My buddies

di Hitchhiked
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trailer 1: Dan ***
Capitolo 2: *** Dettagli sulla vita di Daniel ***
Capitolo 3: *** Trailer 2: Elia ***
Capitolo 4: *** Parlando di Elia... ***



Capitolo 1
*** Trailer 1: Dan ***


Era un Martedì quando conobbi Daniel Charlton. 
Non mi ricordo precisamente che anno fosse, probabilmente come periodo era inizio Dicembre o giù di lì.
Bazzicava vicino ai binari del treno, che si snodano tuttora verso la periferia nell’ex-zona industriale della città, dove ormai si vedono solamente grigie fabbriche abbandonate dai vetri rotti.
Indossava un maglione verde col collo alto e teneva mano una bottiglia di Sprite mezza ghiacciata senza etichetta.
Lo vidi che era seduto in mezzo alla neve, gambe incrociate, circondato da impronte di scarpe che posso solo ipotizzare essere sue, come se avesse corso in cerchio.
“Hai una sigaretta?” mi chiede.
Odio gli scrocconi. 
Gli allungo una sigaretta, l’accendino e mi siedo nella neve.
Non mi ricordo quale fu la prima cosa che gli dissi, fatto sta che poi cominciò a parlare ininterrottamente, come fosse una macchinetta.
Odio chi parla troppo.
Probabilmente anche disse il suo nome, ma blaterava così tanto che non lo sentii.
Cianciava su questo tema che doveva fare, sigaretta in una mano e Sprite nell’altra.
Fece una battuta.
Siccome io non risi, disse: “Se sei una brava persona dovresti ridere”. 
Nemmeno gli risposi. 
Riprese a parlare e questa volta attaccò con psicologia. Freud. Proprio ciò che mi serviva in quel fottuto giorno nuvoloso e freddo.
A quel tempo non sapevo nemmeno quale fosse il suo nome: era un pazzo seduto nella neve prima di Natale, non mi fregava niente né riguardo alla sua opinione sulla psicoanalisi e sull’analisi terminabile, né riguardo alla sua opinione su qualsiasi altra cosa in questo universo.
E avevo della neve nei calzini.
Sapevo che non mi piaceva come persona e che sarebbe scomparso velocemente dalla mia vita. 
Ripensandoci ora non ho mai avuto idee più sbagliate.
Stava ancora parlando dell’ipocrisia delle persone quando passò sferrgagliando il treno delle sei e dieci ed io mi ricordai che alle sei e qualcosa dovevo essere da qualche altra parte.
Ironico come in quel momento fosse così importante dove dovevo andare; ora non è sicuramente il motivo per cui mi ricordo quel giorno.
Quella fu la prima di una serie di volte nelle quali voltai le spalle a Daniel Charlton; così andai via senza dirgli una parola, labbra blu per il freddo.
Mi stufavo di stare a sentire Dan che parlava e parlava, a un certo punto semplicemente andavo via... vorrei fosse così ancora adesso. 
Non fraintendete, alle volte stavo ad ascoltarlo per ore, pendendo dalle sue labbra sempre tirate in un sorriso Dandy, mentre mi raccontava aneddoti vecchi di secoli.
A volte diceva cose giuste, il vecchio Dan.
Altre volte, però, semplicemente non ne potevo più di quel fiume di parole; mi chiedo se allora si è mai accorto che nessuno lo stava effettivamente ascoltando.
Mi ha sempre capito, e non si è mai arrabbiato con me per averlo abbandonato in mezzo alla neve, poco prima di Natale, a farneticare su Freud, un gran bella persona, il vecchio Dan.

Potrei affidare a questo momento a Hand in Gloves degli Smiths.
Ripensandoci, solo ora, dopo qualcosa come anni riesco a capire che aveva citato questa maledetta canzone, giusto per farmi capire che tipo di genio era, e riuscire poi a catturarmi come un’ape nel miele, in quella che è stata la sua mente contorta. 
Non ho mai avuto indietro il mio accendino.
Scroccone




Le recensioni fanno girare il mio piccolo mondo.
Sarebbe fantastico se scriveste anche solo "ciao", ma ancora di più se fosse una vera recensione, con critiche e tutto, intendo.

