90 Degrees South

di Koori_chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Be Careful What You Wish For ***
Capitolo 2: *** 2. Some Friendly Ghost ***



Capitolo 1
*** 1. Be Careful What You Wish For ***









Novembre 2010, Oxford


Ovviamente pioveva.
Katie aveva passato l’intero pomeriggio a lagnarsi, lanciando scarpe e vestiti dentro e fuori l’armadio, mentre la sua compagna di stanza, seduta a gambe incrociate sul letto, disegnava pigramente con un dito sulla finestra appannata, per nulla sconvolta.
- Lo so che non te ne frega nulla, Leslie, ma almeno potresti fingere! – si lamentò Katie, sbuffando sonoramente e lasciandosi cadere a peso morto sul materasso.
Leslie si strinse nelle spalle e le passò il sacchetto di biscotti al cioccolato da cui aveva pescato fino a quel momento.
- Non è che non me ne frega nulla, solo non riesco a vedere il dramma. Piove, e quindi? Porteremo un ombrello! – commentò senza particolare enfasi.
Lei e Katie si erano conosciute quasi due mesi prima, quando Leslie era stata assegnata al suo dormitorio. Doveva ammetterlo, era stata fortunata: Katie era una ragazza in gamba, gentile e premurosa, avevano gli stessi gusti in fatto di cinema e di musica e non ficcanasava mai eccessivamente nei suoi affari; condividere la stanza con lei era stato meno traumatico del previsto e in fin dei conti aveva preso a considerarla un’amica. L’unico problema di Katie era il suo entusiasmo.
- Tesoro, a Oxford piove anche da sotto in su! Ombrello o no, saremo fradice ancor prima di arrivare! Ci tenevo che tutto fosse perfetto il giorno della tua festa! –
Ecco, appunto.
Leslie si concesse il primo vero sorriso della giornata.
- Innanzitutto non è la mia festa, ma la festa delle matricole, che per altro è super illegale e se ci beccano ci espellono tutti quanti. E poi su, un po’ di pioggia non ha mai ucciso nessuno! – commentò ficcandosi in bocca due biscotti alla volta.
- Ah, ma che illegale e illegale! Le sfere alte sanno benissimo che la facciamo, ogni tanto viene anche qualche professore! Piuttosto, tu hai già deciso che cosa metterti? –
La ragazza annuì e indicò un fagotto abbandonato sullo schienale della sua seggiola.
- Nero? Santo cielo, Les! Un po’ di vita! – esclamò l’amica, alzandosi e tornando a raspare nel suo armadio alla ricerca di qualcosa di vagamente colorato da prestarle.
La verità era che Katie aveva ragione, a Leslie non fregava assolutamente nulla di partecipare a quella dannata festa. Fosse stato per lei se ne sarebbe stata volentieri al dormitorio, le cuffie dell’iPhone ben ficcate nelle orecchie e lo sguardo perso nel diluvio fuori dalla finestra, ma era da quando era arrivata a Oxford che rifiutava tutte le offerte dell’amica, e alla fine era stata costretta a cedere, più per non offenderla che per un vero desiderio di partecipare alla vita di comunità.
Una cosa che Katie non aveva assolutamente voluto recepire era che Leslie non aveva alcuna intenzione di integrarsi.
Lei odiava quella scuola, odiava i corsi e, fatta eccezione per Katie (anche se ogni tanto diventava difficile sopportare anche il suo inesauribile zelo) odiava gli studenti.
Cosa poteva aspettarsi da una festa universitaria a Oxford? Musica che non avrebbe apprezzato, cocktail che non l’avrebbero fatta ubriacare nemmeno per scherzo, mocassini brutti, pullover a rombi e interessantissime conversazioni sul fatturato annuo della Apple.
Era con questa meravigliosa prospettiva che, un paio d’ore dopo, si era incamminata assieme alla sua amica alla volta della festa. Katie aveva ragione, a Oxford la pioggia sembrava provenire da tutte le direzioni e le due erano arrivate bagnate fradice, ma dentro al locale faceva così caldo che le punte dei loro capelli si erano asciugate in un attimo.
Come da pronostico la musica faceva schifo e nei cocktail c’era talmente tanto ghiaccio che l’alcool andava allegramente a farsi benedire, ma a fine serata, più o meno attorno alle due, Leslie aveva dovuto ammettere che non era stato un evento così schifoso come se l’era aspettato. Nonostante se ne fosse stata quasi tutta la sera seduta accanto al muro e si fosse alzata solamente per prendere da bere, qualche temerario compagno di corso aveva osato rivolgerle la parola e in fin dei conti era quasi stato piacevole chiacchierare con dei completi sconosciuti.
Certo, l’aspetto veramente positivo della vicenda era che si trattava di un qualcosa di temporaneo: Leslie sapeva benissimo -e nonostante tutto lo sapeva anche Katie- che il giorno dopo lei e i suoi nuovi amici della festa sarebbero tornati ad essere perfetti estranei. Magari si sarebbero rivolti un cenno di saluto nell’incontrarsi al di fuori delle aule, forse addirittura avrebbero potuto mangiare assieme, ogni tanto, ma nulla di serio, nulla di impegnativo.
- E’ stata una bella serata, vero? – commentò Katie lasciando scivolare l’ombrello nel bidone della spazzatura che avevano abilmente trasformato in portaombrelli.
Leslie annuì e si sfilò la giacca, appendendola nell’armadio per poi andare a cercare il suo pigiama appallottolato sotto il cuscino.
- Non male, in effetti! – le concesse.
- Ah, fantastico! Allora se ti sei divertita devi assolutamente venire a... – ma la ragazza l’interruppe immediatamente alzando una mano in sua direzione.
- Calma, calma! Ora ho bisogno come minimo di un mese per riprendermi! – scherzò.
Katie però parve non cogliere l’ironia, ferma in mezzo alla stanza con lo spazzolino da denti in una mano e il dentifricio nell’altra.
- Les, non voglio essere pedante, ma davvero questa cosa non è normale. Sei a Oxford da due mesi ormai e non hai ancora conosciuto nessuno! Capisco che tu non sia esattamente quel tipo di persona che apprezza la folla, ma... Insomma, sei sicura che vada tutto bene? –
Anche Leslie interruppe quello che stava facendo, la maglietta del pigiama infilata solo per le maniche e le labbra serrate.
Katie aveva ragione, lei non aveva amici. Non ci aveva nemmeno provato, e quando qualcuno le si avvicinava trovava sempre una scusa per evitare la conversazione.
Come ad ogni proposta della sua compagna di stanza, anche con chi cercava di essere amichevole con lei la reazione era sempre la stessa: “ grazie, non sono interessata”.
L’unica cosa che davvero desiderava era diventare invisibile, inconsistente, un fantasma. Proseguire per inerzia senza che nessuno sapesse di lei.

