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Pairing: Daichi x Suga
|Asahi x Noya |(in più piccola parte anche IwaizumixOikawa|KageyamaxHinata).
Parte: 1/3 (sebbene
la storia nasca e si sviluppi come unica e sia divisa solo per comodità).
Avvertimento: Soulmates!AU
in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
|Angst| Moltoangst| Sebbene siano vicende nuove, la
storia nel suo continuum e contesto è legata alla prima soulmate
di questa raccolta, che può essere letta qui.
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie, come sempre, alla
mia Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia e beta tutto quello che
scrivo.
Just a little late
(you found me).
Parte prima
Nempe tenens quo amo[…]
per freta longa ferar:
nihil illumamplexaverebor aut, siquidmetuam, metuam de coniuge solo.
Daichi
riusciva a trovare rilassante l’andare in bicicletta, anche se si trattava di
farlo per tornare a casa dopo gli allenamenti di pallavolo: in qualche modo
scaricava, pedalando, l’adrenalina che inevitabilmente accumulava agli
allenamenti o durante le partite di prova, quindi lo faceva volentieri, soprattutto
se i tramonti erano caldi e poteva andarsene con calma, guardando magari quello
che lo circondava.
«Daichi! Hey, Daichi!».
Il capitano della Karasuno
accostò sentendosi chiamare: voltandosi, notò che poco dietro di lui era
comparsa la sagoma di Nishinoya, anche lui in
bicicletta, che si sbracciava, tenendo il manubrio con una sola mano. Il Libero
lo raggiunse velocemente e si fermò riprendendo fiato per quell’accelerata.
«Non dovresti guidare con una sola mano», lo
rimproverò quello bonariamente il Capitano, mentre con un cenno della mano lo
salutava. Noya si grattò la nuca in imbarazzo: Daichi sapeva essere spaventoso quando si arrabbiava, ma
era solitamente calmo e protettivo in una maniera che faceva stare tutti bene,
silenziosa e onnipresente. Era facile considerarlo un fratello maggiore: si
faceva volere bene con la sua semplice presenza.
«Volevo raggiungerti quanto prima», si
giustificò «E non ti fermavi, quindi dovevo farmi vedere».
Daichi
scosse appena la testa: aveva perso ormai da tempo la speranza di mettere un
po’ di buonsenso in quella testa vuota e ormai il modo di fare spericolato di Noya era diventato anche per lui abituale – in fondo, era
parte della sua indole da Libero e, si rendeva conto, non avrebbe voluto che
cambiasse.
«Facciamo la strada assieme?», gli aveva intanto
chiesto il ragazzo, montando di nuovo in sella e dando l’impressione di non
riuscire a star fermo per un attimo – Daichi non
poteva fare a meno di notare che era anche per questo che Noya
pareva andare tanto d’accordo con Hinata, sebbene non
si conoscessero da molto.
«Perché no?». Montò anche lui nuovamente in
sella e presero a pedalare con calma, Noya che
provava a star tranquillo e al passo del capitano e Daichi
fiero del suo ruolo di leader.
Stavano discutendo del più e del meno quando
successe; col senno di poi nessuno dei due si sarebbe ricordato di quegli
istanti, tanto fu improvviso ciò che accadde. Non lo videro, non se ne resero
conto. Daichi aveva l’abitudine, quando non era solo,
di camminare o pedalare all’esterno, in una sorta di posizione protettiva rispetto
a chi gli era accanto, ma quella volta era Noya a
frapporsi fra lui e la strada. Forse fu per questo che non se ne accorse – la
guardia bassa, la stanchezza degli allenamenti, la visuale per metà bloccata
dal Libero. Guardava avanti mentre parlava, Daichi,
quando all’improvviso Noya gli fu addosso. Non capì,
davvero non ebbe tempo di realizzare che cosa stesse succedendo. Un attimo
prima pedalavano tranquillamente insieme, quello dopo erano entrambi finiti in
una scarpata – che costeggiava la carreggiata lungo cui stavano camminando –
perché una macchina andando ad alta velocità non li aveva visti ed aveva
tagliato loro la strada.
Sentirono solo il peso dei loro corpi che si
colpivano, la sensazione di non avere più terra sotto i piedi. Poi lo schianto
ed il buio. Non ci fu tempo neanche per il dolore. Forse fu un bene.
***
Hinata aveva
insistito per allenarsi ancora, sebbene ormai fosse quasi sera: non era una
novità, la sua, e ormai il professor Takeda si fidava
abbastanza da lasciare a qualcuno del terzo anno – se partecipava a quegli
straordinari – o a Kageyama le chiavi della palestra
quando non poteva aspettare che la giovane Esca finisse. Solitamente, Sugawara era felice di restare con loro anche solo per
guardarli allenarsi: gli piaceva vederli tanto affiatati, recuperare il tempo
che non avevano passato insieme. Di tanto in tanto partecipava anche lui: stava
diventando bravo a capire Hinata ed essere in campo
con Kageyama si sarebbe potuto rivelare più utile di
quanto potessero pensare in futuro, quindi un po’ di allenamento extra non
avrebbe fatto male neanche a lui.
Quella volta osservava. Aveva alzato un paio di
volte ad Hinata e eccezionalmente anche Kageyama aveva voluto provare a schiacciare, mentre adesso
era il turno della loro personale veloce.
Era sempre uno spettacolo vedere quanto potevano essere precisi e rapidi
nell’esecuzione: Suga già immaginava che, una volta che Hinata
fosse stato in grado di direzionare il colpo a suo piacimento, quella sarebbe
stata la loro arma segreta, imprendibile ed invincibile. La Karasuno
stava rinascendo ed era così fiero di poter vedere i corvi spiccare di nuovo il
volo.
L’alzatore, ancora a bordo campo, portò
istintivamente una mano al petto – un paio di battiti erano come saltati,
accavallandosi, spezzandogli il fiato. Suga trasse il respiro a vuoto più di
una volta prima di riuscirci davvero e mantenendo gli occhi spalancati vide il
cambiamento in atto in tutte le sue fasi. Fu come una lampadina tremula che ad
intermittenza annuncia la sua prossima fine, se non fosse stato che in lui era
completamente il contrario: ad intermittenza, nei suoi occhi, i colori
annunciavano la nascita del legame e il ragazzo avrebbe potuto scommettere la
propria vita che era con Daichi.
Quando finalmente tutto si stabilizzò, quando
Suga riuscì a distinguere le sfumature chiassose che aveva intorno, si accasciò
sulle ginocchia per lo shock improvviso.
«Suga!». Hinata corse
verso il ragazzo, mentre Kageyama gelava sul posto
prima di seguire il compagno. Shouyou gli si inginocchiò accanto, spaventato, chiamandolo
ma senza sapere bene che cosa fare finché non fu il più grande a rassicurarlo,
mettendogli una mano sulla spalla ed usando il suo aiuto per alzarsi.
«Va tutto bene, Hinata,
va tutto bene», sussurrò – tremava, tremava per tutto quello che ogni
gradazione nella stanza significava. «Io… li vedo. Vedo i colori». Le parole
soffocarono in gola e gli occhi si riempirono di lacrime che lentamente
scivolarono sul suo viso appena pallido. Suga non riusciva ancora a realizzare del
tutto quello che stava accadendo: era vero, era finalmente vero! Il suo legame,
il legame con Daichi… lui aveva un legame con Daichi ora! Un legame come gli altri, un legame che li
avrebbe riconosciuti come coppia, che avrebbe finalmente tolto la tristezza e
le incomprensioni e la malinconia e…
In tutta quella gioia, nonostante tutta quella
gioia, Suga lo avvertì. Distante, appena percettibile, uno strano dolore.
Cos’era? La possibilità di perdere qualcosa che finalmente esisteva? La
possibilità che tutto tornasse come era stato prima – o peggio – proprio ora
che le cose erano cambiate? No… era qualcosa di più profondo di quell’istinto,
qualcosa che il ragazzo faticava ad identificare, che a dirla tutta non aveva
voglia di comprendere. Era felice, felice
davvero dopo anni. La meritava quella felicità, la meritava con tutto se
stesso e la voleva più di qualunque altra cosa. Ignorò la sensazione distante,
i pensieri negativi, l’istinto: si concentrò solo sul bene che sentiva, sui
colori che vedeva.
Gli occhi brillanti di Hinata,
appena velati delle sue stesse lacrime, furono una visione bellissima. Suga lo
strinse a sé con tutta la forza che aveva, con tutta la gioia che provava e che
anche il più piccolo sentiva: s’erano legati così tanto in quei mesi che gioivano
e soffrivano delle stesse cose; Hinata sapeva fin
troppo bene che cosa significava e tratteneva a stento la contentezza – neanche
la sua situazione a metà sporcò quel momento. Kageyama,
di natura meno espansivo, sorrideva quasi incantato, con una mano a stringere
la spalla di Suga e godendo della gioia comune.
Forse, in fin dei conti, le cose potevano andare
bene per tutti. Forse, bastava non perdere la speranza.
***
Asahi aveva da poco messo piede in casa. Aveva
salutato i suoi, rubato qualcosa dalla cucina facendo attenzione che sua madre
non lo vedesse, ed era salito in camera sua: era distrutto dagli allenamenti e
dalle lezioni, dalla pesantezza dell’intera settimana e non sarebbe riuscito a
tenere la testa dritta a tavola neanche volendo. S’era messo a letto, avendo
giusto la forza di togliersi pantaloni e camicia e, mangiucchiando qualcosa,
aveva preso a fissare il soffitto, perso nei più diversi pensieri.
Con le eliminatorie del Torneo Primaverile che
si avvicinavano, le cose tornavano a farsi serie per la Karasuno:
era il momento della rivincita e avrebbero dovuto impegnarsi a fondo per mettere
a punto nuovi colpi e nuove tattiche si volevano riscattarsi della sconfitta
all’Inter High. Il ragazzo sospirò:
non era il capitano, ma come Asso anche lui aveva una grossa responsabilità
verso la squadra e doveva tenere alto il loro morale, essere in grado di
segnare, sempre, di portarli alla vittoria. Suga e Daichi
sembravano nati per quel ruolo: il capitano era una tacita sicurezza di avere
le spalle coperte, mentre l’esperienza dell’alzatore gli permetteva di essere
accurato negli schemi di gioco e prevedere le reazioni degli avversari per
poter così fare subito punto.
E lui? Era diventato Asso quasi in maniera
implicita, per convenzione, come un meccanismo avviato da sé, e per quanto
ormai sentisse suo quel ruolo e lo volesse davvero, non riusciva a scrollarsi
di dosso la sensazione di dover fare di più. Forse era per via di Kageyama ed Hinata, due primini
che non facevano altro che migliorarsi; alle volte temeva che sarebbe caduto
nella facile tentazione di nascondersi dietro le veloci, fingendo che andasse bene così, che la squadra avesse già
tutto. Sapeva invece che doveva farsi valere – la squadra sarebbe stata forte
solo se avessero combinato tutte le loro armi e i loro colpi migliori.
Asahi si chiese come facesse Suga a gestire
quella situazione, dal momento, poi, che non era più titolare. Lo ammirava:
insieme a Noya, lui era quello a cui guardava di più
in squadra, quello da cui avrebbe voluto imparare più cose.
Tutto cominciò con un lontano fastidio
all’altezza dello stomaco, qualcosa a cui Asahi cercò di non fare caso, dando
la colpa all’aver mangiato stando sdraiato. Non ebbe, però, che qualche istante
per illudersi che non fosse nulla: il fastidio si trasformò in dolore e il
dolore salì fino all’altezza del petto. Asahi smise di respirare e spalancò gli
occhi – il male era così forte che questi si velarono di lacrime, ma il ragazzo
non fu in grado di gridare tanto era lo shock.
Cosa… cosa gli stava succedendo? Stava avendo un
infarto, stava morendo, doveva chiamare aiuto? Come… come si chiamava aiuto?
Come si muovevano i muscoli…? Il ragazzo sentiva di non poter fare nulla, di
non essere in grado neanche di respirare. Il dolore era lancinante, era
ovunque, gli occupava ogni pensiero come ogni fibra del corpo, tanto che Asahi
non aveva più coscienza di quello che lo circondava. Non pensava, non poteva,
gli era impossibile.
Eppure, in quel assoluto nulla fatto solo della
percezione del dolore, Asahi seppe che non dipendeva da lui: non si trattava di
ragionare ma di istinto, di una verità semplice ed assoluta come la gravità –
non era davvero lui a stare male.
«YUU!».
Fu il primo pensiero che la sua mente riuscì di
nuovo a formulare, la prima cosa che la sua bocca riuscì a gridare. Ne fu
consapevole nell’istante in cui si sentì gridare: Noya
stava male, era suo quel dolore, suo quel pericolo. Bloccato in quel letto, con
le lacrime che ormai gli rigavano il viso, Asahi sentì l’opprimente sensazione
che lo avrebbe perso, che era successo qualcosa di tremendo, di potenzialmente
irreparabile.
Ed io
non sono con lui.
I compagni
morivano. Era il ciclo della vita, la morte non risparmiava neanche loro –
perché avrebbe dovuto? I compagni
morivano e quando accadeva non c’era sensazione peggiore che chi era loro
legato potesse provare. Accadeva una sola volta nella vita ed era un po’ come
la morte stessa, un suo anticipato saggio, uno spegnersi a metà. Asahi lo
sapeva, aveva visto com’erano gli occhi delle persone che avevano perso i
propri compagni – qualcuno andava avanti per inerzia, come vivono le piante,
aspettando il nuovo giorno senza pretese, un po’ sperando di non vederlo di
nuovo; altri ci provavano ad avere una nuova vita, qualcuno accanto, ma non funzionava
mai davvero. Era drammatico il destino.
Asahi era sempre stato il tipo di persona che
pensa al peggio. Si diceva che fosse per preparasi:
abituarsi al peggio per gioire nel caso, invece, andasse bene. La realtà era
che forse aveva paura: di soffrire, di restare deluso, di non riuscire a
dormirci la notte. Aveva paura di tutto Asahi perché aveva paura di fare
costantemente la mossa sbagliata e perdere, di far soffrire chi gli era accanto
– non l’avrebbe sopportato; per questo alle volte rinunciava, per questo aveva
smesso di giocare a pallavolo.
C’aveva pensato, la prima volta, pochi giorni
dopo aver stretto il legame con Noya. Erano usciti
insieme, semplicemente per fare una passeggiata e Yuu
aveva riso tanto, facendolo ridere a sua volta. Erano stati bene, così
dannatamente bene che Asahi avrebbe voluto che non finisse mai; quando s’erano
salutati, Noya lo aveva tirato a sé, cogliendolo di
sorpresa e sfiorandogli appena le labbra, prima di augurargli la buonanotte e
rientrare con una certa velocità. Asahi era rimasto senza parole a fissare la
porta di casa dietro cui era scomparso, imbambolato forse anche per qualche
minuto prima di realizzare che magari sarebbe stato meglio andare via. In quel
preciso istante aveva pensato che stava bene, troppo bene. Che se fosse
successo qualcosa a Noya lui sarebbe stato
semplicemente perduto.
Ma era stato un pensiero occasionale, nulla di
concreto. Yuu era così pieno di vita e di energie,
così instancabilmente attivo come persona e come Libero che davvero Asahi non
s’era mai preoccupato realmente per lui. Stava troppo bene e così anche la sua
naturale paura spariva quando gli era accanto. Lo rendeva forte come lui stesso
non aveva mai creduto di essere.
Ma ora stava succedendo davvero, ora Noya stava talmente male che Asahi lo sentiva, come se gli
stessero aprendo il petto per strappargli il cuore dall’interno e nello stesso
tempo gli tenessero una mano bloccata sulla gola per impedirgli di respirare.
Ora l’istinto, il legame che aveva col suo compagno
reagiva di contrappeso all’immobilità dello shock e del dolore e il ragazzo
lottava per riprendere possesso dei suoi sensi e del suo corpo, per alzarsi,
per fare una qualunque cosa che potesse fargli capire cosa stava succedendo a Noya.
«Ti prego… ti prego… ti prego», sussurrava,
mentre riacquistava coscienza dei suoi arti e cercava di slanciarsi dal letto
«Ti prego, non puoi… non puoi lasciarmi… Non così, non adesso, non tu… Ti
prego…». La pressante sensazione che sarebbe stato troppo tardi martellava
nella sua testa. Che avrebbe fatto se fosse successo? Se all’improvviso anche
quel dolore immenso fosse sparito lasciando un vuoto enorme, sancendo la fine
di ogni cosa? No, no, no, lui quel dolore lo voleva! Lo voleva sentire tutto,
se sentirlo significava che aveva ancora una speranza di capire che cosa stava
succedendo e magari rimediare. Lo avrebbe raggiunto, magari salvato, avrebbe
fatto qualcosa di davvero buono per una volta.
Si gettò dal letto con non seppe quale forza. Il
resto fu inutile: il male oscurò ogni altra cosa, portandolo all’incoscienza.
***
I corridoi degli ospedali, agli occhi di Hinata, erano sempre parsi tutti uguali: bianchi, pieni di
porte, pieni di camici e di tanto in tanto pieni di gente che andava e veniva,
più o meno tutta con la stessa faccia smorta o sconsolata. Erano anonimi quelli
che gli passavano davanti, anche in quel momento: il ragazzo non riusciva a
fissare nella sua testa le loro facce, pur guardandoli attentamente, al limite
della sfacciataggine. Non sapeva che fare, Hinata,
che dire, in che modo porsi in quell’ambiente. Se ne sentiva estraneo, eppure
era stato risucchiato da esso con una velocità che gli faceva paura, che lo
destabilizzava. Come un muro troppo alto. Ora non riusciva a vedere dall’altro
lato.
Kageyama era
accanto a lui, dritto, con la testa appena appoggiata al muro che avevano alle
spalle. Non aveva detto nulla, non era riuscito a parlare da quando avevano
saputo. Nessuno aveva parlato in realtà: Suga aveva appena balbettato qualcosa.
Poi erano corsi: Kageyama ricordava vagamente il
percorso che avevano fatto, come erano arrivati davanti all’ospedale; da quando
s’erano seduti, in attesa, ogni istante s’era susseguito uguale a quello
precedente, in un’immobilità che lo disorientava. Che si faceva in questi casi?
Che si diceva? Tobio non poteva fare a meno di
pensare, egoisticamente, a come avrebbe reagito se una cosa del genere fosse
successa a lui, se mai Hinata…
Io non
l’avrei sentito.
Quel pensiero, da nulla, gli rimbombò nella
mente vuota e ancora sotto shock e fu assordante per l’eco che si lasciò
dietro. Kageyama abbassò la testa, sgranando gli
occhi. Era così. Era davvero così. Loro… lui… se fosse successo qualcosa ad Hinata non lo avrebbe mai saputo. Persino Suga, in cui il
legame s’era creato da pochissimo, aveva capito che qualcosa non andava. Ma
lui… lui, in fondo, quel legame con Hinata non lo aveva
affatto. Tobio non sapeva dare un nome alla
sensazione che provava, ma non la voleva. L’avrebbe cancellata dal suo petto se
avesse potuto, se solo fosse stato in grado di spazzare via tutto quanto…
La giovane Esca della Karasuno
gli prese la mano. Kageama sussultò guardandolo di
scatto: s’era accorto che stava male? Hinata pareva
avere gli occhi ancora più grandi perché brillavano per un velo di lacrime che
li copriva e Tobio non sapeva che cosa dirgli, come
consolarlo – era evidente che anche lui stesse male. Le parole però non
uscirono: restarono a guardarsi, le mano che si stringevano fra loro per darsi
forza.
Suga invece era solo. Lo aveva fatto in
automatico: aveva lasciato un posto vuoto fra sé e i due primini quando s’erano
seduti in corridoio. Non li voleva accanto. Non perché ce l’avesse con loro in
qualche modo, anzi, ma sentiva di dover stare da solo, di doversi isolare per
capire che cosa stava effettivamente succedendo. Suga aveva smesso di vivere
nel momento in cui una voce a lui del tutto sconosciuta aveva risposto al
telefono di Daichi.
Lo aveva chiamato. Aveva insistito diverse
volte, imputando la mancata risposta alle più stupide ragioni: doveva sentire
la sua voce, gridargli che vedeva i colori, che finalmente era successo! Doveva
dirgli di correre da lui, ovunque fosse o che magari sarebbe corso lui, ma che
dovevano assolutamente vedersi, perché dovevano guardarsi negli occhi e
scoprire le sfumature dei loro corpi e di tutto quello che stava loro intorno:
il mondo finalmente li aveva accettati, perché Daichi
non rispondeva?
Quando finalmente il lungo rumore ad
intermittenza aveva smesso, segnando che la chiamata aveva avuto risposta, Suga
era stato un fiume in piena di “Daichi, li vedo! Daichi vediamo i colori! Daichi!”.
Il freddo non era mai stato tanto forte come nel momento in cui una voce
inaspettata, adulta, seria gli aveva risposto.
«Lei è un amico o un parente?».
Così aveva saputo tutto. E nell’istante in cui
aveva capito, gli era stato chiaro anche perché il legame aveva fatto male sin
da subito: Daichi era stato in pericolo forse
nell’istante stesso in cui s’era creato il legame, forse lui aveva visto i
colori proprio per questo, perché gli annunciassero il pericolo. Koushi aveva ignorato quella sensazione perdendosi nel
nuovo mondo che gli si era aperto davanti ed ora ne stava pagando le
conseguenze.
Dal momento in cui aveva capito come stavano
davvero le cose, aveva smesso di vivere. S’era guardato da fuori balbettare
qualcosa ad Hinata e Kageyama
che, di certo a causa dell’espressione del suo viso – forse stava piangendo? –,
parevano davvero preoccupati; poi s’era visto correre, accompagnato dai due
amici, fino all’ospedale dove l’uomo al telefono aveva detto che erano stati portati ed aspettare lì.
Ah, sì, Daichi non era
il solo ad essere stato portato in ospedale. Con lui c’era anche Nishinoya.
La mente di Suga percepì vagamente l’arrivo di
altre persone, ad un certo punto della serata. S’accorse che accanto a lui
s’era seduta la madre di Daichi, che forse gli aveva
parlato per un po’, prima di accorgersi che lui davvero non aveva la forza di
ascoltarla; più in là gli pareva di aver sentito anche altre voci: le
riconosceva, gli erano parse quelle dei ragazzi, ma gli occhi non ce la
facevano a mettere a fuoco, la mente non aveva alcuna voglia di registrarli
perché poi avrebbe dovuto parlare con loro e sforzarsi di essere qualcuno che,
in quel momento, non c’era, non esisteva, che aveva smesso di vivere. Suga si
sentiva così: completamente estraneo a se stesso, inesistenze.
I colori brillavano forti nei suoi occhi e lui
non sapeva che farsene.
«…Suga».
Koushi non
seppe perché, ma a quella voce si riscosse. Girò di poco il capo verso destra e
Asahi era lì. La mente riprese ad accumulare dati, come una macchina: il
ragazzo era pallido in viso e i capelli sciolti che scendevano senz’ordine gli
davano un aspetto sciatto e trascurato; le labbra erano smorte e gli occhi
arrossati come se avessero pianto tanto; aveva addosso il pantalone di una tuta
ed una maglietta larga e se ne stava con la testa infossata nelle spalle e
l’aria più angosciata che potesse avere. Il ragazzo si chiese se anche lui
avesse un aspetto simile.
Sospirò e senza rendersene conto, poggiò la
propria testa contro la spalla dell’amico. D’improvviso tutto ciò che non era
riuscito a provare da quando era arrivato gli stava piombando addosso, come una
frana che travolge ogni cosa al suo crollo.
«Che cosa sta succedendo, Asahi?». Il sussurro
era flebile e rassegnato.
«Staranno bene. Devono stare bene. Non possono…
loro non posso-».
La voce di Asahi era spezzata e pareva ripetere
quelle parole come una cantilena senza senso. Suga non sapeva che il ragazzo
aveva continuato a soffrire anche quando era caduto nell’incoscienza e che
quando i suoi genitori lo avevano trovato in quello stato ed erano riusciti a
farlo rinvenire, lui aveva gridato di dover andare in ospedale, perché sapeva
che Noya sarebbe stato lì. Per tutto il tragitto aveva
tremato dal dolore ed aveva continuato a ripetere che Yuu
stava bene, che era solo una reazione esagerata dovuta alla sua paura di
perderlo. Quando però avevano scoperto che anche Daichi
era rimasto coinvolto nell’incidente e che stavano operando entrambi, qualcosa
dentro di lui s’era spezzato: non era riuscito a fare altro che sussurrare che
sarebbero stati bene, come una nenia senza più significato. Andava avanti da
allora.
«Da quanto tempo…?».
Suga lo guardò sperando che capisse il resto: da quanto tempo sono dentro? Da quanto tempo
non abbiamo loro notizie? Da quanto tempo fa male? Da quanto tempo…? Asahi
lo guardò interdetto, non per la domanda ma perché avesse bisogno di chiederlo.
«Scusami, io…».