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Capitolo 2
*** Dettagli sulla vita di Daniel ***


Prima di continuare con Elia, permettemi di chiarire le cose con Dan.
Egli è un essere umano proprio come voi o me, non un pazzo che si aggira in quartieri malfamati poche ore prima di Natale.
Ok, lasciatemi correggere. Non è solamente un pazzo che si aggira in quartieri malfamati poche ore prima di Natale.
È infatti primogenito di una qualche importante famiglia, trasferitasi in Australia ad inizio del secolo scorso.
Quindi, Dan è australiano.
Almeno, è nato in Australia e quindi è australiano quanto basta: difatti la mia amicizia con lui potrebbe essere considerata solamente un altro modo di manifestare il feticcio che ho da anni con l'Australia.
Un altro modo per renderlo palese (il feticcio, intendo) è probabilmente andarci come meta fissa.
Comunque, i genitori di Dan sono, come la maggior parte dei genitori, adulti decenti.
Ma credo che debba fare qualche precisazione in più.
Madre alta e padre ironico con il quale ho parlato solo via Skype.
Piacciono molto queste precisazioni, in genere.
Il padre credo si chiami Michael, che non è un brutto nome per un padre.
A causa di Michael, lo chiama per nome non papà o cosa simili, Dan è stato sballottato in lungo e in largo per l'Australia.
Ha una cartina, in camera sua, di quell' isola che è anche un continente, ed ha tracciato i suoi spostamenti con un filo di lana rosso, fermato da delle puntine da disegno.
La distanza percorsa è circa il doppio del perimetro del continente, e il filo passa più volte per le stesse città.
Si ferma, il filo intendo, come una musica stroncata, abbandonato a muoversi con la brezza che entra dalla finestra che è lasciata sempre aperta, con una data, che ha più volte cercato di staccare da quella parete, ma che ritorna sempre in quel punto, in un modo o nell' altro; è troppo affezionato.
Quella data segna il giorno nel quale sua madre si è stufata e ha preso figlio, cane e gatto e si è trasferita in Italia, fato volle, nella mia stessa città con poco più di 200.000 anime.
Nonostante non sia quello che si dice un dio greco- ha il naso grosso e la mascella pronunciata del genere poliziotto mentone in un telefilm anni 80- è doveroso dire che ha un bel fisico.
Ha praticato per anni surf. Intendiamoci, ci sono molte cose da fare in Australia, ma nulla è come il surf.
L'unico (non per forza l'unico, ma avete capito) inconveniente è che la tavola da surf porta via il suo spazio.
Starei ore a descrivervi perché la tavola, nonostante il suo ingombro, sia la cosa più bella, perfetta in ogni suo millimetro, che io abbia in casa, ma dubito che vi interessi; qui stiamo parlando di Dan, dopotutto.
-Se non lo aveste notato, il surf è un altro mio feticcio-
Dicevamo, quando Dan si era stufato di fare scatti in avanti e all' indietro e passare ore a mollo in acqua -e soprattutto, sua madre si era stufata di portare sul tetto del pick-up una tavola che stava a malapena sul retro del suddetto- è passato alla boxe.
Perché intendiamoci, i guantoni sono più facili da trasportare di una tavola.
Quindi come fisico è ben messo. Ha dei capelli biondi, che gli arrivano alle spalle, e trovo orrendamente simili al Chase di Dr House, dio, paragone davvero orribile; se mai riuscirò a capire come si caricano le foto, capirete perché.
Ha occhi azzurri, ma non di quel genere di azzurro sono-molto-figo-e-ti-guardo-nel-cuore-e-riconosci-la-mia-figaggine etc etc... Ma piuttosto il blu che puoi vedere in uno sguardo inquisitore, del tipo so-che-hai-fatto-qualcosa-di-male-nella-tua-vita, che non è il genere di colore che cerchi negli occhi della tua spalla su cui piangere. Sanno essere immensi, due buchi neri.
Alle volte, quando dormiamo assieme (perché si, dormiamo assieme, ma come fratelli eh. Nel senso che mi ritrovo i suoi piedi in faccia), mi sveglio e vedo che mi fissa.
Faccio finta di niente e mi giro dall altra parte. Non so come, ma i suoi occhi si vedono anche al buio, e ti fanno cagare in mano.
Comunque, di Dan si può parlare ore senza dire realmente nulla di importante.
Ci stai bene assieme, se riesci a piacergli come amico, ma è una persona strana.
È come quando cacci: passi ore a guardare le prede, ma quando ti notano e cominciano ad avvicinarsi devi sparargli, un colpo secco che tranci la giugulare e sono a terra. Ok, questa della caccia è una metafora un tantino macabra, ma spero di aver reso l'idea.
Se non avete ancora capito, non so come altro descriverlo.
Ha una serie di cicatrici sul corpo, Dan, sulle quali storia non indugerò in questo racconto-rischio di non mangiare a pranzo-tranne per quella sul retro del collo; a detta sua è di pallottola.
È una storia buffa in realtà, che ha come protagonisti, lui, un travestito, un ragazzo con una sola gamba, degli stronzi che non mantengono la parola e avete presente quei grandi banchi frigo dentro i quali i bar tengono i gelati? Come tutte le storie decenti conntiene una buona dose di alcool e di spazi vuoti riempiti con fandonie.
Ripensandoci rimarrà nella memoria collettiva di una storia non raccontata. Ho come l' impressione che sia tutta una bufala, e che se la sia fatta cadendo da qualche parte. Ma Dan è così bravo ad amalgamare le storie con la finzione.
Quindi dicevamo: Dan lancia coltelli, così, trovo che sia qualcosa di estremamente figo.
Dan era come una di quelle persone che incontri alla fermata del bus tra le 12 e le 4 del mattino, non sai bene cosa ci fanno lì, ma in fondo non lo sanno nemmeno loro.
Ti guarda, e non fa altro. A volte scrocca le sigarette alle persone che gli stanno antipatiche, a volte schiocca le dita, forte.
È un povero diavolo.
È stato lui a regalarmi Pantofola, che è tuttora il mio gatto.
Aveva già un solo occhio quando è arrivato in una scatola di cartone rosso, con fiocco e tutto; Dio solo sa dove l'abbia trovato quel micio, ma è il regalo più bello che qualcuno mi abbia mai fatto.






