Heavydirtysoul

di luxaar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tobias ***
Capitolo 2: *** Stefano ***
Capitolo 3: *** Rosa ***
Capitolo 4: *** Dott. Costa ***
Capitolo 5: *** Lucrezia ***
Capitolo 6: *** Avviso ***
Capitolo 7: *** Sono tornata! ***
Capitolo 8: *** Amici ***



Capitolo 1
*** Tobias ***


Siamo solo materia.
Atomi che si aggregano e si disaggregano, determinando la nostra vita o la nostra morte.
Continuavo a ripeterlo, a focalizzarmi su questo concetto epicureo, a cristallizzarlo nella mia mente, ma sapevo che non stavo facendo altro che ingannarmi da sola.
Conoscevo la mia natura: non rappresentavo affatto il canone della donna di scienza convinta che l'unità di base della vita sia la cellula e che una sostanza apolare non possa mai sciogliersi in una polare. Io non ero fredda, scientifica, lucida: ero passionale, impulsiva, fortemente sentimentale. Il cuore mi esplodeva di emozioni, sempre. Che fosse dolore o estrema felicità io l'avrei sentito rimbalzarmi tra cervello e cuore, espandendosi attraverso ogni fibra nervosa. Mi commuovevo per un lieto fine e mi struggevo, versando lacrime fino a disidratarmi, per ogni personaggio, di cui puntualmente mi innamoravo, che moriva. E forse è questa la ragione che portava alcuni miei colleghi a tacciarmi di non essere un bravo medico, a continuare a guardarmi con disprezzo e a rimproverarmi di essere troppo poco fredda.
In quel momento pensai, per la prima volta della mia vita, che avessero ragione.
Ero una specializzanda di Pediatria in uno degli ospedali migliori del Bel Paese, ormai al terzo anno, quindi teoricamente avvezza alla morte.
In pratica, mi trovavo a terra, nel bagno dell'ospedale dello scantinato, a sbattere la testa contro le piastrelle che un tempo furono bianche.
Ormai le lacrime sembravano correre lo stesso cammino inesorabile delle gocce sul finestrino della macchina durante un giorno di pioggia. Quelle che da bambino incitavi affinché corressero più veloci di tutte le altre, con una gioia e una inconsapevolezza tale, di ciò che di brutto c'è oltre quel vetro, che solo da piccolo puoi avere.
Eppure Tobias, già a nove anni con quel male ci aveva fatto i conti. Aveva scoperto di avere la Sindrome di Reye, che purtroppo era ad uno stato ormai troppo avanzato. I danni celebrali così come la dimensione del fegato non lasciavano più spazio ad alcuna speranza. Nonostante la grave condizione, però, sciocca come sono, io continuavo a sperarci, a farmi raccontare dalla mamma la sua passione per le piantine, da quando la maestra di scienze gli aveva fatto fare il solito banale esperimento della piantina di fagiolo; a entusiasmarmi per i disegni che raffiguravano l'astronauta che tanto sarebbe voluto diventare. Così, ogni sera, passavo da lui, tirando di giorno in giorno, un sospiro di sollievo, perché era ancora su quel letto, perché poteva ancora piantare semi di margherite, fidanzarsi con l'amichetta Laura, la biondina di cui era follemente innamorato,così dichiarava lui, e andare sulla Luna. Gli passavo la mano sul viso, sorridendo con tenerezza e sperando che lui sarebbe stato uno di quei meravigliosi ma anche "ahimè" rarissimi miracoli della scienza, che essa stessa ti mette davanti senza alcuna spiegazione. A volte accade che un paziente, dichiarato incurabile dai miei cinici colleghi, piano piano, incominciasse a riprendersi, ogni giorno compiva uno sconvolgente passo in più verso quella così strana vita che fino a qualche momento prima sembrava esser decisa a buttarlo giù, nel precipizio della morte.
Ma la mia speranza per Tobias era stata vana. Ed era per questo che mi trovavo a sbattere la testa contro il muro, ripetendomi quello strano mantra.
Il primario di Pediatria, il capo dei capi, conosciuto per la sua mancanza d'anima, dieci minuti prima, porgendomi una cartella, mi aveva ordinato:
"Avverti la famiglia del decesso"
Quando aprii la cartella e vidi il nome di Tobias non potei far altro che scappare in quel piccolo bagno dimenticato da tutti. I sentimenti ancora una volta avevano avuto la meglio sulla razionalità, che avrei dovuto mantenere. La verità è che non era semplicemente giusto che Tobias fosse morto. Che quel dolce bambino non fosse più spinto dalla passione per le piantine e per i pianeti. Non è vero che siamo fatti solo di materia, solo di molecole, solo di atomi. C'è molto di più.
E quel molto di più continuava sempre a sovrastarmi.
Scrutai l'orologio, erano passati ben più di dieci minuti, così decisi di alzarmi da quelle fredde piastrelle e mi portai davanti allo specchio, asciugandomi le lacrime,  per rendermi presentabile. L'immagine riflessa era terribile, gli occhi rossi erano difficilmente nascondibili, ma il resto poteva essere celato da un po' di trucco. Finita l'operazione, cercai di sorridere alla mia immagine riflessa, per riacquistare un po' di sicurezza. Subito dopo però diedi una leggera testata allo specchio, come a voler distruggere me stessa. Il freddo dato dall'essermi appoggiata allo specchio però mi diede un po' di sollievo e da esso presi un po' di forza. Uscii dal bagno e mi catapultai in ascensore da dove stava uscendo il mio collega più odioso, Edoardo Della Scala, il figlio del primario.
Era lo specializzando dell'ultimo anno più promettente, brillante come pochi; aveva già la strada spianata. L'orgoglio del padre e di tutte le donne che erano riuscite a farsi usare da lui, che le gettava dopo una notte, come fossero anche loro preservativi. Nonostante la sua natura da vero e proprio bastardo tutte le donne di quell'ospedale continuavano a venerarlo e a ricercare la sua attenzione. 
Il suo aspetto di certo lo aiutava. Sembrava la copia sputata di un attore di Hollywood che per ora era molto in voga. Biondo come un angioletto, possidente di un sorriso sghembo da piccolo stronzo, un fisico che non aveva nulla da invidiare a Matteo, lo specializzando che aveva fatto della palestra la sua seconda casa, e degli occhi di un'intensità tale che potevano catturarti come se fossero tutto ciò che avessi sempre desiderato. Quel grigio sembrava comunicare meglio delle parole.
Inoltre si trovava sempre con un labbro spaccato o un occhio nero o comunque sembrava uno che aveva appena finito di picchiarsi con qualcuno. Nessuno sapeva cosa procurasse questi segni e, anche se le teorie erano molte, nessuna sembrava fondata. E ciò lo rendeva ancora più terribilmente affascinante. 
"Finito di piangere, orsacchiotto?" mi disse, afferrandomi il braccio sinistro, con un tono falsamente preoccupato che sfociò in una risata derisoria. Era uno stronzo. E non perdeva un' occasione per dimostrarmi quanto debole fossi e, quindi, quanto non fossi pronta a quel lavoro. Strinsi i pugni e cercando di divincolarmi dalla sua presa ferrea cercai di affermare, decisa "Non stavo piang.." Ma lui fermò l'ultima mia parola, dichiarando sprezzante: "Non sarai mai un medico degno di questo nome". 
E se ne andò, lasciandomi lì, mentre le porte dell'ascensore si chiudevano.
 Non mi chiesi il perché stesse andando nello scantinato, luogo privo di alcuna reale utilità per uno specializzando, dato che conteneva soltanto i registri fiscali dell'ospedale. Nè feci caso al suo aspetto particolarmente consunto, distrutto sicuramente da qualcuno, che questa volta, lo aveva picchiato più di quanto era riuscito a fare lui.
Ero diventata furente dopo quella conversazione e quella rabbia mi caricò moltissimo. Io sarei diventata una pediatra rispettabilissima, checché ne dicesse quel pallone gonfiato di Edoardo Della Scala. 
Strinsi i pugni e spinsi sul pulsante che indicava il piano quinto, dove si trovava il reparto di pediatria.
Quel piano era l'unico ad essere colorato. Cercava con i suoi disegni di Nemo e della Sirenetta sulle pareti di mostrare ai bambini un ambiente un po' più confortevole. I pianti strazianti in realtà stridevano un po' con tutti i giochini e con la varietà di colori presenti, ma era proprio per quello che avevo deciso di specializzarmi in quel ramo della medicina: ogni risata che sostituiva il pianto in un bimbo era quanto di più al mondo potesse riportarti all'armonia con la natura, alla pace interiore: ti riempiva il cuore, ti permetteva di sollevarti un po' da quella terra così arida e matrigna.
Chiesi a Sara, una nuova infermiera, che sembrava dolce e affabile, oltre ad essere così carina da sembrare una Barbie principessa, di convocare i genitori di Tobias.