Gli occhi dell’alzatore si riempirono di
lacrime: non aveva prestato attenzione perché farlo faceva troppo male, perché
realizzare che Daichi sarebbe potuto morire proprio
mentre avevano visto i colori era qualcosa che lo lasciava senza fiato, che
prendeva al petto, che lo rendeva folle. Il Destino, il Fato, la Sorte o chi
per essi non poteva accanirsi tanto contro di loro, non poteva essere tanto
sadico.
All’Asso bastò quello sguardo per capire che era
successo. E capire gli diede accesso al dolore di Suga, un dolore diverso da
suo e allo stesso tempo tristemente simile. Il dolore dei compagni. Se avesse potuto sentire più male di così lo avrebbe
fatto, per il modo in cui Suga soffriva, per la storia che aveva con Daichi, per il modo in cui aveva scoperto che cosa voleva
dire essere legato per tutta la vita a qualcuno.
«Io ci ho messo tempo ad arrivare, ma mi hanno
detto che li hanno portati qui più di un’ora fa», rispose.
Poi allungò un braccio a stringere le spalle
dell’amico. Cercava di fargli forza? O forse di far forza a se stesso
attraverso quel contatto? Nessuno dei due se lo chiese perché entrambi ne
avevano bisogno e le ragioni del gesto non avevano alcuna importanza.
«Sai», sussurrò ad un tratto Asahi «Io non
ricordo… io non ricordo quali siano state le ultime parole che gli ho detto».
Suga chiuse gli occhi, respirando appena. Se ne
avesse avuto la forza, lo avrebbe rassicurato: lui ricordava perfettamente le
ultime parole che aveva detto a Daichi, ma questo non
cambiava assolutamente nulla.
Passò ancora un po’ prima che i medici uscissero
dalla Terapia Intensiva. Erano in due, in camice e mascherina e gli occhi, si
trovò a pensare Suga, non erano affatto rassicuranti. Mentre li guardava
avvicinarsi, il ragazzo si rese conto di quanta gente effettivamente c’era
attorno a lui: i genitori di Daichi e quelli di Noya ovviamente, poi il padre di Asahi che doveva averlo
accompagnato e praticamente tutti i membri della Karasuno.
I medici si avvicinarono ai genitori dei ragazzi
feriti e parlarono sommessamente ma con fermezza. Suga e gli altri cercarono di
prestare attenzione a quello che dicevano, sebbene non avrebbero dovuto: fortunatamente
c’era silenzio nel corridoio e le parole erano comprensibili, anche così.
«Il più grande», stava dicendo uno dei due,
rivolto ai genitori di Daichi «Aveva un paio di
costole incrinate, diversi lividi ed abrasioni ed una commozione celebrale. Lo
terremo in coma farmacologico ed aspetteremo ventiquattro ore sperando che il
trauma si riassorba da solo; in caso contrario, dovremo operare».
«L’altro ragazzo invece ha riportato ferite meno
serie: ha un braccio rotto, lividi ed abrasioni. Abbiamo dovuto anestetizzarlo
per suturare alcuni tagli più grandi all’addome, ma lo porteremo in camera a
breve. Dovrà fare riabilitazione, ma sono fiducioso che possa avere una
completa guarigione», concluse il secondo chirurgo, rivolgendosi all’altra
coppia di genitori.
Quando questi si allontanarono, i genitori di Daichi si strinsero l’un l’altro per farsi forza, mentre
quelli di Nishinoya s’avvicinarono alla porte della
Terapia Intensiva, in attesa che il ragazzo uscisse – non sembrava esserci
nulla di più importante, in quel momento, che poterlo di nuovo vedere, avere un
contatto che fosse fisico con lui: quella separazione era stata straziante.
Nessun compagno, nessun legame avrebbe
potuto eguagliare quello che i genitori hanno con i figli, nessuna sofferenza
sarebbe potuta essere grande come la loro, in quel momento.
Asahi non si mosse. Con ancora il corpo di Suga appoggiato
al suo, non raggiunse la porta della Terapia Intensiva, non provò neanche ad
andare con i genitori del suo compagno.
Suga era troppo stanco, troppo ferito e stravolto per rendersi conto di quanto,
al di là della sofferenza, Asahi fosse nervoso: si torturava le mani e teneva
le testa bassa. Se non fosse stato male anche lui, Koushi
avrebbe immediatamente realizzato quello che stava per succedere. Invece, non
lo vide affatto.
***
«Avresti dovuto dirmelo ieri sera».
Oikawa
camminava con passo veloce mezzo metro avanti Iwaizumi,
per quanto quella posizione gli costasse, per sottolineare quanto fosse
arrabbiato. Hajime cercava di stargli dietro come
poteva, mentre continuava a minimizzare l’accaduto.
«Non era così forte ieri sera! È peggiorato
durante la notte… Non c’era motivo per chiamarti, non avremmo potuto comunque
far nulla fino a questa mattina».
«E questo chi lo dice? Saremmo venuti
immediatamente in ospedale, sarebbe bastata una tua parola!».
Tooru
trattenne il fiato: dirlo ad alta voce gli costava davvero tanto e conosceva Iwaizumi abbastanza da sapere che ne era consapevole anche
lui; eppure, sottolinearlo era un modo per fargli capire quanto avesse
sbagliato a non parlargli del male che stava sentendo dalla sera precedente e
che, ovviamente, era legato a KageyamaTobio. No, Oikawa non odiava quel ragazzo, probabilmente non lo aveva
mai fatto, e da tempo aveva accettato quella situazione: avrebbe sempre fatto
parte della vita di Iwaizumi e non sarebbe stato lui
ad impedirlo. Ma non poteva farci nulla: sapere che il suo ragazzo stava male a causa di un altro lo irritava, soprattutto
perché Hajime era ancora più silenzioso di quanto non
fosse di solito quando si trattava di Tobio.
«Vuoi fermarti un secondo, per favore?».
Oikawa
scattò – Iwaizumi era quasi senza fiato. Si
guardarono negli occhi e Hajime provò a sorridere: durante
la notte aveva sentito chiaramente che qualcosa non andava, Tobio
aveva avuto paura, stava affrontando qualcosa che lo preoccupava molto e quelle
sensazioni negative si erano riflettute su di lui, togliendogli il fiato; ma
ora stava meglio – Kageyama s’era calmato almeno un
po’ e sentire la sua voce che lo rassicurava in qualche modo era servito a far
dissipare almeno in parte il macigno che sentiva sul petto.
«Sto bene», disse – Oikawa
si prese qualche istante per guardare quelle labbra tirate su come a volerne
registrare ogni singolo frammento. Era un sorriso tutto suo quello ed era uno
dei migliori di Iwaizumi, proprio perché appena
accennato ed estremamente sincero.
«Tu capisci che se non me lo dici, io non ho
modo di saperlo davvero?». Oikawa era serio come poche altre volte. Il tono era stato
basso e fermo.
Hajime
annuì. Non voleva tagliarlo fuori, non era mai stata sua intenzione: credeva
davvero che fosse qualcosa di minimo, che poteva attendere, che sarebbe stato
inopportuno allarmare Oikawa durante la notte. E
forse… forse per una volta avrebbe voluto risparmiargli una nuova conversazione
riguardante, in qualche modo, Tobio. Non perché
volesse tenerlo al di fuori, ma perché, checché ne dicesse Tooru,
quando Hajime parlava di lui qualcosa s’offuscava nei
suoi occhi. Non poteva farci nulla, nessuno poteva, e allora, per una volta, Iwaizumi voleva risparmiarlo ad entrambi quel velo di
malinconia. A quanto pareva, aveva finito per far peggio.
Appena entrati in ospedale, Iwaizumi
si mosse con la stessa sicurezza che lo aveva condotto da Kageyama
la prima volta che s’erano visti, nella palestra in cui si stava disputando l’Inter High. Attraverso corridoi che
vedeva per la prima volta, cercò il suo compagno,
mosso praticamente dall’istinto, ma consapevole della presenza di Oikawa alle sue spalle.
Quest’ultimo lo seguiva senza parlare, finché
non gli parve di notare, in un corridoio laterale, una figura che conosceva. Si
fermò per qualche istante, guardando senza essere visto e si accorse di avere
ragione: UshijimaWakatoshi,
accompagnato da alcuni ragazzi della Shiratorizawa,
aveva appena svoltato nel suo stesso corridoio, ma andando nella direzione
opposta non lo aveva notato. Pensò che fosse strano trovarseli lì e l’astio che
solitamente provava per il Capitano stavolta si sostituì ad un vago senso di
allarme, come se ci fosse qualcosa fuoriposto in
quella scena ma non fosse in grado di stabilire cosa.
Iwaizumi,
intanto, s’era accorto dell’assenza del ragazzo ed era tornato indietro
abbastanza in fretta da vedere la stessa scena e riconoscere le stesse persone.
«Cosa credi che stiano facendo qui?», chiese Oikawa, mentre riprendeva a camminare.
Ad Oikawa, però, ci
volle un po’ per scrollarsi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di
strano in quella situazione.
Quando trovarono finalmente Tobio,
questi sembrava dormire, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata alla spalla
della piccola Esca della Karasuno, che invece li
aveva visti arrivare. Si guardarono per qualche istante, forse indecisi sul da
farsi o magari solo per rendersi conto di quella situazione – abituale ormai,
per le diverse volte in cui s’erano visti, ma in cui non s’erano mai davvero
sentiti a proprio agio. Quando Shouyou pensò di
svegliare Kageyama, il ragazzo si mosse, sulla sua
spalla, ed aprì lievemente gli occhi.
«Hajime?», chiamò, con
voce bassa per il sonno, mettendo a fuoco ciò che aveva di fronte. Qualcuno un
po’ più sentimentale, avrebbe detto che lo aveva sentito.
«Hey», lo salutò questi, inclinando appena il
capo e sorridendo «Mi hai spaventato, stanotte».
Kageyama si
mise immediatamente dritto. L’aveva…? Oh. Non ci aveva pensato. Non subito
almeno: era successo tutto così all’improvviso e poi l’attesa gli era sembrata
interminabile… non sapeva davvero che cosa stesse succedendo o provando… Quando
lo aveva chiamato era stato quasi un istinto e, ora che ci pensava, non
ricordava bene neanche che ora fosse. Aveva solo voluto sentire la sua voce.
«Mi dispiace», disse, alzandosi «Non credevo che
potessi sentire anche una cosa del genere… io… avrei dovuto avvisarti prima.
Non ci ho pensato, è stato tutto-».
«Hey, hey, calmati. Non ti stavo rimproverando.
Ad ogni modo, mi fa piacere che tu stia meglio: significa che le cose non sono
peggiorate».
Quando si trattava di Kageyama,
Oikawa notò che Iwaizumi era
protettivo come non l’aveva mai visto prima: era spontaneo nei movimenti e
nelle parole, rassicurante, quasi emanasse un’aura di tranquillità che in
qualunque altro caso non era così evidente, alle volte neanche con lui. Di
solito la sua calma era silenzio, riflessione, quasi mai si tramutava in
qualcosa di attivo. Si chiese, il capitano dell’Aoba,
se quel ragazzino sapesse quant’era fortunato.
Hinata,
invece, aveva visto che Kageyama era estremamente
aperto con quel ragazzo: s’era scusato ed aveva parlato con una libertà che
solitamente non si concedeva, o che forse proprio non sapeva di avere. Di
solito capirlo era difficile e lui stesso era sbattuto contro quel muro molte
volte prima di comprendere davvero come funzionavano le cose con lui. Ma con
l’Asso dell’Aoba tutto scorreva naturale e Shouyou alle volte pensava di non poter far altro che
osservarli.
«Come stanno i vostri amici?». Oikawa aveva parlato guardando proprio Hinata,
passando oltre, fingendo di esserci abituato.
«Nishinoya sta bene,
tutto sommato – ha un braccio rotto, ma nessun danno serio e potranno
dimetterlo presto. Daichi… il nostro capitano non si
è ancora svegliato».
«Lo stanno tenendo in coma farmacologico»,
proseguì Kageyama, volendo essere preciso «Ma sono
preoccupati per il trauma cranico…». A quelle ultime parole, i volti dei due
ragazzi dell’Aoba s’incupirono.
«Hinata!».
Una voce femminile interruppe l’atmosfera di
nuova preoccupazione che s’era creata tra i quattro ragazzi. Shouyou si sporse oltre la figura di Tobio
e riuscì a scorgere Yachi che con passo veloce li
stava raggiungendo: sembrava affaticata, come se avesse fatto tutta la strada
correndo – poco dietro di lei Kiyoko le teneva la
mano e si faceva quasi trascinare, mantenendo una certa compostezza. Anche sul
volto della più grande c’era però un’espressione accigliata e più seria.
«Ci sono novità? Come stanno? Questa mattina ci
ha chiamati Yamaguchi…». I due ragazzi fecero segno
di diniego con la testa e la giovane manager abbassò il capo, sconfortata. Era
stato stupido, ma aveva sperato che la situazione non fosse così grave come era
parsa dalla telefonata.
«Suga è nella stanza di Daichi:
ha dato da poco il cambio ai suoi genitori, che sono rimasti dentro per la
notte. Nessuno ha ancora dato il cambio a quelli di Noya,
invece, anche se Tanaka non si è allontanato neanche
per un istante. Il resto di noi sta semplicemente vagando per i corridoi in
attesa che cominci l’orario di visite…».
Kiyoko
annuì, sedendosi e facendo fare lo stesso ad una Yachi
estremamente provata: era stata lei a chiamarla, dopo che Yamaguchi
l’aveva informata – aveva preferito che sentisse una notizia del genere dalla sua
voce, piuttosto che da quella di chiunque altro. Sapeva che parole usare e in
che modo prepararla ed il loro legame avrebbe fatto sì che Hitoka
non desse letteralmente di matto per la preoccupazione, almeno finché non fosse
arrivata a casa sua. Ma ovviamente neanche Shimizu aveva potuto evitare che la
ragazza si spaventasse tanto a sentire, soprattutto, le condizioni di Daichi, quindi aveva convenuto che l’unica soluzione
sarebbe stata quella di andare quanto prima in ospedale.
«…Asahi?», chiese, con una certa innocenza Yachi, ma dall’espressione che assunsero subito sia Hinata che Kageyama capì di aver
detto qualcosa di non così tanto semplice. Era successo qualcosa anche a lui?
…Forse per via del legame?
«Durante la notte è andato via. Nessuno lo ha
più visto da allora», disse con un certo disagio Shouyou
«Yamaguchi si è offerto di andare a cercarlo, insieme
a Tsukki ed Ennoshita – si
sono allontanati una mezz’ora fa».
«Azumane non è il compagno del vostro Libero?», si trovò a
chiedere, sorpreso, Iwaizumi. Kageyama
annuì e nessuno continuò su quell’argomento: non era normale che qualcuno
lasciasse il proprio compagno in una
situazione del genere – se Hajime aveva sentito
chiaramente la preoccupazione di Tobio, allora che
cosa dovevano star provando Asahi e Yuu?
***
«Non so se te l’ho mai detto, ma ho passato
davvero tanto tempo a chiedermi di che colore fossero i tuoi capelli… Non avrei
mai pensato che fossero così, ma mi piace molto questa sfumatura di castano: ti
dona tantissimo, ti rende ancora più autoritario come capitano».
La voce di Koushi s’alzò
di un tono quando proruppe in una risata che suonava allo stesso tempo
incontrollabile e forzata, isterica. Il ragazzo stava appoggiato al lato del
letto di Daichi, puntellato su di un gomito, mentre
l’altra mano giocherellava con le ciocche di capelli del ragazzo – le dita
parevano volerle conoscere da capo perché erano nuove alla vista e illudevano
di essere tali anche agli altri sensi. Suga non si sarebbe mai aspettato, però,
di farlo mentre Daichi dormiva di un sonno non suo.
«Ora mi chiedo se anche i tuoi occhi siano più o
meno dello stesso colore… Ma sai… per poterli vedere devi svegliarti, devi
stare bene… Ti prego, ti prego Daichi, tu devi stare
bene… Io non posso, non credo di essere tanto forte da poter reggere… non so
come si faccia, Daichi…».
Le lacrime presero a scivolare lungo le guance
di Suga senza che questi potesse impedirlo o volesse farlo: aveva resistito
tutta la notte, non s’era lasciato andare davanti agli altri, nonostante tutti
dacché avevano saputo del legame, non avessero fatto altro che guardarlo con un
misto di pietà e dispiacere. Ora sentiva ch’era arrivato il momento di piangere
e disperarsi perché mai come allora si sentiva solo e perduto: aveva quello che
più desiderava da quando aveva incontrato Daichi, ma
i colori adesso sapevano solo di un’ironia cattiva e gli ricordavano
costantemente che il legame forse era arrivato troppo tardi. O giusto in tempo
per perché potesse sentirlo morire.
Le lacrime allora divennero singhiozzi, che
scuotevano le spalle di Koushi in un pianto
disperato: sentiva tutto il dolore dei compagni,
ne era sopraffatto a tal punto che non poteva che sfogare in questo modo anche
tutto il resto, soprattutto la rabbia. Mormorava parole sconnesse, continuando
a pregare Daichi di non lasciarlo solo, di non
andarsene in un modo tanto crudele, di resistere. Ce l’avevano fatta. Perché
non potevano essere felici almeno stavolta?
La madre del ragazzo entrò in stanza senza fare rumore.
Vide Suga, con il volto nascosto tra le lenzuola bianche del letto e le mani
ora strette a pugni. Singhiozzava forte in un pianto che avrebbe fatto male a
chiunque e che feriva lei nel profondo. Allungò una mano verso di lui: voleva
confortarlo, dirgli che suo figlio era forte, che si sarebbe ripreso presto e
sarebbero stati felici, ma esitò; bastò un attimo, la mano restò sospesa a
mezz’aria, troppo lontana da Suga e troppo fredda. La donna realizzò che non
poteva esserne certa: non poteva consolare quel ragazzo perché non era certa
che il suo Daichi si sarebbe ripreso.
Uscì nello stesso modo in cui era entrata e fu
come se non ci fosse mai stata nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle e
soffocò il pianto con una mano davanti alle labbra. Suo marito era ancora via,
aveva detto di aver bisogno d’aria e lei aveva creduto di essere sola lì fuori.
«Signora Sawamura…?».
La voce sottile di Hinata la riportò alla realtà: i
compagni di squadra del figlio erano rimasti per tutta la notte lì con loro –
alla fine anche i medici s’erano arresi e ad avevano permesso loro restare in
corridoio, a patto che non disturbassero o entrassero in troppi nella stanza di
Daichi.
Alzò la testa verso di loro e lesse su quei
volti la serietà e la paura che fosse successo qualcosa: la guardavano con
occhi spalancati e corpo rigido. Prima ancora che potesse specificare che non
era successo nulla, che era stata la sofferenza di Suga a farle reagire in quel
modo, si sentì un tonfo provenire dalla stanza. La donna si voltò spaventata,
aprendo subito la porta, il suo pensiero allarmato andò a Daichi,
a che cosa potesse aver provocato quel rumore.
Ciò che si trovarono davanti, la donna e i
ragazzi, sorprese tutti. Suga era a terra, sulle ginocchia, una mano che
cercava il letto da cui s’era allontanato di qualche passo e l’altra, invece,
all’altezza del petto, sul quale calava la testa. Il respiro, pesante, era il
solo rumore che scandiva quella scena.
«Su-sugawara»,
balbettò Yachi – non riusciva a muoversi, perché non
capiva che cosa stava succedendo e lo stesso motivo pareva aver paralizzato
tutti i presenti. Tranne Oikawa. Il capitano dell’Aoba si mosse e con un paio di falcate sicure fu al fianco
dell’Alzatore, accovacciandosi accanto a lui, ma facendo bene attenzione a non
toccarlo ancora.
«Posso immaginare che cosa tu stia provando, Sugawara. Non ti dirò che va tutto bene perché è evidente
che non sia così, ma sono qui accanto a te, voglio aiutarti». Parlava in modo
serio, ma la sua voce era allo stesso tempo calda e rassicurante. Koushi mosse la testa verso di lui.
«Mi manca l’aria», riuscì a dire, ma le parole
erano uscite in modo forzato ed ora che era così vicino a lui, Oikawa vedeva quanto fosse pallido.
«È un principio di attacco di panico.
Concentrati su di me, Sugawara. Proviamo a respirare
insieme?».
Koushi non
sapeva quello che stava facendo: non aveva mai sofferto di attacchi di panico
prima e in quel momento gli pareva di non riuscire neanche a pensare. Che cosa
aveva detto Oikawa? Respirare, doveva respirare. Come
si respirava? Cercò il ragazzo con lo sguardo, ma tutto quello che riusciva
effettivamente a pensare era che si stava comportando come uno stupido, proprio
ora che doveva resistere, per Daichi. Se stai tanto male adesso, come reagiresti
se lui morisse? Quel pensiero bloccò del tutto la difficile respirazione di
Suga, che si sentì completamente sopraffatto da ciò che lo circondava.
«Sugawara? Sugawara? Koushi?!», cercò di chiamarlo Oikawa
– sapeva che avrebbe dovuto portarlo fuori da quella stanza, prima che la
situazione peggiorasse, ma gli interessava, prima, fargli riprendere una
normale respirazione. «Guarda me, d’accordo?». Stava bene attento a non
toccarlo, sebbene l’istinto fosse quello di metterlo quantomeno in piedi
«Concentrati sulla mia respirazione. Ti va se proviamo a respirare insieme?».
La voce di Oikawa,
così calma e forte, era un balsamo sulle insicurezze di Suga, sembrava spingere
un po’ più lontano tutto ciò che incombeva su di lui, il legame che faceva
male, Daichi che non era con lui, le mura di quella
stanza improvvisamente troppo strette. Gli aveva detto di stare con lui, di
guardarlo. Poteva farlo. Oikawa aveva preso arespirare con forza, contando fino a due
prima di espirare e di nuovo fino a due prima di inspirare; Koushi
cercò di seguirlo rendendosi conto di quanto fossero corti i propri respiri
all’inizio. Sotto lo guardo attonito di tutti i presenti, il capitano dell’Aoba riuscì lentamente a calmare l’alzatore della Karasuno, finché questo non fu in grado di alzarsi da solo:
traballava, evidentemente scosso e pallido, ma respirava ora con una certa
regolarità.
«Ha bisogno di una boccata d’aria. Vi spiace
restare qui con il vostro capitano mentre lo porto fuori?». Oikawa
non lo disse, ma sapeva che sarebbe stato meglio se a restare lì con Daichi fossero i compagni di squadra di Sugawara,
invece che lui ed Iwaizumi: Koushi
sarebbe stato più tranquillo e in compenso con un estraneo non avrebbe sentito
la pressione di dover spiegare quello che era appena successo, se non voleva.
Hinata e Kageyama annuirono d’istinto e ad Iwaizumi
bastò un’occhiata per capire che Tooru non aveva
bisogno di compagnia. Annuì e lo guardò allontanarsi con Sugawara:
lo conosceva abbastanza da sapere che era in piena fase recettiva – pronto a
qualunque cosa fosse successa al ragazzo che aveva accanto. Quindi sapeva che
sarebbe stato bene.
«Oikawa sa come
gestire gli attacchi di panico?», chiese ancora sorpreso Kageyama,
avvicinandosi ad Iwaizumi. Questi annuì con un
leggero sospiro.
«Sappiamo entrambi come si fa, in realtà»,
specificò «Tooru sa mettere moltissima pressione su
di sé. È una fortuna che sia effettivamente così
bravo da superare sempre i propri limiti».
«Come ti senti?».
Ora che Koushi
riusciva di nuovo a pensare con una certa lucidità, la prima cosa che notò fu
che la voce di Oikawa era ancora sicura e calma – si
sarebbe aspettato una certa esitazione, un muoversi intorno a lui incerto per
via di quello che era successo, ma il ragazzo si comportava come se nulla fosse
stato, quasi facesse quello per vivere, soccorre la gente così stupida da farsi
venire un attacco di panico nei momenti meno opportuni.
«Improvvisamente stanco, ma tutto sommato bene.
Mi fa un po’ male la testa…». Gli parlò con sincerità – il minimo che potesse
fare, dopo tutto l’aiuto che gli aveva dato. «Grazie. Io… non m’era mai
capitato prima».
«Non dirlo come se dovessi scusarti: non c’è
nulla di cui vergognarsi. Con tutto quello che ti è successo e considerata
l’influenza che il legame sta avendo sulla tua sfera emotiva e sensoriale,
credo sia stato il minimo. Un po’ di aria fresca, qui, ti farà bene – e posso
andare a prenderti dell’acqua al distributore, se vuoi».
Oikawa fece
quasi per andarsene, ma Suga si mosse istintivamente verso di lui – non gli
servì fermarlo perché questi tornasse sui suoi passi. Lo capiva: non voleva
restare da solo, avrebbe dovuto pensarci. Gli sorrise – il suo sorriso
malandrino, quello che Koushi aveva visto durante la
partita dell’Inter High, che serviva
per provocare. Strappò una breve risata anche a lui, per quanto inappropriata.
«Non isolarti, Mr. Refreshing, o perderai il tuo tocco
magico. E la Karasuno ne ha troppo bisogno o la
prossima volta che vi affronteremo, non arriverete neanche al terzo set».