In effetti, la domanda era più che legittima: era sicura che andasse tutto bene?
- Tranquilla, Katie, non sono sociopatica. E’ solo che... ho bisogno dei miei ritmi, tutto qui. Ma ti ringrazio per le premure! – le sorrise nel tentativo di toglierle di dosso quell’espressione afflitta e caritatevole.
Detestava sentirsi trattare come un cucciolo indifeso o un bimbo abbandonato. Detestava la compassione del suo prossimo, le premure, vere o false che fossero, di chi voleva a tutti i costi che fosse felice.
Finì di cambiarsi e scivolò sotto le coperte, inforcando le cuffie e lasciando che la riproduzione casuale le suggerisse qualche brano adatto per dormire, mentre la coinquilina spegneva la luce e la imitava.
Forse non era stata gentile nei confronti di Katie, forse avrebbe davvero potuto fingere, lasciarle credere che si fosse divertita un mondo anche se in realtà trovarsi costretta in un luogo isolato con persone che non conosceva e non voleva conoscere era il suo incubo peggiore.
Forse era davvero sociopatica, forse avrebbe dovuto piantarla di essere così negativa in ogni aspetto della sua vita.
Dopotutto aveva i soldi, aveva la salute.
Sì, ma bastava?
Leslie Compton, diciannove anni e la strada già spianata di fronte a sé, si guardava allo specchio e non vedeva nulla se non una voragine di cupa incertezza.
La vita non le era mai sembrata così vuota e insensata come in quei giorni.











