Sangue Indiano

di sara_gi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Note, dediche e utilità ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo I ***
Capitolo 4: *** Capitolo II ***
Capitolo 5: *** Capitolo III ***
Capitolo 6: *** Capitolo IV ***
Capitolo 7: *** Capitolo V ***
Capitolo 8: *** Capitolo VI ***
Capitolo 9: *** Capitolo VII ***
Capitolo 10: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 11: *** Capitolo IX ***
Capitolo 12: *** Capitolo X ***
Capitolo 13: *** Capitolo XI ***
Capitolo 14: *** Capitolo XII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 16: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XV ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 20: *** Capitili XVIII ***
Capitolo 21: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XX ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Note, dediche e utilità ***


Nota dell'autrice

 

L'idea di questo romanzo è nata molto tempo fa a causa di un sogno.

Non so cosa lo provocò ma la storia che si sviluppò nella mia testa a

seguito di quella nottata di evoluzioni oniriche si impresse profondamente

in me fino a che sentii l'urgenza di metterla su carta. Letteralmente:

la prima bozza la scrissi a mano. Revisione dopo revisione, la storia si è

evoluta, personaggi che pensavo sarebbero stati importanti sono

svaniti tra le pagine, altri che consideravo comparse hanno preso in mano

la tastiera trasformandosi in voci fondamentali alla storia. Chi scrive sa

quanto possa essere esaltante e, a tratti, snervante vedersi scippare il ruolo

di autore dai propri personaggi..!

Vi chiedo perdono se i primi capitoli vi sembreranno lenti: la narrazione segue

la crescita interiore della protagonista, o meglio delle protagoniste, due tipiche

sedicenni di buona famiglia nell'Inghilterra previttoriana. Vi prometto che le

vedrete cresce in fretta!

Ovviamente ogni riferimento a persone o eventi realmente esistiti o accaduti

è assolutamente casuale.

Sarò felice se vorrete commentare e dirmi cosa pensate mano a mano che la

storia si dipana. Posterò subito il prologo e i primi tre capitoli dopo di che

proseguirò su base settimanale, il sabato.

Grazie e buona lettura!

Sara

 

 

 

 

Dedicato a nonna Marina

che, in un’epoca in cui le convenzioni erano tutto,

ha avuto il coraggio di seguire il proprio cuore.

 

E ad Elisa, sorella di cuore se non di sangue, così simile

alla sua omonima racchiusa tra queste pagine, lei che un

giorno mi ha detto: «Dovresti scrivere un libro…»

 

 


 

Personaggi principali

(in ordine di apparizione)

 

Marina Annabelle Shallowford: contessina Shallowford.

 

Elisa Maryann Shallowford: contessina Shallowford.

 

Umi: governante delle contessine.

 

Maria Giuseppina Foscari Shallowford: nobildonna vicentina, madre delle contessine e moglie di lord Damien.

 

Damien Patrick Shallowford: Conte Shallowford, Colonnello dell’esercito di Sua Maestà e Governatore dell’Uttar Pradesh.

 

Patal: guardia del corpo delle contessine.

 

Silam: tigre bianca del Bengala.

 

Miranda Scott: amica delle contessine.

 

Sardar Singh: Raja di Agra.

 

Alexander Preston: capitano dell’esercito di Sua Maestà, erede di St. John Manor.

 

Luke Tyler: capitano dell’esercito di Sua Maestà, erede del Marchese Wehiss.

 

Cavan Marek: Principe di Jaypur, erede al trono del Rajasthan.

 

 

 

L'India del 1829/'32

 

 

 

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Capitolo 2
*** Prologo ***





Prologo

 

 

India 1813, palazzo di Lakshmi, regione dell’Uttar Pradesh.

 

La grande camera era avvolta nella penombra, solo pochi raggi di sole penetravano dalle persiane intagliate che chiudevano le alte finestre a bifora. Lievi gemiti si propagavano per l’aria immobile mentre giochi di chiaro scuro animavano gli stucchi che decoravano le pareti e il soffitto. Pochi, eleganti mobili riempivano la stanza al cui centro troneggiava un grande letto scolpito. In quel letto, adagiata su lenzuola di seta, una bellissima, giovane donna si agitava in preda agli spasmi del parto, i lineamenti delicati stravolti dalle fitte di dolore che le attraversavano il corpo nello sforzo di mettere al mondo la creatura che per lunghi mesi aveva vissuto in lei. L’amore immenso che legava la donna al suo sposo le dava la forza per affrontare quell’ultima terribile prova, per dare alla luce quella creatura nata dalla tenerezza e dalla passione. Accanto al letto stava inginocchiata un’altra donna di poco più giovane e molto graziosa, si chiamava Umi, era l’ancella prediletta di colei che stava partorendo: Sitara-i-Mahal, Maharani del palazzo di Lakshmi. Umi aveva assistito spesso alla nascita di un bambino, sapeva come comportarsi ma l’affetto che la legava alla sua padrona le aveva serrato lo stomaco in una morsa di paura da quando le doglie erano iniziate. Sapeva che ormai era questione di pochi momenti prima che lo Jubraja venisse al mondo ma veder soffrire così la sua Signora le stringeva il cuore. Tastò nuovamente il ventre gonfio della sua Maharani e sorrise:

«Un ultimo sforzo, Altezza, e sarà tutto finito» disse, vedendo la sua padrona cedere per la fatica delle ultime ore.

Finalmente, qualche minuto dopo, il pianto del bambino echeggiò nella stanza, ma nessuno lo sentì, perché all’esterno l’aria era satura di grida, gemiti e lamenti. Ovunque lo sguardo vagasse, incontrava uomini che, con la spada in pugno, combattevano perdendo la vita o togliendola. Un guerriero in particolare si distingueva tra tutti sia per la sua forza che per il suo aspetto: il suo nome era Patal, comandante delle guardie del palazzo e guardia del corpo personale del Maharaja Sciandar Singh, Signore del palazzo di Lakshmi. Alto e possente combatteva con una ferocia dettata dalla rabbia che quell’attacco inaspettato al palazzo gli aveva procurato. I suoi muscoli che guizzavano per lo sforzo della battaglia, erano messi in risalto dalla pelle ambrata tipica degli indiani. I suoi occhi, neri come una notte senza luna, nei pochi attimi di tregua vagavano in cerca di un segnale. Da ore ormai lui e i suoi uomini combattevano accanto al loro Signore nel tentativo di respingere gli aggressori che all’alba avevano assaltato il palazzo. Sapevano di non poter vincere, ma dovevano resistere il più a lungo possibile per guadagnare tempo. Sciandar Singh con la sciabola sguainata, lo sguardo feroce, combatteva come una tigre per salvare la vita della creatura che, in una delle stanze del palazzo, lottava per venire al mondo. Patal alzò gli occhi e in quell’istante vide una donna che metteva su una finestra un drappo rosso. Immediatamente balzò in avanti, tra i nemici. Sapeva di dover fare presto e mentre combatteva un solo pensiero occupava la sua mente: doveva salvare l’Erede, a tutti i costi.

 

Umi, dopo aver lavato e vestito la bambina, la portò alla madre perché la vedesse per la prima e ultima volta.

«Vostra figlia, Altezza» disse porgendole la piccola.

«Come è bella!» mormorò Sitara «Mio piccolo amore! Doveva essere un giorno di gioia, questo, e di festa… ma tu sei nata, bambina mia, e potrai vivere. Lontano da qui, ma sarai viva… e amata, questo lo so… Dei… non conoscerò mai il volto di mia figlia. Non udirò mai la sua voce chiamarmi mamma…» baciò il capo della neonata trattenendo le lacrime con uno sforzo tremendo «Per favore, non piangere» disse poi a Umi.

«Perché… Perché devo abbandonarvi anch’io? Patal porterà in salvo la Principessa anche senza di me. Io voglio restare accanto a voi!»

«Amica mia!» Sitara guardò commossa la fedele ancella «Tu mi sarai sempre vicina finché accudirai mia figlia!»

In quel momento entrò Patal e giunto dinanzi al letto si inchinò.

«Il mio Signore?» chiese la Maharani.

«Morto…» disse lui dopo un attimo di esitazione «Pochi minuti fa: l’ho visto cadere mentre passavo la porta interna, Altezza.»

La Maharani portò una mano alla bocca soffocando un gemito di dolore e strinse a sé il corpicino della figlia in un tenero quanto disperato abbraccio.

«Altezza, i nostri uomini non resisteranno ancora a lungo, dobbiamo andare» disse Patal.

«Umi!» chiamò Sitara «Hai preparato tutto?»

«Si, mia Signora. Nessuno sospetterà che la bimba nella culla non sia la vostra, e se dovessero…» esitò un attimo «e se dovessero arrivare fino a voi non penseranno mai che l’Erede è salva.»

«Grazie mia fedele amica, ora andate» poi, dando finalmente libero sfogo alle lacrime, le affidò la bambina «Addio Sunahra Moti, questo sarà il tuo nome figlia mia. Patal, presto, portale via. In salvo!»

«Sì, mia Signora. Che gli Dei vi proteggano!»

«Che Rama vegli sulla vostra anima!» sussurrò Umi scivolando nel passaggio segreto apertosi nel muro.

«Addio» disse Sitara, ma ormai il passaggio era chiuso.

Un raggio di sole, entrando dalla finestra, illuminava il volto rigato di lacrime della Maharani il cui petto era scosso da singhiozzi silenziosi.

Il fragore della battaglia filtrava dalle finestre portando alle sue orecchie le grida di rabbia e dolore degli uomini di suo marito che venivano sopraffatti, che avevano visto cadere il loro Signore ma che avevano resistito fino a quel momento per salvarne la figlia.

All’improvviso vi fu una deflagrazione violenta e pochi minuti dopo la porta della stanza si spalancò, lasciando entrare un uomo armato di scimitarra che si avvicinò al letto e, dopo aver guardato la Maharani negli occhi per un istante, affondò la lama nel suo petto senza emettere un fiato. Guardò poi nella culla e vide un corpicino senza vita. Ritornò sui suoi passi e una volta nella corte, s’inginocchiò davanti a un uomo a cavallo: «Mio Signore» disse, «la Rani e l’Erede sono morti.»

 

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Capitolo 3
*** Capitolo I ***


Prima Parte

- dall'Inghilterra all'India -





 

Capitolo I

 

Inghilterra 1829, residenza estiva dei conti Shallowford.

 

Ero in giardino, stavo leggendo uno dei miei libri preferiti sull’India, uno di quelli che mia madre mia aveva proibito. Mi dispiaceva disubbidirle, ma era più forte di me: amavo leggere e rileggere tutto su quella terra, della quale, ormai, conoscevo anche la lingua. Era stata Umi, la mia governante, a insegnarmela. Lei stessa è indiana e da che ricordo è sempre stata con me. Dopo Elisa, mia sorella, e i miei genitori è la persona che amo di più. Alle nostre dipendenze c’è un altro indiano: Patal. Lui segue sempre Elisa e me quando usciamo di casa, è come la nostra ombra.

«Finalmente ti ho trovata!»

Mi voltai di scatto sorpresa dalla voce di mia sorella. Elisa sorrise per la mia espressione preoccupata: sapeva che temevo di essere scoperta da nostra madre con quel libro in mano.

«Non preoccuparti, la mamma sta prendendo il tè con zia Luisa.» mi rassicurò.

Mi lasciai sfuggire una piccola smorfia al sentir nominare la zia: entrambe non avevamo grande simpatia per la sorella di nostro padre.

«Povera mamma, non la invidio.» sospirai.

«E la invidierai ancora meno:» disse lei «mi ha mandata a chiamarti.» nascosi il viso tra le pagine del libro «Vuole che salutiamo la zia.» rincarò Elisa senza pietà.

«Avrà da ridire sui miei capelli come al solito.» gemetti: per quanta cura Umi ci mettesse i miei riccioli sfuggivano a qualunque pettinatura.

«O sul mio aspetto accaldato: ho corso fino qui e tu sai quale crimine sia questo ai suoi occhi!» disse mia sorella ridendo.

Ci avviammo verso casa e, sulla porta della veranda, incontrammo Umi che ci osservò un istante prendendo mentalmente nota dei sottili riccioli ramati che mi danzavano intorno al viso e delle guance arrossate di Elisa. Scosse un poco la testa, ma non poté reprimere un sorriso affettuoso: era solita affermare che noi due eravamo le figlie che non aveva mai avuto.

«Siete attese.» disse facendoci segno di entrare.

Mentre le passavo accanto mi prese il libro di mano con un sospiro «Non credo che vostra madre sarebbe contenta di vedervelo in mano.» commentò con rimprovero «Lo riporrò io.»

«Grazie Umi.» mormorai.

Entrammo in salotto e la mamma ci venne incontro.

«Elisa, Marina salutate la zia come si deve.» ci disse.

Facendo un’aggraziata riverenza salutammo la zia che ci guardò benevola.

«Devo complimentarmi con te, Maria Giuseppina, hai cresciuto due vere signore.» disse alla mamma.

Noi due ci scambiammo una rapida occhiata sorpresa: niente rimproveri?

«Grazie Luisa,» le stava intanto rispondendo mamma «ma devo ringraziare anche Umi per il suo aiuto, inoltre loro sono due brave ragazze.»

Mia sorella ed io eravamo sedute sul divanetto di vimini con il nostro miglior sorriso di convenienza stampato sulle labbra e in cuore la rassegnazione di dover ascoltare una lunga conversazione sul tema dell’educazione. Ma ci sbagliavamo: la zia, consultato il minuscolo orologio che portava appuntato al petto, si alzò sorridendo.

«Mi spiace, cara cognata, ma si è fatto tardi e non posso più trattenermi. Sai, questa sera ho una riunione con il comitato, così devo andare.» si scusò.

«Ma certo, Luisa. Vieni, ti accompagno alla porta.» così dicendo la mamma fece strada alla zia allontanandosi con lei.

«Sai, questa sera ho una riunione con il comitato.» le fece il verso Elisa appena le due donne furono uscite.

Sorrisi divertita e guardai fuori dalla finestra immergendo lo sguardo nel verde brillante della campagna e dei boschi che circondavano la nostra casa.

«Marina, Elisa, credo sia ora che andiate a cambiarvi per la cena.» disse la mamma rientrando nella stanza «Vostro padre sarà qui tra poco.»

Nostro padre, il Conte Damien Patrick Shallowford, colonnello dell’esercito di Sua Maestà, faceva parte della stretta cerchia di collaboratori del Capo di Stato Maggiore e noi eravamo molto fiere di lui. Aveva fatto una carriera invidiabile da quando, all’età di sedici anni, era entrato nell’esercito.

Accorgendomi di essere rimasta sola nella stanza mi avviai al piano di sopra per cambiarmi.


Meno di due ore dopo eravamo seduti a tavola conversando piacevolmente, come sempre accadeva quando eravamo riuniti per cena.

«Tesoro, ricordami di fare i complimenti a Bettine: questa torta è deliziosa.» commentò soddisfatto papà «Mi stavo dimenticando della sorpresa!» continuò poi «Questa sera, mentre uscivo dall’ufficio, mi ha raggiunto Edward Elbert, ti ricordi di lui, vero cara?»

«Certamente, Damien.»

«Bene, Edward mi ha dato quattro biglietti per il teatro, per via di un contrattempo non può andarci. La rappresentazione è questa sera alle ventuno e trenta.»

«Oh papà, che bello il teatro!» esclamò estatica Elisa.

«Di quale rappresentazione si tratta?» chiesi io.

«Non lo so, non si ricordava il titolo, ma dovrebbe trattarsi di danza.»

«Il balletto! È da Pasqua che non ci andiamo.» intervenne la mamma.

Chiesto e ottenuto il permesso di alzarci da tavola, Elisa e io tornammo nelle nostre stanze per prepararci per la serata. Me ne stavo, indecisa, davanti alle ante aperte del mio guardaroba, quando la porta di comunicazione tra la mia camera e quella di Elisa si aprì. Entrò mia sorella con due vestiti sulle braccia e uno sguardo afflitto:

«Marina, aiutami ti prego, non so quale scegliere!»

Esaminai per un attimo i suoi abiti:

«Metti quello verde ricamato, fa risaltare i tuoi occhi.»

Elisa osservò il vestito e decise: «D’accordo, tu quale hai scelto?»

«Non so, sono indecisa tra quello rosa scuro e quello azzurro di merletto.»

Si avvicinò all’armadio, i lunghi capelli lisci sciolti sulle spalle. La trovavo bellissima. Aveva capelli neri, lunghi oltre il punto vita, occhi verde bosco e lineamenti aristocratici.

Io ero diversa: i miei capelli, altrettanto lunghi e neri, erano mossi e screziati di riflessi rame, il mio viso era ovale sì, ma più allungato e i miei occhi avevano un taglio a mandorla, verso le tempie, ed erano neri. La mia bocca era più piena della sua. A dire il vero niente nel mio viso rientrava nei canoni di bellezza di quei tempi. Elisa, invece, li rispecchiava perfettamente, anzi ne era l’incarnazione. Eppure, nonostante queste differenze, noi due eravamo gemelle: io ero più grande di solo mezz’ora.

«Metti questo!»

La voce di Elisa mi riscosse.

La guardai e vidi che teneva in mano un vestito di impalpabile seta rossa con ricami d’oro. Il modello originale di quell’abito aveva un leggero gusto orientale, scegliendolo avevo chiesto qualche modifica e ora quel vestito, complice lo stile impero in voga in quegli anni, con la vita alta e le lunghe gonne che cadevano morbidamente a terra, sembrava in tutto e per tutto una tunica indiana di epoca Moghul. Ero titubante a indossarlo perché non sapevo come avrebbero reagito mamma e papà, visto che mi proibivano di avere a che fare con tutto ciò che riguardava l’India.

«Dai Marina, metti questo, sono sicura che ti starà benissimo!»

«Non so Elisa, vedi mi preoccupa la reazione di mamma.»

«E perché scusa?» lei parve non capire «Dai, ti aiuto io a metterlo, poi tu aiuterai me.»

Chiamata Mary le ordinò di slacciarmi l’abito che avevo indosso, intanto lei si mise a frugare nei cassetti alla ricerca di biancheria e calze in tinta.

 

Il foyer del teatro era gremito di gente. Lo spettacolo era finito da poco e ora gli spettatori si scambiavano opinioni e commenti.

«Non ho mai assistito a niente di così bello!» esclamò Elisa.

«Hai ragione tesoro, è stato uno spettacolo splendido, vero Damien?»

«Sì cara, veramente notevole.» rispose papà.

«Avete visto la prima ballerina? Cosa darei per sapermi muovere con quella grazia!» dissi io.

«Che peccato dover già andare a casa!» commentò Elisa.

«Ma non andiamo a casa.» ci sorprese papà.

«No?»

«Non ve lo avevo detto? Siamo anche stati invitati a un piccolo ricevimento a casa di lady Ireton.»

La casa di lady Ireton sorgeva in Eaton Square. Durante il tragitto lungo la passeggiata che costeggiava il Tamigi si vedevano le acque scure del fiume. Era uno spettacolo molto romantico. Le luci della città si riflettevano sulle acque solcate da lenti barconi e da più veloci lance che tornavano ai loro velieri all’ancora. Ed ecco stagliarsi contro il cielo stellato la mole del Big Ben, con il quadrante dell’orologio illuminato. Sotto, il Parlamento e, poco più avanti, l’Abbazia di Westminster. Sfiorato il parco di Buckingham Palace, entrammo in Eaton Square. La residenza di lady Ireton era uno splendido palazzo su tre piani. Sul retro, laddove si affacciavano le portefinestre del grande salone di rappresentanza, sorgeva una bella e ampia terrazza adibita a giardino pensile. Salendo i gradini d’entrata provavo una strana eccitazione. Avevo la sensazione che quella sera sarebbe accaduto qualche cosa di importante.

Entrammo nella sala da ballo dopo che il guardaportone ebbe annunciato i nostri nomi. La padrona di casa ci venne incontro con le braccia tese:

«Miei cari, siete arrivati finalmente! Venite, voglio farvi conoscere alcuni amici.»

Con la scusa di salutare un’amica, Elisa e io ci allontanammo.

Ci guardammo intorno, salutando con un cenno quanti conoscevamo e scambiandoci sottovoce commenti sugli invitati e, soprattutto, sulle toilettes scelte dalle signore.

«Elisa… guarda l’abito di Jennifer…»

«Santo cielo! Qualcuno dovrebbe proprio dirle che il giallo non le dona! Oh… Marina… Susan Gregory ci ha viste e sta venendo verso di noi.»

Senza perdere tempo presi per mano mia sorella e ci dileguammo tra la folla: nessuna delle due desiderava trovarsi intrappolata in una conversazione con miss Gregory.

Ci fermammo dall’altra parte del salone con un sospiro poi ci scambiammo un’occhiata e scoppiammo a ridere.

Nell’aria cominciarono a diffondersi le prime note di “Un ball” dalla Sinfonia Fantastica di Berlioz.

«Milady, mi concederebbe questo ballo?»

Fu la prima volta che vidi arrossire Elisa. Mi voltai. Il giovane che vidi davanti a me era alto, i suoi capelli neri, forse un po’ troppo lunghi, si arricciavano sul collo. Gli occhi avevano il colore intenso del cielo nelle terse mattine di primavera. Ma ciò che più colpiva era il suo sorriso così aperto e allegro. Elisa mormorò un tremulo sì e, posta la mano in quella del suo cavaliere, si avviò verso il centro della sala da ballo.

Uscii sulla terrazza. Era una bellissima serata di luna piena. Passeggiai un poco tra le piante fiorite e profumate, poi per nascondermi alla vista degli ospiti nella sala, mi accomodai su un sedile posto in una nicchia appartata e mi misi a osservare le stelle.

«Un penny per i vostri pensieri.»

Guardando quella mano tesa, sul cui palmo stava il penny, sorrisi, quasi fra me e me. Alzai lo sguardo verso colui che aveva parlato e incontrai un volto bellissimo in cui spiccavano due occhi argentei.

«Vi dispiace se mi siedo qui con voi?»

«Prego.» risposi e lo sconosciuto prese posto accanto a me.

Iniziammo a parlare quasi con titubanza, poi il tempo smise di scorrere per noi, mentre seduti su quella panca, ci raccontavamo le nostre vite. Fu quasi per caso che giungemmo a parlare dell’India: gli raccontai di mio padre, del fatto che fosse un militare e avesse prestato servizio per molti anni in India; gli parlai della mia nascita e di quella di Elisa avvenuta sulla nave che riportava i nostri genitori a casa, in Inghilterra

«L’India…» mormorò con un tono indefinibile «Io sono stato per molto tempo in India.»

«Davvero? Parlatemene! » lo pregai con slancio

E lui mi accontentò. Ascoltai la sua voce, rapita dall’intensità delle immagini che evocava per me, dal vibrante amore che mostrava per quella terra così lontana che anch’io sentivo di amare, sebbene a stento la conoscessi. Nella quiete della terrazza, rimanemmo insieme a lungo, le voci basse, intime nell’oscurità della notte, circondati dal lieve frusciare della brezza che muoveva le foglie delle piante ornamentali, accompagnati dalla musica che filtrava dalla grande sala da ballo assieme alle risa di coloro che vi si trovavano. Dimentichi del passare del tempo, paghi della reciproca compagnia, dello scoprire che al mondo esisteva qualcun altro con i nostri stessi interessi e le nostre passioni.

La luna era ormai tramontata da tempo quando una voce ci raggiunse.

«Moti, dove sei?» chiamò Elisa e, sporgendomi dalla nicchia: «Arrivo subito!»

«Fai presto, dobbiamo andare!»

Mi alzai rivolgendomi al mio compagno «Scusatemi, ma si è fatto tardi.»

«Perla?» chiese traducendo il nome con cui mi aveva chiamata Elisa, alzandosi anche lui.

«È un soprannome.»

«E il nome?»

«Marina Shallowford.»

Mi baciò la mano e, sollevati gli occhi: «Paul McIntire, al vostro servizio.»

 

Più tardi, quella notte, mentre ero seduta sul letto immersa nei miei pensieri, Elisa entrò di corsa. Si sedette accanto a me, troppo eccitata per dormire.

«Raccontami!» la incalzai.

Rimase in silenzio un attimo, poi:

«Marina… oh Marina! È così bello…e galante… e gentile… e balla così bene. Mi sono divertita così tanto! Sai, non ha lasciato che nessun altro ballasse con me, ha prenotato tutto il mio carnet. Sono così felice!»

Si vedeva: aveva gli occhi che le brillavano e un sorriso luminoso le schiudeva le labbra. Sembrava circondata da un alone di gioia.

«E come si chiamerebbe questo campione di virtù?» le chiesi sorridendo.

«Marck… Lord Marck Evershed, non trovi che sia un bel nome?»

«Sì, molto bello.»

«Sai, lo rivedrò.»

«Davvero? Quando?»

«Domenica. Mi ha chiesto se vado mai al parco e quando gli ho detto che ora che ci siamo ristabiliti in città ci andremo tutte le domeniche mattina, mi ha dato appuntamento per domenica prossima al lago in Hyde Park, alle dieci.»

«Ma Elisa, cosa stai dicendo? È solo per questa notte che rimaniamo a Shallowford Hall. Domani torniamo in campagna a Silver Wood.»

«No Marina, papà ha detto che sabato ci trasferiamo definitivamente qui.»

«E quando l’ha detto?» le chiesi stupita.

«Questa sera in carrozza. L’ho convinto io dicendogli che ormai è settembre inoltrato! Ma a proposito, ti ho vista molto pensierosa. Qualche cosa non va?» chiese un po’ preoccupata.

«Ma no, figurati! Sono tanto felice per te. Ora però sarà meglio dormire. Vai, buona notte.»

«Buona notte anche a te.» mi diede un bacio sulla guancia e uscì.

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Capitolo 4
*** Capitolo II ***


Capitolo II

 

Era passato un mese da quella sera. A volte mi capitava di ripensare a Paul, ma mai più avrei pensato di rivederlo. Invece…

Era una domenica mattina e come sempre Elisa e io stavamo cavalcando in Hyde Park, quando vedemmo arrivare Marck. Si accostò a noi e dopo avermi salutata, sfidò Elisa in una gara. Così, ridendo, si allontanarono al galoppo, seguiti da un uomo scelto da Patal, mentre lui cavalcava dietro di me.

«Buon giorno.»

Mi voltai a vedere chi mi avesse salutata e trovai Paul accanto a me.

«Si direbbe che vostra sorella vi abbia lasciata sola.»

«E' vero, ma non importa.»

«Vi dispiace se vi faccio compagnia?»

«No, prego.»

Era strano ma avevo la sensazione di aver solo sognato la sera del ballo. Il nostro tono era così formale che… non so, era come se non ci conoscessimo neppure di nome.

«Volete, per favore, dire al vostro seguito di stare un po’ più distante? Vorrei parlarvi.»

La sua richiesta mi parve un po’ strana, ma chiesi a Patal di allontanarsi un poco.

Quando tornai a guardare Paul vidi che mi osservava in uno strano modo, allora mi resi conto di aver parlato a Patal in hindi.

Sorrisi «Sì, conosco abbastanza bene anche la lingua dell’India.»

Senza altri commenti disse: «È proprio di questo che volevo parlarvi: dell’India. Torno laggiù!»

«Quando?»

«Fra quattro giorni, ma prima volevo salutarvi.»

«Grazie. Mi spiace che ve ne andiate ma d’altra parte vi invidio la meta!»

«Un giorno ci andrete anche voi.»

«Lo spero.» sospirai.

I minuti scorrevano veloci mentre parlava dei preparativi del suo viaggio imminente e del fatto che non stava partendo per un luogo straniero: stava tornando a casa. Era nato in India, disse, a Jaipur, e ora vi tornava per occuparsi degli affari di famiglia. Fummo colti di sorpresa quando sentimmo il Big Ben battere le undici e trenta: il tempo, insieme, era nuovamente volato.

«Devo andare.» mi disse.

«Addio.»

«No, arrivederci.» lo disse con convinzione.

Ci guardammo qualche istante negli occhi, nei suoi vidi qualcosa che non riuscivo a decifrare chiaramente. Nostalgia? Rimpianto? Forse entrambi. Mi sorrise per un attimo poi, voltato il cavallo, partì al galoppo.

Vedendolo allontanarsi mi sentii stranamente triste e sola. Quando scomparve alla mia vista andai a cercare mia sorella. La trovai con Marck presso il Serpentine.

«Elisa, si è fatto tardi. Lord Marck se ci vuole scusare, dobbiamo andare.»

«Ma certo. Arrivederci Elisa, lady Marina…» con un cenno del capo si allontanò.

Mia sorella e io ci avviammo a nostra volta verso casa.

Nel pomeriggio di quattro giorni dopo mi venne recapitato un regalo. E che regalo! Si trattava di un cucciolo maschio di tigre bianca del Bengala. Al collo aveva un nastro di seta al quale erano legati una lettera per me e un semplicissimo anello di pietra. Presi la lettera con il cuore che mi batteva forte, colui che aveva portato il “dono” non aveva detto nulla, eppure dentro di me avevo la certezza che fosse di Paul, che fosse il suo regalo di addio. O di arrivederci, come aveva preferito dire accomiatandosi.

Abbandonai ogni altro indugio e ruppi il sigillo di ceralacca che chiudeva il rotolo di pergamena:

Mia cara Marina,

Vi prego di voler

accettare entrambi i miei doni, il

cucciolo e l’anello, e di custodirli

nel ricordo di qualcuno che tiene

a Voi in modo particolare.

A Voi la devozione del mio cuore.

Paul.

 

Era scritta in hindi, sapeva che, in tal modo, avrei potuto leggerla solo io. Mi salirono le lacrime agli occhi. La lessi e rilessi più volte, poi infilai l’anello al medio destro e presi in braccio il cucciolo.

«Ciao piccolino. Io sono la tua padrona, stando a questa lettera. Dovrò trovarti un nome… Vediamo… Silam! Ti piace?»

Un soddisfatto miagolio da parte del cucciolo mi convinse che era di suo gradimento.

Elisa trovò tenerissimo il piccolo e fu felice di averlo in casa. Più difficile fu convincere i nostri genitori che Silam non avrebbe causato guai, né da piccolo, tanto meno da adulto.

«Ma diventerà enorme!» esclamò la mamma «E potrebbe diventare feroce! È pur sempre una tigre!»

«Ma quando sarà grande starà in giardino. E non diventerà cattivo, vedrai! Dai mamma, per favore, non abbiamo mai avuto animali domestici.»

«Sì, mamma, Marina ha ragione. Ci vuole un animale domestico!»

«Chiamatelo domestico!»

«Per lo meno sarà efficiente come guardia contro gli intrusi!» fu l’unico commento di papà.

Voleva dire che potevamo tenerlo. Elisa e io gli saltammo al collo poi corremmo in camera mia per preparare una cuccia a Silam.

«Dove lo metterai a dormire?» mi chiese mia sorella.

«C’è quel ripostiglio di fianco al mio spogliatoio, sai quello che non uso mai, è vuoto. Diventerà la casa di Silam.»

«Buona idea! Dai mettiamoci al lavoro.»

Mentre lavoravamo Elisa mi si avvicinò:

«Chi è Paul?»

«Cosa?»

«Chi è Paul? Ho sbirciato la lettera attaccata al collare di Silam, ma l’unica cosa che ho capito è la firma: Paul. Chi è?» mi chiese.

«Ricordi la sera della festa a casa di lady Ireton?»

«Quando conobbi Marck! Come potrei dimenticarla!»

«Quella sera, quando tu sei andata a ballare, sono uscita sulla terrazza e mi sono seduta in una nicchia…»

«Sì, ricordo di averti trovata lì.»

«Paul mi aveva vista lì, sola, io non mi sono accorta della sua presenza fino a che non mi ha rivolto la parola. Poi si è seduto accanto a me e siamo rimasti a parlare tutta la sera. L’ho rivisto solo un’altra volta: domenica. Quando tu e Marck vi siete allontanati mi si è affiancato. Voleva salutarmi perché stava per partire: come addio mi ha mandato Silam.» conclusi.

«Non l’ho visto, com’è? Descrivimelo!»

«Beh… È alto, come Marck o forse un po’ di più, ha i capelli neri come il carbone, la pelle abbronzata e un bel sorriso. Ma la cosa che più mi ha colpita sono gli occhi: sembravano d’argento liquido, profondi, intensi…»

«Quanti anni ha?»

«Non saprei, non l’ha detto. Era qui per completare il College e, se è ripartito, vuol dire che ha terminato. Deve avere ventuno, forse ventidue anni.»

«Mi sarebbe piaciuto vederlo, così, per curiosità.»

Sorrisi «Ora però ricominciamo a lavorare o non finiremo più.»

«Solo un’altra cosa: mi leggi la lettera?» l’accontentai e alla fine lei sospirò: «Com’è romantica!»

«Lavora!» Elisa si mise a ridere, poi ubbidì.

Alla fine il ripostiglio assomigliava più a una tenda in miniatura che a una tana. C’erano pezze di stoffa colorata ovunque e per terra un vecchio tappeto. Silam vi si trovò bene fin dal primo istante.

Passarono due mesi senza che nulla di particolare turbasse la quiete delle nostre giornate. Silam cresceva grazie alle cure che Elisa, io e a sorpresa di tutti, la mamma gli dedicavamo. Papà la sera arrivava sempre più tardi, non ci diceva molto, solo che c’erano alcuni problemi nelle nuove colonie; poi un giorno, eravamo ormai sotto Natale, arrivò a casa molto presto e ci radunò in salotto: Elisa, io, la mamma, Umi e Patal.

«Devo parlarvi.» esordì «Questa mattina abbiamo ricevuto un dispaccio dalle province di Lucknow e Agra, in India. Sono sorti alcuni problemi. All’inizio non sembravano gravi, così abbiamo pensato di poterli risolvere da qui: ci sbagliavamo. Fin dal 1802 l’East Indian Company è stata in conflitto con i Marathi. Sono state guerre continue. Vostra madre se ne ricorderà, era per questo motivo che sedici anni fa eravamo laggiù. Bene: le guerre sono continuate fino al 1818 quando i Marathi sono stati definitivamente sconfitti, o così pensavamo noi. Sembra infatti che i sopravvissuti di questa gente si siano riuniti e da un po’ di tempo abbiano iniziato a infastidire la Compagnia. Prima erano piccole cose, ma negli ultimi tempi si sono fatti più baldanzosi. Sono arrivati al punto di incendiare il bungalow di un medico dell’esercito. Quindi urge che qualcuno vada là. E qui entriamo in scena noi…»

«Noi?» chiese la mamma.

«Sì cara, noi. Sua maestà re Guglielmo IV, nonostante i suoi numerosi pensieri, si è ricordato di me e ha deciso che sia io ad andare laggiù, visto che conosco la situazione. Poi dovrò rimanere là come Governatore Generale di quella regione. E questo è tutto.»

Dopo queste parole nella stanza cadde un silenzio di tomba. Io ero talmente felice che esclamai:

«Oh papà che bello! Andremo in India! E non in vacanza, ma per stabilirci. Non sono mai stata così felice…»

«Marina!» mi interruppe la mamma «Come puoi dire una cosa simile! Mio Dio!» detto ciò si voltò e corse fuori dalla stanza seguita da Umi.

Io non capii perché aveva reagito così. Non potevo ancora capire.

Papà mi venne vicino e mi mise una mano sulla spalla: «Non prendertela, cara. È stato uno shock per lei.» disse allontanandosi.

Mi girai allora verso Elisa, ma quando la vidi, dimenticai ciò a cui stavo pensando. Era immobile, con le lacrime che le rigavano le guance.

Le andai vicino: «Elisa, tesoro, cosa c’è?»

«Marina come farò? Se ce ne andiamo dovrò lasciare Marck! Perché? Perché proprio adesso e perché a me?» scoppiò in singhiozzi.

La strinsi forte provando pena per lei, ma nonostante tutto ero felice: l’India. Finalmente sarei andata in India!

“Paul aveva ragione.” pensai.

Molto tempo dopo avrei saputo che, mentre ero in salotto a confortare Elisa, in camera della mamma lei, Umi, papà e Patal parlavano di me:

«Umi è terribile!» esclamò la mamma «Che cosa farò? Ho passato tutti questi anni crescendo Marina, tentando di tenere lontana lei e la sua mente da quel Paese e ho fallito: lei ama l’India più di ogni altra cosa.»

Si rivolse a papà appena entrato «Damien cosa faremo? Non possiamo portarla laggiù! Non sarà mai al sicuro in mezzo a chi la vuole morta!»

«Cara calmati ora. Non abbiamo alternative, un ordine del Re non può essere ignorato. Inoltre non è tutta l’India contro di lei. Se mai è vero il contrario. È solo una setta che ha tentato di farle del male, quindi…»

«Non mi interessa!» lo interruppe la mamma «Fosse anche una sola persona a minacciare la sua vita…» rimase in silenzio un attimo, poi: «Io l’ho allattata e l’ho cullata perché si addormentasse. L’ho consolata quando aveva piccoli dispiaceri, ho curato le sue malattie e baciato i suoi graffi. Dalla bimba che era l’ho vista sbocciare e trasformarsi in una splendida fanciulla. Non voglio rischiare di perderla e non voglio rischiare di perdere Elisa. Anche lei sarebbe in pericolo!»

«Signora!» intervenne Umi «Signora calmatevi ora. Angustiarsi così non vi servirà a nulla. Il destino di ognuno è già fissato e nessuno può cambiarlo. La Principessa sarà dove deve essere nel momento in cui dovrà esserci. Niente fermerà il corso degli eventi. E ora ricomponetevi, cosa penserebbero le ragazze se entrassero adesso e vi trovassero in queste condizioni? Coraggio, rinfrescatevi il viso.» disse porgendole una pezzuola umida.

In quel mentre si fece avanti Patal.

«Signora,» disse, guardandola con fierezza negli occhi «sedici anni fa feci un giuramento al mio Signore, e cioè che avrei protetto sua figlia, sempre e a costo della mia vita. Ebbene quel giuramento è ancora valido, io non l’ho dimenticato. Questo è quello che volevo dirvi: i cani di quella setta dovranno passare sul mio cadavere prima di poter torcere un solo capello alla Principessa. E non sarà facile per loro.» detto questo si voltò e uscì dalla camera.

Le sue parole erano riuscite a calmare la mamma più di cento altre rassicurazioni, infatti sapeva che Patal aveva detto il vero. Avrebbe dato la vita per me.

 

Fu fissata la data di partenza: il 7 giugno.

Subito dopo le feste natalizie si decise che Elisa, io e la mamma avremmo rifatto il guardaroba, tanto più che dalla Francia giunse in quelle settimane una nuova moda: le crinoline.

Non erano molto comode al principio. Poi, con l’abitudine, trovammo il lato positivo anche di quegli abiti: mettevano meravigliosamente in risalto la vita stretta e le spalle. Di tutti i vecchi vestiti ne tenni solo uno: l’abito di seta rossa che indossavo la sera in cui avevo conosciuto Paul.

Il tempo volava e a me pareva tutto meraviglioso. L’unico neo era rappresentato dall’iniziale evidente infelicità di Elisa. Quando aveva riferito la notizia della nostra partenza a Marck, questi si era dichiarato dispiaciuto, ma nulla più. Ci rendemmo conto allora che non aveva avuto intenzioni serie, visto che alcuni giorni dopo iniziò a corteggiare una signorina di buona famiglia appena giunta in città. Questo fu ciò che fece più male a Elisa.

«Io l’amavo davvero!» mi disse una sera fra le lacrime «Come ha potuto! Come ha potuto!» il suo pianto attirò anche Silam che balzò sul letto e si acciambellò tra le sue braccia facendo rumorosamente le fusa.

Ma, si sa, il tempo è una buona medicina e con il passare dei giorni, anche lei fu contagiata dall’eccitazione di tutti e dalla mia evidente felicità.

Il nostro diciassettesimo compleanno era venuto e passato senza che quasi nessuno ci badasse. Ma quel “quasi” fu splendido: la sera del 5 marzo mamma e papà diedero un ballo.

Poi iniziarono i veri preparativi per il viaggio mentre il sole si faceva ogni giorno più caldo: non avevo mai visto una primavera più bella! Anche Silam sembrò rendersi conto dei cambiamenti. Andava in giro per la casa osservando tutto e tutti con i suoi vigili occhi azzurri. Una o due volte rischiammo addirittura di chiuderlo in un baule.

Sistemammo le cose in modo che la servitù non perdesse il posto ma prendesse servizio in altre case dal giorno della nostra partenza. Nelle nostre due abitazioni, quella di campagna e quella di città, sarebbero rimasti solo i custodi a mantenerle in ordine in caso di un nostro ritorno. Tre persone di servizio, però, si rifiutarono di lasciarci: Bettine, la cuoca, Mary, la mia cameriera e Annie, la cameriera della mamma. Fu Bettine a parlare per tutte e tre alla mamma:

«Noi non abbiamo una famiglia, se escludiamo voi, signora, il padrone e le vostre figlie. Quindi, se per voi non è un problema, preferiremmo seguirvi.» e così fu.

Prepararono i loro bagagli e finalmente venne il giorno della partenza.

Ci imbarcammo a Dover, sulla Queen Elisabeth, il 6 sera. Avremmo salpato l’ancora all’alba dell’indomani. Dopo cena salii sul ponte a guardare le luci della costa.

«Non la rivedrò mai più.» pensai ad alta voce.

Elisa, che era sopraggiunta in quel momento, mi sentì:

«Non dire sciocchezze! Un giorno torneremo, magari sposate, per ristabilirci qui.»

«Tu forse, Elisa, ma io no.»

«La stanchezza incomincia a giocarti brutti scherzi. Vieni, andiamo a dormire.»

Così dicendo si avviò verso la nostra cabina e a me non restò che seguirla.

A oriente il cielo iniziava a schiarirsi per le prime avvisaglie dell’alba. Io e tutta la mia famiglia eravamo sul ponte, avvolti in leggeri mantelli poiché, anche se era primavera, a quell’ora l’aria era ancora fredda e umida. Appena il sole fece capolino oltre l’orizzonte si sentì uno strano fischio e gli ordini del capitano poi, sciolte le vele, iniziammo a muoverci.

“In viaggio, finalmente!” pensai.

«Torniamo in cabina.» disse la mamma «Andiamo, venite ragazze.»

«Marina andiamo giù?» mi chiese Elisa vedendomi titubante.

«Vai tu se vuoi, io resto ancora un po’.»

«Va bene. Io scendo altrimenti Silam si sentirà solo. Deve ancora abituarsi alla nuova casa.» disse allontanandosi.

Sul ponte erano rimaste due, forse tre persone. Poco distante da me c’era una ragazza, sola. Aveva circa la mia età, si teneva aggrappata al parapetto e guardava allontanarsi la costa con occhi pieni di lacrime. Mi avvicinai e le sorrisi.

«Non volevo lasciare l’Inghilterra.» mi disse «Qui ho le mie amiche, la mia vita.»

«La vostra vita sarà dove voi ve la costruirete. Volete che vi riaccompagni nella vostra cabina?»

«No! Non voglio tornare là dentro!»

«Sentite, stavo andando a fare colazione. Cosa ne direste di farmi compagnia?»

Lei si voltò ancora una volta a guardare la scogliera ormai lontana, poi annuì.

Poco dopo, sedute a un tavolo nell’elegante sala da pranzo le chiesi: «Qual è il vostro nome?»

«Miranda, Miranda Scott.»

«Il mio è Marina.»

«Eccoti finalmente!» esclamò Elisa giunta in quel momento «Iniziavo a preoccuparmi!»

«Siedi Elisa.» le indicai la sedia accanto alla mia «Elisa, lei è Miranda Scott. Miranda: mia sorella Elisa.»

«Felice di conoscerti, Miranda.»

«Piacere mio, miss.»

«Per favore non chiamarci così.» intervenni «Noi preferiamo che le amiche ci chiamino per nome e ci diano del tu.»

«Vero.» confermò mia sorella.

Un cameriere portò la colazione.

«Viaggi sola, Miranda?» chiesi.

«No, non proprio. Vado a raggiungere i miei genitori in India. La signora Larson mi accompagna fino a Il Cairo, poi proseguirò con un’altra signora e le sue figlie.»

«Anche noi andiamo in India, a Lucknow. Ci sono stati dei problemi e papà è stato mandato laggiù per risolverli.» disse Elisa.

«Mio padre è là per qualcosa di simile, comanda la guarnigione di Kanpur.»

«Kanpur avete detto?» intervenne papà giunto in quel momento «Allora vostro padre è il maggiore Scott.»

«Sì, signore.»

«Perdonate, non mi sono presentato: colonnello Damien Shallowford, Conte di Shallowford nonché padre di queste due fanciulle.» fece un breve inchino.

«Onorata di fare la vostra conoscenza, milord.»

«Così voi siete Miranda. Non siate così stupita, conosco vostro padre da molto tempo. Facemmo la campagna del ’10 insieme e poi ci rincontrammo a Londra. Ora però vi lascio mie care. Ero venuto a prendere qualche cosa per la mamma, sapete, il mare comincia a farle un brutto effetto.» così dicendo si allontanò.

«Scusatemi, vado un attimo dalla mamma anche io. Elisa rimani tu con Miranda?»

«Sì, vai pure.»

«Va bene, torno fra poco.» mi alzai e seguii papà.

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Capitolo 5
*** Capitolo III ***


Capitolo III

 

Grazie al vento favorevole arrivammo a Trapani, primo scalo del nostro viaggio, con un giorno di anticipo. Il capitano doveva comunque rispettare la tabella di marcia, così avemmo il tempo di visitare la città. Già da lontano era visibile, sul colle che domina il mare, l’antica Erice. Superate le fortificazioni gotiche della Torre Colombaia, entrammo nel porto.

Dopo aver chiesto il permesso alla signora Larson, Miranda scese a terra con noi. Bettine e le cameriere rimasero sulla nave a tenere compagnia a Silam mentre Umi e Patal ci accompagnarono. Visitammo le chiese cinquecentesche di Sant’Agostino, il cui magnifico rosone frontale fonde insieme i simboli delle tre grandi religioni monoteistiche, e dell’Annunziata con le sue alte e imponenti colonne e il Coro ligneo rivestito d'oro, poi ci fermammo a pranzare in un piccolo ma delizioso locale dal curioso nome Lilibeo, dove gustammo le specialità siciliane e nel pomeriggio terminammo la visita della città e ritornammo a bordo. Dopo aver cenato al tavolo del capitano, ci ritirammo nelle nostre cabine. All’alba del giorno dopo riprendemmo la navigazione puntando verso l’Egitto.

Giungemmo in vista delle luci della costa egiziana a notte fonda, dovemmo quindi aspettare l’alba e con essa l’alta marea, per poter superare le foci del Nilo e raggiungere Il Cairo. Nel pomeriggio abbandonammo definitivamente la Queen Elisabeth per imbarcarci sul battello fluviale che ci avrebbe portati ad Assuan: l’Ibis.

Elisa e io stavamo sistemando le nostre cose nella nuova cabina, quando fummo raggiunte da Miranda.

«Sono venuta a salutarvi.» ci disse «Mi è appena pervenuto un messaggio della signora che da qui avrebbe dovuto accompagnarmi in India. Si scusa ma ha dovuto rimandare la partenza. Così, senza accompagnatrice, non posso continuare il viaggio.»

«Che cosa farai adesso?» chiese Elisa.

«Dovrò aspettare che la signora Larson trovi qualcuno che accetti di accompagnarmi. Fino ad allora mi ospiterà lei.»

«Potresti venire con noi! Cosa ne pensi Marina?»

«Bisogna chiederlo a mamma e papà.» dissi accarezzando Silam che aveva cominciato a strusciarsi contro le mie gonne chiedendo attenzione.

«Vado io, non credo avranno niente in contrario.» così dicendo Elisa corse via.

«Vi ringrazio tanto, ma non vorrei disturbare.»

«Nessun disturbo, Miranda, anzi la tua compagnia ci fa molto piacere…»

«E poi non puoi rimanere qui da sola ad annoiarti!» commentò mia sorella rientrando «Mamma e papà hanno dato la loro approvazione e ora papà è andato a parlare con la signora Larson.»

La mattina successiva iniziammo la navigazione sul Nilo. Dopo alcuni giorni di viaggio passammo accanto all’antica Tebe “dalle cento porte”, come l’aveva definita Omero, e dal ponte della nave potemmo vedere le rovine della necropoli di Karnak. Giungemmo ad Assuan il 24 di luglio. Nonostante avessimo indossato i nostri abiti più leggeri il caldo era soffocante.

Sbarcammo nel tardo pomeriggio. Dopo aver noleggiato le carrozze e il carro per i bagagli, raggiungemmo il Royal Hotel.

Dopo esserci sistemate, Miranda, che divideva la camera con Elisa e con me, uscì sul balcone:

«Elisa, Marina venite! Si vede Elefantina!»

Uscimmo a vedere seguite da Silam.

L’isola di Elefantina era l’antica dimora dei Faraoni egizi, e adesso era un rinomato centro turistico. Dell’antica reggia si conservavano ancora i giardini e i palmeti.

La luce del crepuscolo tingeva d’oro le acque del Nilo, donando alla scena un che di magico e irreale. Nel cielo, di un insolito quanto incredibile verde, spuntavano le prime stelle mentre, a levante, sorgeva luminosa la luna.

Dal fiume si alzò una lieve brezza che rinfrescò l’aria.

Qualcosa mi svegliò nel cuore della notte. Dapprima non capii che cosa fosse, poi lo sentii di nuovo: era un suono cupo, come il brontolio di un tuono in lontananza. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca e una sensazione di pericolo mi invase. Mi misi a sedere e guardai in giro. Elisa e Miranda dormivano tranquille, non si erano accorte di nulla. Il suono si ripeté. Guardai verso la portafinestra che dava sulla balconata e mi accorsi che era più aperta di come l’avevo lasciata io prima di coricarmi. Notai allora l’assenza di Silam. Mi alzai infilandomi la vestaglia, andai verso la finestra, uscii sul balcone e vidi la tigre. Il suono che avevo sentito proveniva da lei. Era un basso ringhio. Guardava fisso oltre il parapetto, verso il folto degli alberi, non si voltò neppure quando lo chiamai. Gli andai vicino e gli accarezzai la testa pelosa:

«Cosa succede piccolo? Cosa c’è che non va?»

Non mi degnò di uno sguardo, invece si rimise a ringhiare. Udii un lieve fruscio fra gli alberi, poi più nulla. Silam rimase in ascolto ancora un poco, poi girò la testa e iniziò a leccarmi le dita. Mi chinai e gli presi il muso tra le mani:

«Si può sapere che cosa c’era di così interessante? Mi hai svegliata, lo sai?»

Per tutta risposta mi diede una leccata sulla guancia. Sorrisi.

«Dai, torniamo a dormire. Domani si riparte!»

Ricordo ben poco delle due settimane di viaggio attraverso il deserto, da Assuan ad Asmara. Rammento solo tanta sabbia, gli scrolloni degli omnibus, il caldo torrido, le notti nelle tende beduine, e l’unica tappa in una città: Haiya. Ci fermammo giusto il tempo di rifocillarci e cambiare i cavalli, poi riprendemmo il viaggio. Arrivammo ad Asmara a pomeriggio inoltrato e ci ritirammo quasi subito nelle stanze dell’albergo.

«Sono distrutta!» commentò Elisa, tirando fuori dal baule solo l’occorrente per la notte.

«Coraggio, almeno questa notte dormiremo in letti decenti.» la consolò Miranda che anche qui divideva la camera con noi.

«Finalmente domani arriveremo a Massaua e ci imbarcheremo per l’ultima parte del viaggio!» commentai ad alta voce.

«Veramente l’ultima parte sarà quella da Bombay a Lucknow.» mi contraddisse Elisa.

Non replicai, sapevo che non avrebbe capito il mio punto di vista. La mia meta era l’India, non una città in particolare.

Tentai di prendere in braccio Silam ma dovetti desistere.

«Santo cielo! Sei diventato pesantissimo ed enorme. Con tutto quello che mangi andremo in rovina!» per tutta risposta lui mi saltò addosso facendomi finire per terra e iniziò a leccarmi.

«Ma sei una tigre oppure un cane?» commentai.

Elisa e Miranda, che si erano trattenute fino a quel momento, al miagolio soddisfatto di Silam scoppiarono a ridere.

In quel momento bussarono alla porta. Mi rialzai e, con la tigre al fianco, andai ad aprire. Erano due camerieri vestiti di bianco che portavano il carrello della cena. Entrarono ma, appena videro Silam, fecero un balzo indietro e iniziarono a tremare. La tigre li guardò incuriosito. Lo richiamai indicandogli il suo angolo, poi mi rivolsi ai due terrorizzati camerieri:

«Non preoccupatevi, è innocuo se nessuno ci minaccia.»

Leggermente più tranquilli iniziarono a servire la cena disponendo piatti e portate sul tavolo del salotto adiacente la nostra camera. Quindi si inchinarono e uscirono. Il menù era completamente a base di verdure preparate in modo per noi insolito, ma molto saporito e gradevole.

Il mattino dopo ripartimmo. Arrivammo a Massaua un po’ prima di mezzogiorno e ci imbarcammo immediatamente sulla Sunrise. Salpammo nel pomeriggio.

Passai molto tempo sul ponte di prua, quasi che la mia ansia e la mia impazienza potessero spingere la nave ad andare più veloce e io potessi già vedere le coste dell’India. Sapevo che ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni prima che ciò fosse possibile, ma rimasi là ugualmente, godendo degli spruzzi di salsedine che a tratti mi avvolgevano come una sottile e delicata nebbia primaverile. Quella nebbia che, sentivo, non avrei più rivisto.

Faceva caldo, ma la cosa non mi disturbava. Sapevo che ogni metro percorso mi portava più vicino a casa. Sorrisi quando mi resi conto di aver usato la parola “casa” riferendomi all’India, terra così sconosciuta ma, allo stesso tempo, da me così amata.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

 

 

«Terra!»

Il grido tanto atteso mi raggiunse nella mia cabina. Era mattina e mi stavo spazzolando i capelli. Mi alzai di scatto, lasciando cadere la spazzola e volai fuori dal mio alloggio correndo sul ponte, incurante degli sguardi esterrefatti che alcune signore rivolsero ai miei capelli sciolti. Mi aggrappai al parapetto con tanta forza da sbiancare le nocche delle mani, ma non me ne accorsi neppure. Ero tesa, guardavo l’orizzonte e pur non vedendo niente, sapevo che era là. Ne sentivo il profumo nell’aria. Notavo i lievi cambiamenti di colore dell’acqua poi, finalmente, la vidi.
«L’India.» mormorai.

Dapprima sembrava solo una bassa coltre nebbiosa, poi piano piano si delineò la costa. Fui raggiunta da mia sorella, da Miranda e dal resto della famiglia. Non appena Umi vide la sua terra si aggrappò al braccio di Patal e scoppiò in singhiozzi. La guardai, era la prima volta che la vedevo piangere, poi mi accorsi di avere anch’io le guance rigate di lacrime. La mamma mi venne vicino e mi abbracciò. Intuivo che aveva paura, ma non capivo di cosa. Al nostro abbraccio si unirono anche Elisa e papà. Silam iniziò a strusciarsi contro le nostre gambe, mi inginocchiai ed abbracciai anche lui.

«Siamo arrivati Silam!» mormorai «Siamo a casa!»

Miranda guardava la costa e sorrideva: sapeva che presto avrebbe rivisto i suoi genitori. Bettine, Annie e Mary si tenevano vicine e guardavano quella terra con trepidazione.

Sbarcammo nel porto di Bombay nel pomeriggio. Appena a terra un uomo in divisa da cocchiere ci venne incontro.

«Sahib…» disse inchinandosi «il mio nome è Nath. Sono il cocchiere di sir Henry Cole. Sono stato incaricato di riceverla e condurla, insieme alla sua famiglia e ai domestici, alla Residenza. Sir Cole si scusa per non essere venuto di persona, ma affari urgenti l’hanno richiamato altrove all’ultimo momento. Se volete seguirmi partiamo subito. I bagagli saranno caricati sui carri e portati alla Residenza al più presto.» detto ciò si inchinò nuovamente e fece strada fino alla carrozza.

La Residenza sorgeva al centro del Presidio inglese. Era una grande costruzione bianca a un piano. Le finestre dei salotti, della sala da pranzo e di altri ambienti davano sulla facciata anteriore della casa. Le camere da letto, invece, erano situate nella parte posteriore e le portefinestre si aprivano su un coloratissimo giardino cintato da un alto muro ricoperto da una pianta rampicante di gelsomino che inondava l’aria con il suo profumo intenso. Qui, per la prima volta dopo tanto tempo, ebbi una camera tutta per me, se si esclude la presenza di Silam naturalmente. Non era grande, ma molto bella e dotata di un piccolo e ben accessoriato bagno privato. La stanza era tutta sui toni del verde, dalla seta che ricopriva le pareti, al copriletto. Aprii la portafinestra lasciando entrare l’aria profumata del giardino, poi iniziai a disfare i bagagli. Avevo appena riposto nell’armadio il primo vestito, quando entrò Mary.

«Milady, lasciate fare a me.»

Prese la sottoveste che avevo in mano e continuò lei il lavoro.

Non sapendo che altro fare, chiamai Silam e uscii in giardino. Mi sedetti sull’erba all’ombra di un arancio in fiore e appoggiai la schiena al suo tronco. Silam giocava inseguendo due farfalle. Sorrisi e chiusi gli occhi.

La sensazione di essere osservata mi svegliò. Guardai il cielo e vidi che andava scurendosi. Dovevo aver dormito almeno due ore. Abbassai gli occhi e mi trovai a guardare il visetto sorridente di un bimbo indiano di sette, forse otto anni seduto di fronte a me.

«Ciao! E tu chi sei?»

Parve sorpreso nel sentirmi palare la sua lingua, poi rispose:

«Io sono Kamath. Sono il figlio della cameriera della lady sahib.» mi squadrò «Non ti ho mai vista.»

«Mi chiamo Marina. Sono appena arrivata e sarò ospite di sir Cole per qualche giorno.»

«Allora tu sei missy sahib Marina.» mi guardò deluso «Non potremo giocare insieme.»

«Perché no?»

«Perché lady sahib non vuole che io giochi o parli con gli ospiti.»

«Capisco. Quindi ti sgriderebbe se sapesse che ora sei qui con me?»

Annuì: «Sì e sgriderebbe anche la mia mamma perché mi ha lasciato venire nel giardino.»

«Facciamo così,» proposi «non dirò nulla alla lady sahib così non ti sgriderà e, per farti avere il permesso di venire in giardino, le dirò che ti ho chiesto di sorvegliare Silam quando io non posso. D’accordo?»

Sembrò felice all’idea di venire in giardino liberamente, poi mi guardò:

«Chi è Silam?» chiese.

«Vieni te lo faccio conoscere. Sono sicura che diventerete amici.»

Mi alzai e lo presi per mano dirigendomi verso la camera. Quando entrammo Silam ci venne incontro. Kamath lo vide e sgranò gli occhi.

«Quello è Silam?»

«Sì.»

«Ma è una tigre!»

«Già, una tigre bianca. Vieni, accarezzalo. Non ti farà nulla se sente che sei un amico.»

Un po’ titubante Kamath si avvicinò a Silam. Allungò una mano, pronto a ritirarla al primo segno di pericolo, ma la tigre rimase immobile fino a che la mano del bambino non affondò nel soffice pelo del dorso. Poi girò il muso e gli diede una leccata. Kamath sorrise e si mise ad accarezzarlo con più convinzione fino a che Silam iniziò a fare le fusa. Allora scoppiò a ridere.

«Com’è morbido!» commentò.

Sorrisi. Non avevo mai visto Silam così socievole con un estraneo. Ma forse il fatto che anche Kamath fosse un “cucciolo” lo faceva sentire sicuro.

«Gli sei simpatico, sai Kamath? Non avevo mai visto Silam così espansivo!»

Kamath mi rivolse un gran sorriso poi, completamente a suo agio, iniziò a giocare con la tigre come avrebbe potuto fare con il suo cane. Li mandai in giardino e mi preparai per la cena.

Stavo ancora decidendo quale abito indossare quando bussarono.

«Avanti.»

Entrò lady Cole, sorrise e mi venne vicino.

«Mia cara lady Marina, sono così contenta di avervi qui! Spero che vi troviate bene in questa stanza.»

«Vi ringrazio per la premura, lady Cole. La camera è deliziosa.»

«Bene, mi fa piacere che sia di vostro gradimento. Ero venuta solo per dirvi…» si interruppe guardando in giardino «Quel ragazzaccio!» riprese «Mi sentirà questa volta!»

Stava per richiamare Kamath quando la fermai.

«Mi scusi, lady Cole, sono stata io a dare a Kamath il permesso di stare in giardino. Gli ho chiesto di sorvegliare Silam.»

Mi guardò «Silam? Chi sarebbe Silam?»

«Mio padre non l’ha informata della presenza del mio cucciolo?»

«No, non sapevo che aveste un animaletto.»

«Chiedo scusa allora, avrei dovuto informarvi. Kamath!» chiamai «Vuoi, per favore, portare qui Silam cosicché lady Cole lo possa conoscere?»

«Subito missy sahib.» rispose con un cerimonioso inchino.

Quindi chiamò la tigre ed entrò in camera. Lady Cole represse un gemito di spavento quando vide Silam.

«Quello sarebbe Silam?» mi chiese esterrefatta.

«Sì, adorabile vero?»

«Ma è una tigre!»

«Oh ma non si preoccupi, signora. È innocuo se nessuno minaccia me o un membro della mia famiglia. Lo consideri solo come un grosso gatto.» mi rivolsi poi al bambino «Kamath riportalo fuori per favore. Lady Cole siete venuta a dirmi qualche cosa di particolare?»

Si riprese dallo shock e distolse lo sguardo dalla finestra.

«Sì… Perdonate, ero venuta a dirvi che la cena è alle sette. Saremo solo fra noi. Ora vi lascio, devo prepararmi.»

Mi sorrise e uscì dalla camera, forse un po’ troppo in fretta.

Sorrisi. Mi sentivo perfidamente contenta del suo sgomento. Sapere che quella donna proibiva a un bambino di uscire in giardino solo perché era il figlio di una cameriera, mi aveva dato molto fastidio. Così avevo esercitato il mio “potere”. Infatti lady Cole, essendo solo la moglie di un baronetto, non poteva negare un favore alla figlia di un conte, per di più amico personale del Re. Detestavo il modo in cui alcuni nobili trattavano la servitù. Soprattutto la servitù di colore come gli indiani. Disprezzavo le persone come lady Cole che, essendo inglesi, si consideravano superiori alle altre razze. Mi riscossi dai miei pensieri e accorgendomi che si stava facendo tardi mi preparai per la cena. Finalmente pronta uscii in giardino.

«Kamath.» chiamai «Vado a cena. Tu resta qui con Silam. Chiederò a qualcuno di portarvi da mangiare. Ci vediamo più tardi, ciao.»

«Ciao missy sahib.» mi sorrise con aria birichina agitando una mano, poi tornò a giocare.

Lasciai la camera e mi diressi in sala da pranzo guidata dal brusio delle voci.

 

Dopo cena ci spostammo in salotto per il caffè. Elisa, Miranda e io ci sedemmo su un divano, parlando della giornata appena trascorsa, delle impressioni che ci aveva fatto quel poco di Bombay che avevamo visto lungo il tragitto dal porto alla Residenza. Papà e sir Cole appoggiati al muro di fianco a una finestra si stavano concedendo un amaro e un sigaro, e discutevano della situazione del paese. La mamma e lady Cole, sedute su due poltroncine, commentavano i dettami dell'ultima moda. A un certo punto lady Cole si alzò e chiese l’attenzione.

«Miei cari,» esordì «per darvi il benvenuto in India mi sono presa la libertà di organizzare per domani sera un ricevimento in vostro onore. Fra gli ospiti saranno presenti anche i rappresentanti della nobiltà indiana di Bombay. Spero che la cosa vi sia gradita. Ci sarà un rinfresco, musica e danze!» concluse sorridendo.

«Vi ringraziamo di tanta premura, non dovevate disturbarvi.» rispose la mamma.

«Nessun disturbo, ve lo assicuro.»

«Mamma,» chiamò Elisa «col tuo permesso e quello dei nostri ospiti Miranda, Marina e io vorremmo ritirarci per scegliere l’abito per domani.»

«Se lady Cole non ha nulla in contrario, potete andare.»

«Ma certo care, andate pure.» fu la risposta della baronessa.

Augurando la buona notte ci avviammo per il corridoio.

«Tu quale abito indosserai Miranda?» chiese Elisa.

«Ho un vestito color crema che mi sembra assolutamente adatto. E tu come ti vestirai?»

«Non so,» sospirò Elisa «non mi viene in mente nulla.»

«Mia sorella è un’eterna indecisa quando si tratta di vestiti. Io, invece, so già quale abito mettere!»

«Quale?» chiese.

«Quello verde smeraldo.»

Arrivammo alla camera di Miranda che ci salutò entrando. Chiuse la porta e noi proseguimmo.

«Mi aiuti a scegliere il vestito?» mi chiese Elisa.

«Sapevo che me lo avresti domandato. Va bene ti aiuto, andiamo.»

Entrammo in camera sua. Tirai fuori dall’armadio gli abiti da sera che, a parer mio, potevano essere adatti e li osservai.

«Questo!» decisi infine.

L’abito era in raso, azzurro chiaro, ricamato. La scollatura era quadrata e le maniche di pizzo arrivavano, leggermente svasate, ai gomiti. In vita era legata una fusciacca di seta, in una tonalità un po’ più scura, impreziosita da perle scaramazze, che dietro si annodava in un bel fiocco le cui code arrivavano fino al corto strascico. Era semplice ma estremamente elegante.

Lasciai Elisa e una volta in camera mia, accesi la lampada sul tavolino da tè e mi voltai. Accoccolati ai piedi del letto Silam e Kamath dormivano. Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a loro, sorridendo: erano così belli che mi dispiaceva disturbare il loro sonno, ma non potevo fare altrimenti. Accarezzai la testa del bimbo.

«Kamath!» lo chiamai «Svegliati Kamath.»

«Che cosa c’è?» si stropicciò gli occhi poi mi guardò «Sei tu missy. La cena è finita?»

«Sì. Ti hanno portato da mangiare?»

«Sì missy. Ne hanno portato sia per me che per Silam. Abbiamo cenato in giardino.»

Guardai fuori. La luna piena nel cielo sereno illuminava il giardino quasi a giorno. Era uno spettacolo molto suggestivo.

Mi rivolsi di nuovo al bambino:

«È molto tardi, Kamath, e tu sei stanco. Vai a letto, ci vediamo domani. Vieni un po’ prima di colazione.»

«Va bene. Ciao missy sahib, buon riposo.»

Detto ciò si alzò e salutandomi con la mano corse fuori dalla camera.

Mi tolsi l’abito e indossai la camicia da notte e la vestaglia. Uscii in giardino per godere della fresca aria notturna. Sedetti sotto l’arancio, come avevo fatto nel pomeriggio, e ne aspirai la dolce fragranza, mista a quella del gelsomino.

Un senso di pace si impossessò del mio cuore.

Ripensai a Paul rivivendo lì, nella pace di quel giardino, gli istanti passati con lui. Mi capitava spesso di pensare a lui.

Silam mi venne vicino e si sdraiò con il muso adagiato sulle mie gambe.

«Sai, Silam, è strano.» mormorai accarezzandogli la testa «Non mi era mai successo prima. Non avevo mai pensato così tanto a qualcuno. Ogni volta che penso a lui… ai momenti passati insieme… alla sua lettera…» guardai l’anello che mi aveva regalato «Quelle parole mi hanno turbata. Secondo te che cosa intendeva dirmi con quella lettera? Forse che gli interessavo. O forse sto solo immaginando tutto. Perché tutte le volte che penso a lui, tutte le volte che ricordo il suo viso, il cuore mi batte più forte e una sensazione di… non so come dire, è come un nodo che mi chiude lo stomaco e mi impedisce di respirare. Cosa vuol dire, Silam?»

Sospirai in silenzio. Alzai gli occhi verso l’alto e rimasi incantata: le stelle, nel cielo terso, sembravano così vicine che allungando una mano avrei potuto toccarle.

Non so quanto tempo rimasi così. Infine, reprimendo quei pensieri melanconici, mi alzai.

«Vieni Silam, andiamo a dormire.»

Rientrai in camera e mi tolsi la vestaglia, soffiai sulla fiamma della lampada, spegnendola, e mi coricai.

La luce lunare creava strane ombre sul soffitto, le osservai un poco, poi finalmente mi addormentai.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo V ***


Capitolo V

 

 

Fu il chiarore dell’alba, entrando dalla finestra, a svegliarmi.

Guardai l’orologio e vidi che segnava le cinque e mezza. Era presto ma ormai ero sveglia, così mi alzai. La colazione era alle nove, avevo tre ore e mezzo da far passare, mi vestii e mentre mi pettinavo bussarono alla porta.

«Avanti.»

Entrò Kamath «Ciao.» disse.

«Buongiorno Kamath. Come mai sei già qui?»

«Stavo girando per la casa e quando sono passato davanti alla tua porta ho sentito che eri sveglia, così ho bussato.»

«Kamath, vorrei andare a fare una passeggiata, badi tu a Silam?»

«Sì missy.»

Gli sorrisi «A dopo.» detto ciò presi il cappello a tesa larga e uscii.

Fuori il sole era già caldo, indossai il cappello e mi avviai verso la città.

In giro c’erano diversi soldati sia inglesi che sepoy, soldati indiani arruolati nell’esercito inglese. Appena uscii dal Presidio mi trovai in un mondo completamente diverso: gli uomini indiani indossavano casacche bianche e ampi pantaloni, ognuno di loro portava un turbante il cui colore ne denunciava la casta di appartenenza. Le donne erano avvolte in coloratissimi sari. Più che una strada sembrava un giardino fiorito. Mi lasciai guidare dal flusso delle persone e ben presto mi ritrovai in un bazaar. Nell’aria si spandeva il profumo dell’incenso e dei cibi. C’erano bancarelle che vendevano stoffe, gioielli e molte altre cose. Alcune donne indiane si fermarono a guardarmi stupite. Era insolito vedere una signorina inglese sola nel bazaar e si stupirono ancora di più quando le salutai usando la loro lingua. Una ragazzina di circa dieci anni mi si avvicinò. Indossava un sari giallo.

«Io sono Myra.» disse.

Le sorrisi «Ciao Myra.»

«Devi comperare qualche cosa?»

«Perché?»

«Volevo farti vedere la bottega di mia madre. Ha delle belle cose, sai? Vende stoffe e gioielli d’argento.»

«Senti Myra se vengo a vederla, poi tu mi riaccompagni al Presidio?»

Ci pensò un attimo poi annuì:

«Va bene, vieni.»

Mi fece strada fra la gente e, raggiunta la bottega, entrammo. Disposto su mensole c’era un piccolo tesoro in sete e argenti. La madre di Myra mi venne incontro e si inchinò.

«Benvenuta, giovane signora.» disse sorridendo.

«Buongiorno.» le risposi.

Iniziai a girare fra gli scaffali osservando la varietà di colore delle sete e i gioielli.

Su un banco vidi un’ampia pezza di stoffa blu pavone. Mi avvicinai e la toccai: era seta, della più fine che avessi mai visto. Pensai che con una stoffa simile si poteva creare un abito splendido, avevo già in mente il modello adatto.

Mi voltai verso la padrona del negozio:

«Quanto costa questa seta?»

«L’intera pezza viene cento rupie.»

Rapportato in ghinee il prezzo era veramente basso.

«Volete comprarla?» mi chiese Myra.

Mi riscossi e rivoltami alla madre: «Sì, la prendo. Intendo farmi confezionare un abito. Avete mussola in tinta per le sottogonne?»

«Sì missy, se volete seguirmi.»

Mi fece strada fino a uno scaffale da dove estrasse due pezze, una leggermente più scura e una più chiara della seta.

«Ecco, se prendete questa» indicò quella più scura «la seta risulterà a tratti più cupa, invece con quella chiara il colore rimarrà invariato. Se volete però ottenere un effetto particolare vi consiglio di prendere questa.» così dicendo estrasse una pezza di un bel verde.«Indossata sotto la seta» continuò «col variare della luce otterrete un effetto cangiante dal blu pavone al verde smeraldo.»

Ci misi poco a decidere: presi la mussola verde che fu messa da parte con la seta.

Stavo per dire che non volevo altro quando vidi una piccola bacheca di legno nella quale erano esposti diversi gioielli. Mi avvicinai per osservarli meglio. Vi erano collane e bracciali molto belli ma ciò che attrasse il mio sguardo fu un anello. Era formato da una fascia di argento lucido con un lapislazzulo ovale incastonato al centro: un gioiello semplice ma molto bello. Pensai che il blu della pietra sarebbe stato bene col blu della seta.

La negoziante si avvicinò:

«Volete vedere qualche gioiello?»

«Sì, quell’anello.» risposi indicandolo.

La donna lo prese e me lo porse perché potessi vederlo meglio.

«Potete provarlo, se volete.»

Lo infilai all’anulare destro, accanto a quello donatomi da Paul, ma era un po’ largo così lo passai al medio: andava a pennello. Sorrisi:

«Prendo anche questo.» le dissi porgendoglielo.

«Vi serve altro?» chiese.

«No, grazie.»

Avvolse la seta e la mussola, con in mezzo l’anello, in una pezza di cotonina e me la porse:

«Sono centosettantatré rupie in tutto.»

Le porsi le monete.

«Grazie missy, arrivederci.» disse inchinandosi.

Uscii dalla bottega seguita da Myra. Il sole era considerevolmente più caldo. Tenendo il pacco di stoffa in mano mi rivolsi alla bambina:

«Bene, ora tocca a te, devi accompagnarmi al Presidio.»

Sorrise «Seguimi.»

Ci avventurammo in un dedalo di viuzze e in brevissimo tempo mi ritrovai all’entrata del Presidio.

«Grazie Myra. Arrivederci.»

«Ciao missy.» sorrise, poi si voltò e corse via.

Mi avviai verso la Residenza chiedendomi che ora fosse. Speravo di non aver fatto troppo tardi e soprattutto che nessuno si fosse preoccupato per la mia assenza.

Entrando nella casa sentii una pendola battere le otto. Raggiunsi velocemente la mia camera e buttai il pacco sul letto. Avevo un’ora per togliermi quell’abito impolverato, metterne uno pulito e andare a colazione.

Stavo finendo di cambiarmi quando entrò Elisa.

«Sei ancora così,» mi disse «guarda che non manca molto alla colazione.»

«Lo so… Dannazione!»

«Marina!»

«Scusa Elisa, non riesco ad allacciare questi ganci. Aiutami per favore.»

Si accostò e io mi voltai. Quando ebbe finito si sedette sul letto mentre cercavo le scarpe.

«Cosa c’è in questo pacco?» chiese.

«Stoffa. L’ho comprata questa mattina. Mi sono svegliata presto e sono uscita. Ho trovato una bottega che vende stoffe e gioielli splendidi.»

«Dove?»

«Al bazaar indiano.»

«Ci sei andata da sola?»

«Sì.»

«Tu sei pazza. E se ti fossi persa?»

«Infatti mi sono persa, o quasi. Però ho incontrato una deliziosa bimba che mi ha riaccompagnata.»

«L’ho detto, tu sei pazza. Mamma non sarà per niente contenta quando saprà che sei uscita da sola…»

«Siete uscita sola?!»

La voce di Umi ci fece sobbalzare. Non l’avevamo sentita entrare.

«Milady lo sapete che non potete uscire da sola. Spero almeno che non siate uscita dal presidio…» s’interruppe vedendo il pacco che Elisa teneva ancora in mano «Quello cos’è?» chiese.

«Stoffa.» le risposi.

«Dove l’avete comprata?»

«Te lo dico se prometti di non arrabbiarti.»

«Marina Annabelle Shallowford, ditemi subito dove avete comprato quella stoffa!»

Sapevo che quando Umi usava il mio nome completo non era il caso di tergiversare, così cedetti.

«L’ho comperata questa mattina in una bottega al bazaar indiano.»

Si accasciò su una sedia «Che gli Dei abbiano pietà di me.» mormorò.

Le andai vicino «Umi, non prendertela così. Non pensavo di fare una cosa grave. Era molto presto e non potevo svegliare tutta la casa solo perché volevo uscire. Non l’ho fatto per dispetto verso di te o verso i miei genitori. Ma se la cosa ti preoccupa tanto ti giuro che la prossima volta frenerò la mia impazienza e uscirò solo se accompagnata. Va bene?»

Umi mi guardò e sorrise. Fece segno di avvicinarsi anche a Elisa. Ci sedemmo ai suoi piedi.

«Vedete bambine,» iniziò «la mia preoccupazione è quella che vi possa accadere qualcosa. So che siete due ragazze assennate e che non fareste mai nulla per preoccupare i vostri genitori o me, perlomeno non volontariamente. Ma a volte questi piccoli colpi di testa, come il tuo di questa mattina Marina, possono mettere in grande angoscia, se scoperti, chi vi vuol bene. Soprattutto vostra madre.»

«Lei ha paura. L’ho intuito ieri quando mi ha abbracciata sulla nave. Perché Umi? Perché la mamma ha paura e di cosa?» chiesi.

«È una storia, Marina, che risale a poco prima della vostra nascita e che scosse vostra madre.»

«Che cosa accadde?» chiese Elisa.

Umi sembrò titubante a rispondere poi, vedendo le nostre espressioni, capì che non l’avremmo lasciata andare senza una spiegazione, così cedette.

«Vi racconterò ciò che è successo se mi promettete di non dire a nessuno che ve l’ho detto. Neppure a Patal.»

«Lo promettiamo.» rispondemmo.

«Più di venti anni fa qui, in India, vi fu una ribellione da parte di un popolo…» cominciò «So che vostro padre ve ne ha parlato. Quando fu trasferito qui, a quell’epoca era maggiore, i vostri genitori erano sposati da poco più di un anno. Vostra madre decise di seguirlo affrontando il viaggio, a differenza di molte altre signore che tornarono a vivere nella casa paterna fino al ritorno del marito. Anche vostro nonno le consigliò di tornare a casa, a Vicenza, ma lei rifiutò. Ed ebbe coraggio poiché a quell’epoca ci volevano molti mesi di mare per arrivare in India, perché si circumnavigava ancora l’Africa. Dopo la Campagna del ’10 vostro padre fu trasferito al Quartier Generale ad Agra poiché, oltre a essere un brillante stratega, in una delle battaglie fu ferito. Insieme al trasferimento ottenne anche la promozione a Tenente Colonnello. Fu ad Agra che i vostri genitori conobbero un Maharaja e la sua sposa. Questo Maharaja era molto potente: il suo era uno dei regni più estesi e ricchi dell’India, ma soprattutto era molto intelligente e di buon cuore, uno studioso, un letterato e un grande guerriero. Sua moglie era una delle donne più belle che io abbia mai visto. I suoi occhi brillavano come diamanti e quando sorrideva il suo viso sembrava splendere di luce propria. Era più grande di me solo di un anno ed eravamo sempre vissute insieme. Ero la sua ancella prediletta. Ricordo che quando eravamo sole era solita chiamarmi bahan, sorella…» s’interruppe persa nei suoi pensieri. Aveva gli occhi umidi e un mesto sorriso le piegava le labbra. Elisa e io ci guardammo: era la prima volta che Umi ci parlava del suo passato.

«Quando vostra madre e la mia padrona si incontrarono per la prima volta» riprese «divennero subito amiche e questa amicizia si estese anche ai rispettivi mariti. Nei periodi in cui i miei padroni abitavano nel palazzo di Agra le due coppie si vedevano molto spesso. Quando, invece, il Maharaja doveva tornare nei suoi possedimenti vostra madre e la mia padrona si scrivevano. Ora accadde che i vostri genitori, poco prima della vostra nascita, fossero in visita ai miei padroni proprio nei possedimenti quando, non si sa da dove, arrivò un esercito di rinnegati che attaccò il Palazzo. Si erano avvicinati nella notte, senza accendere fuochi per non tradire la loro presenza, e all’alba avevano sferrato l’attacco cogliendo impreparate le difese del Palazzo. Nonostante questo, gli uomini del mio Signore riuscirono a resistere quasi tutto il giorno combattendo con valore. Anche il Maharaja combatté ma venne ucciso. Quando il nemico stava per sfondare il portone interno del Palazzo, Patal ci raggiunse nella stanza dove i vostri genitori, la mia padrona e io ci trovavamo. Disse che tutto era perduto, che il mio Signore era morto e che presto quei barbari sarebbero riusciti a entrare. Allora la mia Signora ci fece fuggire attraverso un passaggio segreto. Pregò i vostri genitori di portarmi con loro e ordinò a Patal di scortarci. Vostra madre la supplicò di fuggire con noi ma lei rispose che sarebbe rimasta a condividere la sorte di suo marito. Così noi fuggimmo. Pochi giorni dopo un messaggero raggiunse Agra e portò la notizia dell’attacco al Comando inglese, poiché sapeva che il Maharaja conosceva molti inglesi del Presidio. Quando vostro padre gli chiese se c'erano superstiti rispose di no, disse che era stato un massacro e che sia il Maharaja che la Maharani erano stati uccisi. Vostra madre era presente quando arrivò il messo. Potete immaginare il suo sgomento nell’apprendere che la sua più cara amica era stata uccisa. I vostri genitori partirono per Bombay pochi giorni dopo e si imbarcarono sulla prima nave. Per vostra madre l’India rappresenta solo brutti ricordi, prima vostro padre in guerra e poi quel terribile fatto.» mi guardò «Penso, Marina, che tu possa capire, ora, perché tua madre aveva paura di tornare qui, vero?»

Annuii «Sì, ora capisco molte cose.»

«Deve essere stato terribile anche per te, Umi.» disse Elisa.

«Per me la mia Signora era più una sorella che una padrona.»

«Come si chiamava?» chiese Elisa.

«Sitara-i-Mahal.»

«La Stella del Palazzo.» tradussi io.

«Sì, il suo sposo, com’è consuetudine, le aveva dato questo nome il giorno delle nozze.»

In quel momento bussarono. Mi alzai e andai ad aprire, era un servitore. Si inchinò e ci disse che la colazione era servita poi si inchinò di nuovo e uscì. Si alzarono anche Elisa e Umi e uscimmo dalla stanza.

Subito dopo colazione iniziarono i preparativi per il ballo di quella sera. Non sapendo cosa fare e per non essere di intralcio, noi ragazze decidemmo di uscire. Chiedemmo in prestito ai padroni di casa il landò scoperto. Umi sedeva in carrozza con noi e Patal ci seguiva a cavallo. Papà era andato fuori con sir Cole per un giro di supervisione al Comando del Presidio, invece la mamma era rimasta alla residenza per aiutare lady Cole con i preparativi.

Appena fuori dal presidio chiedemmo al cocchiere di girare per la città senza rimanere solo nei quartieri “britannici”. Lui sembrò stupito ma obbedì. Quando passammo dal porto Miranda esclamò «Guardate! Quella è la Sunrise!»

«È vero. Guarda Marina, sta salpando.»

La carrozza si avviò velocemente lungo il molo e si fermò al limite dell’acqua.

«Salutateci l’Inghilterra!» gridammo insieme, salutando con una mano i passeggeri della nave che ci risposero.

«Bambine!» ci richiamò Umi «Un po’ di contegno! Non ci si comporta così.»

«Umi sii buona, non ci è mai concesso di fare nulla di un po’ diverso! Oggi è una giornata speciale, lasciaci sfogare. Dopo questa mattina torneremo a essere delle compite signorine, lo promettiamo vero?»

«Promesso.» risposero all’unisono Elisa e Miranda.

Umi guardò le nostre espressioni e si mise a ridere.

«D’accordo, mi dichiaro sconfitta, ma solo per questa mattina.»

«Grazie Umi.»

Rientrammo per il pranzo. Nel pomeriggio mi lavai i capelli e per farli asciugare andai in giardino e mi sedetti sull’erba, al sole, a ricamare. Silam, che mi aveva seguita, andò a grattare la portafinestra di Elisa che poco dopo gli aprì.

«Ciao Silam, cosa c’è?» disse.

«Scusa se ti ha disturbata, Elisa. Stavi riposando?» chiesi.

«No, non ti preoccupare.» mi si avvicinò «Si sta d’incanto qui fuori. Aspetta, vado a prendere il mio ricamo e ti raggiungo.»

Corse in camera e fu di ritorno in brevissimo tempo. Si sedette all’ombra dell’arancio come avevo fatto io il giorno prima. Rimanemmo per un po’ in silenzio a ricamare godendoci la lieve brezza.

«Marina…»

«Cosa c’è, Elisa?»

«Ci pensi che dopodomani ci rimetteremo in viaggio?»

«Non vedo l’ora! Vorrei che il viaggio non finisse mai per poter vedere l’India infinite volte. Ma allo stesso tempo non vedo l’ora di arrivare a casa!»

«A casa? Cosa stai dicendo?»

«Non ti sorprendere, Elisa. Io ho iniziato a pensare a questo viaggio come a un ritorno a casa fin dal primo giorno. Non vedo l’ora di vedere Lucknow e la nostra nuova abitazione.»

«Sai, Marina, all’inizio non ero molto felice di questo trasferimento: lasciare tutte le nostre amiche, la faccenda di Marck e tutto il resto. Ma adesso ti confesso di essere eccitata anche io all’idea di attraversare questa terra.»

Rimanemmo di nuovo in silenzio, ognuna immersa nei propri pensieri, poi:

«Elisa, posso chiederti una cosa?»

«Dimmi.»

«Tu… tu soffri ancora per Marck? Forse non dovrei chiedertelo ma è un po’ che ci penso.»

«Se devo essere sincera Marina, no, non soffro più per quel che è successo. Più che altro mi ci arrabbio. Farmi raggirare così… Non credevo che mi sarebbe successo.»

«Non prendertela. In fin dei conti era bello e molto affascinante.»

«Già, fin troppo. E tu, Marina?»

«Io cosa?»

«Non fare finta di niente. Non ho dimenticato come è arrivato in casa Silam. Ci pensi mai?»

«Se penso a Paul?»

«Già.»

«A volte. È logico, dopo tutto ho Silam continuamente sotto gli occhi.»

«Ed è solo per questo che ripensi a Paul?»

«Ma certo!» risposi in fretta, troppo in fretta.

«E come mai sei diventata tutta rossa?»

Mi portai le mani alle guance che effettivamente scottavano.

«Smettila!»

«Dai, Marina, dì la verità. Quell’incontro ti ha scosso più di quanto ti saresti immaginata. O sbaglio?»

«Va bene, d’accordo lo ammetto, penso spesso a Paul e non solo per via di Silam. Contenta?»

«Immensamente.»

«Elisa,» ripresi dopo un po’ «sai dov’è Miranda? Dopo pranzo non l’ho più vista.»

«Mi ha detto che voleva riposare.»

«Eli… Pensi che lo rivedrò?»

«Non so perché, Marina, ma qualcosa mi dice di sì. Sì, lo rivedrai.»

Rimanemmo in giardino fino a sera, poi ci ritirammo per prepararci.

Raccolti i capelli sulla testa mi concessi un lungo bagno profumato, poi mi vestii. L’abito era di satin verde smeraldo. Il corpino mi fasciava il busto e sbocciava in due piccole maniche a sbuffo scese sulle spalle, la scollatura era rotonda e piuttosto bassa. L’ampia gonna scendeva semplicemente a terra allungandosi dietro in un corto strascico. Dalla manica sinistra si dipartiva un sottile ricamo in filo d’oro che scendeva obliquamente attorcigliandosi intorno all’abito, come un rampicante, e qua e là sull’abito, erano ricamate in ordine sparso piccole foglie, come se una folata di vento le avesse strappate al rampicante che mi avvolgeva. L’acconciatura elaborata era valorizzata da fiori di gelsomino e attorno al collo portavo una collana d’oro che, come pendente, aveva un unico, splendido smeraldo. La lavorazione dell’oro richiamava il ricamo dell’abito.

Il pendente della collana si adagiava sulla mia pelle proprio di fianco a due piccoli nei, evidenziandoli. Questi nei erano a sinistra, sopra il seno, ma la caratteristica curiosa era la forma: perfettamente rotondi, disposti verticalmente a poca distanza l’uno dall’altro e quello più in basso era un po’ più piccolo. Mi allontanai di un passo dallo specchio a figura intera per guardarmi meglio e sorrisi: l’abito era splendido nella sua semplicità.

In quel momento entrò Umi e mi guardò.

«Bambina, sei splendida!» esclamò.

«Grazie Umi. È un abito bellissimo, vero?» feci una giravolta.

«Sì è molto bello. Ti sta d’incanto, e la collana! Hai messo la parure che ti ha regalato tua nonna!»

Si avvicinò per guardarmi meglio ma quando i suoi occhi si posarono sul pendente della collana, il suo volto parve oscurarsi. Fu questione di un attimo poi tornò a sorridere.

«Sei veramente bella.» mormorò.

«Ti ringrazio Umi.»

Entrò la mamma, bellissima in un abito di broccato color bronzo impreziosito da un pizzo d’oro.

«Marina sei pronta? Oh cara! Stai benissimo, quel colore ti dona molto. Ho appena visto tua sorella ed è splendida anche lei, fra tutte e due offuscherete le altre invitate!»

Arrivò anche Elisa e, chiacchierando, aspettammo che papà ci raggiungesse.

«Oh, siete tutte splendide! Sono davvero un uomo fortunato.» disse lui entrando, elegantissimo. In alta uniforme faceva una figura superba.

«Andiamo, gli ospiti sono già arrivati tutti e lady Cole sta scalpitando come un cavallo impaziente.» commentò.

Ci avviammo e nel corridoio incontrammo Miranda, anche lei molto elegante, che si unì a noi. Entrammo nel salone annunciati dal maggiordomo. Lady Cole ci venne subito incontro, fasciata in un abito vinaccia forse un tantino troppo appariscente. Prese sottobraccio mamma e papà e ci portò al centro della sala, poi chiese l’attenzione di tutti.

«Miei cari,» esordì «voglio presentarvi gli ospiti d’onore di questa serata: lord e lady Shallowford e le loro incantevoli figlie Marina ed Elisa. Questa fanciulla, invece,» disse avvicinandosi a Miranda «è Miranda Scott, figlia del maggiore Scott che alcuni di voi conoscono.»

A quel punto si avvicinò il rappresentante della Compagnia:

«Mio caro Conte, signore, a nome della Compagnia e di tutti noi vi do il benvenuto in India. Che il vostro soggiorno possa essere piacevole e proficuo per la nostra patria.» concluse alzando il bicchiere che teneva in mano, imitato da tutti gli altri ospiti che ripeterono l’augurio.

A quelle parole io sorrisi freddamente: proficuo? Possibile che alla Compagnia non interessasse altro se non il profitto? Quando furono esauriti i convenevoli papà si mise a parlare con altri militari e alcuni rappresentanti del governo, mamma fu accompagnata da lady Cole a fare la conoscenza di alcune signore. Così Miranda, Elisa e io ci ritrovammo sole.

«Non mi sembra ci siano molte ragazze della nostra età.» commentò Elisa «Marina, cosa facciamo?»

«Suggerirei di avvicinarci al buffet e prendere una limonata, è sempre meglio che stare qui.»

Mi avviai seguita da mia sorella e da Miranda.

Quando fummo accanto al buffet notai un gruppo di invitati che si tenevano in disparte. Erano tutti indiani. Mi guardai in giro, i padroni di casa avevano aperto le danze e ora molte coppie stavano ballando. Vicino a una delle porte di servizio c’era Umi. Le andai vicino.

«Ciao Umi.» la salutai.

«Oh milady, come mai non state ballando?»

«Non mi hanno invitata.»

Si guardò intorno «Non ci sono molti giovani, in effetti.» commentò.

Annuii «Umi, perché gli invitati indiani se ne stanno così in disparte?» le chiesi indicandoglieli.

«Si sentono a disagio e in parte umiliati, nessuno si cura di loro o li rende partecipi delle conversazioni.» scosse la testa «Gli inglesi fanno male ad agire così. Se li stanno inimicando quando invece dovrebbero cercare di essere loro amici. Potrebbero avere bisogno di alleati un giorno, soprattutto così potenti.»

«Hai ragione. Bene, ciò che i diplomatici non fanno lo farà una semplice fanciulla.»

Così dicendo la salutai e mi avviai verso di loro.

Il più vicino da raggiungere era un uomo di circa sessant’anni, con la folta barba tinta con l’henné. Indossava una splendida giacca di broccato blu notte ricamata in argento. Sul turbante era appuntato uno zaffiro di notevole valore circondato da piccoli diamanti. Doveva essere un nobile appartenente alle classi più alte.

«Buona sera.» lo salutai «Il mio nome è Marina Shallowford.»

Sapevo di essere molto sfacciata a presentarmi così. Nel mondo indiano era inconcepibile che una donna si mettesse a parlare con uno sconosciuto. Avevo corso il rischio che mi considerasse molto maleducata e che non mi rivolgesse la parola. Ma lui invece sorrise. Probabilmente aveva attribuito la mia sfacciataggine alla giovane età.

«Buona sera a voi, giovane fanciulla.» rispose con un lieve inchino «Io sono il Raja Sardar Singh.»

«Onorata di fare la vostra conoscenza. Perdonate se mi sono presentata così, ma non sapevo come altro fare e volevo conoscervi.»

«La vostra grazia compensa tutto, non preoccupatevi siete perdonata. Ma ditemi Marina Shallowford, perché volevate conoscermi?»

«Perché sono certa che con voi potrò parlare di cose più interessanti che di vestiti e cappelli.» sorrisi «Sempre che non vi dispiaccia parlare con me.»

«Perché mai dovrebbe dispiacermi la compagnia di una così simpatica fanciulla?»

Arrossii «Sono stata davvero molto sfacciata, vero?»

Si mise a ridere «Sì, molto, ma non importa. Non preoccupatevi non lo dirò a nessuno.»

«Grazie. Ditemi, voi vivete a Bombay?»

«No. A dire il vero non ci vengo molto spesso. Io vivo più a nord.»

«Dove? Se posso saperlo.»

«Nella città di Agra.»

«Oh… Volete essere così gentile da parlarmi di quella regione? Sapete, noi ci stiamo trasferendo a Lucknow.»

«Lucknow dite? È una bella città, vi ci troverete bene.»

Ci sedemmo su un divano, e io ascoltai ciò che mi raccontava, felice di poter sentire la storia di quella terra dalla viva voce di qualcuno che l’amava. Rimasi seduta ad ascoltarlo per ore, a volte qualche altro ospite indiano si univa alla conversazione raccontando episodi, aneddoti o leggende.

La serata passò in un lampo.

I primi ospiti iniziavano ad andarsene quando si avvicinò Elisa.

«Buona sera.» salutò.

«Signori, questa è mia sorella: Elisa Shallowford.» la presentai.

Il Raja seduto accanto a me si alzò e si inchinò:

«Un’altra giovane fanciulla di delicata bellezza. I vostri genitori devono essere molto fieri di voi.»

«Vi ringrazio, signore.» disse Elisa «Marina,» continuò poi «papà ha detto che è meglio ritirarsi. È molto tardi.»

«Va bene.» mi alzai anch’io «Signori voglio ringraziarvi: ho passato una splendida serata.»

Detto questo ci allontanammo accompagnate dal Raja.

Sulla porta del corridoio ci congedammo da lui.

«Grazie ancora» gli dissi «e ricordate: se doveste passare per Lucknow venite a trovarci alla Residenza. La mia famiglia e io ne saremo onorati.»

«Siate certa che, se capiterà, verrò. Buon riposo a tutte e due.»

Lo guardammo allontanarsi poi ci avviammo per il corridoio, raggiungendo i nostri genitori.

 

Quella notte non fui io a svegliarmi quando Silam ringhiò, ma Umi.

Erano quasi le quattro e lei sentì Silam agitarsi e ringhiare, così uscì in giardino in tempo per vedere un’ombra scavalcare il muro di cinta, poi sentì dei passi allontanarsi in fretta. Rientrata in camera indossò velocemente il sari e andò a bussare alla portafinestra di Patal.

«Cosa succede, Umi?» le chiese comparendo sulla soglia.

«Un uomo Patal! Ha scavalcato il muro, l’ho visto! Era entrato nel giardino ma, per fortuna, Silam l’ha fatto fuggire. Voleva la Principessa, ne sono certa. Dobbiamo fare qualcosa. Questa notte Silam l’ha salvata, ma la prossima… Cosa facciamo? Cosa facciamo?»

«Dobbiamo sorvegliarla, tutte le ore del giorno e della notte. Forse sarebbe meglio avvisare il colonnello…»

«No! Non possiamo far sapere a lui e alla signora che la Principessa è già stata scoperta! Oh, io me lo sentivo! Con indosso quella collana, questa sera, è come se avesse invitato tutti a osservare i due nei! Fra tutti quegli indiani qualche rinnegato c’era sicuramente! E il segno di famiglia del nostro Signore è così evidente in sua figlia! Ma non possiamo ancora allarmare la signora, non lo sopporterebbe. E poi può darsi che quell’uomo fosse solo un ladro.»

