Metamorfosi

di Red Owl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** VI ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VIII ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***



Capitolo 1
*** I ***


E poi se n’erano andati, veloci com’erano arrivati. Avevano lasciato sul campo i corpi dei caduti, abbandonati al becco degli avvoltoi o alla pietà dei nemici, ed erano spariti, inghiottiti dalla boscaglia bassa e impenetrabile che era la loro casa.

Odeb à Fànur, i Nati dalla Nebbia. Uomini come tutti gli altri, in fin dei conti. Solo un po’ più feroci, forse. Si diceva combattessero a mani nude, avvolti solo dalla pelle degli animali di cui si nutrivano, e che cionondimeno fossero in grado di strappare il cuore dal petto dell’avversario, squarciandogli il torace con la mera forza delle loro dita possenti.

Zeru, capitano della Guardia Reale, rovesciò con la punta dello stivale il corpo di un uomo che la morte aveva scaraventato a faccia in giù in una pozzanghera. A mani nude, pensò, scoprendo i denti in un sorriso più simile a un ringhio. Alcuni di loro, forse. Altri usavano però tozzi gladi affilati o mazze o corte lance adatte alla mischia. Altri ancora erano armati di archi lunghi; ed erano stati proprio gli arcieri a coglierli di sorpresa. Erano stati degli idioti, non avrebbero dovuto abbassare la guardia in quel modo, cullati e rassicurati dalle fandonie che si raccontavano a proposito dei barbari della brughiera. Non avrebbero dovuto riporre troppa fiducia nelle loro armature e nei loro scudi, illudendosi che questi li avrebbero protetti dalla furia di quelle bestie.

Avevano respinto l’attacco, sì, ma il prezzo era stato alto. Il soldato distolse lo sguardo dal volto esanime del nemico caduto e lo lasciò scorrere attorno a sé, mentre la sua mente esaminava con lucida freddezza le perdite subite. Dei cento uomini che avevano formato la scorta della famiglia reale ne erano rimasti in piedi una sessantina e tra quelli a terra solo una dozzina riportavano ferite facilmente guaribili: gli altri erano morti o lo sarebbero comunque stati presto.

Ai piedi di un albero poco distante, Zeru scorse Dan e Kyran, i figli gemelli di quello che era stato il suo più grande amico d’infanzia: avevano solo sedici anni, ma già dimostravano un’abilità non comune nel maneggiare la spada e un giorno sarebbero diventati due validi soldati. O, per lo meno, Dan lo sarebbe diventato: Kyran non sarebbe sopravvissuto alla ferita che gli arrossava il fianco e che suo fratello cercava inutilmente di tamponare, il volto contratto in una maschera d’angoscia.

Sarebbe toccato a lui dare la notizia ad Asam, il padre dei ragazzi: il pensiero gli procurò un tremito di dolore, ma subito la sua mente corse a cose più pratiche. Perché li avevano attaccati? I Nati dalla Nebbia avevano la fama di essere dei briganti, i feroci assalti che sferravano ai rari viandanti che attraversavano quel tratto di brughiera erano ben noti a tutti, ma quelli che erano piombati loro addosso non erano dei volgari predoni, no. Li avevano attaccati per uccidere, non per saccheggiare, e l’avevano fatto in modo estremamente organizzato, seguendo un ordine preciso.

E non v’era alcun dubbio che l’obiettivo non erano i soldati.

Alle sue spalle un cavallo nitrì e Zeru guardò con apprensione la carrozza nella quale viaggiava la famiglia reale: il re, la regina consorte, la principessa Arina della Piana del Gigante e la principessa Marai, la più giovane tra i figli dei sovrani di Adaval. Poteva solo pregare gli Dei che i suoi occupanti fossero illesi, o le conseguenze sarebbero state terribili: per il popolo, naturalmente, ma anche per lui.

Se, come temeva, quello che avevano subito era stato un attacco volto a eliminare re Yasu e la sua famiglia, era fondamentale individuarne il prima possibile i mandanti. Non poteva trattarsi di un’iniziativa nata in cuore alle orde dei Nati dalla Nebbia: per quanto feroci e brutali, gli Odeb à Fànur vivevano in un mondo a parte, in un universo fatto di acquitrini, erica gigante e scogliere a picco sul mare; e poco badavano agli affari della capitale. Non erano noti per essere mercenari, ma, pensava Zeru, con ogni probabilità nemmeno loro erano immuni al fascino del denaro e, forse, qualcuno era riuscito a comprare i loro servigi.

Qualcuno che vuole eliminare il re, ma chi?

In quanto capitano della Guardia avrebbe dovuto sapere tutto sull’identità di coloro che mettevano in pericolo la vita del suo sovrano, ma la politica non era mai stata il suo forte. Lui si occupava di tenere l’ordine, di garantire la sicurezza, di allontanare i pericoli. Non era solito guardare in faccia nessuno, non gli importava sapere il nome e lo stato di chi aveva davanti: se costituivano un problema, si preoccupava di far sì che non fossero più in grado di nuocere nessuno; al resto non badava.

«Capitano!»

La voce di un giovane soldato di cui non ricordava il nome lo distolse dai suoi pensieri. Il ragazzo zoppicava e aveva il volto sporco di sangue, ma pareva tutto sommato piuttosto in salute.

«Il re vuole parlarti.»

Naturalmente.

Se il re voleva parlargli, significava che il re era vivo; e questo era certo un bene. Tuttavia, l’espressione del giovane che era venuto a convocarlo era tetra e non prometteva nulla di buono.

Il re è vivo, ma le donne?

«Bene.»

Con un cenno risoluto, Zeru sorpassò il suo sottoposto, dirigendosi verso la carrozza e sperando che il suo passo deciso non tradisse il suo tremito interiore.

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Capitolo 2
*** II ***


Nella carrozza non c’era più spazio. Non appena vi mise piede, Zeru si sentì sopraffare dall’atmosfera claustrofobica e dal silenzio interrotto soltanto dal singhiozzare di una donna.

La regina?

Il soldato fece appena in tempo a registrare la presenza del suo secondo in comando e del confessore personale del sovrano, che il re in persona gli si fece incontro, gli occhi spalancati e il volto terreo.

«Chi ci ha attaccati?»

Re Yasu era più basso di lui di parecchie spanne – e assai più esile – eppure le sue dita gli artigliarono le spalle con una forza inaudita, simili a morse di acciaio.

«Gli Odeb à Fànur, sire» rispose, con voce pacata.

«No, chi ci ha attaccati?» ripeté il sovrano, serrando ancora di più la presa e scuotendolo leggermente.

«Gli…» Zeru fece per ripetere la risposta data un istante prima, credendo che il re, sotto shock, non l’avesse intesa, ma poi si fermò, comprendendo la vera natura della domanda che gli era stata posta. «Ancora non lo sappiamo, sire. I Nati dalla Nebbia si sono dileguati, ma i miei uomini stanno controllando i corpi rimasti a terra: se hanno lasciato qualche indizio, lo troveremo.»

Gli occhi neri del re rimasero fissi nei suoi ancora per qualche istante, ma poi un velo parve ricoprirli e il sovrano abbassò il capo, lasciando che le mani scivolassero via dalle spalle del soldato e gli ricadessero inermi lungo i fianchi. Solo in quel momento Zeru si rese conto che, durante quel breve scambio di battute, i singhiozzi della regina non erano mai cessati.

Per una frazione di secondo, il soldato ebbe l’impressione che il mondo attorno a lui tremasse e si facesse sfocato, poi l’uomo si schiarì la voce, cercando di dar voce alla domanda che non avrebbe mai voluto fare: «Cosa…»

«Le principesse sono state colpite» lo prevenne il confessore, pratico.

La risposta non lo stupì – aveva indovinato la verità sin dall’istante in cui era entrato nella carrozza, ma aveva cercato di negarla – e Zeru incontrò gli occhi del sant’uomo, grato per la fermezza che trovò in essi. Padre Tyban era stato un uomo estremamente robusto, in gioventù, e la forza che l’aveva contraddistinto un tempo non l’aveva nemmeno una volta passato il traguardo dei sessant’anni, così come non l’avevano abbandonato il suo coraggio e la sua forza d’animo.

Con un mesto cenno del capo, il confessore si spostò di lato e permise a Zeru di scorgere le due giovani donne riverse sui sedili della carrozza.

«Com’è successo?»

Il capitano si era da sempre fatto vanto della freddezza che non lo abbandonava nemmeno nei momenti più difficili, eppure, in quel momento, davanti a quei due corpi esanimi e alle lacrime della donna che piangeva su di loro, quasi si vergognò del tono distaccato della propria voce.

«Le frecce sono penetrate attraverso il finestrino» spiegò Difan, il suo secondo in comando. «Le principesse sedevano proprio su quel lato della carrozza, non abbiamo potuto fare nulla per evitarlo.»

«Avreste dovuto sprangarlo» ringhiò Zeru, esaminando i cocci dei vetri che erano caduti sul pavimento di legno.

«Non ce n’è stato il tempo» si giustificò l’altro soldato. «L’arciere non tirava a caso, mirava proprio la finestra. Ha ucciso due uomini e poi, prima che le principesse avessero il tempo di mettersi in salvo, ha scoccato altre tre frecce.»

«Tre frecce soltanto?» chiese, pensieroso.

«Sì, signore» replicò Difan, corrugando la fronte.

«Hm.»

Perché non cercare di uccidere tutti gli occupanti della carrozza? Arina è relativamente importante, ma Marai… Marai vale poco, o niente. Perché non uccidere il re?

Per rispetto, Zeru si astenne dall’esternare le sue perplessità, almeno per il momento, e si avvicinò alle due ragazze.

«Sono gravi?» chiese, inginocchiandosi di fronte alla regina. La donna chiuse gli occhi e inspirò a fondo, cercando di darsi un contegno, ma un singhiozzò scappò comunque dalle sue labbra.

«Sono gravi» rispose Padre Tyban, posando una mano sulla spalla della sovrana, cercando forse di trasmetterle un poco di conforto. «Temo che non supereranno la notte.»

Volgendo lo sguardo alla propria sinistra, Zeru lasciò scorrere gli occhi sul corpo di Arina, la fanciulla straniera andata in sposa a Spiro, il primogenito di re Yasu e della regina Lisi. Avrebbe dovuto essere regina, un giorno non lontano, e l’uomo non poté fare a meno di pensare che anche allora, mentre giaceva a un passo dalla morte sullo scomodo sedile della carrozza, la ragazza aveva un’aria regale, con i suoi zigomi alti e con i capelli neri come la notte adornati da una retina di diamanti. La veste di seta smeraldina che indossava era macchiata in due punti, sulla spalla e sul fianco destro, lì dove le frecce l’avevano colpita.

«Ha cercato di proteggere Marai» mormorò la regina, con la voce arrochita dal pianto. «Si è buttata su di lei.»

Ma non è servito a molto.

Marai, esile come un giunco e ancora più pallida di quanto l’uomo ricordasse, era stata comunque colpita da una freccia all’altezza dello stomaco, una ferita che difficilmente lasciava scampo a un uomo nel pieno delle forze e che era una condanna a morte certa per una ragazza così minuta.

«Povera piccola» gli scappò detto, mentre la sua mente rivedeva la ragazzina che era stata, una bimbetta bionda e timida che spiava il mondo da dietro le sottane della madre.

Non si meritava questo. Nessuna delle due se lo meritava.

Un fremito di rabbia lo costrinse a serrare la mascella e a distogliere gli occhi dal volto esangue della fanciulla. Zeru si alzò, pronto a promettere di impegnare tutto se stesso nella ricerca degli assassini delle due ragazze, pronto a implorare re Yasu di lasciarlo al suo posto almeno fino a quando non li avesse trovati – e che poi facesse quello che voleva di lui, che lo punisse per le sue inadempienze, se lo credeva necessario – quando la mano di Padre Tyban calò sulla sua spalla.

«Lasciaci» disse il sacerdote, rivolto a Difan.

Con un profondo inchino rivolto ai due sovrani, il soldato uscì dalla carrozza, evidentemente grato della possibilità di lasciare quel luogo umido di pianto e amaro di dolore. Quando il giovane se ne fu andato, Zeru si voltò di nuovo verso il sacerdote, sentendo che una sorta di pudore gli impediva di guardare ancora le due fanciulle.

«C’è qualche speranza di salvezza per le principesse?» chiese, con voce cupa, pur sapendo che la risposta di Padre Tyban non sarebbe stata diversa da quella che gli aveva dato poco prima.

«Hai certamente visto abbastanza battaglie per trovare da solo una risposta, capitano» replicò infatti il confessore, quasi con gentilezza.

«Non sono un esperto guaritore» si giustificò il soldato. «Tu, invece…»

«Non vi è alcuna speranza di sopravvivenza, per loro» lo interruppe allora il sacerdote, con un sospiro. «Se fossimo Rocca del Vento potrei forse provare a curarle; e anche così strapparle alla morte sarebbe un’impresa assolutamente ardua. Ma Rocca del Vento è a un giorno di viaggio da qui e temo che le ragazze non vivranno tanto a lungo.»

Nell’udire quelle parole il re si premette un pugno sulle labbra e il suo corpo fu scosso da un sussulto. I suoi occhi rimasero asciutti, però; e Zeru immaginò che il sovrano fosse già a conoscenza di quanto disperate fossero le condizioni di sua figlia e di sua nuora.

«Malgrado le circostanze, però, la principessa Arina non ha nulla da temere» continuò Padre Tyban, sfiorando con la punta della dita il piede della giovane.

Zeru abbassò sulla fanciulla uno sguardo scettico: a lui non pareva affatto che la poveretta non avesse nulla da temere.

«Quando abbandonerà la vita terrena ed entrerà nella Sala degli Antenati, verrà accolta con tutti gli onori. È stata una donna giusta, che ha vissuto secondo i principi degli Dei. La principessa Marai, invece…»

«È stata giusta anche lei!» abbaiò la regina, con la voce ancora rotta dal pianto. «È stata… è una brava ragazza, una ragazza dolce, gentile…»

«Certamente, mia signora» mormorò Padre Tyban, con gli occhi bassi. «Ma, pur essendo già da tempo in età da marito, non è sposata e questo è contrario alla legge divina. Se dovesse presentarsi alle Porte Celesti in queste condizioni… se dovesse presentarsi in queste condizioni le verrebbe negato l’ingresso e la sua anima sarebbe costretta a vagare sulla terra per tutta l’eternità, senza trovare mai un vero riposo.»

La regina strinse la mano in un pugno e Zeru esalò lentamente, chiedendosi quanta verità ci fosse nelle parole del sacerdote. Davvero gli Dei – ammesso che esistessero davvero - avrebbero punito una fanciulla innocente come la principessa?

«Noi...» la regina si interruppe, inspirando a fondo nel tentativo di calmarsi. «Marai è la nostra bambina, non volevamo separarci da lei così presto, non credevamo ci fosse il bisogno di… Ci stavamo pensando, ma…»

«Avevate già pensato a  un giovane adatto, che potesse aspirare alla sua mano?» chiese il capitano, interpretando le frasi spezzate della donna.

Il re scosse il capo: «No, erano solo idee vaghe e per nulla concrete.»

«In ogni caso, non ci sarebbe stato il tempo per raggiungere il suo promesso sposo» mormorò Padre Tyban, cercando gli occhi del sovrano. «Se vogliamo salvarla, la principessa deve sposarsi; e deve farlo ora.»

I genitori della fanciulla si scambiarono un’occhiata vagamente perduta.

«Ora?» chiese il re, aggrottando la fronte. «Stai suggerendo di darla in sposa a un soldato?»

«Non a un soldato qualunque» replicò il sacerdote, voltando il capo verso Zeru.

Inconsciamente, il capitano fece un passo indietro.

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Capitolo 3
*** III ***


Non essere ridicolo, certamente hai capito male.

Facendo forza su se stesso, Zeru si impose di mantenere un’espressione neutra e di sostenere lo sguardo del sacerdote di fronte a lui.

«Tu non hai famiglia, capitano» costatò Padre Tyban, guardandolo con quegli occhi spaiati che erano sempre stati un suo segno distintivo.

«No» confermò il soldato, senza sbilanciarsi.

«Allora potrai farti carico di questo impegno, se i miei signori sono d’accordo» fece il sacerdote, voltandosi per osservare i sovrani, immobili accanto al corpo della figlia. I due si scambiarono un’occhiata titubante, ma poi il re fece un cenno che, se non era d’assenso, non era certamente nemmeno di diniego.

«No» Zeru fu quasi sorpreso nell’udire la sua voce parlare, ma poi le sue labbra si curvarono in una smorfia determinata. «È una follia, sire. Si deve trovare un’altra soluzione.»

Il sacerdote gli si avvicinò di un passo: «Capisco che non si tratti di una decisione semplice, capitano, e la tua reticenza ti fa indubbiamente onore: in molti vedrebbero nella possibilità di sposare la principessa un mezzo per migliorare il proprio status. Ma tu hai giurato di proteggere il re e la sua famiglia; ed è esattamente quello che ti stiamo chiedendo di fare, ora.»

«Proteggerla…»

Proteggerla da viva, non da morta, era quello che avrebbe voluto dire, ma le parole gli morirono in gola. Non aveva fatto un gran bel lavoro, quando si era trattato di garantire la sicurezza di Marai e Arina, e la prova era lì, davanti ai suoi occhi. Ma rimane pur sempre una pessima, pessima idea. Non possono essere seri, nel propormi una cosa del genere.

«È solo una bambina» provò allora a obiettare, osservando il corpo minuto della ragazza.

«Ha vent’anni» lo contraddisse il re, con voce insolitamente sottile. «Tutto si può dire, fuorché che sia una bambina.»

«Ma non li dimostra» mormorò il soldato, rivolto più a se stesso, che al suo interlocutore. Poi tossicchiò, parlando in modo più chiaro: «E io ne ho quasi il doppio. Potrei essere suo padre.»

«Ma suo padre sono io» ribatté il re, rianimandosi. Dalla luce che si accese nei suoi occhi, Zeru si accorse, non senza un certo orrore, che il suo sovrano si stava rapidamente convincendo che quella proposta dal suo confessore fosse una soluzione perfettamente accettabile. «Non sei poi così vecchio, capitano: quanti anni hai? Trentatré, trentaquattro?»

«Trentasei» precisò l’uomo, con una smorfia.

«Lo ripeto: non sei troppo vecchio. E, in ogni caso, non ha importanza: si tratta solo di salvare l’anima di mia figlia, non di darle uno sposo di suo gradimento. Purtroppo è possibile che Marai non si risvegli mai più e che non sappia mai chi ha sposato; e una volta giunta nell’aldilà… chi può dire cosa accadrà, allora.»

Non è dell’aldilà che mi preoccupo, pensò Zeru, cercando di fare rapidamente mente locale.

«Mio signore… io sono figlio di un mercante di vino. La famiglia di mia madre era nobile, ma è decaduta ormai da tempo. Non ho nessun titolo per ambire alla mano di tua figlia: la principessa forse non avrà mai modo di protestare, ma, tra i vivi, ci sarà certamente chi lo farà.»

«Non preoccuparti della politica: a quella ci penseremo noi. Spiegheremo a tutti le circostanze che hanno condotto a questo matrimonio, mostreremo loro che si è trattato di una scelta obbligata. Nessuno di fedele alla nostra famiglia avanzerà obiezioni. Anzi, sarà anche un modo per testare la lealtà delle casate.»