_90 Degrees South_














1- Be Careful What You Wish For







Aprile 1911, dall’altra parte del mondo


Capitava un po’ a tutti di svegliarsi durante la notte. A volte era un refolo di freddo che si insinuava subdolo nel sacco a pelo e infilava le sue lunghe dita nodose giù per il collo, altre volte era perchè l’abitante della branda sopra alla propria russava poderosamente, altre volte ancora, come quella notte, era perchè bere molto prima di andare a dormire era spesso un’arma a doppio taglio.
Apsley Cherry-Garrard aveva cercato in tutti i modi di ignorare il fastidio, dannatamente riluttante all’idea di lasciare il suo sacco a pelo nel mezzo della notte, ma ogni suo sforzo si era dimostrato inutile e alla fine, facendo il più silenziosamente possibile, era sgusciato via dalla sua branda fino alle stalle.
Il freddo si era immediatamente impadronito delle sue membra, congelandogli i pensieri. In un’altra occasione un gelo simile lo avrebbe probabilmente svegliato del tutto, ma la totale assenza di vento – un miracolo – e l’aurora che si rincorreva nel cielo lo avevano avvolto come in un velo di sogno, così che non aveva prestato troppa attenzione a quello che faceva, tutto concentrato a finire il più in fretta possibile e tornarsene al calduccio a dormire ancora un po’.
Ancora intontito dal sonno, quindi, il ragazzo aveva dato una pacca sul muso al pony che aveva affettuosamente salutato il suo arrivo con uno sbuffo contenuto, poi aveva fatto dietrofront verso la baracca.
Fra la penombra e gli occhiali che aveva dimenticato all’interno era decisamente grato di aver ormai imparato il percorso a memoria, e quando raggiunse nuovamente la sua branda senza essere inciampato su nulla o nessuno si poté ritenere soddisfatto.
Un russare sommesso lo informò che quella locomotiva di Birdie stava ancora dormendo della grossa, e ben deciso ad imitarlo al più presto sollevò un lembo del suo sacco a pelo.
Non gridò per miracolo, ma lo spavento gli fece fare un considerevole balzo all’indietro: nel suo sacco a pelo c’era una persona.
Che gli avessero fatto uno scherzo? Ma a quell’ora della notte? Chi diamine era che gli aveva fregato il suo posto al calduccio? Si voltò, ma gli altri tre letti erano tutti occupati dai loro proprietari.
A tastoni nel buio riuscì finalmente a raggiungere i suoi occhiali, e di colpo i contorni assunsero nitidezza. Era buio, ma dalla finestra giungevano ancora i tenui bagliori dell’aurora e questo gli permetteva quanto meno di distinguere le figure.
Tratto un respiro vagamente scocciato, tornò a chinarsi sulla sua branda, curioso di vedere chi fosse quel burlone che aveva pensato bene di fregarlo, ma quando le sue pupille si posarono sull’immagine di una ragazza improvvisamente sentì tutto il gelo che non aveva percepito prima crollargli addosso.
Indossava una maglia che le lasciava le braccia scoperte ed era accovacciata su un fianco, il braccio destro sotto la testa e il sinistro abbandonato fuori dal sacco a pelo.
Il ragazzo si guardò nuovamente attorno, quasi una spiegazione a quell’assurdità avesse potuto emergere dalle pareti. Da dove arrivava quella sconosciuta? Come diamine aveva fatto ad entrare? E soprattutto, com’era possibile che non stesse congelando?!
Forse era morta. Forse era un cadavere.
Ma no, che sciocchezza! Come avrebbe fatto un cadavere ad arrivare fin lì?
Certo restava il fatto che nemmeno un essere umano vivo avrebbe dovuto poter raggiungere la sua branda. Che fare dunque?
Completamente preso dal panico, non pensò nemmeno e semplicemente portò una mano in avanti, pronto a scuotere vigorosamente la sconosciuta per le spalle per svegliarla e chiedere spiegazioni direttamente a lei.
Questa volta, l’urlo fu inevitabile.
- Cosa?! – fu la replica terrorizzata che giunse dalla branda.
- Chi diamine sei tu?! – rispose il ragazzo cercando disperatamente di non urlare ancora e ottenendo come unico risultato di lasciarsi sfuggire un mugolio acuto e terrificato: la sua mano aveva attraversato da parte a parte la ragazza come se fosse stata di puro spirito.
- Co-cosa? Cosa? – chiese ancora la giovane, palesemente intontita dal sonno e dalla violenta testata che aveva dato alla cornice di legno della branda.
Spaesata, si guardò attorno nel tentativo di capire che cosa stava succedendo ma, proprio come colui che l’aveva svegliata, non dovette trovare risposte soddisfacenti ai suoi quesiti e si limitò a strillare.
- Chi sei? Dove sono? Che cosa è successo? Che cosa è successo?! –
- Sssh! – fece il ragazzo nel portare l’indice davanti alle labbra.
- Cherry, chiudi il becco! – una nuova voce si fece sentire alle spalle del giovane, che si voltò disperato.
- Atch, Atch, aiuto! –
- Che cosa succede?! – continuava intanto la ragazza, terrorizzata.
Atch sbuffò ed emerse dalla sua branda, circumnavigando quella che lo separava dal luogo del delitto.
- Cherry, sei impazzito? Che hai da gridare? Cosa diamine?! – si interruppe nel notare la sconosciuta seduta sul letto, gli occhi sgranati nella penombra della notte.
- Che succede? – un’altra voce si levò assieme alla testa a cui apparteneva dalla branda di mezzo.
- C’è una ragazza nel mio letto! – piagnucolò Cherry.
La voce propruppe in una risata sommessa.
- Quanta purezza! –
- Titus, c’è davvero una ragazza! – sibilò però Atch, decisamente più serio.
Dalla branda di sopra, nel frattempo, Birdie aveva smesso di russare.
- Una ragazza?! – esclamò infatti spuntando a testa in giù dal piano superiore del letto a castello.
La ragazza in questione, nel frattempo, continuava a spostare lo sguardo da un viso all’altro, sempre più confusa.
- Chi siete?! – balbettò, la voce sempre più incrinata.
Atch fece un passo avanti e si chinò verso di lei, cercando di assumere l’espressione più rassicurante che riuscisse a fare.
- Stia tranquilla, signorina, va tutto bene. Sono Edward Leicester Atkinson e ci troviamo a Cape Evans, in Antartide. E lei è? –
Ma le sue parole, scelte con cura, non ebbero l’effetto desiderato.
La ragazza balzò in piedi, colpendo una seconda volta il legno con la testa.
- Antartide?! Non è possibile! E’ uno scherzo. E’ stata Katie? Dai, piantatela, basta! – continuò imperterrita portandosi una mano fra i capelli a massaggiare il punto che aveva sbattuto.
- Signorina, le assicuro che non si tratta affatto di uno scherzo. – cercò di farla ragionare Atch. Non sentì l’ammonimento di Cherry, non in tempo, per lo meno, e la mano che era andato a posare sulla spalla della giovane proseguì nel vuoto finchè l’uomo non la ritrasse con un sussulto.
- Cosa vuol dire?! – sbraitò la ragazza, ormai con le lacrime agli occhi.
- Atch? – Titus era sceso dalla sua branda ed era andato ad affiancare gli altri due, mentre Bridie ancora osservava la scena dall’alto.
- E’ uno spirito? – domandò confuso quello.
- Che sciocchezza! – replicò Atch.
- Ma hai visto anche tu! Non la si può toccare! – riuscì finalmente a dire Cherry senza balbettare.
A quel punto fu la voce della sconosciuta, tremante e spezzata, a farsi strada nella penombra.
- Sono uno spirito? Significa... significa che sono morta? Non è possibile! Io... io non ricordo di essere morta! Non posso essere morta, dico bene? – la sua respirazione si era fatta sempre più irregolare e le lacrime avevano preso a rotolare senza freno giù dalle sue guance.
Finalmente Birdie si decise a scendere dal suo nido e si sedette accanto alla ragazza, che nel frattempo era di nuovo crollata sul sacco a pelo.
- Sono sicuro che c’è una spiegazione a questo fenomeno, non si preoccupi! – cercò di incoraggiarla, ma ormai il terrore si era impadronito di lei e i singhiozzi si erano fatti più profondi e disperati.
- Non posso essere morta, non ha senso! Sono in coma? Forse sto sognando? Deve essere così! Devo svegliarmi! –
- No che non stai sognando! Noi siamo reali! – intervenne Cherry, ma Titus levò un braccio per impedire che si avvicinasse e gli rivolse un’occhiata di rimprovero, mentre la ragazza scuoteva ancora la testa ripetendo parole sconnesse.
- Vai a chiamare Bill, svelto. – ordinò.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e, ormai completamente sveglio, scivolò verso il fondo della baracca, dove dormiva Bill Wilson.
Era un miracolo che gli altri non si fossero svegliati con quel putiferio e ringraziò il cielo che a separarli dagli alloggiamenti del Capitano ci fosse un muro di legno.
Raggiunta la branda di Bill pregò che nessun altro lo sentisse e si accinse a svegliarlo.
- Bill! Bill! Sveglia! – lo chiamò in un sussurro, scuotendolo piano.
L’uomo aprì prima un occhio e poi l’altro.
- Cosa c’è? –
Cherry non disse nulla e gli fece segno di alzarsi; nonappena fu in piedi il ragazzo riassunse brevemente quanto successo, trascinandolo letteralmente verso la sua branda.
