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La landa di fronte al suo
sguardo si perdeva verso il tramonto, increspandosi solamente laddove le cime
degli alberi spezzavano il confine tra cielo e terra.
Nina non riusciva a smettere
di pensare a quanto vasto e bello fosse il mondo aldilà di quelle alte mura
grigie e spente, di quanto fosse meraviglioso e indomabile, selvaggio. Unico.
Persino in quel momento,
seduta sul ramo di un albero, con qualche costola incrinata, messa innanzi alla
certezza che non sarebbe mai tornata a casa, non riusciva comunque ad odiare la
decisione che aveva preso, unendosi alla Legione Esplorativa.
L’inizio della 32esima
missione oltre le mura era stato comequello di ogni altra missione. Ultimamente, dopo il crollo del Wall Maria, c’era addirittura stato un incremento dei
permessi per uscire, al fine di trovare un modo utile per ottemperare al nuovo
obbiettivo imposto alla Legione di Ricerca; se alla nascita, questo corpo
scelto di coraggiosi soldati aveva come fine ultimo quello di scoprire la vera
natura che stava dietro ai giganti, adesso la priorità era diventata quella di
trovare un modo per riconquistare i territori perduti, riducendo al minimo le
perdite umane.
Detta così pareva semplice,
ma, come è logico pensare, non lo era: il numero dei morti si accumulava
nonostante gli sforzi e quella volta la Fortuna aveva voltato le spalle proprio
a lei.
Dopo tre anni di missioni,
soddisfazioni, meriti, era arrivata la resa dei conti. Nina era in pace con se
stessa, perché nonostante la paura che provava, sapeva che qualsiasi cosa
sarebbe successa di lì in avanti, non sarebbe dipesa da lei.
La sua era diventata una
sfida aperta col Fato e nonostante fosse molto giovane, sapeva che era
difficile battere un avversario così abile.
Fece mente locale della
situazione in cui si trovava, pensando attentamente a cosa poteva fare per andare
avanti: si trovava ad almeno un’ora a cavallo dal campo base che il comandante
Erwin aveva allestito. La sua squadra, quella che faceva testa al Capitano
Andrej Sankov, era stata completamente annientata
mentre espletava alla sua missione ricognitiva sul fianco sinistro
dell’avanguardia. Persino Sankov era caduto,
stroncato da un’emorragia che lei non era riuscita a fermare. Non che fosse la
prima volta; quando si era arruolata nell’esercito, aveva già preso in
considerazione l’idea di diventare il medico di campo, ma dopo aver vissuto la
prima missione, come recluta diciassettenne, e dopo aver visto l’orrore e il
dolore dei feriti, la specializzazione presso il cerusico militare di Trost era diventata praticamente un obbligo morale verso i
suoi commilitoni.
Era brava, attenta. Meritava
il giglio rosso ricamato sulla fascetta bianca che teneva sul braccio sinistro,
simbolo della gilda dei guaritori. Erwin lo diceva sempre che aveva proprio la
stoffa –e tristemente, la scrittura- di un dottore in medicina.
Peròla bravura non serve a molto, oltre le mura.
La fatica di trascinare Sankov fra gli alberi, i tentativi di fermare l’emorragia
con le cinghie dell’equipaggiamento dell’uomo, ormai inutilizzabile….
Tutto era stato vano. Sankov era morto valorosamente,
combattendo un nemico imponente. Tutti erano morti, per la causa in cui
credevano e lei non poteva nemmeno riportare quel poco che rimaneva di loro a
casa.
Erano usciti fuori tracciato,
a causa di un gruppo di otto giganti che si erano ritrovati davanti durante la
ronda. Mai visti così tanti tutti insieme. Avevano perso Ravenstein
mentre cercavano di abbatterli al centro di un campo, senza possibilità di
sfruttare a pieno le potenzialità del movimento tridimensionale. Due giganti a
terra e altri quattro in arrivo, verso di loro. Un gruppo di nove persone, ora
otto, che cercava di battere in potenza e velocità quei titani assetati di
sangue.
Nina ne aveva buttati giù ben
tre, un record personale,prima di
essere colpita alla schiena da una manata accidentale, provocata dalla caduta a
terra di un gigante ucciso da Reinolds. Era caduta,
sbattendo forte contro al carretto con le costole e aveva perso i sensi. Non
sapeva dire per quanto tempo era rimasta così, stesa sull’erba bassa, accanto
al carro in legno da cui i cavalli erano stati sbrigliati.
Quando si era destata, però,
ad attenderla non c’era più nessuno. Nessun gigante, nessun compagno. Reinolds, Jutah, Baumann, Kalhaf, Ravenstein, Fisher e Tulak.
Morti, a pezzi, sparsi come petali di rosa per la piana circostante.
Nina aveva osservato quella
scena, certa che non se la sarebbe mai levata dalla mente e si era alzata in
piedi, reggendosi con la mano al carretto, mentre con l’altra si teneva il
busto che rimandava delle fitte lancinanti a seconda dei movimenti. Non era
riuscita a trattenere qualche lacrima al pensiero che non solo aveva perso i
suoi compagni, ma che non avevano segnalato il loro cambio di rotta e che,
quindi, li stavano di certo cercando da tutt’altra parte.
Fu in quel momento, quando
tutto sembrava perduto, che udii un lamento. Il Capitano era vivo. Portò la sua
attenzione su di lui e dopo aver constatato che non era in sé, l’aveva
trascinato per duecento metri in mezzo al nulla, col terrore di essere vista o
sentita da un gigante, fino alla vegetazione fitta del boschetto. Lì aveva
provato di tutto, fallendo.
Ritrovandosi da sola, senza
un cavallo e con il gas necessario forse a fare ancora qualche rapida azione,
se riusciva ad essere parsimoniosa.
Smise di scribacchiare sul quadernino che portava sempre con sé nella tasca posteriore
dei pantaloni chiari, alzando lo sguardo verso l’ovest, la direzione da cui
erano venuti.
Laddove il sole andava a
morire.
Non normale per lei scrivere. Su quelle pagine
leggermente ingiallite dall’usura e dalle molte volte che aveva preso la
pioggia sui bordi, lei soleva disegnare. Parti anatomiche, sezioni mediche,
magari qualche appunto su una particolare erba medicale o esperimento portato
avanti insieme al Capo Squadra Hanji, ma non aveva
mai tenuto un diario. In quel momento, però, rischiava di non tornare a casa.
Rischiava di non poter dire addio a nessuno.
Ne ai suoi genitori, ne a suo
fratello.
A nessuno del Corpo di
Ricerca.
Nemmeno a Levi.
Voleva quindi rendere le sue
ultime parole tangibili, vere. Se avessero ritrovato quel misero artefatto,
almeno non sarebbe morta in silenzio come tanti altri dispersi.
Con un sospiro lento e una
lacrima che premeva per scorrere come una debolezza sulla sua guancia, la
ragazza si rialzò, sistemando il quaderno, tenuto fissato alla cinta da una
cordicella, nella tasca. Poi guardò in basso, sotto di sé.
Sarebbe stata una lunga
marcia e forse di lei sarebbero rimaste solo quelle poche parole scarabocchiate
con una scrittura ardua da decifrare, ma ci avrebbe provato veramente.
Il campo base era laggiù, da
qualche parte, laddove l’orizzonte baciava gli alberi.Ci avrebbe provato, avrebbe venduto a casa la
pelle. Non voleva morire.
Mancavano dieci giorni ai
suoi vent’anni e aveva intenzione di festeggiarli.
Continua…
NdA:
Non ho idea di cosa io stia
facendo, ne del motivo per cui mi sono messa a scrivere alle tre del mattino.
L’idea di questo OC mi è
balenata nel cervelletto bacato per puro caso e visto che quando mi fisso non
riesco a non scrivere senza avere un blocco su qualsiasi altro tema, ho pensato
di provarci.
Non posso avere un blocco in
piena scrittura della tesi, non sarebbe carino.
Un paio di informazioni
velocissime sulla storia, che cercherò di tenere corto per non annoiare
nessuno.
Prima di tutto, potrebbero
esserci degli accomodamenti nella trama generale di SnK.
Cose da poco, soprattutto sulla vita di un personaggio che adesso ho deciso di
non spoilerarvi. Non intendo però uscire dai binari
base della storia del manga e dell’anime.
Nina Müller
è un personaggio di mia invenzione e su di lei scoprirete qualcosa in più
andando avanti. Ovviamente la coppia è con Levi, che domanda. Nonostante il mio
cuore da Ereri, io mi diverto davvero da morire a
creare nuovi personaggi, non posso farci niente. Questa storia è ambientata
dopo la presa di Shigashina, ma prima del
ritrovamento del diario di IlseLangnar,
dalla quale potrebbe sembrare che io abbia preso ispirazione…
… Non è esattamente così e
solo andando avanti capirete il perché.
Sono contraria alle Mary Sue
quindi Nina le prenderà un po’ da tutte le parti, ma si sa che la fortuna aiuta
gli audaci.
L’inserimento del medico
militare è una mia invenzione di sana pianta, così come la fascetta rossa con
disegnato sopra il giglio rosso. Dovevo pensare a un escamotage un po’
medievale che potesse compensare una croce e la scelta è caduta su uno dei
simboli più banali riscontrabili nella medievalistica. Però va detto, che ha
classe.
Davvero, nessuno si è mai
chiesto perché non ci sono dei dottori qui??
La canzone citata all’inizio
è ‘KuroiNamida’, tratta
dal soundtrack dell’anima Nana (https://www.youtube.com/watch?v=_wxoPZijXU0 ) .
Del quale io abuserò, vi avverto.
Il titolo invece, tradotto, signirica ‘Quando le Stelle Brillano’. Banalità orrenda in
italiano, molto figo in tedesco. Il motivo della
scelta? Rivedetevi gli OAV sulla nascita di Levi e ascoltate bene le canzoni ;)
Ringrazio chiunque sia
arrivato sino qui a leggere.
Ringrazierò il doppio chi
avrà anche il buon cuore di darmi una piccola opinione, mi piace trovare un
riscontro con i lettori, ma EFP ormai è diventato un po’ desertico.
Aveva aspettato fino a che il
sole non era definitivamente calato, lasciando spazio a una notte luminosa e
piena di stelle. La luna brillava argentea, quasi piena, abbastanza da
permetterle di spostarsi senza bisogno di fuochi.
Nina non aveva atteso che le
tenebre arrivassero a tanto per fare la prima mossa, però. Era arrivata al
carretto e ci si era infilata con un saltello agile, che le era costato un
mugolio basso e una fitta la costato. Lì aveva trovato quello che cercava: le lame e le
bombole. Aveva cambiato velocemente quelle che aveva nell’attrezzatura in
favore di due piene e si era premurata di aggiungere un paio di lame extra,
nonostante fosse certa che se sulla via per l’accampamento si fosse ritrovata
di fronte dei giganti, difficilmente sarebbero stati attivi e svegli come di
giorno. Questa informazione era frutto di un paio di ricerche effettuate dal
Capo Squadra Hanji sul primissimo gigante catturato
dalla Legione, qualche anno prima del suo ingresso nel corpo di Ricerca. Non
avevano potuto lavorarci molto, purtroppo, ma quel poco che avevano visto su
quell’esemplare di quattro metri, la notte le loro capacità di movimento si
riducevano drasticamente. Era presto per poter decretare che la loro fonte di
energia fosse la luce solare, ma era già stato avviato qualche passo in quella
direzione.
Era una teoria debole, quella
di Nina, ma era la migliore a cui poteva aggrapparsi.
Si era sistemata per bene,
steccandosi il busto con dei rami affinché rimanesse rigido e tenendo tutto
insieme con delle bende che teneva sempre con sé in una scatolina di latta,
dentro alla tasca interna del giubbotto di rappresentanza. Aveva buttato via la
mantella verde, intrisa del sangue di Sankov e aveva
legato i capelli biondi in una treccia. In ultimo, si era preparata
psicologicamente.
Niente più appunti sul quadernino, niente più malinconici pensieri alla ‘e se gli avessi parlato prima di partire’ o
alla ‘e se mi fossi offesa così tanto’.
Era una tipetta che sapeva focalizzarsi molto bene su
un obiettivo, una dote di famiglia.
Nella piana non volava una
zanzara, quando con un piccolo scatto, Nina si lanciò fuori dal carro e iniziò
a correre. Il dolore alle costole era forte, ma non abbastanza da frenarla. La
paura era un deterrente sufficiente che, sommato alla voglia di vivere e alla
determinazione, le permisero di essere veloce quasi quanto lo era senza ossa
rotte. Scattò in avanti il più possibile e per dieci minuti non fece altro se
non pensare a quanto sarebbe stato bello tornare, rivedere quei visi,
raccontare loro cosa era successo personalmente e poi piangere insieme gli amici
che se n’erano andati.
Ed. Nick. Non doveva pensarci
in quel momento. Non poteva permetterselo.
Corse e corse fino a che non
ne poté più, ma per allora aveva già raggiungo il bosco di conifere che aveva
puntato. Non era nemmeno a un quarto del tragitto, ma si era decisa a ritenersi
soddisfatta se avesse bruciato una tappa alla volta. Lo attraversò tutto
restando in guardia, attenta a dove metteva i piedi, poiché laddove c’erano
molte meno preoccupazioni su come usare l’attrezzatura, c’erano molti punti
ciechi e meno luminosità a causa delle fronde alte.
Dopo quella zona boschiva si stendeva una piana a perdita d’occhio che la
scoraggiò non poco, ma ricordava bene che vi erano passati e che, avanti,
avrebbe incontrato il corso del torrente che andava a toccare il paesino ora
abbandonato dove era stato sistemato l’accampamento.
Riportò alla mente le parole
del ex comandante Shadis, se rimanete senza cavallo non correte a perdifiato come una massa di
idioti ma fatelo con la testa, conservando le energie per fare uno scatto in
caso di bisogno, e partì di nuovo. Corse, attenta a respirare bene e a
concentrarsi su qualcosa che non fosse il dolore. Corse e corse.
Corse così tanto che quando
iniziò a spuntare il sole, tingendo prima di azzurro e poi di rosa il cielo, si
ritrovò a sentirsi delusa. Sperava che una notte sola le sarebbe bastata per
compiere quella distanza, ma forse si era illusa o sopravvalutata. Cosa avrebbe
fatto? Avrebbe atteso su un albero un giorno intero? Senza cibo ne acqua?
Non avrebbe mai avuto la
forza di proseguire e se i dolori fossero peggiorati, allora sicuramente non
sarebbe stata in grado nemmeno di camminare, figurarsi correre.
Un essere umano che non può
correre o saltare è cibo.
Quella che aveva memorizzato
come un’ora a cavallo al galoppo, si rivelò essere una notte e buona parte
della mattinata, tra corsa e camminata. Seguì il corso del torrente non appena
lo raggiunse ed esso le offriva non pochi ripari e nascondigli, che sfruttò
ogni qualvolta sentiva anche il ben che più piccolo rumore.
Fu fortunata, perché riuscì a raggirare un
paio di giganti e fu costretta ad ingaggiare uno scontro solo con un dodici
metri. Riuscì ad abbatterlo nonostante la fatica e il dolore. Ogni singola
cinghia dell’imbragatura le causava una compressione sulla zona dolente quasi
insopportabile, ma riuscì lo stesso a recidere la collottola del mostro che
cadde con un tonfo sordo nel bosco.
La buona notizia era che
quella zona era a prevalenza boschiva, quindi arrivare non fu impossibile anche
se stancante.
La cattiva notizia era che,
quando raggiunse la meta dove era stato insidiato il presidio, essa era
tristemente deserta.
Anno 844
Qualche giorno dopo l’arruolamento di Rivaille e la
sua brigata di fuorilegge.
Nell’aria c’era odore di
fiori di zucca fritti e la contagiosa risata di un sergente chiassoso.
Nina aveva speso tutta la
mattina a strigliare i cavalli e a pulire la stalla insieme a Ed Reinolds e Nicholas Ravenstein,
godendo della pace nella quale il quartier generale della Legione Esplorativa
era caduto da quando, cinque giorni prima, il Comandante Shadis
e il Capitano Erwin erano partiti alla volta della Capitale.
“Sai per quale motivo si sono
recati lì?”
Alla domanda, Nina si era
sollevata sulle punte, incrociando le braccia sul dorso del cavallo e spiando Ravenstein oltre il groppone della bestia “Non ne ho idea,
mio fratello non me l’ha detto.” Ammise senza particolare inflessione della
voce.
Era una recluta, perché
avrebbe dovuto metterla al corrente?
Come ogni altra recluta, Nina
aveva terminato l’addestramento interno
della Legione e poi aveva partecipato a tre missioni nell’ultimo anno, ma
eccetto l’essere incaricata del recupero dei feriti e della loro cura – cosa
nella quale era stata addestrata e istruita, d’altronde - non aveva mai avuto
un ruolo fondamentale o comunque di rilievo. Si era distinta per il sangue freddo,
quello andava detto, ma solo perché nei momenti di forte pressione o di crisi,
tendeva a chiudersi in se stessa e tenere la mente impegnata facendo qualcosa.
Qualsiasi cosa.
Le mani ben conficcate nello
sterno di un compagno nel tentativo di fermare un’emorragia erano un ottimo
deterrente alla paura.
Lavorare con il tenente Renson, il primo ufficiale medico della Legione, era il
massimo a cui ambiva.
“Se ci fanno chiudere, a che
corpo vi unirete?”
La ragazza bionda tornò a
sollevarsi, stavolta con più prepotenza, facendo nitrire con disappunto la
bestia “Non dirlo nemmeno per scherzo, Ed. Non ci faranno chiudere.”
Nick smise di spazzare,
schiarendosi la voce “Si dice che non abbiamo i fondi per fare spedizioni oltre
le mura.”
Ed indicò l’amico, come per
sottolineare l’ovvio “Niente missioni vuol dire nessun senso di mantenerci qui
a grattarci dal mattino alla sera. Ci faranno scegliere, vi dico io che finirà
così. Nina, tu sei arrivata terza durante l’addestramento, io sesto. Il buon
Nick decimo, quindi a filo. Ve lo dico io come dovrebbe finire: dovremmo unirci
alla Gendarmeria tutti e tre.”
La bionda sbuffò incolore,
raccattando la spazzola che le era sfuggita di mano e riprendendo a spazzolare
il pelo raso del cavallo, accarezzandogli il collo “Stipendio migliore, massimo
guadagno con il minimo impegno…. Ma voi l’avete
capito cosa fanno dal mattino alla sera quelli della Gendarmeria?!”
“Quelli dalla Guarnigione
guardano un muro, Müller. Direi che come
divertimento, non c’è una grande differenza.”
Tutti e tre ridacchiarono
alle parole di Nick, ma vennero interrotti dall’arrivo del Capo Squadra Ness, che intimò bonariamente a tutti e tre di sbrigarsi.
Il pranzo sarebbe stato servito di li a qualche minuto e poi potevano prendersi
il pomeriggio di licenza per riposare.
“Adoro essere un suo uomo.”
disse Ed non appena Ness se ne fu andato dalla stalla
“Voglio dire, potevamo avere Erwin come Capitano. O Hanji
Zoe e il suo malato desiderio di avere sempre un gigante in custodia. Vogliamo
parlare di Farlon? Se potesse picchiarci, ogni tanto,
lo farebbe. Invece no, abbiamo Ness. Che il cielo lo
protegga sempre. Il suo solo difetto è che è troppo fissato con la toletta dei
cavalli e la pulizia della stalla.”
“Magari fosse fissato anche
con la pulizia del resto del castello.” Nina riaccompagnò il cavallo nel box,
prima divoltarsi verso i due compagni
che stavano sistemando le scope e la pala “Ci sono dei topi, nelle cucine,
grandi come gatti.”
“Allora ci servono solo gatti
grandi come cani!” sbottò Nick nel pieno della frenesia, prima di scoppiare a
ridere con i due amici, così rumorosamente che dovette sistemarsi gli occhiali
sulla punta del naso prima di vederli cadere a terra sul ciottolato.
Avevano fatto insieme
l’accademia, erano nati come soldati insieme e ognuno aveva incoraggiato
l’altro quando avevano donato la loro vita alla Legione.
Quando avevano deciso di
essere le ali dell’umanità.
A quel tempo, Nina non
credeva di poter chiedere di più di quello che aveva: una vita piena di
avventure che seppur rischiava d’essere tragicamente breve, aveva allargato i
suoi orizzonti nel mondo; amici sinceri, una famiglia ad aspettarla a Stohess.
Un obiettivo nobile.
Non avrebbe chiesto altro, ma
ciò non significa che null’altro le sarebbe stato dato.
Erano quasi arrivati alle
scale laterali che li avrebbero condotti direttamente alla mensa, quando lo
scalpitare di zoccoli e il lento andare di una carrozza li fece voltare verso
il cancello d’ingresso. Qualcuno giungeva.
“Se si tratta del Comandante,
possiamo dire addio al pomeriggio di licenza.” Sussurrò a denti stretti Ed,
mentre gli altri due, molto meno combattivi di lui, sospiravano piano.
Non sembrava la carrozza di Shadis, però.
Da essa, infatti, non scese
né lui né tanto meno Erwin.
Scesero quattro figure, ma le
reclute riuscirono ad identificare solamente il Caporale Thoma.
“Chi accidenti sono quelli?”
Ignorata la domanda di Reinolds, Nina scese un paio di gradini, così da non avere
più il sole a bloccarle la visuale. Il primo era un ragazzo, biondo, alto e
allampanato. Sembrava stranito dal luogo in cui era arrivato, ma si guardava
attorno con un interesse posato. Fu il primo a ricambiare lo sguardo della Müller e ad azzardare lo spettro di un pallido saluto che
lei rilanciò con un sorriso.
La seconda era una ragazza
con i capelli che parevano unfuoco
tanto erano rossi. Lei nemmeno notò le tre reclute, troppo impegnata a lanciare
frasi ricolme di stupore e di meraviglia verso qualsiasi cosa si trovasse lì
intorno.
“Guarda fratellone, è
pazzesco! Questo posto è enorme!”
Il terzo, all’inizio, dava
loro le spalle. Al contrario degli altri due, pareva del tutto padrone della
situazione, era calmo. La statura era bassa, tanto che Nina stimò che dovesse
essere persino più basso di lei, ma aveva qualcosa….
Qualcosa che lo elevava.
Qualcosa che gridava ‘sto cercando guai’
da ogni poro e solo quando finalmente si voltò verso l’ingresso, Nina poté in
qualche maniera avere una riprova di quella sensazione.
I suoi occhi erano affilati
come lame e freddi come il ghiaccio, specchiati all’interno di quelli grandi
della giovane. Aveva i capelli più neri che lei avesse mai visto e
l’espressione apatica e svogliata di chi non ha voglia di sentir ragioni.
Istintivamente, fece un passo indietro, lanciando uno sguardo a Nick.
Si misero sull’attenti,
facendo il saluto militare al Caporale quando questi passò davanti a loro,
facendo sfilare i tre verso gli alloggi delle reclute.
“Quelli chi diavolo sono?”
rilanciò sottovoce Ed.
Nick non rispose, sporgendosi
verso Nina, la quale non tolse gli occhi di dosso al moro fino a che non sparì
dietro l’angolo, alla volta del portone interno “Dovresti domandarlo a tuo
fratello.”
Lei annuì, velocemente “Sarà
la prima cosa che domanderò ad Erwin appena metterà piede qui. Ora andiamo,
prima che i fiori di zucca finiscano.”
Nda.
Si è iniziato a svelare
qualcosa.
Tengo il bello per i prossimi
capitoli, perché mi piace tenere un po’ sulle spine e perché sotto sotto, mi piace lasciare tante piccole molliche per creare
la trama.
La canzone che ho scelto per
questo capitolo è CoughSyrup
degli Young the Giants. Mi sembra molto coerente con
la situazione un po’ infelice.
Spero che questo capitolo
piacerà quanto il primo, che ha ricevuto ben due recensioni, non credevo
sarebbe successo! Ringrazio entrambe le ragazze che hanno recensito, anche se
una delle due passa la maggior parte del tempo universitario con me, ma
apprezzo lo sforzo della recensione.
Grazie davvero, è sempre
bellissimo trovare un riscontro.
Trattenersi dall’urlare fu
difficile. Piangere, invece, fu inevitabile.
Nina non poteva crederci che
dopo aver fatto tutta quella strada, ogni speranza era svanita, come neve sotto
al sole, sciolta dalla consapevolezza che non sarebbe resistita quarantotto ore
da sola.
Erwin, l’intero gruppo della
spedizione, tutti i suoi compagni erano andati via. Dovevano essere partiti
alle prime luci dell’alba.
Questa fu l’idea che la
giovane si fece, avvicinandosial
gruppetto di case in pietra che erano servite da campo base negli ultimi due
giorni.
Che non si fossero accorti di
aver perso l’avanguardia? Impossibile.
Sarebbero dovuti tornare
prima del tramonto e, in ogni caso, era palese che avevano avuto dei problemi.
Che fossero andati a cercarli
e non l’avessero vista? Era possibile, anche se difficile. Nina aveva ricordi
molto contrastanti del giorno precedente; il carro la nascondeva alla vista, ma
era protocollo che si cercasse sempre di recuperare i corpi per dividere i
caduti dai dispersi. Quando si era spostata nel bosco insieme al Capitano Sankov ormai morente, era comunque abbastanza vicina da
potersi accorgere dell’arrivo della squadra incaricata della loro ricerca.
Si lasciò cadere mollemente
su un tronco d’albero usato a mo’ di panca, di fronte ai resti di un fuoco i
cui tizzoni dovevano ancora spegnersi completamente e si prese il capo fra le
mani. Teneva gli occhi sbarrati sul terreno, mentre le mani si stringevano
istintivamente attorno alle ciocche chiare.
Un pensiero la paralizzò.
Doveva essersi addormentata.
Aveva scelto accuratamente
l’albero su cui nascondersi, quello con le fronte più fitte così da nasconderla
alla vista e lì si era tenuta il più stesa possibile a causa dei dolori al
busto, ma non poteva negare a se stessa di essere certa di non aver mai chiuso
gli occhi, nemmeno per un istante. Era ferita, confusa e sicuramente in preda
allo shock. Come medico doveva riconoscere i suoi limiti umani. Ci aveva messo
un po’ a metabolizzare tutte quelle morti e a trovare un piano efficace per se
stessa. Poi si era seduta e aveva atteso la notte. Quindi aveva dormito? Era
possibile? Forse aveva perso i sensi per lo sfinimento?
La verità era una sola, però;
non avrebbe mai fatto breccia in tutta quella confusione che provava, non
sentendosi così vicina alla fine.
Si chiese cosa fosse andato
storto. Facendo missioni da diversi anni, sapeva che le risposte potevano
essere molteplici.
Non c’era stato un recupero?
Perché? Forse i corpi erano stati
abbandonati lì, era troppo pericoloso, oppure non avevano avuto modo di
caricarli su un carro. Forse erano stati attaccati a loro volta. Nina non aveva controllato i caduti prima di
iniziare la sua marcia. Non era stata lucida, ma non c’erano superstiti e non
avrebbe avuto senso in quella situazione scoprirsi più del necessario.
Cosa avrebbe fatto, ora?
Le lacrime iniziarono a
caderle dagli occhi fino al terreno, incontrando qualche sporadico filo d’erba.
Il silenzio attorno a lei era
così forte da ferirle le orecchie e lasciarla disorientata ancor più di quanto
non si sentisse già.
Cosa avrebbe mai potuto fare
lì, da sola, senza nemmeno del cibo o un cavallo per tentare di seguire il
resto della Legione? Senza contare che non sapeva nemmeno dove si erano
diretti. Erano tornati a Trost? Forse avevano deciso
di proseguire lo stesso? Non era importante.
Avrebbe potuto far
semplicemente ritorno a Trost. Spiegata la
situazione, nessuno l’avrebbe condannata per diserzione: la sola cosa furba da
fare, non sapendo dove si trovavano i suoi, era proprio quella di girare il
cavallo e tornare a casa. Peccato che il cavallo non c’era, quindi non si
poneva il problema.
Tornare a nord a piedi?
Impossibile.
Non sarebbe mai arrivata
viva.
Era brava, aveva imparato
molto negli ultimi due anni ed era migliorata in un modo che aveva dell’incredibile,
ma da sola e circondata dai giganti sarebbe morta come qualsiasi altra persona.
Non era il Guerriero più Forte
dell’Umanità.
Era una ragazzina sola,
veloce a menare fendenti, ma che non aveva nemmeno prestato la massima
attenzione se qualcuno era andato o meno a cercarla. Era stata stupida.
Il terra tremò sotto ai suoi
piedi, riscuotendola da ogni pensiero. Un passo pensate, due, tre e lei capì
che doveva levarsi di torno. La situazione era già abbastanza disperata senza
il bisogno di peggiorarla.
“No. Ti prego, no…”
Scattò in piedi, tenendosi
una mano al costato e l’altra sulla bocca. Prese guardandosi attorno e lascio
fare al mero istinto di sopravvivenza. Entrò nella casa che aveva ospitato gli
ufficiali in quei due giorni, andando ad addossarsi alla parete interna,
accanto alla porta. Il gigante che passò di lì doveva essere un dodici metri, a
giudicare dal rombo che accompagnava il suo spostamento, ma Nina non aveva la
voglia di indagarne la natura in quel momento. Rimase ferma e zitta, con le
gambe stese e la schiena diritta contro alla parete fredda, mentre con gli
occhi sgranati fissavano un punto imprecisato di fronte a lei, nel vuoto.
Sarebbe morta lì. Mangiata o
di fame e stenti, non faceva una grande differenza. Sarebbe stato tremendo.
Non poteva andare a caccia o
cercare un mezzo di sussistenza. Era circondata dai giganti, forse con qualche
osso rosso e con pochissimo gas.
Sarebbe morta lì e nessuno lo
avrebbe saputo.
Sospirò pesantemente,
allungando la mano per prendere il suo quardernino.
Lo aprì sulla prima di copertina, leggendo le poche parole scarabocchiate
velocemente il giorno prima, giusto per assegnare un proprietario all’oggetto
nel caso in cui qualcuno l’avesse recuperato dopo la sua morte.
Primo ufficiale Medico della Legione
Esplorativa, Sergente Nina Müller, 32esima missione
oltre le Mura. Squadra d’Avanguardia del Capitano Sankov.
Letta così poteva sembrare
onorevole, la sua carriera. Non lo era per niente, dal suo punto di vista.
Assurdo come una serie di
titoli messi in fila potessero, in qualche modo malsano, definire una persona.
Forse l’avrebbero considerata un eroina, una volta rinvenuto il suo scheletro
con in mano quell’oggetto rilegato in cuoio chiaro. ‘Ha resistito e combattuto fino all’ultimo’, avrebbero detto ‘Era un medico, una dottoressa. Sicuramente
ha provato a salvare i suoi uomini, ma alla fine cosa poteva fare?’.
…. Cosa poteva fare?
Da sola, contro i giganti,
senza niente. Senza nemmeno la speranza.
Era stata abbandonata e non
le avevano lasciato nemmeno quella.
Commiserava se stessa come l’avrebbero
commiserata gli altri.
Una martire in una guerra che
non vedeva vittorie.
Ci volle parecchio prima che
Nina trovasse la forza di rimettersi in piedi. Non trovava un senso nel
movimento, nel provare a ‘fare un tentativo’, quindi ci mise il suo tempo a
decidersi che non poteva comunque aspettare la morte seduta accanto alla porta.
Prima di tutto, sganciò
l’attrezzatura per il movimento tridimensionale. Il gas era così poco che forse
non le sarebbe servito nemmeno per un’azione e quella casa, costruita su una piave, sembrava particolarmente solida. Se non avesse fatto
rumore, difficilmente un gigante l’avrebbe fiutata oltre il forte odore di
chiuso e umido della casa.
Fece leva sulle gambe,
reggendosi con un braccio alla parete mentre l’altro premeva ancora al costato
che, però, non sembrava far più così tanto male. Si sarebbe preoccupata anche
di indagare quanto grave era la sua situazione, ma non subito. Fece un giro
veloce, passando per ogni stanza per piano terra e trovando la cucina,
leggermente interrata rispetto il resto della costruzione. Il braciere era
ancora tiepido, così come quello che aveva visto fuori, cosa che le strappò una
mezza risata priva di colore.
Forse doveva partire prima.
Forse doveva correre di più. Forse doveva stare ferma nel carretto e aspettare,
perché qualcuno sarebbe andato a controllare in un modo o nell’altro.
“Forse, forse, forse.”
Strinse il pugno della mano che penzolava lungo i fianchi “Se sommo tutti i
‘forse’, magari riesco a mettere insieme una linea di pensiero che spieghi la
mia stupidità.” Si fermò, mentre andava verso la porta, e quasi trasalì
“Fantastico, ora parlo anche da sola.”
Di una cosa era tristemente
consapevole, però: se avesse voluto sentire una voce, di lì in avanti avrebbe
dovuto continuare a pensare a voce alta.
Non troppo alta, però.
Il corridoio del piano di
sopra era abbastanza pulito, il che le fece pensare che Levi doveva essere
passato con una scopa e tanto olio di gomito. Al solo rievocare una simile
immagine, non riuscì a non sorridere leggermente, chiedendosi cosa avesse
pensato lui quando non l’aveva vista tornare.
Era stata un’idea di Nina,
quella a chiedere il trasferimento dalla squadra di Levi a quella di Sankov e se n’era pentita nell’esatto momento in cui Erwin
aveva acconsentito, spostando Petra Ral nel gruppo
della retroguardia e lei in quello dell’avanguardia. Era stata un’idea di Nina
anche innescare la discussione che aveva avuto con Levi, a dirla tutta. Quello
la fece sentire ancora peggio, tanto da voler accantonare l’argomento per il
momento.
Ci mancavano solo i rimorsi
di coscienza per concludere in bellezza quella giornata.
Aprì la porta della stanza in
cui aveva dormito proprio il Caporale, quella in cui avevano discusso
sottovoce, lanciandosi sguardi delusi in una gara di sensi di colpa che non
definiva nessuno dei due. Il carattere dell’uomo era famoso ai più: non aveva
una grande pazienza o pazienza alcuna e non si fermava di certo a ponderare
troppo come metter giù una frase. Se Levi doveva dirle una cosa, gliela avrebbe
detta diretto come aveva sempre fatto. Quella volta, però, aveva tergiversato
troppo. L’aveva fatta arrabbiare e lei, esattamente come lui, non aveva avuto
il garbo di fermarsi e pensare prima di parlare.
La scusa a cui aveva addotto
con suo fratello, in sede privata, era stata che nelle retrovie era sprecata:
gli uomini dell’esplorativa di prima linea avevano più bisogno di un dottore.
Erwin di certo non l’aveva bevuta, perché che una squadra fosse avanti o
indietro, rimaneva sempre scoperta su tre lati.
Non ci voleva un genio
militare per capirlo.
Aveva però accettato il
trasferimento, con la promessa che ne avrebbero parlato al suo rientro. Aveva
temuto così tanto quella conversazione che non aveva pensato ad altro, fino
all’attacco.
Più andava avanti a
rimuginare, più si rendeva conto di essere una completa cretina.
Avrebbe preferito cento
conversazioni imbarazzanti con Erwin, che oltre essere suo fratello maggiore
era anche il suo superiore diretto, piuttosto che quella situazione gettata
alle ortiche.
Andò a sedersi sul letto,
sospirando e lanciando un veloce sguardo alla finestra. Per precauzione sarebbe
stato meglio tirare le tende. Ogni pensiero coerente però venne meno, nel
momento in cui notò cosa c’era, sotto a quella finestra.
Sgranò gli occhi, incredula,
prima di alzarsi, andando ad inginocchiarsi sulle tavole di legno marcio, di
fronte a quella che sembrava una scorta per la sopravvivenza di fortuna, arrangiata in
fretta.
Davanti a lei c’era un’intera
attrezzatura per lo spostamento tridimensionale, quattro bombole che a logica
dovevano essere piene, due borracce, quattro mele, un sacchetto che si rivelò
essere pieno di farinata d’avena, una pagnotta di pane, del formaggio
stagionato accanto a quella che aveva tutta l’aria di essere della carne
essiccata, una bussola,una cartina
della zona – oggetto estremamente prezioso- e una divisa pulita.
Nina prese in mano la giacca,
controllandone il contrassegno dentro al colletto e notando che apparteneva al
Capo Squadra Hanji. C’era anche il suo kit medico di
scorta, integro e perfettamente conservato. Vi appoggiò una mano sopra, prima
di notare che, dietro al sacchetto della farinata c’era dell’altro. Un
barattolo e un foglio strappato malamente da un quaderno, con scarabocchiata
qualche parola. A Nina mancò un battito, quando realizzò che quella scrittura
la conosceva molto bene, perché aveva corretto tanti rapporti scritti da quella
mano.
Questo è tutto quello che sono riuscito a mettere
insieme nel breve tempo che ho avuto. Erwin è fuori di sé e ha deciso di
rimettere in marcia la Legione subito. Non muoverti, non fare niente di stupido
e dilaziona il cibo. Non avventurarti troppo lontano per cacciare, fruga nelle
case qua attorno. Troverò il modo di tornare il prima possibile. Mi dispiace
per tutto. L.
La lesse due volte e a metà
della terza, con gli occhi pieni di lacrime, lasciò cadere a terra il foglio.
Aprì il barattolo, costatando che non si era sbagliata. Era pieno di miele. La
mano le tremò, mentre immergeva l’indice dentro a quella pasta dolce,
portandolo poi alle labbra per assaggiarlo. Una lacrima le rigò il viso, ma non
riuscì a non sorridere pallidamente.
Non era semplicemente miele.
Erano ricordi.
‘Appoggia quel barattolo o ti verrà un culo così
grosso che nemmeno legando insieme due cavalli potremo portarti in missione
all’esterno.’
Erano poche le persone che
sapevano quanto fosse golosa di dolci e Levi era fra loro. Le retate in cucina,
durante la preparazione dei pasti, passate a parlare con il cadetto Nolan, nel patetico tentativo di distrarlo per rubare anche
solo un cucchiaio di miele erano diventate oggetto di prese in giro,
soprattutto da parte di Ed e Nick che-
Ed e Nick, che erano morti.
Li aveva visto morire
entrambi, in un batter d’occhi. Erano stati amici per quattro anni nella
legione e tre di addestramento… E lei li aveva visti
cadere per difendere ciò in cui credevano.
Richiuse il barattolo,
tenendolo fra le mani e osservandolo come se in esso avrebbe trovato un senso
all’andare avanti. Quello però era solo un simbolo.
Nick, Ed, Erwin, Levi….
“Non devo arrendermi.”
Sussurrò a se stessa, perché solo dicendolo l’avrebbe reso vero. Guardò di
nuovo le provviste e si asciugò la guancia con il dorso della mano, adesso più
decisa “E non mi arrenderò.”
Poteva farcela, doveva solo
resistere.
Per coloro che erano morti,
ma soprattutto per coloro che erano ancora vivi.
I'm coming up onlytoholdyou
under
And coming up onlyto show you're wrong
Anno 844
Poco dopo l’arruolamento di Farlan,
Isabel e Levi.
“I tuoi occhi sono diversi.”
Quella che suonò come un’affermazione
incerta più che una vera e propria domanda, andò ad infrangere il silenzio
pacato nel quale l’infermeria era caduta. Nina alzò lo sguardo, incontrando
quello di Farlan. Tirò istintivamente indietro il
capo quando notò quando vicino fosse il visodell’altro in quel momento.
“E il battito del tuo cuore è
regolare.” Confermò a sua volta la bionda, andando a segnarsi un paio di
appunti sul quaderno appoggiato sullo stesso tavolo su cui aveva fatto sedere
il ragazzo, ormai quasi mezzora prima. Gli aveva fatto levare tutto eccetto i
pantaloni e aveva iniziato la visita medica, che al contrario
dell’addestramento, non poteva essere saltata.
“Sono serio.” Insistette Farlan, mentre anche Isabel si avvicinava con cipiglio
annoiato e le mani dietro al capo, indagando a sua volta “Uno è celeste come il
cielo in una giornata d’estate, mentre l’altro è di un azzurro diverso,
screziato di verde, come l’acqua del torrente che scorre dietro al castello.”
“Che poeta!” disse la
ragazzina dai capelli rossi, tirandogli una gomitata nel costato e facendolo
sobbalzare, mentre Nina ridacchiava divertita.
Quei tre, presi insieme,
sapevano essere divertenti.
“Ha ragione però, i miei
occhi sono leggermente diversi.” Aveva concordato la dottoressa, prendendo un
paio di aghi e appoggiandoli sul lettino.
Farlan si zittì e sbiancò al solo vederli, mentre Isabel
invece sembrava abbastanza presa dalla discussione “Vedi bene con entrambi?
Magari da uno vedi peggio?”
Nina le sorrise, scuotendo il
capo “No, non c’è cambiamento da un occhio all’altro. Sono semplicemente nata
così e non sono in molti a notarlo ,dopotutto.”
“Ehm, dottoressa?” Farlan richiese di nuovo attenzioni e quando Nina notò il
cambio di colorito, le venne di nuovo da ridere “Quelli a cosa servono?”
“A niente di mortale.”
Rispose lei, mettendo avanti le mani e prendendo il primo ago, mentre con
l’altra mano costringeva il ragazzo a stendere il braccio “Serve per provocare
un piccolissimo salasso.”
Se possibile, Farlan sbiancò ancora di più, ritraendo istintivamente l’arto
“Un salasso? Non è quella cosa oscena che fate voi segaossa quando volete far
stare peggio un malato??”
Isabel sbuffò una risata
sardonica “Coniglio” gli disse, prima di alzarsi la manica per mostrare
fieramente una porzione di braccio coperta dalla garza bianca “Anche io me lo
sono fatta fare, senza storie!”
“Non capirò mai a cosa
serve.” La voce di Levi, che se ne stava appoggiato alla parete alle spalle di
Nina, fece voltare tutti nella sua direzione. Era rimasto in silenzio per così
tanto che lei si era dimenticata addirittura della sua presenza.
“A niente.”
Farlan guardò stupito la bionda perché quella risposta non
era nemmeno lontanamente soddisfacente. “A niente?” rilanciò infatti, mentre
lei gli legava il budello di un maiale attorno al braccio e batteva piano due
dita appena sotto alla piega del gomito, per far risaltare le vene. Prese
quindi dalla sua borsa un coltellino dalla lama piccola e molto affilata,
sorridendogli incoraggiante.
“Il dottor Renson vuole vedere se i vostri umori sono bilanciati.”
Veloce, tagliòil braccio del ragazzo
che sobbalzò stupito e inserì l’ago largo nella ferita piccola ma precisa,
prendendo poi una piccola ciotolina nel quale poterlo
raccogliere “Se devi svenire, fanno in avanti. Se cadi all’indietro, non posso
garantirti di prenderti in tempo, sei troppo alto.”
“I miei umori stavano
benissimo prima di questo.” Le fece sapere il biondo, prima di prendere un
respiro e iniziare a fissare il muro di fronte a sé. Una volta fatto, Nina gli
fasciò la ferita e premette su di essa per far cessare la fuoriuscita. Una volta
fatto, e gli permise di rivestirsi.
“Non credo nel salasso o
nella teoria degli umori, che sta alla base degli studi che vengono impartiti
da qualsiasi cerusico di città. Li trovo utili tanto quanto il letame sulle
ferite purulente o l’olio per cacciare il malocchio. Però questa è la prassi e
io qui valgo meno del tavolo su cui vi visito.” Gli rivelò mentre si infilava
la camicia, senza ancora la minima traccia di colore sul suo viso. Sarebbe
rimasto così tutto il giorno, di quel passo, così gli passò un biscotto che
teneva nascosto in un piccolo sacchettino “Mangialo, ti farà sentire meglio.”
“Un biscotto? Ci vorrebbe un
cinghiale intero per farmi sentire meglio.”
Nina scosse il capo senza
nascondere tutto il divertimento che quella scena gli stava regalando. “Quando
ti senti debole devi sempre mangiare qualcosa di dolce. Non chiedermi il
motivo, ma è così. Senza contare che Nolan è
particolarmente bravo con forno.” Prese in mano il quaderno e segnò un paio di
appunti con il carboncino. Avrebbe stilato un rapporto ordinato solo in
seguito. Una volta finito di segnare tutto ciò che il protocollo esigeva, alzò
gli occhi verso Levi, che sembrava parecchio disinteressato. Come sempre.
“Avanti il prossimo” gli disse, cercando di suonare allegra per compensare.
L’uomo avanzò, aprendosi la
camicia e abbandonandola su una sedia insieme alla giacca. Nina si permise di
guardarlo per bene, perché in fondo quello era il suo lavoro. L’aveva fatto
anche con Farlan, poco prima.
“Nome e cognome.” Disse a
voce alta, segnando già qualcosa sul margine sinistro.
L’uomo non collaborò, “Levi.”
Dalle sue labbra non uscì
altro.
“Levi come?”
“Levi e basta.”
La dottoressa rimase a
fissarlo in attesa per diversi secondi, mentre alle loro spalle, i due compagni
di avventura del moro passavano gli occhi da una all’altro con un discreto
interesse. Non c’era però spirito di partecipazione, perché il cognome non uscì
e Nina, giusto per preservarsi da eventuali sfuriate di Renson,
segnò per davvero Levi E Basta come
nome della nuova e riottosa recluta.
Prese il metro e si abbassò
“Alza il piede” ordinò, poco prima di tirandosi di nuovo diritta, controllando
l’altezza precisa. A diciassette anni già gli mangiava in testa e Nina sapeva
che sarebbe cresciuta ancora di qualche centimetro, andando a staccarlo di
parecchio “Un metro e cinquantanove. Forse sessanta. Segno sessanta.” Ritirò il
metro, prendendo anche quell’appunto “Sei parecchio basso per un uomo con la tua grinta.”
“Tu invece parli troppo, fai
più rumore di un gruppo di galline.”
Nina alzò un sopracciglio, “Ferisce
di più una spada.” Confermò, spiazzandolo leggermente per la semplicità con cui
glielo disse. Senza la minima preoccupazione o stizza. Stava continuando a
divertirsi. Con i soldati di solito era facile. Facevano tutto quello che lei
chiedeva, alle volte svenivano per il prelievo, ma non parlavo se non
interpellati.
Quei tre non erano soldati.
Erano criminali dei bassifondi della Capitale.
Agli occhi di Nina, quindi,
erano affascinanti da osservare. Erano una novità.
Terminò tutte le procedure e
Levi non fece una piega al prelievo. La sola cosa che domandò era se il
coltello fosse pulito.
“Ovviamente lo è, ne uso uno
diverso per ogni persona e poi li metto a bagno nell’aceto.”
“Lo spero per te, cretina.”
Nina sbuffò una mezza risata,
finendo di fasciargli la ferita per poi prendere il quaderno e andare verso la
scrivania “Sei troppo piccolo per contenere tutta questa cattiveria. L’aceto ce
l’hai nelle vene.”
Levi si allacciò la camicia,
non spostando gli occhi da lei “Cosa dovrei fare per offenderti? Non capisci
quando una persona ti insulta?”
La dottoressa prese dei fogli
bianchi, la penna d’oca e l’inchiostro, prima di guardarlo pensierosa “Lo
capisco, ma non mi tange molto il pensiero di uno come te.”
Non c’era molta ostilità nei
loro sguardi. La loro era più una sfida a chi avrebbe parlato in seguito, a chi
si sarebbe spinto oltre e a chi invece avrebbe lasciato perdere quella
battaglia per portare avanti la guerra.
Quando Levi si infilò la
giacca e si avviò all’uscita “Stupida ragazzina” fu il solo commento che si
lasciò alle spalle, quasi come se non volesse abbassarsi al suo livello.
Nina sapeva che aveva fatto
qualche punto, ma che era molto lontana dalla vittoria “Ci vediamo a cena, Levi e Basta.” Gli disse dietro,
scuotendo poi il capo mentre lanciava uno sguardo agli altri due ragazzi
“Potete andare. Se non avete niente da fare credo che possiate ritirarvi a
riposare.”
Isabel non disse niente, si
sbrigò a seguire il moro. Farlan, invece, si avvicinò
alla scrivania, con le mani dietro alla schiena. Nina alzò gli occhi su di lui,
“Posso fare altro per te, Church?”
“A dire il vero, mi stavo
solo chiedendo se potevo avere un altro di quei biscotti.” Chiese, quasi
timidamente “Mi ha fatto sentire meglio per davvero!”
“Ti fidi di loro?”
Nina alzò lo sguardo dalla
scacchiera, puntandolo in quello limpido di Erwin. Era sempre stato
particolarmente pragmatico, ma con gli anni continuava a peggiorare. Lei era
assolutamente certa che il problema risiedesse nel fatto che lui, nella sua
testa, fosse pieno di congetture e teorie che però teneva per sé.
Nonostante questo, non si
esentava dal chiedere pareri alle persone attorno a lui, ovviamente ignare, “Mi
fido di te” rilanciò la ragazza, mandando avanti la torre e mangiando il
cavallo bianco, prima di incrociare le mani sotto al mento.
Erwin però non fece la sua
mossa. La guardò attentamente e attese che lei ricambiasse lo sguardo, prima di
parlare nuovamente “Io non ho mai detto di fidarmi di loro. Ho detto che
saranno fondamentali per i progetti futuri che ho in mente, ma la fiducia è
tutta un’altra storia.”
Quella frase, messa giù a
quel modo, la fece riflettere. Assottigliò lo sguardo, iniziando a capire dove
volesse andare a parare il Capitano Smith.
Non si fidava di loro, ma li
aveva inseriti fra le loro fila. Non era stupido, doveva avere qualcosa in
mente, quindi non restava altro se non assecondarlo, anche se sotto c’era
qualcosa che lei non sapeva ancora.
Lo guardò fare la sua mossa,
prima di chiedere la sola cosa che l’altro si aspettava in quel momento “Cosa
vuoi che faccia?”
L’alfiere nero si avvicinò
pericolosamente al re bianco.
“Ho un lavoro per te, ma
dovrai stare attenta. Se ho ragione, potrebbero anche ucciderti se dovessero
venirlo a sapere.”
E le diede scacco matto.
Il dormitorio femminile delle
reclute era più grande di quello
maschile e, da quanto Levi era arrivato, anche molto più caotico e disordinato.
Era la sola cosa che sembrava rallegrare Flagon, il
fatto che quanto meno fossero ordinati.
Nonostante la differenza di
spazio, però, il numero delle occupanti era minore, perché solitamente c’erano
più uomini che si univano al corpo, rispetto alle donne. Per questo motivo, i letti
a castello erano occupati per lo più in modo non continuo e Isabel Magnolia ne
aveva approfittato per andare a sistemarsi nel letto di sopra, prima fila,
vicino alla porta.
La posizione offriva i suoi
vantaggi, come per esempio defilarsi nel cuore della notte senza destare
sospetto, visto che sapeva essere molto silenziosa.
Sarebbe andata bene anche quella
sera, se solo Nina non si fosse ritrovata in prima linea con l’intenzione di non
tirarsi indietro. Lasciò uscire la rossa, fingendo di dormire nel suo letto,
disposto nella parete opposta alla porta, prima di buttare all’aria la coperta
di lana, scendendo dal letto con un saltello silenzioso. Non si era cambiata
per la notte, addosso aveva ancora i vestiti che aveva usato durante la giornata
e le cinghie, che iniziavano a darle non poco fastidio. Prese l’attrezzatura
per lo spostamento tridimensionale, che suo fratello le aveva permesso di
tenere e il foglio con la delibera dello stesso capitano in caso un superiore l’avesse
beccata e avesse fatto storie, indossandola senza però prendere ne la giacca ne
il mantello. Aprì solo la finestra, attenta a non svegliare le compagne di
camerata e uscì dalla finestra, ancorandosi con un solo lato delle funi alla
parete. Iniziò a farsi calare, scendendo lentamente e seguendo con gli occhi
Isabel che percorreva le scalinate verso il portone. Quando la ragazza uscì dal
castello, diretta alle stalle, non si accorse che sulla sua testa, la bionda la
osservava con entrambi i piedi appoggiati alla parete verticale e le braccia
incrociate sotto al seno.
“Sospetto…”
sussurrò fra sé e sé Nina, scendendo con una capovolta elegante e andando a
nascondersi dietro una delle siepi, mentre la guardava entrare “E molto
stupido. Avrebbe dovuto controllare anche sopra di sé e non solo ai lati. Così come
io non dovrei parlare da sola.”
Non pretendeva di essere
perfetta, era un medico e non una spia, ma le basi doveva conoscerle. Se no
Erwin non avrebbe chiesto a lei.
Decise di avvicinarsi a piedi
per evitare di farsi sentire usando il dispositivo e andò dietro al fabbricato
dei box, camminando bassa per non farsi vedere. Si mise sotto una delle
finestre quando sentì le voci dei tre giovani, attenta a non urtare il muro con
le bombole, cosa che rischiò per ben due volte di fare prima di decidere di
inginocchiarsi con la spalla contro al muro.
“-per non parlare del fatto
che qui siamo controllati ventiquattro ore su ventiquattro, Levi. Se si deve
fare, si deve fare in un momento in cui non siamo circondati dai membri della
Legione.”
La voce di Farlan era leggermente più alta di quella di Levi, infatti
Nina non colse la risposta del moro nonostante stesse praticamente trattenendo
il respiro per non perdersi nemmeno una battuta.
Era lampante che però
qualcosa bolliva in pentola, ormai aveva trovato un riscontro nei timori di
Erwin. Nina appoggiò il ginocchio a terra per avere equilibrio e portò una
ciocca mossa dei lunghi capelli color grano dietro all’orecchio, allungando il
capo per vedere dove si trovassero i ragazzi. Trasalì quando vide la schiena di
Levi direttamente di fronte a sé. Doveva essersi appena spostato lì, appoggiato
alla finestra.
Ora non poteva spostarsi o l’avrebbe
sentita. Se si fosse voltato verso l’esterno, l’avrebbe vista.
La prima missione ufficiosa
che le veniva affidata e finiva già così? Tornò ad abbassarsi lentamente,
decidendo che non valeva la pena fasciarsi già la testa prima di essersela
rotta. O di essersela fatta rompere.
“Dovremmo aspettare la prima
missione esplorativa? Potrebbero volerti mesi, Farlan.”
Un mugolio contrariato uscì
dalle labbra di Isabel, mentre il ragazzo alto rispondeva a quella domanda di
Levi “Secondo me è la cosa più saggia. Quando verrà il momento, basterà
prenderlo da solo e cercare addosso a lui i documenti. Daremo la colpa ai
giganti, dal momento che questo piano ci porterà alla necessità di…. Doverlo uccidere.”
“Avremmo dovuto farlo
comunque.” Nina strinse la mano in un pugno, mentre Isabel parlava con il
solito tono sfacciato “Non sarà troppo difficile. Se lo accerchiamo insieme,
non avrà scampo contro noi tre.”
Una brutta sensazione le
nacque alla bocca dello stomaco. Sensazione che trovò presto un riscontro.
“Ucciderò io Erwin Smith. Poi
torneremo per primi a Trost e diremo che il resto
della squadra è disperso. A quel punto basterà levarsi dai piedi e portare i
documenti a Lobov, che ci darà i nostri permessi di
soggiorno per la superficie.”
“Il nostro nuovo inizio.” La voce
sognante di Farlanvaleva più di mille commenti a riguardo, Nina doveva riconoscerlo.
Incredibile come in sole tre
battute, avesse tutto ciò che le serviva.
Non sapeva cosa provare, se
non un misto di disgusto, ma allo stesso tempo, una leggera consapevolezza che
non poteva però concretizzare. Era troppo personale, per lei.
Sentì Levi scostarsi con i
fianchi dalla finestra “Ci rifaremo una vita da qualche parte, magari nel Wall Rose, dove non verranno a cercarci e a quel punto,
solo a quel punto, capiremo che ne sarà valsa la pena.”
“A che prezzo, però?” Farlan fece un passo verso di lui, improvvisamente dubbioso
“Queste persone…. Loro inseguono un obiettivo nobile.
Non so perché, ma li rispetto.”
“Uccideremo solo uno di loro,
non sarà un così grande dramma. Dopotutto rischia già di morire ogni volta che
cavalca oltre le mura.” Levi gli diede le spalle, appoggiandosi con le mani al
davanzale della finestra e guardando verso la luna “Con Erwin morto e quei
documenti nelle nostre mani, non cambieremo comunque il destino di questo
gruppo di illusi speranzosi. Non lo sanno nemmeno loro cosa stanno cercando,
noi sì. Questo mi basta per andare avanti.”
Oltre quella finestra c’era
un mondo che lui avrebbe esplorato, con il vento e il sole ad accompagnare le
sue giornate senza filtri e senza oscurità. Se questo era egoista, allora, non
gli importava.
Se ne fregava dell’altruismo
dal momento che quelle persone non potevano capire cosa significasse vivere in
un buco schifoso per tutta la vita. Abbassò gli occhi sul terreno, prima di
rientrare nella stalla.
La sua sensazione era errata,
non c’era nessuno sotto quel davanzale.
Così come molti membri della
Legione esplorativa – per non dire tutti- non era raro che Erwin Smith non
riuscisse a trovare riposo. Era notte fonda, ma lui non aveva ancora completato
quel rapporto dettagliato da presentare come domanda per la nuova formazione di
avvistamento sulle lunghe distanze sul quale stava lavorando incessantemente da
un paio di settimane.
Era diventato il suo nuovo
chiodo fisso, quel tarlo che se non portato a compimento, lo avrebbe consumato.
Per questo, nonostante l’ora tarda e gli occhi che iniziavano ad incrociarsi
sul foglio, resisteva e disegnava formazioni su formazioni, cercando la
collocazione giusta per ogni squadra e, soprattutto, dividendo ogni squadra nel
modo più equilibrato possibile.
Stava giusto rivedendo il
gruppo numero quattro, ala destra, seconda fila quando qualcuno bussò. Non contro
la porta però, ma alle sue spalle, al vetro della finestra.
Si voltò sorpreso, vedendo
sua sorella che muoveva la mano quasi timidamente, indicando poi la maniglia
della finestra per chiedergli di aprirle. Lui si alzò, aiutandola poi ad
entrare dalla finestra, “Spero che tu non stia usando le attrezzature per
spiare i ragazzi.” La prese in giro, incrociando le braccia sul busto.
Nina aveva la stessa
espressione che aveva sempre avuto da bambina, quando veniva sorpresa in
fragranza di reato e non aveva intenzione di dire la verità. La differenza,
però, stava nel fatto che non avrebbe mentito.
Solo non le piaceva quella
verità.
“Erwin…”
lo chiamò con un filo di voce, quasi imbarazzata, prima di andare verso la
sedia, di fronte alla scrivania “Siediti.” Gli intimò, sganciandosi l’attrezzatura
per lo spostamento 3d e prendendo a sua volta posto.
Lui la guardò attentamente,
imitandola e congiungendo le mani sotto al mento “Non mi dirai che hai già
informazioni, vero?”
Erano passati solo due giorni
da quando le aveva chiesto di tenere controllati quei tre.
“Sono stata brava e attenta.”
Quando la conferma arrivò, il biondo assottigliò appena lo sguardo. Nina non
fece altro se non prendere un bel respiro.
“Sono tutto orecchie.”
Nei cinque minuti che
seguirono, lei non lasciò da parte nemmeno il più piccolo dettaglio. Raccontò di
come aveva seguito Isabel, della stalla e di ciò che si erano detti a partire
da questa storia dei ‘documenti’ che un certo Lobov
aveva richiesto loro e della sua eventuale condanna a morte.
“Hai le loro spade a penderti
sul collo.” Concluse infine la ragazza, passandosi una mano sulla nuca mentre
con l’altro braccio si teneva appoggiata alla scrivania. “Come intendi
procedere? Insomma, se questo Lobov è chi penso che
sia, è una persona molto influente.”
Si aspettava che lui la
invitasse a starne fuori, perché era non solo una recluta al suo secondo anno
nella Legione, ma anche perché era sua sorella e non intendeva metterla in
mezzo. Invece, Erwin decise di stupirla, cosa nella quale era sempre stato
incredibilmente bravo. Aveva un talento per lasciare le persone a bocca aperta.
“C’è un motivo se li ho presi
con noi, Nina. Voglio che gli eventi continuino a svilupparsi esattamente in
questa direzione.”
La giovane sgranò gli occhi,
socchiudendo le labbra “Tu lo sapevi?”
L’uomo annuì “Non trovi
strano che ci mandino a indagare su un trio di teppistelli
dei bassifondi proprio ora che mi sono procurato i fondi per la ricerca? Ho capito
che questa storia puzzava di marcio da subito, ma quando li ho visti…. Quando ho visto Levi, come si muoveva, come
combatteva, allora ho capito tutto.” fece una pausa, sicuro di non aver
chiarito di molto le idee di Nina. Si sporse verso di lei, allungando le mani e
appoggiandole vicino alle sue, prima di proseguire “Un uomo che non ha niente
da perdere, non ha nemmeno niente che non rischierebbe.”
“Per lascia passare per la
superficie. Per un nuovo inizio.” Nina ripeté le esatte parole che Farlan aveva usato, prima di abbassare gli occhi sulle mani
di Erwin, che prese fra le sue. Si ritrovò molto stupita da quel gesto. Erwin non
era mai stato un uomo particolarmente affettuoso e poteva contare su le dita di
una mano gli abbracci che le aveva concesso in diciassette anni di vita. Guardò
quelle mani, grandi e ruvide, in contrasto con le sue dalle dita lunghe, esili
e lisce.
Abbozzò un sorriso un po’
triste “Assurdo.” Sussurrò piano, incapace di alzare gli occhi in quelli di
Erwin. Si sentiva ingenua. “Mi iniziavano a stare davvero simpatici, sai? Non è
più possibile avere fiducia in nessuno. Ogni persona che incontriamo potrebbe
essere un nemico?”
L’uomo strinse le mani
attorno alle sue, costringendola a rialzare lo sguardo per avere una risposta “Tutti
coloro che non sono noi, sono nemici.
Almeno, lo sono fino a prova contraria.” Il tono con cui parlò era sì
rassicurante, ma non molto incoraggiante. “So a cosa stai pensando e non posso dissuaderti:
tienili d’occhio, se vuoi.”
“Pensavo di cercare di far
loro cambiare idea, piuttosto. Come hai detto tu, sono solo persone disperate
che vogliono vivere libere.”
Erwin sorrise, ma fu un
sorriso amaro “Noi non siamo liberi tanto quanto non lo sono loro. Abbiamo solo
il cielo aperto sulla testa, ma pesanti mura come un recinto tutte attorno.”
“Lo siamo invece. Possiamo decidere
come morire, almeno. Queste sono le vere ali della libertà.”
Si scambiarono una lunga
occhiata e, alla fine, Erwin ritirò le mani “Fa ciò che ritieni giusto, ma
fallo con la testa. Ti uccideranno, se dovessero scoprirti.”
Nina si alzò, sentendo che la
conversazione andava spegnendosi. Appoggiò l’attrezzatura sul tavolo e portò un
braccio dietro alla schiena, appoggiando il pugno sul cuore. “Farò quanto in
mio potere, Capitano.”
Lui sorrise più disteso,
recuperando il pennino “So che lo farai. Va a dormire.”
“Vacci anche tu, signore.” Concluse
Nina, scambiando un ultimo sorriso divertito con il fratello, prima di lasciare
la stanza. Nel corridoio, si ritrovò a fissare la porta per qualche secondo,
immobile.
Con la mano ancora sulla
maniglia, tornò a distendere le spalle che si erano irrigidite, poi alzò il
capo e si avviò verso le scale, per raggiungere la camerata delle donne.
“Ciao, Levi.” Disse con tono
disteso, iniziando a salire qualche gradino mentre gli occhi vagavano lungo il
corridoio.
Da dietro uno degli angoli, una
figura ammantata di verde si mostrò, con le braccia incrociate sul petto e lo
sguardo attento. “Tardi per una scampagnata.”
Un sorrisetto si dipinse
sulle labbra della bionda “Che posso dire, le partite a scacchi mi conciliano
il sonno. Dovremmo provare a farne una insieme una di queste sere. Buonanotte, Levi e basta.”
“Buonanotte, ragazzina.”
Doveva essere brava.
Doveva stare attenta.
Però doveva anche provare a
fare qualcosa.
Nda.
Ho deciso di fare un capitolo
più lungo, visto che può di una persona mi aveva fatto notare che erano un po’
brevi.
Spero di non aver annoiato
nessuno!
Non ho molti appunti, questa
volta.
Spreco un paio di parole
sulla medicina medievale, sottolineando che Nina non è né una innovatrice né
una luminare; tanti medici e soprattutto tanti frati hanno lasciato
testimonianze scritte sul quanto trovassero inutile la pratica del salasso e la
teoria degli umori. Per non parlare dello sterco, bleah.
Non ci vuole un laureato in
medicina per capire che certe cose non fanno bene, insomma.
L’argomento medicina verrà
toccato molte altre volte, quindi non mi dilungo troppo.
Ringrazio le due ragazze che
hanno recensito, siete preziose** Spero di non avervi deluse.
Il prossimo capitolo sarà
tutto dal punto di vista di Levi, quindi non vogliatemene se ci metterò un po’
a scriverlo. Non voglio mandarlo OOC!
Baluardo della Legione Ricognitiva nelle regioni a sud
del Wall Rose.
“La squadra del Caporale Levi
ha fatto ritorno!”
Molbit aveva rischiato il collasso per quella corsa e, come
ricompensa, si era anche visto snobbato da Hanji che,
uscendo dalla tenda nella quale era rimasta tutta la notte in ansia, l’aveva
ignorato platealmente e lasciato lì ad ansare.
La donna si affrettò a
scendere lungo il crinale del paesello, accelerando l’andamento quando
riconobbe il gruppo della retroguardia tornare incolume, con tutti i membri al
completo.
Ma con nessuno in più.
“Non li avete trovati, vero?”
chiese sconsolata, mentre Levi, tirava le redini del cavallo indietro, deciso a
non smontare.
“No.” Fu la sua risposta
seccaa quella domanda tristemente
ovvia, facendo cenno ai suoi uomini che potevano andare. Non li avrebbe portati
con sé di nuovo.
“Abbiamo girato tutta la
notte fino a che non abbiamo esaurito l’olio delle lampade, poi ci siamo
fermati ad aspettare l’alba nel punto esatto in cui l’avanguardia sarebbe
dovuta arrivare prima di fare ritorno.” Fu la risposta un po’ più dettagliata
di Ginter, cheportò una mano alla base della schiena, dolente per il tanto cavalcare.
Petra Ral,
che di tutti quei tecnicismi ancora non era pratica essendo alla sua prima
missione, strinse più forte le redini del cavallo “Secondo il Caporale, nessuno
è passato di lì da molto tempo, Capo Squadra Zoë.”
“Erwin?” Levi prese la parola
con tono pretorio, attirando di nuovo gli occhi di Hanji
su di sé. La donna, che stava ancora guardando verso Petra con l’espressione
più sconsolata che poteva esternare, si voltò a guardarlo quasi interrogativa. “Muoviti,
quattrocchi, sono di fretta!”
Lei si riscosse come da un
sogno pieno di elucubrazioni, guardandolo con gli occhi appena sgranati. Quella
si che era una bella domanda. “L’ho visto dirigersi verso ovest poco prima
dell’alba. Lui, Nababa, Thoma
e Mike. Non sono ancora tornati.”
Per il Comandante, attendere
le prime luci del mattino e dare tutte le disposizioni nel caso in cui non
fosse tornato, era stato difficile. Una squadra era sparita nel nulla, non
avevano avvistato razzi di segnalazione e il fatto che nemmeno uno di loro
avesse fatto ritorno lo aveva messo più che mai in allarme.
Quella era la squadra di sua
sorella, la compostezza non era stata nemmeno vagamente contemplata.
Senza contare che anche il
gruppo di Levi non aveva atteso ordini e, a una certa ora, si era lanciato
nella ricerca.
“Ovest?” Domandò il Caporale,
lanciando uno sguardo oltre la landa “Ottimo.”
“Levi! Aspetta! Non puoi
andare da solo!” Hanji si mise di fronte alla cavalla
nera del Caporale, che nitrì, sollevandosi di poco sulle zampe posteriori
“Questa bestia è stremata e tu sei fuori di testa! Non posso permetterti di
andare da solo!|”
“Levati di torno o ti passerò
sopra!”
“Signore la ascolti!” lo
pregò Petra Ral, sempre stringendo quelle briglie al
punto da far sbiancare le nocche, mentre anche le ginocchia le tremavano.
Levi non la degnò nemmeno di
una risposta, cercando di aggirare Hanji senza troppe
cerimonie. Il grido di una vedetta lo fece rallentare, ma solo di poco.
“Il Comandante sta facendo
ritorno!” sbraitò Ilianson, abbassando i binocoli e
guardando alla volta dei due ufficiali. “Ha bisogno di sostegno!”
Levi non se lo fece ripetere,
lanciò in cavallo al galoppo giù per la discesa, deciso ad andare loro
incontro. Sentiva il cuore battere forte contro al petto, mentre si schiacciava
contro al collo dell’animale per prendere più velocità. Girò attorno a un paio
di case, lasciando la borgata in favore dello spazio aperto.
Di fronte a lui, quattro
cavalli galoppavano nella sua direzione. Alle loro spalle, un dieci metri li
inseguiva. Non c’era nessuno però sul cavallo con Erwin.
Non l’avevano trovata.
Spronò l’animale ad andare
più forte, superando Erwin, che nemmeno per errore guardò verso il suo viso.
Usando il corpo del gigante stesso come ancoraggio si sollevò, volando in aria
per diversi metri prima di atterrare deciso sul mostro, tagliandogli la
collottola con un taglio chirurgico, come ogni volta. La carcassa gigantesca
cadde con un tonfo sordo, sollevando la polvere del campo e Levi andò giù con
lei, saltando poco prima che potesse impattare il terreno. Atterrò sulle gambe,
piegandole per evitare di stirarsi un muscolo e fischiò al cavallo, che tornò
verso di lui immediatamente.
Con la mente già proiettata al
territorio che rimaneva da setacciare, tornò verso il gruppo accampato nella
piazzola della borgata. Non diede il tempo a nessuno di parlare, visto che
attaccò direttamente non appena smontò dalla sella.
“Abbiamo pattugliato ovest e
est, non ci resta che spingerci di più verso sud. Il torrente si ramifica,
scendendo verso Shigashina. Se sono stati attaccati,
Nina si sarà trovata un riparo su un albero o qualcosa di simile.” Sapeva cosa
stava dicendo.
Certi schemi li avevano
studiati insieme, a tavolino, certi che nonostante il fremere delle battaglie e
l’angoscia della morte, ricordare la soluzione più furba sarebbe stato il modo
migliore per levarsi da un impiccio.
La sua preparazione non venne
colta, questa volta.
La mancanza di una risposta
da parte dei compagni lo face incazzare.
“Allora?! Siete diventati
stupidi, sordi o entrambe le cose?! Erwin ascoltami, dobbiamo-”
Levi non seppe cosa
esattamente gli impedì di terminare la frase. Forse i volti di Nababa e Thoma oppure il modo in
cui Mike fissava Erwin come per chiedergli il permesso di fare qualcosa. Forse,
o quasi del tutto sicuramente, il fatto che il Comandante gli tenesse la
schiena e non avesse ancora aperto bocca. Quando lo fece, però, ciò che disse
riuscì in qualche modo a destabilizzarlo ancora di più. Tutto il suo
autocontrollo, la sua statica apatia, si sgretolarono così come era successo
due anni prima, in circostanze che sembravano differenti. O almeno lo sperava
ancora.
“Raccogliete le provviste e
le attrezzature. Pronti a partire per Trost tra
trenta minuti.”
“Cosa?!”
Tornavano indietro.
Una squadra intera era
dispersa da qualche parte e loro tornavano a casa? Nina era scomparsa chissà
dove, sola e sicuramente in attesa che andassero a prenderla e loro dovevano
ritirarsi con una settimana di anticipo?!
“Erwin, sei diventato pazzo
all’improvviso?!” Levi sbraitò con tutto il fiato che aveva in gola, superando
Mike che non fu abbastanza veloce da mettergli un freno e tirando il Comandante
per il braccio, facendolo quasi barcollare per la forza che ci aveva messo.
Solo allora, finalmente,
Erwin lo guardò e Levi se ne pentì immediatamente. Il suo volto era cereo, il
suo sguardo, seppur impassibile, era spento.
Non gli disse niente.
Allungò solo verso il
Caporale ciò che stringeva fra le mani, particolare che Levi si era lasciato
sfuggire fino a quel momento. Una giacca beige, di rappresentanza della
Legione. Era così tanto piena di sangue da essere rigida come una scatola e,
esattamente come essa, nascondeva qualcosa al suo interno.
Levi non si mosse per qualche
secondo, saggiandone il peso con espressione di sfida. Poi, con molta lentezza,
sollevò i lembi della stoffa intrisa di liquido vermiglio rappreso. Una mano e
una porzione quasi insignificante di avambraccio facevano bella mostra di loro,
avvolti con cura fraterna.
Ackerman non si azzardò a commentare. Sollevò il colletto
della giacca, guardando il contrassegno e costatando che sì, si trattava della
giacca di Nina. Non fece una piega, però, mentre estraeva la mano e la
guardava. Il suo viso si era disteso nuovamente in una maschera impenetrabile
e, solo a quel punto, rialzò gli occhi su Erwin.
Si era dimenticato che non
erano soli, visto il silenzio che era sceso, ma Thoma
spezzò quella sorta di incanto in cui i due uomini erano caduti, non riuscendo
però a portare su di sé lo sguardo di nessuno di loro “L’intera avanguardia è
stata spazzata via. Abbiamo trovato piùo meno tutti, a pezzi. Non è prudente recuperare i corpi o le
attrezzature, la zona pullula di giganti. Siamo riusciti a recuperare la giacca
di Nina perché era vicino al limitare del bosco, poco lontano dal corpo di Sankov….”
“Devono averla attaccata
mentre cercava di salvarlo.” Aggiunse Mike, con tono dimesso, abbassando il
capo e scuotendolo piano “I resti non erano molto lontani di lì.”
Hanji, che era rimasta paralizzata dal dolore che quella
consapevolezza aveva portato, riuscì a scrollarsi solo a quel punto e fece un
paio di passi verso Levi. Non riuscì però ad appoggiargli una mano sulla
spalla, perché lui le schiaffò il macabro avambraccio in mano, facendola
sussultare.
“La teoria sarebbe
inoppugnabile, se quella fosse davvero la mano di Nina.”
Erwin sembrò riscuotersi a
quelle parole. Abbassò gli occhi azzurri sull’altro, mentre Mike sospirava come
rassegnato. Nababa prese a sua volta la parola
“Sappiamo che perdita sia per te. Lo è per tutti noi, Nina era un’amica prima
di un medico e un membro della Legione. Ma posso assicurarti, dopo aver visto
quel luogo, che nessuno sarebbe mai riuscito ad uscirne vivo.”
Il Caporale non le diede retta.
Si avvicinò di più a Erwin, appoggiandogli la giacca intrisa di sangue contro
al petto e spingendola, cercando così di ridestarlo “Non è la sua mano.”
Ripeté, deciso. Se tutti pensavano che quello fosse un delirio di un folle, si
sbagliavano di grosso. Levi era certo di quello che stava dicendo “Non possiamo
andarcene, dobbiamo cercarla.”
Il Comandante lo ascoltò,
certo, ma non corresse i suoi ordini. Fece per voltarsi e andare alla tenda,
mostrando che no, non gli credeva.
Mostrando che aveva
rinunciato a ogni speranza.
Non poteva accettarlo. “Cazzo,
Erwin! Ascoltami!” Levi lo costrinse a rimanere voltato verso di lui. Improvvisamente
avvertì il forte desiderio di prenderlo a calci nel culo da lì fino al luogo in
cui era caduta l’avanguardia e ritorno “In questi due anni mi sono sempre
fidato di te, non ho mai chiesto niente. Ora sei tu che devi fidarti di me, va
bene? Quella non è la sua mano e quel sangue te lo posso giustificare in almeno
dieci modi diversi perché, nel caso in cui tu non te lo ricordassi, tua sorella
è un medico!”
“Ora basta!” la voce del
Comandante tonò per tutta la borgata, facendo sussultare più di un cuore.
Quella voce, fonte inesauribile di speranza e incitamento durante le numerose
battaglie che combattevano fianco a fianco ogni volta che oltrepassavano le
mura, ora veniva usata per zittirlo. “Questo è un ordine, Levi! Prenderai il
tuo cavallo e i tuoi uomini e posizionati più avanti. Ora che abbiamo perso
l’avanguardia mi servi lì.”
Stava delirando.
Nonostante giocasse
all’impassibile, si vedeva che non era in sé.
Era un gioco che potevano
giocare in due, però.
“Non rispetterò
quest’ordine.”
“Allora ti giustizierò di
fronte a tutti per aver disertato.”
Levi assottigliò gli occhi,
che luccicarono colmi di ira. Abbassò ma mano sull’impugnatura della lama, come
a sfidarlo “Puoi provarci. Sai benissimo come finirebbe per te e per coloro che
proverebbero a mettersi in mezzo.”
Molte lame vennero sguainate.
Levi era diventato un pericolo, perché che lo volesse o meno, quelle erano
minacce e un tentativo sovversivo di non rispettare gli ordini del Comandante.
Era pronto ad andare in fondo, non si sarebbe spostato di un metro.
Attese un qualsiasi gesto di
Erwin, un ordine impartito a Mike che già teneva entrambe le armi in mano, ma
fu Hanji a correre fra i due “Partiremo” disse,
sorprendendo Levi che si aspettava di trovare almeno in lei un appoggio. “Non
c’è bisogno di scaldarsi tanto” proseguì, agitando la mano mozzata e provocando
la nausea in più di uno dei soldati “Partiremo, Erwin.”
Il biondo la ascoltò, poi
guardò un ultima volta Levi ed entrò nella tenda. Tutti iniziarono a
raccogliere le loro cose e a sellare i cavalli a riposo, mentre Levi se ne
stava immobile come un cretino, al centro dello spiazzo, con ancora la mano sul
comando del dispositivo. Rinvenne in fretta, pronto a farla pagare alla donna
“Dovrei decapitarti!” le disse, estraendo la lama e puntandola contro al suo
viso “Perché diamine ti sei messa in mezzo, deficiente di una quattrocchi?! Lo sai
che cosa hai fatto?!”
Hanji non gli diede il tempo di fare niente. Appoggiò
entrambe le mani sulle sue spalle dopo aver scansato la lama con uno schiaffo
“Sei certo che questa mano non sia sua?”
Era così seria da zittire
persino lui. Levi abbassò gli occhi un ultima volta sul di essa, guardandone le
dita troppo corte e tozze. Era sicuramente una mano femminile, ma non era di
Nina. Era pronto a giurarlo sulla sua stessa vita.
“Non è sua. Conosco ogni
parte di lei e questa non è una di esse.” Fece una pausa e per un istante, la
donna poté vedere la vulnerabilità nel suo sguardo, seppur celata dalla falsa
supponenza “Cosa dovrei fare, adesso?”
Lei si sistemò gli occhiali
sul naso, guardandolo con lo sguardo di chi ha già un piano ben delineato in
testa“Dobbiamo sbrigarci.” Lanciò il resto in mano a Molbit,
che sussultò e trasalì fissando l’arto con gli occhi sgranati “Trova del cibo,
io mi occuperò dell’attrezzatura.”
Per quanto l’idea gli
rivoltasse le budella, Levi doveva concordare che Hanji
non era in torto quando sosteneva che andare contro il volere di un Erwin
atterrito non un modo intelligente per aiutare Nina.
Non potevano rimanere lì,
certo, ma potevano provare a farlo ragionare una volta tornati a Trost. Il punto era però che se Nina fosse stata davvero
viva- e Levi di questo era certo come era certo che il sole sorgesse ad Est-
allora dovevano metterla nella condizione di aspettare.
L’ipotesi di nascondere un
cavallo era impossibile da prendere in considerazione. Erano contati e tenuti
sempre sotto controllo dall’unità di approvvigionamento, la quale poteva
chiudere un occhio su tutto il cibo che Levi aveva preso senza nemmeno
premurarsi di spiegarne il motivo, ma non poteva giustificare la sparizione di
una di quelle bestie. Per l’attrezzatura era tutt’altro discorso.Ci avevano provato spesso a tener conto di
quanto gas venisse prelevato e da chi, ma tra una cosa e l’altra e soprattutto
l’atmosfera caotica che contraddistingueva quasi tutte le missioni, riempire
quattro bombole e rubare l’attrezzatura da un morto, fu semplice.
“Il povero Tiger non la userà
più in ogni caso.”
Levi alzò gli occhi su Hanji, mentre questa disponeva gli oggetti in terra, nella
stanza che il Caporale aveva occupato in quei giorni. Tra le mani teneva un
foglio di carta bianco e una matita di grafite e sembrava parecchio pensieroso.
Cosa scrivere alla persona
alla quale tieni di più al mondo e che stai abbandonando a se stessa oltre le
mura? Scelta difficile. Si inginocchiò accanto ad Hanji,
la quale stava appoggiando la sua bussola insieme al resto delle cose che
avrebbero lasciato a Nina. Poi voltò il capo verso Levi “Cosa ti fa essere così
sicuro del fatto che lei non sia morta? Lo vediamo ogni giorno, qua fuori” non
era mai stata così seria, nel rivolgersi a lui.
Il Caporale lo sentì, così
per una volta le parlò francamente, “Se le fosse successo qualcosa lo sentirei
e basta.”
Si scambiarono uno sguardo
veloce e alla fine lei sorrise “Mi basta” fu la sola cosa che si sentì di
aggiungere, prima di sfilarsi la giacca, appoggiandola a terra. Levi la imitò,
sfilandosi la mantellaverde e
piegandola con cura, prima di lasciarla sulla giacca di Hanji,
la quale si stava assicurando la sua sulle spalle. Rimasero fermi, in silenzio,
per diversi minuti.
Levi si sforzò di scrivere
qualcosa di vagamente consolante – e lui faceva schifo a tirare su di morale le
persone- poi appoggiò il biglietto sul vasetto, dietro alla farinata d’avena.
“Detesta questa roba.” Sussurrò poi con tono basso, facendo voltare sorpresa Hanji verso di sé. Non ricambiò lo sguardo “La farinata,
intendo. Quando mi ha chiesto di addestrarla così come ero stato addestrato io
per diventare più forte, c’erano dei giorni in cui la colpivo così forte che
non riusciva a masticare niente di solido senza sentire dolore. Così mangiava
ciotole su ciotole di questa brodaglia schifosa.”
“Il compito di voi uomini è
principalmente questo: terminare il cibo che non piace alla vostra donna. Oltre,
naturalmente, ad aiutarla a diventare più forte.”
La sua donna. Levi non
pensava quasi mai a Nina in quei termini.
Dire che le cose fra loro
erano complicate era un eufemismo. Non erano complicate, no. La parola complicato è per le persone per bene che
andavano in giro con un cappello a cilindro per la capitale e un bel farfallino
sulla camicia appena inamidata. Poteva andare bene anche per gli adolescenti
innamorati, che passano le giornate a sospirare rivolti a una finestra pensando
all’amore di una ragazzina il cui padre non le permette di uscire. Non faceva
per loro, però.
Le cose fra lui e Nina
andavano di merda.
Levi nemmeno l’aveva capito
il perché ed era abbastanza sicuro che nemmeno la bionda lo sapesse. Avevano giusto
un’idea, ma la sua era diversa da quella della bionda. Non importava, ne
avrebbero parlato appena l’avrebbe ritrovata.
Su questo punto non aveva
nessuna remora. Era questione di tempo e sarebbe tornato a riprenderla.
Stava per alzarsi, quando dei
passi per la stanza costrinsero sia lui che Hanji a
voltare il capo. Mike avanzò verso di loro, annusando l’aria “Avete rubato
della carne secca?”
“Se sei qui per fare il
leccaculo con Erwin, prima dovrai impedirmi di spaccarti la faccia.” La voce
del Caporale uscì bassa, come se stesse ringhiando.
Mike però non sembrava avere
brutte intenzioni. La sola cosa che fece fu guardare gli oggetti in terra,
prima di sogghignare leggermente con l’espressione di chi la sa lunga “Allora
avevo ragione. Stavate preparando una piccola scorta. Sei davvero fiducioso che
lei sia viva, piccolo coglione.”
Ackerman non lo degnò nemmeno di risposta, mentre si alzava.
Misurò lo spazio fra loro a grandi passi, ma quando fu lì per sorpassarlo e
uscire dalla stanza, Mike gli premette contro il petto qualcosa, facendogli fare
un passo indietro. Poteva anche essere l’uomo più forte dell’umanità, certo, ma
era un metro e sessanta per settantacinque chili, mentre l’altro di fronte a
lui era un vero e proprio armadio, più alto del Comandante. La fisica era dalla
sua parte, ma Levi non ne era intimorito. Avrebbe steso quel leccapiedi, se
solo si fosse presentata l’occasione o l’avesse sfidato oltre.
Abbassò gli occhi su ciò che
ora si ritrovava pressata contro al petto e afferrandola, capì di cosa di
trattava prima ancora di spiegarne i fogli. Una mappa.
“Ho tracciato il percorso per
tornare a Trost. Lasciala lì, potrebbe servirle se
recupera un cavallo in qualche modo. Mi avevi convito prima della scenata,
comunque.” Girò sui tacchi, lasciandolo lì in piedi a osservare la linea rossa
tratteggiata sulla cartina. Non si evitò però un ultimo commento, prima di
lasciarlo di nuovo solo con Hanji “Ti do un consiglio
da quasi amico, Levi: non avere mai
la presunzione di essere la sola persona al mondo a tenere a qualcuno.”
Il Caporale non gli rispose,
ma non poté nascondere a se stesso che quelle parole avevano sortito un certo
effetto.Appoggiò la mappa col resto
della scorta e osservò ciò che stavano lasciando.
Non si sentiva fiero o
soddisfatto di sé, anzi, si sentiva una nullità.
Doveva però sottostare agli
ordini, quindi aveva agito al meglio delle sue possibilità.
Pregò affinché Nina non
l’avrebbe odiato.
“Andiamo ora, non c’è altro
che possiamo fare.”
Crawl on mybellytil the sungoes
down
I'llnever wear yourbroken crown
I took the rope and
I fuckeditall the way
In thistwilight, how dare youspeakofgrace
Anno 844
Preparazione alla ventisettesima missione oltre le
mura.
“Lei ti piace.”
Farlan, negli ultimi tempi, aveva questa mania di fare
affermazioni che volevano sembrare decisive, ma che tendevano a suonare in modo
insopportabile come delle domande.
Levi gli aveva lanciato uno
sguardo ben poco amichevole, mentre cavalcava al suo fianco alla volta di Trost. Sarebbero partiti per la loro prima missione oltre
le mura di lì a qualche giorno e Shadis aveva
predisposto di spostare l’intera compagnia nella caserma della Legione nella
città fortificata, al fine di ottimizzare i tempi di preparazione.
L’atmosfera era equamente
suddivisa fra chi era spaventato e chi era rassegnato. Levi passava gli occhi
su tutti loro, tenendo il suo viso coperto dalla solita aurea di menefreghismo
nascosto dal cappuccio verde della mantella, cercando di ignorare insistentemente
Farlan che non faceva altro che fissarlo con
espressione di chi aveva capito tutto della vita.
Coglione.
“Andiamo” ci riprovò quello “Non
c’è niente di male in una sana infatuazione.”
“Quella è una ragazzina, Farlan. Per te potrà anche non essere un problema, ma io non
me la faccio con chi ha ancora il labbro sporco di latte.”
Il biondino sorrise
maliziosamente, guardandolo con gli occhi scintillanti di divertimento, mentre
lasciava perdere una battuta pessima
che era affiorata nella sua mente alle parole dell’amico.
“Non è così piccola.” Farlan aveva proprio deciso di marciarci, su quella storia.
“Senza contare che è brillante e dolce, sarebbe un bel cambiamento per uno a
cui piacciono le puttane truccate con il seno fuori dal corsetto.”
Solo Farlan
poteva concedersi il lusso di certe affermazioni senza ricevere una coltellata
nello stomaco.
Levi gli lanciò lo stesso un’occhiata,
storcendo leggermente il naso “Perché stai descrivendo i tuoi, di gusti? Sei tu
quello che si è preso la cotta e cerchi di scaricarla a me?”
“La guardi sempre.” Calcando su quell’ultima
parola, sperò di suscitare qualche emozione nell’altro. Invece niente, non
disse assolutamente nulla, facendolo sospirare quasi scocciato “Sei così noioso…. Prima o poi ti aprirai anche con me, visto che
sono anni che ti sopporto?”
Levi proseguì nel suo
silenzio chiuso, chiedendosi però cosa intendesse davvero Farlan.
Assottigliò lo sguardo, cercando proprio la giovane dottoressa e trovandone l’esile
figura qualche metro più avanti. Cavalcava accanto a Isabel, che sembrava
essersi lanciata nel racconto di una delle loro avventure nel ghetto. La studiò
in silenzio per qualche istante, sicuro che mentre lui guardava lei, Farlan guardasse lui.
Seccante a dir poco.
Il profilo della giovane era pressoché
perfetto; gli occhi grandi dai colori magnetici, l’incarnato chiaro, lunare e
screziato dalle lentiggini rade che correvano lungo la dorsale del naso piccolo
e diritto. Nina era oggettivamente bella come doveva esserlo anche Erwin e di
fatto erano entrambi pieni di spasimanti pronti a fare qualsiasi cosa per uno
sguardo o un cenno di assenso. I capelli di lei erano di un biondo freddo
rispetto a quello del fratello e scendevano lungo le spalle, fino alla schiena
in morbide onde.
Era più alta di lui e lo
sarebbe stata ancora di più se avesse continuato a crescere. Era magra, in un
modo sano con delle belle forme, che la divisa non valorizzava a dovere.
E aveva delle mani
bellissime. Erano perfette, dalle dita lunghe e curate. Quelle erano state la
prima cosa che Levi aveva notato di lei, mentre lo visitava. Aveva notato
quello e il suo sguardo penetrante e leggermente ironico.
Non era mai fermato a
studiarla così tanto come in quel momento e un po’ si chiese perché sapesse già
tutto di lei.
Forse era vero.
Forse la guardava sempre.
Il motivo poteva essere molto
meno nobile, però.
Levi non infatti aveva negato
che la trovasse brillante. Forse troppo brillante.
I dubbi che lo attanagliavano
erano troppi e iniziavano a diventare quasi pressanti. Un ulteriore conferma
venne quando lei si accorse che la stava guardando. Forse sentì la nuca
pruderle o il voltarsi nella sua direzione fu casuale, ma non appena gli occhi
sottili di Levi incontrarono quelli espressivi di lei, Nina non riuscì a
reggere quello sguardo, spostando il suo verso il basso.
Non c’erano poi così tanti
dubbi, in fin dei conti.
Il moro accostò meglio il
cavallo a quello dell’amico, facendogli cenno di farsi più vicino.
Gli occhi di Farlan brillano, aspettandosi chissà quale rivelazione,
mentre Levi gli appoggiava una mano sulla testa per avvicinarla alla sua.
Non era però ciò che sperava
di sentirsi dire.
“Lei sa. Lei sa tutto.”
Volendo evitare di creare
allarmismi, decisero di tenere fra loro quella che infondo era solo una
supposizione, lasciando Isabel all’oscuro.
Levi però promise di indagare
meglio e se necessario, risolvere la faccenda nel modo più silenzioso possibile.
Non potevano parlarne nel
mezzo della carovana di legionari, ma Farlan riuscì
comunque a dirgli le sue preoccupazioni. La scomparsa di Nina Müller non sarebbe passata inosservata; quella di nessuno
lo sarebbe stata, certo, ma quella della sorella di Erwin? Era rischioso.
Eppure non potevano
permettersi di venire scoperti.
Se fosse saltata la missione,
avrebbero atteso ancora o magari avrebbero approfittato dello scompiglio che si
sarebbe venuto a creare e avrebbero fatto fuori anche il Capitano Erwin,
impegnato nelle ricerche.
Il nuovo piano andava già
delineandosi nonostante l’essenza di prove vere e proprie.
Forse era addirittura già deciso.
Levi non dovette aspettare molto
per incontrarla da sola.
Nina aveva lasciato la
caserma da sola la mattina successiva al loro arrivo. Scelta singolare, ma Trost era diventata una seconda casa per i membri della
Legione e lei sembrava padrona di se stessa. Levi l’aveva tenuta d’occhio,
seduto sul davanzale della finestra della sua camera, e ne aveva visto la
figura leggera camminare lungo i gradini di pietra fino a raggiungere la
strada.
Non ci aveva messo a decidere
di seguirla.
Era l’occasione che aspettava.
“Nina!”
La guardò voltarsi nella sua direzione,
stupita nel vederlo lì “Levi…” sussurrò di fatti,
portando entrambe le mani sul petto, come se infondo il fatto di averlo
riconosciuto non la mettesse del tutto a suo agio. Seguì i suoi movimenti verso
di lei, “Come mai già in piedi?”
“Non dormo molto.” fu la
risposta laconica dell’uomo, che la osservò da sotto i ciuffi neri che
ricadevano sulla fronte. “Tu invece?”