Come fa a trovare un aspetto positivo in una situazione del genere? Si chiese Zeru, allibito.

«Naturalmente verrai ricompensato» continuò il sovrano. «Marai non ha diritti sul trono, ovviamente, ma riceverai delle terre. Anche il titolo di barone, se lo desideri; potrai riscattare l’onore della tua famiglia.»

Il capitano fece per dire che non era interessato a un titolo nobiliare, ma poi il suo pensiero volò alle sue sorelle e a quanto migliore avrebbe potuto essere la loro posizione, con un tale riconoscimento. L’uomo abbassò lo sguardo sul viso pallido di Marai, sulle sue labbra secche, sul movimento rapido e leggero del suo petto.

«E se… se la ragazza sopravvivesse?»

«È improbabile», rispose Padre Tyban, «Ma, se la ragazza sopravvivesse, sarebbe un’ottima notizia, un dono degli dei.»

«Naturalmente» concesse il soldato, con un sorriso storto. «Ma allora sarebbe sposata a me; e questa non sarebbe affatto un’ottima notizia. Un giorno potrebbe esserci il bisogno di consolidare la stabilità del regno attraverso un matrimonio mirato; cosa chiaramente impossibile, se la principessa avesse già un marito.»

«Dopo un anno sarebbe comunque possibile richiedere l’annullamento» ribatté il sacerdote, senza perdersi d’animo, prima di aggiungere: «Solo nel caso in cui il matrimonio non sia stato consumato, però.»

«Ovviamente» ringhiò Zeru, a denti stretti. La piega che stava prendendo il discorso lo infastidiva: non perché avesse un qualche interesse nei confronti della giovane principessa, ma perché parlare di sesso  in relazione a una ragazzina in punto di morte – e per di più di fronte ai suoi genitori – era semplicemente sbagliato.

Avvertendo forse il malumore del soldato, re Yasu tornò all’attacco: «Come vedi, capitano, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Si tratterebbe di una semplice formalità, uno stratagemma, se vogliamo, per salvare l’anima di mia figlia. Se gli dei saranno compassionevoli e vorranno restituircela, poi, sarà solo questione di aspettare un anno e poi il vostro legame sarà sciolto. Non ci sarà nessuna conseguenza negativa, per te, anzi, ne uscirai arricchito e con il titolo di barone.»

Zeru guardò il suo sovrano, trattenendo a stento la tentazione di lanciargli un’occhiata torva: se non fosse nato principe, pensò, sarebbe stato un ottimo imbonitore. La sa vendere bene, la sua merce. Cionondimeno, le parole del re non l’avevano convinto fino in fondo: c’era qualcosa che gli suggeriva che c’era un che di vagamente immorale, in tutta quella faccenda e, soprattutto, non era affatto certo che non ci sarebbero state conseguenze negative, per lui. Il titolo di barone era pur sempre cosa ambita da molti.

L’uomo fece per protestare ancora, per invitare il sovrano a una riflessione più attenta, ma alzando lo sguardo incrociò quello della regina, ancora seduta tra Arina e Marai. Negli occhi della donna, ancora lucidi di lacrime, il soldato lesse una scintilla di speranza e una preghiera silenziosa. Lo sapeva, la regina, che non avrebbero dovuto fargli quella proposta, che quello che gli chiedevano non era giusto né per lui né per la principessa. Eppure sapeva anche che quella era l’unica possibilità di salvare sua figlia e che, se avesse rifiutato, avrebbero dovuto cercare un altro uomo, magari meno fidato di lui.

Era vero, lui aveva giurato di proteggere Marai fino a che fosse stata in vita, ma era altrettanto innegabile che era per colpa della sua superficialità che ora la fanciulla si trovava a un passo dalla morte. Non doveva forse fare ammenda come poteva?

Lisi lesse la risposta sul suo volto ancora prima che lui la pronunciasse. «Grazie» esalò la donna, rivolgendogli un sorriso così pallido che il soldato stentò a coglierlo.

«Accetti?» gli chiese il re, voltandosi di scatto nella sua direzione.

«Accetto» sospirò lui, sentendosi stranamente privo di forze.

«È la scelta giusta, capitano» lo lodò il sacerdote. «Procediamo, allora: le condizioni della principessa sono troppo instabili per attendere oltre.»

«Subito?» chiese Zeru, senza riuscire a nascondere la nota di allarme che si manifestò nella sua voce. Accorgendosene, provò a formulare meglio il suo pensiero: «So che ci sono dei tempi da rispettare, un cerimoniale…»

«È vero» confermò Padre Tyban. «Normalmente si dovrebbe seguire un procedimento più lungo e normalmente la sposa dovrebbe essere cosciente, ma, in casi come questo, è certamente possibile fare un’eccezione. Avvicinati a lei.»

Con la netta impressione che le cose gli stessero sfuggendo di mano, il capitano raggiunse il capezzale della fanciulla. Non sapendo che altro fare, l’uomo si inginocchiò accanto a lei, ritrovandosi così all’altezza del suo viso pallido.

«Mio signore, dai il consenso affinché quest’uomo sposi tua figlia?»

A quella domanda, gli occhi neri di re Yasu incontrarono quelli verdi di Zeru, poi il sovrano annuì: «Sì, do il mio consenso.»

«E tu, capitano, giuri di proteggere e onorare questa fanciulla fino al giorno in cui gli Dei vorranno separarvi?»

Il soldato fece per rispondere, ma, di nuovo, le parole non lasciarono la sua gola.

«Ehm» mormorò, schiarendosi la voce. Si sentiva un po’ stupido, ma non poteva tacere: «In realtà questo matrimonio durerà soltanto un anno, quindi giurerei il falso se dicessi che…»

«È solo una formula, capitano» sospirò Padre Tyban, levando gli occhi al cielo. «Significa che le sarai fedele e ti prenderai cura di lei fino al momento della sua morte o, in alternativa, fino a quando vi verrà concesso l’annullamento dal Sacro Consiglio: comunque vada, sarà sempre per volontà degli Dei.»

«Va bene.»

«Dunque lo giuri?» insistette il sacerdote.

Zeru annuì, sebbene il suo animo – e quasi anche il suo corpo – gli gridasse si non farlo, di non lasciarsi coinvolgere in quella follia: «Lo giuro.»

«Ora siete sposi agli occhi degli Dei e degli uomini» annunciò Padre Tyban e, nonostante si sentisse momentaneamente assordato dal rumore del suo stesso cuore che gli martellava nelle orecchie, stordendolo come raramente gli era capitato, il capitano colse il tono malinconico con cui il sant’uomo pronunciò quelle parole.

Quando il sacerdote non aggiunse altro, Zeru rimase immobile per qualche istante, leggermente spaesato. Tutto qui? Si chiese, incerto su come procedere. Dopo alcuni attimi di silenzio, però, l’uomo divenne consapevole degli sguardi che gravavano su di lui. Ah, no, comprese, con una smorfia.

Sporgendosi verso la principessa e facendo attenzione a non disturbarla con il suo peso – sapeva bene quanto potesse essere dolorosa una ferita del genere – l’uomo le sfiorò la fronte con un bacio leggero. Si era quasi aspettato di trovarla già fredda, ma il lieve calore che avvertì sotto le sue labbra gli ricordò che la fanciulla era ancora viva e che, forse, avrebbe lottato per sopravvivere.

Sentendosi triste e stanco come non gli accadeva da tempo, Zeru si alzò e si voltò verso re Yasu.

«Molto bene» mormorò il sovrano, sforzandosi di sorridere. «Ti ringrazio davvero molto, capitano. Quando faremo ritorno a Rocca del Vento discuteremo di tutti i dettagli del nostro accordo, ma, per il momento, credo sia meglio rimettersi subito in cammino verso Adaval: voglio dare a mio figlio la possibilità di dire addio a sua moglie e a sua sorella.»

«Naturalmente, sire» acconsentì il soldato, chinando il capo. «Dirò agli uomini di prepararsi subito a partire.»

Con quelle parole, Zeru fece per uscire dalla carrozza, ma la voce di Padre Tyban incrinò la bolla di stordimento nella quale si sentiva immerso: «Capitano… credo sia meglio di non rivelare a nessuno ciò che è successo, almeno per il momento.»

Annuendo una seconda volta, il soldato si lasciò alle spalle l’aria densa e scura della carrozza, lasciando che la luce del sole tornasse ad accarezzargli la pelle.

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Capitolo 4
*** IV ***


Zeru si appoggiò alla parete della carrozza, aspettando che lo shock per quello che era accaduto lo investisse con tutta la sua potenza, ma niente, non avvertì nemmeno un tremito. Il sole continuava a splendere, incurante del suo matrimonio e dei corpi sparsi per terra, gli insetti continuavano a ronzare nell’aria, le onde del mare continuavano a infrangersi contro la scogliera, laggiù, lontano, e lui continuava a essere quello di sempre.

Non si sentiva cambiato, non avvertiva alcun sconvolgimento nella profondità del suo animo, la vita non aveva improvvisamente assunto un significato nuovo: era come se la sua mente avesse preso atto di quello che era accaduto, ma si rifiutasse di considerarlo qualcosa di più di un evento di routine, uno dei tanti che si trovava ad affrontare nella vita di tutti i giorni.

L’uomo rimase immobile per qualche istante, poi, indispettito dal suo subconscio che pareva non avere alcuna intenzione di dare il giusto peso a un evento tanto eccezionale, si allontanò di scatto dalla parete di legno alle sue spalle, dirigendosi invece verso il gruppetto di uomini davanti a lui.

«Capitano!» lo accolse un soldato, lasciando il corpo del barbaro che stava esaminando e alzandosi in piedi. «Difan ci ha detto di quello che è accaduto alle principesse.»

«Sì» confermò Zeru, mentre gli uomini attorno a lui sospendevano le loro attività e si voltavano per osservarlo. «Quello che è accaduto è estremamente grave e va certamente vendicato, ma ora è tempo di fare ritorno ad Adaval. Raccogliete i feriti, lasciate i morti: le principesse hanno bisogno di cure urgenti, cure che possono ricevere solo a Rocca del Vento.»

«Lasciamo i morti?» ripeté un soldato, incredulo.

«Non c’è altra scelta, purtroppo» replicò Zeru, amaramente. «Torneremo a prenderli il prima possibile, ma ora non c’è tempo. Dobbiamo arrivare ad Araval e non possiamo permetterci di impoverire ulteriormente la scorta. Se venissimo attaccati nuovamente, ogni singolo uomo sarà fondamentale per respingere l’attacco. Andate e informate anche gli altri.»

Pur con qualche mormorio di dissenso, i soldati annuirono e poi si dispersero, dirigendosi verso i compagni che erano ancora sparpagliati qui e là sul luogo dove era avvenuta l’imboscata. Dopo avere atteso qualche istante per assicurarsi che i suoi ordini venissero eseguiti, Zeru avvicinò il suo secondo in comando: «Avete trovato qualcosa di utile?»

Difan chinò il capo: «Nulla che ci aiuti a capire il perché di questo attacco, ma qualcosa di strano c’è, in effetti.»

«Cioè?»

«Gli uomini che ci hanno teso l’imboscata non appartenevano tutti alla stessa tribù: le pitture di guerra sono diverse. Abbiamo trovato il rosso delle Aquile di Mare, il bianco delle Lance del Sale, il verde dell’Orda della Palude e persino il blu del Clan delle Ossa Bianche.»

«È strano che si siano spinti così a occidente» rifletté Zeru.

«Ed è strano anche che si trovassero tutti insieme: le diverse tribù dei Nati dalla Nebbia sono spesso in guerra le une con le altre.»

«Già…»

Difan aggrottò per un istante la fronte e poi gli sfiorò un braccio e gli fece cenno di seguirlo un po’ più in disparte, come per indicare che desiderava parlare di un argomento delicato, non adatto alle orecchie di tutti. Zeru acconsentì a quella richiesta silenziosa e lo seguì fino ai piedi di un albero ai margini della radura nella quale si trovavano, poi lo guardò con fare interrogativo.

«Capitano… io non ne so molto, degli Odeb à Fànur», mormorò il soldato, «ma so che, se non hanno mai costituito un pericolo serio per  Adaval e gli altri regni, è perché sono sempre stati troppo divisi per creare un esercito degno di tal nome. Credi che sia possibile che qualcuno sia riuscito a unirli in un’unica grande tribù?»

«Qualcuno come un re, intendi?» chiese Zeru, cercando di capire dove volesse andare a parare il giovane uomo.

Quando quest’ultimo annuì, il capitano scosse la testa, sospirando: «Non credo che sia un’ipotesi realistica: Adaval ha molte spie sparse per il continente e credo che ci sarebbero arrivate delle voci, se qualcuno stesse unificando le tribù. No, penso piuttosto che quelli che ci hanno attaccato fossero mercenari, forse dei reietti anche tra la loro stessa gente: se qualcuno li comanda, come credo, si tratta di qualcuno esterno al loro popolo.»

«Qualcuno che, per un qualche motivo, vuole morto re Yasu» concluse Difan.

«Qualcosa del genere» annuì il capitano, ripensando a come l’arciere si fosse limitato a colpire le principesse. «Naturalmente, nessuna ipotesi va scartata a priori: appena arrivati a Rocca del Vento chiederò un incontro con i consiglieri e con il conte Jarad, per sentire anche il loro parere.»

Quando il soldato si limitò a chinare il capo in un cenno d’assenso, Zeru gli posò una mano sulla spalla e, insieme, i due si diressero di nuovo verso gli altri uomini.

***

Zeru chiuse gli occhi ed espirò con forza, serrando le dita sul marmo della balaustra di fronte a lui. Un giorno e già le cose andavano male.

Quando, la sera prima, erano arrivati a Rocca del Vento, la prima preoccupazione di tutti era stata quella di fornire tutte le cure possibili ad Arina e Marai: contro ogni aspettativa, le due ragazze erano sopravvissute al viaggio e, anche se non avevano ripreso conoscenza, né avevano dato segni di ripresa, le loro condizioni parevano stabili.

Il giorno successivo, però, re Yasu non aveva perso tempo e aveva fatto inviare dei messaggi a tutte le casate, annunciando l’unione tra sua figlia e il capitano della Guardia Reale e spiegando le circostanze che avevano condotto a quell’accordo. Anche se era troppo presto per sapere come avrebbero reagito i destinatari di quelle lettere, le reazioni dei membri della corte ai quali il sovrano aveva comunicato personalmente la novità erano state invece molto chiare e, in linea generale, poco entusiastiche. E Zeru era stato lì, immobile come un idiota, senza riuscire a difendersi dalle frecciatine e dalle insinuazioni velenose che si erano levate da più parti.

Una figura ben misera, quella che aveva fatto, indegna di un uomo nella sua posizione e di un soldato con la sua esperienza.

E dire che io ho cercato di oppormi, a questa pazzia, pensò, sentendosi simile a un bambino che i genitori avevano ripreso ingiustamente.

La verità era che, anche se il suo ruolo lo aveva portato spesso in contatto con la vita di corte, l’uomo si era accorto solo in quel momento di quanta differenza ci fosse tra l’assistervi come uno spettatore esterno, un guardiano incaricato di sorvegliare che non ci fossero incidenti, e il viverla sulla propria pelle. Non faceva per lui, quella vita: l’aveva sempre sospettato e ora ne aveva la conferma.

Il re gli aveva consigliato di non lasciarsi turbare da ciò che era stato detto quella mattina, assicurandogli che, in quelle occasioni, era tutt’altro che raro che venissero pronunciato parole pesanti; e Zeru aveva cercato di seguire il suo suggerimento, concentrandosi invece su quello che era il suo ruolo di capitano. Neanche così, però, era riuscito a calmare la sua mente: malgrado avesse discusso per ore e ore con il potente conte Jarad e con gli altri responsabili della sicurezza, non aveva ancora elementi per capire il perché dell’attacco subito due giorni prima.

Sapeva bene che la Corona aveva numerosi nemici, ma, sebbene chiunque di essi avrebbe potuto rivolgersi a dei mercenari – ammesso che i Nati dalla Nebbia fossero davvero dei mercenari – non avevano alcun elemento per accusare l’uno anziché l’altro. Il capitano aveva sperato che il conte Jarad, Primo Consigliere del re ed esperto dei sottili giochi di potere che si consumavano a corte, avesse qualche sospetto che potesse metterli sulla strada giusta, ma, sfortunatamente, così non era stato: il conte pareva brancolare nel buio.

Zeru percorse con un dito il marmo lucido, percorso da sottili screziature grigiastre, riflettendo. La parte di lui che desiderava ottenere vendetta e punire i responsabili dell’imboscata gli chiedeva di mandare immediatamente l’esercito a est, attaccando indiscriminatamente gli Odeb à Fànur, ma la parte razionale della sua mente gli impediva di farlo. I loro assalitori non erano riconducibili a un’unica tribù e non c’era dunque un unico gruppo di guerrieri contro il quale scagliarsi: non solo una rappresaglia troppo rapida avrebbe colpito molti innocenti, ma, per ottenere giustizia e non solo un’illusoria vendetta, avrebbero dovuto combattere su un territorio immenso; e avrebbero dovuto farlo senza conoscere il loro nemico.

No, andavano trovati i responsabili, coloro che avevano ordinato l’attacco.

Ammesso che ci sia davvero qualcuno, dietro a quello che è successo.

Mentre era immerso in quei pensieri, la porta alle sue spalle si spalancò e Padre Tyban gli si avvicinò, accompagnato dal conte Jarad.

«Abbiamo bisogno del tuo parere, capitano» annunciò il sacerdote.

Il soldato fece un cenno d’assenso: «A che proposito?»

«Potrebbe esserci un modo per provare a identificare i mandanti dell’attacco», disse il conte, «ma Padre Tyban ritiene che ricorrervi sia ancora prematuro e che, per il momento, dovremmo concentrarci sul salvare la vita alle principesse.»

«Non è esattamente quello che ho detto» ribatté il religioso. «Non credo che il re o il regno siano in pericolo immediato: chiunque abbia ordito l’attacco ha avuto successo perché aveva a disposizione un esercito di selvaggi pronti ad attaccarci alle spalle. Qui nella capitale, però, questo non può accadere e un’eventuale minaccia può venire solo da un singolo uomo: basterà aumentare la sorveglianza e re Yasu e la sua famiglia non correranno alcun pericolo.»

«Lo capisco, ma quello che è successo non può restare impunito. Se esiste un modo per ottenere una traccia, credo che dovremmo sfruttarlo. Le principesse devono ricevere le migliori cure possibili, naturalmente, ma non vedo come le due cose siano in contrasto.»

«Esattamente» il conte Jarad annuì in sostegno di quello che Zeru aveva appena detto, ma Padre Tyban scosse il capo.

«Si tratta di un metodo un po’… particolare. Non dobbiamo preoccuparci solo di ciò che accade sulla terra, capitano, ma anche delle ripercussioni che le nostre azioni potrebbero avere nel mondo celeste.»

Zeru aggrottò la fronte: «Temo di non capire.»

Dopo un attimo di esitazione, il sacerdote gli fece cenno di seguirlo: «Vieni con me.»

Padre Tyban e il conte Jarad lo condussero fuori dal palazzo e poi sotto gli archi che portavano alle segrete, giù per le scale umide di muschio e nere di fuliggine. Quando, giunti a un pianerottolo illuminato da una torcia, i due uomini svoltarono a destra, anziché a sinistra, il cuore di Zeru accelerò i battiti, intuendo quale fosse la loro meta.

