Il Caso 87

di QuelloStranoEremita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 12 giugno 2017 ***
Capitolo 2: *** Il Rapporto ***
Capitolo 3: *** Rommel ***



Capitolo 1
*** 12 giugno 2017 ***


Marion aprì gli occhi.

Intorno a lui si estendevano colline su colline coperta da prati, boschetti, rocce, campi coltivati con ogni genere di pianta. Il cielo era azzurro e il sole a picco risplendeva riscaldando il volto di Marion che, non abituato a tutta quella luce, si coprì lasciandone passare un filo tra le dita. Pareva non vi fosse anima viva nei dintorni: sui pendii delle colline le case erano poche, piccole e solitarie. L'unica strada asfaltata che si scorgeva era deserta. Marion poteva udire solo il cinguettio degli uccelli e il vento che soffiava con delicatezza. Era solo al centro di quella collina coperta di spighe di grano e per come era vestito sembrava uno spaventapasseri: camicia a quadri rossi e bianchi, un jeans scolorito, e giusto un orologio al polso e due mocassini neri ai piedi.

“Non avrebbero potuto rendermi più ridicolo” pensò Marion. Accanto ai suoi piedi una ventiquattr'ore nera e anonima stava in piedi, parzialmente infilata nel terreno. Marion si sedette a terra, mise la ventiquattr'ore tra le gambe e l'aprì. Tra numerose scartoffie e documenti saltava all'occhio un volumetto verde intitolato “Regole generali e particolari per la missione 152”. Marion lo prese, chiuse la valigetta e si alzò. Si guardò intorno, osservò attentamente il suo orologio e si incamminò in direzione della strada asfaltata, con valigetta e libro verde stretti nelle mani.

Mentre cercava di farsi strada tra le spighe, con una mano manteneva il libro aperto, tentando di leggerlo. Sulla prima pagina era stampato:

 

“Messaggio personale per l'agente Marion.

Agente Marion, se sta leggendo questo messaggio, la missione 152 è appena iniziata. È stato appena depositato nei pressi di Bologna, Italia. Il suo obiettivo primario è quello di mimetizzarsi alla popolazione, interagendo il più possibile con gli altri individui e apprendendo i loro usi e i costumi. Nella valigetta sono contenuti documenti che attestano la sua falsa identità, come protocollo. Inoltre, una chiavetta USB con un particolare programma informatico provvederà a registrare la sua falsa identità nei database della città dove vive, non appena riuscirà a connettere tale chiavetta ad un computer dotato di connessione Internet. La invito a eseguire questa operazione il più presto possibile. Fino ad allora, le consiglio di agire sotto basso profilo. Nella valigetta è contenuta anche una somma in denaro per le spese iniziali. Secondo protocollo, tuttavia, dovrà trovare un impiego retribuito per poter sopravvivere e rendere più credibile la sua falsa identità. Nel resto del volumetto sono contenute tutte le norme di sicurezza da rispettare in maniera imprescindibile ed un manuale su come utilizzare il suo orologio. Le auguriamo buona fortuna.

Distinti saluti,

Generale Dorion”

 

Poco più sotto, scritto in una grafia disordinata:

“Abbi cura di te. Dori.”

 

Marion sorrise. Dorion, sua sorella maggiore, era avanzata di grado ed entrata a capo della missione 152. Prendeva il suo mestiere con molta serietà e raramente si lasciava andare a sentimentalismi. Questa volta, però, non aveva potuto resistere. Marion sarebbe rimasto a Bologna per almeno un anno e, come anche in tutte le precedenti missioni, non si sarebbero potuti vedere. Le comunicazioni sarebbero state sporadiche perché, sempre secondo protocollo, avrebbero potuto farlo solo in casi di emergenza, per evitare rischi. Marion aveva già nostalgia della sua famiglia, ma in parte lo rincuorava sapere che anche Dorion, stavolta, avrebbe partecipato alla missione. Probabilmente, però, avrebbe vissuto in una città a centinaia di chilometri di distanza, se non in un altro stato.

Marion raggiunse la strada, si scrollò di dosso le spighe di grano e la terra dai mocassini e diede di nuovo un'occhiata all'orologio. Avrebbe dovuto camminare un po', ma era previsto: per il bene della segretezza della missione, gli agenti venivano lasciati in luoghi poco abitati. Conscio di dover ammazzare il tempo in qualche modo, cominciò a sfogliare le pagine e a ripassare quelle regole che aveva imparato a memoria, visto che ormai aveva perso il conto delle missioni che aveva affrontato.

“REGOLE FONDAMENTALI

  1. In nessuna occasione è ammissibile per l'agente rivelare la sua identità.

  2. In nessuna occasione è ammissibile per l'agente utilizzare la sua lingua natia. In qualsiasi circostanza è obbligatorio utilizzare la lingua o le lingue assegnate dall'Organizzazione per la missione.”

