Cuore che si sacrifica

di Tielyannawen
(/viewuser.php?uid=806659)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuga ***
Capitolo 2: *** Orizzonte ***
Capitolo 3: *** Crocevia ***
Capitolo 4: *** Cammino ***



Capitolo 1
*** Fuga ***


CAPITOLO 1: Fuga

 

Sede Segreta dell’Ordine della Fenice, Inghilterra - 14 giugno 1981

«Sei sicuro di farcela ragazzo?».
La voce di Alastor Moody lo raggiunse quando aveva ormai varcato la porta d’ingresso. Aveva cercato di allontanarsi il più in fretta possibile, ma evidentemente non lo era stato abbastanza. Si voltò ed aspettò finché l’uomo non gli si parò di fronte.
«Non sono più un ragazzo, Alastor. Nessuno di noi lo è più», disse con freddezza.
L’Auror non parve colpito dalla risposta e puntò su di lui i suoi piccoli occhi scuri, così lucenti che era difficile credere quanto fossero abituati ad indagare gli animi più oscuri.
«Può darsi. Eppure è soltanto quando guardi la morte in faccia che comprendi realmente quale tipo di uomo tu sia diventato», ribatté Moody, senza che alcuna traccia d’emozione ne solcasse il viso, così precocemente segnato dalle cicatrici del tempo e delle battaglie.
Quelle parole lo trafissero, dure e spietate, ma allo stesso tempo così vere da mozzargli il respiro.
Forse l’Auror se ne accorse, o forse no, dato che la sua espressione rimase immutata, tuttavia quando riprese a parlare il suo tono era diverso, quasi malinconico: «Quello che intendevo dire è che abbiamo perso molti compagni, perciò sarebbe comprensibile se non te la sentissi di continuare. La dolce Marlene, una vera disgrazia… l’attacco alla famiglia Bones… e so che tu e Benjy eravate cresciuti insieme…».
Sentire il nome del suo migliore amico spezzò la maschera di fermezza che si era costretto ad indossare nelle ultime settimane, per lenire il dolore che covava nel suo cuore.
«È proprio per onorare il loro sacrificio che non mi farò mai da parte», mormorò infine.
Con un sospiro, che fece ondeggiare la folta chioma già chiazzata di grigio, Moody gli posò una mano sulla spalla. Per un istante sembrò che l’Auror volesse aggiungere qualcosa, invece si limitò a stringere la presa, prima di tornare lentamente all’interno, lasciandolo solo sulla soglia della grande casa.
«E ricorda Dearborn, vigilanza costante!», lo udì gridare mentre si smaterializzava.


Villaggio di Eyam, Inghilterra - 17 giugno 1981

Raggi di luna piena illuminavano il piccolo paese, che riposava placido dietro finestre dalle tende inamidate.
Si erano visti pochi turisti quel giorno, ad eccezione di una scolaresca straniera, notevolmente chiassosa, che era ripartita subito dopo pranzo.
Su una collina poco distante, un gatto soriano sedeva tra le rovine di un muro circolare, che racchiudeva sette tombe solitarie. Riley Graves le chiamavano gli abitanti del luogo.
Il felino stava immobile, le orecchie tese e i sensi in allerta. Nulla sfuggiva al suo sguardo vigile, reso severo dagli spessi segni squadrati che ne circondavano gli occhi. Alcuni passanti erano parsi incuriositi, ma l’animale non aveva risposto ai loro amichevoli richiami.
Aspettava da due giorni ormai.
Quando la campana della chiesa segnò la mezzanotte e dodici rintocchi risuonarono nella valle, il gatto si mosse. Allungò le zampe sull’erba umida per sgranchire i muscoli indolenziti e si avviò verso il sentiero. Poi semplicemente scomparve.
In un battito di ciglia il suo posto fu preso da una donna, alta e fiera, con i capelli raccolti e uno spesso paio di occhiali squadrati. Nonostante il clima mite di giugno, era avvolta da un pesante mantello color smeraldo e teneva alta di fronte a sé una bacchetta, quasi si aspettasse di doverla usare come arma.
Minerva McGranitt non amava lasciar trasparire i suoi sentimenti, caratteristica che aveva ereditato dal suo defunto padre. Riteneva molto più saggio agire, piuttosto che lasciarsi soverchiare dalle emozioni. La trovava una scelta pratica.
Eppure, quella notte, rughe di preoccupazione affiorarono sul suo volto.
La strega si guardò attorno. Era stato Silente in persona a scegliere quel villaggio come punto d’incontro per trasmettere i rapporti sulle missioni concluse. Lo riteneva estremamente simbolico.
“Un nobile esempio di sacrificio in favore del bene comune”, così l’aveva definito, in ricordo dei Babbani che avevano volontariamente scelto di isolarsi per non diffondere una piaga mortale.
Dalle ricerche che Minerva aveva condotto in seguito, era emerso che solo un quarto dei coraggiosi cittadini era sopravvissuto; così, ella si ritrovò a pensare che forse sarebbe stato meglio scegliere un luogo meno allegorico e più benaugurante.
Si concesse un minuto ancora di tenue speranza, poi raddrizzò le spalle e si smaterializzò.
Non poteva trattenersi oltre senza rischiare di essere scoperta ed era ormai chiaro che Caradoc Dearborn non sarebbe arrivato. Doveva avvertire l’Ordine.


Porto di Southampton, Inghilterra - 21 giugno 1981

L’odore salmastro gli pizzicò il naso, insieme ad un intenso sentore di catrame e pesce avariato.
Non sapeva cosa l’avesse condotto fin lì, forse quell’istinto di sopravvivenza di cui Moody parlava in continuazione durante l’addestramento.
Si mosse con cautela, per non svelare il suo nascondiglio. Fece qualche passo, ma quando le travi iniziarono a scricchiolare decise di non azzardare oltre. La clandestinità era la sua unica possibilità di salvezza, anche se significava allontanarsi dal mondo magico.
Si lasciò scivolare a terra e dovette combattere contro il desiderio di afferrare la bacchetta che nascondeva tra le pieghe del mantello. Se l’avessero trovato, nessuno sarebbe più stato al sicuro.
Il dolore che proveniva dalla spalla sinistra era lancinante, tanto da togliergli il respiro, ma almeno lo aveva aiutato a restare vigile. Dormire era un lusso che non poteva permettersi. Non ancora.
Sentì le voci degli addetti al carico farsi sempre più vicine; scherzavano tra loro, impazienti di raggiungere il pasto caldo che li attendeva in mensa dopo la dura mattinata di lavoro. Quando anche l’ultimo ritardatario abbandonò frettolosamente il pontile, seppe che era giunto il momento di agire.
Con una corsa disperata Caradoc Dearborn si rifugiò nelle scure viscere della nave che lo avrebbe portato lontano dal suolo inglese e da tutto ciò che amava.


