Operazione Thangorodrim

di Losiliel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove si riaprono vecchie ferite ***
Capitolo 2: *** Dove Maedhros ricorda come tutto è iniziato ***
Capitolo 3: *** Dove i Fëanorion si riuniscono e Fingon va a lezione ***
Capitolo 4: *** Dove nasce un'amicizia ***
Capitolo 5: *** Dove si elabora un piano e si scambiano sms ***
Capitolo 6: *** Dove accade l'inevitabile ***
Capitolo 7: *** Dove ogni tentativo fallisce ***
Capitolo 8: *** Dove Maedhros riceve visite ***
Capitolo 9: *** Dove Fingon prende una decisione ***
Capitolo 10: *** Dove Maedhros prende una decisione ***
Capitolo 11: *** Dove arriva un aiuto inaspettato ***
Capitolo 12: *** Dove Maedhros torna a casa ***
Capitolo 13: *** Dove tutto cambia ***



Capitolo 1
*** Dove si riaprono vecchie ferite ***




 

OPERAZIONE THANGORODRIM

 


[ WARNING per AU, per slash, e per carenza di spessore. È stato solo un gioco, niente di più. ]
 

 

 

 

 

CAPITOLO 1

dove si riaprono vecchie ferite

 

 

 

Fingon aprì gli occhi e si chiese cosa l'avesse svegliato. Ci mise un po' per capire che erano colpi contro la sua porta d'ingresso. Si tirò il cuscino sulla testa e cercò di ignorarli. Chiunque fosse, se non avesse ricevuto risposta, se ne sarebbe andato presto.

– Fingon, apri, lo so che ci sei!

Forse non così presto, pensò, premendosi ancor di più il cuscino sulle orecchie.

Qualcuno si mosse nel letto di fianco a lui. – Fallo smettere.

Cercò di ricordare gli ultimi eventi della sera precedente per dare un nome alla persona che aveva parlato, ma un forte martellare alle tempie e quei colpi incessanti alla porta non gli rendevano il compito facile.

Sollevò appena il viso dal materasso e borbottò: – Mmmchi sei, che vuoi? Vattene.

– Sono tuo cugino.

– Vero o mezzo? – biascicò Fingon, che ne aveva parecchi, di entrambi i generi.

– Mezzo, deficiente, lo sai benissimo chi sono! Apri questa maledetta porta o la butto giù io.

Fingon gliel'aveva già visto fare una volta, non aveva alcuna intenzione di vedergli ripetere l'impresa. Si alzò barcollante, avvolgendosi senza troppa cura il lenzuolo attorno ai fianchi, si trascinò fino all'ingresso e girò la chiave.

All'istante la porta si spalancò, facendo entrare l'aria gelida del pianerottolo.

Sulla soglia c'era un ragazzo in un giubbotto grigio e jeans scoloriti, più o meno della sua altezza. Le ampie spalle e la muscolatura pronunciata, che si poteva intuire sotto la giacca imbottita, gli conferivano l'aria di uno che non conviene contraddire. O forse, più che dall’aspetto fisico, l'impressione era data da quel suo sguardo d'acciaio, che lo accomunava ai suoi numerosi fratelli.

Tra i suoi capelli chiari, arruffati dal vento, era rimasto impigliato qualche fiocco di neve, e Fingon, che lo conosceva dalla nascita, sapeva che il rossore sul suo viso era dovuto soltanto al freddo, e non all'imbarazzo per averlo sorpreso mezzo nudo con un ospite nel letto. "Imbarazzo" era una di quelle parole che non rientrava nel vocabolario di chi gli stava di fronte.

Celegorm Tyelkormo Fëanorion, figlio del fratellastro di suo padre.

Del defunto fratellastro di suo padre, si corresse. Erano già passati due anni dalla morte dello zio.

– Che vuoi Ty? – chiese Fingon, massaggiandosi le tempie nel vano tentativo di lenire le fitte alla testa.

– Devo parlarti – Celegorm lanciò un'occhiata oltre le sue spalle al ragazzo che, rimasto sul letto senza la protezione del lenzuolo, stava freneticamente tentando di infilarsi un paio di pantaloni.

– Da solo – aggiunse.

Fingon si voltò e si schiarì la gola. – Meglio che tu vada, adesso… – fece di nuovo un vano tentativo di recuperare un nome, poi vi rinunciò, – ti chiamo dopo.

Celegorm si avvicinò al giovane, gli mise in mano scarpe e camicia e lo accompagnò fuori dalla porta. L'altro riuscì a malapena ad afferrare al volo la sua giacca appesa in ingresso e a balbettare qualcosa come "ma non hai il mio numero", che la porta fu chiusa dietro di lui.

Fingon, rassegnato, si infilò una felpa e un paio di pantaloni della tuta e si diresse alla penisola che separava l'angolo cottura dal resto del monolocale. Il cugino lo seguì e si sedette su uno sgabello, appendendo il giubbotto al basso schienale. Allontanò due bottiglie di vino vuote, che si trovavano sul bancone davanti a lui, approvando la loro presenza con una smorfia esplicita delle labbra.

Fingon preparò due caffè, mise una tazza davanti a Celegorm, gli si sedette di fronte e cominciò a sorseggiare il suo. Solo allora si sentì in grado di affrontare una conversazione.

– Dimmi, cosa ti porta a rovinarmi la giornata e a terrorizzare... ehm… il mio compagno?

L'altro non abboccò.

– Il tuo compagno? A me sembra di averti appena semplificato le cose.

Lui non perse tempo a negarlo. Il mal di testa lo stava uccidendo e non voleva far altro che tornare a dormire.

E poi Celegorm lo conosceva fin troppo bene. Erano stati inseparabili compagni di banco per tutta la durata della scuola dell'obbligo, la loro amicizia andava ben oltre il fatto che avessero avuto un nonno in comune.

Prese un altro sorso di caffè e attese che il cugino si decidesse a spiegargli il motivo per cui era piombato nel suo appartamento con tanta urgenza.

Non dovette aspettare molto. Celegorm posò i palmi delle mani sul bancone, come se avesse bisogno di un punto d'appoggio, alzò il viso fino a incrociare il suo sguardo e disse: – Si tratta di Maedhros.

Il cuore di Fingon perse un battito.

Ancora, dannazione, dopo più di due anni.

– È dall'altroieri che non abbiamo sue notizie – precisò il cugino.

Lui cercò di tenere la voce sotto controllo: – E allora? Non è più un problema mio.

E si maledisse per essere scivolato su quel "più".

L'altro proseguì, imperterrito: – Temo gli sia successo qualcosa. Anche alla Tirion nessuno l’ha visto, e non è da lui saltare il lavoro.

– Continua a non essere un problema mio. – Questa volta Fingon riuscì a mantenere un tono deciso e l'espressione dura. – Hai altri cinque fratelli, Ty, e un bel numero di cugini che potremmo definire neutrali senza dover venire a scomodare l'unico che non ha motivo di aiutarti. 

Celegorm si passò una mano sul volto, poi nei capelli umidi, infine la riappoggiò sul tavolo davanti a sé. Fingon si accorse solo in quel momento delle occhiaie che gli segnavano il viso, di solito pieno di vita, e la compassione per il suo amico prese il sopravvento. Non ebbe il coraggio di cacciarlo di casa, e decise che avrebbe ascoltato ciò che era venuto a raccontargli, anche se ciò che era venuto a raccontargli avrebbe riaperto vecchie ferite.

Il cugino sembrò interpretare il suo silenzio come un'autorizzazione a procedere e disse: – Maedhros era alla ricerca di indizi sulla morte di papà. La riteneva collegata all'omicidio del nonno.

A lui per poco non andò per traverso il caffè che stava sorseggiando.

– Ma quali indizi? – domandò interdetto, – lo zio Fëanor è stato vittima di un incidente stradale e il nonno… beh, lo sappiamo… era nel posto sbagliato al momento sbagliato. 

Nella villa di Fëanor in collina. Solo. Quando qualcuno si era introdotto per derubarla e la rapina era finita in tragedia.

– Che diavolo, Ty! – esclamò Fingon, che ancora soffriva al ricordo. – Tenevate in casa quei maledetti brevetti o prototipi, o dio solo sa cosa fossero...

Quel paranoico di Fëanor! La sua indiscussa genialità era andata di pari passo con le sue ossessioni. A un certo punto si era messo a dubitare di tutti, persino del suo fratellastro e socio, e aveva cominciato a portarsi a casa le sue invenzioni per paura che gliele trafugassero. 

– Esatto! – esclamò Celegorm con fervore, – e secondo te, dei ladri qualsiasi sarebbero stati in grado di riconoscere quello che si sono trovati per le mani? È ovvio che sono stati mandati da qualcuno.

– Oddìo, non ricomincerai ancora con quella storia del complotto? – Fingon l'aveva già sentita mille volte: la perfida multinazionale che per mettere le mani sulla Tirion sarebbe arrivata al punto da commissionare un furto, o addirittura un omicidio! Roba buona per un film di spionaggio industriale di serie B.

E comunque, poco importava quanto l'ipotesi potesse essere verosimile. Per lui il problema era di un altro genere.

Una promessa fatta a sé stesso due anni prima.

Mai più.

Scosse il capo e allontanò la tazza come per allontanare i dubbi da una decisione già presa.

– Io non voglio entrarci. Lo sai com'è finita con tuo fratello.

Celegorm si protese in avanti e sembrò sul punto di rispondere, ma poi chinò il capo e annuì.

– Lo so. Ma mi sembrava giusto avvertirti.

E in un attimo era in piedi, col giubbotto in mano, pronto ad andarsene. Ma prima di uscire disse: – Nel pomeriggio ci troviamo tra noi fratelli per decidere cosa fare. Se ti va di venire, fammelo sapere.

La porta non si era ancora chiusa del tutto, che Fingon si alzò di scatto e imprecò ad alta voce.

Prese le bottiglie di vino e le gettò con forza nel secchio del vetro. Depositò le tazze nel lavello con solo un po' più di delicatezza.

Incapace di stare fermo, cominciò a camminare avanti e indietro per il suo monolocale. Bastavano pochi passi per andare da una parete all'altra.

Maledizione, la sua vita aveva appena ricominciato a girare per il verso giusto!

Era riuscito a laurearsi con un voto più che buono e stava conducendo uno stage presso un'importante società, terminato il quale il padre gli aveva chiesto di andare a lavorare con lui nell’azienda di famiglia.

Con tutta probabilità non avrebbe accettato, alla Tirion ci lavorava anche Maedhros e lui non aveva la minima intenzione di tornare a incrociare la sua strada, ma il solo fatto che Fingolfin gliel'avesse domandato dimostrava quanto fosse cambiata in pochi anni l'idea che il padre aveva di lui.

È vero, la sua vita sentimentale rimaneva un completo disastro, ma proprio il giorno prima si era detto che avrebbe potuto dare una possibilità a questo ragazzo, che gli sembrava promettente sotto vari aspetti. Tanto per cominciare non era troppo alto, e non aveva i capelli rossi.

E invece ecco che il passato tornava ad afferrarlo come se non fosse trascorso un solo giorno dal momento in cui aveva visto tutta la sua vita inabissarsi davanti ai suoi occhi.

E quello che lo faceva infuriare di più era che sapeva che non sarebbe riuscito a sottrarsi a quella presa. Anzi, peggio ancora, che non ci avrebbe neppure provato, nonostante le parole che aveva detto a Celegorm per mandarlo via, o ciò che andava ripetendo a sé stesso, in continuazione, mentre camminava come un automa avanti e indietro.

Mai più.

Dal momento in cui il cugino aveva pronunciato quel nome, e forse anche da prima, dal momento stesso in cui si era presentato alla sua porta carico di cattive notizie, Fingon aveva saputo che non si sarebbe tirato indietro.

Semplicemente, non poteva.

Borbottando quella che, ne era certo, non sarebbe stata l'ultima imprecazione della giornata, interruppe la sua marcia ossessiva e recuperò il cellulare dal comodino. Fece scorrere le chat di whatsapp fino a trovare Ty, poi digitò.

- A che ora?


 

 

_______________

 

Ringraziamenti

Un primo, enorme, sentitissimo ringraziamento a Kanako91 che ha betato la storia. Il suo aiuto è stato fondamentale per rendere questo racconto molto (credetemi, MOLTO) migliore di quanto non fosse nella sua prima stesura.

Un ringraziamento a voi lettori per aver deciso di affrontare anche questo mio esperimento. Spero di riuscire a regalarvi qualche momento di evasione e di farvi divertire almeno la metà di quanto mi sono divertita io nello scriverlo.

Infine, un ringraziamento speciale a LiveOakWithMoss, perché è stata la lettura della sua Dancing With My Punchlines a spingermi a fare questa piccola incursione nel mondo delle modern-AU. Se dovessi essere scivolata in headcanon non miei, sono senz'altro da ricercare negli ottanta capitoli della sua opera eccezionale.

 

Note sulla pubblicazione

Fino a Natale, la storia verrà aggiornata ogni lunedì e ogni venerdì.
Più avanti, a causa di impegni che mi terranno offline per qualche giorno, l'aggiornamento avverrà il mercoledì e il giovedì.
In ogni caso, non mancherò di segnalare al termine di ogni capitolo quando verrà pubblicato il successivo.

Detto questo, se vorrete seguirmi, vi aspetto LUNEDÌ prossimo con il secondo capitolo!

 

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Capitolo 2
*** Dove Maedhros ricorda come tutto è iniziato ***


 

CAPITOLO 2

dove Maedhros ricorda come tutto è iniziato

 

 

 

Maedhros riemerse dall'incoscienza.

Una nebbia densa permeava i suoi sensi. Sbatté più volte le palpebre, ma non fu in grado di distinguere nulla che riuscisse a riconoscere. Una superficie dura e fredda sotto di lui gli diceva che era sdraiato su un pavimento di mattonelle.

La testa gli pulsava furiosamente in un punto dietro l'orecchio, evocando il ricordo di una forte botta ricevuta subito prima di perdere i sensi.

Quando tentò di massaggiarsela, scoprì che aveva il braccio destro imprigionato. Una manetta, stretta al suo polso al punto da ostacolare il flusso del sangue, lo vincolava a quello che poteva essere un vecchio termosifone o una tubatura dell'acqua. Non riusciva a vedere bene da quell'angolazione.

D'istinto, tirò per liberarsi.

Ottenne soltanto il debole tintinnio del metallo e una voce maschile, priva di accento, che lo sovrastò.

– Bentornato tra noi.

Maedhros voltò la testa alla ricerca di chi aveva parlato e una fitta di dolore gli attraversò il capo.

Una persona stava avanzando verso di lui. Man mano che si avvicinava, la sua silhouette sfocata si fece più nitida, rivelando una corporatura snella, altezza media, un abito grigio, formale, in netto contrasto con i capelli dal taglio asimmetrico e di un rosso acceso, artificiale.

L'uomo gli si accucciò di fianco, gli afferrò il mento con dita fredde e lo forzò a guardarlo in faccia. Maedhros si stupì di vedere un viso giovane, forse persino più giovane del suo, con la pelle liscia e glabra, privo di rughe. Nel suo sguardo, però, si annidava qualcosa di incongruo, come se quegli occhi color del bronzo avessero visto più cose di quante fossero concesse a una persona di quell'età. Ora lo stavano scrutando con molta attenzione.

– Davvero notevole – sussurrò.

Maedhros cercò di afferrargli il polso con la mano sinistra per toglierselo di dosso, ma il suo braccio si mosse con una lentezza innaturale e a costo di grande fatica, e non arrivò mai a destinazione. Lui ne seguì la traiettoria come uno spettatore esterno e capì che dovevano avergli somministrato qualche tipo di farmaco. Un sedativo, forse.

Una nuova voce ruppe il silenzio. Profonda e perentoria.

– Lascialo stare.

Il giovane sospese la sua valutazione e si scostò di lato, tanto da permettere a Maedhros uno scorcio sulla stanza in cui si trovavano. Fece appena in tempo a distinguere una scrivania e una porta sulla parete dietro di essa, che il suo campo visivo fu oscurato da una figura imponente, massiccia, vestita di nero. Il nuovo arrivato indossava occhiali da sole e lui per un attimo lo invidiò, perché dal soffitto lunghe file di neon gettavano una luce bianca, intensa, che non faceva che peggiorare il suo mal di testa.

– Ragazzo – disse l'uomo, mentre il giovane si faceva da parte, obbediente, – abbiamo bisogno di alcune informazioni.

Le parole arrivarono al cervello di Maedhros deboli e lente, come se ci mettessero diversi secondi per percorrere la distanza tra le labbra che le pronunciavano e le sue orecchie. Dovette fare un grande sforzo per capirle.

L'uomo si chinò su di lui e con una mano enorme lo afferrò per il bavero e lo trascinò seduto. La manetta slittò verso l'altro, lungo la tubatura. Maedhros sentì che gli veniva portato un bicchiere alle labbra e non poté impedirsi di bere avidamente.

Gli venne sottratto molto prima che riuscisse a dissetarsi, ma bastò a farlo sentire un po' meglio.

– Dunque – riprese l'uomo, dopo aver affidato il bicchiere al suo compagno. Parlò con un tono neutro, casuale. – Cosa stavi facendo, nel cuore della notte, negli uffici della Gothmog?

Lui cercò di far emergere, dalla nebbia che avvolgeva la sua testa, il ricordo del momento in cui era stato catturato. Era quasi sicuro di essere stato in strada.

– Non so di cosa stai… – cominciò, con voce roca.

Senza alcun preavviso, l'uomo gli sferrò un manrovescio che gli fece sbattere la testa contro il muro e gli procurò un dolore ancora più atroce sulla guancia. Maedhros si accorse solo in quel momento che l'interlocutore indossava un anello di metallo scuro, con tre brillanti incastonati che ne emergevano affilati come lame.

Contro la sua volontà, affiorarono lacrime che gli offuscarono la vista.

– Mettiamo le cose in chiaro, rosso – riprese l'uomo come se nulla fosse successo. – Sappiamo chi sei… 

– Maedhros N. Fëanorion – intervenne il giovane dalla scrivania alla quale era andato a sedersi.

– … e sappiamo che ti sei introdotto nella sede della Gothmog Inc. – proseguì l'uomo, mentre l'altro gettava sul tavolo un mazzo di chiavi e una carta magnetica su cui spiccava il logo della multinazionale.

Maedhros represse l'impulso di tastarsi la tasca posteriore dei jeans. Evidentemente l'avevano perquisito mentre era privo di conoscenza.

L'uomo stirò le labbra, come se gli avesse letto nel pensiero. – Non ci resta che sapere il perché, poi il nostro compito sarà finito, e potremo tornarcene tutti a casa.

Maedhros non era malridotto al punto da non capire che, se c'era un modo per non ritornare più a casa, era proprio rivelare ciò che volevano sapere. Ma visto che negare l'evidenza aveva condotto a risultati dolorosi (sentiva il flusso caldo del sangue scendergli lungo il collo e la ferita sul viso bruciare come fuoco) decise di rimanere zitto.

Il silenzio si prolungò per interminabili secondi.

Alla fine il giovane si alzò, con una smorfia impaziente sul viso, e fece qualche passo verso di lui. Ma quando fu alla portata dell'uomo, quest'ultimo gli mise una mano sulla spalla e disse, col suo tono pacato: – Non c'è fretta.

Poi precisò: – È disidratato e non mangia da due giorni, domani a quest'ora un bicchiere d'acqua farà più dei tuoi metodi... elaborati.

L'altro esitò, e per un istante a Maedhros sembrò di vederlo indugiare di proposito sotto il tocco del suo complice. Poi tornò sui suoi passi, prese dal tavolo le chiavi, il badge e il bicchiere d’acqua mezzo vuoto e uscì. L'uomo lo seguì, ma prima di lasciare la stanza disse: – Stanotte andremo sotto lo zero… chiama se cambi idea.

E con un cenno del capo indicò un punto sopra la porta, dove la parete incontrava il soffitto, in cui era appesa una telecamera di sorveglianza.

 

Non appena Maedhros rimase solo, il flusso di adrenalina che gli aveva permesso di restare presente a sé stesso lo abbandonò, lasciandolo esausto e di nuovo prossimo all'incoscienza.

Si sforzò di resistere e di concentrarsi sulla sua situazione per cercare il modo di venirne fuori. Ma i suoi pensieri cominciarono a scivolargli via, a prendere direzioni non volute, imboccando i sentieri del passato e avvicinandosi in modo pericoloso a ricordi che aveva deciso di dimenticare.

Sentì la testa che gli pesava e lasciò che crollasse in avanti. Con un certo distacco, vide la camicia che cominciava a impregnarsi del sangue che gli colava dalla guancia. Avrebbe dovuto tamponare la ferita con qualcosa.

Invece lasciò il sangue libero di scorrere e lasciò i suoi pensieri liberi di andare là dove tornavano tutte le volte che lui non era abbastanza forte da opporsi.

A un incontro inaspettato, che aveva cambiato ogni cosa.
 

 

*******
 

 

L'aprile del 2010 stava volgendo al termine, quando Maedhros rientrò dal suo lungo soggiorno all'estero. Era stato via per cinque anni. Prima la laurea, poi un master, che si era appena concluso. 

All'inizio aveva pensato di prendersi una meritata vacanza, forse la prima da quando aveva lasciato le scuole superiori, ma poi aveva deciso di tornare in città, a casa dei genitori, per avere un po' di tempo per riambientarsi prima di cominciare a lavorare con suo padre alla Tirion, cosa che doveva avvenire quel settembre.

Ma i suoi progetti si scontrarono presto con un'inaspettata richiesta della madre che, a pochi giorni dal suo rientro, gli propose di fare da tutor a un cugino che aveva difficoltà a prendere il diploma.

– Ti prego, Maitimo – lo implorò, – i genitori sono disperati. Fingon ha già perso un anno, sembra essere entrato in una fase di ribellione, o qualcosa del genere…

Il fatto che la madre lo chiamasse col soprannome di quando era piccolo, o il fatto che avesse già fissato una data per la prima lezione, gli fecero capire che non aveva molte possibilità di sottrarsi all'incarico, e così il pomeriggio concordato si preparò ad accogliere quel cugino di cui non aveva che un vago ricordo.

Ma l'ora dell'appuntamento arrivò e passò, e nessuno si fece vivo.

Maedhros aspettò a lungo, poi, sopprimendo la tentazione di mandare tutto al diavolo, cedette al suo senso del dovere, si fece dare l'indirizzo da Celegorm e andò a bussare alla porta della villetta poco fuori città dove abitava la famiglia di suo zio.

Gli aprì una ragazzina sorridente, dai vivaci occhi scuri e dai capelli castani, ricci, che sfuggivano in ogni direzione da una pinza colorata. Indaffarata in chissà quale faccenda, lo salutò distratta dicendogli che suo fratello era "di là".