Dopo un quarto d'ora mi trovavo in una stanza dall'ambiente sobrio e riservato, mentre stringevo nella mano sinistra lo stetoscopio, come ci avevano insegnato. La tensione doveva essere esaurita lì,  mentre sul viso doveva essere mostrata serenità e compartecipazione al loro dolore, ma mai altro. Mai tristezza o dolore, simboli soltanto di debolezza. Arrivarono trafelati e confusi, del resto erano le tre di notte e sicuramente avevano già capito che i figlio era morto, ma continuavano a nascondersi dietro alla convinzione che non potesse essere vero. Speravano che io potessi dare loro una lieta notizia e non quella nefasta che pendeva sulle loro teste come una spada di Damocle. Ma io non potevo aiutarli.
"Ciao" sorrisi di circostanza, mentre loro mi facevano un segno di assenso, erano troppo tesi per rispondere con le parole. Volevano sapere, lo vedevo dai loro occhi che interrogavano la mia figura.
"Sapete che le condizioni di Tobias erano critiche, purtroppo troppo critiche perché noi potessimo fare qualcosa, per questo quando stanotte ha avuto una crisi, abbiamo cercato di aiutarlo, ma non c'è stato nulla da fare. Mi dispiace." dissi, cercando di essere il più delicata possibile. Vidi le lacrime scendere sul viso della madre che sembrò perdere lucidità, come se l' anima fosse scivolata dal suo corpo, cercando di raggiungere quella del figlio. Vidi il padre, incredulo: ancora non era pronto ad accettare la verità. Mi si chiuse lo stomaco e sentii la bile salire attraverso l'esofago, pronta a riversasi in bocca. Ero così impotente davanti al dolore giusto di un mondo così ingiusto.
Capii che era il momento di lasciarli soli, a cercare di elaborare il lutto, così dicevano gli altri medici.
In realtà era semplice codardia: nessuno sapeva come comportarsi di fronte allo strazio della perdita di un figlio.
Mi girai e posai una mano sulla maniglia, eppure una voce mi fermò: "Resta. Puoi?" mi pregò il padre. Annuii e i due coniugi mi abbracciarono, cercarono in me la forza di sopravvivere, forza che probabilmente mancava anche a me. Dopo dieci minuti, si staccarono da me, che li avevo stretti carezzandoli sulla schiena, imbarazzati. Li rassicurai con un sorriso e me ne andai orgogliosa, per una volta, di me stessa.
Lasciai loro in quella stanza, pensando che dopo qualche ora sarei ritornata a trovarli.
E soprappensiero andai a sbattere contro qualcuno.
"Quindi neanche tu resisti al mio fascino, eh?" 
Purtroppo quel qualcuno era Edoardo Della Scala. 
"Ma proprio" risposi acida, allontanandomi da lui e cercando di ritornare al mio lavoro: dovevo andare dal Prof. Russo, a cui ero stata affidata per quel mese e chiedergli cosa avrei dovuto fare.
Il prof. Russo era davvero un bravo insegnante, rigido ma attento ad ogni bisogno degli specializzandi. Inoltre era un medico brillante ed amavo i mesi in cui ero con lui. Potevo veramente imparare qualcosa e non soltanto eclissarmi diventando tutt'uno con la parete, come esigevano la maggior parte dei ‘grandi' dottori.
"Tesoro, non ti preoccupare: da oggi in poi potrai bearti della mia presenza più di quanto in realtà meriti. Sei stata affidata a me dal Prof. Russo." dichiarò il biondino, con quel suo sorriso beffardo. 
Sperai che fosse una cavolata, così mi recai nella "bacheca degli specializzandi'', pronta a smascherare lo scherzo che aveva appena architettato.
Peccato che un avviso troneggiava davanti alla mia vista:
 
ATTENZIONE 
 
      AGLI SPECIALIZZANDI AFFIDATI AL PROF. RUSSO,
 
a causa di un disguido, per questo mese verrete affidati ad uno specializzando dell'ultimo anno, secondo le tabelle qui riportate:
 
Cercai il mio nome e lo ritrovai proprio sotto quello di Edoardo Della Scala.
Ancora non sapevo che quel giorno sarebbe stato l'inizio del mio incubo personale, anche se lo sospettavo, ma anche che la mia vita da quel momento in poi avrebbe preso una piega del tutto inaspettata.

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Capitolo 2
*** Stefano ***


Quel fatidico giorno mi alzai alle cinque, consapevole che non sarei potuta scappare delle grinfie di Edoardo, come avevo fatto il giorno prima.
Proprio il padre, il primario, aveva deciso di tenermi con sé quel giorno per un motivo allora ignoto e che aveva inspiegabilmente destato nel figlio uno sguardo di fuoco, ma che il padre aveva seraficamente eclissato.
"Sempre in anticipo o vuoi fare buona impressione sul tuo nuovo supervisore?" mi chiese, derisorio, il mio biondo supervisore, mentre io stavo studiando le cartelle di quei pazienti che avrei, da lì a poco, visitato con lui.
"Veramente sei tu ad essere in ritardo, come sempre del resto, no?" risposi acida io, sorridendo a mia volta e alzando lo sguardo su di lui.
Dovetti mandar giù la saliva, mentre sgranavo gli occhi.
Quella mattina era davvero ridotto male. Un taglio profondo e poco regolare passava dalla fronte in alto a sinistra fino alla guancia destra, inoltre diversi ematomi erano presenti sul viso.
Il mio sguardo, ritengo, si intenerii a quella vista e naturalmente non avrebbe dovuto.
"Allora stai attenta ad ogni mia entrata?" domandò ironico, incominciando a incamminarsi, finalmente, verso la stanza del primo paziente.
Una bimba giocava sul letto con le carte dei Pokémon e, nonostante le profonde occhiaie, sorrideva ad ogni mossa in cui il padre la lasciava teneramente vincere.
"Papà, ma sei proprio scarso!" gli disse, tossendo, alzando la testa dalla carta di Squirtle e rivolgendo gli occhi azzurri verso di lui.
"Ma allora sei una campionessa! sai che anch'io sono un campione a Pokémon? Se mi lasci Pikachu, vuoi vedere che ti batto?" le disse Edoardo, avvicinandosi, con gli occhi che sembravano brillargli di tenerezza.
Non potevo crederci.
Pensavo fosse uno di quei medici freddi, di cui tanto decantava lui la bravura e non uno che giocava con le carte dei Pokémon  con i suoi piccoli pazienti. Sembrava una persona completamente diversa. Mentre scherzava e giocava con Chiara, la convinceva a farsi prendere i valori di rito e a metterle la flebo, cosa che fino ad ora era stata un'impresa. Nel frattempo chiedeva a me, da bravo insegnante, di controllare altri valori o ascoltarle il respiro. 
"Certo che la Dottoressa Beatrice è proprio scarsa: non capisce nulla di quanto sia forte Charmender, vero?" chiese il mio supervisore a Chiara, che rideva e mi abbracciava, mentre mi suggeriva una o due mosse, di quel gioco, in cui i due mi avevano costretto a giocare e di cui, sicuramente ne sarei uscita sconfitta.
Risi e conclusa la visita ce ne andammo promettendo alla piccola che il giorno dopo avremmo giocato nuovamente con lei.
"Dopodomani la dimetteremo. Incomincia a stampare i moduli, sempre che tu sia in grado di farlo, vista l'incompetenza dimostrata fino ad ora" mi disse uscendo dalla stanza e riprendendo il suo atteggiamento rigido e altezzoso. 
Stronzo.
Sapevo di aver eseguito ogni esame come scritto da manuale.
Cretina io e quando avevo pensato, in quella stanza, che sarebbe stato, in fin dei conti, un bravo maestro.
Ma decisi di non rispondere alla provocazione e andai a eseguire il suo ordine.
Mi chiesi mentre attraversavo velocemente i corridoi il perché di quel cambiamento di atteggiamento. Prima mi sorrideva e annuiva benevolmente alle mie mosse e poi, usciti dalla stanza mi insultava.
Non capivo e continuai a non capire per tutta la mattinata, visto che si comportò così per ogni paziente visitato.
"Come fai ad essere così poco preparata?" mi chiese uscendo dall'ultima stanza.
Guardai il mio camice bianco e il mio nome scritto sopra, guardai il suo ed erano identici.
Eravamo entrambi specializzandi e, nonostante lui fosse uno dei migliori, non poteva comunque permettersi di insultarmi e sminuirmi così. Non poteva.
Avevo resistito a tutti gli insulti possibili immaginabili, ma che fossi poco preparata non lo potevo accettare. Io, mi spaccavo il culo, pur di studiare il più possibile. Mi alzavo presto e andavo a dormire tardissimo; avevo detto addio sia alla mia vita sociale che sentimentale, pur di essere dove ero ora.
Non avevo fatto perno su alcuna raccomandazione, come metà degli specializzandi qui, né su un nome importante come il ragazzo che mi stava di fronte e mi guardava con ribrezzo, con quell'aria di superiorità che non aveva alcun diritto di avere.
La mia rabbia stava montando, e quella era stata la fatidica goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
"Tu non hai alcun diritto. Non hai alcun diritto di dirmi che sono poco preparata. Io, ho fatto di tutto pur di essere qui e non ho di certo fatto perno sulla presenza di mio padre"  Gli gridai, ben conscia che in realtà, anche se magari il nome non lo aveva di certo buttato giù, comunque era stramaledettamente bravo. E oggi ne avevo avuto la dimostrazione.
I suoi occhi si infuocarono.
"Almeno non ho venduto il mio corpo, visto che il mio adorato fratellino se ne sbatte di me e non è mai venuto a trovarmi una volta e non mi ha mai insegnato nulla. " mi disse sprezzante, mentre io agii di istinto come ogni santa volta e gli diedi uno schiaffo, incurante del suo viso già distrutto.
Aveva esagerato. Non solo perché non avevo fatto nulla di quello che aveva sottinteso ma anche perché non poteva capire il rapporto che avevo con mio fratello.
Però era vero che Stefano, mio fratello, a volte, sembrava fregarsene di me.
Forse è per questo che le mie dita rovinarono ancor di più il suo viso: avevo paura che stesse proprio dicendo la verità.
E questa pulce incominciò a insediarsi nella mia mente, mentre io realizzavo ciò che avevo fatto. Come se tutte le informazioni rientrarono, dopo un attimo di abbandono, nella mia testa, ripresi coscienza della mia posizione e dell'azione, assolutamente non da me, che avevo appena compiuto.
Mai mi ero permessa tanto neanche con Giulio, che mi aveva usato come una bambolina e tradito innumerevoli volte.
Io ero sempre stata per la non violenza, era difficile che gridassi o che affrontassi qualcuno, di solito preferivo scappare dalle situazioni, ispirare e inghiottire amaro.
Non potevo credere di averlo fatto.
"Senti, scusa, non volevo..." cercai di dire, ma lui mi zittì con un sorriso tanto amaro quanto serafico, che mi ricordò in modo letale il padre. Avevo appena dato uno schiaffo al figlio del primario. Inghiotti la saliva e lui incominciò a ridere di me apertamente.
Ero decisamente nei guai questa volta.
Ero sicura che avrebbe usato quello schiaffo per rovinarmi la vita.
Quella sera mi recai a casa del mio gemello mancato: mio fratello. 
Purtroppo quella pulce che Edoardo era riuscito a mettermi nella testa aveva incominciato a creare in me un forte dubbio. Forse era vero che a lui non importava nulla di me.