Marion ricordò con odio le lezioni di Italiano e Inglese che aveva dovuto seguire nelle aule dell'Organizzazione. Considerava queste due lingue come le più stupide che avesse mai imparato, visto che erano così schifosamente semplici che aveva avuto quasi un rifiuto psicologico nello studiarle. “Come è possibile che milioni di persone parlano una lingua così povera di regole, così banale? Come riescono davvero a comunicare questi individui con un linguaggio che spesso non è in grado di esprimere ciò che si vuole esprimere? E poi perché ho dovuto imparare due lingue, se qui ne parlano praticamente solo una, e nemmeno tanto bene?” si chiedeva.

Marion però sapeva già cosa c'era dietro questo bilinguismo. Sfogliò rapidamente il suo libro fino ad arrivare al capitolo “Informazioni sull'identità segreta” e cominciò a leggere:

“Agente Marion, di seguito sono le caratteristiche della sua identità segreta:

Nome: Marion Smith

Età: 23 anni

Lingua: Inglese (madrelingua), Italiano

Professione: studente di Medicina

Provenienza: London, Inghilterra

Storia: studente in viaggio di studio in Italia.

…”

Seguivano altre due pagine sulla sua identità fittizia: famiglia, storia della sua presunta gioventù in Inghilterra, eccetera. Non c'erano molti dettagli, in verità, ma quanto bastava per evitare troppi sospetti sul “passato” di Marion.

La strada asfaltata cominciava a diventare più dritta e meno pendente. Mancava forse un chilometro o due alla meta. Marion cercò nell'indice un capitolo sulla città che stava per diventare la sua casa per un lungo periodo.

“INFORMAZIONI SUL LUOGO DELLA MISSIONE: BOLOGNA

Bologna, città con una popolazione stimata di circa trecentomila abitanti. La struttura della città è molto complessa, con strade distribuite senza una precisa programmazione, di dimensioni varie e percorse da vetture di diverse dimensioni e velocità, e anche dagli stessi abitanti che usano spostarsi anche senza mezzi. La città sembra essere molto attiva, in particolare di giorno, ma anche durante le ore notturne: infatti, nonostante diminuisca, sembra essere comunque presente un intenso movimento di masse anche durante la notte. Tali attività sembrano essere condizionate anche dalle condizioni atmosferiche e dai diversi periodi dell'anno...”

“Non sarà troppo difficile interagire con gli altri” pensò Marion, tirando un sospiro di sollievo. Il suo pensiero andò alle altre missioni che aveva affrontato: città talmente inospitali e fredde che interagire con gli “autoctoni” era una impresa, dove gli individui erano solitari e tendevano a non accogliere nelle loro cerchie quelli percepiti come estranei. “Se ce l'ho fatta allora, stavolta sarà facile”.

Nel frattempo, per la strada passò un'auto. Marion si arrestò e la osservò attentamente. Era un maggiolino di colore bianco che sfrecciava come se fosse nuovo, nonostante qualche piccola ammaccatura sul retro. “Davvero buffa. Chissà se ce ne sono altre” pensò Marion.

Passo dopo passo, Marion sentiva i rumori della città, attenuati sempre meno dal silenzio della campagna. Percepiva affievolito il rumore delle auto, e il profumo intorno a sé stava cambiando: l'odore di terra e di polline si stava lentamente diluendo con quello dello smog e dell'asfalto surriscaldato. Avrebbe preferito rimanere lì dov'era e magari cercare una casa in campagna, ma naturalmente non poteva. Anzi, accelerò: doveva trovare una casa e un computer al più presto. Non avrebbe certo potuto dormire all'addiaccio in una città che, a quanto pare, era molto movimentata persino quando era supposto che tutti dormissero. Marion ripose il volumetto nella valigia, allungò il passo e cominciò ad addestrare le sue lingue, giusto per vedere se aveva perso allenamento. Aveva imparato quelle lingue molto tempo prima, all'inizio dell'addestramento per quella missione, e subito dopo la fine aveva smesso di esercitarsi.

“Io mi chiamo Marion. Piacere di conoscerti. My name is Marion, nice to meet you” disse a voce alta e un po' affannata per via dell'andatura veloce. “Io sono uno studente, studio Medicina. Ho fame e mangio cibo. Ho sete e bevo acqua. I am a student, I study medicine. I am hungry and eat food. I am thirsty and I thirst... drink water” continuò col fiatone. Visto da fuori era davvero ridicolo: un ragazzo di 23 anni che trotta con una ventiquattr'ore in mano, vestito come un campagnolo, che parla ansimante in due lingue diverse. Avrebbe causato sospetti anche nel meno astuto, o quantomeno avrebbe fatto dubitare sulla sua sanità mentale, ma per fortuna l'unico essere umano incontrato fino a quel momento fu l'autista di quel maggiolino, ormai sparito nell'orizzonte frastagliato dai palazzi di Bologna, e sembrava non ce ne fossero altri.

I primi piccoli quartieri iniziarono a costeggiare la strada asfaltata, che ora aveva anche una segnaletica e dimostrava di essere vicina alla civiltà, nonostante le buche qui e là e qualche sporadico cespuglio tra il marciapiede e l'asfalto. Marion non aveva incontrato nessun'altro, e si stava chiedendo se si trovasse in una città fantasma o in un quartiere abbandonato. Si fermò un attimo e tese l'orecchio: riusciva a udire, da finestre e balconi, qualche melodia e qualche voce, tintinnii di oggetti metallici, qualche risata e qualche verso. “Sono tutti nelle loro case. Forse questa è l'ora del pranzo” rifletté Marion. “Spero che il cibo, da queste parti, sia buono. Chissà che cosa mangiano”. Marion diede un'altra occhiata all'orologio e riprese il viaggio, ma dopo pochi passi questo trillò.