Lui oltrepassò l'ingresso e si incamminò nella direzione indicatagli. Entrò in un'ampia cucina, luminosa e ordinata, al centro della quale, a un tavolo ricoperto da libri e quaderni, sedeva un ragazzo immerso nella lettura. Era talmente preso dal suo studio, che non alzò nemmeno la testa per rispondere al suo saluto.

Maedhros si schiarì la gola e ripeté: – Ciao – e poi aggiunse, – ehm... scusa, non dovevamo vederci a casa mia?

L'altro allora diede un segno di vita e, senza sollevare gli occhi dal libro, puntò l'indice verso l'alto e disse: – Io sono Turgon, Fingon è su di sopra.

Maedhros borbottò una scusa e, cercando di tenere a bada l'irritazione, salì le scale fino al primo piano. Si trovò davanti a tre porte chiuse, ma a quel punto si era fatto un'idea precisa di come funzionassero le cose in quella famiglia e puntò diretto su quella con l'adesivo "Vietato l'accesso" incollato sopra.

Bussò.

Dall'interno non venne altro che musica ad alto volume.

Non vedendo alternative, Maedhros afferrò la maniglia ed entrò.

Si trovò nella stanza più disordinata che avesse mai visto, riconoscere il colore del pavimento sarebbe stata un'ardua impresa. In terra c'era ogni genere cosa: scarpe e vestiti, un paio di zaini, alcuni pesi, un pallone, una tavola dello skateboard, una console di videogiochi, CD e DVD, molti fumetti, qualche libro e un numero esagerato di riviste di musica.

Facevano da cornice a quel caos imperante pareti ricoperte di poster di rock band e scaffali che contenevano coppe e medaglie. Il letto aveva le lenzuola stropicciate e le coperte appallottolate sul fondo, e sul materasso era appoggiata una chitarra.

Sulla scrivania c'era la fonte di quella musica assordante: un impianto stereo che sembrava essere stato assemblato a mano con pezzi che provenivano dal secolo prima; un vinile girava sul piatto e molti altri attendevano nelle loro custodie variopinte in una pila scomposta accanto al giradischi.

Maedhros registrò tutto questo con un'occhiata distratta, perché seduto sul davanzale dell'unica grande finestra aperta sul tiepido pomeriggio di aprile trovò finalmente colui che stava cercando.

Il cugino aveva la schiena appoggiata allo stipite e teneva le ginocchia ripiegate contro il petto. Indossava un paio di pantaloni della tuta e una canotta aderente. Le braccia allungate in avanti a circondare le ginocchia mettevano in evidenza muscoli ben delineati su un fisico asciutto. Lo sguardo sembrava assorto sul fumo della sigaretta che stringeva tra le dita. Capelli neri, spettinati, lunghi fino alle spalle, gli ricadevano sul viso in ciocche disordinate.

Quando si rese conto che era rimasto a contemplare quello strano spettacolo per un tempo più lungo del necessario, Maedhros avanzò nella stanza e spense lo stereo.

Subito Fingon (o quello che, a questo punto, sperava fosse Fingon) spostò lo sguardo su di lui, e per un attimo nei suoi occhi balenò un'espressione sorpresa, quasi imbarazzata. Poi alzò il mento di scatto, come volesse sfidarlo a rivelargli chi fosse, e cosa diavolo ci facesse in camera sua non invitato.

Maedhros non si lasciò intimidire, atteggiamenti del genere li aveva visti assumere, nel corso della sua vita, da tutti i fratelli minori, e fece per presentarsi: – Ciao, io sono… 

– Lo so chi sei, è difficile non riconoscerti – lo interruppe il cugino con un tono sostenuto, dietro al quale non riuscì nascondere del tutto l'insicurezza, – Maedhros Fëanorion, immagino.

Spense la sigaretta in un coperchio di latta, saltò giù dal davanzale, fece qualche passo verso di lui e gli tese la mano.

– Fingon, piacere di conoscerti… o di ri-conoscerti, ci siamo già incontrati diversi anni fa… – la sua voce si fece incerta, – ma probabilmente tu non ti ricordi… 

Maedhros si trovò la mano stritolata in una presa forte, da dita troppo callose per un ragazzo così giovane e per uno studente. Quando il cugino lo lasciò andare, ci mise qualche secondo per rispondere: – Sì, ricordo qualcosa, a una festa di compleanno mi pare…

E dalla sua memoria spuntò un ragazzino vivace, sereno, sorridente.

– Scusa il casino… – disse Fingon, sistemandosi la maglietta, come se si stesse scusando invece dello stato della sua persona. – Avevo appena finito di fare un po' di allenamento – accennò a una panca inclinata, vicino alla scrivania, che lui, con la sua prima occhiata, non aveva notato.

Maedhros non riuscì a trattenersi e, con una voce più petulante di quanto intendesse, si sentì dire: – Hai appena finito di allenarti e fumi?

– Sì, mammina – lo canzonò il cugino, – hai altro da rimproverarmi?

– A dire il vero, sì. Ti aspettavo a casa mia due ore fa.

Per tutta risposta, Fingon gli voltò le spalle e tornò alla finestra. – Mi dispiace averti fatto perdere tempo – disse al giardino che si estendeva sotto di lui, – ma la verità è che non ho alcuna intenzione di mettermi a studiare.

Preso alla sprovvista da quel brusco congedo, Maedhros fece per andarsene. Poi la curiosità ebbe il sopravvento.

– Ma così perderai un altro anno! – esclamò.

– Non potrebbe importarmi di meno – borbottò l'altro.

– E i tuoi genitori cosa diranno?

– Ecco, forse questo potrebbe importarmi di meno.

E prima che Maedhros potesse ribattere, Fingon si voltò e gli si avvicinò.

– Senti, mi scuso ancora – disse, e mettendosi tra lui e la porta lo invitò a uscire con un gesto della mano. – Ma le cose stanno in questo modo, e tu non puoi farci niente.

Maedhros non si mosse, incerto se accettare o meno l'invito. Tutto propendeva per abbandonare quella casa all'istante e tornare alla sua vita. Voleva passare del tempo con Maglor, andare alla ricerca di un appartamento dove sistemarsi per conto suo, contattare vecchi amici che non vedeva da anni. 

Ma c'era il fatto che, volente o nolente, quello era un incarico che si era assunto, e lui non lasciava mai le cose a metà.

In più, doveva ammettere che c'era qualcosa che lo incuriosiva in quel ragazzo che sfidava con tale noncuranza la volontà dei genitori. Per lui, che aveva sempre fatto tutto ciò che gli veniva richiesto senza pensarci due volte e, di solito, senza nemmeno percepirlo come un peso, un comportamento del genere era del tutto inconcepibile.

Decise che avrebbe fatto un tentativo, se fosse riuscito a trovare il modo per convincere il cugino.

Davanti al suo esitare, Fingon sembrò perdere un po' di determinazione.

– Senti, non è che voglia cacciarti… magari potremmo... ehm... lasciar perdere tutta la faccenda dello studio e divertirci un po' – esitò solo un attimo, prima di concludere: – non mi sembri il tipo che sia divertito molto nella sua vita.

A quella provocazione Maedhros vide l'opportunità di volgere le cose a suo favore e la colse al volo.

– Può essere che tu abbia ragione – concesse. – Mettiamola così: io ammetto di aver bisogno di un po' di svago, se tu ammetti di aver bisogno di un po' di studio.

– Cosa proponi? – domandò l'altro con una scintilla negli occhi. E lui notò solo allora che non erano neri, come aveva creduto, ma di un blu intenso, scuro come il mare all'orizzonte.

– Per ogni giorno che mi concederai per cercare di rimediare ai tuoi voti… – Maedhros pensò in fretta, – te ne concederò uno per porre rimedio alla mia mancanza di svago.

Fingon sfoderò un sorriso che gli fece immediatamente rimpiangere di aver proposto l'accordo: – Affare fatto.

I due si strinsero ancora la mano e, se questa volta il contatto durò qualche istante più della precedente, fu solo per la necessità di sancire il patto in modo adeguato.

 



 

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Note

Appuntamento a venerdì per il terzo capitolo!


 

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Capitolo 3
*** Dove i Fëanorion si riuniscono e Fingon va a lezione ***




 

CAPITOLO 3

dove i Fëanorion si riuniscono e Fingon va a lezione

 

 

 

– Le cose stanno così – disse Curufin dalla sua postazione.

La sua postazione era una poltrona girevole di pelle nera dietro una scrivania ad angolo su cui c'erano il monitor di un computer, un notebook, un tablet e un gran numero di marchingegni elettronici di cui Fingon non riusciva nemmeno a immaginare l'utilità.

Il fratello di Celegorm invece sembrava trovarsi a suo agio come un pesce nell'acqua. Vestito in maniera impeccabile, con una camicia cucita su misura, un maglione scollato a V dell’esatto colore dei suoi occhi e dei pantaloni di lana che sembravano appena usciti da una lavanderia, aveva il potere di far sentire tutti gli altri, in normalissimi jeans e pullover, come se fossero vestiti a sproposito.

L'abbigliamento riusciva anche a farlo sembrare molto più grande dei suoi diciassette anni. O era quello, o il fatto che tre dei suoi sei fratelli, tutti maggiori di lui, aspettavano al suo cospetto in rispettoso silenzio in attesa di ciò che avrebbe avuto da dire.

Prima di continuare, Curufin lanciò una breve occhiata a Fingon e si rivolse a Celegorm.

– Rispiegami il motivo della sua presenza.

Cominciamo bene. Fingon odiava quando parlavano di lui come se non fosse presente.

– Te l'ho detto – disse con calma Celegorm dalla sedia sulla quale stava a cavalcioni, con le braccia incrociate sullo schienale, a destra della scrivania. – Aveva il diritto di sapere.

Fingon ringraziò il cielo che si fosse fermato lì, e non avesse aggiunto qualcosa del tipo "per quello che c'è stato tra loro". Era in quella stanza da cinque minuti e già rimpiangeva la sua decisione.

– E poi è uno che non molla mai, ci sarà utile. 

– Non ho mai sentito dei motivi meno validi – protestò Curufin, che considerava un affronto personale il fatto che ora a capo della Tirion ci fosse Fingolfin, il padre di Fingon. Poi aggiunse, per essere ancora più chiaro: – Non c'è posto per un Nolofinwion tra i nostri affari.

Dal letto su cui sedeva a gambe incrociate, Caranthir si allontanò dagli occhi un ciuffo di capelli scuri che gli nascondeva quasi del tutto il viso spruzzato di lentiggini, e puntando l'indice verso Curufin commentò: – Io do ragione a junior.

– Chiamami ancora una volta junior e ti avveleno i corn flakes – la caustica risposta del diretto interessato aveva tutta l'aria di non essere una vuota minaccia.

– Se mi uccidi anche solo in sogno è meglio che ti svegli e mi chiedi scusa – ribatté Caranthir, che aveva preso il vizio di esprimersi con frasi di vecchi film, per nulla intimorito dal fratello minore.

– Se io dico che Fingon resta, Fingon resta – tagliò corto Celegorm.

– Ok, ok… la presenza del Nolofinwion è approvata – acconsentì Curufin, cedendo in modo sospetto all'imposizione del fratello, – a patto che non si azzardi ad aprire bocca.

Fingon fece per ribattere, ma proprio in quel momento Maglor, il maggiore tra loro, che fino ad allora era rimasto in piedi presso la porta senza intervenire, decise che era arrivato il momento di farsi sentire.

– Scusate, ma che cosa ha il diritto di sapere? Volete spiegarmi che diavolo sta succedendo?

Era un bel ragazzo, con un'aureola di boccoli castani, i lineamenti regolari, gli occhi grigio-verdi e giusto un tocco di quell'aria da poeta maledetto che gli assicurava sempre il successo tra il pubblico femminile. Adesso però appariva sciupato e le sue dita mostravano che aveva ripreso a mangiarsi le unghie. Estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei jeans. Bastò uno sguardo di Curufin per farglielo rimettere via all'istante.

– Vuoi spiegarci perché siamo qui? – domandò ancora.

Curufin sistemò una matita allineandola con molta cura al blocco che teneva di fronte a sé, poi sollevò il mento e disse: – Forse non sapevi che Maedhros stava lavorando con papà.

Il fratello maggiore corrugò le sopracciglia e, chiaramente preso alla sprovvista da quell'affermazione, constatò: – Papà è morto due anni fa.

A quelle parole, la temperatura della stanza sembrò calare di qualche grado, e un silenzio teso si protrasse per un lungo momento.

Celegorm aveva raccontato a Fingon che nessuno si era più ripreso da quel dramma, che dal terribile giorno in cui Fëanor era stato ucciso, investito da un pirata della strada, tutto era cambiato in casa loro.

Di Maedhros evitava di parlare, ma gli aveva detto che Maglor aveva abbandonato la facoltà, come se, ora che il padre non c'era più, non ci fosse più alcun motivo di continuare una carriera che lui aveva sempre dichiarato di odiare, mentre Caranthir al contrario si era buttato negli studi con una tenacia che non aveva mai dimostrato prima. La madre, che passava molto tempo all’estero a causa del suo lavoro, aveva preso una lunga aspettativa per stare accanto ai figli, soprattutto ai minori, che andavano ancora a scuola.

Ma il fratello per cui Celegorm era più preoccupato era Curufin, che fin da piccolo aveva vissuto in una specie di simbiosi col padre. Il suo comportamento era stato il più inaspettato di tutti: Curufin non aveva mostrato reazione alcuna.

Fingon si ricordava ancora i suoi occhi asciutti al funerale.

Anche adesso riprese a parlare con voce ferma.

– Papà e Maedhros non ne avevano parlato con nessuno, ma stavano portando avanti delle indagini per conto loro, da quando il caso era stato archiviato.

Non c'era bisogno di spiegare a quale caso si riferiva. Anche la perdita del nonno aveva lasciato un grande vuoto.

– Sospettavano della Gothmog, ovviamente. 

– Ovviamente – borbottò Fingon, che si stava chiedendo quanto ci sarebbe voluto perché saltasse fuori la teoria del complotto. Dal suo punto di vista, l'unico errore commesso dalla Gothmog era stato quello di insistere nel tentativo di comprare la Tirion, quando era chiaro che né il nonno prima, né i suoi figli poi, pur tra tutte le loro divergenze, avrebbero mai ceduto alle strepitose offerte per l'acquisizione.

Curufin lo ignorò: – Quando me ne sono accorto ho cominciato a seguire da vicino le mosse della multinazionale, e di recente ho avuto la conferma che stanno partendo con la produzione di qualcosa di nuovo.

Fece una pausa, come se fosse superfluo pronunciare a voce alta la conclusione.

Poi alzò gli occhi al cielo davanti alla lentezza di quelle che lui considerava senza dubbio menti inferiori, e precisò: –  Si sono messi a lavorare sui progetti che hanno rubato a casa nostra.

– Come fai ad esserne sicuro? – domandò Maglor.

– Ci metterei due mesi a spiegarlo a te – disse Curufin, con la voce carica di quell'arroganza che non si curava mai di dissimulare, – ti basti sapere che quei progetti riguardavano lo sviluppo di un generatore di luce a consumo quasi nullo. Non ne esiste al mondo uno di uguale. La sua fabbricazione richiede materie prime particolari, un impianto di produzione completamente nuovo... non possono restare nascoste certe cose, a uno che sa dove guardare.

– E anche se fosse?

Curufin sospirò, esasperato, ma continuò la sua spiegazione: – Se riuscissimo ad accedere ai loro progetti, avremmo la prova che stanno lavorando all'invenzione di papà e potremmo accusarli di furto! E dato che gli originali erano custoditi nella cassaforte che hanno fatto saltare la notte in cui hanno ucciso il nonno, forse anche di omicidio. In ogni caso la Gothmog sarebbe spacciata.

– Perché non dire tutto alla polizia, allora? – lo incalzò Maglor.

Caranthir si intromise, con un sorriso ironico sulle sue labbra: – Sulla base di cosa, delle intuizioni di un diciassettenne sociopatico? Senza offesa, eh? – aggiunse in direzione di Curufin, forse temendo per i suoi corn flakes.

– E la mamma cosa ne pensa? – obiettò il maggiore.

Fu di nuovo Caranthir a rispondere: – La mamma? Ti sei bevuto il cervello? Ci manca solo che la carichiamo anche di questo peso!

– La mamma è fuori fino a lunedì – tagliò corto Curufin, – ha portato i gemelli in montagna.

– E ti ha lasciato qui da solo?

– Ehi! – esclamò Celegorm, – e io chi sono?

Maglor alzò gli occhi al cielo. – Ancora non capisco – disse, e Fingon gli fu grato di essere tornato al punto in questione, – hai mandato Maedhros a… a perquisire la Gothmog?

– Maedhros ha dodici anni più di me, è ovvio che non ce l'ho mandato – disse Curufin, ormai visibilmente spazientito. – È stata una sua idea.

– Cosa?!

– È stato lui a venirmi a chiedere aiuto. Dopo la morte di papà aveva continuato a lavorarci da solo ed era arrivato alle mie stesse conclusioni. Conosceva già anche il luogo dove venivano custoditi i progetti – aggiunse, non riuscendo a mascherare un certo rispetto.

– Ma come ha fatto a entrare? – domandò il maggiore.

– Caranthir ha corrotto uno degli addetti alle pulizie, si è fatto vendere le chiavi e una tessera magnetica – intervenne Celegorm.

– Ma che diavolo? – sbottò Maglor, – ero io l'unico a non sapere niente?

– Maedhros non voleva farti preoccupare – disse Celegorm, a bassa voce.

Maglor si prese la testa tra le mani – non ci posso credere – esalò, – dopo tutti questi anni, sempre la stessa storia!

Poi tornò a guardare Curufin e ordinò: – Avanti, dimmi tutto.

L'altro riprese con la consueta efficienza: – La rete di computer della Gothmog su cui tengono i loro file segreti non è connessa a internet…

– Significa che non può accedervi hackerando il sistema via web, come fa di solito – precisò Caranthir a un sempre più sbalordito Maglor.

– Bisogna accedere a una delle loro macchine per farlo – continuò Curufin, ignorando l'interruzione. – Maedhros doveva entrare nell'edificio, infilare un hard-disk che gli avevo preparato io in uno dei loro computer, attendere il tempo necessario al programma di sottrarre i dati, e uscire.

Fingon non riuscì più a trattenersi e a rischio di farsi buttare fuori esclamò: – ma voi siete fuori di testa!

Nessuno lo degnò di uno sguardo. In casa Fëanorion la follia era quasi un'abitudine, niente di cui scandalizzarsi.

Maglor gemette: – Cos'è andato storto?

– Ho perso il contatto con Maedhros – rispose Curufin senza perdere un briciolo della sua impassibilità. – So che è riuscito a entrare, che il programma ha fatto il suo dovere… ha detto "sto tornando a casa" e poi non l'ho più sentito.

Maglor impallidì. – Qual era il piano B? – mormorò avanzando lentamente nella stanza. Raggiunse la scrivania e vi si appoggiò con entrambe le mani, chinandosi in avanti con sguardo minaccioso. Celegorm si portò a fianco del fratello maggiore, forse per trattenerlo nel caso avesse tentato di scagliarsi contro Curufin. Quest'ultimo non si mosse di un millimetro.

– Qual era lo stramaledetto piano B?! – gli gridò in faccia Maglor e, a questo punto, Curufin rispose.

– Non c'era un piano B. Ha detto che avrebbe improvvisato.

Fingon imprecò. La situazione era peggiore di quanto si fosse aspettato e, se fino a qualche istante prima aveva nutrito ancora una debole speranza di poter uscire da quella casa per tornare alla sua vita, ora realizzò che non aveva altra scelta se non fare del suo meglio per aiutare quei folli cugini.

Si domandò se l'avesse mai avuta, una scelta, e gli tornò in mente un pomeriggio di aprile di tanti anni prima, quando si era ritrovato ad accettare un accordo che non aveva avuto alcuna intenzione di accettare, senza neanche sapere come fosse accaduto.
 

 

*******
 

 

Un attimo prima stava pensando a un vinile che doveva procurarsi per completare la sua collezione, con la brezza primaverile che gli dava sollievo dopo la sessione quotidiana di esercizi, e un attimo dopo suo cugino, che non vedeva da circa sei anni, era lì davanti a lui e il ricordo di una festa di compleanno di suo nonno era emerso dal passato e aveva cancellato ogni cosa.

 

Un pomeriggio estivo, una villa in campagna, un prato immenso poco distante dal porticato allestito come luogo di ristoro per gli invitati.

Lui e Celegorm, due quattordicenni costretti in abiti formali, gettate a terra le giacche, tiravano calci a un pallone. La palla era finita addosso a Caranthir, il suo gelato era caduto a terra, il ragazzino si era scagliato sul fratello maggiore. Maglor era intervenuto per sedare gli animi e si era beccato un calcio negli stinchi. La lite si era trasformata in zuffa e Curufin era corso a chiamare il padre.

Invece era arrivato Maedhros.

Era venuto avanti senza fare un gesto, ma i fratelli si erano separati di fronte al suo incedere. Non aveva alzato la voce, ma tutti si erano tesi comunque in ascolto. 

Aveva spiegato a Caranthir che chi perdeva un gelato aveva diritto ad averne altri due in risarcimento, aveva scambiato una battuta scherzosa con Celegorm e uno sguardo d'intesa con Maglor. Aveva sorriso a Fingon, come per scusarsi del comportamento dei fratelli.

Per quando era arrivato il padre, con Curufin per mano, tutto era già risolto. Maedhros aveva detto qualche parola a Fëanor in una lingua che Fingon non conosceva, il padre gli aveva sorriso, gli aveva stretto per un attimo il braccio in un gesto carico di orgoglio ed era tornato da dove era venuto senza mai lasciare la mano del piccolo.

Fingon aveva ripreso il gioco con Celegorm, ma ogni tanto era tornato con lo sguardo nella direzione in cui Maedhros si era allontanato.

Era rimasto molto colpito da ciò che era accaduto. Era rimasto colpito dal comportamento del cugino, da ciò che era riuscito a fare, dalla sua autorevolezza.

Ma c'era qualcosa di più. Qualcosa di nuovo, di insolito.

Era rimasto colpito anche dal suo aspetto, dal fisico alto e slanciato, valorizzato dall'abito elegante, dagli occhi chiari, che sembravano brillare come argento, dai capelli bruno-ramati, di cui riusciva a ricordare ogni singola sfumatura.

Confuso e sorpreso, come chi sta per affacciarsi sull'adolescenza, aveva avuto per la prima volta un'intuizione di quelle che sarebbero state le preferenze del suo cuore. 