«Va bene, Umi. Per ora ce la vedremo da soli, ma se dovesse succedere qualcos’altro di strano dovremo mettere in guardia il colonnello. Ora torna a dormire. Silam e io faremo buona guardia. Buona notte.»

«Buona notte, Patal.» detto ciò Umi si allontanò e rientrò nella sua camera.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

 

 

Eravamo in viaggio ormai da alcuni giorni. Avevamo da poco superato la città di Nasik. Questa è una città sacra per gli induisti e vanta ben duemila templi. Umi ci disse che Nasik era nominata anche nel Ramajana.

A sera ci fermavamo nei dak-bungalow, stazioni di posta che offrono alloggio ai viaggiatori. Ce ne sono moltissimi sparsi in tutta l’India, a distanze regolari, così che i viaggiatori non debbano mai passare una notte all’aperto.

Come descrivere le giornate appena trascorse? Come descrivere le mille sfumature dei colori della natura o del cielo? Ogni alba e ogni tramonto erano uguali eppure diversi. Il cielo, durante il giorno, era di un azzurro talmente carico che faceva quasi male alla vista. I monsoni avevano ridato vita come ogni anno alla terra che ora si presentava vestita dai mille verdi degli alberi, dei pascoli, e dai colori dei fiori. Faceva caldo, ma io me ne accorgevo appena. Il ghari su cui viaggiavamo era scoperto e passavo il tempo a osservare ogni particolare di quella terra, e metro dopo metro il mio cuore si gonfiava di una gioia e di un amore infiniti. A volte mi scoprivo a guardare un fiore o una sfumatura del tramonto con le lacrime agli occhi. Era tutto così bello! I luoghi, la gente e la loro incredibile ospitalità. In ogni villaggio dove ci fermavamo per riposare venivamo accolti come ospiti d’onore. Gli anziani ci raccontavano di quella terra così vasta, così preziosa. Li avrei ascoltati in eterno. Ma era così bello viaggiare ancora e scoprire a ogni passo qualcosa di nuovo!

Presto passammo sull’altopiano di Malwa. Ci fermammo in un dak-bungalow qualche miglio dopo Indore. Era stata una giornata faticosa ed eravamo tutti molto stanchi, l’unico che sembrava aver goduto della lunga corsa era Silam. Guardarlo correre a fianco del ghari era uno spettacolo splendido di forza, velocità e grazia. Entrai nella camera che ci era stata assegnata seguita da lui. Lo guardai fare la consueta ricognizione che riservava a ogni luogo nuovo, per poi accucciarsi di fianco alla porta. Sedetti su uno dei tre letti e mi tolsi il cappello, sospirai chiedendomi dove fossero finite mia sorella e Miranda. Mi alzai e andai a esplorare il bagno attiguo alla camera. Era piccolo ma pulito. Non sapendo che altro fare uscii, seguita da Silam, e andai a cercare Elisa.

Accanto al carro dei bagagli Umi e Patal discutevano di qualche cosa.

Mi avvicinai e «Umi hai visto mia sorella?» chiesi.

«Poco fa l’ho vista dirigersi verso il torrente che scorre dietro il dak-bungalow.»

«Vado a chiamarla.»

«Vengo con voi.» disse Patal.

Fece per seguirmi ma lo fermai.

«Non disturbarti, non credo ci siano pericoli e poi ho Silam.»

Li salutai e mi diressi verso il corso d’acqua seguendo il sentiero.

D’improvviso Silam fece uno scatto in avanti e mi bloccò la strada. Giratosi poi verso il torrente ormai visibile emise un ruggito. Ero sbalordita. La mia tigre non aveva mai ruggito, mai. Non capii cosa fosse successo finché non seguii lo sguardo di Silam: da un cespuglio poco lontano era spuntato un cobra che ora si stava ergendo con il cappuccio aperto. Con la coda dell’occhio vidi Elisa sbucare da un folto d’alberi e dirigersi correndo verso di me. Le gridai di fermarsi lì dov’era e di non muoversi. Fortunatamente anche lei vide il cobra e ubbidì. Nel frattempo i due animali continuavano a fissarsi negli occhi, entrambi consapevoli di avere davanti un nemico temibile. Io trattenevo il respiro. Poi, dopo quella che parve un’eternità, il cobra iniziò a ritirarsi tra i cespugli finché disparve. Silam rimase immobile ancora un attimo poi si spostò dal sentiero dandomi via libera. Corsi da Elisa e ci abbracciammo. In quel momento arrivarono, correndo, papà e Patal. Papà ci venne vicino e vedendoci sconvolte ci abbracciò.

«Cosa è successo? Abbiamo sentito un ruggito e siamo corsi.»

«Un cobra! Se non fosse stato per Silam adesso…» non riuscii a dire altro.

Papà comprese ciò che era successo e ci strinse più forte poi, lasciateci, si inginocchiò davanti a Silam e gli grattò la testa.

«Grazie amico mio. Grazie davvero.» gli disse.

Ci avvicinammo anche Elisa e io e a turno abbracciammo la tigre. Tornammo al dak-bungalow tenendoci per mano. Mai come allora sentii il profondo affetto che ci legava. In quel momento eravamo veramente sorelle. Era stata un’esperienza terribile, sapevamo che se il cobra avesse attaccato, sarebbe potuta essere la fine per una delle due. Il mio Silam mi aveva salvato la vita già tre volte, anche se delle prime due allora non ero consapevole, e presto sarebbero state quattro.

Quella sera a cena non raccontammo nulla alla mamma, non volevamo che si spaventasse. Era tardi quando ci ritirammo. Nella nostra camera regnava un insolito silenzio mentre ci cambiavamo. Eravamo stanche e ci coricammo subito.

L’unica fonte di luce erano i raggi della luna che penetravano attraverso le persiane socchiuse. Guardando quella luce ascoltavo il rumore delle fronde scosse dal vento, i movimenti di Silam fuori dalla porta, il canto degli uccelli notturni e tutti quei piccoli rumori di cui è composto il silenzio. Chiusi gli occhi per gustare meglio quella pace e mi addormentai.

Intanto, scoprii anni dopo, fuori Silam e Patal sorvegliavano la porta della camera. Patal aveva scelto una zona d’ombra fitta, abbastanza vicina per poter intervenire in caso di bisogno, e vi si era sistemato con a fianco la tigre. Il tempo passava e sembrava che anche per quella notte non dovesse succedere nulla. Ma nell’ora che precede l’alba un’ombra si delineò nell’oscurità. Si avvicinava velocemente al dak-bungalow, i suoi passi non producevano alcun rumore. Silam avvertì il pericolo e con uno scatto fu in piedi, all’erta. Patal capì che qualcosa non andava e si alzò con la mano già sul pugnale. Individuò l’uomo che furtivamente si era avvicinato alla porta della nostra stanza e gli fu accanto in un attimo. Lo agguantò, immobilizzandolo, poi lo trascinò fino alla macchia d’alberi che nascondeva il torrente.

«Chi sei? Parla!» lo interrogò «Chi ti ha mandato? Cosa volete da noi?» non ricevendo risposta lo scrollò forte «Rispondi o ti taglio la gola!»

A quelle parole l’uomo rise «Sì, bravo uccidimi! Ma se lo fai chi ti potrà avvisare?»

«Cosa vuoi dire?»

«È inutile che tu e l’inglese sorvegliate continuamente la figlia del Maharaja Sciandar perché noi riusciremo nel nostro intento, qualunque cosa voi facciate.» rise nuovamente.

«Cosa stai dicendo?»

«Non sprecare fiato per dire che la Principessa non è con voi! Noi l’abbiamo riconosciuta e lei si sottometterà al nostro potere oppure verrà uccisa!»

«Noi chi? Chi è che la vuole morta?»

«Lo scoprirete, non temere.»

Patal comprese che da lui non avrebbe saputo altro e, poco dopo, il corpo esanime dell’uomo piombò con un tonfo nell’acqua che lo trascinò via. Patal rinfoderò il pugnale e ritornò al dak-bungalow.

Il mattino seguente, come mi avrebbe raccontato poi lui stesso, mentre i servi controllavano che tutti i bagagli fossero assicurati al carro con funi robuste, Patal prese in disparte mio padre:

«Devo parlarvi.» esordì.

«Cosa c’è Patal, ti vedo preoccupato.»

«Questa notte un uomo ha tentato di entrare nella camera delle signorine…»

«Cosa?»

«Non preoccupatevi non c’è riuscito, l’ho fermato e l’ho aiutato a raggiungere i suoi antenati. Ma prima gli ho posto qualche domanda.»

«Cosa hai saputo?»

«Quello che vi dirò non vi farà affatto piacere. Purtroppo hanno scoperto la vera identità di lady Marina. E c’è dell’altro…» s’interruppe.

«Avanti! Parla Patal!»

«Ricordate il ballo a Bombay? Quella notte Silam sorprese qualcuno che tentava di entrare nel giardino. Umi sentendo dei rumori uscì e vide un’ombra scavalcare il muro così mi svegliò. Signore temo che ci seguano da allora e forse da prima ancora.»

«Mio Dio! Pensavo che dopo diciassette anni non l’avrebbero riconosciuta. Per lo meno non così presto! Mia moglie non ne sa nulla, vero?»

«No signore. Temo che sarebbe troppo per lei.»

«Sì, non credo che sopporterebbe la notizia. Ma come possono aver fatto a scoprirla, in quale modo? Non posso pensare a un tradimento perché a parte te, io, mia moglie e Umi nessuno lo sa, ma allora come?»

«C’è un’altra cosa, signore. Sembra che le loro intenzioni non siano più di ucciderla e basta, penso vogliano rapirla per uno scopo tutto loro.»

«Cosa te lo fa pensare, Patal?»

«Quello che ha detto quell’uomo e cioè che la Principessa si dovrà sottomettere al loro potere, solo in caso contrario la uccideranno.»

«Al loro potere… Ma al potere di chi? Chi è questa gente?»

«Questo non sono riuscito a saperlo. Mi dispiace.»

«Tu hai fatto molto Patal, ti ringrazio.» aprì l’orologio da taschino «È ora di partire. Allora siamo d’accordo Patal, non si dovrà far parola di questo con nessuno. Aumenteremo la sorveglianza, soprattutto di notte. Se almeno fossimo già a Lucknow mi sarebbe più facile proteggerla. Non importa. Non lasceremo che ce la portino via, vero?»

«No signore, a costo della vita!»

Papà appoggiò una mano sulla spalla di Patal sinceramente commosso. Raramente aveva riscontrato una lealtà così profonda in un uomo.

Si avviarono e raggiunsero i ghari.

«Maria Giuseppina! Ragazze!» ci chiamò «Sbrigatevi, dobbiamo andare.»

In pochi giorni raggiungemmo Shivpuri, antica residenza estiva degli Scindia di Gwelior, Signori della regione. Qui svoltammo a est, verso Jhansik, lasciando la strada che da Bombay va a Delhi. Ormai meno di una settimana di viaggio ci separava dalla meta.

 

Arrivammo a Kanpur il 26 settembre.

Kanpur era una città molto attiva dal punto di vista commerciale. Affacciata sul Gange e discretamente servita dalle strade, vantava uno dei mercati più ricchi. Quando entrammo nel Presidio guardai Miranda, non stava più in sé per l’eccitazione. Appena ci fermammo davanti all’edificio del Quartier Generale saltò giù dal ghari senza aiuto e si precipitò fra le braccia dell’uomo uscito per riceverci.

«Papà!» la sentii dire fra le lacrime «Oh papà, come sono felice!»

Scendemmo anche noi. Staccatosi da sua figlia, visibilmente commosso, il maggiore Scott ci venne incontro.

«Colonnello!» si rivolse a papà col tipico saluto militare «Sono felice che siate finalmente giunti. Mia moglie ci aspetta a casa. Saremmo lieti se vorrete essere nostri ospiti per qualche giorno.»

«Grazie, Maggiore. Vorrei presentarle mia moglie Maria Giuseppina…»

«Signora.» il maggiore s’inchinò e baciò la mano della mamma.

«…e queste sono le mie figlie: Marina ed Elisa.» concluse mio padre.

«Felice di conoscervi. Se volete scusarmi un momento, sistemo un affare urgente poi andremo a casa.» detto ciò si allontanò.

Rimanemmo fuori per qualche minuto, osservando incuriositi il presidio, poi il maggiore Scott uscì dal Quartier Generale e, passato un braccio intorno alle spalle della figlia, si avvicinò.

«Bene, se vogliamo andare, qui per oggi, ho finito.» disse.

Il ghari su cui avevamo viaggiato era lì ad attenderci, gli altri due che trasportavano i bagagli, la servitù e Silam avevano già proseguito. Arrivati alla casa scendemmo dal ghari e ci guardammo intorno.

«Miranda!» la voce di donna veniva dal giardino.

Ci voltammo. Una signora bionda stava correndo verso di noi. Quando Miranda la vide sollevò le gonne del vestito e le si precipitò incontro. Si abbracciarono e rimasero lì, a metà strada fra la casa e il giardino, tenendosi strette. Poi si incamminarono insieme e ci raggiunsero.

«Damien, signora, questa è mia moglie Amy.» ci disse il maggiore che per la prima volta aveva chiamato mio padre per nome.

«Sarete stanchi.» intervenne la signora Scott «Entriamo, in casa fa più fresco.»

Ci accomodammo in salotto, un locale ampio e arioso arredato in stile coloniale, e lì raccontammo come avevamo incontrato Miranda e come era andato il viaggio. Silam era accovacciato ai miei piedi. I signori Scott erano rimasti molto sorpresi quando lo avevano visto. Era insolito vedere una tigre domestica, ma si erano presto abituati a vederlo girare per la stanza. Dopo cena ci ritirammo quasi subito poiché eravamo veramente stanchi.

Avremmo avuto il tempo di parlare nei giorni seguenti.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

 

 

Ripartimmo quattro giorni dopo ed entrammo a Lucknow il primo ottobre a metà mattina. Le strade erano gremite di gente e l’aria era satura del profumo dei fiori e delle spezie. Il ghari procedeva lentamente dandoci la possibilità di vedere ciò che accadeva intorno a noi.

«Elisa, Marina guardate.» ci chiamò papà «Quello è il Nadan Mahal, una tomba Moghul.» disse indicando una costruzione molto antica «E quello» continuò «è l’Husanabad Imambara. Laggiù dietro quelle case c’è il Qaisarbagh, ma da qui non si vede, vi ci porterò un altro giorno.»

Elisa e io guardavamo tutto ciò che papà ci indicava, a ogni metro la città si presentava sotto una diversa prospettiva, sempre più affascinante. Poi ci trovammo dinanzi a un cancello sopra il quale sventolava la bandiera inglese.

«È l’entrata del presidio.» ci disse papà «Fra poco saremo arrivati.»

Io non stavo più in me dall’eccitazione. Ci fermammo davanti al Comando Militare dove ci venne incontro un ufficiale che scattò sull’attenti.

«Signore,» salutò «sono il maggiore O’Brian, benvenuti a Lucknow.»

«Grazie maggiore.» rispose papà restituendo il saluto.

«Signore, se volete seguirmi vi farò strada fino alla Residenza.» continuò l’ufficiale.

Al cenno affermativo di mio padre il maggiore salì a cavallo e fece segno al cocchiere di procedere.

La Residenza era un’imponente costruzione bianca su due piani che sorgeva sulla cima di una collina circondata da un vasto parco. Tutto ciò era separato dal resto del Presidio da una seconda cinta muraria il cui unico ingresso era un elegante, ma robusto, cancello. Il viale che si dipartiva dal cancello, era in lieve salita, ombreggiato da alti alberi. Sembrava di essere in un altro mondo: i rumori della città non si sentivano più, l’unico suono era prodotto dalle ruote del ghari e dal canto degli uccelli. Arrivammo finalmente in vista della casa. Era veramente molto grande, se confrontata con le Residenze già viste.

«Ma quante stanze ha?» chiese Elisa.

«Il corpo principale, che è quello che vedete, comprende ventitré ambienti più le stanze da bagno.» le rispose il maggiore.

«Ventitré?» lo interruppe lei.

«Sì, al pian terreno vi sono due salotti, la sala da pranzo privata, quella di rappresentanza, la biblioteca e il salone da ballo. Invece al primo piano ci sono le tre camere da letto padronali, dieci camere per gli ospiti, lo studio e tre salotti di cui due privati che mettono in comunicazione, uno, due camere padronali e l’altro la terza camera con lo studio. Poi, sul retro della casa, c’è il corpo secondario, che è la prosecuzione del pian terreno, dove sono i locali di servizio come le cucine, la lavanderia e le stanze della servitù. Il tetto di questo corpo fa da terrazza per le camere padronali che si trovano, appunto, nella parte posteriore del primo piano.» concluse il maggiore.

Mentre parlava eravamo finalmente arrivati davanti alla casa. Papà scese dal ghari per primo e aiutò la mamma. Intanto il maggiore che era smontato da cavallo, fece scendere Elisa e me. Ci voltammo verso la Residenza.

Sulle scale d’ingresso stavano schierati i servitori e quando ci avvicinammo si inchinarono. Il più anziano, avvolto in una lunga veste bianca, si fece avanti e si rivolse a papà:

«Colonnello sahib,» disse «io sono Anil Mukhia, il maggiordomo della casa. Bene arrivati.»

«Grazie, Anil Mukhia.»

«Entriamo in casa, per favore, qui fa molto caldo.» intervenne la mamma.

Entrammo in un salotto. Oltre che dalla porta, questo ambiente, era illuminato da due ampie finestre. Anche i muri interni erano dipinti di bianco, questo contribuiva ad accrescere la luminosità della stanza, e un morbido tappeto, che copriva quasi tutto il pavimento, attutiva i nostri passi. Su questo salotto si aprivano quattro porte. Quella di destra dava sul salone da ballo. La porta di sinistra si apriva, invece, sulla sala da pranzo di rappresentanza. Le altre due porte del salotto si trovavano di fronte a quella d’entrata e si aprivano una sulla sala da pranzo privata e l’altra sul salottino da cui si accedeva, sulla sinistra, anche ad un’altra stanza: la biblioteca. L’unica parete libera di questo ambiente era quella di fronte alla porta, dove si aprivano due finestre, tutte le altre erano tappezzate di scaffali, pieni di libri, che andavano dal pavimento al soffitto. Perfino sopra la porta c’era uno scaffale pensile. Lungo ogni libreria, circa a metà altezza, correva una rotaia attaccata alla quale c’era una scala, dotata di ruote, che permetteva di raggiungere i ripiani più alti. Gli unici altri pezzi d’arredo erano il caminetto, che non mancava in nessuna stanza, posto fra le finestre, e due poltrone con lo schienale alto e i poggia piedi.

«Che meraviglia!» sussurrai.

Gli altri erano usciti dalla biblioteca per proseguire il giro della casa già da un po’, ma io non me ne ero accorta. Mi avvicinai ad uno scaffale e mi misi a scorrere i titoli dei libri. Quasi subito mi accorsi che i volumi non erano riposti secondo nessun ordine preciso. Mi ripromisi di pensarci io un po’ più avanti, quando ci fossimo ambientati. Intenta a fare piani per la biblioteca non mi accorsi dell’arrivo di Patal.

«Siete qui lady Marina.»

Mi voltai «Patal! Quando siete arrivati? Eri con il carro dei bauli, vero?»

«Sì, milady, assieme al ghari che portava Umi, la cuoca e le cameriere. Siamo arrivati ora.»

«E Silam?»

«È fuori che si guarda intorno. Dove sono il Colonnello e…»

«Marina?» lo interruppe Elisa entrando «Oh Patal, siete arrivati! Se cerchi papà è al piano di sopra.»

«Grazie, lady Elisa, scusatemi.» detto ciò si allontanò.

«Marina» riprese Elisa «vieni di sopra a vedere, le camere sono una meraviglia! Le nostre due sono comunicanti attraverso un salottino proprio come ha detto il maggiore O’Brian. Ce n’è una sui toni del malva e una su quelli dell’azzurro, vedrai sono incantevoli. Tutta la casa è bellissima!»

Mentre parlava mi prese per mano e mi tirò verso le scale che erano sul retro della casa.

«Aspetta Elisa.» la fermai «Lasciami prima andare fuori a prendere Silam. È appena arrivato e sarà un po’ disorientato.»

«D’accordo, vengo anch’io.»

Così riattraversammo i due salotti e uscimmo.

«Silam!» chiamai «Vieni piccolo!» subito la tigre, che si era messa a frugare in un cespuglio, mi corse incontro e mi balzò addosso facendomi finire per terra.

«Piano Silam!» lo redarguii «Mi fai male così. Sei grosso ormai, pesi troppo per fare queste cose! Togliti, su!» ma la tigre non sembrava aver voglia di obbedire, invece prese a leccarmi il viso «Fermo, stai fermo!» lo supplicai.

Mia sorella intanto rideva per la scena e non sembrava minimamente intenzionata ad aiutarmi. Finalmente riuscii a far spostare Silam e ad alzarmi.

La guardai «Grazie Elisa, senza il tuo aiuto non ce l’avrei fatta! Grazie davvero!» le dissi con un tono un po’ acido.

«Scusa Marina.» mi rispose fra un eccesso di risa e l’altro «Ma eri talmente buffa!» e si rimise a ridere.

Le lanciai un’occhiataccia poi mi avvicinai a Umi che, accanto al carro dei bagagli, guardava la casa.

«Ciao Umi.» la salutai.

«Oh milady, che bella casa!»

«Sì, è bella, ma aspetta di vederla dentro! Dove sono Bettine e le cameriere?»

«Sono appena entrate.»

Si avvicinò anche Elisa «Ciao Umi, vieni a vedere la casa?»

«Dopo, lady Elisa. Ho chiesto a Patal di mandare degli uomini per scaricare i bagagli e voglio aspettarli per controllare che vada tutto bene.»

«Oh, eccoli che arrivano.» disse mia sorella poi mi guardò «Entriamo dai! Vieni a vedere la camera. Visto che l’azzurro ti piace tanto io ho preso quella malva.» disse.

«Grazie, sì entriamo. Vieni Silam.»

Più tardi, quel pomeriggio, dopo uno spuntino veloce, mi ritirai in camera per disfare per l’ultima volta i bagagli. Dissi a Mary di aiutare Elisa e che io me la sarei cavata. Volevo restare un po’ da sola. Così chiusi la porta della camera e aprii la portafinestra che dava sulla terrazza. Una brezza gentile fece muovere le tende e Silam si accovacciò tra i battenti per godere della frescura. Lavorai tranquillamente per un’ora, poi però lo stormire delle fronde mosse dal vento mi chiamò, invitandomi a uscire sulla terrazza. E così feci. Posato sul letto lo scialle che avevo in mano andai fuori. La terrazza era vuota e silenziosa, qua e là vi erano dei sedili di pietra e qualche pianta in vaso. Il riverbero del sole sul marmo bianco era quasi accecante ma nonostante ciò fui felice di essere lì. L’attraversai fino al parapetto e guardai in basso. C’era un pozzo e delle mattonelle di pietra formavano un sentiero in mezzo all’erba, che consentiva di raggiungerlo agevolmente. Poco distante iniziavano gli alberi. Sembravano così vicini! Su un ramo all’altezza dei miei occhi stava ritto uno scoiattolo intento a rosicchiare una noce. Il silenzio era assoluto. Anche il vento si era placato e così lo stormire delle fronde. In quel silenzio distinsi il mormorio di acqua corrente. Seguendolo raggiunsi l’angolo più lontano della terrazza da dove scorsi il luccichio dell’acqua in mezzo agli alberi. Mi voltai e correndo scesi in giardino. Svoltai a sinistra e ripresi a correre con le gonne trattenute da una mano. Mi inoltrai fra gli alberi e poco dopo sbucai in una piccola radura al centro della quale scorreva un torrente. Mi avvicinai e, sedutami sull’erba, immersi una mano nell’acqua.

«Com’è fredda!» esclamai.

Si avvicinò anche Silam e dopo aver annusato in giro si mise a bere.

«È buona, Silam?» gli chiesi.

Lui alzò un attimo il muso e gorgogliò soddisfatto poi riprese a bere. Risi. Era tutto così bello e la voce del torrente sembrava mormorare: “Bentornata, bentornata”.

«Grazie!» risposi a quella voce immaginaria «Ma è la prima volta che vengo qui, quindi se mai dovresti dire Benvenuta

Sorrisi fra me e me pensando che se qualcuno mi avesse sentita mi avrebbe presa per matta.

In quel momento Silam balzò in acqua schizzandomi. Boccheggiai quando l’acqua gelida colpì le braccia e le spalle che non erano coperte dal vestito. Intanto Silam aveva iniziato a sguazzare felice continuando a bagnarmi.

«Silam piantala! Esci di lì, mi stai infradiciando!»

Non parve udirmi così immersi nuovamente la mano nel torrente e lo schizzai in pieno muso. Emise un suono simile a un miagolio poi si fece più vicino e si scrollò. Fu la “goccia” che fece traboccare il vaso…nel vero senso della parola! Dimenticando in un attimo gli insegnamenti sul comportamento che deve tenere una signorina, mi alzai ed entrai ridendo nel basso torrente e iniziai a bagnare la tigre con entrambe le mani. Giocammo così per un po’, poi uscii dall’acqua e sempre ridendo, corsi verso casa inseguita da Silam. Arrivata ai gradini d’entrata andai quasi a scontrare la mamma che mi guardò incredula.

«Marina!» esclamò «Cosa ti è successo? Santo cielo! I tuoi capelli! Il vestito! Sei zuppa!» in quella arrivò Silam che fece per avvicinarsi «Fermo tu!» disse lei facendo un passo indietro «Siete tutti e due fradici. Cosa avete combinato?»

«Oh mamma, quanto mi sono divertita!» esclamai.

«Si vede!»

«Non arrabbiarti, faceva caldo e l’acqua… sembrava chiamarci, vero Silam? Lui si è buttato per primo, schizzandomi, così ci siamo messi a giocare. Era così bello!»

«Ne parliamo dopo. Ora vai in camera, togliti quegli abiti bagnati, cambiati e asciugati i capelli. Vai. Veloce!» mi mossi e Silam fece per seguirmi ma la mamma lo bloccò «Tu no Silam!»

Mi voltai «Da bravo, Silam, resta fuori ad asciugare.» aspettai che si fosse sdraiato poi entrai in casa e salii di sopra.

Entrai nel salottino, unico accesso alla mia camera e a quella di mia sorella. Incrociai Elisa che stava venendo a cercarmi e quando mi vide scoppiò a ridere. Corse in camera sua.

«Mary,» la sentii dire «vai ad aiutare mia sorella. Sembra che ne abbia bisogno!» poi riprese a ridere.

Entrai in camera subito raggiunta dalla cameriera che mi aiutò a cambiarmi poi mi sciolse i capelli. La congedai, presi la spazzola e uscii sul terrazzo dove sedetti al sole. Subito fui raggiunta da Elisa che si sedette accanto a me.

«Come mai eri tutta bagnata?» mi chiese.

«Laggiù fra quegli alberi c’è un torrente,» le dissi indicando la direzione «sono andata a vederlo con Silam e ci siamo messi a giocare in acqua.»

Sorrise «Una signorina per bene non fa queste cose.» mi disse scuotendo la testa, poi abbassando la voce con fare da cospiratrice continuò «La prossima volta chiamami, vengo anch’io!» ci mettemmo a ridere.

Rimanemmo fuori, al sole, fino all’ora di cena, quando un servitore venne a chiamarci per andare a tavola.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

 

 

La prima settimana fu piuttosto piena. Fummo invitati a diversi tè e cene, durante i quali conoscemmo tutti gli inglesi del Presidio e anche alcuni di quelli che vivevano in città. Il Presidio infatti era una piccola comunità appartata, una specie di città nella città, esclusivamente inglese ma troppo piccola per ospitare tutti gli europei di Lucknow.

Quando finalmente tornò la calma c’eravamo perfettamente ambientati. Papà assunse già dal secondo giorno la sua carica, così ricominciammo a vederlo solo la mattina a colazione e la sera a cena. Il lungo viaggio, durante il quale eravamo sempre tutti e quattro insieme, era stata una parentesi molto bella che purtroppo si era chiusa. In casa mamma aveva riorganizzato la servitù, ridistribuendo i ruoli di ognuno secondo le capacità dimostrate e con l’aiuto di Bettine, nominata governante, aveva riportato le nostre vite ai ritmi consueti.

All’inizio della seconda settimana decisi di cominciare il lavoro nella nostra biblioteca. Elisa, non sapendo che fare, si offrì di aiutarmi. Così, con la compagnia di Silam, passammo molto tempo in quella stanza. Il primo giorno tirammo giù tutti i libri, poi ci accingemmo a catalogarli e a rimetterli sugli scaffali.

Era ormai giovedì pomeriggio quando Elisa, prendendo in mano l’ennesimo volume, mi chiamò.

«Marina guarda, qui c’è un doppio.»

«Sei sicura?» le chiesi avvicinandomi.

«Sì, questo è l’Enrico V, ma sono sicura di averne messo una copia sullo scaffale non più tardi di questa mattina.»

«Fammi controllare.» guardai sul quaderno su cui avevo scritto il titolo dei libri già sistemati, poi andai alla libreria «Hai ragione, guarda,» presi un libro «Enrico V»

«Ce ne sono due. Cosa ne facciamo?»

«Non so… Anzi sì che lo so! Il Presidio ha una biblioteca pubblica, potremmo dare il libro a loro. Anche se ne avessero già uno, un altro non gli darà certo fastidio.»

«Buona idea.» rispose «Bene, io continuo qui, tu vai pure a portarglielo.» mi disse con aria ingenua.

«Ma brava! Tu stai qui rilassata e al fresco e io invece devo scendere fino al Presidio, eh! Va bene, mi ricorderò di te.»

Mi voltai, nascondendo un sorriso e mi avviai verso la mia camera, seguita dal risolino divertito di mia sorella. Una volta di sopra misi un abito da passeggio giallo ornato con nastrini di raso nero, completo di cappello a tesa molto larga per ripararmi dal sole. Presi il libro e uscii di casa. Silam si alzò, pronto a seguirmi, ma lo fermai.

«No Silam, non puoi venire con me, spaventeresti l’intero Presidio. Fai il bravo, torno tra poco.»

Lo salutai voltandomi e mi avviai lungo il viale. Il sole era caldo ma spirava una lieve brezza che rendeva più sopportabile la temperatura. Papà aveva detto che verso la fine del mese era possibile iniziasse a rinfrescare.

Persa nei miei pensieri mi accorsi appena di aver varcato il cancello della Residenza. In giro non c’era quasi nessuno. Mi misi a giocherellare con la copertina del libro e finii, inevitabilmente, per aprirlo e mettermi a leggere. Amavo l’Enrico V e ne conoscevo molte parti a memoria. Non era molto educato leggere camminando e non era neppure consigliabile, comunque continuai. Fu così che andai a sbattere contro qualcuno e mi ritrovai per terra.

«Perdonate, signorina.» si scusò una voce maschile «Avevo la testa altrove e non vi ho vista.»

«No, prego, è colpa mia.» dissi «Mi sono messa a leggere e così…»

Intanto una mano guantata di bianco mi aveva premurosamente aiutata ad alzarmi, scrollai il vestito.

«Il vostro libro.» disse lo sconosciuto porgendomelo.

Lo presi, alzai lo sguardo e mi trovai a fissare due occhi verdi sorridenti e un bel viso. Mi accorsi che il giovane era in divisa e visti i gradi sulla manica: «Grazie, capitano…?»

«Oh perdonate, sono il capitano Preston, Alexander Preston.» si presentò.

«Io sono Marina Shallowford.»

«Shallowford? Siete per caso parente del colonnello Damien Shallowford, comandante del Presidio?»

«Sono sua figlia.»

«Sapreste dirmi dove posso trovare vostro padre, milady? Sono appena arrivato da Calcutta e devo presentarmi a rapporto.»

«Mi era parso di non avervi mai visto. Vedete quell’edificio a destra?» gli indicai «Quello è il Comando Militare, mio padre dovrebbe essere là.»

«Grazie milady.»

«Vi prego,» lo interruppi «chiamatemi semplicemente Marina, è così che preferisco facciano gli amici.»

«Allora grazie Marina, siete stata molto gentile e scusatemi ancora per prima.»

«Non c’è nulla da scusare, è stata anche colpa mia. Arrivederci capitano…»

«Alexander.» mi corresse.

Sorrisi «Arrivederci Alexander.» a quel punto mi diressi verso la biblioteca.

Sulla strada del ritorno incontrai nuovamente il capitano.

«Salve!» lo salutai «Avete fatto presto a parlare con mio padre!»

Scosse la testa «Non c’era. Hanno detto di tornare per le diciotto perché è probabile che rientri per quell’ora.»

«Ciò significa che questa sera arriverà a casa più tardi del solito.» sospirai «E io che speravo che qui in India avrebbe trascorso più tempo con noi…»

«Mi spiace. Stavate tornando a casa?»

«Sì.»

«Se permettete vorrei avere l’onore di accompagnarvi per un tratto.»

«Con piacere.»

Ci avviammo per le strade assolate del Presidio.

«Siete in India da molto tempo?» gli chiesi.

«No, solo da due settimane. Sono sbarcato a Calcutta e il Comando di Guarnigione mi ha destinato qui a Lucknow. E voi?»

«Noi siamo sbarcati a Bombay ai primi di settembre, ma siamo arrivati qui solo all’inizio di ottobre.»

«Vi piace l’India?» mi chiese.

«Sì, immensamente! Non pensavo si potesse conoscere così poco una terra ma, allo stesso tempo, amarla così tanto. Mi prenderete per matta sentendomi parlare così.»

«Al contrario, vi capisco. Sono rimasto molto affascinato da ciò che ho visto finora. L’India è una terra che ha molto da raccontare.»

«Avete ragione. Quando Umi narra qualche leggenda resto sempre incantata ad ascoltarla.»

«Chi è Umi?» chiese.

«È la mia governante, da che ero piccola. È un po’ come se fosse una seconda mamma per me. Le voglio molto bene.»

«Si vede, mentre ne parlate avete un sorriso molto dolce.»

Sorrisi. In quel momento Alexander si fermò e portò la mano all’elsa della spada che aveva al fianco.

«Mio Dio!» esclamò impallidendo.

Seguii il suo sguardo e vidi Silam correrci incontro. Posai una mano sul braccio del capitano.

«Non preoccupatevi.» gli dissi, mi inginocchiai e tesi una mano «Vieni Silam!» chiamai.

Quando la tigre mi raggiunse gli accarezzai la testa.

«Disubbidiente! Ti avevo detto di restare a casa.» gli dissi rialzandomi.

Mi rivolsi al capitano:

«Potete rilassarvi, Alexander. Questo è Silam, la mia personalissima guardia del corpo.»

«Deve essere funzionale, sfido chiunque ad avvicinarsi a voi con una belva simile al fianco!»

Sorrise poi posò una mano sulla testa di Silam che lo stava annusando. La tigre gorgogliò un po’ poi si sedette.

«Gli siete simpatico.» lo informai.

«Non sapete quanto mi renda felice questa notizia!»

Notando la sua espressione mi misi a ridere. Quando mi fui calmata mi resi conto che, parlando, avevamo superato il cancello e che ormai eravamo in vista della casa. Se ne accorse anche lui.

«Perdonate, Marina, ma devo lasciarvi o arriverò tardi al Comando.» disse consultando l’orologio.

«Non preoccupatevi, andate pure. Spero di rivedervi, qualche volta.»

«Lo spero anch’io. Arrivederci.»

«Arrivederci Alexander.»

Dopo un lieve inchino lui si girò. Lo guardai allontanarsi. Era un bel ragazzo, alto, con i capelli castano scuro e gli occhi verdi, inoltre la divisa contribuiva a renderlo ancor più affascinante. Quando scomparve alla mia vista mi voltai e, chiamata la tigre, mi avviai verso casa.

 

Più tardi, quella sera, dopo aver messo la camicia da notte e la vestaglia presi carta, penna e una lampada a olio e uscii sulla terrazza. Il sole era tramontato, ma il cielo era illuminato da centinaia di stelle e in alto una piccola falce di luna irradiava una luce perlacea ed eterea. Rimasi incantata da quello spettacolo. Riscossami sedetti per terra, usando una delle panche come tavolo appoggiai la lampada e mi misi a scrivere a Miranda. Dopo un po’ mi giunse il ben noto profumo del tabacco da pipa di mio padre.

«Buona sera, cara.» mi disse avvicinandosi.

Si sedette sul sedile di pietra accanto al lume e si mise a guardare in alto. Lo sentii sospirare e alzai gli occhi dal foglio. Mi piaceva il profumo della pipa, mi dava un senso di sicurezza, di casa.

«Quante stelle.» mormorò «Mi mancava questo spettacolo in Inghilterra, non se ne vedono così tante là.»

Ripresi a scrivere ben sapendo che non aspettava risposta, poiché altre parole avrebbero solo disturbato. Finii la lettera, abbassai la fiamma della lampada e mi sedetti accanto a mio padre. Rimasi a osservare il cielo cercando di individuare le costellazioni che lui mi aveva insegnato a riconoscere. Il frinire dei grilli e il gracidare delle rane accompagnavano i miei pensieri. Era passato poco più di un mese dal nostro arrivo in India, ma a me sembrava di non aver mai vissuto altrove. L’Inghilterra e tutte le persone che conoscevo non erano, nella mia mente, che immagini sbiadite, sostituite dai fulgidi colori di quella terra. L’onnipresente profumo del gelsomino mi dava alla testa, l’India mi era entrata nel sangue poco a poco, come una droga della quale ormai non potevo e non volevo più fare a meno. Sentivo che se me ne fossi dovuta andare non sarei sopravvissuta al distacco. Era parte di me come lo erano la mia anima e il mio cuore e io ero parte di lei. Sarei stata persa se me ne fossi andata così come un fiore strappato alla sua pianta appassisce e muore.

Quei pensieri mi spaventarono un poco, così mi feci più vicina a mio padre e appoggiai il capo sulla sua spalla per trarne come sempre conforto e sicurezza. Era tardi, lo sapevo, ma ero restia ad allontanarmi da quella pace, non avevo voglia di coricarmi, non ancora. Così restai lì, ascoltando i rumori della notte e contando le stelle. Quante ce n’erano!

Luminose come non ne avevo mai viste, splendevano sul velluto scuro del cielo cantando una melodia che era udibile solo dal cuore e alla quale il cuore rispondeva con pari dolcezza.

Mi sentii felice.

Dopo un po’ papà mi scostò gentilmente. Si alzò e dopo avermi dato un bacio sulla fronte si ritirò, così presa la lampada, rientrai in camera e mi coricai. Qualcuno aveva acceso un bastoncino di incenso sul mio tavolino da notte e il dolce profumo pervadeva la stanza. Sentivo il respiro regolare di Silam che dormiva ai piedi del letto. Sospirai ripensando agli avvenimenti dell’ultimo mese, a volte faticavo a convincermi che ciò che era accaduto non era un sogno. Sospirai nuovamente e chiusi gli occhi lasciandomi cullare dai suoni notturni e, piano piano, scivolai nel sonno.

 

La mattina dopo, quando scesi per fare colazione, scoprii che Elisa era già uscita con Umi. Più tardi, quando rientrarono, quest’ultima mi raccontò che mia sorella si era svegliata presto e aveva deciso di esplorare la città così, uscita dal Presidio, si era avventurata per le vie insieme a lei. Era rimasta affascinata dalla varietà di aspetti che Lucknow presentava: le vie gremite di persone diverse per casta e religione che tuttavia così bene convivevano; le umili case con i muri di argilla pressata, i palazzi di mattoni rivestiti di marmo intagliato così finemente da renderlo sottile e trasparente come pizzo delicato, i giardini con le piante in fiore e le voliere che ospitavano le più strane varietà di uccelli e la vita, pulsante e inarrestabile, che si respirava nell’aria. Avevano camminato a lungo e alla fine si erano ritrovate sulle rive del fiume Gomati, affluente del Gange. Le sue acque, di un intenso color verde, erano solcate da ogni sorta di imbarcazione. Seguendo il corso del fiume, in una delle strade perpendicolari, avevano visto un bazaar., così vi erano entrate. Durante i mesi di viaggio le avevo insegnato l'hindi così Elisa non aveva avuto alcuna difficoltà a capire ciò che si diceva intorno a lei. C’erano mercanzie di ogni sorta: piramidi di frutta si innalzavano da stuoie stese per terra, ceste di fiori multicolori spandevano fragranze che andavano a mischiarsi con quelle delle spezie e del cibo appena cotto. Più avanti lo sguardo veniva rapito da stoffe dai delicati disegni ora geometrici ora floreali, vi erano gioiellieri che dimostravano la loro abilità cesellando i loro pezzi all’aperto, di modo che i passanti potessero fermarsi a osservare. A un certo punto si era fermata a guardare un banco sul quale erano esposti piccoli oggetti d’avorio e d’argento, gioielli e pugnali. Fu proprio uno di questi ultimi ad attirarla. Era un piccolo pugnale con la lama d’acciaio intarsiata d’oro rosso, mentre l’impugnatura e la guaina erano d’avorio intagliato. Aveva allungato un braccio per prenderlo, ma contemporaneamente un’altra mano si era posata sull’oggetto. Elisa aveva alzato gli occhi con la fronte aggrottata e aveva incontrato lo sguardo di un giovane in divisa. Se il pomeriggio precedente fosse uscita con me avrebbe riconosciuto in quel militare il capitano Preston, ma così non fu. Si erano fronteggiati un attimo, poi Alexander aveva lasciato la presa facendo un passo indietro. Un piccolo sorriso di trionfo era spuntato sulle labbra di mia sorella che contrattò il prezzo del pugnale col mercante e, pagatolo, si era allontanata senza più voltarsi. Umi, che era rimasta un po’ distante da lei, aveva visto il capitano scrollare le spalle e scuotere la testa sorridendo, poi si era affrettata a seguirla.

Rientrarono verso le dodici e dopo pranzo mia sorella decise di andare al Comando, da papà, per fargli vedere il suo acquisto. Quando se ne fu andata mi diressi verso la biblioteca ma prima che potessi entrarvi la mamma mi chiamò:

«Marina, mi faresti una cortesia?» chiese mostrandomi un plico «Mi sono accorta che tuo padre, questa mattina, ha lasciato qui questo fascicolo. Doveva lavorarci oggi: potresti portarglielo?»

«Va bene, mi cambio e vado.»

Nel frattempo mia sorella era arrivata al Comando Militare e, senza aspettare di essere annunciata, si diresse nell’ufficio di nostro padre ed entrò sguainando il pugnale. Stava per richiamare l’attenzione di papà sull’oggetto quando qualcuno la bloccò da dietro, passandole un braccio intorno alla vita, mentre una mano forte si stringeva attorno al suo polso destro.

«Non fate sciocchezze, signorina. Lasciate andare il pugnale!» le ordinò una voce perentoria.

Troppo scioccata per dire o fare qualcosa rimase immobile. Si era svolto tutto così velocemente che neppure papà era riuscito a reagire, ma in quel momento si alzò dalla scrivania con un’espressione incredula sul volto.

«Capitano Preston! Lasciate subito andare mia figlia!» ordinò.

Alexander mollò immediatamente la presa. Ripresasi dallo shock iniziale Elisa si voltò lentamente, rossa in viso per l’indignazione e nel silenzio che era calato sulla stanza risuonò lo schiocco secco di uno schiaffo. Il capitano fece un passo indietro portandosi una mano alla guancia sinistra, mentre mia sorella usciva dall’ufficio. Alexander si rivolse a papà:

«Perdonate, colonnello. Io non sapevo… È entrata così… Aveva un pugnale… Se volete scusarmi un momento credo di dover porgere le mie scuse a vostra figlia immediatamente.»

Al cenno di assenso del suo superiore scattò nel saluto poi si girò e seguì mia sorella.

Io ero quasi arrivata al Comando quando ne vidi uscire Elisa. Era furente. Quando mi passò accanto la fermai, ma prima che potessi chiederle qualcosa proruppe furiosa: «Non sono mai stata insultata tanto! Giuro che se mi ricapita davanti, questo lo uso su di lui!» concluse mostrandomi il pugnale che stringeva ancora.

Poi si voltò e si diresse verso casa. Mi avviai nuovamente verso il Comando, chiedendomi cosa le fosse successo e, quasi sulle scale della veranda, fui investita dal capitano.

«Alexander, cosa vi è successo?» gli domandai notando l’impronta rossa sul suo viso.

«Marina, credo di aver commesso un errore imperdonabile!» esclamò.

Mi narrò l’accaduto. Man mano che il racconto andava avanti dovetti fare uno sforzo per non ridere, ma alla fine non riuscii a trattenermi.

«Perdonatemi Alexander.» gli dissi quando mi fui calmata «Non sto ridendo di voi, sia chiaro, ma se ci pensate un attimo troverete che il tutto risulta molto comico.»

Accennò un sorriso «Forse avete ragione, Marina, ma ora devo raggiungere vostra sorella e scusarmi.»

Fece per muoversi ma lo fermai.

«Aspettate, è meglio lasciarla in pace finché non si sarà calmata. In questo momento nutre verso di voi propositi omicidi.» dissi e gli riferii ciò che Elisa mi aveva detto poco prima «Stavo andando da mio padre,» proseguii «accompagnatemi, volete? Quando tornerò a casa parlerò a mia sorella, le spiegherò che è stato tutto un equivoco e farò in modo che vi incontriate, così voi potrete scusarvi. Venite.»

«Va bene, grazie Marina.»

Così dicendo mi porse il braccio e ci avviammo verso il Comando.

«Ciao papà,» salutai entrando nell’ufficio di mio padre «ti ho portato questo fascicolo, mamma ha pensato che potesse servirti.» così dicendo posai il plico sulla scrivania «Alexander mi ha raccontato ciò che è successo.»

«Alexander?! Ma… vi conoscete, voi due?» mi chiese.

«Ci siamo incontrati ieri.» risposi.

«Più che altro scontrati.» intervenne il capitano all’occhiata interrogativa del suo superiore «Io ero soprappensiero e vostra figlia stava leggendo, così non ci siamo visti finché non siamo andati a sbattere l’uno contro l’altra.» concluse.

«Si direbbe, capitano, che abbiate conosciuto entrambe le mie figlie in modo assai insolito.» constatò papà con una nota ironica nella voce.

Il povero capitano arrossì e abbassò gli occhi. Per non creargli altro imbarazzo salutai i due uomini e me ne andai.

Sulla strada del ritorno cercai di escogitare il modo più delicato possibile per perorare la causa di Alexander con Elisa. Non l’avevo mai vista così alterata e temevo che tornare sulla faccenda troppo presto potesse compromettere, anziché aiutare, un possibile dialogo fra lei e il capitano. Sospirai ripensando al racconto di Alexander e sorrisi nuovamente al lato comico della situazione. Scrollai le spalle, meglio lasciar cadere l’argomento per quel giorno. Però…

«Mi sarebbe piaciuto vedere la scena!» esclamai a voce alta.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

 

 

«No! Non se ne parla!» esclamò Elisa.

Era pomeriggio e io mi trovavo in biblioteca con mia sorella, stavo cercando di convincerla a dimenticare l’incidente del giorno prima e a incontrare Alexander.

«Calmati, per favore. Torna a sedere.» le dissi, attesi finché non si accomodò nuovamente sulla poltrona, poi ripresi «Elisa, ragiona un attimo, ti ha vista entrare senza essere annunciata, con un pugnale in mano, ha reagito per proteggere papà. Dovresti essergli grata per quello che ha fatto. Se al tuo posto fosse entrato un attentatore avrebbe salvato la vita a nostro padre. Guardala da questo lato, non intendeva offenderti, ma salvare il suo superiore. Incontralo e concedigli di scusarsi, era davvero mortificato per quello che è successo.» le andai vicino e le presi una mano «Per favore, Elisa. Fallo per me.»

Alzò gli occhi e mi guardò, notando il mio sguardo di supplica alla fine cedette:

«Oh d’accordo! Lo incontrerò e accetterò le sue scuse, dopo di che non lo voglio più vedere!»

Sorrisi e le diedi un bacio sulla guancia poi chiamai un servitore e lo spedii al Presidio con l’ordine di trovare il capitano Preston e invitarlo per il tè. Quindi trascinai mia sorella in camera sua, decisa a trovare un vestito adatto all’occasione. La scelta cadde su un fresco abito verde bosco che si intonava con i suoi occhi. Il corpino, non troppo scollato, aveva le maniche a sbuffo e la gonna cadeva a terra in tre balze vaporose. Aiutai Elisa a cambiarsi, poi la feci sedere alla petineuse e iniziai a intrecciarle i capelli con nastrini intonati all’abito. Ignorando la sua espressione imbronciata, riflessa dallo specchio, lavorai per una mezz’ora, finché non fui soddisfatta del risultato. Per risollevarle il morale le feci mettere qualche goccia del suo profumo preferito e quando si alzò, feci un passo indietro per controllare l’insieme: era incantevole.

«Non capisco perché hai voluto che mi cambiassi. Potevo riceverlo benissimo così come ero.» sbuffò.

Mi limitai a sorriderle, poi la precedetti e scesi di sotto.

Trovai il capitano in salotto intento a guardare fuori dalla finestra. Davanti alla porta c’era Silam, quando entrai nella stanza alzò la testa poi tornò a dormire.

«Buon pomeriggio, Alexander.» salutai.

Il capitano si voltò e mi sorrise.

«Salve Marina. Grazie per avermi invitato.»

In quel momento entrò mia sorella e si fermò accanto a me. Una scintilla di interesse si accese negli occhi del capitano quando la vide e un lieve rossore colorì le guance di Elisa mentre lo salutava. Scusatami, uscii per fare una passeggiata con Silam. Allontanandomi sorrisi.

“Bene, bisognerà invitare a cena il capitano, una di queste sere” pensai mentre il mio sorriso si allargava.

Rientrai un’ora dopo e trovai il capitano che si stava accomiatando.

«Ve ne andate già?» chiesi.

«Sì, Marina. Si sta facendo tardi e fra poco devo essere a rapporto al Presidio.» si rivolse poi a mia sorella «Lady Elisa vi ringrazio per avermi ricevuto, spero vivamente che l’incidente di ieri non pregiudichi una nostra futura amicizia. Arrivederci.»

Dopo un lieve inchino rivolto a tutte e due si voltò e si allontanò a passo sostenuto.

«È simpatico, non trovi?» le chiesi.

«Sì, abbastanza, ma non ho intenzione di rivederlo.»

«Ma come, se ti ha anche detto che spera che diventiate amici!»

«L’ha detto per cortesia, ne sono sicura, non lo pensava veramente.» si voltò «Vado in camera.» mi comunicò allontanandosi.

La guardai uscire dal salotto e scossi la testa. Avrei dovuto fare qualcosa per farle cambiare idea, ma prima mi sarei informata su Alexander: era capitano e questo era un grado più che rispettabile ma non bastava. Preston era un nome importante, rimaneva da verificare se lui apparteneva al casato. Speravo di sì, non mi era sfuggito il loro reciproco interesse e, anche se Elisa insisteva nel dire di non volerlo più incontrare, io non disperavo L’orologio sul camino batté le cinque. Mamma era andata in città e sarebbe rientrata tardi. Quando era partita, nel pomeriggio, le avevo promesso che mi sarei occupata io della cena così andai in cucina per dare disposizioni.

Intenta a impastare sul grande piano da lavoro c’era Bettine. Le andai vicino facendo attenzione a non disturbarla. Alzò gli occhi dal tavolo per salutarmi poi si rimise al lavoro. Nonostante la sua promozione a governante la sua passione e il suo regno era sempre la cucina. Fin dall’inizio le cuoche della Residenza avevano capito che in quell’ambiente avrebbe comandato lei e l’avevano accettata di buon grado, data la sua bravura. Notando gli altri ingredienti sul tavolo, indovinai che quella sera avremmo avuto il piatto preferito della mamma: lasagne al forno. Visto che il primo era sistemato, mi dedicai al secondo e ai contorni. Indossato un ampio grembiule che copriva interamente il vestito mi misi all’opera, decisi che quella sera il menù sarebbe stato tutto italiano: stufato di capra con fagioli, purea di patate, verdure ai ferri con salsa di ribes e, per finire, crostata di frutta.

Verso le sette e mezza sentii rientrare la mamma e le andai incontro per salutarla, poi salii in camera per cambiarmi poiché papà sarebbe arrivato a momenti.

Quella sera, dopo cena, quando ormai era buio uscii sulla terrazza. Silam fece tutto il giro poi si sdraiò accanto al sedile su cui mi ero seduta. Sentii che l’aria era più fresca sul mio viso, entro poco più di una settimana sarebbe iniziato novembre. Il Natale si avvicinava. Era strano pensare alle feste natalizie quando alla sera il termometro sfiorava i venticinque gradi. Chiusi gli occhi cercando di vedere la campagna inglese coperta da una candida coltre di neve, ma non ci riuscii. Al posto di questa visione ne apparve un’altra: quella di prati verdi costellati di fiori, di palazzi da mille e una notte e torrenti cristallini. Appoggiai la schiena alla balaustra per assaporare le immagini che si susseguivano nella mia mente. Un rumore mi riscosse, aprii gli occhi e vidi un lume acceso in camera di Elisa. Durante tutta la sera era stata molto silenziosa anche se me ne ero accorta solo io. Pensai di andarla a chiamare perché godesse anche lei di quella pace, ma vidi la luce spegnersi, così non mi mossi. Sentii dei passi sotto la terrazza e mi sporsi, all’inizio non vidi nessuno, poi individuai un’ombra che camminava vicino al muro.

«Patal!» chiamai a bassa voce.

Lui alzò la testa e, vedendomi, accennò un saluto, al quale risposi, quindi riprese il suo giro di controllo. Sedetti nuovamente e alzai gli occhi. In quel momento una stella cadente attraversò il cielo. Era raro vederle in quella stagione perciò mi affrettai a esprimere un desiderio, convinta che si sarebbe avverato. Appena mi resi conto di ciò che avevo chiesto, però, arrossii. Come desiderio avevo espresso solo un nome: Paul. Mi portai una mano al petto e sentii il cuore battere forte contro il costato come se avesse deciso di uscirne. Ero stanca, decisi, solo stanca. Così mi alzai, chiamai la tigre e mi ritirai.

 

Nei giorni che seguirono finii assieme a Elisa il lavoro nella biblioteca. Decisi di non toccare per un po’ l’argomento di Alexander, ma spiavo le sue reazioni quando a volte papà lo nominava. Due settimane dopo il loro incontro, di mattina scesi al Presidio per parlare con lui. Dopo che l’attendente mi ebbe fatto entrare nel suo ufficio ed ebbe chiuso la porta dietro di sé, mi sedetti salutando papà.

«Sono venuta per parlarti,» esordii «ho preferito farlo qui perché a casa qualcuno potrebbe sentirci…» mi interruppi.

«Avanti, cara. Cosa succede?»

«Papà, come ti sembra Alexander?»

Parve sorpreso dalla mia domanda.

«Beh, è un bravo ragazzo, molto scrupoloso e diligente nel suo dovere, il suo stato di servizio è eccellente. È anche intelligente, molto acuto.»

«Mmh, lo fai sembrare terribilmente noioso! Ma non è questo che volevo sapere, ciò che mi interessa è: chi è la sua famiglia, quale gradino sociale occupa?»

«Suo padre è lord Lucas Preston, il conte di St. John Manor. La cosa curiosa è che Alexander è il suo figlio maggiore ed erede…»

«E cosa ci fa nell’esercito?» lo interruppi.

«Gliel’ho chiesto anch’io, mi ha risposto che finché suo padre è in grado di amministrare i beni di famiglia senza di lui, vuole girare il mondo, ma lo vuole fare in modo utile alla sua patria, così con l’approvazione dei genitori, sette anni fa si è arruolato.»

«Ammirevole. L’erede di St. John Manor… Questo fa di lui un ottimo partito…»

«Marina, stai per caso cercando di dirmi che ti piacerebbe averlo come fidanzato?»

Arrossii «No papà! Non per me, per Elisa. Sarebbero una bella coppia.»

«Per Elisa? Con quello che è successo?» esclamò.

«Non guardarmi così. So che le premesse non sono state delle migliori, ma quando si sono incontrati ho notato un reciproco interesse, anche se mia sorella non lo ammetterà mai. Ma penso che si possa fare qualcosa…»

«Dunque hai già un piano d’azione. Peccato che tu non sia un maschio, l’esercito ha perso un buon elemento: sei acuta e tempestiva, doti indispensabili a uno stratega.»

Gli sorrisi. Detta da lui una frase del genere era un vero complimento.

«Non ti dispiace, vero? Voglio dire, non è che ritieni che Alexander non sia adatto a Elisa?»

«Al contrario, Marina. Attua pure il tuo piano e speriamo che vada in porto. Hai il mio appoggio.»

Mi alzai, girai intorno alla scrivania e gli diedi un bacio sulla guancia.

«Grazie. Ora vado. Vuoi che ti mandi un cestino per il pranzo?»

«No cara, non ti preoccupare. Mangerò al circolo ufficiali.»

«Va bene, a questa sera papà.»

«Buona giornata, cara.»

Uscii all’aperto e guardai l’orologio sulla facciata dell’edificio: era ancora abbastanza presto, così decisi di fare due passi per pensare alla prima mossa attuabile. Papà era dalla mia parte e questo era molto importante per me. Giunta nella piazza del Presidio alzai gli occhi e vidi una bacheca attaccata al muro di un edificio. Ma certo! Il calendario degli impegni! In quella bacheca venivano affissi tutti gli ordini e gli impegni di ogni ufficiale per il mese in corso. Mi avvicinai sperando di trovare un ordine che mettesse Alexander in servizio in qualche luogo dove potessi andare con Elisa come, per esempio, il mercato. Trovato il suo nome scorsi velocemente i suoi ordini. Niente! Sospirai, dovevo fare in modo che si incontrassero per caso, altrimenti avrei scoperto il mio gioco. Stavo per voltarmi quando vidi un foglio che annunciava l’annuale partita di polo fra gli ufficiali e i civili. Quell’anno papà avrebbe capitanato per la prima volta la squadra degli ufficiali. Guardai la lista dei componenti e trovai il nome di Alexander: perfetto! Quale occasione migliore di una partita di polo per mostrare a mia sorella le doti di cavaliere del capitano? Ero certa che fosse un buon cavaliere perché altrimenti papà non l’avrebbe messo in squadra. Non avrei avuto problemi a convincere Elisa ad andare a vedere la partita, poiché papà giocava e quello sport le piaceva. Ora che sapevo che cosa fare, mi voltai e tornai a casa.

Ero ormai arrivata davanti alla Residenza, quando sentii un rumore di zoccoli dietro di me. Mi voltai e vidi arrivare il maggiore O’Brian, dietro di lui uno stalliere conduceva una giumenta grigia pomellata, mentre altri due faticavano a tenere uno stallone nero, che era stato bendato perché camminasse senza creare problemi, anche se l’espediente non sembrava funzionare. Il maggiore mi salutò e mi informò che i due cavalli erano un dono per mia sorella e per me.

«Da parte di chi?» gli chiesi.

«Coloro che li hanno portati hanno detto che in questa lettera è spiegato tutto.» rispose consegnandomi una busta.

Apertala ne scorsi velocemente il contenuto:

 

 

“Alle figlie di lord Shallowford,

non avendo dimenticato il nostro

breve incontro a Bombay, rientrato ad Agra,

ho deciso di mandarvi in dono, quale gesto

di amicizia, la migliore giumenta del mio

allevamento e il mio stallone preferito. Lei

si chiama Nilak e lui Hira Kala. Con la viva

speranza che li gradiate e la promessa di

rivederci vi porgo i migliori saluti.

Sardar Singh.”

 

Finito di leggere alzai incredula gli occhi su quelle magnifiche creature. Quei due cavalli ora appartenevano a Elisa e me! Riscossami notai la crescente agitazione dello stallone così feci segno agli stallieri di seguirmi e assieme al maggiore mi diressi verso le scuderie. Queste si trovavano sul retro della casa al di là di un folto d’alberi. Oltre ai box c’erano alcuni recinti, uno dei quali costruito appositamente per ospitare uno stallone. Immaginai che i cavalli avessero bisogno di scaricarsi dopo il viaggio così ordinai di liberarli nei recinti e di portar loro foraggio e acqua fresca. Non appena gli fu tolta la benda Hira Kala iniziò a impennarsi e a scalciare. Lo stalliere che lo aveva portato dentro, corse terrorizzato all’esterno e chiuse la porta, poi mi venne vicino.

«Non fidatevi di lui, missy sahib, quell’animale ha un demone dentro. Anche sua Altezza faticava a tenerlo, infatti l’ha montato poche volte.» mi disse.

Lo ringraziai della premura.

«Quanti anni ha?» gli chiesi poi indicando il cavallo.

«Quasi sei missy sahib. La giumenta è più docile e ha la stessa età.»

«Sei uno stalliere del Raja Sardar Singh?»

«Sì, missy sahib.»

«Allora quando arriverai ad Agra ringrazia sua Altezza da parte mia e di mia sorella, digli che sono un regalo meraviglioso e che spero di vederlo presto per poterlo ringraziare di persona.»

Così dicendo lo congedai e lui, dopo un inchino, si allontanò con i suoi due compagni. Mi voltai nuovamente a guardare i due animali, il maschio si era calmato e ora stava mangiando tranquillamente. Il maggiore si congedò dicendomi che doveva tornare al suo lavoro, così salutatami se ne andò. Rimasta sola mi avvicinai al recinto di Hira Kala e, trattenendo le gonne con una mano, mi arrampicai sullo steccato sedendomi sulla traversa più alta. Il cavallo alzò la testa e mi guardò. Rimanemmo così, occhi negli occhi per un po’. Sentivo una strana affinità con quella creatura e dentro di me capii che ciò che aveva detto lo stalliere non era vero: quel cavallo non era posseduto, ma aveva uno spirito indomito e libero, di quella libertà di cui può godere solo chi sa di non avere padroni e così come la tigre può concedere la sua amicizia, ma non sottomettersi come fa il cane, Hira Kala era indomabile ma non inavvicinabile. Mi fidai di lui istintivamente. In quel momento nacque in me la consapevolezza di aver trovato un nuovo amico e mi ripromisi di esserne all’altezza. Gli sorrisi e lui emise dalle nari un suono palpitante. Quando si rimise a mangiare scesi a terra corsi a casa per chiamare Elisa e la trascinai verso le scuderie, senza darle spiegazioni. Arrivate ai paddocks rimase a guardare i cavalli con gli occhi spalancati poi, riscossasi, si voltò verso di me.

«Da dove…»

«Ricordi il Raja Sardar Singh che abbiamo conosciuto a Bombay? Sono un suo regalo.» le dissi.

Si avvicinò al recinto della giumenta «Com’è bella! Mi sono sempre piaciuti i cavalli di questo colore.»

Si voltò verso di me con una muta domanda negli occhi.

Le sorrisi «Si chiama Nilak, che in persiano significa “fiore di lillà”, sono sicura che andrete d’accordo.»

Mi restituì il sorriso. Non sapeva che in realtà io ero più felice di lei poiché se avesse scelto lo stallone non avrei saputo cosa fare. Era un segno del destino. Quel cavallo doveva essere mio, senza ombra di dubbio.

«E lo stallone? Come si chiama?» chiese.

«Hira Kala che in hindi vuol dire “diamante nero”. Gli stallieri che lo hanno portato hanno detto che è posseduto da un demone, ma io invece credo che non siano riusciti a prenderlo per il verso giusto. Bene, ora potremo visitare la campagna intorno alla città.»

«Sì, mi mancavano le nostre passeggiate a cavallo.» mi rispose.

Rimanemmo ancora un po’ a guardare i due animali, poi rientrammo.

Dal giorno seguente passai molto tempo alle scuderie. Avevo deciso che mi sarei occupata prevalentemente io del mio cavallo, poiché dovevamo imparare a conoscerci. A ogni giorno che passava la nostra amicizia diventava più salda e ben presto si lasciò sellare. La prima volta che ciò accadde ero molto emozionata. Gli misi una sella da uomo perché avevo deciso che non l’avrei montato all’amazzone ma a cavalcioni, come mi aveva insegnato anni prima Patal. Qualche giorno prima, al bazaar, avevo comprato un costume indiano dotato di ampi pantaloni e, indossatolo, montai in sella. Ero all’interno del suo recinto; feci due giri al passo poi lo spinsi al trotto quindi al piccolo galoppo. Era magnifico! Rispondeva meravigliosamente ai miei comandi, bastava spostare appena il peso o fare una lieve pressione con una gamba perché lui facesse ciò che volevo. Sentivo la sua energia e la sua voglia di andare, così chiesi allo stalliere di aprire il recinto e uscii. Elisa, all’amazzone in sella a Nilak, mi si affiancò. Al trotto passammo accanto alla casa e imboccammo il viale. Sentii arrivare un cavallo al galoppo e mi voltai. Patal, in sella al suo cavallo, mi fece segno di aspettarlo e dopo averci raggiunte ci sgridò per non averlo avvisato della nostra intenzione di uscire. Noi gli chiedemmo scusa poi riprendemmo la cavalcata. Fuori dal presidio dovemmo rallentare l’andatura poiché c’era molta gente per strada. Quando finalmente arrivammo alla periferia, ci inoltrammo nella campagna, lasciandoci la città alle spalle. Appena la strada fu totalmente sgombra decisi di fare sfogare Hira Kala, così avvertiti i miei compagni lo lanciai al galoppo. Per consentirgli maggiore libertà, mi sollevai un poco sulle staffe piegandomi sul suo collo. Galoppammo a lungo, distanziando ben presto gli altri due. Le energie del cavallo sembravano inesauribili, tanto che dovetti fermarlo per riprendere fiato. Aspettai che Elisa e Patal mi raggiungessero, poi riprendemmo il giro al passo. Ormai eravamo a novembre ma i colori della natura erano ancora fulgidi e intatti. Dopo circa un’ora vedemmo arrivare in lontananza un gruppo di cavalieri e quando furono più vicini vedemmo che erano in divisa.

Guardai il primo: «È papà!» esclamai e dopo un cenno d’intesa con mia sorella ripartimmo al galoppo per andargli incontro.

Quando gli fummo vicine fermammo le nostre cavalcature e ci affiancammo a lui. Papà ci salutò poi mi guardò e, vedendo la mia tenuta, alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Elisa si mise a ridere mentre io mi voltai dall’altra parte fingendomi offesa. Mi si affiancò il maggiore O’Brian.

«Devo dire, lady Marina, che mi stupite. Quando l’hanno portato» continuò indicando Hira Kala «dovevano tenerlo in due, bendato, e voi in meno di due settimane lo avete domato.»

«Vi sbagliate, maggiore, non l’ho domato, ho solo stretto un patto di amicizia con lui.» fu la mia risposta.

La cavalcata verso la città fu piacevole. Entrammo in Lucknow al tramonto e, giunti al Presidio, papà spedì Elisa e me con Patal a casa perché ci cambiassimo per la cena. Ci disse che lui sarebbe arrivato entro mezz’ora.

Quella notte faticai a prendere sonno, tanta era la mia gioia. Quando mi ero ritirata mi ero seduta per terra con Silam al fianco e gli avevo raccontato ciò che era successo e da come mi guardava sembrava quasi che capisse le mie parole. Nei giorni passati lui e il cavallo avevano stretto un rapporto se non proprio di amicizia, almeno di rispetto e accettazione reciproca, e questo mi rendeva felice. Andava tutto bene. L’India aveva mantenuto la promessa occulta di felicità che mi aveva fatto il giorno in cui, undici anni prima, avevo scoperto la sua esistenza.

O forse no?

 

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Capitolo 12
*** Capitolo X ***


Capitolo X

 

 

Il 25 di novembre, l’ultima domenica del mese, si svolse l’annuale partita di polo nella piana a est di Lucknow. La squadra degli ufficiali era composta, oltre che da papà e da Alexander, anche dal maggiore O’Brian e da un tenente di nome Daniel Alben. L’inizio della partita era fissato per le dieci, alla fine ci sarebbe stato un picnic e, volendo, si sarebbe potuto ballare, poiché era stata assunta una compagnia di musici. Elisa e io avremmo voluto raggiungere il luogo dell’incontro a cavallo, ma per far contenta la mamma, andammo con lei in carrozza. Dovetti anche lasciare a casa Silam poiché la sua presenza avrebbe innervosito i cavalli e non solo.

Finalmente iniziò la partita. Sin dalle prime battute fu evidente la superiorità della squadra degli ufficiali che passò subito in vantaggio. Quel primo punto subìto, però, sembrò spronare i quattro lord, tre inglesi e uno olandese, della squadra avversaria che divennero molto combattivi. Fu una partita emozionante, giunti all’ottavo e ultimo tempo le due squadre erano in perfetta parità. Pensai che la partita sarebbe finita così, ma nell’ultimo minuto con una manovra ardita Alexander riuscì a impossessarsi della palla e a spedirla fra i pali, segnando così il punto della vittoria. Elisa che aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, acclamò quell’azione, ma il suo “Bravo!” andò perduto tra le grida degli altri spettatori. La guardai e dentro di me sorrisi, congratulandomi per quel primo successo. In quel momento la squadra vincente si allineò sul bordo del campo e la mamma, che era stata nominata madrina, si avvicinò a papà e gli consegnò la coppa, lui la prese e la sollevò in alto mentre i suoi compagni e tutti i presenti applaudivano.

Smontati da cavallo, papà invitò Alexander e il tenente a unirsi a noi per il picnic, così, stesa sull’erba un’ampia coperta all’ombra di un albero, fummo raggiunti dal maggiore O’Brian e signora e iniziammo a mangiare. Io ero seduta tra il tenente Alben e Alexander che aveva di fianco Elisa. Iniziai a parlare con Daniel, così scoprii che non era di Londra, come avevo pensato, ma di York. Parlammo di caccia, di cavalli e inevitabilmente dell’India, spesso la conversazione coinvolgeva anche gli altri. A tratti controllavo come andavano le cose tra il capitano e mia sorella e quando li vidi parlare tranquillamente tra loro, mi voltai verso papà e ci scambiammo un’occhiata d’intesa.

Era una bella giornata, il cielo limpidissimo era solcato da molti uccelli, il cui canto si univa ai suoni melodiosi che i musici traevano dai loro strumenti. Alcune coppie iniziarono a ballare al suono di un valzer e ben presto molte altre si unirono a loro. Quando fu annunciata la quadriglia, Alexander si alzò e porse la mano a Elisa che dopo un attimo di esitazione la prese. Si alzò anche il tenente Alben che mi invitò. Dopo la quadriglia fu la volta di una polka e ancora di un valzer, in breve ballammo tutto il pomeriggio. Alle cinque fu servito il tè così tornammo a sedere sulla coperta e dopo circa un’ora rientrammo a casa.

Più tardi, quella sera, Elisa e io ci sedemmo al tavolo del nostro salottino e insieme scrivemmo a Miranda, raccontandole gli avvenimenti della giornata appena trascorsa. Durante la cena avevamo ottenuto dai nostri genitori il permesso di invitarla a trascorrere qualche giorno da noi, così concludemmo la lettera con l’invito poi, dopo averla sigillata, scesi di sotto per metterla insieme alla posta in partenza. Ritornai di sopra e, salutata mia sorella, entrai in camera. Silam si strusciò contro le mie gonne chiedendomi attenzioni: lo avevo trascurato tutto il giorno, così mi inginocchiai per terra e iniziai ad accarezzarlo. Si sdraiò mostrandomi la pancia, allora gli feci il solletico sotto le zampe anteriori. La tigre prese a rotolarsi poi, all’improvviso, scattò in piedi e d’un balzo uscì sulla terrazza. Incuriosita da quello strano comportamento lo seguii. Avvicinatami stavo per parlargli quando capii cosa lo aveva allarmato: dalle scuderie provenivano dei nitriti. Qualcosa aveva spaventato i cavalli. Senza pensarci un attimo rientrai in camera, uscii di casa seguita da Silam e corsi verso le scuderie. Giunta al folto d’alberi che le nascondeva alla casa vidi che uno dei covoni di fieno era in fiamme e un uomo, con una torcia accesa in mano, si stava avvicinando al fienile. Capii che voleva incendiare anche quello così mi voltai verso la tigre.

«Vai Silam, prendilo!» gli ordinai indicando l’uomo.

Come se non aspettasse altro la tigre si slanciò in avanti, raggiunse l’intruso e lo atterrò emettendo un ruggito di trionfo. Mi diressi allora velocemente verso la campana d’allarme ma prima ancora di raggiungerla vidi arrivate Patal con due guardie. Ordinò a una di vedere che ne era stato dello stalliere e all’altra di aiutarlo a spegnere il fuoco. In quel momento arrivò papà con altri uomini, due dei quali presero in consegna l’intruso immobilizzato da Silam, mentre gli altri aiutavano a spegnere l’incendio che per fortuna non si era ancora propagato alle scuderie. Io mi avvicinai ai box per calmare i cavalli, quindi mi voltai ed emisi un sospiro di sollievo, vedendo le fiamme ormai spente. Papà mi si avvicinò per sapere come mai ero lì a quell’ora, così gli raccontai dello strano comportamento di Silam, dei rumori provenienti da quel luogo e di quello che stava facendo l’intruso.

«Sei stata imprudente, Marina. Avresti dovuto chiamarmi invece di precipitarti qui.» mi rimproverò.

«Mi spiace papà, ma in quel momento ho pensato solo ai cavalli e poi con Silam al fianco non ho nulla da temere.»

«Silam è una buona guardia, è vero, ma prometti che la prossima volta non agirai così sventatamente, se quell’uomo non fosse stato solo…» non finì la frase ma io capii ciò che voleva dire.

«Sinceramente, papà, spero proprio che non ci sia una prossima volta!» gli risposi.

Sorrise e mi abbracciò.

In quel momento una guardia si avvicinò per sapere cosa doveva farne del prigioniero, papà ordinò che fosse condotto al carcere del Presidio e sorvegliato a vista, aggiunse che lui li avrebbe raggiunti appena vestito, quindi ci avviammo verso la casa seguiti dalla tigre. Trovammo la mamma ed Elisa in salotto insieme a Umi, che ci chiesero preoccupate cosa era successo, papà raccontò in breve l’accaduto, poi corse di sopra a cambiarsi. Mamma mi fece sedere su una delle poltroncine e chiese a Umi di andare a preparare un tè caldo poiché, disse, ne avevamo tutti bisogno. Silam si accovacciò ai miei piedi, entrò Patal per sapere se papà era pronto e per informarlo che erano stati convocati il maggiore O’Brian e il notaio della guarnigione per raccogliere la deposizione del prigioniero. Quando scese, papà lo ringraziò e prima di andare gli ordinò di restare a casa, per precauzione disse, poi salutateci si allontanò.

Fu in seguito il maggiore O’Brian a raccontarmi ciò che accadde: arrivato al Presidio papà si diresse subito alle prigioni dove lo accolsero il maggiore e il notaio. Quest’ultimo fece presente a mio padre che serviva ancora un ufficiale perché si raggiungesse il numero legale minimo di testimoni per l’interrogatorio, così papà ordinò che fosse chiamato Alexander e quando arrivò entrarono nella cella del prigioniero. Questo era legato con funi robuste a una croce di S. Andrea. Quando i quattro uomini entrarono fissò mio padre con odio e lo insultò a bassa voce usando il dialetto del Kashmir convinto che lui non capisse, fu perciò molto sorpreso quando mio padre gli intimò il silenzio usando la stessa lingua. Il notaio prese posto a un piccolo tavolo sul quale era disposto il necessario per scrivere, pronto ad annotare ogni parola del prigioniero. L’interrogatorio iniziò e papà domandò all’uomo quale fosse il suo nome e da dove venisse. Non ricevendo risposta riformulò la domanda nel dialetto ma anche allora il prigioniero restò muto. Per più di un’ora quell’uomo venne interrogato, ma restituì poche, frammentarie risposte del tutto insoddisfacenti. Alla sua ennesima invettiva mio padre si voltò verso i due ufficiali e scosse la testa.

«Con le buone non otterremo nulla.»

«Potremmo usare metodi meno convenzionali.» suggerì il maggiore.

«No, la tortura è l’ultima risorsa e poi ho un’idea migliore. Capitano Preston vada alla Residenza e dica a Patal di venire qui. Rimanga poi a casa mia affinché mia moglie e le mie figlie si sentano al sicuro anche senza di lui, chiameremo il capitano Tyler per sostituirla.»

«Sì signore!» eseguito il saluto, Alexander si allontanò.

 

Dopo la partenza di papà, bevuto il tè, mamma, Elisa e io ci eravamo ritirate. Mi resi conto quasi subito che non sarei riuscita a prendere sonno, così mi alzai e scesi nuovamente di sotto, seguita da Silam. Trovai Patal in salotto intento ad affilare la spada e mi sedetti su una delle poltroncine a osservarlo. «Dovreste riposare, lady Marina, è stata una lunga giornata per voi.»

«Non riesco a dormire, sono troppo agitata… Patal secondo te chi è quell’uomo?»

«Probabilmente un simpatizzante dei Marathi.»

«Già, è probabile. Mi vengono i brividi quando penso a quello che sarebbe potuto accadere se Silam non si fosse accorto di nulla…»

«Non pensateci, per fortuna è andato tutto bene.»

Mi alzai «Vado a preparare un po’ di tè, ne bevi anche tu?»

«Sì, vi ringrazio.»

Andai in cucina, misi sul fuoco l’acqua e mentre aspettavo che bollisse mi chiesi cosa stesse facendo papà. Poco dopo tornai in salotto con il vassoio del tè. Patal aveva riposto nel fodero la spada, così gli porsi una tazza fumante e, sedutami, sorseggiai la bevanda. L’orologio sul caminetto batté le due, da fuori sentimmo provenire il rumore di un cavallo in avvicinamento, Patal si alzò e, dopo avermi detto di restare in casa, uscì a vedere chi fosse. Ritornò pochi istanti dopo seguito da Alexander che mi salutò spiegandomi, perché era venuto alla Residenza. Patal nel frattempo era andato nel suo alloggio e quando tornò teneva in mano una cassetta di legno. Lo accompagnammo fuori e lui, dopo aver esortato il capitano a fare buona guardia, montò a cavallo e si allontanò velocemente. Noi rientrammo e visto che il tè era ancora caldo gliene offrii una tazza, così mentre beveva mi raccontò quel poco che era successo alle prigioni. Quando ebbe finito di bere gli proposi una partita a scacchi, Alexander accettò volentieri, così, iniziammo a giocare. Eravamo a metà della quarta partita quando entrò Elisa.

«Marina sei qui?» mi chiese, si interruppe poi vedendo Alexander il quale si era alzato al suo ingresso «Capitano! Come mai siete qui?»

«Vostro padre aveva bisogno di Patal così mi ha mandato qui a sostituirlo.»

«Qualcosa non va, Elisa?» intervenni.

«No, mi sono svegliata e ho aperto la porta di camera tua per vedere se per caso eri sveglia anche tu e non vedendoti sono scesa. Ma io ho interrotto la vostra partita, chiedo scusa.»

«Non importa Elisa, anzi se vuoi giocare tu al mio posto per qualche minuto, in modo da non lasciare la partita a metà: io devo salire un momento.» terminai alzandomi.

Elisa accettò e mentre mi allontanavo ripresero a giocare. Arrivata di sopra uscii sulla terrazza. Non avevo nulla da fare, la mia era stata solo una scusa per lasciarli soli. Rimasi fuori qualche minuto, giusto il tempo di scorgere il primo chiarore perlaceo che precedeva l’alba. Mancava meno di mezz’ora alle cinque, respirai la fresca aria mattutina poi rientrai. Già che ero in camera mi vestii poi tornai di sotto e ripresi il mio posto davanti alla scacchiera, ma solo il tempo necessario perché anche mia sorella andasse a vestirsi, quando ricomparve li lasciai nuovamente per andare a preparare la colazione per noi tre, infatti sarebbe passata ancora un’ora abbondante prima che la servitù si alzasse.

 

Patal era arrivato alle prigioni in pochi minuti. Quando entrò papà gli andò incontro, gli spiegò la situazione e ciò che voleva facesse. Patal si mise subito al lavoro. Poggiata la cassetta su un tavolo la aprì e con delicatezza estrasse le fiale che vi erano contenute, allineandole sul piano. Al tempo in cui era al servizio del Maharaja aveva spesso dovuto far parlare prigionieri reticenti e, anche se negli ultimi diciassette anni non l’aveva praticata, quell’arte antica era ancora fermamente impressa nella sua memoria con tutti i suoi segreti. Così, senza esitazioni, iniziò a miscelare in un bicchiere pieno a metà d’acqua il contenuto di alcune di quelle fiale, fino a ottenere un liquido dal colore ambrato che esalava un lieve sentore di cinnamomo. Dopo aver mescolato un’ultima volta entrò nella cella e, aiutato dal maggiore O’Brian, fece bere il composto al prigioniero. La droga iniziò a fare effetto dopo pochi minuti e da quel momento l’interrogatorio fu semplicissimo: il prigioniero sembrava ansioso di dire tutto di sé e della causa che sosteneva. Raccontò di essere nativo del Kashmir, diversi anni prima alcuni uomini si erano rifugiati nel suo villaggio, erano Marathi. Lui aveva ascoltato i loro racconti e aveva deciso di unirsi alla loro lotta. Disse inoltre di aver ucciso due inglesi nel Punjab e si vantò di quel gesto e del fatto che era così abile ad appiccare il fuoco che la maggior parte degli incendi importanti venivano assegnati a lui. Raccontò anche che diversi nobili indiani stavano fomentando il malcontento verso il governo britannico in modo da creare disordini.

«I tempi non sono ancora maturi, ci vorranno ancora degli anni forse, ma verrà il giorno in cui il mio popolo sarà pronto e si libererà dal giogo inglese. Allora voi tremerete perché non avrete scampo, tremerete per voi, per le vostre donne e per i vostri figli poiché nessuno di loro riceverà pietà, così come noi non ne riceviamo ora!» furono le sue parole.

Parlò ininterrottamente per tre ore e quando l’effetto della droga finì si accasciò esausto, sostenuto solo dalle funi che lo legavano. I cinque uomini uscirono dalla cella e si riunirono nell’ufficio di mio padre, lui ordinò di non fare parola con nessuno almeno per il momento di ciò che aveva detto il prigioniero, poi li congedò. Rimase solo Patal, insieme rilessero la confessione e discussero delle strane e allarmanti informazione che ne erano emerse. Il fatto che quelle rivelazioni fossero scaturite da un uomo sotto l’effetto della droga di Patal fugava ogni dubbio sulla loro credibilità, ma se era così bisognava prendere provvedimenti, non localmente ma su larga scala. Papà decise di iniziare parlando con i comandanti delle guarnigioni dell’Uttar Pradesh, di cui lui era il governatore. I più vicini li avrebbe invitati per le feste natalizie, con gli altri avrebbe comunicato attraverso messaggeri fidati. Prese un appunto sulla sua agenda riguardo le priorità poi guardò l’orologio: erano quasi le sei. Posticipò ogni decisione sulla sorte del prigioniero a dopo colazione e, insieme a Patal, uscì dal Comando e tornò a casa. Entrarono in sala da pranzo proprio mentre Alexander, Elisa e io finivamo di mangiare, ci alzammo e andammo loro incontro. Erano stanchi e si vedeva, li facemmo sedere e mentre Elisa serviva loro delle frittelle appena fatte, io andai a prendere il caffè. Quando fummo nuovamente tutti seduti gli chiedemmo se il prigioniero aveva parlato e cosa aveva detto. Papà ci fece un resoconto molto superficiale di ciò che era successo e quando ci disse che avendo fallito quel ribelle nessun altro sarebbe stato tanto coraggioso da avvicinarsi al Presidio, sospirammo di sollievo. Ci chiese comunque di limitare, per qualche tempo, le nostre cavalcate al parco della Residenza e al Presidio. Sentendosi probabilmente escluso, Silam si alzò dal suo angolo e andò ad appoggiare la testa sulle ginocchia di papà, il quale gli offrì un pezzetto di frittella e gli grattò la testa facendolo mugolare per la soddisfazione. Quel suono fece sparire, come per incanto, la tensione accumulata durante la notte e tutti e cinque ci mettemmo a ridere.

Più tardi, dopo che Alexander e papà furono tornati al Presidio, io e mia sorella decidemmo di andare a cavallo, così avvisammo Patal e ci avviammo alle scuderie. Sellati i cavalli trottammo un po’ nel parco poi uscimmo dai cancelli della Residenza. Fortunatamente il Presidio era abbastanza grande da permetterci di fare una cavalcata di circa due ore. In una delle tasche da sella avevo riposto la stoffa comprata a Bombay così quando passammo davanti al laboratorio della sarta fermai Hira Kala e smontai, dissi a Elisa e Patal di proseguire il giro e che io sarei tornata a casa da sola appena finito. Patal non sembrò contento all’idea di lasciare una di noi due sola, alla fine Elisa gli venne incontro dicendo che avrebbero fatto un giretto per poi essere nuovamente lì entro mezz’ora, in modo da tornare a casa insieme. Appena si furono allontanati entrai dalla sarta. Il campanello fissato alla porta suonò quando l’aprii, la sarta arrivò da una stanza sul retro ma si fermò stupita quando mi vide. Probabilmente, a causa del costume indiano che indossavo e dei capelli legati a treccia, pensò che fossi una nativa del posto. Prima che potesse parlare mi presentai, allora lei mi salutò e mi invitò in un salottino dove le feci vedere la stoffa e il modello che avevo disegnato, spiegandole come volevo che fosse eseguito. Le dissi che avevo bisogno che l'abito fosse pronto per l'ultimo dell'anno. La sarta studiò per un attimo il modello e mi assicurò che non ci sarebbero stati problemi, poi si allontanò per tornare poco dopo con il centimetro e un taccuino, mi prese le misure e fissò la prima prova per il lunedì seguente. Discutemmo ancora un poco del modello, apportando alcune modifiche poi mi alzai per andarmene. La sarta mi accompagnò alla porta e prima che uscissi, commentò che con una seta così bella l’abito sarebbe stato uno splendore. Mentre rimontavo in sella vidi arrivare Elisa e Patal, così ci avviammo per le strade del Presidio diretti verso casa.

Subito dopo pranzo mi ritirai in biblioteca e, preso un libro, mi sedetti in una delle poltrone. Iniziai a leggere ma poco dopo la stanchezza della notte insonne mi vinse e mi addormentai. Fu Umi a svegliarmi che era quasi l’ora del tè, mi disse che la mamma era uscita con Elisa e che pochi istanti prima un messaggero aveva portato una lettera, me la consegnò e vidi che era indirizzata a tutta la famiglia, così decisi di aprirla. Scoprii che la missiva proveniva dal Raja Sardar Singh e quello che vi lessi mi riempì di gioia poiché il Raja ci invitava a trascorrere il periodo dal tre al quindici gennaio ad Agra per presenziare a un ricevimento che si sarebbe svolto nel suo palazzo la sera del cinque, ma anche per visitare la città e i suoi monumenti. Concludeva con la speranza che avremmo accettato l’invito e ci mandava i suoi migliori saluti. Terminato di leggere mi alzai e piroettai per la stanza. Ero al culmine della felicità poiché avevo desiderato vedere Agra sin dal nostro arrivo in India. Papà mi aveva promesso che prima o poi ci saremmo andati, ma i suoi impegni avevano fatto sì che il viaggio fosse continuamente rimandato. Ero sicura che avrebbe accettato l’invito, sapevo che ad Agra aveva diversi amici che però non era ancora riuscito a vedere quindi, pensai, non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione. Non volendo aspettare sera per sapere la sua risposta, corsi di sopra e mi cambiai, presi la lettera, e mi avviai verso il Presidio. Silam mi si accostò e io gli permisi di seguirmi fin quasi al cancello prima di ordinargli di fermarsi ad aspettare. Arrivata al Comando entrai salutando l’attendente di papà il quale mi accompagnò nel suo ufficio. Quando si fu ritirato diedi un bacio a mio padre e gli mostrai la lettera. Lui la lesse con calma e quando finì, visto che rimaneva in silenzio, lo incalzai per sapere la sua risposta.

«Considerato che è molto che non vedo i miei colleghi e che ti avevo promesso che saremmo andati ad Agra il più presto possibile, penso che accetterò. Questa sera ne parlerò con tua madre e domani manderò la risposta.»

Con un ampio sorriso girai intorno alla scrivania e lo abbracciai poi, per non disturbarlo oltre, lo salutai e tornai a casa dove informai Elisa, da poco rientrata, dell’imminente viaggio. Anche lei fu entusiasta all’idea di poter vedere l’antica capitale Moghul e il Raja Sardar Singh che nessuna delle due aveva dimenticato.

 

Il prigioniero fu processato e condannato. All’alba del primo giorno di dicembre la sentenza fu eseguita: il ribelle venne impiccato alla presenza degli abitanti del Presidio e della città. Né mia sorella né io andammo a vedere l’impiccagione, nonostante il pericolo corso non ce la sentivamo di veder morire quell’uomo. Rimanemmo alla Residenza tutto il giorno poiché il corpo dell’uomo sarebbe rimasto sulla forca fino a sera. Da quel giorno in casa nessuno parlò più degli avvenimenti che avevano portato a quella sentenza, ma nessuno li dimenticò mai.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI

 

 

Il 15 del mese ci arrivò un messaggio di Miranda nel quale ci comunicava che sarebbe arrivata cinque giorni dopo con i suoi genitori. La mamma diede ordine alla servitù di preparare tutte le camere per gli ospiti poiché entro l’antivigilia sarebbero arrivati anche i comandanti delle guarnigioni di Varanasi e Gorakhpur con le loro famiglie, per partecipare al gran ballo della sera di Natale. Tutta la casa venne tirata a lucido in vista dell’arrivo dei primi ospiti. Il 19 dai monti al confine col Nepal arrivò un magnifico abete, alto quasi tre metri, che fu sistemato nel salone da ballo. Elisa e io ci assumemmo l'incarico di addobbarlo, così passammo l’intero pomeriggio in mezzo a nastri lucenti, palline di vetro colorato e angioletti di carta pesta. Quando alla fine mettemmo il puntale, facemmo un passo indietro per ammirare la nostra opera e ci guardammo soddisfatte.

L’indomani mattina, durante la colazione, chiedemmo ai nostri genitori il permesso di andare incontro a Miranda sulla strada di Kanpur. All’inizio papà non volle, ma noi lo supplicammo e alla fine cedette, a condizione che Patal e altri sei uomini ci accompagnassero. Quando gli chiedemmo il perché di una scorta così numerosa la giustificò commentando che la campagna poteva essere pericolosa e che era meglio non rischiare. Lo ringraziammo e iniziammo subito a fare piani per il pomeriggio. Avevamo calcolato che sarebbero dovuti arrivare intorno alle sei, così decidemmo di partire per le tre in modo da avere il tempo di uscire dalla città e fare un tratto di strada prima di incontrarli. Papà ci disse che avremmo trovato gli uomini ad attenderci davanti al Comando.

La giornata passò in fretta e venne l’ora di prepararsi. Il mattino precedente al bazaar avevo comprato un altro costume a pantaloni e così decisi di rinnovarlo. Era di morbido batik, tutto sui toni del lilla e del malva. Elisa, in un’amazzone blu cobalto, mi stava aspettando e quando la raggiunsi ci dirigemmo alle scuderie dove trovammo Patal pronto a partire e i cavalli già sellati. Ci avviammo e passando davanti alla casa, salutammo la mamma che era uscita per guardarci. Quando arrivammo davanti al Comando, vedemmo che i sei uomini promessici da papà erano lì in attesa. Erano sepoy e non mi stupii quando vidi che a comandarli era Alexander che subito si affiancò a noi mentre i suoi uomini ci seguivano. Usciti dal Presidio ci inoltrammo nelle vie affollate di Lucknow procedendo al passo. Ci volle quasi un’ora prima di uscire dalla città ma quando finalmente ci riuscimmo, lanciammo i cavalli al piccolo galoppo. Dopo un po’ rallentammo l’andatura in modo da non stancare troppo le nostre cavalcature. Hira Kala si guardava attorno interessato poiché non avevamo mai fatto quel giro durante le nostre uscite. Avevo scoperto che era molto curioso e che studiava ogni cosa e ogni persona con occhio attento, sapevo che era indice di quella intelligenza che d’altro canto mi aveva già dimostrato. Per molti versi assomigliava a Silam. Ripensando alla tigre mi sentii in colpa poiché anche quella volta ero stata costretta a lasciarla a casa, ma purtroppo non avevo scelta. Ormai era adulta e la sua presenza incuteva timore anche a coloro che la vedevano tutti i giorni, figuriamoci agli altri. Hira Kala scartò strappandomi ai miei pensieri. Mi chiesi cosa avesse, quando guardando più avanti vidi un serpente acciambellato proprio al centro della strada. Alexander ci fece fermare poi, smontato, si diresse cautamente verso il rettile. Vidi Elisa mordersi il labbro quando il capitano si fu avvicinato abbastanza da essere in pericolo, in caso si trattasse di un esemplare velenoso, ma Alexander in quel momento si voltò tranquillizzandoci: si trattava di un serpente del tutto innocuo. Tornò indietro e rimontò in sella. Riprendemmo la cavalcata, passando però lontano dal serpente in modo da non irritarlo. Elisa si voltò verso Alexander.

«Siete stato imprudente, capitano. Se fosse stato un cobra? Perché non avete mandato uno dei vostri uomini a controllare?» gli chiese.

«Perché, vedete lady Elisa, un uomo incapace di correre un rischio in prima persona non è degno di comandare altri uomini. È vero, avrei potuto mandare uno dei miei sepoy, ma se mi facessi spaventare da un serpente come potrei pretendere che mi affidino la loro vita ed eseguano i miei ordini in caso di battaglia?» concluse.

Capii che Elisa era colpita da quella dimostrazione di forza d’animo e, con la coda dell’occhio, vidi Patal sorridere e annuire impercettibilmente. In quanto guerriero capiva, approvava e apprezzava il modo di fare di Alexander. Sorrisi pensando che il capitano aveva superato, senza saperlo, una delle prove più importanti. Erano infatti molto pochi gli uomini che godevano dell’apprezzamento, quindi della stima, di Patal e sapevo che questi era un giudice infallibile. Mi riscossi e guardai avanti. In quel momento, nel punto più lontano della strada, vidi muoversi qualcosa, guardai meglio e capii che si trattava di alcune persone a cavallo e di due carri. Richiamai l’attenzione dei miei compagni sul convoglio in lontananza, a mano a mano che ci avvicinavamo vidi che il primo cavaliere era in realtà una donna con l’ampia gonna dell’amazzone drappeggiata sul fianco del cavallo, alzai gli occhi sul viso della ragazza.

«È Miranda! Andiamo, Elisa.»

Partimmo al galoppo seguite da Patal, Alexander e i sepoy. Raggiungemmo la nostra amica in poco tempo, anche lei aveva aumentato l’andatura avendoci riconosciute. Smontammo tutte e tre e ci abbracciammo. Miranda era stupita di vederci lì, non si aspettava che le andassimo incontro. Fummo raggiunte anche dalla carrozza dalla quale scesero il maggiore Scott e la moglie. Li salutammo, felici di rivederli e presentammo loro il capitano, quindi ci muovemmo alla volta di Lucknow.

Durante la cavalcata Miranda ci raccontò quello che aveva fatto nelle ultime settimane, tutto ciò che non ci aveva scritto. Noi, in risposta, le riferimmo tutte le novità del Presidio di Lucknow. Erano quasi le sette quando varcammo i cancelli della Residenza. Smontammo da cavallo davanti alla casa lasciando le nostre cavalcature alle cure degli stallieri. In quel momento Silam uscì dalla porta principale e ci corse incontro. Sembrò felice di rivedere Miranda perché iniziò a strusciarsi contro le sue gonne.

«Com’è cresciuto in soli tre mesi! Non sembra nemmeno lo stesso tigrotto con cui ho viaggiato.» commentò lei, ridendo, mentre lo accarezzava.

Mamma e papà uscirono e vennero a salutare i signori Scott poi, tutti insieme, entrammo in casa. Accompagnammo i nostri ospiti nelle loro stanze perché potessero rinfrescarsi prima di cena. Elisa e io ci trattenemmo nella stanza di Miranda su sua richiesta, così potemmo continuare a chiacchierare, mentre Silam si era sdraiato ai piedi del letto.

La cena si svolse in un clima allegro. Papà e il maggiore avevano rimandato all’indomani ogni discorso serio così passammo la serata parlando delle feste natalizie e raccontando aneddoti ed episodi della nostra vita in India. Ci ritirammo presto poiché i nostri ospiti erano molto stanchi per il viaggio.

La mattina seguente, di buon’ora, mi avviai al Presidio poiché avevo l’ultima prova dalla sarta. Dopo aver ricevuto la lettera dal Raja Sardar Singh avevo cambiato un po’ i miei piani: l’abito blu che andavo a provare, originariamente destinato al ballo di capodanno, l’avrei indossato ad Agra. Mi sentivo allegra. Era una splendida giornata invernale, il cielo azzurro intenso era completamente sgombro da nubi e la temperatura di “appena” venti gradi rendeva piacevole camminare, così dopo essere stata dalla sarta decisi che era una giornata troppo bella per ritornare subito a casa, oltretutto Elisa e Miranda erano uscite a cavallo, così mi avviai per le strade del Presidio diretta ai cancelli: avevo deciso, visto che era ancora presto, di fare una passeggiata per la città e di visitare il bazaar. Ero quasi arrivata ai cancelli quando mi sentii chiamare e, voltatami, vidi il capitano Luke Tyler corrermi incontro. Il capitano Tyler era un bel ragazzo di ventiquattro anni, aveva capelli biondo scuro e intensi occhi azzurri, era molto simpatico e di spirito arguto. Mi piaceva parlare con lui poiché, oltre a essere intelligente, aveva la battuta pronta e riusciva sempre a farmi ridere. Quando mi raggiunse si piegò in un inchino scherzoso.

