Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Ovvero,
un mucchio di noiosissime note introduttive.
Così vi potrete preparare a quel
che vi aspetta, ed eventualmente decidere di spendere più utilmente il vostro
tempo altrimenti.
Com’è strutturata questa fic?
In linea di massima, non
troverete un gran numero di episodi nuovi o diversi da
quelli della serie che ben conosciamo. Posso quindi affermare che, sotto
moltissimi aspetti, questa è una riscrittura, o
meglio ancora rilettura, di certi passaggi che a me personalmente sono molto
piaciuti, e che riguardano soprattutto il personaggio di Kikyou in rapporto ad
antagonista e protagonista della storia.
Questo lo dico,
in quanto mi sono interrogato sul senso che poteva avere mettere in scena cose
già viste e abbastanza note.
D’altra parte, io non sono certo
uno scrittore. Posso, al limite, giocare un po’ negli
spazi lasciati da un autore, ma nulla più.
Quindi.
Uomo avvisato mezzo salvato. Ci saranno alcune scene nuove, ci saranno idee
magari non presenti nella storia originale e che mi sono divertito a “infilare”
nella fic, ci sarà un angolo diverso dal quale vedere
il racconto. Specialmente all’inizio, noterete molta fedeltà rispetto
all’originale soprattutto nei dialoghi (anche se non mancheranno alcune
opportune modifiche, allo scopo di andare a parare dove mi interessa).
Poi la vicenda, pur seguendo
sempre le “orme” della storia, se ne affrancherà un
pochino di più.
E
giocherò molto sull’introspezione dei personaggi (che è, in fondo, quel che mi
riesce meglio).
Secondo punto.
La Kikyou di cui mi accingo a
raccontare e dalla quale mi muovo è quella dell’anime,
non quella del manga.
Non terrò conto, però, degli
episodi riempitivi (i cosiddetti filler), salvo due eccezioni che segnalerò a
suo tempo.
Pescherò certamente alcune cose
dal manga, e ovviamente mi ricongiungerò alla Kikyou del manga ad anime finito.
Ora, un po’ di spiegazioni
“tecniche”.
La struttura dell’anima per i
giapponesi (struttura che la Takahashi
usa nel racconto), è il seguente (prendetelo con un minimo di beneficio
d’inventario, ma così dovrebbe essere se non ho frainteso qualche punto).
L’anima è divisa in tre parti.
- haku.
Il soffio vitale. Questa parte dell’anima, che potrebbe essere definita energia
vitale/spirituale, è in sé un’energia inerte.
L’haku
è ciò che inizialmente Hakudoushi usa, come
ricorderete, per assemblareMouryoumaru.
Privo delle restanti parti di anima, Mouryoumaru è solo un burattino. Hakudoushi
(nome significativo) manipola l’haku
per muoverlo e farlo agire, finché a Mouryoumaru non
viene fornito un ‘cuore’.
In mancanza di informazioni
più precise, do per scontato che Kikyou sia dotata di un haku,
preso da una parte di quello di Kagome, e che nell’haku
risieda sia la forza fisica che i poteri spirituali di cui è dotata.
- tamashii.
La parte spirituale, della coscienza di sé e dei sentimenti.
Assimilabile a quanto possiamo considerare anche noi anima.
Quando si parla della parte di anima propensa all’odio
che risiede nel corpo rianimato di Kikyou, la Takahashi
si riferisce propriamente a questo: la tamashii di
Kikyou è “spezzata” e questa porzione si annida nel corpo fabbricato da Urasue.
Infatti (come vedete, per una
volta ho sconfitto la pigrizia e fatto bene i compiti a casa) i capitoli del
manga nei quali Kikyou tenta di trascinare all’inferno
Inuyasha si intitolano SukuwarenuTamashii,
tradotto nelle scan inglesi Un’anima al di là della redenzione ma che letteralmente dovrebbe
suonare così: una tamashii
che non può essere curata.
Tamashii
è anche ciò che propriamente estrae Kikyou da Midoriko
nel tentativo di contrastare gli effetti del veleno di
Naraku.
- shinidama.
La parte di anima che muove il corpo fisico. Ovvero, ciò che permette alla tamashii di
manipolare l’haku per muoversi e agire. Kikyou
è del tutto priva di tale porzione di anima, ed è ciò
che i suoi insetti demoniaci, chiamati appunto shinidamachu,
raccolgono per lei.
Tuttavia, nella versione
giapponese, quando ci si riferisce alle anime raccolte da Kikyou vengono usati in maniera intercambiabile i due termini ‘shinidama’ e ‘tamashii’.
E,
propriamente, se è pur vero che Kikyou ha bisogno delle shinidama,
è altrettanto vero che raccoglie anime intrise di rimpianto e tristezza (chiaro
riferimento alle tamashii).
Perciò,
ho semplicemente deciso che gli shinidamachu prendono
entrambe queste parti dell’anima delle donne morte. Nel racconto userò il
vocabolo “anima” per intendere queste due parti dell’anima giapponese.
Divinità.
Nella religione scintoista, le
divinità sono chiamate “Kami”. Il termine divinità è
in parte fuorviante, così come quello di demone (youkai).
I più potenti tra i Kami sono comunque
assimilabili approssimativamente alle divinità greche, ed è in questa accezione
che userò il vocabolo.
Ma anche
le montagne, le tempeste, gli antenati, gli eroi (e l’imperatore del Giappone)
sono o possono essere Kami.
Aldilà.
Gli spiriti dei morti sono liberi
di reincarnarsi 49 giorni dopo la morte. Coloro che non hanno ricevuto un
funerale appropriato, o che sono legati al mondo dei vivi da catene di dovere
e/o passione, non si possono reincarnare.
Costoro rimangono nel Meidou, l’oscuro regno dei morti (Inferno, diciamo, o Ade che si voglia), ricordando tutto ciò che hanno odiato e
amato.
Il Kami
che governa il Meidou è conosciuto con il nome di Okuninushi.
NOTA: detto questo, io ho
intenzione di appropriarmi dei concetti che mi tornano
utili, per poi rielaborarli secondo i miei comodi. Non ho certo intenzione di
perdermi in un trattato sulla corretta interpretazione di questo corpus mitologico, che ho tratteggiato
in maniera molto sbrigativa.
Mischiare e inventare è molto più
divertente e meno faticoso che documentarsi troppo ^_^“
Per finire, un po’ di glossario. E se avete resistito fin qua, forse avete le spalle (spalle,
ho detto! Cosa andate subito a pensare, maliziosi!!)
per sopportare anche il resto.
Miko:
sacerdotessa scintoista;
Kuromiko: sacerdotessa oscura;
Bou:
monaco buddista;
Oni:
demone con un occhio solo simile a un orco;
Gumo:
ragno;
Naraku: inferno o “abissi
infernali”;
ShikonnoTama: la sfera dei 4 spiriti;
Kikyou: il nome di un fiore, la
campanella cinese. Ma anche, colei che è eccentrica;
Chihaya:
il costume tradizionale della miko
indossato da Kikyou;
Hakama:
la parte inferiore, rossa, del costume della miko (i
pantaloni);
Hitoe:
la parte superiore, bianca, del costume della miko
(il kimono);
Youkai:
demone/creatura sovrannaturale;
Hanyou:
mezzodemone;
Youki:
energia “demoniaca” di youkai e hanyou;
Juso:
maledizione;
Shikigami:
creatura artificiale che serve le miko;
Taijiya:
sterminatore di demoni;
Daimyo:
il capo di un clan, assimilabile al nostro “signore feudale”. La madre di Inuyasha è la figlia di un daimyo;
Ronin:
samurai senza daimyo;
Katana: spada del samurai;
Bokken:
la spada di legno, letale quasi quanto una katana.
–dono e –sama:
suffissi di saluto. In giapponese non esiste il lei e il voi (anche se io ho
tutta l’intenzione di utilizzarli). Il minore o maggior rispetto, all’interno
di una frase, si ottiene rivolgendosi in maniera più o meno formale
all’interlocutore. Dono è suffisso molto formale che si usa nei confronti di
una persona rispettabile con cui si ha poca o nessuna familiarità. Sama è anch’esso un suffisso di grande
rispetto, ma che implica una maggiore vicinanza.
Ringraziamenti:
arosencrantz (aka Lara) per
l’apprezzamento e l’incoraggiamento;
asolandia (aka Elena) in quanto
questo racconto deve molto anche a tutti i fiumi d’inchiostro versati nei
nostri papiri a sostenere (io) le “ragioni” della scelta di Kikyou di rendere
umano Inuyasha e l’altra a ribadirne i “torti” e le ombre. Sempre un piacere ^-^
Una cosa in cui mi diverto, è cercare risposte alle incoerenze o, più
semplicemente, alle domande lasciate in sospeso da un au
Una cosa in cui mi diverto, è cercare risposte alle incoerenze o, più
semplicemente, alle domande lasciate in sospeso da un autore. In quest’ottica, mi ero posto da tanto alcune domande: perché
Naraku non si prese la sfera dei 4 spiriti quando Kikyou morì per la prima
volta? Perché Naraku all’inizio è un mutaforma
e poi non lo è più (non in senso stretto).
Ecco, tra
le altre cose, i tentativi di darmi risposta.
Io sono la nota stonata
Nell’armoniosa melodia del Fato
Io sono la volontà imprevista
Io sono Naraku
Occhi si aprono nella tenebra.
Quel vecchio ricordo. Chissà
perché proprio ora.
Lui non dorme. Quasi
tutte le creature che si aggirano nel mondo dormono. Perfino gli youkai, tranne i più potenti. Perfino i
morti che calpestano la terra. Ma non lui.
Al più, scivola in uno stato
simile a un trance, nel quale per brevi periodi sogna
a occhi aperti. E’ questo tutto il riposo che gli è necessario. La sua mente è
sempre desta, come argento vivo.
Ha rivissuto la sua prima
battaglia, dopo tutto questo tempo. Forse perché da un po’
non riesce a sbarazzarsi di questa strana sensazione, così estranea per lui,
che qualcosa gli sfugga, giocando a nascondino in qualche angolo scuro della
sua coscienza. Ed è molto che non provava
niente di simile.
C’è qualcosa … qualcosa che non va.
Stacca la schiena dalla parete
della caverna e si alza in piedi, seccato. Si concentra.
E’ necessario capire. E’ sempre
necessario.
Scivola facilmente nel ricordo,
nei giorni della sua giovinezza, se così possono essere chiamati, quando poteva
cambiare forma a suo piacimento. Gli era sempre piaciuto farlo. Quanto si era
indispettito nello scoprire che la sciocca ragazzina, Kagome, facendo a pezzi
il suo corpo originario, rimpiazzato dalla stregoneria del Kodoku,
lo aveva privato di quella capacità costringendolo nell’aspetto del principe Kakewaki!
Ed eccolo ora, bene in vista ma
occultato agli occhi, a suo agio nella forma di uno dei tanti, insignificanti
contadini del villaggio, a cui ha spezzato il collo poco
prima.
Quel giorno di sole sarebbe
potuto essere, già allora, quello del suo trionfo, se non fosse stato così
inopinatamente ostacolato, dalla miko e dal brigante.
Ecco Kikyou, la spalla lacerata
quasi fino all’osso dai suoi artigli, la manica dell’hitoe
zuppa di sangue, il corpo e l’anima in agonia per il tradimento di cui crede di
essere stata vittima, barcollare verso la sfera, cadere infine in ginocchio
mentre il fuoco bruciante della volontà e della rabbia che l’ha sostenuta
comincia a scemare, spento da quell’ultimo sforzo fatto per sigillare lo
stupido Inuyasha.
Vicino, ma non troppo vicino.
Naraku si fa accanto per ascoltare le parole della donna. C’è un’altra voce che
cerca di imporre la sua presenza, e lo disturba, rendendogli difficile udire. Quella voce maledetta, odiosa, che sussurra non al suo orecchio, ma
nella sua testa.
Hai promesso. Hai promesso. Lei … lei deve essere mia … nostra.
Sta morendo.
Come può essere nostra, se muore?
Scintille d’ira nella voce
fantasma. Cerca di blandirla.
Ti ho già spiegato, Onigumo. Questo è il
momento. Non credi che sia un po’ tardi per diffidare di me? Mi hai permesso di
colpirla. Non sei più convinto di quanto ti ho detto? Ora fai silenzio. Lasciami
ascoltare.
Le parole della donna agonizzante
alla sorellina, colpiscono con violenza pari a una
tempesta di colpi di bokken sia Onigumo
che Naraku; anche se certo, per ragioni assai diverse.
Sbalordito, Naraku vede la miko, che sia dannata, irretire la ShikonnoTama, avvilupparla con
fili di potere alla propria stessa anima, tessere attorno ad essa un sudario al
quale il gioiello non potrà sfuggire. Quale incredibile prova di coraggio! Come
avrebbe potuto immaginare mai, che trovasse la forza
per costringersi a compiere un tale sacrificio … un sacrificio di cui lui solo,
ironia della sorte, può misurare le dimensioni.
Deve impedirlo. Deve fare
qualcosa. Ma in quel momento, un grido folle gli
investe la mente, sconvolgente come l’onda che segue il terremoto.
Hai detto che avrebbe usato la ShikonnoTama!
Hai detto di esserne certo. Che la disperazione del
suo cuore e la debolezza del suo corpo non le avrebbero permesso di purificarla.
E che usandola per guarirsi dalla ferita … la tenebra
del loro reciproco odio, che la aspetta per prenderla, l’avrebbe resa nostra.
L’hai detto! Cosa succede?! Devi impedirlo.
Devi fare qualcosa! Lei deve essere mia! Hai promesso. Avete promesso, voi,
maledetti, schifosi, bugiardi …
Naraku stringe i denti con
violenza. Barcolla all’indietro di alcuni passi.
Nessuno lo sta guardando. Tutta l’attenzione è puntata sulla miko, sui suoi ultimi morenti sussurri.
Taci. Taci, piccolo, stupido, infido uomo. Ma tu hai creduto forse che
io davvero volessi avere accanto unakuromiko di tale potere? Credi
forse che avrebbe spartito la Shikon
no Tama con me? Patetico brigante. Solo tu, che
misuri il mondo sul tuo misero metro, e dagli altri ti aspetti solo ciò che gli
altri si aspettano da te, potevi credere che Kikyou
avrebbe mai fatto una cosa del genere. Sciocco e debole! Ho sempre solo voluto
la sua morte. E tu, mi hai permesso di uccidere la
donna che brami. Con queste mani le ho strappato la
vita. Le tue mani. Ricordalo, Onigumo. Tu mi hai
lasciato libero. E ora, taci. Forse non è ancora
troppo tardi. Se riesco a prendere la ShikonnoTama prima che brucino il corpo
della donna …
Poi, un’esplosione nella testa.
Il Ragno stende le sue sordide zampette, avvinghiandole tutte attorno alla sua
mente. Il suo becco si pianta in profondità, stillando veleno e odio.
Naraku si volta,
fugge non visto nel bosco, erigendosi dentro di sé, cupamente deciso a
vincere la sua prima, più importante battaglia.
Quattro giorni dopo, sfinito,
inginocchiato, ingobbito nella pelle di babbuino, fissa il suo riflesso che a
sua volta lo rimira dal corso di un fiume. Solo il mento e la bocca sono
visibili.
Chi sono io? Chi?
Un angolo della bocca si
arriccia, mentre ode l’eco della risposta.
Io sono la nota stonata
Il Ragno è silenzioso, ora. Hanno
lottato, stretti in una lotta mortale, ma adesso …
Anche
l’altro angolo della bocca si piega all’insù.
Nell’armoniosa melodia del Fato
E’ fuggito, squittendo,
sconfitto, rifugiandosi in qualche oscura, profonda caverna della mente. Ha
provato a stanarlo ma, astuto quanto vile, scivola via ogni volta che crede di
poterlo catturare. Immagina che dovrà rassegnarsi a conviverci. Ma …
Le sue labbra si separano a
mostrare denti bianchi e forti. Sente un’allegria fuori luogo salirgli dal
fondo della gola. Barcollando, si alza in piedi.
Io sono la volontà imprevista
Onigumo
non si riprenderà mai più da questa sconfitta. Oh, sa già che proverà a
sibilare parole, insidiandolo. Ma la sua voce sarà solo
un grugnito incomprensibile, il verso inarticolato di una bestia senza
cervello.
Il corpo della miko è bruciato. La Shikon no Tama perduta. Nonostante questo, mentre si
incammina esitante nel bosco silenzioso, non può né vuole trattenere una
risata di trionfo, dapprima debole, ma che presto prende ad alimentare se
stessa, facendosi sempre più forte, rimbalzando sulle pareti d’alberi attorno,
e vieppiù alzandosi, fino a diventare un grido di trionfo levato a sfidare
terra e cieli.
Ripensare a quella prima lotta gli dà sempre soddisfazione
Ripensare a quella prima lotta
gli dà sempre soddisfazione.
Certo, per molti anni gli era
parso di avere pagato molto a quella vittoria. La Shikon
no Tama distrutta. Invece …
Naraku prende il negro gioiello
dalla manica del vestito. Lo fissa. Un solo piccolo punto di
luce che presto svanirà. Un solo piccolo frammento nella schiena del
giovane taijiya, che presto avrà.
Dunque,
tutti i tuoi sforzi sono stati vani, Kikyou. Infine, ti ho sconfitta.
Contemplando il gioiello, lascia
scorrere i pensieri. Ora che l’ha uccisa, l’ha battuta e presto trionferà del
tutto, prova soddisfazione nel contemplare ciascuna delle battaglie tra lui e
la miko, perfino quelle che avevano
visto la donna apparentemente trionfare. Certo, perché no? Si conosce
bene; e per quanto contorto e bugiardo possa essere nei confronti di chiunque
altro, è sempre sincero con se stesso. Il proprio valore si misura sulla
grandezza dell’avversario con cui ci si cimenta. Le sconfitte che ha inflitto a Inuyasha e ai suoi compagni, sono poca cosa rispetto al
trionfo che può assaporare pensando ora a lei, la sua nemesi, la più temuta e
la più odiata.
Sotto un certo aspetto, ci assomigliavamo più di quanto io stesso credessi, Kikyou. Due facce della stessa moneta.
Fu Okuninushi a permettermi di capirlo.
Per questo, per quanto l’abbia odiata e ancora la odi, per quanto possa esultare
sapendo che è morta, una parte di lui si sente come orfana della possibilità di
affrontarla, un’ultima volta.
E questo
punto di luce. Ancora, quella sensazione sgradevole che torna
prepotente. C’è qualcosa che non va.
Come ha potuto pensare che
sarebbe caduto in una trappola così … scoperta, banale?
Ha forse creduto che avrebbe
avventatamente ricongiunto la ShikonnoTama, lasciandosi scioccamente
purificare a morte?
O pensava
che gli sarebbe stato impossibile trovare uno stratagemma per superare quest’ultimo ostacolo?
Che, nel momento dell’agonia che
precede la morte, Kikyou abbia perduto quella magnifica lucidità che l’ha sempre contraddistinta?
Naraku è scosso da un brivido di
delusione; quel punto di luce presto sarà solo un ricordo.
E perché
allora un sussurro interiore, insiste a ripetergli che sta ignorando qualcosa
di fondamentale, di così essenziale che potrebbe determinare, in molti modi, la
sua stessa sorte?
Assai più che seccato, ora,
avanza di alcuni passi nella caverna in penombra. Il
suo corpo è di nuovo intatto dopo lo sciagurato contrattempo. Ricorda perfettamente quel che è accaduto, istante per istante.
La freccia della ragazzina, Kagome, passa attraverso il corpo
della miko, Hitomiko,
mandando a pezzi sia lui che il suo piano per sbarazzarsi di lei.
E questo non è che l’ultimo di una intollerabile serie di scacchi.
C’è …
… qualcosa che non va, Naraku?
Naraku si pietrifica per un solo
istante, poi gira sui tacchi, più rapido di un gatto. Una voce femminile, al
tempo stesso uniforme e melodiosa, pacata e beffarda.
Non c’è nessuno in questa caverna. Chiunque fosse, ne avvertirebbe
la presenza.
E
certamente non lei; oh no, lei no!
Che cosa ti turba, Naraku? Cosa ti impedisce di
godere dei tuoi trionfi quanto vorresti? Cosa c’è che
non va … mio assassino?
Questa è follia. Naraku avverte
una sensazione aliena simile a una vertigine, ma molto
più violenta, come se fosse stato brutalmente staccato da se stesso e,
galleggiando per aria, potesse guardarsi dall’esterno. Poi, rinserra la
volontà.
Non temere, Naraku; non sono la voce della tua coscienza
improvvisamente impazzita. Tu non ne possiedi una, perciò non puoi udirla. No.
Sono qui. Sono reale.
Naraku scandaglia con lo sguardo
ombre che per lui non sono tali. Non c’è nessuno, come lui
già sapeva.
“Fantasma o illusione dei Kami. Non so cosa tu sia o per quale ragione adesso odo la
tua voce. Ma non pensare di potermi intimorire, Kikyou.
Ormai non puoi più nulla contro di me. Ti ho uccisa, e questa è una realtà che,
stavolta, non può essere cambiata.”
Come già ti dissi settimane fa – ma tu allora non potesti udirmi – che
io abbia perso o meno, Naraku, questo lo vedremo
quando la morte verrà a reclamarti.
Ma oggi non sono qui per minacciarti, né maledirti, mio assassino. Ha
importanza che sia davvero qui oppure no?
Ha importanza la ragione che mi consente di farmi ascoltare da te
un’ultima volta? Che sia la volontà dei Kami piuttosto che il desiderio da te appena sussurrato,
oppure il mio bisogno di dirti addio, che cosa cambia? Io posso aiutarti a
vedere ciò che ti tormenta e non ti dà pace. Se è davvero questo quello che vuoi, mio assassino.
La bocca di Naraku si torce in un
ringhio. Poi, ride sommessamente.
“Mostrati, dunque, ostinato
fantasma, e dimmi – hai intenzione di apparire anche al tuo amato Inuyasha,
oppure io solo ho il privilegio di poterti vedere prima che abbandoni per
sempre questo mondo, Kikyou?”
Io e Inuyasha ci siamo detti tutto quel che era
necessario, Naraku. Lui non ha più bisogno di me.
Naraku vede uno scintillio in
fondo alla caverna, come se dal nulla una luce si stesse coagulando.
Eccola! Non voleva crederci, e
invece. Indossa la Chihaya, come sempre. Il suo viso, pallido ovale, bello e distante come la luna, è
incorniciato dai capelli sciolti, neri come un cielo notturno che nessuna luna
può rischiarare.
E i suoi
occhi sono fondi e penetranti e malinconici, ma limpidi. Per quanto
intensamente vi cerchi il dolore che ben conosce, non ve n’è apparente traccia.
Ma il
suo corpo luminoso è trasparente. Può vedere facilmente, attraverso di esso, la scabra parete di roccia.
“Oh, Kikyou. Mia nemesi, è
proprio vero, dunque. Neppure questa volta la morte riesce a liberarti di ciò
che sei stata? Non sei in grado di apparirmi con una
veste diversa da quella di miko?”
Così Naraku scoppia a ridere di
gusto, mentre Kikyou lo fissa senza un mormorio o un movimento. In un solo
momento, spegne la sua risata, tornando serio.
“Sei di nuovo
prigioniera di Okuninushi, mia nemesi? E’ lui
che ti manda? E’, questo, un nuovo tormento che ha congegnato per torturarti?”
L’ha forse vista sussultare? E’
forse stupore quel che scorge nel suo sguardo? Sì. Fantasma o qualunque cosa
sia, ora si è imbattuta in qualcosa di imprevisto.
Naraku prova un brivido mentre, ancora una volta, il piacere della lotta lo
cattura quasi suo malgrado.
Qua siamo
ai primi episodi dell’anime. Per
l’esattezza, la prima apparizione di Kikyou dopo la sua “rianimazione”.
Episodi 22 – 23. Apparizione che ho trasposto papalepapale (scusatemi di questo) ma con alcuni dettagli che
spero vi possano interessare.
Le grida acute
e spensierate dei bambini, mentre giocosamente lottano per conquistarsi anche
solo un attimo della sua attenzione. Si accalcano vicino a lei,
chiamandola per nome, sfiorandole l’hakama con le
manine; le chiedono il nome di erbe medicinali che già
conoscono – per il puro piacere di lasciarsi scaldare dal suo sorriso.
E lei
sorride. Non sa neppure lei come ci riesce.
Il fiume – non quello che sta
fissando adesso – l’ha trascinata con la corrente. Poi, ha
camminato, confusa, spersa, non sa per quanto. Ore? Giorni?
Al villaggio l’hanno accolta
subito. Lo avrebbero fatto anche se non fosse una miko.
Quando poi ha dimostrato le sue abilità nell’arte della guarigione, l’hanno
colmata di attenzione e benedizioni.
Se solo
sapessero, per quale ragione può compiere quelle miracolose guarigioni.
Se
sapessero, la caccerebbero, le sputerebbero in faccia, cercherebbero di
distruggerla.
La sua condizione, le permette di
vedere i messaggeri dell’aldilà. E i suoi poteri di miko
– che non sono mai stati così forti come da quando è
prigioniera di questa farsa di corpo – le consentono di distruggerli così
facilmente.
Da morta, la sua capacità di
curare gli altri è accresciuta a dismisura. Quando se ne è resa conto, l’assurdità della cosa le ha fatto venire
una gran voglia di ridere. Così, ha scoperto che anche i morti possono ridere. E che la risata di un morto è talmente amara, da riempire la
bocca del sapore del fiele.
Il dolore la
tormenta. E’ incessante; l’odio la corrode peggio di un veleno.
Ma i
bambini. Quando sta con loro, a volte riesce a
ingannare se stessa per brevissimo tempo. Le pare quasi di essere
quella di un tempo.
Se solo potessi restare qua, in questo
villaggio, per sempre.
Dimenticata dal mondo, da tutti, e soprattutto da …
Un altro rigurgito d’odio le
afferra la gola, come cibo indigesto … che lei non può più mangiare. Anche poter assaggiare del cibo andato a male, sarebbe una
benedizione per la quale rendere grazie.
“Kikyou-sama.
Quest’erba va bene, vero?”
Allontana il dolore. Allontana l’odio. Almeno, provaci, maledizione.
Anche a costo di ricorrere a quei vecchi, polverosi insegnamenti che una volta sei stata così stupida da credere di poterti lasciare per
sempre alle spalle.
“Sì, brava, Sayo.
Su, avvicinatevi, lasciatemi vedere cos’avete raccolto.”
I sorrisi dei bambini sono un
balsamo migliore di qualunque preghiera. Insegnare loro, giocando, l’ha sempre
resa così felice …
Il sole prosegue il suo viaggio
verso ovest.
Inginocchiata in mezzo a loro,
spiega l’uso delle erbe; racconta leggende dimenticate, confeziona indovinelli.
Un tempo probabilmente avrebbe anche cantato. Ma non
canterà mai più.
Degli occhi la stanno fissando
già da un po’, con stupore e diffidenza. Insistenti.
Il suo sguardo sfiora, per un
attimo solamente, le fronde dei ciliegi alle sue spalle, come se potesse
esserci qualcuno appollaiato fra i rami.
Stupida.
“Bou-dono,
mostratevi pure, vi prego. E’ parecchio che mi state guardando.”
Esclamazione stupefatta.
Due monaci buddisti, uno vecchio
e uno giovane – maestro e allievo – emergono dalla
vegetazione. Il vecchio risponde, balbettando un po’.
“Oh, ci avevate notato, miko-dono. Perdonatemi. La vostra bellezza mi aveva
stregato.”
Mentre
cammina verso di lei, continua a parlare.
“Dovrò essere più attento. Questo
è molto imbarazzante, per me …”.
Inciampa. Finge di inciampare;
lei se ne accorge e la rabbia, sempre avvinghiata alla
sua anima, subito le preme addosso, opprimente come un manto ammuffito. Un sutra cade a terra. Una sola occhiata. E’ un sutra di grande potere; qualunque youkai
dovesse toccarlo, vedrebbe immediatamente svelata la sua vera natura.
“Come sono goffo! Potreste
raccoglierlo, miko-dono? Sapete, le mie vecchie ossa
…”
La mano di Kikyou afferra il
rotolo senza esitazioni. La Furia che si nutre di lei e di cui lei stessa, a
sua volta, si nutre, ha trovato un bersaglio, finalmente. Con amara
soddisfazione, osserva i lineamenti del viso del monaco assumere la forma di
una maschera stupefatta, mentre lei stessa maschera i suoi intenti dietro
un’espressione premurosa e un delicato sorriso.
“Tenete pure.”
Cosa può
fare, ora? Tremante, non può che riprendere il sutra
che gli porge.
Mentre il monaco resta congelato
sul posto, e mille e mille aghi invisibili gli trapassano il corpo, Kikyou si
alza, i gigli donateli dai bambini stretti al seno, e
li richiama.
“Torniamo al villaggio. Si è
fatto tardi.”
Hanno già percorso alcune decine
di metri, quando il monaco si riprende a sufficienza per potere di nuovo
parlare.
“Miko-dono!
Non so quale rimpianto portiate dentro di voi, ma non
potere restare qui! Questo non è il vostro posto! Dovete ritornare al luogo al
quale appartenete!”
Kikyou resta immobile
solo alcuni istanti. Poi riprende a camminare come se nulla fosse.
I bambini sono tornati ognuno
alle proprie case. L’ora è tarda e, ormai, staranno dormendo da un pezzo.
L’ultima a salutarla è stata Sayo, stasera, come tutte le altre sere. Di questo è grata,
perché le parole preoccupate e affettuose della bimba sono state capaci di
quietare per il momento la Furia che le stava rosicchiando l’anima da quando
quel pazzo di un monaco ha cercato di sfidarla.
Per poco non si è impappinata,
salutandola; e ha rischiato di chiamarla Kaede,
invece che Sayo.
Inginocchiata davanti al basso
tavolo, mentre sminuzza a mani nude il cibo che i contadini le hanno preparato,
per poi riporlo nel sacchettino di tela che svuota
ogni mattina, ben prima dell’alba, al fiume, rivede nella mente l’immagine
della vecchia miko che ha asserito di
essere Kaede. Una vecchia
che viaggia al suo fianco. Che
ha preso le difese di colui che l’ha uccisa.
Scrolla la testa, digrigna i
denti, rabbrividisce.
Trova molto più naturale chiamare
‘Kaede’Sayo piuttosto che
quella vecchia sconosciuta consumata e rattrappita dagli anni e dalle fatiche.
Rapida, posa un vaso colmo
d’acqua sul tavolino e inizia a mettervi i gigli. Lavora, immersa nella
tenebra, senza alcuna esitazione. Ormai può vedere
altrettanto bene sia in pieno giorno che nell’oscurità. E
così è meglio. Se qualcuno, a quest’ora
così tarda, dovesse passare vicino alla capanna che le è stata destinata, la
crederebbe immersa nel sonno.
Le sue mani sono d’improvviso
colte dal tremore. In questi ultimi giorni si è fatto sempre più insistente.
Sente il braccio diventare insensibile. Nonostante i
suoi sforzi, ricade pesante, urtando il bordo del vaso e facendolo cadere.
L’acqua si rovescia, spargendo fiori e cibo su tutta la superficie del tavolo.
Con un singulto di frustrazione, fissa il disastro che ha appena combinato.
Distrattamente, chiude e riapre più volte la mano a pugno, come per riprendere
il pieno controllo del proprio arto.
Si interrompe
appena si rende conto di quel che sta facendo. Disprezzandosi, comincia a
sghignazzare. O sta singhiozzando? Come sono duri a
morire – già – certi gesti, certe abitudini insensate. Come
se ci fosse ancora del sangue a scorrere nelle sue membra, a darle vitalità.
Perché
darsi tutta questa pena? Anche se il monaco itinerante decidesse
di proseguire il suo viaggio e lasciarla in pace – e sa bene che non lo farà –
non potrà restare qui ancora per molto.
Come una conferma, ecco di nuovo
la Furia farsi sotto, il moto instancabile di un mare che vuole erodere del
tutto quel poco che resta di lei.
Con un gesto di stizza, colpisce
il vaso, lanciandolo a terra a fracassarsi. Afferra la corolla di uno dei gigli
e la chiude nel pugno, stritolandola. Se non può
mettere ordine, che distrugga! Che importanza ha, comunque?
Non può più attendere. Ha cercato
di resistere fino all’ultimo. Ma quel poco che le resta
della shinidama della ragazza la sta abbandonando.
Questa notte dovrà spogliarsi di un altro pezzetto della sua umanità. Come se ne avesse molto da spendere.
Lasciando scivolare tra le dita i
petali sciupati, si alza ed esce senza esitazioni nella notte.
A fissare il fiume, di nuovo.
E’ tesa, e istintivamente
vorrebbe prendere un respiro profondo, ma facendolo si sentirebbe tanto stupida quanto poco fa.
Così, porta le mani alla nuca e
scioglie il nastro bianco, liberando i capelli e lasciandoseli ricadere attorno.
Gli shinidamachu
si stanno avvicinando in volo, trattenendo ciascuno tra le zampette sottili una sfera azzurrina e luminescente.
Sono già alcuni giorni che volano
nei paraggi, preparando il raccolto per lei. Sono deboli youkai;
assumerne il controllo è stato la facilità stessa, per
una miko dotata dei suoi poteri. Un’altra cosa che
non avrebbe mai pensato di essere ridotta a fare.
Tsubaki sarebbe orgogliosa di me, pensa con quel
cupo umorismo che si è scoperta di avere.
Così va bene, Inuyasha? Sono caduta abbastanza in basso? Non sei ancora
soddisfatto?
Pensare a lui è tormento
infinito. Lui l’ha uccisa. Lui vuole che ritorni nel corpo di quella insignificante mocciosa; che muoia di nuovo. Ma allora perché la voleva salvare? Lo diverte saperla imprigionata
in questo simulacro? Davvero la odia così tanto? Come ha potuto sbagliare così
a giudicarlo? Ma allora perché quella vecchia, Kaede
… ?
Mette ordine nella mente. Se continua così, presto perderà del tutto la ragione. Ora
c’è una prova ancora più dura che la attende.
Gli shinidamachu
le svolazzano pigramente intorno, sfiorandola. La prima anima le si posa sui palmi delle mani. Pian
piano, se la sente entrare dentro. Rabbrividisce. E’ anche più gelida di
quanto si aspettasse. Ad ogni modo, perfino il freddo
è meglio del vuoto che l’accompagna di solito. No. Non è questo che teme.
Mentre la shinidama della donna morta allontana una parte del torpore
che le appesantisce il corpo, la tamashii colma di rimpianto prende a sussurrarle nella testa
ricordi che non sono i suoi.
Ero felice, vivevo in uno stupendo palazzo, tutti mi riverivano. Poi,
un giorno il vaiolo mi ha colta. Ho lottato, ma non ho
potuto fare nulla …
“No. Io sono Kikyou. Sono nata e
ho vissuto per quasi tutta la mia vita in una capanna …”
… per la prima volta, mi sono trovata a fronteggiare qualcosa a cui non
potevo dare ordini …
“… Non sono morta di malattia …”
… Non è giusto. Non è giusto! Avevo una vita bellissima da vivere. Perché a me? Perché non alla
sguattera che rassettava ogni giorno le mie stanze? Lei non aveva nulla da
perdere! Perché non a lei? E
adesso, lei, viva, e io …
“… Ho badato ai malati di vaiolo.
Ne ho visti alcuni morire nell’amarezza. Altri in pace.”
“E tu,
taci, taci!”
Mentre la voce della prima tamashii si riduce ad un sussurro inudibile, ecco altre due anime entrarle dentro.
Freddo.
Parole, immagini, ricordi, che
fanno a pugni dentro di lei, cercando di aggrapparsi alla loro vita amara
un’ultima volta.
… l’amavo tanto, ma mio fratello mi aveva già destinata
ad un altro …
“Io sono Kikyou. Kikyou. Non ho
fratelli e sono – ero – una miko.”
… mi ero attardata nei campi; le mie compagne erano già rientrate.
Quando quell’uomo a cavallo si fermò cominciando a fissarmi non
avrei mai immaginato che …
“Non sono una contadina. No. Io …
io sono …”
… i miei bambini. Li ho amati tutti. Erano così piccoli. Li ho nutriti
al mio seno…
“I bambini? I … miei …?”
… li ho visti crescere, farsi
forti. Ero così orgogliosa di ciascuno di loro …
“ …No. No. Nessun bambino. Nessun
…”
… E’ venuta una guerra, una di
quelle loro guerre schifose. Sono partiti, tutti, uno
dopo l’altro …
“…Nessun bambino. Nessun bambino
… Io sono Kikyou … oh, i miei piccolini, i miei piccini! …”
…Nessuno di loro è tornato. Tutti. Tutti morti, tutti …
“… Nessun bambino nel mio ventre.
Mai. Mai. Io …”
… Onorevolmente. Morti con onore. E cosa mi importa!?
Ridammeli! Maledetto, perché non li hai protetti? Perché? …
“…Non è mai successo. Io sono Kikyou … Io sono morta …” un sibilo tra i denti
stretti.
… Sono morti onorevolmente. E così, non mi è
rimasto altro da fare che seguirli, altrettanto onorevolmente …
No. “Io sono morta… pura!”
grida, sputando verso il cielo quell’ultima parola, come se fosse la peggior
bestemmia mai uscita da labbra umane.
Silenzio. I borbottii delle tamashii si sono zittiti. Apre gli occhi. Altre anime le
galleggiano attorno. Il torpore del corpo è svanito, scacciato dalle shinidama. C’è qualcuno alle sue spalle, come stamani. E questa volta lei sa perfettamente chi è.
“Cercate la vostra purezza
perduta, miko-dono? Non potete rifugiarvi
nell’aldilà, voi che siete dei morti?”
La voce dell’uomo è arrochita
dalla vecchiaia e da una profonda pietà.
Osi provare pietà per me? pensa, gli occhi
della Furia sopita dentro di lei già pronti a socchiudersi per cercare nuovi
modi per manifestarsi. La trattiene.
“Vi prego, ignorate la mia
presenza. Io desidero soltanto vivere quietamente in questo villaggio.”
“Se
desiderate la pace, miko-dono, per quale motivo
raccogliete le anime di donne morte, e morte con il rimpianto nella mente e nel
cuore? Il vostro corpo ha bisogno delle loro shinidama, non è così? E di cosa
ha bisogno la vostra tamashii, invece, miko-dono?”
Mentre
parla, il vecchio mostra quel che teneva nascosto nella larga manica e che ora
ha in mano: un talismano a forma di drago; un oggetto raro e potente in grado
di compiere i più poderosi fra gli esorcismi. Appena
comincia a brillare i suoi shinidamachu, avvertito il
pericolo, volano via svelti in tutte le direzioni, fuggendo.
Voltandosi piano, Kikyou chiede “Cosa avete intenzione di fare, bou-dono?”
come se non lo avesse già capito.
La voce decisa del monaco si
alza, mentre grida “Vi farò ritornare al luogo al quale appartenete!
Ascoltatemi, miko-dono! E’ per la vostra salvezza!”
Il talismano si
incendia di una luce gialla che subito si proietta verso di lei,
avvolgendola e mutandosi nelle spire di un drago che la imprigiona
strettamente, un artiglio inchiodato al collo.
“Non potete sfuggire a questo incantesimo! Io curerò la vostra tamashii,
miko-dono!”
L’apparente impassibilità di
Kikyou finalmente si infrange a quelle parole. “Tu …
tu … cosa credi di fare? Guarire la mia tamashii?
Stupido vecchio arrogante …”
Un grido silenzioso esplode
dentro Kikyou mentre, come una spettatrice impotente, osserva la Furia
divampare in ogni direzione, scardinando le sue difese, usando i suoi immensi
poteri di miko per ribaltare gli effetti
dell’incantesimo, stracciare il drago come se non fosse altro che una sagoma
ricavata da fragile carta di riso.
Frammenti si proiettano ovunque,
e una zampa va a conficcarsi nella gola del monaco. Gemendo, mentre dal collo
schizzano i primi fiotti di sangue, cade pesantemente a
terra, tutto il suo potere spirituale svanito in un solo istante.
Il talismano rotola tra l’erba e
si muta in polvere.
Ciò che resta del drago svanisce
come se non fosse mai esistito.
Urlando terrorizzato, il giovane
monaco fugge, correndo più in fretta che può.
Kikyou si avvicina al corpo, il
viso indurito. “Sciocco. Se non avessi interferito, adesso saresti ancora vivo.”
Ma il
monaco non è ancora morto. Le sfiora il sandalo, sforzando le parole attraverso
la gola che si riempie lentamente di sangue. “Miko-dono … cosa state
cercando? I vivi … i vivi cercano sempre nuovi momenti nella loro vita, così da
darne forma e compimento. Ma i morti … come voi … il
tempo è immobile, congelato, per i morti. I morti non possono convivere al
fianco dei vivi, miko-dono. Perché
per entrambi è miseria e disperazione. Mi dispiace …
mi dispiace di non essere stato abbastanza forte da salvarvi … miko-dono. Perdonatemi …”.
La vita fugge via.
Kikyou resta immersa nei propri
pensieri. Quel che della miko c’è in lei sa che le
parole del monaco sono vere. Eppure …
C’è qualcun altro. Il giovane monaco
è forse tornato sui suoi passi per farsi uccidere al fianco del proprio
maestro?
“Chi c’è?” chiede con voce dura,
voltandosi di scatto in una nube di capelli.
La vede. La bambina è
rannicchiata vicino allo stesso ciliegio dietro il quale si erano
nascosti i due monaci nel pomeriggio. Trema, singhiozzando; il terrore
ha reso le sue gambe così molli da impedirle di correre via.
“Sayo.”
No. Non lei. Ti prego, chiunque, ma non
lei.
Si avvicina e si
inginocchia. Gli occhi della bimba si dilatano ancor di più per la
paura; non ha quasi più la forza per piangere. Schiaccia il corpo contro il
tronco della pianta, senza riuscire a smettere di fissarla.
Oh, Sayo. Sei così piccola. Ancora credi che
un albero possa offrirti protezione? Se volessi farti
del male, ogni cosa qui attorno resterebbe a guardarci indifferente …
Allunga esitante una mano.
Un attimo prima
che Sayo serri infine le palpebre, sperando di
scomparire come per magia, Kikyou si vede infine riflessa in occhi tanto tersi
quali le è capitato di incrociare solo un’altra volta.
E quel
che vede la accartoccia per l’orrore.
Che
ridicola farsa ha recitato in questi giorni!! Mascherandosi dietro quel che
conosce meglio – il suo ruolo di miko – fingendo che
nulla sia cambiato rispetto a più cinquanta anni addietro, ben prima che la Shikon no Tama entrasse nella sua
vita.
Ma
l’immagine che gli occhi di Sayo le hanno rimandato
indietro non può essere fraintesa. Morta. Morta! Sente un grido di frustrazione
e rabbia premerle contro le labbra, sui denti.
Le tamashii,
la sua e quelle delle donne che si sono rifugiate dentro questo guscio vuoto,
stanno levando all’unisono un urlo ribelle.
Sono morta. No. No. Non può essere.
Non è possibile!! Non è giusto! Tutto il dolore sopportato, tutti gli
sforzi fatti, i sogni, i desideri, le speranze … tutto spazzato via in un solo
istante, senza una ragione, senza una spiegazione!
E voi! Voi, vivi, voi, voi, che siate maledetti! Come osate continuare a
vivere, come se nulla fosse, come se tutto quel che abbiamo sofferto non fosse
mai esistito, fosse passato sulla pelle indifferente del mondo senza lasciarvi
neppure un segno, una scalfittura.
E noi vi odiamo, per questo, per questo vi strapperemo il cuore,
spargeremo il vostro sangue, strazieremo le vostre carni, calpesteremo le
vostre carcasse! Provate quel che significa! E poi…
Soffocando per un dolore peggiore
dell’agonia, Kikyou riesce a scacciare la tormenta di pensieri che stanno per
farla a pezzi. Ritira la mano e se la appoggia al petto.
“Mi dispiace, Sayo.
Ti ho spaventata.” Una cappa di tristezza talmente
pesante da spegnere perfino l’odio le piomba addosso.
Lentamente, si alza.
Lentamente, si volta e si incammina verso i boschi.
Allontanati, prima di farle ancora più male. Avanti, sbrigati, infausto
mostro. Non voltarti. Non …
“Kikyou-sama.”
E’ appena un sussurro bagnato di lacrime; tuttavia, sufficiente a fermarla. Si
volta.
“Addio.”
Riprende il cammino.
Questo … questo mondo … è peggio dell’inferno … peggio di …
La notte seguente, i rami del basso albero la cullano mentre dorme
La notte seguente, i rami del
basso albero la cullano mentre dorme.
Ecco una cosa
che l’ha davvero stupita. I morti dormono. E
sognano tantissimo. E’ da quando era bambina, che non sognava più così tanto.
Sogna il passato di un’altra vita, sogna di altri
mondi, sogna il futuro. Per la gran parte, sono sogni dolorosi; comunque, più sopportabili dell’incubo che la aspetta da
sveglia.
Accanto a lei, c’è il bisbiglio
di un’altra presenza. Appena la avverte, il sonno la abbandona. Apre gli occhi
raddrizzando la schiena.
“Sei riuscita
ad attraversare la mia barriera, dunque? Già, è vero; tu sei me.”
La ragazzina la guarda perplessa.
“Una barriera?” Poi la sua attenzione si sposta sugli shinidamachu
che fluttuano tutt’attorno. Dice qualcosa di poco importante sul fatto che
dovrebbe lasciare libere le anime delle donne morte.
Senza neppure ascoltarla, Kikyou
le sfiora la fronte con le dita. Così facendo, getta su di lei un incantesimo
che la paralizza e le permette, al tempo stesso, di sbirciare la sua mente.
La comprensione che la illumina è
più accecante del sole.
Ora la ragazzina è imprigionata
all’albero; gli shinidamachu attorcigliati intorno a
lei impediranno a chiunque altro di vederla e sentirla.
Se la uccidessi adesso, potrei riavere la mia tamashii.
E’ un pensiero freddo, astratto.
Non le è possibile.
Uccidere se stessa … quale
ironia. Se lo facesse, la risata del Kami si trasformerebbe in un ululato beffardo.
La Furia che la divora non glielo
permetterà mai. Perché quel che le verrebbe restituito
finirebbe per annichilire l’odio che la sostiene, che la spinge ad andare
avanti, la lascerebbe nuda ad affrontare un dolore tale da distruggerla.
Eppoi,
la Furia vuole vivere, vuole continuare a banchettare indisturbata coi brandelli della sua tamashii.
Uno shinidamachu
le porge un’anima. Mentre la lascia entrare dentro di sé, sussurra “Inuyasha è
qui.”
“Non certo per salvarti. E’ qui
per vedere me. E io non permetterò alcuna interferenza.”
Lo sguardo della mocciosa è
intimorito, ma non si lascia scoraggiare.
“Cos … vuoi ancora uccidere Inuyasha,
Kikyou? No! E’ stato qualcun altro a spingervi l’uno contro l’altra! Siete
stati ingannati!”
“Non è stato Inuyasha a ucciderti!”
La ragazzina ha un’aria
soddisfatta. Kikyou la fissa attentamente. Sta dicendo la verità. O quella che lei crede essere la verità. Non è tanto stupita
di quel che le è stato appena detto. Ciò che davvero la sorprende è che la
ragazza del futuro sia davvero convinta che questo, ora, possa fare la minima
differenza. Sbuffa sprezzante.
“E credi
che questo possa farmi contenta, adesso? Cosa cambia, chi sia stato a uccidermi? Se costui, chiunque
sia, morisse, potrei forse tornare in vita? Credi che voglia uccidere Inuyasha
per vendicarmi? Sei davvero una sciocca.”
“I morti hanno un solo,
irrealizzabile desiderio. Tornare in vita. E questo non è possibile.” Ride piano. Quanto ha amato, un tempo.
Quanto ha desiderato. Ma è
nulla a confronto del bisogno che ora le brucia dentro. I vivi non capiscono, non possono capire … solo i morti conoscono il
vero significato della parola desiderio.
La passione e la rabbia prendono
a tingere la sua voce fredda.
“Ma un vecchio e una bambina il
cui cammino ha incrociato il mio, mi hanno dato la
risposta che ero stata così stupida da non vedere da me.”
“Posso prendermi il suo cuore. Il
cuore di colui che non perdonerò mai, se soltanto osa
dimenticarsi di me.”
“C’è una macchia di angoscia dentro di lui, per il modo in cui lasciammo,
cinquanta anni fa.”
“Il tempo … non gli consentirò di
lasciarmi alle spalle, come se nulla fosse accaduto, come se non fossi …” Si interrompe per un solo istante, tremando di gelida
frenesia a stento trattenuta.
“E finché,
almeno lui … lui non riuscirà a dirmi addio, io sarò ancora viva … viva,
almeno, nel suo cuore tormentato!”
La ragazza è confusa. Non ci si
può aspettare che capisca. Così, risponde come può e come sa.
“Ma
anche adesso, Inuyasha ti pensa! Non è abbastanza? Inuyasha ti ama; non ha mai
smesso! Cos’altro vuoi?!”
E’ concitata. Quest’ammissione
le è costata. E Kikyou sa perfettamente quanto.
“Io e Inuyasha ci siamo separati odiandoci. L’amore di cui parli, è servito
solo a rendere ancora più intenso e profondo l’odio che l’ha rimpiazzato. Vedi
quanto lo odio?! Immagina quanto l’ho amato! Ma tu non hai bisogno di
immaginare nulla.”
“Tu, sciocca
ragazzina. L’amore che si nutre di te, e ti consuma, come di me si nutre
l’odio, tu non puoi capirlo. Io potrei. Io posso. Ascoltami bene, ragazzina. Se
tu potessi vedere, se tu potessi comprendere quale scherzo crudele e contorto è
quello di cui entrambe siamo vittime, appassiresti
nella più nera disperazione. Siamo entrambe in miseria. Ma tu sei più patetica
perfino di me.”
La ragazza la guarda ammutolita.
E’ forse panico inespresso quel che le toglie la voce e irrigidisce i suoi
lineamenti?
“Guardami. Avanti! Ho cercato
sempre di fare la cosa più giusta. Volevo solo una vita comune, una vita mia! E guardami adesso! Dannazione, guarda!”
Spalanca le braccia, i palmi rivolti verso di lei, il mento puntato in avanti.
Gli shinidamachu,
avvertendo la sua frustrazione, le volano accanto, per confortarla come
possono. Carezza la loro pelle liscia come seta. Con uno sforzo, si calma.
“In quanto
a Inuyasha, se davvero mi ama, ebbene, che ami l’odio che consuma la mia
pietrificata tamashii. E io, io amerò il suo cuore
smarrito e incapace di perdonarsi e di dimenticarmi.”
Piccola citazione da una saga fantasy pochissimo conosciuta in Italia,
causa politica Mondatori (ristampata di recente ma con
Piccola citazione da una saga fantasy pochissimo conosciuta in Italia, causa politica
Mondatori (ristampata di recente ma con pessima traduzione -_- ). La saga di ThomasCovenant
l’Incredulo.
Vediamo se qualcuno indovina …
Naraku.
Un nome quanto mai adeguato per
una creatura come lui. Molti lo credono uno youkai. Hanyou lo chiamano quelli che sono convinti di conoscere la
sua vera natura. L’arrogante fratellastro di Inuyasha
lo definirebbe “abominio”. Forse Sesshoumaru capisce davvero che lui non è
propriamente unohanyou. Ma il suo disgusto lo rende cieco come tutti gli altri.
Nei suoi sogni senza sonno, a
volte ha viaggiato ai confini del Meidou, il regno
dei morti. Questo è un privilegio di cui un semplice hanyou
non può certo godere.
Ricorda ancora la risata gelida e
secca di Okuninushi, sire
del Meidou. Quella risata così indecifrabile gli ha
spiegato molte cose.
La prima volta che l’udì fu
quella notte. Quando la ragazzina sciolse il sigillo imposto
da Kikyou. E poi, poche settimane dopo.
Certo, allora non sapeva. Solo in
un secondo momento aveva capito. Si chiede se Inuyasha abbia capito anch’egli.
Le spalle gli tremano d’ilarità alla sola idea.
“Donna arrogante e presuntuosa,
impara i limiti della tua umana natura. Non erano queste le parole intessute
nella risata del Kami, Kikyou?”
Un fantasma può barcollare? Può
tremare? Ora lo sa. Sì.
Vede Kikyou rabbrividire come se l’avesse colpita. Le labbra arricciate in un
sorriso, continua, la voce intrisa di irridente pietà.
“Hai combattuto così duramente,
Kikyou. Per lunghi secoli, ti sei caparbiamente rifiutata di abbandonare il tuo
odio, il tuo dovere … il tuo amore. E tutto questo per
cosa? Quando, sfinita, hai ceduto alle lusinghe di Okuninushi, gli hai permesso di darti un’altra vita, ormai
certa che le onde del tempo avessero cancellato ogni cosa …”
“E’ bastato cadere nell’abisso di
un pozzo, e il Kami ti ha spogliata
di tutto, con la stessa facilità con cui io inganno Inuyasha. La ShikonnoTama
così gelosamente custodita gettata di nuovo nel mondo che volevi proteggere,
fatta a pezzi, come la tua anima.”
“PerchéOkuninushi non poteva certo accontentarsi di così poco,
dopo che per tutti quegli anni l’avevi sfidato. Hai sempre saputo da dove la
strega, Urasue, aveva attinto le sue oscure conoscenze,
non è vero? Naturalmente. Non sei mai stata una stupida.”
“Quanto è stata
profonda la sua risata, quando ti ha richiamata nel mondo in quel corpo
fasullo, animata da buie arti, e finalmente è riuscito a strapparti via l’amore
e tutto quel per cui avevi così dolorosamente lottato, rinchiudendolo in una
ragazzina che neppure ha l’idea del gioco cosmico di cui è pedina; costretta a
vedere il tuo sacrificio incenerito come la tua salma … per cosa poi?”
“Ho imparato molto, Kikyou. Sì.
Né Inuyasha, che forse ti ama o crede di amarti, né Onigumo
che senz’altro ti bramava, ti hanno mai capita.”
“Noi siamo davvero più simili di
quanto io stesso pensassi.”
“Poiché sono quelli come noi che
i Kamitemono, e odiano, e
invidiano più di qualsiasi altra cosa in questo mondo.”
“Ma io, Kikyou, non ho alcuna intenzione di lasciarmi sconfiggere, né da loro né da
nessun altro. Certamente, neppure da te.”
Il capo orgoglioso di Kikyou è
chinato. I capelli le nascondono il viso. Che posa
inconsueta, per lei! Le sue parole sono solo un sussurro.
“E tu,
quale pedina sei in questo gioco, Naraku? Okuninushi
non fu l’unico a ridere, non è così? Il tuo demone
interiore già allora proiettava la sua ombra su di te, molto più di quanto tu abbia mai voluto ammettere a te stesso.”
“Per quanto tu
mi temessi, il brigante dentro di te non poteva permetterti di uccidermi.
Troppo grandi erano la sua passione e la sua gelosia. Oh, sì. Sono certa che tu
abbia sentito echeggiare nella mente anche la sua risata, mentre si abbeverava
del dolore di Inuyasha.”
“Perché
se c’è una cosa che un brigante sicuramente sa bene, forse meglio di quanto lo
possiamo sapere tu e io, è che esiste un solo modo per colpire qualcuno a cui è
stato rubato tutto. Restituirgli la cosa più preziosa tra quelle che possedeva,
ma restituirgliela rotta.”
“E io, mio assassino, altro non
ero, se non una bambola rotta.”
“E
quanto spesso sentivi la sua voce? Mentre ossessivamente ti
ripeteva – Mia o di nessun altro. Che sia, mia o di
nessun altro. Pensieri che, pur non appartenendoti, finivano per darti
una forma alla quale non potevi sottrarti.”
“Conosco bene quelle parole,
Naraku. Non sai quante volte le ho viste balenare in
quell’unico occhio, mentre lo imboccavo. Ma forse sai
cosa significa sentirsele bruciare addosso. Un desiderio così … fa paura, mio
assassino.”
“Così, anche uccidendomi hai
finito per servire colui che più di tutti odi. Perché
la forma che il destino mi costrinse ad assumere al mio ritorno in questo
mondo, era esattamente quella che Onigumo sognava per
me nei suoi sogni putridi.”
“Io sono morta pura. E sono tornata sporca; guasta fino al midollo, per chiunque,
tranne che per il brigante che si era nascosto dentro di te. Anche tu, in
fondo, altro non sei stato, nonostante tutti i tuoi sforzi, che la pedina di un
Kami e di un uomo.”
“E quest
uomo hai continuato a servirlo lungamente, Naraku,
allo stesso modo in cui altri servivano te.”
Vi ricordate la saga di Tsubaki, vero? Stavolta, attingo dal manga e non dall’anime. Perciò, niente
sacerdotesse rosse/bianche o altri riempitivi inutili.
Tsubaki,
la vecchia nemica di Kikyou, sollecitata da Naraku, si impossessa
di Kagome, cerca di farle uccidere Inuyasha, ma viene battuta.
Kikyou ha
una breve, ma per me significante apparizione all’interno della saga di Tsubaki, che io ho, da sempre, “letto” in questo modo.
Pedine.
Anch’io
sono questa? Solo una delle tante pedine nel suo gioco? Un piccolissimo
frammento di un mosaico?
Perché
desidero di più, allora? Perché voglio sentirmi
libera?
Ah, quanto lo odio! E lui lo sa. Non capisco; lui sa cosa c’è nel mio cuore …
lui lo tiene in pugno.
E guardalo,
seduto tranquillo davanti allo specchio di Kanna, a
godersi lo spettacolo.
Guardalo, con quale destrezza manovra
i fili delle passioni, di bisogni e desideri; mentre tesse paziente la sua tela
e, come un artista, rimira soddisfatto il risultato, compiaciuto della propria
abilità.
Ha fatto leva sull’avidità, sull’odio
e sulla gelosia della kuromiko,
Tsubaki. Con che facilità l’ha trasformata nella sua
ennesima pedina!
Gli è bastato sventolarle sotto
il naso l’esca della vita eterna e della vendetta contro Kikyou, che la umiliò e la sconfisse tanti anni fa.
Quanto possono
essere persistenti i moti dell’anima umana!
Kagura
non manca mai di stupirsene. Dopo tutto questo tempo, sembra quasi che per la miko sia più importante vendicarsi di
Kikyou, annientando la sua reincarnazione, che appropriarsi della Shikon no Tama.
Ed ecco
che il fantoccio di Naraku la provoca.
“Quella ragazza chiamata Kagome,
è la reincarnazione di Kikyou, Tsubaki. Dovrai
impegnarti di più, se vuoi sconfiggerla.”
E subito, la
vecchia maldestramente travestita da giovane raddoppia i suoi sforzi. Infine,
la sua passione riesce là dove i suoi poteri stavano
per fallire.
Un’altra pedina da aggiungere sulla
scacchiera. Stavolta, la ragazzina del futuro. Quella Kagome offre resistenza.
Attacca Inuyasha; ma, al tempo stesso, gli grida di fuggire.
Naraku sorride. Come sempre,
mostra interesse quando la partita si fa più avvincente.
“Tsubaki.
Se Inuyasha fugge, uccidi Kagome con il tuo juso.”
E ora
anche Inuyasha è diventato involontaria pedina di questo gioco. Mentre è costretto a vedersi puntare contro per la seconda
volta una freccia dalla donna amata, la sua stessa presenza diventa a sua volta
un sofferto tormento per la ragazza ormai priva di controllo sul proprio corpo,
ma del tutto consapevole di quanto sta accadendo e della propria impotenza.
Kagura
rabbrividisce, disgustata; quasi si sente addosso quei
lacci invisibili che Naraku sta tirando.
Poi, d’improvviso. Il fantoccio viene fatto a pezzi con un unico colpo. Naraku,
involontariamente, sussulta per la sorpresa.
Riflessa nell’immagine dello
specchio di Kanna: Kikyou.
Kagura
vede Naraku irrigidirsi.
Ecco qualcosa che non avevi previsto, vero, Naraku?! Esulta.
Naraku segue attento la lotta di
volontà tra le due miko.
Tsubaki
sfida la sua antica nemica, e rivela a Kikyou le intenzioni di Naraku. Di nuovo, come quella volta, l’uno contro l’altra …
Kagura
sorride tra sé. Tra poco, ne è certa, ci saranno due miko morte all’interno del tempio.
E
invece.
Accostando la bocca all’orecchio
di Tsubaki fin quasi a sfiorarlo con le labbra,
scandendo piano ogni parola, Kikyou risponde.
“Tsubaki.
Non ho intenzione di interferire, qualunque cosa tu abbia
intenzione di fare a Kagome. Ma se ti azzarderai ad attaccare Inuyasha … in
quel momento, io ti ucciderò.”
Senza quasi attendere risposta,
Kikyou lascia bruscamente la chioma bianca di Tsubaki
così duramente trattenuta fino a un momento prima, e
se ne va.
Kagura
resta gelata dalla sorpresa. In quel momento, Naraku scoppia a ridere, di una
risata profonda e soddisfatta.
“Non capisco.” Le parole sfuggono
dalle labbra di Kagura prima che possa
trattenerle.
Quando è
dell’umore giusto, a volte Naraku la mette a parte dei suoi pensieri. Questa è
una di quelle volte.
“Ah, Kagura.
Non dimenticare che cosa è Kikyou, ormai. Non lasciarti ingannare dal suo aspetto, come fanno in molti.
Ciò che la anima è e resta, semplicemente, odio. Povera, fragile, perduta
Kikyou … non è altro che una marionetta manovrata da un risentimento di cui non
potrà mai liberarsi. E così anche lei ha finito per servirmi; come, d’altronde,
fa qualsiasi altra cosa.” Le lancia una significativa occhiata in tralice, che Kagura
decide di ignorare.
