sedia, chinando il capo.
- Hai… ragione.
Ammise. Poi sollevò il capo e la guardò e Deja sobbalzò di sorpresa perché lui sembrava sconvolto dal dolore. Gli si avvicinò, esitante. Zaron le porse il palmo della mano e Deja vi depose la propria che poi lui si portò alle labbra tremanti.
- Mi dispiace… Io non dubito di te. Mi dispiace di averti accusata di averlo incoraggiato… Mi giuri che tra voi non c’è niente?
- Zaron…
Replicò Deja con voce soffocata.
- Come può esserci qualcosa tra me e un altro quando tu sei l’unico uomo che io amo?
Lui si paralizzò, sorpreso, prima di stringere convulsamente la mano, quasi stritolando quella di lei.
- Mi ami?
- Sì.
Ammise lei, semplicemente, poi si corresse, precisando in modo che non ci fossero fraintendimenti.
- Sono innamorata di te.
Lui la fissava muto e così Deja si fece coraggio e si chinò su di lui, poggiando la propria fronte contro la sua. I capelli le scivolarono dalle spalle, coprendo il petto di Zaron. Lui non diceva né faceva nulla e Deja avvicinò ancora di più i loro visi, sfiorando il suo naso con il proprio, poteva sentire il respiro affannoso di suo marito sul viso, sulle labbra. Lo baciò, tutta tremante.
Le labbra di Zaron erano diverse da quelle di Ostin: quando lui l’aveva baciata a forza quella mattina, Deja non aveva provato nulla se non indignazione e ribrezzo. Con Zaron era diverso, le sue labbra si poggiarono con dolcezza su quelle di lui, depositando un bacio leggero con cui cercava di comunicargli tutto l’amore che serbava in petto per lui. Poteva sentire la sua bocca, il contorno, la consistenza, era diversa dalla sua guancia, più morbida. Si staccò da lui sospirando contenta e riaprendo gli occhi che non sapeva di aver chiuso. Gli occhi di Zaron erano grandi e scuri difronte ai propri e improvvisamente le sue mani le incorniciarono il viso e lui l’attirò a sé, baciandola ancora, baciandola come Deja aveva sognato che lui facesse, inclinando il suo viso e aprendole la bocca con la lingua. Lei gemette, sorpresa ed emozionata. Zaron le lasciò il viso e le cinse la vita, attirandosela con forza in grembo, inconsapevolmente poggiando la mano sul livido al fianco che si era procurata sbattendo contro la sedia e cadendo quella mattina. Interruppe il bacio, con un sibilo di dolore.
- Cosa succede? Ti ho fatto male?
Le chiese lui, allarmato.
- No, mi fa male il fianco: ho un brutto livido, uno che si accompagna a quelli sulle braccia.
Si lamentò lei, senza pensare. Zaron si irrigidì nuovamente e Deja si rese conto che era nuovamente arrabbiato. Le toccò la gamba, stringendo e muovendo la mano fino a che non trovò il punto dolorante, strappando un altro lamento alla ragazza.
- Avevi detto che ti aveva solo baciata. Ti ha forse toccata da qualche altra parte?
L’atmosfera che si era venuta a creare con il bacio si infranse, Zaron aveva ricominciato a ringhiare e la stringeva con troppa forza.
- No! Sono caduta quando lui… L’ho colpito per liberarmi e lui mi ha spinta via e io sono caduta.
- Davvero? Fammi vedere.
Comandò lui, scostandole la gonna e infilando una mano nello spacco per toccarle i pantaloni.
Deja urlò nuovamente, indignata, e balzò in piedi, liberandosi dalla sua stretta. Lui l’afferrò per un polso, senza stringere ma impedendole di fuggire.
- No? Non vuoi? Beh almeno fammi vedere quelli sulle braccia…
Si alzò e allungò una mano e con un movimento rapido le sbottonò il primo bottone del blouse. Inorridita Deja si tirò indietro, torcendo il braccio per costringerlo a lasciarle il polso.
- No! Cosa fai?
Lei a lungo aveva voluto che lui la toccasse, aveva immaginato come sarebbe stato quando lui avrebbe finalmente mostrato il desiderio di denudarla, ma mai aveva pensato che le circostanze sarebbero state così strazianti. Lui era arrabbiato e Deja si chiese improvvisamente se il suo desiderio di vedere i lividi non nascondesse una motivazione che non aveva nulla a che spartire per la preoccupazione per la sua salute. Si allontanò da lui di qualche passo, guardandolo con occhi cauti, sospettosi.
- Perché ti interessa? Perché mi hai baciata? Perché volevi o…
Un orribile sospetto si fece strada in lei.
- Zaron,
Gli chiese con un filo di voce.
- Perché mi hai baciata? È stato perché volevi farlo o perché… perché lui l’aveva fatto prima di te? Per… sovrapporre il tuo bacio al suo?
Lui non rispose alla sua accusa e Deja si sentì… tradita, violata per la seconda volta quel giorno, solo che adesso la ferita era più profonda.
- Dove ti ha toccata?
Lui sputò quelle parole con rabbia.
- Fammi vedere dove!
Allungò una mano, per prenderla nuovamente, ma Deja gli sfuggì, balzando indietro.
- Ti ho appena detto che ti amo e tu non hai niente di meglio da dirmi?
Gli chiese, ricominciando a piangere e poi con un gemito che nasceva dal suo cuore spezzato fuggì dalle sue stanze, per rifugiarsi nell’harem. Subito Zaron si lanciò all’inseguimento. Deja spalancò le porte dell’appartamento del khan, precipitandosi in corridoio e poi entrando di corsa nell’ala femminile, tallonata da Zaron che gridava il suo nome.
Le sue urla attirarono l’attenzione delle concubine che si avvicinarono, allarmate. Deja marciava in lacrime per la zona comune e Zaron sbraitava alle sue spalle, intimandole di fermarsi e di rispondere alla sua domanda.
Le concubine li guardavano a bocca aperta ed Elina si mise a piangere perché non aveva mai visto il padre così arrabbiato. Oscia la prese in braccio e con una mano afferrò la manina di sua figlia.
- Andiamo bambine, venite con me, anche tu Kirsis.
E le portò via, nei propri appartamenti per calmarle. Perla si fece avanti, mettendosi sulla strada dell’uomo, cercando di prenderlo per un braccio.
- Zaron, fermati! Cosa succede?
Lui con un verso di rabbia la spinse via con violenza, facendola finire addosso a Cara.
- Ci penso io.
Le disse cupamente Tallia, poggiandole una mano sulla spalla e poi seguì Zaron e Deja.
La regina si era rifugiata nei suoi appartamenti e Zaron l’aveva seguita, fermandosi solo davanti alla porta della sua camera da letto quando questa gli fu sbattuta in faccia. Lui la colpì con un pugno, facendo tremare il battente. Era folle di rabbia e gelosia ma una parte di lui manteneva ancora il controllo, quella parte che gli aveva fatto mantenere la promessa fatta a Issa di non alzare mai la mano contro di lei, di non farle mai più pensare che lui l’avrebbe colpita. Per questo non si intromise a forza nel suo ultimo rifugio: sarebbe stata una violazione imperdonabile delle sue difese. Già Zaron, attraverso la nebbia rossa della furia che l’aveva colto, sapeva di aver piegato il limite della fiducia di lei, toccandola senza il suo permesso, cercando di toglierle i vestiti quando lei era vulnerabile e aveva avuto bisogno di semplice conforto. Urlò il nome di Deja e sollevò il pugno per colpire nuovamente la porta, ma tra la sua mano e il battente si insinuò Tallia.
La donna si appoggiò con la schiena alla porta e allargò le braccia, guardandolo con sfida.
- Coraggio, abbassa pure quel pugno se ci riesci, colpisci me se vuoi, ma non toccherai lei!
Zaron si scostò in fretta dalla concubina, abbassando il braccio e scuotendo il capo. Mai aveva colpito Tallia, né un’altra donna.
- No, io… Togliti Tallia!
- No! Tu non la toccherai, non quando sei così. Sfogati su di me Zaron, se hai bisogno. Lo sai che sono qui per questo.
Zaron sentì la bile risalirgli in gola. Era quella l’impressione che aveva dato? Ansimando si guardò intorno: era dentro le stanze di sua moglie, non invitato. Con un gemito ricordò di come avesse spintonato Perla, senza cura alcuna, accecato dal suo bisogno di raggiungere Deja.
Tallia si staccò dalla porta e avanzò con un sorriso storto.
- So di cosa hai bisogno, Zaron.
Sussurrò ammiccante. Gli si premette contro, portandosi la mano di lui al petto.
- Vieni nelle mie stanze, dopo sarai più calmo…
Lui ritirò la mano, come se la sua pelle bruciasse.
- No.
La rifiutò con voce roca. Lei rise sprezzante e lo accarezzò senza vergogna salvo poi bloccarsi con un’espressione stupita sul viso. Ogni volta che litigavano, ogni volta che la sua passione veniva scatenata in modo così violento, Zaron non mancava mai di eccitarsi. Ora non era eccitato e si allontanò da lei ulteriormente, afferrandole il polso della mano che lo toccava e scuotendo il capo.
- Non questa volta Tallia.
- Non capisco…
Disse lei con voce sottile ed espressione persa.
- Neanche io…
Ammise lui, confuso. Per la prima volta Tallia lo aveva calmato senza dover prima litigare. Lei aveva temuto che si sarebbe scagliato contro sua moglie, scaricando su di lei la violenza che solitamente scaricava sulla concubina e Zaron improvvisamente capì che per tutti quegli anni, quando usava il corpo di Tallia per sfogare la sua frustrazione, pensando che fosse ciò che anche lei volesse, in realtà aveva commesso quell’abuso che si era sempre ripromesso di non fare, aveva superato quel limite che era sempre stato così orgoglioso di non aver mai valicato. Cadde in ginocchio, sconvolto. La guardò e non vide una donna forte e dura, che amava essere aggressiva e volgare, ma una donna fragile e confusa, spaventata.
- Mi dispiace, Tallia. Mi dispiace…
Si coprì il viso, gemendo.
- Mi dispiace…!
- Zaron…?
- Non entrerò nella camera di Deja, Tallia. Non le farò del male. Mai le farei ciò che ho fatto a te. Mi dispiace così tanto. Non meriti di avere solo violenza da me, non l’hai mai meritato. Ti giuro che non scaricherò mai più su di te la mia rabbia. Sei una persona e io ti ho trattata come se tu fossi un manichino d’addestramento, da infilzare ogniqualvolta avevo bisogno di sciogliere la tensione.
Tallia tremava.
- Non dire sciocchezze, Zaron. Lo sai che a me va bene così, lo sai che mi piace.
- Non dire tu sciocchezze! A nessuno piace essere trattato come un’oggetto senza sentimenti e a te non piace quando ti faccio male e ti copro di lividi! Lo so, c’è differenza quando ti tratto con dolcezza, non provi piacere quando sono aggressivo con te, mai!
Guardò con aria angosciata la porta di sua moglie, la sua piccola cara, che aveva trattato in modo ignobile, un’altra volta.
- Ti prego, dille che mi dispiace. Implorala di perdonarmi, se ci riesce. Dille… dille che le credo, che non è stata colpa sua. Mi dispiace tanto.
Poi si rialzò e uscì dalle stanze di Deja e tornò nelle proprie. Incrociò Perla e le altre e non riuscì a guardarle in faccia. Si fermò un attimo soltanto, per scusarsi con la sua amica e per dire loro che voleva restare solo quella notte. Poi tornò nelle sue stanze, a riflettere sul suo comportamento.


*Tallia non è lesbica, né bisessuale, non sta cercando di sedurre Deja né è attratta da lei. Sta cercando di darle un’infusione di autostima nel solo modo che conosce. Ma se qualcuno vuole vederci un pizzico di desiderio… chi lo sa, magari, dopotutto, un po’ attratta da lei lo è…;-)

 
NOTE DELL’AUTRICE: Oddio che capitolo… Avevo i sudori a scriverlo… Prima Tallia e Deja e poi Ostin e Deja (e sì: la ragione per cui Ostin non ha provato niente baciando Deja è perché prova qualcosa per Hikij). E Zaron… Stava per calmarsi ma ho dovuto farlo arrabbiare di nuovo perché doveva avere quel confronto con Tallia, doveva capire che il suo comportamento non era accettabile. Come vi avevo anticipato, questa è stata la volta in cui le ha detto no.

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Capitolo 6
*** Ad ogni azione ***


VI. AD OGNI AZIONE*

 
 
Deja aveva sentito Zaron e Tallia litigare, poi il silenzio e un bussare incerto accompagnato dalla voce della concubina.
- Entra: è aperto.
Aveva risposto lei, con la voce gonfia di lacrime. Tallia era entrata esitando.
- Lui è andato via.
Le aveva confermato con voce sommessa e Deja aveva nascosto il viso sul cuscino che teneva stretto tra le braccia.
- Cos’è successo Deja? E non dirmi che non è successo nulla, perché non l’ho mai visto così e io l’ho visto arrabbiato più spesso di chiunque.
Senza dire nulla la ragazza aveva finito di sbottonarsi l’abito e si era tolta il blouse, mostrando alla donna i lividi scuri che le deturpavano le braccia e che avevano la forma di palmi e dita maschili.
- Ti ha fatto lui una cosa simile?
Chiese la concubina con occhi sgranati.
- No, ed è questo il motivo della sua rabbia.
Aveva detto Deja con un filo di voce. Tallia si era seduta sul letto con lei.
- Dimmi tutto.
Le aveva intimato con allarmata preoccupazione e Deja si era morso il labbro per imporsi di smettere di piangere.
- Questa mattina, una delle mie guardie del corpo, che conosco da anni, da prima della conquista di Issa da parte di Zaron… Lui mi ha avvicinato. Non immaginavo cosa volesse, mai avrei sospettato… Mi ha afferrato e mi ha baciato e quando l’ho respinto mi ha fatto cadere a terra e mi sono guadagnata un altro livido sul fianco.
- Quell’uomo è morto,
Annunciò con voce piatta Tallia.
- Zaron lo ucciderà.
 - No!
Aveva ribadito allarmata Deja.
- Se Zaron reagisse tutti saprebbero cos’è successo. Mi accuserebbero di essergli stata infedele, la gente riterrebbe che lui era il mio amante…! Promettimi che non lo dirai a nessuno, promettimelo!
Tallia era stata dibattuta.
- Almeno a Perla: lei è saggia e saprà cosa fare.
- Solo a Perla.
Concesse Deja.
- Zaron lo ha scoperto? Per questo era così?
- Gliel’ho detto io.
Si lamentò la regina.
- Ero arrabbiata perché un altro mi aveva rubato il mio primo bacio, che avevo avuto intenzione di dividere con lui. Zaron non ha reagito come mi aspettavo.
- Come altro pensavi che reagisse?
Constatò con un lamento la concubina.
- Gli uomini rakiani sono protettivi e gelosi delle loro donne! Sei fortunata che non se la sia presa con te, accusandoti di infedeltà.
La ragazza si coprì il viso con le mani.
- È esattamente quello che ha fatto: mi ha lasciato intendere che credeva che io lo avessi incoraggiato, che fosse colpa mia se un altro aveva pensato di potermi toccare impunemente! Ho negato, gli ho detto che lui mi aveva fatto male, che mi aveva stretta così forte da marchiarmi perché io lo respingevo… Zaron mi ha creduto, sembrava che gli dispiacesse di aver dubitato della mia integrità. Che stupida che sono stata: gli ho detto che l’amavo, che non avrei mai guardato un altro uomo perché amavo solo lui e l’ho baciato.
La regina singhiozzò, disperata.
- E lui ha baciato me! Se Ostin mi aveva solo baciata sulle labbra, Zaron mi ha baciata davvero, come un marito bacia la moglie e per un attimo io sono stata felice… Ho pensato che anche lui mi amasse, mi sono illusa che mi volesse e provasse per me quello che provavo io. Poi invece è divenuto nuovamente aggressivo e ha preteso di vedere i lividi, sembrava che volesse le prove che io avevo respinto la guardia, mi ha toccata e ha cercato di spogliarmi per guardare sotto i miei vestiti. E allora io sono fuggita. Lui… lui mi aveva promesso che non l’avrebbe fatto mai più, che non avrebbe più alzato le mani su di me… Io pensavo che mi amasse…
Tallia era inorridita.
- Ti aveva picchiato? Quando?
Chiese con un filo di voce, incredula.
- No, non mi ha picchiata, mai. Ma quando siamo andati a Issa la prima volta, per il mio tredicesimo compleanno, io mi sono assentata dal palazzo senza dirgli niente e quando sono tornata lui era adirato. Rientrati nei nostri appartamenti mi ha stretto il braccio, strattonandomi e urlandomi contro, facendomi molta paura. Dopo mi ha chiesto scusa, mi ha giurato che non sarebbe successo più e ha mantenuto la parola, fino ad oggi. Adesso non mi ha fatto del male, non mi ha lasciato neppure un livido, ma era così arrabbiato, Tallia. Così arrabbiato… mi sembrava di non conoscerlo affatto. Io gli ho detto che ero innamorata di lui e lui non ha detto nulla. Nulla.
Si strinse a Tallia, facendosi consolare. Non si accorse neppure di Perla che faceva capolino nella stanza e del gesto che fece Tallia per mandarla via, indicando che avrebbero parlato dopo.
Dopo che Deja si fu addormentata, sconvolta e priva di forze, perché aveva saltato il pranzo a causa di Ostin e poi la cena a causa di Zaron e aveva passato l’intera giornata a piangere, Tallia andò da Perla e le raccontò tutto. La concubina anziana era arrabbiata ma la sua rabbia era gelida. Zaron aveva detto che non voleva vedere nessuna quella notte, ma avrebbe dovuto parlarle, Perla voleva essere sicura che capisse quanto vergognoso fosse stato il suo atteggiamento.
Bussò con decisione alla porta della sua camera da letto: voleva affrontarlo, non che lui le tagliasse la gola credendola un intruso.
Zaron le aprì subito. Era notte inoltrata ormai ma lui era ancora vestito, la sua espressione era sconvolta e Perla sentì un po’ della sua ira recedere.
- Avevo chiesto di rimanere solo Perla.
- Mi fai entrare?
Aveva replicato lei. Lui si era scostato dalla soglia, invitandola senza parole a farsi avanti. La concubina aveva saltato i convenevoli.
- Cosa ti è venuto in mente, Zaron? Si può sapere a cosa stavi pensando questa sera?
La sua voce non era aggressiva ma le sue parole tagliavano come un rasoio. Lui sorrise senza allegria.
- Non stavo pensando.
Si sedette sul suo letto, chinando il capo e guardandosi i palmi aperti poggiati sulle ginocchia.
- Come sta lei?
Le chiese con un filo di voce.
- Se ti riferisci a Deja si è addormentata piangendo, convinta che tu sia furioso con lei, che la ritieni responsabile di quello che è successo e che non provi un briciolo d’amore per lei.
Le parole di Perla erano gelide e acide, piene di rimprovero.
- Ho sbagliato. Ho sbagliato così tanto… Come posso farmi perdonare?
- Perché Zaron? Perché l’hai ferita in quel modo?
Lui sollevò gli occhi, allarmato.
- L’ho ferita? Ho cercato di non stringere troppo, ma quando mi adiro non controllo più la mia forza…
Lei scosse il capo.
- L’hai ferita nell’animo, non nel corpo. Lei ti ha detto che era innamorata di te e tu hai cercato di strapparle gli abiti. Davvero Zaron, cosa pensavi?
Lui gemette disperato.
- Pensavo a quel dannato ragazzo che la toccava, che la baciava e che prendeva quello che io per rispetto non mi azzardo neppure a desiderare. Ho perso la testa…
- E così hai cercato di prenderla con la forza.
Concluse per lui Perla. Zaron sobbalzò e la guardò pieno d’orrore.
- No! È questo quello che lei pensa? Io non intendevo…! Volevo vedere i lividi che lui le aveva lasciato, volevo capire fino a che punto si era spinto… Volevo capire esattamente dove lui l’aveva toccata perché…
Chiuse gli occhi per la vergogna.
- Lei ha avuto ragione: io volevo toccarla dove lui l’aveva toccata, per cancellare dalla sua mente il ricordo delle mani di un altro su di sé. Volevo essere l’unico a toccarla, volevo essere l’unico per lei. Ha pensato che volessi usarle violenza?
- No,
Lo confortò Perla.
- È quello che ho pensato io. Deja ha interpretato correttamente le tue intenzioni e si è indignata perché non ti sei fidato di lei. Quel ragazzo l’ha davvero solo baciata, e un bacio innocente per di più, solo sulle labbra.
Zaron si passò le mani tra i capelli con disperazione.
- Vuoi dirmi che ho interpretato male tutto? Quando lei mi ha detto che un altro aveva preso quello che era mio ho creduto che lui… Sono impazzito Perla. Cosa mi è successo?
Lei gli aveva poggiato una mano sulla spalla.
- Sei innamorato di lei.
Gli aveva confidato cercando di usare un tono dolce ma fermo.
- Innamorato? Adesso sei tu quella pazza.
Disse lui, senza guardarla.
- Deja è una bambina.
Ripeté il suo mantra a voce alta.
- Deja ha quasi sedici anni Zaron. E tu questa notte l’hai baciata come un’amante e l’hai toccata, o volevi toccarla, come una donna.
Lui scosse il capo, gemendo disperato.
- Ho sbagliato, sbagliato! Devo farle capire quanto ho sbagliato. Pensi che mi perdonerà mai?
Lei aveva sospirato, rassegnata.
- È innamorata di te, certo che ti perdonerà. Ci vorranno tempo e molte scuse da parte tua, ma lo farà.
Lui aveva avuto uno spasmo alla parola “innamorata”.
- E pensi che mi guarderà ancora con affetto? O avrà paura di me? Non poteri sopportarlo se lei avesse paura di me…
Lei aveva stretto la mano sulla sua spalla.
- Come ho detto ci vorrà tempo.
 
La mattina dopo Perla si era recata negli appartamenti della regina molto presto, tanto che era stata lei a destarla. Mentre ancora Deja sbadigliava e si stropicciava gli occhi che le bruciavano, Perla le si era seduta affianco, sul letto.
- Deja, dobbiamo sistemare questo disastro.
Le aveva annunciato con fermezza ma senza lesinare la dolcezza.
- A Palazzo si parla solo della scenata che ti ha fatto Zaron ieri, della sua ira, e le congetture stanno fiorendo senza freno. Bisogna che mettiamo noi in giro una voce sensata prima che qualcuno colleghi il vostro litigio alla fuga precipitosa del capo delle tue guardie del corpo.
- Cosa proponi?
Aveva chiesto la ragazza con voce roca, così stanca da accettare senza fiatare ogni consiglio che la concubina le avrebbe proposto.
- Ho un’idea, ma si basa molto sulla fiducia e la discrezione della tua ancella issiana, quella che più di ogni altra servitrice ti è vicina.
Deja si era svegliata completamente, aggrottando la fronte.
- Mi fido di Larissa. Non solo mi è completamente fedele, ma è sempre stata in grado di essere discreta.
- La mia idea è di far circolare la notizia di un tuo aborto.
Deja era sobbalzata per la sorpresa, portandosi le mani alla gola.
- Cosa?
Aveva chiesto con voce stridula.
- Ascolta,
Le aveva intimato l’altra donna, prendendole le mani e stringendole.
- Così risolviamo due problemi in uno. Farò circolare la voce che eri incinta ma ancora non l’avevi detto al khan e quando hai perso il bambino lui si è infuriato perché gli avevi taciuto la gravidanza. In questo modo potremo spiegare la sua rabbia, la tua rabbia, il fatto che per un po’ sarete comprensibilmente sulle spine l’uno con l’altra e in più metteremo a tacere le voci sulla tua sterilità.
Deja si era passata le mani sul viso.
- Fa’ come vuoi, Perla. Mi fido del tuo giudizio.
- Grazie, ma questo piano può funzionare solo se la tua Larissa mentirà per noi.
Deja si era lasciata ricadere sui cuscini.
- Parlale tu, ti prego. Io sono… sfinita. Desidero solo rimanermene nell’harem fino a quando questi orribili lividi non saranno svaniti…
La ragazza si toccò le braccia, lasciate nude dalla camicia da notte che lei stessa si era messa la notte prima, non avendo avuto la forza di spiegare alla sua cameriera cosa fosse successo.
- È una buona idea. Un riposo forzato di almeno dieci giorni è la norma. Poi vedremo.
Detto questo si era congedata da lei ed era andata a conferire con Larissa che attendeva fuori dalla camera da letto della sua signora.
Quando la ragazza issiana entrò, Deja aprì un occhio e la sbirciò da sotto il lenzuolo. Larissa pareva profondamente contrariata, stringendo con forza le labbra in un’espressione di offeso oltraggio.
- Larissa…
Disse Deja con voce flebile dal suo nascondiglio.
- Perla ha parlato con te?
La ragazza più anziana annuì, dandosi da fare a raccogliere l’abito che la regina aveva buttato a terra la notte prima.
- E farai come ti ha chiesto?
Larissa annuì ancora.
- Sei arrabbiata perché ti chiediamo di mentire?
Chiese ancora la regina, con voce carica di lacrime. Sentendola la cameriera parve allarmata e si recò in tutta fretta al capezzale della sua signora.
- No, mia regina! Come potrei io essere arrabbiata? Sapete che darei la vita per voi! Ma… cosa succede?
Deja emerse dalle lenzuola, scoprendo le ecchimosi sulle braccia agli occhi scandalizzati dell’altra.
- C’è un altro livido, più grosso e doloroso, sulla mia anca sinistra, quando lui mi ha scaraventata per terra…
Ammise con un filo di voce.
- Vostro marito?
Chiese Larissa, con tono tinto d’orrore.
- No, perché tutti pensano sempre che lui mi debba per forza picchiare?
Si lamentò la ragazza.
- È stato un altro, mi ha aggredita. Per fortuna non è successo nulla di grave, le conseguenze peggiori le puoi vedere da te. Ma se si sapesse che un altro è riuscito a mettere le sue mani su di me la mia reputazione…
Larissa scuoteva il capo, sconvolta.
- Ma mia signora! Se siete stata attaccata come può essere che sia la vostra reputazione a rischiare la rovina?
- La gente è spietata.
Commentò con amarezza la ragazza, abbassando il capo.
- Vuole sempre credere il peggio. Si direbbe che ho incoraggiato in qualche modo il mio aggressore. Persino mio marito l’ha creduto. Per questo ieri abbiamo litigato…
Deja sollevò il capo, guardando negli occhi Larissa e aggiunse in tono disperato.
- Devi fare come ti dice Perla! Devi! Se nutri affetto per me mi proteggerai ancora, come hai sempre fatto. Dimmi che lo farai!
- Ma certo, mia regina. Qualsiasi cosa per voi!
Sull’orlo delle lacrime Deja l’abbracciò di slancio.
- Grazie! Grazie!
 