Marion rimase sorpreso, strabuzzò gli occhi e osservò: “chiamata in arrivo: Furion” lampeggiava sullo schermo. Marion scattò rapidamente lungo la strada e, infilato il primo vicolo buio che trovò, si nascose dietro un bidone dell'immondizia, si accucciò e, accertatosi di essere solo, premette lo schermo, bisbigliando:

“Comunicazione richiesta da e per chi?”

“Agente Furion, per Agente Marion”

“Centocinquantaduemilaquattrocentosessanta”

“Due per due per tre per tre per cinque per sette per undici per undici”

Marion tirò un sospiro di sollievo. “Furion, cosa fai? Non sai che è vietato comunicare via orologio se non per comunicazioni di emergenza?”

“Marion, ma questa è una emergenza!”

“Cosa è successo?”

Un gridolino irritantemente contento e distorto dalla trasmissione lo assordì. “Sono eccitatissimo, Marion! La mia prima missione, capisci? La mia primissima missione!”

“Sono contento che tu sia entusiasta, Furion, ma è meglio che tu chiuda, o rischiamo di finire nei guai”

“Tranquillo, io sono ancora in aperta campagna e non c'è nessuno qui”

“Be', io invece sono circondato da palazzi e continuare a parlare ad un orologio nella mia lingua può generare davvero parecchi sospetti”

“Se vuoi possiamo parlare inglese, oppure spagnolo, così non ci scoprono”

“Spagnolo?”

“Sì, Marion. Pare che nella città dove devo andare parlino questa lingua. La città si chiama... Siviglia. Sembra bellissima!”

“Oh, Furion, vorrei avere il tuo stesso entusiasmo. Mi ricordi me da giovane”.

Furion era l'ultimo acquisto dell'Organizzazione. Pieno di talento, ma ancora un po' immaturo. Aveva però dimostrato di essere molto intelligente, in grado di immagazzinare ed elaborare informazioni a tempo di record. Per questi aspetti Furion era più bravo di Marion, nonostante fosse alle prime armi, ma d'altronde è anche per questo che i due avevano missioni diverse.

“Marion, tu che identità hai?”

“Io sono uno studente di medicina, uomo, di ventitré anni. Tu, invece?”

“Io studio Storia, a quanto pare. Per il resto sono uguale. Come ti hanno vestito?”

“Ma che ti importa, Furion?”

“Sono curioso!”

Marion rispose, continuando sempre a guardarsi intorno. “Ho solo una camicia, un pantalone, scarpe...”

“La barba ce l'hai? E i capelli?”

“Sì, ho capelli e neri corti e una barba simile. Praticamente non c'è differenza tra barba e capelli” rise Marion.

“Io sono completamente glabro, Marion. Sembro un bambino. Fortuna che siamo tutti alti rispetto agli esseri umani medi. La maschera mi prude tantissimo”

“Anche a me, in effetti” Marion se la risistemò sul volto “Davvero non posso sopportare che hanno l'apparato olfattivo proprio dove noi teniamo il terzo occhio. Ma ho vissuto di peggio: per la Missione 144 ho dovuto imparare a camminare a testa in giù, visto che mi sono dovuto travestire da Debiriano”

“Da Debiriano? Che stress, accidenti! In effetti al confronto gli esseri umani sono più comodi. È una fortuna che abbiano due gambe e due braccia come le nostre”

“Ti è andata bene come prima missione, Furion”

“Non riesco a tollerare il colore marrone della pelle, però”

“Marrone? Io sono bianco”

“Bianco? Che schifo, bleah”

“Furion, ma che diavolo stiamo facendo? Interrompiamo subito questa comunicazione, prima che ci scoprano. Mi farai cacciare nei guai, ne sono sicuro” lo redarguì.

“Va bene, scusa. Ci sentiamo alla prossima emergenza”.

Marion staccò l'orologio dall'orecchio e rimase seduto a terra. Era un po' stanco di tutto quel camminare. La gravità sulla Terra era leggermente più forte rispetto a quella del suo pianeta, e nonostante si fosse allenato, la lunga camminata lo aveva provato un po'. Si accorciò la manica destra della camicia e strisciò il dito sul suo braccio, lungo la vena, che rivelò una sorta di cerniera sottilissima di metallo bianco. La aprì, lasciando allo scoperto la sua pelle verde. Era sudato, ma la tuta era fatta apposta per simulare anche il sudore di un umano, quindi l'acqua sarebbe stata espulsa e sarebbe rimasto asciutto. “L'Organizzazione è... davvero organizzata” pensò Marion, ghignando per la sua pessima battuta. Richiuse la cerniera, riprese la valigetta e ripartì.