Campo del Fiume Lucente, Montana - 21 giugno 1981

L’alba le era sempre piaciuta.
Amava muoversi in quelle ore silenziose in cui tutti gli altri preferivano dormire; e con tre fratelli maggiori aveva imparato presto che il silenzio era tanto raro quanto prezioso. Così durante le vacanze accettava di buon grado di occuparsi dei turni mattutini nella fattoria, anche se significava raccogliere legna e rifornire gli abbeveratoi.
Si tolse i guanti, bevve un sorso d’acqua e uscì dalla legnaia con una fascina sulle spalle, dirigendosi verso una casupola al limitare della foresta.
La capanna della vecchia Kachina era sempre in fermento, piena di profumi che si sprigionavano dalle erbe legate ai travi e dal paiolo appeso sul fuoco. Kachina era l’ultima strega della misteriosa nazione Hopi, la sola depositaria di una tradizione sopravvissuta per decine di generazioni. Nessuno sapeva quanti anni avesse, né quale fosse il suo vero nome. Forse lei stessa lo aveva dimenticato. Per tutti era Nonna Ka, la veggente, colei che poteva gettare uno sguardo oltre le nebbie del futuro.
La ragazza posò il fastello accanto alla porta e sfiorò i sonagli a vento appesi lungo la tettoia, facendoli suonare in segno di saluto.
«Sei tu Macawi?».
Fece un passo avanti e varcò la soglia, accolta da una penombra calda e avvolgente. «Sì Nonna Ka, sono io. Ho portato della legna, la tua scorta è quasi esaurita».
Da un telaio sul fondo della stanza sbucò una donna minuta, col volto color cuoio solcato da una ragnatela di rughe e i capelli argentati stretti in due crocchie ai lati della testa. L’età aveva indebolito la sua vista, ma il suo spirito era saldo e si muoveva con agilità, nonostante la sua schiena fosse ormai curva sotto il peso dei numerosi inverni che aveva vissuto.
«Benvenuta bambina», le disse andandole incontro con un sorriso, «e possa il Grande Spirito guidare sempre i tuoi passi. Accomodati, la focaccia di mais è ancora calda».
Si sedettero accanto al camino e fecero colazione insieme, mentre la tenue luce del nuovo giorno filtrava lentamente attraverso le imposte.
«E così in autunno inizierai il tuo ultimo anno ad Ilvermorny. Hai pensato a cosa farai dopo?».
Macawi sospirò e scosse la testa. Avrebbe voluto viaggiare, vedere il mondo, magari scoprire nuove piante magiche, ma le sue idee erano quanto mai confuse. «Mio padre ha molti progetti per me, sente la mia mancanza e io non voglio deluderlo, almeno non senza un obiettivo preciso. E in questo momento ho solo molti pensieri e poche certezze».
L’anziana donna sbuffò in segno di disapprovazione e alzò le mani per posargliele sulle tempie: «Le risposte che cerchi non tarderanno ancora a lungo. C’è una forte aura che ti circonda e il solstizio d’estate la rende ancora più evidente. Sì, credo che proverò a guardare per te». Poi sollevò gli occhi verso l’alto e prese a mormorare un’antica nenia; il suo sguardo era perso in qualche luogo remoto e Macawi sapeva che stava tentando di spingersi oltre il velo che celava quanto doveva ancora avvenire.
All’improvviso un forte vento di levante spalancò le finestre. Le pareti della capanna vibrarono e le fiamme che danzavano allegre nel camino si spensero in un sol colpo. Macawi fece per alzarsi, ma sussultò quando una voce fredda e dura si fece strada nel buio.
«Il falco giungerà da lontano, portato dal sole che sorge, e l’ombra calerà crudele, richiamata dal marchio dell’allodola».
Un manto di inquietudine rimase ad aleggiare nella stanza, mentre la veggente si riscuoteva dal torpore in cui era sprofondata.
«Cosa significa tutto questo?», mormorò la giovane, turbata da quelle cupe parole.
La vecchia Kachina rabbrividì e si strinse nel poncho, il viso rivolto verso le braci morenti. «Non so risponderti bambina mia, ma nulla di buono è mai giunto da est».






NOTE:
* In merito alle date, ho cercato di essere il più coerente possibile con ciò che ci viene raccontato nei libri. Sappiamo che la caduta di Voldemort avvenne il 31 ottobre 1981 e quando Alastor Moody mostra ad Harry la foto del Primo Ordine della Fenice fornisce elementi temporali riguardanti la scomparsa dei componenti, a partire dal giorno rappresentato nell’immagine. Visti i volti allegri e i bicchieri levati, ho immaginato che la fotografia sia stata scattata in un giorno di festa, in particolare il 31 dicembre 1980. Da questa data ho poi ricavato tutte le successive: in particolare, riguardo alla scomparsa di Caradoc Dearborn, essendo avvenuta sei mesi dopo, ho deciso di collocarla nel mese di giugno 1981.
* In merito ai luoghi, invece, ho lavorato per lo più di fantasia, dato che nei libri vengono lasciati pochi riferimenti spaziali. Il villaggio di Eyam fu colpito da un’epidemia di peste nel 1665 e i cittadini si posero volontariamente in quarantena per contenere la malattia. Il porto di Southampton vide salpare il Titanic nel 1912 e negli anni rimase il principale porto inglese di partenza per le rotte transoceaniche. Il Campo del Fiume Lucente è un luogo di mia invenzione, situato in Montana sulle rive del fiume Missouri, e costituisce un rifugio per maghi e streghe nativi americani appartenenti a diverse tribù, che qui vivono in pace e al sicuro, sia dai No-Mag che dalle comunità magiche provenienti dal continente europeo; risiede qui anche il famoso fabbricante di bacchette Shikoba Wolfe.
* Il nome Kachina in dialetto Hopi significa “spirito”.
* La tribù degli indiani Hopi è una delle più antiche nazioni indigene d’America, originaria degli altipiani dell’Arizona settentrionale. Il termine Hopi significa “i pacifici”, sono infatti un popolo mite e sedentario, dedito alla coltivazione del mais e alla tessitura del cotone. Gli Hopi erano considerati detentori di una saggezza profonda e conoscitori di segreti che superavano la normale percezione delle cose;  non a caso questa misteriosa tribù è nota soprattutto per le suggestive profezie pronunciate dai suoi sciamani. Leggendo ciò ho immaginato che maghi e streghe provenienti da tale nazione costituissero una stirpe di Veggenti molto celebri e molto dotati.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Orizzonte ***


CAPITOLO 2: Orizzonte


Faro di Capo Lizard, Cornovaglia - 24 giugno 1981

La luce lampeggiante del faro illuminava la notte, perdendosi tra le scure acque del mare in burrasca.
Un uomo si avvicinava a passo svelto, diretto verso la torre ovest, il punto più buio dell’intero edificio da quando quasi ottant’anni prima era stata rimossa una delle due lanterne.
«Mio buon Rosier temevo ti fossi dimenticato del nostro appuntamento».
Una voce sibilante e melliflua uscì dall’oscurità, nonostante il luogo sembrasse del tutto deserto.
«Mai mio signore», esclamò Evan Rosier, inginocchiandosi con il capo rivolto verso terra. «Ho preso la via più lunga per essere certo che nessuno mi avesse seguito».
Lentamente un’ombra strisciò verso di lui ed egli avvertì l’aria farsi sempre più gelida.
«Quanta preziosa solerzia», disse Voldemort con una risata aspra, «tuo padre sarebbe stato davvero fiero di vedere lo zelo con cui difendi la nostra causa. Ed ora dimmi, hai scovato quel lurido ficcanaso?».
Evan strinse i pugni, desiderando avere notizie migliori. «Non ancora. Di certo è stato ben istruito da Silente e da quell’Auror, Alastor Moody. Non ha usato la magia e non ha contattato né la sua famiglia né i suoi compagni. Le sue tracce si perdono nei sobborghi di Southampton, per cui ritengo che abbia lasciato il paese per entrare in clandestinità. Ma è ferito, solo e spaventato. Presto farà un errore e allora non potrà sfuggirmi. Lo troverò e il segreto sarà salvo».
Voldemort, il mago il cui nome faceva tremare le bacchette di mezza Europa, inaspettatamente sorrise. «So che non mi deluderai, hai già dimostrato la tua fedeltà in passato. In fondo dovremmo essere grati a Caradoc Dearborn: è giusto rendere omaggio ad avversari degni di questo nome. Forse è giunta l’ora di contattare la nostra piccola spia».