Le recensioni fanno girare il mio piccolo mondo. Sarebbe fantastico se scriveste anche solo "ciao", ma ancora di più se fosse una vera recensione, con critiche e tutto, intendo

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Capitolo 3
*** Trailer 2: Elia ***


Incontrai Elia per la prima volta mentre mi annoiavo al golf, in quella che ho solo un vago ricordo essere la festa della notte di San Lorenzo.
Era un botto multicolore in una notte grigia.


Tutta la serata era passata senza turbarmi, un sottofondo ovattato contro i botti assordanti dei fuochi d’artificio che impazzivano fuori dalla finestra.
Era come se tempo fosse un fiume ed io assieme ai fuochi d’artificio la roccia che si oppone alla corrente, pietra in una poltrona di pelle rossa marmorea, che come ti appoggiavi sullo schienale perdevi tre quarti della visuale.
La gente ci andava a sbattere attorno, come ballava o parlava.
Come il fiume, il fiume di gente o di tempo. E la poltrona-sasso.
Ero in un punto strategico: grazie tante, avevo rigato tutto il pavimento del golf per trascinare quella poltrona che pesava più di me per trovare un posto decente.
Alla fine ero lì, il volto colpito dalle luci della sala riflesse e moltiplicate dalle coppe esposte, ma vicino alla finestra, cosicché quella leggera brezza estiva entrasse e mi scompigliasse i capelli
Avevo una gonna nera che arrivava poco più su del ginocchio, una camicetta bianca, e due scarpe nere laccate, che battevo continuamente per noia, mentre facevo oscillare i piedi che non riuscivano ad arrivare al pavimento.
Una ipercritica bambina di sette anni circondata da una nube di fumo di sigari e persone boriose.
Riguardando la scena ora da un altro punto di vista credo che fui risucchiata da quella dura poltrona, probabilmente la gente nemmeno mi avrebbe visto, se non fosse stato per le gambe in un continuo movimento altalenante.
Stavo così bene.
C'era il vento fresco che non riusciva ad attivare completamente dentro la grande sala, ma che qui solleticava le orecchie e scompigliava leggermente i capelli. Avevo una coda alta quel giorno.