“Io dormo fin troppo.” Gli sorrise,
abbassando nuovamente gli occhi e muovendosi quasi istintivamente verso di lui.
Non arretrava, “Così quando mi sveglio
da sola, cerco di rendere la giornata degna di essere vissuta.” Fece una pausa,
alzando gli occhi in quelli dell’uomo prima di umettarsi le labbra, “Sto
andando a comprare qualche benda per una scorta personale. Quelle che ci danno
in dotazione sono di pessima fattura, perché sono le più economiche. Vanno bene
per tagli e graffi, ma se devo fare delle amputazioni mi serve merce di prima
scelta per evitare dissanguamenti. Vuoi…. Accompagnarmi?”
Levi annuì, prima di farle
cenno con mento di fargli strada.
Si tenne sempre un paio di
passi dietro di lei, ascoltandola parlare di procedure chirurgiche disgustose
di cui sperò di non avere mai bisogno.
Se lui non parlava quasi per
niente, lei non stava zitta un secondo. Forse era fatta così.
Magari era nervosa.
Altro punto a favore della
teoria di Ackerman.
La lasciò fare, comunque,
constatando come la tensione si fosse improvvisamente allentata nel momento in
cui avevano raggiunto il mercato cittadino.
“Ti dispiace se facciamo una
deviazione? Vorrei comprare qualche pianta medicinale.”
Di nuovo, Levi non rispose,
accennando appena col capo che sì, poteva fare il cavolo che voleva.
Nina si avvicinò ad una
bancarella, dove un uomo dall’aria bonacciona la salutò cordialmente “Dottoressa
Müller! Qual buon vento!”
“Ciao Olaf.” Rispose lei,
appoggiando le mani sul banchetto di legno e passando gli occhi improvvisamente
avidi sui sacchetti di iuta contenenti le più disparate piante e odori. “Sto
per partire per una missione e mi servono rifornimenti!”
“Sono qui per servirti, Nina”
le disse bonario lui, facendo trasparire una certa confidenza con lei. Guardò incuriosito
Levi, che notò solo a quel punto “Questo tuo amico?”
“Lui è Levi e basta.” La giovane
prese fra le mani i sacchettini che l’uomo le stava porgendo, beccandosi un’occhiata
con tanto di sopracciglio alzato da parte dell’uomo alla sua destra “Arruolato
da poco.”
“Che il cielo ti protegga,
ragazzo.”
Anche volendolo, Ackerman non sapeva come rispondere alle parole dell’uomo,
ma soprattutto al suo tono; erano dei morti che camminavano, certo, ma non c’era
un grande appoggio dal resto della popolazione. Non doveva essere affatto
divertente, come vita, vivere nel costante pensiero della morte che veniva
addirittura ricordato da tutti.
Alla faccia dello spirito di
sacrificio, tutto ciò era masochistico.
Spostò gli occhi su Nina che
aveva iniziato a servirsi da sola, trovando curiosa la cura con cui sembrava
dosare ad occhio ogni ingrediente “Cosa stai comprando?”
Lei sorrise, senza spostare l’attenzione
dalla paletta con cui stava versando in uno dei sacchetti una polvere color
giallo sabbia “Questa è essenza di bergamotto” rivelò, chiudendo il contenitore
di carta marroncina e passandolo al mercante, che la
appoggiò su una bilancia “Serve per lo più come disinfettante” quelle ultime
parole catalizzarono l’attenzione dell’uomo, che addirittura si chinò per
annusarne il profumo.
“Sa di limone.”
“C’è anche della scorza di
limone lì dentro. Usato sulle ferite fa i miracoli.”
I limoni erano davvero rari,
quella roba doveva costare molto.
Nina però era inarrestabile
nei suoi acquisti, “Questa invece
è Malaleuca.” Levi prese fra le mani il rametto che
lei gli porgeva, guardando il fiore bianco a capo di esso e le foglie che assomigliavano
vagamente a rosmarino, ma non ne possedevano né l’odore né la rigidezza “Anche
questa ha proprietà depurative e disinfettanti, ma è molto più potente.”
“La usi per le amputazioni?” chiese a quel punto lui con una velata punta di
ironia, appoggiando nel sacchetto il ramo che andò a far compagnia a una
dozzina di altri suoi simili. Anche quello venne passato ad Olaf.
“Sì anche.” Nina rise e Levi
si ritrovò a pensare che avesse un che di musicale, “Questo invece è un
composto brevettato dal nostro Olaf” fece l’occhiolino all’uomo che ridacchiò
sotto ai baffoni grigi “a base di uva ursina, foglie
di mirtillo rosso, teh nero e carote bollite. Serve per… Diciamo solo che certi soldati hanno qualche problema
a livello intestinale, durante le missioni.” Nina lo guardò ovvia.
Levi prese la palla al balzo “Mi
stai dicendo che se la fanno sotto?”
“Ripetutamente e dietro un
cespuglio. Con questo cerco di evitare fuoriuscite da davanti o da dietro,
anche se il gusto è pessimo. Senza offesa, Olaf.”
L’uomo prese il terzo
sacchetto, “Deve funzionare, non essere buono.”
“Anche questo è vero”
scostando i capelli da davanti al viso, Nina prese un po’ di un composto di un
giallo più intenso in cui si intravedevano anche dei petali bianchi “Camomilla
e tiglio per la febbre. Alle volte sale ai soldati per via di infezioni, ma
anche la paura fa venire i malesseri. La maggior parte di queste erbe le userò
per questo motivo.”
“Molto stupido ammalarsi per
paura. Nessuno li ha costretti ad arruolarsi.”
Nina lo guardò un po’ divertita
“Novellino” lo prese in giro, prima di prende un ultimo ingrediente “Cosa ne
sai tu della vera paura? Tu che, a quanto mi ha detto Isabel, hai sempre
affrontato tutto di petto?”
“La vera domanda è cosa ne
sai tu di me, ragazzina.”
“Oh, ti ho offeso. Voglio farti
un regalo di pace. Vedi queste radici?” Levi annuì, mentre lei gli sventolava
sotto al naso una radice di un odore sgradevole “Valeriana. Ti servirà a
dormire e a smettere di essere così insopportabile.”
“Fammi il favore e taci,
cretina.”
Olaf guardò l’uomo con un
cipiglio poco convinto, ma un segno di Nina gli fece capire che andava bene
così. Quando chiese per quella roba ben cinque monete d’oro, Levi si sentì sul
punto di un mezzo collasso. Così cara, la medicina? Nina però non fece una
piega e gliene passò sei.
“Nina, non dovresti. Non dopo
quello che hai fatto per Ivan.”
“Sono felice di essere stata
in grado di aiutare tuo figlio con le bambine. Accetta, tanto non ho molti modi
di spendere lo stipendio.”
Non fu il gesto a colpire
Levi, ma l’espressione del mercante, che prese quella singola moneta in più con
le mani quasi tremanti e gli occhi colmi di rispetto e commozione.
Nina era anche una brava
persona, perfetto. Ora sì che voleva metterla a tacere.
Fece un passo indietro,
stringendo il pugno sotto alla mantella, mentre la giovane metteva ogni singolo
sacchettino ricolmo di erbe, che lei riteneva al pari di un tesoro, nella sacca
di pelle che le pendeva dal fianco.
Poi lo guardò,
improvvisamente distesa, come se la tensione di quella mattina si fosse dissipata
“Andiamo, ho ancora due o tre posti in cui voglio passare prima di rientrare.”
“Ti piacerebbe, Stohess.”
Levi aveva smesso di dubitare
delle parole di Nina, quindi decise che poteva credere anche a quell’ultima
affermazione.
L’osteria in cui si erano
fermati per pranzare dopo aver raccolto bendaggi, garze, pinze emostatiche,
budelli di maiale e quant’altro era piena, ma il cibo valeva la pena di un po’
di confusione.
Attorno a loro vecchi amici
si raccontavano aneddoti, membri della Guarnigione bevevano in faccia a quel
lungo periodo di pace e giovani si attardavano attorno alle ragazze.
L’atmosfera era così
rilassata che anche Levi si concesse di esserlo, seppur doveva tenere bene a
mente il motivo per cui era lì.
“Come mai?”
“Perché è molto più pulita di
Trost” fu l’ammissione divertita di Nina, che
raccolse un po’ di purè di patate sulla punta dell’indice, che accompagnò poi
alle labbra “Fa freddo, di inverno. Nevica anche per giorni interi e le persone
sanno essere un po’ malevole come ogni abitante del WallSina, ma i colori della città sono meno freddi. Anche
se c’è la cosa peggiore che possa capitare in questo mondo: mia madre.”
Levi incurvò appena le
labbra, mentre sollevava il boccale di birra per prenderne un sorso.
Nina si sporse verso di lui,
appoggiando i gomiti alla tovaglia a quadri “Quello era un sorriso? Dannazione,
è aprile e sta per nevicare anche a Trost.”
“Non ti zittisci mai?” si
informò lui, mentre una cameriera passava col conto. Nina le passò le monete
per pagare e le lasciò anche una mancia generosa. Levi, che non aveva soldi per
il momento, non disse niente, limitandosi a riappoggiare il boccale ora vuoto.
“Starò zitta da morta.”
La bionda fu la prima ad
alzarsi, stirando le braccia verso il cielo. Si passò anche una mano sulla
pancia, tirando la cinghia dell’imbragatura per sistemarla, prima di rivolgersi
di nuovo a lui “Sei stanco?” si informò, raccogliendo la sacca di iuta nel
quale c’era metà del materiale comprato. L’altra l’aveva Levi “Ci sarebbe un
altro posto in cui mi piacerebbe passare, ma non è necessario.”
“Fa’ strada.”
Non l’avesse mai detto.
Dopo un’ora di camminata
lungo vicoli ristretti e stradine secondarie che gli fecero capire il motivo
per cui Nina aveva fatto quell’appunto sulla pulizia, arrivarono di fronte a un negozio che vendeva
miele.
Miele.
Dannato lui quando le aveva
lasciato tutta quella libertà!
“Mi hai portato fino a qui
per questo?!”
“Guarda che io te l’ho
chiesto se eri stanco!” Nina lo guardò ridendo, prima di schiaffargli una pacca
al centro del petto che le costò un’occhiataccia. Troppo contatto
interpersonale, forse “Mi farò perdonare con una tisana alla valeriana dopo
cena, ora muovi quelle chiappette secche, questo è
negozio che vende il miglior miele del Wall Rose.”
“Questa ragazzina mi sta
prendendo per il culo.”disse a se stesso, scuotendo il capo.
Levi non sapeva come reagire
davanti a quell’urgano di entusiasmo. Era abituato a Isabel, ma Nina....
Nina era tremenda.
Sotto ogni punto di vista.
Una bambina nel corpo di una
giovane donna, così tanto entusiasta della vita e delle piccole cose come il
miele. Non era giusto che una persona del genere, che poteva dare tanto,
andasse a morire.
…Pensiero incoerente per l’uomo che era andato con le per
tagliarle la gola alla prima occasione.
Di nuovo, si sentì spiazzato.
Non gli capitava mai, eppure in quella giornata era almeno la terza volta che
lei lo lasciava assolutamente senza parole.
Non la seguì nel negozio,
lasciandole fare il suo acquisto in pace e andando a sedersi sui gradoni di una
Chiesa del Culto, lì di fronte.
Si sentiva diviso a metà.
Le parole di Farlan gli rimbombavano nel cervello così come la risata di
Nina, mentre gli occhi riconoscenti del mercante gli ricordavano quanto
deprecabile fosse la sua condotta.
Levi aveva sempre rispettato
le persone così. Aveva protetto chi si prodigava per gli altri, come Nina. Lui stesso
lo aveva fatto tante volte, nel ghetto. Per gli amici, ma anche per chi ne
aveva semplicemente bisogno.
Uccidere una ragazza che non
aveva colpe non era nella sua natura, ma rischiava di mandare tutto a monte. Rischiava
di rovinare le loro vite e chissà, forse portare alla loro fine.
Non poteva permetterlo.
Tutto ciò che stava facendo,
lo faceva per Isabel e Farlan. Nessuno si sarebbe
dovuto mettere in mezzo e, tristemente, Nina non era niente per lui.
Levi era certo che sapesse.
Ne era sicuro.
Lo leggeva negli occhi dalla
giovane ogni volta che non era in grado di ricambiare il suo sguardo.
Perché lo facendo?
Perché non andava da Erwin e
parlava?
Perché l’aveva trascinato in
quella ridicola giornata?
La domanda più importante era
un'altra: perché non accettava il fatto che, nonostante la maschera di
compostezza e distacco, non si divertiva e si distraeva così tanto da mesi? Forse
anni.
Forse da sempre.
Nina si sedette senza grazia
accanto a lui, costringendolo a smetterla di progettare.
La guardò svitare il
coperchio del barattolo, che poi gli mise sotto al naso “Assaggia.”
“Ho le mani sporche.”
Nina lo guardò con
compatimento misto a tenerezza, prima di immergere il dito nella sostanza
pastosa e dolce. Quando portò il dito alle labbra, non trattenne un leggero squittiò che sortì effetti contrastanti nell’uomo.
Divertente? Inizia a pentirsi
di non essersene rimasto a letto.
“Avanti, prova. Non te ne
pentirai” lo sfidò di nuovo lei, dandogli anche una gomitata per niente
delicata nelle costole.
Levi si massaggiò il punto
colpito, “Sei elegante come un cavallo, ragazzina.”
“Muoviti!”
Levi si arrese alle
insistenze, certo che non avrebbe trovato il modo di farla cedere. Guardò di
nuovo la superficie ora increspata dentro al barattolo di vetro, prima di
immergerci l’indice della mano destra.
Riportò gli occhi in quelli
della giovane, che non li scostò, ma anzi, lo invitò con un cenno a procedere.
Quando lo fece, Levi dovette
ammettere che non aveva mia mangiato niente di così buono in tutta la sua vita.
Non le avrebbe però dato
tanta soddisfazione tutta insieme “Non male.”
“Sei un falso.” Nina chiuse
il barattolo, mettendolo al sicuro nella sua tracolla, prima di sospirare con
tutta la felicità che non poteva contenere “Sai, sarà anche stupido aver
camminato tanto per del miele, ma non mi importa. Non so se tornerò viva a Trost, dopo questa missione” fece una pausa, tenendo gli
occhi sul cielo azzurro sopra di sé mentre stringeva le gambe contro al petto “Ogni
volta che esco da quelle mura penso solo a una cosa: non ho rimpianti, vero? Non
mi voglio risparmiare nessun dolce, nessuna parola, nessuna occasione perché potrei
tornare avvolta da un lenzuolo bianco” girò il capo verso di lui, appoggiando
il mento al braccio “Nella vita è sempre meglio avere rimorsi, che rimpianti,
Levi e basta.”
Lui sbuffò, cogliendo la
profondità delle parole, certo, ma contestandone la fonte “E lo hai imparato in
diciassette anni di vita? Una saggia.”
“L’ho imparato guardando
uomini morirmi tra le braccia o sbranati dai giganti. Grazie per aver rovinato
l’atmosfera.”
Si alzò in piedi con in mezzo
scatto, lasciandolo perplesso.
Donne.
“Ti sei offesa, ragazzina?”
“Non mi offendono gli stronzi
come te!” lo guardò, attendendolo di vederlo alzarsi a sua volta “Coraggio,
torniamo. Abbiamo la licenza solo fino alle quattro, poi Erwin vuole fare un
ripasso del modulo di formazione per gli avvistamenti sulle lunghe distanza.”
Come prima, l’uomo la seguì
tenendosi un paio di passi indietro.
Teneva con una mano la sacca
di iuta, mentre la mano destra era libera.
Guardò la schiena della
ragazza, rendendosi conto che si era improvvisamente ammutolita, colta da
chissà quale pensiero.
Se voleva farlo, doveva farlo
ora.
Fra qui vicoli stretti,
nessuno si sarebbe accorto di nulla, per non parlare poi dei tombini al lato
della strada che sembravano fatti a posta per occultare un cadavere.
Con attenzione, fece
scivolare il pugnale che teneva nella manica fino al palmo.
Sarebbe stato facile, Nina
era assorta e non poteva aspettarselo.
Se le avesse aperto la gola
con un singolo movimento, da un orecchio all’altro, non avrebbe nemmeno potuto
urlare.
Sarebbe stato facile da fare.
Poi doveva solo conviverci.
Levi abbassò il capo,
incassandolo fra le spalle, poi accelerò l’andatura e la prese per il braccio,
lasciando cadere a terra il sacco.
Un paio di reclute gli
passarono davanti concitate.
Levi non si scostò dal muro,
al quale si era appoggiato con le spalle, guardandoli affannarsi alla volta
delle loro cavalcature.
Accanto a lui, Farlan torturava il bordo del mantello.
Era nervoso, non poteva
negarlo.
“Credi di aver fatto la
scelta giusta?”
Levi temeva quella domanda,
ma aveva già una risposta pronta.
“Sì.”
I suoi occhi si spostarono su
un punto alla sua sinistra, sulla figura di Erwin Smith.
Era pensieroso, il suo
sguardo cupo e pieno di loschi pensieri.
Forse anche lui, sotto quella
scorza impenetrabile di sicurezza, non sapeva bene come gestire quella
situazione.
Passò tutto, però, non appena
delle mani gentili andarono a sistemargli la mantella sulle spalle.
Nina gli parlò, sporgendosi
per abbracciarlo stretto e Erwin si immerse nel momento, abbandonando per un
attimo tutte le strategie.
La strinse, accarezzandole il
capo, prima di scostarsi per sussurrarle qualcosa, guardandola in pieno viso.
Lei sorrideva.
Levi non poteva non
guardarla.
“Se parlerà mentre siamo la
fuori, siamo morti.”
“Forse mi sono sbagliato. Forse
non sa nulla.”
Sapeva di non essersi
sbagliato, ma non poteva farlo.
Qualcosa dentro di sé gli
gridava che non poteva e quando lei si voltò a guardarlo, allargando di poco il
sorriso, lui sentì che sarebbe andato tutto bene.
Se aveva sbagliato, se ne
sarebbe accorto, ma non avrebbe fatto del male a qualcosa di così bello.
Avrebbe cercato di evitarlo e
avrebbe proseguito sulla sua strada.
Così come aveva sempre fatto.
NdA
Sarò franca con voi, sono
terrorizzata da questo capitolo.
L’ho letto e riletto,
sistemato, cancellando e aggiungendo a destra e manca.
Se Levi è OOC, sparatemi!
Io ci ho provato seriamente a
entrare in quella testolina, ora lascio a voi l’ardua sentenza.
Non ho molte altre
annotazioni per voi, se non che in questo capitolo vediamo Nina con gli occhi
di un’altra persona. Nina, una ragazzina costretta a crescere in fretta.
Per scelta, certo, ma non può
comunque non essere ancora una ragazza acerba.
Levi, sei un adescatore.
Ringrazio i tre angeli che mi
recensiscono, senza di voi sarei più triste! Grazie anche solo a chi legge, il
numero di letture è lievitato e io non posso che esserne felice.
Sarà il caso di dormire? Sono
le sei meno un quarto del mattino.
Ci sentiamo alla prossima,
chiunque ha intenzione di lasciarmi un commentino verrà amato!
Nina aveva avuto modo di visitarsi
per bene, per capire quali fossero esattamente le sue condizioni.
Si era liberata
dell’imbragatura e delle stecche di fortuna che aveva assicurato al costato,
facendo non poca fatica a sciogliere i nodi che aveva fatto per tenere insieme
tutta quella garza. Si ritrovò a pensare che fosse uno spreco e doveva essere
parsimoniosa, seppure il suo kit medico d’emergenza fosse lì, accanto a lei.
Si era privata del modulo per
lo spostamento a terra e una volta aperta la camicetta bianca smanicata aveva iniziando a passare le mani sul busto con
attenzione, passando sopra alle bende che le comprimevano il seno fino alla
fine del costato,cercando di sentire se
ci fossero dei rigonfiamenti sotto pelle o una rottura delle costole.
La fortuna sembrava essere
dalla sua perché, nonostante il livido violaceo che si estendeva per quasi
tutto il fianco sinistro a causa del colpo che aveva preso cadendo sul carro,
non sembrava avere niente di davvero rotto.
Quella era un’ottima notizia.
La missione che si era prefissa
non avrebbe quindi avuto molti intoppi, essendo in salute, anche se ancora un
po’ stordita dagli accadimenti. Il suo obiettivo principale era quello di
cercare il modo più efficace per sopravvivere nell’attesa di una squadra di
salvataggio. Il fatto di essere una sola persona era un grosso vantaggio,
sarebbe passata inosservata se avesse ridotto al minimo i rumori.
Doveva solo aspettare e
mettersi nella condizione migliore per vivere e poi chi lo sa, in un impeto di
ottimismo avrebbe anche potuto ricavarne qualcosa di fruttuoso. Essere un
membro dell’esplorativa aveva un ventaglio di diversi significati, ma il più
importante non era di certo il più famoso. Più che soldati, dovevano essere
degli osservatori.
Mentre si rivestiva,
allentando appena le cinghie dell’imbragatura per evitare che facessero
pressione sul fianco ferito, Nina decise che avrebbe annotato scrupolosamente
tutto ciò che avrebbe visto o sentito in quel periodo. Sapeva che al suo
ritorno, Hanji ne sarebbe stata felice, anche se
sperava di rimanere lì per il periodo più breve possibile.
Chiedere i permessi per
uscire dalle mura richiedeva del tempo e delle risorse, ma era sicura che Levi
avrebbe trovato un modo. Sapeva che si sarebbe mosso in fretta.
Erwin invece…
Lo capiva. Non poteva avercela
con lui, perché sapeva che se l’aveva lasciata indietro, era solo perché era
certo che fosse morta. Doveva aver trovato la compagnia dell’avanguardia
distrutta e doveva aver pensato – non a torto- che in quella situazione nessuno
ne sarebbe potuto uscire vivo. Davvero, lo capiva, era il Comandante e non
poteva fare preferenze e rimanere in un luogo tanto pericoloso solo perché
aveva perso sua sorella. Nina non valeva né più né meno di qualsiasi altro dei
suoi ufficiali.
Più di ogni altra cosa, però,
Nina sapeva che suo fratello si stava incolpando.
E si sentì male al pensiero
di averlo fatto patire così.
Passò una mano sul viso,
scostando i capelli che erano sfuggiti alla treccia arrangiata alla meno peggio
e si alzò, tenendosi con una mano il costato. Per iniziare, doveva trovare una
disposizione migliore. Lì c’erano troppe finestre.
Mettersi in sicurezza era il
primo passo per arrivare al giorno successivo e da lì sarebbe andata avanti.
Avrebbe vissuto alla giornata, cercando anche di tenersi occupata nel
frattempo.
“Assurdo come sia bastato del
miele a calmarmi” soppesò sottovoce, raccogliendo il bigliettino che Levi le
aveva lasciato e rileggendolo. Cercare nelle case qui attorno era un’ottima
idea. La borgata era piccola e le abitazioni erano tutte costruite sulla
medesima roccia. Non sarebbe stato difficile entrare da una porta e uscire
dall’altra.
Senza contare che la
posizione sopraelevata rispetto alla campagna e al bosco aveva numerosi
vantaggi.
Un passo alla volta, però.
Stava già mettendo troppa carne al fuoco.
Il rifugio. Doveva partire da
lì.
Ripensò alla cucina
interrata, costatando che quello sarebbe stato senza ombra di dubbio il luogo
più sicuro. C’era un odore molto forte di umidità al piano di sotto, che
avrebbe coperto il suo profumo. Se era quella la sua preoccupazione, ci avrebbe
pensato anche l’impossibilità di farsi un bagno decente, cosa che la demotivò
parecchio. Non era il caso di essere schizzinosi, dato che i giganti erano
bravi a fiutare gli esseri umani.
Se doveva puzzare, per non
essere mangiata, sarebbe stata felicissima di puzzare.
Prese la mantella verde,
avvolgendosela attorno alle spalle, avvertendo subito un dore
famigliare che la portò ad accarezzare il tessuto morbido dell’indumento,
sollevandolo poi contro al naso. Non era brava come Mike a fiuta, ma avrebbe
potuto scommettere entrambi i suoi occhi che quella era la mantella di Levi.
Quella fragranza la rincuorò
ancora di più.
Strinse la stoffa fra le
mani, prima di avvicinarsi cauta alla finestra, affacciandosi da essa. Tutto
sembrava tranquillo, forse anche troppo, ma non si sarebbe di sicuro lamentata
se non avesse visto nessun gigante. Tirò la tenda, decidendo di non prendere il
modulo per lo spostamento tridimensionale, per il momento e lasciò la stanza, tornando
al piano di sotto.
Non aveva osservato molto
bene la cucina quando c’era entrata la prima volta, troppo presa dallo
sconforto e dalla paura di essere prossima a una morte solitaria. Quando vi rientrò
nuovamente, invece, colse dei dettagli che lasciavano trasparire la storia dei
precedenti abitanti. Nell’angolo sulla destra c’era un tavolo enorme, ancora
apparecchiato per il pranzo. Nina raccolse con la mano il pane ammuffito e un
piatto contenente quelle che sembravano patate andate a male da tempo e si
chiese come doveva essere stato.
Come doveva essere l’inferno
vero, vissuto con gli occhi di qualcuno che non l’ha scelto, ma si è ritrovato
di fronte il male all’improvviso.
I giganti erano arrivati in
fretta in quella zona, nessuno doveva essere riuscito a giungere per avvertirli
di cosa stava succedendo. Nessuno aveva detto a quelle persone che il Wall Maria era caduto, perché non doveva essercene stato il
tempo.
Avevano lasciato il pranzo, la
loro vita, tutto ciò che possedevano e avevano cercato la salvezza nella fuga.
Nina sperò che quella famiglia ce l’avesse fatta, ma non si sentiva molto
positiva in quel frangente. Erano in pochi quelli che vivevano all’interno di
quei piccoli villaggi stanziati per le campagne, che in qualche modo si erano
salvati arrivando alla prima porta. A Trost.
La strada era lunga e i
giganti erano più veloci.
Era passato solo un anno da
quella follia, ma la pesantezza di quel ricordo riecheggiava ancora per le mura
di pietra del borgo. Quello era stato l’evento più drammatico provocato dalla
furia dei giganti, che si avvicinava tristemente alla ‘crociata degli sciagurati’ organizzata dalla corona per sfollare i
tanti esuli del Wall Maria e garantire un rancio in più
agli abitanti delle mura interne.
Erano stati quelli
dell’esplorativa a denominarla così.
Crociata degli sciagurati.
Nina ringraziò di non essere
mai stata invitata di istanza a dare supporto a quelle persone, non avrebbe mai
sopportato la vista di contadini armati di forconi che venivano sbranati.
Erwin aveva detto che era
stato tremendo, ma era sicura che stesse minimizzando come sempre.
Smise di pensarci quando
terminò di togliere tutto dalla tavola, ammucchiando le stoviglie ormai
inutilizzabili e il cibo scaduto dentro a una cesta che trovò poco lontano,
accanto alle scale. Iniziò ad aprire gli sportelli delle credenze, liberandosi
anche di tutto il cibo andato a male che trovava, constatando che non c’era
molto altro da salvare.
Qualche foglia di te e un
sacchetto di riso bianco.
Sempre meglio di niente.
Spostò le sedie e cercando di
non fare rumore e spinse il tavolo fin sotto alla finestra, salendoci poi in
piedi sopra e affacciandosi dal quell’unica, piccola fessura che dava
sull’esterno della cucina, a livello della pavimentazione stradale. Scese con
un saltello, dandosi della scema per tutti i dolori che ancora provava, prima
di andare al piano di sopra.
La parte divertente venne a
quel punto.
Trascinare un materasso per
le scale, strapazzata come era, non fu divertente. Però ci riuscì.
Non sarebbe mai guarita da
tutti quei dolori se avesse dormito su un tavolo e l’antifona era chiara:
sarebbe rimasta lì per un po’.
Il passo successivo fu quello
di trasferire tutte le cose che Levi aveva lasciato per la sua sopravvivenza e
in sei o sette viaggi per le scale fece anche quello. In ultimo, rubò quanti
più cuscini possibili e qualche coperta dalle stanze. Solo quando riuscì a
sfilare gli stivali, stendendosi su quel materasso, comprese quando davvero
fosse sfinita.
Appoggiò un braccio sugli
occhi, realizzando che ancora non aveva mangiato niente dalla mattina
precedente e che quel pane non sarebbe stato buono per molto, ma poteva
concedersi un pisolino dopo aver corso una notte intera. Il profumo di Levi le
arrivò di nuovo alle narici, mentre chiudeva gli occhi, accoccolandosi sul
fianco sano e per un attimo le sembrò di sentire le sue dita fresche scostarle
i capelli dalla fronte con gentilezza.
La sua mente insisteva, in
modo del tutto razionale, che il profumo veniva dalla mantella, ma il pensiero
che lui fosse lì a vegliare sul suo sonno la fece crollare.
Il risveglio fu brusco.
Un gigante che passava di lì
la destò con la sua infinita grazia, facendo rombare la terra e tremare la
pavimentazione della cucina.
Nina scattò seduta,
ringhiando per il dolore e cadendo dal materasso. Portò entrambe le mani alla
bocca, mentre sentiva il corpo tremarle e il cuore batterle all’impazzata. I
ricordi di ciò che era successo le tornarono in mente, così come la morte di
Nick e di Ed, la sua prima missione e il senso di smarrimento, i pezzi di
cadavere dei membri della quarta divisione e ogni singolo soldato che era morto
fra le sue mani,il corpo straziato di Farlan alla sua destra e la fascia di Renson
impregnata di sangue. Tutte queste memorie vivide che aveva conservato
all’interno della sua mente, insieme con la sensazione di abbandono che aveva
provato nel momento in cui era arrivata lì e non aveva trovato nessuno,
rischiarono di far crollare il delicato equilibrio che Levi aveva cercato di
costruirle attorno con le sue accortezze. Si sporse sulla cesta piena di cibi
avariati, credendo che avrebbe vomitato bile e saliva dato lo stomaco vuoto,
mentre cercava disperatamente di rimettere insieme i pezzi del suo mondo.
Quando riuscì a farlo, si
sedette con la schiena al muro, sentendo le lacrime agli occhi per lo sforzo,
tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il biglietto di Levi.
Lo lesse e lo rilesse,
nonostante ormai lo sapesse a memoria, fino a che non tornò ad essere padrona
di se stessa.
A quel punto si trascinò di
nuovo sul materasso, tirandosi la coperta fino al mento e fissando il soffitto
della cucina con intensità. Il cuore le batteva ancora forte e la nausea era
accompagnata da un senso di debolezza diffuso. Chissà da quanto tempo non
mangiava, non aveva idea di quanto avesse dormito.
Si alzò, trovando
difficoltoso l’orientarsi per la casa e salì le scale, arrivando alla stanza.
Attenta a non farsi vedere da niente, scostò la tenda, alzando gli occhi al
cielo.
Dalla posizione del sole
dovevano essere circa le nove del mattino.
Aveva dormito una giornata e
una notte intera e non mangiava da due giorni, quindi.
Per forza si sentiva debole, aveva
corso così tanto che era un miracolo che non fosse svenuta per le scale.
Il pane era ancora buono o
forse, molto semplicemente, si ritrovò con lo stomaco così vuoto che avrebbe
trovato delizioso qualsiasi cosa. Mangiò velocemente, divorando la pagnotta,
mentre seduta sul tavolo con il suo quaderno appoggiato sulle gambe incrociate,
annotava ciò che era successo il giorno precedente e come si era arrangiata
dentro a quella casa. La penombra perenne nella stanza le fece registrare che
doveva cercare delle candele. Una era rimasta sul tavolo, mezza consumata e non
le sarebbe durata per molto.
Solo dopo aver messo di nuovo
mano al miele raccolse l’attrezzatura, sistemandosela al bacino e si preparò a
fare un giro. Aveva nove lame, contando quelle extra che Levi le aveva fatto
trovare e quattro bombole di gas. Se Erwin aveva sempre detto che dovevano
essere parsimoniosi, Nina avrebbe dovuto battere ogni record. Laddove era
possibile, non avrebbe ingaggiato uno scontro, per iniziare.
Prese la sua sacca di cuoio e
ci mese dentro il necessario, qualche garza e la boraccia, insieme alla candela
e una scatolina di fiammiferi. In ultimo recuperò quaderno e matita, insieme a
un coltello a serramanico. A quel punto sollevò il cappuccio della mantella,
nascondendoci dentro i capelli e si avviò alla porta.
La strada era libera.
Per prima cosa, doveva
tracciare un perimetro, cosa che solitamente spettava a Mike.
Salì sul tetto di una casa
sfruttando solo il potere trainante delle corde, andando ad inginocchiarsi
rapida accanto al comignolo, per rimanere nascosta. Dalla sacca prese un
binocolo, un vecchio rudere con una potenza visiva limitata che suo padre le
aveva fatto avere anni prima e che non aveva mai usato davvero. Non le era mai
servito, aveva altri che le facevano da occhi e orecchie.Lei era una segaossa, dopotutto.
C’era due giganti nella
pianura, un classe sei metri e un classe tre, totalmente disinteressati a lei.
Avrebbe lasciato le cose
esattamente così. Attirare la loro attenzione era l’ultima cosa che voleva
fare.
Come ogni volta che era
agitata, prese fuori dal colletto della camicia il medaglione dorato che
portava sempre al collo e lo infilò fra le labbra, giocherellando con la
catenina che pendeva sul suo mento.
Nella borgata non c’erano
pericoli.
Ne approfittò subito,
scendendo dal tetto e infilandosi nella finestra del terzo piano del palazzo su
cui si era posizionata.
Era una palazzina di medie
dimensioni,ma con una posizione
sopraelevata grazie a uno sperone di roccia, con poco o niente da prendere.
Trovò qualche candela, altro riso, delle posate e dei fogli da lettera, che
prese per ogni evenienza.
Un po’ delusa, Nina continuò
la sua ricerca, girovagando anche per le stanze dei vari piani. Infondo a un
corridoio stretto ma luminoso ne era rimasta una sola, colorata e piena di
disegni. I fogli su cui erano stati fatti, purtroppo, erano ingialliti a causa
del tempo, ma mostravano tutto l’estro di un bambino. Doveva essere una
famiglia ricca o benestante per potersi permettere i pastelli a cera e gli
acquerelli di tutte quelle tonalità. Nina lo sapeva bene, considerato che
disegnava fin da quando era piccola e suo padre, per potersi permettere di
viziarla un po’, nascondeva i soldi a sua madre, tornando poi a casa con
scatoline di latta contenenti veri tesori, carboncini e tele.
Non c’è nulla che un genitore
non avrebbe fatto per suo figlio e Nina sapeva che, presto o tardi, anche lei
avrebbe voluto crearsi una famiglia con piccoletti da vezzeggiare.
Con la vita che faceva
sarebbe stato difficile, ma non si voleva precludere la possibilità di avere
dei figli suoi.
Forse aveva anche già trovato
la persona giusta con cui farlo.
Comunque sia, non sarebbe
potuto essere altrimenti, visto il suo carattere. Era cresciuta in una famiglia
numerosa, così tanto che alla nascita di sua sorella Mieke
erano arrivati a toccare le diciannove persone in casa, più i cani e i cavalli
nel cortile interno.
Si sedette sul letto con una
manciata di disegni trovati su una scrivania di noce verniciata, iniziando a
sfogliare alberi dalla corolla brillante e soli luminosi. In qualche foglio
c’erano dei cavalli, in altri fiori dai colori così vividi come solo un bambino
li può immaginarne. Sorrise intenerita di fronte a forse due tipi diversi di
tratto, fatti da due mani diverse e quindi da due diversi piccoli artisti,
scorgendo solo in seguito, in basso sulla destra di uno dei fogli, delle firme
scarabocchiate alla meno peggio.
“Marianne e Karoline” lesse a voce alta, domandandosi come dovessero
essere quelle bambine, quale fosse la più grande e se fossero delle pesti così
come lo era lei alla loro età.
Nina era una peste a quasi
vent’anni, ma da bambina era un demonio.
Sua madre sosteneva che era a
causa sua se aveva passato un travaglio così lungo per Mieke;
temeva di averne due, poi, di bestie a correre per casa urlanti.
Peccato che il travaglio fu
difficile perché sua madre aveva superato i quarantacinque quando era nata sua
sorella minore, dopo otto anni dalla nascita di Nina, ma allora non poteva
saperlo e ci rimase comunque male. Adelaide Müller
era sempre stata una madre rigida, la faceva impazzire e Nina per dispetto
portava lei ad ammattire.
Non andavano d’accordo quando
era piccola, figurarsi crescendo, quando aveva sviluppato un animo tutt’altro
che accondiscendente ai desideri di sua madre, che voleva una figlia che
facesse la moglie, invece che il medico in prima linea. Mentre Alma e Frieldhem era i ‘figli
di suo marito’, e per questo li aveva sempre
trattati in modo diverso, delegando a WilhemMüller l’incarico di crescerli, con lei e Mieke era stata inflessibile e severa. Per Erwin la storia
era molto diversa.
Nina se lo ricordava poco,
quando era piccola. Era partito per l’addestramento quando lei aveva sì e no
due anni. Aveva imparato a conoscerlo nelle visite a casa, quando parlava della
Legione nonostante fosse un tabù imposto da Adelaide, che però non aveva mai
tarpato le ali del figlio prediletto. Erwin era nato per diventare un soldato,
il fatto che sua madre avesse sposato un uomo che nonostante non facesse parte
dell’esercito, venisse da una lunga discendenza di gendarmi, non poté che
aiutare l’ascesa del CapitanoSmith.
L’orgoglio di casa.
Poteva sembrare un capriccio,
ma Nina sapeva che sua madre non avrebbe mai amato nessuno come amava Erwin.
Glielo aveva detto, una volta. ‘Non
amerai mai nessuno quanto amerai il tuo primo figlio’,
era stata la frase che la giovane aveva comunque incassato, sentendosi più
amareggiata dal fatto che se lo aspettava che dalle parole in sé. Le credeva,
perché sua madre non guardava nessuno come guardava Erwin, era il suo vanto più
grande, il suo orgoglio.
Perché assomigliava molto al
padre, il suo primo marito, ma questo Adelaide non lo aveva mai detto.
Nina non era mai stata gelosa
di Erwin, perché lui era tutto ciò che lei voleva diventare. Aveva lavorato
tanto, studiato e faticato per arrivare dove era arrivata e lo aveva fatto sì
per amore di scoperta, per essere libera e lontana da quei muri che rendevano
la vita claustrofobica e lenta, ma anche per stare con lui.
Per seguirlo nelle sue
battaglie, per curare le sue ferite e per godere della compagnia che non aveva
potuto avere quando era una bambina.
Non c’era una persona al
mondo che Nina adorasse più di Erwin. Non c’era stata mai, prima dell’arrivo di
Levi nella Legione.
I fogli le caddero di mano,
destandola da quei ricordi dolci e amari, dall’immagine del volto di sua madre
che la guardava ferita indossare le Ali della Libertà sulla schiena.
Da quella vita che le
sembrava così lontana, così come lo era Stohess.
Chissà se sapevano già che
era dispersa. Chissà se pensavano che non sarebbe tornata.
Forse sua madre l’avrebbe
pianta, pensata. Si sarebbe pentita di ogni schiaffo che avrebbe potuto
tramutare in un abbraccio, di ogni urlo che poteva essere una canzone cantata
insieme nel cortile, attorno al falò che suo padre accendeva ad ogni prima
nevicata per scaldare il vino aromatizzato.
Si alzò sentendosi
malinconica, chinandosi su un ginocchio e iniziando a raccogliere i fogli. Se
avesse potuto esprimere un desiderio, sarebbe stato quello di poter tornare
indietro per poterle parlare. Per dirle che la perdonava di non essere stata
una buona madre come lo era stata la zia Lucille.
Avrebbe voluto un abbraccio,
per una volta, avrebbe voluto sedersi davanti al camino e parlare di ragazzi,
delle missioni e di intricate diatribe mediche, come faceva sempre con suo
padre.
Si asciugò una lacrima al
lato dell’occhio e in quel momento notò qualcosa di strano, sotto al lettino.
Curiosa, alzò la coperta, chinandosi meglio per osservare cosa mai potesse
esserci di nascosto in quella stanza.
Perse la presa sul resto dei
fogli, mentre gli occhi sbarrati fissavano la piccola mano appassita che si
intravedeva appena dalla posizione in cui si trovava. Sembrava protesa verso di
lei, cristallizzata in un momento eterno, in una incompiuta richiesta di aiuto.
Sembrava che quel luogo le stesse mostrando il risultato di un’attesa infinita.
Il respiro le si bloccò in
gola.
Non diede il tempo all’odore
della decomposizione di investirla.
In un attimo, uscì dalla
finestra, lasciando i disegni sparsi e la stanza vuota e silenziosa.
Come una tomba.
La casa accanto divenne un
rifugio per almeno una decina di minuti.
Nina ci mese un po’ a
riprendersi da quell’immagine, certa che se la sarebbe sognata quella notte,
insieme a tutte le altre bellissime situazioni che aveva vissuto durante quella
missione.
Che fosse un messaggio della
provvidenza? Era destinata ad aspettare fino alla morte?
Era assurdo pensarlo, non
poteva permettere a se stessa di abbattersi.
Si appoggiò con il bacino a
un tavolo e si costrinse a concentrarsi sulla sua ricerca di viveri e beni.
Prese la borraccia dalla saccoccia per tirare un sorso di acqua e pensò al
pozzo che aveva visto al centro della piazzola.
Doveva verificare se fosse o
meno funzionante, ma avrebbe atteso la notte per quello.
La strada per arrivare al
torrente, seppur breve, sarebbe stata pericolosa. Doveva sperare che il pozzo
fosse ancora funzionante e che ci fosse ancora la carrucola.
Dopo essersi passata le mani
sul viso almeno dieci volte, decise dimuoversi.
La casa in cui si era
infilata questa volta sembrava contenere molti tesori, affacciandosi
dall’ingresso.
Selle, briglie e armi per la
caccia.
Nina prese un pugnale dalla
lama grande e lo guardò attentamente, notando che era sporco di sangue
rappreso.
Forse lo stesso che
imbrattava la porta.Non c’erano corpi,
però. Iniziava a farsi troppe domande circa cosa era successo in quel villaggio
e dopo l’esperienza nella camera delle bambine, decise che non voleva le
risposte.
Prese il pugnale, decidendo
di lasciare il resto della roba lì, per il momento in cui magari le sarebbe
servita.
Prese a camminare per il piano
terra, guardandosi attorno e trovando alcune foto su un ripiano. Un uomo e una
donna, vicini. Lui era sorridente, lei più seria, ma dallo sguardo buono.
Dovevano essere dei
guardia-boschi a giudicare dal quantitativo di oggetti per le escursioni.
Sul camino trovò qualcosa di
inaspettato.
Incorniciata, c’era una
mantella identica a quella che indossava in quel momento.
Dovevano avere avuto un
figlio nella Legione, forse un fratello.
La giovane sentì una stretta
allo stomaco.
Chissà se Erwin aveva trovato
la sua giacca imbrattata del sangue di Sankov e
l’aveva portata a casa.
Sperò di no.
“Sarebbe di cattivo gusto,
visto che sono ancora qui, no?” chiese al suo stesso riflesso, quando si
ritrovò di fronte a uno specchio.
Aveva un aspetto pessimo, ma
non si aspettava di meglio. Era pallida, aveva gli occhi cerchiati di nero e la
treccia sfatta.Si sistemò una ciocca
giusto per pudore, prima di riprendere il giro.
Sotto ai suoi piedi, il
pavimento in legno scricchiolava un po’ troppo, ma sperò di non dare lo stesso
nell’occhio. Doveva esserci stata un’infiltrazione di acqua dal tetto rotto,
perché le sembrava di camminare su dei gusci di uovo.
Arrivò di fronte a un
mobiletto, nel quale trovò delle chiavi, forse della stalla.
Fece un passo indietro per
tornare verso la porta, quando un’asse del pavimento si ruppe, inghiottendole
la gamba. Trattenne a stento un urlo per la sorpresa e cercò di tirarsi su, ma
anche l’asse affianco era danneggiata, così cadde sotto al pavimento, al buio.
Tossì per il quantitativo di
polvere che si sollevò, riuscendo in qualche modo a trovare nella sacca la
candela che aveva intelligentemente portato e dei fiammiferi. Al terzo
tentativo, riuscì ad accenderla.
Doveva essere finita in
cantina e per fortuna aveva l’attrezzatura per tornare di sopra.
Scrollò alla meno peggio la
mantella, prima di alzare gli occhi sulla parete di fronte a lei per cercare un
appoggio.
Ciò che vide la colse di
sorpresa, tanto che le fece sgranare gli occhi e socchiudere le labbra.
“Non posso crederci, è incredibile…”
I waited so long, foryouto
come
Thenyouwerehere, and nowyou're gone
I wasnotprepared, foryoutoleave
me
Oh thisismisery. Are youstillthere?
Anno 844
Ventitreesima spedizione oltre le mura.
“Vedo che ti hanno dato Meruka.” La mano di Nina si allungò verso il muso della
cavalla nera che, dopo averla annusata rumorosamente, iniziò a leccarle le
dita.
“Cosa ha di speciale, questo
cavallo?”
La bionda non voltò il viso
verso Levi, mentre iniziava ad accarezzare il manto lucido del collo.
“Era la cavalla di un caro amico…” fece una piccola pausa, mentre i suoi occhi
venivano attraversati da una leggera ombra. Quando si voltò verso di lui, però,
sulle labbra aveva il solito sorriso “Spero che a te porterà più fortuna che a
lui.”
“Incoraggiante.”
Nina ridacchiò sotto ai
baffi, tornando al carro, dopo aver controllato che tutte le bestie legate lì
avessero la biada e l’acqua. Prese una grossa cassa e la tirò verso il bordo,
proprio davanti a sé, per poi aprirla iniziando ad estrarre uno alla volta,
tanti sacchettini marroni.
“Se sei qui ad aiutare con la
spartizione del rancio, devi aver fatto incazzare Flagon.”
Il commento a voce alta della
giovane arrivò forte e chiaro a Levi, che non si stava dando un gran da fare
per aiutare quelli delle provvigioni. Ovviamente non rispose, ma era vero.
Nonostante avesse lasciato tutti a bocca aperta quella mattina stessa – si
erano lasciati Shigashinaalle spalle molto presto e nemmeno due ore
dopo lui aveva già atterrato un gigante anomalo- il suo modo di rispondere
insolente al caposquadra gli aveva fatto guadagnare quella punizione.
Non si poteva lamentare,
però.
Quello in cui si stavano
accampando per la notte era un vecchio castello in rovina. Gran parte dei muri
era crollata e il tramonto che bagnava di rosso sangue il cielo aiutava a
dipingere un’atmosfera sinistra. Era comunque uno spettacolo, per una persona
abituata a vivere in un luogo dove la luce aveva un unico colore ed era quello
riprodotto dal fuoco di una candela.
Fino a che poteva rimanere
con la testa coperta solo dalla volta celeste, a Levi stava bene e Nina lo
sentiva. Iniziava quasi a credere che si sarebbe anche offerto per il primo
turno di vedetta.
Osservò il profilo dell’uomo,
spiandolo mentre iniziava a mischiare la farinata all’acqua dentro al tegame di
rame, notando come tenesse spesso il naso rivolto verso le nuvole. Chissà cosa
si provava, dopo una vita di buio, a vedere la luce.
Nina ipotizzò che doveva
essere risanante come riprendere fiato dopo una lunga apnea sott’acqua.
“Levi?” lo chiamò, incurvando
le labbra in una smorfia divertita “Lo abbiamo perso” insistette poi, rivolta
verso Nick, che rise a sua volta.
Ed, invece, non sembrava per
niente tranquillo con il moro attorno “Sayram mi ha
detto che è completamente fuori controllo” sibilò con tono basso alla volta dei
compagni, ricevendo come ricompensa a tutta quella malevolenza il cucchiaio di
legno in bocca. Dalla sua espressione, quella farinata d’avena doveva essere
davvero pessima.
Nina si riprese l’utensile,
tornando a mescolare il miscuglio pastoso, “Smettila, parli di uno di noi.”
“Non è uno di noi.”
“Lo è. Ora inizia a mettere
questo schifo nelle ciotole.”
Lasciò tutto nelle mani dei
due compagni, andando ad affiancarsi a Levi, che ancora fissava assorto la
pianura di fronte a loro. Da quella visuale rialzata potevano vedere tutta la
lunga vallata priva di vegetazione.
Poteva sembrare un posto poco
sicuro, ma era il luogo più grande in cui potevano dormire rimanendo tutti vicini
e senza rimanere allo scoperto. Era una rarità oltre il Wall
Maria.
“Sto per farti una domanda,
quindi preparati a darmi una risposta soddisfacente” iniziò la bionda,
appoggiando le mani alla cintura. Teneva gli occhi fissi in un punto lontano,
mentre sentiva l’altro spiarla con la coda dell’occhio, in attesa “Cosa vedi?”
Levi si voltò leggermente
verso di lei, con la classica espressione apatica di chi non ha voglia di
stupidi giochetti, ma che comunque non può nascondere una leggera punta di
curiosità “Che cazzo di domanda è?”
“Una domanda come un’altra”
rispose pronta Nina, come se si aspettasse di sentirlo parlare così “Se vuoi
rispondo prima io, ma devi promettermi che dirai più di cinque parole di
seguito per esprimere un concetto. Se volessi parlare da sola, andrei dai
cavalli.”
Ormai doveva sapere dove
quella ragazzina aveva intenzione di andare a parare, era diventato un fatto di
principio. Più parlava, più comprendeva il grado di parentela che la legava al
Capitano Erwin; se tutti parlavano per enigmi, in quella famiglia, non osava
immaginare come si potesse vivere in quella casa.
“Sentiamo cosa vedi, allora.”
Nina incrociò le braccia
sotto al seno, inclinando di lato il capo e osservando attentamente. Sembrò
pensarci per bene, prima di parlare “Almeno una trentina di alberi, un
fiumiciattolo quasi in secca, campi…. Altri campi”
schioccò la lingua contro al palato, passando il peso da un piede all’altro,
sempre senza guardare verso Levi, sicura che si sarebbe spazientito “Libertà”
concluse infine, decidendo a quel punto di voltarsi per guardarlo negli occhi
per cercare dentro alle iridi verdi un’emozione. Poteva tenere un’espressione
neutrale, ma i suoi occhi erano vivi, accesi e trasparenti “Vedo un’insieme di
possibilità, di fronte a me. Se potessi, correrei lungo il crinale, come facevo
da bambina. Andrei fino al fiume e ci ficcherei dentro i piedi perché,
dannazione, scommetto che l’acqua è fresca e io ho cavalcato così tanto che mi
sento come se mi avessero impiantato la staffa nel calcagno. Mi stenderei
sull’erba e guarderei le stelle, cercando di scoprire se riconosco ancora i
disegni che ci vedevo quando, insieme a Rilke,
approfittavamo dei litigi di mia madre e di mio padre per scappare sul tetto e
rimanerci ore.” Solo quando smise di parlare, Nina si rese conto che Levi non
aveva assolutamente idea di chi stesse parlando o del perché lo stesse facendo
“Però i giganti potrebbero mangiarmi, visto che non è ancora calato il sole.
Erwin non credo mi permetterebbe di farlo, siamo solo in due medici.” mosse un
passo nella sua direzione, guardandolo con aspettativa e chinandosi un po’ per
mettersi alla sua altezza “E tu cosa vedi, grande guerriero?”
A quell’appellativo, Levi
inarcò un sopracciglio, non scostandosi però da lei “Io vedo più di un oggetto
che potrei usare per tramortirti e farti stare zitta, per iniziare.” Tornò a
puntare gli occhi verso l’immensità del niente che li circondava, mentre Nina
rideva piano “Vedo anche un grande spreco.”
Lei parve capire “Ci starebbe
proprio bene una fattoria qui, per un nuovo
inizio, non trovi?”
La reazione dell’uomo fu
esagerata, ma comprensibile. Nina non aveva usato delle parole casuali, lo
sapevano entrambi. La prese per un braccio, stringendo la presa mentre la
guardava con gli occhi sbarrati “Ti sembra un gioco questo?”
Nina, però, rimase
impassibile. Anzi, gli sorrise “Ho detto che sarebbe un bel luogo per vivere.
Perché?”
La ragazza sapeva che aveva
giocato col fuoco, ma era un esperimento il suo. Se non l’aveva pugnalata
quella mattina nei vicoli maleodoranti di Trost, non
l’avrebbe nemmeno lanciata dalle mura. Era giusto che lui sapesse che anche lei
aveva capito qualcosa, che sapeva che aveva rischiato portandolo con sé.
Ma che erano ancora lì
entrambi e avrebbero potuto continuare così.
“Ehi tu!” Ed misurò la
distanza che lo separava dei due con ampi passi “Lasciala andare, subito!”
“Va tutto bene” disse Nina,
alzando una mano per fargli segno di non fare un altro passo, poi si rivolse a
Levi, andando a stringergli il polso “Perché va tutto bene, no?”
La presa sul braccio si fece
debole, fino a che l’uomo non la lasciò andare del tutto. Passò accanto a Ed,
andandosene verso le rovine del castello, mentre la giovane si massaggiava
piano sopra al gomito, osservandolo fino a che non sparì, nascosto da un muro
diroccato.
“Ha una presa decisa,
l’amico” commentò con tono quasi divertito, facendo sbarrare gli occhi di
Reynolds.
“Smettila di fare così.”
Nina sollevò gli occhi su di
lui, mentre le sue sopracciglia si inarcavano per lo stupore “Così?” domandò.
“Come se valesse la pena
spendere del tempo con lui. Hai tanti spasimanti, trovatene uno che sia meno
pericoloso.”
Con quell’ultima affermazione
dalla sfumatura infelice, il ragazzo tornò verso il carro per aiutare Nick e Eldo con i rifornimenti.
Nina rimase appoggiata con i
fianchi al parapetto delle mura, continuando a massaggiarsi il braccio.
Quello non se lo aspettava
proprio.
La notte era passata
abbastanza in fretta, senza intoppi.
Ad accoglierli la mattina
sembrava esserci un cielo capriccioso che prometteva pioggia.
Nina aveva dormito almeno tre
ore e si sentiva abbastanza fiera di quel piccolo record personale.
Solitamente, quando uscivano in missione, trovare riposo la prima notte era
pressappoco impossibile. Per la maggior parte degli uomini, era così, in modo
particolare per le reclute.
Nemmeno gli ufficiali avevano
l’aria poi così riposata, ma l’aria fredda della mattina, unita alla
possibilità di incontrare dei giganti rendeva particolarmente attivi i soldati,
a prescindere da quanto avessero riposato.
“Ricordati il fumogeno viola
per l’assistenza medica!” ripeté per l’ennesima volta a Kaulitz,
uno dei cadetti alla prima missione, avanguardia sinistra. Lei aveva il compito
di occuparsi di quel quadrante, visto che il gruppo dove militava, quella del
Capo Squadra Ness, aveva come obiettivo di far strada
alla fila centrale dei carri.
Per il fianco destro c’era il
Tenente Renson, il suo diretto superiore dell’unità
medica, che si occupava della quarta squadra in quella direzione.
Nina sistemò il cavallo,
cercando di ricordarsi più o meno la posizione di tutti i gruppi sparsi. Era un
esercizio mnemonico non da poco, ma doveva essere veloce in caso di emergenza.
Con la coda dell’occhio
adocchiò Farlan, Isabel e Levi mentre salivano sui
cavalli. Lei si premurò salire sul suo, prima di avvicinarsi “Dormito bene?”
domandò un po’ ironica, notando la faccia che tutti e tre avevano.
Certo, rimanevano più
rilassati degli altri all’apparenza, ma sembravano provati.
Sicuramente non avevano chiuso
occhio e Nina sperò che a tenerli svegli fossero stati solo i pensieri sui
giganti.
“Diciamo che un’altra ora non
l’avrei rifiutata” le rispose Farlan, mentre Isabel
sbadigliava.
“Alla sveglia prima dell’alba
non ci si fa mai l’abitudine” lo rassicurò lei, prima di spronare il cavallo a
muoversi lungo il crinale.
Scambiò uno sguardo con Levi
e lei gli sorrise, prima di raggiungere Erwin, che guardava oltre l’orizzonte.
“Tu cosa vedi?” le chiese e
Nina, per risposta, esplose a ridere.
“Che siamo proprio parenti!”
Nina era, per natura, una
persona fortemente ottimistica.
Persino lei però si sentì
parecchio sconfortata, quando la nebbia fitta iniziò ad avvolgersi attorno a
loro come una pesante coperta grigia.
“Capo Squadra, cosa
facciamo?” chiese Nick, mentre si teneva con una mano il cappuccio verde sul
capo, cercando di vedere nonostante gli occhiali bagnati di pioggia.
Ness, zuppo dalla bandana sul capo fin dentro alle
mutande, teneva gli occhi il più rivolti verso il cielo possibile. Sarebbe
stato impossibile vedere un fumogeno con quel tempo, quindi la risposta era
tristemente ovvia “Procediamo in linea retta! Il Comandante Shadis
si è raccomandato di non fare deviazioni di direzione!”
Sembrava una teoria un po’
debole, ma non c’erano soluzioni, così procedettero.
Il clima peggiorava sempre di
più e alla pioggia e alla nebbia andò sommandosi un vento forte, che
schiaffeggiava i loro visi.
“Fortuna che è primavera!” fu
il commento sarcastico di Ed, mentre Nina cercava invano di scostare i capelli
zuppi dal viso e dal collo.
Il pericolo era triplicato,
perché ora non rischiavano solo di essere divorati da un istante all’altro ma
anche di scontrarsi con altre unità. Perdere l’orientamento non sarebbe stato
così strano, non si vedeva ad un metro dal naso.
Un nitrire impazzito attirò
la loro attenzione e dal nulla, un cavallo dal manto dorato sbucò, tagliando
loro la strada e facendo impennare la cavalcatura del Capo Squadra. Tutti
tirarono le redini, mentre la bestia debitamente addestrava si fermava affiancandosi
a loro, scalpitando e nitrendo spaventata.
Nick, che era il più vicino,
scese andando verso di essa e tirandolo per le redini. Quando ritrasse la mano
dal suo collo, essa era sporca di sangue. Scambiò uno sguardo con i compagni,
prima di sollevare il bordo della sella, deglutendo rumorosamente “A-appartiene a Lahm. Dove si
trovava?”
“TobiasLahm?” chiese Nina, facendo mente locale. Quando
realizzò che sapeva bene in quale unità si trovasse l’uomo, sbiancò “Il quarto
gruppo, lato destro. È l’unità di Renson!”
“Dannazione. Potremmo aver
perso tutta la copertura dell’avanguardia?” mormorò Jutah,
stringendo fra le mani le briglie.
“Signore!” Nina si accostò
con cavallo a quello di Ness, che la guardò “Chiedo
il permesso di andare. Potrebbero esserci dei sopravvissuti e soccorrerli.”
“La tua area di competenza si
estende solo al fianco sinistro, però” le ricordò il Capo Squadra, riluttante
al pensiero di lasciarla andare.
“Lo so, ma potrebbe non
esserci più un medico per quello destro.”
Ness ci pensò su, prima di sospirare pesantemente “Va
bene. Fa ciò che devi. Reynolds e Gin verranno con te.”
Nina annuì, “Sì, signore.”
Scambiò un veloce sguardo di
intesa con Ed e Eldo, mentre Nick risaliva sul
cavallo solo dopo aver assicurato le briglie dell’altro alla sua sella “Cercate
di tornare interi, ragazzi.”
“Lo faremo.” Ed gli strinse
l’occhiolino prima di lanciarsi dietro a Nina, che era già partita di gran
carriera verso la posizione che, teoricamente, doveva avere assunto la quarta
divisione.
Quando non li trovarono,
iniziarono a risalire verso sud.
“Possibile che si siano
fermati così indietro?” domandò Eldo, affiancato alla
bionda.
Lei portò il medaglione
dorato di suo nonno alle labbra, tesa “Dipende dove li hanno attaccati.”
Lo scenario che si aprì di
fronte ai loro occhi era raccapricciante.
La quarta unità era stata
distrutta completamente e pezzi di cadaveri giacevano a terra straziati,
insieme ai cavalli.
Il sangue tingeva di rosso
l’acqua piovana che scorreva fra le rocce e l’erba in un fiume vermiglio,
regalando uno spettacolo che Nina sapeva non si sarebbe mai tolta dalla mente.
“Ehi! C’è nessuno!” urlò con
tutta la voce che aveva nei polmoni, “Tenente!” chiamò ancora e ancora,
avanzando fra i corpi.
Ed prese dalla scatola dei
fumogeni uno nero “Questa è l’opera di un anomalo” disse più a se stesso che
agli altri, prima di alzare la pistola e sparare.
Nina non l’aveva ascoltato.
I suoi occhi erano fissi su
un ammasso di carne scomposta, lasciata a terra come spazzatura.
Non era possibile riconoscere
a chi appartenesse, se non fosse stato per la fascia bianca che teneva attorno
al braccio sinistro. La ragazza si chinò, sfilandola con accortezza, come se
temesse di ferirlo, mentre una lacrima cadeva mista alle gocce di pioggia sul
giglio rosso ricamato.
“Tenente…”
sussurrò sconfortata, stringendo la fascetta fra le mani.
Non c’erano superstiti.
Non c’era più il primo
ufficiale medico.
Per qualche minuto, persino
la speranza scomparve.
Poi apparve lui.
Il nitrito della cavalla la
costrinse ad alzare il capo mentre dalla sua pozione, inginocchiata fra il
fango e il sangue che appestava l’aria, poteva vedere solo parzialmente la
persona che era giunta sino a lì. Ammantata e nascosta dalla nebbia, per un
attimo, le parve quasi una visione immaginaria, ma quando realizzò che si
trattava di Levi, si alzò in piedi.
Doveva chiedergli cosa ne era
del resto della squadra di Flagon.
Non le diede il tempo di
farlo.
Girò il cavallo e partì di
nuovo, al galoppo.
“Levi!” urlò, cercando di
fermarlo.
Si ficcò la fascetta nella
tasca interna della giubba, sotto alla mantella, prima fischiare. Il cavallo la
raggiunse e lei montò in groppa con un singolo salto agile.
Ed improvvisò una corsa verso
di lei “Nina! Nina, cosa stai-”
“Vai!” la giovane spronò il
cavallo, che partì di gran carriera, non permettendo all’amico di terminare la
frase.
“Nina!” la chiamò con tutto
il fiato che aveva in gola, ma lei non si fermò.
Sparì, inghiottita dalla
nebbia.
Inseguendo lui.
Nina cavalcò da sola nella nebbia
solo per cinque minuti, ma furono in assoluto i cinque minuti più lunghi di
tutta la sua vita.
Fu straziante e spaventoso.
Era terrorizzata e
determinata allo stesso tempo, le faceva male il cuore tanto batteva veloce
contro al suo costato.
Sentiva che doveva essere
successo qualcosa di orribile.
Se Ness
aveva ragione e avevano perso tutto il fianco destro, allora…
“Siamo completamente nella merda, Arold” disse
rivolta al cavallo, spronandolo ad andare ancora più veloce.
La nebbia iniziò a diradarsi,
localizzandosi in tanti banchi circoscritti e iniziando a permetterle di
guardarsi attorno.
Allora
vide, poco distante, cinque giganti.
Sentì
il sangue ghiacciarsi nelle vene quando, guadagnati altri cinquanta metri, vide
che da solo a fronteggiarli, c’era Levi.
Al
centro di uno spiazzo aperto.
“Levi!”
urlò di nuovo, più forte, decidendo di andare avanti anche se cinque giganti,
per due persone, erano troppi.
Erano
un suicidio.
Non
fece comunque in tempo a raggiungerlo che già tre erano a terra, morti.
Guardò
con gli occhi spalancati la scena, fermando il cavallo.
Un
altro cadde, poco distante da lei, facendo nitrire la bestia che montava.
L’uomo
era così veloce che faticava a seguirlo con lo sguardo nonostante la nebbia si
fosse diradata.
Sconvolta,
Nina non si rese conto dei corpi a terra.
Quando
fu tutto finito, quando tutti i giganti vennero sconfitti, scese da cavallo con
le gambe che tremavano, cercando di riscuotersi.
Osservò
Levi inginocchiarsi accanto alla testa mozzata di un soldato dai capelli così
rossi da apparire come il fuoco vivo, chiedendosi come fosse possibile. Isabel
era morta e di lei era rimasto ben poco da poter piangere. Poco distante, con
il corpo strappato a metà, c’era anche Farlan.
Nina
deviò, avvicinandosi a lui e lasciandosi cadere con le ginocchia tra il fango,
con le mani nascoste fra le cosce e lo sguardo sbarrato.
Improvvisamente
le tornarono in mente le parole di suo fratello.
Un uomo che non ha niente da perdere,
non ha nemmeno niente che non rischierebbe.
Si
sbagliava. Si sbagliavano entrambi, visto che lei gli aveva creduto. Levi aveva
qualcosa che poteva perdere e loro, con le macchinazioni politiche e il
doppiogioco, glielo avevano portato via.
La
sola cosa che provò Nina, oltre a quel rimasuglio di paura che le torceva lo
stomaco e la nausea per lo spettacolo che le si presentava di fronte, era il
senso di colpa.
Forse
avrebbe dovuto denunciarli alla Guarnigione di Trost.
Se
l’avesse fatto, non sarebbero mai usciti all’esterno.
Se
l’avesse fatto, non sarebbero morti così e Levi non sarebbe rimasto solo a
seppellire quel poco che aveva.
Allungò
la mano tremolante, chiudendo gli occhi di Farlan e
appoggiando le sue braccia sul petto.
Solo
ora che li vedeva morti, comprendeva cosa erano davvero: ragazzi di strada, non
addestrati e buttati in pasto ai giganti solo perché volevano una vita
migliore.
Una
vita vera, sotto a un cielo stellato che non puzzasse di muffa e rancido.
Gli
appoggiò una mano sulla spalla, come a volersi scusare, prima di cercare di
alzarsi. Non dovette sforzarsi molto, visto che venne tirata su di peso.
“Tu!
Tu sapevi!” Levi la tenne sollevata per il collo della camicia scuotendola
senza delicatezza mentre ringhiava direttamente coltro al suo viso. Nina gli
afferrò i polsi, cercando di tenersi sollevata, ma non aveva forza nelle
braccia. “Dillo! Sapevi che sarebbe finita così eppure l’hai permesso!”
Ci
fu un istante nel quale Nina cercò una giustificazione, in cui razionalmente
voleva spiegargli che non poteva aver causato lei quel tempo avverso e che non
poteva prevedere quel gruppo di giganti…
Ma
sarebbe stato ancor più egoista.
Gli
occhi le si riempirono di lacrime mentre realizzava che sì, non aveva fatto
salire lei la nebbia, ma che aveva portato avanti il progetto di Erwin stando
in silenzio.
“Mi
dispiace, Levi. Perdonami, ti prego.”
Il
corpo dell’uomo ebbe uno spasmo, mentre la guardava incredulo, come se si
aspettasse qualsiasi altra risposta, tutto ma non quello. Sembrava quasi che
avesse sperato in una bugia, ma Nina
non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi e mentirgli.
La
lasciò cadere, mollando la presa sul colletto e Nina cadde nuovamente a terra,
alzando un braccio per aggrapparsi alla cinghia sulla coscia dell’uomo. Le sue
spalle vennero scosse dai singhiozzi, mentre teneva il viso chino verso il
terreno.
“Perdonami…”
Lui
si staccò con un movimento secco e lei rimase così, alzando il capo solo quando
sentì la voce di suo fratello.
No,
Erwin. Non doveva avvicinarsi.
Nina
cercò di alzarsi, scivolando nel fango. Levi le dava le spalle, volto verso
l’arrivo delle due persone a cavallo.
“Erwin!
Vattene!” urlò Nina, sentendo la gola in fiamme.
Non
servì a niente e a lei non rimase altro se non rimanere pietrificata lì, a
terra, mentre Levi si lanciava contro suo fratello con le spade sguainate.
In
quel frangente, dimenticò di essere all’esterno.
Si
dimenticò dei giganti e della formazione.
Dimenticò
persino la Morte.
Nda.
Ecco
qui il nuovo capitolo!
Ho
volutamente interrotto la prima parte con tutto questo pathos perché sono una
persona orrenda…
…
soprattutto perché il prossimo sarà ambientato a Trost
e non riguarderà Nina, almeno non nella parte presente!
Un
paio di puntualizzazioni veloci: Perché Nina ha delle bende attorno al busto,
sul seno? Perché non esistevano i reggiseni sportivi
nel medioevo/mondo passato/apocalisse futura o come lo intendete voi. indi per
cui cavalcare doveva essere qualcosa di impossibile da fare, soprattutto per
molte ore, se non tenendo le gemelle al sicuro e ben strette al corpo. Questo è
un tipo di accortezza che alcuni sportivi hanno ancora oggi, per esempio le
ragazze che praticano il karate, sotto alla protezione, molto spesso si bendano
il petto per evitare di provare fastidio.
Ho
cercato di narrare un po’ la storia di questo paese, di cui spero di aver modo
di rivelare il nome presto o tardi, lasciato deserto a causa dell’arrivo dei
giganti. La storia è ricca di avvenimenti come questo, come Prypriat
per esempio o altri città lasciate deserte a causa di guerre o avvenimenti
catastrofici. Credo che la metafora della tavola imbandita lasciata deserta sia
un immagine forte. Ti fa pensare.
Come
un bambino nascosto sotto al letto, lasciato solo da genitori sicuramente
finiti sbranati. Domando scusa se ho turbato qualcuno con questa immagine, i
bambini sono un argomento delicato e lo capisco, ma se volete qualcosa di soft
non è proprio il fandom adatto in cui cercarlo.
Ho
iniziato anche ad introdurre un po’ la storia di Nina, il suo background e la
sua famiglia. In particolare, ho marciato un po’ sul rapporto con sua madre, ma
ho intenzione di dedicare a tutti loro un capitolo in particolare, da un punto
di vista particolare.
Il
racconto dalla missione oltre le mura…
Allora,
ho scelto volutamente di seguire più il manga dell’anime perché, secondo me, è
più bello. Tutto qui. Da più ‘figaggine’ a Levi e Farlan… Che lo saluta prima di morire….
Avete
capito insomma.
Detto
questo, vi saluto e vi ringrazio per avere letto fin qui.
In
particolare, mando tanti coriandoli e glitter ai due
angeli, Auriga e la mia compagna di chiacchiere no senseShinge, per avermi commentata.
Ringrazio
anche RLandH che è una stronzetta
che commenta una volta ogni morte di cristo, ma con la quale sto plottando l’implottabile.
Erwin lo aveva evitato per
tre giorni, ovvero dal loro ritorno entro le mura del Distretto di Trost.
Non c’era stato verso, per
Levi, di avere con lui un colloquio, non era riuscito nemmeno a trovarlo la
sera, come se Erwin non avesse fatto dormito nella caserma cittadina.
La situazione si era fatta
frustrante oltre ogni dire, perché quello non solo era solo insolito – il
Comandante era sempre reperibile, a
qualsiasi giorno e della notte, persino nelle rare licenze che aveva preso
negli ultimi due anni – ed era anche inopportuno.
Aveva scelto il momento
sbagliato per prendersela comoda.
Anche se sapeva di essere
ingiusto, Levi non riusciva comunque a non irritarsi; se c’era una cosa che era
severamente vietata dalla legge, era quella di uscire dalle mura senza avere
ottenuto tutti i permessi necessari. L’iter per richiederli era lungo e pieno
di scartoffie che il Caporale si sarebbe anche scomodato a compilare, se solo
avesse avuto il consenso del Comandante.
Non era nemmeno capace di
falsificare la sua firma, era Nina quella che solitamente si prendeva una tale
responsabilità ed era anche brava a farlo. Certo, di solito erano firme su lascia
passare per i soldati che richiedevano una licenza per tornare a casa già
precedentemente concordata con Erwin che, puntualmente, si dimenticava di
compilare i congedi momentanei.
Nina non era solamente il
Primo Ufficiale Medico, era anche la collaboratrice più stretta di suo
fratello. Avvolte gli faceva anche la madre, se era per quello. La ragazzina
sapeva diventare spaventosa quando partiva con una delle sue ramanzine da
sorella, seppure fosse più giovane di Erwin di quasi dodici anni.
Il Caporale scosse il capo
lentamente, mordendosi piano il labro inferiore tanto era assorto da quei
pensieri.
Senza di lei, sarebbe andato
tutto a rotoli.
Mike avrebbe senza ombra di
dubbio iniziato ad odorare le ferite di tutti per capire quali stessero andando
in cancrena o quali no, mentre Hanji l’avrebbe
assistito nei suoi strani deliri. Al solo pensiero della Zoë
come primo ufficiale medico ad interim gli fece venire due o tre capelli
bianchi.
Cosa avrebbe fatto Erwin?
Dimenticava spesso le cose. Aveva sempre la mente altrove, persa in formazioni
nuove, missioni impossibili e piani orribili e compromettenti.
Non preparava mai la
documentazione da portare a Zackley senza averla
letta almeno cinque volte e averla fatta leggere a qualcun altro. Sicuramente
si sarebbe ammalato dieci volte in un mese visto che era troppo impegnato anche
per badare ai cambiamenti climatici.
Cosa avrebbe fatto lui
stesso? Levi non si era mai ritrovato così tanto da solo nella sua vita.
Due anni prima aveva perso Farlan, con il quale era cresciuto in quella topaia del
ghetto, e Isabel, che a modo suo l’aveva sempre aiutato. Li aveva persi per
sempre e a raccogliere i pezzic’erano
Erwin e Nina.
Loro due, in modo diverso, ma
presenti nella sua vita erano riusciti a tenerlo a galla e a proteggerlo da se
stesso.
Adesso gli sembrava non gli
fosse rimasto nulla, una volta perso il sorriso di Nina e la fiducia del
Comandante.
Levi se ne stava seduto sul
letto con le mani strette attorno al bordo di una cornice in ottone opaco
dall’aria antica, che aveva appena finito di lucidare utilizzando uno straccio
vecchio intinto in un poco di aceto.
Allora bussarono alla porta,
riportando la sua attenzione sul mondo dal quale si era momentaneamente
straniato. Il tocco fu leggero, quasi inesistente, tanto che per un istante il
Caporale pensò di averlo solo sognato.
L’uscio però si aprì lento,
quasi con timore, mentre da esso si affacciava la figura troneggiante di Erwin
Smith.
Levi lo guardò con lo stesso
stregato cipiglio con cui si guarda un’apparizione miracolosa, alzando le
sopracciglia, senza però abbandonare il grugno scostante e seccato che aveva
addosso come una maschera cucita sulla carne ormai da giorni.
“Sapevo che ti avrei trovato
qui” furono le parole con cui Erwin iniziò a parlare, guardandosi attorno quasi
come se si aspettasse chissà quale spettacolo. Doveva essere entrato in quella
camera arredata in modo essenziale almeno venti volte solo nell’ultimo anno,
visto che era lì che viveva sua sorella quando stanziavano a Trost e non al quartier generale della Legione. Negli
ultimi tempi, poi, erano sempre in città.
Levi lo osservò attentamente,
dalla punta degli stivali fino alla giacca distinta. Era vestito da civile, non
capitava spesso di vederlo conciato così, dato che sembrava esserci nato con
addosso la divisa militare. Avrebbe tanto voluto domandargli dove diavolo si
fosse cacciato, ma la domanda gli morì in gola quando adocchiò il borsone che
pendeva dal fianco.
“Sei in partenza” decretò con
tono funereo, sentendo l’amaro in bocca. Provò però lo stesso a stare calmo,
perché se avessero ripreso a urlarsi addosso come due animali, allora non
avrebbe ottenuto proprio un bel niente.
Il suo volto tornò apatico e
impassibile, deluso, mentre le dita si stringevano ancora di più alla cornice contenente il ritratto.
Erwin non lo stava guardando.
Non rispose nemmeno
all’insinuazione.
Si limitò a lasciare il
borsone accanto alla porta, mentre si avvicinava alla scrivania. Accarezzò una
pila di libri, il primo del quale era stato spolverato da Levi, pochi minuti
prima, nel patetico tentativo di tenersi impegnato con le pulizie della stanza.
Erwin passò poi al comò, per lo più vuoto ad eccezione dei primi due cassetti.
Su di esso c’erano diversi disegni piene di ritratti, bei volti e sorrisi. La più grande
stava fra le mani di Levi, mentre tutte le altre sparse raccontavano una
storia. Erwin raccolse quella che ritraeva sua sorella il giorno in cui aveva
potuto completare gli studi. Era la prima laureata della famiglia. Suo padre
aveva viaggiato da Stohess alla Capitale per potere
assistere alla sua proclamazione a Primo Ufficiale Medico. Era una bella
soddisfazione, ma Nina di soddisfazioni ne aveva portate molte.
Erwin si sentì in colpa per
non averle mai posto un limite, per aver preteso da lei troppo. Ricordava molto
bene quando aveva fatto il suo ingresso in accademia, promettendo alla loro
madre cose che poi non aveva mantenuto. Ricordava anche il giorno in cui si era
unita alla Legione, la sua espressione durante la prima spedizioni all’esterno.
Cercava di incamerare la paura in un falso sguardo determinato per
impressionarlo, Erwin lo aveva capito da lontano cosa provava veramente, ma era
sempre stata brava a fare finta di niente.
A fingere con leggerezza che
andasse tutto bene, a sorridere sempre anche quando desiderava solo piangere,
riuscendo a crollare solo al sicuro fra quattro mura conosciute. Per non farlo
preoccupare, per non farsi vedere debole.
Era sempre stata così. Aveva
sempre finto per cercare di nascondere tutto il dolore che quella vita le aveva
procurato.
“Hai intenzione di rimuginare
tutta la sera o parlerai, prima o poi?”
Levi iniziava a spazientirsi.
Di nuovo. Quel silenzio non era affatto piacevole.
L’altro parve accorgersi
della tensione che attraversava l’aria, così andò a sedersi accanto a lui,
facendo cigolare le molle del materasso. Lanciò uno sguardo alla cornice che
Levi continuava a stringere quasi ossessivamente, tradendo quindi il suo reale
stato d’animo.
Raffigurava un gruppo di cadetti
allegri, con addosso ancora le giubbe recanti le due spade incrociate
dell’addestramento. Nina aveva detto una volta che a disegnare quella meravigliosa scena era stato Moblit, il talentuoso secondo di Hanji, che faceva l'accademia al loro tempo seppur indietro di un anno. Da sinistra verso destra, poté osservare i volti sorridenti
di un piccolo gruppo del novantaseiesimo corpo reclute. Il primo era un ragazzo
alto, allampanato, con gli occhi azzurri limpidi, nascosti da grossi lente.
Nicholas Ravenstein, settore ingegneristico, morto
nello svolgimento del suo dovere oltre le mura. Il secondo era un giovane di
poco più basso e mingherlino, con una testa di capelli biondo pagliericcio e
delle lentiggini marcate su tutto il naso. RielkeMüller, suo cugino acquisito, che aveva scelto la
Guarnigione ed era di istanza a Stohess. C’era poi
una ragazza casta, con i capelli lunghi tenuti in una treccia che le girava
attorno al capo come una corona e gli occhi caldi. KaylaJutah, morta nell’adempimento del suo dovere oltre le
mura. La stessa sorte era toccata al ragazzo moro dagli occhi neri come il
carbone. Eddart Reynolds, deceduto anche lui durante
la trentaduesima missione della Legione. Eldo Gin
sembrava il più sicuro di sé, in mezzo a quei ragazzi, li sovrastava anche in
altezza. Unico superstite dell’armata ricognitiva raffigurato in quei ritratti.
C’era poi quel ragazzo della Gendermeria di cui Erwin
non ricordava il nome, con i capelli rossi e l’espressione quasi annoiata.
Stringeva il braccio attorno alle spalle di sua sorella, che sorrideva più
luminosa degli altri, con i capelli a nasconderle parzialmente il volto e le
gote leggermente arrossate. In ultimo, un ragazzo castano ricciolino, con gli
occhi un po’ persi, che non faceva parte di quel reggimento seppure fosse più
grande degli altri. Friederich ‘Fritz’ Meier era
molto legato a Nina, che aveva vissuto con lui per anni, quando studiava
medicina come apprendista nello studio di suo padre, Franz Meier. Anche Fritz
aveva scelto di unirsi alla Legione e così era morto, l’anno prima, vittima del
crollo del Wall Maria. Era rimasto bloccato nel
distretto di Briemer, la città più a nord di tutte,
tra il freddo e la fame, in una morsa letale. Nessuno si era curato delle città abbandonate e a Nina si era
spezzato il cuore nel sapere che era rimasto chiuso al di fuori delle mura.
Il bilancio dei caduti
lasciava poco spazio alla speranza che Levi gli stava chiedendo.
Erwin sospirò piano, abbassando
il capo che andò ad incassarsi fra le spalle larghe. “Ti perdono per ciò che
hai detto mentre eravamo là fuori. So che eri sconvolto, lo siamo ancora
entrambi, e voglio che tu sappia che va tutto bene.”
Va tutto bene?
Non c’era un cazzo che andava bene.
Il cervello del Caporale ebbe
un arresto improvviso a quelle parole. Per un attimo ebbe il presentimento di
essere diventato un povero imbecille, poi però realizzò che tutte le prove
portavano al fatto che non era lui l’idiota in quella stanza. Portò pollice e
indice alla radice del naso, mentre abbandonava con non curanza la cornice sul
letto.
Sicuramente qualcosa non
tornava.
L’intelligenza di Erwin non
tornava, doveva avere dimenticato il senno oltre le mura.
Altro motivo per uscire il
prima possibile e recuperare tutto e tutti. “Mi sto trattenendo dal prenderti a
calci fino a farti sputare il culo, eppure vieni qui e mi dici che sei tu a perdonare me?”
Se si fosse trattato di
chiunque altro, l’avrebbe fatto. Avrebbe usato i pugni e i calci fino a
convincerlo che aveva ragione lui, l’avrebbe ridotto a un quintale di macinato
di vacca e poi forse ne avrebbero riparlato. Forse.
Ad Erwin dava però il
beneficio del dubbio. Era l’unico a poter godere di quel piccolo lusso.
L’uomo però non colse la
provocazione né tanto meno il tono minaccioso di Levi. Abbozzò un sorriso
amaro, tenendo gli occhi sul pavimento in totale contemplazione del disegno
geometrico delle mattonelle.
“Parto domani all’alba per Stohess. Mi aspetto che tu venga con me.”
“Non mi stai nemmeno
ascoltando. Fantastico.” In quel
frangente, Erwin gli ricordò così tanto Nina da fargli male.
Il Comandante si levò in
tutta la sua altezza, appoggiandogli una mano sulla spalla come per fornirgli
un qualsivoglia conforto. Levi non ne aveva bisogno.
Voleva solo che l’altro lo
ascoltasse.
“Mi sono sempre fidato di te,
nel bene e nel male, Erwin” insistette, tirandosi in piedi a sua volta, ma
rimanendo accanto al letto con le braccia rigide lungo i fianchi e gli occhi a
pugnalare la schiena del Comandante“L’anno scorso, quando hanno mandato a morire tutta quella gente
innocente, io ero con te. Anche se non era per questo che mi sono unito alla
Legione, c’ero. Gli altri stavano per ribellarsi, quello stronzo di Schäfer ti ha quasi fatto le scarpe e Shadis
ha deciso di andarsene proprio in tempo per evitarsi gli ordini di merda di Zackley. Ti ho appoggiato e centinaia di persone ci sono
morte di fronte, mentre noi della Legione stavamo a guardare. Nora è morta
davanti ai tuoi occhi e tu te ne sei rimasto impassibile su quel cazzo di
cavallo. Tua sorella è rimasta sotto a quel dannato tendone bianco a soccorre
feriti per tre giorni di fila senza dormire, fino a che non l’ho tirata fuori
per i capelli quando, sempre tu, hai ordinato la ritirata dei pochi ancora
vivi. Abbiamo tutti sputato l’anima per te, Erwin, senza mai pretendere che tu
dicessi nulla perché è giusto così. Non ti ho mai chiesto niente, dannazione!
Né una spiegazione, né una motivazione per i tuoi piani di merda che promettono
sempre male in partenza e adesso non mi stai nemmeno a sentire? Non hai nemmeno
le palle di guardarmi negli occhi?!”
Attese qualche secondo, ma
Erwin non si voltò. Lo guardò chinarsi, raccogliere il borsone e caricarselo
sulla spalla, ma non ebbe il coraggio di fronteggiare Levi. Chi lo sa, forse
non ne aveva al forza.
“Dannazione Erwin, fa l’uomo!
Ti sto dicendo che ho ragione di credere che tua sorella è viva e a te non
importa niente?! Non verrò con te a guardare in faccia tua madre per dirle una
menzogna!” la rabbia montò di nuovo in lui, più forte di qualche giorno prima.
Andò verso di lui e prese per un braccio, costringendolo a voltarsi e,
finalmente, a guardarlo.
Non c’era nessuna speranza
nei suoi occhi azzurri, ma nemmeno ira.
Non c’erano emozioni. Solo un
grande gelo che Levi avvertì all’altezza del petto.
“Levi, ascoltami bene” iniziò
con calma, prendendogli il polso per costringerlo con gentilezza mista a
tensione a lasciarlo andare “Non hai idea di come era ridotto il campo che ha
visto lo scontro tra la squadra di Sankov e i
giganti, perché non c’eri. Ti ho risparmiato la vista.”
Ora giocava anche al
premuroso nei suoi riguardi? Da quando?
“Ho visto quello in cui sono
morti Farlan e Isabel” rilanciò, determinato a
vincere quello scontro verbale ad ogni costo, ritirando anche fuori quei
ricordi che dilaniavano ancora la sua anima “Faceva schifo, c’erano brandelli
di carne e pozze di sangue ovunque, ma io sono sopravvissuto.”
“Nina non è come te, per
quanto tu voglia sforzarti di credere il contrario. Tu sei l’eccezione.”
Levi sbuffò, tirandosi
indietro “Infatti. Il suo spirito è molto più forte del mio. Se c’è una persona
determinata a questo mondo, questa è tua sorella. Dalle un mattone e in due
giorni avrai un castello, dovresti saperlo molto meglio di me.”
Erwin sorrise nuovamente, in
quel modo malinconico e triste, seppur fiero, che metteva a Levi una gran
voglia di vomitargli sulle scarpe di vernice nera. Ripetutamente. “Tenevi a
lei, lo so, ma devi darti pace. Ora lasciami andare a riposare, domani dovrò
portare alla mia famiglia la giacca di servizio di Nina.”
Non c’era spazio per la
speranza, quell’uomo era diventato più irraggiungibile del cielo e più duro
delle mura. Non c’era possibilità di fare breccia nella sua ragione o nel suo
cuore spezzato. Levi sistemò la giacca nera che teneva appoggiata alle spalle,
voltandosi per non guardare più il suo viso. Non replicò oltre, anche se poteva
dirsi tutto tranne che arreso.
Erwin non aggiunse altro a
sua volta, lanciandogli uno sguardo tra l’impietosito e qualcos’altro che non
era possibile cogliere, prima di lasciare la stanza, chiudendosi la porta alle
spalle.
Rimasto solo, il Caporale
recuperò la cornice, passando l’indice della mano sinistra sul volto sorridente
di Nina.
“Allora vorrà dire che dovrò scavalcarti.
Vaffanculo
Erwin, dovrò faticare parecchio a causa tua.”
Si era guardato bene
dall’uscire dalla caserma all’alba per evitare di incontrare anche solo per
errore Erwin, ma aveva rimediato Hanji al suo posto.
Nonostante la compagna di viaggio rumorosa, non gli dispiacque averla con sé.
L’aveva aiutato quando ne aveva avuto bisogno e Levi sapeva riconoscerle il
merito che con quell’entusiasmo comunque teneva sollevato il morale. Non lo
avrebbe mai ammesso, ma in quei due anni nella Legione insieme, HanjiZoë era riuscita a scavarsi
una piccola nicchia fra gli affetti del Caporale.
“Quindi la tua idea è quella
di scavalcarlo?”
“Esattamente. Se lui non mi
ascolta, lo farà qualcun altro.”
“Chi, con esattezza?”
Il volto dell’uomo rimase
impassibile, mentre spiava con gli occhi il sole che brillava ancora pallido
nel cielo. Tutto attorno a lui l’odore della rugiada bagnava l’aria, mentre il
nuovo giorno si stava levando ancora pigro. Avevano lasciato ormai da una buona
oretta Trost e sapeva di essere quasi arrivato.
Il luogo in cui erano diretti
non stava che a un’ora a cavallo a passo lento dal Distretto, abbastanza
lontano per poterne sfruttare il terreno in sicurezza, ma comunque
sufficientemente lontano da non causare problemi. Tutto attorno, una fitta
foresta dagli alberi i cui tronchi parevano di carbone, troneggiava e difendeva
l’accampamento.
“Erwin Smith non è il solo
Comandante che conosciamo, sbaglio?”
Hanji capì a cosa si riferiva senza nemmeno dover
domandare. Un sorrisetto divertito le incurvò le labbra sottili, mentre
abbassava il capo con fare meditabondo “Furbo.”
“Lo so. Qualcuno deve pur
esserlo.”
Keith Shadis
sembrava invecchiato dall’ultima volta che Levi l’aveva visto, meno di un anno
prima.
Aveva perso un po’ di
capelli, stempiandosi e gli occhi sembravano contornati da più rughe di quante
avrebbe effettivamente dovuto averne un uomo della sua età. Ciò che
maggiormente lo stranì, però, fu il suo sguardo. Nonostante il colore caldo,
come caramello fuso, esso era glaciale, scostante. Non lo ricordava così, però
doveva ammettere che non aveva mai prestato molta attenzione a quell’uomo. Non
aveva avuto molto tempo per conoscerlo, visto che era stato il suo Comandante
per qualcosa come quattordici mesi, che Levi aveva passato per lo più nella
Capitale e dietro agli ordini diretti di Smith. Quando Shadis
aveva lasciato la Legione, chiedendo a Erwin di prendere le redini, aveva fatto
qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno si era mai permesso di fare prima: ogni
Comandante si era succeduto al precedente solo alla morte di questo. Shadis, invece, aveva letteralmente abdicato.
Inutile dire che ad Ackerman non aveva fatto né caldo né freddo, ma più di una
persona aveva storto il naso o sbottato frasi di falsa cortesia e
accondiscendenza a quel gesto.
La stessa falsa cortesia e
accondiscendenza usata dallo stesso Shadis quando li
aveva visti arrivare a passo di marcia.
Aveva staccato gli occhi solo
per qualche istante da una recluta che sembrava più un salame lasciato a
stagionare, che un feroce guerriero, e si era ritrovato di fronte la Zoë e Levi.
Non prometteva bene quella
visita.
Aveva urlato a un certo Moritz che faceva paura tanto quanto un piccolo pulcino
appena nato così insalsicciato nell’imbragatura e
appeso lassù in aria, per poi decretare qualche minuto di pausa.
Forse avrebbero avuto
addirittura il resto della mattinata libera, quei ragazzi.
“Fatemi capire bene: voi due
siete venuti fino a qui perché io vi aiuti a scavalcare il vostro Comandante?”
“Pressappoco.”
Keith osservò Levi, seduto
accanto a lui al tavolo, prima di sospirare piano, con un cipiglio
particolarmente rassegnato. “Almeno possiamo berci una tazza di teh prima o dobbiamo buttarci subito in questi affari
loschi?”
La tazza di teh, secondo il criterio di Ackerman,
poteva aspettare. Il che era indicativo della premura che aveva.
Fu Hanji
però a raccontargli per filo e per segno perché avevano bisogno di un aiuto.
Anzi, necessitavano di un consiglio, visto che l’uomo non avrebbe mai preso
parte a un’azione sovversiva ai danni di Erwin.
Shadis non sembrava molto convinto, ma si decise a dire la
sua nel modo più onesto e spietato che conosceva “Ammesso che lei sia davvero
viva” sottolineò, guardando verso il Caporale che sbuffò appena, assottigliando
gli occhi. “E trovo molto debole la tua argomentazione sul fatto che te lo senti, Levi, non so per quanto una
persona sola possa resistere nella terra dei giganti. Nina è brava, sa il fatto
suo e il sangue che le scorre nelle vene vorrà pur dire qualcosa, ma è una
donna rimasta sola. Quanto potrà sopravvivere prima di venire mangiata? Non
avete il tempo di convincere Erwin.”
Levi batté il pugno sul
tavolo, facendo sussultare Hanji, ma non ottenendo
nessuna reazione da parte dell’uomo. Doveva fare di meglio per spaventarlo o
scuoterlo “Quindi mi stai dicendo che dovrei lasciare perdere? Non sono venuto
fin qua per vedere quanto scarse sono le tue reclute, ma per sentirmi dire
qualcosa di vagamente sensato.”
“Ti sto dicendo che non puoi
convincere Erwin. Fatti furbo e sfrutta ciò che hai imparato in questi due
anni. Per quali motivi usciamo la fuori?”
Levi tornò ad appoggiarsi
allo schienale della sedia con lentezza, chiedendosi dove l’uomo volesse
arrivare “Per diventare lo spuntino dei giganti?”