La voce messa in giro ad arte dalla concubina aveva cominciato a circolare, una notizia così audace e terribile che aveva in fretta soppiantato tutte le altre e Zaron si era ritrovato a essere oggetto di commosse condoglianze a cui aveva deciso di non rispondere, preferendo optare per un rigoroso silenzio e mostrando un volto inflessibile ai suoi interlocutori. Aveva già dato abbastanza spettacolo di sé la sera prima, urlando per il corridoio che divideva le sue stanze dall’harem tutta la sua ira, mentre inseguiva la sua incolpevole sposa.
Quella sera si recò nell’ala femminile per cena, dopo aver chiesto conferma a Perla che la sua presenza sarebbe stata gradita. Elina, vedendolo, era scoppiata in lacrime e lui si era sentito un mostro per aver spaventato la sua piccola bambina. Sua figlia si era nascosta dietro la gonna della madre e Zaron si era chinato davanti a entrambe, poggiando un ginocchio a terra.
- Tesoro mio,
Aveva detto con voce sommessa alla bimba spaventata.
- Sono sempre io, il tuo papà. Ieri ero arrabbiato ma non con te, mai con te anima mia… Vieni fuori, prima che mi metta a piangere anche io.
Elina aveva sbirciato da dietro la gamba di Tallia e poi, esitante, era uscita e gli si era avvicinata. Zaron le aveva sorriso e poi si era quasi messo a piangere sul serio, per il sollievo, quando lei lo aveva abbracciato e gli aveva depositato un soffice bacio da farfalla sulla guancia. Aveva alzato gli occhi su Tallia e aveva capito, dal suo sguardo di pietra, che ci sarebbe voluto ben altro per farsi perdonare da lei. Ma ogni pensiero era svanito mentre le altre sue due figlie gli si lanciavano tra le braccia, ansiose di ricevere anche loro la razione di abbracci paterni che Elina stava avendo. Zaron le baciò tutte sulla fronte, ringraziandole e si alzò, rivolgendosi alle concubine presenti.
-  Il mio comportamento ieri è stato ingiustificabile, vi prego di perdonarmi per essere entrato nell’harem urlando e averti spintonato, Perla.
La maggior parte delle sue ragazze annuì, sorridendogli, solo Tallia rimase impassibile e Perla sollevò un sopracciglio con aria di sfida.
- Dov’è Deja?
Aveva chiesto lui, esitante.
- Ci raggiungerà per cena.
Aveva detto la concubina anziana e poi si erano tutti seduti a tavola dove, in pochi minuti, li raggiunse anche la regina.
Deja era vestita alla maniera rakiana, lo sarebbe stata finché i lividi non fossero svaniti del tutto, e aveva un’aria abbattuta. Non incrociò lo sguardo di suo marito, che rimase in silenzio a guardarla, mentre le concubine e le bambine la salutavano, chiedendole come stesse.
- Bene,
Aveva risposto lei con voce bassa.
- Non preoccupatevi per me: passerà.
Zaron non le staccò gli occhi di dosso neanche una volta durante tutta la cena, implorandola silenziosamente di guardarlo, almeno una volta. Lei alla fine lo fece e scoppiò in lacrime, alzandosi in tutta fretta e scusandosi prima di fuggire nelle sue stanze, inseguita dalle invocazioni di perdono di Zaron.
La sera dopo lui non volle recarsi nell’harem e fu Perla che dovette andare a prenderlo, convincendolo con un misto di suppliche e minacce a non desistere.
Anche se Deja non gli parlava, piano piano ricominciò a lanciargli qualche sguardo attraverso la tavola, dato che Zaron sedeva il più lontano possibile da lei, circondato dalle figlie. Zaron ne fu estremamente rasserenato perché non leggeva paura nei suoi occhi, solo tristezza e un profondo dolore. Avrebbe voluto parlarle, in privato, ma lei rifiutava di vederlo se non circondata dalle concubine e dalle bambine che le facevano da scudo. Il loro appuntamento mensile per cenare e dormire insieme venne e passò e Zaron, che aveva sperato fino all’ultimo che lei cambiasse idea, cenò e dormì da solo, rifiutando la compagnia delle concubine. Neanche Tallia lo aveva ancora perdonato e tra tutte era l’unica che non lo aveva ancora visitato da quando aveva litigato con Deja. Alla fine aveva affrontato la concubina come non osava fare con sua moglie, andando nei suoi appartamenti e chiedendo a Elina di andare dalla zia Oscia a giocare con sua sorella.
- Dimmi come posso farmi perdonare Tallia.
Le aveva chiesto, esasperato.
- Perdonare? E di cosa, mio khan? Sono una semplice concubina, sono qui per servirvi e null’altro. Volete giacere con me?
Lei aveva cominciato a spogliarsi con gesti meccanici e viso inespressivo e con un verso soffocato Zaron le aveva immobilizzato le mani.
- No! Non è per questo che sono qui, lo sai. Di cosa mi stai punendo?
Lei finalmente si era rianimata e il viso le si era riempito di furia.
- Lo sai bene.
Aveva sibilato.
- Perché sono qui Zaron?
Visto che lui non rispondeva lo aveva incalzato.
- Perché Zaron? Sii uomo e rispondi!
- Per me…
Aveva replicato lui, confuso.
- Per te! Esatto,
Aveva detto lei, cominciando a camminare su e giù per la stanza, gesticolando nervosa.
- Per darti quello che le altre non possono darti: uno sfogo ai tuoi istinti più violenti. Ho la pelle dura e sono abituata agli abusi dei clienti. Il massimo della tua violenza è una tenera carezza in confronto a quello che ho dovuto sopportare. Ma come posso svolgere il mio compito, come posso essere lo scudo delle mie sorelle, facendomi carico di tutta la tua rabbia, se tu non mi vuoi?
L’ultima parola era stata urlata e la voce irosa di Tallia si era incrinata nel pianto. Zaron era stato paralizzato dalla sorpresa.
- Tallia… tu non devi… Se mi sono comportato in questo modo fino ad oggi con te è stato un errore. Un mio errore. Tu per me sei molto di più che un corpo compiacente su cui sfogarmi. Sei mia amica, la madre di una delle mie adorate figlie. Sei sincera, onesta e impavida e queste sono qualità che ho sempre apprezzato, no anzi, ammirato in te! Sei speciale e unica e non sopporto di vedere che ti degradi in questo modo, non sopporto di averti io per primo degradato in questo modo! Ti voglio bene, Tallia. Voglio che le cose tornino come prima, meglio di prima, tra di noi.
Tallia aveva tremato davanti all’onestà nelle parole di Zaron ma poi aveva voltato il capo.
- Se anche io posso perdonarti c’è Deja. Non avrai nulla da me finché lei non ti avrà perdonato.
Zaron aveva sospirato.
- E io spero con tutto il cuore che lei mi perdoni. Pace, Tallia?
La donna aveva annuito e si era lasciata rigidamente abbracciare. Avrebbe definitivamente perdonato Zaron solo quando anche la sua giovane amica l’avrebbe fatto.
Finito il suo volontario esilio nell’ala femminile Deja aveva ricominciato a uscire al braccio di suo marito per accompagnarlo nelle sue funzioni pubbliche. Apparentemente tra di loro andava tutto bene: in pubblico la regina interagiva con lui, ma sempre con un certo riserbo, una certa freddezza. I sorrisi pieni di calore, i tocchi a prima vista casuali che una volta la coppia si scambiava ora erano cessati. Il khan trattava con dolcezza e attenzione sua moglie che però si dimostrava stanca e distante. Almeno in pubblico gli parlava anche se approfittava del fatto di accompagnarlo alle sue riunioni per restare il più muta possibile. Ancora non aveva ripreso le sue passeggiate mattutine né gli incontri con i rappresentati del governo issiano: non avrebbe saputo come giustificare l’abbigliamento rakiano a cui era necessariamente costretta.
Neanche la nascita della figlia di Famira riuscì a risollevarle il morale: era lieta della felicità della sua amica ma vedere l’amore evidente e manifesto che la legava a suo marito, assieme a quella neonata che era la prova lampante della passione tra i due, la faceva soffrire.
Zaron aveva deciso di lasciarle tutto lo spazio di cui aveva bisogno, limitandosi a restare in disparte e attendere che sua moglie fosse pronta a riappacificarsi con lui; le era sempre vicino, ma rispettoso del suo bisogno di tempo. Comunque aveva dato una scadenza al suo pazientare: il sedicesimo compleanno di Deja, che si avvicinava sempre di più. A Issa loro avrebbero diviso la stanza e il letto e lui non aveva nessuna intenzione di continuare a far finta che il problema tra di loro non ci fosse. L’avrebbe affrontata, pronto a litigare di nuovo se necessario, ma ne avrebbero parlato. In più stava attendendo con impazienza l’opportunità di affrontare la causa scatenante di quel disastro: il ragazzo che aveva cercato di mettersi tra di loro e che si era rifugiato a Issa, per ordine di sua moglie.
Quindi, quando la data per la partenza arrivò e si imbarcò sull’aeronave che li avrebbe ricondotti alla patria di lei, Zaron era spinto da un sentimento di determinazione, stringendo a sé sua moglie, unica a viaggiare con lui perché questa volta aveva insistito per lasciare a casa tutte le sue concubine, nonostante il parere contrario di Perla. Si sarebbe dedicato esclusivamente a Deja e avrebbe sanato la ferita nel loro rapporto, a costo di implorare in ginocchio il suo perdono.
 
Deja era contenta di tornare in patria, contenta di rivedere le bianche mura di Issa e la figura del padre ad attenderla, come d’abitudine, al loro arrivo. Lasciò andare il braccio di suo marito e abbracciò con slancio il genitore, come non faceva da tempo quando erano in pubblico. Suo padre sembrava invecchiato: le rughe intorno agli occhi erano più profonde e i capelli parevano più radi sulla fronte. Il suo sorriso tuttavia era sempre lo stesso così come il suo odore, confortante e familiare. Aborn era stato ansioso di rimanere da solo con lei, Zaron l’aveva lasciata andar via con riluttanza, quasi con sconforto, e lui l’aveva portata quasi di corsa al loro annuale rinfresco per due nei suoi appartamenti.
- Ho sentito la notizia bambina mia. È … terribile. Te la senti di parlarne?
Le aveva subito chiesto una volta congedata la servitù.
Sua figlia sembrò accasciarsi sulla sedia.
- È tutta una farsa padre. Non c’è mai stato nessun bambino. Come poteva esserci se mio marito non mi tocca neppure?
Aveva replicato lei con profonda amarezza. Poi aveva distolto lo sguardo, rivolgendosi verso una finestra.
- È successo un fatto increscioso. Di sicuro saprai che ho licenziato lord Ostin, ordinandogli di far ritorno a Issa.
Suo padre aveva annuito silenziosamente. Ostin era ricomparso all’improvviso, dicendo che la regina lo aveva cacciato, ma senza spiegare il motivo del dissapore che si era creato tra i due.
- Ostin ha pensato di poter… forzare le sue attenzioni su di me. Mi ha baciato e stretta con la forza e io l’ho respinto.
Aborn era sbiancato prima di divenire paonazzo e alzarsi per metà dalla sedia, emettendo versi soffocati pieni d’ira.
- Siedi padre.
Gli aveva intimato la regina.
- È un ordine. Tu, così come Zaron, non farete nulla contro quello stolto. Sono stata chiara?
La voce di Deja era perentoria e piena di autorità e suo padre si ritrovò a sedersi nuovamente, di botto, stupito di sentire quella voce, quel tono di comando, rivolto per la prima volta verso di lui.
- Pensa allo scandalo padre. E poi non è successo nulla di grave. Il peggio è stato che mi ha lasciato dei lividi impossibili da spiegare e che mi hanno costretto a rimanermene rintanata nell’harem per settimane. Per questo abbiamo sparso in giro quella voce, così terribile. Per spiegare la mia assenza e la furia che ha preso mio marito quando è venuto a saperlo. Abbiamo litigato, violentemente. Solo a parole, ci tengo a precisarlo prima che tu salti a conclusioni affrettate. Non siamo ancora riusciti a fare pace.
Deja aveva sospirato, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
- Sono… scoraggiata. E ho bisogno del tuo conforto, padre, non del tuo biasimo…
Aborn aveva spalancato le braccia e sua figlia vi si era rifugiata, come non faceva più da anni ormai, lasciandosi cullare sulle sue ginocchia anche se era così alta che doveva poggiare il capo sulla sua spalla e non sul suo petto, come un tempo soleva fare.
 
Deja non aveva avuto nessun timore, nessuna remora a condividere le stanze reali con Zaron e quando, quella sera, si ritrovarono da soli a cena e poi in camera da letto, si comportò normalmente, cercando di guardarlo il meno possibile e rispondendo a monosillabi ai suoi tentativi di conversazione. Lui l’affrontò in camera, all’uscita dal suo spogliatoio, piazzandosi tra lei e il letto.
- Dobbiamo parlarne Deja,
Esordì seriamente.
- Questa cosa non può continuare. Deve finire, qui e adesso.
Lei sollevò lo sguardo, incrociando per un attimo i suoi occhi; Zaron era serio ma non contrariato, tutt’altro: sembrava… disperato, stanco e sfiduciato come si sentiva lei. Abbassò velocemente gli occhi, guardarlo le faceva male, il suo viso, così caro al suo cuore, era come una lama rovente nel petto. Strizzò le palpebre, cercando di ricacciare le lacrime.
- Non c’è niente da dire, Zaron.
- Non è vero! Non possiamo andare avanti a ignorare il problema, sperando che si risolva: sono passati quasi due mesi, mia piccola cara. Sento la tua mancanza… Ti prego, parla con me.
La voce di Zaron aveva assunto un tono supplichevole e Deja lo guardò, piangendo.
- Mi manchi anche tu…
Gli confidò con un filo di voce, stringendosi le braccia. Zaron allungò le mani verso di lei, a palmi sollevati e le si avvicinò lentamente.
- Sono stato un pazzo, uno sciocco e mi sono comportato come una bestia. Non ho mai veramente pensato che quello che è successo fosse colpa tua. Ti ho stretta e toccata per i motivi sbagliati e me ne pento così tanto. Mi sono infuriato quando invece tu avevi bisogno di cure e attenzioni, il tipo di attenzioni giuste…
- E quali sono il tipo di attenzioni giuste?
Aveva urlato Deja, stringendo i pugni.
- Io non avevo bisogno di un padre che mi desse una pacchetta sulla testa, dicendomi che avrebbe risolto tutto. Io un padre ce l’ho già! Io avevo bisogno di mio marito, che mi facesse sentire amata e desiderata!
Zaron era contento che finalmente lei stesse affrontando la situazione, anche le sue urla erano preferibili all’indifferenza, alla rassegnazione che l’aveva caratterizzata. Ma l’argomento con cui aveva deciso di reagire lo metteva profondamente a disagio.
- Deja… sei ancora troppo giovane…
- Ostin non la pensava così! E per un attimo ho creduto che anche tu… Quando mi hai baciata, come volevo essere baciata da te! Solo da te!
Zaron cercò di ricacciare l’ira che lo colse quando lei pronunciò il nome di quel dannato ragazzo, digrignò i denti e cercò di calmarsi.
- Ho sbagliato Deja, sei troppo giovane ancora, troppo per me.
- Sarò sempre troppo giovane per te, Zaron! Quando te ne renderai conto? Io…
La ragazza inspirò, tremando perché quello che stava per dire la rendeva ancora più vulnerabile, già si era esposta ammettendo di amarlo, quella terribile sera, e lui non aveva reagito come aveva sperato.
- …io ti amo e ti desidero e brucio di gelosia ogni volta che tu ti porti a letto una delle tue concubine, perché vuoi loro, sempre loro e mai me…
Zaron si era allontanato da lei, arretrando.
- Ti prego, non dire questo…
- Perché non mi vuoi?
Aveva nuovamente urlato lei. Zaron si era coperto il viso con le mani e poi aveva guardato il soffitto, disperato.
- Non è vero che non ti voglio!
Aveva finalmente ammesso, con voce spezzata.
- Io ti desidero, è questo il problema!
Deja era rimasta interdetta, tutta la sua rabbia, il suo dolore per il continuo rifiuto dell’uomo che amava, svanito difronte alle parole di lui.
- Tu… davvero?
Gli chiese con voce piena di speranza.
- E allora perché? Ti voglio anch’io. Perché mi respingi, perché?
Lui aveva barcollato e si era seduto sul letto.
- Cerca di capire mia piccola cara … Tu sei giovane, così giovane… E io sono… Non posso, ti prego, non chiedermelo… Datti ancora del tempo per crescere, ti imploro.
In quelle parole, in quel tono sconfitto, Deja finalmente riuscì a interpretare quale fosse la ritrosia di Zaron. Non era lei il problema, non era lei a non essere pronta o a essere troppo giovane: per qualche motivo lui non era pronto a lei. Il silenzio si protrasse tra di loro, poi Deja gli si fece innanzi e gli carezzò con esitazione la nuca e poi la spalla. Zaron emise un sospiro tremante, prendendole il polso e poggiandosi la mano di lei sulla guancia, aprendo gli occhi e guardandola in viso.
- D’accordo. Faremo come dici tu, marito mio.
Lui le sorrise con calore e sollievo.
- Ma a una condizione…
Deja gli rivolse un timido sorriso.
- Non dovrai mai più chiamarmi “piccola”. Ormai siamo alti uguali, credo che tu possa fare a meno di quell’aggettivo. Mia cara va benissimo, anzi… Ti devo confessare che amo molto sentirmi chiamare così da te.
Lui le baciò il palmo della mano.
- E sia, mai cara.
Poi l’attirò a sé e se la mise in grembo, poggiandole una mano in vita per reggerla e una sui capelli.
- Accetterai di seguire i miei tempi, Deja?
Le chiese con voce roca, carezzandole il capo. Lei si morse il labbro, perché ovunque i loro corpi si toccavano si sentiva la carne in fiamme e il fuoco del desiderio aveva ricominciato ad arderle nel ventre. Annuì perché non riusciva a parlare.
- Bene…
Lui le baciò la fronte con dolcezza, poi le guance, gli occhi e Deja faceva fatica a stare ferma e immobile e a non incontrare quelle labbra con le proprie. E infine lui la baciò sulla bocca, come lei sognava e desiderava e con un gemito Deja dischiuse le labbra, permettendo alla lingua di Zaron di scivolare dentro, incontrando la propria, in una dolce carezza. Il bacio durò troppo poco per lei e quando finì Zaron le guidò il capo sulla propria spalla. Il cuore le batteva forte nel petto e il respiro era affannato. E un sorriso, impossibile da frenare, le illuminava il viso.
 
* Ad ogni azione corrisponde una reazione pari e contraria: è una legge della dinamica per cui quando applichi una forza ti scontri con un’altra forza, che viaggia nella stessa direzione ma in senso contrario.

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Capitolo 7
*** Odore di cenere e sangue nel vento ***


VII. ODORE DI CENERE E SANGUE NEL VENTO

 
 
La notte della loro riappacificazione, anche se a quel bacio non ne erano seguiti altri, Deja si era addormentata contenta e piena di speranza, perché lui aveva voluto stringerla tra le braccia e non l’aveva lasciata andare fino al mattino. Con ansia aveva atteso che calasse nuovamente la sera e non era stata delusa: prima di coricarsi Zaron l’aveva baciata ancora e Deja aveva deciso che quel nuovo bacio della buonanotte era il momento preferito di tutta la sua giornata.
Durante il loro soggiorno a Issa lui la strinse a sé di notte, tra le lenzuola, dopo averla baciata, e Deja, che era giunta in patria afflitta e pallida, la lasciò piena di gioia, con le gote rosse di contentezza, un sorriso perennemente sulle labbra e con occhi pieni d’amore che cercavano in continuazione l’imperatore.
A sua insaputa, Zaron aveva deciso di affrontare lord Ostin a modo suo. Non poteva ucciderlo, come meritava, non poteva farlo sbattere a languire in una buia e puzzolente segreta, come avrebbe voluto, ma aveva tutte le intenzioni di fargli capire, senza nessuna possibilità di fraintendimento, quanto fosse contrariato dal suo spudorato comportamento e che se lo avesse rivisto metter piede nella capitale lo avrebbe ucciso con le sue mani.
Quindi un mattino, al primo albeggiare, si mise l’armatura con la scusa degli allenamenti mattutini ma invece di recarsi al suo appuntamento con il maestro d’armi issiano si fece sellare un cavallo e andò a casa di Ostin. Era senza scorta e senza insegne e quando, al suo insistente bussare alla porta della servitù, gli fu aperto da un assonnato servitore, non fu riconosciuto e entrò dando una spallata e mandando a gambe all’aria lo sfortunato garzone che gli aveva aperto. Lo aveva tirato su per il bavero della casacca e gli aveva ringhiato contro.
- Se ci tieni alla tua faccia e ai tuoi denti mi scorterai fino alla camera da letto del tuo padrone.
Poi, strattonandolo, si era fatto strada attraverso le cucine, dove una sguattera e la cuoca erano già al lavoro e li avevano fissati a bocca aperta. Il garzone balbettando e implorando gli aveva chiesto pietà per sé e per il suo signore.
- Non sono qui per uccidere nessuno, ragazzo. Voglio solo avere una discussione a quattr’occhi, da uomo a uomo, con il tuo padrone.
Erano stati intercettati davanti alle stanze di Ostin dal resto della servitù maschile, evidentemente avvisati dalla cuoca e dalla sguattera, e ne era nato un putiferio, con urla e spintoni, e Zaron era stato molto tentato di sguainare la spada. Poi Ostin era emerso dalle sue stanze, richiamato dal baccano. Indossava solo un paio di braghe e si stava ancora stropicciando gli occhi quando chiese con voce impastata dal sonno cosa stesse succedendo. L’imperatore approfittò della distrazione della servitù per raggiungerlo in pochi passi veloci e colpirlo su quel bel viso con un pugno e un soddisfacente rumore di ossa rotte. L’uomo cadde a terra, contorcendosi e tenendosi il naso da cui sgorgava un fiotto di sangue caldo. Zaron stava per tirarlo su e colpirlo ancora quando, dalla porta della camera da letto, emerse completamente nuda la persona che aveva tenuto compagnia quella notte all’issiano.
- Mio signore…!
Urlò con voce strozzata per la sorpresa e l’allarme. Poi l’uomo si buttò in ginocchio, portando il pugno destro al petto e abbassò il capo, chiudendo gli occhi per la disperazione.
Zaron fissò senza parole e immobilizzato dallo stupore il capo delle sue guardie faliq, poi mostrò i denti in un ringhio minaccioso ai servitori di Ostin che si erano fatti avanti per aiutare il loro padrone. All’imperatore ci volle qualche attimo per comprendere tutte le implicazioni della scena che aveva difronte: il suo rivale che mugolava a terra, Hikij nudo, ridotto quasi alle lacrime e tremante di terrore per le sorti del suo amante, il letto sfatto che si intravedeva dalla porta socchiusa. Le spalle di Zaron cominciarono a scuotersi e il mento a tremare, prima che una fragorosa risata lo costringesse a piegarsi quasi in due, privandolo delle forze che l’ira gli aveva infuso. Barcollando raggiunse un muro e ci si appoggiò con una mano, lasciando un’impronta rossa. Quando riprese fiato indicò con un dito la guardia faliq.
- Tu! Da quanto tempo va avanti?
Hikij non sollevò gli occhi dal pavimento, rimanendo nella sua posizione supplice.
- Due giorni, mio khan.
- È uno sviluppo recente, allora.
Commentò con voce leggera Zaron. Poi trascinò in piedi Ostin afferrandolo per i capelli e scuotendolo come uno straccio bagnato.
- Tu invece! Sono venuto qui con l’intenzione di darti ben più che un pugno sul naso, sciocco, vanesio, borioso ragazzino!
Non c’era divertimento nel tono del sovrano ma gelida ira.
- Tuttavia, in luce di nuove informazioni… mi limiterò a darti un avvertimento: se mai dovessi tornare a Halanda non cercherai di parlare con mia moglie, non ti avvicinerai neppure alla Città Vecchia. Se oserai mettervi piede ti farò strappare il cuore da Hikij e ti assicuro che lui obbedirà al mio ordine! Sono stato chiaro?
Ostin mugolò ma non osò ribellarsi, conscio della terribile disparità di forze tra di loro, annuendo a occhi chiusi, completamente umiliato.
- Bene…
Si limitò a dire Zaron. Lo spinse a terra, gli diede un calcio nelle reni e poi se ne andò, soddisfatto. Hikij si affrettò ad avvicinare il suo amante e a stringerlo tra le braccia, con un singhiozzo di sollievo e un sorriso.
- Oh, smettila di lamentarti, Ostin! Il naso rotto ti renderà solo che più virile! Sei vivo, è questo che importa, e khan Zaron non ti ha bandito da tutta Halanda, solo dalla Città Vecchia: potremo continuare a vederci, amore mio.
 