Quando voltarono l’angolo la situazione era esattamente come l’aveva lasciata: la giovane era ancora seduta sul suo letto e Atch stava cercando in tutti i modi di calmare il suo pianto irrefrenabile.
- Coraggio, respira con me. Uno... due... – continuava a ripetere senza successo.
- Cielo... – commentò Bill in un sussurro.
Titus lo affiancò, le braccia conserte e l’aria perplessa.
- Sta avendo una crisi isterica, non riusciamo a calmarla. – lo ragguagliò.
- Accendete una luce. – ordinò con immensa serietà mentre Atch lo salutava con un sospiro sollevato e gli cedeva il posto davanti alla branda.
Bill Wilson si piazzò di fronte alla sconosciuta e attese che il fioco lumino della lampada che Cherry usava per leggere rischiarasse appena la zona.
Si trovò dunque faccia a faccia con una ragazzina dai capelli biondi portati in un caschetto irregolare nei cui occhi gonfi e arrossati poteva leggere tutto il terrore del mondo.
Con estrema calma, attese che la giovane lo guardasse negli occhi e incominciò.
- Mi chiamo Edward Adrian Wilson, sono qui per aiutarti. Vuoi dirmi come ti chiami? – esordì.
Incredibilmente, i singhiozzi della ragazza si calmarono, permettendole di rispondere seppure con voce flebile.
- Leslie Compton. - fece, tirando su col naso.
- Sono morta? – chiese, incapace di allontanare il suo sguardo dai calmi occhi azzurri di Bill.
Quello sorrise gentile e scosse piano la testa.
- Non credo, altrimenti non potresti parlarmi. Però c’è un mistero che dobbiamo chiarire. – così dicendo alzò piano una mano, il palmo rivolto alla giovane e le dita bene aperte.
Leslie lo imitò, e lentamente l’uomo andò a sfiorare la mano della ragazza, senza poter impedirsi di rimanere alquanto stupito quando le loro dita si passarono attraverso come nebbia la mattina presto.
Non ritrasse la mano, anzi, la lasciò ferma dov’era a un soffio dall’altra, e chi non avesse prestato attenzione avrebbe potuto giurare che i due palmi fossero in contatto.
Quello strano gesto riportò finalmente il silenzio nella baracca, fatta eccezione per qualche sospiro tremolante da parte della ragazza.
Leslie Compton aveva ancora gli occhi appannati dalle lacrime, ma nella luce fioca della lampada le iridi azzurre dell’uomo inginocchiato di fronte a lei le sembravano l’unica ancora in mezzo all’assurda tempesta nella quale era capitata e quello strano gesto, quello sfiorare il palmo di quella mano che sembrava provenire da un altro mondo, seppur inconsistente era la certezza di essere viva e di essere lì per davvero: nei sogni non si riesce a vedere le proprie mani.
- Che cosa mi è successo? – domandò, azzardandosi a lanciare qualche occhiata furtiva agli altri individui in piedi attorno alla branda.
Il tizio seduto accanto a lei era probabilmente l’essere umano più brutto che avesse mai visto: aveva un naso enorme e adunco e una zazzera di corti capelli rossi e il suo sorriso, che forse voleva essere incoraggiante, lasciava intravedere denti storti e gengive rosa.
Poi vi era Wilson, l’uomo che era arrivato per ultimo e che l’aveva tranquillizzata con i suoi occhi di cielo e il sorriso paterno. Aveva il naso dritto e la fronte alta e qualcosa nel suo modo di fare, pacato e tuttavia autoritario, lo rendeva senza dubbio un individuo affascinante.
Accanto ad Atkinson, l’uomo dai lineamenti marcati che aveva scoperto essere un dottore, se ne stava a braccia conserte quello che avevano chiamato Titus. La sua espressione era indecifrabile, ma il modo in cui la scrutava metteva Leslie decisamente a disagio.
Per ultimo, in disparte quasi avesse voluto chiamarsi fuori dall’intera faccenda, c’era il ragazzo che l’aveva svegliata. Gli occhialetti rotondi gli conferivano sicuramente più anni di quanti ne avesse, e a occhio e croce doveva essere il più giovane del gruppo. Aveva l’aria di una di quelle tediose matricole di Oxford con i pullover a rombi e i mocassini brutti che aveva tanto temuto di incontrare alla festa.
Già, la festa.
Lì per lì aveva pensato, negli ultimi momenti di lucidità prima che il panico prendesse il posto della ragione, che i cocktail avessero fatto effetto in ritardo, ma ormai anche l’ipotesi coma etilico era da escludere.
- Non possiamo dirlo con certezza. Cherry ha detto che ti ha trovata qui, per ora le informazioni riguardo alla tua comparsa si limitano a questo. Qual è l’ultima cosa che ricordi? – domandò con gentilezza Wilson.
Leslie si passò una mano sulle guance per asciugare le lacrime cercando contemporaneamente di fare mente locale.
- Ero tornata dalla festa. Era tutto normale, Katie ha spento la luce, siamo andate a dormire... Mi sono addormentata come tutte le sere e poi mi sono svegliata perchè quel ragazzo mi ha gridato nelle orecchie... – riassunse.
- Beh, si da il caso che quel ragazzo si sia trovato una perfetta sconosciuta nel letto, e considerando che in teoria abbiamo abbandonato ogni fanciulla in Nuova Zelanda nel ’10 e sono passati ormai cinque mesi credo sia normale essere quantomeno sorpresi in seguito a un simile ritrovamento. – borbottò piccato Cherry.
- Cinque mesi?! Come è possibile? Aspettate, che... che giorno è? – sbottò Leslie, sempre più sconvolta da quella faccenda.
Fu il tizio seduto accanto a lei a risponderle, mostrandole nuovamente i denti in un tentativo di gentilezza non molto convincente.
- E’ il 23 Aprile 1911! –
Silenzio.
A quell’informazione gli occhi della ragazza si spalancarono così come la sua bocca.
1911.
Non solo si era risvegliata dall’altra parte del mondo, ma pure cent’anni indietro nel tempo!
Chi regnava in Inghilterra nel 1911? C’era ancora la Regina Vittoria? Hitler non era nemmeno ancora famoso a quell’epoca! Come diamine aveva fatto a finire in Antartide nel 1911?
La droga! Forse l’avevano drogata! Avevano messo qualcosa nei drink!
Era plausibile... Ma l’Antartide? Seriamente? Doveva far luce su quell’assurdità al più presto.
- Io devo tornare a casa. – sentenziò, lo sguardo fisso nel vuoto.
- Sarebbe a dire a ...? – la incalzò Titus, che non aveva smesso un momento di squadrarla di sottecchi.
- Oxford. Vivo a Oxford. –
Forse avrebbe dovuto metterli a parte del piccolo dettaglio dei cent’anni di differenza, ma aveva paura che a una simile confessione l’avrebbero presa per pazza, e se voleva tornare a casa era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
Fu a quel punto che Atkinson, ricordandosi di essere un medico, pose la questione probabilmente più intelligente dell’intera nottata.
- Chiedo scusa, ma... Non hai freddo? –
Leslie non colse immediatamente il senso di quella domanda. Certo, era in Antartide, ma evidentemente all’interno di quella specie di baracca la temperatura era normale dal momento in cui il suo pigiama era più che sufficiente per tenerla al calduccio.
Solo dopo, quando considerò che effettivamente era in Antartide e nel 1911 probabilmente non c’era il riscaldamento come lo intendeva lei, notò che i cinque uomini attorno a lei erano imbacuccati con maglioni pesanti e calzettoni di lana.
Senza trovare il coraggio di proferire parola, tanto quell’intera situazione le sembrava assurda, si limitò a scuotere la testa.
Atkinson e Wilson si rivolsero una lunga occhiata silente, mentre l’uomo a braccia conserte sbuffava sarcastico, il tizio brutto strabuzzava gli occhi e il quattrocchi scuoteva la testa annicchilito.
- Qui sta succedendo qualcosa di davvero molto strano... – considerò il medico nel portarsi una mano a sorreggere il mento con espressione pensosa.
Fu a quel punto che qualcosa si mosse dalla branda al di sopra di quella di Atch.
- Cos’è successo? Perchè siete tutti in piedi? – si udì una voce strascicata.
- Oh, nulla, Meares, abbiamo semplicemente ricevuto una visita inaspettata, torna pure a dormire. – lo liquidò con un’ironia quasi seccata Titus.
Wilson roteò gli occhi.
- Ragazzi, credo che sia davvero il caso di sottoporre la questione al Capitano. – ammise nonostante la sua voce lasciasse trasparire una certa riluttanza.
Per quanto concesso dalla lampada, Leslie vide il ragazzo giovane sbiancare e notò che improvvisamente gli altri si erano fatti in qualche modo più rigidi nella loro postura, quasi quella risoluzione fosse al pari di una condanna a morte.
Che razza di individuo era il Capitano se il solo nominarlo portava a simili reazioni? Era davvero una buona idea svegliarlo nel cuore della notte per dirgli che una sconosciuta era stata ritrovata nel suo territorio? Cosa doveva aspettarsi da quell’oscuro personaggio?
- Che questione dovete sottopormi, Bill? –
Tutti si voltarono simultaneamente verso il luogo da cui era provenuta la voce.
Di fronte a loro, le braccia conserte e le folte sopracciglia aggrottate in un’espressione torva, era comparso un uomo dagli occhi chiari e terribili.
Nessuno rispose, i sei uomini erano come congelati da quell’apparizione.
Quando il Capitano si accorse finalmente della sua presenza, Leslie trattenne il respiro.
Era spacciata.