“Io non ti ho mai capito, Levi.
Sei strano.”
Hanji portò una mano alla fronte, prima di interrompere
quello scambio di parole, che iniziava a farsi leggermente ridicolo “Per
studiare la natura dei giganti.”
Shadis incrociò le braccia sul petto, chiudendo gli occhi
per qualche secondo, pensieroso. Gli altri due lo guardavano attendendo una
qualsiasi reazione.
“Ti stai per addormentare,
vecchio?”
“Sto pensando, nanerottolo.
Fa silenzio.”
Il tempo parve dilatarsi,
tanto che Levi iniziò a spazientirsi. Erano venuti fin lì per farsi prendere
per il culo da un vecchio pazzo? Non avrebbe di certo perso altro tempi. Scostò
la sedia rumorosamente, lasciando che i piedi di legno grattassero contro al
pavimento, mentre puntellava il braccio per alzarsi.
“Dovete proporre un
progetto.” Shadis lo interruppe, riportando gli occhi
su di loro, ma parlando principalmente con Hanji, che
a quelle parole aveva rizzato per bene le orecchie “Avete detto che Erwin è
andato a Stohess, no? Ottimo. La Capitale è
incantevole in questo periodo, portate i vostri culi da Zackley
sostenendo che non volevate turbare il Comandante durante un lutto tanto
importante e che volete richiedere un permesso per una spedizione all’esterno
il prima possibile.”
“Come possiamo attirare così
tanto la loro attenzione da ignorare il fatto che la domanda non è arrivata dal
Comandante, ma da noi?”
“Non lo so! Inventati
qualcosa!” Shadis si sporse in avanti, verso di lei,
agitando vago la mano mentre cercava le parole “Dite che avete visto un gigante
con due teste, un Krampus che stava sgranocchiando un
bambino o una marmotta blu! Pensate a qualcosa, andrà bene quel che vi viene,
persino un cazzo di unicorno. Ma deve essere qualcosa che necessita un
immediato riscontro. Proponetelo e sperate. Questa è tutto ciò che il potere
che avete vi permette.”
Levi lo guardò, con il capo
inclinato di lato, decretando che poteva andare bene. “Hanji,
lascio a te questo compito. Trova qualcosa di strano e malato da studiare,
dovrebbe essere il tuo campo.”
La donna lo guardò alzarsi
seria, con il cervello che già viaggiava su quella lunghezza d’onda. Avrebbe
trovato di sicuro qualcosa di interessante “Va bene, conta su di me.”
“Perfetto. Recupera i
cavalli, io devo fare un’ultima cosa e poi possiamo andarcene. Ex Comandante…” rivolse un cenno di saluto verso Shadis, non scomodandosi nemmeno di ringraziare.
Quando di lui non rimase che
lo svolazzare vago di quel ‘arrivederci’ che non sembra nemmeno per niente,
Keith tornò a voltarsi verso la donna, che guardava divertita il cipiglio
irritato che aveva assunto il suo volto.
“Ho sempre pensato che Levi
fosse una testa di cazzo, ma spero che abbia ragione.”
Mieke si era preoccupata non poco quando, dal Capo
Camerata, era arrivato l’ordine di prendere le sue cose e prepararsi alla
partenza. Uno dei ragazzi dell’ultimo anno di addestramento l’avrebbe condotta
a Stohess, dove la sua famiglia avere richiesto di
poterla vedere.
Con lo zaino sulle spalle e
l’espressione mesta s’era lasciata alle spalle il dormitorio, stringendosi
addosso la mantella verde e chiedendosi cosa mai potesse essere successo. Che
suo nonno si fosse sentito male? Forse era successo qualcosa nell’ultima
missione oltre le mura? Quelle erano le prime due ipotesi che la sua mente
aveva partorito. Erano anche le più ovvie. Il nonno era molto anziano e aveva
patito parecchio la perdita della moglie, un anno prima e naturalmente, Nina ed
Erwin correvano un rischio costante ogni volta che si lasciavano le mura sicure
del Wall Rose dietro alla schiena.
Il non sapere la stava
divorando lentamente.
“Mieke.”
La voce le arrivò alle spalle, spaventandola leggermente sia per il tono
impellente, sia perché non s’aspettava di certo di ritrovarsi lui lì in quel
momento.
Invece eccolo, sempre uguale
seppure non lo vedesse ormai da qualche mese.
“Levi?” chiamò di rimando,
attendendo che la raggiungesse e smettendo di torturare il bordo della mantella
con le mani per mettersi sull’attenti. Quando le fu di fronte, la giovane
ragazza non poté trattenersi “Sai cosa sta succedendo? Mi hanno detto che devo
tornare a Stohess, ma nessuno mi dice perché!”
L’uomo ricambiò lo sguardo,
prima di appoggiarle una mano sul capo, abbassandole il cappuccio e scoprendo i
capelli biondi come il grano, tagliati corti come quelli di un ragazzo.
“Ti dirò tutto, ma tu prima
devi promettermi che farai una cosa per me.”
Lei sembrò spiazzata sia da
quell’atteggiamento, sia dalle parole del moro.
Iniziò a capire che doveva
essere successo qualcosa di brutto “Levi?”
“Promettimelo.”
Quando insistette, Mieke non ebbe esitazione.
Nina si fidava di lui
incondizionatamente, l’aveva letto nei suoi occhi ogni volta che guardava
quell’uomo.
Questo le sarebbe bastato per
fidarsi a sua volta “Te lo prometto. Ma ora parla.”
Suddenly I know I'm not sleeping
Hello, I'm stillhere
Allthat'sleftofyesterday
Anno 844
Ritorno dalla ventisettesima spedizione oltre le mura.
Levi osservava le pire bruciare
e il fumo sparire nel buio della notte.
Da qualche parte, sotto quei
corpi ammassati e a pezzi, c’erano anche quelli dei suoi amici.
Ci aveva pensato su, mentre
guardava gli altri accatastarli come legna da ardere, a come avrebbe fatto a
riconoscere quali sarebbero state le loro ceneri, ma alla fine aveva compreso
che non aveva importanza. Non sarebbe stato un pugno di nulla a riportarglieli
indietro e non avrebbe comunque avuto modo di far avere loro una bella lapide o
una targa laddove qualcuno avrebbe potuto ricordarsene. Non sarebbe interessato
a nessuno se un paio di ladruncoli dei bassifondi ci avevano rimesso le penne
nel tentativo di guadagnarsi la libertà. Non importava più, però, perché loro
erano già liberi.
Sarebbero stati per sempre
liberi.
E lui solo.
Portò una mano sul viso,
stropicciandolo mentre sentiva la stanchezza montare, ma rimaneva consapevole
che per quanto il suo corpo potesse essere scosso, non avrebbe trovato ristoro nel
sonno. Avrebbe potuto domandare alla dottoressa di preparargli quello schifo di
intruglio alla valeriana, certo, ma non voleva parlarle.
Non voleva parlare con
nessuna delle persone che si erano raggruppate a qualche metro da lui, in
cerchio, poco lontano dalle pire. Erwin l’aveva anche invitato a unirsi a loro,
quando era passato di lì con in mano una bottiglia contenente un sospetto
liquido trasparente. Non aveva nemmeno risposto alla domanda, constatando
solamente a voce alta che, da quando avevano fatto ritorno al quartiere
generale, il Comandante Shadis era sparito.
“Dopo ogni missione si ritira
nel suo ufficio, per scrivere il rapporto.”
Una scusa comoda, di
circostanza, che il Capitano Smith aveva adottato ad hoc per coprire la realtà,
ovvero il lampante senso di colpa che Shadis doveva
provare ogni volta che riportava più morti che vivi. Lo poteva capire, però. Il
suo fallimento era misurabile in vite spezzate e l’organizzazione delle
cremazioni non doveva essere qualcosa di sua competenza. L’avevano fatto tutti
gli altri, insieme, sottoposti e capitani, spostando ogni corpo con la dovuta
accortezza e poi accendendo le fiamme. Levi non si era più spostato di lì da
allora. Non era andando a cambiarsi o a rinfrescarsi come avevano fatto gli
altri, tutti belli nei loro abiti civili, con in mano quel grande boccale pieno
di qualche strana sostanza alcolica e una sigaretta che si passavano come un
branco di ragazzini al vicolo di una via. Studiò ognuno di loro, costatando che
non ricordava il nome della metà, ma semplicemente il loro titolo. Soldati
semplici, reclute, capitani, capi squadra…
Venire valutati in vita per
un titolo, doveva essere poco soddisfacente.
Continuò a guardarli, curioso
di vedere fino a che punto si sarebbe spinto quel giochino senza senso. Quando
finalmente la sigaretta, doveva essere la terza o la quarta, arrivò nelle mani
di qualcuno insieme al boccale, tutti si zittirono.
Erwin appoggiò la mano sulla
spalla dell’uomo accanto a lui, che lo sovrastava di almeno una decina di
centimetri, “Tocca a te questa volta, Mike.”
“Bel festeggiamento per la
promozione a Capo Squadra” aggiunse la ragazza con i capelli corti e i tratti
del viso quasi maschili, poco distante da loro, lanciando un sorriso smaliziati
all’uomo più alto.
“Non sono bravo coi discorsi”
iniziò questi, annusando il contenuto del bicchiere, prima di prendervi un
sorso generoso. Passò quindi quello ad Erwin e la sigaretta al ragazzino alla
sinistra, prima di guardare una delle pire, che ancora ardeva intensa
“Conoscevo poco le reclute cadute, ma conoscevo bene Flagon.
Non avrebbe voluto un discorso sentito e delle lacrime, ma avrebbe voluto
vederci bere ancora di più, augurandoci che alla fine, potremo dimenticarci di
questa giornata. Quindi propongo di ricordare tutti così, bevendo nel loro
ricordo.”
Un piccolo coro di assenso si
levò dal gruppo, mentre il boccale arrivava nelle mani di Nina, che accanto al
fratello s’era fatta piccola, avvolta in una coperta di lana ingiallita. Levi
la guardò prendere un piccolo sorso, prima di storcere il naso e passare il
boccale. La sigaretta venne spenta, il resto dell’alcool versato a terra, verso
la pira, centrale, quella degli ufficiali. Mentre il gruppo iniziava a
disperdersi, Levi si chiese cosa doveva aspettarsi. Che ricordassero Farlan e Isabel? Illuso.
“Sei certa di non volere
venire?” l’attenzione di Levi venne attirata nuovamente da Erwin. Con quella
voce tonante, seppur morbida in quel momento, era complicato ignorarlo. Stava
accarezzando ilcapo di Nina, sorridendole
gentile.
Lei, scosse piano la testa
“No, non sono dell’umore per l’osteria, ma dì a Peter che se ha ancora problemi
con la sciatica posso scendere in paese domani mattina.”
Stavano andando a bere? Dopo
tutto quello che era successo, andavano a bere sul serio? L’uomo non s’era mai
detto un sentimentale, ma persino ai suoi occhi gli parve egoista. I loro
compagni erano morti e loro andavano a festeggiare? Ancora non poteva capire.
Non aveva ancora compreso che era un modo di commemorarli, celebrando la vita e
stando insieme.
Ci sarebbe arrivato col tempo
e anche lui avrebbe iniziato a bere alla memoria di coloro che non sarebbero
mai tornati a casa dell’esterno.
Qualcuno tornò verso
l’ingresso del castello, ma la maggior parte si diresse verso il sentiero che
conduceva al paese lì vicino, tenendo delle lanterne fra le mani.Nina non aveva intenzione di andare con loro.
“Davvero, sono troppo stanca Ed” stava di fatti dicendo a quella recluta dallo
sguardo perennemente irritato, che non aveva occhi che per lei. Levi l’aveva
notato il primo giorno nel momento in cui s’era messo in mezzo, ma forse la
bionda non se ne doveva essere accorta.
“Cosa farai, allora?”
“Rimarrò un po’ qui fuori e
poi andrò a dormire” Nina gli sorrise, prima di accarezzargli la guancia “Bada
a Nick, sai che brutto effetto hanno su di lui i lutti e le bevute.” Strisciò
via dall’abbraccio quasi forzato che Reynolds le stava dando e Levi ebbe la
brutta sensazione che si stesse dirigendo proprio dove si trovava lui.
Sensazione che si rivelò
esatta nel momento in cui lei prese posto al sui fianco, in silenzio. La guardò
con la coda dell’occhio, voltandosi solo quando percepì lo sguardo dell’amico
della giovane addosso. Levi non seppe interpretarlo, era qualcosa di molto
simile al disgusto, ma misto a una certa invidia. Giusto per non alimentare
voglia di rissa in nessuno – non aveva voglia di spaccargli il culo, era stata
probabilmente la giornata peggiore della sua vita dalla morte di sua madre-
tornò a fissare le fiamme.
Quando ogni singola persona ebbe
lasciato lo spiazzo di fronte al quartier generale, a coprire il suono quasi
rassicurante delle cicale e dello scoppiettare delle fiamme, fu la voce
leggermente, più grave del solito di Nina.
“Al villaggio di Irsee li chiamano i fuochi della speranza, perché bruciano
intensamente e poi, quando si spengono, rimangono solo fumo e cenere.”
Azzeccato, fu il primo
pensiero che invase la mente dell’uomo. Persino degli zotici contadini potevano
sentire quanto poco utile fosse tutto ciò. Un lungo, infinito massacro senza
ottenere uno straccio di risultato. Dovevano essere davvero dei martiri, questi
soldati. O degli stupidi.
E guarda caso, lui aveva
accettato di unirsi a loro. Sicuramente era il più coglione di tutti.
“Perché non ti sei unito alla
nostra cerimonia?” Nina insisteva, con una certa dolcezza, certo, ma non aveva
intenzione di cedere e lasciarlo nel suo mutismo “Tutte le volte che torniamo e
portiamo dei morti- quindi ogni volta- ci raduniamo vicino alla pira e beviamo
questo schifo” per sottolineare il discorso, alzò la bottiglia che il fratello
le aveva lasciato, che ormai non conteneva che la metà del liquido trasparente
“Grappa di mirto, la fanno al villaggio. Poi ci passiamo una sigaretta e a chi
toccano insieme nello stesso momento deve fare un discorso. Stasera è andata
male, Mike non è particolarmente loquace. Un po’ come te.” Levi sentiva gli
occhi grandi della ragazza sul suo viso, ma si obbligò a non dire niente “Hai
deciso che non mi parlerai mai più, vedo. Hai anche deciso di unirti alla Legione
e di risparmiare la vita a me, a mio fratello e a Mike che era lì con noi.
Perché lo hai fatto? Avresti potuto ucciderci tutti senza nemmeno versare una
goccia di sudore, visto come ti muovi.”
L’uomo sbuffò scocciato,
capendo l’antifona. Non se ne sarebbe andata se non avesse almeno provato a
cacciarla “Diciamo solo che non mi rimane altro. Andarmene equivarrebbe a
rendere nulla la morte dei miei amici.”
E non aveva un luogo in cui
tornare, perché non poteva nemmeno pensarci che sarebbe tornato la sotto, nel
ghetto, senza Farlan e Isabel. Non sarebbe stata una
vita, quella. Tanto valeva aggrapparsi con le unghie e con i denti alla
speranza che Smith gli aveva dato.
“Sei stato stregato anche tu
da mio fratello, vero?” solo a quel punto, Levi si voltò a guardarla, già
pronto a dirle cosa pensava esattamente di lei e di suo fratello, al momento.
Non gliene diede il tempo “È normale. Lui è fatto così, ti entra nella testa e
diventa impossibile dimenticare le sue parole.”
Dannata ragazzina. Scocciato,
Levi si sistemò meglio la mantella verde addosso, iniziando a provare un po’ di
disgusto per quanto era sporca e macchiata.
Nina, a quel punto,
ridacchiò.
“Sembri desiderosa di
ricevere un pugno da me, stasera.”
“No, ma trovo adorabile il fatto
che tu ti stia offendendo perché ho ragione.”
Tralasciando che gli aveva
affibbiato l’aggettivo adorabile,
Levi si senti preso in giro dalla sicurezza della ragazza. Tornò a guardarla
con sufficienza, sforzandosi di non notate come il danzare delle fiamme
giocasse creando dei giochi di luce e ombra nelle sue iridi dai colori simili
ma non identici, o come le lentiggini le risaltassero screziandole il volto
stanco. Ritornò quindi nel suo mutismo, puntando gli occhi verso la pira e
domandandosi perché non poterva semplicemente alzarsi
e andarsene a dormire. Era l’occasione giusta.
Se l’avesse seguito, le
sarebbe arrivato il tanto decantato pugno.
Peccato che non si spostò di
un centimetro.
Nina la prese come una
dichiarazione di intenti “Sai, quando ero all’università, non ho potuto
frequentare perchéi miei genitori non
avevano i soldi per permetterselo. Così ho terminato gli studi come privatista,
sostenendo gli esami e studiando medicina dal dottor Franz Meier.”
Di nuovo, Levi si voltò a
guardarla con espressione scocciata “Non mi importa un cazzo della tua vita.”
Lei non diede segno di averlo
sentito. Nemmeno lontanamente “Speravo di non entrare mai più ad Heinderich per tutta la mia vita, odiavo andare a sostenere
gli esami in quel posto. Tutti mi guardavano come una poveraccia, mi odiavano
perché ottenevo risultati migliori di loro e alla fine mi sono comunque
ritrovata con una laurea in Medicina Militare, anche se ne sapevo più di loro
tutti messi insieme sulle malattie infettive e i metodi di guarigione
officinali. Invece dovrò tornarci perché mio fratello ha chiesto al comandante
di promuovermi a Sergente per farmi avere il posto Primo Ufficiale Medico. Non
solo non credo di avere le competenze e soprattutto l’esperienza per quel
posto, ma mi serve anche una stupida abilitazione. Tutti partono dal basso, il
Tenente Renson era un erborista prima di prendere la
laurea in medicina dopo il sesto anno da ufficiale, ma bisogna dimostrare che
bisogna saper fare qualcosa di più che amputare un arto e suturare una ferita.
Come se poi, la fuori, servisse altro.” Fece una piccola pausa, aprendo la
bottiglia e portandola alle labbra. Non prese nemmeno un sorso, limitandosi ad
appoggiare il vetro alle labbra, prima di ritrarla velocemente “Tutto questo
discorso introduttivo inutile per dirti che, tra le mille cazzate che mi hanno
fatto studiare senza nessun motivo apparente, c’è stata una cosa che mi ha
colpita molto e vorrei condividerla con te.”
“Mi sento molto fortunato, al
momento.”
“Il sarcasmo non ti salverà,
se non vuoi starmi a sentire puoi solo alzarti e andartene.” Nina prese un
sorso, storcendo il naso per il sapore forte della bevanda, aspettando di
vedere se Levi si sarebbe o meno alzato. Quando non lo fece, allungò la
bottiglia verso di lui “Diversi secoli fa, c’era una leggenda che veniva
tramandata di villaggio in villaggio, facendo il giro delle mura più e più
volte” iniziò col dire, mentre l’altro afferrava quella bottiglia, certo che
sarebbe stata una cosa lunga e gli sarebbe servito un piccolo aiuto alcolico
“Per fartela breve, te la spiegherò come è stata spiegata a me dal dottor
Meier: immagina di essere all’interno di una caverna buia, incatenato a terra e
costretto a guardare sempre e solo innanzi a te. L’uscita si trova alle tue
spalle, lontana, ma tu non puoi né vederla ne tanto meno raggiungerla. Di tanto
in tanto, una luce viene accesa e tu puoi vedere, proiettate sulla parete di
fronte a te, le ombre di un alto muro e di diversi uomini che immobili paiono
osservarti. Non solo, però. Qualsiasi rumore proveniente dall’esterno tu lo
puoi percepire solo come un eco lontano, distorto. Pensa di passare tutta la
vita in questo modo, seduto a terra a osservare solamente delle ombre e a
sentire solamente degli echi. Per te è normale, non ti senti in difetto perché
tu e coloro che ti circondano hanno vissuto tutta la loro vita così. Ci sei
nato, non c’è niente di strano nel guardare quelle che sono solo delle ombre,
per te.”
“Non so dove vuoi arrivare,
ma ho capito il punto.” Levi si era attaccato alla bottiglia alla terza frase,
forse alla seconda. Non credeva di essere poi così ignorante, ma non aveva la
minima idea di cosa Nina stesse dicendo.
Doveva ammettere, però, che
il racconto l’aveva preso.
“Bene. Adesso immagina che
all’improvviso, un uomo arrivi e spezzi le tue catene. Sei libero, finalmente
puoi voltarti e guardarti alle spalle” sistemando la gonna bianca che
indossava, Nina lo guardò negli occhi e Levi si rese conto solo in quel momento
che glielo stava concedendo “All’inizio la luce ti acceca, ti spaventa,
vorresti solo tornare a voltare il capo per vedere qualcosa di rassicurante e
famigliare, ma ormai è tardi non puoi fare a meno di notare qualcosa. Non
esiste nessuna persona, ma solo piccole statuette, appoggiate su un piccolo
muro a secco, che però ti sembrava invalicabile, così come quelle figure
titaniche. Allora capisci che per tutta la tua vita, hai vissuto solo
nell’ignoranza e aprire gli occhi, adesso, è doloroso tanto quanto edificante.”
Levi annuì lentamente,
ripassandole la bottiglia, pensieroso “Quindi il buio rappresenta l’ignoranza e
le statue….”
Lei lo guardò compiaciuta per
l’osservazione. “Le bugie che ti vengono ficcate in testa fin da quando sei
nato.” Il tono di Nina era ora rinvigorito. Appoggiò la mano sull’avambraccio
di Levi, guardandolo negli occhi “Questo è Erwin. Una persona che è capace di
farti uscire dal buio della grotta. E questo è il motivo per cui sei rimasto,
non è vero? Perché sai che lui vede qualcosa che tu non riesci a cogliere, che
lui sa, che combatte per un mondo diverso. Lo hai capito guardandolo negli
occhi e hai capito che lui è la persona giusta per cui vale la pena morire. Per
questo sei rimasto.”
Quello era troppo. Chi erano
quei due per pretendere la sua vita con così tanta leggerezza?!
“Cosa vuoi saperne?!”
strappando via il braccio dalla sua presa, Levi si alzò “Smettila di fare
questo. Smettila di cercare di capirmi, sprecheresti solo il tuo tempo.”
La giovane abbassò il capo,
con un piccolo sorriso sulle labbra “Il professore che scrisse il libro da cui
ho letto questo mito fu sospeso e non lo rivedemmo più. A quanto pare, gli fu
addirittura revocata la licenza medica.”
Di nuovo.
Nina non lo stava ascoltando,
di nuovo.
Levi sbuffò frustrato “Vorrei
sapere quale è il tuo problema.”
“Il mio problema, è che tu
devi capire a cosa ti sei unito.”
Per un attimo, Levi non
registrò la frase. A cosa si era unito? A un gruppo di pazzi.
“Nemmeno io credo di averlo
capito.”
“Appunto per questo ti sto
parlando.” Nina si alzò in piedi per guardarlo, mentre stringeva la coperta
sulle spalle, combattiva e determinata a imprimergli bene quel concetto nella
mente “Gli uomini, una volta che escono dalla grotta, hanno il dovere morale di
tornarvi per liberarne altri. Ma questo può costargli la vita, per questo bisogna
agire di astuzia” sospirò, guardandolo e facendosi più vicina, cospiratoria
“Mio fratello si fida di te. Io mi fido di te. Inizia anche tu a fidarti di
noi, anche se non ce lo meritiamo. Anche se ti abbiamo ingannato, anche se ci
odi. Tu sei prezioso, Levi. Sei unico. E noi abbiamo bisogno che tu ci aiuti a
spezzare le catene.”
“Tu hai bisogno di dormire,
Nina, e così anche io.”
Non attese repliche, né le
augurò la buona notte. Girò sui tacchi, dirigendosi verso il dormitorio non
appena messo piede dentro alle mura del castello. Infuriato com’era, non si
rese conto degli occhi tristi della ragazza, del sorriso forzato o della voce
sempre più rotta.
Aveva altro a cui pensare.
Come il motivo per cui, nonostante tutto, non riuscisse ad odiarla, ma nemmeno
a perdonarla.
Nda.
Aaah sono riuscita ad aggiornare.
Scusare l’attesa, ma il pezzo
iniziale l’avrò scritto quelle comode sessanta volta. Non mi piaceva, continua
a non farmi impazzire, ma ehy!
Serve.
Serve un sacco quindi lasciamolo
lì e vediamo che succede.
Parlando di un paio di dettagli…
Ho collocato il campo di
addestramento un po’ a caso, visto che nel fumetto non ci danno molti dettagli.
Ci ho messo un po’ di strada, un po’ di Foresta Nera e tanto amore per Shadis, che è un personaggio che a me, personalmente, piace
tanto. Quell’uomo ha solo avuto una sfiga: portare dentro alle mura uno
stronzo.
#buhGrishafaischifo.
Per quel che riguarda il
secondo pezzo, ho volutamente inserito il mito della caverna platonico perché
andiamo, in quale mondo andrebbe perduta una cosa del genere? Non voglio vivere
in un mondo in cui certe perle filosofiche non vengono tramandate.
Sono breve perché ho sonno,
ma ringrazio sentitamente chi legge.
In particolare ringrazio le
due caramelline al miele che hanno commentato.
Prima Università degli Studi Umani di Heinrich, Capitale.
“Largo! Fate strada!”
La bici sfrecciava lungo i
viali alberati, incurante dei signorotti ben vestiti che li percorrevano a
braccetto con eleganti dame in abiti di pregiata fattura e colori vivi. Fritz
non pareva preoccuparsi particolarmente delle occhiatacce e delle imprecazioni
a lui dirette, mentre divertito spiava la strada oltre la spalla di Nina,
seduta sul manubrio, intenta a tenere il capello con una mano e la presa al
braccio dell’amico con l’altra.
“Ci farai ammazzare!” gli
disse, ridendo di cuore, mentre imboccavano una stradina più stretta, fra gli
alti edifici che rilucevano sotto le prime luci della Capitale, innalzandosi
verso l’alto.
Lui, per risposta, pedalò più
in fretta, andando ad infilarsi fra due palazzi e facendo cadere a una povera
donna una cesta contenenti quelle che sembravano lenzuola fresche di bucato “Mi
scusi!” urlò, facendo ridere ancor di più la giovane che stava portando, “Manchi
di fede, Nina!”
“Non la chiamerei mancanza di
fede, quanto più spirito di autoconservazione!”
“Detto da una legionaria
suona ironico!”
Il viale si aprì nuovamente
su una delle strade principali, contornata di alti alberi dalla corolla piena,
mentre tutto attorno a loro la città ancora faticava a svegliarsi. Quelle vie, solitamente
caotiche e piene di persone, sembravano quasi piacevoli nel letargico abbraccio
della mattinata. Nina non sapeva come Fritz facesse a vivere nella Capitale, ma
forse la risposta risiedeva nel fatto che, fra quelle strade curate e quelle
vite piene di apparenze e fronzoli, lui c’era nato. Al contrario di lei che
veniva da un Distretto, sapeva molto bene come rapportarsi alla magnificenza
che con tanta brutalità gli veniva schiaffata in viso. Anzi, non lo sapeva
affatto ed era quello il suo biglietto vincente.
La totale non curanza nei
costumi. L’aveva preso in simpatia da subito perché era pazzo quanto lei.
Arrivati a destinazione, Nina
scese con un saltello, sistemandosi la gonna del vestito e andando anche a
stringere un laccio del bustino che s’era allentato durante la corsa matta e
disperata “Anche oggi sono arrivata viva. Inizio a credere che quelli del Culto
delle Mura ci abbiamo mancati, mentre ci tiravano le loro maledizioni, l’altro
giorno.”
Fritz sbuffò, mentre le
passava la tracolla di cuoio chiara. Si appoggiò poi con le braccia al
manubrio, sorridendole sornione “Tanto rumore per nulla.”
“Sei passato in mezzo a una
processione!”
“Avevamo fretta, ho rischiato
di arrivare in ritardo all’esercitazione di chirurgia! Prendere un’altra strada
era assolutamente fuori discussione, mi pareva ne avessimo già parlato!”
sebbene la difesa fosse un po’ debole, la ragazza parve desistere. Si sfilò il
cappello dalla visiera larga, premendolo sul capo dell’amico, prima di
prendergli il viso fra le mani “Sei sicura che non vuoi che ti porti di fronte
all’ingresso? È un bel pezzo di strada da qui.”
Lei scosse la testa, facendo
salire una delle mani per spostargli i riccioli castani dalla fronte e poterlo
guardare attentamente “Mi piace camminare per il parco, soprattutto se la prima
lezione ce l’ho fra un’ora e mezzo. Sei tu quello che ha premura di arrivare
alle esercitazioni e la sede delle Opere Pie è parecchio distante ancora.” Si chinò
piano su di lui, spiando qualcosa all’attaccatura dei capelli “Sta cicatrizzando
bene…” soppesò infine fra sé e sé.
Fritz arrossì, andando ad
appoggiare una mano su quella di Nina, ancora ferma sulla sua guancia “Ho solo
preso una piccola botta, non è niente.”
“Hai tirato una testata così
forte da alzare il tavolo di una spanna. Pensavo ti fosse venuta una
commozione.” Nina scosse il capo intenerita, prima di baciargli la fronte,
facendo infine due passi indietro “Avanti, vai! Farai tardi!”
Lui si riscosse, annuendo
vago “Sì, giusto. L’intervento. Giusto.” Schiarita la voce e ripresa coscienza di
sé, il giovane alzò un dito, puntualizzando, mentre Nina iniziava già a
imboccare il viale “Ci vediamo a cena! Ricorda che stasera cucina Jara, quindi non far tardi.”
“Ci sarò! Corri!”
La guardò allontanarsi,
osservandole i capelli riflettere la luce del sole e la gonna che lasciava
scoperte le caviglie chiare ondeggiare ad ogni passo, prima di trovare la forza
necessaria per riprendere in mano il manubrio. Lei si voltò un’ultima volta per
salutarlo con un sorriso e Fritz si convinse che quella poteva essere la volta
buona per chiedere la sua mano. Non s’erano visti per niente durante l’anno
precedente e non poteva rischiare di far passare ancora così tanto tempo prima
di prendere una decisione definitiva e buttarsi. Se ne avesse avuto l’occasione,
si sarebbe proposto il giorno successivo, non un giorno casuale. Il giorno del
compleanno della ragazza.
Nina, dal canto suo, vedeva
in modo molto diverso la loro situazione. Aveva solo dieci anni quando, per la
prima volta, era stata portata in Capitale da Erwin per diventare un’apprendista
medico ed era stata presentata alla famiglia Meier. Il figlio minore, Friederich, era diventato fin da subito il suo confidente e
compagno di studi. Il ragazzo, al tempo dodicenne, era praticamente nato con i
ferri in mano e si era rivelato un amico fedele. Lei era stata la prima a
rivolgersi a lui a chiamarlo Fritz, era stato il primo supporto che aveva avuto
dentro e fuori le mura domestiche, che non fosse un libro o un saggio. Per ben
tre anni aveva vissuto con loro, tornando raramente a Stohess,
fino al momento in cui si era arruolata. Colpito dalle belle parole e da un’eredità
personale, anche Fritz aveva deciso di iniziare l’addestramento con l’obiettivo
di entrare nella Legione Ricognitiva, ma solo al termine dei suoi studi, un
anno dopo Nina, poco prima del suo sedicesimo compleanno. Non era però un
ragazzo fortunato, non lo era mai stato, infatti lo avevano spedito a nord,
presso la sede di Renin della ricognitiva, non a sud
con l’amica.
Il motivo era uno solo: la
penuria di dottori nell’armata. In quanto medico, aveva avuto un tipo di
addestramento totalmente diverso, da ufficiale. Nonostante ciò, avevano
condiviso non poche punizioni a causa del temperamento ben poco rispettoso
delle regole sia suo che di Nina, oltre che del gruppo di amici che gli si era
creato attorno.
Erano sempre stati molto
uniti, sotto alcuni aspetti come fratello e sorella, sotto molti altri in modo
totalmente diverso. Per Nina, Fritz era stato il primo bacio, la prima volta
che si era ubriacata così tanto da dimenticare il suo nome e dove si trovasse,
la prima notte passata a fare l’amore fino al mattino, tra risatine imbarazzate
e sospiri lascivi. Per Fritz, Nina era stata l’unica.
Per lei, lui era stato
importante, ma non fondamentale. Per lui, lei rimaneva tutto ciò che voleva
davvero.
Sarebbe stata una moglie perfetta,
brillante, bella e terribile come un’alba ammirata oltre le Mura, dolce e con
un futuro spianato di fronte ai piedi, oltre che con un nome non da poco, nell’ambiente
militare. Suo padre Franza
l’adorava, sua sorella non aveva occhi che per lei quando dimorava da loro a
causa degli studi universitari, persino il gatto riottoso e grasso che Jara si era portata a casa qualche anno prima e che credeva
che il volto di Fritz fosse perfetto per affilare le unghie, appena vedeva la
giovane dottoressa di Stohess faceva le fusa.
Sarebbe stata la donna
perfetta, se solo lei l’avesse amato.
L’edificio era stranamente
vuoto quando Nina vi entrò. Andò diretta al bancone, sorridendo gentile a un
uomo sulla quarantina, calvo e dall’aria già annoiata, nonostante il turno
fosse appena iniziato.
“Come posso aiutarla,
signorina?”
“Dovrei far recapitare una
lettera al Capitano Erwin Smith della Legione Ricognitiva” snocciolò Nina,
avendo una certa famigliarità col sistema postale dopo tanti anni lontani da
casa. Metà della sua vita l’aveva vissuta altrove, era diventata insolitamente
brava a racchiudere la sua intera esistenza all’interno di fogli di carta
macchiati di inchiostro nero, “Di istanza al quartier generale di Irsee, distretto di Trost. Una raccomandata,
per favore.”
Nina passò la lettera all’uomo,
che stava compilando la ricevuta. Quando si voltò per domandare se ci fosse un
messo che era diretto per quelle zone, lei strinse fra le mani una seconda
lettera, che però non prese fuori dalla sacca. Passò lo sguardo sul nome di
Levi, impresso con l’inchiostro sullacarta bianca, ma alla fine desistette e decise che non l’avrebbe spedita
insieme a quella per il fratello.
“Mittente?”
“Sergente Nina Müller” fu la risposta della bionda, mentre preparava le
quattro monete d’argento che la commissione richiedeva. Se non l’avesse fatto,
con un ottima probabilità, la lettera sarebbe arrivata in due settimane o tre, se
non si fosse persa per strada. L’uomo ci stava mettendo un po’ tutta la sua
vita, scrivendo con una calligrafia tremenda la ricevuta di pagamento, così
lento da permettere a Nina di guardarsi un po’ attorno per ammazzare l’attesa. La
stanza era piccola, claustrofobica per essere un ufficio pubblico e piena di
manifesti dei più svariati temi; qualche locandina del teatro locale, richieste
di prestazioni professionali, qualcosa dell’università. Erano soli, lei e quel
buffo ometto, ad eccezione di un terzo individuo, seduto su una sedia a qualche
metro di distanza. Nina non l’aveva notato all’inizio, ma se ne stava lì, a
leggere un giornale in silenzio. I loro occhi si incontrarono quando si accorse
che la stava guardando, ma non ci fu nessuno scambio verbale. Non ci trovò
niente di strano, in quel posto. Solo, iniziava ad annoiarsi esolo dopo almeno un altro quarto d’ora, finalmente, riuscì ad
andarsene da lì.
Riprese a percorrere il
viale, che andava via via a popolarsi di persone,
lavoratori nelle loro botteghe e studenti diretti verso l’università. Lei aveva
ancora almeno un’ora prima di iniziare le lezioni, così si prese il suo tempo
per godersi un po’ il clima leggero che solo a quell’ora poteva avvertire. Attraversò
la via, prendendo a percorrere il sentiero che si accostava il SiegerPark. Quando di fronte a lei iniziò a stagliarsi alta
e fiera la figura della palazzina principale dell’università di Heinrich, Nina cercò con lo sguardo la prima panchina
libera fra il verde e vi si sedette. La gonna scampanata le permise di
incrociare le gambe, sulle quali andò ad appoggiare il blocco da disegno. Aprì il
libro di anatomia, iniziando a leggere un paio di nozioni sulla fisionomia
della mano, l’argomento della lezione giornaliera, prima di afferrare il
carboncino con la sinistra e portare di fronte al viso la destra. Iniziò a
tratteggiare i contorni, dall’estensore comune delle dita alla base del polso,
fino all’adduttore del pollice. I rintocchi dell’orologio della sede centrale
della Gendarmeria, alle sue spalle, segnalò che erano quasi le nove, ma lei non
alzò gli occhi dal suo lavoro. Non lo fece nemmeno quando avvertì qualcuno
sedersi accanto a lei. Proseguì, tracciando linee sottili e veloci,
ripassandole decisa se soddisfatta, prima di ripassare la muscolatura.
“Chiedo scusa, signorina?”
Una voce leggera,
rassicurante, la costrinse ad abbandonare la concentrazione. Alla sua destra
aveva preso posto un bel ragazzo, con i capelli di un biondo ramato, tenuti in
una coda di cavallo ordinata, e con un paio di singolari occhi scuri. Le stava
sorridendo educato e quando lei ricambiò quello sguardo, lui si grattò
impacciato la nuca “Domando scusa se ho interrotto il suo lavoro, ma ecco…. Volevo congratularmi con lei. È per caso un artista?”
Nina alzò le sopracciglia, un
po’ sorpresa da quell’approccio, prima di replicare con un leggero divertimento
nella voce “Da bambina ero un animo artistico, ora scientifico: studio
medicina.”
Lui abbassò gli occhi sul
libro aperto, frapposto fra loro due, arrossendo vistosamente “Mi scusi, non
sono un grande osservatore, a quanto pare.”
Nina appoggiò il carboncino
nell’astuccio di stoffa verde sbiadito, soffiando sul disegno per far sparire
le tracce in eccesso “Tu invece?” chiese, abbandonando le formalità e indicando
con il mento il libro che il giovane stringeva fra le mani “Sei anche tu uno
studente?”
“Sì, di legge.”
“Ah, un giurista” rispose questa,
mentre lui le mostrava il tomo di diritto penale. “Devo quindi prestare
attenzione a quello che dirò?” rilanciò divertita e civettuola. Non lo faceva
nemmeno a posta, era una nota caratteriale quell’essere sempre un po’ troppo
accattivante nel modo di porsi.
“Direi di no, signorina, se
non avete niente da nascondere” anche lui sembrò rilassarsi un po’ “Una
laureanda in scienze mediche, quindi. Oltre che bella, anche intelligente.”
A Nina sfuggì una mezza risata
“Diretto. Comunque no, sto facendo un corso di formazione per l’abilitazione da
ufficiale medico.”
Lui parve particolarmente
affascinato da quell’affermazione “Gendarmeria?”
“Legione.”
“Quindi oltre che bella e
intelligente, anche coraggiosa?”
Nina ripose il blocco da
disegno, constatando dall’orologio da taschino di suo padre che iniziava a
farsi tardi “Pensavo che avresti detto sprovveduta. C’è chi ci considera dei
pazzi suicidi.”
“L’ignoranza popolare non
conosce limiti. Il vostro è un grande sacrificio.” La guardò alzarsi, prima di
farlo a sua volta, di nuovo imbarazzato “Non volevo infastidirla. Se è a causa
mia che state andando via, vi chiedo di perdonarmi.”
“A dire il vero è a causa dei
corsi” la bionda allungò la mano, “Il sono Nina, comunque. Basta con questo
voi.”
Lui accettò quella stretta “Va
bene, allora, Nina della Legione. Io sono Hans.”
“Il piacere è mio Hans. Se il
destino lo vorrà, ci rincontreremo allora.”
Lui si scostò per farla
passare “Me lo auguro. Buona giornata.”
A tutto ciò, Nina c’era
abituata. Sapeva di essere una ragazza di bell’aspetto, tenuta in costante
allenamento dalle spiegazioni tattiche e dalle spedizioni. Sapeva anche di
essere incredibilmente sfortunata in amore.
Attirava sempre persone a cui
lei non era interessata ed era costretta a stare in contatto con coloro che
bramava senza venire ricambiata.
“Allora, lui com’è?”
Nina smise di passare la
stuoia sul piatto, immergendolo per sciacquarlo, prima di voltarsi di poco
verso Jara per guardarla. Sul viso dell’altra ragazza
c’era un sorriso alquanto inquietante, il sorriso di una persona che sa più di
quanto dovrebbe e che vuole solo confermare una teoria “Non ho idea di cosa a
tu ti stia riferendo.”
“Non prendermi in giro, hai
la stessa espressione che avevi quando volevi avere un appuntamento con Leopoldo
Schitz. La stessa che ha mio fratello tutto il giorno,
tutti i giorni, quando tu sei qui.”
Con le spalle al muro e la
certezza matematica che Jara non le avrebbe permesso
di lasciare la cucina senza prima aver detto tutto ciò che voleva sentirsi
dire, Nina decise di vuotare il sacco. Prese un bel respiro, sentendosi già
giudicata dall’altra, mentre appoggiava il piatto ora pulito sulla rastrelliera
del bancone, prendendone un altro con una certa decisione. Almeno così avrebbe
potuto evitare di guardarla “Lui è-”
“Allora c’è davvero un lui!”
“Si ma non gridare!” Nina si
scostò, sporgendo all’indietro il busto per lanciare uno sguardo al soggiorno
tappezzato di librerie traboccanti di libri. Fritz e il signor Meier non
sembravano essere al corrente del dramma che si stava per consumare in quella
cucina. Meglio così, Nina non voleva che l’amico potesse starci male, se l’avesse
sentita. Non poteva scappare per sempre, certo, prima o poi avrebbero dovuto
parlarne, ma….
Non c’era nulla su cui
rimuginare, perché nulla era ciò che
era successo.
“Allora? Parla.”
“Lui è un uomo.”
Jara sbuffò, muovendo rapida il capo per scostare i
riccioli simili a quelli del fratello, prima di passare lo sguardo sul volto
dell’altra, per setacciarlo a dovere e cogliere ogni emozione “Grazie alle
Sante Mura non è un cavallo.”
“Nel senso che è adulto,
cretina.”
“Parli come se tu fossi un’infante.
Guarda che lo so cosa avete fatto tu e mio fratello nella mansarda.” Fece una
pausa, la figlia maggior del dottor Meier, prima di passare una mano sulla
fronte leggermente sudata a causa della calura estiva. Nina non sembrava
toccata o imbarazzata da quello scambio di parole, aveva la massima fiducia in Jara e non c’erano segreti fra loro. Guardò l’amica appoggiarsi
al bancone, mentre lei era intenta ad asciugarsi le mani nel grembiule color
sabbia. Quando Jara ripartì all’attacco, Nina era
pronta a rispondere a qualsiasi domanda “Da dove esce questo? Quanti anni ha di
preciso?”
“Sono entrambi due quesiti
molto interessanti.” La bionda si sfilò il grembiule, appoggiandolo ordinatamente
sulla sedia, mentre l’altra la imitava
nei movimenti e si faceva più vicina. C’era aria di cospirazione in quella
cucina “Non sono né il cognome, né l’età precisa -anche se suppongo attorno
alla trentina-, né nient’altro, se non che
viene dal ghetto.”
“Un criminale del ghetto? Andiamo
bene. Credevo ti piacessero i soldati, non i rifiuti sotterranei.”
“Il bello è questo: è un
legionario. Adesso.”
Jara appoggiò le mani sui fianchi larghi, “Non sono certa
di aver compreso, allora. Tu sei uno membro del corpo medico e non hai tutti i
suoi dati?”
Per risposta, Nina rise
forzatamente, sottolineando così in modo eloquente quel che pensava. Sembrava una
barzelletta da porto, eppure non lo era “Esattamente. Cogli il mio dramma, ora?”
Sul volto di Jara si dipinse un’espressione consapevole “…Erwin?”
“Erwin.”
Le due si scambiarono un’occhiata
complice, mentre la padrona di casa prendeva da una vetrinetta in vetro del
liquore di more e quattro bicchieri. “Almeno il nome lo sai?”
Nina sorrise, stupendo l’altra
perché per la prima volta da quando la conosceva le parve nascondere un leggero
imbatazzo, rubandole un paio di bicchieri per salvarli
da un equilibrio precario “Levi” fu la sola che pigolò.
“Levi? Che nome altisonante,
per un criminale” un ultimo sguardo segnò la fine del discorso, o la sua
posticipazione al momento in cui si sarebbero ritirate a dormire nella stanza che
dividevano quando Nina rimaneva a dormire lì, in favore di un po’ di compagnia
rispetto alla camera degli ospiti situata, per l’appunto, nella mansarda. Quando
arrivarono in salotto, i due uomini di casa sedevano sulle poltrone di pelle,
entrambi con un libro in mano e l’espressione spensierata che solo la pancia
piena di fa avere “Un digestivo veloce per i lor
signori” li prese in giro Jara, mentre Nina passava
il bicchiere a Fritz e si sedeva sul tappeto di pelliccia, tirando le gambe al
petto. Jara rimboccò i bicchieri prima di sedersi con
lei, guardando poi il fratello “Allora Lotto, quando riprendi servizio?”
Fritz sbuffò, infastidito dal
soprannome. Da bambino era grasso e tutti, in quella casa, lo chiamavano barilotto. Persino suo padre. Ora che
era cresciuto e s’era slanciato,doveva convivere ancora con quello stigma “Ho
un mese intero di licenza per seguire i corsi.”
“Ma pensa che caso; ora che
Nina è qui anche tu chiedi di poter fare gli aggiornamenti.”
Fritz non rispose all’illazione,
mentre sia la bionda che Franz Meier ridacchiavano sotto ai baffi. Fu proprio
quest’ultimo ad alzare il bicchiere, guardandoli tutti e tre “A cento di questi
giorni, insieme, in questa casa.”
“A cento di questi giorni!”
dissero in coro i tre giovani, prima di sorseggiare il liquore, con Fritz
desideroso di iniziare un intricato discorso circa la natura del Morbo degli
Amanti, o Malattia del Bacio, e il modo in cui infettava i tessuti. Carne marcia dopo un pasto, tipico dei tagliaossa, avrebbe detto Ed se fosse stato lì con
loro. Nina però si sentiva bene con loro. A casa. Alle volte, si sentiva quasi
più a casa lì con loro che sotto allo stesso tetto di sua madre. Andava tutto
bene, sarebbe anche potuto migliore se forse avesse spedito quella lettera.
…. Forse no. Si sarebbe
crogiolata nella speranza di una risposta che non le sarebbe mai arrivata.
“Domani è il tuo compleanno”
a riscuoterla dai pensieri fu Fritz, che andò ad appoggiarle una mano sul capo,
iniziando poi a giocherellare con una ciocca ondulata “Hai deciso cosa vuoi che
ti regali?”
“Andiamo già a cena con gli
altri” si lamentò lei, osservandolo mentre arrotolava la ciocca attorno al dito
“Non desidero niente, se non l’avervi con me, davvero.”
Jara sbuffò “Tanto qualcosa lo abbiamo già comprato.”
“Mi ospitate e vi prendete
cura di me per mesi interi! Questo dovrebbe essere il vero regalo!”
“Smettila di lamentarti, quel
che è fatto è fatto.”
Vincere uno scontro verbale
con Jara era impossibile, che fosse esso di natura
accademica o meno. Nina alzò una mano in segno di resa “Un giorno vi ripagherò
delle premure, è una promessa.”
Ci avrebbe quanto meno
provato, ma ripagare quelle persone di tutto ciò che avevano fatto per lei, le
pareva impossibile. Tutto i soldi del mondo non potevano comprare certi
sentimenti e certi ricordi.
“Rielke!”
La voce di Nina era riuscita
a rimbombare per tutta l’osteria, sovrastando il chiacchierio alticcio degli
avventori di quella serata, per lo più gendarmi in libera uscita. Non si
aspettava di vedere suo cugino così presto, né tanto meno di avere la fortuna
di cenare insieme a lui proprio in quell’occasione.
“Buon compleanno Nina!”
trillò questi, sollevandola da terra e girando su se stesso, mentre ricambiava
con egual intensità quell’abbraccio.
Rielke le era mancato ogni singolo giorno. A dividerli erano
giusto una manciata di mesi, per il resto avevano la medesima età ed erano
cresciuti insieme fino al giorno in cui lei era stata costretta a spostarsi per
studiare. A primo acchito, i due si sarebbero potuti dire gemelli: avevano
lineamenti molto simili, le stesse lentiggini e lo stesso colore di capelli. Era
però l’eterocromia dei Müller ad accumunarli per la
maggiore, infatti gli occhi brillavano della stessa curiosa diversità, seppur
quelli di Rielke fossero leggermente più tendenti al
verde. Le similitudini non si fermavano però all’aspetto fisico. Avevano anche
lo stesso energico temperamento e l’atteggiamento affabile.
Nina lo adorava e lui adorava
lei. Era forse il membro della sua famiglia di cui sentiva di più la mancanza,
oltre che suo padre e sua sorella Mielke.
“Ho chiesto una licenza per
poter essere qui a tirarti le orecchie!” le disse il giovane ragazzo, portando
la mano sul lobo dell’orecchio di Nina e iniziando a tirare piano “Diciotto
volte! Qualcuno qui sta diventando grande!”
“Prima o poi ci arriverai
anche tu, scemo!” Nina gli abbraccio i fianchi, appoggiando poi il capo alla
sua spalla, visto che il cugino la sovrastava di almeno quindici centimetri,
seppur la sua magrezza lo facesse sembrare allampanato.
“Ci sarei anche io, se per
caso la festeggiata si decidesse a salutarmi.”
Nina l’aveva notato, ma
dopotutto era quasi impossibile non far caso a Leopold Schitz.
Il pel di carota aveva un qualcosa di particolare che lo rendeva appariscente,
e non erano solo i capelli di un insolito rosso acceso o gli occhi di un verde
così particolare da sembrare gialli come quelli di un felino; era il suo carisma.
Il suo ego riempiva tranquillamente tutta l’osteria. Non era però di sgradevole
compagnia, anzi, sapeva farsi voler bene; non era solo bello e dotato di un
fascino tale da oscurare qualsiasi altro essere di genere maschile con la sua
sola influenza, era anche abbastanza intelligente da schivarsi la Legione.
“Stasera paghi tu, vero? Guadagni
il doppio di quanto guadagniamo noi, dopotutto.” Lo prese in giro Nina, mentre
lo abbracciava e costatava che non il suo profumo non era più così buono e che
gli occhi non erano poi così straordinari. Per la prima volta in quasi sei
anni, non si senti attratta da lui. Il che le sembrò strano, dopo tanto tempo a
guardarlo di sottecchi insieme a Kayla per non farsi
notare e non rovinare quindi quell’equilibrio che s’era formato fra loro.
“Per te posso anche pagare,
ma a questi mentecatti non offrirò niente” rilanciò Leo, portando un braccio
attorno alle sue spalle e guardando falsamente pensieroso sia Rielke che Fritz “Si son fatti addirittura più brutti, non
lo credevo possibile.”
“Io invece non credevo che tu
saresti riuscito a diventare ancora più stronzo, bada bene” rilanciò divertito Rielke, battendogli la mano sul petto, prima di fingere di
sistemargli il colletto della camicia nera “Allora, vediamo di cenare, che a
pranzo ho dovuto sorbirmi la frittata di tua madre e ancora devo digerirla!”
“La cucina della signora Schitz riesce addirittura peggiorare?” si informò all’improvviso
Fritz, fingendosi allibito. Il diretto interessato non aveva la forza di
ribattere, la cucina di sua madre era leggenda e non in positivo. Si sedettero tutti assieme ad un tavolo e
subito Leo ordinò un giro di birre e della carne. Si sarebbero trattati bene,
dopotutto valeva la pena di festeggiare. “Allora, come stanno i giganti?” si
informò proprio questi, appoggiando un braccio sullo schienale della sedia per
poter guardare Nina in viso.
Lei scosse il capo, divertita
da come l’amico aveva formulato la domanda e dal tono che aveva utilizzato “Purtroppo
stanno meglio di tutti noi messi insieme. Non hanno grandi preoccupazioni, la
fuori.”
“Nella prossima vita rinasco
gigante” rilanciò Rielke con disarmante leggerezza.
“Che cosa orribile da dire”
lo riprese immediatamente Fritz, storcendo il naso con disappunto “Con tutti i
morti che s’accumulano, fa di queste battute? Incivile.”
“Pensaci: non puoi parlare
quindi non dici cazzate, devi solo vagare per l’esterno a grattarti il culo dal
mattino alla sera. Non hai nemmeno il cazzo, così hai una scusa valida e non
patetica per il fatto che non fai sesso dall’ultimo anno di accademia.”
Nina e Leo esplosero a
ridere, mentre Fritz sbuffava, incrociando le braccia sul petto, sulla
difensiva “Tu che ne sai?”
“Sesto senso” rilanciò subito
Rielke, con un sorrisetto smaliziato sulle labbra,
mentre si batteva il dito sul lato nel naso per sottolineare che lui, per
questo tipo di cose, aveva intuito. Si lanciò sulla birra non appena l’oste li
servì, tirando un bel sorso “Che peccato non esser tutti qui, però. Degli altri
si sa qualcosa? Non sono potuti venire?”
“La Legione si prepara a una
missione oltre le mura per la fine del mese” lo mise al corrente la cugina,
mentre a sua volta alzava il boccale e lo accompagnava alle labbra. L’ultima
volta che avevano avuto la fortuna di trovarsi tutti insieme era stato il
giorno in cui avevano scelto la compagnia a cui unirsi, ed era stata una serata
dal sapore dolce amaro dato che, in ultimo, Leo aveva deciso di non entrare
nella Legione con tutti loro, ma di prendere il posto che gli spettava di
diritto nella Gendarmeria, visto che era arrivato primo fra i dieci più
meritevoli. Il discorso di Erwin doveva averlo spiazzato, così come il modo
freddo con cui aveva enumerato le ingenti perdite, quasi matematicamente, come
se quelle vite avessero avuto ben poco spessore. In fin dei conti l’aveva
convinto che quello non era il suo posto. Per questo aveva voltato le spalle al
Capitano Smith e aveva lasciato quel luogo, lasciandosi dietro Nina, Eld, Eddart, Kayla
e Nicholas. L’aveva fatto perché era un codardo, non l’avrebbe forse mai ammesso,
ma non era pronto a morire e diventare solo un ‘venti per cento’ sul un foglio di carta abbandonato in uno
schedario.
“Almeno noi ci proviamo a
fare qualcosa di produttivo.” Fritz riportò l’attenzione su di sé, mentre un
tagliere di profumata carne al sangue veniva appoggiato fra loro. Tutti si
sporsero in avanti per annusarne il prelibato odore, eccetto Leopold, che agli
agi c’era ben abituato.“Non come i
gendarmi e gli stazionari.”
“Ehi!” si difese Rielke mentre andava ad afferrare una forchetta, puntandola
minaccioso coltro al dottore, in un chiaro monito “Io faccio turni di nove ore!”
“A guardare un muro? Sai che
roba” rilanciò Nina, decisa a prenderlo in giro e a dare onore e lustro alla
sua compagnia, “Noi facciamo turni di sei giorni, quando siamo all’esterno. Una
volta siamo rimasti isolati quasi un mese, alla Rocca di Boltz.
Eppure ci senti mai lamentarci?”
“I morti si lamentano ben
poco, cugina.”
“Vogliamo parlare di chi
passa la sua vita a importunare i pedoni” proseguì Meier, dando una leggera
gomitata al migliore amico, che sbuffò “Dimmi Leo, quante carrozze si sono
scontrate questa settimana? Perché è la sola cosa di cui la polizia militare si
occupa, a quanto so.”
“Spero continui così” fu la
candida ammissione del rosso, che però si prese il tempo di masticare per bene
la carne prima di proseguire a parlare “Vogliono mandare sei di noi nel ghetto
sotterraneo, come supporto a coloro che già sono di ronda là sotto” spiegò loro,
attirando su di sé l’attenzione di Nina, che s’era distratta per via a cercare
di difendersi da Rielke che voleva tirarle i capelli “Lì
c’è anche troppo lavoro, spero che ci spediscano un’oca che fa parte del mio
turno di ronda. La odio così tanto..”
“Stai ammettendo quindi che
sei fiero di non fare niente per guadagnarti la paga?” si informò Fritz, mentre
l’altro ridacchiava sottecchi e annuiva convinto “Che pezzente. Io, ora che
sono di istanza a Renin, invece-”
“Sei mai stato nel ghetto
sotterraneo, Leo?”
La domanda di Nina arrivò
come una fucilata nella notte. Tutti e tre spostarono lo sguardo un po’ stupito
su di lei.
Il rosso scrollò con non
curanza le spalle “Ovviamente. La gavetta delle reclute inizia con qualche breve
gitarella nel ghetto. Serve a farci fare un po’ le
ossa e a tenerci occupati. Molti entrano nella Gendarmeria per servire il re e
diventare eroi, ma quando riemergono da quella fogna, sono ben felici di
starsene tranquilli al lato di una strada a controllare che, per l’appunto, le
carrozze non si scontrino, né che i signorotti abbiano di che lamentarsi.” Snocciolò
quelle informazioni senza darci troppo peso, preferendo continuare a mangiare,
ma gli occhi della ragazza sembravano particolarmente attenti “Come mai ti
interessa tanto?”
Nina sorrise “Che c’è? Non posso
domandare di qualcosa che non conosco?”
“Assolutamente” rispose
affabile Leo, sporgendosi appena verso di lei “Ma tu non fai mai niente per niente;
hai desiderio di andare nel ghetto?”
“Ma che dici?” lo riprese
Fritz, mentre Rielke preferiva alle chiacchiere il
masticare veloce “Chi mai vorrebbe scendere la sotto? L’aria deve essere
putrida e sono sicuro che molte delle malattie più diffuse, come la Malattia
del Respiro, possa propagarsi più velocemente in un luogo come-”
“Se volessi scendere nel
ghetto, come dovrei fare?” di nuovo, Nina lo interruppe, rivolgendosi
prettamente al rosso. Fritz iniziò ad agitarsi sulla sedia, ma capitava sovente
che non approvasse le sue idee, quindi Nina non ci diede molto peso, assetata
come era di informazioni.
Schitz incollò gli occhi ai suoi, prima di schioccare la
lingua contro al palato “Niente. Devi andare a una delle scale e scendere. Il pedaggio
funziona solo per coloro che vogliono salire. Non per chi scende. Se hai un
permesso di soggiorno per la superficie o la cittadinanza quassù non hai
vincoli. Dopotutto, sono rare le persone che scelgono di loro iniziativa di
andare nel ghetto. È un luogo pieno di pericoli, ci vengono mandati tutti i
criminali o i relitti sociali. Chi sceglie l’esilio lì è solo perché qui
verrebbe giustiziato. Come mai vuoi scendere?”
La bionda fece orecchie da
mercante, infilzando un pezzo di carne “Sono un medico, potrebbe essere
interessante andare la sotto. Studiare da vicino la Malattia del Bacio, la
Malattia del Respiro…. Scommetto che il Morbo degli
Indigenti la sotto prolifera.”
“Questo cos’è?” chiese Rielke.
Leo mugolò rumoroso “Stiamo mangiando,
per la Sacre Mura!”
Troppo tardi, Fritz e Nina
erano già partiti in quarta “Un male molto sviluppato fra i poveri” aveva di
fatto iniziato a spiegare la ragazza, gesticolando sotto al suo naso con la
mano libera “Si diffonde velocemente, la carne marcisce e si inizia col perdere
le estremità come naso e orecchie, proseguendo poi agli arti.”
“Peggio della Malattia della
Sete” proseguì per lei Fritz, annuendo velocemente.
“Ora m’è tornato alla mente
quando hai bevuto il piscio” sbottò disgustato il gendarme, allontanando da sé il
boccale.
Rielke strabuzzò gli occhi “Che strani gusti sessuali hai,
Fritz?”
“Non per quello, coglione te
e idiota quell’altro qua!” si difese strenuamente il medico, scoraggiato dal
fatto che Nina preferiva ridersela piuttosto che soccorrerlo “l’urina diventa
dolce e quindi è facile diagnosticarla. Siete ignoranti.”
“Legionari e pure medici, il
peggio del peggio” trovato il coraggio di prendere un nuovo sorso di birra, Leo
lasciò cadere così il discorso, sperando di concentrarsi su altro. Prima, però,
aveva qualcosa da aggiungere “Non andare là sotto da sola, Nina. Se vuoi fare
la brava dottoressa dei poveri, verrò con te. Magari con un paio di amici belli
grossi.”
“Credo di conoscere già la
persona che potrebbe accompagnarmi” fece presente lei, attirando su di se tre
paia di occhi curiosi. Fritz stava giusto per domandare, ma lo scatto che Leo
fece lo spaventò.
“Comandante, buonasera!”
aveva di fatto detto il rosso, scattando in piedi e facendo il saluto militare,
seguito pochi istanti dopo dai tre compagni di bevuta.
Nina si era alza rapidamente,
appoggiando la mano destra sul cuore, mentre la sinistra andava dietro alla schiena,
non appena riconosciuta la figura che avanzava verso il loro tavolo. Una donna,che pareva perfettamente a suo agio avvolta
in un bel abito di pregiata fattura e una mantella, scura come la notte senza
stelle. Gli occhi, di un taglio prezioso, affilato e obbliquo,
ma grandi ed espressivi, rilucevano dello stesso colore degli zaffiri, in netto
contrasto con i capelli neri come il carbone, tenuti legati in una crocchia
elegante, da cui scappava un singolo ciuffo che cadeva elegante a contornarle volto.
Sebbene avesse ormai
raggiunto i cinquant’anni, Nora Kessler rimaneva la donna più bella che Nina
avesse mai visto in tutta la sua vita. Era bella, delicata nei gesti e nel
parlare, sebbene fosse uno dei migliori soldati sulla piazza. Comandante della
corpo di Gendarmeria ormai da quasi vent’anni, sapeva farsi amare dei suoi
uomini, quanto rispettare. Il fatto che si fosse accostata al loro tavolo, con
quel sorriso leggero e bonario ben impresso sulle labbra piene, fece sorridere
anche Nina.
“Signora, buonasera.”
“Müller,
complimenti per la promozione” disse questa, stupendola. Come poteva già
saperlo? “Riposo, signori, riposo.” Fece segno ai giovanotti di sedersi e
quando tutti ebbero preso posto, lei fece segno ai due ufficiali con cui era
entrata di andare a prendere posto. Lei si accomodò di fronte a Nina.
“Quale onore, averla al
nostro tavolo, Comandante” Leopold fece segno all’oste, che afferrò una bottiglia
di bourbon invecchiato, quello che la donna soleva bere e versandone un
bicchiere, lo allungò al rosso. Questi lo porse a Nora, che inclinò il capo in
segno di ringraziamento.
“Cerca di tenerti in piedi, Schitz. Domani mattina sei di turno, no?” Uno dei molti
motivi per cui era così tanto brava a farsi voler bene, era la sua
straordinaria memoria. Raramente dimenticava un volto e le piaceva conoscere
personalmente i suoi uomini, per quanto ne avesse la possibilità. Leopold faceva
parte del terzo reggimento della polizia militare, quindi avevano spesso l’occasione
di incontrarsi. “Vediamo chi abbiamo qui invece.” Gli occhi zaffirini
saettarono su Rielke, che si mise istintivamente
diritto con la schiena “Tu sei sicuramente un altro Müller.
Riconoscerei i vostri occhi ovunque.”
“RielkeMüller della Guarnigione di Stohess,
Signora. Per servirla.”
“E tu sei il figlio del
dottor Meier. Friederich, giusto?”
Fritz avvampò, rosso in viso “Sì,
sono io, Comandante.”
“Come mai questo ritrovo?” si
informò quindi curiosa, posando di nuovo gli occhi su Nina “Tutti in licenza
nella Capitale? Immagino tu debba ottenere le abilitazioni.”
“Esatto, Comandante Kessler.”
“Stiamo festeggiando il
compleanno del neo Sergente” confidò Leopold, come se potesse prendersi un po’
più confidenza degli altri, seppur tenendo le dovute distanze che il grado gli
imponeva.
La donna guardò di nuovo
verso Nina “Che tu possa passare altri cento di questi giorni” fu il commento
sincero, mentre alzava il bicchiere alla sua salute “Tuo fratello maggiore? Come
sta?”
Nina se lo aspettava, stava
contando i minuti. Quella era la domanda che Nora avrebbe voluto porle dal
primo istante, Nina poteva leggerglielo in viso. S’erano incontrate in un
totale di dieci volte nel corso della vita della giovane ragazza e ogni singola
volta, lei era venuta per vedere Erwin o, viceversa, era stato lui a recarsi da
lei.
“Ho due fratelli maggiori,
Signora” disse Nina, tirando leggermente la corda più per conferma che per
provocazione, mentre continuava a rivolgersi a lei rispettosa “Il gendarme o il
legionario?”
Nora sbuffò divertita,
muovendo una mano davanti a sé come per scacciare una mosca, mentre con un
sorso deciso svuotava il bicchiere. Come poteva una donna bere così tanto, ma
con cotanta grazia, lo sapeva solo lei “Il gendarme è uno dei miei capitani. Friedelhm lo vedo ogni due settimane quando da Stohess viene a portarmi i rapporti su quello che succede. E
non succede mai nulla” fece una pausa, facendo ridacchiare piano l’intero
tavolo, girando il poco rimasto dentro al bicchiere sul fondo con dei movimenti
lenti del polso “Parlo del leggendario legionario, ovviamente.”
“Erwin sta bene, Comandante. Sta
addestrando una nuova squadra.”
Nora fece un piccolo sorriso,
guardando la superficie del tavolo, prima di alzarsi in piedi “Portagli i miei
saluti e digli di farsi vivo da questa parti, ogni tanto. Shadis
anche potrebbe venire in Capitale, ma so che è impegnato a studiare strategie. Dovrei
invitarli entrambi a cena.” Quando si
alzò dalla sedia, anche gli altri quattro giovani fecero lo stesso, mettendosi
sull’attenti “Tutta questa formalità” commentò divertita, scuotendo piano il
capo “Sedete e divertitevi, che non si sa cosa porterà la prossima alba. Oscar!”
chiamò l’oste, che subito si voltò a guardarla “Qualsiasi cosa questo tavolo
consumi, sarò io a pagare. Inizia col portare una bottiglia di quel vecchio
vino invecchiato che tanto piace al Comandante Pixis.”
“Comandante, non dovete” Nina
non poteva accettarlo. Nonostante l’occhiataccia lanciatole da Rielke, provò a declinare “Nonè necessario, davvero. Siete troppo generosa.”
“Un personale regalo di
compleanno e promozione” le passò accanto, appoggiandole una mano sulla spalla
dopo averle spostato i capelli dietro alla schiena “Diventi sempre più bella,
Nina. Ricordo ancora la prima volta che t’ho vista, avrai avuto al massimo
dieci anni.” Prese nuovamente le distanze, inclinando il capo in un cenno di
saluto, prima di ricordarle “Mi raccomando, salutami Erwin.”
Un ultimo sorriso e poi andò
via, sparendo fra i clienti. Nina rimase in piedi a guardarla per qualche
istante, sino a che non fu del tutto fuori dal suo sguardo. Quando ritornò a
sedersi, sul loro tavolo c’erano quattro calici di cristallo dall’aspetto
costoso e una bottiglia di vino che nemmeno nei loro sogni si sarebbero mai
potuti permettere.
“Un brindisi alla salute del
Comandante è d’obbligo” decretò, mentre Rielke
versava, non sentendosi per niente in colpa.
“Secondo te ancora scopano,
quei due?” domandò con tono basso Leopold, avvicinando il capo a quello dell’amica.
Non c’era nemmeno bisogno di
chiedere di chi stesse parlando.
Nina lo guardò allusiva “Se
no perché lo avrebbe nominato per almeno tre volte?” domandò quindi retorica,
prendendo il suo bicchiere e odorando piano il vino. Sembrava assolutamente
delizioso “Erwin però sa tenere i suoi segreti e il Comandante Kessler ancora
meglio.”
Era infondo anche il motivo
per cui la donna s’era presa così tanta confidenza con lei. L’aveva letteralmente
vista crescere fra le strade della Capitale, ogni qualvolta Erwin andava a
trovarla.
“Che invidia” fu il solo
commento di Rielke, mentre lanciava un rapido sguardo
dietro alle sue spalle, come se temesse di venir origliato. “Una donna così
bella a quell’età…. Che bastardo fortunato, Erwin.” Il
volto degli altri due ragazzi si illuminò, come se per loro fosse impossibile
dar torto dall’amico.
Nina scosse il capo,
rassegnata, ma allo stesso tempo divertita “Uomini.”
Il vino era finito in fretta,
così come la seconda bottiglia, molto più economica, ordinata.
Nina sopportava in modo
dignitoso l’alcool, ma al quarto bicchiere, contata anche la prima birra, aveva
iniziato a vacillare. Nell’inferno di uva e luppolo, aveva trovato comunque la
forza di tenersi su, continuando a ridacchiare ai discorsi sempre più senza
senso degli amici, prima di passare ai ricordi dell’accademia, agli scherzi tra
le camerate e a ogni risata o lacrima che avevano condiviso.
“Basta, non posso farcela”
asciugandosi il lato dell’occhio, Nina s’era alzata in piedi “Mi duole il
fianco tanto sto ridendo e il vino non mi aiuta. Ho bisogno di una boccata d’aria
per riprendermi. Leo, hai una sigaretta?”
Fritz, che non pareva
aspettare altro, scattò in piedi come una molla, mentre ancora il rosso cercava
il pacchetto nella tasca del cappotto estivo “Ti accompagno” si propose,
guardandola con aspettativa.
Lei annuì, grata “Meglio, ci
sorreggeremo a vicenda.”
“Non fate bambini per strada o dovrò arrestarvi” li prese in giro
Leopold, mentre allungava una sigaretta e il pacchetto di fiammiferi alla
ragazza, facendo ridere Rielke “Noi vi aspettiamo qui
e quasi quasi ordiniamo un'altra birra. Che dici, stazionario?”
“Perché no? Voi ragazzi?”
“Io passo, non voglio
vomitare come ha fatto Nick quella volta a Rüttherberg”
disse Fritz, facendo ridere gli amici.
“Come lui, non voglio
diventare io la nuova barzelletta del gruppo!”
Nina fece strada, prendendo
Fritz per il polso e sfilando in mezzo a tutte quelle persone. Nonostante fosse
estate, l’aria fresca della sera la risanò, facendola già sentire meglio. Si aggrappò
al braccio dell’amico, mentre attraversavano la strada, andando a sedersi su
una panchina, all’ombra di un cipresso. Alle loro spalle, il lato nord del Siegerparksi
innalzava inquietante “Non ci sono stelle, questa notte” realizzò la bionda
alzando il naso verso l’alto, mentre Fritz accendeva la sigaretta, sprecando un
paio di fiammiferi
“Non vedevo un cielo così
buio dall’ultima uscita” confermò lui, appoggiandosi con la schiena contro al
legno della panchina, mentre buttava fuori il fumo dalle narici “Peccato che mi
abbiano mandato di istanza nel settentrione. Se ci fossi stata tu, avresti
illuminato la mia veglia.”
“Che adulatore” fu la
risposta di Nina, che non tardò di un secondo ad arrivare. Gli sfilò la
sigaretta dalle dita, portandola alle labbra “Secondo te un giorno scopriremo
che queste cose sono nocive?”
“Butti del miasma nei
polmoni, non credo servano degli esperimenti empirici per capire che bene non
può fare.” Per risposta, la ragazza gli soffiò il fumo in viso “Sei dispettosa!”
Fritz portò le braccia
attorno a lei, facendola ridere “Aggressione, aiuto!” cercò di difendersi lei,
mentre la sigaretta le sfuggiva dalle dita in un tentativo di difendersi “Fritz,
dai!”
I loro sguardi si
incontrarono a metà strada, mentre i loro respiri si fondevano e il giovane
medico non attendeva un istante di più per far collidere le loro labbra in un
bacio, che Nina ricambiò con la stessa dolcezza che l’altro ci mise.
C’era qualcosa di sbagliato in
quel momento, e lei lo colse da subito.
Concesse però alla sua
coscienza di goderne per un poco, mentre con la mano scostava i capelli di
Fritz, scivolando fra le ciocche ricce fino alla nuca. La manodell’altro, invece, andò a posizionarsi sul
suo fianco, mentre il bacio si intensificava.
Fu proprio nel momento in cui
lui le chiese di approfondire il contatto, che lei abbassò fin troppo brusca il
viso, mordendosi il labbro inferiore.
C’era qualcosa di sbagliato, perché
lei stava pensando ad un altro.
Era ora di mettere le carte
in tavola, perché Fritz valeva troppo perché lei potesse immaginare labbra
sottili e occhi di ghiaccio mentre lui la baciava.
“C’è una cosa che devo dirti.”
Non era stata lei a parlare. Stupita,
alzò il viso di nuovo, specchiandosi in quegli occhi nocciola, caldi e
famigliari. “Anche io, Fritz. Inizia tu.”
Lui si scostò, abbassando una
delle due braccia per prenderle la mano. “Nina, ci ho pensato tanto e non posso
più continuare così. Vederci così poco è una tortura, per me.” iniziò,
cautamente “Per questo io-”
La bionda, che già stava
pensando a come poter contrattaccare a quella confessione che avevano rimandato
per anni nel modo più dolce possibile, si ritrovò a chiedersi perché l’altro si
fosse fermato. E perché aveva preso a palparsi il petto in un paio di punti.
“Che succede?”
“Ho lasciato dentro la giacca”
Nemmeno il tempo di poter
dire qualcosa, che era schizzato in piedi, barcollando e inciampando nei suoi
stessi passi, mantenendo però un equilibrio precario. Lei si sentì sempre più
confusa e fece per alzarsi a sua volta.
“Torno subito!” la fermò però
lui, appoggiandole la mano sulla spalla e iniziando a camminare verso l’osteria
“Aspettami qui, ok? Ci metterò un attimo.”
Nina lo guardò allontanarsi,
sperando che arrivasse vivo alla porta. Una volta sparito nell’osteria, lei
affondò il viso nelle mani, lasciando che i capelli lunghi scivolassero in
avanti a coprirla.
Era tropo su di giri a causa
del vino per articolare un discorso coerente, ma temeva quello che Fritz
avrebbe potuto aggiungere. Jara glielo aveva detto
tante volte, che avrebbe dovuto essere spietata dall’inizio. Che avrebbe dovuto
dirgli che anche se s’erano baciati tante volte e avevano fatto l’amore, quell’attrazione
non era abbastanza.
Che lei non lo amava.
La paura di ferirlo era stata
troppa però e lei non se l’era sentita di spezzargli il cuore. Aveva sperato
che gli sarebbe passata, ma evidentemente non ciò era ancora avvenuto.
“Che faccio, ora?” sussurrò a
se stessa, grattandosi gli occhi mentre ricercava inutilmente di riprendere
lucidità.
Dei passi alle sue spalle la
fecero sussultare e immediatamente scattò in piedi, rischiando di perdere l’equilibrio.
“Nina?” Una voce calma e
conosciuta, un volto che sapeva di aver già visto. Nina lo osservò per qualche
istante, poco lucida, prima di capire chi fosse quel giovane.
“Hans?”
“Non posso crederci, stai per
chiederle la mano.”
Rielke teneva entrambe le mani sul volto, con le dita aperte
per permettere ad un solo occhio di spiare Fritz, che stava aspettando che Leo
gli rendesse l’anello che aveva estratto dalla tasca della giacca con un certo
orgoglio.
“Era l’anello di fidanzamento
di tua madre?” domandò infatti il rosso, mentre l’altro annuiva “Spero per te
che non ti dica di no, oppure probabilmente dovremo riportarti a casa in
lacrime come una ragazzina.”
Fritz, a quelle parole,
sbiancò appena “Spero di evitarvi una tale scena” si gonfiò il petto con un
ultimo respiro profondo “Auguratemi buona fortuna.”
“Vai, stallone.”
Rielke alzò un pugno nella sua direzione, per incoraggiarlo
e quando Fritz ripartì deciso, scivolò sulla panca fino ad arrivare vicino a
Leo “Finirà male. Andiamo a spiarli?”
Il rosso lo guardò come se
fosse un autentico idiota “Ovviamente”
Fuori faceva più freddo di
quanto si aspettassero, tanto che lo stazionario si strinse meglio la mantella
nera attorno al collo. Cercarono con gli occhi gli amici, ma trovarono solo
Fritz che se ne stava da solo, fermo dall’altra parte della strada, grattandosi
la nuca.
“Se Nina è scappata, riderò
fino a star male” commentò non senza una piccola dose di cattiveria Leo. Entrambi,
sia lui che il cugino della ragazza, sapevano molto bene che non c’erano
possibilità che quella proposta andasse in porto, ma non se la sentivano di dirlo
a Meier.
Meritava la sua sana dose di
delusione amorosa.
“Cosa fai, scemo?” domandò Rielke al dottore, battendogli la mano sulla schiena,
mentre anche l’altro si affiancava.
“Nina e io eravamo su quella
panchina, ma lei non c’è. Che sia entrata nel parco?” domandò un po’
preoccupato Fritz, guardando verso Rielke, il quale sbuffò
divertito. Leo, invece, lanciò uno sguardo alla panchina, tornando subito però
a fissarla e muovendo qualche passo verso di essa.
“Forse è tornata a casa tua. L’ho
vista bella provata.”
“Può darsi, ma le avevo
domandato di attendermi qui!”
“Ragazzi?” entrambi si
voltarono verso Leopold, che dava loro le spalle. Attesero che dicesse qualcosa
e quando si voltò a guardarli, sembrava bianco in viso. Sembrava pensieroso e
quando velocemente li superò, non diede loro alcuna spiegazione per quel repentino cambiamento di atteggiamento.
“Devi vomitare?” chiese Rielke, prima di notare che teneva qualcosa fra le mani. I due
amici lo seguirono sotto alla grande lanterna ad olio posta sulla via come
lampione, guardandolo mentre leggeva velocemente qualcosa. “Leo?”
La risposta ci mise un po’ ad
arrivare, sembrava che Leopold stesse rileggendo più e più volte. Alla fine si
riscosse nel modo più strano “D-dobbiamo rientrare
subito e andare dal Comandante Kessler” mormorò balbettante, prima di alzare
gli occhi su di loro. Erano spiritati.
“Mi dici cosa è successo?”
chiese Fritz e, per risposta, gli venne piazzata in mano la busta e la lettera
che il rosso aveva trovato sulla panchina. Non aggiunse altro, Schitz, attraversano la strada di corsa e ficcandosi dentro
all’osteria.
“Che diamine sta succedendo?!”
iniziò ad agitarsi anche Rielke, mentre le mani di
Fritz prendevano a tremare, strette attorno alla carta bianca.
“Non può essere…”
sussurrò, prima di passargli i fogli ormai stropicciati, voltandosi verso il
parco “Nina! Nina!”
A quel punto, il biondo aveva
compreso cosa stava succedendo. Non ebbe il coraggio di leggere quel messaggio,
mentre iniziava a crearsi un certo caos di gendarmi attorno a loro.
“Coprite il perimetro esterno
e interno, cercate ovunque” stava impartendo ordini Nora, mentre Leo prendeva
la lettera e gliela passava, parlando concitato per raccontarle cosa era
avvenuto. Fritz urlava alle sue spalle, chiamando Nina sempre più forte e
quello era il solo suono che Rielke sentiva.
Fra le sue mani era rimasta
solo la busta che conteneva la lettera.
Su di essa, una calligrafia
ordinata riportava un solo destinatario.
All’attenzione del Capitano della Legione Esplorativa Erwin
Smith.
Continua…
Nda.
Questo capitolo unicamente
flashback – che posticipa cosa c’è nella maledetta cantina, ma ormai io e Isayama siamo diventati amici in questo – doveva concludersi.
Però non ho proprietà di sintesi e quindi niente, per sapere cosa cavolo sta
succedendo dovrete aspettare il prossimo capitolo. Chiedo scusa in anticipo.
Davvero, la proprietà di
sintesi questa conosciuta.
Questo capitolo è
particolare, perché introduce tutti i personaggi nuovi che andranno a servirmi
più avanti. E a servire a una mia amica che sta a sua volta scrivendo una
storia, visto che Fritz è mio solo in parte.
Per il resto è il suo
protagonista.
E io ho scritto di lui per
prima.
…. Tranquilli, è normale per
noi. Lo facciamo sempre.
A parte il caro dottor Meier abbiamo
la sua famiglia, Rielke che sarà importantissimo, il
carismatico Leo e questo strano Hans.
Nina non ha visto Frozen, evidentemente. Se no non si sarebbe fidata.
Manna che non l’ho chiamata
Anna.
(e fa rima)
Oltre a loro c’è anche il
Comandante Nora Kessler, nella mia ottica il precedente comandante della
Gendarmeria prima di quel poraccio di Nile. Che non
preoccupatevi, arriverà anche lui prima o poi. Non posso mettere un po’ di
scambi su quanto era figa Marie.
Levi solo citato.
Nel prossimo farà la sua
porca figura non temete.
Ho paura di farlo OOC ma
quando non lo metto mi manca.
Passando oltre per non infastidirvi
– evito i comizi medici su tutti i vari morbi, Nina ce ne parlerà andando
avanti - ringrazio le sei anime buone
che hanno inserito questa storia fra le seguite.
Cento volte grazie.
E mille volte per le
meravigliose fanciulle che mi commentano sempre, anche se sono impegnate.
Grazie Auriga, grazie Shinge.
Siete preziose come il foulard
del Capitano Levi.
Ci sentiamo presto con un
capitolo che tornerà ad essere un ordinario presente-passato.
Bitte, sag'
mir Bitte, sag' mir, wasistmitmirgeschehen? DieneueSeit' anmir - Ichmich in ihrverlier' Ichbinzerbrochen, binzerbrochen in diesertristenWelt Dochlächelstdumichan, istallderSchmerzvergangen https://www.youtube.com/watch?v=78g-OsJIhyA
Anno 846
All’esterno del Wall Rose.
Uno dei lati positivi del
trovarsi a sud delle mura, sperduta nei territori di Maria,tra le rovine di un villaggio lasciato a
marcire nel dimenticatoio così come le anime che lì vi erano perite, era senza
dubbio il grande lavoro scientifico che poteva uscirne fuori.
Tanto per iniziare, i giganti,
a qualche ora dal tramonto, si mettevano a ‘dormire’.
Nina osservava il classe dieci metri appoggiato con la schiena alla parete
della casa di fronte alla quale si era accampata, a meno di venti passi da lei,
senza provare il solito strisciante terrore nelle viscere. La prima volta che
le era successo di trovarsi così vicina a un gigante, senza essere impegnata a
combatterlo, era stata la terza notte e aveva rischiato un attacco di cuore, ma
la sua inefficienza era stata testata dall’alto di un tetto, tirandogli addosso
delle tegole. Molte tegole.
Nessuna reazione, se non
qualche debole lamento, come un bambino confuso in dormiveglia.
Stupefacente e interessante,
perché a quanto ne sapeva Nina, nessuno aveva mai condotto un’indagine di quel
tipo. Chi era rimasto oltre le mura abbastanza da raccontarlo, in ogni caso?
Nessuno dotato di senno l’avrebbe fatto, ma lei iniziava a perdere qualche
venerdì, immersa come era in quella solitudine. Almeno questa la motivazione
che si era data.
Con in mano un secchio pieno
dell’acqua che aveva tirato su dal pozzo, la giovane fece un altro paio di
passi verso il gigante, arrivando a colpirlo sulla gamba con la punta del
piede, sempre in allerta, pronta a mollare il secchio e schizzare velocemente
via.
Di nuovo, nessuna reazione.
Stavolta nemmeno un lamento, non sembrava averlo nemmeno sentito.
Al fine di portare avanti queste
dimostrazioni empiriche, Nina non usciva mai senza il modulo per lo spostamento
tridimensionale. Avventata? Sì. Forse un po’ sprovveduta? Sicuramente.
Ma non era diventata né
matta, né tanto meno scema.
Sospirò, rendendosi conto che
se non fosse per le ginocchia che tremavano, iniziava a farci il callo.
Dopotutto, quello era il suo sesto giorno lì, ma dopo l’aver visto tanti amici
morti mangiati, rimanere del tutto impassibile era impossibile.
Tra gli approvvigionamenti,
le impressioni personali scritte con precisione chirurgica su quel quaderno e
quella sorta di vaghi esperimenti notturni giusto per sondare un po’ il terreno,
il tempo era quasi volato.
Quasi.
C’erano dei momenti di una
noia tale da farle venire voglia di partire a piedi solo perché non ce la faceva
più. Le mancava casa,voleva solo
rivedere tutti quei volti famigliari e dormire in un letto vero, certa che non
avrebbe avuto risvegli bruschi. Magari non da sola. Magari con qualcuno a cui
sentiva ogni giorno di più di dover chiedere scusa.
Pensieri e rimpianti a parte,
Nina aveva trovato qualcosa di molto
interessante nel quale spendere un po’ di tempo.
Nel basamento della casa del
guardiacaccia era stato celato un tesoro.
Da chi non ne aveva idea, ma iniziava
a capire il perché.
Rientrata nel rifugio, Nina
s’era chiusa in cucina, lanciando uno sguardo verso il tavolo dove qualche
pezzo di quel tesoro era stato
portato per essere studiato. Passò una mano sulla copertina verde smeraldo del
primo di una lunga pila di libri, decidendo di farsi un teh.
Chi lo avrebbe mai detto che
una caduta rovinosa a causa di un pavimento marcio avrebbe riportato alla luce
così tanto?
Una biblioteca di come non ne
aveva mai viste, senza possibilità di entrarvi perché non vi erano porte o
scale che potessero condurre lì. Centinaia, forse migliaia di libri abbandonati
al tempo su numerosi scaffali. Nina non aveva creduto ai suoi occhi in un primo
momento, mentre con la candela passava di libreria in libreria, osservando i
dorsi dei volumi rovinati dall’umidità. Non tutti erano in buono stato, diversi
scaffali avevano sofferto troppo il lungo periodo senza luce né aria, mentre
altri sembravano aver avuto più fortuna.
Mentre sceglieva due foglie
di the – doveva essere parsimoniosa- si chiese se il guardiacaccia sapesse di
cosa la sua casa nascondesse nel ventre. Di tutte le caratteristiche
straordinarie che quella scoperta aveva, una le saltò agli occhi prima ancora
di uscire dalla cantina. Il punto non
era che ci fossero dei libri, ma che ci fossero quei libri. Il mistero che nascondevano rischiava di rimanere tale
però, visto che non erano scritti in nessuna lingua che Nina conosceva. Sapeva
che nel settentrione, nelle zone di Briemer e Jiina, era stato adottato un alfabeto un po’ diverso dal
loro, quello tradizionale e parlato nella Capitale. Non aveva mai avuto la possibilità
di imparare a leggerlo – i membri della Legione lì stanziati parlavano e
scrivevano nella lingua comune le loro missive e i rapporti- ma avrebbe saputo riconoscerlo, se visto. No,
quello era molto, molto diverso. Le lettere erano continue, eleganti e
sconosciute. Senza contare che di libro in libro, se pur si mantenesse lo
stesso alfabeto, sembrava cambiare la lingua. Erano solo congetture le sue, ma
c’era un libro di botanica, che aveva scelto giusto per le immagini, che
sembrava essere scritto in modo diverso da un altro, un’enciclopedia medica
piena di sezioni anatomiche.
Non era la sola cosa strana.
Il modo in cui erano stati
stampati era strano. Nina poteva sentire le pagine lucide sotto ai polpastrelli,
in un modo che lei non aveva mai avvertito prima, invece di essere ruvide come
tutti i libri che aveva conosciuto nella sua vita, usciti dalla pressa di un
copista. I caratteri erano piccoli, precisi, come se la mano che li aveva
tracciati fosse così allenata da fare ogni singola lettera identica.
Sorseggiando il suo teh, Nina arrivò alla conclusione più assurda: chiunque
avesse scritto quei libri, non apparteneva al mondo che lei conosceva. Doveva
quindi esserci qualcosa al di fuori delle Mura, oltre ogni sua immaginazione. C’erano altre città da qualche parte? Esistevano
altri insediamenti di esseri umani in lotta contro i giganti? E se così era, perché
non potevano venire in contatto con loro? Alla base della scienza vi è lo
scambio di nozioni; chissà quanto avrebbero potuto imparare da un popolo che
era anche solo in grado di fare delle stampe di quella qualità. Nina era però
consapevole di avere fra le mani qualcosa di nuovo, ma anche di potenzialmente mortale.
Era severamente vietato detenere o anche solo leggere dei libri riguardanti il
mondo oltre le Mura, figurarsi poi dei volumi che venivano direttamente dall’esterno.
Qualsiasi cosa avesse scoperto, avrebbe dovuto selezionare molto attentamente
coloro a cui parlarne. Sapeva delle storie, di uomini e donne che avevano
provato a visitare il mondo esterno o che anche solo avevano cercato di
scoprire i segreti delle mura. Erano tutti spariti, in un modo o nell’altro,
sicuramente per mano di qualche corpo specializzato della Gendarmeria. Persino loro
dovevano sempre fare rapporto di ogni scoperta ad un organo specializzato, ogni
qualvolta tornavano da una missione ed era anche capitato di vedersi negare i
permessi per indagare più a fondo eventi peculiari.
Le leggi che la Corona aveva
imposto tutelavano la stessa, non l’Umanità.
“Questa è della malva” disse
Nina, passando il dito sulla parola scritta sotto all’immagine di una foglia a lei
fin troppo conosciuta “Mentre in questa sezione anatomica, è indicata la
mandibola. ‘Ma’ e ‘ma’ sono però scritte in modo diverso,
senza dubbio sono due lingue diverse, sempre che si chiami con lo stesso nome
sia la pianta che la parte del volto in questione.”
Bel problema.
“Pazienza, avrò il tempo in
un momento in cui sarò meno stanca per lavorarci. Quello, qui, non manca mai.”
Appoggiando la tazza ora
vuota, Nina stirò le braccia verso l’alto, portandole poi dietro al capo.
Doveva andare in bagno, altra necessità sconveniente, visto che doveva uscire
per ottemperare ai bisogno fisiologici. E farlo di giorno, con l’attrezzatura
per lo spostamento tridimensionale addosso era quasi impossibile. Le iniziava a
mancare la latrina del campo reclute, e ciò diceva tutto sulla situazione.
Decidendo di essere davvero
avventurosa, la ragazza non prese il modulo per lo spostamento e si liberò
anche di tutte le cinghie, lasciandole cadere sul materasso. Sarebbe entrata e
uscita nel giro di massimo due minuti, così da non contravvenire al codice di
regole base che si era data da sola, il cui punto numero uno era proprio tenere sempre le armi a portata di mano.
Se quel mese le fosse venuto il sangue mentre era ancora la fuori, allora si
che sarebbe stato parecchio sconveniente e poco, poco divertente. Uscì dalla casa, girandole attorno verso le
latrine esterne e, una volta liberatasi, tornò a guardare verso il cielo. Era
una bella nottata di luna crescente. Di nuovo, venne meno alle sue stesse
regole e si avvicinò a una staccionata, salendovi sopra per sedersi e tenendo
lo sguardo puntato verso la vastità del cielo, ma non prima di aver controllato
che la finestra più vicina non solo fosse aperta, ma anche facilmente
raggiungibile. Il silenzio era ispirante, tranquillizzante, tanto da farla
cadere nel vortice dei ricordi di altre, belle notti in cui aveva potuto godere
di un po’ di compagnia.
Con Fritz, oppure con Levi,
come l’ultima notte dell’anno. Sorrise, sistemandosi meglio col sedere,
ripensando a quella serata, mentre avvertiva un senso di calore e conforto nel
petto. Con la mano sistemò la mantella verde, chiedendosi cosa stesse facendo
lui in quel momento. Di sicuro, non stava dormendo. Levi dormiva troppo poco e
lei non smetteva di ripeterglielo e ingozzarlo di radici di valeriana.
“Chissà se stai guardando lo
stesso cielo e stai parlando da solo come me. Improbabile, ma non si sa mai.”
Anche con Erwin passava
parecchio tempo in silenzio, a fissare il cielo notturno, fuori dalla sede del
quartier generale della Legione, nelle belle notti estive come quella. Oppure
seduti sul tetto di casa, a Stohess, insieme a Rielke e a Mieke o da soli, persi in discorsi impegnati sulle missioni
o su eventi particolarmente divertenti successi in giornata, quasi sempre al
cugino.
Un ricordo in particolare
arrivò a solleticarle la mente, facendole stringere il cuore.
Nina era appena tornata dal
villaggio natale del Tenente Renson, dopo aver
consegnato alla moglie un vaso anonimo color crema con dentro una manciata di
ceneri e la fascetta col giglio rosso, macchiata di sangue. Aveva chiesto lei
di andare a dare la notizia alla donna, ma l’averla vista sgretolarsi davanti
ai suoi occhi, insieme ai figli di dieci e quindici anni, le aveva spezzato il
cuore. Erwin l’aveva trovata seduta su un tronco caduto, con un mano quella
fascetta macchiata che la donna non aveva voluto e gli occhi arrossati dalle
lacrime trattenute.