Suga rise ancora – rise per il nome strano con
cui lo aveva chiamato, per la sfacciataggine con cui stava parlando, perché il
dolore che sentiva, forte ancora nel petto, era ancora lì ma stava almeno
respirando. Rise tra le lacrime, che tornarono a ricordargli quello che stava
affrontando. Oikawa restò lì a guardarlo –
s’aspettava anche quello.
«Immagino possa chiamarsi un progresso»,
concluse, quando Suga riuscì di nuovo a calmarsi. Poi tornò serio «Sai… credo
che ormai sia abbastanza chiaro a tutti quanto siano incasinati i legami. Tra
me e Iwa-chan e lui e Kageyama
e anche la piccola Esca… e poi tu e il capitano che vi trovate in questo modo…
Forse è proprio questo il punto: la perfezione non esiste – certo, io ci sono
spaventosamente vicino, ma non stiamo parlando di me ora. La perfezione non
esiste, sarebbe troppo facile altrimenti, non ti pare? Credo che la cosa
importante sia non mollare. Non mollare, Sugawara».
Oikawa lo
guardava fisso, intendeva davvero quello che aveva detto. Koushi
ci pensò: in fondo, lui il legame con Daichi lo aveva
ed era corrisposto. Certo, il dolore che provava era tremendo e minacciava
ancora di farlo crollare ad ogni istante, ma forse ne valeva la pena – Oikawa quel dolore non lo avrebbe mai provato.
«Mi riaccompagneresti dentro? Non voglio stare
troppo lontano da lui…». Tooru sorrise.
«Certamente, Mr.
Refreshing».
«Posso farti una domanda?». Suga non voleva
essere indiscreto, ma Oikawa non esitò ad annuire.
«Hai avuto a che fare con gli attacchi di panico…?».
«Sì, Koushi. Ho avuto a che fare con gli attacchi di panico».
________________
E quindi
è successo, sono di nuovo cascata in questo prompt di
soulmates complicate ed imperfette – dopo la prima c’avevo
preso gusto… tanto che ho deciso di farne una serie. In teoria avrei i plot per
altre due, ma non so con che tempi le realizzerò, soprattutto perché questa è
stata chilometrica e ci ho impiegato mesi per concluderla. Ad ogni modo, farò
di tutto per portare a termine il progetto!
Qualche
precisazione… Come scritto già sopra, questa è la prima parte di tre (farvi
sorbire un pippone di 54 pagine tutte in una volta mi
pareva una punizione troppo crudele) e cercherò di pubblicare il resto
abbastanza velocemente così che nel giro di una decina di giorni sia completa –
dopotutto, era nata per essere una one-shot, anche se
lunghissima e andrebbe letta come tale.
Ultima
cosa: la frase latina che apre questa storia è tratta dal VII libro delle Metamorfosi di Ovidio e significa“No, stretta a colui che amo, andrò
attraverso gli ampi mari: nulla temerò fra le sue braccia o, se temerò qualcosa,
temerò solo per il mio sposo”.
Detto
ciò mi eclisso – a presto con le prossime parti.
Pairing: Daichi x Suga |Asahi x Noya |(in
più piccola parte anche Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata).
Parte: 2/3 (sebbene
la storia nasca e si sviluppi come unica e sia divisa solo per comodità).
Avvertimento: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima
volta quando si trova il proprio compagno. | Angst |
Molto angst | Sebbene siano vicende nuove,
la storia nel suo continuum e contesto è legata alla prima soulmate di questa raccolta, che può essere
letta qui.
Note d’Autore: (e
maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un
immenso grazie, come sempre, alla mia Arianna che legge in anteprima, vigila,
consiglia e beta tutto quello che scrivo.
Just a little late (you found me).
Parte
seconda
La madre di Yuu
fissava distrattamente la porzione di strada che poteva vedere dalla finestra
della stanza in cui avevano ricoverato suo figlio; si perdeva tra le figure
poco dettagliate che scivolavano lungo i marciapiedi o attraversavano la strada
ad intervalli fissi, seguendone alcune, quasi per gioco, finché non
scomparivano in una nuova svolta o dentro un palazzo. Andavano a lavorare, a
fare la spesa, i ragazzi si incontravano, le ragazze chiacchieravano camminando
in gruppo e fermandosi di tanto in tanto davanti a qualche vetrina. Era tutto
tranquillo, tutto sapeva di una quotidianità che lei, in quel momento, pareva
vivere dall’esterno, come un’estranea che osserva qualcosa che non le
appartiene, che non conosce.
Poco prima suo marito aveva dovuto
lasciarla per andare a lavoro – l’avevano chiamato, pareva una cosa urgente e
non aveva potuto esimersi – e da allora la stanza era piombata nel silenzio. Noya riposava: la donna aveva l’impressione che sul suo
viso ci fosse una stanchezza infinita, nonostante non si fosse ancora svegliato
da quando, quella notte, lo avevano portato in stanza e nonostante Tanaka fosse entrato in stanza quasi subito dopo la
partenza del marito, la signora non lo aveva mai visto tanto silenzioso dacché
lo conosceva. Se non fosse stata anche lei tanto preoccupata, per quanto le
condizioni di Yuu fossero buone, avrebbe cercato di
tirarlo su di morale: Ryuu era tanto un caro ragazzo
e la faceva ridere spesso.
Arresasi a quel silenzio, allora, il
suo sguardo aveva preso a far da spola fra le fattezze pallide del figlio e la
vita fuori dalla stanza: faceva vagare la sua immaginazione, la donna, in
maniera superficiale ed incontrollata, per distrarsi, aspettando che Noya si svegliasse e la sua vita potesse di nuovo andare
avanti al pari delle altre.
«Uumh… sai
che odio quando aprì così le tende: entra…entra tutta la luce… ed io voglio
dormire…».
Noya biascicò
le prime parole con la bocca ancora impastata dal sonno, sicché la frase
accelerò e si bloccò nei punti più strani, suonando buffa. La madre si voltò di
scatto verso di lui e stette a guardarlo, avvicinandosi lentamente, mentre
questi apriva gli occhi appena appena, infastidito dal sole che, data l’ora,
entrava tranquillamente nella stanza.
«Prometto che ti lascerò dormire tutte
le domeniche che vorrai», sussurrò mentre la voce si incrinava appena e gli
occhi le si riempivano di lacrime – lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto davvero
perché non s’era mai sentita tanto felice come in quel momento, mentre guardava
di nuovo suo figlio negli occhi.
Noya si
chiese ingenuamente che cosa avesse fatto per meritare una risposta tanto buona
ed accomodante; poi, fissando il soffitto, si accorse che quella in cui si
trovava non era la stanza di casa sua. In effetti, rifletté mentre i pensieri
si accavallavano confusi nella sua mente, non ricordava bene com’è che era
tornato a casa la sera prima – o non tornato,
a giudicare dal posto – e faceva difficoltà a mettere uno dopo l’altro gli
ultimi ricordi, che si accalcavano senza filo logico. Quando, muovendo lo
sguardo intorno a sé, si rese conto del braccio ingessato e del dolore che
sentiva in diversi punti del corpo, il panico, feroce, lo assalì.
«Mamma…?», chiamò – e sembrò la voce
del cucciolo più indifeso che cerca il calore e la rassicurazione del proprio
genitore.
«Ssh, non ti
agitare». La madre gli carezzò i capelli con dolcezza «Ricordi cosa è
successo?», chiese poi, ma il ragazzo scosse la testa senza smettere di
guardarla. «Ieri sera hai avuto un incidente, mente tornavi a casa in
bicicletta: una macchina ha spinto te ed un tuo compagno di scuola fuori
strada, in una scarpata. Ma stai bene». Gli diede un bacio amorevole tra i
capelli. «Stai bene, hai solo un braccio rotto e qualche graffio». Il bisogno
di calmarlo aveva reso la voce della donna serena e calma, come lei stessa non
credeva di essere: non tremava, mentre le sue mani accarezzavano il figlio e
gli occhi lo guardavano sereni, con appena un velo di lacrime a ricordare il
pericolo scampato.
Yuu, da
canto suo, cercava di aggrapparsi a quell’affetto, ma erano davvero troppe le
notizie che aveva appena ricevuto. Un incidente, l’ospedale, un braccio rotto…
e che cosa aveva detto sua madre? Un suo amico era rimasto coinvolto con lui?
Chi…? In un attimo il ricordo di se stesso che raggiungeva Daichi
in bicicletta per fare la strada del ritorno insieme lo freddò. Oddio…
«Daichi!
Mamma, dov’è Daichi?». Noya
aveva gridato ed era scattato in avanti, incurante del dolore. Perché Daichi non era magari in stanza con lui? Perché non era
lì…?
«Calmati, tesoro mio, calmati!», cercò
di trattenerlo la madre «Il tuo amico è ricoverato in un’altra stanza… lui… ha
battuto la testa e devono tenerlo in osservazione».
Noya trasse
il fiato e sentì il vuoto intorno a sé. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Ricordava. Ricordava di aver raggiunto Daichi in
bicicletta, di averlo rallentato, fermato, proponendogli di andare insieme.
Dio, dio, che aveva fatto? Se non lo avesse incontrato… se non gli avesse
parlato… Il ragazzo sentiva come se nulla avesse più senso, il petto gli faceva
malissimo e quasi tremava. Daichi…
«Voglio… voglio vederlo. Posso
vederlo?». Doveva rendersi conto di cosa aveva fatto, doveva essergli vicino,
fare qualunque cosa potesse. Starsene fermo in quel letto non gli avrebbe fatto
bene. Il dolore non faceva altro che aumentare.
«Hey, vacci piano Thunder».
La voce di Tanaka
mise il freno ai suoi pensieri. Il Libero alzò la testa per trovarsi davanti al
faccia del suo migliore amico, che lo fissava con una serietà che non gli
apparteneva. Era stato lì tutto il tempo? Non era sorpreso, no… dopotutto, lui
avrebbe fatto lo stesso se fosse successo qualcosa a Ryuu.
«Tu non capisci, Tanaka.
È colpa mia, devo averlo distratto e quella macchina…».
«Quella macchina vi è venuta addosso e
non c’è nulla che avresti potuto fare per evitarlo – il conducente era troppo
impegnato a discutere a telefono per prestare attenzione alla strada e deve
essere grato che non mi abbia incontrato!». Era minaccioso, Tanaka,
ma con una serietà che poteva davvero spaventare «Ora smettila di agitarti e
stenditi di nuovo – devi riposare: che facciamo, se la nostra Divinità Guardiana non ci protegge in
campo?».
Yuu sorrise:
per la prima volta da quando s’era svegliato si sentì più leggero, quasi come
se fosse tutto a posto. Tanaka lo guardava e
tratteneva a stento le lacrime di gioia nel poterlo vedere di nuovo sveglio –
sarebbe morto prima di farsi vedere piangere, ma a se stesso non poteva
nascondere il sollievo che stava provando in quel momento: non era stato in sé da
quando aveva saputo di Noya – aveva la sensazione che
non sarebbe mai più potuto essere se stesso se Noya
non fosse stato di nuovo bene.
«Ah, quasi dimenticavo: fammi prendere
uno spavento del genere un’altra volta e conoscerai la mia furia», lo minacciò,
in mancanza di altri modi per mostrargli quanto si fosse preoccupato. Yuu si fece scappare una breve risata.
Se ne accorse così e fu ironico, perché
parve causale sebbene non lo fosse affatto. Anzi, ce n’erano davvero tanti di
indizi, nel dolore che Noya stava provando, nella sua
instabilità, ma non se ne rese conto davvero finché non ci fu un attimo di
silenzio nella stanza. Perché il silenzio corrispose al vuoto. Ed il vuoto
all’assenza. Asahi non era lì con lui.
Come aveva fatto a non notarlo prima?
Come aveva fatto a vivere quegli istanti senza rendersi conto che il suo compagno non gli aveva ancora parlato?
La situazione l’aveva sconvolto così tanto che tutto era scivolato lontano. Per
un momento, forse, anche Asahi. Ora però comprendeva chiaramente il dolore che
sentiva - come un fastidio che lo punzecchiava, senza lasciarlo stare
tranquillo. Non gli piaceva, nulla di tutto quello gli piaceva.
«Dov'è Asahi?» chiese con malcelato
nervosismo. L'espressione del viso di Tanaka cambiò
immediatamente, rabbuiandosi di colpo; poi il ragazzo la nascose in parte,
abbassando la testa.
«Non lo so, Noya.
Si è allontanato poco dopo che ti hanno portato in stanza e non l'abbiamo visto
più. L'ultima volta che ho chiesto, Tsukkishima e Yamaguchi erano andati a cercarlo».
Nishinoya tacque.
Nel suo petto risuonò nuovo dolore.
***
Asahi avrebbe voluto gridare. Sentiva
che gridare fino a non avere più voce sarebbe stata forse la sola cosa a farlo
stare meglio, perché il male che sentiva nel petto era a stento sopportabile;
diverso da quello che la notte prima lo aveva messo in allarme riguardo Noya, ora il suo dolore era lacerante e gli chiudeva
stomaco e gola, soffocandolo sempre più ad ogni passo che faceva per
allontanarsi dal compagno.
Lo aveva deciso non appena aveva saputo
che Yuu stava bene, che sarebbe stato bene. S’era
alzato, dopo aver visto la barella con cui lo portavano nella sua stanza ed il
suo viso pallido, ed era andato via. Non s’era guardato indietro – era stato
troppo codardo anche per fare un simile gesto. Non aveva ancora lasciato
l’ospedale, però: aveva preso la strada più lunga ed ora era giunto nel
giardino al piano terra, nel punto opposto al Pronto Soccorso dove erano
arrivati la notte, vicino ad una delle uscite.
S’era fermato solo per riprendere
fiato, o così gli piacque pensare. Ma poi il dolore non lo aveva lasciato
muovere più neanche di un centimetro. Così s’era seduto e con la stasi, col
silenzio, erano arrivati i pensieri. Forti, minacciosi, impietosi: gli
ritraevano la realtà con l’obbiettività di uno specchio, ma lo ferivano con
l’affilatezza di un vetro rotto.
Che stava facendo? Era davvero questo
quello che aveva deciso, alla fine? Asahi non era nuovo alle fughe – i più lo
attribuivano alla paura, ma lui sapeva che non si trattava propriamente di
questo. Non era paura in sé, paura di quello che aveva davanti: era paura di
deludere, gli altri e se stesso, di ferire e non essere capace di andare
avanti. Meglio rinunciare che perdere definitivamente. Scappare era un po’ come
tirarsi indietro e Asahi sentiva in quel momento l’estremo bisogno di tirarsi
indietro, perché non credeva di avere la forza di affrontare le conseguenze di
ciò che aveva davanti.
Era giunto ad una semplice conclusione:
senza Yuu, lui non era niente. Non si trattava di
retorica, di una bella frase che suonasse poetica e magari desse i brividi –
era la più concreta delle realizzazioni mai avute e lo aveva capito solo quando
Noya era stato in pericolo. In quel dolore lui si era
annichilito ed aveva perso qualunque cosa lo componesse – non restava più
nulla, nulla sarebbe rimasto se avesse perso Yuu. E
contemporaneamente aveva pensato che anche Noya si
sarebbe sentito in quel modo, se fosse successo qualcosa a lui: che gusto
poteva esserci nel tenere in quel modo tra le mani la vita della persona che
più si ama? Che gusto poteva esserci, quale gioia, nel sapere che al finire di
uno sarebbe finita anche la vita dell’altro?
S’era ritenuto fortunato, Asahi, quando
aveva capito che Noya sarebbe stato il suo compagno: s’era sentito appagato e completo
– vedere i colori e vedere lui brillare più di qualunque altra cosa al mondo
era stato indescrivibile, così come il senso di gioia estremo, di felicità
assoluta. Credeva che non potesse esserci nulla di migliore, niente che avrebbe
scavalcato quel momento – ed era così: non avrebbe mai cambiato quella
sensazione con nessun’altra. Ma se il prezzo era quello, se alla felicità più
assoluta doveva corrispondere il peggiore dei mali, l’annullarsi o l’esser
causa dell’annullamento altrui… ne valeva ancora la pena? Tutto quell’amore,
tutta quella devozione, quel legame tanto profondo… potevano giustificare
l’esistenza di un tale sentimento di smarrimento e vuoto, di annientamento?
Il ragazzo si sentiva ancora sul punto
di scomparire, con la pressante sensazione di aver perso se stesso. E allora
tanto valeva andare via, andare via come scelta personale, andare via perché
quel legame si affievolisse. Era folle, Asahi, a pensare una cosa del genere,
ma era disperato all’idea che lui e Noya fossero
legati fino a questo punto, che se mai gli fosse successo qualcosa lo avrebbe
ferito, annientato. Sentiva su di sé una pressione che mai avrebbe pensato di
avere: che sarebbe successo se si fosse infortunato mentre giocavano? O se
magari fosse di nuovo caduto, abbattuto da una sconfitta? Yuu
l’avrebbe sentito? Avrebbe intaccato il suo essere, la sua inestinguibile
forza? Avrebbe forse condizionato la sua essenza di Libero e ragazzo
meraviglio? Sarebbe cambiato a causa sua, si sarebbe bruciato, perso nella sua
debolezza.
Asahi non voleva avere alcuna parte in
una simile aberrazione – piuttosto lo avrebbe lasciato andare. Sì, si sarebbe
allontanato, si sarebbe preso colpa e pena ed avrebbe lasciato che Noya splendesse di nuovo solo per se stesso. E che lui,
nell’ombra dei suoi timori, tornasse ad essere qualcosa.
«Azumane?! Asahi?!».
Quella voce, che lo chiamava, gelò il
sangue nelle vene del ragazzo. Si guardò intorno, cercando di capire da dove
provenisse e fece appena in tempo a nascondersi dietro ad un albero del
giardino, prima di vedere Ennoshita che, insieme a Yamaguchi e Tsukishima, si
dirigeva proprio verso di lui. Trattenne il fiato, spalle all’albero, sperando
che non guardassero nella sua direzione e smettessero presto di cercarlo da
quella parte.
«Azumane! Azumane, dove sei?!», la voce di Ennoshita
suonava preoccupata ed Asahi dovette trattenersi dal non rispondere. Ma
rispondere sarebbe equivalso a dover poi dare spiegazioni del suo
allontanamento e davvero il ragazzo non ne aveva alcuna voglia. Riusciva a
malapena a spiegarlo con logicità a se stesso, figurarsi metterlo in parole per
qualcun altro.
S’accucciò, scivolando rudemente contro
la corteccia dell’albero e stringendosi le braccia contro il petto. Tremava, il
dolore della lontananza da Noya, dei dubbi, della sua
scelta che gli toglievano calore dal petto.
***
Erano passati due giorni da quella
mattina, tre dalla notte dell’incidente. Le cose, dall’esterno, sembravano volersi
avviare verso una ritrovata normalità, se non fosse stato per il fatto che i
medici non avevano ancora spostato Daichi dalla
Terapia Intensiva e questi non s’era ancora svegliato. I ragazzi erano tornati
a scuola per le ultime settimane prima della pausa estiva e cercavano in qualche
modo di riprendere la loro routine, sebbene fossero ancora abbastanza scossi da
tutto quello che era successo.
Il coach Ukai
ed il professor Takeda avevano deciso di lasciarli
liberi durante gli allenamenti, sicché a semplici partitelle, i più alternavano
lunghe conversazioni, che non avevano mai chissà quale profondità, ma servivano
a fare i conti con tutto quello che era stato, con le assenze del Capitano e
del Libero - Noya sarebbe stato dimesso la mattina
dopo, con la raccomandazione di tornare ogni giorno per almeno due ore di
riabilitazione per le successive quattro settimane.
A guardare la situazione dall’interno,
ad ogni modo, erano davvero poche le cose tornate a posto. Ad esempio, non era
tornato a posto Suga, sempre un po’ distratto e così poco sorridente da
ispirare tristezza solo a guardarlo; non era tornato a posto neanche Asahi che,
in disparte, pareva non voler parlare più con nessuno della squadra e a stento
si rivolgeva agli alzatori per chiamare la palla durante le sporadiche partite
d’allenamento. Tanaka poi era più nervoso del solito
ed Hinata più spento, sempre preoccupato, con un
ruolo di responsabilità che non gli era mai appartenuto, ma che voleva
rispettare il più possibile – doveva tantissimo a Sugawara.
Il resto della squadra sembrava doversi adeguare a quel nuovo clima e sperava
solo che col ritorno di Daichi e Nishinoya
le cose potessero effettivamente sistemarsi.
Sapevano ovviamente. Sapevano che il
Capitano non s’era ancora svegliato, che il giorno seguente avrebbero finalmente
provato a togliere i sedativi e vedere come avrebbe reagito il corpo. E
sapevano che Azumane non era più tornato in ospedale,
che di fatto non aveva più visto Noya dall’incidente
– sebbene non se ne spiegassero la ragione, si chiedevano come potesse succedere
una cosa del genere tra due compagni
e se magari fosse semplicemente colpa di un dolore che loro non vedevano ma che
Asahi provava ancora.
«Domani andrò in ospedale appena finite
le lezioni, ho già avvisato il coach che non sarò qui per gli allenamenti. Mi
chiedevo se ti andasse di venire con me».
Suga aveva parlato con gentilezza, ma
una certa stanchezza appesantiva la sua voce: non aveva quasi chiuso occhi in
quelle notti, il pensiero fisso di Daichi a
riempirgli la mente e togliergli il sonno – davvero non comprendeva come Asahi
potesse star separato da Noya e non provare nulla.
«Sai che non voglio venire». Anzi,
sceglieva di farlo.
«Continua a chiedere di te. Gli abbiamo
detto che stai bene, che sei solo sconvolto da tutto quello che è successo, che
presto…».
«Non vi ho mai chiesto di fare una cosa
del genere!». La sua voce non era alta – Asahi non gridava quasi mai – ma suonò
allo stesso modo tagliente. A Suga però sfuggì la disperazione che tratteneva
«Smettetela di ripetergli qualcosa che non è vero. Non voglio andare in
ospedale, non voglio vederlo».
«Sai che domani sarà dimesso, vero?
Probabilmente torneremo insieme…».
Azumane non lo
stava più ascoltando. Aveva finito di sistemare le ultime scope nello stanzino:
aveva dato uno sguardo veloce a quella, un po’ più alta delle altre, che aveva
aggiustato quando era tornato in squadra e la sua semplice visione lo aveva
ferito. Scattò, come ad allontanarsi da qualcosa di troppo caldo, ed uscì fuori
senza neanche salutare. Koushi lo guardò andare via,
senza sapere che cosa pensare. Perché si comportava in quel modo? Perché aveva
alzato quel muro e sembrava non voler più farsi toccare da nessuno? Tanaka, poco lontano dall’alzatore, fece per seguirlo, ma
questi lo fermò con un gesto del braccio.
«Lasciagli ancora un po’ di tempo»,
disse.
«Quanto tempo? Sono passati giorni: Noya…».
«Lo so. Magari domani andrà meglio».
Suga si stava ingannando con quella
frase da quando tutto era cominciato: ingannava gli altri ed ingannava se
stesso, perché non c’era alcuna sicurezza che il giorno dopo sarebbe andata
meglio e anzi dovevano essere grati anche solo per il fatto che non andasse
peggio, perché di scenari più scuri di quello riusciva ormai ad immaginarne
tantissimi.
Quando andarono via tutti, Hinata e Kageyama si accodarono a
Koushi: avevano preso a farlo quasi senza pensarci e
la cosa sembrava troppo giusta per smettere – non volevano che Suga stesse da
solo e dall’incidente sembrava improvvisamente non essergli rimasto più nessuno
accanto. Dal suo canto, l’alzatore non poteva non apprezzare quella presenza: Oikawa avevo visto giusto quando gli aveva consigliato di
non isolarsi, perché era questo il rischio più grosso in un dolore, e lui stava
facendo di tutto per non ricadere in quell’istinto, per non lasciare che le sue
paure, le sue incertezze gli togliessero anche l’affetto che ancora aveva.
Quando si salutarono, davanti casa di Koushi, Hinata lo abbracciò
stretto: avrebbe voluto con quel gesto trasmettergli tutto il suo calore,
sostenerlo come lui aveva fatto quando Kageyama era
stato lontano. Suga lo strinse a sé, bisognoso.
La notte era il momento peggiore. Il
ragazzo semplicemente non poteva prendere sonno: non appena gli occhi stavano
per chiudersi ed il corpo abbandonarsi a quel riposo, la mente s’allarmava e i
pensieri tornavano fissi a Daichi, a quello che
magari sarebbe potuto succedergli mentre Suga dormiva. E così restava sveglio e
il buio pareva amplificare le sue paranoie, fissarle ed ingigantirle,
aggravarle per il semplice fatto che potevano avanzare verso la peggiore delle
ipotesi. Spesso non avevano davvero una logica le sue paure, ma Koushi era troppo stanco per potersene rendere conto,
troppo spaventato. Non era pronto a lasciar andare il suo compagno, non era pronto a perdere le sfumature di colori che
vedeva e s’era anzi quasi convinto che fosse meglio così, meglio quella stasi a
ciò che sarebbe potuto succedere nel caso, il giorno seguente, Daichi non avesse reagito bene. Nel caso non si fosse
svegliato.