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Capitolo 2
*** Il Rapporto ***


Nella cabina rotonda, illuminata dai led bianchi al centro del soffitto erano seduti, erano seduti undici agenti della missione 152, a braccia conserte, in attesa che il generale Dorion proferisse parola. La tensione era densa: il silenzio tombale era rotto soltanto dai suoni dei calcolatori e dei macchinari che mantenevano la loro nave spaziale sulla rotta per il loro pianeta natio. Marion, seduto accanto ai suoi compagni Derion, Xarion e Sirion, i membri del nucleo di esplorazione, rimaneva immobile come una statua, senza battere ciglio, immerso nei suoi pensieri. Guardava Dorion, sua sorella e suo superiore, che restava leggermente chinata in avanti su di un tavolo, con le braccia tese e le mani poggiate a pugno chiuso, poggiando i palmi. Davanti a sé, Dorion aveva un disco ovale, sottile e color argento, grande come il palmo della sua mano. Lo osservava con gli occhi strabuzzati, il sudore che dalla fronte scorreva accanto al terzo occhio e le bagnava le labbra. Deglutì, e si rivolse ai suoi sottoposti.

“Agenti, sapete bene quali saranno le conseguenze di questa missione, vero?”

Tutti scossero la testa, il loro modo di annuire.

“E sapete bene che la perdita di Дarion ci condurrà in un mare di guai, io per prima, vero?”

Tutti volsero lo sguardo verso l'unico posto lasciato vuoto. Erano infatti rimasti in tre nel nucleo di analisi. Nuovamente tutti annuirono.

“Ad ogni modo” incominciò Forion, seduto accanto al posto lasciato dal collega, “non è dipesa da noi la scomparsa di Дarion. Nessuno di noi ha fatto nulla per provocare gli esseri umani. Sono stati loro a prenderlo e a portarlo chissà dove. E noi abbiamo fatto di tutto per rintracciarlo, ma non siamo riusciti a...”

“È assurdo che con le nostre tecnologie non riusciamo a trovare una persona su un pianeta arretrato e grande la metà del nostro” sbraitò Dorion. “Non è mai successo nulla di questo genere nella storia dell'Organizzazione. E la Confederazione si farà sentire non appena faremo rapporto”.

“Io escluderei questi allarmismi” disse Gsirion, uno dei quattro del nucleo di raccolta. “Certamente la Terra ha ottenuto il più basso Punteggio Evolutivo nella storia della Confederazione, ma non credo affatto che inizieremo una guerra immediatamente”

“87, Gsirion” disse Durion, alla sua destra. “Sotto a 90 una società è considerata pericolosa per la prosperità della Confederazione. E nessuna società che abbiamo studiato ha mai ottenuto un punteggio al di sotto di 95. E aggiungo” disse poi, alzando la voce e assumendo il suo solito tono pedante, “che dai dati sulle caratteristiche naturali del pianeta, la Terra avrebbe ottenuto un punteggio di almeno 140, un punteggio altissimo per un pianeta così piccolo. Quindi per ottenere 87 evidentemente gli esseri umani devono essere davvero una razza bruta, stupida, irrazionale. Peggio delle bestie. Mi confermate, gruppo di analisi?”

“142, per essere precisi” confermò Forion, con voce cupa. “Gli esseri umani non sono così stupidi, tuttavia. Hanno ottenuto un punteggio abbastanza alto nello sviluppo tecnologico. È questo che li ha fregati: fossero stati dei veri bruti con clave e vesti di pelle, probabilmente avrebbero ottenuto almeno 90, poco per poter entrare nella Confederazione, ma abbastanza per essere lasciati in pace”.

Marion, in tutto questo tempo, era rimasto in silenzio, sempre immobile, con la schiena china, i gomiti sulle ginocchia e le mani a reggere le guance. Lo sguardo perennemente in basso.

Dorion se ne accorse, ma evitò di commentare.

“Agenti, silenzio. Nessuno di noi ha responsabilità per il punteggio ottenuto dalla Terra. Ma ciascuno di noi è responsabile per la scomparsa di Дarion. Abbiamo compiuto il nostro dovere in maniera grossolana, e ne dovremo rispondere. Non appena atterreremo per la cerimonia del rapporto della missione, il Consiglio della Confederazione, così come tutti i media, si accorgeranno immediatamente della mancanza di uno di noi, ma l'attenzione della massa sarà rivolta subito a quello che verrà fuori da questo maledetto disco. Ed allora sì che saranno guai. Già immagino i quotidiani che spingeranno sulla distruzione della Terra e lo sterminio degli umani”.

“Non farla così tragica!” esclamò Furion, “Nessuno tra i centocinquantuno popoli è così violento, né razzista. L'opinione pubblica non si voterà subito alla guerra”.

Dorion si girò di scatto verso di lui “Altro che guerra, sarà genocidio. E ricorda che sono sempre un tuo superiore”

“Chiedo scusa,” rispose Furion, abbassando i toni “ma secondo me la maggior parte dell'opinione pubblica sarà vorrà ignorare o al massimo isolare la Terra da qualsiasi relazione con la Confederazione”.