Guardavo, perché la noia porta a guardare tutto, i fotografi mentre si facevano in quattro per scattare le migliori foto di gruppo.
La gente chiamava quegli uomini sulla quarantina, con pochi capelli e sudati, con un cenno del capo o una mano alzata, e quelli arrancavano sotto il peso di grandi borse nere per trasportare le macchie fotografiche e gli obbiettivi telescopici. Avevano ancora la giacca, poiché l’etichetta lo imponeva.
C'era la moda delle foto di gruppo, in quel periodo.
Gruppi per campo, gruppi per anno, gruppi per amicizia, gruppi per gara, gruppi per tavolo, gruppi per tutto.
Dio mio, gruppi dentro un gruppo.
Quanto sono complicate le persone.
Tutti che si mettevano in posa per le foto, e poi, un millisecondo prima di fare lo scatto quando ormai non c’era piu tempo per fermarsi, c’era questo bambino, che arrivava da dietro e tirava fuori la lingua, incrociava gli occhi e alle volte gonfiava le guance.
Era sotto tutti i flash in un modo o nell’ altro, costantemente illuminato, sgomitava e riusciva a proiettarsi tra il fotografo e i soggetti, discretamente, ma rovinando la foto.
Il fotografo se ne accorgeva, e allora scattava un'altra foto.
E lui ricompariva.
E le persone non se ne accorgevano e dopo poco si stufavano di rimanere in posa e andavano a mangiare, e il bambino ricominciava il giro, tra le gonne delle signore e flash luminosi, e io stavo lì a guardarlo.
A un certo punto si allentò il nodo della cravatta e la portò sulla fronte.
Sorrisi.
Ed era la prima cosa che mi avesse fatto ridere quella serata.
Ma faceva troppo caldo, c’era troppa gente.
I flash delle macchine fotografiche mi davano fastidio.
E la musica mi dava fastidio.
Presi un respiro grande quanto mi permetteva il vestito, e comincai ad andare verso l’uscita.
Addio poltrona.
Il rumore dei tacchi si sentiva a malapena sul pavimento di legno, ma rimbalzava sulle pareti , sul soffitto e sulle colonne di marmo, della hall, che era deserta.
Arrivavano ancora la voci ovattate della gente, che passavano anche attraverso le doppie porte dato il volume sproporzionato.
Scavalcai, in modo molto femminile s‘intende, il cordone rosso, che in teoria vietava l’accesso ai giardini, almeno per quella sera.

E in poco tempo arrivò anche lì, nei giardini.
Il ragazzo delle fotografie. Sentii prima il rumore dei passi e solo dopo essermi girata lo vidi: seduto, gambe che oscillavano pericolosamente, sul carrello che segna "illustre circolo del golf" o qualche altra cazzata simile.
Tutti i bambini che ho conosciuto hanno la strana abitudine di oscillare le gambe.
A me è rimasta.
Era alto come me quel cartello al tempo, e lui era lì sopra e mi dava la schiena.
Ora è un ottimo poggiamiti, il cartello intendo.
Tremava leggermente, quindi credevo che piangesse, ma dopo mi accorsi che inghiottiva.
Mangiava qualcosa, ma vedevo solo la sua schiena quindi non sapevo cosa fosse.
Aveva ancora la cravatta sulla fronte, che gli stringeva i capelli scuri ricordando un’hippie in miniatura, nodo ancora sulla tempia destra, e i lati lunghi della cravatta, che gli scendevano fino sulla schiena ricurva senza giacca. Mi appoggiai ad un muretto, distogliendo l'attenzione da lui.
Mia madre parlava poco distante con una signora della quale non ricordo nemmeno la faccia.
Ero uscita per non vedere più persone, e per non diventare un tutt’uno con la poltrona, non per conoscere nuova gente.
Guardavo quel bambino, nonostante tutto con la coda dell’occhio.
Sono sempre stata una bambina abbastanza curiosa.
E sapevo, in qualche modo, che meritava la mia curiosità.
Notai che mi fissava, lo sentii più che vederlo, come un formicolio alla base del collo. Come voltai la testa per guardarlo, non la smise, girava la testa e appoggiava il mento sulla spalla.
Lui mi dice: “Lo vuoi un biscotto?”
Era un cretino che non sapeva che se fosse andato dentro quelle porte di vetro e avesse attirato l'attenzione di uno di quei bei ragazzi vestiti da pinguino, gli sarebbe stato dato tutto: dalle ostriche ai biscotti.
Ed io ero una bambina indecisa tra il farglielo notare a farmi un nuovo amico.
Glielo feci notare.
“Allora niente biscotto?”
Lo fissai, lui mise la mano dentro il sacchetto e si riempì la bocca di briciole.
Masticava con la bocca aperta.
Allungai la mano, non smettendo di fissarlo.
Lui mi guardò.
Poi guardò la mia mano. Poi di nuovo me.
Io guardavo lui e la mia mano.
La mia mano si sentiva in imbarazzo.
Svuotò le briciole e i pezzi di biscotti rimanenti dentro il sacchetto sopra il palmo della mia mano.
Tutte le grandi amicizie cominciano con del cibo.
O con delle sigarette.