Suga non l’aveva detto, ma quando aveva
chiesto ad Asahi di andare in ospedale con lui, in minima parte lo aveva fatto
anche per non essere solo davanti alla peggiore delle eventualità. Non aveva
voluto chiederlo a nessuno altro perché l’idea di essere un peso, qualcuno di
cui doversi preoccupare, lo infastidiva molto: non s’era mai trovato in una
simile situazione e l’idea semplicemente era inconcepibile. Ma aveva creduto
che con Asahi fosse diverso: avevano un rapporto diverso loro, entrambi
all’ultimo anno, e in quella situazione avrebbero dovuto essere ancora più
vicini.
Mandò il messaggio senza pensarci su
due volte – era sempre stato fin troppo bravo a ponderare le sue scelte, ma
quella volta sentì che non ci fosse niente da controllare, nessuna cosa su cui
pensare. Oikawa gli aveva lasciato il suo numero di
cellulare prima di andare via con Iwaizumi, la
mattina in cui lo aveva aiutato.
Ricevette una risposta quasi immediata
e fu un po’ più sereno.
«Non avrei davvero voluto disturbarti,
ma-».
La mano di Oikawa
sventolò su e giù per scacciare il senso di colpa di Suga.
«Lo faccio con piacere», disse con un
sorriso, mentre entrambi entravano da uno degli ingressi laterali dell’ospedale.
Suga gli aveva dato appuntamento lì
alla fine delle lezioni. Superare quella mattinata era sembrato assurdamente
difficile: la sua incapacità di concentrarsi era aumentata man mano che si
avvicinava il termine delle lezioni e quando finalmente era potuto uscire,
s’era ritrovato tutti i ragazzi della Karasuno
all’ingresso. Non avevano fatto nulla, erano stati lì a guardarlo e lui aveva
guardato loro senza replicare: era parsa un’investitura, un dire che sarebbero
stati con lui per tutto il tempo, che la distanza era davvero poca cosa. Forse
per questo s’era sentito un po’ in colpa quando aveva visto il capitano dell’Aoba aspettarlo come avevano concordato. Eppure non si
pentiva di averlo contattato: quell’estraneo riusciva a dargli la libertà e la
sicurezza necessarie ad essere debole – qualcosa che non era ancora disposto a
fare davanti ai suoi amici.
Oikawa, da
parte sua, non gli chiese perché fra tutti avesse chiamato proprio lui:
immaginò che l’averlo aiutato fosse parte del motivo e che il non conoscersi
poi così bene dovesse sicuramente aver giocato un ruolo altrettanto importante.
Per il resto aveva accettato di buon grado quell’imprevisto: quella sera Hajime e Kageyama avevano
pianificato di vedersi.
«Mi salvi da un pomeriggio di noia,
credimi», aggiunse, restando sul vago, ma Suga notò lo sguardo dell’altro, il
modo in cui s’offuscò e toccò terra, nascondendosi, cercando di sviare e non
farsi notare. Avrebbe dovuto dire qualcosa? Era la seconda volta che quel
ragazzo diventava improvvisamente serio e lui non sapeva che cosa fare.
«Mi dispiace se tutto questo sta…
facendo riaffiorare brutti pensieri. Io… Hinata mi ha
spiegato come stanno le cose fra voi e forse… non sono io quello che dovrebbe
lamentarsi». Oikawa sorrise. A Suga quel sorriso parve
fare male.
«Il fatto che il mio legame sia
incasinato non toglie nulla al dolore del tuo. E se per questo non hai detto
nulla agli altri ragazzi della tua squadra, non credo dovresti farti simili
problemi. Per il resto… io e Hajime stiamo bene.
Insomma, il meglio che possiamo stare. E sono felice con lui, davvero felice».
Fece spallucce, tornò l’Oikawa di sempre, quello
sorridente e non troppo pensieroso, quello fin troppo entusiasta e non dal viso
tanto scuro.
Erano più o meno le stesse parole che
gli diceva Hinata, pensò Suga, ogni volta che ne
parlavano.
Quando arrivarono davanti alla stanza
di Daichi, a Suga girò la testa: la porta era aperta
e lì davanti il padre del ragazzo discuteva alquanto animatamente con uno dei
medici, quello più anziano che s’era occupato da vicino del suo caso;
dall’interno, invece, non parevano arrivare voci e l’alzatore non sapeva se
fosse o meno un buon segno. Si fermò – Oikawa mezzo
passo dietro di lui – ed attese un segnale da parte dei due adulti che, però,
presi nel loro discorso, quasi non lo videro. Allora Suga si fece forza ed
entrò dentro.
Quello che vide fece nascere in lui la
migliore delle sensazioni possibili, un senso di liberazione e gioia che lo
invasero quasi stordendolo, lasciandolo così leggero che gli parve di volare: Daichi era sveglio, Daichi aveva
gli occhi aperti – occhi castano scuro, di una sfumatura che Koushi riteneva bellissima – e parlava con sua madre, in
quella che gli pareva la più normale delle situazioni. Brillava agli occhi di
Suga di uno splendore che mai era stato tanto forte, che si caricava della
vitalità che il ragazzo ora stava mostrando. Finalmente.
«Oh, Koushi».
Nella sua gioia, Suga non percepì la strana sfumatura – preoccupata, si sarebbe
detto – che la voce della madre di Daichi ebbe nel
pronunciare il suo nome «Sei arrivato».
A quelle parole, il capitano della Karasuno si voltò verso di lui, giusto in tempo per
ricevere da Suga un forte abbraccio – era così felice, l’alzatore, che non si
preoccupò dei convenevoli: tutto quello che voleva era stringere il suo compagno a sé, sentire il suo calore,
petto contro petto, respirare il suo odore, sentire in quella stretta tutto il
bene che si volevano. Ma non successe: nessuna stretta rispose a quella con cui
Koushi stava abbracciando Daichi,
non ci furono mani ad accarezzarlo e la testa del bruno si tenne a pochi
centimetri da quella dell’altro, quasi si scansasse con accuratezza e fuggisse
quel contatto forzato. Suga si ritrasse lentamente, in modo sgraziato e guardò
prima lui, poi la donna, con sorpresa, senza capire.
«Daichi,
cosa…?».
«Scusami». Nella sua voce non c’era
alcuna particolare inflessione, si sarebbe potuto rivolgere allo stesso modo ad
uno sconosciuto che aveva urtato, camminando per la strada – solo un lieve
imbarazzo la colorava. «Scusami davvero, io… io non ho idea di chi tu sia».
Se quello voleva essere uno scherzo, Koushi non stava affatto ridendo. Il ragazzo spostò
nuovamente il suo sguardo da Daichi alla madre e di
nuovo su Daichi, perché la mente non aveva alcuna
intenzione di cercare di capire quello che le orecchie avevano sentito. Che
cosa stava succedendo? Come poteva essere che lui…
«Si tratta di Amnesia retrograda transitoria. Il trauma cranico che ha riportato ha
causato una perdita di memoria estesa a tutto ciò che conosceva prima
dell’incidente». Il medico doveva essere entrato in stanza, pensò Suga, perché
la sua voce era vicina, ma lui non l’aveva sentito. Non sentiva nulla. «Ad ogni
modo, è molto probabile che sia qualcosa di temporaneo e che il ragazzo possa
lentamente recuperare gran parte dei suoi ricordi. Tuttavia, non possiamo
sapere né quando né come accadrà».
Koushi avrebbe
voluto ridere e piangere nello stesso tempo, ma se ne stava lì, in mezzo alla
stanza, con volto terreo ed espressione indecifrabile, gli occhi appena un po’
spalancati, fissi in quelli anonimi di Daichi.
«Io ti conosco, vero?». Le sue parole
facevano male, ma il ragazzo annuì in risposta. «Sei stranamente più luminoso
degli altri. Quando ti guardo, intendo – hai… come un alone di luce tutto
intorno. C’è qualcosa in te, qualcosa che non ricordo ma che mi dice che posso
fidarmi, che mi hai voluto bene».
Oh. Quindi è così che funzionava. Daichi non ricordava neanche il suo stesso nome, ma poteva
vedere i colori e sentire che Suga era
importante. Koushi sentì vagamente il medico dire che
la memoria affettiva probabilmente era rimasta intatta, che pur non ricordando
il ragazzo provava determinate emozioni, che era un buon segno perché queste
avrebbero potuto innescare dei ricordi veri e propri. A lui non importava.
Sentì un dolore tremendo pervaderlo tutto: Daichi
aveva parlato al passato, come qualcosa che era successo e finito. Era questo
che restava di loro? La sensazione che fossero stati importanti? Erano stati
soltanto il fuoco di un fiammifero, morto ancor prima di poter davvero
bruciare? Quello era un modo tutto nuovo di essere invisibili e Suga non voleva
abituarsi.
«Sc-scusate,
io… io devo uscire. Ho…ho bisogno di prendere aria».
Suga barcollò e nel voltarsi non scorse
gli occhi turbati di Daichi. Si gettò fuori dalla
stanza con le ultime forze che gli restavano: sentiva che avrebbe vomitato se
fosse stato all’aperto invece che nel corridoio di un ospedale. Aveva
completamente rimosso la presenza di Oikawa lì fuori
ad aspettarlo e quando se lo ritrovò accanto non seppe come spiegare quello che
era successo.
«Lui- Lui- Non ricorda-», buttò fuori,
senza guardarlo negli occhi «Ti prego, ti prego, chiama qualcuno. Ho bisogno…
ho bisogno di qualcuno».
Tooru lo portò
lontano da quella stanza e lo fece sedere prima di prendere il cellulare. Pensò
che la cosa migliore fosse avvisare Hinata perché
venisse e intanto consultarsi con lui sul da farsi: Suga non aveva detto più
nulla dopo quelle poche parole e sembrava fissare il vuoto in un apparente
stato di shock che, in realtà, lo preoccupava non poco. Era diverso
dall’attacco di panico che aveva cercato di controllare la volta precedente:
adesso anche lui non sapeva come muoversi intorno al ragazzo.
La risposta di Hinata,
fortunatamente, non si fece attendere – sarebbe arrivato quanto prima e intanto
gli chiedeva di restare accanto a Sugawara e vedere
magari se Nishinoya era stato già dimesso: qualche
volto amico non avrebbe potuto che fare bene. Oikawa,
però, pensò che non sarebbe potuto andare troppo lontano per cercare il Libero
della Karasuno se Suga non si fosse mosso con lui.
«Ehi, ascolta: Hinata
dice che il tuo Libero, l’altro ragazzo che è stato ricoverato qui, doveva
essere dimesso questo pomeriggio. Magari è ancora nei paraggi – ti va se lo
cerchiamo? Camminiamo un po’, magari lo contattiamo». Oikawa
non voleva trattarlo con accondiscendenza né girargli intorno come uno stupido,
ma fortunatamente Koushi recuperò quel po’ di
lucidità necessaria per capirlo ed annuire alla sua richiesta.
S’alzò e prese a camminare verso le
scale – impressionante come in pochissimi giorni avesse imparato tanto bene ad
orientarsi tra quelle mura; la stanza in cui era stato ricoverato Noya era al secondo piano, lungo il corridoio di destra
rispetto alle scale e i due ragazzi vi si avviarono in silenzio. L’alzatore
della Karasuno camminava come per inerzia, incapace
di pensare: sentiva che se si fosse fatto trascinare dai pensieri non sarebbe
più stato in grado di emergere dall’abisso della sua nuova disperazione; il
capitano dell’Aoba poteva facilmente immaginare il
dolore che l’altro stava affrontando e taceva perché ricordava bene che, quando
era stato infelice per il suo compagno,
non aveva voluto sentir parlare nessuno. Era cose che, purtroppo, pareva più
facile poter affrontare da soli.
«Vedrai
che in men che non si dica sarai tornato in perfetta forma! Non dimenticare
quello che ha detto Tanaka!».
La voce di donna che proveniva dalla
stanza di Nishinoya fece fermare i ragazzi sulla
soglia, indecisi sul se entrare rischiando di dar fastidio.
«Sì, Tanaka
farà le tue veci mentre sarò a scuola, mamma, credimi», rise il Libero che, di
spalle, si infilava con una certa difficoltà la maglietta, nonostante il
braccio ingessato dal polso a sopra il gomito gli impedisse gran parte del
movimento. Non vide Suga dietro di lui, finché non fu la donna a guardarlo con
una certa sorpresa – doveva avere davvero una brutta cera se suscitava una
simile espressione, pensò Koushi.
Quando anche Noya
s’accorse di Oikawa e Sugawara,
sorrise in modo sincero, lasciando la maglietta infilataa metà per andare verso di loro. Tooru si rese conto con un certo fastidio che stava
diventando davvero bravo a riconoscere un certo tipo di tristezza nelle persone,
perché anche quella del Libero era visibile, nonostante tutto, e si chiese se
poi il suo compagno fosse più passato
a trovarlo. L’Asso, ricordò; Azumane, che non era
stato con lui neanche nel momento in cui s’era svegliato. Improvvisamente,
sentì il chiaro bisogno di avere Hajime accanto –
tutta quella pesantezza, quella serietà lo stavano logorando.
«Suga! Hai visto? Mi hanno già dimesso
– tra poco la vostra Divinità Guardiana
tornerà a proteggervi! Sei stato da Daichi? Come
sta?».
Koushi sussultò
a quella domanda, guardandolo dritto negli occhi: era sempre così, con Noya – era la persona più diretta che conoscesse e quella
con cui si sentiva più tranquillo a parlare, se si escludevano i ragazzi del
terzo anno. Nella sfortuna, era stato fortunato ad avere proprio lui lì.
«Cosa… cosa è successo?». Yuu intanto aveva chiaramente compreso che qualcosa non
andava.
Suga si mosse verso di lui senza dire
nulla, fino ad arrivare ad un soffio dal suo corpo; non aveva mai smesso di
guardarlo e man mano che s’era avvicinato, l’espressione di Noya
era cambiata, diventando prima seria e poi triste. Quando l’alzatore gli si
fermò davanti i tuoi occhi erano pieni di lacrime e Yuu
dovette trattenersi dal non avere la stessa reazione: qualunque cosa fosse
successa con Daichi sembrava averlo spezzato.
«Sono così distrutto, Noya… così solo…». La verità era che Suga s’era visto
strappare i due più grandi sostegni che aveva in una sola volta: Daichi in quella situazione e Asahi che ormai a stento gli
parlava. Per un ragazzo del terzo anno ed uno così sensibile come Koushi, anche se non lo dava a vedere, era dannatamente
difficile mostrarsi debole davanti agli altri, che guardavano a lui come ad uno
dei più grandi del gruppo, che traevano forza dalla sua presenza. Ora, però,
Suga non poteva più reggere quel ruolo. Non ce la faceva.
Calò la testa sulla spalla di Nishinoya con lenta fatalità, fino a nascondere lo sguardo
nell’incavo della spalla sana. Yuu lo strinse a sé
con il braccio che poteva muovere e per la prima volta la differenza di altezza
in quel gesto parve rendere lui un gigante e Suga un bambino.
«Sono qui, Suga. Va tutto bene, sono
qui».
Yuu si
premurò di accompagnare Suga fino a casa – l’alzatore aveva insistito per
andarsene da solo, una volta calmatosi, ma Noya non
gli aveva permesso di muoversi e, aiutato anche dalla madre e da Oikawa, lo aveva portato in macchina fino alla sua
abitazione. Durante tutto il percorso non avevano più parlato: non c’era poi
molto da dire una volta che Koushi aveva spiegato
come stavano le cose con Daichi, ma Noya lo aveva tenuto accanto a sé per tutto il tempo e
Suga, stavolta, aveva messo da parte la sua reticenza da adulto ed accettato un
po’ di calore umano, un po’ di sincero conforto. Si era chiesto, mentre
attraversavano la città, che cosa il Libero avesse pensato di lui, quando gli
era crollato praticamente addosso, ma inbreve aveva lasciato perdere quella preoccupazione, riservandosi delle
dovute scuse una volta che la situazione fosse almeno un po’ migliorata. Per
ora, Yuu gli teneva compagnia e tanto bastava.
«Sei sicuro di non voler restare da me
almeno per qualche ora?», gli chiese nuovamente il ragazzo «Sono certo che io e
Tanaka potremmo distrarti almeno un po’ o aiutarti a
pensare alla prossima cosa da fare».
«No. Non serve», sussurrò Koushi, con ancora la testa sulla sua spalla «Forse ora ho
solo bisogno di stare un po’ tranquillo e rifletterci con calma». Trattenne a
stento un “mi dispiace”: sapeva che Noya non avrebbe
apprezzato.
«D’accordo», accettò il Libero «Ma puoi
chiamarmi, per qualsiasi cosa», gli ricordò alla fine. Non gli aveva detto che
quando Suga era scomparso per qualche minuto in bagno, per sciacquarsi il viso
sporco di lacrime, il capitano dell’Aoba gli aveva
parlato: poche parole, davvero, ma dense. “Non
lasciatelo solo”, aveva detto “Non
riesce chiedere aiuto, ma ne ha bisogno. Soprattutto dai suoi compagni di
squadra e da quelli del suo stesso anno”. Non poteva parlare con assoluta certezza per
gli altri, ma lui non aveva nessuna idea di abbandonarlo, men che meno in un
simile momento.
Un po’ a malincuore, quando furono
arrivati davanti casa sua, Noya lasciò scendere Suga,
salutandolo con affetto e ripromettendosi di farsi sentire e che si sarebbero
poi senz’altro visti il giorno dopo a scuola. L’alzatore annuì, raccomandandosi
di stare attento e prendersi cura di sé e ringraziò la signora per aver avuto
tanta premura ad accompagnarlo.
«Andiamo a casa?», chiese la donna,
quando riprese a guidare.
«No. Andiamo da Asahi».
La madre di Yuu
guardò per qualche istante nello specchietto retrovisoree scorse un espressione tesa sul viso del
figlio; non avrebbe mai voluto vederlo in quello stato e se fosse spettato a
lei, sarebbe già andata a parlare con quel ragazzo che aveva improvvisamente
preso a rendere tanto triste il suo bambino. Ma aveva anche imparato a non
intromettersi nella vita del figlio, non in questi casi almeno, e per quanto
avrebbe fatto di tutto pur non portarlo da chi poteva ancora ferirlo, sapeva
che la sola cosa di cui Yuu aveva bisogno al momento
era vedere Asahi e parlargli. Capire.
Non disse nulla, quindi; non commentò
né gli diede pareri, maguidò con calma
fino alla casa della famiglia Azumane. Il ragazzo le
disse di non aspettarlo, che sarebbe tornato a piedi e lei annuì appena – aveva
capito che Yuu non voleva essere visto, nel caso
avessero discusso fuori casa, o che comunque non avrebbe voluto affrontare lei
subito dopo aver affrontato Asahi, nel caso le cose non fossero andate per il
meglio. Lo salutò e gettò occhiate verso di lui, dallo specchietto, finché non
ebbe svoltato.
Solo quando l’automobile della madre fu
sparita alla prima volta, Noya si decise a bussare.
Attese qualche istante prima che la signora Azumane
venisse ad aprire la porta. Lo guardò con un sorriso e lo sguardo un po’ triste
– Yuu capì che non doveva aspettarsi qualcosa di
facile.
«Asahi è in camera sua. Sono contenta
che tu sia venuto a trovarlo. Come stai?».
Noya fece uno
dei suoi radiosi sorrisi, alzando un pollice in segno d’assenso.
«Sono di ferro, signora, ancora non
l’ha capito?», rise «Questo non è che un graffio», minimizzò.
La donna gli scompigliò i capelli con
una familiarità che poteva concedersi da tempo: conosceva quel ragazzino da due
anni e da quasi un anno il legame lo aveva unito a suo figlio, consolidando
l’affetto che i due già provavano l’uno per l’altro. Non credeva di far torto a
nessuno quando pensava a lui come ad un altro figlio, per cui sperare sempre e
solo il bene.
Noya non
disse più nulla, ma si diresse verso la stanza si Asahi, su per le scale. Si
fermò per qualche istante contro la porta e per la prima vola si concesse di
pensare davvero a quello che stava per fare. Era per la prima volta davvero
solo con i suoi pensieri ed i suoi dubbi e tutti gli sforzi che fino a quel
momento avevo fatto per non pensare a ciò che stava succedendo vennero meno;
doveva essere così, dopotutto, doveva concedersi di pensare a cosa sarebbe
significato discutere con Asahi e doveva farlo ora che era da solo, prima di
vederlo. Per i giorni che era stato in ospedale s’era proibito di pensare al
perché: perché il suo compagno non
era mai venuto a vedere come stava? Perché era andato via la sera stessa
dell’incidente, perché non s’era preoccupato per lui? Lo aveva nascosto agli
altri, fingendo che andasse tutto bene, ma da quando s’era svegliato, il legame
faceva stranamente male, come un’eco di sottofondo, un sottile dolore che non
lo faceva stare tranquillo; aveva creduto che sarebbe passato, che fosse dovuto
all’incidente e che non appena Asahi si fosse presentato alla porta della sua
stanza d’ospedale sarebbe sparita ogni cosa, ma non aveva fatto altro che
diventare più insistente, più persistente. Lo sentiva suo, aveva idea che
avrebbe dovuto imparare a conviverci. Che Asahi non sarebbe mai tornato.
Dopotutto, non era lui ad essere andato a casa dell’Asso?
E, si rese improvvisamente conto Noya, il solo pensare ad una simile eventualità lo
terrorizzava.
Quando si decise finalmente a bussare
alla porta, il giovane Libero aveva meno della metà della sicurezza con cui era
entrato in quella casa e il doppio dell’urgenza di vedere il suo compagno e sapere come stavano
effettivamente le cose. L’espressione sorpresa e forse spaventata con cui Asahi
lo accolse, facendo scorrere il pannello, non fece altro che agitarlo ancora di
più. Noya non era mai stato tanto nervoso: era
abituato ad affrontare tutto ciò che gli veniva in contro di petto e a testa
alta. Ma le cose con Azumane cambiavano
drasticamente.
«C-ciao. Ero convinto che tu… Quando ti
hanno dimesso?». Nonostante tutto l’Asso non poté trattenersi dall’osservarlo
per bene, alla ricerca di lividi o ferite – le braccia e le gambe, coperte a
metà dai vestiti, lasciavano intravedere qualche graffio; la cosa peggiore era
quel braccio ingessato.
«Questo pomeriggio, poco fa. Posso
entrate?». Noya non voleva sembrare tanto serio, ma
era più teso di quanto pensasse. Si sentiva sull’orlo di una battaglia che non
avrebbe voluto mai affrontare.
«Yuu, io…».Asahi invece non aveva proprio idea di cosa
fare: che cosa aveva deciso? Qual era il suo proposito finale? Se n’era andato,
lo aveva lasciato solo, ma adesso? Sapeva che prima o poi sarebbe stato
dimesso, che prima o poi questo confronto sarebbe avvenuto. Come faceva a
spiegargli qualcosa che neanche lui era riuscito a comprendere in pieno? Quel
senso di soffocamento, come se avesse la testa sott’acqua e non potesse
prendere fiato, che lo attanagliava da quando era successo l’incidente?
«Hai avuto paura. Lo so, Suga me ne ha
parlato: non sei stato molto in te». Noya parlava e dava
tempo ad Asahi di pensare, ma contemporaneamente rimpiccioliva l’entità del
problema, rendendo senza saperlo il tutto più difficile «Ma adesso sono qui.
Guardami: sto bene!».
Asahi avrebbe voluto ridere e
stringerlo forte: era la sua àncora, il suo personale coraggio. Se quella
sensazione di vuoto non fosse stata tanto pesante nel suo cuore, quelle poche
parole sarebbero bastate a farlo tornare sui suoi passi, a ricordargli che con Noya poteva superare tutto. Ma non fu così – e l’Asso prese
la peggiore delle decisioni.
«Suga si sbaglia. Non si è mai trattato
di paura».
Yuu lo
guardò sorpreso: aveva pensato di mettere da parte la rabbia ed il dolore che
stava provando, di comprendere e parlarne, di andare avanti. Aveva sbagliato
comunque?
«Non ho avuto paura. In realtà, non ho
sentito proprio nulla».
Ad Asahi venne fuori tanto bene quella
bugia che fu impossibile tirarla indietro. Non seppe come, ma mentire fu estremamente
facile, come cacciare in fuori l’aria, forse perché per un attimo ebbe la
sensazione di riuscire a mentire anche a se stesso, nascondendosi dietro
qualcosa di molto più facile. Perché, paradossalmente, era molto più facile
dire qualcosa del genere che spiegare i propri dubbi. I legami si
affievolivano, i legami potevano spezzarsi. Era più facile che confessare di
avere paura perché la loro connessione, invece, era troppo forte. Forte da
mandarlo nel panico più totale.
«…Cosa? Cosa intendi? Come può
essere…?». Noya però non capiva: come poteva essere
possibile? Non lo aveva sentito? Non s’era preoccupato? Ma il loro legame, la
loro connessione… Asahi era letteralmente l’unica persona su cui Yuu avrebbe sempre potuto contare, quella di cui sentiva di
non poter fare a meno… Che cosa significava questo?