I tre scesero ancora due rampe di scale e si fermarono infine davanti a una porta che, se non fosse stato per la struttura rinforzata da pesanti bande di metallo, sarebbe stata uguale a tutte le altre.

«Come saprai, l’accesso è concesso soltanto ai membri del Culto, alla famiglia reale e al primo consigliere» disse Padre Tyban, guardandolo con cipiglio severo. «Tu adesso sei un membro della famiglia reale, sebbene le circostanze che ti hanno portato a esserlo siano molto particolari, quindi hai il diritto di sapere. Spero sia ovvio, però, che quello che ti mostreremo richiede il massimo riserbo.»

Leggermente irritato dal discorso del sacerdote, ma cionondimeno eccitato dalla prospettiva di varcare quella porta, Zeru annuì: «Naturalmente. Il mio incarico ha sempre richiesto riservatezza, non si tratta certo di una novità, per me.»

Con un cenno d’assenso, il sacerdote mise mano al mazzo di chiavi che portava appeso alla cintura e me impugnò una dall’aspetto del tutto anonimo, facendo scattare la serratura. Inspirando profondamente, Zeru si preparò a conoscere il Flagello di Hadi.

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Capitolo 5
*** VI ***


Abituato alla piccola cella dal rigore monastico nella quale era solito dormire, Zeru rimase quasi abbagliato dalla ricchezza della camera nella quale riposava Marai. Le pareti di pietra erano tappezzate di arazzi che, oltre a dare un tocco di colore all’ambiente severo, isolavano un poco il locale dalle intemperie. Il pavimento di legno scuro, rovinato dai molti passi che l’avevano percorso, era per gran parte ricoperto da tappeti di lana, spessi e caldi.

La principessa amava il rosso. Non l’avrebbe mai detto, prima di mettere piede in quella stanza. Se avesse dovuto scommettere, avrebbe pensato che le preferenze della fanciulla andassero ai colori tenui, al rosa, al bianco, al turchese: quell’esplosione di toni scarlatti e accoglienti era una sorpresa.

«Vuoi entrare o preferisci rimanere sulla porta?» le parole della robusta guaritrice che si affaccendava attorno a Marai lo riscossero bruscamente. Il capitano rivolse un’occhiata severa alla donna che, apostrofandolo in quel modo, dimostrava di avere ben poco rispetto per la sua posizione.

«Entro, naturalmente» replicò, sdegnoso. «Mi stavo solo chiedendo se l’aria non sia troppo secca, qui dentro: è marzo, è davvero necessario che il fuoco nel camino arda in quel modo?»

«Chiudi la porta» ribatté la donna, per tutta risposta. «La principessa deve rimanere al caldo, non può permettersi di prendere colpi d’aria o un raffreddore. E non preoccuparti per l’aria secca: la vedi, quella pentola? Serve appunto per mantenerla umida.»

Strega, pensò Zeru, eseguendo, non senza un certo fastidio, l’ordine impartitogli dall’arcigna guaritrice. Se non fosse stato per la sua straordinaria abilità nel curare anche le ferite più difficili, il soldato dubitava che Wenza sarebbe mai stata ammessa al castello: con la sua lingua tagliente e i suoi modi sgarbati aveva attirato su di sé più di un’antipatia. Arricciando le labbra in una smorfia disgustata, Zeru ricordò la sgradita occasione in cui una brutta frattura a una gamba l’aveva costretto ad affidarsi alle sue amorevoli cure: non era un’esperienza che aveva fretta di ripetere, quella.

«Come sta la ragazza?» chiese, allora, tanto per distogliere l’attenzione da sé.

«È viva e non è peggiorata: date le premesse, questo è già un ottimo risultato.»

Già, pensò il capitano, avvicinandosi al letto in cui giaceva la giovane. Wenza, che fino a quel momento era rimasta al fianco della principessa, si allontanò di qualche passo e prese ad armeggiare con una sorta di unguento giallognolo. Dopo un attimo di esitazione, Zeru si lasciò scivolare sulla sedia posta accanto al capezzale della fanciulla.

È ancora più pallida di come me la ricordavo, pensò, con una smorfia, esaminando il viso sottile di Marai. Malgrado quello che aveva detto la guaritrice, la principessa non sembrava passarsela troppo bene: i suoi occhi erano cerchiati da profonde occhiaie violacee, le labbra avevano perso ogni colore, le guance parevano scavate e i capelli erano sporchi e disordinati.

Il volto della ragazza era rivolto verso di lui e una ciocca chiara le lambiva il naso, tremando a ogni respiro lieve. Automaticamente, Zeru allungò una mano e lo allontanò dal viso di Marai, sfiorandone inavvertitamente la pelle con le nocche. Nell’avvertirne il calore, l’uomo sospirò e, spinto da un impeto di tenerezza per quella ragazzina che continuava a sembrargli tanto giovane,  percorse l’arco delicato di un suo sopracciglio con la punta di un dito.

Così fragile.

«Pensi che ce la farà?»

Nell’udire quella domanda posta a mezza voce, la guaritrice si strinse nelle spalle.

«È ancora viva» ripeté, continuando a trafficare con i vasetti trasparenti posti su un tavolo poco distante.

«Lo vedo» ribatté il soldato, lasciando che la sua mano scivolasse via dal volto della fanciulla addormentata e ricadesse sulla stoffa liscia del cuscino. «Ma ti sarai fatta un’idea, in questi giorni: credi che sopravvivrà?»

Wenza inspirò profondamente e, quando si voltò verso di lui, il vasetto di unguento stretto in una mano, nei suoi occhi glaciali Zeru lesse una concentrazione quasi analitica.

«Quando l’ho vista per la prima volta, credevo che non avrebbe superato la notte. Pensavo che Padre Tyban stesse solo perdendo tempo, cercando di curarla. Ma la principessa non è morta e, anche se non ha ripreso coscienza, la sua ferita…»

«Cos’ha la sua ferita?»

«Da’ un’occhiata tu stesso» replicò la donna, avvicinandosi al letto e tirando indietro la coperta che proteggeva Marai. La principessa era vestita molto meno di quanto l’etichetta avrebbe previsto; nonostante ciò Zeru sospettava che le brache di lino e la camiciola smanicata che indossava fossero una concessione al suo status: se la poveretta fosse stata una serva e non una principessa, avrebbe con ogni probabilità dovuto sopportare l’umiliazione di farsi vedere nuda in un momento in cui era tanto indifesa.

Wenza pareva ben lungi dal porsi i dubbi etici che in quel momento attraversavano la mente del soldato e sembrava anzi determinata ad affrontare la situazione con la sua abituale freddezza e professionalità. Deciso a non essere da meno, Zeru si sporse un poco verso Marai, ma quando la guaritrice sollevò la camicia della fanciulla, esponendo due strisce di pelle candida, non poté fare a meno di deglutire, leggermente a disagio.

«Sciogli le bende» ordinò la donna, con piglio militaresco. «Io ho le mani sporche di unguento, non voglio rischiare di impiastricciare le coperte: sarebbe già la terza volta.»

«Io?» chiese Zeru, accorgendosi un istante troppo tardi della stupidità della domanda.

«Sì, tu, capitano. Sei pur sempre suo marito, no?»

Per modo di dire, pensò l’uomo, maledicendo per l’ennesima volta il giuramento strappatogli dal sovrano e da Padre Tyban.

«Certo, è solo che…» Zeru si interruppe, scuotendo il capo. «Niente, lascia perdere.»

Con un sospiro, l’uomo si alzò in piedi e cercò il punto in cui la fasciatura che circondava il torso della ragazza era stata fissata con alcuni ganci. Non era la prima volta che svolgeva un’operazione del genere, l’aveva già fatto innumerevoli volte, quando aveva voluto controllare le ferite dei suoi soldati, eppure in quell’occasione quel gesto gli parve sorprendentemente intimo, quasi sconveniente. L’uomo si accorse suo malgrado di avere le mani sudate e pregò che quel particolare sfuggisse all’occhio di falco della guaritrice. Quando, non senza una certa difficoltà, riuscì però a rimuovere completamente la bendatura, la sua attenzione si concentrò interamente sul taglio scarlatto che attraversava il lato sinistro dello stomaco della fanciulla.

«Non avremmo voluto tagliare così tanto», disse Wenza, anticipando la domanda del soldato, «ma la freccia era penetrata con un’angolatura che non ci consentiva di fare altrimenti… non senza causare dei grossi danni, perlomeno.»

«Certo» annuì Zeru, piegandosi per osservare più da vicino la ferita. Era ancora decisamente arrossata e i punti ordinati con cui la guaritrice l’aveva ricucita erano leggermente gonfi, tuttavia… «Non sembra infetta.»

«No, sta guarendo bene» confermò la donna, approfittandone per ricoprire il tutto con uno spesso strato di unguento. «La principessa è stata sicuramente fortunata, considerato quanto tempo è passato dal momento in cui è stata colpita a quello in cui abbiamo rimosso la punta della freccia… se fosse sopraggiunta un’infezione non sarebbe più qui, probabilmente.»

«Mh. E non credi che la freccia abbia lesionato gli organi interni?»

Wenza scosse il capo: «Anche in questo caso, la ragazza non sarebbe vissuta tanto a lungo.»

La guaritrice richiuse il barattolo dell’unguento e con gesti precisi cambiò la garza e la benda che proteggevano la ferita, stringendo il busto di Marai in una nuova fasciatura. Poi sul volto della donna passò un’ombra strana e Zeru alzò lo sguardo su di lei, cercando di capire a cosa la turbasse: «Cosa c’è?»

«Prima ho detto che il fatto che le condizioni della principessa siano rimaste stabili è un buon segno: solitamente questo è certamente vero, ma in questo caso…»

«Avresti preferito che si fosse aggravata?» chiese Zeru, senza capire.

«Certo che no!» sbottò la donna, fulminandolo con i suoi occhi incredibilmente azzurri. «Ma se la ragazza non ha lesioni agli organi interni, se non ha la febbre, se non ha segni di infezione… perché non si sveglia? C’è qualcosa che le impedisce di riprendere conoscenza, qualcosa che non conosco: e quello che non conosco non mi piace, mi fa paura.»

«Forse è solo troppo debole» osservò Zeru, pacato, percorrendo ancora con gli occhi l’esile figura di Marai.

«Forse sì» mormorò la guaritrice, soppesando brevemente con lo sguardo la giovane che giaceva nel letto. Poi scosse il capo, come per allontanare un pensiero sgradito, e si riprese: «Bene, tu resta pure con lei, se lo desideri: io devo occuparmi della principessa Arina, adesso.»

«Come sta?» le chiese il capitano, tornando a sedersi.

Wenza scosse il capo: «È ancora priva di sensi, esattamente come lei. È stata colpita da due frecce, però; e le sue ferite non sono belle come quelle di Marai.»

«Capisco» sospirò Zeru, chinando la testa.

La guaritrice si congedò da lui con un cenno del capo e, quando fu rimasto solo, l’uomo prese le dita della fanciulla tra le sue. E così potresti farcela, ragazzina, pensò, giocherellando con le sue unghie arrotondate. Il pensiero suscitava in lui reazioni contrastanti: se, da un lato, la prospettiva che Marai potesse salvarsi e sopravvivere lo rallegrava, dall’altro temeva quello che il risveglio della principessa avrebbe comportato, per lui.

Non voglio certo che tu muoia, pensò ancora, percorrendo con il pollice il palmo della mano della ragazza, ma mi spieghi come farò a dirti cosa mi hanno costretto a fare? Avrai sognato un matrimonio felice e privo di ombre, tu, non di dover divorziare da un uomo troppo vecchio e troppo poco nobile. Non è una cosa da cui ti libererai facilmente, questa.

Mentre era immerso in quei pensieri, la porta si aprì e Zeru sobbalzò, lasciando ricadere la mano di Marai sul materasso. «Altezza» mormorò, alzandosi in piedi e poi chinando il busto in direzione del nuovo arrivato.

«Non scomodarti, capitano: sono solo venuto per ringraziarti… e per avere un po’ di compagnia.»

Il soldato sorrise e si spostò di lato, lasciando libera la sedia che aveva occupato fino a qualche istante prima, ma Spiro, fratello maggiore di Marai, si sedette sul letto, accanto ai piedi della sorella.

Se non fosse stato per i lineamenti delicati, sarebbe stato impossibile capire che i due erano imparentati: i capelli del principe erano scuri tanto quelli di Marai erano chiari, gli occhi di lui neri, quelli di lei azzurri come il cielo d’inverno – lui era il ritratto del padre, lei della madre.

«Come sta?» chiese il giovane, posando una mano sul piede della sorella.

«La sua ferita sta guarendo bene e non c’è alcun segno di infezione» spiegò Zeru. «La guaritrice dice che, se non ci saranno imprevisti, è possibile che si riprenda.»

Wenza non aveva detto proprio così, ma il volto del principe era talmente stanco e provato che l’uomo pensò che un poco di speranza non avrebbe che potuto fargli bene.

«Bene» sorrise infatti il ragazzo. «Questa è una buona notizia.»

Zeru esitò, incerto se chiedergli notizie della moglie o meno, quando Spiro lo precedette: «Come dicevo, volevo ringraziarti per quello che stai facendo per mia sorella.»

Il soldato non riuscì a trattenere un sibilo sarcastico: «Non potevo fare altrimenti, dal momento che, se sono riusciti ad arrivare a lei, è stato per colpa mia. Non avrei dovuto sottovalutare i Nati dalla Nebbia.» Rendendosi conto che le sue parole avrebbero potuto sembrare un po’ troppo brusche, l’uomo sospirò: «Non fraintendermi, mio signore, sposare tua sorella è certamente un onore, ma… ma è anche, perdonami il termine, una grandissima rogna.»

Spiro si lasciò sfuggire un’esalazione che assomigliava quasi a una risata: «Lo so, lo so: non ti conosco molto, capitano, ma immagino che la vita di corte si addica poco a un uomo come te.»

Come sono gli uomini come me? Fu tentato di chiedergli Zeru, incuriosito, ma si astenne dal farlo, temendo di risultare troppo invadente.

«Non sarà felice di scoprirlo, quando si sveglierà» disse allora, indicando la principessa. «Certamente aveva ben altri progetti per se stessa.»

«Marai?» chiese Spiro, sorpreso. «Oh, dubito seriamente che mia sorella avesse alcun progetto, in questo senso.»

Notando lo sguardo interrogativo del soldato, il principe si spiegò meglio: «Marai è sempre stata una ragazza un po’… particolare. È cresciuta, è vero, ma in un certo senso è un po’ come se fosse rimasta ancora una bambina: lo sai che il massimo della felicità, per lei, è passare ore e ore a dare la caccia ai goblin in giardino?»

Zeru non trattenne un sorriso: «Eh?»

«Sì» confermò Spiro, rivolgendo alla sorella un’occhiata carica di affetto. «Un paio di volte è anche riuscita a farsi mordere… Wenda ha cercato di spaventarla con la prospettiva di denti avvelenati e dita amputate, ma lei non si è mai lasciata impressionare. Forse è anche per questo che i miei genitori non si sono mai sforzati più di tanto per trovarle un marito: stanno aspettando che la testa si metta al passo con il corpo e diventi quella di una persona adulta.»

Inconsciamente, la mano di Zeru corse di nuovo a sfiorare il polso di Marai.

«Beh, ma in ogni caso…»

«La situazione è già abbastanza complicata così com’è, capitano: non preoccuparti anche della reazione di Marai. Sono sicuro che, al di là di tutto, quando si risveglierà capirà benissimo che non si poteva fare altrimenti. E, in ogni caso, credo che lei ti ammiri, sai? E la stessa cosa vale per me: se Gano non fosse morto, avrei voluto entrare nell’esercito.»

«E saresti stato un ottimo guerriero, ragazzo: da bambino eri estremamente promettente» sorrise Zeru, ricordando quando il suo Capitano gli aveva presentato il giovane principe, un ragazzino intelligente e agile come un gatto. Sarebbe stato un ottimo guerriero, sì, se la febbre non si fosse presa suo fratello, facendo ricadere su di lui il peso della corona.

«Ti ringrazio» mormorò Spiro, il volto pieno di nostalgia. «Sai, stavo pensando che, adesso che siamo parenti, potresti insegnarmi qualcosa. Quando avrai tempo, naturalmente, e quando Arina e Marai si saranno riprese: mia moglie ne sarebbe deliziata, dice sempre di trovare irresistibile un uomo che sa combattere.»

«Perché no» acconsentì il soldato, lasciandosi ricadere contro lo schienale della sedia, con un sospiro. Forse, pensò, i mesi a venire non sarebbero stati così terribili, se avesse avuto l’amicizia di Spiro e di Arina.

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Capitolo 6
*** V ***


Quarant’anni prima, quando Hadi, padre di Yasu, era al potere, la Contea di Pietralana aveva richiesto l’aiuto della Corona per proteggere i propri confini dagli attacchi dei barbari della brughiera. Quella che era partita come una semplice campagna che avrebbe dovuto respingere gli invasori verso la costa, però, si era protratta più a lungo del previsto, tanto che, dopo mesi di battaglie combattute tra praterie e paludi, il re in persona si era recato sul campo di battaglia. Per rinfrancare gli animi dei soldati, si diceva.

Quella decisione gli era quasi costata la vita.

Le cronache raccontavano che, in una notte di luna nuova, la tribù delle Aquile di Mare, la più occidentale delle stirpi dei Nati dalla Nebbia, aveva attaccato Cahde, un forte militare che si credeva imprendibile e nel quale il sovrano aveva dunque deciso di stabilirsi. L’attacco aveva colto tutti di sorpresa e gli Odeb à Fànur avevano trucidato un gran numero di soldati: era stato solo grazie alla disperata resistenza degli uomini di Hadi che il forte aveva retto quel tanto che bastava perché l’esercito del conte di Pietralana venisse in loro aiuto, disperdendo o uccidendo i barbari.

Nei giorni in cui i soldati vittoriosi avevano fatto ritorno a casa, però, tra la gente comune aveva iniziato a circolare una voce diversa, una storia che con il passare degli anni aveva preso forza, pur non trovando mai nessun riscontro ufficiale. Si diceva infatti che non fossero state le Aquile di Mare ad attaccare Cahde, bensì una creatura mostruosa, grande come dieci uomini e forte come venti di loro. Il Flagello di Hadi, lo chiamavano, un mostro venuto dalla notte e dall’aria salmastra, figlio di una gigantessa e di uno spirito maligno, un abominio che aveva attaccato col favore delle tenebre, facendo a pezzi e poi divorando chiunque gli si parasse davanti. Si diceva anche che, dopo una battaglia durata dal tramonto all’alba, i guerrieri di Rocca del Vento e di Pietralana fossero riusciti a soggiogarlo, ma, dietro ordine di Hadi, non l’avessero ucciso, limitandosi a incatenarlo. Il re, si raccontava, desiderava comprendere la natura della creatura che aveva compiuto un tale scempio; e per questo l’aveva fatta rinchiudere nelle segrete del castello, nella speranza che qualcuno potesse prima o poi svelarne i segreti.