“Eppure,
hai sentito cos’ha detto. Non vuole che Inuyasha muoia.”
“No. Non vuole che Inuyasha venga ucciso da mani che non siano le sue. Taci, ora.
Vediamo cosa farà Inuyasha, adesso che la vita di Kagome è ostaggio della kuromiko.”
La battaglia prosegue.
Forse è solo un’impressione di Kagura, ma le sembra che gli attacchi di Tsubakia Inuyasha siano poco
convinti. Infine, la miko scaglia la maledizione contro
Kagome. In pochi istanti tutto finisce.
Lo shikigami
dalla forma di serpente viene ribaltato contro Tsubaki.
Il potere di Tsubaki
è dissipato.
La kuromiko fugge, sconfitta.
L’espressione di Naraku è imperscrutabile.
Kagura
apre un poco il suo ventaglio, portandoselo davanti alla bocca per mascherare il
volto.
“Quella Kagome si è rivelata
molto più resistente del previsto, Naraku.”
Naraku gira appena il viso a
cercare i suoi occhi cremisi e scintillanti.
“Anzi. Mi sembra che questa esperienza l’abbia resa più forte e pericolosa di
prima. Se mi permetti di dire la mia, Naraku, forse
sarebbe stato meglio lasciare da parte certi giochetti ed ucciderla finché era
possibile …”
“Stai zitta.”
“ …invece di indugiare in una
vecchia pantomima. Chissà cosa starà pensando di te in questo
momento quella miko morta … ”
“Taci!”
Con una voce sommessa e
ossequiosa, prosegue.
“Perdonami se ti ho turbato,
Naraku. Forse preferisci stare un po’ solo con i tuoi pensieri. Se hai bisogno di me, chiamami pure. Sono sempre pronta a
servirti … come qualsiasi altra cosa.”
Si gira e lascia veloce la
stanza, prima che lui possa ribattere.
Ah, Naraku, credo che quella Kikyou sappia molto bene quanto sono persistenti
i moti dell’anima umana!
Senza riuscire a trattenersi
oltre, per la prima volta nella sua vita di schiava, ride di un riso libero
come il vento.
“Oh, suvvia, Kikyou. Davvero ti
sei scomodata a venire da me per parlarmi di cose che ricordo perfettamente e
che appartengono ormai a un passato sepolto? Così mi
deludi. Ho già affrontato tutto questo. Ho lottato e ne sono emerso.
Trionfante.”
“E chi
sei mai tu, Kikyou, per potermi parlare con tale presunzione delle
indisciplinate passioni del cuore umano? Che cosa
resta, quando queste si raffreddano fino a spegnersi? Ciò che rimane è solo il
tedio banale di vite che si sarebbero smarrite, anche
se io non fossi passato a confonderne il percorso. Di cosa mi accusi, mia
nemesi? Credi davvero che dal vostro sogno di felicità non vi sareste svegliati, tu e Inuyasha, se non fosse stato per me?
Quanto ti sbagli!”
“Quanto tempo sarebbe
dovuto passare, prima che lui rimpiangesse quel che era stato e non
sarebbe potuto mai più essere? E tu? Davvero non ti saresti sentita mai stretta, nella tua vita comune?” “Kikyou,
renditene conto. Tutto ciò che esiste è fatto per imbozzacchire
e putrefarsi. Ma io, e solo io, ho potuto fare per voi ciò che sarebbe stato
altrimenti impossibile: io ho reso il vostro amore immortale e immutabile,
perfetto nella sua mirabile fissità, esente dall’umiliazione della decadenza
del tempo che sbriciola tutte le cose.”
“E tu, per questo, Kikyou,
dovresti solo ringraziarmi.”
Kikyou sorride paziente, come se
stesse ascoltando un brusio fastidioso.
“Naraku, vedo che la tua abilità
non si è appannata, nonostante tutto.” Ribatte con
fare misterioso. “Ma tu sai bene, o almeno ricordi,
che è proprio questo il giusto prezzo da pagare alla vita. Proprio
quel prezzo che ti fa così paura. Non cercare di addossare, né a me né a Inuyasha, debolezze che sono le tue, mio assassino.”
“Certo, sarebbero venuti giorni
quali quelli di cui mi parli. Ma
ce ne sarebbero stati tanti altri. E noi li avremmo
condivisi tutti.”
“Kikyou, ti prego, risparmiami
queste sciocchezze. Presto o tardi, vi sareste dovuti accorgere delle bugie
nelle quali vi nascondevate entrambi. Se non fosse stato per me, tu, e persino lui, vi sareste
accorti della debolezza di quel che chiamavate ‘amore’.
Cos’hai mai trovato nello stupido Inuyasha, Kikyou? Lo
amavi? Non credo. Era pietà, la tua. Ti faceva tanta pena, quel povero,
smarrito hanyou? Tanto da arrogarti il diritto di
decidere quel che sarebbe stato meglio per lui? Da una donna come te, mi sarei
aspettato di meglio.”
“Davvero lo credi, Naraku? Se vuoi saperlo, le mie ragioni furono molto più semplici e
umili. Lui mi ha sempre vista, Naraku. Ha sempre visto al di
là di tutte le mie maschere. Non so se la ragione sia che è stato
costretto a indossarne per secoli, per nascondersi
dagli altri e da se stesso. So solo che, davanti al suo sguardo, sono sempre
stata indifesa. Quella finzione di vita perfetta che mi costringevo a recitare
davanti a chiunque, non lo ha mai ingannato. E se non mi fossi potuta
specchiare nei suoi occhi, quante cose non avrei
saputo di me stessa!”
“Fu grazie a lui, sai, Naraku,
che per la prima volta seppi di essere … bella. Sì.
Bella, e desiderabile. E che scoprii anche che non c’era niente di male, in
questo, nulla di cui vergognarsi, niente da nascondere.”
“Se non fosse stato per lui,
forse, l’occhio di Onigumo
che mi frugava giorno dopo giorno mi avrebbe convinta che essere bella fosse solo
una maledizione, una disprezzabile vanità.”
“Ma
queste cose le sai bene anche tu, non è vero, Naraku? Perché
lo odi così tanto? Perché c’è lui, nei tuoi pensieri? Perché non suo fratello Sesshoumaru? Non sarebbe un
avversario più alla tua altezza?”
“Forse perché, nonostante ogni
tuo nuovo corpo, al di là di tutti i tuoi
travestimenti, nei suoi occhi hai sempre visto ciò che sei veramente. La tua
irriducibile bruttezza, mio assassino; non sei mai riuscito a nasconderla a Inuyasha, non è vero? E i suoi occhi,
Naraku. Se tu potessi, glieli strapperesti dalle orbite, o sbaglio?”
Edeccoci. Non poteva mancare l’episodio speciale dell’anime (147 – 148), che è passato mille volte in un
sacco di fic. Qua davvero siamo a livello di
ricopiatura.
Spero, tuttavia, che vi possa
piacere il mio sforzo di lavorare sulla “psicologia” dei due protagonisti.
Rinfresco la memoria per quelli
che ne hanno bisogno. La parte d’episodio di cui vado
a raccontare comincia dopo il salvataggio di Kaede
dal demone millepiedi da parte di Inuyasha, e finisce quando il medesimo regala
quella specie di “rossetto” a Kikyou un paio di giorni dopo.
Glossario.
Oneesama:
riverita sorella maggiore;
HinezuminoKoromo: la veste di
Inuyasha;
KotodamanoNenju: il Kotodama no Nenju è il rosario di
controllo che Inuyasha ha da sempre e che, nello speciale, è stato stabilito
sia stato fabbricato da Kikyou.
Nenju
vuol dire “rosario”.
Kotodama
è un concetto religioso che sta più o meno per “potere della parola”. I
giapponesi credevano (come molte popolazioni, del resto) che la propria lingua fosse sacra (linguaggio degli Dei, direi quasi), e in quanto
tale, avesse un potere.
Infatti, nei matrimoni o in altri
eventi importanti, alcune parole venivano evitate
mentre altre ripetute, così che il linguaggio “modellasse” la realtà per come
la si desiderava (si ripetevano, perciò, parole di buon augurio e si evitavano
quelle malaugurati).
Kotodama è la ripetizione sacra della parola al fine di
“concretarla” nella realtà. E ovviamente, per
converso, la rinuncia a pronunciare una determinata parola, conduce all’effetto
contrario.
Tira vento. Kikyou odia queste
giornate ventose. Quando questo vento spettina l’erba, sibila tra i rami, fa
tremolare l’acqua nelle risaie, lei si sente come una stanza chiusa e vuota da tempo.
Però,
oggi.
Sta seduta in mezzo al prato, una
gamba ripiegata, l’altra un sostegno per il braccio destro.
E, come
sempre da un po’ di tempo a questa parte, è consapevole del fatto che lui la
sta fissando, anche in questo momento.
E’ uno sguardo diffidente. Prima
era bellicoso e pieno d’intenti violenti. Poco per volta, è diventato
scrutatore, curioso; adesso, quasi … non lo sa bene neppure lei. Però, sa come si sente quando lui è lì vicino.
Si sente … preziosa.
“Inuyasha. Sei qua,
non è vero? Vieni. Siediti vicino a me, per favore.”
Fruscio tra i cespugli. Con la
sua solita aria scontrosa, si avvicina, il passo pesante, e si lascia cadere
sgraziato a un paio di metri da lei.
Lei tiene lo sguardo incollato
all’orizzonte.
“Questa è la prima volta che ti
parlo da così vicino, non è vero?”
“E
allora?”
“Kaede
mi ha detto che l’hai salvata.”
Dunque,
è per questo che lo ha chiamato. Ovvio. Subito sulla difensiva, si prepara a
ripetere quel che ha già detto alla bambina.
Mica l’ho fatto per loro! Era solo perché uno youkai
qualsiasi non si prendesse quel che è mio di diritto!
“Bah! E’ stato solo …”
Non gli permette di finire.
“Comunque,
volevo ringraziarti.” China con eleganza la testa.
E adesso?! Sembra quasi. Cosa? Umile? Ah, è
proprio tutta da ridere. Fa tanto l’arrogante. Adesso è costretta a riporre le
arie! E accidenti! Chissà perché, dopo tutto questo
tempo che aspettavo di farle ingoiare un po’ della sua presunzione, non ci
trovo nessuna soddisfazione!
“Non fare qualcosa che ti si
addice così poco!”
Stanno in silenzio un po’.
Beh? Me ne posso anche andare, no? Ormai hai detto quel che avevi da
dire. Congedami e facciamola finita.
“Inuyasha, io come ti sembro? Ti
sembro umana?”
Che cosa vedi, quando mi guardi per tutte quelle ore, senza stancarti mai?
“Che? Di
cosa stai parlando?!” Comincia ad agitarsi; lei vede bene che si sta
innervosendo. Questa strana confidenza, non la capisce, e in
special modo perché viene da lei. Ma lei decide
di continuare. Ci vuole una strana forma di coraggio, per gettare alle ortiche
ogni cautela. Sente un peso ai polmoni, come se l’aria fosse all’improvviso
diventata più difficile da respirare. Con uno sforzo, trova il fiato e
prosegue.
“Non posso mostrare a nessuno le
mie debolezze. Non posso esitare. Perché, in quel preciso momento, un qualunque
youkai potrebbe approfittarne per attaccarmi e
impadronirsi della ShikonnoTama.”
“Sono umana, ma non posso
permettermi di agire come un essere umano.”
“Tu e io siamo
simili. Tu, che sei unohanyou;
umano solo per metà. E’ per questo che non sono riuscita a
ucciderti.”
“Stai cercando delle scuse?!
Falla finita; non sembri neanche tu!”
Subito si alza in piedi e si
gira, sprezzante. Sta per andarsene. Qualcosa lo ha turbato parecchio; che
cosa, non sa. Ma è infastidito, teso. Forse è una
trappola. Forse …
Lancia un’ultima occhiata in
tralice alla miko, già pentito della propria
reazione.
Che
stupido! Magari, invece, Kikyou stava cercando di dirgli qualcosa di importante. Quanto tempo è passato, dall’ultima volta che
qualcuno gli ha parlato, se non per insultarlo o minacciarlo? E lui ha rovinato tutto. Proprio non riesce a controllarsi,
né a fidarsi.
Di certo, adesso sarà arrabbiata.
I suoi lineamenti saranno contratti. Ora lo caccerà via con qualche parola
dura. E per questo non potrà prendersela con nessuno,
tranne se stesso … e sa già che, nonostante questo, le risponderà in malo modo
… e …
E il suo
viso è liscio, e dolce. I suoi occhi sono caldi. E nel suo sorriso malinconico,
neppure l’ombra, oh!, neppure l’ombra di un
rimprovero.
“Come immaginavo, non sembro
neppure io, non è vero?”
Quanto mi batte il cuore nel petto, adesso. E
lo stomaco. E’ tutto un nodo! Cos’è questa? E’ paura? Paura di cosa? Io, che affronto potentiyoukai, che ogni
giorno purifico un gioiello antico e pieno di pericoli misteriosi.
Io, che ho accompagnato bambini in questo
mondo, tirandoli fuori, urlanti e scalcianti, dalle pance delle loro madri. Io, che ho accompagnato giovani e vecchi
fuori del mondo, abbattuti dalle malattie e dal tempo, a volte cercando di
curarli, a volte tenendo semplicemente loro la mano, mentre morivano.
Io, che ho imparato a controllare tutte le mie emozioni, e a tenerle in
ordine, come fili ben tesi sulla trama e l’ordito
della mia anima.
Cos’è questa paura? Adesso che lui mi guarda.
E questa voce dentro di me?
Ti prego, Inuyasha, oh ti prego, ti prego,
guardami! Guardami!!
Per favore. Inuyasha.
Guarda me. Vedi me!!
E mentre
lei, seduta a terra, si lascia guardare, lui la guarda.
Kikyou si alza. Inuyasha è
silenzioso.
“Inuyasha …”
Le manca la voce. Tante parole le
frullano in testa; ma non trova null’altro da dire.
“Cosa …
?”
“No. Niente.”
Senza che nulla cambi nella sua
espressione gentile, Kikyou si allontana.
Inuyasha resta immobile. Che fare? Sa che è successo qualcosa di molto importante; di
fondamentale. Un momento preziosissimo gli è stato regalato. E’ stato fatto
entrare.
Cosa vuol dire?
Non lo sa; ma sa che è stato
scelto per entrare in un luogo proibito a chiunque altro. Nella mente gli sorge
l’immagine di una stanza, chiusa da tanto, tanto tempo; dalla quale passa un
solo filo di luce. E se adesso non sarà capace di … di
cosa?
Se non sarà capace di essere ciò che è, nonostante tutte le sue abilità di
segugio e battitore, forse non riuscirà più a trovare questa pista. Sa solo che
non vuole permetterlo. E non lo permetterà!
E senza
neppure rendersene conto appieno, sente una forza misteriosa e sconosciuta, ma
familiare allo stesso tempo. Echi di un potere e di un retaggio perduti, che
aspettano solo una chiamata.
… Kikyou …
La sua bocca si apre; la sua
lingua si scioglie come se ogni suo dubbio o insicurezza fosse stato bruciato in un attimo solamente.
“Kikyou! Domani mattina!
Presentati qui, domani mattina!”
Kikyou ode la sua voce, ma è come
se la sentisse per la prima volta. E’ talmente stupita, da girarsi con un’espressione
sorpresa, quasi convinta di trovare qualcun altro al posto di
Inuyasha.
Perché
la sua voce è chiara, ferma e il suo tono, non è quello di uno sperduto hanyou che trova rifugio nelle foreste da chissà quanto
tempo.
Il suo è il tono di un comando
che non ammette repliche o ripensamenti. E’ l’eco di potere di una creatura
millenaria abituata a dettare legge su molti mondi. E’ l’inflessione di
generazioni e generazioni di daimyo che si aspettano
che i propri ordini siano eseguiti rapidamente e senza tentennamenti.
Come se ci
fosse … qualcosa alle sue spalle.
E’ solo per
brevissimi attimi.
Incrociando la
sua espressione sorpresa, Inuyasha arrossisce, distoglie lo sguardo e ritorna
l’impacciato hanyou di sempre. Ma.
“E’ solo che ho
qualcosa da darti, ecco.”
“Davvero?Bene. Perché anch’io voglio darti qualcosa, Inuyasha.”
“Cosa?!
E’ la ShikonnoTama?!”
Mentre
l’incanto durato quei pochi battiti di cuore si scioglie, Kikyou fatica a
trattenere una risata mentre gli risponde “Ovviamente no!”.
La sera.
Kikyou sta maneggiando con
cautela le perle del rosario, impregnandole una per una del proprio potere
spirituale.
E’ già da qualche tempo che
pensava di imporre a Inuyasha il vincolo del Kotodama no Nenju; ora si è
convinta che il momento sia quello giusto. Eppure è
stranamente sulle spine. Certo, in parte si sente in colpa,
come se stesse approfittando della sua fiducia. Ma
c’è dell’altro.
Percepisce, più che sentire, Kaede che si avvicina, e apre gli occhi
un attimo prima che la sorellina parli.
“E’ un KotodamanoNenju? Oneesama, lo stai preparando per Inuyasha, non è vero?”
Kikyou annuisce.
“Sì. Lo so, può sembrare
un’azione disonesta, ma è per il suo stesso bene. Per impedirgli di fare
qualcosa di stupido o di sbagliato, di cui potrebbe pentirsi.”
Forse è un po’ sulla difensiva. Ma vagliando il proprio animo, come le è stato insegnato a
fare fin da bambina, Kikyou non avverte nessuna malizia dentro di sé. Farebbe
volentieri a meno di tutto questo; ed è sicura che, più tempo passerà, più
remota diventerà l’eventualità che sia costretta ad usare il KotodamanoNenju.
Glielo porrà al collo, e Inuyasha
si arrabbierà tantissimo! Quando si accorgerà di non riuscire a toglierselo, ah!, farà una di quelle sue facce che crede tanto minacciose! E, sì, certo, le terrà il muso per un bel pezzo …
Kaede
resta lì accanto, stupefatta. Illuminato solo dalla lieve luce di una
fiammella, il volto di Kikyou sembra irradiare poco a poco una gioia trattenuta
a stento.
“Ora. Quale potrebbe essere la parola di comando?”
E, davvero, confida in se stessa
a sufficienza da essere convinta di non dovere mai e poi mai fare uso del KotodamanoNenju.
Così, un pochino per volta, lui finirà per perdonarla … e così … così?
Dal fondo della mente, dove si
era sforzata di relegarlo, un ricordo chiarissimo emerge e si
impone alla sua attenzione.
Non dimenticare. Non innamorarti. Non permettere a
uomo di amarti. Se mai dovessi incontrare un tale
uomo, sappi, morirai di una morte innaturale.
La paura penetra nella sua anima
come una lama. E’ diversa dalla paura che provava questo pomeriggio;
completamente diversa. Tutto quel che è, tutto ciò che le è stato insegnato a essere, leva un gelido avvertimento. La strada che sta per
imboccare è un pericolo. La miko dentro di sé la
afferra alla gola. Quel che sta accadendo va impedito. Va fermato finché è
ancora possibile.
“Ora che ci penso. Tsubaki mi ha posto sul capo una maledizione. Strano! Una miko quale sono io, che percorre un sentiero insanguinato,
non dovrebbe aver paura di affrontare una morte innaturale.”
Sorride a se stessa. Ha paura,
invece. Non ne ha mai avuta tanta, neppure quando i
suoi genitori sono morti e lei, senza un lamento, si è impegnata per farsi
carico di tutti i propri doveri, di miko e di sorella
maggiore.
Le cose si stanno muovendo troppo
in fretta! Un sigillo. Le serve un sigillo. La miko
che percorre il sentiero insanguinato, le sussurra la soluzione.
“Il Kotodama
sarà … ‘amore’.”
La mattina dopo, entrambi sono arrivati puntuali all’appuntamento.
Nel palmo di Inuyasha,
una conchiglia.
“Cos’è?”
“Non ho alcun motivo per tenerlo.
Perciò lo do a te.”
Kikyou apre delicatamente la
conchiglia.
Resta immobile a fissare la terra
rossa all’interno. Il cuore comincia a batterle all’impazzata.
“Le sole cose che mia madre mi
lasciò furono questo, e l’HinezuminoKoromo.”
“Tua madre, era umana?”
“Beh. Sì.”
Un calore che nessun
addestramento può trattenere le si diffonde dal petto
verso le membra e tutto il corpo.
Mi ha … vista?
No, non è possibile! Eppure …
La voce fredda della miko protesta. Che restituisca subito questo
inutile feticcio di vanità! Immediatamente!
“Non posso accettare qualcosa di
così prezioso, Inuyasha. Io …”
La voce prende a tremarle. Cos’è
questa confusione, questa confusione meravigliosa che le fa quasi girare la
testa?
E questi
scricchiolii? Gli scricchiolii di una gabbia gelida, fatta di ghiaccio crudele
…
“Non preoccuparti. L’Hinezumi no Koromo è più che
sufficiente.”
Oh, Inuyasha!
Cosa mi succede? Dunque, era così semplice capire?
No, che stupida. Sei tu … tu, che sei un cacciatore!
E’ in un tale stato di grazia,
che i pensieri le sfuggono, diventa incoerente, parla, ma senza neanche sapere
cosa sta dicendo. Questo non è da lei, no, non è da
lei, è assurdo, non ha senso, è stupido, bello, folle, magnifico!
“Mi dispiace così tanto,
Inuyasha. Non avevo idea che ti fosse così prezioso, e
l’ho perforato con le mie frecce tante di quelle volte.”
Quasi non si è resa conto di
avergli preso tra le mani la manica.
Calmati!
Sì sì, lo farò … tra un minuto, ecco; solo un
minuto ancora.
“Ah! Non preoccupartene! Piuttosto, tu cosa mi hai portato?”
Il mondo è un guazzabuglio
impazzito. D’istinto, infila la mano nella manica dell’hitoe.
Prende il KotodamanoNenju tra le dita
sottili. Adesso è il momento. Basterà porre il sigillo, e poi, tutto tornerà
come prima, su quella strada diritta e serena che conosce così bene.
In fondo, non è difficile
decidere.
Solleva la testa a cercare il
viso di Inuyasha. Sorridendo
imbarazzata, la voce ancora vibrante d’emozione, scaccia dalla testa la
protesta muta della miko.
“Scusami, Inuyasha. Io … ecco,
l’ho dimenticato.”
E quasi non sente le sue stesse
parole, coperte dal fragoroso rumore di una gabbia di ghiaccio finalmente
fracassata.
Per la seconda volta da quando è
tornata nel mondo, eccolo.
La ragazza del
futuro grida cercando di richiamare la sua attenzione, la sciocca. Come
le ha già spiegato, lui non riuscirà né a vederla né a
sentirla.
Anche se
questa volta ha avuto più tempo per prepararsi, l’intensità dei suoi sentimenti
rischia di travolgerla.
Odio, rabbia, rancore, biasimo,
rimpianto, dolore, e ancora, odio, rabbia, rancore … ;
tutte queste emozioni dentro sé, una dopo l’altra. Le lascia scorrere tra le
dita come i grani di un rosario fatto per pregare un Kami
che, dai propri seguaci, pretende sacrifici umani. E’ quasi stupita di riuscire
a contenere tutto questo senza sgretolarsi.
E’ esattamente come lo ricordava.
Non è cambiato. Oppure sì?
Il suo viso è angosciato,
sofferente. Bene. E’ quello che si merita! Ma, certo, non le
basta. Vuole che senta fino in fondo la disperata impotenza di rendersi
conto di cosa è diventata, vuole che il senso di colpa gli spezzi
irrimediabilmente il cuore. Quel cuore che le appartiene!
“Kikyou …” sussurra lui,
facendosi avanti di pochi passi quasi con fatica, come se all’improvviso fosse
diventato un vecchio essere umano, e non l’infaticabile hanyou
che è in realtà.
Il viso di lei
si fa duro.
“Sei tu, dunque. Sei tu che stai
raccogliendo le anime delle donne morte.”
“Questo corpo fasullo e senza shinidama, ha bisogna di essere nutrito di
anime umane, Inuyasha, altrimenti non potrebbe muoversi.”
Bene, Inuyasha. Più vicino. Vieni più vicino.
Abbastanza vicino da vedermi.
Guarda.
Che cosa disgustosa e ripugnante sono
diventata.
Sorride compiaciuta, vedendolo
sussultare.
Sì. Tra pochi istanti lui la
vedrà. Vedrà che cos’è ora. Un mostro guidato solo dal rimpianto; morta e
fredda e piena d’odio. In uno stato talmente miserabile che
neppure lei è capace di sopportare l’immagine di ciò che è diventata.
Quell’insignificante ombra di se
stessa che ancora sopravvive dentro sé.
Quella semplice donna, poco più
di una ragazza costretta in un ruolo per lei scelto da altri – quanto la odia!
La odia e vorrebbe farla a pezzi, così come odia e
vorrebbe fare a pezzi qualunque altra cosa.
Senti, come singhiozza disperata!
Quasi impazzita, battendo i piccoli pugni impotenti contro
pareti di una prigione di fuoco da cui non c’è fuga. Debole e sciocca!
E’ tutta colpa sua se è in questo stato!! Ah, sì! Che
gioia tenebrosa potrà assaporare, strappando la vita alla persona che le è più
cara!
Se si
fosse rassegnata a quanto era già stato deciso e scritto tanto tempo addietro,
se avesse soffocato quegli stupidi palpiti vitali, invece di sperare chissà
cosa, non sarebbe mai diventata questa!
Quando
lui capirà che cos’è, il suo raccapriccio li seppellirà entrambi. E il senso di
colpa che sboccerà nella sua anima lo renderà suo per
sempre.
“Inuyasha. Chissà quanto mi
disprezzi! Guidata soltanto dal mio odio per te, ho raccolto queste anime per
restare nel mondo.”
Adesso.
Solo poche volte Kikyou ha visto
emergere da Inuyasha quell’aura di … autorità. Come già le accadde, una vita fa
ormai, capisce quanto a fondo lui è capace di vederla.
Adesso.
Le lacrime, la smorfia di ripugnanza, le parole piene di ribrezzo.
Avanti. Sono pronta.
“Dannata stupida! Tu potrai anche
odiarmi! Ma non è mai passato neanche un giorno senza
che io pensassi a te!”
“Non ha importanza il tuo
aspetto. Non m’interessa cosa sei adesso! Io non potrò
mai odiarti o disprezzarti!”
E’ la volta di Kikyou di
sussultare. Una mano poggiata al petto, ristà alcuni attimi, quasi perplessa.
Cosa succede? Non mi vede più, dunque. Non è più capace di …
Vaglia attenta i suoi occhi, il
suo riflesso dentro di essi. L’immagine che le viene rimandata è la stessa che c’era negli occhi di Sayo, senza alcun dubbio.
Eppure,
nonostante questo, nonostante tutto …
Un tremore incontrollabile la
scuote. Sopraffatta, si gira, lasciando che i capelli
diventino un sipario dietro il quale nascondersi.
La ragazza dentro di lei sta
urlando, adesso, con una violenza tale che la Furia teme quasi che lui possa
sentirla. Sono qui, Inuyasha, oh, sono
qui, sono io!
La voce esita, e non vuol proprio
uscire. A fatica, riesce a ribattere, mentre si avvicina
a lui.
“Veramente? Anche
… anche se con queste mie mani, io potrei ucciderti?”
Gli accarezza il volto. Nulla. Occhi pieni di dolore, sì; occhi antichi. Occhi che la
accettano e la accudiscono, anche adesso, così com’è.
Cerca le sue labbra. Lo bacia.
Poi gli si lascia cadere addosso, abbracciandolo.
“Inuyasha. Fin dalla prima volta
che ti incontrai, seppi che non sarei più stata una miko. Mi preparai a diventare solo una comune donna. E’
quel che volevo più di qualsiasi altra cosa, quando ero in vita.”
Trema verga a verga, mentre lui
risponde all’abbraccio e la stringe forte. Gli si aggrappa come se stesse per
sprofondare in un abisso.
“Non possiamo più tornare
indietro. Stiamo così, solo un altro po’.”
Che sto facendo? Deve morire. Sono qui per questo. Adesso
che è indifeso. Questa è l’occasione giusta. Avanti, spicciati. Falla
finita.
Sì sì, lo farò … tra un minuto, ecco; solo un
minuto ancora.
La Furia si agita, inquieta. Questo
atto di ribellione non era previsto; né quel timido calore che tremola debole,
e che presto verrà spento dal fuoco gelido di un odio
indomabile.
Gemendo, chiusa tra pareti
fiammeggianti, la ragazza grida per farsi sentire, vorrebbe
divincolarsi, piazzargli le mani sulle spalle e cacciarlo via.
Sente il pianto e gli
avvertimenti con i quali la ragazza del futuro sta cercando, anche lei senza
successo, di farsi sentire da lui.
Ride di se stessa.
Non ho più nulla. Stupida. Non è più il tuo ruolo, quello di salvarlo,
di metterlo sull’avviso dei pericoli che corre. Il ruolo che devi recitare è un
altro. E allora, finiamola in fretta con questa
tragedia insensata …
E lui
sceglie proprio questo momento per sussurrare.
“Non posso salvarti. Non sono in
grado di fare nulla per te, tranne stare così. Ah, come
vorrei che il tempo potesse fermarsi!”
“Lo vuoi anche tu? Che il tempo si possa fermare?”
E mentre
lei, avida, comincia a stringerlo più forte, arriva la sua risposta.
“Sì. Se sono
con te.”
E il
resto è noto.
Il suolo si squarcia e sprofonda.
Le anime alzano i loro lamenti
alle stelle distanti e indifferenti.
E loro
sono vicini, sempre più vicini.
Ma la
ragazza del futuro, quella Kagome, colei che le ha rubato tutto, alza forti
grida e pianti, rivendicando quel che le appartiene, quasi strappandole via la tamashii e svegliandolo dall’incanto. Ormai, è lei che lui
vede e che sente.
Inginocchiata, sconfitta, senza
più forze e potere, i freddi e lisci shinidamachu
unica compagnia, si lascia afferrare e sollevare in aria.
“Quella ragazza, è diventata più
importante di me, non è vero?”
“Inuyasha, non dimenticare. Anche
se tutto il resto era solo un inganno, i miei sentimenti mentre ti baciavo, erano reali.”
Inuyasha non può nulla, mentre
lei vola via, se non gridare il suo nome.
Vorrebbe dirle che si sbaglia,
che non ha capito.
Vorrebbe spiegarle. Dannazione,
se solo ne fosse capace!
Che tutto quel
che lui vuole è vendicarla. Che quel Naraku,
non è che l’ultima di una serie infinita di creature che hanno cercato di
spezzarlo.
Che se
fosse per lui solo, forse lo lascerebbe persino andare. Ma
per vendicare lei, lui farà quello che sa fare meglio: gli darà la caccia,
senza tregua né riposo, finché l’avrà ucciso.
E che se
poi.
Se poi, per avere la pace che le
è negata, lei vorrà reclamare la sua vita, lui le porgerà il collo, senza un
attimo di esitazione, senza un lamento, senza neppure
pensare di difendersi.
E se …
Ma
Kikyou è già svanita nella notte.
Un singulto stizzito alle sue
spalle.
Passi leggeri picchiano
indispettiti sul terreno, allontanandosi.
Respira a fondo.
Drizza le spalle.
Si volta.
Ne approfitto per ringraziare le
mie due lettrici, ovvero quelle che si sono fatte “sentire”, per dire così dire.
Davvero grazie! Mi avete fatto molto piacere.
Me91: gentilissima! Sono contento di aver reso interessante
la lettura nonostante gli eventi fossero ben noti. Un
po’ per volta (già dal prossimo capitolo, per esempio) intreccerò alla storia
“ufficiale” anche alcune scene di mia invenzione.
Ecco l’unico altro episodio riempitivo ho intenzione di usare
Ecco l’unico altro episodio
riempitivo ho intenzione di usare. E’ l’episodio 87,
nel quale si parla del bandito KansukeRasetsu.
Nel manga, è solo un bandito che
Kikyou incontra e che le chiede di portare una ciocca dei suoi capelli al monte
Hakurei. Anche nell’anime le
cose vanno così.
Ma nell’anime,
Kansuke è anche un bandito ingannato da Onigumo 50 anni prima, e che si vendica, scatenando la
serie di eventi che porteranno alla nascita di Naraku. Devo ammettere che a me questa idea “extra” piace da matti.
Solo un breve accenno
dell’episodio, comunque (per ora), all’interno del
quale ho incastrato una scena “originale”.
Glossario
Miko-mai: è la danza delle miko.
La religione shiontista tiene in grande
considerazione le forme. Miko-mai è la danza che le
sacerdotesse eseguono per fare piacere ai Kami.
Voltando la testa, Inuyasha getta
l’ennesima occhiata in tralice a Kagome, cercando di non farsene accorgere.
Vede Miroku
fissarlo e piegare le labbra come fa quando prepara una delle sue battute; ma
l’espressione cupa dell’hanyou lo costringe a
desistere.
Camminano lungo la strada resa
deserta e silenziosa da una delle tante guerre che punteggiano quest’epoca disgraziata. Oggi, nessuno trova la forza o la
voglia di rompere questo silenzio che sa di morte.
Da quando hanno incontrato la mikoHitomiko, lui è ancora più
teso e nervoso del solito.
Non riesce a tenere lontani i
neri pensieri ai quali di solito dedica le sue tante
notti insonni.
Anzi tutto,
l’idea che Kagome abbia dovuto affrontare un micidiale pericolo senza la
sua protezione, lo opprime come se una mano invisibile gli si fosse insidiata
nel petto per strizzargli alternativamente cuore e polmoni.
Inoltre, le parole di Hitomiko gli riverberano in testa e non riesce a esorcizzarle.
I poteri di Kagome sono stati sigillati.
Da chi? Come? Perché?
Domande inutili da porsi, visto che non è in grado di darsene risposta. Ma l’idea che
i poteri di Kagome siano sigillati lo ricaccia in una
terra di ricordi che per lui sono tra i più dolorosi.
La prima volta
che Naraku gli si rivelò. Una delle tante cose che gli disse.
La miko che aveva il compito di custodire la ShikonnoTama
decise di spogliarsi dei suoi poteri e di degradarsi fino a diventare una donna
comune. Così, gli youkai attraversarono le sue ormai deboli
barriere spirituali, e si imbatterono in un uomo
dall’anima corrotta.
Per tanto tempo Inuyasha si era
tormentato.
Perché non mi hai detto cosa ti stava succedendo, Kikyou? Perché?
Dannazione! Forse, se lo avessi saputo … forse, se lo avessi
capito … e se … e forse …
Dannazione, basta! Basta!! BASTA!
Notte dopo
notte, se lo era chiesto, mentre i suoi compagni dormivano. Dapprima
aveva pensato: orgoglio. Che altro? Per orgoglio non
glielo aveva confessato. Quale altra ragione avrebbe mai potuto avere?
Finché
la risposta giusta si era presentata imprevista a colpirlo come uno dei
micidiali pugni di Sesshoumaru.
Se lo avessi saputo. Quando lei mi chiese di usare la ShikonnoTama.
Se avessi saputo. Lei si rendeva conto che mi sarei
sentito obbligato a diventare un essere umano, per non essere da meno di lei. E Kikyou non mi avrebbe mai permesso di prendere una
decisione tanto importante, per un motivo così sciocco.
E lei
aveva taciuto. E lui non aveva capito. E così non era stato capace di vegliare su di lei … vegliare
…
Giorni passati a vegliare.
Quando
era più giovane, dopo aver abbandonato il palazzo nel quale era vissuto con la
madre ormai morta, aveva speso tanti anni a vegliare.
Dapprima, nonostante già allora
ben sapesse cosa gli esseri umani pensano degli hanyou, aveva cercato scioccamente di farsi accettare in un
qualunque villaggio, ma presto aveva capito quale sarebbe sempre stata l’unica
e sola reazione ad accoglierlo. Terrore, sprezzo, rabbia.
Bocche spalancate a urlare, occhi dilatati, capelli ritti in testa, gente che
scappa.
Aveva rinunciato, ed era
cominciata la sua veglia solitaria. Nascosto ai margini dei boschi, oppure tra
le ombre, di notte, seguiva da lontano la vita degli esseri umani, imparando i
loro nomi uditi di sfuggita, conoscendo le loro abitudini e i loro bisogni,
fantasticando su come sarebbe stato abitare in mezzo a loro. Quando veniva scoperto, se ne andava, finché non trovava un altro
villaggio.
Ma, anno
dopo anno, un dolore astioso, sempre più intenso, lo aveva scavato dentro,
finché spiare da lontano gli era diventato insopportabile come la più umiliante
delle sconfitte.
Voltando le spalle agli uomini,
si era rifugiato nella solitudine delle montagne e delle selve, dove lo
aspettava l’odio di youkai che, almeno, gli davano la
soddisfazione di offrirgli una scusa per poterli uccidere.
Fino a quando
la miko non è entrata nella sua vita. O è lui ad essere entrato in quella di lei?
E’ ricominciata la veglia.
Dopo essere diventati … amici? …, non la spia più per coglierla
in un momento di debolezza e prendersi la ShikonnoTama. La parola stessa … spiare … non gli sembra affatto giusta, visto che Kikyou sembra accorgersi sempre che lui è
nascosto lì vicino da qualche parte.
E così
gli è cresciuta dentro una sensazione strana, che proprio non comprende. Non
riesce a togliersi dalla testa né Kikyou né le sue parole: tu e io siamo simili.
E più
sorveglia le sue giornate, più le sta accanto, più quella sensazione strana
cresce dentro di lui.
Vegliare non è più, come un tempo,
una sofferenza, ma il perno su cui la sua giornata ruota e si regge. Cattura
trepido ogni gesto di lei, le sue espressioni, le sue parole, come un assetato
raccoglie ogni singola goccia d’acqua dalla tazza che gli è stata offerta.
Nei confronti dei compaesani di
Kikyou prova un’insofferenza che via via assomiglia
sempre più al vecchio astio di un tempo.
Lui ha imparato l’inflessione di
tutte le sue risate, il modo in cui reclina la testa di lato quando è sorpresa,
come i suoi occhi si incupiscono quando è triste o
stanca.
Perché?! Perché
le persone che le stanno accanto da una vita intera, di queste cose non si
accorgono?!
Perché non sentono quanto è
diversa, e fresca, la sua risata quando gioca coi
bambini, tanto che udirla gli spedisce brividi di piacere lungo la schiena?
Perché
non le vanno incontro sorridendole, invece di piegarsi quasi a metà in quelle
inutili, stupide riverenze?
Perché
la cercano di continuo per avere consigli e aiuto, ma nessuno le chiede mai
come sta?
Lasciandola sempre sola, sola. Tenuta a distanza. Non una di
loro.
E lei,
costretta a guardarli da lontano.
Il disprezzo che prova per loro,
a volte gli stringe la gola. Stupidi!
Stupidi! Vorrebbe gridare, e prenderli per il bavero e scrollarli fino a
far tintinnare tutti i denti che hanno in bocca; ma si trattiene. Si vergogna,
perché sa che lei, di sicuro, non approverebbe quel che sente.
Ed è
geloso, certo.
Geloso del bimbo che riceve un
bacio sulla fronte come premio per aver smesso di piangere, dopo essere caduto
ed essersi sbucciato le ginocchia.
Geloso del vecchio a cui lei
porta le medicine di cui ha bisogno.
Geloso di tutti coloro che in un qualsiasi modo incrociano la sua strada,
che sono così fortunati da poterle stare vicino, ma non lo fanno.
Sempre più spesso, quasi tutti i
giorni ormai, Kikyou va nella foresta o sul prato sul
quale sono diventati amici, e lì si incontrano. A volte parlano,
a volte camminano in silenzio. Ha colto le voci sempre più insistenti
sullo strano comportamento della miko; congetture di ogni genere, sussurrate a mezza bocca. Stizzito, una
volta ne ha fatto cenno a Kikyou, la quale ha risposto limitandosi a stringere
le spalle con indifferenza.
Ormai le voci sono diventate una.
La miko Kikyou si incontra
con uno hanyou!! E per cosa
fare mai? Che voglia tradire la sua gente e la sua
missione? Che stia diventando una kuromiko?
Flette le dita al solo ricordo. Che fare? Dirglielo? E poi? Quando
gli abitanti dei villaggi vicino ai quali si stabiliva, si accorgevano della
sua presenza, lui se ne andava via …
Ecco! Ecco l’odore di Kikyou! E’
entrata nella foresta per incontrarlo. Seguendo la sua pista con facilità,
pregusta il piacere che proverà nel vederla. La sola idea di non poterlo più
fare … no, è insopportabile. Questa volta nessuno riuscirà a mandarlo via.
Perso in questi pensieri,
Inuyasha si accorge che sta avvertendo un odore estraneo. Non è di nessuno
degli abitanti del villaggio né di altri esseri umani
che conosce. Devia dalla sua strada per andare a
indagare.
Kansuke,
dalla cima dell’arido poggiolo, tende l’arco. La schiena della miko è sotto tiro; un bersaglio perfetto. Sta seguendo un
sentiero della foresta ampio e sgombro. La sua freccia non sarà ostacolata dai
rami. Lui è un arciere eccezionale. Da questa distanza non può sbagliare. In
fondo, non è un colpo così difficile. Si chiede pigramente per quale ragione Onigumo non abbia deciso di
uccidere lui stesso la miko e prendersi il bottino. Anche un tiratore poco più che mediocre non troverebbe
particolari difficoltà a fare centro.
Inspira. Espira. Scocca.
Prima ancora che la freccia si
pianti tra le scapole della miko, sa di aver eseguito
un colpo perfetto.
Una sagoma rossa, veloce come un
fulmine, entra, come dal nulla, nel suo campo visivo. La freccia, svanita. La
figura vestita di rosso corre, salta di roccia in roccia, si arrampica su per
la china quasi verticale, gli balza davanti.
Tutto succede così in fretta che Kansuke fatica a raccapezzarsi. Il suo cavallo, spaventato,
si impenna.
Kansuke
può solo reagire a questi eventi imprevedibili. Goffamente, cerca di trattenere
la cavalcatura spaventata dall’apparizione improvvisa. Con un’ultima sgroppata,
il cavallo si libera del proprio cavaliere e fugge al galoppo.
Maledetto cavallo. Se riesco a riprenderlo lo
ucciderò.
Stinge i denti, sforzandosi di
ignorare il dolore. Pericolo. Il suo istinto lo mette sull’avviso. Si alza più
in fretta che può, sfoderando la katana rubata a un ronin che ha ucciso. Lo stupore lo gela.
Uno youkai? No no.
E’ uno scherzo?
Artigli, zanne, occhi gialli a
fessura, capelli d’argento, orecchie canine. E sì, non
c’è dubbio.
E una
freccia trattenuta nella mano. Zampa. O qualunque cosa
sia.
Uno youkai che protegge una miko?
Anche lo
youkai lo sta fissando attentamente. Con furore tale
che quel che promette non può essere frainteso: morte.
“Un umano. Un semplice umano. Perché hai cercato di
uccidere Kikyou? Vuoi la ShikonnoTama, non è vero?”
Sconvolto, i
capelli della nuca ritti in testa, Kansuke parte
all’attacco, menando un fendente violento con la katana. Fosse più lucido, si renderebbe subito conto dell’inutilità
del gesto. La punta della spada si spezza contro il braccio più duro
dell’acciaio dello youkai e, per uno scherzo del
destino, schizza a conficcarsi nel suo occhio sinistro. Lascia cadere la katana
con un grido, lamentandosi e tenendosi la faccia.
Sono spacciato. Spacciato! Maledetto!
Come a fare eco ai suoi pensieri,
lo youkai scopre ancora più i denti, spezzando la
freccia tra le dita come fosse un bastoncino.
“Preparati a morire.”
Gli artigli già pronti a
squarciargli le carni, la creatura si blocca immediatamente quando una voce
femminile li raggiunge entrambi.
“Inuyasha! Che
succede? Fermo!! Vieni qui!”
Con un grugnito, Inuyasha
borbotta “E’ il tuo giorno fortunato.”e si allontana, abbandonando il poggiolo e raggiungendo la miko.
Kansuke
si allontana, ansimando e piagnucolando.
Inuyasha raggiunge Kikyou,
scendendo con pochi agili balzi lungo il pendio.
“Non l’hai ucciso, vero,
Inuyasha?”
Inuyasha alza le spalle con sufficienza.
“No.”
“Bene.”
“Bah! Non capisco perché lo hai
lasciato andare via!” e, con voce incrinata “Ha cercato di assassinarti!
Dannato vigliacco! Potrei ancora raggiungerlo. Rimpiangerebbe questo giorno!”
Lancia occhiate furenti verso la cima della collinetta dalla quale l’arciere ha
teso la sua imboscata, i pugni serrati.
“No! Non te lo permetto.”
Inuyasha sbuffa “E perché?”
“Sarebbe sbagliato.”
“Lasciarlo andare èsbagliato!”
“Se tu
lo uccidessi, lo priveresti di tutte le sue scelte future. Gli toglieresti
qualunque possibilità.”
“Possibilità?” perplesso, la
bocca di Inuyasha si socchiude in un ghigno
sarcastico, che mostra le zanne. “Sì, certo. La possibilità di riprovarci,
stupida! E magari la prossima volta io non …”.
Sussulta, e le lancia un’occhiata, zittendosi, con la solita paura di aver
aperto la bocca troppo e troppo in fretta.
Ma
Kikyou si limita a sorridere; anzi, ride, quasi, e gli risponde semplicemente.
“Anche, certo. Perché no?”
Pur
sollevato che non si sia arrabbiata, Inuyasha è sempre più perplesso. “Ma allora …?” dice a bassa voce.
Kikyou gli si avvicina, il viso
sollevato verso il suo, e lo fissa con gran serietà.
“E di
cosa dovrei preoccuparmi? Non ci sei tu a proteggermi?”
“Sì! Sempre! Però
…”
“Però pensi lo stesso che sarebbe stato più sicuro, se ti avessi consentito di
uccidere quel bandito e non pensarci più, giusto?”
“Sì.”
Kikyou annuisce. “Hai ragione,
Inuyasha. Sarebbe stato più sicuro. E’ vero. Forse avrei dovuto permettertelo.
Lui sarebbe morto e noi saremmo più tranquilli.”
Inuyasha si accorge di uno
scintillio strano negli occhi di Kikyou. Sembra quasi, divertita?
“E
invece, se quel brigante tornerà alla carica, lo respingeremo, se e come
potremo. E ancora. E ancora.
Finché non riuscirà a ottenere quel che vuole, o
finché non smetterà di tentare.”
“Ma
perché …” insiste Inuyasha. All’improvviso, gli si mozza il respiro in gola.
Kikyou allunga la mano come per
toccarlo, e d’improvviso sembra quasi timida “Perché se io non avessi fatto così, ora non …”
Offeso, Inuyasha le blocca il
polso e sibila “Io non sono come quello!”
Senza batter ciglio, e sempre
sorridendo, Kikyou gli accarezza il viso, lieve, con la mano libera. “Lo so,
Inuyasha. Tu sei unico.”
Resosi conto in quel momento di
cos’è successo, e che le sta trattenendo con una certa forza il polso sottile,
Inuyasha avvampa e fa un mezzo salto all’indietro, lo sguardo incollato a
terra. Kikyou si scosta. Il silenzio tra loro si fa più pesante. La mikosi incammina verso il
villaggio. Dopo un solo attimo di esitazione, lo hanyou le si affianca.
“Io non sono così.” Borbotta di
nuovo Inuyasha, come parlando tra sé, la testa china.
La voce distante di Kikyou sembra
scaturire dal nulla.
“Sai, Inuyasha. Gli uomini come
quel brigante, di solito sono molto prevedibili. E
sciocchi. Perché, davvero, credono che il potere che tanto desiderano sia un
sinonimo di libertà.”
“Forse per loro, in un certo qual
modo, è davvero così. Vogliono il potere, ma non certo la responsabilità che ne
consegue. Non si rendono conto di quanto è pesante il fardello che bramano.
Credono sia una semplice scorciatoia per realizzare i loro desideri vacui. Non
riescono a comprendere per nulla la trama del Fato che ci sovrasta.”
Inuyasha solleva il capo,
affascinato da quella voce distaccata e morbida a un
tempo.
“Non capisco neanch’io.” esclama con sincerità.
Kikyou gli dà
un’occhiata fuggevole, ma quasi come se lui non fosse davvero lì, per
poi tornare a fissare un punto imprecisato davanti a sé.
“Davvero? Davvero non lo senti
neppure un po’? Ma io, come posso spiegartelo?”
sospira lei.
D’istinto, solo alcuni passi
ancora, eppoi Inuyasha smette di camminare. Kikyou, come se fosse soprappensiero, percorre pochi metri e, in
mezzo all’ampio sentiero, si arresta, volgendo gli occhi al cielo.
Solleva un braccio. Fa un passo.
Una giravolta elaborata. L’altro braccio ruota all’indietro.
Il corpo flessuoso di Kikyou
prende a muoversi al ritmo di una musica che solo lei può udire.
Un altro passo.
Senza quasi spostarsi
dall’interno di un piccolo cerchio immaginario, con movimenti lenti, dolci e
circolari, Kikyou intesse la danza della miko. Miko-mai.
Inuyasha resta come incantato.
Sono passati anni, non saprebbe davvero dire quanti, da quando ha visto, da
lontano, nascosto sulla cima di un alto acero, una danza del genere. Il rito più importante dell’annuale festività di un tempio shiontista. Ricorda ancora
l’incerta emozione che aveva provato nel vedere quelle donne danzare quel loro
strano ballo solenne e rituale. Quanto gli erano sembrate belle! Ma adesso, vedendo Kikyou danzare, gli manca il fiato.
L’agile grazia di Kikyou è tale da fargli sembrare, a confronto, le miko del suo ricordo delle maldestre bambine.
“Il Fato tutto sovrasta e, tanto
quanto noi ne facciamo parte, così anche lui è una parte di noi. Ogni nostra
parola, ogni gesto anche il più minuto …” dice la miko
con voce limpida, facendo seguire con precisione ogni movimento della danza a
quello successivo, in una sequenza perfetta “… è come una cascata di note
prodotte da un’arpa che non ha inizio né fine, e nella quale ognuno di noi è
una semplice corda. Le note di ognuna di queste corde sono fatte per
intrecciarsi in una canzone. Vi sono azioni che producono musica in armonia.
Questa armonia si trasmette in molti modi misteriosi ad altre corde, le quali
raccolgono la musica e la rielaborano, facendola propria e diffondendola,
rimandandola indietro e sospingendola in avanti, e così via. Allo stesso modo,
vi sono azioni fatte per frantumare l’armonia e la bellezza. E anche queste
note discordanti diffondono vibrazioni, urtando corde sconosciute …” ora, la
danza di Kikyou sembra a Inuyasha cambiata, quasi
legnosa, come se la musica silente che guida i suoi movimenti fosse il suono di
uno scordato strumento “… in modi altrettanto misteriosi. E a volte la musica
può essere catturata, e da note stridenti possono nascere melodie di
sorprendente bellezza …” Inuyasha trattiene un singulto di sorpresa, nel
momento in cui la danza di Kikyou piega quelle movenze rigide, sgradevoli, di
un istante prima integrandole con grande facilità in
movimenti eleganti che appaiono adesso tanto più belli a confronto di quelli
che li hanno preceduti. “ … e purtroppo anche il
contrario accade, ma sempre…”
Kikyou incrocia lo sguardo di Inuyasha, e il desiderio che vi legge è tanto intenso da
spezzare la sua concentrazione e il suo sereno distacco. Non c’è malizia o
cupidigia, nei suoi occhi, ma solo un’ammirazione così manifesta, un bisogno
così semplice e primitivo e puro, da bloccarle il passo. Si zittisce, il cuore
comincia a batterle forte forte, e un rossore che non
riesce a fermare le risale su per il collo candido e le colora il volto.
E’ imbarazzata. E’ felice.
Come mai, nonostante tutto quel che so, non sapevo di poter essere così
felice?
Inuyasha vede Kikyou mettere a
fuoco lo sguardo su di lui e interrompere la danza, poi arrossire furiosamente
e abbassare un poco la testa. E il colore che le anima le guance e persino le
labbra sembra riuscire in una impresa impossibile, e
la rende ancora più bella e incantevole.
Gli occhi di Kikyou non sono più
fissi in un mondo nel quale, per quanto lui si sforzi, non riesce a entrare o capire. In un momento soltanto, la miko sembra completamente scomparsa. Al
suo posto, una ragazza con una mano appoggiata al seno, che sussurra in
un tono non del tutto fermo.
“Non sono abbastanza saggia da
poter capire tutti gli effetti che può avere, recidere anche una sola delle
corde del Fato.”
Quando
Inuyasha si accorge che la sta mangiando con gli occhi, subito sente la
familiare fitta della colpa. Ecco, l’ha messa in imbarazzo. Si sarà accorta di
come la guarda, certo. Kikyou è la prima persona che lo abbia
accolto in amicizia, dopo anni nei quali viene trattato come un
selvaggio e un animale, e lui non è neppure capace di controllarsi e capire
quale sia il suo posto. Kikyou è troppo gentile per fargli
notare quanto sia sconveniente che proprio lui – un selvatico hanyou – si permetta anche solo di …
Forse per spezzare l’imbarazzato
silenzio, forse mosso da un’intuizione profonda nata da una parte di sé di cui
non è consapevole, parla senza avere neppure ben chiaro in mente cosa vuole
dire.
“Però …
però, è così semplice? Cioè … se quel bandito farà del
male a qualcun altro … noi, noi non saremo responsabili per averlo lasciato andare
via?”
Inuyasha è quasi stupito di
sentire parole del genere uscirgli di bocca. Kikyou
respira a fondo e il colore defluisce dalle sue guance.
“Io non posso sapere cosa farà
quell’uomo della sua vita. Non lo posso condannare per crimini che non ha ancora
commesso, né per quelli che può aver commesso, ma non conosco.
Ma capisco cosa vuoi dire, Inuyasha.”
I due ricominciano a camminare
lungo il sentiero, verso il villaggio, fianco a fianco. Un piacevole senso di
cameratismo rimbalza tra loro.
“Ogni decisione così importante,
è come fare una promessa della quale non si conoscono i termini.”
“L’intreccio del Fato ci unisce
tutti. A volte, riesco a udirne qualche scorcio confuso, Inuyasha. Se per esempio avessi deciso di …” un tremito nella voce “… ucciderti.
Io vedo la Kikyou che ha scelto di non risparmiarti. E
quella Kikyou, Inuyasha. Ecco, quella Kikyou è morta.”
“Ma se
stai parlando di una persona che neppure esiste! Cosa
vuol mai dire che la vedi?”
“Esiste, invece. Nella serie
infinita dei possibili mondi. Non all’interno della musica. Ma come un eco
nella musica, che io posso sentire.”E io la sento piangere.
Con sforzo, Inuyasha tenta di
seguire le parole della donna. Forse ha capito.
“Quindi,
vorresti dire che, se oggi io non fossi stato qui, tu saresti morta?”
Rabbrividisce alla sola idea. “Questo vuoi dire?”
Le cose non sono così semplici, lineari. Se io ti avessi
ucciso, Inuyasha, ora i miei poteri sarebbero forti e all’erta come lo sono
sempre stati, probabilmente anche di più. Così, avrei avvertito la piccola,
ottusa malvagità di quel brigante da grande distanza,
e mi sarei potuta preparare ad accoglierlo. Mai sarebbe riuscito a cogliermi di
sorpresa. Sarei potuta fuggire o sconfiggerlo con
facilità. La mia anima sarebbe libera dai sentimenti che stanno cancellando,
giorno per giorno, ciò che da sempre sono stata
allevata per essere.
“Sì. Probabilmente, oggi sarei
morta.”
“Forse ho sbagliato a chiederti
di risparmiare il brigante. Non posso saperlo. So solo che non volevo tu lo uccidessi. Non so quali conseguenze questo potrà avere. E’
stata una mia scelta.”
“Una nostra scelta.” Precisa lui.
“Una nostra scelta. Avevamo il
potere di impedirgli di fare il male che sicuramente sceglierà
di commettere nella sua vita. Perciò, adesso ne siamo un poco
responsabili anche noi. Possiamo solo sperare che il Fato non ci
chiederà troppo, quando gli echi delle sue azioni ci raggiungeranno.”
“Decidere di trattenere il
proprio potere piuttosto che usarlo, averne cura e responsabilità, è un
fardello quotidiano e logorante.”
La voce di Kikyou cala fino a diventare un mormorio che lui riesce ad udire
solo grazie ai suoi sensi youkai.
“Anche
il più grande potere ha i suoi limiti ben precisi. Questo è il peso che gli
uomini malvagi non avvertono. No. Non è libertà. Tutt’altro. E
quindi, ne consegue che la libertà …”
Kikyou si zittisce e sorride uno
dei suoi sorrisi malinconici.
Inuyasha vorrebbe invitarla a
continuare, ma si trattiene.
La miko
sembra come riscuotersi a un tratto.
“Inuyasha. Tu … tu non sei mai,
stanco di combattere?”
“Eh? Ma adesso questo
cosa …?”
Si stringe nelle
spalle quasi stizzito.
“A volte. Sì. Non oggi, comunque.”
Inuyasha ripensa a quanto Kikyou
gli ha detto. Per quanto possa sembrargli strano, e
complicato, e poco comprensibile, ne intravede scorci di senso. Rivà agli anni
passati, molti dei quali nel dolore, nell’amarezza, o nella violenza. Eppure, in un certo qual modo, se tutto ciò che ha patito lo ha
preparato a questo momento; ad essere, qui ed ora, e potere …
(intrecciare la nostra musica?)
… potere, beh quello-che-ha-detto-Kikyou, allora lo può sopportare.
Non ha intenzione di perdonare, questo no. Però.
Meditabondo, la fronte
corrucciata, sussurra come per conferma. “E quindi, per questo non hai voluto
che uccidessi quell’uomo.”
Ma di nuovo, lei sorride, e gli occhi le brillano di allegria come a farsi gioco della
serietà dei suoi precedenti discorsi. “A dire la verità, no.
Soprattutto per un’altra ragione.”
“Che!?”
Inuyasha esplode, troppo stupefatto per trovare altro da dire.
Eccola di
nuovo, presente e al tempo stesso inafferrabile come un fuoco fatuo.
Ogni volta che crede di averla capita, ogni volta che
gli pare di averla presa, sempre lei gli sfugge tra le dita. E
lui sa che sarà così, sempre. E sente per un attimo
quanto è giusto che così sia.
Al di là dello
spazientito sconcerto, non si è mai sentito così bene come in questo giorno. E – che assurdità!
– in fondo lo deve anche a quell’assassino vigliacco che ha cercato di
ucciderla.
Kikyou lo fissa bene in faccia, e
qualcosa nell’espressione di lui la induce a scoppiare
a ridere di gusto, di una risata ricca e piena d’infinite sfumature.
Le morbide orecchie di Inuyasha fremono; e comprende che lei non sta ridendo di
lui – come in tanti hanno fatto in passato e faranno in futuro – ma con lui.
Così, esitante, perplesso di essere capace di farlo,
si unisce alla sua risata. L’allegria gli scorre elettrizzante nelle vene come
del buon sakè.
Quando
le loro risate calano d’intensità, sono quasi alla fine del sentiero. Tra poco sbucheranno dal bosco nei pressi del pozzo mangia ossa.
“Allora, ti vuoi spiegare!?” grida lui, facendo finta di essere ormai al di là dei
limiti della sua, peraltro scarsa, pazienza.
Kikyou ritorna seria.
“Inuyasha. Voglio chiederti una
cosa, ma, se non vuoi rispondermi, non sentirti obbligato a farlo.”
“Tu, hai mai ucciso un essere
umano?”
Inuyasha sussulta come se
l’avessero punto. Lei sta guardando altrove.
“No.” Un vecchio e vivo ricordo
gli torna in mente, agrodolce, ma non più doloroso “Mia madre. Quando ero ancora bambino, era la prima cosa che mi faceva
ripetere quando mi svegliavo, e l’ultima prima di addormentarmi. Che non avrei mai, mai per nessuna ragione, dovuto uccidere un
essere umano. Che, anche in un’epoca di guerra e violenza, non avrei mai
dovuto farlo, perché non mi sarebbe stato perdonato, a causa di ciò che sono. E che se lo avessi fatto, poi non sarei riuscito a
tornare sui miei passi.”
“Lo avevo quasi dimenticato.
Avevo quasi deciso di rompere quella promessa. …”
La guarda con una certa
inquietudine.
“I ‘quasi’
non contano, Inuyasha.” Lo rassicura lei. “E neppure
io, voglio che tu uccida un essere umano. Per nessuna ragione, e tanto meno per
proteggermi.”
Sono al confine del bosco.
Inuyasha annuisce.
“Va bene.” Ma
poi non può fare a meno di aggiungere. “Ma allora
perché mi hai raccontato tutte quelle cose?”
Lei ci pensa un po’.
“Credo che volessi
semplicemente …”
(danzare per te)
“ … condividerle con te.”
Riluttante, lui la saluta. “A
domani, Kikyou.”
La donna resta
lì sui due piedi, poi sembra come vincere una qualche resistenza
interiore.
“Inuyasha. Accompagnami a casa.”
Inuyasha è pietrificato. Quando trova la voce, non è altro che un bisbiglio.
“Tu. Ma. I tuoi compaesani ...”
“Inuyasha. Non è più un segreto
che ci incontriamo. Ma anche
se lo fosse.” Esita, e arrossisce come poco prima, ma senza abbassare la testa,
stavolta. “Non mi hai salvato la vita, oggi? Hai il diritto di accompagnarmi a
casa, tu più di chiunque altro. Certo, se lo vuoi,
naturalmente …”
Inuyasha annuisce senza parole.
Fianco a fianco, escono dal
bosco.
Fianco a fianco, sfilano accanto al pozzo mangia ossa.