Le recensioni fanno girare il mio piccolo mondo. Ci tengo dirvi che le foto di gruppo di quella sera sono le uniche che trovano spazio sulla mia scrivania.
Un grazie speciale va a Marco per avermi aiutato, mostrandomi le foto di me sulla poltrona e di Elia, e di tutta la serata.
Questa schifezza è anche colpa sua, tirateli a lui i pomodori.

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Capitolo 4
*** Parlando di Elia... ***


Prima di dire qualsiasi cosa riguardo a Elia, devo fare una precisazione: il ragazzo del quale vi parlerò, che ho incontrato in piena estate, quando ero meno alta di un metro e che è stato il mio migliore amico, con il quale ho corso, riso e scherzato non si rende nemmeno conto di non essere un ragazzo, ma solamente il ricordo di un ragazzo.
Quindi non è l’Elia che potreste incontrare passeggiando per strada e con il quale potreste cianciare riguardo al tempo: il protagonista dei miei racconti, delle mie memorie e dei miei ricordi è differente, semplicemente perché Elia stesso è cambiato con il tempo.
Adesso condivide solamente lo stesso nome con il mio ricordo.

Detto questo, direi che possiamo iniziare.
C'è un bambino che gioca, che corre con le braccia alzate e gonfia le guance, piroetta su se stesso, vortica sui piedi, inciampa sulle sue caviglie e le ginocchia gli cedono, ora è tutt’uno con il terreno.
Poi si rialza, appoggiandosi peso sulle mani, i pugni stringono i fili d'erba troppo lunghi e poi, con un colpo di reni trasferisce tutto il suo peso sulle spalle e comincia a camminare sulle braccia: passi morbidi, instabili e veloci. Arriva ad un punto nel quale anche le braccia gli cedono e lui ruzzola in avanti piegando il collo, si rialza e ricomincia a correre, come fosse un pazzo.
Condivido con voi il pensiero che questa descrizione non è l’ideale per iniziare: dovrei cominciare dall’aspetto fisico ecc. ecc., ma ritengo che la cosa che mi aveva colpito nel primo momento nel quale ho guardato Elia non siano state le sue spalle ossute o le clavicole sporgenti, e nemmeno le ciglia lunghe, di quel tipo talmente bello che una qualsiasi ragazza sarebbe disposta ad uccidere per averle; la prima cosa che io, bambina di sette anni annoiata notai, guardando Elia, fu il suo sorriso.
Come tutte le cose meravigliose, anche il sorriso di Elia è difficile da descrivere: pensate al più bel sorriso che voi abbiate mai visto: non dico quei mezzi ghigni o sorrisetti affettati, qui sto parlando del Più Bel Sorriso.
Concentratevi, passate in rassegna amici, familiari, conoscenti e sconosciuti; perfino quei cugini che non vedete mai, finché non lo trovate.
Ora, sempre che siate così fortunati da averne mai visto uno, quello è il tipo di sorriso che illuminava la faccia di Elia, muovendo addirittura le orecchie e arricciando leggermente la punta del naso.
Direi ora di andare più sul generale, quelle cose che sono ritenute poco importanti e delle quali non si parla ai primi appuntamenti per non fare brutta figura o sembrare strani: quei dettagli che come schegge di vetro, una volta accostati compongono il nostro riflesso.
Ma qui stavamo parlando di una persona, non specchi, quindi: Elia ha questa nonna, da parte materna, partita di testa che gli invia soldi per il compleanno quattro volte l'anno; aggiungete voi i vari onomastici e il Natale che si ripetono una decina di volte. Questo porta ad avere una proficua cassa di fondi per le gite al supermercato prima di qualsiasi maratona di film, che sembra prosciughi tutto il denaro che la nonna smemorata sperpera, perché Elia è sempre al verde.
Vi potreste forse chiedere: “cosa diavolo combina un ragazzo che vive ancora con i genitori con dei soldi?”
Presto detto: Elia non accumula soldi, non ne fa pile e non li spreca in cibo, dato che un portacenere pesa più di lui.
Con quei soldi Elia ci compra vestiti, è davvero il ragazzo con più vestiti che io conosca, e credetemi quando vi dico che conosco abbastanza ragazzi.