«Buongiorno milady, dove andate di bello?» chiese.

«Buongiorno a voi capitano. Sempre più curioso a quanto vedo.» replicai sorridendo.

«Quella santa donna di mia madre,» sospirò «ha fatto del suo meglio per correggermi, purtroppo non c’è riuscita. Ma forse… è meglio così, non credete?» concluse strizzando un occhio.

Scossi la testa ridendo e mi arresi.

«Avevo deciso di andare al bazaar a vedere se c’è qualcosa di bello per i regali di Natale.»

«Non è bene che andiate da sola, ma evidentemente lassù» indicò il cielo «qualcuno vi vuol bene, mi trovo giusto ad avere la mattina di libertà e sarei felice di farvi da angelo custode.»

«Voi un angelo, capitano? Se è così mi chiedo come debbano essere i diavoli.»

Arretrò di un passo, simulando un’espressione sofferente, e si portò una mano al cuore.

«Voi mi uccidete parlando così, lady Marina. Osservatemi meglio,» si avvicinò e si chinò lievemente fino ad avere il viso all’altezza del mio «non notate la purezza angelica che aleggia sui miei tratti?» concluse ammiccando.

Mi finsi seriamente attenta a guardarlo poi annuii.

«Sì, avete ragione, effettivamente c’è qualcosa che aleggia sul vostro viso…» quasi a farlo apposta una farfalla si posò in quel momento sul suo naso «Ma guarda, si direbbe una farfalla.»

Il capitano incrociò gli occhi per poter vedere l’insetto.

Non riuscii a trattenermi e mi misi a ridere facendo volare via la farfalla. Lui si alzò e mi guardò un attimo poi si unì alla mia risata. Quando ci riprendemmo mi offrì il braccio.

«Coraggio milady, se rimaniamo qui ancora a lungo non troverete più niente al bazaar.»

Accettai il suo braccio e ci avviammo. Mentre camminavamo lui ruppe il silenzio.

«Ditemi, milady, avete già un cavaliere per il ballo di Natale?»

«No, perché?»

«Perché vorrei avere l’onore di essere io, a farvi da cavaliere intendo.»

«Va bene.» risposi.

Si bloccò a metà di un passo e mi guardò.

«Volete dire che accettate?»

«Sì, ne sarei felice. Perché siete così stupito?» gli chiesi.

«Perché, ecco, non mi aspettavo che avreste accettato subito. Buona parte della guarnigione vi fa la corte, con scarsi risultati aggiungerei, e sentendo parlare alcuni di quelli che vi hanno invitata a uscire e che voi avete gentilmente ma fermamente respinto, ero convinto che avrei dovuto insistere per potervi accompagnare.» concluse.

Rimasi in silenzio un po’ poi:

«Davvero buona parte della guarnigione mi fa la corte?» chiesi.

«Volete dire che non ve ne siete accorta?»

Scossi la testa.

«Questo è meglio che non si sappia, sarebbe un brutto colpo per molti.» sospirò «E sì che la lista è lunga e vede me in testa.»

«Siate serio.» lo redarguii.

«Ma io sono serio, mia cara.» mi guardò «Certo che sapete come spezzarlo il cuore di un pover’uomo.» sorrise.

Sospirai sollevata «Sapete, mi avevate spaventata. Per un attimo ho pensato diceste sul serio che in testa ai corteggiatori c’eravate voi.»

«Sarebbe così terribile?» chiese stupito.

«Certo! In un attimo avrei perso un caro amico e il mio cavaliere.»

«Oh beh, non pensiamoci più!» esclamò sorridendo.

Mi prese per mano e ci addentrammo nel bazaar.

Girammo in mezzo alle bancarelle per un paio d’ore. Nella bottega di un intagliatore trovai una bellissima pipa scolpita, chiesi al capitano se conosceva il significato delle figure intagliate e lui mi disse che rappresentavano la danza cosmica di Shiva. Era lavorata molto bene così decisi di comprarla per papà. Completai gli acquisti per la mamma ed Elisa, poi tornammo al Presidio. Avevamo appena varcato i cancelli quando un caporale si avvicinò e disse al capitano che il maggiore O’Brian aveva bisogno di lui, così si congedò. Proseguii da sola verso il cancello della Residenza ma mi ricordai di dover parlare col tenente Alben, allora cambiai strada e mi diressi al circolo ufficiali. Fortunatamente lo trovai subito.

«Buongiorno tenente.» lo salutai.

«Buongiorno, lady Marina. Posso fare qualcosa per voi?»

«Veramente sì, avrei un favore da chiedervi: ieri è arrivata da Kanpur una mia cara amica, si chiama Miranda Scott. Mi chiedevo, se voi non avete già altri impegni, vorreste farle da cavaliere al ballo di Natale?»

«Ne sarò felice, milady.»

«Vi ringrazio. Venite alla Residenza per il tè così potrete conoscerla e invitarla.»

«Verrò senz’altro, ma… non sembrerà strano che io mi presenti senza un motivo apparente, così, per il tè?»

«Non preoccupatevi, inviterò anche altri due vostri colleghi, organizzerò un tè all’aperto con la scusa di far conoscere alcuni amici a Miranda.»

«D’accordo allora, verrò alle cinque.»

«Anche un po’ prima, facciamo alle cinque meno un quarto.»

«Va bene, arrivederci milady.»

«Arrivederci.»

Mi allontanai dopo essermi assicurata che Alexander non fosse lì. Speravo di riuscire a trovarlo per invitarlo e speravo anche di incontrare nuovamente il capitano Tyler. Evidentemente la fortuna era dalla mia poiché, poco dopo, mi imbattei proprio in lui.

«Capitano Tyler!» lo chiamai.

Si voltò «Ditemi milady.»

«Questo pomeriggio verreste alla Residenza per un tè tra amici?»

«Verrei volentieri ma mi hanno dato alcune faccende da sbrigare e non credo che riuscirò a finire in tempo.»

«Siete certo di non riuscire a farcela?»

La mia espressione doveva essere talmente delusa che dopo un attimo di silenzio sospirò:

«Non riuscirei a negarvi nulla quando mi guardate in quel modo. Mettiamola così: farò di tutto per finire in tempo. A che ora devo presentarmi?»

«Alle cinque meno un quarto.» gli sorrisi «Grazie, capitano Tyler.»

«Sentite, visto che ci conosciamo già da un po’ e che sarò il vostro cavaliere al ballo, volete darmi del tu e chiamarmi Luke?»

«La trovo un’ottima idea… Luke.»

«Molte grazie… Marina.»

Ci sorridemmo reciprocamente per quelle piccole esitazioni. L’orologio del Comando batté le dodici.

«Perdonami, Marina, ma se voglio essere puntuale devo iniziare a darmi da fare.»

«Vi lascio andare allora, solo…»

«Mi stai dando di nuovo del voi.» mi interruppe.

Sorrisi «Scusa. Sai dove posso trovare il capitano Preston?»

«Sì, lo trovi in armeria. Ora scappo, a più tardi.» mi salutò correndo via.

Raggiunsi l’armeria e mi avvicinai al capitano.

«Buongiorno Alexander.»

«Salve Marina, cosa vi porta qui?»

«Sono venuta perché vorrei invitarvi, questo pomeriggio, a un tè in onore di Miranda.»

«Ne sarei felice, oggi non ho impegni quindi non ci sono problemi.»

«Bene, così potrete anche cogliere l’occasione di offrirvi come cavaliere per il ballo a mia sorella.» replicai con aria noncurante.

Alexander rimase a guardarmi a bocca aperta e io non riuscii a trattenere una risata.

«Non fate quella faccia, il fatto che voi corteggiate mia sorella mi fa molto piacere.»

«È incoraggiante sapere che almeno una di voi due si sia accorta che la sto corteggiando anche se, con tutto rispetto, siete quella sbagliata.»

«Non siate pessimista, anche Elisa se n’è accorta solo che non lo dà a vedere. Vedete, è rimasta scottata una volta e ora è molto diffidente. Temo che, se tenete veramente a lei, dovrete faticare un po’ per convincerla della vostra sincerità.»

«È una prospettiva incoraggiante, non c’è che dire, ma… cosa intendete dicendo che si è scottata già una volta, cosa le è successo?»

«Questo, Alexander, dovrà essere Elisa a raccontarvelo se e quando se la sentirà. Ora devo andare, siamo d’accordo allora: vi aspetto alle cinque meno un quarto alla Residenza.»

«Ci sarò, non dubitate.»

«Ne sono certa, arrivederci.»

Arrivai a casa che era quasi la mezza, non avevo tempo per cambiarmi così, rinfrescatami, mi diressi alla sala da pranzo dove trovai Elisa e Miranda. Ci sedemmo e poco dopo arrivarono anche la mamma e la signora Scott. Durante il pranzo mia sorella raccontò del giro a cavallo che avevano fatto quella mattina, poi io avvisai che avevo invitato alcuni amici per un tè in onore di Miranda. Mamma ne fu compiaciuta ma mi disse che lei e la signora Scott sarebbero state fuori a fare compere quindi avremmo dovuto organizzare tutto noi tre. Le assicurai che non ci sarebbero stati problemi e la conversazione si spostò su altri argomenti.

Alle tre, mi diressi alle cucine per dare disposizioni per il pomeriggio e Bettine si mise subito all’opera per preparare i suoi ottimi biscotti. Chiesi a due camerieri di apparecchiare il tavolo da giardino nella radura dove il primo giorno avevo fatto il bagno con Silam. In quel periodo dell'anno vi erano molti fiori e il torrente cristallino avrebbe fatto da cornice al piccolo ricevimento. Quando mancava poco meno di un’ora all’arrivo degli invitati salii al piano di sopra con mia sorella per prepararmi, Miranda si era già ritirata. Indossato un grazioso abito di mussola arancio chiaro, tornai di sotto. Gli ospiti non sarebbero arrivati prima di un quarto d’ora così mi avviai a passo svelto verso la radura per controllare che fosse tutto pronto. I due camerieri avevano indossato la semplice livrea bianca della Residenza e ora aspettavano di fianco al tavolo sul quale facevano bella mostra una tovaglia ricamata e il servizio di porcellana di Copenaghen. Poco distante, adagiata su un cuscino all’ombra di un albero, Umi accordava il sitar. Sarebbe rimasta con noi tutto il pomeriggio poiché senza la supervisione della governante quell’incontro non sarebbe potuto avvenire. Seduta su quel cuscino, presenza discreta e silenziosa, avrebbe tratto antiche melodie da quel magico strumento per accompagnare le nostre conversazioni. Le sorrisi e tornai alla casa. Elisa e Miranda erano scese e stavano aspettando in salotto. Miranda indossava un abito del colore dei girasoli invece il vestito di mia sorella era azzurro fiordaliso con una sottile striscia di pizzo bianco intorno alla scollatura quadrata. Silam si era adagiato sul tappeto in una posa che ricordava la Sfinge di Giza. Mi inginocchiai accanto a lui e, accarezzandogli la testa, gli raccomandai di fare il bravo. Rialzatami guardai fuori dalla finestra. L’orologio sul camino stava battendo le quattro e tre quarti quando arrivò il primo ospite: Daniel Alben. Con la coda dell’occhio vidi arrivare Alexander così presi sottobraccio il tenente e lo accompagnai a conoscere Miranda, lasciando a mia sorella il compito di ricevere il nuovo arrivato. Ci mettemmo a chiacchierare ma dopo un poco Alexander, guardando l’orologio che segnava quasi le cinque, si rivolse a me.

«Marina, siamo tutti qui?» chiese.

«A dire il vero no…» mi voltai verso la finestra mordicchiandomi il labbro inferiore «Doveva arrivare qualcun altro…»

In quel momento vidi sopraggiungere di corsa il capitano Tyler e sospirai sollevata. Uscii e scesi i pochi gradini d’entrata per andargli incontro.

«Luke, iniziavo a pensare che non saresti venuto.»

«Chiedo scusa per il ritardo.» disse riprendendo fiato «Ti avevo detto che avrei fatto di tutto per venire, no?» ammiccò «Non avresti dovuto dubitarne.»

«Non lo farò più, prometto.» risposi sorridendo «Ora vieni, ti presento gli altri.»

Entrammo e lui salutò i presenti, che già conosceva, poi gli presentai Miranda.

A una cameriera accorsa al mio richiamo ordinai che fosse preparato il tè, poi ci avviammo alla radura. Avevo sistemato i posti di modo che Elisa sedesse vicino ad Alexander e Miranda a Daniel, di conseguenza io ero accanto a Luke. Sentendo quest’ultimo rivolgersi a mia sorella chiamandola lady Elisa lo interruppi e decretai che per quel pomeriggio erano banditi titoli e gradi e che ci saremmo dovuti chiamare solo per nome. L’idea piacque e fra noi si creò un po’ più di confidenza.

Fu servito il tè, Umi all’ombra dell’albero pizzicava dolcemente le corde del sitar e, nella pace della radura, rimanemmo un poco in silenzio ad ascoltare quella dolce e melanconica melodia, anche gli uccelli avevano smesso di cantare forse incantati dalla musica. Quando l’ultima nota svanì nel silenzio applaudimmo, poi tornammo alla conversazione interrotta, mentre lei prese a suonare un motivo più vivace.

Verso le sei e mezza mi si avvicinò una cameriera e chiese per quante persone avrebbero dovuto apparecchiare la tavola. Prima di partire mamma aveva detto che avremmo potuto invitare i nostri ospiti a cena, così mi rivolsi ai tre militari che, dopo aver avuto l’assicurazione che non avrebbero disturbato, accettarono. Rimanemmo fuori ancora un poco, ma l’aria della sera era ormai fredda così rientrammo e ci accomodammo in salotto. Alle sette lasciammo gli ospiti con un aperitivo in mano e ci ritirammo per prepararci per la cena. Salendo le scale sentimmo rientrare mamma e la signora Scott, papà e il maggiore sarebbero ritornati di lì a poco. Prima di entrare in camera sua Miranda mi chiese se potevo, per favore, concederle qualche minuto così entrai con lei. Mi portò davanti al suo armadio, aprì le ante poi mi guardò con aria supplice: non sapeva cosa indossare. La osservai: i suoi capelli erano castano biondi e cadevano dietro le spalle in morbidi ricci, aveva il viso ovale, l’incarnato era chiaro e delicato con una sfumatura di rosa sugli zigomi e gli occhi, limpidi come due laghi di montagna, erano di un bell’azzurro pervinca. Guardai i suoi abiti e ne scelsi uno di organza turchese con la classica scollatura rotonda, piccole maniche a sbuffo e la gonna ad ampie pieghe. La lasciai e passai un attimo da Elisa poiché alcuni dei nostri abiti avevano colori molto simili e non ci piaceva vestirci uguale. Aveva scelto un abito verde salvia così, quando entrai in camera mia, tirai fuori dall’armadio un vestito che non avevo ancora indossato ma che mi piaceva molto: era in raso di un pallido lavanda con riflessi argentei. Come taglio assomigliava a quello di Miranda ma con una differenza: questo lasciava scoperte le spalle. Quasi tutti i miei abiti da sera avevano questa particolarità perché la sarta aveva detto che era un peccato coprirle, visto che la moda lo permetteva. Bussarono alla porta. Andai ad aprire e vidi mia sorella, si voltò mostrandomi la fusciacca del vestito slacciata e mi chiese di annodarla poiché Mary era andata ad aiutare Miranda. Quando ebbi finito di sistemare il fiocco scendemmo di sotto. Fummo presto raggiunte da tutti gli altri e ci accomodammo in sala da pranzo.

La serata fu piacevole e trascorse velocemente. Notai con piacere che Daniel e Miranda andavano d’accordo e con ancor più piacere vidi Elisa ridere e scherzare con Alexander. Dal canto mio con a fianco Luke non potevo che divertirmi.

Purtroppo, alle dieci, i tre militari si accomiatarono. Papà chiamò Luke prima che uscisse, per consegnargli un messaggio da portare al maggiore O’Brian, si allontanarono un attimo e, quando tornarono, decisi di accompagnare Luke fino al cancello perché avevo voglia di fare due passi. Umi doveva aver intuito questo mio desiderio poiché, prima che mi allontanassi, comparve al mio fianco porgendomi uno scialle. Uscendo Luke mi aiutò a drappeggiarlo sulle spalle poi, seguiti da Silam, ci avviammo lentamente. Fatti pochi passi lui mi offrì il braccio. Era piacevole passeggiare in silenzio, nel cielo scintillavano centinaia di stelle e proprio sopra di noi brillava la costellazione del drago. Mi fermai e gliela indicai, rimanemmo un attimo a guardarla poi riprendemmo a camminare. Nel silenzio si udì distintamente il canto di un usignolo che fu presto ripreso da un altro e da un altro ancora. L’aria fresca portava con sé i profumi dei fiori selvatici e delle rose tardive, piccole e bianche come fiocchi di neve. In lontananza iniziò a sentirsi il ritmico pulsare di un dhol. In India la vita era scandita da quel suono: ogni tempio, ogni altare ne aveva uno, i sacerdoti li suonavano per chiamare a raccolta i fedeli. Mi chiesi quale divinità, attraverso i suoi portavoce, stesse chiamando alla preghiera gli uomini a quell’ora tarda. Arrivammo al cancello e il custode, che viveva in una piccola costruzione lì accanto, venne subito ad aprirlo. Dopo avermi salutata Luke si allontanò. Il custode richiuse il cancello e, prima che si allontanasse, gli chiesi se sapeva cosa stava succedendo in città, mi rispose che quella notte si festeggiava la ricorrenza del matrimonio tra Rama e Sita. Mi sarebbe piaciuto assistere ai riti ma sapevo che agli europei non era permesso. Rimasi a lungo con una mano appoggiata al cancello e lo sguardo volto verso la città. Ben presto al suono dei tamburi si unì quello profondo delle campane di bronzo e quello più trillante dei campanelli di rame e, per ultimo, lo squillo delle trombe. Mi resi conto che si stava facendo tardi, così a malincuore mi allontanai. Rientrata scoprii che si erano già tutti ritirati quindi salii di sopra ed entrai in camera mia. Mi cambiai e, indossata una vestaglia pesante, uscii sulla terrazza seguita da Silam. Mi sedetti e appoggiai le spalle contro la balaustra, chiusi gli occhi concentrandomi sulla musica che veniva dalla città. Li riaprii sentendo dei passi e vidi Elisa avvicinarsi. Sedette accanto a me, stava per parlare quando sentì i suoni della festa. Mi guardò con espressione interrogativa così le riferii ciò che mi aveva detto il custode e alla fine commentò, come già avevo fatto io, che le sarebbe piaciuto vedere i festeggiamenti. Continuammo a parlare per un po’ delle usanze locali poi discutemmo un programma per il giorno dopo e decidemmo di portare Miranda al bazaar poiché ci aveva confidato di non essere ancora riuscita a comprare nulla da regalare ai suoi genitori. Ci mettemmo d’accordo di uscire alle sette in modo da avere tutto il tempo per fare le cose con calma, dopo di che ci ritirammo. Prima di coricarmi lasciai gli scuri aperti, così la luce del mattino mi avrebbe svegliata per tempo, carezzai Silam e spensi la lampada.

La mattina seguente uscimmo, come previsto, alle sette. Raggiungemmo il bazaar in poco tempo, Miranda si stupì di quanto fosse ampio, disse che fino a quel giorno era convinta che Kanpur avesse i bazaar più forniti. Le spiegammo che quello era il mercato principale di Lucknow ma che ce n’erano di più piccoli. Proseguimmo il giro, lei si guardava attorno con attenzione poiché doveva trovare i regali per i suoi genitori. Finalmente trovò quello che cercava: una collana di diaspri e argento per sua madre e un pugnale istoriato per il padre. Decidemmo di non tornare subito alla Residenza ma di camminare ancora un po’, così ci avviammo per le vie della città finché ci trovammo in riva al fiume. Camminammo a lungo sulle rive del Gomati indicando a Miranda tutti gli scorci più belli e raccontandole, quando la conoscevamo, la storia dei vari monumenti. Lei si guardava attorno interessata ponendoci diverse domande.

A un certo punto vedemmo un tempio ricoperto, fin dove poteva arrivare un uomo, di fiori. Ci avvicinammo e io chiesi a una donna che ne usciva il motivo di tutte quelle ghirlande, mi rispose che quello era il tempio di Rama e che la notte precedente si era concluso un chutti in onore suo e della sua sposa, quindi si allontanò. Alzai gli occhi all’entrata del tempio, posta una ventina di scalini sopra la strada e impulsivamente iniziai a salirli. Avevo sentito spesso Umi invocare il nome del dio e ora desideravo vederlo. Arrivata all’entrata vidi alcune paia di sandali allineati ordinatamente sull’ultimo gradino. Mi voltai per dire alle mie compagne di togliersi le scarpe prima di entrare e mi accorsi che erano rimaste in fondo alla scalinata. Feci loro segno di aspettarmi poi, scalza, entrai. All’interno il tempio appariva buio, ma a mano a mano che la vista si abituava i muri, il soffitto a cupola e perfino il pavimento andavano animandosi di centinaia di sculture a bassorilievo. Al centro dell’unica sala troneggiava l’imponente statua del dio: era alta tre metri e rappresentava Rama in piedi con in mano un arco e una freccia, la testa era cinta da una corona dorata finemente lavorata e sul petto portava i simboli del suo rango. Ricordava, nella posa, l’Apollo vincitore che avevo visto in una stampa.

Era una figura superba.

Al suo fianco stava la statua, di dimensioni più ridotte, di una donna molto bella, dai lineamenti delicati, vestita di un sari intessuto d’oro. Immaginai che fosse Sita. Ai piedi delle statue stavano centinaia di candele, bastoncini d’incenso e altre offerte come spezie, daal, ghee, oli profumati e anche monete. Mi resi conto che non potevo andarmene senza offrire qualcosa anch’io così mi slacciai un piccolo braccialetto d’argento e lo posai ai piedi delle due statue. Avevo comprato quel bracciale pochi giorni prima, era molto sottile e mi era piaciuto proprio per questo, sperai che piacesse anche alle divinità. Giunsi le mani, mi piegai lievemente nel namaste e uscii.

Quando tornammo a casa scoprimmo che durante la nostra assenza erano giunti il comandante della guarnigione di Gorakhpur e la moglie e nel tardo pomeriggio arrivò anche il comandante della guarnigione di Varanasi con la sua famiglia. La cena si svolse in un clima vivace, un altro giovane si era unito alla compagnia: Byron Parker, ventenne figlio del comandante di Varanasi. Era un ragazzo allegro, appassionato di storia orientale e conosceva molte leggende che fu felice di raccontarci. Dopo cena noi quattro ci sedemmo in biblioteca, dove erano state portate altre due poltrone, e lo ascoltammo attente, ridendo di tanto in tanto per la sua buffa recitazione.

Il mattino seguente la sarta mi consegnò il vestito che venne subito sistemato, ancora nella sua scatola, sul fondo del baule che avrei portato ad Agra.

Era l’antivigilia e noi passammo parte del pomeriggio a incartare i regali e a sistemarli sotto l’albero. Verso le quattro uscimmo a cavallo, era una piacevole giornata: in cielo erano sparse nuvole bianche, simili a batuffoli di bambagia, che si muovevano spinte dal vento e alcune anatre selvatiche volavano veloci. C’era tanta pace, nei campi i contadini lavoravano la terra e ogni tanto incontravamo qualche venditore ambulante che veniva dalla città o vi si recava per i suoi commerci. Byron ci raccontò di Varanasi e della vita sul Gange, sulle rive del quale sorgeva la città. Vedendo il sole sfiorare l’orizzonte decidemmo di rientrare.

Il giorno della vigilia passò in fretta e finalmente venne Natale. La mattina Elisa e io ci svegliammo molto presto, ci vestimmo e attraversammo il lungo corridoio, fino alla porta delle stanze dei nostri genitori, facendo attenzione a non fare rumore per non svegliare i nostri ospiti. Entrammo nella camera da letto di mamma e papà e li destammo augurando loro buon Natale, quindi lasciato loro appena il tempo di indossare la vestaglia, scendemmo tutti e quattro e ci avvicinammo all’albero decorato, nella sala da ballo, sotto il quale avevamo messo i regali. Seduti per terra ci scambiammo i doni chiacchierando e ridendo. C’era un’atmosfera strana: in Inghilterra eravamo abituati a vedere la neve fuori dalle finestre e a sentire ancora il freddo della notte indugiare negli ambienti, qui invece faceva quasi caldo e il panorama era primaverile.

Eppure era Natale. Quella sera ci sarebbe stato il ballo con un grande rinfresco. Le cucine erano in attività da prima delle cinque e il profumo dei dolci, sia per il pranzo che per la sera, aleggiava nella casa.

Sentimmo dei rumori al piano di sopra e comprendemmo che i nostri ospiti si stavano svegliando, così mamma e papà salirono per vestirsi. Due cameriere entrarono e iniziarono a pulire. Mia sorella e io lasciammo il salone, sapendo che saremmo state di intralcio alla servitù che per il ballo della sera aveva un gran da fare.

Dopo colazione ci avviammo a piedi verso la chiesa. Nella piazza antistante incontrammo gli altri abitanti del presidio e ci scambiammo gli auguri, rinnovando gli inviti per la sera poi, quando i rintocchi della campana vibrarono nella limpida aria mattutina, entrammo in chiesa.

La funzione fu lunga ma molto bella e le parole del sermone che invitavano alla pace e all’amore reciproco furono accolte con commozione dalla folla dei fedeli. All’uscita ci vennero incontro Alexander, Luke e Daniel che ci invitarono a fare una passeggiata. Gli presentammo Byron al quale estesero l’invito e dopo aver avuto il permesso dai nostri genitori, accompagnate da Umi e Patal che avevano atteso fuori dalla chiesa, ci avviammo. Le strade del presidio erano gremite di persone come mai prima e ovunque regnava un’atmosfera allegra. Nella piazza principale campeggiava un grande albero decorato, sulla cima del quale brillava nella luce del sole una magnifica stella dorata. Le case erano tutte decorate con ghirlande verdi e rosse e nell’aria si spandeva, dalle molte cucine, il profumo dei tradizionali piatti natalizi. Passando davanti al fioraio vedemmo che aveva messo in vendita dell’agrifoglio appena arrivato dall’Europa e i nostri accompagnatori ce ne offrirono un rametto ciascuna. Arrivati al maidan una fresca brezza fece ondeggiare i nostri leggeri mantelli. Mi sentivo allegra, avevo voglia di cantare e di mettermi a ballare, incurante dei passanti. Notando il mio particolare umore Luke mi prese sottobraccio e iniziò a raccontarci le sue avventure del Natale precedente. Aveva un modo così esilarante di narrare che facevamo fatica a contenere le risate. Il tempo passava svelto e fummo presi alla sprovvista quando sentimmo un orologio battere le dodici.

Arrivati al cancello della Residenza ci accomiatammo dai nostri accompagnatori e noi tre ragazze assieme a Byron tornammo a casa.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII

 

 

Il pranzo di Natale si svolse nell’allegria generale della casa. Come era abitudine nella nostra famiglia al tavolo sedeva anche quella parte di servitù che festeggiava la ricorrenza: Bettine e le due cameriere, Annie e Mary. Le portate si susseguivano non troppo velocemente, erano infatti già le due e mezza quando fu portato in tavola il dolce tradizionale: il Christmas pudding, abbondantemente cosparso di brandy al quale era stato dato fuoco. Appena le fiamme si furono consumate mamma si alzò e iniziò a tagliarlo a fette che furono via via passate attraverso la tavola finché ognuno di noi ne ebbe ricevuta una, quindi ci augurammo reciprocamente di nuovo buon Natale e affondammo i cucchiaini nel dolce.

Dopo pranzo ci ritirammo nelle nostre camere per riposare in vista della serata. Socchiusi la portafinestra per far entrare un po’ d’aria e mi coricai sul letto. Silam si aggirò per la camera finché non ebbe trovato una posizione comoda e si appisolò. Non pensavo che mi sarei addormentata anch’io, invece in breve tempo seguii il suo esempio.

Fui svegliata da un lieve bussare, notai che qualcuno mi aveva steso una leggera coperta addosso e sorrisi pensando che probabilmente era stata Umi, la scostai e mi sedetti sulla sponda del letto. Bussarono nuovamente e ordinai che entrassero. Era Mary, mi salutò chiedendomi se desideravo fare un leggero spuntino, guardai l’orologio e vidi che segnava le cinque e mezza: mancavano tre ore all’inizio del ballo. Le risposi che prima preferivo fare il bagno e le chiesi di farmi portare l’acqua calda. Nella stanza da bagno privata, aiutata dalla cameriera mi spogliai ed entrai nella vasca, congedai Mary che si allontanò dopo aver posato gli asciugamani caldi su di uno sgabello a portata di mano. Uscii dall’acqua venti minuti dopo e mi avvolsi in un grande telo ancora tiepido. Tornai in camera e suonai il campanello. Quando arrivò Mary mi aiutò a indossare corsetto e sottovesti quindi la pregai di portarmi il vassoio della cena poiché desideravo mangiare prima di finire di vestirmi. Sedetti alla petineuse e, da un cassetto segreto a molla, presi il portagioie. Ne estrassi la parure di diamanti e topazi rosa, la posai sul piano e nascosi nuovamente lo scrigno. Dal piano di sotto arrivava la musica: l’orchestra stava provando i brani per la festa.

Rintoccavano le sette e trenta quando Mary tornò con il vassoio e lo posò sul tavolino. Si allontanò per aiutare mia sorella e io iniziai a cenare. Silam aveva sentito il profumo del cibo, così si avvicinò, divisi con lui le tartine tiepide e bevvi il tè alla menta che le accompagnava. Pensai con un sorriso che un anno prima ero ancora in Inghilterra, non mi sembrava possibile che fosse passato solo un anno. Erano successe tante cose dal Natale precedente che a volte stentavo a capacitarmene: l’ordine del Re, il salutare tutte le amiche, il viaggio e la nuova vita che conducevamo ora. E adesso era nuovamente Natale, il primo in India. Sospirai felice, posai la tazza sul vassoio e diedi l’ultima tartina a Silam quindi mi alzai e, sciacquate mani e viso, suonai il campanello. Arrivò una cameriera indiana seguita da Annie, la prima portò via il vassoio, mentre la seconda mi aiutò a indossare il vestito e mi acconciò i capelli, impreziosendo la pettinatura con un filo di piccoli diamanti, infine indossai la parure, le scarpe e i guanti. Annie chiuse sul mio polso destro il braccialetto poi si ritirò. Andai davanti al grande specchio del mio armadio e mi osservai con occhio critico: l’abito di chiffon era piuttosto ampio, la gonna cadeva a terra in quattro balze tagliate a guisa di petali, il cui bordo, il corpetto e le piccole maniche erano impreziositi da delicato pizzo veneziano. Il colore, rosa pesca, molto intenso alla vita, andava sfumando verso l’orlo della gonna e verso la scollatura a V. Mossi la testa facendo dondolare i pendenti degli orecchini: a ogni movimento, colpite dalla luce, le pietre della parure brillavano. Soddisfatta tornai alla petineuse, misi qualche goccia di profumo poi, seguita da Silam, uscii dalla camera e mi sedetti nel salottino. Poco dopo fui raggiunta da Elisa che fece una giravolta per farsi ammirare e insieme aspettammo l’arrivo dei nostri cavalieri. Il semplice corpetto in raso del suo abito sbocciava in due maniche a sbuffo e la gonna era divisa in due parti: una sopragonna, sempre di raso, si fermava a circa sessanta centimetri da terra un po’ più alta a destra trattenuta da una spilla di perle grigie, mentre la gonna vera e propria era formata da più strati di tulle e si allungava un poco sul dietro. Il vestito era grigio argento così come i guanti lunghi. Al collo portava una collana di magnifiche perle grigie delle quali erano composti anche gli orecchini e il bracciale. Aveva un’aria un po’ nervosa e guardava spesso l’orologio. Finsi di non notarlo e andai alla finestra, nel cielo brillavano le prime stelle, essendo il sole tramontato da poco. Sobbalzai quando, passate da poco le otto e tre quarti, bussarono, una giovane cameriera annunciò che il capitano Tyler e il capitano Preston attendevano in salotto e che tutti gli ospiti erano arrivati. Elisa si alzò e scese di sotto, io mi attardai un momento per prendere il ventaglio, poi la seguii.

Quando entrai nel salotto Luke rimase un attimo a guardarmi quindi si avvicinò. Salutandolo gli porsi la mano che si chinò a baciare, poi mi sorrise con ammirazione:

«Sei bella, molto bella.» disse. Arrossii e lo ringraziai, anche lui era affascinante con l’uniforme di gala.

Entrammo nel salone raggiungendo la mia famiglia. Quando fummo riuniti papà diede formalmente il benvenuto a tutti i presenti con un breve discorso, quindi fece un cenno all’orchestra, e con la mamma aprì le danze. Poco dopo Luke mi prese la mano e iniziammo a volteggiare sulle note del valzer. Molte altre coppie stavano ballando e fra esse riconobbi Miranda e Daniel, vidi di sfuggita anche mia sorella con Alexander e sorrisi poiché andava tutto bene. Luke mi chiese il perché di quel sorriso particolare, sapevo di potermi fidare di lui così gli raccontai del mio ruolo di sensale e lui mi offrì il suo aiuto. Le tre polke seguenti ci lasciarono poco tempo per parlare e quando finalmente la terza finì chiesi una tregua per riprendere fiato. Luke mi accompagnò a un divanetto libero accanto a una finestra, poi si allontanò dirigendosi al buffet. Mi guardai intorno: centinaia di candele ardevano sui supporti, illuminando la sala quasi a giorno, l’albero troneggiava nel suo angolo, splendente di colori, e tralci di vischio e agrifoglio decoravano gli stipiti di porte e finestre. Una composizione di agrifoglio e rami di pino decorava l’ampio arco, ora aperto, che metteva in comunicazione la sala da ballo con la sala da pranzo privata che ospitava il grande tavolo del buffet e, nell’angolo di fronte, su una pedana rialzata, l’orchestra suonava incessantemente. In quel momento mi passarono davanti, ballando, Byron e Miranda che salutarono prima di allontanarsi nelle figure del minuetto. Tornò Luke che mi offrì una coppa di punch fruttato e sedette accanto a me. Scambiammo alcuni commenti sulla serata e parlammo di vari argomenti per un po’. Quando sentimmo le prime note della quadriglia si alzò e, offertami la mano, ci avviammo velocemente a prendere posto con le altre coppie per il ballo. Ci ritrovammo alla fine dell’ultima complicata figura nuovamente l’uno di fronte all’altra e quando iniziò un valzer continuammo a ballare. Il tempo passava velocemente, verso mezzanotte facemmo un’altra pausa per mangiare qualcosa e Luke propose di fare quattro passi in giardino. Così, dopo essere andata a prendere uno scialle, uscimmo. La brezza fresca era piacevole sul mio viso accaldato, respirai felice l'aria frizzante canticchiando il motivo che filtrava dalle finestre del salone. Luke sorrise e accennò due giri di valzer facendomi piroettare vorticosamente. Ci fermammo ridendo poi, sottobraccio, ci avviammo verso le scuderie. Camminammo un po’ in silenzio poi lui si fermò e, dalla tasca interna della giubba, estrasse un pacchetto che mi porse:

«Per te,» disse «buon Natale, Marina.»

«Luke non dovevi!» protestai «Non è giusto, io…»

«Forse non dovevo,» mi interruppe «ma mi faceva piacere farlo.» così dicendo mi mise in mano il regalo,

lo aprii e vidi, posata sul fondo di velluto bianco, una catenina d’oro alla quale era appesa una piccola acquamarina tagliata a goccia, incastonata in una sottile montatura d’oro.

«Grazie Luke, è davvero molto bella.» mormorai commossa.

«Di nulla milady, sono felice che ti piaccia.»

Sorrisi e, sollevatami sulle punte, gli posai un bacio sulla guancia. Sorrise a sua volta e mi offrì nuovamente il braccio, richiusi la custodia e continuammo la passeggiata.

«Sai l’acquamarina è forse la pietra che preferisco.» gli dissi.

«Allora ho indovinato, a dire la verità immaginavo dovesse piacerti poiché un giorno mi dicesti che l’azzurro è il tuo colore preferito.»

«Hai buona memoria, io non rammento di avertelo detto.»

Proseguimmo in silenzio, passeggiando a lungo nel parco.

Era l’una passata quando rientrammo. Salii un momento in camera per riporre scialle e regalo e lui mi seguì curioso di vedere la casa. In cima alle scale incontrammo Silam e Luke si sedette sull’ultimo scalino a coccolarlo un po’, avevano fatto amicizia il pomeriggio del tè all’aperto e andavano piuttosto d’accordo. Tornai poco dopo e scendemmo nuovamente. Nel salone la musica e i balli continuavano, si avvicinò Elisa per sapere dove fossimo finiti. Apparentemente nessun altro sembrava aver notato la nostra assenza. La festa andò avanti fino alle tre passate quando molti dei presenti decretarono che erano di gran lunga troppo stanchi per continuare a ballare. Allora, a un cenno di papà, l’orchestra attaccò l’inno inglese e l’intera sala si alzò in piedi, dopo di che salutammo gli ospiti uno a uno, mentre si allontanavano. Gli ultimi ad andarsene furono i tre militari, li accompagnammo fuori per pochi passi prima che si congedassero. Quindi rientrammo e salimmo nelle nostre stanze.

Indossata la camicia da notte andai a salutare mia sorella. Entrata nella sua stanza la trovai, ancora vestita, appoggiata allo stipite della finestra con lo sguardo perso nel vuoto. Mi avvicinai al tavolino da notte e accesi la lampada per rischiarare la stanza, quindi mi accostai e la scossi gentilmente.

«Elisa, cosa fai ancora vestita?»

Parve rendersi conto solo in quel momento della mia presenza e sorrise.

«È stata una bella serata, vero?» chiese.

«Sì, ma è stata anche molto lunga, dobbiamo andare a dormire. Vieni, ti aiuto a togliere il vestito.»

Annuì e mi volse la schiena, le slacciai i gancetti che lo chiudevano, poi l’aiutai a sfilarlo e, mentre lei terminava di svestirsi, lo riposi nell’armadio.

Indossata la vestaglia sedette alla petineuse e io le sciolsi i capelli, un piccolo rito serale a cui tutte e due eravamo fedeli da quando eravamo piccole; infine ci sedemmo sul suo letto.

«A cosa stavi pensando prima?»

«Se prometti di non prendermi in giro ti rivelo un segreto.» al mio cenno affermativo proseguì: «Marina, credo di essermi innamorata di Alexander.»

«Elisa ma è magnifico! Perché mai dovrei prenderti in giro, è una notizia splendida.» esclamai.

«Come perché! Da che l’ho conosciuto non ho fatto altro che dire di non volerlo vedere perché mi era antipatico!»

Sospirai sorridendo «Speravo, sai, che tu non dicessi seriamente. Formate una coppia magnifica, questa sera vi guardavano in molti.»

«Ho notato che guardavano anche te e Luke Tyler, non è che devi dirmi qualcosa anche tu?»

Scossi la testa «No, non devo dirti nulla. Luke è tanto caro ma la nostra è solo amicizia.»

Mi guardò dubbiosa «Da come ti guarda non si direbbe.»

«Non mi guarda in nessuna maniera e se ti è sembrato il contrario, allora hai frainteso.»

«Può darsi, forse è perché sono così felice e vorrei che lo fossi anche tu.»

«Ma lo sono Elisa. Sono tanto felice per te.»

«No, intendevo dire che vorrei che tu provassi questa felicità in prima persona. È così bello essere innamorata, sai?» sospirò.

Sorrisi, mi alzai e le diedi un bacio sulla fronte.

«Dormi adesso, è quasi l’alba e siamo stanche. Parleremo più tardi. Buona notte.»

«Buona notte, Marina.»

Spensi la lampada e mi chiusi la sua porta alle spalle, entrai in camera togliendomi la vestaglia e, controllato che Silam dormisse tranquillamente, mi coricai.

 

Dormii profondamente fin oltre l’ora di pranzo. Fu mamma a svegliarmi portandomi un vassoio sul quale erano posati toast caldi imburrati e un piatto di uova strapazzate. Sedette sul bordo del mio letto dopo avermi posato il vassoio in grembo. Disse che si erano già svegliati tutti e che mancavamo solo Elisa e io. Desideravo avere la sua opinione su quanto mi aveva detto Elisa ma ero quasi certa che mamma non ne sapesse ancora nulla, così continuai a mangiare in silenzio ascoltando il programma per la giornata che mi stava riferendo. Era stato deciso di fare un giro in carrozza per le vie di Lucknow e alle cinque di fermarsi nella sala da tè che un’intraprendente signora aveva aperto in centro città quasi due anni prima. Era un posto rinomato dove si poteva incontrare tutta l’aristocrazia, sia europea che indiana. Saremmo rientrati in tempo per prepararci in vista della serata al circolo ufficiali.

Mentre parlava avevo finito di mangiare così prese il vassoio e, dopo avermi detto che ci avrebbero attese di sotto, uscì dalla camera. Ero contenta di vederla così rilassata. I primi tempi sembrava sempre aspettarsi che accadesse qualcosa di brutto. Non potevo darle torto vista la sua precedente esperienza in India, ma ora mi rallegrava vedere che era tornata a essere la donna dolce e allegra che era sempre stata. Finii velocemente la toeletta e uscii dalla camera, mi accorsi allora che Silam non era più nella stanza e pensai che probabilmente era uscito insieme a mia madre. Bussai alla porta di Elisa che comparve pochi istanti dopo, tenendo in mano il cappello in vista dell’uscita, così presi il mio parasole e scendemmo di sotto. Un allegro vociare ci guidò all’esterno dove mamma, papà e i nostri ospiti ci attendevano vicino a cavalli e carrozze. Salutati i presenti Miranda, Elisa e io salimmo sul primo landò insieme a Umi mentre mamma, la signora Scott e le altre due signore presero posto nel secondo. Attendemmo che gli uomini fossero montati in sella e partimmo. Appena fummo fuori dall’ombra protettiva degli alberi aprii l’ombrellino per difendermi dal sole imitata da Miranda. Attraversando il presidio salutammo i vari conoscenti che incontravamo e finalmente ci avviammo per le vie della città.

Lucknow era molto grande e bella, sede del governo britannico nell’Uttar Pradesh godeva di tutti i privilegi di un centro di potere. Papà aveva in mano le redini di una delle regioni più ricche di tutta l’India. Mi trovai a riflettere su ciò che questo significava, dei pericoli che poteva comportare. Era strano ma fino a quel momento non avevo collegato gli avvenimenti di un mese prima con il lavoro di mio padre. Mi riscossi pensando che era inutile preoccuparsi di eventualità che potevano benissimo non accadere e tornai a prestare attenzione alla conversazione in atto. Byron si era accostato alla carrozza e ascoltava con interesse le spiegazioni di mia sorella, papà ci aveva raccontato spesso la storia della città e ora noi due la raccontammo ai nostri amici.

Ci fermammo a visitare il Nadan Mahal ammirando le linee semplici e classiche della tomba, gli archi lobati, il loggiato e il vicino minareto. Parole tratte dal Corano e dagli insegnamenti degli Illuminati erano scolpite sul portale e lungo il basamento dell’edificio a protezione e guida dell’anima del defunto.

Visitammo anche il tempio di Visnu: un’alta costruzione con il tradizionale tetto a ripida piramide ricoperto da magnifiche sculture che rappresentavano le gesta del dio, quindi ci dirigemmo alla sala da tè.

Il locale si trovava al pian terreno di un’elegante palazzina indiana, la volta della grande sala era sostenuta da molte colonne che creavano l’illusione di una galleria che corresse intorno al salone centrale, in mezzo al quale gorgogliava una fresca fontana. Tutto l’ambiente era rivestito di marmo bianco e illuminato da ampie bifore protette da persiane a delicato intaglio nel più puro stile indiano. Il brusio sommesso dei clienti proveniva da séparé, creati fra le colonne della galleria, arredati con tavolini bassi e morbidi cuscini su cui sedersi. L’aroma del tè speziato si diffondeva nell’aria insieme a quello dei dolcetti allo zenzero e alla cannella. Giovanissime cameriere in sari si muovevano silenziosamente in quell’ambiente lussuoso ma rilassante e la padrona della sala passava da un séparé all’altro per controllare che i clienti fossero soddisfatti. Quando entrammo ci venne incontro sorridendo e ci accompagnò in una saletta appartata dove ci accomodammo. Anche questa sala, come la principale, era di marmo bianco e una piccola fontana zampillava rinfrescante al centro. I tavolini e i cuscini erano disposti tutt’intorno e le finestre, schermate dalle persiane, lasciavano entrare l’aria profumata dei giardini che circondavano il palazzo decorato all’esterno con stucco azzurro, al quale doveva il nome di Nilam Mahal. Due cameriere portarono i vassoi del tè e dei dolcetti insieme a coppe colme di frutta, secca e fresca, già sbucciata e tagliata. Così, servendoci di melone, mango, datteri e dolcetti, sorbimmo l’aromatico tè al cardamomo che era la specialità della casa, conversando piacevolmente.

 

Rientrammo che era quasi buio e ci preparammo per la serata. Come sempre in ritardo per essermi persa in fantasticherie, indossai un semplice abito azzurro, agganciai al collo la piccola acquamarina dono di Luke e, preso uno scialle, raggiunsi gli altri al piano di sotto. Essendo la sera mite ci avviammo a piedi verso il circolo ufficiali. Appena entrati Luke si avvicinò e mi scortò a uno dei tavoli apparecchiati per quattro, Alexander e mia sorella ci raggiunsero e sedemmo. Luke notò il pendente al mio collo e sorrise. La cena fu servita quasi subito. Gli addobbi della sala non erano dissimili a quelli che decoravano la Residenza e l’aria profumava di aghi di pino. Le conversazioni che si svolgevano ai vari tavoli creavano un allegro brusio arricchito a tratti da scoppi di risa. L’allegria generale aveva contagiato tutti e fece sì che il tempo volasse fra brindisi, giochi e balli. A un certo punto Alexander ed Elisa si avvicinarono a Luke e me e ci fecero segno di uscire.

Camminammo per le strade illuminate dalla luna fino ad arrivare al maidan, quando sbucammo nella grande piazza d’armi si voltarono a guardarci.

«Volevamo che foste i primi a saperlo,» esordì Alexander «pochi minuti fa ho chiesto a Elisa di sposarmi e lei ha accettato.»

Con un’esclamazione di gioia abbracciai mia sorella che sorrideva felice, poi mi voltai verso il mio futuro cognato che stava ricevendo le congratulazioni da Luke.

«Alexander sono molto felice per tutti e due, ma stai attento: vedi di renderla felice o dovrai vedertela con me!» esclamai abbracciandolo.

«Quando contate di sposarvi?» volle sapere Luke.

«Calma, devo prima convincere il colonnello a concedermi la mano di Elisa, poi penseremo alla data.»

«Io spero che papà acconsenta.» mormorò seria mia sorella.

«Che acconsenta?» esclamai «Volete dire che nessuno dei due si è accorto di nulla?»

Mi guardarono stupiti mentre Luke sghignazzava senza ritegno. Gli diedi una piccola gomitata e proseguii:

«Elisa, io ho fatto di tutto perché voi due aveste la possibilità di conoscervi bene e capire che eravate fatti per stare insieme, ma pensi davvero che ci sarei riuscita senza aiuto?»

«Vuoi dire che…»

«Ma certo! Papà era il mio complice, altrimenti come spieghi che affidava sempre ad Alexander gli incarichi al nostro fianco?»

«Io pensavo che lo facesse perché mi reputava un buon ufficiale, affidabile.» intervenne contrariato il capitano.

«Naturalmente. In caso contrario non solo non mi avrebbe aiutata ma ti avrebbe tenuto il più possibile lontano da Elisa.» conclusi.

«Papà è d’accordo…» la sentii mormorare «Papà è d’accordo!» esclamò poi con più forza.

Alexander l’abbracciò «Gli parlerò domattina stessa.» le promise.

Li lasciammo soli e ci avviammo nuovamente verso il circolo ufficiali. Luke mi fermò vedendomi pensierosa:

«Ti senti bene?»

Annuii «La renderà felice, ne sono sicura.»

«Allora perché quell’espressione mesta?»

«Non so. Siamo gemelle, la sua felicità è la mia…» mi interruppi «Forse ho solo paura di sentirmi sola…» tentai di sorridere ma due lacrime mi rigarono le guance.

«Dolce Marina.» sussurrò stringendomi forte «Tu non sarai mai sola, te lo prometto.»

Appoggiai il viso sul suo petto e lasciai che mi cullasse un poco, poi mi scostai. Lui mi porse il suo fazzoletto perché asciugassi gli occhi, quindi:

«Vieni, facciamo ancora due passi.»

L’aria fresca fece sparire in fretta i segni delle lacrime e quando rientrammo nella sala nessuno si accorse di nulla.

Venne presto il momento di tornare a casa.

«Grazie.» dissi a Luke al momento di salutarlo.

«Di nulla. Ricordati quello che ti ho detto e quando avrai bisogno sai dove trovarmi, d’accordo?»

«Va bene. Sciubh ratri, Luke.»

Sorrise «Sciubh ratri, cara.»

Gli restituii il sorriso e mi allontanai raggiungendo gli altri.

 

Fedele alla sua parola l’indomani mattina alle nove, Alexander si presentò alla Residenza per parlare con papà. I due si ritirarono nello studio, con loro andò anche mamma. Noi ragazze eravamo in biblioteca ad aspettare. Mia sorella, nonostante le mie parole della sera precedente, era tesa allo spasimo e sobbalzava a ogni piccolo rumore. Non sapendo cosa dire per tranquillizzarla, le rimasi accanto in silenzio mentre Miranda fingeva di ricamare seduta in poltrona. Il nervosismo alla fine contagiò anche me e il mio cuore mancò un battito quando la porta si aprì di colpo. Entrò Alexander e si avvicinò a mia sorella, rimase in silenzio a guardarla con un’espressione indecifrabile poi finalmente:

«Il ventisei giugno ti va bene?» chiese.

«Cosa?» sussurrò Elisa.

«Se il ventisei non ti piace scegli un altro giorno, ma penso che ti servirà qualche mese per preparare corredo e abito da sposa e poi…» si interruppe vedendo le lacrime sgorgare dagli occhi di mia sorella «Cosa c’è?»

«Stupido...» disse lei e sorrise, e fu come se un raggio di sole la illuminasse all’improvviso.

Continuarono a guardarsi, io e Miranda ci allontanammo in silenzio lasciandoli soli.

Elisa accettò la data e a pranzo fu deciso di trasformare il ballo della sera dell’ultimo dell’anno in una festa di fidanzamento. La giornata passò in un lampo e a sera io e mia sorella uscimmo nel parco a fare due passi, seguite da Silam. La tigre era un po’ disorientata dall’agitazione che era regnata in casa per tutto il giorno. Camminammo in silenzio fino alla radura dove sedemmo sulla coperta che avevo portato e steso sull’erba, Silam si accoccolò dietro di noi facendoci da schienale e si appisolò. Il sole stava tramontando e in alto, sopra le cime degli alberi, il cielo si era fatto violetto. Un usignolo iniziò a cantare dolcemente, accompagnato dal mormorio del ruscello che ci scorreva accanto: era una serata magnifica. Rimanemmo entrambe a guardare il cielo che si scuriva e prendeva vita con l’accendersi delle prime stelle. Poco a poco si levò il frinire dei grilli che fece da contrappunto al canto degli uccelli notturni. L’aria era piuttosto fresca ma conservava il dolce profumo di sempre. Il tepore emanato dal soffice corpo di Silam ci scaldava piacevolmente la schiena.

«Non riesco ancora a crederci.» sussurrò mia sorella nell’oscurità.

«Non ti preoccupare, hai tutto il tempo per rendertene conto appieno.»

«Sì… Sei mesi, è un tempo così lungo… Perché non possiamo sposarci prima?»

«Passeranno in fretta, Elisa, fin troppo. Sarai impegnata nei preparativi e prima di quanto ti aspetti arriveranno le nozze. Disegnerò io stessa il tuo abito, se vuoi.»

«Davvero lo faresti?»

«Ma certo, ci lavoreremo insieme finché non sarà come tu lo desideri, poi lavorerò con la sarta perché sia tagliato e cucito come l’abbiamo immaginato. Alexander ha detto che lord Preston verrà dall’Inghilterra per il matrimonio e noi faremo in modo che vedendoti quel giorno non possa immaginare sposa migliore o più bella per il suo erede. Sarai una magnifica lady Preston.»

«Marina… Grazie sorella, in un attimo hai fugato ogni mia paura. Come sapevi che temevo il giudizio di lord Preston?»

«L’ho immaginato, ti conosco bene e voglio che tu sia felice.»

«Lo so. Quello che più mi rattrista è che non saremo più insieme. Sai, Alexander mi ha detto che dopo il matrimonio dovremo tornare in Inghilterra, magari non subito, ma presto. Però…» si fermò un attimo «Marina, vieni anche tu! Potresti tornare a casa e riaprire Shallowford Hall. In Inghilterra avresti sicuramente molti più corteggiatori e potresti…»

«No, Elisa.» la interruppi «Non tornerò più in Inghilterra, rammenti? Te lo dissi la mattina in cui salpammo da Dover.»

«Ma io pensavo…»

Scossi la testa «Parlavo seriamente. È l’India la mia casa, qui mi sento felice come non mi sono mai sentita prima. Voglio vivere qui, non me ne andrò mai. Forse un giorno mi sposerò anch’io, ma lo farò qui e sempre qui crescerò i miei figli.» le asciugai una lacrima e sorrisi «Sii felice con Alexander, Elisa, e io gioirò con te; e poi la famiglia Preston ha grandi interessi in India quindi tornerete sicuramente per controllarli, e noi potremo vederci. Non sciupare questo periodo con la tristezza di questi pensieri, ma rallegrati perché lui ti ama almeno quanto lo ami tu. Me lo prometti?»

«Va bene, Marina, lo prometto.» mi abbracciò «Ti voglio bene, sai?»

«Anche io, sorellina.» mormorai commossa «Anche io…»

 

I giorni che ci separavano dalla fine dell’anno passarono in un lampo, fra picnic e gite in barca. Il 31 la casa era in preda all’agitazione. Elisa e io passammo la giornata nelle nostre stanze con la compagnia di Miranda e Byron. Umi entrava e usciva in continuazione, seguita da una o più cameriere, per preparare i nostri abiti e gli accessori per la serata, ma anche per finire di riempire i bauli che avremmo portato ad Agra. Era stata felice di sapere che Elisa si sarebbe presto sposata, anche se si era commossa fino alle lacrime all’idea che una delle sue bambine stesse per lasciarla. Entrò Patal che portava sulle spalle il baule delle scarpe, pronto per essere riempito, e lo posò in camera di Elisa. Uscì salutandoci e tornò al suo lavoro.

La giornata passò e quando fu buio ci preparammo. Dal piano inferiore giungevano già i suoni della festa quando uscii dalla mia camera. Elisa mi stava aspettando insieme a Umi che ci diede gli ultimi ritocchi, quindi fece un passo indietro e ci osservò.

«La mia dolce Moti e la mia piccola Lall.» disse usando i nomignoli della nostra infanzia «Siete cresciute in fretta e ora siete due donne e mi fate sentire così orgogliosa di voi… Lall ti auguro tanta felicità con il tuo Alexander, con tutto il mio cuore.»

«Grazie Umi, davvero.» rispose Elisa.

«Ora scendete, bambine, e divertitevi.»

«Lo faremo. Non aspettarci, hai lavorato tutto il giorno e sarai sicuramente stanca. Vai a riposare, noi ce la caveremo.» le dissi.

«Sì Umi, riposati. A domani.»

«A domani, piccole mie.» ci salutò.

Uscimmo dalla camera e raggiungemmo il salone da ballo sulla cui porta ci vennero incontro i nostri cavalieri, insieme ci avvicinammo a mamma e papà. Quest’ultimo fece zittire l’orchestra con un cenno quindi si rivolse agli ospiti ora silenziosi:

«Signore e signori, colleghi, amici… Questa sera siamo qui riuniti per salutare l’avvento del nuovo anno. Questo di per sé è un buon motivo per festeggiare, ma questa sera la mia famiglia è doppiamente felice poiché una splendida notizia ci rallegra e desideriamo condividerla con tutti voi: tre giorni fa uno dei migliori, giovani ufficiali con i quali abbia avuto il piacere di lavorare mi ha chiesto la mano di una delle mie figlie. Ho dunque la gioia di annunciarvi le prossime nozze di mia figlia, lady Elisa, con il capitano Alexander Preston. Che Dio doni lunga vita e felicità ai futuri sposi!» concluse levando il bicchiere.

L’augurio, ripetuto dall’intera sala, fu seguito da un lungo applauso e dalle congratulazioni dei presenti alla coppia.

Elisa, raggiante al braccio di Alexander, salutava e ringraziava gli ospiti mentre il futuro sposo riceveva strette di mano e pacche sulle spalle dai suoi commilitoni. Infine la coppia di fidanzati aprì le danze.

Quella notte il tempo volò.

Mi trovai a rassicurare Luke che stavo bene. Gli raccontai della conversazione che avevo avuto con mia sorella alcune sere prima, e di come mi fossi resa conto che quello che avevo detto era vero. Così, non più preoccupato per il mio stato d’animo, poté recuperare tutto il suo spirito e farmi passare una piacevole serata.

I brindisi di mezzanotte salutarono l’inizio del nuovo anno, in ogni cuore l’augurio che fosse migliore del precedente e la speranza che non risultasse peggiore.

Era ormai l’alba quando salutammo gli ultimi invitati e ci ritirammo, stanchi ma felici, nelle nostre camere.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII

 

 

«Scrivi, Miranda, mi raccomando.»

«Anche voi, amiche mie. Ricordatevi che avete promesso di raccontarmi tutto quello che farete ad Agra.»

«Non temere,» le risposi «arrivederci.»

«A presto, Miranda.» salutò mia sorella.

«A presto!»

La nostra amica agitò una mano mentre ci allontanavamo.

Eravamo a Kanpur, al bivio per Agra. Ci separammo dagli Scott in compagnia dei quali avevamo viaggiato da Lucknow.

Viaggiavamo dall’alba, saremmo arrivati ad Agra e al palazzo del Raja Sardar Singh nel tardo pomeriggio del giorno seguente.

In sella a Hira Kala, affiancata da Elisa su Nilak, seguii la carrozza in mezzo alla folla cittadina. Avevamo dimenticato quanto fosse animata Kanpur, sembrava impossibile ma era ancora più caotica di Lucknow, fu quindi con piacere che ce la lasciammo alle spalle. La strada fuori dalla città attraversava campi coltivati e a tratti incontravamo piccoli villaggi. Allora per un po’ venivamo seguiti da bambini che si rincorrevano e facevano a gara per vedere chi riusciva ad avvicinarsi di più a noi. Si tenevano comunque a distanza, intimoriti dalla scorta di sepoy che ci accompagnava. Patal cavalcava, come sempre, appena dietro a noi e ci indicava scorci del panorama particolarmente suggestivi.

Passammo la notte in un dak-bungalow come durante il viaggio che ci aveva portato alla nostra nuova casa e alle prime luci dell’alba ci rimettemmo in viaggio.

Verso l’una ci fermammo all’ombra di un boschetto poco discosto dalla strada e consumammo le provviste che Bettine aveva preparato per il viaggio. Il sole era caldo, ma una brezza gentile muoveva le fronde degli alberi, in cielo bianche nubi si muovevano come velieri maestosi, cambiando pian piano forma. In quelle metamorfosi pareva potersi riconoscere la forma di fiori e di animali, veri o fantastici; le similitudini scaturivano ora dalla memoria ora dalla fantasia di chi guardava. Stesa sull’erba, col volto in ombra, guardavo incantata quel caleidoscopio di forme chiedendomi quale folletto scherzoso si stesse divertendo a modellare i bianchi batuffoli di bambagia lassù sospesi.

Chiusi gli occhi e mi assopii nel tepore meridiano, cullata dal brusio delle voci dei miei cari e dai mille rumori della natura. Furono quegli stessi rumori a svegliarmi poco più tardi, notai che in quei brevi minuti di sonno molte cose erano cambiate: papà stava dando disposizioni ai sepoy, Patal controllava le selle e i finimenti dei cavalli, mamma e Umi si erano avviate alla carrozza. Solo Elisa era ancora nella stessa posizione: anche lei aveva ceduto alla stanchezza e stava dormendo. Le andai accanto e la scossi gentilmente, svegliandola, quindi raggiungemmo i cavalli. Mi voltai per chiamare Silam ma mi bloccai ricordando che l’avevamo lasciato a Lucknow.

Sospirai e montai in sella.

«Cosa c’è?» chiese Elisa che aveva notato il cambiamento del mio umore.

«Nulla, stavo solo pensando a Silam. Ero abituata ad averlo con noi in viaggio…»

Annuì «Manca anche a me, ma staremo via solo dieci giorni e Bettine ha promesso di occuparsi di lui.»

«Lo so, ma mi sento comunque un po’ in colpa.»

«Non ti preoccupare, starà benissimo. Andiamo, papà sta facendo segno di muovere.»

Così spronammo i cavalli e precedemmo la carrozza.

Procedevamo a passo sostenuto fermandoci solo per far riposare i cavalli. Passai il tempo immersa nei miei pensieri, osservando la natura circostante. Il paesaggio era lievemente collinoso, a tratti coperto da rada giungla. Avvicinandoci alla pianura l’aria si faceva più umida e calda, come se lì la primavera avesse deciso di anticipare. Era quasi il tramonto quando, giunti in cima all’ultimo colle, vedemmo aprirsi ai nostri piedi la piatta valle polverosa dello Yamuna, che scorreva placido e scintillante verso Allahabad e la confluenza col Gange. Incastonata come gemma sulle rive del fiume argenteo stava Agra che brillava magnifica alla luce del sole del tardo meriggio. Appena fuori dalle sue mura rosse era chiaramente visibile, nel suo etereo e diafano splendore, il più grande monumento all’amore mai costruito: il Taj Mahal.

La suggestione della scena era tale da mozzare il respiro. Trattenni Hira Kala per un attimo, poi lo lanciai al galoppo verso la città. Elisa mi seguiva d’appresso e dietro di noi galoppava una parte della scorta. Giunte ai piedi della collina tirammo le redini e attendemmo le carrozze frenando a stento l’impazienza.

Entrammo ad Agra dalla porta nord e ci immergemmo nelle chiassose vie cittadine fino a che arrivammo al Forte Rosso. Il palazzo del Raja Sardar Singh sorgeva a poco meno di un chilometro di distanza circondato da un parco cintato da un muro fortificato alto più di tre metri. Varcata l’imponente cancellata, percorremmo un dritto viale di profumati alberi di canfora le cui fronde impedivano la vista del palazzo, quando finalmente sbucammo dove la strada correva libera. Rimanemmo a bocca aperta per lo stupore: il palazzo era bellissimo. La facciata, lunga più di ottanta metri, era composta da un corpo principale e due ali simmetriche che sporgevano un poco in avanti, uno scalone marmoreo portava a un massiccio portone di metallo sbalzato, ampie bifore e monofore si aprivano come tanti occhi, dal pian terreno e dal primo piano. Sul tetto a terrazza delle due ali si vedevano dei loggiati sostenuti da snelle colonne e archi lobati, ma la cosa più sorprendente era quella che coronava il corpo principale: sostenuta da un imponente colonnato, sormontato da un basso tamburo ottagonale, sorgeva maestosa una cupola, la cui forma dolcemente arrotondata ricordava il seno di una donna. Ai suoi fianchi, discosti di circa sei metri, poggiati su due basamenti identici, svettavano due alti minareti terminanti in due piccole cupole, riproduzione della maggiore. Due metri più in basso di esse correvano ballatoi circolari dai quali, immaginai, dovesse godersi una vista meravigliosa della città.

Il palazzo di marmo grigio sembrava uscito direttamente dai racconti delle “Mille e una notte”, infatti solo nelle fiabe avevo immaginato potessero esistere edifici come quello. Il colore violetto del cielo crepuscolare accresceva l’illusione di irrealtà che circondava quel luogo. L’incantesimo fu rotto dall’improvviso aprirsi del portone dal quale uscirono una schiera di servitori in livrea nera e rossa. Mi resi conto allora di essere arrivata dinanzi al palazzo e di aver fermato Hira Kala senza neppure accorgermene. Un sollecito valletto mi si fece accanto e mi aiutò a smontare di sella, mentre uno stalliere prendeva in consegna lo stallone. Avvicinandomi ai miei famigliari sistemai la casacca del mio completo a pantaloni desiderando per una volta aver montato all’amazzone e aver indossato qualcosa di più adatto, ma Elisa non era del mio parere: «Sai, Marina,» disse appena le fui accanto «fra tutti noi tu sei l’unica il cui abbigliamento non stoni con l’ambiente circostante.»

«È magnifico, vero?» le chiesi indicando il palazzo.

«Dire magnifico è riduttivo, ma non trovo un termine più adatto…»

«Se pensi poi che è stato edificato in un’epoca in cui in Europa si costruiva ancora con il legno…»

«Già, per non parlare del fatto che i nostri edifici più alti contemporanei a questo potrebbero entrare comodamente in metà cupola!»

«Sorprendente, siamo sicuri che sia l’India la nazione da civilizzare?» mormorai.

Elisa stava per aggiungere qualcosa, ma in quel momento dal portone uscì un uomo ben vestito che indossava un turbante, ci venne incontro e salutatici con un lieve inchino, si rivolse a papà:

«Colonnello sahib, io sono Koval Namy segretario di Sua Grazia il Raja Sardar Singh. Ho l’ordine di scortare voi e le signore alla sala dei ricevimenti: Sua Grazia vi attende lì ed è impaziente di darvi il suo benvenuto.»

Al cenno affermativo di mio padre si voltò e ci fece strada verso l’interno.

Appena varcato il portale ci trovammo in un ingresso ampio e fresco, ai cui lati si dipartivano due scaloni che salivano ai piani superiori, mentre dinanzi a noi l’ambiente era chiuso da un colonnato, oltre se ne vedeva un altro verso il quale ci dirigemmo. Superata la prima barriera di colonne vedemmo snodarsi a destra e a sinistra un lungo corridoio, procedemmo e superammo il secondo colonnato. Ci trovammo allora in un vastissimo salone di marmo grigio, altri quattro colonnati creavano agli angoli ambienti più piccoli, disegnando così una sorta di croce al centro della quale in una vasca rotonda gorgogliava musicalmente una fontana. Il marmo era ravvivato da un delicato disegno a intreccio geometrico, creato con ceramica blu, che correva sul pavimento, sulle colonne e, dieci metri più in alto, sul soffitto a volta. Ai lati del salone si trovavano due giardini simmetrici dove aranci, cedri e sicomori ombreggiavano le aiuole. Su questi giardini si aprivano le grandi bifore del salone e molte finestre di altri ambienti che li circondavano. Era chiaro che lo scopo principale di questi due chiostri era fornire luce alle stanze interne del palazzo. Il salone comunicava con i giardini tramite due porte che si aprivano, una di fronte all’altra, sulla linea della fontana interna. Altre due porte, sempre speculari, si trovavano subito prima del colonnato di accesso e davano direttamente sul corridoio. Sulla parete di fondo del salone, proprio al centro, si trovava un’altra porta oltre la quale si intravedeva l’ingresso a un’altra sala che avremmo scoperto essere la sala dei banchetti.

Accanto alla fontana stava ritto un uomo riccamente vestito, il turbante ornato da un diamante e una piccola piuma bianca, era anziano e aveva la barba tinta con l’henné. Sorridemmo riconoscendo in lui il Raja incontrato a Bombay. Quando gli fummo davanti congedò il segretario e ci sorrise con calore:

«Colonnello, signora, mie care fanciulle sono così lieto che siate arrivati. Immagino che sarete esausti, vi farò subito accompagnare nelle stanze che ho fatto preparare per voi, ma prima volevo salutarvi e darvi il benvenuto nella mia casa.»

«Vi ringraziamo, Vostra Grazia, per l’invito,» disse papà «è stata davvero una sorpresa gradita.»

«Sì, eravamo lieti di potervi incontrare» intervenne la mamma «soprattutto dopo che le ragazze ci hanno tanto parlato di voi.»

«Davvero avete parlato di me, bambine?» chiese guardando Elisa e me.

«Sì Altezza,» risposi con un lieve inchino «dopo l’incontro a Bombay abbiamo pensato spesso a voi.» sorrisi «Neppure voi ci avete dimenticate però: Hira Kala e Nilak ne sono la prova, così come il vostro invito.»

«I cavalli sono magnifici,» confermò Elisa «non avreste potuto farci regalo che ci rendesse più felici, Altezza.»

«Ne sono lieto.» disse il Raja «Ma ora venite, vi condurrò io stesso alle vostre camere. Vi farò portare la cena di modo che possiate mettervi a vostro agio. Domani, quando sarete riposati, vi farò visitare il palazzo e i giardini che lo circondano, domani sera poi cenerete insieme a me e agli altri ospiti che aspetto.»

«Vi ringraziamo per la premura, Altezza.» rispose mamma con un sorriso.

Il Raja batté le mani e subito tre cameriere e un valletto accorsero e si inchinarono prima a lui poi a noi.

«Queste persone saranno al vostro servizio fino a che resterete qui.» ci disse.

Quindi fece strada e noi lo seguimmo.

Tornati all’ingresso salimmo lo scalone di destra. Arrivati al piano di sopra notai, di fronte all’ampio ballatoio, una larga ma breve scalinata sormontata da un fitto colonnato. Ero incuriosita ma il Raja aveva già imboccato il corridoio a destra di questo così proseguii anch’io. Superammo una curva a destra e due a sinistra quindi ci fermammo dinanzi a una porta che una delle cameriere si affrettò ad aprire.

«Mia cara lady Marina,» disse il nostro ospite «questa è la Stanza delle Stelle, ho pensato che ti sarebbe piaciuta. Samson» indicò la cameriera «si prenderà cura di te.»

Lo ringraziai e loro proseguirono.

Elisa ebbe la camera accanto alla mia e i nostri genitori quella successiva. Umi e Patal, con loro sorpresa, furono fatti accomodare in due piccole stanze, di fronte a quella di mamma e papà, che prendevano luce dal loggiato affacciato sul giardino di destra.

Dopo aver salutato il Raja e i miei familiari entrai nella mia camera. Mi guardai intorno: la stanza era grande più del doppio di quella che occupavo alla Residenza, sulla parete di fronte alla porta si aprivano due ampie finestre in mezzo alle quali troneggiava un grande letto. Altre tre finestre si aprivano nella parete ad angolo con la precedente e guardavano sulla facciata. Di fronte al muro del letto, rientrata di almeno due metri, stava la stanza da bagno tutta in marmo verde. La camera era tappezzata con seta blu notte su cui erano dipinte in oro e argento stelle multiformi disposte senza uno schema apparente, anche l’immenso tappeto che copriva il pavimento aveva lo stesso disegno così come il soffitto, il copriletto e le tende che nascondevano le finestre dando l’impressione di camminare in uno spicchio di cielo notturno.

«Devo dire che ha un nome appropriato.» commentai.

«Si missy sahib,» rispose la cameriera «ma questa stanza nasconde altre meraviglie.»

«Cosa vuoi dire?» le chiesi incuriosita.

«Che in questa camera le stelle brillano sia di giorno che di notte, luce o buio non hanno importanza qui, voi sarete sempre circondata dalle stelle.»

«È naturale, sono dipinte ovunque.»

Scosse la testa «Non intendevo questo, ma non è possibile spiegarlo, lo capirete da sola.»

Non ci fu modo di farla spiegare meglio, così mi rassegnai a tenermi la curiosità. Samson mi aiutò a indossare una veste da camera poi andò a prendere un vassoio di frutta e altri cibi da gustare freddi. Dopo aver mangiato, la congedai dicendole che non avrei avuto bisogno di lei fino al mattino dopo, così con un lieve inchino si ritirò. Presi un libro dal baule e mi sedetti su uno dei comodi cuscini di raso disposti intorno ai due bracieri dai quali si spandevano il calore e l’aroma della fresia e, posato per terra un candeliere, iniziai a leggere.

Neppure un quarto d’ora dopo mi resi conto che ero troppo stanca per continuare: diciotto ore a cavallo si facevano sentire. Posai il libro, spensi tutte le candele e mi coricai. Prima di chiudere gli occhi alzai un attimo lo sguardo al soffitto e sobbalzai: centinaia di stelle occhieggiavano dall’alto nel buio. Rimasi impietrita a guardarle chiedendomi quale magia fosse quella, mentre nella testa mi risuonavano le parole di Samson: “…questa stanza nasconde altre meraviglie…” aveva detto “…in questa stanza le stelle brillano… luce o buio non hanno importanza… lo scoprirete…”.

Lo avevo scoperto.

Mi alzai lentamente continuando a guardare in alto, il cuore mi batteva più forte del solito e mi sentivo… privilegiata, ecco. Mi era stato concesso di vedere qualcosa che non tutti potevano vedere. Era straordinario: le stelle brillavano davvero nella mia stanza. Mi resi anche conto che non erano disposte a caso, come avevo inizialmente pensato, ma seguendo il disegno delle costellazioni. Potei così riconoscere Orione, Draco, l’Orsa Maggiore e Minore e tante altre. Stupefatta tornai a tentoni al letto e mi coricai nuovamente senza chiudere gli occhi. Ero felice che il Raja avesse avuto quel pensiero e rimasi a guardare affascinata il mio cielo stellato personale fino a che mi addormentai.

Samson mi svegliò che erano già le otto. Quando uscii dal bagno mi sedetti al tavolo per la colazione e le feci segno di sedere anche lei, stupita protestò che era solo una cameriera e che non poteva sedere allo stesso tavolo della padrona. Compresi di averla turbata e le spiegai che volevo porle qualche domanda, sollevata lei venne a inginocchiarsi accanto al cuscino su cui ero seduta. Le chiesi allora qual'era il segreto delle stelle, sorrise lieta che avessi visto lo spettacolo poiché, mi disse, non tutti coloro che avevano soggiornato in quella camera nel corso degli anni l’avevano notato. Spalancai gli occhi incredula ma mi assicurò che era vero, in quanto al segreto non lo conosceva, disse che solo il Raja ne era a conoscenza. Quando ebbi finito di mangiare mi alzai e, indossato un fresco abito rosa e grigio, uscii dalla camera con l’intenzione di esplorare il palazzo. Scoprii che il corridoio fuori dalla mia stanza prendeva luce da un altro piccolo chiostro al quale per altro non c’era accesso neppure dal piano inferiore. Sospettai che dovesse esserci uno stratagemma uguale nell’altra ala, poiché mi ero resa conto che quel palazzo era di una simmetria straordinaria. Percorsi il corridoio verso la camera dei miei genitori e, superatala, continuai a camminare. Poco dopo notai una svolta brusca a sinistra, la seguii ma dopo pochi passi trovai la strada sbarrata da due imponenti guardie. In hindi chiesi loro come mai non si potesse procedere oltre, uno dei due dopo un attimo di esitazione mi spiegò che poco più avanti si aprivano gli appartamenti del Raja e che nessuno, senza suo esplicito invito, poteva proseguire. Comprendendo la situazione li ringraziai e tornai sui miei passi. Decisa a non arrendermi ripercorsi il cammino del giorno precedente fino al breve scalone che avevo notato. Come mi ero già accorta, il colonnato che lo sormontava era molto più fitto di quello del salone inferiore tranne che al centro dove c’era un varco più ampio. Attraversatolo mi ritrovai in un ambiente enorme: sui lati a circa due metri dalle bifore correva lo stesso tipo di colonnato che, come il precedente, alternava a una colonna di diametro maggiore, una più sottile. A circa un quarto dal fondo rientrava verso l’interno, poi riprendeva la sua corsa verso il fondo della sala, creando così l’illusione che fosse ancora più lunga di quanto era. In quest’ultima parte scompariva la colonna più sottile e fra le aperture più larghe notai, su entrambe le pareti laterali, una porticina. Mi avvicinai incuriosita a quella di destra e tentai di aprirla senza risultato. Vidi anche che nella parete di fondo ce n’era un’altra: doveva essere l’ingresso privato del Raja alla sala. Riportai la mia attenzione sulla porta, ma ogni mio sforzo risultò vano. Tornai indietro lungo la parete fino alla prima bifora e mi sporsi sperando di vedere dove conducesse, quello che vidi acuì la mia curiosità: c’era un’altra porta sul ballatoio del loggiato e io ero certa che desse sulla stessa stanza poiché erano entrambe troppo vicine all’angolo perché così non fosse. A passo svelto raggiunsi la porta e trattenendo il fiato la spinsi. Con mia soddisfazione questa si aprì, rivelando un ambiente piccolo e buio. Quando i miei occhi si furono abituati alla semioscurità individuai dinanzi a me una scala a chiocciola che saliva; avvicinatami mi avviai cautamente verso l’alto. La porta che mi trovai davanti era direttamente sopra a quella nella sala, la varcai e mi trovai in un altro ambiente. Aveva ovviamente le stesse dimensioni di quello sottostante, ma sembrava essere più grande poiché non vi era nessun colonnato, se non quello perimetrale. Nessun colonnato ma otto monolitici pilastri disposti circolarmente a intervalli regolari. Mi portai al centro e alzai gli occhi: ero sotto la cupola. Mi sentii improvvisamente piccola e fragile al cospetto di quell’aggraziato mastodonte la cui parte più alta si perdeva tra le ombre da lei stessa create. Abbassai lo sguardo, colta da un senso di vertigine e uscii sulla terrazza. I loggiati che avevo intravisto la sera precedente si collocavano sulle due ali dell’edificio ed erano di due misure: i più grandi erano nella parte posteriore mentre i due più piccoli si trovavano verso la facciata negli angoli interni delle ali. Questi avevano un aspetto più intimo e invitante, così dopo un attimo di esitazione mi avviai verso quello di sinistra e mi rifugiai sotto la sua ombra. Al di là degli alberi del parco era visibile il Forte Rosso e più oltre si vedevano le cupole delle moschee e i tetti dei templi. Mi resi conto ben presto che quello che cercavo da lì non era visibile. Mi voltai e alzai gli occhi ai minareti, poi con passo deciso mi avviai al più vicino. Girai intorno all’alto basamento, finché trovai la porta ma questa purtroppo non accennò ad aprirsi:

«Naturale!» borbottai.

Evidentemente per quel giorno ero salita abbastanza in alto, così reprimendo un sospiro, tornai sui miei passi. Rendendomi conto che non avevo idea di quanto tempo avessi passato lì, decisi di tornare al piano di sotto prima di costringere qualcuno a venirmi a cercare. Non sapendo che fare decisi di cercare Elisa. Bussai alla porta della sua camera, venne ad aprire la cameriera e vedendomi disse che mia sorella e i miei genitori erano appena scesi al piano di sotto poiché il Raja ci aspettava nel salone per farci visitare il palazzo. Trovai il nostro ospite e la mia famiglia accanto alla fontana e mi scusai per averli fatti aspettare quindi ci spostammo attraverso sale e corridoi, ascoltandone la storia narrata dal Raja.

Terminata la visita del palazzo uscimmo nel parco: sentieri lastricati partivano da ogni portafinestra e si intrecciavano creando disegni geometrici per poi perdersi tra gli alberi e le aiuole ben curate. Gruppi di canfori ed eucalipti profumavano l’aria assieme a tigli e sicomori, fiori di loto e ninfee ondeggiavano lievi sul pelo dell’acqua di un piccolo stagno cullati dalla brezza. Al nostro passaggio alcuni pavoni stesero il loro fulgido piumaggio perché noi li potessimo ammirare. In un lago più ampio nuotavano con grazia altera tre candidi cigni. Dall’altra parte del lago vidi un piccolo padiglione coperto, la cui piccola cupola di cristallo scintillava nel sole. C’era una gran pace. Il nostro ospite continuava a raccontarci la storia della costruzione di quelle meraviglie, avvenuta cinquecento anni prima. Dopo un poco, vedendo che sia i miei genitori che Elisa erano abbastanza lontani da non sentire, mi avvicinai al Raja:

«Altezza,» dissi «volevo ringraziarvi per avermi assegnato la Stanza delle Stelle…»

«Ti è piaciuta?»

«Sì, molto, ma ditemi, qual è il segreto del cielo stellato sul soffitto? E come mai è stato costruito?»

«Vedi, cara, per quanto riguarda il segreto, essendo la sua natura tale, non posso rivelartelo, almeno per ora, in futuro… chissà. La risposta alla tua seconda domanda è questa: una cosa che non ho detto su questo palazzo è che fu costruito per una donna, una principessa del Kashmir che sposò un mio antenato. Quando arrivò ad Agra faticò a adattarsi perché sentiva la nostalgia dei boschi, dei laghi e della pace della sua terra. Agra è molto caotica, come ti sarai accorta ieri attraversandola. Ma di una cosa soprattutto sentiva nostalgia: del limpido cielo stellato delle notti Kashmiri, l’umidità della piana, soprattutto d’estate, non permette di vedere così tante stelle come sull’Himalaya. Così, per l’amore che il mio antenato le portava, fece costruire questo palazzo progettando il grande parco che lo circonda e lo ripara dal rumore della città. Chiamò poi il più grande architetto del tempo perché progettasse la cupola e la camera che ora tu occupi e che allora sarebbe diventata la camera della sua sposa. Gli appartamenti del Raja all’epoca erano infatti sul davanti del palazzo, poi nel corso dei secoli la struttura interna delle stanze fu alterata, infatti i miei alloggi ora sono nella parte posteriore. Questione di sicurezza immagino: la nostra non è sempre una terra tranquilla. L’unica camera che conserva ancora la struttura e la decorazione interna originale è appunto la Stanza delle Stelle. Ricordando con quanta attenzione ascoltasti il racconto della storia indiana, ho pensato che fosse giusto assegnarti la camera più antica del palazzo e sono lieto che ti piaccia.» concluse.

«Avete avuto un pensiero oltremodo gentile, Altezza, grazie.» risposi.

Con un lieve inchino lo salutai e mi allontanai. Ero commossa dalla sua premura verso di me e affascinata dalla storia che mi aveva narrato: un palazzo simile costruito per amore di una donna. Sorrisi.

“Perché no,” pensai “dopo tutto anche il Taj Mahal è stato costruito per amore di una donna e quello è addirittura una tomba…”.

Camminai a lungo da sola all’ombra degli alberi, assaporando l’aria fragrante senza badare troppo a dove andassi, fino a che mi ritrovai alla fine di un sentiero. Davanti a me un metro circa di prato mi separava dal muro di cinta, coperto da una cascata di rampicanti ornati da profumatissimi fiori bianchi. Spinta da un irrefrenabile impulso mi avvicinai e ne colsi uno, così facendo notai che una parte dei rampicanti si muoveva all’unisono quasi come una tenda, incuriosita li scostai un poco e vi passai sotto. Nascosta da quella tenda vegetale stava una piccola porta chiusa con un semplice catenaccio, alcuni fori nei muri indicavano che, in caso, la si poteva sbarrare con robusti pali, dei quali però non c’era traccia. Ero indecisa se provare ad aprirla o meno, pensai che probabilmente anche dall’altra parte dovesse essere coperta dalla vegetazione, così studiato un attimo il catenaccio girai la maniglia e tirai piano. Con mia sorpresa la porta cedette docilmente, girando su cardini ben oliati. Dunque veniva usata! Con circospezione diedi una sbirciata attraverso lo spiraglio che avevo aperto e con grande sollievo vidi che anche da quella parte era nascosta da una tenda di rampicanti e non solo la porta, ma anche gran parte del muro. Oltre il fitto intreccio di fiori e foglie, scorsi una stradina che correva parallela al muro. Con sollievo constatai che in quel momento era deserta. Non volendo rischiare di venir scoperta rientrai e richiusi nuovamente la porta, risistemai i rampicanti e tornai sui miei passi. Giunta allo stagno maggiore ne costeggiai la riva, tornando verso il palazzo, fino a che mi trovai dinanzi al padiglione con la cupola di cristallo, entrai scoprendo un baldacchino che riparava nella sua ombra una scacchiera circondata da cuscini di seta multicolore. I tasselli della scacchiera erano in oro e argento, così come i pezzi del gioco sulla sommità di ognuno dei quali era incastonata una pietra: i re e le regine erano sormontati rispettivamente da zaffiri e diamanti, alfieri, cavalli e torri avevano invece un rubino, mentre la testa dei pedoni era fatta con una pietra semipreziosa: il diaspro. Altri piccoli diamanti e rubini si alternavano come decorazione sul bordo della scacchiera. Ero ancora intenta ad ammirare quel gioiello di cesellatura quando giunsero due cameriere, con vassoi di frutta fresca e candita, vedendomi fecero un lieve inchino poi posarono i vassoi sul tavolino basso vicino alla scacchiera e si inginocchiarono lì accanto in attesa. Compresi che la scacchiera era stata preparata per qualcuno in particolare, probabilmente per uno degli ospiti a cui si era riferito il Raja la sera precedente e, non volendo disturbare, mi allontanai.

Rientrai nel palazzo dalla stessa portafinestra dalla quale eravamo usciti e incontrai mia sorella:

«Marina, finalmente! Stavo venendo a cercarti, dove sei stata?»

«Ho passeggiato un po’, non mi ero resa conto di essere stata via così a lungo.»

«Sei sparita più di un’ora fa.»

«Mi dispiace. Vi siete preoccupati?»

«Mamma si è preoccupata un poco ma poi il Raja le ha detto che il parco è completamente cintato così si è tranquillizzata. A proposito del Raja: ha detto che ha organizzato la visita alla città per dopo pranzo e se non ci sbrighiamo arriveremo tardi a tavola.»

«Che ora è?»

«La mezza passata.»

«Vado a rinfrescarmi un attimo e vi raggiungo.» detto ciò mi allontanai.

Ridiscesi una decina di minuti dopo e raggiunsi la mia famiglia e il nostro ospite. Il pranzo, semplice e informale fu a base di riso, chapati, yogurt e frutta.

Nel primo pomeriggio uscimmo dai cancelli del parco e ci addentrammo nelle vie cittadine. Poco distante sorgeva il Forte Rosso voluto dall’imperatore Moghul Akbar, potemmo così percorrere gli ampi cortili di arenaria rossa, materiale di cui era costituito l’intero complesso del Forte e al quale doveva il suo nome, osservando i caratteristici tratti dell’architettura moghul, visitammo inoltre l’antica sala del trono dove generazioni di Gran Mogol avevano preso decisioni vitali per la nazione. Lasciato il Forte proseguimmo la visita con il Burj Musamman un palazzo dalle decorazioni sontuose dove, ci disse il Raja, il grande imperatore Shah Jahan trascorse i suoi ultimi anni in prigionia a osservare in lontananza il Taj Mahal, sepolcro che lui stesso aveva fatto costruire per l’amata sposa. Visitammo poi il Diwan-i-Khas e il Diwan-i-Am, rispettivamente palazzo delle udienze pubbliche e palazzo delle udienze private, due complessi dove venivano tenuti i durbar, durante i quali il sovrano, seduto sul suo trono sormontato da un prezioso baldacchino, ascoltava le suppliche del suo popolo. Ritornando al palazzo del Raja Sardar Singh facemmo una deviazione e ci fermammo dinanzi all’entrata dei giardini del Taj Mahal. Osservando il grande portale sospirai felice: desideravo da sempre visitare quel luogo. Oltrepassato il grande cancello, passeggiammo un poco per i giardini più esterni, continuavo a guardare il mausoleo chiedendomi cosa stessimo aspettando e impaziente mossi alcuni passi verso i giardini più interni, ma fui fermata dal Raja.

«Mi dispiace, Marina, ma a nessuno straniero è concesso di avvicinarsi più di così. Mi dispiace.» ripeté vedendo la mia espressione delusa.

Mi voltai a guardare nuovamente il Taj accorgendomi di avere gli occhi pieni di lacrime. Avevo desiderato così tanto andarci vicino, salire i gradini che si intravedevano in lontananza… Sospirai ricacciando indietro le lacrime.

“Non mi arrendo così facilmente” pensai “riuscirò ad avvicinarmi, prima o poi.”

Probabilmente fu in quel momento che la mia mente prese in considerazione per la prima volta il piano che formulai più tardi. Rientrati al palazzo mi ritirai in camera per cambiarmi per la cena, prendendo il vestito dal baule notai sul fondo, subito sopra alla scatola dell’abito blu pavone, un semplice sari di mussola verde acqua che avevo acquistato al bazaar di Lucknow la vigilia di Natale. Lo presi in mano e me lo drappeggiai addosso davanti allo specchio, un sorriso soddisfatto mi piegò le labbra mentre nei miei occhi si accese il particolare luccichio che indicava quelli che Umi definiva i miei lampi di genio. Durante tutta la cena fui molto silenziosa, finsi di ascoltare le conversazioni intorno a me, mentre nella mia mente affinavo il mio piano. Mi ritirai presto, scusandomi con gli altri e ostentando una grande stanchezza, giunta nella mia camera mi preparai per la notte e congedai la cameriera. Mentre stava per uscire arrivò Umi, era preoccupata che non stessi bene ma la rassicurai che ero solo stanca, così auguratami la buona notte si allontanò. Attraverso la porta la sentii ordinare a Samson di non svegliarmi la mattina seguente ma di lasciarmi riposare, sorrisi: tutto procedeva per il meglio. Mi coricai lasciando le tende delle finestre scostate e mi addormentai.

Il primo grigiore perlaceo rischiarava appena il cielo quando mi svegliai. Attenta a non fare alcun rumore indossai il sari e pettinai i capelli in due trecce che mi scendevano sulla schiena, misi ai piedi un paio di pianelle di cuoio e aprii la porta. Trattenendo il fiato restai in ascolto e non udendo nulla uscii silenziosamente dalla camera richiudendo piano la porta. In punta di piedi raggiunsi lo scalone e lo discesi con circospezione. Arrivata al piano di sotto guardai in giro per accertarmi che non ci fosse nessuno e imboccai il corridoio verso destra, la fortuna fu con me poiché raggiunsi le stanze sul retro senza incontrare nessuno ed entrai nella stessa stanza da cui il giorno prima avevamo raggiunto il parco. Andai dritta alla portafinestra e uscii, restai qualche istante vicino al muro guardandomi intorno e quando fui certa di essere sola, mi diressi correndo verso gli alberi, le cui fronde mi avrebbero nascosta alla vista del palazzo. Rallentai un poco la mia corsa e rifeci la strada del giorno prima, raggiunto il muro di cinta mi nascosi sotto i rampicanti incrociando le dita, poiché non sapevo se di notte il passaggio venisse sbarrato. Fui sopraffatta dal sollievo vedendo che la porta era chiusa dal semplice catenaccio del giorno precedente, senza aspettare oltre ne aprii uno spiraglio e osservai la strada: non stava passando nessuno. Fermai il catenaccio con un filo di lana di modo che non bloccasse la porta e uscii chiudendola, controllai ancora una volta la strada e, rassicurata, lasciai il mio nascondiglio di vegetali ritrovandomi nella stradina, guardai in giro: nessuno aveva visto niente. Guardai il cielo stupendomi che fosse ancora così buio: mi sembrava passata un’eternità da quando ero uscita dalla mia camera. Mi avviai a passo svelto fino a giungere nella via più ampia sulla quale dava anche il cancello del palazzo e percorsi a ritroso la strada del giorno prima fino a che raggiunsi l’ingresso dei giardini del Taj. Varcai il grande portone e, copertami la testa con il velo del sari, mi diressi verso i giardini interni. Nessuno cercò di fermarmi e io ripresi a respirare regolarmente, giunsi alla base dell’alto plinto marmoreo su cui posava il mausoleo e salii la scala fino a raggiungere il piano rialzato. Guardai davanti a me: sette scalini mi separavano dalla tomba e altri tre dal portale in argento massiccio. Senza staccare gli occhi dal monumento salii gli ultimi gradini, posai una mano sul muro marmoreo e sorrisi: ci ero riuscita, stavo toccando il Taj Mahal. Da quando, anni prima, ne avevo visto un’immagine catturata da un pittore avevo desiderato andarci abbastanza vicino da poterlo toccare.

Sospirai felice e posai la fronte sul marmo fresco. Rimasi così un poco e, quando rialzai la testa, vidi che mi si era avvicinata una donna e mi guardava preoccupata:

«Non ti senti bene?» mi chiese.

Le sorrisi e scossi la testa «Sto bene grazie,» dissi imitando quasi alla perfezione l’accento di Lucknow «sono solo felice e un po’ emozionata: ho sempre desiderato venire a vedere il Taj Mahal.»

«Capisco,» mi sorrise a sua volta «anch’io ebbi una reazione simile quando venni qui la prima volta. Non sei di Agra, vero?»

«No, sono di Lucknow. Ditemi, per favore, perché ci sono quelle transenne che impediscono di avvicinarsi alla porta?» le chiesi indicandogliele «Le noto adesso, da lontano non si vedono.»

«Vieni da una città grande come Lucknow e non sai perché quest’anno non si possono salire gli ultimi gradini? Vuoi dire che non conosci la leggenda?»

«A dire il vero non abito proprio in città ma nelle vicinanze, in un piccolo villaggio…» dissi arrossendo.

«Deve essere proprio piccolo. Nell’anno che sta per iniziare si dovrebbe avverare la profezia dell’ultimo imperatore Moghul: l’anno in cui l’India conoscerà nuovamente pace e prosperità. Ora devo andare, mio marito mi starà aspettando. Arrivederci.»

«Arrivederci e grazie.»

La guardai allontanarsi riflettendo su ciò che mi aveva detto, pur conoscendo molte delle leggende indiane grazie a Umi, di quella a cui si riferiva quella donna non ne sapevo nulla. Mi ripromisi di chiederne notizia al Raja. A questo pensiero sussultai e alzai gli occhi al cielo: il sole saliva in fretta e presto l’intera città sarebbe stata sveglia. Mi affrettai a uscire dai giardini del Taj e mi diressi verso il Palazzo del Raja. Arrivata in vista dei cancelli svoltai nella stradina che costeggiava il muro fino al punto dove si trovava la porta. Fingendo di sistemarmi una scarpina attesi di essere sola quindi scivolai sotto i rampicanti e rientrai nel parco. Slegai il filo di lana, richiusi attentamente il catenaccio e mi avviai di corsa verso la portafinestra che avevo lasciato socchiusa. Ripercorsi sale e corridoi, riuscendo miracolosamente a evitare cameriere e servitori, rientrai in camera mia chiudendo la porta un attimo prima che si aprisse quella della camera dei miei genitori. Rimasi in ascolto con l’orecchio posato sul legno fino a che fui certa che fossero passati oltre, quindi mi staccai dalla porta e mi lasciai cadere sul letto con un sospiro di sollievo. Risi piano: c’ero riuscita, avevo visto da vicino il Taj Mahal ed ero rientrata senza che nessuno si accorgesse della mia assenza. Rimasi qualche minuto sdraiata, poi mi rialzai e mi cambiai d’abito decisa a scendere per la colazione: quell’avventura mi aveva messo fame!

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XIV ***


PARTE II

 

- profezia-









Capitolo XIV

 

 

«Finalmente fra un paio d’ore inizierà la festa! Ti ringrazio di avermi invitato a passare tutta la giornata qui, anche se non capisco perché non sei voluto uscire dai tuoi appartamenti. Non per lamentarmi, ma dopo un po’ ci si annoia a stare rinchiusi.»

Silenzio.

«Cavan? Cavan Marek? Altezza? Cavan!»

Mi riscossi «Scusa Parmar, ero distratto, dicevi?»

«Già me ne sono accorto, ho chiesto come mai hai voluto passare tutta la giornata chiuso qui.»

«Gli invitati non sanno ancora della mia presenza nel palazzo e mio zio vuole fare loro una sorpresa.»

«Oh, capisco,» sorrise «sapevo che al Raja Sardar Singh piace stupire gli ospiti e certo presentar loro l’erede al trono del Rajasthan sarà una sorpresa di grande effetto. Quello che mi stupisce è che ti sia prestato al suo piano, di solito non ti piace farti notare troppo.»

«Sì ma ci teneva molto, così…» mi sedetti di fronte a lui dall’altra parte della scacchiera «Allora a chi toccava muovere?»

«A te, amico mio, e sei messo maluccio: sto per darti scacco.»

Ripresi a giocare distratto, la mia mente vagava altrove.