Stefano era nato esattamente lo stesso giorno due anni prima di me, e rappresentava la mia immagine speculare al maschile. Era una bellezza eterea, che faceva battere i cuori di troppe donne. Bruno, con occhi caldi e confortanti, che ti trasmettevano una calma e serenità che una ninna nanna al confronto non era per niente rilassante. Quegli occhi erano circondati da delle ciglia così lunghe che qualsiasi ragazza gli aveva invidiato almeno una volta, così come era stata gelosa delle sue labbra carnose.
Non andava spesso in palestra, ma manteneva comunque un bel fisico. Ci somigliavamo più di quanto ci sembrasse, anche caratterialmente. A primo acchito, chiunque direbbe che   siamo almeno da quell'aspetto agli antipodi. Ma in realtà scavando più a fondo è evidente la nostra somiglianza. Io parlo molto, ma dico poco. Stefano, parla poco ma quel che dice mette alla luce molto di più di mille mie parole della sua anima, del suo io.
Io confondo le persone con la mia parlantina, racconto di tutti, ma di me stessa mai, se non superficialità; ed è per questo che, anche se ho tanti amici, in ogni momento di difficoltà preferisco presentarmi alla porta di Stefano e della sua non troppo simpatica fidanzata, Lucrezia.
Mio fratello e Lucrezia sono fidanzati da tre anni e hanno deciso l'anno scorso di provare a convivere. La fidanzata di Stefano per me è un'idiota, e mi dispiace dirlo, perché mio fratello le vuole bene veramente, ma per me è così. Forse è perché si è costruita un'immagine di ragazza perfetta, dedita agli eventi di beneficenza e alla casa, che non sopporto. Nasconde la sua essenza dietro quell'aspetto costruito e falso. 
Suonai al campanello e sperai che non fosse Lucrezia ad aprirmi.
Qualche minuto dopo mi si presentò mio fratello davanti e non potei fare altro che abbracciarlo, anche se in realtà l'avevo visto tutto il giorno, ma solo di sfuggita. Nonostante le illazioni del mio supervisore, comunque sentii che dovevo essere un po' rassicurata, stare un po' tra quelle braccia che avrebbero potuto anche rivelarsi, da lì a poco, indifferenti. Avevo bisogno di tenere in piedi quella che poteva essere un'illusione, ma che per me rappresentava una certezza, almeno per un altro po' di tempo, prima di abbatterla.
Non potevo e non volevo credere che colui che io ritenevo il mio perno, la roccia sicura a cui poter fissare la corda da cui lanciarsi con una corda nel vuoto che era la vita, fosse in realtà una scultura di sabbia. Pronta a rivelarmi la sua natura reale solo al momento della caduta.
Anche Stefano lavorava all'ospedale ed era all'ultimo anno di specializzazione in Medicina Interna ed era, naturalmente, il migliore del corso.
"Beatrice, c'è freddo" mi disse, guardandomi con quegli occhi così caldi e trasportandomi dentro.
Cercava di capire, studiandomi, la motivazione di quella visita, ma soprattutto di quell'abbraccio così anomalo: Stefano odiava il contatto fisico e le nostre dimostrazioni d'affetto erano perciò molto sporadiche.
Sapeva che non gli avrei detto nulla di mia spontanea iniziativa e per questo vedevo il suo cervello lavorare alla ricerca di un qualsiasi gesto che potesse essere indicatore, mentre io mi sedevo sul divano.
Alla fine, sorrise comprensivo, si girò, versò il tè, che stava preparando, in due tazze e me ne porse una sedendosi nella poltrona di fronte a me.
Ecco perché i nostri genitori chi chiamavano gemelli mancati.
Era un po' inquietante il nostro rapporto, i nostri meccanismi d'azione non erano convenzionali né semplici da comprendere: sembravamo estraniarci completamente dal mondo, come a creare delle mura tra noi e il resto. E tra quelle mura di condivisione c'eravamo solo noi con le nostre risate o i nostri silenzi o i nostri sorrisi, i quali erano un toccasana l'uno per l'altra: sembravano dire “ho capito”. E niente più di quella frase sembrava sgravarti dal terribile peso della solitudine.
"Beatrice, lo sai. Eppure sembri dimenticare ogni volta che qualcuno ti dice qualche idiozia. Sei sempre stata la migliore della classe, a scuola e all'università. I tuoi 30 facevano impallidire tutti, come il tuo studio faceva impallidire e preoccupare me. Pur di pretendere il massimo da te stessa rischiavi e rischi di ammalarti, e la caduta dei capelli dell'anno scorso ne è la più tangibile dimostrazione." mi sfiorò la guancia, cercando di confortarmi.
"Non è facile rimanere apatici di fronte alla morte, ne sono più che consapevole. Nessuno tra tutti noi specializzandi o anche tra i medici rimane freddo e per nulla scosso. Tutti reagiamo in modo diverso, ma reagiamo. Non si può affatto non rimanere turbati da quello che ci scorre sotto gli occhi ogni giorno. Chi dice che non gli importa, mente. E poi, lo sai, che all'ospedale tutti i medici ti amano, e non perché, come dici tu, sei mia sorella, ma perché sei tu. Tu e il tuo impegno, la tua bravura."
Lo guardai un po' incredula, sia perché un discorso così lungo non era mai uscito da quelle labbra credo, sia perché aveva capito quasi tutte le mie insicurezze. Mai avrebbe potuto pensare che avessi dubitato di lui. Ero stata un'idiota e adesso, mi sentivo profondamente in colpa. come avevo potuto credere a quello sbruffone?
Del resto nonostante le mie paure sulle conseguenze del  gesto inconsulto di quella mattina, anche se mi ostinavo a non credergli, sapevo in fondo al cuore, che aveva mio fratello aveva ragione su tutta la linea. Ero brava, nonostante le mie piccole sbavature. Molti medici mi stimavano e questa era  più che una grande conquista. Nonostante fossi stata premiata più volte per essere la migliore del corso, mi lasciavo condizionare da miei colleghi o specializzandi più grandi, quali Edoardo Della Scala. Chiunque altro avrebbe capito che quella degli altri ragazzi fosse solo invidia, ma non io. Non io e le mie insicurezze.
Anche perché, la verità era che a me dell'opinione di Edoardo importava e molto di più di quanto dovesse, soprattutto dopo quella giornata e dopo aver visto la sua bravura e quel lato che mostrava solo di fronte ai suoi piccoli pazienti. Per questo mi sentivo abbassarmi sempre un po' di più ad ogni sua riflessione sulla mia incapacità medica.
Sorrisi a Stefano più che riconoscente e incominciai a ridere quando notai che entrambe le tazze erano rimaste sul tavolo e che il loro contenuto si era ormai inesorabilmente raffreddato. A questa risata un po' isterica e un po' liberatoria si unì anche mio fratello. Fu allora che capii che qualcosa non andava neanche sul suo di fronte.
"Lucrezia potrebbe essere incinta" così disse, abbassando gli occhi, rispondendo al mio  viso piegato su un lato e allo sguardo interrogatorio.
Corrucciai ancor di più la fronte, cercando di capire il perché di quella reazione così anomala.
Proprio in quel momento, mentre potenziali d'azione andavano diffondendosi lungo tutti i miei neuroni alla ricerca disperata di una motivazione, sentimmo il rumore delle chiavi nella porta.
Ci ricomponemmo, ma io comunque gli lanciai un'occhiata che faceva ben intendere quanto la conversazione non fosse affatto finita là.
Stefano acconsentì annuendo e andò ad aiutare Lucrezia con i pacchi della spesa, scattando verso la porta, preoccupato per il peso.
Sorrisi teneramente e decisi che quello era proprio il momento di andare. Salutai la fidanzata di mio fratello e uscii, non prima di aver notato anche in lei una crepa, che sembrava rovinare la sua maschera perfetta.
Sospirai al buio, formando la condensa, fuori da casa di mio fratello e, dirigendomi verso la mia macchina blu, sperai che non ci sarebbero state ripercussioni sul mio lavoro a causa dello schiaffo dato al figlio del primario.
Quanto mi sbagliavo.

****
Ciao a tutti,
Innanzitutto grazie per essere arrivati fino a qui, e spero che questo capitolo vi sia piaciuto più di quanto sia piaciuto a me! purtroppo è un capitolo di passaggio e non ho potuto correggerlo al meglio perché volevo essere il più veloce possibile a pubblicare il capitolo!
Anche con la grafica faccio un po' schifo, quindi vi prego di scusarmi!
Fatemi sapere, vi prego, qualsiasi vostra opinione!
Ringrazio le ragazze che hanno recensito perché mi hanno dato molti spunti per migliorare.
Un abbraccio, 
Luxaar
 

 