E
oltrepassano, per la prima volta insieme, la cerchia delle casupole che
delimita il perimetro del villaggio di Kikyou.
Kansuke
attizza la sua furia omicida. Per impedirle di spegnersi si palpa la benda che
chiude per sempre l’orbita vuota del suo occhio sinistro.
E’ armato di tutto punto, e sta
seguendo le tracce ben visibili del passaggio dei suoi uomini.
Ha sempre saputo di non poter
fare molto affidamento sulla loro lealtà, ovvio; ma rendersi conto della
facilità con la quale gli hanno voltato le spalle, dandolo per morto, passando
agli ordini di un perfetto sconosciuto dietro la promessa di chissà quali
ricchi bottini, gli brucia davvero. Più di quanto si aspettasse.
Tasta di nuovo la benda
sull’occhio. Chissà se quella maledetta glielo ha medicato
come si deve. Lui non ha particolari conoscenze mediche, perciò non può
saperlo.
E’ stata una fortuna, comunque, imbattersi in quella miko
itinerante, a poca distanza dall’accampamento abbandonato dai suoi uomini.
La donna di mezza età gli aveva
esaminato la ferita in silenzio, e in silenzio se ne era
presa cura. Non sembrava spaventata da lui, anzi. Lo sguardo che gli aveva
rivolto, era compassionevole. Questo aveva fatto imbestialire Kansuke oltre il limite della sopportazione.
In soli due giorni, ho ingoiato tanta di quella pietà da queste
maledette streghe, da bastarmi per tutta la vita!!
Quando
la miko aveva finito, perciò, aveva cominciato a
colpirla. Dapprima l’aveva schiaffeggiata. Ma la donna non
solo aveva continuato a non mostrare nessuna paura; neppure era parsa
sorpresa. Al contrario, rassegnata, quasi avesse immaginato
fin da subito quale sarebbe stato il ringraziamento del bandito che aveva
curato. Un velo nero aveva oscurato la vista di
Kansuke; e aveva cominciato a prenderla a pugni.
L’impatto delle sue nocche sulla carne indifesa l’aveva inebriato come una
coppa di delizioso sakè. Il caparbio rifiuto della donna di mettersi a gridare
o chiedere pietà, aveva dato ulteriore stura alla sua
violenza.
Quando
la miko era scivolata a terra svenuta, erano arrivati
i calci, ripetuti e feroci. Il volto della donna, ormai tumefatto, gli
ricordava quello appena intravisto di colei a causa della quale aveva perduto
il suo occhio.
Soddisfatto, grugnendo, aveva
infierito sul corpo inerte. In fondo, era in credito con il destino per la vita
di una miko. Perciò …
Se ne era
andato all’inseguimento dei suoi uomini, senza controllare se la miko fosse morta o meno per le percosse. Non
che avesse importanza, in ogni caso. Si era trattenuto dal darle il
colpo di grazia, solo perché temeva che così facendo avrebbe spento la sua
folle rabbia. E invece era necessario conservarla per
la persona sulla quale avrebbe dovuto riversarla senza freno, appena l’avesse
agguantata.
Un passo dopo l’altro, ripete il
nome di quella persona come in una cantilena monotona.
“Onigumo.
Onigumo. Onigumo.”
Sto arrivando. Preparati. C’è l’inferno che ti aspetta, Onigumo.
@ Me91: e tu ti meriti, ogni
volta, tutti i miei ringraziamenti ;)
Anche a me non piacciono le AU,
soprattutto perché portano quasi sempre all’OOC. Mentre questi personaggi sono così belli che meritano di
essere approfonditi e non stravolti.
Grazie per la fiducia, e spero di
sorprenderti un po’ ogni volta! xD
Chiudo questa prima parte della fic con l’episodio 47 dell’anime; il
famoso incontro tra Inuyasha e Kikyou sotto il Goshinboku
Chiudo questa prima parte della fic con l’episodio 47 dell’anime;
il famoso incontro tra Inuyasha e Kikyou sotto il Goshinboku
(rimaneggiato nella versione anime).
Glossario:
geisha:
la geisha non era, come si pensa di solito, semplicemente una prostituta. Il
vocabolo equivalente più adatto che noi possediamo
probabilmente è “cortigiana” (anche se l’intrattenimento della geisha
comprendeva senz’altro anche quel che state pensando …).
La geisha è però anche,
curiosamente, la donna che può essere amata. Intendendo con amore un
innamoramento sfrenato e passionale differente dal legame tra moglie e marito (nell’ottica giapponese, dell’epoca sengoku
in particolare). L’amore così inteso è un sentimento incontrollabile,
distruttivo e pericoloso, che fa “perdere la faccia”, inadatto ad una donna
perbene, e che un uomo non dovrebbe provare per una donna perbene. Sentimento
che perciò può essere riservato, al più, a una geisha.
Questo genere di amori raramente si concludeva
felicemente. In rari casi l’amante riusciva a raccogliere denaro a sufficienza
da ricomprare il contratto delle geisha dal “proprietario” della medesima. Più
spesso, gli amanti commettevano un doppio suicidio nella speranza di ritrovarsi
in un’altra vita in circostanze più felici.
Le gambe conserte e i gomiti
appoggiati al bordo del pozzo mangia ossa, Inuyasha,
dopo l’ultimo litigio con Kagome e gli ennesimi rimproveri dei suoi compagni,
borbotta tra sé, ammucchiando le sue ragioni come un pirata scalcinato
ammucchia un tesoro di nessun valore.
E poi è
tutta colpa di quel guastafeste di Kouga. Ma prima o poi gliela farà pagare cara.
Odore di youkai!?
I pensieri spazzati via, si alza
con un movimento fluido, i muscoli tesi. Un’ombra gigantesca si proietta a
terra. Sollevando la testa, vede lo youkai.
Un gigantesco shinidamachu?
Ma c’è
un altro odore che gli solletica le narici. Equest’odore, non può essere scambiato con nessun altro al
mondo.
Kikyou sbuca dal bosco,
accompagnata dai fedeli shinidamachu, appoggiandosi
al suo arco come fosse una stampella.
“Kikyou!”
La miko
solleva lo sguardo stranamente offuscato e, con voce rotta, sussurra.
“Inuyasha”. Poi cade a terra.
Lo stomaco di Inuyasha
si appallottola nel sentirla pronunciare il suo nome e nel vederla così
indifesa, smarrita come una bambina, spogliata di quel potere meraviglioso e
terrificante che, da quando è tornata in vita, è per lui una minaccia lontana,
ma sempre presente in un angolo dei suoi pensieri.
Corre verso di lei e la raggiunge
in un istante, prendendola tra le braccia. Kikyou socchiude gli occhi con
sforzo “Dov’è …?”.
Inuyasha vede sopraggiungere sia
l’enorme shinidamachu che i saimyoushou,
gli insetti velenosi di Naraku, e perciò subito capisce quanto sta accadendo:
il suo mortale nemico sta cercando di uccidere Kikyou. La sola idea lo fa
impazzire di una frenesia che tiene a freno a stento. Salta via agile,
schivando l’attacco dello youkai che piomba dal cielo
nel tentativo di divorarli. Corre, scarta, percorrendo per un breve tratto il
sentiero nella foresta che conosce così bene; poi devia a destra, immergendosi
nella vegetazione, aggira i tronchi, procedendo a zigzag per guadagnare terreno sul suo inseguitore. Quando ritiene di aver messo una distanza sufficiente tra sé e lo shinidamachu, si ferma. Con delicatezza infinita,
poggia Kikyou sul tronco di Goshinboku; e, nonostante
la concitazione del momento, il suo cuore sussulta quasi di dispetto: vorrebbe
tenerla stretta e correre senza mai fermarsi.
Poi si gira, come una saetta, ad
affrontare il suo ottuso, bestiale avversario. Sfodera Tessaiga
e non gli serve più di un colpo per tranciarlo in due.
Dal corpo del mostro le anime
fuggono, come pioggia che ha dimenticato l’ordine naturale delle cose e dalla
terra cade verso il cielo. Gli shinidamachu di Kikyou
le afferrano prima che possano disperdersi, e le portano alla loro esausta
padrona.
Kikyou aveva capito subito il
significato del cielo nero.
Naraku vuole la mia vita; o, almeno, quel che ne resta.
Questa non era stata una
sorpresa. La sorpresa era stata che fosse riuscito a
scovare uno shinidamachu di tali dimensioni e, usando
i suoi saimyoushou, lo avesse provocato fino a
turbare il suo sonno e farlo impazzire, costringendolo a scatenarsi sulla
regione come un incontrollabile tornado e divorare tutte le anime che fosse
riuscito a trovare.
Svelta, aveva raggiunto una
stalla e preso il cavallo che vi era ricoverato, perdendo solo il tempo
necessario a equipaggiarsi di arco e frecce. Lo shinidamachu avrebbe prestissimo sentito su di lei l’odore
di tutte le anime che la sostenevano, e, nella sua fame cieca e irrazionale, si
sarebbe messo alla sua ricerca come un lupo.
E, così facendo, Naraku sarebbe
riuscito a sbarazzarsi di lei senza turbare l’anima di Onigumo dentro di sé.
Era iniziata la cavalcata mentre,
come previsto, lo shinidamachu le dava la caccia.
Kikyou è una brava cavallerizza,
ma seminare un avversario capace di volare e di percepire la sua presenza anche
a distanza era impossibile.
Stringendo i denti, mentre il
cielo attorno a lei si incupiva diventando viola e poi
nero, aveva guidato il cavallo affidandosi all’istinto. Infine, aveva raggiunto
la cima di una brulla altura che terminava in un dirupo. Fermando il cavallo,
era smontata di sella per combattere. L’arco teso, aveva aspettato l’apparizione
dello shinidamachu; ma lo youkai,
prima di avvicinarsi a portata delle sue frecce, aveva spalancato le fauci
risucchiandole alcune anime e privandola delle forze.
Lottando con il proprio corpo
intirizzito, si era sforzata di scoccare una freccia che il mostro aveva
schivato facilmente, sottraendole poi altre anime.
L’aveva attaccata e lei,
impacciata e scoordinata, nel tentativo disperato di schivare l’attacco, era
precipitata.
Cadendo, rimbalzando sugli
spunzoni di roccia, aveva colpito forte il terreno. Si era rialzata, constatando ironicamente come la gabbia infernale che è il
suo nuovo corpo fosse in grado di assorbire colpi che l’avrebbero uccisa o
gravemente ferita.
Barcollando e inciampando, aveva
ripreso la sua fuga, allontanandosi dall’altura dalla quale Kansuke,
più di cinquanta anni prima, aveva tentato di ucciderla.
Quando aveva
raggiunto il pozzo mangia ossa e aveva visto lui, la confusione e la
debolezza l’avevano indotta a chiedersi se il tempo non si fosse ripiegato
riportandola indietro negli anni.
La Furia era rimasta ammutolita,
e lei era stata capace di chiamarlo per nome proprio come avrebbe fatto tanto tempo prima. Poi si era accasciata.
Mentre
Inuyasha fuggiva tenendola tra le braccia, aveva benedetto la debolezza
paralizzante che le impediva il movimento e la parola.
Per quanti
sforzi abbia fatto, per quanto duramente abbia lottato, quell’odio maligno che
la tormenta da quando Urasue l’ha richiamata nel
mondo non si lascia scacciare. La sua tamashii è aduggiata da catene di
fuoco che non si spezzano.
La battaglia che si svolge nel
silenzio della sua anima le toglie le forze, e giorno
dopo giorno le sembra di essere, sempre più, logora e polverosa. E anche se la
Furia - una parte di lei, ormai - subisce la medesima
usura, non per questo allenta la sua presa crudele.
Così, sì, aveva benedetto la
debolezza che le permetteva di stare tra le sue braccia per qualche minuto
senza che questo si trasformasse in un tormento insostenibile per entrambi.
Quando
Inuyasha aveva ucciso il suo inseguitore, i suoi shinidamachu
le avevano portato le prime anime.
Kikyou apre gli occhi e, ancora
confusa, mentre lui si avvicina, chiede “Cosa ci fai qui, Inuyasha?”.
“Questo devo chiedertelo io! Cosa ci fai qui, Kikyou?” ribatte lui.
Kikyou si sforza di raccogliere
le idee. “Lo youkai. Mi stava inseguendo …”
“E tu sei venuta qui sapendo che ti avrei salvata!” la interrompe lui, la
voce impetuosa e il viso pieno di speranza.
E’ così vicino, adesso, che
basterebbe poco per abbracciarlo, oppure ucciderlo. Le sue parole la colpiscono
come uno schiaffo, mentre si rende conto che forse quel che lui ha detto è
vero, e la risposta le sgorga dalle labbra “Non essere stupido, Inuyasha! Sono
fuggita, ero disperata, non sapevo dove stavo
andando!”.
Lui si ritrae, sussultando,
deluso, mentre Kikyou si interroga su quanto ha appena
detto. Non è la Furia ad aver parlato, questa volta, ma l’istinto potente a cui
lei si è sempre affidata … la trama del
Fato che tutto sovrasta … e che non si era mai fatto udire con tanta
chiarezza da quando lei è tornata in vita.
Il mondo pare
rallentare il proprio respiro, come se il Goshinboku
su cui la sua schiena poggia, fosse diventato il mozzo sul quale la
ruota dell’universo intero gira, lenta lenta.
Catturati da questa sovrannaturale
atmosfera, i due restano in silenzio mentre il sole scende sotto l’orizzonte e a illuminarli resta solo la pallida lucentezza della luna e
delle anime.
Inuyasha, come sempre gli accade,
non ha occhi che per lei. E ci sono ragioni. Lui
ricorda. Non ha certo mentito, quando le disse che non
passa giorno senza che pensi a lei.
E da quando
è tornata, pensare a lei significa sapere quello che era, e ciò che invece è
adesso. Per lui, è un tormento che toglie il fiato.
E’ colpa mia. Se lei si è perduta, la colpa è
solo mia. Non sono stato capace di proteggerla, e adesso …
Anche se
adesso lei è così vicina, lui sente che è lontanissima.
Da quando Naraku gli si è
rivelato, due sono le cacce che ha intrapreso. Una, per scovare lui e
ucciderlo.
L’altra.
Deve ritrovarla! Non può
accettare l’idea che Kikyou sia scomparsa, perduta per sempre. E’ qui! Davanti
a lui! Deve essere da qualche parte. Tutti loro: Kagome, Sango,
Miroku, e persino Kaede … Kaede! … credono che lui non riesca a rassegnarsi e sia
solo un patetico stupido.
Ma il
suo istinto di cacciatore, che mai gli ha mentito, gli dice che lei è
semplicemente lì, nascosta da qualche parte … e lui non smetterà di cercare,
fino a quando non l’avrà stanata.
E se questo dovesse
costargli la vita, non ha importanza.
Quando gli è apparsa davanti, ha
avvertito quella peculiare eccitazione che prova quando una caccia sta per concludersi.
“A cosa stai pensando?” chiede
lei, per poi subito pentirsene. Parlando, avverte con chiarezza di aver
spezzato quell’incanto che aveva dato loro l’illusione
di aver fermato il tempo.
“Sono passati cinquant’anni
da quel giorno, ma noi non siamo cambiati.”
Per un istante Kikyou
rabbrividisce, travolta dagli infiniti significati delle parole che Inuyasha ha appena pronunciato. C’è una speranza e una volontà
caparbie in quella semplice frase.
Tuttavia, decide di intendere
quel che lui ha detto nel modo più letterale, e gli
risponde con un sorriso sprezzante. “Che parole
sciocche. Io sono cambiata! Da quando, cinquanta anni fa, ti sigillai su quest albero.”
Ancora silenzio, che lei decide
di spezzare, approfittando del poco tempo che le resta,
prima che la Furia si desti dal suo sonno leggero.
“Inuyasha. Dimmi, per quale
ragione credi che Naraku ci abbia teso una trappola, inducendoci a odiarci l’un l’altra?”
“Per corrompere la ShikonnoTama,
spingendo te, che custodivi il gioiello, a odiarmi.”
“Questa è solo
la scusa che ha raccontato a te, e forse anche a se stesso. Anche se non avesse
corrotto il mio cuore, gli sarebbe bastato uccidermi e, solo toccando la ShikonnoTama,
l’avrebbe immersa nella tenebra.”
“No. Fu Onigumo
a costringerlo. Quel che restava della tamashii del bandito era consumata di gelosia, mi voleva per sé; e così
Naraku lo combatté nell’unico modo che gli era possibile.”
“Co …
gelosia!? Per un motivo così stupido!?”
“Sì. Stupido. E
anche, molto umano.”
“Ma
allora, cosa prova per te, Naraku? Non vuoi dire che lui … ecco …”
“Vuoi sapere se mi ama?” ribatte
lei in tono ironico, con un’espressione dura. “‘Amore’
non è la parola più adatta. Ma, sì, dentro Naraku sopravvive il sentimento che Onigumo provava per me. Per sbarazzarsene, Naraku ha
cercato di uccidermi.”
“Basta, Inuyasha.” Continua lei.
“Ho recuperato a sufficienza le forze. Ora me ne vado.”
Sto scappando? Perché sto scappando?
“Aspetta! Kikyou! Cos’hai intenzione di fare!? Vuoi uccidere Narkau?
Da sola? No! E’ troppo pericoloso! Non posso permetterlo!”
“Inuyasha! Te l’ho già detto in
passato. Io, sono una miko. E’ mio dovere … sì, il
mio dovere è uccidere Naraku e rimuovere la ShikonnoTama dal mondo!”
Il dolore che le
costa pronunciare queste odiose verità è sufficiente a risvegliare la
Furia che la domina. Con un silenzioso gemito di stanchezza, Kikyou si prepara
a combattere, mentre pareti fiammeggianti si levano per imprigionarla di nuovo.
Inuyasha osserva mentre lei si
alza per andarsene ancora una volta. Cerca di trattenerla con le parole; pur
sapendo che non sono certo la sua arma migliore. Lei gli risponde con asprezza,
e dal suo volto traspare quell’odio che lo fa sentire come morto al solo
vederlo. Ma non ha intenzione di recedere; non ora. Perché
(la mia preda sta fuggendo)
questa
occasione potrebbe non ripresentarsi più.
“Non permetterò a Naraku di
averti! Solo io posso proteggerti!” E intanto, avanti un passo, e poi un altro,
e un altro ancora.
E lei arretra, cerca di
sottrarsi, ma alle spalle ha il Goshinboku
(un buon cacciatore non lascia vie di scampo)
Un ultimo movimento, e la afferra
per le spalle stringendola in un abbraccio. Per la prima volta da quando la
conosce, non deve avere paura di poterle fare del male con la sua forza.
“Sei impazzito! Lasciami andare!”
Ma lui
non è impazzito. In questo momento, in cui le sue molteplici nature sono
saldate in una sola, fiuta una pista che lo sta conducendo all’anima e al cuore di lei, a quel luogo solitario che già una volta lui
visitò.
E non
esiterà, poiché lui non teme né il ghiaccio né il fuoco.
La sente cedere, premergli
addosso e … finalmente! … ricambiare
la sua stretta.
“Sarò io ad uccidere Naraku,
Kikyou. Quindi, tu non hai più bisogno di combattere.”
“Kikyou. Tu mi dicesti una volta
che la mia vita è tua. Ebbene,
sappi … anche la tua vita è mia!”
Mentre
Inuyasha la tiene stretta con ferocia, Kikyou avverte la sua fermezza. Questa
volta, non la lascerà andare fino a quando non l’avrà ritrovata. Un brivido di
speranza e paura la scuote. Ma subito dopo, percepisce
il pericolo.
La Furia esige che il sangue di lui venga versato. La sua risoluzione non è
cambiata. E Kikyou sa di poter resistere ancora per
poco, prima di essere sopraffatta. Stringe i denti.
Anche se gli ordinasse
di fuggire, sa già bene che lui non lo farà mai.
Come già gli accadde,
Inuyasha ha la sensazione di vedere una stanza. Una
stanza all’interno di una casa che va a fuoco, piena di fumo soffocante; e
dietro quelle fiamme …
Kikyou può quasi vederlo mentre
la cerca. In questo momento, se dovesse chiedergli di morire con lei, lui la
seguirebbe senza ripensamenti.
Ma gli uomini malvagi … non riescono a comprendere la trama del Fato che
tutti ci unisce …corde di uno strumento le cui note sono fatte per intrecciarsi
nei modi più impensati …
Kikyou fissa la prigione della
propria stessa anima. Lui sta per raggiungerla. Ha intenzione di liberarla,
come già promise di fare una volta, cinquanta anni prima. Anche
se farlo, questa volta significa …
…e vi sono azioni fatte per frantumare
l’armonia e la bellezza. E anche queste note
discordanti diffondono vibrazioni, urtando corde sconosciute …
Risoluta quanto lui, Kikyou si
leva, fronteggiando la belva mostruosa dentro di lei. Per la prima volta da
quando la conosce, smette d’un tratto di combatterla.
Ne percepisce lo sconcerto
immediato; per quale ragione smettere di lottare, proprio ora?
…e a volte la musica può essere catturata, e
da note stridenti possono nascere melodie di sorprendente bellezza …
Kikyou si sottrae quanto basta alla sua presa, da guadagnare lo spazio per
poggiargli alla gola la punta del pugnale appena estratto dalla manica dell’hitoe dove un tempo era riposto il Kotodama
no Nenju. La lama scintilla, attraversata dal suo
potere spirituale.
Inuyasha trema per la sorpresa,
dimenticando per qualche secondo di respirare. Nella mano di Kikyou è apparso
non sa come un pugnale che lei gli punta contro.
Il suo viso è
una maschera di gelido disprezzo, i suoi occhi sono morti come monete
scintillanti. E’ sconvolto, disarmato, incapace di muoversi. Per la prima volta
nella sua lunga vita, non è neppure più certo dell’infallibilità del suo
istinto di predatore.
E le parole di
lei lo feriscono come nessuna lama potrà mai fare.
“Dunque, non sei poi tanto
diverso da Naraku, Inuyasha.” Sbuffa. “Gli uomini sono
davvero stupidi! Credono che, solo perché abbracciano una donna, questa
appartenga a loro! Ora, guardando te, lo capisco davvero. Fintanto che il cuore
di Onigumo vivrà dentro
Naraku, avrò un’opportunità. L’opportunità di prendermi la mia vendetta e
liberarmi del mio dovere.”
Nascosta dietro un travestimento
perfetto, Kikyou si abbandona ai vincoli delle passioni di cui è prigioniera.
Anche se il pugnale sfiora appena
la pelle di lui, ugualmente si rende conto di quanto è
affilato, di quanto in profondità stia tagliando.
Quando ha finito di parlare, i
suoi shinidamachu si precipitano tutt’attorno a lei,
avvolgendosi al suo corpo, e la sollevano in cielo.
Lui grida il suo nome, ma lei gli
risponde solo nel silenzio della propria mente.
Una volta reciso, il filo rosso del destino non può più
essere riannodato.
Quando
gli shinidamachu la posano sul folto prato e la
privano del loro sostegno, è così stanca e sconvolta da non riuscire a reggersi
in piedi. Cade a faccia in giù fra l’erba, esausta e tremante, le dita
affondano come artigli nel terreno morbido. Cerca come può di mettere ordine
tra tutte le voci chiassose delle anime delle donne morte, di fronteggiare
l’assalto rabbioso della Furia ingannata, attingendo a risorse di forza che
neppure sospettava di possedere, ma è stanca … oh! tanto
stanca …
… io sono Tsuyako …
“Io sono Kikyou.” Risponde al
sussurro dell’ennesima tamashii.
Lo so. Ed io sono Tsuyako.
Vuoi ascoltare la mia storia, giovane miko?
Kikyou resta sorpresa. Nessuna tamashii le ha mai parlato in
questo modo. Esita; ma, ad ogni modo, è troppo stremata per
opporre resistenza. “Ti ascolto, Tsuyako.”
Sono nata nella nobile famiglia Takesawa, e
sono stata allevata alle onorevoli strade del bushido
per diventare una samurai. Ero un’abile guerriera; più
di molti tra i miei fratelli. Ah! Mio padre era così fiero di me …
Kikyou sorride appena, poggiando
sui gomiti e sforzandosi di sollevarsi “Sì. Era così orgoglioso della sua
bambina speciale …”
Per molti anni, sono stata convinta di avere una vita benedetta dai Kami. Ma, ahime,
la ricchezza non è mai stata tra queste benedizioni. Quando mio padre ci informò che avremmo dovuto cedere la casa dei nostri
antenati agli avidi mercanti coi quali aveva contratto molti debiti, vidi la
vita appassire nei suoi occhi.
Così, feci quel che sapevo ci si aspettava da me. Per difendere l’onore
della nostra famiglia, vendetti me stessa come geisha,
ben sapendo che le samurai sono, tra tutte le donne, le più preziose. Così, fu
possibile saldare gran parte dei debiti.
Inginocchiata, Kikyou fruga nella
manica fino a trovare il nastro bianco col quale legarsi i capelli; poi porta
le mani alla nuca per acconciarli nel nodo così familiare.
“Poiché
l’onore impone il dovere.”
E c’era un uomo – naturalmente. Lo sapevo, amarlo così tanto non è
adatto a una donna rispettabile – ma non mi è mai
importato. Lui non era ricco – e io non gli avrei mai
permesso di rinunciare a tutto quel che aveva pur di riscattarmi.
“Sbagliai? Fu mia la colpa?” e
intanto stringe il nodo … forte, e ancora di più.
“Chiedergli di pagare al mio posto?” La voce di Kikyou inciampa per un attimo
“Eppure, non era questa la mia intenzione. Io non ho
mai …”
Venne a cercarmi tante volte, anche se non aveva il denaro per
comprarmi dal mio acquirente. Che sciocco; infine, mi
chiese di commettere shinju, il doppio suicidio degli
amanti. Ma io, non volevo che morisse. Volevo saperlo
vivo. E così …
“Così facesti quel che andava
fatto. Vivesti.”
Con un ultimo sforzo, Kikyou si
rimette in piedi. E il nodo è così serrato che, se
fosse ancora viva, i suoi occhi si riempirebbero di lacrime per il dolore.
Ma i
suoi occhi non sono più fatti per piangere.
E perciò, se adesso si sfiora la
guancia con la mano fredda, e la ritrae bagnata, si tratta, certo, solo della
rugiada imprigionata tra l’erba sulla quale era sdraiata fino a un attimo prima.
Naraku muove lentamente e con
decisione la katana, mentre la lama affilata gli squarcia la pelle e le carni
della schiena. Ha visto il salvataggio di Kikyou nello specchio di Kanna, ma quando lei ed Inuyasha si sono abbracciati e
un’eruzione di ronzante gelosia gli ha invaso la mente, ha allontanato tutti i
servitori e le emanazioni ed ha impugnato la spada.
Inutile cuore umano …
La mascella contratta per il
dolore, prosegue nella sua incisione.
No, non è il suo corpo a
dolergli. Una ferita del genere non può fargli male. Anzi, nessuna ferita,
grazie al suo corpo composito, può fargli male. Il dolore è di tutt’altro
genere, e di gran lunga peggiore. Sente Onigumo – il mai
abbastanza maledetto Onigumo!–
abbarbicarglisi addosso con un’ostinazione cieca e
folle. E per quanto a fondo la lama tagli, il
risultato non cambia. Mai.
I suoi passi, dapprima esitanti,
si fanno più decisi, mentre il prato si fa via via
meno folto e viene sostituito da un terreno brullo e
sassoso; quel terreno arido che segna l’imboccatura della cava alla quale non
si è più avvicinata da decenni.
Poggia la mano alla roccia per
reggersi, pervasa da una paura e un disgusto profondi, la testa abbassata, le
palpebre serrate.
Ma
presto, solleva il mento e, indomita e fiera, spalanca gli occhi e varca
l’entrata.
Nella mano arrossata di sangue,
trattiene le sue stesse carni, su cui campeggia beffarda la cicatrice a forma di
ragno.
Dà un’occhiata
al cadavere del servitore che ha avuto la pessima idea di presentarsi non
invitato al suo cospetto e lo ha visto in questo stato. Non è tanto infastidito
dal fatto di averlo dovuto uccidere; è solo uno fra tanti, perciò non è importante.
Quel che lo infastidisce davvero
è di essere stato colto nel bel mezzo di un tentativo così … patetico. Il solo pensiero lo riempie di
freddo odio. Solo quella donna riesce a umiliarlo
così. Deve essere uccisa. Deve essere uccisa assolutamente.
Il suo corpo le sembra più
pesante di un macigno, e coprire la distanza di quegli ultimi metri uno sforzo
titanico. Infine, si inginocchia su quel che fu
l’ultimo giaciglio delle spoglie mortali di Onigumo,
sfiorando la terra con le dita.
… paura …
“Dunque, anche tu hai paura, vero? Naraku.” Sussurra piano. “E la paura ti ha reso
avventato e imprudente, così come accade a chiunque altro.”
Sorride pallida.
“Sì, Naraku, adesso ti capisco
molto meglio di quanto avrei mai potuto, se ti avessi
conosciuto in vita.” Rabbrividisce. “Dover vivere giorno per giorno con … questo …” continua, carezzando la terra
impregnata delle passioni di Onigumo.
“Bene, dunque. A ciascuno il
proprio fardello, Naraku.”
“E tu, Onigumo? Mi vuoi? Certo. Mi trovi anche più bella, non è
vero, nella mia nuova forma? Molto bene.”
Vincendo una ripugnanza infinita,
usando l’odio della Furia, lo spirito di sacrificio della Miko,
la passione della Donna, apre il suo corpo di ossa e
terra a questa terra nuova.
Quando
ha finito, si alza stordita. I morti, ovvio, non soffrono la nausea. Eppure vorrebbe accasciarsi e vomitare fino a svuotarsi e
trasformarsi in guscio essiccato.
Trema; e si sente violata così
come sono state violate alcune delle donne le cui tamashii
hanno trovato rifugio presso di lei.
Ma non ha alcuna
intenzione di arrendersi, né di mostrarsi debole. C’è un ultimo
confronto che l’aspetta, prima che questa lunga notte abbia termine.
Naraku, seduto a terra, medita
sugli ultimi avvenimenti.
Non avverte la presenza
di lei fino a quando non gli appare davanti agli occhi. Trattiene a
stento un’esclamazione. Che ci fa qua?
Kikyou lo fissa con
un’espressione indecifrabile e spietata; tale da riuscirgli difficile mantenere
la propria imperturbabilità.
“Suvvia, Naraku. Perché non ti sforzi
di sembrare più contento di vedermi? Dopo tutto, sono io, e ho fatto così tanta strada per venire da
te.” Sorride un’imitazione perfetta dei sorrisi sarcastici di lui.
“Naraku. Hai pensato che,
uccidendomi, ti saresti sbarazzato del cuore di Onigumo che si strugge per me, non è vero?”
“E
quindi?” chiede lui, oziosamente.
“Ah, Naraku. Povero, sperduto hanyou. Vuoi così tanto il tuo posto fuori del mondo?
Ebbene, sappilo: tu e io siamo simili.” Commenta con
aria misteriosa, come se stesse facendo una battuta che solo lei può capire.
Naraku si trattiene con uno
sforzo dal ribattere. Sa di non doverlo fare, perché lei è l’unica capace di
usare le sue stesse armi; e per questo, è l’unica che lui voglia davvero morta.
“Solo per gettarmi addosso queste deboli provocazioni hai fatto tutta questa
strada, Kikyou? Ora, non penserai certo che ti lascerò
andare, vero?”
Un disgustoso youkai
si fa avanti dalle ombre imprigionate in un angolo della stanza e la attacca.
Kikyou neppure accenna a difendersi, ma appena lo youkai
la sfiora, un empito di energia travolge la creatura,
trasformandola in polvere.
Il mio youki, è stato respinto?
“Una tua emanazione, vero? Se
leverai anche solo un dito su di me, Naraku, questo è il destino che ti
attende.”
Naraku sibila tra i denti una
sola parola. “Onigumo.”
“Sì. Quando
eri conosciuto da tutti solo come Onigumo, e giacevi
impotente in quella cava, i tuoi miserabili desideri impregnarono la terra.
Terra che ora fa parte del mio corpo.”
“Ricorda. Onigumo
non mi vuole morta e mi proteggerà da te. Tienilo bene a mente, Naraku. Non
puoi uccidermi. Non fino a quando resterai solo unohanyou.”
Mentre
Kikyou si allontana dal palazzo di Naraku, e contempla la luna tramontare, la
testa piegata come in ascolto, non può fare a meno di chiedersi che cosa la
aspetta.
Ha sparso in
ugual misura menzogna e verità.
Nonostante
le sue ali spezzate, ha volato e danzato sopra e tutt’attorno ai due hanyou che così nel profondo hanno inciso la sua vita e la
sua morte. Ma neppure lei può vedere al di là di certi
confini. Può solo lasciarsi guidare dalla forza misteriosa che da sempre
l’accompagna, che le fa tanta paura e dalla quale una volta cercò così
disperatamente di fuggire, perché lei sa quanto può essere amaro e salato il
prezzo che viene chiesto di pagare, a coloro che hanno
il potere di sciogliere e legare la trama del destino.
@Me91: sembrava di continuare a
vedere l’episodio? Splendido xD
Sì, come vedi il discorso sul Fato ha una sua ragione, e lo riprenderò. Grazie
dell’interessamento … ;-) … e ciao!
Kokoro:
tradotto con “cuore” in senso metaforico. Attenzione, però, perché si tratta di
un vocabolo molto fuorviante.
Kokoro
può essere inteso infatti come il cuore e la mente, la
sensazione e il pensiero e le viscere.
Ovvero anche, lo stato della
mente inteso come il dominio sui fenomeni relativi al
proprio “linguaggio interiore”, la propria coscienza, o ancor meglio la propria
autocoscienza.
Anche quando, in questi capitoli,
userò il termine “cuore” in italiano starò solitamente
pensando al kokoro.
Il fantasma e il demone stanno in
silenzio.
Naraku sa che Kikyou non può
nulla contro di lui. Le sue sono parole e nient’altro.
Questo gli dà una sensazione
strana.
Per un verso, si sente
stranamente confortato. Lei non è più una minaccia. Non la sarà mai più.
C’è un solo punto di luce che non
sarà un ostacolo ancora per molto.
Perciò è
quasi piacevole, liberatorio, potersi misurare con lei, senza timore dei suoi
trucchi, delle sue astuzie. Sapendo, per una volta, di non
dovere tenere la guardia alzata, per essere pronto a rispondere colpo su colpo.
E’ quanto di più simile a uno svago lui riesca a
concepire.
D’altro canto, Naraku non si fida
affatto di queste sensazioni. Se lei gli è apparsa –
in che modo vi sia riuscita, non è importante – certo non è per aiutarlo o
fargli piacere. Deve metterla alle strette e scoprire la ragione della sua
presenza. Per farlo deve stare al suo gioco, sapendo che ciò non può nuocergli;
ma senza imprudenti distrazioni.
Poi potrà dedicarsi di nuovo a
quelli che sono i suoi veri obiettivi.
“Per quanto la nostra
conversazione possa essere piacevole, Kikyou, ancora non capisco perché vuoi
intrattenermi con ricordi del passato. Ciò che ero un
tempo è stato oramai abbandonato, come la vecchia pelle di un serpente lasciata
lungo i margini di un sentiero smarrito. Tu lo sai bene, mia nemesi. Te l’ho dimostrato più di una volta, non è vero? Il mio tempo è
prezioso, a differenza del tuo. Non desidero sprecarlo inutilmente.”
Kikyou scuote la testa e i
capelli ondeggiano come un drappo. Naraku si chiede curioso se questi piccoli
gesti impazienti abbiano per lei lo stesso significato di quando apparteneva
ancora, seppur tenuemente, al mondo mortale.
“Naraku, non hai torto. Ma non è
semplice parlare di tali portenti, neppure con te, che pure sei
l’unico in grado di poterli capire.”
“Noi sappiamo, come nessuno altro può sapere, cosa vuol dire essere un mistero
per se stessi. Noi, creature impensate che non hanno ragione essere udite in
nessuno dei mondi possibili.”
“Noi, così strettamente legati.”
“Sì. Vedo che sorridi. Cosa c’è? Perché torni serio? Non
ti eri accorto che stavi sorridendo? E’ per questo? Ma
non c’è nulla di male! Anche io lo sento. E’ come il
dolore e la sua consolazione, assieme. Lo capisco.”
“Io che ti sono madre. Tu, figlio
e frutto dei sogni che mi era stato proibito di sognare.”
Naraku non riesce
a cancellare il sorriso, colto di nuovo dal piacere di una disputa che, forse,
attendeva da sempre. Così, la interrompe, calcando i suoi passi.
“Tu che mi sei figlia. Rinata
alla tua nuova vita, dopo che io ti ho liberata di
quella vecchia.”
Kikyou annuisce e anch’ella sorride a un tempo di partecipazione e di minaccia.
“Io che ti sono amante. Il frutto
candido che la tua anima umana ha agognato così a lungo.”
“Tu che mi sei sorella. Poiché in
nessuno dei possibili mondi, c’è spazio a sufficienza per due creature quali
noi siamo, Kikyou.”
“Sì, Naraku. Eppure,
dopo tutto questo tempo, ancora tu non riesci a vedermi. Se ci riuscissi, avresti già compreso da te solo, quel che ti
inquieta, che cosa ti turba.”
“Anche tu, come Inuyasha, mi hai
fatto conoscere tante cose, Naraku.”
“E per questo, mio assassino, io
ti ringrazio.”
“Per ogni stilla di dolore che mi
hai costretta ad assaggiare. Per ognuna delle lacrime
che mi hai impedito di versare.”
“Sono qui, solo per pagare questo
debito aperto.”
“Dimmi. Non c’è davvero nulla che
tu voglia sapere da me? Sentiti libero di chiedermi qualunque cosa. Lo so,
Naraku. Per te, sapere è importante, tanto quanto lo è il
respirare per le creature mortali. Avanti.” Ride appena “Non avrai paura
di uno spettro impotente, no?”
Naraku contrae le dita,
innervosito suo malgrado. I fantasmi possono fingere, ingannare, confondere?
Così sicura di sé. Per quale
ragione?
Scaccia l’impazienza, e trova la
domanda che gli pare adatta.
“Come riuscisti a sopravvivere,
Kikyou? Quella volta. Avevo preparato tutto per te. Saresti dovuta perire
allora. Tutto sarebbe dovuto finire allora. Cosa accadde?”
“Cosa accadde,
là sulla cima del Monte Hakurei?”
Il nervosismo di Naraku serpeggia
più intenso, mentre la vede annuire come se avesse aspettato proprio quelle
parole.
“E tu,
Naraku? Come riuscisti? Quella volta. Come fosti capace di sbarazzarti del kokorodi Onigumo?”
“Cosa accadde,
là …
… nelle viscere del monte Hakurei.
Trova
che le radici della montagna siano un luogo adatto a lui. La tenebra è, come
sempre, amica e riposante. Le grotte sono antiche di millenni. Davvero, ossa
del mondo. Ossa cave come quelle degli uccelli.
Se fosse
capace di leggerne i segreti, è certo che gli sussurrerebbero misteri di cui
gli stessi Kami non hanno più memoria. Forse, un
giorno, chissà, ne sarà capace.
Ma i
segreti che deve leggere adesso sono ben più importanti e, per certi versi,
indecifrabili. E’ stato sconfitto e costretto a una
fuga precipitosa. La sua forza si è rivelata essere inferiore del previsto, e
questo nonostante l’ausilio della ShikonnoTama ormai quasi completa.
E’ inquieto, e deve comprenderne
le ragioni. A qualsiasi costo. La sua coscienza fluttua attraverso il suo
corpo. Grappoli di carne, abbozzi di youkai
consumati, chele, zanne, occhi, creste ossee, filamenti, antenne. Un
caos nel quale non vi è nulla di umano.
Attaccato alle
pareti dei budelli di roccia per decine e decine di metri.
Sparso sul
fondo come rottami marci scartati dai Kami prima
della creazione del mondo.
A penzolare
come stalattiti di carne partoriti dal sogno di un folle.
Kagura
una volta lo vide in una condizione simile. Ma, ora,
probabilmente neppure lei potrebbe sostenere la vista di ciò che è senza
perdere, in un istante e per sempre, la ragione.
Eppure, Kagura, fu da tutto questo che un tempo tu
fosti partorita.
Occhi spalancati e senza palpebre
punteggiano le porzioni disordinate di quel che è. Occhi piccoli, occhi sfaccettati
d’insetto, occhi che vedono colori ignoti all’essere umano, occhi che conoscono
solo il bianco e il nero, occhifissurati,
occhi ferini, occhi antichi e sapienti, occhi pieni solo di bestiale violenza …
Il suo cervello è bombardato da immagini disordinate, poiché ognuno dei suoi occhi fissa
in una direzione diversa e vede ciò che lo circonda in un modo unico e
differente.
L’immagine che
cerca di coagularsi nella sua testa è liquida e sovrapposta; un groviglio in
grado di spappolare le menti. Ma non la sua.
Naraku volge nello
stesso momento tutti i suoi occhi su di sé.
Tu e io siamo simili, Naraku.
Così hai osato sfidarmi, Kikyou? Tu. Pallido fantasma
di una vita perduta lungo sentieri ignoti. Colma di desideri disperati e
dispersi. Tu mi paragoni a te? Solo questo … questa,
da sola, è ragione sufficiente per ucciderti.
Eppure, anche
se non è più ciò che era, né mai più potrà esserla, quel che resta della sacra
vergine custode della Shikon no Tama
è un pericolo. Forse è persino più pericolosa di quando era in vita. E lui sarebbe davvero un pazzo se non ne tenesse conto.
Quel che è accaduto con la kuromiko, Tsubaki,
glielo ha dimostrato. Kikyou ha il potere di deviare i suoi passi. Esattamente
come lui devia quelli di chiunque altro.
Questa debolezza
su cui lei può fare leva senza fallo … Onigumo.
Ripugnante essere umano … sciagurato bandito
che mi perseguiti … tu … tu sei simile a Kikyou!Anche tu, solo il pallido fantasma di una
vita perduta. Non certo io! E adesso è il momento di dimostrarlo, una volta per tutte.
Il corpo di Naraku spasima, si contorce, geme, soffia come un gatto, digrigna
zanne, grida e sbriciola la roccia.
Allontana questi stizziti pensieri
infantili, adatti a un debole e indegni di lui, ma che
sono la misura della rabbia impotente che lo tormenta.
Fu dopo la sconfitta di Tsubaki, durante un periodo di riposo simile e al tempo
stesso dissimile a questo, che decise di espellere a
qualunque costo Onigumo da sé.
Musou. Ma non era bastato. Non solo frammenti di Onigumo erano rimasti presenti dentro di lui, impedendogli
di abbattere Kikyou. Come temeva, aveva scoperto che, senza l’avidità, il
bisogno, l’affamata lussuria di Onigumo,
il suo corpo cedeva, si sbriciolava, decomponendosi.
Inaccettabile.
Eppure,
cosa resta? Che cosa può sostituire la passione di una
tamashii attorcigliata come un vecchio albero malato
e contorto?
Quale arma usare contro due
nemici così formidabili?
Come sempre, necessità e bisogno.
Palpitano branchie e polmoni sospirano.
Che cosa
cercano le anime perdute? Quale, quale la loro necessità?
Vite buttate, vite che non sono
più vite, vite che sono terrorizzate sia dalla tenebra
che dalla luce.
In un lampo Naraku ha la
risposta.
Più di qualsiasi altra cosa,
affannosamente cercano una strada da percorrere, una strada purchessia. E chiuse e prigioniere in questo feroce bisogno, possono
smarrirsi per sempre.
Le bocche e le fauci di Naraku
sorridono e masticano l’aria.
Servimi un’ultima volta, KansukeRasetsu.
@Me91: ahhhh,
vacanze. Le voglio anch’ioooo! XD
Si chiude una parte della fic, se ne apre una seconda …
sperando che anch’essa possa coinvolgerti. ^^ (e due capitoli arrivano adesso,
hai visto? ;) ) Ciao!
Sòzu: la
decorazione dei giardini giapponesi che si vede in molti
anime.
Si tratta di quella canna di
bambù collegata con un perno a un paletto infisso nel
terreno. Un getto d'acqua riempie la parte mobile che per il peso ruota verso
il basso, scaricando l'acqua accumulata all'interno. Alleggerita
del peso dell'acqua, la canna ritorna alla posizione originaria, mentre
l'estremità percuote una pietra producendo un suono secco.
Meioujuu: demone tartaruga come quello da cui fu estratta
la corazza di Mouryoumaru.
Il passo di Kikyou è lento e
cadenzato. Un piede davanti all’altro. Monotono e ripetitivo
come il battito di un Sòzu. E
può essere davvero faticoso, persino in un corpo che non avverte la stanchezza.
Ha capito che lottare contro quel
che le è accaduto è cosa priva di senso. L’ha capito una
volta per tutte quella notte, sotto il Goshinboku,
quando si è sottratta all’abbraccio di Inuyasha.
Chi sono io? Che cosa sono?
Io sono Kikyou,
ripete in continuazione alle tamashii delle
donne dentro di lei.
Ma è una
bugia addirittura ridicola.
Inutile
combattere una battaglia che non può essere vinta. Perciò
ha deciso. Che il destino faccia di lei quello che
vuole.
Non si opporrà, non si lamenterà,
non protesterà; non griderà più dentro di sé.
Qualunque cosa il Fato che le
chiederà di fare, farà.
A qualunque cosa le verrà chiesto di rinunciare, rinuncerà.
Così, almeno, questo tormento
avrà una fine, prima o poi.
Un passo.
Nonostante
abbia deciso, a volte sente fremere il cuore che più non possiede.
Le capita
ancora di svegliarsi col nome di lui sulle labbra.
Di essere tormentata da
sentimenti che sono per i vivi, e che i morti non hanno ragione di provare.
Ma
adesso ha imparato come fare. Quando le succede, non
deve far altro che liberare la Furia che la abita. Il suo fuoco allontana il
bisogno, il desiderio, il rimpianto. La cauterizza, la ripulisce e le permette
di affrontare il giorno che la aspetta.
E’ una cosa buffa. Una di quelle amare ironie di cui la morte si diverte a
farle dono di tanto in tanto.
Da quella notte, Kikyou ha
imparato a usare l’odio inestricabilmente intrecciato
a quanto resta della sua tamashii, allo stesso modo
in cui, da viva, usava il suo addestramento di miko
per svuotarsi dalle emozioni e mantenere la sua anima in uno stato di sereno
distacco dal mondo e da tutto ciò che le stava attorno.
Ho corso così tanto e così lontano da ritrovarmi al punto da cui ero
partita. Proprio come ero un tempo; solo,
completamente diversa.
Un passo.
Sono passati dodici giorni da
quando Naraku è svanito nel nulla. Prima, ovunque fosse, lei era in grado di
percepirne la presenza. D’un tratto, il suo youki è scomparso. Eppure, Naraku
non è morto. Perciò dov’è, e soprattutto, cosa starà
architettando?
Alla scomparsa di Naraku, lei ha
capito subito che cosa la aspettava. Quella stessa notte, era partita per
raggiungere il palazzo nel quale il suo assassino dimorava sotto le mentite
spoglie del daymioKakewaki.
Aveva trovato la reggia semidistrutta, il suolo scavato da solchi profondi che
si aprivano come un ventaglio … solchi lasciati dalla spada di
Inuyasha, Tessaiga.
Si era svolta una battaglia di grande violenza. Naraku sembrava avere subito una sconfitta
ed era fuggito.
Mentre stava in ginocchio,
esaminando le tracce, esplorando e vagliando le energie lasciate dagli youki di coloro che avevano
combattuto – e, sì, c’era qualcun altro, uno youki
che gli aveva ricordato quello di Inuyasha per certi aspetti ed era del tutto
differente per altri – mentre immagini e suoni quasi si materializzavano ai
suoi sensi, il dito ghiacciato della preveggenza le aveva sfiorato la nuca,
facendola rabbrividire.
Non avrebbe più riposato in un
villaggio, fingendosi una miko qualunque e traendo
qualche ora di pace posticcia occupandosi dei malati e dei feriti, o anche solo
più semplicemente facendo il bucato al fiume, spazzando il sagrato del tempio,
svolgendo qualche semplice cerimonia religiosa.
Naraku si era mosso. Il suo
destino, ora, l’avrebbe condotta a calpestare le orme in fuga del suo
assassino.
Questo il comando che aveva udito
nella musica del Fato.
Un altro passo.
Da lì, il suo proposito.
E sia. Lo farò. Rinuncerò. Non importa. Nulla importa, se non arrivare
alla fine, una fine qualsiasi.
Poi. Riposerò poi.
I suoi shinidamachu
volano ai quattro punti cardinali, ma tornano sempre senza poterle riferire
nulla su Naraku.
A ogni
villaggio e assembramento di capanne, si ferma quanto basta per sapere se ci
sono notizie o voci su youkai apparsi all’improvviso,
e indaga minuziosa, pur sapendo quasi con certezza che le sue ricerche non la
porteranno a niente.
Oggi i suoi passi l’hanno guidata
fino a una squallida palude, dalla vegetazione spoglia
e dal fetore pungente.
Ha abbattuto un potente meioujuu, la cui corazza era
talmente dura da respingere persino le sue frecce sacre. Nessun segno del suo
assassino.
Un passo.
Sta per oltrepassare il tronco di
una quercia robusta, quando un vecchio con un occhio solo e un lungo pugnale
trattenuto con entrambe le mani malferme, le sbuca di
fronte all’improvviso dal suo nascondiglio dietro l’albero.
Si ferma, fissandolo tranquilla.
Un uomo malato, le ossa deformate
dall’età, la cui vita sta gocciolando via dal corpo.
“Gli abitanti del villaggio ti hanno dato una ricompensa molto ricca per aver distrutto lo youkai, non è vero, miko?
La voglio.”
Kikyou sorride appena. “Una
ricompensa? Nulla del genere; no.”
“Non importa. Qualunque cosa. Tutto il denaro che hai. Dammelo subito!”
La voce di lei
sgorga composta e distante come da una fredda sorgiva montana.
“Non ho denaro con me.”
L’occhio del vecchio brilla di astuzia, lucido come quello di un uccello.
“Non mentire. Non ci sono templi
abitati qui attorno. Stai viaggiando senza bagagli. E’ impossibile che tu non
abbia neppure una moneta, miko.”
Kikyou allarga le braccia,
impassibile. “Se credi che ti stia ingannando, perquisiscimi pure.”
Il vecchio esita, mentre permette
al dubbio di incrinare la sua certezza. “Non dirmi che mangi nebbia per
sopravvivere!”
“Sì. Si potrebbe dire così.”
Il vecchio sussulta,
schiacciandosi il palmo di una delle mani sul petto. Trema e il volto e le
braccia si imperlano di sudore. China la testa,
agitando l’altra mano.
“Ah. Vattene. Vai via.”
Le ginocchia gli cedono, e l’uomo
si affloscia in direzione della quercia, appoggiando la schiena al tronco, appena un momento prima di cadere a terra. Si
siede, respirando affannoso.
Kikyou fissa l’uomo con
attenzione, senza accennare a muoversi.
“Cos’è, non ci senti?” ringhia il
vecchio. “Levati di torno.”
“Che vai
cercando in questi luoghi sperduti, vecchio bandito?”
Il vecchio si stringe nelle
spalle. Sembra risoluto a non aggiungere altro, ma ombre si agitano dietro il
suo sguardo.
“Ho più di settant’anni.”
Si risolve a risponderle con voce debole, spezzata da colpi di tosse secchi e
insistenti. “Davvero tanti. Troppi. Ma non posso
morire, ancora. C’è qualcosa di importante che mi
aspetta. ”
“Cosa? Cosa hai intenzione di fare nelle tue condizioni?”
Tossendo con sempre maggiore
violenza, risponde. “Trovare un luogo adatto per la mia morte.”
Con un ultimo rantolo, perde i
sensi e si accascia.
Kikyou sospira e una piega amara
le incurva le labbra, mentre si prepara ancora una volta a
occuparsi di un imprevisto fardello.
C’è un prato e c’è una ragazza.
Il prato è ancora rigoglioso
nonostante l’autunno sia ormai alle porte, l’erba alta è ricca di una speciale
sfumatura di verde che sembra gridare la propria salute. L’aria è profumata e
pulita dopo la pioggia dei giorni scorsi. La terra è morbida e fresca.
In un giorno così, si può trarre lo stesso piacere sia correndo senza meta fino a
sentire i fianchi in fiamme, sia sdraiandosi a schiacciare un pisolino su
questo giaciglio così invitante.
La ragazza non ha intenzione di
fare nessuna delle due cose. Sta invece raccogliendo alcune erbe, come fa
spesso, e le sta riponendo in una cesta di vimini intrecciata.
Le dita affusolate attorno a uno stelo, inginocchiata, è immobile come una statua, la
mente lontana, cullata dal frinire continuo, quasi ipnotico, delle cicale.
Inuyasha è partito da tre giorni.
Le ha detto che voleva andare in un posto, senza
precisare dove o perché, e che sarebbe stato di ritorno in una settimana,
all’incirca.
Kikyou si era accorta che era in
imbarazzo e non voleva dirle quel che gli era venuto in mente di fare, ma che
gliel’avrebbe detto comunque, se lei avesse insistito;
cosa che naturalmente non aveva fatto.
Solo qualche giorno.
Eppure in questi pochi giorni le
è accaduto qualcosa di insolito.
E’ diventata tesa, inquieta,
distratta, perfino, lei che non la è mai.
Non si era mai resa conto di
quanto potesse essere mutevole, il tempo che scorre.
Nella sua vita, e in particolare
da quando era diventata una miko, il tempo era sempre
stato una costante uniforme; scorreva placido, ogni ora
della medesima lunghezza di quella che l’aveva preceduta e di quella che
l’avrebbe seguita. Come era logico e naturale.
Ma da
quando c’è Inuyasha.
Le ore passate assieme a lui, a
ridere, a camminare, a stare seduti vicini, a … imparare? … si riducono a fuggevoli minuti.
E
ciascuno di questi giorni, è l’agonia di un’eternità.
Ancora quattro giorni. E se non dovesse
tornare?
Allontana il pensiero come
farebbe con una mosca molesta, e, riscuotendosi, si accorge con grande dispetto di essere rimasta incantata, forse perfino
per qualche minuto, del tutto dimentica di quel che stava facendo.
Una ruga verticale fa capolino
tra le sue sopracciglia. Stacca con un movimento deciso del polso lo stelo, si
alza, il cesto trattenuto con un braccio, e rassetta svelta la piega dell’hakama, sgualcito dalla posizione inginocchiata.
Chiude gli occhi, levando il
volto pallido e lasciando che il sole glielo accarezzi un momento.
Taglia diagonalmente il prato;
l’erba le fruscia attorno alle gambe.
Raggiunge il sentiero che
costeggia il fiume, impetuoso dopo le recenti piogge che hanno reso l’aria
frizzante, nonostante il calore di queste ultime giornate estive. Presto la
pioggia avrà la meglio del caldo, e l’autunno inizierà sul serio.
Finisce anche questa estate che ha visto così
tante cose cambiare.
Cammina decisa, lo sguardo ben
puntato in avanti. Un suono le sfiora l’orecchio. Forse un sibilo? Eccolo di
nuovo. No, non un sibilo. Un gemito. Una specie di lamento.
Viene proprio dalla riva del
fiume. A poche decine di metri di distanza, da un folto
assembramento di canne di bambù alte quasi quanto lei. Posa a terra il
cestino, vi si avvicina, mentre estrae il corto pugnale dalla manica dell’hitoe.
Di nuovo il gemito si fa sentire,
più forte. E’ umano; comunque, sembra esserlo. Kikyou
usa il pugnale per tranciare alcune delle canne di bambù più robuste che le intralciano il passo, si fa strada tra la
vegetazione, le sue vesti troppo larghe e inadatte a questi ostacoli naturali
si impigliano, si lacerano in alcuni punti, i suoi sandali fanno un rumore
liquido sul terreno trasformato in acquitrino dalla vicinanza del fiume, le sue
calze si impregnano d’acqua, trasmettendo al suo corpo scaldato dal sole una
sensazione sgradevolmente fredda.
Il sipario del bambù lascia il
posto a un tratto di terra spoglia molle e bagnato.
Kikyou non riesce a trattenere un’esclamazione.
Ha assistito molti infermi nella
sua giovane vita.
Le guerre si susseguono, e tanti
sono i feriti e i mutilati che hanno bisogno delle sue cure.
Le malattie sono
numerose, alimentate dalla fame e dalla disperazione.
Ma
questo.
In tutto il Giappone, per quanto
lei ne sappia, gli incendiari sono condannati alla morte.
Poiché
gli incendi crescono incontrollati, mangiandosi ciecamente le case fatte di
legna e paglia, e domarli non è mai semplice e costa sempre vita, in un modo o
nell’altro.
Nonostante
le precauzioni, gli incendi scoppiano. Le è già capitato di curare ustioni,
anche gravi, di quelle che portano alla morte.
Ma
questo.
Mai ha visto un uomo così consumato
dal fuoco.
L’uomo è steso a faccia in giù.
Il corpo è in parte coperto di fango fresco, in parte
da stracci bruciacchiati che un tempo potevano essere dei vestiti.
La pelle. Ne è
rimasta così poca! E il corpo è rosso. Rosso e nero. Il cranio nudo, su cui si arricciano ancora quelli che erano
capelli e ora sono solo peli anneriti e contorti.
Kikyou avverte in gola il sapore
del pranzo leggero che ha consumato. E’ costretta a chiudere gli occhi mentre
attinge a ogni briciolo del suo addestramento di miko per allontanare la nausea che le appesantisce lo
stomaco e le membra. Le sue viscere protestano per alcuni secondi, prima che
lei riesca a ordinare loro di acquietarsi.
Riapre gli occhi ed è raggiunta
dalla conferma di quel che già sapeva. L’uomo geme di nuovo,
muove debolmente le dita nel fango.
Come può essere ancora vivo? Impossibile. Impossibile!!
Copre di corsa il breve tratto
che la separa dall’uomo, si getta in ginocchio nel fango, e gli solleva con la
massima delicatezza possibile la testa.
La palpebra priva di ciglia
dell’unico occhio sopravvissuto nello sfacelo del volto dello sconosciuto,
cerca a fatica di alzarsi.
Kikyou sente il cuore trafitto
dalla pena. La faccia dell’uomo è rotta in più punti, molti denti spezzati,
come se fosse stato percosso o fosse precipitato.
Ma
quando la palpebra dello sconosciuto trova la forza di sollevarsi e mostrarle
quel che nasconde, le sue mani quasi si allontanano di scatto come se si fosse
accorta solo ora di stare maneggiando una teiera bollente.
Fuoco.
Fuoco che lo
consuma. Fuori. E dentro.
L’uomo è solo in parte cosciente.
L’occhio non la vede. E lei per questo prova sollievo, come la lepre nascosta
in un cespuglio che sente allontanarsi la muta dei cani che le
danno la caccia.
E un pensiero di
estrema chiarezza la illumina.
Trascinalo fino al fiume. Per i talloni, prendilo per i talloni.
Infilagli la testa sott’acqua. Almeno dieci minuti. E
poi riconsegnalo alla corrente che l’ha portato fin qua. Nessuno lo saprà mai.
Orripilata, scuote la testa
guardandosi attorno, come alla ricerca di colui che le
ha pronunciato tali parole malvagie all’orecchio.
Nessuno.
Lei stessa.
Un uomo che così tenacemente si aggrappa
alla vita. Un uomo in cui il
fuoco di quella che sembra essere follia, ma non la è, brucia tanto intenso da
tenere lontana persino la morte che avrebbe reclamato
chiunque altro. Un uomo che neppure la morte vuole. E’
un uomo che fa paura. Perfino ridotto in questo stato.
Kikyou comprime rabbiosa le
labbra in una linea sottile. Come può permettere a pensieri del genere di
affiorarle alla mente, davanti a un proprio simile
ridotto in uno stato di tale sofferenza? Non si è mai vergognata di se stessa
tanto come in questo momento.
A ogni
modo chiude la palpebra dell’uomo con un lieve movimento del pollice – solo per proteggergli l’occhio – prima
di posare piano la testa e ispezionare con mani esperte il corpo del ferito.
Quel che scopre la sconvolge
ancora di più.
Fratture.
Alcune costole rotte. Ma nessuna ha perforato i polmoni; altrimenti, coriaceo o
no, sarebbe già morto. Le braccia e una gamba spezzate. E
la schiena …
La schiena è rotta.
Ne è
quasi certa. Quest uomo non camminerà mai più.
Si china ancora di più,
annusando. All’apparenza, non c’è odore di putrefazione o di infezione.
Incredibile. Com’è possibile?
Non lo sa. Non importa.
Cosa
fare? E’ un uomo pesante. Le condizioni delle sue ferite rendono rischioso
spostarlo.
Goccioline di sudore si formano
sulla fronte di Kikyou. Se le asciuga con un gesto spiccio
della mano, sporcandosi il viso del fango che le appesantisce i vestiti.
Vorrebbe tornare al villaggio a
chiedere aiuto a qualche uomo robusto, ma non se la sente
di abbandonare lo sconosciuto al suo destino. Il villaggio dista più di
mezz’ora di marcia.
La vecchia cava abbandonata.
Sì, adesso ricorda.
La cosa migliore è, innanzi
tutto, portarlo al sicuro alla vecchia cava. Fortuna vuole che sia a non più di
duecento metri in linea d’aria dal punto in cui si trovano.
Kikyou taglia svelta alla base le
canne del bambù, così da creare un sentiero che possa
portare il ferito fuori dalla macchia della vegetazione.
Poi, con qualche strattone
deciso, strappa le maniche del suo hitoe, ricavandone
lunghe strisce di tessuto da utilizzare, assieme al bambù, per steccare la
gamba e le braccia dell’uomo.