Quel che avevo detto a Parmar non era tutta la verità, certo mio zio ci teneva che la mia presenza fosse una sorpresa ma anch’io avevo i miei motivi per restare nascosto fino all’ultimo. Sorrisi ripensando a quando l’avevo rivista, due giorni prima, nel parco, non si era accorta di me intenta com’era a osservare i cigni. Il sole, battendo sui suoi capelli, li faceva brillare di riflessi ramati e nel suo volto ovale risplendevano i grandi occhi scuri. Ero stupito: sebbene non fosse passato che poco più di un anno da quando l’avevo incontrata l’ultima volta, il suo aspetto era molto cambiato ed era, se possibile, ancora più bella. Mi chiesi per l’ennesima volta come avrebbe reagito quando ci fossimo incontrati. Mi accorsi che Parmar mi stava guardando e tamburellava con le dita sul tavolino, mi affrettai a muovere, due mosse dopo la partita fu chiusa: avevo perso di nuovo.

«Dovevo convincerti a giocare a soldi, Cavan, a quest’ora avrei raddoppiato il mio patrimonio.»

«Non credo, più probabilmente saresti al verde. Se avessimo giocato a soldi mi sarei concentrato di più e ti avrei battuto.»

«Come al solito del resto. In effetti sono stupito: hai perso ben cinque partite consecutive, non si era mai verificato.»

Bussarono alla porta.

«Avanti.» ordinai.

Entrò un servitore e si inchinò.

«Sua Grazia il Raja Sardar Singh osa ricordare a Vostra Altezza che tra poco più di un’ora inizieranno i festeggiamenti e che sarebbe opportuno che vi preparaste. Il vostro valletto ha già preparato i vostri abiti e attende i vostri ordini, Altezza.»

«D’accordo, digli che arrivo fra poco, puoi andare.»

«Come ordinate, Vostra Altezza.»

Dopo pochi istanti anche Parmar si ritirò per prepararsi, così mi avviai verso la mia camera chiedendomi nuovamente cosa stesse facendo lei.

 

 

*****

 

 

Immersa fino alle spalle in calda acqua profumata mi rilassai contro il bordo della vasca e chiusi gli occhi. Samson era venuta a svegliarmi mezz’ora prima per avvertirmi che era tempo di prepararsi, era rimasta estasiata quando, aperta la scatola, le avevo mostrato l’abito blu pavone che intendevo indossare. Notando che nella gonna si erano formate delle piccole pieghe si era affrettata a portarlo nella stireria del palazzo perché fossero eliminate. La sentii rientrare nella stanza e poco dopo comparve sulla porta del bagno con una pila di grandi asciugamani di lino caldi. Li posò su uno sgabello, mi aiutò a uscire dalla vasca di marmo e mi drappeggiò il primo sulle spalle, non appena questo divenne umido lo scartò passando al secondo, continuando così fino a che non fui completamente asciutta, quindi mi porse la veste da camera. Uscii dal bagno e mi sedetti al tavolino dove aveva posato un vassoio su cui erano disposti una coppa di yogurt e altri cibi freddi. Mentre mangiavo andò a prendere l’abito che aveva lasciato, mi assicurò, nelle mani della stiratrice più abile del palazzo. Mangiai svogliatamente qualcosa, chiedendomi come mai fossi così nervosa: era uno stato d’animo che mi pervadeva fin da quella mattina e che diventava più forte via via che il tempo passava. Sbuffai pensando che non ero mai stata tipo da crisi nervose e che quindi mi sarebbe passata. Alzai lo sguardo alle stelle sul soffitto e le vidi occhieggiare discretamente: trovavo quello spettacolo molto rilassante. Rientrò Samson che posò il vestito sul letto con mille attenzioni. Indossato corsetto e sottovesti mi sedetti alla petineuse e lasciai che mi acconciasse i capelli, nel frattempo presi l’astuccio dei gioielli che avevo conservato da parte con il vestito e ne estrassi la parure d’oro e lapislazzuli. Facevano parte della parure anche due pettinini sormontati da una rosetta di lapislazzuli con cui Samson impreziosì la mia pettinatura. Terminato che ebbe, mi rialzai e, sempre aiutata da lei, indossai l’abito e le scarpe quindi mi avvicinai allo specchio. L’abito di seta iridescente, che cadeva semplice a terra senza code o balze, era ornato all’orlo della gonna da un’alta fascia di raso blu cangiante in oro, ricamata con un sottile cordoncino di seta dorato; partendo da dietro, poco prima dei fianchi si divideva a metà orizzontalmente: la metà inferiore proseguiva la bordatura della gonna, invece, la parte superiore, saliva fino a che le due parti si incontravano davanti, a punta, a circa metà della gonna. Una cintura a due punte dello stesso raso mi fasciava la vita e un’altra fascia guarniva il bordo dello scollo prolungandosi sulle spalle fino a formare le manichine basse. Samson mi drappeggiò sulle spalle la stola di raso e fece un passo indietro:

«Siete incantevole, missy, quel colore vi dona moltissimo.» disse ammirata.

«Grazie, sei gentile Samson.»

In quel momento bussarono alla porta e la cameriera andò ad aprire.

Entrò Umi che indossava un bellissimo sari di seta arancio con ricami color bronzo che faceva risaltare la sua carnagione scura, ero stupita di come apparisse giovane in quel momento e mi accorsi anche di quanto fosse bella. Mi resi conto di non averla mai vista vestita così elegantemente, ero abituata a vederla nei suoi semplici sari di cotone a tinte chiare, senza pretese. Le sorrisi andandole vicino e feci cenno a Samson che poteva andare.

«Umi sei bellissima, quel sari ti fa sembrare una ragazzina.»

Arrossì «Grazie Moti, anche tu sei molto bella.»

«Elisa ti ha già vista?»

«No, non ancora, stava finendo di prepararsi.»

«Sono felice che il Raja abbia invitato anche te e Patal alla festa di questa sera.»

«Sì, anch’io. Vedrai com’è elegante Patal: indossa una casacca di broccato verde bosco profilata con raso nero, pantaloni neri e il turbante fermato da un medaglione d’oro. Non lo vedevo così elegante da… da prima che tu e Lall nasceste.»

«Davvero? Sembrerà un nobile, d’altra parte tu sembri una principessa quindi è giusto. Adesso aspetta vado a chiamare Elisa: voglio vedere la sua espressione quando ti vedrà.»

Detto ciò volai fuori dalla stanza e, dopo una leggera bussatina alla porta entrai nella camera di mia sorella. La trovai al centro della stanza intenta ad aggiustare il pendente della sua collana, elegantissima in un ricco abito a tre balze di un bel verde acqua intenso. Nel vedermi spalancò gli occhi.

«Quel vestito è magnifico.» sentenziò.

«Se fai la brava qualche volta te lo presto.»

Storse il naso «Non ci credo neppure se lo vedo.»

La guardai oltraggiata e lei scoppiò a ridere.

«Dovresti vederti, Marina, con quell’espressione sembri la zia Luisa, tale e quale.»

Ricordando l’arcigna sorella di nostro padre rimasta a Londra mi unii alla risata di Elisa poi la presi per mano e, senza darle spiegazioni la portai nella mia camera e, con gesto teatrale, le mostrai Umi. La sua reazione fu simile alla mia e anche lei coprì di complimenti la nostra ahya. Bussò alla porta un quasi irriconoscibile ed elegantissimo Patal che ci informò che i nostri genitori ci stavano aspettando per scendere nel salone delle feste così, presi i guanti che stavo per dimenticare, uscimmo dalla camera e li raggiungemmo.

 

 

*****

 

 

«Altezza, Vostro zio Vi manda a dire che tutti gli invitati sono presenti. Potete scendere quando lo desiderate.»

«Grazie Rashid, anche Parmar è già di sotto?»

«Sì, Altezza, è sceso proprio ora.»

«Bene, puoi andare. Dì a mio zio che arriverò tra pochi minuti.»

«Come desiderate, Altezza.» detto ciò il valletto si ritirò.

«Ci siamo.» mormorai.

Diedi un’occhiata distratta allo specchio quindi, senza fretta, mi avviai alle scale.

 

 

*****

 

 

Illuminato a giorno da centinaia di candele il salone dove il nostro ospite ci aveva dato il benvenuto il primo giorno era gremito di invitati. Composizioni floreali decoravano ogni angolo dell’immensa sala e facevano da cornice alla festa, dalle alte arcate entrava l’aria profumata dei due piccoli giardini. Nei due ambienti più piccoli, ricavati nel salone dai colonnati che si incontravano per primi, erano stati disposti molti cuscini che li avevano trasformati in salotti, invece negli altri due si trovavano, in quello di sinistra, i musici e in quello di destra il buffet. Il brusio delle voci creava un piacevole contrasto con la musica suadente dei sitar, intorno alla fontana al centro della sala un gruppo di danzatrici intratteneva gli ospiti. Gran parte degli invitati erano nobili indiani, ma era presente anche un folto gruppo di europei, molti dei quali erano militari del presidio. Uno di questi, staccatosi dagli altri, si avvicinò a mio padre, il quale vedendolo gli andò incontro sorridendo, si strinsero calorosamente la mano lieti di rincontrarsi. Dopo alcuni convenevoli papà si voltò per presentarcelo, scoprimmo così che il maggiore Montgomery, questo il suo nome, aveva frequentato l’accademia militare insieme a lui e che insieme avevano fatto la campagna del ’10, la stessa durante la quale avevano conosciuto il padre di Miranda. Fummo raggiunti dal padrone di casa che venne ad assicurarsi che la serata fosse di nostro gradimento e si trattenne a parlare un poco con noi, ci presentò alcuni dei suoi amici con i quali fui felice di parlare. Arrivò un valletto che gli riferì qualcosa, troppo sottovoce perché riuscissi a sentire, il Raja annuì e lo congedò poi, scusatosi, si allontanò in direzione del colonnato di ingresso. Elisa attirò la mia attenzione sulle danzatrici, tutte giovanissime e molto brave che si muovevano al ritmo dei tamburelli e dei piccoli cimbali che avevano sulle mani. Rimanemmo a osservarle affascinate per alcuni minuti, applaudendo insieme agli altri quando la danza finì, ci eravamo appena voltate quando il maestro di cerimonie batté tre volte le mani per chiedere attenzione, quindi con voce stentorea annunciò:

«Sua Altezza Reale il Principe Cavan Marek, erede al trono del Rajasthan.»

A queste parole si alzò un brusio di sorpresa che si zittì quando il maestro di cerimonie fece due passi di lato per far passare un giovane vestito con una casacca di raso blu ricamata in argento. Tutte le persone presenti nella sala si inchinarono e io le imitai. Rialzandomi posai lo sguardo sul volto del principe e rimasi di ghiaccio.

«Paul!» sussurrai piano.

Non era possibile eppure era così: il misterioso giovane conosciuto tanti mesi prima in una tiepida serata di fine estate, che avevo creduto di non rivedere più, era di fronte a me. Scossi lievemente la testa, stordita, rammentando le parole che lo avevano annunciato: “principe Cavan Marek… erede del Rajasthan”.

“Non è possibile,” pensai “ non può essere la stessa persona”.

Eppure non potevano esserci dubbi su quel volto dalla pelle ambrata e su quegli occhi argentei che stavano ricambiando il mio sguardo. Feci un piccolo passo indietro, vedendo che lui e il Raja stavano venendo nella nostra direzione, ma mi resi conto che non potevo allontanarmi senza spiegazioni. Indecisa mi fermai e quell’esitazione decise per me: erano di fronte a noi.

«Colonnello, signore, vorrei presentarvi mio nipote Cavan che è stato così gentile da lasciare per qualche tempo il Rajasthan ed è venuto a farmi visita.»

«Onorato di conoscerla, Altezza.» disse papà «Ho sentito voci lusinghiere su di voi e sul modo in cui curate la vostra terra.»

«Lei è molto gentile, colonnello.» si rivolse poi verso la mamma «Signora, lieto di incontrarla. Signorine,» ci salutò «incantato.» terminò con un lieve inchino.

«Piacere…» riuscii appena a mormorare restituendo il saluto.

Non avevo più dubbi: la sua voce era inconfondibile.

Scusatami con tutta la grazia che mi riuscì di sfoderare mi allontanai, conscia dello stupore di Elisa, raggiunsi la porta che dava sul giardino di destra e mi rifugiai nell’oscurità appena rischiarata dal riflesso delle luci nella sala. Mi allontanai più che potei, nascondendomi nell’ombra di alcune piante di mussenda e mi sedetti su una panca di pietra. Mi accorsi con sgomento che stavo tremando, non riuscivo a mettere ordine nei miei pensieri e la testa pareva volermi scoppiare. A rigor di logica avrei dovuto essere felice di averlo incontrato di nuovo, visto che lo desideravo, invece ero sul punto di scoppiare in lacrime. Mi tolsi il guanto destro e passai le dita fresche sulla fronte, imponendomi di respirare con calma: dovevo ricompormi e tornare nella sala prima che qualcuno si preoccupasse per la mia assenza.

 

 

*****

 

 

L’avevo vista non appena ero entrato nel salone: tutte le luci parevano essersi oscurate, lei sola mi era chiaramente visibile quasi risplendesse di luce propria. Vedendomi era impallidita, compresi che mi aveva riconosciuto e, per un attimo, temetti stesse per allontanarsi ma ero giunto dinanzi a lei, accompagnato da mio zio, prima che lo facesse. Mentre ci presentavano avevo percepito il suo sgomento, aveva risposto al mio saluto con voce appena udibile poi, prima che riuscissi a fermarla, se n’era andata. Avrei voluto seguirla subito, ma suo padre mi trattenne: non si era accorto del turbamento della figlia. Fortunatamente mio zio portò avanti la conversazione in mia vece, così dopo pochi minuti potei allontanarmi. L’avevo vista uscire nel chiostro di destra così la seguii facendo attenzione a che nessuno se ne accorgesse. Una volta fuori mi fermai a scrutare le ombre fino a che scorsi il lieve bagliore di un gioiello, allora mi diressi verso di lei. La trovai seduta su una panca di marmo, una mano sulla fronte e gli occhi chiusi. Mi si strinse il cuore: per tutto il giorno mi ero chiesto come avrebbe reagito, paventando questa situazione, e ora non sapevo che fare. Mi avvicinai ancora, ma lei parve non accorgersene, allungai una mano per posarla sulla sua spalla ma, esitando, la ritrassi portandola nuovamente lungo il fianco. Strinsi il pugno e lo rilasciai, allora mi inginocchiai a poca distanza da lei e sussurrai con tenerezza infinita il suo nome:

«Marina… »

 

 

*****

 

«Marina…»

Quel suono, seppur lieve, mi fece trasalire: non lo avevo sentito avvicinare. Alzai lo sguardo al suo viso: era inginocchiato accanto a me e mi guardava così teneramente che dai miei occhi sgorgarono, mio malgrado, le lacrime che fino a quel momento ero riuscita a trattenere.

Paul era lì, di fronte a me e mi sorrideva, quante volte l’avevo desiderato, sperato. Sognato.

“Ma non è Paul!”

Quel pensiero mi attraversò la mente come un fulmine, incenerendo la gioia che iniziava a nascere in me. La consapevolezza che la persona a cui così spesso avevo pensato non esisteva…

«Chi sei tu?» gli chiesi.

Vidi i suoi occhi incupirsi, comprendendo cosa gli stavo chiedendo.

«Cavan.» rispose semplicemente.

Distolsi lo sguardo tergendomi una lacrima.«Ma sono anche Paul.»

Tornai a guardarlo di scatto.

«Com’è possibile? L’esistenza dell’uno nega quella dell’altro. Se tu sei il principe indiano Cavan Marek non puoi essere il gentiluomo inglese Paul McIntire. Esiste una sola possibilità: quella sera mi mentisti sul tuo nome e sulla tua identità.»

«No, Marina, ti dissi la verità, anche se non tutta. Io sono il principe Cavan, ma come ti ho detto, sono anche Paul.» insisté.

«Ma come…»

Mi posò un dito sulle labbra, zittendomi.

«La soluzione è assai semplice in verità: mia madre aveva una sorella più giovane che sposò un duca inglese. Quando nacqui, loro non avevano figli, quindi l’erede al momento ero io. I miei genitori decisero di affiancare al mio nome indiano anche un nome inglese, nella malaugurata eventualità che la sorella di mia madre e suo marito non avessero avuto figli. Purtroppo accadde che, quando avevo appena due anni, i miei zii morirono durante una tempesta in mare e io ereditai il titolo di Duca di St. Laurence. Quando crebbi, decisi di completare i miei studi in Inghilterra, in modo da potermi occupare di persona per qualche tempo delle terre del ducato e in territorio inglese preferii essere conosciuto solo con il titolo inglese, così adottai anche il cognome di mio zio. Quindi, vedi, io sono sia Cavan che Paul: non ti ho mentito allora e non ti mentirei adesso. Mi credi?»

«Perdonami, sono una sciocca.» scossi la testa «Non so perché io abbia reagito così, non è da me. Non ho nulla da perdonarti: era tuo diritto nascondermi la tua identità, ero… sono una sconosciuta per te.»

«Tu non sei mai stata una sconosciuta per me.» sorrise del mio stupore «Vedi, prima di partire Asmal, uno dei più grandi astrologi mai vissuti in India, mi predisse che ti avrei incontrata. Sì,» incalzò vedendomi dubbiosa «disse che avrei incontrato una fanciulla dai dolci occhi neri che possedeva un grande cuore: tu, Marina.» si sedette accanto a me «Per questo rimasi con te tanto a lungo e, per questo, ti mandai il cucciolo di tigre: volevo donarti qualcosa di speciale.»

«Come facesti… come riuscisti a mandarmelo? L’India è piena di tigri ma in Inghilterra dove lo trovasti?»

Sorrise «Quando ero ancora un bambino trovai due cuccioli di tigre bianca nella giungla: un bracconiere aveva ucciso la loro madre così li presi con me. Si trattava di un maschio e di una femmina, li ho cresciuti io e quando venni in Inghilterra li portai con me. In tutti questi anni sono sempre riuscito a tenerli separati nei periodi di fecondità ma quella volta non me ne accorsi così Balna, questo il nome della femmina, ha dato alla luce tre cuccioli. Li aveva appena svezzati quando dovetti ripartire, così ti mandai l’unico maschio dei tre. Dimmi, l’hai tenuto con te?»

«Sì, certo. Vedessi come è cresciuto e come è bello! Purtroppo l’ho dovuto lasciare a Lucknow e mi manca molto.»

«Come l’hai chiamato?»

«Silam. Ti piace?»

«Sì, è un bel nome, un nome forte che gli porterà fortuna.»

«Perché me lo facesti recapitare dopo la tua partenza? Avrei voluto ringraziarti.»

« Non ce n’era bisogno, Marina.»

Uno scroscio di risa dall’altra parte del giardino ci strappò alla nostra conversazione.

«Dobbiamo rientrare.» disse «Ma dobbiamo anche finire questa conversazione. Per questa sera non mi avvicinerò più a te, non voglio che qualcuno possa pensare male: ne va della tua reputazione. Domani pomeriggio il palazzo sarà nuovamente vuoto poiché tutti gli ospiti se ne andranno nella mattinata. Ti aspetto dopo pranzo nel padiglione in riva al lago, verrai?»

«Sì, verrò. Se i miei genitori avessero altri piani riuscirò in qualche maniera a non prenderne parte, Elisa mi aiuterà. O forse non vuoi che sappia?»

«Che io sono Paul?» terminò per me.

«Sì.»

«Se tu ti fidi di lei, mi fido anch’io: raccontale pure tutto.» sorrise «Anche perché un po’ di aiuto ci servirà nei prossimi giorni se vogliamo rivederci.»

«Lo penso anch’io.» sospirai alzandomi «Ora vado. A domani mio principe, buona notte.» conclusi correndo via.

 

 

*****

 

 

Scomparve in un attimo inghiottita dall’oscurità.

«Buona notte.» sussurrai.

Rimasi seduto su quel sedile a lungo, quasi inconsapevole dello scorrere del tempo, osservando il quadrato di cielo stellato visibile in alto.

Fu così che mi trovò Parmar.

«Sei qui, Cavan. Ti ho cercato ovunque…»

«…E mi hai trovato. Cosa succede, Parmar?»

«Oh, nulla. Solo che l’ospite d’onore di questa serata non si trova da nessuna parte, i più pensano a un malore o qualcosa del genere. Sai questi principi eccentrici del giorno d’oggi: non puoi farci affidamento, non trovi?»

«D’accordo, d’accordo è colpa mia. Mi stavo annoiando e sono uscito un po’. Che male c’è?»

«Annoiando? Ma se eri arrivato da neppure cinque minuti, come facevi ad annoiarti già? Giuro, Cavan, che mi stai facendo preoccupare. Non sembri più tu da quando siamo arrivati qui, forse dovresti lasciare Agra al più presto e tornare a Jaipur.»

«Non è il caso di drammatizzare: è solo una giornata così. Vieni, rientriamo.»

Mi alzai ignorando la sua occhiata interrogativa e mi diressi verso la sala. Dopo un attimo di esitazione, Parmar mi seguì.

 

 

*****

 

 

Appena fui nuovamente nel salone mi guardai intorno alla ricerca di mia sorella. Finalmente la vidi accanto alla fontana: stava parlando con qualcuno che non riuscivo a vedere. Senza ulteriori esitazioni le andai incontro e, avvicinatami, scoprii con stupore che la persona con cui stava parlando era il capitano Preston.

«Alexander! Quando sei arrivato?»

«Buona sera, Marina. Sono arrivato meno di mezz’ora fa.»

«Scusami, buona sera anche a te. Sembra che le mie maniere lascino a desiderare, oggi.»

«Non preoccuparti, spesso la sorpresa le fa dimenticare.»

«Grazie. Ti dispiace se ti rubo un attimo la tua fidanzata?» mi voltai verso mia sorella «Elisa dovrei dirti una cosa.»

«Certo, scusaci Alex, torno fra poco.»

Al cenno affermativo del capitano ci allontanammo. Aspettai di essere fuori dal salone prima di voltarmi verso Elisa, ma prima che potessi parlare, disse:

«Dov’eri finita? Mi sono preoccupata non vedendoti più, sei sparita così in fretta.»

«Scusa, Elisa, ma mi sono dovuta allontanare…»

«Non ti senti bene?»

«No, non ti preoccupare sto benissimo. Devo parlarti ma non qui, qualcuno potrebbe sentire. Dopo che la festa sarà finita, quando tutti si saranno coricati, vieni in camera mia.» le strinsi le mani «È importante, Elisa, non farne parola con nessuno. Nessuno, va bene?»

«D’accordo, Marina, se per te è così importante…»

«Lo è.» sorrisi «Lo è moltissimo. Grazie, ora torna da Alexander: lo abbiamo fatto attendere anche troppo.»

«Tu non torni nel salone con me?»

«Sì, certo. Andiamo, parleremo questa notte.»

Una volta nella sala lasciai Elisa con il capitano, raggiunsi i miei genitori e mi unii alla loro conversazione, fu come se non mi fossi mai allontanata: nessuno si era accorto di nulla.

Per fortuna.

 

 

*****

 

 

Rientrammo nella sala e mi diressi verso mio zio, mi scusai per la mia assenza e ripresi il ruolo di ospite. Durante la conversazione riuscivo a volte a scorgere Marina in qualche punto della sala. Dopo un paio d’ore iniziai a desiderare che la festa giungesse presto al termine, ero stanco di fare sempre gli stessi discorsi, di rispondere alle stesse domande. Sembrava che ai presenti, qualunque fosse la loro nazionalità o razza, interessassero solo due cose: le dimensioni del mio regno e l’ammontare del mio patrimonio. Certo, i nobili indiani ponevano le domande con più discrezione, gli europei invece non amavano i “giri di parole” come li chiamavano loro, ma alla fine si tornava sempre su quei due argomenti. Rimpiangevo la pace del giardino ed ero tentato di rifugiarmici di nuovo, ma ormai la magia legata alla presenza di Marina si era dissolta. Sorrisi pensando alla piccola fata che l’aveva creata, ma allo stesso tempo mi rabbuiai: l’indomani avrei dovuto raccontarle anche il resto della storia che mi riguardava.

“Maledizione!” imprecai tra me “Se solo… ma è inutile pensarci, non ci si può fare nulla. Anche se, gli Dei solo lo sanno, lo desidero più di ogni altra cosa…”.

Qualcuno ripeté una domanda e io fui costretto a riportare la mia attenzione al presente. Le varie conversazioni continuarono a lungo così come la festa. Erano le quattro della mattina quando finalmente tutti gli ospiti se ne andarono o si ritirarono nelle camere loro assegnate nel palazzo. Salutato mio zio, mi diressi ai miei appartamenti e mi ritirai per la notte.

 

 

*****

 

 

Appoggiata allo stipite della finestra osservavo l’oscurità di velluto, aspettando mia sorella. C’eravamo ritirate da poco più di mezz’ora, comprendevo il perché del suo ritardo, io stessa le avevo chiesto di essere prudente, ma in quell’attesa l’ansia mi attanagliava lo stomaco. Nella mia mente componevo e modificavo più volte ciò che volevo dirle, cercando di trovare le parole per spiegarle ciò che era accaduto. Quante volte avevamo parlato di Paul quasi per scherzo, come se dovessi rincontrarlo, ma pensando che non sarebbe mai accaduto. L’India è così grande! Adesso come dirle che era accaduto? Come spiegarle la singolarità di quell’incontro? Io stessa faticavo a comprendere, pur avendo sentito la verità dalle labbra di lui. Presi a camminare per la stanza, non riuscendo a rimanere ferma. Desideravo che arrivasse al più presto, volevo poter dividere con lei quel segreto e volevo Paul. Sorrisi tra me. “Cavan…” mi corressi “Cavan”.

Come suonava strano quel nome sulle mie labbra.

Tornai alla finestra, il cuore quasi mi scoppiava nel petto per l’angoscia e per la gioia allo stesso tempo. Respirai profondamente per calmare le mie emozioni e appoggiai la fronte sullo stipite della finestra chiudendo gli occhi.

«Marina?»

La voce di mia sorella mi fece sobbalzare. Era entrata senza fare alcun rumore e mi era venuta accanto.

«Ti senti bene?» chiese.

«Sì, non preoccuparti, mi hai solo colta di sorpresa. Vieni, sediamoci accanto ai bracieri: sento freddo.»

Ci sedemmo sui cuscini rimanendo in silenzio.

Mi rendevo conto che stava aspettando che le spiegassi il motivo di quell’incontro così segreto, ma improvvisamente intimidita non riuscivo a trovare le parole per iniziare a raccontare. Alzai gli occhi e la guardai, mi resi conto allora di quanto fossi sciocca: era mia sorella! C’eravamo sempre dette tutto, avrebbe capito ciò che era accaduto e mi avrebbe aiutata.

«Che cosa succede, Marina? Questa sera, poco prima che ti allontanassi, ti ho vista impallidire e per un attimo ho avuto come l’impressione che tu stessi vivendo in due luoghi contemporaneamente.»

«In un certo senso è proprio ciò che è successo. Elisa rammenti quando, il giorno in cui ricevetti Silam, ti parlai di Paul?» attesi un suo cenno e proseguii «In quell’occasione ti dissi che era partito e che mi aveva regalato il cucciolo come addio. Ciò che non ti dissi è che era diretto in India. Quando a Bombay mi dicesti che l’avrei rivisto sorrisi, pensando che era possibile trovandoci entrambi nello stesso paese. Ma questa sera ciò che ritenevo molto improbabile è accaduto.»

«Vuoi dire che…»

«Sì: Paul è qui. Solo che non è Paul o meglio non è solo Paul.»

«Non capisco, se non è Paul chi è?»

«Cavan.»

«Cavan?! Intendi dire il principe Cavan Marek?»

«Sì, è il principe del Rajasthan,» sorrisi «ma è anche Paul. So che sembra assurdo Elisa. Non hai idea di come mi sono sentita confusa quando il maestro di cerimonie lo ha annunciato: era Paul ma l’avevano appena chiamato con un altro nome, allora non era lui… eppure erano i suoi occhi che stavo guardando ed era la sua voce… Mi sono sentita scoppiare la testa e l’unica cosa che riuscivo a pensare era che dovevo allontanarmi, dovevo ritrovare la lucidità.»

«Così sei uscita in giardino.»

«E lui mi ha seguita: voleva parlarmi e spiegarmi questo mistero che si è rivelato essere assai semplice.» stava per parlare ma la fermai «Ascolta…»

Le raccontai tutto ciò che Cavan mi aveva detto riguardo alla sua vita e alla sua identità. Le dissi anche che mi aveva chiesto di raggiungerlo l’indomani perché non mi aveva ancora detto tutto.

«Mi aiuterai?» le chiesi alla fine del mio racconto.

«Sì, certo. Papà ha detto che lui e la mamma andranno al presidio a trovare i loro amici, capiranno se diremo loro che non abbiamo voglia di andare anche noi.»

«Tu non vuoi andare?»

«No. Non ti preoccupare.» sorrise «Alexander è qui e potremo passare la giornata insieme, magari potremmo fare un picnic nel parco del palazzo. No, non ho proprio voglia di andare al presidio.»

«Già, vedo. In questo caso ci copriremo a vicenda.»

«Come è già successo altre volte.»

Ci sorridemmo con complicità.

«Ora torno in camera. Non ti preoccupare, Marina, andrà tutto bene.» raggiunse la porta ma prima di aprirla si voltò nuovamente «A proposito: avevi ragione è davvero carino.» concluse ammiccando.

Le sorrisi e lei se ne andò.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo XV ***


Capitolo XV

 

 

Mi svegliai poco dopo l’alba, rimasi a lungo distesa nel letto, sperando di riuscire a riprendere sonno, ma invano. Decisi infine di alzarmi e senza fretta mi vestii. Scesi di sotto e uscii nel parco, camminai a lungo senza una meta, senza pensare a nulla, fino a che arrivai al lago. Ancora una volta rimasi incantata dal fluido e maestoso scivolare sull’acqua dei cigni, chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dallo stormire delle fronde alla brezza del mattino, il tiepido sole invernale appena sorto creava ombre lunghissime che si confondevano le une con le altre e il profumo del gelsomino notturno andava scemando, sostituito da quello delle rose e dei gigli che crescevano rigogliosi sulle rive. Il gracidare delle rane nel canneto accanto al salice, andava acquietandosi, inspirai con lentezza immergendomi nella pace del momento e riaprii gli occhi. Sulla riva opposta del lago il padiglione dalla cupola di cristallo splendeva come la gemma più lucente di una corona, i drappi di seta che chiudevano le colonne danzavano lievi, mossi dalla brezza. Di lì a qualche ora mi sarei riparata alla loro ombra e in quel rifugio silenzioso avrei incontrato Cavan. Sorrisi rendendomi conto di quanto facilmente il suo “vero” nome mi fosse venuto alla mente.

“Sì, Cavan e non Paul, anche se Paul è Cavan e Cavan è Paul.” sorrisi nuovamente scuotendo la testa e ripresi a camminare.

Le note di una polka quasi dimenticata emersero dalla mia memoria e fui trasportata lontano, indietro nel tempo, fino a una tiepida sera inglese. Gente allegra danzava spensierata al ritmo di quella polka e le risa giungevano all’esterno, sulla terrazza, fino a una nicchia nascosta dove ero seduta in compagnia di uno sconosciuto che sentivo essermi molto familiare. Brani di quella conversazione mi tornarono in mente al suono di quella musica, e gioia e nostalgia si riversarono nel mio cuore soffocando la polka, sostituendola con un valzer le cui note fluivano dolcemente insieme ai ricordi. Iniziai a canticchiare seguendo la melodia che solo io potevo sentire.

«Non credevo te lo ricordassi.»

Mi voltai di scatto, spaventata.

«Scusa,» mi disse «non era mia intenzione coglierti di sorpresa.»

«Cavan…»

Sorrise «Lo suonavano quando mi dicesti il tuo nome, ricordi?»

«Sì, lo rammento, sembra passato così tanto tempo…»

«Invece è passato poco più di un anno. Non pensavo di incontrarti.»

«Mi sono svegliata all’alba e non sono più riuscita a riaddormentarmi.»

«Non intendevo questo.»

«Lo so…»

Un’unica lacrima scese sulla mia guancia, lui allungò una mano l’asciugò, poi dolcemente mi trasse a sé e mi abbracciò. Poggiai la guancia sul suo petto e chiusi gli occhi, ascoltando il battito del suo cuore.

 

 

*****

 

 

La strinsi a me delicatamente quasi fosse una fragile farfalla, ma in fondo era così che la vedevo: una farfalla dai colori luminosi e iridescenti. Rimanemmo così a lungo, in silenzio, quasi che un qualsiasi suono potesse far svanire tutto. Respirai profondamente inalando il suo profumo dolce e pungente allo stesso tempo, desideravo non lasciarla più andare, ma sapevo di non poterlo fare. Mi concessi ancora qualche istante per assaporare quel momento, sapendo che probabilmente non ce ne sarebbero stati molti altri. Carezzai piano i suoi capelli che aveva lasciato sciolti poi a malincuore la allontanai.

«Il palazzo si sta risvegliando,» le dissi «potrebbero vederci.»

«Ancora preoccupato per la mia reputazione?» mi chiese sorridendo.

«Sempre.» risposi restituendole il sorriso «Questo pomeriggio potremo parlare in tranquillità,» le indicai il padiglione «là non ci disturberà nessuno.»

«A che ora ci incontriamo?»

«Vediamoci alle due, a quell’ora staranno tutti riposando. Vai, ora, è quasi ora di colazione, la tua famiglia potrebbe preoccuparsi se non ti vede.»

«Va bene.» esitò «Ho detto a Elisa del nostro incontro di oggi: mi aiuterà a trovare una scusa per non andare al presidio con mamma e papà.»

«Dovrai presentarmi questa tua formidabile sorella.»

«Lo farò.» la vidi mordicchiarsi il labbro inferiore «Vado, a più tardi.» disse e si allontanò velocemente.

Rimasi a guardarla fino a che scomparve tra i cespugli fioriti.

Nuovamente solo mi avvicinai alla riva del lago e sedetti su una roccia, il riflesso del sole sull’acqua era abbagliante, alzai una mano per ripararmi gli occhi dal riverbero e osservai il cielo. Un airone solitario solcò l’aria con movimenti fluidi e aggraziati in direzione del fiume. Rondini e rondoni danzavano nella brezza lanciando i loro richiami, giocando le une con le altre in quel cielo d’un azzurro abbacinante. Sentii dei passi avvicinarsi e mi voltai: il giovane ufficiale inglese, arrivato durante la festa, stava camminando pigramente sul prato. Ignaro della mia presenza, stava masticando un lungo stelo d’erba, immerso nei suoi pensieri. Quando fu a poca distanza da me alzò lo sguardo da terra e mi vide: lasciò cadere lo stelo, si avvicinò ancora e si inchinò.

«Buon giorno, Altezza.»

«Buon giorno a voi, capitano.» risposi «Vi siete alzato presto.»

«Forza dell’abitudine.» scrollò le spalle «Anche voi non amate poltrire a letto, a quanto pare.» concluse sorridendo.

«Già. Accomodatevi, capitano, c’è spazio sufficiente anche per voi.» dissi indicando la roccia su cui ero seduto.

«Grazie.»

Attesi che si fosse seduto, poi:

«Ieri sera ho sentito del vostro fidanzamento con Elisa Shallowford: congratulazioni.»

«Grazie, Altezza. Voi conoscete Elisa?»

«Solo di vista ma mi è stato promesso che presto la conoscerò meglio.»

Lo vidi alzare un sopracciglio con aria perplessa ma non mi spiegai.

«E voi, Altezza,» riprese «siete fidanzato?»

Quella domanda mi fece stringere i pugni, mi dominai e mi costrinsi a rilassare le mani poi abbozzai un sorriso:

«No, non ancora.»

«Credevo che in India usasse fidanzarsi molto giovani, soprattutto tra i nobili.» era genuinamente sorpreso.

«Di solito è così, tuttavia non è una regola, vi sono delle eccezioni.»

«Vi sentirete fortunato, immagino: essendo oramai un uomo avrete la possibilità di scegliere voi stesso la sposa che desiderate.»

«Non è proprio così semplice…»

Si accorse che l’argomento non mi era molto gradito così, facendo finta di nulla, cambiò discorso.

Parlammo a lungo di storia, poesia, arte fino a giungere a discorsi più seri quali il perfezionamento delle tecniche di coltivazione per le zone meno sviluppate, politica della gestione del paese e strategia. Scoprii di avere molto in comune con quell’ufficiale. Avevo vissuto quattro anni in Inghilterra, ma non avevo mai incontrato nessuno, nell’alta società, che conoscesse lo stato delle cose nel mio paese o comprendesse come bisognava agire per migliorarle. Questo giovane nobile, che era anche un militare, invece parlava dei problemi dell’India con cognizione di causa e con una passione dettata dal vero e vivo interesse, era una piacevole sorpresa per me e quando ore dopo ci alzammo e ritornammo verso il palazzo avevo accanto a me un nuovo amico.

 

 

*****

 

 

Il tempo sembrava non passare mai. Erano trascorse meno di due ore dalla mia passeggiata nel parco e pareva un’eternità, come avrei fatto ad attendere le due? Non lo sapevo. Elisa si era accorta del mio stato d’animo e faceva di tutto per attirare su di sé l’attenzione, in modo da non rendere troppo evidente il mio silenzio. Fu però proprio questo silenzio a darci la scusa perfetta per non accompagnare i nostri genitori al presidio di Agra: adducemmo il tutto alla stanchezza per la festa della sera prima e per la notte quasi insonne. Bugia proprio non era poiché eravamo effettivamente stanche, ma la stanchezza era provocata dall’eccitazione delle ultime ore.

Lentamente venne il pranzo durante il quale feci del mio meglio per essere di compagnia. Cavan, dall’altra parte della tavolata, pareva in uno stato d’animo simile al mio. Fui sorpresa di constatare che l’opera di distrazione dal suo mutismo veniva portata avanti da Alexander, quasi che si rendesse conto di cosa stava succedendo. Guardai interrogativamente Elisa, ma lei scosse la testa: non gli aveva detto nulla. Tornai a guardare verso Cavan e Alexander: quando si rivolgevano la parola, seppure in tono formale, si trattavano con amicizia; intuii che era accaduto qualcosa ma qualunque cosa fosse era la benvenuta poiché avevamo bisogno di alleati. C’era qualcosa che non andava, lo sentivo, un piccolo neo che macchiava la mia felicità, era qualcosa che Cavan aveva detto la sera prima… No era qualcosa che non aveva detto a turbarmi, ma non riuscivo a focalizzarla. Cercavo di tranquillizzarmi dicendomi che di lì a poco avrei saputo cos’era che non andava, eppure questo pensiero non mi faceva sentire meglio: c’era qualcosa nell’urgenza di quell’incontro pomeridiano che mi turbava, qualcosa inerente la sua segretezza. Io per prima non ne avrei parlato ma era l’insistenza con cui Cavan aveva ribadito che nessuno doveva saperlo, tanto che gli avevo chiesto il permesso per dirlo a mia sorella, che mi spaventava.

Decisi di smettere di pensarci o sarei impazzita, mi bastava aspettare ancora un poco e ogni mistero sarebbe svanito. Feci del mio meglio per concentrarmi sulla conversazione partecipandovi ed Elisa mi sorrise incoraggiante.

Finalmente il pranzo finì, i nostri genitori salirono per prepararsi e di lì a mezz’ora partirono alla volta del presidio: non sarebbero tornati prima di notte. Salii nella mia camera anch’io, congedai Samson, dopo che mi ebbe slacciato il vestito, mi diressi nel bagno di marmo e mi rinfrescai, dopo di che osservai i miei abiti. Parevano tutti troppo formali, troppo… inglesi. Infine, in fondo al guardaroba, intravidi la stoffa rosa antico del sari che avevo comprato durante la prima escursione ad Agra. Lo tirai fuori e sollevata vidi che non si era gualcito, lo stesi sul letto e mi tolsi la sottoveste e il busto. Indossai il sari rabbrividendo lievemente per l'insolita ma piacevole sensazione della seta a diretto contatto con la pelle e strinsi i laccetti che chiudevano il corpino. Sciolsi i capelli, li spazzolai a lungo quindi li fermai a lato del volto con due pettinini di legno di sandalo, indossai le babbucce di pelle morbida e mi guardai allo specchio. Ero stupita: la mattina della mia fuga al Taj non avevo avuto tempo per guardarmi e, al mio ritorno, mi ero affrettata a cambiarmi prima che qualcuno potesse entrare e vedermi. Mi tornarono di nuovo alla mente le parole che Cavan mi aveva detto in Inghilterra: “Non sembrate inglese”.

«Cosa intendevate quando mi diceste che non sembro inglese?» gli avevo chiesto in seguito.

«Avrei giurato che foste, almeno in parte, orientale…»

Aveva ragione. Adesso, guardando il mio riflesso nello specchio, mi resi conto di quello che molti mi avevano detto. I miei occhi, soprattutto. Quel taglio a mandorla accentuato dall’ovale del viso, dai capelli sciolti e dal sari mi faceva apparire indiana. Sorrisi, avrei potuto ingannare chiunque non mi conoscesse. Strano, però, con gli abiti a pantalone che usavo per cavalcare non avevo lo stesso aspetto esotico, forse l’effetto era accentuato dalla seta.

Mi riscossi e guardai l’orologio: era ora di andare. Feci passare sulla testa il velo del sari, lo fermai ai pettinini e mi voltai verso la porta. In quel momento qualcuno bussò. Rimasi impietrita, timorosa perfino di respirare, poi sentii la voce di mia sorella:

«Marina, posso entrare?»

«Vieni.»

Aprì la porta e la richiuse subito poi mi guardò e rimase a bocca aperta.

«Mio Dio!» esclamò «Sei assolutamente bellissima…»

Arrossii «Grazie.»

«…e irriconoscibile. Quell’abito ti rende… non trovo la parola adatta.» sorrise «Non sembri neppure mia sorella.»

«Che sciocchezza: io sono tua sorella. Posso andare vestita così, vero?»

«Sì, vai benissimo. Rimarrà di sasso quando ti vedrà.» assunse un’aria birichina «Peccato perdere la scena, posso venire?»

«Spiritosa. Ora vado o farò tardi, tu cosa farai?»

«Alexander mi aspetta nella biblioteca.»

«Se desiderate un luogo tranquillo salite sulla terrazza: sotto la cupola si sta bene e fuori c’è una vista spettacolare.»

«Come ci si arriva?»

«Hai visto i ballatoi che si affacciano sui due chiostri?» annuì «Bene, lì fuori vi sono due porticine disposte simmetricamente nel muro ad angolo con il salone interno, lì c’è una scala a chiocciola che sale fino alla terrazza, quella del chiostro di destra era aperta fino a ieri: provate.»

«D’accordo, grazie. Ora vai: ti starà aspettando.»

Uscimmo insieme dalla stanza, lei controllò che non ci fosse nessuno in giro e mi diede via libera, la salutai e uscii nel parco, allontanandomi velocemente in direzione del lago.

Il cuore sembrava deciso a uscirmi dal petto mentre correvo, arrivata accanto a un sicomoro mi fermai per riprendere fiato. Alzai gli occhi e guardai il padiglione: lui era là. Appoggiato a una colonna osservava il lento incedere di un pavone. Notai che non portava il turbante e la brezza scompigliava i suoi corti capelli neri, indossava una casacca di vellutino borgogna, chiusa da piccoli bottoni d’argento, che creava un piacevole contrasto con la sua pelle. Ripresi ad avanzare avvicinandomi lentamente, in silenzio. Cavan si accorse della mia presenza e mi guardò, lo vidi spalancare gli occhi e mi fermai.

 

 

*****

 

 

Incantato. Non ci sono altri termini per descrivere quello che provai vedendola, era così eterea da non sembrare neppure vera. Bella e fragile come un fiore di cristallo, eppure viva come la natura stessa, stava immobile davanti a me che non riuscivo a proferire parola. Infine le tesi una mano e quando la prese, la scortai all’interno del padiglione lasciando ricadere i drappi di seta dietro di noi. L'interno era piacevolmente fresco e ombreggiato, per terra erano stesi folti tappeti, ci sedemmo sui cuscini lì disposti e la guardai di nuovo. Era arrossita e teneva lo sguardo basso, intimidita.

«Non sembrava così difficile, stamattina.» dissi.

«Che cosa?»

«Trovare argomenti di conversazione.»

«Già…»

«Sono felice che tu sia qui, sai? Non mi ero reso conto di quanto lo desiderassi fino a ieri sera, quando ti ho vista.» le ripresi la mano e sorrisi osservandola «Com’è piccola.» mormorai.

«Mia nonna diceva che sono le mani di una pittrice.»

«Marina…» mi guardò «Debbo parlarti.»

«No!» la guardai sorpreso «È tutto il giorno che ho la sensazione che…» abbassò gli occhi «Sono brutte notizie, vero?»

«Non lo so, dipende.»

«Da cosa?»

Preferii non rispondere direttamente:

«Ascolta: ieri sera sono riuscito a raccontarti pochissimo e per lo più inerente al mio titolo inglese, ma ciò che ho da dirti ora è molto importante e riguarda ciò che sono io, vorrei che mi ascoltassi fino alla fine senza interrompermi mai poiché…» sospirai «potrei non riuscire a riprendere a parlare.»

«Va bene,» disse «ti ascolterò.»

Presi un respiro e guardai fuori attraverso i drappi mossi dal vento: non riuscivo a guardarla negli occhi.

«Cent’anni fa,» iniziai «l’ultimo degli imperatori Moghul morì. Sapeva che il suo regno non gli sarebbe sopravvissuto, che le terre dell’India si sarebbero divise e che, per questo, sarebbero state facilmente dominate dagli stranieri sempre più numerosi. Questa consapevolezza gli opprimeva il cuore ma in punto di morte ebbe una rivelazione. Gli Dei apparvero al suo capezzale e gli rivelarono il futuro ed egli prima di spirare, ne svelò una parte a quanti erano con lui attraverso una profezia. Disse che cent’anni dopo la sua morte, al preannunciarsi di una crisi, sarebbero nati due fanciulli: un maschio prima e una femmina dopo. Questi due bambini sono destinati a incontrarsi e a sposarsi, dando inizio a una nuova dinastia. Il Gran Mogol diede precise indicazioni per poterli riconoscere: il maschio, disse, sarà di nobile discendenza, nelle sue vene scorrerà puro sangue indiano, ma nonostante questo nascerà con gli occhi chiari, del colore dell’argento. La femmina nascerà sette anni dopo, sarà figlia di un re e della sua regina. Le parole esatte della profezia sono:

Quando la bianca perla

di regale sangue indiano

venuta da lontano

la sacra soglia salirà,

la porta senza chiave

dinanzi le si aprirà,

indicando in lei

la Prescelta degli Dei.

Alcune frasi di questa parte dalla profezia restano alquanto oscure, ma per la maggiore è stata svelata: “bianca perla” sta per il fatto che, nonostante la discendenza, la sua pelle sarà chiara. “La sacra soglia” è il Taj Mahal, esso infatti è sacro a tutti gli indiani quale che sia la religione professata, “la porta senza chiave” è il portale d’argento del Taj che infatti non ha chiave, poiché dopo la deposizione del corpo dell’imperatore Shah Jahan accanto a quello della sua amatissima sposa, all’interno del mausoleo, la figlia prediletta dell’imperatore fece chiudere il portale e fondere la chiave, che forgiata a guisa di lacrima, è stata posta sulla toppa sigillandola, quindi solo un intervento divino potrebbe aprire quella porta senza sfondarla. La profezia dice anche che quando la porta si aprirà il sole interno del Taj brillerà illuminando l’intera piana antistante il monumento. Questa parte non è molto chiara, così come non è chiaro il significato della frase “venuta da lontano”, ma il resto è lampante.

Come hai già intuito io sono il bambino di cui parla la profezia, anche se gli Dei solo sanno quanto desidero, in questo momento, non esserlo.

Sette anni dopo la mia nascita sono venute al mondo cinque principesse, una è stata uccisa poco dopo, le altre sono in perfetta salute. Molti dei saggi dell’India sono preoccupati per la morte della quinta, secondo Asmal lei era la candidata più probabile e questa è la ragione maggiore della preoccupazione: come ti dissi ieri Asmal non si è mai sbagliato. I grandi sacerdoti di tutti i templi stanno vagliando tutte le possibilità per il futuro, nel caso che fosse proprio lei la Prescelta. È chiaro comunque che dovrò sposare una di quelle principesse, sia che tra loro vi sia la Prescelta sia che si trattasse della bimba uccisa. Non c’è alternativa. Il mio Paese, il mio popolo lo chiede: io e lei, chiunque essa sia, rappresentiamo la speranza per un futuro di pace per l’India. Anche se non si riuscisse a evitare la crisi preannunciata, in seguito i nostri discendenti potranno forse realizzare il sogno di una ritrovata indipendenza, poiché il popolo li ascolterà in quanto figli della profezia.

La cerimonia al Taj si svolgerà all’alba del solstizio d’estate, fra cinque mesi. La sera dello stesso giorno, al tramonto, nel Forte Rosso si svolgerà il matrimonio sulla terrazza che si affaccia sul fiume.

Questa mattina qualcuno mi ha detto che sono fortunato a non essere stato fidanzato da bambino perché ora posso scegliere da solo la mia sposa.» la guardai «Fosse possibile...» mormorai «Mi sono limitato a rispondere che non era così semplice. In realtà sono più legato io ai miei doveri, di coloro che vengono promessi appena nati, poiché a me non è concessa la possibilità di rompere il fidanzamento.

Fino a oggi, no: fino a una fresca sera inglese di qualche mese fa, il mio ruolo non mi era mai pesato, sapevo qual'era il mio dovere e non consideravo neppure la possibilità di esimermi. Adesso darei tutto ciò che possiedo, per poter essere uno come tanti.» allungai una mano e asciugai una delle sue lacrime «Mi dispiace, Marina, non riesco neppure a esprimere tutto il dolore e la rabbia che provo da allora.»

 

 

*****

 

 

«Meglio sarebbe stato se non ci fossimo mai conosciuti, vero?» dissi.

«No!» esplose con tanto furore da farmi sobbalzare «Questo mai, preferisco il dolore, che non provare nulla come accadeva prima, mi era tutto indifferente e intorno a me vedevo solo gelo e oscurità. Tu sei la calda luce che è riuscita a penetrare la coltre che mi avvolgeva e nonostante tutto ringrazio e ringrazierò sempre gli Dei per averti messa sul mio cammino o per aver messo me sul tuo.» mi strinse un poco la mano «Moti… La mia piccola perla lucente.»

Non riuscii più a trattenermi e scoppiai in singhiozzi.

Cavan mi trasse a sé e mi tenne stretta, lasciando che dessi libero sfogo al dolore. Era mai possibile che, senza neppure rendermene conto, sedici mesi prima mi fossi innamorata di quell’uomo che neppure conoscevo e sul cui petto stavo versando tutte le mie lacrime? Il mio cuore, prima della mia mente, mi diede la risposta: sì, era così, per quanto irrazionale e incredibile potesse apparire, io lo amavo dal più profondo del mio essere.

 

 

*****

 

 

Piano piano il suo pianto si acquietò, la tenni accanto a me ancora un poco, poi con delicatezza le sollevai il viso. Aveva gli occhi arrossati per le lacrime ma era comunque bella. Incapace di trattenermi sfiorai le sue labbra con le mie e, col dorso delle dita, carezzai la sua guancia.

«Mi dispiace.» ripetei «Infinitamente.»

Abbassò lo sguardo e sospirò.

«Non c’è nulla da fare, vero?» chiese.

«No, purtroppo, non c’è nulla che si possa fare. Marina…» esitai «Tra noi non potrà mai esserci ciò che desideriamo, ma vorrei passare con te il tempo che ci rimane, se tu lo vuoi.»

Mi guardò. Nessuna donna aveva mai guardato dritto nei miei occhi e ben pochi uomini avevano avuto il coraggio di farlo, ma lei vi si immerse senza timore. Ebbi la sconcertante e inebriante sensazione che riuscisse in qualche modo a leggermi nel più profondo. Sorrise, fu un timido raggio di sole che rischiarò il padiglione.

«Niente mi renderebbe più felice» disse «che passare il mio tempo in tua compagnia. E non mi importa delle convenienze e di coloro che potrebbero pensare male: non voglio nascondermi. A meno che non sia dannoso per il tuo ruolo, voglio poter camminare con te alla luce del sole, a testa alta e che coloro che lo trovano sconveniente si scandalizzino pure, non mi importa!»

Vidi la determinazione brillare nelle sue iridi scure e mi sentii il cuore gonfio di orgoglio. Che formidabile Maharani sarebbe potuta diventare se mi fosse stato concesso di portarla nel Rajasthan!

«Sia, mia piccola farfalla: per tutto il tempo che potremo stare insieme lo faremo senza sotterfugi. Ci sono tante cose che voglio mostrarti, Agra è una delle città più belle dell’India. Andremo in barca sul fiume, visiteremo i bazaar, andremo a cavallo nelle campagne e faremo quant’altro desideriamo e forse tua sorella e Alexander si uniranno a noi.»

«Cavan, toglimi una curiosità: da quanto tempo conosci Alexander?» chiese.

«Da questa mattina: l’ho incontrato dopo che ti sei allontanata. Ci siamo messi a parlare e abbiamo scoperto di avere molto in comune, così siamo diventati amici.»

«Ne sono felice. Senti, perché non li raggiungiamo e organizziamo qualcosa per domani?»

«È un’ottima idea. Sai dove possiamo trovarli?»

«Probabilmente sono sulla terrazza.»

«E come ci sarebbero arrivati?»

«Gli ho indicato la strada.» disse come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«E tu come fai a conoscere la strada? Se non sbaglio mio zio non vi ha portato lassù.»

«L’ho trovata da sola. Andiamo, ti racconto strada facendo.»

Ci alzammo e uscimmo dal padiglione.

Lungo la strada mi raccontò del primo giorno al palazzo e del suo giro esplorativo. Risi di cuore quando mi raccontò della reazione delle guardie alle sue domande. Le guardie agli ordini di mio zio erano abituate a incutere un certo timore in tutti, immaginai quindi questi colossi armati alle prese con l’interrogatorio dello scricciolo che mi camminava al fianco. Dovevano essersi trovati non poco a disagio. Stavamo ancora ridendo quando rientrammo nel palazzo. Una domestica, intenta a spolverare, alzò la testa sorpresa al suono delle nostre voci. Le feci cenno di continuare e con Marina salii al piano di sopra.

 

 

*****

 

 

Passammo per la stessa porta che avevo usato io. Cavan mi disse che l’altra scala a chiocciola aveva bisogno di riparazioni, per questo le porte di sinistra erano chiuse a chiave. La scala era buia e infida come la ricordavo, ma questa volta avevo la mano di Cavan a guidarmi e non ebbi paura di cadere. Trovammo Elisa e Alex all’ombra del loggiato dell’ala sinistra, conversavano osservando il panorama delle cupole e dei tetti della città. Ci avvicinammo e finalmente ebbi l’opportunità di presentare Cavan a mia sorella. Era piacevole essere lì tutti e quattro a parlare come vecchi amici. A Elisa piacque subito il modo di fare di Cavan e la cosa era ricambiata. Parlammo a lungo e alla fine organizzammo una partita a croquet per l’indomani mattina e un’escursione a cavallo per il pomeriggio. Rimanemmo lassù per ore, felici della reciproca compagnia. Mia sorella e io raccontammo ai ragazzi particolari del nostro ultimo viaggio alla casa dei nonni in Italia, ciò che avevamo visto a Vicenza, patria della mamma, e il breve ma intenso soggiorno a Venezia. Quella città aveva lasciato impressioni profonde in noi due: la sua magia, il suo mistero ed esotismo, che nell’arco dei secoli ne avevano fatto la perla dell’occidente, erano ancora vive nei nostri ricordi. Raccontammo della “passeggiata” in gondola, unico mezzo di trasporto locale e della cerimonia dello “sposalizio del mare”. Alexander rimase molto colpito dalla nostra descrizione, aveva già sentito parlare di quella cerimonia, ma la nostra dovizia di particolari lo aveva affascinato. Poi Cavan ci parlò del Rajasthan, con i suoi monti d’arenaria rossa, le sue città, i cui palazzi arabescati parevano merletti di marmo intarsiato, l’amore sconfinato che provava per la sua terra risuonava vibrante nella sua voce e la dolcezza dei suoi occhi rivelava l’orgoglio di appartenervi.

Venne il tramonto. Con mia grande gioia salimmo in cima a uno dei minareti e da lì osservammo incantati il tripudio di colori che tingevano il cielo di tutte le sfumature del rosso e del viola. Il fiume pareva una colata di metallo fuso e incandescente, accanto al quale si stagliava come un candido miraggio il Taj Mahal. Per la prima volta, guardandolo, provai dolore ma lo nascosi adducendo l’improvvisa commozione alla bellezza di quello spettacolo. Cavan, accanto a me, mi strinse la mano con dolcezza: sapeva a cosa stavo pensando, restituii la stretta sapendo che anche lui pensava alla stessa cosa.

In quel momento promisi a me stessa che non mi sarei più fatta rattristare da cupi pensieri, avrei vissuto attimo per attimo senza più pensare al futuro.

Il futuro non esisteva, c’era solo il presente.

 

 

La cena fu molto intima. Al tavolo eravamo seduti solo noi quattro, Parmar, l’amico d’infanzia che Cavan ci presentò quella sera, e il Raja. La conversazione spaziò su più temi, Cavan informò lo zio del nostro programma per l’indomani e il Raja disse che avrebbe fatto piantare il percorso per il croquet al mattino presto. Avevamo esteso l’invito per la partita e la cavalcata anche a Parmar il quale però aveva rifiutato. Cavan era parso sorpreso da questo suo comportamento, ma non aveva fatto commenti. Durante tutta la serata, che trascorremmo in biblioteca, il giovane indiano fu di ben poca compagnia, arrivai alla conclusione che forse non gli eravamo simpatici. Questa idea mi dispiacque poiché Cavan ci aveva parlato di questo suo caro amico e io avevo sperato di andare d’accordo con lui.

Quando stavano suonando le undici e mezza sentimmo tornare mamma e papà. Uscimmo dalla biblioteca per salutarli, li assicurammo che avevamo passato una piacevole giornata, poi augurammo loro una buona notte. Prima di salire mamma ci raccomandò di non fare tardi. La stanchezza era tanta, così non passò molto prima che ci ritirassimo. Salimmo di sopra e Cavan ci salutò prima di imboccare, insieme a Parmar, il corridoio opposto al nostro.

Salutati Elisa e Alexander entrai nella mia camera e mi coricai spossata dalle emozioni della giornata.

 

 

*****

 

 

Percorremmo il corridoio verso le nostre camere e bloccai Parmar prima che entrasse nella sua:

«Ti posso parlare?» gli chiesi con un tono che sconsigliava i rifiuti.

Annuì e gli feci cenno di seguirmi.

Quando fummo nella mia stanza congedai i valletti con l’ordine di non disturbarci, poi mi voltai verso il mio amico:

«Che diavolo ti è preso?» esclamai.

«Che cosa vuoi dire, Cavan?»

«Come sarebbe che cosa voglio dire! Ti sei comportato in maniera riprovevole questa sera. Quelle due ragazze e l’ufficiale inglese sono ospiti di mio zio, così come lo siamo noi due e in questa casa non è ammessa la scortesia, lo sai bene. In più di un’occasione sei andato vicino a offenderli, oh certo ti trattenevi per tempo, nessuno può dire che tu sia stato apertamente scortese, ma era evidente che avresti preferito essere altrove. Hai fatto sentire in imbarazzo mio zio e me con il tuo comportamento che fra l’altro è assolutamente insolito per te. Adesso voglio sapere perché hai agito così.»

«E se non te lo volessi dire?»

«Per gli Dei!» esclamai esasperato «Parmar, noi siamo amici fin dalla più tenera età, ti considero come un fratello, siamo sempre stati complici in tutto, pronti a coprirci a vicenda.» feci una pausa per calmarmi «In nome di questa amicizia, che mi è molto cara, ti chiedo di spiegarti.»

«È che non so come farlo!» esclamò abbattuto «Io per primo non so perché mi sia comportato così. È stato più forte di me, ogni volta che aprivo bocca ne usciva una frase insolente. L’hai detto tu stesso: non è da me, ma io non ho spiegazioni da fornire.» scosse la testa «Mi dispiace.»

«È una cosa ben strana.» dissi pensieroso.

«Facciamo così: domani a colazione presenterò le mie scuse agli inglesi dopo di che mi terrò in disparte e nelle occasioni in cui ci troveremo insieme come questa sera, cercherò di essere il più garbato possibile. D’accordo?»

«Come preferisci. Avevo sperato che ti saresti unito a noi nelle escursioni dei prossimi giorni, ma non credo che tu ne abbia voglia.»

«Infatti, preferisco non venire.» sorrise «Un gran bel caratteraccio, eh? Pensare che sono arrivato a ventitré anni senza sapere di possederlo.»

«Già,» sorrisi di rimando «purché tu riesca a non farlo esplodere in presenza di tua zia Salima: potresti ritrovarti diseredato prima ancora di accorgertene.»

Fece una smorfia di disappunto poi ci guardammo e scoppiammo a ridere.

Era tornato il vecchio Parmar e io ne ero contento. Quando ci fummo calmati ci salutammo e lui si allontanò. Scossi la testa, ero confuso da quel suo strano comportamento e mi chiesi da cosa potesse derivare se anche lui non ne era cosciente. Troppo stanco per continuare a congetturare, allontanai questi pensieri dalla mente, prima di addormentarmi l’ultimo pensiero fu che avrei passato il giorno seguente con Marina.

Prospettiva allettante.

 




Nota dell'autrice

Buongiorno!
Volevo solo avvisarvi che sabato prossimo,
la Vigilia, posterò regolarmente.
Per coloro che seguono l'altra mia storia a "puntate"
(La Ruota degli Elementi), domani avranno il loro
capitolo e domenica prossima, Natale!, avranno il finale!
...Ho fatto la rima! :D
Buon week end,
Sara

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Capitolo 18
*** Capitolo XVI ***


Capitolo XVI

 

 

«Oh, accidenti!» esclamò Marina «Ma avevo preso la mira con cura!» si rivolse alla sorella «Te lo giuro!»

«Siamo di nuovo sotto di due punti, così.» le rispose Elisa.

Scossi la testa sorridendo.

Eravamo da un’ora nel prato accanto al lago e questa era la seconda partita a croquet che disputavamo. Eravamo divisi in due squadre nel modo più classico: i ragazzi contro le ragazze. E loro non se la stavano cavando per niente bene. Osservai intenerito il volto corrucciato di Marina: sembrava così depressa per quello sbaglio che avevo voglia di abbracciarla. Alexander si accorse dei miei pensieri e mi si avvicinò.

«Cavan, se non smetti di guardarla così, finirà che qualcuno se ne accorge.»

«Si accorge di cosa?» chiesi distratto continuando a osservare l’oggetto dei miei pensieri.

«Per esempio che sono circa venti minuti che non le togli gli occhi di dosso, oppure che ogni volta che i vostri sguardi si incrociano lei diventa scarlatta. Se qualcuno lo nota…» lo guardai «Ecco, voglio dire…»

«Potrebbe pensare male?» conclusi per lui.

«Sì, esatto.»

«Sinceramente, non me ne importa assolutamente nulla.»

«Ma a lei non pensi?» esclamò sorpreso.

«Continuamente, o forse non l’hai notato?» alzai un sopracciglio con malizia.

«Buon Dio!» borbottò «Sai, non è che abbia voglia di doverti sfidare a duello per salvaguardare il buon nome della mia futura cognata.»

«Non ce ne sarà bisogno, Alex.» disse Marina.

Si era avvicinata senza che ce ne accorgessimo e aveva ascoltato l’ultima frase.

Era assolutamente raggiante. Mi guardò sorridendo e mi porse la mazza.

 

 

*****

 

 

Posò la mano sulla mia per prenderla e rimanemmo fermi, occhi negli occhi. Il tempo parve dilatarsi, rallentare, fino a cristallizzarsi in quel singolo istante. Sentivo i battiti del mio cuore come il rombo di un tuono lontano, tutto intorno a noi era immobile, magicamente silenzioso e perfetto. Mi sentivo come fluttuare in un mare di sensazioni dolci e struggenti e, in quel momento, pregai per un miracolo.

Fu la voce di Alexander a riscuoterci:

«Ragazzi?» chiamò piano, lo guardammo «La partita.» disse.

Cavan sorrise e, presa la mazza, si diresse verso la sua palla.

Finimmo la partita: avevamo perso, ovviamente. Il sole nel cielo si era fatto troppo caldo per giocare ancora, così ci riparammo nel padiglione.

Ci accomodammo, Elisa e Alexander si sedettero accanto a noi e rimanemmo lì per il resto della mattina. Chiacchierammo per qualche tempo del più e del meno, poi Alexander pose una domanda a cui pensava da un po’:

«Marina, Cavan, voi… non vi siete conosciuti alla festa dell’altra sera, vero? Vi conoscevate già.»

Fummo colti di sorpresa. Neppure Elisa si aspettava quella domanda.

Restammo un attimo in silenzio, poi iniziammo a parlargli di quella sera in Inghilterra, raccontando del ballo e della piccola nicchia in terrazza, dei nostri discorsi sull’India, del nostro incontro nel parco e di Silam. Rivelammo i nostri sogni e i pensieri germogliati durante quei brevi attimi e fioriti nei mesi successivi di lontananza, più a noi stessi che a loro. Io parlai della sorpresa nel rivederlo, della confusione nell’apprendere la sua identità e lui disse della sua emozione nello scoprire il mio trasferimento in India, rivelò che era stato lui, attraverso suo zio, a mandarci in dono Hira Kala e Nilak. Raccontò del suo timore per il nostro incontro, di come si era torturato per trovare il modo per parlarmi, per spiegare e infine raccontò ciò che più ci faceva soffrire: narrò della profezia. Elisa e Alexander ascoltarono attoniti le nostre rivelazioni. Nonostante tutto non avevano intuito la profondità e la disperazione del sentimento proibito che ci univa. Compresero allora perché avevamo deciso di fare del presente l’unica cosa importante: poiché, per noi, così era.

 

 

*****

 

 

Ero sorpreso, non mi capitava mai di parlare dei miei sentimenti: con tutti avevo sempre accuratamente evitato discorsi troppo personali. Quella mattina invece aprii il mio cuore senza timori: ero tra amici e mi sentivo a mio agio. Le parole vennero senza forzarle, scorrevano fluide e mi sentii in pace. E questo era magnifico.

Il tempo scorreva senza neppure che ce ne accorgessimo, i discorsi seri lasciarono il posto ad altri più allegri. Alexander ci stava intrattenendo con l’esilarante racconto dell’ultima caccia alla volpe a cui aveva partecipato quando un servitore venne ad avvertirci che il pranzo sarebbe presto stato servito. Ci avviammo quindi verso il palazzo. Offrii il braccio a Marina che lo prese senza esitazioni, imitati dall’altra coppia, e camminammo senza fretta per i prati del parco. L’onnipresente, fresca, brezza invernale scompigliava i nostri capelli e muoveva le fronde degli alberi, sotto le quali stavamo procedendo. Il garrire delle rondini creava un piacevole sottofondo al nostro silenzio. Nessuno di noi desiderava rientrare, ma non potevamo certo disertare la tavola dello zio, così seppure di malavoglia, raggiungemmo la sala dei banchetti dove era stato apparecchiato.

 

 

*****

 

 

Gli zoccoli del cavallo percuotevano il terreno con furia a stento trattenuta. Il vento fischiava nelle mie orecchie e mi faceva lacrimare gli occhi, ma ciò nonostante mi piegai ancora un po' in avanti, consentendo a Hira Kala di accelerare. Alle mie spalle sentivo il respiro di Badal-ko-Sandhea, sempre più vicino. Azzardai un’occhiata veloce: Cavan, in sella al suo stallone nero come la notte, nero come Hira Kala di cui era il padre, sembrava un angelo vendicatore. Bello e temibile. Tornai a guardare avanti, la velocità mi toglieva il respiro ma lasciai il mio cavallo libero di sfogare tutte le sue energie. Era rimasto chiuso in un box per quasi quattro giorni e non sarei riuscita a tenerlo al passo neppure se avessi voluto. Ma io non volevo. Così lo lasciai correre, inseguita da Cavan, gioendo di quella gara non programmata. Alcune ciocche dei miei capelli erano sfuggite alle forcine e ora ondeggiavano libere al vento. Cavan, in sella a Badal, era ormai al mio fianco, si sporse verso di me e agguantò le redini di Hira Kala fermandolo. Scese dal suo cavallo, gli girò intorno e mi tirò giù di sella.

«Sei impazzita?» esclamò furente «Se ti avesse disarcionata a quella velocità ti saresti ammazzata!» concluse stringendomi un braccio.

«Cavan,» dissi posando una mano sulla sua «mi fai male.»

Lasciò la presa «Scusa.» arretrò di un passo.

Lo guardai e sorrisi, avanzai del passo che ci separava e carezzai lievemente la sua guancia. Prese dolcemente la mia mano e depose un bacio sul palmo.

«Non devi preoccuparti,» gli dissi «Hira Kala non mi disarcionerebbe mai.»

«Come fai a esserne sicura?»

«Perché siamo amici.»

 

 

*****

 

 

L’ingenuità di quella semplice risposta mi fece alzare gli occhi al cielo. La lasciai, lei si avvicinò al cavallo e gli cinse il collo con le braccia appoggiando il viso sul suo manto vellutato. Hira Kala volse la testa e le diede un lieve colpetto affettuoso sul fianco.

“Forse è vero…” mi trovai a pensare “Forse non le farebbe mai del male volontariamente.”

Scossi la testa: quel cavallo era sempre stato un enigma per me, ma in qualche modo dovevo aver intuito che per lei sarebbe stato diverso e perciò glielo avevo mandato. Mi avvicinai e gli offrii una carruba zuccherina, accarezzandogli le nari coperte di pelo setoso. Badal nitrì richiamando la mia attenzione, poi posò il muso nel cavo della mia mano. Comprendendo la sua richiesta diedi anche a lui una carruba, ne presi una terza la spezzai e ne porsi una metà a Marina che incuriosita l’assaggiò.

«Com’è dolce!» esclamò sorpresa «Ora capisco perché ai cavalli piacciono tanto.»

«Sì, sono dei golosoni. Adorano tutti i cibi dolci, prova a offrire loro un fico maturo o una frittella al miele: ti ritroverai a dover ritirare in fretta le dita o per sbaglio potrebbero mangiarsele.»

Mi guardò e rise.

Fu un suono trillante e cristallino, una risata che veniva dal cuore. Mi unii a lei contagiato dalla sua allegria. In mezzo al prato che costeggiava la strada cresceva una grande quercia, ci dirigemmo verso la sua ombra lasciando i cavalli liberi di brucare l’erba fresca, e ci sedemmo ad aspettare Elisa e Alexander. Quando Marina era partita al galoppo, inizialmente l’avevamo seguita tutti, ma la velocità di Badal e del figlio era superiore a quella della giumenta e del castrone del capitano, così li avevamo ben presto distanziati.

Mi sdraiai con le mani dietro la testa e guardai il cielo. Seduta accanto a me, Marina intrecciava una ghirlanda di fiori selvatici. Tutto il mondo era in pace. Non si sentiva un solo suono che potesse guastare l’armonia del momento. Chiusi gli occhi sospirando.

Sentii un lieve solletichio in un orecchio e mossi una mano. Tornai a rilassarmi ma di nuovo qualcosa mi sfiorò, feci finta di nulla e aspettai immobile che quel qualcosa tornasse a sfiorarmi quindi scattai. Marina strillò sorpresa, ero certo di essere riuscito a catturarla ma mi rimase in mano solo la sciarpina con cui mi aveva stuzzicato. Svelta come un gatto era rotolata via e si era alzata, lanciò la ghirlanda incoronandomi e scoppiò a ridere. Mi alzai e la rincorsi. Riuscii facilmente a raggiungerla ma lei con una giravolta schivò la mia mano e continuò a correre. Ci rincorremmo per un po’ ridendo, poi finsi di inciampare e caddi. Appena lei tornò indietro di qualche passo afferrai la sua caviglia destra e la feci cadere imprigionandola a terra con il mio peso.

«Non è valido,» disse «mi hai ingannata.»

«Un’altra volta impari a stuzzicarmi, birbantella.»

Mostrò la lingua poi sorrise.

La baciai. Iniziò come un casto, lieve contatto, ma prima che riuscissi a trattenermi la strinsi a me con tutta la passione fino allora trattenuta. Fu un bacio lungo, profondo, intenso, che ci lasciò senza fiato. Alla fine rialzai la testa e la guardai dolcemente. Mi restituì lo sguardo stupita, un lieve rossore le coloriva le guance e i suoi occhi brillavano come stelle. Seguii i contorni del suo viso con un dito, sfiorando quei tratti che tante volte avevo richiamato alla mente nei mesi passati. Studiai attentamente il suo volto, imprimendo nella mente ogni più piccolo particolare del suo viso. Rimanemmo lì a guardarci per un tempo indefinibile, ignari di ciò che ci circondava. Il rumore di cavalli in avvicinamento ci riscosse. Mi risollevai e l’aiutai ad alzarsi. Alexander ed Elisa ci raggiunsero, smontarono di sella e si avvicinarono.

 

 

*****

 

 

«Tutto bene?» mi chiese mia sorella.

«Sì, è stata una bella corsa.»

«Già, ma la prossima volta avvisa: pensavamo che il cavallo si fosse imbizzarrito.»

Tornammo sotto l’albero e ci sedemmo.

Iniziò a spirare una lieve brezza. Alex e Cavan stavano parlando tra loro di agricoltura, osservando i campi coltivati che circondavano il prato. Un poco discoste Elisa e io rimanemmo in silenzio per un po’. A un certo punto mia sorella allungò una mano e prese qualcosa che era impigliato nei miei capelli: un filo d’erba. Lo osservò, mi guardò e sollevò un sopracciglio interrogativamente. Sorrisi e le raccontai tutto quello che era successo. Quasi tutto. Sentendo che i ragazzi avevano spostato la conversazione sui viaggi ci unimmo a loro. Rientrammo che era il tramonto e, cambiateci, raggiungemmo i nostri genitori. Raccontammo loro ciò che avevamo visto durante la cavalcata ma, di comune accordo, tralasciammo la mia breve fuga.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo XVII ***


Capitolo XVII

 

 

Lucknow. Eravamo nuovamente a casa. Seduta nella radura accanto al torrente guardavo l’acqua scorrere, desiderando potermi sciogliere in lei e svanire. Eravamo tornati da cinque giorni e il tempo pareva essersi fatto denso e lento come melassa. Le giornate mi parevano lunghissime, cercavo di mostrarmi serena come sempre in presenza dei miei genitori o di altri, ma una coltre di indifferenza sembrava essermi gravata addosso. Silam, seduto accanto a me, mi guardava, i suoi occhi blu seguivano tutti i miei movimenti con sguardo, incredibile a dirsi, preoccupato. Allungai una mano e gli diedi una grattata tra le orecchie. Si avvicinò Elisa e si sedette accanto a me, porgendomi il necessario per scrivere e un biglietto. La guardai interrogativamente.

«Leggi il biglietto.» disse.

Lo presi e lo guardai.

Il cuore mi si fermò nel petto, per poi riprendere a battere furiosamente. Lessi nuovamente:

All’attenzione di Sua Altezza Reale

Principe Cavan Marek

Safed Mahal - Jaypur “

 

«Quello è l’indirizzo che andrà scritto sulla busta.» concluse mia sorella.

«Come l’hai avuto?» le chiesi ancora incredula.

«Non poteva darlo a te poiché era sconveniente ma,» sorrise «nessuno gli vietava di darlo a un amico per mantenere i contatti.»

«Lo ha dato ad Alexander.»

«Sì, con l’incarico di fartelo pervenire. Con discrezione ovviamente.»

La guardai felice «Grazie.»

«Di nulla. Ora però non metterti a piangere: hai una lettera da scrivere. Cavan ha detto che avrebbe aspettato la tua, prima di scriverti a sua volta. Cito testualmente: “…sarò sicuro così che non vi sono impedimenti alla nostra corrispondenza. Non voglio causarle disagio alcuno…”: è molto premuroso.» disse sorridendo «Ora ti lascio, quando avrai finito penserò io a consegnarla ad Alex perché l’imbuchi.» La guardai sparire tra gli alberi, poi presi la tavoletta di legno, vi posai sopra un foglio di carta e intinsi la penna nel calamaio.

 

21-01-1831

Carissimo Cavan…

 

 

*****

 

 

21-01-1831

Carissimo Cavan,

due angeli custodi oggi mi hanno fatto pervenire il

tuo messaggio, riportando il sorriso sul mio volto. Giorno dopo giorno ho

desiderato poterti almeno scrivere poiché, per quanto effimero, questo

contatto è tutto ciò che mi resta. Seduta qui nella radura di cui ti ho parlato

ho cercato un po’ di pace e ho ritrovato te. Mi sento nuovamente viva, e

questo mi spaventa poiché fra cinque mesi questa sensazione verrà troncata.

Ma non ci voglio pensare. Non ora.

Silam è qui accanto a me, è molto interessato a ciò che sto facendo e

credo voglia assaggiare l’inchiostro. Ieri, contravvenendo al mio ordine, mi

ha seguito nel presidio: immagina le scene di panico che sono seguite, in pochi

minuti le strade si sono svuotate. Vorrei che tu potessi vederlo, non riusciresti

a riconoscerlo.

Mia madre mi sta chiamando e, purtroppo, devo andare.

Scrivimi, ti prego. Aspetto tue notizie.

Marina.

 

 

Posai la lettera sul piano della scrivania e la guardai. Quando, quella mattina, avevo trovato, tra la posta personale, la missiva con l’indirizzo di Alexander come mittente avevo faticato a nascondere l’emozione. Sapevo chi l’aveva scritta. Rilessi quelle righe sfiorando la carta, ammirando il tratto elegante della mano che le aveva tracciate. In quel momento presi una decisione e scrissi.

 

15-02-1831

All’attenzione di Sua Grazia

Raja Sardar Singh

Sangmarmar Mahal, Agra.

 

Egregio zio…

 

 

Non avrei lasciato che finisse così, avevamo ancora un’opportunità per vederci e l’avrei sfruttata. C’era un detto molto antico che diceva “Il rimpianto uccide più del dolore”, quest’occasione non sarebbe stata motivo di rimpianto.

Non se potevo impedirlo.

 

 

*****

 

 

Nonostante l’ora mattutina il bazaar era già gremito. Porsi una mano a Elisa perché la folla non ci separasse e ci avviammo, chiacchierando, in mezzo alle bancarelle. Era una bellissima mattina di fine Febbraio, il cielo era terso e la temperatura mite invogliava alle passeggiate. Ci dirigemmo verso la bottega dove avevo comprato i costumi a pantalone che usavo per cavalcare, poiché desideravo prenderne un quarto. Mi sentivo allegra come non mi capitava da giorni, dalla lettera di Cavan per l’esattezza. Un’altra lettera era la causa di tanta gioia: il pomeriggio precedente ci era pervenuta una missiva del Raja Sardar Singh nella quale ci invitava nuovamente ad Agra per la festa di primavera. Papà e mamma avevano accettato, così il diciotto di maggio saremmo partiti nuovamente per la capitale Moghul. Non stavo più in me per l’eccitazione. Avrei rivisto Cavan, ero certa che ci sarebbe stato anche lui.

Doveva esserci anche lui.

Raggiunta la bottega che cercavo entrammo. Trovai subito quello che desideravo: un costume a pantaloni blu di prussia ricamato, Elisa mi assicurò che il colore mi stava bene così lo comprai. Pagai il negoziante e uscimmo. Passeggiammo ancora un po’ tra le bancarelle, mia sorella comperò un paio di morbidissimi guanti di capretto da un artigiano molto abile, quindi lasciammo il bazaar.

Camminammo senza fretta per le vie della città seguite da Patal. Giunte sull’argine del Gomati ci fermammo a osservarne il suo lento scorrere. Inspirai l’umida brezza osservando la vita intorno a me. Poco lontano alcuni bambini giocavano a rincorrersi, Elisa e io ci guardammo: avevamo voglia di unirci a loro. Patal si schiarì la voce attirando la nostra attenzione e ci fece segno di no con un dito, aveva intuito i nostri pensieri. Gli sorridemmo e riprendemmo a camminare. Era piacevole passeggiare senza una meta in mezzo alla vita brulicante della città.

Raggiungemmo il presidio e varcando i cancelli incrociammo Alexander e Luke, spinte dal medesimo impulso come era sempre stato tra noi, li invitammo per il tè. Furono lieti di accettare e, fissata l’ora, si allontanarono. Sorrisi, avevo proprio voglia di passare un pomeriggio piacevole tra amici. Dopo il mio rientro da Agra, Luke, intuendo la mia tristezza, mi era stato molto vicino, riuscendo non senza sforzo a penetrare la mia apatia e a rendermi il buon umore.

Subito dopo il pranzo mi ritirai nella mia stanza, aprii la portafinestra per permettere a Silam di uscire sul terrazzo. La brezza fresca mosse le tende facendomi rabbrividire, aprii l’armadio per prendere uno scialle e così facendo, feci cadere un involto di cotonina. Lo raccolsi, sciolsi i lacci che lo chiudevano e dispiegai il contenuto sul letto: era l’abito di seta rossa in stile impero. Carezzai lievemente i pizzi e i ricami, lo sollevai e me lo drappeggiai addosso davanti allo specchio. Un lieve sorriso spuntò sulle mie labbra, piegai velocemente il vestito e lo fasciai nuovamente nella cotonina, quindi indossai un abito da passeggio corredato da un cappello a tesa larga, presi il pacco e scesi di sotto.

«Umi?» chiamai «Umi, dove sei?»

«Sono qui, Moti, cosa succede?»

«Umi devo uscire nuovamente e devo sbrigarmi per poter tornare per il tè. Avvisi tu la mamma quando rientra?»

«Farò di più: vengo con te, penserà la governante ad avvisarla.»

«D’accordo, ti aspetto.»

«Mi tolgo il grembiule e ti raggiungo.»

Di lì a qualche minuto ci avviammo verso il presidio.

Raggiungemmo ben presto il bazaar principale e mi diressi senza esitazioni verso quella che sapevo essere la bottega del mercante di stoffe più fornito della città. Entrai salutando il padrone e mi aggirai per gli scaffali. Poco dopo il mercante mi si avvicinò, chiedendomi cosa potesse fare per me. Gli spiegai che desideravo della seta rossa, di una particolare tonalità. Egli allora si diresse verso un banco e iniziò a tirare fuori tutte le sete del colore richiesto. Le osservai per un po’, scartandone alcune e mettendone da parte altre, ce n’erano due la cui tonalità si avvicinava abbastanza a quella che cercavo, ma non erano uguali. Cercai di spiegarmi meglio, ma notando che il negoziante non riusciva a comprendere cosa non andava in quelle stoffe, chiesi a Umi di aprire l’involto che teneva in mano. La seta rossa cangiante in oro brillò iridescente alla luce del sole che entrava da una finestra. Il mercante la guardò ammirato, gli dissi che volevo quella particolare seta. Lo vidi riflettere un momento poi si avvicinò a un piccolo tavolino e scrisse qualcosa su un pezzo di carta.

«Questo è l’indirizzo di Karim Asa. Lui è il mercante personale del Raja Soundararajan, se c’è qualcuno che possiede sete come quella, è lui. Io non ho nulla di così fine, mi dispiace.»

«Non importa, la ringrazio per la premura, vado subito a trovarlo. Arrivederci.»

La casa del mercante si trovava nella zona residenziale di Lucknow, era una bella palazzina indiana di tre piani. Bussai al massiccio portone di legno e attesi. Poco dopo venne ad aprire un valletto che mi guardò sorpreso.

«La mem-sahib desidera?»

«Volete dire, per favore, al signor Karim Asa che lady Marina Shallowford vorrebbe parlargli?»

«Certamente, lady-sahib, accomodatevi.»

Entrammo in un arioso cortile interno.

Seguendo il valletto arrivammo in un salotto riccamente arredato, il valletto ci disse di attendere e si allontanò. Ci guardammo intorno, ammirando il gusto e la finezza dell’arredamento, stavo osservando la tappezzeria di broccato, quando un uomo di circa quarant'anni entrò. Era alto e longilineo, ma sotto le ricche vesti, si intuiva la presenza di una forte muscolatura, era evidente che non amava la vita sedentaria. Era un uomo affascinante, rimasi stupita poiché immaginavo che avendo una carica così ambita, dovesse essere più anziano. Si avvicinò e si inchinò lievemente.

«Sono Karim Asa,» disse con voce profonda e gradevole «in cosa posso esservi utile?»

«Lady Marina Shallowford,» mi presentai restituendo l’inchino «il mercante di stoffe del Baya Bazaar mi ha indirizzata a voi. Sto cercando una particolare seta e lui ha pensato che soltanto voi potevate averla.»

«Ho molte sete. Ditemi, cosa ha di particolare quella che cercate?»

«Umi,» mi voltai «fagli vedere l’abito.»

Umi disfece nuovamente il pacco e mostrò il vestito rosso.

Il mercante si avvicinò, l’osservò per un attimo poi mi guardò stupito.

«Come avete avuto questa stoffa?» chiese sconcertato.

«Mi è stata donata da un parente veneziano, quasi tre anni fa, perché?»

«Mia cara fanciulla, seta come questa non viene più tessuta da oltre cento anni. Come l’ha avuta il vostro parente?»

«Disse che gli era stata regalata da un mercante suo amico come ringraziamento di un favore che gli aveva fatto.»

«Sapete il nome di quel mercante?»

«No, mi dispiace.» risposi non capendo il suo interesse.

«E il vostro parente? Potete dirmi come si chiama?»

«Ludovico Foscari.»

«Foscari…» sorrise lievemente e scosse la testa allontanandosi un poco «Incredibile.»

«Cosa volete dire?» gli chiesi incuriosita.

«Vedete lady Marina, il mercante che donò quella stoffa al vostro parente era mio padre. Sei anni fa fu accusato di furto e frode ai danni del Raja Soundararajan. Quest’accusa gli sarebbe costata la vita se non fosse riuscito a discolparsi, purtroppo chi lo aveva incastrato aveva coperto bene le sue tracce. Fu proprio Ludovico Foscari a trovare le prove della sua innocenza e a salvargli la vita. Il Raja, per risarcirlo dell’ingiustizia perpetrata contro di lui, nominò mio padre suo mercante di stoffe personale. Carica ambitissima che è passata a me due anni fa, alla sua morte.» mi guardò e sorrise «Ho verso la vostra famiglia un debito di gratitudine immenso, lady-sahib.» concluse inchinandosi profondamente.

«Vi prego, non dovete. Mio zio fece ciò che ha fatto per amicizia verso vostro padre e questo è quanto. Chiunque altro avrebbe agito nella stessa maniera.»

«No, non credo.» mi contraddisse «Ora però torniamo alla vostra ricerca. Come vi ho detto quella particolare seta non viene più tessuta, ma in magazzino dovrei averne ancora un rotolo… Venite!» esclamò voltandosi.

Mi affrettai a seguirlo.

Raggiungemmo il magazzino. Tutte le stoffe erano tenute coperte perché non si impolverassero o sbiadissero alla luce. Il mercante si aggirò un poco tra gli alti scaffali e alla fine fece cenno a un servitore di prendere un particolare rotolo, quindi lo congedò.

«Ecco.» disse aprendolo «La vostra seta.»

Una lama di luce pioveva sopra di essa strappando bagliori rosso-dorati. Era bellissima, più bella ancora della pezza regalatami da mio zio. La sfiorai ammirata.

«È meravigliosa!»

«È vostra.» disse.

Lo guardai sorpresa «Come?»

«Vi ho detto che la mia famiglia ha un debito inestimabile con la vostra, quindi è giusto ripagarlo con qualcosa di altrettanto inestimabile.»

«Vi ringrazio,» dissi commossa «ma non posso accettare.» guardai la seta «È troppo preziosa anche per fare quello che avevo in mente.»

«Un abito da sera?» chiese.

«Sì,» sorrisi «per una sera speciale.»

«Allora è perfetta.»

«No, davvero, non riuscirei neppure ad affidarla alla sarta. Vi prego…» dissi vedendo che stava per protestare «Non avreste una stoffa dello stesso colore ma meno preziosa?»

«Sì, naturalmente.» mi guardò ancora un attimo e sospirò «Seguitemi.»

Mi portò in un’altra parte del magazzino.

Srotolò sotto i miei occhi un piccolo tesoro in stoffe. Trovai quasi subito una seta della tinta giusta: era stupenda, anche se impallidiva di fronte all’altra, ma questo non importava poiché nessuno avrebbe visto quella originale. Karim Asa misurò personalmente il metraggio occorrente, la tagliò e la ricoprì con della cotonina. Porse il pacco a Umi e mi chiese se volevo anche la stoffa per le sottogonne, risposi affermativamente e lui prese due stoffe di colori diversi: una d’oro, trasparente, per la prima sottogonna, una rosso rubino per la seconda. Avrebbero, mi disse, accentuato la peculiarità cangiante della seta. Pagatolo, incurante delle sue proteste, lo ringraziai e ci accomiatammo.

Andai direttamente dalla sarta. Le feci vedere il vestito impero e lavorai con lei per adattare il modello alle crinoline, quindi le mostrai la seta e la stoffa per le sottogonne. La vidi spalancare gli occhi dinanzi a tanto splendore e sorrisi, fissammo la prima prova e mi allontanai.

Una volta a casa mi cambiai velocemente e raggiunsi mia sorella, proprio mentre arrivavano Alexander e Luke.

 

 

Tre giorni dopo, mentre ero fuori a cavallo con Elisa, Karim Asa andò alla residenza. Mamma mi raccontò che ci eravamo allontanate da neppure un’ora quando una cameriera venne a chiamarla agitatissima. Disse che il grande mercante del Raja stava risalendo il viale. Mamma, incuriosita, si era fatta sulla porta per riceverlo. Sceso dal suo palanchino, l’uomo era andato verso di lei e si era inchinato:

«Lady Shallowford?»

«Sono io. Prego, accomodatevi.»

Lo aveva fatto entrare, sedendo poi in salotto.

«Ditemi, signore, come mai siete qui? Se dovete parlare con mio marito lo troverete al presidio.»

«È con voi che volevo parlare, in verità. Ditemi lady-sahib il vostro cognome da nubile è forse Foscari?»

«Sì, come lo sapete?»

«Permettetemi un’altra domanda dopo di che risponderò alle vostre.» attese il cenno affermativo di mia madre «Avete un fratello di nome Ludovico?»

«Sì, è il primogenito, perché?»

«Vedete tre giorni fa una fanciulla si è presentata alla mia porta: stava cercando una stoffa particolare e un mercante di mia conoscenza le disse di rivolgersi a me, era vostra figlia Marina.»

«La seta rossa!» esclamò la mamma «Ora rammento. Ma non capisco come mai questa visita.»

«Immaginavo che vostra figlia non vi avesse detto nulla.» le riferì ciò che aveva raccontato a me quindi: «Il destino spesso è strano, ero lontano quando questi fatti accaddero così non potei ringraziare vostro fratello di persona. E ora, dopo sei anni, sua nipote me ne dà la possibilità: è usanza qui in India, fare doni agli amici e a coloro verso cui si è in debito e non sarò certo io a romperla.» batté le mani e tre valletti entrarono reggendo ognuno un rotolo coperto «Questi sono il mio dono per voi e per le vostre figlie, so che ne avete due, è giusto?»

«Sì, ma non dovevate disturbarvi. Come vi ha detto Marina mio fratello non ha fatto…»

«Vi prego,» la interruppe «non rifiutate. Desidero che abbiate ciò che vi ho portato. Sui rotoli è scritto a chi sono indirizzati: uno è per voi e gli altri sono per le vostre figlie. Vorrei inoltre chiedervi di scrivere a vostro fratello ringraziandolo da parte mia.»

«Farò di più.» si volse e su un biglietto scrisse l’indirizzi dello zio «Ecco, potrete così scrivergli voi stesso.»

«Grazie, signora. Sappiate che da oggi voi e la vostra famiglia avete un amico su cui contare. Se avrete mai bisogno di qualcosa, di qualunque cosa si tratti, fatemelo sapere: tutto ciò che possiedo è a vostra disposizione e tutto ciò che potrò fare per voi, sarò ben lieto di farlo.»

Ciò detto si inchinò profondamente e, risalito sul palanchino, se ne andò.

Elisa e io tornammo a sera e scoprimmo di questa sua visita. Aprimmo i pacchi: alla mamma aveva donato un rotolo di seta blu cobalto, a Elisa un rotolo di seta verde smeraldo scuro e a me aveva portato la seta rossa.

 

 

*****

 

 

Camminavo svelto per i corridoi del mio palazzo seguito da due consiglieri. Ero disgustato da quello che mi stavano riferendo: il figlio di un nobile di Sariska aveva rapito, stuprato e quindi venduta come schiava la figlia quattordicenne di un capo villaggio. Avevo già sentito parlare di quel giovane, sapevo che conduceva una vita dissoluta, ma fino a che aveva sfogato i suoi pruriti con donne del mestiere non ero intervenuto. Ora aveva passato la misura, era probabilmente convinto, dato il suo lignaggio, di essere intoccabile: quel giorno avrebbe scoperto che non era così. Avevo più volte incitato suo padre a tenerlo a freno, lui non c’era riuscito o forse non aveva voluto riuscirci ma con me sarebbe stato diverso. Raggiunsi la sala delle udienze dove trovai il padre della ragazza inginocchiato: era venuto due giorni prima a chiedere giustizia, uno dei miei fedelissimi l’aveva ascoltato e, condotte le indagini, mi aveva sottoposto il caso. Feci alzare l’uomo e ordinai che il giovane debosciato fosse fatto entrare. Venne avanti con passo arrogante e si inchinò baldanzosamente, guardai verso uno dei miei uomini dietro di lui, che mi fece un lieve cenno d’assenso quindi riportai la mia attenzione sul ragazzo.

«Mi sono giunte voci allarmanti sul vostro comportamento, Basham. Avete qualcosa da dire?»

«Altezza, non so di cosa stiate parlando.» disse simulando stupore.

Era certo di essere al sicuro: coloro a cui aveva venduto la ragazzina erano diretti in Cina e a quell’ora dovevano già aver superato il confine. Era quindi convinto che senza l’unica testimone, l’accusa sarebbe caduta. Decisi di stare al suo gioco.

«Quest’uomo,» dissi indicando il capo villaggio «dice che voi avete rapito sua figlia e che avete abusato di lei. È vero?»

«Vostra Altezza è oltraggioso! Quest’essere infame mente.» guardò il contadino «Come osi tu infangare il nome di un nobile! Chiederò al Principe la tua testa, solo così si può riparare a un simile affronto.»

«Basham, siete assolutamente sicuro di non esservi macchiato di alcuna colpa? Se negate e venissero presentate delle prove…» lasciai la frase in sospeso.

«Altezza, sfido chiunque a presentare una sola prova a mio carico. Non ve ne sono vedrete.»

«Ciò che vedo,» dissi furente alzandomi dal mio seggio «è un giovane spudorato che pensa di potere tutto grazie al suo rango. Ammetto che spesso, in alcune parti del paese, è proprio così, ma non nel Rajasthan!»

Feci un cenno al mio uomo.

La porta in fondo alla sala si aprì lasciando entrare una fanciulla molto graziosa con i lunghi capelli neri legati a treccia. Quando Basham la vide impallidì e mi guardò: capì di aver firmato la propria condanna a morte, se quando glielo avevo chiesto avesse confessato sarebbe stato punito ma sarebbe sopravvissuto. Mentendo al suo Principe si era condannato.

La ragazza arrivò dinanzi a me e si inchinò.

«Qual è il tuo nome?» le chiesi gentilmente.

«Lapat, Mio Principe.» rispose tenendo gli occhi bassi.

«Conosci il giovane che è accanto a te?»

«Sì, Mio Principe.»

«Vuoi raccontare a noi tutti in quali circostanze lo hai conosciuto e cosa è accaduto in seguito?»

«Sì, Mio Principe. Ero nei campi e come ogni giorno, stavo raccogliendo alcune erbe dalle capacità curative, quando tre cavalieri si sono avvicinati. Smontati da cavallo mi sono venuti vicino, riconosciuto il loro rango mi inchinai, poi d’improvviso, prima che potessi emettere un solo suono, uno di loro mi ha imbavagliata e insieme all’altro mi hanno stesa a terra e tenuta ferma mentre lui» indicò Basham «abusava di me…» si interruppe.

«Coraggio, continua, nessuno ti può fare del male adesso. Ti ha usato violenza solo lui?»

«Sì, gli altri due si sono limitati a tenermi ferma. Credo di essere svenuta, quando ho riaperto gli occhi ero su un carro, guardandomi intorno ne vidi altri, andavamo verso le montagne. Chiesi a una donna che era sullo stesso carro dove fossi e cosa fosse successo, mi disse che il nobile al quale appartenevo mi aveva venduta a suo marito e che la carovana era diretta in Cina. Le dissi che non ero una schiava, ma lei mi rispose che suo marito mi aveva pagata bene e che quindi non mi avrebbe lasciato andare. Era dispiaciuta per me, ma mi disse di rassegnarmi. Eravamo quasi al confine quando fummo raggiunti da un drappello di uomini armati che intimarono al padrone del carro di fermarsi. Erano le Vostre guardie, Altezza. Loro mi hanno ricomprata e mi hanno portata qui. È tutto.»