Zeru non aveva mai veramente creduto a quella storia. Un tempo, quando i troll vagavano ancora a sud dei ghiacciai boreali, si era imbattuto in un paio di esemplari di quella stirpe reietta. Anche se era solo un ragazzino, uno scudiero al servizio dell’anziano zio di sua madre, ricordava perfettamente la forza mostruosa racchiusa nei loro corpi tozzi, la facilità con cui erano stati in grado di spezzare le catene più resistenti. Se davvero la bestia che aveva attaccato Cahde era ciò che si narrava, essa era assai più temibile di un troll ed era dunque improbabile che essa fosse rimasta prigioniera per quasi mezzo secolo, senza mai dare segno della propria presenza.

A meno che non sia stata mutilata in un qualche modo, rifletté il capitano, o che non sia soggiogata da un qualche incantesimo.

Zeru era anche poco incline a credere che i sedicenti maghi e stregoni avessero veramente i poteri che millantavano di possedere, ma quello era un altro discorso. Quello che contava era che, mentre  seguiva Padre Tyban e il Conte Jarad oltre la porta che mai prima d’allora aveva vista aperta, sentiva tremare tutte le sue certezze. C’era davvero un mostro, là dietro?

Oltre alla soglia vi era una stanza piccola, dal soffitto basso e illuminata soltanto dalla luce tremolante di una torcia. A destra dell’ingresso era stato sistemato uno scrittoio dall’aria vetusta e un adepto del Culto sedeva lì dove, in una segreta normale, si sarebbe dovuta trovare una guardia armata.

Non c’è nessun’altra protezione? Si chiese Zeru, scettico, spiando con discrezione il piccolo locale.

Non appena i tre varcarono la soglia, il guardiano si alzò in piedi, pronto ad accoglierli.

«Facciamo da soli, fratello» lo rassicurò però subito Padre Tyban, allungando una mano e prendendo la chiave posata sullo scrittoio. Con quella, il sacerdote aprì una seconda porta posta sul lato opposto dello stanzino e condusse i suoi accompagnatori nella sezione in cui si trovavano le celle.

«Piano» mormorò il religioso, rivolto a Zeru, invitandolo a non fare movimenti bruschi.

Dietro a delle sbarre che erano solo leggermente più robuste di quelle poste a guardia di un prigioniero comune, rannicchiata in un angolo buio e sporco, c’era una creatura. Quando i tre uomini si schierarono davanti alla sua cella, l’essere ebbe un tremito, ma non sollevò il capo nella loro direzione e non sciolse la posizione fetale nella quale era raccolto.

La prima cosa che Zeru notò era che, qualunque cosa fosse, non era nemmeno lontanamente grande come dieci uomini. Anche se la sua posa contratta rendeva difficile valutarne la statura, il soldato notò che i suoi arti parevano insolitamente lunghi, il che lo rendeva probabilmente un poco più alto di un uomo normale. Le gambe – le zampe? – erano interamente ricoperte di folto pelo nero e terminavano in quelli che parevano zoccoli di cavallo. La pelle delle braccia, al contrario, era visibile e priva di vello, ma pareva squamata, solcata da spaccature profonde e, attorno alle spalle possenti, si rapprendeva in scaglie grigiastre. Lo sguardo di Zeru si soffermò un istante sulle unghie lunghe e simili di artigli che ornavano le mani della creatura, poi scivolò sulle escrescenze brune che si levavano in corrispondenza della sua spina dorsale, lacerando in alcuni punti la camicia lurida che qualcuno gli aveva fatto indossare, e si appuntò sulle corna d’ariete che svettavano sul suo capo.

«Che cos’è?» chiese, provando uno strano turbamento.

«Nessuno è mai stato in grado di dire che cosa sia» replicò Padre Tyban, osservando quasi con compiacimento il prigioniero. «Una creatura unica, con ogni probabilità, forse l’ultimo della sua specie. Di certo, un essere malevolo.»

«Si tratta della creatura che si dice abbia attaccato il forte di Cadhe?»

«Sì» rispose il Conte Jarad, avanzando di un passo. «Contrariamente a quanto narra la leggenda, però, non ha decimato da solo l’esercito di Hadi; e non sappiamo se abbia davvero divorato i defunti. I registri militari però ne descrivono chiaramente la ferocia e la forza sovraumana. Pare che sia in grado di fare letteralmente a pezzi un uomo armato e che la sua furia cresca con il procedere della lotta: dopo ore di battaglia, egli diviene un nemico molto più temibile di quanto non sia all’inizio del combattimento.»

Quasi avesse udito – e, soprattutto, compreso – quelle parole, la creatura levò il viso verso di loro e, nel vederlo, Zeru sussultò, sorpreso dalla bizzarra commistione di umanità e bestialità che scorse in esso. I tratti dell’essere erano grossolani, il mento sfuggente, il naso appena accennato, l’arcata sopraciliare prominente; eppure, in mezzo alla peluria nera che celava in parte i lineamenti della creatura, brillavano due occhi chiari, grandi e innegabilmente dotati, se non di intelletto, quanto meno di coscienza.

Il capitano ebbe l’impressione che il prigioniero cercasse proprio i suoi occhi, forse incuriosito dalla sua presenza, e si impose di sostenerne lo sguardo. Dopo qualche istante la creatura tornò a piegare il capo sulle ginocchia e Zeru si sentì libero di rivolgersi a Padre Tyban: «Se davvero è così pericoloso, è saggio tenerlo in un luogo così poco protetto, così vicino al castello?»

«La sua stessa natura viene in nostro aiuto, capitano» sorrise il sacerdote. «Vedi, il ferro lo ferisce: il semplice contatto con quel metallo gli causa delle piaghe estremamente dolorose.»

«Il ferro» ripeté Zeru, allungando quasi inconsciamente una mano per sfiorare le sbarre davanti a lui. Come per la Prima Gente, si disse, mentre il suo pensiero correva alle creature che si narrava avessero dominato la terra all’alba dell’era degli uomini.

«Sì, il ferro» mormorò il sacerdote, con un sorriso appena accennato. «So a cosa stai pensando, ma sono tante le cose che non conosciamo, su questa terra. Forse ci sono davvero le ninfe nelle profondità dei nostri laghi, forse gli elfi vivono davvero in magnifici palazzi sotterranei e forse tra le foglie degli alberi più alti si celano davvero le fate. Il che, in un certo senso, ci riporta al motivo per cui siamo qui.»

Jarad si schiarì la voce e scalpicciò sul posto, ma, prima che potesse dire qualcosa, Padre Tyban riprese a parlare: «Hai sentito parlare della Vergine della Fonte d’Argento, immagino.»

Zeru annuì: «Naturalmente sì: è una veggente. So che viene consultata prima di prendere decisioni importanti.»

«Esattamente. Tuttavia, quello di predire il futuro non è il suo unico dono: ella è in grado di rispondere a qualsiasi quesito, a patto che le venga dato qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa di collegato con la domanda che le viene posta. Fornendole del sangue di questa creatura, la Vergine potrebbe dirci qualcosa di più a proposito delle persone che ci hanno attaccato, l’altro giorno.»

«Qualcosa di più? L’identità dei mandanti?»

«Oh, non aspettarti risposto così chiare, da lei» replicò Padre Tyban, con una punta di amarezza. «No. Come sai, l’essere rinchiuso lì dentro viene dalla brughiera, dalla terra dei Nati dalla Nebbia: il conte crede che, assaggiando il suo sangue, la vergine potrà dirci se facciamo bene a cercare lì i nostri nemici o se dovremmo piuttosto concentrarci sulla capitale.»

«E non è così?» chiese Zeru, osservando i due uomini.

«È così» sospirò Padre Tyban. «Ma lui… questa creatura non dovrebbe trovarsi qui. Personalmente ritengo che sia stato un errore, non ucciderla la notte in cui attaccò il forte. In ogni modo, il ruolo della Vergine è sacro e chiederle di entrare in contatto con qualcosa di tanto vile come il sangue di quest’essere è a dir poco sacrilego e non farà certo piacere agli Dei.»

«E non farlo significa rinunciare a identificare i colpevoli» ribatté il conte Jarad. «Non avrei proposto questa soluzione, se ve ne fosse un’altra, ma, sfortunatamente, non c’è altro modo. Tu cosa ne pensi, capitano?»

Zeru irrigidì la mascella.

«Io penso…» 

… che rinunciare a questa possibilità per timore di un’ipotetica punizione divina sia un’idiozia, avrebbe voluto dire, ma si trattenne prima che le parole lasciassero le sue labbra. Se un’affermazione del genere avrebbe potuto essere tollerata se a pronunciarla fosse stato il capitano della Guardia Reale, il suo nuovo ruolo di consorte della principessa Marai richiedeva maggior prudenza.

«Io penso che se ne debba discutere con il re e con il principe Spiro» disse allora, correggendo il tiro. «Spetta a loro decidere quali sono i rischi che si possono correre per assicurare il benessere e la salvezza del regno.»

«Certamente» annuì Padre Tyban. «Ho voluto mostrarti questa creatura affinché tu avessi più elementi per decidere: sei il capitano della Guardia, anche il tuo parere è importante.»

«Per quanto riguarda il tuo suggerimento», si intromise Jarad, avvicinandosi a Zeru fino  a posargli una mano sul braccio, «sappi che il re desidera più di ogni cosa assicurare alla giustizia chi ha ordinato un atto tanto spregevole e ha già dato il suo consenso a procedere.»

«E il principe, invece?»

«Il principe è in compagnia di sua moglie», rispose Padre Tyban, precedendo il conte, «e, mentre rifletti su quanto hai appreso oggi, forse potresti anche tu visitare la tua.»

Zeru gli rivolse un sorriso di circostanza e fece per dire che il rapporto che c’era tra Spiro e Arina era ben diverso da quello che lo legava a Marai, ma si fermò, pensando che, forse, era opportuno prendere tempo e considerare attentamente ogni aspetto della situazione in cui si trovava.

«Credo che sia una buona idea» mormorò allora.

Fu solo quando voltò il capo nella sua direzione che si accorse che gli occhi di vetro della creatura rannicchiata in fondo alla cella erano di nuovo puntati su di lui.

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Capitolo 7
*** VIII ***


Fu una carezza a svegliarla. Non sulla fronte o tra i capelli, ma piuttosto nella mente, un tocco lieve che solleticò il suo animo, disturbando l’immobilità del nulla che lo avvolgeva. Durò solo un istante, poi arrivò il dolore: le fitte violente la trapassarono da fianco a fianco, ghermendole la schiena e artigliandole le spalle.

«Ah!»

Ancor prima di aprire gli occhi, Marai provò a mettersi a sedere, ma il suo corpo si rifiutò di collaborare e ebbe solo un debole tremito esausto. Una seconda carezza – questa volta molto più tangibile – le sfiorò il viso e d’un tratto la fanciulla ebbe l’assoluta certezza di essere sveglia.

«Ragazza? Mi senti?»

Stringendo i denti nel tentativo di combattere il mal di testa che era sbucato da chissà dove e subito aveva preso a martellarle le tempie, la fanciulla annuì. «Sì» mormorò, ma la sua voce fu solo un soffio rauco. «Sì» ripeté, più forte. «Mi fa male tutto.»

«Mi stupirei se non fosse così.»

La fanciulla gemette e poi si decise a socchiudere gli occhi, affrontando con cautela la luce che illuminava l’ambiente in cui si trovava. Un secondo più tardi li spalancò per la sorpresa: davanti a lei c’era il viso serio di Wenza. Non il modo migliore, per svegliarsi.

Cosa…

Poi, la ragazza ricordò. Il viaggio. L’imboscata. La freccia.

«Sono stata ferita?» chiese, pur conoscendo già la risposta. Guidata dall’istinto, la sua mano cercò di raggiungere il fianco per ispezionare il punto da cui, ora che era più lucida, le pareva avesse origine il dolore, ma la guaritrice intercettò il suo polso e la costrinse a riabbassarlo sulle coperte.

«Sì, sei stata colpita da una freccia: considerato il punto in cui è penetrata, sei fortunata a essere ancora viva.»

Nell’udire quelle parole, Marai provò una fitta di preoccupazione appena tamponata dalla consapevolezza di essere sopravvissuta a un pericolo potenzialmente mortale. «Ci saranno conseguenze?» indagò, con la voce un po’ impastata.

Wenza sollevò appena una spalla, senza distogliere gli occhi dai suoi: «È troppo presto per dirlo. Dovremo aspettare e vedere quello che accadrà nei prossimi giorni. Per ora la ferita sta guarendo bene, ma è meglio essere cauti.»

«Quanto tempo è passato?» chiese ancora la fanciulla, con la voce resa tremula dal dolore.

«Sei rimasta priva di sensi per quattro giorni» la informò Wenza, in tono insolitamente gentile. «C’è stato un momento in cui credevamo che non ce l’avresti fatta.»

«Quattro giorni» ripeté Marai, meravigliata, soppesando le parole della guaritrice. Quattro giorni non erano pochi, ragionò, senza riuscire a nascondere un brivido al pensiero del pericolo scampato.

Come indovinando ciò che le stava passando per la testa, Wenza scrollò le spalle. «Personalmente credo che il peggio sia alle spalle, ormai» la rassicurò. «Dovrai avere ancora un po’ di pazienza, ma a breve tornerai come nuova: come ho detto, le tue ferite stanno guarendo bene e non hai febbre. Se non ci saranno complicazioni, ti riprenderai completamente.»

Nonostante le fitte lancinanti che continuavano a dilaniarle il torso, nell’udire quelle parole la ragazza provò un inaspettato brivido di trionfo. Ci avevano provato, a ucciderla. Ci avevano provato, ma non ce l’avevano fatta. Lei era ancora lì e… un pensiero improvviso le attraversò la mente e la principessa sbiancò, sentendo l’angoscia mozzarle il fiato.

«Gli altri come stanno? Mia madre, mio padre e…»

La guaritrice sospirò, adombrandosi. «Il re e la regina stanno bene: sono scossi, naturalmente, ma non sono stati feriti. Tua madre è venuta spesso a trovarti, in questi giorni, sarà deliziata nell’apprendere che hai ripreso conoscenza. Purtroppo, tua cognata, la principessa Arina, è state ferita e non ce l’ha fatta: è morta questa notte.»

Marai la guardò a bocca aperta, quasi stentando a dare un senso ciò che aveva udito. «Arina…»

«L’abbiamo curata come abbiamo curato te – anzi, forse anche meglio. Ciononostante non siamo riusciti a fermare l’infezione. Probabilmente la principessa era troppo debole per sopravvivere: è stata colpita da due frecce e ha perso molto sangue…»

«Capisco» mormorò la fanciulla, abbassando mestamente gli occhi sulle lenzuola stropicciate. Le sembrava strana, la sua voce. Come se appartenesse a qualcun altro. «Il funerale c’è già stato?»

La guaritrice scosse il capo: «No, si terrà domani.»

Marai deglutì, cercando di allentare il nodo doloroso che le stringeva la gola. «Voglio partecipare.»

Ancor prima che la ragazza finisse di pronunciare quelle poche parole, Wenza emise un sibilo di disapprovazione. «Credo proprio che non sia il caso, principessa. Devi recuperare le forze, prima di azzardarti a lasciare questa stanza. La sorte è stata generosa, con te: non essere così stupida da sfidarla.»

«Non voglio sfidare la sorte» protestò la fanciulla, più flebilmente di quanto avrebbe desiderato. «Voglio solo dire addio ad Arina: era quasi come una sorella, per me. E poi glielo devo.»

«Può essere», replicò la guaritrice, impassibile, «ma, per quanto mi riguarda, la cosa più importante, ora, è che tu guarisca: andrai alla cerimonia solo se sarai abbastanza forte per farlo. In caso contrario, dovrai pregare dal tuo letto.»

La principessa aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse, stringendo debolmente la coperta tra i pugni sudati. Wenza aveva ragione: come poteva pensare di reggersi in piedi, se non riusciva nemmeno a stare seduta sul proprio letto? L’idea di non potere dare l’ultimo saluto ad Arina, però, le faceva più male delle ferite della carne. Lei e la sposa di Spiro non si conoscevano da molto, ma nel poco tempo in cui avevano vissuto sotto allo stesso tempo Marai aveva imparato ad ammirare la cognata, che si era fin da subito dimostrata più determinata e coraggiosa di quanto lei avrebbe mai potuto essere. Era sempre stata buona, con lei, e, senza chiedere nulla in cambio, l’aveva presa sotto alla sua ala protettrice.

Ed è morta, per questo, pensò, mentre le lacrime le pizzicavano gli occhi. Non le sembrava vero. Ricordava chiaramente il modo in cui Arina si era gettata su di lei, probabilmente per proteggerla da quell’attacco tanto improvviso e inaspettato.

Sentendosi sul punto di scoppiare a piangere, Marai si passò una mano sugli occhi, cercando di trattenersi. Dimostrando un tatto che solitamente le era estraneo, Wenza si allontanò da lei. «Vado a chiamare tua madre, principessa. Tu resta a letto e non fare nulla di avventato.»

Annuendo in silenzio, la fanciulla nascose il volto tra le mani e si concesse un pianto silenzioso.

***

Marai sospirò, appoggiata al petto di suo madre, godendosi le carezze leggere con le quali la donna le stava pettinando i capelli arruffati. Doveva essere passata quasi un’ora dal momento in cui Wenza le aveva lasciate sole, ma la regina non dava cenno di voler fare ritorno alle sue occupazioni abituali.

E, del resto, la principessa non sentiva alcun bisogno di riposare. Il dolore non era diminuito, ma la presenza di sua madre le dava forza e riportava un poco di ordine nei suoi pensieri, sconvolti dalla notizia della morte della cognata. Si sentiva più in forze e, soprattutto, sentiva crescere il bisogno di comprendere ciò che era successo.

«Ma quindi i suoi genitori non faranno in tempo a venire al funerale?»

«Temo di no» mormorò la regina, chinando il capo per posare un bacio sulla fronte della figlia.

«Ma non sarebbe meglio aspettare qualche giorno e dargli il tempo di arrivare?» obiettò piano Marai, pensando come si sarebbero potuti sentire il padre e la madre di Arina, in quelle circostanze.

«Meglio di no» ribatté la regina. «Meglio rispettare i tempi che gli Dei hanno fissato: a questo punto, re Lashkar vorrà sapere che lo spirito di sua figlia è in salvo, visto che per il corpo, purtroppo, non c’è più nulla da fare, ormai.»

« È davvero brutto, però» commentò tristemente la fanciulla, sentendosi totalmente impotente di fronte alle ingiustizie del mondo. «Spiro come sta?»

Lisi esitò un secondo, prima di rispondere. «È arrabbiato» disse, poi. «Non l’ho mai visto così arrabbiato: vuole andare a cercarli.»

Allarmata dal tono della madre, la fanciulla raddrizzò la schiena, stringendo i denti contro la stilettata che la passò da parte a parte. «Quelli che hanno ucciso Arina, intendi? Vuole andarci da solo?»

Le pareva una domanda innocente, quella, eppure sua madre si irrigidì di nuovo. «No, non da solo: ha dato ordine di radunare un corpo di soldati e di esploratori» mormorò, prima di inspirare profondamente. «Senti, c’è anche un’altra cosa che devi sapere.»

La fanciulla avvertì chiaramente l’ombra di incertezza nella voce della madre e la cosa le fece contrarre lo stomaco in un crampo che non aveva nulla a che fare con la ferita che la freccia aveva aperto nella sua carne o con i punti di sutura con cui Wenza l’aveva richiusa.