Note:

Buongiorno a tutti!
E' un po' che questa storia mi vortica per la testa, e alla fine ho deciso di metterla per iscritto.
Sono sempre stata affascinata dalle storie di esplorazione e devo ammettere che la Spedizione Terra Nova per la conquista del Polo Sud ha sempre avuto e sempre avrà un posto particolare nel mio cuore.
Questo primo capitolo, come al solito, è più che altro una breve introduzione di Leslie, che sarà la nostra finestra su un gruppo di individui veramente straordinari.
La narrazione finora può sembrare un poco confusa, ma non preoccupatevi, avremo modo di fare la conoscenza dei nostri personaggi e del luogo in cui si muovono con molta più calma! Nel frattempo, la nostra ragazza del 2000 deve vedersela con il misterioso e a quanto pare terrificante Capitano.
Riuscirà a tornare a casa senza che la abbandonino a vagare per sempre nel gelo dell'Antartide? E tutto sommato, Oxford è davvero un luogo a cui Leslie vuole fare ritorno? Ma soprattutto, quel povero cristo di Cherry avrà un attacco di cuore o riuscirà a sopravvivere alla notte? xD
Spero di avervi un minimo incuriosito, qualsiasi commento è sempre più che apprezzato!
Un grazie infinito a chi ha letto fino a qui,

Kisses,

Koori-chan

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Capitolo 2
*** 2. Some Friendly Ghost ***





2- Some Friendly Ghost







 