«Ed è abbastanza.» dissi guardando il giovane «Secondo la legge la punizione per lo stupro prevede che la testa del reo venga schiacciata da un elefante.» Basham impallidì ulteriormente e la fronte gli si imperlò di sudore «Tuttavia per riguardo al vostro rango e alla vostra giovane età commuto la sentenza.» lo vidi allargare gli occhi speranzoso «Basham, nobile di Sariska io, Cavan Marek, Principe del Rajasthan e tuo Signore, alla luce di queste testimonianze ti riconosco colpevole delle accuse formulate e ti condanno a morte mediante decapitazione. Domani, sei ore dopo l’alba, verrai condotto nella piazza principale di Jaipur e giustiziato. E che gli Dei abbiano pietà di te, perché io non ne avrò!»

Basham cadde in ginocchio si prese il volto tra le mani e scoppiò in singhiozzi. Venne trascinato via dalle guardie.

«Fanciulla,» mi rivolsi alla vittima e al padre «l’onta che hai subìto è grave, ma per quanto è possibile, voglio porvi rimedio. Ti assegnerò una dote adeguata e troverò per te un bravo giovane che si possa prendere cura di te. Spero che questo riesca ad alleviare la tua pena.»

La ragazza si avvicinò e si prostrò a terra imitata dal padre.

«Il Mio Signore è grande e generoso.» disse quest’ultimo.

Si allontanarono.

Rimasto solo mi avvicinai a una finestra e guardai il panorama. Era sempre difficile decidere di mandare a morte un uomo, dopo tutto chi ero io per decidere chi fosse degno di vivere e chi no? Mi chiesi se avessi fatto la cosa giusta. Un pomeriggio in cui eravamo soli avevo posto un caso simile al giudizio di Marina, le avevo chiesto se secondo lei avevo agito per il meglio.

“Guarda gli occhi di chi ha subito il torto,” mi aveva detto “la risposta alla tua domanda è lì.”

Ripensando agli occhi di quella ragazzina, a come erano spaventati quando era comparsa davanti a me e aveva visto il suo aguzzino, compresi di aver fatto ciò che andava fatto. Osservai il cielo sgombro da nubi e ringraziai gli dei per avermi consentito di conoscerla.

Com’era saggia la mia piccola Perla. Mi piaceva il nomignolo datole dalla sua ahya, le si addiceva. Sospirai piano, poche settimane e l’avrei rivista.

Per l’ultima volta.

 

Bussarono alla porta. Entrò un consigliere che mi diede le carte relative all’udienza seguente così mi rimisi al lavoro.

 

 

*****

 

Il primo di marzo mamma e papà ci dissero che avevano organizzato un ballo per il nostro diciottesimo compleanno. Gli inviti erano già stati mandati e Miranda sarebbe arrivata il quattro pomeriggio da Kanpur. Fummo molto sorprese e felici della notizia, io avevo quasi dimenticato che il nostro compleanno era vicino, avevo comperato il regalo per mia sorella solo due giorni prima.

Nel pomeriggio Alexander e Luke vennero nuovamente per il tè, era diventato quasi un rito: tutti i pomeriggi in cui non avevano impegni ufficiali venivano alla residenza per il tè.

Quando arrivarono decidemmo di fare un pic nic. Purtroppo quando uscimmo scoprimmo che si era alzato un vento freddo, ne fummo delusi ma Luke trovò la soluzione: andammo nel salone da ballo e stendemmo la coperta proprio al centro quindi, posati a terra i cuscini, ci accomodammo. Fu un pomeriggio insolito e divertente. Parlammo per un po’ di vari argomenti poi Elisa e Alex ci parlarono dei progetti che stavano facendo per la luna di miele. Alexander aveva suggerito il giro d’Europa ma Elisa disse che preferiva fare il giro dell’India poiché ciò che aveva visto durante il nostro viaggio le era piaciuto molto e desiderava vedere il resto. Io proposi loro di fare entrambe le cose: vedere l’India subito dopo il matrimonio, che si sarebbe svolto lì, e visitare l’Europa durante il viaggio di ritorno in Inghilterra. Parve a entrambi una buona soluzione.

Quando si congedarono, prima di andarsene Luke mi chiese se poteva farmi da cavaliere al ballo per il nostro compleanno e io accettai con piacere.

Il tempo passò in fretta. Arrivò Miranda che fummo felici di riabbracciare, ci raccontò tutte le ultime notizie del presidio di Kanpur, poi volle sapere tutti i particolari del nostro soggiorno ad Agra. Le avevamo scritto raccontandole i fatti salienti ma ora volle sapere ogni cosa nei minimi dettagli, così passammo tutta la serata a parlare.

Il cinque mattina, il giorno del nostro compleanno, arrivò da Agra un drappello di uomini del Raja recante i suoi doni. Il messaggero ci porse due cofanetti di legno di sandalo intarsiati di madreperla e si ritirò. Aperto quello di Elisa scoprimmo su un letto di velluto bianco una parure d’oro giallo e rosso con smeraldi, il mio invece conteneva una parure di diamanti e rubini. Sotto alla collana stava una busta con sopra scritto il mio nome. Riconobbi la grafia: Cavan. La presi e la nascosi nel corsetto poi andammo dai nostri genitori per mostrare loro i regali. Miranda esclamò estasiata quando vide le parures, mamma e papà erano stupiti per la prodigalità del Raja.

Più tardi, subito dopo pranzo, uscii di nascosto seguita da Silam, raggiunsi la mia radura e, sedutami sull’erba con la tigre accanto, aprii la lettera:

 

 

01-03-1831

Dolce Marina,

ti scrivo questa lettera sapendo che ti arriverà, insieme al mio

regalo, per il tuo compleanno. Auguri, mia farfalla, di tutto cuore. Vorrei

poterteli porgere di persona, ho perfino pensato di fuggire per qualche

giorno per venire a trovarti di nascosto, ma purtroppo i miei impegni qui nel

Rajasthan non me lo concedono. Da quando ho saputo che ci rivedremo per

la festa di primavera, sto contando i minuti che ci separano da quel giorno.

Desidero rivederti più di quanto riesca a esprimere con le parole. Un mese e

mezzo, manca solo un mese e mezzo. Riuscirò ad aspettare. So che la sera del

tuo compleanno ci sarà un ballo, ti auguro di divertirti, io sarò con te col mio

cuore.

Augura buon compleanno da parte mia anche a Elisa.

Devo lasciarti, i miei doveri mi chiamano.

A presto.

Cavan

 

Finito di leggere, strinsi la lettera al petto con gli occhi pieni di lacrime. Silam mi venne più vicino, lo abbracciai e piansi affondando il viso nel suo pelo. Non so perché: gioia, tristezza mista a disperazione, si erano impossessate del mio cuore. Forse tutte le emozioni delle ultime settimane avevano bisogno di essere sfogate.

Fu così che mi trovò Elisa. Vedendo il foglio che tenevo in mano si preoccupò, mi si sedette a fianco porgendomi il suo fazzoletto.

«Brutte notizie?» chiese indicando la lettera.

Scossi la testa asciugandomi gli occhi e gliela porsi. La lesse.

«Marina…» si interruppe, sospirò e mi guardò «Non capisco, cosa pensate di poter fare? È stato proprio lui a raccontarci degli obblighi a cui lo lega il suo ruolo. Agendo così vi farete solo più male al momento del distacco.»

«Non pretendo che tu capisca, Elisa, poiché non capisco del tutto neppure io cos’è che ci spinge ad agire così. Ciò che rappresentiamo l’uno per l’altra è la vita stessa. Dimmi, se tu dovessi scoprire che tra due mesi morirai, come ti comporteresti? Eviteresti di vedere coloro a cui vuoi bene, di andare nei posti che ti piacciono perché tanto non c’è futuro, o piuttosto non vorresti passare tutto il tempo con coloro che ami, vivendo attimo per attimo senza pensare al domani, desiderando solo vivere quei momenti il più intensamente possibile? Quello che so è che se mi lasciassi sfuggire anche una sola occasione di vederlo, per quanto doloroso potrà risultare in seguito, lo rimpiangerei per tutta la vita e questo non lo voglio. Non voglio avere rimpianti,» abbassai lo sguardo «lo amo troppo per permettermelo…»

«Marina,» mi abbracciò «mi dispiace tanto che sia andata così.»

«Cosa vuoi dire?» le chiesi scostandola.

«Quel pomeriggio, a Bombay, quando parlammo di Paul notai per la prima volta come ti si addolcisse lo sguardo al solo nominarlo. Continuai a notarlo ogni volta che per caso ne parlavamo. Probabilmente mi accorsi prima di te di quello che provavi per lui. Pensavo che con tutta probabilità non lo avresti più rivisto, non sapevo che fosse in India, così quando giungemmo qui sperai che tu lo dimenticassi: non volevo vederti soffrire. Quando conoscesti Luke, notando come andavate d’accordo, sperai che ti innamorassi di lui, ma così non è stato. Forse, col tempo, sarebbe accaduto, ma poi ad Agra rincontrasti Paul o meglio Cavan, e mi resi conto che ciò che provavi non era solo un’infatuazione: ne eri innamorata. Intuii subito che ci sarebbero stati dei problemi, essendo lui un principe indiano, ma quando scoprii cos’altro c’era, maledissi la sorte che aveva incrociato nuovamente le vostre strade solo per farvi scoprire che sareste stati separati definitivamente. Avrei voluto poter fare qualcosa, ho desiderato perfino odiare Cavan stesso perché, pur sapendo che era impossibile, ha voluto stare con te. Non ci sono riuscita: ti ama talmente tanto che questo lo scusa di tutto il resto.» concluse sorridendomi triste.

«Oh, Elisa, non volevo che ti preoccupassi così per me. Non mi ero accorta di quanto fossi partecipe delle mie emozioni.»

«Hai dimenticato che siamo gemelle? Le gioie di una sono quelle dell’altra così come i dolori: è sempre stato così per noi e lo sarà sempre.»

«Così come la tua gioia con Alexander è la mia.»

«Sì. Toglimi una curiosità: visto che non erano brutte notizie perché stavi piangendo?»

«Non lo so, ho avuto un momento così.»

«Vieni,» disse alzandosi «rientriamo, tra poco Miranda si sveglierà dal riposino e se non ci trova potrebbe fare domande alle quali non vogliamo rispondere.»

«Hai ragione, andiamo.» mi alzai anch’io e ci avviammo.

Mentre camminavamo senza fretta verso la casa, portammo la conversazione sul ballo di quella sera. Il fiorista era già all’opera insieme ai suoi assistenti per addobbare il salone.

«Hai già deciso cosa indosserai?» mi chiese mia sorella.

«Sì, metterò l’abito blu pavone che avevo alla festa ad Agra: qui non lo ha ancora visto nessuno. Solo Alex, ma credo che non se ne ricordi neppure: era troppo occupato a guardare te.» conclusi sorridendo.

Elisa arrossì e guardò altrove per un attimo.

«Io, invece non so cosa mettere,» disse «volevo indossare la parure che mi ha regalato il Raja ma non ho abiti da sera che si intonino.»

«Se lo desideri ti presto l’abito verde a ricami d’oro che misi a Bombay, è del colore giusto.»

«Davvero me lo presteresti?»

«Ma certo! Vieni andiamo in camera così lo puoi provare e se ti sta bene, lo darò a Mary perché lo stiri.» così dicendo la presi per mano e ci mettemmo a correre.

Raggiungemmo la casa e, ordinato a Silam di restare fuori, entrammo.

Un volta nella mia camera presi l’abito dall’armadio e aiutai mia sorella a cambiarsi. Sistemati i lacci del corsetto chiusi i ganci e feci un passo indietro mentre si voltava, le sistemai le maniche e la gonna dopo di che la osservai. Il satin verde smeraldo scuro si intonava coi suoi occhi e le fasciava il busto facendo risaltare il seno e le spalle, l’oro del ricamo dava luminosità al volto e alla figura conferendole un’aria eterea e provocante allo stesso tempo. Ero stupita, le indicai di guardarsi allo specchio e guardai il riflesso da sopra la sua spalla.

«Sei bellissima. Questo vestito sta meglio a te che a me,» incrociai il suo sguardo nello specchio e sorrisi «sono invidiosa!»

«Dici che posso indossarlo?»

«Altro che! Alexander non riuscirà a staccarti gli occhi di dosso.» conclusi con un sorriso malizioso.

Arrossì.

La feci sedere alla petineuse e studiammo per un po’ l’acconciatura, decidemmo infine di raccogliere tutti i capelli in un nodo elaborato lasciando liberi tre singoli boccoli sul lato destro della nuca, lasciandone cadere uno dietro e portando gli altri due ad appoggiarsi sul petto. Fatto ciò l’aiutai a togliere l’abito e, chiamata Mary, le ordinai che fosse stirato per la sera. Sentendo Miranda chiamarci, la invitammo sulla terrazza e ci mettemmo a parlare del ballo imminente.

 

La musica saliva già dal salone sottostante, quando una cameriera mi venne ad avvisare dell’arrivo di Luke. Presi il ventaglio e dopo un ultimo sguardo allo specchio, scesi raggiungendolo sulla porta della sala da ballo. Entrammo e fummo subito circondati da amici; camerieri in livrea bianca ci porsero una coppa di champagne, quindi quando tutti ne ebbero una, gli invitati e i nostri genitori le alzarono in un brindisi alla salute mia e di Elisa augurandoci buon compleanno. Fu nostro l’onore di aprire le danze con un valzer. Molti altri si unirono a noi e ben presto quasi tutti gli invitati presero a ballare; Luke non mi concesse un attimo di pausa, ballammo ininterrottamente fino alle undici e mezza, ora fissata per l’apertura dei regali.

Elisa e io fummo fatte accomodare su un divanetto e gli invitati ci presentarono i loro doni. I primi furono naturalmente i nostri genitori che regalarono a ciascuna di noi una parure di lenzuola di pregiato lino italiano con inserti di pizzo di Burano per il corredo. Fu poi la volta di Alexander che donò a Elisa un paio di orecchini di diamanti:

«Da abbinare con l’anello di fidanzamento.» le disse sorridendo.

Si avvicinò Luke e mi porse un pacco pesante.

Lo aprii e trovai all’interno la raccolta completa delle opere di Shakespeare: le commedie, le tragedie, i sonetti. Guardai estasiata i volumi rilegati, senza parole.

«Grazie.» dissi sorridendogli.

Uno a uno tutti gli invitati ci porsero i regali.

Era quasi l’una quando finimmo di scartarli. Alcuni servitori li portarono via e il ballo riprese e andò avanti fino alle prime luci dell’alba.

 

 

*****

 

 

In piedi sul tetto della torre più alta del mio palazzo osservavo il tramonto. Voltai le spalle al sole quasi del tutto scomparso e guardai verso est. Direttamente sulla direttrice ovest-est si trovava Lucknow. E Marina.

Guardai verso il basso, affondando lo sguardo nell’oscurità e sorrisi: fra tre giorni avrei raggiunto Agra, lei sarebbe arrivata il giorno seguente. Scossi la testa e contemplai le stelle: quando ero piccolo, mia madre mi raccontava che su ognuna di loro viveva una fata e che se, guardandole, avessi espresso un desiderio dal profondo del cuore loro lo avrebbero esaudito. Da settimane, da mesi, il mio cuore esprimeva lo stesso desiderio e quella sera ancora una volta pregai che mi esaudissero: in fondo mi bastava un miracolo, per delle fate non era un gran disturbo, no? Tornai a sorridere e chiusi gli occhi, il volto verso il cielo. Nella sua ultima lettera, Marina esprimeva l’impazienza di rivedermi; la stessa impazienza che provavo io. Avevo ricevuto una lettera anche da sua sorella: Elisa era preoccupata, non era l’unica. Mi chiedeva di trovare una soluzione perché non voleva veder soffrire la sorella, il mio più grande desiderio era accontentarla. Mi ero rivolto ad Asmal, chiedendogli se c’era una scappatoia, un modo per mantenere il mio ruolo e scegliere da solo la mia sposa. Mi aveva risposto che gli Dei avevano già fatto questa scelta per me, questo chiudeva la questione. Sospirai tornando a guardare il cielo.

Mancava poco più di un mese al solstizio d’estate. E tre giorni al nostro incontro.

 

L’ultimo.



 
Nota dell'autrice

Ciao a tutti! In primo luogo: Buona Vigilia di Natale!!!
E Buon Natale per domani ;)
Spero che il romanzo vi stia piacendo, la storia inizia
a movimentarsi e si movimenterà sempre di più a mano
a mano che procede.
Scrivo qui per avvisare che, da questo momento in avanti,
posterò un solo capitolo alla volta, anzichè due. Non siate tristi:
il motivo di questa scelta è che d'ora in avanti i capitoli diventano
molto più lunghi, per questo ho iniziato a postarne due per volta:
per darvi sempre un numero simile di parole da leggere! ;D
Mi piacerebbe sapere cosa pensate del libro fino a qui, se vi va
commentate oppure mandatemi un mp: sono a vostra disposizione!
Grazie
Sara

p.s. per chi segue La Ruota degli Elementi: domani potrete leggere l'ultimo capitolo!

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Capitolo 20
*** Capitili XVIII ***


 

Buon giorno! Buon Ultimo dell'Anno!
E Buon Anno per domani ;)
Eccovi il diciottesimo capitolo di Sangue Indiano.
Per i più teneri di cuore consiglio di avere a portata di
mano i fazzoletti a partire da metà capitolo: scene
emotive in arrivo!!! :D
Vi auguro buona lettura e, per favore, fatemi sapere
cosa ne pensate!
Ancora auguri a tutti.
Sara





Capitolo XVIII

 

 

Aprile era passato insieme con la Pasqua. La primavera avanzava velocemente trasformando il mondo in un giardino fiorito.

I preparativi per il matrimonio di Elisa procedevano senza intoppi. Come promesso avevo disegnato il suo abito da sposa, e ora andavo regolarmente dalla sarta per aiutarla a realizzarlo. Era tutto di seta bianca con pizzo macramè in una sfumatura tenuissima di verde acqua. Il velo, bordato con lo stesso pizzo, era lungo sette metri, due in più dello strascico della gonna. Stava venendo bene, ci sarebbero voluti ancora una decina di giorni per finirlo ma non si erano presentati problemi alla sua realizzazione.

Mi sentivo felice. L’inizio di maggio fu salutato con l’annuale ballo di primavera che si era tenuto nella piazza principale del presidio.

I giorni parevano volare. Quando iniziammo a preparare i bagagli per recarci ad Agra mi parve di scoppiare di gioia. Solo una cosa guastava la mia felicità: Silam sarebbe dovuto restare nuovamente a Lucknow. Avevo avuto una discussione con mamma e papà al riguardo, ma erano stati irremovibili: la tigre non si sarebbe mossa dalla residenza. Non lo trovavo giusto, per lo meno avrei avuto con me Hira Kala: Elisa e io avevamo deciso di fare nuovamente il percorso a cavallo, nessuna delle due aveva voglia di farsi sballottare al chiuso della carrozza.

La mattina della partenza aiutai Umi a coordinare la sistemazione dei bauli sul carro dei bagagli. Sorrisi, sul fondo di uno di quei bauli stava la scatola contenente il mio vestito rosso: era venuto molto bene e, per chi aveva visto l’altro, la somiglianza era lampante.

Partimmo. Passando davanti al comando militare Alexander si unì a noi: in quanto fidanzato di Elisa era stato invitato anche lui. Il secondo giorno di viaggio mantenemmo un ritmo di marcia più serrato della volta precedente: il sole era ancora alto sull’orizzonte quando arrivammo ad Agra. La città era caotica come sempre, più ancora se era possibile, fu quindi con sollievo che varcammo i cancelli del palazzo del Raja Sardar Singh. Raggiuntolo smontammo ed entrammo. Il Raja ci venne incontro nell’ingresso e ci salutò felice di rivederci almeno quanto noi. Non fui sorpresa quando scoprii che mi aveva assegnato nuovamente la Stanza delle Stelle, quando entrai trovai Samson ad attendermi.

«Felice di rivedervi, missy-sahib.» disse inchinandosi.

«Lieta di vederti, Samson. Tutto bene?»

«Oh sì, missy-sahib. Avete fatto buon viaggio?»

«Sì, buono. Ma vorrei riposare fino all’ora di cena, va pure, ti chiamerò se ho bisogno.» la congedai.

«Come desiderate. Buon riposo, missy-sahib.» disse allontanandosi

Quando la porta si fu chiusa andai al baule e lo aprii.

Mi cambiai e, indossato un leggero abito giallo con sopragonna bianca dipinta a mano, lasciai la camera senza fare rumore. Uscii nel parco e corsi verso il padiglione. In giro non c’era nessuno, lo raggiunsi in pochi attimi ed entrai. I drappi di seta si chiusero alle mie spalle, non vedendo nessuno abbassai gli occhi delusa. Alzai nuovamente lo sguardo sentendo un lieve rumore: lui era lì.

Restammo un attimo immobili a guardarci, poi mi sorrise e io volai tra le sue braccia, mi strinse a sé e, sollevato il mio volto, mi baciò...

 

 

*****

 

 

Finito di prepararmi per la cena, congedai il valletto e mi appoggiai allo stipite di una finestra. Ripensai alle ultime due ore sorridendo, quando l’avevo finalmente stretta a me mi ero sentito nuovamente vivo. L’indomani sera, il venti, ci sarebbe stata la grande festa di primavera, dopo di che avremmo avuto dieci giorni interi da passare insieme.

Bussarono alla porta. Entrò Parmar che mi disse che era ora di scendere. Non era stato felice di scoprire che sarebbero state di nuovo presenti Marina ed Elisa, non riuscivo a capire questa sua antipatia, speravo che sarebbe andato tutto bene: non mi andava l’idea di litigare con lui. Ci avviammo di sotto e raggiungemmo la sala dei banchetti, eravamo gli ultimi: tutti e cinquantasei gli ospiti attuali al palazzo erano già presenti. Mi avviai al mio posto a un capo della tavola e fui piacevolmente sorpreso notando che Marina era seduta alla mia sinistra, a destra sedeva Elisa e, subito accanto a lei, Alexander. Parmar fu fatto accomodare nel posto accanto a Marina, sedendosi le sorrise cortese e salutò i presenti. Riportai la mia attenzione su Marina e sollevai un sopracciglio interrogativamente, lei volse per un istante lo sguardo verso mio zio: aveva assegnato lui i posti a tavola.

La cena fu lunga ma piacevole, la conversazione sfiorò tutti gli argomenti di comune interesse. A tratti sentivo mio zio parlare di politica interna con lord Shallowford: sembravano entrambi preoccupati, anche se cercavano di non darlo a vedere, mi ripromisi di scoprire cosa stesse succedendo e riportai l’attenzione sulla conversazione circostante. Elisa e Marina sembravano molto eccitate per la festa dell’indomani e mi chiesero di raccontare loro le origini di quella ricorrenza, così iniziai a narrare le leggende della mia terra.

Lasciammo la sala dei banchetti che erano le dieci. La famiglia Shallowford al completo e Alexander si scusarono con gli altri ospiti e si ritirarono: il viaggio era stato faticoso. Fortunatamente entro l’ora seguente anche io potei allontanarmi.

Cambiatomi, raggiunsi gli appartamenti di mio zio, passando per il salotto che li metteva in comunicazione con i miei. Quando ebbe congedato i servitori lo pregai di raccontarmi cos’era che preoccupava tanto lui e il padre di Marina. Mi raccontò così dell’attentato alla residenza di Lucknow avvenuto alla fine di novembre, delle rivelazioni del prigioniero e di tutti i piccoli segnali di allarme che il conte e i vari comandanti dei presidi dell’Uttar Pradesh avevano raccolto. Ascoltai quelle parole con crescente senso di disagio, poiché alcune delle stranezze riportate le avevo riscontrate anche nelle zone più remote del Rajasthan. Lo zio prese nota di quanto gli raccontai, dicendomi che l’indomani lo avrebbe riferito al conte, era consigliabile, mi disse, che presenziassi anch’io alla riunione e di buon’ora avrebbe chiamato anche il comandante del presidio di Agra per informarlo. Mi trovai d’accordo con lui poi, notando la stanchezza sui suoi tratti, lo salutai e mi ritirai.

 

Il mattino dopo a colazione mi trovavo nello studio privato di mio zio, mentre lui e il colonnello Shallowford illustravano la situazione al colonnello Robson, comandante del presidio di Agra. Quest’ultimo non sembrava preoccupato per quello che sentiva, non sembrava neppure dare peso al fatto che un uomo di grande acume qual'era il conte ne fosse turbato. Disse che l’India non era mai stata così tranquilla e che sarebbe sempre stato così, checché ne dicesse qualche dissidente esaltato. Intervenni, cercando di fargli capire che ora la situazione era sì calma, ma che poteva anche cambiare in modo repentino. Mi rispose che ero giovane e che con il tempo avrei imparato a capire questa terra e la sua gente. Ero furioso, quell’insulso damerino voleva insegnarmi a capire la mia terra e la mia gente, lui che era in India da neppure tre anni! Lo guardai allontanarsi e scossi la testa esasperato.

«Inglesi!» esclamai disgustato, mi voltai poi verso il conte «Vogliate scusarmi, non intendevo offendervi.»

«Non preoccupatevi, Altezza,» mi disse «stavo pensando esattamente la stessa cosa. Non riesco a credere che Londra abbia mandato un incompetente simile, mi chiedo che cosa sia preso al Capo di Stato Maggiore, un tempo li sapeva scegliere bene gli uomini.»

«Politica, mio caro conte,» intervenne lo zio «al giorno d’oggi le decisioni sono prese in base alla politica. Evidentemente mandare qui Robson era politicamente più conveniente che mandare qualcuno più… abile.» concluse.

«Già, è avvilente ma avete ragione.»

La riunione si concluse in pochi minuti.

Decidemmo di continuare a controllare la situazione, pronti a fare tutto il possibile per mantenere la pace nel Paese.

 

 

*****

 

 

Mi stavo preparando per il pranzo e osservavo la mia espressione imbronciata riflessa nello specchio. Non vedevo Cavan dalla sera precedente, Samson mi aveva detto che lui, il Raja, mio padre e un altro militare che non conosceva si erano chiusi nello studio del Raja quella mattina presto. Ancora una volta mi chiesi di cosa stessero parlando. Avevo notato l’espressione preoccupata di mio padre, la sera prima, e mi sentii un po’ in colpa per la mia impazienza.

Uscendo dalla camera vidi papà entrare nella sua, mi diressi alle scale e iniziai a scendere. Ero giunta quasi in fondo, quando notai due persone sulla porta: un valletto e un militare, riconosciuto quest’ultimo sorrisi.

«Luke!» esclamai andandogli incontro «Come mai qui?»

«Porto un messaggio per tuo padre.» rispose abbracciandomi «Ciao Marina, tutto bene?»

«Sì, sono felice di vederti. Come mai il maggiore O’Brian ha mandato te come messaggero?»

«Ordini del colonnello. Dove lo posso trovare?»

«È di sopra, vieni, ti accompagno.»

Così dicendo lo presi sottobraccio e risalimmo. Sul pianerottolo del primo piano incrociammo il Raja che sorrise al nuovo arrivato e si avvicinò.

«Altezza,» dissi «posso presentarvi il capitano Luke Tyler? Luke,» mi rivolsi al capitano «ho il piacere di presentarti Sua Grazia il Raja Sardar Singh, il nostro ospite.» li presentai.

«Onorato, Altezza.» disse Luke inchinandosi.

«Piacere mio, capitano. Capitano,» aggiunse poi «questa sera ci sarà una festa qui al palazzo, volete unirvi a noi?»

«Ne sarò felice, Altezza, se il colonnello mi darà il permesso.»

«Il colonnello ve lo dà, capitano.» disse papà sopraggiungendo «Avete con voi l’uniforme di gala?» continuò dopo averci salutati.

«No, signore, ma ho un amico al presidio di Agra che mi deve un favore.» concluse sorridendo.

«Bene, così potrete fare da cavaliere a mia figlia.»

«Allora è tutto a posto.» disse il Raja «Mia cara Marina venite, accompagnatemi di sotto. Vostro padre e il capitano ci raggiungeranno appena finito di parlare.»

Così dicendo mi porse il braccio e, congedatici dagli altri due uomini, scendemmo.

 

 

*****

 

 

Quel tipo non mi piaceva. Non mi piaceva il suo modo di fare accattivante, il suo modo di parlare e di muoversi, ma soprattutto non mi piaceva il modo in cui guardava Marina.

Avevo raggiunto la sala dei banchetti per scoprire che i posti a sedere erano stati cambiati: alla mia destra avevo Alexander con accanto Elisa e, a sinistra, avevo Parmar. Marina veniva dopo di lui, di fianco a lei sedeva un giovane capitano che mi era stato presentato come Luke Tyler. Era lui a non piacermi.

Un’altra risata di Marina mi fece alzare gli occhi verso il suo lato. Lei e Tyler parlavano fitto tra loro e la facilità con cui lui riusciva a farla ridere era irritante. Colsi un brano della loro conversazione e notai che le dava del tu. In pubblico.

Dei, quanto non mi piaceva! E la cosa era reciproca: quando Marina ci aveva presentati, vedendola sorridermi, Tyler mi aveva guardato storto. Senza che nessuno se ne accorgesse ovviamente. Ma io avevo captato quello sguardo.

La cosa più irritante era che, non potendo accampare pubblicamente diritti su Marina, non potevo impedire che le facesse la corte. E lui gliela faceva eccome.

Un’altra risata. Mi ordinai di rilassarmi e di partecipare alla conversazione intavolata da Alexander. Annuii a un commento di Elisa e ripresi il mio ruolo di ospite.

Quando finalmente quel supplizio ebbe fine e potemmo alzarci da tavola, mi congedai dagli ospiti e uscii nel parco: avevo bisogno di una boccata d’aria fresca per sbollire. Camminai per un po’ seguendo i vialetti, senza badare troppo alla direzione fino a che mi trovai dinanzi alla cascata vegetale che copriva il muro di cinta. Sorrisi ricordando la mattina in cui avevo seguito Marina oltre la porta lì nascosta. Non si era accorta che l’avevo seguita fino al Taj e ritorno quando, fissando il chiavistello, mi aveva chiuso fuori.

Tornai sui miei passi e, raggiunto il lago, mi sedetti sull'erba che lo bordava. Guardai l’acqua seguendo con gli occhi la scia di un cigno solitario, fino dove incontrava i rami del salice piangente che, mossi dalla lieve brezza, disegnavano cerchi concentrici nel punto di contatto con l’acqua.

Arrivò Alexander e si sedette accanto a me. Raccolse un filo d’erba e lo lanciò verso il lago osservandone la lenta discesa.

«Brutta giornata?» mi chiese rompendo il silenzio.

«Non è una delle migliori…» ammisi.

«Luke?»

«Non solo.» dissi reprimendo una smorfia involontaria «Ho passato la mattina a litigare con un idiota in compagnia di mio zio e del colonnello Shallowford.»

«Robson.» disse annuendo lievemente tra sé «Il colonnello mi ha riferito in breve quel che è successo.»

«Chi diavolo è Tyler, comunque?»

«Come la vuoi: sincera o addolcita?»

«Fa’ tu.»

«È l’accompagnatore ufficiale di Marina a tutti gli avvenimenti mondani.»

«È un po’ tardi per chiedertela addolcita, vero?» chiesi con un mesto sorriso.

«Oh, ma questa era l’addolcita. La sincera è che Luke è il candidato più probabile alla mano di Marina. Almeno per come lo tratta il colonnello.»

«Ora mi sento meglio…»

Mi sdraiai sul prato con una mano sugli occhi. Mi rimisi a sedere con le braccia appoggiate sulle ginocchia.

«Maledizione.» sussurrai «Maledizione…»

«Per lo meno è un tipo in gamba,» lo guardai «se non altro, Cavan, saprai sempre che è in buone mani.»

«Preferirei fossero le mie.» mi alzai in piedi «Ma hai ragione: meglio lui che qualche smidollato. Comunque quel tipo non mi piace.»

«Lo credo.» disse sorridendomi «Anche a me piacerebbe poco se fossi al tuo posto.»

«Già,» guardai in alto «già…» sospirai.

 

 

*****

 

 

Stavo cavalcando. Il vento mi frustava il viso ma non potevo fermarmi, un senso d’urgenza mi spingeva a mantenere quella folle andatura. I fianchi del cavallo erano coperti di schiuma ma ciò nonostante continuava a correre senza rallentare. Poi all’improvviso tutto finì, ero di nuovo al sicuro, Cavan era di nuovo al mio fianco.

Un rumore mi svegliò. Mi guardai intorno disorientata poi mi resi conto di essere stesa sul mio letto. Bussarono. Al mio ordine entrò Umi, mi chiese se avevo riposato bene, poi disse che era ora di prepararsi poiché mancavano meno di due ore alla festa. Aveva già ordinato l’acqua calda per il bagno e proprio mentre lo diceva, alcune cameriere la portarono versandola nella vasca di marmo verde del mio bagno privato. Umi mi aiutò a svestirmi poi, raccolti i capelli, mi fece entrare nella vasca. Mentre mi rilassavo immersa nel liquido profumato, lei prese il mio vestito rosso e lo stese sul letto, sollevata nel notare che non si era minimamente gualcito. Mi lasciò per andare ad aiutare Elisa. Fu Samson, quindici minuti dopo, a portarmi gli asciugamani. Mentre legava i lacci del mio corsetto, chiacchierava senza posa dei preparativi che erano stati fatti nel salone delle feste al piano di sotto. Ridemmo quando mi raccontò che uno dei valletti, scivolato mentre appendeva una decorazione, era finito nella fontana, inzuppandosi. Mi sedetti e, mentre lei acconciava i miei capelli, mangiai un po’ della frutta già sbucciata che mi aveva portato. Tornò Umi che insieme a Samson mi aiutò a indossare il vestito e me lo chiuse sulla schiena, chiuse poi intorno al mio collo la collana di diamanti e rubini dono di Cavan, indossai gli orecchini e le porsi il polso sinistro perché vi allacciasse il bracciale e, indossato al medio destro l’anello che completava la parure, fui pronta. Mi guardai allo specchio e sospirai sorridendo, la sarta era riuscita a ricreare il modello originale con stupefacente precisione, nonostante la crinolina. La seta rossa e oro brillava iridescente alla luce e lampi bianchi e rossi scaturivano dalle pietre della parure. I pizzi e i ricami davano movimento alla linea semplice del vestito rendendolo vaporoso, e il colore ravvivava il mio incarnato chiaro, donandomi una sfumatura rosea sugli zigomi.

Samson mi guardava incantata, mentre Umi continuava a complimentarsi finché non si allontanò per andare a controllare che anche Elisa fosse pronta. Congedai Samson e mi avvicinai a una finestra, guardando gli alberi del viale. Luke aveva detto che sarebbe venuto a prendermi per scendere insieme. Bussarono. Guardai l’orologio: non poteva essere già lui quindi andai ad aprire. Era Elisa, la feci entrare e la guardai: era bellissima. Con la seta verde, dono di Karim Asa, si era fatta confezionare un vestito ad ampie pieghe, decorato con festoni di merletto, che le dava un’aria molto sofisticata e faceva risaltare la parure di smeraldi.

Rimanemmo a parlare per un po’ scambiandoci commenti sulla giornata appena trascorsa e sulla serata che stava per iniziare. I nostri cavalieri arrivarono contemporaneamente, affascinanti in alta uniforme si inchinarono porgendoci il braccio e ci accompagnarono nel salone delle feste. Composizioni floreali decoravano i bordi della fontana mentre ghirlande di fiori si attorcigliavano alle colonne della sala e festonavano le grandi arcate delle finestre che davano sui giardini. La musica dei flauti e dei sitar si levava nell’aria insieme a volute di incenso profumato e il brusio delle voci era piacevolmente vivace. Mi guardai intorno, stupita dal numero degli invitati: c’erano il doppio delle persone che avevano partecipato alla festa precedente. Luke mi accompagnò a vedere le danzatrici che si esibivano al suono dei tamburelli, fummo raggiunti dai miei genitori, mamma era assolutamente raggiante nell’abito blu cobalto creato apposta per l’occasione. Ci scambiammo commenti e osservazioni sulle decorazioni della sala, sulla musica e le danzatrici e sulla varietà degli invitati.

L’ingresso del Raja, seguito dal nipote, interruppe i nostri discorsi. Ci inchinammo insieme a tutti gli altri nel momento in cui furono annunciati e quando, passando di ospite in ospite ci raggiunsero, li salutammo. Cavan guardò il mio abito con un sorriso che ricambiai, prima di proseguire con i saluti. Anche lui era vestito di rosso: indossava una casacca di raso rosso rubino sopra a dei pantaloni di un caldo color oro antico. Non avremmo potuto abbinare meglio il nostro reciproco abbigliamento neppure se ci fossimo accordati.

La festa proseguì, ritrovati Elisa e Alexander chiacchierammo a lungo di vari argomenti e frivolezze, assaggiando tartine e antipasti. Mi stavo divertendo. Nonostante non avessi ancora parlato con Cavan, non lo avevo visto che per pochi minuti in tutto il giorno, la compagnia di Luke fu impareggiabile, riusciva a farmi ridere anche solo con un’occhiata facendo volare il tempo.

Verso l’una e mezza sentii il bisogno di prendere un po’ d’aria e, scusatami con il gruppo di invitati con cui stavo parlando, mi allontanai. Uscii nel giardino di destra, lo stesso nel quale mi ero rifugiata a gennaio e passeggiai pigramente per i vialetti lastricati, immersa nel profumo stordente del gelsomino, misto a quello dei sicomori. Quando fui lontana dalle finestre della sala sentii un lieve rumore dietro di me e mi voltai: non vedendo nessuno mi guardai intorno. Sentii un sibilo, ma prima che potessi individuarne la fonte, qualcosa mi si strinse intorno alla gola mozzandomi il respiro. Un forte dolore alla testa mi fece piegare le ginocchia e caddi a terra. Nere ondate di dolore minacciavano di inghiottirmi, lottai per rimanere cosciente, ma la vista andava oscurandosi. Un attimo prima di svenire, vidi chino su di me un volto barbuto, una casacca rossa, quindi il lieve brillio di una lama serpentina. Poi più nulla…

 

 

*****

 

 

Entrando nella sala mi guardai intorno e la individuai senza difficoltà: una rossa fiamma ardente che illuminava coloro che le stavano accanto. Avvicinatomi, assieme a mio zio, per salutare lei e la sua famiglia riconobbi il modello del suo abito e le sorrisi recependo il messaggio. I miei doveri di ospite mi imposero di non trattenermi: dovevo ancora salutare un’intera sala piena di invitati, così mi allontanai. A mano a mano che proseguivo, gli ospiti mi trattenevano, impegnandomi in varie discussioni, così non potei più raggiungerla. Il tempo passava e a un certo punto mi trovai accanto Alexander e Tyler. Parlammo per un po’ della situazione del paese, riferendoci all’incontro della mattina, e discutemmo le decisioni prese. Mio malgrado dovetti ammettere, almeno con me stesso, che anche Tyler, come era stato per Alexander, sapeva di cosa parlava ed era interessato ai modi per migliorare la mia terra. Cambiammo argomento quando altri due giovani militari si unirono a noi, l’argomento scelto fu la caccia. Scelta poco felice per noi, poiché uno dei due militari era un appassionato cacciatore. Si era lanciato in una lunga dissertazione sui metodi di appostamento, ed era a metà dell’avvincente racconto dei due giorni in cui aveva dato scacco a un maschio di cervo dalla coda rossa, quando decisi di averne abbastanza. Proprio in quel momento vidi, da sopra la spalla di Tyler, Marina che usciva in giardino. Con discrezione e senza disturbare l’appassionante racconto di caccia, mi allontanai dai miei compagni di sventura, seguito dall’occhiata mesta di Alexander, che avrebbe voluto fare lo stesso.

Uscii nel giardino e quando i miei occhi si furono abituati alla penombra, mi guardai intorno. Mi avviai per uno dei vialetti cercando Marina senza trovarla. Ero quasi convinto che fosse rientrata, quando sentii un rumore alla mia sinistra, mi avviai da quella parte, scostando i cespugli che a tratti ostruivano il sentiero, quindi chinatomi per passare sotto a un basso ramo di sicomoro restai di ghiaccio. Marina era stesa a terra, immobile. Le fui subito accanto chiamando il suo nome e la sollevai lievemente per le spalle. Notai allora, con orrore, il laccio che le stringeva la gola e mi affrettai a toglierlo infilandolo poi nelle pieghe della fascia che mi cingeva i fianchi. Il suo respiro era lievissimo, quasi inesistente, così come il battito del cuore. Svelto la sollevai e rientrai nella sala. Un brusio agitato si levò dagli invitati quando mi videro comparire con Marina, priva di conoscenza, tra le braccia.

«Marina!»

Quel grido angosciato proveniva dalla madre.

In un attimo mi fu accanto insieme al marito e all’altra figlia, anche Alexander, Tyler e Patal si avvicinarono. Mi diressi senza perdere tempo verso la porta alla mia destra che conduceva ai salotti interni. Mio zio l’aprì per farmi passare e mi fece strada verso il salotto più interno ancora. Patal fu l’ultimo a entrare, chiudendo la porta e mettendovisi davanti. Mentre riferivo l'accaduto e il particolare del laccio posai Marina con delicatezza su un divano e la esaminai: la gola era arrossata e andava gonfiandosi, il respiro era sempre lieve ma il cuore batteva a ritmo regolare. Umi, appena entrata, mi porse una pezzuola umida e fresca che posai sul gonfiore. Sentivo i singhiozzi della contessa che era stata fatta sedere dal marito. Anche Elisa stava piangendo in silenzio appoggiata ad Alexander che le sussurrava parole di conforto, Tyler invece camminava avanti e indietro lungo una parete, come una tigre in gabbia. Mio zio, accanto a Patal guardava il vuoto con espressione dura. Umi, sull’altro lato del divanetto, rinfrescava il volto di Marina che poco a poco riprese colore.

Dopo un tempo interminabile Marina riaprì gli occhi. Tentò di parlare ma le posai un dito sulla bocca e le accostai una coppa di freddo vino frizzante alle labbra. Le ordinai dolcemente di bere sostenendole la testa, si avvicinò sua madre e le cedetti il posto andando accanto a mio zio, il quale le si rivolse.

«Ricordi cosa è successo?» le chiese quando si fu ripresa abbastanza.

Lei lo guardò e chiuse gli occhi cercando di ricordare.

 

*****

 

 

Immagini sfocate emersero a fatica dalla mia memoria e si fecero lentamente più nitide. Quando riuscii a metterle a fuoco iniziai a raccontare:

«Ero uscita in giardino perché avevo caldo. Stavo passeggiando tranquillamente quando ho sentito un rumore, ho guardato intorno ma non c’era nessuno. Poi la gola mi si è stretta e non riuscivo a respirare né a chiedere aiuto…» mi interruppi «Qualcosa mi ha colpita alla testa e sono caduta. Si è fatto tutto nero e sono svenuta.»

«Non ricordi nient’altro?» mi chiese la mamma.

«No, è tutto confuso.» scossi la testa cercando di schiarirmi le idee poi l’alzai di scatto «No! C’è qualcos’altro: c’era qualcuno lì, si è chinato sopra di me un attimo prima che perdessi i sensi.»

«Descrivilo, bambina, se puoi.» incalzò gentilmente il Raja.

«Era indiano,» cominciai lentamente «aveva il turbante e la barba. Sì, e indossava una giacca rossa. E c’era qualcos’altro…» chiusi gli occhi concentrandomi «C’è stato un bagliore…» riaprii gli occhi di scatto «Aveva un pugnale!» esclamai spaventata.

Cavan sfoderò il suo e me lo fece vedere.

«Era come questo?» mi chiese.

«No,» dissi osservandolo attentamente «aveva la lama ondulata con al centro una vena di rame, credo, o forse d’oro rosso, non ricordo bene. Voleva uccidermi! Perché?» mi voltai verso mia madre seduta accanto a me «Perché mi voleva uccidere?» chiesi scoppiando in singhiozzi.

Mamma mi abbracciò in silenzio, cullandomi.

 

 

*****

 

 

I suoi singhiozzi mi spezzarono il cuore. Mi voltai e diedi un pugno alla parete; che cosa voleva dire tutto questo? Notai mio zio e il colonnello scambiarsi un’occhiata d’intesa, dunque loro un’idea ce l’avevano!

Mio zio si fece avanti, parlò un attimo sottovoce con Patal che si allontanò e, fatto un cenno al colonnello si appartarono per qualche minuto. Quindi si rivolsero a tutti:

«È prioritario scoprire chi è l’attentatore.» disse mio zio «Ma per smascherarlo, e per tenere al sicuro Marina, è necessario che, chiunque egli sia, si convinca di aver portato a termine la sua missione.»

«Vuoi fargli credere di averla uccisa?» chiesi indicando Marina.

«Precisamente.» confermò il colonnello «Voi, Altezza, e il Raja tornerete dagli ospiti e annuncerete che Marina è morta.»

Rientrò Patal «Quattro su cinque.» disse.

Quelle criptiche parole mi fecero guardare mio zio.

«Ci sono» disse «cinque invitati che indossano una casacca rossa e solo quattro hanno la barba. Dopo l’annuncio della morte della contessina gli invitati verranno allontanati dal palazzo ma ne tratterrò alcuni…»

«I quattro con la barba.» conclusi cominciando a capire.

«Esatto. Li tratterrò con la scusa di aver bisogno del loro aiuto per organizzare le indagini. Li porterò uno alla volta nella stanza accanto e Marina, attraverso il finto specchio, potrà guardarli e identificare il suo aggressore.»

«Per identificarlo meglio,» proseguì il colonnello «il Raja gli chiederà di giurargli aiuto sulla lama del proprio pugnale, costringendoli così a mostrarlo: in giro ci sono pochi pugnali come quello che ha descritto Marina quindi sarà abbastanza facile individuarlo.»

«Perché, papà?» chiese Marina con un filo di voce «Perché questi sotterfugi?»

«È tutto per il tuo bene, cara. Fidati di me. Quando l’avremo catturato ti spiegheremo tutto, te lo prometto.» si guardò intorno «Lo spiegheremo a tutti voi.» concluse.

Così avvenne.

Uscimmo dal salotto e raggiungemmo la sala delle feste, tutti gli ospiti si voltarono verso di noi con mille domande, ma lo zio, chiesto il silenzio, si rivolse ai presenti:

«Amici miei,» esordì «in questo giorno che doveva essere una lieta ricorrenza è sopraggiunta la tragedia: lady Marina Shallowford, colta da un malore mentre passeggiava nel giardino, è morta pochi minuti fa senza riprendere conoscenza. Ci lascia alla giovane età di diciotto anni appena compiuti. La natura improvvisa di questo tristissimo evento ha gettato nello sconforto la famiglia della contessina. So che molti di voi conoscono i Shallowford e che vorrebbero unirsi a loro per piangerne la figlia, vi ringraziano ma vi pregano di lasciarli soli. Io vi chiedo, amici, di lasciare questo palazzo, avrete occasione di esternare il vostro cordoglio alla famiglia nei prossimi giorni. Grazie.» concluse.

Come ebbe finito di parlare, la folla che lo aveva ascoltato attonita, iniziò ad allontanarsi.

Mio zio si affrettò a raggiungere gli uomini che ci interessavano e con una scusa li trattenne. Quando tutti gli ospiti furono partiti, chiese ai quattro nobili rimasti di attendere accanto alla fontana, poiché aveva bisogno di parlar loro di un grave argomento e che li avrebbe fatti chiamare uno alla volta.

Ci allontanammo raggiungendo i Shallowford e li assicurammo che era andato tutto bene, facemmo avvicinare Marina alla parete della porta di comunicazione col primo salotto e, spente tutte le lampade e le candele, aprimmo il pannello del finto specchio. Decidemmo che quando avesse riconosciuto il suo aggressore ci avrebbe mandato Patal, indicandoci così che avevamo il nostro uomo, quindi andammo nella stanza accanto e facemmo chiamare il primo.

«Signore,» gli disse mio zio «ho bisogno del vostro aiuto per svelare un terribile fatto: ciò che ho detto prima non era la verità, la contessina non è morta per un malore, è stata uccisa. Volete aiutarmi a condurre con discrezione le indagini tra gli ospiti di questa sera?»

«Contate su di me, Vostra Grazia.» rispose il nobile.

«Volete dunque giurare, sulla lama del vostro pugnale, che mi aiuterete e che manterrete il segreto su quanto vi ho detto?»

«Certo!» esclamò sguainando il pugnale e porgendolo allo zio «Ve lo giuro.»

Fatto ciò un valletto lo fece uscire dalla porta che dava direttamente sul corridoio, senza più farlo passare dal salone: non volevamo che nel momento in cui avessimo catturato l’attentatore gli altri ne notassero la scomparsa.

La stessa scena si ripeté altre due volte. Poco prima che il terzo nobile giurasse sul suo pugnale, entrò Patal, e si pose con noncuranza alle spalle del nobile facendoci un cenno. Tuttavia attendemmo. Quando sguainò il pugnale una vena d’oro rosso brillò al centro della lama serpentina: quella era la conferma. Dovetti dar fondo a tutto il mio autocontrollo per non aggredire quel bastardo. Fu Patal ad accompagnarlo fuori dal salotto, ma non lo condusse all’uscita: prima che potesse rendersene conto Patal lo immobilizzò e, imbavagliatolo, lo portò in un’altra stanza.

Ripetemmo la farsa del pugnale anche con l’ultimo nobile e quando se ne fu andato raggiungemmo i Shallowford e i due militari che aspettavano nell’altro salotto.

 

 

*****

 

 

Il silenzio nella stanza era assordante. Nessuno aveva più emesso un fiato da quando avevo riconosciuto il mio assalitore, fu quindi un sollievo quando la porta si aprì e rientrarono Cavan e il Raja.

«È fatta,» disse quest’ultimo «abbiamo il nostro uomo. Patal lo sta portando qui e vedremo la sua reazione quando si accorgerà che Marina è viva.»

Un attimo dopo si aprì la porta del corridoio.

Patal spinse dentro il prigioniero togliendogli il bavaglio. Si trovò davanti mia madre e mia sorella, le quali mi nascondevano alla sua vista, quindi si guardò intorno chiedendo cosa stesse succedendo. In quel momento mamma ed Elisa si scostarono e lui poté vedermi. Sgranò gli occhi nel riconoscermi e impallidì.

«No, non è possibile!» esclamò «Tu sei morta! Io ti ho uccisa, tu non puoi essere…» si interruppe.

Lo guardai dritto negli occhi.

«Perché?» gli chiesi «Perché volevate uccidermi, non vi conosco neppure.»

Si guardò intorno con un sogghigno.

«Non lo sa, è così? Non glielo avete detto?» scoppiò a ridere.

«Patal,» disse mio padre «imbavaglialo.»

Guardai i miei genitori, Umi, il Raja, poi riportai lo sguardo sui primi.

«Cos’è che non mi avete detto?»

Umi venne a sedersi accanto a me e chiamò anche Elisa che ci raggiunse. Mia sorella come me aveva un’aria molto confusa.

«Bambine,» disse Umi «vi ricordate di quando, a Bombay, vi narrai la storia della mia padrona, della sua amicizia con la contessa e della sua tragica scomparsa?» annuimmo «Vedete, in quell’occasione non vi raccontai tutto, omisi alcuni fatti. Al tempo in cui la contessa aspettava un bambino anche la mia padrona era in dolce attesa. Quando, durante la visita dei vostri genitori, il palazzo venne attaccato, la mia signora li fece uscire attraverso il passaggio segreto della sua camera e li pregò di attendere all’altro capo del tunnel fino al tramonto, poiché le erano iniziate le doglie del parto: c’era la possibilità di salvare almeno il bimbo. La contessa la pregò di fuggire con loro, ma, come vi dissi, lei volle restare col suo sposo. Tutti gli uomini del palazzo e anche molte donne coraggiose combatterono come tigri quel giorno, per guadagnare ogni attimo, per dare all’Erede la possibilità di nascere e di essere salvato. E l’Erede nacque. Il suo pianto venne soffocato dalle grida della battaglia, nessuno lo udì. Quando ciò accadde mi affrettai ad appendere un drappo rosso alla finestra: era il segnale convenuto per indicare la nascita dell’Erede. A quel segnale Patal, che era il comandante delle guardie personali del Maharaja, sapeva di dover raggiungere la camera della nostra Signora per proteggere la fuga dell’infante. Nel frattempo io l’avevo preparata e la portai alla madre. Sì, era una bambina.» mi guardò «Una bellissima bambina, la mia Signora pianse di gioia e di dolore nel vederla: di gioia poiché era nata ed era possibile salvarla, di dolore perché non l’avrebbe mai vista crescere. Prima di consegnarmela, perché la portassi via insieme a Patal, le impose il nome: la chiamò Sunahra Moti, Perla Dorata, per via del colore chiaro e tuttavia caldo della sua pelle. Patal e io, con in braccio la bimba, fuggimmo e raggiungemmo il conte e la contessa che ci aspettavano nel boschetto dove sbucava il passaggio segreto. Viaggiammo a una velocità impensata, senza mai fermarci, terrorizzati che quei rinnegati ci potessero trovare prima di essere al sicuro. Raggiungemmo Agra poche ore prima del messaggero che annunciava la fine del Palazzo di Lakshmi e dei suoi abitanti. Il conte chiese immediatamente il rientro a Londra che gli venne subito concesso, era risaputo dell’amicizia di sua moglie con la Maharani. I bagagli erano già pronti: partimmo subito. Il viaggio fu faticoso, soprattutto per la contessa che, cinque giorni dopo quegli eventi, entrò in travaglio e diede alla luce anche lei una bambina. Raggiungemmo Bombay e la nave quasi due settimane dopo, a quel punto la lieve differenza di età tra le bimbe non si notava più e il conte le presentò al capitano della nave come gemelle: le sue figlie. Essendo un amico gli chiese di registrare la loro nascita come se fosse avvenuta sulla nave, gli disse che voleva che sui documenti risultassero nate su suolo inglese e non in una colonia. Il capitano acconsentì e registrò la nascita il cinque marzo, primo giorno di navigazione. Raggiungemmo l’Inghilterra e là foste entrambe al sicuro: nessuno sapeva che, durante l’attacco, i Shallowford si trovavano al palazzo e nessuno sospettò mai che voi due non foste gemelle poiché, nonostante non vi somigliate fisicamente, avete caratteri molto simili. Quando eravate bambine, vedendovi crescere giorno dopo giorno, decisi che pur sapendo che probabilmente non saresti mai venuta in India, tu dovessi conoscere almeno il tuo nome, anche sotto forma di semplice nomignolo, così quando eravamo solo noi tre iniziai a chiamarti Moti e, per non creare diversità, chiamai Elisa con il nome indiano che mi aveva ispirato sin dalla sua venuta al mondo: Lall.» si alzò e si pose di fronte a me, Patal le venne accanto «Tu Marina, in realtà sei Sunahra Moti, Principessa del Palazzo di Lakshmi, Erede al trono dell’Uttar Pradesh.» sorrise «Mia Principessa.» disse inginocchiandosi e poggiando la fronte a terra imitata da Patal.

Non riuscivo a vedere nulla.

Dai miei occhi stavano sgorgando fiumi di lacrime e mille pensieri turbinavano nella mia mente. Guardai mia madre, la donna che avevo chiamato mamma per diciotto anni, tutta la mia vita, mi restituì lo sguardo piangendo.

«Non sei mia madre.» sussurrai «Non siete i miei genitori,» guardai Elisa «non sei mia sorella.» chiusi gli occhi «Non ho né madre né padre o fratelli… o sorelle. Sono sola al mondo.» mi presi il volto tra le mani e scoppiai in singhiozzi.

Mamma mi venne accanto e mi abbracciò accarezzandomi i capelli.

«Non dire così, tesoro. Io sono tua madre, è vero non ti ho dato alla luce, ma è come se lo avessi fatto. Non c’è mai stata differenza tra te e tua sorella nel mio cuore. Non piangere, Marina, non sei sola: tuo padre, tua sorella e io ti amiamo come solamente si può amare una figlia o una sorella. Niente cambierà questo fatto, mai. Smetti di piangere,» mi scostò guardandomi «per favore.»

«Marina.» mi chiamò Elisa, la guardai «Sorella.» disse.

Ci abbracciammo strette e lasciammo libero sfogo alle lacrime.

Non ci accorgemmo che anche papà si era avvicinato e ci aveva posato una mano sulla testa. Con la fronte posata sulla spalla di Elisa diedi sfogo al dolore, alla paura e alla rabbia. Sì, alla rabbia. Ero furiosa con coloro che avevano attaccato il palazzo perché, per causa loro, non avrei mai conosciuto i miei veri genitori se non attraverso i racconti degli altri. Ero arrabbiata con il destino che mi aveva messo di fronte alla verità in un modo tanto orribile. E, sì, ero arrabbiata anche con le persone che amavo di più senza, però, capirne il motivo. Ero spaventata da ciò che mi riservava il futuro poiché avevo intuito che l’attacco portatomi da quell’uomo non sarebbe stato l’ultimo: appena si fosse saputo che ero viva altri avrebbero tentato di uccidermi. E il dolore per la perdita di coloro che non avevo, e non avrei, mai conosciuto era altresì insostenibile.

La stanza era sprofondata nel silenzio. Quando mi fui calmata un poco alzai la testa e osservai coloro che mi circondavano. Presi la mano di papà e la strinsi forte così come quella di mamma, Umi e Patal si erano rialzati e mi guardavano con orgoglio misto ad affetto e reverenza. Alexander era stupito ma mi fece un cenno incoraggiante e Luke si avvicinò di un passo e mi sorrise anche se si vedeva la tristezza per il mio dolore trapelare dal suo sguardo. Guardai Cavan, una luce di speranza, così intensa da stupirmi, gli brillava negli occhi.

«Cosa..?» gli chiesi.

Fu il Raja a rispondere:

«La storia, mia cara, non è finita. Sitara-i-Mahal, la tua vera madre, era mia figlia, la mia unica figlia, e tu, mia piccola nipotina, sei la quinta principessa della leggenda, colei che si credeva fosse morta, poco dopo la nascita, nel massacro degli abitanti del suo palazzo natale.» lo guardai scioccata «Neppure i tuoi genitori ne sono al corrente, ma io sapevo che eri mia nipote fin dal principio. Il messaggero che giunse al presidio venne prima qui per informarmi della morte di mia figlia, mi disse che l’Erede era, però, sfuggita al massacro poiché Sitara l’aveva affidata alla sua cara amica, la contessa Shallowford. Quando ci incontrammo a Bombay avrei tanto desiderato poterti abbracciare e rivelarti chi ero, ma sapevo di non potere. Adesso finalmente posso.» si avvicinò e, abbracciatami, mi posò un bacio sulla fronte «Ora,» disse voltandosi «sarà meglio sentire cosa ha da raccontare il nostro ospite.»

Ci voltammo verso il prigioniero e Patal gli tolse il bavaglio e lo mise in piedi.

«Scenetta commovente.» disse.

Luke, che gli stava passando accanto si fermò e gli piantò un pugno sotto lo sterno facendolo piegare in due.

«Impara a parlare con più rispetto.» gli sibilò.

Il prigioniero si rialzò a fatica, tossendo. Ci rivolse uno sguardo infuriato e volse la testa altrove. Patal gli si avvicinò, gli prese la faccia e lo girò fino a che i suoi occhi poterono vedere i propri.

«Intendi parlare con le buone o preferisci che si passi subito alle maniere forti?»

Il prigioniero scosse le spalle.

«Il mio compito era quello di ucciderla.» disse indicandomi «Tutto qui.»

 

 

*****

 

 

«Tutto qui!?» esclamai adirato.

«Sì, tutto qui. Ho ricevuto l’ordine di eliminarla poiché era stato impossibile rapirla.»

«Voglio sapere tutto dall’inizio.» disse mio zio «Ogni particolare a partire da diciotto anni fa.»

«Ci vorrà un bel po’ di tempo.» disse ironico.

«Nessuno di noi ha impegni.» gli rispose Tyler sullo stesso tono.

«Come volete.» disse «Venticinque anni fa, quando nacque il principe Cavan Marek, la nostra divinità apparve in sogno al mio Signore e gli disse che era giunto il tempo in cui noi, i suoi figli, avremmo riconquistato quel potere a cui abbiamo diritto. Disse che la strada per avverare questo nostro destino era quella della profezia dell’ultimo imperatore. Il piano era semplice: uccidere le bambine quando fossero nate e mettere al fianco del principe una delle nostre figlie. Poi, diciotto anni fa, venimmo a conoscenza di ciò che aveva previsto il grande Asmal.» sorrise «Ci ha facilitato non poco le cose, non si è mai sbagliato, questo lo sanno tutti. Quando rivelò che i segni gli avevano indicato che la candidata più probabile era la figlia non ancora nata del Maharaja Sciandar Singh, il mio Signore organizzò in segreto l’attacco al palazzo. E l’attacco andò bene, morirono tutti. O almeno subito parve così. Quando dopo il massacro, esaminammo il corpo della neonata morta che avevo trovato nella culla reale e scoprimmo che non aveva addosso i segni rivelatori, capimmo che in qualche modo erano riusciti a portarla via.»

«Quali segni?» lo interruppe Marina.

«Quelli.» disse indicandole il petto «Quei due nei rotondi che avete a sinistra. Tutti i discendenti della famiglia reale di Lakshmi li hanno. Li aveva il Maharaja così come suo padre e il padre di suo padre, fino all’origine della dinastia. Così come li avranno i vostri figli. Sempre che riusciate ad averne.» disse con un sorriso cattivo «Comunque, da quando scoprimmo che l’Erede era sfuggita al massacro abbiamo setacciato l’India alla sua ricerca, senza trovarla. Pensando che forse era stata portata fuori dal paese abbiamo mandato spie ovunque, ma fino ad alcuni mesi fa, non ne avevamo trovato traccia. Poi il nostro uomo a Il Cairo ci informò che c’era una ragazza, dell’età giusta, che viaggiava verso l’India insieme alla famiglia. Una notte, ad Assuan, tentò di entrare nella sua camera per poterla identificare con più certezza, ma quella maledetta tigre che vi portavate sempre dietro glielo impedì. Il dubbio è stato fugato solo a Bombay durante il ricevimento alla residenza. C’erano ben due dei nostri che poterono confermarne l’identità: era davvero la figlia del Maharaja Sciandar. Quella notte tentarono di portarla via, ma di nuovo la tigre li fermò. Abbiamo provato altre volte a rapirla, ma inutilmente, così il mio Signore mi ha ordinato di accettare l’invito per questa sera e di eliminarla. Pensare che subito dopo l’annuncio della sua morte ho mandato il mio servitore ad avvisare che avevo avuto successo!» concluse.

«Una cosa mi chiedo,» disse Patal «perché rapirla?»

«Quando fu identificata, il mio Signore ebbe l’idea che si potesse convertirla. Non ci sarebbe stata allora la necessità di sacrificare una delle nostre figlie al letto di un impuro.» disse indicandomi «Ma era solo un’alternativa: se fosse stato possibile portarla via entro questa sera bene, in caso contrario doveva morire.»

«Perché entro questa sera e non dopo?» chiese Alexander.

«Perché,» intervenni «manca una mese alla cerimonia della Rivelazione. In meno tempo c’è il rischio di non riuscire a trovare il punto debole di Marina su cui fare leva per convertirla.»

«Già.» confermò il prigioniero.

«Adesso,» disse mio zio «vorrei sapere chi è il tuo signore e chi sono gli altri membri della setta. E voglio sapere qual è la divinità a cui fate riferimento.»

Il prigioniero sorrise «No.» disse.

Non perdemmo tempo a convincerlo, ci eravamo comunque stancati del suo tono irriverente. Il colonnello fece un cenno a Patal, che si avvicinò a un tavolino su cui era appoggiata una cassetta che prima non avevo notato. Miscelò il contenuto di alcune fiale in un bicchiere contenente acqua e, avvicinatosi al prigioniero, glielo fece bere. Pochi istanti dopo questi iniziò ad ansimare, si accasciò per terra e inaspettatamente si mise a ridere.

«Poveri sciocchi,» disse «nel corpo di ogni adepto viene inserito un veleno latente che si attiva a contatto con qualunque droga.» si interruppe con una smorfia «Ora,» ansimò «non otterrete più nulla da me. Avreste dovuto torturarmi, ma il Raja Sardar Singh e i suoi simili sono troppo civili per quel genere di cose.» deglutì «Peccato, avete perso la vostra unica occasione di sapere qualc…» morì.

«Maledizione!» imprecò il colonnello.

«Mi perdoni signore.» disse Patal «Avrei dovuto immaginarlo.»

«Non è colpa tua.» disse lo zio, indicò il corpo «Spostiamolo di qui.»

Aiutato da due guardie fidate, Patal lo portò via.

«E adesso?» chiese Elisa.

«La sicurezza di Marina» dissi «è prioritaria. Tutti la credono morta e finché sarà così nessuno attenterà alla sua vita. La terremo nascosta qui nel palazzo, le cederò i miei appartamenti sin da questa sera. Allontanerò anche Parmar con una scusa, in meno sappiamo che Marina è viva e meglio è. La terremo al sicuro qui, per giustificare il fatto che il colonnello e la sua famiglia si tratterranno più di quanto ci si aspetti date le circostanze, diremo che la contessa, in seguito a questa tragedia, è stata colta da una febbre debilitante quindi non si può muovere. Terremo anche il funerale in forma privata. Nell’angolo più lontano del parco c’è il piccolo cimitero privato della famiglia, fingeremo di deporla là. Intanto il tempo passa e il giorno della cerimonia si avvicina, Marina dovrà restare nascosta solo fino ad allora. Quel giorno, all’alba, si presenterà al Taj Mahal e prenderà parte alla cerimonia: se, come ha previsto Asmal, lei è la prescelta verrà dimostrato davanti a tutti e diventerà intoccabile. Questi individui, chiunque essi siano, non oseranno più attentare alla sua vita, se non dovesse essere lei non ci sarà più motivo di tentare di farle del male e quest’incubo finirà.» mi guardai intorno «Siete d’accordo con il mio piano?» chiesi.

«Sì,» disse il colonnello «è un buon piano. Ma perché funzioni neppure i servitori dovranno sapere la verità e questo crea due problemi: il finto feretro è il primo, e poi come portiamo Marina di sopra senza che nessuno la veda?»

«Ho già pensato a questo.» intervenne mio zio «Una delle mie guardie più fidate è già andato a prendere una bara. Diremo che avete deciso che sia Umi da sola a preparare il corpo per la sepoltura, quindi Patal chiuderà la bara, che sarà riempita di pietre, e il finto funerale avrà luogo. La contessa, prostrata dal dolore e indebolita dalla febbre, non presenzierà alla funzione così come lady Elisa, la morte di una gemella è sempre straziante. Sarà presente solo il conte e qualcuno degli amici più intimi. Dopo di che non dovremo fare altro che aspettare. Per quanto riguarda il secondo problema è presto risolto: in un punto del parco è nascosto l’ingresso, o meglio l’uscita, di un passaggio segreto che parte dagli appartamenti reali. Marina vestita con un sari, per non dare troppo nell’occhio, verrà accompagnata da Cavan attraverso questo passaggio e condotta al piano di sopra senza che nessuno la veda. Così ogni problema è risolto.» concluse.

«Bene.» approvò il colonnello, si volse poi verso i due militari «Capitano Preston, capitano Tyler voi porterete un messaggio al maggiore O’Brian a Lucknow, ma voglio che torniate subito qui: sarete i miei ufficiali di collegamento. Ah, un’altra cosa, prima di ripartire andate alla residenza a prendere Silam: lo voglio qui.» si volse verso Marina «Da adesso in avanti ovunque andremo lui verrà con noi.» tornò a guardare i due militari «Andate a riposare: voglio che partiate alle prime luci. In libertà.»

«Sì, signore.» dissero all’unisono scattando sull’attenti.

Prima di allontanarsi Tyler si avvicinò a Marina e, troppo sottovoce perché riuscissi a sentire, le disse qualcosa che la fece sorridere. Poi si ritirarono.

 

 

*****

 

 

Chiesi a Elisa di andare a prendermi il sari. Le spiegai dove trovarlo e cos’altro mi serviva per meglio mascherarmi. Prima che uscisse Cavan si rivolse a me:

«Sarà meglio che prenda quello verde: si mimetizzerà meglio nel parco.» disse con un sorriso.

Lo guardai stupita: come faceva a sapere che possedevo anche un sari verde?

Decisi di scoprirlo più tardi e, dato che il suo consiglio era giusto, dissi a mia sorella che lo avrebbe trovato nel baule. Quindi si allontanò. Tornò in pochi minuti e appoggiò quanto le avevo chiesto sul divano. Intanto papà e mamma si apprestarono a salire di sopra: mamma avrebbe finto di svenire salendo, papà ed Elisa l’avrebbero quindi accompagnata in camera, questo avrebbe catturato l’attenzione di tutti coloro che erano ancora svegli. Nel frattempo, aiutata da Umi, mi sarei cambiata e avrei raggiunto insieme a Cavan, il passaggio segreto.

Quando nella stanza rimanemmo solo io le la mia governante mi affrettai a cambiarmi, faticavo a sciogliere i lacci del corsetto poiché le mani non volevano smettere di tremare. Umi me le scostò e finì lei, mi porse poi le varie parti del sari perché lo indossassi e, sciolti i miei capelli che fermò ai lati del mio volto con due pettinini, mi sistemò il velo sulla testa in modo che nascondesse il più possibile il viso. Quando fui pronta fece rientrare Cavan, che aveva atteso nella stanza accanto; mi guardò un attimo e annuì.

«Così dovrebbe andare, non la riconosceranno.» mi porse la mano «Vieni.»

Uscendo dal salotto Cavan si assicurò che non ci fosse nessuno in giro e, raggiunta la biblioteca posteriore, uscimmo nel parco. Rimanemmo un attimo immobili, in ascolto, poi corremmo a perdifiato fino a che fummo sicuri che nessuno potesse più vederci. Ci dirigemmo in una parte del parco che non conoscevo, l’oscurità era quasi totale poiché la luna nel cielo non era che una sottile falce argentea. Camminammo velocemente, in silenzio, fino a raggiungere un folto d’alberi al centro del quale stava una radura, nella quale sorgeva un’imponente statua raffigurante una donna. La statua era alta almeno tre metri e a terra il suo sari di pietra le conferiva un diametro di circa due. Cavan si diresse verso la scultura e alzatosi in punta di piedi raggiunse uno dei tanti ricami dell’abito sfiorandolo: con un leggero scatto alcune pieghe del sari si aprirono rivelando una scaletta a chiocciola che sprofondava nel buio del sottosuolo. Cavan mi fece segno di scendere, appoggiando una mano alla parete per non cadere mi avventurai in basso, un gradino per volta, lo sentii richiudere l’apertura e mi fermai ad aspettarlo. Quando mi raggiunse mi disse di proseguire senza timore: presto non sarebbe più stato tanto buio. Così fu: superata l’ennesima voluta della scala vidi un tenue bagliore più in basso, mi affrettai a scendere e raggiunsi la fine della scala dove una torcia, fissata al muro, irradiava una luce rassicurante. Da lì partiva il tunnel segreto, Cavan prese la torcia e mi fece strada, camminammo per alcuni minuti sempre con passo svelto e in silenzio. Infine ci trovammo davanti un’altra scala che questa volta saliva. Si rivelò più lunga dell’altra e progressivamente sempre più stretta fino a che mi trovai a percorrerla quasi di traverso. Quando finalmente arrivammo in cima Cavan fece scattare un altro meccanismo e, superata una porticina, entrammo in un salotto molto lussuoso. Cavan lasciò la torcia nel passaggio e lo richiuse, poi mi condusse attraverso alcuni ambienti, per fortuna deserti, fino a un’ampia camera.

«Questi sono i tuoi appartamenti?» gli chiesi.

«No, sono quelli del Raja, i miei sono nell’ala sinistra. Rimani qui fino a che non torno, io ripercorrerò il passaggio e salirò le scale come se finora fossi rimasto di sotto. Passando dalla camera di Parmar lo sveglierò per parlargli e gli chiederò di seguirmi nella mia camera, come è sempre successo in questi casi. Quindi non posso ancora portarti di là. Quando sarò di nuovo solo verrò a prenderti. Stai tranquilla: qui sei al sicuro, solo non ti avvicinare alle finestre, non deve vederti nessuno.» detto ciò dopo avermi dato un tenero bacio sulle labbra, si allontanò.

 

 

*****

 

 

Ripercorsi il passaggio segreto e rientrai nel palazzo dirigendomi nuovamente verso il salotto. Due delle guardie più fidate dello zio stavano di guardia all’esterno, raggiunsi Patal e lo aiutai a chiudere la bara. Lavorammo in fretta sigillandola con cura, poi raggiunsi la camera di Parmar, bussai e attesi che mi aprisse, quando comparve sulla porta gli dissi che dovevo parlargli e gli chiesi di raggiungermi nella mia camera.

Quando arrivò lo feci accomodare e mi sedetti davanti a lui.

«Ho bisogno di un favore, amico mio.» esordii «Gli avvenimenti di questa sera sono di una gravità tale che mi impongono di restare ad Agra più a lungo di quanto avevo previsto.»

«Quali avvenimenti, intendi la morte della contessina?»

«Sì, mio zio ha detto a tutti che è morta per un malore ma non è così: è stata assassinata.»

«Come?» esclamò «E chi è stato?»

Feci un sorriso amaro scuotendo la testa, preferivo non rispondere.

«Ho bisogno che tu torni immediatamente a Jaipur,» continuai «dovrai portare le mie direttive al primo consigliere che si incaricherà di eseguirle, e vorrei che restassi là in caso ci sia bisogno di qualcuno che sa come io gestisco il regno, per controllare tutto, diciamo. Tu sei l’unico di cui mi fido per un incarico del genere.»

«Ma certo,» disse «conta su di me, Cavan. Partirò domani mattina presto.»

«Grazie, Parmar, apprezzo molto il tuo aiuto. Vai a riposare ora, ti aspetta una bella cavalcata domani.»

«D’accordo.» si alzò e raggiunse la porta «Cavan,» disse voltandosi «mi dispiace per Marina. Non so perché non mi fosse simpatica ma so cosa rappresentava per te. Mi dispiace davvero.»

«Grazie.» dissi guardandolo uscire.

Attesi che l’eco dei suoi passi si fosse spenta quindi mi avviai agli appartamenti di mio zio.

Quando entrai nella camera trovai Marina addormentata accanto al caminetto. I suoi capelli erano sparsi sul tappeto e le ciglia scure riposavano lievi sulle guance. Era stesa su un fianco, una mano abbandonata per terra col palmo verso l’alto mentre l’altra era stretta a pugno vicino al cuore. Era così fragile e bella nella quiete del sonno, le emozioni della serata erano state tante e tanto profonde da portarle un sonno per fortuna senza sogni. Con delicatezza, facendo attenzione a non svegliarla, la presi in braccio e la portai nella mia camera, stendendola nel letto. Sfiorai dolcemente i suoi capelli poi la coprii con una leggera coperta di cachemire e mi allontanai chiudendo la porta della stanza in silenzio.

Mi avvicinai a una finestra del mio salotto e guardai fuori. L’oscurità era totale, la piccola falce di luna visibile nel cielo nero non era sufficiente a rischiarare il parco, nonostante fosse aiutata da migliaia di stelle. Appoggiai la fronte al vetro freddo e chiusi gli occhi in preda a un turbinio di emozioni: avevano tentato di uccidere la mia farfalla, la mia piccola Perla, che era poi risultata essere la principessa mancante. Quella che, secondo Asmal, era la probabile Prescelta.

«Dei!» mormorai «Se fosse così…»

Avevo sperato, pregato perché qualcosa accadesse e ora era accaduto. Un miracolo, era accaduto un miracolo. E le era quasi costato la vita.

Mi voltai di scatto e scossi la testa furioso. Se non fossi arrivato in tempo… Ma era passato anche questo, ora Marina dormiva tranquilla nella stanza accanto. L’avrei protetta ora e sempre, non avrei permesso che le accadesse qualcosa di male. Mai!

Tornai alla porta della camera e la socchiusi posando lo sguardo sulla forma appena distinguibile allungata nel letto. Il mio letto. Sorrisi a quel pensiero, gli Dei solo sapevano se avevo desiderato di vedervela distesa… ma non in quelle circostanze! Ritornai nel salotto sedendomi su uno dei divani.

Bussarono. Fu un rumore così inaspettato che mi fece sobbalzare, mi avvicinai alla porta ma prima che potessi dire qualcosa:

«Sono il capitano Tyler.»

Sospirai e lo feci entrare.

«Dorme.» dissi sottovoce indicando la camera.

«Sta meglio?» chiese.

«È tranquilla. Credo che non si possa chiedere altro, almeno per ora.»

«Già. Speravo di poterla salutare prima di partire…»

«Partirete solo domattina, se non sbaglio.» dissi inarcando un sopracciglio.

«Se preferite che venga a bussare all’alba…» rispose con quel suo tono irritante.

«Cosa ne pensate delle rivelazioni di questa sera?» chiesi cambiando discorso.

«Posso?» chiese indicando il divano.

«Certo.» dissi sedendo su quello di fronte.

«Grazie, ebbene sono rimasto allibito,» proseguì rispondendo alla mia domanda «almeno all’inizio: ho sempre saputo che in Marina c’era qualcosa di speciale. Certo non pensavo che potesse essere una principessa indiana ma, pensandoci, è un ruolo che le calza a pennello.»

«È un ruolo difficile. Quello che ha detto mio zio è vero: lei è profondamente legata alla Profezia.»

«E a voi, quindi.» mi guardò «Credevo che la vostra religione impedisse le unioni tra consanguinei.» disse con un tono quasi di speranza.

«Cosa volete dire?»

«Beh,» alzò le spalle «se il Raja è vostro zio e nonno di Marina, voi due siete parenti.»

«Già, questo sarebbe vero se il Raja fosse mio zio.»

«E non lo è?»

«No. Lo chiamo zio perché così sono stato abituato, ma non abbiamo legami di sangue: il Raja Sardar Singh era il migliore amico di mio padre. Quando nacqui mio padre lo nominò mio tutore, fino all’avverarsi della Profezia, nel caso gli fosse accaduto qualcosa. Quando avevo circa sei anni mia madre morì di febbre e mio padre non si riprese mai del tutto, non fu dunque una sorpresa quando, meno di un anno dopo, anche lui se ne andò. Così io crebbi nella casa del Raja che mi educò perché potessi essere in grado di governare le mie terre. Ricordo poco dei miei, purtroppo.»

«Mi dispiace.»

«È passato molto tempo. E voi? Qual è la vostra storia?» chiesi genuinamente incuriosito.

«Non c’è molto da dire. Mio padre è il conte di Sky, ho un fratello maggiore, uno minore e due sorelle, una di quindici e una di dodici anni.» sorrise «Due piccole pesti, ma non si può fare a meno di amarle. La mia famiglia vive a circa venti miglia da Londra, in mezzo al verde della campagna, in un castello elisabettiano. Niente di così grandioso,» disse indicando i muri che ci circondavano «ma è una bella casa, piena di allegria.»

«È per questo che siete nell’esercito? Perché siete un figlio cadetto?»

«No, è stata un’idea di mio padre: diceva che avevo bisogno di un po’ di disciplina. Effettivamente aveva ragione, poi questa vita mi piace. Comunque anche se sono il secondogenito non sono privo di eredità: mia madre è figlia unica e mio nonno ha ottenuto dal re che il suo titolo passasse non al primo nipote, che avrebbe già ereditato il titolo del padre, ma al secondo in modo che la stirpe non muoia. Alla sua morte io cambierò il mio cognome con il suo e porterò avanti il suo casato, diventerò il marchese Wehiss.»

«Come siete finito in India? I figli dei nobili di solito ottengono incarichi in patria, a meno che non siano loro a chiedere il trasferimento.»

«Infatti è ciò che è successo. Sono venuto qui perché volevo lavorare con il colonnello Shallowford. All’accademia ho studiato le sue strategie di battaglia: quell’uomo è un autentico genio! Quando un amico allo Stato Maggiore mi disse che probabilmente gli avrebbero affidato il governatorato dell’Uttar Pradesh, ho chiesto il trasferimento a Lucknow e l’ho aspettato. È stata una delle decisioni migliori che abbia mai preso.»

«Non per via del colonnello, immagino.» commentai a denti stretti.

«Già. Non sapevo neppure che avesse una figlia, ne ha due veramente. La prima volta che incontrai Marina stava discutendo con un venditore di frutta al bazaar.» sorrise «Quell’uomo aveva pizzicato quattro bambini mentre gli rubavano in paio di mele ed era deciso a consegnarli ai poliziotti. Marina glielo impedì. Quando mi resi conto che il venditore stava diventando violento intervenni per impedirgli di mancarle di rispetto. Lei mi ringraziò, pagò al fruttivendolo le mele rubate, ne comprò altre quattro per i bimbi e mi chiese se potevo per favore accompagnare lei e quei bambini alla missione poco fuori città. Alcuni frati avevano aperto un ricovero per bambini e una scuola dove insegnavano loro a leggere, scrivere e far di conto. Scoprii che ci andava regolarmente due volte alla settimana a fare lezione di storia e lettura. I frati accolsero bene i bambini, uno scappò dopo un paio di giorni ma gli altri tre sono ancora là e studiano con profitto, Marina ne è molto orgogliosa, le dispiace solo che il quarto abbia preferito tornare a vivere sulla strada.»

«È proprio da lei,» dissi scuotendo la testa «litigare con un fruttivendolo. Che tipo, non ha paura di niente.» sorrisi poi mi oscurai «Almeno fino a questa sera.»

«Già, era veramente sconvolta. Sono un militare, la possibilità di morire in servizio c’è, è nel contratto, per così dire. Ma lei…»

«A che ora partite?» chiesi dopo un attimo di silenzio.

«Alle prime luci dell’alba.»

«Vi conviene riposare, allora. Sono già le tre e mezza, il sole sorgerà tra meno di un’ora.»

«Avete ragione, vado.» si alzò e raggiunse la porta ma, prima di aprirla, si voltò «Voi non mi piacete, Altezza, così come io non piaccio a voi e il motivo lo conosciamo entrambi. Amo Marina da quel primo giorno al bazaar e l’unico motivo per cui mi trattengo dallo sfidarvi a duello ogni volta che la guardate è che lei sembra avervi in simpatia: per nulla al mondo le causerei un dolore. Ciò nonostante ho un favore da chiedervi: proteggetela. Ne avete i mezzi e l’opportunità quindi fatelo perché, se durante la mia assenza, le dovesse capitare qualcosa vi giuro che tutte le guardie di vostro zio non basteranno a fermarmi: avrò la vostra testa e al diavolo le profezie.» e se ne andò.

Ero sbalordito.

Lo stupore era tale che non ebbi il modo per sentirmi offeso o arrabbiato. Mi sedetti sul divano riflettendo sulla stranezza di quel ragazzo. Dovevo ammettere che aveva del fegato per dire apertamente cose come quelle, nessun altro si era mai sognato di parlarmi così, la maggior parte delle persone, che fossero indiani o europei, temeva perfino di guardarmi negli occhi, invece il capitano Tyler, dopo avermi detto che non gli piacevo, mi chiedeva un favore e mi minacciava apertamente di morte se non lo avessi fatto. E la cosa più assurda era che mi faceva quasi piacere: era bello sapere che se mi fosse accaduto qualcosa ci sarebbe stato qualcuno a prendersi cura di Marina. Peccato solo si trattasse di Tyler, quel tipo mi era sempre meno simpatico. Ma, mio malgrado, lo ammiravo.

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Capitolo 21
*** Capitolo XIX ***


 

Nota dell'autrice
Buon giorno a tutti! 
Perdono, perdono, perdono! Mi prostro ai
vostri piedi chiedendo venia per il ritardo!
La settimana è stata intensa e ho perso il conto dei
giorni: questa mattina mi sono resa conto che era
domenica. E che ieri non avevo postato il capitolo
di Sangue Indiano... Eccovelo ora. E' piuttosto
ricco, spero serva a fare ammenda! ;)
Buona lettura
Sara





Capitolo XIX

 

 

Ero seduta in mezzo al letto, con le braccia attorno alle gambe e il mento posato sulle ginocchia, a guardarmi intorno. Mi piaceva quella stanza, era fresca e luminosa: seta di una delicatissima tonalità d’azzurro ricopriva le pareti e un morbido tappeto era steso sul pavimento. La testiera del letto era addossata alla parete di fronte alla porta e l’alto baldacchino era ornato da leggerissimi drappi azzurri di organza trasparente. Alla mia sinistra, abbastanza vicino alle finestre, c’era un basso tavolino sul quale stava bruciando, accanto a una lampada di vetro soffiato, un bastoncino d’incenso. Il profumo di fresia e legno di sandalo si diffondeva piacevolmente in tutta la stanza.

Immobile e silenziosa assorbivo ogni particolare dell’ambiente, chiedendomi come doveva essere stato crescere lì, cercai di immaginare Cavan bambino che sdraiato a pancia in giù su quel tappeto, disegnava animali fantastici su un foglio di carta. Oppure, un po’ più grande, seduto accanto al tavolino a studiare per prepararsi a diventare il signore delle sue terre. Probabilmente aveva spesso alzato lo sguardo per osservare il cielo o ciò che succedeva nel parco, visibile dalle sue finestre.

Realizzai che molto tempo prima quella doveva essere stata la stanza di mia madre. Scossi la testa, mia madre! Non riuscivo a immaginare nessun’altra se non Maria Giuseppina Shallowford in quel ruolo, eppure avevo avuto un’altra madre, seppure per pochi minuti: la donna che mi aveva messo al mondo, la figlia del Raja Sardar Singh. Mio nonno.

Tornai a stendermi. Gli avevo voluto bene fin dalla sera in cui lo avevo incontrato a Bombay, senza sapere del legame di sangue che avevo con lui. Mio nonno. Era un pensiero dolce e triste allo stesso tempo perché rappresentava ciò che avevo appena scoperto, una vita che non avevo conosciuto e che, forse, non volevo. Mi spaventava essere Sunahra Moti, come suonava strano quel nome! Eppure lo conoscevo fin dall’infanzia, Moti era stato il nome delle serate passate accanto al caminetto con Elisa ad ascoltare Umi narrarci le leggende di principi e principesse. Il nome delle notti di temporale, quando insieme a mia sorella ci rifugiavamo nella stanza della nostra ahya per ripararci dai tuoni che scuotevano la casa. Il nome di mille dolci ricordi, il mio nome segreto… Il mio vero nome.

Si aprì la porta ed entrò un uomo che reggeva una scatola. Mi alzai di scatto e rimasi a fissarlo spaventata ma lui, fatti due passi, si fermò e si inchinò.

«Buon giorno, Principessa. Io sono Rashid, il valletto personale del Principe Cavan Marek, uno dei pochi a sapere della Vostra presenza qui. Vi prego di non avere paura: servo fedelmente il Principe dal giorno della sua nascita e non lo tradirei mai, tanto più che tradirei l'India intera nuocendovi. Sarò io a occuparmi di tutto ciò che riguarda voi e gli appartamenti che occuperete fino al Giorno Sacro, quindi se Vi serve qualcosa dovete solo chiedere.»

«Grazie, Rashid. Vorrei solo sapere come sta la mia famiglia.»

«Stanno bene, Altezza. I Vostri genitori hanno passato una buona notte così come lady Elisa. Vostra sorella verrà a trovarvi dopo pranzo, Sua Grazia e Sua Altezza chiedono se volete unirvi a loro per la colazione.»

«Ne sarei felice. Credi di potermi procurare qualcosa da indossare? Questo sari è sgualcito e vorrei apparire un po’ meglio di come mi sento.»

«Ho pensato che avreste voluto rinfrescarvi e cambiarvi, perciò ho già provveduto a portarvi un cambio d’abito.» disse posando la scatola che aveva in mano «Attenderò nell’altra stanza per accompagnarvi a colazione. Fate con comodo.» disse uscendo.

Aprii la scatola scoprendo un sari di morbido batik lilla.

Cambiandomi riflettei sulla conversazione col valletto. Che strano sentirlo chiamarmi Altezza e Principessa, eppure quelli erano titoli a cui, a quanto pareva, avevo diritto. Avrei dovuto abituarmici. Chiusi i lacci del corpetto e mi sedetti sul letto con in mano la spazzola che avevo trovato nella scatola. Districai i miei capelli e li fermai in una semplice treccia che lasciai cadere sulla schiena, una volta pronta uscii dalla camera. Rashid mi stava aspettando e mi fece strada verso gli appartamenti del Raja, mi lasciò davanti a una porta dicendo che mi stavano aspettando. Dopo aver bussato aprii titubante la porta ed entrai, mio nonno mi venne incontro sorridendo e mi abbracciò.

«Buon giorno, cara. Hai riposato bene?»

«Sì, grazie e voi?»

«Bene, ma ti prego dammi del tu: dopo tutto sei mia nipote.» concluse sorridendo.

Mi lasciò e, scusatosi, si allontanò un attimo dalla stanza.

Cavan si avvicinò e mi scostò dal viso una ciocca di capelli che si era liberata dalla treccia. Mi guardò sorridendo, restituii il sorriso e, quando mi trasse a sé, appoggiai la fronte sul suo petto.

«Nel palazzo non c’è più nessuno ora.» disse «Ma la parte più pericolosa sarà questo pomeriggio tardi, quando celebreremo il falso funerale, poiché ci saranno nuovamente degli estranei in giro. Ma, se saremo prudenti, andrà tutto bene.»

«Ho paura, sai?» gli confidai «È una sensazione sgradevole, vorrei reagire ma non ci riesco. Mi sembra tutto così assurdo e spaventoso.» lo guardai «Perché non possiamo essere semplicemente Paul e Marina? Perché deve essere così complicato?»

«Forse sarebbe più semplice ma, Marina, se io fossi stato solo Paul forse non ci saremmo mai incontrati.» sorrise tristemente «Non so tu, ma io preferisco averti conosciuta.»

«Anch’io. Perdonami,» dissi allontanandomi di un passo «mi comporto come una bambina, ma sarò coraggiosa d’ora in poi, te lo prometto.»

Sorrise e mi sfiorò una guancia.

In quel momento tornò il Raja e ci sedemmo a tavola. Mangiando parlammo di molti argomenti ma prevalentemente mi raccontò di mia madre.

«Quando ti vidi, a Bombay,» disse «non ebbi dubbi sul fatto che tu fossi mia nipote: sei identica a tua madre, al punto che dovetti più volte mordermi la lingua per non chiamarti Kamar, il nome da fanciulla di tua madre.»

«Vita. Le avevi dato un bel nome.» dissi.

La colazione terminò.

Il nonno, lasciò la stanza per dirigersi al suo studio. Cavan restò con me ancora qualche minuto, ma poi anche lui dovette mettersi al lavoro. Rimasta sola tornai negli appartamenti cedutimi da Cavan, scelsi un libro dalla sua biblioteca e mi sedetti a leggere. Il tempo passava lentamente, verso metà mattina Rashid venne a vedere se mi occorreva qualcosa e si fermò qualche minuto a parlare. Finalmente venne il pranzo che consumai da sola, quando Rashid tornò per portare via il vassoio fece entrare mia sorella. Fui felice di vederla, si sedette accanto a me raccontandomi come aveva passato la notte, mi disse che fin dalla mattina presto avevano iniziato ad arrivare biglietti di condoglianze da tutti gli europei della città e anche da alcuni dei nobili indiani presenti alla festa. Disse anche che per rendere più credibile il funerale era stato invitato a celebrarlo il cappellano del presidio: papà e il Raja avevano pensato proprio a tutto.

Furono ore piacevoli, era bello essere di nuovo in compagnia di mia sorella come era sempre stato. In quei momenti riuscii a dimenticare ciò che era successo il giorno prima e i cambiamenti che aveva portato nella mia vita. Tutto acquistava una nuova dimensione rendendo l'avvenire meno pauroso seppure ancora incerto.

Poco prima del tramonto arrivarono coloro che avrebbero presenziato alla finta cerimonia, Elisa rimase con me per le seguenti due ore. Nessuna delle due osava parlare a voce alta nonostante sapessimo che nessuno ci poteva sentire: la paura era troppa.

 

 

*****

 

 

La cerimonia sembrava non finire mai. Il cappellano del presidio si dilungò nel sermone sulle tante virtù di Marina, sebbene non l’avesse mai neppure vista, e sulle circostanze tragiche della sua scomparsa, facendo rientrare il tutto nella misteriosa volontà di Dio, unica spiegazione che era in grado di dare agli avvenimenti della sera precedente. Era ancora a metà quando smisi di ascoltare. Non avevo più visto Marina dalla colazione del mattino, ma non avevo trovato scuse plausibili per tornare in camera senza destare la curiosità verso quell'atto insolito. L’avrei vista solo dopo che tutti i presenti se ne fossero andati. Fortunatamente avevo spesso l’abitudine di cenare nelle mie stanze quando non c’erano occasioni ufficiali, perciò avrei condiviso quel pasto con Marina e forse anche con Elisa, se avesse desiderato fermarsi. Sospirai piano e guardai il prete, sembrava deciso a far piangere tutti i presenti con le sue citazioni e i suoi commenti. Tornai a isolarmi nella mia mente. Il fatto di non sapere chi fossero i misteriosi assalitori di Marina mi preoccupava non poco: è già difficile proteggere qualcuno quando conosci chi o cosa lo minaccia, ma quando non sai neppure con chi hai a che fare… Il capo di questa fantomatica setta doveva essere un uomo ricco e influente, visto il dispiego di uomini e mezzi, ma non riuscivo a immaginare chi potesse essere. Alzai lievemente gli occhi alle cime degli alberi che delimitavano il piccolo cimitero e le osservai ondeggiare lievemente nella brezza serale, scure sagome contro il cielo rosso del tramonto. Chiusi gli occhi inspirando lentamente, abbassai il capo e, inconscio di quanto mi circondava, tornai con la mente alla prima volta che avevo visto Marina: più di due anni, tanto era passato da quel giorno. Il verde della pianura inglese si affacciò alla mia mente riportandomi ai prati rugiadosi della campagna circostante Londra. Stavo cavalcando con un gruppo di compagni di College quando il mio cavallo perse un ferro, uno dei miei amici mi disse che a meno di mezz’ora di cammino sorgeva la casa di campagna dei conti Shallowford, sicuramente alle loro stalle ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe potuto ferrare il mio stallone, non poteva continuare senza un ferro: si sarebbe rovinato lo zoccolo. Dissi loro di proseguire e che li avrei raggiunti una volta fatto, così ci separammo. Avevo raggiunto la grande villa, passando dai giardini e mi ero diretto subito alle scuderie, il capo stalliere si era offerto di riparare il danno: ci sarebbe voluta mezz’ora, quarantacinque minuti al massimo poiché doveva forgiare il ferro. Mi ero diretto alla casa per presentarmi ai padroni, ma un valletto, incontrato presso i gradini posteriori, mi disse che il conte e la contessa erano a caccia con una delle figlie. Avvicinandomi alla casa avevo udito il suono di un pianoforte così gli chiesi chi fosse a suonare.

«Lady Marina,» disse «l’altra contessina.»

Quando si era allontanato mi ero avvicinato alla portafinestra che dava sulla stanza da cui proveniva la musica, ma non ero entrato.

Lei era seduta al pianoforte con gli occhi chiusi e suonava una melodia dolce e struggente. Ero rimasto incantato a guardarla: teneva il capo lievemente inclinato, le labbra piene erano socchiuse, le guance soffuse di una tenue sfumatura di rosa e i capelli, illuminati da un raggio di sole, formavano attorno al viso una nuvola mogano dalla quale si sprigionavano bagliori d’oro rosso.

L’intensità emotiva della sua esecuzione rendeva la scena irreale, quasi mistica. Ero rimasto immobile a guardarla, pregando perché non svanisse. Bella ed eterea, queste le uniche parole con cui riuscivo a descriverla, non c’erano altri termini. Quando finì di suonare, mentre l’ultima nota ancora vibrava nell’aria, aveva sollevato lo sguardo, rivelando meravigliosi occhi neri, profondi e luminosi come una notte stellata. Mi ritrassi prima che potesse vedermi ma ero riuscito a scorgerne il colore. Tornai alle scuderie dove trovai il cavallo pronto: il capo stalliere aveva impiegato meno tempo del previsto, così lo ringraziai con una moneta d'argento e mi allontanai portando con me l’immagine di lady Marina Shallowford. Nei giorni seguenti avevo indagato con discrezione sul suo conto e avevo così scoperto diverse cose: seppi che aveva compiuto da poco sedici anni, che amava cavalcare ma che non le piaceva andare a caccia e molte altre cose. Scoprii quali erano le sue abitudini, dove andava e quando, così mi trovai spesso a passare per la stessa strada nello stesso momento. In quelle occasioni notai una cosa insolita: ovunque andasse era seguita da un nerboruto indiano dalla pelle bronzea, che non la perdeva mai d’occhio. Lei lo trattava con molto affetto, così come trattava la donna indiana che spesso era con lei. Umi e Patal, allora non sapevo ancora quanta parte avrebbero avuto nella mia vita. Avevo cercato di conoscerla in ogni modo, sapevo solo che non potevo fermarla per strada e presentarmi, anche se più di una volta fui tentato di farlo. Così era passato il tempo e finalmente, quando ormai pensavo che non sarei mai riuscito a conoscerla, mi ero trovato nel posto giusto al momento giusto. A dire la verità quella sera non avevo voglia di andare al ricevimento di lady Ireton, ma i miei amici mi avevano convinto ad andare con loro. Quasi non riuscivo a credere ai miei occhi quando, dopo che furono annunciati, la vidi entrare con la sua famiglia. Vestita di rosso e oro era ancora più bella di quanto ricordassi. Era rimasta con la sorella fino a che questa aveva accettato l'invito di un giovane a ballare, quindi era uscita in terrazza. L’avevo seguita senza farmene accorgere e l’avevo raggiunta presso la nicchia dove era seduta a guardare il cielo stellato, inconsapevole di essere osservata. Desideravo parlarle ma non sapevo cosa dirle, avevo infilato le mani in tasca e avevo sentito sotto le dita il freddo metallo di un penny.