«Cioè?» chiese, leggermente tremula.

«Quando sei caduta a terra e non c’era modo di svegliarti, pensavamo che per te non ci fosse più nulla da fare» mormorò la regina, con voce mesta.

«Lo so, Wenza me l’ha detto.»

«Però eri ancora viva; e Padre Tyban era lì con noi.»

Marai aggrottò la fronte, cercando di capire dove volesse andare a parare sua madre. Ricordava perfettamente la presenza del confessore al suo fianco, nella carrozza, ma non vedeva come la cosa potesse essere di un qualche interesse, per lei.

«Lui ci ha raccomandato di fare il possibile per assicurarci che il tuo spirito fosse salvo; e che gli venisse garantito l’accesso alla Sala degli Antenati.»

«Ah?» la fanciulla avvertiva che c’era un pericolo, lì, nascosto da qualche parte, ma ancora non riusciva a vederlo. Alzando lo sguardo sulla regina, Marai vide che la gote della donna si erano fatte scarlatte.

«Lui ha detto che non eri più una bambina e che, alla tua età, il fatto di non essere sposata era contrario alla legge divina… quindi siamo stati costretti a trovarti un marito.»

La regina pronunciò quelle ultime parole tutte d’un fiato, quasi che tenerle dentro di sé fosse diventato troppo faticoso – o imbarazzante. La ragazza si scostò bruscamente da lei, ignorando la fitta che le mozzò il fiato. «Quindi devo sposarmi?» chiese, inorridita. Rendendosi conto di quanto poco consona fosse la sua reazione, la principessa si schiarì la voce, portandosi una mano al fianco nel tentativo di tamponare il dolore. «Voglio dire… sarò lieta di sposarmi, se questo è quello che avete stabilito per me, ma è una decisione così improvvisa…»

L’ombra di compassione che scorse negli occhi azzurri di sua madre le fece morire le parole in gola. «Non ti devi sposare» mormorò la donna. «Sei già sposata.»

La principessa sbatté lentamente le palpebre, certa di avere interpretato male le parole della regina.

«Eh?»

«Ma non è una cosa definitiva!» scattò immediatamente Lisi, posando entrambe le mani sulle spalle della figlia, prima di rendersi conto che quel gesto le procurava dolore. «Non devi preoccuparti, si è trattato ovviamente solo di un proforma, di un espediente per…»

«Ma non ero nemmeno cosciente!» pigolò Marai, a metà tra le lacrime e l’indignazione.

Non è possibile. Non così.

«Lo so, lo so: credimi, non l’avremmo mai fatto, se avessimo pensato di avere un’alternativa. Ma eravamo convinti di averti perso e abbiamo fatto il possibile per salvare almeno la tua anima.»

La fanciulla rimase immobile per alcuni istanti, fissando la madre con aria vacua. Inconsciamente, il suo sguardo corse all’anulare destro, dove non c’era nemmeno l’ombra di una fede nuziale. Sono sposata? Si chiese, mentre la testa iniziava a girarle. Con chi? E cosa significa che “non è una cosa definitiva”?

«Temo di non capire, madre» mormorò la principessa, facendo del proprio meglio per mantenere un contegno quantomeno dignitoso.

Perché si stupiva tanto? Perché si sentiva quasi tradita dalla decisione dei suoi genitori? Dopotutto sapeva che era ormai solo una questione di tempo: aveva già vent’anni, non poteva sperare di rimanere nubile per sempre. Prima o poi suo padre le avrebbe comunque scelto un marito e, con ogni probabilità, lei non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo. Tuttavia, il modo in cui era successo non faceva altro che rendere ancora più traumatica quell’esperienza.

«Beh…» Lisi sorrise, palesemente imbarazzata. «Il matrimonio doveva essere celebrato subito, quindi abbiamo dovuto cercare un uomo tra quelli che erano lì con noi.»

Marai deglutì e sgranò gli occhi, aspettando con trepidazione il seguito, mentre l’adrenalina le faceva quasi dimenticare il fatto di essere ferita.

Non mi avranno mica fatto sposare Padre Tyban, vero? Si chiese, cercando disperatamente di ricordare se, in circostanze particolari, i sacerdoti potessero prendere moglie.

«Ovviamente tra di essi non c’era nessuno che fosse alla tua altezza, quindi abbiamo dovuto scegliere il meno peggio. Fortunatamente il capitano ha compreso perfettamente la situazione e ha accettato di buon grado di concederti la separazione, non appena sarà trascorso l’anno in cui, per legge, è impossibile sciogliere il matrimonio.»

La regina guardò la figlia, aspettando una sua reazione, ma i pensieri di Marai erano inciampati sulla parola “capitano” e da lì non si erano più mossi.

«Il… capitano? Il capitano della Guardia Reale? Mi avete fatta sposare con lui?» chiese, con un filo di voce.

Lisi si morse leggermente un labbro, poi annuì: «Sì.»

Qualcosa prese a suonare, nella testa di Marai. Qualcosa che assomigliava tremendamente a delle campane a festa. Le gote della fanciulla si fecero roventi e le sue labbra iniziarono lentamente a piegarsi verso l’alto. Resasi conto di quanto stava accadendo, la principessa irrigidì la mascella, cercando di non far trasparire alcuna emozione.

Zeru! Pensò, mentre l’euforia la faceva fremere e cancellava per un istante anche il dolore.

«Marai? Tutto bene?»

Senza osare incontrare lo sguardo di sua madre, la ragazza annuì. «Credo che sia un brav’uomo» disse, misurando le parole con grande attenzione.

«Oh, lo è senz’altro» concordò la regina, palesemente sollevata. «In molti non avrebbero esitato ad approfittare della situazione, ma lui era decisamente restio a fare quello che gli stavamo chiedendo. Pensa che l’abbiamo dovuto pregare a lungo, prima di convincerlo ad accettare: è davvero un uomo estremamente fedele alla corona, il che è una cosa rara, di questi tempi.»

Le parole di Lisi raffreddarono un poco l’improvviso entusiasmo della fanciulla. «Lo è davvero» considerò, con voce controllata.

Le cose poco chiare, in quella situazione, erano ancora troppe e Marai sentiva di non avere il coraggio di confessare a sua madre che lei, per Zeru, aveva una cotta mostruosa da quasi sette anni - da quando, per la precisione, il capitano, fresco di investitura, aveva cenato con la famiglia reale in una lontana sera d’estate. L’uomo aveva più volte sorriso alla principessa, allora tredicenne, servendole anche da bere e offrendole i bocconi migliori: la ragazzina, che fino a quel giorno non gli aveva mai prestato particolare attenzione, aveva pensato che non potesse esistere un uomo più bello e più gentile.

Crescendo, l’aveva tenuto d’occhio da lontano, dissimulando il proprio interesse, imparando a conoscere lui e i tanti difetti che, a prima vista, le erano sfuggiti. Tuttavia quelle piccole imperfezioni non erano servite che a farglielo piacere ancora di più, a renderlo più umano, ai suoi occhi.

Era sempre stata convinta che la sua fosse condannata a rimanere una semplice infatuazione;  e invece ora si ritrovava sposata all’oggetto dei suoi desideri. Anche se, da quanto aveva capito, Zeru l’aveva presa in moglie solo perché gli era stato ordinato di farlo; e non aveva alcuna intenzione di portare avanti quel matrimonio.

La ragazza sentì la delusione bruciarle la gola, poi un tremito di determinazione la scosse da capo a piedi. A lei il capitano piaceva; e pure tanto. Quante volte aveva pregato gli Dei, chiedendo loro che l’uomo si accorgesse di lei? Quel matrimonio imprevisto – e, soprattutto, insperato – poteva davvero essere soltanto il frutto del caso?

Forse gli Dei vogliono dirmi qualcosa, rifletté la fanciulla. Probabilmente per lui adesso sono solo un incarico come tutti gli altri, ma chissà se, conoscendomi meglio, non cambierebbe idea? Anzi, pensò ancora, in un guizzo di intraprendenza, sono certa di riuscire a fargli cambiare idea, se mi ci metto d’impegno.

Il fatto che lei non avesse la benché minima esperienza, in materia di uomini, le pareva in quel momento un particolare di nessuna importanza. Prima di tutto, comunque, doveva capire con esattezza come stavano le cose. «E ora cosa succederà?» chiese, allora, rivolta a sua madre.

«Non abbiamo ancora discusso dei particolari» sospirò la regina. «La morte di Arina ha sconvolto tutto: ne riparleremo a breve, non appena avremo sistemato le cose più urgenti. Non preoccuparti, però: per te cambierà poco, o nulla. Non dovrai vivere con lui, se è di questo che ti preoccupi.»

Oh, non mi preoccupo affatto, pensò Marai, abbassando lo sguardo sulle coperte, con aria contrita.

«I nobili e i signori delle casate sono stati tutti avvertiti delle circostanze che hanno condotto a questo matrimonio: tra un anno la tua vita tornerà esattamente quella di prima» Lisi si interruppe e guardò la figlia con un’espressione insolitamente determinata. «E poi, cara mia, sarà proprio il caso di trovarti un marito vero: non vorrei portare male, ma un matrimonio fasullo può anche andare, due proprio no

Marai deglutì: doveva forse rivelare a sua madre i suoi veri sentimenti? Osservando per una frazione di secondo l’espressione sdegnosa della regina, però, la ragazza desistette da quel proposito. Con ogni probabilità la donna riteneva – forse a ragione – che il capitano della Guardia non fosse uno sposo all’altezza di sua figlia e lei, la figlia in questione, sentiva di non avere la forza di intavolare una discussione in proposito. Non in quel momento, almeno.

«Se la cosa può farti stare più tranquilla, però,» continuò la regina, ignara dei pensieri della fanciulla, «posso chiedere al capitano di venirti a trovare: sono certa che lui potrà risolvere ogni tuo dubbio.»

Marai sobbalzò: «No, no. Domani, forse, ma oggi non mi sento in grado di affrontarlo.»

Morirei di vergogna. Non saprei nemmeno cosa dirgli. E poi mi fa male dappertutto. E puzzo pure.

«Sei stanca, vero?» chiese Lisi, facendosi improvvisamente apprensiva. «Mi sono trattenuta troppo. Scusami: chiederò a Wenza di darti qualcosa che ti aiuti a riposare.»

Così dicendo, la donna si chinò e posò un bacio sulla fronte sudata della ragazza. Quando se ne fu andata, Marai si adagiò sul cuscino, espirando profondamente. Quasi non aspettassero altro che la partenza della regina, le mille novità che aveva appena appreso si abbatterono tutte insieme sulla fanciulla, risvegliando anche il dolore che per qualche tempo era passato in secondo piano.

Marai gemette, rannicchiandosi su un fianco e portandosi le mani sulla ferita.

«Ecco, ti sei stancata troppo.»

La voce brusca di Wenza le fece socchiudere un occhio e la principessa si sforzò di adottare di nuovo una postura più rilassata. «Forse», ammise, «ma almeno ho scoperto un sacco di cose decisamente importanti.«

«Mh. Il tuo matrimonio, immagino.»

«Proprio così.»

«Strano uomo, tuo marito» mormorò la guaritrice. «Non sono mai riuscita a inquadrarlo perfettamente.»

«Come mai?» chiese la ragazza, aggrottando la fronte, sospettosa.

Wenza si strinse nelle spalle: «Non lo so: mi sembra uno che nasconde molto. Ma niente disquisizioni filosofiche, adesso: è ora di dormire.»

Davanti a quell’ordine che la fece sentire una bambina, Marai non trattenne un sospiro. «Non vedo come potrei dormire, visto che mi fa male dappertutto: posso avere un po’ di latte di grano rosso?»

«Ma nemmeno per sogno!» sbottò la guaritrice. «Te ne ho somministrato fin troppo, durante i primi giorni: non ti ho salvata solo per vederti morire avvelenata dal latte.»

«Ma mia madre ha detto…»

«Lo so cosa ha detto tua madre, ma la guaritrice sono io; e dico che, al massimo, posso darti qualche foglia di stella del sole.»

Pur con una smorfia di disappunto, la fanciulla annuì e allungò una mano per afferrare le piccole foglie giallastre che la donna le stava porgendo. Infilandosele in bocca e soffocando il conato di vomito che il loro gusto acre le provocò, la ragazza aspettò pazientemente che il blando anestetico contenuto in esse iniziasse a fare effetto, mettendo a tacere, almeno per qualche tempo, il dolore del corpo, la tristezza per la morte di Arina e gli interrogativi a proposito del suo nuovo marito.

***

Scusate il ritardo: tra le feste natalizie e una one-shot per un concorso ho dovuto mettere un attimo in stand-by questa storia. Da gennaio però gli aggiornamenti torneranno regolari.

 

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Capitolo 8
*** VII ***


Fermo ai piedi della scalinata che conduceva al santuario, Zeru si rigirò tra le mani la boccetta contenente il vischioso liquido scuro. Alzandola contro il tiepido sole primaverile e inclinandola un poco, l’uomo osservò l’alone rosso rubino che il sangue lasciava contro il vetro: colore e consistenza erano identici a quelli che aveva sempre conosciuto. Avrebbe potuto essere il suo sangue, quello. E invece apparteneva alla bestia rinchiusa nelle segrete sotto al castello. Era curioso pensare che il sangue era sempre sangue; e che nelle vene del mostro non scorreva alcun liquido nero e velenoso.

Due giorni dopo al suo colloquio con il principe Spiro, Arina era morta. Erano state le Campane della Notte, ancor prima di Padre Tyban, a darne la notizia al capitano della Guardia Reale. Il lugubre rintocco delle enormi campane nere, tanto penetrante da far tremare i vetri alle finestre e forse anche le ossa di chi le udiva, l’aveva svegliato poco prima dell’alba. Zeru s’era destato di soprassalto, le orecchie tese e un nodo all’altezza dello stomaco: da quasi tre secoli quel suono annunciava al popolo la morte di un componente della famiglia reale e, in quelle circostanze, c’erano solo due persone che potevano aver scomodato il campanaro a quell’ora del mattino.

Senza che potesse far nulla per evitarlo, il pensiero dell’uomo era subito corso a Marai: l’ultima volta che l’aveva vista le sue condizioni erano stabili, ma non si era ancora svegliata e, come Wenza si era premurata di dirgli, non poteva ancora essere considerata fuori pericolo. Che vi fosse stato un peggioramento nel corso della notte?

Quando era giunto nell’ala del palazzo nella quale dimoravano le principesse, Padre Tyban gli si era fatto incontro e gli aveva posato una mano sulla spalla: «Arina non ce l’ha fatta» gli aveva detto. «Il suo cuore non ha sopportato il peso della febbre.»

Sapere che la sua principessa era ancora in vita l’aveva rincuorato per un istante soltanto: le conseguenze della morte di Arina non avrebbero tardato a farsi sentire, dentro e fuori Adaval.

«I genitori della ragazza ne sono stati informati?» aveva chiesto, in un sussurro, cercando la risposta negli occhi del confessore.

«Un messaggero è stato inviato giorni fa, informando re Lashkar e sua moglie dell’attacco che abbiamo subito e delle condizioni in cui versava la principessa. Tuttavia, da Piana del Gigante non è giunta alcuna risposta.»

«E…?»

«Non appena è stato evidente che non c’era più nulla da fare, abbiamo fatto partire una seconda staffetta» aveva continuato il sacerdote. «Non ci resta che aspettare la reazione del sovrano.»

Zeru aveva annuito, serrando la mascella per tenere a bada la preoccupazione. Lashkar, signore del regno di Tawas-Silai, non era un uomo facile. Salito al potere con un colpo di stato delle milizie che lui stesso comandava, aveva preso a guidare la sua terra con mano ferma e decisa, dimostrandosi un sovrano giusto, sì, ma poco incline ai compromessi. E, del resto, l’immenso regno desertico che sorgeva a occidente di Adaval non avrebbe potuto sopravvivere con un signore meno determinato: Tawas-Silai aveva una lunga e gloriosa tradizione militare, ma le risorse naturali scarseggiavano e i pochi fiumi che lo attraversavano erano soggetti a lunghi periodi di secca. In passato i suoi abitanti erano stati predoni temuti e odiati al pari dei Nati dalla Nebbia, ma, in epoche più recenti, il regno aveva adottato un approccio più diplomatico e aveva iniziato a tessere rapporti di buon vicinato con gli stati confinanti.

Ed era proprio nell’ottica di rinforzare quei rapporti che Arina era stata data in sposa a Spiro: Adaval aveva guadagnato dei guerrieri valorosi, Tawas-Silai grano, olio e frumento. Tuttavia molti nobili di Rocca del Vento non avevano visto di buon occhio quel matrimonio, propendendo invece per un’unione che potesse avvantaggiare questa o quella famiglia: ora che Arina era morta, non vi era alcun dubbio che sarebbero tornati a proporre una nuova moglie per il principe, facendo sì che, questa volta, soddisfacesse le loro esigenze. E Lashkar, dal canto suo, sarebbe stato tutt’altro che entusiasta di quella novità. Probabilmente a turbarlo non sarebbe stato tanto il dolore per la perdita della figlia – del resto ne aveva dieci, di figlie, e Zeru dubitava che una in più o una in meno avrebbe fatto una gran differenza, per lui – quanto piuttosto il timore che i privilegi acquisiti potessero venir meno, ora che il matrimonio non esisteva più.

Erano ancora troppo lontani dall’identificare i colpevoli dell’imboscata, non potevano permettersi di guadagnare altri nemici. Quasi gli avesse letto nel pensiero, Padre Tyban si era avvicinato ulteriormente a lui. «Dobbiamo assolutamente trovare dei nomi da offrire a re Lashkar, quando verrà  a chiederci conto di quello che è successo» aveva mormorato. «Dobbiamo identificare gli assassini di Arina… a ogni costo.»

E così eccolo lì, con una fiala di sangue in mano, in attesa di venire ammesso al santuario della Fonte d’Argento. Padre Tyban avrebbe voluto trovare una soluzione alternativa, ma, davanti alle richieste di Re Yasu e del principe, aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco, ingoiare le proprie riserve e chiedere ad alcuni sacerdoti di rango più basso di estrarre un po’ di sangue dalla creatura. Sulle prime Zeru aveva creduto che Spiro li avrebbe accompagnati, ma il giovane, che aveva amato veramente sua moglie, aveva preferito restare accanto a lei fino al giorno seguente, quando si sarebbero tenuti i funerali e il corpo della principessa sarebbe stato bruciato. Questo non significava però che non volesse giustizia, pensò Zeru, con una smorfia, preoccupato per quella che sarebbe stata la reazione del principe.

Improvvisamente la porta del santuario si aprì e una sacerdotessa si affacciò all’estremità superiore della scalinata. «Finalmente» sbottò il conte Jarad, seduto su un gradino a pochi passi da Zeru, senza avere cura di non farsi sentire dalla donna.

«La Vergine è pronta a ricevervi» comunicò loro la religiosa. «Il vostro compagno, Padre Tyban, le sta già illustrando la vostra situazione.»