Oceano Atlantico - 5 luglio 1981

Codardo.
Quella parola gli rimbalzava nella mente in continuazione, notte e giorno, cullata dal rollio della nave e dal frastuono dei motori.
Codardo.
Nei momenti peggiori, quando la lucidità lo abbandonava per lasciare il posto al delirio della febbre, gli pareva di vedere Alastor Moody, in piedi di fronte a lui, con la bacchetta levata e un’espressione di disgusto dipinta sul volto.
Codardo.
I suoi amici erano morti con onore, si erano spesi per la salvezza degli ideali in cui credevano, dimostrando coraggio e tenacia. Lui invece aveva avuto paura. Paura di morire, paura di affrontare la sofferenza della fine che gli spettava. Ed era fuggito.
Codardo.
Non era degno di rappresentare la nobile casa di Godric Grifondoro, nulla in lui ricordava lo spirito di un audace cavaliere. Forse non era mai stato degno nemmeno di Hogwarts. Tutti avevano sbagliato sul suo conto, ma ormai era troppo tardi per rimediare. All’Ordine della Fenice servivano eroi. Lui invece era un codardo, buono nemmeno per morire in battaglia.
«Ehi! Dove ti sei nascosto? Non sarai morto vero? Sarebbe proprio un bell’impiccio dovermi liberare del tuo corpo senza farmi scoprire».
La voce di Ezra Seemann si fece strada nella stiva. Il pover’uomo camminava trascinando faticosamente la gamba destra ed era cieco da un occhio, eppure Caradoc gli doveva la vita. Lo aveva trovato nascosto tra le casse dopo cinque giorni di navigazione, stremato e disidratato, e da quel momento si era preso cura di lui meglio che poteva. Salvato da un Babbano, chi l’avrebbe mai detto.
Udì qualche altro passo strascicato, poi fu colpito dalla luce tremolante di una torcia. Il viso del vecchio macchinista era chino su di lui, la fronte aggrottata e una candida zazzera di capelli arruffati che gli conferiva un aspetto bislacco.
«Eccoti qui», disse aiutandolo a mettersi seduto e allungandogli una fiaschetta d’acqua. «Piccoli sorsi, mi raccomando, o vomiterai tutto quanto. Devi rimetterti in forze giovanotto, altrimenti la tua carriera come clandestino finirà prima d’essere iniziata».
Caradoc tossì e si tirò indietro, rifiutando il pane che l’altro gli offriva. Aveva la vista appannata e il dolore alla spalla era sempre meno sopportabile. Cercò di parlare e, dopo un paio di tentativi gracchianti, finalmente ci riuscì. «Forse sarebbe giusto così», mormorò, «perché non merito nulla di meglio».
Il signor Seemann bofonchiò qualche parola e gli voltò le spalle, dirigendosi ad un sudicio oblò. Provò a guardarci attraverso e, quando non ci riuscì, iniziò a strofinarlo con una manica della giacca, imperterrito, finché polvere e ragnatele non rimasero attaccate alla stoffa, permettendogli di scorgere il mare luccicante. A quel punto si girò con un largo sorriso. «Il problema dei giovani è che attraversano la vita con veemenza: amano, combattono e soffrono con passione, come se non esistessero sfumature o compromessi. Io stesso l’ho vissuto e so che c’è bellezza in tanta stoica testardaggine. Ma», aggiunse picchiettando sul vetro per indicare l’ampia distesa azzurra, «l’orizzonte è troppo vasto per perdere la speranza».


Campo del Fiume Lucente, Montana - 5 luglio 1981

Nitriti festosi la accolsero quando entrò nel recinto e subito un gruppetto di puledri le si strinse attorno, nella speranza di ricevere qualche frutto oppure una carota. I più coraggiosi spingevano i musi verso le sue tasche con golosità.
Macawi rise e li premiò con dei pezzi di mela.
Era stato un anno fortunato: quella primavera erano nati nove puledri, di cui una coppia di gemelli, un evento assai raro che era stato interpretato come simbolo di buon auspicio.
La famiglia di Macawi gestiva l’Allevamento Atwater da generazioni, curando una piccola mandria di cavalli alati di pura razza Granio, i migliori di tutto il continente americano a detta di molti: Dardi Argentati li chiamavano, dal manto lucente e veloci come il vento. Era un lavoro duro, che richiedeva pazienza e non poche rinunce, ma l’amore per gli animali e la natura scorreva impetuoso nel loro sangue. D'altronde erano Lakota.
La giovane si sedette sulla staccionata, scaldandosi sotto i raggi del sole estivo. Il ricordo delle cupe parole di Nonna Ka non si era ancora allontanato, anche se cercava di soffocarlo buttandosi a capofitto nello studio e nel lavoro. Aveva fatto alcune ricerche, ma non aveva trovato particolari riferimenti a falchi o allodole nei suoi libri; quanto al marchio, ne esistevano semplicemente troppi. Forse la biblioteca di Ilvermorny l’avrebbe aiutata a scovare qualche risposta. Parlarne in casa era del tutto fuori questione: gli uomini della sua famiglia erano già abbastanza protettivi nei suoi confronti e una profezia così enigmatica non poteva che peggiorare la situazione.
Uno sbuffo l’avvertì che non era più sola e vedendo due cavallini che trotterellavano verso di lei non tardò a riconoscerli. Erano i gemelli, Tifone e Tornado, e mai nomi si erano dimostrati più azzeccati. Ovunque fossero creavano scompiglio. A quanto pareva avevano trovato un pezzo di corda, che ora si contendevano saltando e agitando le ali, finché non finirono entrambi zampe all’aria in una nuvola di polvere e lei dovette aiutarli a rimettersi in piedi.
«Il tuo aiuto ci farebbe comodo in autunno».
Suo padre la guardava dallo steccato, serio e austero come lo ricordava fin dall’infanzia. «Potresti anche non frequentare il settimo anno. In fondo non hai bisogno di un diploma per lavorare qui, sei già una strega abile e puoi imparare ciò che non sai da me o dai tuoi fratelli».
Con un sospiro Macawi si rialzò. Sospettava da tempo che glielo avrebbe chiesto, ma non era ancora pronta a dargli una risposta. O forse non era ancora pronta a rinunciare alla libertà. «Ti prometto che ci penserò Ate», mormorò infine, gli occhi fissi sul fiume che brillava all’orizzonte.