«Mi dispiace. Io non avevo idea di come
dirtelo – è stato… è stato Suga a chiamarmi quando è successo: credeva che
stessi troppo male per muovermi ed invece… io non ti ho sentito, Yuu. C’è qualcosa che non va, il nostro legame non è così
forte come pensavamo… forse… forse non lo è mai stato».
A Noya parve
improvvisamente girare la testa. Ad Asahi, invece, mancava l’aria. Che cosa
stava facendo? Ingigantiva quella bugia ad ogni parola che aggiungeva, spinto
dalla forza della disperazione. Non credeva in nulla di ciò che stava dicendo e
allo stesso tempo non riusciva a smettere: aveva dato inizio a qualcosa che ora
pareva alimentarsi da sé, spinto dall’incontrollabile capacità di fare la cosa
più sbagliata nel momento più sbagliato. Asahi si rendeva a malapena conto che
quella bugia stava distruggendo entrambi.
«Ma i colori…», ebbe la forza di
sussurrare il Libero – sentiva il bisogno di sedersi, quasi come se le gambe
che lo avevano retto per tante e faticose partite ora avessero decido di
abbandonarlo senza apparente motivo.
«Ci siamo illusi che bastassero, ma Yuu, i colori vanno e vengono… spariscono… forse non è mai
stato destino, forse non era con noi due che doveva succedere». Forse non ti merito, forse starai meglio
senza di me, più al sicuro, più tranquillo, più te stesso.
Noya restò a
pensarci per qualche istante portandosi la mano al petto e stringendo la
maglietta. Era questo allora? Il dolore che sentiva da quando s’era svegliato e
che aveva attribuito alla lontananza di Asahi era questo in realtà? Il loro
legame che cedeva, che nel momento fondamentale si rivelava insufficiente…? Non
erano abbastanza uniti da sentirsi, i loro colori non bruciavano con tutta
l’intensità che era loro possibile, le loro anime non erano davvero sulla
stessa lunghezza. E lui per tutto questo s’era illuso di averlo trovato il
proprio compagno e che fosse Asahi.
Il suo Asahi…
L’Asso vedeva il dolore, la delusione,
lo sconforto dipinti sul volto della sola persona di cui gli importava più che
di se stesso e l’idea di essere la causa di tutto quello lo faceva sentire male.
Cercava di ripetersi che era per il suo bene, per evitargli qualcosa di gran
lunga peggiore, per liberarlo da un compagno
che aveva paura, che prima o poi gli avrebbe fatto del male e non se lo sarebbe
mai perdonato, ma il loro legame pareva ferito da ogni parola e faceva
dannatamente male – era forte: tutte le bugie sulla sua debolezza parevano
averlo reso, per ripicca, ancora più forte, perché entrambi sentissero il male
che Asahi stava facendo loro.
«Yuu,
ascolta, io…». Eccolo, il primo momento di esitazione. Asahi non voleva far
loro del male. Non volontariamente.
«Va tutto bene». Noya
si accorse appena che una lacrima era rovinata giù, lungo la guancia, andandosi
a perdere tra le pieghe del collo «Devi solo… dammi solo del tempo per capire
che ci stiamo lasciando, che mi stai lasciando».
«Io non ti sto-». Oh. Come poteva
essere che, pur non sapendo, Yuu avesse centrato il
punto della situazione? Perché Asahi la verità la sapeva: lui lo stava
lasciando. E in modo subdolo e meschino, con l’inganno. Eppure, Noya riusciva a dire le cose giuste, a ferirlo e punirlo
per quella tortura.
«Certo che sì. Perché ti direi di
provarci comunque, ti direi di guardare Kageyama ed Hinata, prendere esempio da loro, da come abbiano scelto di stare insieme, nonostante tutto,
perché si sono trovati al di là di ciò che aveva deciso il loro legame, ma se
tu volessi davvero farlo, crederci,
avresti cominciato in questo modo la conversazione, invece di dirmi soltanto
che non mi hai sentito. È ovvio che non ci credi, che non vuoi provarci. E ho
mentito, non va bene, non va per nulla bene».
Noya cercò di
non alzare la voce, ma questa saliva su fino ai toni più alti, ispirata dalla
rabbia e dal dolore che fino ad allora aveva contenuto nel petto. Perché al di
là di tutto, Asahi aveva aspettato che fosse lui a cercare il dialogo, dopo
giorni senza farsi sentire, e aveva rinunciato a tutto, stava rinunciando a
tutto senza neanche lottare per loro. Che senso aveva, per lui, volerlo fare,
se il suo compagno non era disposto a
tanto?
Asahi avrebbe voluto piangere. Quanto
era stato stupido per non rendersi conto che Yuu non
avrebbe mai accettato una simile situazione, vera o inventata che fosse, senza
combattere? Come aveva anche solo potuto pensare che ci sarebbe sceso a patti
senza rispondere, contrattaccare, difendere quello che avevano? Sentiva le sue
forze venire meno e con esse crollare le mura che aveva innalzato intorno a sé
per permettersi di scappare.
Ma come cadevano le sue mura, anche le
forze di Noya si disperdevano e questo lo salvò. Il
ragazzo gli voltò le spalle, facendo qualche passo verso la porta della stanza
– non aveva più senso restare.
«Asahi…?». Si fermò sulla soglia.
Ecco, pensò
l’Asso, se parla ora, se torna sui suoi
passi ed insiste, sono finito. Non ce l’avrebbe fatta a reggere ancora
tutto quel dolore, tutte quelle bugie dette con troppa leggerezza e
l’espressione distrutta, tradita sul volto di Noya.
Se gli avesse chiesto di non allontanarlo, di non allontanarsi, di restare, lui
lo avrebbe fatto. Dopotutto, si rese conto in quel preciso istante, al di là
del dolore e dei dubbi, della disperazione e dell’annientamento che aveva
provato, era Yuu che voleva.
«Suga ha bisogno di te. Senza Daichi, ora sei il solo che possa davvero stargli accanto.
Non lasciare anche lui». Noya non si voltò, poi sparì
oltre la porta, lungo le scale.
Erano passate da poco le nove quando Koushi sentì bussare alla sua porta; la madre si affacciò
con cautela, premurandosi di non fare rumore nel caso stesse già dormendo,
poiché non lo aveva sentito rispondere: lo trovò steso sul letto, gli occhi
chiusi, il viso gettato di lato, stanco. Lo osservò con un po’ di apprensione –
gli pareva di non vederlo sereno da anni, nonostante in realtà fossero solo
pochi giorni – e stava per uscire, quando il ragazzo la chiamò.
«Non volevo svegliarti, mi dispiace».
«Non dormivo». Non dormo da così tanto tempo, mamma… «È successo qualcosa?».
La donna parve pensarci su prima di
rispondere.
«C’è un tuo compagno di squadra alla
porta, ma se vuoi posso dirgli che dormi e mandarlo via». Suga sorrise appena,
con stanca dolcezza.
«È Noya? Gli
avevo detto che non doveva preoccuparsi…».
«No, in realtà si tratta di Azumane».
Koushi rimase
per qualche istante interdetto, senza sapere che cosa rispondere: Asahi era lì?
Voleva vederlo o forse parlagli? Pensò che non sapeva se era in grado di
reggere un nuovo confronto, ma allo stesso tempo aveva davvero voglia di stare
con lui, perché in quei giorni gli era mancato davvero tanto. Ad ogni modo,
prima ancora di poter decidere, fu proprio la voce dell’Asso a sorprenderlo.
«Mi-mi dispiace… so quanto sia
maleducato venire su senza permesso ma… Ho davvero bisogno di stare un po’ con
te, Koushi».
Suga non sarebbe mai riuscito a dire di
no a quella richiesta: Asahi era uno dei suoi migliori amici, dopotutto, e il dolore
che provava poteva leggerlo, uguale, nei suoi occhi bassi, nel modo in cui si
torturava le mani o nel lieve pallore del suo viso. S’erano allontanati, si
rese conto, in un momento in cui avrebbero potuto farsi forza a vicenda e anche
se in ritardo, Koushi non chiedeva altro. La
delusione per averlo visto andare via non contava più niente ora che lo aveva
di nuovo di fronte.
«Mamma, lascia che Asahi stia qui, va
bene?», chiese con gentilezza, facendo qualche passo verso il ragazzo «Abbiamo
molte cose da dirci».
In realtà, per i primi momenti rimasero
in silenzio, Suga seduto sul proprio letto ed Asahi sulla sedia della
scrivania: il primo non sapeva da dove cominciare per mandare avanti la
conversazione, il secondo non aveva alcuna intenzione – né voglia – di
confessare all’altro quello che aveva fatto, perché parlarne con Suga, tirare
tutto fuori, avrebbe smontato ogni cosa, lo avrebbe reso debole e distrutto
tutta la sua stessa messinscena.
«Daichi non
ricorda». Koushi aveva rinunciato ad organizzare i
suoi pensieri o ad aspettare che lo facesse l’Asso. «Non ricorda di essere al
terzo anno con noi, non ricorda la sua squadra di pallavolo, non ricorda che la
prima volta che ci siamo baciati c’era la neve e che io ero tanto sorpreso da
aver quasi preso uno scivolone. Non c’è nulla di lui – mi guarda e non sa chi
sono. Brilla e non sa chi sono».
Asahi lo guardò senza sapere come si
facesse a parlare. Si sentiva così male con se stesso da aver voglia di
vomitare: Suga soffriva per il suo compagno, si aggrappava a quel dolore perché
lo voleva, voleva stare con Daichi con tutto se
stesso – mentre lui aveva deliberatamente allontanato Noya…
«Non può dimenticarti». Parlò sinceramente
– fu strano tornare ad essere se stesso, non dover fingere «Potrà non ricordare
in questo momento, ma non può dimenticare per sempre, non te, Suga». Gli
sorrise e fece male, perché sapeva che quelle parole valevano anche per se
stesso, perché Noya avrebbe potuto non salutarlo mai
più, odiarlo per sempre e lui non avrebbe mai dimenticato tutto il bene,
l’amore che provava per lui, il motivo per cui lo aveva lasciato andare. Si
sarebbe aggrappato a quello, alla sua felicità per superare il proprio dolore.
Perché, ne era certo, Yuu sarebbe stato di nuovo
felice.
«Resteresti
con me, stanotte?».
«Posso restare con te, stanotte?».
Avevano parlato insieme e risero
entrambi: per un secondo parve loro di essere tornati quelli di prima, prima
dell’incidente, prima che Asahi si allontanasse, prima che Suga si sentisse
tanto solo.
«Mi spiace di non esserti stato
accanto», si scusò l’Asso, senza riuscire a guardarlo negli occhi, mentre
l’altro gli faceva segno di venire con lui sul letto.
«Quando vorrai parlarne, voglio che tu
sappia che sono qui. E che non ti giudicherò».
Asahi era certo che, invece, se gli
avesse davvero raccontato tutto, Suga gli avrebbe fatto una bella lavata di
capo – e se la sarebbe meritata tutta, perché nella situazione in cui era
l’alzatore, mai avrebbe potuto capire che cosa aveva provato. Eppure quelle
parole gli avevano portato un conforto che non s’aspettava. S’accucciò accanto
a lui e nonostante fosse il più alto dei due, Koushi
gli dava sicurezza col calore del proprio corpo, un calore che ad Asahi mancava
tantissimo.
«In un certo senso, ho chiarito con Noya. Ma grazie».
Suga non fece altre domande, non
insistette, ma fece passare una mano lungo il volto dell’amico, in una carezza
che fece sorridere entrambi. Asahi si accucciò, su di un fianco, contro il
profilo del corpo di Suga, che, supino, tirò a sé una delle sue braccia sul
proprio addome. Cercavano la pace, provavano a trovarla nella loro amicizia.
«Staremo bene», sussurrò l’alzatore,
chiudendo gli occhi.
Asahi si lasciò cullare da quella
bugia.
Nello stesso momento, Iwaizumi sussurrava ad Oikawa
che, nonostante il pomeriggio con Tobio, gli era
mancato molto e Kageyama tirava a sé Hinata in un tenero bacio.
***
Col passare dei giorni, tutti si resero
conto che “stare bene” era un concetto davvero troppo vago e che in esso poteva
entrare tranquillamente una casistica così ampia da perdere velocemente il suo
reale significato. Di certo, infatti, nessuno avrebbe potuto negare che la
squadra stesse bene: aveva ripreso ad allenarsi con una certa regolarità e
pareva aver addirittura ritrovato la carica giusta per essere competitiva.
Suga stava bene, mentre con Ennoshita gestiva la squadra e preparava schemi e
formazioni col coach Ukai; Asahi stava bene e anzi
pareva ancora più concentrato nel suo ruolo di Asso. Noya
stava a bordo campo: osservava la squadra e nella sua mente si muoveva come se
fosse in partita - il braccio rotto non pareva disturbarlo troppo ed aveva
rassicurato tutti con un caldo sorriso che sarebbe tornato presto in forma.
Infine c'era Daichi.
Era stato dimesso ed aveva preso da subito a frequentare le lezioni con la
speranza che tornare a fare le cose più quotidiane lo avrebbe aiutato a
ricordare. Dopotutto, stava fisicamente bene e non c’era alcun motivo per
costringersi ad un isolamento più grande di quello in cui era già precipitato.
Diversi ragazzi della squadra erano stati da lui, sia in ospedale che a casa, e
lo avevano aiutato nel suo reinserimento a scuola: a quanto pareva, era molto
amato dai suoi compagni – addirittura, aveva scoperto di essere il capitano del
club di pallavolo!
Nonostante questo, Daichi
continuava ad avere solo sensazione confuse a riguardo e sebbene il calore che
sentiva non gli dispiacesse affatto, non aveva confessato a nessuno di avere
sempre più paura di deludere le aspettative di tutti. Da Suga aveva tenuto
maggiormente le distanze e dal giorno in cui lo aveva incontrato per la prima
volta in ospedale, non s’erano più rivolti la parola: davanti ai suoi occhi
brillava più di qualunque altra cosa e il ragazzo non aveva la minima idea di
cosa significasse. Aveva solo la sensazione che Koushi
fosse quello che avrebbe deluso più profondamente se non fosse tornato ad
essere chi si aspettavano che lui fosse.
Si era dato del tempo prima di presentarsi
al club di pallavolo, qualche giorno per cercare un po’ pace dentro, stemperare
il tormento, la voragine che pareva circondarlo ed inghiottirlo e magari
recuperare frammenti della sua vita passata così da potersi presentare con
qualcosa in più, qualcosa da offrire in cambio dell’attesa per il ritorno del
loro capitano. Quando, però, non era successo nulla, s’era semplicemente
buttato.
I ragazzi – se l’aspettava – lo avevano
accolto con sorrisi ed entusiasmo, gli avevano dato pacche sulla spalla e strette
di mano: per qualche istante Daichi era stato
ciecamente convinto di averlo trovato, il suo posto, la sua pace. Di avere un
punto da cui partire, che non fossero necessariamente i ricordi. Poi le
aspettative avevano distrutto ogni cosa. Perché ovviamente dal capitano ci si
aspettava quanto prima almeno la presenza in campo, mentre il ragazzo guardava
la palla senza sapere come muoversi – di tanto in tanto un certo istinto pareva
scuoterlo, ma erano molte di più le volte in cui stava fermo per paura di sbagliare.
Ed era irritante, frustrante, perché Daichi in cuor suo sapeva di non essere quel tipo di
persona; sapeva con certezza, anzi, di essere sicuro di sé, eppure non poteva
fare a meno di temere che se ci avesse provato la mente non sarebbe riuscita a seguire
l’istinto, che il corpo lo avrebbe tradito in qualche modo, che deludendo i
suoi compagni anche quel briciolo di pace che stava faticosamente accumulando
sarebbe stata spazzata via.
Per questo preferiva stare a bordo
campo e guardare, studiare quelli che dicevano di essere i suoi compagni e che
per lui erano solo degli sconosciuti. Restava seduto in panchina, un po’ distante
dal coach Ukai e dal professor Takeda,
in silenzio. Di tanto in tanto, gli occhi cadevano su Suga, sul modo in cui
gestiva la palla in quella partita, sul coinvolgimento che lo trascinava e la
serietà che mostrava, il volto appena bagnato dal sudore dello sforzo.
«Suga!». Asahi chiamò la palla con una
sicurezza che sorprese un po’ tutti – certo, restava sempre l’Asso e tuttavia, soprattutto
all’alzatore, la sua parve una consapevolezza del tutto nuova e piuttosto
forte. Asahi non era mai stato concentrato in questo modo sul suo gioco. Fece
punto senza alcuna difficoltà, superando il muro di Kageyama
e Tsukishima in modo fin troppo facile. Suga sospirò
soddisfatto e il gioco riprese con una certa sobrietà.
«Era una buona azione», si lasciò
scappare Daichi, attento come sempre al gioco «Sono
così concentrati su quello che fanno da non concedersi neanche un istante di
compiacimento».
Ukai lo
guardò, colpito da quelle parole come da un’improvvisa luce: sì, erano stati
bravi e Daichi, nonostante tutto, poteva sentirlo a
pelle. Ma si sbagliava: la Karasuno era abituata ad
esultare, era composta da ragazzi che avevano lavorato tantissimo per arrivare
al punto in cui erano e che erano felici e fieri di ogni piccolo miglioramento,
di qualunque obiettivo raggiunto. Quelle partite di allentamento, di solito,
erano molto più rumorose di così.
Stava bene, la squadra. E in quella
definizione classica e tanto ampia rientrava la perdita di una brillantezza che
era loro propria. No, la Karasuno non stava affatto bene.
La squadra era partita di notte per arrivare
nella prima mattinata, pronta a giocare in quei due giorni di allenamento
proposti dalla Nekoma. Quel primo breve campo d’allenamento
sarebbe stato un assaggio di ciò che li avrebbe impegnati a breve per un’intera
settimana, con le altre squadre della Fukurodani Accademy
Group, e tutti speravano che in qualche modo potesse essere produttivo:
coincideva, probabilmente, col momento in cui la Karasuno
era meno concentrata in assoluto. Questa era la più grande preoccupazione del
coach Ukai: non poteva fare nulla per i problemi
personali che quei ragazzi stavano affrontando, ma avrebbe provato qualunque cosa
per tenerli con la testa nel gioco e far sì che quelle settimane portassero i
frutti sperati.
«Crede che siano in grado di affrontare
questo doppio allenamento?».
Ukai non si
era reso conto di quanto il professore fosse preoccupato: il tono della sua
voce era tirato, quasi stridulo. Tolse per qualche istante gli occhi dalla
strada e intravide la sua espressione seria, terribilmente innaturale sul quel
viso solitamente tanto dolce.
«Credo possa fare loro bene – avere la
mente fissa su qualcosa, scaricare in questo modo lo stress e la tensione…
magari potrebbe persino aiutarli». Ukai si scoprì più
ottimista di quanto credesse di essere – forse lo aveva detto solo per
tranquillizzare il professore: c’era qualcosa di troppo sbagliato nel non
vederlo sorridere.
Takeda s’era
voltato ad osservare i ragazzi: qualcuno dormiva già, qualcuno guardava la
notte fuori dal finestrino; sperava ci fosse un modo per far tornare la loro
brillantezza, un modo per riportare a galla il loro genuino entusiasmo. Avrebbe
voluto essere loro d’aiuto, consigliarli o semplicemente ascoltarli in caso
avessero bisogno di qualcuno con cui parlare, sfogarsi. Aveva sempre pensato
che tutta questa faccenda dei compagni
non sarebbe dovuta accadere ad un’età tanto giovane, quando tutto era ancora
così incerto, inclusi i sentimenti; invece, accadeva sempre più spesso e sempre
prima, quasi ci tenesse a mostrare l’imperfezione in un sistema in teoria tanto
perfetto.
Il professore sospirò: aveva idea che quei
campi d’allenamento sarebbero stati più di una semplice sessione di
preparazione alle qualificazioni del Torneo primaverile. Dopotutto, ci sperava.
Suga, quasi in fondo al pullman, si
faceva pigramente distrarre dallo scorrere veloce delle luci dei lampioni sulla
strada, senza prestare davvero attenzione a nulla: non sapeva a cosa pensare e
anzi, come mai prima nella sua vita, si sentiva estremamente nervoso riguardo
ai giorni che avrebbe passato con la squadra – con Daichi.
Fino a quel momento erano stati dolorosamente bravi a d evitare anche solo che
i loro occhi si incontrassero: cosa sarebbe successo ora che erano costretti a
stare tanto tempo a contatto? Si sarebbero continuati a schivare, come un tiro
troppo lungo o un pugno dritto al viso, fingendo di non sapere che cosa li
univa? Koushi avrebbe semplicemente abbracciato lo
stesso inconsapevole oblio in cui era scivolato Daichi,
ignorando il dolore che, comunque, provava? Il suo legame continuava a fare
male, una sofferenza sottile e malinconica, una triste e costante presenza che
gli ricordava ciò che aveva perso, ciò che stava continuando a perdere minuto
dopo minuto.
L’alzatore si voltò verso Noya, seduto al suo fianco – lui aveva lo sguardo perso
lungo la forma del sedile che aveva di fronte e la luce del pullman lo
illuminava a tratti, gettando strane ombre sul suo viso appena tirato. Lo spiò
finché il Libero non si rese conto di avere i suoi occhi addosso e ricambiò il
suo sguardo; rimasero semplicemente a studiarsi per qualche istante, senza
imbarazzo e consapevoli del tormento altrui, finché il libero non sospirò
sorridendo.
«Non devi essere preoccupato per me,
Suga», lo rassicurò «Mi sto riprendendo». Aveva fatto in modo di togliere il
gesso proprio quella mattina, giusto in tempo per il Campo ed ora il braccio
era tenuto fermo da un tutore. «Tornerò a giocare in men che non si dica,
vedrai! Per le qualificazioni del Torneo Primaverile sarò in perfetta forma!».
Suga lo guardò con un abbozzo di
sorriso, troppo debole, troppo incerto. Il buio lo aiutò ad esporsi – tutta la
bontà e la gentilezza, tutta la premura che aveva per i suoi compagni rendevano
ancora più difficile per lui cambiare il ruolo che aveva preso su di sé,
spostarsi dall’altro lato, chiedere ed avere bisogno di aiuto.
«Non so davvero come tu faccia… Io… Io
non so per quanto ancora riuscirò a reggere tutto questo… Gli allenamenti, Daichi… Il legame… fa sempre più male ogni volta che sento
il suo sguardo su di me e mi sforzo di non ricambiarlo, ogni volta che lui non sa
chi sono. Mi sento come sospeso, in attesa di svegliarmi da questo incubo».
Noya distolse
lo sguardo: capiva, capiva bene quello che Suga intendeva dire: per lui era
esattamente la stessa cosa – il dolore, la solitudine… faticava a concentrarsi
ed era ancora peggio dal momento che non poteva neanche sfogarsi attraverso la
pallavolo. Asahi lo trattava come un estraneo con cui essere gentile senza
esporsi, restando formale e con una freddezza che uccideva il libero
lentamente, ma a cui non poteva opporsi in alcun modo.
«Credo che dovresti parlargli», stava
continuando intanto Suga, «Sai com’è fatto Asahi: si spaventa con poco, è così
insicuro di sé, ma non vale la pena allontanarvi tanto per questo… Ha sofferto
molto quando ha sentito l’incidente e
quel tipo di dolore non ha nulla a che vedere con ciò che stiamo provando noi
ora: è come sentirsi strappare la vita da dosso, ti annienta, ti senti
completamente impotente ed inutile. Immagino sia quella la sensazione che resta
quando il tuo compagno…».
Yuu aveva
smetto di ascoltare l’alzatore. S’era fermato ad una delle prime frasi che
aveva detto e non era stato in grado di sentire oltre le sue parole. Asahi era
stato male? Male per lui, male per il legame che li univa? Ma allora-
«Ne sei sicuro?!», lo interruppe: c’era
urgenza nella sua voce, mentre gli teneva il braccio con una stretta forte
della mano.
«Si-sicuro? Di cosa?». Suga lo guardava
senza capire.
«Del fatto che Asahi sia stato male».
«C-certo che ne sono sicuro! Quando
sono arrivato, era già seduto nel corridoio di attesa: aveva sentito il tuo incidente e i suoi
genitori lo avevano accompagnato di corsa in ospedale. Era pallido, sudava
freddo e tremava tutto mentre si ripeteva che le cose sarebbero andate bene,
che tu non potevi essere… Poi è semplicemente rimasto in silenzio per tutto il
tempo che i medici hanno tenuto te e Daichi in sala
operatoria. Quando gli ho parlato era come se non fosse davvero lì con me e se
n’è andato solo dopo aver saputo che saresti stato bene».
Noya non
riusciva a credere alle parole di Suga. Che cosa significava tutto quello?