Al ritorno di Zaron e Deja alla capitale, tutti poterono constatare quanto il soggiorno a Issa avesse giovato alla giovane regina. Sorrideva nuovamente, gli occhi le brillavano e pareva tornata a nuova vita. Qualcuno suggerì che forse era nuovamente incinta, ma le settimane passarono e non si notò nessun cambiamento nella sua figura.
Privatamente, i suoi rapporti con il marito erano tornati quelli prima della frattura tra i due, persino lo screzio con Tallia si era sanato e Zaron era contento, davvero contento. In quei giorni di pace e serenità nulla riusciva a turbarlo e passava le sue serate a giocare con le figlie, ascoltando Mira suonare e scambiando occhiate complici e piene di calore con Deja.
Tallia, con la sua solita brutale onestà, gli aveva chiesto a bruciapelo se si fosse portato a letto sua moglie, e non per dormire. Zaron si era ritrovato a sorridere, invece che a offendersi, e a negare, ammettendo solo qualche bacio. Baci che non si erano ripetuti, per il disappunto di sua moglie: loro dormivano separati e ogni notte Zaron la passava con una concubina diversa e non gli sembrava onesto giacere con loro avendo in bocca il gusto delle labbra di Deja. Se anche le sue ragazze lo soddisfacevano fisicamente, aveva scoperto con sorpresa che a tutte loro mancava qualcosa: nessuna era sua moglie e Zaron aveva trovato più stimolanti i casti abbracci della ragazza alle carezze sensuali che si scambiava con le concubine. Persino Perla se ne era accorta.
- Zaron,
Aveva esordito la sua più cara e vecchia amica, dopo aver stiracchiato come una gatta il corpo bruno e nudo.
- Sei sazio ma non … soddisfatto.
Lui le aveva carezzato i capelli, trovandoli troppo scuri e troppo grossi e aveva aggrottato la fronte prima di sospirare.
- Non te lo so spiegare, Perla. 
Lei aveva sorriso, parendo davvero una gatta, o forse una sfinge conscia di avere tutte le risposte e commiserevole di tutte le altre stolte creature che procedevano nella vita a tentoni e al buio.
Si girò su un fianco, verso di lui, e gli accarezzò il petto con le dita con fare malizioso.
- Forse il mio signore avrebbe avuto più piacere a giacere con qualcun altra. Forse il mio signore potrebbe immaginare che le mie mani siano quelle di un’altra…
Gli aveva baciato gli occhi, intimandogli di chiuderli, e poi lo aveva baciato su tutto il corpo con l’esitazione e la meraviglia di chi per la prima volta scopre il corpo maschile e alla fine si era stesa sul suo petto con espressione soddisfatta.
- Allora mio signore, meglio?
Gli aveva chiesto con voce dolce e occhi divertiti, ma la luce irridente che vi brillava era piena d’affetto. Lui l’aveva guardata con occhi spalancati, pieni d’ammirazione.
- Ci conosciamo da più di vent’anni, Perla. Eppure riesci ancora a stupirmi…
Lei aveva rovesciato il capo, ridendo sinceramente e piena di gioia. Quando nulla turbava la mente, solo una cosa era in grado di rendere insoddisfatto un uomo nell’abbraccio di una donna come lei: l’amore. Zaron era innamorato e se anche la sua mente ancora non l’aveva ammesso, il suo cuore e il suo corpo se ne erano accorti. E Perla era finalmente felice.
Anche le altre concubine avevano riferito che il loro uomo era diverso, sempre vigoroso, ma mancava di passione. Aveva cominciato a chiedere sempre più spesso baci e carezze in luogo dei numerosi amplessi a cui erano abituate, e teneva gli occhi chiusi e si mordeva la lingua per non pronunciare il nome di un’altra. Perla e Tallia si erano scambiate occhiate complici e avevano rassicurato le altre.
Venne il giorno tanto bramato dalla regina, in cui avrebbe passato tutta la notte con suo marito. Sfiorarsi le mani in pubblico e nell’harem non le bastava più e bruciava dal desiderio di poterlo baciare ancora. Allo stesso tempo però era rosa dalla preoccupazione che il periodo passato dal proprio compleanno avesse raffreddato il suo interesse. La delusione l’avrebbe distrutta se al momento di coricarsi lui le avesse dato il solito buffetto sulla testa prima di voltarle la schiena e mettersi a dormire. Invece durante tutta la cena lui non le aveva staccato gli occhi di dosso, tenendola per mano e depositando baci sulle sue dita e sul polso, strappandole gemiti sommessi che aveva cercato di soffocare come il rossore che non le dava tregua. Alla fine Zaron l’aveva presa per la mano e l’aveva portata in camera da letto e, senza darle il tempo di cambiarsi né di togliersi i gioielli, l’aveva presa tra le braccia e l’aveva attirata sulle lenzuola, baciandola e stringendola con passione. Al bacio che tanto desiderava ne era seguito un secondo e poi un terzo e le mani di suo marito le avevano sfiorato le braccia nude e poi la schiena tra il blouse e la gonna, dove la sua pelle era audacemente scoperta. Infine Zaron l’aveva allontanata da sé con evidente riluttanza e le aveva chiesto di andarsi a cambiare, Deja aveva aperto la bocca per protestare ma lui l’aveva ammonita sollevando un indice.
- Ricorda la tua promessa, mia cara.
Le aveva detto con voce roca. Deja era rotolata via dal letto, sbuffando contrariata, ma aveva fatto come lui le aveva chiesto, mettendosi la camicia da notte e poi scivolando tra le lenzuola ad attenderlo. Lui l’aveva raggiunta e l’aveva stretta al petto, depositando una scia di baci leggeri sulla spalla scoperta e facendola gemere nuovamente. Zaron aveva riso sommessamente.
- Dormi, mia cara. Dormi.
Nella penombra della camera, mentre Deja dormiva profondamente, Zaron le aveva carezzato i capelli chiari e sottili, giocando con le ciocche morbide e sorridendo contento. Un bagno freddo lo attendeva al mattino, ma ne valeva la pena per stingere il corpo di sua moglie tra le braccia.
Il periodo di pace e di idilliaca serenità era terminato appena tre mesi più tardi quando, inevitabile come il mutare delle stagioni, era scoppiato il primo focolaio di ribellione nel suo impero. La vampa era esplosa in una regione che l’imperatore aveva considerato pacifica e sottomessa, essendo uno dei primi regni assoggettati.
Vanadia era stato un regno prospero, ricco di miniere e a quelle Zaron aveva puntato nella sua guerra di conquista. L’esercito vanadisiano aveva opposto una strenua resistenza, trascinando la campagna militare per due anni e quando aveva preso la capitale e deposto la famiglia reale la guerra non si era fermata; i nobili vanadisiani avevano continuato a combattere, proclamandosi re uno dopo l’altro ma Zaron ormai era giunto alle miniere d’argento e, sfruttandole con la frenesia dell’affamato, aveva tagliato gli approvvigionamenti al nemico, guadagnando in un colpo solo ciò che, lui lo sapeva bene, vinceva la fedeltà assoluta di un esercito: denaro sufficiente a pagarne le paghe. Seccato da una campagna che si trascinava più a lungo delle sue aspettative e avendo già rivolto lo sguardo a un nuovo regno da conquistare, aveva proposto l’amnistia alle famiglie che si fossero arrese, proclamandolo loro re. Pochi avevano raccolto la sua offerta, ma qualcuno l’aveva fatto e, con il loro sleale aiuto, era riuscito a decapitare la resistenza, ottenendo infine il controllo di Vanadia.
Ora stava pagando la sua fretta: le famiglie nobili vanadisiane che erano scampate al massacro avevano negli anni raccolto le forze, complottato e ammassato denaro e soldati e ora si erano sollevate, forti dell’appoggio della popolazione che era stata istigata dal ricordo di un’antica gloria. Zaron aveva riunito il suo imponente esercito ed era partito, convinto di riuscire a schiacciare quell’insetto molesto in poche settimane. Tuttavia al suo arrivo nella provincia ribelle, l’intera Karafima si era sollevata, proclamando un nuovo re e trucidando il governatore rakiano e le guarnigioni d’istanza nel paese. Esasperato, l’imperatore aveva diviso in due l’esercito, inviando Bors a soffocare nel sangue quell’insurrezione mentre lui si occupava dei vanadisiani che, nuovamente, si rivelarono un osso più duro del previsto, nascondendosi nei boschi e rifiutandosi di ingaggiare la fanteria nemica in campo aperto, anche a costo di abbandonare le città ribelli al saccheggio e alla devastazione. Le previste due settimane si trasformarono in tre, quattro e infine tre mesi e Zaron stava ancora stanando gli ultimi insorti quando giunse la notizia che altre tre provincie si erano ribellate.
Nel giro di pochi mesi metà del suo impero era divampato nel fuoco della rivolta, troppo perché fosse un caso: le ribellioni dovevano essere state organizzate e coordinate con precisione per costringerlo a dividere il suo esercito e la sua attenzione.
Lasciò la pacificazione di quel che rimaneva delle rovine fumanti di Vanadia a uno dei suoi generali e, dopo aver spostato il grosso delle sue truppe in un'altra provincia, prese la sua aeronave privata e si recò in tutta fretta a Pudja dove, si augurava, l’albero delle sue speranze e ambizioni avrebbe dato frutti carichi di morte.
L’idea dei fuochi notturni lo aveva consumato per un intero anno, spingendolo a convincere con un misto di minacce e lusinghe i migliori chimici di Issa a trasferirsi alla succursale fondata a Mabdisa dal rettore dell’Accademia, dietro suggerimento di Zaron stesso. Più vicini alla capitale dell’impero e isolati dalla loro patria di sangue e putativa, li aveva messi a lavorare sulla polvere pirica che colorava il cielo, che sua moglie tanto amava e che a lui aveva tolto il sonno. Voleva un’arma capace di attaccare il nemico da lontano, voleva puntare un razzo contro un esercito schierato e invece di ottenere un gioco di luci colorate voleva schizzi di sangue, intestini e ossa frantumate. In quegli anni gli scienziati avevano lavorato in gran segreto, creando l’arma desiderata dall’imperatore: un corpo lungo e vuoto che custodiva un mefitico frutto rotondo il quale, espulso dalla forza di una deflagrazione, veniva lanciato, in fiamme, verso il nemico. Quando il fuoco divorava l’involucro protettivo dell’arma, carica di polvere e piccoli pallini metallici, c’era un’esplosione che frantumava le ossa e la carne di coloro che erano così sfortunati da trovarsi nel suo raggio d’azione. Le avevano chiamate furia di drago*, in onore dell’imperatore. Zaron aveva guardato criticamente la parte tubolare dell’arma. Certo, permetteva una precisione e una gittata che le catapulte non avevano, ma era lenta da puntare se il nemico avanzava a cavallo.
- Voglio di più.
Aveva detto e così erano state creati i pugni di fuoco, piccoli involucri dotati di stoppino, che potevano essere lanciati a mano dalla fanteria.
- Il pericolo, sire,
Avevano avvertito gli scienziati, nervosi.
- È che un soldato maldestro faccia cadere un pugno di fuoco acceso in mezzo ad altri pugni di fuoco, se così fosse…  l’esplosione sarebbe rovinosa e non per l’esercito nemico.
- Non ha importanza. Preparerete cinquanta canne e cento furie per ognuna e poi mille pugni. Vi invierò dei soldati che dovrete addestrare nell’utilizzo delle nuove armi. Inculcategli la necessità di prendere precauzioni, con dimostrazioni violente se necessario: se un paio perdono qualche dita, magari in meno perderanno braccia e gambe in battaglia.
Ora, posto difronte all’infiammarsi del suo impero al grido di libertà e morte al tiranno usurpatore, Zaron stava per utilizzare quelle armi che aveva tenuto segrete. La sua idea era di spezzare i rivoltosi inibendo nei vicini il desiderio di emulazione, paventando loro la distruzione tra le fiamme e il sangue. Schierò le sue truppe scelte a Karne e le sue furie di drago fecero scempio dell’esercito nemico, spazzando via le prime file e, peggio ancora, mietendo vittime anche all’interno e persino nelle retrovie. Il generale nemico diede ordine di avanzare, disperato e terrorizzato, mentre il suo esercito cominciava a disperdersi nel caos del cieco orrore per quella morte che pioveva dal cielo come una grandine di fuoco. La cavalleria rakiana però li pungolò ai lati, costringendoli a mantenere la posizione, mentre le canne continuavano a vomitare distruzione alle loro spalle, spingendoli in avanti come pecore al macello. In avanti, verso le truppe bene armate e disciplinate della più micidiale fanteria di tutta Zabad e verso i pugni infuocati che ancora non conoscevano. Fu una mattanza e ai soldati rakiani rimase il cruento compito di finire i superstiti. Le ultime due provincie ribelli, contro cui stava dividendo la sua attenzione Bors, deposero le armi, implorando misericordia.
Zaron passò il resto del tempo a stanare gli ultimi ribelli e senza un briciolo di pietà li fece trucidare tutti. Coloro che si arrendevano avevano la misericordia di una morte veloce e dignitosa, nonché la promessa di amnistia per le loro famiglie; gli altri, che fino all’ultimo decisero di combattere, dandosi alla macchia e cercando di resistere con una strategia di guerriglia, venivano presi e pubblicamente giustiziati, venendo cosparsi di pece e arsi vivi nelle piazze di quel che rimaneva delle città principali.
L’imperatore era furioso e non solo per l’oltraggio della ribellione o per la cocciutaggine dei rivoltosi. Ciò che più gli rimordeva era la distruzione che aveva dovuto lui stesso portare nel suo impero, devastando le città e le campagne, uccidendo quelli che avrebbero dovuto essere i suoi fedeli sudditi. A ogni città rasa al suolo, a ogni albero appesantito dai cadaveri digrignava i denti e sputava veleno. Cara riusciva a malapena a calmarlo, discutendo con lui fino a notte inoltrata le strategie da adottare e ripercorrendo passo a passo ogni agguato, ogni sconfitta subita. Se non fosse stato per lei, che a parole e a fatti lo convinceva, a volte sbattendogli in faccia i rapporti, che tutto quello che stava compiendo era necessario, sarebbe sprofondato nello sconforto più cupo oppure si sarebbe lasciato trasportare della lucida furia omicida che a volte lo coglieva in battaglia, perdendo di vista il punto d’arrivo: la pace nel suo impero, possibilmente una pace che non fosse quella della morte. Il suo esercito aveva preso a sussurrare il suo soprannome al suo passaggio e a gridarlo mentre correva a spada sguainata verso il nemico: Drago! Drago!
Zaron ne ricavava una tetra soddisfazione.
Quasi nove mesi dopo la sua partenza da Halanda, poté dichiarare che la guerra si fosse conclusa e ogni anelito d’indipendenza soffocato. Aveva rimandato a casa Cara una settimana prima ed era ansioso di tornare a Halanda, di rivedere le sue bambine, le sue ragazze e di riabbracciare la sua cara, cara moglie, che aveva sognato come una colonna di luce in quell’inferno di cenere e puzzo di carne umana bruciata e sangue marcio. Era stanco, amareggiato, aveva perso peso e si era lasciato crescere la barba e i capelli perché aveva a malapena avuto tempo di dormire, figuriamoci curare l’aspetto.
La rivolta era stata soffocata ma lo aspettava ancora un lungo lavoro di ricostruzione. Distruggere, uccidere, quella era la parte facile; convincere la popolazione a uscire dalle tane di coniglio in cui aveva cercato rifugio e a tornare a lavorare la terra, a curare il bestiame, a commerciare e soprattutto a pagare le tasse, sarebbe stato molto più difficile. Ma di quello se ne sarebbero occupati i suoi amministratori. Zaron amaramente rimpiangeva la perdita dei governatori uccisi dai ribelli: tutti uomini validi e onesti che sarebbero stati capaci di gestire con pugno giusto seppur ferreo quel disastro economico e umano.
Accompagnato da Bors, si era imbarcato sulla sua aeronave da guerra e aveva stancamente dato ordine di dirigersi a Halanda, percorrendo il più breve tragitto possibile. Stava riposando nella sua cabina quando, tre ore dopo, mentre sorvolavano le foreste tropicali di Myanam, una furia di drago fu lanciato e come un fulmine rosso che però si originava dalla terra invece che dalle nubi, colpì l’aeronave che, come una pietra infuocata, precipitò.
 
Quando Zaron era partito per Vanadia anche Deja, come l’imperatore, era sicura che la guerra si sarebbe conclusa in breve tempo e che presto suo marito avrebbe fatto ritorno. Ma poi nuovi focolai si erano accesi e le poche settimane si erano trascinate in mesi. Deja aveva stretto i denti e, forte dell’appoggio del marito con cui comunicava tramite telegramma, quando possibile, altrimenti con lettere trasportate da veloci corrieri, aveva preso a presiedere da sola alle riunioni del governo rakiano. I ministri di Zaron da anni erano abituati alla sua muta presenza e quando, spalleggiata da due guardie faliq, si sedette per la prima volta al suo solito scranno a fianco di quello vuoto del khan e intimò agli stupiti nobili di procedere come se nulla fosse, quegli uomini si scambiarono sguardi scandalizzati, ma poi proseguirono, pronti però a protestare a gran voce, nonostante il giustificato timore che avevano del loro signore, se lei avesse provato a prendere la parola o a imporre la sua volontà. La regina tuttavia rimase silenziosa, come suo uso, durante tutto il dibattimento, osservando con occhi attenti ogni gesto, ogni espressione e soprattutto prestando ascolto a ogni cosa che veniva detta. Per i nobili signori rakiani era come avere le orecchie e gli occhi del loro khan in quella stanza con loro e ne erano nervosamente consapevoli. La regina acquisì un’aurea quasi mistica, seguita da un folto drappello di guardie armate in cui i rosso vestiti faliq erano la maggioranza. Vestita sempre in azzurro, che fosse un abito rakiano o issiano, come i suoi occhi chiari che parevano scrutare nei cuori e nelle menti dei suoi cortigiani, quella che era arrivata a Halanda come un bambina aggrappata al braccio di Zaron, quasi un accessorio, il trofeo di una conquista, ora si muoveva come un prolungamento dell’imperatore, la sua voce l’eco di quella del khan. Da quasi nove mesi regnava in vece del marito, facendo valere la sua autorità, silenziosa ma tuttavia ingerente e impossibile da negare, quando l’aeronave che trasportava il khan partì ma non arrivò. Si spedirono telegrammi e messaggeri e quando fu confermato che l’imperatore non era mai arrivato a destinazione, che mancava ormai da più di un giorno e che probabilmente era morto, Deja si ritirò nell’harem a gridare tutto il suo dolore, convinta di aver perso per sempre l’uomo che amava e attorno al quale aveva costruito tutti i sogni della sua vita futura, convinta che il cuore le si sarebbe avvizzito nel petto, trasformandola in arida pietra.
Perla la raggiunse nelle sue camere mentre ancora singhiozzava, rannicchiata su sé stessa sul pavimento.
- Alzati Deja!
La voce della concubina aveva un tono allarmato che tuttavia non riuscì a penetrare la coltre del dolore che avvolgeva la regina. La donna più anziana la strattonò per le braccia, costringendola ad alzarsi.
- Non hai tempo da perdere in pianti!
La ragazza aprì gli occhi ma il perché agonizzante che aveva sulle labbra morì davanti all’espressione spaventata della donna.
- Se Zaron è morto, e sottolineo se…
Disse Perla ora che aveva l’attenzione di Deja.
- Tu sarai la prossima! Sei in grave pericolo, non ti immagini neppure quanto. Tutte noi lo siamo.
- Cosa…?
- Bors era l’uomo di fiducia di Zaron, quello a cui il khan aveva affidato il suo erede…
La voce di Perla tremava di disperazione. Bors, si ricordò improvvisamente Deja con un tuffo al cuore, viaggiava con Zaron quando la sua aeronave era scomparsa, Famira, Famira, povera Famira…!
- Se anche Bors è morto la stirpe di cui Zaron faceva parte è andata perduta e tu, tu sei solo la sua vedova, non sei la madre del nuovo khan! Non sei nulla…!
Perla la scosse, cercando di inculcarle a forza la coscienza del pericolo in cui si trovava.
- Potrebbe scoppiare una guerra di successione da un momento all’altro! Devi fuggire, prendi tutti i tuoi uomini, parla con il capo delle tue guardie issiane e organizza il tuo ritorno a Issa. Adesso donna, non domani!
Deja si divincolò dalle mani della concubina.
- No! Non fuggirò.
Una folle speranza le era nata in petto e i suoi occhi riflettevano quella disperata follia.
- Non abbiamo conferme che Zaron sia morto, io non lo crederò fino a che non mi avranno presentato il suo cadavere! Sono la sua regina e non fuggirò come una ladra nella notte!
- Tu non capisci Deja!
Aveva urlato la concubina.
- Sei solo una donna: nessuno ti seguirà!
- Lo vedremo.
Aveva sussurrato con voce cupa e determinata. Si era lavata il viso ed era uscita dall’ala femminile a testa alta per conferire con il capitano delle sue guardie del corpo, lord Kalin che aveva sostituito Ostin, e con il capo dei faliq. Ebbe la loro fedeltà con il più vincolante dei giuramenti, anche se Hikij dovette ammettere con evidente riluttanza che avrebbe potuto obbedire ai suoi ordini solo fino a quando la morte del khan non fosse stata confermata. A quel punto lui e gli altri faliq avrebbero atteso, imparziali, l’emergere di una nuova dinastia regnante.
- Vi chiedo di seguirmi solo in quanto vostra regina. Nel momento in cui cesserò di esserlo non pretendo che mi rimaniate fedeli.
Poi si era recata davanti alla corte di suo marito, pronta ad affrontare i nobili signori di Rakon.
La corte era riunita a Palazzo Reale, aggregandosi spontaneamente, senza nessuna convocazione da parte di Deja. Il brusio che riempiva la sala del trono di Zaron cessò in una muta sorpresa quando la regina fece il suo ingresso scortata da trenta guardie armate e da un servitore che recava uno sgabello. Il giovane servo lo mise ai piedi del trono e Deja vi prese posto.
- Avete qualcosa da sottopormi, nobili signori?
Chiese con voce ferma e espressione di pietra.
- È per questo che vi siete riuniti qui, non convocati?
Un nobile vestito in seta rossa e oro, vestito troppo riccamente, con colori regali, si fece avanti. L’uomo era sulla quarantina, il fisico asciutto e muscoloso che lasciava intuire un passato militare, e Deja lo riconobbe come il nobile Dassikiv, mentre Zaron l’avrebbe facilmente riconosciuto come uno dei dissidenti che avevano sfiorato il complotto contro la sua giovane sposa nel loro primo anno di matrimonio.
- Non è nelle tue prerogative convocarci, Deja di Issa.
Esordì con voce sprezzante. Le guardie issiane misero le mani sulle else delle spade e i faliq trasudarono minaccia. Deja sollevò pigramente una mano, per intimare loro pazienza. Arricciò le labbra in una smorfia di disprezzo e rispose a tono.
- Non è prerogativa di certo tua, nobile Dassikiv. E ti rivolgerai a me come vostra maestà. Io sono la tua regina, non dimenticarlo.
Lui le rise in faccia e la sua risata di scherno galoppò oscenamente sulla volta arcuata della sala.
- Tu non sei la mia regina: tu eri la regina di khan Zaron, la sua sposa, carpita come un bottino di guerra a un nemico sconfitto. Il tuo regno esiste ancora solo per la grazia del nostro defunto khan e tu, tu che non sei stata in grado di dargli un figlio, sei tornata a rappresentare il bottino di guerra che ti eri illusa di non essere.
La squadrò, fissando il suo sguardo con volgarità lì dove nessuno osava più guardarla direttamente da anni, per timore della gelosia del marito.
- Speri forse che il prossimo khan ti scelga come moglie, quando ti sei rivelata sterile? Quando non sei che una femmina straniera, senza legami in questa terra? Khan Zaron era un eroe, un conquistatore, un grande uomo e un superbo condottiero. Tu non sei la sua eredità.
Il nobile Brafit emerse dalle file degli uomini riuniti, schiarendosi la voce nervosamente, venendo sorprendentemente in soccorso della regina.
- A proposito di eredità, nobile Dassikiv, mi sento in dovere di ricordarti la possibilità che esita un erede maschio del nostro compianto khan. La tradizione vuole che si attendano almeno dieci giorni dalla morte del khan per dare tempo e modo a un eventuale erede di farsi avanti.
Dassikiv si volse verso il suo interlocutore.
- E io ti ricordo che in mancanza di un erede maschio, i parenti maschi più prossimi, in virtù del matrimonio con le sorelle o le figlie legittime del khan, possono farsi avanti, tentando di reclamare per sé la corona.
Brafit aveva sobbalzato, cominciando a sudare, convinto che l’altro uomo gli chiedesse un’entrata in campo.
- Io credo, mio nobile fratello rakiano, che la cosa più saggia da fare sarebbe attendere che il corpo di khan Zaron venga riportato a Halanda, gli venga data la sepoltura degna di un uomo della sua levatura, attendere i dieci giorni richiesti dalla tradizione e poi …
- E poi nulla, mio florido amico. Non stavo parlando di te, ma di me stesso: tra due giorni sposerò la nobile Cefan, sorella di tua moglie, e ho tutte le intenzioni di farmi avanti per ottenere quel che mi spetta.
Levò un braccio, puntando al trono dietro la regina.
- Vi state dimenticando signori,
Tuonò lei, prendendo la voce dal ventre, come le aveva insegnato suo padre, per suonare autoritaria invece che una donnetta stridula.
- Che il khan è stato dichiarato solo disperso, non morto. Il suo cadavere non è stato ancora ritrovato e fino a che non avrò le sue spoglie mortali prive di vita davanti ai miei occhi, continuerò a ritenerlo il mio khan, il vostro khan e a pretendere che voi gli rechiate onore continuando a mostrargli fedeltà. È indegno il modo in cui vi disputate il trono, come cani rognosi che si azzuffano su un osso marcio. Se mio marito verrà ritrovato morto, io mi inchinerò e giurerò per prima ubbidienza al suo successore, che sia suo erede per sangue o per matrimonio. Se cercherete di prendere il potere con la forza scoprirete quanto poca compassione c’è in me e che mio marito ne è totalmente sprovvisto. Vi consiglio,
Aveva guardato in faccia tutti i nobili che non avevano distolto il viso, fissando i suoi occhi gelidi in quelli scuri di loro, incontrando sfida e timore in egual misura.
- Vi consiglio di riflettere bene sulle vostre azioni e a chi dovete fedeltà.
Detto questo si era alzata e aveva lasciato la sala del trono, seguita dai suoi soldati, con andatura lenta e a testa alta.
- Sei una pazza incosciente.
Le aveva detto Tallia poco più tardi. Deja aveva sorriso tremante.
- E stai buttando via la tua vita. Noi verremo risparmiate: siamo solo concubine, poco più che puttane e le nostre figlie sono bastarde che verranno fatte sposare nella famiglia del vincitore, per cementare l’unione con il sangue. Tu sei la regina, se non finirai a fare la concubina del nuovo khan verrai data ai suoi soldati, stuprata a morte e poi buttata dalle mura come immondizia. Certo, le tue guardie issiane combatteranno per te fino alla fine e verranno tutte trucidate. Tuo padre probabilmente insorgerà, trascinando Issa nella rovina. E tutti i nobili che in questi anni ti hanno seguita a Halanda e si sono fatti una vita qui, patiranno la stessa sorte. Dovevi fuggire quando era tempo e poi inchinarti graziosamente al nuovo khan, giurandogli fedeltà.
Deja aveva scosso cupamente il capo e stretto i denti, con testardaggine.
- Questo avverrà solo se Zaron è morto davvero. E se Dassikiv vincerà la gara per il trono. Brafit mi è apparso… più conciliante. Io e Sali siamo sempre andate d’accordo.
- Non ci sono amici quando l’ambizione è la tua più cara amante!
Aveva urlato Tallia esasperata e Cara l’aveva sostenuta con le sue argomentazioni.
- Brafit non ti violenterà, forse, né ti darà ai suoi soldati, ma lasciarti viva e libera sarebbe un’ingiustificabile dimostrazione di debolezza, che non può permettersi in alcun modo visto che ora ha un rivale. L’unica cosa che lo avvantaggia è che lui ha già dei figli da sua moglie, mentre quella cagna di Cefan ha superato i trenta e non è sicuro che sarà in grado di dare a Dassikiv un erede maschio e sano. Dei…! Come hanno fatto a organizzare tutto senza che nessuno ne sapesse niente? Sei sicura che il nobile Brafit non ne fosse a conoscenza? Forse sono d’accordo e hanno deciso di spartirsi l’impero.
Deja scosse fermamente il capo.
- Brafit era imbarazzato dagli insulti che Dassikiv mi rivolgeva e genuinamente sorpreso dall’annuncio delle nozze. Ho già dato ordine ai miei nobili di evacuare la città come misura precauzionale.
La regina fece una smorfia scontenta.
- Ma so già che alcuni di loro insisteranno per rimanere con me, fino alla fine.
Tallia aveva sollevato le braccia al cielo.
- Voi issiani siete propensi al martirio! Ma non c’è nulla di glorioso nell’essere sgozzati o morire urlando sotto il corpo di un soldato che grugnisce! Ti imploro Deja, pensa almeno a un’onorevole suicidio. Non lasciare che ti prendano viva… Fallo per Zaron, non lasciarti brutalizzare da nessuno…
Sentir nominare suo marito fece ondeggiare di dolore Deja, come un albero abbattuto che ancora è incerto su che lato cadere.
- Zaron non è morto.
Si ripeté con la forza della disperazione e si accinse a organizzare una strenua difesa che sparava non sarebbe mai servita.