Sede Segreta dell’Ordine della Fenice, Inghilterra - 14 luglio 1981

La porta si aprì delicatamente, rivelando una piccola stanza illuminata dal sole.
Fabian si voltò verso suo fratello Gideon, che gli rivolse un lieve cenno d’assenso. Senza permettersi troppi ripensamenti, i due gemelli entrarono e subito richiusero l’uscio dietro di loro, restando immobili, spalla contro spalla, in attesa.
Davanti alla finestra spalancata sedeva una giovane donna vestita di verde, con la schiena ritta e le mani strette in grembo. I lunghi capelli corvini erano chiusi in una treccia elegante che le ricadeva lungo la schiena e il viso affilato era ostinatamente rivolto alle vivaci campagne all’orizzonte. Era bella, chiunque l’avrebbe detto, ma di una bellezza dura, che si rifletteva nel ghiaccio severo dei suoi occhi grigi.
«Non lo avete cercato abbastanza», disse all’improvviso.
«Dorcas…», iniziò Gideon esitante, «Dorcas devi uscire. Non puoi restare ancora rintanata qui».
«Non lo avete cercato abbastanza», ripeté lei, senza alcuna traccia d’emozione nella voce, quasi stesse parlando con se stessa.
Fabian fece un passo avanti, facendo scricchiolare alcune assi del pavimento. «Dorcas, sai anche tu che non è vero. Non abbiamo lasciato nulla di intentato per un mese intero, ma non c’è alcuna traccia di lui, niente a cui potersi aggrappare».
I vetri tintinnarono leggermente, come scossi da una forza invisibile.
«Potrebbe essere ovunque. Ferito o imprigionato, persino sotto tortura nelle mani di quei folli. E la vostra vile decisione è di sospendere le ricerche», sibilò la giovane.
Gideon soffocò un gemito, ma Fabian si avvicinò ancora, posando una mano sul bracciolo della poltrona. Era stanco di quella guerra, che aveva oscurato i volti dei suoi amici e spezzato troppe vite. «Non meritiamo simili accuse, ma comprendo che è il dolore a parlare al posto tuo. Sei una strega eccezionale e conosci la verità, anche se non vuoi accettarla. Se fosse ancora vivo, Caradoc avrebbe trovato il modo per contattarci. Era il migliore tra noi e questo silenzio è il suo ultimo messaggio».
«Lui non ci avrebbe mai abbandonato!», gridò Dorcas alzandosi in piedi e fronteggiando Fabian con la bacchetta in pugno. Aveva lo sguardo infuocato e le guance paonazze rigate dalle lacrime. Alle sue spalle i vetri tremarono ed esplosero in uno stridio straziante, disperdendosi in migliaia di schegge che i due gemelli tramutarono prontamente in una pioggia di sabbia.
Dorcas fissò i granelli che mulinavano attorno a lei, poi si accasciò e fu sorretta dalle braccia di Gideon prima che toccasse terra. «Lo abbiamo lasciato solo», balbettò, incapace di trattenere il pianto.
Il ragazzo la tenne stretta, cullandola e accarezzandole i capelli con dolcezza. «Non temere, noi resteremo al tuo fianco. Non sarai mai sola».






NOTE:
* Date. Non so quanto durassero i viaggi di trasporto merci transoceanici negli anni Ottanta, perciò ho deciso che la traversata di Caradoc sarà lunga 40 giorni; mi è sembrato un lasso di tempo verosimile.
* Luoghi. Il faro di Capo Lizard fu costruito nel 1752 e si trova nella regione più meridionale della Gran Bretagna; il tratto di mare ad esso antistante è particolarmente pericoloso per la navigazione e anticamente era conosciuto come “Cimitero delle imbarcazioni”.
* Il nome Ezra in Ebraico significa “aiuto”, mentre il cognome Seemann è di origine germanica e in Tedesco significa “marinaio”.
* I cavalli alati di razza Granio sono grigi e particolarmente veloci; date queste caratteristiche, mi è venuta l’idea di soprannominarli Dardi Argentati.
* Nonostante la storia sia incentrata sulla figura di Caradoc Dearborn, nel corso della vicenda compariranno anche altri personaggi secondari, appartenenti ad entrambi gli schieramenti. Evan Rosier, i gemelli Prewett e Dorcas Meadowes ne sono un esempio; ho scelto personaggi poco noti perché mi permettono di lavorare di più con la fantasia, ma cercherò comunque di attenermi a quanto viene scritto nei libri.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Crocevia ***


CAPITOLO 3: Crocevia


Faro di Capo Lizard, Cornovaglia - 17 luglio 1981

Faceva freddo e l’erba era sferzata dal vento proveniente dal mare.
Il ratto stava nascosto tra le rocce, con il pelo marrone arruffato e il muso sollevato ad annusare l’aria. I baffi vibranti ne tradivano la titubanza: era incerto se restare sotto gli sguardi diffidenti dei suoi simili o proseguire verso la cupa costruzione in lontananza. Ma in realtà aveva già scelto molto tempo prima.
Prese a correre sulle sue zampette incerte e, quando l’unica lanterna del faro ruotò, la sua luce illuminò un ragazzo grassottello dai capelli color topo che si affrettava a risalire la collina.
«Ecco il nostro prezioso infiltrato! Sembra che sia riuscito a intrufolarsi qui proprio sotto il tuo naso Rosier», sogghignò Voldemort battendo le mani in un gelido applauso quando lo vide avvicinarsi.
«Così sembrerebbe», assentì Evan Rosier, senza mai smettere di fissare il nuovo arrivato. C’era decisamente qualcosa di misterioso e subdolo in lui, un servilismo ossequioso che lo infastidiva. Per l’ennesima volta si chiese se il Cappello Parlante potesse commettere errori.
«Ottime notizie mio signore», balbettò Peter Minus lasciandosi cadere in ginocchio, «le ricerche di Caradoc Dearborn sono state sospese. È convinzione di tutti che sia morto durante la sua ultima missione».
«Molto bene, che lascino i fantasmi nell’ombra cui appartengono. Ed ora dimmi, hai le informazioni che ti ho chiesto?», domandò Voldemort con voce strisciante, mentre si accostava al giovane mago.
Peter tremò e si ritrasse, gli occhietti acquosi che saettavano verso le possibili vie di fuga. «Mi dispiace mio signore, i Potter si spostano in continuazione e sono difficili da raggiungere anche per me. Ma li troverò!», disse in fretta e nel tentativo di riscattarsi aggiunse, «Nel frattempo posso consegnarvi i Prewett!».
Un ghigno crudele attraversò il volto di Voldemort, mentre in cielo la luna si nascondeva, quasi non volesse assistere al tradimento.