 

E adesso, dopo tutti quegli anni, Maedhros era lì, nella sua stanza disordinata, a due passi da lui.

Per nulla diverso da come se lo ricordava, anche se aveva i capelli più corti e i tratti del viso più asciutti. Vestiva una polo scolorita dall'uso e un paio di jeans scuri, che su di lui facevano lo stesso effetto dell'abito che aveva indossato quel giorno.

All'improvviso, Fingon si rese conto delle proprie condizioni: malvestito, scarmigliato, affaticato dall'allenamento, col sudore che gli si stava asciugando addosso.

Ci mise tutto l'impegno di cui disponeva per mostrarsi indifferente, e questo finì senza dubbio per distrarlo, perché nel giro di pochi minuti si trovò a stringergli la mano e a promettergli che l'indomani sarebbe andato a lezione da lui, anche se non ne aveva avuto la minima intenzione.

E il peggio fu che l'indomani, a mente fredda, ci era davvero andato a lezione! Con tutti i libri delle materie che doveva recuperare, un paio di quaderni comprati apposta e, per puro caso, quella maglietta blu scuro che ben si intonava col colore dei suoi occhi. Sua sorella aveva sorriso nel vederlo uscire di casa, ma non aveva fatto commenti.

E le sorprese non erano finite, perché la lezione non si era rivelata affatto la tortura che si era aspettato!

Anzi, in breve tempo si era reso conto che anche gli argomenti più ostici, se spiegati dal cugino, non erano poi così difficili da capire e che quelli più noiosi, visti da una prospettiva diversa, racchiudevano sempre un aspetto interessante.

Insomma, due ore di studio erano volate via, senza che nemmeno se ne accorgesse.

Avrebbe persino potuto definirle gradevoli, almeno fino al momento in cui Maedhros, con aria sorpresa, gli aveva domandato come potesse avere dei problemi con la scuola, dato che nella sua lunga esperienza aveva incontrato di rado studenti così svegli, e lui si era ritrovato, chissà come, a rovesciargli addosso cose che non aveva mai osato dire a nessuno.

– Prova a dirlo a mio padre – era arrivato a dire, a quel cugino quasi sconosciuto, – per lui non sono io il figlio intelligente, come non smette mai di ricordarmi. È da quando è nato che mi paragona a mio fratello... adesso siamo pure in classe insieme, maledetto me che ho perso l'anno! "Turgon ha bei voti, Turgon lavora d'estate, Turgon ha una ragazza incantevole"… non ti dico la faccia che ha fatto quando gli ho portato a casa il mio primo fidanzatino…

E così via, un fiume di parole che si era riversato inarrestabile oltre gli argini della razionalità. Verità che si mescolavano con iperboli, l'obiettività che lasciava il posto all'esasperazione.

Una bella scenata da adolescente insicuro servita a un ventiquattrenne colto ed equilibrato, su cui, fino a quel momento, non si era reso conto di quanto ci tenesse a fare una bella figura.

Quando finalmente era riuscito a porre un freno a quello sfogo infantile, esagerato nei toni e nei contenuti, consapevole di essere arrossito, aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani e aveva atteso la reazione del cugino in un silenzio imbarazzato.

Ma con sua grande sorpresa Maedhros, che lo aveva ascoltato con attenzione e senza mai interromperlo, quando alla fine aveva parlato non l'aveva fatto per giudicare.

– Spesso i genitori richiedono molto non perché hanno una scarsa considerazione dei figli, ma proprio per il motivo opposto. È solo un modo per spronarci a dare il meglio di noi stessi.

Poi gli aveva posato una mano su una spalla e aveva sorriso: – A volte invece non capiscono un accidente e tocca a noi mostrargli che hanno torto. Quindi, diamoci dentro.

E come se nulla fosse, come se quello sfogo non fosse mai avvenuto, o come se cose del genere rientrassero nella sua esperienza quotidiana, aveva ritirato la mano chiedendogli: – Cosa stavamo dicendo della poetica di Blake?

Allora Fingon aveva ricambiato il sorriso, sbirciando l'altro da sotto le ciglia, sentendosi per la prima volta capito e accettato per quello che era, e pregustando la giornata successiva, quando avrebbe condiviso con quello strano cugino quella che era da sempre la sua più grande passione.




 

________________
 

Note

01.
Per chi se lo stesse chiedendo, Caranthir cita Quentin Tarantino (Le Iene, 1992).

02.
Ringrazio chi ha letto fin qui e chi ha voluto lasciarmi un commento.
Essendo l'AU un territorio nuovo per me, le vostre impressioni sono, se possibile, anche più gradite del solito!

03.
Appuntamento a lunedì per il prossimo capitolo!

 

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Capitolo 4
*** Dove nasce un'amicizia ***




 

CAPITOLO 4

dove nasce un'amicizia

 

 

 

Maedhros rabbrividì. La temperatura stava calando.

La ferita alla guancia aveva smesso di sanguinare, ma non di tormentarlo con un dolore pulsante che si estendeva a tutto il lato destro del viso. La testa continuava a mandargli fitte atroci, aveva le labbra e la gola secche e doloranti, e una spiacevole sensazione allo stomaco che non riusciva a capire se fosse nausea o fame. Il polso sembrava stretto in un anello di fuoco e la mano era intorpidita, ogni tentativo di muoverla scatenava la puntura di mille aghi.

Il suo primo impulso fu quello di liberarsi dalla manetta. Cercò di sfilarsela, ma era stretta al punto che sul dorso della mano spiccavano già, come corde bluastre, le vene in rilievo.

Allora afferrò la tubatura alla quale l'avevano incatenato e tirò, ma questa si rivelò abbastanza robusta da reggere ai suoi attacchi, resi ancor più inefficaci dalla debolezza causata dalla botta alla testa, dalla mancanza di cibo e dal farmaco che gli avevano somministrato.

Niente da fare. Non era con la forza che sarebbe riuscito a tirarsi fuori da quel guaio.

Cercò allora di rimettere in moto il cervello, ripercorrendo gli eventi che l'avevano condotto fin lì, nella speranza di ottenere qualche indizio che gli potesse essere d'aiuto per trovare una via d'uscita.

Il piano elaborato con Curufin aveva funzionato. Almeno all'inizio. La chiave che Caranthir aveva comprato a peso d'oro aveva aperto la porta sul retro dell'edificio che ospitava la base operativa della Gothmog. Un palazzo moderno in centro città, vicino alla zona finanziaria.

Il badge gli aveva dato accesso alla sala dei server e l'hard-disk aveva fatto il suo dovere senza far scattare allarmi. O almeno così aveva creduto, non avendo sentito sirene mettersi a ululare all'improvviso.

Evidentemente non si era trattato di uno di quegli allarmi che risuonano in tutto il quartiere squarciando i timpani al vicinato, ma di quelli che accendono lucine lampeggianti nelle stanze dove le persone incaricate di risolvere le cose senza suscitare clamore vegliano tutta la notte.

Era tornato in strada e aveva imboccato alcuni vicoli, ma presto si era reso conto di essere inseguito, e che ogni via di fuga era già stata bloccata. Era riuscito a liberarsi dell'hard-disk prima di venire catturato, non delle chiavi e del badge, però. Un colpo l'aveva sorpreso alla nuca e si era risvegliato nella stanza dove si trovava adesso.

La situazione appariva disperata.

L'unica misera consolazione era che i suoi carcerieri sembravano non sapere dove avesse nascosto i dati rubati, in caso contrario l'avrebbero già accusato pubblicamente di effrazione, compromettendo la Tirion in via definitiva, oppure… l'avrebbero eliminato, in senso letterale. Questa gente aveva già dato prova di non avere scrupoli.

Loro avevano bisogno di sapere, e lui di certo non avrebbe parlato. Non temeva per la sua vita.

La sua vita, anzi, a ben guardare, negli ultimi anni era diventata un tale schifo che nemmeno ci teneva più di tanto.

A partire dall'omicidio del nonno, tutto aveva cominciato a precipitare. Come se l’improvvisa scomparsa di quell’uomo eccezionale, che aveva avuto il coraggio di lasciare il proprio paese e di trasferirsi in una terra straniera per fondare una piccola fabbrica destinata a diventare una delle prime industrie dello stato, avesse segnato l’inizio della caduta dell’intera famiglia di cui era stato la colonna portante.

La normale, dolorosa, elaborazione del lutto non era stata possibile, perché il drammatico evento aveva avuto conseguenze che erano andate ben oltre quelle di carattere personale. 

Il passaggio di gestione nell'azienda aveva esasperato le rivalità tra gli eredi. Le pressioni della Gothmog per l’acquisizione della Tirion si erano fatte sempre più insistenti, spinte forse dalla situazione di instabilità che si era venuta a creare a livello dirigenziale, forse dalle voci che circolavano sul fatto che Fëanor fosse sul punto di produrre qualcosa di rivoluzionario.

Le indagini sui responsabili del furto e dell'omicidio non avevano condotto a niente, e il padre aveva cominciato a dar voce ai suoi sospetti. Maedhros l'aveva assecondato più per evitare di contraddirlo che perché li ritenesse fondati, fino al giorno in cui Fëanor era rimasto vittima dell'incidente. A quel punto era stato messo davanti al fatto inequivocabile che quella catena di eventi non poteva essere dovuta al caso, e si era mosso per proteggere la sua famiglia.

Aveva cominciato allontanando la persona che gli era più cara.

Gli sfuggì un nome dalle labbra, e capì che era ben lontano dal recuperare la lucidità quando i suoi pensieri tornarono di prepotenza al giorno in cui era nata un’amicizia a dir poco improbabile.


 

*******


 

La prima lezione, iniziata sotto la spinta di un accordo che assomigliava molto a un ricatto, alla fine era durata un pomeriggio intero e aveva entusiasmato, all'apparenza, lo studente tanto quanto l'insegnante.

Maedhros si era stupito di trovarsi davanti un allievo interessato e svelto a imparare, ed era certo che malgrado mancassero solo due mesi all'esame finale, il cugino sarebbe stato in grado di affrontare la prova e di superarla con un voto più che discreto.

E anche a parte lo studio, Fingon si era rivelato una piacevole compagnia, nonostante la giovane età; dotato di un umorismo arguto, mai banale, e di un'intelligenza acuta che spaziava in un vastissimo campo di interessi.

Tutto questo gli faceva pensare che forse (ma solo forse) il pomeriggio che stava per cominciare non sarebbe stato così terribile come l'aveva immaginato.

Ma quando vide arrivare il cugino, puntuale all'appuntamento sotto casa sua, in sella a una rombante moto che non avrebbe sfigurato sulla pista di un gran premio, le sue speranze cominciarono a incrinarsi.

Prima che lui potesse elaborare una qualsivoglia protesta, Fingon spense il motore e sollevò la visiera del casco, rivelando quel sorriso che Maedhros stava cominciando a temere, perché aveva lo strano potere di mandare in confusione le sue sinapsi e di compromettere la sua capacità di ragionare.

– Pronto?

– Prontissimo – si sentì rispondere, mentre accettava un secondo casco che Fingon gli porgeva.

– Salta su, allora – ordinò il cugino, – e tieniti forte.

Lui si mise il casco e "saltò su". Quanto al tenersi, dopo aver scartato la soluzione più ovvia, agganciò le mani al portaoggetti dietro di lui.

Fingon mise in moto e partì con uno scatto. Maedhros riuscì a resistere due interi secondi prima di mollare la presa e affondare le dita nei fianchi del cugino che, per tutta risposta, accelerò e si produsse in una corsa sfrenata con tanto di slalom tra le auto.

Nel giro di poco Maedhros si ritrovò, elettrizzato e agghiacciato al tempo stesso, stretto forte alla sua schiena, cercando di ricordare il nome di qualche divinità alla quale affidarsi, ma riuscendo a pensare solo all'osservazione sul fidanzatino che Fingon si era lasciato sfuggire il giorno precedente. Quando arrivarono a destinazione, non seppe se rallegrarsi di essere ancora in vita o se dispiacersi che il viaggio fosse durato così poco.

La loro meta, scoprì, era un impianto sportivo noto perché ospitava, tra le altre cose, una palestra per l'arrampicata indoor tra le più attrezzate della regione.

Mentre entravano e si dirigevano verso gli spogliatoi, Fingon gli parlò entusiasta della disciplina, e di come era nata la sua passione. Prima ancora di camminare – gli avevano raccontato i suoi – già aveva scalato tutte le librerie del salotto, e all’età di cinque anni aveva cominciato a rifiutarsi di usare la porta per entrare in casa, prediligendo la finestra del primo piano. A quel punto, i genitori, esasperati, l'avevano accompagnato in quella stessa palestra: visto che non riuscivano a farlo smettere, avevano detto, che almeno imparasse a farlo bene.

Maedhros lo ascoltava affascinato, e con sincera curiosità, perché non aveva mai avuto un interesse sportivo che l'avesse coinvolto a tal punto. In effetti, più frequentava questo cugino, più si rendeva conto che la sua vita, finora, era stata parecchio carente di grandi passioni. 

Gli atleti che incrociarono lungo i corridoi salutarono Fingon con grande calore; ragazzi e ragazze anche molto più grandi di lui gli indirizzarono rispettosi cenni di saluto, alcuni lo chiamarono con un soprannome che lui non afferrò (qualcosa che aveva a che fare con la sua bravura, o col valore). 

Il cugino sembrava una persona del tutto diversa dal ragazzo immusonito e pensieroso che aveva conosciuto in camera sua o da quello concentrato e curioso di quando avevano fatto lezione insieme. Era rilassato, come se si trovasse nell'unico luogo in cui non fosse costretto a recitare una parte. Era raggiante.

Giunti nello spogliatoio, mentre si vestiva con indumenti che Fingon aveva portato apposta per lui (una maglietta senza maniche, un paio di pantaloni della tuta e delle strane scarpette sottili), Maedhros si lanciò in un timido tentativo di protesta, che suonò debole persino alle sue orecchie: – Non sono un tipo molto sportivo, io. In vita mia avrò fatto sì e no due anni di nuoto. – Evitò di precisare che l'aveva fatto solo perché suo padre aveva detto che era necessario per la propria sicurezza.

Fingon gli rivolse una lunga occhiata incredula, che percorse tutto il suo corpo e che lo fece sentire un po' a disagio. Poi esibì un sorriso rassicurante: – Non preoccuparti, inizieremo con qualcosa di molto semplice.

Lo condusse quindi a una parete adatta ai principianti per insegnargli i movimenti di base. Definire la cosa "semplice" era un’esagerazione, ma il cugino si rivelò un ottimo maestro e Maedhros si impegnò al massimo, perché era così che faceva tutte le cose a cui si applicava, e forse, un pochino, anche perché ci teneva a non fare una brutta figura.

Quando Fingon lo ritenne pronto, dopo avergli fatto provare diversi passaggi ad altezza terra, gli fece indossare l'imbragatura e la corda di sicurezza, e gli propose di salire da solo fino a metà parete, mostrandogli prima come affrontare il percorso.

Maedhros non era del tutto convinto, ma si affidò al giudizio del suo maestro e fece come gli veniva detto.

All'inizio ascoltò con attenzione la voce del cugino che lo guidava dal basso con indicazioni precise, ma ben presto cominciò a prendere confidenza e a individuare gli appigli prima ancora che l'altro glieli facesse notare. Iniziò a procedere più sicuro e più spedito, e arrivò perfino a pensare che il tutto non fosse poi così difficile.

Ma, arrivato a metà della parete, si trovò a corto di fiato e si bloccò. Subito Fingon gli chiese se voleva scendere; il cugino teneva l'estremità della corda e lui non avrebbe dovuto far altro che lasciarsi andare.

Maedhros rifiutò scuotendo il capo. Costrinse i suoi polmoni a ricominciare a funzionare in modo corretto, alzando e abbassando il diaframma con regolarità anche se aveva ogni altro muscolo del corpo contratto allo spasimo, sgombrò la mente da qualsiasi pensiero che non fosse la sua mano destra, forzò le sue dita a sganciare la presa e a chiudersi sull'appiglio successivo. Fece seguire un piede. Poi l'altra mano. Ancora. E ancora.

Raggiunse la meta quasi senza accorgersene e, all'improvviso, tutto ciò che i suoi sensi avevano escluso per concentrarsi soltanto sulla prestazione del suo fisico tornò ad aggredirlo. I suoni che rimbombavano nella palestra, le voci degli altri atleti, il dolore alle dita, la stanchezza dei muscoli e, sopra a tutto questo, la profonda consapevolezza di aver superato i propri limiti, di aver dominato il proprio corpo con la forza di volontà.

La voce del cugino lo raggiunse dal basso: – Ti tiro giù.

Lui si lasciò andare e Fingon lo riportò a terra, dove si ritrovarono faccia a faccia.

Nello sguardo del cugino Maedhros lesse sorpresa e incredulità, e qualcosa che lo colpì più a fondo di quanto si aspettasse. Rispetto. Di più. Ammirazione.

Si affrettò a guardare altrove, sentendosi arrossire.

Anche Fingon distolse subito lo sguardo, e borbottò che sarebbe andato a fare un po' di esercizio da solo mentre lui recuperava le energie.

Lui si fermò a guardarlo e scoprì di non essere l'unico che aveva interrotto il proprio allenamento per assistere. Il cugino scalava con una grazia e una leggerezza incredibili, in un flettersi di muscoli scattante e fluido insieme, talvolta, sospettava Maedhros, scegliendo movimenti più azzardati del necessario a beneficio del suo pubblico.

O suo, gli suggerì un angolo irrazionale della sua mente.

Finì che restarono in palestra per più di due ore, poi, esausti, si fecero una doccia e si cambiarono. Mentre si dirigevano al parcheggio, Fingon lo sorprese con una proposta: – Mangiamo qualcosa insieme, se ti va.

– Volentieri – rispose Maedhros, prima ancora di rendersene conto, – cioè no, voglio dire... ho già un impegno stasera.

– Ah, ok allora, sarà per un'altra volta – disse il cugino e, senza aggiungere altro, gli voltò le spalle e si dedicò a liberare la moto dalla catena.

Maedhros deglutì. Sentì uno strano bisogno di giustificarsi e, con un impaccio che di solito non provava nell'esprimersi, disse: – È che Maglor suona in un locale e gli ho promesso che sarei andato a sentirlo.

Si schiarì la gola e, domandandosi come mai tutto sembrasse così difficile, continuò: – Perché non vieni anche tu? – e poi, come se avesse bisogno di una scusa, aggiunse, – ci sarà anche Celegorm.

Il sorriso che il cugino gli rivolse, frulla-sinapsi ai massimi livelli, lo lasciò a chiedersi se avesse fatto la scelta giusta.

 

Il locale era un pub che aveva un angolo adibito a piccolo palco, dove una sera a settimana si esibivano i gruppi musicali.

Pareti rivestite di legno, lunghi tavoloni addossati ai muri per lasciare alla gente uno spazio libero per ballare, odore di pane tostato e di malto d'orzo. Quando arrivarono, era già piuttosto affollato. Si sedettero su una panca occupata da Celegorm e da Aredhel, la sorella di Fingon. Si strinsero fianco a fianco e ordinarono qualcosa da mangiare e due birre.

Di lì a qualche minuto la band cominciò a suonare. Maglor, alla chitarra, era anche la voce solista. Con la sua maglietta nera attillata e i jeans strappati era quello dall’aspetto più sobrio. Il bassista portava pantaloni al ginocchio e non aveva un solo centimetro di pelle che non fosse tatuato. La ragazza alla batteria aveva un piercing sull'ombelico e indossava un top con una scritta fluorescente stampato sopra, mentre quella alle tastiere sfoggiava una cresta di capelli colorati in cui il fucsia la faceva da padrone.

Quella sera suonavano revival degli anni '70 e '80, e Maedhros all'inizio si stupì nel sentire che Fingon riconosceva tutti i brani, di cui sapeva anche elencare il titolo, l'autore e l'anno in cui erano stati composti, ma poi, ricordandosi della straordinaria collezione di CD che aveva visto nella sua stanza qualche giorno prima, comprese che la musica doveva essere un'altra delle sue grandi passioni.

Il volume era troppo alto per conversare, ma la musica era davvero coinvolgente, il gruppo aveva del talento e Maglor aveva una voce che incantava. Nuove birre seguirono le prime e quando Celegorm e Aredhel lasciarono la panca per ballare, Fingon rimase contro la sua spalla a canticchiare e applaudire, apparentemente ignaro del fatto che si era liberato del posto alla sua destra. E Maedhros non sentì il bisogno di farglielo notare.

Quando il cugino lo invitò a uscire a prendere un boccata d'aria, lui si accorse di avere le gambe un po' instabili, e la testa leggera, e trovò difficile districarsi nella sala gremita.

La band attaccò una nuova canzone, un riff di chitarra che si ripeteva sempre uguale, cui seguirono versi sconosciuti che parlavano d'amicizia.

Un movimento della folla lo separò dal cugino che lo precedeva. Temette di perderlo di vista e, senza pensarci, tese una mano.

E il tempo si fermò.

Non rimase altro che la voce di Maglor - parole mai sentite che prendevano significato

(he said I was his friend)

una sensazione inattesa - come c'era finita la mano del cugino nella sua?

(which came as some surprise)

un incrocio di sguardi sorpresi

(I spoke into his eyes)

e poi Maedhros aprì la mano e lo lasciò andare.

(oh no, not me, I never lost control)

Il tempo riprese il suo incedere consueto e loro furono fuori, appoggiati con la schiena contro il muro, a corto di fiato come se fossero reduci da una corsa.

Fingon accese una sigaretta e gliela offrì e lui la accettò prima ancora di capire cosa stesse facendo. Gliela restituì all'istante, rischiando di bruciargli le dita. Il cugino la lasciò cadere e si mise a ridere senza motivo e lui avrebbe voluto chiederglielo, ma proprio non poteva, perché stava ridendo a sua volta.

Da dentro la musica arrivava smorzata, come un sottofondo rassicurante (la realtà era ancora lì, a un passo da loro, dopotutto), e i due trascorsero il resto della serata a chiacchierare e a ridere e a scherzare, finché i rispettivi fratelli non vennero a cercarli, preoccupati perché non li vedevano rientrare.

Quando Fingon lo riaccompagnò a casa, quella notte, dopo una corsa in moto in cui Maedhros credette di perdere la vita, ma di cui non avrebbe fatto a meno per nulla al mondo, nel salutare il cugino che lo guardava raggiante (e lui di certo lo stava guardando allo stesso modo), si chiese quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva vissuto una giornata così emozionante.

Arrivò alla conclusione che forse non era mai accaduto.

E andò a dormire con gli auricolari nelle orecchie e spotify che suonava una canzone che non aveva mai sentito prima di quella sera, ma che non riusciva più a togliersi dalla testa. 

(I laughed and shook his hand, and made my way back home...)