*furia di drago: lo ammetto, ho subito pensato alle uova di drago del ciclo della Ruota del Tempo. L’idea è di proprietà degli eredi di Robert Jordan (sei stato e sei ancora il mio scrittore preferito, grazie per aver lavorato fino alla fine all’ultimo libro: RIP).
 
NOTE DELL’AUTRICE: Salve! Riguardo a Ostin, volevo dirvi che il fatto che fosse omosessuale, cui avevo già accennato nelle mie note precedenti, è l’unica cosa che sentivo potesse giustificare per Zaron il lascialo andare: non è un uomo violento ma è geloso e possessivo. Il che, mi rendo conto, non è sempre una buona qualità. D’altra parte non si ottiene un impero con la diplomazia ma sui cadaveri dei nemici conquistati. Volevo mostrare in questo capitolo come Zaron possa essere allo stesso tempo un uomo feroce, un soldato implacabile e un innamorato dolcissimo.

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Capitolo 8
*** Un tesoro incustodito e il suo drago ***


VIII. UN TESORO INCUSTODITO E IL SUO DRAGO

 
 
Zaron stava dormendo quando la furia di drago colpì la sua aeronave e forse fu proprio quello che gli salvò la vita. Quello e il fatto che la sua cabina si trovasse alla fine della gondola. L’esplosione lo svegliò e lo buttò a terra. Bocconi sul pavimento poté sentire la caduta, la forza di gravità farsi più leggera, quasi il suo corpo fosse inconsistente. Si guardò intorno, inorridito, comprendendo che la sua vita stava per finire in pochi, preziosi attimi. La sua mente si svuotò, non pensò a nulla e a nessuno, mentre un baratro nero di puro terrore animale lo coglieva. Poi ci fu uno schianto che lo assordò, il colpo e il contraccolpo che gli fecero tremare tutte le ossa e sbattere con violenza i denti. Solo allora, solo quando una trave infuocata gli rovinò addosso si rese conto che stavano bruciando e che non poteva essere stato un difetto tecnico o un’avaria. Poi ci fu solo il dolore, mentre la trave e tutto il peso che si portava addosso gli spezzavano il braccio sinistro e la sua casacca prendeva fuoco all’altezza della spalla. Stordito, poté solo urlare di dolore e paura mentre sentiva la stoffa bruciare e poi la sua stessa carne cominciare a sfrigolare. Urlava ancora quando due mani forti lo afferrarono per le gambe e lo tirarono via con forza da sotto la travatura infuocata che, cadendo sul letto, aveva fermato la sua corsa mortale, colpendolo ma non schiacciandolo.
Bors lo afferrò da dietro, passandogli le braccia sotto le ascelle e lo trascinò attraverso i rottami della sua cabina. Una parete si era crepata, spaccandosi e permettendo al generale di portare fuori da quella trappola infernale il suo khan.
Quando a Zaron smisero di fischiare le orecchie e riuscì a recuperare lucidità, si guardò intorno. Bors lo aveva disteso per terra, sul terreno umido e nero della foresta. L’aeronave cadendo aveva sfondato il tetto degli alti alberi che allungavano a rete i loro rami e questo ne aveva miracolosamente frenato la caduta. Cinque uomini tossivano e gemevano intorno a lui, cinque dei quaranta che erano a bordo. Con occhi sbarrati l’imperatore guardava la gondola bruciare, riuscendo ad appiccare il fuoco anche alle fronde circostanti, nonostante l’umidità dell’aria. Bors gli si fece innanzi zoppicando vistosamente, il viso una maschera di dolore fuligginosa.
- Mio khan, come vi sentite?
Zaron cercò di alzarsi. Una fitta terribile al braccio e alla spalla sinistra gli fece stringere i denti con un gemito strozzato di dolore.
- Posso camminare.
Riuscì a dire. Il suo generale valutò velocemente le sue condizioni, poi annuì.
- Bene, perché dobbiamo muoverci: siamo stati attaccati, mio signore, e chi ci ha colpito non può essere molto lontano. Potrebbero venire in cerca di eventuali superstiti.
- Cosa è successo?
Rantolò l’imperatore mentre Bors si strappava entrambe le maniche della casacca per farne una benda con cui bloccargli il braccio contro il corpo.
- Ero in mensa e ho visto la scia infuocata di una furia di drago passarmi praticamente davanti agli occhi. Sono corso da voi, ero fuori dalla vostra porta quando siamo caduti.
Zaron chiuse gli occhi un attimo, rendendosi conto che qualcuno aveva cercato di ucciderlo, di nuovo, con una delle sue armi segrete: c’era un traditore tra le sue truppe scelte, solo uno dei soldati addestrati nell’uso delle canne avrebbe potuto attaccarlo.
- Ti devo la mia vita Bors. Se non fosse stato per te…
Guardò i resti della gondola che collassavano sollevando una colonna di scintille.
- Ho fatto il mio dovere, mio khan. Ma se volete ringraziarmi potrete farlo cominciando a camminare. Dobbiamo andare!
Zaron annuì, lanciando uno sguardo pietoso i suoi soldati: solo due erano in grado di mettersi in marcia, anche Bors era messo male.
- Da che parte?
Bors si guardò intorno, cercando di scrutare il cielo.
- Ci stavamo muovendo verso nord-est quando siamo caduti, suggerisco di continuare in quella direzione. Dobbiamo raggiungere il fiume il prima possibile: spostarsi nella foresta è già difficile quando si è in ottime condizioni di salute. Se troviamo un villaggio possiamo chiedere soccorso.
Avevano dovuto abbandonare i feriti e procedere a piedi, Zaron aveva ordinato a Bors di poggiarsi sul suo lato desto e lo aiutava a camminare sorreggendolo. Si erano fermati solo per bere un po’ d’acqua, dalle grandi foglie che raccoglievano l’umidità dell’aria. La spalla di Zaron pulsava di dolore in concerto con il braccio e riusciva a immaginare quanto doloroso fosse per Bors ogni passo, tuttavia procedettero fino a notte, quando trovarono riparo tra le radici di un enorme albero. Fu una notte insonne: erano bagnati, affamati, feriti e ogni rumore poteva essere una belva che aveva più fame di loro, o un sicario venuto a finirli. Poco dopo l’alba invece, a trovarli fu un solitario cacciatore, un ragazzo sui quindici anni con in mano piccole trappole e una rete per uccelli. Fissò a occhi sgranati i quattro sopravvissuti, riconoscendo all’istante le insegne militari e capendo che erano soldati, intuendo che dovevano avere a che fare con il fumo che aveva visto salire dalla foresta. Si offrì di condurli al suo villaggio per farli guardare dalla loro guaritrice.
Mangiarono, lavarono le ferite e la guaritrice, una ragazza sorprendentemente giovane e graziosa, sistemò il braccio di Zaron e ricucì le profonde lacerazioni nella gamba di Bors. Per le bruciature tuttavia non poteva fare niente: al massimo la sua esperienza si spingeva fino a qualche dito che aveva toccato una pentola bollente o alle mani curiose dei bambini che si avvicinavano troppo ai focolari. Ottennero una barca però, una canoa lunga e sottile e un pescatore che si offrì di condurli fino al villaggio più grande, più su lungo il fiume.
Da lì ottennero un passaggio fino alla città di Laiu che aveva una piccola guarnigione. Il capitano, che aveva servito vent’anni prima sotto lo stesso generale sotto cui aveva servito Zaron, allora un semplice soldato, fortunatamente lo riconobbe e ottennero migliori cure mediche. L’imperatore proibì al capitano di dire ai suoi soldati chi avevano soccorso. A Zaron era insorta una brutta febbre, il guaritore migliore di Laiu aveva dovuto incidere la pelle per far uscire il pus che si era formato e lavare in profondità la ferita per prevenire future infezioni che avrebbero potuto ucciderlo. Mentre lavorava alla sua spalla il khan era svenuto urlando e il guaritore ne aveva approfittato per incidere con un bisturi la carne, togliendo la pelle e le parti infette con accurata precisione. Il khan aveva dormito quasi due giorni, passando il peggio della febbre, e al terzo si era svegliato di soprassalto, con un nome sulle labbra: Deja. Aveva precettato l’intera guarnigione ed era montato a cavallo nonostante le proteste del guaritore. Aveva dovuto ordinare a Bors di rimanere indietro, minacciando di farlo chiudere in prigione: anche la sua ferita si era infettata, più in profondità di quella di Zaron dato che si era trascinato per la foresta e sforzando la gamba rischiava di perderla.
- O aspetti di guarire un po’ o ci segui su un carro! Non voglio essere io a dover dire a tua moglie e alla mia che ti hanno dovuto amputare la gamba perché non hai saputo pazientare un paio di giorni.
- Vi seguirò con un carro.
Aveva digrignato Bors, pur inchinandosi alla sua volontà.
Conscio che chi aveva cercato di ucciderlo ci avrebbe potuto riprovare se si fosse saputo che era ancora vivo, ma ferito e privo di scorta, aveva attraversato il Myanam raccogliendo tutti i soldati che aveva incrociato sulla via verso Rakon. Avevano attraversato il confine da poche ore quando una guardia faliq li raggiunse cavalcando a rotta di collo, li superò, lanciando un’occhiata fugace al soldato che cavalcava in capo alla colonna e poi frenò bruscamente la sua cavalcatura, quasi venendo sbalzato da sella. Tornò indietro, mentre i soldati circondavano con fare protettivo l’imperatore.
- Mio khan!
Esclamò con voce strozzata il faliq, scendendo da cavallo e buttandosi in ginocchio, battendosi il petto.
- Mio khan, tutti vi credono morto! Solo la regina…! Ha mandato delle guardie lungo il percorso che dovevate fare, per cercare tracce di cosa poteva esservi capitato.
Zaron aveva ghignato con cattiveria. Si era lasciato i capelli lunghi, ma si era tagliato la barba, quella dannata cosa prudeva.
- Mi credono morto? Bene!
- No, mio signore, non va affatto bene!
Aveva osato contraddirlo il faliq con una nota d’allarme nella voce.
- La lotta per la successione sta per scoppiare violenta, la regina è praticamente assediata a Palazzo Reale. La corte non ubbidisce più ai suoi ordini, uomini armati girano per la Città Nuova e la Città Vecchia, le residenze dei nobili issiani nella Città Nuova sono state attaccate e saccheggiate. Solo l’attesa dei dieci giorni per la comparsa dell’erede ha fermato lo scoppio dei disordini. Mio khan, avete tre giorni per arrivare a Halanda prima che i pretendenti comincino a contendersi il vostro trono, passando sul cadavere della vostra regina.
Zaron si era sentito mancare, ondeggiando sulla sella, ed era rimasto ad arcione solo aggrappandosi con forza alla criniera del cavallo.
- Cavalieri, con me!
Aveva urlato, lasciando nella polvere i fanti, che lo avrebbero rallentato, e aveva seguito il faliq sul suo cavallo schiumante.
Era giunto alla capitale il mattino del giorno seguente, dopo aver cambiato cavallo, avendo ucciso di fatica il suo, costringendo un altro a rimanere a piedi.
Sporco, dimagrito, con addosso un’armatura presa in prestito, era entrato a Halanda irriconoscibile, con il faliq e altri ventitré soldati a cavallo. Ai piedi della salita per la Città Vecchia un manipolo di uomini armati aveva cercato di fermarli ma loro erano a piedi, mentre Zaron e i suoi erano a cavallo e li avevano facilmente travolti. Le guardie che presidiavano l’ingresso del Palazzo Reale avevano abbassato le picche con fare minaccioso al loro arrivo, ma poi avevano riconosciuto il loro khan, lasciando cadere le armi e inginocchiandosi al suo passaggio.
Come una furia vendicatrice Zaron aveva attraversato il suo Palazzo, notando il sollievo dipinto sui visi della servitù e delle guardie e ordinando di mandare messaggeri per tutta Halanda e per tutto l’impero, in quelle zone non raggiunte dal telegrafo, per spargere la notizia che le voci sulla sua dipartita erano state premature.
Nella sala del trono fu intercettato da Hikij; prima che il faliq potesse inchinarsi Zaron lo interrogò a bruciapelo.
- Mia moglie?
Chiese con voce roca e piena d’ansia.
- Incolume, mio khan. Al momento è nell’harem: il punto più difendibile di tutto il Palazzo. La faccio subito chiamare.
- No!
Zaron lo fermò.
- No, prima voglio riunire la corte, poi mi recherò io stesso da lei. Intanto va’ e dille che sono vivo, dille di aspettarmi. Mandami invece a chiamare il mio maestro delle spie. Hanno cercato di uccidermi,
Proseguì con manifesta rabbia, scoprendo i denti in una smorfia aggressiva.
- E voglio sapere chi!
 