Asahi gli aveva chiaramente detto di non aver sentito nulla, anzi era stato
proprio quello il motivo per cui s’erano lasciati, per cui lui aveva ceduto…
Possibile che gli avesse mentito, che avesse usato una scusa simile solo per
allontanarlo? E per quale motivo, poi? Paura? Paura di perderlo? Non lo aveva
perso comunque in quel modo, non s’erano persi comunque? Anzi, era stato
peggio: Asahi lo aveva lasciato andare, aveva volontariamente rinunciato a lui
– lo aveva lasciato indietro.
«Noya, che
succede? Qualcosa non va? Ho detto qualcosa che-».
«No», lo bloccò il Libero – sorrideva
di un sorriso isterico e Suga vide i suoi occhi brillare di lacrime. Sapeva di
aver fatto qualcosa di sbagliato, di aver detto qualcosa che non avrebbe dovuto
lasciarsi scappare, ma non sapeva cosa e come porvi rimedio.
Si sporse verso di lui, prendendogli il
braccio e ricambiando il quel modo la stretta con cui l’altro ancora lo teneva.
Yuu era pallido, tremava quasi, qualche lacrima era
scesa sul viso – era questo il valore che aveva per il suo compagno? Qualcuno da tenere vicino ed allontanare a proprio
piacimento e al primo spavento? Era tanto debole per lui, tanto insignificante
da non meritare la verità? Noya piangeva, ma il
dolore del suo legame s’era trasformato in una rabbia cieca, in un ringhio
istintivo che nasceva dal profondo delle viscere, montava come la marea: aveva
voglia di gridare tutto il rancore e la follia che sentiva dentro, prendere a
pugni tutto ciò che gli si parava davanti. Asahi lo aveva tradito e lui non
aveva meritato nulla di più di una bugia.
«Yuu, mi sto davvero spaventando».
Le ultime parole di Suga, il suo tono,
fecero sì che il ragazzo prendesse nuovamente contatto con la realtà che lo
circondava. Mise a fuoco l’amico e cercò di calmarsi: Sugawara
non aveva colpe e anzi avrebbe dovuto ringraziarlo perché gli aveva aperto gli
occhi. Ora Noya bruciava di una fiamma che Asahi
aveva rischiato – cercato? – di spegnere e che lui avrebbe, invece, conservato
e protetto. E gliel’avrebbe mostrato di nuovo, quel fuoco. Lo avrebbe bruciato
nelle sue fiamme.
Fece un profondo respiro e trattenne
tutto quello che ancora lo agitava; si asciugò le lacrime che ancora gli
bagnavano il viso e si poggiò contro lo schienale del sediolino,
improvvisamente calmo, della calma che segue una decisione. Ora sapeva che cosa
fare.
______________________
Ed ecco anche la seconda parte! Spero
che il tutto stia continuando a piacervi e ringrazio coloro che in un modo o
nell’altro hanno lasciato un segno al loro passaggio!
Probabilmente entro la fine della settimana
sarà online anche l’ultima parte, quindi a prestissimo~
Pairing: Daichi x
Suga |Asahi x Noya |(in più piccola parte
anche Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata).
Parte: 3/3 (sebbene la storia nasca e si sviluppi
come unica e sia divisa solo per comodità).
Avvertimento: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Angst | Molto angst |
Sebbene siano vicende nuove, la storia nel suo continuum e contesto è legata
alla prima soulmate di questa raccolta, che
può essere letta qui.
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie, come sempre,
alla mia Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia e beta tutto quello
che scrivo.
Just a little late (you found me).
Parte Terza
Era ormai
giorno, quando i ragazzi della Karasuno poterono
finalmente scendere e respirare l’aria fresca che la mattinata di Tokyo
regalava loro. Qualcuno prese a fare stretching per sciogliere i muscoli
intorpiditi dal sonno e dalla posizione fissa, altri semplicemente si
guardavano con meraviglia intorno, per la prima volta a contatto con una città
tanto grande.
Suga e Noya scesero insieme, benché non avessero più proferito
parola per il resto del viaggio e l’alzatore avesse anzi problemi a far partire
una semplice conversazione. Si allontanò da lui quasi senza rendersene conto,
avvicinandosi ad Ennoshita e Yamaguchi,
gli unici insieme a Tsukishima e Tanaka
che in qualche modo erano stati presi dalla situazione solo marginalmente.
«Credete
che Kageyama ed Hinata se
la stiano cavando con i test?», si stava chiedendo Yamaguchi
«Ieri sera sembravano così dispiaciuti di non essere potuti venire con noi».
Tsukki lo
guardò brevemente: che senso aveva preoccuparsi a quel modo? Era totalmente
colpa loro: se si fossero impegnati di più anche a lezione, invece di consumare
energie altrove, ora sarebbero lì insieme a loro – invece avevano fatto danno a
loro stessi e alla squadra. Non essere a Tokyo quella mattina era il minimo.
«Erano
anche abbastanza determinati a non perdere il Campo, però», sopraggiunse Ennoshita e Suga, unitosi a loro, non poté che annuire in
consenso. «Sono certo che ce li troveremo qui per metà mattinata!». Poi si
voltò verso Tanaka. «Siamo sicuri che riusciranno ad
arrivare, piuttosto?».
Ryuu rise con
fare superiore. Una parte di lui era estremamente consapevole della guida
sconsiderata della sorella e davvero non invidiava il viaggio che quei due
avrebbero dovuto affrontare, tuttavia era stato un ottimo senpai ed era riuscito a garantire loro un modo per raggiungerli,
quindi doveva andarne molto fiero.
«Sono in
una botte di ferro», si vantò, incrociando le braccia al petto, in posa da
eroe. «Il loro senpai ha tutto sotto
controllo e non appena finiranno quello stupido test potranno partire per
raggiungerci!».
Conoscendolo,
Ennoshita non si sentì del tutto rassicurato da
quelle parole, ma sorrise, seguendo gli altri all’interno della struttura che
li avrebbe ospitati per le prossime settimane. Tanaka
fu l’ultimo del gruppo a dirigersi verso l’ingresso: era rimasto fermo,
improvvisamente la sua spavalderia s’era arrestava – Noya,
ancora vicino al pullman da cui erano scesi, pareva aver preso a parlare con
Asahi. Era la prima volta in settimane che accadeva e Ryuu
avrebbe davvero voluto sapere che cosa si stessero dicendo: stavano finalmente
chiarendo? Avevano finalmente deciso di avvicinarsi di nuovo? Tanaka non sapeva ancora che cosa volesse dire avere un
legame, ma davvero non poteva credere che quello tra Yuu
ed Asahi fosse debole come l’Asso aveva invece detto.
«La
squadra è dentro, dovremmo seguirli».
Asahi
stava cercando con poco successo di svincolarsi da Noya,
che gli si era parato di fronte non appena lo aveva visto da solo. Lo guardava
in un modo che all’Asso faceva paura, con una decisione che solitamente il
Libero dedicava allo scontro con gli avversari durante le partite più
difficili. Non aveva mai guardato lui in quel modo, non dopo che era tornato in
squadra, almeno, quando aveva ripreso il suo ruolo. L’idea di un litigio,
nonostante tutto quello che era già successo tra loro, gli faceva salire un
dolore lungo lo stomaco, fino al petto. Sarebbe stato meglio se Noya aveva semplicemente lasciato perdere.
«No», lo
contrastò il più piccolo. «Non finché non avremo chiarito».
«Non
credo ci sia qualcosa da chiarire». Asahi cominciò ad avere paura – non avrebbe
retto quella bugia ancora una volta. «Ti ho spiegato come stanno le cose».
Noya si fece
scappare uno sbuffo di risata, esasperato e quasi isterico. Ne aveva davvero
abbastanza.
«Fin
troppo bene», concordò – il tono era ironico ed Asahi sentì un brivido lungo la
schiena. Lo sapeva.
«Non
senti nulla, giusto? Non hai sentito nulla, non è così?». Yuu
non avrebbe voluto gridare: credeva di essere abbastanza padrone delle proprie
reazioni, ma avere il proprio compagno
di nuovo davanti, guardarlo mentre ancora si ostinava a mentire con così tanta
facilità lo faceva stare male. E l’Asso lo sapeva – non aveva scampo:
raccoglieva i frutti di ciò che aveva seminato.
«Yuu, io-»
«Tu mi
hai mentito! L’incidente lo sai sentito, se stato male per quello che mi è
successo! Perché… perché mi hai mentito? Ho creduto… ho creduto di non essere
abbastanza, ho pensato che fosse colpa mia, che avevo rovinato tutto e non ho
avuto il coraggio di dire nulla! E invece, per tutto questo tempo, sei stato
tu, hai fatto tutto tu! Ha deciso che era troppo, che non ne valeva la pena
stare male per me? Hai avuto paura ancora una volta? Che cosa, Asahi?».
L’Asso
era senza fiato sebbene non avesse ancora detto una parola. Noya
invece sembrava non riuscire a fermarsi.
«Mi hai
lasciato da solo! Mi sono svegliato e non c’eri! Mi sono guardato intorno, in
quella stanza bianca, cercando il tuo viso, il tuo sorriso e invece c’era solo
freddo… freddo e assenza». Il Libero ce la stava mettendo tutta per non
piangere, ma la sensazione che aveva provato quando s’era ripreso in ospedale,
riportata a galla in quel modo, lo faceva stare male. S’era sentito solo,
abbandonato a se stesso, come mai aveva pensato che avrebbe potuto essere.
«Tu-tu
non hai idea di come mi sia sentito quando- Di cosa abbia provato in ospedale,
mentre-».
Asahi boccheggiava,
mentre cercava un modo giusto per spiegare le sue ragioni: tutto quello che
aveva pensato, le motivazioni che nella sua testa aveva trovato per giungere a
quella conclusione ora parevano cenere, resti bruciati dalla rabbia del suo compagno. Aveva sbagliato? Aveva
commesso un errore? Non voleva altro che proteggerlo, togliergli il peso di se
stesso e del suo fallimento… Perché avrebbe fallito, lo sapeva – era già
successo e stavolta avrebbe trascinato giù con sé anche Noya…
«Hai
ragione. Non ho idea di cosa si provi, ma Dio
se ero pronto a scoprirlo!».
Le prime
lacrime premettero agli angoli degli occhi di Asahi, ma il ragazzo fu
abbastanza bravo da non lasciarle scivolare giù. Doveva essere forte,
dimostrare che era fermo nella sua decisione: semplicemente, non era disposto a
vivere col rischio che Noya, prima o poi, provasse
quello che lui aveva provato la sera dell’incidente. Ecco quanto lo amava.
Tutta la sofferenza che stavano sentendo in quel momento non era nulla a
confronto di ciò che Asahi aveva già sperimentato e pareva un prezzo
accettabile da pagare, per Noya.
«Ho
sempre pensato che, in fondo, ti facessimo torto: tu hai sempre avuto molto
coraggio: il coraggio di assumere il ruolo di Asso senza averlo chiesto, il
coraggio di addossarti tutta la colpa di un fallimento e poi di rialzarti – non
ho mai dato nulla di tutto questo per scontato, Asahi. Ma adesso non so più chi
sei e mi rendo conto che forse a sbagliare sono stato io, che sei davvero solo
un codardo».
Azumane incassò
il colpo chiudendo gli occhi e tremando appena: doveva aspettarselo, dopotutto
– non era la verità, in un certo senso? Non era comunque paura la sua? Se fosse
stato qualcun altro, avrebbe semplicemente confessato ciò che pensava, le
ragioni per cui aveva deciso di allontanarlo, ma non lui, non Asahi. Per Asahi
alle volte era più facile semplicemente rinunciare.
Noya, d’altro
canto, non sapeva davvero che cosa volesse dire lasciar perdere. E stava lì, lo
fissava aspettando che parlasse ancora, che si spiegasse. Non aveva rinunciato
a lui, nonostante tutta la sua rabbia e il suo rancore non aveva rinunciato a
lui; ma allo stesso tempo, non poteva semplicemente fingere che le cose gli
andassero bene così come s’erano messe. Quindi lo odiava, amandolo lo odiava e
lo odiava ancora di più perché lo amava.
Si
guardarono, i due compagni, ancora per qualche istante – disprezzo e
rassegnazione si fronteggiavano in una lotta a chi fosse più forte, a chi
avesse più resistenza, finché quel contatto non si interruppe.
«Ragazzi?».
Ennoshita aveva notato che stavano parlando e non
avrebbe davvero voluto intromettersi, ma l’allenamento stava per avere inizio e
dovevano entrare tutti. «Dobbiamo prepararci…».
Noya si mosse
per primo, voltando le spalle al compagno.
«Yuu-». Asahi si sentì morire – fece male come non si
aspettava, come non aveva fatto male la prima volta che gli aveva voltato le
spalle: stavolta il Libero era consapevole di ciò che stava facendo, sceglieva
e sceglieva di lasciarlo.
«Non
abbiamo più nulla da dirci», lo bloccò Noya – aveva
cercato quel contatto per vendicarsi del dolore che stava provando, per esporre
l’Asso, smascherare la sua bugia e farlo crollare, forse anche soffrire. Che
cosa aveva ottenuto, invece?
Tanaka aveva
cercato Nishinoya ovunque dopo gli allenamenti. Non
era il migliore degli oratori, soprattutto quando si trattava di cose tanto
serie come i rapporti col proprio compagno, eppure aveva davvero bisogno di
parlargli, capire cosa era successo – perché qualcosa era successo, di questo
era sicuro. L’aveva capito dal modo in cui, da quella mattina, Yuu aveva guardato Asahi, dal modo in cui quest’ultimo
aveva giocato per tutta la giornata. Se possibile, il loro rapporto era
peggiorato ancora di più.
«Noya?», chiamò, entrando in un grosso sgabuzzino – ormai
stava provando qualunque stanza, dal momento che non lo aveva trovato nella
stanza in cui avrebbero dormito, in mensa o nelle palestre. Tuttavia, nessuno
gli risposte.
Sospirò:
aveva tralasciato qualche posto? Gli stava sfuggendo qualcosa?
D’istinto,
pensò di tornare nello spogliatoio in cui s’erano cambiati dopo l’ultimo set.
Era stato quello l’ultimo posto in cui lo aveva visto con sicurezza e a
pensarci non aveva fatto caso a se fosse uscito con loro, quando Suga era
andato a sistemare la palestra con Ennoshita e gli
altri s’erano mossi verso la mensa.
«Nishinoya, sei qui?», chiese con cautela, entrando nella
stanza ed accendendo la luce.
«Vattene»,
si sentì rispondere: era stato un sussurro, ma nel silenzio aveva pesato come
un grido. Tanaka non pensò neanche per un istante di
fare come gli era stato detto.
Fece
qualche altro passo verso l’interno e finalmente lo scorse, raggruppato su se
stesso in un angolo, la testa nascosta dalle braccia come a voler sparire.
Sembrava estremamente indifeso, così piccolo e debole che Tanaka
sentì lo stomaco stringersi e dolore e rabbia montare allo stesso modo nel suo
petto.
«Yuu», insistette,
scivolando lungo il muro accanto a lui. «Parlami».
Noya alzò la
testa a guardarlo: i suoi occhi brillavano di lacrime ed il volto era pallido
come l’amico non l’aveva mai visto – era così poco lui in quella scena, pareva
opaco, consumato come un disegno sbagliato dalla gomma. Il Libero si stava
lasciando andare e Tanaka aveva estremamente paura.
«Ha scelto di lasciarmi. Non era vero nulla,
mi ha sentito e ha scelto di lasciarmi, fingendo che non fosse successo. Ed io
vorrei davvero rialzarmi e fingere che non sia nulla, ma non ne sono capace,
non ci riesco. Sono così debole…».
Ryuu lo prese
per le spalle, in uno scatto d’ira.
«Tu non
sei debole, NishinoyaYuu!
Tu sei la persona più forte che abbia mai conosciuto! Mi hai capito?! E né Azumane né nessun altro avrà il potere di convincerti del
contrario! Non farti abbattere, non smettere di lottare!».
«Tu non
capisci, Tanaka». Noya era
stanco «Ho già perso… non ho più nulla per cui lottare…».
«Certo che i due primini sono davvero fenomenali!».
Gli
allenamenti della giornata s’erano finalmente conclusi e, nonostante le diverse
sconfitte, la Karasuno poteva ritenersi già
abbastanza soddisfatta del modo in cui aveva giocato, soprattutto dal momento
in cui, risolta la faccenda dei test, anche Hinata e Kageyama li avevano raggiunti – avevano potuto giocare al massimo
e mettere in moto ingranaggi nuovi che sarebbero sicuramente tornati utili una
volta sviluppati.
Suga era
davvero stanco: aveva dormito poco o nulla la notte prima, durante il viaggio,
e quel intero giorno di allenamento lo aveva sfiancato più di quanto credesse
possibile. In più c’era l’intera squadra da tenere sott’occhio e Daichi aveva deciso proprio adesso di rivolgergli la parola
– davvero non poteva essere più sfortunato di così.
Si voltò
verso il capitano mentre posava gli ultimi palloni nel cesto: Daichi lo guardava dritto negli occhi, come non aveva mai
osato fare nelle ultime settimane e questa cosa destabilizzava Koushi – cosa voleva, perché gli parlava ora? Non s’era
reso conto di essere tanto sulla difensiva come in quel momento, mentre il suo compagno si muoveva verso di lui e
semplicemente avrebbe voluto essere in un altro posto, lontano, al sicuro dal
dolore che, lo sapeva, ne sarebbe derivato.
Daichi invece
sembrava sicuro come non lo era mai stato da quando aveva ripreso conoscenza.
Si muoveva verso di lui, consapevole del fatto che fossero ormai da soli in
palestra. Sapeva quello che voleva e sperava che potesse essere d’aiuto ad
entrambi. Si fermò solo quando fu ad un soffio da Suga, così vicino da poter
sentire il suo respiro leggermente accelerato, gli occhi appena spalancati e
fissi addosso e il corpo teso ma bloccato, impossibilitato a muoversi. Così lo
baciò, con quella decisione, e contro la fissa rigidità dell’altro premette le
sue labbra in maniera del tutto inaspettata.
Suga si
sentì mancare l’aria, come se lo avessero colpito in un punto ben preciso tra
petto e stomaco, e non ci fu alcuna gioia in quel gesto, alcuna dolcezza in
quelle labbra che parevano baciarlo per la prima volta. Nulla, nulla gli
ricordava il suo compagno, nulla in
quel gesto sapeva di lui. Si allontanò di
fretta, mettendo le braccia avanti, creando uno spazio fisico tra loro che gli
garantisse sicurezza.
«Che
diavolo pensi di fare?!».
Daichi lo
guardava sinceramente sorpreso. Ovviamente, non si aspettava necessariamente
una reazione positiva, ma quell’allontanamento in qualche modo era stato troppo
e lo aveva ferito, anche se in maniera del tutto illogica.
«Tu- tu non puoi. Tu-». Suga
invece era sconvolto e ad ogni nuovo respiro aumentava in lui il panico ed il
dolore. Anzi, non era propriamente un dolore, era un bisogno insoddisfatto, la
consapevolezza che quella non fosse la cosa giusta eppure la sfiorasse senza
raggiungerla davvero, come il miraggio di un’oasi nel deserto, la visione di un
sogno sfumato.
«Mi
dispiace. Non volevo… non volevo che reagissi in questo modo». Daichi non sapeva che cosa fare. Aveva creduto di agire per
il meglio, che fosse un modo per… «Ci sto provando». La voce si ruppe in un
singhiozzo che Suga non si aspettava «Ci sto provando così tanto a ricordare, Koushi. E ho
creduto che forse in questo modo potessi recuperare qualche ricordo… Che
sarebbero semplicemente tornati…».
Daichi non
voleva piangere, non in quel modo, non davanti al suo compagno, ma non riusciva più a trattenersi: ogni giorno gli
sembrava di stare sempre peggio e più tempo passava senza ricordare nulla, più
diventava grande la paura in lui che quei ricordi non sarebbero mai più tornati,
che avrebbe semplicemente dovuto rassegnarsi all’idea di essere quella nuova
persona, senza passato, senza consapevolezza di sé. E chi avrebbe potuto
stargli accanto, ridotto com’era? Sentiva che la sua forza, la sua
determinazione, tutto ciò che per istinto sentiva di essere gli era stato
strappato via e non aveva idea di come recuperarlo. Era smarrito, in balia di
sensazioni che non comprendeva, di un dolore folle che non sapeva come
attenuare e colori a cui non riusciva a dare significato.
Suga gli
si avvicinò lentamente: non l’aveva mai visto tanto indifeso ed esposto, così
fragile – Daichi era sempre stato quello forte e
deciso, quello che non aveva bisogno di parole per prendere posizione e a cui
tutti guardavano con ammirazione; una guida per naturale inclinazione. E
qualcosa di quella persona c’era ancora in lui: l’aveva visto dal modo in cui
s’era avvicinato – certo, l’aveva sorpreso, forse anche un po’ spaventato, ma
nella sua camminata, nel modo in cui aveva preso in mano la situazione, forse
poteva vedere qualcosa del suo Daichi. Qualcosa di
grezzo ed istintivo, che a primo impatto non aveva riconosciuto.
Poteva
imparare a conoscere di nuovo il suo compagno? Poteva cominciare da capo con
lui, partire da zero? Una mano su allungò verso il capitano, le dita sottili
raccolsero una delle lacrime che stava scendendo lungo il suo viso.
«Torneranno,
Daichi. Datti tempo, torneranno». Non ci credeva del
tutto, Suga. Aveva paura a sperare, perché non credeva di essere tanto forte da
reggere una simile delusione. Non era forte abbastanza, forse, per cominciare
da capo: aveva semplicemente atteso troppo per quel legame ed ora che era
legato senza alcun senso a Daichi non sapeva come
andare avanti.
«E nel
frattempo?». L’altro, invece, sentiva istintivamente di non poterlo perdere e
che quel temporeggiare sarebbe stato rischioso.
«Non lo
so».
Non chiedermi di restare con te, non chiedermi di amare il
corpo di qualcuno quando la sua anima è stata la prima cosa ad avermi
catturato.
«Ho
capito».
Non ti terrei mai legato a me. Non so chi tu sia, ma sento
che il ragazzo che fino ad ora ti ha amato non vorrebbe mai la tua infelicità.
Hinata si trovò
a pensare che sarebbe stato bello se fosse riuscito semplicemente ad
addormentarsi – scivolare nell’incoscienza fino al giorno dopo quando un’altra
serie di partite dell’allenamento lo avrebbero nuovamente distratto. Si sentiva
inquieto quella sera: non sapeva per quale motivo, ma si sentiva fuori posto,
come se non stesse a suo agio nella propria pelle ed aveva l’istinto continuo
di muoversi, di fare qualcosa.
Si
trattava della squadra. C’era stato qualcosa di strano nel modo in cui avevano
giocato, qualcosa che aveva cominciato a stridere, come uno strumento male
accordato. Ma si rendeva conto che non si trattava solo di gioco: il suo
disagio era dovuto solo in parte al modo in cui aveva giocato, ai pensieri che,
inconsciamente, avevano cominciato a muoverlo verso nuovi obbiettivi – c’era
stato dell’altro e non riusciva a scrollarsi di dosso una sensazione di profondo
disagio.
La
squadra non era stata unita: in tutti i set a cui lui e Kageyama
avevano preso parte, la squadra s’era mossa a blocchi, come ingranaggi poco
oleati. Senza Nishinoya e Daichi
in difesa, il coach aveva provato un nuovo gioco spostando Tanaka
in seconda linea, ma sebbene la sua ricezione fosse stata quasi sempre buona,
il modo in cui aveva provato a coordinarsi con Kageyama
o Sugawara era stato pessimo e ancora peggio la
visualizzazione di Asahi in terzo tocco. Era sembrato per tutto il tempo distratto
e sovraccaricato ed aveva mal indirizzato le sue energie finendo per sbavare
moltissime volte. L’Asso, invece, era parso semplicemente distratto, non in
partita, come se la sua mente fosse costantemente impegnata altrove. Suga aveva
provato ad essere il collante di tutti quei piccoli disagi, aveva cercato di
salvare il salvabile, ma anche così e anche con l’arrivo dei due primini, la
situazione non era migliorata di molto. Ukai non
aveva avuto cuore di rimproverarli e dopo aver genericamente ricordato a tutti
di dare il massimo in vista delle qualificazioni, li aveva lasciati andare.
Shouyou non avrebbe
mai pensato di potersi sentirsi in quel modo tra i suoi compagni. Per lui la
squadra era tutto. in qualche modo era un luogo sicuro, in cui anche i problemi
più grandi potevano essere risolti, mentre adesso quel calore e quella
sicurezza parevano spariti del tutto, divorati da situazioni più grosse di loro
– aleggiava dolore e nervosismo tra i suoi compagni e Hinata
semplicemente non riusciva a sopportarlo.
Non
s’accorse della piccola figura che scivolò silenziosa al suo fianco finché non
fu Kenma stesso a parlare – con Shouyou,
l’alzatore aveva l’istinto di farsi notare, mostrarsi.