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Capitolo 3
*** Rosa ***


Il turno di notte era quello che più odiavo.
Solitamente non dovevi far nulla per la maggior parte del tempo. Tutti dormivano e gli interventi clinici erano davvero pochi. 
Inoltre era buio e camminare attraverso i corridoi silenti era piuttosto inquietante.
Il medico strutturato preferiva rimanere nella sua stanza a compilare moduli e forse anche "giustamente" a dormire.
Riflettei su quanto fosse singolare la differenza tra il giorno e la notte lì.
Così affollato e confusionario nelle ore diurne tanto quieto e desolato in quelle notturne.
Vagavo attraverso i corridoi facendo risuonare il rumore dei miei passi, quando una voce mi destò.
Qualcuno chiamava il mio nome da una stanza e il suono attutito dalla porta rese il tutto ancora più angosciante.
Nonostante l'atmosfera da film horror, inspirai per prendere coraggio e abbassai la maniglia della porta.
"Bu!" gridò una voce al mio orecchio, che naturalmente mi portò ad emettere un urlo stridulo e un balzo indietro, mentre i battiti cardiaci cominciavano ad aumentare e un brivido freddo mi correva lungo la spina dorsale.
Ero terrorizzata, inoltre c'era un gelo e un buio inquietante che non aiutavano la situazione.
Però una risata smorzò la situazione assieme all'accensione della luce.
"Devo riconoscertelo: hai avuto il coraggio di aprire la porta, non me lo aspettavo proprio da te.."
Non ascoltai più una parola.
Non potevo crederci.
Edoardo si dimostrava ogni giorno più stupido.
Sembrava un bambino che giocava a fare il grande, che voleva ribadire la propria età avanzata facendo a botte e alzando la voce per dire solo e soltanto cattiverie.
Ero pronta ad andarmene, anche perché insultandolo avrei solo peggiorato la mia già precaria situazione.
Ancora non sapevo né se il padre sapesse del mio gesto del giorno prima, cosa che comunque davo abbastanza per scontata; insomma, perché mai Edoardo non avrebbe dovuto dirglielo? Se si divertiva così tanto a sottolineare quanto fossi un'incapace perché non rovinarmi definitivamente?
Né del resto conoscevo quale sarebbe stata la mia punizione: il primario era mancato tutto il giorno.
Questo stato di attesa, che sembrava portarmi sempre più giù, come un vortice che culminava al centro della terra, mi aveva reso tesa e in ansia per tutto il giorno e metà della notte.
L'angoscia per la mia inesorabile rovina si era impossessata di me e cercavo di sfogarmi muovendo convulsamente a destra e a sinistra l'anello che da sempre portavo al medio della mano sinistra.
"Non mi dire che il tuo fidanzatino ti ha lasciata, povera cucciola!" le parole irrisorie del biondo mi destarono e mi chiesi come avesse potuto leggere in me l'angoscia. Di solito ero abbastanza brava a nascondere le emozioni o ciò che pensavo, per lui sembravo invece un libro aperto?
Certo, il fatto che non avessi ascoltato neanche una parola di ciò che avesse detto o la mia decisione di non rispondergli a tono effettivamente potevano dare luogo a qualche sospetto.
Alzai gli occhi nocciola su di lui, decisa più che mai a ribadire quanto si sbagliasse e quanto, falsamente, non fossi tormentata.
Ma lui fissò il suo grigio nei miei occhi e dichiarò, insolente:
"Se è la reazione di mio padre che ti preoccupa, non devi: non dirò nulla del misero schiaffo che mi hai dato, in fondo che in confronto alle botte a cui sono abituato sembrava una carezza". E sorrise "forse" amaramente. E fu quel giorno che lo vidi, per la prima volta, mentre chiudeva le spalle nel suo camice bianco,  estremamente fragile.
Quello strana visione mi destabilizzò, ma capii lo stesso che qualcosa sotto doveva comunque esserci. 
Il mio supervisore mi odiava e su questo non c'erano dubbi.
E, nonostante, come avevo constatato negli ultimi due giorni, non fosse una cattiva persona non riusciva a comportarsi come se in me vedesse un essere umano esattamente come lui. 
Del resto non mi sopportava e ciò era lecito: non ci possono star simpatici tutti, no?
Certo, tanta cattiveria poteva sembrare perfidia, ma dover stare accanto e dover insegnare ad una persona che a causa forse della voce troppo squillante o semplicemente del suo carattere, ti urtava i nervi per ore intere, non doveva essere semplice.
"Vuoi qualcosa in cambio, non è vero?" gli chiesi così, ormai arresa al fatto che avrei accettato qualsiasi cosa. Speravo che non chiedesse qualcosa di profondamente amorale o forse già da allora riponevo la mia totale fiducia in lui e non lo credevo capace di qualcosa che andasse oltre i limiti della decenza.
"Caparbia la mia specializzanda! E se ti chiedessi di venire con me, lo faresti?" disse ridendo a causa della sua illazione a chiaro sfondo sessuale, che era stata accentuata dal movimento della lingua, però capii, o meglio sperai, dalla risata, che stesse solo scherzando.
Fortunatamente la mia preghiera era fondata.
"Naturalmente non lo farò." dichiarò serenamente e seriamente, con un tono grave che mi fece corrucciare la fronte, cercando di capire quale sarebbe stata la sua richiesta.
"Mi serve un favore. Un favore che però si prolungherà un po' nel tempo finché non riuscirò a convincere nuovamente Rosa ad aiutarmi"
Le parole di Edoardo mi confusero ancor di più.
Cosa c'entrava Rosa, l'affabile infermiera prossima alla pensione con lui? Mi chiesi se, forse a causa del tono così serio, avesse ideato un traffico illecito di medicinali.
Del resto non era la prima volta che si sentiva di medici che si facevano trascinare da questi turpi vortici.
Inoltre avrebbe avuto pure la protezione del padre, che sicuramente non doveva essere dimenticata.
Io non l'avrei sicuramente aiutato. Nonostante tutto ciò che avrei perso, per cui avevo buttato ogni altra possibilità  di vita, come se avessi abbeverato una sola delle piante che mi erano state donate alla nascita e avessi fatto seccare tutte le altre, non avrei comunque  preso parte a qualcosa che avrebbe arrecato danno non solo agli altri, ma anche e  soprattutto a me. Prendere parte a qualcosa del genere mi avrebbe dilaniato, i sensi di colpa mi avrebbero distrutto interiormente.
Purtroppo la mia ipotesi non trovò alcuna conferma anche perché, proprio mentre Edoardo  stava per aprire nuovamente bocca, quando Rosa aprii la porta, chiamandoci per un'emergenza.
Il mio supervisore riprese le vesti dell'efficientissimo medico, mentre io, seguendo i suoi ordini, continuavo a pensare che dai suoi traffici ne sarei stata più che alla larga.
Quanto mi sbagliassi lo capii soltanto quella sera.
Qualcuno bussò alla porta di casa mia e sicura si trattasse di Ilaria, la mia coinquilina, aprii velocemente senza controllare dallo spioncino chi realmente fosse.
Mai e poi mai avrei potuto pensare che davanti a me si sarebbero potute presentare quelle due figure.
La sorpresa però lasciò velocemente spazio al terrore.

****
Ciao a tutti, 
intanto volevo ringraziare tutte coloro che seguono questa storia e l'hanno inserita tra le preferite/seguite/ricordate.
Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo, 
un abbraccio, 
Laura

 
 

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Capitolo 4
*** Dott. Costa ***


Stava piovendo ininterrottamente ormai da qualche ora mentre versavo il tè fumante nella tazza.
Mi trovavo da sola in cucina e non facevo altro che pensare alla notte appena passata.
I miei pensieri sembravano seguire il fumo che risaliva dalla tazza.
Quando quella notte aprii la porta a mezzanotte spaccata trovai Rosa, l'infermiera che mi sorrideva ogni giorno e che dalla sera precedente era stata al centro dei miei pensieri.
Però ben poco rimasi a guardare la sua figura, perché immediatamente un'altra rivendicò la mia attenzione: Edoardo.
E subito i miei occhi si sgranarono.
Il mio irriverente supervisore si poggiava all'infermiera, con un braccio che teneva lo stomaco.
Indossava una felpa nera che però non nascondeva il sangue che la impregnava.
Piegato su se stesso e sostenuto solo dalla figura di Rosa, rivolgeva la testa verso il basso, con il viso nascosto dal cappuccio della felpa.
Ma comunque dal mento continuava a colare sangue senza sosta.
Così le gocce rosse si fondevano con quelle incolori dell'acqua, per poi abbattersi indomite a terra.
 "Mi ha detto di portarlo qui" sussurrò Rosa, come a non voler recar fastidio al ragazzo, cercando al tempo stesso di sorridermi rassicurante.
Non ebbi il tempo di pensare: mi attivai come una macchina e mi feci aiutare a trasportare Edoardo sul divano.
Disteso e sotto la luce aveva un aspetto ancora peggiore.
Un occhio non era più visibile a causa delle ingenti ferite e oltre le labbra spaccate, anche il naso sembrava completamente distrutto.
Però ciò che più destava la mia attenzione era ciò che avrei trovato sotto la felpa.
Presi delle forbici e tagliai gli indumenti.
Nel frattempo Edoardo continuava a lamentarsi e muoversi, mentre sudava freddo.
“Non posso” cercava di biascicare in uno stato di evidente non coscienza.
Mentre tastavo le costole alla ricerca di qualcosa di incrinato o rotto, chiesi: "Non sarebbe meglio portarlo in ospedale?"
Ciò che vidi fu il diniego con la testa di Rosa.
 "Assolutamente no. Non vuole. Io però avevo deciso qualche tempo fa di tirarmene fuori" e dicendo ciò, Rosa alzò le spalle. 
 "Però quando mi ha chiamato ho dovuto cedere a quest'ultima richiesta e quindi l'ho portato qui. Sa come tenere in pugno le persone, eh? Io però adesso non voglio sapere più niente. Abbi cura di lui" disse l'infermiera con un tono che appariva amareggiato e se ne andò.
Non ebbi tempo di pensare alle sue parole, anche se mi avevano portato nuovi dubbi e incredulità.
Non capivo cosa diavolo facessero l'infermiera e lo specializzando assieme, anche se non mi sembrava niente di innocuo, ma solo qualcosa di profondamente losco.
Peraltro non capivo perché Edoardo avesse detto a Rosa di portarlo da me, cosa voleva?
Sicuramente, come aveva dimostrato negli ultimi giorni, non aveva scelto di bussare alla mia porta perché mi riteneva un bravo medico, né appariva che gli stessi simpatica.
Ma allora perché?
Comunque,  come mi ero ripromessa precedentemente, decisi che io non avrei avuto niente a che fare con i suoi non troppi puliti affari, del resto anche l'infermiera si era tirata indietro.
Non avrei alzato il piede per immettermi in un cerchio chiuso da cui poi sarebbe stato impossibile uscire.
Mi trovavo al limite di quella linea e non avevo alcuna intenzione di superarla, mi sentivo come se una volta passata dall'altra parte, una grande cupola di vetro sarebbe stata apposta sopra di me, impedendomi di uscire per sempre.
Per questo decisi che l'avrei portato in ospedale.
Presi il cellulare, pronta a chiamare un'ambulanza, ma Edoardo, che riprese momentaneamente e straordinariamente conoscenza, mi bloccò: "Non farlo. Aiutami per lo schiaffo". sussurrò, intervallando ogni parola da lunghi sospiri e lamenti causati dallo sforzo. Il grigio dei suoi occhi era lucido e tremava senza sosta, così come faceva il resto del suo corpo. Eppure l'intensità che impresse nello sguardo fu devastante.
Demolì tutte le mie certezze, spazzandole via senza ritegno.
Del resto, nonostante la frase non appariva avere a primo acchito senso compiuto, avevo capito.
Il prezzo da pagare per lui era quello: aiutarlo senza portarlo in ospedale.
Era il prezzo del suo silenzio per quello stupido gesto che avevo compito due giorni prima.
Così presi antidolorifici, garze, cotone e disinfettante e incominciai a medicarlo.
Lo osservai.
Soffriva e il suo dolore era tangibile.
Aveva perso ogni punta di arroganza e tracotanza, ma avrei preferito millemila volte essere umiliata e insultata da lui che vederlo così tremante, impaurito, debole.
Sembrava un bambino, si stava affidando a me come facevano i nostri pazienti: senza alcuna esitazione.
Continuava però, nel suo stato di incoscienza a balbettare tra i lamenti: "Non ce la faccio".
Nonostante tali parole le avessi sentite infinite volte da coloro che doloranti si trovavano in ospedale, pronunciate da Edoardo avevano un suono diverso.
Non si riferivano al dolore che stava patendo al momento, procurato dalle ferite: sembrava amareggiato, quasi si sentisse impotente e profondamente in colpa.
Finite le medicazioni avevo coperto Edoardo con una coperta di lana e  mi ero recata in cucina, dove adesso stava continuando a fumare il tè ancora caldo.
Mi passai le mani sul viso, stanca da quella nottata, e andai nuovamente in salotto a vegliare su Edoardo e sulle sue condizioni.
Ero ancora sconvolta e mi chiedevo se non sarebbe stato meglio portarlo in ospedale.
Il biondo si mosse sul divano.
 "Grazie" mugugnò flebile e, girandosi dall'altro lato,si addormentò.
Sorrisi e poco dopo anch'io cedetti alla stanchezza e alle braccia di Morfeo sulla poltrona di fronte a lui.
Avevo preso la mia decisone, ma dove mi avrebbe portata?
Insomma, in che tipo di guai mi stavo cacciando accettando il suo ricatto implicito così?
Il giorno dopo mi svegliai presto per recarmi in ospedale.
Lasciai il mio supervisore sul divano e presi il barattolo del caffè al ginseng che rendeva meno spiacevole ogni mattina.
Su di esso trovai attaccato un post -it.