“Hai studiato poco, Furion” rispose Durion, saccente. “Posso ricordarti cosa successe subito dopo la missione X-22, quando i Frigdani ottennero un punteggio di 89 e decidemmo di lasciarli in pace? Dopo appena cinquecento anni svilupparono astronavi cariche di materiale esplosivo lanciate a velocità superluminale. Vai a chiedere ai Derpeliani come se la cavarono allora. Lo sterminio della razza frigdana fu l'unica soluzione: erano assetati di sangue e di risorse e la diplomazia per loro era una barzelletta”.

Furion posò la schiena sulla sedia “Solo perché è successo una volta, non vuol dire che debba succedere ancora...”

Un campanello interruppe la discussione.

“Attenzione: atterraggio sul pianeta Magisterion tra cinquanta secondi. Si prega di tornare in posizione”

Dorion, infastidita, si accomodò sul suo posto dietro il tavolo e si allacciò una cintura metallica. Anche tutti gli altri si sistemarono ai loro posti.

La nave spaziale, dapprima quasi silenziosa, iniziò a rumoreggiare con i suoi motori antigravitazionali. Rombi a diverse tonalità si susseguivano lentamente, mentre sullo schermo dietro la scrivania di Dorion lampeggiava la scritta “Atterraggio automatico in corso”. Ad un certo punto i rumori si arrestarono. Seguì il silenzio di tutto l'equipaggio. La parete alla destra dello schermo si illuminò: una linea bianca rettangolare percorreva tutto il perimetro della parete. Alcuni rumori di pistoni ad aria pressurizzata indicarono che il portellone della nave spaziale stava per aprirsi. Dorion si alzò dalla sua sedia rapida si pose davanti alla parete.

“Agenti”, intimò lei poi “vi prego di mettervi in posizione e mantenere il sorriso più falso che riuscite a fare. Salutate la folla, guardate nei fotovisori dei giornalisti e fate finta che andrà tutto bene. Cerchiamo di rimandare il più possibile una pessima figura”.

Dorion si voltò.

“Anche tu, Marion. Cortesemente, in posizione”.

Marion non si era nemmeno alzato. Chiamato dalla sorella, si destò, si alzò lentamente e si posizionò dietro di lei. Si erano messi in una formazione molto scenica, come un piccolo esercito: Dorion in testa, due file da quattro persone, rispettivamente il nucleo di esplorazione e il nucleo di raccolta, e dietro i tre del nucleo di analisi. In testa, come una condottiera, Dorion si stava sistemando la sua tuta, pronta per affrontare il bagno di folla che li avrebbe accolti fuori.

Il portellone iniziò ad aprirsi. I rumori della folla dall'esterno iniziarono a sentirsi sempre più forti: voci, musica, clic di fotovisori, qualche tromba e qualche fuoco d'artificio. Le voci di centocinquantuno specie aliene diverse echeggiavano sempre più forti. I dodici agenti erano tesissimi.

Quando il portellone era quasi del tutto aperto, trasalirono: un tappeto di colore verde smeraldo, ampio e liscio, partiva dalla rampa da cui sarebbero scesi e li avrebbe condotti direttamente d'innanzi ai centocinquantuno membri del consiglio della Confederazione, i capi di stato dei pianeti a loro volta membri della “superpotenza universale, portatrice di saggezza, giustizia, progresso e democrazia”, come si usava dire. Ai lati del tappeto un mare di folla sconfinato: dai nani di Ktallian ai giganti del pianeta doppio Perro, dagli anfibi del pianeta acquatico Gloom agli uomini piumati di Farragine, tutte le razze si erano lì riunite per quel momento storicamente importante. Tutti volevano vedere se la Terra era pronta per essere contattata ed accolta nella Confederazione. Tutti sarebbero stati delusi se così non fosse stato. E gli agenti della missione, e Dorion che ne era la responsabile, ne erano consapevoli.

I dodici percorsero il tappeto, salutando la folla estasiata ed acclamante, e sorridendo ai flash dei giornalisti. Nessuno pareva essersi accorto dell'assenza di Дarion. D'altronde, l'eccitazione era troppo alta per notare questo dettaglio, e anche se qualche giornalista li osservava interrogativamente e qualcuno bisbigliava con il vicino chiedendosi perché ne mancasse uno, gli agenti giunsero indisturbati di fronte a Khit-Horion, presidente della Confederazione, del primo pianeta membro Magisterion, e connazionale di tutti gli agenti della missione. Khit-Horion accolse Dorion abbracciandola e avvolgendola con la lunga tunica presidenziale. Il rosso rubino della tunica risaltava contro il verde del tappeto e della pelle, e rifletteva le luci dei flash dei fotovisori della folla come se fosse una gemma preziosa. Subito dopo, però, la folla si quietò, musiche e trombe abbassarono i toni, e i flash si ridussero a quelli dei cronisti ufficiali dell'evento. Era infatti giunto il momento della cerimonia ufficiale.

Khit-Horion drizzò la schiena, nonostante l'età, e con voce tonante:

“Generale Dorion! In quanto presidente della Confederazione, a nome di ognuno dei membri del consiglio...”

Iniziò una lunga sequela di nomi difficilmente pronunciabili di presidenti, razze e pianeti, della durata di circa dieci minuti.

“... chiedo a voi, agenti della missione 152, il rapporto finale sulla natura e sulla condizione del pianeta Terra e della razza Umana, per poter avere il vostro responso scientificamente determinato e poter decidere in via definitiva l'accoglienza del pianeta come centocinquantaduesimo membro”.