Avete presente quei film anni 50, nei quali i protagonisti fanno saltare le monetine sui binari del treno? Quelli nei quali tutti bevono costantemente frappè senza mai ingrassare e che hanno sempre dei vinili sottobraccio?
Ecco, Elia e io siamo cosi, solo che noi il frappè lo chiamiamo milk-shake, che fa più moderno.
Facciamo anche quella cosa dei binari, che, per quanto stupida, ci piace: mettiamo l'orecchio su quelle dannate rotaie, e sentiamo le vibrazioni del treno che arriva, e ci sembra essere dei fottuti indiani d'America mentre aspettano l'arrivo di una mandria di cavalli.
E dopo corriamo appena sentiamo un fischio, o vediamo delle scintille, perché abbiamo visto troppi film nei quali tante persone fanno una brutta fine, e ritorniamo quando il ferro è ancora caldo e lucido, a recuperare quelli che una volta erano 50 centesimi, e ora sono 50 centesimi a dieta.
La prima volta che li chiamai così, Elia rise. E io impazzisco quando lui ride.

Elia è uno showman; più per scena che per altro: s’improvvisa attore per scacciare la noia, se ne esce con tutto da niente.
Eravamo al circolo un giorno nuvoloso di novembre, il che è un bene e un male allo stesso tempo, la nebbia intendo: quando c'è (la nebbia) nella mia città non c'è niente altro, quando c'è, non riesci a vedere assolutamente nulla. Il che preclude giocare a golf, ovviamente. Quindi si trasforma in un bene per noi perché il circolo è vuoto: il barman e i camerieri non vengono neppure, quando c'è nebbia, ci siamo solo noi e le statue.
Ed è ancora un male perché ci annoiamo.
Ma è ancora un bene perché guardo come Elia diventa un attore: gli basta solo un pubblico, e siccome Elia è l'attore, io e Dan siamo il pubblico.
Si improvvisa ballerino di Tiptap nei bagni rimbombanti, muove passi di tango aggrappandosi disperatamente alle tende rosse, diventa un attore fallito caduto in una depressione con varie sfortune, esagitato studente nel maggio francese, codardo soldato nella guerra di Spagna, hippie canterino di San Francisco, scrittore che non puo pronunciare la “enne”, vecchia ipocondriaca, qualsiasi cosa ti venga in mente; tu la nomini e dopo un momento è lì, sotto le false sembianza del tuo migliore amico.
Ha fatto un provino una volta, solo perché aveva perso una scommessa con me: lo hanno cacciato perché ha portato come argomento il complotto riguardo alla morte di Letcher.
Dio, a volte sa come essere stupido.

Ha avuto due risse nella sua vita, le ha perse entrambe.

"Cioè, non che ci abbia mai fatto molto con quella racchetta, andiamo, era uno schifo" ha detto scuotendo la testa. Scuote la testa abbastanza di frequente.
Parlavamo di racchette da tennis e di mazze da golf; quale altro argomento da trattare alle due di mattina, mentre giocavamo a canasta.
È un genio di canasta, mi batte sempre, non importa a che ora si svolga la partita o quanto io imbrogli, lui riesce a vincere.
Avevamo finito di mangiare un qualcosa preso al giapponese.
Se c'è una cosa che Elia non sa fare è mangiare con le bacchette del giapponese, ma ama andarci, a quel ristorante fatto per crudisti, e fare un casino assurdo.





Angolo Autore:
Sarei felice se qualcuno recensisse, anche solo per dire che non vi interessa una cippa fritta di quello che fa Elia, ma sappiate che io continuerò a scrivere, non importa quanto sia poco interessante.
E dopo esigo le scuse per aver insultato la monotonia di Elia.

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