 
Che stai combinando?
Chi è quel ragazzo sul divano?
Appena torno, non pensare di dimenticarti di aggiornarmi.
Un bacio e buona giornata, 
Ila

Già, la mia coinquilina, nonché una delle mie migliori amiche, ieri, probabilmente sconvolta, come era giusto che fosse, non mi aveva chiesto nulla se non un “Tutto a posto?” che derivava dal voler capire se davvero non fossi impazzita o vittima di qualche malintenzionato con pistola alla mano. Guardavamo effettivamente assieme troppe serie Tv poliziesche americane, che naturalmente avevano influito su di noi e la nostra percezione della realtà.
L'idea del post-it era piaciuta anche a me, così ne lasciai anche io uno ad Edoardo, accanto agli antidolorifici che avrebbe dovuto prendere.

 
Prendi tre di queste al giorno:una non basta, non sei un bambino.

Mi chiesi se avessi dovuto chiedere attraverso il bigliettino qualche spiegazione, ma pensai che sarebbe  stato meglio parlare di persona.
Arrivata all'ospedale mi recai immediatamente da Rosa, che non mi accolse con il suo solito sorriso.
 "Come sta? Senti, ho detto io che per qualche giorno non si recherà al lavoro, ma dalla prossima volta dovrai essere tu, va bene?" mi disse, assumendo nuovamente un'aria bonaria, come se cercasse di rassicurarmi.
 "Io non ho int..." cominciai a proferire, prima di essere bloccata dalle sue parole.
 "Eppure non hai chiamato l'ambulanza, vero? Nonostante ciò, sembra che tu non sappia, sono confusa" parlò a bassa voce, scuotendo la testa, come se stesse in realtà interloquendo da sola.
Ogni volta che andavo da qualcuno a cercare di capire qualcosa, soltanto nuovi dubbi si insediavano nella mia testa.
 "Che vuol dire?" chiesi, speranzosa di trovare finalmente risposte.
 "Non posso dirtelo io, sarà lui a spiegartelo, ok?" mi rispose con voce calma, come se stesse parlando con una bambina che faceva i capricci.
Ok, un cavolo però.
Ero sempre più confusa, ma non avevo tempo per insistere: stava incominciando il mio turno. Sospirai e mi preparai sia fisicamente che mentalmente, accantonando, almeno momentaneamente, tutta quella storia di Edoardo, che sembrava un vortice nero che girava continuamente all'interno della mia testa e reclamava attenzione.
Lavorai al fianco del Dott. Costa, strutturato a partire da quest'anno.
Era molto gentile e disponibile e si dimostrò essere anche un bravo insegnante.
 "Sei davvero più brava di ogni altro specializzando, almeno del tuo anno e del quarto, lo sai, vero?" Costa soffiò queste parole al mio orecchio e, nonostante il mio ego si fosse gonfiato  "e non di poco", sentii l'esigenza di fare un passo indietro, mi sentivo troppo vicina.
 "Grazie, ma credo tu stia esagerando!" dissi, sorridendo nervosa.
Non so perché ma quella vicinanza aveva  scatenato in me una strana reazione, così, cercai una scusa e lo salutai velocemente, dato che il mio turno era finalmente finito.
Ritornai presto a casa e dove mi aspettavo di vedere Della Scala, naturalmente, come nei più banali dei film, non vi era nessuno.
Sparito come un sogno dopo mezz'ora dall'esserti svegliato.
Mi chiesi se  non l'avessi davvero sognato, ma quello era troppo perfino per la mia terribile immaginazione.
 "Bea! come ti ho detto esigo una spiegazione. Chi era quel ragazzo? Io non capisco, perché non l'hai portato in ospedale? Mi sono davvero spaventata a vedere tanto sangue" Ilaria, con quelle parole, mi aveva terrorizzata per ben due motivi.
Il primo era che non l'avevo affatto vista e la sua voce era spuntata dal nulla.
Il secondo motivo invece riguardava cosa avrei dovuto dirle. Non so perché ma non mi sentivo di raccontarle l'intera storia, forse perché neanch'io l'avevo capita fino in fondo.
Del resto era raro che io raccontassi qualcosa di così intimo a qualcuno che non fosse Stefano.
E so che Ilaria è la mia migliore amica, ma proprio non ce la facevo a raccontarle tutto, avevo bisogno di metabolizzarlo prima io.
 "Edoardo è un mio compagno di specializzazione e si è fatto male giocando a calcetto e mi ha chiesto, viste le lunghe code al pronto soccorso e dato che non era grave, se potessi bendarlo io.
Le sue ferite erano solo superficiali quindi gli avrebbero dato un codice molto basso e sarebbe dovuto rimanere tutta la notte lì" mentii spudoratamente e, nonostante la cattiva bugia, Ilaria annuii, sorridendomi. Del resto il medico tra le due ero io.
 "Ah, Bea, ti volevo dire che avevo intenzione tra qualche giorno di scendere dalla mia famiglia a Bari: mi hanno dato finalmente le ferie!" incominciò ad urlare entusiasta e io mi unii a lei, felice perché finalmente in quello studio la stavano trattando come meritava.
Ilaria era una bella ragazza un po' bassina, ma dallo sguardo felino, che dimostrava tutta la sua intelligenza.
I capelli scuri e a caschetto rendevano ben visibile la sua anima sbarazzina.
Infine, il suo fisico magrissimo era sempre impreziosito da abiti eleganti.
Era un po' fissata con la moda e gli outfit, ma effettivamente io non ero da meno: era una grande passione che condividevamo oltre a quella delle serie Tv.
Ilaria, laureata in Economia con quasi il massimo dei voti, lavorava da qualche anno in uno studio, dove sembrava che la trattassero più da assistente che da pari collega.
Ciò naturalmente destava in lei malumori un giorno sì e l'altro pure, ma fortunatamente da qualche mese a quella parte sembrava che la situazione al lavoro stesse migliorando.
Sperai solo che non fosse a causa della relazione che stava intrattenendo con uno dei suoi colleghi più grandi.
E mentre stavo abbracciando la mia amica, sentii squillare il telefono di casa.
 "Vai, è dalle tre del pomeriggio che squilla: è tuo fratello." mi sussurrò Ila, svincolandosi dalle mie braccia.
Alzai le spalle confusa e mi ricordai che il mio cellulare era completamente scarico e che, quindi, molto probabilmente per questo Stefano aveva deciso di chiamarmi a casa.
Chissà cosa voleva: non era una persona insistente, anzi di solito era già tanto se faceva più di uno squillo al cellulare.
Mi aveva sempre ripetuto che non era necessario chiamare più di due volte perché una volta viste le chiamate perse, avrebbe richiamato.
E si aspettava lo stesso comportamento dalle altre persone.
“Bea, tutto bene?” mi chiese Stefano e nella sua voce percepii angoscia e preoccupazione.
 "Sì, perché?" risposi falsamente, cercando di nascondere la stanchezza, i dubbi e l'ansia perenne determinati da quei giorni così pesanti.
 "Non mentirmi" mormorò con una punta di amarezza e incredulità.
“Ti prego, non cacciarti nei guai. E' l'unica cosa che ti chiedo. Stefano è una mina vagante, non lo capisci? Si sta autodistruggendo e non ho intenzione di vedere anche te coinvolta nello scoppio, ok?” disse mio fratello lentamente, come se ogni parola necessitasse troppa energia. Sembrava che la condizione del biondo gli stesse più a cuore di quanto desse a vedere.
Mi chiesi il perché. Del resto fino ad ora non mi era sembrato che vi fosse un rapporto tra i due che andasse oltre quello lavorativo.
Ma evidentemente mi sbagliavo. I due dovevano conoscersi e anche piuttosto bene. Mio fratello si affezionava raramente alle persone e quelle per cui si preoccupava erano meno di quanto ci si aspettasse.
E io sarei andata fino in fondo a quella storia: ero stanca di non sapere.
Esausta per tutte quelle domande che non davano vita a nient'altro se non altri quesiti. Volevo che per una volta mio fratello parlasse con me apertamente, senza che io dovessi interpretare parole o gesti.
In quel periodo mi stava nascondendo più cose di quanto fosse ammissibile.
Cosa lo preoccupava riguardo il bambino che presto avrebbe avuto da Lucrezia? Perché la sua fidanzata sembrava così angosciata? Qual era il rapporto che aveva con Edoardo? E poi, che diavolo voleva dire quella telefonata?
Sicuramente una cosa era chiara nella mia testa: Stefano non poteva aspettarsi che accettassi così le sue richieste.
Volevo delle spiegazioni e le avrei avute.
Così mi recai a casa sua, incurante del temporale, che ben rappresentava il mio stato d'animo.
E nuovamente mi trovai sul pianerottolo, questa volta però di mio fratello,  interdetta e sconvolta.
Evidentemente i Macrì avevano una forte propensione a offrire il proprio divano ad un Edoardo Della Scala malridotto.