Le voci di palazzo avevano anticipato il capo dei faliq che trovò la regina con il viso in lacrime che tentava di uscire dall’ala femminile per verificare di persona che l’uomo che era stato visto fosse davvero suo marito.
- Mia regina!
La bloccò Hikij.
- Vi prego, per la vostra sicurezza sarebbe meglio che rientraste nell’harem. Posso darvi io la lieta notizia che cercate: khan Zaron è vivo, ho parlato con lui poco fa. Il suo primo ordine è stato di garantire la vostra incolumità, vi chiede di rimanere al sicuro, appena possibile vi raggiungerà lui.
La regina, intontita per la notizia, fu nuovamente sospinta all’interno delle porte, accolta dalle braccia tese delle concubine.
- È vivo, è qui.
Sussurrava con labbra pallide e i suoi occhi sgranati cercavano i visi delle donne che la circondavano. Poi con un urlo di gioia cadde a terra, lasciandosi andare in un pianto liberatorio, abbracciata e seguita dalle altre, anche loro in lacrime e con raggianti sorrisi sulle labbra.
Attesero numerose ore l’arrivo di Zaron, con Deja che diveniva di ora in ora più impaziente e nervosa. Ogni tanto apriva le porte, per chiedere informazioni su cosa stesse succedendo e le guardie la informarono che il khan aveva riunito la corte e che questa si era inginocchiata deferente davanti a lui, ringraziando gli dei del miracolo che avevano fatto a tutto l’impero.
- Anche quel cane di Dassikiv?
Volle sapere con astio la regina.
- Anche il nobile Dassikiv, mia signora,
Aveva replicato il faliq.
- È stato uno dei primi.
Poi il khan si era riunito per una conferenza privata con il suo maestro delle spie, dalla quale non era ancora riemerso.
Deja camminava su e giù davanti alle porte, mordendosi le unghie e strattonandosi i lunghi capelli sciolti. Perla e le altre concubine, assieme alle bambine, attendevano Zaron nella sala comune, come erano solite fare al ritorno di ogni viaggio del khan, ma lei aveva voluto essere la prima a rivederlo, la prima a parlargli.
Finalmente i battenti dell’ala femminile si aprirono dall’esterno, senza che prima che nessuno avesse bussato, come erano soliti fare i faliq per conferire con chi si trovava all’interno. Le porte si spalancarono e sulla soglia comparve Zaron.
Il cuore di Deja perse un battito prima di mettersi a palpitare con un ritmo impazzito.
Per un attimo la ragazza pensò che sarebbe svenuta, l’attimo dopo si era lanciata a braccia tese su suo marito e lo stava baciando con una forza tale da far sbattere i denti contro quelli di lui, incurante del fatto che le porte si dovevano ancora richiudere e che chiunque poteva assistere a quella dimostrazione d’amore.
Zaron la strinse a sé con un braccio solo, restituendole con urgenza e disperazione il bacio e poi sibilò di dolore, scostandosi da lei, quando Deja gli mise le mani sulle spalle.
Lei fece un passo indietro, inorridita.
- Sei ferito? Dove?
Zaron le sorrise, tenendosi il braccio sinistro premuto contro il corpo.
- Ho un braccio rotto e un’ustione sulla spalla.
Disse con voce pacata, per non allarmarla.
- La prossima fermata è l’infermeria, per farmelo nuovamente bendare. Ho tolto il sostegno al braccio davanti alla corte, non volevo far capire di essere ferito.
Deja lo guardò bene, notando con una stretta al petto tutti i dettagli, tutte le piccole differenze rispetto al marito che aveva salutato più di nove mesi prima.
Il volto di Zaron era smagrito e c’erano delle rughe intorno ai suoi occhi, lucidi di febbre. I capelli, più lunghi di quanto li avesse mai tenuti, gli ricadevano sulla fronte in ciocche scomposte e c’erano dei bagliori argentati nella sua chioma nera. Si era lavato il viso, ma poteva vedere delle linee di sporco sul suo collo, un’ombra di barba sulle guance e le unghie rotte erano decorate da mezzelune nere lì dove si incontravano con la carne.
- Faccio tanto spavento?
Le chiese con dolcezza.
- No, marito mio, amore mio. Sei la cosa più bella che io abbia mai visto.
Replicò la ragazza con voce tremante, avvicinandolo ancora e poggiando le labbra su quelle sorridenti di lui, in un soffice bacio.
- Mi dispiace cara, di aver fatto così tardi da perdere il tuo compleanno…
Le sussurrò lui, stringendola nuovamente in vita con il braccio sano. Deja poggiò la propria fronte contro la sua e chiuse gli occhi per meglio assaporare l’attimo.
- Non essere ridicolo…
Lo rimproverò con un sussurro roco. Il suo diciassettesimo compleanno era caduto due giorni prima e solo le bambine, per cui ogni compleanno era una pietra miliare che andava necessariamente festeggiata, le avevano fatto mestamente gli auguri. Deja non aveva neanche badato al passare dei giorni e all’arrivo di quello che la rendeva di un anno più vecchia: aveva avuto altro a cui pensare e un dolore immenso da cullare in seno.
- Papà!
Urlò una vocina acuta e poi Deja e Zaron si ritrovarono circondati dalle bambine che si spintonavano per stringersi al padre.
- Piano, vostro padre ha il braccio sinistro dolorante.
Le ammonì la ragazza.
- Bentornato Zaron.
Venne la voce commossa di Perla. Lei e le altre concubine gli si fecero attorno, baciandolo e carezzandogli il capo e le guance, con gli occhi lucidi.
- Non spaventarci mai più così,
Gli intimò Tallia, con occhi asciutti e volto truce.
- Elina non la smetteva più di piangere.
Concluse e la sua voce si incrinò pronunciando il nome della figlia.
Zaron si fermò poco, rimanendo nel vestibolo dell’harem, e poi dovette lasciarle a malincuore, per farsi medicare.
- Ho moltissime cose da sistemare: l’impero sembra non riuscire ad andare avanti senza di me…
Commentò ridendo, poi la sua voce si fece piena di desiderio.
- E non vedo l’ora di farmi un bagno… Ci rivedremo a cena, ragazze mie.
Sorrise a tutte le sue concubine, carezzò i capelli delle figlie e per ultima salutò Deja con un bacio sulle labbra, suscitando i versi di disgusto delle sue bambine.
Lui mantenne la promessa e poco prima di cena tornò nell’harem. Si era fatto il tanto agognato bagno e i capelli scuri erano pettinati all’indietro, si era anche fatto la barba, ma i suoi occhi erano ancora febbricitanti e una stretta fasciatura gli bloccava il braccio piegato al petto, immobilizzandolo. Si dovette sedere a tavola tenendo Elina in braccio perché le sue figlie si erano litigate il diritto di mangiare al suo fianco, depositando ogni tanto dei baci sulla testolina bruna della bimba e poi ridendo si doveva sporgere a baciare anche le altre due, persino Kirsis che dall’alto dei suoi undici anni si sentiva ormai un’adulta.
Si era intrattenuto con le sue ragazze fino a sera tardi, aspettando che le bambine, una dopo l’altra, andassero a letto e poi aveva subìto l’interrogatorio delle sue donne.
- Cos’è successo veramente?
Gli chiese a bruciapelo Perla, dopo che anche Kirsis era stata convinta a ritirarsi per la notte.
- La mia aeronave è stata abbattuta in volo.
La sua affermazione strappò un rantolo a Deja.
- Un razzo?
Gli chiese con voce tremante, portandosi i pugni stretti al petto. Lui scosse il capo.
- Non proprio. I razzi di Issa mi hanno dato un’idea per una nuova arma, l’arma con cui ho schiacciato la ribellione. La mia arma!
La voce di Zaron si fece irosa.
- Qualcuno mi ha tradito. Ho fatto preparare solo cinquanta canne ed è stata una di queste che ha lanciato la furia di drago che ci ha abbattuti.
A denti stretti Zaron si ritrovò a spiegare il funzionamento della nuova micidiale arma ideata da lui e creata con l’ingegnosità di Issa.
- Sospetti di un coinvolgimento di Issa?
Aveva chiesto Deja con un filo di voce, facendosi terrea e pensando a suo padre.
- No, mia cara. Nessun issiano, a parte gli scienziati che hanno progettato le armi, avrebbe potuto usarle. E li ho fatti controllare, loro sono strettamente sorvegliati, non avrebbero mai avuto il tempo e la possibilità d tradirmi, neanche se avessero voluto e non lo credo possibile. No,
Proseguì con decisione.
- La congiura è rakiana. Deve essere stato un soldato rakiano delle mie truppe speciali, appositamente addestrate nell’uso delle canne, ad aver sparato la furia contro di me. È questo che il mio maestro delle spie sta indagando adesso: come sia potuta essere arrivata fin lì quell’arma che avrebbe dovuto stare con l’esercito, chi la maneggiava e soprattutto chi è il mandante.
- Dassikiv.
Sibilò con velenosa convinzione Deja.
- Il mio nuovo cognato. Può essere, ma prima di giustiziarlo ho bisogno di prove solide. Anche se il fatto di aver sposato Cefan non depone a suo favore, sono tuttavia tentato di porgergli il mio più vivo cordoglio per le sue nozze, si merita tutta la fortuna di cui dispone per gestire quell’arpia.
I suoi occhi già lucidi sembrarono brillare ancora di più di una luce quasi sadica.
- Voglio una punizione esemplare per il responsabile. Voglio che quello che farò al colpevole faccia passare la voglia per sempre a tutti di riprovarci.
- Come ti sei ferito?
Chiese Mira, leggermente a disagio per come procedeva la conversazione.
- L’aeronave ha preso fuoco prima di cadere, un pezzo di legno mi è finito addosso, ustionandomi la spalla e spezzandomi il braccio. Sono stato… molto, molto fortunato. Se Bors non mi avesse tratto dal rottame in fiamme…
- Bors…!
Deja quasi balzò in piedi.
- Oh, dea! Non ti ho chiesto di Bors… sono un’amica terribile! Quindi è vivo? Famira deve essere avvertita.
- Ci ho pensato io,
La tranquillizzò lui.
- Bors è vivo, ma ferito a una gamba. Viaggiava più lentamente di me, ma sarà a Halanda molto presto, vedrai.
- È grave l’ustione?
Chiese con preoccupazione Perla.
- No, solo maledettamente dolorosa. Non è molto estesa ma prima che raggiungessi la civiltà si è infettata e il guaritore ha dovuto incidere a fondo. Ci metterà del tempo a guarire e rimarrà una brutta cicatrice.
Zaron fece una smorfia, portandosi la mano destra alla ferita, sapendo che sua presenza era facile da individuare per la massa dei bendaggi che gli avvolgeva la spalla sotto la casacca rossa e dorata.
- Adesso,
Disse con un prolungato sbadiglio.
- Sono davvero stanco. Ho cavalcato a rotta di collo dal confine con il Myanam fino a qui, fermandomi solo per far riposare il cavallo. Sono nove giorni che non dormo in un letto.
Si alzò e tese la mano a Deja.
- Vieni, mia cara?
La ragazza guardò la mano tesa a bocca aperta, interdetta. Mai, in più di quattro anni di matrimonio, Zaron aveva richiesto esplicitamente di lei. Lui sembrò interpretare il suo stupore come un rifiuto, perché la mano tesa si abbassò lentamente mentre la delusione si dipingeva sul suo viso. Deja saltò in piedi e gli strinse la mano, tremante.
- Solo per dormire, mia cara. Sono davvero distrutto ma ho bisogno di averti al mio fianco…
- Sono qui per te.
Si affrettò a sottolineare Deja, con voce colma di emozione.
- In ogni forma in cui tu mi voglia, io sono qui.
Lui le baciò la mano che lei gli aveva poggiato sul palmo, ignorando con decisione gli sguardi attenti delle concubine.
- Vieni allora e veglia sul mio riposo.
Lei gli strinse il braccio e si lasciò guidare fuori dall’harem e nelle stanze di Zaron fino alla sua camera da letto. Qui lui la cinse in vita e si sporse per baciarla, stando attento al braccio rotto e cominciò a inframezzare languidi baci al suo nome, pronunciato con voce roca, piena di passione. Aveva davvero avuto solo intenzione di coricarsi con lei e di stringerla per tenere a bada gli incubi, ma ora che l’aveva tutta per sé, per la prima volta contemplò seriamente la possibilità di perdersi in quel corpo che tanto desiderava e che gli veniva offerto con il generoso abbandono di una ragazza innamorata. A impedirglielo fu il braccio fasciato che si poneva in mezzo a loro come una tangibile realtà che ricordava a Zaron le limitazioni cui il proprio corpo dolorante lo costringeva. Con la coscienza del dolore tornò la lucidità. Si staccò da lei e da quelle rosse labbra tentatrici.
- È meglio che ci fermiamo qui. Aiutami Deja, ho bisogno del tuo aiuto per spogliarmi.
Ammise con riluttanza. Deja, con mani tremanti e inesperte lo aiutò a slegare la stretta fasciatura e a togliersi la casacca. Si bloccò di colpo, davanti al torace nudo del marito, ma non fu la benda attorno alla spalla ustionata ad attirare la sua attenzione, bensì le sinuose linee nere che, all’altezza del cuore, disegnavano un mitico animale. Gli sfiorò il tatuaggio, seguendo con dita curiose l’inchiostro sotto pelle e provocando un’immediata reazione fisica in Zaron che con un gemito si ritrovò a boccheggiare sul baratro di un divorante desiderio, aizzato dalla più innocente delle carezze.
Deja guardava quell’animale, impresso in modo indelebile sulla pelle di suo marito. Il rettile garriva a fauci spalancate, minaccioso. Le zampe anteriori sollevate a custodire l’organo sopra cui il resto del corpo era arrotolato, con la coda squamosa che si arricciava davanti al ventre della bestia, le ali socchiuse, ma tese, pronte ad aprirsi. I tratti erano sbavati, la qualità era buona ma non eccellente.
- Un drago… forte e coraggioso.
Mormorò con voce sognate la ragazza.
- Forte e saggio.
La corresse lui.
Deja sollevò lo sguardo, senza smettere di toccarlo.
- Pudja!
Esclamò, mentre il ricordo nebuloso di una notte si affacciava incerto nella sua mente.
- Pudja,
Confermò Zaron.
- Ti eri ubriacata e non volevi dormire e così, per farti addormentare, ti ho raccontato di come avevo guadagnato il mio soprannome e del perché mi ero fatto tatuare questo drago sul petto.
- Credo di ricordarlo…
Disse lei, corrugando la fronte, concentrata. Poi all’improvviso, arrossendo, si staccò da lui e si diresse con decisione verso il suo armadio, aprendolo e selezionando una delle camicie in cui era solito dormire quando passavano la notte assieme. Gliela porse, abbassando lo sguardo a terra e diventando di un violento color vermiglio.
- Vuoi che ti aiuti anche con i pantaloni?
Gli chiese, esitante. Zaron tossì, sperando che lei non sollevasse lo sguardo e notasse quanto aver avuto le sue mani sulla propria pelle nuda lo avesse eccitato.
- No, va bene così.
Prese l’indumento che lei le porgeva e se lo fece passare per la testa prima di infilare il braccio destro, mosse il sinistro, grugnendo di dolore, per combattere con la sofferenza il fuoco che gli si era acceso dentro.
- Mi aiuti con il braccio?
- Subito.
Lei, con infinita pazienza e attenzione, lo aiutò a infilare anche la manica sinistra e poi a rimettere la fasciatura, per impedire che il braccio si muovesse nel sonno.
- Scusami, non sono molto brava…
Lui le accarezzò il viso con la mano sana e poi lo guidò verso il proprio, per una ulteriore bacio.
- Sei perfetta.
Poi sospirò, chiudendo gli occhi quando si rese conto di un particolare che aveva trascurato.
- Non c’è la tua camicia da notte…
Deja si guardò intorno, incerta.
- Potrei… potrei mettermi nuovamente una delle tue camicie. Come durante la nostra prima notte di nozze…
- Sei più alta adesso, mia cara. La mia camicia non ti arriverebbe più a metà gamba.
Lei lo guardò, interdetta.
- Come fai a sapere che mi arrivava a metà gamba?
Lui le sorrise, imbarazzato.
- Ti agiti molto mentre dormi. Hai buttato a lato le coperte e la mia vestaglia… si era aperta. Ho visto molto di più di quello che tu avresti voluto, temo.
Lei si coprì il viso in fiamme con un gemito mortificato.
- Non preoccuparti: il buio e il mio inesistente desiderio di sbirciare hanno protetto la tua modestia. Ho visto solo che avevi ginocchia ossute e fino a che punto si spingevano i tatuaggi di henné.
Il rossore di Deja non accennava a diminuire e così Zaron la sospinse con delicatezza nuovamente verso il suo armadio.
- Prendi una mia camicia e anche un paio di pantaloni. Poi prova a vedere se ti stanno. Sai dov’è la mia vestaglia.
Lei aveva fatto come lui le aveva suggerito e si era rifugiata in sala da bagno per cambiarsi, mentre Zaron, in preda a una giustificata apprensione, disponeva i soliti pugnali per la stanza, prima di distendersi con un gemito di dolore sul letto. Non poteva stare supino, né prono, né sul fianco sinistro, come era suo uso. Si distese con estrema attenzione, poggiando tutto il suo peso lungo il fianco destro. Presto Deja gli si sarebbe stesa vicino e lui non sarebbe stato in grado neppure di abbracciarla. Digrignò i denti per la frustrazione e poi sospirò, rassegnato: era meglio così. Lei era stata vinta dall’imbarazzo al pensiero che lui avesse avuto un’indisturbata vista delle sue gambe completamente nude quando aveva avuto dodici anni. Come avrebbe reagito se avesse saputo quanto Zaron bramava di vederla completamente denudata ai suoi occhi?
- Troppo presto.
Si ripeté per l’ennesima volta.
Sentì la porta della sala da bagno aprirsi e richiudersi e i passi leggeri di Deja alle sue spalle. Non indossava la sua vestaglia notò con un vago stupore una parte della sua mente, quella parte non impegnata a analizzare con soddisfazione come i suoi abiti stessero bene a sua moglie. La camicia era larga, questo era vero, e le lasciava scoperta una spalla chiara, perché era fatta per la sua più ampia schiena, tanto che lei aveva dovuto arrotolare le maniche. E i pantaloni le stavano leggermente stretti suoi fianchi, delineando ogni rotondità e sottolineando quelle gambe snelle, lunghe e dritte, su cui a lungo aveva fantasticato. Lei fece il giro della stanza, spegnendo i lumi, e si stese dirimpetto a lui, stringendogli la mano destra tra le coltri, sorridendogli.
Non resistette l’impulso di baciare quelle labbra perfette, piegate in una dolce curva. A un bacio ne seguì un altro e poi un altro ancora, mentre lei gli si avvicinava e si rannicchiava il più possibile vicino al suo petto senza toccarlo. Si baciarono a lungo quella notte e Zaron si addormentò con il sapore di Deja sulla lingua e il suo profumo nelle narici, i lunghi, morbidi capelli di lei che gli solleticavano la guancia e il luccichio pieno d’amore dei suoi occhi azzurri vicino ai propri. Fu costretto per la prima volta ad ammettere con sé stesso che lei lo amava, davvero, sinceramente, come una donna amava il suo uomo, con una profondità e una passione travolgente, che lo spaventavano e lo ammutolivano e lo riempivano di meraviglia perché era un sentimento totalmente immeritato, lui non aveva fatto nulla per guadagnarselo, anzi. Lei stava offrendo tutta sé stessa: il suo cuore, il suo amore, il suo corpo e lui, ingordo ed egoista, avrebbe preso ogni cosa che gli sarebbe stata data, l’avrebbe accettata come un dono prezioso, certo, da custodire con cura e riconoscenza, ma sarebbe stato in grado di ricambiare in egual misura? Mentre scivolava nel sonno, con la mano stretta attorno a quella più sottile di sua moglie, si sentì davvero un drago ma non di quelli saggi, bensì di quelli avidi, che ringhiano a chiunque si avvicini al loro oro, gelosi e maldisposti a condividerne anche una sola moneta, anche un solo rifesso dorato, accucciato su una ricchezza non guadagnata con onestà ma ottenuta con la frode e la violenza. Poteva una tale bestia amare il suo tesoro?

NOTE DELL’AUTRICE: Wow! Manca poco ormai…! Quasi mi dispiace. No, scherzo, sono contenta ed emozionata! Ancora un po’ e poi un breve epilogo.
In quanto alle elucubrazioni mentali di Zaron… Avete notato come nel titolo ho scritto che il drago appartiene al tesoro e non viceversa?

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Capitolo 9
*** il tempo di uccidere e quello di amare ***


IX. IL TEMPO DI UCCIDERE E QUELLO DI AMARE

 
 
Il maestro delle spie del khan era un ometto basso per i canoni rakiani. Piccolo di statura e sottile di costituzione, non aveva una presenza minacciosa ma una faccia onesta e credulona, rotonda e con ridicoli baffetti sottili, che spingeva le persone a sottovalutarlo. Nessuno però sottovalutava il suo compagno: un omone dall’aria truce, ricoperto di cicatrici e con la lingua mozzata in qualche ignota occasione, forse un incidente, forse un atto voluto per metterlo a tacere. Se era quest’ultimo caso era stato per niente perché quel gigante di uomo, dalla testa rasata e dall’aria ottusa, era molto più intelligente di quello che pareva e sapeva leggere e scrivere benissimo. A torto molti consideravano lui il braccio dotato di forza bruta e il piccoletto l’unico in grado di pensare e progettare la rovina di un avversario. Separati erano una forza da temere, insieme erano una macchina micidiale, infaticabili nella ricerca della verità. Ed era quella che interessava loro: la verità, non una bugia compiacente. La violenza che impiegavano era solo un incentivo per le loro vittime a vuotare il sacco, tutto e in fretta, non c’era nessun sadico piacere nel torturare, nessun desiderio di sentire urlare o di stillare sangue e questo li rendeva ancora più spaventosi. D’altra parte loro lavoravano per conto di khan Zaron, per cercare la verità, per quanto scomoda fosse, non per compiacere la vanità di un tiranno convinto di avere tutte le risposte.
Con discrezione e brutale efficienza indagarono sulla canna utilizzata per abbattere l’aeronave dell’imperatore. Scoprirono che l’assenza della canna era stata notata ben undici giorni prima, ma che il rapporto si era perso per strada, non essendo stato considerato forse abbastanza importante da giungere all’attenzione del khan. Due soldati delle truppe appositamente addestrate per l’utilizzo delle nuove armi avevano disertato lo stesso giorno del furto ma, nella confusione della guerra e nell’ansia di tornare a casa, nessuno aveva pensato di collegare le due cose. Fu fatta un’approfondita analisi del passato dei due disertori: erano amici d’infanzia, provenivano dallo stesso villaggio ed erano persino cognati. I due stupidi furono ritrovati vivi mentre cercavano di lasciare Rakon con le loro famiglie, appesantiti da due borse piene d’oro ciascuno. Furono incarcerati e interrogati, separatamente e a lungo, e così si scoprì che erano stati contattati per rubare la canna e abbattere l’aeronave del khan ma che avevano, per paura e per fretta, anticipato i tempi del loro committente. Il piano sarebbe stato di attendere e colpire l’aeronave quando a bordo ci fosse stata anche la regina, nel loro annuale viaggio verso Issa. I due, invece, avevano preteso un anticipo sul compenso, non fidandosi del loro contatto, e poi avevano agito prematuramente, non prendendosi neppure la briga di controllare che il bersaglio fosse effettivamente morto ma fuggendo con quello che avevano in tasca.
Erano due poveretti, stupidi e avidi e dopo aver ottenuto da loro tutte le informazioni possibili e il nome dell’uomo che li aveva contattati, erano stati affidati alle cure dell’esercito, con la raccomandazione di attendere prima di eseguire la condanna a morte per diserzione, perché fino a quando non avessero finito la loro investigazione potevano ancora aver bisogno di loro.
Poi si concentrarono sull’uomo che li aveva contattati offrendo una somma assurdamente alta per assassinare il khan e finirono in quello che all’apparenza era un vicolo cieco, perché il ricco mercante, che entrambi avevano indicato, era stato sgozzato il giorno in cui khan Zaron era tornato dal regno dei morti per reclamare il suo trono. Ma il gigante e il piccoletto erano testardi e precisi e interrogarono minuziosamente tutti quelli che conoscevano il mercante e vennero così a sapere che quest’ultimo aveva la pessima abitudine di condividere tutti i suoi affanni con la sua cortigiana preferita. La donna, dietro compenso, riferì di tutti i traffici illeciti che il mercante svolgeva all’ombra della legge, di tutte le persone che aveva corrotto e di tutti i potenti che si era ingraziato e così scoprirono che aveva ricevuto un’ingente commessa da un ricco rakiano che apparteneva alla piccola nobiltà ma che aspirava a essere di più.
Seguendo la pista del denaro arrivarono al nobile Jigars che li riconobbe subito quando se li ritrovò davanti in un vicolo buio della Città Nuova. Era talmente terrorizzato che non ebbero bisogno di tirar fuori neppure gli arnesi: una volta rinchiuso nelle segrete e legato, aveva vibrato dal desiderio di parlare e come gli avevano tolto di bocca il sudicio cencio che vi avevano ficcato quando lo avevano prelevato dalla strada, lui vuotò subito il sacco: le sue prime parole furono il nome di un nobile signore della corte del khan che lo aveva avvicinato per proporgli di fare da tramite per un “favore”, come lo aveva chiamato, che gli avrebbe assicurato l’ingresso a Palazzo. In lacrime ammise di aver fatto parte del complotto ma giurò e spergiurò che non sapeva cosa gli altri stessero progettando, che lui doveva solo fornire i contatti e effettuare il pagamento. In poche ore il nobile signore indicato da Jigars finì legato a una sedia affianco a quella del suo accusatore, drogato con un particolare cocktail di loro personale invenzione che impediva alla vittima di mentire e poi il più grosso dei due dimostrò di quanta delicatezza le sue enormi mani fossero capaci, infliggendo dolore senza spezzare ossa né far sanguinare la sua vittima. Il nobile Kergik fu torturato senza che gli fosse fatta una sola domanda. Jigars si era insozzato le braghe, piangendo e singhiozzando senza ritegno; l’altro, gli occhi dilatati dalla droga e dal dolore cominciò a parlare non appena il gigante gliene diede l’opportunità, lasciando il campo al suo smilzo compagno.
Faceva parte della cerchia interna dei congiurati, una cerchia molto illustre, dato che annoverava membri della famiglia reale stessa. Fece tutti i nomi che sapeva e tutti quelli di cui sospettava, ed entro l’alba tutti coloro che aveva nominato erano stati rastrellati.
Le indagini erano durate due settimane e in una sola notte sette nobili furono prelevati, assieme alle loro famiglie, e imprigionati nelle segrete del Palazzo, drogati e interrogati separatamente per ordine di khan Zaron.
 
L’imperatore era sceso nelle prigioni sotterranee del Palazzo Reale, prigioni di cui pochi sapevano l’esistenza dato che servivano a detenere solo brevemente i membri della nobiltà che poi venivano giustiziati o rilasciati, a seconda che la loro colpevolezza fosse provata o negata.
Il braccio rotto si era saldato bene ma i guaritori avevano insistito affinché continuasse a tenerlo in riposo assoluto per un totale di cinque settimane, con la minaccia che il braccio non sarebbe mai tornato come prima se l’imperatore non avesse seguito le loro direttive. La spalla invece guariva più lentamente, ma almeno guariva, aveva pensato con sollievo Zaron mentre un sottile strato di pelle nuova si formava sulla carne viva. Il suo maestro delle spie lo guidò fino alla cella che conteneva suo cognato, il nobile Brafit.
- Mi confermi quindi che almeno lui è totalmente innocente?
Chiese il khan. I baffetti dell’altro uomo vibrarono.
- Nessuno è totalmente innocente, mio khan. Posso dire però con quasi completa certezza e con convinzione personale che il nobile Brafit non ha fatto parte della congiura, nonostante alcune piste portino proprio a lui. È stato un caso sfortunato che alcuni dei congiurati abbiano risieduto sotto il suo tetto.
Zaron fece una faccia cupa e piena d’odio, pensando a loro.
- Apri la porta, voglio parlagli.
- Il nobile Brafit ha espresso anche lui il desiderio di parlarvi. Devo avvisarvi che ancora non gli abbiamo detto nulla sul suo futuro.
- Verrà rilasciato, ovviamente. Non faccio giustiziare innocenti.
Aveva replicato il khan. L’altro parve imbarazzato e tossicchiò nervoso.
- Temo che il nobile Brafit abbia riportato più ferite del necessario: quando lo abbiamo appeso la sua mole non gli ha fornito un buon servizio e le braccia gli si sono disarticolate prima del previsto e tirandolo giù si è slogato un polso. Potrebbe anche essersi morso la lingua perché ha sputato sangue. Un deplorabile errore da parte nostra, me ne assumo tutta la colpa. Nessun danno interno tuttavia, glielo assicuro, né ossa rotte o un solo segno sulla pelle.
Detto questo il maestro delle spie si era inchinato, aveva aperto la pesante porta in legno e poi gli aveva richiuso l’uscio alle spalle. La cella di Brafit era ben illuminata da numerose torce, le pareti di pietra nuda erano spoglie e il pavimento ricoperto di paglia, per facilitarne la pulizia. L’uomo era ancora legato alla sedia usata per le interrogazioni, i piedi nudi legati per le caviglie e il torace assicurato alla spalliera da una grossa fune. Gli abiti che aveva erano quelli che aveva indossato la sera prima per coricarsi ed erano sporchi e sgualciti. Un filo di bava rosata gli scendeva dalle labbra socchiuse, bagnandogli il davanti della casacca. Le braccia, non legate, pendevano inerti e con una strana angolatura. Gli occhi, spenti e velati, incassati in un viso gonfio, lo misero a fuoco e suo cognato sobbalzò, gorgogliando agitato, cercando di portare le mani al petto, istintivamente, prima di emettere un roco gemito di dolore e abbandonarsi alla corda che gli costringeva il petto.
- Mio khan…
Riuscì a sussurrare con un singhiozzo soffocato.
- Non parlare Brafit. Va tutto bene.
Lo tranquillizzò Zaron avvicinandosi e poggiandogli con leggerezza la mano sulla spalla.
- Tutte le accuse contro di te sono decadute.
L’uomo si mise a piangere, strizzando gli occhi e singhiozzando convulsamente.
- Grazie, grazie…
Ripeteva e Zaron strinse la mano, cercando di confortarlo.
- Non devi ringraziarmi. Di cosa? Se sei innocente è tutto merito tuo che mi sei rimasto fedele.
- No,
Negò lui scuotendo il capo.
- Non lo sono stato…! Così a lungo ho accarezzato il sogno di divenire khan… vi ho augurato di morire in battaglia mille e mille volte mio signore, me ne vergogno così tanto… Ma mai, mai, dovete credermi, ho complottato contro di voi!
Gli occhi lucidi e iniettati di sangue di Brafit cercarono quelli del khan.
- E poi voi siete scomparso e ho avuto alla mia portata quello che a lungo avevo bramato e ho scoperto… che non lo volevo davvero! Sono un vile, un verme… Messo difronte alla prospettiva di tutto quel potere, di tutta quella responsabilità, ho avuto paura. Non ho chiesto di aspettare i dieci giorni dalla vostra morte perché volevo aiutare la regina ma perché speravo che il vostro erede si facesse avanti, salvandomi dalla necessità di propormi come vostro successore… Non merito il perdono, ma vi prego… perdonatemi comunque…
Zaron aveva sospirato.
- Pensi che non me ne sia mai accorto, del tuo desiderio? Non mi ha mai disturbato. L’ambizione non è malvagia, è ciò che si è disposti a sacrificare per essa che distingue gli innocenti dai colpevoli. Non importano le tue motivazioni: mia moglie molto probabilmente deve la vita alla tua insistenza nel seguire le tradizioni.
- Mia moglie? I miei figli?
Chiese con voce tremante Brafit. Zaron strinse le labbra ripensando all’incontro che aveva avuto con sua sorella prima di scendere a liberare Brafit.
Mentre le famiglie dei congiurati erano state tutte tratte in prigione, Zaron aveva voluto un trattamento differente per Sali. Lei e i suoi figli erano stati portati in una delle stanze del Palazzo, guardati a vista dai suoi soldati faliq; sua sorella aveva a gran voce chiesto udienza con lui, ma il khan si era rifiutato di accontentarla. Solo quando gli era stata finalmente data la notizia dell’innocenza di Brafit, era andato da lei.
A Sali era stata data una coperta da avvolgere sulle spalle per coprire la sottile camicia da notte, aveva gli occhi rossi e gonfi dal pianto e stringeva tra le sue braccia i figli terrorizzati. Vedendolo era scattata in piedi, lasciando andare la coperta, e si era buttata in lacrime ai suoi piedi, poggiandogli la fronte sugli stivali. Zaron aveva distolto lo sguardo, imbarazzato dalla vista del corpo seminudo di sua sorella. Lei aveva cominciato a implorare pietà, chiedendo umilmente di quale colpa si fossero macchiati per subire un tale trattamento.
- È stata attentata alla mia vita, Sali. E una delle piste ha condotto alla tua casa.
Lei aveva emesso un lugubre gemito di disperazione, perfettamente cosciente di quale fosse la pena per i traditori e la sorte che toccava alle loro famiglie.
- Ti prego…
Aveva continuato a implorare singhiozzando.
- Almeno i miei figli… Sono i tuoi nipoti, hanno il tuo sangue. Abbi pietà almeno di loro!
Zaron si era chinato su di lei, carezzandole il capo con tenerezza.
- Non devi piangere, Sali. Non vi succederà nulla. Tu hai la mia fiducia. Io so che non metteresti mai a repentaglio le vite dei tuoi bambini per nulla al mondo, neanche l’ambizione di tuo marito.
La speranza si era fatta strada sul viso di sua sorella sollevato verso di lui.
- Noi… siamo salvi?
Aveva chiesto incredula.
- Sì, lo sareste stati in ogni caso, per questo siete qui e non in prigione.
Sali si era tirata su, rimanendo in ginocchio ai suoi piedi, gli occhi lucidi e pieni di disperazione.
- E… Brafit?
Non aveva osato chiedere di più, straziata dal pensiero di non riabbracciare mai più il marito. Zaron le aveva sorriso.
- È stato interrogato e prosciolto da ogni accusa.
Sali aveva chiuso gli occhi e aveva ondeggiato, come prossima allo svenimento e suo fratello l’aveva velocemente afferrata per le spalle.
- Sali…!
Lei con un sospiro di sollievo gli aveva cinto i fianchi in un abbraccio, il primo che gli avesse mai dato, premendo il capo contro il suo addome.
- Grazie!
Aveva sussurrato con voce roca. Lui le aveva carezzato i capelli.
- E di cosa, sorella? Copriti adesso, vi farò scortare nuovamente alla vostra residenza. Tuo marito vi raggiungerà presto.
Dopo, Zaron era sceso nelle segrete per liberare il cognato.
- La tua famiglia sta bene. Stanno tornando a casa in questo momento. Non hanno mai visto l’interno di una cella.
Piangendo, Brafit chinò il capo fino a toccarsi il petto con il mento florido, sopraffatto dal sollievo.
- Fatti coraggio cognato. È finita.
Con queste parole Zaron si congedò da lui, dando ordine che il nobile Brafit fosse rimesso in sesto e lavato, il polso bendato e che gli fossero dati abiti adeguati alla sua posizione prima di essere riaccompagnato a casa.
Poi, con espressione truce e occhi duri, si apprestò a incontrare chi si era messo a capo di quella congiura. Gli fu aperta la porta della sala delle torture, dove lo attendevano il capo delle spie e il suo silente compagno. Nudo e legato mani e piedi a un rozzo tavolo di legno, gli arti tesi da corde assicurate ad argani, c’era Dassikiv.
Le sue articolazioni erano gonfie, violacee e probabilmente gli dovevano causare molto dolore, ma i suoi occhi erano lucidi, folli e dilatati dalla droga.
- Dopo un inizio recalcitrante ha parlato come un fiume in piena e quando ha finito con i fatti è passato agli insulti verso di voi e soprattutto rivolti alla vostra regina, mio khan.
- E adesso com’è? È in grado di parlare?
Volle sapere il khan.
- Sì, mio signore. La droga ha ancora effetto: sarà sincero.
Zaron si avvicinò al capo di Dassikiv che cercò di sputargli addosso, ma il muco atterrò sulla sua stessa guancia.
- Cane bastardo, figlio di una puttana, dovresti essere morto, perché non sei morto?
- Dassikiv, amabile come sempre…
Commentò con voce posata Zaron, solo i suoi occhi tradivano l’odio che provava, odio riflesso in quelli dell’uomo prigioniero.
- Dimmi di tua moglie e di tua suocera. Sono state loro ad avvicinarti o sei stato tu a proporre loro di partecipare al complotto?
- È stato il fratello di Ingis, è stato lui ad avvicinarmi, per conto di lei, per propormi il matrimonio con Cefan. Per convincermi che erano serie mi hanno rivelato di aver avvelenato loro la sgualdrina del bastardo reale… Com’erano dispiaciute che non avesse funzionato…
Zaron digrignò i denti con uno scricchiolio lugubre, furioso.
- Parlami di loro.
Gli occhi del prigioniero divennero vacui.
- Quella serpe di Cefan, sputa veleno in continuazione. È frigida, lo sai? È come farsi una tavola con un buco al centro. Spero di ingravidarla presto così da non dovermela più portare a letto… dei, l’ho sposata solo perché aveva sangue reale nelle vene, perché mi permetteva accesso al trono… E quella cagna di sua madre non è tanto meglio: è ossessionata dal bastardo reale, lo vuole vedere morto e squartato e ha berciato all’infinito quando le ho detto che avevo intenzione di risparmiare la sua sgualdrina straniera e le sue figlie bastarde. Lei voleva che fossero tutte sgozzate assieme alle concubine… Bah, che importanza vuoi che abbiano un pugno di puttane? Le sue figlie invece sono troppo preziose per finire sotto la lama, me le sarei prese io, non le avrei di certo date ai miei cugini, la maggiore dovrebbe essere vecchia abbastanza per il mio harem…
Zaron si sentì risalire la bile in gola. Le sue figlie, la sua piccola Kirsis che, nonostante tutto il suo atteggiarsi negli ultimi tempi, era ancora solo una bambina. Con un peso gelido nello stomaco si rese conto che finalmente poteva capire il baratro d’orrore che aveva colto Aborn quando gli aveva portato via Deja.
- … e quella sgualdrina issiana. L’avrei fatta urlare!
Il viso di Dassikiv era contorto di rabbia e si dibatteva, nonostante così facendo peggiorasse le sue ferite.
- È bruttina, così pallida e ossuta*, ma me la sarei fatta piacere comunque, anche solo per avere il gusto di sentirla implorare pietà. Volevo che mi scongiurasse di ucciderla. Quella stupida femmina pensa di essere meglio di chiunque, incoraggiata a pensare dal bastardo reale. Le femmine non dovrebbero pensare… Sono inferiori e se qualcuna crede di essere meglio deve essere rimessa al suo posto. Quella puttana straniera… lo sanno tutti che le va bene qualsiasi uomo: è sempre circondata dalle sue guardie, magari se le fa anche tutte insieme, non mi stupirei se si portasse a letto anche i faliq…
L’uomo continuò le sue farneticazioni, vomitando insinuazioni sempre più rivoltanti nei confronti di Deja e Zaron non ce la fece più ad ascoltare. Era furioso e disgustato e se avesse avuto entrambe le mani libere…
- Voglio che sia lucido per il suo supplizio. Voglio che si goda ogni istante. Per adesso…
Zaron socchiuse gli occhi e scoprì i denti in un ringhio.
- Tagliategli i testicoli, no anzi, tagliategli via tutti i genitali. Metteteli a sfrigolare su un braciere e quando saranno ben cotti assicuratevi che se li mangi. Fate in modo che sopravviva.
Rimase a guardare impassibile mentre il gigante selezionava un coltello sottile e affilato, afferrava con decisione la parte da amputare e si metteva al lavoro, tagliando con precisione e sangue freddo.
Le urla del prigioniero furono acute e strazianti e alla fine svenne quando sotto i suoi occhi ciò che lo rendeva così orgoglioso di essere uomo, il segno manifesto della sua superiorità, veniva messo a cuocere sui carboni ardenti.
Al mattino dopo ci furono le esecuzioni. Le donne e i figli dei congiurati vennero uccisi quietamente: alle donne fu tagliata la gola, ai bambini fu dato del sonnifero prima di aprirgli le vene. Uniche eccezioni furono la nobile Ingis e la nobile Cefan, Zaron le voleva denudate, legate a un palo e fustigate a morte, ma Sali lo convinse a mostrare un briciolo di rispetto per i membri della propria famiglia e così le fece decapitare con dignità, assieme ai nobili che avevano complottato per assassinarlo. Al capo della congiura fu riservato un trattamento particolare: nudo, in modo che tutti potessero vedere cosa gli era stato fatto, era stato legato mani e piedi a quattro cavalli che poi erano stati aizzati in quattro direzioni diverse. Il rumore che fece il suo corpo mentre veniva straziato fece vomitare molti nobili signori e svenire ancor più nobili signore.
Tutti i membri della corte avevano ricevuto ordine di assistere, solo ai bambini al di sotto dei nove anni e alle donne incinte era stato concesso di rimanere a casa. Deja non aveva voluto venire e Zaron ne era sollevato. Lo spettacolo era terribile, ma più terribile era la sua soddisfazione. Non aveva mai goduto prima a presenziare a una condanna a morte e i supplizi barbari che aveva ordinato gli erano sempre sembrati un futile esercizio in sadismo, ma ora… quegli uomini, quelle due donne, avevano voluto uccidere sua moglie assieme a lui. Solo la vigliaccheria e l’impazienza dei sicari le aveva salvato la vita. Se Deja fosse stata sull’aeronave con lui, se fosse stata ferita o se fosse morta… Neanche fare a pezzi lentamente e con le sue mani quei maledetti avrebbe dato sollievo al suo dolore.
Godette in particolare dell’agonia di Dassikiv e mentre il suo sangue bagnava il lastricato del cortile antistante il Palazzo, Zaron provò disgusto verso sé stesso. Quell’uomo, quell’orribile uomo, aveva voluto violare sua moglie, le sue figlie e ai suoi occhi era un crimine peggiore che cercare di uccidere lui. Eppure, come poteva Zaron dire di essere meglio? Aveva conquistato Issa e aveva ricattato Deja per costringerla a sposarlo, l’aveva privata della libertà di rifiutarlo, si era preso con la forza il suo regno e con la forza si era preso lei. Non l’aveva stuprata, non l’aveva toccata, ma non era comunque una forma di violenza, toglierle la possibilità di dirgli no? Avrebbe potuto farle qualsiasi cosa, come quel pezzo di sangue che veniva fatto a pezzi sotto i suoi occhi aveva voluto fare con la sua piccola Kirsis. Doveva le sue scuse ad Aborn, doveva le sue scuse a Deja. Dei, come faceva lei ad amarlo? Dopo quello che le aveva fatto? Dopo il piacere che aveva provato nel veder morire quelle persone, la sua stessa sorella?
 