La voce di Khit-Horion rimbombò dagli altoparlanti diffusi per tutta la piana di Khianaan, luogo della cerimonia. Nonostante fosse una pianura ampia centinaia di chilometri quadri, miliardi di individui l'avevano quasi completamente ricoperta.

Dorion si schiarì la voce ed avvicinò alla sua bocca il piccolo audiofono che un piccolo alieno le aveva appena posto. Estrasse dalla tasca il disco ovale che aveva messo in tasca e disse:

“A lei, presidente, a voi, membri del consiglio, e a tutti i popoli della Confederazione, io, Generale Dorion, e i tre nuclei della missione, porgiamo a voi il frutto delle nostre ricerche” e le porse il disco. Il presidente lo prese tra le mani e si avvicinò al tavolo rotondo dove tutti gli altri membri erano seduti. Si sedette, premette un pulsante inserito nel tavolo, da cui uscì un piccolo chiodino d'acciaio. Il presidente posò il disco in modo che rimanesse in bilico proprio al centro. Una luce sotto al disco lo illuminò e immediatamente un gigantesco schermo-ologramma si accese al di sopra del tavolo. Altri schermi-ologramma si accesero sulle teste della folla, e in tutta la pianura chiunque era pronto per vedere il contenuto tanto atteso (e temuto) del rapporto.

Una serie di immagini del pianeta Terra, di boschi, foreste, montagne, animali, città e attività umane iniziarono a susseguirsi rapide, accompagnate da frasi in Kvu, la lingua comune a tutte le razze, lette da una voce femminile calda e suadente, ovviamente sintetizzata.

“PIANETA TERRA

Popolato dalla specie chiamata Umanità

La Terra è un pianeta ricco di risorse, dotato di una grandissima varietà di ambienti, climi, e specie animali e vegetali di ogni forma.

L'Umanità domina incontrastata, e anch'essa si esprime in molteplici forme e culture diverse.

La popolazione è di circa sette miliardi di unità”

Un brusio di ammirazione si levò dalla folla. Sette miliardi era infatti una quantità molto bassa per la popolazione di un pianeta, almeno secondo gli standard della Confederazione, e pertanto essere stati considerati come potenziali membri era stato visto da tutti lodevolmente per un popolo così numericamente minuto.

“Ma questo non ha fermato l'Umanità dallo sviluppo di tecnologie molto avanzate”, continuò la voce sintetizzata. Nel frattempo, Dorion si era accostata al presidente, sussurrandogli all'orecchio.

Il video stava volgendo al termine. “In conclusione, il pianeta Terra e la popolazione Umana hanno ottenuto complessivamente un Punteggio Evolutivo pari a...”

Tutta la folla trattenne il respiro. O almeno, quelli che effettivamente respiravano ossigeno.

“...87”

Gli schermi-ologramma erano colorati di una tonalità scura di rosso. Un gigantesco 87 li aveva riempiti tutti. Miliardi di individui erano ora nel più totale silenzio. Si poteva sentire solo lo sbattere delle ali di qualche specie volante, e il rumore dei motori a reazione di una piccola navicella che stava atterrando di fianco ai membri del consiglio proprio in quel momento.

Trenta secondi di silenzio lunghissimi che vennero scossi dal più forte boato di frustrazione, dolore, rabbia e delusione che si sia mai potuto sentire. I membri del Consiglio e gli agenti salirono subito sulla navicella che decollò immediatamente. Dorion era stata lungimirante nel consigliare il presidente di chiamare quella nave: un tumulto di giornalisti aveva già preso d'assalto il tavolo rotondo mentre la folla, riversatasi anche sul tappeto verde, lanciava maledizioni, gridava, piangeva e tirava oggetti verso l'alto, tentando invano di colpire la navicella spaziale.

Su di questa, il presidente, Dorion e Marion, seduti in quest'ordine uno affianco all'altro, assieme a tutti gli altri, erano in un silenzio imbarazzante. Quando la navicella fu già in quota, ben lontano dalla ressa, il presidente sbraitò:

“Generale Dorion, cosa diavolo è successo su quel pianeta? Come hanno fatto ad ottenere un punteggio così basso? E soprattutto” disse contando rapidamente con lo sguardo gli agenti, “perché siete solo in dodici?”

Dorion abbassò lo sguardo. Era bloccata. Marion se ne accorse e corse in suo aiuto.

“Signor presidente, se mi permette, temo sia meglio parlarne con calma in un convegno ufficiale. Sono successe molte cose durante la missione. C'è bisogno di tempo”.

“E dell'agente mancante? Non ditemi che è rimasto sulla Terra”

Marion prese un lungo respiro. “Temiamo sia stato ucciso dagli esseri umani, signor Presidente”.