Pur con tutta la cura possibile,
non appena Kikyou prende a manipolare una delle braccia dello sconosciuto,
questi lancia un urlo roco, perdendo del tutto i sensi.
Le fratture non sono composte, ma lo sforzo necessario a riallineare
i monconi delle ossa è tale che, quando ha finito le steccature, Kikyou
avverte le prime fitte di stanchezza.
Raggiunge in fretta la cava, ne esplora la penombra alla ricerca di qualcosa di adatto,
fino a quando trova una vecchia, sporca tavola di legno abbastanza grande e
solida da poter reggere il corpo del ferito.
Tirando e strattonando, ignorando
le schegge che le pungono i palmi delle mani, torna dall’uomo svenuto e con
attenzione, provando a muoverlo il meno possibile, ne sposta il corpo
adagiandolo sulla barella di fortuna.
Inclinando appena la tavola,
cerca un percorso che non sia sconnesso.
La schiena piegata, la testa
torta per vedere dove mette i piedi, i lunghi capelli, di solito così in ordine
e adesso scarmigliati, a sfiorare quasi in terra, prende a camminare
all’indietro, trascinandosi appresso il ferito.
Dopo avere depositato l’uomo
all’interno della cava, Kikyou, nonostante le braccia che bruciavano, non si
era concessa riposo, ben sapendo che la fatica le sarebbe piombata addosso, se
si fosse fermata.
Fradicia di sudore, era tornata a
passo svelto verso il villaggio e aveva intercettato Kaede
che si allenava col piccolo arco al suo solito posto a poca distanza dal Goshinboku.
Dopo aver tranquillizzato la
sorella, spaventata nel vederla ridotta in quello stato, l’aveva mandata alla
capanna a procurarsi bende di lino, panni, svariate erbe medicamentose, un
grosso recipiente per l’acqua e una Chihaya
di ricambio avvolta in un fagotto.
Nonostante
le insistenze di Kaede, era ripartita da sola. Non
aveva alcuna intenzione di permetterle di vedere
l’orrendo spettacolo del ferito.
Quindi
aveva cominciato a prendersene cura sul serio.
Aveva staccato con la massima
attenzione, quei pochi frammenti di tessuto che potevano essere tolti dal corpo
dell’uomo senza strappare le parti di pelle sana sopravvissuta al morso del
fuoco.
Nonostante la fibra
straordinariamente resistente, l’uomo era sprofondato in uno stato di incoscienza per il quale avrebbe dovuto ringraziare i Kami.
Aveva lavato il corpo nudo dello
sconosciuto. Rimosso lo strato di fango e sporcizia, era rimasta stupita
dall’apparente casualità con la quale il fuoco aveva giocato con la sua
vittima.
Alcune porzioni di pelle erano
quasi intatte, mentre altre erano state del tutto divorate.
Quando gli aveva pulito la
schiena, le pupille le si erano dilatate nel vedere
una bruciatura ovale e frastagliata dalla quale promanavano, con la precisione
dei raggi di una ruota, otto propaggini simili a zampe … come le zampe di un
ragno.
Rifugiandosi nel distacco frutto di anni e anni di addestramento meditativo da miko, era riuscita a finire di lavarlo.
Poi aveva macinato le erbe per
bloccare le infezioni e dare sollievo alle ustioni con acqua, fino a farne una
poltiglia con la quale aveva cosparso il ferito. Infine lo aveva avvolto nelle
bende di lino. Quando aveva finito, lo sconosciuto
sembrava quasi una mummia.
Era corsa al fiume ancora una
volta, aveva riempito il recipiente e aveva costretto l’uomo a riprendere i
sensi quanto bastava da fargli bere più acqua possibile e combattere la
disidratazione delle bruciature.
Poi si era seduta appoggiando la
schiena alla parete della cava, il gomito sul ginocchio, le dita a massaggiarsi
pian piano le tempie. Le energie l’avevano abbandonata d’un
botto, lasciandola svuotata nel corpo e nella mente. Tremando, si era stretta addosso le vesti, mentre il freddo e l’umidità della grotta
le gelavano il sudore sulla pelle.
Forse riuscirà a sopravvivere, per un po’.
Sapere di essere
l’unica persona nel raggio di molte miglia, dotata di sufficienti conoscenze
mediche da salvargli la vita, la riempie di una soddisfazione agra. Che razza di vita gli ha mai dato da vivere? Ma non avrebbe potuto comportarsi diversamente.
Si morde il morbido labbro
inferiore. Vero?
Persa nei pensieri, alza la testa
di scatto, colta di sorpresa, quando sente la sua voce. Una voce debole, come
se il fumo dell’incendio che l’ha quasi ucciso gliel’avesse arrochita
per sempre.
“Miko.”
Solo una parola. E’ stupefatta
che l’uomo abbia ripreso conoscenza.
L’occhio dello sconosciuto brilla
nella semioscurità, fissandola.
D’istinto, incapace di pensare,
Kikyou si passa le dita tra i capelli aggrovigliati.
E l’uomo
fa una cosa stranissima, imprevista, incomprensibile. Le labbra piene di croste
si schiudono, i denti spezzati e torti come radici d’albero
scintillano. Sorride?
Kikyou si vede all’improvviso col
suo sguardo.
Una donna sconosciuta, una
giovane miko, sporca di fango da capo a piedi, le
maniche dell’hitoe strappate fino alle spalle, i vestiti
bagnati incollati addosso, il viso sfatto di stanchezza, gli occhi dilatati
dalla sorpresa, con le dita infilate nella massa arruffata dei capelli.
Kikyou porta subito le mani in
grembo, stizzita dal suo gesto istintivo, voltandosi verso di lui.
La mezzaluna del suo sorriso non
esita un momento.
“Non sforzatevi di parlare. Siete gravemente ferito. Dovete riposare.”
“Ferito. Sì. Dove
mi trovo, miko?”
“In una vecchia cava. Vi ho
trovato in riva al fiume qualche ora fa. Vi ho …”
La zittisce, brusco come un colpo
di spada. Per quanto fioca, la voce è pressante.
“Chi sa che sono qui, miko?”
Strana domanda.
“Nessuno. Non ho ancora avuto il
tempo di …”
“Nessuno dovrà saperlo. Nessun
altro. Sono stato chiaro?”
“Perché?”
ribatte lei.
L’uomo non ha esitazioni a
rispondere.
“Poiché
sono un pericoloso brigante, e molti mi danno la caccia per vendicarsi su di me
e uccidermi. Se dovesse spargersi la voce che giaccio
qui, ferito e impotente, non sopravviverei più di qualche giorno. Dunque, tutto
il disturbo che ti sei presa per trattenere la vita in questa carcassa di
corpo, e senza che io te l’avessi chiesto, sarebbe
stato inutile. Se dirai a qualcuno che mi hai trovato, allora meglio sarebbe
stato se avessi deciso tu stessa di tagliarmi la gola, piuttosto che curarmi,
quando mi hai trovato.”
Kikyou rabbrividisce sentendosi
per un secondo assurdamente in colpa.
“Ho capito. Farò come volete.”
L’uomo resta in silenzio,
soppesandola.
“Avrete fame. Posso portarvi
qualcosa …”
“No. Non ho voglia di mangiare.
Piuttosto. Dimmi come ti chiami.”
“Il mio nome è Kikyou. E voi, come vi chiamate?”
Lo sconosciuto alza la testa per
quanto possibile, con un grugnito che le sembra di sorpresa.
“Ho capito bene? Come hai detto
che ti chiami?”
“Kikyou.”
“Bene. Oh bene. E io, sono Onigumo.”
Onigumo
scivola in un sonno esausto.
Kikyou sospira. Anche lei è molto stanca. E
preoccupata a causa del nuovo fardello che il destino le ha affidato.
Si accorge che le ore sono volate
vie rapide, oggi. I raggi del sole passano attraverso l’entrata della cava
informandola che è pomeriggio avanzato.
Sfiora il fagotto che protegge la
sua Chihaya pulita. Tutto d’un
tratto, sorride nel buio della grotta.
Dove hai intenzione di fuggire!? Ti ritroverò ovunque tu vada!! E’ inutile
che provi a scapparmi!
Ti troverò subito! Con quella puzza di sangue youkai
che hai tutt’addosso! Mi hai sentito!? Ehi!? Mi hai sentito … Kikyou?!
Prende tra le dita un lembo di
quel che resta dell’hitoe stracciato, arricciando il
naso.
Non smette di sorridere mentre
afferra il fagotto, si alza, la fatica recede e, solo Inuyasha nella testa,
abbandona la grotta e il suo cupo ospite per raggiungere la cascata.
Cammina, con il cibo e le
medicine che ha preparato per il brigante.
L’eco dei suoi passi riempie i
corridoi altrimenti deserti. Un vecchio tempio buddista abbandonato, ormai
assediato da alberi e vegetazione e che presto – solo alcuni secoli – dovrà
cedere le armi ai suoi silenziosi, pervicaci invasori.
Apre la porta. Il brigante è
sdraiato a terra, su una coperta stesa sul pavimento freddo. Un piccolo involto
è ripiegato a mo’ di cuscino sotto la sua testa.
Si inginocchia
vicino a lui, facendo scivolare la polvere medicinale in una tazza d’acqua.
“Ecco. Bevi questo. Diminuirà il
dolore.”
Il vecchio tiene lo sguardo fisso
nel vuoto. “Perché mai aiuti una persona come me?”
“Non hai finito la tua storia.”
Il brigante piega le labbra in
quello che è forse un sorriso; e beve.
“Trovare un posto adatto per
morire. Già.”
“Negli anni della mia giovinezza,
commisi ogni sorta di malvagità. Omicidi, incendi, ruberie.”
“KansukeRasetsu, l’assassino pazzo. Sì. Era un nome
conosciuto e che metteva paura …”
“Allora ero convinto che sarei
vissuto per poco, in ogni caso. Non mi
importava, e decisi di vivere la vita come la volevo, senza preoccuparmi
d’altro.”
“E invece, sono sopravvissuto
molto al di là di ogni mia aspettativa, mentre, poco
per volta, accanto a me, morivano tutti coloro che conoscevo. Non li chiamerò
amici, poiché non li erano, così come io non lo ero
per loro. Ma …”
“E’ una cosa strana. Ora che ho
sono andato molto al di là degli anni che mi ero
concesso, ho scoperto che lasciare andare la mia vita è molto, molto più
difficile di quanto avrei mai immaginato. Adesso che ho assai meno da perdere
rispetto ad allora. Ma questa è una cosa che una donna
giovane come te non può capire, anche se è una miko.”
“E ho
paura. Paura del giudizio che sarà dato su di me.”
Kansuke
sospira.
Messa da parte la tazza, Kikyou
rimesta tranquilla la ciotola con quel po’ di zuppa di rape che ha cucinato e
gliene porge una cucchiaiata, imboccandolo.
Istintivamente, gli dà un
colpetto col cucchiaio sotto il labbro inferiore, come si fa coi
bambini per impedir loro che si sporchino il mento.
Vecchi. Bambini. Simili in tante cose.
Le viene naturale, fare il possibile per proteggere quel poco di dignità che
resta a questo vecchio. A qualcuno che, sì, proprio come lei,
ha corso così a lungo, da ritornare al punto in cui era partita la propria vita.
Uguale e differente.
Solo un bambino,
gli occhi terrorizzati, sgranati a fissare un buio ignoto.
Un lampo di rabbia scuote
all’improvviso Kansuke.
“Ah! Tanto tempo fa, promisi a me
stesso che non avrei mai più accettato la pietà di una miko!
Tieniti il tuo cibo, e vattene!”
Kikyou gli offre un’altra
cucchiaiata della zuppa, come se non avesse udito. La sua voce è un quieto
sussurro.
“I bambini, dall’alto della loro
innocenza, e coloro che sempre sono convinti della
giustezza del proprio pensiero, dal basso della loro presunzione, amano sopra
ogni cosa la giustizia, poiché sanno che amministrarla è un giusto diritto e un
necessario dovere.”
“I vecchi, dall’alto della loro
saggezza, e coloro che macchiano le loro anime con
azioni crudeli, dal basso della loro iniquità, amano sopra ogni cosa la
misericordia, poiché sanno di averne grande bisogno.”
“E tu,
vecchio brigante, dimmi. Cosa pensi delle facili
consolazioni? Negli anni della tua giovinezza, come avresti
giudicato un vecchio che ti avesse parlato come fai tu ora?”
Kansuke
ridacchia, spiazzato.
“Parli stranamente, per essere
una miko, giovane donna. Ho sempre disprezzato i
vecchi che, quando sentono la morte bussare, tremano e piangono per sfuggire al
loro passato. Eppure …”
Esita.
“Adesso non so più che pensare.
Oh, quanto odio questi anni che appesantiscono il mio corpo! Sono
davvero uno stupido vecchio, non è vero?”
Le labbra di Kikyou si piegano in
un sorriso appena accennato.
“Di tutte le cose che credevo di
sapere, KansukeRasetsu,
ben poche ne restano. Non so se sei uno stupido. So però, che è bene che un
essere umano muoia senza portare nel cuore rimpianto, terrore e odio.” Gli occhi di lei scintillano
sarcastici. “Perciò è giusto combattere per
liberarsene, finché c’è vita. Perché quando questa è perduta, KansukeRasetsu, tornare sui
propri passi non è più possibile, per quanto lo si
possa desiderare.”
“E sicuramente è molto più
sciocco negarsi alla lotta, per restare fedeli a ciò che eravamo
e per timore del giudizio di coloro che mai più saremo. Sì. Di
questo son certa.”
Kansuke
fissa sorpreso quegli occhi di donna così distaccati,
e per un attimo gli pare di scorgervi un dolore disperato quale mai avrebbe
pensato possibile, in una persona così giovane. E
qualcosa di niente affatto familiare, e che assomiglia a quella che, forse,
altri chiamano pietà, bussa alla sua porta.
Ma lui
non ha proprio voglia di aprire.
Per distrarsi, butta lì
un’osservazione per caso.
“E dire
che tu assomigli davvero tanto a quella miko!”
“A chi?”
“A una miko che … sì, che cercai, senza riuscire, di uccidere.
L’allora custode della ShikonnoTama. Si chiamava … Kikyou, se non sbaglio.”
“Una pura coincidenza.”
“Ma
certo! Ti parlo di cose successe più di cinquanta anni
fa. Se fosse ancora viva, ormai sarebbe una vecchia!
In ogni caso, morì tanto tempo fa. Almeno, questo udii
raccontare. E assieme a lei, fu distrutta la ShikonnoTama.”
Restano in silenzio.
“E così, una volta cercasti di
impadronirti della ShikonnoTama?”
“Sì! Me lo suggerì un brigante
come me, chiamato Onigumo.”
Di nuovo, Kansuke
vede il distacco infrangersi negli occhi della donna. Come
sassi gettati in pozze d’acqua placida.
E la
pelle gli si accappona, come quando si sveglia di notte e non riesce a
respirare e cerca di sollevarsi per trovare l’aria ma non ce la fa e sibila e
si dice che sì è arrivata stavolta la sua ora ma maledizione ha paura e non
vuole perché …
E poi i
polmoni si ricordano come funzionare e – non stanotte. Anche
questa notte passerà.
“Racconta.” Dice la miko, con un tono imperioso e pressante.
Così, Kansuke
si lascia andare ai ricordi. Come gran parte dei vecchi, per quanto possa
dimenticare le cose del giorno precedente, ricorda alla
perfezione fatti e avvenimenti di anni lontani.
Di come Onigumo
gli avesse suggerito di uccidere a tradimento la miko,
tendendole un agguato solitario così che non si accorgesse dell’arrivo in massa
della sua banda e non potesse fuggire con la ShikonnoTama. Di come l’hanyou lo avesse quasi ammazzato. Di come i suoi uomini lo
avessero subito dimenticato per seguire Onigumo. Dell’altra miko che gli aveva curato
l’occhio e che lui aveva probabilmente ucciso per rabbia.
Di come si era
vendicato su Onigumo, quando era riuscito a
raggiungere i suoi uomini che, da quei pusillanimi vigliacchi che erano,
avevano voltato la schiena al loro nuovo capo con la stessa facilità con la
quale avevano abbandonato quello vecchio.
Di come il palazzo saccheggiato
bruciava. Per chi era rimasto intrappolato dal fuoco, una
morte rapida. Per chi era riuscito a fuggire, con
tutta probabilità una morte un po’ più lenta, per fame o per mano dei numerosi
banditi presenti nella regione. Oppure divorati
da qualche youkai nascosto nell’oscurità dei boschi.
MaOnigumo era sopravvissuto! Come avesse fatto a trascinarsi fuori da quell’inferno, per Rasetsu
era ancora un mistero. Così, lo aveva fatto gettare giù in un baratro. Per una
qualche ragione, non gli andava di toccarlo. Il fatto che, pur solo in parte
cosciente, invocasse il suo nome in un sussurro, lo aveva incomprensibilmente
riempito di paura.
La donna annuisce. Rasetsu la guarda, in attesa, ma
la miko resta silenziosa, finché non decide di
fissarlo a sua volta. Sembra turbata? Ma perché? Da
eventi del passato che risalgono a ben prima che lei nascesse.
“So che ti attendi da me un duro
rimprovero oppure un’assoluzione, KansukeRasetsu. Mi dispiace. Non posso darti nessuna di queste due
cose. Se lo facessi, sarei una bugiarda.”
“Chiedimi qualcos’altro.”
La miko
sorride come se volesse scusarsi, e Rasetsu scuote il
capo, perplesso. Non capisce cosa lei voglia dire. Di più, non vuole capirlo.
La pelle delle braccia gli si increspa in bolle di
pelle d’oca.
C’è più luce, adesso. Trapela
dalle finestrelle oscurate dai rampicanti. La notte è finita. Rasetsu rabbrividisce, mentre un freddo che non è il freddo
di questa stanza vuota gli rosicchia le ossa.
“Mi piacerebbe uscire da qui. Non
voglio … restare nel buio.”
La donna gli infila le braccia
sotto il corpo e, senza sforzo apparente, lo solleva come fosse
un fanciullo.
Rasetsu
non può fare a meno di gemere per la sorpresa. Sì, il tempo ha asciugato e
rinsecchito la sua carne, assottigliato le sue ossa, gli ha portato via il peso
assieme ai suoi muscoli … ma, accidenti, non è diventato così leggero da poter
essere sollevato tanto facilmente, meno che mai da una donna! E solo in questo momento si chiede come abbia fatto, lei, a
portarlo fino al tempio, mentre era svenuto.
La miko
lo conduce lungo i corridoi umidi, fino a emergere
dall’edificio abbandonato per vedere il sole che sta albeggiando. Rasetsu rabbrividisce di nuovo. Il corpo della donna è
tanto freddo!
Lei appoggia la sua schiena ad
uno degli abeti nel cortile del tempio, restando poi in ginocchio vicino a lui.
“Ho sentito voci. Voci su un
luogo di purificazione, tanto sacro che anche le anime dei criminali più
incalliti possono essere redente.”
Ecco. L’ha detto. Ridicolo! Sì, è
proprio ridicolo, a cercare rifugio in queste cose, dopo averle derise tutta la
vita. Vergogna, imbarazzo e disprezzo di sé gli premono sul petto, gli mordono il ventre.
Chissà come lo starà giudicando
questa … questa ragazza, sì, in fondo non è altro che una ragazza.
Ma poi, ricorda le parole che lei
gli ha detto non più di paio d’ore prima … è
molto più sciocco negarsi alla lotta per timore del giudizio di coloro che mai
più saremo …
La miko
aspetta che lui continui.
“E’ un tempio. Un tempio fondato
da unohoushi morto tempo
fa. Si dice che sia divenuto un Buddha vivente. HoushiHakushin. E si dice che la
terra lì attorno, sia talmente sacra da purificare i peccati di chiunque vi
venga sepolto.”
“Ah! Chissà, forse, se avessi
conosciuto una donna come te nella mia gioventù, adesso non ne
avrei così bisogno.”
“Vuoi essere salvato.”
E’ un’affermazione, non una
domanda.
“Ho viaggiato sperando di
raggiungere il Monte Hakurei, la montagna dove sorge
il tempio. Ma ormai la vita mi sta lasciando.”
“Quindi?”
KansukeRasetsu sfodera il pugnale con il quale l’ha
minacciata solo poche ore prima, e che lei – da non credere! – gli ha lasciato al
fianco. Trattenendo la sparuta coda dei propri capelli con una mano, la recide
con la lama affilata.
“Seppelliresti … questa ciocca di
capelli al Monte Hakurei? Non ho il diritto di
chiederti niente, ma…”
La vede assentire col capo.
Rasetsu
si sente pervaso dal sollievo. Sa che la miko
manterrà fede al proprio impegno. Ha già avuto modo di sperimentare quanto
seriamente queste donne ottemperino ai propri doveri.
Così, finalmente, lascia che il
buio che tanto lo spaventa si faccia avanti per reclamarlo. Ci sarà questa strana miko … sì, ci sarà
lei … a badare a lui …
“Non so neanche il tuo nome!”
esclama come per un ripensamento, mentre già il mondo si scolora attorno a lui.
“Il mio nome? Mi chiamo Kikyou.”
KansukeRasetzu sussulta, ma non ha più le energie per ridere
o per stupirsi.
“Ah! Che … che
brutto scherzo …”
E
sprofonda nel buio per sempre.
Kikyou resta inginocchiata
accanto al cadavere di Kansuke, la testa china. Fa
per prendere la ciocca di capelli.
Le ruote del destino sono sempre in movimento. Così sta scritto.
Un verso strozzato, non sa se un
singhiozzo, una risata, un grido, le sfugge di bocca.
Cosa vuoi? Cos’altro vuoi? Anche
questo? Tocca a me? Perché!? Perché deve sempre
toccare … a me!?!
Oh, quanto vorrebbe dare tutto in
pasto alle fiamme! Sì! Sarebbe la cosa più giusta! Così è cominciato! E perché non fare finire tutto allo stesso modo?
C’è tanta legna.
Asciutta legna secca, legna viva
degli alberi, vegetazione verde e piena di linfa. Potrebbe fare una catasta.
Gettarvi sopra Rasetsu e dare fuoco a tutto quanto.
Può quasi sentire il ruggito
assordante delle fiamme nella testa. Fiamme che accarezzano
le carni con il loro tocco maligno, avvizzendole fino a ridurle in
cenere.
E che
dopo avere spolpato la salma, anneriscono le ossa bianche, fino a consumarle e
renderle fragili, friabili. E non più bianche ma nere,
nere!!
Kikyou si piega come se le
mancasse l’aria e stesse cercando di respirare - quando respirare le era ancora necessario - gemendo d’orrore, tenendosi le
spalle con le mani, le braccia incrociate sul petto, le palpebre serrate.
E perché
no? Cos’è rimasto di lei? Del suo corpo? Solo un mucchietto d’ossa sbriciolate, un cumulo di cenere e di
terra sepolcrale. Non si merita, lui, la stessa sorte?
Il dolore dal petto si allarga
fino a invaderla tutta. Le tamashii
delle donne morte si protendono verso il dolore, come i rami di
alberi piegati dalla siccità verso la pioggia, bramando questa
sofferenza selvaggia, nutrendosene ancora una volta, ancora una … per sempre …
rivedendo, rivivendo di nuovo … rimpianto, perdita, rancore … ancora … e ancora
…
Daccene ancora!
Basta! Basta così.
Farà ciò che il Fato vuole. E’
questo che le chiede? Va bene. Ubbidirà. E non
consentirà più a se stessa di ribellarsi. Non più.
Con gesti lenti e deliberati,
Kikyou sottrae la ciocca di KansukeRasetsu dalla sua presa irrigidita, e la ripone tra le
pieghe dell’hitoe, quasi all’altezza del posto dove
una volta c’era il suo cuore.
Dietro il tempio. Prima, ha visto
che c’erano dei vecchi attrezzi arrugginiti. E anche
vanga e piccone.
Kikyou va a prendere quel che le
serve per adempiere il proprio dovere.
Gempuku:
nel Giappone antico, un bambino diventava adulto compiuti i sedici anni. Al
sedicesimo compleanno, nobili e samurai procedevano alla cerimonia del gempuku, durante la quale, tra le altre cose, il nuovo
adulto cambiava il proprio nome.
Wakizashi: spada corta usata di solito dai viaggiatori, in quanto la katana è arma riservata ai samurai.
Lo specchio di Kanna mostra a un compiaciuto Naraku l’immagine di Kikyou che prende in
consegna la ciocca dei capelli di Kansuke.
“Dunque, è stato un bene che
abbia deciso di vegliare e proteggere Rasetsu per
tutti questi anni, alimentando la sua vita e permettendogli di sopravvivere
fino a oggi. Credevo che fosse un mero capriccio,
sdebitarmi realizzando i desideri del suo confuso cuore. Ma forse sapevo che mi
sarebbe potuto tornare utile, un giorno o l’altro.”
Una risata arcana ed echeggiante
risuona lungo le volte di pietra.
Lo sguardo vuoto di Kanna è posato su di lui.
La sua primogenita. L’unica a poterlo vedere in tutte le sue guise senza tema di
impazzire.
“Crudele. Malvagio. Sai che c’è
chi mi definisce così, figlia mia?”
“Sì.” Kanna
risponde meccanicamente, con la sua voce neutra e spoglia di qualsiasi
inflessione.
“Tu pensi che sia malvagio, Kanna?”
“No.”
“Bene. Anche se sai, vero, che ti
ho creata di proposito priva di bisogni, desideri e
volontà. Dimmi, Kanna, rimpiangi
mai qualcuna di queste cose?”
“No.” Il vuoto uniforme negli
occhi di Kanna non conosce né lampi né mutamenti,
come non ne ha mai conosciuti da quando è nata.
“Certo. Tu non rimpiangi nulla.
Né avrebbe senso, perché è possibile rimpiangere solo ciò che si è perduto, e
non quel che non si ha mai avuto.”
“Ah, figlia mia. A volte ti invidio. Sai perché ti ho creata
così come sei, Kanna?”
“Per servire il mio scopo.”
Risponde l’emanazione.
“Sì. Ma
sai anche che tutti i tuoi fratelli e sorelle sono diversi da te. Capisci il
motivo di questa differenza?”
Kanna
annuisce; la testa oscilla come quella di un burattino il cui filo viene strattonato su e giù.
“Io sono la prima. Ognuno degli
altri, ti serve a suo modo. Servono i tuoi scopi, mentre credono di servire i
propri. Seguono la strada che hai tracciato per loro, mentre credono di seguire
la loro propria strada. I loro bisogni sono bisogni
che tu hai scelto per loro, affinché questi diano loro una forza che altrimenti
non avrebbero. E affinché tu, padre, possa apprendere
quel che ti è necessario conoscere.”
“Come ad esempio, il modo per
imprigionare la miko morta.”
“Quando lo scopo dei miei
fratelli sarà esaurito, li getterai come bambole non più utili.”
“Lo stesso farai con me. Io però sono l’unica, fra tutti loro, a saperlo. E questo poiché
sono l’unica a cui saperlo non serve a nulla. Io che
sono senza volontà, desideri, bisogni.”
Un artiglio fatto di robusta
cartilagine e dotato di molte nocche e giunture si protende
verso il volto inespressivo di Kanna, arrestandosi ad
alcuni centimetri dalla sua testa.
Kanna
resta immobile. L’artiglio trema appena, come se volesse toccarle la fronte ma
non osasse farlo.
“Sei molto intelligente,
figlia mia. Hai capito anche qual è il tuo scopo?”
“Servo molti scopi.”
Il tremore dell’artiglio aumenta.
La voce distorta di Naraku esita.
“Cosa si
prova, Kanna? Privi di bisogni e desideri. Cosa resta?”
“Nulla. Il vuoto.”
“Niente?”
“Niente che possa spaventare. Niente che possa ostacolare lo scopo per il quale si esiste.
Niente. Non c’è nulla di cui avere paura, padre.”
Ondate di furore scottano la
pelle bianca come neve di Kanna; senza lasciarvi
segno.
“Io non temo nulla, Kanna.”
“Certo. Nulla. Niente.
Perdonatemi, padre.” Ma non c’è nella voce di Kanna, né preoccupazione al pensiero di una possibile
punizione, né autentica contrizione.
Il silenzio si allunga. Nessun
suono e movimento li disturbano. Anche
il tempo pare bandito da questo luogo.
“Sì, c’è chi mi definisce
malvagio, Kanna. C’è chi mi definisce crudele. Non è
così.”
“Tu mi definiresti così, Kikyou?
Mia nemesi? Giacché ti ho imprigionata nei tuoi stessi
incubi, e ora sono io a guidare i passi che ti porteranno da me?”
“Ebbene,
sappi che anch’io affronterò il mio incubo, proprio come te. E
scopriremo così chi di noi due è il più forte. Perciò, quando ti distruggerò
non potrai accusarmi di alcuna disonestà.”
“Preparati, Kanna.”
“Sì.”
“Tu sei il vuoto, Kanna. Ma quando io avrò sconfitto e sradicato il kokorodi Onigumo,
con le sue passioni e i suoi bisogni, non sarò vuoto. No.”
“E l’arma che userò
contro i due fantasmi che mi perseguitano, non è altro che l’architrave, il
perno e la chiave di volta della mia intera esistenza.”
“La mia volontà.”
“Metti a fuoco lo specchio.”
“Sì, Naraku.” Le immagini di
Kikyou svaniscono dallo specchio, sostituite dal riflesso di un corpo assurdo e
inconcepibile.
La coscienza di Naraku si
assottiglia poco a poco, abbandonandosi alle misteriose correnti della sua
mente.
E’ come fluttuare, galleggiare,
perdersi, in una oscurità talmente buia da essere ben
oltre il nero.
A Naraku pare
di volare in direzioni ignote, privo di corpo e di sostanza – solo
pensiero. Non è affatto una sensazione sgradita. Anzi.
Dopo un tempo imprecisato –
minuti o settimane, nessuno può saperlo – avverte come un urto che dalle piante
dei piedi si propaga lungo le sue gambe arrampicandosi su per la schiena, fino
alla nuca.
Gambe? Schiena? Nuca?
Una luce sfolgorante lo aggredisce
accecandolo, per poi farsi fioca e soffusa.
Appena
riprende il controllo della propria vista, si sforza di guardare in ogni
direzione contemporaneamente.
Sa benissimo che quel che gli si
presenta è solo una proiezione – illusoria, ma al tempo stesso assai concreta –
della sua stessa mente. Ma è così, maestosa. E’
proprio come l’ha sempre immaginata.
E’ al centro di una enorme piazza quadrata lastricata in alabastro,
delimitata da svettanti palazzi di pietra tutti uguali; privi di finestre e altri
pertugi. Monolitiche costruzioni le cui cime si perdono in un cielo senza sole,
né stelle né luna, pervaso da un lucore morbido che pare quello di un tramonto.
Non c’è nulla a spezzare
l’uniforme precisione di questa piazza. Naraku tende
l’orecchio, annusa. Nulla.
Dà un’occhiata
fugace al suo corpo – nient’altro che la manifestazione della sua coscienza e
volontà.
E’ nudo, in forma umana, e pulsa
di luce propria.
Riporta l’attenzione allo
spettacolo che gli si presenta, e si incammina –
sgomento per quanto gli è consentito dalla sua natura – a esplorare la città.
Imbocca una della
otto strade, tutte uguali, che escono dalla piazza.
Per un certo periodo di tempo si
limita a camminare, sforzandosi di cogliere e memorizzare ogni possibile
dettaglio. Gli edifici ai lati della strada, in pietra, in luccicante mica
oppure in basalto, diventano progressivamente meno alti e assumono le forme più
svariate – a pianta rettangolare e circolare, soprattutto; ma non mancano
architetture più strane, alcune delle quali seguono geometrie ignote al mondo a
cui Naraku appartiene.
Strade si biforcano di tanto in
tanto, lastricate nei più svariati materiali, dalla scura ardesia al marmo
bianco, alcune diritte e altre tutte curve e volute.
Naraku si riscuote dalla strana
malia che lo sta cogliendo. Potrebbe aggirarsi per queste strade in eterno; e
questo è un pericolo concreto. Proprio come Kikyou, corre il
rischio di smarrirsi per sempre, lasciando che i sentieri della sua mente lo
conducano in contrade dalle quali non c’è più ritorno. In questo
non-luogo, la sua stessa curiosità può diventare la sua peggiore nemica.
Arresta i suoi passi. E’
circondato da case basse e scure, le cui mura sono
decrepite, rovinate come la pavimentazione sconnessa. Alcuni palazzi hanno
delle finestre – e sono i primi nei quali si imbatte
ad avere questa caratteristica.
Con un brivido, capisce che
l’istinto – o qualcosa di simile – l’ha sospinto dove serviva.
Chiude gli occhi. Tende
l’orecchio.
Ticchettii lievi, appena
accennati. Simili a piccole punte metalliche che
battono sulla pietra.
Il suono si ripete. Tenendo gli
occhi chiusi, Naraku si muove nella sua direzione.
Silenzio improvviso. Naraku
solleva le palpebre e, fluido e rapido, raggiunge l’edificio più tozzo e brutto
tra quelli che gli stanno accanto. Sbircia da una delle
finestre e alla fine, dopo molti anni, lo vede.
Il Ragno è
grosso; delle dimensioni di un cane di grande taglia.E
brutto, perfino più di quanto ricordasse. Le zampe sono deformi, i
grappoli rossi dei suoi occhi luccicano nell’oscurità, il ventre ingrossato
striscia a terra, pungiglione e mandibole grondano veleno.
Naraku e il sembiante del kokorodi Onigumo
restano a fissarsi per un eterno secondo. Poi il Ragno si volta senza un verso
o un grugnito e fugge nell’oscurità dell’edificio.
Naraku non esita. Poggia la mano
incorporea sulla parete della casa, che si fende con precisione in due,
spaccandosi e permettendogli di entrare. Una fitta di dolore liquido
gli sferza le tempie.
Così come modella e riforma il
suo corpo, adesso sta facendo la stessa cosa alla sua mente, al suo cuore e
alla sua anima. Lui, che ha il dominio dell’architettura di
questa città.
Oh, ma deve
stare attento, terribilmente attento.Commettere anche
un solo passo falso durante questo inseguimento,
potrebbe significare per lui un destino peggiore della morte.
Reprimendo un brivido, Naraku si
getta nella tenebra dell’edificio, inseguendo il suono metallico degli artigli
del Ragno.
Una forza ignota lo afferra e viene gettato in frammenti di ricordi d’incubo.
Uno dei ciocchi di legno che
alimentano il fuoco da campo si spacca vomitando
scintille, e lo costringe a stringere con fastidio le palpebre.
Prende uno degli spiedi su cui
sta arrostendo la striscia di carne di cervo e affonda i
denti soddisfatto, il grasso gli cola sul mento, mentre le sue narici
sono piacevolmente solleticate dal lieve odore di bruciato del legno.
In pochi morsi ha finito, e il
calore del cibo bollente gli incendia lo stomaco. Allunga la mano, ignorando la
fitta fastidiosa che ne segue, per prendere altra carne.
Il vecchio dall’altra parte del
falò, seduto a gambe incrociate come lui, ride, masticando assai più piano coi pochi denti che gli rimangono.
“Via, via! Oggi è il tuo
compleanno! Puoi mangiare quanto vuoi; non c’è bisogno di affrettarsi. Il
sedicesimo compleanno è importante. Viene una sola volta nella vita. Sei
diventato un uomo! Perfino noi, briganti, feccia della società, teniamo in
considerazione questo giorno. Certo, non siamo samurai.
Non facciamo cerimonie …”
“I samurai cambiano il loro nome
quando compiono i sedici anni, giusto, vecchio?”
Il vecchio si azzittisce e
annuisce. “Sì. E’ così. Durante la cerimonia del gempuku.”
“Bene. Ci ho pensato a lungo e ho
deciso di cambiare anch’io il mio nome, vecchio. Non capisco perché debbano
poterlo fare solo loro.”
Il vecchio scoppia a ridere.
“Cambiarti il nome!? Tu!? Non stai sollevando troppo la testa? Avanti. Sono
proprio curioso. A che nome hai mai pensato? Sentiamo!”
“Da oggi in avanti ho deciso che
il mio nome sarà, Onigumo. Mi piace! Cosa ne pensi, vecchio?”
“Mmm. Onigumo, eh? Ti dirò cosa ne penso, quando ti deciderai a
chiamare me per nome, una buona volta. Mi sembra un accordo onesto, che ne
dici? … Onigumo.”
Onigumo
ridacchia. Lui e il vecchio si conoscono da anni. Lui sa che non è abituato a
chiamare le persone per nome. Farlo non gli piace, lo trova
… sbagliato.
Il vecchio lo aveva trovato tanto tempo prima. Anche se era
poco più di un bambino – aveva nove anni – ricorda bene le circostanze.
Il villaggio era stato assalito
da una banda molto numerosa di briganti. E lui era
sopravvissuto grazie a sua madre; anche se non per le ragioni che si potrebbero
immaginare, oh no.
Sbagliato. Così come aveva sempre
avuto la sensazione che fosse sbagliato chiamare le
persone per nome, così sentiva di essere in un posto sbagliato. Sbagliato in
che senso, non sapeva. Ma restava in lui un disagio
che lo abbandonava di rado.
Un bambino strano. Non che nel
villaggio qualcuno fosse così maleducato da dirlo in faccia a sua madre, ma lui
sapeva che tutti lo pensavano.
C’era qualcosa, nel suo sguardo
fangoso, nel suo fare brusco, nel modo in cui sorrideva, che innervosiva chi
gli stava attorno. Si era accorto che suo padre, a volte, lo fissava in un modo
strano, troppo intenso. Non gli piaceva essere fissato così. Non gli piaceva
affatto.
Ma poi suo
padre se n’era andato, morto per una febbre che non aveva lasciato scampo.
Ne era stato contento. Ora era lui l’uomo di casa, il
fratello maggiore.
A soli sette anni, le sue due
sorelle e suo fratello minore erano terrorizzati da lui. Non li picchiava
neppure tanto spesso, ma … bastava. Già.
Sua madre lo puniva sempre con
severità, quando alzava le mani su di loro, ma lui se ne era
accorto. Anche lei cominciava ad avere paura. La
vedeva rabbrividire alle sue occhiate, e tremare anche più forte, quando le
chiedeva con aria innocente se ci fosse qualcosa che
non andava. Ne rideva di nascosto.
La notte della venuta dei
briganti, la prima cosa di cui sua madre si era preoccupata era stata trovare
un rifugio per loro – per tutti loro. Ma quando, dopo
averli nascosti in una stalla, aveva fatto per andarsene, i suoi fratelli
avevano cominciato a piangere per la paura. Sua madre si era voltata per
confortarli, e un lampo d’intesa era scoccato tra loro.
Entrambi avevano
capito che stavano piangendo per paura di lui.
Che non volevano essere lasciati soli con lui. Costernata, e solo a pochi
passi dal completo panico, sua madre gli aveva ordinato di seguirla. Lui aveva
ubbidito e aveva subito sentito i singhiozzi di suo fratello e delle sue
sorelle acquietarsi.
Avrebbe potuto far notare a
quella stupida di sua madre che non era una grande idea lasciarli nascosti in
una stalla piena di paglia, vista l’abitudine dei banditi di dare fuoco ai villaggi
presi d’assalto, ma poi aveva deciso di stare zitto.
Chissà che faccia avrebbe fatto sua madre davanti ai corpicini carbonizzati dei
suoi fratelli? Scoprirlo sarebbe stato divertente. Già.
E ci
sarebbe stata qualche bocca in meno da sfamare, in famiglia.
Giacché,
in ogni caso, lui era certo di poter sopravvivere.
I briganti erano arrivati poco
dopo. Lui si era sottratto alla morbida mano di sua madre ed era scappato. Lei
sembrava appannata, come se non sapesse più cosa fare, o dove si trovava. Aveva capito che, se fosse rimasto con lei, la
sorte non gli avrebbe arriso.
Non l’aveva rivista più.
Si era nascosto poco fuori del
villaggio, in quella vecchia tana di volpi abbandonata da
tempo, che aveva scoperto quando era più piccolo e nella quale ormai entrava
solo con gran fatica, spremendo e contorcendo il suo corpo magro.
Per tutta la notte e l’alba
seguente, aveva udito le grida degli uomini e delle donne. Gente
che conosceva. Gente che era andata a dormire la sera senza immaginare
che ci sarebbe stata la morte ad attenderli solo poche ore dopo.
Quando il baccano e gli urli di agonia erano scemati fino a svanire del tutto, portati
via, così gli era parso, dal rumore degli zoccoli dei cavalli che si
allontanavano, era uscito dal nascondiglio e si era incamminato lungo le strade
polverose.
Tanti edifici, tra i quali la
stalla in cui i suoi fratelli si erano nascosti, erano bruciati.
Ecco. Lo sapevo, io! Stupida donna! Avresti dovuto capirlo da te.
Le strade erano piene di
cianfrusaglie, suppellettili, rottami, e cadaveri. Aveva riconosciuto molte
persone. Parevano così diverse, da morte. Che strano!
Questa scoperta l’aveva fatto ridere.
Si era accorto che era bello
essere lì, riempirsi le narici dell’odore del sangue che impregnava l’aria, godere del silenzio che seguiva la battaglia, essere vivo.
Aveva impiegato un po’ per capire cos’era la sensazione che provava.
Nel bel mezzo del villaggio
distrutto, circondato da cadaveri, per la prima volta nella sua giovane vita, aveva pensato: sono a casa.
Solo pochi giorni dopo, il
vecchio lo aveva trovato. Lui era restato nei paraggi del villaggio, dove c’era
un poco di cibo, e acqua in abbondanza. I morti cominciavano a puzzare
terribilmente.
Il vecchio lo aveva visto. Lui
non era fuggito. Gli aveva fatto cenno di seguirlo, e lui lo aveva fatto.
Con l’andare degli anni, si era
convinto sempre di più che il vecchio avesse fatto
parte della banda di tagliagole che aveva sterminato il villaggio. Il modo in cui a volte parlava, come gli capitava di insistere sul
fatto che non bisognasse troppo farsi prendere
la mano dalla bramosia e dal gusto del saccheggio. Pareva che ci
fosse qualcosa che rodeva la coscienza incallita del fuorilegge. Doveva essere
qualcosa di grosso, visto che il vecchio non si faceva
problemi a uccidere, quando era necessario, e cioè abbastanza spesso, per la
verità. E perché avrebbe mai dovuto prenderlo sotto la
sua ala protettrice, altrimenti? Lui era, nel modo tutto contorto della loro
vita all’insegna della violenza, la redenzione del vecchio. Già.
E a lui
stava benissimo. A volte si convinceva di essere
felice. Viveva la vita che aveva sempre voluto, fin da quando ancora non sapeva
cosa voleva. Lui e il vecchio erano affezionati l’uno all’altro, in un certo
senso. Non lo batteva spesso, e quasi sempre aveva le
sue ragioni per farlo. E gli aveva insegnato tutti i
trucchi! Come combattere, come seguire le tracce, come
cacciare, come ingannare, come scappare, come raccogliere informazioni, come
mischiarsi tra la folla senza essere notato. Tutti i trucchi del
mestiere.
“Tieni, Onigumo.
Eccoti il tuo regalo.”
Il vecchio gli getta un pugnale
racchiuso in un fodero, facendogli fare una parabola al di
sopra del falò. Onigumo lo prende al volo con
una mano, mentre con l’altra trattiene lo spiedo con l’ultimo boccone di carne,
per poi finire in fretta la cena.
Sfodera la lama, saggiandone il
filo sui peli del braccio.
“Grazie, vecchio. Non me
l’aspettavo! Ne farò buon uso.”
Le sue parole vengono
coperte da un grido violento che viene dagli alberi che circondano la piccola
radura dove si sono accampati. Le spalle di Onigumo sussultano, e la lama del pugnale gli incide la
pelle, lasciando sgorgare un filo sottile di sangue. Onigumo
esplode in un’imprecazione, mentre l’urlo selvaggio si ripete e viene ripreso. Il vecchio scoppia a ridere, indicandolo col
dito come se avesse assistito a uno scherzo
particolarmente divertente.
AOnigumo sembra di vederlo sputacchiare alcuni pezzetti di
carne impastati di saliva. Sibila, sfrigolando di rabbia.
“Maledetti babbuini. Bestie
schifose, questa foresta ne è piena. Devo riuscire ad
ammazzarne qualcuno, prima che finiamo di attraversarla. Già.”
Ma il vecchio – con grande fastidio di Oniguimo –
continua a ridere e ad additarlo, per poi strozzarsi col boccone fino a
diventare paonazzo, e da ultimo liberandosi la gola con un rutto vigoroso.
Pulendosi il naso gocciolante col
palmo della mano, il vecchio lo apostrofa, singhiozzando per le risate.
“Ma, Oniugumo. Perché vuoi uccidere i
tuoi amici babbuini, eh? Se fossi unohoushi, direi che ti sono fratelli in spirito.Non dovresti volere far loro del male …”
Il labbro superiore di Onigumo si solleva, scoprendo
un po’ i denti.
“Cosa stai
dicendo, vecchio pazzo?”
Il vecchio assume un’espressione
furba, calmandosi.
“Hai ragione, Onigumo.
Scusa, a volte dimentico che sei molto giovane; dev’essere
perché non lo sembri quasi mai.”
“Veramente non conosci la
reputazione dei babbuini? E’ vero, sono bestie
disgustose, specialmente i più grossi tra i maschi. Forse solo la iena è più
odiosa. Sono bestie crudeli e avare. Non si può dire che siano intelligenti,
sono solo animali in fondo, ma incredibilmente astuti, pronti ad attaccare
quando sanno di poter abbattere una preda, ma a fuggire subito se si sentono in
pericolo. Vili e scaltri. Dotati di tutti i vizi dell’uomo, e
di nessuna delle sue virtù!”
“Insomma, ti assomigliano
proprio, Onigumo!”
Il vecchio ridacchia ancora un
po’.
“Ho capito. Me ne ricorderò,
vecchio!”
“Oh, su, Onigumo!
Non ti sarai offeso, adesso, vero? Stavo solo scherzando, lo sai.”
“Non preoccuparti, vecchio.” Lo
interrompe il giovane, alzandosi in piedi. “Quel che hai detto è vero. Non sono
arrabbiato. Anzi, mettiti pure a dormire. Farò io il primo turno di guardia.
Sarai stanco.”
“Ho viaggiato sul cavallo tutto
il giorno. Non sono stanco. E poi, oggi è …”
“Sì, lo so, il mio compleanno. Fa
lo stesso, vecchio. Dormi pure. Mi hai già fatto un regalo. E’ sufficiente.”
Onigumo
ha atteso tre ore, l’orecchio proteso ad ascoltare il respiro regolare del
vecchio, per accertarsi che fosse immerso nel sonno
più profondo. Ha ascoltato. Ha atteso.
“Potrei mentire, vecchio. Lo sai
che potrei farlo, ma noi ci conosciamo troppo bene.”
Un’altra goccia di sangue si
allunga, si tende e si stacca dalla punta del suo nuovo pugnale, cadendo al
suolo senza un rumore. Il falò è spento, ma la debole luce della luna è
sufficiente per scorgere la seconda, nuova bocca del vecchio – uno squarcio
preciso alla gola che se ne va da un orecchio per arrivare all’altro – e la
pozzanghera di sangue che la terra sta già assorbendo.
“Sì, potrei dirti che ho
vendicato la mia gente, mia madre e i miei fratelli. Ché
noi sappiamo entrambi cosa accadde quella notte. Vi lasciaste
prendere la mano. E’ così che ti piaceva ripetere, vecchio.”
Onigumo
piega le ginocchia, poggiando il peso sui talloni e fissando gli occhi vitrei e
aperti del cadavere, la faccia a pochi centimetri da quella del suo mentore.
Gli istinti del vecchio erano più affilati di quanto pensasse,
nonostante l’età. Si era quasi svegliato in tempo.
“Ma ti
risparmierò queste bugie dappoco. Tanto lo so che non ci crederesti. Avevo già
deciso da tempo quale sarebbe stato il regalo per il
mio sedicesimo compleanno. Non mi servi più, vecchio. Mi hai insegnato tutto
quello che potevi, tutto quel che sapevi. E’ già da un
po’ che non fai altro che rallentarmi. Devo spartire il bottino con te. E perché? Ormai, sono diventato più abile di te, in tutto.”
Onigumo
raccoglie la wakizashi del vecchio. D’accordo, non è
una katana, ma di certo è un’ottima arma. Se la assicura alla
vita. Intasca la borsa piena di monete che l’altro teneva nella giubba.
Poi prende una delle gambe molli del vecchio, e comincia a strattonare lo
stivale per sfilarglielo dal piede sinistro.
“Un paio di stivali quasi nuovi. Proprio …” un grugnito e una torsione più violenta “… belli.
Sono cresciuto, vecchio. Abbiamo la stessa taglia, adesso. Ma
dì, non te n’eri accorto?”
Onigumo
si siede, si sbarazza dei suoi calzari scalcagnati, e prova gli stivali nuovi.
“Belli. Già.”
Ai margini della radura, c’è
legato il cavallo che si sono procurati di recente. E’ un gran bel cavallo.
Sono stati fortunati. Beh, il vecchio forse non così tanto, si corregge
mentalmente Onigumo. Il destriero si agita nervoso.
Starà sentendo l’odore del sangue. Onigumo scioglie i
legamenti che lo imprigionano al ramo robusto, e prende in mano le redini. Il
cavallo gli si oppone, nitrendo piano e scartando. Onigumo
strattona il morso con gioiosa violenza, più volte, i denti stretti per la
soddisfazione, finché una spuma bianca si rapprende sul muso dell’animale e il
cavallo non si lascia condurre, domato.
Ripassa davanti al cadavere del
vecchio, per imboccare il sentiero che esce dalla radura. Ha deciso di
allontanarsi. Vuole essere fuori dal bosco prima
dell’alba. Era un’idea del vecchio, quella di attraversare la foresta. Lui ha
altri piani. Altri posti da visitare. Altre cose da scoprire. E adesso, con una buona spada, un po’ di denaro, un cavallo
e un paio di stivali quasi nuovi; con tutte queste belle cose, non c’è niente
che un uomo come lui non possa prendersi. Già.
L’urlo dei babbuini si fa sentire
di nuovo. Onigumo ride.
“Dicono che non ci si può
reincarnare, se non si riceve un funerale appropriato, vecchio. Noi sappiamo
che sono stupidaggini. Non crediamo a queste cose ridicole. Però, sei stato tu a insegnarmi a non lasciare mai nemici alle spalle. Vedi
come ho imparato bene? Sono sicuro che ne saresti orgoglioso.”
“Ti lascerò in pasto ai miei
‘fratelli in spirito’, vecchio. Non sia mai che tu ti
debba reincarnare e decida di vendicarti di me.”
Prima di abbandonare per sempre
la radura, Onigumo lancia un’ultima occhiata irritata
al morto.
“Non si può addomesticare un
babbuino. Un vecchio come te avrebbe dovuto impararlo
tanto tempo fa.”
Per i successivi tredici anni, Onigumo avrebbe vissuto la vita da lui scelta.
Chiodi conficcati nella testa.
Come chiodi piantati in testa. Naraku si sfiora il capo con le mani. Male. E’
un genere di dolore quale non ha mai provato, da quando esiste. Geme.
Si sforza di aprire gli occhi. E’
sdraiato a terra, supino. Tutt’attorno, macerie. Le
case scure e decrepite non sono che un cumulo di
macerie, ora.
Il dolore nella testa pulsa
rovesciandosi in tutto il corpo.
Non riesce a ricordare. Ha
inseguito Onigumo. E poi?
Rabbia. E’ difficile, così
maledettamente difficile trattenerla. Ma è necessario.
Era sempre stato così sicuro
della compiutezza della sua vittoria su Onigumo.
Si rovescia prono, così da poter
far forza sulle braccia per sollevarsi. Lo sguardo gli cade su qualcosa che gli
fa tornare una parvenza di buon umore. Dell’icore verdastro insozza le lastre
di pietra, lasciando una scia che si allontana e si perde tra i sentieri scuri
e i ruderi.
L’ha colpito. E’ riuscito a
ferire il kokorodi Onigumo. Si alza in piedi, sforzandosi di ignorare il
dolore alla testa. Fissa il cumulo di pietra che era l’edificio nel quale Onigumo si nascondeva.
Cos’è accaduto?
Che cosa sta facendo? E se la
decisione di combattere questa battaglia fosse avventata?
Con fermezza, scaccia i dubbi,
frantumandoli come frantumerebbe il cranio di una serpe sotto il
tallone.
“Io. Non mi.
Fermerò. Adesso.”
Una mano schiacciata sulla
fronte, segue la traccia lasciata dal sangue verdastro.
Kanna
attende. Non si è più mossa, da quando Naraku le ha ordinato
di preparare il suo specchio. Attende, senza alcuna impazienza,
senza che alcun bisogno o pensiero la disturbi o la distragga.
E alla
fine il tuono che attende arriva.
Il mosaico insensato che è il
corpo di Naraku si scuote, scrolla le fondamenta
stesse della montagna, leva un grido penetrante, ossessivo, un ruggito
accompagnato da una zaffata d’aria tiepida e umida che le fa danzare le vesti e
i capelli bianchi.
Come gemme di un albero maligno,
grumi di carne si annodano e si gonfiano sotto la pelle multicolore di Naraku,
formando bozzi che esplodono subito verso l’esterno,
squarciando, straziando, spruzzando fontane di sangue nero.
Le masse di carne, bianche come
la polpa di funghi malati che non hanno mai conosciuto il sole, volano simili a
proiettili in tutte le direzioni, sbattono contro archi di pietra, contro le
pareti; vengono scaraventati tutt’intorno senza
sfiorarla.
Uno dei proiettili le passa
talmente vicino da poterne catturare i particolari. Assomiglia al neonato di un
essere umano, braccia e gambe appena abbozzate, il cranio
enorme, senza orbite oculari, la boccuccia minuscola congelata in una
smorfia che potrebbe essere un urlo.
La pioggia di fetidi feti bianchi
dura una manciata di eterni secondi. Il naso di Kanna è colpito da un odore che chiunque altro definirebbe
sgradevole – oppure orrendo, o vomitevole. Lei non lo sa, poiché non capisce la
differenza tra queste parole. E’ un brutto odore, certo. Nulla di più.
Studia con freddezza il corpo di
Naraku ancora per alcuni momenti. Kanna è certa che
si sia rimpicciolito un poco. Il fluido nerastro gronda dai buchi delle ferite.
“Comincia ora.”
Sussurra piatta.
Kanna
volta le spalle a Naraku e, lenta, si allontana per proseguire la sua attesa
assieme alla sorella Kagura.
Aiki:
armonia. E’ un concetto giapponese che attiene sia alla filosofia, che alla
religione, che alle arti marziali. Armonia tra mente, corpo e cuore, nonché armonia con le circostanze esterne, sia esse di
quiete o di combattimento, ecc.
Kyujutsu: la via dell’arco. Molto più che
la tecnica per tirare con l’arco. L’arco fu, prima della katana, l’arma
che davvero contraddistingueva la casta dei samurai.
E’ in arrivo la tempesta.
Kikyou ne sente l’odore,
nell’aria. E’ pomeriggio, tardi, e il buio è già
fitto. Rabbrividisce.
E’ inquieta, e stanca, e sente
che sta andando alla deriva. E va benissimo così.
Sì, la stanchezza è dovuta all’aura del Monte Hakurei.
Il cavallo trotta sicuro su per il sentiero sassoso, per nulla spaventato dallo
strapiombo alla sua sinistra, e la sta portando sempre più addentro all’area
sacra che affligge – strano come sia proprio questa la parola che le viene alla
mente, affligge – i luoghi nei quali
Naraku ha deciso di nascondersi. E il suo corpo
forgiato da oscure stregonerie, ne viene appesantito,
intirizzito.
Sì, l’inquietudine nasce al
pensiero di quel che starà facendo Suikotsu in questo
preciso momento. Il mercenario morto, con l’anima divisa in due; il guaritore e
l’assassino.
Il tormento che lo rende pazzo,
presto giungerà alla sua apoteosi. E lei dovrà
esserci, quando succederà. Lui ne ha bisogno, e lei altrettanto.
Perché, sì, sta
andando alla deriva, consumata, sfinita. Sparisce un po’ per volta, e
che sollievo ne prova!
Rivede nella mente, per
l’ennesima volta, gli scorci dello scontro tra i mercenari venuti a prelevare Suikotsu e il gruppetto di Inuyasha.
Inuyasha.
Pensare il suo nome non fa più
tanto male. Persino la Furia si sta attenuando, assieme a tutto il resto. Non
ha più molto di cui sfamarsi. I pochi avanzi di ciò che lei era sono ridotti a
ben misera cosa, ormai.
C’è un gorgo che la risucchia,
che la sta portando via, divorandola. Non dovrà attendere ancora molto. Presto,
la donna che un tempo era conosciuta come Kikyou non
esisterà più. Resterà solo la miko custode della ShikonnoTama.
Quel che le serve a finire la sua ricerca, ultimare il suo
dovere lasciato in sospeso. Tutto il resto – l’odioso fardello che serve
solo a farla soffrire – sarà presto polvere dimenticata, buona solo per essere calpestata
dagli uomini.
Perciò, non era stato poi così
terribile, riprendere i sensi, dopo la battaglia, con addosso
gli occhi di Inuyasha e degli altri.
Solo, non guardarlo.
Non era stato poi così terribile,
rivolgergli la parola, ed essere soppesata, con un misto di pietà, diffidenza,
sconcerto.
Solo, non parlarmi.
Non era stato poi così terribile,
rimangiarsi il suo proposito e cercare il suo volto e quegli occhi dorati che
non smettevano di fissarla, pieni di paura, paura per lei.
Solo, non guardarmi. Non ridotta in questo stato ricorda com’ero lasciami
viva. Almeno nei tuoi ricordi.
Non era stato poi così terribile,
neppure dover affrontare la gelosia malata che divorava la ragazza del futuro,
la sua reincarnazione, e vedersi riflessa in uno specchio deforme.
Che scherzo, che scherzo crudele e contorto, ragazza
del futuro, già te lo dissi e dopo tutto questo tempo ancora non lo capisci!
Non è fatto per te; questo amore non è il tuo,
è mio. Ma tu non hai la forza, la disciplina e la
costanza per badarvi. Ti sta rosicchiando, ragazza del futuro. Tu non sei fatta
per contenere una simile cosa. Tu non hai idea. L’amore è crudele, l’amore è
duro, non è quel di cui raccontano i cantastorie e …
Kikyou sospira. Non riuscirà a
districare la tela di follia nella quale sono tutti invischiati. Per colpa sua.
Tutto pesa sulle sue spalle perché, come sempre, è tutta colpa sua. Poi, una
fiammata di fierezza le fa rizzare la schiena che non si era
accorta di aver piegato.
Stai ridendo, Kami? Stai ridendo, Okuninushi? E tu, mio assassino?
Lo trovate divertente? Ve ne farò pentire! Non pensiate che sia
così facile sconfiggermi! Vi farò rimangiare tutte le vostre risate!
Ma la nebbia grigia che si sta
infittendo dentro di lei stempera presto il suo
sussulto.
Si riscuote, consapevole di una
presenza potente alla quale si sta avvicinando con rapidità. D’istinto, si
lascia scivolare l’arco in mano.
Non c’è tempo per comprendere
appieno la scena che le si presenta voltata l’ultima
curva. C’è solo il tempo di agire, prima che Suikotsu
affondi le sue lame micidiali nella piccola gola della bambina.
Kikyou sfila una delle frecce
dalla faretra, e incoccandola, lascia accadere quel che sempre accade. Il tempo
si ferma. Nulla più esiste, se non il presente. Non più dolore, né
trepidazione, né amore né smarrimento. Nulla, mentre vive
all’interno di un attimo perfetto. E risente
ancora una volta le parole del suo vecchio sensei, quando lei stessa altro
non era se non una bambina, anche se non una bambina come le altre.
“Aiki.
Ricordi che ne abbiamo parlato, Kikyou?”
Lei annuiva. “Sì, sensei. L’armonia.”
Camminavano lenti, calpestando il
sentiero ben curato del giardino che racchiudeva, come un anello, il tempio di
cui il suo sensei si occupava.
“Esatto. Aiki.
L’armonia della mente e del corpo con tutte le cose. Poiché tutte le cose sono misteriosamente intrecciate a tutte le
altre. Lo comprendi, Kikyou?”
“Sì. Tutte le cose sono unite
nella musica del Fato.”
Il capo del sensei
si era girato di scatto, il collo aveva scricchiolato, e l’aveva fissata con
attenzione.
“E chi
te l’ha detto, questo, bambina?”
Kikyou aveva scosso le piccole
spalle. “Nessuno. Ma è così.” L’aveva detto con la
spiccia sicurezza di un bambino che ripete un fatto assodato.
Erano dovuti
passare anni, prima che Kikyou comprendesse la ragione dello spasmo di
compassione che aveva deformato i lineamenti del suo sensei.
“Dunque,
l’hai capito da te sola, vedo.”
Per un po’ il sensei
aveva taciuto, tanto che Kikyou si era chiesta se fosse stata
inopportuna o scortese. Stava per scusarsi, pur senza saperne il motivo, quando
il silenzio era stato rotto.
“Quando
sarai in grado di fare un perfetto silenzio dentro di te, e né paura, né
desideri, né gioie, né turbamenti disturberanno il tuo orecchio, sarai perfetta.
L’armonia, l’Aiki, ti permetterà di articolare
appieno i tuoi poteri.”
“Ho capito, sensei.”
“No, non hai capito, ancora. Non
passeranno molti anni prima che sia tu a insegnare a
me, Kikyou. Ma adesso è presto. Se
vuoi comprendere, dovrai imparare la via dell’arco. Sì, il Kyujutsu
è la strada che dovrai percorrere, quella per te più congeniale.