«Sei
nervoso?». Hinata sobbalzò appena, ancora perso nei
suoi pensieri confusi. Nervoso non era esattamente il termine che avrebbe
usato, ma annuì comunque: forse stavolta mancava a lui la voglia di
socializzare. Kenma, tuttavia, aveva abbastanza
familiarità con quel genere di situazioni da sapere per istinto come comportarsi
– non disse nient’altro e riprese a giocare, avvicinandosi appena un po’ di
più, ma facendo in modo che le loro spalle non si toccassero. Erano soli nel
corridoio di quel piano, Shouyou avrebbe facilmente
capito che quello era il suo modo di stargli accanto.
Con un
po’ meno attenzione del solito al videogioco, Kenma
si rese conto di quanto fosse facile, dopotutto, stare vicino ad Hinata: anche in una situazione simile, in cui rischiava di
essere investito dai forti sentimenti dell’altro e di trovarsi profondamente a
disagio, non provava l’istinto di allontanarsi e mettersi a riparo, ma anzi
parte di lui avrebbe voluto essere in qualche modo l’aiuto.
«Ti sei
mai trovato a disagio nella tua stessa squadra?».
Hinata sapeva
che, dopotutto, non era una situazione tanto inusuale – bastava chiedere a Kageyama per avere una sentita conferma – eppure non
riusciva proprio a stare tranquillo: aveva aspettato così tanto per avere dei
compagni tutti suoi, a cui essere legato come membra di un solo corpo ed ora
l’idea che in qualche modo tutto quello potesse finire lo mandava in panico.
Kenma scosse
la testa: Kuroo l’aveva convinto a provare, a
giocare, a far parte di un gruppo e da allora non aveva mai avuto motivo di
pentirsene – la devozione e l’affetto con cui tutti alla Nekoma
gli si rivolgevano era disarmate ma lo faceva stare bene. Non riusciva ad
immaginar che cosa volesse dire non essere in sintonia con i suoi compagni.
«Non che
qualcuno mi abbia fatto qualcosa di male!», si affrettò intanto a chiarire Shouyou, interpretando il silenzio dell’altro come
preoccupazione o disapprovazione. «È solo che… sento che stanno cambiando delle
cose ed è come se gli ingranaggi che facevano funzionare la squadra si siano in
qualche modo inceppati». L’Esca si rendeva conto che, in parte, dipendeva anche
da lui, che in primis in lui era in atto un cambiamento, ma a turbarlo era
soprattutto la mancanza di armonia che sentiva tra i compagni.
«Ho
notato una certa ostilità fra alcuno di voi: Kuroo mi
ha parlato dell’incidente…».
«Sembra
che le cose non vogliano saperne di tornare a com’erano prima di
quell’incidente…», sospirò Hinata «Sugawara e il capitano, Noshinoya
ed Azumane…».
«C’entra
il legame?». Kenma avrebbe dovuto immaginarlo da
subito: dopotutto, aveva visto quanto scompiglio aveva creato, agli inizi, tra Yaku e Lev e tutta la Nekoma.
Stavolta
fu Shouyou ad annuire appena e per la prima volta da
quando avevano preso a parlare spostò gli occhi dal pezzo di cielo stellato che
si poteva vedere dalla finestra per guardare l’alzatore che aveva affianco.
«L’incidente
sta mettendo alla prova un po’ tutti i legami… e le cose non vanno così bene».
Kenma non ne
sapeva molto a riguardo: non aveva ancora provato nulla di simile e a dirla
tutta non ne sentiva poi così tanto il bisogno, ma poteva immaginare quanto
potesse essere destabilizzante una simile connessione se le cose diventavano
serie.
«Non
credo ci sia molto che tu possa fare, sai? Immagino che, a prescindere da come
vada, sia un problema che solo i diretti interessati possono risolvere…». Non
era noncuranza, era semplicemente la realtà dei fatti.
Hinata sospirò,
poggiando la testa sulle braccia incrociate sul davanzale di marmo della
finestra. Sapeva che Kenma aveva ragione.
Improvvisamente, pensò a Kageyama – era uscito dalla
stanza in cui la Karasuno avrebbe dormito lasciandolo
solo; non poté trattenersi dal chiedersi che cosa stesse facendo e in quel
generale fastidio, in quella generica irrequietezza e tristezza pensò ch forse non s’era accorto della sua assenza, che forse
neanche gli importava davvero: dopotutto, loro non potevano essere in crisi
perché non erano legati…
Gli occhi
di Kenma studiarono la figura spenta di Hinata: che cosa doveva fare? Gli sorrise – ed era così
raro un sorriso di Kenma, Shouyou
lo sapeva, che quando l’Esca lo vide non poté fare a meno di provare a
ricambiare il gesto. Perché si tormentava tanto, quando lui e Tobio non avevano fatto altro che rassicurarsi? Aveva idea
che la loro incompletezza risuonasse della tristezza altrui per un’affinità
intima e avrebbe davvero voluto imparare a spezzare quell’eco, a liberarsi di
quel tormento.
«Voglio solo sapere per quale motivo l’hai fatto! Perché
l’hai ferito in questo modo! Credevo lo amassi!».
Una voce,
d’improvviso, ruppe il silenzio in cui due ragazzi erano caduti. Hinata sobbalzò, affacciandosi dalla finestra e sperando di
scorgere il punto da cui era provenuto il suono – aveva riconosciuto a chi
appartenevano quelle parole ed era consapevole di come sarebbe andata a finire
quella situazione. Tuttavia, non vide nessuno.
«Deve
essere dall’altra parte del palazzo, dove sono le palestre», suggerì Kenma, staccando gli occhi dal display luminoso.
Hinata scattò
lungo il corridoio seguendo quelle indicazioni e dopo qualche istante
l’alzatore lo seguì, sebbene non con la stessa velocità: la piccola Esca della Karasuno aveva davvero lo strano potere di spingere Kenma al di là della sua solita routine. Ad ogni modo, la
preoccupazione di Shouyou era più che giustificata,
perché a gridare era stato Takana e la supposizione
di Kenma era stata corretta: il ragazzo aveva
bloccato Asahi a pochi passi dall’ingresso di una delle palestre e non pareva
minimamente intenzionato a lasciando andare, per quanto il più grande stesse
provando a svincolarsi in tutti i modi da quel contatto diretto.
«Tanaka, per favore-». Si sentiva così stanco, Asahi.
«Cosa?! Per
favore, cosa?! Non me ne starò qui a
fare nulla mentre tu ti diverti a distruggere in questo modo Yuu!».
«Distrug-». No, no, no! Non era quello che aveva fatto! «Io
non ho fatto nulla del genere! Tu non hai idea di cosa stai dicendo!». Era
proprio l’opposto: tutto quello che aveva fatto era stato per proteggerlo,
perché in futuro non si trovasse nella situazione di…
«Io so
quello che vedo e Noya è a pezzi per colpa tua! Non
m’importa quali fossero le tue intenzioni, non puoi trattarlo in questo modo! Glielo
devi! Al di là di tutto, glielo devi per le volte in cui ti è stato accanto,
per le volte in cui non si è arreso e ha continuato ad avere fiducia in te! E
solo perché sta troppo male per venirti a dire tutto questo di persona, non
significa che tu possa fare quello che voglia di lui e passarla liscia!».
Asahi era
senza fiato. Era questo quello che aveva fatto? Lo aveva maltrattato ed
abbandonato, aveva fatto di lui ciò che voleva, senza tener conto dei suoi
sentimenti? Cosa… che cosa aveva fatto? Che cosa stava facendo? Da quando
quella era diventata la sua vita e perché aveva deciso di gettare tutto via in
questo modo? Avrebbe voluto lasciarsi cadere a terra e non fare più nulla –
forse senza di lui le cose sarebbero tornate a posto. Forse…
«La verità
è che non l’hai mai meritato».
Tanaka parlava
a ruota libera, senza essere neanche sicuro di credere ci che lasciava la sua
bocca: aver trovato Nishinoya negli spogliatoi,
nascosto in un angolo a piangere, rannicchiato su se stesso e tremendamente
indifeso aveva scatenato in lui un moto di rabbia così grande che né la logica
né il buonsenso potevano ora trattenerlo dallo sputare tutte le sentenze e le
cattiverie che parevano adatte all’occasione, nella vana illusione che
avrebbero potuto aiutare Yuu.
«E…e
forse è meglio così, forse troverà qualcuno che meriti davvero tutto quello che
Yuu ha da dare, perché lui è una persona eccezionale e
tu… tu non l’hai mai capito davvero!».
L’orgoglio
in Asahi gridava per essere sentito: certo che sapeva quanto Yuu fosse fantastico, certo che lo conosceva! E – Dio, Dio! – se lo meritava! Lo aveva
reso una persona migliore, s’erano resi persone migliori nel tempo che erano
stati insieme! Ma pari all’orgoglio, cresceva nell’Asso qualcosa di nuovo,
qualcosa che lo faceva star male a livello fisico. Con ancora Tanaka davanti agli occhi, Asahi vide tutto improvvisamente
offuscato e poco chiaro; il campo visivo cominciò a tremare, come se qualcuno
gli stesse fisicamente tirando via la terra da sotto i piedi e per il tempo in
cui Hinata e Kenma li
avevano raggiunti, non era più certo della natura dei colori che lo
circondavano.
I legami,
dopotutto, potevano anche spezzarsi.
La
mattina seguente, la Karasuno pareva ancora più
scossa, ancora meno coordinata. Nessuno, a parte Hinata
e Kenma, aveva saputo della discussione tra Tanaka ed Asahi, ma tutti avvertivano che quella che era
stata una vaga ostilità il giorno precedente ora si era trasformata in un’aura
di astio chiaramente percepibile. Ryuu se ne stava da
un lato, accanto a Noya, mentre Asahi esattamente
all’opposto, lontano dal gruppo, lontano da quella palestra. Da quando s’era
svegliato, quella mattina, avvertiva qualcosa di decisamente sbagliato: aveva
dormito malissimo dopo le parole di Ryuu e qualcosa
dentro di lui pareva essersi rotto – aveva la sensazione di essere arrivato ad
un limite, di aver toccato il fondo e non sapere come riemergere. Non riusciva
a capire, ancora, come fosse arrivato a quel punto, quando avesse deciso di
rovinare così la sua vita, e forse anche quella di Noya.
E soprattutto, non aveva idea di come andare avanti. Voleva andare avanti, poi?
Il coach
parlava, spiegava gli schemi, dava loro dei consigli su come riuscire ad essere
più incisivi per cogliere di sorpresa la Nekoma e
vincere il set, ma l’Asso non riusciva a concentrarsi su ciò che aveva davanti:
per quanto ci provasse, ogni cosa pareva sfuggire alla sua attenzione e i
pensieri gli si affollavano nella mente, confusi, disarmanti, lasciandolo
disorientato. Aveva l’impressione di avere le vertigini e faticava a respirare.
Quando
mosse i primi passi dentro il campo, Asahi percepì chiaramente il proprio corpo
stentare a fare ciò che la mente ordinava. Che cosa gli stava succedendo?
«Azumane? È tutto a posto?».
A Kageyama non era di certo sfuggita l’incertezza con cui il
ragazzo pareva muoversi: Asahi avrebbe dovuto aspettarselo. Sorrise, annuendo
appena, ma senza la forza di rispondere. Se n’era accorto anche qualcun altro?
Suga, forse, o magari Daichi? Davvero non aveva
voglia di spiegare qualcosa che anche lui faticava sempre più a capire. Sentiva
gli occhi di Tanaka addosso e quella semplice
consapevolezza bastava a fargli desiderare di non essere visto da nessuno:
aveva avuto ragione, Ryuu, così come aveva avuto
ragione Noya la mattina precedente. Forse quella era
la pena per la sua colpa.
La partita
si svolse con una rapidità che l’Asso non si aspettava: non riusciva a dare il
cento per cento nel gioco, ma non era solo in campo e la squadra pareva avere
un’aggressività diversa quella mattina, come se l’irritazione e la mancanza di
grazia si sfogassero in un istinto animale che non era mai appartenuto loro e
che coglieva di sorpresa gli avversari. Hinata pareva
aver preso ad andare in solitaria, portando a termine delle azioni che non
erano le sue solite e che mostravano una certa, nuova, consapevolezza. Tanaka schiacciava con un’aggressività che non aveva mai
avuto in campo, Ennoshita e Tsukki
facevano semplicemente bene il loro lavoro, così come Kageyama.
Nishinoya, come la
mattina precedente, osservava il gioco da bordo campo, accanto a Daichi. Tuttavia, seguire le azioni si stava rivelando
estremamente difficile stavolta: non importava che cosa facesse, l’attenzione
veniva sempre, improvvisamente, dirottata sull’Asso della Karasuno.
S’era accorto che i suoi movimenti erano stranamente incerti, che non faceva
più passi del dovuto e non schiacciava con la solita forza; che, in sostanza, non
era concentrato sul gioco. Stava male? Yuu non
avrebbe davvero voluto preoccuparsi per lui: era ancora così furioso per quello
che gli aveva fatto, per il dolore che stava provando a causa sua, eppure una
pare di lui non poteva fare a meno di temere per quel comportamento tanto
strano. Era solo il legame a parlare? Quell’attaccamento era solo dovuto al
fatto che era il suo compagno? Noya non avrebbe saputo dirlo – ma non poteva staccare gli
occhi da lui.
L’azione
era semplice, da manuale. Ennoshita aveva fatto una
buona ricezione, facendo arrivare la palla a Kageyama
senza alcuno sforzo. Hinata era scattato, cambiando
traiettoria all’improvviso, con la sua solita velocità ed imprevedibilità, ma
era stata una finta e agli ultimi istanti l’alzatore aveva servito il terzo
tocco per una semplice e potente schiacciata all’Asso. Asahi era riuscito a
seguire quel gioco con più lucidità di quanta se ne aspettasse – aveva pensato
che forse, finalmente, la sua mente si fosse decisa a concentrarsi su quello
che gli stava davanti ed aveva preso una buona rincorsa per dare alla palla la
potenza che fino ad allora le sue conclusioni non avevano ancora avuto.
Poi,
tutto s’era mosso a rallentatore. Ad Asahi era parso di vedere tutta la scena
dall’esterno: la palla che compiva la prima metà della sua parabola e si
alzava, le sue gambe che si piegavano per dare slancio al salto, il corpo che
seguiva quell’azione, il braccio che si alzava… E mentre attendeva la palla, in
quelle poche frazioni di secondo tutto esplose.
«Il mio
nome è NishinoyaYuu. Sono
un Libero».
La prima
volta che l’ha visto.
«Capisco,
quindi tu sei l’Asso! Farò in modo di difendere bene, così che tu possa fare
quanti più punti possibile!». Arrossisce. Non ha idea del perché quel ragazzo,
che lo conosce così poco, gli sia tanto devoto.
La prima
volta che Noya ha creduto in lui.
Noya difende la seconda linea come se ne andasse della sua vita.
È dannatamente bravo ed elegante, un corvo che spicca il volo: ricevere per il
sembra facile come respirare.
La prima
volta che lo ha ammirato davvero.
«Ti va se
facciamo la strada insieme? Non abitiamo troppo distanti…». Stavolta non
arrossisce, è felice di quella richiesta ed annuisce con un certo trasporto. E
gli batte il cuore, come mai aveva fatto prima.
La prima
volta che si è reso conto che Noya era diverso. La
prima volta che ha desiderato davvero essere legato a qualcuno nel modo in cui
sono legati i compagni.
Esplode
il mondo davanti ai suoi occhi. Esplode tutto e Noya
è lì, davanti a lui. Ed è bellissimo. E lo bacia, perché non ha bisogno di
chiedergli se ha visto lo stesso, perché i suoi occhi glielo stanno dicendo:
sono stati fortunati, si sono amati prima del legame ed ora sono uniti.
La prima
volta che ha sentito davvero la felicità.
Il freddo
lo pervade, si insinua nelle ossa, gli arriva al cuore. Non ha fiato per
respirare, stretto nelle sue stesse braccia, isolato, in shock. Trema e mormora
cose insensate. Non ha senso pensare, non ha senso esistere. Come si continua a
vivere? Può farlo? Gli è concesso? Ha paura, una paura folle. Il dolore gli
provoca conati di vomito che trattiene a stento. Non sente la voce dei genitori
che cercano di rassicurarlo: andrà tutto bene, stanno arrivando in ospedale,
presto sarà da Noya, presto starà bene. Non sente
nulla, nulla che non sia il dolore ed il pericolo e l’allarme che il legame gli
pompa nelle vene: è questo il sapore della morte?
La prima
volta che ha avuto davvero paura.
Gli volta
le spalle. Va via da lui e il legame si incrina. Può sentire chiaramente quel
suono, come di un ramo che si spezza e sa di aver sbagliato. Sa che è troppo
tardi. Sa che non c’è redenzione. Sa che ha distrutto qualcosa di perfetto –
probabilmente sa anche che era quello il suo destino. Non è mai stato bravo
nella vita, non ha mai fatto davvero la cosa giusta al primo colpo.
L’ultima
volta che ha sentito distintamente la presenza di Noya.
Mentre è
lì, nel bel mezzo dell’azione, una sorda consapevolezza colpisce Asahi: ha
smesso di sentire la presenza di Noya. Un vago alone
di ciò che è stato ancora lo accarezza, ma la maggior parte della
consapevolezza del suo compagno s’è
consumata nel dolore e nelle bugie, nella paura e nel tormento. Ha lasciato
morire tutto e non se n’è davvero accorto finché non è stato troppo tardi.
D’improvviso
nulla ha più senso. La concentrazione svanisce, il corpo sospeso a mezz’aria
non ha più coscienza di sé e l’Asso si trova a cadere a peso morto sul campo
liscio della palestra; cade senza realizzarlo, cade come cadrebbe un oggetto
inanimato, per la sola forza di gravità.
Yuu
mentirebbe a se stesso se dicesse di non averlo sentito. Non sa bene come, ma
ne è stato improvvisamente consapevole: un secondo prima guardava il terminarsi
di una semplice azione quello dopo sapeva che Asahi stava male. Era il legame o
forse il suo intuito, l’amore che anche prima di essere uniti lo aveva portato
all’Asso, un sentimento tutto loro, intimo, che nulla aveva a che fare con la
sua legittimazione pubblica – Noya lo aveva sentito.
Nell’istante
stesso in cui Asahi era crollato al suolo, il Libero s’era mosso, entrando in
campo. No, la rabbia non era sparita, la delusione non s’era attenuata, il
dolore non lo aveva abbandonato. Era tutto lì: ciò che aveva subìto, ciò di cui
incolpava il suo compagno era tutto
lì, ma non gli aveva impedito di correre verso di lui, il cuore in gola, i
polmoni senza fiato, la paura che correva nelle vene. Perché non aveva smesso
di amarlo, perché il legame si stava consumando, ma aveva ancora vita. Perché
in fondo, Yuu non sapeva arrendersi.
«Asahi!
Asahi?!», lo chiamò, gettandosi a terra, prendendogli la testa tra le mani.
«Asahi, svegliati, apri gli occhi! Asahi, sono qui, mi senti?». E se fosse
stata la fine? Se quello fosse stato solo l’ultimo guizzo di un animale
morente? Non vide Suga e Daichi inginocchiati accanto
al ragazzo, pallidi in viso mentre cercavano anche loro in qualche modo di
farlo rinvenire; non notò la tempestiva chiamata di soccorso di Ukai, il professor Tanaka senza
fiato o Hinata che, con occhi granati e bocca aperta,
si teneva alla maglietta di Kageyama per avere un
appiglio e non crollare. La sola cosa a cui il libero riusciva a pensare era
che le ultime parole che aveva detto ad Asahi erano state solo di odio.
«Ma si sa qualcosa?».
«Nessuno sembra volerci dire nulla».
«Qualcuno
ha chiamato i genitori?».
I ragazzi
della Karasuno non riuscivano a star tranquilli. Si
muovevano avanti e indietro lungo il corridoio dell’ospedale, in preda ad un
terribile déjà-vu di cui davvero nessuno sentiva il bisogno – ma stavolta era
ancora peggio, stavolta non avevano la minima idea di cosa fosse successo e
quindi di cosa aspettarsi.
Nishinoya non
aveva detto più nulla. Aveva tenuto la testa di Asahi, privo di sensi, in
grembo finché non era arrivata un’ambulanza e poi lo aveva seguito all’interno,
senza fiatare, guardando il suo volto pallido mentre i paramedici controllavano
i segni vitale e prestavano il primo soccorso. Il battito del ragazzo era
estremamente debole, il respiro affaticato. Quando erano arrivati, lo avevano
portato direttamente in terapia intensiva, lasciando Yuu
da solo, fuori, ad aspettare.
Non aveva
detto più nulla – tra le mani aveva ancora la sensazione dei capelli di Asahi,
lunghi e lisci. Gli era mancata quella sensazione, gli era mancato averlo così vicino
e il pensiero che potesse essere l’ultima volta…
Il legame
aveva preso a far male da subito. Anzi, era stato il dolore ad avvisarlo del
pericolo. Ora una fitta continua al petto gli spezzava il fiato e faceva in
modo che non si reggesse sulle proprie gambe – per questo, quando anche gli
altri erano arrivati, s’era seduto e non s’era più mosso. Non riusciva a
pensare, né a mantenere l’attenzione sulla stessa cosa per più di pochi
istanti: i suoi pensieri tornavano sempre al compagno e più pensava a lui più stava male e stando male non
poteva non pensare a lui, in un circolo vizioso che rischiava di farlo
impazzire. Era così che funzionava quindi? Si lasciavano, Asahi stava male e
lui veniva di nuovo risucchiato in quella storia, nonostante il dolore, nonostante
la delusione? Lo aveva lasciato davvero, poi? Gli aveva voltato le spalle e se
n’era andato, ma non era mai stati sicuro che fosse la fine, che potesse
davvero lasciarsi quel legame alle spalle… No, Noya
probabilmente sarebbe tornato sui suoi passi: forse ci sarebbe voluto tempo e
coraggio, ma si sarebbero ritrovati se anche Asahi lo avesse voluto…
«Ieri
sera gli ho parlato».
Yuu non
s’era accorto che Tanaka gli si era seduto accanto,
preoccupato. Si voltò verso di lui, attendendo che continuasse.
«Gli ho
detto che era colpa sua se stavi soffrendo, che non ti aveva mai meritato, che
aveva fatto una cosa orrenda a lasciarti. Lui ha cercato di andare via ma io ho
insistito… Non credevo che sarebbe stato male, io non-».
«Ero così
arrabbiato con lui!», Yuu aveva gridato, in uno
scoppio improvviso. «Non riuscivo a sopportare la sua vista o la sua voce, così
gli ho gridato di andarsene!». Le lacrime avevano preso a scendere sul suo
viso, ma a Noya non importava, non in quel momento
«Ieri sera è venuto da me, voleva parlare, voleva… non lo so, starmi accanto ed
io gli ho solo detto di andarsene, di sparire. Lui non ha replicato. Volevo
solo essere arrabbiato con lui, volevo solo che pagasse per il dolore che ho
provato a svegliarmi senza di lui, a rendermi improvvisamente conto che non ci
sarebbe più stato, che aveva deciso di non esserci più per me. Volevo solo… che
capisse che cosa stavo provando, che… che… È così sbagliato? Ho fatto così male
ad essere arrabbiato con lui, a volermi prendere questa vendetta? Perché,
perché sta succedendo tutto questo?! Io volevo solo che capisse, solo… solo
ripagarlo con la stessa moneta almeno per un po’! Mi ha fatto male, mi ha fatto
malissimo! Perché allora è lui quello in ospedale, perché mi sento così
terribilmente in colpa?».
Noya aveva
preso a piangere e parlava tra i singhiozzi. Non comprendeva come poteva essere
successo, non credeva che Asahi sarebbe stato male fino a questo punto, che il
mandarlo via potesse spezzare il legame… Lo aveva capito, alla fine, che di questo
si era trattato: il legame aveva rischiato di spezzarsi davvero, logorato da
tutto il male che si erano fatti. Lui lo aveva mandato via e questo era stato
il risultato. Si sentiva in colpa, come fosse stato un mostro e allo stesso
tempo quella colpa lo faceva ringhiare: aveva diritto anche lui a stare male,
anche lui ad agire in modo sbagliato ed egoista! Perché se Asahi scappava non
accadeva nulla, ma se era il suo turno di allontanarsi allora l’Asso crollava a
terra, privo di conoscenza? Perché a lui non era concesso ferire allo stesso
modo?
Yuu si
ritrovò nell’abbraccio di Tanaka prima ancora di
poter realizzare di averne bisogno. Di abbracci del genere, a dirla tutta, non
ne avevano mai avuti tanti, eppure quel gesto pareva naturale come respirare,
abituale e sicuro. Noya non ebbe paura di piangere,
tra quelle braccia, perché sapeva che Ryuu non lo
avrebbe mai giudicato, che il loro affetto andava ben oltre quelle apparenze,
che di lui si sarebbe sempre potuto fidare.
«Certo
che sono arrabbiato! Ho tutto il diritto di sentirmi arrabbiato!»
«E che
cosa risolveresti, arrabbiandoti così?».
«Nulla!
Ma voglio essere arrabbiato! È un crimine forse? Voglio essere egoista ed
arrabbiato, voglio avercela col mondo, voglio gridare! Perché non posso
gridare, perché non posso far vedere agli altri come mi sento?!».