 


_____________

Note

01.
La canzone citata è "The man who sold the world" di David Bowie, dall'album omonimo del 1970 (forse alcuni di voi ricorderanno con più facilità la cover interpretata dai Nirvana nei primi anni '90).
Per chi fosse interessato, qui è cantata da David, mentre qui è cantata da Kurt.

02.
Non pratico l'arrampicata e le ricerche su internet non possono certo sopperire a questa mia lacuna, chiedo quindi scusa ai lettori esperti in questa materia e mi dichiaro pronta ad accettare consigli e ad apportare le dovute correzioni.

03.
Vi ringrazio per i numerosi commenti entusiasti, e vi ricordo che se ciò che leggete è di vostro gradimento il merito è anche dell’egregio lavoro di revisione di Kanako91. Grazie Kan!

04.
L’appuntamento è per venerdì con il quinto capitolo!

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Capitolo 5
*** Dove si elabora un piano e si scambiano sms ***




 

CAPITOLO 5

dove si elabora un piano e si scambiano sms

 

 

 

Fingon aveva aiutato Celegorm a trattenere Maglor dallo scagliarsi contro Curufin e a farlo sedere sul letto accanto a Caranthir. Ora stava ascoltando con attenzione il minore dei Fëanorion presenti che faceva le sue ipotesi sull'accaduto.

– L'hanno sicuramente scoperto. Ma sono passati due giorni e se l'avessero colto con la refurtiva a quest'ora lo sapremmo. Vi immaginate la notizia? Maedhros Fëanorion che ruba documenti segreti nella sede della Gothmog? Sarebbe la prima pagina di tutti i media... la Tirion colerebbe a picco nel giro di uno schiocco di dita. 

Caranthir si mosse a disagio: – Vieni al punto, cosa pensi sia successo?

– Credo che Maedhros si sia liberato del disco, e che chi l'ha catturato voglia sapere cosa sia accaduto.

– Lo stanno tenendo prigioniero?

– È quello che spero.

Maglor non si trattenne e scattò di nuovo in piedi: – Perché potrebbe anche essere... morto? È questo che intendi?

Fingon sentì il cuore stringersi a quel pensiero, e gli ultimi brandelli di determinazione a tenersi fuori da quella faccenda andare in frantumi.

– Agiremo come se Maedhros fosse vivo, lo cercheremo e lo libereremo. – La voce di Curufin arrivò scevra da ogni emozione. Ecco uno che era riuscito davvero a trasformare il suo cuore in un blocco di ghiaccio, pensò Fingon con una certa invidia.

– E come? – gridò Maglor.

– Ho fatto alcune ricerche sui terreni e sugli edifici di proprietà della Gothmog o di società a lei collegate – continuò il minore, come se stesse esponendo una ricerca in classe. – Avete presente la vecchia fabbrica, nella zona industriale a nord… 

– Certo – disse Celegorm, – la Thangorodrim. Ma non è più in funzione da quando hanno spostato la produzione all'estero.

– Sembra ci sia ancora qualche ufficio attivo, a giudicare dalla fornitura di energia elettrica e di acqua – riprese Curufin, – e non solo lì. C'era quel sobborgo dove alloggiavano i dipendenti: Angband. Anche lì risultano tre abitazioni ancora allacciate alla rete elettrica.

– Ok, per cominciare a me basta – affermò Celegorm con decisione. Lui era il tipo che scacciava la paura con l'azione, lo era sempre stato. – Fingon e io andremo al villaggio – si rivolse a Maglor, – tu prendi Caranthir e andate alla fabbrica. 

Curufin approvò con un cenno del capo. – Rapporti ogni cinque minuti – ordinò, alzando il cellulare che teneva in mano, – e mi raccomando, niente cazzate, se trovate qualcosa degno di nota rientrate che elaboriamo un piano. Ben fatto, stavolta.

Fingon si trovò a scendere in strada insieme agli altri senza il minimo indugio. I Fëanorion avevano a disposizione due auto e vi si suddivisero come deciso da Celegorm.

Nessuno prese in considerazione l'ipotesi di usare lo scooter rosso fiammante di Curufin. Era uno degli ultimi regali che gli aveva fatto il padre e lui lo custodiva gelosamente. Sarebbe stato rischioso anche solo toccarlo.

Fingon salì su una vecchia Ford con Celegorm, che si mise alla guida e, dopo qualche tentativo andato a vuoto a causa del freddo, mise in moto e partì. Lui lasciò vagare lo sguardo fuori dal finestrino del passeggero. Le luci della città, immersa nell'oscurità precoce della sera invernale, scorrevano davanti ai suoi occhi come interminabili nastri fluorescenti.

Presto i vetri si appannarono e lui sentì Celegorm imprecare e chinarsi ad armeggiare con i comandi del riscaldamento.

– Vedrai che tutto andrà bene – disse il cugino. E poi lo ripeté, come se bastasse questo a renderlo più vero: – Tutto andrà bene.

Fingon si voltò a guardarlo. Non trovò più un singolo motivo per fingere che non gli importasse. 

– Sì – confermò con tutta la sicurezza che riuscì a mostrare.

Poi spostò di nuovo lo sguardo fuori dal finestrino, mentre tornava coi pensieri a quei pochi mesi che avevano cambiato per sempre la sua vita.


 

*******


 

Il mese di maggio era volato.

Se all'inizio lui e Maedhros si erano riproposti di incontrarsi un paio di volte a settimana per studiare e il weekend per dedicarsi all'arrampicata, presto avevano cominciato a vedersi tutti i giorni, suddividendo ogni pomeriggio in due: studio fino alle sei, poi palestra. Il più delle volte, quando uscivano dall'impianto sportivo, si fermavano a cenare insieme da qualche parte prima di tornare ognuno a casa propria.

Maedhros non voleva che lui facesse tardi a causa della scuola, e si assicurava che rientrasse ben prima di mezzanotte.

Solo che dopo iniziavano gli sms.

Di solito era Fingon che cominciava. Con la finestra aperta sulla tiepida notte primaverile, seduto sul letto con la schiena appoggiata alla testiera, esordiva con qualche scusa che entrambi sapevano essere tale.

- Domani solita ora?

La risposta non si faceva mai attendere molto.

Mae: Certo.

- Certo, e...

Mae: Certo e niente, dovresti essere a studiare!

- Ma io sto studiando, infatti proprio adesso sto consultando il mio insegnante...

Mae: E il tuo insegnante ti ricorda che devi ripassare storia per l'interrogazione di domani.

Fingon non aveva alcuna intenzione di perdere quei preziosi minuti a parlare di scuola.

- E il mio amico, invece, cosa dice?

Mae: Chi?

- Deficiente

Mae: Il tuo amico ti dice che oggi hai esagerato con quel lancio a presa singola. Hai rischiato di farti male e non era affatto necessario.

Fingon sorrise compiaciuto. Scrisse:

- Lo sapevo che mi stavi guardando!

Per diversi secondi non ricevette risposta. Poi:

Mae: Certo che ti stavo guardando, ti tengo d'occhio! Se ti fai male a così pochi giorni dall'esame, mandi all'aria tutto il nostro lavoro.

Debole scusa. Non gliela lasciò passare.

- Bugiardo.

E, dato che per messaggi si permettevano di dire cose che faccia a faccia non avrebbero mai osato, di avvicinarsi pericolosamente ad argomenti che nessuno dei due era pronto ad affrontare, aggiunse:

- È che non puoi togliermi gli occhi di dosso.

Nessuna esitazione, questa volta, da parte di Maedhros:

Mae: Seeeh, ti piacerebbe. Notte, Fin.

Fingon sospirò. La sua provocazione non era stata raccolta. La sua delusione fu pari al suo sollievo.

- Notte Mae

 

Ogni tanto Fingon si divertiva a contare quanto ci avrebbe messo l'amico a rispondergli. Gli dava una sensazione di profonda soddisfazione sapere che l'altro era, come lui, in attesa di parlargli anche se si erano lasciati pochi minuti prima.

Si sentiva desiderato, voluto. E questo lo riempiva di gioia e di terrore insieme, perché nel profondo del suo cuore, dove si annidavano la scarsa considerazione di sé e la sfiducia nelle proprie capacità, non riusciva a credere che una persona come Maedhros potesse desiderare anche solo di passare del tempo con lui. Figuriamoci che fosse diventato suo amico.

- Mae.

Mae: Dimmi.

Fingon prese nota: meno di due secondi, un record.

Alla ricerca di una scusa per continuare la conversazione, si ricordò di una cosa che era accaduta quel pomeriggio.

- Come ti ha chiamato oggi tua madre?

Mae: Niente... un soprannome di quando ero piccolo.

- Sarebbe?

Mae: Lascia perdere.

Ma lui non era proprio il tipo che "lasciava perdere".

- Ti ha chiamato Maitimo

Non ricevendo risposta, Fingon digitò:

- Correggimi se sbaglio, ma non vuol dire qualcosa come "il perfetto"?

Non si era mai dato la pena di imparare la lingua madre del nonno. Nella sua famiglia non c'era mai stata nessuna imposizione in tal senso, al contrario della famiglia di Fëanor, in cui tutti i figli avevano dovuto studiarla.

Questa volta Maedhros rispose.

Mae: "Il ben fatto", in realtà.

Fu il turno di Fingon di rimanere senza parole. Disteso sul suo letto, nella penombra della camera, si trovò a pensare all'amico come lo vedeva tutti i giorni in spogliatoio, quando emergeva dalla doccia dopo l'allenamento. Un asciugamano attorno alla vita, il corpo ancora bagnato, le spalle ampie, i muscoli che l'esercizio aveva appena cominciato a mettere in evidenza e che conferivano alla già perfetta armonia del suo corpo un che di intrigante. Come una promessa.

Maitimo, il ben fatto. Davvero un soprannome che ci aveva visto giusto.

Il trillo della notifica lo riportò alla realtà.

Mae: Fin, ci sei ancora?

- Ti si addice

Mae: È pretenzioso. Lo odio.

- Sì, è pretenzioso, ma a me piace.

Mae: Immagina quanto piaceva ai miei fratelli.

Fingon soffocò una risata.

- Mi basta immaginare Ty

Mae: Ecco, appunto.

A lui però piaceva sul serio, si rese conto. Gli sembrava adattarsi alla perfezione alla persona che lo portava. Per sentire come suonava, lo pronunciò a bassa voce, come se avesse paura che l’altro potesse udirlo, anche se era a chilometri di distanza: – Maitimo.

Suonava come qualcosa di irraggiungibile nel tempo e nello spazio… o come l'espressione di un sentimento a lui negato.

Cercò le parole giuste per esprimere il concetto, ma risultò tutto troppo confuso o troppo compromettente e alla fine decise che era meglio buttarla sullo scherzo. Digitò:

- Penso proprio che ti chiamerò così d'ora in poi

La risposta fu immediata.

Mae: Fai pure

Mae: se sei disposto a cercarti un altro insegnante… nei pochi giorni che ti restano prima dell'esame.

- Sai che non rinuncerei mai al MIO insegnante

Mae: Certo che lo so.

Mae: A domani, allora.

Fingon stava per augurargli la buonanotte quando gli venne un'idea: se non poteva pronunciare quel nome davanti a Maedhros, ciò non gli impediva di usarlo in altri contesti. Armeggiò qualche secondo con la rubrica, poi digitò il consueto saluto.

- Notte Mae

Maitimo: Notte, Fin.

Con un sorrisetto soddisfatto, Fingon si soffermò un istante a guardare lo schermo, poi appoggiò il cellulare sul comodino e cercò di dormire. Ma l'impresa si rivelò più difficile del previsto, perché la sua mente tornava di continuo al soprannome di Maedhros, e ciò che esso evocava.

Quelle conversazioni si stavano facendo troppo pericolose. Li stavano portando troppo vicini alla verità.

 

Una sera Fingon l'aveva messo alla prova.

Tornato in camera sua dopo cena aveva lasciato passare i consueti venti minuti, il tempo che ci impiegava l’amico per tornare a casa propria, poi aveva preso il cellulare e invece di fare la prima mossa aveva aspettato.

Non aveva dovuto attendere molto.

Maitimo: Ehi, Fin?

Fingon sorrise. Il fatto di essere cercato, la serata particolarmente piacevole che avevano passato, o la birra in più che si era concesso, lo resero temerario.

- Ti mancavo?

Maitimo: Lo sai.

La solita non-risposta. D'istinto decise di osare.

- Senti Mae… cosa succederà dopo?

Il telefono rimase muto per un lungo momento.

Maitimo: Prenderai il diploma, andrai a fare quel viaggio di cui mi parli sempre, e a settembre comincerai l'università.

- Intendevo tra noi

Maitimo: Lo so, idiota.

Fingon attese.

Maitimo: Era un modo per evitare il discorso.

E attese ancora.

Maitimo: Resteremo amici, se vorrai.

Con un brivido, Fingon guardò le proprie dita scorrere sul display e formare parole troppo audaci per essere pronunciate.

- Solo amici?

Un'altra lunga pausa. Al punto da pensare che non avrebbe più ricevuto risposta.

Invece.

Maitimo: Forse è meglio che ne parliamo a voce.

- Sai che non ne siamo capaci.

Maitimo: C'è un buon motivo, se non ne siamo capaci. Siamo parenti, Fin, tra le altre cose. Non mi pare abbiamo molte alternative.

- E quali sarebbero queste altre cose? Che io sono uno stupido diciannovenne che fa fatica a prendere il diploma e tu un brillante laureato che sta per intraprendere una strepitosa carriera lavorativa?

Maitimo: Fin. Lo sai che non è così.

Maitimo: Non sono mai stato così bene con qualcuno come con te in queste settimane.

Parole, pensò Fingon. Parole che non sentirò mai pronunciate dalle sue labbra.

Maitimo: Ti prego. Pensiamo solo al tuo esame adesso, ne parleremo dopo.

Come no, un "dopo" che non sarebbe mai arrivato! Fingon fu tentato di interrompere la comunicazione.

Ma adesso che la questione era stata in qualche modo portata alla luce, non riuscì più a far finta di niente. Voleva ottenere qualcosa. Una promessa. Una speranza. Qualcosa.

- Andiamo in montagna il weekend dopo il diploma. Ormai sei pronto per la tua prima arrampicata in esterno. Parleremo allora.

Maitimo: Ok.

Immediato. Secco. Come un congedo.

Fingon rimase col terrore di aver osato troppo, di aver rovinato, col suo insistere, anche quello che aveva.

Ma molto tempo dopo, a notte fonda, sentì di nuovo il trillo dell'sms.

Guardò lo schermo e tornò a sorridere.

Maitimo: Comunque sì, mi mancavi.

 

 

 

 

__________________

Note

A lunedì con il prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Dove accade l'inevitabile ***



 

CAPITOLO 6

dove accade l'inevitabile

 

 

 

Maedhros stava tremando di freddo.

La mano non formicolava più, ora era completamente insensibile, un'estremità priva di vita attaccata a un polso dolorante. La testa, pur essendo ancora attraversata da fitte acute, stava pian piano schiarendosi, segno che il suo organismo aveva cominciato a metabolizzare la sostanza che gli era stata somministrata. 

Doveva essersi addormentato per qualche minuto e adesso si trovava sdraiato su un fianco, il viso premuto al suolo e rivolto verso la parete alla quale era incatenato.

Davanti ai suoi occhi il pavimento di mattonelle terminava contro il muro. Lì l'intonaco era umido e si scrostava in più punti, rivelando i mattoni retrostanti. Uno di essi era crepato, e quando lo raggiunse con la mano libera scoprì che riusciva a muoverlo di qualche millimetro. Forse con un po' di impegno, grattando via la calce con le unghie, avrebbe potuto sfilarlo dalla sua sede.

Ma a che scopo? Poteva servire come arma? 

Anche se fosse riuscito a colpire uno dei suoi carcerieri e a metterlo fuori gioco, rimaneva comunque incatenato e senza dubbio sorvegliato da altre persone. A quel pensiero alzò lo sguardo per controllare ancora una volta la telecamera, e si accorse solo in quel momento della presenza, sulla parete adiacente a quella alla quale era vincolato, di un finestrone basso e largo, a ribalta, a circa due metri di altezza dal suolo.

La speranza che potesse essere una possibile via di fuga si estinse appena notò che, poco sopra il vetro, era agganciato un sensore di movimento.

C'era anche un allarme, dunque.

Accantonò l'idea del mattone e si concentrò sui problemi più immediati.

La priorità era resistere al gelo della notte, il che voleva dire rannicchiarsi il più possibile per limitare il contatto col pavimento ghiacciato e, soprattutto, cercare di rimanere sveglio.

Fece ricorso a tutte le sue forze e, in qualche modo, riuscì a mettersi a sedere. Tirò le ginocchia al petto e le circondò col braccio libero. Stava chiedendosi come avrebbe fatto a non addormentarsi, considerato che ogni fibra del suo corpo lo implorava di lasciarsi andare al sonno, quando, tutto a un tratto, la luce si spense e la stanza precipitò nel buio. Restò solo un debole riverbero contro il vetro, dovuto forse alla luna o a una qualche illuminazione artificiale, che rese la finestra un rettangolo opalescente.

Nel silenzio assoluto che seguì, lontano e indistinto udì il rumore del motore di un'auto in avvicinamento.

Non ci mise molto a capire: chi lo teneva prigioniero aveva spento le luci per non farsi notare. Forse temeva una ronda notturna della polizia o di qualche agenzia di sorveglianza.

Maedhros si tenne pronto a chiamare aiuto, o a battere la manetta contro la tubatura per farsi sentire.

Il rombo si fece più vicino, come se l'auto stesse per passare proprio sotto la sua finestra. 

E fu in quel momento che lui lo riconobbe.

Non era un'auto della polizia. Era il vecchio catorcio di Caranthir, che prima era stato di Celegorm e prima ancora di Maglor. Avrebbe riconosciuto quel motore tra mille.

E così i suoi fratelli si erano messi sulle sue tracce. Il suo pensiero corse a Curufin, l'unico abbastanza scaltro da riuscire a trovarlo e abbastanza spregiudicato da mandare gli altri in mezzo al pericolo.

Il rombo cessò.

Maedhros si tese in ascolto: lo sbattere di una portiera, poi più nulla per alcuni minuti. Passi o voci, se ce n'erano, erano troppo distanti perché lui potesse udirli.

Si immobilizzò e fece estrema attenzione a non fare alcun rumore.

Non aveva idea di dove si trovasse la stanza in cui l'avevano rinchiuso. Per quanto ne sapeva, poteva anche essere in un seminterrato, e da un momento all'altro avrebbe potuto vedere uno dei suoi fratelli spuntare da dietro il vetro della finestra.

Il suo ritrovamento avrebbe scatenato l'immediata reazione degli uomini che lo avevano catturato. Una reazione che sarebbe stata tutto tranne che amichevole.

Ragazzi, andate via, implorò, in silenzio. Andate via.

Dopo un tempo interminabile, sentì di nuovo la portiera che si chiudeva, poi il motore che si accendeva, infine l'auto che si allontanava.

Maedhros riprese a respirare e pregò che i suoi fratelli avessero lasciato sani e salvi quel luogo, ovunque si trovasse.

 

La notte ricominciò ad avanzare lenta e gelida. La luce non venne più riaccesa. 

La paura provata lo tenne sveglio a lungo, ma col passare del tempo il suo corpo riniziò a tremare e lui prese a vagare nella terra di confine che separa il sonno dalla veglia.

Cercò di focalizzarsi su qualcosa, di tenere attivo il cervello facendogli ripetere una serie di numeri, o elencando vocaboli nella lingua del nonno, ma presto le cifre si confusero tra loro e le parole persero di significato, e Maedhros, al buio com'era, faticò persino a capire se avesse gli occhi aperti o chiusi.

Il sonno lo aspettava per cancellare le sofferenze, per sopprimere il dolore alla testa e quello al polso, il bruciore alla guancia, i brividi di freddo, la fame e la sete. Niente sembrava in grado di sottrarlo al suo caldo abbraccio. La determinazione e il senso del dovere, che l'avevano sostenuto per tutta una vita, erano scomparsi, svaniti tra le ombre di quella stanza fredda e umida.

Si trovò solo ad affrontare ciò che restava di sé stesso privato della sua armatura.

Restavano soltanto un volto e un nome.


 

*******


 

Fingon, come previsto da Maedhros, se l'era cavata piuttosto bene agli esami ed era riuscito a ottenere un risultato superiore alle proprie aspettative. Fingolfin aveva dato una grande festa, un vero e proprio ricevimento, per festeggiare il diploma dei suoi due figli maggiori.

Per Maedhros e Celegorm, tuttavia, non era stato così scontato parteciparvi.

La tensione tra il loro padre e il padre di Fingon, che affondava le radici in dinamiche famigliari risalenti alla loro infanzia, ma che all'interno dell'azienda si era limitata a periodici scontri su quanti fondi si dovessero assegnare al reparto della Ricerca, gestito da Fëanor, e a quello della Produzione, gestito da Fingolfin, aveva di recente assunto proporzioni enormi.

In seguito all'ultima, strepitosa, invenzione di Fëanor che, a suo dire, avrebbe rivoluzionato il concetto stesso di illuminazione e avrebbe assicurato alla Tirion la fama mondiale, suo padre si era fatto più arrogante e aveva accusato il fratello di voler affossare l'azienda col suo rifiutarsi di investire ogni risorsa in questo nuovo progetto, e di voler portare il nonno, che aveva sempre fatto da intermediario tra i due, dalla sua parte.

Era arrivato a fare delle accuse pesanti, anche in pubblico.

In casa, il solo pronunciare il nome di Fingolfin o di uno dei suoi figli avrebbe scatenato un litigio.

Celegorm non se n'era preoccupato neanche un po', e aveva detto al padre che a lui non importava nulla delle beghe aziendali e che nessuno avrebbe potuto impedirgli di andare a festeggiare col suo amico.

Per Maedhros la cosa era stata più complicata. Fëanor non gli aveva chiesto niente in modo diretto, ma l'aveva guardato con quello sguardo sono-certo-che-farai-la-cosa-giusta, che non mancava mai di raggiungere il risultato voluto.

Eppure quel giorno, una parte di sé che fino a due mesi prima non sapeva neppure di possedere era insorta per ricordargli che la vita era sua, e che non poteva passarla a fare soltanto ciò che gli altri si aspettavano da lui. A quanto pareva, l'incontro con quel giovane cugino, insicuro a modo suo, ma senza dubbio audace, lo aveva cambiato più di quanto volesse ammettere. 

Così, per la prima volta, non aveva fatto proprio un consiglio del padre, ed era andato alla festa consapevole che con tutta probabilità l'avrebbe trascorsa assalito dai sensi di colpa.