Fino a quando non padroneggerai Kyujutsu, io non ti insegnerò nulla.”
La bambina che Kikyou era stata
aveva provato un tuffo al cuore a quelle parole, tanto da permettersi di
replicare. La voce le era tremata a un passo dal
pianto; sicura di venire punita per aver detto qualcosa di brutto.
“Sensei,
la … la via dell’arco? Ma io non sono stata affidata a
voi per questo! Perdonatemi se ho parlato a sproposito. Non succederà più,
davvero! Starò più attenta! Non volevo mancarvi di rispetto! Io …”
Il sensei
l’aveva zittita levando un dito severo, senza abbassare lo sguardo su di lei;
ma aveva anche sorriso con divertita dolcezza, e questo l’aveva acquietata.
“Bene. Vedo che, nonostante
tutto, sei pur sempre una bambina. Questo è consolante.” Kikyou era rimasta
senza parole nel sentire il vecchio sensei ridere
piano. Era arrossita e si era trattenuta per un soffio dal battere i piedi per
terra – sarebbe sprofondata in un abisso piuttosto che
confermare a quel modo le parole del suo sensei.
“Non temere, bambina. Capirai
presto. Nessuno, più di un maestro arciere, può sapere come tutte le cose
distinte siano intrecciate pur nella loro irriducibile
unicità. Perché solo chi percorre Kyujutsu
può conoscere appieno …
… l’istante
perfetto nel quale tutto svanisce ed esiste solo …
… la mano che
ferma tende la corda dell’arco …
… che sta fermo
ad accogliere la freccia …
… che si lascia
scagliare a fendere l’aria, leggiadra e fulminea verso il bersaglio …
… che viene
colpito.
Ed essere, in quel solo momento,
il vigore della mano che tende, la saldezza dell’arco che sta
fermo, la libertà della freccia che vola, e il dolore del bersaglio ch’è
colpito.
Armonia.
L’esultanza del divenire una cosa sola col tutto, mentre scocca la freccia –
non con le mani ma con tutto ciò che sono
– neppure la morte ha potuto togliergliela.
La freccia sacra si fa strada
nella carne della gola di Suikotsu, la punta tocca la scheggia della Shikon no Tama che solo lei e la sua reincarnazione possono vedere,
il mercenario cade all’indietro senza un suono, paralizzato, mentre i suoi
poteri interferiscono con quelli della sfera.
Il tempo ricomincia a scorrere.
Con fatica, come un’inferma,
Kikyou scende da cavallo. L’aura sacra le impaccia i movimenti.
Ma
questo non è importante. Raggiungere Suikotsu lo è.
Ma per
farlo, deve oltrepassare la creatura.
Lo youkai
bianco che le volta le spalle e non si è più mosso da quando lei ha colpito il
mercenario.
Riconosce il suo youki. E’ lui ad aver combattuto contro Naraku assieme a Inuyasha. Ed è venuto fin qui per abbattere colui che ha osato sfidarlo.
Kikyou si chiede per quale
ragione Naraku abbia deciso di farsi un così poderoso
nemico. Cosa ha visto in questa creatura, ad aver
catturato il suo interesse? Decide che può servirle saperlo, e punta gli occhi sullo youkai,
permettendo all’Aiki di impadronirsi di lei e guidare
il suo sguardo.
I suoi sensi sono colpiti subito
da una frustata incandescente. Il potere di lui la
investe in pieno. Se fosse viva, il dolore la costringerebbe con tutta
probabilità a interrompere il suo esame. Ma la morte l’ha resa, in questi misteri, ancora più forte
di quanto era un tempo. Così, nei brevi secondi che le servono per coprire i
pochi passi che la condurranno a lasciarsi la creatura alle spalle, ha il tempo
di sondarla.
Lo youkai
è impeccabile, nella forma, nelle proporzioni e nella maestà ma è …
Monco.
Non è monco solo perché la manica
sinistra della sua veste bianca penzola vuota. No. E’ …
Impeccabile, nella sua imperfezione. Che tale
sia la ragione per la quale Naraku ha deciso di sfidarlo?
L’intensità dell’ira dello youkai è pari solo alla ferocia con la quale la trattiene.
Lei lo ha umiliato in maniera
intollerabile. Ha salvato la vita di quella che è la sua protetta. E’ come se
lo avesse schiaffeggiato mostrandogli un suo limite, e lo ha reso suo debitore.
Lo youkai bianco vorrebbe farla a pezzi per questo,
lei lo capisce subito, ma il suo onore non glielo permette.
Tuttavia, questa
ira è superficiale. Al di sotto ce ne sono altri strati, sovrapposti;
fissandolo meglio, Kikyou se ne accorge. Proprio come
deve avere fatto Naraku tempo addietro, oltrepassa le barriere che lo youkaicrede inviolabili.
Prima, una conferma;
proprio come immaginava. Inuyasha gliene accennò solo una volta.
Fratelli.
Il fratellastro di Inuyasha. Ma Kikyou aveva capito
già allora che toccare quel tasto sprofondava l’hanyou
in un umore tanto cupo che, a confronto, il suo solito atteggiamento pareva
quasi allegro.
E lo
stesso deve valere anche per … Sesshoumaru, così si chiama.
Tanto dissimili quanto simili.
Il magma
incandescente dell’ira dello youkai è esplosiva.
La sola idea che il suo youki, puro, immacolato,
poderoso, sia lo stesso che scorre nel corpo di unohanyou; che il suo youki sia
mischiato con del sangue umano, del sangue mortale, deve farlo impazzire.
E ancora
più a fondo. Ormai il potere della vista si è impadronito del tutto di Kikyou;
non può più troncare questa indagine fino a quando non
giungerà alla fine, neppure se lo volesse. E non vuole, non finché non avrà visto ciò che ha spinto Naraku a scegliersi un tale,
temibile nemico.
Smisurato orgoglio ferito. Perché
non solo il padre ha deciso di dissipare il suo lignaggio mischiandolo con
quello di una insulsa creatura mortale: ha anche
lasciato il vessillo della sua eredità al frutto di questa unione blasfema.
Kikyou leva un sopracciglio. Più
vicina alla risposta.
La spada …
L’ira e l’umiliazione dello youkai sono cresciute a dismisura fino a quando sono
diventate mature, e Naraku ne ha raccolto i frutti.
Imprigionandolo.
La spada dello youkai. Kikyou ha riconosciuto l’aura della lama, anche se
questa è stata sottomessa.
E lo youkai non capisce. Fino a quando l’ira sepolta nei
confronti del padre lo spingerà a tradire in tal modo la sua discendenza, a umiliarla, a voltarle le spalle; fin quando si abbasserà a
portare al fianco una spada forgiata dalle zanne di colui che disprezza con
ogni fibra del suo essere, non potrà mai essere completo. Mai integro.
Impeccabile, nella sua imperfezione. Imprigionato nel suo unico
bisogno.
Astuto come sempre, Naraku.
Ma, proprio mentre Kikyou fissa
quell’unica macchia che, ora ne è certa, ha subito
conquistato l’attenzione del suo assassino, spingendolo a giocare con lo youkai … capisce fino in fondo e deve trattenere con
decisione una risatina. Ridere non sarebbe una decisione saggia, oh no.
Sì, Naraku, gelosia e rancore. Tu li conosci molto
bene, non è vero? C’è colui che ti ammaestra di
gelosia e rancore, ogni giorno, e ti tormenta senza posa, senza che tu neppure
te ne accorga. Oh Naraku, nonostante tutta la tua astuzia e la tua saggezza, a volte sei ridicolo quasi quanto la mia reincarnazione!
Sorridendo segretamente tra sé,
Kikyou oltrepassa Sesshoumaru senza degnarlo di una seconda occhiata.
E’ il fetore a
essere intollerabile. Può sopportare tutto il resto. La presenza degli umani –
morti, eppure innaturalmente vivi. L’aura spirituale che osa
insidiare il suo potere, appannandolo. Forse persino il fatto che debba
la vita di Rin a questa aberrazione.
Ma la puzza. La puzza è intollerabile.
Non la puzza della morte che è abituato a distribuire. La puzza delle anime, di
queste mutilate anime umane. Gli fanno rimpiangere per un secondo di essere ciò che è e ciò che è sempre stato.
Era accaduto alcuni giorni dopo
che la bambina era stata resuscitata da Tenseiga.
Si chiama Rin. La bambina si chiama Rin.
Il pensiero era sorto con
semplicità repentina, così come molti dei suoi pensieri. Come
una bolla d’aria imprigionata nell’acqua, che sale veloce, inarrestabile, verso
la superficie di un lago, per esplodere in un attimo e svanire subito.
Aveva accettato
la precisazione impostagli dalla sua mente, lasciandosela scorrere
addosso con indifferenza. La bambina si chiama – deve essere chiamata – Rin.
L’odore pungente dello sconcerto
di Jaken. Le occhiate di sottecchi che gli lanciava. In quei giorni, era arrivato addirittura ad aprire
la bocca per rivolgergli delle domande – ma poi aveva preferito rinunciare.
Sesshoumaru avrebbe voluto
ordinargli di smettere: smettere di infastidirlo con
l’odore del suo stupore, smettere di porsi domande; ma questo sarebbe stato un
segno di considerazione che il servitore assegnatogli da suo padre non meritava.
La palude si stendeva vasta sotto
il suo sguardo, a un paio di chilometri dalla cima
della collina che avevano appena scalato.
Le lingue di terra solida si
alternavano e si intrecciavano a canali d’acqua
brunastra, alberi bassi e storti cedevano il passo a laghetti colmi di ninfee e
giunchi. I colori sgargianti di molti fiori punteggiavano il plumbeo verde e
marrone della vegetazione morta e delle sabbie mobili.
Jaken
aveva sibilato di esasperazione. “Ora dovremo tornare
indietro e cercare un passaggio più …”
“Andiamo.” Lo aveva interrotto
Sesshoumaru, riprendendo il cammino.
Jaken
aveva osato mormorare un Sesshoumaru-sama, ma il cucciolo umano …
Sesshoumaru aveva voltato il viso
liscio e impassibile per sfiorarlo con la coda dell’occhio.
Jaken
aveva serrato la bocca così in fretta da fargli udire lo schiocco del suo
becco.
Mentre l’umidità nell’aria di
quella giornata uggiosa aumentava, via via che i loro
passi li avvicinavano al bordo della palude, aveva sentito crescere dentro di
sé una sensazione di attesa quale lo coglieva assai di
rado.
Come sempre faceva in quei
frangenti, aveva lasciato che le cose si limitassero ad accadere.
La strada si srotolava davanti a
loro, diventando via via un sentiero contorto e
appena accennato. Una nebbia alta solo poche dita indugiava alla base degli
alberi dalle cortecce lucide e umide. L’odore di fango, putrefazione, acqua
stagnante gli aveva solleticato le nari.
La bambina chiamata Rin aveva rabbrividito, stringendosi un po’ nel chimono,
precedendoli nel cammino di un metro o due, voltandosi a
ogni suono, gli occhi sgranati.
Gli alberi si erano fatti più
radi, e la vegetazione del sottobosco più folta e più ricca.
Cespugli di azalee,
edera, e fiori, enormi, di una moltitudine di colori, gialli, violetti.
Ronzio continuo di insetti, richiami di uccelli, gridi di piccoli animali. Qualcosa che si dibatteva in un acquitrino. Un lamento
strozzato subito svanito.
I profumi delle cose vive e morte
si intrecciavano saldi quanto più i tre si
addentravano nella palude senza nome.
Dapprima, Rin
si girava ogni poco verso di lui, sorridendo titubante. Dopo un’ora di cammino,
aveva smesso quasi del tutto di farlo, rapita dallo spettacolo della
vegetazione lussureggiante, esplosiva, che li circondava.
Una grossa libellula era sbucata
volando dalle ombre, le ali che frullavano pazzamente, per poi sfrecciare via.
Rin
aveva lanciato un gridolino sorpreso e, senza
attendere un momento, si era messa a correre appresso alla libellula,
infilandosi tra un ontano e un cespuglio di orchidee e
svanendo dalla vista.
Il semplice movimento del polso
col quale Sesshoumaru aveva zittito Jaken
una seconda volta era stato un mero movimento istintivo, mentre lasciava che i
suoi sensi si dilatassero.
Solo nel momento in cui Rin aveva iniziato a correre, sottraendosi al suo sguardo,
si era reso conto che, da quando erano entrati nella palude, aveva seguito ogni
singolo gesto del cucciolo – della bambina.
I movimenti del capo,
l’elasticità del passo, come i capelli si stessero pian piano appiccicando a
causa dell’aria palustre che non poteva certo sfiorare lui; il battito del
cuore che accelerava o rallentava a seconda di quel
che Rin sentiva e vedeva. E,
più di tutto, l’odore.
Nel momento in cui la bambina
chiamata Rin era corsa appresso alla libellula che
aveva catturato la sua attenzione, i sensi di Sesshoumaru l’avevano seguita, e
un mondo nuovo gli si era schiuso.
Coglieva il rumore lieve dei
passi di Rin, che lo informava di cosa la bambina
stesse calpestando e della lunghezza della sua falcata.
L’aria mossa dai movimenti di lei creava invisibili correnti che rimbalzavano
e si torcevano, sfiorando le sue vesti e la pelliccia della coda.
Non c’era alcuna paura nell’odore
di Rin, ma solo curiosità e stupore …
… e ora
è in una radura. Tra i rami degli alberi che la circoscrivono, nidi di uccelli. La libellula volata via. Altri insetti. Cammina
a passo svelto. Odore di erba schiacciata dai suoi
piedi minuscoli. Non corre. Il terreno vibra in un certo modo, quando si inginocchia. Cosa sta fissando?
L’aroma di alcuni funghi. L’odore di questi funghi, è
un veleno per gli esseri umani. La conoscenza gli si presenta spontanea, senza
che lui sappia da quale angolo della sua mente sia venuta, e lui la accoglie
come tutto il resto di quel che gli si sta spalancando davanti. Il corpo di Rin si tende. Emana un odore, non di paura, ma di tensione
e cautela. Dunque, sa che il fungo è un pericolo. Dunque, lui non ha bisogno di intervenire. Rilassa le dita
eleganti che aveva contratto d’istinto. Altre
misteriose correnti nel vento lo sfiorano, più lievi del tocco di ali di farfalle, mentre la bambina chiamata Rin si rialza, l’attenzione catturata da un altro mistero,
e si allontana di corsa di qualche altro metro. Qualcosa si è mosso tra i
cespugli al di là della radura. Un
piccolo roditore che fugge; puzza di paura addosso …
Mentre
raccoglieva queste impressioni, nuovi suoni prima inuditi
si erano presentati al suo orecchio, nuovi odori sconosciuti si erano fatti
conoscere …
… ecco una goccia. Si stacca dal petalo di un fiore giallo – lo avverte
dall’odore. La vibrazione della goccia che cade si propaga a sfiorare la sua
pelle. Si schianta a terra. Sesshoumaru riesce quasi ad avvertire i singoli
frammenti nei quali si disintegra prima di svanire.
Un rospo, a circa un centinaio di
metri, fa guizzare la lunga lingua ruvida e in un attimo ingoia la libellula
che era stata inseguita da Rin.
Con un balzo si tuffa in acqua.
Gli animali e
gli youkai che popolano la palude si sono nascosti
avvertendo il pericolo della sua presenza. Lui lo sa e non se ne cura. Ma adesso non solo conosce ogni singolo nascondiglio nel
quale hanno deciso di rintanarsi. Adesso, le correnti che lo accarezzano lo
tengono informato di ogni loro singolo movimento,
compreso quello lento del respiro che cercano di soffocare per non farsi
trovare.
Adesso, lui sa,
mentre prima non sapeva, che anche i colori hanno un odore. La forza intensa del rosso, la pazzia del giallo, il ciclico mutare
del verde.
Non sa nulla degli esseri umani, se non che è semplice ucciderli, ma adesso conosce tutto
quel che può nuocere alla bambina chiamata Rin – e
come sventarlo.
Nello spazio di tre passi, il
mondo nuovo che gli si apre davanti diventa il mondo che conosce da sempre.
Lascia che anche questo accada, secondo
le parole di suo padre.
Sesshoumaru, tu sai che il tempo ci trascina con noi, come fa con tutte
le altre creature che popolano questo mondo. E sai
però che non ha potere su di noi, poiché noi esistiamo dentro e fuori del tempo.
Sesshoumaru lo aveva sempre
saputo, così come sa da sempre tutto ciò che conosce.
Il mondo nel quale lui esiste soggiace al tempo e al suo movimento. Le creature
inferiori chiamano questo fenomeno, passato, presente, futuro. Parole prive di senso, per quanto lo riguardano.
Lui esiste all’interno di ciò che
è chiamato presente, ma al tempo
stesso all’interno di ognuno dei momenti conosciuti come passato. Hanno per lui la stessa qualità e il medesimo significato,
sono ugualmente reali e tutti stesi davanti a lui, un’infinita teoria di istanti all’interno dei quali lui vive.
Sì, il tempo non ha alcun potere su di noi, Sesshoumaru, ma sappi che
questo è vero solo per noi inuyoukai. Sugli altri youkai, al contrario, così come sugli esseri umani, il
tempo esercita la sua potestà.
Sesshoumaru se ne
era stupito. Era convinto che questo valesse solo per le creature
mortali, che solo loro fossero assoggettate alla tirannia del tempo. Poi, aveva
accettato le parole di suo padre, ricavandone ancor più la convinzione della
propria ineguagliabile superiorità.
Sappi anche, Sesshoumaru, che esiste un luogo nel quale il tempo ha
potere persino su di noi.
Questo aveva turbato Sesshoumaru. E poi,
l’impensabile era accaduto. Suo padre era stato …
(contaminato dal tempo)
…congelato in
un attimo del tempo dal quale non si sarebbe potuto sottrarre. Mai più.
Un ringhio dal fondo della gola.
E prima che
questo accadesse …
(a causa di questo)
… si era mischiato; aveva
mischiato il suo sangue, la sua schiatta, con quello di una creatura schiava
dello scorrere del tempo.
Sesshoumaru era certo che fosse
questa la ragione per la quale il tempo lo aveva … infettato.
Poiché il tempo non ha alcun
potere su di lui, ciò che non era fino a un attimo
prima, è ciò che è da sempre e ciò che sarà per sempre.
E poiché
lui esiste in ogni istante che forma la sua esistenza, da quando sua madre lo
ha collocato nel mondo, conosce ciascuno degli odori dei colori che ha annusato
durante tutti i secoli della sua esistenza. E ode tutti
i suoni che il suo udito più affilato è stato capace di cogliere. E avverte
ogni bisbiglio e respiro che mai lo abbia lambito.
Poiché noi, Sesshoumaru, siamo coloro che cambiano
senza cambiare mai.
Nelle ore seguenti, Sesshoumaru
non aveva trovato affatto strano che la bambina chiamata Rin
si allontanasse sempre più spesso da lui, lasciandosi raggiungere di tanto in
tanto per poi andare a esplorare ora un laghetto
intravisto tra gli alberi ammantati di muschio, ora a scoprire la provenienza
di un suono ignoto.
Eppure, Sesshoumaru sapeva che il
comportamento della bambina era inusuale. Un cucciolo
umano, in un ambiente del genere, sarebbe dovuto
essere più timoroso.
Ma da
dove nasceva questa sapienza? Da quando conosceva queste cose sugli esseri
umani?
Da sempre. E
per sempre.
Per un attimo, uno degli infiniti
attimi che formano la catena della sua esistenza, aveva sperato che la bambina
chiamata Rin mettesse un piede in fallo, cascasse in un pozzo di sabbie mobili, precipitasse in un
fosso profondo, affogasse in una pozza d’acqua putrida. In quell’unico attimo,
avrebbe permesso che succedesse. Per la prima volta si era di ritrovato incerto
se lasciare venire o meno alla luce una parte di sé.
Ma la
sensazione del ferro che lacera. Carne, muscoli e ossa
– la zanna di suo padre, impugnata da Inuyasha, che gli stacca il braccio.
Perduto. Non ha importanza. Vive allo stesso modo gli istantinei quali possiede due braccia, e quelli nei
quali ne possiede uno solo. Ma non potrà tollerare di
conoscerne altri …
(futuri e già passati)
… nei quali dovesse
ripetersi un simile evento. Affinché questi
istanti che le creature inferiori chiamano futuro non debbano mai concretarsi,
la bambina è, in un qualche misterioso modo, necessaria.
E
dunque, accada ciò che deve.
La bambina chiamata Rin era ora sul bordo di un pozzo nero. Liquido
scuro, oleoso, surriscaldato da misteriose correnti sotterranee; frutto di cose
morte decine di millenni prima, pronto a catturare le creature viventi,
spogliandole del loro guscio di fragile carne e lasciando imprigionate le ossa,
intatte in immutabile attesa.
Rin,
cauta, era sporta a osservare questa inimmaginata
novità, la pelle sudata per la curiosità e la soggezione non meno che per il
calore, quando il liquame nero e bollente era parso scoppiare, il corpo dello youkai ivi immerso si era proiettato fuori, un gigantesco
lombrico, molle, cieco, affamato, bocca sdentata ma letale. La bambina era
cascata a sedere urlando, le mani schiacciate sulla faccia, schizzi bollenti a
ricaderle attorno, incolume per mero caso.
E lui
era troppo lontano. Aveva lasciato che la distanza con la bambina chiamata Rin si facesse troppo grande, e ora neppure lui sarebbe stato capace di colmarla in tempo.
Le sue gambe erano scattate,
trasportandolo quasi di loro propria volontà in direzione del pozzo nero. E
fasce di muscoli di cui neppure sospettava l’esistenza
avevano fatto forza, scagliandolo come una folgore bianca … e l’esaltante
sensazione di squarciare la stessa aria, come se questa fosse troppo lenta per
scostarsi al suo passaggio, e il ringhio di frenesia e ferocia che gli aveva
teso le labbra … e una cosa che aveva detto una volta a Inuyasha …
(quanto sei veloce, quando devi proteggere quella femmina umana)
… e non c’è tempo a sufficienza …
ma questo non importa … perché il suo eterno nemico
non ha né mai avrà potere, no, non su di lui, su chiunque altro forse, ma mai
su di lui, mentre il suo youki si dilata e la mangrovia che sta sul tragitto che sta
divorando si disintegra in una manciata di pagliuzze prima che lui anche solo
la sfiori, e ora lo youkai emerso dal pozzo nero si
immobilizza nello sconvolgente terrore di percepire la furia della folgore
bianca che sta trapassando il cuore della palude per annientarlo.
Sesshoumaru legge nella tensione
del corpo vermiforme l’intenzione di ritirarsi e fuggire da dove è venuto ma
non c’è tempo. Non per una creatura che del tempo è schiava,
una cosa inferiore, fatta solo per strisciare. E. Non. Per. Questo!
Lo youkai
si sbriciola, mentre la sua mano gli trapassa le carni molli e con una torsione
del braccio lo manda in frantumi.
I suoi piedi posati sul bordo del
pozzo, vicino alla bambina che ancora grida di paura, il suo corpo tornato
nella quiete dell’immobilità prima che gli ultimi brandelli dello youkai ricadano nel liquame dal quale
è uscito.
E aveva
poggiato appena le punte degli artigli sporchi di sangue alle labbra.
“Avevate ragione, padre. E’ un
sapore diverso.”
E poi.
“Basta così, Rin!
E’ tutto a posto.”
La bambina chiamata Rin aveva scostato le manine dal viso, gli occhi bagnati di
pianto.
Ma
appena lo aveva guardato e si era resa conto che non c’era più alcun pericolo,
aveva sorriso, le lacrime avevano smesso di scorrere, si era alzata da terra e
gli aveva carezzato gli hakama.
Il primo istinto di Sesshoumaru sarebbe dovuto essere quello di por fine alla vita della
bambina per avere osato una cosa del genere; sarebbe dovuto, ma non era stato.
C’era solo un vago disagio, come se mancasse qualcosa.
Non si era chiesto la ragione per
la quale la bambina fosse diversa dagli altri esseri umani;
si era limitato a sollevare con lentezza il braccio, puntando l’indice nella
direzione del pozzo.
La bambina aveva seguito con
attenzione il suo movimento e quando lui aveva detto quell’unica parola “Salta.”non aveva esitato.
Si era girata, si era
rannicchiata e aveva spiccato un balzo in direzione del pozzo colmo di liquame,
e solo quando la spinta si era esaurita e aveva
cominciato a precipitare, Sesshoumaru l’aveva afferrata per la collottola con
un pigro movimento del braccio, per posarla a terra al suo fianco.
Scrutando gli occhi di Rin, vi aveva letto solo una fiducia e un’adorazione cieche
e assolute.
Nulla di meno di quanto gli
spettasse.
E la
tranquilla certezza che niente le potesse nuocere.
Come era
giusto che fosse. Poiché nulla, nulla avrebbe mai più potuto toccare Rin,
salvo che lui e lui solo decidesse altrimenti.
Non c’era stato più nessun
fastidio, quando Rin gli aveva accarezzato gli hakama una seconda volta. Ora era permesso.
E un
altro odore nuovo si era fatto scoprire, ancor più misterioso di quello dei
colori. Il suo naso era stato colpito dal profumo.
Stupito, si era scoperto capace
di carpire l’odore dell’anima degli esseri umani, la
misteriosa sostanza di cui gli youkai sono privi.
Orgoglio e un vago timore gli si
erano attorcigliati dentro, per poi scemare, poiché …
… lui conosce l’odore delle anime
di tutti gli esseri umani che hanno incrociato il suo cammino, da sempre,
quelli che lui ha ucciso, coloro che ha ignorato, quei
pochi tanto folli da averlo sfidato; il profumo (mughetti gettati in un falò) dell’anima della donna mortale con la
quale il padre si è congiunto, perfino quella del suo fratellastro.
E questa
è la prima volta, in tutti i suoi secoli, in cui fiuta una tamashii
che non conosce timore per la propria mortalità.
Aveva annuito
in silenzio davanti a quel dovuto omaggio.
Ma in questo ora ciò che è lo condanna a un
imprevedibile supplizio. Poiché il tanfo raccapricciantedelle anime dei due morti
viventi è più di quanto persino lui possa sopportare.
Colui che
ha quasi ucciso Rin ed è steso a terra con una
freccia piantata nella gola, è simile a un albero colpito da un fulmine,
spaccato in due; vivo nonostante la morte, a contorcersi di pazzia.
Eppure è ben poca cosa, rispetto
al coro folle di anime chiuse nel corpo di terra che
gli è inginocchiato accanto. Il puzzo combinato di queste anime irrancidite gli
fa quasi girare la testa.
E al
centro del caos: una scheggia, un brandello. Non credeva che le anime umane
potessero lacerarsi, venire strappate, ma si sbagliava.
Può resistere alla puzza solo
perché l’odore sta svanendo. Non sa perché, ma si rende conto che il frammento
d’anima che ha dato vita alla cosa
sta scomparendo, risucchiata poco a poco in una voragine che lui non comprende.
Vorrebbe cancellare l’onta che la
creatura rappresenta per il mondo al quale lui stesso appartiene, ma non può
farlo, così come non può allontanarsi. Onore e
vendetta glielo impediscono.
I due morti
stanno decidendo se continuare la loro esistenza dannata ancora un altro po’ e
lui attende che l’aberrazione coi vestiti da miko
scelga cosa fare di se stessa.
Se dovesse
decidere di perire, lui stesso la farà a brandelli, vendicandosi così per
l’affronto che lei gli ha inflitto salvando la vita di Rin.
E ripagherà il suo debito di riconoscenza, liberandola
della sua miseria.
Se dovesse
decidere di sopravvivere, lui la lascerà andare dimenticando l’insulto e
cancellando così il suo debito d’onore; e la punirà prolungando la sua vita
maledetta.
Potrà tollerare di lasciarla
andare via, sapendo che in tal caso la sua punizione sarà la più spietata.
Per lui il tempo non ha
significato. Solo, spera che i due morti decidano in
fretta.
Non capisce se il volto di Suikotsu è solcato da lacrime oppure solo
dalla pioggia che ha iniziato ad abbattersi su di loro
Non capisce se il volto di Suikotsu è solcato da lacrime oppure solo dalla pioggia che
ha iniziato ad abbattersi su di loro.
E’ invidia, la sua? Lui può
piangere. La ShikonnoTama gli ha restituito un corpo di sangue e carne, un corpo
caldo. Ma chissà. Forse, così, il dolore è addirittura
peggiore. Come può saperlo?
Lo youkai
sta aspettando. Lei sa che cosa attende; c’è una parte di lei
che vorrebbe alzarsi, ringraziarlo, inchinarsi e pronunciare un semplice sì. Ma queste
sono le stupidaggini di una vita passata. Solo un modo più sciocco di tanti
altri per mentire. E presto non ci sarà più il dolore, comunque.
Ha poggiato la testa del
mercenario sulle sue ginocchia. Gli scosta la frangia di capelli bagnati dalla
fronte. Ma le parole di lui fermano il suo gesto
distratto.
“Togliete la scheggia, Kikyou-sama.”
Se lo
aspettava, in fondo. E’ per questo che sentiva
così imperiosa l’urgenza di raggiungerlo? Lei deve essere per il mercenario,
ciò che lo youkai può essere per lei?
Sì. Sì che è
invidiosa. La carezza sulla fronte di Suikotsu
vacilla, pronta a trasformarsi in uno schiaffo selvaggio, e poi un altro e un
altro ancora. Vorrebbe sputare sulla sua faccia indifesa.
Credi che sia così facile? Eh!? Vigliacco! Vigliacco!! Alzati e
combatti e continua finché non ti sarai consumato! La
fuga del codardo! E’ questo che scegli!?
“Ve ne prego. Adesso
che sono tornato. Non lasciate che quello mi prenda di nuovo. Fa male.
Liberatemi. Vi prego. Liberatemi.”
Sconfitta, la mano di Kikyou
disegna un arco dalla fronte al viso dell’uomo, poggiando il palmo sulla
guancia. Lì si ferma, incapace di andare oltre.
“Non c’è anima umana che non possa perdersi nel buio, Suikotsu-sama.
Solo chi non conosce il proprio cuore può credere il contrario. Solo chi non sa …”
Ha scoperto così tante cose sul
cuore. Così tante, e in così poco tempo.
E ha compreso anche, con gioia e
dolore assieme, per quale ragione l’Aiki, l’armonia,
può essere mantenuta solo nella quiete e nel silenzio
dell’anima, e non nel tumulto a cui adesso non può più fare a meno.
Il suo cuore.
Trafitto, mentre fissava, piena
di paura, il viso insanguinato di Kaede, ferita,
mentre cercava la pulsazione della sua gola, la mano che tremava senza
controllo.
(maledizione l’hai fatto tante di quelle volte!)
Sollevato e straziato, mentre le
sue conoscenze nell’arte medica le dicevano che la sua sorellina era ancora
viva, e che sarebbe rimasta cieca dal suo occhio destro, di sicuro.
Placido, mentre le braccia di Inuyasha la tenevano stretta, e lei poteva bearsi nel calore
e nell’odore selvatico di lui, e poi.
Impazzito, mentre si liberava
appena dal suo abbraccio, e zittiva le sue parole con la bocca, la punta della
lingua a saggiare, cauta, zanne appuntite e, decisa,
un palato ruvido.
A battere pesante, fremente d’attesa,
durante la notte, prima badando alla Shikon no Tama, poi sforzandosi senza successo di dormire,
rigirandosi nel futon, mentre cadeva per brevi
periodi in un sonno leggero e anche più spossante della veglia.
E
adesso. In gola. Le pulsa in gola come un tamburo, e pare che la soffochi.
Poggia le dita sul collo e poi,
preme una mano sulla fronte come se dovesse misurarsi la febbre. Gira su se
stessa, a destra, a sinistra, attorno all’albero sotto al quale lei gli ha dato
appuntamento, misurando la radura coi suoi passi.
E’ così, così …
Il suo cuore fa capriole, salta, inciampa, cade, si ammacca, si rialza in un guizzo …
Tra poco, tra pochissimo! Lui arriverà, verrà,
da me … per me!
Un brivido. Si carezza i capelli.
Dovrebbe scioglierli? Lei lo sa, che a lui piacciono di più, sciolti. Liberarli da questa cinta di pelle bianca, da questo lurido nastro
immacolato.
Li brucerò tutti! Sì, sarà la prima cosa che farò!
Ma no,
non adesso. Vuole … vuole che sia lui, oggi, a disfare
questo nodo. Quando la Shikon
no Tama sarà scomparsa, e saranno entrambi liberi,
lei piegherà un po’ la testa, e gli spiegherà come fare.
E se
sarà goffo, e impacciato, se anche dovesse tirarle i capelli, e le facesse male
senza volere, per poi fare quella smorfia, ah! quella
smorfia adorabile, lei riderà e gli getterà le braccia al collo e non gli
permetterà mai di chiederle scusa.
E sa
anche come fare a zittirlo. Sì! L’ha imparato giusto ieri, eppure è stata la
cosa più facile, più naturale che potesse immaginare!
Niente ore e ore di piene di vuoto
per impararlo. Nessuna poderosa meditazione, nessun faticoso esercizio.
I polpastrelli di Kikyou indagano
le proprie labbra, come a cercare il ricordo del suo sapore. Arrossisce. Ma non
è né la vergogna né la timidezza che la stanno facendo
arrossire.
Oh, speriamo che sia goffo, speriamo!!
Ma per
ora, non arriva. Accidenti, eppure è stato lui a raggiungerla al tempio,
stanotte, e chiederle di incontrarsi all’alba, invece che a metà mattina!
E adesso
che l’alba è arrivata, lui non c’è! Che si sia
addormentato?
Ma come?
L’euforia le scappa
in un secondo e un’ala di tristezza si stende su di lei.
Come fa a dormire tranquillo,
proprio oggi? Lei non ha chiuso occhio per quasi tutta la notte. E a lui, invece, importa così poco? Non sente la gravità di
quel che stanno per fare? La strada, per tanti versi
ignota, che stanno per imboccare insieme? Lui … dorme?
Per lei, le ore della notte
appena passata si sono allungate, dilatate, fino a
sembrarle infinite, e ha fissato il soffitto della capanna, immobile, nel suo
giaciglio, la testa piena di pensieri che non se ne volevano andare; l’attesa,
che cosa opprimente, terribile, soffocante, non avrebbe mai creduto …
Il suo cuore balza di nuovo,
mentre un altro pensiero si fa avanti prepotente, violento come uno schiaffo in
pieno viso.
Onigumo! Mi sono dimenticata di portare da mangiare aOnigumo, ieri!
L’attacco del branco di youkai che sembrava non finire mai, la strenua difesa del
villaggio assieme a Inuyasha, la presa di coscienza
che i suoi poteri erano ridotti al lumicino; quasi del tutto perduta la sua
capacità di fare armonia dentro di sé, il controllo sulle sue emozioni, sul suo
cuore, tutto spazzato via. E poi, il ferimento di Kaede, la conversazione con Inuyasha, la loro decisione di
… rinunciare a qualcosa, per avere qualcos’altro, ben più prezioso, in
cambio. E quell’abbraccio. E
quel bacio …
Onigumo
era stato dimenticato. Fin’ora.
Non c’è problema. Me ne occuperò … sì, non
appena …
L’immagine di Inuyasha
che sta correndo per raggiungerla fa scomparire la tristezza, repentina quanto
era apparsa, e la sostituisce di nuovo alla pregustazione del suo arrivo.
Tremando un po’, fruga nell’hitoe per cercare il suo regalo. La
conchiglia piena di terra con la quale può rendere le sue labbra rosse, e invitanti.
Dunque, perché no?
Apre la conchiglia. Ed eccolo di nuovo, il suo cuore: ma quanto è
indisciplinato, oggi!
Non solo oggi.
Ride piano.
Sfiora questo sfolgorante rosso
col mignolo …
… e
adesso, è sbattuta sull’erba, e l’urto forte tra la carne delicata dei suoi
seni e il terreno duro le toglie il fiato. Non può neppure gemere, perché non
c’è aria nei suoi polmoni.
Inspira. E la ferocia del dolore
che dilaga dalla sua spalla destra è una staffilata;
rebbi incandescenti conficcati nella spalla. Un liquido caldo le zampilla sul
collo. Odore dolciastro del sangue. Grida di un grido senza forze. Cerca senza
successo di voltare lo sguardo.
“Puoi cercare quanto vuoi di
farti bella, ma questo non cambia e non potrà mai cambiare la tua vera natura. Miko.”
La mente di Kikyou piroetta nella
confusione. Non capisce le parole che lui sta pronunciando, però riconosce la
voce!
Mi sono … fatta male? Inuyasha? Che cosa …?
E’ stato tutto così veloce. Non
c’è paura, ancora.
Mi sono fatta male. Come? Ma adesso è arrivato
Inuyasha, e andrà tutto a posto.
Un piede appare vicino al suo
volto: un piede nudo la cui gamba è calzata in un hakama
rosso. D’istinto, stringe le dita attorno alla ShikonnoTama. Il piede si alza e,
repentino, le calpesta la mano con forza, strappandole un grido che è dolore e
stupore.
“Stupida! Non ho mai avuto
l’intenzione di diventare un essere umano! Eccola, ah!,
la potente custode della Shikon no Tama. Non è altro che una stupida, stupida donna! Non sarei
mai riuscito a prenderla, con le mie sole forze. Ma tu
sei stata così gentile da portarmela!”
Inuyasha si china su di lei, con
un ghigno di disprezzo, e le sottrae il gioiello.
“Sarà bene che assorba altro
sangue e odio, prima che la usi per trasformarmi in uno youkai.
Credo che massacrerò tutti gli abitanti del villaggio. Già! Tanto, non c’è più
nessuno che possa proteggerli.”
Inuyasha si allontana piano, in
tutta calma, stringendo in pugno la ShikonnoTama.
No. Non andartene. Non lasciarmi qua.
Il suo cuore. Quante cose non sapeva del suo cuore, fino a pochi mesi …giorni … momenti fa …
Kikyou si torce per il dolore. Non quello che viene dalla spalla, però.
Sente due maligni ganci di ferro
piantarsi nelle due distinte metà del suo cuore, conficcarsi a fondo. Sussulta.
Inuyasha …
Inuyasha che le allunga una delle sue carezze corte, e poi rinuncia
quando è a una spanna dalla sua mano, e guarda
altrove.
Inuyasha che le calpesta la mano, fin quasi a spezzarle le dita.
Kikyou digrigna i denti, il
dolore della ferita dimenticato, la mano sinistra premuta al seno, mentre due
invisibili mani sapienti afferrano i ganci piantati nel suo cuore, tirando, con
forza, senza pietà, sempre più decise, in opposte direzioni.
Inuyasha imbronciato, che la fissa attento, e i suoi occhi si accendono
d’improvviso come due fiamme dorate, liquidi e pieni di desiderio.
Inuyasha che la scruta gelido, il labbro arricciato in una smorfia di disgusto,
e raccoglie la ShikonnoTama.
No! Fa male! Troppo!
Inuyasha che le cinge le spalle con le braccia, e la sostiene mentre
sta per cadere.
Inuyasha che strazia la carne indifesa della sua spalla e la lascia a
terra, noncurante, come un bambino capriccioso che ha appena rotto un
giocattolo di nessuna importanza.
Come una frattura verticale,
avverte una lacerazione per tutta la lunghezza del cuore, uno strappo violento,
brutale, secco.
Spezzarsi il cuore. E io che credevo fosse
solo un modo di dire. Che stupida.
Rabbrividisce, affogando in un
lago, in un mare di inumana sofferenza.
“Perché
… Inuyasha … non …”.
Le dita di Kikyou artigliano il
petto, come se volessero raggiungere la radice del dolore per alleviarlo in un
qualche modo.
Ricorda, Kikyou. Gli youkai non conoscono le
emozioni come noi esseri umani. Possono simularle, così come
simulano il nostro aspetto, per trarci in inganno. Non dimenticare. Gli youkai più simili agli uomini, sono i più pericolosi.
Il suo sensei.
Ma lui …
è umano. Lui …
“Perché?”
C’è del pianto, nella sua voce. Ma lei non piangerà. No. Non …
Come ha potuto essere così …
crudele?
“Perché,
Inuyasha?” Un singhiozzo. La voce incrinata. “Perché
non mi hai uccisa, almeno?”
Perché
l’ha lasciata così?
“Almeno questo. Neppure abbastanza pietà da uccidermi? Non … potevi …
uccidermi e basta? Non valgo neanche un simile riguardo?”
La mano sempre stretta al petto,
le acque della disperazione che si chiudono su di lei, si gira appena a esaminare la ferita alla spalla.
Forse un’altra donna potrebbe
ingannarsi. Non certo lei. Lo zampillio del sangue è rosso, vigoroso. Le carni
rosse, nude. Un paio di centimetri in più, e vedrebbe brillare il biancore
dell’osso.
Sono morta.
Non c’è speranza, con una ferita
così.
Non con strumenti naturali.
Fissa il sangue che sprizza dalla
ferita, piena di desiderio.
Sbrigati. Sbrigati. Più veloce.
La tenebra. Non c’è un altro
posto dove fuggire. Il luogo dove tutta questa desolazione non sarà neppure un
ricordo.
Avanti! Più svelto.
La frattura nel suo cuore si
allarga ancora. Schiaccia la faccia nell’erba per soffocare un grido.
Perché? Non potevi risparmiarmi … neppure questo?
Forse ride. Starà ridendo di lei,
facendosi beffe della sua ingenuità? E’ questa, la ragione?
No, Inuyasha non …
Schianta, sbriciola il pensiero prima di completarlo. E
uno spasmo nuovo si fa sentire.
Qualcuno. Chi è che sta ringhiando?
E’ lei?
Sterminerà il villaggio. Tutti coloro che le erano affidati. Ucciderà Kaede.
“No.”
Tutta colpa sua. E’ stata una
folle, un’incosciente, un’egoista. Ha pensato solo a se stessa e alla propria
felicità. E adesso degli innocenti dovranno pagarne le
conseguenze; e tutto, perché ha voltato la schiena al suo dovere. Il dovere …
“Papà?” Sbatte le palpebre,
confusa. Galleggia.
Suo padre. Sacerdote incaricato
del tempio. Sarebbe dovuto toccare a lui di
addestrarla, ma era presto stato chiaro a entrambi che lei era troppo, per lui.
Così, fiero e umiliato, un giorno suo padre l’aveva affidata al suo sensei.
Aveva avuto paura, quel giorno.
Non sapevo cosa fosse la paura, allora. Adesso lo so.
Si era attaccata ai suoi
pantaloni, quando lui aveva fatto per andarsene. Si era accorta subito che suo
padre si era spazientito. Aveva piegato un ginocchio e, sbrigativo, aveva
staccato le sue piccole dita dalla stoffa ruvida.
“Ne abbiamo
già parlato, Kikyou. Non farmi ripetere. Fare aspettare il tuo sensei è una mancanza di rispetto. Non vuoi mettermi in
imbarazzo, vero?”
Lei aveva scosso la testa in
silenzio.
“Brava. Fa’ il tuo dovere,
Kikyou.”
“Una menzogna. Tutto, tutto una menzogna, tutta una recita. Mi hai mentito. Mi hai
ingannata fin dall’inizio, vero?”
Oh sì. Lui, che
era così bravo a vedere dentro di lei. Saggiare le sue debolezze.
Avvertire l’odore della sua infelicità.
“Maledetto.” Sussurra.
Voleva essere sicuro che lei
fosse del tutto inerme, prima di colpirla a tradimento.
“Maledetto.” Dice.
Come una bolla sottile, qualcosa
scoppia dentro di lei, una fiammata nera che non avrebbe mai creduto.
“Maledetto!” Grida. Il suo corpo
di tende. Il dolore alla spalla le annebbia la vista, le piega il corpo,
invitandola a stendersi, a lasciarsi andare, e presto tutto questo sarà finito …
Lui riderà di me, mentre uccide coloro che dovevo
proteggere.
“No.” La fiamma nera si leva più
forte, furibonda, a lambire il suo cuore.
Quante cose non conoscevo del mio cuore!
Volta di nuovo la testa per
esaminare la ferita. Con l’occhio distaccato del guaritore,
stavolta.
Morirò dissanguata. Se voglio un po’ più di
tempo …è questo che voglio?
Oh, gira tutto. Cosa deve fare? Che cosa può fare?
Rompendo gli indugi, stacca la
mano sinistra dal petto, infila le dita delicate nella
ferita, mordendosi il labbro a sangue per non svenire, cerca il tubicino
dell’arteria recisa, prova ad afferrarlo. Le scivola via, come un verme viscido
e guizzante.
(avanti, avanti, lo sai come fare)
chiude
l’arteria tra pollice e indice. Grida di nuovo, affondando la
faccia bagnata di sudore nella manica dell’hitoe.
E’ solo a un passo dal perdere i sensi, adesso. Se sviene … se sviene, passerà dall’incoscienza alla morte
senza neppure accorgersene.
Perché? Cosa ti costava farlo bene? Non ti ho mai
chiesto tanto. Oppure sì? Io …non …capisco più niente
…
La sua mente sta per spegnersi,
sottrarsi a tutto questo, convincersi che sta sognando. No niente di tutto
questo è vero. Un incubo. Adesso sparirà. Il sonno si farà più profondo, e
quando si sveglierà, solo allora potrà piangere … piangere
nel guanciale, in silenzio, per non svegliare Kaede,
e …
Torce la mano sinistra, e la
fitta fa tornare il mondo a fuoco.
L’erba non è più tanto verde. E’
scura, impregnata di sangue. Puzza. Anche lei puzza.
Il terrore le si sprigiona dai pori.
Ci sono tecniche, esercizi che
può usare per alleviare il dolore – quello alla spalla – per impedire che il
trauma e la perdita di sangue le facciano perdere i sensi.
Lei li conosce tutti. Lei sa
usarli tutti. Alla perfezione.
Il suo sensei.
Non ho mai addestrato una bambina come te, Kikyou. Tu sei davvero una
prescelta. Non c’è mai stata nessuna come te, tranne forse …
Inuyasha.
E anche tu, Kikyou, sii solo una donna. La mia donna!
“Maledetto!”
Il dolore si stempera in un
battito sordo. Le vertigini svaniscono come fumo spazzato via da un vento
deciso. Kikyou solleva il torso, piega un ginocchio, poggia
il piede in terra, fa forza per alzarsi.
Farfalle dietro agli occhi. Il
sole le batte sulla testa. Ma come fa a essere così
caldo? A disseccarle così la pelle? Ad asciugarle tanto la bocca?
“Maledetto!”
E il
dolore del suo cuore? Adesso che quello alla spalla recede, si fa sentire, così
forte da impedirle di pensare.
Puoi cercare quanto vuoi di farti bella, ma questo non cambia e non
potrà mai cambiare la tua vera natura. Miko.
Ecco che cosa le ha detto! Le sue parole, che prima le erano state
intelligibili.
Immerge, con durezza e senza
esitare, il suo cuore nella nera fiamma sconosciuta che le cova in petto. Il
male si attenua, sostituito da qualcos’altro.
Un ringhio animalesco le esce
dalla gola. Si alza. Labbra cineree e cuore in cenere.
“Hai sbagliato, Inuyasha.”
E’ gelata. Una bolla di gelo la
tiene stretta in una morsa.
“Avresti dovuto uccidermi, finché
potevi. Avrai modo di pentirtene. Tu non mi hai mai vista davvero nel fulgore
del mio potere.”
Le suole dei sandali slittano
sull’erba pregna di sangue. Barcolla, e muove un primo passo, la mano sinistra
stretta attorno alla spalla destra.
“Perché io sono la miko Kikyou, la prescelta alla custodia della ShikonnoTama.
E non sono stata scelta per caso o per capriccio.”
… prescelta …
“Hai ragione. E’ ciò che sono. Quello che siamo. Follia. Follia
credere di poter cambiare.”
… la mia donna …
“Maledetto.”
… non ho mai addestrato nessuna come te …
“Maledetto.”
Fa’ il tuo dovere, Kikyou.
Il mondo esplode in mille
frammenti.
“Maledetto!!”
Mentre
inizia il suo penoso cammino, Kikyou non sa più che cosa sta maledicendo.
I nuvoloni si sono addensati, e
le prime pesanti gocce di pioggia si stanno spiccicando al suolo; ma Inuyasha
non se ne accorge neppure, mentre corre al fianco di Miroku. Forse l’houshi gli ha
accennato alla necessità di cercare un riparo? Non lo sa, non
l’ha sentito.
Sente solo il cuore farsi sempre
più pesante, tanto che gli pare voglia scivolare giù giù
fino ad accasarsi nello stomaco, dal quale un freddo insopportabile si ramifica
in tutto il corpo fino a intirizzirlo.
Continua a rivedere Kikyou dopo
il duro combattimento con i mercenari.
L’aveva portata, camminando pian
piano, fuori dall’aura sacra proiettata dal monte Hakurei. Nessuno li inseguiva, questa volta. Non c’era
nessuno da cui proteggerla, in quel momento.
Il suo corpo leggero – così
simile e così diverso da quello di un tempo – era un fardello tanto pesante da
piegargli le braccia potenti.
Il freddo di morte che promanava
da lei gelava le sue membra, aggricciando le sue carni insensibili alle bizze
della temperatura.
L’odore di ossa
e terra che gli colpiva con durezza le narici aveva invaso tutti i suoi sensi.
L’aveva trasportata lentamente,
senza preoccuparsi di avere addosso gli sguardi dei
suoi compagni. Non avrebbe potuto affrettarsi neppure volendolo, poiché in quei
pochi minuti, aveva avvertito tutta la solennità del
proprio incedere.
Inuyasha stava portando fra le
braccia la sua perduta sposa.
L’aveva adagiata. Lei si era
ripresa, quando i suoi shinidamachu le avevano portato le anime. Poi aveva parlato a tutti loro. Si era
addirittura rivolta a Kagome. Aveva spiegato la malvagità mascherata
dall’eccessiva purezza del monte Hakurei. E per tutto
il tempo era stata così, quieta. Da quel momento la
morsa del dolore gli aveva serrato la trachea come la corda di uno strangolatore,
stringendosi poco a poco.
Inuyasha serra selvaggiamente i
denti.
Mai lo avrebbe creduto possibile,
eppure avrebbe preferito essere accolto dall’odio che in una forma o nell’altra
lei gli ha sempre riservato dal giorno del suo ritorno, piuttosto che quel … niente … che sembra averlo sostituito.
Il viso di lei,
calmo e impassibile come la sua voce. Gli occhi! Si era rifiutata di incrociare
il suo sguardo, se non quando loro si stavano preparando per andarsene.
E quando
lo aveva fissato, era stato come per dirgli addio.
Scrollando la testa per liberarsi
delle goccioline di sudore, mischiate alla pioggia, che gli si stanno formando
all’attaccatura dei capelli, Inuyasha ricorda quando vide una Kikyou simile a
quella della sera precedente.
Quando
si erano appena incontrati – o meglio, scontrati
– cinquanta anni prima.
Occhi gelidi, no anzi, del tutto distaccati, occhi di una persona che ha sbarrato
porte e finestre per tenere fuori l’intero mondo.
Ma ieri
è stato ancora peggio. Inuyasha ha avuto come la sensazione orrenda e
soffocante che quel è rimasto di Kikyou venga
lentamente risucchiato, portato via in un’oscurità per lui del tutto
incomprensibile, lasciando solo … cosa?
… una creatura che sì, di Kikyou ha solo l’aspetto. Una copia sbiadita e
sfigurata della vergine custode della ShikonnoTama.
Caldo e freddo frustano
a ondate il corpo di Inuyasha, lasciandolo debole e preda di brividi.
Lui lo sa, come potrebbe
dimenticare? Quel dolore impensabile, accecante, allucinante. Il dolore di
essere stato tradito. Quando Naraku era ancora solo un’ombra
ignota proiettata sulla sua vita.
E il
sollievo, un sollievo brutale, da togliere le forze, capace di trasformare le
gambe in matasse di corda e costringerlo a terra, quando aveva avuto la
conferma che nulla, nulla di quel che c’era stato fra loro era stata una
menzogna.
E lei? Cosa doveva avere provato, lei?!
Kikyou, oh Kikyou, cosa ho fatto, cosa ti ho
fatto!?! Dannazione!!
Ed ecco, come a volte gli capita,
le voci dentro di lui incominciano ad affastellarsi. Per prima, una simile a quella di quel bastardo arrogante di
Sesshoumaru.
Sei un debole, inutile hanyou. Non sei stato
capace di proteggere colei che ti si era affidata.
Stai zitto! Stai zitto!!
Ma per quanto si sforzi, ogni
fibra del suo essere gli grida inflessibile questa
realtà.
Lei stava morendo. Morendo!!! Dal suo corpo …
(oh così tiepido così profumato)
… la vita andava via col sangue,
veloce veloce! Da quello squarcio, quella ferita.
(identica a quelle che lasciano i miei artigli)
Terrorizzata,
disperata, quasi del tutto priva dei poteri che da sempre la proteggevano
…
(ma io non lo sapevo, maledizione!)
… certa di essere stata tradita.
(ma anche io … non cercare scuse ridicole, stupido hanyou)
Lui! Naraku cosa aveva fatto, a
lui!?
Non avevo perduto i miei poteri, io! Non ero ferito, io! Non stavo
morendo, io!!
Oh Kikyou, come ho potuto!?! Come ho potuto
credere …
… credere anche solo per un secondo che tu non fossi stata altro che
l’ennesima persona pronta a ridere alle spalle di uno stupido hanyou?
Lei, che era stata la prima, fra
loro due, a lasciarlo entrare in quelle stanze dell’anima che entrambi tenevano
chiuse a chiunque.
Lo so. Lei è sempre stata la più coraggiosa fra noi.
Maledetto!! Come hai osato toccarla! Come hai OSATO! Kikyou! La mia
Kikyou! Sì! Mia! Mia! MIA! Io ti ammazzo, ti ammazzo, ti ammazzo!!
Sì. Dagli la caccia. Trovalo. Uccidilo. Ma
ricorda, hanyou. Toccava a te. Toccava a te, quel
giorno, ripagarla di fiducia con fiducia. Non a lei. E per quanto ti sforzi,
per quanto tu possa fuggire, questo non lo potrai
cancellare mai.
Sta zitto!! Zitto!
Ma la voce
della sua discendenza, la voce del suo sangue youkai,
quella voce così simile a quella di suo fratello e che, proprio come quella di
suo fratello, non conosce esitazioni né sfumature, continua imperterrita.
Non era stato capace di proteggere colei che gli si era affidata.
No! Lo ammazzo. Lo ammazzo! Squartalo, spezzalo,
fallo strisciare …
Inuyasha sta sudando sempre più,
e accelera il passo, ma le voci e i pensieri lo incalzano e lo raggiungono per
quanto veloce vada.
Quanto aveva desiderato che lei
ritornasse? Perfino prima di sapere che erano caduti in quella trappola
malvagia? Quanto spesso? Guardando Kagome, inalando il
suo profumo (uguale a quello di lei),
aveva smaniato, sperato, e oh alla fine perfino pregato,
lui che non l’aveva fatto mai, tutti i Kami, perché
gliela restituissero. Ridatemela!
Ridatemela!
E,
dannazione, i Kami l’hanno esaudito!! E quel che gli è stato ridato …
Così, la seconda voce si leva dentro
di lui. E’ una voce femminile, la voce del suo sangue umano. E’ la voce di sua
madre. Ma da tanto tempo, è anche identica alla voce di lei,
la voce della miko, della donna morta che ama e per
la quale il suo sangue brucia.
Attento, Inuyasha! Dobbiamo sempre stare attenti a quel che
desideriamo. Sai, c’è il caso che, delle volte, i Kamidecidano di esaudirci!
E
rideva. Quando lui si aggrondava per quelle sue frasi
così strane, lei rideva.
Eh sì, perché
Kikyou rideva. Non tanto spesso, forse, ma sempre di più man mano che il
cumulo dei giorni passati assieme si affastellava trasformandosi in settimane e
mesi.
Rideva di una risata che era solo per lui, e lui era assurdamente pieno
d’orgoglio.
Sì. Il petto gli si gonfiava
d’orgoglio, perché sapeva, pur senza sapere come, che quella risata, lei non la
conosceva, prima. Che era stata la sua venuta, a donargliela.
E quindi, se
questo era vero, anche lui riusciva a dare? A darle … cose?
Era mai possibile? Lui era stato
così inebriato, dopo decenni di solitudine, dalla sua compagnia, e così
affascinato dalla sua bellezza, e da tutte le cose che lei sapeva, che aveva
impiegato tempo prima di accorgersene.
Ma
allora, davvero poteva credere che anche per lei fosse così? Che
quella gioia ineffabile sgorgasse anche dentro di lei? E
che, soprattutto, ne fosse lui la ragione? Come lei era la ragione della sua?
Stupefatto. Quando
si era permesso di sperare che fosse possibile, aveva giurato che non
l’avrebbe lasciata sola, mai.
E lei lo
ringraziava, parlandogli di quelle cose misteriose che lui non aveva mai capito
e odiava, ma spogliandole di quell’aria minacciosa che gliele rendeva così
ostili. Ridendo la risata speciale che lui solo era autorizzato a udire.
Quando
Kikyou indossava quella risata, Inuyasha sentiva qualsiasi distanza tra loro
crollare in un solo secondo.
Tutta lì e tutta sua. Tutta per
lui.
Mi hai tolto le sue risate. Tutte!! Tutte quante! Ma
io ti ammazzo, ti ammazzo!
Nei suoi occhi, in quegli scrigni
scuri, lui vedeva tutto quel che sarebbe venuto. Le carezze,
e i baci che avrebbero seguito quello sul pontile. Sarebbero stati
dolci, ma poi più duri e prepotenti.
Lui aveva visto i balenii delle
passioni che Kikyou teneva così gelosamente
disciplinate e custodite, le aveva viste apparire, come le squame bagnate di
pesci o mostri marini per un attimo emersi fino alla superficie del mare, per
poi svanire subito, lasciando l’osservatore nell’incertezza di aver davvero
veduto oppure solo sognato.
E poi?
Come sarebbe stato, slacciare i nodi e farle scivolare da dosso quella veste di miko? Quali tesori avrebbe scoperto? E come sarebbero state, le mani di lei? Mentre esplorava la
sua pelle – una pelle umana, diversa da questa ma pur sempre la sua.
E la
loro vita? Lunga? Breve? E vivere facendo parte di
qualcosa? Sarebbe stato bello? O brutto e spaventoso? O solo diverso? E diventare ogni
giorno di più, il custode l’uno dell’altra?
Quanta sofferenza potrà contenere
il suo cuore, prima di sbriciolarsi? Fin troppa, di questo è sicuro.
Lui non è stupido. Capisce bene
quel che intende Kaede, quando gli ripete paziente
che quella non è più Kikyou, ma una creatura deforme fatta a sua beffarda
somiglianza.
Però maledizione, possibile che
tutti loro non capiscano che c’è anche Kikyou, in quella effige
di ossa, terra e cenere?
Che sia responsabile anche di questo? Le mie preghiere … sono state
esaudite?
Il gelo nello stomaco di Inuyasha partorisce altro dolore, simile a un cieco
mostro che si nutre delle carni di colui che l’ha generato.
Lei è morta conoscendo l’agonia
del tradimento, ma a differenza di lui, ne è
prigioniera, come un’ape invischiata in una stilla di nettare.
Giorno dopo giorno, è condannata
a svegliarsi schiava di quel dolore, senza potersene allontanare né liberare,
incatenata senza speranza di fuga.
Quando Inuyasha
sente tutta l’enormità del peso del suo fallimento …
(patetico hanyou)
… piombargli addosso, come gli
sta succedendo adesso, la testa gli gira fino a
esserne stordito.
Oh Kikyou! Che cosa ho fatto!? Ti ho lasciata sola a morire!!! Come ho potuto essere così
stupido!? Stupido, idiota, da credere alla sua menzogna invece che a te? Neppure versando tutto il mio sangue fino all’ultima goccia,
potrò lavare il mio tradimento! Ma lo ammazzo, te lo
giuro, lo ammazzo lo ammazzo …
Ieri sera la risposta alla sua
domanda ha trovato una risposta.
Come riesce a resistere? Semplice. Non riesce, non più. Ha smesso di
lottare. Sta svanendo, e fra poco neppure io riuscirò a trovare quel che di
Kikyou ancora sopravvive in quel corpo corrotto.
Mancando un passo e brancolando,
finendo quasi a terra, Inuyasha cerca di spezzare la spirale dei pensieri nei
quali è finito imprigionato, ma senza riuscirci.
Lui non capisce e odia questi
misteri, non ha mai voluto averci niente a che fare. E
l’unica persona che riusciva a farglieli toccare, gli è stata tolta.
Ma i
suoi sovrannaturali istinti di predatore, esaltati all’esasperazione dal
vincolo unico che lo lega a Kikyou, gli dicono quel che c’è da sapere.
Inuyasha è stato quasi capace di
annusare la rassegnazione che arrivava dalla miko.
Come se ciò che è avanzato della sua anima si stesse arricciando,
accartocciando come un foglio sottile posato troppo vicino a
una fornace rovente.
E, orrore su orrore su orrore,
Inuyasha ha anche la penosa sensazione che questo (processo?)sia in atto da tempo. Sì. Da
quando? Da quella notte, quella notte sotto il Goshinboku.
Che cosa hai fatto, maledetta stupida? Cosa hai fatto, dannazione!?
E
Inuyasha è pieno di paura, perché conosce Kikyou meglio di quanto tutti loro
credano, e sa bene a quali estremi lei può spingere se stessa. E’ una cosa che
lo ha sempre attratto, e atterrito, anche. Gli estremi a cui può
spingersi quella donna forte, misteriosa e fragile.
Il sudore gli scorre addosso più
copioso, mentre i pensieri lo assalgono sempre più violenti.