«Come se la ragazzina non la conoscesse già, la nostra situazione» ringhiò ancora il conte, ma, mentre saliva la gradinata che conduceva all’interno del santuario, Zeru non gli prestò ascolto. Sebbene fosse nato e cresciuto nella capitale, non aveva mai messo piede all’interno dell’edificio sacro, limitandosi a osservarlo dall’esterno: si trattava di un’imponente costruzione a pianta esagonale, sormontata da una cupola color ardesia e alleggerita da vetrate azzurre, alte e sottili. La piazza nella quale sorgeva era la più bella di Rocca del Vento, ma si diceva che, all’interno, il santuario fosse ancora più impressionante, soprattutto se visitato in un giorno di sole.

«Benvenuti» mormorò la sacerdotessa, facendo loro cenno di entrare. Varcando la soglia, Zeru dovette ammettere che le voci che aveva sentito a proposito di quel luogo erano tutt’altro che infondate. All’interno, il santuario era composto da un unico, immenso locale. Sebbene si trattasse di un ambiente chiuso, tutto dava la curiosa impressione di trovarsi all’aria aperta: tra le pietre piatte che ricoprivano il pavimento cresceva l’erba e il soffitto altissimo non opprimeva il visitatore, ma, al contrario, suscitava in lui una sensazione di grandezza e libertà. Le finestre affusolate lasciavano filtrare la luce e i disegni che le decoravano davano ai raggi del sole una sfumatura azzurrognola e purissima, simile a quella che si poteva trovare in alcune grotte che si affacciavano sul mare. Ed era proprio l’acqua, lì, a farla da padrona: il santuario era stato costruito su una sorgente e le acque cristalline sgorgavano da un masso situato nelle prossimità della parete nord dell’edificio. Dopo poche decine di metri il corso d’acqua tornava a scomparire delle profondità della terra, ma, prima di farlo, riempiva il santuario del riflesso cangiante dei suoi flutti e del canto irregolare delle sue onde.

Nell’epicentro del santuario, sopra al fiume neonato, si ergeva una sorta di baldacchino d’argento: era quello, il luogo in cui la Vergine accoglieva coloro che venivano a cercare il suo consiglio.

«Prego, la Vergine vi sta aspettando.»

La voce delicata dell’anziana sacerdotessa che li aveva accolti costrinse Zeru a interrompere la sua contemplazione. Stringendo inconsciamente la boccetta nel pugno, l’uomo rivolse un’occhiata al conte Jarad e poi si diresse verso la struttura metallica, salendone i gradini quasi in punta di piedi, come se temesse che i suoi passi pesanti potessero rovinare l’atmosfera quasi ultraterrena di quel luogo.

Giunse in cima rapidamente, ignorando i tonfi prodotti dal conte che arrancava alle sue spalle e, quando i suoi occhi si posarono sulla Vergine, si fermò un istante, prendendo un respiro profondo. Eccola lì. Era una bambina, sei mesi prima aveva preso il posto della decrepita vegliarda che l’aveva preceduta e si diceva che avesse un pessimo carattere.

Il piccolo oracolo, il cui vero nome era destinato a perdersi nelle nebbie della storia, era nata schiava e con una vista che era sempre stata molto debole. Era stato solo verso i quattro o i cinque anni, però, che una patina argentea aveva ricoperto i suoi occhi, rendendola completamente cieca. Il suo padrone, un orafo piuttosto rinomato, l’avrebbe forse uccisa o venduta, se solo il velo che l’aveva condannata a vivere nelle tenebre non fosse stato di quel colore, del colore degli Dei. L’uomo, che aveva la vista lunga, l’aveva tenuta nascosta sino al giorno in cui l’anziana Vergine della Fonte d’Argento non era morta e le sue sacerdotesse non avevano iniziato a percorrere le vie del regno alla ricerca di una bambina che potesse sostituirla. Allora l’orafo era uscito allo scoperto, sostenendo che gli occhi argentei della sua piccola schiava fossero un segno: e aveva ragione, perché le sacerdotesse avevano riconosciuto alla bambina delle doti profetiche.

Ciò che l’orafo non aveva previsto, però, erano l’odio e il rancore che la ragazzina aveva covato per tutta la sua breve vita. Quando, a nove anni, si era ritrovata fra le mani tanto potere, la Vergine aveva preteso – e avuto – la testa del suo vecchio padrone, la confisca dei suoi beni e l’esilio della sua famiglia. Il suo comportamento era blasfemo, aveva detto, aveva insultato più volte e in innumerevoli modi lei, la prescelta degli Dei.

La piccola era vendicativa: chi aveva avuto a che fare con lei riferiva che i suoi poteri erano notevoli, ma che c’era un’amarezza di fondo in lei, dei piccoli sprazzi di crudeltà compiaciuta che apparivano anomali, in una fanciulla tanto giovane.

Zeru irrigidì la mascella ed espirò. Non dire niente che possa offenderla, si ricordò. Non farle pensare che stai mettendo in dubbio le sue abilità. Meglio ancora, lascia che sia il sacerdote a parlare.

«Ecco, sono arrivati i miei compagni» annunciò Padre Tyban, voltandosi verso di loro.

«Lo so» replicò la ragazzina, con voce annoiata. «Sono cieca, non sorda.»

Iniziamo bene.

«Ehm…» Eccellenza? Mia Signora? Santità?

«… ciao» Zeru storse le labbra di fronte alla propria incapacità di trovare un saluto più adeguato, ma poi scosse il capo, inginocchiandosi su uno dei cuscini posti di fronte alla bambina.

«Santità illustrissima» mormorò il conte Jarad, imitandolo.

Ah, ecco.

«Il sangue della bestia, prego» tagliò corto la Vergine, allungando una mano fin sotto al naso di Zeru. A causa di quel movimento, la manica della veste che indossava le scivolò fino al gomito e sulla pelle d’ebano della piccola l’uomo vide chiaramente la traccia di vecchie ferite ormai rimarginate.

Il capitano storse la bocca, leggermente turbato da segni che deturpavano l’avambraccio della bambina. Sebbene non fosse incoraggiata, ad Adaval la schiavitù era in una certa misura tollerata: se uno straniero si trasferiva nel regno, aveva il diritto di conservare gli schiavi che erano già di sua proprietà prima del trasferimento; e i figli nati da essi.

Una delle tante porcherie che esistono al mondo, pensò Zeru, con una smorfia, prima di riscuotersi davanti al tossicchiare impaziente della ragazzina.

«Certo» mormorò, posando nel suo palmo la fialetta. Un istante più tardi si accorse che avrebbe forse dovuto aprirla, ma la Vergine non esitò nemmeno un secondo prima di stapparla personalmente e di portarsela al naso, annusandola con circospezione. Poi, prima che qualcuno dei presenti avesse il tempo di commentare, la bambina gettò all’indietro il capo e inghiottì l’intero contenuto della fialetta. Mentre la ragazzina si leccava le labbra per eliminare i residui di sangue, Zeru lanciò uno sguardo incredulo a Padre Tyban: aveva creduto che si sarebbe trattato di un assaggio più discreto; vedere la ragazzina trangugiare il contenuto della boccetta con tanta ingordigia l’aveva spiazzato.

Dallo sguardo contrariato – quasi scandalizzato – del sacerdote, il soldato intuì che, con ogni probabilità, quella non era affatto la prassi; e si chiese se il sant’uomo avrebbe in qualche modo commentato quel bizzarro spettacolo. Tuttavia, Padre Tyban rimase in silenzio, lasciando che fosse la giovane veggente a parlare per prima.

«Allora?» chiese infatti la bambina, dopo qualche istante di silenzio rotto soltanto dal canto del ruscello. «Cosa volete sapere, esattamente?»

«Il sangue che hai bevuto viene da una creatura della Brughiera» rispose prontamente il sacerdote. «I Nati dalla Nebbia vengono dal medesimo luogo: è corretto cercare tra di loro i responsabili dell’attacco ai danni del nostro re?»

La ragazzina schioccò rumorosamente le labbra, poi scosse la testa: «No.»

Zeru e il conte Jarad si scambiarono uno sguardo allarmato e Padre Tyban interrogò di nuovo la veggente.

«Il nemico si nasconde allora nella capitale?»

Di nuovo, la bimba fece un cenno di diniego: «Non ho detto questo.»

Un fantasma si affacciò nella mente del capitano: non poteva trattarsi del padre di Arina, certamente, non aveva alcun senso…

«Tawas-Silai?» chiese ancora il sacerdote, giungendo alle stesse conclusioni del soldato.

Davanti a quella domanda, la Vergine scoppiò a ridere, un suono stranamente gorgogliante.

«Siete proprio disperati» sghignazzò.

La compassione che Zeru aveva provato per lei qualche minuto prima iniziò a scemare rapidamente, ma l’uomo strinse i denti, cercando di tenere a bada la propria irritazione.

Forse offeso dalla risposta sprezzante della piccola, il sacerdote chinò il capo, ma il conte Jarad si sporse verso di lei.

«Non in seno agli Odeb à Fànur», disse, lentamente, «ma forse nella Brughiera?»

La bambina gli rivolse un sorriso smagliante: «Esattamente.»

«Hai dei nomi, mia signora?» insistette il conte, ma questa volta la risposta fu negativa.

«Nessun nome, no. E nessun volto. Dovete cercare nella Brughiera, ma non so cosa dovete cercare. Il che è davvero un bel problema, eh?»

Chissà perché non mi sembri particolarmente afflitta, pensò Zeru, provando un moto di antipatia per la piccola impertinente.

«Comunque i Nati della Nebbia non hanno niente a che fare con questa storia, giusto?» le chiese, tanto per essere sicuro di aver capito bene.

Zeru ebbe quasi l’impressione di vederla alzare al cielo i suoi spettrali occhi argentati. «I guerrieri che vi hanno attaccato erano Odeb à Fànur, quindi loro c’entrano, ovviamente» cantilenò la ragazzina, facendo ondeggiare i ricci neri come il carbone. «Tuttavia loro sono solo la mano: se volete punire la mente, dovrete spingervi più in là.»

I tre uomini si scambiarono uno sguardo pensieroso, poi Padre Tyban annuì, risoluto.

«Ti ringrazio, mia signora: ci sei stata molto utile.»

«La cosa mi fa piacere» ribatté la bambina. «Toh, capitano: riprenditi la fialetta, che io non me ne faccio niente.»

Automaticamente, Zeru allungò la mano per afferrare la boccetta, ma la ragazzina fu più rapida e gli ghermì il polso con entrambe le mani, tirandoselo poi all’altezza del viso e leccandogli le dita, fulminea. Nell’avvertire quel contato umidiccio, l’uomo trasalì.

«Ma, insomma…!» gli scappò detto, prima di riuscire a trattenersi.

Tuttavia, la Vergine non parve prendersela e si strinse nelle spalle: «Ti troverai presto nei guai, capitano: guai belli grossi. Ti conviene venirmi a trovare, una volta ogni tanto: scommetto che il mio aiuto ti farà comodo.»

Impietrito – non era forse quella una conferma di tutti i suoi timori? – Zeru deglutì, prima di provare a indagare oltre: «Che tipo di guai?»

La bimba si mordicchiò un labbro, pensierosa.

«Eeeh… non te lo dico!» trillò poi, rivolgendogli un altro sorriso.

«Cosa?»

Incurante dell’espressione di Padre Tyban, l’uomo si accucciò davanti alla bambina. «Perché non me lo dici?» le chiese, cercando di mantenere un minimo di cortesia nella sua voce.

«Oh, non arrabbiarti, capitano» sospirò la piccola, posandogli una mano su una guancia e picchiettandola come se fosse stata quella di un cucciolo. «In un modo o nell’altro, sempre di guai si tratta: se non ti dico niente, però, c’è la possibilità di cavarcene qualcosa di buono. Se ti dico di cosa si tratta, invece, non ne verrà niente di buono, ma solo miseria. Per te; e per tutti.»

Davanti a quella spiegazione fornita con tono quasi accorato, così diverso da quello che la bambina aveva utilizzato fino a quel momento, Zeru sentì la propria rabbia dissolversi come neve al sole. Al suo posto, montò la preoccupazione. Il capitano cercò gli occhi dei suoi accompagnatori, ma, quando li trovò, in essi non lesse altro che la sua stessa confusione.

«Andate, adesso» ordinò loro la Vergine, tornando a parlare con voce imperiosa. «Siete qui da un sacco di tempo e di sicuro c’è gente che sta aspettando di parlare con me.»

Una volta che si furono accomiatati dalla veggente, i tre uomini fecero ritorno al palazzo, ognuno immerso negli stessi identici pensieri. Un nemico senza volto, nascosto nelle profondità segrete della Brughiera, e un pericolo imminente le cui conseguenze, forse, sarebbero ricadute su tutti.

Su me di sicuro, si disse Zeru, con un tremito di apprensione. E forse anche sulla mia famiglia. Su mia madre e sulle mie sorelle e…

Non appena giunsero nel cortile del castello, notarono una certa concitazione tra le guardie che presidiavano l’ingresso.

Ancora turbato dal colloquio avuto con la Vergine, a Zeru parve di venir colto da un brutto presentimento e dunque interrogò l’uomo alla sua destra: «Cos’è successo?»

Contrariamente a quanto si era aspettato, la guardia sorrise: «La principessa Marai si è svegliata, capitano.»

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Capitolo 9
*** IX ***


«Tua moglie non è venuta?»

Zeru si voltò di scatto, quasi stupito di trovarsi di fianco il conte Jarad. Era talmente assorto nei suoi pensieri e talmente occupato a osservare i movimenti di Difan che non si era accorto della presenza dell'uomo. Riponeva una grande fiducia nelle capacità del suo secondo in comando, ma il funerale di un membro della famiglia reale era pur sempre una questione estremamente delicata e il capitano voleva essere certo che nulla andasse storto.

Con una smorfia appena accennata, Zeru si rivolse all’uomo alla sua destra. «No» mormorò, rispondendo alla domanda che il conte gli aveva posto poco prima. «Avrebbe voluto essere presente, naturalmente, ma le sue condizioni di salute non gliel'hanno permesso.»

O, per lo meno, quella era la conclusione alla quale era giunto quando, poco prima, si era fatto la stessa domanda. Perché, in verità, lui Marai non l'aveva vista: era stata sua intenzione andarla a trovare, quando aveva appreso che si era svegliata, ma la regina gliel'aveva impedito, dicendo che la principessa preferiva aspettare qualche giorno, prima di incontrarlo.

Per recuperare le forze e la lucidità, aveva spiegato, ma Zeru sospettava che il motivo fosse un altro.

E come biasimare quella povera ragazza? Poteva solo provare a immaginare come dovesse sentirsi: ferita, dolorante, sconvolta per la perdita di Arina e, come se tutto ciò non bastasse, pure sposata contro la sua volontà. La cosa lo turbava più di quanto avrebbe voluto ammettere e il capitano si trovava ad accarezzare sempre più spesso il proposito di disobbedire agli ordini della regina e di andare comunque da Marai. Solo per rassicurarla, si intende: trovava assolutamente detestabile l'idea che la fanciulla vivesse nell'angoscia, immaginando forse che lui avesse chissà quale sgradite intenzioni, nei suoi confronti.

Se le spiegassi per bene che questo matrimonio è solo una formalità – alla quale io ho cercato di oppormi, tra l'altro – e che non ho nessuna intenzione di disturbarla più di quanto non sia strettamente necessario, la ragazza dormirebbe sonni tranquilli, no?

«Come sta? Le chiacchiere mi avevano fatto intendere che si stesse riprendendo in fretta: non posso negare di essere stupito di non vederla qui, oggi.» Ignaro dei pensieri che stavano attraversando la mente di Zeru, il conte Jarad gli si avvicinò ancora di più, abbassando la voce affinché le persone attorno a loro non potessero seguire quello scambio di battute.

«E infatti è proprio così» improvvisò il capitano. «Marai sta guarendo bene, ma non è ancora in grado di lasciare il letto così a lungo. La ferita è profonda, non si rimarginerà tanto in fretta.»

Ammesso che non si sia data malata solo per evitare me, aggiunse silenziosamente, osservando la reazione del conte con una punta di nervosismo. Anche se re Yasu gli aveva consigliato di non preoccuparsi dei risvolti politici del suo matrimonio, Zeru non poteva fare a meno di chiedersi se fosse opportuno che il conte – e con lui gli altri nobili della Capitale – conoscesse tutti i particolari della relazione tra lui e la principessa. Aveva infatti imparato, negli anni passati a servire la corona, che certe persone, in certe circostanze, non esitavano a sfruttare le debolezze altrui, se in esse vedevano un’occasione di guadagno.

«Stavo ripensando a quello che ti ha detto ieri la Vergine» continuò il conte, dopo un attimo di silenzio. Qualcosa, nel suo tono, mise ulteriormente in allarme Zeru, che rivolse un'occhiata obliqua al compagno, invitandolo a proseguire.

«Stavo pensando, più che altro, al modo in cui ha formulato la frase» continuò il nobiluomo, lasciando scorrere attorno a sé uno sguardo di finta indifferenza. «Eravamo in tre, nel santuario, eppure la ragazza si è rivolta esclusivamente a te: ha detto che tu ti saresti trovato presto nei guai.»

«Ha detto anche che, se avesse parlato troppo, le cose si sarebbero messe male per tutti» ribatté il capitano, sottolineando quell’ultima parola.

«Naturalmente. Ma, ti prego, seguimi un attimo: cos’è che ti riguarda in prima persona, ma che ha indubbiamente il potenziale di esercitare una certa influenza sulla vita di tutti?»

Zeru lo fissò per qualche istante, cercando di capire dove volesse andare a parare, poi sollevò le sopracciglia: «Marai?»

«Esattamente» replicò il conte, con un mezzo sorriso che non raggiunse i suoi occhi.

La piega che sta prendendo il discorso non mi piace neanche un po’, si disse il capitano. Non era mai stato un amante dei giri di parole e desiderava che, se Jarad aveva qualcosa di dire, lo dicesse senza perdere tempo in giochetti inutili.

«Temo di non capire» fece allora, senza riuscire a impedire che una nota fredda facesse capolino nella sua voce.

L’uomo al suo fianco mosse il capo e, con il mento, fece discretamente cenno all’altare. Accanto alla grande lastra di pietra bianca, Padre Tyban stava cospargendo d’olio sacro il feretro di Arina. «Re Lashkar non sarà contento di aver perso il suo aggancio con Adaval. Non so quanto amasse sua figlia, ma, se lo conosco, cercherà di allacciare un nuovo legame con il nostro regno il prima possibile.»

«Non lo metto in dubbio» ribatté Zeru, che aveva già in precedenza fatto lo stesso ragionamento. «Lashkar ha dieci figlie, se non ricordo male: tra di loro ce ne sarà sicuramente una che potrà diventare la nuova moglie del principe Spiro.»

«Ammesso che il principe desideri prendere nuovamente moglie in tempi rapidi e ammesso che, tra quelle dieci figlie, ce ne sia adatta a diventare sua moglie.»

«Beh…» Zeru aggrottò la fronte, confuso.

«La principessa Nahali è fuori discussione, è la primogenita ed erediterà il trono di Tawas-Silai: non ha fretta di sposarsi, lei. Delle altre figlie in età da marito, due o tre sono già sposate e una quarta è pazza. Le rimanenti sono solo delle bambine e di certo poco adatte per convolare rapidamente a nozze. Il nostro principe non ha molta scelta, temo.»