23 Aprile 1911, Cape Evans


Il silenzio si poteva tastare con mano. Era solido e ingombrante e non sembrava volersi togliere di mezzo. Se ne stava lì, mescolato a loro come un passante curioso sulla scena del delitto, spudorato, indelicato, invadente.
Fu Wilson a scacciarlo, un passo avanti e un sorriso leggero mentre gli altri ancora trattenevano il respiro e il Capitano fissava la ragazza a labbra serrate.
- E’ esattamente di questo che si tratta, Con. Come puoi vedere... –
Ma l’uomo non lo lasciò proseguire.
- Una ragazza. – sentenziò, glaciale.
Leslie aveva la gola secca, ma deglutire era fuori discussione e probabilmente già solo i battiti del suo cuore stavano facendo più rumore del dovuto.
- Sì, è successo un fatto strano, l’abbiamo trovata così, nel sacco a pelo, e... –
- Chi l’ha trovata? –
Gli occhi freddi del Capitano saettarono a destra e a sinistra in cerca del colpevole. Ci fu un fremito collettivo, poi una mano si levò, lenta e titubante, a richiamare l’attenzione.
- Io, Signore. –
- Spero possa darmi una spiegazione, signor Cherry-Garrard. –
Il ragazzo annuì, le punte delle orecchie rosse come brace incandescente e gli occhi scuri spalancati di terrore e vergogna.
Fu a quel punto che un’altra lampada venne accesa dall’altro lato della baracca e nuove voci  si fecero sentire.
- Che cosa succede? –
- Perchè siete già in piedi? –
- Capitano, cosa c’è? –
Leslie vide Wilson portare una mano a coprirsi il volto, mentre Atkinson si grattava la testa e sospirava.
- A quanto pare abbiamo un intruso, Teddy. – spiegò il Capitano a uno degli ultimi arrivati presso il capannello di individui che si era ormai formato attorno a loro, un tizio dallo sguardo vispo nonostante il sonno ancora aggrappato alle palpebre.
- Con, lasciami spiegare, è una faccenda delicata. – lo avvicinò di nuovo Wilson, posandogli una mano su una spalla per essere sicuro di avere la sua completa attenzione.
Il Capitano portò lo sguardo su Leslie e poi su Cherry, infine tornò a fissare gli occhi in quelli di Bill Wilson.
- D’accordo. – concesse, girando sui tacchi e  facendogli segno di seguirlo, non prima di aver rivolto alla sconosciuta un’occhiataccia che le raggelò il sangue nelle vene.
Leslie guardò i due uomini scomparire dietro l’angolo della parete di legno e improvvisamente tutti gli occhi furono su di lei.
- Scott mi ammazzerà... – mugolò Cherry, pallido come la morte.
Il tizio brutto si alzò finalmente in piedi e andò a battergli un’amichevole pacca sulla spalla.
- Non preoccuparti, Cherry, sono sicuro che andrà tutto bene! – esclamò positivo.
Gli altri uomini, quelli che si erano svegliati dopo il Capitano, borbottavano tra loro nel tentativo di mettersi in pari con gli avvenimenti, incuriositi da quella presenza che non sapevano come spiegarsi e contemporaneamente attenti a cogliere qualsiasi parola fosse giunta dall’altro vano della baracca.
Leslie approfittò della luce per darsi un’occhiata attorno; si trovava in una costruzione interamente di legno che ricordava un incorcio fra una baita di montagna e uno di quei prefabbricati assemblati in quattro e quattr’otto nei campeggi. L’arredamento era più che spartano: i letti erano sostanzialmente brande messe insieme con assi e sottili materassi su cui poggiavano i sacchi a pelo, e al centro dell’unica grande stanza divisa in settori da casse accatastate le une sulle altre c’era un lungo tavolo, anch’esso di legno.
Nonostante nel complesso l’ambiente fosse decisamente ordinato, vi era una quantità incredibile di oggetti: tazze, guanti, scarponi, strani strumenti di cui ignorava assolutamente l’impiego e addirittura delle slitte incastrate fra le travi del soffitto.
1911.
Come era possibile che fosse tornata indietro nel tempo? Eppure, più i minuti passavano, più doveva ammettere che era tutto troppo preciso, tutto troppo dettagliato perchè potesse trattarsi di un sogno o di un’allucinazione. Per quanto inspegabile doveva farsene una ragione e incominciare a pensare a come cavarsela.
Una cosa era chiara: non avrebbe potuto semplicemente dichiarare di provenire da cent’anni nel futuro e sperare di essere presa seriamente. Avrebbe dovuto fingere, stare al gioco, cercare di omologarsi a quell’epoca per riuscire almeno a rimettere piede su suolo civilizzato. Forse, se fosse riuscita a tornare ad Oxford avrebbe scoperto come mettere fine a quell’assurdità. Forse avrebbe dovuto fare un cerchio alchemico, magari l’Università sorgeva su un antico terreno sacro agli dei pagani. Oppure le era capitato come alla protagonista di quella serie di romanzi di cui Katie parlava in continuazione, quella che dall’età contemporanea era piombata all’improvviso nella Scozia del Settecento.
Ma persino nelle opere di fantasia vi erano regole precise e i viaggi nel tempo non contemplavano mai anche spostamenti nello spazio.
Era così concentrata su simili pensieri che nemmeno si era accorta che Cherry-Garrard, il ragazzo con gli occhiali su cui sembrava ricadere la colpa della sua presenza in quel luogo, era stato convocato dal Capitano.
Infatti fu solo quando levò lo sguardo per studiarlo di sottecchi che si accorse che era sparito; al suo posto vi era adesso l’uomo dall’aria vispa, che senza osare rivolgerle la parola la scrutava da ogni angolazione come una gazza dispettosa e pronta al furto.
- Teddy! – lo rimproverò Atkinson con un’occhiata in tralice.
- No, è che mi chiedevo, Atch... Se noi siamo reali e lei è reale, come è possibile che... –
- Potrebbe essere legato ai campi magnetici! Siamo vicini al Polo Sud, giusto? Potrebbe esserci qualche interferenza che rende le mie cellule incorporee? – azzardò Leslie, stupendosi da sé di udire la sua stessa voce pronunciare una simile frase.
- Se così fosse dovremmo risultare incorporei anche noi. – la smontò immediatamente il medico, aggrottando le sopracciglia.
- Forse è perchè è una donna. Potrebbe essere un effetto che non si riscontra nel sesso maschile. – ipotizzò poi.
- In ogni caso non credo sia esatto parlare di “incorporeità”. Dopotutto riesce a stare seduta, non passa attraverso i mobili come un fantasma. Siamo solo noi che non riusciamo a toccarla. – osservò saggiamente l’uomo con il naso adunco.
Ma prima che altre ipotesi potessero essere avanzate, Cherry-Garrard fece capolino da dietro l’angolo.
- Il Capitano ha richiesto un colloquio. – comunicò, scuro in volto.
- Con me? – chiese Leslie, sperando vivamente di aver capito male.
Il ragazzo tuttavia annuì, indicandole la via con un gesto del pollice e camminando dritto verso il suo letto, dove si sedette nonappena lei si fu alzata nuovamente in piedi.
Il tragitto fu breve, le bastò voltare l’angolo per ritrovarsi di fronte a Wilson e all’uomo che da cui dipendeva la sua sorte.
- Si sieda. – le ordinò, indicandole uno sgabello accanto a un piccolo tavolino. Poi rivolse un cenno a Wilson e quello li lasciò soli con un ultimo sorriso incoraggiante per la giovane. Se lui era stato in grado di calmarla immediatamente con i suoi modi gentili e i suoi occhi sinceri, lo stesso non si poteva dire dell’altro uomo.
- Sono il Capitano Robert Falcon Scott e sono a capo di questa spedizione. – esordì.
Era più basso di Wilson, eppure il suo sguardo austero riusciva a renderlo imponente, quasi tiranneggiante. Aveva labbra spesse e rughe d’espressione che lasciavano indovinare un carattere più incline al rimprovero che alle risate.
- Il signor Cherry-Garrard e il dottor Wilson hanno già descritto ampiamente il suo ritrovamento, ma la mia curiosità a riguardo è rimasta insoddisfatta, temo. Dal momento in cui vorrei escludere qualsiasi motivazione di accusa nei suoi confronti gradirei conoscere la sua versione dei fatti, signorina. –
Le sue parole erano rispettose e misurate, le parole di un uomo abituato al comando, tuttavia erano intrise di un sospetto che difficilmente l’educazione riusciva a celare.
Per un assurdo istante Leslie si trovò a pensare che avrebbe davvero gradito la presenza di Wilson accanto a lei, ma si fece coraggio e parlò ugualmente.
- Mi chiamo Leslie Compton, ho diciannove anni e vengo da Oxford. O almeno Oxford è l’ultima cosa che ricordo prima di essermi risvegliata qui. Non ricordo che mi sia capitato nulla di anomalo, sono andata ad una festa e poi sono tornata a casa e mi sono messa a letto, di ciò che è successo dopo ne so esattamente quanto voi. – confessò.
Scott parve soppesare attentamente le sue parole, quasi avesse voluto scandagliarle alla ricerca di una menzogna che sapeva già di trovare.
Non si fidava di lei, era evidente.
- Immagino che fra le ragazze di Oxford l’ultima moda sia l’ordine del giorno. – fu il suo commento velatamente critico.
Leslie non colse immediatamente l’allusione, ma seguendo lo sguardo scettico dell’uomo si accorse che il suo pigiama non doveva esattamente essere ciò che una signorina per bene avrebbe indossato all’inizio del ventesimo secolo.
- Proprio così. Nel caso le interessasse, questa arriva dall’America. – replicò acida indicando con un cenno la maglietta scolorita che usava per dormire.
Si pentì immediatamente di quello che aveva detto e sentì il sangue affluire rapido alle guance. “Nel caso le interessasse”? Sul serio?!
Memore del colorito cadaverico di Cherry-Garrard, si preparò al peggio, ma inaspettatamente il Capitano propruppe in una risata trattenuta.
- Senta, signorina, apprezzo la faccia tosta, ma credo sia il caso di parlarci chiaro. Chi è che la manda? Sono i Norvegesi? – domandò.
Leslie strabuzzò gli occhi.
- Crede che io sia una spia? Guardi, glielo dico in totale sincerità, non avrei accettato di venire in questo buco di posto nemmeno per dieci miliardi di Sterline e di sicuro se fossi una spia non sarei così idiota da andare a schiacciare un pisolino dritta dritta nel sacco a pelo del nemico! La situazione è questa: io sono andata a dormire ad Oxford e mi sono risvegliata in Antartide, e l’unica cosa che mi interessa davvero è tornarmene a casa al più presto, il più lontano possibile da sacchi a pelo, pinguini e orsi polari! Ora, Capitano, crede che si possa fare, o dovrò giocare a fare il fantasma fino alla fine dei miei giorni? – sbottò, già stufa del teatrino.
Quell’uomo non le piaceva. Il suo atteggiamento autoritario era a dir poco seccante, e il modo in cui nemmeno si impegnava a celare la sua inimicizia nei suoi confronti glielo faceva stare ancora più antipatico.
Perchè se Wilson aveva immediatamente capito il suo problema e dimostrava almeno gentilezza Scott non poteva fare lo stesso? Insomma, era pur sempre una ragazza, dov’era finita la galantreria?
Ma probabilmente il semplice fatto di essere un Ufficiale, di occupare un posto di comando, gli faceva credere di essere esentato dalla buona educazione.
- Non ci sono orsi polari in Antartide. – fu l’unica replica che riuscì ad articolare.
- E’ uguale. – sbuffò Leslie nell’alzare gli occhi al cielo.
Se si era presentata al suo cospetto con l’intento di comportarsi bene e non inimicarsi nessuno, il suo buon proposito era già andato a farsi benedire.
Scott prese a camminare avanti e indietro nel piccolo vano creato dal muro di legno. Alle sue spalle quella che doveva essere la sua branda era sormontata da svariate piccole fotografie in bianco e nero i cui soggetti erano resi irriconoscibili dalla penombra.
- Temo di doverle comunicare una cattiva notizia, signorina Compton. La nostra spedizione riceverà supporto via mare al termine del primo anno di permanenza, quando arriverà una nave dalla Nuova Zelanda. Fino ad allora ho paura che non esista alcun modo di rimpatriarla. – sospirò, terribilmente serio.
- Sta scherzando. –
- Non oserei. –
Improvvisamente fu il silenzio. Leslie continuava a fissare Scott dritto nelle pupille in attesa della risata, del “ci sei cascata” canzonatorio, ma era più che evidente che quell’uomo non era un tipo burlone, e il mondo le crollò addosso.
- Vuole dire che da quando avete messo piede in Antartide non avete avuto contatti con la civiltà? Che non ne avrete fino a dio solo sa quando? Non c’è modo di contattare la Nuova Zelanda? Non avete una radio? E per le emergenze?! – incominciò, il tono più acuto di un’ottava e la respirazione nuovamente affannata.
- Non posso stare qui per un anno! Che cosa faccio? Non è possibile! –
Il Capitano le posò istintivamente una mano sulla spalla e, come tutti gli altri, sussultò appena nel trovarla inconsistente.
- Signorina, si calmi. Purtroppo non possiamo fare niente, la radio non è un mezzo abbastanza potente, qui a Cape Evans siamo a tutti gli effetti tagliati fuori dal mondo. Chiede come facciamo per le emergenze? Vogliamo credere di avere qui con noi tutto il necessario per poterle fronteggiare, e speriamo di non averne mai bisogno. – spiegò, la voce improvvisamente più morbida e negli occhi una luce meno dispotica.
- So che le può sembrare una prospettiva terribile, ma non possiamo offrirle nulla di diverso. E’ stata fortunata, comunque: non ho mai conosciuto un gruppo di persone più piacevole, affidabile e rispettoso dei miei compagni in questa spedizione. Se vorrà partecipare alla vita della nostra piccola comunità, scoprirà che qui ai Quartieri Invernali non c’è mai il tempo per annoiarsi. – aggiunse, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Leslie stava per rispondere con il suo solito “grazie, ma non sono interessata”, il ritornello che Katie si era ormai sentita ripetere infinte volte, ma si rese conto che non era più a Oxford e non poteva concedersi il lusso di fare la snob.
- Ho forse alternative? – domandò retorica.
Scott sorrise ancora.
- L’uomo è nato con il libero arbitrio! – commentò.
Forse un poco di senso dell’umorismo ce l’aveva, ma era di certo decisamente macabro.
Mosse ancora qualche passo avanti e indietro e per un attimo parve volersi sedere sulla branda. Rinunciò, tornando ad avvicinarsi a Leslie e  protendendo lentamente una mano verso di lei.
Seppur infastidita da quel gesto, la giovane non si scansò e rimase a guardare per l’ennesima volta in quell’assurda nottata una mano sconosciuta attraversare il suo corpo come se niente fosse. Non percepì nulla, né freddo, né calore, né pressione: i suoi occhi vedevano le dita dell’uomo svanire attraverso il suo braccio e lei non sentiva nulla.
- E’ proprio vero, le si passa attraverso... – commentò Scott senza che si riuscisse ad interpretare la sfumatura nella sua voce.
- Così pare. – borbottò lei, già stufa di essere additata come una strana creatura, un esotico animale dietro le sbarre dello zoo.
- Se lei è d’accordo, credo che sarebbe opportuno si facesse visitare dal nostro dottore. –
- Crede che possa curarmi? –
L’uomo si strinse nelle spalle e si passò una mano sul volto.
- Ce lo auguro, signorina Compton, o sarà un bel problema per entrambi quando arriverà la nave dalla Nuova Zelanda. –
Ecco, quella era una cosa a cui non aveva pensato. Se anche fosse riuscita ad andarsene da quel nulla assoluto di ghiaccio e freddo, se anche fosse riuscita a tornare in Inghilterra, che cosa avrebbe fatto? Come avrebbe potuto tenere nascosta la sua vera provenienza, la sua incorporeità, il mistero della sua presenza in un’epoca sbagliata?
Trasse un lungo sospiro e si passò una mano sul braccio nudo, indecisa su che cosa dire dopo quella dichiarazione. Al momento voleva solo tornare a dormire e non pensare a nulla per il resto della sua vita.
- Senta, Capitano. L’ultima cosa che desidero è portare scompiglio alla sua spedizione. Se potessi svanire come sono apparsa, mi creda, lo farei all’istante. Se proprio non posso abbandonare questo luogo per favore, ignoratemi, fate finta che io non esista nemmeno e proseguite con i vostri compiti. Sarò... sarò come un fantasma... – concluse con meno convinzione di quando aveva incominciato.
Dopotutto era quello che doveva apparire agli occhi di quegli uomini: impalpabile e fredda come un fantasma.
Scott tacque per un lungo istante, poi un nuovo sorriso, questa volta veramente gentile, andò a curvare le sue labbra.
- Spero sarà un fantasma amichevole! – commentò.
Leslie annuì, incapace di trattenere un lieve sorriso.
Si era cacciata davvero in un bel pasticcio, ma almeno il Capitano non sembrava intenzionato a farla fuori.