Allora s’era seduto con lei,
ironizzando sul fatto che Levi aveva spostato tutte le sue cose in un
dormitorio vuoto, ma solo dopo averlo ripulito da cima a fondo. Alla fine,
aveva portato un braccio attorno alle sue spalle e l’aveva stretta a sé,
permettendole di disperarsi un po’. Perché lui sapeva come era Nina, aveva
bisogno di essere invitata a sfogarsi e a piangere, aveva bisogno di qualcuno
accanto, a tenerle la mano e a dirle che andava tutto bene, che sarebbe tornato
normale fino alla prossima morte, al prossimo addio. Le aveva permesso di
liberarsi e poi le aveva dato un fazzoletto per asciugarsi il volto.
Ciò che aveva detto dopo,
Nina non l’avrebbe mai dimenticato.
“La tradizione vuole che i
soldati che muoiono oltre le Mura diventino stelle” aveva iniziato con quel suo
tono che aveva un che autoritario anche mentre suonava rassicurante, facendole
alzare gli occhi sulla volta celeste con un cenno. “Il loro ardore non smetterà
mai di risplendere e illuminare il cammino di coloro che verranno dopo. Per
ogni vita che si spezza, si accende una luce.”
Lei sapeva che era un
contentino, una storia per bambini, ma per
il cielo, la forza che le aveva dato quel discorso l’aveva rinvigorita.
Erwin, che era abituato a trascinarsi avanti, sempre avanti, in mezzo a un lago
di sangue e corpi, sembrava crederci sinceramente. Una tradizione della
Legione, della loro gente, di quelle persone che conoscevano il dilaniante dolore della perdita come lo
conosceva lei. Nina non aveva mai capito cosa significasse davvero appartenere
a qualcosa, prima di tornare dalla sua prima missione e scorgere sul v0olto dei
compagni lo stessa amarezza che provava lei. Ma anche la stessa, forte
determinazione nel voler davvero credere che, quelle luci, non si sarebbero mai
spente o avrebbero smesso di vegliare.
Il Culto delle Mura predicava
la via per i Cieli Aperti, oltre le barriere imposte per proteggere il corpo
fisico, dove le anime pure di coloro che periscono si riuniscono ai loro
antenati e vivono un’eternità priva di sofferenza e affanni, né fame né paura
li avrebbero mai più tormentati.Ai
Cieli Aperti e ai Campi del Fuoco, dove sempre secondo il Culto andavano
cadendo coloro che peccavano contro le Sacre Mura e il volere dell’Unico, Nina
preferiva credere alle stelle.
Perché le stelle le poteva
vedere e ciò che più la confortava era che loro potevano vedere lei.
Prima ancora che potesse
realizzarlo, le sue guance erano bagnate e i suoi occhi leggermente offuscati.
“Nick, Ed e Kay, se anche voi
siete lassù ora, vegliate su di me” sussurrò, portando la mano al petto quasi
involontariamente.
Nonostante non ci fosse
nessuno con lei, si lasciò andare, finalmente.Quella era la prima volta che si fermava a piangere i suoi amici. Piangerli
davvero, non come la prima giornata lì, quando era troppo stanca e le lacrime
che aveva versato erano confuse dal ricordo della dormiveglia e dalla fame.
Ora che su di lei brillava un
tappeto di stelle lucenti, poteva pensare a loro.
Pensò a quale grave perdita
fosse per lei e per il genere umano, la caduta di guerrieri così determinati e
sicuri. Mai si sarebbe aspettata di arrivare tutti insieme a quel punto,
sopravvivere per tre anni di missioni all’esterno, quando la maggior parte
delle reclute non vedeva una nuova alba di libertà.
Si diceva che nessuno era
davvero un legionario prima di essere tornato vivo dalla prima missione. Loro,
di queste ne avevano affrontate diverse e sempre tornando più o meno incolumi.
Nicholas era un piccolo genio, una mente brillante della sezione
ingegneristica. Poteva riparare un modulo per lo spostamento in quattro e
quattr’otto. Aveva anche aiutato nella realizzazione di un potenziamento al
sistema di erogazione del gas che aveva evitato lo spreco del prezioso
materiale in uscita. Ed, invece, era una macchina da guerra. Fra loro, era
probabilmente il più bravo ad abbattere i giganti, anche se ci aveva messo un
po’ a sbloccarsi, una volta riuscito a superare la paura di venire mangiato che
attanaglia ogni singola recluta fino a immobilizzarla, aveva dato un enorme
contributo alla causa. KaylaJutah
invece, seppur non spiccasse né in forza né in intelligenza, era un supporto
morale fondamentale. Niente sembrava abbatterla o frenarla.
La loro perdita era incolmabile,
soprattutto dopo aver saputo di ciò che era accaduto Fritz, un anno prima.
Non aveva potuto dire addio a
nessuno di loro e questo, per lei, era ciò che di peggio poteva avvenire.
C’erano cose non dette, altre
che forse non sapeva nemmeno lei che c’erano, ma avrebbe tanto desiderato poter
tirar fuori.
Non sarebbe più successo.
Chissà chi aveva portato la
notizia delle loro morti alle loro famiglie. Avrebbe dovuto farlo lei.
Chissà se Leo e Rielke sapevano già tutto. Sicuramente, conoscendo i ritmi
con cui venivano rilasciate certe notizie, tutti sapevano della distruzione
totale della squadra di Sankov.
Non totale.
Lei era ancora lì e ci
sarebbe rimasta.
Immediatamente, tornò ad
alzarsi. Puntò un’ultima volta lo sguardo verso le stelle, brillanti e
irraggiungibili, pregandole.
Avrebbe vissuto anche per
loro, glielo doveva dopo tutto ciò che avevano condiviso.
Avrebbe vissuto e li avrebbe
ricordati, fino al giorno in cui si sarebbero ritrovati di nuovo.
DieWelt, so wiesie war, zerfällt in Scherben
Als
dir zuschaden, würd' ichehersterben Erinneredichandas, wasicheinst war
Dasallesscheintreal...
Anno 844
WallSina, Capitale.
Non aveva idea di quanto
tempo fosse passato, né di dove si trovasse.
Dal dolore alle ossa, Nina
suppose che dovevano essere passati almeno un paio di giorni da quando è stata
presa. Da chi era un altro mistero a
cui non ha potuto dare una risposta.
La posizione che era
costretta a mantenere era deleteria, soprattutto per i polsi, legati dietro
alla schiena, e per le ginocchia, su cui era costretta a stare per la maggior
parte del tempo, perché un’anella metallica la teneva ancorata al suolo e, da
seduta, sentiva le spalle dolerle troppo. Tutte le informazioni che aveva erano
state acquisite con i suoi sensi, eccetto la vista e il gusto, perché non solo
non mangiava dalla cena da cui era stata strappata,ma a stento le era stata data qualche goccia di
acqua. A coprirle gli occhi aveva una benda scura che non permetteva alla luce
di filtrare e quindi di distinguere nessuna sagoma.
Non aveva praticamente
ricordi di quello che era successo. Il vino l’aveva stordita prima ancora del
panno imbevuto di etere che le era stato premuto sulla bocca da Hans, quel
ragazzo dall’aria così per bene che l’aveva approcciata non più di un giorno
prima.
Vatti a fidare delle apparenze.
Una cosa però l’aveva
recepita forte e chiara: i suoi carcerieri non erano d’accordo su nulla. Li
aveva sentiti litigare attraverso la porta più di una volta. Dove portarla, se
spostarla, se nutrirla o lasciarla così per evitare che potesse in qualche modo
ribellarsi. Era un soldato, un buon soldato, ma rimaneva prima di tutto un medico che aveva seguito più
aggiornamenti che allenamenti nel corpo a corpo. Non era come Mike o Ed, non
aveva le capacità di stendere tre uomini – sembravano tre dal numero di voci
che era riuscita a distinguere- e scappare.
Non per questo, non ci
avrebbe provato.
Superato il panico iniziale,
insorto nel momento in cui aveva ripreso conoscenza, dolorante e confusa, aveva
fatto un paio di conti facendo ricorso a tutto il suo provvidenziale sangue
freddo. Non aveva assolutamente idea di dove si trovava, questo è vero, ma
poteva cercare di capirlo. La stanza era fredda e umida, forse un seminterrato
privo di finestre che teneva lontana la calura estiva. L’odore umido nell’aria
pareva confermarlo, così come l’eco costante che si udiva. Aveva trovato un
piccolo sasso a terra e l’aveva lanciato. Il suono era rimbombato per un po’
prima di fermarsi, segno che la stanza era anche parecchio grande.
Aveva provato poi a
liberarsi, ma quelle che aveva ai polsi sembravano tristemente delle manette. Non
sarebbe mai riuscita ad aprirle senza una forcina e forse nemmeno con quella
vista la sua scarsa esperienza in escapologia.
In ultimo, non aveva potuto
che tentare un approccio diretto con i suoi rapitori, quando andavano a
controllarla o a portarle da bere quelle due volte che l’avevano fatto, forse
ricordandosi che un essere umano medio, per vivere, ha bisogno di qualche bene
di prima necessità. Domande, richieste, ma niente. Come premio aveva giusto
ricevuto uno schiaffo che le aveva spaccato il labbro, ma nemmeno un sussurro.
A quel punto, non aveva
potuto fare nient’altro che riporre le sue speranze nell’essere trovata prima
di morire di fame.
La porta si era aperta col
solito cigolio sinistro, ridestandola dal sonno tormentato in cui era caduta a
stento qualche ora prima. Nina aveva scostato il capo dal palo dietro di sé, allungando
il collo per cercare di cogliere qualche nuovo movimento.
Sorprendentemente, sentì
qualcuno parlare. Non con lei, però.
“Dovremmo ucciderla e
liberarci del corpo” gracchiò la prima voce, un po’ troppo alta per appartenere
ad un uomo. Sentì un vuoto allo stomaco, ma non riusciva a dire niente a causa del bavaglio. D’altronde,
cosa dire a una persona che ti vuole fare la pelle?
Una seconda voce, stavolta
profonda e baritonale, si intromise “Bella idea, Liebert”
commentò sarcastico, mentre un terzo uomo entrava nella stanza, camminando
veloce “Così sarà stato tutto inutile. Il rapimento è andato come previsto, perché
non fare ciò che avevamo deciso e basta?”
“Perché questa puttana sa
troppo. A partire dal nome di Hans.”
Fu proprio quest’ultimo a
parlare, Nina riconobbe la sua voce subito “Non la uccideremo. Non ora.” La pausa
ad effetto non piacque molto alla ragazza, ma a quanto pareva, aveva altro
tempo “La sposteremo nel luogo che avevamo previsto, dietro alla tua officina, Bertram. Lì difficilmente verranno a cercarla.”
“La Legione ricognitiva è
arrivata in città e quelli non sono come la Polizia Militare!” proseguì quello
dal tono viscido, mentre nel cuore della ragazza nasceva di nuovo la speranza “Se
ci trovano, ci faranno a pezzi prima ancora di portarci in tribunale, ve lo
dico io.”
“Avevamo stipulato che
dovesse morisse di fronte a Erwin Smith o sbaglio? Se è ciò che va fatto, uno di
noi dovrà per forza metterci la faccia.”
Ora tutto iniziava ad avere
un senso. Si era chiesta spesso perché stava succedendo a lei. Ed ecco la
risposta.
Era lì per una vendetta ai
danni di suo fratello.
Di nuovo, scelse di aspettare
a parlare. Si sarebbe dimostrata il più docile e debilitata possibile, nel caso
in cui avesse avuto la possibilità di usare tutte le sue energie per scappare.
“Lo so, Hans, visto che il
piano è mio. Mi sto solo chiedendo fino a che punto vale la pena vendicare
nostro padre.”
“Se hai intenzione di tirarti
indietro, Liebert, proseguiremo io e Bertram.”
Continuavano a ripetere i
loro nomi senza nessun ritegno, permettendo così a Nina di memorizzarli senza
alcuna fatica. Non dovevano essere delle volpi o forse, più semplicemente, non
erano avvezzi a quel tipo di azioni criminali. Il che era un bene.
Non sarebbe stato difficile ingannarli,
se ne avesse avuto l’occasione.
“Andiamo avanti insieme,
allora. Portala dove ti pare, Hans, ma fallo prima dell’alba.”
Due paia di passi uscirono
dalla stanza e lei rimase con il suo rapitore, da sola. Lo sentì muoversi verso
di lei, liberarla dall’anella metallica, mentre le manette venivano lasciate ai
polsi. La fece alzare e lei si lasciò prendere su di peso, zoppicando poi un po’,
non facendo fatica a simulare il dolore; le ginocchia stavano gridando tanto
facevano male e così la schiena, che le rimandò anche una fitta che per un
attimo le tolse il fiato.
I modi del ragazzo furono
insolitamente gentili, mentre attraversavano una stanza e salivano una rampa di
scale. Quando sentì la bocca libera dal bavaglio non riuscì a trattenersi
oltre.
“Perché lo stai facendo,
Hans?”
La domanda era stata un
azzardo, perché sapeva che la ricompensa poteva anche essere uno schiaffo in
viso, ma tanto valeva rischiare. Era stanca, spaventata e piena di acciacchi. Non
era mai stata molto combattiva sul piano fisico, non sapeva nemmeno se sarebbe
stata in grado di menare le mani abbastanza forte, ma lo doveva fare per forza
in un qualche modo.
Sorprendentemente, ricevette
una risposta, “Quando arriveremo nel luogo in cui siamo diretti, risponderò
alle tue domande.”
Sembrava una promessa
fragile, ma era tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. Nella sua falsa remissività
si limitò ad annuire impercettibilmente, mentre l’aria della notte la investiva
insieme all’odore del fieno da poco mietuto. Non erano nemmeno in città, maledizione.
Avrebbe dovuto cercare un rifugio, una volta tentata la fuga.
La faccenda si faceva di
minuto in minuto più complessa.
Il viaggio in carretto fu breve.
Nina, nascosta sotto a
qualche coperta, aveva quanto meno avuto la possibilità di stendere le gambe e
la schiena. Non provò a urlare o a
dibattersi, né di alzarsi per provare a correre via. Se aveva capito bene, era
notte fonda e non avrebbe avuto nessun aiuto contro una carrozza in corsa e un
rapitore decisamente più in forma di lei.
Hans sembrava volersi porre
in modo gentile nei suoi confronti. Non credeva che un uomo che aveva promesso
di ammazzarla di fronte a suo fratello fosse una persona di buon cuore quindi
decise di non farsi fregare da quelle premure.
Giunti a destinazione, il
giovane la fece entrare in un’altra struttura sconosciuta. L’odore che colpì le
narici di Nina era sgradevole tanto era forte. Sembrava un odore di vernici,
era intenso. Avevano parlato di un’officina, così ipotizzò che forse,in quel
luogo, costruivano o assembravano oggetti. Hans le fece attraversare almeno un
paio di stanze, prima di fermarsi nell’ultima, facendo tintinnare qualcosa che
Nina capì essere una catena, che le venne assicurata alle manette.
“Avevi promesso di rispondere
alle mie domande” ricordò, con la voce che le tremava appena, perché più si
sforzava di essere decisa e sembrare padrona di sé, meno si convinceva che il
piano di fare la povera vittima delle circostanze avrebbe funzionato.
Ci fu un attimo di silenzio
sospeso, mentre la dottoressa respirava piano per poter cogliere ogni singolo
rumore. Sentì nitidamente qualcosa che veniva trascinato per la stanza e capì
che doveva trattarsi di una sedia. Si metteva comodo?
“Ogni promessa è un debito d’onore,
Nina. Risponderò alle tue domande.”
Avevano proprio intenzione di
farla fuori, ormai ogni dubbio si era dissipato, o non avrebbe mai detto niente.
La bionda passò la lingua sulle labbra screpolate, prima di arrivare diretta al
nocciolo della questione “Chi sei? Cosa vuoi da me?”
“Il mio nome è Hans Lobov” rispose immediatamente il giovane, come se si fosse
già preparato alle presentazioni vere e proprie. Una volta svelato il cognome,
Nina capì “Immagino che le spiegazioni, ora, siano superflue. Avresti dovuto
domandarmi il nome completo.”
“Non me l’avresti mai
rivelato, ti saresti inventato qualcosa” non era stupida, nemmeno volendolo
avrebbe potuto impedire il ciclo di eventi scaturiti da una semplice
chiacchierata di nemmeno due minuti al parco “Immagino che coloro che ti stanno aiutando siano i tuoi fratelli,
magari dei parenti stretti.”
Hans schioccò la lingua
contro al palato, mentre la sua voce si faceva improvvisamente fredda. Tutte le
buone maniere e il falso garbo erano solo un modo sicuro per poterla fino a lì
senza ottenere resistenza “Sei più sveglia di quello che sembra. Peccato tu non
lo sia stata del tutto.”
“Non mi biasimerò per aver
risposto a un complimento, anche se il tuo approccio è stato un po’ fiacco. Dimmi,
sei negato nel rapportarti con il gentil sesso o, semplicemente, non intendevi
impegnarti?”
Il giovane rise sottovoce,
strusciando nuovamente la sedia, forse per sporgersi in avanti verso di lei,
seduta sul terreno freddo “Ironia un po’ inopportuna, non pensi?”
“La vera ironia è che state
facendo tutto questo trambusto perché vostro padre è stato sbattuto in galera
per essere un maiale che mangiava più soldi che cibo” proseguì Nina con tono
amabile, come se stesse facendo non pochi complimenti alla famiglia di Hans e
al suo buon nome “Pensi che uccidendomi, otterrai qualcosa, eccetto la forca? Sempre
se ci arrivi al farti impiccare, perché se mio fratello dovesse prenderti
prima, nemmeno un Dio o chi per lui potrebbe salvarti.”
“Sei parecchio fiduciosa che
tuo fratello ti salverà o vendicherà, ma sono passati due giorni da quando sei
sparita nel nulla e lui non è ancora alla mia porta, nonostante gli abbiamo
lasciato una lettera in cui esprimevamo i nostri intenti.”
Due giorni, almeno aveva una
finestra temporale su cui basarsi. Quarantotto ore senza mangiare, non era poi
così grave.
“Vi siete firmati? Non credo,
no. Anche i migliori investigatori necessitano di qualche pista. Sicuro di non
aver trascurato niente?” nel tono della giovane non c’erano provocazioni, non
era affabile o presuntuoso, ma volutamente neutro.
Un odore pungente fendette l’aria,
arrivando direttamente al naso di Nina, che non ci mise molto a riconoscerlo. Stava
fumando, il bastardo “No. L’hai detto tu che bisogna stare attenti a quel che
si dice a un giurista, dopotutto; noi siamo i più bravi a giocare con le parole
e a rigirarele persone.” Lo sentì
alzarsi e girarle attorno, prima di chinarsi proprio di fronte a lei “Sai, per
colpa di tuo fratello, noi abbiamo perso tutto. Le terre, i possedimenti in
Capitale, i titoli, la fiducia delle persone e tutti i nostri soldi fino all’ultima
moneta di bronzo. Io non ho potuto finire l’università, a pochi passi dalla
laurea, mentre Bertram e Lieberth
non possono più andare avanti le loro attività, che sono state pignorate dalla
corona. Tutto ciò che ci è rimasto è questa vecchia officina, di proprietà
della moglie di mio fratello e una baracca diroccata nelle campagne. Erwin
Smith ha buttato nostro padre in galera per corruzione, ma vuoi sapere come ha
ottenuto le prove?” una mano si alzò fino al suo viso, scostandole i capelli
biondi dietro all’orecchio, mentre l’alito del ragazzo, che puzzava di fumo e
vino dozzinale, le fece storcere la bocca in una smorfia “Estorsioni e doppio
gioco. Si è sporcato le mani di sangue, sguinzagliando i suoi uomini e
ottenendo confessioni con metodi tutt’altro che accomodanti. Tuo fratello, Nina
Müller, non è meno colpevole di mio padre.”
Nina non intendeva credere ad
una sola parola. Ai suoi occhi, Erwin era un modello di onestà, un’ispirazione.
Era la persona che lei aveva sempre ambito diventare, non poteva averlo fatto. Non
sarebbe venuto meno alla sua umanità.
“Tu menti.”
“Io mento? No, sei tu che
racconti bugie a te stessa. Tuttavia…” la stessa mano
che le aveva toccato il viso, costringendola a voltare rapida il capo di lato,
ora risaliva la sua gamba, alzandole la gonna bianca che ormai doveva essersi
sporcata non poco, fino alla coscia. Nina sgranò gli occhi sotto alla benda,
mentre il panico le faceva salire la nausea. Era consapevole che non avrebbe
potuto sottrarsi in nessun modo, se non scalciando “Magari hai ragione. Forse il
Capitano Smith è qui nei paraggi e presto irromperà da quella porta per
salvarti e farmi saltare la testa. Dovrei quindi fare qualcosa, non credi? Svergognare
sua sorella potrebbe essere un ottimo inizio, anche se dubito che una come te
possa essere arrivata pura fino ad oggi. Sarebbe stupido, per una persona che
va spontaneamente a morire, non avere dei diletti. Dopo di che, potrei iniziare
a tagliuzzarti il viso. Non sono un medico come te, ma sono sicuro che la mia
inesperienza renderà il tutto più doloroso e interessante.”
“Hans! Vieni qui
immediatamente!”
Quella voce viscida, che
aveva appena richiamato il fratello, suonò come la campana della libertà alle
orecchie di Nina.
“Rimandiamo a dopo, cosa ne
pensi?” Hans le sfiorò il mento con il pollice, prima di alzare nuovamente il
bavaglio che pendeva sul collo della giovane, ficcandoglielo in bocca senza
troppo cerimonie. Lasciò la stanza qualche istante dopo e Nina sospirò così
forte da svuotare i polmoni.
Il tempo per avere paura era
ufficialmente fino. Non si sarebbe fatta più trattare a quel modo.
Avrebbe agito e l’avrebbe
fatto subito, prima del ritorno di Hans.
Era anche abbastanza
arrabbiata per farlo.
Un po’ a fatica riuscì a
rannicchiarsi abbastanza da passare le gambe oltre le manette, portando le mani
davanti al busto. La prima cosa che fece fu di liberarsi di quel bavaglio sudicio,
prima di passare alla benda, strappandola via da davanti agli occhi e
lasciandola cadere a terra. Nonostante fosse notte fonda, un po’ di luce lunare
filtrava dalla finestra sbarrata, permettendole di vedere attorno a sé. La stanza
era sgombra, ad eccezione della catena che riuscì facilmente a sganciare dai
polsi e della sedia su cui Hans si era seduto. Si alzò in piedi, barcollando
per il dolore alle articolazioni, per poi avvicinandosi alla porta e accostarsi
ad essa. Sentiva delle voci concitate dall’altra parte, qualcuno stava
litigando e per lei andava più che bene.
Avrebbero coperto da soli il
rumore della sedia che Nina spacco con un calcio secco sul sedile, dall’alto. Per
sua fortuna, una delle gambe si staccò di netto, così non dovette dare altri
colpi per potersi procurare un’arma di fortuna. Si portò dietro all’uscio, non
provando nemmeno ad aprirlo. Non avrebbe avuto senso, perché certamente era
chiuso e oltre di esso due uomini erano pronti a riceverla. Piuttosto, tenne in
mano quel pezzo di legno, notando che all’estremità più grande c’era anche
qualche chiodo. Bene così.
Un po’ di catarsi se la
meritava, dopo due giorni in ginocchio sul cemento.
Spero sentitamente che le
gambe la reggessero nella fuga, ma per stare più tranquilla prese a flettere le
ginocchia, cercando di scaldare i muscoli intorpiditi. Aveva così tanta
adrenalina in corpo da non sentire quasi più la fatica e la fame.
All’udire dei passi concitati,
si preparò alzando il bastone improvvisato sul capo.
Tra l’ingresso nella stanza
di uno dei suoi carcerieri e il primo colpo passarono solo una manciata di
respiri. Lui non fece in tempo a fare nulla, se non guardare spiazzato la
catena abbandonata e la sedia distrutta, perché appena si voltò di nuovo verso
l’uscito, venne colpito. Nina picchiò più forte che poteva, prima sullo stomaco
e poi sul capo dell’uomo, almeno tre volte, fino a che questi non cadde a terra
con un tonfo.
Quando si avvicinò per
girarlo, notò che purtroppo non era Hans.
Trovare le chiavi per
liberare le mani era una buona idea, ma anche uscire di lì e farsi liberare da
suo fratello o da un fabbro suonava bene. Aveva i minuti contati, forse i
secondi e non aveva intenzione di rimanere lì ancora. Si sarebbe liberata da
sola, era un soldato, doveva ricordare che aveva vissuto situazioni molto
peggiori di quella e non si sarebbe spezzata per così poco.
“Non mi hanno ammazzata i
giganti, non mi ammazzeranno nemmeno tre figli di papà viziati” decretò,
tenendo nelle mani il bastone e uscendo circospetta. Girò lungo un corridoio,
oltrepassando un paio di porte che trovò aperte.
Sembrava non esserci nessuno,
così avanzò, seppur circospetta e schiacciata alle pareti, in quel dedalo di
anticamere e stanzoni dagli alti soffitti. Più che un’officina, sembrava un’industria.
Quando arrivò finalmente nella stanza che puzzava di vernice non perse troppo tempo
ad esaminarla. Notò però che c’erano diversi pannelli di legno dipinti o
lasciati ad asciugare, appesi ad alcune travi con delle funi dall’aria abusata.
Costruivano carrozze, in quel
luogo.
Ottimo, altre informazioni
che avrebbe spiattellato quanto prima alla polizia militare.
Arrivata alla porta
principale in una rapida corsa attraverso la stanza deserta scoprì, con non
poco stupore, che era solo accostata. Spalancò l’uscio e subito venne investita
dal vento notturno.
All’esterno, l’aria era tersa
e il cielo sulla sua testa non le era mai sembrato così grande. Prese un
respiro e si riempì per bene i polmoni saturi di aria viziata, prima di
guardarsi attorno, constatando che non c’era niente attorno a loro se non un
vecchio casolare diroccato.
Doveva correre, nascondersi
nel bosco al lato della via prima che si accorgessero che era fuggita.
Non riuscendo a trattenere un
sorriso brillante sul suo volto sporco,
Nina prese a correre a perdifiato, sentendo le gambe pesanti e doloranti ma
trovando nella speranza la forza di mettercela tutta.
Corse, puntando la macchia di
vegetazione di fronte a lei, assaporando già la ritrovata libertà. Doveva solo resistere…
Un boato, seguito da un
lancinante dolore alla spalla, però, infransero ogni suo sogno.
Cadde a terra, sentendo il
fiato e la vista venir meno, mentre il male si acutizzava. Lungo il braccio
prese a scorrere un liquido caldo, che Nina comprese essere il suo sangue solo
dopo aver metabolizzato cosa era successo. Tentò comunque di alzarsi, arrancò
nel terreno, cadendo e ferendosi le ginocchia sotto alla gonna, prima di
tentare ancora, tirandosi in piedi a fatica e riprendendo a correre. Non compì
però più di una manciata di falcate che una voce la gelò.
“Ferma o il prossimo te lo
sparo nella schiena. Non camminerai mai più dopo, figurarsi fuggire.” Il tono
usato da Hans era calmo, sicuro così come la sua presa sul fucile, quando Nina
si voltò a guardarlo, sconfitta. Il ragazzo non sembrava incollerito, né
vittorioso. Sembra più che altro indeciso tra il finirla lì oppure proseguire
quel piano malsano.
“Fallo” gli disse la bionda,
sentendo le forze iniziare a mancarle del tutto, mentre l’emorragia iniziava a
farle annebbiare la vista. Si arrendeva? Era stanca, la spalla la stava facendo
impazzire e non voleva che lui la toccasse. Non voleva nemmeno che la
guardasse.
Preferiva morire.
Preferiva non sapeva se per
Hans ne sarebbe valsa o meno la pena, a posteriori.
La canna del fucile rimase
puntata verso di lei per quelle che sembravano ore, ma che non potevano essere
altro che una misera manciata di secondi, ma poi il giovane la abbassò.
“Torniamo dentro” decretò
infine, facendole cenno di precederlo.
A Nina non rimase altro se
non riprendere a camminare verso la sua prigione polverosa, certa che avrebbe
pagato a caro prezzo quella presa di posizione.
Non venne punita, ma non
venne nemmeno curata, il che poteva dirsi la peggiore delle pene.
Impossibilitata a curarsi da
sola, a Nina non era rimasto altro se non strappare una porzione ampia della
gonna sulla base, fasciando con quel pezzo di stoffa lercio la zona ferita che,
quanto meno, aveva smesso di perdere sangue. Se c’erano dei pallettoni dentro
alla carne viva, sarebbe morta per intossicazione da metalli. Se aveva sfiorato
un’arteria anche solo per poco e essa si fosse poi rotta in seguito a un
movimento secco, sarebbe morta dissanguata.
Senza contare che niente
impediva alla ferita aperta di riprendere a sanguinare ogni qualvolta l’articolazione
veniva mossa o peggio ancora, di infettarsi a causa dello sporco e della
polvere che la circondava. Per impedire qualsiasi eventualità, rimase seduta
immobile nell’angolo della stanza, tenendosi contro alla parete. Non l’avevano
nemmeno incatenata,avevano solo tolto
tutto ciò che avrebbe potuto usare come arma, ma sapevano bene che non ci
avrebbe riprovato.
Di ora in ora, Nina diventava
più debole, più pallida.
Quando si destò la mattina
successiva a causa del soleche filtrava
attraverso le finestre alte, bruciava per la febbre. Aveva un’infezione in corso,
ne aveva riconosciuto da sola i sintomi e il pensiero di non poter nemmeno
lavare la carne viva, lasciata esposta dalla ferita ampia, le dava il tormento.
Cercò di tenersi vigile e
lucida fino a che riuscì, ma quando il sole tramontò nuovamente oltre le piane
e i campi, ogni buona volontà venne meno. Passò quindi da una fase all’altra,
da agguerrita, a positiva, fino a rassegnarsi.
Erwin non l’aveva trovata e
forse Nina avrebbe dovuto accettare la realtà che non ci sarebbe riuscito prima
che lei morisse per un’infezione del sangue. Se non avesse tentato così
stupidamente la fuga, forse avrebbe avuto più tempo.
Con quella consapevolezza si
abbandonò, con le palpebre troppo pesanti per rimanere aperti e la testa
pesante.
Crollò sapendo che forse non
avrebbe mai più aperto gli occhi, ma non sapeva se stava o meno dormendo.
Una serie di immagini
iniziarono a vorticare nella sua mente, troppo vivide per essere sogni, ma
anche troppo astratte per essere dei ricordi veri o propri.
Sua madre.
Chissà cosa avrebbe detto sua
madre. Non avrebbe mai incolpato Erwin, su questo ci poteva mettere la mano sul fuoco.
Con chi se la sarebbe presa, allora? Con la provvidenza? Con i figli di Lobov? Forse addirittura con Nina stessa, che aveva ben
pensato di diventare una legionaria invece di sfornare figli come suo padre
sfornava pagnotte.
Sperò che Erwin non si
sentisse troppo in colpa, così come Fritz che l’aveva lasciata su una panchina,
ovviamente senza pensare a quell’ipotesi così assurda.
Arrivò addirittura a
chiedersi se a Levi sarebbe dispiaciuto almeno un po’. Perché mai, poi? Aveva visto
morire i suoi amici, la sua famiglia. Lei, per lui, non era nessuno. Anzi, Nina
era stata determinante nella morte di Farlan e
Isabel, perché non aveva fatto assolutamente nulla per impedire a suo fratello
di mandare avanti i suoi piani.
Fu però concentrandosi su di
lui, quel suo sguardo sprezzante e la sua voce bassa,che Nina si ricordò perché non doveva morire.
Aveva progetti, aveva anche dei doveri. Verso la Legione e suo fratello, ma soprattutto
verso se stessa.
Non avrebbe ceduto così.
Riaprì gli occhi e iniziò ad
elencare tutte le ossa presenti nel corpo umano, poi i muscoli, quindi i nervi
e gli organi. Quando terminò con l’anatomia, iniziò con le procedure
chirurgiche, poi le modalità di formazione dell’esercito, il regolamento, tutto
ciò che le veniva in mente per tenersi vigile.
Il sole tornò a sorgere e lei
non smise un solo istante di tenere la mente concentrata su qualcosa. Quando non
seppe più a cosa votarsi, iniziò a pensare a cosa ambiva in futuro. A dove l’avrebbero
portata le missioni, a chi avrebbe dato il suo cuore.
Continuò, lottando contro il
forte desiderio di lasciarsi andare definitivamente, fino a che la porta non si
spalancò nuovamente, colpendo con un suono secco la parete dietro,mentre due uomini irrompevano nella stanza,
con gli occhi sbarrati e il fiato corto.
Lieberth guardò Hans, prima di andare verso Nina,
costringendola ad alzarsi e facendola gemere per il dolore.
“Non c’è più tempo” blaterò,
mentre il giovane fratello sembrava incapace di muoversi, pietrificato “Sono
qui.”
La prima cosa che Erwin notò,
fu l’ambito imbrattato di sangue, insieme al colore cadaverico che la pelle della
sorella aveva assunto. Successivamente, si rese conto che i due rapitori
sembravano più spaventati che determinati e questo gli fece largamente
intendere che le cose stavano per risolversi in uno e un solo modo.
Fece un cenno a Mike, che
tenendo la spada premuta contro al collo di un BertramLobov dal volto livido e pieno di tagli, si avvicinò
a lui “Vi spiego la situazione” iniziò il Capitano, mentre attorno a loro si radunavano
diversi membri della Legione, supportati da diverse unità della Polizia
Militare “Vostro fratello ci ha già detto tutto ciò che ci interessava sapere. Questa
storia può finire solo in un modo e voi lo sapete benissimo. Lasciatela andare
e noi vi ammanetteremo seduta stante, conducendovi nelle carceri della Capitale
con la sola accusa di rapimento. Vi prometto che, per il momento, non vi verrà
fatto altro.”
Non esisteva persona più
calma, seppur seria, di Erwin, in quel momento. Sembrava completamente padrone
della situazione, al contrario dei due sequestratori.
Nina gemette di nuovo,
sentendo le forze mancarle, mentre Lieberth la
spingeva per farla rimanere diritta. Stava premendo un coltello contro alla sua
gola e non sembrava in vena di negoziare. Tirò un sorrisetto nervoso, guardando
l’uomo negli occhi, come se in quello spiazzo ci fossero solo loro due e non
almeno una cinquantina di soldati pronti a massacrarli, se solo avessero alzato
il fucile che Hans stringeva in mano “Ormai è fatta” convenne, stringendo il
braccio ferito della ragazza, che strinse gli occhi e i denti, ansimando per il
dolore “Allora perché non finire quello che abbiamo iniziato?”
“Vogliamo fartela pagare,
Erwin Smith, per ciò che hai fatto alla nostra famiglia!” intervenne Hans, con
vigore, guardando con disgusto il Capitano e facendo un passo avanti, mentre i
gendarmi puntavano le loro armi contro di lui, pronti a premere il grilletto e
falciarlo nell’esatto istante in cui avrebbe fatto un passo falso “Ci hai
rovinati! Meriti di soffrire come abbiamo sofferto noi!”
“Quindi uccidete una ragazza
innocente per fare un torto a un uomo” una voce carezzevole si sollevò tra le
fila dei soldati, attirando su di sé l’attenzione. Erwin si spostò di lato e,
alle sue spalle, apparve il Comandante Kessler, ammantata da un cappotto d’ordinanza
marrone scuro, che le arrivava alle caviglie. “Non è molto acuto nemmeno per un
Lobov” proseguì, mentre Nina alzava una mano e si
aggrappava al braccio di Lieberth, per avere un
appiglio e non scivolare verso il basso, premendo la carne delicata della gola
contro alla lama “Facciamo così: voi ci consegnate la ragazza e io non ordinerò
ai miei uomini di portarvi in quel bosco e spararvi in testa. A tutti e tre. Che
ne pensate? Equo?”
Hans parve vacillare, tanto
che prese a boccheggiare. Lieberth, il quale aveva
avuto dei ripensamenti il giorno precedente, parve invece aver trovato tutto il
coraggio di cui aveva bisogno. Premette la lama sul collo della ragazza, che
sentì la pelle incidersi e bruciare, lesa “La finiremo così e niente ci
impedirà di vendicarci! Guarda tua sorella morire, Capitano Smith, e fa
ammenda!”
“Ora!” la voce di Erwin coprì
la fine del discorso di LieberthLobov,
lasciandolo spiazzato, mentre un’ombra si sollevò sopra alle loro teste. Hans lo
intravide con la coda dell’occhio saltare dal tetto e usare l’attrezzatura per
lo spostamento tridimensionale per darsi lo slancio. Il tempo di battito di
ciglia e Nina sentì la presa del suo aguzzino farsi debole, fino a che il
coltello non gli cadde di mano. Lieberth cadde
riverso all’indietro e quando la ragazza abbassò lo sguardo su di lui, vide che
l’uomo aveva un coltello ficcato in mezzo agli occhi sbarrati, con precisione chirurgica.
E Levi ora era in piedi di
fronte a lei, con i comandi del modulo ancora in mano e gli occhi fissi su Hans,
che buttò a terra il fucile, arretrando di qualche passo, prima di correre
dentro all’officina.
Nina scivolò il terra,
sedendosi e portando la mani ancora ammanettate alzare sul collo. Per un
attimo, non capì niente, tutto si fece nero e confuso. Ogni azione andava
troppo veloce, i soldati che le correvano attorno non erano che macchie di
colore in movimento. Una mano forte si appoggiò sulla spalla sana, attirando lo
sguardo smarrito della giovane su di sé.
Erwin.
Nina lo guardò, aprendo le
labbra per dire qualcosa e sentendo gli occhi chiari pizzicarle per le lacrime.
Spostò la mano sul suo viso, come per testare che fosse davvero lì e
sporcandolo di sangue su una guancia. Poi, però, indurì lo sguardo, mentre con
un respiro si tranquillizzava abbastanza da poter parlare.
“Prendilo” soffiò e il
fratello non se lo fece ripetere, alzandosi e inseguendo Hans Lobov, dopo aver detto qualcosa che però Nina non riuscì a
cogliere.
Fritz fu su di lei in un
baleno, insieme a Rielke e Leo. C’era anche Hanji, Nina sentiva la sua voce, ma non riusciva proprio a
inquadrare cosa stessero cercando di dirle. Avrebbe voluto ascoltarli, dire
loro che era viva, che era ancora lì, maera arrivata al limite di sopportazione, sia fisico che emotivo.
Perse i sensi prima ancora di
realizzare che era stato Levi a sollevarla dalla polvere, per portarla via,
mentre gli altri si le si affaccendavano attorno.
Quando svegliandosi Nina
chiese di poter mangiare qualcosa di dolce perché ci aveva fatto la passione in
quei quattro giorni, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Nell’ospedale
militare dove l’avevano portata, la sua camera era diventata la più chiassosa
dello stabile. Il via vai continuo di persone non era ben visto dalle Sorelle
della Congrega che aiutavano i medici nella cura dei pazienti, ma quando era
stato il Comandate Kessler in persona a sostenere che potevano continuare così,
nessuno aveva avuto il coraggio di mettersi contro Nora.
Nina s’era stufata del
ricovero già al secondo giorno quando, dopo essersi nutrita e dopo che Fritz
aveva provveduto ad estrarre i pallini metallici e a medicarla come si deve la
spalla, aveva iniziato a domandare di essere spostata a casa del dottor Meier.
“Odio gli ospedali, sono un
medico, non un paziente” sosteneva determinata, facendo sbuffare un po’ tutti
coloro che si recavano giornalmente a trovarla, in particolare Erwin. “Sto bene
e il dolore alla spalla non passerà in questo letto come non passerà in un
altro. Senza contare che in quella casa ci vivono tre dei migliori dottori
della Capitale!”
“Rimarrai qui almeno per tre
giorni, facci il callo e sta zitta” la ammonì Jara,
ficcandole in bocca una radice di liquerizia, che Nina prese a mordicchiare,
con tanto di broncio infantile “E non fare quella faccia, che sai bene cosa
capita se quei punti si aprono o s’infettano!”
“Li disinfettiamo e li
rifacciamo?” chiese retorica Nina, ricevendo un’occhiataccia che la fece
desistere. Erwin, seduto su una sedia accanto al capezzale della sorella, sorrise
in un misto di rassegnazione e divertimento, accarezzandole la mano “Cos’altro
potrebbe andare storto?”
“Ho scritto a nostra madre,
che pare intenzionata a venire qui” la mise al corrente il Capitano, ottenendo
un’occhiata di fuoco dalla degente. Perché passare da un inferno all’altro in
così poco tempo? Quello era sadismo.
“Oh, fantastico!” sbottò,
mentre Hanji rideva senza pudore, seguita da Rielke e Erwin “Potevi lasciare che mi sgozzassero a questo
punto, sarebbe stato meno doloroso!”
“Non dire certe cose, cretina”
la riprese il cugino, mentre Fritz entrava nella stanza con in mano una siringa
dall’aspetto poco rassicurante. Li guardò
tutti con gli occhi contornati dalle occhiaie, indice che non aveva passato
delle notti serene.
“Ancora tutti qui?” domandò
con una nota indignata nella voce “Avanti, l’orario delle visite è terminato e
Nina deve dormire.”
“Questa deve essere una
congiura” appurò Nina, allungando il braccio per farsi fare l’iniezione e non
staccando gli occhi dall’ago, mentre Fritz trovava con facilità la vena in cui
infilarlo “Non posso andarmene e devo anche stare sola?”
“Puoi dormire.”
“Ho dormito un giorno intero,
Fritz!”
Erwin le lasciò la mano,
scostandosi per permettere ad Hanji di salutare la
sorella “Tornerò domani con qualche libro interessante” le disse,
accarezzandole il braccio che non le doleva “È bello sapere che stai bene, come
avrei fatto senza di te?”
“Senza qualcuno che appoggia
ogni tuo strambo piano di cattura dei giganti? Sarebbe stata una grave lacuna
per tutti.” mormorò retorico Mike, facendole strada dopo aver salutato Nina con
un cenno. La bionda li guardò uscire, sventolando senza entusiasmo la mano
nella loro direzione. Già si stava annoiando, non poteva che peggiorare la
cosa.
“Verrò prima di cena a
portarti qualcosa che non sia la sbobba da ospedale” le disse Rielke, mentre Erwin si chinava a darle un bacio sulla
fronte.
“Dormi, Nina.”
“Per caso è un ordine,
Capitano Smith?”
Lui scosse piano il capo,
arrendendosi “Un consiglio” aggiunse, accarezzandole i capelli sul capo “Sei
molto pallida e hai bisogno di riprenderti se vorrai tornare a studiare per le
abilitazioni.”
“Questo sì che è consolante, Erwin.
Sai essere motivazionale con tutti tranne che con me.”
Uno ad uno, coloro che erano
presenti nella stanza uscirono, eccetto due persone.
Fritz si era quasi scordato
della presenza di Levi, visto che questo era rimasto zitto tutto il tempo,
seduto su una sedia infondo alla stanza, con le gambe accavallate e lo sguardo
un po’ perso verso la finestra.
Quando il dottore si era
voltato per andare a chiudere la porta e l’aveva visto, però, aveva alzato le sopracciglia
riconoscendo in quella figura, l’uomo che l’aveva un po’ spaventato. Aveva visto
quello strano legionario affettare di peso BertramLobov e scaraventarlo a terra, prima di prenderlo a calci
per farsi dire dove avessero portato Nina. Vista la sua stazza minuta, non
avrebbe mai creduto possibile che quell’uomo potesse avere tanta forza,
sembrava fisicamente impossibile.
Invece era stato molto
efficace.
“Chiedo scusa, l’orario delle
visite è finito” ripeté, cercando di non essere scortese nell’attirare l’attenzione
del moro, il quale non disse niente. Spostò gli occhi su Nina, prima di alzarsi
in piedi, prendendo la giacca di ordinanza.
“In realtà, preferirei che
Levi rimanesse con me” rivelò la degente a Fritz “Io mi sentirei più
tranquilla, se ci fosse lui e vorrei anche parlargli in privato. Potresti lasciarci
soli?”
Il medico non la prese molto
bene. Socchiuse le labbra, stringendo l’anello che teneva ancora nascosto nella
tasca della casacca azzurra che portava sui vestiti, prima di tirare un sorriso
un po’ pallido “Ma certo. Passo dopo per vedere come stai, allora.”
Nina gli sorrise, seppur stanca,
“Grazie per tutto quello che fai per me, Fritz.”
Lui si chinò, baciandola quasi di sfuggita sulle
labbra, delicato come il battito di ali di una farfalla. O come un ragazzino
alla prima cotterella. Quando andò via, chiudendosi l’uscio
alle spalle, Nina fece cenno a Levi di avvicinarsi.
“Ansioso il tuo fidanzato”
furono le prime parole che uscirono dalle labbra dell’uomo, mentre avvicinava
la sedia su cui era precedentemente seduto Erwin e vi prendeva posto “Non ha
fatto altro che urlare come una cornacchia stonata per quattro giorni.”
“Lui non è io mio – senti Levi,
lascia perdere. Non è un discorso in cui vuoi andare ad infilarti, fidati.”
Nina portò la mano alla fronte, cercando di nascondere il rossore che le stava colorando
le gote, reso ancor più evidente dal pallore malaticcio che la sua pelle aveva
assunto a causa della perdita di sangue importante “Io volevo ringraziarti. Tu mi
hai salvato la vita.”
Levi la guardò, prima di
annuire lentamente “Non ringraziarmi.”
Criptico. Lei non seppe dire
con certezza cosa intendesse con quella risposta.
Abbassò gli occhi chiari
sulle mani dai polsi lividi, unite sul grembo, prima di parlare nuovamente “Posso
chiederti di farmi un favore?” Il moro le fece cenno di continuare a parlare,
mentre si appoggiava ai braccioli della sedia “Tu sei la persona più forte che
conosco, anche più di mio fratello. Riesci a controllarti, sei letale negli
intenti e negli atti” non sapeva nemmeno lei perché aveva preso a berciare così
in astratto, forse perché temeva che lui non accettasse. Nervosamente, sistemò
la camiciola bianca che le avevano messo mentre era ancora incosciente,
coprendo la spalla completamente avvolta da candide fasce “Io, invece, sono
debole. In questo caso, sono stata un peso per mio fratello, per i miei amici e
per la polizia militare. Sono un soldato che non è stata in grado di salvare se
stessa.”
Levi sbuffò, seccato “Smettila
di piangerti addosso. Non ha alcun senso, nelle tue condizioni nessuno si
sarebbe liberato.”
“Tu sì.”
Sì, lui ci sarebbe riuscito.
Non si sarebbe nemmeno fatto
prendere, probabilmente e avrebbe spaccato la faccia a quei tre senza nemmeno
sforzarsi troppo. Nell’ottica di Nina, Levi era invulnerabile. L’aveva visto
uccidere cinque giganti senza nemmeno spettinarsi e mai avrebbe permesso a Hans
di sparargli, l’avrebbe reso inoffensivo prima di lasciare l’officina, perché lui
avrebbe avuto la forza morale, ma soprattutto fisica, di riuscirci.
“Levi, io voglio diventare
più forte” alla fine, trovò il coraggio e lo chiese “Voglio che ti mi faccia
diventare più forte.”
L’uomo non parve particolarmente
impressionato, ma i suoi occhi parvero brillare nella penombra della stanza di
fronte a tanta determinazione “Vuoi che io ti alleni?”
“Sì.”
Lui sembrò quasi preso in
contropiede. Si aspettava qualcosa da quella conversazione, per questo non
aveva lasciato la stanza insieme a tutti gli altri ma aveva aspettato. Nonostante
questo, però, non perse in compostezza “A me non tornerebbe indietro nulla,
facendoti questo favore. Lo sai, vero?”
“Non mi interessa cosa
tornerà indietro a te” ammise senza peli sulla lingua Nina “Ti ho già detto che
mi fido di te, non c’è un’altra persona a cui lo chiederei.”
Quello era un colpo basso
anche per una donna.
“Sai che sarà molto dura?”
“Sì.”
Lei resse il suo sguardo e a
lui parve bastare. Si alzò in piedi, allungando la mano verso di lei, che la
afferrò e la strinse fra le sue “Inizieremo appena sarai tornata in forze. Ti avverto
che io non ho mai insegnato niente a nessuno, ma diciamo che ho avuto un buon
mastro, in passato. Sappi però che non ci andrò piano né perché sei una
ragazzina, né perché sei una donna. Pensi di farcela, a non mollare?”
“Se non proviamo non posso
saperlo, ma ciò di cui sono certa è che non sarò mai più un peso per nessuno.”
Sentiva che sarebbe stato
difficile, che si sarebbe fatta male e che sarebbe finita a piangere frustrata
ogni qualvolta Levi l’avrebbe sbattuta a terra senza troppi fronzoli. Ne avrebbe
prese tante, ma le avrebbe anche ridate indietro, prima o poi.
Se lui l’aiutava poteva
farcela e l’uomo parve iniziare da subito, poiché non sfilò la mano dalle sue
ma anzi, si sedette sul bordo letto, decidendo di rimanere lì con lei.
NdA
Questo è stato, fino ad ora,
il capitolo più sudato.
Non è stato semplice scrivere
il pezzo flashback, che ho cambiato qualcosa come tre volte, ma ora sono
finalmente soddisfatta.
Partiamo dal principio, però.
Il pezzo iniziale, quello presente, è un chiaro e lampante riferimento al
titolo. Ah che belle le stelle, che sono persone morte. Erwin è incoraggiante,
per carità, ma in un mondo dove tutto è deprimente, anche puntare gli occhi
verso l’alto è motivo di tristezza. Nina però pende dalle sue labbra ed è una
brava ragazza molto positiva.
Beata lei, io non sono così
speranzosa.
Tutti gli OOC che ho creato,
dalla protagonista ai personaggi di contorno, vogliono essere il più sviluppati
possibile. Io mi ci affeziono e poi crepano o finiscono dispersi.
Su Fritz, che viene anche
citato nella prima parte, non mi sbilancio.
Scoprirete cosa gli è
successo davvero nella storia della mia socia, RLandH,
che prima o poi inizierà a mettere in fila pezzi e a postare.
POSTA LUNA, POSTA.
Il sequel delle due storie,
prima o poi, lo dovremmo scrivere insieme.
Abbiamo già iniziato a
scriverlo.
Siamo pessime.
Ps nelle recensioni mette l’hastag#postaLunaposta per motivarla a iniziare a pubblicare
la sua storia o qui diventiamo vecchi.
Una cosa sulla quale ci tengo
a soffermarmi un minuto in più è l’importanza dei sentimenti di Nina verso
Levi. Sicuramente avrete notato che essi non sono praticamente mai al centro
della narrazione, perché per il flashback sarebbe prematuro, mentre invece per
le parti in presente, io trovo cretino anteporre i sentimenti alla drammaticità
della situazione.
Questa è sfortunata come un
cane in chiesa, come si dice a Modena, ne tocca da tutte le parti, viene
rapita, le sparano, rimane bloccata oltre il WallMaria…. Ovviamente l’amore scivola un po’ in basso nella
catena di priorità, ma non per questo è meno vero.
Ogni riferimento aLevi sto cercando di renderlo il più vero
possibile.
Il più sentito, ricercando di
far si che sembri prezioso.
Non è la classica storiella
con la signorina in questione persa per il bello ma dannato, tanto sesso, tanti
drammi e tutti a casa.
Ho cercato di creare un
personaggio vero, che esprime concetti veri e sentiti.
Motivo per cui ho anche speso
molto tempo sul flashback. Il pericolo Mary Sue, come in tanti mi hanno anche
detto nei commenti sino ad ora positivi, è sempre in agguato.
Non credo che Nina lo sia per
una serie di cose.
Tanto per iniziare, non è
autosufficiente. Ha il desiderio di diventarlo, ma non è brava come Levi, ne ha
poi questa grande forza di volontà. Cambia idea in fretta, prima insiste, poi
cede, poi si riprende, perché è umana, sanguina e vuole andare a casa.
So che questo è un manga, non
è qualcosa di reale. Ma io ci tengo a dare il dovuto spessore agli OC, a
renderli tangibili.
Se no come fanno le persone a
provare empatia?
Non mi sono chiesta ‘questa
cosa è da Mary Sue?’ quanto piuttosto ‘Questa cosa è credibile?’.
Se avesse spaccato la faccia
a tre uomini, salvandosi da sola, allora sarebbe stato strano.
Invece è una appena
diciottenne, dottoressa che di combattimenti corpo a corpo con altri essere
umani ne sa poco o niente, quel che ha imparato nell’esercito, ma lo dice le
stessa che è più avvezza ai libri che alle legnate.
Io ci ho provato, ma a voi va
l’ardua sentenza finale v.v
Ora comunque Levi le fa fare
un po’ di upgrade.
E presto vedremo anche la
mamma cattiva, promesso.
Manca poco.
Un paio di noticine e la
pianto, che le NdA stanno diventando più lunghe del
capitolo.
Le Sorelle della Congrega
sono come le nostre suore: giovani donne che rinunciano al loro nome e al loro
titolo – i membri del Culto delle Mura sono quasi tutti nobili, che qui ho
inventato tutto di sana pianta dall’inferno al paradiso- e danno la loro vita
al Culto, impegnandosi a ubbidire e non sposarsi.
L’umanità incrollabile di
Erwin che, chi legge il fumetto, sa che non esiste.
Che posso dire, Nina ancora
questo lato del fratello ancora non l’ha visto e ci sarà il carramba
che sorpresa in merito.
Se lo meritava.
Dulcis in fundo, i libri.
Su di loro non dirò niente perché
è alla base della futura storia che scriverò con RLandH
(#postaLunaposta) ma AMEREI leggere le vostre
supposizioni. Cosa c’è dietro questo mistero?
Ditemi la vostra, vi imploro.
Come sempre grazie a chi
legge la storia e mi segue.
Le letture sono lievitate e
io vi adoro.
Ringrazio le due dolci anime
che mi hanno commentato lo scorso capitolo e tutti gli otto che mi hanno
aggiunta fra le seguite.
La fine dell’estate e l’arrivo dell’autunno nella Capitale.
Nina
non credeva che avrebbe mai rimpianto quella stanza polverosa dai soffitti
alti, ma nell’esatto istante in cui aveva messo piede in città Adelaide Müller, avrebbe soppesato volentieri l’idea di uno scambio
pur di non sentire più la voce della madre chiamarla ogni dieci secondi. La sua
libertà in cambio di un po’ di pace e silenzio, non era male.
L’appartamento
di due stanze e una zona giorno che Erwin aveva ereditato da uno zio paterno in
Capitale s’era fatto saturo già nelle prime ore e il fratello maggiore doveva
averlo predetto, perchéaveva avvisato
sin da subito che non avrebbe soggiornato li con loro, ma che, per impellenti
questioni militari, avrebbe fatto meglio a rimanere in caserma.
“Così
vi lascio sole” aveva commentato con tono amabile mentre se ne andava. Nina
l’aveva odiato con sentimento sincero, ma con quella spalla fuorigioco non
aveva avuto i mezzi per opporsi. O per fargliela pagare nell’immediato. Sapeva
che la Legione sarebbe ripartita di lì a pochi giorni e tutto ciòche voleva era tornare a casa con i Meier per
permettere al suo corpo di rimettersi del tutto, curando al contempo anche la
mente che s’era parecchio scossa. La spalla ancora doleva, la ferita di fucile
faticava a rimarginarsi a dovere e non le permetteva di dormire bene. La sua
indole solitamente dolce e solare era poi messa a dura, durissima prova dal
temperamento di Adelaide, che non accettava un no come risposta e non conosceva
il significato della parola inopportuno.
“Il
figlio del dottor Meier ancora non s’è dichiarato?”
Sia
Nina che Levi alzarono gli occhi dal banchetto delle erbe officinali,
puntandoli con rassegnazione sulla donna che li staccava di qualche metro,
presa nell’osservare delle vesti. Era tremenda oltre ogni dire. Arrivata
quattro giorni prima, non aveva parlato d’altro. La bionda pagò il mercante,
passando a Levi il sacchetto con l’acquisto usando la mano libera, visto che
l’altro braccio pendeva appeso al collo con una benda bianca di lino. “Da ieri
sera non si son visti cambiamenti” sottolineò con un leggero sarcasmo ad impregnarle
la voce, non guardando la madre.
Adelaide
osservò Levi disporre i sacchetti con ordine nella cesta che portava per la
ragazza, prima di rilanciare “WölfBender è ancora
celibe” le fece saperefingendo non
curanza, mentre passava le mani magre e cariche di anelli su delle stoffe
pregiate. Ne accostò una di un pizzo candido alla figlia facendola sussultare
per la sorpresa “A lui sei sempre piaciuta molto. Chiede di te a Fried ogni volta che lo vede.”
“Peccato
allora che lui, a me, non sia mai piaciuto. Levi vuoi delle mele?”
L’uomo
non fu collaborativo, permettendo così alla signora Müller
di continuare ad ignorarne la presenza.
“Quel
giovane èfiglio del notaio più famoso
del distretto. Cosa deve avere un uomo per entrare nelle tue grazie?”
“Un
cervello” fu la replica in fine acida che venne strappata alla giovane, la
guardò la madre con astio “Puoi smetterla? Non intendo sposarmi, né ora né mai.
Vai ad importunare Erwin che ha più di trent’anni e ancora non s’ha da
fidanzarsi.”
“Erwin
sa il meglio per se stesso.” La risposta sommessa di Adelaide sottolineava che
invece non credeva affatto che la figlia fosse padrona del suo destino. Peccato
non glielo volesse permettere lei “Poi se non ne parliamo ora, quando dovremmo?
Fra due giorni riparto per Stohess e tu non vieni mai
a casa.”
Chissà
perché.
Nina
sospirò sollevata, alzando gli occhi verso le nuvole “Grazie al cielo.” fu la
sola replica che sfuggì alle sue labbra sottili e che Adelaide finse di non
sentire. “Smettila lo stesso. Più me lo dici, meno mi convinci.”
“Sei
una bambina.”
“E tu un arpia.”
Il soldato che camminava
accanto alla giovane prese un lungo respiro, prima di concedersi di spiare la
bella donna, che aveva il vanto di aver messo al mondo Erwin Smith, di
sottecchi. Non c’era nulla da dire, era di un’avvenenza indiscutibile nonostante
l’età; vestiva bene, a dispetto del ceto sociale medio a cui apparteneva. Levi
avrebbe potuto anche scambiarla per una nobile se l’avesse vista per la prima
volta o se non ne conoscesse la famiglia. Il viso era solcato da rughe, certo,
ma le vadano un aspetto elegante, raffinato, non la abbattevano affatto. I
capelli biondi, striati da stille grigie qua e la, erano acconciati nel
migliore dei modi in una crocchia sulla nuca, tenuta insieme da decine di
forcine brillanti. Il vestito, di un pallido verde, sembrava aver visto tempi
migliori, ma era indiscutibilmente di ottima fattura. In totale contrasto con
la figlia che vestiva un paio di braghe nere sotto agli stivali militari e una
camicetta marrone smanicata, che lasciava ben
visibili le bende che le fasciavano la spalla sinistra e parte del braccio.
Nina non s’era ancora ripresa, andava detto; era pallida e le occhiaie che le
cerchiavano gli occhi unici erano evidenti; eppure, anche con i capelli un po’
sfatti a causa della calura, rimaneva comunque la sola persona che il moro non
riusciva a non guardare, per quanto si sforzasse.
Se non aveva ancora zittito
in malo modo Adelaide, era solo perché la figlia ci pensava da sola.
Era strano vederla così, in
ogni caso. Nina di solito era sorridente, non sembrava abbattersi mai. Lui
stesso la portava sempre più al limite, insultandola o schernendola per
spronarla, ma lei non sembrava esserne toccava.
Si sa però, i genitori hanno
un effetto diverso su un figlio.
Levi poteva ricordare ogni
epiteto che l’uomo che l’aveva cresciuto gli aveva affibbiato, senza però
rimanerne minimamente toccato. Eppure, nel momento in cui era stata Gretha a rimproverarlo, l’aveva ferito più di uno schiaffo.
“Il giovane Bender ha una bellissima casa al lago, lo sapevi Nina? In
questo periodo deve essere incantevole.”
Ci risiamo.
“Cosa me ne farei mai di una
casa al lago, se venissi mangiata da un gigante?” chiese retorica la ragazza,
rallentando il passo per affiancarsi del tutto a Levi e prendere dalla cesta
una mantella nera. Questi la lasciò fare, scambiando con lei un semplice
sguardo di intesa.
“Mi aspetterei che, una volta
preso marito, tu decida di chiedere di essere inviata di istanza ad oriente”
proseguiva intanto Adelaide, prendendo in mano una mela dall’aspetto succoso
che certamente avrebbe fatto bene alla figlia provata “Magari potresti
addirittura chiedere di essere spostata nella guarnigione di Stohess insieme a Rielke,
portando avanti la tradizione dei Müller, che sono
sempre stati una famiglia di stazionari. Come tuo padre prima che s’ammalasse
al-”
Non terminò nemmeno il
discorso.
Piegò semplicemente le labbra
in una smorfia di disapprovazione, guardando il punto in cui fino a qualche
secondo prima, sua figlia e quello strano uomo dall’aria tetra sostavano in
piedi.
Erano spariti nel nulla.
Di nuovo.
“Non metterti in quella
posizione ridicola, non funzionerebbe in ogni caso; rilassa le spalle e alza il
mento, piuttosto”
Nina abbassò le mani,
portando istintivamente la destra alla spalla sinistra lesa, sentendo la pelle
tirare ad ogni movimento. Levi le fu dietro in un attimo, appoggiando le mani
sui suoi fianchi e facendole ruotare il bacino. Portando avanti il piede
destro, Nina gli lanciò un’occhiata veloce “Sono mancina. Non posso attaccare
usando la mano destra, sarebbe inutile.”
Come ricompensa, ricevette
una pacca sulla testa che la zittì “Puoi anche essere mancina, ma devi
proteggere la parte che hai ferita. Meglio ancora, non devi mostrare la tua
debolezza al nemico. Dobbiamo cambiare questa cosa, non puoi avere una parte
del corpo più debole dell’altra.”
La piazzola della caserma
della Legione nella Capitale era, come al solito deserta. Il luogo adatto per
diventare lo scenario dei loro incontri e degli addestramenti. Rispetto alle
sedie della Gendarmeria e della Guarnigione, che erano degli autentici palazzi
con tanto di corte e numerosi dormitori, quello della ricognitiva altri non era
che una piccola casa privata adibita a uso militare. La motivazione era ovvia,
dopotutto; non c’erano molti Legionari in Capitale e i pochi che di lì
passavano erano spesso ufficiali con una residenza donata dalla corona o
comprata con gli stipendi più alti. Nonostante tutto, a Nina piaceva.
L’edera che cresceva sulla
facciata bassa sino al tetto spiovente le dava un’aria vissuta, quasi bucolica.
Ed il cortile era, per
l’appunto, immenso e nascosto da un’alta siepe. Nessuno l’avrebbe vista fare la
figura della scema.
Quando Levi le fu di nuovo di
fianco portò le mani sotto al mento della ragazza, alzandoglielo “Devi sempre
guardarli negli occhi, quei maiali. Prima ancora delle mani, sono essi a
rivelarti le intenzioni di un uomo. Non solo, però. Spesso basta uno sguardo
deciso che non ammette repliche per vincere uno scontro, non arrivando nemmeno
alle mani.”
“Ti sembro una persona che
possa incutere tanto timore?”
“Lo diventerai.” L’uomo
incrociò le braccia sul petto, guardandola. Poi, per giusta misura, le tirò i
capelli.
“Levi!”
“Devi legarli” fu la sola
cosa che le disse, non ammettendo repliche.
Con uno sbuffò risentito,
Nina slacciò la strisciolina di cuoio che teneva sempre al polso, sollevando
poi i capelli e arrotolandoli in modo da creare un concio un po’ storto ma
funzionale sulla cima del capo “Potresti chiedere senza farmi del male, non
pensi?”
“Voglio che arrivi il concetto.
Se durante il combattimento ti avessi affettata per i capelli e tirata a terra,
avrebbe fatto molto più male di così.” Questo doveva concederglielo. Con un
altro sospiro, Nina si rimise in posizione. Lui le fu addosso di nuovo “Non
stare rigida, le braccia tienile morbide. Se i muscoli sono tesi, il movimento
risulta meno rapido e tu non devi nemmeno pensarci. Deve essere l’istinto a
dirti dove parare e dove colpire.”
“Devo aspettare che mi
vengano addosso?”
“Non attaccare mai per prima,
studia il nemico” le girò attorno come un avvoltoio “Non hanno senso le
posizioni statiche a meno che non ti sia stata insegnata una disciplina in
particolare. Anche in quel caso, comunque, devi padroneggiarla molto bene o
rischi di concentrarti troppo sui tuoi colpi e non su quelli che ti vengono
dati.”
Nina prese appunto mentale di
ogni singola parola, annuendo “Devo aspettare, non attaccare per prima. Un
piede avanti per la stabilità, ricordandomi di proteggermi se ho delle ferite,
senza però darlo a vedere. Sguardo fisso e braccia morbide. Registrato.”
Fu il turno di Levi, di
sbuffare “Non ti dimentichi proprio nulla, vero?”
Lei sorrise, allegra “Questa
è una cosa di famiglia. Il bisnonno lo diceva sempre: Un Müller non può dimenticare.”
Levi scosse piano il capo,
prima di prendere un respiro e riempire i polmoni “Va bene, attaccami.”
Nina sgranò gli occhi,
guardandolo prendere posizione di fronte a lei. Lo guardò come avrebbe guardato
un geco parlante, tanto era stupita e sopraffatta dalla richiesta. Non poteva
essere serio “Ammesso e non concesso che mi hai appena detto che non dovrei mai
attaccare per prima…” lasciò cadere la frase,
sottolineandone l’incoerenza “Sono ferita, Levi. Cosa potrei mai farti?”
“Io non ti colpirò di
rimando. Mi limiterò a schivare. Voglio vedere quanto sei lenta. Puoi usare i
calci se credi che la tua mano destra non sia abbastanza forte.”
Lei non sembrava volerci
credere, ma quando lo vide portare avanti il piede sinistro e fissarla
intensamente negli occhi con espressione seria, comprese il motivo per cui le
stava spiegando tutte quelle cose sull’atteggiamento da tenere. Nessuno, sano
di mente, avrebbe mai attaccato un uomo con quello sguardo.
A Nina faceva già male tutto
solo a guardarlo.
“Non fare quella faccia. Se
parti già scoraggiata, allora tornatene a casa” la riproverò con tono duro,
“Non ho né la voglia né il tempo di aspettarti, ragazzina. Fa la tua mossa e
mettici un po’ di impegno.”
“E va bene, proviamoci.”
Nina portò una ciocca di
capelli dietro all’orecchio, prima di mettersi in posizione nuovamente. Lo
guardò, studiandolo un istante e cercando di capire dove colpirlo. Alla fine
scattò in avanti, colpendolo con un pugno nello stomaco.
Levi non si spostò di un
centimetro, non sembrò nemmeno sentirlo, mentre a Nina sembrò di aver tirato un
pugno al terreno. Strinse il polso che si era storto con la mano sinistra,
soffocando un’imprecazione con un ringhio.
“Quello cos’era?” domandò
apatico Levi, “Sei più debole di quello che pensavo.”
Il bello di Nina era proprio
la tenacia. Se sbagliava o falliva, provava e riprovava sino a che non
riusciva. Per questo iniziò ad inveire, lasciando perdere l’intorpidimento al
polso e cercando di colpirlo con un calcio.
Non le sembrava di essere
lenta, ma non riusciva nemmeno a raggiungerlo nonostante le gambe molto più
lunghe di quelle dell’uomo. Schivava ogni singolo colpo senza nemmeno
scomporsi, mentre lei iniziava a barcollare con la stessa grazia di un ubriaco.
Alla fine, dopo quelle che
parevano ore, ma che furono di fatto pochi minuti, cadde a sedere a terra col
fiato corto.
“Cosa ti fa male?” le domandò
l’uomo, che non aveva risentito di niente.
“Tutto” ammise lei,
appoggiando la schiena al terreno per stenderla, mentre portava il braccio sano
sulla fronte per asciugarla dal sudore. Faceva anche caldo e non aiutava “Mi
fanno male le gambe e gli addominali.”
“Questo perché non sei
allenata.”
“Sono un medico, Levi. Ho
fatto l’addestramento come tutti, ma non con la stessa intensità.”
L’uomo si domandò come avesse
fatto ad uccidere quel gigante di fronte ai suoi occhi, alla sua prima uscita.
In quel momento sembrava fatta di burro, ma forse la settimana passata a letto
aveva fatto qualche danno.
“Quando tornerò dovrai avere
messo su un po’ di muscoli o possiamo anche finirla qui ora.”
Nina aprì il braccio destro a
stella, tenendo gli occhi sul cielo azzurro “Va bene” gli disse, “Dimmi cosa
devo fare.”
“Corri” le rispose, sedendosi
accanto a lei, appoggiando i gomiti sulle ginocchia mentre la guardava. Se Nina
non stava sbagliando, gli sembrava annoiato dalla situazione “Flessioni, addominali…. Hai fatto l’addestramento, hai detto, no? Fai
gli esercizi, ma questa volta senza pensare che dovrai segare ossa o fare
qualche saltello su un gigante. Pensa che devi correre da Shigashina
a Briemer senza fermarti.”
La bionda si tirò seduta,
ignorando la camicia che si era sporcata. Ci pensò Levi a farglielo pesare,
battendogli la mano sulla schiena, ma questa volta senza farle male “Sarebbe
una bella maratona.” Lei glielo aveva chiesto, dopotutto. Doveva seguire quelle
indicazioni alla lettera “Lo farò” disse di fatto, abbracciandosi le gambe con
il braccio sano “Mi insegnerai anche a uccidere i giganti come fai tu?”
“Ora non mettere il carro
davanti ai buoi, ragazzina. Impara a tirare un pugno senza ferirti, prima.”
Incrociando le gambe, Nina si
mise diritta con la schiena. L’affanno era già passato e poteva riprovarci, ma
Levi non sembrava della stessa idea “A cosa pensi?”
Lui scosse il capo, una volta
sola “Che devi allenarti intensamente, perché ho intenzione di portarti nel
ghetto, quando farò ritorno dalla missione” gli occhi della ragazza si
sgranarono dallo stupore “Lì sotto ti insegnerò quello che è stato insegnato a
me.”
Lei gli sorrise, sporgendosi
per appoggiare il mento alla sua spalla.
Lo sentì irrigidirsi, cosa
che fece solo alzare maggiormente i lati della sua bocca “Levi…”
“Cosa c’è, adesso?”
Facendo perno sul braccio,
Nina si alzò. Fece un piccolo saltello sul posto, prima di colpirlo piano con
la punta dello stivale sulla coscia, facendogli segno di imitarla “Riproviamo.
Sento che posso colpirti se mi impegno di più.”
Levi non disse nulla, in un
primo momento.
La guardò dal basso,
appoggiando poi le mani a terra per alzarsi. Prese uno straccio dalla tasca posteriore
delle braghe nere, pulendosi i palmi, prima di guardarla “Molto bene,
attaccami.”
Nina si rimise in posizione,
convincendosi che poteva fare paura, se voleva.
Lo guardò seria, prima di
buttarsi di nuovo contro di lui.
Una, due, cento volte. Cadeva
in ginocchio, scivolava, sentiva i punti alla spalla tirare e iniziare a
cedere, ma riprovava ancora.
Sotto allo sguardo di Erwin,
che li guardava dalla finestra con pacato compiacimento, andarono avanti fino a
sera.
I pochi membri della Legione
rimasti, sotto gli ordini del Capitano Smith, partirono dalla Capitale l’ultimo
giorno del mese di luglio, ben dieci giorni dopo esservi arrivati.
Erwin aveva portato avanti un
po’ di impegni burocratici che Shadis aveva troppo a
lungo rimandato, poi era rimasto per impedire alla madre di uccidere la sorella
o viceversa. La missione oltre le mura era stata rimandata di un mese, per la
fine di agosto.
Levi sarebbe ritornato in
Capitale, in licenza, per la metà di settembre, se non dopo.
Nina aveva molto tempo per
rinforzarsi e guarire, non avrebbe perso
tempo.
Si era allenata strenuamente,
continuando a studiare e a frequentare i corsi per le abilitazioni che avrebbe
dovuto dare entro la fine di novembre, arrivando alla sera così stanca da trascinarsi
a mala pena a letto.
Fritz, che era ripartito per Renìn, aveva espresso più di una preoccupazione, ma non
aveva mai aiutato Nina nell’allenamento per paura di finire pestato nel suo
stesso giardino di casa. Il signor Meier, al contrario, sembrava incoraggiarla.
Jara si asteneva in modo molto democratico, ma doveva
ammettere che i segni del duro impegno iniziavano a manifestarsi.
“Sembri più sana ogni giorno
che passa” continuava a ripeterle, mentre la guardava annodare i lacci dei
calzari che le arrivavano poco sopra alla caviglia e con i quali Nina andava a
correre ancor prima che salisse l’alba, “Se continui così arriverai a
stenderlo, il tuo Levi.”
Inutile dire che Jara era stata un vero incubo per tutto il tempo che l’uomo
si era intrattenuto nella caserma della Capitale.
E le cose sembravano essere
prossime a degenerare, visto che Levi aveva richiesto una licenza prolungata di
un paio di mesi per ‘questioni famigliari’.Avrebbe soggiornato dai Meier su invito stesso del padrone di casa, per
la gioia di Fritz che sarebbe dovuto tornare entro gli inizi di ottobre. Più
che gelosia, quella che Fritz provava nei confronti del moro era una sana
inquietudine.
I modi gentili del giovane
cerusico comunque nascondevano egregiamente quel sentimento.
Levi sarebbe quindi tornato
in Capitale per rimanere fin quasi all’anno nuovo. Forse Nina l’avrebbe
addirittura convinto ad andare a Stohess con lei ed
Erwin.
C’era però un’altra
incombenza nella quale le sarebbe piaciuto coinvolgerlo ed essa capitava,
guarda caso, proprio nei giorni in cui sarebbe dovuto tornare. Ogni anno, il
terzo giorno di ottobre, il Comandante Dot Pixis
della Guarnigione teneva un magnifico ricevimento nella casa che il Re in
persona aveva donato al recante di quel titolo, nelle campagne attorno alla
Capitale. Non era una data casuale, ma l’anniversario di nascita dell’unico
figlio che l’uomo aveva avuto e che purtroppo era venuto a mancare in tenera
età. Pixis
comunque, come si sapeva bene, preferiva aprire le sue porte ad ogni membro del
corpo militare che potesse raggiungere la sua casa, piuttosto che chiudersi in
quel lutto ormai lontano.
Nina aveva partecipato per la
prima volta a un ricevimento di quella portata a soli quattordici anni, come
accompagnatrice di suo fratello maggiore Friedelhm e
non aveva mai acquistato un solo abito dalla prima volta, perché aveva sempre
provveduto Nora Kessler a fargliene avere uno dismesso da lei o da sua figlia
Kara. In ogni caso, Nina non se lo saprebbe mai potuto permettere di così bello
nuovo.
Ogni anno, dopo il promo, ci
andava accompagnata Fritz e Leopold e ogni anno conosceva le persone più
disparate o salutava vecchie conoscenze.
Quell’anno non faceva
eccezione, anche se qualche novità c’era.
“Secondo me dovresti
smetterla. Inizi a essere un po’ patetico, visto che si è capito che aria tira.”
Fritz alzò gli occhi dalla
camicia bianca fresca di inamidatura, che aveva indossato sotto al pastrano
elegante per le grandi occasioni. Leopold, che indossava la medesima giubba ma
che, al posto delle Ali della Libertà impresse sulla schiena, recava l’unicorno
dei gendarmi, lo spiava con un certo disappunto. Sembrava fermo su ciò che
aveva appena detto, ma l’amico non aveva inteso.
“Puoi per favore inserire un
soggetto e un verbo principale nella frase? Perché non è molto chiara così” lo
rimbeccò, andando a raddrizzare il colletto della camicia color panna dell’amico.
Leo sbuffò “Nina” disse come
se fosse la cosa più ovvia del mondo, alzando il mento per lasciarlo fare “Tu
che vai al ballo con Nina.”
“Cosa che faccio da anni” gli
ricordò il dottorino, facendo poi scivolare le mani nelle tasche ed estraendo
due siringhe, un ricambio di garza e qualche cerotto. Come diavolo c’erano
finiti nella giacca di gala? “Non capisco quale sia il tuo problema.”
“Te lo dirò molto chiaro,
quindi sarò un po’ brusco: Nina viene al ballo con te perché quello non ha intenzione di venire.”
Più che brusco, l’effetto che
le parole del rosso ebbero su Meier furono paragonabili a una pioggia gelata
lungo la schiena. Senza nemmeno curarsi troppo di non esser visto, Fritz si
voltò verso la porta a vetrate che conduceva nel salotto in cui, seduto su
quella che solitamente era la sua poltrona, c’era Levi.
Trovarlo lì al suo arrivo,
che era avvenuto solo due giorni prima, non era stato esattamente esaltante, ma
dopotutto era stato suo padre ad offrirgli come alloggio la loro mansarda per
quella che sembrava una licenza insolitamente lunga e generosamente concessa. Fritz
studiò il profilo netto dell’uomo, facendo davvero fatica ad attribuirgli un’età
precisa. Sicuramente era un uomo maturo e fatto rispetto a lui, ma datarlo era
complesso. Poteva vagamente intuire il perché Nina fosse così affascinata da
lui, però-
“Lo ama follemente” di nuovo,
Leopold partì all’attacco “Lo guarda come se fosse il suo eroe. Lo ammira più
di quanto ammira Erwin e ho detto tutto con questo.”
“Questo l’hai deciso tu.”
“No, l’ho visto. Nina è
trasparente come l’acqua di sorgente; quello che pensa glielo si legge in
faccia.”
Per puro istinto di
sopravvivenza- ci teneva a mantenersi sano mentalmente- Fritz smise di
prestagli attenzione. Controllo che gli stivali nuovi fossero lucidi e si
specchiò nelle vetrate per verificare che non gli fosse rimasto del prezzemolo
fra i denti, dopo la cena. Ma questo avrebbe mai potuto fermare Leopold Schitz? Naturalmente no.
“Ti tratta come un povero
ritardato per non ferirti” proseguì nella sua orazione, sinceramente dispiaciuto
per essere lui la persona designata per quell’infame compito “Anche se dovesse
dirti che sarebbe venuta al ballo con te a prescindere dalla presenza o meno di
quel nano inquietante, sarebbe una menzogna. E tu lo sai. Lo sanno tutti. Se ci
fosse qui Rielke, ti prenderebbe a schiaffi.”
“Se Rielke
non si fosse preso mille permessi prima, sarebbe qui a farlo o meno.”
“Non cercare di distrarmi
parlando di Rielke” fu la ribeccata che Meier
ricevette, con tanto di alzata di indice e pacca sul braccio degna di una vera damina “Dovresti svegliarti adesso e trovarti una donna che
ti ami. Che ti voglia davvero. Se conosco abbastanza bene sia te che Nina, so
già che finireste infelici e compiacervi a vicenda per non ferirvi.”
“Per te è così difficile
credere che uno come me possa rendere felice una donna come Nina?”
Ci sarebbero stati tanti,
mille modi in cui Leopold avrebbe voluto rispondere. Scelse il peggiore, ma
anche il più incisivo di tutti.
“No, sono certo che tu
potresti renderla la donna più felice del mondo. Solo che lei non vuole te.”
Il silenzio che venne a
crearsi non piacque al rosso malpelo, ma non si incolpava di nulla se non di
essere stato un poco pesante. Lo faceva per Fritz, perché era da tempo che
avrebbe dovuto svegliarsi. Perché amava così tanto Nina da non vedere nient’altro
e da esserne del tutto schiacciato. E questo non andava bene per nessuno.
Non sapevano cosa dire,
nessuno dei due, per riprendere a parlare dopo quel bagno di realtà poco
gradevole da entrambe le parti. Come una salvatrice, fu la voce tonante e per
niente aggraziata di Jara a interrompere ogni
diatriba.
“Possiamo avere un po’ di
attenzione?”
“Stanno scendendo” Leo si
sporse nel salotto, attirando l’attenzione del signor Meier e di Levi, che si
alzarono insieme, appoggiando i libri che tenevano fra le mani e di cui stavano
disquisendo ormai dalla fine del pasto.
“Pensavo fossero morte, lassù”
disse l’ospite più recente, incrociando le braccia e fissando il suo solito
cipiglio severo su per le scale, dalle quali però ancora nessuno s’era
affacciato.
“Non conoscete le donne,
Levi?” chiese con un poco di baldanza Fritz, quasi compiaciuto perché a quanto
pareva, lui le conosceva eccome. Almeno dall’espressione che aveva pareva
convinto “Se s’hanno da prepararsi, allora ti fanno aspettare tutta la notte.”
“Tanto quella festa, se ben
ricordo, non ha orari” si permise di intervenire Franz, battendo una mano sulle
spalle di Leo, che gli sorrise divertito.
“Perché non venite anche voi,
signor Meier?” domandò proprio questi, incrociando le braccia mentre un
ticchettio di tacchetti iniziava a farsi sentire “Ci sarà da divertirsi.”
“Di feste di Dot Pixis ne ho viste tante nella mia vita. Ormai non ho più l’età!
Oh, ma guardate che splendore di figlia che ho!”
Dalle scale si stava
affacciando proprio la figlia del padrone di casa, avvolta in un abito dei
colori dell’autunno, che nonostante i fondi non le mancassero, aveva provveduto
a cucirsi da sola scegliendo con cura ogni stoffa e ogni merletto.
Fritz guardò divertito
Leopold, che pareva aver perso il dono della parola di fronte all’immagine
della donna che tanto bramava.
E che tanto lo ignorava.
Deciso a fare il degno fratello
minore, parlò da screanzato “Strano che non si sia ancora maritata, vero?”
domandò retorico, sporgendosi in avanti col busto quanto lei gli fu di fronte “Saranno
i modi più virili dei miei, magari?”
La ricompensa fu uno schiaffo
sulla nuca “Ci vuol poco ad essere più virile di te, Lotto! Taci o ti pianto di
testa nel porta ombrelli!” lo ammonì severa la valchiria, che lo superava anche
in altezza. Sistemandosi un poco i capelli acconciati, Jara
si voltò di nuovo verso le scale, non prestando di un solo sguardo a Leopold,
che era dopotutto il suo accompagnatore ufficiale “Preparatevi per Nina. L’abito di quest’anno è
meraviglioso?”
“Più bello di quello verde?”
domandò Fritz, già in un brodo di giuggiole.
“Di gran lunga. Nina! Andiamo!
Se il seno non rimane nello scollo ora, non lo farà nemmeno dopo!”
Improvvisamente, l’attenzione
generale si acutizzò. “Arrivo, arrivo!” fu il debole lamento della bionda “Il
problema è la gonna!”
“Un po’ ingombrante” li mise
al corrente Jara, incrociando le mani sul ventre, in
attesa come gli altri.
Nina si fece pregare ancora
un po’, prima di iniziare a scendere la scalinata. Da prima non si vide molto,
se non un oceano di tulle e organza azzurra, sorretto dalle mani sottili di
Nina. Gli stivaletti neri fecero gracchiare le assi delle scale, mentre un po’
precaria, la giovane scendeva i primi gradini. Quando lasciò cadere la gonna,
mostrando il volto, calò il silenzio.
Dei quattro uomini presenti,
nessuno riuscì a rimanere indifferente. Nemmeno e – soprattutto- Levi.
Nina, così come ogni membro
della famiglia Müller, era bella; non in via soggettiva, assolutamente. Nina era una ragazza
incredibilmente bella. Il vestito, come anticipato da Jara
scollato, lasciava scoperte le spalle e un po’ il petto, sorretto dal bustino
intrecciato. Un mare di lentiggini come quelle che portava sulle guance e sulle
tempie le inondavano la pelle chiara fino alle mani e nonostante la spalla
ancora fasciata – anche se era guarita,
la cicatrice ancora fresca non era bella da vedere- e il livido sotto all’occhio
frutto dei primi allentamenti dall’arrivo di Levi, era comunque incantevole.
“Sembri un sogno” fu il primo
commento che arrivò da coloro che la attendevano, precisamente dal signor
Meier, che le si rivolse incoraggiante. Lei sorrise raggiante, spostando gli
occhi su ciascuno di loro e arrossendo lievemente, solo un poco, quando
incontrò quelli chiari di Levi.
Lei, che non si imbarazzava
mai, si trovò un po’ in difficoltà nel non riuscire a decifrare la sua
espressione, così si limitò ad abbassare gli occhi, deconcentrandosi. Pestò il
tulle della gonna a ruota e lei sentì qualcosa strapparsi là sotto. Perse l’equilibrio
mentre scendeva il penultimo gradino, cadendo sul sedere, sepolta nella stoffa.
E rompendo l’incanto.
“Non importa” disse
diplomatico Leopold, mentre lui e Fritz accorrevano in suo soccorso, per
tirarla su “Ci hai provato, Nina. Peccato che tu sia la donna meno femminile
che conosco.”
“Guarda che conosci Jara” gli fece presente l’altro, rischiando un altro schiaffo.
Nina si sistemò a sua volta i capelli, nello stesso modo in cui l’aveva fatto l’amica,
mentre lui la guardava da vicino. Molto vicino “Sei…
Non so nemmeno come descriverti.”
Lei gli sorride, battendogli
una mano sul petto “Ti passerò un dizionario” lo prese in giro, lisciando il
tessuto azzurro della gonna per poi passare le mani sul corpetto lavorato “Bellissimo
vero? Più di quello verde.”
“Per me quello verde rimane
imbattibile” protestò Leo, prima di voltarsi verso la sua accompagnatrice per
complimentarsi.
“Il Comandante Kessler si è
superata questa volta, anche se addosso a lei non me lo figuro.”
“Questo era della figlia,
Kara” lo informò la ragazza, prima di passare le mani sulla sua giacca per
lisciarla “Siete splendidi.”
“Tutti gli uomini vestiti
uguali, sai che originalità” fu la lamentela di Jara,
che già aveva aperto la porta, mentre ancora si allacciava la mantella sulle
spalle. Il vento di ottobre entrò nella casa, facendo rabbrividire Nina, la
quale venne prontamente coperta col il suo mantello da Friederich.
“A me piace la giacca della
divisa da gala” si difese Nina, guardando verso la carrozza che già li stava
aspettando. Per quanto preferisse cavalcare, sarebbe stato complesso con quell’abito
addosso.
Mentre il signor Meier si
raccomandava ai figli di non fare gli
stupidi, Nina si accostò a Levi. Con quegli stivaletti, ai quindici
centimetri che aveva in più dell’uomo, ne poteva aggiungere almeno altri
cinque. Per questo lo guardò divertita, appoggiandogli le mani sulle spalle “Sto
bene?” domandò un po’ civettuola, guardandolo negli occhi.
“Non sei da buttar via” fu la
risposta laconica di Levi, che passò gli occhi dalla spalla fasciata allo
scollo molto rapidamente, per poi ripuntarli nelle
iridi eterocrome della giovane donna “Non fare tardi, domani abbiamo gli
allenamenti.”
“Non lo farò” rispose lei
velocemente, come per rendere chiaro che non sarebbe mancata. Non si scostò
ancora da lui “Sei certo di non voler venire? Nella carrozza c’è ancora posto….”
Levi non rispose subito. Lanciò
uno sguardo verso Jara che stava montandovi,
rifiutando l’aiuto del cocchiere, fino a Fritz che aspettava sulla porta con la
stessa fedeltà di un cane in attesa.
Nina decise di lasciar
perdere. Lasciò cadere le braccia lontane da lui, fino alla gonna, che strinse
appena “Sai, l’avrei voluto viola” disse, alludendo all’abito con un sorrisetto
un po’ pallido rispetto ai precedenti “Si sarebbe abbinato bene all’occhio
pesto, così.”
Gli fece l’occhiolino, prima di
voltarsi e andare alla porta. Non prima, però, di essersi chinata per
lasciargli un bacio sulla guancia con la stessa innocente sfacciataggine di una
bambina. La porta si chiuse e il signor Meier lo invitò a tornare a leggere
senza nascondere un sorrisetto lungimirante. La proposta venne accettata di
buon grado.
Prima, però, si perse in un
pensiero.
Come aveva potuto non
accorgersene mai?
Nina profumava di fiori di
lavanda e liquerizia.
La villa di campagna del Comandante
Pixis brulicava delle più disparate personalità
quando arrivarono, dopo quasi un’ora di carrozza per la zona rurale attorno
alla Capitale. Erwin era già lì ad aspettarli insieme a un uomo bello come ve
ne erano assai pochi, alto e con le spalle non troppo larghe, soprattutto se
paragonato a Smith.
FriedelhmMüllernon era solo avvenente come la sorella, aveva
anche qualcosa di unico che non condivideva con nessun altro della famiglia ad
eccezione del padre Wilhelm; un occhio era azzurro come il cielo d’estate senza
una nuvola, mentre l’altro era marrone scuro, così tanto sa sembrare nero sotto
alle luci delle lampade ad olio che illuminavano la serata. Appena aveva visto
Nina se l’era coccolata bene, non perdendo però di vista il resto delle persone
che accalcavano il salone dei ricevimenti. C’erano solo due cose che il
Capitano di Gendarmeria Müller proprio non riusciva a
ignorare: il buon vino e le belle donne. Gusti che l’avevano fatto entrare di
prepotenza nella rosa di simpatie del Comandante Pixis,
ma che avevano reso sua moglie Marika un po’ infelice.
In quel tipo di eventi lui ci
sguazzava bene come una trota nel fiume; ovunque c’erano persone divertite,
belle donne agghindate e soldati pronti a complimentarsi con lui per la
gestione della polizia militare nel distretto di Stohess,
di cui era Capitano Esecutivo.
“Schultz?”
chiamòl’amico, indicando poco distante
qualcosa, mentre Nina stretta al suo braccio parlava con Mike Zacharius “La vedi anche tu quella bella mora insieme al
Capitano Erik Schmidt di Briemer?”
Il moro allampanato al suo
fianco si voltò, tenendo in mano il bicchiere di fronte a sé, nel tentativo di
prendere un sorso “Sì.”
“Andiamo a conoscerla” con un
sorriso smaliziato, fece cenno che era pronto a iniziare la caccia “Ci vediamo
dopo sorellina, non fare strage di cuori e trova marito, così che tua madre la
smetta di assillare anche me”disse a Nina, baciandole la fronte e lasciandola
lì con Fritz e Leo. Persino Jara si era buttata nella
mischia a far conoscenze, abbandonandoli.
“Non cambierà mai. E parlo di
lui, non di mia madre, che nemmeno me lo chiedo se mai smetterà di essere così
assillante con qualsiasi persona” sussurrò la biondina rassegnata , rendendosi
conto che Fried le aveva pure rifilato in mano il
bicchiere vuoto.
“Si gode la vita” rispose
Leo, prima di sistemarsi la giacca “Vado a cercare di farmi notare da Jara. A dopo”
“In bocca al lupo” fu il
commento divertito di Fritz, mentre con finta non cura prendeva la mano di Nina
tra le pieghe del tessuto azzurro, sentendo la stretta ricambiata senza
indugio.
Però non lo guardava, rivolta
a Mike “Nababa e Thoma?”
Lui alzò le spalle, infastidito
dall’essere costretto nella giacca elegante “Sono rimasti a Trost.
Qualcuno doveva pur rimanere lì.”
“Anche Hanji?”
si informò ancora quella. Era strano, solitamente la Zoë
non perdeva occasione di partecipare a frivolezze come quelle. Diceva che la
metteva di buon umore un alto concentrato di essere umani tutti nella stessa
stanza.
“Lei è venuta con noi, ma l’abbiamo
persa in Capitale.”
Quella frase, soprattutto riferita
a un tipetto come Hanji, era quasi inquietante. Nina non
ebbe però il tempo di rispondere, perché Erwin entrò nel suo campo visivo in
tutta la sua mastodontica presenza “Te la rubo per un ballo, dottore” disse
amabile a Fritz, che si ritrovò un po’ spiazzato quando Nina venne portava
verso la pista da ballo dal fratello maggiore.
Il giovane medico non avrebbe
mai detto nulla a Erwin, soprattutto in virtù del fatto che poco prima gli
aveva domandato un enorme favore. Fritz aveva fatto richiesta per essere
riassegnato. Sperava di venire spostato da Renin a Trost, così da poter andare laddove c’era davvero bisogno
di azione e insieme a Nina e il resto della loro compagnia di vecchi amici. Senza
una spinta del Capitano sarebbe stato difficile finire assegnato nel meridione
e non voleva rischiare di finire a Nedlay.
Nina sapeva che intanto il
fratello se ne sarebbe dimenticato. Gli avrebbe lasciato qualche nota qua e la
nello studio.
“Cosa succede?” domandò
proprio la ragazza in questione a mezza voce, prima di capirlo “No, non dirmi
che lo sta facendo di nuovo..”
Fratello e sorella si
guardarono complici, mentre, poco distanti da dove Erwin l’aveva condotta, il
Capitano Schäfer della ricognitiva, di istanza a Shigashina, parlava fitto con Shadis.