Ma quella sera, seduto accanto a Fingon mentre Fingolfin teneva un discorso in cui tesseva le lodi di entrambi i suoi figli, quello incoronato come migliore della scuola e quello che aveva raggiunto la meta con un anno di ritardo dando prova di una tenacia che fino ad allora non aveva mai dimostrato, Maedhros aveva guardato il suo amico rifulgere di gioia e non si era pentito nemmeno per un istante della sua scelta.

 

La domenica successiva, come aveva proposto Fingon, i due erano partiti per passare una giornata in montagna, dove Maedhros avrebbe affrontato la sua prima arrampicata.

Entrambi sapevano che erano arrivati al momento della svolta. D'ora in avanti non avrebbero più avuto una scusa ufficiale per vedersi, e se il loro rapporto fosse continuato, e in quale forma, spettava solo a loro deciderlo.

Maedhros aveva cercato di analizzare la situazione con razionalità.

Uscire con un ragazzo non era una cosa che gli avrebbe creato problemi in famiglia. Anche se lui era sempre stato molto riservato sulla sua vita sentimentale, tutti sapevano quali fossero le sue preferenze e nessuno aveva mai avuto niente da obiettare.

Il problema era che il ragazzo in questione era suo cugino, e questo cambiava le cose drasticamente. Non era un esperto in materia, ma sapeva che c'erano tradizioni che andavano rispettate a regolare i rapporti di quel genere, c'era un nome, che evocava tabù ancestrali, per definire il sentimento che lo faceva arrossire quando si concedeva di pensare a Fingon in certi termini.

O forse tutto questo, in fondo, non era che un alibi colossale, e l'unica cosa che davvero lo terrorizzava era l'idea di guardare in faccia suo padre e ammettere che il rapporto che aveva stretto con il figlio del suo rivale non era un peso di cui era felice di liberarsi, ora che aveva compiuto il suo dovere, ma era la cosa più bella che gli fosse capitata da che aveva memoria, e che avrebbe voluto, nel profondo del suo cuore, dare a quell’amicizia la possibilità di diventare qualcosa di più.

Mentre percorreva in moto le strade di montagna che li avrebbero condotti alla loro meta, con le braccia strette attorno alla vita del cugino per il solo piacere di sentire il suo corpo aderire al proprio (aveva imparato da tempo a fidarsi della guida disinvolta di Fingon), Maedhros non era del tutto certo di ciò che sarebbe accaduto quel giorno, né di ciò che avrebbe voluto accadesse.

 

Lasciarono la moto in un parcheggio a bordo strada, nei pressi di una baita, e imboccarono un sentiero dapprima ripido e fiancheggiato da abeti, poi più pianeggiante quando cominciò a inoltrarsi in un vasto prato tappezzato da fiori gialli a perdita d'occhio.

Il cielo era limpido e l'aria frizzante, il sole non scaldava ancora come avrebbe fatto nelle ore più tarde della mattinata. Loro camminavano in silenzio, guardando fisso davanti a sé, come se entrambi sapessero che non era ancora arrivato il momento di parlare.

Proseguirono per circa un'ora, attraversando il campo fino salire su un terreno spoglio e impervio, che li condusse alla base della parete scelta da Fingon: grigia roccia chiara che si innalzava verticale dal terrapieno per un'altezza che Maedhros, tra sé e sé, giudicò eccessiva.

Il cugino, che spesso praticava l'arrampicata libera, questa volta aveva portato con sé corda, imbragatura, moschettoni e ancoraggi, tutto l'occorrente, insomma, per rendere sicura la sua prima scalata.

– So che puoi farcela, ho piena fiducia nelle tue capacità – gli disse Fingon, ripetendo le stesse parole che lui gli aveva rivolto la mattina dell'esame, quando avevano fatto colazione insieme appena fuori da scuola. 

Poi lo precedette nell'ascesa, per preparargli la via.

Come sempre, l'impresa richiese a Maedhros tutte le sue risorse mentali. Ormai aveva imparato che se la forza fisica era fondamentale, ciò che rendeva l'arrampicata possibile era la concentrazione. Riuscire a incanalare tutta la volontà in una presa, in un singolo gesto da cui dipendeva il successo o la caduta.

Quello che non aveva ancora imparato, però, era come tutto questo si trasformasse quando invece di trovarsi al chiuso di una palestra ad afferrare pietre in fibra di vetro, si era immersi nella natura, col vento che ti accarezzava il viso, la roccia imperfetta sotto le dita, il calore del sole sulla pelle, circondato da montagne immutate da millenni.

Ci furono momenti in cui Maedhros si sentì parte della roccia, del vento, del sole, della montagna stessa, come se il pianeta intero infondesse energia in ogni suo nervo teso, in ogni muscolo che si contraeva e rilasciava, in ogni respiro che scendeva nei polmoni. Una sensazione esaltante e spaventosa insieme, che lo rendeva partecipe di qualcosa di più grande, che andava ben oltre la sua minuscola esistenza.

Forse, se fosse stato solo, questo sentimento l’avrebbe schiacciato, ma non era mai stato così distante dall'essere solo in tutta la sua vita. C'era Fingon con lui, che condivideva la stessa esperienza, che afferrava gli stessi appigli pochi secondi prima di lui, che metteva i piedi nelle stesse scanalature, che respirava la stessa aria. Lo sentiva vicino come mai erano stati.

La conquista della cima lo fece uscire da questa specie di trance, per rientrare in un mondo che ora percepiva diverso, più vasto, più selvaggio, più spaventoso, e molto, molto più bello.

Fianco a fianco, i due amici rivolsero lo sguardo al panorama sotto di loro. Una vallata carica dei colori accesi dell'estate in piena esplosione, tagliata da un corso d'acqua che scintillava come cristallo. Un anello di monti tutto intorno, cime aguzze di roccia pallida le cui vette brillavano di nevi perenni. Sopra di loro l'immensità celeste, talmente limpida da ferire gli occhi. Nessun segno della presenza dell'uomo, case e strade troppo distanti o relegate sull'altro versante. Un mondo incontaminato in cui non esistevano altri che loro e, in lontananza, un'aquila che solcava il cielo come se ne fosse il custode.

Le loro mani si cercarono da sole, senza nessuna volontà che le guidasse. Scivolarono l'una nell'altra come quel primo giorno nel pub affollato. E la perfezione arrivò a compimento.

Dopo un tempo infinito, Maedhros si impose di parlare. Tutti i dubbi, le incertezze, le paure che cercavano di emergere si scontrarono contro la concretezza di quella mano che stringeva la sua come se fosse la cosa più giusta al mondo, e lui riuscì a dire solo tre parole.

– Fin, è complicato.

Allora Fingon, che era più giovane e aveva meno esperienza, ma certe cose forse le capiva meglio e prima, rispose: – No, non lo è.

E, giratosi verso di lui, lo baciò a lungo e con passione.

 

 

 

 

__________________

Note

A venerdì con il prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Dove ogni tentativo fallisce ***




 

CAPITOLO 7

dove ogni tentativo fallisce

 

 

 

Fingon uscì dalla porta sul retro facendo un cenno di diniego con la mano in direzione di Celegorm, che lo attendeva nell'auto parlando al cellulare.

Anche l'ultima delle tre abitazioni segnalate da Curufin era vuota. Se c'era un motivo per cui erano ancora allacciate alla rete elettrica, di certo non era perché erano ancora abitate. Strati di polvere spessa coprivano i pavimenti, tracce evidenti della presenza di topi, odore di muffa e di aria stantia. 

Fingon salì in macchina scuotendosi i jeans e Celegorm premette il tasto per chiudere la conversazione.  

– Anche Maglor niente – lo informò il cugino, lanciando il cellulare sul cruscotto senza troppa cura, – ti riporto a casa. – Si stropicciò le palpebre con le nocche, poi riprese: – Sentiamo cosa dice Curufin. Ma a prescindere da cosa dice lui, io domani vado a denunciare la scomparsa.

Fingon si allacciò la cintura, mentre l’altro metteva in moto e si lanciava sulle strade buie e deserte in direzione della città. Poi si decise a porre la domanda che avrebbe voluto fare fin da quando avevano lasciato la casa dei Fëanorion.

– Perché stai facendo tutto questo, Ty? Perché non sei andato subito dalla polizia invece di sottostare alle follie di quel pazzo di tuo fratello?

Non riuscì a fermarsi, perché lui per primo non capiva come avesse potuto farsi coinvolgere in quel piano assurdo.

– Arriverai ad ammetterlo una buona volta! Curufin è un ragazzino arrogante e pieno di sé… e che non sa quello che fa, a quanto pare! – esclamò, sventolando una mano nella direzione dalla quale provenivano, a indicare l’inutilità della ricerca.

E subito si rese conto di aver esagerato, perché Celegorm non permetteva a nessuno di parlare male dei suoi fratelli, meno che mai di Curufin. Pensò che, amico o non amico, adesso si sarebbe preso un pugno dritto sul muso, e che forse era giusto così, il degno coronamento di una giornata nata male e finita peggio.

Ma l'altro rimase in silenzio, come se accettare il fallimento del fratello minore richiedesse tutte le sue energie. Accelerò per superare un passaggio a livello che stava per abbassare le sbarre, poi riprese a un'andatura più costante.

Quando Fingon cominciò a credere che non avrebbe più risposto, mormorò: – È stata la prima volta da quando è morto papà che ha voluto avere a che fare con noi. Sono due anni che ci rivolge a malapena la parola. E adesso ci ha chiesto aiuto, a modo suo. 

Senza distogliere gli occhi dalla strada, concluse: – Non potevo negarglielo.

Fingon si voltò verso il finestrino per impedirsi di ribattere con parole che avrebbe rimpianto. Era troppo esausto, angosciato e avvilito per tenere sotto controllo le sue reazioni. E in più, non riusciva a sopportare di vedere il cugino, sempre così restio a cedere, abbandonarsi allo sconforto.

La strada costeggiava la ferrovia e un treno sfrecciava parallelo a loro. Una lunga fila di carrozze buie, con alcuni scompartimenti illuminati che svelavano persone assopite o chine sul tablet. Per un istante Fingon desiderò essere una di quelle persone, che continuava a condurre la sua vita normale, che non aveva un amico scomparso, che non stava in macchina a notte fonda chiedendosi perché si trovasse lì e non a casa sua, nel suo letto.

– Perché io? – espresse a parole. Poi ripeté, a voce più alta: – Perché sei venuto da me? 

Celegorm imboccò l’ingresso della tangenziale, divergendo dalla direzione del treno.

– Non lo so, Fingon, non lo so – ammise, dopo qualche istante. – Forse perché quando c'eri tu... è stato l'unico periodo della sua vita in cui ho visto mio fratello davvero felice.

Si passò una mano sugli occhi, poi la posò sul volante. – Forse credevo che se tornavi tu, sarebbe tornato anche lui. Che tutto potesse essere di nuovo come una volta.

Ecco. Così imparava a stare zitto invece di fare domande prive di senso.

– Portami a casa, Ty – disse Fingon, per porre fine alla conversazione.

Che tutto potesse tornare come una volta.

Come avrebbe potuto, dopo quello che c’era stato?


 

*******


 

Il viaggio che Fingon aveva progettato per festeggiare il suo diploma, alla fine l'aveva fatto insieme a Maedhros. Erano stati in luoghi incantevoli, alla ricerca di pareti da scalare fuori dalle tappe più battute, che lui conosceva già troppo bene.

Fingon aveva dovuto rivedere il percorso per adattarsi alle capacità di arrampicata del compagno, ma l'aveva fatto più che volentieri. Avevano passato un mese intero da soli, in luoghi semi deserti o poco frequentati, dove nessuno li conosceva, dove se qualcuno li sbirciava incuriosito quando si tenevano per mano era solo per il fatto che erano due ragazzi, non perché sapeva che il loro stare insieme era macchiato da un legame di parentela. Era stato come vivere in un sogno.

Una volta rientrati, non era stato facile riprendere la loro vita di tutti i giorni.

Nessuno dei due aveva parlato apertamente di come gestire la cosa, ma sembrava che di comune accordo avessero deciso di tenere il loro rapporto, se non proprio nascosto, almeno riservato. Dimostrazioni d'affetto che oltrepassavano la semplice amicizia, le conservavano per i momenti in cui erano soli, mentre in presenza degli altri cercavano di mantenere un comportamento non diverso da quello che avevano sempre tenuto.

Con l’arrivo di settembre, le occasioni per stare insieme calarono notevolmente. Fingon iniziò l’università in una città non troppo distante, che gli permetteva di rientrare a casa solo per il fine settimana, e Maedhros si trasferì in un appartamento per conto suo e cominciò, come previsto, a lavorare per la Tirion.

Sopperivano, tuttavia, alla lontananza con lunghissimi scambi di sms durante il giorno, e interminabili conversazioni via Skype durante la notte, in cui arrivavano a parlare pressoché di tutto pur di non porre fine alla chiamata, nonostante i numerosi, ma a onor del vero deboli, tentativi di Maedhros di appellarsi al loro senso di responsabilità quando la tarda notte si trasformava in mattino presto. 

C'era un unico argomento di cui non parlavano mai, ed era del sentimento che li legava. Nessuno aveva cercato di dargli un nome, fatto ipotesi su dove li avrebbe condotti, o rivelato all'altro cosa desiderava accadesse in futuro.

Le parole “ti amo” non erano mai state pronunciate, né a voce, né filtrate dall'elettronica, e quando a Fingon salivano alle labbra spontanee, prima di augurare la buona notte all'amico, o quando lo rivedeva dopo una settimana di lontananza, o quando si concedevano qualche momento di intimità, faceva molta attenzione a non farsele sfuggire di bocca.

Fingon non avrebbe mai fatto il primo passo, rischiando di portare a galla tutto il carico di non detto, e rompere l'incantesimo che li teneva insieme.

Anche a regolare i loro progressi sul piano fisico lasciava che a condurre fosse Maedhros, il quale non permetteva mai che i baci e le carezze si protraessero al punto da condurli là dove entrambi morivano dalla voglia di arrivare.

A livello razionale, sapeva che era meglio così. Andare a letto insieme sarebbe stato il vero, tangibile, punto di non ritorno, oltrepassato il quale non avrebbero più potuto fingere che tutto non fosse altro che un'amicizia singolare, o un’infatuazione passeggera, e avrebbero dovuto affrontare la cosa chiamandola col suo nome. E, per quanto Fingon volesse negarlo, forse perdurava ancora il timore che il nome “incesto” avrebbe avuto la meglio sul nome “amore”.

Quando alla fine accadde, dopo molti mesi dal loro primo bacio, non fu qualcosa di deciso, o di programmato. Una sera come tante altre, tornati da cena, Fingon aveva seguito Maedhros fino in casa per un ultimo saluto che si era protratto più a lungo del solito. I baci si erano fatti più insistenti, le carezze più audaci, e dalla porta d’ingresso erano finiti sul divano. Bottoni erano stati slacciati e labbra avevano intrapreso percorsi inconsueti, e alla fine Maedhros aveva mormorato contro il suo collo – ti fermi qui stanotte – senza nemmeno tentare di farla sembrare una domanda, e Fingon non aveva ritenuto di doversi prendere la briga di rispondere e aveva proseguito col suo impacciato tentativo di sfilargli la cintura.

Ma molto più tardi, distesi su lenzuola stropicciate, i vestiti sparsi sul pavimento della camera da letto insieme all’involucro di un preservativo, con Maedhros che tremava sopra di lui in balia degli ultimi brividi di piacere e i loro sguardi persi l’uno nell’altro, Fingon aveva visto negli occhi del suo amante il senso di colpa emergere poco a poco, e lo spavento irrompere nel realizzare ciò che era appena accaduto. Allora l’aveva tirato a sé e l’aveva stretto forte, e aveva mormorato più volte – non abbiamo fatto niente di male, Mae – con una voce che suonava incerta alle sue stesse orecchie.

Da allora, contro ogni previsione, le cose erano migliorate.

Aver oltrepassato quel limite li fece sentire come se non potessero fare niente di peggio. Il danno era fatto. Non restava che riconoscere la realtà della loro situazione, comunque volessero chiamarla, e lasciare che le cose procedessero come dovevano. 

Quella prima notte fu seguita da altre, e nel giro di poco tempo divenne scontato che Fingon passasse il fine settimana a casa del compagno. La convivenza divenne un'abitudine, e il senso di colpa poco a poco venne messo a tacere dalla sorprendente bellezza dei piccoli gesti quotidiani: condividere il divano davanti alla tv, tentare un esperimento di cucina invece di uscire a cena, addormentarsi abbracciati sazi l'uno dell'altro. 

Le due parole che Fingon desiderava sentire più di ogni altra cosa al mondo continuavano a restare non dette, ma lui aveva imparato ad accettarlo, e c'erano momenti in cui riusciva persino a credere che, così come Maedhros era diventato il centro della sua vita, anche lui era tutto ciò di cui il suo compagno aveva bisogno per essere felice.

 

Fu un duro colpo quando scoprì che non era affatto così.

Accadde qualche tempo dopo la morte del nonno, durante il suo terzo anno di università.

Maedhros cominciò a sembrare distratto, distaccato. Cominciò a trovare scuse per non invitarlo a restare a casa sua nel weekend, a rispondere ai messaggi di Fingon, che lo cercava durante la settimana, con brevi frasi impersonali, a sottrarsi alle chiamate serali. 

Le cose peggiorarono con l'incidente a Fëanor. In quell'occasione, a Fingon non restò che assistere da lontano, tramite le parole riportate da Celegorm, alla sofferenza del suo amante, senza che gli fosse data la possibilità di far niente per lenirla.

Finché un giorno, tornato in città per una pausa dalle lezioni, si sentì dire quello che in fondo aveva sempre temuto: che la cosa non poteva funzionare, che il loro comportamento era scorretto, che Maedhros non se la sentiva più di continuare. Che dovevano darci un taglio.

Che era stato solo un sogno, e che nella vita reale non c'era posto per due come loro.

Parole definitive, pronunciate con freddezza in un luogo pubblico, un bar che entrambi odiavano nei pressi della stazione. Niente scenate, niente alzate di voce, nessun rischio di scivolare sul piano fisico, dove la razionalità sarebbe stata soppiantata dal bisogno di condividere lo stesso fiato, la stessa pelle, lo stesso corpo.

Un discorso asettico in un luogo asettico, e poi ognuno per la sua strada.

Fingon crollò sotto i colpi di quella gelida impassibilità. Nei giorni successivi tentò di comprendere, di ricucire, di capire dove aveva sbagliato, mentre sotto sotto un vocina gli insinuava che non poteva che finire così, che uno come lui non avrebbe mai potuto ambire a condividere la sua vita con una persona come Maedhros, e che aveva già ricevuto più di quanto meritasse.

Così, poco a poco, smise di cercare i motivi, perché dentro di sé sapeva che era proprio in quel modo che tutto si sarebbe concluso.

Fin dall’inizio l'aveva saputo. Fin dal giorno in cui quell’essere perfetto aveva afferrato per sbaglio la sua mano in un pub e l’aveva lasciata andare appena si era reso conto di ciò che aveva fatto.

Non c’era niente da capire: Maedhros si era reso conto di ciò che aveva fatto. E l’aveva lasciato.

Quando scoprì che l'amico aveva abbandonato l'appartamento e aveva cambiato il numero di cellulare, Fingon si era già arreso.

 

 

 

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Ringraziamenti

Oggi ricorre un anno dal mio ingresso in EFP!!

Sono felice di festeggiarlo con voi con una storia che fa il paio con quella del mio esordio. 

Quando, dodici mesi fa, ho pubblicato Tenn’Ambar-metta, non sapevo a cosa sarei andata incontro. Non sapevo che a distanza di un anno mi sarei ritrovata ancora qui, e che quella che pensavo sarebbe stata un'esperienza "once in a lifetime" sarebbe diventata un'attività che assorbe quasi tutto il mio tempo libero. La mia vita, oggi, è più divertente e più interessante, più ricca di sfide, e la mia capacità di scrivere, forse, un pochino migliorata. E il merito di tutto ciò va alle persone speciali che ho incontrato in questo sito, che mi hanno incoraggiato e sostenuto fin dall'inizio: Kanako91 (impareggiabile beta della storia che state leggendo), Melianar, Tyelemmaiwe, Ghevurah, Feanoriel. Grazie ragazze!

Allo stesso modo, ringrazio di cuore tutti coloro che mi hanno accompagnato in questi mesi lasciandomi un commento quando hanno ritenuto che le mie storie ne valessero la pena, o mostrando di apprezzare i miei scritti inserendoli tra le loro preferenze, o soltanto leggendoli e tornando a rileggerli. Sono onorata dal tempo che avete speso in compagnia delle mie opere. La vostra presenza è stata un validissimo incentivo a continuare su questa strada. 

Grazie a tutti, lettrici e lettori! E Tanti Auguri di Buone Feste!!!

 

Avviso importante!

Dal prossimo capitolo cambia il ritmo del postaggio: non più il lunedì e il venerdì, ma il mercoledì e il giovedì.
Appuntamento, quindi, a mercoledì 28!


 

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Capitolo 8
*** Dove Maedhros riceve visite ***



 

CAPITOLO 8

dove Maedhros riceve visite

 

 

 

Maedhros, svegliati!

Quella era la voce di suo padre. E lui non disobbediva mai a suo padre. Nemmeno se era morto.

Ma questa volta Maedhros non lo ascoltò. Non voleva svegliarsi. Era certo che ci sarebbe stato qualcosa di terribile ad attenderlo, se si fosse svegliato.

Freddo. Sete. Dolore.

Maedhros, devi svegliarti.

No. No per niente!

Preferiva rimanere lì, a fingere di essere nel suo letto, al caldo. A fingere che ci fosse davvero il padre accanto a lui, che lo chiamava per affrontare una nuova giornata insieme.

Perché mai avrebbe dovuto tornare a una realtà in cui non avrebbe mai più potuto ascoltare quella voce amata? In cui era intrappolato in una situazione disperata, senza via d’uscita?

Ma la voce insisteva.

Nelyafinwë!

Nelyafinwë. Così Fëanor si era rivolto a lui quando gli aveva chiesto di fare ciò che aveva fatto. Col suo secondo nome, quello che gli ricordava le sue origini, che lo legava direttamente al nonno.

Il lavoro di tutta una vita è stato rubato, aveva detto, non permetterò che il colpevole rimanga impunito. Le indagini non stanno portando a nulla. Quegli incapaci non sono riusciti a ricavare indizi dalla scena del crimine.

Così chiamava l'uccisione del nonno: la scena del crimine. Era il suo modo per mantenere il distacco. Per salvarsi dalla sofferenza.

Ma io so chi è stato, e lo smaschererò, e riprenderò ciò che è mio.

E tu mi aiuterai.