«Perché
mi fai stare male!».
«Non
posso farti stare male, Koushi, perché non ho nessun
potere sulle tue emozioni: non siamo legati, noi due!».
«E credi di aver davvero bisogno di quello stupido legame
per avere potere sulle mie emozioni?».
Daichi fece
qualche passo indietro, traballando. Cosa…? Cosa stava succedendo? Un istante
prima era lì e quello dopo la testa aveva girato e quelle parole erano
rimbombate come se le stesse sentendo in quel preciso momento. Ma non erano
parole nuove, non del tutto. Ricordava quella sensazione, la frustrazione, la
sofferenza, la rabbia che non sapeva contro chi sfogare. Ricordava, d’un
tratto, Suga, i suoi occhi lucidi, i suoi sorrisi tirati, gli abbracci che
usava per nascondersi dal mondo e dal male che riservava ad entrambi, sottile
come tagli di carta, ma costante come lo scorrere dei minuti.
D’improvviso
ricordava e quelle sensazioni, nuove e consuete ad un tempo, lo travolsero come
un improvviso fiume in piena, senza lasciargli scampo. Barcollò di nuovo e più
i ragazzi della Karasuno si avvicinavano a Nishinoya per stargli accanto, più lui arretrava alla
ricerca di un piccolo spazio che fosse solo suo, per organizzare tutto quello
che gli affollava la mente.
Aveva
paura di sperare, Daichi, aveva paura anche solo ad
azzardarsi a pensare che stesse succedendo davvero. Però adesso con le parole
venivano anche le immagini: vide la neve, vide se stesso che passeggiava con Koushi, vide le loro mani strette l’una nell’altra. Sentì
la gioia ed il tormento e tutto quello che avevano passato insieme, tutta la
loro storia parve concentrarsi nella visione di quei pochi istanti.
Daichi stava
ricordando.
Si
allontanò sperando di non essere visto o seguito e si sedette su uno dei
sediolini di plastica del corridoio. Cercò di regolare la sua respirazione, ma
altri ricordi piombavano nella mente come falchi in picchiata, pronti a
catturare la preda.
«Fai
attenzione, stamattina ha fatto così tanta neve che a scivolare ci vuole un attimo!».
Koushi ride, lo prende in giro per la sua preoccupazione da padre
e quasi a sfidarlo comincia a correre nonostante sia davvero tanta la neve
accumulata sulla strada. Sembra felice, felice come Daichi
non l’ha mai visto e in quell’attimo, mentre lo vede correre e lo sente ridere,
capisce che è il momento giusto.
Lo segue
e lascia che l’amore che prova per lui faccia il resto, senza pensare, senza
avere paura. Lo bacia. Un bacio semplice, appena uno sfiorarsi di labbra,
giusto il tempo di sapere che sapore hanno quelle di Koushi.
Il ragazzo ammutolisce, le ultime eco della sua risata che si perdono
nell’aria. E Daichi ha paura di aver sbagliato tutto.
Poi, Suga semplicemente rischia di scivolare per davvero e gli si aggrappa
contro. Restano così, abbracciati in modo tale da non potersi guardare negli
occhi e forse è meglio, dà loro coraggio.
«Ho
sbagliato?», gli chiede in un sussurro, con ancora il fiato tirato ed il cuore
in gola.
«Io
davvero non ci speravo, Daichi», risponde lui e Daichi la sente la sua voce incrinata della gioia.
Poi Koushi si mette dritto,
riacquistando equilibrio sulle proprie gambe e lo guarda dritto negli occhi.
Entrambi sanno che cosa significa: è un rischio e allo stesso tempo non
vogliono pensarci, al diavolo il legame, si vogliono in quel momento e tanto
basta.
«E se non
ci bastasse?»
«Ce lo
faremo bastare, non ne abbiamo bisogno».
«E se poi
ci capitasse di legarci con qualcun
altro?»
«Qualcuno
che non sei tu, Daichi? Non esiste. Davvero, non
esiste».
Lo bacia con passione, lo bacia perché non potrebbe avere
persona migliore accanto. Daichi lo bacia perché Koushi è la sua forza.
«Suga ti
prego, lasciami parlare! Koushi!».
Ha
sbagliato, è stato debole, per un momento ha esitato e gli ha detto che non era
più sicuro di poter andare avanti. Ha sbagliato e l’ha capito dal momento
stesso in cui le parole hanno lasciato la sua bocca. “Non lo so più”. Invece lo
sa, lo sa eccome che è con Suga che vuole
stare. Lo sa e ci crede ancora.
Ma Koushi è scappato via ed ora grida davanti alla porta di
casa sua come un matto. Non gli importa, vuole solo che lo perdoni. Non sa dire
per quanto tempo resta così, a chiamarlo, in compagnia del silenzio. Quando
Suga si fa vedere, aprendo appena la porta di casa, gli pone una semplice domanda.
«Posso
fidarmi?».
Daichi glielo giura. E lo giura ancora ed ancora. E Koushi lo perdona.
Daichi davvero
non riesce a capacitarsi di come abbia potuto dimenticare tutto quello che
aveva avuto con Suga. Si sente male, ora che capisce l’intensità e la
profondità del rapporto che aveva con Koushi. Sente
di essere venuto meno a quella promessa, di aver tradito quella fiducia, seppur
involontariamente. E sa che ci sono tantissimi altri ricordi che ancora non
sono tornati e ha paura perché potrebbero essere altrettante tappe importanti
della loro storia, ma al contempo si tiene strette le sensazioni che sta
provando, che sono un passo in più verso chi era, un passo in più verso Suga.
Non aveva perso tutto, non aveva ancora gettato la spugna. Poteva ancora
riprendersi ciò che aveva, tornare con lui.
***
Le
sensazioni tornarono lentamente, man mano che il ragazzo riacquistava
consapevolezza di sé. Prima ci fu la pesantezza del suo stesso corpo, poi il
morbido su cui esso era poggiato, infine il freddo che lo avvolgeva. Asahi non
aveva alcuna voglia di aprire gli occhi, scorgere ciò che gli era avanti, realizzare
quello che era successo – perché qualcosa era successo, di questo era certo.
Che lo
volesse o no, la realtà, tuttavia, gli concesse solo qualche altro attimo di
ignoranza. Tutto lo colpì come un treno in corsa non appena sentì una presenza
accanto a lui – il respiro, lento e profondo, gli avrebbe suggerito che,
chiunque fosse, stesse dormendo e, tuttavia, lo sentì d’improvviso muoversi e
sospirare. Ed avrebbe riconosciuto quel sospiro anche in una stanza piena di
gente.
Yuu.
Asahi
trasse il fiato. Come in un rullino che si avvolgeva su se stesso, le immagini
e le sensazioni che aveva provato durante la partita lo travolsero, il senso di
perdita lo pervase insinuandosi nelle ossa. Le mani si strinsero a pugno,
tirando il lenzuolo e gli occhi del ragazzo si spalancarono mentre i polmoni
cercavano aria. Dio, Dio, no. Non
quello. Non così, non adesso. Non-
«Asahi».
La voce
di Noya, tirata e sorpresa, lo raggiunse come se
provenisse da molto lontano. Il ragazzo spostò gli occhi nella sua direzione:
era ancora lì, era davvero ancora lì con lui, dopo tutto quello che aveva
fatto? Ed il suo legame? Lo aveva sentito chiaramente spezzarsi… possibile che Noya non se ne fosse accorto?
«Non
agitarti, va tutto bene». Le sue parole erano così piena di affetto. Asahi non
lo aveva mai meritato, Tanaka aveva ragione. «I
dottori hanno detto che sei solo affaticato, che con un po’ di riposo tornerà
tutto a posto».
Davvero?
Sarebbe davvero tornato tutto a posto? Come poteva dirlo, come poteva anche
solo pensare…? Oh. Gli occhi di Yuu erano rossi ed
umidi, ora poteva vederlo così chiaramente… ed erano così luminosi, di
quell’ambra che pareva brillare di luce propria e che lui poteva ancora
distinguere tanto bene perché, in fondo, il legame non s’era mai spezzato del
tutto. Noya era lì per questo, perché ci sperava
ancora, perché lo aveva salvato.
«Mi
dispiace così tanto, Yuu…».
Aveva
tanta voglia di piangere, Asahi. Aveva tanta voglia di rannicchiarsi in un
angolo e consumarsi completamente nelle lacrime, lasciarsi lavare via insieme
ai suoi peccati. Yuu aveva dovuto sentire il dolore
che aveva provato quando aveva rischiato di perdere tutto, aveva dovuto
accorgersi della sua sofferenza anche se stava facendo di tutto per ignorarlo e
lasciarselo alle spalle. Il suo più grande timore s’era realizzato. Tutto
quello che aveva fatto, l’allontanarsi e il lasciarlo andare, non era servito a
nulla. E come sarebbe potuto essere altrimenti? Il suo grandioso piano, si rese
conto l’Asso, aveva una grossa falla – l’amore li legava ancora prima del
legame e lasciarlo aveva portato la stessa sofferenza che voleva evitargli.
«Non
avrei mai voluto che soffrissi in questo modo…».
«È un po’
tardi per questo, non credi?».
Noya non
intendeva essere cattivo, stava ribadendo l’ovvio per provare a farlo finalmente
parlare. Per provare a capire. Azumane si sentì un
verme.
«Quando
hai avuto l’incidente, ero in camera mia. Non ricordo precisamente che cosa
stessi facendo o pensando, so solo che ad un tratto nulla aveva più senso:
c’eri solo tu, il dolore, la paura di averti perso – qualunque altra cosa aveva
perso di significato, me compreso. Ero completamente annichilito dal legame. Ho
pensato che qualcosa di tanto bello come il trovarsi non potesse essere allo
stesso tempo così terribile, che fosse sbagliato. E ho pensato che, a ruoli
invertiti, non avrei mai voluto che tu provassi quello che stavo sentendo io.
Eppure siamo qui, l’hai provato. Mi dispiace tanto, non avrei mai voluto che tu
soffrissi in questo modo…».
Noya aveva il
vago istinto di prenderlo a schiaffi, ma ricordò quanto fosse debole, di come i
dottori si erano raccomandati di farlo riposare, e trattenne la sua mano.
«È per
questo che sei andato via? È per questo che quando mi sono svegliato non eri
con me? Perché non volevi che soffrissi? E così non credi che abbia sofferto
comunque? Che cosa ti aspettavi, Asahi, che tutto sarebbe finito nel giro di
pochi giorni, che avrei potuto superare la tua assenza così facilmente? È
questo il valore che ti dai? È questo quello che pensi della nostra relazione?».
Non aveva
gridato, le sue parole erano state lente e quasi sussurrate, le domande s’erano
susseguite con una calma che solitamente Noya non
aveva.
«Tutto il
dolore non sarebbe stato nulla a confronto con quel sentimento di annientamento
che ho provato quando sei stato male, che tu
hai provato ora. Ed io… io sapevo che sarebbe successo, che prima o poi avrei
fatto in modo di stare male abbastanza perché tu lo sentissi e non potevo
accettare l’idea che ti saresti perso in quel nulla, che il legame avrebbe
tolto dal tuo corpo, dalla tua anima la forza e lo splendore che ti
compongono».
«Credo
che lo abbia fatto di proposito? Credo che mi sia gettato con la bicicletta
sotto quella macchina?».
La
domanda del Libero fece quasi girare la testa di Asahi per quanto fosse
assurda.
«No,
certo che no. Che cosa-».
«Allora
perché per te dovrebbe essere diverso? Perché mai dovrei pensare che prima o
poi avresti fatto in modo di farmi
stare tanto male?».
Perché sono un disastro, avrebbe voluto rispondere Asahi, ma
gli occhi di Yuu lo fermarono. La conosceva già
quella risposta il Libero, l’aveva sempre conosciuta. Perché ad Asahi veniva
fin troppo facile addossarsi la colpa, ma non era mai stato tanto forte da
saperla sopportare da solo. Perché era già successo, perché già una volta quel
fardello aveva rischiato di schiacciarlo e Noya
sapeva che quello era un atteggiamento che non sarebbe mai riuscito a scacciare
del tutto. Asahi avrebbe sempre pensato di non valere mai abbastanza, di essere
sempre troppo poco; avrebbe sempre guardato gli altri con ammirazione perché
avevano qualcosa che, in sé, lui non sarebbe mai riuscito a trovare. E neanche
lui, neanche il suo compagno sarebbe
stato in grado di fargli davvero cambiare idea a proposito.
«Sai,
Asahi, tu credi di aver sperimentato il dolore massimo che questo legame possa
darci, perché io ho rischiato di morire. Ma la verità è che sentire quella
connessione venire meno, avere la sensazione di essersi persi pur riuscendo
ancora a guardarsi negli occhi è decisamente peggio. E questa è una cosa che tu
hai scelto di far succedere».
«E che tu
non mi perdonerai mai».
Gli occhi
di Noya si riempirono improvvisamente di lacrime. Lui
stava cercando di dire esattamente il contrario, perché non lo lasciava finire?
Le emozioni di Asahi risposero a quelle del Libero e le prime lacrime caddero
sul viso del più grande anche prima delle altre.
Yuu allungò
una mano ad asciugarle, cancellarle dal volto pallido e stanco di Asahi. Sfiorò
quella pelle stranamente fredda, il contorno duro dello zigomo fino ad arrivare
al contorno del viso e scendere poi al mento: da quanto non lo toccava a quel
modo? Gli pareva di star conoscendo quel corpo da capo, con tutti i dovuti
rimaneggiamenti del caso, tutto ciò che quell’esperienza aveva portato ad
entrambi.
Avvicinò
le sue labbra a quelle di Asahi con lentezza e le sfiorò appena, come se non
sapesse bene che cosa fare, se fidarsi. Azumane lo
lasciò fare, senza esporsi, senza affrettare nulla. Non si aspettava quel
gesto, non si aspettava nulla di tutto quello e non sapeva se lo meritasse o
meno, per cui non stava a lui decidere nulla di ciò che sarebbe accaduto. Aveva
compiuto i suoi errori e stava a Noya redimerli.
«Tu non
hai idea di quanto possa amarti, Azumane Asahi. E non
hai idea di quanto sia legato a te. Non voglio lasciarti alle spalle, non
voglio perderti. Voglio sbagliare con te, voglio soffrire. Non credo di poterne
fare a meno. Me lo permetti? Mi permetti di sbagliare e soffrire?».
«Perché?».
«Perché
tu faresti lo stesso. Perché se fossi io a volermene andare per paura di farti
male, tu non me lo permetteresti. Mi terresti tra le tue braccia, dovessimo
stare così per sempre. E questo lo so per certo».
Era vero,
Asahi lo avrebbe fatto, Asahi avrebbe lottato contro il mondo intero per Yuu. Era a se stesso che non sapeva dare possibilità.
***
La Karasuno era rimasta a Tokyo un giorno in più per
assicurarsi che le condizioni di Asahi fossero stabili. Il ragazzo era ancora
abbastanza debole, ma i genitori erano riusciti a farlo dimettere il pomeriggio
successivo così da poterlo portare a casa, dove sarebbe stato a riposo fino al
successivo campo estivo. Noya era voluto tornare con
loro – lui ed Asahi, nonostante tutto, avevano davvero ancora molte cose da
chiarire, un intero rapporto da ricostruire e soprattutto del tempo da
recuperare.
I ragazzi
s’erano salutati proprio al parcheggio dell’ospedale, sebbene si sarebbero
sicuramente visti tutti la mattina seguente – tutto quello che era successo li
aveva turbati e, in fin dei conti, uniti in uno strano modo, in un modo che
necessitava di contatto visivo e fisico e dava a tutti uno strano senso di
allarme nel caso fosse passato troppo tempo senza.
Nel
pullman regnava il silenzio, la stanchezza fisica ed emotiva cominciava a farsi
sentire e dopo due giorni passati sulle spine, tutti quanti potevano tirare un
sospiro di sollievo e provare a rilassarsi per qualche ora. I ragazzi dormirono
per la maggior parte del tempo; Yachi si era
rannicchiata contro Kiyoko: la più grande le
accarezzava distrattamente i capelli, cercando di non disturbare il suo sonno
leggero, ma non riuscendo a riposare accanto a lei – aveva voglia di guardarla,
vegliare su di lei con protezione. La notte precedente nessuna delle due aveva
chiuso occhio e Hitoka era stata in preda all’ansia
per tutto il tempo, con la paura che prima o poi Yuu
avrebbe chiamato per dar loro qualche brutta notizia. A nulla erano valsi i
tentativi di Shimizu di rassicurarla sul fatto che ormai il peggio fosse
passato: Yachi non riusciva a togliersi dalla mente
l’immagine di Azumane che crollava al suono privo di
conoscenza, come colpito da qualche mistica forza.
Solo
quando ormai era preso a sorgere il sole le ragazze erano riuscite a calmarsi
un po’, ma la stanchezza ora prendeva a farsi sentire. Kiyoko
si voltò verso la sua compagna con un
piccolo sorriso: aveva un cuore grande, Yachi, così
pieno di amore ed affetto per tutti che quasi pareva non poter essere contenuto
in un corpicino così piccolo. Ed era sua, aveva scelto lei, s’erano scelte era
semplicemente perfetto. Forse, la ragazza capiva perché Asahi aveva agito nel
modo in cui agito – e che Noya aveva raccontato loro
quella mattina: non avrebbe mai permesso che qualcosa accadesse ad Hitoka, anche se avesse dovuto soffrire per questo, anche
se avesse dovuto sacrificare tutto il resto.
Poco
dietro, Hinata fissava distrattamente il sole
tramontare nella sua luce rosastra, la mente
lontanissima. Kegayama, accanto a lui, aveva posato
il cellulare nella borsa dopo aver mandato un messaggio ad Hajime
e lo stava fissando, senza sapere quanto Shouyou ne
fosse consapevole. Sapeva che era ancora turbato, per quello che era successo,
per tutto quello che in quei giorni di allenamento gli era passato per la testa
e di cui non gli avevano ancora parlato.
Quando
non riuscì più a sopportare il silenzio, l’Alzatore semplicemente gli prese la
mano. Hinata quasi sussultò, ma non si voltò – gli
pareva di rovinare quel momento.
«Sai, il
fatto che non siamo legati non significa che io non possa sentirti. Io ti sento, Shouyou».
L’Esca
risposte a quella stretta di mano, intrecciando le sue dita in quelle di Tobio, un leggero sorriso sul suo volto. Sì, lo sapeva. Ed
era grato a Kageyama per questo. Nonostante tutto, esistevano
ed avevano un legame tutto loro.
Suga
s’era da poco incamminato verso casa. Si sentiva stranamente leggero quella
sera: nonostante tutto, il fatto che Asahi e Noya
avessero cominciato a risolvere i loro problemi lo faceva sentire meglio, come
se le cose avessero ripreso a girare nel senso giusto, almeno un po’.
L’assenza
di Daichi era qualcosa a cui stava ormai diventando
tristemente abituato, un dolore sottile simile ad una malattia latente con cui
imparare a convivere. Era ironico, a pensarci: il legame che aveva tanto
voluto, contro cui entrambi avevano tanto gridato, ora era malinconia per uno
ed insensatezza per l’altro. Tutta la loro lotta, tutti i loro sforzi erano
bruciati senza che se ne accorgessero.
«Koushi».
Suga alzò
la testa di scatto: davanti a lui, Daichigli stava di fronte con un leggero sorriso ad
allargargli le labbra. L’alzatore pensò che non s’era per nulla accorto del
fatto che lo avesse seguito e persino superato, tanto era perso nei suoi
pensieri.
«Credevo
andassi a casa», gli disse, cercando di apparire neutro e avvicinandosi – stava
imparando nuovamente a muoversi intorno a lui e l’istinto di scappare, per
quanto ancora forte, veniva ora compensato ad una certa, forzata calma, una
caparbia decisione a restare.
«C’è una
cosa che volevo fare, prima». Anche il Capitano della Karasuno
aveva mosso qualche passo verso il compagno
ed erano, ora, più vicini di quanto fossero mai stati negli ultimi giorni.
Per
qualche istante, Koushi credette che Daichi volesse di nuovo provare a baciarlo. Dopo l’ultima
volta, aveva fatto attenzione ai suoi movimenti, quasi si aspettasse
un’imboscata, un gesto a tradimento e sebbene la logica, il sentimento gli dicessero di fidarsi, qualcosa di irrazionale lo
spaventava: non avrebbe saputo come reagire a quel gesto – ora che era
consapevole di quella possibilità, non sarebbe riuscito ad allontanarlo con la
stessa sicurezza dell’ultima volta.
Ma Daichi non lo baciò. Gli si avvicinò ancora – i volti a
pochi centimetri l’uno dall’altro, i respiri che si mischiavano – e restò così,
a guardarlo, contemplandolo come si fa con un’opera d’arte o un miracolo. Non
lo sapeva ancora, Suga, ma Daichi ora conosceva il
significato di quel legame, il significato vero e profondo che aveva per
loro.
«Pensavo
che ti devo delle scuse. Scusami, sono in ritardo», gli disse, inclinando
appena la testa e sorridendo ancora.
«In- In
ritardo per cosa?». Suga davvero non riusciva a capire.
«Abbiamo
aspettato così tanto per avere tutto questo… È stato estremamente scortese da
parte mia dimenticarti».
Koushi
trattenne il fiato. Se quello era uno scherzo, allora Daichi
era più crudele di quanto si sarebbe mai aspettato. Eppure il ragazzo se ne
stava lì, lo guardava senza dire nulla, in attesa che capisse. E Suga voleva
davvero capire, voleva davvero lasciarsi trasportare da quella speranza, da
quell’intuizione, ma aveva paura che se non fosse stato come credeva non
avrebbe retto il colpo.
«Non è
colpa tua», rispose restando sul vago, cercando di svincolarsi.
«Non sto
dicendo che lo sia. Solo che ora voglio recuperare il tempo perso».
Daichi parlava
come se Suga avesse compreso quello che intendeva e Koushi,
invece, non avrebbe voluto far altro che scappare. Per questo il Capitano allungò
una mano a sfiorargli la guancia – l’alzatore dovette far violenza su se stesso
per non abbandonarsi a quel tocco. Gli mancava così tanto…
«Koushi, hai capito che cosa sto dicendo?».
«E tu
capisci che se mi permetto di sperare, che se ti credo poi non potrò tornare indietro?».
«Giuro
che non dovrai mai farlo. Lo giuro sul nostro primo bacio, sulla neve che
avevamo intorno. Lo giuro sulle notti in bianco passate a tormentarci, sulle
nostre dita intrecciate a voler sostituire il legame che non avevamo. Lo giuro
sui colori che vedo, sui tuoi capelli cenere, suoi tuoi occhi chiari, sulle tue
guance appena arrossate».
Koushi annullò
la distanza che li separava, gettandosi tra le braccia di Daichi
e scoppiando a piangere. Le sue mani, strette a pugni e all’altezza del petto dell’altro,
cominciarono a battervi contro con poca convinzione mentre le spalle erano
scosse dai singhiozzi. Il Capitano della Karasuno non
riusciva a cogliere tutte le parole che Suga stava mormorando, ma era chiaro
che si stesse sfogando per tutto il tempo che aveva sofferto in silenzio,
lontano da lui. Lo strinse a sé quanto più forte poteva, quasi a voler fondere
i due corpi, e gli sussurrò che non si sarebbe mai più separato da lui.
«Ricordi
tutto ora?», riuscì a chiedere Koushi, quando lo
scoppio di pianto si fu calmato.
«Non
tutto, no», scosse la testa Daichi «Ma ricordo te,
ricordo i nostri baci e ricordo quello che abbiamo avuto, le cose più
importanti almeno».
A Suga
ancora non pareva vero, ma il legame non faceva più male. Era bello, caldo,
confortante, come avrebbe sempre dovuto essere. Lo stavano sentendo per la
prima volta davvero. Così si baciarono, in un gesto che partì da entrambi, che
volevano entrambi, che aveva finalmente significato. Potevano quasi sentirla,
la neve che cadeva loro intorno nel primo bacio.
S’erano
cercati tanto a lungo, aveva sperato, pregato, imprecato. S’erano persi e
s’erano ritrovati, ma non s’erano mai lasciati andare davvero, non avevano mai
perso la speranza. Non avevano bisogno del legame per sapere che erano destinati
l’uno all’altro. Che, in un modo o nell’altro, sarebbero sempre tornati a quel
primo bacio tra la neve.
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E quindi sono riuscita a
concludere questo part- questa shot! Per quelli che
disperavano nel lieto fine… mi spiace per il terrorismo psicologico, ma spero
che sia stato, invece, un happy ending soddisfacente!
(nelle soulmates non ho quasi mai il coraggio di far
morire i compagni ^^’’).
Che dire? Sono felice che sia
piaciuta e ringrazio quelli che hanno lasciato un commento o anche solo un
segno del loro passaggio ♥ Quasi sicuramente tornerò su questa serie, con altre coppie/squadre,
ma non so ancora bene come e quando, quindi caricatevi ben bene di fluff,
perché prima o poi arriverà una nuova mazzata angst
XD