“Se ci fossero delle
premiazioni speciali per chi sa leccare bene il culo, lui sarebbe il campione
incontrastato.”
“Passare del tempo con Levi
non ti fa bene.”
Nina sbuffò, tirandolo poco
più avanti “Almeno balliamo, ora. Poi andremo da Shadis
e gli ricorderemo chi sarà il futuro Comandante della Legione.”
Erwin rise, appoggiando una
mano sul fianco della sorella e l’altre contro la sua, palmo contro palmo,
iniziando poi a girare su se stesso non appena anche Nina ebbe trovatoil suo fianco opposto “Forse lui è meglio di
me.”
“Non lo pensi davvero” lo
corresse subito lei, anche se sapendo come era Erwin, si considerava
probabilmente il più qualificato anche se il meno adatto. O forse il contrario,
chi poteva dirlo. Il punto però rimaneva, Schäfer non
le piaceva, non le era mai piaciuto, con quel cipiglio di superiorità
nonostante la stazione della Legione di Shigashina
fosse vassalla della sede centrale del meridione, che era la loro di Trost. Come Briemer e Nedlay, per intenderci.
“Una cosa però è certa” Erwin
le parlò direttamente nell’orecchio, così da non farsi sentire “Shadis vorrebbe essere ovunque, se non qui. Forse anche in
mezzo a dei giganti.”
Per buona misura, Nina
scoppiò a ridere, attirando su di sé più di uno sguardo.
Levi si domandò perché si era
lasciato convincere da Hanji ad arrivare fino a lì.
La giacca che la donna gli
aveva prestato era bella, non si capiva che non fosse da uomo ma della donna,
peccato però che stringesse troppo sulle spalle e gli stesse lunga nelle
maniche.
Non era la sola cosa ad
irritarlo a morte, però.
C’erano troppe persone, che
lo guardavano incuriosite. Levi era stato vittima di quello che poteva
tranquillamente essere definito come un sequestro di persona; Hanji si era presentata a casa dei Meier con un bislacco
abito pervinca dall’aria vissuta, iniziando a riempirgli la testa di domande sul
perché non volesse andarci e cazzate,
trovando anche supporto nel padrone di casa nel momento in cui l’aveva invitato
a starsene zitto e salire a cavallo. Persino quando Levi le aveva detto, senza
giri di parole, “Non mi ero accorto tu fossi una donna prima di averti visto
ora con una gonna” lei non si era scoraggiata.
Alla fine, aveva vinto
tirando fuori la peggiore delle argomentazioni: a Nina farebbe così tanto piacere se tu venissi.
Lui aveva inizialmente
risposto con un gigantesco chi se ne frega,
prima di cedere alle insistenze di non una, ma di ben due persone. Non poteva
nascondere che non fosse lì per Nina, perché anche se era solo una ragazzina,
era gentile e aiutava sempre chiunque ne avesse bisogno e Hanji
aveva più e più volte rimarcato proprio su quel fattore.
“Lei è persa di te e tu sei
la sua ombra, Levi. Accettalo e metti questa giacca.”
Arrivato alla festa, però,
non poteva crederci di avere davvero accettato, sembrava uno scherzo. Ormai però
era lì e quindi dopo aver rubato un bicchiere di vino per stemperare l’atmosfera,
aveva cercato la ragazzina fra la folla. L’aveva trovata a ballare insieme a
Fritz, sorridente e divertita, saltellando qua e la come un passerotto avvolto
in una balla di tulle celestino. Lei non si era accorta di lui per due balli
interi, ma poi, la sorte ci aveva messo del suo. Fritz si era scostato per
tirare una spintarella a Leopold e lei l’aveva scorto oltre la spalla del suo
compagno di danze. Nell’esatto momento in cui i loro occhi si erano trovati,
Levi aveva provato un sensazione strana, che l’aveva portato a muovere qualche
passo verso di lei.
Da parte sua, Nina non aveva
esitato. “Scusami” aveva sussurrato a Fritz, scostandosi dalla sua presa e
camminando a sua volta verso l’uomo. Lei, nel momento in cui i loro sguardi si
erano incontrati a metà strada sulla pista da ballo, si era sentita come se in
quella stanza non ci fosse stato nessun altro se non loro. “Sono allibita” fu
la prima cosa che gli disse, sorridendo, quando se lo trovò di fronte “Non mi
aspettavo che alla fine saresti venuto.”
“Hanji”
fu la sola cosa che sputò fuori quello, non nascondendo la seccatura.
“Hanji”
ripeté Nina con una certa consapevolezza nella voce, mista al divertimento “Sono
felice che tu sia qui però…” gli alzò il braccio,
guardando il modo in cui la giacca cadeva sul polso e sulla mano “Questa non è
della tua misura.”
“Non mi hanno consegnato
nessuna giubba elegante quando mi hanno arruolato a forza, scusami” rispose
ancor più piccato il moro, prima di guardarla con un sopracciglio alzato “Allora,
come funziona?” domandò ammorbidendo il tono “Dovremmo ballare, oppure che ne
so-”
“Nina?” una voce li
interruppe, scocciando non poco Levi che scoccò un’occhiata poco gentile al
nuovo venuto.
“Capitano Schmidt” lo salutò cordiale Nina, allungando
la mano per stringergliela “Ancora non ci siamo salutati.”
“E abbiamo rischiato di non
farlo, perché io me ne sto andando. Non è cosa per me.” Ridacchiando, il biondone si grattò la nuca, dopo aver ritratto la mano, “Tuo
fratello l’ha combinata nuovamente.”
“Non devo nemmeno chiederti
di quale fratello parli” gli disse lei, arrendevole “Friedè…. Unico. Dimmi che la mora non era tua moglie,
almeno.”
La bella mora in abito rosso provocante
che per tutta la sera aveva goduto della compagnia di suo fratello maggiore – e
che con lui si era allontanata non molto tempo prima- era arrivata proprio
insieme a Schmidt. Nina ci aveva
scambiato un paio di parole, con quella bella mora, mentre lei e Fritz
salutavano le vecchie conoscenze della Legione del nord.
“No, Lottie
è la mia seconda in comando” rispose lui “Speravo di farla mettere insieme a SchultzSmeltzer, ma tuo fratello
è stato più veloce di lui.”
“Come al solito” rilanciò
Nina, prima di realizzare che nonostante Levi fosse silenzioso, non era
trasparente “Come sono sciocca, non ho fatto le presentazioni” appoggiando una
mano sulla spalla del moro, lo sospinse appena in avanti “Lui è il Capitano
Erik Schmidt della ricognitiva” iniziò a dire mentre i due si stringevano la
mano “Coordina l’avamposto settentrionale di Briemer.
Lui invece è Levi e basta, la nostra
nuova arma di distruzione totale.”
Un leggero vociare si diffuse
attorno a loro, anche in virtù del fatto che la musica aveva cessato di suonare
proprio nel momento della presentazione per rallegrarsi in un motivetto più
incalzante. Ironico. Levi si guardò attorno, non conscio della popolarità che
iniziava già ad acquisire nonostante fosse arrivato da pochi mesi.
I soldati della Legione
parlavano, a casa e in osteria, dell’uomo che da solo aveva ucciso cinque
gigante e fatto breccia nelle preferenze del Capitano Smith.
“Un onore conoscere un uomo
con una fama così grande” fu il solo commento di Erik “Al nord ci farebbe
comodo una persona come te, Levi.”
“Fidati” gli fece eco Nina,
intenzionata a non spostare la mano dalla spalla del moro “A sud ne abbiamo
molto più bisogno.”
Come chiamato dal cielo,
anche Erwin arrivò da loro, facendo sciogliere un po’ le persone che attorno ai
tre parlavano guardando Levi. Tornarono tutti a ballare, forse per non
sfigurare di fronte al promettente Capitano, che invece guardò il moretto senza
velare nemmeno minimamente il suo divertito “Erik” disse però, salutando l’amico
e stringendogli la mano “Sono felice di vederti. Fa freddo al nord?”
Quella domanda gliela
rivolgeva sempre, ogni volta che lo vedeva. Erik infatti ruggì una risata,
dandogli un leggero colpetto con il gomito nelle costole “Così tanto che i
giganti non si fanno vedere tanto spesso! Come non capirli però, si sa che
problema hanno.”
“Sono nudi, dopotutto” lo
assecondò Erwin, facendo alzare gli occhi a Nina.
“Il discorso non assumerà un
tono migliore” fece sapere a Levi, prendendogli il polso e tirandolo verso la
pista “Divertitevi!”
“Spero di rivederti presto,
Nina!” Erik li guardò passare in mezzo alle persone, fino a trovarsi un posto
loro.
Anche Erwin non li perse di
vista, incrociando le braccia sul petto “Sai” disse al suo interlocutore,
attirando la sua attenzione “Non so se dispiacermi di più per Levi che è costretto
a sopportare le angherie di mia sorella…” fece una
breve pausa, notando il modo in cui Levi cercava di copiare i passi degli altri
uomini, mentre Nina lo rimproverava apertamente del fatto che non le stesse
dando retta e che era meglio se conduceva lei “Oppure per il dottor Meier che l’ha
accompagnata.”
“Ah, l’amore giovane” fu il
solo commento di Erik, mentre prendeva un bel respiro “Ti fa dimenticare anche
i giganti.”
Levi si era seriamente pentito di essere andato lì
quando Erwin l’aveva placcato durante la fuga dalla pista da ballo, iniziando a
presentarlo a destra e a manca come il
suo uomo migliore. Si era dovuto sorbire le occhiate incuriosite del
Comandante Pixis, i sorrisi divertiti di chi sa
qualcosa di troppo di Nora Kessler, le occhiate perplesse e non troppo convinte
di NileDoak e le domande
stupide di così tante persone da aver perso il conto. L’argomento principale
era la sua vita nel ghetto. Per quegli ufficiali, abituati da sempre o da
troppo tempo alla Capitale, il mondo al di sotto dei loro agi sembrava lontano
e irraggiungibile, anche se ci camminavano letteralmente sopra. Levi rispondeva
a mezza bocca, iniziando ad indisporsi via via che le
conoscenze aumentavano. Alla fine, Erwin lo fece allontanare, dedicandosi a Nile e iniziando a parlare di una certa Marie, di cui Levi
non voleva sapere niente. Basta persone che parlano di altre che lui non
conosceva e che non voleva conoscere. Non era lì per quello.
Certo di non voler parlare
con Hanji, che lo salutava da ritta accanto a Zacharius, si diresse verso il primo volto conosciuto “Oi” tuonò facendo sobbalzare le spalle di Leo, impegnato in
una conversazione con altri quattro gendarmi “Hai visto Nina?” domandò
schietto, attendendo una risposta con una certa impazienza nello sguardo.
Il rosso lo guardò
sbrigativo, prima di indicare una porta a vetri ampia e alta “L’ho vista uscire
in giardino poco fa.”
Levi non si prese il disturbo
di ringraziare. Gli riservò un cenno con il capo, stanco di tutta quella
confusione e deciso a costringere la bionda a portarlo a casa dei Meier prima
di subito, nonostante la festa paresse lontana dal terminare.
Aveva addirittura sentito
qualcuno dire che si sarebbe protratta fino all’alba e gli venivano i brividi
solo al pensiero.
La trovò insieme a Jara e a un’altra donna dal caschetto moro, tutte e tre
sedute sulla fontana e con i piedi in ammollo nonostante fosse iniziato
ottobre.
Un ottimo modo per beccarsi
una polmonite, e pensare che due su tre erano persino laureate in medicina. Come
non detto, non era un pezzo di carta a far di una persona furba. Si avvicinò e
loro lo videro avanzare sin da subito. Manco avesse la peste, vide Jara balzare in piedi insieme all’altra donna e con una
scusa banale sparire verso la sala con ancora le scarpe in mano.
“Le hai spaventate” gli disse
Nina mentre cercava di trovare un senso in tutta la stoffa che le componeva il
vestito.
“Tch.”
Come se quella potesse definirsi paura “Se volevano lasciarci soli, potevi dire
loro che passiamo già un significativo lasso di tempo insieme, durante la
giornata.”
A Levi non sfuggì il leggero
rossore che colorò le orecchie di Nina in quel momento, ma non commentò. Aveva detto
anche troppo. Lei alzò un piede, appoggiandolo sul bordo della fontana “In
effetti ultimamente passi più tempo a picchiare me che a fare qualsiasi altra
cosa” gli fece notare con tono leggero, mentre spingeva via il tulle con poca
grazia.
“Fammi vedere, avanti.” L’uomo
sedette accanto a lei, attendendo che Nina allungasse la gamba. Quando ebbe
appoggiato il polpaccio asciutto sui pantaloni neri dell’uomo, Levi poté notare
tutte le vesciche che si erano formate sul piede della giovane, alcune delle
quali sanguinava “Voi donne siete tutte matte” ammise, scuotendo il capo e
facendosi passare le garze che Nina si era preventivamente portata da casa,
nascondendole nel sottogonna “Se ti facevano male, perché li hai messi?”
“Perché non potevo mettere
quelli militari sotto a un abito così.”
“Che sciocchezze. Ammalarti non
ti esonererà dalla levata, domani. ”
Nina non disse altro. Lo guardò
avvolgere il collo del piede fino al tallone nella garza bianca, prima di aiutarla
a rimettere le calze bianche ora macchiate di rosso vermiglio e ripetere il
procedimento con l’altro piede. C’era qualcosa di aggraziato nei movimenti di
Levi, quasi dolce. Nina lo vedeva come un uomo spaccato in due, due diverse
personalità che condividevano la stessa incredibile mente. Da un lato c’era il
soldato, sembrava essere nato per indossare le Ali della Libertà; dall’altro c’era
Levi. Solo Levi.
Forse la persona più buona e
gentile che Nina avesse mai incontrato.
Incredibilmente, anche la più
sboccata.
Le due cose convivevano
perfettamente, anche se sembrava un ossimoro.
Nina lasciò le gambe su
quelle dell’uomo, mentre il vento autunnale le faceva accapponare la pelle
delle spalle. Nonostante questo, però stava bene, perché in quei mesi lontano,
Levi le era mancato. Nonostante fossero silenzio, era perfetto così.
Le loro giornate insieme
erano alternate da lunghi silenzi che però non pesavano. Erano rincuoranti
sotto diversi punti di vista. La faceva sentire bene il pensiero di trovarsi
così a suo agio con una persona da non doverle nemmeno rivolgere la parola. Non
c’era imbarazzo, iniziavano a capirsi a vicenda anche con solo uno sguardo.
E lei, giorno dopo giorno,
silenzio dopo silenzio, si innamorava sempre di più di lui.
Forse era un sentimento unilaterale,
dal suo punto di vista lo era, ma lui la riusciva a far sentire bene anche con
solo la sua presenza. Allungò una mano, senza esitazione scostandogli i capelli
mori dal viso e parandoli indietro per guardarlo. Anche il modo in cui lui si
lasciava toccare, non sembrava urtarlo. Addirittura, Levi socchiuse leggermente
gli occhi, come un gatto “Almeno un po’ ti stai divertendo?” gli domandò,
arricciando le labbra in un sorrisetto.
“No.”
“Lo sapevo.”
Si scambiarono uno sguardo e
quando Nina puntò il suo nuovamente verso la porta finestra che dava sul
giardino curato, ci trovò Fritz. Il ragazzo stava tentando di tornare dentro,
ma quando lei lo chiamò con voce squillante, comprese di non aver scelta se non
andare verso di loro con le mani in tasca e una muta rassegnazione.
Levi lo guardò, chiedendosi
quanto si dovesse essere innamorati prima di urlarlo apertamente al culmine
della frustrazione.
Non era un idiota, aveva
capito cosa stava succedendo.
“Chiedimelo.”
La voce di Nina lo fece
voltare di nuovo verso di lei, mentre il dottore compiva a piccoli passi la
distanza fra lui e la coppia seduta sulla fontana “Prego?”
“Quello che sei venuto a
chiedermi” lo incalzò lei, allungando le mani per sfiorarsi la punta dei piedi
e stirarsi “Chiedimelo.”
“Voglio lasciare questa
merdosa festa, possiamo andare?”
Nina rise “Va a dire a
Leopold che è ora, quindi” gli rispose, spostando i piedi di nuovo sull’erba e
recuperando gli stivaletti.
“Ti lascio col tuo fidanzato”
le rispose lui per vendetta, sussurrandoglielo sulla spalla e facendola
rabbrividire di nuovo, prima di alzarsi per allontanarsi.
“Levi non-sei uno stronzo!”
non si risparmiò di urlargli dietro Nina, tirando i lacci del primo stivale
mentre Fritz la raggiungeva con un’espressione indecifrabile “Mi facevano male
i piedi” lo mise al corrente con un tono un po’ da bambina, allungando la mano
per tirargli il giaccone “Mi porti in braccio?”
Fritz sbuffò una risata,
sedendosi con lei.
Ci fu di nuovo silenzio, ma
quello non fu rincuorante e famigliare. Non fu complice.
C’era imbarazzo e Nina sapeva
che avrebbe dovuto lasciarlo parlare.
Lui doveva dirle qualcosa,
doveva darle la cosa che lei sapeva aveva sempre con sé in tasca e doveva
sentirsi dire di no.
Invece, di nuovo, decise di
proteggerlo “Sarei venuta con te a questo ballo, Fritz” gli disse con tono
dolce “In ogni caso. Anche se avessi ricevuto un’altra proposta mentre stavo salendo
sulla carrozza.”
Lui si sporse, baciandola sulla
guancia mentre le avvolgeva le spalle col braccio per schermarla dal vento “Lo
so.”
Lo sapeva e non che lei
sarebbe comunque andata con lui.
Sapeva quello che Leopold
aveva detto a inizio serata, prima ancora di lasciare casa.
Non importava, però.
Avrebbe continuato a fare
finta di niente fino a che l’avesse fatto Nina. Come un cane che si morde la
coda, avrebbe finto.
La strinse a sé,
abbracciandola più stretta.
E pensò che era davvero una
bellissima bugiarda a cui però avrebbe sempre votato il suo cuore.
In quel momento, ne era
certo.
Nda.
Lo so, ci ho messo una VITA a
pubblicare. A mia discolpa ero al mare e sto scrivendo una long AU insieme a RLandH molto carina, sempre in questo fandom.
Non mi dilungherò nelle note perché
non ho voglia.
Sì, l’ho scritto davvero, con
spietata sincerità.
Anche questo è un capitolo
solo al passato, perché certe cose non posso proprio scartarle e le parti
presenti ormai sono tutte decise. Prendetelo come un respiro profondo prima del
grande salto, perché fra due capitoli si inizia davvero a ballare.
Ci sarà così tanto ANGST che
rimpiangeremo tutti le feste di Pixis.
Erik e Lottie
non mi appartengono.
Anche loro sono di RLandH e ricordate l’hastah#postaLunaposta se volete conoscerli meglio.
Ne vale davvero la pena.
Nemmeno Gretha
è mia e so che la sua citazione ha portato più di una domanda….
Ehehehe.
Friedelhm…. No lui è mio e si vede.
Che bel cazzone.
I Müller
sono adorabili.
Ringrazio Shige
per avermi commentata, come sempre sei dolcissima **
All
the writerskeepwritingwhattheywrite Somewhereanotherprettyvein just dies I've got the scarsfromtomorrow
and I wishyoucouldsee Thatyou're the antidote toeverythingexceptfor me A constellationoftears on yourlashesburneverythingyou love Thenburn the ashes in the end everythingcollides https://www.youtube.com/watch?v=5NEDjQPq6so
Anno 846
Nei territori invasi di Maria.
Nina si ritrovò a pensare
stupidamente che era assurdo vivere tutta quell’avventura senza ricordare nemmeno
una volta IlseLangnar. Le
era tornata alla mente mentre stava riparando l’orologio da taschino che,
precedentemente, era appartenuto a Fritz Meier. Nina lo aveva rotto in modo
stupido, poco dopo averlo ricevuto in dono dal padre dell’amico, ma non aveva
mai smesso di portarlo con sé, dentro alla saccoccia di cuoio che le pendeva
sempre dal fianco, come un porta fortuna.
Aveva avuto la fortuna di
trovarne uno simile in un cassetto, in una delle stanze al piano di sopra.
Stava cercando fogli su cui annotare gli scarsi progressi fatti nella
trascrizione dei libri in lingua comune – non era così stupida da farlo sul suo
taccuino, che sapeva le sarebbe stato requisito non appena messo di nuovo piede
nelle Mura Rose- quando fra le mani le era finito quell’oggetto dall’aria
vissuta, nascosto dietro a qualche scatolina vuota, sicuramente ficcato là
dentro nel tentativo di tenerlo nascosto. Chiunque volesse tenerlo al sicuro ci
era riuscito, perché se la giovane non avesse frugato in ogni angolo della
casa, allora non avrebbe mai notato quel vecchio scrittoio, semi nascosto
dietro a una porta.Nonostante le
lancette ferme, la bionda si convinse che se anche le batterie si fossero
scaricate, gli ingranaggi potevano essere ancora utilizzabili. Avrebbe quindi
potuto cambiare un paio di meccaniche da quello di Fritz, che Mike le aveva
detto si dovevano essere rotte in seguito a una caduta e poi, settando
l’orologio quando il sole si sarebbe trovato al centro preciso del cielo a
segnare l’inizio del meriggio, avrebbe avuto un orario approssimativo. Avere qualche
certezza l’avrebbe punto di riferimento a non perdere la testa.
Aveva quindi portato
l’oggetto nella cucina e prima di iniziare lo scempio e la mutilazione di
quest’ultimo, lo aveva osservato per bene. Il caso volle che, incise
sull’argento dello sportellino, spiccassero le iniziali I.L., in una sorta di stramba
coincidenza che però la fece riflettere. Non erano passati molti mesi da quando
avevano ritrovato il corpo della compagna d’armi, intatto ad eccezione del capo
che le era stato staccato dal collo. Non era quello però ad aver lasciato il
segno, ma ciò che la ragazza aveva coraggiosamente riportato nelle pagine di un
diario. Quando era capitato fra le mani di Nina, due secondi dopo che Levi
l’aveva trovato fra i fili d’erba, la ragazza aveva compreso che non era cosa
da poco. L’aveva letto per bene, una volta fatto ritorno a Trost
e si era anche ritrovata a immedesimarsi nel terrore che la giovane aveva
provato e che aveva reso la scrittura sempre più veloce e tremolante fino al
peggiore degli epiloghi.
Ironicamente, però, Nina non
aveva pensato a cosa avrebbe fatto lei al posto di Ilse.
Si era adagiata sugli allori, da quando aveva cambiato squadra e si era
ritrovata gomito a gomito con Levi. Pur essendo costantemente in prima linea,
Nina non era mai sola e aveva le spalle coperte dal guerriero più forte
dell’umanità. Un bel vantaggio.
Eppure, ripensandoci, si
chiese se quella sua esperienza non potesse anche far luce sul mistero di Ilse. Forse avrebbe incontrato anche lei un gigante
parlante? O magari, nella più torbida delle ipotesi, sarebbe anche lei andata
incontro alla pazzia? Perché anche di questo si era discusso; forse la poverina
era impazzita, da sola e spaventata.
Nina non ci aveva creduto,
mentre suo fratello lo ipotizzava, perché era fermamente convinta che ci fosse
della lucidità in quelle parole. Eppure, mentre guardava le lancette rianimate
nel quadrante dorato, il medico si ritrovò a pensare che forse non era così
assurdo.
Forse Ilse
era davvero impazzita, nella solitudine dei territori di Maria.
Forse sarebbe impazzita anche
lei, se non si fosse data da fare.
Con uno scatto, Nina chiuse
lo sportellino, infilando l’orologio nella tasca dei pantaloni bianchi. Si mise
seduta sul letto, recuperando uno dei libri che giacevano impilati a terra per
riprendere il lavoro.
Li stava accumulando a poco a
poco.
Non aveva del sapone con sé,
ma la vita con Levi aveva dato i suoi frutti.
Lavare i vestiti nel torrente
usando solo della cenere, per esempio, era qualcosa che era stato lui ad
insegnarle. A dirla tutta, era una donnina di casa molto più brava di Nina che,
al contrario, sapeva fare poco o niente. Non sapeva nemmeno cucinare e i pochi
tentativi fatti si erano sempre rivelati un disastro. Per non parlare poi del
modo in cui rammendava; era un asso nei punti di sutura, ma nel punto croce
mancava di tecnica.
Era un po’ incosciente da
parte sua uscire durante il pomeriggio, ma non ce la faceva più a vivere da
reclusa dentro quelle quattro mura sino al calare del sole. Si era armata per
bene, per poi strisciare verso lo scorrere del fiumiciattolo, non incontrando
ostacoli.
I giganti si tenevano lontani
dalla borgata ogni giorno di più, come se un solo essere umano non fosse
sufficiente per attirarli. Dalla prima notte aveva notato che il loro numero e
le loro visite erano calate esponenzialmente, nonostante però ne avvistasse
spesso aggirarsi nel bosco che in quel momento era pericolosamente vicino.
Sperò di avere il tempo di
nascondersi sfruttando le rocce attorno a lei, nel caso in cui ne fosse apparso
uno. Quando meno l’avrebbe sentito. Ogni passo rimbombava con la potenza di un
tuono per tutta la vallata attorno al borgo.
Erano passati sette giorni da
quanto era arrivata lì, un’intera settimana a parlare solo con se stessa e Nina
stava iniziando a farci l’abitudine. Per quanto questa realtà fosse triste, in
un certo senso, andava bene così. Avere tutti i sensi perennemente in allerta
era stancante, i nervi a fior di pelle non mancavano mai e non poteva vivere
così. Per questo osava.
Se avesse vissuto ogni
secondo con il terrore di morire, allora avrebbe commesso un errore idiota e
sarebbe morta davvero.
Lavò i pantaloni bianchi
della divisa, sospirando per la sensazione poco gradevole che quelli che aveva
addosso, un pantalone nero che aveva trovato in cassetto, le dava. Era larghi
sulle gambe e le cinghie dell’equipaggiamento vestivano male.
Aveva avuto il tempo di
frugare nelle case per fare incetta di abiti, è vero, ma i libri l’avevano
distratta.
Passò quindi alla camicetta smanicata che indossava il primo giorno, madida del sangue
essiccato di Sankov e prese a strofinare così forte
da pensare che avrebbe perso le dita. Per quanto la cenere fosse efficace,
però, non poté molto e dei tristi aloni giallognoli rimasero ad impregnare il
tessuto candido.
“Levi non ne sarebbe felice”
soppesò, buttando l’indumento in una cesta di vimini, prima di passare ad
altro. Fu allora che sentì un rumore.
Il sangue le si gelò nelle
vene e gli occhi si sbarrarono, ma fu abbastanza veloce da ritrovarsi con le
lame sguainate in un battuto di ciglia. Rimase ferma, china sul corso d’acqua
con un piede dentro al fiume nel tentativo di rimanere bilanciata, sicura di
essere nascosta da due speroni rocciosi. Rimase in ascolto per qualche minuto,
chiedendosi se l’avesse o meno immaginato, ma quando sentì di nuovo qualcosa
realizzò non solo che non era ancora impazzita, ma che quello non sembrava un
gigante.
Affatto.
Rinfoderò le lame senza
sganciarle dalle meccaniche, così da poterle afferrare velocemente, prima di
girare attorno alla roccia.
A pochi metri da lei,
incurante e pacifico, c’era un cavallo.
Tutto intento a brucare
l’erba non si accorse inizialmente della presenza della giovane, che lo fissava
come se avesse appena visto un’apparizione mistica.
Quello era un cavallo.
Un cavallo che poteva
portarla a Trost, per essere precisi.
Sul muso lungo aveva ancora
una testiera, anche se rotta e che pendeva strappata di lato, segno però che
non era selvatico. Quel cavallo era appartenuto a qualcuno, probabilmente della
ricognitiva.
Istintivamente, Nina si
guardò attorno, prima di portare le dita alle labbra e fischiare.
Spero di non doverlo rifare,
ma se quel cavallo era stato addestrato dal loro corpo militare, allora sarebbe
corso subito da lei.
Cosa che non accadde.
L’animale alzò solo il muso, continuando
a brucare imperterrito l’erba, guardandola con quella che Nina scambiò per
supponenza.
Non s’era mai visto un
cavallo supponente e per ovvie ragioni, ma il modo in cui questo tornò a
mangiare le fece capire che forse la stava prendendo in giro.
Con un sospiro rassegnato –
nemmeno una poteva andarle bene- avanzò di qualche passo, catturando di nuovo
l’attenzione dell’animale.
Ora che lo guardava bene,
doveva ammettere che quella bestia aveva qualcosa di strano. Non aveva mai
visto un cavallo così.
Tanto per iniziare, sembrava
più piccolo di quelli che venivano allevati dentro alle Mura Rose. Il muso era
lungo, così come le zampe, sottili. Persino il colore era molto particolare,
non tanto per il fatto che fosse bianco, ma per le screziature marroncine, dello stesso colore del crine, che aveva alla
base della schiena, proprio sull’attaccatura della coda e sulle anche.
Non ne aveva mai visto uno
così, ma infondo non ne sapeva proprio niente di veterinaria.
L’animale le permise di
arrivargli vicino, ma nel momento esatto in cui Nina allungò una mano per
afferrare l’imbragatura della testiera, per quanto fu delicata nei modi, questi
nitrì, allontanandosi in fretta.
“No, ti prego!” disse lei,
abbassando il braccio di corso e improvvisando una corsetta.
Ora che il costato sembrava
esserle guarito poteva anche provarci, ma non poteva di sicuro battere un
cavallo.
Lo guardò allontanarsi per la
piana velocemente e lei rimase lì, come una cretina, con il cappuccio della
mantella calato a metà della nuca e l’espressione più sconsolata che il suo
viso potesse esprimere.
Non c’era molto da fare a
quel punto, se non tornare indietro a recuperare i vestiti per poi tornare al
sicuro.
Si era attardata anche troppo
e il vento era cambiato, soffiandole contro.
Sarebbe stato stupido
rischiare di farsi fiutare.
Il taccuino era ormai
arrivato a segnare la metà delle pagine scritte, quando Nina prese il
coltellino per affilare la punta della matita di grafite. Non aveva ancora
finito di appuntare qualche impressione su quella giornata che poteva definirsi
fiacca e che quindi non avrebbe occupato poi tutto quello spazio. Aveva però
deciso di essere il più precisa possibile, perché laddove Ilse
non aveva avuto tempo, lei ne aveva sin troppo.
Magari, un giorno, qualcuno
avrebbe tratto importanti dati da eventi a detta sua inutili, poi non è che
avesse chissà quale impegno.
Poteva perderci ancora
qualche minuto.
Dopotutto erano sette giorni
che non faceva altro se non camminare in tondo in quel borgo e annotare dati
sensibili.
Prese un pezzo di pane
abbrustolito, l’ultimo per la precisione, ficcandolo dentro alla ciotola
contenente una misera quantità di farinata d’avena. Il solo pensiero che dal
giorno successivo avrebbe dovuto ingurgitare quello schifo senza nient’altro a
contornarlo le fece salire un brivido, ma la sopravvivenza veniva prima dei
gusti.
Forse poteva trovare un modo
sicuro per andare a caccia. In quei giorni aveva notato come un gigante potesse
arrivare a percepire la sua presenza semplicemente dall’odore, anche da
distanza considerevole. Aveva passato qualche ora su un tetto, nascosta dentro
a un comignolo, a causa di quell’imprevisto. Se avesse trovato il modo di
celare il suo odore, allora forse non l’avrebbero nemmeno riconosciuta in
quanto essere umano.
Era una teoria interessante
che meritava una possibilità per essere testata.
Era un mistero il modo in cui
i giganti percepissero ciò che andava divorato da ciò che invece non era di
loro ‘gusto’; per un essere istintivo come quello, era più probabile che a
influenzarne il giudizio fosse l’olfatto più che la vista.
Segno ogni singolo pensiero,
promettendo ad un lettore immaginario, che aveva il volto di suo fratello,
degli esperimenti in merito. Allungò la mano sul tavolo per cercare la scatola
stantia di fiammiferi rovinati dall’umidità di un sottoscala, ma essa si
strinse attorno a un pacchetto rettangolare ben più grande. Prese una delle
sigarette in esso contenuto e la portò alle labbra, spostando la ciotola ora
vuota e sporca di residui di avena.
La sigaretta dopo cena.
Stava pensando a Fritz troppo
spesso nell’ultimo periodo. Forse l’olezzo della morte la faceva diventare più
che mai paranoica e nostalgica, ma le dava una certa sensazione di pace il
sentire l’odore del tabacco attorno a sé. Dopo la morte dell’amico aveva smesso
con quella tradizione, che aveva tristemente perso di significato e la portava
a ricordare momenti che non sarebbero mai più tornati, ma aveva sempre portato
con sé un pacchetto di sigarette, ora disperse insieme al suo kit medico
primario, da qualche parte la fuori insieme ai corpi dei suoi compagni. Quello
era il risultato dei suoi tanti saccheggi, contenuto nelle tasche di un
pastrano lungo che aveva portato via e che sembrava perfetto per essere
utilizzato nel suo prossimo esperimento, che avrebbe per altro compreso della fanga puzzolente. Si alzò portando con sé la candela per
accendere il tubicino di tabacco, la quale poi venne appoggiata su una sedia,
mentre Nina prendeva posto sul materasso. Prese uno dei libri, convinta che
intanto non avrebbe cavato un ragno dal buco, ma magari c’erano altre immagini
con altre didascalie comprensibili e quindi valeva la pena provare.
Appoggiò per bene il capo sul
cuscino, inspirando il fumo piano e chiudendo gli occhi stanchi. Dormiva a
strappi, svegliandosi spesso all’improvviso con una brutta sensazione alla
bocca dello stomaco. Le illusioni che si era creata da sola nella sua mente
andavano dallo scalpitare degli zoccoli di cavalli immaginari a il crepitare
delle pareti che venivano sradicate da un gigante. Nel primo caso si ritrovava
delusa quando comprendeva che era solo un sogno e che ancora nessuno era
arrivato, mentre nel secondo dopo esser rimasta paralizzata nel letto, sentiva
un discreto sollievo.
Si sarebbero dovuti impegnare
parecchio per buttar giù quella casa, sembrava un tutt’uno con la pieve.
Prese un piccolo respiro,
lanciando uno sguardo alla candela e rimanendo un attimo incantata a fissarne
la fiammella che danzava.
Era in quegli attimi di
silenzio prima di dormire che la mancanza di Levi si faceva davvero sentire.
Così tanto da sentire le lacrime pizzicarle i lati degli occhi, ma non avrebbe
permesso a nessuna, nemmeno una, di scivolarle lungo la guancia. Le mancava
parlargli, guardarlo…
Cazzo, le
mancava anche litigarci e quando discutevano era un vero incubo. Per entrambi.
Lasciò il libro che teneva stretto
al petto sul materasso, portando entrambe le mani a stropicciarsi gli occhi,
mentre un mugolio basso nasceva dal fondo della sua gola, spargendosi
nell’aeree statico. Ogni giorno le sembrava sempre più futile il motivo
dell’ultimo litigio, così come la grande idea di lasciare la sua squadra per
unirsi ad un’altra. Ci aveva fatto la figura della ragazzina – di nuovo –e non
solo con lui, ma anche con Erwin.
“Questo non è decisamente il
mio mese” mormorò a mezza bocca, allungando le braccia dietro al capo e tenendo
la sigaretta fra le labbra, mentre pensava ancora a come doveva essere la
situazione attuale a Trost. Non riusciva davvero ad
immaginarsela. Chiuse un istante le palpebre, appoggiando il braccio sugli
occhi così da coprirli, immaginando il moro steso sul letto della caserma, con
lo sguardo fisso puntato sul soffitto, in una stanza buia e silenziosa.
Chissà se aveva piovuto anche
in città, quella sera. Chissà se l’aria odorava di acqua e fogliame con quella
della stanza in cui lei si ritrovava supina. La sola cosa di cui era certa, era
che anche lui stava facendosi quelle domande. Perché lo conosceva e nonostante
avesse dubitato un po’ nello sconforto dei primi giorni, la certezza che lui si
stesse struggendo nell’impossibilità di fare qualcosa s’era fatta forte.
Lo conosceva e bastava.
Basta.
Prese un bel respiro, sentendo
la cenere cadere di lato sul cuscino e abbassò il braccio, afferrando poi il libro con decisione. Doveva tenere la
mente impegnata, quei pensieri non le facevano bene.
Si sarebbe persa a pensarlo e
si sarebbe addormentata con il cuore pesante. Il giorno dopo aveva dei progetti, non poteva
permettersi di essere assonnata o debole.
Fece per aprire il volume, ma
non ci riuscì.
Aveva due dorsi e nessun
punto in cui poterlo aprire.
Presa in contropiede, Nina
fissò l’oggetto che a quel punto non poteva più dirsi un libro e si mise
lentamente seduta, spegnendo il mozzicone sulle mattonelle della pavimentazione. Che scherzo era quello? Se lo passò
fra le mani, battendoci il pugno sopra e costatando che dentro pareva cavo, per
poi decidersi a tentare un esperimento. Sicuramente doveva contenere qualcosa e
non si sa chi si doveva essere
parecchio ingegnato per celarvi allo sguardo qualsivoglia segreto all’interno. Prese
il coltello dal fodero nascosto nello stivale che giaceva a terra e incise una
delle due parti, facendo attenzione a non rompere niente. Quando riuscì a
tagliare dalla base alla cima vi scrutò dentro.
Rimosse integralmente uno dei
due dorsi e nella sua mano cadde un libro più piccolo, ma dalla copertina
intatta e preziosa.
Il titolo e il nome
dell’autore erano scritti in lingua comune con raffinate lettere stampate in
dorato e lei finalmente si ritrovò a leggere qualcosa che poteva capire senza
dover ricorrere a bislacchi tentativi di trasposizione.
“Daniele Vita…Vitalevi” lesse lentamente, trovando il suono di quel
nome buffo alle orecchie. Non aveva mai sentito niente del genere “Saggio sulla
lingua Tedesca e la nascita della fonetica
della Comune, dalle origini alla fine del Secondo Orizzonte Libero.”
…. Oh.
“Cosa cavolo-tedesca?” Nina
alzò sopracciglio, domandandosi dove fosse la Tedeschiae se magari fosse una zona interna alle mura con un dialetto
proprio, se esistesse o se fosse un modo per chiamare la lingua di un luogo
così come loro avevano sempre chiamato la loro ‘comune’. Ma poi…
Secondo Orizzonte Libero? Libero da cosa?
Dai giganti. Libero dai
giganti?
Le mani le tremarono mentre
arrivava a comprendere che cosa poteva rappresentare quel testo per il mondo.
Tra le mani aveva forse qualcosa di assolutamente inestimabile. Sentì la
salivazione azzerarsi consapevole che quello che c’era scritto fra quelle
pagine, forse, avrebbe svelato qualcosa sui giganti e sulla loro origine.
Forse sul mondo prima della
loro venuta.
Forse avrebbe addirittura
cambiato la sua vita per sempre.
Non era pronta per una cosa
del genere, per il suo mondo che veniva sconvolto, ma prima ancora di
accorgersene, stava già leggendo la seconda di copertina. Era una dedica.
‘Ben poche sono le cose a questo mondo senza le quali
non possiamo vivere: l’ossigeno, l’acqua, il nutrimento e l’amore. Al mio unico
e vero dedico questo mio modesto componimento, nella speranza che l’apprezzi.
Odi et amo. Quareidfaciam, fortasserequiris.Nescio, sed fieri sentioetexcrucior.’
“Carme 85 dal Liber di Gaio…” Quei nomi erano
davvero complessi da pronunciare “Gaio Vale…Valerio?
Catullo? Va bene questo è davvero assurdo.”
C’era da dire che quelle
parole suonavano in modo molto simile ai nomi delle piante che aveva
blandamente tradotto dal libro dell’erborista. La buona notizia era che c’era
la traduzione sotto.
“Odio e amo” iniziò la
giovane con tono incerto, incrociando le gambe incurvandosi in avanti così da
permettere alla luce della candela di bagnare la pagina e mettere in risalto le
parole “Forse ti chiederai per quale motivo io lo faccia? Non lo so, ma sento
che accade e mi tormento.”
Doveva essere stata una
storia d’amore molto tormentata quella dell’autore e questa D.A,
le cui iniziali erano state scribacchiate a mano in basso alla copertina
insieme a un’ulteriore dedica, stavolta personale.
Voltò nuovamente pagina e di
nuovo, di lato a destra, c’erano segnate solo una manciata di righe.
‘Inoltre, vorrei ringraziare anche i miei buoni amici
Theresa e Harold che mi sono stati vicini durante le fasi di elaborazione di
questa nuova lingua. Il lavoro è stato complesso e a tratti quasi impossibile,
ma l’essere circondato da così brillanti menti mi ha stimolato ad andare
avanti.’
Nina si rese conto che ciò
che stava leggendo era forse il primo manuale scritto in lingua Comune e che
Daniele Vitalevi aveva appena detto di esserne lui il
creatore. Nina non era una linguista, non ne sapeva molto di lettere e di studi
filologici, ma era abbastanza sicura che una persona non potesse svegliarsi una
mattina e, semplicemente, creare una lingua.
Parlata in un territorio così
ampio, poi.
Doveva leggere tutto il
manuale prima di poterne essere sicura.
Chiunque l’avesse custodito
così segretamente era a conoscenza che non doveva essere trovato dalla
Gendarmeria. Chissà quante cose avrebbe scoperto anche solo su degli studi linguistici.
Forse quell’esilio oltre le
mura del Muro Rose non era altro che un segno della sorte.
Forse era destinata a
ritrovarsi lì, raccolta in quell’istante.
Si apprestò a voltare pagina,
leccando dell’indice per far presa sulla carta lucida, ritrovandosi a fissare
qualcosa che non si aspettava ma che, in fin dei conti, le aveva appena
spalancato le porte del mondo.
Un sillabario dal tedesco
alla lingua comune e, nella pagina accanto, un titolo pragmatico.
L’inizio delle guerre Germanico-Iberiche,
la creazione degli stati liberi Franchi e l’adesione all’Impero Tedesco dei
territori dell’Antico Ducato d’Italia.
Be carefulmakingwishes in the dark
Can't besurewhenthey've
hit theirmark And besides in the meantime I'm just dreamingoftearingyouapart I'm in the detailswith the devil
Anno 844
Il ghetto nella Città
Sotterranea e l’arrivo dell’inverno nella Capitale.
La prima volta che Nina era
scesa nel ghetto, si era chiesta come fosse possibile per il Re dormire serenamente
la notte, consapevole che non occorreva morire per arrivare all’Inferno; bastava
scendere una ripida scalinata verso un abisso senza colore.
Aveva solo successivamente
compreso quanto ingenuo fosse quel pensiero. Cosa poteva mai importare al Re
degli esuli della Città Sotterranea, che si ergeva instabile su fondamenta di
lerciume e malattia?
L’aria era irrespirabile, in
alcune zone. In altre sembrava andare un po’ meglio, ma l’assenza di luce era
opprimente in ogni angolo.
In quel luogo i bambini
nascevano, crescevano e morivano troppo presto, senza avere mai la possibilità
di sentire il calore del sole sulle guance o la pioggia battente a bagnare i loro
capelli.
Levi l’aveva portata un po’
in giro, fra le stradine che si snodavano in un dedalo di viuzze sconnesse
simili a un labirinto, lanciandole dritte di ogni tipo su come campare in un posto
del genere; in particolare continuava ad addestrarla alla lotta corpo a corpo.
Non le aveva risparmiato nulla,
nemmeno quelle otto serie da venti addominali la sera precedente – che facevano
ancora gridare i suoi muscoli resi deboli dalla convalescenza a letto di
qualche settimana prima- però non sembrava voler calcare troppo la mano.
Non la voleva mettere in
pericolo. Forse.
“Ricordi come arrivare alla
piazza del pozzo?” le chiese Levi stufo, frugando nella saccoccia di cuoio di
Nina per prendere qualcosa dal fondo. Se n’era rimasto sempre alle sue spalle,
fin dal primo minuto in quel posto impresso in modo indelebile nella sua
memoria, attendendo che lo seguisse affrettando il passo. Non era saggio
indugiare troppo in quella zona che, anche quando là sotto lui ci viveva, non
era mai stata parte del suo territorio di controllo. Peccato che lei non
paresse aver compreso l’impellenza di camminare con una certa premura.
La giovane, che s’era chinata
su un pover’uomo semi incosciente, steso sulla pavimentazione fredda, l’aveva a
mala pena sentito “Quella vicina al luogo in cui ci siamo fermati l’ultima
volta?” aveva di fatto domandato mentre armeggiava con la sacchetta che piccola
che le pendeva dal fianco, contenente tutto il necessario per il primo
soccorso. Per natura, un medico non può passare per quelle strade senza
fermarsi e Nina non faceva eccezione. Non avrebbe negato un aiuto a chiunque ne
avesse necessitato, anche a costo di fare cinque passi all’ora.
Levi non sembrava dalla stessa
opinione però. “Esatto.” rispose sbrigativo, sempre frugando con foga.
La dottoressaci pensò su, usando la sola mano libera per
allentare le bende che si snodavano lungo l’arto del vagabondo per controllare
lo stato della gamba. Un tanfo di marcio le fece intendere che, a pensar male
si pensa sempre bene, soprattutto in un luogo del genere. Si passò il dorso
della mano sotto al naso due o tre volte, cercando di discernere gli odori
cattivi della città da quelli della carne malata.
“Almeno mi pare” aggiunse
infine, senza guardare il compagno che l’accompagnava “Sempre a nord, o
sbaglio?”
Aveva in mente quel posto,
però non era poi così certa di poterci arrivare. Quella era solo la seconda
volta che aveva la fortuna di camminare per quelle strade virtualmente
inaccessibili alle persone della superficie. Ora capiva anche il motivo per cui
nessuno scendeva mai la sotto di sua iniziativa e perché i gendarmi facessero
così tante storie quando venivano stanziati nel ghetto; la situazione era tragica
oltre ogni logica.
Levi fece un passo indietro,
guardandosi attorno prima di parlare nuovamente, lapidario “Brava. Ci vediamo
là.”
Lanciò ai piedi della bionda
un coltello, prima di prendere la sacca e sparire nel nulla. Nina alzò gli
occhi stupefatta dal paziente per cercarlo, ma nemmeno una manciata di secondi
dopo quell’assurda provocazionedi lui
nonvi era più traccia.
“Mi prende in giro” disse a
se stessa, finendo di assicurare i bendaggi e alzandosi in piedi col coltello
in mano. Prese quindi a guardandosi attorno, un po’ tentennante “Sicuramente
ora uscirà dicendomi che è uno scherzo di pessimo gusto” proseguì ancora,
mentre gli occhi saettavano su ogni punto cieco e angolo di strada che lacircondavano.
C’erano delle persone, un
gruppetto di bambini dall’aria poco raccomandabile nonostante l’età e qualche
altro corpo steso a terra con magari un alito di vita in corpo. Ma di Levi,
però, non era rimasto nemmeno il profumo.
“Lo odio così tanto.”
Stava girando in tondo.
Ormai si era arresa a quella
scomoda verità, soprattutto dopo aver visto per la quarta volta la stessa
precaria tenda verde marcio usata a mo’ di porta, in una vecchia catapecchia
dall’aria instabile.
Perdersi non era in
programma, in particolare in un luogo così pericoloso, ma lei non si lasciò
prendere dallo sconforto; non sarebbe stato sedendosi in un angolino che
avrebbe ritrovato la via. Di chiedere in giro non vi era la possibilità. Anche se
avesse incontrato qualcuno di bene intenzionato – c’erano anche persone normali
là sotto, grazie al Cielo- non ne si sarebbe sentita compiaciuta nel trovare un
riscontro da qualcun altro. Sapeva che poteva farcela da sola a trovare quella
piazza, era lì da qualche parte e se solo avesse avuto l’attrezzatura, salendo
su uno dei tetti, l’avrebbe senza dubbio raggiunta in un battito di ciglia.
Sistemò una ciocca di capelli
sfuggita al concio senza abbassare il cappuccio del mantello nero, prima di
tornare sui suoi passi, decidendo di voltare a destra ad un bivio. Camminò a
capo diritto, lasciando che il cappuccio potesse celarle il viso ma non lo
sguardo determinato, riconoscendo una bottega che aveva notato con Levi quasi
una settimana prima. Girò attorno al modesto stabile, scendendo una scalinata
composta da lunghi gradini bassi e scomodi, arrivando alla fine a destinazione
dopo aver girato un angolo cieco.
Di fronte a lei si ergeva una
piccola corte con case a più piani, disposte a ferro di cavallo che attorniavano
un pozzo. Le facciate, che sembravano essere state costruite con un disegno
geometrico rettangolare preciso, si alternavano da un piano all’altro in un
armonioso gioco, e anche i tetti rossi sembravano quasi essere fuori posto.
Un luogo così bello, seppur
così in rovina, nella Città Sotterranea.
Nina si guardò attorno,
notando le scalinate che conducevano alle case sopraelevate e spiando un po’
tutto attorno. Levi non sembrava esserci, ma quello era senza ombra di dubbio
il posto giusto. Si appoggiò con i fianchi al polso, tirando le braccia sotto
alla mantella nera per incrociarle sul petto. Rimase ferma, in attesa,
osservando attorno a sé il silenzio e il buio di quel luogo.
Alzando gli occhi verso l’alto
non vide niente, se non le rientranze degli speroni rocciosi e della cupola di
terra. Che vi fosse il sole o la luna, non faceva differenza; si sentiva come
cullata da una notte perenne, il cui silenzio feriva le orecchie, mentre gli
occhi si facevano pesanti.
Soffocò uno sbadiglio,
rizzandosi con le spalle quando avvertì dei rumori. Delle risa, per lo più,
seguite da imprecazioni colorite e voci concitate.
Nel giro di pochi minuti, man
mano che il tono cresceva, Nina poteva benissimo comprendere che non sarebbe
rimasta sola ancora a lungo. Sfilò il coltello dalla cintola, stringendolo bene
l’impugnatura con le dita sottili, ma per il resto non si mosse di un
centimetro. Non voleva dare nell’occhio.
Sei uomini entrarono nella
corte, sicuramente ebbri di vino. Non parvero notarla all’inizio, tanto che un
paio di loro si erano già apprestati a salire le scalinate di quello che, a
giudicare dai tendaggi rossi e dalle voci che provenivano dalle finestre
aperte, doveva essere un bordello. Fu un ometto basso, più di Levi
probabilmente, che la vide. Si fermò, assottigliando lo sguardo come per
metterla bene a fuoco, prima di tirare una gomitata al suo degno compare, un
uomo ben piazzato e col viso schiacciato coperto di cicatrici.
“Guarda, Chuck.
Abbiamo ospiti.”
Bene. Molto bene.
Il tono ostile non era stato
minimamente celato, tanto che il resto della compagnia aveva arrestato la
marcia verso il luogo del piacere per potersi voltare nella sua direzione. Mentre
la schernivano, chiamandola ‘ragazzo’ e domandandole perché si trovasse lì,
Nina si fece un appunto mentale. Sei uomini ubriachi non dovevano essere poi
così difficili da buttar giù. Levi sosteneva che il suo addestramento era
ancora alla fase iniziale, ma Nina l’aveva sentito il cambiamento. Si sentiva
più in forze, sapeva che tutte quelle corse e quei pugni dati all’aria dovevano
essere serviti a qualcosa.
Guardò l’ometto avvicinarsi
baldanzoso, sicura che presto l’avrebbe verificato. “Allora, ragazzo? Non conosci
le buone maniere?” le disse ancora, facendo ridacchiare come ebeti un paio dei
suoi amici, mentre quello che apriva il gruppo e che forse ne era il capo la
guardava con annoiato disinteresse “Sei molto lontano da casa, ragazzo. Dobbiamo
insegnarti un po’ di educazione?”
Nina staccò i fianchi dal
pozzo, portando le mani al cappuccio per calarlo. La reazione dei suoi
avversari non tardò ad arrivare, in particolare di colui che la stava
provocando. Egli infatti non mascherò per niente l’ilarità “Ma cosa abbiamo
qui? Che bel visetto! Scommetto che
costi cara.”
“Ti sembro una che lavora nel
bordello?” chiese lei con tono leggerlo, alzando un sopracciglio leggermente
divertita “Dispiaciuta di deludere tale aspettativa. Va detto, però, che sino a
che è la bellezza della donna a piazzare il prezzo a uno come te va bene. Se
dipendesse dalla bruttezza dell’uomo, anche la più brutta delle puttane sarebbe
comunque troppo cara per te.”
Più di una risata si levò
nell’aria densa, mentre l’ometto stringeva i denti, non più divertito ma ora
offeso nell’orgoglio “Troia” mugolò, prendendo un coltellaccio dalla cintola e
puntandoglielo contro “Adesso ti taglio quella lingua.”
Lei lo lasciò avvicinare. Non attaccare mai per prima, studia il nemico, le aveva detto Levi. Devi sempre guardarli negli occhi, quei
maiali.
A
dispetto di ogni aspettativa, quella tattica parve funzionare. Una stilla
gelida percorse le iridi eterocrome della giovane e l’uomo parve indugiare,
come colto da un’improvvisa indecisione.
“Cosa
di prende Piex? Hai paura di una ragazzina?” lo
spronò quel suo amico, battendosi una mano sulla coscia. “Codardo!”
Nina
lo aspettò, perché sapeva che un uomo con l’orgoglio virile ferito avrebbe
compiuto qualche passo in fallo. Infatti, non appena lui le si buttò contro,
lei non perse nemmeno un attimo. Ruotò i fianchi per schivare il coltello e,
alzando una gamba, colpì l’ometto con una ginocchiata in pieno viso, sporto in
avanti nel momento in cui lui si era stupidamente sbilanciato. Cadde, perdendo
l’arma e conducendo una mano al naso che ora perdeva sangue. Nina lo scavalcò,
andando verso gli uomini “Signori” disse con tatto alzando una mano, quella
libera dal suo coltello, oltre il bordo della mantella nera lunga “Non c’è
motivo per finire tutti con la faccia nella terra” proseguì sicura, guardandoli
uno ad uno “Sono certa che questa incresciosa situazione si possa risolvere con-”
Non
riuscì a finire perché fu il turno dell’uomo piazzato di lanciarsi su di lei,
forse per vendicare l’onta subita dall’amico. Anche lui finì a gambe all’aria
per lo stesso errore. Si era sbilanciato così tanto che Nina non aveva nemmeno
avuto bisogno di alzare una gamba: con una gomitata fra capo ecollo l’aveva spedito a farsi un pisolino. Poi
la attaccarono in coppia e lei – che nemmeno sapeva come aveva fatto, riuscì a
evitare anche le loro armi, spazzando via i loro piedi dopo essersi appoggiata
con una mano a terra. Un calcio in viso a testa li aveva resi inoffensivi. Il quinto
uomo non parve volersi muovere dalla sua posizione ritta accanto al capo, il
quale invece scese i gradini fronteggiandola. Nelle iridi praticamente nere
dell’uomo Nina lesse qualcosa. Non sarebbe stato semplice come gli altri. Per questo
fece uscire la mano da sotto la stoffa nera, mostrando la lama lucida.
Non
aveva ancora avuto l’occasione di provare a usare un’arma da taglio, mentre
invece le mani le aveva già menate un paio di volte.
Levi
però le aveva spiegato bene come muoversi anche in quella circostanza e l’aveva
fatto la prima volta che l’aveva portata nel ghetto.
La lama è un
prolungamento del tuo braccio, aveva spiegato con pazienza, mostrandole come
impugnarla in modo che il filo da taglio rimanesse esterno al suo corpo, con la
punta rivolta verso la giovane che l’aveva quindi impugnato a rovescio. Ricorda che se decidi di attaccare per prima
per necessità, non devi guardare il tuo coltello, ma quello del tuo avversario.
Il tuo devi sentirlo parte di te, come se invece di un oggetto, tu fossi in
procinto di attaccare con le unghie. Pensa sempre molto bene prima di farlo,
però. Portare via la vita di un uomo non è come farlo con un gigante; starà poi
a te dormirci la notte.
Nina
non voleva uccidere proprio nessuno, se mai difendersi.
Attese
quindi di vedere mostrate le intenzioni del capo, ma a rovinare tutto ci pensò
quell’insulto ometto. Nina si sentì incredibilmente stupida quando la afferrò
per le spalle, puntandole il coltellaccio alla gola. Si era già ritrovata in
quella situazione e non le era piaciuto la prima volta. La seconda non fu
comunque da meno.
“Lascia
il coltello. Ora!”
Non
se lo fece ripetere, aprendo le dita e lasciando cadere l’arma sul terreno.
Capiterà ancora che tu
venga minacciata. Il segreto è mantenere la calma, non mostrare la tua
debolezza. Aspetta l’occasione giusta.
Il
fiato corto le si stabilizzò, così come il viso. Stese le labbra in un piccolo
sorriso,prima di parlare “Attaccare
alle spalle è proprio da codardi” iniziò con tono soffice, inclinando di lato
il collo e cercando di capire come uscirne “Non che mi aspetti altro da uno
come te.”
“Stai zitta!” le strillò Piex nelle orecchie, graffiandole la pelle delicata del
collo con la punta del coltello. Nina deglutì, ma si mantenne fredda, cercando
di capire quando sarebbe stato davvero il momento giusto. “Ti aprirò la gola da
un orecchio all’altro e così imparerai a portare rispetto.”
“Deve esserci poca gente a
rispettarti se è questo il metodo.”
“Cosa hai detto!?”
Ora. Nina portò una mano sul
suo stesso collo per difenderlo, mentre con l’altra assestava all’uomo un bel
cazzotto in mezzo agli occhi. Un altro che s’era alzato la afferrò le la
camicia strappandola sul fianco nel tentativo di tenerla a sé, ma Nina l’aveva
già colpito con un calcio in pieno viso.
Seppur circondata dagli altri
quattro, era libera. Ruotò su se stessa per guardarlo, mentre estraevano le
armi e commentavano volgari il modo in cui si sarebbero divertiti con lei prima
di ucciderla.
Quattro erano un po’ troppi,
ecco. Uno alla volta poteva provare a gestirlo, soprattutto se così
incompetente, ma quattro…
La sicurezza le venne meno,
ma la vera sciocchezza fu scordarsi che non era sola.
“Oi,
stronzi.” La voce di Levi li investì con la sua pacatezza, ma mentre Nina lo
guardava rassicurata, gli uomini sbiancarono. Anche il capo del branco, che
fino a quel momento s’era dimostrato altero e fiero, vacillò. “Pensate di
levare le tende o devo spaccarvi la testa uno ad uno?”
Piex alzò il capo da terra, sgranando gli occhi fin quasi
a rischiare di perderli. Poi, lentamente, alzò un braccio e puntò l’indice
verso Levi, che lo fissava freddo come il ghiaccio “Il Demone” sussurrò con
tono tremolante, “Il Demone è tornato!” gridò infine, mentre i suoi amici si
sbrigavano a correre via. Venne aiutato da Chuck e
insieme a lui sparì sotto all’arcata di accesso alla corte, più veloci del
pronunciare la parola ‘codardi’.
“Per davvero? Demone?”
Nina raccolse il coltello, andandogli incontro, e sistemandolo nella cinta “Hai
una bella reputazione, devo ammettere.”
“Era un po’ che nessuno mi
chiamava così” rispose lui, apparentemente senza emozioni particolari in merito,
scostandole il mantello da davanti perguardare che non fosse ferita. Passò anche le dita sulla pelle esposta
del fianco, laddove si era strappata la camicia, facendola rabbrividire “Sei
stata imbarazzante.”
La bionda tornò in sé,
cercando di dimenticare quella carezza “Perdonami?” chiese con tono perplesso “Sono
stata bravissima” si disse infine da sola, sistemandosi di nuovo il cappuccio e
seguendolo “Non hai visto come li ho atterrati?”
“Hai permesso a quel patetico
scherzo della natura di afferrarti alle spalle. Mi aspetto molto di più da te.”
Nina si morse la lingua,
consapevole che Levi aveva ragione. Appoggiò una mano sul fianco, chinandosi
alla sua altezza per spiarlo “Ammetterai però che sono migliorata” gli disse
cauta, giusto per non calcare la mano “Una cosa del genere non me la sarei mai
sognata fino a qualche mese fa.”
“Non ho intenzione di
gratificarti fino a che non farai tutto come si deve” le spense l’entusiasmo
Levi, prima però di sospirare “E comunque” proseguì quindi “Anche un idiota
sarebbe migliorato arrivati a questo punto.”
Lei gli sorrise, tornando a
mettersi diritta. Scelse di smettere di insistere “Cosa facciamo, ora?”
L’uomo si guardò attorno,
come indeciso. Lei lo percepì, infatti parlò di nuovo “Questo posto è speciale?
Mi ci hai portata anche l’altra volta.”
Lui parve un po’ riottoso all’inizio,
ma poi con un cenno del mento indicò una delle case “Ho vissuto qui tutta la
mia vita” le fece sapere, stupendola con dei dettagli sul suo passato. Solitamente
lui non raccontava niente “Era la casa di mia madre, poi mia e di Farlan.”
Lei guardò quella porta intensamente,
come se cercasse la risposta alle mille domande che giravano attorno alla
figura misteriosa di Levi “Deve essere stata dura” disse infine, “Crescere in
un luogo del genere, pieno di farabutti e puttane.”
Per un istante, Nina notò un’ombra
attraversare il volto dell’uomo “Sei così superficiale” le disse tagliente, facendole
incassare il capo fra le spalle per il tono che aveva usato “Per voi della
superficie è facile: vedete questo posto e pensate di conoscerne gli abitanti. Ti
rivelerò un segreto, Nina, quindi
ascolta molto bene perché potresti anche imparare qualcosa” fece un passo verso
di lei, fronteggiandola nonostante i quindici centimetri che la elevavano
rispetto a lui. Nonostante ciò, Nina si sentiva microscopica sotto quello
sguardo freddo “Qui sotto sarà tutta merda e puttane, come dici tu, ma almeno
lo puoi vedere. Hai tutto sotto al naso e sai cosa ti aspetta. Lassù, invece, i
ladri e le troie vanno in giro vestiti di tutto punto, acclamati e amati, mentre
il popolo muore di fame, di pestilenza e di stenti. Preferisco mille volte un
mondo sincero ma che puzza di fogna, di uno che è imbellettato ma marcio fino
alle fondamenta.” Non staccò gli occhi dal viso lentigginoso della giovane per
tutta la sfuriata soffiata a un palmo dal naso, prima di socchiudere ancor di
più gli occhi, girandole attorno “Andiamo adesso, inizia a farsi tardi e
dobbiamo arrivare per cena.”
Lei non gli permise di
allontanarsi. Lo trattenne per un polso, abbassando il capo e lasciando che il
cappuccio le nascondesse il viso pentito.
“Perdonami” sussurrò con tono
piccolo, come una bambina. Lui non si mosse dal suo fianco “Sono stata una
stupida, non intendevo offenderti, ma so di averlo fatto. Non so niente di
questo posto, quindi scusami.”
Levi chiuse un attimo gli
occhi.
Le abbassò il cappuccio,
accarezzandole i capelli sul capo “Sei una cretina” disse spicciolo, mentre lei
lo guardava con i grandi occhi scintillanti piegati dal pentimento “Ora
smettila e andiamo.”
Dannata ragazzina.
Ad aspettarli in cima alla
quarta scala che conduceva fuori dal ghetto non c’era il sole al tramonto, ma
una pioggia battente.
Arrivarono a casa bagnati
fradici, tanto che Jara ironizzò chiedendo se avevano
deciso di farsi una nuotata nel pomeriggio. Erano stati spinti quasi a forza
nella toletta dalla ragazza corpulenta, che aveva piazzato nelle loro mani
tutto l’occorrente per asciugarsi mentre preparava un bagno caldo.
Levi era stato così galante
da far andare Nina per prima, soprattutto in virtù del fatto che aveva già
preso a starnutire.
Lui sconfisse il freddo di
metà ottobre sedendosi sul bordo del camino del soggiorno, avvolto in una
coperta spessa di lana, in attesa del suo turno.
Alla fine, Nina ci aveva
messo così tanto che si erano ritrovati a dover cenare prima ancora di
permettere al soldato di lavarsi. Lei si era scusata, mentre Franz continuava a
ripetere che non cambiava proprio mai. Quella parentesi però permise a Jara di cambiare l’acqua, sostituendola con dell’altra più
calda.
Quando aveva potuto trovare
ristoro nell’acqua calda e profumata di sapone, Levi era rinato. Si era
concesso qualche minuto in silenzio, con la nuca appoggiata sul bordo di
ceramica della vasca dai piedi leonini e gli occhi chiusi. Aveva ascoltato la
voce della figlia del dottore chiamare il fratello, la risposta seccata di
Fritz e i passi frettolosi per la stanza. Così come anche Levi, pure il ragazzo
era di partenza. Sarebbero usciti la mattina successiva insieme alla volta del
nord. Mentre Levi aveva da assolvere qualche incombenza per conto di Erwin e
del Comandante nei distretti del Muro Rose e del Muro Maria, Fritz aveva
trovato la sua collocazione definitiva nel distretto di Nedlay.
Inutile dire che lui si era
ritrovato sconfortato alla notizia, mentre Nina aveva scritto furiosa a Erwin,
che doveva essersi scordato di raccomandarlo. Levi, d’altro canto, non sapeva perché
si sentiva quasi sollevato all’idea di non averlo attorno a sé a Trost. Rifiutandosi di credere che fosse geloso, aveva
attribuito quel sentimento al fatto che Fritz, per quanto così accomodante, non
gli piaceva un gran che. Non sembrava figlio di suo padre, alle volte lo
trovava insulso, così succube.
Era definitivamente geloso, anche
se piuttosto che dimostrarlo, si sarebbe annegato da solo in quello stesso
momento.
Attese fino a che l’acqua si
fu fatta anche troppo fredda, prima di avvolgersi in un asciugamano, uscendo
dalla toletta per dirigersi nella mansarda in cui dormiva, ma solo dopo aver
sfiatato la vasca che riversò l’acqua lentamente in una canaletta di scolo che
portava all’esterno.
Quando arrivò nella sua
stanza, dopo aver salito almeno una ventina di ripidi gradini, non la trovò
vuota. Con il naso ficcato in un libro spesso come la sua testa, c’era Nina. Se
ne stava stesa sul letto, a pancia sotto, con il tono enorme appoggiato a un
cuscino. Gli lanciò una veloce occhiata quando lo vide entrare, ma non disse
nulla, limitandosi a inumidirsi il pollice con la lingua per poi appoggiarlo
sull’angolo della pagina.
“Che ci fai qui?” domandò
lui.
Nina voltò pagina “Sono in
fermento per la partenza di Fritz, di sotto” rispose, interrompendosi a causa
di uno sbadiglio “Ho bisogno di silenzio per studiare e dove posso trovarne se
non qui?”
La studiò, lasciando
scivolare lo sguardo lungo il suo profilo, fino alle spalle coperte da una
pesante sciarpa verde e al vestito da casa grigio che la copriva fino alle
caviglie, cadendole addosso senza una forma precisa. Poteva nuotarci dentro a
quell’ammasso di stoffa.
Nina gli faceva un po’ pena,
con gli occhi a mezz’asta per la stanchezza che pretendevano di rimanere
concentrati. Era distrutta. “Dovresti dormire” le disse, notando che fra le
dita reggeva un rametto di lavanda secca che, di tanto in tanto, accostava al
naso.
“Non posso” fu la risposta
della ragazza “Se non finisco almeno questa parte entro dopodomani, non andrà molto
bene all’esame di chirurgia.”
Il moro non replicò oltre. Si
sfilò l’asciugamano da attorno alla vita, appoggiandolo contro la testiera del
letto per farlo asciugare. Nonostante la totale nudità non parve essere a
disagio, così come Nina non si fece poi molti scrupoli a guardarlo. Quando i
loro occhi però si incontrarono, entrambi ripresero a fare ciò che dovevano. Lei
girò nuovamente la pagina, vagamente soddisfatta, mentre lui iniziava a vestirsi
con i capi comodi che usava per dormire. Si sedette sul letto, sfregandosi bene
i capelli e solo allora, mentre teneva le braccia sollevate al capo, Nina notò
qualcosa.
“Perché hai un braccio
bendato?” Lui parve irrigidirsi appena e subito si sbrigò ad abbassare la
manica della maglia nera. Lei però fu più veloce e dopo essersi messa seduta,
lo prese per il polso “Ti sei ferito oggi?” chiese stranita, tirandolo verso di
sé così che potesse voltarsi verso di lei.
Levi non strappò via il
braccio dalla sua presa, però le prese a sua volta il polso, per far sì che lei
lo lasciasse “No” rispose senza particolare interesse, permettendole di
stringergli piano la mano quando le abbassarono sul materasso “Questo è una
sorta di…. Non saprei come definirlo. Diciamo che è
una cosa di famiglia.”
Nina piegò di lato il capo. “Come
un marchio?” domandò e lui annuì lieve. “Deve essere una cosa segreta se lo
tieni coperto con una benda.”
“Lo è.”
“Quindi non posso vederlo?”
“No.”
Nina gli lasciò la mano,
tornando a buttarsi stesa sul letto, incassandosi fra i tanti cuscini che Jara aveva lì posizionato quando aveva preparato la stanza
al loro ospite. Lui lo sapeva benissimo quando la biondina poteva essere
curiosa e nonostante ciò non si curava minimamente della cosa. Forse ci godeva
addirittura nel darle informazioni scarne a mezza bocca circa il suo passato.
“Mi chiedo se un giorno potrò
dirti di conoscerti, Levi e basta.”
Lui parve quasi divertito
dall’affermazione, poiché un lato delle sue labbra si incurvò appena verso l’alto
“Cosa c’è che vorresti sapere?”
Recuperò il libro, Nina,
prima di mettersi a pensare a una domanda diretta che non gli desse motivo per
svicolare il discorso come era solito fare.
C’era così tanto che voleva
sapere, a partire dal suo cognome o da che fine avesse atto la sua famiglia.
“Perché ti sei proposto
volontario per andare a Briemer?” chiese infine,
postando tre cuscini dietro alla schiena per starsene sollevata.
Intanto, il moro aveva preso
a sistemare una sacca per il viaggio. Infilò al suo interno qualche vestito e
dei grossi calzettoni di lana che avevano comprato un paio di giorni prima al
mercato. A Briemer a fine ottobre faceva già più
freddo che a Trost in pieno inverno.
“Perché Erwin mi ha detto che
questo tipo di ordini diretti vanno portati in fretta” fu la risposta tattica
dell’uomo.
Nina lo guardò con un
sopracciglio alzato, “Come no” rispose sardonica, aprendo il libro e guardando
il disegno della sezione anatomica di un polmone, prima di proseguire “Nessuno
va a Briemer per fare un favore a qualcun altro. Nemmeno
tu. Quel posto dicono sia virtualmente impossibile da raggiungere, soprattutto in
inverno. Mi stai davvero dicendo che preferisci rischiare di rimanere bloccato
la per mesi solo perché vuoi portare le rassegnazioni di Shadis
al Capitano Schimdt?”
“Non credi che lo farei?”
“Non lo faresti mai, Levi.”
L’uomo le lanciò un’occhiataccia,
chiudendo la sacca e appoggiandola a terra. Girò quindi attorno al letto,
iniziando a sistemare con precisione le cinghie dell’attrezzatura sul baule ai
piedi del materasso, “Sei fastidiosa come una talpa che prova a spiantare una
rapa.”
Nina rise, sedendosi con le
gambe incrociate mentre lo guardava impegnato in quel lavoro certosino.
“Mai pensato di scrivere
poesie?” lui non si degnò di replicare quell’ennesima provocazione, così lei si
sporse in avanti, appoggiandosi con i gomiti proprio laddove il materasso
terminava. Gli sorrise un po’ civettuola “Ti prego” pigolò “Dimmi perché sei
così interessato a Briemer. Lo so che hai fatto delle
domande al dottor Meier su quel posto. L’abbiamo capito tuttiche hai interessi là.”
Messo con le spalle al muro e
certo che non se la sarebbe cavata semplicemente mandandola al diavolo, Levi
appoggiò le mani sulle gambe. Rimase inginocchiato accanto al baule, mentre con
il tono più acido che riusciva ad avere sputava una sola frase.
“Sto cercando una donna e un
bambino.”
Forse fu il modo vagamente
allusivo o forse solo lo sguardo che le riservò, ma Nina perse del tutto il
sorriso e anche un po’ di colore sulle guance. Levi non seppe dire se l’ombra
che le passò nello sguardo fosse solo un po’ di rabbia, ma non disse altro. Tornò
a sedersi contro i cuscini e riaprì il libro, immergendosi nella lettura.
L’aveva combinata grossa.
Con un sospiro rumoroso che parve
più un ringhio, Levi si alzò in piedi e andò verso la piccola scrivania
incastonata sotto al lucernaio della mansarda. Almeno aveva smesso di fare
domande.
Prese posto sulla sedia e
prese a visionare la documentazione che Erwin aveva spedito qualche giorno
prima da Trost. Un po’ di roba andava lasciata a Nedlay, ma il grosso – comprese una sorta di norme
comportamentali strane che Levi non indagò oltre- doveva arrivare direttamente
al distretto più a Nord delle Mura Maria. Lesse sbrigativo qualche passo, per
lo più c’erano le rassegnazioni alle squadra e l’approvazione o meno di
richieste. Levi era rimasto un po’ sorpreso quando erano arrivate anche le
loro, di rassegnazioni. Erwin lo aveva preteso nella sua squadra, la centrale
di comando dell’avanguardia. Nina invece era finita nelle retrovie, nella
squadra di Hanji, visto che il Caposquadra Ness avrebbe preso come di ruotine le reclute dell’anno,
alternandosi a Thoma.
Erano ai lati opposti della
formazione, il che era strano visto che sembrava che il Capitano Smith avrebbe
chiesto di avere la sorella con sé, una volta slegata dal primo gruppo di
difesa carri. Invece era finita con un paio di amici nella squadra dei ‘matti’
della Zoë.
Forse perché era il gruppo
che maggiormente si avvicinava ad una unità medica e scientifica.
Levi si alzò nuovamente,
andando a ficcare tutti quei fogli nella sacca. Una volta al letto, Nina gli
parlò nuovamente.
“Dovresti tenere i permessi
per passare le porte in cima o a Nedlay dovrai
perdere parecchio tempo.”
Levi notò che, in primo
luogo, era davvero arrabbiata. Aveva usato un tono piatto e dimesso e non l’aveva
guardato manco per sbaglio, rifiutandosi di staccare le iridi eterocrome dalle
pagine. Secondariamente, aveva parlato di qualcosa che lui non possedeva
affatto.
“Permessi?”
“Sì. I fogli firmati da Erwin
o da Shadis che ti permettono di spostarti delle
terre di Sina verso il nord” non ricevendo risposta,
Nina alzò lo sguardo sul volto di Levi. E capì “Erwin si è dimenticato di farti
i permessi, vero?”
Quello era un bel problema.
La memoria di suo fratello
ogni tanto perdeva dei punti. Oppure sapeva che sua sorella avrebbe rimediato
ogni cazzata fatta, anche a livello burocratico.
“Dovrai rimandare la partenza”
snocciolò però la bionda, tornando ai suoi studi.
Lui non smise di fissarla “Oppure?”
“Oppure cosa?”
Il moro si stizzì, “Senti,
cretina, o hai una soluzione per questa stronzata che il tuo amato fratello ha
fatto, oppure ti mando a Trost a calci in culo per
farmi fare i permessi.”
“Guarda che tu non sei
nessuno” rilanciò subito lei, a sua volta irritata, guardandolo negli occhi “Io
sono un tuo ufficiale superiore, soldato
semplice Levi e basta.” Il moro incrociòle braccia sul petto, senza smettere di aspettare la soluzione a quel
casino. Alla fine, Nina cedette. Si mise seduta, chiudendo il libro dopo aver
appoggiato fra le pagine il rametto di lavanda “Prendi fogli e calamaio.”
Le porse quanto richiesto,
sedendosi sul letto per reggere la boccetta di inchiostro, mentre lei
appoggiava le pagine immacolate sulla copertina del libro. La guardò intingere
la punta del pennino dentro all’inchiostro nero, attenta a non macchiare le
coperte “Non credevo che tu avessi l’autorità per autorizzarmi ad andare a
nord.”
“Infatti non ce l’ho” rispose
Nina, ora attenta e concentrata sulla scrittura.
Lei rimase di sasso a quelle
parole “Quindi cosa pensi di fare? Sei inutile.”
“Stai zitto?”
Per circa dieci minuti nella
stanza non volò una mosca. Nina scrisse, inclinando di lato il capo quando
terminò e si perse a leggere da capo tutto. Alla fine lasciò una firma
svolazzante in fondo e portò il foglio al viso, soffiando piano sull’inchiostro
per farlo asciugare più in fretta. Quando lo passò a Levi, questi rimase senza
parole.
Non era possibile dimostrare
che quello era un falso in mezzo a tutte
le carte che Erwin gli aveva fornito. La scrittura era pressoché identica e
anche la firma pareva autentica.
“Hai falsificato la firma di
tuo fratello?” chiese quindi, controllando che l’inchiostro fosse asciutto per
poi piegare in quattro il foglio e ficcarlo nella tasca della giacca beige d’ordinanza.
“Lo faccio sempre” gli
rispose lei con tono non curante, grattandosi il mento che sporcò di nero. Doveva
esserle rimasta un po’ di china sulle dita e lei non parve accorgersene “Erwin
ha tanto per la testa e per quanto sia zelante, capita spesso che dimentichi
qualcosa. Diciamo che ho un’autorizzazione ufficiosa a compilare qualche modulo
se lui ha dato il suo consenso.”
“Come hai imparato a farlo?”
Ora era lui a fare delle
domande e lei per un attimo penso che, per giustizia, avrebbe dovuto non rispondere
affatto. Alla fine, però, decise di lasciar stare. Lo guardò tornare verso la
scrivania, dove iniziò a sua volta a scrivere qualcosa “Non lo so” fu la
risposta sincera della bionda, mentre passava le dita sul dorso del tomo di
medicina, guardandone la copertina di pelle color terra bruciata “Fin da quando
sono piccola ho sempre avuto una buona memoria; mi basta leggere una cosa o
sentire una canzone per non dimenticarla mai. Vale anche per le strade, per le
poesie e per i nomi. Se vedo il volto di un uomo anche una sola volta, allora
lo riconoscerò in mezzo a cento. Così come il tuo braccio, anche la mia
famiglia ha un marchio, che però non è visibile.”
Il moro si ricordò di una
frase detta della bionda “I Müller non dimenticano”
citò, senza smettere di scrivere.
“Allora ogni tanto mi
ascolti.”
La conversazione cadde lì,
poiché Levi era troppo impegnato per continuare il circolo vizioso di
provocazioni che sarebbe nato in breve tempo. Al contrario di Nina non era
molto bravo a scrivere lettere e rapporti, quindi doveva concentrarsi e
prestare attenzione. La persona che aveva insegnato a leggere e a scrivere a
Levi non era di certo erudita, quindi nemmeno lui vantava un gran repertorio
lessicale, anche se aveva sempre letto in un modo o nell’altro, quando riusciva
a procurarsi dei libri nella Città Sotterranea.
Ci provò a concentrarsi, ma
sentiva che c’era qualcosa di irrisolto. Sbuffò, scocciato dal fatto che Nina
si fosse offesa prima. Oppure non voleva lasciarla in una tale incertezza alla
vigilia di una partenza? Levi non sapeva dirlo.
Si appoggiò con la schiena
alla sedia, portando una mano agli occhi che la debole luce della candela stava
stancando. Alla fine si decise a rompere il silenzio, giusto per dar pace a se
stesso.
Non lo stava facendo per lei,
nella sua ottica.
O almeno di questo si stava
convincendo.
“La donna si chiama Gretha” iniziò quasi con titubanza, appoggiando il pennino
nella boccetta “Mentre il bambino è-”
Non serviva terminare la
frase, perché Nina s’era addormentata. Il libro appoggiato al petto, con le
mani incrociate su di esso e l’espressione un po’ tesa persino nel placido sonno.
Il capo era leggermente inclinato verso di lui, sui cuscini e le labbra si
erano schiuse. Levi rimase a fissarla per qualche minuto, prima di alzarsi per toglierle
il tomo di dosso. Le alzò piano le gambe, coprendola con le coperte pesanti di
lana e lei, nel sonno, si spostò disturbata, mettendosi sul fianco, ancor di
più rivolta verso di lui.
“Cosa dovrei farci con una
cretina come te?” domandò sottovoce, spostandole i capelli che le erano finiti
sul volto indietro, sulla nuca, prima di leccarsi il pollice per levarle l’inchiostro
dal mento. Era crollata, spossata dagli allenamenti e dalla visita nel ghetto e
forse anche dall’estenuante conversazione che avevano avuto. Levi non era il
massimo dell’arte oratoria, certo, ma il provocarla non era stato gentile da
parte sua.
Soprattutto perché lui aveva
da tempo capito i sentimenti di quella giovane sempre sorridente.
Bussarono alla porta mentre
Levi stava tornando alla scrivania e, sullo stipite, apparve Fritz. Il ragazzo
lo guardò, prima di spostare lo sguardo su Nina addormentata. Fece un paio di
passi nella stanza, guardandola con un sorriso dolce sulle labbra “La stavo
cercando” ammise, sistemandole le coperte sulle spalle mentre Levi incrociava
le braccia sul petto “Volevo augurarle la buonanotte, ma doveva essere davvero
stanca.”
Fritz adocchiò il libro nelle
mani di Levi, che non commentò nemmeno una parola che gli era stata rivolta.
Meier portò invece le mani
nelle tasche dei pantaloni, guardandosi attorno giusto per non essere costretto
a spiare le iridi fredde del moro “Se non è un problema la lascio qui” disse,
sempre parlando piano “Mi dispiacerebbe spostarla. Difficilmente si addormenta
senza bere la valeriana.”
Quella era una cosa che Levi
non sapeva.
Non dimostrò sorpresa, ma ciò
non significava che non ci fosse rimasto di sasso. Nina, che sembrava prendere
sempre tutto alla leggera, non era poi così diversa da lui che dormiva tre ore
a notte quando andava bene.
“Puoi lasciarla lì. Non credo
dormirò molto, non mi infastidirà.”
Fritz annuì veloce, iniziando
già ad avviarsi alla porta “Dovresti, Nedlay è
lontana da qui e la cavalcata sarà lunga. Ci vediamo domani mattina.”
Levi gli dedicò un cenno,
facendo per voltarsi.
L’altro non pareva aver
finito, però “Volevo dirti grazie” disse a sorpresa, facendo tornare l’uomo a
voltarsi verso di lui “Per quello che fai per lei” proseguì il dottore, un po’
impacciato. Sembrava gli costasse qualcosa dirlo, ma il sorriso che gli rivolse
non fu per questo falso “Grazie.”
La porta si chiuse, lasciando
interdetto il moro.
“Sono tutti dei pazzi in
questa casa” fu il solo commento che gli venne in mente, soprattutto pensando
all’infatuazione del giovane per la ragazza che ora gli dormiva nel letto. Invece
di prenderlo a pugni preferiva ringraziarlo perché si prendeva cura di Nina,
come lui non era autorizzato a fare? Che sciocchezza. Levi non le avrebbe mai
capite quelle maniere.
Decretò che la giornata
poteva anche finire così. Spense una candela e andò con l’altra verso il letto.
La spense solo quando si fu
steso accanto a Nina, che dormiva beata. Inizialmente si stese col volto verso
il tetto, ma poi si mise su un fianco per guardarla in viso. Alzò una mano,
premendo l’indice fra i suoi occhi, laddove le sopracciglia arrivavano a
toccarsi tanto la fronte era corrugata. Dopo qualche secondo Nina mugolò
infastidita, muovendo una mano e afferrandogli il polso nel sonno “Rielke…” sussurrò con tono scocciato senza destarsi,
rimanendo poi con la mano dell’uomo nella sua.
Era la seconda volta che
succedeva quel giorno? Forse la terza. Di nuovo, Levi non interruppe il
contatto.
Rimase lì a guardarla, nel
momento in cui i suoi occhi si abituarono all’oscurità, sentendosi investito
dal profumo di lavanda che sembrava emanare.
Iniziava a diventare un bel
problema, quell’attaccamento che provava per lei.
Non lo voleva.
Però non poteva nemmeno
decidere di non provare nulla.
Quando scesero a mangiare
qualcosa prima della partenza, la mattina era ancora lontana. Fuori il cielo
era ancora color pece e l’aria era parecchio fredda.
“Deve aver nevicato al nord”
disse il dottor Meier mentre richiudeva la porta, andando ad appoggiare sul
tavolo qualche pagnotta ancora calda che aveva preso dal panettiere all’angolo.
Nina sbadigliò rumorosamente,
mentre accanto a lei Fritz imprecava a denti stretti, pensando a quanto sarebbe
stato ‘divertente’ trovarsi a Nedlay di lì in avanti “Non
fare così” gli disse la bionda, accarezzandogli il braccio “Il soggiorno a Nedlay è temporaneo no? Non ti hanno ancora riassegnato in
via ufficiale. Chiederò a Erwin ogni giorno di insistere con Shadis e in primavera saremo di nuovo insieme.”
A quelle parole, gli occhi di
Fritz si illuminarono, mentre di fronte a lui Levi mangiava pane e beveva latte
come se tutto il resto non fosse importante “A Trost?”
Nina annuì, sorridendogli “A Trost.”
“Intanto ci rivediamo per i Fuochi di Stohess,
no?” chiese Leopold, che era arrivato da cinque minuti per salutare il caro
amico e aveva la faccia di qualcuno che non si era nemmeno coricato per dormire
“Non starai lontano molto dalla tua Nina.”
Il diretto interessato
arrossì, mentre la giovane ridacchiava piano “Avrò si e no tre giorni di
licenza, a dicembre” commentò amareggiato Meier.
“Giusti per la fine dell’anno”
ricantò Jara, servendogli il the.
“Siamo stati tutta l’estate
in Capitale” gli ricordò Nina, rubando un biscotto “Fino alla fine della
prossima primavera non avremo licenze per forza.”
“Vorrà dire che verrò a
trovarvi io” si intromise il rosso gendarme, appoggiando le braccia al tavolo e
affondandovi il viso “Preferisco andare a sud però, che a nord!”
“A nessuno piace il nord”
confermò Fritz, “Voglio dire…. A oriente tira sempre
in vento. A Renin piove e basta. A Nedlay invece nevica solo, quindi non usciremo da Briemer perché quando il tempo è brutto non si fanno
missioni. Cosa faremo tutto l’inverno?”
“Se ti consola a Shigashina non succede mai niente” lo informò Nina “Sono
settanta anni che non c’èniente di
noto, ma almeno il clima è buono.”
Il padrone di casa ascoltò i
giovani parlare, guardando di tanto in tanto Levi. Alla fine si rivolse a lui
mentre questi porgeva la ciotola vuota a Jara e si
alzava per infilare la giacca e la mantella. Era ora di andare “Tornerai o
andrai direttamente a Trost, Levi?”
Il moro guardò verso Nina,
non rispondendo subito “Non guardare me” disse lei “Io sono qui fino al dieci
di novembre, non posso aspettarti, riprendo servizio il dodici e anche io ho
quattro giorni di licenza per l’ultimo dell’anno.”
“Dovrei tornare prima.”
“Se non nevica” gli ricordò
Leopold, tenendo affondate le mani nelle tasche del cappotto di ordinanza,
mentre usciva insieme a un Fritz ormai rassegnato al suo destino.
Nina abbracciò l’amico,
raccomandandogli di scrivere, mentre accanto a lei Jara
sellava il cavallo e parlava al fratello come se fosse scemo. Leopold gli
concesse un paio di pacche sulle spalle, ricordandogli che a nord le puttane
costano meno, “Anche se ti conviene tenertelo nei pantaloni, o potrebbe caderti
col freddo!”
Tutti risero, eccetto Levi
che sembrava preso dal sistemare la sua sacca sulla sella di Meruka.
“Vorrei avere un piano B”
disse Fritz, appoggiando una mano sul fianco di Nina e l’altra sulla spalla del
migliore amico.
“Il nostro piano B di solito
è un piano Birra” gli fece sapere
Leo, suscitando di nuovo qualche risata “Il che è anche un ottimo consiglio:
affoga i dispiaceri nell’alcool e lo vedi come passa in fretta il tempo”.
Nina ne approfittò per
allontanarsi verso l’altro uomo. Si piazzò accanto a lui, tenendo le braccia
incrociate sotto al seno visto il freddo che faceva. Lo guardò sistemare un
paio di cinghie prima di voltarsi verso di lei “Possiamo andare o i tuoi amici
hanno intenzione di sparare stronzate da mocciosi ancora per molto?”
Nina sbuffò divertita,
roteando gli occhi alle sue parole “Sempre il solito” disse, prima di alzare le
mani mezze nascoste dalle maniche del vestito grigio per sistemargli la
mantella sulle spalle. Alla fine lisciò il tessuto verde sul petto, guardandolo
negli occhi “Scrivimi” lo ammonì “Fammi sapere che sei arrivato vivo a Briemer e se hai trovato la tua donna e il tuo
bambino.”
Un sentimento contrastante
nacque nel petto di Levi, che si sentì combattuto fra il prenderla a schiaffi e
il baciarla.
Alla fine optò per una via
intermedia. Appoggiò la mano su quella della ragazza, “Starò benissimo senza di
te che mi aliti sul collo tutto il giorno.”
Nina scosse piano il capo,
non riuscendo però a non sorridergli. Si guardarono per diversi secondi, mentre
l’aria si faceva elettrica ed entrambi non potevano non pensare a quanto l’altro
fosse vicino.
Alla fine, però, Nina spezzò
quel gioco. Si tolse la sciarpa, avvolgendogliela attorno al collo “Così magari
non ti verrà a fare male la schiena” lo prese in giro a sua volta “Senza il mio
fiato sul collo” rimarcò, “Hai una certa età dopotutto.”
“Nina lascialo andare o
partiranno per pranzo!” la voce di Leopold la fece tornare in sé e soprattutto conscia
che non erano soli. Fece un passo indietro e lui con un saltello agile montò a
cavallo. Appoggiò una mano sul suo stivale, sul ginocchio “Buon viaggio”
Levi la guardò affiancarsi a Jara, che appoggiò sulle sue spalle la coperta che stava
avvolgendo anche lei.
A fatica, il moro staccò gli
occhi da quelli magnetici del sergente, lanciando uno sguardo a Fritz che, per
primo, si lanciò nella notte.
Eh sì. Stava decisamente
diventando un problema.
… Naturalmente Levi rimase
bloccato dalla neve a Briemer e tornò dopo quasi un
mese e mezzo.
Per lo meno, però, le scrisse
una lettera.
Nda:
Lo so, sono in ritardo, però
questo capitolo è davvero lungo e serve a farmi perdonare :DDD
Un paio di appunti veloci che
la tesi mi aspetta.
Ho trasposto Ilse perché, nonostante gli AOV spefichino
che la sua vicenda si è svolta nel 850, nel manga non è segnata nessuna data. Ho
preferito seguire il manga per molti aspetti, compreso il fatto che il corpo
non lo trovano nell’albero ma a terra.
Ci sarà un capitolo intero su
questa vicenda che è molto importante ai fini della trama e del sequel futuro
quindi non mi dilungo oltre.
Ho trovato le canzoni suonate
solo a violino e quindi niente. Nuova era di accompagnamento ai capitoli.
Un altro paio di utili info e
poi la smetto.
Punto prima, se avete letto
il capitolo 85 saprete il ‘problema legato alle foto’ e quindi niente, ho
modificato il mio capitolo 5 per eliminarle e sostituirle con dei ritratti.
Isayama cavolo non traviarci.
Punto secondo, la mia cara
amica RLandH ha finalmente postato!
Come ho già detto, le nostre
storie sono intrecciate e nella sua scoprirete, prima o poi, che cavolo è andato
a fare Levi a Briemer.
A svegliarlo fu, almeno inizialmente,
la sensazione fastidiosa delle lenzuola a contatto con la schiena sudata, seguita
poi da una voce che, ai piedi delle scale stava chiamando con una certa
insistenza Friedhelm.
Seppur con riluttanza, il
giovane ragazzo si mise seduto, passandosi una mano fra i capelli umidi, prima
di allungare un occhio per la stanza avvolta dalla penombra degli scuri ancora
chiusi. Rielke, alla sua destra, dormiva
profondamente col il viso rivolto al muro e nascosto da una mano. Era un bene,
visto che da quando Erwin era arrivato cinque giorni prima a Stohess, l’amico non aveva fatto altro se non piangere o chiudersi
in un mutismo che non lo rappresentava affatto.
Il solo pensarci gli chiuse
lo stomaco che, fino a un secondo prima, reclamava cibo. Non si sarebbe mai
abituato a perdere le persone che amava, non aveva quindi l’autorità di
chiedere a Rielke di farlo al posto suo. Non poteva
accettarlo, non così, vedendo partire un amico con addosso quella mantella
verde piena di significati futili e belle speranze verso un luogo in cui lui
non poteva andare.