Porto di New York, New York City - 30 luglio 1981

Entrarono nell’immensa baia all’alba e, nonostante il sole fosse sorto da poco più di un’ora, il tratto di mare era già affollato da una moltitudine di imbarcazioni dagli scafi lucenti.
Con un simile traffico le procedure d’attracco sarebbero durate come minimo mezza giornata, circostanza che garantiva un ampio margine di riuscita al suo piano.
Ezra Seemann aveva visto molte cose nel corso della sua vita, forse addirittura troppe. Da bambino si era innamorato perdutamente del mare, un amore sincero e tenace, e gli piaceva pensare che proprio per quel motivo il mare lo avesse salvato. Sì, perché il signor Seemann aveva attraversato gli anni della Seconda Guerra Mondiale, era stato vittima della crudeltà dei lager nazisti e infine si era risvegliato come superstite del tragico naufragio della Cap Arcona. Erano trascorsi decenni, ma ricordava ogni dettaglio alla perfezione. Le gelide acque della Baia di Lubecca lo avevano avvolto in un umido abbraccio, non per trascinarlo a fondo, ma per accompagnarlo fino alla spiaggia, alla libertà.
Una seconda possibilità che pochi avevano avuto.
Per questo sapeva riconoscere un sopravvissuto e quel giovane uomo malconcio che aveva scovato nella stiva lo era. Glielo leggeva negli occhi, senza bisogno di chiedere, perché alcuni tormenti non potevano essere cancellati. Perciò lo aveva aiutato. Perché erano simili e le stesse ombre dolorose velavano i loro sguardi.
Certo quel ragazzo era strano. Non parlava di politica e non si intendeva di automobili. Pareva non conoscere il cinema né le ultime oscillazioni in borsa. Diamine, nemmeno lo sport sembrava interessarlo, anche se era abbastanza sicuro di averlo sentito mugugnare che presto le Caerphilly Catapults avrebbero conquistato il loro diciannovesimo scudetto. In quale sport esistesse una squadra con un nome del genere il macchinista davvero non riusciva ad immaginarlo.
La campana del pranzo richiamò tutti sul ponte principale, così, con la scusa di controllare la pressione dei motori, il vecchio Ezra poté scendere indisturbato verso la stiva, sbocconcellando un pezzo di formaggio.
Giunto al punto prestabilito, colpì tre volte una paratia con le nocche e attese.
Dal buio e borbottante ventre della nave emerse una figura avvolta in un pesante mantello e il cuore del signor Seemann si strinse per la compassione. Aveva la netta impressione che qualcosa di terribilmente oscuro stesse risucchiando la vita del giovane, giorno dopo giorno, rendendolo simile ad uno spettro grigio e sconfitto.
Camminarono insieme, senza fiatare, fino ad un’area riservata alle merci pregiate, dove giaceva un grosso carico di cashmere scozzese. Tra le tante casse trovarono infine quella che faceva al caso loro, abbastanza ampia da contenere comodamente un uomo ed abbastanza piccola da finire in cima alle altre durante le operazioni di scarico. Una perfetta porta d’ingresso per il Nuovo Mondo.
Affaccendandosi con un piede di porco, il macchinista riuscì dopo diversi sforzi a far saltare i chiodi che trattenevano il coperchio. Si asciugò alcune gocce di sudore che gli imperlavano la fronte e si voltò verso il ragazzo, trattenendo un sospiro rassegnato. Difficilmente sarebbe potuto rimanere in vita a lungo, ma talvolta i miracoli accadevano e non spettava certo a lui disporre del fato. Perciò lo spinse tra le stoffe, mettendogli in mano un sacchetto pieno di carne secca e una manciata di banconote stropicciate.
Non era un sentimentale Ezra Seemann, non nei confronti degli estranei perlomeno, ma nascondeva una discreta dose di bontà nel suo animo malandato. Abbracciò quello sventurato giovane e mormorò una preghiera, la stessa che un tempo sua madre gli sussurrava la notte mentre si addormentava.
Solo quando ebbe finito di sigillare la cassa si accorse di non aver mai chiesto al clandestino quale fosse il suo nome.


Campo del Fiume Lucente, Montana - 30 luglio 1981

Il primo volo dei puledri era sempre un evento memorabile.
Prevedere quando sarebbe accaduto era impossibile, eppure, in un giorno apparentemente uguale a tanti altri, uno di loro sollevava all’improvviso il muso verso il cielo, attratto dall’immensità celeste, e spiegava le ali al vento. E così, uno dopo l’altro, si libravano verso l’alto, sotto lo sguardo attento e orgoglioso delle giumente, volteggiando allegri mentre la calda brezza estiva accarezzava le loro piume. Scoprivano finalmente quella libertà per la quale erano nati.
All’ombra del fienile, Macawi li osservava sorridendo incantata. Nonostante gli anni trascorsi, quello spettacolo aveva ancora il potere di emozionarla profondamente, perché non conosceva nulla di più simile ad un inno alla bellezza della vita.
«Vedo che malgrado le diciassette candeline sei ancora la solita sentimentale», esclamò una voce ruvida ma familiare dietro di lei.
La ragazza sbuffò e si voltò verso la figura che stava in piedi alle sue spalle, tranquillamente appoggiata ad un forcone. «E sfortunatamente il viaggio in Groenlandia non ha raffreddato il tuo umorismo», ribatté lei e subito il suo interlocutore fu scosso da una briosa risata.
Paytah Atwater era un giovane dal fisico ben piantato, pelle ambrata, corti capelli neri e un paio di occhi scurissimi. Brillante promessa del Quidditch, aveva ricevuto offerte dalle maggiori squadre americane una volta terminati gli studi, ma non ne aveva accettata nessuna. Per lui giocare era un divertimento, non gli interessava farne un’occupazione, così era tornato a lavorare nell’allevamento di famiglia. Ciononostante ogni anno partiva per alcuni mesi e girava il mondo come reporter per Il Corriere del Gufo, il giornale più letto dai maghi del Nuovo Mondo. La sua rubrica mensile “Fenomeni bizzarri e dove avvistarli” era un vero successo editoriale.
Per Macawi invece sarebbe sempre rimasto il bambino avventuroso che se la caricava sulle spalle e correva nel bosco in cerca di lamponi.
Sorrise a quel ricordo e si avvicinò al fratello, che la circondò con un braccio stringendola a sé per poterle scompigliare i capelli. «Allora Pay, quale stranezza hai scovato stavolta?», chiese cercando di non lasciar trasparire la sua curiosità.
«Non provarci sorellina, sai che non faccio eccezioni. Dovrai aspettare il prossimo inserto, come tutti gli altri lettori», le rispose quello, sogghignando compiaciuto.
Macawi gli rivolse una smorfia e tornò ad osservare i puledri in volo. Parevano così felicemente privi di incertezze e una parte di lei li invidiava.
«Ho parlato con nostro padre stamattina», disse ad un certo punto Paytah facendosi serio.
«Perciò sai che mi ha chiesto di non tornare a Ilvermorny in autunno», mormorò la ragazza. «Non so davvero cosa fare».
Suo fratello scosse la testa rabbuiandosi. «Non posso decidere per te sorellina. Ma se può esserti d’aiuto, mamma ti avrebbe detto di vivere la vita che desideri, qualunque essa sia».