 
29 Agosto 2010, Londra


Per essere una giornata di addii, il sole era sorprendentemente splendente e il gelato sorprendentemente buono.
L’aveva comprato poco fuori dalla stazione di Paddington e doveva dire che, nonostante i colori sgargianti che suggerivano una contaminazione aliena, la vaniglia sapeva davvero di vaniglia e il cocco non aveva il solito schifoso retrogusto di cartone.
L’unico peccato era che, vittima della sua voracità, era durato poco più di dieci minuti, ma dopotutto aveva un treno da prendere, e trascinare i trolley e obliterare i biglietti con le mani occupate dal gelato gocciolante non sarebbe stato esattamente il massimo.
Adesso, seduta accanto al finestrino con lo zaino aperto di fronte a sé e il biglietto abbandonato sul sedile, Leslie rimpiangeva di non aver comprato una bottiglietta d’acqua aggiuntiva: il gelato fa sempre venire sete.
Bevve qualche sorso da quella che si era portata da casa, ma decise che sarebbe stato meglio razionarla per il viaggio. Il treno avrebbe impiegato più o meno un’ora a raggiungere Oxford, e una volta arrivata a destinazione chissà quanto altro tempo ci avrebbe messo a trovare il suo alloggio.
Controllò un’ultima volta che i documenti fossero ancora tutti assieme nella busta di plastica e chiuse lo zaino, per poi sprofondare nel sedile con aria sconsolata mentre il treno lasciava la stazione.
E così aveva inizio! La sua vita da universitaria, il suo mirabolante viaggio attraverso la conscenza! Sbuffò. Non ne aveva assolutamente voglia.
Eppure qualcosa doveva pur fare, no? Rimanere a casa a crogiolarsi nella nullafacenza era fuori discussione e cercarsi un lavoro... per carità! La mamma non avrebbe mai retto a saperla impiegata in un McDonald’s o in uno di quegli schifosissimi Pret dove il massimo traguardo era la targhetta di impiegato del mese.
No, una figlia senza una laurea era un disonore, e quindi eccola sul treno per Oxford, con i suoi opsucoli nello zaino, i libri di economia in valigia e la determinazione di affrontare tre anni di studi adagiata sui binari davanti al treno in corsa.
C’erano tante cose sbagliate nella sua vita, tanti errori, tanti momenti fuori posto. Talmente tanti che Leslie ci aveva rinunciato a raddrizzare ciò che la vita aveva deviato dal suo corso. A raddrizzare se stessa.
Non ne aveva più voglia.
Era infelice? Non avrebbe saputo dirlo. Rideva ancora, spesso fino alle lacrime, sapeva apprezzare un bel tramonto, il profumo di cannella che lasciava le pasticcerie alla mattina presto, quando con una scusa qualunque –di solito il jogging- lasciava casa e se ne andava al parco.
Era andata in vacanza in Francia, quell’estate, ed era stato piacevole. Aveva amato la salsedine, il vento fresco, le vie strette di Rouen. Aveva ancora le foto sul cellulare, nella cartella di Luglio.
No, non era infelice. Aveva tutto quello che voleva senza nemmeno il bisogno di chiederlo. Eppure qualcosa non andava.
Forse era che lei non era fatta per quello. La vita, s’intende.
A volte si chiedeva se gli altri non ne vedessero le assurdità, le incongruenze, la meschinità. Come potevano avere gli occhi così velati da non essere schifati dal mondo? Ma ancora non era il mondo a farle venire la nausea, non erano le giornate di pioggia o il vento freddo della City.
Era la gente.
Egoista, scontata, banale.
Le loro storie tutte uguali, prevedibili, grige, i loro occhi spenti, disinteressati, sprezzanti.
A Leslie erano sempre piaciute le storie, le piaceva ascoltarle e poi raccontarle di nuovo, ricche di dettagli fantasiosi e avvincenti. Ma aveva smesso, perchè a papà dava fastidio e la mamma lo trovava infantile.
In un’altra vita avrebbe trovato Oxford un’avventura eletterizzante, ma adesso le sembrava di marciare verso qualcosa di già visto.
Sarebbe arrivata in un luogo apparentemente nuovo, avrebbe conosciuto persone apparentemente interessanti, apparentemente affezionate, e sarebbe finita a uscire alla mattina presto a fare jogging per non pensare alla delusione di aver scoperto che tutto il mondo è paese, che a nessuno importa degli altri.
Condividere, nel bene e nel male, non andava più di moda.
Sospirò ancora, notando appena che il paesaggio fuori dal finestrino era cambiato e che Londra ormai era alle spalle da un pezzo.
Tutto quello che desiderava al momento era sparire agli occhi degli altri, essere dimenticata, diventare un fantasma.
Allora, forse, avrebbe smesso di essere delusa dagli umani.
 
 









 
 