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Capitolo 3
*** Rommel ***


Dopo una lunga scarpinata, Marion giunse finalmente nei pressi delle mure di Bologna. Il traffico era leggero, nonostante fosse giunto nel centro della città, e poche persone percorrevano i marciapiedi grigi che contornavano le strade di asfalto bollenti. Marion avvertiva che nella città faceva decisamente più caldo. La sua camicia si inumidì, il manico della ventiquattr'ore divenne scivoloso, e l'afa opprimente lo affannò così tanto che fu costretto a fermarsi un paio di volte prima di raggiungere quella che da lontano sembrava essere un punto di raccordo di grandi strade a più corsie. Era giunto a Porta San Mamolo, o almeno così dicevano i cartelli che circondavano quell'incrocio. Della porta, però, non vi era traccia. Si aspettava di vedere almeno un arco, o qualche traccia dell'antica muratura, come aveva visto nelle foto dei primi dossier che aveva studiato su Magisterion. Rimase deluso. Guardò il suo orologio, su cui aveva una mappa abbastanza dettagliata della città. Aveva bisogno di un punto di ristoro dove potersi rifocillare, e doveva anche cercare un luogo dove poter passare la notte. Forse si sarebbe dedicato alla ricerca di un “ostello” o meglio ancora di un “ristorante”, dove avrebbe potuto interagire per la prima volta con gli esseri umani. In ogni missione era sempre spinto da una profonda curiosità verso i mezzi di comunicazione e socialità usati dalle specie che doveva analizzare. D'altronde, aveva sempre partecipato come agente del nucleo di esplorazione proprio per questo. Prima del piacere, però, avrebbe dovuto anche cercare una connessione internet: più presto avrebbe ufficializzato la propria falsa identità, più presto avrebbe potuto iniziare la sua “nuova vita”. L'unico problema era che il suo orologio non gli avrebbe fornito questa informazione: la mappa dava solo i nomi delle strade e i monumenti principali di Bologna e dei dintorni. Marion si risolse dunque nel cercare qualcuno a cui chiedere. Con le mura alle spalle, s'incamminò per la via principale. Era il primo pomeriggio, e in quel momento non passava anima viva. L'asfalto friggeva le ruote delle poche auto parcheggiate, e stranamente molti locali erano chiusi, alcuni con cartelli alle vetrine che mostravano a caratteri cubitali “Chiuso per ferie”. Marion inveì contro la pigrizia dell'umanità, ma a bassa voce. Proprio in quel momento passò un uomo in maglietta e pantaloncini corti, dalla pelle e dai capelli scuri, a cavallo di una bicicletta. Marion richiamò la sua attenzione.

“Mi scusi! Signore, mi scusi!” disse lui in italiano.

Il ragazzo, giunto a una decina di metri davanti a Marion, frenò bruscamente e si voltò osservandolo con una faccia tra il sospettoso e il sorpreso.

“Mi scusi” disse Marion, che lo aveva raggiunto, “saprebbe dirmi dove posso trovare un luogo per potermi connettere a internet?”

Il ragazzo strizzò gli occhi.

“Un internet point?” chiese lui.

<> pensò Marion. “Sì, esatto, avrei bisogno con urgenza di un internet point. Sa dove si trova?”

“C'è uno qui vicino. Di dove sei? Non parli bene l'italiano”

A Marion si strinsero i cuori. “Sì, infatti sono straniero e sono arrivato qui oggi. Ho bisogno di internet, dove devo andare?” affrettò.

“Sali su mia bici, ti accompagno. Sono di strada. Io mi chiamo Rommel, piacere” si offrì il ragazzo, tendendogli la mano.

Marion gliela strinse, si presentò e lo ringraziò. Salirono insieme sulla bicicletta e mentre Rommel pedalava, Marion soddisfò alcune delle sue curiosità.

“Tu non sei italiano, Rommel. Di dove sei?”

“Io di Bangladesh. Tu?”

“Io sono inglese, vengo da Londra”

“Bello. Sei studente straniero?”

“Sì, studio medicina”

“Caspita, intelligente”

“Tu che cosa studi?”

Rommel rise. “Io non studio, io lavoro. Ho un negozio di frutta e verdura. Mio cugino ha internet point, io ti sto portando lì”.

Sfrecciavano velocemente nelle strade libere, raccontandosi le loro origini e della loro vita. Marion ne approfittò per ripassare di nuovo la sua storia, mentre Rommel ne approfittò per scambiare due chiacchiere con il suo nuovo strano amico straniero.

Giunsero in breve all'internet point. Marion smontò goffo dalla bici, mentre Rommel ripartì subito, salutandolo e scusandosi per la fretta. “Devo scappare, tra poco devo aprire negozio. Alla prossima” urlò da lontano, sbracciandosi per far vedere il suo saluto.

“Grazie, Rommel!” esclamò Marion. Alzò poi l'orologio alla bocca, premette un pulsantino di lato e sussurrò: “Primo contatto con un essere umano, positivo e amichevole. Un'ottima prima impressione. Spero siano tutti così”.