Riva del Fiume Hudson, New York City - 30 luglio 1981

Le prime stelle iniziarono a specchiarsi nelle placide acque del fiume, incuranti dei tanti passanti che ancora passeggiavano lungo le sponde godendosi il tiepido crepuscolo.
Su una panchina solitaria sedeva Caradoc, il viso bagnato da lacrime silenziose. La terraferma e la brezza leggera gli avevano portato sollievo per qualche ora, ma all’imbrunire i brividi erano tornati, segno che la febbre non lo aveva abbandonato. Non che ci avesse sperato.
Un oceano intero non poteva bastare a metterlo in salvo dal suo destino. Doveva solo decidere come compierlo. Sarebbe stato sufficiente afferrare la bacchetta, quella bacchetta che si era dimostrata una fedele compagna sin dal suo primo giorno di scuola, e tutto sarebbe finito in poco tempo. Oppure poteva continuare a camminare, ancora e ancora. Era così stanco.
Voci gioiose lo spinsero a guardare oltre la nebbia del dolore. Una famigliola giocava spensierata poco lontano da lui, rincorrendo una palla colorata che rotolava a terra. Sembravano felici. Nessuna guerra li minacciava. Lui invece era così stanco.
All’improvviso la sua mente lo trascinò via, indietro nel tempo. Vide un uomo e un bambino su un sentiero in riva a un ruscello; il bambino piangeva, cercando di sfuggire alla mano del padre. Rammentava quel giorno. Aveva quattro o cinque anni e nel pomeriggio era stato per la prima volta a Diagon Alley: si erano gustati un gelato gironzolando tra le bancarelle, ma poi suo padre non aveva voluto comprargli una Pluffa nuova e lui aveva iniziato a piangere disperato, senza più smettere, nemmeno quando Londra era scomparsa per lasciare spazio alle brughiere del Galles. Poi era accaduto. Le acque del ruscello si erano gonfiate, creando un’onda che si era riversata su suo padre, inzuppandolo da capo a piedi. L’uomo era rimasto immobile a fissarlo, ma invece di sgridarlo lo aveva preso in braccio ed era corso verso casa ridendo come un matto. Aveva spalancato la porta d’ingresso, scagliando scintille dorate con la bacchetta e mostrando pieno d’orgoglio i vestiti fradici alla moglie frastornata. Non aveva smesso di gridare e festeggiare fino all’alba. Quella era stata la sua prima magia.
Seguendo quel ricordo luminoso, Caradoc si alzò e si strinse nel mantello. Forse avrebbe potuto camminare ancora un po’, un passo dietro l’altro.
Era così stanco.


Godric’s Hollow, Inghilterra - 31 luglio 1981

Un bambino si librava nel soggiorno, stringendo con le manine paffute il suo piccolo manico di scopa. Dietro di lui si intravedeva una scia di cocci e piante rovesciate, ma non pareva granché preoccupato.
I suoi ridenti occhi verdi erano pieni di allegria, mentre zigzagava a mezz’aria tentando di afferrare la coda di uno sventurato gatto bianco. Alla fine il felino si rintanò sotto la poltrona, soffiando indispettito.
Quello doveva essere un giorno speciale, perché erano comparsi pacchetti infiocchettati, nuovi giocattoli e persino una torta color del cielo.
Il bambino scese verso terra, diede una spinta coi piedini scalzi e subito tornò ad alzarsi in volo. Sentiva i passi veloci di suo padre e la risata argentina di sua madre, accompagnati da un piccolo lampo di luce e uno sbuffo di fumo.
Quello doveva essere un giorno speciale ed il suo unico desiderio era vivere mille giorni ugualmente felici.





 


NOTE:
* Date. Il 3 maggio 1945 il piroscafo Cap Arcona fu affondato in seguito ad un attacco aereo; all’interno si trovavano migliaia di prigionieri provenienti dai lager nazisti. Il 31 luglio 1981 Harry compie un anno e sappiamo che riceve in dono un manico di scopa giocattolo dal suo padrino, Sirius Black.
* Da quanto viene detto nel terzo libro della saga, sappiamo che Peter Minus passava informazioni a Voldemort da oltre un anno prima che arrivasse a tradire i Potter, perciò ho immaginato che alcuni attacchi ai danni di membri dell’Ordine della Fenice fossero dovuti alle sue indicazioni; il fatto che Peter sia un Animagus invece è ancora un segreto per il Signore Oscuro.
* Le Caerphilly Catapults sono una famosa squadra gallese di Quidditch.
* Il Corriere del Gufo è un giornale magico americano di mia invenzione, simile alla Gazzetta del Profeta.
* Il nome Macawi in dialetto Lakota significa “generosa”. Il cognome Atwater significa “coloro che vivono accanto all’acqua”.
* La tribù degli indiani Lakota è originaria delle pianure del Nord e Sud Dakota. Il termine Lakota significa “gli amichevoli”, sono infatti un popolo estremamente legato alla famiglia, dedito per lo più alla caccia e alla vita nomade nelle vaste praterie. I Lakota sono conosciuti come orgogliosi guerrieri e furono tra i primi a comprendere l’importanza del cavallo, tanto da renderlo parte integrante della propria cultura. Per questo ho ritenuto realistico che maghi e streghe provenienti da tale nazione potessero essere allevatori di cavalli alati.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Cammino ***


CAPITOLO 4: Cammino

 

Sede Segreta dell’Ordine della Fenice, Inghilterra - 2 agosto 1981

Dall’alto della sua finestra, Dorcas scrutava due figure identiche allontanarsi lungo il vialetto, a passi rapidi e con le bacchette in pugno.
Gli ultimi raggi del sole si impigliavano nei loro capelli ramati, perennemente in disordine dato che se li tagliavano da soli senza però possedere alcun senso estetico. Aveva sempre pensato che così combinati sembrassero dei buffoni, almeno fino al momento in cui le avevano mostrato una fotografia che testimoniava come li avesse conciati la sorella maggiore per anni. Da quando possedevano una bacchetta vietavano a chiunque di avvicinarsi ai loro capelli, specialmente a Molly Prewett in Weasley. E nonostante sembrasse impossibile, era stato un notevole miglioramento.
Se da bambina le avessero detto che avrebbe trovato i suoi migliori amici tra simili personaggi, si sarebbe fatta una bella risata. Era assurdo che proprio lei, Dorcas Meadowes, severa e intransigente fin dall’infanzia, potesse avere qualcosa in comune con i sorridenti e scanzonati gemelli Prewett. Nessuno avrebbe scommesso un singolo zellino di bronzo su una tale bizzarra possibilità. Eppure il caso, e Albus Silente, avevano deciso diversamente.
Erano ormai giunti al limite della proprietà e Dorcas li vide discutere animatamente, quasi certamente su chi dovesse smaterializzarsi per primo. I loro vecchi mantelli rattoppati ondeggiavano sulla ghiaia, svolazzando allegri nell’aria del tramonto, nonostante di certo avessero visto giorni migliori.
Pochi minuti prima, Gideon era salito di corsa, fermandosi davanti alla porta; aveva bussato con esitazione, implorandola di aprirgli, ma lei non si era mossa, restando seduta in silenzio. C’era ancora troppa rabbia, troppa delusione, troppa tristezza nel suo cuore. O forse, semplicemente, non voleva salutare un altro amico con il rischio di non rivederlo più.
Quando li osservò roteare e scomparire nel nulla, un singhiozzo le mozzò il fiato e le sue gambe cedettero, facendola finire in ginocchio. Fu allora che decise. Al loro ritorno li avrebbe abbracciati e avrebbe chiesto perdono per la durezza con cui si era comportata. Poi nulla le avrebbe impedito di accompagnarli in missione e sarebbero rimasti insieme, come era giusto che fosse.
E per Natale avrebbe comprato due mantelli nuovi. Arancione per Fabian e verde per Gideon, perché essere gemelli non significava certo essere copie.