Il capitano sospirò, riflettendo sulle parole del conte. «Capisco. In ogni caso, però, non vedo cosa c’entri Marai in tutto ciò: Lashkar non ha figli maschi, quindi…»

«No, però ha un nipote che ha preso sotto la sua ala protettrice molto tempo fa. Un giovane di vent’anni; e molto aitante, mi dicono. Lo sposo perfetto, per la nostra piccola principessa.»

Soffocando un moto di fastidio che, subdolo, gli strinse lo stomaco, Zeru incontrò gli occhi dell’uomo. «Sì, ho sentito parlare di lui, anche se non l’ho mai incontrato. In ogni caso, non vedo ostacoli alla loro unione, se re Yasu la approverà. Basterà aspettare un anno – anzi, qualche giorno in meno – e Marai sarà libera di sposare questo ragazzo.»

«Non è affatto detto che Lashkar sia disposto ad aspettare un anno: possono succedere tante cose, in un anno.»

«Beh, temo che non si possa fare diversamente, visto che, al momento, Marai è sposata con me» sbottò il capitano, con un sibilo di frustrazione. Poi, chiudendo brevemente gli occhi per scacciare il nervosismo, continuò: «A meno che Padre Tyban non trovi un modo per annullare il matrimonio in tempi più rapidi. Anzi, questa sarebbe forse la soluzione migliore…»

«Parli come se non conoscessi Padre Tyban» lo interruppe immediatamente il Conte Jarad. «Per lui, la religione viene prima di tutto e le regole degli Dei sono il codice più alto al quale attenersi.»

Zeru puntò gli occhi chiari in quelli del conte: «È un uomo di fede, questo è ovvio, ma non ho mai dubitato della sua fedeltà alla corona. Mai, nemmeno per un istante.»

«Oh, no, non sto dicendo che non sia fedele al regno!» si affrettò a rettificare il conte. «Sono anzi convinto che lo abbia sempre servito con tutto se stesso. Certo… a modo suo. Secondo la legge divina. Lui crede che solo seguendo la legge divina si possa assicurare benessere e prosperità ad Adaval.»

Sospirando, Zeru alzò lo sguardo sul grande rosone di vetro dei colori del tramonto che sovrastava l’altare. Filtrando attraverso al mosaico colorato, la luce del sole riempiva la cappella di mille riflessi cangianti. «E chissà che non sia proprio così» disse, piano, mettendo per una volta da parte la propria razionalità e il proprio scetticismo.

«Chissà» ripeté il conte. «Ma, per qualche motivo, sento che re Lashkar non sarà dello stesso avviso.»

«Non capisco dove vuoi arrivare» ringhiò Zeru, iniziando a sentirsi esasperato dal modo in cui Jarad stava conducendo quella conversazione. «Cosa dovremmo fare, secondo te?»

L’uomo gli rivolse un sorriso amaro, prima di tornare a rivolgersi verso l’altare, portando di nuovo gli occhi sul corpo senza vita di Arina. «Non voglio arrivare da nessuna parte: volevo solo renderti partecipe di una mia riflessione.»

«Mh.»

Sentendo che quella conversazione era terminata, almeno per il momento, il soldato tornò a osservare i movimenti rituali compiuti da Padre Tyban, cercando di prestare attenzione alla cerimonia e non riuscendo però a evitare che i suoi pensieri vagassero un tutt’altra direzione.

***

Quando il rito fu terminato e il feretro di Arina fu trasportato nella camera in cui, dopo un riposo di un giorno e una notte, sarebbe stato bruciato, Zeru vide il principe Spiro avvicinarsi a lui.

«Altezza», mormorò il soldato, chinando il capo, «le mie condoglianze. Sarei venuto da te prima, ma non volevo importi la mia presenza in un momento tanto doloroso…»

«Ti ringrazio per il pensiero» sospirò il ragazzo, trovando la forza di rivolgergli un sorriso di circostanza. «Mi sembra così… così incredibile che lei non ci sia più. Mi sembra che non possa essere vero, mi viene ancora da girarmi e di cercarla, lì, vicino a mia madre.»

«Mi spiace. So cosa vuol dire perdere una persona cara e so che le parole non servono a nulla.»

Il principe annuì: «Le parole no, ma le azioni possono molto. Devo parlarti, capitano.»

Sorpreso dal tono improvvisamente deciso del giovane, Zeru si guardò rapidamente attorno. «Qui?» chiese. «Adesso?»

Posandogli una mano sul braccio, Spiro lo condusse accanto a una colonna,così da frapporre qualche metro in più tra loro e il resto delle persone radunate nella cappella. «Ho saputo che ieri avete fatto visita alla Vergine: avete scoperto qualcosa a proposito degli assassini di Arina?»

Il capitano esitò un istante, prima di rispondere. «Hai già parlato con Jarad o Padre Tyban?»

Il principe arrossì lievemente: «No, non ho trovato il tempo di farlo.»

«D’accordo» fece il soldato, annuendo lentamente. «Abbiamo parlato con la Vergine, è vero», ammise, dopo un istante di riflessione, «ma non ci ha dato una risposta chiara.»

«C'era da aspettarselo», replicò Spiro, con un cenno secco del capo, «del resto è così che si esprimono gli oracoli: ma, al di là della forma... Siete comunque riusciti a ricavare qualche informazione utile?»

«In un certo senso: la Vergine sostiene che gli Odeb à Fànur siano soltanto il braccio e che, per trovare la mente, ci dobbiamo spingere oltre.»

«Oltre?» ripeté il principe, aggrottando la fronte.

«Sempre nella Brughiera. Secondo la ragazza, però, dietro all'attacco che abbiamo subito si nasconde qualcun altro. Ovviamente, non è stata in grado di dirci chi sia questo qualcun altro, né di darci qualcosa a cui aggrapparci.»

Spiro piegò le labbra in una smorfia, pensieroso. «Nella Brughiera vivono solo i Nati dalla Nebbia. Ci sono diverse tribù, ma la sostanza non cambia. Se l’attacco non è stato ordinato da qualcuno che si nasconde qui, nella capitale, se dietro a quello che è accaduto c’è qualcuno che si trova tra quelle paludi… beh, non vedo proprio di chi potrebbe trattarsi, se non degli Odeb à Fànur. Non ci sono molti candidati, a parer mio.»

«La Vergine non avrebbe avuto alcun interesse a mentire» gli fece pacatamente notare Zeru.

«Lo so, ma tutto questo mi sembra così strano» il giovane si interruppe e si passò stancamente una mano sul viso. «Oltretutto, non posso andare a dire al padre di Arina che non abbiamo la benché minima idea di chi abbia ucciso sua figlia.»

«Ancora nessuna rivendicazione o rapporto dei nostri informatori, immagino» disse, più che chiedere, Zeru.

Spiro scosse il capo. «E ancora nessuna risposta da parte di Tawas-Silai?» indagò ancora il soldato.

«Nessuna» confermò il giovane bruno. «Ma di certo non tarderà ad arrivare.»

Zeru esitò per qualche secondo, indeciso se parlare o meno al principe di ciò che gli aveva riferito poco prima il conte Jarad, ma poi decise che il ragazzo - che, a conti fatti, non era più un ragazzo - aveva il diritto e il dovere di essere al corrente della situazione. «Hai preso in considerazione l'ipotesi di risposarti?» gli chiese, senza incontrare il suo sguardo.

«Con una delle sorelle di Arina, intendi?» quando il capitano annuì, il giovane sospirò. «Sì, ci ho pensato. Immagino che sia un'eventualità tutt'altro che remota, anche se il pensiero di sostituire così mia moglie mi disgusta. Ma sono il principe, no? E un giorno sarò re: ho dei doveri che vengono prima dei miei desideri personali.»

Come tutti, considerò silenziosamente Zeru, con una punta di cinismo. «Hai mai conosciuto le principesse?» gli chiese, invece. «Il conte Jarad sostiene che, probabilmente, quelle in età da marito sono già sposate.»

Spiro scosse il capo: «No, mi pare che una non abbia ancora marito. Non ricordo il suo nome, ma Arina sosteneva che fosse una ragazza timida e... Beh, non proprio una bellezza. Non che sia importante, naturalmente.»

Il giovane era arrossito e Zeru provò a venire in suo soccorso. «In realtà», disse, con gentilezza, «ho sentito che ce n'è una che è davvero molto bella.»

«Manira, sì. Ha tredici anni. Non credo sia il caso di prenderla in considerazione.»

«Già» Zeru abbassò lo sguardo a terra, lasciando sfumare il discorso. Non era il caso, decise, di disquisire della bellezza delle sorelle di Arina, quando si era appena celebrato il suo funerale e quando era assolutamente chiaro che il principe soffriva per la perdita della moglie.

«Tra due giorni andrò nella Brughiera.»

Il soldato alzò di scatto il capo, sorpreso dalle parole del giovane. «Come?» chiese, sebbene fosse certo di aver capito bene.

«Sì, intendo cercare delle risposte: il generale Balzan ha individuato alcuni uomini scelti che potranno accompagnarmi nelle terre delle Aquile di Mare.»

«Non credo sia una buona idea» ribatté Zeru, aggrottando la fronte. «Finché non abbiamo almeno un nome o un indizio, chiunque è un potenziale nemico. Sarebbe più prudente per te restare a palazzo, al sicuro: sono certo che gli uomini del generale possano trovare le risposte che cerchi anche senza la tua presenza al loro fianco.»

«Forse sì, ma non intendo restarmene nascosto a Rocca del Vento, quando mia moglie è stata uccisa.»

«Capisco, ma…»

«No, capitano.» La voce di Spiro si fece insolitamente brusca e il soldato lo guardò con un’attenzione nuova. «Non intendo tirarmi indietro, questa volta.» Zeru lo squadrò da capo a piedi, chiedendosi se il padre del ragazzo fosse al corrente dei suoi propositi, ma desistette dalla tentazione di chiederglielo. Dopotutto lui non aveva alcuna autorità su quello che, un giorno, sarebbe stato il suo re; e in ogni modo far ragionare il principe non era certo un compito che spettava a lui.

«E cosa intendi fare, una volta arrivato lì?»

«Il generale mi ha detto che uno dei suoi uomini è originario della Brughiera.» A Zeru quell’informazione non piacque affatto, ma Spiro non gli lasciò il tempo di obiettare. «Non è un Odeb à Fànur», disse, infatti, «ma il figlio di un commerciante di lana che si è trasferito nelle terre delle Aquile di Mare. Sai, quella gente commercia spesso con noi. Sono un po’ diversi dalle altre tribù, sono più… più come noi, direi. Più o meno?»

«Più o meno» concesse Zeru, scettico. Il ricordo di uno degli ultimi incontri con una gruppetto di contrabbandieri provenienti dai territori che il principe intendeva visitare gli piegò le labbra in un sorriso sarcastico.

«In ogni caso, voglio parlare con quella gente» continuò il principe. «Se nella Brughiera sta succedendo qualcosa di insolito, è probabile che chi vive lì abbia per lo meno avuto qualche avvisaglia, non credi?»

«È possibile.»

«Voglio solo fare qualche domanda, sondare un po’ il terreno» spiegò il ragazzo, cercando suo malgrado un briciolo di approvazione negli occhi del soldato. «Nulla di troppo appariscente.»

Già, pensò Zeru, costringendosi a sorridere. Il principe ereditario che compare nella Brughiera, accompagnato da un manipolo di soldati: perché mai dovrebbe dare nell’occhio? «Continuo a pensare che non sia una buona idea», disse poi, con un sospiro, «ma sono certo che ci hai pensato bene, prima di prendere questa decisione; e io non ho il potere di farti cambiare idea.»

«Ci ho pensato bene, sì» confermò Spiro, annuendo deciso. Poi scosse il capo, come per cambiare discorso. «Oh, c’è anche un’altra cosa che volevo chiederti: credi che sia il caso di andare a far visita a mia sorella? Non l’ho ancora vista e vorrei farlo, prima di partire. Ma forse è ancora troppo debole, non vorrei disturbarla o farla preoccupare…»

«Vai da lei» rispose l’uomo, senza esitare. «Io non ho ancora avuto modo di farlo, ma sono sicuro sarà felice di salutarti.»

Spiro sgranò gli occhi. «Non le hai ancora parlato? E perché?»

Zeru deglutì, leggermente a disagio. «Avrei voluto farlo, ma ho parlato con la regina e ho come avuto l’impressione che tua sorella preferisse aspettare un po’, prima di incontrarmi. Probabilmente è ancora troppo scossa da quello che è successo e non si sente ancora in grado di affrontare anche questa faccenda.»

Gli occhi scuri di Spiro si illuminarono in un sorriso divertito. «Oh, non credo proprio: Marai è sempre stata curiosa, di certo non vede l’ora di incontrarti.»

Il soldato scosse appena il capo: «In ogni caso, tua madre è stata chiara: non ho il permesso di andare da lei.»

«Non hai il permesso di far visita a tua moglie?» sogghignò il principe, evidentemente grato di aver trovato un diversivo che lo distraesse dal dolore della perdita di Arina. «Non si è mai sentita una cosa del genere: vieni con me, ci andiamo insieme, a trovarla!»

«Non credo proprio che…» Zeru fece per protestare, ma poi si morse la lingua: non era forse quella l’occasione che stava aspettando per confrontarsi con la principessa? «D’accordo» sospirò alzando, alzando le mani in segno di resa e facendo cenno a Spiro di fare strada.

***

Fermo davanti alla porta della camera di Marai, Zeru teneva gli occhi fissi su Wenza, senza però sentire nemmeno una parola delle raccomandazioni che la guaritrice stava facendo a lui e a Spiro.

Mi sudano le mani. È ridicolo. Sono nervoso come un ragazzino di tredici anni. Infastidito dal tradimento del suo corpo, il soldato serrò bruscamente le mani, stringendo fino a quando non sentì le unghie penetrare nella carne del palmo.

«Va bene, entrate. Ma non fatela stancare troppo, è ancora in via di guarigione.»

La voce brusca della donna lo sferzò e l’uomo si ritrovò ad annuire automaticamente, mentre già il suo sguardo correva oltre la corpulenta figura della guaritrice, cercando di sbirciare attraverso lo spiraglio dell’uscio socchiuso.

Scrutandoli un’ultima volta con un’aria di insondabile disapprovazione, Wenza sfilò loro accanto, allontanandosi a passi rapidi lungo il corridoio. Senza perdere tempo, Spiro spinse la porta e marciò nella camera della sorella. La principessa stava evidentemente aspettando il loro arrivo, perché era seduta ben dritta sul letto, la schiena appoggiata alla testata intarsiata e il lenzuolo stretto tra le mani sottili. Il suo sguardo scivolò sul fratello come una carezza, ma poi subito si appuntò su Zeru.

Trovandosi improvvisamente sotto all’esame di quegli occhi chiari, il capitano sentì un’ondata di panico lambirgli lo stomaco e la vergogna stringergli la gola. Perché si vergognava? Perché si sentiva in colpa? Non era stato certo lui a metterla in quella situazione.

Non del tutto, almeno.

Durante quel brevissimo scambio di sguardi, Spiro aveva coperto i pochi metri che lo separavano dalla fanciulla e si era piegato su di lei, cingendole le spalle in un abbraccio. «Come stai?» le sussurrò. Quelle parole soffiate furono sufficienti per scuotere la principessa, che interruppe il contatto visivo con Zeru e si concentrò sul fratello.

«Oh, io sto bene» disse, con la voce solo un po’ più roca di quanto il capitano ricordasse. «Ma avrei tanto voluto esserci anch’io, oggi. Wenza me lo ha impedito… mi dispiace tanto, Spiro. Mi dispiace davvero tanto. Non è giusto. Volevo bene ad Arina; e non è giusto che sia successo proprio a lei.»

«Lo so» il principe deglutì e poi affondò il viso tra i riccioli biondi della ragazza. «Stiamo facendo del nostro meglio per trovare i colpevoli, per vendicare Arina e per mettere al sicuro tutti noi, ma, nel frattempo… sono felice di vedere che stai bene.» l giovane si interruppe, allontanando da sé la ragazza e osservandola più attentamente. «Perché stai bene, vero?» aggiunse poi, in tono un po’ incerto.

«Sto bene» sospirò Marai. «Beh, più o meno. Mi fa male la ferita. E la schiena. E la testa. E anche le gambe, in effetti, e quella strega non mi da più il latte di grano rosso. Mi fa masticare quelle foglioline che, oltre a non avere praticamente alcun effetto, hanno pure un gusto schifoso.»

Spiro si lasciò sfuggire una risata soffocata e attirò a sé la sorella, stringendola in un abbraccio contro il suo petto. Dalla sua posizione privilegiata, Zeru vide la smorfia di dolore che attraversò il volto della fanciulla, subito rimpiazzata da un’espressione di placido affetto. Sentendosi forse osservata, la ragazza sollevò lo sguardo e incontrò di nuovo quello del soldato. Forse fu solo per colpa della luce, ma l’uomo ebbe l’impressione di vedere l’ombra di un sorriso disegnarsi sulle sue labbra.

 

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Capitolo 10
*** X ***


Marai chiuse gli occhi per qualche secondo, ascoltando il battito regolare del cuore di suo fratello. Aveva sempre voluto bene a Spiro: quando lui era accanto a lei, la principessa si sentiva protetta, in pace con il mondo. In quella specifica circostanza, però, c’era qualcosa che disturbava, almeno in parte, la sua serenità: il pizzicorino che avvertiva all’altezza della nuca, infatti, le faceva capire che il capitano la stava osservando.

Socchiudendo appena un occhio e sbirciando in direzione della porta, la fanciulla esaminò rapidamente la postura rigida dell’uomo, con le spalle spinte in avanti e il collo leggermente incassato in esse: era nervoso?

Sì, è nervoso, decise la ragazza. Se da un lato la cosa le faceva quasi piacere – il fatto che un guerriero tanto esperto fosse a disagio a causa sua era semplicemente adorabile – dall’altro quella consapevolezza le causava qualche piccolo crampo allo stomaco: lui non aveva voluto sposarla, ricordò. Riuscire a fargli cambiare idea e, di conseguenza, farsi apprezzare da lui, sarebbe stato tutt’altro che semplice.

 Il repentino cambio di posizione di Spiro la costrinse a interrompere le sue riflessioni. «Non puoi continuare a bere quella droga» sospirò il giovane, sfiorandole la guancia con un buffetto affettuoso. «A lungo andare ti farebbe più male, che bene: se Wenza non te ne da più, è solo perché vuole che tu ti riprenda il prima possibile.»

Naturalmente, pensò Marai, trattenendosi a stento dall’alzare gli occhi al cielo di fronte all’ovvietà appena espressa da suo fratello. «Può essere», commentò, poi, sollevando appena una spalla, «ma forse si diverte a guardarmi mentre mi contorco dal dolore: quella donna ha una certa vena sadica, credimi!»

Spiro sorrise, ma nei suoi occhi non c’era traccia della sua solita allegria. «Può essere» concesse. «Ma del resto non può permettersi di sbagliare nulla: nostro padre e nostra madre le stanno letteralmente con il fiato sul collo da giorni. E non solo a lei, a dire il vero.» Con quelle parole, il principe lanciò un’occhiata oltre le spalle della sorella, in direzione di Zeru.

Incuriosita e un po’ confusa, Marai si voltò di nuovo a guardare il soldato, che abbozzò un sorriso e distolse lo sguardo. «Pensa», continuò Spiro, «che nostra madre gli ha addirittura vietato di venire a trovarti.»