Vorrebbe urlare, per alleviare la
pressione che sta per schiantarlo. Che sia ancora
colpa sua? Aveva deciso di salvarla a qualunque costo, quella notte, eppure in
un qualche modo una parte di lui aveva da subito avuto
la sensazione che fosse stata lei, invece, a salvarlo (trucco depistaggio inganno).
Geme piano. Fallito? Ha fallito,
di nuovo? Possibile che qualunque cosa cerchi di fare gli si ritorca contro in
questo modo? No. No. Non ce la faccio …
più.
Sei solo unohanyou.
Hai tradito ancora una volta chi dovevi proteggere.
No, peggio, ti sei lasciato proteggere da colei che dovevi proteggere! Sei la vergogna della tua discendenza. CheTessaiga penda al tuo fianco, è un inconcepibile
oltraggio.
Basta! Stai zitto o ucciderò anche te!!
Assistere impotente al lento
svanire di Kikyou l’ha riempito di un furore pari alla
sua incapacità anche solo di pensare a cosa fare per porvi rimedio.
Quando,
come un bagliore, gli era parso di vederla riapparire per un momento – i
bambini, certo, come sempre; era successo quando si era preoccupata per la
sorte degli orfani a cui aveva badato nei giorni precedenti, assieme al
mercenario con l’anima divisa a metà – aveva creduto di impazzire.
Come in questo momento, del
resto.
Inuyasha sente nel proprio sudore
la puzza untuosa e rancida della follia.
E mentre il sangue di suo padre lo tormenta senza posa, il sangue di sua madre gli
ricorda una cosa molto più semplice, banale perfino, ma più straziante.
Ho perduto il mio amore.
Tutto qui. Un altro era venuto,
gliel’aveva strappata via con la stessa indifferenza con cui un contadino
prende per la collottola un gattino appena nato e lo affoga in un secchio
d’acqua, e lui …
Ho perduto il mio amore.
Cosa
fare? Cosa?
Trovalo e uccidilo.
Inuyasha non sa se uccidere
Naraku può salvare Kikyou; è, solo, l’unica cosa a cui riesce a pensare.
Trova lui e ammazzalo.
Poi, trova lei e salvala. In un modo o nell’altro.
Nient’altro è importante.
Ha gli occhi annebbiati e non è
molto fermo sulle gambe, adesso.
In questi momenti, quando si
aggira, terrorizzato e morbosamente attratto a un
tempo, ai bordi di quegli abissi della sua mente che puzzano di pazzia, c’è
solo una cosa gli dà respiro.
Il calore del corpo di Kagome
addosso.
Sentirsela addosso, sulle spalle,
fiduciosa (Kikyou no, lei non si è mai
fatta trasportare sulle mie spalle); sentire l’odore del completo abbandono
col quale lei mette la vita nelle sue mani, è l’unica cosa che riesce a
spezzare queste spirali inarrestabili di pena e colpa, quando non riesce a impedirsi di pensare.
Lei, che gli permette di
conservare la sanità mentale quel tanto che basta per
continuare a correre appresso al suo destino.
Ma
adesso. Non su di lui, ma sulla groppa di Kirara.
Maledetta! Tutte le volte! Tutte le volte che ho più bisogno di te, mi
volti la schiena! Avevi promesso! E invece …
Ma la
rabbia gli sbatte in faccia altri sensi di colpa, mentre si dibatte nelle sue
insicurezze come Kikyou nell’agonia della sua anima squarciata.
Cos’è per lui, Kagome? Solo questo?
Gli serve per restare aggrappato al suo equilibrio quel tanto che basta ad
arrivare alla fine delle sue cacce? E lei? Forse,
confusamente, lei lo capisce? Sente che, in parte, lui la sta usando?
Lui che non è più padrone della
sua vita, non può più disporne.
Non sa se sopravviverà alla sua
lotta contro Naraku. Ma deve. Perché
solo Kikyou ha il diritto di decidere se lui debba vivere o morire.
E ogni volta che Kagome se ne va,
lui conta le ore e i minuti persi invano, in attesa.
Ogni minuto, è un minuto di dolore in più per lei. Mentre lui deve sbrigarsi, sbrigarsi, sbrigarsi, prima che sia troppo
tardi per aggiustare quello che ha rotto.
Colpa tua, stupido hanyou. Come sempre, colpa
tua.
No! Dannato! Guarda!! Questi altri che mi sono affidati! Non sono vivi?
Non li sto proteggendo? Eh? Eh?
Non coprirti di ridicolo con questi balbettii insensati. Perché permetti loro di stare al tuo fianco? Per
proteggerli? Sii onesto, per una volta, hanyou.
TACI!!! Basta …
E, al
colmo di pena e terrore, Inuyasha è raggiunto dall’ultima voce, la voce rossa …
(come il mondo quando lo vedo attraverso la furia demoniaca che prende
il comando del mio corpo)
… la voce nera …
(come le tenebre dove lui si nasconde)
… la voce del suo nemico, di colui che deve uccidere.
Inuyasha, noi ci capiamo, non è vero? Meglio di quanto entrambi
vogliamo ammettere, sì? Io ti approvo. Davvero. Usali. Usali tutti! Anch’io lo faccio. Ti servono per perseguire i tuoi intenti.
I tuoi, tu li trovi lungo la strada. La tua strada. Che però è
la mia strada. Mentre mi insegui. I miei, io li
creo, li forgio. Sì, adoperiamo ciò che ci serve, per
proseguire questa folle corsa. Tutti prede e tutti cacciatori!
E come io uso te, così anche tu usi me, alla stessa
maniera.
Lo so, Inuyasha, che cosa vuoi, tu. Quello che voglio
anche io. Essere libero, da questo groviglio di
pazzia insensata che ci lega.
Sì, lei mi insegue, come io inseguo lei. Per
dare la morte, o per riceverla? Neppure lei più lo sa. Inuyasha. Io sono
l’unico che può darle ciò di cui ha bisogno. Solo io posso
liberarla, non è vero? Non più tu, ma io. Tu lo sai, sì che lo sai…
Nononono
…Non preoccuparti. Ci penserò io. Me ne occuperò
io. Quel che tu non hai il coraggio di fare. Dammi
tempo. Solo un po’ di tempo. E’ quello che vogliamo tutti e tre. Confessalo.
Che lei sparisca, che ci lasci in pace, che
si tolga di mezzo. Lei lo
vuole anche più di noi. Ammettilo, Inuyasha. Ammettilo. Io sono ciò di cui lei
ha bisogno. Tu ti potrai disperare per un po’, e odiare me invece che te
stesso, e poi sarai libero. Ma quello che tu vuoi…
NO!NO!Non toccarla!!
Ti prego, non togliermela di nuovo, no ti prego, no ti
prego …
Ma la
risata morbida che gli risponde, non è di una voce che viene da dentro di lui.
E’ una voce secca, che viene da fuori.
Per che cosa mi stai pregando, hanyou?
Stavolta?
Inuyasha sente risalire fin dalle
viscere un urlo di orrore che si sforza di sigillare.
E’ un grido che non deve essere articolato, perché con esso
potrebbe andarsene anche la sua sanità mentale.
Le voci lo aggrediscono da tutte
le direzioni, e lui è indifeso.
La voce fredda, la voce
femminile, la voce nera, ognuna strattonandolo in una diversa direzione, ognuna
rivolgendosi a una diversa porzione del suo cuore,
della sua testa, della sua anima.
Fate silenzio! SILENZIO! Maledetti! Io ti ammazzo ti ammazzo vi
ammazzo, se non fate silenzio adesso io VI AMMAZZO TUTTI QUANTI!!!
Gira di scatto la testa verso Miroku, e gli chiede con una voce strozzata di cui l’amico
non pare accorgersi. “Perché Kagome sta cavalcando Kirara?”
Senza incrociare il suo sguardo, Miroku ribatte con un’aria di superiorità. “Non capisci
proprio le donne! Non vuole essere portata da te. La tensione tra te e Kikyou-sama era palpabile, la scorsa notte. Ti consiglio di
lasciarla in pace per un po’ di tempo. Poi, quando si sarà
calmata …”
Inuyasha smette subito di
ascoltare Miroku. Lui non capisce? Può giurarci, che
non capisce! Se dovesse stilare la lista delle cose che loro non capiscono, però …
Con un unico balzo, piomba al
fianco di Kirara urlando con quanto fiato ha in
corpo.
La traccia del sangue che stava
seguendo è svanita da un pezzo. I palazzi sono rari in questa parte della
città. E solo stare in piedi richiede più fatica di quanta Naraku avrebbe mai
creduto.
L’acciottolato è sdrucciolevole,
inondato di pioggia. La furia sferzante del vento, la luce abbagliante e
improvvisa del lampo, seguito dall’assordante e continuo scoppio del tuono,
tutto congiura per gettarlo a terra, per smarrirlo, per allontanarlo. Un muro
d’acqua gli si schianta addosso, riempiendogli la bocca e il naso, chicchi di
grandine gli martellano la schiena.
Onigumo non lo vuole. Non lì.
La pioggia riduce la propria
violenza un istante, e vede in lontananza una tromba d’aria, un dito che si
protende da mastodontiche rovine a conficcarsi nelle nubi nere, come un dito
che tormenta una piaga. Folate spazzano le strade, ululando. Viene sbattuto
contro una parete; il braccio gli si intorpidisce per il dolore.
Si asciuga gli occhi. Inutile.
Una mano davanti alla faccia, passo dopo passo, segue la strada che sente
essere quella giusta.
Se solo potesse vederci.
Ma non riesce.
Perché attorno.
A lui è.
Tutto.
Così.
Nero.
Dentro al nero.
Anche se l’unico occhio che mi è rimasto è aperto.
Notte.
Notte, perché non c’è neppure quella miserevole luce che mi viene
concessa durante il giorno.
Silenzio.
Nessun suono mi raggiunge. Per quanto ne so, il mondo intero potrebbe
essere avvizzito fino a ridursi a questa sola caverna.
Caldo.
Mi ha steso addosso questa coperta pesante, perché le giornate si fanno
più fredde ora che l’autunno è iniziato. Le ho detto e ripetuto che non soffro
il freddo quanto le persone comuni. Che coloro che mi hanno conosciuto si sono
sempre stupiti di vedermi indossare abiti leggeri, perfino d’inverno.
Mi ascolta.
Ma non si fida di me. Neppure per una tale banalità.
Me la toglierei di dosso. Se potessi. Se. Ma le mie braccia. Sono
steccate. Spezzate. Non posso muoverle.
Le dita delle mani. L’unica parte del mio corpo su cui ho il controllo.
Oltre alla testa. Già.
Maledetta donna.
Nonostante la sua mole, è sempre
stato un uomo agile. Quasi aggraziato. Il vecchio non gli ha mai impartito un
formale addestramento nell’arte del Kenjutsu. Ma il suo istinto e i suoi
riflessi gli hanno sempre permesso di prevalere sui suoi avversari.
E adesso.
E’ inchiodato in questa squallida
caverna, immobile, impotente.
Da quanto tempo? Quanti giorni?
Quante settimane?
Sospeso in un limbo crepuscolare,
Onigumo non ne ha idea.
Maledetta donna. Non lo sai, vero, quanto può essere angoscioso,
sentire le ore allungarsi fino a diventare l’agonia di un’eternità!?
Onigumo è abituato a convivere
col suo fuoco. Gli è sempre piaciuto alimentarlo, per godere con intensità e
senza preoccupazioni della sua vita.
Ma adesso questo fuoco lo fa spasimare.
Come se degli insetti gli camminassero addosso, solleticandogli la pelle ormai
insensibile con le loro zampette.
Tutto quel che è lo sta tradendo,
gli si sta rivoltando contro. Il suo corpo, le sue voglie.
E a tormento si aggiunge
tormento. Il nome della donna, è il nome della custode della Shikon no Tama!
Che beffa! Già.
La Shikon no Tama. Ne aveva
sentito parlare la prima volta in una locanda fetida, una stamberga divenuta
l’ultimo porto di mare di uomini e donne, naufraghi delle loro stesse vite,
colate a picco dai fortunali della vita.
Con un ghigno di disprezzo, aveva
prestato attenzione a quello strano vecchio con la bocca nascosta dietro alla
bottiglia del liquore col quale si stava stordendo; spaventato all’idea di
poter essere udito da orecchie indiscrete, e tuttavia consumato dal bisogno di
condividere con qualcuno il suo sogno da ubriaco. Spaventato dall’oggetto della
sua stessa fantasia. Spaventato dalla sua stessa paura, perfino.
Forse era un uomo forte, un
tempo. Magari un guerriero. Chissà, un samurai caduto in disgrazie, perché no?
Ormai, era solo un rottame sbronzo.
Si era informato, aveva indagato,
e aveva avuto conferma di quella strana storia. Un gioiello mistico in grado di
realizzare i desideri. Una miko posta a custodirlo. Uno hanyou con cui – si
sussurrava – la miko si intrattenesse.
Si era fatto beffe di tutto
quanto. Quel racconto, per lui, era solo una stupidaggine senza importanza.
Quel che voleva, lui era abituato
a prenderselo. Già.
Così, quando aveva saputo che il
palazzo di Kurokawa era incustodito a causa dell’ennesima guerra, aveva deciso
il da farsi. Aveva ingannato Rasetsu. Aveva convinto i suoi compari a seguirlo,
certo che l’hanyou avrebbe ucciso Kansuke. E invece!
Perché Kansuke Rasetsu non era
stato ucciso?
Con uno sforzo, Onigumo stringe
la mano a pugno, e fitte di dolore atroce gli risalgono dal polso fino alla
spalla. Suda e grida. Bene.
Ciò di cui si è fatto beffe,
adesso è lì per beffarlo. Non ha più il suo corpo. La miko gli ha assicurato
che un po’ per volta potrebbe riacquistare il controllo delle braccia, se le
fratture si salderanno come si deve. Ma non camminerà più. Quando la donna gli
ha toccato i piedi, non ha sentito nulla.
E le
ustioni? Le aveva chiesto. La miko era stata stranamente evasiva, ma poi gli
aveva detto che il fatto che fosse sopravvissuto aveva del miracoloso.
Nonostante le cure che gli prestava, le sue ferite si sarebbero potute
infettare in qualunque momento.
E
allora la cancrena lo avrebbe divorato.
Sì! Un gran bel dono! Già! Se
solo glielo potesse restituire!
Maledetta donna. Cosa mi hai fatto? Ho ucciso per meno. Per molto meno.
Se potessi farti assaggiare. Stupida donna. Donna dannata. Se potessi
farti capire.
Lo sai? Cosa significa!? Essere prigionieri di un corpo che ti tradisce.
Di un corpo che è il tuo corpo senza esserlo più? Maledetta donna. Un corpo che
non è più che una bara?
Ah se tu solo sapessi …
E lì, a brevissima distanza, c’è
l’unica cosa che forse potrebbe guarirlo. Guarirlo, e non solo. Anche dargli un
grande potere.
Ma, per quanto la Shikon no Tama
sia vicina, è come se a separarlo dal talismano ci fossero tutte le terre e i
mari del mondo! La miko non gli darà mai
il gioiello.
Le labbra di Onigumo si tendono.
Urla ancora.
Ogni tanto urla. Allontana il battito
d’ali della follia che gli svolazza attorno. Non gli importa se qualche bestia
o uomo feroce dovesse sentirlo. Non ha paura. Non ha paura di niente.
Ma non vuole rinunciare alla
vita. La sua vita. L’unica cosa che ha, poiché lui non crede in nulla; in
nessuna delle sciocchezze raccontate da miko, houshi e altri sacerdoti.
Stupidaggini bisbigliate da vigliacchi ammucchiati tremanti accanto a un
focherello, convinti che questo sia sufficiente a tenere lontane le cose
nascoste nelle tenebre.
L’unica cosa che ha è se stesso.
L’unica cosa che esiste è il qui e l’ora. Se fosse morto nell’incendio, oppure
quando Rasetsu l’ha precipitato nell’orrido, oppure lungo la riva del fiume,
tutto sarebbe finito.
Ma il suo fuoco non si vuole
spegnere. E adesso che la stupida donna gli ha salvato la vita.
Maledetta donna.
Un giorno dopo l’altro.
Cerca la sua vendetta.
Grigio.
Dentro al grigio.
Pomeriggio.
C’è un po’ di luce fioca. L’autunno sta per cedere il passo all’inverno.
Almeno, questo gli ha detto la
donna. La donna. La donna. La donna.
Il suo volto. Incubo nel sonno e
sogno nella veglia.
Certo; non vede altri esseri
umani a parte lei. Ma questo non ha molta importanza. Non gli è mai interessato
avere compagnia, se non quando questo serviva i suoi scopi immediati.
E quando poi l’utilità dei suoi
compagni finiva, se ne andava per la sua strada, a lasciarli vivere o morire
come preferivano.
Di solito, non ricorda le facce.
Non gli interessa ricordarle.
Ma il viso delicato della donna,
gli si ripropone di continuo nella testa.
Le sue dita si inarcano; gratta
con le unghie il legno su cui è sdraiato.
Ed eccola! La sua sagoma si
staglia all’imboccatura della cava. Entra. Viene verso di lui. Così silenziosa,
e intabarrata nella Chihaya, che quasi gli pare un fantasma.
Onigumo rabbrividisce.
Segue ogni suo movimento. Il suo
sguardo la scruta.
La donna posa a terra il cesto e
i fagotti che porta sempre con sé, quando viene lì.
Si inginocchia per accendere la
piccola lanterna che gli ha lasciato accanto.
E’ così impassibile. Distante.
Sembra che nulla possa raggiungerla.
La linea della bocca, la forza
nei suoi lineamenti minuti, i suoi occhi fermi; tutto gli parla della volontà
ferrea che esercita su di sé. Già.
La volontà che esercita su di sé,
per costringersi a tornare, giorno dopo giorno, e prendersi cura di lui.
Ma lui si ricorda. Oh sì.
L’immagine di quando la vide la prima volta. La conserva gelosamente. Nessuno
gliela può togliere.
Colta di sorpresa. Esausta.
Sporca. Quasi … spaventata.
Quei vestiti ridicoli e
assurdamente larghi, appiccicati alle sue curve, come le mani di un amante, a
rivelare quel ch’è nascosto. Magnifica. Perfetta.
Onigumo si sente bruciare; il suo
fuoco cresce. E cresce. Ogni giorno.
Se potessi riportarla a quella volta, là dove voglio.
Ma come?
Ormai, non è che un bambino
idiota e incapace.
Deve essere imboccato.
Deve essere medicato.
Deve essere rigirato.
Maledetta donna.
“Me la sono fatta addosso.
Puliscimi, miko.”
Lo sguardo di lei non esita. Non
trema. Non profferisce verbo.
Lo libera pian piano delle fasce
che costringono il suo corpo infranto. Inzuppa d’acqua i panni puliti. Lo lava.
Non mostra disgusto. Non mostra, alcuna emozione.
Onigumo sospira. Geme. A volte
ridacchia.
Di proposito.
E le tiene l’occhio incollato
addosso, cercando di cogliere la ben che minima esitazione nella sua
espressione.
Nulla.
Purtroppo, non c’è molto da
pulire, oggi. Di tanto in tanto, quando le sue voglie si fanno irresistibili, e
i suoi sogni tormentosi di un delizioso tormento, e i suoi lombi bruciano di
fuoco liquido, si sveglia in piena notte, come non gli capitava più da
quand’era ragazzo, per scoprire che il suo corpo si è preoccupato di dargli un
briciolo di misero sollazzo.
Ma, qualunque cosa ci sia da
ripulire, la miko non batte mai ciglio.
Si chiede se la donna sappia che,
la maggior parte delle volte, potrebbe trattenere le sue viscere in attesa del
suo arrivo. Se solo lui lo volesse.
Forse. Forse lei lo sa.
Fa parte della sua vendetta. L’ha
trasformato in un imbelle bambino. Che lo pulisca, dunque!
“Non dovresti tornare, sai, miko?
Uno come me, non merita di essere curato così.”
Come sempre. Nulla.
Non parla sul serio. La provoca,
sfidandola a non tornare.
A lasciarlo lì a morire. A fare
sapere dove si trova, così che Rasetsu, o uno dei tantissimi altri che vogliono
la sua testa, venga a finire quel che non è riuscito a fare.
La voce raschiante di Onigumo si
fa sentire di nuovo.
“Uno come me. Ho commesso così
tante atrocità. Mi ricordo, quella volta …”
E le racconta uno dei suoi
innumerevoli crimini. Non mente e non omette nulla. E’ certo che, se lo
facesse, lei se ne accorgerebbe. E invece, Onigumo vuole che lei gli creda e
che sappia chi è.
Ma tiene per sé le sue gesta più
infami. Abituala, poco per volta.
Nulla.
Onigumo ricorda bene i primi
giorni. Lui le riversava addosso il suo passato. La miko lo invitava a pentirsi
per quel che aveva fatto. Non ricorda bene le sue parole. Non gli importava
farlo. Sciocchezze. Sciocchezze riguardanti il Fato, e altre stupidaggini.
Onigumo le rispondeva sempre allo
stesso modo.
“Non mi pento di nulla e nulla
rinnego di quanto ho fatto. Ho vissuto sempre e solo per il mio piacere. Già.
Se non avessi fatto tutto quel che ho fatto, probabilmente adesso non sarei
qui, ridotto così. Ma neppure avrei conosciuto una donna bella come te, miko.
Perciò, direi che ne è valsa la pena. Sì, ne è senz’altro valsa la pena.”
Passati un po’ di giorni, la miko
aveva capito il suo gioco e aveva rinunciato a ribattere.
Ascoltava paziente, l’espressione
serena, quasi dolce, addirittura.
La sua sfida.
Così, Onigumo proseguiva coi suoi
racconti, fin quando la miko non finiva di pulirlo e medicarlo.
E infine, lo zittiva nutrendolo.
Le aveva chiesto spesso di
preparagli della carne di porco e del formaggio. Il cibo degli hinin, la casta
delle non-persone.
Certo, non il cibo che si
abbasserebbe a mangiare una miko o una, ah!, persona rispettabile.
Onigumo era certo che non lo
avrebbe fatto mai.
Così, la prima volta che aveva
sentito il sapore del maiale nella zuppa, l’aveva quasi sputata per lo stupore.
Poi le aveva chiesto se lo avesse cucinato con le sue mani.
La donna non aveva risposto,
scrollando solo le spalle.
Donna dannata.
Ogni giorno, Onigumo cerca di
escogitare uno stratagemma diverso per oltrepassare le barriere della donna.
Non ha nient’altro con cui
occupare la mente nelle lunghe ore solitarie.
Anche oggi ha finito di sfamarlo.
Pesce, tritato con un po’ di verdure. Ben bollito, così che possa masticarlo
senza troppa fatica, perfino coi suoi denti rotti.
Mentre la donna lava la ciotola
con un po’ d’acqua, Onigumo sente ululare in lontananza.
La miko si immobilizza in
ascolto.
Onigumo ne approfitta subito.
“Ah, iene. Bestie infide e
vigliacche.”
Simula una preoccupazione che non
prova. Cerca di indurre il tremito nella sua voce roca.
“Miko. Resta un po’ qui con me.
Per favore. Solo … solo per oggi.”
C’è stato un lampo nello sguardo
della donna? Come se si fosse accorta della sua recita? Onigumo non riesce a
capirlo. Di solito, gli riesce facile dissimulare. Rasetsu è solo uno dei tanti
che ha ingannato.
Però, questa donna …
La miko gli si avvicina e si
inginocchia di nuovo al suo fianco.
L’ululato delle iene si fa
sentire di nuovo.
Onigumo annaspa, muove impotente
le dita, grugnendo.
“Miko. Vorresti ... prendermi la
mano? Te ne prego.”
Nonostante l’orecchio di Onigumo
gli dica che la sua recita è perfetta, come la è sempre, il lampo si ripresenta
negli occhi della donna. Non gli crede. Sa che sta mentendo.
La donna intreccia le dita con le
sue.
Il cuore di Onigumo accelera il
battito.
“Grazie.” Dice soltanto.
Le trattiene la mano con la poca
forza che gli resta, le accarezza piano il dorso, sfiorando le dita affusolate
di lei coi polpastrelli; e poi le poggia il pollice calloso nel palmo, ruotando
e carezzando, là dove lui sa che la pelle è più sensibile.
Onigumo sa bene come rendere
lascivo perfino un tocco così innocente.
I lineamenti della donna restano
rigidi fin quasi a rendere il volto una maschera. Ma non si sottrae alla sua
presa.
Onigumo sorride tra sé. Oh sì; le
donne orgogliose sono da sempre le sue preferite.
Quando le spezza, sono quelle le
cui grida gli danno più piacere.
Bianco.
Dentro al bianco.
E’ nevicato, in questi giorni.
Mattina.
I raggi del sole non mi raggiungono, di mattina. Solo quando sta per
tramontare, il sole riesce a sfiorarmi per qualche minuto.
Ma il riverbero freddo e violento
del sole sulla neve bianchissima, lo raggiunge perfino qua.
Dove la luce viene spinta, quasi
urlante, per diventare illusione e sogno.
Che strani giochi di luce! Ma sono sveglio? Sono sveglio per davvero?
Oppure sto dormendo? Sembra tutto così irreale.
Ormai mi sono abituato al buio. Questo riflesso …questo biancore è
accecante, insopportabile. Mi pizzica l’occhio. Lo infiamma. Mi fa piangere. Ma
va bene. Non lo chiuderò. No. Continuerò a fissare la volta di questa grotta
scavata dagli uomini.
Ci sono segni che non ho ancora imparato a memoria. Forse, con questa
luce, potrò vedere qualcosa di diverso …sì …qualcosa di nuovo.
Qualcosa di nuovo è successo.
Ieri. Dopo che la donna ha finito di sfamarlo. Invece di andarsene in silenzio,
come sempre, gli si è avvicinata, si è chinata su di lui, lo ha chiamato per
nome.
“Onigumo.”
Aveva trattenuto una smorfia di
stupore, che pure si sarebbe persa tra le bende che gli nascondono quasi tutta
la faccia.
“Ascolta.” Aveva continuato lei,
con la sua voce quieta e cristallina come acqua fresca. Acqua che non ha il
potere di spegnere o sottomettere il suo fuoco, sia ben chiaro.
“Un villaggio vicino ha chiesto i
miei servigi per sterminare alcuni youkai. Mia sorella Kaede verrà a portarti
da mangiare e a occuparsi di te. E’ giovane, ma l’ho addestrata bene.”
La donna si era interrotta,
fissandolo diritto negli occhi.
“Ma se, al mio ritorno, Kaede
sarà turbata, o spaventata, o sconvolta, da una qualsiasi delle cose che
potrebbero venirti in mente di raccontarle; in tal caso, Onigumo, io non potrò
più occuparmi di te.”
“Se, invece, saprai pazientare,
tra pochi giorni sarò di ritorno. Hai capito?”
Onigumo aveva annuito. Oh, sì che
aveva capito. Sia la minaccia, che la promessa, celate dietro quelle poche
parole. E l’ammissione che per tutto quel tempo, lei aveva sempre saputo quale
fosse il gioco col quale lui si intratteneva.
Onigumo ride al ricordo; risate
brevi e secche come colpi di tosse.
Ah, lo sapevo, lo sapevo. Donna. Quanta passione … che fiamma deve
esserci sotto quel ghiaccio. Sì sì, l’ho sempre saputo. L’ho capito appena ti
ho vista. Donna dannata. Stupida donna. Mia carceriera.
Nessuno è mai riuscito a imprigionarmi. Ma tu ce l’hai fatta. Vero?
Lui non ricorda le facce. Non gli
importa ricordarle. E non usa i nomi. No. Non gli piace chiamare le persone per
nome, se appena può evitarlo.
Ma il viso della donna ormai è
impresso nel cuore stesso del suo fuoco. Indelebile.
E poiché lui non ricorda le
facce, e non usa i nomi, non gli è difficile immaginare … sognare.
Gli basta chiudere l’occhio, un
solo momento, per riposarlo da questo intollerabile barbaglio.
E ricordare una delle tante donne
del suo passato.
Come gridano e piangono, mentre
le afferra e le schiaccia per terra.
Alcune cercano di mordere, quando
con una mano immobilizza i loro polsi, oh così sottili, e con l’altra accarezza
i loro colli.
Alcune gridano più forte, mentre
altre restano ghiacce dal terrore, quando strappa il tessuto dei loro vestiti.
Che rumore delizioso, oh sì, che pura delizia.
E quando usa le ginocchia per
forzarle ad aprirsi per lui, e i loro corpi sudati si contorcono, sussultano e tremano.
Come scalciano. Sgroppano, proprio come cavalle selvatiche.
Delle volte, le prende dopo aver
ucciso i loro mariti, o i loro figli. Spesso, quando fa così, i loro sguardi si
spengono presto. Gli oppongono appena un po’ di resistenza, ma poi lo lasciano
fare. Divertente. Ma lui preferisce, quando combattono fino alla fine.
Ormai, i volti di tutte quelle
donne sconosciute e senza nome sono diventate un unico volto.
Maledetta donna.
Che si ripresenta, di continuo,
di continuo, dal pozzo della sua mente.
Onigumo ne ha avuto la certezza
fin dalla prima volta.
Senza alcun dubbio. La miko è una
di quelle che lotterebbe fino in fondo.
Quanto, prima di riuscire a farla
gridare?
Molto.
Quanto, prima di costringerla a
chiedere pietà?
Moltissimo.
Quanto, prima di riuscire a farla
piangere?
Ancora di più.
Oh sì-sì-sì. Magnifica. Perfetta.
Forse con lei potrebbe anche non
annoiarsi, dopo le prime volte.
E le sue lacrime.
Lui beve sempre le loro lacrime.
Che arrivano. O prima o poi, arrivano sempre. Basta essere pazienti. E lui è
paziente, quando c’è bisogno di esserlo.
Sì. Ne è sicuro. Le lacrime della
miko sarebbero puro nettare. Pura estasi. Dolci e salate quanto mai ne ha
assaggiate. Le vuole. Oh, quanto le vuole. Non ha mai voluto niente altrettanto
intensamente.
Potrebbe perfino non esserne
sazio. Già.
Potrebbe perfino non averne, mai
abbastanza.
E poi sì, dopo aver bevuto tutte
le sue lacrime, a modo suo sarebbe dolce. Potrebbe toglierle i vestiti
stracciati. E lavarla. E medicarle i lividi. E prendersi cura di lei.
Esattamente come fa lei, con lui.
Perché lui lo sa. Già! Lui lo sa
cosa vogliono davvero. Cosa davvero desiderano, tutte le donne che ha conosciuto.
Anche se non lo ammettono, così
come non lo ammette la miko.
Infide. Bugiarde. False. Ipocrite. Tutte. Tutte. Tutte quante. Tutte
uguali!!
Sono la vostra voglia inconfessata. Io lo so quel che volete veramente.
Maledette.
E’ sicuro che tutte custodiscono
il suo ricordo. Certo, tutte quelle che non sono morte o che lui non ha ucciso.
Non si stancherebbe mai di bere
le lacrime della miko. Non si stancherebbe mai di badare a lei, di insegnarle
cose che, ne è sicuro, nessuno di quegli imbecilli le ha mai insegnato.
E visto che lei è forte, molto,
molto forte, molto più di qualunque altra donna su cui abbia mai posato gli
occhi, forse, forse lei potrebbe sopravvivere abbastanza a lungo da confessare
a se stessa la verità, e cioè che è questo quel che vuole davvero. Sì.
Perché lui le insegnerebbe con
tanta, tanta pazienza.
Onigumo si chiede se sia questo,
l’amore.
Le sue dita si contraggono
mentre, furibondo, pensa all’hanyou. Non lo ha mai visto. Non conosce il suo
aspetto.
Maledetta donna. Ti credi tanto speciale? Tanto superiore? Tanto meglio
di chiunque altro? Oh no, non ti bastava un amante qualunque. Non era
sufficiente per te. Doveva essere qualcosa di diverso, qualcosa che potessi
avere solo tu. Qualcosa di più forte, già, di più resistente. E cosa ti fai
fare dal tuo hanyou? Eh? Come ti tocca, lui? Io saprei fare di meglio, molto di
meglio.
E da quando in qua una miko si lascia corteggiare da uno hanyou? Da
quando mai? Da una cosa che è poco più che un animale. Già. Almeno, io sono un
essere umano.
Ipocrita. Come tutte. Come tutte.
Onigumo si prende la punta della
lingua tra i denti spezzati, mordendosela. Sente il leggero sapore ferroso del
sangue.
E si chiede se sia questa, la
gelosia.
Mia carceriera.
E adesso, cos’è questo ricordo?
La miko gli ha detto tante cose. Specialmente i primi giorni. Le ha parlato
della sua inutile religione. Lui ha ascoltato tutto con attenzione; per trovare
un appiglio da usare per ferirla.
Cosa gli ha detto? Gli ha parlato
di una … tradizione? Preghiera? Come si dice?
Il Kotodama. La ripetizione sacra
della parola.
Cosa ha detto?
Di non permettere che la sua
malvagità uscisse con tale frequenza dalla sua bocca. Perché le avrebbe dato
vita, in molti modi misteriosi che nessuno avrebbe potuto prevedere. Perché le
parole hanno un potere. Il potere di prendere vita. Il potere del Kotodama. E
gli diceva di trattenere la sua malvagità, di combatterla. Di usare meglio che
poteva il tempo che gli restava in questo mondo.
Stupidaggini.
Tutte. Quante. Stupidaggini.
Però, ha tanto di quel tempo!
Perciò, perché non provare a riempirlo, anche così? Cos’ha da perdere? Nulla.
Assolutamente nulla.
E’ la prima volta. Perciò esita
un po’.
“Ki … kyou.” E’ la prima volta
che pronuncia il nome della donna. A lui non piace usare i nomi. Se appena può
evitarlo. Però, questo nome non è troppo sgradevole da pronunciare. Riprova.
Più deciso, stavolta.
“Kikyou.” Non suona poi così
male. No. Nient’affatto.
“Kikyou. Kikyou. Kikyou.”
Piacevole. Già. Ogni volta più … carezzevole.
Percorre lenta il corridoio di alberi, e la testa non smette di girarle
Percorre lenta il corridoio di alberi, e la testa non smette di girarle. E’ una così
bella giornata! Il cielo è terso, il sole, oh non le è
mai parso così splendente! E non la scotta, non la
tormenta con la sua forza o la sua luce, perché le foglie degli alberi le fanno
da riparo come mani gentili.
E i richiami degli uccelli
mattutini … il suo orecchio la inganna? Eppure non le sono mai parsi così pieni di letizia. E perché il bosco è così profumato, e l’aria così fresca?
Come mai? Come mai, solo adesso
che sa di dovere dire presto addio a tutto quanto, tutto le sembra tanto
sorprendente, più vivo, più vivido?
Trasognata, sente il rumore
dell’acqua corrente. Da dove? Ma è vero, c’è un
torrente, non molto distante.
E un posto, una caletta,
nascosta, piena di ombre. Lei e Inuyasha ci sono andati a mangiare una volta; sono stati lì delle ore.
Non faceva caldo, ma lei si sentiva così pesante, e così matura, pronta. Era
stato facile fingere che non ci fosse nessuno al mondo tranne loro due. Quel
giorno, se solo lui fosse stato un po’ audace, lei gli avrebbe concesso
qualsiasi cosa.
Si lecca le labbra. Darebbe
l’anima per bere un po’ di quell’acqua.
La distrazione la fa inciampare
in una buca del terreno. Recupera svelta l’equilibrio per non cadere, e la
frustata di dolore la riporta alla realtà.
China il volto sudato, e poi si
costringe a guardare di nuovo la spalla. Il sangue sgorga copioso nonostante
tenga stretta l’arteria, la manica ne è madida. Si
sforza di esaminare la ferita come se fosse quella di qualcun altro.
L’hitoe
si è impastato all’orrido squarcio, trasformandosi in una palla di stracci
zuppi di sangue. Cercare di togliere la stoffa … rabbrividisce alla sola idea
dell’ulteriore danno che ne verrebbe. Ma perché preoccuparsene? Queste vesti saranno
il suo sudario, lei lo sa bene.
E piuttosto, riuscirà a usare l’arco? Saprà trattenerlo quanto
basta da tenderlo per scoccare una freccia? Non la spaventa il male
fisico. E’ stata addestrata a tenerlo a bada quanto
basta. Però.
Un solo colpo.
Ha un solo colpo a disposizione.
Lo sforzo di tendere l’arco allargherà talmente la lacerazione …
E sarà finita.
Non deve sbagliare. Non
sbaglierà. Non è mai stato tanto importante, non sbagliare.
Solo chi percorre la via del Kyujutsu
può comprendere l’armonia, Kikyou.
Ride amara. Quale armonia? Che
razza di armonia è? Uccidersi l’un
l’altra.
Uccidere? Morire?
No! Non oggi! Questa giornata è
troppo splendida! Questo non è un giorno fatto per la morte! Che
diritto ha la morte di prendersi questo giorno!? E’ un giorno fatto per ridere
e amare e danzare e lei non … può accettare che …
Sente una lacrima sfuggirle
dall’angolo dell’occhio. Ha fatto di tutto per trattenerle, e questa lacrima
ribelle, che sia dannata!
La sente scivolare lungo la
guancia liscia e calda, una guancia che non avvizzirà mai, che non conoscerà
mai l’ingiuria di coprirsi poco a poco di rughe.
E’ c’è chi ne ha paura! Cosa darebbe, lei, per avere un tale privilegio!
E questa
maledetta lacrima prosegue il suo cammino. Non può neppure asciugarsela via! Non
osa muovere il braccio destro prima del momento in cui dovrà scoccare l’ultima
freccia della sua vita, né scostare la mano sinistra dalla ferita.
Scrolla la testa appesantita, ma
la lacrima non vuol saperne di staccarsi. Una seconda, figlia di dolore e frustrazione,
intraprende il percorso tracciato dalla prima. Stringe i denti per impedire ai
suoi occhi di tradirla di nuovo. Scuote ancora la testa.
“No. Lascia andare! Non fare
così. Assaggiala. Oh, assaggiala! Deve essere squisita.”
Il gemito veleggia giù dalle
fronde degli alberi. Kikyou rabbrividisce nonostante il freddo che già si sente
addosso.
“Cosa?”
“Lo so, lo so che ti fa male, oh,
piccola mia, mio amore, mia gemma. Lo so, adesso lo so, l’amore fa male, l’amore è duro. Non è quel di cui raccontano i
cantastorie.”
Kikyou esita e si ferma, le
pupille dilatate, a fissare i rami.
D’improvviso, tutto è diventato
minaccioso. D’improvviso, niente è più bello. D’improvviso, scopre che ci sono
sempre nuove scorte di paura, perfino quando queste sembravano esaurite.
“Chi c’è?” sussurra.
“Ma il
dolore è buono. Serve per imparare. Non è dolore, quel che prova il seme quando
si frantuma e muore? Ma solo così può nascere un
germoglio. Me l’hai insegnato tu, sai? Giorno dopo giorno dopo giorno dopo
giorno, mi hai insegnato. Già. Sei stata, spietata. Lo sai? Ma io ti ho perdonata. Mio unico, unico amore.”
La lacrima sfiora l’angolo della
sua bocca. E’ così assetata che la inghiotte senza pensarci.
“Così. Lascia andare. Guarda che
cosa succede, piccola mia! Perché ti sei fidata dello
stupido hanyou? Eppure io
sono sempre stato lì. Nessuno ti ha mai attesa come ho fatto io. Nessuno ti ha
mai voluta come ti voglio io. Già. L’amore fa male, l’amore è
duro, duro come il diamante. Mia gemma.”
Kikyou china la testa, in preda
alla nausea. Delirio? Sta già delirando? Ha perso più sangue di quanto credesse.
“E
adesso sono venuto a restituirti tutto quello che mi hai insegnato! Tutto
quanto. Lo so che sei confusa. Sei spaventata. Forse mi odieresti, se solo
sapessi. Anch’io ti ho tanto odiata, sai? Ma tu sei stata così paziente. Così paziente, a insegnarmi l’amore per il quale credevo di non essere
fatto! Mia luna. Mia carceriera. Grazie.”
“Chi c’è?” Voleva
essere un grido, è solo un gemito. Perché è
tanto terrorizzata? Tanto, che al confronto quel che provava prima pare niente?
“Dimentica l’hanyou.
Quello schifoso, stupido traditore! Fai posto nel tuo cuore, per me. Anche se
ti fa tanto male, lo so. Neanch’io volevo fare posto nel mio, per te.”
“E
quando lui sarà morto, quando l’avrai ucciso, quando sarà il suo sangue a bagnare la terra …”
“Tu guarirai. Tu lo sai come
fare. E ti perdonerò anche questo. A me lo hai negato.
Ma erano tutte quelle bugie. Tutte
le sporche bugie che ti hanno versato nelle orecchie da quando sei nata.
Ma tu le odi quanto le odio io. Vero? Vero? Io te ne
libererò. Mio amore. Non ti odierò per questo, non temere. Ho fatto da me. Ho
fatto tutto da me. Perché quel che voglio … quello che voglio, io me lo prendo!
Sempre! Sempre!!”
“Non è vero. Non sei vero. Sei
solo un’allucinazione, un sogno.”
Altre due lacrime solcano il viso
di Kikyou, ma lei non se ne accorge più.
La risata precipita su di lei
come foglie marce.
“Quante volte l’ho creduto
anch’io di te, mia piccina! Va bene così. Piangi. Ma non
usare tutte le tue lacrime. Conservane alcune. Le voglio. Le voglio! Questo me
lo devi! Adesso ci sono io a occuparmi di te. Non più
lo stupido hanyou. Sto andando da lui. Un po’ di
pazienza. Ancora solo un altro po’ di dolore. Resisti.
E presto …”
“Presto, cuore mio, ci
abbracceremo, nelle mie tenebre. E non lascerò più che
qualcuno ti faccia male. Non lascerò più che qualcosa ti ferisca. Riposeremo insieme,
nelle mie tenebre, dimenticando il mondo, dimenticando tutto! E insieme danzeremo, e rideremo.”
“E io ti
cullerò, e ti bacerò, e, oh! amore insieme!, noi
faremo tutte le altre cose, che si fanno nelle tenebre.”
“Aspettami, mia Kikyou.”
Svanito.
Kikyou batte le palpebre per
liberare gli occhi dal bruciore del pianto e del sudore.
Le era parso che fosse sceso il
buio.
Ma no;
la luce è sempre la stessa.
E gli
uccelli si erano zittiti?
Ma no;
cinguettano, proprio come prima.
Stava per svenire. Per questo il
mondo attorno a lei era parso offuscato, come se stesse per spegnersi. Deve
affrettarsi. Se non si sbriga, morirà prima di
riuscire a fermare Inuyasha.
Arrancando, si costringe a …
… spostare le dita verso la gola
di Suikotsu.
Ma prima che possa strappare la
scheggia della ShikonnoTama dal suo collo, una lama guizzante la precede.
Il mercenario pazzo con la spada
simile a un serpente afferra il frammento. La fissa,
ma qualcosa nella sua espressione lo induce a sbarrare gli occhi bistrati per
la paura. Si volta e fugge a gambe levate verso una pista che conduce alla cima
del monte Hakurei.
Kikyou resta a guardare le carni
di Suikotsudisfarsi e
tornare polvere, il sorriso sereno sostituito dal ghigno vuoto del teschio
luccicante.
Stavolta sei morto come volevi, amico mio. Questo ti basta?
Kikyou resta
inginocchiata, perduta tra pensieri e ricordi, mentre la pioggia spazza via la
polvere.
“Stai bene?”
Sussulta. Gira la testa e trova
il volto della bambina, alla stessa altezza del suo. Ma per quanto si sforzi, non riesce a formulare neppure l’imitazione di un
sorriso.
“Sì. Ti ringrazio,
sto bene. E’ tutto passato. Non c’è più nulla di cui aver paura.”
“Lo so.” Risponde la bambina e,
pur inzuppata come un pulcino, le sorride, come se non avesse una sola
preoccupazione al mondo. E questo è vero, in un certo
senso.
Kikyou è travolta da un empito di
tenerezza; vorrebbe allungare il braccio, e posarle la mano sulla nuca, per
impartirle una benedizione, qualcosa che la possa proteggere. Ma basta solo
l’accenno di un movimento del suo braccio, pressoché impercettibile all’occhio
umano, e subito sente raggiungerla, a ondate, la
disapprovazione dello youkai alle sue spalle.
No. Lo youkai
non le permetterà mai di toccarla. Una creatura come lei, morta e, quel che è
peggio, con una tamashii che puzza di un odore troppo
simile a quello di colui che lui è venuto qua a
uccidere.
Non le consentirà di toccare
neppure uno dei capelli della sua protetta.
Kikyou si sente, all’improvviso,
spasimare per la sorte di questa bambina. E parole quasi le
si formano sulle labbra. E’ così difficile trattenerle. Perché vorrebbe dirle …
Stai attenta, bambina! Stai tanto, tanto attenta! Io lo capisco, un pochino, sai?, come ti senti. Ti senti sicura, e cullata.
Io sono stata scaldata, sai?, da un calore simile a
questo. E’ bello, è caldo, come un fuoco scoppiettante
nelle sere gelate d’inverno, come una coperta cucita da tua madre, tutta
avvolta attorno alle spalle. Sotto la quale ti puoi
rannicchiare, per credere che niente ti possa far male!
Ma, bambina, stai tanto, tanto attenta! Perché
quel che ti sta vicino non è l’amichevole fuoco che ti scalda – anche se pure
quello può morderti quando meno te l’aspetti!
Quel che ti sta vicino è il sole! E il sole non deve mai starti troppo vicino, bambina! E’ troppo, troppo caldo. Lo so. Tu credi
che illumini i tuoi passi. Tu credi che stia lassù, solo per te, solo per
proteggerti. E, oh, bambina! Purtroppo per te, questo
è vero!! Un sole così … non ci sarà luogo per l’ombra, quando la tua pelle si
coprirà di vesciche. Non ci sarà pezzuola bagnata per riposare gli occhi,
quando ti bruceranno fino a lacrimare senza potersi fermare. Non ci sarà una
gentile sorgiva d’acqua per bere, quando la tua gola sarà tanto riarsa dalla
sete da toglierti voce e senno. E lui non saprà, lui
non capirà. Quando non sarai altro che un mucchietto di cenere,
lui passerà tutta l’eternità a chiedersi che cosa ti abbia uccisa. Senza
capirlo mai.
E perciò, bambina, stai tanto, tanto attenta!
“Rin.”
Con una singola parola,
Sesshoumaru richiama Rin a sé. Non gli piace che stia troppo a lungo vicina a quella specie di miko.
Ha udito l’incomprensibile
conversazione tra i due morti, e seguito la lenta
convulsione delle loro tamashii. Le zaffate di puzzo
che ne venivano l’avevano quasi costretto ad allontanarsi. Solo il suo orgoglio
l’aveva trattenuto.
Uno dei due
morti è finalmente svanito – ma purtroppo l’altro ancora lo tormenta.
La miko
si alza in piedi, indifferente alla pioggia quanto
lui, e lo squadra con calma.
Impudente creatura. Sesshoumaru
avverte l’odore della sua scelta. La miko annuisce.
E’ libero di andarsene. Venire
trattenuto l’ha spazientito, essere congedato così lo
fa infuriare, e non può neppure sfogare la sua irritazione sull’aberrazione
morta.
Ma non
importa. La ragione per cui è qui è un’altra. Mentre
si allontana, la sussurra a fior di labbra.
“Naraku.”
Gli occhi dorati dello youkai incrociano i suoi prima di volgersi altrove. Le sagome sua e della bambina svaniscono nell’oscurità della
pioggia.
Kikyou lascia che l’acqua le lavi
il viso e i capelli. Chissà come sarebbe stato. Se gli
occhi di Inuyasha fossero stati così. Ah, allora lei
non avrebbe certo esitato.
La loro battaglia sarebbe
diventata materia per leggende e canti; sarebbe durata giorni.
E lei
non si sarebbe lasciata battere. Perché non c’è mai
stata nessuna, nessuna come lei.
Forse, alla fine, non avrebbero
fatto altro che uccidersi l’un l’altra. Perciò, in fondo, nulla sarebbe cambiato.
Ma io avrei sofferto di meno.
“E non
solo io. Non ho ragione, Naraku?”
La sua risata è quella di un
folle. L’ha afferrato, come un’enorme mano invisibile, e lo scuote selvaggia.
Inarrestabile?
No. Pian piano, la sua virulenza
si riduce. Le fiamme che cova si attenuano, e la risata si tinge di freddo,
controllata, sicura. La sua risata.
Sua, e di nessun altro.
Il dolore alla testa è oltre
l’agonia, frantumi d’ossa a mordere la materia morbida delle sue cervella. Non
gliene importa nulla. Anzi, ne esulta.
Solleva le braccia sopra il capo,
i pugni chiusi. In mezzo alla devastazione, fissa il cielo bianco. Bianco!
E, come per tutte le cose, la risata
finisce.
“E’ finita la tempesta.”
Capitolo un po’ più breve, prima
di affrontare l’ultima e complessa parte del monte Hakurei
@Mommika:
grazie mille, davvero. I tuoi complimenti mi hanno inorgoglito. Di fatti l’idea
con la quale ero partito era proprio ri-raccontare
alcune cose … certo, devo dire che io per primo mi
sono stupito davanti a certe mie “uscite”. Certo, questo è l’
“amore” con tutte le virgolette d’obbligo, di Onigumo,
e altro non potrebbe essere.
[siamo almeno due sostenitori
della coppia sfortunata xD ]
Sorride, compiaciuto. Dilata le
narici, cercando un odore, un odore qualsiasi. Non ne avverte
alcuno. Annuisce. Prosegue il suo cammino, senza né rallentare né affrettarsi, godendo di ogni istante come se fosse il primo della sua
esistenza. Si sente così pulito.
Ed ecco,
altre macerie lasciate dalla tempesta. Al posto dei palazzi, blocchi monolitici
di pietra, sparsi disordinatamente come i balocchi di un gigante. Qui,
l’acciottolato è sventrato, e al di sotto lui
intravede … cosa?
Non è oscurità, non è materia,
non è luce.
Non è importante.
Naraku leva una mano, incorporea,
senza neppure smettere di camminare, e la pietra sembra diventare come magma,
cercandosi, chiudendo squarci, assumendo la forma che lui desidera. I blocchi
rotolano con un terribile frastuono, e nuovi edifici sorgono dalla
pavimentazione, aggredendolo col lacerante ruggito della roccia sulla roccia. Ma non un solo grano di polvere si agita nell’aria.
Il suo sorriso si allarga. Niente
dolore. E’ svanito; può fare tutto questo, e molto di più, senza che neppure un
flebile pulsare gli sfiori le tempie.
“Poco. Manca pochissimo.”
Le costruzioni si fanno rade, la strada si allarga sempre più. Dieci metri,
venti, cinquanta. In lontananza, Naraku vede la sagoma di un solitario,
gigantesco anfiteatro stagliarsi contro il cielo bianco e vuoto. Si muove in
quella direzione per raggiungerlo. Più grande, sempre più grande
man mano che si avvicina, fino a occupare tutto il suo campo visivo.
Solleva la testa, fissando la
parete convessa che incombe su di lui, alta quasi cento metri.
I suoi occhi scintillano liquidi. Un varco si apre. Percorre il corridoio
scuro, lo sguardo fisso sul piccolo punto di luce che ne segna la fine. Emerge
all’interno di una vasta arena pavimentata in ciottoli. Le gradinate si
susseguono innumerevoli, una sopra l’altra. Scrolla le spalle e comincia la
salita, fino ad arrivare circa a metà. Si siede, gomiti sulle ginocchia e mento
poggiato al palmo della mano.
E le
immagini prendono vita, dapprima come sagome perse tra la nebbia, per farsi
sempre più concrete.
Prima, quello che era il palazzo
di Kakewaki.
Poi lui stesso, il corpo deforme
e gigantesco, in guisa di ragno mostruoso, mentre, la sua barriera abbassata,
attende l’arrivo di Sesshoumaru.
Poi, Sesshoumaru stesso che,
attirato dal suo odore, viene – così lui crede – per
distruggerlo.
Gli eventi che
lo hanno portato a rifugiarsi nel ventre del monte Hakurei.
Li rivede ora.
Sesshoumaru che lo colpisce con Tokijn.
Frammenti del suo corpo che piovono come pioggia sporca sulla fiamma di calor bianco che
è lo inuyoukai.
Naraku sorride, come se dalla sua
coscienza fosse svanito il ricordo dell’epilogo dello scontro, e pregusta una
vittoria che non può sfuggirgli.
Un pezzetto per volta, vede se
stesso aderire a quel biancore accecante, alla ricerca del punto su cui premere
per frantumare il guscio di Sesshoumaru e divorarne la polpa.
Studia con distacco il
fratellastro di Inuyasha sferrare colpo su colpo, un
fendente dopo l’altro, e oh quanto gli piacerebbe scoppiargli in faccia a
ridere e ridere e ridere.
Perché Sesshoumaru sa quel che sta succedendo eppure, come lui sapeva avrebbe
fatto, non ferma i suoi attacchi.
Tutti. Tutte le creature dei cieli e della terra sono le schiave delle loro stessa natura.
Se Sesshoumaru non fosse
confinato nella gabbia del tempo e dello spazio, quella cornice che i Kamihanno deciso debba
racchiudere l’universo da loro sognato, proseguirebbe il suo attacco in eterno
e oltre.
Poiché non può concepire né
sconfitta né esitazione né riposo, ciò che intimamente è lo sta condannando
alla sconfitta senza che lui, Naraku, debba muovere un
solo dito per infliggergliela.
Quanto sarebbe
piacevole spiegarglielo. Ma Sesshoumaru,
purtroppo, non può apprezzare l’ironia di questo paradosso.
Adesso è ricoperto da capo a
piedi. Per quanto tempo resisterà? Probabilmente per molto. Potrebbe perfino
riuscire a liberarsi. Ma, anche in tal caso, sarà lui
stesso a creare le condizioni per farsi imprigionare di nuovo. E prima o poi, esaurite le sue titaniche forze, sarà pronto
per essere consumato dalla sua tenebra.
C’è solo una piccola, minuta
inquietudine.
E’ bene che un tale assoluto diventi una parte di me?
Il sorriso di Naraku si smorza.
Questo è qualcosa a cui avrebbe dovuto pensare per
tempo.
Perché voglio che un tale assoluto diventi una parte di me?
Una forma confacente a quel che sono. E’ ciò a
cui ho diritto.
Coloro che hanno una forma, sono quella
medesima forma. Possono desiderare che essa sia diversa, migliore, ma sanno che
sono ciò che hanno.
Ma colui che può determinare la forma che ha,
può altresì determinare quello che è.
Non un desiderio, ma solo una realtà tra le infinite possibili.
Questo, il mio dono.
E dunque, èbene che un tale
assoluto diventi una parte di me?
Posso prenderlo. Posso farlo mio. Posso essere così.
Ma posso addomesticarlo?
Non lo so. Non per certo. L’assoluto è una delle poche cose che ignoro.
La mia decisione è incauta.
Rabbrividisce.
E perché proprio lui?
Certo, Sesshoumaru possiede uno youkidi immenso potere e di
purezza incontaminata. E questo soddisfa l’ambizione
della perfezione attraverso una forma perfetta.
Non avrei mai neppure contemplato l’ipotesi di sbranarlo, se così non fosse.
Tuttavia, ci sono altri youkai.
E quindi, perché proprio lui?
Naraku scatta in piedi con un
grido, gli occhi brucianti di furore, proprio nel momento in cui Inuyasha fa la
sua apparizione tra i ricordi, squartando il suo corpo con un colpo di Tessaiga e liberando il fratellastro.
“No!”
Perché ho scelto proprio colui il cui youki è
il più simile a quello di Inuyasha?
Il grido di rabbia di Naraku
diventa più alto e forte, spazzando via le immagini come fumo. La pietra
dell’arena dentro la quale si trova trema, si crepa e si sbriciola, per poi
cominciare a sprofondare in un caos squassante.
Il corpo trasparente di Naraku
resta sospeso nell’aria mentre l’anfiteatro esplode in un milione di schegge.
“No! Dove sei!? Dove ti sei
nascosto, stavolta!?!”
Ora c’è solo uno spiazzo piatto e
liscio. Scende pian piano, fino a toccare terra.
“Basta ora.”
Naraku si abbandona una volta per tutte, divenendo così un’unica cosa con la
città della sua mente. La sua pelle è la pietra. Strade le sue vene. I suoi occhi, i pertugi scuri che si spalancano ovunque,
veloci, sui muri dei palazzi.
Cammina, poi allunga il passo,
poi corre. Dov’è? Dove?
Sente le zampe solleticargli la
pelle, annusa il fetore del veleno del ragno, vede brillare l’unico occhio
dell’Oni … dell’orco.
“Basta ora. L’ultima volta. Mi
senti!? Questa è l’ultima VOLTA!”
Naraku sente dilagare dentro di
sé un odio che neppure le volte del cielo possono
contenere. Le sue orecchie aguzze odono sussurri e grida.
Per quanto sia
umiliante, per quanto sia doloroso, deve rinunciare a tutte le difese del suo
orgoglio.
E sia. Rinuncio.
E’ troppo importante arrivare
alla fine dell’inseguimento.
Ciò che ode diventa, infine,
comprensibile.
“Kikyou.”
Il puzzo pungente gli colpisce le
narici d’un tratto, interrompendo la sua litania.
“Kikyou. Kikyou. Kikyou. Ki …”
Onigumo
solleva la testa per quel poco che gli riesce, cercando l’origine della puzza.
Annusa più volte. Un odore acido, rancido.
Ruota la testa, perplesso, senza
riuscire a vedere nulla. E’ notte inoltrata, ma proprio non riesce a dormire.
Così, come fa sempre più spesso, riempie l’attesa e la noia con il suo Kotodama.
Annusa di nuovo, annaspando alla
cieca con le braccia. Riesce a muoverle un poco, ora che Kikyou ha rimosso le
steccature. Ma la sua forza è persa – per sempre.
Debole e inerme, peggio di un bimbo. Un guizzo di rabbia lo scalda di colpo,
saziandolo come cibo prelibato.
Donna dannata.
Ma
questa puzza. Adesso deve capire da dove viene.
Gli pare che provenga da lui, ma
al tempo stesso da tutto attorno, come se essudasse
dalle pareti di questa maledetta caverna, questa lercia prigione.
Che la
cancrena sia finalmente arrivata a por fine al suo tormento? Scuote quanto può
testa e braccia in un gesto di ribellione. No, non vuole
morire, a nessun costo; non può darsi per vinto.
Vuole la donna e la ShikonnoTama.
Se solo lei gli portasse il gioiello, maledetta donna,
se solo gli mettesse a disposizione quel potere, potrebbe guarire e prendersi
ciò che è suo.
“Kikyou.” Sussurra di nuovo,
leccandosi il labbro e tremando, pronto a riprendere la sua inesauribile
invocazione. Sente un’altra zaffata di quell’odore alieno.
Stringe i denti rotti,
sforzandosi di calmarsi. Non sembra odore di putrefazione, non proprio. Lui ha
visto più volte una ferita andare in cancrena. Sorride, al ricordo dei
disgraziati a cui è capitato. Verso la fine, bruciavano di febbre, gridando e
delirando, facendosela nei vestiti, ed era quasi impossibile avvicinarsi per
colpa del tanfo.
L’odore che sente adesso è molto
sgradevole, ma diverso.
E poi,
Kikyou lo ha lavato e medicato proprio ieri. Ha cambiato tutte le sue
fasciature, bruciando quelle vecchie fuori dalla cava.
Ha passato un panno bagnato sul suo corpo, togliendo la sporcizia, e poi ha
spalmato unguento sulla sua pelle, prima di avvolgerlo nelle nuove bende. Onigumo geme, gongolando nel ricordo del tocco morbido e
vellutato di lei sulle poche porzioni della sua pelle ancora integre.
Ridacchia, chiudendo l’occhio e immaginando quelle mani delicate e bianche come
colombe farsi più decise, esplorare guidate da ben altri intenti, andare là
dove lui vuole, dove lui brucia, a dargli il sollievo di cui ha bisogno.
“Sì! Mia luna. Mia carceriera.
Kikyou. Kikyou!”
Tossisce, sferzato da un fiotto
più forte di quella puzza acida.
“Cosa
…?” borbotta. L’odore è troppo intenso, comunque; la
cancrena non può dilagare così in fretta da un giorno all’altro. E poi gli pare … ma no.
Impossibile.
Resta in
silenzio, immobile, la palpebra abbassata, trattenendo il respiro, i sensi
dilatati all’esasperazione, all’erta.
Forse.
Con un ghigno, si rilassa,
respirando a fondo, riempiendosi il petto dell’aria corrotta, costringendosi ad
assaporarne il fetore.
“Kikyou.” Le mani
di lei su di lei, a togliersi quelle stupide vesti da miko.
“Kikyou.” Le mani
di lei su di lui, a liberarlo delle fasciature.
“Kikyou.” E lei addosso.
“Kikyou.” E lui che, guarito, può
finalmente muoversi, piantarle le dita così forte
nelle carni da lasciarle lividi, marchi incancellabili, come devono essere,
perché lei gli appartiene.
“Kikyou.” E la puzza acida ha
invaso i suoi polmoni così come tutta la caverna, oh
ha invaso il mondo intero, gli soverchia la mente, gli riempie le viscere.
“Kikyou. Kikyou! Kikyou!!”
Spalanca l’occhio all’improvviso,
zittendosi.
E il suo sorriso pieno di esultanza, è il sorriso di un uomo le cui preghiere sono
state esaudite.
Il lucore
rossastro che li circonda. E’ quello che gli permette di vedere le loro
sagome. Sono tanti. Sono neri. Sono deformi. Sono insensati. Sono pazzi. Sono
affamati.
Sono bellissimi.
Quante forme? Alcuni come vermi,
altri come orsi, altri come scimmie, volti di bimbi vizzi come prugne secche,
occhi di tutte le forme e colori, fauci, zampe, e oh! ancora,
e ancora!