23 Aprile 1911, Cape Evans


Concluso l’interrogatorio, i lineamenti di Scott si erano notevolmente distesi e l’aveva accompagnata nuovamente di fronte agli altri uomini che, curiosi come faine, li aspettavano riuniti attorno al tavolaccio. Lì, con gli occhi di tutti puntati contro, aveva tenuto un breve discorso in cui aveva riassunto le disposizioni appena prese e aveva consegnato Leslie ad Atkinson con l’ordine di visitarla per bene e vedere se riusciva a scoprire qualcosa sulla sua bizzarra condizione.
Inutile dire che la visita era stata più difficile del previsto.
- Devo dire, signorina, che auscultare un paziente in questo stato era l’ultima cosa che mi sarei aspettato dalla mia professione. – commentò l’uomo allegramente, abbandonando lo stetoscopio sul tavolo.
Non aveva praticamente aperto bocca negli ultimi cinque minuti se non per sussurrare fra sé e sé le sue osservazioni, eppure tutto nei suoi movimenti lasciava trasparire uan certa rilassatezza, come se venire buttato giù dal letto nel cuore della notte da una perfetta sconosciuta non lo avesse turbato neanche un po’.
- Non si preoccupi comunque, da quello che ho visto è sana come un pesce! Il che in effetti è positivo fino a un certo punto. – aggiunse con una nota più seria nella voce.
Leslie tornò a infilare la maglietta nell’elastico dei pantaloni e si voltò verso Atkinson: alla luce delle lampade poteva finalmente concedersi di osservarlo un po’ meglio. Aveva folti capelli scuri e zigomi pronunciati e le mani ferme e precise di un chirurgo.
- Significa che non sappiamo ancora che cosa mi sia successo? –
Il medico scosse la testa e le fece segno di passargli un quadernino abbandonato su una mensola.
Scribacchiò velocemente qualcosa e si sedette di fronte a lei, un braccio appoggiato pigramente allo schienale e le gambe accavallate.
- Potrebbe davvero essere qualsiasi cosa, per quello che ne sappiamo la causa potrebbe essere in Inghilterra. E’ davvero strano, non sente il freddo ma percepisce il dolore... – considerò.
- E se fosse il DNA? – suggerì Leslie.
L’uomo alzò lo sguardo dai suoi appunti e inarcò un sopracciglio.
- Come? – chiese, confuso.
Tutto il gelo che non aveva sentito fino a quel momento le si avvinghiò alle ossa nello spazio di quella semplice domanda.
Il DNA non era ancora stato scoperto, e lei si era fregata come un’idiota.
- Nulla, nulla, dottore! Balbettavo, mi capita a volte... – mentì spudoratamente pregando che l’uomo le togliesse di dosso il suo sguardo sospettoso.
Fu accontentata e Atkinson tornò a sorriderle gioviale.
- A quanto pare dovremo trascorrere un intero anno assieme. Mi chiami pure Atch, signorina...? – fece, cercando di ricordare il suo nome.
- Leslie. Solo Leslie, per favore. E niente formalità, sembra di essere a scuola! – ridacchiò, già convinta che quell’Atch avrebbe reso la permanenza al Polo un po’ meno noiosa di quanto non aveva temuto inizialmente.
Il medico le fece cenno di alzarsi e le indicò un fagotto che qualcuno aveva abbandonato sul tavolo poco prima che iniziassero la visita.
- Allora, Leslie, vestiti e raggiungimi fuori dalla baracca, voglio fare un esperimento! – esclamò, cambiando registro come se niente fosse.
Senza attendere alcuna replica, la lasciò sola e si incamminò verso il chiacchiericcio che proveniva dall’altro lato dell’edificio.
La giovane indossò velocemente i pantaloni lasciando le bretelle a penzolarle ai fianchi: il taglio maschile dell’indumento faceva sì che non ne avesse bisogno. Abbandonò anche la maglietta del pigiama e infilò senza tante cerimonie una maglia grigia dalle maniche spropositatamente lunghe che arrotolò fino al gomito; per ultimi provò gli scarponi che le avevano lasciato ai piedi del tavolo, provvisti di spessi calzettoni di lana. Per fortuna quelli calzavano alla perfezione, o nell’arco di dieci minuti si sarebbe ritrovata i piedi pieni di vesciche.
Chissà di chi erano quegli indumenti... Sperò vivamente che i precedenti proprietari non avessero avuto i pidocchi o quant’altro e sistemò meglio i pantaloni, ficcandone gli orli inferiori bene dentro agli scarponi, poi si incamminò verso la porta della baracca.
Ad ogni passo poteva chiaramente percepire gli uomini interrompere le loro occupazioni per guardarla circumnavigare il tavolo e ritrovarsi in un altro spazio rettangolare dove altri letti ospitavano altrettanti membri della spedizione.
Dio, quanto avrebbe voluto sprofondare!
La voce di Scott tornò alla sua coscienza con impertinenza. Un fantasma amichevole, come no! Tutto quello che voleva era mandarli tutti al diavolo e tornare ad Oxford. Almeno là la gente la ignorava davvero e non la fissava con tanta insistenza. Insomma, non avevano mai visto una ragazza?!
Senza azzardarsi a sollevare lo sguardo e cercando di non pensare alle sue guance in fiamme proseguì dritta verso la porta e uscì senza nemmeno voltarsi indietro.
Atch la aspettava fuori con almeno altri due maglioni addosso e una pipa a penzolare dalle labbra.
- Una vera esploratrice! – commentò soddisfatto, ottenendo solo che la suddetta esploratrice alzasse gli occhi al cielo. Ma la sua espressione seccata fu brutalmente spazzata via dallo spettacolo che si apriva davanti a lei.
Il cielo era illuminato da una luce dorata e danzante che faceva impallidire le stelle, sotto di esso un’infinita distesa scura e di tanto in tanto punteggiata di bianco si riversava lungo la costa con il cadenzato e confortante fruscio della risacca. L’aria crepitava appena in piccole nuvolette di vapore nel lasciare le labbra e ogni cosa riluceva di quello spettacolo meraviglioso.
- Benvenuta a Cape Evans. –
Atch sorrise sornione e diede un tiro alla pipa, le braccia conserte e il peso del corpo appoggiato allo stipite della porta.
Leslie lasciò che un’altra nuvoletta di vapore abbandonasse le sue labbra, gli occhi ancora spalancati di fronte all’aurora.
- Dio, questo posto è meraviglioso... – sussurrò.
- In trent’anni di esistenza non ho mai visto qualcosa di altrettanto spettacolare. E’ un peccato che tu sia arrivata alle porte dell’inverno australe... Oggi è l’ultimo giorno di sole. Goditelo pure! Magari più tardi Cherry può farti fare un giro qua attorno... –
- Non so se è il caso... – borbottò ficcando le mani in tasca.
- Anzi, credo che voglia uccidermi, dopo il casino con il Capitano. – aggiunse.
Atch scoppiò a ridere e rilasciò una boccata di fumo.
- Cherry? Quel ragazzo non farebbe male a una mosca. E’ solo facilmente irritabile, ma dopotutto non lo sono tutti a Oxford? –
A quella frecciatina Leslie non poté fare a meno di arrossire vistosamente.
- Mai senza motivo. – replicò, punta sul vivo. Poi si scrollò di dosso quell’espressione cupa e raccolse una manciata di neve fra le mani.
- E l’esperimento? – chiese, curiosa.
L’uomo le rivolse un’occhiata indecifrabile che la mise in soggezione.
- Direi che ho raccolto abbastanza dati. Andresti a chiamarmi Bill? Digli che porto i pony a fare due passi e che ho un paio di cose da chiedergli. –
La ragazza annuì piano e lasciò cadere la neve a terra. Rivolse ad Atch un lieve cenno del capo, indecisa se salutarlo o meno, poi rientrò nella baracca in cerca degli occhi chiari di Bill Wilson e in fuga da quelli di tutti gli altri.
Non erano passate due ore da quando era arrivata e già sentiva che sarebbe stato l’anno più lungo della sua intera esistenza.
















 
Note:

Ben ritrovati a tutti!
Pessime notizie per Leslie: a quanto pare la permanenza in Antartide sarà ben più lunga del previsto e nessuno sembra particolarmente elettrizzato da questa prospettiva.
In questo capitolo abbiamo fatto la conoscenza del Capitano Scott, e a caratteraccio bisogna dire che se la gioca proprio con la nostra ragazza del futuro! Eppure se per certi versi il povero Cherry-Garrard non aveva torto ad essere terrorizzato, per certi altri sembra che il Capitano sia quasi divertito dalla situazione. E se non divertito sicuramente incuriosito. Dopotutto anche per lui è conveniente risolvere il problema di Leslie prima che arrivi la nave di supporto...
E poi c'è Atch, con il quale Leslie si è lasciata sfuggire forse qualche parola di troppo. Che abbia capito che c'è qualcosa che non va in lei? E Leslie stessa può dirsi al sicuro a Cape Evans?
Spero che anche questo capitolo vi abbia incuriositi e ringrazio immensamente come sempre chi ha letto questa storia!

Kisses,

Koori-chan

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