Sì, padre, aveva detto. Senza esitare un solo istante, come sempre.

Ma quanto era costato quel sì! Mesi di ricerche, di appostamenti, di contatti falliti. Mesi in cui la sua vita privata era andata a rotoli, in cui aveva finito per rovinare ciò che non aveva mai avuto il coraggio di chiamare "la sua relazione", anche se era esattamente di quello che si trattava.

Mi farò perdonare, si era giustificato con sé stesso, mi farò perdonare quando tutto sarà finito. 

Ma il giorno in cui suo padre avrebbe dovuto incontrarsi con colui che aveva acconsentito a fornirgli informazioni dall'interno della Gothmog, Fëanor era stato travolto da un’auto ed era morto ancora prima di entrare in sala operatoria.

Maedhros aveva trovato un messaggio sul suo cellulare quella sera. Un'unica parola.

SMETTI.

Ma come avrebbe potuto smettere? Aveva fatto una promessa a suo padre. Aveva detto , gliel'aveva ripetuto in ospedale.

– Giuramelo – aveva sussurrato Fëanor poco prima di chiudere gli occhi per sempre, – giurami che gliela farai pagare.

E lui aveva giurato.

Non poteva rinunciare alla parola data. E, in ogni caso, cedere a una minaccia sarebbe stato codardia.

Aveva allontanato i suoi cari, aveva messo fine alla sua non-relazione, e si era dedicato a riprendere le ricerche dove Fëanor le aveva interrotte. Quando non aveva avuto altra scelta, si era rivolto a Curufin.

E adesso eccolo lì, tra la vita e la morte, ad ascoltare un padre defunto.

Svegliati. 

A desiderare, più di ogni altra cosa, che fosse lì accanto a lui. A desiderare quel tocco sul suo braccio, e quello sguardo fiero, che lo rendeva capace di affrontare qualunque prova.

Sono perduto, pensò, o sognò di pensare. Ho fatto sempre ciò che mi hai chiesto e, da quando non ci sei più, sono perduto.

E gli sembrò di vederlo, chinato su di lui, con i suoi occhi antracite sul cui fondo brillava, sempre, la fiamma dell'orgoglio, della brama di conoscenza, dell’ambizione.

È ora che cominci a prendere le tue decisioni da solo, figlio mio.

Non ne sono capace, mormorò, forse solo nella sua testa, credevo di esserlo, ma non faccio che errori.

E non pensava solo alla situazione attuale, e alla tragica fine del suo piano che si era rivelato tutt’altro che perfetto, ma ad altre scelte, ad altri piani, a parole dette in un bar tanto tempo prima.

Puoi ancora rimediare, Maedhros. Non arrenderti.

Ora sentiva la sua presenza, a pochi centimetri da lui, percepiva perfino il calore che emanava.

– Svegliati! – disse ancora la voce, che adesso non era più quella di suo padre.

Ma era vicina, così vicina che sentì il soffio del fiato caldo sulla pelle del viso. 

E lui aveva freddo. Un freddo terribile. Un freddo che penetrava in ogni cellula del suo corpo, tranne in quelle del braccio, che era completamente insensibile.

Sentì che la sua testa si chinava verso la fonte di quel calore, desiderandolo.

Gli sembrò che le sue labbra sfiorassero qualcosa di bollente e, incerto se indugiare in quella sensazione o rifuggirla, aprì gli occhi.

Su di lui incombeva un volto. Emergeva pallido, dal buio.

Occhi assenti in un viso troppo giovane, e capelli rosso fiamma che spiccavano anche nella semi oscurità. 

Aveva già visto quel viso. Ma non ricordava dove.

– Ho sete – gli sfuggì, perché sembrava la cosa più importante da dire, e perché, nella penombra, ebbe l'impressione che il giovane avesse in mano un bicchiere.

L’altro avvicinò le labbra all'orecchio di Maedhros e sussurrò qualcosa che la sua mente non comprese, ma che volle interpretare come parole di conforto. 

Poi gli passò una mano tra i capelli, un tocco lieve, che continuò ad esserlo finché le dita si incastrarono dove erano incrostati di sangue secco, sulla nuca. Allora diede uno strattone per liberarle e scese lungo la guancia. Quando passò sulla ferita infertagli dall'anello dell'uomo, grattò per togliere la crosta che cominciava a formarsi.

Maedhros gemette, più per la sorpresa che per il dolore vero e proprio, che non era molto, rispetto a quelli che stava già patendo. Nel suo stato al limite del sogno, non riusciva a concepire la violenza.

Sentì altre parole sussurrate, più chiare questa volta: – Mi piacerebbe attardarmi ancora con te...

E cominciò a capire.

Vide una mano che si alzava davanti a lui. Reggeva qualcosa. Un bicchiere, si disse, anche se ormai non ci credeva più. Un bicchiere d’acqua.

Il giovane parlò ancora: – Ma il mio compito è controllare che tu rimanga in vita... assetato... e sofferente.

E nel dire questo, con uno scatto repentino, la sua mano raggiunse il collo di Maedhros, poco sotto l’orecchio sinistro, e con un colpo secco del polso gli fece affondare qualcosa tra il collo e la clavicola, che gli lacerò pelle e muscoli. Lui gridò e cercò di togliersi di dosso l’aggressore, ma un braccio era inutilizzabile e l'altro era paralizzato da ciò che aveva conficcato nella spalla. 

Il suo torturatore estrasse l’arma dalla sua carne e si tirò in piedi con un unico movimento fluido. Un arco di gocce rosse si disegnò nell’aria.

A causa del dolore, o del suo stesso urlare, Maedhros emerse dallo stato di torpore che gli ottenebrava la mente per affrontare la realtà che lo circondava.

La stanza buia. La luce malsana che penetrava dalla finestra sporca. Il suo aguzzino dai capelli asimmetrici e dall'abito impeccabile, con un frammento di bottiglia in mano che colava liquido scuro, in piedi davanti a lui.

Il giovane estrasse di tasca un fazzoletto e vi avvolse il pezzo di vetro. Controllò lo stato del suo vestito, come volesse verificare di non essersi sporcato troppo, poi si lisciò la giacca con cura.

Infine si rivolse a Maedhros, che giaceva accasciato e si stringeva il collo nel vano tentativo di arrestare il flusso di sangue.

– Prima gli fai sapere quello che vuole, prima finirà, bel faccino – disse, e lo lasciò solo.

 


 

 

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Note

Capitolo corto, questo, lo so… motivo per cui tra ventiquattro ore avrete il seguito!!
Appuntamento a domani, quando le cose precipitano!!!

 

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Capitolo 9
*** Dove Fingon prende una decisione ***




 

CAPITOLO 9

dove Fingon prende una decisione

 

 

 

Fingon rientrò in casa che erano quasi le due di notte. Si gettò sul letto ancora sfatto, incapace di mettere ordine nei suoi pensieri. Allungò una mano per rovistare nel cassetto del comodino alla ricerca di un pacchetto di sigarette, dimenticandosi di aver smesso di fumare da diversi mesi.

Fino a poche ore prima si era illuso di essere riuscito a dare una svolta alla sua vita. O, per lo meno, di essere riuscito a rimetterne insieme i cocci, dopo che quello che aveva creduto essere la cosa migliore che gli fosse mai capitata si era rivelata la più grande cantonata che avesse mai preso.

Aveva una laurea, una fila di ragazzi che pendeva dalle sue labbra, un futuro lavorativo sicuro, un padre che finalmente riconosceva il suo valore al punto da volerlo al suo fianco nell'azienda che era stata del nonno. Sembrava non gli mancasse nulla.

Invece, quel mattino, il passato gli era arrivato addosso come un treno in corsa e l'aveva messo di fronte al fatto che, in due anni, non era cambiato niente, che era ancora vincolato a un ricordo, a una persona. Quella sbagliata. E che non ne sarebbe mai uscito.

E adesso era anche costretto a fare i conti con la consapevolezza che questa persona era in pericolo, e lui non aveva alcuna possibilità di esserle d'aiuto.

Si trascinò verso il frigo alla ricerca di qualcosa di alcolico da buttare giù, ma fu interrotto dallo squillo del cellulare.

Numero sconosciuto. Rispose ancor prima di fare ipotesi su chi potesse essere.

– Sì?

– Smettila di piangerti addosso.

– Curvo?

Curufin per te, Nolofinwion.

– Che vuoi? – lo apostrofò Fingon, gli mancava solo di ascoltare altre assurdità da quel pazzoide di cugino. Ma subito gli venne in mente quale poteva essere il motivo della chiamata: – Ci sono novità?

Curufin ignorò la domanda: – Ascoltami bene, perché non ho molto tempo, Celegorm è in doccia, ma presto sarà qui.

E senza aspettare una risposta continuò, col suo tono da professionista collaudato che contrastava con la voce ancora da ragazzino.

– Adesso sono certo che Maedhros è alla Thangorodrim.

– Ma come fai...? – cominciò Fingon.

– Ho monitorato i contatori mentre voi eravate da quelle parti, ho registrato una diminuzione di corrente nella vecchia fabbrica.

Fingon scosse la testa. – Non capisco di cosa stai parlando.

– Dio mio, ma come fai a essere così lento? – esclamò l’altro, perdendo un po’ della sua compostezza. – Hanno spento le luci per non farsi trovare! Cosa che non è successa nelle abitazioni che avete perquisito voi due.

– Mi stai dicendo che Maedhros è chiuso nella fabbrica? Maglor e Caranthir non hanno visto niente... 

– Già – gli rispose la voce dall'altro capo, – è proprio questo il punto. Ho paura che, anche potendo, Maedhros non ci farebbe mai sapere dove si trova per non metterci nei guai. Ho paura che noi non saremmo in grado di salvarlo, perché lui non collaborerebbe.

Curufin non era mai stato uno che girava attorno alle cose: – Devi andare tu.

Fingon incastrò il cellulare tra l'orecchio e la spalla e aprì il frigo. Trovò una bottiglia di birra e la stappò. Si prese il tempo per rispondere.

– E perché dovrei farlo?

– Perché glielo devi.

– Cosa? – gli andò per traverso il primo sorso. Tossì. – Va bene Curufin, non ho tempo per le cazzate – e fece per interrompere la comunicazione.

– Fai funzionare il cervello, per una volta! – lo prevenne l’altro, – eri distratto quando ho spiegato che Maedhros ha aiutato papà all'insaputa di tutti dopo la morte del nonno? Da dove credi che abbia avuto le informazioni di cui disponeva quando è venuto da me? E quando papà è stato ucciso... 

– È stato un incidente... 

– È stato un avvertimento! Quando papà è stato ucciso, Maedhros ha capito che la situazione era pericolosa davvero, e allo stesso tempo è cresciuta la sua determinazione a fargliela pagare.

Fingon non riusciva a capire dove avrebbe portato quel discorso.

– Quando ti ha lasciato? – lo incalzò Curufin, – poco dopo la morte di papà, vero? Ma già da prima si comportava in modo strano, dico bene?

– Si comportava in modo strano perché voleva darmi il benservito e non aveva il coraggio di dirmelo in faccia! – sbottò Fingon. – Maledizione Curufin! Mi ha lasciato come un giocattolo usato, senza darmi una spiegazione plausibile, ha cambiato numero di cellulare, ha cambiato casa, ha tagliato i ponti, mi ha fatto terra bruciata intorno!

Dio, come odiava parlare per metafore.

– E ti sembra normale? Dannato egocentrico! – la voce di Curufin aveva perso il suo tono professionale e stava scivolando in un urlare esasperato. – Ti sembra normale che abbia rinunciato alla cosa a cui teneva di più nella sua vita, così senza motivo? L'ha fatto per proteggerti, idiota.

– Con voi non l'ha fatto, a quanto pare – ribatté subito Fingon, ma la sua sicurezza cominciava a incrinarsi.

– L'ha fatto anche con noi – disse l’altro, tornando al suo normale registro, – solo che noi non ci siamo fatti mettere da parte. Non ci siamo rintanati in un angolo a leccarci le ferite. Abbiamo insistito, l'abbiamo assillato finché non ha ceduto e ci ha ripresi nella sua vita.

Fingon rimase senza parole, mentre il suo cervello tentava di assimilare quel concetto.

– Mi stai dicendo che io... l'ho abbandonato?

– Bravo. Alla fine anche tu ci arrivi.

Fingon appoggiò la bottiglia sul bancone, per evitare di farla cadere.

Non era possibile.

Non era possibile ciò che sosteneva Curufin.

Che Maedhros avesse agito contro i propri sentimenti, contro i propri desideri, per fare ciò che riteneva essere il suo dovere, per fare ciò che andava fatto.

Ma gli bastò formulare quel concetto nella sua testa per capire che non c’era niente di più verosimile: quello era proprio il comportamento tipico di Maedhros.

Come aveva fatto a non capirlo allora?

Come aveva potuto essere così cieco da non rendersene conto?

La risposta era davanti ai suoi occhi, ed era sempre la stessa. Perché lui non si era mai sentito davvero all'altezza di ciò che aveva, e aveva vissuto nel terrore che presto o tardi tutto sarebbe finito. E quando quel momento era arrivato, non era stato altro che la temuta conferma delle sue paure.

La sua stupida, vecchia, abitudine alla scarsa considerazione di sé (e, sì, aveva ragione Curufin, all’autocommiserazione), così dura a morire!

Fingon si appoggiò al frigo dietro di lui, improvvisamente bisognoso di un sostegno. Cercò di recuperare il filo del discorso, gli sembrava di essere rimasto in silenzio per diversi minuti.

– Se anche fosse vero ciò che dici – concesse, – perché pensi che dovrei andarci io alla Thangorodrim? Se ancora tiene a me, cercherà di tenermi lontano proprio come ha fatto con voi.

– Certo – confermò Curufin. – Non è su di lui che conto, infatti.

Fece una pausa, come se facesse fatica a pronunciare le parole che stava per dire.

– È su di te che conto, Nolofinwion. Sono certo che troverai un modo per riportarcelo.

E con questo, Curufin chiuse la comunicazione.

 

Fingon prese una decisione.

Aveva sbagliato una volta. Non sarebbe più successo.

Recuperò il suo zaino leggero, quello che usava per le scalate in montagna. Vi mise dentro una corda, una torcia elettrica, una bottiglietta d'acqua. Cercò qualcosa che potesse servire come arma, ma non trovò niente di adatto. E comunque, se si fosse arrivati a uno scontro, dubitava che avrebbe avuto la meglio, a prescindere da cosa avesse portato con sé. Si vestì con una tuta nera, prese il suo lettore mp3, controllò che fosse carico e lo infilò in tasca. Recuperò le chiavi della macchina e uscì.

Non aveva le idee molto chiare, sapeva solo che non si sarebbe tirato indietro.

Mai più.

Prese l'auto e si diresse a nord, percorrendo a ritroso la strada che aveva fatto con Celegorm pochi minuti prima. Arrivato alla zona industriale, invece di proseguire per il sobborgo, si diresse verso la vecchia fabbrica in disuso. Quando vide profilarsi la sua sagoma, spense i fari e rallentò a passo d’uomo.

La luna piena era a metà del suo corso discendente, ma gettava ancora luce a sufficienza perché potesse procedere senza troppa difficoltà.

Un tempo, l’area su cui sorgeva la fabbrica era circondata da un’alta siepe e da una rete. Ora le siepe era secca e la rete crollata in più punti. Quasi nulla delimitava il perimetro di quella che era stata una grande zona produttiva.

Tre imponenti edifici, di una quindicina di piani ciascuno, emergevano dal buio come picchi isolati. Distavano un centinaio di metri l’uno dall’altro, e nessuna luce alle finestre indicava che ci fosse qualcuno al loro interno.

Ma Curufin era certo che Maedhros fosse lì, e se c'era qualcosa che Fingon aveva imparato negli anni in cui aveva frequentato casa loro era che il giovane Fëanorion si sbagliava di rado.

Il problema era scoprire dove, di preciso. In quale edificio, a quale piano, in quale stanza. E farlo in fretta, prima che qualcuno notasse la sua presenza.

Aveva un piano.

Assurdo.

Folle.

E che, per giunta, contava troppo su una reazione di Maedhros.

Ma non aveva altro, e quindi proseguì.

Fermò la macchina dietro una costruzione bassa che aveva tutta l’aria di essere stata una rimessa per veicoli, anche se ormai gli unici mezzi di trasporto in vista erano le carcasse arrugginite di due camion nei pressi di una vecchia pompa di benzina, dalla parte opposta del piazzale.

Fingon si prese un istante per concentrarsi, come faceva sempre prima di cominciare un'arrampicata particolarmente impegnativa.

Allontanò da sé ogni pensiero, ogni ansia, ogni paura.

Poi scese dalla macchina, aprì le portiere e il bagagliaio e si mise lo zaino sulle spalle. Tornò al posto del guidatore, girò la chiave quel tanto che bastava per dare corrente all’autoradio e collegò l'iPod.

Portò il volume al massimo, schiacciò play e uscì di corsa dall’auto.

 

 

 

 

 

_________

Note

I miei più sentiti ringraziamenti a Kanako91, eccezionale beta di questa storia.

I miei più sinceri auguri di un 2017 ricco di soddisfazioni a tutti voi, care lettrici e cari lettori! 

Appuntamento all'anno prossimo – mercoledì 4 gennaio, per l'esattezza.


(Starò lontana dal pc per qualche giorno, perdonate il ritardo nelle risposte.)

 

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Capitolo 10
*** Dove Maedhros prende una decisione ***




 

CAPITOLO 10

dove Maedhros prende una decisione

 

 

 

Maedhros aveva la mente più lucida.

Forse perché la ferita al collo lo tormentava con un nuovo dolore, che non gli permetteva più di assopirsi, o forse perché gli ultimi effetti del farmaco erano alla fine svaniti.

I suoi sensi stavano tornando poco a poco alla vita. Percepiva un sapore metallico in bocca e alle narici l’odore del sangue, misto a quello dei muri che trasudano umidità. I brividi sulla pelle, la stoffa della camicia bagnata contro il petto, i jeans che aderivano gelidi alle cosce.

Anche la vista era più nitida. Gli occhi, abituatisi ormai alla penombra, riuscivano a distinguere meglio ciò che lo circondava e a riconoscere le distanze. Non che ci fosse molto da vedere nella stanza spoglia, oltre alla scrivania e alla sedia a circa un paio di metri da lui. Uniche vie d’uscita: la porta sulla parete opposta alla sua e, su quella adiacente, la finestra, troppo alta da raggiungere per uno nelle sue condizioni, anche se fosse stato libero dalla manetta.

Con la vista, tornò anche la capacità di comprendere ciò che vedeva.

La luce che entrava dalla finestra era senz’alcun dubbio dovuta alla luna, non si trattava di luce artificiale, il che significava che si trovavano in un posto isolato. Il brillio rosso sopra la porta indicava che la telecamera di sorveglianza era attiva. Il sensore di movimento sulla finestra non aveva alcuna spia luminosa, ma non c’era motivo di credere che fosse disattivato, dato che la telecamera non lo era.

Scoraggiato, Maedhros passò a valutare lo stato del suo fisico.

La sete lo perseguitava e, col ritorno dei sensi, il freddo e il dolore si facevano più acuti. La ferita al collo lo aveva privato di una grande quantità di sangue, che ora impregnava la sua camicia e rendeva viscido il pavimento sotto di lui. Si chiese quanto avrebbe potuto sopravvivere in quelle condizioni. Il giovane dai capelli troppo rossi, col suo gesto avventato, rischiava di far perdere al suo capo la loro unica fonte di informazioni.

Quel pazzo! Gli sembrava di sentirne ancora aleggiare la presenza intorno a sé. Scrutò tra le ombre, ma la stanza era vuota.

Era solo.

Bene. Questo non era mai stato un problema. Si era sentito solo per gran parte della sua vita, nonostante i suoi sei fratelli e i numerosi compagni di stanza ai tempi dell’università. C’era sempre stato qualcosa che lo aveva trattenuto dal farsi coinvolgere del tutto, quando aveva instaurato una nuova amicizia. 

Tranne una volta.

Maedhros si stropicciò le palpebre con la mano e si concentrò sul presente.

Forse non aveva alcuna possibilità di liberarsi, ma restare a tremare nel proprio sangue che si seccava non l’avrebbe di certo portato da nessuna parte.

Pensò al mattone che aveva notato poche ore prima.

Scivolò a terra, sorreggendosi a fatica sul braccio libero, e si sdraiò su un fianco.

Era troppo buio, ora, per distinguere qualcosa là sotto, ma ricordava il punto in cui aveva visto l’intonaco scrostato e il mattone incrinato, leggermente non in linea con gli altri. Lo trovò al tatto e cominciò a grattare con le dita per rimuovere la calce che lo teneva saldo.

Cosa volesse ottenere non lo sapeva con certezza, forse solo tenersi occupato, forse solo distogliere l'attenzione dal dolore, dal freddo, dalla sete. 

Le unghie iniziarono a incidere piano ma inesorabili la piccola breccia che si era formata tra il mattone spezzato e quello adiacente.

La superficie dura e ruvida a contatto con la mano lo riportò con la memoria a pareti di roccia, ai tempi in cui arrampicava, e a chi glielo aveva insegnato.

Fingon. Ancora.

Perché il suo ricordo continuava a riemergere? E soprattutto, perché era sempre accompagnato dal senso di colpa? Non aveva forse fatto il suo dovere, allontanandolo dal pericolo? Non era questo che doveva fare una persona quando teneva a qualcuno? Quando amava qualcuno.

Infastidito da quel pensiero, grattò con più vigore: il mattone cominciò a cedere. Cercò di afferrarlo e scoprì che le sue dita non facevano presa perché erano bagnate. Le avvicinò al viso e vide del sangue che ricopriva i polpastrelli, non si era accorto di essersi spezzato le unghie. Si pulì la mano contro i jeans e strinse di nuovo i bordi del mattone liberato dalla calce. Tirò più forte che poté, e questa volta riuscì a muoverlo.

Un altro strattone e lo sfilò di un centimetro dal muro.

Infine, con un ultimo sforzo, lo strappò alla presa della parete.

Lo afferrò come se tutta la sua vita dipendesse da quel frammento di argilla. Lo osservò alla debole luce della luna: poco più grande del suo palmo, quasi nero nel punto in cui era stato esposto all’aria, più chiaro sugli altri lati, una superficie aguzza in corrispondenza della frattura col pezzo che era rimasto incastrato nel muro. Solido e pesante nella sua mano, Maedhros lo appoggiò a terra con una certa riluttanza, poi si aggrappò alla tubatura e si tirò seduto, la schiena contro il muro umido, il braccio incatenato che pendeva inerte e insensibile fin dove la manetta glielo consentiva.

Confidando che il buio lo avrebbe tenuto al riparo dall’occhio della telecamera, prese il mattone e lo tenne stretto a sé.