Voleva venire a trovarmi? Le guance della fanciulla assunsero una delicata sfumatura rosata e la sua testa si fece improvvisamente leggera. «Ah. Ehm» la ragazza si schiarì la voce, cercando di obbligare la sua gola – improvvisamente secca – a collaborare con lei. «Ah, no. Gliel’ho chiesto io, quello. Di aspettare un po’ prima di incontrarlo, intendo.»

Non appena quelle parole ebbero lasciato la sua bocca, la principessa sbiancò. Cretina! Si disse, vedendo come sul volto di Zeru si fosse immediatamente disegnata un’espressione allarmata. Prima che avesse il tempo di correggersi, il capitano fece un passo indietro e chinò rispettosamente il capo nella sua direzione. «Mi dispiace, Altezza: volevo solo accertarmi delle tue condizioni. Non era mia intenzione disturbarti: ti lascio riposare.»

«No!» Marai avvampò, imbarazzata per l’esclamazione, decisamente troppo enfatica, che non era riuscita a trattenere. «No», ripeté, più calma, «era solo che…»

Che mi vergognavo a farmi vedere da te in quello stato, tutta sporca e puzzolente?  La principessa deglutì, cercando disperatamente una spiegazione migliore. Non avrebbe mai avuto il coraggio di dire una cosa tanto audace: il solo pensiero che il soldato potesse intuire il suo interesse nei suoi confronti la faceva morire dalla vergogna – soprattutto se detto interesse si fosse rivelato interamente non corrisposto.

«… era solo che ero ancora troppo stanca e confusa per sostenere una conversazione» proseguì allora la fanciulla, prima di incontrare per un secondo gli occhi dell’uomo. «Adesso sto molto meglio, però, e desidero ringraziarti per quello che hai fatto.»

Marai annuì, sentendosi molto fiera del modo in cui si era tratta d’impiccio, e poi sgranò gli occhi quando Zeru scoppiò in un’inaspettata risata secca. «Aspetta a ringraziarmi, principessa» le consigliò l’uomo, incrociando le braccia davanti al petto.

«Eh?» Presa in contropiede, la ragazza si ritrasse inconsciamente contro il corpo di Spiro. Proprio mentre le dita della fanciulla correvano a stringersi sulla camicia del giovane, il principe si raddrizzò, si sciolse dall’abbraccio della sorella e si mise in piedi.

«Eh, sì, il capitano ha le sue idee, a proposito di questa storia.» Per una frazione di secondo, Marai scorse una traccia dell’antica allegria sul viso del fratello e quel particolare accese in lei una scintilla di curiosità. «Non so se siano giuste o sbagliate, ma forse dovreste discuterne?»

Dalla sua posizione accanto alla porta, Zeru sbuffò e rivolse a Spiro un’occhiata quasi severa. «Credo che spetti a tua sorella decidere. Non si è ancora ripresa del tutto e io non voglio farla stancare troppo.»

«Non la farai stancare troppo» replicò il principe. «Certe cose è meglio chiarirle subito, non credi?»

Marai, che era rimasta momentaneamente paralizzata dal rapido evolvere della situazione, fece per lanciarsi sul fratello, cercando di trattenerlo: l’improvvisa consapevolezza che di lì a pochi secondi sarebbe rimasta da sola con il capitano la gettò nel panico. Una fitta violenta all’altezza della ferita la costrinse però a desistere, facendola afflosciare sul materasso con un sibilo di dolore.

«Piano!» Zeru le si avvicinò rapidamente, mentre Spiro si limitò a lanciarle un’occhiata per assicurarsi che stesse bene.

«Dove vai?» piagnucolò Marai, rimettendosi a sedere e guardando il fratello con gli occhi sgranati.

«Ho da fare: partirò tra due giorni e ci sono ancora un mucchio di cose da preparare. Passerò a trovarti stasera.» Senza darle il tempo di replicare, Spiro lasciò la stanza, abbandonando la fanciulla al suo destino.

«Ma allora ci va davvero?» chiese Marai, con un filo di voce, fissando il punto dove un istante prima c’era suo fratello.

«Ci va davvero?» ripeté Zeru perplesso.

«A cercare la gente che ci ha aggredito» mormorò la ragazza, mentre il cuore le si stringeva improvvisamente per la preoccupazione.

«Sì, principessa. Ma non sarà solo» la rassicurò l’uomo. «Sarà scortato da alcuni uomini del generale Balzan: si tratta di guerrieri scelti… tuo fratello non correrà alcun pericolo.»

Non correrà nessun pericolo? Si ripeté la fanciulla, in preda all’angoscia. Noi avevamo ben più di qualche “uomo scelto”; e guarda cos’è successo.

«Tu non andrai con lui?» lo interrogò ancora, sebbene la prospettiva di sapere in pericolo anche Zeru non la confortasse affatto.

Quando scosse la testa, l’uomo parve quasi imbarazzato. «No: io sono a capo della Guardia Reale e, in questo momento, il mio compito è quello di proteggere il re e la regina consorte.»

E me no?

«… e anche te, adesso.»

Ecco, questo è il momento. Digli che apprezzi veramente quello che ha fatto per te. Sii una persona adulta e responsabile. Nonostante i suoi buoni propositi, però, la ragazza non riuscì a trovare il modo giusto per affrontare l’argomento: la sua testa era piena di parole e mezze frasi, ma erano tutte sbagliate.

«Principessa…» Zeru le si avvicinò e, dopo un istante di indecisione, sedette accanto a lei, sulla sedia che era solitamente occupata da Wenza o da sua madre. «Se sono qui, è per dirti che sono davvero dispiaciuto da quanto è accaduto. In primo luogo mi vergogno di aver fallito il mio compito e di non essere stato in grado di proteggere te e la principessa Arina. In secondo luogo, poi, voglio che tu sappia che sono assolutamente mortificato dalla decisione presa dal re tuo padre: probabilmente, se ci fossimo presi qualche istante in più per riflettere, avremmo trovato una soluzione migliore.»

Marai si strinse le mani in grembo e abbassò gli occhi sulle lenzuola stropicciate. Anche se sapeva che il capitano era tutt’altro che soddisfatto dallo stato delle cose, sentirglielo ammettere così candidamente fu un colpo più duro di quanto avrebbe immaginato. Ma che cosa credo di fare, io? Si chiese, mentre il suo petto era attraversato da una fitta che non aveva nulla a che fare con le ferite fisiche. Sono un’imbranata totale, in queste cose. Sono un’imbranata totale in tutto, a dire il vero. Perché dovrebbe trovarmi interessante? È assolutamente impossibile che un uomo come lui mi veda mai come qualcosa di più di una ragazzina da proteggere.

Eppure, nonostante ciò, Marai sentiva di dover fare almeno un tentativo per realizzare il suo sogno. Se non altro, si disse, aveva il tempo dalla sua parte: in un anno potevano succedere un sacco di cose. Il che non significava che l’impresa sarebbe stata semplice, non ultimo perché la fanciulla non aveva la benché minima idea di quale atteggiamento tenere in presenza dell’oggetto dei suoi desideri: nelle sue fantasie – e oh, ne aveva a migliaia, di fantasie sull’argomento! – era sempre lui a cercare lei e mai viceversa.

«Non devi… non devi sentirti in colpa» balbettò allora, decidendo di procedere un passo alla volta e di provare a navigare a vista. «Io non ne capisco niente, di queste cose, ma ho sentito che i Nati dalla Nebbia sono selvaggi come animali e che spesso gli accorgimenti per proteggersi da loro sono del tutto inutili…»

«Non è proprio così, principessa» la corresse Zeru, con un sorriso amaro. «Sono uomini come tutti noi, il che dovrebbe renderli prevedibili.»

«Oh.» Marai sbatté rapidamente le palpebre, cercando una risposta adeguata. «E, ehm… per quanto riguarda il resto, non te ne faccio certo una colpa. D’altro canto, se stavo per morire…»

«È stato Padre Tyban a suggerirlo» la informò Zeru, come per difendersi. «Non metto in discussione la sua saggezza, ma a volte è forse un po’ troppo drastico nelle sue decisioni.»

«Sulle prime pensavo mi avessero fatto sposare lui» gli confidò la fanciulla, che iniziava a sciogliersi un poco e a non essere più così nervosa in compagnia dell’uomo.

Zeru ridacchiò, poi scosse il capo. «Non sarebbe cambiato molto, principessa. Anzi, per te sarebbe forse stato meglio così: almeno nessuno avrebbe potuto fraintendere la situazione.»

«In che senso?»

«Nessuno metterebbe mai in dubbio la condotta di un sant’uomo» sospirò il capitano, spostando lo sguardo sul caminetto spento. «Purtroppo temo che la mia reputazione non sia altrettanto intonsa.»

«Non ho mai sentito nulla di sconveniente sul tuo conto» replicò Marai, corrugando la fronte, contrariata.

«Questo è perché sei una fanciulla per bene.» La principessa non fu in grado di capire se l’uomo stesse scherzando o meno, ma, prima che avesse il tempo di indagare, il capitano tornò a concentrarsi su di lei. «In ogni modo», continuò, «voglio rassicurarti. Questo… matrimonio è ovviamente soltanto una formalità. Ora che sei fortunatamente fuori pericolo, non c’è motivo di preoccuparsi troppo di questa faccenda: non ci resta che aspettare un anno e poi sarai nuovamente libera e potrai dimenticarti di questo inconveniente. Io, dal canto mio, cercherò di non esserti di alcun fastidio.»

Quando ebbe finito il suo discorsetto, le spalle di Zeru si rilassarono e l’uomo sospirò, lasciandosi ricadere contro lo schienale della sedia come se si fosse liberato di un peso. Marai lo osservò in silenzio per qualche istante e poi, senza rendersene conto, prese a rosicchiarsi l’unghia di un pollice. Fai attenzione a quello che dici, adesso, si raccomandò, cercando di non arrossire sotto  allo sguardo del soldato.

«Be’» sospirò, dopo qualche minuto. «Quello che è fatto, è fatto. Non ti conosco bene, ma quello che ho sentito su di te mi fa pensare che mi sarebbero potuti capitare uomini peggiori.»

«Indubbiamente» concordò Zeru, con voce piatta. «Questo però non significa che questo matrimonio sia un bene.»

«Ma forse non è nemmeno un male… almeno per me» cinguettò Marai, colta da un lampo di genio. «Mia madre vuole trovarmi uno sposo vero: probabilmente sarebbe stata della stessa idea anche se non ci avessero aggredito, ma l’imboscata ha accelerato le cose. Io non ho proprio nessuna voglia di sposarmi, tanto meno con una persona che non conosco: il fatto di essere occupata per almeno un anno è un vantaggio.»

«In che modo?» Zeru sbatté lentamente gli occhi, confuso.

La ragazza scrollò le spalle, mimando una disinvoltura che non provava affatto, poi sorrise: «In un anno avrò il tempo di guardarmi in giro e di scartare i candidati meno desiderabili.»

Davanti a quella spiegazione, anche il capitano si lasciò sfuggire un sorriso. Dopo qualche istante, però, sul suo viso si disegnò un’espressione pensierosa. «E, dimmi: hai già in mente qualche candidato? Se posso chiedertelo, naturalmente.»

Contro ogni suo buon proposito, la principessa si ritrovò ad arrossire. «No, veramente no» confessò, tornando a tormentare un’unghia già troppo mangiucchiata. «Ho sempre saputo che un giorno avrei dovuto prendere marito, naturalmente, ma… non ci ho mai pensato seriamente. Ho sempre cercato di… procrastinare. Credevo di avere molto più tempo a disposizione. Un po’ stupido, da parte mia, in effetti.»

Marai si scostò una ciocca bionda dal volto e guardò di sottecchi il volto del soldato. «Hai mai sentito parlare del cugino della principessa Arina?»

La domanda di Zeru la colse di sorpresa e la fanciulla aggrottò la fronte. «Arad, se non ricordo male. Arina l’ha menzionato un paio di volte: perché me lo chiedi?»

«Lui potrebbe essere un candidato.»

Marai si morse un labbro, studiando una reazione adeguata. In realtà non le importava nulla di quel ragazzo senza volto che aveva sentito nominare un paio di volte: il suo marito ideale era già lì, davanti a lei.

Se solo avessi il coraggio di confessarglielo. E se solo avessi la certezza che lui non scoppierebbe a ridermi in faccia!

«Oh. Oh, non so, non ho elementi per dare un giudizio» fece allora, con voce un po’ incerta. «Ma non credo che Re Lashkar me lo proporrà come potenziale marito: dopotutto, è assai probabile che, a tempo debito, Spiro sposi una sorella di Arina.»

«Sì? E chi?»

«Eyla, la quinta figlia. È ancora nubile» rispose prontamente la principessa, ignorando il tono scettico dell’uomo e decisa a sviare il discorso dal suo ipotetico futuro marito. «Anche se a me piacerebbe tanto Nahali Occhio-di-Giaguaro.»

Nell’udire quelle parole, Zeru scoppiò a ridere. «È troppo vecchia per tuo fratello. E poi, temo davvero che abbia altro per la testa.»

Marai si strinse nelle spalle, con espressione vagamente sognante. «Forse. Ma sarebbe comunque bello. Mi è sempre piaciuta tanto, Nahali.»

«È una tua eroina?» la interrogò il capitano. Davanti al cenno affermativo della fanciulla, l’uomo reclinò di qualche grado il capo sulla spalla. «Forse di lei non sai tutto quello che so io, però: non sono del tutto convinto che sia  quel che si dice una brava persona

«Non fa niente» replicò la ragazza, facendo il gesto di portarsi le mani alle orecchie, così da difenderle da rivelazioni sgradite. «Finché non la conosco, posso fingere che lo sia.»

Malgrado il tono leggero della conversazione, Marai si prese qualche istante per riflettere sulle parole di Zeru. Era già la seconda volta nel giro di pochi minuti che l’uomo insinuava che l’idea che lei aveva delle persone fosse, appunto, troppo idealizzata e che non corrispondesse alla realtà.

Se di Nahali mi interessa relativamente poco, con lui il discorso è diverso. Era vero che, negli ultimi anni, Marai aveva osservato Zeru con un interesse che rasentava l’ossessione, ma forse le era sfuggito qualcosa di importante? Sono una fanciulla per bene e certe cose non le posso proprio sapere, si disse, ripetendosi le parole che il capitano le aveva rivolto poco prima. Però credo di avere un certo intuito, quando si tratta di giudicare chi mi sta davanti. Tuttavia…

Tuttavia, forse, quell’anno al termine del quale sarebbe stato possibile annullare tutto poteva avere i suoi vantaggi.

«Capitano?»

Zeru, che si era perso in qualche riflessione, alzò bruscamente il capo, incontrando gli occhi della principessa.

«Stavo pensando a una cosa: visto che dobbiamo comunque restare insieme per un anno, forse, anziché evitarci, potremmo cercare di conoscerci meglio?»

L’uomo parve preso in contropiede da quella proposta e sgranò gli occhi: una reazione quasi comica, se Marai non avesse temuto che avrebbe rifiutato anche quel minuscolo primo passo.

«Perché?» chiese Zeru, con voce controllata.

«Beh, tu sei il capitano della Guardia Reale, io la principessa: non è un po’ strano che siamo praticamente due estranei? Tu sei un uomo di assoluta fiducia per la Corona, ma, come mi hai giustamente fatto notare, io non so nulla di te – e tu non sai nulla di me. Non mi sembra il punto di partenza ideale per… ehm, per costruire un rapporto… di fiducia.»

Marai si interruppe, sentendo di aver perso il filo del discorso. Parlare sarebbe stato indubbiamente più semplice, se Zeru non avesse iniziato a guardarla in quel modo, come se stesse cercando di leggere qualcosa scritto tra le righe. La fanciulla sentì le proprie guance iniziare a farsi più calde, ma poi il soldato annuì, salvandola dall’imbarazzo di dover riformulare quanto aveva appena detto. «D’accordo: ha senso» concesse. «Però con i giusti tempi e i giusti modi: non voglio interferire con la tua vita e, soprattutto, non voglio dare a nessuno motivo di pensare che dietro alla nostra unione si nasconda qualcosa di più di un semplice espediente per salvare la tua anima.»

Perfetto. Marai deglutì, ingoiando l’ennesimo boccone amaro, ma poi si sforzò di sorridere. Dopotutto era solo un bocconcino, quello che aveva dovuto mandare giù in quel momento. «Naturalmente» acconsentì, giudiziosa.

I due rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre la tensione e l’imbarazzo tornavano a crescere tra loro. La principessa si ritrovò più volte a guardare di soppiatto il suo compagno, sperando che lui prendesse in mano le redini del discorso, ma Zeru sembrava a disagio tanto quanto lei.

«Ehm» iniziò il soldato, quando il silenzio iniziò a farsi troppo pesante. «C’è qualcosa che vuoi fare, in particolare? Qualcosa di cui desideri parlare?»

Marai aprì la bocca, ma poi la richiuse subito. Erano tante, le cose che avrebbe voluto chiedergli, tante le curiosità alle quali avrebbe voluto dare risposta, ma, in quel momento, la sua mente rimase completamente e desolatamente vuota. C’è qualcosa che voglio fare? No, non c’era niente di particolare che voleva fare, date le sue condizioni. Si sentiva ancora troppo debole per andare a passeggiare nelle stalle o per sgattaiolare in giardino e riprendere i suoi esperimenti e le sue osservazioni. Sapeva che quel particolare, piccolo goblin ricoperto di una peluria ramata che, ne era certa, stava iniziando a interagire con lei non si sarebbe fatto vedere, se il capitano fosse stato nei paraggi.

Che cosa posso fare?

Che cosa poteva fare, per non rimanere di nuovo sola con Wenza? Improvvisamente, la ragazza fu colta da un’idea: un’idea che la rattristò, ma che, allo stesso tempo, le parve anche innegabilmente giusta.

«Una cosa ci sarebbe» disse, allora, cercando gli occhi di Zeru. «Vorrei salutare per un’ultima volta Arina. Prima che… prima che venga cremata.»

Dalla sua espressione, Marai capì che il capitano non si era aspettato una richiesta di quel tipo, ma l’uomo annuì. «Va bene: chiederò a Wenza di portarti degli abiti più adatti, poi ti accompagnerò. Dovrei chiedere il permesso a Padre Tyban, però…»

«No!» la fanciulla si protese verso di lui, allarmata. «No, non devi dirlo a Wenza: non mi lascerebbe mai uscire dalla mia camera. Ha paura che sia ancora troppo debole – il che è una sciocchezza, posso ovviamente camminare per cinque minuti. E meglio non dire niente nemmeno a Padre Tyban: non si sa mai.»

«E allora che facciamo?» chiese Zeru, guardandola con gli occhi un po’ socchiusi, quasi sospettoso.

«Vieni qui dopo che avranno servito la cena» lo istruì la ragazza, provando un brivido di eccitazione alla prospettiva di infrangere una piccola regola. «A quell’ora mi lasciano sempre da sola, quindi non si accorgeranno mai che ho lasciato la stanza.»

«Un piano geniale» commentò l’uomo, alzando gli occhi al cielo.

Anche se era evidente che la stava prendendo in giro, Marai sorrise, deliziata dal luccichio divertito che lesse negli occhi del soldato.

«Ci vediamo dopo cena, allora?»

Zeru scosse il capo, poi sorrise, quasi con accondiscendenza: «Ci vediamo dopo cena, principessa.»

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