Buon senso o codardia, non
aveva importanza. Lui era vivo e doveva rimanere tale per seppellirli tutti? Quale
ingiustizia. Perché così si sentiva, destinato a vivere una vita all’insegna
dei lutti; prima o poi il suo cuore sarebbe diventato di pietra, abituandosi.
Si alzò perché ormai non
avrebbe più ripreso sonno, prendendo una camicia nera pulita dalla sua sacca, insieme
ad un paio di pantaloni del medesimo colore. A Stohess
era tradizione portare avanti il lutto per soli sette giorni, nel quale la
famiglia del deceduto si impegnava a vestire di colori scuri e a intonare
lamenti al crepuscolo, non andando a lavorare né prestando servizio militare.
Ancora due giorni e poi sarebbero stati tutti costretti ad andare avanti,
riprendere le loro vite e soprattutto accettare quel che era successo.
“Se la morte di un legionario
fermasse il mondo, allora esso sarebbe finito da cent’anni”, questa era stata
la frase che aveva sentito da un vicino di casa alla fine della commemorazione
alla memoria di Nina. Più di uno di loro si era ritrovato a pensare a quanto
poco rispettoso sarebbe stato spaccare la faccia di un vecchio proprio durante
la Settimana dei Lamenti, ma Fried aveva risolto in fretta la questione sbattendolo
fuori dalla corte interna della casa.
“Buongiorno, Leo.”
Fu proprio lui che si ritrovò
di fronte una volta messo il naso fuori dalla camera di Rielke.
Il biondo statuario le stava salendo, anche lui vestito con un paio di
pantaloni scuri e una camicia di un blu così cupo da sembrare nera stinta. Il
rosso rispose al saluto, coprendosi la bocca con la mano, mentre si esibiva in
un rumoroso sbadiglio “Siamo i soli svegli?”
Fried gli si fermò di fronte, scuotendo piano il capo “Alma
sta cucinando delle uova e io sto andando a svegliare Marika e i bambini. Sarò
anche in licenza e il forno ora è chiuso, ma dormire fino all’ora di pranzo non
è salutare. Rielke?”
“Lascialo stare” Leopold
iniziò a scendere le scale, con le mani ben piantate nelle tasche dei calzoni
“Meglio vederlo dormire che piangere.” Non credeva che l’amico si sarebbe mai
ripreso dalla morte della cugina. L’aveva visto disperato alla commemorazione
per Fritz, ma a quella di Nina non si reggeva in piedi da solo. Di tutti loro,
era certamente quello che l’aveva presa peggio, perché sembrava che
ingenuamente non se lo aspettasse. Lui e il signor Müller
erano diventati come due spettri, intenti ad aleggiare per la casa nella
negazione più assoluta.
Passando di fronte al
salotto, Leo vide con la coda dell’occhio la padrona di casa che stava
lavorando a maglia nonostante fosse ancora abbastanza presto. Ne osservò il
profilo senza però fermarsi sull’uscio, provando un moto di fastidio. Adelaide
non pareva per niente toccata dalla perdita della figlia. A stento sembrava
essersene accorta nel momento in cui Erwin era arrivato, appoggiando la giacca
sporca di sangue della ragazza sulle braccia di Wilhelm Müller,
riuscendo chissà come a snocciolare le classiche parole di compianto, seppur
con un tono diverso. Non aveva reagito, quella donna di ghiaccio, limitandosi a
guardare il marito piangere come un bambino fra le braccia dei figli maggiori,
non facendo nulla per consolarlo o cercar consolazione a sua volta.
Leopold non era ancora
arrivato, ma c’era chi non si era risparmiato di raccontargli che scena
patetica era seguita. Adelaide aveva osservato il marito inchiodare
quell’indumento grottesco sul camino, sostenendo che avrebbe turbato gli
ospiti. Come se invece la mantella di FlagonTurret, li accanto, non potesse essere altrettanto
grottesca, così come il vaso contenenti le ceneri di Ewald.
Con l’arrivo di Mieke, giunta a Stohess un paio
di ore dopo il rosso, erano esposi i fuochi artificiali; la più piccola della
famiglia aveva litigato con la madre e da allora non le parlava. L’intera
famiglia aveva un po’ isolato Adelaide, seppur Leo credesse che c’era chi non
l’avesse fatto di proposito. Nessuno, eccetto Alma, che quella che chiamava donna orribile non l’aveva mai potuta
soffrire, da quando aveva messo piede per la prima volta in casa. Allora Alma
aveva sedici anni ed era abituata ad accudire il padre e Fried
da sola. Si era vista portata via la direzione della casa. Se prima non tirava
una buona aria, poiché la pace era sorretta dalla fragile scusa che quella
donna aveva messo al mondo un paio di creature, a seguito di quel pesante lutto
era difficile camminare per casa schivando occhiatacce e frecciatine.
Persino quando mise piede in
cucina, Leo rischiò di prendere una padella in faccia.
“Scusami” aveva prontamente
detto Alma, abbassando le braccia “Stavo per urlare alla megera di venire a
mangiare, ma infondo preferisco che le abbia tu, le uova. Almeno la tua vita ha
senso” senza replicare, il rosso si sedette al tavolo, prendendo di buon grado
il piatto pieno di uova saltate con quella che sembrava erba cipollina e un
bicchiere di acqua fresca dal pozzo “Hector è morto” proseguì Alma, parando via
dal volto i capelli che erano sfuggiti al concio malmesso sul capo “Flagon è morto. Ewald è morto. Nina
è morta. Eppure lei, quella stronza che a stento posso definire una persona,
ancora infesta questo mondo con la sua sciagurata presenza. Questa….
Questa è ingiustizia.”
“Alma…”
il fratello entrò in quel disastro che poteva definirsi in qualche modo cucina,
andando verso la maggiore e appoggiandole entrambe le mani sulle spalle mentre
Leo mangiava, grato all’uomo di averlo salvato dal dover dire qualcosa di
consolante. Non era proprio in grado, in quel momento, di esternare un
sentimento che non fosse l’amarezza o la tristezza. “Non vale la pena di
rovinarsi la salute per lei. Smettila e mangia con noi, avanti.”
“Non è giusto Fried.” Avvolgendo le braccia attorno al busto del fratello,
Alma si strinse a lui.
Leopold si ritrovò a pensare
a quanto straziante fosse quella situazione, sentendo come se non avesse il
diritto di lamentarsi e stare male se confrontato a loro. Abbassò gli occhi sul
piatto, portando le mani al capo.
“Amico, muoviti o si
freddano” Fried gli battè
una mano sulla spalla così forte da spingerlo contro al tavolo, mentre si
sedeva accanto a lui.
“Questo è troppo” Leo rialzò
il viso, prendendo riprendendo respiro mentre sentiva il sangue gelarsi nelle
vene “Non lo sopporto.”
“Senti la mancanza di Jara?” Alma si asciugò una lacrima al lato dell’occhio,
allungando al fratello un piatto e un bicchiere pulito proprio mentre Fried si stava avvicinando la brocca “Le ho chiesto di
rimanere, ma capisco il motivo per cui è partita subito dopo la cerimonia.”
“Odia i lutti, ancora non ha
superato quello del fratello” fu il commento del maggiore, che si strusciò
l’occhio marrone, spiando con l’azzurro prima il ragazzo accanto a lui e poi la
sorella “Se continuiamo a questo ritmo, a seppellirne uno ad anno, non andrà
molto avanti la famiglia.”
Leopold sorrise, seppur
pallidamente, quando l’uomo contò Fritz come parte di quella famiglia. Forse
anche per lui c’era posto, dopo tutto quel tempo “Serve del tempo a tutti” si
permise di aggiungere, trovando un appoggio in Fried
mentre Alma si esibiva in un’espressione alquanto scettica sul volto privo di
colore. Fu l’arrivo dei figli della donna, Anneke e Heiner, a far cessare ogni discussione. I bambini, di sei e
otto anni, si sedettero al tavolo, pretendendo di avere il latte con i biscotti
secchi.
“Dopo aver mangiato,
prendiamo Weike e andiamo al mercato, va bene?” disse
Fried, spettinando la zazzera bionda del nipotino,
che lo guardo con un occhio azzurro e uno giallo da gatto, proprio come quello
del defunto padre.
“Io voglio le caramelle al
miele” snocciolò Anneke, mentre Leopold si sforzava
di finire le uova che non volevano saperne di andar giù “ Sono giorni che la
mamma promette che le compra, ma ancora non le ho avute.”
“Non fino alla fine del
lutto.” Fu il puntualizzare di Alma che mise un freno alle richieste. La piccola
prese la treccia che le pendeva sulla spalla fra le mani, tirandola piano, come
a soffocare un capriccio, forse consapevole di cosa fosse successo oltre le
mura alla giovane zia.
Leo non si permise di dire
nulla, perché non era padre.
Però sapeva che Fried, quelle caramelle, le avrebbe comprate e avrebbe
fatto sì che i bambini le finissero prima del ritorno a casa.
Perché era giusto, almeno per
loro, non essere così tristi.
Stavano piangendo a
sufficienza gli adulti, anche per i bambini.
Seduto sul patio con un
bicchierino di liquore di anice in mano, Erwin sembrava aspettare qualcosa.
Alzò lo sguardo oltre la corte
della palazzina, verso il cielo, dove grazie alle lunghe giornate estive,
nonostante fossero passate le nove di sera, l’aeree era dipinto di rosato e
rosso e rendeva ancora possibile vedere senza dover accendere le lampade ad olio.
Era uscito per permettere
alle donne di casa di sistemare dopo la cena, cacciato come sempre da tutte
loro nel momento in cui s’era alzato con un piatto in mano per aiutare. Iniziava
a credere che ciò che il signor Müller, ovvero che
ogni donna è la signora della propria cucina, fosse vero. Abituato com’era alla
vita in caserma, gli dispiaceva starsene così in panciolle. Era un Comandante
che non aveva paura di sporcarsi le mani di olio e sugo, dopotutto.
A fargli compagnia ci pensò Friedhelm, che andò a prendere posto sulla sedia di legno
accanto alla sua, tenendo in mano anche lui un bicchierino, ma avendo anche l’indecenza
di portarsi dietro l’intera bottiglia. La appoggiò fra loro, allungando le
gambe per incrociare le caviglie davanti a sé. Alzò il bicchiere, guardando
verso Erwin, che avvicinò il suo facendo tintinnare piano il vetro.
“A Nina?”
“A Nina.”
Buttarono giù tutto il
contenuto e, prima ancora di pensarci, Müller stava
riempiendo nuovamente. Dalla porta lasciata socchiusa potevano sentire le
stoviglie ticchettare, le donne di casa parlare, ad eccezione di Adelaide che
come ogni sera s’era ritira nella sua stanza a pregare le dee Maria, Rose e Sina. Di cosa, era un bel mistero.
I bambini giocavano nella
corte, tutti insieme in un angolo del cortile, poco lontano dalla stalla, ad
eccezione di Henke che dormiva placidamente nella
culla accanto al caminetto spento, nel salotto, troppo piccolo per partecipare
con i cugini e il fratello maggiore. Fried puntò gli
occhi proprio sui tre, passandosi poi la mano sul mento per grattarlo. Suo figlio
Weike stava brandendo un bastoncino come una spada e
la cosa lo preoccupava un po’; nonostante avesse solo quattro anni, avrebbe
potuto sviluppare anche lui quel senso di dovere che seppur non rimproverava a
Erwin così come non aveva rimproverato a Ewald e a
Nina, sarebbe diventato un bel peso sul cuore di un padre.
“Sai, stavo pensando al
giorno in cui Nina si è arruolata” Erwin interruppe quel suo ciclo di pensieri
catastrofisti, accostando il gomito alla sedia per potersi appoggiare col capo
al polso “Te lo ricordi?”
Fried ridacchiò sotto ai baffi, girandosi col busto per
guardarlo “Tua madre era così incazzata…” iniziò con
una certa soddisfazione “Nina le aveva giurato sulle Mura che avrebbe scelto la
Gendarmeria se fosse rientrata fra i primi dieci. Come se poi gliene fosse mai importato
qualcosa del Credo. Infatti, non solo si è sforzata tanto per arrivare terza, ma
ha comunque deciso di entrare in Legione. Pensavo che l’avrebbe uccisa con le
sue stesse mani quando è tornata a casa alla prima licenza.”
Erano volati piatti quel
giorno e anche improperi degni di un’osteria del ghetto. Erano volati insulti e
previsioni catastrofiche, ma Nina non aveva dato nemmeno un minimo cenno di preoccupazione.
Come avrebbe potuto, dopotutto? Era dove era sempre voluta essere.
La porta alle loro spalle si
aprì e eleganti nelle loro divise d’ordinanza, un gendarme e uno stazionario
uscirono nel cortile. Rielke era pallido come un
morto, tanto che le lentiggini risaltavano ancora di più sotto agli occhi
acquosi. Leopold invece sembrava solo stanco, come se avesse corso tutto il
perimetro delle mura Sina in un giorno “Sono riuscito
a farlo vestire decentemente” disse però con un certo orgoglio, facendo
sorridere pallidamente l’amico, “Andiamo a bere qualcosa. Vi unite?”
“No grazie, sono decisamente troppo
grande per le osterie di lunedì” Fried guardò il
cugino un po’ sollevato, allungando anche il piede per tirargli un calcetto
giocoso che questi evitò con un saltello “Noi vecchiacci beviamo del liquore e
poi andiamo a dormire con le galline.”
“Attenti a non vivere una
vita troppo eccitante” li riprese di nuovo Schitz,
prima di avviarsi per primo con Rielke alle calcagne.
Il Capitano Müller sospirò pesante “Spero che gli concedano di andare
in Capitale con Leo per un po’, altrimenti tra un po’ seppelliamo anche Rielke.” Erwin non si sentì di dire nulla in proposito. Prese
un altro sorso dal bicchiere ancora pieno di quella sostanza trasparente,
sentendola bruciare mentre scendeva lungo la gola “Guardaci, comunque. Senza una
divisa addosso cosa siamo? Una famiglia di militari, ecco cosa siamo. Era molto
meglio cinquant’anni fa, quando se nascevi Müller nascevi
con addosso ricamate le Rose della Guarnigione. Poi cosa è successo? Abbiamo iniziato
a perderci. Gritte non s’è nemmeno arruolata, mentre
Thomas è entrato insieme a suo fratello in Guarnigione. Sono i soli però. Loro fratello
maggiore Ewald è morto oltre le mura che tu eri una
recluta, causando un dolore tale nel cuore della zia che è sbiancata di
capelli. Io sono un gendarme e Mieke…. Chi prendiamo
in giro? Nina è morta e Mieke vorrà il suo lascito.” Fece
una pausa, Friedhelm, stringendo il pugno della mano
libera. Si rilassò quando Weike si avvicinò,
porgendogli una foglia di castagno, che lui prese prima di tirarsi il bambino
sulle ginocchia. Poi fece una domanda che l’altro non si sarebbe mai aspettato “Quanti
ne avete persi da gennaio?”
Erwin prese un sorso generoso
prima di rispondere. Non aveva bisogno di chiedere a cosa si riferisse. “Settanta
due, ma solo cinquanta sei per colpa dei giganti” fece una pausa, mentre il
fratellastro sistemava sulla gamba il figlio, che aveva preso a giocare con il
bordo dello stivale “Dieci sono morti per incidenti vari, dalle esercitazioni,
all’addestramento, fino a tragedie durante le spedizioni.”
“Tipo cadute da cavallo?”
“Anche.” Fried
lo guardò come per dire che trovava quelle morti stupide, ma il loro peso non
annullava comunque il fatto che erano avvenute.
“Le altre?”
“Quattro persone sono morte
per complicanze dovute a vaccini o trattamenti medici, poi ci sono stati due
suicidi.” Fece una pausa, il comandante dell’esplorativa, prima di parlare nuovamente
“Con la squadra di Sankov, di cui non abbiamo trovato
un solo superstite, siamo saliti a ottantuno. Nove morti tutti insieme, è un
bel numero anche per noi, per una singola azione sul campo. Nina era fra loro.”
“Sai che non è colpa tua,
vero?” di nuovo, Erwin non gli rispose. Fried scosse
piano il capo, accarezzando la nuca del bambino “Lei non avrebbe mai lasciato. Aveva
scelto molto prima di prendere le Ali al posto delle Rose.”
Smith si lasciò sfuggire un
sospiro “Non avrebbe mai lasciato la Legione.”
“No. Non avrebbe mai lasciato
te.”
Calò un silenzio strano,
improvvisamente teso. Entrambi erano consci del fatto che le parole del
Capitano non erano vane. Nina aveva preteso di studiare medicina e ci era
riuscita solo perché Erwin aveva convinto Adelaide a lasciarla andare dai
Meier. E perché Nina aveva scelto di diventare un medico? Perché voleva potere
esserci quando e se suo fratello, il suo eroe, avesse avuto bisogno di lei. Voleva
essere fondamentale nella causa, voleva avere un ruolo importante e lo voleva perché
Erwin non pensasse mai che sarebbe potuta rivelarsi inutile. Si era allenata
con Levi notte e giorno, persino lì a Stohess nelle
licenze, per diventare forte abbastanza da non essere un peso per lui e alla
fine era morta nell’osservanza degli ordini da lui sempre impartiti.
Per questo Erwin si sentiva
in colpa. Perché inconsciamente era stato il motore che aveva portato a quegli
eventi.
“Credi che se io non-”
“Levi non è venuto alla
cerimonia. Non me lo aspettavo di lui, sembrava sinceramente preso da nostra
sorella.”
Nel voler evitare qualsiasi
discorso ricolmo di dubbi, Fried aveva comunque fatto
un danno. Parlare di Levi non era molto saggio, soprattutto perché la sua
assenza s’era sentita più di quanto avrebbe potuto immaginare chiunque, in
quella casa. Leopold era stato il primo a notarlo, con una punta di amarezza
assai poco velata, il giorno in cui avevano alzato i tendaggi neri nella corte
e avevano invitato amici e vicini al loro cordoglio.
Erwin prese le sue difese, come
aveva fatto ogni qualvolta qualcuno chiedeva “Levi non ha accettato ciò che è
successo” disse di fatto il Comandante, tirando diritta la schiena sulla sedia,
mentre anche il secondo bicchieresi
ritrovò svuotato. Allungò la mano alla ricerca della bottiglia, che poi alzò
per rimboccare al goccio l’oggetto che pareva ormai un’ancora “Insiste nel
negarlo e quindi non ha ritenuto necessaria la sua partecipazione.”
“Capisco. Deve essere dura
per lui, tanto forte da sembrare il protagonista di una leggenda, ma incapace
di proteggere coloro che ama.”
“Non essere così duro, Fried.” Il signor Müller uscì
nella corte, riprendendo il figlio seppur debolmente. Erwin gli cedette subito
la sedia, facendolo ridacchiare “Rimani, figliolo” gli disse, nonostante questi
fosse già in piedi “Rimani seduto. Sei fin troppo gentile al contrario di
questa carogna.”
“Ho in braccio il bambino” fece
notare Fried al suo vecchio, che prese posto nella
sedia ora libera, tenendosi la gamba “Parlavamo di Levi” gli fece infine
sapere, mentre Erwin si appoggiava con la schiena al legno della colonna del
patio, che sorreggeva la tettoia sopra di loro “Tu cosa ne pensi?”
“Che ognuno vive il lutto
come lo preferisce” fu la risposta saggia dell’uomo, che incrociò le mani sulla
pancia sporgente. Prese quindi un respiro profondo, puntando gli occhi verso le
stelle, sempre le stelle, che
iniziavano a puntellare di luci il cielo sempre più buio “Che sia qui o a Trost, l’importante è ricordarsi di lei. Spero solo di
rivederlo, prima o poi. Mi sta simpatico quel ragazzo.”
“Fra tre giorni sarebbe stato
il suo compleanno. Di Nina, intendo.” Wieke pretese
di essere rimesso a terra, seppur non consapevole di quei discorsi fra adulti,
e i tre uomini lo guardarono tornare verso i cugini che s’erano seduti per
terra e parlottavano sottovoce “Solo io mi aspettavo che lei aspettasse di
compiere vent’anni prima di sposare Levi e iniziare a sfornare mocciosi?”
Quella frase, che mise
addosso a Erwin una melanconia pesante, fece ridere di cuore Wilhelm, i cui
occhi però si velarono appena di lacrime “Ah, l’avrebbe anche fatto, la mia
Nina. Ce li saremmo trovati tutti qui, conoscendola! Non avrebbe mai appeso la
mantella al chiodo!”.
Quel discorso venne accolto
con un mezzo sorriso e un’altra bevuta. Se avesse potuto, se il suo cuore l’avesse
permesso, anche Wilhelm avrebbe approfittato del liquore per celare la sua
debolezza. Era certo che però anche per gli uomini fosse inutile per nascondere
a sé stessi la verità.
“Ogni mattina è sempre peggio;
è come se nel sonno fosse semplice dimenticarsi di cosa è successo. Ogni
mattina è come risvegliarsi senza memoria, almeno sino a che l’impietosa
consapevolezza non riporta alla mente ogni ricordo, con tutto il dolore al
seguito. Allora, solo allora, mi viene in mente che la mia bambina non c’è più
e che non rivedrò mai più il suo sorriso. Non ho mai seppellito un figlio
prima, non dovrebbe succedere. Doveva essere lei a seppellire me, insieme a voi
due e ad Alma. Avrebbe dovuto avere una bella vita, la mia Nina. Se la
meritava.”
Quindi è questo il rumore di
un cuore che si spezza? Il dolore di un padre?
Nessuno dei due disse nulla, perché
non c’era nulla da dire.
La sofferenza in quelle
parole era troppo, quasi insostenibile. Erwin staccò la schiena dalla colonna,
appoggiando una mano sulla spalla di Fried “Rientro,
il liquore mi ha dato alla testa” sussurrò, così da non disturbare i pensieri
del signor Müller, che intanto si era preso il viso
fra le mani e se ne stava in silenzio. Il fratellastro gli fece cenno con la
testa di andare e mentre Erwin valicava l’uscio, lo vide appoggiare un braccio
sulle spalle del padre, scosse da un singhiozzo. Chiuse la porta dietro di sé appoggiandosi
poi ad essa con la fronte.
Chiuse gli occhi e prese un
respiro, ricercando la sua misurata compostezza, sempre più vicina a crollare.
Si voltò per salire le scale,
con il chiaro intento di sparire nella sua stanza e leggere qualche notifica di
rapporto o a scrivere una lettera a Mike per sapere come procedevano le cose al
quartier generale, ma venne distratto da una figura adagiata morbidamente sul
divano. Con il naso ficcato in un libro c’era Mieke.
Le si avvicinò, controllando
la copertina verde spento, mentre sentiva le labbra incurvarsi in un sorrisetto
istintivo “i diari del Comandate Carlo Piquet?” le chiese, sedendosi sul
bracciolo pur tenendo un piede ben piantato sulle mattonelle.
Lei alzò gli occhi azzurri di
sfumature diverse su di lui, senza abbassare il tomo “Già. Non sapevo cosa
leggere. Se temi che io possa unirmi alla Legione, però, ti tranquillizzo
subito; non è mia intenzione unirmi a coloro
che vanno a morire.”
Erwin le appoggiò una mano
sul capo, conscio del caratterino della più piccola dei Müller,
ma anche un po’ sollevato da quella dichiarazione non richiesta “Ho regalato io
questo libro a tua sorella” le fece sapere, incrociando poi le braccia sul
petto ampio “Molto tempo fa.”
“Me lo ricordo. Nina l’avrà
letto almeno una ventina di volte.” Notando che Erwin non intendeva andarsene, Mieke si arrese appoggiandosi il diario sul petto e
ricambiando lo sguardo. Lei e Nina si somigliavano molto nell’aspetto fisico,
ma non sarebbero potute essere più differenti di carattere; il carisma di Erwin
non sortiva nessun effetto su Mieke che lo vedeva esattamente
come vedeva Friedhelm o Rielke.“Posso
fare qualcosa per te?”
“Mi chiedevo se volessi
parlare” iniziò Erwin, senza spostare gli occhi zaffirini dal volto della
sorellina “Sono giorni che parli con noi.”
Lei alzò le spalle con totale
non curanza, passando una mano fra i capelli corti ritti sul capo per grattare
un prurito “Non c’è molto da dire, non pensi?”
“No, non c’è molto da dire. Ma
tenerti le cose dentro non ti farà bene.”
Erwin era solo l’ultimo di
tanti avventurosi che avevano provato a cavar fuori qualcosa dalla ragazzina,
senza risultati. Laddove Adelaide era fredda e distaccata, la più piccola dei
fratelli Müller sembrava non essere stata toccata da
quel lutto. Infatti, per l’ennesima volta, nascose il viso dietro al libro “Non
mi tengo niente proprio nulla. Nina è viva e quando tornerà ci sarà da
divertirsi.”
Il Comandante non si
aspettava una risposta di quel livello. Guardò sorpreso Mieke,
prima di toglierle il libro dalle male “Cosa intendi?”
“Lei è viva” insistette,
incrociando le gambe sul divano e guardandolo decisa “Io lo sento.”
“….Mieke,
hai parlato con Levi?”
Con la sua miglior faccia da
carte, la biondina scrollò le spalle “Perché avrei dovuto parlare con Levi? Sono
venuta direttamente qui.”
“Lui è venuto da te?” Alla
fine, Erwin realizzò. E si sentì come colpito da un fulmine, “Levi è venuto a
parlare con Shadis?”
“Perché? È così difficile per
te pensare che più di una persona sia convinta che non cercarla e tornare alle
mura senza nessuna prova della sua morte se non un giacchetto pregno di sangue,
sia stata una mossa stupida?”
Erwin si sentì ancor più
stanco, come se un carico da novanta gli fosse appena stato scaricato sulle
spalle di colpo “Mieke…”
“Lo so cosa succede oltre le
mura” insistette la giovane ragazza, impuntandosi “Non c’è bisogno di uscire
con la Legione per saperlo: morte, urla, sangue e tutte quelle altre cose di
cui i racconti sono pieni. Intere squadre che vengono annientate in un soffio,
errori grossolani che portano un Capitano a dare la propria compagnia in pasto
ai mostri. Io lo capisco, Erwin, ma la cosa che ci differenzia dai giganti è
proprio il fatto di avere una mente che pensa” si fermò solo il tempo di
portarsi in ginocchio accanto a lui. Gli prese il volto fra le mani e lo guardò
negli occhi, fissa, cercando di seminare il dubbio nella sua mente. Ciò che
lesse nelle iridi però le fece capire che quel dubbio c’era già “Perché non ti
sei fidato di lei? Non è la ragazza più sveglia che esista, anzi è abbastanza
sciocca, è vero, fa parecchie cose stupide... Ma è brava, lo sai che è brava, lo
è diventata! Nina farebbe qualsiasi cosa per tornare a casa….
Tu hai fatto qualsiasi cosa per assicurarti che non c’era speranza?” Era una
mossa crudele da parte sua, ma andava fatto. Lo aveva promesso a Levi e lei non
voleva che tutto finisse così. Non voleva arrendersi alla morte di Nina, non
voleva arrendersi e basta. “Perché hai preferito lasciarti andare invece di
fidarti dei tuoi uomini? Come fai ad essere vivo se non credi in loro?”
Erano tante le argomentazioni
che Erwin avrebbe potuto usare in quel momento, affidandosi alla sua esperienza
e al suo sesto senso, maturato in tanti anni di fedele servizio nella Legione. Avrebbe
potuto rimetterla al suo posto con severità o con gentile pena nell’accorgersi
che Mieke, esattamente come Levi, preferiva pensare
che sua sorella era rimasta sola la fuori, invece che saperla divorata. Avrebbe
anche potuto dirle che se Nina fosse anche sopravvissuta all’attacco, non c’erano
possibilità che una settimana da sola nelle terre perse di Maria avessero
potuto risparmiarla.
Era brava? Non bastava essere
bravi per sopravvivere o tanti suoi commilitoni non si sarebbero ritrovato
divorati o mutilati nell’arco di quegli anni.
Non lo disse. Si limitò ad
abbracciarla in silenzio, sentendo la stretta ricambiata con intensità “Nella
vita è meglio avere rimorsi che rimpianti” gli diede il colpo di grazia, “Dall’alto
dei miei dodici anni non posso dirti cosa fare, perché non lo so forse, ma
almeno ascolta chi hai attorno e sa cosa si prova.”
“Avrai anche dodici anni, ma
hai più giudizio di me e persuasione di Levi” Erwin si separò da lei,
accarezzandole i capelli. Avrebbe voluto dirle che qualsiasi cosa sarebbe
successa, avrebbe fatto di tutto per non lasciare mai indietro di nessuno e che
per questo non credeva di aver lasciato indietro proprio sua sorella, ma un
urlo dal cortile li fece trasalire entrambi.
“Alma! Aiuto!”
Scattarono in piedi,
arrivando all’uscio dopo Alma, che per un attimo nascose loro la vista. Solo quando
si fu chinata accanto al fratello, entrambi poterono vedere a chi apparteneva
il braccio steso sul terreno. Ci furono urla, lacrime. Fu chiamato anche un
medico, che arrivò celermente seguendo Marika che tremava spaventata, ma
nemmeno lui fu in grado di svegliare Wilhelm Müller,
né di farlo alzare dal terreno polveroso della corte.
Nothingcouldever stop us
Fromstealingourownplace in the sun Wewill face the oddsagainstus And runinto the fearwerunfrom
Anno 844
I Fuochi di Stohess e il
saluto all’anno che nessuno potrà mai dimenticare.
Levi arrivò a Stohess insieme ad Erwin che Nina era giunta ormai da due
giorni.
Tutto ciò che fece, una volta
messo piede nelle corte interna alla palazzina di proprietà dei Müller, fu guardarsi attorno interessato e consegnare una
lettera a Friedhelm, che odorava di profumo femminile
un po’ dozzinale. Nina non l’aveva ancora perdonato per l’aver regalato la sua
sciarpa verde a un barbone, ma soprattutto per come si era procurato una
sciarpa vermiglia dall’aria più vissuta.
“Me l’ha regalata una
prostituta quindicenne.”
Questa pragmatica frase si
era guadagnata, di nuovo, lunghi silenzi e, in aggiunta, Nina aveva anche preso
ad ignorarlo, tanto da decidere di partire per la Capitale con un giorno di
anticipo, dove si era riunita a Leopold, Fritz e uno strano amico di quest’ultimo,
che come ogni anno si sarebbero goduti insieme all’amica i Fuochi di Stohess.
Levi, a cui una volta
arrivato era stata data la camera di Rielke - che lui
aveva provveduto a ripulire da cima a fondo con una certa cura- fingeva di non
essere toccato dal comportamento immaturo della bionda, preferendo concentrarsi
sulla sua permanenza distretto di Stohess, che così
come Nina stessa aveva detto quella mattina al mercato di Trost,
era più vivace e colorato. I tetti delle case risplendevano di rosso e oro,
mentre la chiesa del Culto che faceva bella mostra di sé nel centro cittadino,
affacciata sulla Pizza della Mercanzia, brillava come un diamante in mezzo all’oro.
Se poi si fosse stufato di
mirare la città, avrebbe avuto il caos che impregnava quelle mura a tenergli
compagnia. Il fatto che sotto quel tetto convivessero ben quindici persone di
norma (diciassette con Nina e Erwin a casa), lo lasciava basito. Era una
palazzina piuttosto grande, in effetti, ma fra i membri della famiglia e i ben
quattro ospiti venivano sforati i venti abitanti. La confusione era inevitabile
e gli adulti ne facevano di più dei bambini.
La signora Adelaide non
sembrava per niente felice all’idea di ospitarlo. L’aveva guardato male già
durante la sua permanenza a Trost, ma averlo addirittura
lì sembrava quasi un affronto, per il quale non aveva fatto altro che litigare
con la figlia maggiore. Levi non si era per niente pentito di aver mandato all’aria
un’incontro organizzato fra Nina e il figlio del notaio Bender
la prima sera, distraendola con una sessione estrema di allenamenti e sapeva che
Nina l’aveva mentalmente ringraziato per averle evitato quell’ennesimo strazio.
Di tutt’altro avviso parevano gli altri Müller, in
particolare la sorella maggiore, Alma; Levi aveva notato quando lei, Mieke e Nina si somigliassero, ma c’era qualcosa di
particolare in quella che poteva essere etichettata sin da subito come la vera
padrona di casa. Non era alta come le sorelle, ne magra come loro. Il suo corpo
aveva visto due gravidanze e ben due mariti morti, insieme al duro lavoro al
forno di famiglia, mentre i suoi occhi, che non deludevano le aspettative,
brillavano di due tonalità diverse di blu. Una intensa come l’acqua di un lago
profondo, l’altra violetta, come le prime luci dell’alba in inverno. Sembrava più
vecchia dei suoi trentadue anni, sicuramente a causa della vita passata per lo
più a lavorare per prendersi cura di un padre vedovo e di un fratello con
grandi aspettative di carriera nell’esercito. Gli ricordò un po’ la storia di Jara, seppur con diversa sotto molti punti di vista. Alma aveva
avuto due mariti, anche se di loro non si parlava. Era stato Erwin a
rivelargli, mentre si stavano dirigendo a Stohess a
cavallo, che Alma era la vedova di FlagonTurret, il primo capo squadra che il biondo aveva avuto
appena messo piede in Legione. Lui ricordava molto bene anche come l’avevano
trovato, sul campo di battaglia che era diventato lo scenario della morte di
Isabel e Farlan. Anche Hector, il primo marito della
donna, era morto nell’esplorativa ed era stato proprio Turret
a portarle il lutto a casa si un’incombenza di Erwin. Strano come il destino
operi, ad Alma aveva dato e tolto costantemente, non piegandola però, ma
temprandola.
Seppur sia la famiglia di Fried che i genitori di Rielkesi dimostrarono gentili con Levi, Alma era
stata la sola a trattarlo così come Levi si aspettava da una sconosciuta. L’aveva
guardato con l’aria di chi la sapeva lunga, seppur senza ombra di supponenza,
poi a bruciapelo aveva chiesto se era stato lui ad allenare Nina sino a quel
momento. Quando Levi aveva confermato con un cenno,Alma aveva lanciato un’occhiata
alla sorella, che sedeva in salotto insieme a Leo, Fritz e Friederich
Engel. Alla fine aveva sorriso, abbassando gli occhi e pronunciando una sola
frase.
“Sì, vai bene. Mi piaci.”
La cena era il momento
peggiore della giornata, in termini di chiasso.
Se a pranzo non si trovava
mai la famiglia riunita, tra soldati in servizio e Alma, Marika e il signor
Albert che aiutavano il padrone di casa con il lavoro al forno, a cena c’era la
banda al completo. La tavola dove veniva consumato il pasto era lunga, laccata
e piena di graffi, a testimonianza del passaggio di molti bambini. Levi si
ritrovava schiacciato con una spalla contro quella imponente di Erwin, mentre l’altra
era più libera visto che doveva dividere lo spazio con Alma, che sulla panca
sedeva poco perché assieme alla moglie del fratello serviva tutti e aveva
giusti un paio di minuti per mangiare a sua volta. Di fronte a lui, Nina e
Fritz davano il meglio di loro con Rielke e Leopold e
anche il nuovo arrivato, quel Engel non era di certo da meno. Levi l’aveva
guardato a lungo, chiedendosi se l’avesse visto nel suo passaggio a Nedlay di un mese prima. Sicuramente, quel giovane del nord
dai capelli corvini che per coincidenza si chiamava a sua volta Friederich, s’era ambientato bene.
Facevano una confusione
infernale.
Levi sospirò piano,
appoggiando il gomito al tavolo una volta passato il piatto ora vuoto a Marika,
che sorrise ringraziando mentre teneva una pila con una mano e l’altra sul
pancione. Anche volendolo, non sarebbe stato in grado di alzarsi e farsi strada
fino alla cucina, più per assicurarsi che i piatti venissero ben lavati che per
buon cuore. L’avrebbe fatto anche solo per liberarsi di quel chiacchiericcio insistente,
ma era virtualmente relegato al suo posto dalla marea di persone al tavolo. Spostò
lo sguardo su Nina, che sedeva proprio di fronte a lui, con una benda sull’occhio
destro che aveva battuto quello stesso pomeriggio. Che aveva battuto sul pugno
di Levi, per essere precisi, ma nemmeno lui si era aspettato di vederla venir avanti
col viso. Se l’era praticamente dato da sola quel pugno, ma abituata com’era al
combattimento corpo a corpo con lui non aveva fatto la piega. Si era portata la
mano al sopracciglio che perdendo sangue le impediva di vedere bene e aveva
chiesto una breve pausa per fasciarsi.
Poi avevano ripreso da lì.
Non frignava più, anche se
infondo dire che aveva frignato in passato sarebbe stato ingiusto; fra i suoi
difetti non c’era quel tipo di debolezza. Lei, che aveva chiesto di essere
addestrata, non s’era mai tirata indietro.
Lo sguardo del moro si
scontrò con l’occhio sano della bionda, che gli lanciò un veloce sorrisetto,
prima di ridere, portando una mano alla bocca per chissà quale cavolata
lanciata da Rielke.
Non sembravano soldati. A
partire dai cinque seduti di fronte a lui, fino a Erwin, che parlava concitato con
Friedhelm di donne. Era qualcosa di più raro di una
mosca bianca, vedere il Capitano Smith lasciarsi andare in certe frivolezze, ma
gli dava anche una certa sicurezza scoprirlo umano. C’erano stati momenti in
cui non l’aveva creduto tale. Poco più avanti, a capo tavola, Wilhelm Müller era la vera anima della festa. Apriva bottiglie di
vino, proponeva brindisi a Erwin o alla figlia, ai grandi legionari del nord e
a nuovo ospite Levi che, se avesse potuto, avrebbe anche fatto a meno di quelle
attenzioni.
Avrebbe mentito, però,
dicendo apertamente che quell’atmosfera lo infastidiva. Certo, facevano un
casino del demonio, tanto da fargli battere le tempie fino al momento del
riposo, ma vivere tutta la vita in una fogna silenziosa come una tomba l’aveva
portato ad apprezzare un sorriso sincero quando lo vedeva. Non occorreva dirlo
però. Gli bastava alzare ogni volta il suo bicchiere, picchiettando il vetro
contro quello dei vicini e continuando a bere vino fino a capir meno discorsi
che di senso ne avevano già poco.
“Il Caporale Schwarz è la donna più bella che io abbia mai visto” stava
dicendo proprio Engel, gesticolando frenetico alla volta di Fritz, che aveva
roteato gli occhi senza però celare un sorriso divertito “Non ti azzardare a
far quella faccia, tu. Che quando parli di-”
“Ho capito il concetto”replicò sbrigativo Meier, prima di notare che
Levi stava seguendo il discorso “Tu l’hai incontrata mentre eri a Breimer, vero?”
Levi annuì, appoggiando
entrambi i gomiti al tavolo e sporgendosi leggermente in avanti, fiacco “Sì. Mi
ha anche regalato la sua mantella.”
A quella parole, Nina lo
guardò alzando un sopracciglio, mentre Engel si sporgeva verso di lui
stralunato “Davvero? Ah! Che cuore ha!”
“Parlate della donna in rosso,
no?” chiese a quel punto Nina, prendendo in mano il bicchiere e sorseggiando l’ultimo
goccio di vino che conteneva, prima di proseguire “La donna che Fried si è portato a letto?”
“Sii più specifica, che se dobbiamo
fare una cernita ne passano due di Yula” le disse Rielke con tono cospiratorio, ma solo dopo aver controllato
di non avere l’interessato o peggio, sua moglie, alle spalle.
“Al ricevimento di Pixis” aggiunse quindi la giovane, mentre accanto a lei Mieke ascoltava interessata “La mora che accompagnava Schimdt.”
“La ricordo appena” convenne
Fritz, inclinando di lato il capo “Ancora devo andarci a Briemer,
quindi mi riservo dal dare giudizi.”
“Non che ci sia molto da
dire, se è una delle donne di Fried.” Il commento un
po’ malevolo di Leopold attirò su di lui lo sguardo di Engel, che si ottenebrò appena
“Amico, non è colpa mia se attira solo un tipo di donna, quello.”
“Uno solo? Parli per invidia?”
lo stesso Friedhelm, che s’era avvicinato silenzioso,
battè una mano sulla spalla del rosso e una su quella
del cugino, facendoli sussultare “Non vi è tipo di donna che mi resista. Se volete
imparare qualcosa, domani vi porto in osteria.”
“Domani è festa e va passata
in famiglia” gli fece presente con tono bonario Erwin, che pareva
improvvisamente partecipe di quella delirante conversazione. Guardò il
fratellastro con sguardo ammonitorio, prima di sorridere rallegrato “Non
rovinare tutto come l’anno scorso.”
“L’anno scorso è stato tutto
un equivoco. Oh! A proposito di equivoci! È arrivato Doak!”
Levi voltò il capo verso l’ingresso
così come il resto dei compagni di pasto, notando che ora, a parlare con Alma e
il signor Müller, c’era anche un uomo alto con
addosso l’uniforme della Gendarmeria, poco visibile sotto al pastrano invernale
che lo difendeva dal freddo. Per mano teneva una bambina dai capelli selvatici,
tenuti insieme da un paio di codine, mentre una donna dal seno abbondante e i
fianchi tondi reggeva fra le braccia un bambino ancora in fasce.
Sia Erwin che Nina si
alzarono, andando a salutare l’uomo insieme a Friedhelm.
Erwin pareva conoscerlo bene, tanto che se lo tirò da parte per parlargli come
si deve. Nina invece prese a vezzeggiare il neonato insieme a Alma, prendendolo
anche in braccio mentre sorrideva a Marie, parlando del più e del meno.
“Tu non vai a salutare?” di
nuovo, la voce di Fritz lo portò a guardare i ragazzi di fronte a lui. Stava parlando
con Rielke, mentre Leopold stesso di alzava per
andare a portare i suoi saluti e i suoi auguri all’ufficiale del suo stesso
corpo militare.
Il biondino lentigginoso
sbuffò “Non mi è mai stato molto simpatico e poi dobbiamo ancora mangiare i
biscotti coi canditi.”
“A me dispiace per lui. Sua moglie
è innamorata di Erwin.”
“Chi non lo è?”
“Chi è innamorata di Friedhelm.”
Levi sentì il bisogno di
manifestare il suo pensiero per la portata della conversazione cavandosi un occhio
con la fochetta, anche se però stava avendo un po’ un’idea
di come funzionassero le cose lì “Mocciosi” disse, attirando la loro attenzione
mentre Rielke si sporgeva per recuperare la bottiglia
di vino; rimase gelato sul tavolo, in attesa “Chi è quello?”
Fu Fritz a rispondere, perché
a quanto sembrava ne sapeva parecchio degli affari che giravano in quella casa.
“NileDoak” rispose “Un
Capitano decorato della Gendarmeria. Lui e Erwin sono cresciuti insieme e hanno
fatto l’addestramento insieme.”
“Fried
dice che anche lui sarebbe dovuto entrare in Legione” disse Rielke,
versando a tutti, compreso Levi, mentre Engel seguiva quei pettegolezzi con
aria sinceramente interessata “Però all’ultimo ha deciso che avrebbe preferito
fare il marito e il padre al farsi divorare dai giganti. È molto simile a Leopold…”
“Questa leggenda che si muore
e basta, in Legione…”
“Stai zitto, Fritz. Non è una
leggenda.” Rielke guardò l’amico, prima di sporgersi
in avanti sul tavolo, parlando piano mentre teneva puntati gli occhi in quelli
affilati di Levi “La donna con lui è sua moglie, Marie. Quando erano dei
cadetti, passava da Nile a Erwin e alla fine pare che
lui sia rimasto con lei perché lei glielo ha chiesto. Noi pensiamo che l’abbia
chiesto prima a Erwin e che lui abbia detto di no.”
“Siete malevoli” Nina sai
sedette affianco a Levi, tenendo un pacchettino in mano “Perché non dovrebbe
aver scelto Nile?”
“Parla piano” la riproverò
Fritz, prima di notare il pacchettino.
“Perché c’è chi sceglierebbe
il CapitanNoia-mortale-sono-un-rigoroso-genderme
sopra a Erwin?” chiese Leopold, ritornando al suo posto a sua volta. Ora che la
famigliola se n’era andata e che Fried aveva portato
Erwin a scegliere il liquore da aprire per dar degna compagnia al vino, erano
più liberi di far le comare. Non che si fossero molto trattenuti, prima “Tuo fratello
avrà dei difetti, tra cui l’aver sempre addosso una e una sola espressione e in bocca uno e un solo discorso, ma almeno non è NileDoak.”
“Il bue che dice cornuto all’asino!
Voi gendarmi siete tutti uguali!”
“Stai zitto Rielke, sei nella Guarnigione, ovvero quelli più inutili!”
“Che cos’hai lì, Nina?” Fritz
li fece smettere di battibecchiare, riportando l’attenzione
sulla bionda.
“Un regalo del Comandante
Kessler” rispose, riaprendo il pacchettino già sfatto e mostrando a tutti un
bel fermacapelli d’argento a forma di rosa.
“Te l’ha mandato tramite Nile?”
La giovane annuì, “Quella donna
è sempre così gentile con me” soppesò, girandosi l’oggetto fra le mani, prima
di girare il capo verso Levi, sventolandola sotto al suo naso nel tentativo di
porgergliela “Ti dispiace?”
I quattro ragazzi seguirono
la scena sino a che Levi non prese fra le mani il fermaglio, poi tornarono a
ciarlare concitati fra loro.
Nina diede le spalle al moro,
incrociando le gambe sulla panca per quando la gonna lunga dell’abito che
indossava glielo permettesse. Lui passò il fermaglio sulle ciocche color grano
della ragazza,tirandole indietro sul capo e fermandole e fissandole sulla nuca.
Lei portò una mano a
verificare che fosse ben messo, prima di tornare a mettersi diritta, guardando
l’uomo “Allora? Quanto ci stai odiando per tutto questo chiasso?”
Lui sbuffò, allungando una
mano per prendere il bicchiere. Nina osservò quel suo modo buffo che aveva di
fare ogni volta che doveva bere, prima di aprire la bocca per parlare di nuovo.
Lui però la interruppe “Non è male.”
E lei capì che si sentiva più
a suo agio di quanto sembrasse.
La festa di Yula dell’ultimo giorno dell’anno era forse la ricorrenza
più importante all’interno delle Mura, seguita dalla Festa delle Messi o Luginaza in estate, dalla Settimana della Vendemmia, – alla
fine della quale, nel giorno delle grandi celebrazioni di Maben,
chi camminava diritto non era degno di essere definito uomo- il Giorno di Eosteria in primavera conosciuto anche come la Festa della
Luce e il primo giorno del mese di maggio, Beletane.
Ogni distretto aveva
tradizioni proprie e particolari usanze, anche se era noto che nei distretti
dell’est, Yula venisse festeggiata in modo
particolarmente fastoso. Stohess, in quanto il più
ricco distretto dell’est e del Muro Sina, era
sicuramente il luogo migliore in cui perdersi nei festeggiamenti.
Essi erano iniziati già la
sera precedente, come da tradizione, con il banchetto famigliare. Fritz aveva
poi insistito per portare Engel a fare un giro delle taverne, finendo per far
rincasare tutti che l’alba iniziava già ad affacciarsi oltre le mura. Nina e
Leo l’avevano guardata con gli occhi socchiusi dalla stanchezza, con una
sigaretta e pendere dalle labbra e la consapevolezza che sarebbe stata una
lunga, lunga giornata. Avevano dormito come la sera precedente, ammassati nella
camera che la bionda divideva con la sorella minore. Il letto di Nina e quello
di Mieke erano stati uniti e mentre la prima s’era
presa Fritz, con il quale era riuscita a dormire almeno sei ore prima dell’entrata
in scena di un’Adelaide particolarmente arrabbiata per l’ora tarda in cui
ancora stavano dormendo, Leo e Rielke si erano
litigati le coperte con Mieke per ore, riuscendo
forse a riposare la metà degli amici e riuscendo anche nell’intendo di
disturbare la ragazzina che così gentilmente li aveva ospitati sul suo
materasso. Ad Engel era andata la branda in fondo alla stanza, in quanto ospite.
“Se
Levi fosse andato a dormire con Erwin, come era stato deciso in partenza, noi uomini saremmo potuti rimanere in camera
di Rielke, risultando così tutti più comodi.” Si stava di
fatti lamentando il rosso, mentre infilava gli abiti tipici dell’est, non poi
così pronto a far festa.
Schiacciato
contro il muro, Fritz stava permettendo a Nina di sonnecchiare ancora un poco,
col viso nascosto contro il suo petto e l’espressione disturbata sul viso. Le accarezzò
la guancia fino al bendaggio sull’occhio, prima di guardare il migliore amico
con divertimento “L’hai detto anche ieri. Smettila di fare il brontolone della
situazione, che pari un vecchio!”
“Se
fossi tu a svegliarti col culo sul pavimento non parleresti così! I due
materassi vanno alla deriva, durante la notte.” Cercando di spostarsi per lo
spazio saturo della piccola stanza, Leo prese ad allacciarsi la camicia, prima
di alzare le bretelle sul petto, controllando in uno specchio che il colletto
bianco fosse in ordine “Che poi parli tu, che non fai altro che dire quanto ti
faccia schifo Nedlay?”
“Il
nord è un luogo meraviglioso e incompreso” fu il solo commento che arrivò dall’angolo
in cui Engel ancora doveva trovare la forza di alzarsi.
“Il
nord non è incompreso” rilanciò subito Meier, facendo ridacchiare piano Nina
che ormai si era arresa al fatto che non sarebbe riuscita a dormire nemmeno un’ora
in più “Freddo, sì. Triste? Anche. Le case sono meno accoglienti e le donne più
brutte. La sola cosa migliore è il cibo.”
“Le
donne del nord sono vere donne” lo corresse Engel, prima di sbadigliare “Ma
cosa sto a parlare con un ignorante come te? Caprone.”
“Siete
così fastidiosi!” Mieke fece il suo ingresso con
addosso l’abito per la festa, lanciando sul letto di Nina quello della sorella “Non
vedo l’ora che sia domani per aver di nuovo il silenzio che merito.”
“Ci
siamo svegliati col piede sbagliato?” Leopold le tirò la guancia, mentre Fritz
e Nina si alzavano, ridendo di fronte al tentativo fallito di Mieke di smollare al rosso un calcio, ostacolata dalla
gonna a ruota.
Alla
fine riuscirono a scendere per l’ora di pranzo. La prima cosa che Nina aveva
notato era che stava nevicando, seppur piano. La seconda era Levi che, con
addosso gli abiti tradizionali di Stohess per la
festa era…. Strano. Strano a dir poco. Il calzoni
corti gli arrivavano sotto al ginocchio, anche se avrebbero dovuto fermarsi al
di sopra; nessun uomo di quella casa aveva una taglia che potesse stargli e
quelli, che erano appartenuti a Rielke qualche anno
fa, risultavano comunque troppo lunghi. Non potevano accomodarli, però, perché tagliandoli
avrebbero tolto anche i ricami sulla stoffa ruvida grigia. Nina non seppe dire
però se era poi strano con i polpacci muscolosi in vista o con il cappello
pieno di piume sui capelli neri. Forse era l’espressione per niente convinta. Non
riuscì a non ridere, mentre si avvicinava tenendo in mano un sacchettino di
seta blu.
Lui
lo adocchiò subito e la guardò male farsi sempre più vicina “Non ci pensare.”
“Questa
è la tradizione” rispose lei, tirando i fili per aprire il sacchetto. Immerse due
dita all’interno del pigmento di un magenta acceso, andando poi a disegnarli
due linee parallele per tutta la fronte “Le donne colorano gli uomini, che
fanno loro un complimento” attese qualche secondo, chinandosi anche alla sua
altezza visto che lui era seduto. Capendo che ci sarebbe voluto un po’, Nina si
mise in ginocchio sul pavimento, appoggiando o gomiti alle ginocchia di Levi “Io
non ho fretta.”
Lui
sbuffò sonoramente “Sei una stupida ragazzina.”
“Un
complimento, ovvero il contrario di quello che hai appena detto.”
Poteva
farcela, Nina se lo sentiva. Lo guardò sempre in attesa, tenendo in mano il
sacchettino e ponderando che se avesse continuato su quella linea, lei avrebbe
potuto accidentalmente far cadere la
polverina su quella bella camicia bianca. Non ce ne fu bisogno “Hai dei bei
capelli” disse infine, sbrigandosi poi ad aggiungere frettoloso un “Ma non sono
funzionali. Tagliali.”
Nina
si ritenne soddisfatta, tanto che si alzò, compiendo a saltelli la distanza tra
lei, il cugino e Fritz, piantando una bella manata di magenta sul viso di
entrambi prima di iniziare a correre dietro a Schitz
che si stava rifiutando di collaborare alle tradizioni ‘barbare’ del distretto.
“Ho già messo i pantaloncini, Nina! Non esagerare!”
Levi
la guardò rincorrere l’amico attorno al tavolo, constatando che per quanto
quella scena fosse stupida, gli aveva dato modo di notare come si fosse
effettivamente conciata la giovane. L’abito da festa delle donne non era altro
se non un vestito scuro, formato da una gonna molto ampia che lasciava scoperte
le caviglie e una porzione del polpaccio e un bustino rigido tenuto insieme da
nastri di seta colorata. Sotto, tutte le donne portavano una camicetta con le
maniche che arrivano si e no al gomito. Era la gonna però a nascondere un
segreto. Ogni volta che Nina si girava, essa si apriva e nelle pieghe, Levi
poté contare almeno una dozzina di pezzi di stoffa cuciti insieme a quella dell’abito
di altrettanti colori diversi. Fu Alma poi a spiegargli che quelle stoffe
venivano da vecchi abiti dimessi, cuciti dalle donne di casa sull’abito da
festa. Era un modo per portare il vecchio insieme al nuovo, un po’ un vademecum per l’anno nuovo.
Quando
si misero a tavola per pranzare con i due dolci tradizionali, lo Zelten e lo Stollen, c’erano
pigmenti di colore più o meno ovunque e quelli più provati e colorati erano
Erwin e Fried che si erano messi anche a tirarseli a
vicenda fin nei capelli, incuranti del fatto che non erano donne.
Erwin
non sembrava nemmeno lui e forse la colpa era anche un po’ di tutto quell’alcool
che stavano bevendo in quei giorni e che stavano avendo effetto su tutti,
eccetto Levi.
Vederlo
a quel modo era strano, certo, ma la complicità col fratellastro e l’allegria
della festa convinsero il moro che non c’erano doveri che tenevano, di fronte
alla famiglia. Nemmeno per il Comandante Smith.
Erwin aveva
trascinato Levi per bancarelle per tutto il pomeriggio, costringendolo a
sfilare per la città con quei ridicoli calzoni che, tra l’altro, non avevano
fatto niente se non gelargli le gambe. Non importava se tutti erano vestiti a
quel modo, iniziava a non sentirsi più molto a suo agio.
Fried si era lanciato in un’importante
dibattito sulla guerra della birra fra i distretti, sostenendo che per lui la
più buona rimaneva quella al malto di Briemer, mentre
Erwin era un fermo sostenitore della rossa di Stohess.
Alla fine al dibattito si era aggiunta anche Nina, difendendo la bionda di Trost, nel momento in cui avevano incontrato il gruppo di
giovani amici a Piazza della Mercanzia, di fronte al grande falò che bruciava
dalla mezzanotte precedente e sarebbe stato alimentato fino alla fine della
festa di quella notte. Guardò Nina e Fritz buttarci dentro un’agenda, Mentre
Leopold provvedeva a disfarsi di qualche lettera e Rielke
di un plico di fogli bello grande.
“Si brucia la vecchia” gli spiegò il Capitano Smith
quando il moro gli rivolse uno sguardo perplesso “Documenti o oggetti che sono
serviti nell’anno appena trascorso e che in quello nuovo non saranno più di
alcuna utilità. Tu non hai niente da bruciare?”
“Vorrei poterti
dire che voglio buttarci Hanji” gli rispose,
facendolo sospirare rassegnato, seppur divertito “Ma lei non è qui e poi non è
stata utile nemmeno per quest’anno. Quindi perderebbe un po’ del suo
significato.”
Levi venne
scaricato al termine della frase. Erwin era sparito fra la folla con il
fratellastro e un paio di amici di vecchia data, lasciandolo con i giovincelli.
Visto che non aveva avuto diritto di scelta, Levi si accodò a questi giusto per
non tornare a casa a leggere. Ebbe modo di capire perché a pranzo avevano avuto
solo dei dolci; non fecero altro che mangiare, tutto il pomeriggio. Piatti tipici
della zona, di altre zone, addirittura di distretti opposti a Stohess. Mangiarono così tanto che Levi iniziò a sentirsi
nauseato.
Poi venne il
momento in cui iniziarono a perdersi. Il primo a sparire fu Rielke
che, adocchiata una bella ragazza, non si era fatto scrupoli a seguirla senza
quasi avvisare. Poi la folla aveva inghiottito anche Fritz e Leopold e lui e
Nina si erano ritrovati a girare per la città fino al punto in cui Levi aveva
iniziato a non farcela più. Ormai il cielo era parecchio buio e a illuminare
tutto c’erano le luci artificiali dei lampioni a olio, quando lui iniziò ad
arrendersi. Troppe persone tutte insieme, la confusione e un altro insieme di
fattori l’avevano fatto chiudere in un mutismo un po’ teso, mentre Nina
continuava a spiegargli di tradizioni e a snocciolare nomi strani di luoghi e
pietanze che un sorcio del ghetto come lui non s’era mai nemmeno immaginato.
“Sei stanco?”
gli chiese, accostandosi per farsi sentire sul brusio della folla. Non attese
nemmeno la risposta, gli prese il polso e andò verso una bancarella, pagando in
fretta un sacchettino bianco sigillato “Ho avuto un idea” gli disse nell’orecchio,
facendogli poi segno di seguirla.
Con sollievo,
Levi notò che stavano tornando verso casa.
Una volta lì,
però, Nina sembrava intenzionata a far qualcosa.
“Saliamo sul
tetto” gli disse, mentre con l’occhio libero spiava le lancette della pendola “Intanto
non troveremo mai gli altri in tempo per mezzanotte, manca poco meno di mezzora.”
“Sul tetto?”
“Capirai quando
sarà mezzanotte il perché.”
Levi non fece
altre domande, decidendo di assecondarla ancora una volta. Si impresse nelle
mente che mancava poco a mezzanotte e che quindi poi sarebbe potuto andare a
dormire, lasciando perdere tutti quei deliri. Non c’erano feste nel ghetto, non
così tanto chiassose. Cosa avrebbero dovuto festeggiare, dopotutto? A mala pena
sapevano che giorno dell’anno era e nemmeno per i matrimoni c’era più di un
suonatore e qualche ospite sbronzo.
Il tetto era
stranamente asciutto, complice il fatto che la leggera nevicata del pomeriggio
era poi stata sostituita da un bel sole. Attenta a non scivolare a causa delle
scarpe di vernice, Nina si tirò su dal lucernaio della sua stanza, andando a sedersi
su una trave di raccordo fra le tegole. Levi la raggiunse e lei, stringendosi
addosso il mantello, attese che lui si fu seduto per guardarlo “Devi ordiarci parecchio” iniziò, aprendo il sacchettino e
iniziando ad appoggiare accanto a sé alcuni oggetti che Levi non poteva vedere.
“Tutta questa confusione, per qualcuno di tranquillo come te, deve essere un
incubo.”
“Non è poi così
male” replicò spicciolo Levi, guardandola mentre apriva quello che sembrava un
grosso rettangolo di carta bianco “Cosa diavolo è quello?”
“Una lanterna”
rispose lei, sfilandosi una matita dal concio che aveva sul capo. In una
cascata dorata, i capelli tenuti insieme da tante treccioline
e nastrini colorati ricaddero sulla schiena e sul viso. Nina prese un
foglietto, iniziando a scribacchiare qualcosa. Quando Levi si sporse per
leggere, lei si ritrasse.
“Non leggere”
gli disse, battendogli piano la matita sul naso e facendolo così allontanare “Questo
è il mio desiderio.”
“Desiderio?”
“Sì, devi
scriverne uno e attaccarlo alla lanterna. Se sei fortunato e la lanterna arriva
oltre le mura, si esaudisce.”
“Che stronzata.”
Lei non rispose,
finendo di scrivere prima di chiudere in quattro il foglietto “Quindi tu non
vuoi scriverne uno?” lui la guardò semplicemente e lei capì. Per quieto vivere,
Nina riprese a montare la lanterna. Nonostante sembrasse tutto normale, fu
proprio da quel suo modo di lasciar perdere che Levi capì che le cose fra loro
erano ben lontane dall’essersi sistemate. Conoscendola, la ragazza avrebbe
insistito fino allo sfinimento per farglielo fare. Il fatto che avesse ceduto
facilmente era un chiaro sintomo che era ancora arrabbiata per tutte quelle cose
non dette e quelle infantili provocazioni lanciate del moro.
Levi decise di
mettere un freno a quella situazione ridicola “A Briemer
fa molto più freddo che qui” iniziò dal niente, attirando l’attenzione della
ragazza che stava annusando una piccola candela bianca “Se l’avessi saputo, non
sarei andato a cercare la donna che mi ha cresciuto. Mi sono gelate le palle
lungo la strada del ritorno, in quel cesso di paesello chiamato Gershinka.”
Ora lei pendeva
dalle sue labbra, quasi incredula per quella rivelazione spontanea “La donna
che ti ha cresciuto?”
Lui annuì “Gretha” le disse, appoggiando le braccia sulle ginocchia e
alzando il viso verso il cielo “Vive lì insieme al figlio bastardo dell’uomo
che mi ha salvato la vita quando ero bambino. Prima che me lo chiedi, no. Non
ho idea di chi cazzo sia, so solo che si chiama Kenny. È lui che cerco da
quando sono venuto in superficie” fece una piccola pausa, prima di tornare a
guardarla inclinando il capo “Speravo che Gretha
sapesse darmi un’indicazione che valesse di più di qualche leggenda
metropolitana, ma Kenny sembra essere sparito nel nulla e forse è meglio così. Tutto
quello che so di lui è che è un grande stronzo e che viene da fuori del ghetto.”
Senza quasi
accorgersene, Nina si appoggiò con la spalla a quella del moro, abbassando gli
occhi sulla strada sotto di sé e verso la piazza gremita poco distante. Mancava
poco, tante luci iniziavano ad accendersi, così anche lei posizionò la candela
nella lanterna di carta “Tua madre?”
Lui abbassò un
attimo gli occhi, prima di rispondere “È morta quando ero piccolo. Sono rimasto
solo e questo tizio inquietante e fuori di testa mi ha sfamato e insegnato a
usare un coltello.”
“E ora lo vuoi ritrovare…. Cosa gli chiederai quando l’avrai trovato?”
“Tu non vorresti
chiedere alla persona che ti ha salvato e insegnato a sopravvivere perché lo ha
fatto? Per quello che ne so lui potrebbe anche essere…”
“Tuo padre?”
domandò lei senza nessuna inflessione particolare nella voce, mentre ponderava
il fatto che forse a Briemer, Levi poteva avere un
fratello. Lui si limitò a annuire brevemente, guardandola sfilarsi il bendaggio
sull’occhio. Era rimasta solo una piccola crosta al limitare delle sopracciglia
bionde, e un discreto livido attorno, ma nel complesso stava bene e voleva
guardarlo come si doveva “Le Mura non sono poi così grandi” gli disse con un
sorriso “Lo troveremo.”
Si scambiarono
un’occhiata e lui parve quasi riconoscente.
Mentre si
guardavano, di fronte a loro sul profilo
della città, qualche lanterna iniziava a librarsi in volo, seguita da tante
altre “Mezzanotte!” strillò la giovane, prendendo un fiammifero dalla scatolina
che teneva nella tasca interna al mantello, mentre passava a Levi la lanterna
affinché la reggesse. Attenta a non bruciare la carta, Nina accese la candela,
appoggiando sotto di essa il suo fogliettino. “Lasciala
andare” disse quindi all’uomo che, dopo una lieve esitazione, lo fece rimanendo
sorpreso nel vederla sollevarsi lentamente. Seguirono la rotta di quella lanterna
fino a vederla congiungersi con centinaia di altre simili, fino a creare un
fiume di luci che iniziarono a danzare, trasportate dal vento, illuminando la
notte e accendendola di rosso “I Fuochi di Stohess”
sussurrò Nina con tono quasi sognante “Li vedo ogni anno, ma non smettono mai
di essere bellissimi.”
“Fanno
concorrenza alle stelle” aggiunse Levi, per una volta, genuinamente stupito. “Ne
è valsa la pena.”
“La nostra vita
è così breve, che vedere questi spettacoli mi fa sentire meglio” sussurrò lei,
prima di voltare il capo per guardarlo. Sorprendentemente, quello di Levi era
già rivolto verso di lei “Grazie per avermi parlato di te, prima. Vorrei sapere
tutto sulla tua vita.”
“Non c’è molto
da dire, su di me.”
“Ne sei proprio
convinto?”
Di nuovo, così
come quella mattina alla partenza di Levi e Fritz, l’aria si accese,
improvvisamente elettrica. La vicinanza, forse mescolata al coraggio infuso
dalla birra e dall’ambiente famigliare, fecero balenare nella mente di Nina un’idea
peregrina.
L’aver sprecato
un’occasione un po’ le era pesato, a posteriori, seduta sul letto della
mansarda vuoto. Sentiva dentro al suo cuore che se si fosse lasciata sfuggire
anche quella possibilità, allora sarebbe stato come chiudere una porta che
difficilmente sarebbe riuscita a riaprire. Levi non sembrava intenzionato a far
nulla, le guardava il viso, gli occhi, le labbra, le mani che stringevano al
petto le ginocchia, ma non faceva nulla se non pensare forse a quelle stesse
considerazioni.
Nina, che s’era
sempre sentita coraggiosa, ora improvvisamente timorosa come una bambina, fece
la sua mossa.
Allungò piano la
mano, passando le dita lunghe e belle sullo zigomo del moro, fino ad
accarezzargli la guancia col palmo, cancellando qualche traccia residua di
pigmento dal suo volto. Alla fine, ipnotizzata da quello sguardo quasi
metallico, ma non freddo nonostante le iridi di ghiaccio, si sporse verso di
lui, lasciando scontrare le loro labbra.
È fatta.
Il punto di non
ritorno.
Sospirò contro
la pelle dell’altro che, inaspettatamente, fece scivolare il braccio dietro
alle sue spalle, facendola sbilanciare ancora di più verso il suo corpo.
Fu solo quando
il bacio prese vita in un accarezzarsi di labbra e lingue, che Nina realizzò
che era come se entrambi non stessero aspettando altro. La mano che s’era
abbassata tornò ad alzarsi sulla nuca del moro, accarezzandone i capelli rasi fino
a quelli più lunghi e sottili, che strinse senza forza. Quella libera di Levi,
invece, andò ad appoggiarsi sul suo ginocchio, scivolando poi sotto alla
mantella verde fino al fianco della ragazza, dove trovò il suo appoggio.
Il bacio
accrebbe di intensità, per poi tornare a stabilizzarsi in un sensuale movimento
reciproco di bocche. Quando si staccarono, perché Nina aveva bisogno di
prendere aria, si guardarono semplicemente negli occhi.
Lei sospirò,
sentendo le labbra pulsare dalla voglia di ritrovare quelle dell’altro “Levi io-”
“Taci.” Lapidario,
fu il moro a cercare il contatto, tirandola di nuovo a sé col braccio attorno
alle sue spalle.
Decisamente, è fatta.
Nina non
represse un moto di pura euforia, lanciando entrambe le braccia attorno al
collo del moro. Stava già pensando di proporre a Levi di spostarsi nella stanza
di Rielke, ben conscia che nessuno dei due era alle
prime esperienze e che quindi avrebbe avuto delle remore a concludere la
giornata di festeggiamenti col botto. Stava solo pensando a come mettere giù la
frase senza far capire che non aspettava altro se non darsi completamente a
lui, quando una grossa mano le batté sulla spalla, facendola sussultare.
Si staccò di
colpo, conscia che avrebbe urlato se le sue labbra non si fossero trovate così
occupate.
“Cazzo!” Levi
invece non si trattenne, colto di sorpresa per la prima volta da quando si
conoscevano, a causa della gemella di quella mano che s’era abbattuta anche sulla sua schiena. Quando
entrambi alzarono il capo sul volto sorridente di Erwin che li sovrastava, s’ammutolirono.
Levi fu bravo a mascherare il palese
imbarazzo con la solita stizza apatica “Arrivare alle spalle in questo modo è
pericoloso. Sei fortunato che io non abbia un coltello con me.”
Nina, invece,
non replicò, scivolò solo di lato quando il fratello mostrò la sua intenzione
di sedere fra i due e prese il bicchierino fra le mani quando Erwin glielo
porse. Uno a uno, i tre bicchieri vennero riempiti da un liquore che odorava di
limoni “Vi cercavo per augurarvi buon anno” fu la risposta candida del
Capitano, mentre riponeva la bottiglia “Se avessi saputo a che portata si erano
estesi i festeggiamenti su questo tetto, non sarei venuto.”
“Erwin, ti
supplico” Nina portò una mano al volto, lasciando ai capelli il compito di
nascondere il rossore delle gote. Stava andando a fuoco.
Il biondone fece loro la grazia, poiché si limitò a sorridere
rivolto verso il cielo, reprimendo il desiderio impellente di dire altro. Poi alzò
il bicchiere verso le stelle, come a voler brindare con esse “Quest’anno sarà
diverso, lo sento” iniziò, attirando l’attenzione degli altri due che stavano
guardando ovunque se non lui o l’altro “Avremo una svolta” proseguì “Questo
sarà l’anno in cui la ricognitiva avrà il posto che le spetta.”
Anche Nina alzò
il bicchiere, imitata poco dopo da Levi “Alla Legione. Che durante questo 845
non provino a sopprimere il corpo. Di nuovo” disse la giovane, battendo piano
il bicchiere verso quello degli altri due, per poi buttar giù il liquido forte.
Non potevano
sapere a che tipo di svolta stavano andando incontro, ma ciò non gli impedì di
passare il resto della notte a sognare un mondo in cui il loro lavoro avrebbe
dato così tanti frutti, da non aver più bisogno di una Legione esplorativa.
Ne di quattro
Mura a chiudere gli orizzonti.
L’alba stava
tingendo di rosa e arancio il cielo e Fritz si apprestava a partire.
La bella nottata
che si era figurato con Nina, a ballare e ridere insieme non si era potuta
realizzare, contando che aveva recuperato la compagnia della giovane solo una
volta tornato a casa con gli altri. Leopold e Rielke
l’avevano salutato alla meno peggio, prima di ritirarsi a dormire mezzi
ubriachi e stanchi morti. Il rosso, che si era rifiutato di tornare a cavallo
con lui e Engel quella stessa mattina, gli aveva battuto incoraggiante una mano
sulla sua spalla.
“Io la licenza
me la sono tenuta” aveva detto con impertinenza tipica di lui “Se tu non sai
far piani, è affar tuo! Buon ritorno a Nedlay!”
La prospettiva
del nord non lo animava, ma almeno sarebbe passato da casa a dormire prima di
avviarsi il giorno successivo.
Engel era già
seduto sul cavallo, occhi chiusi e mento appoggiato al petto, nascosto dalla
pensante mantella.
Gli parve
addormentato.
“Siete sicuri di
voler andar via così?”
Fritz si voltò
verso Nina, che con gli occhi appesantiti dalla stanchezza non si era comunque
tirata indietro e aveva deciso di salutarlo per bene. Sistemò l’ultima cinghia
della sella, prima di fronteggiarla, appoggiandole le mani sulle guance “Non ho
il tempo per dormire, ora” le fece sapere, prima di sospirare grave “Ci
rivedremo alla fine della primavera, temo.”
“Pregherò mio
fratello per farti assegnare a Trost, in qualche modo”
Nina lo abbracciò per i fianchi, appoggiando l’orecchio sul petto del ragazzo e
godendosi i battiti del suo cuore, un poco accelerati dalla sua vicinanza “Un
giorno lavoreremo gomito a gomito, io e te.”
“Sono anni che
me lo auguro.”
Si abbracciarono
il più a lungo possibile e poi Meier, costretto, si staccò per guardarla. Come ogni
volta, si chinò su di lei per baciarla, ma lei glielo impedì, tirandolo a sé e
appoggiando le labbra sulla sua fronte.
Qualcosa era
cambiato irrimediabilmente.
“Fa attenzione
lassù, va bene? E scrivimi ogni settimana.”
Un po’ deluso
dal bacio mancato, ma con un sorriso dolce sulle labbra sottili, il dottore la
lasciò andare “Come sempre.” Salì sul cavallo con un saltello fiacco,
sistemandosi la mantella mentre Nina si stringeva addosso una coperta di lana bianca intrecciata “Riguardati, Nina.”
Lei alzò una
mano, in segno di saluto “Anche tu. Sappi che sei sempre nei miei pensieri.”
“Nina, io ti-”
“Allora andiamo?”
Engel, che pareva essersi destato all’improvviso, si rese conto di aver
interrotto qualcosa, ma non ne poteva più “Voglio andare a dormire e siamo a
due ore e mezzo dalla Capitale.”
“Andiamo,
andiamo!” sbuffò Meier, prima di guardare di nuovo la donna di cui era tanto
preso “Ci vediamo tra qualche mese!”
I due cavalli si
avviarono sul ciottolato e Nina non attese di vederli sparire oltre la via per
rientrare, così stanca da riuscire a mala pena ad infilarsi nel letto di Rielke, accanto a Levi, prima di addormentarsi contro il
suo petto, senza esitazione alcuna.
Se avesse saputo
che quella sarebbe stata l’ultima volta il suo sguardo si sarebbe posato sul
sorriso dolce di Fritz, allora non l’avrebbe lasciato partire.
Nda.
So che sono sempre più in
ritardo, ma tra l’esame finale della mia carriera da triennale e la tesi ho
sempre meno tempo e riempio i buchi notturni con la scrittura.
Questo capitolo trasuda tutto
il mio percorso di studi in Antropologia: feste,che richiamano i nomi delle festività pagane,
usi e costumi strani e addirittura abitudini alimentari!
Mi sono proprio divertita.
Spero piacerà anche a voi,
grazie a chi legge e in particolare a chi mi recensirà.
Grazie alla dolce pulzella
che ha lasciato un commentino all’ultimo capitolo e a chi segue e basta.
There'ssomething
inside me thatpullsbeneath the surfaceconsuming, Confusingwhatisreal. Thislackof self-control I fearisneverendingcontrolling, Confusingwhatisreal.
Nina
li aveva visti arrivare dalla cima di un tetto. Un corteo di cavalli in marcia che
recavano sul dorso altrettanti soldati dalle insigne alate.
S’era
scapicollata a scendere sul selciato usando l’attrezzatura, cercando di
raggiungerli prima ancora di vederli entrare nel borgo.
Erano
venuti a prenderla, finalmente. Non le pareva quasi vero che di quella
solitudine opprimente sarebbe rimasto presto solo il ricordo lontano.
Non
portavano con loro nessun carro, segno che non avevano intenzione di rimanere
fuori molto. Levi doveva esserci riuscito, infine: aveva mantenuto la promessa,
era tornato per lei. Nina aveva cercato di incontrare lo sguardo criptico del
moro, mentre la Legione entrava nella piazzola e si disponeva ordinatamente per
disporre dei turni di vedetta e di difesa. Non le era sfuggita un’occhiata
forse un po’ cupa di Mike, ma non vi aveva inizialmente dato troppo peso, tanta
era l’euforia di essere arrivata fino a vedere di nuovo quei volti.
Erwin
era arrivato quasi per ultimo, come a chiudere il gruppo che si era apprestato
a radunarsi attorno a lei, improvvisamente non curante e indaffarato. L’aveva
visto scendere da cavallo e non aveva atteso nemmeno prima di correre da lui,
circondandogli il busto con le braccia e affondando il viso contro al suo petto
ampio. Aveva inalato quel profumo di casa, di sicurezza, concedendosi qualche
istante prima di staccarsi per quel poco che le serviva per alzare il viso e
guardarlo.
Il
sorriso rassicurante di Erwin non c’era, però. La guardava serio, con quel
cipiglio di pura disapprovazione che raramente aveva riservato a lei. Poi le aveva
appoggiato le mani sulle spalle, per farla scostare da sé.
“Erwin..?”
“Venire
a riprenderti ci è costato molto, Nina. Credevo che avessi detto che non
saresti più stata un peso per me e la Legione, ma ti sei rivelata di nuovo la
bambina bisognosa di attenzioni che sei in realtà.”
La
ragazza sentì il respiro mozzarsi in gola mentre il desiderio di sprofondare
nel terreno diventava più impellente del sollievo di sentirsi al sicuro.
“Dovevi
rimanere in un posto dove potevamo trovarti.” Erwin calcò nuovamente sulle sue
colpe, facendola sentire piccola e insignificante “Abbiamo perso degli uomini
per venire a prenderti. Molto uomini. La loro morte è stata inutile.”
Nina
abbassò il capo, lasciando scivolare in avanti i capelli sfuggiti alla treccia,
che andarono a coprire il volto. Una mano si alzò, aggrappandosi al mantello
del fratello, così come avrebbe fatto una bambina. Proprio una bambina, così
come aveva detto lui.
Sentì
il peso di quella consapevolezza schiacciarla, mentre l’altro non faceva nulla
per confortarla.
“Dov’è
Levi?” chiese quindi, intimidita da quell’uomo che hai suoi occhi era perfetto.
Un eroe.
Mentre
lei era solo Nina, la sorella minore. Il peso.
“Ancora
non l’hai capito?” domandò freddamente il biondo, mentre una brutta sensazione
iniziava a farsi strada nel petto pesante della giovane donna.
“…Cosa?”
“È
successo mentre venivamo qui. Levi è-”
Un
boato la fece scattare seduta sul materasso, svegliandola di soprassalto. Nina
portò una mano alla fronte, realizzando che quel brutto sogno non era reale,
che nessuno era venuto a salvarla e – cosa ancor più importante- che nessuno
era morto per lei. Portò una mano sul petto, sentendolo sormontato da un peso
enorme. Altri tonfi forti le fecero capire cosa stava succedendo. A destarla
era stato un gigante.
Scocciata
e ancora provata, la ragazza si stese sul materasso, tirando la coperta fin
sopra al capo e mugolando piano.
Durante
la sua permanenza lì aveva notato che anche se erano molti i giganti che ogni
tanto camminavano per la piana attorno a lei, solamente tre sembravano non
allontanarsi mai troppo, nemmeno si sentissero in qualche modo a casa. Li aveva
nominati campionidi riferimento Eins,
Zwei e Drei,ed erano rispettivamente un classe sei metri,
un classe dieci metri e un classe quattro. Erano i giganti su cui stava
‘lavorando’, dei quali annotava i comportamenti e le abitudini. Zwei raramente si
avvicinava alla borgata, preferendo costeggiare il limitare del bosco in un
perenne avanti e indietro di fronte ai tronchi degli alberi. Appariva
solitamente verso la metà del pomeriggio e tornava a sparire appena calava il
sole. Nina si era anche chiesta dove andasse, magari l’avrebbe seguito uno di
quei giorni.
I
numeri Eins
e Drei erano
tutta un’altra storia invece.
Drei rimaneva immobile anche per giornate intere nello
stesso punto, in mezzo alla piana circostante la borgata, fisso col volto
rivolto verso il bosco. Einspreferiva esplorare il villaggio nei
momenti meno opportuni e più di una volta avevo costretto Nina a salire su un
tetto e rimanere li per ore intere, in attesa di vederlo spostarsi.
Era
anche il simpatico artefice delle sue sveglie mattutine. Nina aveva pensato di
ucciderlo, ma aveva sempre preferito rimandare per non buttare all’aria i dati
delle sue osservazioni. Arrivata a quel punto, però, non ne poteva più. Ogni
giorno era una pena venir destata a quel modo; le veniva la nausea e sentiva il
cuore in gola. Senza contare che era pericoloso, oltre che avvilente. Magari
riusciva in qualche modo a fiutarla, al contrario degli altri due, per questo
era così tanto interessato alla borgata. Se si fosse distratta anche una volta
sola? Se non avesse controllato bene ogni angolo?
Non
valeva la pena rischiare.
Avrebbe
messo Eins
a dormire per sempre e l’avrebbe fatto quella sera stessa.
Si
era appostata su un albero di pesco, proprio al limitare della stradina che
conduceva dentro al paesello, e poi aveva atteso. Eins non ci aveva messo molto ad
arrivare, forse attratto dal suo profumo. Nina si era fatta un bagno per
l’occasione, usando una vecchia saponetta al limone, certa che avrebbe ottenuto
i risultati sperati. Le fronde dell’albero l’avevano comunque protetta a
sufficienza alla vista, tanto che il gigante l’aveva raggiunta e superata,
camminando verso le case con il passo strascicato di un ubriaco.
La
ragazza aveva atteso di vedergli bene la nuca, adocchiando gli altri due
giganti e giudicandoli sufficientemente distanti per tentare l’impresa. In una
condizione normale, non si sarebbe posta tutti quei problemi. Aveva
letteralmente camminato fra i giganti quando il muro Maria era crollato,
circondata da una folla isterica in fuga e da quei bestioni che tentavano in
ogni modo di afferrare quante più persone possibile.
Eppure
così lontano da casa, da sola, impossibilita a ricevere soccorso, aveva
preferito seguire una linea di basso profilo.
Solo
quando si era sentita sicura, aveva ancorato il cavo di acciaio all’attaccatura
dei capelli del mostro, dandosi subito dopo lo slancio sufficiente.
La
collottola del gigante era venuta via con un singolo movimento pulito, così
preciso da non rovinare nemmeno le preziose lame.
Nina
era caduta insieme alla carcassa immobile, scendendo con un salto agile dalla nuca,
mentre ancora teneva in mano entrambe le spade. Alle sue spalle sentì dei passi
veloci far tremare il terreno, segno che era arrivato il momento di correre.
Non attese di certo di scoprire chi dei due giganti rimanenti avesse deciso di
caricarla, strinse nelle mani i comandi del modulo e puntò alla prima casa che
sorgeva sul borgo, usando più gas di quanto avrebbe voluto e riavvolgendo
rapidamente i cavi metallici.
Era
ancora in volo quando non sentì più il gigante correre.
Attese
comunque di sentirsi al sicuro sul tetto alto, prima di voltarsi.
Proprio
mentre volgeva lo sguardo indietro, un urlo straziante squarciò il silenzio
della campagna al tramonto.
Inginocchiato
accanto al corpo fumante del suo simile, Drei stava ancora urlando. Nina lo osservò, cercando di
comprenderne il comportamento, mentre oltre il bosco, la testa di Zwei iniziava a
sparire oltre le corolle degli alberi, così come ogni sera.
Poi
il quattro metri fece qualcosa di ancor più assurdo.
Lanciando
ancora qualche grido, seppur più flebile, portò le mani al terreno, iniziando a
strappare grandi porzioni di terra, scavandola via con le unghie fino a
disintegrarsi le mani, che presero a fumare.
Nina
era così sconvolta da quella vista da non riuscire a far nulla se non tremare.
Sembrava
provare dolore.
Sembrava
provare dei sentimenti veri.
E
lei non poteva accettarlo.
To find
myself again
My walls are closing in I've felt this way before So insecure
Anno 845
Tempo di cambiamenti.
“…Ragion per cui, qualora fossi io venir scelto per
ricoprire la carica di Comandante della Legione Esplorativa, toglierei la metà
dei fondi alle zone interne di Trost e Nedlay, in favore dei distretti di Shigashina
e Briemer. Per quasi un secolo, queste località sono
state messe in secondo piano, ma ora basta! I distretti esterni sono il cuore
della Legione, il luogo da cui noi usciamo, che nulla mancano rispetto alle
sedi principali, se non nella cura delle caserme e nel numero dei soldati. Non
ci saranno più quartieri generali di serie A e B, ma solo un unico, grande
organico paritario.”
La
fine del discorso di Schäfer venne accolta con uno scrosciare
di applausi più o meno convinti. Nina lo fece giusto per educazione, mentre i
suoi occhi indugiavano sulla figura di Erwin, seduto in prima fila, a qualche
metro da lei. Erano quasi sei ore che se ne stavano seduti su quelle sedie e
ormai non le doleva solamente il sedere. Le faceva anche male la testa.
Non
ne poteva più di discorsi, tattiche, pratiche burocratiche e altisonanti
puntualizzazioni.
Ormai
tutti avevano capito l’aria che tirava e continuare su quella linea sembrava
quasi un insulto all’intelligenza collettiva.
Shadis
lasciava la Legione e aveva designato un successore che non tutti approvavano.
Non
c’era altro da sapere.
I
soldati di Trost l’avevano saputo al ritorno da Yule, mentre fuori imperversava una tormenta di neve che
nascondeva la vista del cielo e delle campagne attorno a Irsee.
Il Comandante dell’esplorativa aveva detto tante parole belle infiocchettate,
ma il succo era uno solo: non si sentiva di continuare e aveva chiesto un
preavviso di quattro mesi in cui sarebbe stato nominato il suo successore.
Erwin,
per la precisione.
Quell’impegno
enorme era piombato sulle spalle del biondo un po’ prima di quanto l’uomo aveva
previsto, ma non si sarebbe tirato indietro. Non una volta arrivato così vicino
a vedere esaudite le sue speranze. Aveva grandi piani, aveva dei sogni e non si
sarebbe fermato, non dopo aver lavorato così tanto per arrivarci. Nina glielo
leggeva in faccia che, nonostante la sorpresa, Erwin non aspettava altro.
Zackley,
che fra tutti pareva il più annoiato e stanco da quella situazione pesante,
guardò il Capitano Schäfer tornare al suo posto,
tenendo fra le mani i fogli su cui aveva annotato pochi dettagli circa il discorso
appena concluso.Per anzianità, il posto
di Comandante sarebbe dovuto andare a Katz,
sovraintendente di Renin, che aveva terminato
l’accademia addirittura prima di Shadis. Non era
stato però nemmeno preso in considerazione, così come nessuno proveniente dalle
zone dell’est. La vera guerra si combatteva fra Trost
e Shigashina, visto che persino Erik Schmitd aveva ritirato la candidatura che i suoi uomini
avevano portato avanti, sostenendo che anche Briemer
avrebbe appoggiato Smith, se Nora Kessler non fosse tornata in Legione, lasciando
la Gendarmeria per governarli.
Nina
lanciò uno sguardo proprio a Schmitd, mentre Erwin si
alzava, sistemandosi la giacca e salendo sul gradino per fare a sua volta un
discorso.
“Che
noia” fu il solo commento divertito dell’uomo del nord, mentre alla sua destra
il Caporale Scwartz e il Capitano Jürgen
commentavano quel discorso sottovoce, la prima felice della proposta in quanto
stanziata a Briemer e il secondo, di Nedlay, un po’ meno allegro “Ci vorrà ancora molto? Mangerei
un cinghiale intero.”
La
dottoressa, che di quelle lunghe e deleterie riunioni non ne aveva mai viste
prima (e per questo quasi rimpiangeva la promozione), portò una mano a
nascondere le labbra piegate in un sorriso, mentre rispondeva “Anche io. Tra
poco la mia pancia parlerà per me.”
“Infondo
è una farsa” proseguì Mike, seduto alla sinistra di Nina. Anche lui era stato
proposto, visto che era addirittura più grande di Erwin di qualche anno, ma
velocemente Zacharius si era tirato indietro,
sostenendo di aver fiutato più lati
negativi che positivi in una tale promozione “Schäfer
più chiedere tutte le votazioni che vuole, ma il successore viene stabilito dal
Comandante in carica da sempre. Se Shadis vuole
Erwin, lo avrà.”
La
bionda annuì piano. Sapeva che suo fratello sarebbe stato giudicato il più
idoneo anche solo per le sue competenze, oltre al fatto che tutti avrebbero
votato per lui. Prima fra tutte il Comandante Kessler, che lo stava guardando
proprio in quel momento mentre Erwin si preparava a parlare, senza nemmeno aver
annotato una parola preliminare. Dietro alla bella donna, Friedelhm
fece l’occhiolino a Nina, sporgendosi poi verso Doak
per dirgli qualcosa che fece sghignazzare sotto i baffi l’uomo.
Il
discorso del Capitano Smith iniziò.
“Sono
tanti gli aspetti dell’attuale gestione che cambierei e, per la maggior parte,
non mi sento di imputare colpe al Comandante Shadis.”
Tutti
lo stavano guardando in silenzio, fremendo per ciò che l’uomo aveva da dire. La
sua reputazione lo precedeva, senza contare che era il pupillo di non uno, ma
di due Comandanti con una certa levatura. Tutti si aspettavano grandi cose da
lui e Erwin non aveva intenzione di deludere le aspettative di nessuno. “Lo
spreco di risorse a nord è la mia principale preoccupazione.” Accanto a sé,
Nina poté sentire Erik rizzare la schiena a quelle parole, mentre qualche
sedile più in là, il Caporale Scwartz e il Capitano Jurgen smettevano definitivamente di parlare sotto voce. La
questione del nord, come la chiamavano coloro che vivevano sotto Nedlay, era delicata e Nina non si era di certo stupita
quando suo fratello aveva iniziato da lì “Il Capitano Schäfer
ha parlato di dar più fondi ai distretti esterni, di dare finanziamenti laddove
c’è bisogno per le uscite e levarne alle città dell’interno. La mia domanda è:
di quali soldi parliamo? Tutti sappiamo che di soldi non ce ne sono.” Ancora,
silenzio. Aveva toccato il punto critico, quello che nessuno voleva mai
affrontare, ma che era tristemente alla base di ogni problema dell’esplorativa:
il costante bisogno di fondi che non arrivavano. O mangiavano o compravano
attrezzature di qualità, pagavano i soldati e mantenevano i loro quartier
generali. I soldi erano la loro principale preoccupazione.
Non
i giganti.
“Tutti
sappiamo che la Legione spende più di un terzo delle tasse complessive dei
cittadinidelle Mura nell’arco di sedici
mesi.In molti si chiedono se sia
possibile chiedere più stanziamenti, pagare allo stesso modo i soldati del nord
e quelli del sud, delle sedi principali e le succursali esterne. Quello che mi
chiedo io è invece se abbiamo davvero bisogno di tutte queste caserme.” Fece
una pausa, spiando la platea senza davvero guardare nessuno, anche se ogni
singolo partecipante alla riunione si sentì trafitto dal suo sguardo penetrante
“Se sarò io a prendere il posto del comandante Shadis
mi impegnerò al fine di creare soli due nuclei primari. Sopprimerò non solo le
caserme ad ovest e est, dove non possiamo mantenere dieci o quindici uomini in
panciolle tutto l’anno. Prenderò anche un provvedimento per quel che riguarda Briemer e Shigashina, spostando i
soldati di istanza lì nelle caserme militari di Trost
e Nedlay, chiudendo anche il quartier generale di Irsee, poiché le caserme della Guarnigione sono anche a
disposizione dell’esplorativa e vanno benissimo per alloggiarvi gli uomini. Non
possiamo permetterci un tale dispendio di moneta. I soldi che verranno
stanziati andranno solo a sfamare e allenare i soldati, ottenendo così molti
più fondi per le spedizioni che sono e sempre saranno la nostra priorità. Non
sono d’accordo con il Capitano Schäfer. La Legione
esplorativa ha come unico compito quello di andare oltre le Mura e indagare la
natura dei giganti, non di farvivere
una bella vita ai suoi uomini sulle spalle dei cittadini. Le basi di Hanneke e di Irsee sono
superflue, così come avere sei nuclei diversi di soldati. Saranno solo due,
quello del sud guidato da me e quello del nord guidato da Erik Schmidt che avrà
la delega non solo di Capitano decorato del nord, ma anche di secondo in carica
al Comandante che poteri quasi uguali.”
Appena
Erwin smise di parlare ci fu silenzio, che però venne presto squarciato dal
malcontento di coloro che si vedevano privati di posizioni e basi. Erwin non
gli diede peso e in ogni caso, bastò una mano alzata di Zackley
per porre fine a ogni diatriba “Credi sia possibile realizzare un simile progetto,Smith?”
chiese il Comandante Supremo dell’esercito, incrociando le mani sulla
scrivania.
“Non
solo lo credo possibile, sono pronto anche a portarlo avanti e realizzarlo nel
giro di massimo tre anni.”
Fu
il turno di Pixis di parlare, questa volta “In tre
anni riformeresti completamente la Legione esplorativa? Non sono mai stati
effettuati dei cambiamenti così radicali in nessuna branca dell’esercito. Credi
davvero di riuscirci, ragazzo?”
Erwin
lo guardò, portando le braccia dietro alla schiena “Non lo credo. Ne sono
certo. Possiamo fare il doppio delle uscite e avere anche delle attrezzature e
dei ranci degni di questo nome. Non ho paura di pestare qualche piede per
garantire ai miei uomini il meglio. Al nord non è possibile effettuare delle
uscite oltre le Mura in inverno, ciò
significa che manteniamo dei soldati a far nulla per quanti? Almeno sei mesi? Lassù
il clima è rigido per molto tempo. Possono uscire da Renin
o da Pereta, nel frattempo. Se sono di istanza a Nedlay, poi, sarà molto più semplice per tutti comunicare
evitando i passi di montagna impervi. Uno dei miei uomini è rimasto bloccato a Briemer quando ha portato le disposizioni di Shadis, lo scorso novembre. Queste cose non possono e non
devono succedere. L’efficienza sarà la mia priorità.”