«Un penny per i vostri pensieri…»

Iniziò così, la serata più bella.

Eravamo rimasti seduti a parlare per ore. Aveva una voce dolce quanto il suo viso e gli occhi le si illuminavano come stelle quando parlava di un argomento che le interessava.

Il tempo era volato. Quando sua sorella venne a chiamarla vidi rispecchiarsi nei suoi occhi la mia delusione e incapace di trattenermi le avevo preso la mano e le avevo chiesto il nome, sebbene lo conoscessi già. Quando si era allontanata la notte era sembrata farsi più buia e fredda; mi era rimasto impresso il nome con cui l’aveva chiamata Elisa: Moti, Perla. Un nome così appropriato che racchiudeva l’affetto di chi glielo aveva dato. Avevo sorriso pensando che, anche questa volta, la profezia di Asmal si era avverata. Ricordavo di avergli detto che era impossibile trovare una ragazza con le caratteristiche che aveva descritto e che quindi questa volta non sarebbe accaduto ciò che aveva previsto. Mi ero sbagliato. E ne ero felice.

L’avevo vista altre volte, soprattutto la domenica al parco, ma non ero mai riuscito ad avvicinarla poiché con me c’era sempre qualcuno dei miei compagni di College. Questo fino al giorno in cui seppi di dover partire. Quella domenica ero uscito a cavallo col preciso scopo di incontrarla: non volevo andarmene senza averle parlato almeno un’altra volta.

Poi, più tardi, mentre venivano fatti i bagagli avevo guardato Balna e i tre cuccioli che aveva appena svezzato e avevo deciso di regalarle il maschio.

Quando, un anno dopo, appresi che era arrivata in India con la sua famiglia mi dovetti trattenere dal balzare in sella e catapultarmi a Lucknow. Il pensiero che lei mi conosceva solo come Paul bastò a frenarmi: dovevo incontrarla, volevo incontrarla, ma in modo da poterle raccontare tutta la storia, così mi ero rivolto allo zio. Era stato lui a riferirmi del suo arrivo avendola incontrata a Bombay, anche se non mi disse che Marina in realtà era sua nipote. Così era arrivato gennaio. E ora ogni mistero era svelato. Salvo il più pericoloso.

Mi riscossi dai miei pensieri e mi guardai intorno: il cimitero era deserto, la funzione era terminata. Il cielo era ormai buio e le stelle occhieggiavano dall’alto. Senza fretta tornai verso il palazzo: non avevo voglia di incontrare nuovamente coloro che avevano presenziato al funerale, così passeggiai pigramente per i vialetti del parco, prendendo la strada più lunga. Una volta rientrato, stavo per salire nei miei appartamenti, quando un valletto fece entrare Alexander, Tyler e un’enorme tigre bianca. Congedai il valletto e andai incontro al mio amico sorridendo.

«Ben tornato.» gli dissi «Questo è Silam?»

«Grazie, Cavan, sì è Silam.»

Ignorando Tyler mi avvicinai alla tigre e gli porsi una mano perché l’annusasse.

Silam mi studiò un poco poi si strusciò contro le mie gambe, mi inginocchiai e gli grattai la testa dietro alle orecchie. La tigre rotolò a pancia all’aria e mi diede una gentile zampata sulla mano.

«Sembrate piacergli parecchio.» commentò Tyler.

«Siamo vecchi amici.» dissi «L’ho visto nascere e l’ho coccolato per i primi tre mesi della sua vita.» guardai il capitano «Sono stato io a regalarlo a Marina.» conclusi sorridendo.

«Ma…» aggrottò la fronte «Silam è arrivato in India con i Shallowford. Per averglielo potuto regalare avreste dovuto conoscere Marina in Inghilterra.»

«Infatti, capitano, infatti.» mi alzai «Come vedete ho il diritto di precedenza, Tyler.» aggiunsi a bassa voce «L’ho conosciuta per primo.» conclusi sorridendo.

«Mi dispiace interrompere il vostro “c’ero prima io” ma vorrei salire di sopra.» si intromise Alex «Abbiamo un rapporto da fare e al colonnello non piace aspettare.»

«Venite.» dissi avviandomi «Andiamo, Silam, c’è qualcuno che vuole vederti. Lady Elisa sarà contenta di averti accanto.» aggiunsi a beneficio delle due cameriere che passarono in quel momento.

Salimmo di sopra e, assicuratici che non ci fosse nessuno in giro, ci dirigemmo ai miei appartamenti.

Entrati trovammo Rashid, aveva appena finito di apparecchiare in salotto e stava andando a chiamare Marina ed Elisa. Dissi che ci avrei pensato io e gli chiesi di portare delle vivande anche per i due militari e qualcosa per Silam. Quando fu uscito, bussai alla porta della camera ed entrai. Appena aprii la porta la tigre balzò nella camera e si precipitò da Marina facendola cadere per l’impeto delle sue effusioni. Lei fu felicissima di vederlo e lo abbracciò affondando il viso nel folto pelo morbido, poi si rialzò, salutò Tyler e Alexander che nel frattempo aveva abbracciato Elisa, ringraziandoli di averle portato il suo cucciolo. I due militari si scusarono e dissero che sarebbero tornati per cenare con noi, dopo aver fatto rapporto, quindi si allontanarono.

Al loro ritorno ci sedemmo a tavola. Silam aveva fatto il giro di tutte le stanze annusando ogni angolo, poi si era sdraiato accanto alla sedia di Marina e non si era più allontanato.

 

 

*****

 

 

Un altro giorno. Dopo colazione venne a trovarmi insieme a Elisa anche la mamma. Disse che il giorno prima non era riuscita a venire perché la mia cameriera, molto dispiaciuta per la mia morte, aveva passato la giornata davanti alla porta della sua camera in caso avesse avuto bisogno. Era venuta con qualcosa che aveva chiesto a Luke di portarle da Lucknow: il rotolo di seta rossa donatami da Karim Asa. Disse che se la Profezia si fosse realizzata, la sera stessa del Giorno Sacro avrei dovuto sposarmi, in quel caso l’avrei fatto indossando un abito degno del mio rango. Così lei, Elisa e Umi avrebbero passato i restanti venti e più giorni a confezionarlo: lei lo avrebbe tagliato e poi cucito insieme a Umi, ed Elisa si sarebbe occupata dei ricami, arte nella quale aveva già dimostrato una raffinata abilità. A me non sarebbe stato permesso di aiutarle poiché, disse, portava sfortuna che una sposa si cucisse l’abito per le nozze.

Così, fin da quel pomeriggio, si misero all’opera e io le vidi più raramente di quanto avessi sperato.

I giorni passavano lentamente. Con la sola compagnia di Silam mi dedicai alla lettura e al ricamo, spesso guardavo il parco attraverso le persiane intagliate, desiderando poter uscire a fare una passeggiata. Alexander e Luke venivano a trovarmi quando potevano e allora le ore volavano, ma erano sempre momenti troppo brevi. Così come lo erano quelli passati con Cavan. Spesso, seduti sul tappeto ai piedi del letto, restavamo a parlare fino a notte inoltrata, unica fonte di luce era in quei casi la luna. Nell’oscurità parlavamo del passato e del futuro raccontandoci piccoli segreti e speranze. Quanto lo amavo! Mi piaceva sentirlo raccontare della sua infanzia o parlare delle sue avventure inglesi con i compagni di College. Mi raccontò anche del giorno in cui venne a casa nostra e rimpiansi di non aver notato la sua presenza. Gli confidai che non suonavo il pianoforte dalla nostra partenza dall'Inghilterra. A volte, alla residenza, mi era capitato di sedermi al piano che si trovava nel salone da ballo, ma era tanto che non suonavo veramente. Cavan si fece promettere che appena me la fossi sentita, avrei ripreso a suonare, gli risposi che lo avrei fatto, per lui.

Una notte mentre parlavamo gli dissi del mio desiderio di uscire e lui lo rese possibile. Presami per mano mi condusse attraverso il passaggio segreto e mi portò fuori. Passeggiammo a lungo per i vialetti senza però avvicinarci troppo al palazzo e alla fine ci rifugiammo nel padiglione dove avevamo passato tante ore felici. Quando mi fui seduta sui tappeti lui tirò un cordone nascosto, il drappo che chiudeva il soffitto si ritirò, rivelando il cielo stellato perfettamente visibile attraverso la cupola di cristallo. Rimasi incantata ad ammirare il firmamento e lui si sedette accanto a me. Ci sdraiammo, appoggiai il capo sulla sua spalla continuando a guardare la cupola di cristallo e parlammo a lungo a voce bassa, quasi un sussurro. A un tratto la scia di una stella cadente attraversò la volta del cielo, seguita da un’altra, poi un’altra ancora fino a che decine di stelle cadenti illuminarono il cielo. Era uno spettacolo che mozzava il respiro. Solo un’altra volta, nella mia vita, avevo visto cadere tante stelle e in quel caso era stato il cielo di Venezia a esserne adornato. “Gioielli per un gioiello.” aveva commentato nonno Amedeo, il padre di mia madre.

Ed era proprio così, gioielli, questo era ciò che sembravano le stelle e lo spettacolo della loro caduta era qualcosa che riusciva ad ammutolire anche i più duri di cuore. Un’emozione così profonda e ancestrale, che rammentava all’uomo la sua piccolezza dinanzi al mistero del cielo e delle sue lacrime.

Rimanemmo nel padiglione a lungo, in silenzio, vicini, ascoltando il battito dei nostri cuori.

Quando tutto finì Cavan mi aiutò ad alzarmi e, tirata nuovamente la tenda, mi fece strada verso il passaggio segreto.

Quella notte feci uno strano sogno: ero seduta sulla cima di una torre e guardavo il paesaggio intorno a me, spaziando con lo sguardo fino all’orizzonte. Un uomo anziano, avvolto in lunghe vesti fluenti e dall’aspetto saggio, mi si avvicinò e si sedette accanto a me.

«Povera bambina!» mi disse prendendomi una mano «Dovrai affrontare prove molto dure, non posso evitarlo purtroppo. Dovrai essere forte, sempre. Armati del tuo coraggio come di una corazza e nei momenti in cui la disperazione si impossesserà di te, rammenta che coloro che ti amano non smetteranno mai di cercarti. Questa consapevolezza ti avvolgerà come una calda coperta, sarà il tuo rifugio e la tua forza. Non abbandonare mai la speranza e non smettere mai di credere nel loro amore per te.» sorrise «Nel suo amore per te.» e scomparve.

Mi alzai in piedi guardandomi attorno, chiamandolo, pregandolo di tornare indietro, di spiegarsi meglio, di dirmi chi era. Non tornò, ma sentii ancora una volta la sua voce:

«Ci incontreremo, piccola Principessa. Quel giorno avrai superato la prova più dura che il destino ha in serbo per te. Io non ho dubbi che la supererai poiché voglio poterti conoscere…»

Mi svegliai di soprassalto e mi guardai intorno. La luce dell’alba filtrava appena dalle persiane. Tornai a stendermi e mi voltai su un fianco ripensando a quello strano sogno: era sembrato così vero. Guardai la mano sinistra e la strinsi a pugno: la sensazione del suo tocco era stata reale, così come il profumo di erbe officinali di cui erano impregnate le sue vesti, l’avevo ancora nelle narici. Mi voltai sull’altro fianco incapace di darmi una spiegazione e, continuando a riflettere, scivolai nuovamente in un sonno profondo.

 

 

*****

 

 

Seduto sui gradini della terrazza, con la schiena appoggiata a una colonna, guardavo il tramonto. Il solstizio si stava avvicinando: mancavano solo otto giorni. Mi era giunta notizia che le quattro Principesse legate alla Profezia erano arrivate ad Agra, non le avrei incontrate fino al Giorno Sacro, né lo desideravo. Ogni giorno, ogni notte, ogni minuto, da che avevo scoperto che Marina era la quinta Principessa, pregavo perché Asmal non si fosse sbagliato. Non era mai successo, tentavo di rassicurarmi, perché avrebbe dovuto iniziare proprio adesso? Mi alzai in piedi e passeggiai per la terrazza osservando oltre gli alberi del viale le cupole delle moschee e i tetti piramidali dei templi che costellavano la città. Le ultime sfumature di viola stavano scomparendo, inghiottite dall’oscurità e in alto occhieggiavano le prime stelle. La luna era bassa sulle cime degli alberi che sembravano solleticarla con le loro fronde, Orione e Sirio si rincorrevano nel moto perpetuo del cielo, inseguiti da Draco. Raggiunsi il loggiato posteriore, che si trovava sopra le mie stanze, e immaginai Marina, al piano di sotto, intenta a prepararsi per la cena. Saremmo stati in quattro, quella sera, oltre a lei e a me sarebbero stati presenti solo Elisa ed Alex. Tyler era partito quella mattina per Lucknow per portare una missiva al presidio. “Che peccato!” pensai ironico: non sarebbe tornato prima di tre giorni. Osservai il parco e il luccichio del lago tra gli alberi. Improvvisamente il suono di un pianoforte si unì al canto melodioso degli usignoli. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare da quella dolce e indimenticata melodia. Tre giorni prima, la notte delle stelle cadenti, avevo raccontato a Marina del giorno in cui la vidi la prima volta, lei aveva promesso che avrebbe ricominciato a suonare, per me. E così aveva fatto. Sapevo che Elisa era con lei, la servitù avrebbe sicuramente pensato che era lei a suonare il pianoforte e nessuno avrebbe sospettato nulla. Quante precauzioni erano state prese in quei giorni! Vivevamo tra la gioia di sapere che avevamo una speranza di futuro insieme e il timore che qualche disattenzione ce la portasse via. Non sarebbe successo, mi ripromisi nuovamente, non lo avrei permesso. La musica continuava a fluire nella quiete della notte riempiendo l’aria della sua bellezza e armonia. Lentamente mi avviai verso la scala a chiocciola deciso a scendere, volevo vedere la mia piccola musicista, volevo osservarla suonare… E volevo tenerla con me per sempre. Al sicuro nel mio amore per lei.

Raggiunsi i miei appartamenti e mi diressi verso il salotto dal quale proveniva la musica, entrai senza fare rumore e mi appoggiai alla porta guardandola. Anche Elisa e Alexander erano lì, ascoltavano in silenzio quel concerto inatteso. Elisa sorrideva, vedendomi si avvicinò:

«Era così tanto che non suonava.» disse a bassa voce «Sono contenta che abbia ripreso. Grazie.»

«Perché mi ringrazi?»

«Perché sono certa che, in qualche modo, tu hai a che fare con ciò.»

Si avvicinò anche Alexander.

«Non avevo idea che suonasse così bene.» disse.

«Sì, credo che sia perché suona esprimendo le sue emozioni.» sorrisi «Pensare che nessuno lo crederebbe viste le sue mani: sono così piccole…»

«Già, ricordo, da bambine, la fatica che fece per imparare a suonare, proprio per quel motivo.» raccontò Elisa «L’insegnante disse più volte che non era portata, che il pianoforte non era lo strumento per lei. Ma lei volle imparare comunque e questo è il risultato.» sorrise «Il maestro dovette ricredersi quando alcuni anni dopo la incontrò a un tè: la padrona di casa le chiese di suonare e alla fine lui fu il primo a farle i complimenti.»

Marina suonò per un altro po’, sempre con gli occhi chiusi, con la stessa espressione sognante che aveva la prima volta che la vidi.

La cena si svolse in un clima allegro, Alexander e io ci impegnammo in una gara per vedere a quale dei due erano accadute le avventure più divertenti. Tutti e quattro cercavamo di ridere facendo il minor rumore possibile anche se a tratti l’ilarità prendeva il sopravvento. Era un piacere vedere Marina così allegra e fu proprio lei a vincere la gara raccontando del giorno in cui, appena arrivata alla residenza di Lucknow, era andata con Silam al torrente. Ci fece morire dalle risate raccontando dell’espressione inorridita della madre quando si era trovata davanti lei e la tigre completamente zuppi. Silam, dal suo angolo, parve accorgersi che stavamo parlando di lui, così si avvicinò andando a sdraiarsi alle spalle della sua padrona che lo usò come schienale.

 

 

*****

 

 

Il rombo potente del tuono scosse i vetri battuti dalla pioggia, mentre la luce scintillante del lampo illuminava la stanza con strani e inquietanti giochi d’ombra. La notte diveniva giorno in quei brevi istanti e gli oggetti, ormai familiari, acquistavano vita in spaventevoli pose.

Seduta in mezzo al letto, in quell’orribile notte, ascoltavo il rombo della tempesta tremando, seppur avvolta da una pesante coperta. L’ improvvisa e insolita violenza di quella pioggia, nella stagione delle secche, rendeva il tutto ancora più spaventoso.

Silam salì sul letto venendo ad accoccolarsi accanto a me e mi diede una leccata incoraggiante sul braccio. Sapeva quanto io temessi i temporali, soprattutto quando i tuoni erano così poderosi.

Piano piano il fragore della tempesta si acquietò e rimase solo il rumore picchiettante della pioggia. Mi alzai e andai alla finestra, la luce di lampi ormai lontani rischiarava a tratti il parco, mostrando le fronde degli alberi battute dall’acqua. Un ultimo potente tuono, quasi un promemoria della potenza della natura, esplose nella notte facendo tremare le solide mura del palazzo e strappandomi un involontario grido di spavento.

Poi tutto tacque. Non più lampi né tuoni o vento, perfino la pioggia si era ridotta a un leggerissimo sgocciolio, la notte ridivenne silenziosa.

Tornai a letto e mi sedetti stringendomi più forte nella coperta che mi avvolgeva, tentando di sopprimere il panico che mi aveva invasa. Sapevo che non era tutta colpa del temporale, un altro pensiero mi aveva attraversato la mente: era la penultima notte. Guardai l’orologio e vidi che segnava le tre, il sole sarebbe sorto in meno di due ore. E all’alba seguente sarei stata al Taj Mahal per il Giudizio degli Dei: il Giorno Sacro, il solstizio d’estate. E, forse, al tramonto sarei stata la sposa di Cavan.

Cullata da quel pensiero, tornai a stendermi e mi riaddormentai, senza accorgermi che fuori aveva ricominciato a piovere forte.

Quando aprii nuovamente gli occhi il sole rischiarava la stanza, filtrando dalle tende che chiudevano le finestre. Mi vestii e raggiunsi la stanza dove facevo sempre colazione insieme a Cavan e al nonno, ma la trovai deserta. Fui raggiunta da Rashid che mi disse che il Raja e Cavan erano usciti prima dell’alba, disse che sarebbero stati fuori tutto il giorno per presenziare alle cerimonie religiose e ai riti di purificazione in vista della grande cerimonia dell’indomani.

«Torneranno per cena?» chiesi.

 «Solo il Raja, Altezza. Il Principe resterà nel tempio della Trimurti per tutta la notte, pregherà insieme al grande sacerdote che la dolce sposa di Shiva, Parvati, domani indichi colei che dovrà aiutarlo nel compito che gli dei gli hanno affidato. Temo che non lo vedrete prima di domani mattina.»

«E ho quattro probabilità su cinque di non vederlo più, dopo domattina.» conclusi abbassando lo sguardo.

«Principessa…» lo guardai «In questi giorni, durante i quali vi ho servito, ho potuto osservarvi e conoscervi e voglio dirvi questo: anche io pregherò questa notte, pregherò perché siate voi la Prescelta, poiché avete cuore e siete sinceramente interessata al benessere del nostro popolo e perché voi amate il principe Cavan almeno quanto vi ama lui, e vi assicuro che il Principe vi ama immensamente.» concluse inchinandosi.

«Grazie, Rashid, per tutto.» dissi commossa mentre si allontanava.

Tornai nelle mie stanze e mi sedetti accanto al tavolino.

Dunque sarei rimasta sola fino a sera, sospirai. Essendo usciti sia il Raja che il Principe non c’erano scuse che permettessero alla mamma o a Elisa di venire a trovarmi.

Mi guardai attorno cercando di imprimermi nella memoria ogni particolare della camera che era stata mia per un mese, che era stata la mia casa e il mio rifugio in quello che ricordavo come il periodo più travagliato della mia esistenza. Avrei ricordato per sempre quegli ambienti che erano appartenuti a due persone per me così importanti: la mia vera madre e colui che amavo.

La brezza entrava dalle finestre aperte, facendo muovere le leggere cortine del letto, portando gli aromi della terra bagnata, dell’erba lavata dalla pioggia e dei fiori appena sbocciati. Inspirai profondamente quei profumi gustandoli come vivande rare e prelibate e, per questo, gradite.

Abbassai gli occhi sul tavolino e vidi accanto alla lampada un pacchetto e un biglietto ripiegato, lo presi e cominciai a leggerlo:

 

Dolce Marina,

lascio questo nella tua stanza, ancora avvolta

nelle tenebre, per rammentarti il mio amore.

Non ci vedremo fino a domani, quando i nostri

destini saranno decisi. Non so come finirà, ma

qualunque cosa accada, sappi che il mio cuore

ti appartiene. Accetta questo piccolo dono come

pegno e come augurio che domani sia l’alba della

nostra nuova vita. Insieme.

A presto, cara. Ti amo,
Cavan

 

Sorrisi sfiorando le lettere sul foglio e aprii il pacchetto.

Incastonato in un intricato intreccio di filigrana d’oro riluceva un meraviglioso diamante nel cui cuore splendeva la fiamma azzurra della purezza. Il pendente era completato da una catenina anch’essa di filigrana la cui chiusura rappresentava lo stemma della famiglia di mio padre, il mio stemma di futura Maharani.

Rimasi a guardarlo pensierosa, quello era il simbolo del mio nuovo rango, della mia nuova vita. Dal giorno seguente Marina Annabelle Shallowford sarebbe definitivamente scomparsa per lasciare posto a Sunahra Moti, Principessa del palazzo di Lakshmi, erede al trono dell’Uttar Pradesh.

La cosa mi terrorizzava. Chi era Sunahra Moti? Cosa sapevo di lei? Ero sempre stata Marina Shallowford, conoscevo i suoi gusti e i suoi sentimenti, sapevo cosa le piaceva fare, dove le piaceva andare, quali libri amava leggere… Ma a questa principessa indiana cosa piaceva? Cosa sentiva? Il nonno mi aveva parlato a lungo di mia madre, mi aveva fatto leggere le lettere che lei gli aveva spedito durante il suo matrimonio e oramai la conoscevo abbastanza da rendermi conto di essere diversa. Come contessina ero stata educata in modo tale da poter affrontare, una volta adulta, responsabilità anche molto importanti, ma nell’ambito di una società occidentale; ora improvvisamente mi resi conto che sarei diventata una principessa indiana: mai nella vita avrei pensato di ricoprire un ruolo tanto diverso.

Sarei stata in grado di occuparmi delle mie terre e di coloro che le abitavano? Avrei potuto dare loro pace e serenità in cui vivere? Quelle domande mi torturavano da giorni e ancora non avevo trovato le risposte.

Desideravo poter uscire, camminare nel parco, tra la gente e poter riflettere serenamente sul domani. In momenti come quello la camera che tanto mi piaceva prendeva le sembianze di una gabbia dalla quale desideravo scappare.

Respirai profondamente, calmandomi. Decisi di affrontare quei pensieri che mi affliggevano con il nonno, quando fosse tornato. Avevo bisogno del suo consiglio e della sua saggezza e oramai non c’era più molto tempo. Desideravo tanto avere anche l'opinione di papà: l’avevo visto solo tre volte da che ero nascosta e ne sentivo la mancanza. Fortunatamente almeno Elisa e la mamma erano riuscite a venire quasi tutti i giorni e, spesso erano venuti anche Luke e Alexander.

Ripensai al giorno precedente, quando mia sorella e mamma erano venute per mostrarmi l’abito da sposa che avevano finalmente finito di preparare con l’aiuto di Umi. La seta rossa riluceva di sfumature d’oro e i ricami la impreziosivano rendendo il sari e il velo che lo accompagnava una rara opera d’arte. Mamma aveva detto che avevano usato come modello il figurino dell’abito di mia madre, Sitara, seppure con qualche modifica. Avevo guardato estasiata quella creazione, ma non mi avevano permesso di indossarlo ora che era finito: portava sfortuna, dissero. Avrei dovuto attendere la sera dell’indomani per farlo, sempre che mi fossi rivelata la Prescelta. Elisa aveva detto che avrei lasciato Cavan a bocca aperta.

Cavan. Quel pensiero mi attraversò la mente, alzai lo sguardo verso il cielo chiedendomi dove fosse e cosa stesse facendo.

 

 

*****

 

 

Immerso nel brusio delle preghiere sedevo nel tempio di Brahma dinanzi alla sua statua. I sacerdoti attorno a me intonavano i Mantra con gli occhi chiusi, alternandoli con i canti dei RG Veda, implorando l’intervento divino nel giorno che doveva venire.

L’incenso pervadeva l’aria saturandola con il suo pungente aroma, misto a quello quasi soffocante delle migliaia di fiori che adornavano l’interno del tempio. Il canto monocorde dei sacerdoti aveva un effetto quasi ipnotico su quanti ascoltavano, vibrava dentro e attraverso coloro che erano lì, pervadendoli della presenza divina.

Immobile nella posizione del loto ascoltavo le preghiere e fissavo la statua davanti a me unta di oli profumati che brillava alla luce delle candele. Ghirlande di fiori erano posate in terra intorno a me: ognuna delle persone presenti ne aveva portata almeno una e l’aveva posata il più vicino possibile a me, senza coprire le altre, così che ora un tappeto fiorito mi circondava da ogni parte.

Non sapevo che ora fosse. Era il secondo tempio che visitavo, il primo era stato quello di Visnu, ora Brahma e presto, speravo, avrei raggiunto il tempio di Shiva, per poi ritirarmi al tramonto nel tempio che racchiudeva queste tre divinità in una sola: il grande tempio della Trimurti. Vi sarei rimasto fino al momento di recarmi al Taj per la cerimonia. Nel recinto più interno e sacro del tempio avrebbe avuto luogo il rito della mia purificazione, così come richiesto dalla nostra religione. Prima di raggiungere il Taj, mi sarei fermato nella moschea più importante di Agra, dove il capo spirituale dei mussulmani d’India mi avrebbe benedetto, poiché il mio ruolo era riconosciuto anche dagli appartenenti alle altre religioni. Sempre per questo motivo, poco prima dell’alba, avevo incontrato il rappresentante del Dalai Lama, che mi aveva portato la benedizione buddista.

Sospirai piano ripensando a tutto ciò e chiusi gli occhi, questo era senz’altro il giorno più lungo della mia vita. E quello successivo sarebbe stato il più difficile.

Il volto di Marina emerse nella mia mente come lo avevo visto la sera precedente a cena: ridente. Nonostante i timori e le preoccupazioni che la turbavano riusciva a mostrarsi allegra e ottimista, il che era più di quanto riuscissi a fare io negli ultimi tempi. Da quattro giorni infatti ero pervaso da una strana inquietudine, Alexander sosteneva che era solo agitazione per gli avvenimenti che si avvicinavano, ma io ero convinto che ci fosse di più. Erano solo nubi all’orizzonte, ancora troppo lontane e indistinte per capire la natura della minaccia, avrebbero potuto passare senza neppure sfiorarmi. Oppure travolgermi con la furia della tempesta.

Una tempesta violenta e improvvisa come quella della notte precedente. Tutti i sacerdoti e gli astrologi dell’India erano estasiati da quell’avvenimento che confermava, stando alle loro parole, l’avvento della Profezia. Infatti, a memoria d’uomo, non si era mai verificato un fenomeno atmosferico di tale portata in quella stagione che da sempre era priva di piogge.

Mi accorsi di un cambiamento nell’ambiente intorno a me e mi riscossi. Il tempio era immerso nel più assoluto silenzio: la cerimonia era terminata, ma vedendomi assorto, presumibilmente in preghiera, nessuno aveva osato disturbarmi. Lentamente mi alzai in piedi e, piegatomi profondamente dinanzi all’effigie del dio, mi volsi verso il grande sacerdote che dipinse il simbolo della mia casta sulla mia fronte, quindi uscii.

Il palanchino si mise in movimento appena fui salito, diretto verso il tempio di Shiva, verso un'altra cerimonia, verso altre preghiere, verso altre speranze…

Dei, come era lungo quel giorno.

 

 

*****

 

 

Vennero a svegliarmi che era ancora buio. Rashid si affrettò a chiudere le pesanti tende delle finestre perché da fuori non fosse visibile la luce delle candele. Umi ed Elisa, vestita con il mio sari rosa, mi aiutarono a indossare il sari di seta nero, ricamato in oro, che indicava il mio status di nobile. Umi riunì i miei capelli in una treccia che fermò con nastri anch’essi neri e fece passare il velo del sari sulla mia testa. Una volta pronta raggiungemmo il nonno e i miei genitori nel salotto. Anche mamma e papà erano abbigliati con abiti indiani, notai poi il costume nero e verde di Patal e lo guardai incuriosita.

«Questa,» mi disse «è la divisa della guardia d’onore del palazzo di Lakshmi, la vostra guardia d’onore. Io e questi quattro uomini» disse indicando quattro guardie che non avevo visto, abbigliate come lui «saremo la vostra scorta.»

«Principessa.» mi salutarono inchinandosi.

Restituii il saluto osservandoli.

Il turbante era diverso, notai. Sebbene fossero tutti dello stesso colore, verde smeraldo scuro e della stessa foggia, quello di Patal era ornato con un cordoncino d’oro e con un medaglione sul quale era inciso lo stemma della mia famiglia: il cobra reale e la tigre che si fronteggiavano con la montagna sacra che si innalzava sullo sfondo.

Le quattro guardie mi circondarono e, preceduti da Patal e seguiti dal Raja e dalla mia famiglia, ci muovemmo. Camminavamo in silenzio, cercando di fare il minor rumore possibile, raggiunto il portone principale, uscimmo e salimmo su un carro coperto privo di insegne che ci stava aspettando. Non raggiungemmo il portone principale dei giardini del Taj, ma al contrario ci fermammo presso l’entrata del lato destro. Sempre in silenzio ci accostammo all’alto plinto che sorreggeva il monumento e, fissata una scala a pioli, vi salimmo sopra.

Nella parte del plinto situata dietro alla tomba, erano state erette cinque comode tende, una per ogni principessa. La quinta, in teoria, sarebbe dovuta restare vuota ma era stata montata per rispetto alla principessa creduta morta. Entrammo, morbidi tappeti coprivano il marmo bianco del pavimento e due divani permettevano di trascorrere l’attesa comodamente. Mi sedetti con accanto Elisa che, poco dopo si appisolò. Fuori le quattro guardie in divisa avevano preso posto ai quattro angoli della tenda, così come doveva essere. Il nonno mi aveva spiegato che tutti si sarebbero comportati come se la mia tenda fosse stata occupata e quindi la vista delle guardie con indosso l’uniforme del mio palazzo non avrebbe destato nessuna meraviglia, al contrario, la loro assenza sarebbe parsa sospetta.

Dopo quasi un’ora di silenzio sentimmo dei rumori provenire dalla scalinata che dava accesso al plinto. Patal, che era rimasto fuori di guardia fino a quel momento, rientrò dicendoci che stavano arrivando le delegazioni delle altre principesse.

Il silenzio non tornò più. Subito dopo le principesse, giunsero i sacerdoti che presero posto nel padiglione coperto eretto accanto al grande arco della facciata del mausoleo. L’ultimo ad arrivare fu il grande sacerdote del tempio della Trimurti. Insieme a lui giunse Cavan.

Poi i grandi cancelli del giardino furono aperti permettendo alla folla che si era assiepata all’esterno di entrare per assistere a quello che sarebbe, entro breve, accaduto.

 

 

*****

 

 

I giardini, così silenziosi al mio ingresso, si animarono di una folla immensa e vociante. Ovunque si guardasse era visibile una marea multicolore, l’unico spazio libero era rappresentato dal lungo bacino d’acqua che correva perpendicolarmente alla facciata della tomba e nel quale si specchiava. I canti di preghiera si levavano dalla folla guidata dal salmodiare dei sacerdoti. Seduto sul cuscino riservatomi nel padiglione, osservavo tutto ciò che mi circondava, cercando di tenere a freno l’agitazione. Fuoco pareva scorrermi nel sangue e, nonostante la notte insonne, ogni mio senso era all’erta. Guardai il cielo e mi accorsi che si stava schiarendo velocemente: il momento andava avvicinandosi. Dall’altra parte del grande arco, di fronte a me, era posto un grande gong accanto al quale stavano due sacerdoti: quello strumento avrebbe scandito tutta la cerimonia, il suo primo suono mi avrebbe segnalato quando prendere il mio posto, mentre il secondo e i successivi avrebbero segnalato l’ingresso delle varie principesse. Marina sarebbe stata presentata per ultima.

Marina… Il suo volto, il suo profumo e il suono della sua voce mi avevano accompagnato in quella lunga notte di veglia. Avevo sempre seguito con fede l’Induismo ma, quella notte, avevo pregato con un fervore che non sapevo neppure di possedere. Avevo pregato che Marina fosse la Prescelta, che Asmal non si fosse sbagliato. Guardai un cuscino vuoto poco distante dal mio: avrebbe dovuto prendervi posto Asmal, ma un’ora prima era arrivato un suo messaggero con la notizia che l’anziano saggio era ancora distante dalla città e che non sarebbe giunto prima di notte inoltrata. Aveva comunque mandato, tramite il messaggero, una pergamena sigillata che conteneva la predizione per il futuro mio e della mia sposa: lui sapeva già chi era e come sarebbe stata la nostra vita. Avremmo aperto quella pergamena dopo la celebrazione del matrimonio, quella sera al tramonto.

Il primo gong mi riscosse, lentamente mi alzai e, saliti sette scalini, mi fermai accanto al portale d’argento del Taj Mahal e mi voltai verso la folla. E aspettai.

Il primo raggio di sole eruppe sull’orizzonte seguito dal secondo suono del gong che introdusse la prima principessa. Ella venne avanti, si chinò nel namaste dinanzi ai grandi sacerdoti, quindi si volse verso di me e salì i gradini. Era graziosa, aveva un volto ovale nel quale spiccavano i grandi occhi neri, la carnagione non era molto scura e i capelli lisci erano raccolti in due trecce che le scendevano sulle spalle. Quando mi fu accanto mi fece un lieve inchino, che restituii, poi si volse verso la porta, sollevando una mano e la toccò. Non accadde nulla, il portale rimase ermeticamente chiuso. Vidi la delusione nei suoi occhi, mentre si voltava per allontanarsi.

Per altre tre volte suonò il gong, per altre tre volte una principessa sfiorò quella porta e per altre tre volte la porta non si aprì. Quando la quarta principessa si fu ritirata il grande sacerdote della Trimurti si alzò, andò a fermarsi sul primo scalino e si voltò verso la folla antistante.

«Figli miei.» esordì «Figli dell’India tutta, questo giorno di speranza si è rivelato infausto. Colei che attendevamo non è giunta e la Profezia non può compiersi per intero. Oramai non v’è più speranza.»

«Una speranza c’è ancora, invece.»

La voce di mio zio risuonò distinta nel silenzio che aveva seguito le parole del gran sacerdote.

Questi si voltò per vedere chi avesse parlato mentre un brusio di stupore serpeggiava tra la folla. Il gran sacerdote vide il Raja accanto al gong e lo interpellò:

«Raja Sardar Singh, cosa significano le vostre parole?»

«Adheapak, non tutte le speranze sono perdute: ne resta ancora una. Come voi tutti sapete mia figlia era la madre della quinta principessa. Il giorno in cui sua figlia doveva nascere il Palazzo di Lakshmi fu attaccato e tutti coloro che vi abitavano furono uccisi. A lungo si è creduto che anche la mia piccola nipote avesse subito quella sorte, io stesso l’ho creduto. Ma mia figlia, consapevole dell’importanza di quella bambina, l’affidò appena nata a persone fidate che la portarono via e la crebbero in segreto. Ora lei è qui, nonostante i suoi nemici l’abbiano riconosciuta quando la riconobbi io, nonostante abbiano tentato nuovamente di ucciderla, lei è qui. È quindi mia grande gioia presentarvi Sua Altezza Reale Sunahra Moti, Principessa del Palazzo di Lakshmi, erede al trono dell’Uttar Pradesh.» ciò detto prese una delle mazze e colpì il gong.

Marina venne avanti, si fermò dinanzi al grande sacerdote e si inchinò profondamente.

Dalla folla si levarono esclamazioni di stupore quando la videro, ma il grande sacerdote impose il silenzio con un gesto e la guardò.

«Fanciulla,» disse «quali prove puoi darmi di essere davvero la quinta principessa?»

Marina, che aspettava quella domanda, fece scivolare a terra il velo del sari mostrando i suoi lineamenti e la scollatura del corpetto che rivelava i due nei. Il grande sacerdote la guardò per un attimo poi osservò i nei.

«Gli Dei siano lodati!» esclamò «Sì, è lei, è la figlia del Maharaja Sciandar Singh.» guardò la folla «È la quinta principessa!»

Grida di giubilo percorsero gli astanti. Il grande sacerdote sorrise e voltò Marina verso di me.

«Va, bambina.» disse «Prima che il sole sia sorto del tutto, tocca quella porta e che gli Dei vogliano il compiersi della Profezia.» concluse riprendendo il suo posto.

 

 

*****

 

Quando la quarta principessa si era diretta verso la parte frontale del monumento mi ero alzata in piedi. Ero riuscita a trattenere l’agitazione fino a quel momento ma ora non mi era più possibile. Il nonno si era preparato e aspettava il momento di comparire dinanzi ai sacerdoti e alla folla. Ero terrorizzata, l’ultimo quarto d’ora era stato il più orribile che riuscissi a ricordare, ogni volta che il gong aveva suonato mi ero sentita morire. Non sapevo se sperare che non suonasse più, cosa che sarebbe accaduta se una delle altre principesse si fosse rivelata essere la Prescelta, o sperare che continuasse.

Infine la porta della tenda si aprì: era giunto il momento. Patal si scostò per farmi passare quindi, circondata dalle mie guardie, mi avviai. Ci fermammo appena prima di raggiungere la parte anteriore del monumento, qui attesi che il nonno pronunciasse il mio nome. Quando lo fece proseguii da sola e raggiunsi la facciata. Salutai il grande sacerdote e gli mostrai i due nei perché potesse riconoscermi, quindi mi voltò verso il portale d’argento e mi invitò a toccarlo.

Adesso ero sola. Mi avviai, raggiunsi il primo gradino e iniziai a salire. Tremavo, il cuore mi batteva furiosamente nel petto, rendendomi difficile respirare e offuscandomi la vista. Sapevo di dovermi sbrigare ma non riuscivo ad accelerare il passo, la gradinata sembrava allungarsi all’infinito e ogni scalino era più faticoso del precedente. Alzai gli occhi e incontrai lo sguardo di Cavan. Il tempo sembrò rallentare mentre una sottile, nuova forza mi pervadeva. Potevo farcela, dovevo farcela, Cavan mi stava aspettando, presto saremmo stati insieme. Non dovevo fare altro che raggiungere il portale e così feci. Alzai la mano destra e la appoggiai lievemente sul metallo freddo chiudendo gli occhi. Li riaprii: la porta era ancora chiusa. Per un attimo che parve durare un’eternità non accadde nulla poi, lentamente, il portone iniziò a ruotare silenziosamente sui cardini. Per un istante fui in grado di vedere una piccola parte dell’interno illuminato dal sole nascente alle mie spalle, poi una luce accecante si sprigionò dal cuore del mausoleo abbagliando me e tutti coloro che si trovavano nella piana antistante il Taj Mahal.

Quindi, lentamente come si era aperto, il portale si richiuse.

 

 

*****

 

 

Sbattei le palpebre abbacinato da quella luce che per un istante aveva oscurato tutto, trattenendo a stento la gioia. Nell’istante in cui il portale si richiuse un boato di giubilo si levò dalla folla, seguito da canti di lode e ringraziamento che scaturirono da tutti coloro che si trovavano dinanzi al Taj Mahal e che si sparsero velocemente in tutta la città, portando il messaggio che la Profezia si era compiuta: la principessa della leggenda era tra noi.

Guardai Marina: era rimasta immobile la mano destra stretta sul petto e gli occhi chiusi. Lei più di ogni altro era rimasta abbagliata da quella luce improvvisa. Le andai accanto e la chiamai sottovoce, aprì gli occhi e mi guardò, pallida e bellissima sembrava sul punto di svenire a causa dell’emozione. Pregai che resistesse ancora e le porsi la mano, vi posò la sua, tremante, e insieme ridiscendemmo sul plinto marmoreo, fermandoci ai piedi della scalinata. Il grande sacerdote del tempio della Trimurti salì sul primo gradino, venne a mettersi dietro di noi e legò le nostre mani unite con una catenella d’argento a simboleggiare che eravamo promessi, quella sera sarebbe stata sostituita da una catenella d’oro che avrebbe indicato l’unione delle nostre vite e delle nostre anime nel matrimonio, quindi alzò le mani imponendo il silenzio.

«Una principessa indiana venuta da lontano ha aperto col solo tocco della sua mano la porta che non si può aprire e il sole interno del Taj Mahal ha brillato per indicare che lei è quella che attendevamo. Ora si unirà a colui che gli dei hanno designato, il principe Cavan Marek, e insieme compiranno il loro volere. La Profezia si è compiuta!» concluse.

A quelle parole tutti i sacerdoti intonarono i canti di ringraziamento e alle loro voci si unirono quelle delle persone presenti.

Dal cancello di sinistra entrò un corteo: in testa venivano i musici seguiti dalle danzatrici sacre, poi un drappello di guardie a cavallo guidate da Patal. Quindi fece il suo ingresso un grande elefante sul cui dorso era fissato un palanchino dorato e adorno di pietre preziose. Venne fatto fermare ai piedi del plinto e fatto inginocchiare. Guidai Marina giù dalle scale fino ai giardini, l’aiutai a salire sull’elefante e presi posto accanto a lei. Non era facile muoversi poiché la mia mano destra era ancora unita alla sua sinistra e così sarebbero rimaste fino all’arrivo al Forte Rosso dove al tramonto, sulla terrazza che dava sul fiume, sarebbe stato celebrato il matrimonio.

Le sue dita erano gelide, le strinsi un poco con fare incoraggiante e quando mi guardò le sorrisi lievemente. Annuì appena tornando a guardare dinanzi a sé. L’elefante si alzò e si mise in movimento, un altro drappello di guardie ci seguiva e, dietro, venivano i palanchini dei grandi sacerdoti e dei nobili.

Invece di seguire la via più breve lungo il fiume per raggiungere il Forte, la processione si addentrò nella città, facendo un ampio percorso durante il quale, dalle finestre più alte delle case, cadde su di noi una pioggia di fiori e nastri colorati accompagnati dalle esclamazioni di gioia delle persone.

Entrammo finalmente nel Forte, lasciandoci alle spalle i clamori dei festeggiamenti. Durante il tragitto avevamo distanziato i palanchini e ora ci trovammo circondati solo dalle guardie. Patal assegnò loro velocemente turni e posti di guardia poi, accompagnato dalle quattro guardie che indossavano la divisa di Lakshmi, ci scortò all’interno fino al grande atrio che separava gli appartamenti imperiali dai quartieri delle regine. Lì, per la prima volta in due giorni, fummo lasciati soli.

Marina tremava, la trassi a me e l’abbracciai.

«Poche ore ancora e sarà tutto finito.» le sussurrai consolante.

Annuì lievemente senza sollevare il volto dalla mia casacca. Sentivo il tepore del suo respiro attraverso la stoffa sottile. Baciai i suoi capelli e la scostai, mi guardò con occhi umidi sorridendo senza troppa convinzione.

«Non riesco ancora a crederci…» mormorò.

«Eppure ti avevo detto che sarebbe andato tutto bene.»

«Non ci hai mai creduto fino in fondo neppure tu.»

Sorrisi «Non ti si può nascondere nulla. Ascolta,» continuai tornando serio «tra poco giungeranno gli altri. Verrai accompagnata nelle stanze delle Regine dove potrai riposare fino al tramonto. Non ci vedremo più fino ad allora, ma non temere: io sarò a pochi metri da te e le guardie comandate da Patal ti proteggeranno a dovere.»

«Temi qualcosa?» chiese preoccupata.

«No, ma è sempre meglio essere prudenti. Ti pare?»

«Sono stanca di dovermi nascondere, stanca dei sotterfugi e di avere paura. Vorrei che fosse già domani così da aver superato questa giornata orribile.»

«Lo so, ma domani arriverà presto, vedrai.»

In quel momento arrivarono coloro che ci avevano seguito.

Il grande sacerdote sciolse la catena argentea che ancora ci univa e fummo separati.

 

 

*****

 

 

Guidata da Umi, apparsa al mio fianco, raggiunsi le stanze destinatemi dove trovai ad accogliermi mamma ed Elisa. Papà non c’era: agli uomini non era concesso l’ingresso in quegli appartamenti.

Vedendomi piuttosto pallida, mamma mi fece sedere, poi si allontanò con Umi per supervisionare la preparazione del pasto.

Rimaste sole Elisa si sedette accanto a me.

«Come ti senti?» mi chiese.

«Meglio di quanto non sembri, credo, ma non ricordo molto di ciò che è successo dopo che ho lasciato la tenda.»

«Immagino. Sai, è stato… emozionante! Quando hai toccato il portale e questo si è aperto… quella luce è stata così improvvisa! Ha abbagliato tutti. La folla era letteralmente pazza di gioia.»

«Come siete arrivati qui?» chiesi per cambiare discorso.

«Con lo stesso mezzo che abbiamo usato per raggiungere il Taj. Abbiamo preso la strada lungo il fiume per fare prima e siamo entrati da un ingresso laterale.»

«Papà dove si trova?»

«Credo si stia occupando della sicurezza assieme a Patal.»

«Perché? Voglio dire: sono tutti convinti che ora io non corra più pericoli, allora perché tutte queste precauzioni?»

«Vogliono solo essere sicuri che vada tutto bene. Sai, è sempre meglio essere…»

«…Prudenti, sì, mi è già stato detto.»

Mi alzai e mi avvicinai a una finestra che si affacciava su uno dei giardini interni del Forte.

Il verde intenso dei cespugli era qua e là ravvivato da macchie di colore. Una fontana gorgogliava allegramente all’incrocio dei sentieri di pietra che si snodavano tra le aiuole fiorite e nell’aria si spandevano i profumi delle rose e dell’onnipresente gelsomino. Una grande magnolia ombreggiava alcune panche di marmo scolpito. Mi sedetti sul basso davanzale e, appoggiata la schiena a una colonna, inspirai lentamente l’aria profumata.

Rimasi lì un poco, senza pensare a nulla, a osservare il lento moto delle ombre che si spostavano con lo scorrere del tempo. Non sapevo decidermi ad allontanarmi da quella visione rasserenante. Resasene conto, Elisa mi raggiunse e si sedette di fronte a me.

«Sono un po’ triste, sai?»

«Perché?»

«Perché mia sorella non c’è più. Da oggi Marina Shallowford non esiste più e io mi trovo sola per la prima volta in diciotto anni.»

«Elisa ma cosa stai dicendo? Io sono sempre io, ho solo cambiato nome. Sono e sarò sempre tua sorella.» mi interruppi un attimo «Le cose cambieranno un po’, è vero, ma questo non annulla il legame che ci unisce. Non devi mai pensare che ciò che è accaduto in questi giorni abbia in qualche modo cambiato ciò che siamo: siamo sorelle, lo eravamo un anno fa e lo saremo ancora fra un anno, fra dieci, come è sempre stato. Tra poco tu ti sposerai e tornerai in Inghilterra, ma neppure la distanza influirà su questo: noi siamo sorelle, Elisa, e niente e nessuno potrà mai cambiare questo fatto. Ovunque vivremo, anche se saremo separate, quello che ci lega rimarrà invariato. L’affetto reciproco che ci portiamo non svanirà solo perché non siamo più insieme, questo te lo posso assicurare. Vivi felice la tua vita e sii certa che qualunque cosa accada, qui tu hai una sorella che sarà felice di accoglierti ogni volta vorrai fuggire dal rigore inglese o prenderti un po’ di riposo. Devi credermi e continuerò a ripeterlo finché non ti sarai convinta.» conclusi sorridendo.

«Finalmente, iniziavo a pensare che avessi dimenticato come si fa.»

«A fare cosa?» chiesi stupita.

«A sorridere, Marina.»

Rimanemmo presso la finestra a lungo, a volte restando in silenzio poiché, tra noi, le parole erano spesso superflue.

«Verrai al mio matrimonio, vero?» mi chiese all’improvviso.

«Certo! Niente potrebbe impedirmi di essere presente. E poi non puoi sposarti senza damigella d’onore.»

«Già, sarebbe contro la tradizione.» sorrise «Non so perché te lo abbia chiesto. Sapevo che avresti risposto affermativamente, forse avevo solo bisogno di sentirtelo dire.»

«Verrò, non ti preoccupare. Sarà l’ultima volta che indosserò un abito inglese, l’ultima apparizione in pubblico di Marina Shallowford.»

«E di Paul McIntire.» aggiunse.

«Sì, entrambi svaniranno nel nulla…»

L’arrivo della mamma con il pranzo pose fine al silenzio che si era creato dopo il mio commento.

Sedutasi presso di noi iniziò a raccontare della prima volta che aveva visto il Forte Rosso, anni prima. Proprio nei giardini imperiali aveva incontrato colei che divenne la sua migliore amica: mia madre. Ci narrò di quell’amicizia nata per caso che era durata fino alla morte di Sitara. Parlava con vivacità di quei giorni ormai lontani, narrandoci anche i piccoli particolari che ricordava del tempo insieme trascorso. Ci narrò dell’infinita tenerezza che aveva provato nel vedermi la prima volta e della sua gioia quando Elisa venne al mondo e fece di noi due gemelle. I cinque giorni che facevano di me la maggiore non si erano mai notati e di questo era sempre stata felice. Era stato bello per lei vederci crescere assieme volendoci bene, vederci vivere come vere sorelle. Eravamo la sua più grande fonte di gioia e orgoglio, ed era fiera nonostante la paura passata, che io avessi riconquistato il mio posto e il mio lignaggio. Parlò a lungo narrandoci cose che non avevamo mai neppure immaginato dei tempi del suo primo soggiorno in India e degli anni che erano seguiti.

Fu Umi a porre fine a quel bellissimo monologo. Venne per comunicarci che mi aveva fatto preparare un bagno e che era ora che cominciassi a prepararmi: il tramonto non era lontano.

 

 

*****

 

 

«A quanto pare ne sono successe di cose durante la mia assenza.»

La voce di Parmar mi diede il benvenuto negli appartamenti imperiali.

«Parmar!» lo salutai «Quando sei arrivato?»

«Mezz’ora fa, giusto in tempo per sentire le grida di gioia spargersi per la città. Avrei voluto arrivare prima… Così lady Marina non è morta e non è lady Marina.»

«Già. Capisci, vero, che non ti dissi nulla perché così era stato deciso e non perché non mi fido di te?»

«Non ti preoccupare, al tuo posto avrei fatto lo stesso. Allora, come ci si sente a essere quasi sposato?»

«Nervoso. Sarà colpa della notte di veglia ma non vedo l’ora che sia tutto finito.»

«Ti capisco.»

Ci sedemmo accanto a un tavolino sul quale era apparecchiata una scacchiera e giocando ci mettemmo a parlare. Gli chiesi di narrarmi cosa era accaduto nel mio regno durante la mia assenza. La gestione del territorio occupò la quasi totalità della nostra conversazione. Era piacevole come sempre ritrovarsi a parlare con qualcuno che conosceva a fondo i problemi della mia terra, che dava importanti suggerimenti.

Il tempo passava velocemente, consumammo un pasto freddo e presto fu il momento di prepararsi. Con lo scorrere tranquillo di quelle ultime ore le mie ansie si erano un po’ acquietate. Ero certo che, giunti a quel punto, sarebbe andato tutto bene, nonostante questo però non mi fidavo ad abbassare la guardia.

Parmar aveva notato il mio nervosismo e per distrarmi si mise a raccontarmi alcuni aneddoti riguardanti la sua ultima battuta di caccia. Sorrisi senza convinzione al suo racconto e, poco dopo lui smise di cercare di distrarmi e si allontanò; il mio valletto mi aiutò a indossare l’abito per la cerimonia.

 

 

*****

 

 

Allontanata la cameriera, Elisa prese la spazzola e iniziò a passarla personalmente tra i miei capelli. Senza neppure accorgersene iniziò a canticchiare, la guardai attraverso il riflesso dello specchio alzando un sopracciglio. Arrossì lievemente:

«È il valzer durante il quale Alex mi ha chiesto di sposarlo…»

«Sei eccitata per il matrimonio, vero?»

«Molto. Ci pensi: oggi tu sposi il tuo Cavan e tra cinque giorni io sposerò il mio Alexander. Sono contenta che non rimarrai sola dopo le mie nozze, ma soprattutto che sposi proprio Cavan.»

«Sai,» dissi dopo un attimo di esitazione «quando lo conobbi, in Inghilterra, sentii subito che lui avrebbe avuto una parte importante nella mia vita. Più tardi compresi che ne ero innamorata, nonostante non sapessi neppure chi fosse. E quando l’ho scoperto ho creduto che tutto fosse perduto per sempre… Sapessi quanto lo amo, Elisa! Lui è tutta la mia vita.»

«Come per me Alex.»

Ci guardammo nello specchio consce di quale fortuna godessimo, fortuna che alla maggior parte delle ragazze a quei tempi era preclusa.

L’entrata di Umi con il sari da sposa non ci permise di proseguire la nostra conversazione. Raccolti i capelli in una grossa treccia ornata con file di diamanti e rubini indossai il sari di cangiante seta rossa e misi la collana col mio stemma donatami da Cavan.

Ero pronta: non restava che aspettare che venisse il momento di raggiungere la terrazza sul fiume dove si sarebbe celebrato il matrimonio.

A quel pensiero sentii le ginocchia cedermi e mi sedetti nuovamente sul davanzale a guardare il giardino.

E attesi.

 

*****

 

 

«Siamo pronti, Altezza.»

Con queste parole ebbe inizio quello che doveva essere “l’ultimo atto” di quella che era cominciata come tragedia e che tutti speravamo si concludesse con un lieto fine. Mi incamminai senza fretta verso le scale e raggiunsi la terrazza sulla quale era stato eretto un baldacchino di seta bianca sorretto da lance d’oro.

Decine di dignitari, rappresentanti della nobiltà e sacerdoti di ogni culto erano schierati nello spazio circostante in attesa della cerimonia.

Il grande sacerdote della trimurti attendeva pazientemente l’arrivo di Marina per dare inizio al rito. Anche io attendevo, con impazienza appena celata, l’arrivo della mia sposa e nell’attesa torturavo la fusciacca che mi cingeva i fianchi. Fui per un istante sconcertato dal fatto che non vi era fissato il pugnale come al solito, ma rammentai che così voleva il cerimoniale. Nessuno dei presenti era armato, per rispetto agli sposi.

Sentii un miagolio e mi voltai verso destra: legato con una catena dorata a una delle colonne del portico che circondava tre dei lati della terrazza stava Silam. Non sembrava per nulla contento di trovarsi legato e sospettai che non gli fosse mai accaduto. Il colonnello Shallowford, vestito come un nobile indiano, gli si avvicinò e lo accarezzò per calmarlo. I nostri sguardi si incrociarono e mi fece un impercettibile cenno che restituii con altrettanta circospezione. Tornai a guardare il grande sacerdote che mi sorrise con benevolenza.

E attesi.

 

 

*****

 

 

«Siamo pronti, Altezza.»

A queste parole sussultai.

Mi alzai in piedi e guardai mamma ed Elisa, mi vennero vicino e mi abbracciarono. Una cameriera le accompagnò fuori dalla stanza verso la terrazza, e io rimasi sola con Umi.

Ero spaventata e lei se ne accorse.

«È tempo, bambina, dobbiamo andare.» mi disse con dolcezza.

«Sì, vorrei solo riuscire a smettere di tremare.»

«Andiamo, il tuo sposo e il tuo futuro ti aspettano.» mi prese per mano e ci avviammo.

 

 

*****

 

 

Un lontano suono di piccoli tamburi e campanelli annunciò l’arrivo della sposa. La musica si faceva più forte con l’avvicinarsi del corteo che l’accompagnava finché apparvero. In mezzo a musici e danzatrici, splendente in un sari rosso e oro, viva e vibrante come una fiamma di pura luce, avanzava colei che occupava i miei pensieri, colei che gli dei benevoli mi avevano destinato: Marina.

Camminava lentamente con l’incedere di una vera regina, appariva serena ma chi la conosceva poteva notare il lieve tremito delle mani e gli occhi innaturalmente dilatati.

Dietro di lei, a poca distanza, veniva Umi che portava, adagiata su un cuscino rosso, una lastra d’oro circolare sulla quale era scolpito a sbalzo lo stemma del palazzo di Lakshmi, che splendeva nella luce del sole morente.

Quando mi fu accanto le presi la mano e, insieme, ci voltammo verso il grande sacerdote e la cerimonia ebbe inizio.

 

 

*****

 

 

Ogni mia paura, ogni mio tremito ebbe fine nel momento stesso in cui Cavan prese la mia mano. Mentre il grande sacerdote intonava le formule della cerimonia mi lasciai cullare dall’atmosfera che pervadeva la terrazza. Le acque dello Yamuna erano come rame liquido, tanto brillanti da non potersi guardare senza che gli occhi ne risultassero feriti. Il profumo dei fiori e dell’incenso aveva un che di ipnotico e stordente. La terrazza era immersa nel silenzio sul quale era chiaramente udibile la voce dell’anziano sacerdote. Un altro suono giunse al mio orecchio in quella quiete: il gorgoglio tipico che emetteva Silam nei momenti di soddisfazione.

Ma quella pace era destinata a durare poco. Fu proprio Silam a dare l’allarme scattando in piedi con un ruggito un attimo prima che l’orribile fragore degli spari ci raggiungesse. Cavan si pose tra me e qualunque pericolo stesse arrivando, e io strinsi la mano che ancora imprigionava dolcemente la mia.

 

 

*****

 

 

La mia mano corse istintivamente alla fusciacca tristemente vuota all’inutile ricerca del pugnale, nel momento in cui un gruppo di uomini a cavallo irrompeva sulla terrazza.

Udii il gemito spaventato di Marina e la spinsi gentilmente verso il grande sacerdote, preparandomi a sostenere l’attacco.

Il ruggito indignato di Silam echeggiava sopra le grida degli assalitori, ma la tigre era incatenata e non poteva fare nulla.

Vidi uno dei cavalieri galoppare verso di me e quando fu a distanza utile, usando una pesante fioriera di marmo come trampolino, mi slanciai su di lui travolgendolo e facendolo cadere. Prima che potesse riprendersi lo tramortii con un pugno e mi voltai per affrontare il nemico successivo che non tardò a giungere.

La lotta divenne presto frenetica, impugnando la spada tolta al primo nemico, ingaggiai furiosamente battaglia con tutti coloro che tentavano di superarmi per raggiungere Marina. Malgrado il mio furore però, mi trovai presto in inferiorità, soverchiato dal numero dei nemici. A tratti riuscivo a scorgere nella mischia il colonnello, Alex o Patal che si battevano con coraggio contro quell’orda urlante. Capivo che non avrei potuto resistere a lungo ma ero deciso a non cedere.

Il grido di Marina giunse repentino e inaspettato. Ero convinto di essere riuscito a bloccare tutti gli uomini venuti verso il baldacchino, ma evidentemente avevo torto. Respinsi velocemente l’ultimo nemico e mi voltai: un uomo a cavallo si era slanciato verso la mia sposa e l’aveva presa in sella. Ella tese entrambe le braccia verso di me con sguardo supplice:

«Cavan!» gridò.

Mi slanciai verso di lei pronto a balzare alla gola dell’incauto che aveva osato toccarla ma non riuscii a raggiungerla: qualcuno mi colpii violentemente alla testa da dietro e caddi. Stordito dal colpo mi voltai sul dorso per guardare il mio aggressore e spalancai gli occhi.

«Pa… Parmar!» esclamai.

Si abbassò verso di me e mi guardò tristemente.

«Mi dispiace, amico mio, ma non posso permetterti di fermarli. Vedi il mio popolo aspetta da molto tempo di incontrare la Prescelta, non sarebbe bello deludere tutte quelle persone.»

«Tu… Bastardo! Eri il mio migliore amico, ti consideravo come un fratello.»

«Lo so, anche io ti considero come un fratello e mi dispiace che ora tu ti senta tradito. A dire il vero quando da bambino mi dissero che ero stato scelto come tuo Custode non mi sarei aspettato di provare per te un’amicizia così profonda. Credimi: mi dispiace davvero di averti ingannato, ma il dovere verso il mio popolo viene prima dell’amicizia verso un impuro.»

«Dove la stanno portando?»

«Spiacente, amico, ma non posso dirtelo.» si guardò intorno poi si volse nuovamente verso di me «È tempo che io vada.» si alzò in piedi «Non preoccuparti troppo per la principessa, se sarà intelligente te la restituiremo presto.» sorrise «Appena sarà pronta…»

«Pronta per cosa?» gli gridai dietro alzandomi «Pronta per cosa?» ripetei cercando di rincorrerlo.

Non mi rispose.

La vista mi si annebbiò; ancora stordito dal colpo alla testa, caddi sulle ginocchia in preda alla nausea e, con mia grande rabbia, svenni.

 

 

*****

 

 

Erano giunti all’improvviso irrompendo sulla terrazza come visioni di un incubo. Accanto al grande sacerdote osservai atterrita uno dei cavalieri venire verso di noi, ma Cavan lo sbalzò di sella prima che potesse raggiungerci. Sospirai lievemente sollevata quando vidi il mio sposo impugnare la spada del nemico: ora non era più disarmato. Ma il mio sollievo fu di breve durata poiché diversi nemici si avventarono su di lui. Avrei voluto fare qualcosa per aiutarlo ma non mi mossi, sapendo che gli sarei stata solo di impaccio. Mi sentivo morire ogni volta che una spada assalitrice si abbatteva su di lui, ma miracolosamente Cavan riusciva sempre a parare i fendenti nemici. A un certo punto vidi un uomo a cavallo dirigersi verso di noi con la scimitarra sguainata. Compresi che voleva me e temetti che potesse fare del male al grande sacerdote pur di prendermi, così mi allontanai da lui e mi diressi correndo verso Silam: se fossi riuscita a raggiungerlo chi avesse voluto toccarmi avrebbe prima dovuto vedersela con i suoi artigli e con i suoi denti. Ma non riuscii nel mio intento: fatti pochi passi il cavaliere mi fu addosso e mi sollevò di peso sulla sella. Sentivo i ruggiti inferociti della mia tigre e gridai. Cavan si volse verso di me e io lo chiamai, fece l’atto di slanciarsi verso il mio rapitore ma qualcuno lo colpì alla testa da dietro un attimo prima che il cavallo partisse al galoppo. Chiamai nuovamente senza ottenere risposta cercando invano di divincolarmi dalla presa dell’assalitore. Questi mi tenne ferma e mi pose davanti al volto una pezza di stoffa intrisa di una sostanza che esalava un aroma dolciastro. Pochi istanti dopo tutto si fece confuso davanti ai miei occhi e precipitai nell’oscurità.

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Capitolo 22
*** Capitolo XX ***


PARTE III

 

- la caccia -














 

Capitolo XX

 

 

«Tutto questo è inammissibile!» esclamai esasperato «Non è possibile che dopo due giorni mi sappiate dire solo “sono scomparsi”. Lo so anch’io che sono scomparsi, voglio sapere dove sono andati!»

Mi trovavo nello studio di mio zio e guardavo furente quelli che avrebbero dovuto essere i migliori cercatori di tracce di tutta Agra.

Mi ero ripreso dal colpo ricevuto un’ora dopo che la battaglia era finita, per scoprire che nessuno era riuscito a seguire coloro che ci avevano assalito. Mio zio aveva immediatamente ingaggiato tre cercatori di tracce che si diceva fossero i migliori sulla piazza. Quando, alcune ore dopo la loro partenza, divenne chiaro che non avevano ancora trovato nulla, avevo mandato un messaggero al mio palazzo perché convocasse Abu-ni. Non conoscevo questi uomini di Agra ma sapevo che se c’era un uomo in grado di scovare una pista, per quanto vecchia e ben camuffata, questo era Abu. Ma egli non era ancora giunto e io mi ero dovuto affidare a quei tre incapaci che ora mi stavano dinanzi.

Disgustato li congedai con un cenno e rimasto solo mi sedetti con la testa tra le mani tornando col pensiero a ciò che era accaduto dopo il mio risveglio.

Quando mi fui ripreso, medicato con mia grande sorpresa da Tyler, aiutai le guardie a perquisire i corpi degli assalitori caduti durante la battaglia, in cerca di una cosa qualunque che ci dicesse chi fossero quegli uomini. Era stato Patal a trovare l’indizio mancante: un pezzo di carta nascosto nella fusciacca di uno dei cadaveri, ma dopo averne letto il contenuto, aveva imprecato. Il foglio conteneva alcuni brani di un’antica preghiera dedicata a Durga nelle sue vesti più spaventose: quelle che facevano di lei la regina delle Devi Nere.

Sentii mio zio gemere, ci voltammo verso di lui.

«Dei!» esclamò « La “Setta senza nome”!»

Lo guardai spalancando gli occhi.

«Credevo che fosse solo una leggenda.»

«Ragazzo mio, magari fosse così!»

«Volete, per favore, spiegare anche a chi non parla nel vostro codice?» chiese impaziente Tyler.

«Capitano, un po’ di rispetto.» lo redarguì il colonnello.

«Chiedo scusa.»

«Non importa.» lo rassicurò il Raja «Mi dica, capitano, la parola “setta” cosa le porta alla mente? I Tugh, senza dubbio. Lei è inglese e il vostro popolo ha combattuto ferocemente contro di loro per estirparne il culto. Ma i Tugh non sono la piaga peggiore che affligge il nostro Paese. Ve ne sono altre, la Setta senza nome è tra queste. È nata circa mille anni fa nel sud dell’India, dove il culto di Durga è più diffuso. Si tratta di un’aberrazione del culto tradizionale. Vedete, Durga nel nostro pantheon è colei che sconfigge gli invasori che vogliono sottomettere il popolo indù, è la più potente delle divinità guerriere, grande e temibile, ma benefica. Questa setta invece ne fa una presenza terrificante, fa di lei la nemica della vita, colei che protegge solo chi le è fedele e condanna tutti gli impuri e cioè tutti coloro che non fanno parte della setta. Sebbene non pretenda sacrifici umani numerosi, come la sorella Kalì, la madre dei Tugh, i suoi settari incutono più terrore. Il loro nome viene sussurrato, per timore di risvegliare la loro ira. Nessuno mai ha osato sfidarli poiché farlo significherebbe morte certa.»

«Per essere così potenti però» intervenne Alexander «si sono trovati un nome ridicolo.»

«Sarebbe vero se lo avessero scelto loro.» intervenni «Vedete, circa mille anni fa, quando venne catturato il primo di quei settari, disse che i figli della divina Durga non avevano bisogno di un nome, poiché la loro Dea aveva impresso il proprio marchio nei loro cuori e poteva riconoscerli attraverso di esso. Così, nei verbali di quell’interrogatorio, venne definita la “Setta senza nome”. Ma con lo scorrere dei secoli quel titolo dispregiativo divenne sinonimo di qualcosa di spaventoso, entrando nella leggenda.» conclusi.

«Ma non si tratta di mitologia, come avete sperimentato. Povera la mia nipotina: essere nelle mani di quei fanatici.»

«La uccideranno…» mormorò il colonnello.

«No.» dissi «Hanno altri piani, almeno da quanto mi ha detto Parmar.»

«Cosa c’entra Parmar?» volle sapere lo zio.

«È uno di loro, zio, Parmar fa parte della setta. L’ho scoperto poco prima di svenire: è stato lui a colpirmi.»

«Parmar!» esclamò «Non posso crederci…»

«So come ti senti, neppure io riesco a capacitarmene. Ha detto di essere stato nominato mio custode, credo che il suo compito fosse quello di controllarmi.»

«Cosa ha detto a proposito di Marina?» incalzò Tyler.

«Ha detto testualmente: “Se sarà intelligente ve la restituiremo presto, appena sarà pronta”.»

«Pronta per cosa?» chiese il conte.

«Non lo so, signore, non lo so.»

Rientrati, avevamo deciso di lasciare il Forte Rosso per tornare nel palazzo dello zio.

Nuovamente in quello che ritenevamo un luogo sicuro, lo zio aveva mandato un uomo di fiducia a reclutare i cercatori di tracce perché scoprissero la direzione presa dai rapitori: non potevano essere semplicemente scomparsi. Ma ora, dopo due giorni, iniziavo a pensare che fosse proprio così.

Uscii dagli appartamenti dello zio e camminai lentamente per i corridoi del palazzo fino a giungere alla scala che portava alla terrazza. Iniziai a salire senza pensare e mi fermai sotto la cupola. Rammentai l’espressione di stupore dipinta sul volto di Marina la prima volta che l’aveva vista. Ripresi a camminare e, giunto sotto a uno dei loggiati anteriori, immerso nei miei pensieri mi fermai a guardare la città assopita sotto il caldo sole del meriggio.

Quella mattina presto avevo ricevuto la visita di Asmal, l’anziano astrologo era venuto per rivelarmi ciò che aveva letto nel firmamento.

«Quando ho saputo ciò che era accaduto,» aveva detto «ho immediatamente interrogato le stelle: esse mi hanno rivelato che non tutto è perduto. Il motivo per cui la cerimonia al Taj e il matrimonio dovevano svolgersi proprio in quel giorno è che due giorni fa ha avuto inizio una singolare congiunzione fra tre stelle, evento che accade una sola volta ogni mille anni. Ho scoperto che è la particolare energia di queste stelle che ha presieduto alla cerimonia della Rivelazione e che avrebbe dovuto benedire le vostre nozze. Ma quelle stelle sprigioneranno quella stessa energia ancora una volta, se quella sera, al tramonto, voi due sarete uniti in matrimonio sarà come se il rapimento non fosse mai avvenuto, come se tutto si fosse svolto due giorni fa.» quindi mi aveva guardato dritto negli occhi «Hai un anno, Cavan. Un anno per ritrovarla e riportarla al Forte Rosso, la sera del prossimo solstizio d’estate, al tramonto, dovrete essere uniti in matrimonio poiché quella sarà l’ultima notte dell’unione delle stelle, l’unico altro momento in cui verrà sprigionata la loro energia.» aveva concluso.

Mi aveva anche detto che dovevo mettermi sulle tracce dei rapitori al più presto, che non dovevo permettergli di restare stabili nello stesso posto troppo a lungo poiché gli avrei dato il tempo di segnare Marina.

«È una ragazza dallo spirito forte,» aveva detto «non riusciranno a corromperla facilmente: prima dovranno trovare il suo punto debole e per farlo, devono potersi fermare in uno stesso luogo abbastanza a lungo. Per ogni persona questo tempo è diverso, a seconda della sua forza d’animo può essere più o meno lungo, per Marina il tempo limite è una luna. Incalzali, non permettere che si fermino in uno stesso posto per tanto tempo o la sua anima sarà perduta.»

Se ne era andato senza dire altro, scomparendo senza che nessuno sapesse dire dove.

Il rumore di cavalli in avvicinamento mi distolse dai miei pensieri, facendomi tornare alla realtà. Mi sporsi dal parapetto e vidi giungere Tyler seguito da sei militari. Tre ore prima lui e il colonnello erano usciti con dodici uomini, decisi a battere la strada che lasciava Agra a est, poiché i cercatori di tracce la ritenevano la via di fuga più probabile. Evidentemente si erano separati, vidi Alex uscire dal palazzo e andargli incontro. Parlarono brevemente tra loro ed entrarono insieme. Impaziente di sapere mi affrettai a scendere.

Arrivato alle scale che portavano al pian terreno incontrai Alex.

«Ti cercavo,» disse «Luke è tornato e ci aspetta nel parco: ha delle novità.»

«Andiamo allora.»

Ci avviammo a passo svelto scendendo di sotto e uscendo nel parco. Trovammo Tyler vicino al lago insieme a Patal.

«Cosa è successo?» chiesi.

«Sono tornato a prendere Silam. Con il colonnello siamo arrivati al bivio a tre miglia dalla città e abbiamo deciso di separarci, poiché così facevano le tracce. Lui ha preso la strada che va a sud, dovrebbe raggiungere il primo villaggio tra un paio d’ore e sapere se con quel gruppo c’era Marina. A me restavano la strada verso est e quella verso nord ma su entrambe il primo villaggio si trova a un giorno di marcia, troppo tempo, e se sbagliamo potremmo perderla. Ho pensato che Silam potrebbe seguire le tracce della sua padrona.»

«È una buona idea.» commentai «Tu quale direzione ritieni più probabile?»

«Non so perché, ma credo che l’abbiano portata a nord.»

«Sì, lo penso anch’io…»

«Questo perché il Principe e il suo amico sono persone intelligenti.» disse una voce.

Ci voltammo e vedemmo a poca distanza un uomo vestito con una semplice casacca verde, seguito da Elisa e Rashid.

«Abu-ni!» esclamai.

«Altezza,» disse inchinandosi «perdonate il ritardo con cui mi presento a voi, ma quando Rashid mi ha spiegato quello che era accaduto ho creduto fosse meglio mettermi subito al lavoro. Così ho contattato alcuni amici di Agra che mi hanno riferito di un convoglio uscito dalla città la notte del rapimento. Ho seguito le tracce fino al bivio di cui parlava il capitano e ho notato una cosa interessante: fino al bivio hanno proceduto cavalcando senza alcun ordine ma, da quel punto in poi, si sono divisi in tre formazioni composte da due file appaiate e regolari, il che indica un addestramento militare, con due o tre cavalli al centro della formazione. Mi sono spinto prima a sud, per un miglio, cercando qualcosa che indicasse la presenza di una donna. Non trovando nulla sono tornato al bivio e ho provato con la strada a est e quindi con quella a nord. Avevo quasi percorso un miglio anche su questa, e pensavo di dovermi spingere oltre su tutte e tre, quando vidi qualcosa di insolito accanto alla fila di impronte a sinistra: una linea perfettamente dritta lunga due piedi che iniziava e finiva nelle impronte dei cavalli. Assalito da un dubbio ho controllato meglio il centro della formazione finché ho trovato conferma ai miei pensieri: semisepolta dagli zoccoli dei cavalli ho trovato l’impronta di un bue.»

«Un ruth!» esclamai eccitato.

«Che cosa è un ruth?» chiese Elisa.

«È un veicolo coperto a forma di cupola trainato da uno o più buoi, si usa per il trasporto delle donne.»

«Quindi Marina è nel convoglio diretto a nord.» disse Tyler.

«Non è detto, potrebbe esserci un ruth in ogni convoglio.» ragionò Elisa.

«Lo escludo, signorina.» disse Abu «Sapendo cosa cercare ho battuto nuovamente le altre due strade e posso garantirvi che non c’erano altri ruth.»

«Bene,» dissi «ora sappiamo dove sono diretti.» guardai il cielo «Partirò appena farà buio, loro certo non si aspetteranno di essere inseguiti così presto e, con un po’ di fortuna, potrò raggiungerli in un paio di giorni di viaggio.»

«Come sarebbe a dire partirò!» esclamò Tyler facendo un passo avanti «Tu non vai da nessuna parte senza di me, altezza.»

«Gradirei che ti rivolgessi a me con un po’ più di rispetto. Inoltre devo forse ricordarti che Marina è la mia futura sposa?»

«Hai detto bene: futura. Finché non sarete sposati non intendo cederti il diritto di curarti di lei. E sono titubante a lasciarla nelle tue mani anche dopo, a dire il vero.»

«Tyler!» ringhiai «Stai rischiando veramente grosso.»

«D’accordo, ragazzi, adesso basta!» intervenne Alexander «Non perdiamo di vista la realtà. Tutta questa aggressività va anche bene, ma vedete di indirizzarla verso i veri nemici.»

«Ho come la sensazione che sarà un viaggio movimentato.» commentò Patal.

«Già,» convenne Elisa «ma almeno non rischiamo di annoiarci.»

«Annoiarci?!» esclamò Alex «Sentimi bene, signorina: tu non ti muovi da qui, chiaro? Partiremo solo Cavan, Luke, Patal e io, tu rimarrai a tenere compagnia a tua madre e la aiuterai ad avvisare amici e parenti che il nostro matrimonio è stato rimandato a data da destinarsi: non credo che saremo di ritorno per dopodomani.»

«Questo è il meno: se non ritroviamo mia sorella sono senza damigella d’onore, quindi non mi posso sposare.»

«Stai parlando sul serio?» le chiesi.

«Certo: senza Marina non mi sposo, quindi» proseguì guardando Alex «caro il mio fidanzato, vedi di trovarla!» concluse.

«Gran bell’incentivo, non c’è che dire, milady.» commentò Tyler.

E, nonostante tutto, per la prima volta in quelle ore, sorridemmo.

Ognuno di noi aveva i propri preparativi da fare, ci lasciammo decisi a rincontrarci per definire i dettagli della partenza. Io fui l’ultimo a lasciare il parco e, prima di allontanarmi, guardai il padiglione in riva al lago. Quel luogo aveva fatto da cornice ai momenti più felici che potevo ricordare. Guardando la sua cupola splendente strinsi i pugni:

«Stiamo arrivando, Marina.» mormorai «Resisti…»

 

Calate le tenebre mi diressi alle scuderie situate lungo il muro del parco di fronte a quello con la porta nascosta. Fui raggiunto da Alex, Tyler e Patal, Abu-ni stava già sellando i cavalli. Ognuno di noi portava una doppia bisaccia da sella nella quale avevamo stipato ciò di cui avremmo potuto avere bisogno durante il viaggio. Tutti i preparativi si stavano svolgendo nel più assoluto silenzio, fasciammo gli zoccoli dei cavalli perché facessero meno rumore nell’attraversare la città addormentata. Abu aprì la porta che dava direttamente sulla strada esterna e, seguiti da Silam, cominciammo a uscire. Richiusa la porta ci avviammo nel più assoluto silenzio. Avevo la certezza che il palazzo fosse controllato da spie che osservavano ogni mio gesto: non dovevano sapere che ci stavamo muovendo. Impiegammo quella che parve un’eternità a raggiungere la periferia ma, quando fummo finalmente in campagna aperta, lanciammo i cavalli al galoppo.

Meno di venti minuti dopo però, diedi il segnale di fermare la corsa. Feci segno ai miei compagni di nascondersi in un folto d'alberi poco discosto dalla strada poiché mi pareva che qualcuno ci seguisse. Non ci volle molto perché il rumore degli zoccoli del cavallo inseguitore divenisse chiaramente distinguibile. Vedemmo giungere il cavaliere tra le ombre della notte e, quando fu vicino, a un mio segnale lo circondammo, bloccandolo.

«Elisa!» esclamò Alex riconoscendo la fidanzata abbigliata con uno dei completi a pantalone di Marina.

«Mi avete spaventata.» disse lei.

«Cosa fate qui, lady Elisa?» le chiese serio Patal.

«Non fare domande sciocche, non potevo restare a casa sapendovi in giro a cercare Marina. Voglio aiutarvi, so di potervi essere d’aiuto.» concluse guardandomi.

«Sarà pericoloso.» le dissi.

«Non mi importa.»

«A me sì, però.» riprese Alex «Devi tornare subito indietro, questo non è un compito adatto a una ragazzina.»

«Io non sono una ragazzina, sono una donna! Quanto a te non azzardarti a dirmi cosa devo o non devo fare, soldato, perché potrei decidere di congedarti. Definitivamente!»

Alexander si volse verso di me:

«Cavan, per favore, dille qualcosa tu.»

Guardai l’espressione decisa dipinta sui tratti di Elisa e capii che se anche le avessi detto di tornare, non avrebbe obbedito. Avrebbe potuto decidere di seguirci da lontano, giungendo a rappresentare un pericolo per sé stessa e per noi. Alla fine sospirai e decisi.

«Un volontario vale più di dieci forzati.» dissi citando un antico proverbio.

Elisa sorrise riconoscente ignorando l’occhiata esasperata che le lanciò Alex.

Riprendemmo la marcia e lei affiancò Nilak a Badal. Non sapevo che anche lei fosse capace di cavalcare con la sella da uomo, durante tutte le uscite l’avevo sempre vista all’amazzone. Fu una piacevole scoperta.

Procedevamo sempre in silenzio, a un certo punto Silam, che correva alla mia destra, si fermò e ruggì. Ci fermammo tutti e scoprimmo cosa accadeva: un altro cavallo ci stava seguendo. Attendemmo nuovamente, pronti ad affrontare l’eventuale pericolo, ma ciò che ci raggiunse non ne era fonte. Il cavallo era senza cavaliere e privo di finimenti, quando fu più vicino Badal nitrì riconoscendo il figlio: era Hira Kala.

«Come ha fatto a uscire?» mi chiesi a voce alta.

«Me ne ero dimenticata!» disse Elisa «Quando stavo per uscire dalle stalle, per la porta da cui siete usciti voi, lui si è liberato ed è scappato. Volevo dirtelo quando vi ho raggiunti, ma Alex me lo ha fatto passare di mente. Pensavo che avremmo potuto telegrafare al Raja per dirgli di cercarlo.»

«A quanto pare non servirà.» commentò Tyler.

Silam, intanto, si era avvicinato al cavallo e ora i due si stavano annusando muso contro muso.

«Cosa stanno facendo?» chiese Elisa.

«Credo che stiano comunicando, milady.»

«Credo che anche il cavallo voglia partecipare alle ricerche di Marina, sai altezza?»

«Tyler piantala di parlarmi così o, giuro, non arriverai a domani!»

«Si direbbe una minaccia seria, sicuro di avere il fegato per metterla in atto?»

Esasperato dal tono di quello che iniziavo a considerare un insulso damerino, feci l’atto di sguainare la spada, imitato da lui.

«Adesso basta!» esclamò Elisa «State esagerando. Un po’ di antagonismo va bene, ma quando è troppo è troppo. Smettetela di comportarvi come bambini litigiosi: Marina è in pericolo e dobbiamo trovarla al più presto, tutto il resto viene dopo, soprattutto il vostro infantile desiderio di prevalere sull’altro. Quando mia sorella sarà al sicuro vi farò prestare le pistole da duello di mio padre, se volete. Ma se Marina scopre come vi state comportando ho idea che le userà lei su di voi!» concluse.

Riconoscendo la fondatezza di quelle parole ci guardammo, riponendo le spade. Vedevo riflessa sul volto di Tyler la mia stessa vergogna.

Nonostante ci fosse chiaro quali fossero le priorità sembravamo incapaci di passare sopra alla nostra reciproca antipatia. I sentimenti che entrambi provavamo per Marina ci rendevano nemici, ma avrebbero anche potuto rappresentare in quella circostanza, una solida base per unire le nostre capacità e collaborare. Mi accorsi che anche lui era giunto alle medesime conclusioni e avvicinai il mio cavallo al suo.

«D’accordo,» dissi «mettiamo tutto da parte fino a quando Marina non sarà nuovamente con noi. Poi si vedrà.»

«Sia,» acconsentì annuendo lentamente «riporteremo Marina a casa e, chissà, potresti anche finire per diventarmi simpatico.» concluse con un mezzo sorriso.

«Che gli Dei me ne scampino.» risposi restituendoglielo.

«E ci voleva tanto!» esclamò Elisa.

«Bene, direi che abbiamo perso già abbastanza tempo. Voi cosa ne pensate?»

«Hai ragione, Alex, muoviamoci. Abu, un miglio avanti c’è un bivio: precedici e vedi dove vanno le tracce.»

«Come desiderate, Altezza.» disse spronando il cavallo.

«Vado con lui: in due batteremo più terreno e risparmieremo tempo.» aggiunse Patal muovendosi.

«D’accordo, procederemo in formazione serrata: Abu e Patal davanti scoveranno le tracce, seguirò io con Silam, quindi Elisa affiancata da Alexander e infine Tyler chiuderà la formazione, coprendoci le spalle. Hira Kala ci seguirà libero di muoversi.»

«Accidenti, altezza, ci sai fare con gli ordini!»

Reprimendo un moto di stizza mi volsi verso Tyler.

«Fammi un favore: chiamami semplicemente Cavan, va bene? Così eviteremo almeno un motivo di attrito.»

«Ma certo, Cavan, hai solo da chiedere. Dopo tutto sono un tipo accomodante.» disse facendo sghignazzare Elisa e Alex.

Sospirai scuotendo la testa e, voltato Badal, ci rimettemmo in marcia.

 

 

*****

 

 

Fruscii ovattati e rumori lontani mi fecero lentamente affiorare da quel dolce e caldo mare che è il sonno. Lentamente tornai alla coscienza, avvertendo sul volto l’aria fredda tipica delle mattine tardo invernali. Senza aprire gli occhi mi raggomitolai nella calda coperta che mi avvolgeva, ripensando allo strano sogno che avevo fatto.

Avevo sognato di essere partita per l’India con la mia famiglia e lì avevo incontrato quel giovane conosciuto alla festa, solo che era un principe indiano e ci stavamo per sposare. Anche Elisa si era fidanzata, con un militare. Strano sogno davvero…

Immaginai l’espressione di mia sorella quando glielo avessi raccontato e sorrisi. Decisa a svegliarmi aprii lentamente gli occhi, ma li richiusi subito ferita dalla luce proveniente dalla finestra. Misi interiormente a fuoco l’immagine rimastami da quella breve occhiata riconoscendo il soffice e candido cuscino che copriva il davanzale: la neve. Doveva aver nevicato durante la notte.

Poi un’altra immagine si focalizzò facendomi spalancare gli occhi: fuori dalla mia finestra erano chiaramente visibili le vette imbiancate di alte montagne.

Mi misi a sedere stringendomi la coperta al petto e osservai la stanza: ero seduta su un morbido materasso posato su un semplice letto fatto di legno e corda, il pavimento di terra battuta era coperto da stuoie pulite, in un angolo stavano una sedia e un tavolino, su cui era posata una lampada a olio, e un baule era posto sotto alla finestra. Ai miei lati si trovavano due porte: quella di destra era chiusa mentre l’altra era solo accostata.

Mi appoggiai al muro alle mie spalle, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. Ciò che ritenevo frutto dei miei sogni era la realtà, rammentai lentamente tutto ciò che era successo negli ultimi mesi fino alla sera del matrimonio. Mi accorsi allora che anche il mio abbigliamento era diverso: indossavo un caldo completo a pantaloni di cashmir, simile a quelli che indossavo per cavalcare, e non portavo gioielli tranne la fascia d’oro, con impresso il mio stemma, al medio destro.

Ricordai infine l’arrivo degli uomini a cavallo e il mio rapimento fino a rivedere l’ultima immagine impressa nella mia memoria: il corpo immobile di Cavan steso a terra, esanime. Repressi un gemito premendo una mano stretta a pugno sulla bocca e scacciai le lacrime che mi avevano annebbiato la vista.

Era vivo, mi ripetei, doveva esserlo perché altrimenti lo avrei saputo, lo avrei sentito.

Lentamente mi alzai ed esplorai la stanza, provai ad aprire quella che doveva essere la porta d’uscita ma, ovviamente, era chiusa a chiave. Aprii invece l’altra e scoprii una piccola toelette molto pulita. C’era anche uno specchio e guardando il mio riflesso mi accorsi di quanto fossi pallida e di quanto fosse visibile la mia paura. Mi sforzai di nasconderla e di apparire calma: non avrei dato ai miei rapitori la soddisfazione di vedermi spaventata. Chiunque fossero li avrei affrontati e, in qualche modo, avrei trovato una via di scampo.

Appena ebbi preso questa decisione mi sentii meglio, ero pur sempre figlia di un guerriero ed ero stata cresciuta da uno dei più grandi strateghi di tutto l’impero inglese: se quegli uomini pensavano di avere a che fare con una ragazzina svenevole e senza spina dorsale avrebbero avuto una sorpresa!

Tornai nella camera decisa a scoprire dove ero e chi erano i miei carcerieri. Ora più arrabbiata che impaurita, mi avvicinai alla porta d’uscita e bussai con mano ferma.

«Esigo che apriate questa porta e mi diciate chi siete. Immediatamente!» esclamai.

Feci un passo indietro e attesi.

Non passò molto che la porta si aprì, davanti a me comparvero tre uomini armati e una ragazzina di dieci, forse undici anni. Si inchinarono e la bambina fece un passo avanti.

«Il mio nome è Kai, principessa, sono la vostra cameriera. Qualunque cosa desideriate io ve la procurerò.» disse inchinandosi.

«L’unica cosa che desidero è sapere dove mi trovo, chi siete voi e perché sono stata rapita.»

«Io non posso darvi le risposte, ma il nostro Signore vi aspetta: egli vi spiegherà tutto.» concluse.

Fece un passo di lato e mi indicò di uscire.

I tre uomini armati mi circondarono ma si tennero a rispettosa distanza. Fatti pochi passi mi fermai e osservai ciò che mi circondava: una sottile coltre di neve copriva il terreno, le montagne che già avevo visto dalla finestra circondavano il piccolo villaggio in cui mi trovavo. Il cielo era blu carico e privo di nubi, boschi di conifere coprivano i fianchi dei monti fin dove iniziava la roccia. Un torrente semi ghiacciato scorreva appena fuori dal villaggio e una fontana di legno gorgogliava a pochi passi da me.

Mi voltai a vedere la casa da cui ero uscita e mi accorsi che era composta solo dalla stanza che avevo occupato e dal bagno. Non riuscii a orientarmi, ma dalle dimensioni dei monti che mi circondavano, intuii che dovevo trovarmi sull’Himalaya. La cameriera richiamò la mia attenzione e mi fece cenno di seguirla. Ripresi a camminare sempre guardandomi intorno, ero decisa a memorizzare la posizione di ogni edificio e di ogni guardia per vagliare ogni possibilità di fuga. Dopo pochi istanti giungemmo dinanzi a una casa più grande delle altre. La ragazzina aprì la porta e mi fece entrare, richiudendola poi dietro di me. La stanza in cui mi trovavo sembrava un salotto, era arredata con sobria eleganza. Su un mobile era posata una statua attorno alla quale ardevano candele e bastoncini d’incenso. Era certamente una qualche divinità ma non riuscii a identificarla. Mi avvicinai e la osservai meglio: era la statua di una donna a cavallo di una tigre, aveva otto braccia, ognuna delle quali reggeva un’arma diversa. L’espressione era di una ferocia inaudita, l’artista era stato molto abile nel cesellarla. Guardando quell’immagine un brivido mi corse lungo la schiena e mi allontanai un poco. Ripresi a osservare la stanza chiedendomi chi la occupasse.

Un lieve rumore alle mie spalle mi fece voltare. Un uomo, poco più che trentenne, stava ritto accanto alla statua della Dea. Era alto, aveva un volto duro i cui lineamenti sembravano scolpiti nella pietra, ma era anche molto affascinante. Nei gelidi occhi scuri brillavano acume e intelligenza e da tutta la sua persona si irradiava un’aura di potere. Lo osservai a lungo imprimendo ogni dettaglio nella mia memoria: quello era il capo, colui che aveva ordinato il mio rapimento.

«Io vi conosco.» dissi alla fine.

Sorrise «Sono onorato che vi ricordiate di me.»

«Ma non ricordo dove vi ho incontrato.» risposi.

«Bombay.» disse semplicemente.

La mia mente tornò indietro nei ricordi fino alla sera del ricevimento alla residenza, e rammentai.

«Voi mi raccontaste la storia dei templi di Madras.»

«Avete un’ottima memoria, Altezza.»

«Chi è?» chiesi indicando la statua.

«È la nostra madre, colei che ci protegge e ci guida. Colei da cui tutto ha avuto inizio e avrà fine. È la grande e sacra Durga, la Signora delle Devi Nere.»

«Durga?» chiesi incuriosita.

Ero certa di non averla mai sentita nominare.

Mi avvicinai alla statua e allungai una mano, ma prima che potessi toccarla, il mio carceriere mi prese delicatamente il polso e allontanò la mia mano.

«Vorrei pregarvi di non toccare la statua della Dea, almeno per il momento: non ne siete ancora degna. E, per favore, evitate anche di pronunciare il suo nome. Solo temporaneamente: un giorno, spero presto, quando ella vi accoglierà quale figlia, questo divieto non esisterà più.»

Irritata dal suo tono feci nuovamente il gesto di toccare la statua.

«Altezza,» disse bloccandomi «nessuno tra noi vi farà del male, ma in cambio voi dovrete attenervi ad alcune semplici regole, in caso contrario il vostro soggiorno presso di noi potrebbe risultarvi, come dire, sgradevole.»

«Non preoccupatevi per questo, signore, per quanto mi riguarda lo trovo già insopportabile.» risposi guardandolo dritto negli occhi «Vorrei alcune risposte, ora.»

«Chiedete, Altezza.» disse per nulla turbato dal mio tono.

«Chi siete voi? Perché sono stata rapita? Dove ci troviamo? E dove sono il mio sari e i gioielli?»

«Io sono il Signore dei figli di Durga, il Prediletto, quale sia il mio nome non ha alcuna importanza. Vi trovate in un piccolo villaggio sulle pendici dell’Himalaya, in Kashmir. Per quanto riguarda il vostro sari da sposa e i gioielli sono stati inviati a vostro nonno come messaggio: saprà così che state bene. In quanto al motivo della vostra presenza tra noi è presto detto: siete qui per diventare una di noi, per diventare una figlia di Durga, cosicché quando tornerete dal vostro sposo sarete pronta a servire i nostri scopi, ci aiuterete a ottenere il dominio di queste terre, che ci spetta di diritto in quanto figli della grande madre Durga.»

Finito che ebbe il suo esaltato monologo scoppiò a ridere.

Lo guardai in preda all’orrore: quell’uomo era pazzo, pazzo e pericoloso. Egli batté le mani e la porta si aprì, uscii nella luce del sole e mi allontanai da quella casa seguita da Kai e dalle guardie. Mi fermai presso la fontana e mi rinfrescai il volto con la sua acqua gelida. Respirai profondamente guardandomi intorno poi, colpita da un pensiero improvviso, mi voltai verso la cameriera.

«Che giorno è oggi?» chiesi.

«Non capisco, Altezza.»

«Quanto tempo è passato dalla sera in cui sono stata presa, dal solstizio d’estate?»

«Oggi è il decimo giorno.»

«Dieci giorni.» mormorai rientrando nella casa destinatami «Sono già passati dieci giorni.»

Mi sedetti sul letto, guardando la porta chiudersi e comprendesi che ero stata vittima di un sonno innaturale, un sonno indotto dalle droghe che mi aveva fatto perdere dieci giorni di vita, che mi aveva impedito di cercare una via di fuga. Che mi aveva strappata al mio sposo, all’uomo che amavo…

«Cavan…» mormorai prendendomi il volto tra le mani «Ti prego, vieni a prendermi, Cavan.»

 

 

*****

 

 

Il lieve crepitio del fuoco del bivacco sembrava essere l’unico rumore esistente al mondo. L’aria della notte accarezzava il mio viso con dita fredde. I miei compagni dormivano avvolti nei mantelli per proteggersi dall’aria montana: avevamo seguito le tracce per giorni e queste ci avevano portato alle pendici dell’Himalaya. Non credevo che coloro che inseguivamo potessero spingersi così a nord e mi chiedevo quanto avanti potessero andare. Le tracce che avevamo seguito si facevano più fresche via via che guadagnavamo terreno. In un villaggio incontrato durante il primo giorno di marcia avevamo scoperto che le nostre prede avevano sostituito, al traino del ruth, un cavallo al bue in modo da poter viaggiare più in fretta. Avevano guadagnato strada e noi avevamo serrato il passo in modo che non ci staccassero più di quello che era già il loro vantaggio.

Silam si avvicinò accucciandosi e appoggiò il muso vicino alla mia mano. Era stanco perfino lui, avevamo dovuto ridurre al minimo le soste, chiedendo ai cavalli di reggere un ritmo sfiancante, e ora eravamo tutti sfiniti. Avevo decretato una notte intera di riposo, invece delle solite quattro ore, le tracce erano solo della mattina quindi avevamo buone possibilità di raggiungerli l’indomani: dovevamo essere lucidi.