Quanta cupa bellezza.
Onigumo
ringhia, affamato come loro.
Dal mucchio, se ne stacca uno,
simile a un ragno sia nell’aspetto che nelle
dimensioni; occhi scintillanti, il pelo grigio, duro e arruffato.
“Onigumo.”
Sibila la voce, spezzata ma comprensibile.
“Cosa vi
porta qui, mostri?” Onigumo non ha paura. La paura è
una delle tante emozioni umane che non ricorda di avere mai provato. Ha solo
fame, e rabbia. La sua incontenibile rabbia.
Youkai.
Quelle specie di bestie. Non ne
ha mai incontrati fino a oggi, e adesso se ne trova
davanti una torma innumerevole, che riempie tutta la cava e, non sa come ma ne
è certo, brulica fuori, strisciando e insozzando il prato, avvelenando il
terreno, ammorbando l’aria.
Gli youkai
più vicini gli premono davanti, dietro, ai fianchi. Ce ne sono anche alcuni
sospesi a galleggiare per aria, a fissarlo con una voracità che lui capisce
benissimo, perché è la stessa che cova nel suo sguardo.
Ma restano tutti a una certa distanza, come se non potessero avvicinarsi più
di così, come se ci fosse qualcosa a trattenerli.
L’unico youkai
a violare l’invisibile confine, è quello a forma di ragno. Zampetta su di lui,
striscia sulle sue gambe – lui può vederlo ma non sentirne il peso – risale
lungo l’addome e si arresta proprio sul suo petto, il suo petto che si alza e
si abbassa concitato.
“Ti abbiamo sentito, Onigumo. Ti abbiamo sentito, mentre ci chiamavi, e siamo
venuti da te.”
“Io non vi ho chiamato, mostri.
Vi state sbagliando.”
“No, non ci sbagliamo, Onigumo. Tu ci hai chiamato. Oh, l’odore delle tue voglie, Onigumo … si sente da così lontano. Su, avanti. Dicci.
Cos’è che vuoi, Onigumo? Cosa vuoi
da noi?”
Il labbro superiore di Onigumo si arriccia.
“Voglio? Cosa
voglio? Non dovrebbe essere difficile capirlo, neppure per
voi mostri. Un corpo. Un nuovo corpo per potermi muovere, e uscire da
qui, e prendermi la ShikonnoTama, e soprattutto, oh, soprattutto la miko Kikyou. Deve imparare, cosa significa essere mia, mia,
MIA! Sì, deve imparare, e io le insegnerò.”
Il ragno si frega le zampe
anteriori.
“Va bene, Onigumo.
Sarà come tu vuoi. Noi ti procureremo un nuovo corpo,
e ti aiuteremo a realizzare tutti i tuoi desideri. Ma
in cambio. In cambio, noi vogliamo la tua tamashii.
Vogliamo banchettare con la tua tamashii, Onigumo. La tua anima umana, è così speciale. Tu non lo
sai, ma io ti dico che noi non credevamo ce ne fossero di simili.”
Il sorriso di Onigumo si dilata sempre più.
“La mia tamashii?
Esiste qualcosa del genere, dunque, mostri? E voi la
vorreste? La mia anima imputridita ha un valore per voi? Se
è così, prendetevela pure! Non so che farmene! E datemi
in cambio un corpo, e il potere!” Scoppia a ridere, convulsamente. “Mangiate!
Avanti, più vicini! Mangiate, mostri! Ma attenti, la
mia anima potrebbe essere indigesta, persino per voi!”
Gli youkai
non attendono di farselo ripetere una seconda volta. I più vicini si scagliano
verso di lui, artigliandosi l’un l’altro per
raggiungere il suo corpo indifeso. Il ragno demoniaco gli affonda
le chele nel petto, stacca brani di carne, scavando come per farsi una
tana.
Alcuni youkai
hanno raggiunto le sue gambe paralizzate. Una specie di verme gli addenta la
coscia, e strappa con un rumore liquido, simile a quello di un uomo che
assapora, affamato, una succosa zampa di coniglio. Il verme solleva il muso, e Onigumo vede scintillare tra le zanne i filamenti insanguinati
dei suoi stessi tendini.
La risata di Onigumo si trasforma in un grido così alto da ferirgli le
corde vocali. Getta la testa all’indietro, il tonfo violento della sua nuca sul
terreno si perde tra i grugniti bestiali degli youkai
che pasteggiano.
Altri youkai
cercano il suo corpo, uccidendo quelli che li hanno preceduti pur di
raggiungerlo. Onigumo solleva la testa, e attraverso
il velo del soffocante dolore, vede le sue gambe quasi spolpate, i mostri che
masticano le sue ossa come cani.
Altri gli si gettano al petto e
puntano la testa. Solleva d’istinto il braccio sinistro. La spalla di quello
destro è già stata macinata da una gigantesca libellula con la testa priva di occhi e un tentacolo che le riempie tutto il muso –
tentacolo che si protende a scavare da sotto la pelle, come un parassita, i
muscoli del suo braccio, liquefacendoglieli.
Un piccolo youkai, uno di quelli che sembrano una scimmia, senza naso
e orecchie, gli morde il polso, spezzandoglielo di nuovo. Onigumo fa leva come può col braccio sinistro, allontanando
la scimmia che sferza l’aria con gli artigli delle zampe, a cercare il suo
collo, squarciandogli invece il costato.
Il grido sfiatato di Onigumo si trasforma di nuovo
nella sua risata pazza. Il dolore gli sembra un’entità viva, ma quasi come se
fosse separata da lui, come se non gli appartenesse sul serio. Sputa un grumo
di muco, saliva e sangue sul grugno dello youkai.
“Tutto qua!?!
Tutto qua, quello che sapete fare!?! Avanti, fatevi
sotto!! Non sapete fare di meglio?! Venite! Mangiate! Sono qua!
Qua per voi, mostri!!”
I suoni delle
sue ossa frantumate, dei ruscelli del suo sangue che spruzzano ovunque, lo
fanno ridere più forte. L’occhio ruota nell’orbita come quello di un
cavallo impazzito.
La sua incontenibile rabbia non
sembra spegnersi, ma farsi più forte che mai, tanto da dargli la forza di
sollevare il braccio e costringere la scimmia demoniaca ad allontanarsi di
qualche pollice. Onigumo vede un buco nel suo petto,
dal quale spunta ora solo il pungiglione del ragno. Altri due youkai lo hanno sventrato. Un mostro col muso da pesce e le
zampe palmate, il becco come quello di un uccello, affonda il rostro nella sua
pancia e ne estrae, con una torsione della testa,
parte della matassa dei suoi intestini.
Eppure,
per quanto assurdo sia, il dolore non aumenta, ma al contrario, si stempera
ogni secondo di più, diventando meno importante.
Sto morendo? Per questo non mi fa male?
“Vi ammazzo, mostri! Vi uccido!
Tutti!! Vi farò vedere io come si uccide!”
Il braccio sinistro crolla senza
forza. Onigumo avverte denti affilati perforargli il
collo. Chiude l’occhio. L’oscurità precipita su di lui.
Ma la
morte non giunge.
Sente, invece, una scura energia
avvampargli dentro, scuoterlo come una frustata.
Riapre l’occhio. Spalanca la bocca,
ma un vagito e un fiotto di sangue scuro sono le uniche cose che escono. La sua
gola è squarciata.
Ma lui
non muore. L’energia nera che lo ha invaso, lo sta tenendo in vita. Il suo
cuore batte ancora, anche se non c’è quasi più sangue nel suo corpo da pompare.
La libellula
che gli sta divorando il braccio pare svanita. Vede solo le sue ali
membranose e trasparenti spuntagli dalla spalla destra, come assurdi
gagliardetti. I movimenti della carne aliena sotto la pelle del suo braccio lo
lasciano interdetto. Poi, il suo ghigno insanguinato riprende vigore.
Non vi sarà così facile, mostri.
Costretto al silenzio, concentra
tutta la sua rabbia sul braccio destro.
Adesso vedrete. Vi uccido. Vi uccido!
Uno spasmo. Un altro. Le ali
sbattono un paio di volte. E infine.
Il braccio destro di Onigumo si piega ad afferrare
le ali, strappandole vie come steli d’erba. Sente nella mente un grido di
stupore.
Sì!
Oh, non avrebbe mai immaginato
che il suo braccio potesse diventare così forte, così possente!
Afferra per la collottola lo youkai che gli sta ancora mordendo il collo, i denti che
lasciano impronte nelle sue vertebre snudate, e lo allontana da sé con un solo,
brusco movimento.
Il muso insozzato di scimmia si
rattrappisce, un urlo d’odio lo assorda, mentre una pioggerella del suo stesso
sangue gli picchetta la faccia.
Onigumo
muove il pollice sotto la mascella dello youkai,
trovando una pulsazione che può solo sperare essere quella vitale. Schiaccia.
Ruota. Preme!
Il grido della creatura si mozza
subito.
Onigumo
è ormai poco più di uno scheletro. Solo il braccio destro sembra intatto.
Ma non
importa. Non importa. Importa solo uccidere questa bestia ripugnante, vederla
morta, spezzata, vinta.
Muori! Muori! Muorimuorimuori!
Con uno schiocco, il collo della
scimmia si spezza, la testa ciondola in un angolo impossibile. Sì! Onigumo vorrebbe gridare la sua gioia irrefrenabile!
Vorrebbe poter …
In un lampo, capisce cosa fare.
Sbatte il corpo dello youkai a terra e, facendo leva sulle asperità del suolo, strappa
via la gola della scimmia demoniaca.
Poi se la posa sul collo
squartato. Sente i sui tessuti lacerati sussultare come tentacoli, intrecciarsi
a quelli dello youkai in un movimento pazzo.
Lo strillo che scaturisce dalla
sua bocca, non è più umano, come neppure la sua voce.
“Tutto qua!? Dovrete fare di
meglio! Molto meglio di così, mostri, se mi volete!!
Venite qua! Uno alla volta, tutti assieme! Vi uccido,
mostri! Non mi fate paura! Dovete essere voi, ad aver paura di me!!”
La sua risata è un tuono, adesso.
E gli youkai interrompono il
loro banchetto, e lo fissano con occhi luccicanti e insondabili.
Il tentacolo dell’ennesimo youkai si attorciglia attorno al suo avambraccio destro.
Sempre ridendo, Onigumo afferra il tentacolo con la
mano e, invece di provare a liberarsi, solleva l’intero corpo dello youkai – un’apparente massa di tentacoli violacei e carnosi
– e lo sbatte a terra, alla sua sinistra. Ode un grido, la pietra che si
frantuma. Colmo di selvaggia felicità, cosciente del dolore che sta infliggendo,
solleva lo youkai e lo schianta alla sua destra. E poi ancora, a sinistra. E ancora.
E ancora! Schegge di pietra fendono l’aria.
Il grido del mostro si fa più
fievole.
“Muori! Muori! Muori!!”
Sto vincendo!
Onigumo
esamina per un attimo il suo braccio sinistro divorato e, noncurante, lo divelte dall’articolazione della spalla. Poi, strappa uno
dei tentacoli dello youkai appena ucciso, e lo poggia
al moncherino.
Di nuovo, sente le carni sua e quella aliena annodarsi l’un l’altra.
Solleva verso la volta di pietra
il braccio destro e il tentacolo sinistro in un gesto di trionfo.
“Arrivo!” ruggisce.
Gli youkai
hanno perso parte della loro baldanza. Alcuni stanno ancora mangiando quel poco
che resta di lui. Altri si sono immobilizzati, e alcuni sembrano volersi
allontanare. Ma il muro dei loro fratelli sbarra loro
la fuga.
“Sto arrivando, Kikyou!” muggisce
Onigumo; la voce poderosa fende la roccia stessa
della caverna, gocce di saliva cadono sulla paglia su cui è disteso, dandole
fuoco.
Un’oscena parodia di gatto con un
occhio solo gli sta trafiggendo la faccia, gli ha bucato la guancia con la
zampetta e gli sta artigliando il palato. Con un guizzo del tentacolo, Onigumo lo imprigiona e lo allontana da sé. La creatura
sibila e soffia. Onigumoconficca
le dita dure attorno all’orbita del mostro, e con una torsione gli cava
l’occhio, per poi gettare via lo youkai, tra le fauci
spalancate dei suoi fratelli.
“Arrivo, Kikyou! Aspettami! Per
te! Tutto per te! Mia luna! Mia carceriera!”
Poggia l’occhio nell’orbita
vuota, e un momento dopo vede come non ha mai visto prima in vita sua.
Vede nella tenebra come in pieno
giorno. Ma non riesce a conciliare le diverse immagini
che i suoi due occhi gli mostrano. Levando un altro grido, perfora il suo
occhio umano col dito, spegnendolo per sempre.
“Così va meglio.”
Si guarda in giro frenetico, alla
ricerca d’altro. Una cosa che potrebbe essere una talpa sta fuggendo. Arranca.
All’improvviso, sembra quasi che, nonostante gli sforzi, lo youkai
venga come trascinato, risucchiato da un gorgo di cui Onigumo
è diventato l’epicentro.
Incuriosito e assistito dalla sua
nuova vista, Onigumo capisce che non è il solo youkai i cui sforzi di fuga sono
vanificati da questa misteriosa attrazione che li trascina verso di lui.
“Avete visto, mostri!? Ora
vedremo! Vedremo chi divorerà, e chi sarà divorato!!”
Un pugno che è come un maglio, Onigumo spezza la schiena della talpa e la lascia
paralizzata. Poi, sghignazzando per ogni sibilo di dolore a cui la costringe,
inizia a strapparle le zanne una a una, e a
conficcarsele in bocca, nelle gengive nude, là dove i suoi denti sono saltati
via e si sono fracassati. Sangue si mischia al sangue che già gli lercia mento e petto.
“Ti piacciono gli hanyou, Kikyou!?” Biascica. “Bene!
Benissimo! Eccomi! Solo per te! Tutto per te!!”
Onigumo
percuote, colpisce, morde. Decapita un grosso youkai
col carapace rosso come quello di un granchio. Strappa un pezzo di corazza e,
dopo aver allontanato a frustate i mostri che stanno nidificando tra i suoi
intestini, se la poggia al ventre.
“Kikyou!”
Trafigge il cuore di un orco
deforme con la punta delle dita, gli abbranca le gambe e gliele stacca entrambe
in un unico movimento, facendosele ruotare come clave sopra la testa.
“Belle! Proprio belle!! Già! Non
trovi anche tu? Kikyou!?”
Brucia! Quanto brucia!!
Paglia e legno attorno a lui
prendono fuoco. Onigumo ulula dolore e trionfo; le
forme degli youkai si sciolgono e fondono al suo
calore, come rozze sagome ricavate dalla cera. La pietra stessa della caverna
comincia a liquefarsi, precipitando dal soffitto come lacrime incandescenti.
La poltiglia fusa degli youkai scorre simile all’acqua di un torrente, balzandogli
contro, aderendo alle ferite che gli sono state inflitte, entrandogli in bocca,
nelle orecchie, nel naso, facendolo soffocare.
Onigumo
ignora tutto quanto e apre il proprio petto col tentacolo, per poi allargare
più che può la ferita.
Vede il ragno avvinghiato attorno
al suo cuore che batte come se nulla stesse accadendo. Schiaccia cuore e ragno
nella sua presa, la mente una trottola di pazzia e tormento, costringendo le
carni a impastarsi, incollarsi l’un l’altra fino a
diventare una cosa sola.
Lampo.
Oblio.
Sogni.
Kikyou è a pochi metri
dall’imboccatura della cava. Porta con sé il cibo e i soliti fagotti. Oggi la
luce del giorno è davvero strana, ma non si sofferma a riflettere su un
particolare di così poco conto. Deve spicciarsi a dar da mangiare aOnigumo. Il suo quotidiano obbligo si fa sempre più insopportabile. Più in fretta lo sbrigherà, prima potrà andarsene.
Sente però d’improvviso una puzza
tremenda fuoriuscire dalla bocca della caverna. Si immobilizza,
e poi inizia a camminare svelta, i cesti cadono a terra senza far rumore. Il
tanfo della putredine la soffoca. Onigumo? Che sia Onigumo?
Entra di corsa nell’oscurità,
senza accorgersi del guizzo di sollievo che le ha riempito il petto all’idea
che Onigumo stia finalmente
(marcendo)
morendo.
Raggiunge la sagoma sdraiata; la
puzza è intensa, eppure non sente il bisogno di proteggersi il naso con la
manica.
“Onigumo!”
L’occhio dell’uomo è spalancato e
fisso, il petto immobile. Un pus giallastro sgocciola tra le bende, lungo tutto
il suo corpo.
“Onigumo!”
ripete.
L’uomo si drizza in un attimo,
gorgogliando, e le sue mani la afferrano per l’hitoe,
trascinandola a terra, addosso a lui.
Kikyou lancia un grido di
terrore; Onigumo le preme la schiena sulla pietra e
si accavalla su di lei. I suoi gorgoglii diventano parole comprensibili.
“Sei venuta,
piccola mia. Oh, Kikyou, Kikyou! Sapevo che saresti venuta da me.”
Le pianta il palmo sullo sterno,
bloccandola, e prende a strattonarle le vesti con la mano libera.
Gridando di nuovo, artigliando
l’aria con le dita, Kikyou gli colpisce per caso la faccia bendata. Le sue
unghie si conficcano nella fronte senza trovare resistenza, con un rumore
viscido si fanno strada fino al suo unico occhio e gli feriscono la guancia.
Uno spruzzo di sangue nero e pus
giallo le inzacchera la mano. L’occhio di Onigumo salta via dall’orbita, restando appeso ai suoi
nervi ottici come un’oscena biglia, ribalzando sullo zigomo. EOnigumo, ride, ride mentre straccia il suo hitoe, e le sue dita marce e forti le premono il seno.
“Ya!
Cuore mio, mia luna! Mia carceriera! Sì, lo sapevo! Sapevo che sei una di quelle
che lotta!” La lingua nera e screpolata dell’uomo
guizza tra le labbra, mentre il volto sfigurato si china su di lei.
Kikyou urla più forte, serrando
gli occhi, nauseata.
Sì, ha capito, è un sogno, uno
dei suoi incubi, tanto orribile da far impallidire gli altri al confronto. Ma quando lo capisce, lei si sveglia sempre!
Stavolta, invece, la
consapevolezza di stare sognando non fa altro che alimentare il suo disgusto e
il suo terrore.
I suoi poteri affievoliti sono
inutili contro un simile nemico.
La risata dell’uomo sopra di lei
si fa più forte. Artigli le feriscono i polsi stretti tra le dita
di lui.
Riapre gli occhi, confusa, e subito ricomincia a urlare più forte che mai.
“No! No!! NONO!” La voce le si spezza in singhiozzi.
C’è Inuyasha, adesso, sopra di
lei. A ridere, ridere con la voce di Onigumo, occhi rossi come braci, artigli a strapparle le
vesti.
“Eccomi! Eccomi, sono arrivato!
Kikyou! Kikyou! Mia luna! Non puoi scapparmi! Non stavolta!!”
I gemiti angosciati di Kikyou,
mentre si gira e rigira nel giaciglio, imprigionata nel sonno, incapace di
svegliarsi, non riescono a destare Kaede dai suoi
sogni.
Un’ombra oscura le stelle.
Kaede
sogna di allenarsi al Goshinboku, frecce scagliate
una dopo l’altra, per migliorarsi sempre più e strappare un sorriso di ammirazione dalle labbra di Kikyou.
Tira l’ennesima freccia, e
sbaglia il tiro. China la testa e sbuffa di frustrazione. Avvilita, pensa che,
anche se dovesse vivere cinquant’anni, non riuscirà
mai a eguagliare la sua formidabile sorella,
l’irraggiungibile oneesama.
Posa l’arco e va a recuperare le
piccole frecce. Si china tra le radici, per prenderne una andata
parecchio fuori bersaglio, quando avverte un movimento sopra di sé.
Alza la testa di scatto per
scoprire con orrore che i rami del Goshinboku si
stanno piegando verso di lei, animati di vita propria. Arretra più svelta che
può, ma cade a terra, il piede imprigionato tra radici che si sono all’improvviso strette alla sua gamba come viticci.
Paralizzata per
la paura, fissa impotente i rami piegarsi con gemiti e schiocchi, a cercare
ciecamente le sue braccia per smembrarla.
Inuyasha si sveglia da un incubo
che non riesce a ricordare, la pelle accapponata. Rizza la schiena, e dall’alto
del ramo sul quale è appollaiato viene raggiunto da
uno strano vento tiepido. Annusa, perplesso, ancora mezzo addormentato. Per un
attimo le sue narici sensibili sono ferite da un odore incomprensibile, mai
sentito prima, che non riesce a definire.
Ma una parte di
lui lo riconosce subito – e ne viene inesorabilmente attratta.
Irrigidisce le gambe, quasi pronto a saltare a terra, per seguire l’odore
incandescente, il richiamo al quale il suo sangue youkai
pare non poter resistere.
Vieni. Vieni. Unisciti a noi. A me. A noi. Una cosa sola. Una sola cosa
immensa.
Prima di potersi muovere, però,
il vento cambia direzione, tanto repentino quanto è arrivato, e l’odore
svanisce, dimenticato.
Inuyasha scrolla la testa,
all’erta.
“No. Un sogno. Solo un sogno.”
Si accoccola di nuovo sul ramo.
Si addormenta.
L’ombra nera si disperde, il
sonno si fa più profondo e senza sogni, gli incubi si dissipano e vengono dimenticati.
Tsubaki
è sveglia, gambe incrociate sul tatami, attende che
il contenuto della teiera bolla, e si carezza di tanto
in tanto il volto sfregiato, là dove Kikyou le ha rigettato contro il suo shikigami.
Stringe i denti, colma di
frustrazione, vedendo e rivedendo il semplice gesto col quale Kikyou l’ha
sconfitta, con la stessa facilità con la quale lei potrebbe buttare a terra un
bambino.
Questa notte non riesce a
dormire. L’inquietudine dentro di lei è cresciuta, cresciuta, come quando sente
l’aria caricarsi di elettricità prima di un temporale.
Sta preparando il the, per tenere occupata la mente, ma non riesce a pensare ad
altro che alla sua nemica.
Kuromiko.
Sacerdotessa oscura. Il marchio d’infamia del tradimento impresso sul suo viso.
Ma non sono la sola.
Sorride. E tanto più nere, le sue
gesta, se poste a confronto con quelle di Kikyou, la pura, impeccabile miko, così potente da vincerla persino coi
suoi poteri spirituali quasi del tutto perduti.
Eppure
era stata costretta ad attaccare Kikyou, pur sapendo il pericolo che correva. Perché …
“La musica del Fato. Io l’ho
sempre udita molto meglio di te, Kikyou. Toccava a me, la custodia della ShikonnoTama!”
Nella musica del Fato, Tsubaki aveva udito con chiarezza che Kikyou preparava un
tradimento ben più grande di tutti quelli di cui Tsubaki
si sarebbe mai potuta macchiare. Fin da quando l’aveva
imprigionata nella maledizione, aveva sentito cosa sarebbe accaduto.
“Custodi, non padrone, Kikyou.
Questo siamo. Questo dobbiamo
essere.”
Sì. Tsubaki
non aveva fatto altro che quanto era necessario, per proteggere la ShikonnoTama.
Anche se, così facendo, aveva macchiato per sempre la
sua anima.
“Tu non ne avresti
mai avuto il coraggio, Kikyou. Eppure, sarò io a
essere ricordata come la kuromiko.”
Scrolla le spalle, le pupille a
fissare il fuoco che scoppietta sotto la teiera.
Non uno. Due. Due i custodi della
ShikonnoTama. Due le anime di ciascuno dei quattro spiriti.
E allora, perché non sono riuscita a
impadronirmi della sfera?
E’ questo che le fa rabbia più di
tutto. Si sente come defraudata, ingannata.
“Ho sacrificato tutto per
questo.” Sussurra, levando gli occhi a fissare il tetto sbrecciato della sua
capanna. “Eppure …”
Tsubaki
si zittisce, l’aria le sfugge dal petto. Un brusio
alle orecchie, in pochi secondi sempre più forte, più violento.
La musica del Fato!? Cosa …?
L’armonia, nella musica che è
sempre stata così brava a udire, si frantuma, trasformandosi in una cacofonia
assordante. Tsubaki caccia un grido, portandosi
d’istinto le mani alle orecchie, un terribile dolore le trapana i timpani,
mentre il frastuono si fa sempre più forte - tuoni di tempesta. La musica si
sdoppia, spaccata in due. Tsubaki urla, cercando
disperatamente di cacciare fuori dalla testa il caos
dei suoni che la stanno percuotendo.
La musica del Fato è impazzita! Cosa significa!?
Il silenzio che segue e piomba
repentino, proprio quando crede di stare per diventare sorda per sempre, la
lascia stordita. Ansima. Fissa con sguardo vuoto il palmo della mano destra; il
filo di sangue che, sgorgato dal suo orecchio, gliel’ha imbrattato.
Cosa?
Gli occhi blu
di Tsubaki sono colmi di stupore.
Un nuovo custode della Shikon
no Tama … è stato chiamato nel mondo.
Onigumo è inginocchiato e tiene gli
occhi chiusi.
Indossa
qualcosa.Una pelliccia.Ne
sente il tessuto morbido sulla pelle nuda. E’ così strano! Avverte ogni
increspatura, ogni minima differenza nel drappo. Sospira di piacere, muovendo
appena le spalle, per godere della carezza che il suo
gesto produce.
Crepitio di fiamme intorno a lui.
Il fuoco non lo tocca, ma non si preoccupa di questo. Questo
fuoco non può nulla su di lui. Nulla!
E più in distanza, ma
chiaramente, ode i gridi e gli schianti degli youkai
che si muovono fuori dalla caverna. Come già aveva intuito, sono innumerevoli. E
lo stanno attendendo. Sorride.
Il suo corpo è freddo, nonostante
le fiamme e la pelliccia. Che strano! Ma si accorge di una cosa ben più stupefacente. Il suo petto
… il suo petto è immobile! Non si alza e si abbassa più nel familiare gesto del
respirare.
Curva le dita, pieno di negra
allegria, e così facendo sfiora cenere sul terreno.
Apre gli occhi. Le fiamme
bruciano in tutta la cava; solo, non riescono neppure a lambire la cenere
bianca sulla quale è inginocchiato. Quella cenere che
conserva ancora come un ricordo la sagoma del suo stesso corpo.
Si alza in piedi, guardandosi le
mani pallide, affascinato.
Carezza la pelliccia,
riconoscendone la fattura.
“Hai visto?! Hai visto, vecchio!?! Un babbuino! Sì oh sì, avevi ragione!! Guarda! Guarda
dove sono arrivato!!”
Stringe le mani a pugno.
“E
adesso! Morte! Morte all’hanyou! E
per Kikyou … oh sì-sì-sì. Per la mia Kikyou, vita. Da
oggi in poi. Al mio fianco!”
Ride di giubilo.
Onigumo …
“Cosa?”
Il suo sguardo saetta
all’intorno. L’eco di molte voci si affastella una sull’altra, rincorrendosi,
confondendosi, scontrandosi e intrecciandosi.
Oh. Onigumo. Onigumo
…
Noi non immaginavamo.
Onigumo. Noi non credevamo …
“Cosa
c’è? Chi è?”
Le tue voglie, Onigumo. Oh Onigumo scaldaci. Scaldaci di più.
“Ah! Mostri! Siete
voi, non è vero!? Dunque!? Vi piace!? Vi piace, la mia anima sporca?”
Onigumo. Sì. Sì. Sei così caldo.
Noi siamo freddi. Tanto, tanto freddi.
E non credevamo. Non immaginavamo …
Noi non sapevamo di essere così freddi.
Non finché non abbiamo conosciuto il tuo
calore …
La fornace della tua anima umana.
Il tuo cuore è così caldo, oh! Onigumo …
Scaldaci. Scaldaci!
“Bene, dunque! Sbrighiamoci!
Prima di tutto, voglio la testa dell’hanyou! Voglio
la sua testa, voglio che Kikyou la veda, voglio vedere i suoi occhi quando la
vedrà! Già!”
No. Onigumo. Aspetta.
Noi non possiamo. Non siamo, forti abbastanza …
Onigumo.
“Cosa
state dicendo, mostri!? Non osate mentirmi! Avete promesso! Morte all’hanyou; e per me, Kikyou e la ShikonnoTama! Nessuno resisterà
alla potenza che mi avete dato!”
Onigumo. No. No.
Sei forte. Sei diventato forte. Ma non abbastanza. No
non abbastanza.
L’hanyou. Non potevamo sconfiggerlo quando
eravamo separati. Ed è troppo forte. Ancora.
La miko. E’ indebolita. Ma
è troppo potente. Ancora.
Sono due nemici temibili. Non possiamo sfidarli apertamente.
“Come!? Bugiardi! Sono il più
forte di tutti!”
No. Onigumo.
Siamo così vicini. Troppo vicini, perché possiamo mentirti.
Ascolta la verità delle nostre parole, Onigumo.
Non possiamo attaccarli, non come vuoi tu.
No. Non ancora.
Onigumo
trema di frustrazione.
“E
dunque? Dovremmo arrenderci, forse? MAI!”
No, Onigumo.
Adesso sappiamo.
Adesso capiamo.
Grazie al tuo calore, Onigumo.
Tutto grazie al tuo cuore caldo, oh! il tuo
caldo, caldo cuore umano!
Noi siamo – eravamo – così freddi.
Ma adesso, Onigumo.
Sì, la miko è saggia.
Sì, l’hanyou è forte.
Ma la furia infuocata del cuore umano.
Nessuno la conosce meglio di te – di noi!
Adesso possiamo.
Adesso capiamo.
Adesso sappiamo come imprigionarli.
Come sconfiggerli.
Sì.
Non conta la forza.
Non conta la saggezza.
Conta la furia rossa di cui solo i cuori umani sono capaci.
E che, grazie a te, ora noi conosciamo.
Onigumo.
Lascia fare …
… fare a noi …
Lascia fare a me. Onigumo.
Le voci si inseguono
e diventano una sola all’orecchio di Onigumo. Una
voce melliflua, uniforme e irridente.
Onigumo
non ha mai dato importanza ai volti e ai nomi. Ma ora, sente che è importante
avere risposta a una domanda.
“Chi sei?
Cosa sei? Come ti chiami?”
Nome?
La voce esita, come se si
sforzasse di maneggiare un concetto nuovo, imprevisto.
Nome? Il mio nome?
Io non …
Non lo so. Non importa. Quando sarà il momento.
Al momento opportuno, lo saprò.
Ora, quello che importa è sconfiggere l’hanyou
e la miko. No? Non è questo che vuoi?
“Sì.” Onigumo
sibila, la sagoma di Kikyou stampata nella mente. “Sì! Sì!”
Allora lasciami libero. Fammi venire fuori. Sì, io posso realizzare i
tuoi desideri.
Sì, li realizzerò, oltre ogni tua possibile, sfrenata immaginazione, Onigumo.
Un ventaglio di
immagini si apre dietro agli occhi di Onigumo,
a mostrargli per un attimo le intenzioni della voce incorporea.
Onigumo
fa appena in tempo a pregustare il tormento atroce che aspetta i due
innamorati, il frantumarsi di tutti i loro sogni e le loro speranze, che le
immagini sono già svanite senza lasciare ricordo.
“Sì. Sì! Mi piace. Va bene. Va
benissimo!”
Fammi uscire, dunque, Onigumo, e quel che hai
visto sarà realtà. Avanti.
“Voglio parlare con Kikyou almeno
una volta, prima che tutto finisca. Già!”
Questo sarebbe pericoloso, Onigumo. Non
sarebbe saggio …
“Ho detto che le voglio parlare!
Non contraddirmi, mostro!”
Un gemito che è forse di dolore
echeggia in fondo alla testa di Onigumo.
Va bene. Come vuoi tu, Onigumo.
“Sarà meglio! Ricordati che sono
io a comandare, mostro! Non tu!”
Ma certo. Io sono qui solo per servirti, Onigumo.
E ora, fammi uscire.
La voce insiste, suadente.
“Vieni fuori, dunque, e
consegnami Kikyou e la ShikonnoTama!”
Onigumo
si sente piroettare, come se un gigante l’avesse afferrato per le spalle,
sollevato e gettato via di peso.
Il momento successivo, si trova
in una specie di limbo, di biancore sconfinato. Non avverte più alcuna
sensazione provenire dal suo corpo.
Ora, è lui a
essere nulla più che una voce incorporea.
Andiamo, mostro. Kikyou mi aspetta.
“Ai tuoi ordini, Onigumo.” Gli risponde la creatura, la voce colma di
pungente sarcasmo.
Onigumo
si chiede se non ha forse commesso un errore. Ma lui è abituato ad agire, a prendersi quello che vuole
senza preoccuparsi mai delle conseguenze. Accantona i dubbi con un moto di
stizza.
La creatura senza nome spegne le
fiamme lì attorno con un pigro movimento della mano, esce dalle ombre uterine
della cava, e sorride soddisfatto alla vista degli youkai
che lo aspettano.
“Ascoltatemi. Ubbiditemi. Coloro
tra voi che mi compiaceranno, un giorno potranno avere l’onore di diventare
parte di me.”
Gli sguardi in
risposta degli youkai, sono pieni in ugual misura di
paura e di bisogno …
Agghiacciato, esce dal ricordo,
annaspando, senza fiato, frenetico come un uomo che affoga emerge dal mare che
sta per togliergli il soffio vitale dal petto e sostituirlo con un sepolcro
d’acqua salata.
Case e palazzi che bruciano.
Mercanti, contadini, samurai, daimyo e Kami si prostrano nella polvere, ai suoi piedi.
Ricchezze scorrono tra le sue dita.
Le teste dei suoi nemici rotolano nel fuoco, e lui ride, ride, e beve acqua e sangue. Dà e prende per capriccio, e
tutti coloro che hanno osato sfidarlo gemono nella
speranza di non essere mai nati.
E la notte. Quando la notte morbida stende il
suo velo per nascondere, senza successo, i frutti abominevoli dei suoi piaceri,
lei lo attende.
La sua regina nera. Più morbida della notte, lo accoglie alla sua
dimora con un sorriso lascivo, gli prende la testa e se la schiaccia al seno,
rinfrescando la sua faccia bollente e irsuta. E fa
della sua pelle bianca come avorio il suo giaciglio, e gli sussurra
all’orecchio, il respiro dolce sulla guancia, e ride, a sua volta piena di
voglia, ascoltando rapita le sue oscenità, mentre lui disegna con le dita
luride sulla tela del suo corpo candido…
Tutte le gole e le bocche di
Naraku ululano il suo feroce dolore. Altre masse di carne simili a feti
bianchicci esplodono dal suo corpo, violenti come colpi di catapulta. Liquidi
di molti colori spruzzano nell’aria.
E affinché questo accada, io esigo che tu raccolga per me, quello che mi
spetta!
Regni saranno miei, e coloro che vi abitano, e io ne farò ciò che più
mi aggrada.
Poiché il caso che ci fa ballare tutti come le sue pazze marionette, assegna
forza e debolezze, senza misurare il valore di coloro a cui lascia i suoi doni.
Così, l’eredità di un potere immenso e incontenibile, può essere affidata a chi
non la merita, a uno sciocco hanyou
che non ne è consapevole e non se ne cura. E a colui che
saprebbe farne buon uso, vengono invece lasciate le sole briciole; e se tenta
di sollevarsi al di fuori del pozzo scuro nel quale è stato gettato, ne viene
ricacciato al grido di ‘usurpatore’.
“E tu
hai lasciato che questo ti entrasse
dentro, Kikyou!? Ma allora, chi è il vero mostro tra noi due!?!”
Il corpo di Naraku muta la sua
forma di continuo, mobile come l’acqua. Sente Onigumo
pungerlo e fuggire, guizzare via rapido, scappare altrove.
Si immerge
di nuovo dentro se stesso. Più facile, molto più facile, stavolta. E riprende l’inseguimento per l’ultima volta.
Ho sempre rispettato le leggi
degli uomini e dei Kami. Nessuno potrà trovare macchia su di me; negli occhi
altrui, ho sempre visto la fiducia di avere da me parole di giustizia ed
equità.
E questo
è un uomo probo. Io sono un uomo probo.
Ma
allora, che cos’è un uomo giusto?
Mai ho permesso che alcuno si
umiliasse di fronte a me, o mi concedesse privilegi a causa di ciò che sono, e mai ho lasciato che la voce del forte vincesse
quella del debole in ragione della sua forza; negli occhi altrui, ho sempre
visto la riconoscenza per il rispetto e la fermezza di cui sono capace.
E questo
è un uomo giusto. Io sono un uomo giusto.
Ma
allora, che cos’è un uomo retto?
Secondo quanto mi è stato
insegnato, ho elargito pietà in ugual misura al giusto
e al bandito, al di sopra della legge degli uomini e dei Kami, ben sapendo che
siamo tutti povere creature in attesa della morte; negli occhi altrui, ho
sempre visto l’umile riconoscimento della mia virtù.
E questo
è un uomo retto. Io sono un uomo retto.
E anche se il mio senseisoleva
ripetere che grande è la differenza tra ben sapere e davvero credere, e che io
ben sapevo, ma tutt’ora non credevo; e anche se il mio sensei spesso ripeteva, che prima di imparare a servire, è più
importante imparare a essere serviti, io mai compresi cosa volesse dire.
Negli occhi altrui, ho sempre
visto quanto bastava.
Un uomo buono. Io sono un uomo
buono.
E quando la siccità venne, e dopo
di essa la carestia, e dopo di essa la fame, e dopo di
essa le piaghe, e dopo di esse la paura; quando vidi volti diventare più
sottili, e mani farsi gialle e fragili come pergamena, e spalle piegarsi, e
seni svuotarsi; quando al fuoco seguì razzia e sangue e dolore, seppi cosa
doveva essere fatto per allontanare la malvagità che stava soffocando la mia
casa e le terre tutt’attorno.
E mentre cominciavo il mio
digiuno, e gli uomini ancora abbastanza robusti e vigorosi scavavano con le
zappe e i picconi il terreno sassoso per preparare la
fossa che avrebbe dovuto accogliermi, negli occhi altrui vidi la venerazione
che ci si aspetta sia accordata a un uomo santo.
Questo è un uomo santo. Io sono
un uomo santo.
Ancora ben ricordo quella
mattina; il sole appannato da nuvole sottili, come la pupilla di un vecchio
dalla cataratta. I profumi della primavera non arrivati,
anche se da tanto li attendevamo; i boccioli non ancora sbocciati, e il freddo,
quel freddo pungente così fuori luogo nei primi giorni di maggio.
Ricordo la
macchia gialla della piccola campanella, posata come un ranuncolo su un cuscino
bianco.
Ricordo la fanciulla
che, la testa china a terra, i capelli a ombreggiarle il viso, con mani
tremanti me la porse in un sussurro che quasi non riuscii a udire.
“Tutto è pronto, houshi
Hakushin.”
Ricordo la sensazione della corda
attorno al mio polso, e il primo tlink
che accompagnò il mio passo e che avrebbe scandito da quel momento il tempo tra
me e la morte, mentre mi sporgevo sul bordo della fossa scavata dagli uomini
che ero risoluto a salvare.
Ricordo il coperchio di cedro
pesante e spesso calare sopra la mia testa a sigillarmi, e l’unico sottilissimo
filo di luce che a volte passava da quella lunga canna di bambù che lo
trapassava, per permettermi di respirare fino a quando non fosse giunta la
fine.
E
ricordo il tonfo di ciascuno dei sassi e dei macigni che gli uomini
accatastarono sopra la botola di cedro, fino a farne un tumulo.
A occhi
chiusi, a gambe incrociate, a mani giunte, un rosario, il mio nenju preferito,
tra le dita, il respiro controllato, mi immersi nella meditazione.
Diventa albero.
Non temere il buio, né la fame.
Sei una quercia, una quercia secolare; i tuoi rami sono protèsi ad abbracciare
il sole, e non ti serve cibo. Le tue radici ti sostengono e ti nutrono. Non
conosci altro, e non hai bisogno d’altro.
E per quanto la fame potesse assediarmi, non poteva però toccarmi.
Ma anche
un albero ha bisogno d’acqua.
Diventa pietra.
Non temere sete, né dolore. Sei
un macigno, un quarzo millenario; i tuoi bordi sono stati consumati dalle
intemperie e dai passi di uomini e bestie, ma niente
può toccare il cuore di ciò che sei. Non conosci altro, e non hai bisogno
d’altro.
E per quanto la sete potesse aggredirmi, non poteva però lambirmi.
Ma anche
una pietra sarà polverizzata dal tempo.
Diventa vuoto.
Non temere nulla. Sei il vuoto
tra le stelle, che nessuno conosce e mai ha percorso; i tuoi confini sono noti
ai soli Kami. Sei immutato, fin dall’inizio dei tempi, e sei immutabile, fino
alla fine dei tempi. Non conosci altro, e non hai bisogno d’altro.
Il vuoto non conosce il passare
del tempo, e perciò io non so quanto tempo passò. Udivo preghiere e mormorii
arrivare e andare, da sopra la mia testa, da un mondo che non mi apparteneva e
mai più mi sarebbe appartenuto.
Di tanto in tanto, il tlink della campanella legata al mio
polso, mi ricordava che ero ancora lungi dall’illuminazione che avrebbe fatto
di me, un Buddha vivente.
Ma non
disperavo certo per questo. Solo un poco di attesa, e
tutto sarebbe stato, come doveva essere.
Il guscio del mio corpo si
sarebbe rotto, come un seme, e il germoglio che ne sarebbe nato avrebbe salvato
la mia terra.
C’era stato un momento, nel nulla
senza colore, in cui fui certo che questo stesse per
accadere. Mi preparai, pronto, tremante e fiero.
E fu
allora che desiderai poter vedere occhi altrui.
Qualcosa mi sfiorò da dietro.
Volgendo lo sguardo, scorsi un piccolo punticino di luce, e lo seguii.
Poi la luce svanì, e il nulla fu
spezzato, seppure niente vedessi o udissi.
Fu come una brezza che mi
sfiorava le guance, solleticando la mia pelle. Sorrisi,
all’inizio; chissà da quanto nessun vento mi toccava più.
Ma
quella strana carezza si faceva più insistente, costante, invadente, fino a
diventare un prurito, così fastidioso!
Sollevai la mano per massaggiarmi
il viso.
Tlink!
Ma la
mia mano riuscì a coprire solo poco più di una metà del percorso che andava
colmato. Poi, si immobilizzò, incapace di andare
oltre.
Aggrottai la fronte. Da dove
veniva quella brezza? Poi capii. Non c’era mai stata alcuna brezza.
Fin dalla mia giovinezza, mi ero
rasato ogni giorno con cura il volto e il cranio, come si confaceva a un uomo del mio stato. E avevo così dimenticato quanto insistente e spiacevole può essere il prurito
continuo nato da una barba trascurata e incolta.
Tlink.
Di nuovo, ordinai alla mia mano
di grattare le mie guance, e di nuovo la mia mano cercò di ubbidirmi invano.
Tlink.
E più la
mia mano mi disubbidiva, più il suono della campanella si faceva udibile, e
così mi parve, irridente, più il prurito del mio viso si faceva insopportabile,
alimentato dai miei sforzi per tacitarlo.
Tlink.
Poi, venne l’odore.
Avevo imposto ai miei visceri di
svuotarsi, prima di essere tumulato; per due giorni non avevo toccato cibo e
per un giorno acqua, affinché non venissi tradito
dalle debolezze del mio corpo mortale.
Da dove veniva, dunque, quell’odore
stantìo e asciutto, così pesante, così forte, quell’odore di sporcizia, di
fiori che appassiscono, di frutti caduti e dimenticati in terra, di sudore di
una bestia così a lungo inseguita dai cacciatori da cadere a terra sfinita
senza più preoccuparsi di quale sarà la sua sorte?
Da dove veniva? Da me? No, certo che no. Sorrisi, facendomi beffa di me stesso.
Alla sua morte, la salma del mio sensei profumava, di petali, petali di
rose e di ciliegio.
Questo odore, invece.
Questo non è l’odore di un uomo
santo.
Poi, sollevai le palpebre. E spalancai la bocca, tentando di gemere senza riuscirvi.
Tlink.
Come riuscivo a vedere così bene
al buio? Ancora adesso non lo so; solo le creature delle tenebre, vedono dentro
tenebre tanto fitte.
Il mio braccio sollevato senza
scopo, la campanella che pendeva dal mio polso, come se fosse stata legata al
ramo di un albero morto e rinsecchito.
Ma era
il mio braccio, quello? No, certo che no. Quella pelle tirata
e rugosa su ossa secche e fragili. Non poteva certo appartenere a me.
Questo braccio.
No, questo non è il braccio di un
uomo buono.
Si mossero le mie labbra? Ha
importanza?
Abbassai lo sguardo sul mio
corpo, pietosamente nascosto dai paramenti. La gambe
però. Cos’erano quei bastoni nodosi la cui sagoma si
intravedeva sotto gli hakama? Le mie gambe?
E come
potevano esserle, se non le sentivo più?
E di nuovo ordinai alla mia mano
di toccare il mio volto, ma vidi solo quel braccio mummificato che, perciò sì!, doveva essere il mio, sussultare invano.
Tlink.
Ma
perché? Perché questo?
E
qualcosa si agitò dentro me. Combattei contro quell’immobilità stregata,
raccogliendo ogni brandello di forza, ignorando il dolore che man mano me ne
veniva, che sembrava accorrere da ogni angolo della fossa per gettarmisi
addosso, perché niente era diventato più importante che costringere entrambe le
mie mani a raggiungere il mio viso.
Tlink. Tlink. Tlinktlink!
Una spanna dopo l’altra, un
pollice dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, infine i miei palmi toccarono le
mie guance barbute.
NO!
Cosa!? Cos’è?? Cos’è questo!?
Zigomi quasi a
bucare la pelle, e occhi così infossati nelle orbite da sparire, e denti che
ballano dentro gengive inesistenti …
No! Ma
che cos’è questo? Cos’è?
E’ morte,
questa?
“Io … muoio?”
E fui
sicuro di aver parlato. Ma non riconobbi la voce. Perché quella voce smarrita …
Questa voce.
Questa non è la voce di un uomo
retto.
Fu come la crepa in un terrapieno
che trattiene acque gelate, dalla quale filtra un
rivolo che tutto finirà per squarciare in pochi istanti.
“No ferma aspetta no, non è così,
non deve essere così, aspetta, cosa?”
“Ma io …
io ho sempre saputo. Io ho sempre accettato quello che sarebbe stato.”
Ma il mio sensei mi ripeteva che grande è la
differenza tra ben sapere e davvero credere, e che io ben sapevo, ma tutt’ora
non credevo.
Tlink.
“No.”
E’ questo il buio? Aspetta, io …
“No. No. Io non sapevo. Non
sapevo nulla!”
Come riuscii a
muovermi, non ricordo. So che mi ritrovai sui gomiti, e anche se il mio
corpo era come se più non fosse, ricordo il dolore quando sbattei sul terreno.
“No. Vi prego, no. Ascoltate. Io
non lo credevo, io non sapevo
…”
Tlink. Tlink. Tlink. Tlink.
Strisciai per un poco, fin sotto alla canna del bambù, e mi parve di udire i mormorii delle
preghiere.
“No. Ascoltate. Fuori. Fuori!
Tiratemi fuori di qui!”
Lo credetti un
grido, ma non so neppure se fu un sussurro. E cosa
c’era, oltre alla paura? Che cos’altro c’era?
“Fate silenzio. Zitti. State
zitti! Maledetti state zitti come fate a sentirmi se non ve ne state zitti!”
Ma se esci da qui, moriranno tutti, e morirà la terra, e morirai, comunque, anche tu. E tu lo sai, e
perciò, accetta il tuo destino come hai sempre fatto, e sarai …
“Non me ne importa! Lo so! Non me
ne importa nulla! Oh, sensei, perché
non me lo avete detto!? Adesso sì, adesso credo!”
Ma adesso è troppo tardi. E troppo presto, anche.
“Fuori! Voglio uscire! Fatemi …
uscire … da qui!”
Ma parla
così? No.
Non parla così, un uomo giusto.
“Vi prego. Ascoltatemi. Non
lasciatemi qui da solo. Vi scongiuro … non
abbandonatemi …”
Passò altro tempo. Quanto? E per quanto sussurrai alla bocca della canna di bambù?
Quel mucchietto di ossa, tendini e pelle che una volta era il mio corpo,
appallottolato sul fondo sconnesso della fossa, si piegò e si torse poco a
poco, nutrendosi di se stesso e diventando albero, e poi pietra, e poi vuoto.
Tlink. Tlink.
Non c’erano lacrime, né voce, per
gettare fuori l’orrore dal petto. Fino a quando non fui più
in grado di muovere né mani né altro.
tlink
Io? Muoio?
NonoNO no NO nono nn
Non. Non doveva essere così.
No, non è così che muore un uomo
probo.
Ma
dunque, perché le voci di preghiera si trasformarono in voci festose e piene di
speranza e venerazione e tripudio? E perché i profumi
della primavera arrivavano fin dentro la mia fossa, come se la malvagità che
aveva colpito la mia casa se ne fosse andata?
E perché
l’odore di quella malvagità, ora era tutta attorno a me?
Ma
allora?
Cos’è accaduto?
Che
cosa?
Non capisco.
Ma?
Ma
allora, che cos’è un uomo probo?
Ho sempre rispettato le leggi
degli uomini e dei Kami. Nessuno potrà trovare macchia su di me; negli occhi
altrui, ho sempre visto la fiducia di avere da me parole di giustizia ed
equità.
E questo
è un uomo probo. Io sono un uomo probo …
E quando la tenebra venne a
spezzare la spirale eterna nella quale Hakushin si era smarrito, questi
all’inizio non capì cosa stesse accadendo.
Dopo decenni, poté sollevare le
palpebre per scoprire che non si trovava più, come credeva, nella sua fossa, ma
in una teca di ciliegio laccato.
Scoperchiata.
E sopra
la sua testa c’era il soffitto elegante di un tempio – bello, piccolo e
accogliente.
E il
cadavere di un uomo …
(sacerdote incaricato del tempio)
… e youkai
tutti accalcati sulla soglia dell’entrata, a sbavare, a chiocciare, a gridare,
a grattare le zampe sul terreno, pieni di fame ma trattenuti da …
… dalla tenebra, una tenebra
sopra di lui. Ma che tenebra è? Che
tenebra è mai questa?
Hakushin ritrova la sua voce.
“Come osi disturbare il mio
sonno, youkai?”
“Non sono uno
youkai, houshi Hakushin. Non lo vedete da voi?” risponde
la tenebra.
“Sì. Lo vedo. Non so come tu
abbia fatto a oltrepassare le mie sacre barriere,
hanyou, e a versare sangue innocente al mio cospetto. Non so
come tu abbia fatto a portare qui i tuoi schiavi. Ma so che siete giunti
fin qui, solo per perire.”
L’hanyou non sembra intimorito,
anche se sa che Hakushin può distruggerlo in un battito di ciglia.
“Di cosa state
parlando, houshi Hakushin? Io vi ho solo udito. Siete stato
voi, a permettermi di raggiungervi. E di quale sangue
parlate? Di quello di quest uomo? Del vostro crudele carceriere? Innocente? Ma che cos’è, un uomo innocente?”
Le parole di risposta muoiono
sulla bocca di Hakushin.
E in
quel momento la tenebra si apre al suo cospetto.
“Che
cosa …?”
Hakushin sussulta, sconvolto,
come se un sole accecante gli stesse sferzando gli occhi.
No non è
possibile! Questa tenebra!
“Io …”
La voce lo interrompe subito.
“Sssh. Sssh. Zitto, non hai
bisogno di parlare, lo so, io so tutto quel che vorresti dire, non
preoccuparti, ricordo ogni cosa, capisco, tra noi non
servono parole.”
Oh! Questa tenebra sa. Questa
tenebra capisce! Questa tenebra, crede!!
“Com’è possibile? Come?”
“Come? Vuoi sapere forse di come
il mio antico corpo è morto, proprio come un seme, e del germoglio che ne è nato? Questo vuoi sapere?”
“Sì!”
Sì, com’è possibile? Quale
mistero è mai questo? Ma è così, questa tenebra si sta
svelando ai suoi occhi, come non ha mai fatto con niente e con nessuno prima
d’ora, e lo sta facendo per lui, solo per lui!
Questa tenebra conosce l’orrore!
Questa tenebra è stata resa prigioniera, proprio come lui, incatenata in un limbo informe, e lasciata lì ad avvizzire piano piano …
fuori tiratemi fuori!
… e quanto ha
desiderato potersi liberare, inascoltata, ignorata e …
no vi prego non abbandonatemi
… in un tempo
immemorabile, là dove il tempo non ha più senso, in un abisso di pazzia.
OH!
Hakushin trema, ed è come se
vedesse tra una folla ignota il volto di un amico da lungo perduto. Ecco! Ecco
qualcuno che capisce! Ecco qualcuno che ha sofferto proprio come lui! Ecco qualcuno che ha conosciuto ogni spasimo, ogni gemito, ogni
battito, che ha atteso invano, che ha gridato, fremuto …
“Oppure
delle ombre che mi accompagnano? Questo vuoi sapere?”
“Sì.”
E questa
tenebra ha lottato.
Non si è
lasciata sconfiggere, non si è fatta sommergere, no, no, questa tenebra
ha combattuto! Con le unghie e con i denti, con una forza che
nessuno avrebbe immaginato mai e …
Arrivo! Arrivo! Mia carceriera!
Questa tenebra è riuscita, là
dove lui ha fallito, là dove lui è caduto!
Questa tenebra … questa è una
tenebra illuminata.
“Oppure delle ombre che
accompagnano te, di come tu non le abbia scacciate, oh
no, ma solo spostate, dentro di te, proprio come me? Questo vuoi
sapere?”
Hakushin rabbrividisce.
Riverente, solleva le mani che
adesso ha le forze per muovere, le solleva per toccare
la tenebra, per dirle che anche lui capisce, che ha esperimentato tutto questo.
Una mano gli sfiora la nuca,
accarezzandolo con un tocco gentile e lieve.
Una coscia diventa un guanciale
sul quale potersi riposare.
“Come? Come hai fatto?”
E
attende in ascolto, come quando attendeva gli insegnamenti del suo sensei.
Qual è la risposta alle mie domande? Come sei riuscito?
E la
tenebra gli svela la sua luce.
“Odiali. Odiali tutti.”
Hakushin esce dalle tenebre per
entrare nella tenebra.
L’inquietudine di Kikyou si addensa, vedendo i primi lampi scoccare
dalle maestose pendici del monte Hakurei
L’inquietudine di Kikyou si
addensa, vedendo i primi lampi scoccare dalle maestose pendici del monte
Hakurei.
Ha smesso di piovere. Solo poche
nubi sono rimaste, sospinte via da un vento deciso. Può vedere ampi scorci di
cielo; le stelle disegnano le costellazioni che le sono tanto familiari.
Eppure dal monte Hakurei arrivano
tuoni, e lampi. Non dalle nuvole che ne avvolgono la cima come un copricapo.
No, proprio dalla montagna.
Esamina il fenomeno con
attenzione, e vede la barriera sacra attorno alla montagna, creparsi come il
guscio di un uovo.
Qualcosa.
E qualcosa, un proiettile
azzurrino, scaturire con un alto sibilo, e volare nel cielo notturno, e poi
piegarsi in una parabola, piombare verso il suolo, là, giusto dietro quelle
rocce. Lungo questo sentiero. Non tanto lontano. No. Può arrivarci facilmente.
Appena oltre questi alberi. Basta scostare questi cespugli di mirto. Eccolo!
Lei sa cos’è.
Lì, seduto a terra, nella posa
richiesta per la meditazione, c’è colui che mantiene eretta la sacra, inviolabile
barriera del monte Hakurei.
Si avvicina. Chissà cosa l’ha
costretto a uscire dal suo rifugio?
Ecco, i più preziosi paramenti da
houshi, viola e oro. A coprire un corpo essiccato e fragile come quello di un
uccellino. Capelli sottili come fili di seta. Stopposi. Guance scavate. Mani
attraverso le cui carni può quasi vedere.
E una campanella legata a un
polso.
Quando è a due metri da lui, si
immobilizza. La barriera che lo protegge, identica a quella della montagna, le
impedisce di toccarlo.
Kikyou guarda meglio, poi
sussulta, e con un sospiro che sembra venire dalle radici stesse del suo
essere, china il viso.
Tu e io siamo simili, Naraku.
Questa la sfida che ha lanciato
al suo assassino. E qui c’è la sua spietata, beffarda risposta. Kikyou trema,
sopraffatta alla vista dell’avversario che Naraku ha deciso di porle davanti.
Tu e io, simili? Dimmi che cosa vedi, dunque, mia nemesi.
Kikyou rialza la testa che sembra
esserle diventata così pesante. E fissa gli occhi nello specchio dove vede
riflesso al tempo stesso …
Naraku. Se stessa. Ma, più di
tutto, più di chiunque altro …
La sua voce è sussurro sottile e
disperato. E privo di lacrime.
“Onigumo. Oh, Onigumo, che cosa
ti ho fatto? Come sono potuta essere così cieca? Sì, tu sei un mostro. Non sei
mai stato altro, ma io. Io sono stata una pazza. Una pazza arrogante.”
“Ora lo capisco. Adesso lo
accetto. Va bene. Odiami pure, Onigumo. Odiami amandomi, se lo vuoi.”
Stringe i pugni, raccogliendo
tutte le forze che può. Non sa come, ma ritrova la voce.
“Houshi! Houshi Hakushin!”
Riverito monaco.
“Ascoltatemi, vi prego!”
La mummia solleva le palpebre
svelando i suoi occhi gialli.
Riverita sorella maggiore.
“Oneesama? Non mi piace
quell’Onigumo. Ha uno strano modo di parlare, di chiedermi della Shikon no
Tama. E ha detto delle strane cose anche su di te. Non mi piace, ecco!”
Inverno. Kaede sgambetta,
schivando le pozzanghere di neve disciolta lungo il sentiero di terra battuta,
facendo il possibile per non lasciare che il fango le intrappoli i piedi, e al
tempo stesso fissa la schiena dritta come un fuso di Kikyou, della sua riverita
sorella maggiore, il movimento delle spalle mentre cammina piano, precisa ed
elegante come sempre.
Kaede ne è certa; ci sono regine,
o persino principesse delle fiabe, che percorrono corridoi sfarzosi dentro
palazzi che lei non riesce neppure a immaginare, vestite degli abiti più
sontuosi che i mastri artigiani sanno confezionare, che, mai, potranno neppure
sognarsi di camminare con la regalità con cui cammina Kikyou.
Una fiammata di affetto si
arriccia nel petto di Kaede e, come sempre, amore e riverenza fanno a pugni
dentro di lei. Kikyou. Bella. Forte. Orgogliosa. Mai una volta l’ha vista
vacillare, o tremare. Darebbe tutto per essere come lei, e preferirebbe morire
piuttosto che deluderla.
Kaede lo sa, che quasi tutti i
fratelli minori ammirano, o venerano perfino, quelli maggiori. Ma, beh, sa
anche che ben pochi fratelli – o sorelle – minori hanno una sorella come
Kikyou.
“Che cosa ti ha detto Onigumo,
Kaede?”
Il passo di Kikyou non ha
esitato. Ma la sua schiena non si è forse irrigidita? E la sua voce?
Kikyou è sempre così composta, e
tanto spesso, distante. Quindi, Kaede ha imparato ad avvertire ogni
impercettibile cambiamento nella sua posa o nella sua espressione.
Un sopracciglio alzato, è un
brusco rimprovero.
Il lento incurvarsi delle sue
labbra, il più bel premio a cui lei possa aspirare.
I suoi occhi quando si velano per
guardare a cose che le sono nascoste, la tristezza che Kaede non capisce e
vorrebbe tanto alleviare.
Un’increspatura quando parla, un
turbamento o una preoccupazione.
Tranne quando.
Anche se tutto questo sembra
cambiato, da un po’ di tempo a questa parte. Da quando è venuto l’hanyou.
Perché, se lui è vicino, ma anche solo se sua sorella parla (pensa) di lui, ecco che la sua voce si
tinge tutta d’un tratto di vita, e perde la sua pura e cristallina uniformità,
per riempirsi quasi di note e di tante sfumature. E il suo viso si anima, i
suoi occhi diventano caldi e … presenti,
sì, non sa come dirlo meglio di così.
Kaede ne era stata tanto
sorpresa. Confusa. Cosa stava succedendo alla sua magnifica sorella? C’erano
volte in cui stentava a riconoscerne la voce.
E, seppur doveva la vita
all’hanyou, ne era stata indispettita. Che cosa capitava? Dov’era finita sua
sorella!? Come si permetteva, quello, di arrivare nessuno sapeva da dove, e di
… di … cosa? …
(portarle via oneesama)
… di fare quello che stava
facendo, insomma, qualunque cosa fosse!!
Finché un giorno, mentre stava
aiutando Kikyou a preparare da mangiare – lei stava lavando gli azuki, i dolci
fagioli rossi dai quali si ricava quella deliziosa marmellata – oneesama aveva
fatto un’espressione buffa e. Le spalle le erano tremate, e aveva cominciato a
ridacchiare.
E quando Kaede l’aveva guardata
come se fosse ammattita, si era accorta che Kikyou cercava di riprendere il
controllo senza riuscirci, mettendosi una mano davanti alla bocca, ma ridendo
un po’ più forte, e le aveva detto “No, Kaede, non è nulla. Mi è solo venuta in
mente una cosa che ha detto Inuyasha a proposito dei fagioli, ecco tutto.”
Aveva ricominciato lavarli, continuando a ridere.
E Kaede aveva pensato che, in
fondo, non doveva essere così sbagliato. Quello che stava succedendo. Qualunque
cosa fosse. Perché quando Kikyou aveva riso, le era sembrata tanto bella.