Riva del Fiume Hudson vicino ad Albany, New York - 4 agosto 1981

Le prime luci dell’alba non erano ancora sorte quando Caradoc si svegliò. Si era riparato in un boschetto di aceri, poco distante dal fiume che stava seguendo verso nord ormai da giorni. Allungò le gambe intorpidite e scosse il mantello, per liberarlo dall’umidità della notte.
Non gli dispiaceva dormire all’addiaccio. Da bambino attendeva l’estate con trepidazione e appena possibile implorava suo padre di portarlo in campeggio per il weekend. Ovviamente insieme a Benjy Fenwick, il suo migliore amico.
Nonostante le origini scozzesi, la famiglia Fenwick viveva poco lontano da loro e lui e Benjy erano diventati ben presto inseparabili. Durante le avventure in tenda nelle brughiere gallesi, i due scorrazzavano liberi in cerca di Berretti Rossi o di qualche Jarvey, sotto l’occhio vigile del signor Dearborn. La notte invece se ne stavano sdraiati con la testa fuori dalla tenda, intenti ad osservare le stelle, con la vana pretesa di riuscire a leggervi il loro futuro.
Nulla di quanto avevano immaginato si era minimamente avvicinato alla realtà. Come potevano due bambini pieni di sogni credere che pochi anni più tardi la guerra avrebbe sconvolto le loro vite?
«Eravamo soltanto degli sciocchi», mormorò infine, alzandosi con non poca fatica e dirigendosi verso il fiume. Si sciacquò il viso con l’acqua gelida e si sporse, tentando di scorgere il suo riflesso, ma ciò che vide era un estraneo pallido ed emaciato che non riconobbe. Nessuno lo avrebbe riconosciuto, forse nemmeno i suoi genitori. La maledizione lo stava consumando.
Il dilemma che lo tormentava da quando aveva lasciato l’Inghilterra riprese a rimbalzargli nella testa. Ciò che aveva scoperto poteva essere fondamentale per cambiare le sorti della guerra, anche se non lo comprendeva appieno. Era qualcosa di oscuro. E di sbagliato. Tremendamente sbagliato.
A quel punto la sua decisione era presa. Avrebbe tentato di contattare l’Ordine, anche se significava esporsi al pericolo di essere rintracciato. E conosceva un unico modo per farlo senza utilizzare la magia.

Quando entrò nel piccolo bar a ridosso della stazione di servizio, l’orologio appeso al muro segnava le sei del mattino. Il locale era quasi deserto, ad eccezione di un vecchietto che addentava una fetta di torta e di una coppia che litigava sottovoce in un angolo.
Si sedette al bancone e ordinò una tazza di caffè, che un cameriere assonnato e dalle mani particolarmente sudice gli servì senza nemmeno guardarlo in faccia.
Caradoc sorseggiò la bevanda, incurante che fosse troppo calda o troppo amara. Si guardò intorno, studiando i tavolini bianchi e rossi e il pavimento scrostato, alla ricerca di qualche segno di magia, di un mondo che gli sembrava sempre più lontano.
Dopo alcuni minuti si ritenne soddisfatto. Se di magico c’era qualcosa, poteva essere solo il fatto che quel bar fosse ancora in attività, nonostante la scarsa igiene e il pessimo caffè.
Si schiarì la voce e poggiò alcune delle banconote avute dal signor Seemann accanto alla tazzina, sperando con tutto il cuore che fossero sufficienti.
«Potrei utilizzare l’apparecchio per le comunicazioni telefoniche?», chiese scandendo la frase con attenzione.
Il cameriere lo guardò stranito e Caradoc si pentì di non aver mai seguito le lezioni di Babbanologia durante gli anni trascorsi ad Hogwarts. Gli sarebbero tornate senza dubbio utili. Sbuffò fingendo impazienza e prese a tamburellare con le dita sul bancone rovinato, finché l’altro non si riscosse, pur continuando ad esibire un’espressione perplessa.
«Inglese eh?», borbottò, e quando nessuna risposta giunse indicò una malconcia tenda grigiastra sulla parete opposta del locale. «Il telefono è laggiù».
Con un cenno del capo Caradoc si alzò, dirigendosi a grandi passi verso “il marchingegno infernale”, come lo chiamava Moody. Si concesse un sorriso ripensando ai giorni dell’addestramento, durante i quali avevano subissato di chiamate alcune ignare casalinghe del Sussex. I gemelli erano addirittura riusciti a farsi passare per venditori di scope, sotto lo sguardo esasperato di Dorcas.
Allora tutto appariva semplice.
Compose il numero e attese, stringendo il ricevitore più del necessario. Un debole ronzio, seguito da un attimo di silenzio, poi finalmente si udì un click e un motivetto prese a diffondersi dalla cornetta. «Studio legale Law&Lawson, sede di Londra, come posso aiutarla?».
Qualcosa non andava e Caradoc se ne accorse immediatamente. La voce che aveva appena parlato era fredda e posata, per nulla simile a quella squillante che si aspettava di sentire. Dovette riflettere in fretta, ma provare a trasmettere il suo messaggio poteva essere vitale, perciò decise di tentare ugualmente. Forse gli incarichi dell’Ordine erano cambiati in sua assenza.
«Salve, chiamo in merito alla pratica Sherbet Lemon. Ho alcune informazioni urgenti da riferire».
«Sherbet Lemon? Sta scherzando vero?», chiese la sua interlocutrice, il cui tono non suonava affatto divertito.
«Le assicuro di no. Chieda alla signora Figg, lei saprà di cosa sto parlando», tentò Caradoc, iniziando a sentire la disperazione montargli nel cuore. Cosa stava succedendo?
«La signora Arabella Figg non lavora più presso di noi. Quanto a lei, le consiglio di non disturbare oltre questo stimato studio legale con simili sciocchezze. Buona giornata».
Caradoc rimase immobile a fissare il ricevitore ormai muto. Una gelida consapevolezza si fece strada nel suo animo: stavano perdendo la guerra. E lui era dall’altra parte dell’oceano.


Campo del Fiume Lucente, Montana - 4 agosto 1981

Si svegliò con la fastidiosa sensazione che qualcuno la stesse osservando. Sbuffò e si girò su un fianco, decisa a non interrompere il suo sonno per nessuna ragione.
Cinque minuti dopo rinunciò all’impresa e socchiuse gli occhi, trovandosi di fronte il sorriso beffardo del fratello, che se ne stava comodamente disteso accanto alla porta, afferrando biscotti da un barattolo che volteggiava a mezz’aria.
«Buongiorno pigrona!».
«Vattene Pay, è il mio giorno di riposo!», si lamentò Macawi, tirando il cuscino in faccia al ragazzo nella vana speranza di allontanarlo.
«Qualcuno si è alzato di pessimo umore oggi», ghignò di rimando suo fratello, sventolando alcuni fogli sgualciti. «Forse una lettera del tuo fidanzatino riuscirà ad addolcirti».
La ragazza scattò a sedere e si lanciò su Paytah, tentando di strappargli la pergamena dalle mani. «Non è il mio fidanzato, è il mio migliore amico! Si può sapere perché voi tre impiccioni continuate ad aprire le mie lettere?».
«Come fratelli maggiori è nostro preciso dovere controllare la tua corrispondenza Tanksi», si difese il giovane divincolandosi. La giocosa zuffa durò un paio di minuti, finché Paytah non decise di essersi divertito abbastanza e allentò la presa sui fogli, permettendo alla sorella di appropriarsene.
Finalmente vittoriosa, Macawi rubò un biscotto e si accomodò sul tappeto. La pergamena era ricoperta da una calligrafia minuta e ingarbugliata che conosceva ormai da anni.