A Issa le esecuzioni capitali erano rare, si uccideva un condannato solo in caso di un crimine così efferato da essere intollerabile e solo difronte a una comprovata e manifesta colpevolezza. Altrimenti la pena era la prigione a vita o i lavori forzati. Deja si rendeva conto intellettualmente del perché Zaron si stesse comportando con tanta ferocia, della necessità di dare uno spettacolo così sinistro in modo da assicurarsi che nessun altro osasse ripetere lo stesso errore. Tuttavia l’idea di quello che stava accadendo nel cortile del Palazzo, così vicino a lei, del sangue che veniva versato, la nauseava. Aveva litigato con Zaron quando aveva saputo che anche le mogli, le concubine e soprattutto i figli dei congiurati sarebbero stati uccisi: come potevano quegli innocenti avere colpe? Suo marito era stato inamovibile, anche difronte alle sue lacrime, e Deja si era ritirata nell’intimità della sua camera da letto, tappandosi le orecchie perché le pareva di udire anche da lì le urla e i singhiozzi dei morenti. Aveva voluto vendetta per gli insulti di Dassikiv e giustizia per l’attentato alla vita dell’uomo che amava ma non riusciva ad affrontare il lato sanguinario di suo marito. Poteva solo rassegnarsi, perché quella era Rakon e non Issa e non poteva pretendere che Zaron adottasse la sua morale e il suo senso di giustizia per gestire un crimine perpetrato da rakiani contro di lui, poteva solo sperare di non doverlo rivedere mai più così.
Quella sera Zaron aveva voluto cenare da solo e Deja aveva intercettato Oscia all’uscita dall’harem.
- Voglio stare io con lui questa notte.
Le aveva detto. L’altra donna era sembrata allarmata ma aveva dovuto cederle il passo. Deja aveva tirato un sospiro di sollievo: non era sicura che se ci fossero state Tallia o Perla al posto di Oscia sarebbe stata accontentata.
La guardia aveva chiuso la porta degli appartamenti del khan alle sue spalle e Deja aveva aspettato che Zaron sollevasse gli occhi dai pugnali da lancio che stava sistemando in fila sul tavolo a cui era seduto, carezzandoli con una cura che aveva del maniacale. Vedendola si era impietrito.
- Cosa ci fai tu qui?
Aveva sussurrato con voce roca, la mano immobile su una lama lucente. Lei gli si era avvicinata con passo leggero ma deciso, fermandosi solo difronte a lui e lo aveva guardato dall’alto in basso, sollevando un sopracciglio.
- Sinceramente speravo in un’accoglienza più calorosa, marito mio.
Proferì Deja con tono ironico. Lui aveva abbassato lo sguardo sui pugnali, poggiando la mano sul tavolo a palmo aperto.
- Non sono di buona compagnia questa sera. E non pensavo che volessi vedermi, non dopo quello che è successo questa mattina.
Le disse a bassa voce, cercando di mantenere un tono neutro. Deja gli poggiò la mano sul capo, passando le dita sui capelli corti; lui piegò la testa, accompagnando la mano, chiudendo gli occhi con un’espressione di evidente piacere.
- Sono contenta che tu li abbia tagliati. Li preferisco così…
Gli prese il polso destro scostandolo dal tavolo, allargandogli il braccio, e si insinuò sul suo grembo, sedendo di traverso sulle sue gambe.
- Quello che è successo questa mattina è terribile,
Continuò con voce sommessa.
- E mi ha fatto stare male. Ma non è colpa tua: non sei stato tu a costringerli a commettere i loro crimine, si sono condannati da soli. I colpevoli meritavano di morire e chi sono io per giudicare il metodo con cui tu amministri la tua giustizia nel tuo regno?
- Sei mia moglie,
Replicò lui con voce roca, poggiando la propria fronte contro quella più chiara di lei.
- E io… sono solo un barbaro mostro.
La voce di Zaron si spense in un silenzio abbattuto che inquietò Deja.
- Cosa dici? Non sei un mostro Zaron.
- Sì invece!
Incalzò lui, testardo e disperato.
- Non li ho fatti giustiziare per aver tentato di uccidere me, ma per quello che volevano fare a te. A te e alle mia figlie, soprattutto quel…quel…
La voce di Zaron si perse in un sibilo furioso e lui strinse convulsamente a sé sua moglie con il braccio sano.
- Oh, Zaron.
- Ti ho portato via da tuo padre, dalla tua casa, costringendoti a un matrimonio che non avresti mai accettato se fossi stata libera di rifiutare, quando avevi solo dodici anni. In cosa sono diverso da Dassikiv?
Deja era sconvolta dal disgusto che poteva cogliere nelle parole di Zaron, nella rabbia che ora capiva essere rivolta verso sé stesso. Non sapendo come reagire, come fargli capire che non doveva odiarsi, che non c’era nulla di mostruoso in lui, non trovando le parole, lasciò che fossero i fatti a essere le sue argomentazioni più forti. Gli circondò il viso con le mani e lo baciò. Zaron glielo permise, approfondendo il bacio e cingendola per la vita fino a toglierle il fiato. Poi si staccò dalle sue labbra con un sorriso di disprezzo rivolto verso sé stesso.
- Anche adesso… Se solo tu sapessi cosa ho nel petto…
- Dimmelo.
Gli ordinò lei dolcemente.
- Non vuoi saperlo: è troppo.
- Quando la smetterai di proteggermi da te?
Lo interruppe lei.
- Forse sono stanca di aspettare, forse non ho bisogno di protezione, non più. Ti ho già detto che non ho paura di te!
- Sei sicura?
Le chiese lui con voce tremante.
- Sì, certo che sono sicura.
Replicò Deja ostentando una fermezza che in realtà non aveva. Perché mentre diceva quelle parole si rendeva conto di avere paura. Non di suo marito ma della situazione: lui era di un umore cupo, che rasentava la disperazione. Con gioia avrebbe offerto sé stessa per dargli sollievo, anche solo minimo, anche solo temporaneo. Ma non era così che aveva sognato di concedersi finalmente a lui.
- Ho un braccio rotto.
Le ricordò lui.
- Anche se volessi lasciarmi andare ai miei più abbietti desideri non potrei...
- Zaron,
Gemette esasperata Deja.
- Il tuo desiderio non è abbietto. Ti desidero anche io.
Ma lui scosse il capo.
- No Deja, tu mi ami. Non capisci la differenza? Tu mi ami e io ti desidero. Non so se riesco, non so se posso…
Lei lo zittì con un altro bacio.
- Tu mi ami.
Gli disse lei, cercando di infondere convinzione in quelle parole, sperando, pregando di non sbagliarsi troppo.
- Magari non come io amo te, ma mi ami. Lo vedo in tutto quello che fai, in ogni sguardo che mi rivolgi. Nel tuo rispetto, nella tua gentilezza, nella tua passione e nel tuo contegno.
La voce della ragazza si spezzò.
- Anche se non ho il tuo cuore non mi pentirò mai di averti fatto dono del mio. È tuo, io sono tua.
Zaron la guardò negli occhi, il suo sguardo era indecifrabile, ma intenso e appassionato e tenero al contempo. Così tante emozioni che Deja non era in grado di coglierle tutte.
- Vieni allora.
Le disse con voce bassa e piena di passione. Si alzò e la prese per mano, conducendola in camera da letto.
- Per fortuna vesti alla maniera issiana oggi, mia cara…
Le sussurrò all’orecchio, facendosi vicino, facendo aderire i loro corpi.
- Non so se sarei stato in grado di toglierti i gioielli…
Poi si sedette sul letto e la fece sedere sulle sue gambe, ma non di traverso, bensì a cavalcioni, con le ginocchia intorno alla propria vita, la gonna che si tendeva per permetterle la manovra. Con la mano destra sollevò il bordo dell’abito fino al ginocchio, permettendole maggiore comodità e libertà di movimento, sfiorandole con la punta delle dita la caviglia e il polpaccio teso. Le carezzò una guancia con la punta del naso, avvicinandosi al suo orecchio.
- Il vestito rimane dov’è. Ti toccherò solo sopra, d’accordo?
Le sussurrò. Il fiato di Zaron le fece venire la pelle d’oca, così come la scia lasciata dalle sue dita. Annuì, mugolando il suo compiacimento per l’intraprendenza dimostrata da lui, finalmente. Lo percepì sorridere contro la sua guancia.
- Stringimi il collo con entrambe le mani. Stai attenta alla spalla sinistra e non perdere l’equilibrio: con il braccio immobilizzato non riuscirei a prenderti se dovessi scivolare all’indietro.
Lei annuì, impaziente, facendosi avanti, più vicino a lui per aiutare il proprio instabile bilanciamento e si bloccò con il respiro mozzo, ansimando nella bocca famelica di Zaron. Una volta che i loro bacini si toccarono fu impossibile negare che lui la voleva, davvero, fisicamente. Poteva sentire, premuta contro di sé, una parte dell’anatomia di Zaron che si era fatta rigida e che percepiva per la prima volta. Gli strinse le gambe in vita, più che poteva, premendosi contro di lui, frustrata dalla fasciatura che le impediva di far aderire anche i loro petti e i loro cuori.
Lui le poggiò il palmo sulla coscia, dove mai l’aveva toccata, premendo con forza, facendole sentire il calore della mano nonostante gli strati della gonna. Pensava non potesse esserci nulla di meglio e poi lui le mise la mano sul seno, stringendo e cercando di mapparne i contorni attraverso la stoffa. Deja rovesciò indietro la testa e Zaron con un ringhio le si avventò sulla gola, baciando, mordendo con i denti, risucchiando nella bocca la sua pelle e lasciandole una scia di umidi segni rossi dalla spalla all’orecchio.
Avevano continuato a baciarsi e lui a toccarla e a morderla e alla fine Deja si era ritrovata distesa con la schiena contro il letto, lui sopra, tra le sue gambe aperte, la gonna sollevata a lasciarle scoperte le ginocchia. Gli strinse le spalle e lui urlò di dolore. Deja lasciò ricadere le braccia ai lati del viso, mortificata.
- Mi dispiace…
Dissero quasi in coro e poi scoppiarono a ridere. Zaron si lasciò ricadere sul fianco destro, respirando affannosamente.
- Ti ho fatto male alla ferita?
Chiese Deja preoccupata.
- Non me ne sono quasi accorto. Mi dispiace Deja di essermi spinto così oltre, io non volevo…
Lei lo zittì con un bacio a fior di labbra.
- Io invece sono contenta.
Gli confessò. E lo era e Zaron non l’aveva mai trovata così bella: gli occhi parevano brillare di luce propria, le guance erano così infuocate da far quasi scomparire le delicate efelidi che le decoravano e le labbra così rosse e gonfie e umide per i suoi baci da essere irresistibili. La baciò nuovamente, a lungo. Infine a malincuore si mise a sedere.
- Devo andare a cambiarmi.
- Serve aiuto?
Gli chiese Deja, sollecita, aggrottando la fronte e sedendosi sul letto.
- No! Davvero, me la cavo.
Stando ben attento a volgerle sempre la schiena prese un cambio d’abito prima di rifugiarsi in sala da bagno, maledicendo per la millesima volta in pochissimo tempo il braccio immobilizzato e poi subito ringraziandolo perché non sapeva cosa avrebbe fatto se avesse avuto due mani libere che si muovevano sul corpo di sua moglie.
Riuscì a cambiarsi soltanto i pantaloni, a fatica e imprecando, e lasciò campo libero a Deja che gli passò affianco con un sorriso contento. Si distese a letto ad aspettarla e lei gli si stese vicino, stringendogli la mano e sospirando. Si baciarono ancora, al buio, con la dolcezza di chi ha per il momento saziato la fame che prima li divorava. Lei gli sussurrò d’amarlo, prima di addormentarsi.
- Forse anche io ti amo.
Osò mormorare lui, quando fu certo che lei dormisse.


*E’ bruttina, pallida e ossuta: a scuola (quando ancora ci andavo: avete presente quando i vostri genitori sospirano e vi dicono ”ah, magari potessi andare io a scuola come te, invece che andare a lavorare!”? Io no, mille volte un giorno di lavoro che uno di superiori!) abbiamo fatto per letteratura inglese Passaggio in India. Uno dei protagonisti, un indiano, viene accusato da una ragazza inglese di tentato stupro (non è chiaro se sia successo davvero o se lei si sia semplicemente sentita male e nel delirio di un attacco isterico si sia inventata tutto). La reazione offesa dell’uomo è stata: perché dovrei provarci? È brutta: bianca e magra.

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Capitolo 10
*** il cuore del drago ***


X. IL CUORE DEL DRAGO

 
 
Il giorno dopo Deja non era riuscita a contenere la sua felicità, totalmente inopportuna visto il massacro perpetrato solo il giorno prima. Era rientrata nell’harem al mattino presto con passo leggero, quasi i suoi piedi non toccassero il pavimento di marmo. I numerosi segni rossi lasciati dalla bocca di suo marito erano evidenti e lei li aveva esposti a testa alta, rifiutandosi di sentirsi imbarazzata davanti agli sguardi curiosi delle sue guardie del corpo. Perla stava facendo colazione e, sentendola rientrare, la raggiunse nelle sue stanze, chiedendo a Larissa di lasciarle sole un attimo. Deja si era seduta al tavolino del trucco, con i capelli ancora aggrovigliati, l’abito che indossava la sera prima e un sorriso beato sul viso.
Perla aveva sollevato un sopracciglio, guardandole il collo.
- Oscia mi ha detto che hai voluto sostituirla ieri. Devo dedurne che sia andato tutto bene?
Perla si era allarmata quando l’altra concubina le aveva bussato alla porta la sera prima, informandola del cambio di programma. Zaron non era dell’umore giusto per intrattenersi con sua moglie: era stato ombroso, a corto di pazienza e temeva che il loro incontro risultasse nell’ennesimo litigio. Aveva atteso desta che la regina rientrasse, ma a notte fonda si era arresa, tornando nei suoi appartamenti, preoccupata e confusa. E ora invece la regina sembrava camminare sulle nuvole, contenta e appagata e portava sulla pelle i segni evidenti che quella notte Zaron non aveva usato la bocca per urlarle contro.
- Benissimo.
Confessò la ragazza, arrossendo. Perla si morse il labbro, incerta se farle la domanda o meno, ma poi fu la curiosità a vincere sul suo desiderio di riservatezza.
- Tu e Zaron… voi due avete finalmente… consumato?
Deja scosse il capo ma le brillavano gli occhi.
- No, ma … È stato stupendo… Lui mi ha toccata e baciata ed è stato meraviglioso! Ben oltre quello che credevo. Se è così intenso con i vestiti addosso non oso immaginare come sarà senza.
Perla sospirò, tra il deluso e il sollevato, scuotendo il capo.
- Sono sinceramente contenta per te, vedrai che non dovrai pazientare ancora a lungo.
Ma l’ottimistica previsione della concubina non si avverò. Anche quando il braccio di Zaron guarì e lui ebbe finalmente riacquistato l’uso di entrambe le mani, il matrimonio non fu consumato.
L’imperatore aveva insistito affinché ricominciassero a vedersi una volta al mese ma Deja era riuscita a strappargli la concessione di due visite mensili. Zaron aveva ceduto principalmente perché la sua cara moglie teneva a bada i brutti sogni. Senza di lei, pur abbracciato al corpo caldo di una delle sue concubine, si svegliava madido di sudore, agitando le braccia e urlando, sognando di cadere nel nulla, precipitando dal cielo. La povera Mira ne aveva guadagnato un brutto livido sullo zigomo quando il gomito di Zaron l’aveva colpita in pieno viso, mentre lui si agitava in preda ai terrori notturni. L’idea di mettere nuovamente piede su un’aeronave lo faceva sudare freddo e tremare. Non credeva sarebbe mai più stato in grado di volare.
Durante la cena con Deja nei suoi appartamenti privati aveva ascoltato con nervosismo sua moglie parlare di visitare la propria patria.
- Mio padre mi ha chiesto se abbiamo intenzione di recarci a Issa per festeggiare in ritardo il mio compleanno. Io gli ho detto di no, che quest’anno mancheremo ma che se vuole potrebbe venire lui qui, a Halanda, dato che non l’ha mai visitata. Spero di aver fatto bene.
Lui aveva sospirato di sollievo, ruotando il polso sinistro a cui portava un pesante bracciate con borchie in ferro. Aveva perso tono muscolare e voleva riacquistarlo il prima possibile ma senza sforzare la spalla che ancora gli procurava dolorose fitte ogni qualvolta la muoveva in modo inconsulto. La pelle era guarita ma i muscoli erano stati incisi e danneggiati e ci sarebbero voluti mesi, forse addirittura anni, prima di riavere la mobilità perduta. Questo limitava notevolmente le sue capacità, costringendolo a diminuire le attività, e gli allenamenti con la spada ora prevedevano movimenti lenti e precisi, ripetuti da solo o difronte al manichino. I duelli erano stati totalmente accantonati, con suo grande rammarico.
- Hai fatto benissimo, mia cara,
Non aveva detto a nessuno, neppure a lei, che ora aveva il terrore del vuoto.
- Mi auguro che tuo padre colga il tuo invito. Stranamente ho sentito la mancanza della sua ostile e sarcastica presenza…
Deja aveva sbuffato contrariata, ma poi aveva riso quando aveva compreso che le parole di Zaron erano state dette con ironia.
Con trepidazione si era recata in camera da letto ma lui le aveva indicato la camicia da notte e la sala da bagno. Si stese al suo fianco sotto le lenzuola in preda a una cocente delusione, ma Zaron le sorrise e l’attirò vicina, stringendosela al petto e cominciando a baciarla. La fece stendere sulla schiena e si mise sul fianco sinistro per poterla liberamente toccare con la mano destra. Deja non lo sapeva, ma reggendo il proprio peso con il gomito sinistro, Zaron non stava comodo e la scelta era stata ponderata. Ogni volta che il desiderio si faceva intollerabile gli bastava sforzare la spalla, facendo guizzare sotto la cicatrice un muscolo non ancora guarito e il dolore provocatosi gli permetteva di riguadagnare facilmente lucidità.
L’espressione delusa di Deja quando aveva capito che non l’avrebbe presa gli aveva fatto comprendere che un semplice bacio non le sarebbe più bastato, non dopo quello che era accaduto l’ultima volta. Al tempo stesso sentiva che non fosse ancora venuto il momento giusto, voleva avvicinarsi ad esso con calma, per gradi. Quindi la toccò attraverso la stoffa leggera della camicia da notte, baciando tutta la pelle nuda che quella lasciava scoperta: le spalle e il petto fino alle sterno, stringendo con struggente desiderio il seno piccolo ma perfetto di lei, sentendone il contorno e la morbidezza. Lei aveva cercato di agganciargli il bacino sollevando una gamba, cominciando a voltarsi verso di lui e Zaron aveva dovuto spingerla nuovamente contro il materasso, stringendole l’anca con una mano.
- Ferma,
Le aveva intimato con voce bassa contro le labbra.
- Lascia fare a me.
Non aveva nessuna intenzione di imbarazzare sé stesso com’era capitato la volta prima: ormai aveva passato l’adolescenza da così tanto tempo che quel periodo della sua vita gli sembrava un lontano ricordo, non come la giovane ragazza che si agitava sotto la sua mano, gemendo e strattonandolo con dita sottili, per cercare di convincerlo a stendersi sopra di lei. La sua mano destra le carezzò la coscia sopra la camicia da notte, facendo trattenere il fiato a sua moglie. Preoccupato Zaron si arrestò, smettendo di baciarla.
- Va bene Deja, o vuoi che mi fermi?
- Non ti fermare!
Esclamò lei con voce soffocata. Lui sorrise prima di baciarla ancora, continuando a toccarla al di sopra della stoffa. Perdendosi negli occhi azzurri di lei, spalancati di meraviglia e stupore.
Poi Zaron si distese sulla schiena, ignorando con decisione il leggero intorpidimento causato dalla spalla sinistra, ridicolo in confronto al fastidio che gli causava un’altra parte del corpo, e attirò Deja sul proprio petto. Lei gli si strinse contro, contenta, strofinando il viso contro il suo collo, dando leggeri, timidi baci e poi un piccolo morso esitante che non avrebbe lasciato nessun segno. Lui le baciò la fronte e poi il naso e infine le labbra rosse.
- Contenta mia cara?
Lei sospirò, chiudendo gli occhi.
- Molto, amore mio.
Si rannicchiò sul suo petto, stringendosi a lui e dopo poco stava dormendo.
 