Cominciò a pensare a come utilizzarlo.

Tentare di nasconderlo e aggredire il giovane dai capelli scarlatti quando si fosse avvicinato la prossima volta?

Accanirsi sulla catena della manetta, con colpi ripetuti, per cercare di liberarsi?

Nessuna delle due strade sembrava condurre a scenari favorevoli.

In più, i suoi pensieri continuavano a tornare a Fingon, come se ci fosse qualcosa di importante che gli sfuggisse. L’aveva lasciato per tenerlo al sicuro, non c’era niente di più giusto. Maedhros era stato minacciato, gli avevano ucciso il padre, non avrebbe mai permesso che facessero del male anche a lui.

Allora perché sentiva che qualcosa non quadrava?

Aveva forse sbagliato nel metodo? Come si proteggevano le persone?

Fingon usava una corda, quando arrampicavano insieme, per farlo sentire al sicuro.

Ma cosa lo faceva sentire così al sicuro, in realtà, quando si trovava a diversi metri d’altezza, con solo la forza dei suoi muscoli a separarlo dalla caduta?

Non era la corda. Era la fiducia. La fiducia totale che lui riponeva in colui che gli apriva la strada, e quella che Fingon riponeva in lui, nelle sue capacità.

Era sempre stata solo la fiducia reciproca alla base di tutto ciò che c’era tra loro.

E lui, allontanandolo, non gliel’aveva più concessa. Negare la fiducia a uno come Fingon, che ancora dubitava del proprio valore, era un errore imperdonabile.

Puoi ancora rimediare, gli aveva detto il padre, in un sogno che già sbiadiva.

Ma non era vero. Anche se non fosse stato prigioniero e in fin di vita, come poteva rimediare dopo quello che aveva fatto?

Non c'è mai stato niente di vero, gli aveva detto, senza riuscire a guardarlo negli occhi.

Non ho mai detto che ti amavo, non ho mai detto che sarebbe durata, aveva sostenuto, in uno squallido bar, sottraendo la mano alla presa di Fingon, appena prima che questo potesse afferrarla.

Un contatto sarebbe bastato per mandare in fumo la sua determinazione. Un solo sfiorarsi di dita l’avrebbe fatto alzare da quella orrenda sedia di plastica e gli avrebbe fatto prendere il compagno tra le braccia e gli avrebbe fatto dire cose che non aveva mai avuto il coraggio di dirgli, e al diavolo le apparenze, al diavolo i tabù, e la morale, e il giusto e lo sbagliato. 

Ma non lo aveva fatto. Era rimasto lì a guardare mentre Fingon si faceva l'idea di non essere abbastanza per lui.

No, non poteva più rimediare. Aveva buttato via l'unica cosa davvero preziosa della sua vita, in cambio di vendetta, e rancore, e solitudine.

E ora: morte.

Quando cominciò a prendere in considerazione l’ipotesi di usare il mattone come arma contro sé stesso, capì che era giunto alla fine.

Chiuse le palpebre. Una lacrima scese lungo la guancia ferita. Il battito rallentò. 

Mentre scivolava nell’incoscienza, ebbe quasi l’impressione di sentire della musica.

No, non della musica.

Sembrava… una canzone.

Con forze che non sapeva di avere, Maedhros tornò ad aprire gli occhi e si tese in ascolto.

Una canzone che non sentiva più da anni, che aveva sentito in un locale tantissimo tempo prima, quando aveva afferrato una mano come se ne andasse della sua vita, e per un istante non era stato più solo.

(We passed upon the stair - We spoke of was and when)

Come poteva sentire lì, adesso, quella canzone? Era di nuovo preda delle allucinazioni? Scosse la testa. Una fitta scaturì dalla nuca e riverberò nelle tempie. Ma non mise a tacere la musica.

(Although I wasn't there - He said I was his friend)

Maedhros sentì il cuore che accelerava e i suoi pensieri si affastellarono incoerenti, mescolandosi ai ricordi. Un sorriso raggiante, due occhi sorpresi.

(Which came as some surprise - I spoke into his eyes)

Allora comprese. Fingon era lì.

Nonostante tutto quello che gli aveva fatto, nonostante il male che gli aveva causato, Fingon era lì fuori che lo stava cercando. Che non lo aveva dimenticato.

(I thought you died alone - A long long time ago)

Stai calmo, si disse. Devi proteggerlo. 

Ma il suo corpo non gli obbedì. I talloni si puntarono a terra e spinsero la schiena contro il muro. Le ginocchia fecero leva e riuscirono a sollevarlo. Maedhros si trovò in piedi senza sapere come.

(Oh no, not me - I never lost control)

Fermati, si disse. Devi lasciarlo andare.

Doveva, doveva lasciarlo andare. Doveva fare la cosa giusta. Era una scelta già compiuta tanto tempo prima, quando aveva rinunciato a tutto il suo mondo, il suo mondo imperfetto, il suo mondo macchiato dalla colpa, eppure meraviglioso, in cambio della vendetta.

(You're face to face - with the man who sold the world)

Contro ciò che gli comandava la ragione, Maedhros fece appello a tutte le sue forze residue, strinse forte il pugno, alzò il braccio sopra la testa… e scagliò il mattone contro la finestra.

 

 

 

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Note

Il prossimo capitolo: domani!

 

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Capitolo 11
*** Dove arriva un aiuto inaspettato ***



 

 

CAPITOLO 11

dove arriva un aiuto inaspettato

 

 

 

Scattò un allarme.

Fingon sentì i capelli che gli si rizzavano sulla nuca.

L’urlo della sirena proveniva dalla costruzione di centro: ecco il suo obiettivo.

Si era acquattato in attesa, dietro un bidone di metallo su cui era stampato il simbolo infiammabile, sperando che Maedhros fosse davvero alla fabbrica, che fosse vivo, che fosse in grado di dargli un segnale e, più di ogni altra cosa, che volesse farlo.

Ora che tutte le sue speranze si erano avverate, si sentiva elettrizzato, capace di affrontare qualunque cosa.

Cominciò a correre attorno all'edificio, mentre l'allarme incessante copriva il suono della canzone che lentamente finiva, guardando con attenzione le finestre buie. Ne cercava una che potesse dargli un indizio, come l'accendersi di una luce, o un movimento dietro i vetri.

All’improvviso tutto tacque: la musica giunta al suo termine, l'allarme disattivato. Ma Fingon era riuscito a cogliere un particolare: una finestra del quarto piano, sul lato ovest dell'edificio, col vetro infranto.

Sorrise, come sorrideva quando, affrontando una nuova parete, riusciva a individuare il percorso che l’avrebbe condotto alla cima. 

Si portò in corrispondenza della finestra, puntò la torcia contro l’edificio e valutò il muro con occhio esperto. L'intonaco era in pezzi, scrostato in più punti, a tratti interrotto da fori di aerazione. Le tubature del gas correvano esterne.

Un gioco da ragazzi.

Fingon si sistemò lo zaino sulle spalle, fece schioccare le dita e cominciò l'arrampicata più importante della sua vita.

Non pensava a cosa avrebbe trovato, non sperava di riuscire nell'impresa, non temeva l'insuccesso. Era concentrato solo sull'atto in sé, e su quella finestra dal vetro infranto che si faceva sempre più vicina.

Ad un tratto la vide illuminarsi e, nel silenzio che ora regnava assoluto, gli sembrò di percepire una voce che parlava concitata.

Un piede dopo l'altro, una mano dopo l’altra, teso allo spasimo non per la fatica ma per la paura di arrivare troppo tardi, raggiunse la finestra, che, da vicino, si rivelò essere una di quelle a ribalta, larga e bassa.

Il vetro era oscurato dalla sporcizia che si era accumulata in anni di abbandono, ma più o meno nel centro c'era il foro irregolare che aveva suscitato i suoi sospetti. Fingon si issò sullo stretto davanzale e guardò dentro la breccia.

Sulle prime vide, nel centro di una stanza di piccole dimensioni, la sagoma di una persona snella che parlava al cellulare presso una scrivania. La sua voce era tagliente, ma non troppo allarmata.

– Vieni subito. La situazione sembra sotto controllo, ma dev'esserci qualcosa in corso. Ha cercato di lanciare un segnale.

E ancora: – No, non preoccuparti, è vivo.

Infine, con un tono un po’ spazientito: – Sì, sì... sarà vivo anche al tuo arrivo. Tu sbrigati, temo che ci sia qualcuno qui fuori.

L'uomo interruppe la comunicazione e iniziò a girarsi verso la finestra, ma una voce lo fece desistere.

Fu allora che Fingon lo vide.

Maedhros.

Addossato alla parete adiacente a quella della finestra, in piedi a stento, un braccio vincolato a una specie di termosifone, l'altro piegato, con la mano che si premeva il collo.

Fingon soffocò un grido. C'era sangue da tutte le parti! Sul suo viso, sul collo, sulla camicia, sul pavimento!

Per un istante gli sembrò che l’amico guardasse verso di lui, poi lo vide rivolgersi all'uomo col cellulare.

– Penso che accetterò di parlare – disse Maedhros, con una voce appena percettibile.

– Penso che tu non sappia mentire – rispose l'altro, infilandosi il telefono in tasca, ma si diresse comunque nella sua direzione. – Anzi, penso che sia ora che tu mi dica cosa sta succedendo.

E con un calcio colpì le caviglie di Maedhros e lo fece crollare al suolo, poi si chinò su di lui.

Fingon colse l'attimo: si agganciò alla cornice superiore della finestra e la sfondò con un calcio. Frammenti di vetro gli lacerarono i pantaloni della tuta, e lo ferirono alle gambe. Non ebbe il tempo di preoccuparsene.

L’uomo portò una mano al petto, sotto la giacca, e tentò di voltarsi, ma Maedhros lo afferrò col braccio libero e ne rallentò il movimento.

Fingon gli si gettò addosso dall'alto e lo trascinò a terra con sé. L’uomo riuscì a estrarre la pistola dalla fondina ascellare, ma lui fu più veloce e gli afferrò il polso. Strinse.

Strinse con tutta la forza che gli permetteva di stare appeso a dieci metri da terra con una mano sola, strinse con le sue dita d’acciaio allenate da sempre. Batté il polso contro il pavimento e l'altro cedette e mollò l'arma. 

Gli salì cavalcioni e lo bloccò a terra con tutto il suo peso. Lanciò un’occhiata a Maedhros, ora accasciato al suolo, coperto di sangue, gli occhi spenti, il respiro che arrancava.

Una rabbia mai provata lo accecò, e insieme un piacere perverso nell'avere tra le mani il responsabile di tutta quella crudeltà. Per un attimo credette che l'avrebbe ucciso, che avrebbe afferrato quei capelli assurdi e avrebbe schiacciato la sua testa contro il pavimento. Poi sentì Maedhros che, in un sussurro spezzato, come fosse l'ultimo sforzo che poteva permettersi, pronunciò il suo nome.

– Fingon... 

Fingon tornò in sé, e sferrò alla mascella dell’uomo il pugno più forte che avesse mai tirato, lacerandosi le nocche e probabilmente incrinandosi qualche osso. L’altro picchiò la testa contro il pavimento e perse i sensi.

Ormai tornato, almeno in parte, in grado di ragionare, Fingon si sfilò lo zaino e ne estrasse la corda. Legò stretti i polsi e le caviglie della sua vittima, con la perizia di chi fa nodi da tutta una vita.

Si rimise lo zaino in spalla, allontanò con un calcio la pistola rimasta a terra e andò alla porta. La socchiuse e sbirciò fuori. Quando vide che dal corridoio non arrivava nessuno si precipitò da Maedhros.

– Ti porto via. Ci sono qui io, tutto andrà bene.

Gli ci volle tutta la sua forza di volontà per non prenderlo tra le braccia, per cercare di dare quanto più conforto poteva. E riceverne, perché si rendeva conto che anche lui stava per cedere, che non avrebbe retto ancora a lungo. Dannazione, era appena andato a tanto così dall’uccidere un uomo!

Lasciò l’amico a sé stesso per andare a frugare nelle tasche della sua vittima, che non aveva ancora ripreso i sensi. Trovò le chiavi delle manette e tornò a liberare il polso di Maedhros.

Ebbe la conferma di essere agli sgoccioli, perché gli tremavano le mani e numerosi tentativi andarono a vuoto prima che riuscisse a infilare la chiave. Sentì un rumore ai piani inferiori, come di un cancello che si apriva. Passi che salivano le scale. Numerosi.

Fece scattare la manetta e il braccio dell’amico ricadde lungo il suo corpo, come privo di vita. Maedhros gemette e sembrò recuperare un minimo di lucidità.

– Aspetta – sussurrò, mentre Fingon cercava il modo migliore per caricarselo addosso o per trascinarselo appresso senza fargli troppo male.

– Non c'è tempo, Mae, sta arrivando qualcuno...

– Aspetta, aspetta... devo dirti una cosa – insistette Maedhros, come se fosse questione di vita o di morte.

Lui lanciò un'occhiata all'uomo legato, che stava cominciando a riprendersi. – Dopo. Me la dici dopo.

– Non so se ci sarà un dopo – mormorò Maedhros, posando una mano sul suo polso. Una mano incrostata di sporcizia e di sangue, con alcune unghie spezzate.

Fingon sentì una stretta al cuore e lasciò perdere il tentativo di sollevarlo. Lo prese per le spalle e lo guardò in faccia. Doveva interrompere quel delirio, fargli capire che era fondamentale andarsene all’istante.

– Non ci sarà un dopo solo se resteremo qui a parlare invece di...

– Ti amo – lo interruppe Maedhros.

E lo guardava negli occhi.

– Non ho mai smesso per un solo minuto, dal giorno in cui ti ho preso per mano la prima volta. Perdonami. Perdonami per averti fatto credere il contrario.

Eccole lì. Le parole che aveva aspettato per anni. Per tutta la vita, gli sembrava.

Cosa avrebbe dovuto farsene, adesso?

Adesso che non c'era tempo per rispondere, nemmeno se avesse saputo cosa dire. 

Adesso che si sentivano passi che risalivano le scale di corsa.

Fingon si passò la manica sugli occhi, e cercò di mandar giù il nodo che gli serrava la gola. Si mise il braccio sinistro dell’amico sulle spalle e gli circondò la vita. Lo sollevò, sperando che riuscisse a reggersi in piedi col suo aiuto.

Maedhros barcollò all’inizio, poi riuscì a rimanere in equilibrio. Era più alto, ma Fingon lo superava di gran lunga in quanto a forza, e non ebbe difficoltà a sostenerlo.

Così allacciati l'uno all'altro, tornarono alla porta e uscirono nel corridoio. Il rumore proveniva dall’estremità di sinistra, non c'erano alternative sulla direzione da prendere. Fingon girò a destra e procedette il più velocemente possibile. Appena trovò una stanza vi si infilò, chiuse la porta dietro di sé e fece scattare la serratura. A giudicare dall’improvviso silenzio, i loro inseguitori avevano raggiunto il locale da cui erano usciti. Un grido di sorpresa, smorzato dalle pareti, gli confermò che avevano trovato il loro complice.

Presto sarebbero stati lì!

Fingon trovò l'interruttore e accese le luci. Si accorse con orrore che il pavimento era coperto di polvere e che loro avevano lasciato una traccia molto visibile. Guardò la stanza dove si trovavano. Doveva essere stata una sala riunioni, nel centro c'era un grande tavolo ovale, con molte sedie intorno, la parete di fondo era costituita da un’enorme vetrata.

Trascinando con sé Maedhros, che non aveva più parlato, come se avendo detto quello che doveva ora non gli importasse più di nulla, Fingon la raggiunse e vi si affacciò. Il vetro sporco e l'oscurità all'esterno rendevano la visuale difficile, ma lui riuscì a distinguere un panorama che dava su prati e colline che rilucevano spettrali alla luce della luna e, sotto di sé, le carcasse dei camion e il distributore di benzina che aveva intravisto quando era arrivato alla fabbrica.

I loro inseguitori erano nel corridoio ora, a giudicare dal rumore e dalle imprecazioni che si sentivano forti e chiare. Mancava poco perché venissero scoperti.

Fingon percorse la vetrata alla ricerca di una finestra, chiedendosi se sarebbe riuscito a calarsi tenendo l’amico sulle spalle.

Era appena arrivato all’amara conclusione che non c’erano vie d’uscita, quando una fiammata si alzò dalla pompa di benzina. 

Con la coda dell’occhio Fingon vide qualcuno a bordo di un inconfondibile scooter rosso acceso che si allontanava a tutto gas, poi, intuendo ciò che stava per accadere, si gettò a terra riparando Maedhros sotto il proprio corpo.

Un istante più tardi l’esplosione infranse la vetrata.

Grida nel corridoio e passi che, questa volta, si allontanavano dalla loro porta. 

Fingon non attese oltre, e appena i rumori si affievolirono portò fuori l’amico. Trovò il vano scale, si precipitò giù un piano dopo l'altro e raggiunse un’uscita. Dava sull’edificio di sinistra. Da lì si riusciva a scorgere soltanto il riverbero rossastro dell’incendio e un gruppetto di quattro o cinque persone che si precipitava in quella direzione.

Un diversivo.

Quel bastardo di Curufin, pensò Fingon, ma un sorriso gli increspò le labbra. “Conto su di te, Nolofinwion”, aveva detto. Mai una volta che raccontasse tutta la verità!

Fingon corse, con Maedhros per metà caricato sulle spalle quasi sollevato da terra, aggirò l’edificio e arrivò alla sua macchina. Era come l’aveva lasciata, con le portiere ancora aperte. Adagiò Maedhros sul sedile del passeggero, gli allacciò la cintura e chiuse la porta, poi girò attorno all’auto, chiudendo al volo il bagagliaio, e si mise alla guida. Sgommò nella notte, a fari spenti.

Li riaccese solo quando imboccarono la superstrada. Giunti in città si infilò nel primo vicolo buio e spense il motore. Non sembrava fossero stati inseguiti, ma non si poteva mai sapere.

Azionò la luce dell'abitacolo e guardò l’amico. Sembrava privo di sensi. Gli mise una mano sul collo a cercare il battito. Debole, ma presente. Fingon ricominciò a respirare. Prese la bottiglietta d'acqua e ne versò un goccio sulle sue labbra secche.

Maedhros aprì gli occhi.

– Mae – disse Fingon con voce roca, – resisti, adesso andiamo in ospedale, ce la farai.

– No – sussurrò l’altro, – adesso andiamo a recuperare l'hard-disk.

 

 

 

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Note

Appuntamento a mercoledì prossimo, 11 gennaio!

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Capitolo 12
*** Dove Maedhros torna a casa ***


 

 

CAPITOLO 12

dove Maedhros torna a casa

 

 

 

Fingon era venuto a salvarlo. La sua mente non riusciva ancora a processare quell’informazione.

Non solo l'aveva portato fuori da quella fabbrica, ma ora stava seguendo le sue indicazioni, guidando chiaramente contro la propria volontà, per condurlo là dove lui aveva nascosto l'hard-disk.

Meadhros faticava a capire come fosse potuto accadere, gli sembrava quasi di vivere in un sogno, se non che, in un sogno, non avrebbe avuto quel dolore lancinante alla testa, quel bruciore al collo, e soprattutto quell’inquietante sensazione di insensibilità al braccio destro.

Fingon gli aveva dato da bere, ed era bastato quello per dargli la forza di continuare finché anche l’ultimo tassello non fosse andato al suo posto.

Quello, e la mano che dal momento stesso in cui erano partiti copriva la sua, lasciandola solo per il tempo necessario a cambiare le marce. 

Una mano forte e ruvida che pochi minuti prima aveva quasi spezzato il collo di un uomo, e che ora teneva la sua con una delicatezza sorprendente. 

– Non capisco perché non potevamo mandarci Ty, o qualcun altro – disse Fingon per l’ennesima volta, senza però accennare a fermarsi o a cambiare direzione.

Maedhros lo ignorò: – Alla prossima, svolta a destra e fermati sul fondo della strada. 

L’altro fece come gli veniva richiesto, ma non smise di protestare: – Lascia almeno che chiami Curufin...

– Dopo – lo interruppe lui con voce sempre più debole, – meglio se non spegni il motore – aggiunse, quando Fingon accostò.

Si trovavano nel posto dove era stato catturato: una strada chiusa a poche centinaia di metri dalla sede della Gothmog. L’unico lampione del vicolo era fuori uso, ma i fari dell’auto illuminavano a sufficienza per vedere due cassonetti rovesciati e parecchia immondizia per terra. Segni evidenti che qualcuno aveva condotto delle ricerche.

Maedhros cominciò a temere che non avrebbero trovato più traccia dell'hard-disk.

Quella notte, durante la fuga, aveva imboccato il vicolo prima di rendersi conto che era senza via d’uscita. Sapendo di essere seguito, aveva cercato in fretta un nascondiglio per la refurtiva. Non c’erano che due cassonetti e l’accesso a un garage con la serranda abbassata. Il vicolo era chiuso da un muro alto non più di tre metri, in parte ricoperto da una pianta rampicante. Nel tentativo di vedere se era abbastanza robusta per fornire da appiglio a un’eventuale scalata, Maedhros si era accorto che le foglie nascondevano il tubo di una grondaia. 

Convinto di non avere abbastanza tempo per scavalcare il muro, aveva infilato l’hard-disk nel tubo e l’aveva fatto risalire di qualche centimetro, poi l’aveva inclinato per incastrarlo meglio che poteva. Stava valutando la possibilità di gettare il badge e le chiavi nel cassonetto, quando era stato raggiunto dal colpo che l'aveva stordito.

Ora, però, il suo stratagemma gli sembrò più debole che mai, ed ebbe quasi la certezza che gli scagnozzi della Gothmog avessero alla fine trovato il nascondiglio. 

Era arrivato il momento di scoprirlo.

Ma l’unica cosa che Maedhros scoprì fu che non aveva le forze sufficienti nemmeno per uscire dalla macchina. Quando cercò di piegarsi per raggiungere la maniglia con la sinistra, crollò in avanti sostenuto solo dalla cintura di sicurezza.

– Lascia fare a me – disse Fingon, aiutandolo a raddrizzarsi contro il sedile, e lui riuscì a sentire l’appellativo “idiota” anche se l’altro evitò di pronunciarlo. Gli venne quasi da sorridere.

Aveva senza dubbio ragione l’amico, lui non sarebbe riuscito ad andare da nessuna parte. Allora gli spiegò cosa fare, e Fingon, dopo aver ascoltato con attenzione, uscì dall’auto e lo lasciò solo. 

Maedhros restò a sperare che l'hard-disk fosse ancora là dove lui l'aveva lasciato, che tutti i suoi sforzi fossero valsi a qualcosa, che il motivo per cui suo padre era morto non fosse stato vano.