Ciao Mac!
(E ovviamente un saluto anche a Takoda, Kangee e Paytah, dato che di sicuro leggerete questa lettera prima di lei! Come state ragazzi? Qualche novità all’orizzonte?)
Il tirocinio estivo al MACUSA è davvero grandioso, sto iniziando a farmi conoscere e ho persino avvistato alcune personalità di spicco, anche se purtroppo non ho ancora avuto modo di avvicinarmi al piano della Presidenza.
Per il momento sono stato assegnato all’Ufficio Permessi Bacchette insieme alla tua compagna di stanza, Charlotte Taylor. È piuttosto simpatica, dovrebbe solo ricordarsi di respirare tra un discorso e l’altro. Il nostro superiore è un certo signor Abernathy, avrà quasi novant’anni, ma ricorda a memoria ogni permesso emesso dal 1925 ad oggi! Riesci a crederci?
Naturalmente New York è impressionante, ma non ho avuto tempo di visitarla perché preferisco passare le serate a riordinare i miei appunti, saranno di vitale importanza in vista delle lezioni di Diritto Magico. Il settimo anno non è uno scherzo e ormai il mio incubo ricorrente è fare una figuraccia agli esami finali.
Scusa ma ora devo proprio salutarti, il signor Abernathy mi ha affidato l’intera catalogazione delle richieste respinte negli ultimi dieci anni, potrebbe essere il mio primo vero incarico al MACUSA!
A presto,
Tim

Macawi sorrise dell’entusiasmo di Tim; lei si sarebbe sentita del tutto inadeguata in un simile ambiente, ma l’amico sembrava perfettamente a suo agio nei meandri della burocrazia. Un giorno avrebbe fatto carriera, ne era certa.
«A proposito, nella posta di stamattina c’era anche questa», le disse improvvisamente Paytah, posandole in grembo una busta rosso mirtillo ancora sigillata.
Con mani tremanti la ragazza sfiorò il nodo gordiano impresso nella ceralacca blu: il simbolo di Ilvermorny. Un’ondata di emozioni la travolse e per un istante si rivide bambina, con quella lettera stretta al petto, terrorizzata ed elettrizzata all’idea di varcare le porte della scuola.
«Voglio tornarci. A settembre tornerò ad Ilvermorny», mormorò infine.


Riva del Fiume Hudson vicino ad Albany, New York - 4 agosto 1981

Dopo il fallimento di quella mattina Caradoc aveva ripreso a camminare.
Non avrebbe dovuto esserne in grado ormai. La maledizione che Evan Rosier gli aveva scagliato era annidata in profondità e lo stava uccidendo. Eppure riusciva ancora a mettere un passo dietro l’altro.
Qualcosa lo attirava verso est, una traccia fragile e sconosciuta, che portava con sé una luminosa sensazione di pace. Forse era solo un’altra illusione creata dalla febbre, ma gli era parso giusto seguirla.
“Se in questa oscurità dovessi incontrare qualcosa di giusto, afferralo e non lasciarlo andare. Sarà la tua salvezza”, gli aveva detto Benjy poco prima di morire.
Così Caradoc Dearborn si allontanò dal fiume e si diresse verso le montagne.


Quartiere di Brixton, Londra - 6 agosto 1981

Fabian arretrò nel vicolo, reggendosi il braccio destro. L’ultima esplosione lo aveva colto di sorpresa e non era stato abbastanza rapido da evitare le macerie; doveva essere una brutta frattura, dato che non riusciva più a stringere la presa sulla bacchetta. E come Battitore se ne intendeva parecchio di ossa rotte.
Nonostante il dolore impegnasse gran parte dei suoi pensieri, il mago non poté evitare di chiedersi cosa fosse andato storto. Erano stati attenti, non avevano dimenticato nessuna delle solite precauzioni. Eppure li avevano scoperti immediatamente. Sembrava quasi che li stessero aspettando.
Alcune scintille verdi illuminarono il cielo notturno e vide suo fratello Gideon svoltare l’angolo con un balzo. Aveva un profondo taglio sulla fronte e il fiato corto, ma il suo sguardo era risoluto. Poteva ancora salvarsi se agivano in fretta.
«Gideon, devi andartene», disse in un sussurro che non ottenne risposta.
«Gideon, devi andartene ora», insistette, mentre diversi schianti indicavano che le loro barriere stavano per cedere.
«Sai che non lo farò, perciò taci e pensa a restare in piedi», gli rispose secco il fratello. Non aveva mai usato quel tono, mai in tutta la loro vita.
«Uno di noi deve ritornare. Per Dorcas. E io non posso Smaterializzarmi in queste condizioni. Mi spezzerei come un pivellino». E purtroppo era la verità. Lui era spacciato.
«Lei capirà», mormorò Gideon, ma la sua voce tremava piena di rimpianti. La vita era così ingiusta. «Lei sopravvivrà e noi combatteremo un’ultima volta, insieme».
«Insieme», annuì Fabian, facendo qualche passo avanti.
I loro cinque avversari li trovarono spalla contro spalla, le bacchette levate e il sorriso di chi non si sarebbe mai piegato.






NOTE:
* Luoghi. Il quartiere di Brixton a Londra fu teatro nel 1981 di diversi scontri sociali, perciò l’ho immaginato come terreno ideale in cui i Mangiamorte potessero agire indisturbati, mascherando i loro attacchi magici senza creare ulteriore scalpore agli occhi dei Babbani.
* Il Jarvey è una creatura magica simile a un furetto, che vive sottoterra ed è in grado di articolare brevi frasi; i Berretti Rossi invece sono esseri simili a nani, che amano vivere in zone che sono state teatro di battaglie sanguinose. Entrambe queste specie sono diffuse in Gran Bretagna.
* Sherbet lemon è il nome di un dolce Babbano molto amato da Silente, tanto che il preside lo userà anni più tardi come parola d’ordine per accedere al suo ufficio ad Hogwarts. Mi sembrava verosimile che venisse usato anche durante le operazioni dell’Ordine.
*Arabella Doreen Figg è una Maganò, facente parte dell’Ordine della Fenice. Il suo ruolo durante la prima guerra magica è ignoto, perciò ho immaginato che lavorasse come segretaria in uno studio legale a Londra, fungendo da referente d’emergenza per i membri in difficoltà.
* Per quanto possa risultare scontato, secondo me Fabian e Gideon giocavano come Battitori ai tempi della scuola. Inoltre mi piace l’idea di creare una sorta di legame con i gemelli Weasley: anche se avevano solo tre anni quando gli zii morirono, credo che andassero molto d’accordo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3585111