Deja era raggiante e la sua incontenibile contentezza aveva contagiato anche la corte, o almeno la parte femminile. Dopo lo spettacolo rivoltante che era stata la pubblica esecuzione dei congiurati, si era instaurato un clima cupo e le nobili rakiane si muovevano con circospezione. Sali aveva mancato per più di una settimana da Palazzo, volendo attendere che le ferite fisiche e nell’animo di suo marito cominciassero a guarire. Quello che era stato squarciato nel cortile avrebbe potuto essere il suo Brafit e lei ne era ancora sconvolta. A mancare fu anche Famira, che aveva riaccolto Bors in lacrime, singhiozzando di sollievo e si era aggrappata a lui e non aveva voluto lasciare il suo fianco per giorni, ancora incredula della fortuna che la dea le aveva accordato, di riavere il marito che aveva pensato per sempre perduto. Quando lui fu nuovamente in grado di camminare, seppur con l’ausilio di un bastone, tornò a Palazzo, per condividere con Deja la loro comune gioia e trovò l’amica davvero felice, con la gola decorata di ecchimosi lasciate scoperte dai capelli raccolti sul capo attorno alla corona di platino. Lei se le carezzava ogni tanto, con fare sognante, esibendole con orgoglio. La prese sottobraccio e si portò con lei in testa al gruppo, durante la loro giornaliera passeggiata mattutina, per poterle bisbigliare all’orecchio con impunità e garantire la segretezza della loro conversazione.
- Cosa succede Deja? Ti vedo… diversa. Sei incinta?
La sua amica aveva riso, arrossendo e scuotendo la testa.
- No,
Aveva negato, ma senza dispiacere.
- Tuttavia le cose tra me e l’imperatore sono migliorate, di molto.
Famira l’aveva guardata, aggrottando le sopracciglia confusa. Cosa intendeva l’altra con migliorate? Non era consapevole che prima avessero problemi, poi fece una smorfia dispiaciuta: era stata talmente contenta del proprio matrimonio e della bambina, che se anche la sua giovane amica avesse avuto una difficoltà non sarebbe stata in grado di rendersene conto.
- Sei felice?
Le aveva allora chiesto, sentendosi la peggiore amica del mondo.
- Sì, come potrei non esserlo? Mio marito è tornato da me, quando pensavo di averlo perso per sempre e ha gradito la mia… accoglienza.
Dicendo questo si carezzò il collo e i lividi con espressione trasognata e Famira ebbe un’illuminazione, dandosi della sciocca per non averlo capito prima.
- Tu lo ami.
Le sussurrò con convinzione.
- Sì,
Aveva risposto la regina a voce bassa, guardandola negli occhi con un accenno di sfida nello sguardo.
- Non dovrei?
Se fossero state da sole Famira l’avrebbe abbracciata, con un gridolino di gioia ma sapendo dei numerosi occhi puntati sulle loro schiene dovette limitarsi a infondere la voce con tutta l’emozione che provava.
- Sono tanto, tanto felice per te Deja. E lui? Anche lui ti ama?
La regina aveva distolto lo sguardo, raggelandosi.
- Mi rende felice. Ha importanza se mi ama o meno? Forse sì, a modo suo…
A Famira si era stretto il cuore e si era sentita impotente.
- Lui mi rende felice,
Aveva ribattuto Deja.
- Felice…
 
E poi il padre dell’imperatrice aveva per la prima volta messo piede nella capitale.
Aborn aveva accettato con riluttanza l’invito ma, non avendo altra possibilità per vedere la figlia, era salito su una delle aeronavi rakiane e si era recato a Halanda. Essendo quella la sua prima volta in città era stato sfavorevolmente colpito dal caos e dalla sporcizia della zona bassa, non potendo sapere come le innovazioni apportate da Zaron avessero già migliorato di molto le condizioni di vita dei cittadini: adesso avevano delle fogne sotterranee e in ogni quartiere erano state installate delle fontane da cui ogni giorno, a orari precisi, sgorgava acqua proveniente dalle cisterne della Città Vecchia che gli abitanti potevano usare per cucinare e bere senza temere lo scoppiare di malattie; inoltre, lentamente e a partire dai quartieri più ricchi, le strade stavano venendo lastricate con basoli di pietra, secondo lo stile issiano.
Ad accoglierlo aveva trovato il ciambellano e non sua figlia, come aveva sperato. Per vederla aveva dovuto attendere di essere a Palazzo Reale, dove lei lo ricevette tra l’accoglienza calorosa dei suoi connazionali.
Aborn aveva sperato di poterle parlare in privato, ma quando lei lo fece accomodare nel suo studio, due guardie rakiane si misero in posizione all’interno della porta.
- Sono proprio necessarie?
Aveva chiesto lui, sedendosi davanti alla scrivania di Deja.
- Sì, padre. Dopo quello che è successo l’anno scorso mio marito ha insistito perché io avessi le guardie faliq sempre con me quando sono fuori dall’ala femminile, anche quando dò udienza privata.
Suo padre aveva fatto una smorfia di fastidio, ricordando quanto l’incidente con Ostin avesse turbato sua figlia e il pericolo da lei corso.
- Ma io sono tuo padre, piccola mia. Sicuramente…
Lei aveva scosso il capo, decisa.
- Non voglio fare eccezioni per nessuno. Rimarrò sola soltanto con mio marito.
Lui aveva sollevato il sopracciglio.
- E le tue guardie. Non rimani forse sola con loro?
Deja gli aveva sorriso e, invece che sedere dietro la scrivania, aveva preso posto al suo fianco, per stargli vicino.
- Sono faliq padre. I faliq sono attratti solo da altri uomini: le donne non gli interessano.
L’issiano aveva a sbattuto gli occhi, sorpreso, e a stento aveva resistito la tentazione di voltarsi a guardare le due guardie con curiosità morbosa. Aveva sempre immaginato gli uomini di tali inclinazioni come effemminati e delicati ma non vi era nulla di morbido nei due soldati che con aria impassibile si occupavano della difesa di sua figlia: i loro sguardi erano duri, feroci, e i loro muscoli possenti*. Aborn aveva poi guardato il collo di Deja, dove si potevano ancora vedere, sbiaditi e quasi scomparsi, i segni lasciati dai baci di suo marito.
- Deja…
Aveva sussurrato con un filo di voce. Sua figlia era arrossita violentemente, ma poi aveva alzato il mento, orgogliosa.
- Hai qualcosa da ridire, padre? Lui è mio marito, io sono sua moglie e io….
Aveva esitato, per un attimo, la voce tremante.
- Io lo amo.
Aveva concluso con voce bassa ma decisa. Aborn l’aveva guardata a bocca socchiusa, senza parole. Poi aveva deglutito, cercando di ritrovare la voce.
- Lo ami, bambina mia? Sei sicura?
Lei aveva sorriso, timidamente.
- Sì. Ti prego, dì che sei felice per me.
Aborn aveva ricacciato in gola l’astio che provava per l’imperatore.
- Sono felice per te, mia amata, se tu sei felice allora lo sono anche io: come potrei non esserlo?
Lei si era sporta dalla sedia e lo aveva brevemente abbracciato e Aborn aveva acutamente sentito la mancanza dell’intimità di cui avrebbero goduto a Issa. Con gli occhi che gli pizzicavano strinse forte la sua bambina per l’ultima volta e lasciò andare la donna sorridente che ne aveva preso il posto. Parlarono ancora, delle cose terribili che erano successe a Rakon negli ultimi mesi, della guerra e conclusero con una nota più leggera, discutendo di come l’Accademia delle Scienze di Issa avesse deciso di aprire una sede anche a Halanda dopo quella di Mabdiba. Quando Aborn si congedò per ritirarsi al palazzo dei dignitari stranieri, preparato per lui e la sua scorta, era calata la sera e avevano passato tutto il pomeriggio insieme a conversare.
Riposò poco quella notte, in un letto che non era il suo, in un palazzo straniero in cui ogni rumore e odore che proveniva dalla finestra spalancata era diverso da quello cui era abituato. Passò il tempo a guardare il soffitto, senza vederlo, pensando a Deja e a come era cambiata negli anni. La bambina spaventata ma coraggiosa che aveva lasciato andare una notte di tanti anni prima era mutata in una giovane decisa e sicura di sé e lui non aveva potuto assistere al cambiamento, non aveva avuto mano in esso. Deja era stata plasmata, o si era plasmata da sola, attorno a Zaron. Non era una cosa negativa, cercò di convincersi Aborn: il fatto che sua figlia fosse così autonoma e sana, fisicamente e mentalmente, erano un punto d’onore che andava a favore della buona indole dell’imperatore. L’uomo sapeva, aveva temuto nel profondo del suo cuore, che sposandosi così giovane il carattere di Deja avrebbe potuto non avere modo di emergere, finendo schiacciato da quello forte e già adulto di Zaron. Lui invece si era dimostrato in grado di nutrire sua figlia senza soffocarla, e lo sviluppo era stato prodigioso e spettacolare. Deja era cresciuta nella donna, nella regina che Aborn aveva sempre saputo che poteva diventare e ne era orgoglioso, orgoglioso della sua Deja e sconfortato dall’idea di non essere stato lui quello che l’aveva aiutata nei primi passi nel suo nuovo ruolo, ma Zaron. E ora lei diceva di essere innamorata di suo marito, ma era vero? Era un sentimento sincero, puro, che nasceva dal profondo oppure era qualcosa di inevitabile, generato dalla vicinanza, dall’abitudine, dal fatto che lui era tutto quello cui Deja poteva aspirare, l’unico uomo che poteva avere al suo fianco? E Zaron stesso? Lui era l’incognita più grande. Dai baci che sua figlia aveva esibito senza vergogna era evidente che godesse i frutti del sentimento che Deja nutriva nei suoi confronti, ma era in grado di amare sua moglie nel modo in cui lei lo amava? Tormentato da quelle domande aveva preso sonno solo a poche ore dall’alba.
Il pomeriggio seguente ebbe modo di incontrarsi privatamente con l’imperatore in persona. L’udienza era stata decisa da Zaron che aveva voluto conversare con Aborn da solo.
Suo genero lo attendeva nel suo studio privato, una sala grande e dall’aria poco vissuta, riccamente decorata con stucchi dorati e marmi e con le pareti ricoperte di armi e stendardi sporchi e strappati che erano appartenuti ai regni conquistati dal khan. Dietro la scrivania, in una posizione d’onore, c’era una bandiera issiana, quella che Aborn aveva abbassato nella polvere davanti al khan il giorno in cui si era arreso.
Zaron lo attendeva in piedi, appoggiato alla scrivania, le braccia incrociate. Aborn fece un inchino e non si sedette, rimanendo ritto davanti al rakiano.
- Sono felice che tu abbia accolto l’invito di Deja, Aborn.
Esordì Zaron. Sembrava stanco e invecchiato, notò l’uomo più anziano con un certo allarme; ora che erano vicini poteva vedere che le rughe il lati dei suoi occhi erano più pronunciate rispetto a quelle che aveva notato con cupa soddisfazione l’anno prima. Ora, alla luce della rivelazione di sua figlia, quei segni dell’età parevano un fosco presagio: Aborn si era sempre addolorato all’idea che probabilmente non avrebbe mai visto crescere i suoi nipoti se un giorno Deja avesse avuto figli, data la forte differenza di anni che c’era tra lui e la sua unica figlia, e adesso contemplava con tristezza i segni del tempo che passava implacabile anche nell’uomo che lei aveva scelto d’amare. Fu costretto ad abbassare lo sguardo per timore che l’altro vi leggesse la pietà che provava e ne fosse offeso.
- Lo sono anche io, sire.
Zaron si passò una mano tremante sugli occhi, sembrava fare fatica a trovare le parole che desiderava dirgli e per cui aveva richiesto la sua presenza, e Aborn si ricordò dell’incoronazione di Deja, tanti anni prima, quando quello nervoso era stato lui e Zaron era stato arrogante e gelido.
- Io ti devo le mie scuse, Aborn.
Venne il sussurro roco dell’imperatore e Aborn ne rimase sconcertato.
- Non te lo ripeterò un’altra volta,
Continuò a denti stretti l’uomo più giovane.
- Ma lo sono. Mi dispiace per averti strappato Deja quando era così giovane, anzi, mi dispiace di avervi ricattato e di averla costretta a sposarmi.
- Cosa vi spinge a dire una cosa simile?
Chiese con voce incredula Aborn. Zaron strinse le mani sulle braccia, chiudendole in pugni.
- Fatti recenti. Io…
Si interruppe, guardando fisso il bracciale di ferro che portava al polso sinistro.
- Io ho tre figlie. La più grande, Kirsis, compirà dodici anni tra pochi mesi. Il capo della congiura contro di me, lui voleva fare a lei quello che io ho fatto a Deja, solo che nel suo caso non ci sarebbe stata nessuna attesa, nessun rispetto, solo violenza.
Le parole dell’imperatore divennero lente, come se gli si bloccassero in gola, e Aborn si sentì riempire d’orrore.
- Io ho provato un odio implacabile, un’ira senza fine verso quel verme, quel lurido cane. Le cose che ha detto contro Deja sotto tortura, le indecenze, gli orrori di quello che voleva farle, a lei e alle mie figlie, solo perché era mie. Lo avrei giustiziato comunque, ma per quello che aveva in mente per loro io l’ho fatto trucidare in modo orribile e doloroso. E mi sono ripromesso che ti avrei chiesto perdono Aborn, per essermi comportato in modo simile con te e tua figlia.
Aborn guardò fissamente lo stendardo azzurro impolverato, simbolo del suo più grande fallimento. Non avrebbe detto che accettava quelle scuse perché non era solito mentire. Non avrebbe mai perdonato Zaron per quello che aveva fatto, ma lo aveva accettato. Con gli anni si era rassegnato a quello che era successo e aveva imparato a conviverci, a convivere con la lontananza da chi aveva la fetta più grande del suo cuore.
- Deja ti ama,
Replicò invece con voce priva di tono ed espressione piatta.
- Mia figlia è innamorata di te,
Per quel discorso, per il tono minaccioso che si permetteva di acquisire, parlando da padre e non da suddito, non avrebbe usato nessun onorifico.
- Le scuse te le puoi anche tenere. Tutto quello che pretendo da te è che tu ti prenda cura del mio più grande tesoro e che custodisca bene e protegga il cuore che lei ti ha dato.
Guardò Zaron che sembrava scosso dalle sue parole.
- Tu l’ami?
Gli chiese con voce grave. Zaron rimase in silenzio, un silenzio che si protrasse a lungo.
- Trattala come se l’amassi più della tua stessa carne e saremo pari.
Disse Aborn con rabbia, poi diede la schiena all’imperatore di Zabad e lasciò la stanza senza aspettare di essere congedato.
- Lei mi è già più cara della mia stessa carne…
Sussurrò l’uomo, in piedi e immobile.
- Questo vuol dire che la amo?
 