Domani. Sarebbe stato il decimo giorno da che Marina era stata rapita, dieci giorni di preoccupazione e angoscia. Dieci giorni di solitudine. Nonostante la presenza dei miei compagni la solitudine mi attanagliava senza darmi tregua. Mi chiesi per l’ennesima volta dove volessero andare e per l’ennesima volta pregai che si fermassero.

Elisa si agitò nel sonno facendo alzare la tigre e strappandomi alle mie riflessioni. Era stata molto coraggiosa nei giorni passati, aveva retto il ritmo di quella marcia forzata senza mai lamentarsi o chiedere attenzioni particolari e il mio rispetto per lei cresceva sempre di più.

Tornai a fissare le fiamme: rosso e oro. Decine di immagini di Marina mi inondarono la mente e il cuore: il ballo in Inghilterra, la festa di primavera, i momenti di pace su una lontana terrazza, il suo volto ridente in una sala illuminata… Non riuscivo a fermare quel caleidoscopio di ricordi e, presomi la testa tra le mani, gemetti piano.

«Dovresti smettere di pensarci.» disse Tyler sedendosi accanto a me.

«Tu ci riesci?»

«No, ma è sempre un buon consiglio, non credi?»

«Già… Se ciò che sostiene Abu è esatto li raggiungeremo domani, dovremo essere pronti a combattere.»

«Lo siamo, Cavan, lo siamo. Perfino lei lo è.» disse indicando Elisa.

«Riflettevo poco fa sul coraggio che sta dimostrando.»

«Ne sei stupito?»

«Molto. Perché, tu no?»

Rimase un po’ in silenzio riflettendo.

«Sì, anche io, ma non più di tanto. Lei e Marina si somigliano molto, anche per questo l’inganno ha retto tutti questi anni.»

«Pensi che anche Marina riuscirà ad affrontare tutto questo con coraggio?»

«Ne sono convinto. Ti ho già raccontato della prima volta che la incontrai, no?»

«Non credo che affrontare un fruttivendolo sia la stessa cosa che affrontare un sequestro.»

«Dipende dai punti di vista…»

Cadde nuovamente il silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri rimanemmo lì a osservare le fiamme del bivacco aspettando l’alba.

 

 

*****

 

 

Seduta al tavolo nella mia stanza mangiavo controvoglia la frutta e lo yogurt che mi aveva portato Kai. Dopo l’incontro di quella mattina con il capo di quella gente ero più che mai decisa a fuggire, ma per farlo, dovevo mantenermi in forze. Avevo trascorso la mattina perlustrando la stanza e il bagno alla ricerca di qualche oggetto che potesse essermi utile per fuggire. Ero riuscita a togliere, da un’asse sconnessa, due chiodi che avrei potuto usare per forzare la porta. Tre anni prima Elisa rimase accidentalmente chiusa in una cantina senza possibilità di uscita. La trovammo quattro ore dopo e Patal, per impedire che accadesse di nuovo, ci insegnò a usare chiodi e forcine per capelli per forzare le serrature. In quel momento lo ringraziai mentalmente per quella scuola. Avevo avvolto i due chiodi in un pezzetto di stoffa nascondendoli nella fusciacca che mi stringeva i fianchi. Avevo sperato anche di trovare qualcosa da usare come arma ma non avevo trovato nulla. Finii il pasto e mi avvicinai alla finestra, dovevo ammettere che la vista era veramente bella e in condizioni diverse quel posto mi sarebbe sembrato un paradiso, ma ora mi guardai intorno cercando di decidere quale fosse la via di fuga migliore.

Kai venne a ritirare il vassoio del pranzo e mi disse che il suo signore mi attendeva. Trattenendo un sospiro la seguii.

«Buon pomeriggio, Altezza.» disse lui raggiungendomi.

«Cosa succede?» chiesi ignorando il saluto.

«Vi ho chiamata perché voglio presentarvi una persona: sarà lui a occuparsi di voi in mia vece.»

Ciò detto batte le mani e un giovane ben vestito si avvicinò e si inchinò, quando si fu rialzato lo guardai in volto e spalancai gli occhi.

«Parmar!» esclamai sconvolta.

«Proprio io, Principessa.»

Ero talmente scioccata che non mi accorsi neppure che il capo di quella gente ci aveva lasciati soli.

«Com'è possibile?» chiesi «Tu e Cavan siete amici fin dall’infanzia! Come puoi essere uno di questi… fanatici!»

«Io sono nato tra questa gente e furono proprio loro a mettermi accanto a Cavan facendo di me il suo migliore amico, il suo Custode. Mi dispiace, sapete, averlo tradito poiché gli sono sinceramente affezionato, ma come ho detto anche a lui quando gli ho impedito di salvarvi, la fedeltà verso il mio popolo viene prima di tutto.»

«Sei stato tu! Tu lo hai colpito quando si slanciò verso di me!»

«Sì, sono stato io. Ma non dovete preoccuparvi: si è già ripreso dal colpo.»

Sentii le ginocchia cedermi e mi sedetti. Sollievo e sconforto turbinavano nel mio cuore e nella mia mente.

«Perché?» chiesi guardandolo.

«È il volere della nostra Madre.»

«Davvero? Ne sei certo? Non ti ha mai sfiorato il dubbio che questo sia, invece, il volere del vostro signore per appagare la sua sete di potere? Che forse sta solo usando la vostra fede cieca per i suoi scopi personali?»

Mi guardò pensieroso per un momento, poi scosse la testa.

«No, non mi è mai successo.»

«Allora forse non sei intelligente quanto credevo.» dissi piano distogliendo lo sguardo.

Rimase in silenzio qualche istante, poi si avvicinò e mi si inginocchiò davanti guardandomi.

«Ora capisco cosa Cavan abbia visto in te.» lo guardai, stupita dal tono dolce «In un primo momento avevo pensato che fosse attratto dalla tua bellezza, ma dovevo immaginare che non fosse solo questo, non per lui. È il tuo fuoco che lo ha fatto innamorare, la tua vitalità e il tuo coraggio. Spero davvero che il nostro signore riesca a piegare la tua anima senza spezzare il tuo spirito. Sarebbe un peccato, davvero…»

Non risposi. Parmar si alzò e mi aiutò a fare altrettanto quindi mi guidò fuori e mi riaccompagnò al mio alloggio.

Passai il resto del pomeriggio cercando di escogitare il modo per fuggire senza però fare molti progressi. Il non sapere con esattezza dove mi trovassi mi frenava: non sapevo infatti a che distanza si trovava il villaggio più vicino, ma soprattutto se potevo fidarmi degli abitanti. Tornò Kai con il vassoio della cena e mi riscossi dai miei pensieri: il sole era ancora alto e non mi ero accorta che fosse così tardi. Appoggiò il vassoio sul tavolo e uscì. Sentii delle voci bisbigliare fuori dalla mia porta e, senza far rumore, mi avvicinai appoggiando l’orecchio alla toppa della serratura per ascoltare. Due uomini stavano parlando con Kai, uno era Parmar l’altro non lo conoscevo.

«Ne siete certo?» disse l’uomo.

«Sì, il nostro contatto a valle ci ha inviato un messaggio.» rispose Parmar «Era senza dubbio il Principe Cavan e non era solo. Con lui viaggiano due inglesi, il capo delle guardie della Principessa, uno sconosciuto e, a quanto pare, una giovane donna.»

«Una donna?» chiese stupito l’uomo.

«Sì, probabilmente è la figlia dell’inglese. Sembra che ci sia anche quella maledetta tigre.»

«Quando ci muoviamo?» chiese Kai.

«Tra un’ora. Fa preparare il ruth, ma che installino le aste lunghe: attaccheremo i cavalli.»

Sentii i passi della ragazzina allontanarsi poi la conversazione riprese, sempre a voce bassa.

«Dove ci dirigeremo?»

«Prima Keylong, poi scenderemo fino a Simla.»

«Himachal Pradesh quindi. Sarà un viaggio faticoso. Vado a dare disposizioni agli uomini.»

Mi allontanai svelta dalla porta, tornando a sedere accanto al tavolo subito prima che la porta si aprisse, entrò Parmar e si avvicinò.

«Tra un’ora partiamo.» disse.

«Perché?»

«Ordini del nostro Signore. Ti conviene cenare, non è piacevole viaggiare a digiuno.» concluse allontanandosi e richiudendo la porta.

Attesi qualche istante per essere certa che si fosse allontanato, quindi estrassi uno dei chiodi dall’involto nella fusciacca e mi sedetti sotto il tavolo. Il legno era abbastanza morbido così riuscii a incidere i nomi delle due città senza troppo sforzo. Scrissi il nome della prima quindi disegnai una piccola freccia verso la seconda. Quando ebbi finito nascosi il chiodo e mi misi a mangiare. Speravo che Cavan trovasse il messaggio ma non avevo il coraggio di lasciare altre indicazioni in posti più evidenti. Ripensai a quello che aveva detto Parmar e sospirai fiduciosa: se Elisa era davvero con loro l’avrebbero trovato. Lei e io ragionavamo alla stessa maniera, lei lo avrebbe trovato.

Dovevano trovarlo!

 

 

*****

 

 

Le prime luci dell’alba rischiaravano le cime dei monti mentre finivamo di sellare i cavalli. Per quella particolare tappa avevamo cambiato disposizione per la marcia: davanti io e Patal con Silam, poi Alex e Tyler quindi Abu affiancato da Elisa. Tyler definì quella disposizione “configurazione d’attacco” e una volta tanto la sua definizione mi piacque. Partimmo tenendoci rasenti alla vegetazione per rendere più difficile alle nostre prede individuarci e mantenemmo lo stesso ritmo serrato dei due giorni precedenti. In un’occasione facemmo una deviazione per evitare un centro abitato, certi che nascondesse almeno una spia. Dall’alto osservammo un poco il villaggio per assicurarci che non fossero lì, poi proseguimmo.

Riguadagnata la strada ritrovammo le tracce e riprendemmo la corsa. A tratti, seminascosto dal bosco che affiancava la strada sui due lati, intravedevo Hira Kala che aveva scelto un percorso alternativo, più coperto. Quel cavallo era stupefacente, nella notte ci aveva raggiunti e si era sdraiato sul prato poco lontano dal fuoco a riposare, ma quando si era accorto che non dormivo mi si era avvicinato e si era accovacciato alle mie spalle facendomi da poggia schiena, quasi a volermi confortare con la sua presenza.

Riportai la mia attenzione al presente e mi concentrai sulle tracce, individuando di quando in quando una linea dritta indicante il ruth. Verso le dodici ci fermammo per fare riposare i cavalli e mangiare qualche provvista, Silam si allontanò qualche minuto per tornare con una lepre tra le fauci e, tutto soddisfatto, si acciambellò ai miei piedi a consumare il pasto. Sorrisi grattandogli un orecchio, notai che Elisa aveva arricciato il naso e la guardai sollevando interrogativamente un sopracciglio.

«Non lo aveva mai fatto.» disse.

«È più probabile che tu non te ne sia mai accorta perché non si è mai fatto vedere, ma l’istinto del predatore è da sempre dentro di lui. Ed è quello che gli ha insegnato a cacciare.»

Annuì «Bisognerebbe chiedere a Marina se lo aveva già fatto, dopo tutto è a lei che Silam porterebbe i suoi regali.» concluse rabbuiandosi.

«Glielo potrai chiedere al più presto.»

Mi guardò e sorrise lievemente.

Rimanemmo fermi circa un’ora, poi rimontammo in sella. Le tracce diventavano più nitide via via che ci avvicinavamo alla nostra meta, dandoci speranza e forza per mantenere il ritmo. Superammo con una deviazione un altro villaggio per poi inerpicarci per una salita piuttosto ripida che si arrampicava sul fianco di un alto monte. Nella salita rallentammo un po’ l’andatura per non sfiancare i cavalli e facemmo un’altra breve sosta dopo aver superato il pezzo di strada più ripido.

Era il tramonto quando, superato un dosso, sbucammo improvvisamente in una piccola valle dove sorgeva un villaggio di poche case. Era circondato da boschi e le tracce dei cavalli si disperdevano tutt’intorno rendendo chiaramente visibili i segni delle ruote del ruth. Ormai pronti a tutto piombammo sul villaggio con le armi in pugno, ma arrivati in mezzo alle case, ci fermammo: non c’era anima viva. Smontai da cavallo imitato dai miei compagni e osservai il terreno insieme a Patal, mentre Abu faceva il giro della valle. Mi guardai intorno oppresso dal senso di perdita: non c’erano più, erano stati lì ma se ne erano andati. Vidi Silam entrare in una delle case più piccole e lo seguii, la stanza era spoglia ma pulita, la tigre si avvicinò al letto e appoggiò il muso sulle coperte con un miagolio. Mi avvicinai anch’io e presi in mano il cuscino dal quale si sprigionava un lieve sentore di fresia e caprifoglio: Marina. Era stata lì, in quella stanza, aveva dormito in quel letto.

Entrò Elisa e si guardò intorno cercando qualche segno della presenza della sorella, posò una mano sulle ceneri del braciere.

« È ancora tiepido.»

«Sono partiti da un’ora, forse due…»

Incapace di trattenere la rabbia presi il piccolo tavolo e lo scaraventai contro il muro con un grido infuriato. Elisa mi venne accanto e mi posò una mano sul braccio.

«Non hanno molto vantaggio, possiamo inseguirli.»

Scossi la testa «I cavalli sono troppo stanchi. Maledizione! Più in alto la strada diventa rocciosa e non lasceranno più tracce visibili. A poco più di un miglio la strada si divide in quattro.» mi lasciai scivolare a sedere a terra «Li abbiamo persi…»

«Ti arrendi?»

«Questo mai! Ma dobbiamo tornare a Jaipur: la mia rete di spie è stata allertata, forse loro potranno scoprire dove si sono diretti.»

«Perderemo molto tempo…»

Rimanemmo in silenzio mentre lei si guardava in giro. A un certo punto la vidi irrigidirsi e avvicinarsi al tavolo rovesciato.

«Cavan, guarda! Marina ha lasciato un messaggio!»

Ci avvicinammo scoprendo i nomi delle due città incisi nel legno.

«Sei sicura che l’abbia scritto lei?»

«Sì. Vedi questo simbolo accanto alla freccia?»

«Quella specie di occhio?»

«Sì, è un simbolo che usavano gli antichi egizi. Una volta lo vedemmo su un libro e decidemmo di farne il nostro “codice segreto”: quando dovevamo dirci qualcosa lo disegnavamo su una cosa qualunque dell’altra per chiamarla senza che gli altri lo sapessero. Non lo usiamo più da anni ma ora torna utile: servirà ad autenticare i messaggi!»

«Bene! La seconda meta è Simla, loro hanno preso la strada a monte ma noi possiamo precederli: c’è una stradina percorribile solo a cavallo che parte un po’ prima del primo villaggio che abbiamo superato questa mattina. Dovremo tornare indietro un bel pezzo ma, imboccandola, arriveremo a Simla contemporaneamente a loro!»

Uscimmo dalla casa e, raggiunti gli altri, li mettemmo a parte del nostro piano. Decidemmo di partire il mattino seguente ed essendo quello un posto sicuro ci apprestammo ad accamparci per la notte. Elisa si sistemò nella stanza precedentemente occupata dalla sorella mentre noi ci sistemammo fuori dalla sua porta: nessuno di noi voleva passare la notte in uno dei letti di quei bastardi.

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Capitolo 23
*** Capitolo XXI ***


 

Capitolo XXI

 

 

Keylong era una piccola cittadina del nord. Le strade di terra battuta erano abbastanza larghe da permettere l’incrociarsi di due carri. Le case di legno scolpito non superavano i due piani e spesso la parte più bassa dei muri era di argilla pressata dipinta di bianco o di pietre e mattoni a secco. I balconi lignei avevano le balaustre scolpite o intagliate, dipinte a colori vivaci come gli abiti degli abitanti. Spiavo tutto questo tra le tende e le persiane del ruth. L’aria pungente della mattina filtrava tra le fessure portandomi i profumi della terra e del mercato.

Avevamo viaggiato tutta la notte, riducendo al minimo le fermate e io avevo passato il tempo pensando a coloro che avevano tentato di raggiungermi, pregando perché avessero trovato il mio messaggio. Ma col passare delle ore la speranza si era fatta più effimera: se davvero avevamo poco vantaggio perché non ci avevano raggiunti? Ma poi desideravo davvero che ci raggiungessero? Loro erano in cinque, sei contando Elisa, mentre la mia scorta era costituita da una ventina di uomini, certo Silam era con loro, ma quante possibilità avevano di liberarmi?

Accantonai quei pensieri quando mi accorsi che ci stavamo fermando. La porta del ruth si aprì e Parmar, che aveva cavalcato accanto al mezzo per tutto il viaggio, mi aiutò a scendere. Eravamo nel cortile interno di una grande casa, Kai e i tre uomini che già mi sorvegliavano nel villaggio, mi accompagnarono all’interno fino a un’ampia camera al primo piano arredata con semplicità. Mi avvicinai alla finestra osservando quello che accadeva nel cortile e notai che tutti gli uomini si stavano preoccupando di rifocillare e far riposare i cavalli. Era evidente che non ci saremmo fermati a lungo, giusto il tempo di riprenderci dalla notte insonne e dal viaggio.

Parmar entrò nella stanza dopo aver bussato e, guardatosi in giro, mi raggiunse accanto alla finestra. Mi scostai.

«La vista non è gran che, lo ammetto.» disse.

«Dove ci troviamo?» chiesi pur sapendolo.

«In una piccola città del nord di nome Keylong. Ma non ci fermeremo molto quindi vi consiglio di riposare: sarete stanca anche voi. Più tardi Kai vi porterà qualcosa da mangiare, ripartiremo nel primo pomeriggio.»

«Per dove?»

«Non sono così ingenuo, principessa. Non voglio darvi modo di escogitare qualche assurdo piano di fuga dicendovi dove stiamo andando. Sarebbe comunque solo una perdita di tempo.»

«Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo da perdere.» mormorai sedendomi al tavolo.

Lui si limitò a sorridere e se ne andò. Sospirai avvicinandomi al letto e mi lasciai cadere sul materasso, cercando di non preoccuparmi, dopo tutto poteva darsi che Cavan e gli altri fossero poco dietro di noi, magari non ci avevano ancora raggiunti volutamente, perché si erano accorti della disparità numerica.

Stavano solo aspettando il momento più propizio, mi dissi. E, con questo pensiero confortante stretto al mio cuore, mi addormentai.

 

 

*****

 

 

Stavamo cavalcando dalle prime luci dell’alba. Avevamo preso la scorciatoia per Simla ore prima e non ci eravamo ancora fermati, anche se mantenevamo un ritmo rilassato per non stancare i cavalli. Stavamo procedendo al passo da quasi un’ora su un tratto particolarmente irregolare del sentiero masticando un po’ di carne secca, parte delle nostre provviste. Avevo percorso altre volte quella strada durante le battute di caccia e sapevo che mantenendo un’andatura sostenuta dove il terreno lo permetteva, avremmo raggiunto un buon posto dove accamparci poco dopo il tramonto. Ripartendo poi all’alba saremmo arrivati a Simla il pomeriggio seguente e avremmo avuto modo di trovare i nostri nemici, piombare sul loro rifugio e riprenderci Marina.

Pregavo perché fosse così. C’eravamo arrivati così vicini, il giorno prima, che avevamo quasi potuto sfiorarla. Ci erano sfuggiti per un soffio e, questa, era la cosa più dolorosa: arrivare in ritardo di pochi minuti. Dolore e rabbia: sembrava che il mio mondo si fosse ridotto a quelle due parole, a quei due sentimenti terribili e oscuri. Nel mio essere più profondo andava accendendosi una sete di sangue che non avevo mai provato, desideravo trovare i responsabili del dolore di Marina, dell’angoscia dei suoi genitori e di sua sorella, e distruggerli. Ucciderli uno per uno con le mie mani.

Non ero mai stato un tipo vendicativo, finora. Ma, quegli uomini, se così si potevano definire, avevano passato ogni limite. Avevano osato alzare le mani sulla mia piccola perla. Sulla mia sposa. Nulla li avrebbe salvati. Li avrei trovati e distrutti, anche se mi ci fosse voluta tutta la vita, dovevano pagare caro per ciò che avevano fatto a coloro a cui ero legato e, soprattutto, a colei che amavo.

Elisa aveva intuito questi miei pensieri. Con quella sua sensibilità così simile a quella della sorella, mi aveva guardato negli occhi e aveva letto nella mia mente, nella mia anima. Sapevo di averla spaventata, ma non potevo farci nulla. A ogni metro percorso mi sentivo sempre più simile a Silam: una tigre che ha fiutato le tracce della sua preda e che non troverà pace finché non avrà concluso con successo la caccia.

 

 

*****

 

 

Giungemmo a Simla sei ore dopo l’alba, dopo aver viaggiato tutto il pomeriggio precedente e tutta la notte e ci sistemammo in una grande casa di pietra e legno circondata da un vasto prato e da boschi di conifere, a circa un miglio dalla città.

La voce profonda e a tratti esaltata del “Prediletto”, come amava farsi chiamare, risuonava inascoltata nella stanza. Era entrato poco dopo che Kai aveva portato via il vassoio del pranzo e aveva iniziato a parlare della sua “missione”: un lungo monologo volto a farmi comprendere la grandiosità del progetto e della Dea che lo aveva ispirato. Io lo avevo ascoltato solo per i primi tre minuti, quindi mi ero resa conto della follia mistica ed esaltata che pervadeva quell’uomo: era davvero convinto di avere diritto al dominio sull’India e che io dovevo sottomettermi a quell’idea e aiutarlo a realizzarla.

Ero tentata di rispondergli, esponendo il mio sincero punto di vista, ma preferii restare in silenzio fingendomi interessata o comunque mansueta. Ma il mio pensiero correva di continuo verso coloro che mi stavano cercando, verso uno in particolare.

Cavan. Il solo pensiero che lui stesse affrontando pericoli e disagi per me, per salvarmi, mi riempiva di amore, di gioia e nello stesso tempo di ansia. Avevo fiducia in lui e negli altri amici che lo accompagnavano, così lasciavo passare il tempo in silenzio con la certezza che ogni momento che passava li avvicinava a me.

Le mie riflessioni furono bruscamente interrotte dall’entrata di Parmar che si inchinò al Prediletto e gli chiese di potergli parlare in privato. Uscirono in corridoio chiudendo la porta e io mi accostai subito per cercare di sentire quello che dicevano. Cosa resa relativamente semplice dal fatto che non tenevano la voce molto bassa.

«Sono qui!» disse agitato Parmar.

«Chi?»

«Il principe Cavan e il suo seguito. Sono a sei miglia dalla città: arriveranno tra venti minuti, mezz’ora al massimo.»

«Com’è possibile? Non ci hanno seguiti sulla strada che abbiamo preso, lo avremmo saputo molto prima. Come sapevano di dover venire qui?»

«Non lo so, mio signore. Forse è solo un caso, ma a ogni modo appena giunti in città scopriranno dove siamo. Bisogna portar via la Principessa prima che la trovino. Vi chiedo perdono, avrei dovuto immaginare che Cavan avrebbe puntato su Simla, sono quello che lo conosce meglio: dovevo capirlo.»

«Sì, avresti dovuto. Ma non c’è tempo per recriminare: fa preparare i cavalli e il ruth, dobbiamo muoverci subito!»

«Sì, mio signore. Ma io non verrò. Mio è stato l’errore e io farò il possibile per guadagnare tempo: aspetterò qui l’arrivo del principe e lo tratterrò più che potrò. Guadagnerò abbastanza tempo per permettervi di seminarlo, almeno ci proverò.»

«È giusto. Sono sicuro che la dea sarà così generosa da dimenticare la tua mancanza e permetterti di entrare nel suo paradiso in virtù di questo tuo sacrificio. Noi proseguiremo per Gorakhpur.»

«Grazie, mio signore.» disse allontanandosi.

Tornai a sedere sulla sedia dove mi trovavo prima dell’interruzione, ma diedi le spalle alla porta poiché se fosse entrato e avesse visto la mia espressione avrebbe immediatamente capito che avevo sentito tutto. Ma non fu il Prediletto a venire ad avvisarmi che stavamo per partire: fu Kai, che mi disse che dovevo scendere dopo cinque minuti.

Gorakhpur, quel nome mi martellava nella mente: dovevo trovare il modo di avvisare Cavan, ma come? Non potevo usare lo stesso sistema della volta precedente poiché il tavolo era di pietra. Mi guardai attorno freneticamente, ma prima che potessi trovare una soluzione, la porta si aprì e le guardie mi scortarono di sotto. Avrei voluto piangere e urlare per la frustrazione: il mio sposo stava arrivando, ma non sarebbe giunto in tempo e non ero riuscita a dirgli dove mi stavano portando. Cercavo di camminare lentamente per guadagnare anche i secondi, ma sapevo che non sarebbe stato sufficiente, solo un miracolo avrebbe potuto farlo arrivare prima che fosse troppo tardi.

Ma il miracolo non avvenne. Mi fecero salire sul ruth e Parmar si avvicinò prima che la porta fosse chiusa.

«Addio, Principessa.» disse sottovoce «È stato un piacere servirti, ma ora il mio compito è cambiato.»

«Come puoi fargli questo, Parmar? Cavan ti ha sempre trattato come un fratello e io non ti ho mai fatto nulla, perché ci odi così?»

«Io non odio nessuno dei due…»

«Allora non separarci! Ti prego, Parmar. Lui è tutta la mia vita!»

Mi guardò per un istante e notando il dolore nei miei occhi, il suo sguardo si oscurò.

«Mi dispiace, Principessa, ma devo fare il mio dovere.»

«Lo ucciderai, se ne avrai modo?»

«No. Se ci sarà uno scontro sarò io a morire.»

Si allontanò senza aggiungere altro e, prima che potessi dire qualcosa, lo sportello del ruth fu chiuso e ci muovemmo.

 

 

*****

 

 

Entrammo a Simla dalla strada nord e ci fermammo presso una fontana dove alcune donne stavano prendendo l’acqua. Alle mie domande una di loro ci disse che un folto gruppo di cavalieri armati che scortavano un ruth erano entrati in città quella mattina e che si erano fermati nella grande casa che sorgeva a un miglio a sud-est dell’abitato. Senza perdere tempo spronammo i cavalli al galoppo e ci dirigemmo verso il luogo indicatoci, assumendo la configurazione d’attacco.

Non fu difficile individuare la casa dalla descrizione della donna. Mi accorsi subito che qualcosa non andava dall’immobilità della scena, ma poi ad alcuni metri dalla costruzione individuai la figura di un uomo. Stava in piedi, immobile, con la spada in mano, i lembi della casacca verde mossi dal vento montano e la testa alta.

«Parmar…» mormorai riconoscendolo.

Spinsi il cavallo a un galoppo più veloce, distanziando i miei compagni di viaggio e sguainata la spada, mi slanciai su di lui con un grido reso roco dalla furia.

Balzai dal cavallo, piombandogli addosso, il mio peso aumentato dallo slancio dell’animale in corsa. Cademmo entrambi a terra. Rotolai e mi rialzai, subito imitato da lui e rimanemmo a fissarci alcuni istanti:

«Traditore miserabile!» ringhiai guardandolo.

«Sapevo che questo momento sarebbe arrivato prima o poi, anche se non pensavo così presto.»

«Come hai potuto tradirmi? Verme ingrato! Mi fidavo di te come di me stesso, forse di più. Avrei dovuto lasciare che ti pestassero, diciotto anni fa, invece di intervenire per aiutarti…»

«Eri generoso già da bambino.»

«Sì, e tu mi hai ripagato strappandomi la donna che amo!»

Il clangore delle lame sostituì le parole. Fu un duello breve il cui risultato era scontato: ero sempre stato molto più abile di lui con la spada. In pochi minuti fu tutto finito, deviai un suo affondo e lo trapassai da parte a parte.

Lasciò cadere la spada crollando in ginocchio e mi guardò.

«Ben fatto, Cavan…» disse scivolando a terra.

Gli fui accanto in un istante e lo sostenni. Dei! Eravamo cresciuti insieme, provavo per lui un affetto profondo che ora riaffiorò nella mia anima con la forza di un’esplosione, riempiendomi gli occhi di lacrime.

«Perché?» gli chiesi «Perché mi hai costretto a questo?»

«Era il mio destino, fratello. È degna di te, sai Cavan? È forte, più di quanto pensassi. Non sarà facile convertirla e forse è meglio così…»

«Che vuoi dire?» chiesi sconcertato.

«Mi ha detto una cosa, il giorno che ci siamo rincontrati. Mi ha fatto riflettere, e ora credo che avesse ragione. Perdonami, Cavan. Trovala, fratello, anche per me, e chiedile di perdonarmi, se può.»

«Lo farò, Parmar. E ti perdono.»

Sorrise «La stanno… La stanno portando verso casa…»

Morì. Chiusi gli occhi elevando una preghiera agli dei perché lo accogliessero e mi guardai intorno. I miei compagni di viaggio, i miei amici erano lì accanto a me. Elisa stava piangendo ma non so dire se per Parmar o per me. Patal e Abu presero due cavalli e tornarono in città per chiamare il sacerdote del tempio di Visnu, perché si occupasse del funerale.

Mi sedetti su una pietra sotto a un albero e guardai la casa. Alex e Tyler l’avevano perquisita ma non avevano trovato nulla di utile. Questa volta Marina non era riuscita a lasciarci messaggi, non sapevamo dove fossero andati.

“La stanno portando verso casa…” erano state le ultime parole di Parmar, ma non sapevo cosa volessero dire. Verso casa, forse erano diretti ad Agra? Era questo quello che intendeva? Ma Agra non era la casa di Marina, era stata la casa di sua madre ma non la sua. Forse intendeva che stavano andando verso Rampur, nelle cui vicinanze sorgevano le rovine del Palazzo di Lakshmi? Era nata là, era casa sua anche se non l’aveva mai vista…

«Lucknow!» compresi «Quante volte ho sentito Marina definirla “casa”? Sono diretti verso Lucknow. Grazie, fratello.»

Mi alzai chiamando gli altri e riferii le mie conclusioni, si trovarono tutti d’accordo che era l’interpretazione migliore delle parole di Parmar e, affidata ogni cosa al sacerdote, ripartimmo senza perdere tempo, puntando verso sud e la capitale dell’Uttar Pradesh.

 

Giungemmo a Lucknow in otto giorni. Ero preoccupato perché non li avevamo trovati per strada. Avremmo dovuto raggiungerli in poco tempo, dopo tutto avevano solo tre ore di vantaggio ma evidentemente avevano percorso una strada alternativa, evitando la via principale per non dare nell’occhio. Eravamo quindi convinti di averli preceduti. Raggiungemmo il presidio dopo il tramonto, in segreto, e andammo direttamente dal maggiore O’Brian che aveva temporaneamente il comando.

Questi era un robusto irlandese munito di barba e baffi scuri che teneva ben curati. Fu molto sorpreso di vedersi piombare in casa Alexander, Tyler, Patal ed Elisa. Guardò incuriosito me e Abu-ni poi Elisa ci presentò e noi gli spiegammo brevemente quello che era successo nell’ultimo mese fino al rapimento e gli chiedemmo se avesse notato movimenti strani nella città. Lui, ripresosi dallo stupore, aveva controllato i rapporti di tutte le squadre che si occupavano della sicurezza nelle vie cittadine e i rapporti della rete di spie del presidio, ma purtroppo non trovò quello che speravamo: nessuno aveva visto nulla, non erano segnalati movimenti sospetti. Ci lasciammo cadere sulle poltroncine che la moglie ci aveva gentilmente offerto: eravamo esausti. Silam, ai miei piedi, stava lappando con voluttà una ciotola d’acqua messa a disposizione dalla signora O’Brian, mentre a noi aveva servito frittelle e fette di torta. Il maggiore ci disse che l’indomani avrebbe ricevuto i rapporti aggiornati e che forse ci sarebbe stato qualche accenno utile.

Avevamo bisogno di riposare, ma non potevamo stare alla residenza né in un albergo: erano sicuramente controllati. Fu nuovamente la signora a venirci in soccorso offrendoci l’aiuto della cugina che aveva una grande casa in città e non amava le sette e i pazzi esaltati che ne facevano parte, avendo perso il marito per mano dei tugh alcuni anni prima.

La casa della cugina altro non era che il famoso Nilam Mahal, la sala da té nel quartiere bene di Lucknow. Avevo sentito parlare del locale ed Elisa disse che vi erano stati alcuni mesi prima insieme ad alcuni ospiti. La signora Nadine, questo era il nome della proprietaria, appena il maggiore le ebbe spiegato la situazione, fu ben lieta di aiutarci e ci mise a disposizione le camere per gli ospiti che si trovavano al secondo piano. Mise anche a disposizione le sue scuderie così che i cavalli potessero essere rifocillati e potessero riposarsi. Prima di lasciarli, diedi una carruba a ognuno, soffermandomi a coccolare un po’ Badal e Hira Kala che aveva galoppato per quasi tutto il giorno accanto a me.

Tentai inutilmente di dormire, rigirandomi nel letto per un paio d’ore, poi sconfitto mi alzai scendendo al pian terreno. Camminai un poco per l’ampio salone in marmo bianco dove di giorno veniva servita la clientela del locale. Ascoltando il gorgogliare della fontana ottagonale cercavo di mettere pace nei miei pensieri, poi uscii nel giardino privato del palazzo e mi sedetti su una panca. Inevitabilmente il ricordo di altri giardini mi affollò la mente. Sembravano immagini di un’altra vita. Una vita serena, felice.

Un rumore mi fece voltare verso destra e tra i folti cespugli fioriti individuai Elisa che incapace di dormire come me, aveva avuto la mia stessa idea. Senza dire nulla si avvicinò, sedendosi all’altro estremo della panca, mi rivolse un debole sorriso e osservò il giardino avvolto dall’oscurità. Nessuno dei due aveva voglia di parlare, così rimanemmo in silenzio, contenti della reciproca compagnia. Grati di non essere soli.

Eravamo, forse, le due persone che più amavano Marina e noi, più di chiunque altro, ne sentivamo la mancanza. Non ricordo chi dei due iniziò a parlare, ma mi trovai ad ascoltare i ricordi della sorella di Marina che mi parlava di un tempo ormai passato, di una vita in cui lei e la sorella erano solo due fanciulle inglesi: piccoli segreti, aneddoti dell’infanzia. Io ascoltavo tutto in religioso silenzio, bevendo ogni singola parola come nettare divino, ridendo delle loro marachelle, addolcendomi a quei ricordi che tracciavano un ritratto delicato come un acquerello, ma allo stesso tempo, brillante come un quadro a olio della bambina che oggi era la donna che amavo. Una bambina vivace, spensierata, allegra e sempre sorridente, pronta a seguire la sorella in ogni piccola avventura, a dividerne le punizioni anche quando non aveva colpe, una bambina altruista. Una bambina felice…

Rimanemmo nel giardino finché non ci trovò Patal, ore dopo. Era uscito per fare un giro di controllo e ci aveva trovati a parlare al buio, non era stato contento di scoprire che non stavamo riposando. Per non farlo stare in pensiero decidemmo di tornare nelle nostre camere e tentare di dormire almeno un po’, dopo tutto non sapevamo quando avremmo avuto nuovamente l’occasione di dormire in letti così comodi.

 

 

*****

 

 

Seduta al pianoforte nella mia nuova prigione, suonavo mettendo nell’esecuzione del notturno di Beethoven tutto il dolore, la malinconia e la solitudine che attanagliavano il mio cuore. A lungo, durante il viaggio, avevo sperato di sentire arrivare i cavalli di coloro che mi cercavano, ma non era accaduto. Mi avevano mancata di poco e non mi avevano raggiunta, cercavo di non lasciarmi prendere dallo sconforto o peggio, dalla paura. Sapevo che Cavan era ancora vivo, Parmar mi aveva detto che non gli avrebbe fatto del male e gli avevo creduto. Mi ero chiesta se il mio sposo avrebbe trovato la forza di affrontare il suo amico d’infanzia, rivelatosi un nemico, e di uscire vittorioso dallo scontro. Sapevo che sarebbe stata una prova difficile per Cavan, il suo cuore ne sarebbe stato lacerato e pregavo perché potesse superarlo.

Il Prediletto aveva tentato di convincermi che quella prova dolorosa che Cavan aveva dovuto affrontare fosse colpa mia. Ero rimasta in silenzio e impassibile: non volevo dargli soddisfazione, sapendo che se avessi detto anche solo una parola, avrei rivelato qualcosa di me, di come la pensavo, e gli avrei dato la possibilità di usarlo per aprirsi una breccia dentro di me. E questo non doveva succedere. Mai.

Era colpa sua, soltanto sua, se Cavan era chiamato a quella prova, se lui e le altre persone che mi volevano bene stavano soffrendo. Se io stavo soffrendo. Colpa dei suoi desideri, della sua mente perversa, del suo fanatismo e della sua sete di potere. E di nient’altro!

Avrei voluto odiarlo, ma era un lusso che non mi concedevo, una debolezza che non mi potevo permettere. Il mio amore per Cavan era profondo, radicato, sicuro e non avrebbe mai potuto usarlo per manipolarmi, poiché non avrei mai creduto a nessuna delle bugie che mi raccontava sul mio sposo. Ma avrebbe potuto facilmente manipolare il mio odio verso di lui, rinfocolandolo, facendolo divampare e, attraverso l’odio, spingermi verso la sua abominevole divinità. Convertirmi…

Così lasciavo che le note lavassero via ogni pensiero nefasto come acqua cristallina e purificatrice, rendendomi la pace anche se solo per brevi, preziosi momenti. Portando il mio pensiero verso Cavan, portandogli il mio amore e la mia fiducia.

 

 

*****

 

 

Fu la musica a farmi emergere dai miei sonni agitati. La musica che proveniva dalla mia stessa anima, dai miei ricordi: da Marina… Mi accorsi di avere gli occhi umidi, come se avessi pianto, pur sapendo che non era così. Ricordavo chiaramente la sera in cui avevo ascoltato il brano dei miei ricordi, era stato quattro giorni prima della cerimonia al Taj, quattro giorni prima del rapimento.

Mi alzai dal letto, mi vestii e scesi nel salotto dove la padrona di casa aveva fatto preparare la colazione per noi. Tyler era già lì, seduto su un cuscino e masticava svogliatamente dei datteri, osservando l’acqua della piccola fontana accanto a lui. Alzò appena lo sguardo quando entrai e mi rivolse un cenno di saluto prima di tornare ai suoi pensieri, mi sedetti poco lontano da lui e mi versai una tazza di forte tè nero, aspirandone il profumo prima di berlo. Intuii che anche il mio compagno non aveva dormito molto dalle profonde occhiaie che gli cerchiavano gli occhi chiari e glielo feci notare.

«Già, non sono più abituato ai letti civili. Da qualche tempo dormo bene solo per terra…» rispose con finta allegria.

Fummo raggiunti da Alex e il silenzio tornò a calare nella sala. La padrona di casa venne a darci il buon giorno, notai la compassione nel suo sguardo quando si accorse della tensione che albergava in noi. Sapeva, come noi, che non avremmo avuto notizie prima di sera poiché il maggiore non avrebbe potuto lasciare il presidio fino ad allora. Sarebbe stata una lunga attesa, lunga e logorante poiché l’immobilità avrebbe accresciuto la sensazione d’inadeguatezza, di inutilità che tutti noi provavamo. La consapevolezza che al momento stare fermi era la cosa migliore, non alleviava la nostra irrequietezza, la rendeva solo più insopportabile.

Tornai a pensare alla musica che avevo sentito nel mio sogno, ripensai alla sensazione di pace e struggimento che mi aveva dato e mi chiesi se l’avessi effettivamente solo sognata, se non fosse stato qualcosa di più.

Le ore passavano con lentezza esasperante. Rimasi quasi sempre chiuso nella mia stanza con la compagnia di Silam, camminando in tondo poiché non riuscivo a stare fermo. Anche la tigre era inquieta e si aggirava per l’ambiente ricalcando quasi i miei passi. Poi finalmente venne la sera e scesi nel salone insieme ai miei compagni per attendere l’arrivo del maggiore che, forse intuendo il nostro stato d’animo, non si fece attendere troppo.

Quando entrò si sedette al tavolo a cui eravamo noi e ci guardò un istante prima di parlare. In quell’istante di silenzio compresi che non aveva buone notizie.

«Lady Elisa, Altezza, temo purtroppo di non potervi dire ciò che desiderate. I rapporti della rete di informatori non riportano nulla di utile, nulla di insolito. Non vi sono riferimenti a convogli o a gruppi di persone che assomigli a ciò che cercate: nessun uomo armato, a piedi o a cavallo, nessun ruth. Niente, mi dispiace.»

«Maledizione!» esclamai alzandomi «Che siano dannati tutti! Non possono essere scomparsi, dove sono? Dove?» mi fermai presso la fontana passandomi una mano tra i capelli «Dei!» gemetti «Dove l’hanno portata?»

«Mi dispiace…» ripeté il maggiore.

Non mi accorsi che se ne era andato, continuavo a guardare la fontana senza vederla realmente, riflettendo, cercando di capire. Ripensai alle parole di Parmar e un sospetto si fece strada in me: possibile che mi avesse mentito? Che mi avesse deliberatamente sviato? O forse avevo interpretato male le sue parole?

«Cavan?» la voce di Elisa mi riscosse.

Mi voltai a guardarla, si era avvicinata e aveva un’espressione pensierosa.

«Cosa c’è?»

«Qui in India è costume che qualunque uomo di una certa importanza abbia delle spie, vero?»

«Più che costume è una questione di sopravvivenza, ma sì, perché?»

«Stavo pensando che forse le spie del presidio non sono infallibili e che molte cose gli informatori preferiscono dirle alle spie dei civili indiani piuttosto che a quelle del presidio, anche perché gli uomini di potere pagano sicuramente meglio degli Inglesi. Se è così, allora forse c’è una persona, in questa città, che ci può aiutare, una persona che sente un profondo debito verso la mia famiglia e verso Marina.»

«Di chi stai parlando?» intervenne Alex.

«Di Karim Asa, il mercante di stoffe.»

«Come mai un uomo importante come Karim Asa ha un debito verso la tua famiglia?» le chiesi.

«Anni fa mio zio Ludovico ha salvato la vita di suo padre, oltre ai beni di famiglia, scagionandolo da un’accusa di tradimento.»

La speranza rinacque in me, conoscevo di fama il mercante e sapevo che era un uomo importante e influente che godeva di molto credito presso più di un Raja. Non sapevo se potevo fidarmi di lui fino in fondo, ma ero pronto a correre il rischio.

«Contattiamolo.» dissi semplicemente.

Decidemmo di recarci subito da lui, ma non potevamo andare tutti. Così dopo una breve discussione partimmo io, Elisa e Patal e ci incamminammo per le vie buie. Fortunatamente la casa del mercante si trovava abbastanza vicina: dieci minuti dopo bussammo al portone della sua abitazione. Venne a rispondere un valletto al quale Elisa chiese di vedere il mercante, dicendo che veniva da parte della famiglia Shallowford. Il valletto ci fece entrare e ci condusse in un salotto, poi si allontanò assicurandoci che andava ad avvisare il suo padrone che infatti arrivò dopo pochi minuti.

«Ditemi.»

«Signor Karim Asa,» iniziò Elisa «ci scusiamo per l’ora, ma è una cosa della massima importanza. Il mio nome è Elisa Shallowford, figlia del Colonnello Shallowford e di Maria Giuseppina Foscari.»

«Lieto di conoscervi, lady Elisa. Tempo fa ho avuto il piacere di incontrare prima vostra sorella e poi vostra madre.»

«Sì, lo so. Signore so di poter essere considerata molto scortese a venirvi a importunare a quest’ora, ma è una questione vitale. Voi diceste a mia sorella e a mia madre che se mai avessimo avuto bisogno di qualcosa, di qualunque cosa in qualunque momento, avremmo potuto rivolgerci a voi. Lo diceste seriamente?»

«Sì, certo. Cosa succede?»

«Si tratta di mia sorella. Marina è stata rapita e noi la stiamo cercando.»

«Rapita? Dei onnipotenti! Perché?»

Elisa mi guardò con gli occhi pieni di lacrime, così mi feci avanti e, rivelata al mercante la mia identità, gli raccontai quello che era accaduto ad Agra a partire dalla festa di primavera fino al rapimento. Quando ebbi finito, il mercante si sedette su un sofà, facendoci segno di fare altrettanto, e si passò le mani sul volto.

«Lady Marina la Prescelta! Chi lo avrebbe mai detto.» mormorò.

«Signore.» continuò Elisa «Come comprenderete la situazione è molto grave, siamo riusciti a inseguirli e per ben due volte li abbiamo mancati di un soffio. Ma ora la traccia è scomparsa, sappiamo solo che erano diretti verso Lucknow ma li abbiamo persi, quindi rischiamo… Signor Asa, la prego, ci aiuti a trovare mia sorella. La prego!»

«Non preoccupatevi, mia cara, farò quanto è in mio potere. Manderò subito il mio servo più fidato a cercare notizie, ma vi avverto, ci vorrà un po’ di tempo e forse non troveremo nulla. Dovete pensare anche a questo.»

«Sì, lo sappiamo, ma almeno avremo tentato.»

«E non state in pena per vostra sorella, anche voi Altezza. Sebbene la conosca poco, ho compreso che lady Marina è una ragazza dallo spirito forte, saprà superare tutto questo. A noi resta solo il compito di trovarla. Ora però dovete riposare e non è prudente che giriate ancora per le strade, tanto più che dovreste tornare domani, quindi vi metterò a disposizione delle camere e manderò il mio servo ad avvisare i vostri amici al Nilam Mahal di modo che non si preoccupino.»

«Grazie.» dissi semplicemente.

Il mercante batté le mani e subito comparve un valletto al quale ordinò di prepararci delle stanze poi chiamò uno dei suoi servitori e gli spiegò quello che voleva facesse, mandandolo a contattare i suoi informatori.

Ci ritirammo negli appartamenti degli ospiti e ci coricammo. Prima di addormentarmi sentii ancora una volta la musica, ma questa volta era carica di speranza.

Per la prima volta da giorni dormii profondamente e a lungo. Il sole era sorto da quasi quattro ore quando fui svegliato dai rumori della casa. Mi affrettai a vestirmi e raggiunsi i giardini della casa dove trovai anche Elisa e Patal, rimanemmo a parlare per un po’ finché il nostro ospite ci raggiunse. Gli chiedemmo se c’erano notizie ma ci rispose che era ancora presto: avremmo dovuto pazientare almeno fino al tramonto. Mi allontanai assieme a Patal, discutendo delle opzioni che avevamo a disposizione nel caso gli informatori del signor Asa non avessero trovato nulla, lasciando Elisa in compagnia del mercante.

Fu proprio lei, tempo dopo a riferirmi della conversazione che aveva avuto con quell’uomo. Seduti presso la fontana che si trovava al centro del giardino, parlarono per qualche minuto di facezie finché non furono certi di non essere ascoltati poi, senza preavviso, il mercante le parlò dei motivi per cui stava rischiando per aiutarci.

«Vi starete chiedendo, immagino, come io speri di trovare informazioni su una setta tanto potente…» disse rivolto a Elisa.

«In effetti è una domanda che mi sono posta, signore. Penso che, come in ogni altro posto, anche in India i segreti si possano scoprire se si sa a chi chiedere e quanto pagare…»

«Siete più scaltra di quanto pensassi, mia cara. È un bene in questo mondo: avrete modo di proteggervi. Sì, è vero, come in qualunque altro paese, anche qui i segreti hanno un prezzo. Non tutti, però. Vedete, la Setta contro la quale vi state scontrando è potente, la sua forza si basa sul terrore che da secoli incute in tutti coloro che ne hanno sentito parlare. Chi tradisce paga con la vita. Vi rivelerò un segreto, mia cara, un segreto che viene custodito in questa famiglia da sei generazioni: il motivo per cui sono in grado di aiutarvi, di darvi informazioni sulla setta senza nome, è che anche la mia famiglia è legata a essa. Non allarmatevi.» si affrettò ad aggiungere vedendo l’espressione sconvolta di Elisa «Non ho alcuna intenzione di tradirvi o di farvi del male, se avessi voluto nuocervi avrei potuto agire con comodo la scorsa notte.»

«Allora quali sono le vostre vere intenzioni?»

«Aiutarvi, così vendicherò mio padre e me stesso. Ascoltatemi, vi prego, vi narrerò tutta la storia. Come ho detto la mia famiglia è stata legata alla setta per sei generazioni, per sei generazioni siamo stati adepti fedeli, abbiamo agito solo a vantaggio degli interessi del Prediletto, il capo della setta, senza mai mettere in dubbio la sua autorità o le sue parole. Questo fino ad alcuni anni fa. Come sapete mio padre fu accusato di tradimento e rischiò di essere giustiziato per questo. Quando ciò accadde egli si rivolse ai suoi fratelli settari chiedendo aiuto e sostegno, l'attuale Prediletto gli assicurò ogni assistenza, salvo poi dimenticarsi di fornirgliela. Se non fosse stato per vostro zio, che trovò le prove della sua innocenza, mio padre sarebbe morto senza che coloro che aveva servito fedelmente per tutta la vita alzassero un dito per aiutarlo. La consapevolezza di quanto poco la sua fedeltà fosse considerata, assieme al dubbio che fosse stato proprio un altro membro della setta a calunniarlo per impadronirsi della sua ricchezza, sono stati un peso terribile che alla fine lo ha portato a una morte prematura. Io ho giurato sulle sue ceneri che avrei fatto tutto il possibile per vendicarlo, so di non potermi dissociare dalla setta senza rimetterci la vita, così come non posso denunciarla pubblicamente: non ho prove a suffragio delle mie parole. Ma mi sono gradatamente allontanato da loro e, quando mi è possibile, fornisco indicazioni agli inglesi che permettano di ostacolare il lavoro dei settari. E ora voi mi offrite la possibilità di fare molto di più: non solo così potrò ricambiare ciò che vostro zio fece per mio padre, ma potrò dare un colpo terribile alle fondamenta stesse della setta. Portar via loro la Prescelta degli Dei, fare in modo che non possano portare a compimento i loro piani, assistere alla loro sconfitta! Questo è più di quanto sperassi di poter fare. Mi credete, lady Elisa, quando dico che potete fidarvi di me?»

«Sì, signor Asa, vi credo.» gli rispose lei dopo un attimo di esitazione.

«Grazie. Vi chiedo però di non rivelare ai vostri compagni la mia affiliazione alla setta: temo che loro non mi crederebbero e finirebbero per non utilizzare le informazioni che vi fornirò. Rischiamo di perdere lady Marina…»

«Avete ragione, non vi tradirò, state tranquillo e se grazie alle vostre informazioni riusciremo a ritrovare mia sorella, farò in modo che mio padre e il Raja Sardar Singh sappiano, in via riservata, quanto preziosa sia stata la vostra collaborazione.»

«Io prego di potervi essere di aiuto, per voi e per l’India tutta.»

Dopo queste parole il mercante aveva lasciato Elisa per andare a occuparsi di altre faccende.

Consumammo il pranzo nella riservatezza di un salotto privato, arredato con buon gusto e semplicità. Elisa sembrava più serena di quanto fosse stata negli ultimi tempi, come se la speranza fosse rifiorita in lei, mentre aspettavamo il tramonto e le notizie che ci avrebbe portato. Poco prima che il sole svanisse dietro l’orizzonte i nostri compagni di viaggio ci raggiunsero presso la casa di Karim Asa con i cavalli e Silam. Il mercante osservava stupito il felino accoccolato ai miei piedi ma non fu sorpreso di apprendere che era stata Marina ad allevarlo e a addestrarlo: sembrava ritenerla capace di questa e altre prodezze.

Venne il tramonto e passò. I minuti si protrassero fino a diventare ore mentre aspettavamo il ritorno del servitore fidato che il mercante aveva spedito alla ricerca di notizie la notte precedente. Tyler misurava a grandi passi il salotto in cui ci eravamo riuniti, mentre Alexander sedeva accanto alla fidanzata, cercando di alleviare la sua ansia. Infine il messaggero giunse, fu subito introdotto nel salotto da Karim Asa stesso che si affrettò a interrogarlo. Parlarono per qualche istante a bassa voce in un dialetto poco usato, originario del Punjab, poi il mercante ci guardò e sorrise.

«Erano a Gorakhpur.» disse.

«Erano?» chiesi.

«Sì, sono ripartiti ieri mattina all’alba in direzione sud-ovest, verso il Madhya Pradesh.»

«Dove diavolo stanno andando?» esplose Tyler.

«Coloro che inseguite sono fedeli a Durga.» argomentò Asa «Il culto della dea è molto diffuso in India, ma soprattutto nel centro e nel sud del Paese. Poco distante da Jabalpur c’è un piccolo complesso fortificato: sebbene sia disabitato da anni è ancora in ottimo stato ed è sulla direttrice che hanno preso. A meno che la pista o altre informazioni che acquisirete poi non dicano il contrario, andrei a dare un’occhiata.»

«Sì, ricordo di quale forte si tratta.» intervenne Patal «È un buon posto dove nascondere un prigioniero, è un ottimo suggerimento.»

«Bene allora, partiamo!» esclamò Tyler.

«No.» li bloccai, mi guardarono stupiti «È una notte senza luna, non riusciremmo a seguire le tracce, sempre che riuscissimo a individuarle. Hanno già un bel vantaggio, non potremmo comunque raggiungerli: partiremo poco prima dell’alba in modo da sfruttare al meglio la luce diurna.» conclusi.

«È giusto…» approvò Patal.

Seppur malvolentieri, la mia decisione fu accettata anche dagli altri.

Aver avuto l’approvazione di Patal mi sollevava: era un gran guerriero e un buon stratega, se avesse considerato sbagliato il mio ragionamento lo avrebbe detto. Mi pesava perdere quelle ore, sapevo che c’era una possibilità in più che ci sfuggissero un’altra volta, ma viaggiare nel buio più completo avrebbe potuto essere pericoloso. Inoltre quella notte supplementare di riposo ci avrebbe aiutato a stare in sella nei giorni seguenti: ci sarebbero volute quasi due settimane per raggiungere il forte e, se non fossero stati lì o se si fossero già mossi, avremmo dovuto restare a cavallo chissà per quanto…

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Capitolo 24
*** Capitolo XXII ***


Capitolo XXII

 

 

Fu così che l’incubo ebbe inizio. Cavalcammo per giorni, senza tregua, chiedendo a noi stessi e ai cavalli ritmi proibitivi. Nelle poche ore di sosta che ci concedevamo ci accasciavamo a terra esausti, perfino Silam sembrava stremato, ma la volontà che ci sosteneva era maggiore dei disagi e della stanchezza. Superammo il confine col Madhya Pradesh che si aprì dinanzi a noi nelle sue pianure vaste e polverose che si stendevano fin dove arrivava lo sguardo. Sui pochi e radi rilievi si arroccavano villaggi e fortezze, simili gli uni alle altre. Spesso ci fermavamo a chiedere informazioni, ma ottenevamo ben poco. Così, basandoci solo sulle intuizioni di Asa, del quale Elisa si fidava, proseguivamo la nostra corsa.

Il forte era deserto quando arrivammo. Le ceneri dei fuochi erano ormai fredde come le pietre delle mura durante la notte, perquisimmo ogni angolo alla ricerca di qualche indizio che ci confermasse che almeno erano stati lì. Fu Silam a trovarlo: nascosto dietro alla tenda dell’unica finestra di una delle stanze trovò un messaggio della sua padrona, un’unica parola accanto alla quale spiccava una piccola macchia di sangue scarlatto. Era stato proprio l’odore di quel sangue, lasciato al centro dell’occhio egizio, ad attirare l’attenzione del sensibilissimo olfatto della tigre, che ci aveva permesso di scoprire l’indicazione: “Rajasthan”.

«Rajasthan! Quei bastardi sono diretti in Rajasthan!» esclamai furioso.

«Stanno cercando di esasperarci e ci stanno riuscendo. Cavan, quando li avremo trovati vorrei che mi lasciassi almeno il piacere di uccidere il loro capo, visto che a te spetta già Marina.» disse Tyler con sguardo feroce.

«Non posso promettertelo…» mormorai.

Osservai il cielo fuori dalla finestra.

«Muoviamoci. Abbiamo ancora qualche ora di luce: sfruttiamole!» dissi.

Tornammo in cortile e rimontammo a cavallo.

Il viaggio riprese. Continuammo a correre all’inseguimento delle nostre prede, quando finalmente entrammo nel mio regno, riuscimmo ad avere qualche informazione: a Jhalawar un ragazzino ci riferì che un gruppo di uomini a cavallo che scortavano un ruth era passato di lì tre giorni prima e aveva puntato verso nord. Lui aveva abbeverato alcuni cavalli per guadagnare qualche moneta e aveva sentito due di loro parlare a bassa voce delle strade per Sardarshahr, per decidere quale prendere.

Sarebbero passati per Jaipur raggiungendola attraverso la strada ovest. Conoscevo quella strada era la più sicura, ma anche la più lunga e tortuosa, così mandai Abu-ni ad Ajmer dove aveva sede il quartier generale della mia rete di spie perché la attivasse e raccogliesse tutte le informazioni disponibili, e noi ci lanciammo in una corsa attraverso il deserto Rajputi senza seguire nessuna strada, per guadagnare tempo. Abu ci avrebbe raggiunti a Sikar con le informazioni. Sempre che non riuscissimo a bloccarli a Jaipur, cosa che speravo, avendo a disposizione la mia guardia personale.

Le ore si accavallarono divenendo giorni. Raggiungemmo la mia capitale a notte fonda e Patal portò un mio messaggio al primo consigliere perché radunasse gli uomini più fedeli e ci raggiungesse al bivio per Sardarshahr, a nord della città. Nel buio a mala pena rischiarato dalla luna studiammo il territorio intorno al bivio, decidendo come impostare l’agguato. Avevo calcolato, in base al loro vantaggio, che le nostre prede dovessero raggiungere il bivio all’incirca all’alba: dovevamo farci trovare pronti.

Tornò Patal assieme a una ventina di guardie che portavano la divisa del mio palazzo. Il capitano si affiancò al mio cavallo e si inchinò.

«Ordinate, mio Principe.» disse semplicemente.

«La mia sposa è stata rapita. I rapitori passeranno per questo bivio tra poche ore: li attenderemo e libereremo la Principessa. A qualunque costo!»

«Sarà fatto, mio Principe. Libereremo la nostra Signora!»

Si inchinò nuovamente e, raggiunti gli altri armigeri, iniziò a distribuire ordini e postazioni preparando l’imboscata.

Mi avvicinai anch’io per parlare a tutti loro. Sottolineai che prioritario era proteggere il ruth e il suo preziosissimo carico, quindi mi appostai accanto a Elisa dietro a un gruppo di rocce e attendemmo. Giunsero quando il primo raggio di sole superò l’orizzonte illuminando la strada. Sentivamo lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli, il tintinnio delle armi e lo scricchiolio prodotto dalle ruote del ruth sul terreno friabile. Aspettammo che la coda del drappello avesse superato le rocce dietro cui eravamo nascosti, per impedire che potessero tornare indietro, quindi erompendo nell’antico grido di battaglia dei miei antenati mi lanciai all’assalto, seguito da tutti gli altri che sbucavano dai loro nascondigli. I rapitori si accorsero troppo tardi di essere circondati, decisi a non lasciarsi sopraffare senza difendersi, combatterono ferocemente contro di noi, ma gli uomini che si trovarono di fronte erano guerrieri Rajputi: i migliori al mondo, i più coraggiosi e fedeli, che non temevano neppure gli artigli della tigre. La tigre però questa volta era loro alleata: Silam si lanciò sui settari con un ruggito raggelante e sfoderò zanne e artigli ben affilati che affondarono nelle carni dei nostri nemici straziandole senza pietà. Liberatomi dell’ultimo nemico, mi slanciai verso il ruth.

«Marina!» gridai aprendo la porta.

Lei non c’era.

Rimasi un istante a fissare le irridenti cortine di seta del mezzo, incredulo, com’era possibile? Mi accorsi poi che sul cuscino posato al centro della piattaforma del ruth stava adagiata una ciocca di capelli: un lungo ricciolo castano al quale il sole del mattino strappava riflessi d’oro rosso.

Assimilare ogni particolare non richiese più di un istante. Ruggendo la mia rabbia mi voltai verso i miei compagni con un secco ordine.

«Catturate i superstiti! Li voglio vivi!»

Mi udirono e obbedirono.

In pochi minuti fu tutto finito. Sei dei trenta uomini che avevano scortato il ruth erano accasciati a terra saldamente legati. Mi avvicinai, ordinai al capitano di prendere quattro uomini e perquisire i cadaveri, altri otto furono incaricati di scortare Elisa, insieme a Silam e Hira Kala al palazzo reale di Jaipur dove l’avremmo raggiunta appena avessimo saputo dove era stata nascosta la sorella, poi mi rivolsi ai prigionieri.

«Lei dov’è?» chiesi con voce gelida.

Nessuno dei sei rispose.

Poco distante vidi un grosso albero nodoso, mi avvicinai al mio cavallo presi una corda dalle tasche della sella e la gettai a Patal.

«Scegli il più malridotto,» gli dissi a bassa voce «e appendilo per i piedi a quell’albero. Gli daremo la morte più ignobile che un guerriero possa aspettarsi e faremo sì che gli altri assistano: penso che, forse, questo scioglierà qualche lingua…» conclusi con un sorriso feroce.

Patal lo ricambiò poi si avvicinò al gruppetto e fece alzare uno degli uomini che si teneva entrambe le mani premute sull’addome.

Aiutato da due delle mie guardie fece come gli avevo detto. Quando il prigioniero comprese cosa stava per accadergli cercò di fuggire ma gli armigeri lo tennero stretto, allora iniziò a gridare suppliche e maledizioni finché si ritrovò a osservare il mondo da sotto in su. Allora lo sentimmo invocare il nome della sua Dea, le guardie iniziarono a schernirlo, chiedendogli dove fosse la sua protettrice ora che lui aveva bisogno del suo aiuto. Gli chiesero dove fosse il suo padrone, perché non c’era lui in quella situazione, invece di starsene rintanato da qualche parte a mangiare yogurt fresco e melone.

Gli altri prigionieri guardavano inorriditi quella scena, comprendendo l’abominio di cui erano testimoni: se fossero morti combattendo per la loro causa la loro Dea li avrebbe accolti nel paradiso, ma morire così, appesi per i piedi senza combattere, attendendo la fine… era la condanna al tormento eterno, all’inferno.

Presero a tremare, osservando il loro compagno che già indebolito dalla ferita all’addome, si muoveva sempre più lentamente. Le sue parole divennero sconnesse e flebili finché rimase immobile, privo di vita. Patal estrasse allora la sua sciabola, decapitò il corpo e lo slegò facendolo cadere nella pozza di fanghiglia che lo stesso sangue della vittima aveva formato sul terreno polveroso. Poi tornò verso di noi e mi guardò in attesa di ordini.

«Chi vuole essere il prossimo?» chiesi ironico ai prigionieri.

Mi guardarono sconvolti, spaventati dalla ferocia che sapevo potevano leggere nei miei occhi, rimasero in silenzio, temendo che qualunque suono da parte loro potesse essere interpretato come un’offerta volontaria.

«Dov’è la Principessa? Dove la stanno conducendo? Parlate o farete la stessa fine del vostro compagno!»

Nessuno fiatò, allora feci un cenno a Patal che indicò alle guardie l’uomo seduto in mezzo al gruppo, anch’egli ferito sebbene meno gravemente del primo. Il prigioniero tentò di fare resistenza dimenandosi come un forsennato, ma le guardie lo reggevano con forza. In pochi minuti si ritrovò legato come il primo a dibattersi in quell’inutile balletto che precedeva l’inesorabile fine. Mi avvicinai fino a che potei vederlo in volto e mi accucciai di fronte a lui per guardarlo negli occhi.

«Parla e darò ordine di slegarti. Verrai giustiziato con onore e potrai accedere al paradiso. In caso contrario resterò qui a vederti morire, insieme ai tuoi compagni. Pensi forse che nessuno di loro parlerà? Lo faranno, te lo assicuro, e allora tu sarai morto disonorato per nulla. Io avrò ciò che voglio in ogni caso, e tu marcirai all’inferno!» conclusi.

Mi guardò qualche istante con paura mista a odio.

«Che tu sia maledetto…» biascicò.

«Arrivi tardi, amico mio, mi hanno già maledetto altri. Più di una volta.»

Tornai sui miei passi e mi fermai nuovamente accanto agli altri prigionieri. Ci volle quasi un’ora, questa volta, prima che il prigioniero spirasse, quando avvenne Patal lo decapitò come aveva fatto col primo e ci raggiunse.

«Sapete perché ho ordinato di tagliare le vostre teste dopo che sarete morti?» chiesi agli altri prigionieri «Vedete, non lontano da qui c’è un tempio abbandonato dove risiedono molti corvi, un migliaio, forse più. Ebbene: le vostre teste verranno portate in questo tempio e offerte come pasto ai corvi. Pensate che la vostra Dea gradirà? Ho sentito dire che anche il più fedele dei suoi servitori si vedrebbe negare l’accesso al paradiso se la sua testa venisse divorata da quegli uccelli. È per questo che portate il volto coperto in battaglia, così se anche doveste morire i corvi non riuscirebbero a divorare il vostro cranio. Gli occhi soprattutto, giusto? Sono gli occhi che devono essere protetti più del resto. Mi hanno detto che sono la prima cosa che quei voraci volatili ingoiano…»

Mi interruppi osservando con un feroce sorriso i loro volti orripilati, Patal aveva la mia stessa espressione e questo accresceva il loro terrore. Li fissai negli occhi, uno per uno, finché abbassarono lo sguardo.

«Dov’è la mia sposa?» chiesi ancora «Verrete giustiziati con onore se me lo dite. Altrimenti… Sapete già quale sorte vi spetta, vero? Dov’è la principessa?»

Tacquero. Sospirando con finto rimpianto mi rialzai e sollevai un sopracciglio in direzione di Patal che sorrise.

«Se permettete, Altezza, vorrei proseguire con lui…» disse indicando quello che sembrava il più giovane e spaventato del gruppo.

«Fai pure. Signori,» mi rivolsi alle guardie «secondo voi quanto ci metterà questo a morire?» chiesi ironico.

Più d’uno rispose fingendo di voler scommettere sulla durata dell’agonia del ragazzo che osservava terrorizzato gli aguzzini avvicinarsi a lui con l’intenzione di prenderlo. Allora con un grido strozzato si lanciò ai miei piedi afferrando la mia caviglia sinistra con le mani legate.

«Pietà, mio Principe. Vi prego, abbiate pietà!» esclamò isterico.

«Pietà? Voi, sporchi bastardi, avete rapito la mia sposa per poter ottenere il potere sull’India e chiedi a me pietà? Parla, miserabile! O accetta la tua condanna!»

«Udaipur.» cedette «Ci siamo separati poco oltre Bundi. Erano diretti nel Gujarat e si sarebbero fermati una notte a Udaipur. Non so altro, grande Principe, non so altro!»

«Viaggia sempre in un ruth?»

«No, mio Signore, a cavallo. Il ruth era troppo lento, il Prediletto ha deciso di farla viaggiare a cavallo coperta da un burka di modo che nessuno possa riconoscerla o notare che è legata e imbavagliata …»

«Imbavagliata!» lo interruppe Patal con un ruggito di affronto «Quell’insetto ha osato imbavagliare la Principessa?»

«Calma, amico…» gli dissi sebbene condividessi il suo sdegno «Quanti uomini?» chiesi ancora al ragazzo.

«Solo dieci. Ma una delegazione di altri venti uomini li attende in Gujarat per unirsi a loro come scorta. È tutto quello che so, mio Principe! Vi prego, vi prego…» concluse singhiozzando.

«Guardie prendete i suoi compagni e appendeteli all’albero, poi tagliate le loro inutili teste e portatele al tempio, dai corvi. Per quanto riguarda il ragazzo ordino che venga giustiziato con onore e che le sue spoglie siano bruciate su una pira funeraria, come prescrive la nostra religione.» conclusi.

«Sarà fatto, Altezza.» disse il capitano.

«Grazie, grande Principe, grazie…» balbettò ancora il ragazzo prima di lasciarsi condurre via.

Raggiunsi Alex e Tyler che erano rimasti in disparte per tutto quel tempo.

«Accidenti, Cavan, spero di non farti mai arrabbiare sul serio.» commentò il secondo con ironia.

«Vedi di ricordarlo…» gli risposi sullo stesso tono.

«Allora andiamo in Gujarat?» chiese Alex.

«Sì, ma prima ci fermeremo a Jaipur. Almeno un giorno e una notte: abbiamo bisogno di riposo, sia noi che i cavalli.»

Così, attesa la morte degli ultimi prigionieri, lasciammo quel luogo alla volta della mia capitale diretti alla reggia.

 

Quella sera, molto tardi, sedevo sulla cima della torre più alta del mio palazzo, come già avevo fatto un’infinità di volte a osservare il cielo stellato. Ricordai quando, mesi prima, in quello stesso luogo avevo pregato per il miracolo che si era compiuto: avere Marina in sposa. E ora mi ritrovai a pregare le stelle e le fate che vi risiedevano, perché me la restituissero sana e salva. Erano passati più di due mesi dalla sera del nostro matrimonio, dall’ultima volta che avevo visto il suo viso. Mi mancava da impazzire! La preoccupazione mi stava facendo diventare sempre più intrattabile e rabbioso, ma non sapevo che fare. Fino a quel momento eravamo riusciti a incalzarli, impedendogli di fermarsi nello stesso luogo, come mi aveva raccomandato Asmal, ma non sapevo per quanto ancora saremmo riusciti a farlo. A parte la stanchezza, era sempre più probabile perdere le loro tracce, come era accaduto a Lucknow e come era accaduto quel giorno. Se il ragazzo non avesse parlato, se nessuno dei prigionieri avesse parlato, adesso ci saremmo ritrovati senza una pista da seguire.

Pensai a Marina, chiedendomi cosa stesse facendo, se stesse bene. Mi chiesi se sarebbe riuscita a non farsi prendere dallo sconforto, a credere che io avrei continuato a cercarla fino a che ci fossimo riuniti. Sperai che credesse nella profondità dei miei sentimenti che sapesse che mai, per nessuna ragione al mondo, avrei rinunciato a cercarla.

 

 

*****

 

 

L’intensa luce della luna illuminava il giardino di un chiarore perlaceo. Non avevo idea di dove mi trovassi con precisione, sapevo solo di essere da qualche parte in Rajasthan, il regno di Cavan. Anche il mio regno, quando ci fossimo finalmente sposati. Era notte fonda ma non riuscivo a dormire sebbene i tre giorni appena trascorsi in sella mi avessero fatto calare addosso una coltre di stanchezza. Poche ore dopo aver attraversato il confine, mi avevano fatta scendere dal ruth e dopo avermi imbavagliata e avermi fatto indossare un burka, mi avevano fatta salire a cavallo, mentre una parte degli uomini aveva portato via il ruth. Avevamo ripreso la marcia fermandoci solo per la notte, accampandoci accanto alla strada per riprendere poi a cavalcare appena sorgeva il sole. Finché quel pomeriggio presto eravamo giunti in quella casa dove, mi era stato detto, avremmo trascorso la notte.

Mi sembrava di essere in viaggio da anni, ma un rapido calcolo mi aveva contraddetta: erano solo dieci settimane. “Solo”… non era quello il termine che il cuore mi suggeriva: erano state le settimane più lunghe e orribili che potessi ricordare, giorno dopo giorno lottavo contro le parole che il Prediletto mi rovesciava addosso, cercando di preservare la mia integrità mentale e la fiducia che avevo nei miei amici. E nell’uomo che amavo.

Ma non era facile. Dubbi e incertezze si accavallavano nei miei pensieri amplificati dai commenti velenosi del capo dei miei rapitori. Perché Cavan non mi aveva raggiunta? Più di una volta era arrivato così vicino a me che sembrava quasi avesse fatto apposta a non raggiungerci. Come se non mi volesse salvare…

No! Non dovevo pensare questo! Era ciò che il Prediletto voleva: che io dubitassi di Cavan e quindi mi lasciassi avvicinare da lui. No, il mio principe mi avrebbe salvata, ne ero certa. Doveva salvarmi! Non avrei resistito a lungo se lui non fosse arrivato. Potevano esserci decine di motivi per cui, anche se era arrivato così vicino, non era riuscito a raggiungerci. In fondo era quella dell’inseguitore, la parte più difficile.

Ma era proprio così? Il dubbio mi attanagliava facendomi mancare il respiro, spaventandomi a morte, presentandomi un quadro terrificante.

Poi all’improvviso, senza un motivo apparente, mi tornò alla mente il sogno che avevo fatto tante settimane prima, la notte delle stelle cadenti. Quella notte mi ero trovata sulla terrazza di un’alta torre, in un luogo sconosciuto, dove avevo incontrato un uomo misterioso, con una folta barba bianca e una veste fluente intrisa del profumo di medicamenti e di erbe officinali. “Rammenta che coloro che ti amano non smetteranno mai di cercarti…” aveva detto “Non abbandonare mai la speranza e non smettere di credere nel loro amore per te… Nel suo amore per te.” aveva concluso prima di svanire.

Mi resi conto che aveva ragione. Chissà perché avevo quasi dimenticato quel sogno e ciò che quelle parole significavano. L’uomo che mi era apparso sapeva che avrei dovuto affrontare quella prova e mi aveva incitato a non perdere mai la speranza, a non lasciarmi sopraffare dai dubbi e io dovevo resistere. Non avrei più dubitato di Cavan e degli altri, mi ripromisi, mai più!

«Aspetterò, amore mio. So che verrai a prendermi, che riuscirai a trovarmi. E io ti aspetterò…» mormorai guardando il cielo stellato.

 

 

*****

 

 

Il vento carico di umidità faceva ondeggiare i lembi della mia casacca mentre il cavallo procedeva al piccolo galoppo. Avevamo lasciato il palazzo di Jaipur da due settimane e stavamo seguendo le tracce delle nostre prede concedendoci ben poco riposo. Il fatto che ora non vi fosse più il ruth nel loro convoglio era uno svantaggio: non solo quel mezzo di trasporto era abbastanza lento ma i segni che le sue ruote lasciavano sul terreno erano inconfondibili. Ora si spostavano molto più velocemente e in breve ci avevano distanziato, a ogni bivio l’incubo della direzione si ripresentava. Avevamo individuato alcuni segni identificatori nei ferri dei cavalli che stavamo seguendo, ma non sempre riuscivamo a individuarli subito, allora bisognava cercarli con attenzione prima di scegliere da che parte andare. Per non sbagliare, per non perdere tempo prezioso…

Ripensai al dispaccio che ci aveva raggiunti al mio palazzo, poco prima che ripartissimo. Il colonnello era tornato a Lucknow due giorni dopo che l’avevamo lasciata e il signor Asa gli aveva riferito la direzione che avevamo preso. Non sapendo come altrimenti contattarci aveva seguito il suggerimento dello zio e ci aveva inviato il dispaccio al mio palazzo di Jaipur, sapendo che la mia rete di spie avrebbe fatto in modo di farmelo avere. Fortuna volle che fossimo ancora lì quando arrivò: il colonnello chiedeva notizie dell’inseguimento e di Elisa e offriva la collaborazione di tutti i presidi dell’Uttar Pradesh, se avessimo avuto bisogno di aiuto non dovevamo far altro che chiedere. Gli avevo risposto che per il momento eravamo diretti dall’altra parte ma che non avrei esitato a chiedere aiuto, quando mi fosse servito. Lo avevo anche rassicurato che Elisa stava bene. Infatti era vero, almeno di salute, era preoccupata e stanca come tutti noi, ma questo non la fermava: continuava il viaggio con grande determinazione. Le avevo proposto di restare nel mio palazzo ad attendere la conclusione della caccia, ma lei non aveva voluto sentire ragioni. Nonostante Alex avesse tentato di convincerla volle venire con noi: voleva esserci quando avessimo ritrovato Marina, voleva esserle accanto da subito.

Alzai gli occhi al cielo, notando i nuvoloni plumbei che lo coprivano. Avevano iniziato ad ammucchiarsi il giorno precedente, spinti dal vento, e ormai coprivano completamente il cielo sprofondando il panorama in una luce brumosa e opalescente. La stagione dei monsoni sarebbe iniziata da un momento all’altro e questo mi preoccupava: ci avrebbe rallentato non poco. Non mi era di grande conforto il pensiero che anche i rapitori avrebbero dovuto rallentare, visto il vantaggio che avevano su di noi. Le tracce che seguivamo erano vecchie di cinque giorni e la distanza continuava ad aumentare. Finché avevamo viaggiato in Rajasthan avevo potuto percorrere delle scorciatoie, conoscendo la mia terra palmo a palmo, ma ora eravamo costretti a seguire le strade per non rischiare di perderli. O di perderci…

Eravamo diretti a sud, sulla strada per Bombay e mi chiesi se saremmo riusciti ad arrivarci prima che il cielo si aprisse rovesciandoci addosso le piogge monsoniche. Quasi a farsi beffe dei miei pensieri un fragoroso tuono rimbombò per l’aria accompagnato da un alto nitrito di Hira Kala che galoppava a un paio di metri da me. Accelerammo l’andatura nella speranza di coprire più terreno possibile finché le strade erano asciutte. Silam si lanciò in avanti come spesso faceva quasi a sincerarsi che la strada fosse sicura, frustandosi i fianchi con la coda, i baffi tesi a percepire ogni cosa e un basso brontolio, quasi un’eco del tuono, che gli usciva dalla gola.

Mi sentivo come lui: determinato e furioso. Sapevo che, a modo suo, amava Marina quanto me ed era arrabbiato per non essere riuscito a proteggerla. E voleva vendetta. Speravo che potesse averla al più presto poiché questo avrebbe significato ritrovare la mia sposa.

 

La pioggia ci sorprese giorni dopo, a poche miglia da Bombay. Quando vi entrammo eravamo ormai fradici, incuranti della paura che la comparsa di Silam al nostro fianco provocava nella gente ci dirigemmo al palazzo che mio zio possedeva in uno dei quartieri alti della città e, sistemati i cavalli nelle scuderie, entrammo in casa.

Ordinai alla servitù di preparare del cibo e un bagno caldo per ciascuno di noi, quindi spedii uno dei servitori, il cui nome mi era stato raccomandato dal Raja, a indagare su eventuali movimenti di drappelli di uomini a cavallo avvenuti negli ultimi giorni e mi ritirai nelle stanze padronali.

Ero distrutto e mi immersi con gratitudine nell’acqua calda lasciando che sciogliesse i miei muscoli intirizziti ed esausti. Speravo di ricevere presto notizie sulle nostre prede e pregavo che non fossero troppo lontane.

Il servitore tornò che era notte fonda. La pioggia non aveva smesso un attimo di scrosciare ed egli era fradicio, ci raggiunse nel salotto dove ci eravamo radunati per consumare il pasto e attendere notizie, e si inchinò davanti a me.

«Ho le informazioni, Altezza.»

«Cosa hai saputo?» chiesi impaziente.

«Un drappello di trenta uomini che scortavano un uomo e una donna avvolta in un burka, sono entrati in città sei giorni fa. Si sono fermati un giorno e una notte nel palazzo del nobile Nita, poi sono ripartiti prendendo la strada costiera verso sud. La donna è stata fatta salire su un ruth trainato da due cavalli, nessuno sa che aspetto avesse, ma alcuni hanno notato che gli uomini si comportavano con deferenza verso di lei, sebbene la tenessero d’occhio. Si pensa che sia una prigioniera importante.»

«Dunque sono ripartiti verso sud…»

«Sì, mio Principe. Si sussurra che siano diretti a Goa.»

«Bene. Se non c’è altro puoi andare.» conclusi congedandolo.

Rimanemmo in silenzio per lunghi minuti, ognuno coi propri pensieri.

«Ripartiamo domattina appena la luce lo consente.» dissi «Dovresti restare qui, Elisa.» aggiunsi rivolto alla ragazza.

«No!» disse semplicemente «Non sarà un po’ di pioggia a fermarmi!»

«Come vuoi…» sapevo che era inutile insistere.

Ci ritirammo per riposare, il viaggio sarebbe ripreso anche troppo presto.

 

A Goa le tracce ci portarono nuovamente verso l’interno. Il tempo passava e presto i monsoni furono sostituiti dal rigoglioso inverno indiano, coi suoi colori e i suoi profumi. Intanto il nostro viaggio infinito continuava, mentre i giorni si rincorrevano divenendo settimane, poi mesi. Trascinati dagli indizi ci ritrovammo nuovamente a Lucknow, dove ci fermammo due giorni per riposare, dando la possibilità ai Conti Shallowford di passare il Natale con almeno una delle figlie.

Persi la cognizione del tempo, il mio mondo si ridusse agli zoccoli del mio cavallo, agli artigli di Silam e alle voci dei miei compagni. Un solo pensiero occupava tutta la mia mente, un unico nome: Marina.

Quando le tracce tornarono a puntare a sud tremai: era giunta notizia che i tugh si erano ridestati in Andhra Pradesh tornando a colpire con la ferocia che li caratterizzava tutti gli incauti che avevano la sventura di arrivare a portata dei loro impietosi lacci. Fu così che le autorità britanniche, con l’appoggio della nobiltà indiana, decisero la diramazione di un dispaccio che avvertiva tutti coloro che stavano viaggiando di evitare, a qualunque costo, l’Andhra Pradesh. A qualunque costo!

Ma era verso quella regione che, all’apparenza, le tracce conducevano e io mi sentivo morire al pensiero del pericolo che avrebbe corso Marina nei luoghi infestati dai Tugh.

Neppure il fatto di trovarsi sotto la protezione della Setta senza nome garantiva la sua sicurezza, poiché nulla, neppure il nome di Durga, garantiva che non sarebbero stati attaccati dai fanatici adoratori di Kalì. Ma le tracce curvarono nuovamente verso il Maharashtra, schivando così la regione insanguinata, poi a Purli trovammo un nuovo messaggio della mia sposa che ancora una volta ci aveva lasciato un’unica parola: Bangalore.

 

 

*****

 

 

Seduta su una pietra piatta osservavo sconsolata la mia nuova prigione. Eravamo arrivati nel complesso di un tempio abbandonato nei pressi di Bangalore qualche ora prima ed ero stata fatta “accomodare” in una cella sotterranea. Unica fonte di luce e aria era una piccola finestra situata in alto sulla parete, ma che all’esterno si trovava al livello del terreno. Avevo cercato di smuovere le sbarre che la chiudevano ma senza risultato, così alla fine mi ero seduta per cercare di studiare un piano di fuga migliore. Erano mesi ormai che tentavo di fuggire nell’attesa di venir raggiunta da Cavan, mia sorella e gli altri. Sapevo che continuavano a inseguirci: il nostro continuo spostarci ne era la prova, il Prediletto stava diventando sempre più irascibile perché, senza un periodo di stabilità, non riusciva a penetrare i miei pensieri, a far breccia nella fiducia che riponevo in coloro cui volevo bene. Sorrisi ripensando alla nostra conversazione di due settimane prima: aveva tentato di convincermi che nessuno mi stava cercando, che nessuno stava venendo a liberarmi. Allora gli avevo chiesto come mai continuavamo a spostarci se nessuno ci inseguiva, il risultato era stato che se ne era andato sbattendo la porta, sollevandomi dal peso della sua compagnia per ben tre giorni.

Il sorriso abbandonò il mio volto al pensiero della mia famiglia che, per la prima volta da che ero nata, aveva passato il Natale senza di me. La ricorrenza era caduta cinque settimane prima, ormai era la fine di Gennaio, poco più di un anno prima avevo rivisto Cavan dopo quel breve ma significativo incontro a Londra. Un anno… Un anno da che lo avevo rivisto e sette mesi da che ne ero stata separata. Più di sette in verità, ma non lo sapevo con precisione. Dio, quanto mi mancava! Lui e la mia famiglia. Era così tanto che non parlavo con qualcuno, in quei momenti desideravo disperatamente avere accanto Elisa, non ero mai stata separata da mia sorella per così tanto tempo, neppure quando eravamo andate a scuola in due istituti diversi. Desideravo rivedere mia madre, sentirla cantare come sempre faceva mentre attendeva alla conduzione della casa. Desideravo sentire ancora una volta il profumo del tabacco da pipa di mio padre, avvertire il conforto e il senso di sicurezza che mi dava averlo accanto. Rivedere il Raja, mio nonno, sentirlo raccontare di mia madre, quella che mi aveva portata in grembo, di quanto fosse dolce e bella. Sentirlo raccontare di mio padre, colui il cui sangue scorreva nelle mie vene, di quanto fosse coraggioso, colto e di quanto amasse mia madre. E di quanto aveva amato me, anche se non mi aveva mai conosciuta, al punto da donare la sua vita per preservare la mia…

E ora ero nelle mani di coloro che li avevano trucidati, assieme a tutti gli abitanti del palazzo ove ero nata i cui unici sopravvissuti eravamo Umi, Patal e io.

Un lieve rumore fuori dalla finestrella della mia prigione mi fece alzare gli occhi verso l’apertura in tempo per vedere qualcosa di sgargiante cadere attraverso le sbarre, rimbalzare una volta sul pavimento e rotolare fino a fermarsi accanto ai miei piedi: una palla rossa, grande come un piccolo melone. Un’intrusione tanto inaspettata che mi fece sollevare un sopracciglio perplessa, mentre raccoglievo quel giocattolo così fuori posto in quel luogo.

«Oh, no! La mia pallina!» esclamò costernata una vocetta sopra la mia testa.

Mi alzai e tornai a guardare verso la finestra nel cui vano ora spuntava il visetto infantile di una bambina di non più di sette anni. Mi guardò, stupita di vedermi, almeno quanto ero io di vedere lei, poi sorrise. Mi avvicinai arrampicandomi su alcune pietre che mi permettevano di arrivare all’altezza dell’apertura e le porsi la palla rossa.

«Grazie.» mi disse prendendola «Chi sei?»

«Moti, e tu?»

«Kim. Cosa ci fai lì sotto?»

«Sono prigioniera. Non dovresti essere qui: è pericoloso.»

«Lo so, ci sono gli uomini cattivi. Ti hanno chiusa qui loro? Vuoi che ti aiuti a uscire?» chiese ancora al mio cenno affermativo.

«Ti ringrazio, ma è troppo pericoloso. Però…» esitai un attimo «Vuoi aiutarmi?» le chiesi «Allora ascoltami,» proseguii quando annuì «lascia questo posto e non tornare finché non ce ne saremo andati. Dovrai aspettare un po’, forse un giorno, ma arriveranno alcuni uomini accompagnati da una ragazza della mia età. Ci saranno tre indiani e due europei, anche la ragazza è europea, uno degli indiani si chiama Cavan: digli che Moti era prigioniera qui e che siamo diretti al porto di Madras.» presi l’anello col sigillo che tenevo appeso al collo con un nastro e lo porsi alla bimba «Perché capisca che il messaggio viene da me digli che te lo ha detto Marina e dagli questo anello.» conclusi porgendoglielo «Non fare parola con nessuno di quello che ti ho detto, solo con lui. È importante!»

«Va bene.»

«Adesso vai, non devono scoprirti. Vai e, ti prego, riferisci il mio messaggio.»

«Lo farò.» mi guardò per un attimo con un’espressione seria sul volto infantile, poi sorrise e corse via.

La osservai sparire tra la folta vegetazione che circondava il complesso templare poi scesi dalle pietre su cui ero salita e tornai a sedermi sul masso al centro della stanza e, per la prima volta dopo molto tempo, mi sentii un po’ più fiduciosa.

 

 

*****

 

 

Le fiamme del grande falò al centro dell’accampamento crepitavano contro il cielo scuro trapunto di stelle, proiettando lunghe ombre guizzanti sulle tende che ci circondavano, mentre il suono ritmico di flauti e tamburi scandiva le movenze armoniose delle danzatrici.

Ci trovavamo poche miglia a sud di Bijapur, in Karnataka, il sole era ormai tramontato, quando incontrammo un gruppo di pastori nomadi intenti a costruire i ripari per la notte, ci avevano offerto ospitalità e così ora, seduto a pochi metri dal fuoco, osservavo le figlie di quella terra danzare la loro giovinezza nell’oscurità. Mentre la musica mi pervadeva, ghermendo la mia anima col suo ritmo ossessivo e ipnotico, il mio cuore fremette in un vortice di emozioni che turbinavano veloci come le gonne di quelle fanciulle. Lo sguardo affondato nell’incandescenza delle fiamme lasciavo che la mente vagasse, guidata dal pulsare delle melodie che quegli uomini traevano dai loro strumenti. La mascella tesa, i pugni serrati, ripensavo ai lunghi mesi passati e a quelli ancora più lunghi che dovevano venire.

Poi, d’improvviso, una presenza quieta e silenziosa al mio fianco mi riscosse e, voltato il capo, mi trovai a guardare le iridi nere come la notte di una fanciulla che mi fissò a lungo prima di sorridere lievemente:

«Non devi temere per lei…» mi disse «Ella ti attende con una fiducia che nulla potrà intaccare. La sua anima luminosa è ancora intatta e lo sarà sempre. La troverai, non sarà facile, io lo so, ma la troverai. Il dolore che ti accompagna ti renderà più forte e determinato, ti darà il coraggio per andare avanti, per non arrenderti. Abbi fede nel suo cuore come lei ne ha nel tuo e segui la via che gli Dei hanno tracciato per te. Fino in fondo…» concluse.

Se ne andò senza dire altro prima ancora che avessi realizzato che se ne era andata, prima ancora che il significato delle sue parole penetrasse la coltre di sconforto e dolore che permeava la mia mente. Allora mi alzai in piedi e cercai la fanciulla tra le tende, senza però trovarla. Chiesi a una donna anziana che stava seduta davanti alla sua tenda, se l’avesse vista, mi rispose che non l’avrei trovata se lei così voleva. Disse che quella ragazza aveva il dono della “Vista”, che era in grado di percepire il futuro ma che, a causa di questo suo dono, si teneva in disparte, isolata, e che raramente rivolgeva la parola a qualcuno.

«Doveva essere una cosa importante, quella che doveva dirti,» aggiunse «per spingerla ad avvicinarti…»

Non riuscii a sapere altro, neppure il nome della ragazza, ma, tornato a sedermi accanto al falò, sentii che la serenità tornava in me, facendo rinascere la speranza nel mio cuore.

“La troverai…” aveva detto. Era tutto ciò che avevo desiderato sentirmi dire dall’inizio di quel viaggio maledetto.

 

Il mattino seguente, salutato il capo dei pastori e ringraziatolo per l’ospitalità, riprendemmo a cavalcare verso sud. Le tracce delle nostre prede ci condussero all’alba successiva fino a un complesso di templi in rovina, poco distante da Bangalore. Perlustrammo gli edifici senza trovare nulla, l’olfatto di Silam mi condusse fino a una cella sotterranea: il luogo dove avevano tenuto Marina, ma di lei non vi era traccia. Nessun messaggio era inciso sulle spoglie pietre di quella camera sotterranea, nessun indizio su dove dirigere i nostri passi. Nulla… Uscii nuovamente alla luce del sole e fui raggiunto dagli altri che al nostro arrivo si erano sparpagliati per coprire più terreno in meno tempo.

«Cavan, hai trovato qualcosa?» mi chiese Elisa appena ci riunimmo.

«No nulla. Mi dispiace...»

«Sei tu Cavan?»

La piccola voce squillante mi fece voltare di scatto. Una bambina di circa sette anni mi guardava curiosa, vestiva un sari turchese e stringeva al petto una palla rossa. Mi piegai su un ginocchio per guardarla in viso e annuii.

«Sì, sono Cavan. E tu chi sei?»

«Mi chiamo Kim. Moti ha detto di dirti che lei era qui. Gli uomini cattivi la tenevano là sotto.» disse indicando la finestrella della stanza sotterranea «Era tanto triste… Ha detto che la stanno portando al porto di Madras.»

«Madras? Quando sono partiti? Ti ha detto dell’altro?» chiesi con urgenza.

«Sono partiti ieri notte quando è salita la luna. Mi ha detto di dirti che me lo aveva detto Marina, è strano vero? E mi ha chiesto di darti questo.» concluse porgendomi l’anello con il sigillo di Lakshmi.

Guardai l’anello e lo strinsi nel pugno. Otto ore, avevano solo otto ore di vantaggio: potevamo farcela! La bambina mi guardava sorridendo, contenta di avermi riferito il messaggio e, osservandola presi una decisione. Mi slacciai una sottile catenella, che portavo sotto la casacca, a cui era appesa una piccola piastra d’argento su cui era inciso il motto della mia famiglia e gliela feci passare attorno al collo.

«Tienila sotto la blusa, che nessuno all’infuori di te sappia che la possiedi.» le dissi a bassa voce «Se un giorno avrai bisogno di qualche cosa, aiuto, protezione, lavoro o semplicemente di un posto dove stare, vai alla reggia di Jaipur e mostrando questa piastra, chiedi del signore del palazzo: tutto ciò di cui avrai bisogno ti sarà dato, Kim. Hai la mia parola, la parola di Cavan Marek, Signore del Rajasthan!» conclusi.

La vidi spalancare gli occhi stupita nello scoprire chi ero, le sorrisi, poi posatole un lieve bacio sulla fronte, mi rialzai e mi voltai verso i miei compagni.

«Andiamo, la mia sposa ci aspetta!»

Montammo a cavallo e partimmo al galoppo lasciando la bambina vicino ai templi a guardarci svanire in una nuvola di polvere ocra.

Puntammo a est attraversando le strade di Bangalore il più velocemente possibile. Quando finalmente uscimmo dall’abitato spronammo i cavalli al galoppo e in pochi minuti giungemmo al bivio a due miglia dalla città. Fermai Badal e rimasi a guardare qualche istante la biforcazione: a destra la strada sud che passava per Vellore nel Tamil Nadu, la strada più lunga per Madras. A sinistra il tragitto più breve verso la stessa destinazione, la strada più diritta che però passava per un buon tratto attraverso l’Andhra Pradesh. E i tugh. Rimasi in silenzio un attimo poi guardai i miei compagni di viaggio.

«Seguite le tracce sulla via sud, cercate di guadagnare più terreno possibile. Io percorrerò la strada a nord: ci riuniremo al bivio dopo Vellore, se avremo fortuna li prenderemo tra due fuochi.»

«Mio signore, è troppo pericoloso!» esclamò Abu.

«È la strada più breve: guadagnerò almeno tre ore.»

«Già, ma potresti perdere la vita.» disse Alexander «E allora sarà abbastanza difficile prenderli tra due fuochi.»

«Non c’è scelta! Devo fare in fretta, dobbiamo tagliare loro la strada verso Madras: se raggiungono il porto li perderemo!»

«Ha ragione Cavan.» disse improvvisamente Tyler.

Lo guardai stupito poiché non mi aspettavo che proprio lui mi appoggiasse.

«Se si imbarcano su una nave, cosa assai probabile, potremmo perderli per sempre. Tagliar loro la strada è fondamentale, ma è anche vero che da solo saresti un bersaglio ideale per i tugh: ci vuole qualcuno che ti guardi le spalle. O meglio qualcuno con cui guardarsi le spalle a vicenda. Verrò con te, anche perché se li raggiungiamo prima degli altri, in due abbiamo qualche possibilità di bloccarli, da solo non credo.» concluse.

«Grazie per la fiducia, Tyler…» commentai tra il divertito e il riconoscente.

«Silam verrà con voi, per sicurezza.» aggiunse Elisa.

La tigre rispose alla sua voce con un miagolio e la ragazza lo guardò seria.

«Andrai con Cavan e Luke, Silam, e li proteggerai. Per Marina, per la sua salvezza.» gli disse.

La tigre emise un basso mormorio, quasi facesse le fusa e si affiancò al mio cavallo voltando poi gli occhi azzurri e vigili verso di me in attesa di ordini. Scossi la testa con un mezzo sorriso: era l’animale più intelligente che avessi mai incontrato. Poi mi accorsi che anche Hira Kala si era avvicinato e quando lo guardai si impennò con un nitrito e si mise a grattare la terra con uno zoccolo, impaziente.

“ Sono gli animali più intelligenti che abbia mai incontrato…” mi corressi in silenzio.

Feci un piccolo cenno di commiato verso gli altri, poi scambiato un veloce sguardo d’intesa con Tyler, partimmo al galoppo seguiti da Silam e dal cavallo di Marina, puntando verso nord e i pericoli che vi si nascondevano. Per guadagnare tempo, per non farci scappare le nostre prede. Per la vita e la libertà di colei che amavo.

Galoppammo a lungo veloci, consci dell’urgenza della nostra missione. Era ormai buio quando ci fermammo per far riposare i cavalli, accampandoci per la notte un paio di miglia dal confine dell’Andhra Pradesh, consapevoli che una volta entrati in quella regione non ci saremmo più potuti fermare che a rischio della vita.