Pixis
l’aveva guardato con una strana luce negli occhi, mentre il Comandante Kessler,
che pareva compiaciuta, aveva lanciando un’occhiata a Zackley
“Abbiamo bisogno di parlarne ancora per molto? Ho delle questioni da sbrigare
poi Shadis, conbuonsenso, ha già scelto il Capitano Smith.”
Nina guardò nuovamente verso Erik e gli uomini del nord, che si erano
fatti assai seri. In caso di una votazione per alzata di mano, forse non
sarebbero stati più così entusiasti di votare per suo fratello.
“Non
è buona la situazione, vero?”
Nina
si era sporta verso Mike e Hanji, i cui occhi
saettavano da una parte all’altra della stanza “Non lo so. In realtà potrebbe
esserlo ma…. Non credo che i valenti uomini del nord
o i soldati del sud siamo molto felici, al momento.”
“Quel
che dirà Erwin sarà legge” decretò secco Mike “Chi non ascolterà, potrà andare
alla forca.”
“Ho solo un’altra domanda” Zackley guardò
verso Erwin, accavallando le gambe sotto al tavolo e sporgendosi verso lo
schienale, mentre ormai tutti arrivavano a capire perfettamente l’aria che
tirava. Anche un tardo ci sarebbe arrivato, soprattutto perché a Schäfer non era stata chiesta nemmeno una delucidazione,
come se le sue parole non avessero avuto alcun peso. “Come regoleresti il nord,
se è così tanto complesso da tenere in riga? Che compiti affideresti al
Capitano Schmidt?”
Erwin si umettò le labbra, guardando proprio verso il vecchio amico e
leggendoci la disapprovazione velata che sapeva avrebbe albergato la sua espressione
“Con stessi poteri, o quasi, intendo dire che a Erik Schmidt andrà la
discrezione per le uscite, se il Comandante Supremo Zackley
approverà la mia proposta. Il nord e il sud saranno due poli indipendenti,
evitando così attese e scartoffie. Inoltre, la paga sarà la medesima, a costo
di scalare un po’ di monete dai soldati di Trost.
Siamo tutti legionari allo stesso modo e un Caporale del nord vale tanto quanto
uno del sud.”
Non ci furono altri discorsi, ne altre domande.
Zackley
alzò gli occhi sul volto di Erwin, sfilandosi gli occhiali come per guardarlo
senza filtri “Non so se sto per fare la cosa giusta. Il tuo ardore….
Mi spaventa, Smith” attese ancora un attimo, prima di incrociare le mani sotto
al mento “Nonostante questo mio pensiero personale, rispetterò il volere del
Comandante in carica come è sempre stato. Erwin Smith, a quattro mesi da oggi
subentrerai al Comandante Shadis e allora disporrai
questi cambiamenti. La seduta è tolta, andate a mangiare.”
“Che
bella notizia!” E Pixis fu il primo a saltare in
piedi.
Friedhelm,
si alzò lentamente, stirando le gambe mentre con lo sguardo cercava gli occhi
della sorella, seduta fra i legionari. Quando li incontrò le fece segno di
raggiungerlo e a quel punto, Nina si alzò a sua volta. Non ne poteva più. Non
credeva che diventare il Primo Ufficiale Medico di Trost
avrebbe comportato anche quel genere di noiosissime incombenze.
“Ci
vediamo dopo.”
“Non
ubriacarti senza di me! Ordine del tuo caposquadra, Nina!”
Il Sergente Müller sorrise ad Hanji, prima di sfilare fra le sedie, appoggiando anche una
mano sulla spalla di Erik che a sua volta stava cercando di liberarsi per
raggiungere Erwin. Era arrivato il momento non solo delle congratulazioni, ma
anche di parlare per bene dei piani non decisi in comunione.
“Quell’idiota di Smith. Pensa di appiopparmi gli uomini di Briemer? Gliela farò vedere io!”
Passando, Nina colse questa
frase. Riconobbe subito chi l’aveva pronunciata, anche se nessuno li aveva mai
presentati“Capitano Jürgen
di Nedlay?” questo si era voltato, guardando la
giovane dottoressa un po’ spiazzato. Sapeva benissimo chi le fosse e forse
temeva che l’avesse sentito parlare così del fratello. Peccato che alla ragazza
poco importasse di quella faccenda ancora così astratta“Sono Nina Müller” aveva quindi porto la mano, sorridendogli e attendendo
di sentirgliela stringere “Mi dispiace disturbarla, ma mi chiedevo se potesse
portare i miei saluti a Friederich Meier. Lo conosco
da molto tempo e un saluto è più veloce di una lettera. Ora, con permesso”
passò fra lui e il Caporale Schwarz , sorridendo
delicatamente anche alla donna, infilando poi le mani nel cappotto lungo
marrone con le insigne della Legione e del suo grado, prima di affiancarsi a Fried che la guardava in attesa “Possiamo andare”
“Gli
permetti di parlare così di Erwin?”
“Chi
sono io? La sua balia? Erwin è abbastanza grosso da capire che non può far
contenti tutti.” Lo guardò vagamente divertita, prima di prenderlo a braccetto,
andando proprio verso il Capitano Smith, che ancora non pareva aver a fondo
realizzato cosa stesse succedendo. Forse erano le mani di Nora Kessler,
appoggiate alle sue guance, a distrarlo.
“Quindi è andata male?”
“No,
è andata bene, ma sei ore di riunione, a sentir parlare un po’ tutti gli alti
ufficiali dell’esercito, sono state dure. Ti ho pensato parecchio: sicuramente
ti saresti alzato e te ne saresti andato a metà del discorso di Shadis, visto che è durato un’ora e un quarto.”
Levi
aveva alzato gli occhi dalla mela che stava tagliando a spicchi, portandoli
sulla figura di Nina, in piedi a pochi metri a lui. Avevano trascorso quella
domenica mattina di riposo ad allenarsi con il modulo per lo spostamento
tridimensionale e la bionda stava ancora cercando di capire come utilizzarne i
comandi adoperando l’anulare e il mignolo, tenendo così la lama sinistra al
contrario, come faceva sempre Levi quando si dava lo slancio per affettare per
bene il collo di un gigante. “Quindi presto tuo fratello sarà il grande capo?
Speriamo di avere dei vantaggi e un aumento di stipendio.”
“Erwin
farà un buon lavoro, maledetto opportunista.”
Il
moro la guardò quasi annoiato e Nina non seppe dire se stava o meno scherzando.
Si limitò ad abbassare il braccio, portando la mano libera alla spalla e
massaggiandola piano. Sentiva tutti i nervi tesi e nel profondo del cuore
sapeva che non sarebbe mai guarita del tutto. La polvere da sparo ha di per sé
un impatto terribile sulla carne, i pallettoni poi…
Doveva
ringraziare Hans Lobov e sperare che, ovunque l’avessero
rinchiuso, gliela stessero facendo un po’ pagare.
“Ti
fa male la schiena?”
Nina
alzò gli occhi chiari sull’uomo che ancora sedeva sul tronco sdraiato a terra
di una betulla, guardandolo portarsi uno spicchio alle labbra. “Quest’inverno è
stato più duro per le artriti che per gli allenamenti” disse divertita, con
tono ironico, mentre avanzava verso di lui, rinfoderando la lama per potersi
sfilare il modulo da attorno ai fianchi. Quando si sedette accanto a lui, Levi
le passò metà del frutto, finendo di masticare velocemente mentre le faceva
segno di voltarsi in modo da fargli vedere la parte lesa “Guarda che sono io il
medico.”
“Stai
zitta e girati” fu la sola risposta che ottenne e, facendo un conto veloce
degli insulti coloriti che Levi di solito riusciva ad inventarsi, era stato
quasi gentile. Non se lo fece comunque ripetere, spostando la treccia
sull’altra spalla mentre sganciava la mantella verde. Sotto di essa non
indossava la divisa di servizio, ma un maglione nero e un paio di braghe color
crema, oltre ovviamente all’imbragatura. Aprì la fibbia al centro del petto per
sfilarsi quando possibile la parte superiore, abbassando le cinghie mentre Levi
spostava il maglione di lana grezza dalla spalla, portando la mano fredda sulla
zona ferita e causandole un brivido, oltre che un immediato sollievo.
Faceva
ancora freddo, nonostante fosse il primo giorno di marzo. La neve si era
sciolta e il cielo era più limpido del solido, ma l’aria attorno a loro odorava
ancora di un inverno che non sembrava intenzionato a cedere campo molto preso
alla primavera. Lasciò che l’uomo lavorasse sulla sua spalla, cercando di
scioglierle i muscoli,seppur i suoi
modi fossero un po’ bruschi, Nina si sentì subito meglio. Inclinò di lato il
capo così da dargli più accesso alla zona interessata, mentre finiva quella
metà di mela, guardando verso il limitare del bosco, fra le fronde, la figura
del Quartier Generale che si stagliava innanzi a loro. Non era nemmeno
mezzogiorno e non si vedeva nessuno lì attorno, eccetto i poveri cadetti di
ronda sulle mura. Gli ufficiali, i quali potevano godersi la domenica come
giorno di libertà, difficilmente si sarebbero visti in giro prima del pasto.
“Vuoi
allenarti un po’ nel corpo a corpo?” chiese lei quando le mani dell’uomo si
abbassarono, dopo averle sistemato il maglione e sollevato nuovamente il
supporto di cuoio delle spalle, collegato al solito labirinto di cinghie e
fibbie.
“…No.” La risposta ci aveva messo un po’ ad
arrivare. Levi aveva appoggiato la fronte sulla schiena di Nina, al centro
esatto, poco sotto all’attaccatura del collo. Lei era rimasta ferma, con un
sorrisetto sulle labbra e la mantella inuna mano, mentre l’altra andava ad appoggiarsi sul ginocchio dell’altro.
A un occhio esterno, le dinamiche tra loro non dovevano sembrare
cambiate. In realtà, da quella notte sul tetto di casa Müller
a Stohess, tutto era cambiato.
Ad iniziare da piccoli, insignificanti dettagli come quel contatto
fisico che Levi sembrava non voler mai richiedere, ma di cui aveva bisogno,
seppur nascondesse ogni richiesta in una muta presa di posizione. Nina, dal
canto suo, si era sempre sentita brava acapire le persone; non l’avrebbe forzato a darle più di quanto lui
voleva ed erano quei momenti di solitudine che le facevano capire che ciò che
lui aveva intenzione di darle, era esattamente quello che lei in fondo avrebbe
chiesto.
Si era riscoperta innamorata di ogni aspetto del carattere difficile di
quell’uomo strano, a tratti incomprensibile. Aveva capito che sotto ad un primo
strato di ghiaccio, nel quale aveva rinchiuso il suo cuore molto tempo prima di
crescere e diventare ciò che era, c’era forse l’uomo più buono e gentile che
aveva mai incontrato. Perché questo era Levi, una persona buona. Lo vedeva
prima di tutto nel suo modo di rapportarsi con lei, nel suo modo di
confrontarsi con gli altri, facendo ogni giorno sempre più passi avanti verso
l’integrazione in quella comunità che infondo gli era stata imposta.
Levi non sarebbe mai stato un uomo da grandi dimostrazioni d’amore o
discorsi impegnati.
Rimanevano però quei loro momenti di intimo silenzio, seduti su un
tronco, nascosti dalle fronde degli alberi.
Lentamente si sporse in avanti per farlo scostare, prima di sollevarsi
quel tanto che bastava per voltarsi e fronteggiarlo, andando ad appoggiare le
gambe sulle cosce dell’uomo. Scivolò in avanti, appoggiandogli le mani sulle
spalle, mentre i loro sguardi si allacciavano. Poi, quando lui le concesse di
baciarlo, quasi come se ogni volta Nina dovesse chiedere il permesso, portò un
braccio sulle sue spalle, chiudendosi ancora di più contro di lui.
“Allora torniamo a letto” sussurrò quindi sulle sue labbra, soffiandoci
sopra quelle parole solo una volta che il bacio venne interrotto, “Ce lo
meritiamo.”
Eccome. Erano in piedi dall’alba, quasi come se quello fosse un giorno
come ogni altro e non una pausa dalle incombenze militari. Si alzarono insieme
e Nina allacciò il bottone della mantella, battendola sul naso di Levi mentre
la appoggiava sulle spalle. Ridacchiò di fronte alla sua espressione per niente
divertita, imitandolo nell’indossare nuovamente il modulo. Uscirono dal bosco
ripassando gli schemi che avevano studiato quella mattina, così come le regole
base che Levi si era dato per l’abbattimento dei giganti.
Anche se facevano parte di due diverse squadre – Levi era finito, come
previsione, nel gruppo di comando del Capitano Smithinsieme ai migliori mentre Nina era stata
destinata alla squadra scientifica di Hanji- gli
allenamenti continui li avevano portati a impararsi qualche tattica di attacco
in coppia. Levi poi sembrava particolarmente portato nell’inventare complicate
sequenze, amante come era della ‘pulizia’ di movimento. Stavano attraversando
un pezzo di campo quando, in arrivo dalla strada principale che conduceva Trost, videro avanzare un carro carico di oggetti, anche di
grandi dimensioni. Esso non prese il bivio che conduceva verso il villaggio di Irsee, procedendo molto lentamente verso il castello della
Legione.
“Chi viene a rompere i coglioni di domenica?” chiese Levi con tono
piatto, mentre Nina portava una mano sugli occhi per schermarli dal sole.
“Che sia un mendicante? Se vende stoffe dovremmo prenderne un po’ per
rifare le tende degli alloggi degli ufficiali.”
“Tch, sempre a pensare ai vostri comodi,
maledetti graduati.”
“….Levi anche tu dormi nell’alloggio di un ufficiale. Nel mio, per la
precisione.”
E andava anche detto che quella stanza non aveva mai brillato così
tanto come da quando Levi aveva deciso di trasferirsi lì, abbandonando
definitivamente il rumoroso e caotico dormitorio dei soldati semplici.E non gliene fregava niente del fatto che
fosse contro ogni regolamento interno.
Il cigolio che caratterizzava l’avanzare del carro si fece via via sempre più nitido, mentre i due procedevano allo stesso
modo verso il castello. Solo quando furono vicini abbastanza da poter
distinguere la figura alla guida del mezzo trainato da due asini dall’aria
stanca e malandata, Nina esplose in un grido “Non posso crederci!” esalò
semplicemente, prima di iniziare a correre in quella direzione, lasciando lì
senza una spiegazione il povero Levi.
“Esaltata” fu di fatti il commento del moro, mentre la seguiva a passo
sostenuto, senza però agitarsi troppo. Vide il carro fermarsi e una piccola
figura, che da quella distanza gli parve di un bambino, scendere con un
saltello. In meno di un battito di ciglia lui e Nina erano abbracciati.
Ci mise il suo tempo a raggiungerli e solo quando fu proprio accanto a
loro, pronto a urlare qualcosa per coprire il loro chiacchiericcio
insopportabile, noto che quello non era affatto un bambino, ma un uomo
sorprendentemente basso. Persino piùbasso di lui.
Non riuscì ad attribuirgli un’età precisa, perché quel volto dai tratti
sottili e dai grandi occhi color pervinca, parzialmente nascosti sotto ai
capelli che parevano tantissimi fili lisci e lucidi d’argento, sembrava avvolto
da un’aurea misteriosa. Sorrideva pacatamente, guardandolo incuriosito mentre
Nina lo metteva al corrente di ciò che stava succedendo.
“Sono tornato dalla mia licenza anche per questo motivo. Volevo vedere
cosa sarebbe successo ora che Shadis ha intenzione di
ritirarsi. È così eccitante, ci saranno sicuramente intrighi politici!”
Quando parlò, la voce squillante non tradì però una sfumatura
prettamente maschile. Levi aveva quasi pensato che quella potesse essere una
donna in effetti, forse a causa della corporatura magra, così esile e filiforme
che secondo una stima approssimativa del moro, non avrebbe mai potuto reggere
la forza applicata dalle cinghie del movimento tridimensionale. Non era un
soldato, quindi?
“Questo curioso essere umano chi è?” chiese proprio il nuovo arrivato,
sporgendosi verso Levi per guardargli bene il viso “Ah, riconoscerei quegli
occhi ovunque…. Sei un Ack-”
“Chi cazzo è questo tizio?”
Il modo sbrigativo con cui Levi aveva interrotto l’altro aveva fatto
intuire a Nina che, come sempre, il piccolo inventore non s’era smentito.
Sorrise divertita, sapendo che era meglio non chiedere “Levi, ti presento il
Tenente Pascal von Pedrick, il nostro Primo Ufficiale
Ingegneristico. Pascal, questo è Levi e
basta, è con noi dalla scorsa primavera.”
Nessuna mano venne porta a Levi, che ovviamente non la richiese. Si
sentiva troppo sotto esame per essere anche solo vagamente a suo agio con
quella macchietta degli occhi improbabilmente vacui e il sorrisetto sornione.
“
Ah, e basta eh? Ho capito, ho capito.
Come darti torto, nemmeno io esibirei troppo le mie ‘referenze’ se fossi in
te.” Con un saltello un po’ goffo, Pascal salì nuovamente sulla carrozza,
invitando gli altri a fare lo stesso “Andiamo, andiamo! Devi proporre al
Comandante la mia nuova invenzione!”
Pascal
era in assoluto il meno probabile dei soldati della Legione. Minuto, tanto da
parer quasi rachitico, con i capelli grigi lucenti, perennemente spettinati e la camicia violetta
allacciata alla meno peggio, avvolte saltando un passante o due.
Sembrava
anche il meno probabile delle personalità pubbliche, ma quel suo modo d’essere
sciroccato tradiva un nobile retaggio.
Egli
era, di fatto, l’ultimo figlio maschio in vita della famiglia Von Pedrick, baroni e conti al servizio del re da secoli. Di casta
antica, era membro di una delle casate più rispettate all’interno delle Mura, sebbene
sarebbe stato quasi sicuramente l’ultimo rappresentante di essa. Aveva, in verità,
una sorella maggiore, Ermenegarda. Lei, che sapeva
ben discernere fra vita pubblica e necessità belliche, si era ben tenuta
lontana dalla corte reale, dove la famiglia Von Pedrick
aveva sempre avuto un poggio fra i consiglieri del re, e curava gli interessi
terrieri della famiglia da sola, da quando Pascal aveva deciso di entrare nell’esercito
e prendere le Ali.
Come
già detto, era il meno probabile dei soldati, ma era un genio tale da far impallidire
chiunque. Se avessero conosciuto Leonardo da Vinci all’interno delle Mura, sicuramente
l’avrebbero paragonato a Pascal. Era brillante nell’osservare e nel creare. Sembrava
nato per indagare la natura delle cose e la fisica. Un autentico luminare, che
aveva venduto tutte le terre che gli erano state donate in eredità – la maggior
parte alla sua stessa sorella – per avere soldi per potersi finanziare da solo
ogni progetto. Era entrato in Legione per non avere vincoli verso nessuno e un
vasto, sconfinato mondo all’esterno da conoscere ed esplorare. Perché lui
faceva questo: viveva per la sete di conoscenza.
Non
era portato per fare il militare, va bene,
ma era portato per cambiare il mondo. A iniziare da tutte le modifiche
effettuate alla motoretta per lo spostamento tridimensionale, fino alla valvola
per lo sfiato delle bombole per evitare lo spreco di gas, progetto che fra l’altro
aveva portato avanti e concluso facendo lavorare il team ingegneristico prima
di sparire per la licenza.
Appena
arrivato aveva esposto a Shadis un nuovo progetto
davvero ambizioso: una serie di canne di legno per poter fare il bagno in
piedi, dentro a delle piccole cabine, così da risparmiare tempo e acqua. Non aveva
ancora trovato un nome adeguato per quella straordinaria idea, ma avrebbe
dovuto attendere per poterla realizzare, poiché l’aver inventato la doccia non lo salvò dall’addestramento
tattico organizzato per il giorno successivo al suo rientro da quella ‘licenza
indeterminata’. Che aveva richiesto qualcosa come due anni prima.
Nina
lo sentì starnutire mentre, tutto impettito, guardava un albero alto dalle snodature
contorte. La ragazza lo guardò con dolcezza, chiedendosi cosa potesse mai
vederci. Gli sistemò la mantella sulle spalle, mentre si guardava attorno,
cercando uno ad uno gli altri membri della sua squadra.
“Lo
sapevo” stava esalando con un tono sconsolato degno di nota Moblit,
tenendo una mano al cappuccio, mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a
cadere “Ci siamo persi.”
“Non
essere così negativo” lo riprese la dottoressa con tono divertito, lasciando lì
impalato lo scienziato per avvicinarsi “Abbiamo ancora un giorno e una notte
per arrivare al punto di ritrovo tattico, possiamo farcela.”
Il
biondino la guardò scettico, prima di voltarsi verso Goggles
e Keiji, che stavano spiando la sola mappa che il
Comandante aveva concesso loro, sotto le fronte di un salice, per salvarla
dalla pioggia.
Lo
scopo di quell’addestramento era quello di verificare se ogni squadra aveva i
requisiti per potersi definire tale e per poter sopravvivere all’esterno nel
caso di un distaccamento dal corpo principale. Dovevano semplicemente camminare
per boschi e raggiungere il luogo in cuiShadis aveva installato un campo base e poi
tornare indietro. Senza cibo, acqua o brande per dormire. Avevano a
disposizione quarantotto ore per farlo e la partenza, la sera precedente così
per andare incontro alla notte, era andata bene.
Ma
poi la squadra quattro, chiamata anche la squadra di Hanji
o la squadra dei matti, si era irrimediabilmente
persa.
Nina
non voleva dirlo ad alta voce, ma era d’accordo con Moblit.
Era sicura di aver visto l’albero che tanto interessava Pascal almeno quattro
volte nell’arco di due ore di cammino. Stavano girando intorno.
“Se
ci avessero lasciato una bussola…” sussurrò
amareggiato Moblit, con la mano sul viso, mentre il
capo squadra spariva fra le fronte insieme a Nifa con
la scusa di dover ottemperare a un bisogno fisiologico.
“Sei
sempre così negativo, novellino” lo prese in giro Goggles,
mentre il compare tracciava con un dito il percorso assegnato loro dal
Comandante.
Andava
detto che MoblitBerner non
brillava di ottimismo, ma forse perché dopo soli due anni dal suo arrivo in
Legione, ne aveva viste di cotte e di crude e un animo particolarmente
sensibile come il suo un po’ ne risentiva. Non solo: era ancora un cadetto e
come di tradizione, se si arriva a vivere abbastanza da vedere finita la
propria prima missione oltre le mura, ci
si sente un vincitore o comunque uno sconfitto.
Lui
si sentiva così, schiacciato, soprattutto dal numero di incombenze che Hanji gli riversava addosso. Nina, che era stata nominata
seconda in comando della squadra, pensava seriamente che avrebbe dovuto
cedergli il posto. Se anche Erwin la sfruttava come attendente personale, quanto
meno non la costringeva a badarlo come in infante. Perché questo faceva Hanji, si comportava da bambina e Moblit
doveva perennemente rincorrerla. Era arrivato anche a regolarle la vita in modo
da renderla degna di essere vissuta, costringendola a non fare la notte sui
libri e a farsi un bagno almeno una volta a settimana. Era stato acclamato
dalla folla per quest’ultima presa di posizione.
Della
sua stessa opinione, seppur non la esprimesse a parole per timidezza, c’era Alana Klein. Lei, che era ancora praticamente una recluta,
visto che non aveva terminato l’anno di addestramento interno prima delle
uscite, non faceva altro che tirarsi una delle due treccioline
brune che le scendevano morbide fino al seno, guardandosi attorno. Alana aveva addosso due grandi responsabilità,
insormontabili ai suoi occhi: prima di tutto aveva ben deciso di diventare un
ufficiale medico senza aver mai seguito corsi sanitari, se non quello di primo
soccorso durante l’addestramento. Nina aveva accettato di prenderla come
apprendista- la sua prima apprendista, come lei lo era stata di Renson- nonostante questa lacuna, ma l’aveva riempita di
libri e saggi di ogni tipo, riducendole così le ore di sonno, ma facendole
spesso compagnia fino a tarda notte all’interno dell’infermeria. Secondariamente,
Alana era la sorellina di Mira Klein, una delle più
grandi promesse della Legione esplorativa. Eguagliare la sorella, fra i primi
in combattimento e resistenza fisica e mentale, non sarebbe stato semplice e
forse non ci avrebbe nemmeno provato. Non era invidiosa di lei, voleva molto
bene a sua sorella, ma quell’eredità era pesante e scomoda.
Accanto
a lei c’era poi Nicholas Ravenstein, che così come
Nina, era stato spostato nel team scientifico per le sue conoscenze e la sua
utilità. Nick era un eccellente inventore e costruttore, e
per quanto si sentisse felice di poter lavorare nuovamente insieme al tenente
Von Pedrick, come lui non era particolarmente amante
delle scampagnate montanare.
La
pioggia, che prese a battere insistente sui loro capi, raffreddando l’aria già
di per sé gelida di marzo, scoraggiò ancora di più queste tre anime in pena, ma
non Nina. Uno dei tanti vantaggi di avere Levi come maestro di vita era che la
pioggia diventava il minore dei problemi, così come il freddo.
“Cosa
sono questi musi lunghi?” domando all’improvviso il biondo con gli occhiali,
sollevando il capo dalla mappa con un sorrisetto divertito. Mike Goggles, chiamato solo per cognome per evitare di
confonderlo con Zacharius, faceva parte dei quattro
veterani che componevano la squadra di Hanji. Portava
sempre una barbetta incolta a sporcargli il viso se no eccessivamente immaturo
per un uomo della sua età e gli occhi da felino, schermati dalle lenti,
sembravano nascondere un perenne divertimento per il comportamento abbattuto
delle reclute.
“Lasciali
in pace” lo riprese subito KeijiRotten,
tirandogli una gomitata ben assestata sul costato che lo fece chinare in avanti
con un leggero colpo di tosse, prima di alzarsi in piedi con la mappa
arrotolata sotto al braccio “Stiamo sbagliato percorso” decretò infine,
guardandoli tutti, in particolare il sergente Müller,
“Se proseguiamo lungo questo sentiero ci ritroveremo a incrociare il percorso
della squadra uno, Nina.”
“Così
potresti salutare tuo fratello” commentò Moblit,
saltellando da un piede all’altro in un patetico tentativo di scaldarsi.
“Qualcuno
ha visto il capo squadra?” domandò leggermente stizzito Goggles,
alzandosi in piedi e tirando una pacca sulla schiena dell’amico per vendetta,
ma questi non parve nemmeno essersene reso conto.
A parlare
fu una voce sottile, armoniosa “Sono andate a fare un bisogno, torneranno
presto.”
Persino
parlando di deiezioni, FabianHilger
riusciva a suonare delicato e poetico. Anche lui era un veterano, poiché contava
sette anni di onorato servizio in Legione senza averci rimesso nemmeno un arto.
Il suo aspetto tradiva una certa forza, così come il suo modo di porsi: era
alto, una pertica, con il viso dai tratti femminei e una lunga treccia di
capelli color carota che scendeva quasi fino alla cintola. Capelli che le
ragazze gli invidiavano. Alle spade preferiva la penna, poiché amava scrivere
poesie d’amore e delicate descrizioni di paesaggi quasi onirici, ma era
piuttosto abile anche nell’uccidere i giganti. Nulla pareva scalfirlo, né le
missioni all’esterno, né i commenti alle volte crudeli dei commilitoni. Non si
vergognava di chi era, perché avrebbe dovuto? Non aveva studiato le scienze, ma
era stato giudicato sufficientemente intelligente per potersi integrare all’interno
di un gruppo così specializzato. Era laureato in letteratura, prediligeva la
compagnia di un buon libro a quella dei compagni in osteria. Anche lui era figlio
di buona famiglia, ma non della Capitale. Veniva da Stohess,
anche se lui e Nina non si erano mai incontrati prima dell’ingresso della
ragazza nel corpo dell’esercito, figlio di uno dei capi della gilda dei
mercanti. Francis Hilger vendeva sale, estratto dalle
miniere a est di Pereta, ovunque all’interno delle
Mura, rifornendo personalmente ogni distretto. Non riteneva Fabian
degno di prendere il suo posto come il figlio minore e l’aveva messo di fronte
a una scelta, una volta compiuti i dodici anni: la Legione esplorativa o un’accetta
in mezzo agli occhi.
Un
uomo che non ammetteva mezze misure.
Fabian aveva
sofferto di quel distacco imposto col pugno di ferro e poca diplomazia, ma
aveva scoperto cosa significasse avere una casa e una famiglia solo dopo
essersi unito all’esercito.
Fin
dal suo primo giorno di accademia si era legato a Nifa
Hertz, anche lei veterana della quarta squadra. Esuberante e brillante, Nifa era l’anima ottimista del gruppo, quanto meno quella
parte lucida e razionale che Hanji non poteva
ricoprire a causa del suo carattere. Aveva molti bei vestiti, Nifa, che metteva nei momenti di licenza. Le piaceva acconciare
il caschetto asimmetrico moro e compiere tutti quei gesti femminili che
sembravano superflui per un soldato del suo rango, ma che la contraddistinguevano
in mezzo agli altri.
C’era
dell’estro in quel gruppo un po’ disomogeneo, Nina doveva riconoscerlo, ma fra
loro si sentiva bene. Erano i meno seri della Legione, quelli perennemente
sotto torchio perché in ritardo o fuori formazione, ma c’era già del
cameratismo fra loro la prima volta che avevano cenato tutti insieme, prima
ancora che Pascal si riunisse a loro dopo la sua latitanza.
Sinceramente,
non si sarebbe aspettata una squadra migliore.
Erano
nove individui insoliti, con punti di forza e debolezze differenti. Si compensavano
bene.
Ma
condividevano lo stesso pessimo senso dell’orientamento.
Avevano
atteso il ritorno di Hanji prima di riprendere la
marcia, scoraggiati dalla pioggia che non faceva altro che aumentare rendendo
difficile il guardarsi attorno, con Nick che a un certo punto si era
addirittura offerto di portare Pascal sulla schiena.
Quando
avevano trovato un sentiero si erano imbattuti, come da previsione, nella
squadra uno, chiamata anche la squadra di
comando, con a capo il Capitano Smith.
Erano
decisamente fuori rotta se erano arrivati a incrociare il percorso degli altri,
ma Nina lo sapeva che Hanji l’aveva fatto a posta per
farsi far strada.
Per
niente scema.
“Andiamo
Erwin, hai visto che tempaccio? Che importerà da che parte arriviamo, se
arriviamo?”
Il
biondo si era lasciato coinvolgere, sospirando divertito prima di far cenno alla
squadra quattro di unirsi a loro.
Nina
si era ritrovata a camminare affianco a Levi, senza quasi accorgersene “Siete
patetici” aveva commentato senza colore il moro, guardandola da sotto il bordo
del cappuccio verde, che gocciolava fradicio di pioggia “Questa scampagnata,
per voi, deve sembrare la scalata di un monte.”
“Sei
uno stronzo.”
La
bionda aveva preso a raccontagli di come si fossero persi, tanto per ricalcare
ancor di più la pessima figura, quasi andasse orgogliosa di quel gruppo disarmoneo di menti in continuo moto .
Il
mal tempo però ci aveva messo del suo e la nebbia aveva reso difficile il
lavoro anche per l’efficientissima squadra uno.
I suo
membri erano ben diversi da quelli della quattro, Hanji
li avrebbe definiti così zelanti da essere noiosi: allo scadere del mandato di
Capitano di Erwin, in virtù della promozione a capo del corpo, sarebbero diventati
quasi tutti capi squadra. Era logico pensarlo perché laddove Levi era quasi un
novizio, gli altri erano tutti nell’esercito da almeno quattro anni. Le sole
eccezioni erano Eld, dell’anno di Nina e una giovane
recluta di nome GuntherSchultz,
così meritevole da essersi fatta solamente tre mesi di addestramento
supplementare, invece dei canonici dodici. Lars Faust
era una leggenda, oltre che un uomo molto bello. Quando lui e Mira erano
diventati Caporali, dopo aver concluso insieme l’accademia ed essere entrati in
Legione, si erano sposati. Avevano una bambina, Johanna,
che nel 845 aveva tre anni e viveva a Trost con i
nonni materni. Erano entrambi degli assi del combattimento corpo a corpo e si
erano guadagnati la nomea degli Sposi Sterminatori, per il numero elevato di
giganti che avevano fatto fuori. Non potevano nemmeno sperare di competere con
Levi, ma tra il divino e il normale, si erano guadagnati una buona posizione
mezzana.
“Zoppichi,
ti sei fatto male?”
Levi
alzò gli occhi su Nina, scuotendo poi il capo “Quella brava persona di Helga Bohm mi ha buttato dalle scale quando ero piccolo e nessuno
mi ha curato come si deve la caviglia.” Levi sbuffò, prima di concludere con
una lapidaria sentenza sulla sorella della donna che l’aveva cresciuto, e di
cui a Nina aveva già parlato in precedenza “Puttana di nome e di fatto, è
riuscita a lasciarmi un ricordo di sé.”
Non
c’era bisogno di spiegare che tutta l’umidità accumulata nelle ossa iniziava a
farsi sentire negli acciacchi, perché la spalla di Nina faceva male da ancor
prima di mettersi in marcia.
“Arrivato
al campo base potrai sederti un po’, nonnino.”
“Vorrei
tanto sapere perché ancora non ti hanno ammazzata.”
Non
che lo pensasse davvero, ma Nina era sadica nell’infierire con gusto.
Particolarmente
in quelle situazioni.
Il
clima prese finalmente a migliorare solo dalla metà di aprile in poi. A quel
punto, fu più semplice alzarsi la domenica mattina per addestrarsi. La bella
stagione sembrava voler portar con sé un’aria diversa, ma era difficile dire se
questo cambiamento sarebbe stato in positivo o meno.
Nina
perse l’equilibrio, portando la mano al naso che sanguinava copiosamente e non
riuscendo a cadere in ginocchio, nonostante la stilla di dolore che avvertì
propagarsi da quel punto, solo perché ormai si era abituata a sopportarlo. Alzò
lo sguardo verso Levi, schivando un calcio con una mezza capriola all’indietro
che di aggraziato ed elegante non aveva nulla, per poi ritirarsi in piedi e
fare qualche passo verso il bosco per guadagnare spazio.
“Sanguino”
fu il suo solo commento, abbastanza neutrale, mentre guardava le dita sporche
di liquido vermiglio.
“Lo
vedo” rispose sagace l’uomo, sistemando le maniche arrotolate della camicia
attorno al gomito, prima di attaccare di nuovo, deciso, notando che almeno era
diventata brava a schivare “Smettila di scappare, rincretinita! Ce la fai o no
a fare un attacco decente che sia uno? Vuoi dimostrarmi che non abbiamo buttato
nella latrina sei mesi di allenamento?!”
“Mi
stai uccidendo, Levi!” si lamentò lei, smettendo di tenersi il naso per potersi
difendere, anche a parole “Non mi dai il tempo di attaccare!”
“Devi
trovarlo il tempo di attaccare, Nina! Nessuno ti regalerà occasioni!”
Quasi
non terminò la frase che ci riprovò di nuovo e stavolta il pugno andò a segno. Nina
riuscì a deviarlo, tanto che al posto di colpirle lo stomaco le prese il
fianco, facendole male, ma non così tanto. Fu solo a quel punto che mossa dalla
rabbia e dalla frustrazione per quell’addestramento (Levi non era mai stato
così cattivo prima, solitamente la lasciava provare senza attaccarla
direttamente), che decise di rendergli pan per focaccia.
A condizioni
normali non avrebbe giocato sporco, ma si sentì braccata e agì di istinto.
Gli
tirò un pestone deciso sulla caviglia che sapeva essere più debole dell’altra,
facendogli scappare un mezzo gemito di dolore per la prima volta da quando
avevano iniziato a combattere nel corpo a corpo, l’estate precedente.
Poi
lo afferrò per le spalle, tirandogli una ginocchiata nella pancia e riuscendo,
non si sa bene come, a farlo cadere.
Aveva
ufficialmente steso Levi, ma non contenta, si mise su di lui bloccandogli il
braccio col ginocchio e tenendogli l’altro mentre con la mancina gli tirava il
pugno più forte che avesse mai tirato in vita sua.
S’era
fatta male, certo.
Ma
lui di più.
Ancora
ansante per i movimenti veloci, lo guardò voltare il capo di lato e sputare un
po’ di saliva mista a sangue, prima di tornare a osservarla, impassibile.
Nina
aveva ancora il pugno alzato quando realizzò.
“Ho
vinto” decretò senza nemmeno provare a mascherare la soddisfazione.
“Una
vittoria su un centinaio di sconfitte. Ti do atto, però, che hai saputo fare bene
stronza.”
Nina
sollevò il ginocchio, permettendogli di spostare il braccio. Levi portò
entrambe le mani sui fianchi della giovane, spingendola con forza per ribaltare
le loro posizioni e mettersi sopra di lei.
Lei
lo lasciò fare, continuando a sorridere tra il compiacimento e lo smaliziato,
con le braccia appoggiate sull’erba che ancora odorava di rugiada, mentre lo
guardava negli occhi “Deve bruciare parecchio per uno come te perdere, vero?”
“Non
che mi importi un granché, soprattutto se a battermi è una mocciosa con il
labbro ancora sporco di latte a cui nessuno crederebbe.”
“Pensi
già a come ti rovinerò la reputazione? Sei patetico.”
Levi
si lasciò cadere al fianco della giovane compagna, portando le mani incrociate
sul ventre mentre spiava il cielo sopra di sé.
Lei
gli tirò una pacca giocosa sulla coscia con la mano aperta, prima di andare ad
appoggiare il capo sulla spalla, anche lei con gli occhi ben puntati verso l’alto.
Si sentiva davvero fiera di sé, ma non continuò ad infierire, preferendo altri
modi per infastidirlo.
Come
le così definite dall’uomo ‘chiacchiere senza capo né coda’, per esempio.
Girò
il capo e lo morse sulla guancia, attirandosi uno sguardo ben poco soddisfatto “Quando
ero piccola giocavo sempre con Erwin a trovare delle forme nelle nuvole.”
“Intellettuale”
la prese in giro, guadagnandosi una pacca sullo stomaco. Le bloccò il braccio
per impedirle di rifarlo “Non ho mai sentito una cosa così tanto stupida e tu
ne dici parecchie nell’arco di una giornata.”
“Sei
noioso, è divertente notare come ogni persona veda cose differenti all’interno
del medesimo contesto” proseguì lei, imperterrita, prima di alzare la mano
libera per puntare l’indice verso un punto preciso “Quella nuvola, per esempio,
non ti sembra un cane?”
“Nina
sei completamente pazza. Già prima non stavi bene per niente, ma ora che stai
in squadra con quella folle quattrocchi ogni speranza di normalità è andata a fanculo.”
“Puoi
provare, almeno per una volta, a farmi contenta?”
Di
nuovo, Levi la guardò male. Poi, passando la mano sull’avambraccio della bionda,
in quella che aveva tutta l’aria di essere una carezza, alzò lo sguardo verso
il punto indicato “Oltre che pazza sei anche cieca. Quella è palesemente una
stella.”
“Una
stella?” insistette lei, socchiudendo le labbra per niente convinta “Ma dove la
vedi, una stella? Guarda bene: ci sono le quattro gambe e la testa. Si vede
persino il muso!”
“No”
anche Levi alzò la mano, tratteggiando nell’aria una forma ben definita “Ci
sono tutte le punte, Nina. Cinque punte, una fottutissima stella.”
“I
tuoi occhi sono rotti.”
“Cretina.”
La
bionda ridacchiò, sospirando piano mentre chiudeva gli occhi.
Il
naso le faceva un po’ male, lo sentiva battere doloroso dove la botta era
arrivata forte e chiara. Anche le gambe erano un po’ pesanti, perché nonostante
le avesse rinforzate correndo e correndo durante l’allenamento, ancora faticava
ad abituarsi agli scatti repentini che ogni buon lottatore doveva eseguire per
evitare di farsi colpire e per ripagare a sua volta a suon di cazzotti l’avversario.
Come
diceva sempre Erwin, non si fa un guerriero in un anno.
Nemmeno
in cinque, in realtà.
Quel
percorso era ancora ben lontano dall’essere giunto alla sua fine, ma quella
piccola seppur memorabile vittoria le fecero capire che poteva anche lei fare
qualcosa di grande. Se poteva buttar giù Levi, allora poteva fare tutto nella
vita.
“Ti
fa male la caviglia?” domandò, senza aprire gli occhi. Un’ombra ottenebrò il
sole e lei se ne accorse nonostante aveva ancora le palpebre calate per il
cambio di luce. Avvertì il respiro caldo dell’uomo sul volto, così socchiuse
gli occhi dalle iridi irregolari, per guardarlo mentre troneggiava sopra di
lei.
Le
mani di Nina andarono ad accarezzargli il viso, percorrendolo dagli zigomi fino
alle labbra, passando col pollice sul taglio che ancora sanguinava, seppur
appena. Lo tirò verso di sé, iniziando sin da subito a duellare con lui in un
bacio mordace, sentendo il sapore ferroso della bocca dell’altro sulla lingua
mentre Levi non perdeva tempo in convenevoli inutili e andava ad aprire la prima fibbia dell’imbragatura di Nina.
Lei
non oppose resistenza quando la sentì aprirsi sul petto, andando a fare lo
stesso con quella dell’uomo, mentre questi si metteva in ginocchio fra le sue
gambe e lei lo seguiva, sedendosi. Da lì iniziò l’intera operazione di svestizione, resa non poco difficoltosa dall’attrezzatura. Nina
si sbarazzò della parte di tutte le cinghie in fretta, mentre Levi le apriva le
fibbie sulle cosce e la cintura, andando poi a sfilarle rapido gli stivali. Con
sapiente conoscenza, le mani ruvide del moro le accarezzarono la pelle tesa
degli addominali e del ventre, quando lei si fu liberata anche della camicetta
bianca, che andò a far compagnia al resto degli indumenti sull’erba.
Levi
la spinse stesa con un altro bacio, mentre le sfilava i pantaloni della divisa
insieme all’intimo, decidendo di farle la grazia di non sciogliere le bende
elastiche che le tenevano costretti i seni. Fu Nina a liberarsene senza
eleganza, sfilando la spilla da balia che andò a buttare dentro a uno degli
stivali, non controllando nemmeno a chi dei due appartenesse. Ci avrebbe
rimesso il suo tempo a vestirsi in ogni caso.
Quando
si ritrovò totalmente nuda, esposta sotto lo sguardo dell’altro, non si sentì a
disagio, così come non si era sentita così la prima volta che l’aveva spogliata
e fatta sua. Al contrario del loro primo bacio, che aveva avuto la valenza e la
grazia di una promessa d’onore da parte di entrambi, la prima volta che avevano
fatto sesso non era stata così importante. Era stata la prima di molte, molte
volte dopotutto. Memorabile e attesa da entrambe le parti, Nina non s’era
nemmeno trattenuta dall’ammettere che vi aveva fantasticato su più e più volte,
ma non era stata importante.
Nessuno
dei due vedeva il sesso come un atto sul quale costruire intenti.
Nina
aveva avuto già un altro prima di lui e Levi…. Non aveva
detto il numero preciso di amanti che aveva avuto in vita, ma la giovane
stentava di credere che un uomo così sicuro di sé, oltre che affascinante, si
fosse risparmiato qualche avventura.
Per
questo avevano giusto atteso di andarsene da Stohess,
così da non rischiare di attirare ancora di più su di loro le ire di donna
Adelaide, per potersi lasciare andare anche all’amore fisico. Era successo e
basta, la prima sera appena tornati a Trost, dopo
aver saputo che avrebbero presto servito un altro Comandante e con una tempesta
di neve come non se ne vedevano da anni a far da sfondo.
Era
stato naturale per loro capirsi, da uno sguardo, senza parlarne. Lei lo aveva
invitato nella sua stanza e alla fine, quel letto, Levi non l’aveva più
lasciato.
Nina
però era consapevole che non era paragonabile a ciò che avevano condiviso su
quel tetto, perché da quel singolo primo bacio, quasi casto rispetto al resto
delle attività che potevano fare insieme e da soli, come in quel momento nel
bosco, Levi aveva aperto una porta che non sembrava intenzionato a chiudere.
Giorno
dopo giorno, Nina scopriva altri pezzi del passato di Levi, cose su Kenny, Helga,
Gretha e la loro famiglia. Sentiva racconti su di lui
e Farlan che crescevano insieme, di come avevano
preso con loro Isabel, di come il loro mondo andasse avanti più lentamente e di
nascosto, ma proseguisse. Fino all’arrivo di Erwin, in cui aveva avuto una
battuta di arresto e aveva iniziato a girare in direzione opposta.
E ogni
confessione arrivava sempre, fra un bacio e l’altro, dopo quegli attimi di
cocente passione.
Senza
esitazione, Nina aprì la cintura di Levi, andando anche a sbottonargli i
pantaloni, mentre questi portava una mano al suo capo, slacciando il cordoncino
di cuoio e lasciando cadere in una cascata dorata, i capelli della giovane
sulla schiena nuda.
La
tirò quindi sul suo bacino, aiutandosi con una mano e infine scivolando dentro
di lei e dandole il ritmo per muoversi.
La
testa di Nina divenne leggera, mentre i baci si facevano più confusi e voraci. Il
piacere la consumò per prima e buttò il capo all’indietro, gemendo quasi
disperatamente mentre il moro le baciava la pelle tempestata di lentiggini
dello scollo.
“Levi”
lo chiamò con tono ebbro, mentre un sorrisetto le nasceva sulle labbra “Mi fai
sentire le campane…”
Fece
in tempo a finire di parlare, lasciando per altro cadere la frase che suonò
come incompiuta, che l’altro le bloccò i fianchi, spingendoli verso il basso.
Nina
tirò su il capo, guardandolo sorpresa da quella interruzione. Non fece però in
tempo a parlare che udì qualcosa, in lontananza.
Istintivamente
portò una mano ai capelli, passandovi le dita in mezzo per pararli indietro.
“…Questesono…” soppesò, prima di
realizzare la gravità della situazione.
La
Campana della Libertà non suonava mai a Trost, poiché
il suo scopo era quello di avvisare dell’apertura delle mura sull’esterno e
quindi su una potenziale situazione di pericolo. Se suonavano fin lì, all’interno,
poteva esserci un solo significato.
“Deve
essere successo di orribile a Shigashina” Nina non si
diede il tempo di pensare ad altro. Si alzò dal ventre di Levi premendo le mani
sulle sue spalle, mentre lui la guardava un po’ allucinato con i capelli
spettinati sul capo e il petto visibile dalla camicia aperta imperlato di
sudore così come la fronte “Se suonano le campane, la procedura vuole che
corriamo immediatamente al quartier generale. Noi dobbiamo andare-”
“Nina!”
La ragazza era in piedi, con in mano i pantaloni, nel panico. Si alzò a sua
volta, cercando di ricomporsi, allacciandosi i pantaloni e la cintura “Devi
calmarti. Non combinerai niente saltellando qua e la come una gallina senza la
testa.”
Lei
parve non sentirlo “Erwin è a Shigashina.”
“Lo
so. Per questo devi calmarti.”
Annuì
lentamente, cercando di stabilizzare il respiro mentre appoggiava la fronte
sulla spalla dell’altro, chiudendo un attimo gli occhi. Per iniziare, doveva
vestirsi. Poi avrebbero fatto ritorno e avrebbero domandato come era successo.
Infilò
infimo e i pantaloni lasciando perdere le bende e allacciandosi la camicetta
mentre Levi, che aveva giusto dovuto sistemarsi un po’ perché non s’era
spogliato, iniziava ad assicurarle i primi pezzi delle cinghie alle cosce.
“Cosa
pensi che potrebbe essere successo?” le domandò, con la calma nella voce,
mentre le dava una pacca sul polpaccio per farle alzare il piede e passarle l’elastico
della metà inferiore delle cinture.
“Un
gigante potrebbe essere entrato nel muro di coda alla Legione” pensò lei,
mentre infilava prima un braccio e poi l’altro sulla parte dorsale, allacciando
le cinghie sotto alle braccia e sul petto. Il fatto di doversi bardare così
ogni giorno le aveva fatto assumere una certa dimestichezza, ma era comunque un
processo lento. Quando le rimasero solo gli stivali, prese la spilla da balia e
se la ficcò in tasca, sedendosi poi a terra per infilarli “Una cosa simile è
successa sessantacinque anni fa, ma quella volta un gigante fu fatto entrare
intenzionalmente.”
Il
moro annuì, passandole la giacca e prendendo la sua, insieme alle mantelle. Arrotolò
su tutto, ficcandoselo sotto al braccio, mentre iniziavano a camminare in
fretta verso casa “Fu quando misero al bando quella stronzata della religione
sui giganti, no?”
“Sì,
esatto, ma pensandoci bene potrebbe anche essere scoppiato un incendio nelle
campagne. Non è necessario che sia successo qualcosa a Shigashina,
no?”
All’interno
della cinta muraria del castello di Irsee regnava il
caos.
Soldati
che correvano, sellavano cavalli, parlavano fra loro o fissavano impietriti
verso il muro Rose, che si stagliava visibile a chilometri di distanza, oltre
le fronte degli alberi.
“Moblit!” Nina vide il compagno di squadra camminare con
passo deciso verso di lei, pallido come un morto, “Moblit
cosa-”
“Dobbiamo
prepararci, Nina.” La sua voce tremava, mentre le parlava. Persino la mano che
si appoggiò sulla spalla della ragazza non riusciva a non tradire una paura
cieca, che negli occhi gialli del giovane si rifletteva nella sua paurosa
interezza.
“Si
può sapere cosa è successo??” chiese Levi, adocchiando Hanji
che si dirigeva nella sua direzione insieme a Mike, il quale aveva il comando
del quartier generale come membro più anziano presente.
Erwin
e Shadis, per acquetare gli animi, si erano diretti a
Shigashina dieci giorni prima per organizzare un’uscita
con i soli uomini lì stanziati, per rifornire di provviste un avamposto nelle
terre dei giganti e favorire un po’ il nuovo Comandante Smith, che fra quelle persone
non trovava favore.
“La
situazione è grave” iniziò Zacharius, guardandoli
serio come mai, mentre accanto a lui Hanji fissava la
pavimentazione ciottolata, con il viso adombrato da un’espressione cupa.
Se
persino lei aveva perso le parole, allora doveva essere davvero grave.
“Cosa
è successo?” domandò Nina, sentendo che qualcosa doveva essere successo a
Erwin.
Era
il ventisette di aprile e lui era il Comandante della Legione solamente da
cinque giorni.
Che
le campane suonassero per lui? Era caduto combattendo? O forse era morto il re
in persona?
Quel
che disse Mike però fu centinaia di volte peggio di qualsiasi supposizione Nina
e Levi potevano aver fatto.
Si
prese un attimo, come per cercare di acconciare quelle parole, realizzando poi
che non vi era modo di rendere meno nefasta quella notizia. Quindi parlò.
“I
giganti sono penetrati nelle mura Maria attraverso il distretto di Shigashina. Le Mura sono state sfondate.”
Il
mondo era già cambiato e l’aveva fatto silenzioso alle loro orecchie.
Il
mondo era cambiato e l’aveva fatto per sempre.
Nda.
Non
morta anche se ho postato un mese fa.
Lo
so, sono in ritardo, ma tra una cosa e l’altra- e un esame dall’esito catastrofico-
non ero in me per poter scrivere.
Finalmente,
però, sono tornata e non intendo cedere terreno di nuovo.
….anche
se ora sono in piena preparazione per il Lucca Comics
quindi non vogliatemene se arriverò un po’ in ritardo di nuovo.
Mai
così tanto però!
Questo
capitolo è fondamentale per tre motivi: ciò che Nina vede nella prima parte, l’introduzione
alla squadra nella seconda e beh…
La
fine.
Il
mondo che cambia e non torna più lo stesso.
D’ora
in poi è bratta nera, signore e signori.
Non
mi dilungo, penso sia meglio continuare a scusarmi per il ritardo.
Ringrazio
che mi legge e chi mi recensisce, in particolare quelle dolcissime caramelline di Shinge e Auriga.
Grazie
per tutto.
Ah
si, e grazie anche a Luna per essere seduta di fronte a me, sul mio letto, nel
tentativo di finire a sua volta il suo capitolo.
Che
bello quando postiamo sincronizzate.
(muovi
il culetto e scrivi susu).
Se
qualcuno pensa di andare al Lucca Comics che mi
faccia sapere, anche in privato.
Mi
piace conoscere gente nuova v.v
Vi
linko la mia pagina di FB, che mi sono resa conto non ho mai messo in questa
storia, giusto per scrupolo:
Quando
era una bambina, Nina passava le sue giornate ad esplorare ogni singolo
anfratto della corte di casa. Crescendo, iniziò a percepire soffocanti quelle
pareti domestiche, al punto che prese ad avventurarsi di qualche passo- sempre uno in più- lungo la via che
conduceva verso il forno di suo padre. Non era mai sola però; Rielke non abbandonava mai il suo fianco e, essendole
coetaneo ma di qualche mese più giovane, le si aggrappava al braccio destro
piagnucolante, sostenendo ogni volta che avrebbero pagato le conseguenze di
quella fuga una volta fatto ritorno.
E
succedeva. Ogni volta.
Non
vi era avventura che non veniva sventata da sua madre o da Alma. I due bambini
venivano puntualmente puniti, messi in castigo nelle loro stanze, rimproverati
perché era un mondo pericoloso, quello che si ergeva al di là del loro
giardino. Quel cancello nero in ferro battuto, per Nina, aveva rappresentato la
prima barriera, seguita poi dalle Mura, ed esso pareva esser stato posto ad hoc per nasconderle la vista del
mondo. Quel muro, alto circa due metri e mezzo in mattoni rossi e calce era una
sfida di fronte alla quale, quella bambina dagli occhi grandi e liquidi e i
capelli perennemente arruffati, non aveva intenzione di chinare il capo.
Adelaide,
infatti, non era mai riuscita a scoraggiarla, mentre suo padre aveva sempre
commentato con un certo divertimento che Nina era sufficientemente furba da
farla franca con sua madre, di conseguenza lo era anche abbastanza per tornare
a casa.
Quando
si sentì grande a sufficienza, Nina iniziò a percorrere il marciapiede in senso
opposto, sempre più lontano dal forno e dalla palazzina dei Müller,
lontano dal centro del distretto e verso i cancelli che conducevano all’interno
del muro Sina.
Lì,
al limitare del terreno edificato, sorgeva un piccolo cimitero dalle cappelle
fatiscenti. Sarebbe potuto sembrare abbandonato, un po’ per le date incise
sulle lapidi rovinate dalle intemperie, un po’ per il contesto grigio che
l’avvolgeva, se non fosse stato per la cura con cui veniva trattato. Artefice
di quel lavoro era un uomo, cieco da un occhio, che spaventava i bambini
curiosi che si accalcavano attorno al cancelletto arrugginito o cercavano di
spiare, oltre il limitare della siepe bassa, quello che ormai era divenuto il
protagonista di racconti e prove di coraggio.
Tutti
lo temevano, eccetto Nina.
Lei
l’aveva avvicinato incuriosita e dal loro primo incontro, lui le aveva sempre
regalato qualcosa. Non di materiale, no.
Storie,
racconti di paesi lontani, dalla parte opposta delle mura e viaggi lunghi e
straordinari, da nord a sud.
Aveva
vissuto una vita piena, quell’uomo che mai aveva rivelato il suo nome, eppur si
sentiva così solo da cercare un po’ di consolazione nelle sue conversazioni con
una bambina di otto anni.
Una
volta, mentre raccoglieva insieme a lui le foglie cadute dei faggi, poco prima
di veder arrivare sua madre con un diavolo per capello, lui le disse una frase
che sarebbe rimasta per sempre indelebile nella sua memoria. Essa fu una
risposta semplice, eppur efficace, al perché lavorasse come becchino dopo tutte
le cose che aveva visto.
“Gli esseri umani si distinguono dagli
animali per la cura con la quale seppelliscono i loro morti, giovane signorina.
L’aver un cuore porta ognuno di noi a riservare un trattamento speciale a
questi involucri vuoti e insensibili. Perché lo facciamo? Perché abbiamo amato
e non possiamo smettere di farlo anche quando tutto è finito.”
Non
aveva più incontrato quell’uomo, né aveva avuto modo di sapere la sua sorte.
Quell’insegnamento,
però, se lo sarebbe portato con sé per sempre.
Un
insegnamento che, alla luce di ciò che aveva visto, non poteva che tornarle
alla mente.
Non
poteva smettere di riflettere sul fatto che, meccanicamente, Drei stesse
cercando di dare una degna sepoltura a Eins. Aveva continuato a solcare il terreno fino a distruggersi
le mani, sotto agli occhi attoniti della legionaria, emettendo versi disumani e
colmi di dolore, fino a che del mostro riverso al suo fianco non era rimasto più
nulla.
A
quel punto si era immobilizzato, senza dar segno di voler esternare alcuna
emozione e s’era alzato, barcollando per la piana come un’anima in cerca di una
compagnia affine, costringendo Nina a scendere da quel tetto e tornare in sé.
Non
aveva riportato nemmeno una riga dell’accaduto sul suo quaderno.
Non
avrebbe saputo come farlo e poi, senza dubbio, non avrebbe cancellato dalla
mente nemmeno un dettaglio dell’accaduto. Era quindi superfluo.
Cosa
avrebbe dovuto pensare? Che conclusioni trarne?
Drei non era un anomalo, anzi. I suoi atteggiamenti erano
sempre rientrati nei parametri di norma che aveva studiato in accademia e poi
osservato sul campo; non era particolarmente curioso, né si avventurava troppo
vicino alla borgata.
Quindi?
Cosa pensare?
Nina
non poteva pensare che ciò che aveva visto fosse l’esternazione di un
sentimento forte quale il dolore. Non poteva farlo perché ciò avrebbe indicato
che i giganti potevano provare dei sentimenti. Ciò avrebbe comportato una serie
di complicazioni e domande sul piano morale, alle quali lei non voleva pensare
nemmeno per un istante.
I giganti sono mostri.
I giganti mangiano le persone.
E
loro dovevano capire la loro origine per poterli annientare tutti.
Se
da una parte c’erano questi pensieri a levarle il sonno, dall’altra c’era
invece la testimonianza di Daniele Vitalevi. Non
c’era molto da dire, perché lei non era una linguista e la maggior parte del
trattato era pieno di tecnicismi filologici che lei poteva capire solo parzialmente.
Sul piano storico, invece, era tutta un’altra musica.
Qualche
paragrafo illustrava la condizione di quello che Vitalevi
chiamavano l’Impero Germanico durante
una serie di guerre di conquista lunghe e deterioranti contro gli Stati Iberici e Franchi Uniti. Parlava
della vittoria del medesimo sul Regno
d’Italia e della sua annessione all’Impero.
L’esigenza di una lingua comune – quella parlata all’interno delle Mura, la loro lingua- era diventata impellente
proprio per permettere a coloro che vivevano sui terrori occupati di comprendere
il volere dei nuovi dominatori.
Nell’ultimo
capitolo c’era una sorta di premonizione dell’autore circa le battaglie in
corso a lui contemporanee con il Regno
Unito, nella quale Vitalevi spiegava il grande
contributo che i territori britannici avrebbero portato all’Impero, soprattutto in vista
dell’epilogo della guerra. Nel brano si parlava anche di un progetto
scientifico portato avanti per l’utilizzo di nuove armi e attrezzature
belliche, ma il tutto era stato velatamente celato dietro a frasi vaghe.
Purtroppo,
lo scrittore per quanto zelante, dava tutto per scontato, come se il lettore
avesse già di per sé un quadro storico completo e quel trattato dovesse solo
spiegare i motivi per cui si era vista necessaria una lingua e, in modo
particolare, come essa era stata creata. Nina era arrivata alla conclusione che
quelle dovevano essere le civiltà a loro precedenti; prima delle Mura e della
venuta dei giganti esistevano tanti popoli in guerra fra loro e quello era un
dato di fatto.
Come
poteva dirlo? Le Mura non erano mai citate. Nemmeno una volta.
Non
vi era menzione nemmeno dei giganti. Si parlava di armi, soldati e
stanziamenti.
Porzioni
di mondo così ampie da sembrare sconfinate.
Un
mondo libero da ogni barriera, eppure grigio e distrutto dalle guerre
logoranti.
Un Paradiso.
Quando
arrivò all’ultima pagina, Nina lesse che essa si concludeva con la citazione di
una poesia di un tale IlyaWelleröither,
in una sorta di augurio alla pace, in mezzo a così tante considerazioni sulla
guerra;
‘La vita è oggi, la sola vita di cui noi
possiamo essere certi.
Vivi cercando di goderne al massimo
delle tue possibilità’.
Seduta
sulla solita staccionata, con il modulo ancorato ai fianchi e una mela nella
mano, Nina guardava il sole tramontare lontano riflettendo su quella frase che,
ad un occhio superficiale, sembrava quasi inopportuna.
Un
saggio così elaborato non avrebbe dovuto lasciarsi andare a certi sentimentalismi,
ma nelle note scritte qua e là a mano fra le pagine – che lei aveva intuito
essere dell’autore stesso- le avevano fatto comprendere che dietro a tanto
lavoro c’era anche l’esigenza di appartenere a qualcosa.
Lei
aveva sentito quel bisogno spesso, nella sua vita. Daniele non doveva essere da
meno.
Staccò
con un morso un pezzo del frutto, sgranocchiandolo pensierosa, prima di notare
con la coda dell’occhio che non era più sola. Con passo un po’ tentennante e
per niente fiducioso, il cavallo che tanto le aveva dato pena nei giorni
precedenti le si era accostato, annusandole rumorosamente i capelli e la
spalla, attirato probabilmente dall’odore del frutto.
Lei
lo guardò quasi divertita girarle attorno, allontanandosi solo per sorpassare
la recinzione che si apriva qualche metro alla sua destra, notando anche che
era una cavalla.
“Non
mi dirai che dopo avermi presa in giro, vuoi anche da mangiare” le disse,
spostando la mano che reggeva l’oggetto di interesse, facendo sbuffare l’equino
che alzò di poco il capo, tirando indietro le orecchie. A Nina sfuggì una
leggera risata di fronte a un nitrito risentito, forse sentendo addirittura il
bisogno concreto di avere attorno un essere vivo che potesse a modo suo
comunicarle qualcosa.
Qualsiasi
cosa.
Era
troppo tempo che se ne stava lì fuori da sola.
“D’accordo,
hai vinto” disse alla cavalla, avvicinandole la mela e lasciando che lei
iniziasse a morderla avidamente, ma senza strappargliela dal palmo. La giovane
alzò una mano, accarezzandole il crine biondo annodato sulla fronte, prima di
appoggiare si afferrare la testiera rotta, sfilandogliela dal muso per
liberarla.
Quando
finì di mangiare, la bestia non diede più nessun segno di interesse e si
allontanò con pacata indifferenza, brucando un po’ l’erba di fronte a Nina,
quasi come se anche lei cercasse un poco di compagnia.
Per
poco, perché poi fu presa da un guizzo di vitalità che la portò a correre via,
verso il campo.
Nina
sorrise a quella scena, che rievocava in lei l’immagine più pura della libertà.
Forse
era giusto che quella cavalla rimanesse libera, chissà quante cose orribili
aveva visto servendo per la Legione. Meritava quei pascoli e quel
silenzio.
Con
un saltello, scese dalla staccionata, tenendo in mano la testiera. Decisa a
buttarla dietro a un cespuglio, le dedicò un’occhiata rapida. Doveva essere
viola, un tempo, ma ormai era sbiadita. Nonostante ciò notò qualcosa nel
rivestimento interno.
Ricamato
in modo goffo, con i punti storti e irregolari di un giallo paglierino appena
visibile, c’era un nome.
Lola.
Possibile
che fosse il nome del cavallo?
“Questo
sì che è strano…”
Da
quando era costume fra i soldati ricamare le testiere?
E
se non fosse stata un cavallo della Legione? Impossibile.
Da
quale altro luogo sarebbe potuta venire, se non dalle Mura?
Domande.
Solo
domande a causarle una brutta emicrania e così tanti dubbi da levarle il sonno
per mesi.
Si
sentiva frustrata dall’assenza di risposte.
Ogni
giorno un nuovo mistero si palesava.
Fino
che punto sarebbe arrivata a confondersi?
Whethernearorfar
I am alwaysyours Anychange in time Weareyoungagain
Lay us down We're
in love
Anno 845
Giorni immediatamente
successivi alla più grande sconfitta che l’umanità ha subito.
Il crollo del Muro Maria e la perdita delle terre interne alla prima cerchia.
Le
grida, le lacrime e il panico lo investirono intaccando i suoi nervi messi già
a dura prova, mentre con le mani tremolanti cercava di tener stretti i comandi
del modulo per lo spostamento tridimensionale. I civili correvano persi attorno
a lui, cercando di raggiungere il più velocemente possibile le porte di Trost, a qualche miglia verso nord rispetto al punto in cui
lui e i pochi cadetti rimasti si trovavano.
Non
era pronto a tutto ciò.
Doveva
ancora completare il terzo anno di accademia, mancavano ancora un paio di
settimane, eppure quel battesimo del fuoco gli era stato imposto impietosamente
dalla Sorte e lui non aveva avuto modo di sottrarsi agli ordini diretti dei
capitani della Guarnigione. Il muro Maria era caduto ormai da un giorno e
mezzo, eppure l’opera di sgombro delle terre perdute non era ancora terminata
ma anzi, procedeva sempre più a rilento. I villaggi posti a distanza rispetto i
distretti erano ancora in parte popolati da coloro che, seppur spaventati,
faticavano ad entrare nell’ottica che quelle case ora non gli appartenevano
più.
Erano
dei giganti e nessuno poteva porvi rimedio, nemmeno l’esercito intero o il re
in persona.
Il
pensiero di dover rinunciare alla propria vita, di doversi piegare di nuovo
alla differenza schiacciante di forza che quei mostri avevano rispetto al
genere umano era di certo la realizzazione più terrificante.
Impotenti,
gli uomini non potevano far nulla se non scappare e cercare di sopravvivere,
braccati come animali.
I
soldati non riuscivano a contenere il panico che serpeggiava fra le loro file,
figurarsi quello lacerante della popolazione civile. Gli ordini arrivavano
frammentari, poiché chi doveva detenere il potere non riusciva a far fronte a
quel gran dispiegamento di risorse umane. Il territorio su cui erano
distribuiti era troppo ampio e ciò rendeva ancor più artificiose le
comunicazioni. La Guarnigione e la Legione si alternavano in un costante
avanzamento verso l’area da cui tutto aveva avuto origine, ovvero il distretto
di Shigashina.
A
quanto dicevano le voci, un solo gruppo però era riuscito ad arrivare
abbastanza avanti da sparire completamente dal raggio di diffusione delle notizie:
la Squadra Uno della Legione esplorativa, sotto le direttive di un soldato
semplice di nome Levi, noto fra i militari perché aveva la fama d’essere
invincibile già a quel tempo.
Loro
non potevano ambire a così tanto.
Sarebbero
stati fortunati a tornare a casa a fine giornata.
“Dobbiamo
muoverci, rimanere fermi qui è un suicidio.”
Kaithen era
atterrato a pochi metri da lui, sistemando i comandi del movimento nelle
fondine, con lo sguardo perso di chi non sa cosa fare, ma allo stesso tempo è
consapevole di non poter rimanere fermo con le mani in mano.
Lui
l’aveva guardato in tralice, “Lutz e Claymore?” chiese con tono basso e dimesso, tenendo già la
risposta. Essa non arrivò, sostituita da una negazione fatta col capo e gli
occhi ben piantati sul pavimento.
Erano
rimasti in due su una squadra di dodici reclute. Il loro leader era stato il primo
a morire, divorato. Degli altri quattro, lui non sapeva nulla, solo che erano
caduti per combattere una guerra che nemmeno gli esperti sapevano come vincere.
“Ripieghiamo, allora.”
Non
avevano più i cavalli.
Avevano
peccato di presunzione, attaccando due giganti che incombevano su un gruppo di
civili in fuga e non solo ci avevano rimesso in vite dei compagni, ma non
s’erano nemmeno curati delle loro cavalcature, probabilmente rubate da qualche
persona disperata in cerca di una fuga più veloce, o magari scappati a causa
della gran confusione attorno a loro.
Nemmeno
il destriero più addestrato poteva far fronte a quel caos. Persino loro, che di
raziocinio dovevano averne per forza, non potevano impedire alle loro ginocchia
di tremare e tremare ancora.
L’odore
della paura era così intenso da coprire quello del sangue e loro ne erano
impregnati.
Avevano
chinato il capo, iniziando la loro lunga marcia verso nord, al seguito dei
carri e dei civili che in massa muovevano verso la salvezza delle Mura. Lui, in
prima persona, si era sentito impotente di fronte a quei volti sconsolati,
atterriti quanto il suo. Si era sentito inutile, come se quegli anni in
accademia non l’avessero preparato abbastanza per poter essere utile.
Si
era ritrovato catapultato in quel mondo all’improvviso, si sentiva intorpidito
e incredulo, come dopo il brusco risveglio da un incubo. Quello però non era un
sogno e, se lo fosse stato, si sarebbe ritrovato ancora lontano dal poter
riaprire gli occhi.
“Un
gigante! Corre verso di no!”
“Moriremo!”
Le
persone ripresero a correre spaventate attorno a lui, scansandolo e urtandolo, facendo
ricadere sulle sue spalle l’onere di
dover fare il suo dovere, seppur con meno gas che esperienza. Strinse i comandi
fra le mani e gliene sfuggì uno mentre accanto a sé sentiva Kaithen
pregare le Dee delle Mura di risparmiarli.
Forse
dovevano averli ascoltati perché, mentre lui stava ancora raccogliendo
goffamente il comando, una figura si contrappose al sole, arrivando da non si
sa dove e abbattendo quel gigante con un unico taglio netto alla collottola. Il
tonfo fu forte e la polvere che si sollevò gli impedì di vedere bene per
qualche interminabile secondo.
Quando
il polverone si diradò, in piedi accanto a quella carcassa che stava man mano
svanendo in un intenso fumo grigio, c’era una figura magra, aggraziata. Stava
sistemando le lame al loro posto, senza staccarle dal comando direzionale
mentre, sulle sue spalle sventolava una mantella. Le Ali della Libertà.
“La
Legione” sussurrò con un fil di voce Kaithen, “Siamo
salvi! Per le Mura, siamo salvi!”
Lui
però non aveva nemmeno un fiato da esalare. Pietrificato, mise meglio a fuoco
la salvezza, notando una treccia di lunghi capelli biondi caderle sulla
schiena. Lo scalpitio dei cavalli arrivò alle sue orecchie immediatamente dopo
e nel suo campo visivo apparvero altri legionari.
Una
donna si avvicinò alla giovane che aveva schiantato il gigante, porgendole le
briglie di un destriero dal manto marroncino, mentre un altro dai lunghi
capelli rossi conduceva un carretto sul quale sedeva un quarto uomo dai capelli
argentati e gli occhi pervinca.
“Il
campo base è stato spostato oltre la collina.”
“Lo
so, Nifa. Andate là e dite ad Hanji
che io ho scelto di avanzare. Devo provare a raggiungere Levi, è partito da un
paio di ore e non possono essere andati molto lontani.”
L’uomo
sul carro prese la parola “Non puoi andare da sola” pregò la bionda con tono
supplice, mentre questa prendeva due bombole che l’ometto argentato le stava
porgendo senza opporsi, contrariamente ai colleghi.
Lei
le sostituì, notando solo in quel momento le due reclute “Non andrò sola”
concluse, facendosi lasciare altro gas. “Ora andate, il paese di Pertz è qui vicino e a quanto ho sentito dire
dall’avanguardia della Guarnigione non hanno ancora iniziato le evacuazioni. Ci
sarà bisogno di tutti i legionari possibili. Io starò bene, lasciatemi un
cavallo in più e farò tutto ciò che devo per trovare mio fratello.”
“Pascal,
dille qualcosa tu.” La piccola donna che si chiamava Nifa
non scese da cavallo, limitandosi a guardare la collega contrita.
L’uomo
sul retro del carro parve pensarci “Considerando la capacità tecnica di Nina e
la sua resistenza fisica, ha circa il quarantacinque per cento di possibilità
di arrivare viva a Shigashina. È comunque il doppio
rispetto alle nostre aspettative di sopravvivere alla fine della giornata.”
“Consolante.”
“Fabian, Nifa. Starò bene. Ho
bisogno però che voi andiate ora, riportate ad Hanji
ciò che vi ho detto.” Non attese di vederli rimettersi in marcia. Prese le
quattro bombole legate fra loro con una mano e le briglie delle due bestie con
l’altra e si avviò verso le due reclute, portando gli oggetti senza la minima
fatica. “State bene?” domandò, guardandoli scattare entrambi sull’attenti, come
risvegliati da un torpore all’improvviso. Depose le bombole di fronte ai due
giovani.
“Kaithen Hess, ottava squadra delnovantanovesimo corpo di addestramento
reclute” recitò il morettino dalla pelle olivastra, sciorinando quelle parole
con lo sguardo falsamente sicuro e la mano ben strettaa pugno sul petto. Non sentendo la voce del
compagno, si affrettò di aggiungere “Lui è OluoBossard.”
L’ufficiale
li guardò attentamente, prima di far segno loro di mettersi a riposo “Io sono
il sergente Nina Müller della Legione esplorativa e
sto per farvi una domanda molto semplice” passò lo sguardo nel loro. Oluo notò subito che aveva gli occhi diversi e, non appena
lo realizzò, avvampò, scostando subito i suoi sul manto erboso. “Sto andando a
sud e avere un paio di mani in più potrebbe servirmi. Non vi costringerò a
farlo, quindi scegliete se tornare indietro con questo cavallo o avanzare con
me.”
I
due giovani si scambiarono uno sguardo.
Poteva
sembrare un azzardo, ma anche rischiare di tornare e abbandonare un ufficiale
non era saggio.
Si
munirono così di coraggio, afferrando le
briglie del cavallo subito dopo aver sostituito le bombole con quelle piene.
Oluo non
riusciva a muoversi né a parlare. Tutto ciò che poteva fare era fissare con gli
occhi spiritati quel poco che rimaneva di Kaithen, un
braccio e una porzione di spalla, caduti dalle fauci del gigante che ora stava
dissolvendosi a pochi metri da lui.
Di
tanto in tanto alternava quella macabra visione a quella del sergente Müller, seduta su una radice d’albero e circondata da garze
sporche del suo stesso sangue, mentre cercava inutilmente di medicarsi la gamba
solcata da un lungo taglio.
Era
successo tutto così in fretta da rendergli impossibile la comprensione di come
erano arrivati a quel punto, soli in mezzo al nulla, con un solo cavallo e con
il soldato più abile fra i due ora privo dell’attrezzatura per combattere.
Non
era andata bene per niente.
Avevano
compiuto poche miglia quando due di quei mostri erano apparsi sulla loro
strada, sbucando dal bosco e cogliendoli impreparati. Il più rapido aveva afferrato
il cavallo del sergente nel tentativo di divorare la donna e uccidendo sul
colpo l’animale, prima di venire abbattuto dalla bionda che s’era alzata a mezz’aria
appena in tempo per schivare l’enorme mano. L’altro, invece, era stata premura
dei due cadetti. Oluo era riuscito a scendere da
cavallo, trovando appoggio su un albero alto, mentre l’amico si batteva,
colpendo la collottola del mostro ma non riuscendo a reciderla. Il sergente,
venuta in soccorso del ragazzo, si era scontrata con lui e Kaithen,
che brandiva in modo errato le lame, l’aveva ferita, aprendole il taglio sulla
coscia.
Mosso
da qualche strano istinto di sopravvivenza, Oluo
aveva agito. Aveva abbattuto il gigante con un colpo secco, pulito, come mai
era riuscito a fare con i fantocci durante l’addestramento.
A grandi
linee, questo era ciò che il ragazzo riusciva a ricordare, ma fra un’immagine e
l’altra intercorreva un oceano di domande. Come ci era riuscito? Ad esempio.
“Ti
devo la vita.”
Oluo la
guardò, come se l’ufficiale avesse appena detto di aver visto piovere rane poco
più a nord “…Cosa?”
“Mi
hai salvata, Bossard” ricantò lei, prendendo la
borraccia e versandovi dentro delle erbe triturate, depurative, al fine di
disinfettare il taglio “Se non ci fossi stato tu a prendermi, sarei sicuramente
morta nella caduta.”
Aveva
fatto anche questo?
“Non
so cosa sto facendo” la voce uscì più alta di qualche ottava, seppur appena
sussurrata. Negli occhi aveva ancora lo stesso terrore di prima, come se quella
miserabile vittoria personale si fosse rivelata del tutto ininfluente per lui “Non
so cosa fare, sono morti tutti. Sono morti tutti.”
Nina
abbassò lo sguardo sull’arto leso, prima di sospirare piano. Cosa bisogna dire
ai cadetti che vedono per la prima volta la morte negli occhi?
“Il
tuo amico non era pronto” iniziò, cercando di mantenere un tono morbido, da
madre, mentre versava un po’ di liquido su una garza. Prese a tamponare piano
la linea lunga della ferita, che arrivava sin quasi all’attaccatura della gamba
col busto, estendendosi da pochi centimetri sopra al ginocchio. Fortuna che non
era profonda o l’avrebbe uccisa “Era determinato, magari. Però non era pronto. Non
sapeva impugnare bene le lame e ora io ho le cinghie rotte e non posso più
usare il modulo per lo spostamento e quindi combattere. Tu, invece, non sei
determinato affatto, ma quel colpo non è stato niente male” gli sorrise, un po’
pallidamente a causa del male e della ben poco consolante situazione nella
quale si trovavano, ma riuscendo a farlo sentire un po’ meglio “La paura ti
tiene vivo, Bossard. In qualsiasi corpo finirai - perché
oggi tu tornerai a casa- ricordati
sempre di cosa è successo qui fuori. Non sottovalutare le tue potenzialità, sei
una recluta, sai cosa fare in situazioni di pericolo molto meglio di me, che
dell’addestramento ricordo poco o nulla.”
Una
folata di vento spettinò i capelli riccioluti di Oluo,
spostandoli sulle spalle. Quella donna era forse la persona più forte che
avesse mai incontrato. Aveva detto di essere la sorella del nuovo Comandante
della ricognitiva e che stava cercando in ogni modo di raggiungerlo. La paura e
l’orrore dovevano paralizzarla nel saperla lontana da lui, senza sue notizie
dal crollo del Muro Maria, eppure manteneva la calma e il sangue freddo. Perdeva
addirittura del tempo a consolare un miserabile come lui.
Doveva
rimettere insieme se stesso e aiutarla, perché lei poteva anche essere stata
salvata da lui, ma Oluo grazie a lei aveva forse
compreso quale sarebbe dovuto essere il suo posto.
“Cosa
posso fare per essere utile?”
Nina
ci pensò su, guardandosi attorno per capire le poche risorse che avevano con
loro. Appoggiò l’ennesima garza inutilizzabile a terra, adocchiando il
boschetto alla sua destra. Per quanto quel piano non le piacesse per niente,
non aveva alternative.
“Non
possiamo rimanere fermi allo scoperto” gli disse infine, “Tu devi prendere il
cavallo e andartene. Presto, coloro che sono stati sfollati dai villaggi ad est
passeranno di qua e io posso chiedere un passaggio su un carro.”
“Lasciarla
qui, sergente?” lui non parve affatto convinto “Non posso. Possiamo salire sul
cavallo insieme.”
Se
aveva retto lui e Kaithen, poteva anche reggere la
figura sottile della giovane donna.
“Non
posso né cavalcare né camminare” rispose subito lei, non curante, prendendo in
mano un coltello e recidendo le cinghie che penzolavano rotte sul fianco. Tagliò
anche il pantalone attorno alla ferita, buttando a terra la stoffa bianca
impregnata di sangue e terra, “In queste condizioni, posso solo nascondermi. Non
sarò un peso per te, devi tornare immediatamente in città, ma prima aiutami a
mettermi fra quelle fronde.”
“Allora
porterò dei soccorsi.”
Il
bosco l’avrebbe protetta alla vista dei giganti, ma sarebbe stata comunque in
grado di uscirvi da sola una volta applicati dei punti di sutura. Oluo la depose contro a una quercia, andando poi a prendere
il modulo e le provviste mediche per appoggiarle accanto a lei.
“Fa
attenzione” gli disse Nina, appoggiandogli una mano sulla spalla mentre lui si
inginocchiava di fronte a lei, promettendole nuovamente che sarebbe tornato con
qualcuno “Non sprecar tempo a combattere, cerca di seminarli. Nel caso dovesse
succedere, però, cerca di rimanere vicino agli alberi, non cavalcare nelle
piane a meno che non sia strettamente necessario. Prendi le mie lame e i razzi
di segnalazione. Cerca di riunirti a un’unità.”
Oluo fece
come gli venne detto, guardando il volto del sergente un’ultima volta prima di
alzarsi, marciando verso il cavallo. Nina lo guardò andar via, prima di appoggiare
pesantemente il capo contro la corteccia dell’albero. Chiuse gli occhi,
portando una mano alla tempia e lasciando andare quel ringhio di frustrazione e
disperazione che aveva incamerato dentro al petto sino al quel momento.
Poi
disse la sola cosa che, ne era certa, le avrebbe detto anche Levi.
“Merda.
Sono fottuta.”
Applicarsi
così tanti punti da sola aveva richiesto un impegno non indifferente. Il dolore
era forte e Nina sapeva di non potersi permettere il lusso di un anestetico, in
primo luogo perché non avrebbe portato a termine il lavoro e poi perché doveva
rimanere lucida e presente.
Quelle
ora erano le terre dei giganti. Non era al sicuro, nemmeno un po’.
La
buona volontà però venne meno quando, una volta fasciata con le poche bende che
le erano rimaste la gamba, si sentì intorpidita dal dolore. Fu come se tanti
piccoli aghi si fossero annidati sotto pelle, ferendola ad ogni movimento,
mentre le palpebre, troppo pesanti per rimanere aperte minacciavano di farla
cadere addormentata.
Visse
per tanto in uno stato di dormiveglia, perennemente in allerta, ma non lucida,
per diverse ore.
Il
sole si era spostato parecchio in cielo quando riuscì a ritornare padrona del
suo corpo. Spiò la luce oltre le frasche degli alberi, chiedendosi perché non
era ancora passato nessuno o perché Oluo non era
ancora tornato. Forse l’avevano trattenuto alle Mura Rose, avevano chiuso le
porte e quindi ormai il problema era solo suo.
Per
quanto potesse essere deprimente, quella era una constatazione ovvia. Logica.
Si
mise seduta diritta, avvertendo uno spostamento attorno a sé. Qualcuno si stava
addentrando nel boschetto, seguito da sonori passi che rimbombavano per la
piana, facendo tremare la terra.
Nina
aveva già preso in mano la spada del modulo che le giaceva accanto, quando da
dietro un rovo di bacche di rosa canina, graffiato sul viso e sulle braccia
dalle spine, apparve un bambino. Lui non si aspettava di trovare qualcuno sul
suo cammino e la sorpresa fu tanto grande che, una volta incontrato lo sguardo
di Nina, cadde a carponi sull’erba, mettendo un piede in fallo. Nina sentì un
tuffo al cuore quando i suoi occhi affondarono in quelli del piccolo; all’interno
di quelle iridi castane, calde, non c’era nulla se non l’orrore a cui essi
dovevano aver assistito. La paura. L’abbandono.
I passi,
però, non cessarono di riecheggiare.
La
giovane donna spiò attraverso i rami, constatando che sì, c’era un gigante, ma
se fossero rimasti in silenzio sarebbe andato tutto bene. La vegetazione era
fitta a sufficienza da nasconderli. Per scrupolo, si schiacciò di più contro il
tronco dell’albero, laddove esso incontrava un cespuglio di ginepro. L’odore
delle bacche mature li avrebbe coperti.
Allungò
una mano verso il bambino, sollevando l’altra per appoggiare un dito alle
labbra, chiedendogli di rimanere in silenzio. Lui tentennò poi, a fatica, si
alzò sulle gambe tremolanti. Si strinse al petto di Nina, mozzandole il fiato
in gola quando le si sedette di peso sulla gamba ferita. Lo strinse a sé
ugualmente, appoggiandogli sulle spalle la mantella verde e nascondendogli così
la vista del gigante, che ora si vedeva ancor meglio fra capolino in alto, sui
loro capi. Alzò il cappuccio sulla testa castana del bambino, appoggiandovi poi
sopra la mano e attendendo.
Qualcosa
attirò l’attenzione del mostro dopo diversi minuti di atmosfera tesa, perché questi
si voltò rapidamente, allontanandosi da loro. Quando i passi furono sufficientemente
lontani, Nina sospirò, rilassando le spalle.
Solo
allora si rese conto che quel bambino non solo stringeva le mani piccole
attorno alla sua giacca di rappresentanza come se temesse che venir portato via
dal vento. Aveva iniziato a piangere silenziosamente, con gli occhi sgranati
piantati sul manto erboso.
Nina
cercò di non essere opprimente mentre faceva delle domande a quel bambino,
venuto da chissà dove, ma insistette abbastanza da strappargli il suo nome: Mathias.
Non
disse molto altro, ma fece intendere che la sua famiglia non c’era più. Ogni volta
che lei chiedeva se fosse sopravvissuto qualcuno, nel suo villaggio, lui
scuoteva il capo, stringendo le ginocchia contro il petto e rimanendo
sprofondato in quel silenzio dettato dal trauma subito. Alla ragazza non ci
volle molto per capire cosa doveva essere successo: il suo villaggio era stato
spazzato via per interno e lui aveva visto la sua famiglia morire.
“Quanti
anni hai, piccolo?”
Con
la mano, Nina andò a parare via un ricciolo castano che gli ricadeva sulla
fronte mollemente, ottenendo come solo risultato quello di farsi nuovamente
abbracciare. Lei non si tirò indietro, sorridendogli con calore, per cercare di
metterlo a suo agio. Di farlo sentire sicuro.
“Puoi
parlare con me. Non permetterò ai mostri di farti male.”
“Nove.”
Sarebbe
cresciuto con il peso di essere sopravvissuto alle persone che amava. Con quelle immagini negli occhi…
Passò
il braccio attorno alle sue spalle, stringendolo piano a sé “Sai, tu mi ricordi
tanto un mio amico.”
Fu
solo al termine della frase che Nina realizzò.
Fritz
era a Briemer.
Rimase
ammutolita, prima di ricordare che, se tutto era andato come le aveva
raccontato nell’ultima lettera che si erano scambiati, un mese prima, l’amico
di infanzia aveva fatto già il suo ritorno a Nedlay. Confondeva
le date, in quel momento la sua provvidenziale memoria faceva un po’ acqua, ma
aveva come il sentore che stava tralasciando qualcosa.
In
ogni caso, anche se si fosse trovato a Briemer, Nina
era certa che tutti i distretti erano in fase di evacuazione così come i
villaggi.
“Il
signor Herikson era della Legione.” La voce del bambino
la riportò alla realtà, sottraendola a quella preoccupazioni asfissianti. Abbassò
gli occhi e vide che Mathias stava guardando con
determinazioni le Ali della Libertà, cucite sul taschino della giacca, “Ha
cercato di salvare la mia mamma e mia sorella.”
L’epilogo
della storia non doveva essere positivo, se il bambino era giunto fino a lei da
solo. lo strinse meglio, baciandolo sui capelli “Dobbiamo tornare alle Mura”
sussurrò poi “Sento delle voci, qualcuno si avvicina.”
Ed
era così. Mathias uscì dal boschetto circospetto, per
poi tornare da lei dicendole che una carovana di persone stava attraversando la
campagna, verso nord. La aiutò come poteva, prima di uscire dalla vegetazione
andando incontro a quel gruppo di indigenti dai volti stanchi e spaventati.
Una
volta al limitare del bosco, Nina si appoggiò a un albero, “Non lasciare la mia
mano.”
Lui
annuì velocemente, stringendosi addosso la mantella e chiudendo la mano piccola
attorno alle dita lunghe del soldato.
L’avrebbe
portato in città, ma poi?
Guardare
quella folla incidere verso Trost, appesantita dalla
paura e dalla consapevolezza che avevano perso tutto le fece comprendere che,
per Mathias così come per lei, forse non esisteva un
futuro.
Era
caduto con Maria.
La pioggia aveva preso a
cadere fina, imperlandole i capelli e decorandoli con lucenti goccioline di
condensa, che riflettevano la luce del cielo alla volta del tramonto.
S’era messa seduta sul
carretto, ringraziando nuovamente con un sorriso una bella donna di mezza età
che, dopo aver pregato il marito di aiutare lei e Mathias,
aveva fatto spazio fra i loro pochi averi per offrire loro un passaggio fino a Trost. Il bambino seduto accanto a lei fissava con gli
occhi sgranati le assi di legno, immobile, di nuovo chiuso nel suo mutismo.
Pareva che non respirasse nemmeno. Il solo momento in cui lo vide alzare gli occhi
fu quando, finalmente, attraversarono la galleria di accesso della saracinesca,
ritornando al sicuro, nelle Mura Rose. Vennero fatti sistemare di lato al
grande spiazzo che dava sulla via fluviale. Nina aveva atteso che il carro
arrestasse il suo lento andare, prima di farsi forza, alzandosi in ginocchio e
poi in piedi, saltando giù da quel mezzo di fortuna, ma solo dopo essersi
guardava bene attorno, nella moltitudine degli esuli.
Accalcati e relegati fuori
dalle file delle vie che si perdevano in un dedalo difficile da districare all’interno
dell’intera cittadina, coloro che avevano perso tutto non avevano avuto nemmeno
la premura di un alloggio di fortuna. Sedevano in terra, appoggiati ai loro
carri e stretti alle loro famiglie.
Ormai tutto ciò che rimaneva a
quelle persone era la vita stessa, infame e crudele, così come il Fato l’aveva
destinata loro.
C’erano soldati e civili feriti
ovunque, come tanti garofani in fiore, sbocciavano rossi sul corpo o sul capo.
Aveva continuato a cercare un volto amico, fino a che il suo sguardo non s’era
incatenato ad un paio di iridi di un verde smeraldino così preziose da parer
finte. Seduto fra due coetanei, un bambino la fissava in muto silenzio. L’aveva
già visto altre volte, spesso ad accogliere la Legione decimata al ritorno alle
porte di Shigashina, ma in quel momento il suo
sguardo non brillava.
Negli occhi portava la morte
e sul pallido volto una richiesta.
Che giustizia venisse fatta.
“Rimani con me” sussurrò a Mathias, tendendogli la mano per farlo scendere dal carro,
decisa a non lasciarlo solo con gli
altri orfani. Lui non si fece pregare, trovando nel sergente Müller qualcuno a cui aggrapparsi. Qualcuno che avrebbe
potuto badare a lui, almeno in quel momento di dolore.
Sfilarono insieme fra le file
di miserabili e Nina di tanto in tanto si fermava, sentendo il polso di qualche
ferito grave e decretando il decesso di qualche meno fortunato.
“I morti vanno portati via
subito o si scateneranno delle pandemie” aveva detto a IanDeitrich, uno dei Capitani della Guarnigione della
città, quando l’aveva incontrato al limitare della zona abitata “In più,
occorre disporre con rapidità di un’infermeria. Queste persone stanno male,
vanno aiutati o la conta dei decessi accrescerà.”
Lui annuì grave, tenendo le
braccia incrociate sul petto e gli occhi sulla folla “Farò quanto in mio
potere, sergente. C’è un forno, in fondo alla via. Chiederò di farlo sgomberare
e poi ci arrangeremo con qualche tenda.”
“Grazie, Ian.”
Concluse le trattative con la
Guarnigione, a furia di vagare, riuscì anche ad incontrare un paio di volti
amici.
“Come sei arrivata fin qua?”
Mike la prese sotto braccio,
facendo sì che non si sforzasse nel camminare, mentre Nababa
lanciavano uno sguardo veloce al bambino che seguiva il medico. Appoggiò una
mano sul capo del piccolo, che però si ritrasse, schiacciandosi contro il
fianco del sergente “Levi si incazzerà”
proferì la donna alta, non riferendosi al piccolo, ma alla situazione.
“Levi si incazza sempre”
reggendosi all’amico, Nina alzò lo sguardo incontrando la pioggia, che ormai
cadeva più decisa, non può solleticando il loro volti, ma pronta a trasformarsi
in un acquazzone. Persino la natura era contro di loro “Stanno sgomberando una
bottega, poco più avanti. Aiutami a raggruppare coloro che necessitano di cure
mediche.”
Per prima cosa doveva trovare
un antidolorifico e poi sistemare Mathias su un letto
caldo.
Non avrebbe permesso di
vederlo andare via, in mezzo agli altri orfani, ad appesantirsi il cuore di
tristezza. Avrebbe fatto il possibile per tenerlo con sé, fin tanto che poteva.
Per cui gli porse la mano nuovamente, come aveva fatto sul limitare di quel
bosco, guardandolo afferrarla in fretta, senza esitazione.