La visita di Aborn durò solo due settimane e poi ripartì. I giorni di Deja scorrevano felici e pieni d’amore e le notti che passava con suo marito erano diamanti preziosi il cui ricordo lei custodiva gelosamente, pensandoci spesso mentre giaceva da sola nel suo letto nell’harem e si consumava di desiderio e gelosia sapendo che lui riposava nell’abbraccio di un'altra, da cui aveva preso ciò che ancora non aveva voluto da lei. La ragazza aveva pensato che si sarebbe accontentata del ritmo lento stabilito da Zaron ma non era così: una volta abituatasi alle sue carezze e al piacere che lui le dava, aveva cominciato a desiderare di più. Alla fine ne aveva parlato con Tallia, che era divenuta la sua confidente riguardo ai dubbi e alle incertezze che aveva quando giaceva con suo marito. La franchezza di Tallia era imbarazzante e le sue parole crude, ma proprio per questo Deja la cercava, preferendola alle allusioni delicate di Perla.
- Lui non mi tocca mai sotto i vestiti!
Aveva cominciato a lamentarsi con la concubina.
- Mi bacia e mi tocca solo attraverso la stoffa. Sei sicura che non sia perché non gli piaccio?
Tallia aveva riso fragorosamente.
- Non temere passerotto: se lo senti duro vuol dire che ti vuole, eccome!
Deja era arrossita violentemente.
- Un uomo può mentirti a parole ma la sua anatomia non racconta bugie!
- E allora perché?
Aveva ripetuto con tono lamentoso Deja, lasciandosi cadere sul letto della concubina.
- Magari ha bisogno di un incentivo…
Aveva suggerito lei maliziosamente.
- Potresti cominciare smettendo di indossare il blouse quando sei nell’harem. Sono sicura che questo attirerebbe la sua attenzione!
Deja si era coperta il viso con un gemito di vergogna.
- Ci avevo pensato anche io ma mi vergogno troppo. Non ci riesco proprio!
Tallia si era seduta sul bordo del letto.
- Prova a stare senza mentre sei nei tuoi appartamenti, per prendere familiarità con la sensazione di essere nuda e poi, quando ti senti pronta, buttati. Magari una sera in cui ci siamo solo noi e Zaron non viene a cena…
E così Deja aveva fatto, facendo quasi venire un colpo alla sua cameriera. La sensazione di stare a seno scoperto era strana e imbarazzante. Era in ogni istante conscia di essere esposta, ma c’erano solo donne nell’ala femminile e le sue servitrici rakiane, a differenza di Larissa, non avevano battuto ciglio. Dopo qualche settimana si era sentita abbastanza preparata ed era emersa dai suoi appartamenti con solo la stola a coprirle metà del petto, per assistere dopo cena allo spettacolo dato da Mira.
La concubina aveva stonato con forza la nota quando l’aveva vista e anche le altre tre si erano voltate a guardarla, Perla e Oscia a bocca aperta, Tallia con un sorriso soddisfatto.
- C’è qualcosa che non va nel mio abbigliamento?
Aveva chiesto con voce leggera e ironica, arrossendo fino alla radice dei capelli e su tutto il petto.
- Il viola ti dona.
Aveva risposto sghignazzando Tallia. Mira aveva ripreso a suonare e Perla aveva nascosto un sorriso tra i capelli.
Le ci erano volute ben più di due settimane e un’altra frustrante notte negli appartamenti di suo marito prima che trovasse il coraggio di farsi vedere così anche da lui.
Aveva già messo un semplice abito issiano in seta rosa quando era stata colta da un’inaspettata frenesia.
- Ho cambiato idea, Larissa.
Aveva detto mentre lei le spazzolava i capelli.
- Tira fuori il mio abito rakiano viola. Mi hanno detto che mi dona.
La sua cameriera si era quasi strozzata dalla sorpresa quando aveva rifiutato il blouse. Aveva indossato varie collane del tesoro reale rakiano, monili in oro che riposavano freddi sulla sua pelle e che conducevano lo sguardo proprio dove Deja voleva che cadesse quello di Zaron. Si fece raccogliere i capelli in modo che le scendessero sulla schiena e non oscurassero la vista e poi, tintinnante di collane e bracciali, si era recata a tavola.
Sapendo, dal calore che irradiava il suo viso e dalle orecchie in fiamme, che stava arrossendo con inusitata violenza, evitò di guardare Zaron, non lasciandosi però sfuggire il suo verso soffocato e il rumore della coppa che lui rovesciò con un movimento improvviso del braccio. Kirsis che sedeva accanto a lui protestò a gran voce perché le aveva buttato del succo nel piatto, poi vide Deja e si rivolse verso il genitore con voce piccata.
- Perché zia Deja può stare senza blouse e io no? Non sono più una bambina!
- Tu non starai senza blouse e basta. L’argomento è chiuso!
Replicò il padre, senza staccare gli occhi da sua moglie e più precisamente da una parte esposta di lei su cui i suoi occhi non si erano mai posati prima. Diede un buffetto conciliatorio al capo bruno della figlia, senza guardarla: se c’era qualcosa che non voleva, in nessun caso, era vedere il seno nudo di una delle sue bambine.
Zaron passò la cena senza riuscire quasi a mangiare, anzi a un certo punto mise il gomito nel piatto, pensando di poggiarlo sulla tavola**. Guardava come intontito i seni pallidi e rosei di Deja, come se i propri occhi fossero una bussola e il petto di lei il nord. Ogni tanto riusciva a distogliere lo sguardo per spostarlo sul viso perennemente arrossato di lei e così la colse a guardarlo. Gli occhi azzurri di lei ardevano di desiderio, le guance erano infuocate e le labbra rosse socchiuse, poi, mentre lui la guardava, si morse il labbro. Quando gli incisivi bianchi affondarono nella carne morbida lui non ce la fece più. Si alzò di scatto e allungò la mano verso Deja in un chiaro invito. Anche lei si alzò lasciando perdere il pasto consumato a metà, e mise una mano tremante sul suo palmo. Zaron quasi la trascinò verso l’uscita per poi bloccarsi con un verso frustrato davanti ai battenti: lei non poteva attraversare il corridoio fino le sue stanze così svestita.
- I tuoi appartamenti.
Le intimò con voce roca e bassa.
- Cosa?
Chiese lei stordita.
- Possiamo andare nei tuoi appartamenti?
Deja annuì freneticamente, aggrappandosi al suo braccio, premendo il seno contro la stoffa della sua casacca. Entrarono baciandosi, Deja si staccò da lui solo per ordinare alle sue servitrici di uscire, che non avrebbe avuto più bisogno di loro fino al mattino. Poi proseguirono fino alla camera da letto.
Al mattino dopo Zaron fece ritorno nei propri appartamenti a testa alta, seguito da cinque paia di occhi curiosi. Occhi che avevano analizzato con attenzione i suoi abiti sgualciti, come se ci avesse dormito dentro e che, una volta che fu uscito, si misero in paziente attesa della regina.
Deja emerse un’ora dopo, con espressione soddisfatta e guance rosse di contentezza.
- Allora?
Chiese a bruciapelo Cara, circondata dalle altre. Deja guardò quelle cinque donne che la fissavano in paziente attesa.
- Allora cosa?
Chiese con aria di sufficienza, cercando di non arrossire troppo.
- Allora lo avete fatto sì o no?
Domandò con malizia Tallia.
- No, abbiamo dormito vestiti.
Fu la risposta secca della regina, seguita da un coro di gemiti. A dire il vero Zaron a un certo punto si era tolto la casacca e Deja aveva accolto con esaltazione la sensazione della pelle nuda del marito contro la propria, le cose avevano cominciato a farsi infuocate, ma lui si era limitato a toccarla attraverso i vestiti, anche se aveva infilato la mano sotto la gonna, e dopo si era rivestito.
- Si può sapere perché vi interessa tanto la natura dei miei rapporti intimi con Zaron?
Aveva replicato con voce soffocata e imbarazzata.
- La tua mancanza di vita s…
Aveva cominciato a replicare Tallia, stizzita.
- Siamo ansiose, Deja. Vogliamo vedervi felici e, come tutti nel regno, attendiamo la nascita di un erede.
Si era affrettata a dire Perla, parlando sopra l’altra donna.
- La prossima volta prendi tu l’iniziativa e prova a spogliarti nuda, forse sortirai qualche effetto.
Aveva concluso Tallia, fulminando Perla con lo sguardo. Questa volta era stato il turno di Deja di gemere esasperata. Forse l’altra donna non aveva tutti i torti, dopotutto il suo consiglio sul blouse aveva funzionato.
Deja aveva cominciato a restare senza il blouse nell’harem e ogni volta che Zaron cenava con loro invece che nelle sue stanze con la concubina di turno, finiva sempre con il passare la notte in camera di sua moglie. L’imperatore era diventato bravo a resistere fino alla fine del pasto, ma al momento di alzarsi e selezionare la donna con cui appartarsi la sua mano si tendeva sempre verso Deja. Lei però non era riuscita a seguire il suggerimento di Tallia e a spogliarsi nuda di sua iniziativa, la timidezza vinceva sempre sulla passione e il desiderio. Alla fine Tallia si presentò una sera in camera sua.
- Questa notte è il mio turno.
Aveva esordito senza neppure salutarla. Deja era già in camicia da notte e si stava apprestando a coricarsi.
- Vuoi tuo marito sì o no?
La ragazza aveva annuito a occhi sgranati, perché non capiva. La concubina aveva buttato il velo su una sedia.
- Bene, guarda attentamente: si fa così.
E con un gesto veloce aveva afferrato con entrambe le mani il bordo della gonna e dei pantaloni e li aveva abbassati, rimanendo davanti a lei completamente nuda. Deja aveva gorgogliato, stupefatta, e poi aveva distorto lo sguardo.
- Visto? Facile: un gesto solo e non ci pensi più.
Le aveva gettato addosso gli indumenti che si era tolta.
- Mettiteli, indossa il mio velo e va’ da lui.
Lei l’aveva fissata, incredula e a bocca aperta.
- Forza!
L’aveva pungolata la donna. Deja era scattata in piedi e si era sfilata la camicia da notte, in imbarazzo per il fatto di cambiarsi davanti a Tallia e ancor di più per il fatto di indossare gli abiti della donna, o per essere più precisi i pochi indumenti che lei aveva avuto addosso. Intanto Tallia si era coperta con una delle vestaglie di Deja.
- Sei più alta di me, ma di poco. Se tieni le braccia incrociate in vita in modo che non sporgano dal velo, nessuno se ne accorgerà.
Tremante Deja aveva percorso il breve tratto che divideva le porte dell’harem da quelle di Zaron, terribilmente conscia di essere praticamente nuda sotto lo spesso velo. Entrò nell’anticamera di suo marito e poi proseguì fino alla camera da letto. Zaron l’attendeva a petto nudo. La guardò, distratto, riconoscendo i vestiti.
- Tallia…
Poi si bloccò, irrigidendosi, notando che la donna era troppo alta per essere la sua concubina. Deja si tolse in fretta il velo.
- Deja! Cosa…?
Prima di perdere il coraggio, lei chiuse gli occhi e con mani impacciate fece quello che le aveva mostrato Tallia. Rimase completamente nuda davanti a lui, i bracciali e le cavigliere della concubina le uniche cose sulla sua persona.  Respirava affannosamente e quando guardò Zaron notò che era lo stesso per lui.
- Deja.
Ripeté e il suo sguardo era come una carezza lungo tutto il suo corpo. Con il cuore in gola gli si fece innanzi e incontrò le sue labbra, che la cercavano. Lui l’afferrò in vita e la fece ricadere sul letto, con un verso roco di disperato desiderio. Non ci furono parole, per molto tempo.
Lui rimase vestito e non prese nulla, mentre alla fine Deja aveva il fiato corto ed era tutta sudata. Quasi non riusciva a mettere a fuoco il soffitto ma doveva, doveva sapere.
- Perché Zaron?
Lui la baciò, languidamente, facendo correre le mani sulle sue forme.
- Perché cosa, mia cara?
- Perché non mi prendi? Mi sono offerta ormai in tutti i modi in cui sono riuscita a pensare e… mi piace quello che fai, mi piace da morire e questa sera non sono poi così sicura che tu non mi abbia uccisa davvero… un bel modo per morire, ci tengo a sottolineare…
Lui sorrise soddisfatto contro il suo seno, dando un piccolo morso che riuscì a distrarla per un attimo.
- Ma… perché non mi prendi del tutto? Perché non finisci mai quello che iniziamo? Tu non derivi nessun piacere a giacere con me, non come ne dai a me…
Zaron aveva sospirato e poggiato il capo sul petto della moglie, senza incrociarne lo sguardo.
- Ci sto arrivando Deja,
Aveva sussurrato, solleticandole la pelle umida con il fiato.
- Abbi pazienza e fidati di me.
- Quando? Quando succederà?
Aveva chiesto lei con tono pieno di desiderio struggente.
- A Issa.
Aveva risposto lui cogliendola totalmente di sorpresa.
- Cosa?
Aveva replicato lei con tono stridulo, ripensando al letto che avevano condiviso tante volte, il letto in cui lei era stata concepita e sua madre era spirata.
- Pensaci,
Aveva ribattuto Zaron, serio, alzando il viso e guardandola negli occhi.
- Sarà la tua prima volta. Se sanguinerai sarà impossibile da nascondere e qui a Halanda impossibile da spiegare a meno che tu non mi voglia far passare per un marito violento e brutale. A Issa sarà più facile, anche se egualmente ingiustificabile. Là ci stiamo solo pochi giorni ogni anno.
Poi l’aveva baciata, soffocando sul nascere ogni sua protesta.
Al suo ritorno nell’harem la mattina seguente Tallia l’aveva trascinata nei propri appartamenti.
- Allora?
Le aveva chiesto piena d’aspettativa. Deja aveva scosso il capo, ma con espressione di trionfo.
- Non questa volta, ma per il mio compleanno non sarò più una fanciulla.
Aveva decretato con sicurezza, strappando un sorriso complice alla concubina.
La regina aveva quindi pazientato, ma adesso che sapeva cosa si provava a giacere nuda sotto suo marito non aveva voluto tornare indietro, spogliandosi per lui ogni volta che passavano la notte insieme, fino all’avvicinarsi del suo compleanno.
Zaron le aveva detto senza mezzi termini che non avrebbero viaggiato con l’aeronave, ma avrebbero fatto il tragitto via terra e via mare, accompagnati da una scorta armata che ricordava più un piccolo esercito che una guardia reale. Deja non era riuscita a fargli cambiare idea e si era rassegnata alla prospettiva di passare quasi quindici giorni in viaggio, dormendo in tenda perché lui voleva essere veloce e muoversi in modo imprevedibile.
Non che la tenda reale fosse scomoda, constatò la regina una volta che fu montata: era enorme e c’erano cinque stanze con pareti di seta. La servitù aveva persino assemblato un letto su cui erano stati srotolati numerosi materassi e su cui lei dormì, stretta al marito. Lui le aveva intimato di essere il più silenziosa possibile e aveva soffocato i suoi gemiti con baci profondi.
All’arrivo nella sua città natale era stata nervosa e sulle spine e suo padre, preoccupato, le aveva chiesto se c’era qualcosa che non andava e lei era stata sovrappensiero ed elusiva, la sua mente e il suo cuore erano già negli appartamenti reali e nel letto in cui avrebbe finalmente perduto la verginità.
Lo aveva confidato a Anka, troppo agitata e felice per tenerselo per sé e la sua amica era impallidita e poi arrossita, guardandola con un misto di orrore e invidia. Ancora non aveva trovato un uomo che le piacesse e continuava a rifiutare tutti i pretendenti anche se agognava a vivere quell’amore che poteva vedere brillare negli occhi della regina.
Quella sera a cena fece fatica a mangiare, non riusciva a staccare gli occhi da Zaron, neanche per guardare il proprio piatto e le posate le tremavano nella mano. Era nervosa e sentiva un groppo allo stomaco. Lui se ne era accorto e con voce gentile le aveva detto che potevano aspettare ancora, che non c’era nessuna fretta.
- Non osare,
Gli aveva quasi ringhiato contro lei.
- Questa notte tu sarai mio e io sarò tua. Non provare neppure a tirarti indietro proprio ora.
Zaron non le aveva sorriso, come si era aspettata, ma la sua espressione si era riempita di desiderio e aveva lasciato le posate e la cena a metà, porgendole la mano e invitandola ad accompagnarlo in camera. Deja gli aveva poggiato le dita tremanti sul palmo e aveva notato che anche la mano di Zaron tremava.
L’aveva baciata a lungo, mentre la spogliava con lentezza, senza la fretta che invece Deja sentiva montarle dentro.
- Calma, mia cara, goditi il momento…
Le aveva sussurrato con calore, lasciandole una scia di baci sulla spalla. Poi si era tolto la casacca, rimanendo a petto nudo e l’aveva invitata a toccarlo. Lei aveva fatto per la prima volta scivolare le mani ovunque su quel petto muscoloso, solleticando la leggera peluria scura e Zaron con un gemito aveva poggiato la propria fronte contro la sua, chiudendo gli occhi. Le aveva preso le mani e gliele aveva guidate verso la cinta dei pantaloni.
- A te la scelta mia cara. Non resterò deluso se vorrai attendere ancora e ricorda,
Pronunciò l’ultima parola con enfasi.
- In qualsiasi momento, se vuoi che mi fermi, per un qualsiasi motivo, dimmelo e io lo farò. Non lo prenderò come un rifiuto.
Deja non aveva mai dovuto spogliare nessuno prima d’allora e le sue dita faticarono con lacci che tenevano chiusi i pantaloni di Zaron, tanto che suo marito dovette aiutarla. Con curiosità mista a nervosismo spinse l’indumento a terra, riamando paralizzata dalla vista del corpo nudo di lui. Rimase a guardarlo a bocca aperta, senza parole, spaventata e poi eccitata: tutto di lui era così… bello. Forte e gentile allo stesso tempo.
All’ultimo momento ebbe improvvisamente timore, un istinto atavico, irrazionale e animale che la spinse a emettere un piccolo verso di panico e cercare di sottrarsi al suo abbraccio.
Zaron si raggelò.
- Deja… Deja guardami.
Lei lo fece, perdendosi nei suoi occhi scuri.
- Vuoi che mi fermi, mia dolce cara? Lo farò se vuoi, non devi avere paura…
Lei scosse il capo, incapace di parlare. Era nervosa, ma non voleva fermarsi, non quando era finalmente così vicina ad avere quello che per anni aveva desiderato.
Deja si era immaginata che sarebbe stato tutto più difficile, invece quello che seguì fu sorprendentemente naturale e molto meno doloroso di quello che si era aspettata. La meraviglia di essere una cosa sola con lui le fece sfuggire delle lacrime che nascevano dal cuore, che cantava di gioia e d’amore, un sentimento incontenibile che doveva trovare sfogo.
- Ti amo, Zaron. Ti amo…
Lui non rispose con similari parole di tenerezza, ma la guardò negli occhi e Deja credette di vedervi riflesso lo stesso sentimento che provava lei. Il dolore per l’omissione di quell’espressione che lui non le avrebbe mai rivolto l’attraversò in un attimo, piantandosi nel profondo della sua anima, prima che lui la baciasse, con una dolcezza tale da farle dimenticare ogni altra cosa.
Dopo, avvinghiata a lui con braccia e gambe, i loro corpi nudi finalmente vicini, aveva respirato il suo odore e carezzato la sua pelle umida di sudore.
– Ti amo…
Gli aveva ripetuto, tra i baci, cercando di comunicare quel sentimento che le stringeva il petto, sperando che l’amore che lei recava per lui fosse sufficiente a sostenere entrambi. Aveva ottenuto ciò che a lungo aveva bramato: suo marito, anche se solo il suo corpo e non il suo cuore. Era una vittoria dolceamara.
Si addormentò sul suo petto, stringendosi a lui, cullata dal suo respiro e accarezzata dolcemente dalla sua mano che le sfiorava il viso e i lunghi capelli aggrovigliati.
Zaron invece era rimasto sveglio, con occhi turbati, depositandole leggeri baci sulla fronte ogni tanto.
Non riusciva a capacitarsi di quanto diverso fosse stato con Deja, più intenso e appagante rispetto a quando giaceva con le sue concubine. Forse era stata la fiducia incondizionata di lei, forse l’amore di cui era intriso ogni suo gesto, ma Zaron era stato profondamente colpito dall’esperienza, qualcosa nel suo profondo si era mosso e si era ritrovato quasi a versare lacrime con lei quando i loro corpi si erano uniti.
La sua regina, sua moglie, la sua piccola cara. La stringeva tra le braccia e si stupiva di come lei fosse finita proprio lì, di quanto lontano fossero giunti assieme, di dove l’amore di lei li avesse portati. Quanto diverso avrebbe potuto essere il loro matrimonio! Se lei fosse stata meno bendisposta, meno aperta e pronta a dargli un’opportunità.
La bambina graziosa che aveva strappato via in lacrime dalle braccia del padre con un gesto di violenza era cresciuta, divenendo una ragazzina decisa e sicura di sé e di quello che voleva, e infine una donna che con cocciutaggine e accanimento aveva ancora e ancora ribadito il suo amore per lui, spingendolo ad affrontare le sue paure e i suoi sentimenti. Pungolato da Deja era stato costretto a guardare nel fondo della sua anima e quello che aveva visto non gli era piaciuto; aveva cercato di dissuaderla, ponendola difronte a quello che era veramente, alla parte meno cortese e più sanguinaria di sé, ma lei non aveva desistito: guardando negli occhi la bestia ruggente l’aveva accolta a braccia aperte e occhi colmi d’amore. E il drago si era quietato, permettendo alla fanciulla di carezzargli la schiena squamosa come un cane fedele.
Deja era il suo tesoro più prezioso, gli era più cara della vita, non riusciva a concepire più un’esistenza senza di lei al suo fianco, e da quella notte in poi, nel suo letto. Ora che l’aveva avuta non riusciva a immaginarsi di tornare dalle sue concubine, non dopo l’abbraccio appassionato di sua moglie. Da tempo ormai pensava solo a Deja quando era con loro e ora che sapeva cosa si provava l’illusione non sarebbe più bastata. Aveva fame solo di lei, dei suoi occhi, delle sue labbra sorridenti, quelle efelidi che aveva contato innumerevoli volte con dozzine di baci e che avrebbe saputo mappare a memoria, il suo profumo, i suoi capelli, i suoi gemiti e il calore del suo corpo. La sua ironia, le sue idee semplicemente rivoluzionarie, tutto di lei lo incantava e lo incatenava e, di lei, lui era il felice prigioniero.
Si era a lungo considerato un drago geloso che stava a guardia del suo tesoro, ma ora si rese conto che lei aveva messo una catena d’oro attorno al suo cuore e che reggeva saldamente il guinzaglio. La catena si chiamava amore e la mano di lei era leggera, perché con un sorriso gli aveva porto a sua volta il proprio cuore in pegno.
Al mattino Deja era stata svegliata dalle labbra di suo marito e da quelle parole che aveva vanamente sognato di sentirsi dire da lui. Lo aveva abbracciato stretto, piangendo di gioia e a ogni ti amo di Zaron aveva risposto con un bacio.




* Faliq dagli sguardi duri e muscoli possenti: Mi fa ancora ridere una battuta di un film, o un telefilm non ricordo, in cui uno dei personaggi, terribilmente gay ed effemminato, si veste da generale dei marines, e recita la parte in maniera perfetta e convincente, per tirare fuori di prigione i protagonisti. Non ricordo NULLA della trama ma mi rimarrà per sempre impressa lo scambio di battute: “Non sapevo che fossi stato un marines” al che il tipo gay risponde “Loro cercavano uomini veri. Anche io!”.
** Zaron mette il gomito nel piatto perché è troppo impegnato a fissare il seno di sua moglie. Non ho resistito a copiare Harry Potter. La seconda volta che Ginny vede Harry è a colazione, alla Tana, e lei mette il gomito nel piatto del burro (se non ricordo male).
 
 
NOTE DELL’AUTRICE: Riguardo ai brutti pensieri di Aborn, se Deja ama davvero Zaron o i suoi sentimenti sono frutto della frequentazione e dell’abitudine. Personalmente credo che, a meno che non si parli di colpo di fulmine, ogni volta che ti innamori è frutto della frequentazione e dell’abitudine. Dopo tutto cosa succede? Conosci qualcuno, ci esci assieme: può rivelarsi un colossale s***zo oppure una persona con cui ti trovi a tuo agio, lo vuoi rivedere e vedendolo spesso ti nasce dentro un sentimento che magari va ad affiancarsi a un’attrazione che già provi ma che si raffredda con il tempo se non è accompagnata da qualcosa di profondo. Almeno questa è stata la mia esperienza. Poi non so con voi. (io sono una di quelle che ha sposato il fidanzatino che aveva alle superiori dopo 12 anni di fidanzamento, quindi…).

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Capitolo 11
*** EPILOGO ***


EPILOGO

L’IMPERATORE ZARON E LA REGINA DEJA: LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA
 
Darilla si svegliò quella mattina con un sorriso sulle labbra e stiracchiandosi contenta: era l’inizio dell’estate e per quel giorno non c’erano lezioni all’Accademia. Una giornata di riposo assoluto a cui sarebbe seguita una nottata di feste e svaghi, per accogliere l’arrivo della bella stagione.
Accantonò il pensiero della festa a cui avrebbe partecipato quella sera insieme alla sua amica Maye e a cui sperava di incontrare Garriv, lo studente rakiano su cui aveva messo gli occhi da mesi. Era un bel ragazzo Garriv, con occhi scuri e pelle ramata e uno splendido sorriso accecante che le faceva palpitare il cuore.
Intanto aveva tutta la giornata per sé e aveva intenzione di passare la mattina alla spiaggia, per lavorare alla sua abbronzatura. Darilla aveva un nonno rakiano, e quindi la sua pelle invece di diventare color aragosta, come quella di Maye, si dorava al sole, diventando di un colore piacevole e caldo.
La ragazza si tolse in fretta il pigiama e pescò dall’armadio un paio di comodi pantaloni verdi che avrebbe potuto arrotolare fino alle ginocchia, una tunica leggera dello stesso colore e senza maniche dalla scollatura profonda e rettangolare, che avrebbe permesso alla luce del sole di toccarle la sommità del seno, e una cintura marrone da avvolgere in vita. Si guardò allo specchio da varie angolature, per essere sicura che tutto scendesse alla perfezione e che il bordo della tunica non le si fosse arrotolato sulla schiena ma ricadesse dove doveva: a metà coscia. Si fissò negli occhi azzurri, come quelli di suo padre e scosse felice i lunghi capelli neri, annodati in dozzine di treccioline chiuse da perline colorate che una signora in fondo alla strada le aveva fatto per pochi soldi. Maye li portava corti, a caschetto, ma Darilla era troppo orgogliosa della sua chioma per tagliarli e aveva fino a quel momento resistito alla moda di quegli anni.
- Io esco!
Urlò passando veloce per la cucina.
- Ma non fai colazione?
Le chiese suo padre, con la bocca piena dei biscotti fatti in casa di sua madre.
- Non ho tempo!
Tuttavia tornò indietro e si ficcò in bocca uno di quei fantastici, profumati biscotti e prese una mela dal cesto della frutta.
- Ci vediamo per pranzo.
Cercò di dire a bocca piena, salutando con la mano la madre che emergeva dalla cucina con una tazza di thè fumante in una mano e una di kafè nell’altra.
Scese i pochi gradini dell’ingresso e prese dal tronco di una albero del giardino, dove l’aveva appoggiata la sera prima, la sua bicicletta, si mise in spalla la borsa che aveva preparato e in cui aveva infilato la mela e si mise a pedalare contenta per le strade di Issa. A quell’ora del mattino, ed essendo un giorno festivo, c’erano poche persone per la via, il che era bello perché Darilla odiava con passione i mezzi motorizzati che si stavano diffondendo da un paio d’anni a quella parte e che con i loro fumi rendevano irrespirabile l’aria.
Pedalò velocemente, schizzando per i vicoli stretti per fare prima, rischiando un paio di volte di investire i pochi passanti che le urlavano dietro insulti, ma Darilla rideva contenta, con il sangue che le pompava in corpo per lo sforzo fisico e l’aria fresca del mattino che ancora profumava di mare ad accarezzarle il viso. Passò come un razzo per il piazzale dell’imperatrice, salutando con un cenno scherzoso la statua in bronzo dorato della regina Deja che dava il nome alla piazza. La statua svettava su un piedistallo di marmo bianco in cui era inciso il suo nome e la ritraeva con la corona, in piedi e con il viso sereno rivolto verso est, verso la porta dell’imperatore, con in una mano una ghianda e nell’altra la bilancia della giustizia.
Uscita dalla città rallentò la sua corsa, anche perché la via lastricata diventava più sconnessa. Invece di proseguire lungo la strada imperiale svoltò a destra, per i campi, e poi scese per percorrere a piedi l’ultimo tratto, un semplice sentiero d’erba, fino alla scogliera. Lasciò la bicicletta appoggiata dietro a un cespuglio di more, si sistemò meglio lo zaino e si mise a percorrere lo stretto declivio che portava alla sassosa spiaggetta sottostante, appoggiandosi ai grossi massi per mantenere l’equilibrio.
Era sudata quando finalmente arrivò a destinazione, lasciò cadere sui ciottoli grigi lo zaino e sollevò le braccia, stiracchiando i muscoli e respirando a pieni polmoni il profumo dell’acqua di mare. Poi, sogghignando contenta, si tolse i sandali, arrotolò i pantaloni fino alle ginocchia e con uno strillo, sentendosi molto infantile, si lanciò sul bagnasciuga, incontro alle onde. Schizzò l’acqua fresca e limpida per un po’, prima di tornare allo zaino e stendere la coperta che si era portata. Si distese supina, allargando le braccia per abbracciare la luce del sole, poi rotolò sulla pancia e scavò nella borsa per prendere il libro che stava leggendo e che aveva intenzione di finire proprio quel giorno.
A metà mattina si distese sulla schiena, dopo aver fatto una passeggiata sulla spiaggia, camminando immersa nell’acqua fino a mezza gamba, mangiando la sua mela. Finì il libro poco prima di mezzogiorno e si mise a guardare il cielo chiaro con le braccia sotto al testa. All’Accademia seguiva le lezioni di storia economica della professoressa Garfinda e proprio lei il semestre precedente aveva suggerito quel libro, per comprendere meglio il clima politico e sociale che stavano studiando. E poi era una storia così romantica! Il matrimonio della regina Deja con l’imperatore Zaron era stato lo scandalo del secolo, Darilla fece una smorfia rabbrividendo al pensiero di sposarsi così giovane, eppure capitava all’epoca. Quella che era partita come una fredda unione politica si era trasformato in un matrimonio d’amore, e questo stuzzicava la sua anima romantica. Certo, la coppia imperiale aveva avuto i suoi problemi e dei terribili lutti: il primo principe era morto a tre anni per una malattia improvvisa ma il loro secondogenito, l’imperatore Malyasin, era stato un grande imperatore, illuminato e universalmente amato dai suoi sudditi, re di Issa e al tempo stesso khan di Rakon, aveva definitivamente riunito i due regni e aveva portato l’impero creato da suo padre al suo massimo periodo di fioritura e benessere economico e sociale. Era stato anche molto legato alla madre, recandosi spesso a visitarla a Issa, dove lei si era trasferita dopo la morte del marito, a cui era sopravvissuta di ben venticinque anni. Alla morte dell’imperatore Zaron la regina aveva abdicato dal trono issiano, facendo di suo figlio il primo a detenere entrambe le corone e il nuovo imperatore l’aveva nominata governatrice di Issa a vita. Alla sua morte, all’età di ottantacinque anni, la sua salma era stata tradotta a Rakon con tutti gli onori ed era stata, secondo le sue volontà, tumulata assieme al marito, nel mausoleo imperiale, per condividere con lui l’eternità.
Accorgendosi che ormai era ora di pranzo, cosa di cui il suo stomaco la informò rumorosamente, Darilla raccolse le sue cose, tra cui il tomo rilegato in cuoio che aveva appena finito di leggere: “L’imperatore Zaron e la regina Deja: la rivoluzione silenziosa. Di Oscia Kalijif”, prima di inerpicarsi per la salita, sulla via di casa.
 
 
 
FINE
 


NOTE FINALI:
Salve a tutti voi che avete letto la mia storia! Ebbene sì, è finita. Se leggendo l’epilogo avete sospirato dispiaciuti perché era il mio ultimo post allora vuol dire che ho fatto un buon lavoro!
Di solito le mie note finali sono lunghe e tendono all’infinità, ma dato che sono malata ho davvero poca voglia… vorrei solo mettermi sotto il piumino e dormire per un mese…
Quindi bando alle ciance e avanti con i ringraziamenti!
Innanzitutto grazie a tutti voi che avete letto, capitolo per capitolo, tutta la mia storia. Grazie e un bacio!
Poi grazie a tutti voi che avete messo la mia storia tra le preferite/da ricordare/seguite: grazie di tutto cuore, mi sono sentita amata!
E infine un grazie speciale a tutti coloro che hanno lasciato un commento, questo vuol dire voi: morganglasses, Wasabi e NancyZquad_1D. I vostri commenti mi hanno scaldato il cuore e dato l’ispirazione ad andare avanti!
Per la versione con rating rosso, l'ho scritta con il titolo "Il cuore di un drago" e contiene raggruppati in una sola storia tutti i capitoli. Per trovarla basta che andiate sul mio profilo.
Se vi state chiedendo se scriverò un seguito: no, mi pare che la storia sia bella e conclusa. Inoltre stavo pensando di farla pubblicare… Comunque forse, e sottolineo forse, scriverò qualche vignetta, magari di Perla, è un po’ che penso al suo background…
Scriverò ancora? Decisamente sì, ho una storia nel cassetto da almeno 5 anni, direi che è il caso di rispolverarla, ma ricomincerò a scrivere solo a giugno, se mi richiamano a lavorare avrò un sacco di tempo.

Aggiornamento febbraio 2017: ho terminato la correzione, ma se qualcuno vede ancora errori, vi prego di segnalarmeli. Inoltre, per i nuovi lettori: non siate timidi, lasciatemi pure un commento, io controllo sempre!!!!

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