*****
Ciao a tutti, 
questo capitolo è più intenso dei precedenti e nonostante ciò non ho fatto altro che riempirvi la testa di domande proprio come la nostra sfortunata protagonista.
Non ammazzatemi!
Piano piano, ogni nodo verrà al pettine e verrà disciolto.
Vi prego fatemi sapere!
Grazie a tutti coloro che hanno lasciato un commento, grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le ricordate o addirittura tra le preferite, grazie a chi l'ha letta!
Un ringraziamento speciale va a Trix94, che si chiama proprio come la protagonista e mi sta dando una grossa mano con la grafica.
Un bacio, 
Laura

 
ANGOLO PUBBLICITA': 
 
Autore: luxaar     20/04/2015     1 recensioni
Beatrice ed Edoardo saranno protagonisti di una storia posata e scomposta.
Gli amici di Beatrice amano descriverla come un'idealista, una sognatrice disillusa.
Dicono che le piace parlare, ma che di sè non dice mai nulla.
Confonde con le sue chiacchiere e tutti la considerano una persona con cui poter conversare piacevolmente.
Edoardo, invece, evita le ciarle quasi fossero la peste, preferirebbe stare un po' solo, ma più si allontana, più gli altri si avvicinano.
E' bello, affascinante, misterioso e sicuramente ricco.
Gli "sciacalli", come ama chiamarli lui, non abbandonano mai la loro preda.
Eppure Edoardo non si arrabbia, non si scompone, al massimo sorride amaro, e si lascia scivolare addosso ogni moina, lusinga, cattiveria o invidia senza alcuna differenza:
Alza le spalle.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het 
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
 
Autore: luxaar     03/10/2012     3 recensioni
Sì, lo so, lo so, il titolo di questa storia è davvero banale, ma purtroppo la mia mente offuscata dall' emozione di pubblicare questa storia è andato in tilt. Per cui mi scuso, davvero.
Non voglio anticiparvi molto ma ho il dovere di scrivere un' introduzione per bene (come se mi riuscisse).
La protagonista di questa storia, Kairi, è una ragazza molto fragile che sembra spezzarsi al minimo tocco, ma per sua (s)fortuna si ritrova a intraprendere un lungo viaggio con i suoi primi e veri amici. Imparerà ad amare la vita, a combattere e a rispettare anche le persone che si definiscono ''malvagie'' poichè non esiste solo il nero e il bianco, il male e il bene, l'odio e l' amore...
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna 
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno

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Capitolo 5
*** Lucrezia ***


“Te lo chiedo per un’ultima maledettissima volta: come conosci Edoardo Della Scala?” gridai, incurante dell’orario tardo.

Ero stanca. Esausta di essere un burattino nelle mani di tutti. Nessuno voleva spiegarmi. Edoardo credeva di potermi tenere in pugno, intromettendosi nella mia vita come nulla fosse, senza alcuna spiegazione. E per me poteva andare anche bene. Del resto io non rappresentavo nulla per lui. Non che lui rappresentasse qualcosa per me che andasse oltre la curiosità o uno strano compatire che era scattato la notte precedente.

Ciò che bruciava, ciò che lacerava la mia anima era il comportamento di mio fratello.

Sentivo il mio legame viscerale con lui sciogliere le pareti della mia gola come fosse acido.

La mia gola era stretta in una forma di rancore, che mai avevo provato nei suoi confronti.

Stefano conosceva tutto di me e mi aspettavo lo stesso da lui.

Dov’erano finiti quei giochi che da bambini capivamo soltanto noi?

Le chiacchierate che duravano tutta la notte?

Le chiamate che non aveva mai fine?

Da qualche tempo ormai evitava il mio sguardo.

E ogni volta che i suoi occhi guardavano il pavimento, io sentivo l’acido attraversarmi l’esofago.

Quella volta però cercò il mio sguardo: occhi liquidi di lacrime che mai avrebbe versato mi chiedevano scusa. Insicuri di quale sarebbe stata la mia risposta.

Eppure sembrava non avere intenzione di rispondere alla mia domanda.

“Entra dentro, Bea, stai congelando” invece mi disse, tirandomi per una manica.

Io al contrario rimasi immobile, rigida come pietra.

Stefano capì che non mi sarei mossa se non avesse risposto, lo sapeva, eppure non accennò a parlare.

Il messaggio era chiaro.

Sentii il mio cuore perdere un battito e con esso parte della mia anima precipitò nel buio più assoluto. E mio fratello, il mio gemello mancato, lo sapeva. Lo avvertii dal leggero tremore della mano, da quegli occhi così supplicanti, in cerca di comprensione.

Mi dicevano di non chiedere, di aspettare.

Ma io ero esausta. Non avrei più atteso.

Chiusi me stessa, incrociando le braccia al petto, quasi a porre fisicamente quel muro che avevo costruito per riparare il mio io da lui.

Alzai il mento e sorrisi amara, mentre una lacrima sgorgava dai suoi occhi.

Avevo estraniato anche lui.

Non piansi e ritornai a casa, camminando lentamente, senza alcun ombrello a ripararmi, incurante della pioggia.

Tornata a casa, Ilaria già dormiva sul divano.

Alla fine aveva deciso di partire l’indomani alle cinque del mattino e mi accorsi che non aveva neanche incominciato a preparare le valigie.

Sorrisi: era sempre la solita.

“Ila, che fai? Lasci le tue Louboutin in mia custodia?” sussurrai divertita, cercando di svegliarla. Si destò subito. Mai toccare le sue scarpe preferite.

“Mai” sussurrò con gli occhi mezzi chiusi, facendo morire dalle risate me.

“Ti aiuto con le valigie: ho capito. Sono o non sono la migliore coinquilina che ti potesse mai capitare?” le dissi sorridendo.

“Sposami!” gridò, stordendomi.

“Devi aspettare 15 anni” le ricordai.

Interagire con Ilaria era la cosa migliore che potessi fare. Tenermi occupata avrebbe evitato una notte insonne satura di quesiti irrisolti, testate al muro, amarezza, rancore e sofferenza.

Una notte che mi avrebbe semplicemente distrutta.

Avevo tagliato fuori Stefano. Mi morsi un labbro, mentre piegavo dei pantaloni bianchi.

“Ma sei scema? Che ci devo fare con quelli in pieno inverno?” le parole della mia amica mi scossero da quei pensieri inevitabili.

“A Bari non c’è caldo?” provai a rimediare, portando una mano ai capelli, un po’ imbarazzata.

“Non a Gennaio, idiota!” rise e io le diedi una leggera spinta.

“Piano con gli insulti” le sussurrai, facendo finta di guardarla male.

La nottata continuò tra risate e battute un po’ squallide, finché non la accompagnai alla stazione ferroviaria.

C’era freddo ed era ancora buio.

Ci sedemmo su una delle tante panchine ad aspettare che arrivasse il treno naturalmente in ritardo.

Dopo poco mi alzai e andai ai distributori automatici con l’intenzione di prendere una coca-cola.

L’unica rimasta era rosa e di marca Pinko, aggrottai la fronte ma pigiai comunque sui due numeri che corrispondevano alla lattina.

Ritornai a sedermi accanto a Ila, la quale scoppiò a ridere.

“Ma sei seria? Una coca-cola alle cinque del mattino?” mi rimproverò bonariamente.

“Ne avevo voglia e poi tra due ore devo andare a lavorare” risposi sospirando.

“E menomale che sei un medico”.

Mentre continuava a ridere di me ne bevvi un sorso per poi quasi sputarlo.

“Fa schifo” dissi poco lontana dal gridarlo.

Scoppiammo in una fragorosa risata come due sceme per poi cadere in un silenzio assoluto, ma non per questo imbarazzante.

“Come va con Gianni?” le chiesi spezzando quel silenzio dopo qualche minuto, voltando il mio viso per osservare il suo viso in penombra.

Mi aspettavo che almeno la chiamasse.

Non era necessario che la accompagnasse, ma un messaggio lo poteva anche mandare.

Del resto Ilaria non sarebbe ritornata prima di due settimane.

“Benissimo: l’altra sera siamo andati al cinema: mi sentivo una ragazzina.” Mentre ne parlava vidi i suoi occhi brillare, lucidi.

Comunque si voltò verso di me e piegò la testa in una richiesta implicita di spiegazioni. Domandava il perché di tale domanda.

Rigirai la lattina rosa tra le mani.

“Vedi, non vorrei che fosse proprio come questa coca-cola. Ho paura che una volta aperta, lasci spazio ad una spiacevolissima sorpresa. Come se, nonostante l’aspetto carino e stucchevole, in realtà il sapore è così amaro che è necessario sputarlo.

Capisci?” affermai, continuando a giocare con quella lattina.

“Smettila di essere così metaforicamente drammatica.” Rispose gioiosa, dandomi una delle sue solite spinte e prendendo un sorso da quella fatidica lattina.

Un’espressione disgustata attraversò il suo viso: “Mamma mia che sbocco”.

 

 

Dopo poche ore andai in ospedale.

Incontrai Mirko e Marco e ci incamminammo insieme verso la stanza degli specializzandi.

“Bea, ma l’hai saputa l’ultima?” mi chiese Mirko con un’espressione giocosa.

“Ma dai, tutti lo sanno. E poi perché devi essere sempre così pettegolo? ” rispose acido Marco, alzando gli occhi al cielo.

“Io sono soltanto informato dei fatti e elargisco molto altruisticamente la mia profonda sapienza” affermò orgoglio e piccato l’altro.

“Ma finiscila” gridammo in coro io e Marco, scoppiando in una inevitabile risata.

“Comunque”incominciò a dire Mirko “Dicono che questa volta quel cretino di Edoardo l’abbia fatta davvero grossa. Hanno sentito il padre gridare come un pazzo al telefono. Oggi infatti non verrà. Affermano che sia a casa di un amico con cui qualche anno prima ha avuto una tresca. Ti rendi conto?”

Risi in modo piuttosto falso. In realtà sapevo che si trovava a casa di mio fratello e quell’assurda teoria naturalmente non aveva né capo né coda. Stefano stava per avere un figlio ed era profondamente etero, così come lo era Edoardo.

Chissà quale testa malata l’aveva tirata fuori.

“Anyway, la prossima settimana organizziamo una festa per soli specializzandi. Abbiamo intenzione di affittare quel nuovo locale vicino alla banca in centro. Tu sei dei nostri vero?” esclamò Mirko con il suo solito entusiasmo.

Quei due assieme erano capaci di distruggere un reparto, ma erano anche gli unici a farti sempre tornare il sorriso nei momenti più brutti.

Per questo le loro bizzarrie venivano presto dimenticate da tutti.

Erano inoltre sempre pronti a festeggiare e in realtà neanche io mi lasciavo sfuggire occasioni rare come quelle. Mi divertivo con loro. Ogni tanto uscivamo assieme, prendevamo una bottiglia di vino e ce la scolavamo, facendo un brindisi diverso in punti sempre nuovi della città.

Ricordo ancora quando la prima volta, presa la bottiglia da un distributore automatico ci siamo accorti di non aver portato un cavatappi.

Per questo ero stata obbligata, in quanto alle ragazze, secondo loro, non si può negare mai nulla, a chiedere un cavatappi in un bar. Che vergogna.

Naturalmente il tutto era stato ripreso e postato su Instagram.

Ancora mi chiedono “Posso farle una richiesta un po’ strana?”, riprendendo le imbarazzanti parole che avevo rivolto al barista.

“Ci sarò se mi darete il pass per entrare” sorrisi, abbracciandoli, non sapendo ancora a che disastro avrebbe portato quella fatidica festa.

Se solo avessi saputo.

“Solo se porterai Ilaria” mi sussurrò ad un orecchio Marco, con il suo solito piglio da donnaiolo.

“Ma non era una festa per soli specializzandi?” gli risposi io, sorridendo sarcastica.

Quella festa mi avrebbe aiutato a dimenticare, del resto stavo chiudendo la delusione e il risentimento in una scatola dentro di me. Facevo di tutto per stare in mezzo alla gente, per non pensare.

Volevo abbattere i miei pensieri, le mie mille domande, con risate frivole e discorsi superficiali.

Eppure la scatola rimaneva lì, pulsante, richiedeva attenzioni e io cercavo di spingerla sempre più giù, ad ogni battuta.

Ma essa era come un boomerang: più la lanciavo lontano, più vicina ritornava nei momenti in cui ero sola.

Come aveva potuto?

Stefano, il mio gemello mancato, mi supplicava di aspettare, nonostante sapesse di aver superato tutti i limiti.

Rividi il suo sguardo perso e mi sentii quasi in colpa.

Del resto ero io quella che aveva troppe aspettative, come se la sua storia mi fosse dovuta.

Come se non potesse tenere qualcosa di nascosto a me.

Forse avrei dovuto capire.

Avrei dovuto cercare di comprenderlo.

Scossi la testa, cercando di allontanare i miei pensieri e mi concentrai sul mio lavoro.

 

La stanchezza dovuta alla notte insonne si fece presto sentire, fortunatamente il mio turno finiva dopo l’orario del pranzo.

E proprio verso le tre il mio cellulare incominciò a squillare.

La chiamata proveniva da un numero sconosciuto, ma decisi di rispondere ugualmente, pronta a rifiutare le offerte telefoniche che mi avrebbero proposto.

“Beatrice, sono Lucrezia e ho bisogno di parlarti: non ce la faccio più”

Mi bloccai sul colpo.

Lucrezia?

Non avevamo mai avuto una seria conversazione noi due: non facevamo altro che scambiarci sorrisi falsi e frasi di convenienza.

Ci accordammo per incontrarci in un piccolo bar al centro il giorno successivo.

Accogliente e riservato.

Inutile dire che passai un’altra notte insonne a domandarmi cosa mai la struggesse tanto.

Che ci fosse qualcosa di strano nel bambino?

Non mi venivano altre motivazioni per cui avesse chiamato me se non quella dell’essere una pediatra. Forse non voleva far preoccupare anche Stefano.

L’ottimismo non era decisamente il mio forte in quel periodo.

Il giorno dopo mi recai al bar con qualche minuto di anticipo come mio solito.

Eppure la ragazza di mio fratello era già seduta di fronte ad un tè verde.

Mi sedetti davanti a lei e ordinai un ginseng.

Indossava gli occhiali da sole ed aveva un aspetto un po’ consunto e disordinato.

Mentre iniziai a sorseggiare la mia bevanda decise di incominciare a parlare.

Tolse gli occhiali da sole e vidi occhi rossi e pieni di pianto.

Sperai che la mia previsione non fosse azzeccata.

Del resto non vincevo mai nemmeno a Cluedo.

“Ho bisogno del tuo aiuto” sentii la mia gola serrarsi.

Avevo indovinato? Incominciai ad estraniarmi dalla realtà, come se la mia anima scivolasse via dal mio corpo per elevarsi su in cielo, guardando la scena dall’alto.

“Stefano ed io per ora litighiamo spesso. È sempre arrabbiato e io non ce la faccio. Distrugge ogni notte qualcosa, tira contro il muro piatti e spaventa a morte me.

 C’è qualcosa che non va in lui.

Mi sono chiesta spesso se ce l’avesse con me. Non mi guarda più, mi dedica solo disprezzo.

Ma questa mattina ho capito. Ho visto la causa del suo comportamento: Edoardo Della Scala. Da quando è ritornato nella sua vita la sta avvelenando, ammorbandola nel più atroce dei modi.”

 
 
 

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Capitolo 6
*** Avviso ***


Ciao a tutti, mi chiedo se per caso qualcuno possa farmi da beta reader per la mia storia! Anche solo per capire se sia meglio continuare a scrivere o concentrarsi solo sulla lettura ahahaha
Mi fareste un immenso favore!


mi trovate qui: EFP famiglia:  recensioni,consigli e discussioni
https://www.facebook.com/groups/751269538242732/

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Capitolo 7
*** Sono tornata! ***


Immagino già che voi non abbiate più neanche idea di quale sia questa storia.

E mi scuso tantissimo: dopo un anno ho scritto un capitolo anche un po' penoso.

In realtà ho sempre saputo a grandi linee la trama del racconto: alcune parti più salienti sono già state scritte e quindi chiedo a voi di dirmi cosa preferiate.

Vale la pena continuarla? E sarò ancora in grado di scrivere qualcosa di decente?

Abbraccio chiunque abbia commentato, messo tra le preferite/seguite o letto questa storia davvero di cuore.

E ringrazio specialemte ineedofthem che mi ha scritto un messaggio dolcissimo e che ha scritto una storia ancora più dolce.

Buona lettura!

 

 

 

Erano giorni che non facevo altro che pensare alle parole che mi aveva rivolto Lucrezia.

Cercavo di capire come Edoardo e Stefano si conoscessero e quale fosse in realtà il loro rapporto. Ma ovviamente non ricordavo neanche una volta in cui mio fratello parlasse di Della Scala. Non mi aveva mai detto nulla di lui e chissà quante altre cose mi nascondeva.

Ciò che provavo era una profonda amarezza.

Ero delusa.

Ma nonostante tutto io non riuscivo a lasciar correre, non potevo permettere che la vita di Stefano scivolasse a terra, quasi fosse un oggetto di cristallo, frantumandosi in tanti piccoli pezzi che non sarebbe più stato possibile rimettere assieme.

Io avrei preso l’oggetto di cristallo al volo, come ogni volta, prima che precipitasse al suolo.

Mentre cercavo di capire cosa avrei dovuto fare, quale mossa sarebbe potuta essere la più intelligente, finii per sbattere addosso a Mirko, il quale riuscii a recuperarmi al volo tenendomi per i fianchi.

“Tesoro, lo sai che no hai bisogno di questi mezzucci se vuoi passare del tempo assieme a me, vero?” esclamò con la sua solita falsa malizia accompagnata da un occhiolino.

Alzai gli occhi al cielo, ma comunque mi scappò una risata, mentre lo abbracciavo per salutarlo.

Marco iniziò a ridere, mentre mi affiancava.

“Quindi domani ci sei alla festa?”mi sussurrò all’orecchio quasi fosse un segreto.

“Certo, mio unico amore” sorrisi, ritornando a lavorare.

 

****

 

Mi rigirai ancora una volta davanti allo specchio.

Da un lato quel vestito blu elettrico particolarmente scollato mi faceva sentire una ragazza un po’ leggerina, ma dall’altro era proprio quello che volevo.

Bere abbastanza da lasciarmi andare e divertire, senza pensare alle parole di Lucrezia.

Avevo bisogno di tempo per razionalizzare, prima di muovere la mia pedina.

Mi sentivo costretta a giocare ad una partita a scacchi da bendata.

Stefano, Edoardo e persino Rosa conoscevano la posizione di ogni pedone, torre o alfiere.

Io, invece, ero costretta ad enunciare ad alta voce le mie mosse, senza conoscere quelle del mio avversario.

E non avevo proprio intenzione di subire uno scacco al re.

Dovevo elaborare una strategia.

Applicai sulle mie labbra il rossetto del rosso più intenso che avevo e mi avviai sui miei tacchi verso la festa organizzata dai miei due amici.

Io avrei mosso la Regina.

Il locale si trovava al centro della città e fortunatamente riuscii ad entrare abbastanza velocemente, raggiungendo i miei amici.

La festa sembra già abbastanza avviata.

Musica commerciale rimbombava attraverso le casse e già molti miei colleghi sembravano non reggersi più in piedi.

Ero forse ritornata al secondo anno di università?

Risi al pensiero e mi avviai ad ordinare un cocktail del bar.

Purtroppo al posto di un quattro bianchi mi ritrovai in mano una bevanda fucsia, che guardai profondamente sconsolata, ma che bevvi lo stesso.

Quando la sfortuna ti perseguita.

Sentii ben presto un braccio sulla mia schiena, pensai fosse quello di uno dei miei amici, ma purtroppo non fu così.

“Eccola la nostra specializzanda più carina, stasera ti sei fatta aspettare, eh?” era la voce del dott. Costa; un po’ biascicata, ma ero sicura fosse la sua.

Dei brividi si impossessarono della mia schiena così come il mio respiro si fece più affannoso.

Mi sembrò viscido, come poche persone fino a quel momento della mia vita mi erano sembrate.

La sua mano umidiccia continuava a percorrere la mia schiena e si avvicinava pericolosamente al fondo di essa.

Era ubriaco e sapevo esattamente cosa fare: presi il suo braccio e lo allontanai bruscamente.

Non avevo paura: nonostante non avessi una buona considerazione di lui, ero sicura non sarebbe mai andato oltre quello che stava facendo; del resto eravamo in un luogo affollato.

Mi chiesi come facesse a trovarsi anche lui lì.

Era una festa rivolta agli specializzandi e il Costa aveva circa 45 anni e, seppur li portasse bene, non era esattamente questo il target d’età della serata.

“Oh no, ho capito perché sei arrivata in ritardo.  Oggi del resto è venerdì.

Sembri così innocente, così carina; e invece sei uguale a quel deviato di tuo fratello.” sussurrò al mio orecchio con un alito e mille brividi risalirono lungo la mia schiena, nonostante la sua mano non fosse più lì.

Non pure lui.

Anche Costa sapeva più di me, si era divertito a sferrarmi la sua stoccata, quasi fosse uno schermidore, e se ne era andato esattamente come era comparso.