O forse restò solo a chiedersi quanto avrebbe potuto resistere senza il contatto con quella mano.

Fingon tornò poco dopo, un ghigno sul viso, nel pugno un piccolo oggetto nero e lucido. 

– E adesso? – domandò, sedendosi al posto di guida.

– Adesso mi lasci a casa – rispose Maedhros, che avrebbe voluto dire parole completamente diverse, – i miei fratelli mi porteranno all'ospedale.

– Ti ci porto io in ospedale – propose all’istante Fingon. Poi abbassò lo sguardo e aggiunse, incerto, – se vuoi.

Maedhros sentì una fitta al cuore che sovrastò ogni altro dolore nel vedere quanto ancora l’amico dubitasse di ciò che provava per lui. Ma il tempo stringeva, e c’erano cose che andavano fatte.

– No – disse, – tu prenderai questo disco e lo porterai a tuo padre.

– Cosa? – esclamò l’altro, preso del tutto alla sprovvista.

– Hai capito bene. Sono certo che saprà cosa farne. Di sicuro farà meglio di un branco di ragazzini assetati di vendetta.

– Ma i tuoi fratelli… – cominciò Fingon.

– I miei fratelli si adegueranno. Per come la vedo io, queste informazioni me le sono guadagnate – il suo sguardo scivolò sulla mano di cui bramava il contatto: nocche tagliate, che cominciavano a gonfiarsi, bluastre. – Ce le siamo guadagnate – si corresse.

– Ma tuo padre... – insistette l’altro.

– Mio padre avrebbe voluto vedere la Gothmog sprofondare nell'oblio, e la Tirion assurgere alla fama mondiale con lo sviluppo della sua ultima invenzione. E sono certo che tuo padre provvederà egregiamente ad entrambe le cose.

Fingon non disse più nulla, ma si infilò in tasca l’hard-disk e accese il motore. Ricominciò a guidare per le strade deserte, mentre la sua mano riprendeva il suo posto su quella di Maedhros.

Nessuno dei due parlò più fino a quando imboccarono la strada della casa dei Fëanorion. 

Fingon parcheggiò davanti al portone d'ingresso.

Lui sentì l’improvviso bisogno di dire qualcosa, di spiegarsi, di chiedergli ancora scusa, ma la sua volontà lo stava di nuovo lasciando, insieme alle ultime forze.

– Fin… – cominciò.

L’altro scosse la testa e riuscì a esibire un sorriso tirato.

– Domani – disse, e diede un colpetto di clacson.

Le luci delle scale si accesero, la serratura del portone scattò.

Allora Maedhros sussurrò: – Grazie.

Era un grazie che conteneva tutto. Grazie per avermi salvato, grazie per essere tornato, grazie per aver accettato ciò che ti ho chiesto.

Sperò che l'altro lo capisse.

Fingon annuì. Tolse la mano dalla sua e gli sganciò la cintura.

All’istante la portiera venne aperta e lui fu trascinato fuori da Celegorm e da Maglor, che lo sollevarono e lo abbracciarono, con Caranthir che si teneva un passo indietro e continuava a dire: – Fate piano, fate piano – e già tirava fuori il cellulare, senza dubbio per chiamare l'ambulanza.

Vide Curufin, sulla soglia di casa, col volto leggermente annerito e i capelli in disordine, che guardava il tutto con la sua solita aria distaccata. Lo vide lanciare uno sguardo all'interno della macchina e indirizzare un impercettibile cenno del capo a Fingon.

Quest'ultimo chiuse la portiera dietro di lui e partì.

E Maedhros, circondato dai suoi fratelli, si sentì di nuovo solo.

 

 

 

 

______________

Appuntamento a domani, per il capitolo finale!!!

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Capitolo 13
*** Dove tutto cambia ***


 


 

CAPITOLO 13

dove tutto cambia

 

 

 

Fingon aveva fatto una doccia bollente e aveva cercato di dormire qualche ora, senza riuscirci.

Alle sette del mattino era già a casa dei genitori, seduto con loro al tavolo della cucina. Tre caffè si raffreddarono accanto ad alcune brioches ignorate da tutti, mentre lui raccontava, a grandi linee, ciò che era accaduto la notte precedente.

Fingolfin ascoltò senza interrompere, anche se si passò una mano sul viso, improvvisamente stanco, quando sentì della scalata e dell'irruzione, e di come il figlio aveva portato Maedhros fuori da quella fabbrica. E contrasse la mascella quando Fingon gli disse che aveva ragione di credere che la morte del fratellastro non fosse stata un incidente, bensì un omicidio premeditato. Alla fine accettò l’hard-disk con un gesto solenne, come volesse dimostrarsi degno della fiducia concessagli, e dell'eredità del fratello maggiore.

Quando Fingon si alzò per andarsene, la madre lo imitò e lo fissò con uno sguardo che si sforzava di mostrare rimprovero, ma l'abbraccio in cui lo strinse esprimeva tutt'altro: conforto, orgoglio, sollievo. E approvazione incondizionata, anche per ciò che doveva ancora accadere.

Il padre, tuttavia, volle sapere: – Stai andando da lui?

Fingon annuì.

– Non voglio intromettermi – insistette Fingolfin, – ma hai sofferto molto l'altra volta...

– Lo so, papà.

– Cosa pensi di fare?

In tutta sincerità, Fingon non lo sapeva. Non sapeva se si sentiva pronto per perdonare. Non sapeva se credere alle parole che gli aveva rivolto Maedhros nel suo delirio. Non sapeva, nel caso fossero state sincere, cosa avrebbe dovuto farsene di quella verità giunta forse troppo tardi.

– È complicato – disse, e uscì.

 

Chiamò Celegorm dall'auto, sulla strada per l'ospedale.

– Tutto bene – tentò di rassicurarlo il cugino, ma la sua voce diceva che non era così. – Ti aspetto all'ingresso.

I genitori di Fingon abitavano poco fuori città e ci voleva quasi un'ora per raggiungere l'ospedale. Lui ci mise trentacinque minuti, infrangendo tutti i limiti di velocità, con le mani che stringevano forte il volante, la destra che ancora doleva per il pugno inferto la notte prima.

Si chiese che fine avessero fatto l'uomo che aveva colpito e i suoi complici. Si chiese chi fossero. Il notiziario del mattino aveva parlato di un incendio in una fabbrica abbandonata. Nessuna vittima, si indagava sulle possibili cause.

Si domandò se le prove raccolte dai Fëanorion sarebbero state sufficienti per smascherare i crimini della Gothmog, se suo padre sarebbe riuscito a farne il miglior uso possibile, come si aspettava Maedhros, che sembrava aver riposto in lui più fiducia che in sé stesso.

I suoi pensieri furono interrotti dall'apparire della sua destinazione. L'ospedale era un edificio moderno, un monoblocco di vetro e acciaio costruito in una zona della città ristrutturata di recente.

Fingon non si attardò a cercare parcheggio, lasciò l'auto in divieto di sosta, e si precipitò dentro.

La hall lo accolse con la sua luce bianca, il pavimento segnato da frecce colorate che indicavano la strada per i vari reparti, le pareti verdi pastello rivestite di cartelloni esplicativi, l’isola centrale dell'accettazione.

Non fece in tempo a guardarsi intorno che qualcuno gli si buttò addosso, stritolandolo in un abbraccio.

– Grazie – disse Celegorm, quando Fingon riuscì a staccarselo di dosso.

– Beh – cominciò lui, un po' in imbarazzo, gettando un'occhiata alle persone che li stavano osservando, – ho ricevuto qualche aiuto.

– Quel bastardo, ha fatto tutto senza dirmi niente. – Celegorm, riferendosi al fratello minore, riusciva a dire “quel bastardo” con lo stesso tono con cui avrebbe detto “non so cosa farei senza di lui”.

– Come sta Maedhros? – lo interrogò Fingon.

– La botta in testa gli ha procurato una commozione cerebrale, ma sembra non aver causato danni permanenti – rispose subito il cugino, – dalla ferita al collo ha perso tanto sangue che i medici si sono domandati come potesse essere arrivato cosciente all'ospedale, ma Curufin ha il suo stesso gruppo sanguigno e, quando si sono accorti che aveva mentito sul fatto di essere maggiorenne, gli avevano già prelevato tre sacche.

– Curufin ha donato il sangue? – A quanto si ricordava, il giovane Fëanorion aveva il terrore degli aghi.

– Prima che Maedhros gli dicesse che ti aveva dato l'hd.

Fingon distolse lo sguardo, a disagio. Ma Celegorm continuò: – La ferita al viso, hanno detto che una volta rimarginata possono sistemargliela con la chirurgia plastica. Il vero problema è la mano. È stata troppo tempo senza ossigeno e alcuni tessuti hanno subito un danno irreversibile. Se riescono ad asportarglieli, non riprenderà tutte le sue funzionalità, ma almeno non dovranno amputargliela.

Fingon sentì il calore defluirgli dal viso. L'angoscia suscitata da quella terribile eventualità fu accompagnata dal pensiero, più egoistico, che lui e Maedhros non avrebbero mai più scalato insieme. Come se avesse dato per scontato che fosse qualcosa che avrebbero ripreso a fare. E questo gli disse, riguardo a ciò che realmente desiderava, molto più dei ragionamenti razionali.

– Portami da lui.

Celegorm fece strada. Sull'ascensore che conduceva al reparto, il cugino sembrava teso, come se si stesse trattenendo dal dire qualcosa. Alla fine, quando le porte si aprirono sul corridoio del terzo piano, chiese: – Cosa ne hai fatto dell'hd?

– Quello che mi ha chiesto Maedhros.

– L'hai dato a tuo padre.

Non era una domanda, ma lui rispose lo stesso: – Sì.

– Curufin non l'ha presa bene – commentò il cugino, precedendolo in una sala d'aspetto di medie dimensioni: odore di disinfettante per pavimenti, un distributore di bibite, seggiole di plastica contro le pareti.

Su una di queste sedeva Curufin, molto pallido ma con la schiena dritta e le mani aperte contro i pantaloni di lana. Le maniche della camicia ripiegate, cerotti su entrambi gli avambracci. A distanza di una sedia, Caranthir, con il viso tra le mani e i gomiti appoggiati alle ginocchia, sembrava dormire. Maglor era in piedi e parlava al cellulare.

Quando vide Fingon, Curufin si alzò di scatto, barcollando, e Caranthir, che evidentemente non dormiva, si alzò a sua volta e allungò un braccio come per sorreggerlo, ma senza arrivare a toccarlo.

Fingon poté leggere sul viso del giovane Fëanorion tutto lo sforzo per mantenere la compostezza, nonostante la stanchezza e la mancanza di energie dovuta al massiccio prelievo, ma non gli riuscì di provare compassione. L’unica cosa che voleva in quel momento era vedere di persona come stava Maedhros, e ogni minuto perso lo rendeva più ansioso.

Sentì la mano di Celegorm sul suo polso e se ne liberò, avanzando fino a fronteggiare Curufin. A quella distanza percepiva un leggero odore di bruciato e di benzina.

– Ho fatto quello che mi ha chiesto lui – lo anticipò, controllando a stento il tono di voce.

– Perché? – sibilò Curufin.

– Perché glielo dovevo – disse Fingon, rivoltandogli contro le parole con cui l'altro lo aveva convinto a imbarcarsi nell'impresa.

Curufin scosse la testa e tornò a sedersi, senza aggiungere altro.

Fingon lo oltrepassò ed entrò nella stanza alle sue spalle.

 

La camera aveva due letti, lenzuola bianche, copriletti bianchi, struttura in metallo. Il debole sole del mattino invernale, che batteva obliquo contro la finestra, faticava a farsi strada tra le stecche delle veneziane, e proiettava sulle pareti esili strisce di luce.

Un letto era vuoto. Nell'altro Maedhros giaceva con la schiena sorretta da diversi cuscini, il viso rivolto all'entrata.

Fingon restò sulla soglia, incapace di dominare le sue emozioni contrastanti.

L’amico era pallido al punto che avrebbe potuto confondersi con i cuscini stessi, la guancia destra era coperta da un grande cerotto quadrato e il collo era fasciato da bende che, come si intravedeva sotto il leggero camice che indossava, scendevano fino a coprire anche parte del torace.

Il braccio destro era avvolto da una fasciatura che iniziava sotto il gomito e arrivava a comprendere l'intera mano, mentre all'altro era attaccata una flebo.

– Non è grave come sembra – esordì Maedhros con voce debole ma chiara, come se avesse parlato fino a pochi istanti prima.

Fingon riuscì a schiodarsi dalla porta e si avvicinò, cercando invano di non tenere lo sguardo fisso sulla mano fasciata.

– Stanno cercando di salvarmela – gli spiegò l’amico, – credo ci siano buone possibilità, anche se i dottori non si sbilanciano.

Lui si sedette sul bordo del letto, dalla parte opposta, attento a non interferire col tubicino della flebo. Appoggiò una mano sul copriletto. Le loro dita distanziate di pochi centimetri, due di quelle di Maedhros terminavano in cerotti verde pallido.

Nessuno osò spingersi più in là.

– Ho fatto come mi hai detto – disse Fingon, non trovando il coraggio per dire quello che avrebbe voluto.

– Hai fatto bene – rispose Maedhros, – sono convinto che sia stata la scelta giusta.

Lui lo ascoltò distratto. Entrambi sapevano che non era di quello che volevano parlare.

Calò il silenzio. L'aria nella stanza sembrava fremere di elettricità, i pochi centimetri che separavano le loro dita erano diventati il centro dell'universo intero.

Con gli occhi fissi sul copriletto, Fingon cominciò: – Quello che mi hai detto ieri...

– Era la verità – lo interruppe l’altro, come se anche lui non avesse aspettato che quel momento.

– Non è questo che intendevo – lo fermò Fingon, e poi riprese, con più impeto: – Voglio dire... cosa ti aspetti che succeda, adesso? 

Sollevò la testa per guardare l'amico negli occhi e si decise a fare la domanda che non vedeva l'ora di fare dall'istante in cui era uscito di casa quella mattina: – Vorresti che tra noi le cose tornassero com'erano? 

E, per quanto ci provasse, non riuscì più a trattenersi: – Dopo tutto quello che mi hai fatto credere? Dopo tutto quello che ho sofferto?

– No – rispose Maedhros con molta calma. – No, non vorrei che le cose tornassero com'erano.

Fingon sentì una fitta al cuore, e capì che, malgrado tutto, non erano quelle le parole che voleva sentire. Malgrado tutto, lui voleva che le cose tornassero com'erano.

Ma Maedhros non aveva ancora finito.

– Vorrei che tu ed io stessimo insieme per davvero, davanti a tutti, nonostante quello che potranno pensare di noi. Vorrei poter essere per te tutto quello che non sono stato capace di essere la prima volta, a causa della mia codardia.

Fingon rimase senza parole e l’altro si affrettò a giustificarsi.

– Lo so che non ho il diritto di chiederti niente… lo so che hai tutte le ragioni per non fidarti di me… ma mi hai domandato cosa volessi, e la cosa che voglio più di ogni altra è non mentirti. Mai più.

Il silenzio si prolungò, mentre Fingon arrivava a comprendere, forse anche meglio di Maedhros stesso, ciò che l'amico non riusciva a esprimere a parole: il bisogno di essere capito, il bisogno di essere creduto… e quello di essere perdonato.

E non poté più nascondere a sé stesso che il desiderio di Maedhros era anche il suo, che stare con lui era ciò che aveva sempre voluto dal momento in cui era entrato nella sua stanza, inatteso, tanti anni addietro. E forse anche da prima.

Restava solo da vincere la paura.

Maedhros sembrò leggergli nel pensiero.

– Ti amo, Fingon – disse.

Lui arrossì. Gli piaceva. Gli piaceva come suonava.

– Dillo ancora – osò.

Maedhros sorrise e fu come se, di colpo, entrasse il sole.

– Ti amo – ripeté, con un'aria divertita che, in qualche strano modo, fece sembrare quelle due parole ancora più vere.

Allora Fingon annullò la distanza tra le loro dita e fece scivolare la sua mano in quella del compagno, che si lasciò sfuggire un sospiro.

E fu quel sospiro involontario, sincero oltre ogni parola, che vinse le sue ultime resistenze.

 

Maedhros scivolò di lato e lui accettò l'invito. Gli si sdraiò accanto e appoggiò con cautela la testa alla sua spalla. Inspirò a fondo, finché l'odore di disinfettante che impregnava le bende non lasciò il posto a quello conosciuto e rassicurante del ragazzo che amava. Che aveva sempre amato. Chiuse gli occhi.

Sentì Maedhros modulare le note di una canzone composta quando loro non erano neppure nati, e le sue labbra premere contro la sua fronte.

E, per la prima volta dopo due lunghissimi anni, si sentì in pace.

 

 

Quando entrò, Celegorm li trovò addormentati. Maedhros col viso tra i capelli del suo innamorato e Fingon che sorrideva nel sonno contro il collo fasciato di colui che aveva appena salvato. Le loro dita intrecciate, strette tra i loro corpi.

Celegorm uscì senza fare rumore, chiuse la porta alle sue spalle e sorrise, come se il mondo avesse appena ricominciato a girare per il verso giusto.

 

 

~ FINE ~

 

 

 

______________________________

 

Credits

Prima di ogni altra cosa, voglio ricordarvi che il merito per la riuscita di questo racconto non è esclusivamente mio.

Fondamentale (a dir poco) è stato l’aiuto di Kanako91, che ha beato la storia. E con questo voglio dire che l’ha letta, l’ha corretta, mi ha fornito numerosi spunti di riflessione per apportare modifiche che l’hanno resa più leggibile e più interessante, in una parola: migliore. Non solo: mi ha sostenuta, mi ha incoraggiata, mi ha sopportata… insomma, ha fatto molto più di quanto sia richiesto a una "normale" beta-reader.
Per questo, per il magistrale uso del bastone e della carota ;-), per la costante disponibilità e per la tua amicizia: grazie Kan!

Gran parte del merito va inoltre a LiveOakWithMoss, musa ispiratrice e proprietaria di alcuni headcanon presenti in questa storia.
Per questo (e, ovviamente, per dwmp): grazie June!

 

Ringraziamenti

Grazie di cuore a tutti coloro che hanno avuto la costanza di seguirmi fin qui. Grazie a chi ha letto (e riletto!), a chi ha commentato, a chi mi ha fatto sapere che ha trovato la storia di suo interesse inserendola tra le preferite/ricordate/seguite! Grazie davvero, la vostra presenza è stata una graditissima compagnia nel corso di questo mese.

 

Tributo a DB

La scelta della canzone "The man who sold the world" è stata dettata da vari motivi.
Prima di tutto, è un mio personale omaggio a un artista che ho molto amato, morto proprio un anno fa, in questi giorni.
Inoltre, è un brano di cui Bowie ha detto: "Per me quella canzone ha sempre esemplificato lo stato d'animo che si prova quando si è giovani, quando ci si rende conto che c'è una parte di noi che non siamo ancora riusciti a mettere insieme", stato d'animo che, secondo me, descrive bene ciò che provano i due protagonisti per lunga parte di questa storia.
Infine, il verso: "We must have died alone a long long time ago" mi fa pensare alla Prima Era e al destino tragico dei due amici.

 

Note finali

01.
Considerata la delicatezza dell'argomento trattato (o meglio, dell’argomento appena accennato), è forse opportuno ricordare che le leggi di tutti gli stati europei, compresa l'Italia, e di molti degli Stati Uniti, consentono il matrimonio civile tra primi cugini.

02.
Non ero partita con l'intenzione di scrivere altre storie ambientate in questo universo ma, vista l'accoglienza ricevuta da OT, se avete qualche richiesta, sarò felice di esaudirla… ormai sapete che mi lascio convincere facilmente quando si tratta di Fëanorion!

03.
Infine, se qualcuno fosse interessato ad alcuni aspetti di questo universo che non vengono approfonditi nel corso della storia, può leggere le appendici che seguono.

 


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APPENDICI non richieste sull'OT-verse di Losiliel

[ Warning per noia ]

 

DATE DI NASCITA

Finwë è nato nel 1929, è immigrato nel 1950 (insieme a colei che sarebbe diventata la sua prima moglie) e ha fondato la Tirion nel 1952.
All’epoca era una fabbrica di lampade fluorescenti, poi si è espansa in altri settori, adesso opera prevalentemente nel campo delle energie rinnovabili.

Fëanor è nato nel 1960 e nello stesso anno è morta sua madre.
Finwë si è risposato nel 1965 e Fingolfin è nato nel 1966.

Maedhros è nato nel 1986
Maglor nel 1987
Celegorm – e Fingon – sono nati nel 1990
Caranthir nel 1995
Curufin nel 1998
Amrod e Amras nel 2004

 

CRONOLOGIA

Giugno 2004 (poco prima della nascita dei gemelli): festa di compleanno di Finwë, dove Fingon nota Maedhros per la prima volta.
Aprile 2010: Incontro Fin - Mae in camera di Fingon (Fingon ha 19 anni, ne compirà 20 in autunno).
Giugno 2010: Diploma di Fingon e inizio della storia semi-clandestina tra lui e Maedhros.
Settembre 2010: Fingon comincia l'Università e Maedhros a lavorare per la Tirion.
Luglio 2012: Finwë viene ucciso, i progetti della nuova invenzione di Fëanor vengono rubati.
Gennaio 2013: Fëanor e Maedhros, vista l'inutilità delle indagini condotte dalle forze dell’ordine, cominciano a indagare per conto loro.
Novembre 2013: Fëanor viene investito e ucciso.
Gennaio 2014: Maedhros lascia Fingon.

La storia è ambientata nella prima metà del febbraio 2016.

 

AMBIENTAZIONE

Ho evitato di proposito ogni possibile riferimento a un contesto geografico per non complicarmi la vita, ma io, mentre scrivevo, avevo in mente una generica città di medie dimensioni del nord Italia. Maedhros potrebbe aver studiato negli USA, diciamo all'MIT, e Finwë essere originario di un paese dell'Europa dell'Est (ovviamente), di ceppo linguistico neolatino, però, per una questione di un minimo di somiglianza fonetica con il Quenya (qui sconfino in campi non miei, smentitemi!), quindi Romania, o Moldavia (che ai tempi in cui lui è emigrato, faceva parte dell'URSS).

 

NOMI

Ho immaginato che ogni figlio di Fëanor avesse un secondo nome nella lingua del nonno (Nelyafinwë, Tyelkormo, Curufinwë… ), che viene usato solo in famiglia o dagli amici più stretti, nella sua forma normale o abbreviata (vedi Ty o Curvo).

 

CAST

Un paio di modelli che potrebbero interpretare la parte di un giovane Mae – diciamo nel periodo "festa del nonno" – e quella di Fin.

 

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