La punta meridionale dell’Andhra Pradesh era una regione sorprendentemente verde, coperta da prati e da una giungla folta. Per fortuna la strada correva lontano dagli alberi e dai centri abitati, in una zona libera, dove lo sguardo poteva spingersi lontano e avvistare i pericoli in tempo. Con la chiusura dei confini, che comunque non venivano presidiati essendo questo troppo pericoloso a meno di non impiegare un esercito, le strade erano pressoché deserte, soprattutto quelle che non attraversavano villaggi o città. Era quindi più improbabile che i tugh le percorressero nella ricerca di eventuali vittime. Questo almeno era ciò che in cuor nostro speravamo mentre percorrevamo quella strada alla velocità massima che potevamo tenere senza sfiancare i cavalli.

Il sole andava ormai abbassandosi verso l’orizzonte quando superammo il confine col Tamil Nadu. Ci piegammo allora sul collo dei nostri destrieri sapendo che il bivio al quale eravamo diretti si trovava ormai a meno di un miglio davanti a noi. Giunti al bivio osservammo il terreno e, con sollievo, non trovammo tracce. Ci nascondemmo allora in una macchia di vegetazione smontando di sella per permettere ai cavalli di riposare il più possibile. Ci sedemmo su alcune rocce da dove potevamo osservare la strada e attendemmo le nostre prede elaborando un piano che ci permettesse di sfruttare al meglio la nostra inferiorità numerica.

Il sangue mi corse più veloce nelle vene quando, dopo quasi due ore, divenne udibile lo scalpitio di zoccoli al galoppo. Rimontammo in sella e attendemmo col cuore in gola l’arrivo di coloro che, speravamo, fossero i rapitori.

Invece furono Patal e gli altri ad arrivare, visibilmente esausti e insonni. Quando ci videro fermi in mezzo alla strada rallentarono fino a raggiungerci, sui loro volti la stessa incredulità che provavamo Tyler e io. Dove erano coloro che avevano inseguito e che noi avevamo preceduto? Non erano passati dal bivio, di questo eravamo certi, ma allora dove erano scomparsi?

Serrai le redini di Badal con forza tale da far scricchiolare il cuoio di cui erano fatte, una furia sorda mi pulsava in fondo alla gola. Osservai l’inglese con cui avevo galoppato fin lì che mi restituì lo sguardo con un lieve cenno d’assenso, allora mi voltai verso gli altri.

«Restate qui, riposatevi. Noi andremo a Vellore a chiedere informazioni, forse hanno preso una strada secondaria. Può darsi che qualcuno li abbia visti.» feci per muovermi ma vidi Hira Kala prepararsi a seguirmi «No amico,» dissi piano allungando la mano verso di lui per carezzargli il collo «riposa anche tu.»

Passai una corda attorno al suo collo e la porsi a Patal perché lo trattenesse, quindi mi avviai al piccolo galoppo verso Vellore seguito da Tyler.

Il piccolo centro abitato si articolava attorno a una piazza al centro della quale sorgeva il pozzo comune. Ci fermammo presso questo per porre domande a coloro che si trovavano lì, ma nessuno aveva visto il drappello e il ruth. Non sapevamo che fare, l’impotenza che provavo mi fece venir voglia di urlare ma sapevo che non avrebbe portato a nulla. Tyler era nelle mie stesse condizioni, ringraziati coloro che ci avevano risposto voltammo i cavalli e ci dirigemmo al passo nuovamente verso il bivio.

«Io li ho visti…»

Ci voltammo sorpresi verso un ragazzo di circa tredici, quattordici anni, portava un fascio di canne sotto il braccio sinistro e stringeva un falcetto con l’altra mano.

«Sei sicuro?» chiese Tyler.

«Sì, certo. Li ho visti bene: erano una trentina e scortavano un ruth trainato da due cavalli, li ho notati per questo, è raro vedere dei cavalli al traino di un ruth. Soprattutto cavalli come quelli.»

«Dove sono andati?» chiesi.

«Quando li hai visti?» chiese contemporaneamente Tyler.

«Un’ora fa, forse due. Hanno imboccato la scorciatoia per Madras.»

«Che scorciatoia?»

«Lascia la strada circa un chilometro prima del paese e vi ritorna a Kanchipuram. Si guadagna del tempo, così, e quelli sembravano avere parecchia fretta.»

«Ascoltami,» gli dissi serio «in quel ruth c’è mia moglie. Quegli uomini l’hanno rapita: devo raggiungerli! Dove inizia esattamente questa scorciatoia?»

Il ragazzo mi guardò qualche istante e notando la rabbia repressa e la preoccupazione nei miei occhi annuì lievemente.

«Non vi conviene seguirli su quella pista, ormai. Hanno troppo vantaggio. Meglio se prendete l’altra scorciatoia.»

«Quale altra?» lo interruppe Tyler.

«Andate avanti su questa strada fino al bivio con la strada per l’Andhra Pradesh, superatelo e dopo circa due chilometri noterete sulla sinistra l’inizio di una folta giungla e un gruppo di rocce rotonde. Proprio in mezzo a quelle rocce parte un sentiero molto stretto, lo si può percorrere solo a piedi o a cavallo, attraversa dritto come una freccia tutta la giungla e arriva a Madras dalla parte del porto. Con un cavallo veloce in tre ore arriverete là.» guardò il cielo «Vi rimarrà solo un’ora di luce ma forse vi sarà sufficiente per trovare coloro che cercate.»

«Grazie, ragazzo.» gli dissi dandogli alcune rupie d’argento.

«Spero che la troviate, signore. Davvero…» rispose allontanandosi con un cenno.

Voltati i cavalli tornammo di gran carriera verso il bivio dove fummo accolti dalle domande ansiose degli altri. Lasciai a Tyler il compito di spiegare quello che avevamo saputo, scesi da Badal ormai esausto e, recuperate le mie due pistole dalle tasche della sella controllai che fossero cariche quindi, infilatele nella fusciacca che mi stringeva i fianchi accanto alla spada e al pugnale, mi avvicinai a Hira Kala.

«Ho bisogno di te, adesso. Dobbiamo fare in fretta, amico mio. Ho bisogno della tua forza e della tua velocità.» sussurrai.

Il cavallo emise un suono palpitante e posò il muso nella mia mano per un attimo, dandomi poi un colpetto affettuoso sul petto. Senza sellarlo montai e mi rivolsi agli altri.

«Ci vediamo al porto!»

Poi, senza dar loro il tempo di dire nulla, spronai il cavallo e, seguito da Silam, partii alla volta di Madras.

Trovai senza difficoltà le pietre indicatemi e, imboccato il sentiero, continuai a correre. Silam sparì nel folto della vegetazione ma il fruscio prodotto dalla sua corsa mi accompagnava indicandomi la sua posizione pochi metri avanti a me. Il tempo passava veloce, veloce come il vento prodotto dalla corsa di Hira Kala, che mi frustava il volto facendomi lacrimare gli occhi. Lo stallone correva con passo rapido e regolare, più veloce di qualunque altro destriero: un’energia quasi demoniaca che bruciava dentro di lui gli dava la capacità di mantenere quell’andatura sfiancante per qualunque altro cavallo. D’improvviso, dopo un tempo quasi interminabile, la giungla ebbe fine e davanti a me si aprì il mare. Mi trovai sull’orlo di una scogliera a due, tre metri sopra la superficie dell’acqua. Voltai il cavallo verso destra, verso Madras, ma un ruggito di Silam mi fece fermare e, seguendo il suo sguardo, vidi una nave che veleggiava verso il largo a poche centinaia di metri da me. A poppa, accanto all’asta della bandiera, si trovava una donna che alzò il volto verso di me al ruggito della tigre. La luce del sole morente la investiva in pieno rivelando ai miei occhi i tratti amati del suo volto. Allora un grido di dolore scaturì dal mio petto:

«Marina!!!»

 

 

*****

 

 

Le lacrime rigavano lente il mio viso mentre osservavo la costa svanire in lontananza, gli occhi fissi sul punto dove, sapevo, Cavan era ancora fermo. La luce scemava rapidamente e, in pochi minuti, fui circondata dalle tenebre profonde e scure come quelle che pochi minuti prima avevano preso possesso del mio cuore.

Eravamo arrivati a Madras nel tardo pomeriggio e, raggiunto il porto, ci eravamo imbarcati su un veliero dalle linee eleganti dotato di tre alberi. Mi avevano fatta entrare in una cabina lussuosa dove avevo passato il tempo scrutando la distesa azzurra dell’Oceano Indiano dal mio oblò, chiedendomi dove eravamo diretti ma, soprattutto, come avrebbero fatto Cavan e gli altri a seguirci. Quando sentii che l’ancora veniva issata avevo aperto la porta della cabina e avevo chiesto alle guardie che mi sorvegliavano di poter andare sul ponte. Ero stata accontentata ma, il Prediletto, aveva deciso che era troppo rischioso darmi la possibilità di saltare in acqua così, accompagnata a poppa, mi avevano legato i polsi all’asta della bandiera. Ero rimasta a guardare la costa scorrere senza prestare attenzione a ciò che vedevo finché non avevo sentito il ruggito di Silam. Chissà perché fui subito certa che si trattasse della mia tigre. Avevo alzato gli occhi di scatto, e lo avevo visto: in groppa a Hira Kala, dopo più di nove mesi, avevo rivisto Cavan. Il mio Cavan, l’amore della mia vita che non aveva mai smesso di cercarmi, di inseguirci. Era giunto infine, ma era arrivato troppo tardi, mancando l’appuntamento solo di un soffio.

L’orrore e la disperazione che si dipinsero sui suoi tratti erano lo specchio fedele di quello che provavo io.

“Amore! Amore mio!” quest’unico pensiero prese a martellare nella mia mente, nel mio cuore straziato.

Il suo grido carico di angoscia fu come una pugnalata al petto. Incurante di quanti mi circondavano e di ciò che accadeva intorno a me, tesi le mani legate verso di lui in una muta, disperata quanto inutile richiesta. Lacrime salate e roventi avevano allora inondato i miei occhi e il mio volto, ma il mio sguardo era rimasto puntato su di lui, avvinto al suo, quasi nella speranza che quel legame, quel contatto, potesse fermare la nave. Riportarla indietro…

E ora la luce era svanita e una disperazione profonda come quel mare su cui stavo viaggiando era scesa in me, annientandomi. In quel momento desiderai, come mai era accaduto nella mia vita, una rapida e pietosa morte, che mettesse fine a quell’agonia. Come la disperazione sembrava aver messo fine al mio coraggio.

«Un giovane perseverante…» commentò il Prediletto «Non mi aspettavo che riuscisse ad arrivare così vicino, ma ora è finita. Sull’acqua non si lasciano segni di alcun genere: non avrà più tracce da seguire!»

Mi si era avvicinato senza che me ne accorgessi, il suo tono irridente mi fece correre un brivido lungo la schiena. Lo guardai allontanarsi mentre la furia montava dentro di me. Chi credeva di essere quel damerino presuntuoso per parlare così di Cavan? Il mio sposo aveva corso immani rischi per inseguirci. Per mesi ci aveva incalzato frustrando i piani del Prediletto, impedendogli di completare la sua opera. Sapevo che lui temeva il mio principe, il modo in cui non ci aveva dato tregua, glielo avevo letto negli occhi. Ora si sentiva al sicuro poiché, era vero, non si lasciano tracce sul mare. Ma davvero pensava che sarebbe bastato questo a fermare Cavan? Se era così era un illuso. E io una stupida… Avevo permesso al dolore e alla disperazione di prendere il sopravvento. Se il Prediletto avesse resistito alla tentazione di pavoneggiarsi per quella che riteneva già la sua vittoria su Cavan, forse il dolore mi avrebbe indebolita al punto che gli avrei permesso di penetrare le mie difese. Ma le sue parole mi avevano pungolata, toccando uno dei tasti più delicati dentro di me, facendomi reagire. Sì: sull’acqua non si lasciano tracce. Ma Cavan le avrebbe trovate ugualmente, e le avrebbe seguite fino a raggiungermi, fino a trovarmi e portarmi via da coloro che mi avevano rapita.

«Sì…» mormorai «Lui verrà a me. Il mio amore sarà il richiamo, l’unica traccia di cui ha bisogno. Lui mi troverà e quel giorno ci riuniremo per non separarci più!» mi asciugai il volto e guardai un’ultima volta verso il punto dove lo avevo visto «A presto, amore mio. Ti aspetterò. Ho fiducia in te, so che riuscirai a trovarmi!»

 

 

*****

 

 

Ero rimasto fermo a guardare impotente la nave allontanarsi portando con sé il suo prezioso carico. Ci eravamo guardati negli occhi per un lungo, meraviglioso e terribile istante, lei aveva teso le braccia verso di me come già aveva fatto tanti mesi prima quando uno dei rapitori l’aveva sollevata sulla sua sella. E, come allora, io non ero riuscito a fare nulla per salvarla.

La nave era rimpicciolita nella distanza fino a scomparire del tutto alla mia vista pochi minuti prima che l’oscurità avvolgesse il mondo, trasformando il mare in inchiostro nero su cui si rifletteva qualche sparuta stella. Allora avevo voltato il cavallo e al passo avevo raggiunto il porto, Silam era rimasto ai margini del bosco che lo circondava, nascosto tra alcuni cespugli di mussenda. Avevo condotto Hira Kala fino a un abbeveratoio perché si dissetasse, ma lui aveva preso solo pochi sorsi. Mi ero allora seduto sul bordo della vasca di pietra, massaggiandomi le tempie, cercando di pensare alla prossima mossa. Ma la mia mente sembrava non fosse in grado di ragionare coerentemente, l’unico pensiero chiaro che rimbombava nel mio cervello, l’unico sentimento che avvertivo era quella di una perdita irrecuperabile.

I miei compagni giunsero due ore dopo. Si avvicinarono ma nessuno pose domande, era sufficiente guardarmi per capire. Elisa si sedette esausta accanto a me che non riuscivo a trovare il coraggio di guardarla negli occhi, che non riuscivo a guardare nessuno.

«Per un soffio…» mormorai infine «L’ho persa per un soffio. Erano appena salpati, era sul ponte della nave… Ci siamo guardati, sono riuscito a vedere ogni particolare del suo volto. Era così vicina!» mi interruppi «Dei… Perché? È così terribile arrivarle a pochi metri e non poter fare nulla tranne guardarla svanire… Rabbia e dolore, non sono più in grado di provare altro. E ora è tutto finito!»

«Cavan, non dire così!» disse Elisa con gli occhi umidi «Ci sono sfuggiti altre volte ma siamo sempre riusciti a ritrovare le tracce…»

«Non si può seguire la scia di una nave, Elisa!» esclamai alzandomi «Non si può! Per questo era importante raggiungerli prima che arrivassero a Madras! È finita, l’abbiamo persa…» inspirai «L’ho persa…»

Un istante dopo mi ritrovai a terra, colpito al mento da un pugno di Tyler che si chinò su di me, afferrandomi per le falde della casacca.

«Ora ascoltami bene, altezza!» disse furioso «Nessuno di noi l’ha persa, chiaro? Se tu ti vuoi arrendere fa pure, tornatene nel tuo palazzo a crogiolarti nell’autocommiserazione! Ma non osare dire mai più che è finita. Mai più! Perché se ti sento dire un’altra volta una cosa simile ti uccido!» mi fissò quasi con disprezzo «Mi hai sentito? Ti uccido!»

L’orrore e l’angoscia si cristallizzarono tramutandosi in rabbia. Lo agguantai a mia volta e sfruttando tutto il mio peso lo spinsi di lato rotolando fino a invertire le posizioni.

«Pensi che mi importi?» gli ringhiai in faccia «Pensi che le tue minacce possano spaventarmi? Nove mesi fa mi hanno strappato il cuore e l’anima, da allora sto morendo lentamente giorno dopo giorno. Ogni pensiero, ogni singolo respiro da allora mi sono costati dolore e uno sforzo immane, ma ho resistito. Ho continuato a sperare e correre, ho continuato a incalzarli, delusione dopo delusione, ingoiando la paura, l’angoscia…»

«E lo stesso è stato per me!» mi gridò di rimando «Per me e per gli altri. Abbiamo avuto le tue stesse delusioni. Abbiamo ingoiato la stessa paura, la stessa angoscia, Cavan! Non possiamo arrenderci!» si interruppe, la voce rotta dalla disperazione «Non possiamo farle questo. Non puoi farle questo…»

«Pensi che io lo voglia fare? Che mi voglia arrendere perché sono stanco? O perché è più semplice? Sono su una nave, Tyler! Su una nave…» mi interruppi folgorato da un’idea «Una nave… Ma certo, certo! Perché non ci ho pensato prima!» esclamai alzandomi.

Tesi una mano all’inglese che mi guardava sorpreso per il mio cambiamento di umore.

«Andiamo, capitano. Non so quanta fortuna mi sia rimasta, ma se ne ho ancora un po’, forse diventerà possibile anche seguire la scia di una nave!»

«Era ora…» bofonchiò accettando la mano.

Mi voltai verso Elisa che mi guardava con occhi colmi di lacrime.

«Mi dispiace averti spaventata.» le dissi posandole le mani sulle spalle «Ma ti prometto che mi farò perdonare.»

«Riporta a casa mia sorella e ti perdonerò qualunque cosa.» rispose con un timido sorriso.

Le sorrisi di rimando, lasciai gli altri presso l’abbeveratoio con i cavalli e mi avviai verso gli edifici del porto insieme a Tyler. Camminavamo a passo svelto diretti verso il Registro, speravo che i dati di provenienza e destinazione della nave su cui viaggiava Marina fossero stati depositati. In teoria per legge tutte le navi erano obbligate a registrarsi appena attraccavano in porto, ma spesso accadeva che naviganti non proprio in regola schivassero questa procedura allungando una somma di denaro agli ufficiali portuali. Pregavo che per passare il più inosservati possibile, i settari avessero registrato la nave, in modo da far credere che non avevano nulla da nascondere. Dopo tutto nessuno, neppure io in circostanze normali, poteva pensare che gente simile avrebbe lasciato una traccia tanto ovvia. Ma la disperazione a volte ci spinge ad aggrapparci a qualunque cosa, anche alle possibilità più inverosimili. E qualche volta questa tenacia viene ripagata.

E infatti fummo ricompensati. La nave che ironicamente si chiamava “Perla dell’India”, proveniva da Goa, aveva fatto uno scalo nel Kerala prima di dirigersi a Madras dove aveva imbarcato provviste, carico e passeggeri. Aveva preso il mare con un’ora di ritardo e aveva messo la prua in direzione dell’unico scalo seguente: Calcutta.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIII ***


 

Nota dell'autrice
Buon gorno! Eccovi il ventitreesimo capitolo
di Sangue Indiano. Che dire, siamo quasi in fondo!
Sabato prossimo posterò l'ultimo capitolo e l'Epilogo,
Sìsì, ve li posto insieme così non dovrete aspettare 
un'altra settimana per il finale! ;)
Per quanto riguarda il capitolo corrente... Consiglio
ai più emotivi di tenere un fazzoletto a portata di mano.
Buona lettura!


 




Capitolo XXIII

 

 

In piedi sulla prua del mercantile osservavo il mare illuminato dalla luna, immerso nei miei pensieri. Saputa la destinazione della nave su cui avevano fatto salire Marina avevamo percorso i moli alla ricerca di un trasporto verso la grande città portuale dell’India orientale, nella speranza di trovare una nave che stesse per salpare. La fortuna ci sostenne ancora una volta, infatti trovammo un mercantile il cui comandante aveva deciso di partire per Calcutta nonostante avesse la stiva piena solo a metà. Aveva così accettato di trasportare noi, i cavalli e, con un po’ di incoraggiamento, e qualche velata minaccia, anche Silam. Fortunatamente la tigre aveva già viaggiato su una nave e, fatto il giro del ponte per assicurarsi che non vi fossero pericoli, si era accoccolata accanto alla murata di dritta passando il tempo a sonnecchiare. Eravamo salpati quattro ore dopo la nave delle nostre prede ma contavamo sul fatto che la nostra fosse una nave da trasporto rapido, in grado di filare a diciotto nodi col vento favorevole, per non aumentare il distacco dal trealberi.

Avevamo passato il primo giorno a bordo parlando a voce bassa di quello che potevamo trovare una volta arrivati a Calcutta. Sapevamo che ci sarebbero volute due settimane di mare in quel periodo dell’anno e che quindi era prematuro fare programmi, ma sapevamo anche che l’unico modo per sopravvivere a quell’attesa snervante era mantenere la mente occupata.

Mi passai una mano sul mento, laddove Tyler mi aveva colpito, con un mezzo sorriso: era auspicabile evitare di irritarci a vicenda più di quanto non lo fossimo già.

«Sembri divertito…» disse il capitano affiancandomi.

«Stavo solo pensando che è meglio non farti arrabbiare troppo spesso.»

«Capisco… Anche tu però non scherzi.» commentò ricordando la mia reazione.

Sorrisi senza guardarlo, attraverso il ponte mi giunsero confuse le voci di Alex e Patal.

«Di cosa parlano?» chiesi.

«Il solito: come trovare le tracce dei nostri “amici” una volta a Calcutta.»

«Avranno il tempo di esaurire ogni ipotesi, da qui a quando saremo arrivati. Insieme con la pazienza.»

«Lo so. Ma è preferibile al restare in silenzio, immersi in cupi pensieri. Almeno così ci si può illudere di stare facendo qualcosa di più che restare seduti sul ponte di una nave nell’attesa di arrivare in porto.»

«Che è poi l’unica cosa che obbiettivamente possiamo fare. Ma, hai ragione, pensavo la stessa cosa poco fa…»

«Accidenti!» disse fingendo incredulità dopo pochi istanti «Cavan che mi dà ragione! Devo aver fatto qualcosa di buono, nella mia vita precedente.» concluse con un ampio sorriso.

«Forse…» commentai restituendoglielo «Ascoltami,» dissi poi tornando serio «so che le cose tra noi non sono mai andate. Sappiamo entrambi perché: amare la stessa donna rende raramente amici. Ma… affronteremo ancora molti pericoli, temo, prima di trovarla e se dovessi diventare troppo scomodo, i nostri amici, come li hai chiamati tu, non esiteranno a tentare di eliminarmi. Se dovessero riuscirci…» mi interruppi e lo guardai dritto negli occhi «Trova Marina e portala via dall’India, Luke. E rendila felice…» conclusi.

Mi guardò sorpreso per qualche istante poi, accorgendosi della serietà del mio sguardo, annuì lievemente «Hai la mia parola. Non che non sia tentato di portarla via comunque, e renderla felice…» sdrammatizzò poi.

«Sai, Tyler, continui a non piacermi. Proprio no! Ma, in fondo… sei un tipo in gamba.» dissi tornando a guardare il mare.

«Anche tu, Altezza. Anche tu…» aggiunse dopo un attimo di silenzio.

 

 

*****

 

 

Il frastuono della città mi assalì con violenza dopo il silenzio del mare. Grazie ai contatti del Prediletto eravamo riusciti a ottenere un attracco presso le affollate banchine del porto, solitamente riservate alle navi mercantili o alle navi europee, in modo da poter sbarcare comodamente. Un gruppo di dieci uomini ci attendeva ai piedi della passerella con i cavalli e un ruth, simile a quello che avevamo lasciato a Madras. Quando fui salita sul piccolo trasporto, dopo che le guardie incaricate della mia sorveglianza ebbero assicurato la porta, ci muovemmo verso l’uscita del porto e ci inoltrammo nella città vera e propria. Voci e profumi di un bazar mi raggiunsero attraverso le pareti di legno mentre attraversavamo le vie affollate di Calcutta. Dopo più di due ore i rumori all’esterno del ruth si fecero più fievoli finché rimase solo lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli. Compresi che eravamo usciti dalla città e ci stavamo addentrando nelle campagne alla sua periferia. Mi arrischiai allora a scostare una delle tende interne per osservare il mondo fuori dal carro attraverso le persiane intagliate. I campi coltivati si snodavano lungo la strada ma non si spingevano nell’interno per più di un ettaro dove si interrompevano per lasciare spazio a una fitta e lussureggiante foresta. I richiami di centinaia di uccelli, frammisto a quelli delle scimmie e di qualche occasionale predatore, riempivano l’aria satura dei profumi di fiori e piante selvatici.

La vista di tutto questo riportò la mia mente indietro di più di un anno, quando con la mia famiglia avevo viaggiato verso Lucknow e la nostra nuova casa, piena di aspettative per la vita che mi si apriva davanti. Era stato un viaggio felice, spensierato.

Il miagolio minaccioso di una tigre nel folto della giungla mi riportò alla realtà. Ripensai a Silam, mi mancava così tanto! Avrei dato qualunque cosa per averlo con me in questo interminabile viaggio verso l’ignoto. Sorrisi. Se Silam fosse stato con me, questo viaggio non sarebbe mai arrivato così lontano.

Eppure, sapevo di essere molto meno lontana da casa di quanto non lo fossi stata in precedenza. Calcutta era relativamente vicina a Lucknow. Ricordai che Alexander era sbarcato lì, al suo arrivo dall’Inghilterra e che solo successivamente era stato destinato al comando di mio padre.

“Papà…” pensai con nostalgia.

Mi chiesi nuovamente come stessero lui e la mamma, cosa stessero facendo, se erano preoccupati per me. E per Elisa.

La mia coraggiosa sorellina che insieme ai miei amici e al mio amore da mesi stava inseguendo i miei rapitori che mi stavano trascinando in quel viaggio infinito. Mi aveva riempito di affetto e orgoglio scoprire che anche lei faceva parte della spedizione partita in mio soccorso, lei che non aveva mai amato le avventure o l’azione spericolata ora stava attraversando tutta l’India al mio inseguimento. Mi chiesi cosa ne pensasse Alexander e a quel pensiero sorrisi. Ero certa che il capitano avesse tentato di dissuaderla, ma di sicuro non c’era stato verso di farla desistere dal suo intento.

Mi sentivo in colpa nei loro confronti: avevo fatto un rapido calcolo e mi ero resa conto che per inseguirmi, dovevano aver rimandato il matrimonio. Mi rabbuiai, desideravo moltissimo essere presente al loro matrimonio, ma per come andavano le cose, ci sarebbe voluto ancora molto tempo perché ciò accadesse. Lasciai ricadere le tende appoggiandomi ai cuscini.

«Ma succederà, prima o poi tornerò a casa. Voglio tornare a casa!» mormorai «Voglio tornare da Cavan…»

Ore dopo mi arrischiai a guardare nuovamente fuori dal ruth. Sapevo che i miei guardiani controllavano spesso che le cortine del carro fossero accostate di modo che nessuno potesse vedermi. Guardai velocemente attorno e, dopo qualche istante, realizzai che le ombre andavano allungandosi alla nostra destra: eravamo diretti a nord, ma non avevo idea di dove stessimo andando. O quando ci saremmo fermati.

 

 

*****

 

 

Sbarcammo a Digha tredici giorni dopo essere salpati. Durante il viaggio ci eravamo resi improvvisamente conto di ciò che sarebbe successo se avessimo sbarcato una tigre nel mezzo del porto di Calcutta così, visto che la nostra priorità era non attirare l’attenzione, avevamo pagato un sovrapprezzo al comandante che aveva così acconsentito a fare uno scalo non previsto nella piccola cittadina di pescatori che sorgeva subito all’esterno delle foci del Gange. Così, una volta a terra, eravamo montati in sella ed eravamo partiti al galoppo alla volta di Calcutta. Arrivammo nella grande città dell’est che era ormai buio, durante la marcia avevamo deciso di recarci dal cugino di Abu-ni che viveva nella città ed era sempre informato su ciò che accadeva, così, nascosti dalle ombre notturne, raggiungemmo la casa di Pohor.

Il cugino di Abu fu molto sorpreso di vederci arrivare in così tarda ora, ma ci accolse con calore offrendoci un pasto caldo. E tutte le informazioni di cui era a conoscenza.

Ripartimmo al sorgere della luna che, essendo quasi piena, gettava una luce sufficiente da permetterci di viaggiare anche di notte. Pohor ci aveva detto che coloro che inseguivamo erano sbarcati il mattino precedente, che erano usciti dalla città dalla porta nord e avevano preso la strada per Baharampur. Non vi erano molti incroci con quella direttrice, era quindi probabile che fossero diretti in quella città.

Così eravamo nuovamente diretti verso nord. Dove la stavano portando? Questo interrogativo angoscioso attraversò la mente di tutti noi, ma nessuno lo espresse a voce alta. Da mesi ormai nessuno lo poneva, consapevole che serviva solo ad accrescere la nostra esasperazione. Così, in silenzio, continuammo a galoppare nella notte all’inseguimento di colei che rappresentava tutto il mio mondo, tutta la mia vita.

«Hridae…»

 

 

*****

 

 

Attraversammo il Gange quattro miglia a nord di Farakka e continuammo ad andare avanti. Per giorni spiai la strada attraverso le tende del ruth cercando di capire dove eravamo diretti e quando, dopo un tempo interminabile, mi accorsi che stavamo voltando verso est mi sentii presa dallo sgomento. Dove stavamo andando? Avevo solo una certezza: per nulla al mondo il Prediletto avrebbe lasciato il suolo d’India, perciò dopo un attimo di riflessione, compresi che dovevamo essere diretti verso le regioni attraversate dal Brahmaputra, il grande fiume dell’est che si univa al Gange poco prima del grande delta che sfociava nella Baia del Bengala. Quella scoperta mi sconfortò. Da quando avevamo di nuovo toccato terra, non ci erano più giunte notizie di Cavan e degli altri che ci avevano fino ad allora inseguiti. Il Prediletto era certo di averli seminati una volta per tutte e solo la testardaggine mi impediva di pensare la stessa cosa. Il pensiero che Cavan non avrebbe rinunciato a cercarmi e le parole di un vecchio apparsomi in sogno tanto tempo prima, erano tutta la mia forza.

Mi trovai però a chiedermi se il mio principe sarebbe arrivato a immaginare che eravamo diretti verso le lontane regioni dell’est, il cielo solo sapeva verso quale destinazione.

“Il cielo e il Prediletto…” pensai con una smorfia.

 

 

*****

 

 

Quando giungemmo a Kurseong e scoprimmo che le tracce voltavano a est arrivai alla conclusione che il capo dei settari fosse pazzo. Non avevo idea di dove stessero andando, e quello che mi preoccupava di più era che non conoscevo assolutamente il territorio che stavamo attraversando. Non ero mai stato in quelle regioni, non sapevo cosa avremmo dovuto affrontare…

Fu Patal a venirmi in aiuto: quando era al servizio del Maharaja Sciandar lo aveva accompagnato durante una visita ufficiale a uno dei Raja più potenti dell’Assam, al quale era legato da amicizia e lontana parentela. Sebbene fosse passato molto tempo i suoi ricordi di quel viaggio erano sorprendentemente nitidi, fu quindi a lui che diedi l’onere maggiore: quello di decidere i percorsi migliori. Fortunatamente le strade non erano cambiate da quel suo precedente viaggio così non ebbe difficoltà a orientarsi una volta che entrammo in Assam e potemmo procedere spediti sulle tracce delle nostre prede, diminuendo il distacco.

 

 

*****

 

 

Un semplice cartello di legno dipinto indicava le cinque o sei case del villaggio col nome Murkong. Ero riuscita a sbirciarne il nome tra i drappi che coprivano la persiana della porta ma non avevo idea di dove fossimo. Dal dialetto parlato dagli abitanti compresi di essere ancora in Assam, ma dove con precisione non avrei saputo dirlo.

Ci lasciammo il villaggio alle spalle, procedendo sulla strada che portava verso i monti poco lontani e arrivati ai primi fianchi rocciosi che emergevano direttamente dal mare vegetale della giungla, li costeggiammo per qualche miglio, fino ad arrivare in un recesso ove si aprivano le bocche scure e irregolari di alcune grotte. Mi fecero scendere e seguendo il Prediletto e parte della scorta, ci addentrammo in una delle grotte, preceduti e seguiti da uomini che reggevano delle torce. La grotta era senz’altro naturale, snelle e opalescenti stalattiti scendevano verso il suolo come dita sottili, tese a raggiungere le stalagmiti che si sollevavano verso di esse. Il lento sgocciolio dell’acqua creava una musica tanto strana quanto melodiosa a cui faceva eco il suono soffocato dei nostri passi. Costeggiammo un laghetto sotterraneo la cui superficie immota lo rendeva simile a cristallo nel quale creazioni calcaree sorgevano dal fondo, creando forme di delicata bellezza.

Un’improvvisa svolta della marcia sottrasse ai miei occhi il lago e improvvisamente mi trovai a camminare in uno stretto cunicolo le cui pareti regolari ne palesavano la natura artificiale. Iniziammo a scendere verso il basso, addentrandoci nelle radici dei monti, a tratti intravedevo degli stretti passaggi che si aprivano nelle pareti e che si perdevano nell’oscurità, ma noi continuavamo a procedere per il cunicolo principale fino a superare un pesante drappo di velluto rosso cupo che ci immise in un’ampia sala rotonda dalla quale partivano altri due cunicoli rischiarati da torce.

«Conducete la Principessa nei suoi alloggi.» disse il Prediletto prima di imboccare il cunicolo di destra.

Kai si avvicinò e mi indicò l’altro passaggio che imboccai accompagnata dagli uomini che mi sorvegliavano.

Scendemmo ancora, addentrandoci sempre più in quella che avevo compreso essere la sede principale dei fanatici settari di Durga.

I miei alloggi, come li aveva definiti il Prediletto, erano un insieme di quattro ambienti scavati nella roccia e resi confortevoli da morbidi tappeti, arazzi e mobilio di fine qualità. Sia le guardie che la ragazzina mi lasciarono, chiudendo la porta di quercia dietro di loro, mi aggirai per qualche minuto in quegli ambienti aprendo ogni stipo e ogni baule. Vi erano suppellettili, coperte, abiti e quant’altro potesse servire alla vita quotidiana per una lunga permanenza. Era più che evidente che il Prediletto mi aveva condotta lì con l’intenzione di tenermici fino alla mia conversione. O alla mia esecuzione…

 

 

*****

 

 

Seguivamo il corso del Brahmaputra da diversi giorni ormai, sempre sulle tracce dei settari che si facevano di miglio in miglio più fresche. La speranza rifioriva in noi a ogni metro, la speranza di riuscire a raggiungerli, di riuscire a strappare loro la mia sposa.

Stavamo cavalcando verso la punta estrema dell’Assam, in quella direzione si poteva raggiungere solo l’Arunachal Pradesh che non contava né strade né città, salvo Itangar la cui posizione però avevamo già superato. Dunque dovevano fermarsi da qualche parte in Assam, a meno che non intendessero tornare indietro, venendoci dritti incontro, essendo quella che stavamo percorrendo l’unica strada esistente in quella regione coperta da una fitta giungla.

Hira Kala sbucò all’improvviso dal folto degli alberi davanti a noi bloccandosi in mezzo alla via con un’impennata. Ci fermammo sorpresi e lo vidi grattare la terra con uno zoccolo, Silam avvertendo anche lui qualcosa iniziò a frustarsi i fianchi con la coda, emettendo un lieve brontolio e annusando l’aria che veniva dalle montagne.

Mi voltai verso i miei compagni facendo loro segno di non parlare e rimasi in ascolto. Non passò molto tempo che divenne udibile una voce che parlava piano: almeno due uomini si stavano avvicinando, camminando nel sottobosco. Patal e io smontammo di sella e ci inoltrammo nella giungla in direzione delle voci, ci acquattammo dietro alcuni folti cespugli in attesa che giungessero a portata delle nostre spade. Ma Silam fu più veloce: stanco di aspettare si slanciò su di loro atterrandoli col proprio peso e finendoli con un poderoso colpo di artigli prima ancora che potessero emettere un fiato. Dopo di che si allontanò di qualche passo accucciandosi con gli occhi puntati su di noi. Mi avvicinai ai due corpi seguito da Patal e rivoltatili sul dorso li perquisimmo, cercando di scoprire chi fossero. Nascosta in una cucitura della fusciacca che attraversava il petto di uno dei due, trovai la preghiera a Durga che, tanto tempo prima, ci aveva portato alla scoperta dell’identità dei rapitori. Improvvisamente il moto di compassione che avevo provato per la loro morte si tramutò in rabbia e, dopo averli rimessi proni con un calcio, sputai con disprezzo nell’erba davanti a loro imitato da Patal. Feci un cenno alla tigre che mi si affiancò e, dopo averle fatto una carezza, tornammo dagli altri.

«Chi erano?» chiese Elisa appena li raggiungemmo.

«Settari…» risposi duro «Arrivavano dalla giungla, erano sentinelle.»

«Ci siamo!» disse Tyler con un luccichio feroce negli occhi.

«È probabile. Patal, senti…» mi interruppi vedendolo pensieroso «Patal?» lo chiamai.

«C’era qualcosa…» disse piano riflettendo a voce alta «Qualcosa che mi sfugge… Le grotte!» esclamò infine.

«Quali grotte?» chiese Alex incuriosito quanto noi.

«Quando venni qui col mio Signore, il Raja presso cui eravamo in visita, ci condusse da queste parti per farci visitare delle grotte naturali molto suggestive. Quelle grotte sono proibite, nessuno all’infuori della famiglia di quel Raja poteva entrarvi, il figlio non faceva che ripetercelo… Ashvin, si chiamava Ashvin.»

«Il Raja?» chiese Abu.

«Il figlio.»

Lo guardai sollevando un sopracciglio «Tu pensi sia lui il capo?»

«Perché no? Per quello che ricordo era molto attaccato, se così vogliamo dire, alla religione. Quasi fanatico, direi, e amava il potere sopra ogni cosa. La Setta senza nome e il culto di Durga gli garantivano entrambe le cose: religione e potere. Era un ragazzo carismatico e ambizioso, può essere benissimo riuscito ad arrivare ai vertici della setta. Se non ricordo male, ora dovrebbe avere trentacinque, trentasei anni.»

«Le spie dicono che il capo ha circa quell’età, mio Signore.» mi disse Abu.

«Sì, lo so. In quel viaggio era presente anche la Maharani, Patal?»

«Sì, Altezza.»

«Allora è possibile che abbia riconosciuto in Marina la figlia del Maharaja Sciandar: mio zio dice che somiglia in modo impressionante a sua madre. Abu,» dissi dopo un attimo di riflessione «raggiungi il Presidio di Dibrugarh, potremmo avere bisogno di un po’ di aiuto durante la fuga, chiedi al comandante…»

«Aspetta.» mi interruppe Tyler, estraendo una busta dalla tasca interna della giacca «Questa la portò il messaggero che ci raggiunse a Jaipur. È una lettera del Colonnello, indirizzata ai comandanti di qualunque Presidio dell’India:

 

“Al comandante del Presidio,

per diretto favore a me, Damien Shallowford,
comandante del Presidio di Lucknow, chiedo che al
latore di questa mia, che produca prova di parlare per
il Principe Cavan Marek del Rajasthan, sia fornita
qualunque assistenza chieda.

In fede.

Damien Patrick Shallowford”»

 

finito di leggere mi porse la lettera «Con questa Abu non avrà problemi a farsi ascoltare e a convincere il comandante ad aiutarlo.»

«È stato previdente.» commentai con un sorriso di gratitudine.

«Per nostra fortuna!» disse Alex.

Consegnai la busta ad Abu assieme all’anello col mio stemma.

«Fa presto.» gli dissi.

Lui fece un cenno e, messo al sicuro ciò che gli avevo consegnato, voltò il cavallo e ripartì al galoppo. Mi guardai un attimo intorno per decidere come procedere e notai Silam che passeggiava nervosamente al limitare della giungla guardandomi, anche il cavallo continuava a grattare il terreno con impazienza. Decisi e parlai agli altri.

«Lasceremo la strada, sarà sicuramente sorvegliata e il rumore degli zoccoli si sente per miglia. Procederemo nella giungla nella direzione da cui provenivano le sentinelle. Così, spero, avremo il tempo di fare il punto della situazione e riusciremo a coglierli di sorpresa.»

«Ma come faremo a trovare la giusta direzione nella giungla, a scoprire da dove arrivavano le sentinelle?» chiese preoccupata Elisa.

«Abbiamo due guide…» le risposi con un sorriso indicando i due animali.

«Allora cosa stiamo aspettando?» disse Tyler.

Dirigemmo i cavalli verso il fitto sottobosco e ci addentrammo nella giungla seguendo Hira Kala e la tigre, attenti a fare il minor rumore possibile.

 

 

*****

 

 

Il quarto giorno di permanenza nelle grotte stava volgendo al termine. Da quando eravamo arrivati il Prediletto aveva preso a farmi visita più volte nella giornata, da tempo ormai avevo smesso di ascoltarlo, ma lui non aveva smesso di parlare. Finalmente sola, i miei pensieri volavano lontano, verso coloro che mi stavano cercando e verso Cavan. Sapevo, sentivo che era vicino. Non so dire cosa mi spingesse a crederlo, ma dentro di me ne ero certa. Eccitazione e paura si alternavano come onde di una marea nel mio cuore, nel desiderio che arrivasse al più presto, che mi portasse via e con la paura per quello che poteva succedergli nel tentativo. Se lui fosse morto…

“Non morirà!” mi ripetevo “Nessuno morirà, se non questi pazzi eretici che mi hanno strappata alla mia vita e alle persone che amo…”

Questi pensieri mi accompagnavano ora dopo ora, giorno dopo giorno, insieme alla consapevolezza che se gli fosse successo qualcosa, piuttosto che restare prigioniera per tutta la vita, avrei fatto in modo di morire con lui. Qualunque cosa fosse successa, non avrei dato al Prediletto la possibilità di trasformarmi in una marionetta nelle sue mani.

Improvvisamente le quattro guardie assegnatemi entrarono, mi spinsero nella grotta più profonda tra quelle che abitavo e chiusero la porta a chiave senza dare spiegazione. Guardai la porta, ma rinunciai a chiedere qualcosa, ben sapendo che i quattro uomini al di là sarebbero rimasti zitti: erano completamente fedeli al Prediletto.

Poi il mio cuore ebbe un tremito e compresi: Cavan!

 

 

*****

 

Giungemmo all’imbocco delle grotte un’ora prima del tramonto. Lasciati i cavalli in una radura poco distante, ci eravamo avvicinati con circospezione per valutare la situazione. Alex aveva tentato inutilmente di convincere Elisa ad aspettare vicino ai cavalli, ma lei era venuta con noi. Accucciato accanto a me Silam osservava i due uomini che sorvegliavano l’ingresso della grotta centrale con i suoi occhi azzurri, leccandosi le labbra e il naso. Lo accarezzai dietro la testa per calmarlo.

«Pazienza, amico mio.» mormorai.

In quel momento un gruppo di uomini uscì dalla grotta e le due guardie rientrarono insieme a coloro che controllavano i margini della giungla e che non avevamo ancora notato. I nuovi arrivati presero il loro posto e io sorrisi verso i miei compagni.

«Siamo fortunati: il cambio della guardia. Almeno per qualche ora non dovremo preoccuparci che il cambio esca trovando i corpi di quelli che devono sostituire.»

«Ci sono quattro uomini lungo i margini della foresta.» disse Tyler che aveva seguito i loro movimenti «Ce ne occupiamo Alex e io.» concluse.

«Va bene.» assentii.

«Vengo con voi.» aggiunse Patal «In tre faremo prima.»

Si allontanarono in silenzio. Dissi a Elisa di aspettare dov’era, feci un cenno a Silam e mi avviai tenendomi nascosto, verso le pendici rocciose su cui si aprivano le grotte. Notando che sopra l’imboccatura era possibile camminare, feci segno a Silam di salire e gli indicai l’uomo più lontano dei due: dell’altro me ne sarei occupato io. La tigre saltò sulle rocce senza produrre nessun rumore e, pancia a terra, si portò sopra la vittima che gli avevo destinato. Mi guardò e, fattogli un cenno, mi avventai verso l’altra guardia che si girò verso di me nel momento in cui lo raggiunsi. Il mio pugnale mise fine alla sua vita, prima che potesse reagire ma il lieve rantolo che gli sfuggì fece voltare l’altro che mi vide. In quel momento Silam gli balzò addosso spezzandogli la schiena e il collo col suo peso. Aiutato da Alex che mi aveva raggiunto, trascinammo i due cadaveri dietro a un cespuglio e feci segno agli altri di avvicinarsi.

Entrammo nella grotta con circospezione e procedemmo sulla stretta traccia di passi appena distinguibile sul terreno. Silam apriva la strada, dal suo comportamento era chiaro che aveva avvertito le tracce della sua padrona. Costeggiammo per un poco un lago fino a individuare dopo una svolta un cunicolo che scendeva verso il basso, lo percorremmo con attenzione. Frenai la tigre quando giungemmo in prossimità di un pesante drappo che chiudeva la strada, passai la torcia a Patal che veniva dietro di me e, sguainata la spada, sbirciai dietro la tenda: una vasta caverna circolare completamente vuota era illuminata da una decina di torce. Dopo essere rimasti un attimo in ascolto, superammo la tenda che si richiuse dietro di noi. Ci guardammo intorno, indecisi su quale strada prendere, ma fu ancora una volta Silam a decidere per noi: puntò risoluto verso il cunicolo a sinistra. Veloci lo seguimmo, in una piccola grotta poco oltre cinque uomini avevano sguainato le spade alla comparsa della tigre, pronti ad assalirla insieme, ma il nostro arrivo li colse ancor più di sorpresa. Li caricammo senza dar loro il tempo di riprendersi, uno di loro vide Elisa e si avventò su di lei, ma Silam lo intercettò e si gettò su di lui, mettendo fine alla sua vita con uno schiocco secco delle fauci. Proseguimmo veloci, temendo che il rumore di quel breve scontro potesse aver messo in allarme gli abitanti di quei sotterranei. Davanti a noi un uomo ci vide e cercò di dare l’allarme, ma Patal alzò il braccio sinistro e con la sua piccola balestra gli trapassò la schiena con un dardo sottile e avvelenato. L’uomo riuscì comunque a fare qualche altro passo fino a girare un angolo, svoltammo in tempo per vedere altri quattro uomini che superavano una porta sulla destra e sentimmo chiaramente il rumore del chiavistello. Il corpo dell’uomo colpito da Patal era accasciato in mezzo al cunicolo, lo scavalcammo e raggiungemmo la porta che Silam stava già grattando. Provammo a forzarla ma ci accorgemmo subito che era solida: l’unica possibilità era far saltare il chiavistello. Sapevamo che il rumore della detonazione si sarebbe propagato all’infinito nelle grotte, attirandoci addosso tutti i settari, ma non avevamo alternativa. Così sistemata della polvere da sparo nella toppa insieme a un pezzetto di miccia che Patal aveva previdentemente portato con sé, facemmo saltare la serratura. Per quanto piccola, l’esplosione rimbombò come il rombo di un tuono e, in lontananza, avvertimmo delle grida.

«Resta qui, Silam.» dissi alla tigre «Tienici aperto un varco.»

La tigre si mise a passeggiare nella larghezza del cunicolo mentre noi, pistole alla mano irrompemmo nella stanza dove i quattro uomini si erano barricati. Armati solo di spade non poterono nulla contro i colpi dei due militari che li freddarono in pochi istanti. Patal e io intanto facemmo saltare anche il chiavistello della porta successiva e finalmente irrompemmo nell’ultima camera dove in piedi al centro della stanza, pallida per la paura ma viva, c’era Marina. Senza vedere altro mi precipitai da lei e la strinsi tra le braccia, il cuore che mi doleva nel petto per la violenza dell'emozione che mi travolgeva in quel momento. Sentii Marina pronunciare il mio nome, la voce soffocata dal pianto mentre le sue mani si aggrappavano alla mia casacca.

«Marina!» la voce di Elisa le fece sollevare il volto dal mio petto.

Si staccò da me e corse dalla sorella, si abbracciarono tra le lacrime. I due militari si fermarono sulla porta un momento prima di unirsi all’abbraccio, ma quell’attimo di felicità fu interrotto dalla voce di Patal.

«Dobbiamo muoverci: quelli sono in fermento.»

«Patal…» mormorò la mia sposa «Grazie…» disse abbracciandolo.

«Sono felice, Principessa, che stiate bene. Ora però dobbiamo andare.»

Mi avvicinai prendendole la mano e feci cenno agli altri di muoversi: non avevamo molto tempo prima che ci tagliassero la via di fuga.

 

 

*****

 

 

Era successo tutto così in fretta! Le esplosioni, gli spari, le grida e la paura, poi la porta si era aperta e io mi ritrovai stretta al petto di Cavan, avvolta dal suo calore e per la prima volta dal mio rapimento, mi sentii al sicuro, nonostante fossimo ancora nel covo dei settari, nonostante fossimo ancora in pericolo. Rivedere mia sorella mi procurò un’emozione tale da non riuscire più a trattenere le lacrime.

La mano stretta in quella di Cavan, correvo per gli angusti cunicoli appena rischiarati dalle torce. Le grida nelle caverne si facevano sempre più vicine, sapevamo che i primi settari ci sarebbero piombati addosso da un momento all’altro. Non ci fu possibile raggiungere la sala rotonda da cui partiva il tunnel che risaliva alla grotta naturale, così imboccammo uno degli stretti passaggi laterali, inoltrandoci in gallerie che nessuno di noi conosceva. Svoltammo un angolo e ci trovammo la strada bloccata da un uomo che parve stupito quanto noi di vederci. Prima che qualcuno potesse reagire lui si inchinò verso di me e mi sorrise.

«Salute e onore.» disse poi a Patal.

Avvertii la sorpresa di quest’ultimo che guardò il settaro con attenzione.

«Chi sei tu? Come conosci queste parole?»

«Mi chiamo Rao, figlio di Raghu che fu il comandante delle guardie della Stella…»

«Traditore!» esclamò Patal.

Stava per slanciarsi verso Rao, ma questi lo fermò alzando le braccia.

«Aspetta!» disse «Non ho tradito! Sopravvissi a tutta la mia famiglia, a tutti gli abitanti di Lakshmi e giurai di vendicarli. Mi unii alla Setta senza nome dopo aver scoperto che erano stati loro ad attaccare il palazzo, nella speranza di trovare l’ideatore di quel massacro e ucciderlo. Ma fino a quattro giorni fa non lo avevo mai incontrato. Quando è giunto però ha portato con sé la nostra Principessa e da quel momento la mia priorità e stata la sua salvezza: la vendetta poteva aspettare. Ora compirò entrambe: vi aiuterò a uscire dalle grotte e ucciderò il Prediletto!»

«Fu lui a organizzare l’assalto?» chiesi con voce tremante per la collera.

«Sì, mia Principessa, sebbene all’epoca fosse solo un ragazzo, fu lui a pianificare l’annientamento della vostra casa. E della vostra gente.»

«Allora avremo vendetta!» esclamò Patal «Guidaci, Rao, e se la fortuna ci assiste, avremo il sangue e la vita di Ashvin Singh, il Prediletto!» concluse calcando con disprezzo l’ultima parola.

Riprendemmo a correre seguendo la nostra guida. Il cuore mi batteva all’impazzata all’idea che in tutto quel tempo ero stata in compagnia dell’uomo a causa del quale non avrei mai conosciuto la mia vera famiglia. Avevo sospettato che il Prediletto avesse preso parte all’assalto del palazzo di mio padre, ma che fosse lui l’ideatore… il pensiero mi faceva rabbrividire.

Roche grida davanti a noi ci avvertirono della presenza di nemici. Cavan, Patal e Rao partirono all’attacco mentre Alex e Luke rimasero indietro per proteggere me ed Elisa. I minuti passavano frenetici mentre continuavamo a muoverci, poi finalmente ci ritrovammo nella grotta naturale, sulla sponda opposta del laghetto. Corremmo verso l’uscita consci di avere gli inseguitori a pochi metri di distanza. Eravamo ormai in vista dell’imboccatura illuminata ora da decine di torce, quando ci arrestammo: fermo dinanzi all’apertura stava il Prediletto con la spada sguainata in mano. Cavan fece per andargli incontro ma Patal lo bloccò.

«Perdonate, Altezza, ma lui è affar mio. Voi portate via la Principessa e la signorina Elisa. Ve le affido: fate sì che giungano a casa sane e salve.» detto ciò mi fece un lieve inchino e, voltatosi, si avvicinò al nemico «A noi due, Ashvin Singh. È tempo che paghiate con la vostra vita per la morte del mio Signore Sciandar Singh e della sua sposa!»

«Sono onorato, Patal Rabindranath, che ti ricordi ancora di me…» rispose gelido il Prediletto «Mio padre una volta mi disse che tu eri il miglior guerriero di tutta l’India: vediamo se è vero.»

Non dissero altro e Patal si avventò contro l’avversario erompendo nell’antico grido di guerra delle guardie reali di Lakshmi.

Non ci fu tempo per osservarli più a lungo: incalzati alle spalle dai nemici corremmo verso l’uscita e la superammo. Partirono colpi di fucile diretti verso di noi, mentre ci tuffavamo nella fitta vegetazione poco distante lo sbocco della grotta. Sentii Rao gemere e mi voltai verso di lui.

«Continuate a correre, Principessa, non vi fermate. Dovete vivere perché con voi viva Lakshmi. Riportate la vita nelle sue stanze, nei suoi giardini… andate, mia signora, è una gioia poter morire per voi.» concluse fermandosi.

Si voltò e si avventò con la spada in pugno su quelli che ci seguivano più da vicino. Con le lacrime che mi rigavano le guance continuai a correre seguendo gli altri. Cavan indicò davanti a noi dicendomi di correre poiché là si trovavano i cavalli, mentre lui, Luke e Alex rallentarono per dare copertura a mia sorella e me. Per offrire minor bersaglio possibile anche noi due ci separammo superando un folto d’alberi dai lati opposti. Sbucai dai cespugli in una piccola radura, ma dalla mia sinistra giunse attraverso il sottobosco uno degli inseguitori. Cercai di accelerare il passo ma inciampai in una radice sporgente e caddi in ginocchio, lui sorrise precipitandosi verso di me, ma quando era ormai a pochissima distanza, un lampo bianco sbucò dai cespugli alle mie spalle e lo atterrò con un ruggito: Silam. La tigre aveva ucciso l’uomo istantaneamente e, lasciatolo a terra, si avvicinò strusciandosi col muso contro la mia spalla. Sollevai le braccia cingendo il suo morbido collo nel quale affondai per qualche istante il volto, altri rumori mi riscossero, ma questa volta fu Luke a sopraggiungere. Mi aiutò a rialzarmi e insieme corremmo verso i cavalli dove ci raggiunsero gli altri, Cavan mi aiutò a montare su Hira Kala che appena gli ero arrivata accanto mi aveva posato il muso sul petto soffiando contento. Stavamo per muoverci ma li fermai.

«Dobbiamo aspettare Patal!»

«Non possiamo attardarci, Marina.» disse Cavan «Lui lo sa, ci raggiungerà lungo la strada vedrai…»

Lo guardai incerta ma vedendo la determinazione nel suo sguardo annuii lievemente e partimmo al galoppo, inseguiti dalle grida dei rapitori e da alcuni colpi di armi da fuoco. Continuammo a galoppare senza mai fermarci, cercando di mettere quanta più strada possibile tra noi e coloro che, sapevamo, ci avrebbero inseguito a qualunque costo. Le mani strette sulla criniera del mio cavallo guardavo davanti a me, decisa a fare tutto il possibile per non cadere nuovamente nelle loro mani, e far sì che nessuno degli altri venisse catturato: questa volta non avrebbero fatto prigionieri, miravano a uccidere.

 

 

*****

 

 

Galoppavamo da quasi venti minuti, quando sbucammo in un’ampia radura dove diedi il segnale di fermata. I cavalli si muovevano sul posto innervositi dai colpi di fucile che ci avevano seguito all’inizio della corsa ma, con carezze e parole dolci, li calmammo. Avvicinai Badal a Marina e le sorrisi prendendole la mano. Era con me, la mia sposa era finalmente con me!

Stavo per parlarle quando, da sopra la sua spalla, vidi Tyler piegarsi sul collo del suo cavallo e iniziare a scivolare verso terra. Smontai veloce, raggiungendolo un attimo prima che cadesse e accompagnai la sua discesa fino a adagiarlo sull’erba. Non ebbi bisogno di chiedergli cosa avesse: tra le dita della mano che sorreggeva la sua schiena sentivo scorrere la calda vischiosità del sangue.

Marina smontò subito e ci raggiunse, chiamando il capitano preoccupata.

«Luke! Cosa succede?» chiese inginocchiandosi al suo fianco, accanto a me.

«Nulla, piccola…»

Lei vide il sangue sulle mie mani e impallidì. Gli altri ci raggiunsero e si inginocchiarono davanti a noi.

«Sei ferito…» commentò inutilmente Alex.

«No, amico. Sono morto…» mormorò Tyler.

Mi guardò e io annuii. Sapevo che era vero: il proiettile gli aveva sicuramente perforato il rene destro e probabilmente anche il fegato dove si era fermato. Il piombo aveva già iniziato ad avvelenare il sangue e l’emorragia interna era di entità assai superiore a quella esterna. Entrambi sapevamo che gli restavano ormai pochi minuti.

Marina accanto a me piangeva, scossa dai singhiozzi, stringendo la mano di quello che in principio avevo considerato solo come un rivale, ma che in quei mesi di caccia estenuante avevo imparato a considerare un buon amico. Luke la guardava con un mesto sorriso, raccogliendo le forze per parlarle.

«Ascoltami, cara.» mormorò a fatica «Ho due cose da chiederti. Due promesse che vorrei tu mi facessi…»

Marina annuì senza riuscire a parlare, continuando a guardarlo negli occhi azzurri.

«La prima: qualunque cosa accada, promettimi che sarai felice… assieme a Cavan… Ha un brutto carattere… ma è un tipo in gamba… tutto sommato…» mi guardò per un istante poi tornò a lei «La seconda: scrivi… scrivi a casa mia… spiega cosa è successo… Non voglio che abbiano la notizia… con un telegramma formale… L’esercito sa essere… terribilmente indelicato…» si interruppe con un lieve sorriso.

Lo ammirai. Anche in quel momento riusciva a mantenere immutato il suo spirito. Quello stesso spirito che me lo aveva reso indigesto la prima sera che lo avevo incontrato.

«Te lo giuro, Luke…» promise Marina «Ma tu devi resistere! Ti porteremo da un dottore…»

«Nessun dottore può… fare qualcosa, Marina. Non piangere… È meglio così… credimi…» mi guardò «E ora veniamo a te, altezza,» mormorò, la voce sempre più fioca «non la meriti… ma te la affido… Visto che… non ci sono alternative… Abbi cura di Marina, Cavan… Lei è tutto ciò… che ho mai desiderato… e amato… amala un po’… anche per me, fratello…» mi tese la mano e la strinsi annuendo «Peccato… Mi sarebbe piaciuto sapere… come sarebbe finito il nostro… duello con le pistole…»

Le labbra si mossero ancora un attimo, ma non ne uscì alcun suono, gli occhi azzurri si fissarono per l’ultima volta sul volto di Marina, poi la luce abbandonò il suo sguardo, mentre il corpo fu attraversato da un ultimo spasmo prima di rimanere inerte tra le mie braccia.

Marina si coprì il volto con le mani accasciandosi sul petto di quel ragazzo che aveva sempre considerato come il suo migliore amico, l’uomo che l’aveva amata in silenzio, accontentandosi di renderla felice solo con la propria amicizia e che infine aveva avuto la forza di affidarla a un altro. “Fratello…” così mi aveva chiamato. Mi sentii onorato per questo. Qual ragazzo che avevo considerato solo uno sciocco damerino si era rivelato un amico leale e un coraggioso compagno. E alla fine aveva dato la sua vita per restituirmi la donna che amavo. Lei che ora lavava il sangue sul suo petto con le sue lacrime…

«Fratello…» mormorai.

 

 

*****

 

 

“No! Non è giusto! Non è giusto!” quell’unico pensiero rimbombava nella mia mente.

Non riuscivo a smettere di piangere, accasciata sul petto inerte di Luke versavo tutte le lacrime di dolore, orrore e rabbia che avevo trattenuto fino ad allora.

“Luke… Perché? Perché tu?”. Singhiozzi convulsi mi scuotevano fino nel profondo, dove un atroce, bruciante dolore sembrava divorare ogni cosa, ogni sentimento, ogni pensiero logico. Luke era morto. Per me… Il mio Luke, lui che c’era sempre stato quando avevo bisogno di qualcuno accanto. Sempre pronto a farmi sorridere, ad aiutarmi. Luke che mi voleva bene. Che mi amava…

Quel pensiero era il più orribile di tutti. Che terribile egoista ero stata! Così presa dai miei pensieri, dai miei sentimenti per Cavan, non mi ero accorta di quello che quel dolcissimo ragazzo aveva provato per me. Non me lo aveva mai detto… fino alla fine. Il mio Luke aveva dato la sua vita per la mia libertà, per restituirmi l’amore, il mio sogno di felicità. La mia vita.

E in cambio di questo dono mi aveva chiesto solo di essere felice.

 

 

*****

 

 

Stavamo cavalcando da ore, ormai. L’alba si avvicinava, ma nonostante il pericolo che rappresentava per noi, procedevamo a passo lento, il cuore gravato dal peso del dolore. Alex, che procedeva in testa reggeva le briglie del cavallo di Luke sulla cui sella, coperto dal velo del sari di Marina, avevamo assicurato il corpo del militare. Avevamo deciso di portarlo con noi, nessuno si era sentito di lasciare le sue spoglie alla mercé di coloro che seguivano le nostre tracce, avevamo deciso di portarlo al Presidio di Dibrugarh dal quale, speravamo, erano in arrivo i rinforzi.

Notavo che la mia sposa si voltava spesso verso la direzione da cui eravamo venuti, lo sguardo carico di ansiosa aspettativa, per poi tornare a guardare la strada dinanzi a sé, sempre più triste, delusa…

«Cosa c’è?» le chiesi con dolcezza.

«Patal non arriva, sono preoccupata Cavan: lui cavalca velocemente, sarebbe già dovuto essere qui…»

«Non ti preoccupare: può aver deciso di tagliare per la giungla. A quest’ora potrebbe averci anche superato, lo incontreremo al Presidio: sa che siamo diretti là.»

Annuì in risposta, ma dal suo sguardo compresi che non era del tutto convinta e sinceramente non lo ero neppure io, sebbene avessi fatto in modo di sembrarlo. Sapevo che la priorità di Patal era Marina e il suo prolungato ritardo cominciava a farmi temere il peggio. Mi chiesi come lei avrebbe reagito alla perdita di qualcun altro a cui era così profondamente legata e sperai di non doverlo scoprire.

 

 

*****

 

 

Gli occhi fissi sul velo che copriva il corpo di Luke cavalcavo in silenzio. Non mi ero più voltata dopo aver parlato con Cavan, un po’ perché non volevo che stesse in pena per me, un po’ perché volevo credere a quello che mi aveva detto. Il tempo scorreva lento e pesante, il dolore che provavo annullava i miei pensieri, non riuscivo a fare altro che guardare davanti a me. Guardare Luke…

Immaginai per un istante quello che mi avrebbe detto vedendomi in quello stato di prostrazione. Mi avrebbe sgridata probabilmente, con dolcezza certo, come sempre faceva. Poi se ne sarebbe uscito con una delle sue battute alle quali era impossibile non ridere. Infine mi avrebbe sorriso, felice di essere riuscito a tirarmi su di morale.

Dovevo reagire! Lo dovevo a Luke: non potevo ridurmi alla disperazione, lui non avrebbe voluto. Ovunque fosse sapevo che se mi avesse visto in quelle condizioni avrebbe sofferto, soprattutto sapendo di esserne la causa. Dovevo farmi coraggio per andare avanti, per mantenere la promessa che gli avevo fatto.

Elisa affiancò Nilak a Hira Kala e mi guardò comprensiva, ricambiai con un sorriso tirato, poi dopo un ultimo sguardo al corpo inerte del mio più caro amico, sollevai la testa, raddrizzai le spalle e guardai dinanzi a me con decisione, relegando il dolore in un angolo della mia mente.

Ritrovai la lucidità e con essa almeno un po’ di coraggio. Vidi Cavan guardarmi preoccupato e gli sorrisi rassicurante, annuì comprendendo il mio nuovo stato d’animo.

L’equilibrio appena ritrovato rischiò di svanire meno di un’ora dopo, allorché udimmo sopraggiungere alle nostre spalle il rombo del galoppo dei nostri inseguitori. Ci scambiammo sguardi veloci e spronammo le nostre cavalcature. Alexander mi lanciò le redini del cavallo di Luke e affiancò Cavan dietro me ed Elisa. I ragazzi erano pronti a opporre una strenua resistenza quando i settari ci avessero raggiunti, per permettere a noi due di scappare. Ma né mia sorella né io avevamo intenzione di lasciarli soli: se non fossero riusciti a seguirci saremmo rimaste per morire con loro.

Per fortuna non arrivammo a dover mettere in pratica quella decisione, poiché anche qualcun altro ci raggiunse: il servitore del mio sposo alla testa dei rinforzi inviatici dal presidio di Dibrugarh. Si lanciò sui nostri inseguitori al fianco di Cavan e Alexander erompendo, assieme al suo Principe, nel grido di battaglia dei guerrieri Rajputi.

Elisa e io fummo scortate lontano dallo scontro da un gruppetto di sepoy, ma ci rifiutammo di proseguire fino al presidio senza gli altri. Fu tutto finito in pochi minuti, un secondo contingente proveniente da Dibrugarh arrivò dal folto della foresta, sorprendendo i settari ai fianchi e sterminandoli. Dopo di che, mentre una parte ci accompagnava al presidio, il comandante diede ordine ai due contingenti di dirigersi alle grotte che erano il covo dei settari, deciso ad annientarli una volta per tutte.

 

 

*****

 

 

Giungemmo al presidio di Dibrugarh a metà mattina. Sembrava passato un secolo da quando eravamo penetrati nel covo della Setta senza nome per portar via Marina, ma erano passate solo dieci ore. Un tempo brevissimo ma anche terribilmente lungo: in quelle dieci ore avevo combattuto la battaglia più difficile della mia vita. La battaglia per la libertà di colei che amavo. L’avevo vinta, ma il prezzo che avevamo dovuto pagare era stato altissimo: Luke e Patal.

Non mi illudevo più che il guerriero custode della mia sposa fosse ancora vivo: era passato troppo tempo da quando lo avevamo lasciato alle prese con il Prediletto. In tutte quelle ore avrebbe potuto tranquillamente raggiungerci o addirittura precederci, ma al nostro arrivo al presidio non lo avevamo trovato, e il tempo passava…

Fu soltanto al tramonto, quando il comandante del presidio venne a dirci che il corpo di Luke era stato preparato e sistemato in una bara per il trasporto a Lucknow, che Marina lasciò cadere la corazza di apparente sicurezza e serenità che aveva mostrato nelle ultime ore. Scoppiò in singhiozzi, il viso nascosto tra le mani e quando l’abbracciai nel tentativo di confortarla, si aggrappò alla mia casacca.

«Non c’è più! Patal non c’è più!» mi disse tra le lacrime «Mi hanno lasciata entrambi…»

La tenni stretta a me, sapendo che il dolore che provavo io non era che una minima parte del suo, per Luke e per Patal avevo provato rispetto e stima. E amicizia certo, ma nulla avrebbe potuto ricompensare Marina della perdita di due tra le persone che considerava più importanti nella sua vita: il suo migliore amico e colui che l’aveva ascoltata e protetta da quando era nata.





Nota di fondo
Lo so lo so, mi state odiando. Mi odio pure io da sola...
Vi giuro che non era previsto ma Luke è un personaggio
che impone le proprie scelte alla scrittrice. E lui ha scelto
di uscire di scena da eroe. Vi basti sapere che ho scritto il 
finale di questo capitolo piangendo come una bambina. 
I colpi di scena non sono finiti, ne troverete anche nell'ultimo
capitolo!
A sabato prossimo col capitolo XXIV e l'Epilogo!
Ovviamente se vi va di lasciare un commento ne sarò felice ;)
Sara

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Capitolo 26
*** Capitolo XXIV ***


Nota dell'autrice
Eccomi! Scusate il ritardo immenso! 
Ho avuto tre giorni di fuoco e non sono neppure
riuscita ad accendere il pc. Ma ora sono qui.
Eccovi l'ultimo capitolo e l'Epilogo.
Spero vorrete farmi sapere cosa pensate del romanzo
ora che è arrivata la fine!
Un abbraccio!
Sara





 

Capitolo XXIV

 

 

Il verde cupo della giungla assamese fuggiva veloce, inghiottito dal galoppo dei nostri cavalli. Eravamo ripartiti l’alba seguente, lasciando al comandante del Presidio di Dibrugarh l’incarico di far scortare il feretro di Luke al Presidio di Lucknow. Avremmo voluto viaggiare in quel convoglio con lui, soprattutto Marina l’avrebbe desiderato. Ma non ne avevamo il tempo: solo trenta giorni ci separavano dal solstizio d’estate. Trenta giorni per percorrere una distanza che normalmente ne richiedeva dieci in più…

Così galoppavamo nuovamente attraverso i pericoli della terra d’India, non più inseguitori ma inseguiti. Dai settari superstiti e dal tempo. Quel tempo che ci era parso così lento a passare, così denso e vischioso che ci aveva trattenuti e rallentati durante i mesi passati, ora ci incalzava beffardo, rubandoci minuti preziosi che sembravano fuggire via a ogni sosta per quanto breve e insufficiente al nostro riposo.

Marina galoppava accanto a me, gli occhi fissi su Silam che ci precedeva sul sentiero che si srotolava dinanzi a noi come un nastro di polverosa terra rossa, circondata dai verdi cupi e brillanti della giungla e dei campi coltivati. Non stavamo seguendo la strada principale, troppo lunga e tortuosa, ma correvamo sulle rive del Brahmaputra, il grande fiume che correva dritto come una freccia attraverso tutto l’Assam e che si congiungeva, poco prima della foce, col Gange. Galoppavamo sul sentiero che lo affiancava, seguendo per miglia il corso delle sue acque, per risparmiare fatica e tempo.

Lasciammo il fiume a meno di due miglia dal confine, ritornando sulla strada principale e quando finalmente arrivammo al bivio di Kurseong, svoltammo verso sud, salvo poi tornare a puntare, poche ore dopo, verso ovest entrando nel Bihar.

Ci fermavamo solo nelle ore più buie della notte, riposando finché i primi chiarori dell’alba non ci permettevano di vedere la strada e riprendere la marcia. Cercavamo di tenere un passo leggero di modo da non sfiancare i cavalli ma riducevamo al minimo le soste diurne e, quando calava la notte, solo l’impossibilità di vedere dove stavamo andando ci costringeva a fermarci. La luna sorgeva che era ancora pomeriggio e ci accompagnava per poche ore dopo che il sole era tramontato, impedendoci di sfruttare appieno la sua luce perlacea come invece avevamo fatto nei mesi passati.

A Barauni dovemmo scegliere come raggiungere Kanpur e da lì Agra: due strade si aprivano davanti a noi, la strada a nord che entrava in Uttar Pradesh da Kasia e attraversava Lucknow oppure la strada sud, attraverso Varanasi.

Fu la mancanza di tempo a scegliere per noi: sebbene il cuore della mia sposa desiderasse raggiungere Lucknow per riabbracciare, assieme alla sorella, i loro genitori, la strada sud era più corta e ci avrebbe fatto risparmiare due giorni. Giungemmo però a un compromesso: a Varanasi ci fermammo qualche minuto presso il telegrafo del presidio da dove mandammo un telegramma ai Conti Shallowford pregandoli di raggiungerci a Kanpur dove saremmo giunti di lì a pochi giorni.

Quindi riprendemmo la corsa verso Agra.

 

 

*****

 

 

Il 20 giugno del 1832 alle sette e quaranta della sera varcammo i cancelli del presidio di Kanpur e ci dirigemmo alla residenza. Il galoppo dei nostri cavalli, assieme alla comparsa di Silam, attirò l’attenzione di tutti coloro che si trovavano per strada, ma non ci importava. La bianca costruzione che era la casa di Miranda ci apparve dinanzi in pochi minuti, Elisa e io tirammo le redini delle nostre cavalcature fermandole davanti ai gradini della porta, slanciandoci tra le braccia dei nostri genitori che, avvertito il rombo degli zoccoli dei cavalli in avvicinamento, erano usciti per accoglierci.

Un anno. Era trascorso un anno intero da quando li avevo visti per l’ultima volta. Nessuno di noi riusciva a parlare, mamma ci teneva strette senza riuscire a smettere di piangere, cosa che per altro, non riusciva neppure a noi, mentre papà ci aveva avvolte tutte in un abbraccio commosso. Neppure la presenza del maggiore Scott e di tutti gli altri riuscì a impedire a qualche lacrima di rigare perfino il suo volto, ora che eravamo nuovamente tutti e quattro insieme.

Durante le settimane appena trascorse Elisa e io avevamo spesso parlato di quel momento, di quello che avremmo provato nell’essere di nuovo con mamma e papà, ma nessuna delle due era riuscita a immaginare una simile emozione, una simile gioia!

Quando finalmente fummo di nuovo in grado di parlare, ci ritrovammo a farlo tutti e quattro insieme, per poi interromperci e sorriderci. Papà si staccò da noi per andare a stringere la mano di Cavan, per ringraziarlo. Fu in quel momento che si accorse dell’assenza di Luke e Patal, quando lo sentii chiedere loro notizie non potei impedire che le lacrime mi rigassero nuovamente il volto. Lacrime di dolore, questa volta, e di orrore.

Cavan raccontò quello che era successo con poche parole, incapace perfino lui di venire completamente a patti con quello che era successo, con quello che avevamo perso. Papà fu dolorosamente colpito dalla notizia della morte di Luke e dalla perdita di Patal che negli ultimi diciannove anni aveva fatto parte integrante, assieme a Umi, della nostra famiglia.

Il pensiero della mia ahya mi riscosse e mi guardai intorno finché non la vidi: si era fermata accanto alla porta per lasciarci sole con i nostri genitori e ora mi guardava con gioia frammista al dolore provocatole dalla notizia della scomparsa di Patal. Mi sciolsi dall’abbraccio di mia madre e le andai vicino, mi guardò un istante poi fece un passo avanti e mi strinse forte a sé.

 

 

*****

 

 

Ripartimmo meno di un’ora dopo essere giunti a Kanpur. Il maggiore Scott ci aveva proposto di riposare alla residenza quella notte, ma il tempo stringeva: avevamo dinanzi a noi ancora molte miglia di strada e, pur mantenendo un’andatura sostenuta ci avremmo impiegato almeno venti ore. Ne rimanevano solo tre poi per riorganizzare la cerimonia nuziale.

Così correvamo di nuovo, ma questa volta non eravamo da soli: il colonnello, alla testa di una scorta di quaranta uomini, cavalcava con noi assieme alla moglie e a Umi poiché nessuna di loro aveva intenzione di perdersi il matrimonio di Marina. Accanto a me la mia sposa parlava tranquilla con Elisa mentre i cavalli procedevano al piccolo galoppo. Silam correva poco dinanzi, i vigili occhi azzurri che scrutavano ogni ombra alla ricerca di un eventuale pericolo. Da quando Marina era nuovamente con noi lui non l’aveva lasciata un attimo: correva davanti Hira Kala, camminava accanto a lei… Se si allontanava rimaneva comunque entro una distanza che gli consentisse di intervenire se Marina si fosse trovata in difficoltà, dimostrandole una dedizione totale.

Grazie alla presenza della scorta avevamo potuto permetterci di viaggiare alla luce di numerose torce recuperando così le ore notturne. Facemmo un’unica sosta nell’ora più buia della notte: quella che precede l’alba, ci fermammo per riposare, ma soprattutto per far riposare i cavalli e quando i primi raggi del sole cominciarono a illuminare l’oriente, rimontammo in sella.

Giungemmo infine sulla cresta dell’ultimo colle che si affacciava sulla piana di Agra, accolti dallo scintillio dello Yamuna sulle cui rive era distinguibile, nella distanza, la capitale Moghul. Mancavano meno di cinque ore al tramonto, così spronammo i cavalli accelerando il passo verso la città.

Eravamo alla sua periferia, quando le prime persone si accorsero di chi viaggiava in quel convoglio che passava al galoppo per le strade, cominciarono a innalzarsi grida di giubilo che subito si diffusero per l’intera città annunciando il nostro ritorno. Presto una folla si radunò sul ciglio delle strade, elevando al cielo inni di ringraziamento, poiché, subito dopo la nostra partenza all’inseguimento dei rapitori, la storia del rapimento di Marina e del mio viaggio alla sua ricerca si era sparsa per città e campagne, ma solo ad Agra i nostri volti erano conosciuti.

Consci che i canti di gioia avrebbero avvertito lo zio del nostro arrivo ci dirigemmo al Forte Rosso, sapendo che lui ci avrebbe raggiunti. Ma lo zio ci sorprese facendosi trovare nel cortile d’ingresso del Forte, ci venne incontro sorridendo e abbracciò la nipote appena fu scesa da cavallo.

«Bambina mia!» esclamò contento «Finalmente! È stata una lunga attesa, ma adesso sei nuovamente a casa.»

Smontai avvicinandomi e quando mi guardò, gli sorrisi indicando le decorazioni che ornavano il Forte.

«Hai già avviato i preparativi per la cerimonia, a quanto vedo!» dissi.

«Avviato e concluso!» ribatté lui gioviale «Ero certo che sareste tornati in tempo.»

«E ora cosa succede?» chiese Marina alla quale si erano avvicinate tutte le donne della sua famiglia.

«Quello che sarebbe dovuto succedere un anno fa: tu e Cavan vi sposerete fra meno di tre ore, al tramonto. Tutto è pronto e, negli appartamenti delle Regine troverai ad attenderti il tuo sari da sposa e i gioielli».

 

 

*****

 

 

«Non sono certa di volerli indossare ancora.» dissi.

«Ma devi, mia cara. Tutto dovrà svolgersi come se quest’ultimo anno non fosse passato.» rispose il nonno.

«Ma è passato, nonno. Molte cose sono cambiate, persone che dovrebbero essermi accanto non sono più qui.» conclusi distogliendo lo sguardo.

«Cosa vuoi dire?»

«Luke Tyler e Patal non ce l’hanno fatta.» rispose Cavan per me.

Il nonno parve accorgersi solo in quel momento della loro assenza, annuì lievemente tra sé, scuro in volto, poi tornò a guardarmi.

«Capisco, ma tu devi reagire, Marina. Questa sera tutto dovrà essere come era un anno fa, o per lo meno il più simile possibile.»

«Come vuoi. Credo sia meglio che vada a prepararmi, allora.» risposi con un lieve sorriso.

Il nonno lo ricambiò poi, mentre mi allontanavo seguita da Silam assieme alla mamma, Elisa e Umi, lo vidi voltarsi verso papà e aiutarlo a disporre le guardie nel Forte.

Le stanze delle Regine erano esattamente come le ricordavo ed entrandovi, per un istante ebbi l’illusione che quell’anno non fosse davvero passato, che si fosse trattato solo di un brutto sogno. Ma sapevo che non era così.

Nei bagni vasche colme di profumata acqua calda aspettavano me ed Elisa che, reduci da un viaggio troppo lungo per parlarne, ci lasciammo scivolare grate nell’acqua, accudite dalla mamma a da Umi.

 

 

*****

 

 

Rashid mi aveva accolto negli appartamenti imperiali felice del mio ritorno e soprattutto felice che avessi ritrovato Marina. Dopo avermi preparato il bagno e avermi aiutato a indossare l’abito da sposo, era rimasto a farmi compagnia, ponendomi molte domande su quello che era successo negli ultimi dodici mesi. Era così riuscito a farmi passare l’attesa che altrimenti mi sarebbe sembrata interminabile, pur nella sua brevità. Quando uno dei servi fidati di mio zio venne ad avvisarmi che era tempo di raggiungere il padiglione sulla terrazza, mi alzai, presi il mio pugnale e lo agganciai alla fusciacca che mi stringeva la vita, al suo posto: ero intenzionato a non correre rischi.

 

 

*****

 

 

Ormai pronta sedetti con mia sorella su un soffice divano accanto a una delle finestre. Mamma e Umi si stavano occupando degli ultimi preparativi, controllando che tutto fosse in ordine. Non sapevo quando mi sarebbero venuti a chiamare, ma immaginai che non ci sarebbe voluto molto: il tramonto era prossimo. Elisa, molto più a suo agio nel sari rosa di quanto non lo fosse un anno prima, tentava di distrarmi dall’attesa, cercando di combattere l’ansia che aleggiava su entrambe. Ci trovammo a parlare di somiglianze e diversità dall’ultima volta che ci eravamo trovate lì, e di quello che ci aspettavamo dal prossimo futuro.

«L’ha fatto davvero?»

«Sì, a Varanasi. Alex mi chiese se ero d’accordo poi ha spedito un secondo telegramma…»

«Oh, Elisa, è magnifico! Sarà davvero come se quest’ultimo anno orribile non fosse mai passato! Tu e Alexander che vi sposate fra cinque giorni!» sospirai felice.

«Già. Faccio fatica a crederlo anch’io! Ma gli avevo promesso che quando avessimo ritrovato la mia damigella d’onore ci saremmo sposati, e tu sei qui!»

«Sarò felicissima di vedervi sposati! Anche se avrei preferito vedervi già l’anno scorso.»

«Non pensarci più, Marina, è passata ormai. Per quanto sia stato un periodo orribile, per quanto abbia comportato la perdita di Luke e di Patal… Sai ho imparato cose, in questo anno, su di me e su Alex... perfino su Cavan: siamo diventati molto amici, lo hai visto tu stessa. È stato importante quest’anno. Ho scoperto di avere più coraggio di quanto pensassi, che Alexander è una persona ancora più speciale di quanto già non sapessi, che mi ama più di quanto immaginassi… e ho avuto modo di conoscere Cavan, di conoscere l’uomo, oltre al Principe. Ho imparato ad apprezzare e ad amare come un fratello l’uomo che ti starà al fianco per il resto della vita. E sono felice che vi sposiate, molto più di quanto lo fossi un anno fa: allora ero felice perché tu lo amavi e desideravi sposarlo. Ora sono felice perché so che lui ti ama profondamente, di più: merita il tuo amore. Per questo sono tranquilla. Non voglio dire che sia contenta di quello che è successo, perché non è così: è stato orrendo. Ma è servito a farci maturare. Tutti. Poiché anche tu sei diversa: più grande, più coraggiosa, più donna.» concluse.

«Sì, hai ragione…» dissi dopo un momento di silenzio «Per quanto non riuscirò a perdonarmi di aver pagato questa consapevolezza con la vita di Luke e di Patal, non posso negare che quanto hai detto sia vero.»

«Non devi sentirti in colpa, Marina, non ne hai motivo. So che ti sembra il contrario, ma non è così. Credimi.»

Rimanemmo in silenzio. Come sempre era stato tra noi, ci capivamo senza bisogno di dire molto, bastava uno sguardo, un sorriso. Era bello stare lì seduta con lei. Per tutti quei lunghi mesi di prigionia e di solitudine avevo spesso desiderato avere Elisa vicino e da quando ci eravamo riunite, non avevamo fatto che stare accanto l’una all’altra, a volte parlando, a volte in silenzio. Unite…

Si aprì la porta, lasciando entrare un uomo anziano avvolto in lunghe vesti ricamate con simboli alchemici. Spalancai gli occhi, riconoscendo in lui l'uomo che più di un anno prima, mi era apparso in sogno e le cui parole mi avevano sostenuto e dato coraggio nei mesi di prigionia. Mi guardò per qualche istante poi sorrise e mi prese una mano.

«Finalmente ci incontriamo, piccola Principessa. Ero certo che sareste riuscita a superare questa difficile prova.» disse con voce pacata.

«Chi siete voi?»

«Il mio nome è Asmal, e sono molti anni che desideravo conoscervi.»

«Voi siete il mago che disse a Cavan che ci saremmo conosciuti?» domandai stupita.

«Proprio io. Ma sono anche colui che, involontariamente, causò la distruzione del vostro palazzo. Vi chiedo perdono, Sunahra Moti, per quello che è accaduto il giorno della vostra nascita.»

«Non ho nulla da perdonarvi. So con certezza che il palazzo sarebbe stato attaccato comunque. Indicando in me la candidata più probabile avete salvato dalla distruzione le case, le famiglie e le vite delle altre quattro fanciulle legate alla Profezia. La mia famiglia sarebbe morta comunque, ma sarebbero morte anche le loro.» conclusi.

«Siete davvero degna del ruolo che gli Dei vi hanno imposto...» disse dopo un attimo di silenzio «Sarete una grande Maharani, così come il Principe Cavan diverrà uno straordinario Maharaja. Ora vi lascio: la cerimonia sta per avere inizio.»

«Non restate con noi?»

«Altri doveri mi impongono di andare. Ci rivedremo ancora, non temete. Arrivederci.» se ne andò.

Rimasi a lungo ferma a guardare la porta da cui era uscito, riflettendo sulle sue parole. Elisa mi venne accanto, stupita dalla comparsa di quell'uomo un po' bizzarro che sembrava avere tutti gli anni del mondo. Le narrai allora del sogno e di quello che aveva significato per me in quei mesi, e di quello che mi aveva raccontato Cavan su di lui.

L’arrivo dell’ancella venuta a chiamarmi ci colse alla sprovvista. Fu mamma a prendere in mano la situazione e con poche parole diede disposizioni alle ancelle e alle danzatrici che componevano il mio corteo, mettendo ordine nel caos che si era creato al loro ingresso. Poi, dopo avermi posato un bacio sulla fronte, mi salutò e assieme a mia sorella raggiunse la terrazza per assistere alla cerimonia.

Guardai Umi accanto a me che reggeva la lastra d’oro scolpito e fissai per qualche istante il mio stemma, trassi un respiro profondo, mi voltai verso la porta e diedi segno alle danzatrici di avviarsi.

 

 

*****

 

 

In piedi presso il padiglione bianco osservavo la folla di invitati che occupava due terzi della terrazza. In prima fila vidi il colonnello e Alexander, notai poi Silam accucciato regalmente ai piedi del primo e sorrisi nel vederlo libero da catene. Notai poi qualcos’altro che si discostava dai ricordi dell’ultima volta che ero stato lì: gli invitati, tutti gli invitati, cingevano la spada al fianco. Tradizioni o no, nessuno era disposto a vedersi ripetere la scena accaduta dodici mesi prima. Sapevo che in teoria nessuno avrebbe assaltato il Forte, essendo la Setta senza nome praticamente estinta, ma ero ben felice che, nel caso, saremmo stati in grado di respingere l’attacco. Non sarebbe successo, ma eravamo pronti…

Il suono dei tamburelli attirò la mia attenzione verso l’arco che dava accesso alla terrazza e dopo pochi istanti il corteo della sposa apparve e si avvicinò. Marina, al centro, avanzava con passi misurati, come l’ultima volta. Ma c’era qualcosa di diverso in lei: una calma, una tranquillità quasi irreali. Nei suoi occhi scuri brillavano decisione e forza. Non era più una ragazzina, era una donna. La mia donna. La mia sposa.

Giunse accanto a me e io le strinsi la mano, ci guardammo un istante, quindi ci voltammo verso il Grande Sacerdote della Trimurti che da un anno attendeva di dare inizio alla cerimonia.

Quando prese la catenella dorata pronto a legare le nostre mani giunte, e le nostre vite, voci concitate si alzarono dal fondo della folla di invitati, bloccandolo. Mi voltai di scatto portando una mano al pugnale: chiunque fosse arrivato mi avrebbe trovato pronto…

 

 

*****

 

 

Con affascinato orrore vidi Cavan portare la mano al pugnale e voltarsi verso la folla. Mi voltai anch’io, il cuore che batteva all’impazzata e vidi con crescente apprensione il movimento tra la folla finché il motivo di tanta agitazione divenne visibile. Allora, per un istante, il mio cuore si fermò.

«Patal!»

La voce di Umi risuonò nel silenzio calato sulla terrazza mentre la donna si avvicinò quasi correndo a colui che avevamo creduto morto.

Lo guardai per un momento e d’improvviso il peso opprimente che gravava sulla mia anima si dissolse: Patal era vivo! Almeno lui era tornato da noi. Mi sentii felice, di una felicità quasi perfetta che mi inondò come una calda marea confortante. Cavan mi strinse delicatamente la mano richiamando la mia attenzione e, quando mi voltai verso di lui, alzò una mano asciugandomi una lacrima. La guardai stupita brillare sulle sue dita: stavo piangendo e non me ne ero neppure accorta. Gli sorrisi e mi asciugai gli occhi, poi guardai ancora un attimo Patal che mi fece un cenno incoraggiante e mi voltai verso il Grande Sacerdote.

Nuovamente immersi nella quiete solenne della terrazza tornata silenziosa, il Sant'Uomo unì le nostre mani legandole con la catenella d’oro e pronunciando gli ultimi Mantra, legò anche le nostre vite. Per l’eternità.

Per alcuni istanti si udì solo il lieve mormorio delle acque dello Yamuna, poi gli invitati, guidati dal nonno, eruppero nell’augurio di prosperità e lunga vita. Il Grande Sacerdote sciolse la catenella e Cavan mi fece voltare verso la folla, mi guardò un istante sorridendo, poi si rivolse ai presenti dinanzi a noi.

«Ecco la mia sposa!» annunciò con voce stentorea nella presentazione rituale «Dinanzi agli Dei e a questi testimoni io la riconosco come mia Signora e Regina.» tornò a guardarmi «Da oggi sarai conosciuta col nome di Hridae-i-Mahal, il Cuore del Palazzo, poiché tu sei la fonte della mia esistenza, l’unica ragione della mia vita. Sei il mio cuore e quello del mio popolo.»

«Lunga vita a Cavan Marek, Maharaja di Jaipur!» gridò allora mio padre «Lunga vita a Hridae-i-Mahal, la sua Maharani!»

Tutti gli ospiti ripeterono il grido più e più volte, sempre più forte finché le loro voci superarono le mura del Forte Rosso e invasero le strade di Agra, raccolte e ripetute da quanti vi abitavano finché tutta la città risuonò gioiosa in quel grido.

La melodia di centinaia di strumenti prese poi il posto delle voci e la musica corse per le strade facendo risuonare le campagne circostanti che, risvegliate dal torpore serale, si animarono di vita, voci e musica che portarono il messaggio di villaggio in villaggio, di città in città: la Profezia si era compiuta, gli Dei avevano sorriso all’India e i malvagi erano stati sconfitti. Il Principe Cavan Marek era divenuto Re e aveva finalmente accanto la sua Regina…

 

 

Cinque giorni dopo, nella chiesa del presidio di Lucknow, lady Elisa Maryann Shallowford e il capitano Alexander William Preston furono uniti in matrimonio.

Seduta accanto a Cavan nel banco riservato alla famiglia della sposa, guardavo mia sorella con occhi colmi di lacrime di orgogliosa commozione. Elisa era divinamente bella nel suo abito da sposa bianco decorato con pizzo di un tenue verde acqua. Il velo candido incorniciava il volto roseo in cui risplendevano i luminosi occhi verdi, lucidi di felicità. Alexander, al suo fianco, impeccabile e affascinante in alta uniforme, aveva il portamento fiero di un guerriero tornato vincitore da una dura battaglia, e alcuni di noi sapevano che era proprio così. La gioia che pervadeva entrambi mentre pronunciavano i voti era palese e ci rendeva felici. Strinsi lievemente la mano di mio marito nel sentire il pastore dichiararli marito e moglie e non riuscii a evitare che una lacrima mi rigasse il volto quando si scambiarono il bacio rituale. Ora era davvero tutto finito. Tutte le ansie, tutte le paure, tutto l’orrore degli ultimi dodici mesi scomparvero come per magia in quella chiesa bianca le cui vetrate istoriate brillavano multicolori nella luce del sole. Perché adesso tutto era come doveva essere.

O quasi… Il volto ridente di Luke mi attraversò la mente nel ricordo di una tiepida mattina invernale, quando lui per me era ancora il capitano Tyler. La mattina in cui era diventato Luke… semplicemente Luke, il mio migliore amico.

Guardai Cavan di sottecchi e mi lasciai andare a un tenue sorriso, ricordando la promessa che avevo fatto.

“La manterrò, Luke.” pensai tornando a guardare mia sorella e suo marito “La manterrò…”

 

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Capitolo 27
*** Epilogo ***


Attenzione
Se state seguendo questa storia e avete
ricevuto la notifica del nuovo capitolo ricordate
che, insieme all'Epilogo, ho postato il Capitolo XXIV:
non saltatelo! ;)
Grazie.






 

Epilogo

 

 

India 1842, Palazzo reale di Jaipur, Rajasthan.

 

Seduta su una poltrona di vimini presso uno scrittoio, Hridae-i-Mahal, Maharani del Rajasthan e dell'Uttar Pradesh, posò la penna e si lasciò andare contro lo schienale con un sospiro. Osservò i monti di arenaria rossa, visibili dalla terrazza su cui si trovava, che sembravano ancora più sanguigni nella luce purpurea del tramonto. Abbassò gli occhi sulla pila di fogli davanti a lei, colmi della sua minuta ed elegante grafia, le cui ultime parole andavano asciugandosi velocemente alla brezza della sera, posandovi sopra un pesante fermacarte perché non rischiassero di volare via. Si sentiva un po’ spossata dalle lunghe ore passate presso lo scrittoio. Aveva iniziato quella mattina presto, descrivendo immagini che sembravano lontanissime, per mettere un po’ d’ordine nei suoi ricordi risvegliati da un sogno che ormai era molto nebuloso, ma che l’aveva spinta a mettere per iscritto ciò che vedeva con gli occhi della mente. Era sorpresa dal volume di fogli che ora si trovava davanti: la sua storia, sua e di suo marito. Il Maharaja aveva passato qualche ora lì con lei, nel primo pomeriggio, integrando con il suo racconto i ricordi di lei, così erano venuti alla luce particolari e immagini che nessuno dei due rammentava neppure di aver vissuto. Situazioni, persone, luoghi… Erano tornati a vivere per qualche ora nelle loro parole e ora sarebbero vissute per sempre in quelle pagine, in quel diario di viaggio che era stata la loro vita insieme. O per lo meno i primi due anni… Sorrise a quel pensiero. Due anni, pagine e pagine fittamente scritte per raccontare solo due brevi, infiniti, orribili, meravigliosi e indimenticabili anni. Il principio di tutto…

L’avvicinarsi di un’ancella la distolse dalle sue riflessioni. La fanciulla le porse una busta sigillata e, inchinatasi, si ritirò. Hridae ruppe il sigillo con un sorriso, avendo riconosciuto la scrittura del cognato lontano. Estrasse la lettera scorrendola velocemente, mentre il sorriso si allargava, illuminandole gli occhi scuri.

«Cavan!» chiamò «Cavan corri, vieni a sentire!»

Alto e possente, il sovrano del Rajasthan e dell’Uttar Pradesh si avvicinò portando in braccio Shalimar, la loro bimba nata da neppure sei mesi, mentre Balvan, il primogenito di quasi quattro anni, gli trotterellava accanto.

«Cosa succede?» chiese raggiungendo la moglie.

«È una lettera di Alexander. Elisa ha dato alla luce il quarto figlio: è una bambina!»

«Finalmente! Alex sarà contento…»

«Sì, sono entrambi al settimo cielo. E, indovina, hanno deciso di chiamarla Marina!»

«Mi sembra giusto, dopo tutto tua sorella ha sempre lamentato la mancanza di qualcuno da chiamare con quel nome!»

«Adesso è tutto perfetto…» disse lei voltandosi verso il panorama.

«O quasi, vero?» aggiunse Cavan cingendole la vita con le braccia dopo aver consegnato la bambina alla balia.

«No: tutto…» lo guardò negli occhi «È tutto a posto, e lui sta sorridendo per questo. Posso sentirlo…»

«Già. Comunque non è mai stato in grado di rimanere serio troppo a lungo…» commentò scherzosamente il Maharaja.

Hridae scosse la testa con finta esasperazione e si voltò tra le sue braccia appoggiandosi con la schiena contro il petto del marito e insieme osservarono il tramonto, un tripudio iridescente di rosso e oro.

“Colori di buon auspicio per una bella notizia…” pensò lei sospirando.

In quel momento Cavan le fece scivolare attorno al collo una catena di preziosa filigrana d’oro a cui era appeso un rubino color del sangue e le posò un tenero bacio su una tempia. Era il 21 giugno, il loro decimo anniversario di nozze e Hridae, la fronte appoggiata al mento del marito, chiuse gli occhi assaporando quell’attimo di perfetta felicità.

Un volto familiare fece capolino tra i suoi pensieri e lei sorrise al suo indirizzo.

“Ho mantenuto la promessa, Luke.” pensò serena “La sto mantenendo, amico mio…”






Nota di chiusura

Eccoci qui: è finito. Grazie a tutti coloro che
hanno letto questa storia, grazie a chi ha commentato
e a chi mi ha scritto in privato. E grazie in anticipo a coloro 
che lo faranno ora che la storia è finita.
Spero vi sia piaciuta, in caso contrario mi dispiace
se ho deluso le vostre aspettative.
Commenti e messaggi sono sempre i benvenuti: il
vostro riscontro è quel che mi spinge a scirvere!
Un abbraccio a tutti/e
Sara

p.s.: se vi va date un'occhiata al resto dei miei lavori! A presto!

 

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