Aggrappandosi ad essa e
sperando. Quel bambino le dava forza di guardare avanti e non fermarsi. Gliene diede
molta anche quando, entrando nella bottega del panettiere dove avrebbero
allestito il campo medico, adocchiò un gruppetto di legionari, seduti a qualche
metro, sull’erba di una aiola.
Erano Schäfer
e i suoi uomini, da Shigashina.
Fra loro non vide Shadis o i pochi uomini di Trost
che avevano accettato di accompagnarli nella prima missione del nuovo Comandante.
Cosa più importante, non c’era
nemmeno Erwin, né tanto meno Levi.
La pioggia aveva reso
scivoloso quel tetto, ma infondo Erwin non dava segno di volersi muovere.
I capelli, appiattiti sulla
fronte e sul capo a causa del violento acquazzone di cui era stato testimone
poco prima iniziavano già da asciugarsi, scaldati dagli ultimi raggi del sole
morente. Esso stava per scomparire, oltre le Mura, alle sue spalle.
Erwin non riusciva a vedere
altro se non la breccia di otto metri che apriva il loro mondo all’orrore della
morte. Non vedeva niente se non l’impronta marcata di quello che sentiva già
come un suo fallimento personale. Erano dentro al distretto di Shigashina mentre l’inferno si riversava in terra, ma anche
se si fossero trovati altrove, non avrebbe fatto alcuna differenza. A nulla
erano valsi i loro sforzi; i giganti avevano preso possesso della città e ora
vagavano liberi di seminare distruzione nelle terre di Maria.
Quella consapevolezza lo
teneva paralizzato lì, a quello che era diventato nient’altro che un altro terreno
in cui guardarsi le spalle, incredulo. L’osteria del Gallo d’Oro dove andavano
a bere prima di uscire in missione all’esterno, l’officina del fabbro Helchin dove facevano scorta di lame, la tessitoria nella
quale compravano metri e metri di stoffa per i teli che poi avrebbero riportato
i loro caduti…
Era tutto finito.
La città era vuota, non si
udiva più nulla, se non il rombo dei passi dei giganti e qualche grido in
lontananza.
Forse Erwin se le stava
immaginando, quelle urla. Forse gli erano rimaste impresse a fuoco nella mente
e nelle orecchie, per quante ne aveva sentite in quei due giorni.
In un breve sprazzo di
lucidità si domandò dove erano finiti gli altri. Che fossero morti tutti?
La cosa più sensata da
pensare, seppur di logico non vi fosse nulla in tutto ciò che era accaduto nelle
ultime ore, era che forse erano tornati a nord. Lui aveva esitato, era rimasto
indietro e aveva perso tempo. E loro lo avevano lasciato lì perché aveva iniziato
a fissare una voragine di otto metri chiedendosi come poterla chiudere.
Un modo doveva pur esserci,
forse Pascal poteva…
“Erwin! Dannazione!”
Uno strattone forte al
braccio gli fece perdere l’equilibrio e per poco cadde riverso sulle tegole di
mattone cotto. Di fronte a lui, bagnato da capo a piedi e con l’espressione più
esasperata che avesse mai visto, c’era Levi.
Non riuscì a dirgli nulla,
incrementando la sua irritazione “Sono cinque minuti che ti sto chiamando!”
proseguì, ingigantendo il tempo “Dobbiamo andarcene tutti e quattro! Adesso smettila
di fare l’incantato e muovi quel culo, mi sta venendo un giramento di palle da
sentire la nausea!”
Lo chiamò assente, il
Comandante, assaporando il suo nome contro il palato come se non credesse
davvero di averlo di fronte agli occhi e notando solo dopo che, alle spalle del
moro, c’erano altre due persone, che incidevano con passo stanco, malfermo,
lungo quello scivoloso cammino.
Lars e Mira avevano faticato parecchio a tenere il passo
di Levi, ma se c’era qualcuno che poteva provarci, erano senza dubbio loro due.
Facevano parte della squadra di Smith, avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui.
Anche rischiare la vita per
riportarlo a casa.
“Non posso andarmene”
sussurrò ancora il biondo, riportando gli occhi verso la breccia nelle Mura.
L’altro lo guardò, esternando
per una volta tutto ciò che pensava in un’espressione di profonda perplessità,
mista a un certo sgomento. “Non puoi?” chiese, in un soffio, mentre sentiva la
collera ribollirgli nelle vene. Fece un passo verso il superiore, zoppicando
sulla caviglia dolorante, con fare minaccioso “Permetti allora che io ti faccia
un quadro della situazione, uhm? Siamo circondati dai giganti, siamo in quattro
contro chissà quanti di quei mostri, a una mezza giornata di cavallo dal primo
luogo sicuro. E siamo senza cavalli!”
Di partenza li avevano, ma a
un certo punto combattere era diventata la priorità e li avevano persi.
Entrati nel distretto, si
erano ritrovati con poco gas alla ricerca di ciò che rimaneva del Comandante. L’averlo
trovato vivo era un autentico miracolo, ma non risolveva la situazione. In qualche
modo dovevano tornare e la situazione sembrava parecchio disperata.
“Erwin, non possiamo chiudere
quel buco. È troppo grande. Questi terreni sono persi.”
La drammatica realtà dei
fatti. Levi non si sarebbe risparmiato nemmeno un commento in merito, se ciò
serviva a spronarlo. Aveva promesso a Nina che l’avrebbe riportato, anche a
costo di stordirlo e tentare di caricarselo sulle spalle.
Non riusciva però a non
pensare che gli facesse una certa pena, con quello sguardo smarrito che non lo
rappresentava affatto. Era abituato a vederlo sprezzante, sempre sicuro di sé. Erwin
aveva un piano –morale o meno che fosse- per tutto.
Era stato preso in
contropiede e non sarebbe stato semplice riprendersi a quel punto. Doveva scendere
a compromessi con il fatto che non avrebbe potuto farci niente.
“Levi, perché sei qui?”
Il moro sbuffò. Stavano perdendo
tempo a parlare con un uomo poco cosciente. Lanciò un veloce sguardo a Lars, che ricambiò con una certa rassegnazione, prima di
rispondere “Per te” gli disse sicuro, prendendogli il polso e tirandolo con
forza verso di sé “Sono qui per te, grosso stronzo. Ora muoviti. Fissare quel
buco per tutto il cazzo di giorno non servirà a un bel niente e io inizio ad
avere fame.”
“Sta per fare buio, possiamo
sfruttare a nostro vantaggio la notte e spostarci più a nord possibile” si
intromise Mira, stringendo meglio la valvola del gas come per assicurarsi di
non avere perdite. Nella sua voce non c’era l’urgenza di Levi, ma più una nota
dolce e quasi materna. Si avvicinò, appoggiando una mano sulla spalla del
Comandante “Ci hai portati avanti per tanti anni, Erwin. Non abbandonarci ora
che abbiamo bisogno più che mai di te.”
A quel momento si unì anche Lars, afferrando la mano della moglie e guardandolo
supplice “Dobbiamo riorganizzarci ora, studiare un piano, o non torneremo a Trost.”
“Io a casa non ci torno senza
di te, idiota” aggiunse infine Levi, stringendo di più la presa attorno al
polso massiccio dell’altro e cercando di guardarlo negli occhi. Ci riuscì, per
la prima volta da quando l’avevano ritrovato “Nina mi uccide se non ti riporto.
Andiamo, sei troppo pesante per essere portato in spalla e io sono già stanco
di queste stronzate.”
Complice quel contatto, che
lo univa ai suoi compagni, Erwin rinsavì e lo fece di colpo. Boccheggiò appena,
guardandosi attorno e puntando lo sguardo alla breccia per l’ultima volta.
“Verrò ricordato per sempre come il Comandante
che ha perso il Muro Maria” sussurrò con tono spento, ma più netto di quanto
avesse fatto in quel momento.
“Allora vorrà dire che
correggeremo questa definizione” lo rassicurò Mira con un sorriso sghembo.
“Se vuoi diventare il
Comandante che ha preso a calci in culo i giganti fuori da casa nostra, però,
devi prima tornare vivo al quartier generale. Non vorrai cedere il posto a Schäfer, vero?”
Un piccolo sorriso, timido,
nacque sulle labbra di Smith, mentre Levi finiva il suo discorso non troppo
motivazionale “No, decisamente no. Troviamo delle torce, cammineremo tutta la
notte verso casa.”
Avevano ragione loro.
Doveva sopravvivere e poi, un
giorno, sarebbe tornato.
E si sarebbe ripreso ciò che
appartiene di diritto all’Umanità.
All’alba del terzo giorno
dalla caduta del Muro Maria, la città di Trost era al
collasso.
Le milizie cittadine della
Guarnigione non riuscivano a far fronte al grande affollamento di esuli, che
erano arrivati ad invadere le stradine della città come tante formichine. Lo spiazzo
di fronte alla porta del Muro Rose era così pieno da riuscire a stento ad
oltrepassarlo a piedi e lungo tutta la via fluviale erano sbocciate delle
piccole costruzioni di fortuna, per lo più consistenti in bastoni e tende
regalate dai cittadini della città.
Rheva era arrivata la sera precedente, rispondendo all’appello
dei legionari di Irsee, suo paese natale, che
domandavano aiuti per spostare le persone e occuparsi dei tanti, troppi feriti.
L’aveva fatto con un sacco
pieno zeppo di farinata d’avena e un altro con delle ciotole di zucca essiccata
che sapeva non avrebbe più rivisto. Suo zio, Peter, era rimasto a casa, perché l’età
e l’anca non avevano permesso di andare a sua volta a dar una mano.
Non importava, perché Rheva valeva per dieci, quando si impegnava.
Con un gesto secco si sistemò
gli occhiali sull’attaccatura del naso, camminando rapida verso l’infermeria
improvvisata.
Aveva giusto preparato un
pentolone di farinata e sapeva benissimo chi non aveva ancora mangiato niente
di decente.
La prima persona che incontrò
sul suo cammino fu Hanji. Dopo averla rimpinzata come
si doveva-doveva tenerli d’occhio,
quegli stacanovisti, o non avrebbero mangiato nulla per proseguire il lavoro-
andò avanti, lungo le fila di tavoli pieni zeppi di oggetti medici dall’aria
ben poco rassicurante e feriti.
Trovò la persona che stava
cercando ferma in un corridoio di tavolate, con lo sguardo stanco, perso per
chissà quale parto mentale. Le si avvicinò urtando il legno di uno spigolo con
i fianchi ampi, non era magra come quella ragazza Rheva
e non avrebbe voluto esserlo, chiamandola un paio di volte a gran voce.
Quando si accorse di non
essere stata udita, passò all’azione diretta. Le ficcò con prepotenza il
cucchiaio contro il fianco, sul costato, facendola praticamente saltare sul
posto.
“Nina, sveglia! Sono qui perché-
quelloè un braccio?”
Il medico la guardò stupita,
non si aspettandosi di trovarla lì attorno. Poi abbassò gli occhi sull’avambraccio
che reggeva nella mano libera, alzandolo e mostrandolo alla donna, che storse
il naso disgustata, ma ben poco impressionata “Gangrena” le fece sapere,
buttando l’arto sul tavolino alla sua sinistra e lavandosi poi le mani
vermiglie di sangue in un catino “Rheva cosa ci fai
qui? È l’inferno.”
“Lo vedo bene” la ripresa la
donna più matura, scrollando il capo dei liscissimi capelli di grano, diversi dai boccoli lucidi di Nina. Le due
donne non sarebbero potute parere più diverse, visto che la sola cosa che
parevano avere in comune era l’altezza. Rheva non era
bella nel significato più puro del termine; era provocante, osava con corsetti
che le mettevano in mostra il seno prosperoso e truccava gli occhi verde
bottiglia per farli sembrare più grandi e meno allungati. Persino in quella
situazione tragica, manteneva una certa compostezza, al contrario della giovane
donna che aveva di fronte. Nina era spenta. Sicuramente, si disse Rheva, doveva sentirsi distrutta. Chissà da quanto non
dormiva o non mangiava decentemente.
Per ottemperare almeno a quel
danno le ficcò fra le mani ancora umide una ciotola di farinata. Nina la guardò
spiritata, sgranando gli occhi solcati da pesanti occhiaie nere “No, ti prego”
le disse fiacca “Il solo odore mi mette la nausea. Non hai idea di quanta ne ho
mangiata durante gli allenamenti con Levi.”
“Poco mi importa.” Rheva era irremovibile. Puntò l’indice contro di lei
minacciosamente e l’altra non potè far nulla se non
chinare il capo, sedersi sulla tavolata,
portando al contempo il primo cucchiaio di quella sbobba alle labbra “La odio”
fu la sola cosa che disse, dopo aver ingoiato il boccone, consapevole però che
aveva bisogno delle poche energie che quel misero pasto le avrebbe offerto. Poi
non voleva contraddire l’amica, né fare la schizzinosa in un momento così
drammatico.
Aveva visto Rheva molte volte, nell’osteria di suo zio Peter dove
lavorava ogni sera, prendere a pedate chiunque provasse ad alzare le mani verso
il suo seno prosperoso e in bella mostra. Soprattutto se soldati.
Nina aveva più e più volte
pensato che calciasse più forte di Levi.
Un’ombra le passò sul viso,
tanto che lo abbassò, tenendo il cucchiaio di legno fra le labbra.
Ah, dannazione…
“Che stai pensando, zucchetta?”
le chiese subito l’altra, non perdendo di vista la ciotola ancora per lo più
piena.
“Levi e Erwin non sono ancora
tornati. Sono passati tre giorni, Rheva.”
Lei non seppe che dirle. In tanti,
troppi non avevano fatto ritorno. Mike stava facendo la conta dei caduti, fuori
dalla tenda, ma non era nemmeno paragonabile a quella dei dispersi. La Legione,
da sola, contava come scomparse ben quattro unità. Intere.
Quattro squadre scomparse nel
nulla.
“Se sono morti….
Se non dovessero tornare, io come faccio?”
Il cucchiaio cadde nella
ciotola con un piccolo tonfo umido, mentre il medico portava la mano chiusa a
pugno sulla bocca per soffocare un singhiozzo. Strinse gli occhi, Nina,
lasciando scivolare in avanti i capelli per coprirsi il viso.
Era stanca e spaventata. Andava
tutto bene, mentre si occupava dei feriti: lavorava, rimaneva concentrata sul
suo lavoro e in qualche modo accantonava le preoccupazioni. Quando però si
fermava, anche solo un istante, si sentiva sopraffatta.
Rheva le si avvicinò, prendendole la ciotola e
appoggiandola sul tavolo accanto a sé. Poi portò la mano sulla nuca della
ragazza, facendole appoggiare il viso sulla sua spalla. Nina la abbracciò
scoppiando a piangere.
“Brava, zucchetta, sfogati. Quando
ti sarà passata potrai tornare a segare le ossa. Ti piace tanto, no?”
A Nina sfuggì una piccola
risata fra le lacrime. Quella donna, che non era poi di molto più grande di
lei, le stava ridando un poco di allegria senza nemmeno darsi troppa pena nel
riuscirci.
Fece come le venne detto, si
sfogò un po’ prima di rimettersi seduta diritta, con gli occhi arrossati e il
mal di testa. Accettò di buon grado il fazzoletto di cotone grezzo che le venne
porto, andando ad asciugarsi così le guance “Grazie. Ne avevo bisogno. Sarei esplosa.”
“Eccome se saresti esplosa” Rheva si riprese il fazzoletto, mettendole fra le mani la
ciotola di farinata e facendole quindi presente che sì, l’avrebbe terminata.
Nina scosse piano il capo,
vagamente divertita nonostante la situazione e l’assenza di sonno e mandò giù
altre tre cucchiate, rendendo il contenitore ripulito per bene all’amica “Portane
un po’ a Pascal. Sta aiutando a costruire delle tende qua fuori e non mette
qualcosa di decente nello stomaco da due giorni.”
“Sarà fatto” Accettò di buon
grado la carezza che Nina le fece sul braccio, dentro alla quale c’era tutto il
riconoscimento del medico nei suoi confronti. Non aveva però ancora finito con
lei “Zucchetta?” attirò la sua attenzione mentre questa stava già per tornare
dai suoi pazienti. Attese di vederla voltarsi verso di lei, parlando “Ti
conosco dal tuo primo giorno di leva, sei cresciuta parecchio e velocemente,
Nina. Sei una donna forte, non ti serve un uomo, che siaun fratello o un amante. Troverai un modo per
far quadrare tutto e andare avanti, se fossi costretta a farlo.”
Nina la ringraziò con un
cenno del capo, poiché il magone le impediva di proferire parola.
Rimasta di nuovo sola, prese
in mano la sega chirurgica, asciugandola dal disinfettante con uno straccio
bianco.
Nel mentre, rimuginava su
quanto le era stato appena detto e cercava in ogni modo di credere che ci
sarebbe riuscita per davvero.
Le ore passavano, i pazienti
aumentavano e i medici diminuivano.
Nina conosceva qualcuno a Trost e qualcuno di Shigashina. Tutti
coloro a cui venne chiesto aiuto si prodigarono per aiutarla, ma verso il
meriggio del terzo giorno erano tutti molto stanchi. Per di più, alcuni dottori
come Paul Karson e GrishaJaeger, entrambi del distretto caduto, erano segnati nella
lista dei civili dispersi, lasciando un enorme vuoto.
Qualcuno con la loro
esperienza sarebbe servito in quella situazione.
Stremata, Nina aveva provato
a dormire un po’, mettendosi nel letto nel quale aveva sistemato Mathias il giorno prima e crollando non appena chiusi gli
occhi. Era stata però destata di soprassalto da Moblit,
a causa di un’emergenza. Una donna incinta, ferita a una gamba, che perdeva
molto sangue.
Inutile dire che lei non era
un’ostetrica, non ne aveva le conoscenze e alla fine dell’interno, aveva perso
sia la madre che il figlio.Nessuno la incolpava, l’emorragia
era in fase troppo avanzata e lo shock per l’enorme perdita ematica, misto
anche allo stress di quei giorni, erano stati elementi determinanti.
Con le braccia sporche di
sangue fino al gomito, Nina cadde seduta su i gradini di accesso al forno. Prese
con la mano tremolante e sporca di umori una sigaretta dalla custodia di latta,
ficcandosela fra le labbra.
“Cadetto?” chiamò uno dei
giovani appollaiati sul muretto li fuori. Questi la guardò e non ebbe bisogno
di sapere altro, visto che le si avvicinò, usando un fiammifero per accenderle
la sigaretta. Nina sbuffò il fumo dalle narici, ringraziandolo, prima di
ricadere nel mutismo. Appoggiò la tempia al cemento freddo della soglia,
chiudendo un istante gli occhi. Solo quando qualcuno le si sedette di fronte,
togliendole la sigaretta delle labbra e spegnendola sul gradino, tornò cosciente.
“Moblit” lo chiamò stancamente, mentre lo guardava
immergere un panno nel catino che recava con sé, per poi strizzarlo “Non farmi
questo, ne ho bisogno per andare avanti.”
“Quella di fumare è una
pessima abitudine” la riprese lui subito, con il solito tono da mamma chioccia,
mentre senza chiederle il permesso prendeva con delicatezza la sua mano,
iniziando a lavarle il braccio. L’acqua del catino si tinse in fretta di un
color rosato.
“Perché lo fai?” chiese di
punto in bianco Nina, guardandolo con riconoscenza e curiosità attraverso gli
occhi vitrei.
Lui abbozzò un sorrisetto,
prima di ricambiare lo sguardo, che pareva altrettanto stremato “Mia madre era
molto malata” le disse, strizzando lo straccio per la terza volta e passando a
pulire lo spazio di pelle fra le dita del medico “Eravamo soli, noi due e mi
sono sempre preso cura di lei da quando ho otto anni. Una volta che è morta,
cinque anni fa, io mi sono ritrovato solo, così mi sono arruolato. Mi viene
spontaneo dare una mano, occuparmi delle persone.”
“Sei troppo buono per questo
mondo, Moblit.”
“Ah, smettila Nina.”
Una volta terminato, passò un
panno asciutto sulle braccia della ragazza, sistemando poi tutto e ripiegando
le stoffe con precisione certosina. Una volta fatto, si sporse, baciandola
sulla fronte “Porto dentro il catino e torno a prenderti, devi dormire.”
“Posso camminare” lo informò
lei, ma il compagno di squadra non le diede segno di aver sentito.
Nina tornò ad appoggiarsi con
la tempia al muro freddo, trovandolo ristorante. Nonostante il brusio di
sottofondo, sentiva che sarebbe potuta cadere addormentata così, semplicemente.
Uno scossone la fece
riprendere all’improvviso e, aperti gli occhi, trovò Mike chino su di lei.
“Cosa-”
“Sono tornati.”
Non le servì altro per
schizzare in piedi, avvertendo una fitta ai punti freschi sulla coscia. Non le
importava.
“Dove sono?”
“Stanno arrivando dalla
piazza.” Mike si offrì di aiutarla, ma lei non ebbe il cuore di attendere. Partì
di gran carriera, zoppicando e trascinandosi dietro la gamba ancora sofferente,
uscendo dal corridoio di tende che dall’ingresso del forno portava all’esterno,
fra le file di brande occupate. Si affacciò, appoggiandosi a una delle travi di
sostegno della precaria struttura, portando una mano alla fronte per schermarsi
dai raggi del sole del mezzogiorno.
La prima cosa che vide fu
Erwin, che camminava stanco accanto a Nababa e a Fabian. Dietro di lui c’erano Lars,
che teneva in mano due moduli per lo spostamento tridimensionale e, a qualche
passo, Hanji e Alana che
sostenevano Mira.
Solo dopo aver mosso un paio
di passi verso di loro, Nina vide che sulle spalle Erwin portava Levi.
Non si diede il tempo di
formulare ipotesi alcuna. Si mosse velocemente, sentendo la presenza di Mike
accanto, pronto a tirarla su nel caso in cui fosse caduta in quel patetico
tentativo di corsetta che stava facendo.
Arrivò dinnanzi a Erwin,
leggendo il sollievo sul volto distrutto dalla lunga marcia del fratello e gli
buttò le braccia al collo, aggrappandosi alla sua nuca con una mano e
stringendo forte la camicia sulla spalla di Levi con l’altra, prima di
scoppiare in un nuovo pianto liberatorio.
“Nina…”
la chiamò piano il Comandante, appoggiando il capo nell’incavo del collo della
sorella, mentre la mano di Levi si alzava fino ai capelli della giovane,
passandovi le dita attraverso in un gesto lento, nel quale probabilmente
raccolse tutte le ultime forze che gli erano rimaste.
Erano vivi ed erano di nuovo
con lei.
Tutto il resto si poteva
aggiustare.
“Ho incontrato il Capitano Schimdt mentre portavo le notifiche degli ordini di Zacharius a nord. Lui ha detto che stava venendo qui per
parlare con te, ma ha subito fatto marcia indietro.”
“Grazie per esserti preso a
carico di questo viaggio, Fabian.”
Il rosso batté il pugno sul
petto, facendo il saluto formale al Comandante, prima di allontanarsi per
lasciarlo solo insieme a Mike, che non attese di vederlo sparire per prendere
la parola “Abbiamo fatto gioco di squadra” informò l’amico, seduto su una
sedia, nel vorace tentativo di terminare tutta la zuppa. Erwin non mangiava da
due giorni e mezzo, e aveva anche preso in considerazione l’idea di sbranare
una mucca durante il viaggio di ritorno, tanto forti erano i crampi “Io, Hanji e Gustav abbiamo pensato che fosse intelligente
ordinare la ritirata generale. Il soccorso ai civili e l’appoggio alla
Guarnigione però avevano la priorità e gli uomini della Legione di Renìn non hanno rispettato questo ordine. Non credo
dovresti punirli, ma ho pensato fosse giusto che tu lo sapessi.”
“Hanno abbandonato la
popolazione?”
“Erano di stazione nel paese
di Kanaise, lontani dal distretto e non l’hanno
raggiunto, preferendo tornare al Muro Rose.”
Erwin sapeva che non poteva
punirli, ma avevano abbandonato la popolazione. Cosa fare? “Ci penseremo. Notizie
da est e da nord?”
“Niente da Pereta” lo informò il suo secondo, passandogli un bicchiere
di vino per buttar giù la sbobba. Erwin lo prese, sistemando con la mano libera
la coperta che teneva sulle spalle “Dal nord sappiamo solo che stanno lavorando
insieme agli stazionari per recuperare quante più persone possibili. Ho paura
che Erik uscirà per cercare di raggiungere i suoi a Briemer.”
“Ho paura anche io di questo,
ma non possiamo impedirglielo, se lo vorrà fare. Sono i suoi uomini. Le liste
delle perdite?”
“Abbiamo quelle di Renìn e Trost. Non ti voglio
rovinare la sorpresa, ma abbiamo perso quasi il quaranta per cento degli
uomini, la maggior parte dispersa senza lasciar traccia. Di questo si sono
occupati Nina, Pascal e Nababa.”
A quella notizia, il Comandante
svuotò il bicchiere di vino con un sorso unico. Passò la mano sul viso stanco,
pensando.
“Devo andare in Capitale a
prendere ordini diretti dalla corte e da Zackley. I nostri
protocolli non sono abbastanza aggiornati per far fronte a una simile
emergenza.”
Mike tirò su col naso, non
abbandonando la sua compostezza “Scordatelo, tu ora ti metterai in un maledetto
letto e lo farai senza far storie da signorina. Non puoi andare proprio da
nessuna parte con quella faccia.”
“Dormirò in carrozza.”
“Devo chiamare tua sorella?”
Quella sì che era una
minaccia, ma sarebbe dovuto andare lui stesso da Nina. Il conteggio delle
vittime aveva la precedenza, soprattutto perché doveva stilare un rapporto
accurato sulle loro risorse, se sperava di ricevere ordini diretti su come
agire.
E sperava di riceverli, perché
per la prima volta nella sua vita, si sentiva totalmente disarmato.
Incapace di studiare un
piano.
Forse aveva ragione Mike,
doveva dormire.
Si alzò, sentendo la schiena
dolergli e le articolazioni faticare ad ingranare i movimenti “Parlo con Nina e
poi mi riposerò qualche ora, contento?”
“Tu dovresti esserlo, non io.
Non sono tua madre, Smith.”
Passando, Erwin gli lasciò
una pacca riconoscente sulla spalle, entrando nel forno senza abbandonare la
coperta calda che lo avvolgeva. Tra una affare e l’altro si era fatta di nuovo
sera e le candele illuminavano il corridoio fra le brande piene di bisognosi e
malati. Molti di loro sembravano paralizzati dall’orrore, altri, non coscienti,
forse non avrebbero visto una nuova alba.
Erwin non si sentiva di
compatirli.
Morire in un letto, arrabattato
alle meno peggio ma comodo abbastanza da dormirci, non sembrava una così brutta
opzione giunti a quel punto.
Trovò sua sorella seduta su
una di quelle brande improvvisate, china su Levi che dormiva così profondamente
da sembrare morto. Erwin si chinò a sua volta su di lui, dall’altra parte della
branda, appoggiandosi alla pavimentazione a mattonelle grezze con le ginocchia.
Notò che il moro dormiva su dei sacchi e, dopo un esame più attento, il biondo
dedusse che dovevano essere pieni di piume. Una fuoriusciva dalla legatura,
così la prese fra pollice e indice, soffiandola via.
“Era così stanco da essere
crollato mentre gli applicavo i punti di sutura sul braccio” gli rivelò la
bionda, mentre passava i polpastrelli sulla mano dell’amato, accarezzandola “Non
l’ho mai visto così, è a pezzi.”
“Se non ci fosse stato
lui,saremmo finiti noi a pezzi.” Erwin appoggiò
una mano sulla schiena della sorella, sussurrando per non disturbare il sonno
dell’altro “Non è solo rimasto sveglio tutto il tempo, ha anche combattuto da
solo. Io e Lars siamo crollati fisicamente a nemmeno
metà del tragitto e Mira si è fatta male al fianco, non riuscendo più a usare
il modulo. Lui è andato avanti, proteggendoci e usando le nostre bombole.”
Aveva continuato a farsi
strada per tre giorni, da Trost a Shigashina
e ritorno, senza nutrirsi né dormire. Nina era stupita dal fatto che non si
fosse arreso prima, ma ogni tanto anche loro dimenticavano che Levi era
soltanto un essere umano fatto di carne e sangue. Esattamente come ogni altro
soldato.
Solo più resistente.
“Non avevate mangiato niente”
riprese il medico, guardandolo per fargli capire che non era colpa sua se non
era riuscito a parare le spalle di Levi “Quindi era normale, per voi, rimanere
senza energie. Gli uomini grandi e grossi, poi, hanno bisogno di un sacco di
cibo. Forse è per quello che Levi invece va avanti, perché è un nanerottolo.”
“Vi sento, stronzi.” La voce
uscì debole e roca dalle labbra del moro, ma perfettamente udibile. Nina rise,
portando una mano alle labbra per non disturbare gli indigenti attorno a loro e
quando Levi spiò con un occhio solo la sua espressione, lei gli appoggiò una
mano sulla guancia per sentire se avesse ancora la febbre “Non parlate come se
io non fossi qui.”
“Ovviamente sei qui” lo prese
in giro il biondo, dandogli una leggera pacca sulla spalla “Ti sono debitore
per le vita.”
“Non vedo la novità. Lo eri
anche prima.”
“Dormi, così magari il tuo
umore migliorerà” proseguì Nina, sempre a sfottò, cercando lo sguardo complice
del fratello.
Per risposta, il moro sfilò
la mano da quella della ragazza, girandosi del tutto verso di lei e mettendosi
sul fianco per nascondere il viso contro le sue gambe, lontano dalla luce “La
faccia di merda deve essere un carattere ereditario, nella vostra famiglia.”
furono le sue ultime, nobili parole.
Nina infilò una mano fra i
suoi capelli, laddove essi erano più corti, sospirando rumorosamente. Poi tornò
seria, lasciando scivolare il sorriso via dalle sua labbra “Cosa facciamo, ora?”
“Non lo so.”
“Queste persone cosa faranno?”
“Non so nemmeno questo.”
La conversazione cadde così, in
un silenzio consapevole, poiché di risposte non ve ne erano.
Erwin rimase immobile a
guardare Levi che dormiva, profondamente per una volta, chiedendosi cosa poteva
fare. Cosa gli avrebbero detto di fare, una volta arrivato a Mitras? Sarebbe stato in grado di farlo?
“Ho paura” Nina parlò di
nuovo e lui tornò a guardarla. Lei, però, non stava ricambiando lo sguardo,
fisso invece sul profilo di Levi. Scostò una ciocca nera dalla sua guancia,
prima di proseguire “Tutte queste persone in un solo luogo, affollato….
Per non parlare della scarsità di viveri. Come minimo inizieranno le epidemie,
poi cosa faremo quando il cibo sarà terminato? Non esistono abbastanza campi
agricoli nel Muro Rose per sfamare tutta questa gente.”
Erwin portò una mano sul suo
mento, costringendola a incontrare le sue iridi chiare, di nuovo decise “Lo
supereremo. Sarà dura, sarà difficile,
ma lo supereremo e lo faremo insieme.” Si sfilò la coperta dalle spalle,
appoggiandola sul corpo di Levi, che ora gli pareva ancora più piccolo e, per
la prima volta, indifeso come quello di un bambino. Poi si alzò “Sistemerò ogni
cosa. Tu rimani qui.”
Nina annuì, mentre lui si
allontanava ad ampi passi.
Mandò al diavolo ogni
progetto di riposo e tornò al piano originale.
Si sarebbe vestito come si
confaceva a un Comandante e avrebbe riposato in carrozza, durante il viaggio
per la Capitale.
Quella non era la loro fine.
L’Umanità aveva incassato una
pesante sconfitta perdendo quella battaglia, ma la guerra era ancora lunga da
combattere.
Erwin, questo, lo sentiva.
E lui sarebbe stato uno dei
protagonisti di quel conflitto.
Nda.
Lo so, sono ancora in
ritardo, ma fra me e word si è messo il Lucca Comics.
Dopo cinque giorni di fiera, dove ho portato i cosplay,
non ce la potevo fare a scrivere.
Ho dormito senza dignità fino
a tardi, rallentandomi.
Ora però sono tornata e,
prima di salutarvi, vi lascio le solite due o tre noticine finali.
Il primo pezzo contiene, al
suo interno, uno spoiler ben nascosto dei capitoli del manga che sono usciti
negli ultimi due mesi. Per chi non fosse in pari, non c’è problema: a meno che
non sappiate di cosa si parla in quei capitoli, non lo troverete mai. Per chi è
in pari, invece, vi propongo una sfida.
Trovate il riferimento!
La frase di Ilya non è mia, ma è la rivisitazione di ‘Todayis life, the only life we’re sureof.
Take the mostoftoday’, frase conclusiva dell’ultima puntata dell’ultima
stagione di CSI New York.
So che non c’entra una
rabazza di niente, ma ho sempre amato tantissimo questa citazione ed è molto
incalzante per la situazione.
E anche per un evento futuro
che non vi spoilero ora, ma che sicuramente vi
ricorderete se continuerete a seguirmi.
Ho introdotto altri
personaggi nuovi.
Lo so, iniziate ad odiarmi,
vero?
Mathias è un mio parto mentale, un personaggio che per questa
storia ha concluso la sua utilità ma che tornerà nel sequel e anche nella
storia che spero di scrivere primo o poi insieme a RLandH.
Sua è invece la bella d’osteria, Rheva. Come solito,
introduco io i personaggi di Luna (la sua storia la trovate Quie vi consiglio di leggerla perché è intramata con la mia in modo inscindibile) e ormai tutti ci
abbiamo fatto l’abitudine.
Tranne Luna, mi sa.
Posto questo capitolo anche
se, devo dirlo, non mi fa impazzire. Non lo trovo con ‘mordente’, diciamo.
Nonostante le mie paturnie,
però è indispensabile perché è cambiato tutto.
Ma tutto tutto.
La parte che ho preferito
scrivere è quella di Levi che va a recuperare Erwin.
Io non shippoEruri, ma mi è un po’ presa la mano.
Scusatemi.
Riferimenti casuali di slash nelle het.
Sono una persona terribile.
Ringrazio le quattro
fanciulle che mi hanno commentato come sempre, mando loro baci e abbracci.
Ringrazio anche chi,
silenzioso, legge e basta. Ho raggiunto una ventina di persone, che mi hanno
inserita fra le seguite e le preferite e a loro vorrei sinceramente chiedere un
parere.
Odio chi lesina recensioni,
lo trovo molto triste, ma sono curiosa di avere un opinione quindi sentitevi
liberi di scrivermi anche un mp!
Capitolo 14 *** Capitolo Tredicesimo, parte Prima. ***
11
Wenndie Sterne leuchten.
Capitolo Tredicesimo, parte Prima.
Bokuwakodoku sa douka sono mama de Kimi gawarau tabi ninakunaruhazu mo nai no ni Kizukara me wosorasanaiyouni Nikushimiyosobaniitekimiwokoroshitaikara https://www.youtube.com/watch?v=uNjKYBnRbdE
Anno 846
Irsee, ad un’ora di marcia verso nord dal distretto di Trost.
Il
sole era tramontato da un paio di ore quando Levi fece ritorno ad Irsee.
Non
si recò immediatamente al quartier generale della Legione, prediligendo al
solito pasto frugale, una cena degna di questo nome, in compagnia di colei che
l’aveva accompagnato per tutta quella strada.
Non
era strano vedere Jara Meier cavalcare verso Trost, specialmente da quando suo padre aveva deciso
d’esser troppo anziano per presiedere ad ogni raduno della Gilda dei Medici.
“Sarà
presente per il comizio di fine semestre, fra poco più di una settimana; per
questo ha deciso di mandare me a portare questa documentazione urgente” è stata
la sola cosa che la bionda valchiria aveva detto al soldato quando si erano
rimessi in marcia subito dopo la fine della celebrazione per le esequie di
Wilhelm Müller. Il funerale si era svolto nel primo
pomeriggio, ma Levi si era rifiutato categoricamente di rimanere per la notte a
Stohess, nonostante gli fosse stata offerta
ospitalità con una cortesia un po’ fredda, ma sentita. L’atmosfera in quella
casa era irrespirabile. A stento aveva scambiato due parole con Erwin, il quale
aveva trascorso gran parte del tempo con la madre. Levi si era sorpreso di
vederla esprimere una qualche sorta di emozione, ma il passare dalla totale
noncuranza all’isteria l’avevano parecchio stupito. A sentir Friedelhm, che persino nel lutto pareva comunque non
perdere quella sottile quanto sarcastica vena critica, a stento si era resa
conto di aver perso una figlia. Al contrario, di fronte alla consapevolezza di
essere vedova per la seconda volta, aveva perso la testa. Alla fine, dopo
l’ennesimo litigio con Alma, al termine del quale erano volate parole davvero
forti, era stata accompagnata dallo stesso figlio nella sua stanza, dove Franz
Meier l’aveva sedata affinché potesse dormire.
Al
culmine di quella pietosa scena quasi tutti si erano dileguati. Il dottor Meier
aveva preso con sé sia Leopold che Rielke ed era
tornato a Mitras, raccomandandosi con Jara di portare quei documenti. Levi li aveva visti partire
rimanendo in piedi al fianco della biondona, a pochi
passi dalla carrozza. Rielke era così pallido da far
luce, mentre Leopold pareva così stanco da sembrare sveglio da mesi.
In
conclusione, anche loro avevano lasciato Stohess e
lui non aveva nemmeno avuto il tempo e la voglia di salutare il suo Comandante.
Ci
stava ripensando in quel momento, alle urla di Alma e all’espressione sul viso
di Erwin, di fronte a una tazza di the nero e un piatto pieno di carne, nella
taverna di Rheva. Ora che la padrona di casa aveva
trovato un compagno di vita, suo zio Peter le aveva ceduto del tutto l’attività
e lei, che ben sapeva intrattenere gli ospiti, zampettava qua e la con caraffe
ricolme di birra, che offriva agli attendenti dell’osteria per festeggiare il
suo fidanzamento.
“Un
gran lutto per ogni legionario” fu il commento di Jara,
che fece ridere l’altra donna, mentre le riempiva il boccale sino al bordo “Ora
che tu ti sposi non avranno più un motivo per tornare dall’esterno.”
“Rammaricata
per loro” le rispose la bella donna, mostrando loro l’anello un po’ pacchiano,
con un brillante al centro di una raffinata montatura d’argento. Doveva essere
costato parecchio. “Qui però non c’è spazio per queste constatazioni.
Continueremo a bere tutta la notte.”
“Finirai
in banca rotta!” Jara rise mentre spergiurava quel
monito, guardando Rheva tornare dietro al bancone per
prender qualche ordinazione da un gruppo di viandanti appena arrivati “Sono
queste le cose che amo, appena tornata da un funerale: ottima birra e buona
cucina.”
“Mi
sto chiedendo chi glielo dirà.”
Jara si
voltò verso Levi, che stava parlando assorto, forse più a se stesso che a lei.
Sbuffò una mezza risata, picchiettandogli il gomito nelle costole “Dire a Rheva che non dovrebbe regalare la birra? Sono anni che ci
proviamo. Come era la sua filosofia? I legionari pagano la metà e i gendarmi il
doppio?”
“Chi
dirà a Nina che suo padre è morto, quando sarà tornata.”
Quella
riflessione ebbe un effetto mortificante su Jara, sul
cui viso non vi era più posto per il solito sorriso sornione. Esso di fatti
morì, sparendo dalle labbra rosse, sostituito da un’espressione ben lontana
dall’esser divertita “Hai rovinato l’atmosfera” gli rispose senza pietà,
tagliando un pezzetto dalla bistecca un po’ asciutta e portandoselo alla bocca.
Poteva però condividere la sua frustrazione. Nina voleva molto bene a suo
padre, era più legata a lui che alla madre e, certamente, al suo ritorno le si
sarebbe spezzato il cuore. Perché Jara era certa che
Nina fosse viva esattamente come suo fratello Fritz. Dopo più di un anno dalla
perdita delle terre di Maria, lei ancora aspettava, ogni giorno, che tornasse a
casa. Non chiudeva mai la porta di ingresso con il catenaccio, né spegneva la
lanterna appesa fuori dall’arcata di siepe ed edera del cortile. Fritz era da
qualche parte là fuori, perso nelle terre dei giganti e sarebbe tornato, un
giorno.
Così
come sarebbe tornata anche Nina.
“Forse
dovrebbe dirglielo Mieke” osservò pensieroso Levi,
rivelando che quella fonte di preoccupazione stava davvero ammorbando la sua
mente, come un tarlo “O magari Rielke. Sono sempre
stati molto attaccati, quei due. Non credo che io o Erwin saremmo in grado di
darle una notizia del genere come si deve. Erwin soprattutto, visto che non ha
pazienza. Non ha nemmeno atteso il quarantesimo giorno per portare la notizia
della morte di sua sorella a casa.”
“Nina
ti ha mai parlato dello studio per l’elaborato finale dell’università ?”
Levi
alzò gli occhi dalla tazza, spostandoli in quelli di un celeste statico della
donna. Scosse il capo, chiedendosi cosa mai potesse c’entrare con la loro
discussione e perché avesse chiesto una cosa del genere così, a bruciapelo.
Lei sorrise soddisfatta, prendendo un sorso generoso dal boccale di
birra, senza preoccuparsi di pulire il labbro superiore dalla schiuma “Non
c’erano i soldi per farle frequentare i corsi. A dire il vero c’erano, ma i
signori Müller non avrebbero mai lasciato che mio
padre facesse di loro figlia un debito. Lui, però, ha fatto di meglio: l’ha
presa con sé ogni giorno, in ospedale, e ha fatto di lei un medico. Quando è
stato il momento di scegliere in che branca della medicina specializzarsi, Nina
ha scelto quella con la quale ha finito con l’averci a che fare di più: la
chirurgia.”
Egli
si appoggiò con il mento al pugno chiuso, passando gli occhi sui piatti della
casa. A un occhio inesperto pareva quasi che non stesse ascoltando nemmeno una
parola, mentre, al contrario, aveva registrato ogni informazione. “Un chirurgo
da campo.”
“Un
chirurgo. Che poi lavori su un bel tavolo di ferro sterilizzato o sotto la
pioggia, in mezzo al fango, poca differenza fa. Per i metodi, si intende,
perché per il paziente la differenza la fa eccome.” Jara
si concesse una breve risata, scansando la lunga treccia bionda dalla spalla
senza cura, mentre beveva ancora “Io le ho consigliato una tesi sulle infezioni
post operatorie. Lei ha deciso invece di imbarcarsi in un lavoro puramente
empirico che tutti noi, mio fratello e mio padre compresi, abbiamo cercato di
sconsigliarle in ogni modo.”
“Parla
semplice, Jara. Io, la laurea, non ce l’ho.”
“Un
lavoro d’osservazione” semplificò quindi, mettendo entrambe le mani sul tavolo,
sotto al naso piccolo dell’uomo, come per spiegargli ancor più chiaramente il
concetto “Molti interventi, sopratutto i più invasivi, non vanno a buon fine.
Che sia in ospedale o oltre le Mura, ogni chirurgo sa che alla base della
medicina ci sono tante teorie che spesso, nella pratica, non funzionano. Le
persone muoiono, non importa quanto il medico sia bravo o competente; anche la
più piccola infezione può uccidere. E poi, cosa succede? Nina una volta mi ha
guardato, con quei suoi irrazionali occhi chiari, e mi ha detto: il morto è morto. Poco importa ormai, ma chi
rimane? Cosa succede a chi rimane? Così ha scritto di questo. Per pagine e
pagine di elucubrazioni mentali tra le più disparate, riportando tanti esempi,
tanti casi.” Fece una pausa, incrociando le mani sotto al mento e socchiudendo
gli occhi, mentre spiava assorta la luce della candela posta al centro del
tavolo “Alla fine di questo ambizioso progetto, Nina ha teorizzato tre fasi di
passaggio che ciascuno di noi prova quando un nostro caro viene meno: lo shock
della perdita, la negazione della realtà ela rabbia. Solo così si giunge, in fine, all’accettazione del dolore.
Ognuno ha i suoi tempi, certo, però tutti noi proviamo queste forti emozioni.
Io, per esempio, secondo mio padre non ho ancora superato la fase della
negazione per ciò che è successo a Fritz.” Fece una pausa, perché affrontare
quel discorso non era mai semplice e, per quanto determinata, era scoraggiante
pensare che forse non sarebbe mai tornato sul serio, che magari stava
aspettando una persona ormai morta da oltre un anno. “Il punto è uno solo: Nina
è pronta. È sempre stata pronta. Da quando è entrata nella Legione è cambiata,
non è più la ragazzina pigra, ma ambiziosa che è cresciuta a casa nostra,
imparando a mettere i punti da sutura cucendo il retro del divano del salotto
insieme a Friederich. Non dovresti preoccuparti di
questo, ma piuttosto di andarla a riprendere.”
“Ci
stiamo lavorando” fu il commento secco dell’uomo, appoggiandosi con il mento al
pugno chiuso, mentre allontanava il piatto ormai vuoto da sotto il naso “Hanji e un altro paio di commilitoni stanno cercando di
convincere Zackley proprio in questi giorni.”
“Capisco”
sospirò, la dottoressa Meier, girandosi quel boccale fra le mani e omettendo,
per una volta, di guardare il suo interlocutore, forse temendo di vederlo
chiudersi a riccio da un minuto all’altro. Non avevano finito. “Hai pensato
come farai a chiarire con Nina?”
Lesti,
gli occhi affilati di Levi scandagliarono il volto di Jara.
Lei era una delle pochissime persone al mondo che non provavano soggezione di
fronte a quello sguardo di ghiaccio, infatti non tardò ad incontrarlo.
“Cosa
ti fa pensare che devo chiarire con lei?”
“Ho
imparato a conoscerti. Avanti, Levi, smettila di fare il difficile e dimmi cosa
è successo.”
Lui
parve parecchio restio a parlarne, ma Jara aveva
ragione quando aveva affermato con così tanta caparbia di aver imparato a
conoscerlo. Cosa più importante, lui ormai sapeva di che pasta era fatta quella
donna e sapeva che non avrebbe ceduto facilmente. Prese un respiro, reprimendo
un’imprecazione e poi parlò “Un’incomprensione. Non è successo niente se non un’incomprensione.
Nessuno dei due ha saputo far fronte alla cosa e ci siamo ritrovati a non
parlarci come due mocciosi. Alla fine, per colpa della mia cocciutaggine e del
suo orgoglio, siamo andati avanti per più di un mese ai ferri corti e quando
Erwin ha fatto le squadre per la missione, lei ha chiesto il trasferimento in
quella di un altro superiore. E si è ritrovata là fuori da sola. Questa è la
storia.”
Jara
annuì, “Capisco. È tutto?” chiese quindi, certa che pretendere di sapere il
motivo di quell’incomprensione fosse eccessivamente indelicato anche per una
ficcanaso di prima categoria come lei. La risposta di Levi rischiò di farle
andare di traverso la birra.
“A
dire il vero no. Lei è andata a letto con un altro uomo e di questo dobbiamo
ancora parlarne come si deve.”
Portando
il tovagliolo alle labbra, decisa ora a levare la schiuma e quel poco di birra
che le era colato sul mento, Jara lo guardò sorpresa
“E tu lo conosci, questo uomo?”
“Certo,
anche lui fa parte della Legione di Trost.” Non
sapeva esattamente cosa lo portasse ad essere così tanto loquace. Forse perché
sopportava Jara nonostante chiedesse più di quanto le
spettasse sapere o forse perché si era tenuto tutto per sé in una situazione
così delicata, eppure Levi non pareva intenzionato a mandarla al diavolo e
dirle di farsi gli affari suoi. Al contrario, proseguì nel parlare “Le ultime
cose che ci siamo detti, eccetto questa bella rivelazione, sono state da veri
stronzi. Da entrambe le parti, abbiamo giocato sporco. Quando io le avevo detto
che poteva avere uomini migliori di me, lei mi ha risposto che ne aveva già
trovato uno e che io ho rovinato tutto. Credo stesse parlando di tuo fratello.”
“Ci
siete andati parecchio pesanti.” Jara scostò i
capelli dal viso, sentendosi improvvisamente accaldata. Forse non era tutta
colpa della bevanda. “Quando tornerà, gliene parlerai. Per quanto io voglia
bene a mio fratello e lo ritenga una persona meravigliosa, una delle migliori
che abbia mai conosciuto, non esiste uomo che possa concorrere con te, per il
cuore di quella stupida ragazzina.”
“No,
non hai capito” Levi la interruppe, con una determinazione nuova della voce che
lo infiammava, facendolo uscire dall’apatia nella quale solitamente rimaneva
immerso “Non c’è proprio niente da dire. Non mi importa chi si sia scopata o
cosa l’abbia spinta a farlo. Dal mio punto di vista, considerata la situazione
di merda, ha fatto quasi bene. Non glielo rimprovero, a me non interessa.
Voglio solo che torni, perché una persona viva può riscattarsi molto meglio di
una persona morta.”
Per
il resto della serata, si concessero di parlare di argomenti meno impegnati o
dolorosi. Jara declinò l’invito di dormire al
quartier generale, preferendo la stanza che Rheva
poteva metterle a disposizione.
Quando
si separarono, la dottoressa pagò il conto per entrambi.
“Il
prossimo giro lo offrirai tu, Caporale.”
Si
salutarono, con una stretta di mano e la promessa di passare più spesso per la
Capitale da parte del legionario, contornata da qualche parola di circostanza di
Jara. Era più fiduciosa lei, in quella brutta
situazione, di chiunque altro.
Quando
a Levi non rimase altra scelta se non fare ritorno al castello, preferì
condurre Meruka per le redini piuttosto che montarle
sul groppone. Si godette tutto di quella passeggiata, dalla luce delle stelle e
della luna che rendevano il sentiero pienamente visibile, fino alla brezza
leggermente fresca di quella notte estiva.
Ad
attenderlo non trovò ovviamente nessuno. Sistemò al meglio la sua cavalcatura
nella stalla, prendendosi il tempo di sbrigliarla e passarle sul pelo irto del
groppone a causa del panno una spazzola dalle setole rigide.
L’atrio
del castello era deserto quando vi entrò e le lampade ad olio quasi tutte
spente. Levi si fece strada a memoria, salendo la prima rampa verso gli alloggi
femminili degli ufficiali. Non aveva più dormito in camera di Nina, dopo il
loro primo litigio, ma dopo la missione all’esterno vi era tornato. Solo a quel
punto, mentre girava l’angolo verso il lungo corridoio delle camerata, trovò
una luce ad attenderlo.
Flebile
e pallida, ma calda, c’era una candela accesa fra le mani di Petra Ral. Cosa lei ci facesse lì era un bel mistero, visto che
gli alloggi delle reclute erano al quarto piano.
Levi
comunque non lo chiese, limitandosi a guardare con espressione criptica la
giovane, quasi come se attendesse di vederla spostarsi per poter passare. Lei,
d’altro canto, trasalì alla sua presenza lì e si immobilizzò.
“Sono
venuta a cercare il caposquadra Zöe” si giustificò
anche se non interpellata lei, tirando il bordo della vestaglia bianca con la
mano libera per coprirsi meglio il petto “A cena non c’era e-”
“Hanji è partita stamattina alla volta del distretto di
Utopia. Non tornerà prima di qualche giorno dalla Capitale” fu il commento
laconico dell’uomo, che le girò attorno quando capì che lei non si sarebbe
spostata nemmeno di mezzo centimetro.
“Caporale!”
Petra
realizzò che aveva alzato la voce nell’esatto istante in cui ormai, l’aveva
fatto. Semplicemente, non voleva che lui andasse via, non in quel momento. Il
moro percepì qualcosa nella sua voce, forse un’urgenza o comunque una qualche
sorta di malessere, quindi per giusta misura si voltò nuovamente verso di lei.
Dopotutto era un superiore e lei era fuori dalle brande dopo il coprifuoco. Non
voleva scocciature di sorte, quella specifica sera.
“Ral.” La chiamò stanco, quasi pregandola, ma lei proseguì.
“Possiamo
parlare?” lo chiese con la voce piccola, quasi infantile. E maledettamente
bisognosa.
Lui,
però, non volle sentire ragioni “Non fai parte della mia squadra” replicò
secco, come se non volesse sentire nessun’altra replica “Dovresti cercare il
tuo diretto superiore e-”
“Sankov” In un impeto di coraggio, Petra lo interruppe “Sankov era il mio superiore.”
A
quel punto, non c’era molto altro da dire. Levi capì anche esattamente di cosa
la ragazza volesse parlargli. Sbuffò, irritato, perché non voleva sentir
storie. Non di quel tipo, quanto meno “Se ti senti in colpa, se pensi che
avresti dovuto trovarti tu là fuori al posto di Nina, allora mettiti l’anima in
pace e va’ da Rosemberg a farti prescrivere qualcosa
per farti dormire.”
Aveva
fatto un danno. Un altro.
Petra
era sbiancata, perché persino alla pallida luce della candela poteva notarsi la
sua espressione presa in contropiede “Io non- volevo solo dire che la mia
intera squadra è morta mentre io ero stata riassegnata ma….
Caporale ha ragione, avrei dovuto trovarmi io là fuori al posto del Sergente.
Mi dispiace.”
Levi
si portò la mano al volto, prendendosi il naso fra pollice e indice. Maledetto lui “Dimentica ciò che ho
detto” la liquidò, senza mezzi termini, dandole le spalle. Non era fatto per
quel lavoro “Ti ripeto che Hanji tornerà a giorni, ma
se vuoi parlare ci sono altre donne nel nostro corpo. Parla con la Klein, con
sua sorella o con Nababa. Buonanotte.”
Si
chiuse nella camera del Sergente, sfuggendo al guaio combinato come lo stronzo
codardo che era. Non aveva il cuore o la testa per prendersi cura anche di
un’altra persona. Parlarne con Jara era un conto, ma
Petra Ral?
Nemmeno
la conosceva. A mala pena ricordava il nome e solo perché l’avevano assegnata
alla sua squadra provvisoria. Non gli dispiaceva nemmeno di non poterle essere
di aiuto, perché lui non era la persona giusta con cui poter parlare. Lui
stesso avrebbe avuto bisogno di essere consolato o ascoltato in qualche modo e,
per quanto si fosse sfogato con una persona fidata per tutto il pasto, non era
bastato.
Peccato
che non fosse rimasto nessuno in quel castello con la confidenza giusta per
costringerlo a riversare i fiumi di merda
che aveva nella testa in quel momento.
I
rintocchi della campana del villaggio gli ricordarono perché non aveva la testa
per altro, riportandolo bruscamente alla realtà. Era scoccata la mezzanotte ed
era ufficialmente il compleanno di Nina.
“Un
anno vieni rapita” commentò a voce alta, lasciandosi cadere sul letto, con le
gambe a penzoloni, senza nemmeno prendersi la briga di spogliarsi delle cinghie
dell’attrezzatura “Un anno vieni rapita, un anno ti prendi cura di un malato e
quest'anno ti sei persa tra le terre dei giganti. Prima o poi riusciremo a
festeggiare senza tragedie, ragazzina.”
Kakowomitashiteirutsumigatsukuttaboku de arutameni Eiensei no NAIFU de kioku no Signalkizamareteru no ni Itamisaekeshisatteshimaukizuna no Spiral Mayoikondabokuwabokunikiekakureteiku
Anno 845
La grande epidemia di Trost.
-Il regolamento del Corpo di Ricerca
afferma che, qualora vi fosse un disperso, è necessario attendere trentanove
giorni prima di comunicare alla famiglia il suo decesso. Allo scadere del
periodo di attesa, ovvero il quarantesimo giorno, il fascicolo in questione
viene bollato dal segretario del corpo, da in servizio a disperso in azione. -
La
tradizione voleva, invece, che si attendesse fino all’alba del quarantunesimo
prima di cambiare quello status, da vivo a morto.
Un po’ per scaramanzia, un po’ per
speranza.
Nina
aveva atteso quaranta giorni precisi prima di salire a cavallo, recandosi senza
fretta, verso il distretto di Utopia. Voleva essere presente, il giorno
successivo o quello dopo ancora, nel momento in cui il Capitano di Nedlay si fosse presentato all’uscio dei Meier per potare
loro la notizia che Fritz non sarebbe mai più tornato a casa.
Alle
sue spalle aveva lasciato una Trost al collasso,
perché dopo un mese e dieci giorni dal crollo di Maria, non vi erano stati
miglioramenti. Nessun intervento straordinario, disposizione dalla corona o da Zackley stesso, che pareva essersi chiuso in un mutismo
meditativo che non lo rappresentava per niente. Né serviva a molto. Una buona
parte degli esuli era stata allontanata dalla città per paura dello scoppiare
di una pandemia o di lotte per i pochi viveri a disposizione. Nonostante ciò,
più della metà risiedeva ancora nel distretto e la medesima situazione si
presentava anche a Karenese, Nedlay
e Clorba. Nel castello della Legione di Irsee erano state ospitate quante più persone possibili,
per garantire loro un tetto sulla testa e un letto – nel migliore dei casi – ma
la mancanza di cibo aveva reso il clima ancor più teso.
Nonostante
il pessimo umore, andavano avanti, cercando di far fronte anche alle continue
incomprensioni con i pochi sopravvissuti della Legione di Shigashina.
Ai comandi del Capitano Schäfer erano rimaste poco
più di venti anime, quasi tutte poco avvezze al pensiero di dover rispondere al
nuovo Comandante.
La
carne, la cioccolata,i limoni, il the e
molte altri generi alimentari, coltivati o allevati nelle terre di Maria, erano
divenuti ormai una rarità e ai tre ranci giornalieri se ne erano sostituiti due
assai magri, spesso o quasi sempre privi di carne, a base di legumi, fatti di
zuppe annacquate e pane raffermo che Nina era certa contenesse più segatura che
farina.
A
prescindere dal clima burrascoso che si respirava fra le pareti di solida
roccia del castello – non mangiare e dormir poco rendeva gli uomini inquieti –
la dottoressa era partita lo stesso. Levi non l’aveva accompagnata, per quanto
la cosa gli potesse rincrescere. I Meier erano sempre stati molto gentili nei
suoi riguardi e avrebbe voluto sostenere Nina in quel momento doloroso, ma lei
stessa aveva compreso che in condizioni così tese, non poteva chiedergli di
lasciare solo Erwin.
Aveva
portato con sé, però, un altro compagno di viaggio. Mathias
aveva cavalcato con lei, perché Nina era decisa a dare una vita migliore almeno
a lui. L’aveva sentito piangere ogni notte, da quando erano tornati insieme al
quartier generale, dalla brandina ai piedi del letto che divideva con un Levi
sempre più stanco e irritato, nella sua stanza da ufficiale. Erano state quelle
lacrime a farle pensare che un buon orfanotrofio in Capitale sarebbe stato
meglio di un covo di pulci a Trost. O peggio ancora,
della strada.
Non
c’era stato più bisogno di preoccuparsi per lui, una volta arrivati a
destinazione.
Dal
primo istante in cui gli occhi di Franz Meier avevano incontrato quelli spenti
del piccolo, mentre questi sedeva ancora sulla sella del cavallo del sergente Müller, aveva decretato che l’avrebbero tenuto con loro.
Jara non
era d’accordo inizialmente, ma poi l’aveva visto mangiare voracemente un pezzo
di pane, come un cucciolo randagio, e aveva capito che meritava quella
possibilità. L’avrebbe cresciuto lei, fra quelle mura, come aveva fatto con suo
fratello. Era stata però maledettamente chiara sulle condizioni.
“Non
tornerai in questa casa fra tre anni per riprendertelo, Nina. Questo bambino
non diventerà mai un soldato, né prenderà mai le Ali. Queste sono le mie
condizioni.”
Non
le avrebbe prese, lo stesso Matthias l’aveva
promesso, spaventato al solo pensiero di dover tornare nelle terre che gli
avevano rubato l’amore di una madre e l’affetto di una sorella maggiore, che
ora vedeva proiettato nella figura imponente di Jara.
La dottoressa aveva compiuto un vero e proprio miracolo, perché sin dal loro
primo incontro, quel bambino magro come un sacco di ossa e diffidente, le aveva
sorriso. Seppur intimidito.
L’avrebbe
fatto diventare un medico come ogni bambino cresciuto sotto quel tetto,
dandogli l’istruzione migliore possibile.
Non
avrebbe mai preso, per lei, il posto di quel fratello, perché non ve ne era
bisogno. Per Jara, Fritz non era morto, continuava a
ripetere a se stessa e agli altri, e presto o tardi l’avrebbe rivisto. Che era
solo disperso.
Che
sarebbe tornato.
Le
ingenti perdite avevano messo in ginocchio la Legione esplorativa, in
particolare al nord, dove rimanevano solo una manciata di soldati sotto le
direttive di Erik Schmitd e GarlefJürgen. Mentre il secondo citato aveva perso meno di
una dozzina di uomini, poco più del trenta per cento degli effettivi, le
perdite di Schmitd erano pari al cento per cento.
Nessuno, da Briemer, era tornato al Muro Rose in quei
quarantuno giorni. Nemmeno uno.
Per
Jürgen, invece, era diverso. Otto uomini si erano
sacrificati di loro iniziativa, decisi a portare più persone al sicuro entro le
Mura, divorati o calpestati dalla foga dei giganti. Tre, invece, li aveva
lasciati indietro lui al termine della missione che s’era conclusa qualche
giorno prima della caduta di Maria, perché feriti.
Fra
quei tre, tristemente, c’era anche Fritz. In quanto medico, non aveva abbandonato
i suoi compagni.
Uno
smacco che bruciava la coscienza di Jürgen e che mai
gli avrebbe permesso di dimenticare quei tre uomini.
Il
Capitano s’era recato stanco alla casa dei Meier il quaranteduesimo
giorno, poco prima di pranzo.
Ad
accoglierlo aveva trovato un bambino dai capelli castani e un paio di occhi
caldi, vibranti come non lo erano da settimane. Seduto sul gradino con in mano
una palla di cuoio marrone, Mati l’aveva visto
arrivare da lontano. Non aveva atteso nemmeno un istante, però. S’era infilato
in casa, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che questi avesse
percorso l’arcata di siepe che disegnava l’ingresso al cortile interno della
casa.
“C’è
un soldato fuori” aveva detto veloce, guardando solo Nina, la quale aveva perso
la concentrazione, versando il the che stava servendo al loro ospite senza
nemmeno accorgersene tant’era pietrificata. Leopold si era affrettato ad
appoggiare sull’acqua bollente un panno, facendo poiper alzarsi. La giovane donna, però, l’aveva
preceduto. Era qualcosa che doveva fare lei, in mancanza di Franz e Jara.
“Nina
Müller” era stata la sola cosa che Jürgen era riuscito a dirle, nel pieno della sorpresa,
quando lei aveva accostato l’uscio per permettergli di entrare. Aveva preso il
suo mantello estivo, pregandolo di unirsi a loro per un the mentre Leopold
s’alzava in piedi a sua volta, salutando formalmente il nuovo venuto e
presentandosi a lui come il Caporale Schitz della
Polizia Militare.
Non
avevano nominato Fritz per tutto il tempo in cui erano rimasti soli, loro tre.
Avevano parlato dell’abbandono dei distretti esterni di Pereta,
Renìn e Briemer, di come la
corona non avesse voluto investire nei piani di evacuazione studiati dalla
Legione di Trost, considerandola un’azione militare
che sarebbe costata troppe vite in modo inutile. Avevano parlato di come le
loro vite erano cambiate in quelle cinque settimane, mentre si alternavano i
racconti delle veglie notturne del nord e delle operazioni di sfollamento del
sud, intervallate da Leo che non aveva peli sulla lingua nell’affermare di come
in Capitale, nessuno se ne fosse curato.
“
Non sono nemmeno suonate le campane. A noi della Gendarmeria è stato detto la
sera, durante il cambio di turno, con lo stesso tono di chi ti sta dicendo che
ha visto cadere una vecchietta dalle scale.”
“Non
curanza?”
“Patetico
quanto falso buonismo, misto a una certa ironia.”
A
nessuno, a Mitras, era importato nulla di più del
capire se vi fosse abbastanza cibo per le loro grasse pance. Nessun esule
sarebbe stato ospitato nel distretto di Utopia o nessuno nei distretti del Sina. Erano stati ritirati quasi tutti i permessi di
accesso entro le mura più interne, ad eccezione dei permessi militari e le
missive, così come le transizioni economiche, s’erano arenate. Per quattro
settimane tutto aveva cessato di funzionare, per poi riprendere in un
traballante cigolio, misero.
Jara era
rincasata proprio mentre la conservazione iniziava a farsi stentata,
stiracchiata. Jürgen s’era sbrigato a porgere le sue
più sentite condoglianze, ma non c’era stato verso di quietare la donna, che
aveva preso ad urlare come una pazza, inveendo contro l’uomo che aveva lasciato indietro suo fratello. Il
Capitano aveva preso ogni singolo urlo, ogni insulto, ogni frase accusatoria,
mentre Leopold cercava inutilmente di domarla. Alla fine c’era riuscito e
l’aveva accompagnata in stanza, a stendersi.
Nina
non aveva mai visto Jara così sconvolta.
Tutt’altra
era stata la reazione di Franz Meier. Accompagnato dal figlio di primo letto, Fabian, aveva ringraziato pacatamente il Capitano Jürgen per aver personalmente riportato quella infausta
notizia ed egli non si era risparmiato di versareuna qualche lacrima discreta mentre chiedeva
il perdono dell’uomo a cui sentiva di aver portato via un figlio.
“Non
siete stato voi a portarmelo via, Capitano, ma il destino. Contro di lui non
possiamo combattere e se ho insegnato qualcosa a quel ragazzo, allora avrà
venduto cara la pelle.”
Prima
di andarsene, spezzato, Jürgen gli aveva consegnato
un sacchetto di carta. Dentro di esso, lucido d’argento, c’era l’orologio che
Franz aveva regalato al figlio il giorno in cui era diventato un dottore in
medicina a tutti gli effetti. L’aveva dimenticato a Nedlay
alla partenza per Briemer, come se infondo avesse
dovuto lasciarsi per forza qualcosa alle spalle. Franz l’aveva aperto, leggendo
l’incisione, prima di voltarsi verso Nina, prendendole la mano e piazzando
l’oggetto al centro del palmo, donandolo a lei che era esplosa in un pianto
inconsolabile.
Non
avrebbe tenuto niente vicino che avrebbe riportato alla mente dei ricordi così
belli, ma così strazianti.
Alla
commemorazione per le esequie di Friederich Meier
c’erano tantissime persone, molte delle quali giovani amici e compagni di
studio, oltre che fratelli d’armi. C’era anche Moblit,
che con Fritz aveva condiviso i tre anni d’accademia, stringendo quella che era
diventato una solida amicizia. Era nata per forza, quella loro intesa, poiché
erano soli in mezzo alle reclute dodicenni. Loro, che ormai avevano quasi
diciotto anni, avevano unito le forze in mezzo a tutti quei ragazzini e alla
fine s’erano trovati.
Berner
era comunque rimasto in disparte, in un angolo del giardino insieme a Reynolds
e a Ravenstein, con gli occhi piantati su un ritratto
ancora fresco del ragazzo in abiti eleganti, civili. Aveva guardato Jara scappare in casa a metà del discorso del padre,
seguita da Matthias, che sembrava a disagio tanto
quanto lei. Aveva quindi spostato gli occhi su un piccolo gruppetto di persone,
sedute in prima fila. La testa rossa di Leopold spiccava, poiché i capelli di
quel ramato naturale unico brillavano baciati dal sole. Alla sua destra c’era Rielke, giunto fin lì per l’ultimo addio al caro amico,
distrutto dal peso del dolore, in lacrime, scomposto sulla sedia col capo tra
le mani e le spalle che, di tanto in tanto, venivano scosse da un tremolio. Leo
gli teneva una mano sulle spalle, mentre l’altro braccio era stretto attorno
alle spalle di Nina.
Moblit
non credeva di averla mai vista così, completamente annientata e impotente.
Vestiva con un abito nero, per rispetto al lutto, con i capelli legati in uno
stretto concio sul capo. Sembrava invecchiata di dieci anni, in quel frangente.
Vennero
rispettate un po’ tutte le tradizioni. Moblit, che
rimase a dormire a casa Meier quella sera e le tre che seguirono il funerale,
spiegò che a Trost era consuetudine in tempi più
antichi tenere il corpo in casa almeno due notti e il parente più prossimo
doveva dormire con lui, nello stesso letto. Ormai quella pratica era stata
quasi del tutto abbandonata, per questo si passava quasi subito alla cerimonia
della pira, dove il corpo veniva bruciato e le ceneri raccolte in vasi colorati
o lavorati. A Stohess e a Mitras,
dove invece solitamente erano consentiti più sfarzi a causa del migliore stile
di vita, il corpo veniva tumulato. Mentre a Stohess
il lutto solitamente era scandito dalla Settimana dei Lamenti, dove per sette
giorni si piangeva il morto prima del riprendere dello scorrere normale della
vita, a Mitras non esisteva una vera e propria
tradizione. Solitamente, si attendevano due giorni e poi il corpo veniva
seppellito, posteriormente a una cerimonia sbrigativa con i parenti e gli
amici. Di rado venivano svolte celebrazioni pubbliche per le persone normali.
Fritz avrebbe avuto una bella lapide, all’interno della cappella della famiglia
Meier, ma non c’era nessun corpo da porvi al suo interno.
Per
quattro notti, tutti insieme, sedevano nella mansarda, cercando di ricordare al
meglio Fritz. Leo, Nina e Rielke raccontavano di ogni
singola volta in cui lo avevano trascinato nei guai, perché dei quattro, Fritz
era sicuramente il più moderato. O il più spaventato delle conseguenze delle
loro azioni. Da parte sua Moblit s’era divertito a
raccontare ogni singola cosa di rilievo successe nel loro ultimo anno
d’accademia, mentre loro s’erano già avveduti di unirsi ai corpi militari di
scelta.
Avevano
bevuto, riso e pianto insieme. Poi, ogni notte, quando tutta la casa si era
addormentata, Nina e Leopold s’erano recati nella stanza di Fritz, avevano
dormito nel suo letto e, in silenzio, lo avevano pianto un po’ di più.
Perché
sentivano che il vuoto nei loro petti era incolmabile.
Quando
la polvere della saracinesca abbattuta del Muro Maria si era posata e le urla
erano cessate, non era stato solo il nord a fare i conti con le ingenti
perdite. Nedlay e Briemer
erano piccoli stanziamenti con al massimo venti, forse trenta uomini per
ciascuna sede. A sud, dove erano destinati più del doppio dei legionari, c’era
stato anche il doppio dei decessi. Quando fu ordinato loro di ripiegare, il
Corpo di Ricerca aveva perso inutilmente trentatré persone, per lo più dispersi
o trovati a pezzi così piccoli da non poter essere identificati.
La
conta dei morti, quell’anno, era però ben lontana dall’essere terminata.
Il
quinto giorno dopo i funerali di Fritz, Nina si affrancò dalla famiglia Meier,
salutando Matthias, certa che quel bambino sarebbe
stato trattato bene. Con lei, sulla via del ritorno, c’era anche Moblit che si era intrattenuto per qualche giorno bisognoso
di prendersi una pausa, Pascal che aveva sentito il bisogno di rivedere la
sorella dopo tanta fatica e tanti sacrifici e Hanji,
che era arrivata fino alla corte per poter proporre un piano di contenimento
strutturale per la costruzione di alcune case nel distretto di Trost dove poter ospitare gli esuli. Richiesta che venne
ignorata. Non c’erano i soldi nemmeno per sfamare le persone, non potevano
esserci per ergere edifici.
Cavalcarono
dimessi, parlando solo all’occorrenza, ancora turbati dai fatti recenti, dalla
perdita dei territori di Maria e dei tanti amici che avevano dato la loro vita
per proteggere la popolazione evacuata fino alle poche risorse di cui ora
potevano disporre per il corpo. Come sarebbero sopravvissuti, a pane vecchio e
zuppe annacquate?
Fu
quindi l’ennesima batosta, quella che li attendeva una volta arrivati allo
snodo che portava dal sentiero principale a Trost,
seguendo il corso del fiume a sud oppure a Irsee, più
a occidente.
Un
posto di blocco della Guarnigione era stato arrabattato alla meno peggio e lì,
seduti su due sedie di fronte a una piccola tenda color terra, due guardie
stazionarie parevano attenderli.
“Non
è possibile proseguire, signora” dissero rivolti a Hanji,
la prima della piccola fila. Nina scambiò uno sguardo con Moblit,
mentre Pascal ondeggiava il capo, ribaltandolo all’indietro, perso nel rimirare
il cielo con una canzoncina serrata fra le labbra.
“Come
mai?” chiese col solito tono gioviale il caposquadra, mentre la sua seconda si
accostava col cavallo “Siamo di istanza da Irsee. Il
nostro Comandante potrebbe non essere d’accordo con questa interruzione di
viaggio.”
La
guardia più vicina le rispose teso “Penso capirebbe, se non tornaste.”
“Una
brutta epidemia” fece sapere il collega, con tono mesto “Il vostro quartier
generale potrebbe essere silenzioso come un cimitero, al momento. Abbiamo
sentito che ad Irsee, il villaggio ha preso le
distanze dal castello per contenere il contagio arrivato dalla città.”
“Una
epidemia?!” a parlare, questa volta, fu Nina. Era successo esattamente ciò che
avevano temuto per tutto quel tempo e lei non riuscì a non sentirsi un’inutile
voce inascoltata “Di che natura?”
“A
quanto ne sappiamo, è esplosa tre giorni fa e ancora nessun dottore ha inviato
il dispaccio per far sapere di che male si tratti.”
Tre
giorni erano un significativo periodo di tempo in quelle circostanze.
Tristemente, poteva essere determinante.
“Andiamo”
Nina girò il cavallo, pronta a correre lì, ma nel momento in cui venne
trattenuta nuovamente, ci pensò Moblit ad acquietare
gli animi con un’insolita decisione.
“Secondo
il decreto otto delle linee della condotta militare” disse con tono pretorio,
spingendo avanti il cavallo fino a scansare senza mezzi termini lo stazionario
d’intralcio “Il primo ufficiale medico ha autorità assoluta nelle situazioni di
pericolo sanitario. Nina” guardò l’amica “Se dirai che dobbiamo andare,
andremo.”
Lei
non aveva dubbi “Io devo andare e devo farlo subito.” Tirò le redini,
impaziente di ripartire “Voi però non siete obbligati a seguirmi. Tornate
indietro, mandate antibiotici e state al sicuro.”
A
porre fine ad ogni diatriba, ci pensò Hanji. Sorrise
per dar conforto alla giovane donna, appoggiandole una mano sulla spalla mentre
si sporgeva verso il suo cavallo “Andremo tutti. Ci sarà bisogno di una mano.
Penseremo alle provviste mediche quando avrai identificato ciò con cui abbiamo
a che fare.”
La
visione più catastrofista che ognuno di loro quattro poteva aver anche solo
immaginato, non era comunque paragonabile a quello che trovarono di fronte una
volta sorpassato l’ingresso di quella che era sempre stata la loro casa. Aveva
avuto ragione quello stazionario: in quel frangente, assomigliava di più ad un
cimitero.
Così
tante persone in uno spazio così delimitato potevano portare a un epilogo
orribile. Nina appoggiò la mano sulla mascherina che aveva appoggiata sulla
bocca e sul naso, respirando il profumo della menta fresca. Si erano fermati
lungo la via, utilizzando fazzoletti e lembi di stoffa per schermarsi dal
morbo, infilando qualche foglia di quella pianta fra le pieghe. Nina era una
ferma sostenitrice della teoria secondo la quale, alla base di un contagio
epidemico, vi fossero gli odori.
La
puzza, per essere precisi.
E
la pila di cadaveri che giacevano poco fuori dalla base della Legione,
accatastati con poco riguardo sotto al sole di maggio, erano un vero e proprio
focolaio infettivo.
“Questi
vanno bruciati subito” Moblit parve leggerle nel
pensiero, mentre anch’egli osservava l’orribile visione. La mascherina non
ovattava affatto il tono raccapricciato “Potrebbero infettare l’acqua del
pozzo.”
“Mi
chiedo perché non lo abbiano ancora fatto” Nina lasciò i cavalli proprio al
biondo e a Pascal, rifiutandosi di cercare fra i morti qualche volto amico ed
entrando trafelata insieme al superiore. La corte interna e il salone
d’ingresso erano deserti.
Ad
attenderle trovarono una piccola folla stipata in quella che era la mensa. La
dottoressa si guardò attorno, cercando con gli occhi Levi o Erwin, ma trovando
solamente Mike, chino su qualcun altro “Questo non va bene. troppe persone
inun luogo chiuso.”
“Cerco
qualcuno che mi aiuti ad aprire tutte le finestre” sbrigativa, Hanji le girò attorno, lasciandola lì ad esaminare la
scena. Non sapeva da che parte iniziare, il medico. Attorno a lei, civili e
soldati, dividevano le medesime sofferenze e lei non era un epidemiologa. Era
un chirurgo.
Si
diede comunque da fare, perché per quanto ne sapeva, era il medico più navigato
in quella bolgia.
Non
toccò nessuno prima di aver infilato un paio di guanti di cuoio scuri, passando
poi in rassegna una donna con il figlio, i più vicini a dove si trovava lei. Il
giovane, che pareva avere quattordici anni, scottava di febbre e aveva le
ghiandole della gola infiammate, eppure se ne stava chino sulla madre che,
stesa sulla tavolata di legno con una giacca arrotolata sotto al capo a ‘mo di
cuscino, sembrava essere in punto di morte. Era fredda come il ghiaccio, però.
“Una
febbre fredda” soppesò la dottoressa, sentendole le pulsazioni e constatando
quanto debole fosse il battito “Una infezione di qualche tipo che ha preso le
ghiandole, ma che da febbre fredda?”
“Nina!”
La voce di Erwin le fece alzare di botto il capo. La raggiunse in due rapide
falcate, spostando senza troppe cerimonie un uomo che lo ostacolava.
“Come
ti senti?” domandò a bruciapelo, notando il colorito della pelle dell’uomo e le
borse sotto agli occhi arrossati. Non gli diede il tempo di rispondere, ad ogni
modo. Appoggiò il polso scoperto alla fronte, tirandoselo più vicino “Scotti da
morire” fu la sola cosa che commentò amaramente, guardandosi attorno per
cercare un posto in cui farlo sedere.
Lui
però le prese il viso fra le mani, mantenendo però una certa distanza per non
infettarla “Levi sta molto peggio di me” le fece sapere senza tatto, spicciolo,
riuscendo a farle tremare la terra sotto alle suole “Da stamattina” aggiunse
quindi, cercando di essere più specifico “Non è debole come molti altri, ma è
bollente e ha i tremori. Ah! E dice di avere molto male alla schiena.”
“Dov’è?”
chiese la sorella, stringendogli i polsi con le mani.
Troppe
cose da fare e c’era solo lei. Dov’era Alana?
“Non
ne ho idea. Era qui poco fa, credo sia andato a prendere qualcosa in
infermeria. Si è ben guardato dal darmi retta quando l’ho spedito a letto, in
ogni caso.”
“Così
come hai fatto anche tu” la dottoressa allontanò le sue mani, mortalmente seria
“Sei il Comandante dell’esplorativa e questa malattia potrebbe essere
potenzialmente mortale. Devi andare via di qui, ora. Va’ nei tuoi alloggi e
rimani lì. Verrò a visitarti tra poco.”
Lo
sguardo di Erwin si irrigidì “Non abbandono i miei uomini.”
Nina
lo sapeva che avrebbe risposto a quel modo, ma doveva trovare un modo per
convincerlo a non rimanere lì in mezzo a tutti quei malati. “Devi farlo ora!”
“Non
puoi darmi ordini, Nina! Visita queste persone e scopri di cosa si tratta,
invece!”
Attorno
a loro, commilitoni e civili osservavano la scena, un po’ col fiato teso. Erwin
sembrava arrabbiato o in qualche modo ferito dal pensiero di andarsene di lì,
come un codardo, che fosse per ordine medico o meno. Quel lungo scambio di
sguardi proseguì per quello che parve un momento sospeso, poi la voce di Hanji li costrinse a voltare lo sguardo nella sua
direzione.
“Moblit, cos’è che hai detto mentre eravamo per strada?
Quella roba sul decreto otto?”
Il
povero ragazzo, sentendosi colto in contropiede nel venir tirato in causa
avvampò, guardando quasi spaventato il Comandante che adesso pareva indirizzare
tutta la sua ira su di lui “Ecco” sussurrò, incerto “In caso di pericolo
sanitario, il primo ufficiale medico ha autorità assoluta.”
“Anche
sul Comandante” gli diede inaspettatamente man forte Nababa,
che contrariamente a lui, non temeva che Erwin potesse avercela o meno con lei
“Non c’è da scherzare con la salute.”
“No,
infatti” Nina sospirò, un po’ nervosa. Andava fatto quel che era giusto
“Comandante Erwin Smith, mi appello al decreto otto delle linee di condotta militare,
ordinando che lei si ritiri nei suoi alloggi immediatamente.”
Non
ci fu niente da fare. Erwin resse quello sguardo incredibilmente risoluto,
almeno quanto il suo, prima di sospirare facendosi piccolo all’improvviso “ Va
bene” esalò in fine, alzando una mano in segno di resa “Ti lascio il comando.”
Quelle
parole furono più terrificanti di qualsiasi altra cosa Nina avesse mai sentito
in tutta la sua vita.
“No,
un attimo.” Lo fermò, tirandolo per una delle cinghie un po’ lente, sulla
schiena “In che senso il comando? Io ho autorità solo sulle faccende di ordine
medico.”
“Rileggi
un po’ meglio il regolamento interno. Con ‘autorità assoluta’ si intende
esattamente questo.”
Ella
deglutì a vuoto, sentendo improvvisamente come quell’incombenza le avesse
asciugato la bocca. “Posso gestirlo” esalò alla fine, ma quella frase aveva lo
stesso peso di una domanda stentata “Lagnar” chiamò infine, risvegliando una
giovane ragazza dal volto coperto di lentiggini scure, la quale faceva parte
della ormai dipartita legione di Shigashina “Va con
lui e occupati dei suoi bisogni. Nel caso in cui dovesse avere bisogno di un
dottore, chiamami.”
“Sì,
signora.” La moretta si battè la mano sul petto,
seguendo il comandante fuori dalla stanza. Nonostante la mensa fosse piena di
persone, non volava più nemmeno una mosca.
Nina
sgranò gli occhi sul pavimento, parendo intenzionata a permanere nel mutismo.
Fu
Sankov a risvegliarla da ogni voce malevola che le
tormentava i pensieri, guardandola dall’alto verso il basso attraverso il suo
sguardo composto “Ora che hai mandato a letto il Comandante del corpo di
ricerca come un lattante, quali sono i tuoi ordini, Comandante provvisorio Müller?”
Suonava
così strano da farle effetto, ma Sankov aveva
ragione. Il tempo stringeva “Per prima cosa, vanno bruciati i morti” disse
meditativa, portando la mano al collo, come se sentisse effettivamente il peso
di quelle decisioni. Se prendeva quelle sbagliate e lasciava morire delle
persone, sarebbe stata solo colpa sua. “Sankov,
organizza una squadra di uomini forti, anche civili, che ti dia una mano a
farlo. Tieni due registri separati, segnando i nomi dei morti, dividendo i
soldati dagli altri.”
“Agli
ordini” l’uomo si voltò subito, iniziando a chiamare in fretta qualche nome e a
indicare chi l’avrebbe aiutato.
“Nababa, Mike, Ness e Thoma” proseguì quindi la dottoressa, riuscendo finalmente
ad adocchiare anche Alana e sentendosi
incredibilmente grata di averla lì. Ogni medico sarebbe stato prezioso “Voi
occupatevi delle persone in questa stanza. Gli ufficiali nelle loro stanze
private, i soldati nei dormitori. Qui voglio solo i civili e che ci siano
almeno un paio di metri di distanza tra uno e l’altro o sarà impossibile girare
fra le persone per prestare le cure mediche. Bossard!”
la recluta sobbalzò. Oluo guardò verso il sergente
con gli occhi sgranati, in attesa di ordini “Va al villaggio di Irsee, alla locanda di Rheva.
Dille che c’è bisogno di qualcuno che cucini delle zuppe. Procurati anche delle
galline per il brodo, senza della carne, qui non guarirà proprio nessuno.”
“Non
troverai mai nessuno disposto a venderti delle galline” le fece sapere poco
speranzosa il Caporale Marlene.
“Lo
so” rispose Nina, “Vai con lui e porta qualcuno dei tuoi uomini. Rubatele se
necessario.” Nemmeno si preoccupò di abbassare il tono, a quel punto. Avrebbero
pagato ogni cosa alla conclusione di quel tremendo momento “Il team medico e
quello scientifico devono preparare l’infermeria e lì spostare i più gravi. Moblit, occupati di questo”.
“Lo
farò subito” le fece sapere il castano, guardandola allontanarsi “Tu che
farai?”
“Devo
trovare Levi. Vi raggiungerò in infermeria prima di quanto pensi” rispose, non
voltandosi ma alzando semplicemente la voce. Fece sedere una donna, mentre si
allontanava “Prendete ogni libro di medicina che ho e iniziate a sfogliarlo.
Dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare!”
Aveva
trovato Levi sulle scale, piegato su se stesso, contro al muro.
Non
era mai arrivato in infermeria, colto probabilmente dalla spossatezza del
morbo.
Appena
Nina l’aveva toccato, s’era accorta che bruciava di febbre.
L’aveva
aiutato ad arrivare fino alla camera, liberandolo delle cinghie
dell’attrezzatura che erano state montate alla meno peggio dalle mani tremanti
dell’uomo che non faceva altro che offendersi da solo e offendere qualsiasi
cosa gli venisse in mente, lucido nonostante la malattia e frustrato dal
sentirsi così debilitato.
L’aveva
visitato a dovere, era stato il primo su cui si era concentrata, segnandosi
ogni minimo sintomo: l’uomo aveva la gola infiammata, la sentiva ‘grattare’
ogni volta che deglutiva e, a parte la febbre alta con conseguente dolore alle
articolazioni, non sembrava soffrire di null’altro. Forse una leggera
tachicardia, ma Nina non poteva escludere che fosse data dal suo caratterino
così tanto accomodante.
Erwin
era tutt’altra storia.
Sudava
moltissimo e, nonostante la febbre fosse molto più bassa di quella di Levi,
sosteneva di vederci doppio.
Il
terzo a sentirsi male e ad essere costretto a letto fu Mike. Nina stava uscendo
dalla stanza del fratello quando Gelbert corse a
chiamarla per avvertirla di ciò che era successo. Aveva avuto un giramento di
testa mentre faceva spostare un paio di reclute dalla mensa al dormitorio del
terzo piano ed era andato lungo e disteso in terra creando anche un certo
boato.
“Più
sono grossi più fanno rumore quando cadono” aveva sdrammatizzato mentre Nina lo
visitava, non riuscendo a farla ridere.
I
suoi sintomi erano ancora diversi. Aveva mal di gola come Levi e la vista
sdoppiata come Erwin, ma era freddo come un morto. Faticava addirittura a
parlare senza balbettare in modo strano.
Confrontando
queste analisi con quelle fatte sommariamente a tanti altri pazienti, Nina si
ritrovò a pensare che poteva essere davvero qualsiasi cosa.
“Forse
potrebbe essere labirintite.”
Dopo
più di due ore e mezzo sui libri, iniziarono quasi a tirare ad indovinare.
Nina
non poteva biasimare nessuno per questo, nemmeno Alana,
che si era sbilanciata e aveva buttato la prima cosa che le era venuta in
mente. La giovane Klein però non era un dottore e quella ne era la prova.
“La
labirintite non fa salire la febbre” le rispose Nina, continuando a camminare
avanti e indietro per l’infermeria. Era la sola a non aver sotto un manuale,
perché tutto ciò che c’era bisogno di sapere lo conservava bene in una scatola
nella mente, “Senza contare che ho le orecchie a tutti e tre e non hanno
infiammazioni. Se fosse labirintite, l’avrei notato così.”
Hanji
sospirò, greve “Pensiamo a tutte le malattie che possiamo escludere, allora”
propose iniziando ad alzare le dita “Non è Morbo Nero, né polmonare né
bubbonico o lo avremmo trovato visitando i malati. Non è nemmeno febbre tifoide
o avremmo notato delle macchie sulla pelle.”
“Non
è nemmeno febbre emorragica” proseguì per lei Moblit,
passandosi le mani sugli occhi che bruciavano per lo sforzo, mentre accanto a
lui Pascal prendeva nota di le Mura solo sanno cosa “Nemmeno colera. Forse le
prime fasi della lebbra?”
“Il
Male degli Indigenti è diverso” gli rispose Alana,
appoggiandosi con le braccia incrociate al libro e guardandolo “Ci vogliono
anche cinque anni perché i sintomi si manifestino, il decorso della malattia è
troppo lungo.”
“Dobbiamo
stringere il campo a qualcosa che abbia bisogno di un periodo di tempo di
incubazione molto breve” esordì a quel punto Pascal, parlando velocemente,
senza smettere di scrivere ma riuscendo comunque ad alzare i grandi occhi
pervinca per guardare verso la dottoressa. Il risultato fu inquietante “Siamo
partiti meno di dieci giorni fa per Mitras e stavano
tutti bene.”
“Pensavo
alla meningite” soppesò Nina, scambiando con lui uno sguardo “richiede dai tre
ai dieci giorni e come sintomo comune c’è il mal di testa, che provano sia Levi
che Erwin. Mike, però, no.”
“Sarebbe
coerente però con la differente temperatura dei soggetti” Alana,
sfogliò rapida il libro, leggendo qualche riga “Non è necessaria la presenza di
febbre, ma è ricorrente.”
“Molti
non hanno né febbre né dolore alla testa” disse Nina, appoggiandosi alla
finestra “Senza contare che gli altri sintomi principali non sono compatibili
con la maggior parte dei pazienti.”
“Quali
sono questi sintomi?” chiese Moblit.
Alana li
lesse a voce alta “Irritabilità, dolore articolare, letargia, eruzioni cutanee
e convulsioni.”
“Per
l’irritabilità non possiamo usare Levi come campione di riferimento” ridacchiò
sotto i baffi Hanji, decisa a non farsi abbattere
dalle circostanze “Il vaiolo e l’impetigine?”
“Il
vaiolo ci mette quattro settimane a manifestarsi” le disse Nina, “L’impetigine
non porta febbre.”
“Magari
ha iniziato ad incubare un mese fa?”
Nina
scosse piano il capo “Difficile, il muro Maria è crollato appena sei settimane
e mezzo fa. Non c’è possibilità che le condizioni igieniche abbiamo portato a
un’epidemia così tanto rapida di qualcosa come il vaiolo, a mio parere. Poi, se
fosse davvero questo, avrebbero tutti le bocche piene di ulcere, noi compresi
che non stiamo male perché non eravamo qui in questi ultimi dieci giorni.”
“Non
fa una piega” Moblit suonò più amareggiato di quanto
volesse, ma aveva una paura del demonio di ciò che stava succedendo e non
stavano arrivando da nessuna parte. Era frustrante. “Possiamo escludere anche
pertosse, morbillo, sifilide e tigna.”
“Anche
la rosolia” Pascal chiuse il libro che stava tenendo sotto, prendendo quello
che Moblit fiocamente aveva sfogliato fino a quel
momento per rivederlo per bene, strappandogli un’occhiataccia “Che cosa c’è?”
gli chiese, innocentemente sorpreso. Pascal non si sarebbe mai accorto di
parere sgarbato o meno “Voglio rivedere il tuo lavoro perché tu sei distratto.”
“Scusa
se ho paura di morire” gli soffiò in faccia Berner,
ferito dal compagno di squadra.
Lui,
di rimando, gli sorrise “Il corpo è debole, è vero. Ma la mente è forte”
concluse pragmatico, fermandosi su una pagina in particolare che aveva
catalizzato la sua attenzione “Io non voglio ammalarmi e non mi ammalerò.”
“Fosse
così semplice, Von Pedrick.”
“Bambini
basta” li riprese Hanji, prima di guardare Nina.
Trovò la dottoressa a fissare fuori dalla finestra, laddove sapere si
intravedeva la colonna di fumo della pira che Sankov
stava coordinando. Non andava affatto bene “Cosa ci rimane, quindi?” incalzò il
caposquadra, alzandosi per accostarsi a lei.
Nina,
però, non rispose subito. Si concesse un istante di puro sconforto, nel quale
porto una mano alla bocca.
Poi
ingoiando il magone, esternò la sua debolezza.
“Non
so cosa sta succedendo.”
Nda.
Sono
viva! Non sono morta!
Ancora
non ci credo che FINALMENTE sono riuscita ad aggiornare.
Per
cause di forza maggiore – ovviamente l’università –non sono riuscita a finire
questo capitolo prima e mi scuso tantissimo con i pochi ma buoni lettori che
ancora mi seguono.
Per
prima cosa a parte ringraziare voi per la vostra pazienza, è doveroso citare Shige, che non ha solo betato
questo capitolo, ma mi ha anche dato tanti preziosi consigli.
Oltre,
ovviamente, a sparare un sacco di cazzate con me su WhatApp.
Quindi
grazie graziegrazie!
Se
non la conoscete, vi lascio il link della sua storia –che deve continuare *tono minaccioso*- proprio qui: