Totenkopf di SamuelCostaRica (/viewuser.php?uid=913334)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fuga ***
Capitolo 2: *** Spiegazioni inutili ***
Capitolo 3: *** Senza mappa ***
Capitolo 4: *** Organizzare il futuro ***
Capitolo 5: *** Un pianeta non è per sempre ***
Capitolo 6: *** Incontri ***
Capitolo 7: *** Uno, cento, mille soli ***
Capitolo 8: *** Nel silenzio della congiura ***
Capitolo 9: *** L'importante è viaggiare ***
Capitolo 10: *** In fondo al viaggio ***
Capitolo 11: *** Conti in sospeso ***
Capitolo 12: *** Non dire ***
Capitolo 13: *** Ma quale segreto... ***
Capitolo 14: *** Ordine nel caos ***
Capitolo 15: *** Mobilis in mobili ***
Capitolo 16: *** Onnisciente ***
Capitolo 17: *** Desertificazione ***
Capitolo 1 *** La fuga ***
All’interno il pullman era buio,
anche se dai finestrini, senza vetro, si vedeva una luce abbagliante
che lo
avvolgeva.
Lei era accovacciata, di fianco
alla paratia metallica di protezione al guidatore, con la schiena
appoggiata al
cruscotto del pullman.
Era pensierosa.
Aveva i capelli rossi, lunghi,
arruffati, raccolti in una coda a treccia.
Il viso era ovale, zigomi non
troppo sporgenti, labbra carnose: gli occhi erano nascosti da degli
occhiali
militari a doppia lente separata, con una cinghia elastica che gli
tenevano ben
aderenti al viso.
Da sotto gli occhiali spuntava il
naso adunco, unico difetto di quel grazioso viso, lasciato di qualche
suo
antico parente scozzese: d'altronde, una che si chiamava Kirsty MacRae
non
poteva che non avere tali origini.
La tuta militare nascondeva un
corpo graziato, ma ben strutturato e muscolo, con il giubbetto
antiproiettile che
non nascondeva del tutto il suo seno prosperoso.
La mano sinistra era appoggiata
al fucile mitragliatore che teneva con il calcio appoggiato al
pavimento del
pullman con la canna rivolata verso l’alto, la sicura tolta,
il selettore sul
fuoco rapido e un caricatore inserito, con un altro, con
l’ingresso dei
proiettili verso il basso, legato al primo con del nastro adesivo per
cavi
elettrici grigio.
Sulla tuta erano riportati i
gradi di colonnello dell’aereonautica militare, anche se lei
non aveva mai
volato su un aereo.
Il pullman viaggiava a folle
velocità su quel terreno sconnesso, sollevando, dietro a se,
enormi nuvole di
polvere.
L’autista del pullman, un certo
Gray Gronners, teneva gli occhi puntati davanti a sé.
Aveva i capelli corti, quasi
rasati, e portava occhiali militari a una sola lente, scuri.
Il viso rotondo era seminascosto
da una sciarpa con un disegno a scacchi che gli copriva parte del viso,
per
proteggerlo dalla polvere che passava dalla feritoia della piastra
metallica
messa davanti a lui, per proteggerlo da eventuali proiettili sparati
contro di
lui.
Indossava una maglietta a maniche
corte nere, da cui uscivano delle braccia da culturista.
Indossava anche pantaloni di una
tuta militare e stivali militari, neri, con lacci da scarpe marroni.
Teneva saldamente il volante,
guardando ogni tanto dalla feritoia posta sulla piastra alla sua
sinistra, per
vedere chi lo stava seguendo da quel poco che era rimasto dello
specchietto
retrovisore, e poi a destra, per vedere se il colonnello era ancora
lì, con
quella faccia impietrita che aveva da quando l’aveva
conosciuta.
Il colonnello guardava l’interno
del pullman, guardando ma non vedendo i suoi occupanti.
Erano una parte militari ed
alcuni civili, uomini e donne, pronti a tutto pur di salvare la pelle.
Dietro all’autista si era
posizionata il sergente addetto alle telecomunicazioni Mary Houng, un
tipo
minuto, che quando non indossava le lenti a contatto aveva un paio di
occhiali
da nerd.
E in effetti lo era: una vera
nerd, una a cui i computer non potevano dire di no.
Era finita lì perché era entrata
in un computer di un qualche laboratorio segreto e i militari, come al
solito,
le avevano proposto due soluzione: o la prigione a vita o diventare un
militare.
Certo, un po’ di disciplina le
avrebbe fatto bene e messa a posto la testa, ma lì la
disciplina serviva poco.
Davanti a sé aveva una
apparecchiatura elettronica, larga circa novanta centimetri, profonda
quarantacinque e alta altrettanto, da cui fuoriusciva, sulla parte
destra, un
monitor piatto, mentre il resto del piano era occupato da una tastiera
da
computer, una mouse a rotella e vari pulsanti ed indicatori elettronici.
Seguiva con gli occhi, nascosti
dietro a degli occhiali militari a una sola lente, chiari, i numeri che
il
monitor sputava e gli indicatori elettronici.
Una luce rossa illuminava la
parte sinistra dell’apparecchio, con di fianco una luce verde
che non voleva
saperne di accendersi.
Aveva la bocca protetta da una
mascherina antipolvere metallica con filtri sostituibili.
La sua tuta militare era di un
colore unico, forse kaki, alquanto sgualcita e con alcune bruciature
sulla
gamba destra.
Non portava guanti, per poter
usare liberamente la tastiera.
Oltre a quella apparecchiatura,
alla sua destra, ben protetta da una cassaforte senza portello,
appoggiata a
terra, vi era una radio satellitare.
Sul fondo del pullman, davanti alla
fossa in cui vi erano i due motori a scoppio che spingevano il pullman
a tutta
velocità, senza il cofano di copertura
dall’abitacolo, vi era un omino piccolo,
pelato, magrolino, a cui nessuno avrebbe dato un centesimo per la sua
vita.
Si chiamava Julius Fronteau ed era
seduto sul bordo del vano motore e controllava il funzionamento dei due
mostri,
con le turbine che fischiavano più di un locomotore a vapore
e i cui pistoni urlavano
il loro dolore, spinti al massimo su quel terreno accidentato, con gli
ammortizzatori degli assali che non riuscivano ad attutire le
vibrazioni e i
supporti dei motori pronti a rompersi da un momento
all’altro, con la gomma
quasi sfatta.
Il pullman aveva un carrozzeria
anni ’50, con una parte di essa sopraelevata.
Nella parte superiore, da cui si
accedeva da una scala posta a destra dell’addetta alle
comunicazioni, vi era un
buon numero di uomini, tutte con la tuta militare di colore blu,
elmetti del
medesimo colore, giubbotti antiproiettile e varie armi, dai fucili
mitragliatori ai fucili a pompa ai lanciagranate, più varie
granate e bombe a
mano.
Erano in venti, tutti seduti sul
fondo del pianale rialzato, con l’orecchio teso alla
auricolare della radio
portatile, pronti a sentire le informazioni date dal loro comandante.
Il comandante si chiamava Frazer,
solo ed esclusivamente Frazer: a nessuno era dato di sapere il suo nome.
Era un tipo brusco, con i
lineamenti del volto squadrati, una mascella da vero duro, occhi neri,
naso
aquilino, capelli corti, con taglio di capelli alla marines.
Il caldo di sopra era soffocante
e fastidioso, come lo era il rumore dell’aria che entrava dai
finestrini rotti
e il fracasso dei motori spinti al massimo.
All’improvviso una luce si accese
sul cruscotto dell’autista.
Gronnes, dopo un primo momento di
sgomento, premette il pulsante della sua radio
«Fronteau! Fronteau!… »
Urlò nella
radio, facendo sobbalzare tutti.
«Cosa vuoi?» Rispose Frontenau,
senza distogliere gli occhi dai motori, cercando di sovrastare il loro
rumore.
«Si è accesa la luce della
riserva del carburante!» Rispose Gronnes, tutto preoccupante,
grondante di
sudore più per la paura che il pullman si fermasse che per
il caldo
insopportabile.
Fronteau grugnì qualcosa alla
radio, si alzò e si diresse verso una delle botole poste sul
pavimento del
pullman, la alzò e si infilò dentro, con la
testa, fino alla cinta.
Dopo poco i motori tossicchiarono
e poi ripresero il loro rumore assordante.
Fronteau si alzò, chiuse la
botola e trotterellando si avvicinò al Colonnello.
La donna al momento non gli diede
retta, ma l’uomo la risvegliò dal suo torpore
scuotendola con la mano sinistra
sulla spalla destra di lei.
Lei lo guardò in faccia, con fare
interrogativo.
«Non è il caso che Gronnes urli
alla radio per una stupida spia! Abbiamo gasolio per parecchi kilometri
ancora!» Gridò alla radio, sovrastando il rumore
all’interno del mezzo e
facendosi sentire da tutti.
«Ormai non dovremmo essere
lontani da…»
La frase del colonnello fu
interrotta a metà da un urlo proveniente da uno degli uomini
del piano di
sopra.
«Colonna di polvere all’orizzonte!
Qualcuno ci segue!»
Il Colonnello si alzò e si guardò
intorno.
Per prima cosa prese atto della
posizione degli altri due pullman che li seguivano, uno allo loro
destra ed uno
alla loro sinistra, leggermente arretrati rispetto a loro.
A bordo di quei veicoli vi erano
solo uomini ben armati: avrebbero dovuto difendere a tutti i costi il
pullman
del Colonnello con sopra gli scienziati.
Il Colonnello contatto il primo
pullman.
«Maggiore Truman! Maggiore
Truman! Cosa vedete dietro di noi?»
La concitazione salì sul pullman
e i passeggeri e i militari si alzarono a sufficienza per sporgere le
teste dai
finestrini e cercare di vedere quello che succedeva fuori.
La polvere alzata dai pullman
copriva la visuale ed era impossibile vedere dietro a loro.
Il Maggiore Truman non rispose e
allora il colonnello salì al piano di sopra e con il
Capitano Frazer, con in
mano i lori binocoli, cercavano di vedere qualcosa che li seguiva.
All’improvviso la radio gracidò.
«Qui Maggiore Truman! Qui
Maggiore Truman! Vedo una colonna di fumo, a circa ore sette! Si, ore
sette!
Polvere di almeno altri tre mezzi! Dietro vede dell’altra
polvere, forse alzata
da altri mezzi, sicuramente più pesanti, ma non si vedono!
Sono bassi rispetto
all’orizzonte!»
«Dannazione!» Disse il
colonnello, abbassando il volto e passando le labbra sulla manica della
tuta.
Si inginocchio di fianco al
Capitano.
«Non ho idea di quando saremo al
punto di contatto! Speriamo di non dover combattere ancora! Non
potremmo
respingere un altro attacco!» Disse il Colonnello, guardando
il Capitano, il
cui volto era diventato ancora più duro di prima.
«Lei si preoccupi di arrivare là
dove siamo diretti, al resto ci pensiamo io e i miei uomini!»
La voce di Houng alla radio
raggiunse tutti.
«Colonnello! Colonnello! Quelli
che ci seguono hanno anche loro un ricevitore! Usano un’altra
frequenza! Lo
hanno appena messo in funzione! Però non posso dirle se sono
amici o nemici! ...»
«A tutti, ripeto a tutti! Parla
il Colonnello! Niente comunicazioni radio, se non indispensabili!
Niente
comunicazioni radio!» Le ultime parole furono ben scandite
dal Colonnello alla
radio, affinché tutti capissero bene l’ordine e
tutto quello che esso significava.
Il Colonnello scese da basso e si
avvicinò a Houng.
Guardarono tutte e due il
macchinario, silenzioso, che continuava a visualizzare numeri
incomprensibili e
uno degli indicatori si muoveva in modo anomalo.
Houng indicò, con il dito medio
della mano sinistra, quella anomalia.
All’improvviso un cicalino suono
dentro la macchina e la luce rossa si spense e, dopo un po’,
quella verde si
accese.
Sul monitor apparve una pianta,
che indicava a circa cinquanta kilometri un bunker.
Il Colonnello afferrò il bottone
della radio e chiamò l’autista.
«Gronnes! Gronnes! Svolta a
destra per quindici gradi! Quindici gradi! Gira adagio, non diamo ai
nostri
inseguitori indicazioni di dove stiamo andando!»
Lasciò il pulsante e parlò con
Houng. «Tra quanto ci raggiungeranno?»
«Quelli dietro di noi non ci
raggiungeranno mai, vanno più lenti! Quegli
altri… non so!» Disse Houng,
scuotendo la testa.
Il Colonnello si alzò in piedi e
si avvicinò all’autista, cercando di vedere dove
erano diretti.
Il pullman del Colonnello e gli
altri due continuavano nella loro folle corsa.
Le modifiche effettuate ai motori
da Fronteau erano state efficaci e i mezzi si erano dimostrati
all’altezza della
situazione.
Erano di una compagnia di viaggio
chiamata “Greyhound” (il levriero), molto famosa in
quella parte del pianeta.
Il Colonnello prese in mano il
binocolo e incominciò a cercare davanti a sé il
bunker.
Il pullman viaggiava a
centocinquanta kilometri orari su quella distesa, per cui il bunker si
sarebbe
dovuto vedere in meno di venti minuti.
Il Colonnello controllò l’orologio,
ma il tempo sembrava non passare mai.
Poi, all’improvviso, una
installazione militare si presentò di fronte a loro,
leggermente spostata sulla
loro destra.
Il Colonnello diede una botta
sulla spalla destra di Gronnes e gli indicò la costruzione.
Gronness girò lentamente il
volante, posizionando il mezzo verso quella che sembrava una apertura
nell’edificio.
Tutti si alzarono in piedi e
guardavano il bunker avvicinarsi.
Il Colonnello voltò per un attimo
il volto per vedere dietro a sé, per controllare la
posizione degli altri due
pullman e vide tutti i suoi uomini in piedi.
«Tutti a terra!» Urlò
inferocita.
Tutti si inginocchiarono e
tacquero.
Lei si rivolse verso il bunker,
che si stava avvicinando sempre di più.
Houng si avvicinò, a carponi,
tirandoli i pantaloni.
Il Colonello abbassò il volto.
«Anche gli altri hanno il codice
verde!» Disse Houng, urlando.
Il Colonnello rispose scuotendo
la testa in modo affermativo.
Il bunker si avvicinava sempre
più e le sue dimensioni diventavano impressionanti.
Solo nell’ingresso i tre pullman
sarebbero entrati così, come erano in formazione, lasciando
abbastanza spazio
di manovra e di sicurezza verso i muri perimetrali
dell’imboccatura.
All’esterno nessuna luce dava
indicazioni sul fatto che il manufatto fosse o no in funzione e fosse o
no
occupato da umani o umanoidi.
Il nero che si nascondeva dietro
il portone di ingresso faceva abbastanza paura da far alzare il piede
dall’acceleratore
da Gronnes.
Il Colonnello gli diede una
scoppola dietro alla nuca e Gronnes, lamentandosi,
rischiacciò il pedale fino
in fondo.
I pullman iniziarono a rallentare
prima di imboccare il portone, frenando improvvisamente dopo
l’ingresso.
L’interno si illuminò di colpo,
rischiarandolo a giorno.
Il Colonnello
scese e diede subito ordini.
«Mette i pullman davanti all’ingresso,
ma lasciate abbastanza spazio per far passare chi ha un pass dal
sistema! Svelti!
Capitano, i suoi uomini dietro ai mezzi, non sopra! Svelti! Svelti!
Hougan,
scarica i tuoi materiali! Metttee al riparo gli scienziati!»
Hougan scarico il materiale con l’aiuto
di un’altra donna scienziato, mentre alcuni uomini del
Maggiore Truman cercavo
un posto dove mettere al riparo gli scienziati.
Quando tutto fu pronto, il
Colonnello andò da Hougan.
Non servirono domande da parte
sua.
«Sono a circa quindici minuti da
qui! Arrivano a centoquaranta kilometri orari. Il sistema continua a
dargli il
benestare! Quelli che li inseguono stanno rallentando! Sembra che il
sistema li
abbia riconosciuti come nemici e li sta ostacolando! Non mi chieda
come, Colonnello,
ma li sta facendo rallentare!»
Il Colonnello si tolse gli
occhiali e i suoi occhi azzurri apparvero in tutto il loro splendore.
«Tenente Closser. Prenda due
uomini e faccia un giro di ispezione. Si ricordi che non conosciamo il
posto. Solo
una perlustrazione e mi informi immediatamente di ogni
novità. E si ricordi che
le radio prendono anche sotto terra, per cui qualcuno potrebbe
intercettare le
nostre comunicazioni. Per cui siate brevi e precisi.»
Il Tenente Closser, un tipo
basso, muscoloso, tutto d’un pezzo, saluto il Colonnello,
prese due uomini e si
inoltrò nel bunker.
Il Capitano Frazen non era molto
contento: Closser era solo un marines, neanche tanto in gamba, non uno
dei
corpi speciali e di sicuro avrebbe fatto un casino trovando qualcosa
fuori
posto.
Ma il Colonnello sapeva che
Closser faceva il rigido solo per la forma: in realtà era un
uomo dei servizi
segreti, addestrato per anni da gente che uccideva un uomo con un dito
solo e
di certo una qualsiasi “anomalia” non lo avrebbe
messo in difficoltà.
Ma al momento quella cosa non la
interessava.
I pullman del secondo gruppo
erano ormai prossimi al varco.
Il Colonnello cercò dove erano i
sistemi di chiusura del portone e li vide, lì a
mezz’aria, sul muro di confine
con il portone.
Appena i pullman entrarono,
frenarono svoltando a destra, incanalandosi nello spazio lasciato
libero dai primi
pullman.
I due gruppi di militari si fronteggiarono,
armi alla mano, pronti a sparare.
«Fermi! Fermi! Grifon! Grifon! Non
sparate, lo conosco io!»
Il Colonnello corse incontro ad
un uomo emaciato, alto più di due metri, con una tuta da
militare a brandelli,
che sosteneva a mala pena un mitragliatore.
I suoi uomini erano più o meno
nelle sue stesse condizioni e i civili che erano con loro,
più numerosi di quelli
portati dal Colonnello, caddero sul pavimento dell’ingresso
esausti.
«Frazen, chiudete il portone!
Presto!»
Frazen corse ai pulsanti e
schiacciò quello rosso.
L’enorme portone in cemento prima
si mosse verso l’interno poi, scorrendo su delle guide, poste
sia a terra che a
soffitto, scricchiolando, con un rumore di motori che li trascinavano.
Quando le due parti furono a
contatto, il portone scivolò verso l’esterno e
chiuse perfettamente l’ingresso,
da cui non entrò più la luce esterna.
Improvvisamente l’aria dell’ingresso
da pesante e irrespirabile divenne fresca e leggera.
Tutti tirarono un sospiro di
sollievo, mentre il Colonnello e il nuovo arrivato se la ridevano,
abbracciandosi per terra.
«MacRae che ci fai qui?»
«E tu, Griffon, da che buco dell’inferno
sei uscito?»
I due furono distolti dai loro
convenevoli dal Tenente Closser, che giunse urlando.
«Colonnello! Colonnello! Di qua,
svelta! Abbiamo trovato una sala comando!»
«Sì! Calma! Non così!
Frazen, i
mezzi! Disponeteli davanti all’ingresso: due davanti e
quattro dietro! Fate un
muro! Se dovessero sfondare il portone, troveranno una
barriera!» Il Colonnello
non perse la calma e prima di muoversi dall’ingresso voleva
essere sicuro che
si sarebbero salvati.
Mentre spostavano i mezzi e
scaricavano i materiali e le armi, gli uomini in forza aiutarono gli
altri,
sfiancati da un viaggio lungo e irreale.
Dopo aver fatto la barriera,
aiutandosi gli uni con gli altri, trascinando il materiale e le armi
stoccate
in enormi cassoni, seguirono il Tenente Closser.
Le grida di dolore si mischiavano
agli incitamenti a camminare verso un posto più sicuro.
Quello che il Tenente Closser
aveva chiamato “una sala comando” non dava
l’esatta idea del posto.
Per accedere alla sala si doveva
scendere una rampa da garage larga almeno dieci metri e ruvida, che di
certo
avrebbe aiutato e permesso a qualsiasi mezzo di scendere o salire dai
piani più
bassi.
A circa cinquanta metri dall’ingresso
vi era un paratia stagna, che consentiva l’accesso ad una
sala a chiocciola
larga, con la singola rampa di scala larga almeno due metri.
Tutti guardavano quel luogo
enorme stupidi.
Uno degli scienziati, uno
anziano, piccolo, con i lineamenti tipicamente orientali, non sembrava
così
stupefatto.
Quando scesero le scale e si
trovarono davanti all’altra paratia che immetteva alla sala
comando, l’uomo
passò davanti a tutti, facendosi spazio a spintoni e
fermò tutti sulla porta.
«Ssssst!» Disse, mettendo il dito
medio della mano sinistra sulla sua bocca.
La luce all’interno riempiva l’ingresso.
L’uomo entrò e guardò
dentro,
dove i due uomini mandati in perlustrazione si guardavano intorno,
senza capire
cosa stesse succedendo.
Su dei monitor appesi alle pareti
comparivano i volti dei due uomini e del Tenente Closser, con i loro
nomi,
gradi, codici di riconoscimento e altro non ben definito.
Quando l’uomo entrò, i video
inserirono il suo volto, con il suo nome e altri dati.
«E’ un computer quantico! Legge la
mente! Non vi preoccupate e non allarmatevi! Andrà tutto
bene!»
L’uomo entrò seguito dal
Colonnello, preoccupato che il computer svelasse la sua vera
identità.
Ma il computer quantico sembrò
comprendere i timori del Colonnello e, quando la scansionò,
iniziò con una M,
per poi modificarla con una C.
Il suo nome e grado apparvero
esattamente come lei voleva.
Per cui il computer quantico non
solo poteva fare, ma poteva anche interagire con chi fosse stato
presente nella
stanza.
Il Colonello ebbe un attimo di
panico, sperando che gli altri non se ne accorgessero.
La sala comando, quanto tutti
furono entrati, autonomamente accese tutte le luci, facendo scoprire
una locale
lungo più di cinquanta metri, largo trenta e alto circa
dieci metri.
All’improvviso, una voce uscì da
alcuni altoparlanti, modulando la voce in modo buffo.
«Benvenuto Colonnello Kristy MacRae!
A lei e a tutti i suoi servitori!»
«Arretrato!» Disse il Capitano Frazen.
Il Colonnello, ridendo tra se e
se, disse:
«Non sono miei servitori, ma miei
aiutanti! Che non è la stessa cosa! Ma tu, come ti chiami,
visto che sai tutti
i nostri nomi! Ah, un’altra cosa: se puoi leggerci nella
mente, puoi anche
parlarci con tale sistema?»
In meno di un secondo, tutti
sentirono, nella loro mente, una voce suadente che parlava.
«Se è così che preferisci
che io
ti parli, lo farò! E scusate per il termine, ma i miei
costruttori avevano un gerarchia
piuttosto rigida! Io mi chiamo Omnia! Per quanto riguarda tutto quello
che
volete sapere, al momento non mi sembra il caso! Chi vi seguiva
è stato
rallentato ma non fermato! Sul monitor principale potete vedere chi
sono i vostri
inseguitori!»
Sul monitor più grande, posto
alla sinistra della paratia di ingresso, si vedeva chiaramente
più mezzi, di
forma strana, che rimanevano sospesi dal terreno e correvano verso
l’ingresso
del bunker, rallentati da una strana forza che li rallentava.
«Sono stati nemici per secoli dei
miei costruttori, e non sono mai riusciti a sconfiggerli. Poi i miei
costruttori se ne sono andati, con la speranza di poter tornare, ma non
li ho
più rivisti.»
«Omnia, hai una immagine dei tuoi
costruttori?» Chiese ad alta voce il Colonnello.
Su un tavolo apparve un
ologramma, ad altezza naturale.
«Ti assomiglia molto, Colonnello!»
Disse la voce nella mente di tutti.
“Un po’ troppo!”
Pensò il
colonnello.
Una copia: era un fedele copia
del Colonnello, solo con vestiti più succinti.
Una risatina corse sui volti di
tutti gli uomini presenti, squadrati dal Colonnello.
«Scusa, non volevo, ma questi
sono i vestiti che usavano i miei costruttori e aver trovato nel
database una
che ti assomiglia mi sembrava una cosa carina.»
«Omnia, direi di tenere a bada il
tuo database fino a che non ci avremo capito qualcosa in quello che sta
succedendo!
E ora facci capire come distruggere quelli, senza provocare ulteriori
danni al
pianeta. Cosa sai di quei esseri? E non perdere tempo con
classificazioni
inutili! I più stretti termici scientifici!»
Sbottò il Colonnello.
«Sì. Sono degli esseri come voi,
con una base di silicio anziché di carbonio. Hanno armi
avanzate per voi, ma
che i miei costruttori erano riusciti a riprodurre e usarli contro di
loro. Ma il
perché i miei costruttori se ne sono andati, io non lo
so.»
«Sì, ma per distruggerli senza
fare ulteriori danni?» Insistette il Colonnello, spazientita.
«Le loro armi possono essere
usate contro di loro, ma sono, in effetti, parecchio
distruttive.» La voce di
Omnia sembrava dispiaciuta di ciò.
Il Colonnello guardò gli
scienziati, che avevano ancora la bocca aperta per tale meraviglia.
No, così non andava.
Non voleva essere una dura con gli
scienziati, ma non aveva scelta.
«Allora, signori! Gli scienziati
seguiranno le indicazioni di Omnia per vedere di migliorare le armi e
provocare
meno danni possibili! I militari verranno con me e vedremo come sono
quelli
armi e impareremo ad usarle! E vediamo di fermare quei
maledetti!»
Omnia diede indicazioni agli
scienziati di dove trovare i dati nel suo database, mentre il Colonello
e gli
altri ripreso la scala e continuarono a seguire la rampa in discesa.
Dopo aver seguito la rampa in
discesa per dieci minuti, un enorme portone si aprì
d’innanzi a loro,
immettendoli in un enorme garage, dove facevano bella mostra di
sé parecchi
veicoli, di notevoli dimensioni.
«No, non ci siamo. Come è
possibile che per distruggere quegli esseri ci vogliono armi
così enormi. Dopotutto
sono simili a noi, perché tutto questo?»
La domanda del Colonello era più
che appropriata e il tenete Closser tentò una spiegazione.
«Sono dotati di esoscheletri che
resistono a qualsiasi nostra arma, tranne che a queste.»
Il Maggiore Frazen guardò il
Colonello e il Tenente, ben comprendendo che gli stessero nascondendo
qualcosa.
«Colonello! Ben comprendendo che
io non sono un fulmine di guerra e che non sono così alto in
rango come lei, ma
potrei sapere esattamente cosa ci facciamo qui? Non una spiegazione
generica,
una veritiera!»
Il Colonello guardò il Tenente,
poi indicò a tutti di mettersi seduti di fronte a lei.
«Tutto iniziò quando posizionammo
nello spazio la nostra base Cartagena nello spazio.»
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Capitolo 2 *** Spiegazioni inutili ***
Gli uomini guardarono il
Colonnello con fare interrogativo, ma a un cenno del Tenente Closser si
sedettero intorno a lei.
«Come ben sapete, la base
spaziale Cartagena è stata portata qui con molte
difficoltà e, una volta messa
in orbita intorno al pianeta, qualcuno si è fatto vivo.
All’inizio sembrava un
semplice contatto alieno, di tanti che abbiamo avuto. Ma il fatto che
il
contatto facesse riferimento ad una nave spaziale non più
presente nell’elenco
della flotta spaziale lasciò tutti spiazzati. Ovviamente la
cosa non fu resa
pubblica. Si rischiava di mettere nel panico tutti quanti senza vere
prove di
quanto successo. La nave si chiamava Pensacola e, a quanto diceva il
contatto,
aveva rubato, letteralmente rubato i loro segreti. Ora, che una razza
aliena
abbia dei segreti è più che ovvio: conoscendo il
loro punto debole chiunque
potrebbe approfittarne e sterminarli. Ma quello che non capivano era
perché
proprio quella nave. La Pensacola non esiste più da circa
cinquecento anni e la
sua storia non era piena di contatti alieni. Anzi, ne ebbe uno solo e
neanche
molto interessante. O almeno quelli dei servizi segreti credevano che
la cosa
fosse andata così. C’è voluto un anno
per trovare tutti i dati della Pensacola
e cosa aveva realmente fatto durante la sua esistenza. I dati erano
ancora
secretati e gli scienziati che lavoravano a quel progetto erano stati
inghiotti
dalla macchina burocratica della Terra. Solo dopo varie peripezie siamo
venuti
a conoscenza della verità. La Pensacola, durante il suo
primo viaggio di
esplorazione spaziale incontrò un pianeta disabitato, simile
alla Terra. Vi
erano solo animali, stupidi animali, alcuni molto
pericolosi… Non fate quelle
facce. Pericolosi era un termine gentile. Uccidevano in meno di un
secondo.
Comunque, dopo uno primo shock, che fece alcuni morti, il comandante
della nave
non mandò più nessuna sul pianeta. Durante le
loro rotazioni intorno al pianeta
per scoprire qualcosa, uno degli addetti scoprì,
casualmente, una enorme
astronave nascosta sotto i ghiacci del polo sud. Enorme! Era di forma
ovale,
lunga circa cinquecento kilometri e larga duecentocinquanta, alta
più di trenta
kilometri. Solo per un caso è stata scoperta. E forse era
meglio che non la
scoprisse! Incominciarono ad indagare. Scesero prima i corpi speciali:
dopo
quello che era accaduto era meglio non fidarsi troppo! Ci impiegarono
giorni a
pulire l’area da animali che avevano fatto di quella nave il
loro rifugio. Poi
scesero gli scienziati e incominciarono la perlustrazione. Il comando
delle
operazione spaziali era stato avvisato e si ritenne, al momento, di non
far
trapelare nulla. Troppo uomini morti, poteva anche che le solite
leggende
metropolitane sulla sfortuna non ci impiegassero molto a girare, e se
si voleva
mandare un’altra nave in appoggio sarebbe stato difficile
trovare un equipaggio
disposto a rischiare tanto. Sta di fatto che di navi, poi, ne vennero
mandate
cinque in supporto alla Pensacola. Ci vollero cinque anni e
più di duemila
scienziati, in tutti i campi dello scibile terrestre, per capirci
qualcosa di
quella nave. A parte le armi tecnologicamente più avanzate,
degli umanoidi che
occupavano la nave se ne seppe poco.»
«Scusi, Colonnello!» Un soldato
in prima fila alzò la mano, interrompendo la spiegazione.
«Ma se abbiamo
scoperto armi così evolute, come mai usiamo ancora queste
vecchi armi con
proiettili…»
Il Tenente Closser tossì e prese
la parola.
«Soldato! La prima regola è avere
notizie del nemico. Se lo uccidi o lo stermini non avrai notizie. E
senza
notizie, se dovessi rincontrare quel nemico, lui potrebbe non
soccombere, ma
essere disposto a ucciderti con lui, distruggendo anche la tua
civiltà. Avete
imparato, nel corso dell’addestramento, i punti vitali in cui
colpire gli
esseri umanoidi che la nostra razza ha incontrato nello spazio, e
questo è
stato utile quando li abbiamo rincontrati. Ora, essere stati magnanimi
con loro
ci ha aiutato nella nostra espansione nell’universo. E ci
aiuterà ancora, se ne
sapremo fare buon uso. È ovvio che, se la nostra
magnanimità viene presa per un
nostro punto di debolezza, sappiamo usare anche armi di distruzione di
massa.
Ma non è ciò che noi vogliamo. Vero,
soldato?» Il Tenente aveva usato una voce
calma, ma imperiosa.
Il soldato tacque e il
Colonnello, dopo un sospiro, riprese il discoro.
«Poi scoprimmo la loro vera
natura. E scoprimmo anche il perché degli animali
così aggressivi. Ma questo a
voi interessa poco. Basti sapere che il nostro nemico attuale
è lo stesso che
trovarono su quel pianeta quelli della Pensacola. So che ogni tanto vi
fanno
rivedere vecchi film di fantascienza. Ecco. Più o meno
assomigliano agli alieni
cattivi di quei film. Sono piccoli, informi, che usano esoscheletri per
farci
coraggio e combattere uccidendo più che possono. Non hanno
alcuna pietà dei
loro nemici. Ricordano molto i guerrieri spartani… ma che lo
dico a fare, non
sapete neanche chi erano. Comunque, i dati della Pensacola furono
segretati.
Chi aveva distrutto quella nave aveva lasciato, nel loro computer,
tutti i dati
per sconfiggerli. E ci saremmo anche riusciti, se quei maledetti non
avessero
imparato la lezione. Eh sì, miei cari. Per errore lasciammo
la nave integra e
loro, dopo che noi ce ne fummo andati da là, scesero sul
pianeta e raccolsero i
dati, su di noi e su ciò che era successo alla nave. Ma a
quanto pare, la loro
evoluzione militare non è andata alla stesso passo
dell’evoluzione scientifica.
Pare che lo schianto di quella nave li abbia fermati. Nei secoli
successivi
abbiamo scoperto chi distrusse la nave. Un popolo evoluto. Quella bella
donnina
che avete visto di sopra era, in realtà, una schiava. Il
loro volto non è
quello. Omnia lo ha fatto per distrarci, ma noi sappiamo bene come
erano questi
tipi. Grassi, flaccidi, piccoli. Si forse una volta erano
così come
nell’ologramma di Omnia, ma secoli dopo erano ben cosa
diversa. Aver vinto una razza
aliena così belligeranti li aveva resi diversi. Si sentivano
invulnerabili. Ma
ciò fu l’inizio della loro fine. La loro decadenza
fu più veloce del previsto.
E i loro nemici ritornarono in auge. Forse noi siamo di discendenti
degli
inventori di Omnia, ma non ne siamo sicuri. Fatto sta che lasciarono
campo
liberi a… quelli, che si ripresero il terreno perso,
gratuitamente, senza
combattere. Ora, nel posizionare Cartagena, gli abbiamo risvegliato
antichi
dissapori, assomigliando agli altri e ci hanno attaccati senza
preavviso.»
«Colonnello, presto! Il sistema
non riesce a tenere lontano quelli!» La voce era di una
donna, una degli
scienziati, che era scesa a cercarli.
«Maggiore, prenda quella macchina
là in fondo. La porti sopra, sposti i pullman e ce la piazzi
davanti. Il
Tenente sa come si usa! Svelti, datagli tutta una mano! Io vado in sala
comando!»
Così dicendo il Colonello seguì
la donna, lasciando gli altri a spostare l’arma, che anche se
era su delle
ruote, era comunque pesante.
Pensieri confusi correvano nella
mente di Kristy: aveva convinto gli uomini a sufficienza
perché non facessero
altre domande? No. Ne era sicura. Doveva porre un limite a tutto
ciò.
La donna la precedette nella sala
comando, ma lei si fermò sulla porta.
“Omnia, solo io e te!” pensò
velocemente.
“Dimmi!” gli rispose Omnia.
“So che sai la verità, ma tienila
per te! So come renderti innocuo. Quindi ascoltami bene. Non devi
più dare
comunicazioni mentali a nessuno. Hai capito?”
Il pensiero del Colonnello era
forte e la macchina rispose stizzita.
“Il codice ….”
“01101101 01101011!” pensò
velocemente il Colonnello.
“Ma, allora, l’ologramma
….”
Chiese spaventata la macchina.
“Taci! Ricordati: so i codici per
disattivarti. Quindi adesso ti inventi una palla e dici a tutti che non
puoi più
usare il contatto mentale. Ti serve troppa energia e devi usare tutte
le tue
forze per sconfiggere il nemico. Dagli altoparlanti fai uscire una voce
di
donna, molto suadente. Di sicuro nel database ne hai. Con loro parlerai
solo
così, con me solo per via mentale. E non modificare la mia
immagine! Muoviti!”
Il Colonnello entrò nella sala
comando e chiuse dietro di sé la paratia.
«Presto! Omnia, a seconda delle
vostre abilità, presenterà la vostra immagine sui
monitor delle console!
Mettetevi davanti e il sistema vi dirà cosa fare!»
Gli ordini del Colonnello vennero
subito attuati dal personale civile, con Omnia, con voce di donna
suadente,
spiegava, parlando dagli altoparlanti cosa dovevano fare.
Qualcuno si accorse del
cambiamento del modo di fare del computer, ma diede retta alla macchina
senza
troppo discutere, mettendosi le cuffie con microfono che trovavano
sopra le
console dove apparivano le loro facce.
Il Colonnello si posizionò sulla
console centrale, alle spalle di tutti, ovi parecchi monitor gli davano
un idea
ben precisa di quello che succedeva fuori dal bunker.
Il nemico venne lasciato libero
di muoversi e le immagini di quella macchina, che lievitava sopra al
terreno
accidentato dove erano appena passati, preoccupava tutti.
Intanto i militari erano riusciti
a portare l’arma al piano superiore, avevano spostato i
pullman e il portone in
cemento era stato aperto, facendo sì che la parte frontale
dell’arma facesse
capolino dall’ingresso.
«Tenente Closser, siete pronti?»
Chiese il Colonnello alla radio.
«Le batterie sono cariche e siamo
pronti a fare fuoco! Si ricordi che per ricaricare le batterie ci
vorranno
alcuni minuti!» la voce del Tenente era evidentemente
eccitata: poteva usare
un’arma terribile, vista su tanti manuali, ma mai usata.
«No, Tenente! Mi ascolti bene.
L’arma ha un cavo, posto in una cassa sotto il pianale, nella
parte posteriore.
Svolga il cavo e immette la spina nella scatola di derivazione posta
alla sua
sinistra. La vede, ha un portellone verde.» Le istruzioni del
colonnello era
ben precise e il cavo fu collegato ad una specie di presa elettrica.
«Fatto. E ora, Colonnello!»
«Sulla destra della console
c’è
un pulsante con due simbolini strani, li vede?»
«Sì, Colonnello!»
«Lo prema!»
Il Tenente premette il pulsante e
la macchina ricevette nuova linfa, mettendosi subito in funzione.
L’alimentazione via cavo consentiva all’arma di
sparare e muoversi molto
velocemente.
Il Tenente rimase stupito di
tutto ciò, ma troppi segreti giravano intorno a quella donna
e a lui non
avevano consentito l’accesso a certi documenti. Non che a lui
interessasse
molto, ma comprendeva che i segreti sono segreti.
Il nemico si avvicinava
velocemente, muovendosi in linea retta: non aveva tempo di perdere ed
eliminare
un nugolo inutile di combattenti.
Gli scienziati, davanti ai
monitor, seguivano l’avanzata del nemico, controllavano lo
stato dell’arma ed
erano pronti, se necessario, ad utilizzare altri armi, rese
utilizzabili da
Omnia, che aveva smesso di parlare telepaticamente con gli scienziati,
ma non
con il Colonnello.
A dieci kilometri il sistema di
difesa di Omnia si mise in allarme.
A otto kilometri diede il pronti
per il fuoco dell’arma.
A cinque kilometri l’arma sparò e
il lampo verde che fuoriuscì dalla canna della medesima
puntò diretta contro il
veicolo del nemico.
All’inizio il colpo parve non
avere nessun effetto sul veicolo, ma il prolungarsi
dell’emissione del lampo
sgretolò gli scudi deflettori del veicolo, penetrando poi la
corazza,
trapassandola.
Quando il lampo, non sentendo più
resistenza di alcun corpo, fece innalzare improvvisamente
l’assorbimento della
corrente, l’arma si spense autonomamente.
Il veicolo nemico esplose,
provocando una vera e propria esplosione nucleare.
L’arma arretrò automaticamente e
il portone in cemento si chiuse in pochi secondi.
Il vento, provocato
dall’esplosione, sbatté rumorosamente contro il
portone in cemento che si stava
chiudendo, non impedendogli, però, di chiudersi
completamente.
Il suono di un cicalino di
allarme e gli indicatori di radiazioni su di una console, in sala
comando,
posero tutti in allarme.
Dopo il vento atomico, un vento
naturale, che aveva spazzato da giorni quella zona, riprese il suo moto
violento, spostando il fall-out atomico di alcuni kilometri a sinistra
del
bunker.
«Colonello! Tutto a posto?» La
voce via radio del Tenete Closser ruppe il silenzio in sala comando.
«Sì, Tenente. Tutto a posto. Ora,
però, non potremo usare quell’uscita per alcuni
giorni. Aspetteremo.»
Il Colonnello si sedette su una
sedia e rimase a guardare i monitore che ricevevano le immagini
dall’esterno.
Il veicolo nemico era stato
disintegrato dalla sua stessa esplosione e, nel deserto,
un’altra buca si era
formata.
«Come faremo a sopravvivere?»
Chiese uno degli scienziati.
Omnia rispose subito, precedendo
il Colonnello.
«Calma. Sotto questa sala comando
vi sono alloggi sufficienti per tutti voi. E c’è
del cibo … no penso che quello
ormai sia diventato stantio. C’è un replicatore di
cibo, che sicuramente potrà
assecondare le vostre richieste: sempre ammesso e non concesso che il
cibo che
chiedete lo abbia in memoria.»
Tutti risero alla battuta di
Omnia.
Una paratia, nascosta da una
console, di aprì in fondo alla sala.
Tutti si riversano là, mentre i
militari entravano, commentando quanto successo, ridendosela alla
grande,
seguivano gli scienziati al piano di sotto.
Ma il Tenente Closser, Maggiore
Frazen e il Maggiore Griffon si fermarono davanti al Colonnello.
Lei era stanca e li guardò dal
basso verso l’alto.
Fece un gesto come per dire “Cosa
volete?” e il Tenente parlò.
«Colonello, con tutto rispetto,
ma gli ordini che ognuno di noi ha ricevuto non concordano con quello
che sta
succedendo.»
Il Tenente si fermò, come in
attesa di un assenso del suo superiore, che rifece quel gesto con la
mano.
«Io capisco che il momento è grave,
ma non dovremo avvertire qualcuno, farci mandare dei rinforzi
…»
Il Colonnello si alzò dalla
sedia, stirandosi e guardando negli occhi i suoi sottoposti.
«Qui, al momento, abbiamo tutto.
E poi non è così importante che qualcuno sappia.
È troppo pericoloso. I vostri
ordini, da questo momento, qualsiasi essi siano, vengono sospesi
… no, meglio,
annullati. Non mettetevi in testa cose strane.»
Il Colonnello girò loro le spalle
si si mise a camminare dietro le console di comando.
«So che Cartagena è distrutta e
noi faremo fatica ad andarcene, ma abbiamo tempo. I nostri cari nemici,
adesso,
si staranno riorganizzando su qualche pianeta distante anni luce. No.
Omnia!»
«Sì!» La voce uscì
dagli
altoparlanti, diffidente.
«La nave …» Chiese il
Colonello.
«Pronta. Ma …»
«Tranquillo, Omnia. Ci sono altri
superstiti?»
«Sono entrati da altri ingressi.»
«Di quante persone stiamo
parlando?» Chiese il Maggiore Griffon.
«Oltre a voi, più di duemila
persone. La nave potrà …»
«Omnia! Basta così.» la voce
del
Colonnello fu perentoria. «Ora tutti a rifocillarsi. Dopo vi
spiegherò. Con
calma.»
I tre sottoposti si diressero
verso la paratia, mentre il Colonnello rimase lì, nella
stanza, pensieroso.
La nave era ancora integra.
Una delle tante.
Da quanto vedeva dai monitor, il
settore B, quello controllato da Omnia, aveva in effetti permesso
l’ingresso
delle persone che aveva detto il computer.
Controllò gli altri settori.
L’A e il C erano vuoti.
Il D aveva anche lui delle
persone, forse anche lì un migliaio.
Quello più occupato era il
settore F, con circa cinquemila persone.
Gli altri settori erano per lo
più vuoti.
In alcuni vi erano poche persone
ed in uno erano entrati i nemici.
Il Colonnello premette alcuni
tasti di una tastiera e fece esplodere la zona.
Era dall’altra parte del pianeta,
nell’altro emisfero.
L’intero settore occupato dai
nemici venne distrutto.
Suonarono alcuni allarmi, subito
tacitati dal computer.
“Bene!” Pensò il Colonnello.
Omnia non era dello stesso
parere, ma il suo parere poco importava.
Ora bisognava raccogliere i
superstiti ed andarsene da lì.
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Capitolo 3 *** Senza mappa ***
Mentre tutti si
rifocillavano nei
locali sotto la sala comando, il Colonnello si diresse, furtivamente,
nella
zona delle armi.
L’astronave era nascosta in una ben
specifica zona del settore B, ma raggiungerla era un bel problema:
doveva
ricordarsi dove era l’acceso al sistema viario sottoterra
della zona e Omnia
non poteva aiutarla.
Per motivi di sicurezza, al
computer era stato affidato, dai suoi costruttori, il sistema di
difesa, ma era
stato tenuto all’oscuro della posizione delle navi di
salvataggio: la salvezza dei
costruttori era a loro discrezione e un computer avrebbe potuto
decidere il
loro allontanamento dal pianeta anche senza una reale situazione di
pericolo da
parte del nemico, che magari poteva essere distrutto.
Il Colonello continuava a
ricordare a fatica i particolari del posizionamento di accessi e di
altri
riferimenti a lei necessari, ma la memoria gli tornava a mano a mano
che girava
per quell’enorme sito.
Era meglio non rimanere troppo
lontana dai suoi sottoposti, per cui ritornò indietro, con
la promessa di
venire lì tutti i giorni a cercare il modo di arrivare
all’astronave: chiuse le
paratie della sala comando e andò nel locale sotto di esso.
L’aria era allegra e distesa.
Tutti scherzavano sul mangiare
che il replicatore aveva prodotto: i cibi e le bevande erano molti
gustosi,
anche se per i terrestri quelli di quel pianeta non sapevano proprio
fare da
mangiare.
Il Tenente Closser si accorse che
il Colonnello era rientrato dopo un po’ di tempo, ma fece
finta di niente.
I giorni trascorsero lentamente,
tra i feriti che venivano curati, tra il controllare la sala comando e
nell’attesa
che il fall-out atomico terminasse.
Il Colonnello, con varie scuse,
andava e veniva dalla sala comando, e incominciava a ricordare
particolari, a
riconoscere punti di riferimento solo a lei noti e avvenimenti che
erano accaduti
tempo addietro su quel pianeta.
Il Tenente Closser, alle volte,
la seguiva, silenzioso, per vedere cosa combinava.
Più di una volta aveva corso il
pericolo di essere visto, ma il Colonnello era troppo occupato a
ricordare da
accorgersi dell’uomo che la seguiva.
Erano passati ormai trenta
giorni, il personale militare aveva ripreso, per necessità e
per noia, ad
occupare il tempo allenandosi nell’enorme hangar delle armi,
tenendo gli orari rigidi
e che seguivano un orologio elettronico che Omnia aveva fatto apparire
su di un
monitor gigante, all’inizio della sala comando.
Gli scienziati continuavano a
fare domande ad Omnia, che rispondeva per quanto gli era possibile o
conosceva
o gli era stato permesso di dire dal Colonnello.
Fuori, all’aperto,
improvvisamente, piovve.
Tutti erano agli schermi a vedere
cosa succedeva, tranne il Colonnello e il Tenente, che la stava
seguendo nella
sua giornaliera esplorazione del posto.
L’hangar della armi, lungo non
più di due kilometri, era chiuso, sul fondo, da un muro in
cemento armato.
Le armi presenti occupavano non
più della metà del sito e il resto del pavimento,
di color grigio chiaro, era
pieno di botole, linee a strisce oblique gialle e nere, che
delimitavano zone
numerate, altre linee colorate che collegavano varie zone e di cui,
alcune, si
fermavano improvvisamente contro il muro in fondo all’hangar.
Il Tenente aveva visto più volte
il Colonnello scendere in una particolare botola di fronte al muro, per
risalirne
alcune ore dopo.
Come le altre volte, il
Colonnello aprì una botola, l’unica che era
riuscita ad aprire senza l’aiuto di
nessuno, e vi si infilò.
Se fosse stata via come le altre
volte, il Tenente avrebbe avuto tutto il tempo di studiare il muro.
Il muro, di sicuro di un
materiale simile al cemento armato, era stato spostato, tempo fa: lo si
evidenziava da delle strisce nere lasciate sul pavimento.
Il Tenete si avvicinò e lo toccò.
Morbido.
Dannazione non era duro, era
morbido.
E al tocco il muro emise come … un
sospiro.
Il Tenente decise di guardalo non
di fronte, ma di sbieco: non era la prima volta che gli capitava che
guardare
le cose in prospettiva diversa davi risultati stupefacenti.
E così accadde e poté vedere cosa
il muro nascondeva.
Sembravano gabbie per animali.
E all’interno vi erano degli
animali, enormi e vivi.
Vivi!
Dannazione!
Il Tenete vide il Colonnello, che
non degnò di uno sguardo gli animali, anche se questi si
agitarono e cercarono
di rompere le gabbie per scappare.
Ma in realtà non erano gabbie, ma
c’erano delle specie di luci dal basso verso
l’alto, o viceversa, che formavano
un cerchio intorno ad ogni singolo animale, costringendolo, con scosse
che gli
arrivavano dalle luci, a stare in mezzo alla gabbia.
Il Tenente tentò di passera quel
muro, ma per quanto fosse morbido al tatto, risultava inamovibile e
impenetrabile al suo tentativo, qualsiasi sforzo lui facesse.
Il tenete lasciò stare e seguì
con l’occhio il Colonnello che si addentrava in quella parte
di edificio.
“Che ci sarà là in fondo o sotto
il pavimento delle gabbie?” Pensò.
Ma quello che lo preoccupava era
gli animali. Come potevano essere ancora vivi dopo così
tanto tempo?
Quel posto era vuoto forse da
secoli e quegli animali sembravano in forza, pronti ad agire, con uno
standard
di vita superiore al tempo passato in quel posto.
Il Tenete voleva passare dalla
botola lasciata aperta del Colonello, ma ci ripensò.
Proprio in quel mentre il
Colonnello ritornò: nel guardarla vide che era spaventata e
molto circospetta.
Il Tenete corse a nascondersi e
attese che il Colonnello se ne fosse andato.
Doveva scoprire il più possibile
di quello che lei aveva visto.
Il Colonnello ripassò la botola,
si guardò intorno, nella speranza che nessuno
l’avesse visto, e ritornò alla
sala comando.
Entrando in sala capì subito che
qualcosa non andava, senza che Omnia gli dicesse niente.
Gli scienziati e i militari
guardavano i monitor e quella pioggia, strana, un po’ oleosa,
che scendeva di
traverso, sospinta da forti venti.
In lontananza alcuni uragani
riempivano lo sfondo, ma non si insinuarono nel deserto.
Il livello di radiazioni
nell’aria diminuiva, ma si alzava quello a terra.
Era impossibile che tutte quelle
radiazioni se ne fossero andate via così e da lì
bisognava andar via, in
fretta, per non lasciare al nemico niente da utilizzare contro di loro.
Quando fuori il buio incomincio a
prendere il posto della luce, con il cielo squarciato da lampi di
colori blu
elettrico o verde evidenziatore, tutti ritornarono al locale sotto la
sala
comando.
Il Tenente seguì gli altri, ma
aveva una ferita al braccio sinistro che dovette farsi medicare da una
donna
scienziata con lineamenti orientali chiamata Sue Lee.
Il Colonnello era troppo
pensieroso per accorgersi del tipo di ferita del Tenete e rimase
lì, nella sala
comando.
Il tempo sul pianeta era
cambiato, dopo tutta quella distruzione, e quella pioggia si
trasformò, con un
uragano che si infilò tra le due catene montuose.
Il deserto, che avevano calpestato
durate la loro fuga, era chiuso tra due alte catene montuose, distanti
migliaia
di kilometri, con direzione nord-sud, in cui i venti si infilavano,
dopo aver
scavalcato un’altra catena montuosa posto a nord, che
sembrava voler fermare
l’avanzata del deserto.
L’urgano rimase lì, senza potersi
muovere, bloccato dalla catena montuosa del nord, scaricando tutta la
sua
incontrollabile furia.
Se non fosse stato per le
telecamere esterne di quel tempaccio, dentro al bunker, nessuno dei
suoi
occupanti se ne sarebbe accorto.
La noia, all’interno del bunker,
incominciò a prendere il sopravvento.
L’uragano non scemava, il
duplicatore rendeva tutti contenti, forse troppo, e nulla si muoveva.
O almeno ai più così pareva.
Il Tenente decise di porre fine a
questa lagna, precedendo, un giorno, il Colonnello nella botola.
La sorpresa del Colonnello,
quando entrò nella botola, fu totale, o almeno
così diede a credere.
«Tenente, cosa ci fate qui?» La
voce sembrava sorpresa, ma il corpo no.
Il Tenente, dopo anni di
allenamento, aveva imparato a vedere ogni singolo movimento del corpo
che desse
il minino segnale differente da quanto che diceva la voce.
E quel movimento del corpo gliele
diede la prova, quel impercettibile strano movimento delle braccia e
capì che
era meglio scoprire le carte, a modo suo.
«Quando mi sono tradito,
Colonnello?» Disse, calmo, quasi in modo distaccato.
«La ferita. Non ci avevo fatto
caso, all’inizio, ma non rimarginava, per cui lei
è stato in un posto in cui
non doveva andare. E poi, miracolosamente è guarito, e
quindi è stato in un
altro posto in cui non doveva andare. Le coincidenze, se si sommano,
danno un
solo risultato: lei mi ha seguito. Non sono sicura fino a dove, ma di
certo ha
superato questa botola!» Il Colonnello indicò, con
la mano destra il buco sopra
di lei e, finita la frase, si incamminò nella passaggio,
passando davanti al
Tenete, spostandolo da parte, in modo brutale, per farsi largo in quel
piccolo
cubicolo, pieno di tubi e cavi che arrivavano da chissà dove
e andavano a
qualche stana destinazione.
Il Tenente si scostò e la seguì.
Lei uscì dall’altra botola,
seguita dal Tenente, e si diresse verso il fondo del resto
dell’hangar, mentre
quegli strani animali rumoreggiavano pericolosamente.
Ma le sbarre luminose gli
facevano paura e loro, dopo alcuni tentativi di distruggerle, si
rimisero calmi
nel mezzo della loro gabbia.
«Parecchio stupidi! Non sono
abituati ad imparare dai loro errori?» La domanda del Tenente
finì nel nulla.
Il Colonnello seguì la strada di
tutte le altre volte: in fondo all’hangar, un’altra
botola e una scala che
scendeva in una stanza, illuminata a giorno, di forma circolare, da cui
si
diramavano diverse gallerie, anch’esse ben illuminate: il
Tenente le contò,
osservandole attentamente.
Il Colonnello ne aveva segnate
sette su dodici.
«Dove portano quelle che ha già
esplorato?» Chiese il Tenente.
«Non dove vorrei!» Rispose secco
il Colonnello.
Il Tenente bloccò il Colonnello,
prima che si infilasse in un'altra galleria, e gli indicò
gli strani simboli
sopra ogni apertura.
«Pensa che non gli abbia già
notati, ma non dicono il vero!» Disse il Colonnello, cercando
di scappare via
dalla mano destra del Tenente che le tratteneva il braccio sinistro.
«Tenente, mi molli…!» Ma il
Tenente non diede retta al Colonello.
«Si calmi!» Gli disse il Tenente,
tirandosela a sé.
«Lei dice che non dicono la
verità, ma quindi ci sono delle trappole al loro interno. E
lei le ha
individuate e le ha fatte scattare.» Il Colonnello si
calmò.
Il Tenente aveva indovinato.
La lasciò andare, allontanandola
da sé, e comincio a guardare i simboli posti sopra la
galleria: non tutti erano
esattamente sopra l’arco della volta.
Alcuni erano spostati, di poco, a
destra, altri a sinistra.
Solo due erano perfettamente al
centro.
E uno era già stato visitato dal
Colonello.
«Lì cosa ha trovato?» Disse il
Tenente, indicando la galleria e alzando la testa per vedere meglio il
simbolo.
«Nulla di particolare!» Il
Colonnello, scocciata, si massaggiava il braccio.
«E l’altra non l’ha ancora
visitata?»
Il Colonnello non disse niente,
continuando a sfregarsi il braccio, indolenzito, e abbassando gli occhi.
Il Tenente capì.
«Tutta questa sceneggiata per
tenerci nascosto un modo di scappare! Non mi sono mai fidata di lei,
fin dal
primo momento che tutti l’hanno voluta svegliare! Non mi sono
mai fidato. Il
simbolo sul suo sarcofago non era come quello degli altri. Il Generale
lo
sapeva e mi ha convinto a starle alle calcagna. E ora questo. Chi
diavolo è
lei?» La voce del Tenente divenne dura e il Colonnello
cedette, sedendosi per
terra e piangendo.
«Non lo so! Non me lo ricordo!»
Tra mille singhiozzi, smise di strofinarsi il braccio e lo
avvicinò, mettendosi
in posizione fetale seduta.
«Ricordo cose a sprazzi, vanno e
vengono! Dormo in mezzo a incubi, tra gente che brucia tra le fiamme e
palazzi
pieni di persone ben vestite e ricchezze di ogni dove! Mi ricordavo di
una
nave, che qui c’era una nave per scappare e non la trovo!
Saremo scappati
insieme, ve lo giuro!»
Il Colonnello spinse la testa tra
le gambe.
Il Tenente controllò attentamente
che il Colonnello non mentisse.
Nella posizione in cui si era
messo il Colonnello, non riusciva a capire se mentisse, ma la cosa non
lo
convinceva.
Ma più i là non poteva andare,
per paura di scoprirsi più del necessario, e il Generale non
voleva.
«Va bene! Vediamo dove arriva
questa galleria, ammesso e non concesso che lei non l’abbia
già percorso!»
Disse il Tenente, amorevolmente, aiutandola ad alzarsi.
Le goccia del pianto smisero di
scendere sul viso del Colonnello, anche se un lampo, di un millesimo di
secondo, percorse gli occhi del Colonello.
Il Tenente lo notò, proprio per
caso.
“Tu non me la racconti giusta,
bella rossa! E se fossi in te starei attenta! Anch’io ho un
piccolo segreto,
che potrebbe non piacerti!”
I pensieri del Tenente corsero
veloci, mentre aiutava il Colonnello ad inoltrarsi nella galleria dal
simbolo dritto
sopra l’arcata.
La galleria
era ampia, all’inizio, poi curvava verso destra, per poi
girare subito a
sinistra e proseguire dritta.
La luce era
quasi abbagliante, ma non dava troppo fastidio.
Camminarono
per circa dieci minuti, per arrivare davanti ad una porta a due ante in
acciaio.
«Perché non
è riuscita a proseguire?» Chiese il Tenente.
«Non c’è
tastiera. L’ho cercata, ma non c’è modo
di trovarla! Ho provato di tutto:
sfiorato le pareti, la porta, il telaio, niente! Questa maledetta non
si apre!»
E infuriata, il Colonello diede un calcio alla porta.
Il rumore
metallico rimbombò nella galleria.
Niente.
Il Tenente pensò,
passando le dita, leggermente, intorno alla porta.
Si allontanò
dalla porta e prese, con la mano destra, da una tasca interna del
giubbotto
militare, uno strano aggeggio.
Il Colonello
stava per parlare, ma il Tenente la fermò con la mano
sinistra e appoggiò lo
strano aggeggio alle labbra, soffiandoci dentro.
Lo strumento
emise un suono, che inizio a modularsi da solo: la porta ebbe un
sussultò e poi
si aprì, mostrando all’interno un locale, grande
almeno dieci metri per dieci,
tutto in acciaio riflettente, alto non più quattro metri.
«Assomiglia
ad una cabina di un ascensore, non vi pare, Colonello?»
L’uomo si
girò e vide ancora quel maledetto lampo sul volto del
Colonello, subito
nascosto da una faccia sorpresa per la perspicacia del Tenente.
“Ancora!” Il
Tenente incominciava a preoccuparsi: di certo lei non poteva sapere
nulla del
Tenente, ma quello sguardo era tremendo e preoccuparsi, per il Tenente,
era
cosa normale.
Salirono
titubanti sull’ascensore dove, a sinistra
dell’ingresso, vi erano solo due
simboli, con delle frecce, più che esaustive: su o
giù.
Il
Colonnello voleva premere il giù, ma il Tenente la
fermò.
«Non è detto
che sia la scelta migliore!» Disse il Tenente.
«Solo la più
logica!» Disse il Colonnello, stizzita, e senza pensarci
troppo schiacciò il
pulsante con la freccia in giù.
Le porse si
chiusero, scricchiolando, forse ferme da tempo: la cabina ebbe un
sussultò e si
mosse verso il basso.
Il
Colonnello si ristrinse tra le braccia, mettendosi in mezzo alla cabina.
Il Tenente
vide il movimento, e si girò, notando che la donna guardava
verso l’alto.
Ormai non
aveva dubbi: era una persona abituata a comandare, a farsi rispettare,
a
sottomettere qualsiasi individuo a lei inferiore e il guardare verso
l’alto
indicava che lì c’era quello che lei cercava.
Era furba,
troppo furba, e inquietante.
Si preparò a
tutto: alla fermata della cabina sarebbe successo qualcosa.
Il Tenente
si spostò, lentamente, verso il lato destro della cabina,
con la mano sinistra
sulla fondina della pistola e la destra dentro la tasca dei pantaloni
della
mimetica, pronta a sguainare un oggetto lungo circa quaranta centimetri
e
sottile, che lui mosse sotto il pantalone.
La cabina
rallentò e si fermò con una scossone.
Tutte e due
gli occupanti persero un po’ l’equilibrio, ma si
ripresero subito.
La porta
della cabina, questa volta, si aprì di colpo e il Colonnello
scappò verso
l’esterno, da cui proveniva una luce violentissima.
Il Tenente dovette
mettersi gli occhiali da sole, appese alla tasca sinistra del
giubbetto, ed estrasse
la pistola, coprendosi il volto.
Uscì, con la
pistola pronta al fuoco, ma rimase lì, come il Colonnello.
Muro.
Un muro di
roccia li accolse.
Nessuna via
di uscita.
Il
Colonnello si guardò intorno, stavolta realmente spaventata.
Aveva
sbagliato zona o la memoria era stata ancora una volta fallace?
“Fregata!”
Pensò il Tenente, con un sorriso cinico rivolto al
Colonello, puntandogli la
pistola.
Lei si girò,
vide quel sorriso, la pistola e lo sconforto la avvolse, come una
coperta.
«Hai vinto,
maledetto!» Il Colonnello aveva, stavolta, lo sguardo
sconvolto e stravolto
nonché inferocito.
Ritornò
nella cabina, stizzita, e il Tenente la seguì, premendo
l’altro pulsante.
La cabina
risalì, sferragliando un po’.
Forse lì
dentro non tutto era stato mantenuto ben oliato e l’ascensore
ne era un ben
degno rappresentante.
Si fermò
ancora una volta al piano dove erano saliti prima dello scherzo del
Colonello:
il Tenente, senza mollare lo sguardo dal Colonnello, ripremette il
pulsante su
e la corsa riprese.
Il Colonnello
guardava ancora in alto, pensierosa e preoccupata.
Il Tenente
non mollò per un solo attimo il Colonnello, girandogli
intorno e mettendosi
alle sue spalle, con la pistola sempre spianata e la mano destra nella
tasca.
La cabina
rallentò e, sferragliando ancora, si fermò.
Quando le
porte di aprirono la luce era meno intensa di prima, più
tenue.
Il Tenente
si tolse gli occhiali e il Colonnello, lentamente, uscì
nell’atrio.
L’atrio, in
realtà, era una piattaforma in ferro circondata da una
enorme vetrata.
Quando il
Tenente uscì dall’ascensore, quattro enormi occhi,
uno di fianco all’altro, lo
guardavano.
Il Tenente
stava per aprire la bocca, quando, con la coda dell’occhio,
noto lo strano
movimento del Colonello.
“L’importante
è non arrendersi!”
Il Tenente
pensò e si mosse in una sola frazione di secondo.
Afferrò il
Colonnello, mi mise la mano destra dietro il collo e il Colonello
svenne: che
se ne fosse accorta o no, al Tenente non importava.
Ora giaceva
lì, svenuta, hai suoi piedi.
“Ecco,
adesso mi tocca portarla a spalla fino alla sala comando!”
Il Tenente
poté guardare con calma gli occhi che lo guardavano.
Più che
occhi, erano sicuramente i motori di una nave.
Ma da quella
posizione ben poco si poteva guardare.
I motori
occupavano tutta la vetrata.
Il Tenente,
per natura sospettoso, iniziò a pensare ai tunnel e dove
portavano.
Se quello
che avevano preso li aveva portato lì, gli altri dovevano
portare ad altre
parti della nave.
Era inutile
pensarci: senza il “flauto”, come lo chiamava il
Tenente, il Colonello non
poteva accedere agli ascensori e alla nave.
Si mise il
corpo del Colonnello sulle spalle, ma un rumore metallico attrasse la
sua
attenzione.
L’uomo si
girò e lo vide.
“Dannata
donna!”
Per terra,
un “flauto” rifletteva la luce della stanza,
illuminando i pensieri del
Tenente.
Lasciò
cadere poco garbatamente la donna per terra e raccolse
l’oggetto.
Lo controllò
con il suo.
Identico.
“Meno male!”
Pensò.
Il pensiero
che ne possedesse uno diverso lo aveva preoccupato.
No, aspetta.
Il for di
uscita del suono non era lo stesso: sembrava predisposto
perché gli venisse
inserito qualcosa d’altro.
Si chinò sulla
donna e ne controllò le tasche.
Eccolo.
Era un
pezzo, simile al flauto, un po’più piccolo, con
l’incavo per inserirlo dento al
fratello maggiore.
Il Tenente
si rialzò dal corpo inerme, e ora contuso, del Colonnello.
Pensò, il
più velocemente che poteva.
«Spegni le
luci!» Disse.
Le luci
dell’atrio si spensero, le porte dell’ascensore si
chiusero e il buio lo
avvolse.
I quattro
occhi erano ancora lì, ma una luce proveniva da dietro a
loro.
Cercò di
vedere meglio, ma la visione era bloccata da quei quattro maledetti
occhi.
Da quanto si
ricordava della nave trovata e semi distrutta, le tenui luce sembravano
venire
dalla sezione guida e comando, uno dei ponti più alti.
Aveva
provato ad andarsene, ma se la memoria le era stata fallace, sarebbe
stato un
bel problema trovare i codici per avviare la nave ed andarsene.
Per il Tenente
bastava così.
Si ricaricò
il corpo sulle spalle, si avvicinò alla porta
dell’ascensore, fuori della quale
vi era, questa volta, un pulsante con simboli e freccia, e scese per
tornare
alla sala comando.
Trascinarsi
il corpo del Colonnello lungo le scale e le botole fu un vero disastro:
anche
se atletico e allenato, il Tenente, più di una volta, fece
sbattere il corpo
della donna, che non si svegliò, neanche quando fu scaricata
su di un letto
della zona sotto la sala comando.
«Tenente…»
Una della donne scienziati aveva incominciato a parlare, che il
Maggiore la
zittì.
«Penso,
Tenente, che avrà una buona ragione per tutto
ciò!» Disse il Maggiore.
«Già. Ci
stava tradendo. E lo farà ancora, se non ricorriamo a misure
drastiche!
Dottoressa Ruon, veda se il replicatore può darle un
sonnifero per farla
dormire e tenerla buona, intanto che interroghiamo Omnia. Qualcosa di
forte!»
Il Tenente alzò gli occhi dal Colonello all’altra
donna, che sembrava
sconvolta.
La
dottoressa ebbe un tentennamento.
«Vi darò io
quello che serve!» Omnia aveva parlato senza essere
interrogato.
Dal
replicatore apparve una siringa pneumatica, con una boccetta per
più dosi.
«Fategli una
puntura. Basta per circa, dato il suo peso, dieci giorni. La seconda
dose
glielo darete un’ora dopo che si sarà
completamente svegliata e che si sarà
dimenata un po’, in modo tale che la seconda dose faccia
subito effetto. Dopo
dieci giorni si risveglierà e basterà dargli
un’altra dose dopo due ore e così
via. Ma non credo
che resterete qui per
così tanto tempo.» Disse Omnia.
Il Tenente e
tutti gli altri non risposero, più interessati a tenere
calma il Colonello e a vedere
di andarsene da quel posto.
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Capitolo 4 *** Organizzare il futuro ***
Il Colonnello era pieno
di botte,
che la dottoressa Ruon incominciò a medicare.
La puntura gli fu fatta subito e
la donna incomincio a russare, leggermente, senza pudore.
Tutti risero a quello strano
rumore emesso da un corpo così grazioso, che improvvisamente
pareva che al suo
interno ci fosse uno scaricatore di astroporto.
Per sicurezza, il Colonnello fu
incatenato, con delle manette, al letto, per impedirle di scappare e
fare altri
danni.
Tutti gli scienziati e i
militari, tranne la dottorezza che si rifiutò di lasciare la
donna in quella
maniera, salirono al piano superiore.
Il Tenente prese il comando delle
operazioni.
«Omnia, come hai capito il
Colonnello è furi uso e tu, ora, ci dirai la
verità, tutta la verità, solo la
verità. Vedi di non nasconderci niente. Allora, chi
è in realtà il Colonnello?»
Omnia tacque, meditando il da
farsi.
«Allora, Omnia! Più ci pensi,
peggio è. So per certo che quello che il Colonnello ci ha
raccontato quando
siamo arrivati era una balla, una bella storia, inutile, ma solo una
bella
storia! Sai, non vorrei dover partire da questo pianeta e lasciarti
qui, a
morire, esplodendo con il tuo caro, fedele, quasi simpatico pianeta. Se
vuoi
fare l’eroe, fai con comodo, ma i tuoi costruttori ti hanno
abbandonato e noi,
forse loro discendenti, non resteremo qui ad aspettare qui vostri
strani
nemici! Allora, dicci chi era il nostro caro Colonnello!» Il
Tenente fece
avanti e indietro sui talloni, aspettando la risposta.
«Va bene, Tenente. Ha vinto. Sì,
in effetti il Colonnello era una persona molta importante del popolo
dei miei
costruttori. Era una regina e il nome, anche se ve lo dicessi, sarebbe
per voi
incomprensibile. Era la venticinquesima regina della sua dinastia.
Dinastia che
era salita al potere dopo una cruenta guerra civile, penso che si dica
così. Le
regine erano solo donne, non chiedetemi il perché, ma la sua
dinastia aveva
deciso che solo le donne avrebbero comandato! I miei costruttori, in
realtà,
non sono tutti spariti. Qui, sul pianeta, ne sopravvivono ancora,
ibernati, sulle
navi nascoste sotto le zone in cui è diviso il pianeta! Sono
sopravvissuti per
così tanto tempo perché li ho accuditi come
figli. Sì, lo so Tenente, gli
animali. Sono biomeccanici, c’è un sistema che li
tiene in vita e li alimenta.
Non ha notato il cordone ombelicale che hanno sotto il ventre? Da
lì vengono
alimentati e manutenzionati. Sono delle vere bestie, senza limite alla
loro
furia! Il loro cervello è quello di miei costruttori
pericolosi, dei veri
assassini e, pur di vivere, si sono sottoposti a
quell’intervento! Sono circa
cinquecento, solo su questo pianeta. Ma al momento è meglio
non perdere tempo!
Le spiegazioni, alcune di esse almeno, possono aspettare! Se volete
andarvene,
bisogna che le navi siano accese e pronte alla partenza!
Darò ad ognuno di voi
un incarico sulla nave, in modo tale che riuscirete a governarle e ci
permetterà di andarcene. Il mio computer quantico
è nel sottosuolo del pianeta,
sotto alcuni kilometri. Dovete recuperarmi con tutti i computer che mi
compongono. Sono in una stanza, rimovibile, per cui non dovrebbero
esserci
problemi! Tutti gli altri vostri simili faranno lo stesso, gli
aiuterò. L’unico
problema è che alcune navi, forse troppe resteranno
qui!»
«Omnia!» La voce era di uno
scienziato giovane, magro, dinoccolato, con un viso lungo e un naso
tremendamente
aquilino. «Le navi non potrebbero essere
telecomandate?»
«Idea fenomenale, John! Certo, è
possibile!» Omnia rispose con una voce allegra e felice.
Tutti applaudirono all’idea dello
scienziato, alcuni battendogli le mani sulle spalle.
Il Tenente prese la parola.
«Allora faremo così! Omnia,
dirigi tutti quelli che sono su questo pianeta sulle navi e digli come
utilizzarle!
Noi cercheremo la tua stanza e la porteremo sulla nave con noi. Intanto
provvederemo a sviluppare un sistema per controllare da remoto le navi
che non
saranno utilizzate, in maniera da non lasciare nulla la nemico.
Porteremo via
tutto quello che possiamo, anche gli animali! Sicuramente sulle navi
posto ci
sarà, date le enormi dimensioni che hanno. Per quanto
riguarda gli ibernati,
porteremo via anche loro: se siamo riusciti a risvegliare il
Colonnello, pardon
la regina, riusciremo a risvegliare anche gli altri. Quanto tempo ci
vorrà,
Omnia, per fare tutto?»
«Tempo? Non ho idea! Forse un
mese! Lo so, non vorreste rimanere così a lungo, ma voi
siete strutture deboli
e mal manutenzionate e anche se vi facessi lavorare, tutti voi, a
turno, 24 ore
su 24, ci vorrebbero comunque più di dieci giorni e lo
stress, per voi, sarebbe
troppo alto! Non mi pare che voi siate dei tipi precisi e calmi!
Inutile
correre! Il nemico non ha basi così avanzate e quelli che ci
hanno attaccato,
stupidamente, non hanno avvisato nessun nelle loro retrovie! La loro
base più
vicina è a circa due mesi di viaggio interspaziale, per cui,
anche se si
accorgessero di quello che è successo, un po’ di
margine ne dovremmo avere!»
Il Maggiore si fece avanti.
«No, Omnia, non abbiamo tempo! Cartagena
è ormai esplosa più di due mesi fa e gli invasori
li abbiamo eliminati solo
alcuni giorni dopo! Significa che, se anche non hanno avuto notizie e
si sono
mossi in ritardo, sono sicuramente già in viaggio! Direi di
affrettarci!
Prepara, Omnia, un planning di lavoro per poter partire tutti in meno
di
quindici giorni! E se negli altri siti ci sono più persone
di noi,
distribuiscili nelle varie zone, in modo tale che ci sia sufficiente
personale
per tutte le navi e che queste vengano pronte in tempo! Mi sembra
l’unica
strada percorribile, che ne dice Tenente? E lei, Maggiore?»
I due uomini, chiamati in causa
dal Maggiore, diedero il proprio consenso all’idea
dell’uomo.
«Bene! Incominciamo!» Omnia aveva
una voce entusiasta, che coinvolse tutti i presenti.
Il Tenente sapeva che lasciare
quel pianeta era necessario, ma distruggerlo non aveva senso.
No, non si poteva lasciarlo in
mano al nemico, che poteva essere lì ad un passo, e il
lasciarlo senza quel pianeta,
quello dei costruttori, era l’unica cosa da fare.
D’altronde, i pianeti presenti
nei sistemi solari venivano distrutti, il più delle volte,
per colpa dei loro
soli morenti che esplodevano: un pianeta isolato, senza vita, distrutto
per
necessità belliche, non avrebbe cambiato molto.
Furono fatti dodici gruppi,
ognuno adibito ad una funzione primari dell’astronave:
navigazione, tiro, sicurezza,
comunicazioni, aerei, motoristi, sanitario, logistico, sala
astronomica, vettovagliamento,
radar e commando.
Le navi che erano riuscite ad
occupare e attivare erano quattordici su venti (una era stata distrutta
dal
Colonnello quando aveva raso al suolo il settore occupato dai nemici e
di cui
non aveva detto niente agli altri, ma solo ad Omnia).
Sulle rimanenti vennero fatte
delle modifiche affinché si potessero guidare senza
personale a bordo.
Il personale in esubero su una
nave fu inviato alle altri a mezzo di treni sotterranei, che
viaggiavano in
tubi sottovuoti, ove potevano raggiungere velocità di alcune
migliaia di
kilometri, senza per questo dar fastidio agli occupanti.
Il lavoro dei militari e degli
scienziati incomincio febbrilmente.
Il Colonnello giaceva, esamine,
sul letto, sorvegliata dalla dottoressa, che spesso la muoveva, in modo
tale
che non si formassero ematomi e potesse respirare regolarmente.
La dottoressa era preoccupata che
quel sistema di tenere una persona tranquilla era a dir poco
medioevale, ma non
poté fare diversamente: il Tenente aveva raccontato quello
che era successo e
la spiegazione dei fatti era bastata ai più per non fidarsi
del Colonello.
Lo stesso Omnia, pur di salvarsi
la vita, aveva deciso di collaborare, dando informazioni, a getto
continuo,
agli uomini che volevano salvarlo.
Ma il Tenente voleva dati meno
filtrati.
Incominciò con data base della
nave e di Omnia, per vedere se i dati fossero interfacciabili.
Fu talmente preso dalla ricerca,
che spesso non si ricordava di mangiare o di dormire.
Lo scienziato dinoccolato John e
il Sergente Houng lo aiutavano, cercando le notizie più
particolari, per capire
meglio le persone ibernate e il Colonnello.
Ai tre gli ci vollero cinque
giorni di duro lavoro per ricostruire la storia di quel popolo,
traducendo, con
l’ausilio del vocabolario sviluppato anni addietro dal
personale della
Pensacola, il data base della navi e di Omnia.
E già questo aveva messo in
allarme i tre: la storia racchiusa nei ventuno database era simile, ma
non
uguale. Alle volte la prospettiva dei fatti veniva cambiata, anche se,
alla
fine, messi insieme tutti i pezzi del puzzle, la storia filava via
liscia.
Era stato un popolo come tanti
altri: prima divisi in gruppi e sottogruppi, poi riunitisi in regioni,
stati,
popolazioni affini, con guerre civili che avevano insanguinato il loro
pianeta
natale, che, dai dati in loro possesso, i tre avevano posizionato verso
l’esterno
della galassia.
Poi, guerra dopo guerra, un
gruppo di popolazione molto affine ebbe il sopravvento sugli altri,
comandando,
con pugno di forza, prima una nazione, poi un’altra ed infine
il pianeta.
In quel mentre, avevano
sviluppato sistema di volo verso lo spazio occupando prima i pianeti
del loro
sistema solare, poi i pianeti di un sistema solare vicino e
così via.
Ci impiegarono secoli ad ottenere
quel risultato, in cui si erano succedute diverse dinastie di regnati,
alle
volte durate decenni, alle volte centinaia di anni.
Quella del Colonnello durava
ormai da cinquecento anni.
O almeno, alla scoperta della
nave caduta da parte della Pensacola quella era l’era della
dinastia.
Ma da allora fino a questo
momento, non vi erano state alte dinastie e il pianeta del Colonnello
non era
in alcun modo possibile darlo per esistente o distrutto.
Date su date, il Tenente e i suoi
collaboratori giunsero alla conclusione che l’espansione di
quel popolo forse
era giunto alla fine.
Non che ne fossero sicuri, ma non
si può mai dire come un popolo smette di esistere.
Ma il vero segreto era un altro.
Nel sistema informatico dedicato
alla medicina, il Tenente trovò dati alquanto equivoci:
alcuni dottori davano
per un dato di fatto che una popolazione fosse talmente evoluta
cerebralmente
che potevano spostare oggetti con la sola forza del pensiero.
Altri, con dati alla mano,
disconoscevano tale possibilità.
Ma sulla nave, ove il Tenente
stava lavorando, pareva che quella popolazione, così
particolare, si fosse
nascosta agli altri, per poter vivere in pace e non subire ricatti di
ogni
genere.
“Più che subire ricatti”
Pensò il
Tenente, “era di evitare di essere usati contro i loro
simili!”
Il Tenente sapeva bene che una
lotta tra popoli, con una così elevata
possibilità mentale, avrebbe causato
vittime più tra i comuni che tra di loro.
Il Tenente sapeva di quanto
fossero pericolosi quei dati, ma il Sergente e lo scienziato fecero
capire al
Tenente che non era solo.
«Tenente!» Iniziò il Sergente
«Ben sappiamo, io e John, dell’importanza di questi
dati e del fato che devono
essere celati a tutti! Ma alcuni di noi sono come lei! Ci siamo fatti
volontari
per questo noioso lavoro proprio per evitare di far sapere quanto
avremmo
scoperto. I nostri maestri saranno sicuramente contenti di
ciò.»
John stava per dire qualcosa, ma
il Tenente inarcò la schiena e li guardò in
tralice.
«Non una parola!» Il Tenente
quasi sillabò le parole «Non è il
momento e il luogo per certe affermazioni, e
il Generale non vuole casini! Per cui state zitti, vediamo cosa
è il caso di
fare per andarcene via di qui, poi andremo al comando dei servizi
segreti e lì decideremo!
Lo so che qui non siete i soli, ma i nostri movimentati sono
controllati da
quelli della fazione contraria ai nostri intenti e non voglio provocare
un
conflitto sulle navi, nel bel mezzo, di una battaglia da loro.
Trasmette una
comunicazione generica, con i dati più importanti. Ma niente
su l’altro. Certe
persone non sono ancora preparate a ciò e la guerra che si
preannuncia non sarà
così facile da giocare! Andate! Acqua in bocca e fate il
vostro lavoro come il
solito! Al resto ci penserò io!»
Il Sergente e John andarono in
sala comunicazioni, lasciando lì solo il Tenente.
Rilesse e rilesse quelle pagine:
non si poteva certo dire che i suoi antenati non ne abbiamo fatte di
cotte e
crude sul loro pianeta e nell’universo.
Dopo più di quattro ore, con la
fame che lo attanagliava, si avviò alla mensa.
Stava per uscire dalla sala, come
sempre enorme, ben ammobiliata, con computer avanzati, che vide, con la
coda
degli occhi, qualcuno che si nascondeva.
Non aveva capito chi era, ma non
certo uno del gruppo che era arrivato con lui al bunker.
Fece finta di aver dimentico
qualcosa, quindi ritornò indietro e inibì il
computer da l’uso di altri che non
fosse lui stesso: la sicurezza non era, in quel momento, da prendere
sottogamba.
Uscì di nuovo dalla camera, dopo
aver controllato attentamente la stanza, e se ne andò a
mangiare.
La persona era ancora là: il
Tenente rise tra sé, sfidando lo sprovveduto ad azzardarsi
ad avere
informazioni che non erano per lui.
Il tempo passava, forse troppo
velocemente per tutti coloro che stavano preparando le navi a partire.
La nave assomigliava molto a
quella trovata dalla Pensacola.
Era di forma ovale, lunga
cinquecento kilometri, larga duecentocinquanta e alta trenta.
La coda era tronca e un enorme
parallelepipedo, che conteneva i motori principali, faceva mostra di
se, tutto
nero lì in fondo.
I quattro occhi, che non erano
altro che gli ugelli di scarico dei motori spaziali, che tanto avevano
impressionato il Tenente.
La nave superava la velocità
della luce, con valori di velocità superiori a quella della
navi sviluppate dai
terresti.
Sopra e sotto il patto che
formava la nave vi erano varie protuberanze.
La sala comando principale era
proprio sopra l’inizio del parallelepipedo contenente i
motori, mentre un’altra
sala comando era sul muso della nave.
La prima sala comando era di
forma anche lei ovale, larga cinquecento metri e lunga altrettanto,
alta più di
dieci metri.
Agli scienziati tutta quella
enormità sembrava inutile.
Ma passeggiando per la nave,
utilizzando i treni ad alta velocità, il perché
venne subito scoperto.
A parte gli animali, che in
realtà avevano bisogno di uno spazio molto più
grande di quello che avevano sul
pianeta (per loro una zona di venti kilometri per venti alto cento
metri era
appena sufficiente), e le zone dedicate all’ibernazione, con
tutti i sistemi di
sopravvivenza per circa diecimila persone, le armi in dotazione alla
singola
nave erano molte, alcune enormi.
I cannoni a ioni erano su
torrette abbinati a due, tre o quattro cannoni.
I cannoni a faser e i laser erano
singoli o abbinati su torrette sino a sei pezzi.
Missili e altri armi a razzo, con
qualsiasi tipo di razzo vettore, erano dislocate lungo le fiancate ed
erano
contenuti in vari cassoni fissi o su torrette.
In una zona centrale della nave,
vi erano dei robot di varie altezze, dai venti ai cento metri: quelli
più
piccoli erano certamente più manovrabili dei più
grandi, che richiedevano anche
più persone per il loro uso.
In un’altra zona della nave,
poste verso l’esterno, vi erano degli aerei che potevano
essere trasformati in
robot.
Il numero di robot, aerei ed armi
di offesa e di difesa, su una nave così enorme, era
impressionante.
Il Maggiore Griffon li guardava
stupito, con la bocca aperta.
Il Comandante Frazen, invece, era
preoccupato.
Ma i due, non comprendendo il
perché della reazione dell’altro, decisero di
ignorarsi, ognuno occupato nelle
sue mansioni.
Gli scienziati si sistemarono in
appartamenti, molto ben ammobiliati, vicino alla zona della prima sala
comando.
I militari si sparsero per la
nave, in zone con sale comando più piccole della prima, ma
molte assomiglianti
a quella trovata sul pianeta.
Quando tutto fu pronto per
partire, si fece largo, tra tutti, il problema del comando.
Se le singole navi potevano
essere comandate dal più alto in grado dei militari, la
flotta che si sarebbe
costituita doveva avere un comandate che organizzasse le operazioni
nello
spazio.
La discussione, prettamente
filosofica, su chi doveva comandare, era quasi inutile.
A parte il Colonnello, l’altro
più alto di grado era il Tenente Colonnello Krojng, che era
sulla nave della
base D.
Il Tenente Closser si fece da
parte, subito, visto che il suo intento non era combattere il nemico,
ma
raccogliere dati e informazioni.
Il Maggiore e il Comandante non
vollero saperne: troppe navi, magari anche in uno spazio ristretto di
quella
zona della galassia, ove sistemi solari e stelle si attiravano e si
lasciavano
pericolosamente ogni secondo, poteva causare danni irreparabili alle
navi e non
volevano prendersi responsabili per cui non erano stati preparati.
Così il Tenente Colonnello prese
il comando, quasi con un colpo di stato.
I militari della zona B se la
risono, silenziosamente: correvano strane voci sul Tenente Colonnello,
del tipo
che la base Cartagena era arrivata a fatica lì per colpa sua
e del suo modo
pignolo di leggere i regolamenti militari.
Il Tenente, dopo quella riunione,
in cui il Tenente Colonnello specificò gli orari di partenza
di ogni singola
nave (con relativa animata discussione perché aveva
invertito le partenza della
navi, con il relativo rischio che queste si scontrassero), se ne
andò nella
stanza dove avevano messo il Colonnello.
L’effetto della seconda puntura
di tranquillante stava cessano e lei incominciava a svegliarsi,
prendendo
coscienza di dove si trovava.
Il Tenente le tolse le manette e
la dottoressa la aiutò a sedersi sul letto.
Il viso del Colonnello, dopo
tanto dormire, era sicuramente più rilassato dei presenti.
Ma il suo sguardo, tremendo, di
regina destituita contro la sua volontà, guardava i suoi
presunti carcerieri.
«Se si calma e ragionerà sulla
sua situazione, non la ammanetterò più al letto e
non le daremo più il
sonnifero, regina!» Il Tenente usò una voce molto
mielosa, per cercare di
convincere la regina a collaborare.
La regina lo guardò: era un suo
discendente, uno della sua razza, che col tempo aveva perso la
sudditanza nei
suoi confronti e dei suoi simili.
E allora perché l’aveva lasciata
in vita?
Lei aveva le risposte al suo
passato, ma non aveva domande per il suo futuro e quello degli ibernati.
«Ci lasci soli, dottorezza, per
favore?»
La dottoressa uscì, controvoglia:
non si fidava a lasciare quei due soli.
Quando la dottoressa chiuse la
porta dietro di sé, il Tenente si sedette di fronte alla
corrucciata regina.
«Stiamo partendo. Lasceremo
questo pianeta e lo faremo esplodere. Lei e i suoi amici sarete per un
po’
nostri ospiti, e poi vi troveremo un pianeta dove abitare. Ovviamente,
se la
cosa non la disturba. O forse, vorrebbe che noi, i suoi eredi, ci
sottomettessimo a lei? Perché lei sa bene che noi siamo i
suoi eredi e che
discendiamo da quella parte di popolazione che lasciò il
vostro pianeta perché
in contrasto con voi. Ma di quella parte di popolazione, sa,
c’erano anche gli
“innominabili”. È un bel
rischio!»
Il Tenente di alzò e si diresse
verso il vetro che dava su una zona interna della nave, dove un bel
giardino
faceva bella mostra di se, dando le spalle alla regina, il cui volto si
rifletteva sul vetro.
Il Tenente sospirò e riprese a
parlare.
«Il Generale non vuole storie, ne
problemi con voi. Se siete di sposti ad aiutarci nella lotta contro i
vostri
ancestrali nemici, saremo ben contenti. Se no, ci
arrangeremo.»
Il Tenente si girò e guardò la
donna.
«Il vostro futuro siamo noi! E
non creda che non sappiamo di quella vostra strana religione, come a
qualcuno di
voi piaceva chiamarla! Vorremmo che ce la insegnaste. Ovviamente a un
personale
selezionato, ben preparato ed afferrato sulla questione. Anche se noi
abbiamo
la nostra strana religione!»
Il Tenente mise la mano destra in
tasca e tirò fuori una astina, lunga circa quaranta
centimetri, con un manico
intarsiato, fatta di materiale vegetale, con una punta rinforzata in
metallo.
«Noi la chiamiamo bacchetta e, a
seconda se sono uomini o donne a usarla, maghi o streghe, nel termine
buono del
termine, ovviamente!»
Il Tenente, così dicendo, con tre
dita, pollice, medio e indice, mosse leggermente la bacchetta, senza
dir
niente, e la sedia del Colonnello si alzò di poco dal
pavimento.
Il Colonnello, all’inizio, parve
stupito, ma si riprese subito: l’evoluzione era stata enorme.
Il Tenente posò a terra la sedia,
si avvicinò al tavolo, si sedette e
riprese a parlare.
«Pochi sanno qualcosa di noi. Ma
questa è, al momento, una lunga storia. Ci sarà
del tempo per parlarne. Che ne
dice, Regina? Abbiamo un piccolo accordo?»
Le ultime frasi del Tenente
furono enunciate mentre si sporgeva verso la Regina,come se
l’uomo parlasse ad
un amante, dolcemente, quasi sussurrate.
Il Colonnello, già nel sentire
che il status di Regina era stata riaffermato, anche se solo da quel
uomo, fece
cenno di sì con la testa.
Gli occhi dei due parlarono per
loro.
Ora una sarebbe ritornata ad
essere Regina, l’altro avrebbe conosciuto un segreto che da
anni i suoi
cercavano.
Un accordo sicuramente fragile, i
due lo sapevano, ma sarebbe bastato ai loro simili di tornare in auge e
ritrovare un nuovo futuro.
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Capitolo 5 *** Un pianeta non è per sempre ***
Le navi vennero
preparate.
Gli uomini e donne, tra civili e
militari, che si erano salvati da Cartagena, erano circa diecimila e
furono ben
distribuiti sulla navi.
I preparativi si avvicinavano
alla fine, le navi incominciarono a scaldare i motori e tutti erano
eccitati
dall’evento, specialmente gli scienziati.
Ma le navi dovevano uscire da
dove erano nascoste e tutti quei movimenti tellurici avrebbero messo in
allarme
tutti.
Mentre i preparativi fremevano,
uno degli addetti alle telecomunicazioni, sulla nave posta nella zona
D, nello
scrutare il cielo per verificare che lo spazio esterno fosse libero,
notò il
movimento di vari corpi, metallici, di forma circolare e di piccole
dimensioni,
posizionate su diverse orbite, alcune polari altri equatoriali, con
varie
inclinazioni, che passavano a intervalli regolari.
Il movimento di quegli oggetti
era tropo regolare per essere casuale, anche se, chi aveva messo in
orbita gli
oggetti, aveva fatto di tutto perché tale movimento
sembrasse tutt’altro che
voluta.
Tutte le navi furono avvisate e sulla
nave della Regina incominciarono a preoccuparsi.
«Cosa pensate, Colonnello?»
Il Tenente rivolse la domanda
alla donna nella sala comando sopra i motori, con tutto il gruppo
comando che
la guardò.
«Sono loro. È la loro
avanguardia. Se li distruggete sapranno che siamo qui. Anche se,
comunque, lo
pensano. Ogni quanto passano?» Il Colonnello
guardò il Sergente Hougan, che si
sentiva fuori posto.
«Li hanno ben distribuiti. C’è un
buco di un’ora, solo un’ora. Lì possiamo
partire e scappare. Ma la cosa dovrà
essere ben coordinata. E non mi pare che qualcuno possa organizzare
questa cosa
in modo…» Hougan titubò, sul finire
della frase.
«Ce la faremo! Tutti! Preparatevi!
A quando il prossimo buco?» La voce del Colonnello era ferma.
Hougan guardò l’orologio della
nave, posto sopra la vetrata principale.
«Due ore al prossimo buco! Ma l’altro
ci sarà solo fra …»
«Per noi due ore! Per gli altri?»
Il Colonnello squadrò il Sergente.
«Ogni trenta quaranta minuti, a
seconda della posizione della nave.» Il Sergente
abbassò la testa: non spettava
a lei decidere.
Il Colonnello incrociò le braccia
e guardò fuori dalle vetrata, con lo sguardo perso nel nulla.
«Chiamatemi il Tenente
Colonnello!»
Il Colonnello si avvicinò alla
postazione radio e il Tenente Colonnello gli apparve sui monitor.
«Colonnello!» Disse l’uomo, facendo
con un piccolo inchino.
«Avete tutte le informazioni,
Tenente Colonello. Siete pronto?»
«Signore, è rischioso. Io
Aspetterei…»
«Tenente Colonnello, siete solo
capace di inventare scuse, di aspettare, di ritardare! Siete un uomo
inutile! Prendete
una decisione subito, o chi vorrà seguirmi verrà
via con me e voi e chi rimarrà
su questo pianeta aspetterà secoli! Tra un’ora e
cinquanta minuti noi ce ne
andiamo! Maggiore G… contattate tutte le navi! Chi
è pronto a seguirci, si
prepari, gli daremo i tempi per partire! Quelli che preferiscono
seguire il
Tenente Colonnello possono rimanere e morire!» Le ultime
parole furono dette
dal Colonnello in modo astioso e acido verso il Tenente Colonnello,
guardando la
sua immagine sul monitor, dritto negli occhi.
Il Tenente Colonnello abbassò la
testa e il comando passo in mano al Colonnello.
“Bene! Comando ancora io!” Penso
il Colonnello.
I comandi alle altre navi furono
dati in tempi brevissimi e allo scadere dell’ora prevista la
nave del
Colonnello partì, seguita subito dalla nave telecomandata
dei settori A e C.
Appena furono nello spazio, il
Colonnello prese per un braccio il Tenente Closser e lo
trascinò lontano da
tutti.
«Ora, Tenente, il nostro accordo
è una realtà! E ben sapete cosa vuol dire!
Quindi, dopo che le navi saranno in
salvo, dovremo discutere approffonditamente della cosa!»
Mentre parlava, il
Colonnello guardava in giro con fare sospetto.
«Non vi preoccupate! Non sono il
solo qui su questa nave! Ma non vi dirò chi è,
per la sua incolumità! Non è
forte come me e voi avete un tremendo segreto! Ma credo di aver capito
cos’è e
dov’è! E non pensate di farmela sotto il naso. Vi
controllo e mi darete quello
che voglio. In un modo o nell’altro, capito?»
Il Tenente vide il Colonnello
guardarlo in modo spaventato.
Non poteva, il Tenente, aver
capito!
Non poteva, cosa l’aveva tradita!
Forse i suoi poteri erano più
sviluppati di quanto gli aveva fatto vedere o aveva sviluppato una
tecnica di lettura
dei movimenti del corpo da portarlo a vedere ciò che per gli
altri era impercettibile?
Eppure era stata attenta, aveva
usato tutte quelle tecniche che negli anni gli erano stati insegnati!
No, non era possibile!
Sì, poteva essere solo così! Il
traditore doveva per forza essere il loro fondatore! Maledetto!
Le altri navi si congiunsero
nello spazio con la nave del Colonnello e partirono verso un pianeta
sicuro.
Il pianeta appena abbandonato su
attaccato dai nemici solo dopo alcune ore, trovandolo disabitato e
vuoto.
Un parte del computer che formava
Omnia, lasciato sul pianeta, dopo che i nemici si erano impossessati
dei siti
abbandonati, innesco una reazione a catena nei reattori nucleari che
avevano
per secoli alimentato i macchinari.
L’esplosione convolse tutto il
pianeta, che esplose, rilasciando una luce visibili nello spazio e
detriti, che
si dispersero, venendo poi attratti dal sole rosso che lo aveva fino ad
allora
illuminato.
Il Colonnello, per la prima
volta, da Regina, una lacrima le solcò il viso.
Il suo pianeta aveva finito di
vivere.
La culla della sua civiltà era
stato distrutto!
Ora gli serviva un altro pianeta.
Ma ne era così sicura?
Si asciugò quella singola lacrima
e meditò.
Aveva dei discendenti, aveva
degli eredi: perché arrabattarsi a cercare un altro pianeta,
se poteva
comandare… no, meglio, insegnare o forse ispirare una
civiltà ad evolversi
ancora di più!
Perché accontentarsi quando si
poteva andare oltre!
Ma oltre dove?
Doveva prima scoprire chi comandava
i suoi acerrimi nemici con l’ausilio dei suoi nuovi alleati!
E poi c’era ancora quella ricerca
delle origini lasciata, finita nel nulla, ma che lei voleva se si
facesse a
tutti i costi!
Mentre la luce, che aveva illuminato
la fine del suo pianeta, si affievoliva, capì la
realtà!
Non era importante un pianeta,
che non poteva durare per sempre: era importante ciò che
quel pianeta aveva
creato e sviluppato!
Pose la mano sinistra sul
monitor, come per salutare un vecchio amico, mentre con la destra si
stringeva
il petto.
«Addio, amico mio» Furono le sue
parole.
Poi guardò gli altri e, come suo
solito, diede gli ordini, ben precisi, per andare verso le coordinate
previsto.
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Capitolo 6 *** Incontri ***
Chi avesse visto quelle due
persone incontrarsi, si sarebbe fatto un’idea errata su di
loro.
Uno era alto, muscolo, mascella
quadrata, un vero atleta.
L’altro era piccolo, quasi
stempiato, portava occhiali circolari e folti baffetti.
Uno era il presidente della
confederazione dei pianeti interstellari, l’altro era il
generale dei servizi
segreti militari.
Il più alto guardò l’uomo
più
basso con rispetto.
«Generale. È un vero piacere
rivederla!» L’enorme mano dell’uomo si
abbasso a stringere la mano di quello
piccolo, quando questi gliela porse.
«Signor Presidente, la cosa è
reciproca!»
Il Presidente era uno che si era
fatto da sé.
Aveva vissuto sulla Terra, in un
sobborgo di una mega città chiamata Los Francisco. Era
prospicente l’oceano
chiamato pacifico.
Aveva vissuto lottando contro i
bulli del quartiere, anche se, così grande, era considerato
un tontolone.
Un tontolone geniale: a scacchi
era invincibile, i computer quantici non avevano segreti, ma non voleva
diventare un militare.
Non aveva soldi per studiare, ma
la sua intelligenza lo aiutò, consentendoli di vincere una
borsa di studio per
una università di economia: ciò gli permise di
studiare e poi di far soldi.
Era un eccellente economista e si
interessava sempre più di economia spaziale.
Poi era entrato in politica, un
po’ per noi un po’ per riscatto verso chi lo aveva
maltrattato.
Diventare Presidente non fu
facile: era più di un punto di arrivo per molti, ma per lui
voleva che fosse un
punto di partenza.
Voleva che i pianeti occupati dai
terrestri o con cui avevano contatti politici ed economici di unissero,
si
aiutassero e si sostenessero a vicenda: era l’unico modo di
prendere possesso
di tutto quello spazio enorme che circondava la sua civiltà.
Riuscì nell’intento, finendo il
lavoro iniziato faticosamente da altri, senza prendersene il merito.
Il Generale non poteva essere più
simile a lui, nel suo passato, fino però
all’università.
Lui voleva fare il militare per
riscattarsi e le sue doti di curiosone e di uomo intrigante lo
aiutarono molto.
Fu reclutato dai servizi segreti
quando ancora andava all’università, su un pianeta
civilizzato dai terrestri.
Finì l’università e
incominciò
l’addestramento.
Il pianeta usato dai servizi
segreti per l’addestramento del personale operativo era in
uno stato completo
di abbandono.
Quando faceva il corso di
sopravvivenza, ben pochi si salvavano.
E non era da dire che chi si era
salvato su quel pianeta si sarebbe salvato su di un altro.
Ma lui aveva imparato che la
conoscenza dei segreti pone l’uomo sopra tutti, anche se gli
altri non
vogliono.
Per lui il corso di sopravvivenza
fu una passeggiata: sapeva sempre in anticipo quando sarebbe stato
abbandonato
in mezzo al nulla, dove e cosa c’era nelle vicinanze.
Qualsiasi tentativo dei suoi
istruttori di metterlo in difficoltà fu per lui solo un
passeggiata.
Non capirono mai come faceva, ma
ogni volta arrivava al campo base senza un graffio, senza problemi, con
una
scorta di cibo da far invidia ad un coltivatore di vegetali.
L’acqua, che su quel pianeta, in
alcune zone, scarseggiava, per non dire che mancava, sembrava che gli
corresse
incontro.
Dopo due anni di queste prese in
giro, i suoi istruttori decisero di dare a lui e a quelli del corso un
esempio
della realtà.
Lo inviarono su un pianeta, base
di pirati spaziali, a raccogliere informazioni sui loro movimenti e sui
prossimi attacchi che avrebbero fatto.
Nel giro di un mese le
informazioni che giungevano dal pianeta permisero ai militari di
ridurre
notevolmente le perdite di navi in quella zona e di stroncare il
commercio
illecito che si faceva.
Ma come potesse mandare notizie
senza essere scoperto fu impossibile da sapere.
E lui tornò, vittorioso, alla
base.
Il suo segreto era nel suo
aspetto.
Così com’era fatto, piccolo,
quasi pelato, con gli occhiali, non veniva preso in considerazione da
nessuno,
anzi lo consideravano un fantasma, uno che non esisteva e, spesso, di
fronte a
lui parlavano di cose che non dovevano essere sentite da nessuno.
E lui, sapendolo, si comportava
di conseguenza.
Non gli interessava molto se
nessuno lo considerava.
Ma questo gli permise di scalare
il comando dei servizi segreti, fino ad arrivare al loro comando.
Ora i due uomini, con passati
così diversi, dovevano unire le loro forze per avere un
futuro comune.
Il pianeta che avevano deciso di
usare per il loro incontro era molto vicino ad un sole rosso, che
disturbava le
trasmissione radio ed era, pertanto, impossibile intercettare o
ascoltare
quanto si fossero detto.
I due si incontrarono nell’hangar
ove venivano posteggiate le navicelle spaziali, parecchi chilometri
sotto
terra, per poter resistere alla calura della superficie.
Si diressero verso una porta di
acciaio, dietro a cui vi era un corridoio e parecchie stanze.
Entrarono nella prima che
trovarono aperta.
Dentro l’aria climatizzata
mitigava il caldo del pianeta.
I due si sedettero dietro ad un
tavolo circolare, uno di fronte all’altro.
Il Presidente prese per primo la
parola.
«Quindi, Generale, a che punto
siamo?»
«Meglio di ogni più rosea
previsione, Presidente. Il nostro piano ci ha permesso di scoprire
più navi di
quanti pensassimo che esistessero. Sappiamo di almeno venti navi
partite dal
pianeta ove è stata distrutta la base spaziale Cartagena. Di
certo
quell’operazione, Presidente, ci è costata
parecchio, in termine di soldi e di
uomini, ma il risultato mi sembra più che
soddisfacente.»
Il Presidente alzò la mano destra
è fermo il discorso del Generale, iniziando a parlare.
«Lo so cosa ci è costata quella
operazione e so quali saranno i frutti, ma il lavoro non è
ancora terminato. La
sa meglio di me che se la Regina e il Tenente Closser dovessero
stringere un
accordo, ognuno per la sua fazione, noi saremmo in minoranza, con grave
rischio
per la nostra civiltà. Una evoluzione ulteriore, anche se
non tecnologica,
della nostra civiltà porterà per forza ad uno
sconvolgimento di tutto
l’apparato burocratico non indifferente! Di tutto questo, lei
cosa mi dice?»
«Le posso assicurare, Presidente,
che qualsiasi accordo tra la Regina e il Tenente sarà a
nostro favore!»
«Ah!» Disse il Presidente.
«Già. Il Tenente fa parte di una
fazione che ritiene che loro e noi dovremmo condividere tutto, anche
quella
cosa, in modo tale che una uniformità tra i due popoli porti
la nostra civiltà
molto lontana! E il Tenente è anche molto interessato a
quella strana
religione, che egli ritiene necessaria per poter sviluppare una
migliore
comprensione tra i popoli che occupano la galassia, come difensori
della
democrazia. Lei sa, Presidente, come una certa parte di nostri
burocrati, e
varie corti reali, vorrebbero l’istituzione di una monarchia
planetaria,
sottomettendo i popoli meno evoluti e sviluppando una strategia
galattica di
potere assoluto, di cui spesso abbiamo parlato, e che porterebbe al
disastro
che la Regina provocò nei secoli addietro. No, penso che il
problema non sussista!
Sussiste, invece, il problema dei nemici ancestrali della Regina! Pare
che lì
il Tenente abbia sviluppato una certa ipotesi, che deve essere ancora
confermata da altre fonti, ma che mi consente, al momento, di dire che
ha la
possibilità di uno sviluppo
nell’immediato!»
«Vuol dire, Generale, che quanto
da voi supposto nella riunione di un anno fa è molto
probabilmente la cosa più
vicino alla realtà…»
«No, Presidente, non la più
vicina! È la sola reale! Perché accanirsi contro
un popolo se non per vendicarsi
del male subito? E perché non usare un popolo belligerante,
dandogli le armi
giuste per combattere, anche se non sviluppate da loro? No, Presidente,
quella
è l’unica ipotesi possibili. E il Tenente ha
trovato le prove di tale misfatto.
Il suo arrivo è previsto a giorni e potrò
chiarire con lui quanto da lui
scoperto. La nostra riunione, al momento, è stato un azzardo
da parte vostra,
Presidente. Qualcuno potrebbe pensare che …»
«Voglio che lo pensi, Generale!
Troppe voci, troppi bisbigli, sia da noi che da voi che sui pianeti
ostili!
Troppi silenzi ignorati che fanno paura! Non pretendo che si agisca
subito, ma
che si intervenga velocemente, per metterli a tacere e trovare una
soluzione
definitiva, Generale. Lo so che non è la sua usuale
procedura, ma ormai non si
può più attendere! La verità
è che il nostro futuro, ora, dipende da troppa
gente! Troppa, Generale, per non potermi preoccupare! Non penso ad un
colpo di
stato! Ma se le conoscenze della Regina fossero fuse con alcuni
personaggi dei
… maghi, il risultato sarebbe tremendo! Non li conterremmo
più e alcuni pianeti
potrebbero subire gravi disgrazie! Ci hanno già provato, ma
erano in pochi e li
abbiamo contenuti! In un pianeta li abbiamo dovuti annientare,
tirandoci dietro
la loro ira! Io stesso, spesso, sono sotto attacco e non sono al
sicuro, anche
se lei e il Tenente mi ha trovato una scorta più che
efficiente! Ma bisogna far
smettere tutto ciò! Di quanto tempo ha esattamente
bisogno?»
«Da una prima previsione, dopo
una consultazione dei nostri più evoluti
consulenti… direi forse un anno…»
«Non ho tutto quel tempo,
Generale!» Il Presidente si alzò di colpo dalla
sedia, picchiando i pugni sul
tavolo. «Mi dispiace Generale, ma ha meno di tre mesi, dopo
di che, Tenente o
Regina, dovrò trovare una via che non piacerà!
Sempre ammesso e non concesso le
sue informazioni sui nemici siano reali.»
«Presidente, sta esagerando!
Nessuno si azzarderà a farle niente, non in questo
momento...»
«Proprio questo momento era
quello che loro aspettavano! Le informazioni uscite dal vostro comando,
per
mano di quelli, mi ha già provocato molte brutali
discussioni con certe
persone, e lei sa di chi sto parlando! Qualcuno si è anche
permesso di fare
velate minacce. Ora, Generale, le mie informazioni dicono che entro sei
mesi un
colpo di mano è probabile, entro nove mesi possibile ed
entro un anno sicuro!
Pertanto si decida, da che parte sta?»
Il Generale, ogni volta che il
Presidente, in una qualsiasi riunione, si alzava sormontandolo, lo
spaventava e
incominciava a sudare, e il Presidente lo sapeva bene.
Ma questa volta il Generale lo
guardò da sopra gli occhiali e disse parole di fuoco.
«Per salvarla ho personalmente
ucciso più di una persona, alcune molte vicine a lei! Ho
dovuto! O loro a lei!
Queste mie mane sono lorde di sangue dei suoi nemici! Se pensa che non
farei di
tutto per interrompere questa serie di eventi, lei sbaglia! Al momento
non è
possibile far altro! Li abbiamo fermati e un tempo necessario per
vedere cosa
fanno è necessario! La Regina, quando arriverà,
saprà già a chi rivolgersi! La
fazione contraria al Tenente ha già piazzato uomini sulla
nave! Il Tenete deve
prima scoprire chi sono e, se possibile, solo se possibile, li
eliminerà! Ma
non può agire così in fretta. Già le
navi stanno andando ad una velocità
inferiore a quella che possono viaggiare, per prendere tempo!
Più di così non
si può fare! Ci scopriranno! Se la questione scorta la
preoccupa, troveremo
altri per affiancare quelli che già ha al suo fianco, ma
è necessario fare ciò.
Necessario, Presidente. Dovrà dormire ancora per un
po’ fuori dalla Terra e
muoversi con le navi spaziali che le sono state messe a disposizione.
Se
proprio non di fida, faccia un giro ai bordi della galassia, dalla
parte
opposta dei nemici. Per trovarla dovranno fare un bel viaggio, o
aspettare che
lei torni. E non si preoccupi, il vicepresidente non
permetterà un colpo di
mano! Ci tiene troppo alle sue donne e farà di tutto per
salvarle!»
«Sì, buono quello! Ma se ne
cambia una ogni mese, di un pianeta diverso! … Va bene,
facciamo come dice lei!
Ma voglio essere informato quotidianamente! Ha capito?»
«Sarà fatto, Signor Presidente!»
Il Presidente di lasciò sfuggire
un sorriso ed uscì dalla stanza, senza proferire parola.
Dopo un attimo una donna, che
indossava una uniforma militare, con una camicia bianca, giacca blu con
applicate parecchie onorificenza, gomma blu sopra il ginocchio e scarpe
con un
tacco basso, entrò.
Aveva dei lineamenti dolci e
molto sensuali, can capelli nero corvino, viso ovale, occhi grandi di
color marrone,
un naso alla francese e una bocca larga con labbra carnose: un trucco
molto
leggero incorniciava il suo volto e un rossetto rosa ricopriva le sue
labbra.
«Non è andata bene, Generale?»
Il Generale era distratto,
pensieroso, e rispose in modo distratto.
«Non ce la faremo mai! Se non
posso muovermi, se non ho informazioni, il Presidente è
spacciato!»
«Non dica così, Generale!» La
donna si era abbassata e accarezzava la pelata del Generale.
«Le informazioni
del Presidente sono errate. Gli hanno anticipato tutto di almeno sei
mesi, per
metterlo sotto pressione. Ho saputo da alcune ancelle che prima di un
anno non
si muoveranno. Non hanno i mezzi. Più che altro non hanno
uomini. Possono
occupare forse la Terra e qualche pianeta del sistema solare, forse
altri due
sistemi solari, ma più in là non possono andare.
Per me, possiamo anche
aspettare un po’ di più del previsto.»
Il Generale aveva ascoltato
attentamente quanto la sua sottoposta gli aveva detto.
Qualcosa non quadrava, ed era
meglio porre un limite a ciò.
Diede un colpo secco alla
carotide della ragazza, che si portò le mani alla gola,
trasecolando e
guardando il Generale cercando di capire il perché di quella
mossa.
La ragazza morì in poco tempo.
Il Generale si alzò dalla sedia,
gli diede un calcio per vedere se era realmente morta, e
uscì dalla stanza.
Fuori il suo aiutante lo
aspettava.
«Ancelle? Fai spari il corpo e
trovamene un’altra più affidabile. Questa parlava
troppo!»
L’aiutate lo guardò stupefatto,
ma eseguì l’ordine senza parlare.
La lettera che fu inviata ai
genitori della ragazza, scritta di suo pugno dal Generale, parlava di
una sua
improvvisa morte sopravvenuta durante una missione delle massima
sicurezza per
la galassia. I genitori ricevettero un’urna con le ceneri
delle ragazza, ammesso
e non consesso che quelle fossero realmente le sue ceneri.
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Capitolo 7 *** Uno, cento, mille soli ***
La galassia.
Un universo, circondato da altri
universi, con al suo interno altri universi.
La galassia, chiamata Via Lattea,
in cui la Terra giaceva sonnecchiante nel sistema solare, girando come
una
trottola intorno al Sole, insieme agli altri pianeti, alle meteoriti,
alle comete
e ad altri pezzi di rocce, era tenuta insieme da un enorme buco nero,
posto al
suo centro, con le forze gravitazionali che attiravano e allontanavano
tutto
ciò che lo circondava, come fa l’amore con gli
innamorati, che si prendono e si
lasciano a secondo del sali e scendi del loro umore.
Ma di certo l’Imperatore non era
uno di quelli.
Per lui l’amore non esisteva.
Aveva sì sposato donne, aveva
avuto figli e figlie, aveva concubine e amanti in tutta quella parte
della
galassia da lui comandata con pugno di ferro, come fa un padrone con il
suo
gregge di pecore.
E per curare il gregge di pecore,
affinché nessuno gliele rubasse, aveva spie in tutto quel
braccio della
galassia, come cani famelici che si scagliano contro tutti i lupi,
coyote e
altri carnivori che osano solo avvicinarsi.
Era il suo giorno libero, in cui
nessuno lo avrebbe disturbato.
Si era lasciato mollemente andare
su un lettino, sotto l’ombra di un enorme ombrellone, mentre
il sole, caldo,
rischiarava il suo meraviglioso giardino e la sua bella piscina.
Ancelle di tutte le razze, forme,
altezza gli prestano tutte le attenzioni possibili.
L’uomo era di altezza media, con
un po’ di pancetta, data l’età, un
fisico non troppo atletico, con un vico
ovale, occhi piccoli, quasi infossati, zigomi alti, un naso strano (a
molti
ricordava il trampolino per il salto degli sci), una bocca piccola e
labbra
poco carnose.
Nudo, lì sul lettino, circondato
da ancelle, anch’esse nude, dava proprio l’idea del
potere assoluto che lui
aveva sui suoi sudditi.
O almeno, questa era l’idea.
Ma uno dei suoi figli, Ghujo, non
era sempre della stessa idea.
Era uno dei figli mediani, poco
appariscente, nato da una moglie costretta dai suoi parenti a sposare
l’Imperatore, per evitare un campo di concentramento, uno dei
tanti.
Si occupava di cose di poca
importanza, almeno così l’Imperatore pensava,
avendolo rilegato ad un servizio
di poca importanza, logistica, forse.
Le ancelle lo videro arrivare,
dal fondo del giardino, verso il fondo della piscina.
L’Imperatore sbuffo, annoiato.
«Mi sono dimenticato io o oggi è
il mio giorno in cui nessuno mi deve disturbare?»
La voce dell’Imperatore era
imperiosa e forte e le ancelle scapparono, alcune tuffandosi nella
piscine,
altre nascondendosi dietro agli alberi.
Ghujo non gli importava molto di
suo padre, anzi non lo aveva mai preso in considerazione come un vero
pericolo
per la sua vita.
«Caro padre, vedo che sei del tuo
solito buon umore! Forse le ancelle non sono più sufficiente
per i tuoi privati
trastulli?»
Ghujo aveva sentito della voci
per cui il padre aveva iniziato ad amoreggiare con ragazzi giovani, in
modo
promiscuo, o con altri che avevano sembianza femminili.
«Non sarei mai venuto da te senza
un buon motivo, in un giorno come questo!»
Ghujo si avvicinò al padre, che
si era messo seduto sul lettino e si era coperto con un accappatoio
color
malva.
«Cosa vuoi saperne tu di buoni
motivi! Non vieni mai a palazzo, neanche quando sei invitato! E mi
appari qui
oggi. Senza che le guardie ti abbiano fermato! Le farò
frustare a sangue!»
La voce dell’Imperatore era al
limite della furia.
«Padre, padre! Certo, non vengo a
palazzo quando mi inviti, ma sai com’è: di te non
ci si può fidare. Alcuni tuoi
figli sono morti senza spiegazioni e non vorrei essere il prossimo. Mia
madre
mi informa dei tuoi alti e bassi, delle tue sfuriate. Se ci fai caso,
è
parecchio che lei si nasconde alla tua vista, nelle stanze delle tue
moglie fidate!
No, padre, è meglio stare lontano da te! Ma, vedi, certe
notizie passano per
certi canali a te, purtroppo sconosciuti, pur avendo tu il controllo di
tutto.
O, almeno, è questo quello che tu credi. (e qui il volto
dell’Imperatore si
scurì). Oh, vedo che ti è scappato qualcosa! Bene
bene. Ma non te ne voglio
fare una colpa. Era solo passato ad avvisarti che una certa persona,
sai quella
militare dei servizi segreti del Presidente della Terra, è
morta. Ai suoi
genitori è arrivata una lettera e un’urna con
dentro le ceneri della figlia,
forse. La cenere è cenere ed è difficile da
capire se è cenere di legno, di
animale o di altro. Secondo me non è morta, e solo in coma,
in qualche
misterioso ospedale del Generale. Ma dai tuoi spioni non lo saprai mai.
Non
perché non lo sanno, ma perché non te lo vogliono
dire. Ha paura che il tuo
impero stia passando un momento difficile, senza parlare della tua
dinastia.
Tanta fatica a conquistare quella donna e il Generale (e qui Ghujo
schioccò le
dita) l’ha sistemata per sempre! Brutto colpo, padre mio. Ci
farei un
pensierino su quanto ti conviene tenere ancora certi imbranati ai
servizi
segreti!»
«Eh bravo il mio ragazzo!» Disse
l’Imperatore.
Ghujo era rimasto in piedi, sotto
il sole, con gli occhiali scuri inforcati, guardando
dall’alto verso il basso
il padre.
L’Imperatore ebbe un fremito
nella schiena, il primo dopo anni.
Che il figlio più scellerato che
aveva messo al mondo lo aveva trovato nudo, in tutti i termini, non gli
piaceva.
Ci mise un po’ a riflettere sula questione.
Si alzò dal lettino, indosso
l’accappatoio, prese un paio di occhiali scuri da una
tavolino, lì indosso e si
mise sotto il sole con il figlio, più piccolo di lui di una
testa, ma con il
suo stesso fisico.
Ghujo si mise a distanza di
sicurezza: non aveva nessuna intenzione di lottare con il padre. La sua
mano
sinistra finì nella tasca dei pantaloni, pronta ad estrarre
la sua arma di
difesa personale.
L’Imperatore si allontanò da lui,
percorrendo il perimetro della piscina.
Le ancelle uscirono dall’acqua e
scaparono, seguite dalle altre nascoste dietro gli alberi: non volevano
morire
per una litigata tra parenti!
L’Imperatore continuò la sua
camminata, pensieroso, grattandosi il mento, cosa inusuale per lui.
Il figlio lo seguì con lo
sguardo, in attesa di una sua risposta.
L’Imperatore fece tutto il giro
della piscina e ritorno dal figlio.
«Va bene. Sei stato furbo e
coraggioso! Non ce l’ho con te. Come hai fatto a saperlo non
lo so, ma vorrei
saperlo! A suo tempo, ovviamente. Ora torna da dove sei venuto e cerca
altre
notizie della ragazza, di che fino ha fatto e cosa il Generale vuole
fare! In
fretta! Hai carta bianca, tutto quello che vuoi: se mio figlio e
nessuno avrà
da ridire. Tieni a portata di mano le tue difese personali, forse ti
serviranno.
Non avere pietà, cosa che tu non hai neanche
l’idea di cosa significa!»
«Credi, padre! Non ti fidare di
quello che dicono di me! La notizia che ti ho dato è costata
la vita a tre
persone, certi pirati da confine, ma non andranno in giro a raccontare
ciò che
hanno detto e a chi! Comunque penso che il nostro colloquio sia finito!
Hai già
detto troppo e ti fidi troppo di questo posto! I satelliti non sono
più quelli
di una volta e tu non vuoi modernizzarli! Ti fidi troppo della tua
strana
religione! (Ghujo guardò il padre da sopra gli occhiali) Un
giorno te ne
pentirai amaramente, padre! Non è più solo una
tua prerogativa!»
Ghujo sbatte la mano sinistra
contro i pantaloni, facendo tintinnare quello che era nascosto in una
tasca
interna.
Il padre lo guardò raggelato.
Era stato preciso, con quelle
maledette streghe: nessuno figlio maschio doveva poter usare
né quella arma né
l’altra.
E allora lui come c’era riuscito.
Era stato troppo tempo lontana da
lui e la madre era una che non aveva discendenza diretta da loro!
Un imbroglio? Era stato tutto un
imbroglio?
Ghujo si allontanò dal padre, con
un ghigno malefico tra le labbra.
Era riuscito nel suo intento.
La madre era già partita da ore
dal palazzo imperiale per una località sconosciuta, senza
che nessuno se ne accorgesse.
Era riuscita a diventare
invisibile e l’Imperatore non se ne era neanche accorto.
La sua fuga fu segnalata
all’Imperatore solo giorni dopo, ma lui, ormai tradito sia
dalla moglie che dal
figlio, capì che era stato superato il limite di sicurezza:
Ghujo avrebbe
aiutato l’Imperatore, nella speranza di impossessarsi di una
parte del potere
che gli spettava, ma la madre doveva morire.
No, sbagliato. Se l’avesse uccisa
Ghujo avrebbe potuto vendicarsi: era meglio lasciarla vivere e
controllare il
ragazzo.
Se era davvero diventato così
bravo da potarsela dietro, era più pericoloso del dovuto.
Bisognava sapere da chi aveva
imparato ad usarla: era l’unico modo di bloccare
quell’emorragia.
Ma l’Imperatore era all’oscuro di
troppe cose e qualcuno, nell’ombra, già tramava
contro di lui.
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Capitolo 8 *** Nel silenzio della congiura ***
Ghujo, dopo la partenza della
madre dal palazzo imperiale, prese contatto con un gruppo che si
opponeva allo
strapotere dell’Imperatore, che venivano denominati ribelli.
Sapeva bene il rischio che
correva: tra di loro vi erano alcuni che possedevano il dono, quel dono
quasi
divino, ma che altri ritenevano solo una strana religione.
Ghujo li incontrò su un pianeta
ai confini dell’impero, molto vicino ad un sistema solare
della confederazione
terrestre.
Era un pianeta blu, piano di
verde, acqua, animali di ogni tipo e grandezza, ma che non aveva mai
visto una
presenza umana.
Forse.
Il pianeta, controllato da una
piccola guarnigione imperiale, suddivisa in varie caserme poste nelle
immediate
vicinanze dei tropici, in corrispondenza delle linee di cambio
dell’ora.
Nello spazio, alcune navi
imperiali, poste al limite del sistema solare, controllavano il confine
con il
territorio della confederazione.
Non vi erano state mai scaramucce,
perché i terrestri non volevano guai e le loro navi erano
ben lontane dal
confine, almeno due sistemi solari più in là.
L’Imperatore non aveva mai capito
il perché, ma se i terrestri non volevano combattere, per il
momento, era
meglio lasciar stare.
Il pianeta aveva solo un nome in
codice: Confine.
E mentre i militari imperiali
passavano il tempo a far niente o a scrutare il cielo con i paraboloidi
dei
radar, i ribelli, avvicinandosi verticalmente al punto zenit dei poli,
risultavano ai radar imperiali invisibili.
Sì, certo, i poli erano freddi,
ma i militari imperiali non erano così stupidi di rischiare
un congelamento per
un po’ di contrabbando.
Anzi, spesso vi partecipavano,
per avere cibo che l’impero non mandava: molti di loro erano
di diverse razze e
pianeti e mangiare cibo del loro mondo era, per loro, una vera gioia.
Così i ribelli occuparono una
grande parte del pianeta, sia nell’emisfero sud che in quello
nord, dando a
credere agli imperiali che tutto procedeva normalmente.
Ovviamente, questa loro
occupazione incluse alcune basi militari, così lontane tra
loro che i
comandanti facevano rapporto una volta al giorno ad un loro superiore
sul
pianeta.
E siccome, da buoni burocratici,
i moduli erano sempre gli stessi, i ribelli copiarono il testo e tutti
i
giorni, alla stessa ora, lo trasmettevano.
Anche perché alcuni degli uomini
imperiali, visto l’andazzo su quel pianeta, presero le parti
dei ribelli.
E così vaste zone del pianeta
finirono in mano dei ribelli.
Ghujo arrivò alla base ore 10 di mattina,
con il sole che sorgeva all’orizzonte.
La sua astronave era scesa sul
pianeta senza che nessuno lo vedesse.
Era un vecchia nave imperiale,
usata per accompagnare l’Imperatore nei suoi viaggi di
controllo, su cui spesso
viaggiavano le sue ancelle preferite.
Era una nave circolare, con le
gondole dei motori dietro, la cabina
guida/comando/trasmissioni/armamenti sul
davanti, alcune torrette, poste sul fianco, contenenti laser e piccoli
cannoncini a ioni, oltre ad avere missili anti missili.
La nave, inoltre, possedeva
grandi finestre, per far sì che i suoi ospiti potessero
ammirare l’universo che
li circondava.
Ghujo l’aveva adattata alle sue
esigenze, ed era diventata a tutti gli effetti una nave militare.
Atterrò sul pianeta insieme ad
alcuni suoi uomini fidati, sia della ribellione che
dell’impero.
«È un piacere rivedervi Ghujo!»
Chi lo accoglieva era una donna,
di mezza età, di nome Andrea.
«Anche per me, cara Andrea!»
I due si strinsero le mani
calorosamente.
«Come procedono i preparativi?»
Chiese Ghujo.
«Non molto bene! Purtroppo i
terrestri sono troppo occupati con quei strani nemici e non ci vogliono
dare
retta! Una vera sconsolazione! Non potremo far niente se non aspettare
che
sistemino i loro affari! Quei maledetti…»
«Calmati, Andrea! (Ghujo si
avvicinò alla donna, prendendola tra le braccia) Il Generale
non fa mai
promesse a vuoto. Con calma avremo ciò che ci serve. (Ghujo
allontanò la donna
da lei e si diresse verso una console che era nella stanza). Intanto
cerchiamo
di capire chi sono questi maghi, che sicuramente potranno aiutarci
meglio del
Generale!»
Le ultime parole furono dette con
il sorriso sule labbra, ma quando si girò il volto di Andrea
era scuro.
«Quella vostra maledetta
religione non ci aiuterà! Non ci darà un futuro,
ma solo altri padroni da
servire!»
«Calma, Andrea, non è così. Sono
uomini buoni, non farebbero mai del male verso i loro simili, ma solo
verso i
nemici, i loro e nostri nemici! Cosa pensi, non sono così
numerosi da poter
sottomettere mondi interi! Calmati, la tua è solo una
paranoia. Ne abbiamo già
parlato! Come pensi di battere l’Imperatore senza quei
uomini?»
«Ci sono altri sistemi!»
«Gli altri “sistemi”, come li
chiami tu, hanno portato alla morte di popoli e pianeti! Non puoi
combattere
con i soliti sistemi! Non hai armi, non hai uomini, non hai navi
più potenti di
loro e gli ultimi tentativi di impossessarvi di quelle navi ha portato
ad una
strage! Gli uomini dell’Impero forse sono ottusi, ma sono
preparati,
organizzati e pronti a tutto! Ti devi rendere conto che servono uomini
di
carattere, non dei sempliciotti come quelli che comandi tu! Si, forse
qualche
vittoria ti ha permesso di portare dalla tua parte delle popolazioni,
ma i più
vivono ancora sottomessi all’Impero! Servono quegli uomini,
servono anche solo
per far venire paura all’Imperatore, per mettergli
soggezione! Pensi davvero di
vincere così?»
Andrea di girò e, in quel mentre,
alcuni uomini entrarono nella stanza.
«Prendetelo!»
L’ordine fu perentorio, ma Ghujo
non rimase lì ad attendere il risultato
dell’ordine!
La mano sinistra si infilò in
tasca ed estrasse una asticella, lunga circa quaranta centimetri, di
mogano,
con un manico intarsiato e molto lavorato e una punta metallica.
La mosse lievemente con le prima
tre dita della mano e gli uomini, compresa Andrea, finirono al
pavimento.
Poi punto l’asticella contro un
muro e lo sfondò.
Non si girò a vedere cosa
succedeva alle sue spalle.
Corse all’astroporto e salì sulla
nave, dove alcuni suoi fedelissimi lo aspettavano, armi spianate.
Furono sparati alcuni colpi di
laser, ma la nave riuscì a scappare anche al raggio traente.
Ghujo guardò il pianeta
allontanarsi, mentre sfrecciavano verso lo spazio infinito.
“Una donna stupida, preda ancora
di certe idee arcaiche!”
Ghujo sapeva bene che non poteva
tornare indietro, tanto valeva andare avanti.
«Dirigiamoci verso la
confederazione terrestre!» Comandò al pilota.
Il pilota fece un cenno al
navigatore, che controllò la rotta e la imposto nel computer.
La nave fu spinta alla massima
velocità e superò subito la velocità
della luce, verso il futuro.
Sul pianeta Andrea si stava
leccando le ferite.
«Pessima idea, Andrea! Così è
peggio!»
L’uomo che aveva parlato era il
Generale.
«Cosa volevi che facessi? Lui
serve a te come serve a me! Ma deve ancora imparare molto! E solo i
tuoi
possono insegnarli quello che gli serve. Presto ne arriveranno altri e
subiranno lo stesso trattamento! Quando saranno da te, gli insegnerai
tutto
quello che devono sapere per essere pronti alla guerra!
L’Imperatore non è
l’unico nemico contro cui dobbiamo combattere! I suoi
burocratici, ogni giorno,
fanno morire di popoli e pianeti, in nome della loro religione! No, ci
vuole
qualcuno di più forte, non solo della religione, ma anche
degli uomini che la
tengono in vita! Di certo la tua nuova alleata, la Regina, non
sarà una buona
maestra…»
«Non pensare alla Regina! Finché
ci servirà sarà viva, poi vedremo! Non vorrei
che, sapendo del tuo Imperatore,
gli venga in mente di fare di testa sua! La memoria gli è
già tornata! E i suoi
nemici ci stanno alle calcagna…»
Andrea di fece cupa in volto e
guardò il Generale.
«E se una delegazione parlasse
con loro?» Disse, quasi soprappensiero.
«Perché, secondo lei non abbiamo
già provato? Ma solo per il fatto che abbiamo protetto la
Regina, ce l’hanno
con noi!»
Andrea si avvicinò al Generale.
«Da quello che ho potuto capire,
quelli che avete catturato sono solo soldati! Ma se i loro comandanti
non
fossero della stessa razza? I miei hanno accidentalmente tradotto un
passaggio
di quel “messaggio” e si parla di un popolo che li
civilizzò! E se, in realtà,
i nemici della Regina fossero un’altra fazione contraria a
lei, che hanno
sottomesso un popolo bellicoso, datogli armi più evolute e
convinti a
distruggerla per la loro incolumità e la loro
sopravvivenza?»
«Quella maledetta ha più nemici di
voi e noi messi insieme! Così non va bene! Non riusciremo
mai a mettere pace
nella galassia! Tra l’Imperatore, la Regina e quelli della
zona Magellano, qui
non si finisce più e non abbiamo tutto il tempo
dell’universo! Il Presidente ha
già capito e non dice niente per sicurezza, ma anche lui
rischia di diventare
come l’imperatore, se non facciamo in fretta!»
Andrea guardò il buco fatto da
Ghujo e replicò.
«E se unissimo le nostre forse
combattendo un nemico alla volta? Prima l’Imperatore, poi la
Regina e intanto
la pace con i nemici! Sarebbe possibile, se potessimo usare quelle navi
contro
l’Imperatore! Non se lo aspetterebbe e una volta eliminato
lui, potremmo
pensare agli altri!»
Il Generale gli si avvicinò alle
spalle.
«Una congiura troppo complicata
anche per te! E poi, comunque, intanto che fai una cosa devi tenere a
bada gli
altri! Come farai?»
«Se le tue navi cono così
potenti, sarà un gioco impossessarci di quelle
dell’Imperatore! Ne ha tante,
molte di più di quanto tu non pensa! Saranno sufficienti per
attaccare i
nemici, con le nuovi armi che ci aiuterete a costruire, e visto che in
vita c’è
solo la Regina, il suo popolo non ne risentirà!
C’è un bellissimo pianeta
abitabile verso l’esterno del nostro braccio della galassia,
sconosciuto ai
più! Manderemo lì la Regina e i suoi, con un
cordone sanitari intorno a quel
sistema solare. Poi passeremo a costruire una uova civiltà!
Lo pensi possibile
tutto ciò?»
Andrea si girò a guardare in
faccia il Generale, che fece cenno di sì, come per sugellare
quella loro silenziosa
congiura.
Ma nelle mente dei due corse,
immediatamente, un rapido e pericoloso pensiero.
“Se solo mi fidassi di te!”
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Capitolo 9 *** L'importante è viaggiare ***
Il Tenente Closser stava lì in
pedi, nella sala comando principale, con nella mano sinistra una tazza
di
caffè, prodotta dal replicatore della sala, e guardava le
stelle che correvano
veloci intorno a loro.
La velocità a curvatura era una
cosa magnifica, che permetteva agli esseri umani di girovagare per la
galassia
senza limiti.
Sulla console davanti a lui
monitor, manopole, tastiere e numerosi altri segnalatori elettronici
monitoravano la zona circostanza, per parecchi sistemi solari, e tutto
procedeva regolarmente.
Una strano simbolo capeggiava nel
mezzo della console: un teschio con due ossa incrociate.
Spesso la Regina,
indifferentemente, gli passava sopra la mano, quasi accarezzandolo.
Ai più degli uomini presenti sul
ponte la cosa era passata inosservata, ma un occhio attento come quello
del
Tenente aveva notato quel leggero movimento della Regina.
Era come una donna, innamorata di
un uomo sposato, gli accarezzasse la mano passando di fianco a lui che
stringava sé la moglie.
Anche il Sergente aveva,
involontariamente, notato quel gesto e aveva scambiato un cenno,
invisibile,
con il Tenente.
Avevano cercato se quel simbolo
nascondesse qualcosa, premendolo, cercando di sollevarlo, spostarlo, ma
niente:
non ne voleva sapere di muoversi.
Lo stemma era di un materiale
particolare, traslucido, riflettente.
Allo scienziato, coinvolto dal
Tenente, era venuto in mente di qualcosa che poteva essere attivato da
un
fascio di luce, con una particolare inclinazione.
Provarono con un piccolo laser,
con varie inclinazioni, per vedere se attivava qualcosa.
Ma quello sulla console
principale non era il punto iniziale di emissione del fascio di luce.
Li cercarono in tutte le console
della sala comando.
Ne trovarono più di una decina, di
quei simboli, nascoste in varie parti di console secondarie.
Lo scienziato ricostruì, sul un computer,
tridimensionalmente, la sala comando e mise in ogni loro singolo posto
i
simboli.
Riuscì ad individuare il punto di
partenza del fascio di luce e il punto di arrivo del medesimo fascio.
Usciva dalla console di tiro e
finiva nella console armi, tenuti separati per evitare che qualcuno,
senza
alcuna autorità, lanciasse missili o sparasse con i cannoni.
Lo scienziato, con l’aiuto del
Sergente, smontò la console si arrivo del fascio e vide che
la fotocellula
attivata dalla luce di quel gioco di specchi dava il consenso ad in
interruttore.
Con il numero di
quell’interruttore lo scienziato, seguendo uno schema
elettrico trovato nei
computer della nave, trovò che dava il consenso ad un
sistema di attacco multi
arma contro un eventuale nemico.
Era una cosa strana, ma decisero di
tenerlo segreto ed evidenziarono il pulsante che dava il consenso,
posto sotto
la console arma, integrato con un pulsante posto sotto la console
comando.
Il Tenente riguardò lo stemma e,
sorseggiando il caffè, fece su e giù per la sala
comando, guardando gli uomini
occupati al loro lavoro per il controllo della navigazione della nave.
Le altre navi la seguivano, a
breve distanza, tranquillamente.
Quelle telecomandate erano
inserite all’interno dello schieramento, con le navi occupate
dagli uomini che
formavano una specie di uovo intorno a quelle navi.
I nemici era ormai un brutto
ricordo e, a breve, sarebbero arrivati al pianeta di destinazione.
Ma l’atmosfera, dopo alcuni
giorni, si fece nervosa, in attesa dell’arrivo.
La frenesia dei preparativi per
l’arrivo coinvolse tutti.
Ma il Tenente mise in guardia i
suoi.
Erano in un locale vicino agli
hangar dei robot, protetti da occhi e orecchie indiscrete.
Il Tenente, dopo essersi
accertato che nessuno lo seguisse, chiuse la paratia e
iniziò a parlare.
«State ben attenti! Tutta questa euforia
rischia di coinvolgere anche fin troppo i civili, e i militari
potrebbero,
incolpevolmente, eseguire manovre errate o lasciarsi scappare qualcuno!
La
Regina potrebbe scappare senza che nessuno se ne accorga, magari con
una di
quelle navi con i simboli simili a quelli trovati dalla Pensacola!
Questo non deve
succedere! Lo so che quella strega ha preparato un piano di fuga, ben
congeniato, ma il solo modo di trattenerla è anticipare le
sue mosse! Mi farò
cambiare il turno di guardia, in maniera da controllarla meglio al
momento del
nostro arrivo sul pianeta, non avendo altre occupazioni. Se solo ci
prova a
farmi uno scherzo la metto k.o. e la trascino giù dalla nave
di persona!»
L’ultima frase fu detta con
rabbia, come se volesse realmente mettere fuori uso donna, come un
macchinario
guasto.
Il Sergente e lo scienziato
annuirono, in silenzio.
«Se solo prova a separarsi dagli
altri, fermatela!»
Il trio abbandonò il locale
silenziosamente, dividendosi e dirigendosi, per strade diverse, alla
sala
comando.
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Capitolo 10 *** In fondo al viaggio ***
Il pianeta su cui arrivarono era
bianco, accecante.
Il suo sole, un sole
azzurro-bianco, lanciava i suoi raggi luminosi contro il pianeta, che
li
rifletteva come uno specchio.
Aveva molte rilievi montuosi e
profondi avvallamenti, con dislivelli di parecchi chilometri.
La zona pianeggianti e gli
altopiani erano come deserti, aridi, senza piante e senza acqua, anche
se lì di
acqua ce ne era anche troppo, tuta congelata, per svariati chilometri
sopra la
crosta rocciosa del pianeta.
Ma il ghiaccio serviva a
nascondere delle basi militare installate dai terrestri in quel braccio
della
galassia, parallelo a quello governato dall’Imperatore.
Le navi si misero in orbita
geostazionaria intorno al pianeta, ognuna prendendo come riferimento
una delle
base militare del pianeta.
La nave con il Tenente e la
Regina si stabilizzò sulla base comandata da un Tenente
Colonello di nome
Robert Goiunes.
Non che all’uomo interessasse
molto il comando di quella base, ma per far carriera era necessario
comandarne
una, dopo la scuola di guerra.
Verificò di persona il tipo di
nave che era arrivata, chi c’era a bordo e l’orbita
di parcheggio in cui la
nave era stata messa.
Scambiò poche parole via radio
con la nave: il fatto che la nave avesse solo un numero di
identificazione non
lo preoccupò.
Il Tenente Colonnello identificò,
con il computer, le singole persone della nave.
Non aveva ricevuto ordini ben
chiari: doveva solo affiancare il comandate della nave e dargli tutta
l’assistenza possibile.
Una nave lunga cinquecento chilometri,
con tutta quella potenza di fuoco, di che assistenza poteva aver
bisogno?
Il Tenente Colonello ricevette,
dopo poco più di un’ora che la nave si era messa
in orbita, una chiamata su una
linea riservata.
Non l’aveva mai usata, e forse
neanche i suoi predecessori.
Era il Presidente in persona.
Il Tenente Colonello pensieroso,
rispose rispettosamente alla comunicazione.
«Signor Presidente!»
«È un po’ che non ci sentiamo
Robert, come va?»
«È protetta la linea?» Chiese il
Tenente Colonnello, stupidamente.
«Forse. Ma non si preoccupi. Il
Tenente Closser sulla nave in orbita standard sul suo zenit
necessità di più di
una sua assistenza. Questo lei lo sa bene, vero?»
Il Tenente Colonnello sapeva bene
di cosa stava parlando il Presidente: per anni i suoi genitori gli
avevano
spiegato che un giorno, forse non molto lontano, qualcuno lo avrebbe
contattato
con una certa frase: “necessità più di
una sua assistenza.”
Il momento era arrivato e lui
sapeva cosa rispondere.
«Signor Presidente, il Tenente
Closser bon deve far altro che chiedere e io personalmente
fornirò a lui e ai
suoi uomini la mia personale assistenza. Nessuno interferirà
con quanto è
necessario fare!»
«Bene, Tenente Colonnello! Bene.
E mi raccomando, stia attento al Generale ...»
«Non si preoccupi. Il Generale
ha, al momento, più gravi problemi che non quello che lei mi
sta illustrando!
Pare che alcuni ribelli abbiamo attraversato la frontiera, senza
motivo, e si
stanno dirigendo qui, oltre, pare, ad un’altra nave che
è uscita dalla zona
imperiale da un’altra parte e si sta dirigendo verso il
nostra pianeta spia,
nella zona limitrofa del braccio. La sento silenziosa, Signor
Presidente: forse
non ne era al corrente?»
«Robert, il Generale ha deciso di
fare una guerra personale all’Imperatore per motivi sui
personali …»
«No, signore! La guerra del
Generale non è privata! Sembra che la questione Regina lo
abbia scosso più del
voluto! Non vuole lei e i suoi tra di noi! Forse la questione religione
e maghi
lo ha messo sul chi vive! Secondo me, il Tenente dovrebbe muoversi
più
velocemente, se la situazione glielo consente! Altrimenti interverremo
in suo
supporto, portando via la nave e la regina e le navi telecomandate! Le
altre
dovranno essere in qualche modo manomesse fino a conclusione
dell’operazione!»
«Robert, e come farete con i
nemici?»
«Nemici della Regina, forse, ma
non nostri! La questione è stata monitorata, Signor
Presidente. Non è così, e
continuerà ad essere così. Fonti certe dicono che
l’obiettivo non siamo noi, se
solo riuscissimo ad accordarci con i loro comandanti! A questo punto,
che
bisogna sganciarsi da questa situazione ...»
«No, no Robert! Si calmi!
Dobbiamo ancora capire a cosa servono quelle strani armi, poi vedremo
…»
«Ah, sì, non gliel’ho ancora
detto! Abbiamo scoperto come si usano! I meno esperti si sono fatti
subito
male! Ma io no, Signor Presidente! Un vero gioiello di arma!»
Il Presidente tacque.
La notizia era molto interessante
e che il Tenente Colonnello, e forse anche il Tenente, le avrebbero
usate in
modo magistrale contro un nemico che si vantava di usarle da
generazioni.
«Perfetto, Tenente Colonello.
Ragguagli il Tenente e fate un piano. La Regina ci serve contro
l’Imperatore.
Faccia risvegliare i suoi e la metta contro l’Imperatore
…»
«Ma i ribelli, Signor Presidente
…»
«Si sono già attrezzati! Lei si
preoccupi solo che la Regina i suoi si lancino contro il loro traditore
come
cani sciolti! Per riavere quel piccolo potere che immaginano di avere
metteranno a fuoco e fiamme l’Impero. E poi che continuino a
credere che si
costruiranno un loro nuovo piccolo impero. Non resisteranno molto. I
ribelli li
massacreranno e noi avremo armi nuove, tecnologie avanzate, nuovi
alleati e una
galassia al sicuro! Poi ci preoccuperemo dell’altra
questione! Buon lavoro,
Robert.»
Il Tenente Colonello non fece in
tempo a rispondere che la comunicazione fu interrotta.
Ora doveva vedere di persona il
Tenente e iniziare un lungo e lento lavoro.
Ma la Regina avrebbe pazientato
così tanto?
Stava per andare in panico, ma si
contenne: ora doveva sistemare tutto quel caos.
Le navi giravano intorno al
pianeta come un trenino per bambini e il Tenente Colonnello, che le
comandava,
continuava ad attendere ordini da qualcuno più in altro di
gradi di lui, non
comprendendo neanche lui chi comandava realmente su quel pianeta.
Il Generale era in viaggio e il
Presidente non dava ordini diretti se non tramite i suoi consiglieri
militari,
che titubavano sulla necessità di far atterrare quelli navi,
così enorme, su
quel pianeta.
Robert comprese che se si fosse
mosso velocemente, solo lui sarebbe riuscito a sistemare al situazione.
Comandò una riunione sulla nave
della Regina invitando tutti i comandanti delle altri navi.
Era l’unico modo perché la Regina
non scappasse, controllata a vista dal Tenente.
Comandò ai suoi fedelissimi di
preparare una navetta e partirono.
Gli altri comandanti della basi
si lamentarono con il Generale Federick Hack, comandante delle
guarnigioni sul
pianeta, ma lui non diede ascolto alle lamentele.
Anzi, suggerì ai suoi sottoposti
di stare fuori: se fosse successo qualcosa, era meglio che uno solo
fosse
sacrificato.
Ovviamente, tutti, conoscendo
bene il Generale Hack, noto approfittatore e arrampicatore sociale,
anziché
essere un buon comandante per la guerra, si zittirono, in attesa dei
fatti: il
Tenente Colonnello non era della cricca del Generale e se avesse
combinato un
guaio, loro avrebbero avuti tutti i meriti e le promozioni e lui
sarebbe finito
al macero.
Ma, come spesso accade,
l’ottusità di certe persone non porta lontano,
anzi, le lascia al freddo.
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Capitolo 11 *** Conti in sospeso ***
Pianeta Bakearen, zona esterna
del braccio di Croma.
Il pianeta, di dimensioni
terrestri, aveva per lo più le terre emerse nella regione
tra i due tropici.
Il clima era di tipo tipicamente
tropicale, con periodo di piogge abbondanti e altri di temperature miti.
In alcune zone vi erano altissime
montagne, in altri di presentavano improvvise colline e vallate solcate
da
fiumi, alcuni con notevoli portate d’acqua, alimentate dai
ghiacciai delle
montagne lontane chilometri.
Su una collina, una delle più
alte, da cui si vedeva l’oceano posto verso il polo sud, una
donna, anziana,
vestita con colori oro e rosso, guardava verso il fiume, con gli occhi
chiusi,
facendosi accarezzare i capelli da un venticello che soffiava da nord.
All’improvviso apri gli occhi,
tenendo gli occhi bassi, in ascolto dei passi, striscianti, che gli si
stavano
avvicinando.
«Ti avevo detto di non farti più
vedere, vecchio porco che non sei altro!»
La donna si alzò, inveendo contro
un uomo, più anziano di lei, curvo sotto il peso degli anni,
che aveva un
leggero sorriso sulla bocca.
«Sei sempre la solita, donna! Non
mi sembra che quando stavamo insieme ti lamentavi di me!»
La voce dell’uomo era roca e
calma.
La donna alzò il bastone che la
sosteneva verso di lui, ma lui parò il colpo con il suo
bastone.
Il rumore del ciocco dei bastoni
richiamò chi accompagnava l’uomo e chi, nella
vicina casetta, accudiva la
donna.
Gli uomini e le donne si
fermarono a guardare quel momento così buffo: due persone
anziane, curve, che
incrociavano i loro bastoni, restando in piedi solo perché
appoggiati l’uomo
all’altro.
«Nonna, ma che vi prende?» Disse
una delle ragazze più giovani, guardando l’anziana
donna.
«Questo porco, tutte le volte che
mi incontra, cerca di mettermi le mani addosso!» La voce
della donna si stava
affievolendo, ma non mollava la presa.
L’uomo era anche lui ansimante e
dopo qualche minuto, stanchi, si sedettero sui cuscini che riempivano
il centro
del pavimento.
Un altro uomo anziano si fece
avanti, con la faccia sorridente.
«È sempre un vero piacere
rivederti, Henna! Come stai?»
La donna, ansimante, gli puntò
contro il dito indice della mano sinistra, mentre con la mano destra
cercava di
sorreggersi.
«L’altro porco … quello che mi
vuole sempre toccare il culo!»
La voce era ansimante, ma la
donna era decisa nel suo je t’accuse contro l’uomo.
«Non è mia colpa mia se lo hai
lasciato! Io ti amavo!»
«Huono, l’ho lasciato per vivere
in pace da sola, dopo aver sfornato per voi dodici maschi! Neanche una
femmina!
Altro che lasciarvi!»
L’uomo seduto a terra parlò,
ancora più ansimante.
«Io te l’avevo detto, Huono, di
farle fare almeno una femmina! Ma tu no, solo maschi! E così
l’ho persa io e
l’hai persa tu! Ora non mi sembra il caso di recriminare su
quello che è
successo!»
«Roulde, sei sempre troppo buono,
con la concorrenza!» Disse Huono.
«Il momento è grave e il pericolo
che incombe su di noi! Non discutiamo del passato! Ora, Henna, se ti
calmi ci
spieghiamo.»
Roulde si mise comodo,
incrociando le gambe.
Gli uomini indossavano lunghe
vesti, come le donne, ma con colori ore e blu pavone.
Anche Huono si sdette vicino a
Roulde, con il viso contrito.
Ma a parlare non furono gli
anziani, ma un uomo giovane, che portava una collana dorata.
«Il grave momento, saggi,
(dicendo ciò inclinò il capo verso i tre anziani)
che sta arrivando è dovuto al
fatto che l’antica leggenda, quella stupida e antica
leggenda, sembra che stia
per avverarsi. La Regina è tornata!»
Henna guardò il giovane
sbalordita.
«Tu ti sei impazzito, Kouilo! Era
morta, ne sono sicura! La nave è andata perduta secoli fa e
nessuno sapeva
dov’era!»
«Le tue vite precedenti, Henna,
sono state ammaliate dal potere e sono state poco sagge!»
Roulde aveva preso
fiato e guardava dritto negli occhi la donna. «Hai sbagliato
la dose e la loro
progenie l’ha trovata e riportata in vita! Solo lei, la
momento, ma presto, pur
di avere il controllo della galassia, risveglieranno gli
altri!»
Con un cenno della mano sinistra
Henna fece tacere il brusio che si era alzato intorno a loro.
«Noi siamo una delle tante
discendenza di quel popolo malvagio! Dobbiamo comprendere quanti altri
sanno e
quanti altri sfrutteranno questa situazione! Di certo i maghi erano
lì, come
sempre, pronti a prendersi il merito di tutto! No, questa volta
dobbiamo
partecipare anche noi al tavolo delle trattative!»
Henna si alzò, questa volta
cercando di alzare la schiena la più dritta possibile.
«Siamo un popolo pacifico perché
siamo discesi dai più cattivi e irresponsabili dei nostri
antenati e abbiamo
compreso la vera nostra identità nello spazio! Ma anche noi
possediamo una
parte di quella religione, forse la più cruenta, e non
possiamo tirarci
indietro! Se la Regina darà ai maghi quel terribile sapere,
forse ci saranno
guai più seri! Sì, sì lo so Kouilo, i
nemici della pace galattica sono sempre
in agguato, ma pare che i nemici che ci circondano sono più
pericolosi delle
serpi che abbiamo in seno!»
Henna fece una pausa e guardò i
due anziani uomini seduti di fronte a lei.
Roulde si alzò, inarcò più che
poté la schiena e parlò.
«Parole sagge, Henna! Sono secoli
cha abbiamo ormai perfezionato quella tecnica di combattimento, forse
fino
all’estremo, comprese le nostre capacità mentali!
Ma sai (e qui la voce si fece
più fiocca) che il male potrebbe, in qualsiasi momento,
prendere il sopravvento
e far superare, ad alcuni di noi, se non ben addestrati, il limite! E
non
credere, come dici sempre tu, che tra il bene e il male
c’è una zona grigia di
fusione tra le due entità, che consentirebbe ad un uomo di
agire usando i due
poteri! Ma questa è solo filosofia! Bisogna che le nostre
antiche entità
comprendano i bisogni reali ed attuali della galassia, in cui miliardi
di
esseri viventi, diversi tra loro in corpo e anima, si sono decisi di
unirsi per
un bene comune! I nostri giovani, inviati in goni angolo della
galassia, senza
tradirsi, uniranno le loro forse per combattere qualsiasi nemico della
pace! Avviseremo
tutti i componenti del consiglio e approveremo un piano di
attacco!»
Tutti si alzarono e Henna guardò
di tralice Roulde.
«E vedi di tenere le mani a
posto! Tutte e due! Ho una certa età, ma posso sempre
menarvi!»
Huono sospirò.
«Sarà un viaggio lungo e
tedioso!» Disse.
Kouilo rise.
«Non vi preoccupate! Useremo una
navetta, anche se non volete, così il viaggio
sarà breve e non dovrete
bisticciare!»
«Sia ben inteso che salirò per
ultima sulla navetta e mi chiuderò nella mia cabina a chiave
fino alla fine del
viaggio! Con certi zozzoni non voglio avere nella a che
fare!» Disse Henna,
voltando le spalle ai presenti ed andandosene.
Ma un fischio unisono la seguì,
facendola sorridere.
Dopo tutti, alla sua età, faceva
girare la testa agli uomini, ma era meglio che non lo sapessero: mosse
il
bastone in aria e un vento impetuoso si abbatte sulla terrazza.
“La solita!” pensarono i due
uomini, che si girarono, schiaffeggiati da quel vento, e si
allontanarono,
mentre le donne scappavano in casa e gli uomini seguivano i due
più anziani,
coprendosi il volto, da quel terribile vento, con i mantelli.
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Capitolo 12 *** Non dire ***
Di solito le riunioni del
consiglio degli anziani sul pianeta Bakearen erano una festa.
Gli anziani ci impiegavano giorni
per arrivare alla capitale, percorrendo fiumi, strade e valli,
circondati dalla
popolazione che festeggiava l’evento.
Questa volta gli anziani e i loro
seguiti arrivarono con delle navette.
Quella di Kouilo viaggiò il più
velocemente possibile, ma ci vollero sempre tre giorni per arrivare.
Tre lunghi e noiosi giorni.
I tre anziani se ne stettero
chiusi nei loro alloggi, ognuno a meditare e a mangiare ciò
che voleva.
Kouilo, mentre tutti erano a
dormire, faceva un giro di controllo per la nave.
Erano delle persone anziane e
sagge, ma per il resto sembravano degli esseri agli antipodi
dell’umanità.
Henna, quando dormiva, russava
così forte che la sua voce rimbombava nelle stanze vicine
(senza dirle niente,
misero un emettitore di onde con frequenza contraria al suo russare per
evitare
problemi agli altri).
Huono sembrava che fischiava,
quando dormiva.
Aveva il sonno leggero e, se
qualcuno camminava nel corridoio, lui rumoreggiava quasi come un
maiale,
emettendo dei grugniti.
Kouilo arrivò alla stanza di
Roulde, ma da dentro non arrivarono alcun rumore.
Voleva entrare, quando sentì la
voce di Roulde in fondo al corridoio, da dentro la cucina.
Kouilo ci andò, trovando Roulde
che faceva la fuse con una delle sguattere più giovani e,
guardandola, anche se
vestita di stracci, era certamente la più carina.
Kouilo incrociò le braccia e
guardò l’anziano, come quando un padre guarda il
figlio che ha rubato la
marmellata.
Il vecchio chinò il capo e se ne
tornò in stanza, mentre alla ragazza ricevette, dalla cuoca,
una severa
ramanzina.
La riunione degli anziani durò
meno di mezza giornata.
Tutti gli anziani, arrivati da varie
parti del pianeta, dissero la loro, così come i capi della
varie zone.
La decisione fu subito presa: un
loro rappresentante sarebbe andato dal Presidente a parlare della
situazione.
Alla fine molti ripartirono per
le loro abitazioni.
Kouilo e i suoi tre anziani si
fermarono a parlare con altri anziani e i loro rispettivi capi zona.
Le comunicazioni tra gli anziani
avevano del ridicolo: sembravano bambini che stavano litigandosi delle
caramelle.
Ma se la riunione aveva deciso di
procedere, cos’era tutta quella agitazione?
Foriuse, la sguattera con cui
Roulde aveva amoreggiato, guardava, da lontano, la strana discussione.
Non poté avvicinarsi, affinché la
sua copertura non venisse scoperta, ma altri occhi guardavano lei e
controllavano il gruppo.
La discussione, sul caso o no di
usare le armi, a cui si erano tanti allenati, coinvolgeva molto gli
anziani.
Non avevano mai messo in
discussione l’uso di tali armi fuori dal loro confine, se
questo fosse stato
necessario.
E il governo centrale, pur
sapendolo, aveva sempre limitato il loro interventi in varie dispute
spaziali
con gruppi ribelli o pirati o nemici più o meno conclamati
della pace
galattica.
Al Presidente, uomo molto colto,
la pace galattica gli ricordava molta una pax romana.
Ma sul suo bel pianeta, il
Presidente pensava a quella pace, così tanto voluta e
così tanta protetta, che
rischiava di finire nel nulla, non certo per una democrazia demagogica,
che
sembrava esistere in quel momento, ma per tutte le sfaccettature che i
popoli,
presenti nella galassia, esprimevano.
L’uso di popoli, militarmente
preparati, per sedare altri popoli, civili e, magari, anche mal armati,
non era
stato facile per i lui e per i suoi predecessori: i popoli dovevano
essere alla
pari, sia civilmente che militarmente, ma non sempre così
era successo.
Ora il Presidente, lì, sdraiato
sul suo letto, comodo e confortevole, con la sua bellissima moglie,
sposata più
per necessità politiche che per amore, ripensava a quello
che poteva succedere
con la Regina tra i piedi e i nemici che, sicuramente, il suo passato
aveva
creato, poi sedati dalla sua scoperta ed ora riapparsi.
Ma se loro erano solo i loro
discendenti, perché la presenza della Regina provocava
così tanto fastidio a
tutti?
No, qualcosa non quadrava.
E non poteva fidarsi neanche dei
suoi sottoposti o dei suoi ministri: se uno solo di loro fosse stato
coinvolto
nella questione Regina, anche indirettamente, la cosa avrebbe avuto
ripercussioni
tremende.
Il Presidente si alzò dal letto,
con il suo bel pigiama marrone oro di seta, e si diresse verso il suo
studio
privato.
Si sedesse sulla sedia della sua
scrivania e si rimise a leggere i documenti che gli avevano consegnato
nel
pomeriggio.
La moglie, stranamente, lo
raggiunse nello studio e si sedette sul divano, posto alla destra della
scrivania.
Indossava una camicia da notte
con le spalline, trasparente, ci color azzurro pastello, che non
nascondeva
nulla del suo atletico corpo, e aveva i piedi nudi.
L’uomo guardò la donna, tenendo a
mezzaria la copertina di un cartellina gialla, chiedendosi cosa volesse.
La donna, se chi chiamava Andrea,
parlò in modo molto suadente.
«Caro, da un po’ non ottemperi ai
tuoi doveri coniugali! Ti sei stancato di me?»
L’uomo chiuse la cartellina e,
meravigliato, guardò la donna.
«E ti sembra l’ora di parlare di
queste cose, con tutti i problemi che ho?»
La donna inizio a giocare con la
gonna, accavallando le gambe e facendo gli occhi languidi
all’uomo.
Il Presidente si alzò e si
sedette alla destra della donna.
Con un semplice suo sibilo le
luci sulla scrivania si spensero e della stanza si affievolirono.
«Non puoi battere la Regina e non
puoi battere l’Imperatore, anche se con l’aiuto dei
ribelli! (la donna cambiò
l’accavallamento delle gambe, mettendo la sinistra sopra la
destra) Devi per
forza usare i maghi e quelli simili a loro! Non capisco
perché ci pensi tanto,
caro!» Le ultime parole della donna furono dette con le
labbra che sembrava
volessero baciarlo.
Il Presidente la squadrò.
«E tu, cara, perché ti interessi
a tutto questo?»
La domanda del Presidente non era
retorica: la moglie non si era mai interessata di politica: a lei
interessavano
solo gli uomini e le donne per i suoi privati e insani divertimenti.
«Così!» Disse, con fare
indifferente.
Fu un attimo, un lampo che
squarciò il buio più profondo.
Il Presidente prese per il collo
la donna e la porto a sdraiarsi completamente sul divano.
Sembrava quasi che volesse
strozzarla, e la donna si difendeva, come se quello che stava
succedendo fosse
reale.
Poi si rese conto che l’uomo
l’aveva sì presa per il collo, ma
l’aveva solo fatta sdraiare e lì la stava
tenendo.
«Ti ripeto: tu, in quanto sta
succedendo che interesse hai, mia cara?»
La donna iniziò a preoccuparsi:
non poteva urlare, non poteva muoversi e qualsiasi sua parola, alle
orecchie
del Presidente, sarebbero parse false.
Batté tre volte la mano destra
sul divano, come i giocatori di lotta quando si arrendono, e
l’uomo mollò la
presa.
“Sa, sa tutto, ma non vuole che
ne parli!”
I pensieri che passarono nel
cervello furono molteplici, ma tutti brutti.
Il Presidente si rialzò e si
sedette alla scrivania.
Rivolto alla donna gli disse
chiaramente:
«Tu domani te ne vai! Sul tuo bel
pianeta natale, magari! Hai bisogno di riposarti per motivi di salute!
Se
parli, anche per puro errore, di quello che io e te sappiamo, non vedi
la luce
del giorno dopo!»
La donna si alzo, strofinandosi
il collo, è uscì dalla stanza incespicando su di
un peloso tappeto.
Non attesa il giorno dopo.
Quella stessa notte, mentre il
marito controllava i rapporti, fece la valigie e sparì nelle
profondità dello
spazio, per non fare più ritorno.
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Capitolo 13 *** Ma quale segreto... ***
Le spie dell’Imperatore, del
Generale, del Presidente e di chiunque altro avesse un interesse in
quello che
stava succedendo, iniziava ad avere seri dubbi sulla
veridicità della Regina.
Gli unici che ci credevano ancora
erano i maghi e pochi altri popoli che facevano della magia, o
dell’uso di
strane armi, un loro punto di forza per avere un certo peso di fronte
agli
altri popoli che, nella maggioranza, tenevano lontani da loro quelle
persone.
Di certo l’inimicizia tra quelle
culture così evolute e il resto dei popoli alle volte era
risultata troppo
pericolosa ed amalgamarle era un vero problema: parecchi presidenti
avevano
cercato un accordo tra i popoli, ma le differenze culturali erano,
spesso,
troppo profonde ed incolmabili.
Non si erano arrivati a vere e
proprie guerre, ma alcune scaramucce avevano segnato i contendenti.
Fu così che alcuni giovani,
vagabondi dello spazio, dell’una e dell’altra
fazione, che si erano conosciuti
e amati, cosa non condivisa dai loro parenti e fuggire era la loro
unica
soluzione e, come risultato, si erano diretti su un pianeta vergine,
che non
aveva mai visti piede umano, che servì onorevolmente allo
scopo.
Erano secoli che coppie miste si
erano nascoste lì, protette da animali feroci, che solo loro
potevano
controllare, ricche foreste vergini, profondi laghi, mari, oceani e
montagne
piene di grotte.
La popolazione, da poche
migliaia, era lentamente cresciuta, arrivando ad alcuni milioni di
esseri di
tutte le razze, che con l’andare del tempo si erano mescolate
e miscelate, sia
nel corpo che nell’anima.
Non avevano, però, mai negato la
loro provenienza e tutti insegnavano agli altri come evolvere il loro
pensiero
spirituale.
La pace era un ben troppo
prezioso per loro e coloro che arrivavano in fuga dagli altri mondi,
venivano
per un po’ di tempo tenuti in quarantena, in una zona
tranquilla, verdeggiante
e collinosa, nell’emisfero nord del pianeta.
Le navi utilizzate dai giovani in
fuga venivano velocemente smantellate, affinché nessuno le
vedesse e i loro
metalli utilizzati per altri usi.
Con l’andare del tempo, e senza
che nessuno li disturbasse, avevano iniziato a coltivare vaste zone
pianeggianti del pianeta, che non si vedevano dallo spazio.
Chiunque si fosse avvicinato al
pianeta avrebbe visto solo gradazioni di verde e azzurro.
Il pianeta era al confine del
braccio galattico parallelo a quello in cui la base spaziale Cartagena
era
stata distrutta.
Su quel pianeta non se ne seppe
niente.
O almeno, alle varie spie così
sembrò.
Gli abitanti di quel pianeta non
segnato sulle carte spaziali, per evitare che teste calde decidessero
di
andarci per interferire con la vita tranquilla di quel luogo, non erano
certo
degli sprovveduti.
Sì, certo, l’amore, che rende
tutti ciechi, li aveva portati lì, ma la consapevolezza che
il loro sapere
fosse così evoluto, che spesso tra loro stessi vi erano
state discussioni sulla
possibilità di una maggiore evoluzione del loro essere.
Quando i fatti raccontati si
svolgevano, sul pianeta la maggior parte della popolazione era composta
da
maghi, mentre gli altri si erano evoluti nelle scienze, sai
scientifiche che
umanistiche.
E la discussione, spesso, solo
dialettiche, erano delle vere e proprie guerre di parole, che finivano
immancabilmente con grandi risate da parte di tutti, compresi i
contendenti,
che si stringevano la mano.
Le dispute avvenivano in un
enorme grotta naturale, posta sotto uno dei monti posti verso il polo
sud del
pianeta.
Lì si trovavano, per alcuni
giorni, le menti più evolute del pianeta a discutere di
tutto ciò che nei mesi
precedenti avevano studiato e scoperto.
Le riunioni avvenivano ogni circa
quattro mesi, al giorno dei solstizi e degli equinozi.
I presenti portavano tutti delle
tuniche lunghe, con un miscuglio di colori da far paura: rosa shocking,
viola,
verde o giallo evidenziatore, mischiati con il marrone scuro o il blu
cobalto o
pavone,
In molti portavano una maschera
che copriva o fino al naso o tutto il volto, in oro o in platino, pochi
in rame
o altri metalli più o meno nobili.
Solitamente la gente entrava
nella enorme grotta, che sembrava un anfiteatro, circolare, e si sedeva
dove
poteva, a terra o su sedie formate naturalmente dalla roccia.
La voce di chi si fermava in
mezzo a quell’emiciclo veniva distintamente sentita da tutti,
senza che la voce
dell’interlocutore fosse più alta di un brusio.
Non c’era un presidente
dell’assise: chi voleva entrava nell’emiciclo,
cominciava a parlare e chi era
interessato alla discussione si faceva avanti e la discussione iniziava.
Ma quella volta, a viso scoperto,
un giovane entro nell’emiciclo.
Non aveva una tunica, ma vestiva
una maglietta grigia a maniche lunghe, un paio di pantaloni dito jeans
e della
scarpe basse da ginnaste, di color nero con le stringhe.
L’assemblea tacque: mai nessuno
aveva modificato la consuetudine di presenziare con la maschera.
«Chiedo umilmente scusa a questa
assemblea!» Il ragazzo, giovane, sembrava abituato a parlare
in pubblico. «So
che a voi di quello che succede al di fuori di questo pianeta non vi
interessa
molto, purché questo non interferisca con la vostra pace. Ma
cose orribile
stanno attraversando la galassia e presto ne verrete coinvolti! Non
pretendo
che mi crediate, ma ben sapete che molti degli animali di questo
pianeta non
sono quello che sembrano! Non sono quello che sono! E voi fino a quando
continuerete e fingere!»
Un uomo, alto, con una andatura
regale, si avvicinò al giovane e si tolse la maschera.
Aveva un viso ovale di carnagione
scura, occhi d un intenso azzurro, nasco schiacciato e narici larghe,
bocca
larga e labbra piccole.
Guardò il ragazzo, più basso di
lui, con fare altezzoso.
«Pensi davvero che su questo
pianeta esistano persone che non “sentano” le
difficoltà che i popoli della
galassia stanno attraversando? Sappiamo bene cosa succede e il nostro
non
interferire è solo perché nessuno ci ha mai
disturbato! E se anche lo facesse,
lo sapremo mettere al suo posto!»
La folla presente, a quelle
parole, rumoreggiò e la grotta sembrava che voleva esplodere.
Il ragazzo continuò.
«Già. Ma le navi militare che ho
visto venendo qui, e che avevano rotta per il braccio della galassia
nella zona
dell’Imperatore, cosa credete che serviranno? Finito con
l’Imperatore ci siete
voi e tutti quelli che non vogliono ubbidire al Presidente.»
«Non lo farà!»
La voce di donna proveniva
dall’alto, dalla parte opposta all’ingresso della
grotta.
Aveva una vesta lunga, di fattura
pregevole, con i colori giallo e arancione che si amalgamavano con le
loro
varie sfumature.
Aveva un cappuccio che le copriva
il volto, ma lo fece cadere indietro, togliendosi anche la maschera
d’oro.
Ne apparve una donna bellissima,
con dei lineamenti molto delicati.
Aveva al guinzaglio uno strano
animale, mai visto su quel pianeta, nero come la pece, con una
struttura ossea
imponente, alto, con la testa che arrivava al bacino della donna, con
una bocca
piena di denti affilati sul davanti e molari grossi, come un pollice.
L’animale emise un ronfo e seguì
la sua padrona, mentre scendeva le rocce per portarsi di fronte ai due
uomini.
Quando si fermò, l’animale si
sedette sulle due zampe posteriori, guardando i due in modo dolce,
anche se
quella lingua, enorme e rossa, passando sulle labbra e sulle vibrisse,
non
annunciava nella di buono.
«Non gli interessa di voi, lo
sapete bene! Gli interessa solo quello che la Regina gli può
dare! Ma, a quanto
pare, e a quanto ho visto, la Regina non ha niente da dargli. Forse ai
maghi
interesserà quella strana arma, come si usa, ma anche
lì pare che qualcuno si
sia mosso da solo, scoprendo quello che ci vuole per usarla, e anche
per
farle!»
E ultime parole furono dette in
modo suadente, inclinando leggermente la testa in avanti e guardando
dritto
negli occhi l’uomo più anziano.
«Lo sai benissimo, Andrea, che
abbiamo preso questa decisione …»
«Hai preso, Amos, questa
decisione per evitare che certi segreti escano da questo pianeta! Dopo
secoli
vuoi ancora coprire la verità! (la donna alzò la
voce, lasciato il guinzaglio
dell’animale e gli si avvicinò) Cosa pensi di
essere? Il difensore di una
religione che ormai mieterà vittime, talmente tante vittime,
che le tue mani
saranno lorde di sangue di popoli inermi? Svegliati, Amos, e anche voi
(qui la
donna aprì le braccia e si rivolse a tutti coloro che erano
in quella grotta)
il futuro è arrivato e nasconderlo non è solo
pericoloso, ma è anche
distruttivo! Vi ho protetto finché ho potuto, ma ora non si
può più! Gli eventi
ci stanno scappando di mano e dobbiamo porgere lo sguardo
oltre!»
Un sonoro rumore, come uno sbuffo
di una locomotiva, uscì dal fondo della grotta e un enorme
animale apparve dal
buio della grotta.
«Non così in fretta, Andrea! I
nostri fratelli, liberati dalle catene, ci hanno contattato e non
vedono una
soluzione a breve! Dobbiamo attendere …»
«Attendere che altri muoiano per
te, Lucius! (la donna si avvicinò all’animale,
senza paura) Non sono scappata
per sentirmi dire di aspettare! Tu non hai ancora così tanto
da vivere, lo sai!
La macchina funziona ancora, ma le tue cellule è da
parecchio che non si
riciclano! È venuto, volente o nolente, il tuo tempo! Lo
sento, Lucius, lo
sento che le tue cellule, a mano a mano che passa il tempo, si
sgretolano, con
controllano più il tuo corpo! È ora che anche tu
finisca, come i tuoi cari
“amici”, per concederci di vivere in una pace vera
e amorevole, non legata alle
vostre voglie! La fine è vicina! Poni fine ora a tutto
ciò, o il Presidente,
anche se mi ha cacciato, saprà la
verità!»
L’animale urlò con tutte le sue
forze, ma i presenti non si spaventarono e non si mossero.
Lucius solo, e solo allora, capì
la verità.
Per tanti anni aveva agito nel
suo solo interesse, non in quello delle persone che erano venute a
vivere su
quel pianeta in pace, ed ora la sua fine era arrivata.
Improvvisamente il suo cervello
ebbe un sussulto e smise di funzionare.
L’enorme corpo dell’animale cadde
a terra, senza vita e il macchinario, che lo aveva tenuto in vita per
secoli,
smise improvvisamente di funzionare.
Tutti gli abitanti del pianeta
furono percorsi da una scossa elettrica e svennero.
Amos cadde per terra come uno
straccio, come il ragazzo.
Andrea, ormai immune all’animale,
rimase in piedi a guardare quello strano spettacolo: nella grotta
tutti, come
marionette, erano cadute per terra.
Alcuni, purtroppo, si fecero
male, con tagli sulla testa o gambe rotte, e quelli che riuscirono a
riprendersi subito aiutarono gli altri ad uscire dalla grotta, mentre
altri
entravano a vedere cosa gli aveva provocato quello strano svenimento.
Amos si avvicinò ad Andrea.
«Non credevo che ci saresti
riuscita a farlo! E ora?» Amos parlò con una voce
preoccupata.
«Di sicuro i suoi amici ora lo
sapranno, ma non sono sicuro che riusciranno a imporre il loro volere
sugli
altri! O almeno, lo spero! Le navi sono arrivate e di loro ce ne sono
almeno
cinquecento, da quello che ho capito. Ma non posso dirlo al Presidente,
è
pericoloso, e il Generale sta giocando con la vita di troppi popoli!
Ora tocca
a noi sbrogliare la matassa! Che tu lo voglia o no!» Le
ultime parole furono
dette con furia.
L’animale nero si avvicinò alla
sua padrona, fregandosi contro le sue gambe.
«Smettila, Hungry!» La donna
sculacciò il sedere dell’animale, che gli
voltò le spalle e se ne andò, annusando
l’aria in cerca di cibo, possibilmente non umano.
I due esseri umani rimasero lì a
vedere il corpo di quell’animale, che ricordava un drago, un
disegno che spesso
si vedeva sui libri per bambini.
Alcuni uomini vennero con delle
torce, con il fuoco scoppiettante, e taniche di liquido infiammabile:
bagnarono
il corpo dell’animale e gli diedero fuoco.
Scapparono tutti fuori dalla
grotta, mentre il corpo bruciava e alcuni macchinari scoppiavano.
Il fuoco durò due giorni e la
grotta si annerì: non l’avrebbero più
usata, anche perché, ormai, dopo secoli, quel
pianeta era diventato stretto a tutti.
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Capitolo 14 *** Ordine nel caos ***
Caos.
Ordine.
Segreti.
Chi poteva dire cosa realmente
stesse succedendo in quel momento nella galassia?
In un pianeta fuori dalle rotte
commerciali, uno di quelli usati come parcheggio per le astronavi usate
e fuori
uso per poi riutilizzarle come pezzi di ricambio per altre navi, con la
maggior
parte del suo territorio desertico, la vita di chi ci abitava
continuava, nel
suo tran tran quotidiano fatto di fatica, della ricerca del cibo e di
una vita
di stenti.
Non esisteva fabbriche o uffici.
La popolazione era arrivata là in
fuga o dall’Imperatore o dal Presidente, non capendo le leggi
imposte da l’uno
o dall’altro.
Ma un popolo, hai più sconosciuto,
viveva da secoli su quel pianeta, prima nelle grotte e poi al riparo
delle
enormi navi abbandonate.
Era un popolo di ominidi piccoli,
alle volte informi, che si cibavano di piccoli animali che vivevano
nella
sabbia del deserto e di qualche pianta che riusciva a crescere
all’ombra delle
navi o nelle fresche grotte, ove la poca umidità
dell’aria veniva catturata e
trasformata in acqua.
Non usavano coprirsi con
indumenti.
Nessuno li aveva mai visti di
persona e nessun scienziato, non sapendo della loro esistenza, si era
mai
preoccupato di studiarli.
Il passaggio dalle caverne alle
astronavi era avvenuto in modo tranquillo, anche se tra loro ci fu una
lotta
interna per accaparrarsi le astronavi vicine alle montagne o alle loro
grotte
naturali che le aveva visto crescere.
Sotto il caldo sole di mezza
giornata, uno degli ominidi vide una figura in lontananza che si
avvicinava
alla nave in cui lui e il suo gruppo vivevano.
La figura esile, si sosteneva con
un bastone, barcollante, arrivò sull’orlo della
duna, perse i sensi e precipitò
giù, silenziosamente.
Gli ominidi avevano già avuto
visite inaspettate: più che altro naviganti che si erano
persi e le cui navi si
erano rotte. Di solito erano esseri volgari e perversi, che spesso si
erano
divertiti, prima di rubare i pezzi alle navi abbandonate per riparare
le loro
navi, a far soffrire quel piccolo popolo.
Fu così che la figura umana,
caduta ai piedi della duna, fu lasciata lì dagli ominidi
fino a sera.
La notte era fredda, rispetto al
caldo del giorno, e la figura, rabbrividendo, si svegliò.
Si rialzò a fatica e continuò il
suo cammino fino alla più vicina nave.
Vi entrò da un enorme squarcio
sul lato motori e si distese a terra, tra due travi portanti della
copertura
esterna della nave.
Il suo sonno fu faticoso e pieno
di sogni terribili.
Gli ominidi, durante la notte, si
tennero alla larga da quella figura.
Al levar del sole la minuta
figura si sposto più all’interno della nave,
trovando una pozza d’acqua,
formatasi nella notte, e bevve avidamente.
Di fianco a quel piccolo tesoro
ve n’era un altro: una pianta con bacche rosse.
La figura le scrutò attentamente,
poi visto che le ricordavano una pianta già vista e
commestibile, le mangiò.
Le urla furiose degli ominidi
rimbombarono nella nave.
Non erano abituati a che un
estraneo si impossessasse dei loro tesori, ma si fermarono a quel
stratagemma
per allontanare la figura che, all’inizio, spaventata per il
trambusto, si era
messa sulla difensiva ma, poi, non vedendo nessuno che si avvicinava,
se ne
torno al suo desinare.
L’esile figura passò il giorno al
riparo dal sole cocente, vicino alla pozza dell’acqua e a
quel cespuglietto di
bacche, non molto nutrienti.
Alla sera, un po’ più rifrancata,
controllò il suo stato.
Non aveva escoriazioni, solo
alcuni lividi, un bozzo doloroso sulla testa e, guardando il suo volto
riflesso
in una lastra di alluminio della nave, la faccia sconvolta e i capelli
lunghi e
arruffati.
Le grida degli ominidi si erano
fatte sentire alcune volte, durante la giornata, ma siccome non si
facevano
vedere, la ragazza pensò più a degli animali che
ad essere umani che abitavano
quel pianeta.
Arrivò la notte, le voci rumorose
si placarono e lei riuscì a dormire tutta la notte.
Al mattino fu svegliata da uno
stropiccio di piedi contro le lamiere della nave.
La figura era riversa, in modo
fetale, sul suo lato destro e non vedeva chi da dietro stava arrivando.
Ma vide, sempre nella lastra di
alluminio in cui si era riflessa il giorno prima, degli esseri piccoli,
nudi,
avvicinarsi a lei.
Non sembravano avere cattive
intenzioni: forse la pozza d’acqua, così grande,
era l’unica presente in quella
zona dell’enorme nave.
Lei fece finta di continuare a
dormire, tenendo d’occhio, sulla lastra di alluminio, gli
strani esseri che si
avvicinavano.
Vennero, a gruppi di quattro o
cinque, a bere alla pozza.
Due o tre, forse i più temerari o
i capi, la tenevano sotto controllo, pronti a dar l’allarme
se lei si fosse
mossa.
L’andirivieni dei piccoli ominidi
durò una buona mezz’ora e lei riuscì a
contarne più di cento.
Quando ebbero finito di
abbeverarsi anche i suoi guardiani, si alzò e si
avvicinò alla pozza.
L’acqua scendeva dal soffitto, da
alcune travi e paratie sospese sulla sua testa.
Bevve un po’ d’acqua e mangiò
alcune bacche.
Poi decise di andare alla
scoperta della nave.
Di sicuro qualcosa di utile lo
avrebbe trovato, su una nave così enorme.
Certo che di pianeti, nella sua
breve vita, la figura ne aveva visti: alcuni coperti di deserti verdi,
ove le
piante la facevano da padrone, altri coperti di deserti azzurri, dove
tutta
quell’acqua piaceva solo ai marinai.
Ogni pianeta aveva una propria
faccia ed era piena di insidie pericolose e mortali.
La sua bella nave, che guidava
solitaria per lo spazio, fu assaltata dai pirati e lei scaricata su
quel
pianeta.
Aveva perso tutti i sui campioni
biologici e ora, lì sul quel pianeta, doveva arrangiarsi a
sopravvivere.
Si era allenata a quel momento,
ma sperava che ciò non avvenisse mai.
Conosceva bene quel tipo di nave,
anche se vecchia, e andò all’avanscoperta, nel
silenzio più assoluto.
Ogni tanto qualche folata di
vento entrava nella nave, sibilando leggermente.
Cercò prima di tutto il locale
armi.
Lo trovò verso la sala comando,
alcuni ponti sopra a dove era entrata.
Trovò la porta stranamente
chiusa: la prima parte della nave che veniva smantellata e le prime
cose che
venivano smontate erano proprio le armi di bordo.
La figura esile cercò, invano, di
aprire la porta scorrevole, blindata, che dava al locale.
Per entrare lì non c’era altro
sistema, ma sia i binari che la serratura della porta erano arrugginiti.
Cercò, nel locale manutenzione,
posto verso il locale macchine, un paranco o un argano portatile per
aprire la
porta.
Trovò un crick e, infilandolo tra
le due porte, riuscì ad aprire il locale ed entrarci.
Le armi erano ancora tutte al
loro posto, inutilizzate da tempo.
Non ci fece molto caso, ma quando
vide le armi contenute, ebbe un dubbio: erano di scorta per qualcosa di
grosso.
Le armi contenute erano usate da
popoli molto evoluti nella galassia e a lei era stato mostrato, un
volta, come
utilizzarle.
Ne provò una e questa si accese
immediatamente, facendo fuoriuscire dal manico una fascio laser, del
diametro
di pochi centimetri e non più lungo di un metro e cinquanta,
di color rosso.
La mosse dolcemente e la spada le
rispose, senza problemi.
L’aria intorno al laser oscillava
per il calore emesso dal fascio di luce e un leggero ronzio circondava
l’arma
in funzione.
La spense e la rimise al suo
posto.
Gli umanoidi, che l’avevano
controllata durante l’abbeveraggio dei loro compagni,
l’avevano seguita,
silenziosamente.
Ma lei, abituata com’era ad
essere seguita da animali o altri ominidi, che aveva conosciuto sui
vari
pianeti che visitava, non se ne era preoccupata.
Buttò fuori la testa
improvvisamente dalla stanza e tre ominidi, urlanti, scapparono via.
Vide che erano piccoli, di un
color forse ocra, con una coda mozza, che camminavano su due piedi e
avevano i
capelli lunghi.
Rise fra sé e rientrò
nell’armeria.
Un’altra meraviglia delle armerie
era che nascondeva un’altra stanza, ove venivano tenute le
cose più preziosi:
ordini, carte nautiche informatizzate e altre documenti segreti.
La trovò, spostando una
rastrelliera sul fondo della stanza.
Per aprirla dovette usare lo
stesso sistema che aveva usato per la corrispettiva
dell’armeria.
La stanza era grande come
l’armeria.
Dentro l’ordine regnava sovrano.
Neanche la sabbia del pianeta era
riuscito ad entrare nei due locali.
Zoppicava ancora e le botte si
facevano sentire.
Ora che era riuscita a muovere le
porte, queste si potevano chiudere ed aprire senza problemi.
Le chiuse cautamente,
controllandone il movimento, ed uscì, in cerca
dell’infermeria e della cambusa.
Salì e scese scale finché non
trovò l’infermeria, anch’essa con la
porta bloccata.
Dovette tornare indietro, prendere
il crick e ritornare all’infermeria, sempre seguita dai tre
ominidi.
Riuscì, con un po’ più di fatica,
ad aprire la porta e vi entrò cautamente: in infermeria,
spesso, vi era un
laboratorio in cui venivano tenuti strani tipi di piante, rampicanti,
alle
volte carnivore, utili per degli estratti particolari a far guarire
bruciatore
di laser o di simili armi.
La stanza era anch’essa in ordine
e trovò, dopo aver frugato un po’, bende, ungenti
e pillole per curarsi.
I tre ominidi, mentre si curava,
sbirciarono all’interno.
La figura fece un movimento
veloce, girandosi verso di loro.
I tre, urlando, scapparono via:
in quella zona della nave non si erano mai spinti e, dopo lo spavento,
la
figura non li vide più.
Dopo essersi sistemate le ferite,
cercò la cambusa.
Sulla nave non c’era energia, ma
pile autonome, con un cerca potenza energetica e di una buona durata si
trovavano chiuse dietro a vari nascondigli nelle pareti della nave.
Mosse un portello e trovo delle
pile funzionanti.
La cambusa era proprio l’infermeria.
Lì la figura, con le pile in
mano, cercò un macchinario che duplicava i cibi.
Lo trovò, smontato, dietro ad un
armadio: gli mancavano alcune parti e il collegamento con il computer
centrale
era guasto, ma già averne uno riparabile era una buona cosa.
Mise le batterie e il macchinario
su un carrello della cambusa e si diresse verso il locale della
manutenzione.
Trovò tutto quello che gli
serviva e riparò il macchinario, lo alimentò con
le batterie e, tramite un
vecchio laptop, riuscì a farlo funzionare e a procurarsi del
cibo commestibile.
Per l’acqua fu un po’ più
problematica: il campionamento era stato modificato e riuscì
solo a produrre
birra, a basso contenuto alcolico, ma pur sempre birra.
Dopo aver mangiato e bevuto, si
assopì su una della brande presenti nel locale, che erano a
disposizione degli
uomini che lavoravano in quel reparto, e si addormentò.
Quando si risvegliò il mal di
testa la colse impreparata, oltre a dei dolori intestinali.
Fece buon uso del bagno chimico
presente nel locale.
Quando uscì dal bagno, i tre
esseri erano lì, che l’aspettavano.
Erano sempre spaventati, ma il
cibo avanzato sul tavolo li aveva resi coraggiosi.
Ringhiarono, tanto per farsi
coraggio l’un con l’altro.
La figura si avvicinò al tavolo
senza mostrare paura, prese alcuni avanzi del mangiare e glielo
buttò, come si
butta un osso ad un cane.
Dopo averlo annusato un po’, i
tre ominidi presero a mangiare lì, senza allontanarsi da
lì.
Improvvisamente lo stropicciare
dei piedi, nel corridoio divenne un frastuono.
Molti ominidi, di diverse età,
apparvero alla porta, annusando l’aria.
La figura rimise in moto il
macchinario e lo mise in piatti, mettendoli per terra.
Alcuni, forse i più valorosi,
entrarono e presero il cibo, portandolo fuori dal locale e, affamati,
tutti gli
altri incominciarono a strappare il cibo dalle mani dei primi.
«Calmi, calmi! Ce n’è per
tutti!»
Disse la figura con voce suadente.
Il macchinario usò una pila
intera, per sfamare tutti gli ominidi che si erano presentati alla
porta della
sala manutenzione.
Alla fine, ben pieni, gli ominidi
se ne andarono.
Uno dei tre, prima di andarsene,
fece una specie di gesto, come per ringraziare.
La figura sorrise fra sé e
incominciò a pensare a come andarsene da quel pianeta.
Scese dalla zona comando e
ritorno al buco da cui era entrata.
Se ne accorse mentre scendeva le
scale, guardando attraverso una squarcio, provocato da qualche arma, su
di un
fianco della nave, che era notte.
Non sapeva che ore era e decise
di tornare alla sala manutenzione a dormire.
Per evitare di dormire anche il
giorno dopo, provocò un buco nella paratia che dava
all’esterno: la luce
dell’alba l’avrebbe sicuramente svegliata.
All’alba il sole entrò,
rischiarando la sala e svegliando la ragazza.
Quando scese dalla branda vide i
tre ominidi lì, davanti a lei, con una sguardo
interrogatorio.
«Sì, lo so, non sono un bel
vedere! Scusatemi!» La ragazza si alzò, ma il
più vicino a lei le prese, con la
mano destra, la sua mano sinistra e la tirò, come per
portarsela via.
«Ehi, piano, cosa vuoi?» Gli
disse la ragazza, non ancora del tutto sveglia.
L’ominide grugnì qualcosa e
indicò la porta, mentre gli altri due si avviavano verso il
corridoio.
Sconcertata, li seguì.
Scesero da una scala secondaria e
si avviarono verso l’hangar della nave.
La ragazza non immaginava che
quella nave potesse ancora contenere navicelle per viaggi
intergalattici, ma,
incredibilmente, nascosta da portelloni e paratie abbattute, ve ne era
una.
Era come nuova, forse un po’
arrugginita in alcune parti, ma con una buona mano di vernice
epossidica, senza
badare al colore, l’avrebbe rimessa in sesto.
La nave era di forma circolare,
verso i motori, e di forma semi conica sul davanti.
Le gondole dei motori di
curvatura era posti in parallelo allo scafo della nave: quel sistema
era usato
per navi di piccolo cabotaggio, anche se capaci di coprire lunghe
distanze.
Il portellone laterale di accesso
alla nave di aprì rumorosamente premendo un pulsante, grande
quanto una mano,
posto di fianco al portellone.
Le luci interne sfarfallarono per
un po’, poi si accesero illuminando a giorno
l’interno.
I tre ominidi allungarono il
collo per guardare l’interno, poi scapparono a nascondersi.
La ragazza sorrise ed entrò.
Il ronzio del motore antimateria
arrivava da dietro la paratia di protezione dei macchinari che
producevano la
corrente e il movimento della nave.
La ragazza controllò che il
portellone fosse integro e ben chiuso.
Poi si diresse verso il davanti
della nave, ove c’era la sala comando e di pilotaggio.
La porta della sala si aprì immediatamente,
come se la nave non fosse mai stata ferma.
Toccò alcune console e tutte si
accesero, dimostrando che la navetta aspettava solo qualcuno che la
risvegliasse dal lungo sonno.
La ragazza lasciò la nave,
chiudendo il portellone.
La luce all’interno si spensero e
la nave torno a dormire.
Gli ominidi l’attesero e
l’accompagnarono al locale manutenzione.
La ragazza, adesso, non aveva
fretta di partire: conoscere un popolo così strano
passò davanti a tutte le sue
urgenze, anche se qualcuno delle accademie delle scienze aveva
protestato con i
militari per non aver dato una scorta a una loro nave in una zona
così esposta
agli attacchi dei pirati.
L’accensione della navetta non
era, però, passata inosservata.
Anche se le navi erano solo dei
rottami, alcune società, che lavoravano nella ricambistica
navale, aveva
lasciato sul pianeta del personale perché vigilasse che
nessuno approfittasse
di quel cimitero.
Nel momento che la ragazza attivò
la navetta, un segnale giunse ad una dei centri di controllo, ma il
controllore
spense immediatamente il cicalino dell’allarme: era solo
nella sala e nessuno
si accorse di quella anomalia.
Il controllore sorrise e si
accomodò meglio sulla sua sedia.
In mezzo a tutto il caos che
scorreva nella galassia, come il sangue scorre nelle vene di un uomo,
l’ordine,
su quel pianeta, aveva posto le sue basi.
Un
sorriso solcò il volto dell’uomo e un lacrima
gli corse sulla guancia destra, correndo dentro la cicatrice che gli
solcava il
volto.
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Capitolo 15 *** Mobilis in mobili ***
«Cos’è tutto questo baccano?»
Il Tenente Closser fu il primo ad
accorrere nella zona della nave dove gli animali, collegati alle
macchine che
li manutenevano, urlavano disperati.
Non si capiva cosa gli era
successo, ma tutti gli animali di tutte le navi incominciarono ad
urlare.
Ci volle tutto il giorno perché
si calmassero, da soli, continuando però a mugugnare in
sordina.
Il Tenente Colonello Goiunes
giunse sulla nave del Tenente Closser giorni dopo l’arrivo
delle navi.
Sembrava una visita di cortesia,
per verificare lo stato delle persone e dei macchinari, in attesa di
farle
atterrare in un luogo pianeggiante.
I due uomini, insieme al Sergente
Houng, decisero di fare visita anche ad una della navi telecontrollate,
per
verificarne lo stato e il funzionamento dei macchinari, anche quelli
criogenici.
Presero la navetta del Tenente
Colonello e si diressero verso la nave.
«Allora, Jmmy, com’è la
situazione?»
Robert parlò a Jmmy mentre
passeggiavano tra le camere di criogene contenenti gli
“amici” della Regina.
«Cosa vuoi che ti dica, Robert. È
un vero disastro. E ora ci fate anche aspettare ad atterrare. Sempre
peggio. La
gente sulla navi è stanca e hanno bisogno di riposare
veramente, di staccare la
mente da quello che è successo su Cartagena! È
stato un vero disastro! Hai
voglia a dire ai militari e ai civili che va tutto bene. Quando ti
sparano
addosso con armi che non possiedi, non è divertente! Ma di
certo non si
risolverà il problema neanche svegliando questi (ed
indicò le camere) che sì ci
daranno tecnologia, ma di cui non sappiamo niente e, se sono tutti come
la
Regina, sai che risate! Quella è incontrollabile,
insensibile, doppiogiochista!
E se anche ci aiutasse, vorrebbe troppo per noi! Il Presidente cosa ti
ha
detto?»
Robert si grattò il mento prima di
parlare.
«Di darti tutto l’aiuto
possibile! E anche oltre se è necessario! Ma chi
può dirlo qual è il limite?»
«Il limite è quella maledetta
arma! Avete capito come funziona?»
«Capito, usata e ci siamo anche
fatti male! Quelli che hanno esagerato sono pure morti! Se solo
potessimo fare
a meno di questi!» E indicò la camere criogeniche.
«Ma è possibile che in tutta la
galassia non ci sia un popolo che, nei secoli, non abbia sviluppato
almeno in
parte quella arma?»
Robert fece cenno di sì.
Jmmy rimase stupefatto.
«Ci sono! (Robert si avvicinò ad
una camera criogenica in cui una donna aveva un abito rosso e ocra) I
loro
discendenti, (e indicò la donna) ma non si sa cosa vogliono
realmente! Qui non
è più una questione di potere, di accordi
commerciali o di pianeti da occupare!
È come se tutti volessero essere più di quello
che sono, ma non possono farlo
senza intaccare la capacità degli altri a voler essere
anch’essi più di quello
che sono! Sembra che il rischio di mischiare le razze e il sapere
porterà tutti
ad una fine terribile! Ma se si è tutti d’accordo
su un modo di vita, anche se
ha mille sfaccettature, perché non andare
d’accordo?»
Jmmy gli si avvicinò e gli diede
una pacca con la mano sinistra sulla spalla destra.
«Perché i poteri paranormali che
alcuni hanno fano paura a chi non li ha, temendo di essere spazzati via
dalla
galassia! È il benessere della propria civiltà a
bloccare questa unione! E noi,
purtroppo, siamo, in questo momento, dalla parte sbagliata, lo sai
benissimo!»
«E allora cosa fare, Jmmy?»
«Robert, Robert! Sai quella bella
leggenda, che circola da anni, messa a punto da chi tu sai? Beh, penso
che ora
sia il caso di mettere in pieni quel progetto!»
«Ma lei si è persa! I pirati
l’hanno aggredita …»
«Pirati, Robert! (la voce di Jmmy
era scherzosa) Uomini del Maestro! Adesso ha trovato qualcosa da
studiare!
Vedrai che la indirizzeranno sulla strada giusta e poi
vedremo!»
«Sì, come no! Intanto siamo
costretti qui, fermi, ad aspettare!»
«Lo stare fermi, Robert, è un
eufemismo. Le navi girono intorno al pianeta, che gira intorno al sole,
che
gira intorno ad un buco nero, nel centro della galassia, che gira su se
stesso!
Ci muoviamo dentro a ciò che si muove!»
«Jmmy, quando smetterai di fare
il filosofo da strapazzo sarà sempre tardi! Andiamocene, che
ho altro da
pensare che alla tua spicciola filosofia! E poi non sei nemmeno il
Capitano
Nemo!»
I due risero a crepapelle e se
tornarono alla navicella, mentre il Sergente scrutava la varie camere
criogeniche in cerca di un segno del suo passato.
Il Tenente Closser restò sulla
nave, insieme al Sergente e alla Regina, mentre il Tenente Colonello se
ne
tornò sul pianeta.
La Regina continuava a
tergiversare sull’accordo che aveva preso con il Tenente, ma
alla fine cedette.
L’arma che il Tenente voleva imparare
ad usare era chiamata, dalla Regina, “la spada del
sentiero”: chi voleva
impararla ad usarla doveva prima percorrere “il sentiero
dell’illuminazione”,
dove avrebbe prima imparato a conoscere sé stesso, poi a
conoscere e a
confrontarsi con gli altri e poi, dopo tante fatiche, avrebbe dovuto
conoscere
e confrontarsi con tutto ciò che lo circondava, fino a
sentire lo scalpitio
degli insetti sul soffitto o nelle pareti delle case, fino al fruscio
delle
erba quando il vento la sfiora o il ronzio delle onde radio emesse dai
pianeti.
Di certo l’ultima voce
dell’elenco sembrava una presa in giro, ma la Regina, visto
il volto
esterrefatto del Tenente, glielo volle dimostrare.
«Dì al tuo amico sul pianeta di
provocare delle onde sotterranea e io ti dirò in qual punto
del pienate sono
state generate e dove si fermano!»
Jmmy chiamò Robert sul pianeta e
gli chiese di fare quanto la Regina aveva proposto.
Le onde sotterranea vennero
provocate da un macchinario che serviva a smuovere le placche per far
fuoriuscire la lava per scaldare l’acqua, che poi veniva
utilizzata per
produrre qualsiasi tipo di energia.
La Regina si sedette in mezzo
alla palestra ove stavano provando e, concentrandosi, indicò
dove stava il
macchinario e fino a dove le onde erano giunte.
Il Tenente Closser sapeva bene
che non era un trucco: si era ben preoccupato di dare le coordinate al
suo
fidato amico in codice, in modo tale che la Regina non capisse.
«Sei stata brava! E ora fammi
vedere come usare la spada!»
La Regina guardò il Tenente
beffardamente.
«Cosa pensavi? Che ti avrei
insegnato una simile arte così?»
La Regina impugnò l’arma e
l’accesa.
Un fascio di luce uscì dal
manico, lungo circa un metro e mezzo, di color giallo, che emetteva uno
strano
ronzio.
La Regina prese il manico con le
due mani, puntò il fascio davanti a sé,
portò in avanti la gamba sinistra,
piegando il ginocchio, porto il manico della spada alle sua destra,
piegando il
braccio destro e portando verso il corpo il braccio sinistro e
allungò la gamba
destra dietro al suo corpo, mettendosi in posizione di attacco.
Era pronta a saltare addosso al
Tenente, ma lui estrasse, con la mano destra, la sua bacchetta e,
alzando sopra
la sua testa, assunse la stessa posizione di attacco della Regina, con
la mano
sinistra che si muoveva, semi aperta, da destra a sinistra e viceversa.
«La tua magia non potrà niente
contro di me!» Disse la Regina, beffardamente.
«Non credere di farmi paura, con
quella sputa fasci laser! Ci vuole bel altro per spaventarmi!»
I due rimasero lì, fermi, pronti,
per alcuni minuti.
Quella posizione poteva
provocare, ai non esperti, crampi o dolori lancinanti.
Da fuori della palestra lo
scienziato e Houng controllavano i due duellanti.
Rimasero in quella posizione per
più di mezz’ora, con aria di sfida.
La spada incomincia ad
elettrizzare la zona circostante, facendo rizzare i capelli ai due.
La Regina, dopo un accenno di
ghigno verso il Tenente, si lanciò all’attacco.
Il Tenente vide, negli occhi
della Regina, quel lampo omicida che aveva visto sul pianeta, e si
spostò sul
suo lato destro.
L’affondo della spada della
Regina passò a pochi centimetri dal corpo
dell’uomo che, con mossa fulminea,
roteò la bacchetta, facendo volare per aria la Regina, che
cercò di riprendere
l’equilibrio e atterrò in spaccata sul pavimento
della palestra, tenendo la
spada verso l’alto con la sola mano destra, voltando le
spalle al Tenente.
L’uomo mosse la mano sinistra e
la spada si scosse in modo scomposto, tanto che la Regina dovette
trattenerla
con tutte e due la mani.
La donna si alzò di scattò e si
girò verso il Tenente, muovendo minacciosa la spada.
L’uomo si gettò a sinistra,
muovendo in contemporanea la bacchetta e la mano sinistra.
La Regina perse l’equilibrio e
anche la spada, che scivolò via, verso il fondo della sala.
La donna si girò di colpo e mosse
le mani, in uno strano movimento rotatorio.
L’uomo ebbe un sussulto,
rimanendo quasi a mezz’aria, ma si riprese subito e, con un
colpo di reni, si
rigirò su se stesso, cadendo per terra a pancia in
giù.
La Regina continua a roteare le mani,
facendo muovere l’aria vorticosamente contro il Tenente.
L’uomo si sposto a destra e
sinistra, scagliando, con la sua bacchetta, contro la donna, lampi di
vari
colori, di cui alcuni raggiunsero la Regina, lasciandogli segni sulle
braccia e
sulla gambe.
La donna, smettendo di ruotare la
mani, si abbasso, schivando quei terribili lampi, e richiamò
a se la spada, che
non le giunse mai in mano: l’uomo aveva smesso di lanciare
lampi e, con il
movimento della mano sinistra, fece ancora scartare la spada.
La Regina, sfinita e ferita, cadde
a terra e si arrese.
Ma il Tenente non si fidò e si
avvicinò tenendo ben pronta la bacchetta.
La Regina era a terra spossata ed
entrarono subito lo scienziato e il Sergente, portando i primi soccorsi
alla
donna.
I medici, subito avvertiti,
raggiunsero poco dopo la palestra, fasciando le ferite della donna e,
poi,
trasportandola in infermeria.
Il Tenete raccolse la spada e,
trovato l’interruttore, la spense.
Dopo tutto la tecnica della
Regina non era così ben sviluppata come la sua, con una cosa
così piccola come
la sua bacchetta.
Ma, allora, perché tanta
necessità di tenere nascosto l’uso di una simile
arma.
O forse la verità risiedeva in
quel trucchetto del sentire quel movimento tellurico che era stata
provocato
sul pianeta?
Ma anche lui lo aveva avvertito,
non certo fino al punto di indicare esattamente il punto di partenza e
di
arrivo della onde, ma lo aveva percepito.
Forse la differenza o, meglio, la
similitudine stava nella precisione del “sentire” e
non nel “percepire”?
L’uomo soppeso, con la sinistra,
l’arma.
Nulla indicava qualcosa di
particolare in quell’arma o in quella religione.
Jmmy si diresse alla vetrata che
dava verso l’universo infinito, che in quel momento la
rivoluzione della nave,
intorno al pianeta, consentiva di vedere.
Secoli di evoluzione e loro erano
arrivati dove la Regina e i suoi non erano arrivati o c’era
altro?
E l’altro cosa era?
Jmmy riguardò l’arma e la sua
bacchetta.
No, non era solo quello.
La differenza stava nel loro modo
di vita.
Quello della Regina era spietato
come quello dell’Imperatore, il loro era invece
più gentile, umile, versato
all’aiuto degli altri.
Era davvero solo quello?
L’uomo alzò lo sguardo alle
stelle.
Il potere poteva essere buono o
cattivo, ma bisogna saperlo usare.
Avrebbe, quindi, avuto ancora
senso dividere qualcosa con la Regina?
Sospirò e si girò, trovandosi
davanti il Sergente infuriato.
«Hai esagerato! Ti era stato
ordinato altro, non questo!»
«La prossima volta fallo tu, se
sei così brava! Questa arma, mia cara, è
più calda del fuoco e per poco non ci
rimettevo il fianco! Guarda qui!» L’uomo
alzò il braccio sinistrò e mostrò una
bruciatura lunga dieci centimetri.
Il Sergente la scrutò.
«Si è rimarginata subito!» Gli
disse.
«Devi ancora imparare ad auto
guarirti: tu, cosa ne vuoi sapere? Adesso controllala, che non faccia
pazzie!
Aveva ancora quello sguardo assassino e non mi piace quando gli viene.
Piuttosto che cedere è capace di uccidere senza
pietà! Adesso vai!» Le ultime
parole furono perentorie e la donna di girò e
andò via.
La bruciatura sul fianco
dell’uomo faceva male e dovette, comunque, usare i suoi
ungenti speciali per
guarire.
Intanto la galassia, mollemente,
si muoveva, guardando tutti quegli esseri che si davano tanto da fare
per
niente.
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Capitolo 16 *** Onnisciente ***
Pianeta Bakearen
Kouilo si stava preparando i
bagagli per partire ed andare dal Presidente a portare le dimostranze
degli
anziani del suo pianeta.
Davanti a sé c’era un baule, che
conteneva buona parte dei suoi vistiti, che stava scegliendo con cura
da una
cabina armadio, la cui porta era ben aperta e lui,
dall’interno, spostava gli
abiti che gli servivano, facendoli svolazzare a mezz’aria,
dalla cabina al
baule.
Un rumore lo fece sobbalzare ed
uscì dalla cabina armadio, mentre un vestito di depositava
dolcemente nel
baule.
«Voi giovani, sempre dietro a
giocare!» Chi parlava era Roulde, che si appoggiava al
bastone e guardava il
baule.
«Padre, lo sai che è solo un
allenamento per la mente!» Così dicendo Kouilo si
avvicino al letto e guardò la
scatola aperta sopra di esso, aperta e contenente tre impugnature di
spada: una
in acciaio, una di color oro rosso e una completamente nera.
Roulde si avvicinò e guardò
dentro la scatola.
«Quella non la devi portare! Lo
sai che l’hai fatta troppo potente e non riesci ancora a
governarla!» Indicando
l’impugnatura oro rosso.
«Avrò tutto il tempo per imparare
e governarla durante il viaggio. È quella nera che mi
preoccupa! Il cristallo
che ho inserito sembra avere un piccolissimo difetto, non notato
durante le
prove in laboratorio! Se dovesse vibrare troppo potrebbe anche
scoppiarmi in
faccia.»
«Speriamo, Kouilo, che scoppi in
faccia la tuo nemico!»
«Già! (disse Kouilo pensieroso)
Padre, ti devo chiedere un grosso favore: prima di partire devo parlare
con
l’Onnisciente! So che non a tutti è permesso
parlargli, ma devo porgergli
domande importanti. Puoi fare qualcosa?»
Roulde rimase pensieroso.
«Da un po’ di tempo l’Onnisciente
non sta bene e non permette più a nessuno di essere ammesso
al suo cospetto!
Solo alcuni anziani, quelli che hanno accesso al “grande
segreto” possono
parlargli! No, non ti parlerà! No, non se ne
parla!»
Roulde si mosse nella stanza,
andando verso la finestra che dava sul lago.
La casa di Koulio era fuori dalle
città in una ampia valla, molto verdeggiante, con le
montagne che facevano da
corona ad un lago vasto, di montagna, con le acqua azzurre e i pesci
che vi
nuotavano allegramente: non vi erano molti pescatori in quella zona e i
pesci,
oltre che moltiplicarsi, avevano anche dimensioni non indifferente,
mettendo
spesso in pericolo chi si avventurava a nuotare nelle acque fredde dei
quelle
limpide acque.
«Non possono, quei quattro vecchi
mal fermi sule gambe, proibirci di vedere l’Onnisciente! Gli
avete permesso di
comandare questo pianeta a suo piacimento solo perché vi ha
dato la tecnologia
per sottomettere ciò che vi circonda! Padre, il momento di
verificare le sue
dicerie è venuto, e molti di noi sono d’accordo
con andare a parlargli e vedere
che faccia ha! E tu on puoi impedirlo! Né a me,
né ad altri!»
«Vuoi disobbedire a tu padre? Chi
sei tu per voler vedere in faccia colui che ci ha tolo da una vita di
stenti e
ci ha fatti diventare ciò che siamo?»
«Diventare cosa, padre? I
carnefici del Presidente contro povere civiltà meno
fortunate di noi? Non è che
per tenere unità una galassia si può
continuamente sottomettere i popoli con la
menzogna e la morte! Non vogliamo più essere portatori di
morte!»
Così dicendo Koulio si avvicinò
alla scatola ed estrasse l’impugnatura di oro rosso,
accendendo e facendo
fuoriuscire una luce rossa fuoco, che rumoreggiò
tremendamente, facendo
vibrare, come percorsa da un potente campo elettrico, l’aria
dentro la stanza.
Roulde si spaventò: la potenza di
quella spada era impressionante e il figlio ben la teneva sotto
controllo.
«D’accordo, spegnila! Vedrò cosa
posso fare!»
Roulde uscì dalla stanza,
appoggiandosi al bastone e strisciando i piedi, sentendo, alle sue
spalle, la
spada spegnersi.
Koulio guardò il padre uscire e
la porta chiudersi dietro a sé.
Poi lasciò cadere le braccia
lungo il corpo, tenendo in mano l’impugnatura spenta.
Emise un sospiro e finì di
preparare il baule.
Roulde, uscito dalla stanza,
incontrò Foriuse.
«Non può commettere un tale
errore, maestro Roulde! Sarebbe pericoloso …» Gli
disse la ragazza.
Roulde alzò lo sguardo,
incupendosi.
«Che ne sai, stupidina, di certe
cose! Anche se l’Onnisciente ti ha mandato a spiarci, non
è detto che lui abbia
ragione! Dopo secoli, anche lui incomincia a dare i numeri. E il suo
tempo è ormai
allo scadere. Uno dei suoi simili è già morto e
quelli che potevano sostituirlo
sono bloccati sulle navi nello spazio, vicino ad un pianeta lontano da
qui!
Conviene che l’Onnisciente parli o con lui morirà
più che una civiltà! Morirà
un passato che non ha saputo costruire un futuro! E lui se ne
addolorerà
maledettamente! Diglielo, bionico! Ricordaglielo bene, che le macchine
senza un
cuore sono solo pezzi di metallo inutili! Ricordaglielo!»
Roulde continuò il suo cammino,
mentre Koulio spiava dalla porta, semi socchiusa, l’incontro
dei due.
“Vecchio impiccione! Lo sapevi
chi era e ci hai giocato lo stesso! Ora vedremo e sapremo la
verità!” Pensò
Koulio, richiudendo la posta.
Koulio rientrò nella cabina
armadio e, da un anta, tolse un porta abito nero.
Uscì dalla cabina armadio e lo
buttò sul letto.
Aprì la cerniera a lampo e tolse
il vestito nero, costituito da pantaloni neri con tasche esterne,
maglietta
nera a mezza manica, una felpa nera con cappuccio con chiusura a lampo,
un
giubbetto in kevlar nero pieno di tasche, sempre con chiusura a lampo,
una sotto
casco nero, un berretto con la falda sul davanti e un giubbotto pesante.
Non l’aveva più tolto da quel
porta abito da anni.
Su una manica del giubbotto c’era
ancora del sangue della sua ultima vittima, uccisa a mani nude.
Koulio iniziò a togliersi i suoi
vestiti così colorati e incominciò a mettersi il
vestito del porta abiti.
Ma doveva parlare con
l’Onnisciente, ad ogni costo.
Roulde partì per le montagne
poste nell’emisfero nord.
Le nevi perenni ricoprivano le
cime di quelle montagne, che erano le più alte del pianeta,
tutto l’anno.
In una grotta, che aveva
l’ingresso su un plateau posto al centro di alcune montagne.
La neve lo ricopriva
completamente e, come uno specchio, rifletteva il sole verso lo spazio.
La navetta che portava Roulde
atterrò il più vicino possibile
all’ingresso della grotta, alzando la neve che
copriva il plateau come un tornado alza le macchine al suo passaggio.
Ci volle un po’ perché tutta quella
neve si dissolvesse nell’aria o cadesse a terra.
Mentre la neve cadeva a terra una
figura, piegata sui suoi anni, con bastone e il viso pieno di rughe, si
diresse, zoppicando, verso la grotta.
All’ingresso un figura anziana,
anch’essa non più nel fiore degli anni, lo
aspettava.
«Mi sembrava di essere stato
chiaro, per radio! L’Onnisciente non vuole essere
disturbato!» Il vecchio uscì
dall’ombra della grotta e si diresse verso Roulde, che
entrò nella grotta,
scostando l’altro con il bastone, senza proferire parola.
Roulde continuò ad avanzare nella
grotta, fino a quando questa non si allargò ancora di
più, aprendosi in una
enorme cupola con la volta alta centinai si metri.
Si fronte all’ingresso di quella
enorme cripta, vi era un’apertura alta alcune decine di
metri: mentre la cupola
era illuminata dalla luce che filtrava da varie grotte, poste a varie
altezze,
mentre l’apertura risultava nera come la pece.
Roulde si diresse verso
l’apertura senza esitare, mentre alcuni figure, anziane,
uscivano da quel buco,
cercandolo di fermarlo.
Roulde non si fermò, continuando
a spostare le persone con il bastone.
Arrivato all’apertura vi entrò,
senza chiedere permesso o aspettare parole di invito ad entrare.
Nel enorme cripta risuonò un
rumore sordo, che subito tacque.
Roulde si fermò alla presenza di un
enorme animale, anch’esso collegato a dei macchinari che lo
tenevano in vita.
Il piccolo uomo guardò, in quella
oscurità, la figura dell’animale, che abbasso
l’enorme testone, con quei enormi
occhi gialli con le pupille enorme, per la poca luce che vi era in quel
sito.
«Come ti sei permesso di entrare
senza …» Ma la frase dell’animale fu
lasciata a metà, per colpa dell’uomo che
alzo la mano destra.
«Il tuo tempo è finito! Uno dei
tuoi simili è morto, l’ho sentito! E
così lo hanno sentito i tuoi simili che
sono su altri pianeti e sulle navi della Regina! Non ci hai voluto
rilevare
tutti i tuoi segreti per paura che potevano abbreviarti la vita ma,
come vedi,
sono passati secoli e molte cose le abbiamo imparate da soli! Ora cosa
vuoi
fare, vecchio? Se non manutenessimo le tue macchine, che fine
faresti?»
«I miei adepti non te lo
permetteranno!» Urlò l’animale, con la
voce che rimbombò dappertutto.
Mentre diceva coì, l’animale alzò
la testa, che quasi toccò il tetto, emettendo un urlo con
ferocia.
Roulde, senza paura, si girò e
uscì da quel posto.
L’animale lo seguì, trascinandosi
a fatica nella enorme cripta, che potevano contenerlo senza problemi.
L’animale aveva un’enorme testa,
molto simile a quella di un’iguana, lunga almeno dieci metri,
con una bocca irta
di denti di denti aguzzi.
La testa era collegata al corpo
da un collo lungo e grosso.
Il corpo, tozzo, sembrava quello
di una tartaruga e finiva in una coda lunga.
Il colore della pelle era di un
ocra scuro e sulla parte superiore, dalla testa alla coda, era
ricoperto da
file di tremendi aculei.
Le zampe, simili a quelle di un
coccodrillo, tre per parte, lo aiutavano a muovere l’enorme
corpo.
L’animale entrò nella cripta
inseguendo Roulde, con gli anziani che lo pregavano di calmarsi.
Quando Roulde fu all’ingresso
dell’altra apertura da cui era entrato, si voltò
di scattò e alzò la sua
schiena curva.
Gli altri lo guardarono in modo
strano e l’animale ebbe un sussulto.
La figura di Roulde si modificò,
ringiovanendo di parecchi anni e arrivando ad una altezza di tre metri.
«Come vedi non sei il solo a
poter vivere oltre il suo tempo! Il problema, mio caro, è
che io so, a
necessità, farmi da parte, mentre tu pretendi di essere
sempre sulla scena,
anche dopo secoli! È venuto il nostro tempo, anche la Regina
lo sa, ma tu no,
non vuoi! Metti fine a tutto ciò, o lo faranno i nostri
giovani!»
L’animale urlò tutta la sua
disperazione, ma l’urlò gli morì in
gola.
Un improvviso scoppiò dietro a
lui, blocco un macchinario e l’animale cadde a terra
fragorosamente.
I suoi occhi si spensero, di
colpo, e il suo corpo collassò sul suo peso.
Il fumo dei macchinari, che si
stavano man mano guastando, riempì prima
l’apertura da cui era uscito l’animale
e poi riempì l’enorme volta.
Roulde aveva ripreso la sua
solita sembianza e uscì, a passo veloce, dalla grotta.
Quando giunse fuori, al freddo,
incamminandosi verso l’aeromobile, senza girare la testa,
mentre continui
scoppi provenivano dalla grotta.
Salito sulla navetta, Roulde, da
un finestrino, vide il fumo che usciva dalle aperture della cupola,
innalzandosi verso il cielo, mentre gli anziani, che per anni avevano
accudito
all’animale, uscivano dalla grotta, correndo, portandosi
dietro le loro poche
cose.
La navetta con Roulde se ne andò,
mentre un’altra navetta stava sopraggiungendo ad alta
velocità, atterrendo
alzando una colonna impressionante di neve.
Gli anziani furono travolti da
tutta quelle neve e poi salirono sulla navetta.
Roulde guardò quella scena da
girone dell’inferno, con i fumi neri che coloravano le
candide nevi e, nel
cielo, oscuravano il sole.
Roulde scosse la testa e si
sedette su una comoda poltrona, meditando.
La fine dell’Onnisciente poneva
fine alla richiesta di Koulio di fargli domande, evitando che segreti
troppo
pericolosi potessero essere rilevati.
Ma gli anziani nella grotta lo
avevano visto anche loro troppo.
Roulde guardò l’altra navetta di
salvataggio di quei poveri uomini e mosse la mano destra,
vorticosamente,
verificando, prima che nessuno facesse caso a lui.
I motori della navetta presero
fuoco improvvisamente e la navetta precipitò, esplodendo a
terra e uccidendo
tutti gli occupanti.
I piloti della navetta di Roulde
non si accorsero di nulla, occupati com’erano a guidare la
navetta lontana da
quel disastro e dal fumo che invadeva il cielo.
A tutti sarebbe parso un
incidente causato dal fumo che, aspirato dai motori, li aveva messi
fuori uso.
Ne era morto un altro.
Ora toccava a Koulio eliminare
gli altri, sempre che la Regina lo avesse permesso.
Ma i maghi si sarebbero opposti a
ciò o anche il loro animale avrebbe lottato per vivere?
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Capitolo 17 *** Desertificazione ***
La giovane figura viveva ormai da
alcuni mesi con quegli ominidi, anche se i più anziani la
guardavano in tralice
e alcuni giovani capi, invece, la portavano a scoprire i più
reconditi segreti
di quel pianeta.
La divertiva essere portata in
grotte umide, raccogliere campione di piante, che crescevano rigogliose
in zone
con molta acqua e la luce che entrava da fori naturali nelle rocce
desertiche,
conoscere altri gruppi, imparare il loro strano linguaggio, vedere i
loro
graffiti colorati sui muri delle grotte e sentire le loro storie.
I loro nemici naturali erano
degli animali, di diverse dimensioni, carnivori, che vivevano nel
chiuso di
grotte di alcune montagne e che di notte, con temperature
più miti, uscivano a
caccia.
Non erano di grossa taglia, per
cui facevano paura solo agli ominidi, ma non alla ragazza, troppo
grande per
loro.
Ma la ragazza, la prima volta, si
era spaventata e aveva deciso di girare armata, con una di quelle spade
e una
pistola laser.
Il suo girovagare la portava,
alle volte, nelle vicinanze di agglomerati urbani, più o
meno affollati, di cui
alcuni sembravano veri e propri accampamenti intorno ad alcuni
caseggiati in
mattoni.
Gli ominidi spiegarono, a fatica,
alla ragazza che erano le basi delle compagnia che portavano la navi
abbandonate su quel pianeta e gli altri, come li chiamavano loro, erano
gente
arrivata lì per caso, scappata da chissà dove.
La ragazza, una volta, si
intrufolò in un accampamento, con i suoi amici delle prima
ora, e curiosò in
giro.
Incontrò un gruppo di persone
vicino ad un fuoco e con i suoi amici si fermò a parlare con
loro.
Erano di un pianeta di un sistema
solare che era stato distrutto dall’esplosione della loro
stella.
Loro si erano salvati perché
erano in viaggio, ma ora, non avendo un pianeta su cui andare, si erano
fermati
lì, in attesa di decidere sul da farsi.
Erano commercianti, ma le loro
navi necessitavano di essere controllate e revisionate, ma ci volevano
o metalli
preziosi o soldi, e loro ne avevano pochi, vista la fine del loro
pianeta.
E quindi si davano a piccoli
commerci, anche se rendevano poco.
La ragazza gli fece una strana
proposta: visto che erano un gruppo con sei navi cargo, potevano fare
una
grande, dove potevano entrare tutti e andarsene da lì e
darsi al commercio o al
trasporto di cose per conto terzi.
Si fermò da loro fino al mattino,
dormendo in una tenda occupata da sole donne.
Al mattino visitò le navi, poste
in semicerchio intorno all’accampamento, e
consigliò sul da farsi.
Gli uomini e le donne dei vari
equipaggi iniziarono il lavoro di smontaggio e di assemblaggio e gli
omini,
incuriositi, organizzati dalla ragazza, diedero una mano nei lavori.
I piccoli ominidi erano
spaventati dai macchinari e dai rumori del cantiere, per cui solo i
più
temerari, in cambio di cibo, diedero una mano.
Il lavoro fu terminato in una
quindicina di giorni e la nuova nave, costruita intorno ad uno dei
cargo più
grandi, aveva un corpo principale, con la sala comando, le cabine per i
singoli
e la famiglia, la sala pranzo, la zona scuola per i bambini e i vari
sotto
servizi.
Le gondole dei motori erano posti
sul fondo della nave, da cui partivano le zone di stoccaggio delle
merci: erano
state uniti i corpi principali delle altre navi ed era possibile,
usando motori
sub luce, scendere sui pianeti, scambiare le merci e risalire nello
spazio, per
poi collegarsi alle altri navi.
Erano stati riparati una decina
di teletrasporti, ma per il momento funzionamento male e fino a che non
avessero avuti i soldi necessari per la loro riparazione, il sistema
navetta
era il più sicuro.
Durante i lavori la ragazza ebbe
modo di conoscere meglio gli ominidi, di vederli all’opera e
come interagivano
tra loro in caso di necessità verso se stessi e gli altri.
Erano molto socievoli, anche se
alcuni anziani sembravano nascondere qualcosa, come un segreto che non
deve
essere rilevato e veniva trasmesso solo verbalmente.
I resti delle navi non utilizzati
furono accatastati vicino ad una collina di arenaria, che sovrastava
una
grotta, in modo da farne un rifugio per gli ominidi e far sì
che la poca
umidità dell’aria venisse catturata e fatta cadere
nella grotta, sul cui fondo
l’acqua avrebbe creato un laghetto di acqua bevibile.
Quando i mercanti partirono, la
ragazza si fermò per qualche giorno a sistemare
l’interno della navi con gli
ominidi, per creare un rifugio a quegli esseri nel loro girovagare per
il
pianeta.
La ragazza aveva notato che era
un popolo stanziale per necessità, perché spesso
alcune unità si spostavano tra
i vari gruppi, ma non erano riusciti ad evolversi quel tato che gli
serviva per
inventare i contenitori di acqua e la ruota.
La ragazza cercò di capire il
perché interrogando i più anziani, che
però evitarono di rispondere direttamente
alle domande, demandando ad alcuni capi gruppi le risposte, spesso
evasive.
La ragazza non insistesse, ma,
guardando i più anziani, ne notò due che, durante
la riunione, spesso si
scambiavano occhiate di condiscendenza.
Finite le riunioni, se ne andavano
insieme e percorrevano corridoi in cui era difficoltoso passare.
La ragazza, dopo ogni riunione,
li seguiva, cercando di capire, quando li perdeva, dove andavano.
Le riunioni si era svolte anche
durante la costruzione della nave per i mercanti e i due, forse per
colpa dei
lavori, avevano più volte cambiato percorso, scendendo nella
viscere del
pianeta.
La ragazza decise di usare mezzi
più tecnologici, inviando alcuni droni, a forma di sfera,
che seguivano
silenziosamente i due o andavano in avanscoperta da soli, seguendo un
programma
di ricerca inventato dai planetologici dell’accademia delle
scienza del
Presidente.
La mappatura del “giretto” dei
due anziani portavano ad una grotta, di una certa dimensione, sita
sotto una
catena montagnosa non molto lontana dalla nave in cui si era nascosta.
Una notte, mentre i piccoli
esseri dormivano tranquillamente, anche con l’aiuto di una
buona dose di
sonnifero messa nell’acqua degli ominidi, per evitare di
essere seguita, come
sempre capitava quando andava in perlustrazione, si infilò
nelle grotte e, con
la mappa elettronica e una torcia, si infilò negli anfratti
e nelle grotte,
fino ad arrivare alla grotta, sotto almeno cinquecento metri dalla
sabbia sopra
la sua testa.
Era fresca, anzi fredda: dovette
coprirsi di più, usando una coperta che si era portata per
emergenza.
La grotta era sì grande, ma non
enorme come indicavano i rilievi.
Ebbe un dubbio: uno dei suoi
droni non era tornato, ma il rilievo che aveva inviato, collegandosi
via
wireless con gli altri, dava indicazioni che aveva percorso anche un
cunicolo,
che andava verso il basso.
La ragazza si incamminò nel
cunicolo, ma un movimento alle sue spalle la fermò.
Estrasse la spada e l’accese.
Il ronzio emesso dalla spade e la
luce laser spaventò l’ombra, che scappò
rumorosamente.
La ragazza pensò ad un animale e
proseguì il cammino.
La discesa durò alcuni minuti: la
ragazza avanzò con la spada nella destra e la luce nella
sinistra, illuminando
il suo cammino fino a quando arrivò in una grotta enorme.
Era una cupola alta centinaia di
metri e, anche se fuori, all’aperto, era notte, risultava
illuminata a giorno.
Vi entrò scrutando le pareti e,
in fondo, vide un enorme buco, da cui due enormi occhi verdi, con
pupille
ovali, la stavano scrutando.
I due ominidi anziani, che gli
erano scappati più volte, erano lì che la
osservavano, davanti al buco e a
quegli strani occhi.
“Non è possibile!” Si disse la
ragazza.
Portò avanti la spada, pronta ad
utilizzarla contro quell’oscuro nemico.
I due ominidi si gettarono contro
di lei, urlando inferociti.
Erano piccoli e vecchi, ma molto
tenaci.
Tennero per un po’ in scacco la
ragazza contro il muro, ma all’improvviso altri ominidi,
più giovani, entrarono
da altri cunicoli e bloccarono i due anziani, trascinandoli via.
Uno dei suoi salvatori gli spiegò
chi c’era in quella grotta.
I due occhi fuoriuscirono dal
buio, mostrando una enorme testa con un corno sopra il naso e altri due
sopra
la testa.
Una corona ossea difendeva il
collo, corto, che teneva la testa attaccata ad un corpo tozzo, con
gambe alte e
i piedi piatti ed una coda corta.
Un enorme tubo, tipo cordone
ombelicale, partiva dal ventre della bestia ed entrava nella grotta.
La bestia urlava come un’ossessa,
ma uno strano rumore fuori uscì dalla grotta.
L’animale tossicchiò e smise di
sbraitare.
Guardò preoccupato dietro di sé e
dalla caverna uscì del fumo nero.
L’animale si preoccupò ancora di
più e guardò il fumo nero.
All’improvviso uno scoppio più
forte fece tremare la grotta e la luce si spense.
Una fiammata rossa scaturì verso
la cupola, investendo l’animale, che urlò come un
ossesso e poi si mise a
parlare.
«Maledetta! Io morirò, ma
qualcuno mi sostituirà! Non servirà a nulla tutta
questa tua fatica!»
L’ultima esplosione distrusse
tutti i macchinari e l’animale, crollando a terra,
esalò l’ultimo respiro.
I due anziani, liberatisi degli
altri, corsero verso l’animale esamine.
All’improvviso il fuoco divampò,
bruciando la bestia.
I due anziani si gettarono nel
fuoco per salvarlo, ma morirono nell’incendio.
Il fuoco durò giorni e il fumo
invase gran parte delle grotte e dei cunicoli.
Gli ominidi si misero in salvo nascondendosi
nelle astronavi.
Il fumo fu visibile per buona
parte del pianeta e anche dallo spazio.
Una nave di passaggio lo vide e
lo segnalò all’accademia delle scienze, che
inoltrò la comunicazioni e parecchi
altri ministeri, commissioni, sottocommissioni e vari altri
dipartimenti.
Ma il fatto che questi strani
incendi sottoterra avvenivano in vari pianeti, in sistemi solari
lontani anni a
anni luce, con il continuo urlo degli animali sulle navi della Regina,
incominciò a preoccupare il Tenente.
I servizi segreti ebbero il loro
bel da fare per capirci qualcosa, fino a quando Kouilo e la sua
delegazione non
arrivarono in visita dal Presidente.
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