Non ce la facevo più.

Non ero riuscita neanche a chiedergli spiegazioni. Mi sentivo una bambola di pezza che le persone si divertivano ad usare come pungiball, senza ritegno.

E se anche si rompeva e ne usciva il cotone fuori, ero poi io a dover ricucire tutto.

Volevo piangere, esternare tutta la mia frustrazione; urlare finché non avessi saputo ogni minimo dettaglio.

E invece mi trovavo ad una festa, sempre più confusa, sempre più amareggiata, muta.

Non sapevo neanche io ciò di cui avessi bisogno.

L’unica cosa che era chiara nella mia mente era che continuando così sarei impazzita.

Perché questa non era una partita a scacchi: uno contro uno; ma era palla avvelenata.

E tutti dovevano colpire me.

Mi accasciai a terra come se fossi stata realmente colpita e una delle poche frasi che sentii nella mia semicoscienza fu: “ho chiamato tuo fratello, sta venendo a prenderti”.

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Amici ***


Inspirai.

Mi sentii a casa.

Era il detersivo che usava la mamma.

Sorrisi inconsapevolmente, non realizzando ancora realmente dove fossi.

Soltanto quando aprii gli occhi capii che mi trovavo a casa di Stefano.

Avevo dormito tante volte in quella stanza che sembrava fosse diventata mia; probabilmente presto sarebbe divenuta la cameretta del mio futuro nipote e avrebbe smesso di essere il mio rifugio.

Del resto anche il mio rapporto col padre era cambiato.

Stentavo a riconoscerlo ormai.

E non potei fare a meno di chiedermi se non fossi stata io a idealizzare il nostro legame.

Forse, in realtà, non eravamo mai stati “gemelli mancati”.

Stiracchiandomi un poco scorsi proprio il protagonista dei miei pensieri, addormentato ancora vestito nel mio stesso letto.

Le sue lunghe ciglia facevano ombra su un viso corrucciato.

Cosa lo tormentava?

“Bea” sussurrò destandosi, sotto il mio sguardo insistente.

Il miele dei suoi occhi si fissò su di me, colpevole.

Era consapevole dei suoi tormenti, tanto quanto lo ero io; eppure si mordeva il labbro, quasi a forzarsi di non far trapelare le parole.

Come se esse volessero in realtà scappare.

Ancora una volta il suo rifiuto fu una stilettata dritta al cuore.

Uno schiaffo che sentii quasi fisicamente e che mi obbligò a voltare il viso, a negargli il mio sguardo.

Ci avevo provato a chiuderlo fuori dal cerchio, ma non si poteva semplicemente, da un giorno all’altro, espellerlo dal mio organismo, come fosse un batterio e io avessi assunto un antibiotico.

Al contrario, il batterio ammorbava il mio corpo e l’antibiotico indeboliva il mio organismo.

“Prima che tu lo scopra da sola, c’è anche Edo qui, scusa”

Si scusava per tutto ciò per cui non volevo si scusasse.

“Edo…” mormorai, “ancora neghi di conoscerlo?”

Non stavo urlando, ma mormorando.

Scorsi il suo sguardo spaventato, le mani tremare per stringere poi a pugno le coperte.

Aprì la bocca, come se volesse parlare finalmente, ma nessun suono uscì da essa.

“Ho paura” sussurrò infine a voce spezzata e ad occhi bassi.

Di cosa Stef? Cosa ti terrorizzava così tanto da farti rimanere silente di fronte a me? Era ciò che ti faceva impazzire anche di fronte a Lucrezia? Ciò per cui frantumavi piatti quasi fossero pezzi di te?

L’avevo scorto il tuo intento autodistruttivo.

Così come avevo capito che a quelle domande tu non avresti mai risposto.

Per questo ti abbracciai; non lo meritavi, non per come ti eri comportato fino a quel momento.

Ma io non riuscivo proprio a restare ferma di fronte alla tua sofferenza.

“La verità è che io sono terrorizzato”

******

  

Mio fratello era uscito qualche ora dopo.

Non avevamo parlato. Nonostante tutto era rimasto troppo in sospeso tra noi.

Incontrai Edoardo ben presto però.

Lo osservai muoversi, quasi come si trovasse a casa sua, tra i fornelli.

“Ti piace il pesce spada?” mi chiese ad un certo punto ancora girato di schiena.

Non pensavo mi avesse notata e arrossii a causa dell’imbarazzo.

“Sì, ma non ti preoccupare; non è necessario che tu cucini anche per me, anche perché sto proprio per ritornare a casa mia” affermai di getto, nonostante casa significasse la solitudine assoluta.

“Dobbiamo parlare” si girò di getto, incastrando i suoi occhi nei mei, determinato ed irremovibile come era solo di fronte alle teorie strampalate dei genitori dei suoi pazienti.

Come quella secondo cui il vaccino provocherebbe l’autismo e che tutto è facilmente risolvibile con farmaci omeopatici.

Ero sorpresa.

L’unico da cui mai mi sarei aspettata di ricevere spiegazioni era davanti a me, con una padella in mano e la volontà di dare finalmente adito alle mie domande.

Poco tempo dopo mise di fronte a me un piatto davvero invitante e si sedette di fronte a me.

“Stefano non avrebbe mai voluto che noi due ci incontrassimo. Voglio dire, per lui sei la sorellina da proteggere da tutto e tutti, persino da se stesso.

Ho sempre rispettato questa sua volontà, ma tuo fratello è una delle persone a cui io tengo di più e non posso permettere che faccia l’errore più grande della sua vita.

Per questo ti ho messa alla prova” cominciò a dire con quella sicurezza che emanava solo quando doveva parlare con i genitori dei suoi pazienti.

Questi alle parole del giovane medico comprendevano e ne uscivano rassicurati, mentre io continuavo a non capire.

Parole che avevano senso dal punto di vista sintattico per me erano vocaboli insensati.

“Io… io non capisco” espressi la mia difficoltà.

“Avevo bisogno di capire quanto mi potessi fidare di te.

Per questo ho cercato di provocarti e capire quali fossero le tue reazioni agli stimoli.

Presentarmi a casa tua insanguinato è stata la tua prova finale diciamo.

Mi hai aiutato nonostante fosse chiaro il tuo rancore nei miei confronti e non ne hai parlato in giro.

Esattamente ciò che cercavo.

Capisci ovviamente che non avrei mai cercato aiuto da te se non perché ti volessi testare, no?”

Sentii la necessità di deglutire, mentre le sue parole rimbombavano all’interno della mia testa.

Pensavo che il non sapere nulla fosse doloroso e frustrante, ma una volta che le risposte incominciarono ad arrivare fu molto peggio.

Credevo che quella notte fosse giunto da me perché almeno in minima parte si fidasse delle mie competenze.

Ed invece l’aveva fatto solo per “testarmi”.

Pensavo di poter avere diritto di muovere qualche pedina anch’io all’interno di quell’enorme scacchiera a cui tutti i miei conoscenti sembravano giocare, ma evidentemente mi sbagliavo.

Usata.

Ecco come mi sentivo.

E ancora mi era stata rivelata solo la punta dell’iceberg.

“E se avessi detto qualcosa cosa avresti fatto?” non so da dove uscii quella domanda, ma sentii la mia voce decisa e fissai il mio sguardo nel suo.

Le sue palpebre si chiusero un istante e nel momento in cui potei di nuovo osservare i suoi occhi li vidi offuscati da una patina di malinconica rassegnazione.

“Nulla. Sono già nell’abisso: non puoi spingermi più giù. Ed è proprio perché la mia vita è così devastata che non voglio che anche quella di Stefano diventi così per una colpa che è solo mia.”

La sua voce tremava, come se ogni parola gli procurasse un male fisico; mentre i sensi di qualche colpa ancora a me sconosciuta lo tormentavano.

Di getto strinsi la sua mano tra le mie dita in un gesto di conforto, attraverso il tavolo di legno, dove la sua mano era rimasta poggiata.

Non capivo e non capisco ancora oggi perché lo feci, ma la verità è che io davanti alla sofferenza non so rimanere immobile.

Edoardo allora incastrò i suoi occhi nei miei, sorpreso dal mio gesto.

E seppur ancora si trovasse proiettato in chissà quali tormentati pensieri mi abbozzò un sorriso quasi di gratitudine.

Ma subito dopo ritornò lì, con lo sguardo perso nel vuoto e le labbra strette in morsi di sofferenza, di autocastigazione.

La mano fredda scivolava tra le mie dita mentre le palpebre tremando si chiudevano e il pomo d’Adamo continuava impazzito a fare su e giù come una pallina di un flipper.

E nonostante il suo comportamento indecente nei miei confronti, avrei voluto scuoterlo finché non avesse ripreso il suo ghigno beffardo.

Anche se avevo l’impressione che, persino di fronte alle mie scosse, sarebbe rimasto in quella sorta di trance spaventosa.

Mi sembrava di rivivere quel momento in cui era arrivato a casa mia ferito e continuava a mormorare “Non ce la faccio”.

Sentii la chiave girare nella toppa della porta e sperai vivamente che fosse mio fratello e non Lucrezia.

Rimasi in attesa, ascoltando il rumore dei passi che avevo riconosciuto immediatamente.

“Da quanto tempo è così, Bea?” mi chiese proprio Stefano mentre si avvicinava al suo amico e gli sussurrava “Non è colpa tua” scuotendolo un po’ per le spalle.

“è sempre colpa mia” mormorò lui ancora ad occhi bassi.

Mentre Stefano ed Edoardo comunicavano attraverso dinamiche tutte loro, io osservavo impotente pregando che tutto si potesse risolvere.

Pregavo Dio che qualsiasi cosa stesse devastando e distruggendo senza pietà l’esistenza dei due amici terminasse al più presto.

Non sapevo cosa fosse ma avevo intuito che sicuramente fosse legata ad entrambi.

E mentre mi rivolgevo così strenuamente a Dio sentii la frase che avrebbe cambiato la mia vita.

“Devi metterti in testa che non è colpa tua se mi sono innamorato di te, Edoardo”.

 

 

 

 

 

 

Ciao a tutte,

spero di riprendere la mano al più presto e spero che, nonostante tutto, abbiate piacere di leggere ancora di Bea ed Edo.

Ho sempre saputo che la trama fosse un po’ ingarbugliata, ma piano piano vi giuro che ogni nodo verrà al pettine e ogni dubbio si dissolverà.

Vi prego di farmi sapere sia in bene che in male,

un abbraccio,

Laura

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