Marion si ritrovò davanti la vetrina di questo internet point piccolo e poco illuminato. Gli unici segni di riconoscimento erano una insegna generica bianca con scritte nere e un pannello di lampadine colorate lampeggianti che formavano la scritta “Aperto”, invitando chi era all'esterno in quell'antro che di primo acchito fece sospettare Marion della reale funzione di quel locale. Tirò un sospiro ed entrò, ventiquattr'ore alla mano. All'interno vi erano dieci computer apparentemente vecchi e impolverati. Uno di questi era occupato da un ragazzo dagli occhiali spessi e dalla pelle talmente pallida che i suoi baffi preadolescenziali risaltavano come se fossero stati disegnati con un pennarello nero indelebile. I suoi occhi erano fissi sullo schermo del pc, la cui luce rifletteva sulle sue guance candide e spelacchiate come fosse un'ologramma. Marion, stranamente, ne fu colpito.

“Buongiorno!” disse il signore di colore in fondo alla stanza, dalla sua vecchia scrivania.

Marion trasalì. “Buongiorno! Ehm... Avrei bisogno di un computer per connettermi a internet”.

“Numero 4” rispose il signore, indicandogli rapidamente uno dei computer. Marion si diresse al suo posto, si accomodò sulla sedia cigolante, si mise la sua valigetta in grembo e ne estrasse una piccola sfera d'acciaio. Delicatamente avvicinò la sfera al tower posto sotto la scrivania. Dalla sfera un raggio laser verde illuminò il tower, e in una frazione di secondo dei fili molto sottili ma resistenti uscirono dalla sfera, inserendosi all'interno della porta USB. Marion lasciò la sfera, che ora era agganciata al tower, prese il mouse e cliccò “Avvia caricamento dati” nella finestra che si era aperta sullo schermo del computer. La finestra si chiuse e lo schermo si spense. Il tower incominciò a emettere calore, mentre la ventola interna che avrebbe dovuto raffreddarla girava freneticamente, producendo un gran fracasso. Il padrone dell'internet point, grazie alle cuffie, non badava al rumore. Il ragazzo pallido, invece, alzò lo sguardo dallo schermo, guardò in direzione di Marion e aggrottò le folte ciglia. Marion evitò di incrociare i suoi occhi edulcorati dai fondi di bottiglia che erano quegli occhiali.

Una serie di scritte apparirono una appresso all'altra sullo schermo del suo computer. Queste indicavano che la falsa identità di Marion si stava realizzando: la sfera stava accedendo a server, violando password e caricando dati, tutto in maniera tecnicamente illegale. Fortunatamente, la tecnologia di cui disponeva lo rendeva assolutamente inattaccabile e al di sopra di ogni sospetto. Nessuno, nemmeno il migliore hacker sulla Terra, avrebbe potuto mai scoprirlo.

Un messaggio di errore lampeggiò: “Attenzione: Potenza di Calcolo Non Sufficiente. Inserire Hardware Aggiuntivo”. Marion non perse un istante: premendo alcuni pulsanti del suo orologio e avvicinandolo al tower, attivò un altro raggio laser verde. L'orologio, come la sfera, analizzò il computer e si connesse con fasci di fili sottili. “Sincronizzazione...” era scritto sullo schermo dell'orologio, che ora emetteva una tenue luce verdognola. Dopo poco, il computer si sbloccò, ricominciando a stampare scritte su scritte sul suo schermo. Il tower tornò a far baccano con la sua ventola, stavolta in misura minore, forse per via dell'aiuto dato dall'hardware aggiuntivo. Marion si asciugò il sudore e alzò lo sguardo. Il ragazzo pallido lo stava fissando. Marion capì che quel ragazzo non aveva smesso un attimo di fissarlo. Dalla sua posizione probabilmente non aveva visto quello che aveva combinato con orologio e sfera; di certo però stava destando sospetti. Il ragazzo continuava, stringendo ora gli occhi e lasciando capire che aveva compreso che qualcosa non andava. Marion doveva reagire. Continuò a guardarlo, alzò la mano sinistra, strinse i polpastrelli e, muovendo il polso su e giù, esclamò: “Cazzo guardi?”

Il ragazzo, improvvisamente intimidito, abbassò lo sguardo, sistemò gli occhiali sul suo naso, mise un paio di cuffie nelle orecchie a sventola e distolse l'attenzione da Marion, che tirò un sospiro di sollievo. A quanto pare, studiare certi comportamenti caratteristici italiani, come il “gesticolare”, era servito a qualcosa. Subito dopo, la scritta “Operazione Completata” riempì lo schermo nero del suo pc. La sfera d'acciaio si scollegò, cadde al suolo e si disgregò in una polverina d'acciaio molto fine. L'orologio si staccò ugualmente e tornò a sembrare un orologio normale. Marion era stremato da quella tensione: spense il pc, pagò quanto doveva al signore di colore che non si era accorto di nulla, ed infilò la porta in men che non si dica. Finalmente fuori, Marion tornò sereno, ignorando l'ultima occhiataccia del ragazzo dai baffetti imbarazzanti.

Era tempo di trovare un alloggio per la notte. Si incamminò e dopo poco tempo trovò un alberghetto che avrebbe fatto al caso suo. In meno di un'ora, Marion era finalmente riuscito a trovare una stanza in cui avrebbe potuto riposarsi. Arrivato, chiuse la porta, tolse i vestiti e la tuta e si gettò nel letto, le cui coperte verdi, pensò, erano una mimetizzazione perfetta. Sorrise alla sua pessima battuta e, ignorando la sua fame, si addormentò.

 

 

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