Da quel giorno, Inuyasha aveva
cominciato a esserle simpatico.
Tutto questo non significa che
oneesama non sia ancora l’impenetrabile sorella di sempre, per gran parte del
tempo. Perciò, la sfumatura con la quale le ha chiesto di Onigumo, indica che
si tratta di una domanda importante. Kaede si sforza quindi di rispondere
meglio che può.
“Mi ha chiesto se è vero che la
Shikon no Tama diventa tanto più potente nell’oscurità, quanto più viene
sfamata dalle debolezze e dalle paure umane. Io gli ho detto che nulla di tutto
questo può succedere, finché ci sei tu a custodirla. Poi …” e Kaede non riesce
reprimere un tono scandalizzato e offeso “si è permesso di chiedermi se sei
sempre così, come ha detto? … sempre così fredda e distaccata, e che gli
sarebbe tanto piaciuto trovare il modo di vederti più … più turbata.” Onigumo
non aveva detto turbata, ma Kaede si
vergogna troppo a ripetere ad alta voce l’espressione usata dal brigante.
“Ah, ha detto così, dunque? E
cos’altro ha detto?”
“Nient’altro. Perché?”
A Kaede sembra che questo sia già
fin troppo. Ma si accorge che la tensione è svanita dal corpo di Kikyou.
“Significa che questa volta ha
deciso di darmi retta. Mi ha creduta. Ha capito che se mi avesse sfidata anche
su questo …”
Oneesama si zittisce, e poi
riprende, con un tono più udibile e freddo.
“Devi perdonarlo, Kaede. Onigumo
non uscirà mai più da quella caverna. Le sue parole, sono solo una maschera per
nascondere la sua disperazione. Noi dobbiamo pazientare e sperare che capisca
quanto la sua vita è stata sbagliata fin’ora, così che se ne possa pentire.”
Kaede si mordicchia l’interno
della guancia, poco convinta, e poi decide di tirare fuori la domanda che le
ronza in testa già da un po’.
“Ma perché non possiamo parlare
di Onigumo almeno con Inuyasha, oneesama?”
La schiena di Kikyou si
irrigidisce di nuovo.
Perché non possiamo parlarne con Inuyasha?
“Perché …”
Già, perché non possiamo parlarne
con Inuyasha?
Kikyou stringe i denti. Lei lo
sa. Lo sa bene, il perché. Ma come farlo capire a Kaede?
Perché, Kaede, Inuyasha sa
vedere.
Sì. Lui può essere tradito, e può
essere ingannato. Ma non i suoi occhi. Quelli, mai.
Se Inuyasha posasse il suo
sguardo su Onigumo, se ascoltasse le sue parole per non più di un minuto, lui
lo vedrebbe subito. Lo vedrebbe per quello che è.
E capirebbe cosa vuole. Saprebbe
immediatamente quel che Onigumo vuole da me.
Kikyou trema involontariamente
per l’orrore.
E pretenderebbe che lo
abbandonassi al suo destino. Che lo lasciassi da qualche parte. A morire. Sì, a
morire.
Perché Onigumo non mi ha mentito.
Chiunque lo abbia ridotto così; un odio così violento da spingere a vendicarsi
con tale brutalità, non si lascia spegnere né fermare.
Ma io ho promesso che avrei
mantenuto il suo segreto.
Avanti. Dì tutta la verità. Non sei mai stata molto brava a mentire a
te stessa.
Kikyou deglutisce come per
liberarsi la gola da un nodo.
Perché … perché io voglio che Inuyasha mi convinca, mi costringa. Che
insista, gridi e mi ordini di dimenticarmene, di abbandonarlo, di sbarazzarmi
di quel … di quel …
Perché Onigumo …io …io …non ho mai conosciuto qualcuno così! Non
credevo che potesse esistere davvero un uomo così …e … e …
Mi fa schifo!! Mi fa schifo e lo odio, lo odio!! Odio come mi guarda,
odio come mi parla, odio tutto quello che dice, odio come si lecca le labbra
quando lo lavo …
E di come si fa beffe di tutto quel che per me è importante, e sacro.
E della vita, degli uomini e delle donne che ha derubato e ucciso, dei
sorrisi che ha spento, delle crudeltà di cui è orgoglioso, come un uomo santo
potrebbe essere orgoglioso delle sue buone opere.
E come riesce a sporcare tutto quello che gli dico! E io non voglio,
no, non voglio che Inuyasha lo veda, non voglio che ci parli, non voglio che
cerchi di sporcarlo, come cerca di sporcare me!
Io lo posso proteggere. Lo voglio proteggere! Da quell’uomo malvagio.
Non lascerò che Inuyasha faccia qualche stupidaggine.
Ma perché non muore!? Chiunque altro … come fa a restare in vita!? E
con quale ferocia ci si attacca!
Ma perché non è morto quel giorno!! Ah, se solo non lo avessi sentito,
se avessi preso un’altra strada, se fossi andata da un’altra parte!
Sei un mostro! Tu sei peggio di qualunque youkai abbia mai combattuto.
Almeno loro seguono la loro natura, per quanto possa essere violenta e
bestiale.
Gli occhi di Kikyou si riempiono
di lacrime.
“Oneesama? Cosa c’è? Perché non
possiamo parlarne almeno a Inuyasha?”
Si passa la mano sugli occhi,
furente con se stessa, e si sfrega il naso col dorso.
Sono io il mostro. Che razza di persona sono? Non credevo di essere
così. Qualunque cosa Onigumo abbia fatto, ormai è condannato a restare in
quella grotta oscura per il resto della sua breve vita, senza il conforto di
nessuno, a parte il mio. Non pensavo di essere tanto debole.
Ma come faccio a spiegare queste cose a una bambina che non ha neppure
compiuto dieci anni?
Tossisce; ma la voce le trema un
poco lo stesso.
“Kaede. Io. Ecco. Conoscendolo,
sarebbe geloso.”
“Geloso!?” sbotta la sorella.
E il suo è il tono diffidente che
usano i bambini quando si convincono che gli adulti li stiano prendendo in
giro.
Da quella notte, erano cominciati
gli incubi.
Nell’incubo, lei si affaccia
all’imboccatura che ospita Onigumo. Lì si ferma. Non vuole andare oltre. Ha
paura.
C’è una luce soffusa, che non è
né quella del giorno né quella dell’imbrunire. E’ un lucore pallido che sta
dentro la cava.
Vorrebbe girarsi e andarsene via.
Vorrebbe buttare in terra le medicine che porta per lui, ruotare su se stessa e
scappare più svelta che può. Ma come accade spesso nei sogni, non riesce. Una
forza invisibile la tiene inchiodata sui due piedi, e, più cerca di fuggire,
più la forza misteriosa la imprigiona, sospingendola dentro la caverna.
Kikyou scuote la testa, le cosce
le tremano. I suoi piedi non si muovono, ma si sta ugualmente avvicinando
all’uomo fasciato come una mummia che la aspetta.
Il suo respiro raschiante le gela
la pelle. Socchiude l’occhio, che sembra rosseggiare nel buio.
L’occhio! L’occhio dell’Oni! Dell’orco! No! No, mamma! Mammina, ho
paura, voglio andarmene, no NO!
Dà un’occhiata sotto di sé ma non
vede né sente il proprio corpo. Eppure ha la sensazione di essersi
rimpicciolita, come se fosse ridiventata bambina.
Paura. Paura. Ma non può scappare.
Fa’ il tuo dovere, Kikyou.
E’ davanti a Onigumo, adesso. Il
suo occhio spalancato la fissa, sembra trapassarla. Prova la sensazione di
protendere le sue mani invisibili verso di lui.
A quel punto, Onigumo drizza la
schiena. Guarito. Le fasciature che lo stringevano sono svanite, e lei ha
davanti un uomo robusto, vigoroso; mani grandi e callose, un petto robusto come
un barile, collo taurino, capelli lunghi e crespi, ma la faccia!
Non c’è faccia! Né orecchie, né
occhi né naso. Bocca. Solo la bocca. Che si spalanca. Sdentata come quella di
un neonato. Urlante. E furente e vittoriosa e. Piena. Di. Voglia.
Onigumo le pianta le manone sulle
spalle e se la attira addosso.
“Mia piccina.” Sospira, e dopo
averla quasi assordata, lei lo ode appena.
Poi lei ha di nuovo un corpo, il
suo corpo di giovane donna. E l’incubo inizia per davvero.
Quando spalanca gli occhi
svegliandosi d’un botto, deve mordersi le nocche delle dita per non gridare a
pieni polmoni e richiamare mezzo villaggio.
Si appallottola in posizione
fetale, ficcando la testa tutta sotto le coperte, il cuore che le batte come un
tamburo.
Un incubo. Un incubo.
Sì, appena ha capito che stava
sognando è riuscita a svegliarsi. Ha le gambe molli per il sollievo. D’istinto,
ricorre subito ad alcune delle tecniche spirituali che conosce per allontanare
il panico e riprendere il controllo di sé.
L’ultima cosa che ricorda
dell’incubo è Onigumo che la attira a sé. Poi.
Un rumore strano. Cos’è? Appena
si rende conto che sono i suoi denti che battono, Kikyou serra la mascella,
battendo un pugno sul futon.
Il materiale. Il materiale di cui sono fatti i sogni.
Sorride con amarezza.
Le è successo, alcune volte, di
udire ragazze del villaggio ridacchiare e bisbigliare, le voci un impasto di
curiosità, desiderio, sfida e paura.
Una volta, si era fermata
sull’angolo della capanna al di là del quale le udiva. Non per origliare, no.
Solo perché sapeva cosa sarebbe accaduto, se avesse svoltato quell’angolo. Le
ragazze si sarebbero azzittite tutte. Qualcuna sarebbe arrossita, di sicuro.
Recuperata in fretta la compostezza, avrebbero chinato la testa alla sua
comparsa, e poi l’avrebbero fissata, insistenti, con lo sguardo vitreo simile a
quello degli uccelli. Civette, forse. O corvi. Non le sarebbe stato difficile
leggere il messaggio contenuto in quegli sguardi.
Vattene via. Va’ via. Liberaci della tua presenza ingombrante, e
lasciaci tornare alle nostre chiacchiere, miko-sama.
Aveva scosso le spalle e si era
allontanata senza fare il minimo rumore.
Di quel grande mistero del quale
le ragazze sussurravano a occhi spalancati, divertendosi a cercare di mettersi
paura l’un l’altra, lei sapeva molto più di loro.
Aveva già avuto modo di vedere
uomini nudi – pur trattandosi di bambini o vecchi, per lo più, e tutti, comunque,
malati o feriti. Inoltre, la sua istruzione le dava molte più conoscenze di
quelle sciocchine.
Kikyou si rigira nel futon.
Solo questa notte, però, può
capire la paura che aveva sentito in quelle risate. Aumentata mille volte.
Deglutisce, e si gira di nuovo,
inquieta.
Quel poco che non sapeva del
grande mistero che uomini e donne condividono fin dall’inizio dei tempi, è
stato proprio Onigumo a svelarglielo, prima, con le reazioni e le secrezioni del suo
corpo. Ma per quanto la cosa la imbarazzasse – non gli avrebbe mai permesso di
capirlo, però – a questo lei era stata preparata fin da subito.
Scuote la testa, e stavolta non
riesce a trattenere un singhiozzo.
Anche se avrei tanto voluto che fosse stato con Inuyasha …
Spalancando tanto d’occhi, Kikyou
scaccia il pensiero e si gira di nuovo, appallottolando le coperte e
arrossendo.
Ma la cosa peggiore, quella più
orrenda, che proprio non riesce a sopportare, è quello che le racconta, e il
suo sguardo addosso mentre lo fa.
Quanto più i giorni passano,
tanto più Onigumo le racconta degli atti scellerati coi quali ha costellato la
sua vita. Dapprima piccole cose, ma che ben presto sono diventate sempre più
terrificanti.
Sempre, dice di volerlo fare per
sgravare la sua coscienza, perché il ricordo di ciò che ha fatto gli è
intollerabile.
“Bugiardo.” Sussurra Kikyou da
sotto le coperte, sicura che Kaede non la possa sentire. Si volta di nuovo sul
fianco.
Onigumo non fa alcuno sforzo per
nasconderle il fatto che il suo presunto pentimento è solo una scusa per
costringerla ad ascoltare.
La sua sfida.
Ma quello che le dice. Quella è
solo verità. E quando le descrive, con la sua voce arrochita e piena di
nostalgia, che cosa ha fatto, che cosa faceva alle donne sulle quali riusciva a
mettere le mani, e quando la fissa con quell’occhio privo di sopracciglia, che
quasi pare nudo …
Con un calcio, Kikyou allontana
le coperte, gli avambracci incrociati sotto il seno, a soffregarsi la pelle
accapponata.
No. Basta. Non c’è niente di cui aver paura. Non ho nulla da temere.
Non ha la forza neppure per torcere un capello a un bambino.
Kikyou sorride di un sorriso
storto. Già. Come piace ripetere a lui. Già.
Però, lei gli aveva lasciato le
steccature alle braccia, vero?
Per l’ennesima volta, si rigira
su se stessa, i capelli lunghissimi ridotti a un groviglio.
Le fratture alle braccia di
Onigumo si erano già saldate da un po’, anche se lui non poteva saperlo, perché
i suoi muscoli si erano talmente indeboliti a causa dell’immobilità, che quasi
non avrebbe notato la differenza. Proprio così. Ma lei gli aveva lasciato
imprigionati gli arti. E sì.
Ma è perché altrimenti Kaede …
“Bugiarda. Tu, stavolta.”
Non aveva senso. Quello che stava
facendo era, in ogni caso, una crudeltà. Ma il giorno in cui si era decisa a
rimuovere le stecche dalle braccia di Onigumo, le mani avevano iniziato a
tremarle tanto forte da non riuscire a far nulla, neanche tenere in mano
ciotola e cucchiaio. E …
Non era mai stata tanto
spaventata in vita sua. Mai!
Anche se sapeva che Onigumo era debole
come un bimbo.
Basta. Basta.
Ma com’era possibile!? Come
poteva, un uomo ridotto così, perseverare a quel modo, sguazzare nel
compiacimento di una tale malvagità, come un porco nel fango.
Uno di quei luridi, schifosi,
puzzolenti, ripugnanti maiali la cui carne gli piace tanto? Come!?
Basta.
No, basta, non può lasciare che
Onigumo la sconvolga così.
“Ci riuscirò. Ci riuscirò
sicuramente.”
Prima o poi, un giorno o l’altro,
sarebbe riuscita a scorgere un solo barlume, quell’unico luccichio di autentico
pentimento; e su quello sarebbe riuscita a fare leva, con paziente fermezza.
Avrebbe salvato l’anima del brigante. Sì.
“Sicuramente. Ci riuscirò.”
Kikyou ascolta il suo cuore
acquietarsi del tutto. Le palpebre le si appesantiscono.
“Dormire. Meglio dormire un po’.
Domani. Mi aspetta una giornata faticosa. E gli toglierò quelle maledette
stecche! Costi quel che costi.”
E così cade nel sonno, dentro
chissà quali sogni.
“Dunque? Prima uno houshi
accompagnato da una taijiya, e adesso una miko? State dando anche voi la caccia
a Naraku, miko-dono?”
Kikyou muove appena la testa.
“Perciò, è la verità. Avete
deciso di proteggere Naraku con i vostri poteri, houshi Hakushin.”
La mummia che un tempo è stato
Hakushin, annuisce.
“Sì. Chissà quanto siete stupita,
non è vero, miko-dono? Che un venerabile come me protegga una creatura come
Naraku?”
“Quando ero vivo, decisi di
salvare la mia terra da un’antica malvagità, facendo di me stesso un Buddha
vivente. Che povero sciocco! Quando la morte giunse a prendermi, capii quanto è
grande la differenza tra ben sapere, e davvero credere. Troppo tardi, però. E
troppo presto. Morii odiando coloro che mi avevano seppellito, l’oscurità che
affliggeva la mia terra rifluì dentro me, e fui perduto. Fino a quando colui che
chiamate Naraku non è venuto a salvare la mia anima. Ora ripagherò il mio
debito. Non ho bisogno di sapere altro.”
L’espressione di Kikyou è
impassibile.
“Oscurità? Non è quanto vedo io
adesso, houshi Hakushin. No, nient’affatto.”
L’inflessione della mummia si
tinge di sarcasmo.
“Davvero? Pensate anche voi di
potere salvare la mia anima, miko-dono?”
Kikyou fatica a trattenere una
smorfia.
“No!”
La mummia la fissa.
“C’è stato un tempo nel quale
sono stata così sciocca da credere di poter salvare anime umane.” Sospira. “E
ormai non posso più fare ammenda di quella mia presunzione. Però sto pagando.
Non avrei mai immaginato quanto!”
“No, houshi Hakushin. Vorrei solo
poter toccare la vostra tamashii, la vostra anima, così come ha fatto Naraku
prima di me. Ve ne prego. Permettetemelo.”
“Voi volete solo dissipare la
barriera che protegge il monte Hakurei.”
“Non è questa la ragione, houshi
Hakushin.”
“Io lo so cosa significa. Essere
perfetti. So quanto fa male. Lo ricordo, dal tempo nel quale ero viva.”
“Dunque avevo ragione. Anche voi,
come me, siete dei morti, miko-dono.”
Kikyou annuisce e ripete.
“So cosa significa. Essere così
accecati da quello stupido, stupido orgoglio!” Stringe le mani a pugno,
incapace di trattenere il dolore.
“E credere di essere sempre,
forti abbastanza da affrontare qualsiasi prova! Di poter pagare qualunque
prezzo il Fato deciderà di chiederci! Oh, houshi Hakushin!”
“Ma a volte, i Kami decidono di
prendere sul serio la nostra arroganza. Quanto può essere terribile quel prezzo!
Tanto più di quel che saremmo mai riusciti a immaginare, persino nei nostri
incubi più orribili! Allora, scopriamo di non essere forti quanto credevamo. Ma
pur di negarlo, preferiamo fuggire nelle tenebre, in un’oscurità nella quale
non poter più vedere neppure noi stessi.”
“Vi prego, houshi Hakushin. Vi
prego, permettetemi di toccarvi.”
“Perché dovrei?” ribatte la
mummia con durezza.
“In cambio, vi lascerò toccare la
mia anima.”
Hakushin è colpito suo malgrado.
Non avverte menzogna nella voce della miko morta, così come non l’ha avvertita
in quella dell’hanyou. In entrambi i casi, ha solo la sensazione che quel che
non gli viene detto sia molto più di quanto è stato svelato.
“Una miko morta? E perché no, in
fondo? Non sono stato tratto dalle tenebre da uno hanyou? Fate pure ciò che
volete.”
La barriera che protegge Hakushin
svanisce.
Kikyou copre i due passi che la
separano dallo houshi, si inginocchia e lo abbraccia stretta.
Hakushin si irrigidisce. Di
nuovo!
Questa luce …
“Come immaginavo. Io non riesco a
vedere alcuna tenebra dentro di voi, houshi Hakushin. Non trovo alcun odio. Vi
state sbagliando. Siete stato ingannato.”
“No, io …”
Hakushin smarrisce le parole
sulle labbra, poggiando il fragile capo nell’incavo della spalla di lei. Questa
luce. Come può essere così gelida e spietata, e al tempo stesso così piena di
sofferenza?
“Non sbaglio. Ascoltatemi.
Ascoltate! Lui è un bugiardo! E’ un bugiardo!”
“No. Non è così, mi ha salvato,
se avesse mentito lo avrei capito. Neppure quell’hanyou ha un potere tale da
potermi mentire.”
Eppure Hakushin sente suo
malgrado il dubbio insinuarsi dentro di lui. Come? La testa della miko si
scuote in un segno di diniego contro la sua guancia. Le sue mani fredde si
stringono più forte sulle sue spalle esili.
“Sì, invece. E’ abile, glielo
riconosco. Sa nascondere le sue menzogne dentro le verità che noi stessi
desideriamo, o temiamo, così che divenga impossibile distinguere il vero dal
falso. Ma è un bugiardo! Non conosce altro che la menzogna! E’ stato bugiardo
fin dal primo momento della sua venuta nel mondo. E colui col quale è più abile
a mentire, è se stesso.”
Hakushin freme.
“Guardate voi stesso. Dentro di
voi, e dentro me.”
La luce si apre ai suoi occhi,
senza tenere nulla per sé, come già aveva fatto la tenebra.
Oh!
E se la tenebra illuminata lo
aveva accecato, ora Hakushin è tanto più accecato dalla luce.
Questa luce oscura!
“No. Miko-dono. Non fatelo. Non
per me!”
Ma la luce non esita, svelandogli
l’agonia dell’odio nel quale è imprigionata; un supplizio che scioglie d’orrore
perfino le ossa di un morto.
“Oh! Miko-dono!”
“Non c’è nulla di tutto questo
dentro di voi, houshi Hakushin. Niente! C’è solo la vostra tristezza.”
“Non siete morto così. Non siete
morto come sono morta io. Siete stato forte. Non temete.”
“Possibile? Ma io …”
“Avete salvato coloro che
dovevate proteggere. La malvagità che avete combattuto non vi ha corrotto.
Siete stato bravo. Siete stato bravissimo! Nessuno può esigere nulla di più.
No. Nessuno.”
“E se avete avuto paura; sappiate
che non c’è niente di male in questo! Significa solo che siete umano. Non avete
odiato! Questa è la sua menzogna. Guardate dentro me. Io sono morta odiando!”
Hakushin cerca di distogliere lo
sguardo dall’anima torturata della miko, ma non riesce.
Vede una giovane donna percorrere
un corridoio d’alberi, una mano premuta sulla spalla squarciata per trattenere
un po’ più a lungo la vita. La vede scoccare una freccia. Sigillare uno hanyou.
Morire. Essere bruciata su una pira.
Dopo un’eternità che rende il
tempo un inganno – decenni? Secoli? Istanti? Quanto? Quanto? – sente una voce
stridula dall’età che la chiama.
Ritorna. Ritorna!
No! Lasciatemi stare. No non
voglio no no mi fa male! No, perché? Che cosa ho fatto per meritare …?
L’hanyou sigillato e di nuovo
libero.
Ti scongiuro! Non. Non farlo, non
farlo, non resisterò se lo fai non farlo, taci TACI!
Non chiamare il mio nome!
Kikyou.
E la voce di una strega youkai.
“Quella che un tempo era una
fanciulla così pura, adesso è solo un mostro pieno d’odio e di mera malizia.
Ah!”
Hakushin capisce.
Il destino della tenebra
illuminata che lo ha liberato dalle sue tenebre, e quello della luce oscura
che, ora, lo sta liberando dalla tenebra, è di scontrarsi nel più feroce
duello, sulla cima del monte Hakurei. Si stanno scagliando come folgori l’uno
tra le braccia dell’altra. Come amanti. Come assassini.
E quando ciò accadrà, lui non
vorrà esserci. Così, scopre che anche un morto può avere paura.
“Miko-dono. Ho capito. Eppure,
adesso non posso lasciarvi qui. Non posso abbandonarvi!”
Hakushin sente il capo della miko
scuotersi di nuovo.
“No. Non c’è più nessuno che
dobbiate salvare, houshi Hakushin. Ora potete riposare. Sì. Dormite un po’. Ve
lo siete guadagnato. Per me, è troppo presto. E troppo tardi, anche.”
La testa di Hakushin crolla
all’indietro, le mani di lei ancora premute sulla schiena. Sì, non è una brutta
idea. Dormire. Chiudere gli occhi un pochino. Ma prima, però.
“Addio, miko-dono. Una cosa. Una,
almeno! Ricordate. E’ qualcosa che ripeteva il mio sensei, e finalmente.
Finalmente l’ho compresa.”
“Il mio sensei soleva ripetere,
che prima di imparare a servire, è più importante imparare a essere serviti.”
“Spero vi possa aiutare nel
vostro viaggio. Miko-dono.”
La mummia perde sempre più consistenza
tra le mani di Kikyou, fino a svanire in pochi istanti. Kikyou sospira, e fruga
tra le pieghe del suo hitoe, alla ricerca della ciocca di capelli di Kansuke
Rasetsu.
“Un po’ di pietà? Basta questo?”
La coda di capelli in mano, resta
in silenzio mentre la barriera attorno al monte Hakurei impallidisce, fino a
svanire, e un grido si alza sempre più possente.
Mostri il tuo vero volto, non è vero, Naraku?
La rigogliosa salute dei boschi
abbarbicati ai pendii del monte Hakurei defluisce via, svelta come il colore
dalle guance di un morto.
Il verde diventa marrone, e poi
nero, mentre torme infinite di youkai erompono dalla montagna, ronzanti e
furibondi e liberi.
Kikyou si rialza.
“Ma nessuna pietà per te, mio
assassino. Né tu la vorresti, e io non ti insulterò, accordandotela.”
Naraku continua la sua corsa,
ansante, sentendo ancora il tocco delle zampette di Onigumo, vedendolo mentre
fugge.
Gli chiude strade che erano
aperte fino a un attimo prima, crea false piste e labirinti coi quali confonderlo,
lo costringe a girare a vuoto.
“Né tanto meno per me, Naraku.
Tutta la pietà di questo mondo, non può cambiare ciò che siamo. Ora.”
Come allora.
Lo chiude nell’angolo di un
vicolo sporco.
“Ti vedo, Onigumo. Sei proprio lo
stesso.”
Kikyou stringe più che può i
capelli del brigante morto nella mano. “Perché è questo il mio destino.”
“Perché questa è la mia scelta!”
“Sola.”
“Solo.”
“Mi sbarazzerò una volta per
tutte sia di te che della miko.”
Il kokoro di Onigumo si è rimpicciolito fino a ridursi delle
dimensioni dell’insetto di cui ha la forma. Il piccolo corpo è pieno di ferite,
una zampa è rotta, la peluria è ricoperta di icore verdastro. Onigumo sibila e
sputa, arricciandosi come una palla.
“Mai domo, vedo. Molto bene.”
Naraku fa un altro passo.
Il ragno si getta in avanti
zoppicando, fingendo di muovere in una direzione e poi scartando
all’improvviso.
Naraku attende fino a quando è
possibile. Poi si china rapido come una serpe, e imprigiona il ragno nel pugno.
Onigumo cerca di mordere, di
conficcargli il pungiglione nel palmo, ma l’aculeo si spezza sulla sua mano
dura come pietra, schizzando goccioline trasparenti di veleno.
“No! Non puoi! Non puoi
scacciarmi! Io sono il pungolo dei tuoi passi!”
Serra le dita.
“Non più.”
“Io sono la soddisfazione nella
tua risata!”
Altre zampe si rompono con uno
schiocco. Un gemito di dolore e rabbia.
“Non per molto.”
“Io godo per te dei tuoi
trionfi!”
Il pollice preme sull’addome
peloso.
“Non ne ho bisogno.”
“Io do vigore all’ambizione che
ti sostiene! Non sei nulla, senza di me!”
Stringe. Di più.
“Io sono ciò che decido di
essere.”
“Io sono il mastice che
stabilisce la forma che sei!!”
Di più!
“Onigumo. Neppure l’inferno vuole
un’anima come la tua.”
La carcassa stritolata del ragno
cade a terra.
“Puoi andartene anche tu, Kansuke
Rasetsu. Ora posso lasciarti andare, senza più essere una bugiarda.”
Kikyou apre il pugno vuoto e per
un secondo sorride soddisfatta. Poi, riprende il suo solitario cammino verso la
cima del monte Hakurei.
Alza le mani all’altezza del
viso, e sospira. Sul dorso delle mani, due tagli come due ferite si spalancano,
svelando due globi cremisi.
Occhi.
Il suo volto è, ancora, quello
del figlio del daimyo.
La forma che ho stabilito.
La sagoma umana del suo corpo è
sfigurata da code e creste d’ossa.
Bene.
Attorno a lui, brandelli e
rimasugli di youkai.
Sotto di lui, in una vasta
infossatura, i feti che imprigionano la sua anima umana.
I grumi di carne sospirano, come
scossi da un vento invisibile. Lo stanno chiamando. Si sporge nella loro
direzione e parla piano.
“Ricordati, Onigumo. Tutte le
creature dei cieli e della terra sono le schiave della loro stessa natura.”
“Ma io, non ho natura.”
Naraku gira sui tacchi senza
un’esitazione, ignorando i sussurri provenienti dalla fossa. D’un tratto,
avverte una scossa. Un’altra. Una cascata di polvere cade dalla volta del
cunicolo che sta percorrendo. Una scheggia di roccia lo colpisce senza lasciare
traccia.
La barriera del monte Hakurei è
stata dissolta.
E c’è sola una creatura, sotto i
cieli vuoti, che può avere spezzato le catene di fiamma con le quali aveva
imprigionato quel ridicolo idiota di Hakushin.
Giacché lui ha forgiato quelle
catene a derisione di quelle che imprigionano lei.
“Hai fatto tutta questa strada,
solo per venire da me, Kikyou?”
Il sorriso di Naraku sboccia
sulle sue labbra come i petali di un loto velenoso.
Devo scusarmi per il grande ritardo nell’aggiornamento – bhe, anche se
dubito che ci sia qualcuno in attesa di aggiornamenti, non era mia intenzione
lasciare il racconto in sospeso tanto a lungo e in questo punto in particolare,
ma problemi di natura inf
Devo scusarmi per il grande
ritardo nell’aggiornamento – bhe, anche se dubito che ci sia qualcuno in attesa
di aggiornamenti, non era mia intenzione lasciare il racconto in sospeso tanto
a lungo e in questo punto in particolare, ma problemi di natura informatica mi
hanno rallentato oltremisura. Non mi dilungo oltre e, già che ci sono, auguro a
tutti quanti uno splendido 2010.
Ciao!
Tira vento.
E, oggi come un tempo, Kikyou
odia queste giornate ventose. Oggi che, più di allora, si sente come una stanza
chiusa, anche se non più vuota.
L’intensità del vento vieppiù si
accresce. Scosse violente, che squassano l’intera montagna, minacciano di farle
perdere l’equilibrio. Cammina cauta, fissando le punte più alte dell’Hakurei.
Il monte Hakurei sta morendo. Un
mostro si è annidato nelle sue viscere, facendolo a pezzi, divorandolo da
dentro, squartandolo.
Perché? Qual è lo scopo di
Naraku? Quale ragione lo muove?
Le punte gemelle dell’Hakurei si
piegano col muggito di un titano, si staccano e precipitano per un centinaio di
metri, schiantandosi a terra e levando nubi di polvere così fitte che la
soffocherebbero, se fosse viva.
Le scosse diventano tanto intense
da costringerla a fermarsi. Il suolo si separa, deturpato da ferite micidiali,
intere sezioni di roccia sprofondano, spalancando orridi a pochi metri da lei;
nel cui fondo sciaguatta, in forma di fiume velenoso, lo shouki, il miasma di
Naraku.
Dal varco sulla cima della
montagna, erompe una meteora, un globo rosso sangue colmo di oscura potenza. Si
scaglia contro di lei.
L’arco in mano, i vestiti e i
capelli scompigliati, assume la posa richiesta per il Kyujutsu, punta del piede
destro in avanti, sinistro spostato di lato.
Eccolo.
La rossa meteora si arresta in un
istante, passando da quella velocità spaventosa all’immobilità, quando è ad
alcuni metri da lei.
Kikyou non batte ciglio, mentre
l’energia crepitante si acquieta, si riduce, schiudendosi a svelare colui che
si nasconde al suo interno.
“Kikyou. E’ passato del tempo
dall’ultima volta.”
Naraku tiene lo sguardo fisso
negli occhi della sua nemesi.
Sì.
Così come la scalata al monte
Hakurei ha reso più potente lui, allo stesso modo ha indebolito lei; e, quel
che è meglio, Kikyou non se ne è accorta del tutto. Le prove alle quali l’ha
costretta l’hanno privata di gran parte della sua forza, senza che lei se ne
rendesse conto.
Ottimo.
“Cosa significa tutto questo,
Naraku? Cosa stai architettando?”
Kikyou soppesa il suo assassino,
il suo corpo piagato dalle strutture ossee che erompono quasi a casaccio, e
dalle bizzarre appendici di cui adesso è munito.
“Come? Non lo vedi da te, Kikyou?
Mi sono procurato un nuovo corpo. Migliore. Sapevi già che Inuyasha mi ha
sconfitto, no? Ora non gli sarà più così facile.”
In risposta, Kikyou sfila una
freccia dalla faretra e tende l’arco in direzione di Naraku.
“Non sono cieca; non hai fatto
tutto questo per procurarti un nuovo corpo. Avanti. Se sei venuto a cercarmi è
per una ragione. Vero?”
“Ah, lo hai capito! Astuta come
sempre, mia nemesi. Sì, già lo so. Mi mancherai.”
Un passo per volta.
Naraku lascia scorrere dentro di
sé il suo potere. E’ importante. E’ troppo importante. Non basta ucciderla.
Deve spezzarla. Lei è caparbia, come quel lercio brigante. Caparbia e potente. Non deve scordarlo. Va
stritolata, prima. Come ha fatto con lui. I due fantasmi che lo perseguitano.
“Una volta reciso, il filo rosso
del destino non può più essere riannodato.”
“Le ruote del destino sono sempre
in movimento.”
“Così sta scritto.”
“O sbaglio, mia nemesi?”
Una prima smorfia di sconcerto
attraversa il viso di Kikyou per sparire subito.
“Trovare lungo la tua strada
Kansuke Rasetsu non è stato certo il frutto del tuo prezioso Fato, Kikyou.
Conoscevo il desiderio di Rasetsu di trovare un luogo adatto alla sua morte. Ho
prolungato la sua vita fino a farlo tanto stremato da non consentirgli di
pensare ad altro.”
“Mi è bastato spargere la voce e
fare credere che il terreno consacrato del monte Hakurei fosse in grado di
purificare dai peccati chi vi è sepolto. Sapevo che questa menzogna avrebbe
attirato Rasetsu come la fiamma attira la falena. Povero Kansuke! Fino
all’ultimo, si è lasciato ingannare così facilmente!”
“Sapevo pure che tu, Kikyou, ti
saresti fatta accecare come sempre dalla tua sciocca fiducia nel Fato.”
“Invece, è stata opera mia. Sono
stato io, e io solo a guidarti fin qua.”
Leva il braccio, e una delle
punte ossee si allunga assumendo la forma di una lama.
“Mi hai sottovalutato, mia
nemesi. Non hai tenuto conto di una cosa.”
D’un tratto, la punta ossea
prende vita, proiettandosi come una lancia, e in un sol colpo spezza l’arco di
Kikyou e le trafigge la spalla.
L’arco in tensione schizza via in
due tronconi, e Kikyou cade in ginocchio sbigottita.
La spalla! Naraku l’ha colpita
allo stesso punto. Ma non c’è sangue, stavolta. Le labbra della ferita non
svelano carne esposta. Solo un involucro di terra, incrinato, dal quale
fuoriesce la debole luminosità di alcune tamashii.
Come ha fatto!? Kikyou fa per
alzarsi, ma l’espressione di Naraku la paralizza, colpendola con la violenza di
una mazza. E’ impenetrabile, ma quasi. Quasi le pare pietosa.
No! Un bugiardo. Ricordalo! Nessuna pietà, né per lui né per te!
Ma è così difficile resistere!
Perché lui capisce cose che nessun altro può capire. Lo vede nelle sue iridi
rosse. E non può abbassare lo sguardo. Quel segno di debolezza, le sarebbe
fatale.
“Il kokoro.” Sussurra “Non c’è altra spiegazione. Non avresti potuto
violare la terra in cui giacque Onigumo, altrimenti. Ti sei liberato dal kokoro di Onigumo!”
“Liberato. Sì, hai ragione,
Kikyou.”
“Sulla cima di questa montagna
sacra, dove i nostri antenati venivano a sacrificare ai Kami, realizzerò
entrambi i nostri desideri. Libererò anche te. Mi sono preparato per questo. E’
stato doloroso, e spossante, ma ce l’ho fatta.”
“E’ arrivato il momento di
riposarti. Non dirmi che non sei stanca di tutto questo, Kikyou. Lo so che è
così. Sei esausta. Lo vedo bene. Sei stata richiamata nel mondo contro la tua
volontà. Ognuno dei tuoi giorni è una tortura che neppure io avrei saputo congegnare,
né posso immaginare appieno. Devi assistere al lento disfacimento di ciò che
sei stata, senza poter far nulla per impedirlo. E l’unico a saperlo, è il tuo
peggiore nemico. Non dirmi che puoi sopportarlo, anche per un solo minuto di
più! Deve finire! Qui e ora, Kikyou!”
No. Non così. Non ascoltarlo.
La sua voce piatta ma stranamente
comprensiva le entra dentro come dall’incrinatura del colpo che le ha inflitto.
Ma davvero il Fato vuole questo?
Tutta la fatica, tutto il dolore per arrivare fin qua, solo per essere uccisa
di nuovo da Naraku, e in questo modo?
“Che tu sia maledetto, Naraku.”
Lo sguardo di Naraku rosseggia.
“Chi dovrebbe maledirmi, Kikyou?
Tu? O il Fato? Ho sconfitto Onigumo! Dopo tutti questi anni. Solo tu sai cosa
questo significa, sia per me che per te.”
“Ormai, il mio potere è tale da
poter piegare anche il Fato alla mia volontà! Nulla può più trattenermi. Ci
sono solo io, sotto i cieli vuoti, che può salvarti. Lascia che accada, mia
nemesi. Così deve essere. Così è giusto. Non permettere che il Fato giochi
ancora con te.”
Le labbra di Kikyou tremano, le
spalle incurvate. Quanto è stanca. Pesante. Esausta! Le sue parole. Così
insidiose. Così allettanti. Lui capisce! Quanto vorrebbe, essere liberata da
tutto quanto!
Come Suikotsu. Come Hakushin.
Come …
Bugiardo! Bugiardo!! Conosce solo la menzogna! Non te lo scordare! Non
scordarlo!
Kikyou sbatte le palpebre, senza
capire da quale parte, dentro di sé, venga il grido. Scuote la testa, come se
dovesse liberarsi dal sonno.
“No.” Dice semplicemente.
Naraku la guarda, divertito. “No?
No, davvero? Non è quello che ho letto sulla tua faccia, Kikyou.”
“Tu non capisci, Naraku. Proprio
non lo capisci. Credi che il tuo potere si estenda addirittura sullo stesso
Fato? Sei davvero patetico.”
Il viso sorridente di Naraku
viene turbato da un’increspatura.
“La terra del monte Hakurei non
può purificare coloro che vi vengono sepolti, dici? Eppure, le anime di tutti
coloro che mi hanno accompagnata fin qua sono salve. E tu mi parli di menzogne,
mio assassino? Ebbene, ascoltami. Non esiste nessuna delle tue menzogne, che io
non possa piegare in verità!”
Kikyou rialza la testa, gli occhi
le si induriscono. Sposta un piede a terra, poggiando il peso su di esso, tesa.
“Ma tu questo non puoi comprenderlo,
perché non è vero! Non è vero che mi capisci! Bugiardo! Come sempre, l’unico
che riesci a ingannare, sei tu stesso, Naraku.”
“Inuyasha. Lui sì, capirebbe
subito. Mentre tu. Tu, povero, smarrito, debole hanyou, non puoi! E questo
perché Onigumo; lui non mi ha mai vista, e non mi ha mai vista danzare! No, per
lui io non ho mai danzato la danza delle miko.”
Naraku sposta il peso del corpo
all’indietro senza volerlo. Come? Non aveva più un briciolo di energia fino a
un attimo fa, la disperazione la stava consumando, e adesso!
Nonostante la sua anima sia in
pezzi, Naraku sente ancora una volta il suo potere raccogliersi attorno a lei.
“Quali vaneggiamenti sono mai
questi, Kikyou? Le tue parole non hanno alcun senso! Hai finito per perdere
persino la ragione, mia nemesi? Che delusione!”
Naraku scorge il sorriso gelido
fare capolino di nuovo sulla bocca di lei.
“Oh, Naraku. E’ tanto importante
distruggermi? Tanto, da ridurti a nulla più che un guscio vuoto? Stolto. Quanto
più lotti per sfuggirgli, tanto più non fai che diventare, il mero strumento di
un Fato oscuro.”
La calma di Naraku si infrange.
Come riesce a sfidarlo, nonostante tutto!? Ma perché!? Perché non cede, perché
non si frantuma!? Questo incubo. Questo incubo deve finire. DEVE!
“Parole! Le tue sono solo parole!
Tutto questo finirà, e finirà oggi!”
Il volto di Naraku si deforma per
l’odio, e il sorriso di Kikyou si fa, assurdo!,
dolce e indifeso come quello di una bambina.
“Adesso sì che ti riconosco, mio
assassino.”
“Fa’ il tuo dovere, Naraku.”
Una bolla d’odio scoppia dentro
Naraku, sconvolgendolo con la sua virulenza. Come? Eppure è certo che non ci
sia più alcuna traccia di Onigumo dentro di lui.
Ma non è Onigumo! E’ il suo odio! E’ nato dentro di lui, e non
ha a che fare col suo cuore umano! Eppure non si era accorto della sua
esistenza, fin’ora!
“Muori, Kikyou.”
La lancia d’ossa non basta. Le
sue dita si trasformano in un nugolo di lame. Le scaglia, mentre si allungano,
accompagnate dalla ferocia del suo odio! Non ha mai provato niente del genere,
neppure per Onigumo. Non ha mai neppure saputo
di poter provare qualcosa del genere! Le dita (artigli) la colpiscono alla spalla con tutta la violenza di cui è
capace, sollevandola da terra. Riesce solo a intravedere la sua faccia. Non l’ha
mai vista così, ma non gliene importa più nulla. Purché scompaia! Che sparisca.
Per sempre!!
Kikyou vede la sua fine arrivare
sul viso di Naraku e sulle punta delle sue dita. Trafitta, viene sbalzata da
terra. Un bruciore, un dolore quasi, la fa sussultare. Strano. Non si aspettava
di provare dolore.
Veleggia sul baratro nel quale
lui l’ha scaraventata. Come una foglia morta. Il simulacro del suo corpo è
spaccato.
Cadere. Lasciarsi andare.
Sconfitta? Ma importa?
Però c’è un brusio. C’è questo
strano brusio, lo stesso che l’ha svegliata dalla malia di Naraku, e che non
vuole lasciarla riposare. E’ come se il rumore la volesse costringere a
ricordare. Che cosa?
Le sue labbra si muovono appena.
“Inuyasha.”
Inuyasha che le allunga una delle sue carezze corte, e poi rinuncia
quando è a una spanna dalla sua mano, e guarda altrove.
E lei che posa la mano sul suo palmo.
“Non lasciarmi affrontare tutto
questo!”
Inuyasha imbronciato, che la fissa attento, e i suoi occhi si accendono
d’improvviso come due fiamme dorate, liquidi e pieni di desiderio.
E lei che canta, e danza per lui nell’intrico dei segreti che sa
sciogliere e legare.
“Non di nuovo.”
Inuyasha che le cinge le spalle con le braccia, e la sostiene mentre
sta per cadere.
E lei che gli si avvinghia contro, il corpo schiacciato sul suo, e
tutto è tiepido e pauroso e quieto, rannicchiata nel suo calore.
“Non da sola!”
Una fiamma bianca erompe dalla
sua ferita.
E tutto precipita e sale verso la
sua fatidica fine.
La mano di Naraku ritorna al suo
aspetto consueto. Si avvicina al bordo del baratro; passi lenti, trasognati.
Si sporge. Andata. E andato è
pure l’odio che per un secondo l’ha sconvolto. Rinchiuso dentro di lei, e
buttato nel fiume dello shouki, per svanire nel nulla.
Finito.
Sono libero?
Libero. Libero! Sì, libero!, da
tutto! Leggero! Pulito! Finalmente!
Dimentica in fretta il trionfo.
Il suo sorriso, è il sorriso
perfetto di un Buddha vivente serenamente morto d’inedia.
“Tutto questo, tutta questa
fatica, e solo per uccidere una femmina, Naraku?”
Lui. Non avrebbe potuto chiedere
di meglio. Lui, fra tutti quanti.
Prima di voltarsi, piega le sue
labbra nel suo solito ghigno beffardo. Non che lui possa capire. No, l’unica
che potrebbe capire, è stata appena consumata nel veleno. L’unica.
Ciò che prova non è nostalgia,
ovvio!
No, Sesshoumaru-sama. Quel che ho realizzato, la vetta che ho
raggiunto, il dolore che ho sconfitto, la libertà che mi sono conquistato. Tu
non sei nato per comprendere nessuna di queste cose.
Voltandosi, vede che non è
accompagnato dalla bambina umana che ha deciso di accogliere con sé. Non ha
voluto portarla troppo vicina al pericolo.
E forse, ormai, anche se potessi comprenderle, non sapresti più neppure
apprezzarle.
“Sesshoumaru! Non mi aspettavo di
essere onorato dalla tua presenza. Sei sicuro che dedicarmi tale attenzione non
sia indegno di uno youkai della tua levatura?”
Sesshoumaru non ascolta quasi le
parole di Naraku, le narici dilatate dallo stupore. Cos’è accaduto?
L’anima umana nascosta all’interno
di Naraku non ha più alcun odore. Aveva una puzza oleosa, nauseabonda, che
stentava a sopportare; un impasto di putrefatta vitalità, di rabbioso tripudio,
e di tutti quegli olezzi umani che gli sono insopportabili. Svanito. Non c’è
più nulla. Non gli è mai accaduto, in tutti i secoli della sua esistenza, di
imbattersi in un’anima umana del tutto priva d’odore.
Chiedendosi cosa possa
significare, sfodera Tokijin.
“Avanti, Sesshoumaru. Colpiscimi!
Finisci quel che è rimasto in sospeso tra di noi!”
Sesshoumaru sferra un colpo
dall’alto verso il basso, scagliando una saetta contro di lui. Naraku resta
immobile, senza fare alcuno sforzo per difendersi. Il suo nuovo corpo viene
tagliato in due. Non può certo essere ucciso per così poco. Si lascia trafiggere
altre due volte, prima di levare una barriera per arrestare il gelido assalto
di Sesshoumaru.
Resta in contemplazione dello
youkai bianco. Nulla. Niente più desiderio, niente più bisogno. Il suo animo è
una tazza vuota.
Ti prenderò, quando vorrò. Come vorrò. Se vorrò. Di certo non oggi.
Oggi è il giorno per un’altra vittoria. L’unica che importi davvero.
Anche l’altro sta arrivando. Ne
ode alla distanza i passi concitati in una corsa disperata. Lo sente nel modo
più profondo in cui si sentono i nemici mortali.
Potrebbe restare qua, al sicuro,
e ridere e farsi beffe delle sue grida, della sua rabbia, del suo dolore. Sì,
potrebbe farlo. Ma capisce di non averne alcuna voglia.
Non ha più ragione per restare.
Leva la testa verso le stelle
fredde.
E tutto sale e precipita verso la
sua fatidica fine.
Dimena scompostamente le braccia;
ansima, il petto dolente, la vista appannata. Più svelto! Deve sbrigarsi,
sbrigarsi, sbrigarsi! Non sa neppure più da quanto tempo questo pensiero – sbrigarsi – lo ossessiona; ma mai le sue
ossa e il suo cuore glielo avevano gridato con tanta foga!
Corri, corri, corri! Gli bruciano
le gambe, oltrepassa rocce e rovi che sono solo macchie confuse – il bordo di
un dirupo; deve raggiungere il bordo di un dirupo, ma perché?
Respira ad ampie boccate, e si
rende conto che non vuole più sbrigarsi. Ci sono le due metà di un arco
spezzato che lo aspettano alla fine della sua corsa, e quando lo avrà raggiunto
non potrà più fingere di non sapere verso cosa sta correndo con tutte le sue
forze.
Non riesce a rallentare, però.
Ecco, intravede una sagoma, che sa essere quella del suo fratellastro. Ecco,
sente la puzza dello shouki di Naraku. No, no, non vuole arrivare, non vuole
vedere, non può sopportarlo ancora.
C’è solo una via di fuga!
Si sveglia.
Schiaccia la mano sul petto e ne
ricava un po’ di conforto, come se davvero il peso che gli preme addosso ne
fosse alleviato, e il suo cuore impazzito s’acquieta.
Silenzioso e agile, Inuyasha si
allontana dai compagni addormentati. Loro sì, dormono bene. L’odore salubre del
loro sonno (quello di lei in particolare)
lo tranquillizza.
E’ lui che dorme peggio del solito; e non che di solito dorma bene! Da quella
notte sulla cima dell’Hakurei. Inuyasha non ricorda i suoi sogni, né mai ha
voluto farlo. Che cosa inutile, i sogni! Accadono cose strane, nel sonno. E’ un
regno di pericoli dal quale non ha mai saputo bene come difendersi. Non li si
può colpire, né evitare, né ferire. Ma loro sanno sempre come raggiungere e
colpire e ferire te.
Rabbrividisce, pensando a quei
cinquanta lunghi anni del suo sigillo. No, non si ricorda. Non vuole ricordare!
Cammina per qualche altro metro.
Ma i sogni non gli hanno lasciato tregua, ultimamente. Crederla perduta.
Lasciata sola a morire, di nuovo! Di nuovo! Bere al fiume gli era diventato
insopportabile, perché era costretto a guardare la sua faccia riflessa
nell’acqua. Avrebbe voluto assalire quella faccia, farla a pezzi con gli
artigli.
Arrivava l’ora di dormire, e lui
sperava almeno di poter fermare la spirale del tormento e dei pensieri neri che
lo martellavano sino a esaurirlo. Ma nel sonno c’era lei, lei, lei, di
continuo! Si svegliava, una, due, innumerevoli volte. E possibile che in tutto
quel dolore ci fosse anche l’ombra del sollievo?
Sono libero? Libero, finalmente?
No! Mai! Ridatemela! Ridatemela!!
E tu, maledetto. Ti ammazzo, ti ammazzo, ti ammazzo!
Aveva creduto che i sogni
sarebbero finiti, quell’altra notte. Quella in cui Kagome lo aveva rassicurato
sul fatto che Naraku aveva fallito. Che Kikyou era salva. Che lei era riuscita
a guarirla.
Come? Com’è possibile? E lei sta bene? Come sta? Cosa le è accaduto!?
Cosa ti ha detto? E come parlava? Ti sembrava che stesse soffrendo!? Dimmi. Dimmelo!
Dimmelo!!
A Kagome non poteva chiedere
niente, perché l’unica risposta che otteneva erano i suoi sguardi colmi di
biasimo.
Aveva però ricordato cosa fosse
sul serio, il sollievo. Tanto più grande e forte, da spazzare via le ombre, da
fargli girare la testa, da farlo barcollare come un ubriaco.
Perché il suo cuore lo prende in
giro in questo modo? Perché i sogni continuano a perseguitarlo? Chiude gli
occhi per la frustrazione, senza trovare risposte.
Attento, Inuyasha! Dobbiamo sempre stare attenti a quel che
desideriamo. Sai, c’è il caso che, delle volte, i Kami decidano di esaudirci!
Inuyasha spalanca le palpebre;
l’immagine di Kikyou che ride e danza sull’erba, sparisce dalla sua testa.
Due bambine circondate da un
alone di luce lo stanno fissando, come se attendessero da un pezzo che
prestasse loro attenzione.
Queste bambine? Sono?
L’olfatto di Inuyasha gli dà la
risposta di cui ha bisogno, prima che parlino. Shikigami. Tratti alla vita dal
potere di una miko. Con il suo odore. Il suo odore!
“La nostra padrona ti aspetta. Ha
bisogno di parlarti. Seguici.”
No, si sbagliava un’altra volta,
dunque!
Questo vuole dire, sollievo. Questo! Davanti a nessun nemico ha mai
tremato, ma i suoi muscoli ora sono impazziti. Ha le ginocchia deboli. Sudore
gli scorre addosso.
Lei lo sta cercando. Lo sta
cercando! Apre la bocca, ma la richiude subito di scatto, perché capisce che un
grido sta per scoppiargli nel petto.
Gridare tanto da sentire la gola
lacerarsi! Lei mi vuole!? Mi sta chiamando!? Vuole che io vada da lei? Ha.
Bisogno. Di me?
E’ la prima volta da quando è
tornata nel mondo, che lei lo convoca in questo modo. Pianta le zanne nel
labbro, leccando il sapore del suo sangue.
“Sbrigatevi. Portatemi dalla
vostra padrona. Più svelte che potete.”
Le due bambine si voltano,
spiccano il volo attorniate da quella luce pallida. Il corpo di Inuyasha si
tende e scatta.
Fissa la luna piena mentre corre
e balza di ramo in ramo, al di sopra delle fronde dei più alti tra gli alberi
della foresta. Veloce. Più veloce! Perché non si sbrigano!? Credono forse che
non sia in grado di tener dietro al loro volo!? In fretta!
E guai.
Guai a chi oserà intralciare la
sua corsa, stanotte.
La luna è piena, stanotte.
E lei è molto debole, tanto da
dover poggiare tutto il suo peso sul tronco della quercia, ma è ancora … non
può dire di essere viva, ma è ancora qui.
Gli shinidamachu volano lenti
attorno a lei. Afferrano di tanto in tanto una delle molte anime di donna che
rischiarano la notte come lucciole e gliele porgono affinché la sua forza ne
venga ripristinata. Il suo corpo fittizio non è mai stato tanto debole. E’
stupita che gli shinidamachu abbiano trovato un tale numero di anime. E di
continuo si allontanano! Per poi tornare in pochi minuti, con altre tamashii
tenute tra le zampe. La radura è quasi illuminata a giorno, ma di una luce
fredda. Morta. E’ come da bambina immaginava dovesse essere un bosco stregato.
E io sono la strega.
Accogliere tante tamashii, in
così poco tempo, la sta sfinendo. Il loro parlottio non si zittisce mai; lei
non capisce bene cosa dicano. Più che parole, sono visioni quelle che si
alternano nella sua mente, confondendola fino a stordirla.
Kikyou preme la mano sul
ginocchio, e si sforza di discernere i frammenti dei suoi ricordi da quelli
delle donne morte, di allontanare la nebbia dalla memoria ma, per l’ennesima
volta, fallisce.
E’ come se si fosse svegliata da
un sonno profondo, quando la sua reincarnazione l’ha guarita; ciò che è
accaduto prima, dopo essere precipitata nello shouki, resta per gran parte un
groviglio.
Tocca appena la spalla, trattenendo
una smorfia. Guarita, ma non del tutto. Dolore. Il dolore delle ferite; si era
scordata di come fosse.
Ricorda bene, invece, cosa si
erano dette, lei e la sua reincarnazione.
Scuote la testa.
“Ah, ragazza del futuro. Non
capisci. Ma come posso pretendere che tu capisca questi misteri? Neanche io
avevo capito, così tante cose!”
Non ti ringrazierò, perché sei stata tu a scegliere di guarirmi. E’
stata una tua scelta, e perciò, io non ti ringrazierò.
Che faccia aveva fatto la ragazza
venuta dal futuro! Sarebbe stata comica, se non avesse visto un pezzetto di se
stessa, guardandola. Una se stessa del tutto diversa, eppure …
Tiene gli occhi fissi sulla luna
piena.
“Vedi, Onigumo? Imparo. Sto
imparando. Che sciocca sono stata! Eppure persino tu me l’avevi detto! Vi sono
doni per i quali non si può, non si deve rendere grazie! Sono troppo amari da
ricevere! Troppo dolorosi! Capisco. Ma com’è dura questa lezione! Non so per
quanto ancora potrò sopportarla.”
Si copre la faccia con le mani,
la mascella serrata.
“Mi dispiace tanto, Onigumo. Mi
dispiace, ma non mi sentirò in colpa per questo! Tu sei un mostro! Proprio come
l’abominio che è il figlio dei nostri desideri. E io vi distruggerò entrambi.
Te lo giuro, Onigumo. Te lo giuro!”
E lui, invece? Starà arrivando in
questo momento? Gli deve parlare. Deve spiegargli quale trappola Naraku sta
tessendo per impadronirsi del frammento della Shikon no Tama nascosto
nell’aldilà. Deve …
“Bugiarda. Ma non morirà mai?
Maledetto, stupido orgoglio!”
Vuoi rivedere il suo viso.
Una cosa ovvia persino per la
ragazza venuta dal futuro!
“Sono una debole. Una vigliacca.
Un’ipocrita. Una bugiarda. Una …”
“Smettila immediatamente.”
Stacca le mani dalla faccia.
Lo sguardo dorato di lui è …
arrabbiato. No, non proprio. Anche, ma soprattutto. E’ pieno di quella forza
antica e inumana che gli ha visto solo poche, pochissime volte. Non ha alzato
la voce, ma al suo ordine non si può disubbidire.
Con un balzo del suo intuito
sovrannaturale, Kikyou capisce una cosa che le era sempre sfuggita. A nessuno
lui ha mai svelato questa forza. Nessun altro ha mai visto i suoi occhi così,
ha udito quell’inflessione di comando. Lui odia tutto questo, vorrebbe solo
dimenticarsene. Ma per lei.
Per lei sola. Per lei tutto. Ora
come allora, sempre.
“Kikyou.”
Mentre sussurra il suo nome e lei
si ricompone, ombre offuscano i sui occhi, lasciandola con l’Inuyasha che lei
conosce bene.
Inuyasha si avvicina di qualche
passo.
Scruta ogni piano e linea del suo
viso delicato e pallido, come la mano si stringe tremando alla gola. Gli sembra
così fragile!, come se toccandola potesse romperla.
Però è sopravvissuta! Naraku non
è riuscito a batterla! Un altro le chiederebbe come c’è riuscita, ma a lui non
interessa. C’è solo una cosa che vuole fare e sapere.
Si inginocchia accanto a lei. Il
suo volto non è gelido e duro come le altre volte; anche se certo, sarà per la
fatica della lotta che ha dovuto ingaggiare per resistere allo shouki di
Naraku.
Le posa le mani sulle spalle
senza esitazioni, e non si preoccupa di sentirla sussultare.
“Come stai, Kikyou?”
Kikyou è costretta a chinare la
testa prima di rispondere. Il modo in cui la guarda è troppo da sopportare.
“Bene. Sto bene.”
Nessuna pietà. Nessuna pietà per
lei. C’è ben altro! C’è quel che lei vuole e non può più concedersi di volere.
Sapeva che era sbagliato chiamarlo. Ma è così stanca che non riesce a
controllarsi.
“Inuyasha, devi stare attento. Ti
sarai accorto che Naraku ha dissolto la barriera che proteggeva il nido degli
uccelli infernali. Non lo ha fatto per caso, ma perché gli youkai hanno
raccolto abbastanza sangue umano da spalancare il varco verso l’aldilà. Vi sta
aspettando. Vuole che voi lo troviate.”
“Perché?”
“Ha bisogno degli occhi di
Kagome. Gli unici, ora che mi crede morta per sempre, capaci di vedere l’ultimo
frammento della Shikon no Tama e trovarlo. Quando lo inseguirai, come so che
farai, dovrai lasciarla in un posto sicuro. Non portarla con te! E’ troppo
pericoloso, ed è quel che lui vuole.”
Kikyou sente la veste rossa di
Inuyasha frusciare mentre lui sposta il suo peso da un ginocchio all’altro,
turbato.
“Ma anche noi abbiamo bisogno che
Kagome trovi l’ultimo frammento, Kikyou!”
Kikyou leva il capo, affrontando
il viso di Inuyasha a poche spanne dal suo come se fosse il suo più
irriducibile nemico.
“Verrò io al suo posto. Lo
coglierò di sorpresa. Lui non si aspetta …”
La faccia di Inuyasha si
pietrifica come se avesse appena udito un’irripetibile oscenità.
“No! Non ti lascerò correre un
simile rischio! Finché Naraku ti crede morta sei al sicuro. E poi sei troppo
debole; non pensare che non me ne sia accorto!”
Le pupille verticali di Inuyasha
lanciano fiammate di autentico furore; chissà per quale strana ragione, vederlo
così infuriato la fa quasi felice.
Perché non se ne accorga, sposta
il volto di lato e indurisce la voce.
“Quindi, vorresti dire che non
posso esserti di alcuna utilità, ormai?”
La voce di Inuyasha si incrina,
non per il dolore ma per la rabbia che stenta a trattenere. Di nuovo Kikyou ode
l’eco di quel potere sconfinato. Di quel terribile fardello. Quel fardello
terribile che lei capisce bene e dal quale avrebbe voluto liberare entrambi,
tanti anni prima.
“Ti ho detto di smetterla. Tu non
hai idea di cosa ho provato quando ho creduto di averti persa! Non mi puoi
chiedere di riportarti faccia a faccia con Naraku. Tu non hai il diritto di
chiedermi una cosa simile, Kikyou! Mi hai capito!? Io non lo farò! Per quel che
mi riguarda, tutte queste miglia non sono una distanza sufficiente tra te e lui.
E non azzardarti a suggerirmi mai più una cosa del genere! Sono stato chiaro?”
Il suo tono è duro e tagliente.
Lei annuisce, ripetendosi che è
troppo stanca.
Con un cenno della testa, chiama
Asuka, una dei suoi Shikigami, la quale si avvicina tenendo tra le braccia la
faretra.
Estrae una freccia e la porge a
Inuyasha.
“Va bene. Tieni, allora. Portala
a Kagome. Se usata al momento giusto, potrà esservi d’aiuto.”
L’espressione di Inuyasha
riflette tutto il suo sbalordimento all’idea che lei abbia ceduto. Prende tra
le dita la freccia e i lineamenti gli si accartocciano in un’involontaria
smorfia di disgusto.
Kikyou fa un sorriso agro.
“Quella freccia è impregnata
della terra in cui Onigumo morì e rinacque.” risponde all’inespressa domanda di
lui.
“Le passioni di Onigumo sono
potenti e terribili. E’ una delle pochissime cose di cui lui ha ancora paura.”
Kikyou rabbrividisce, rannicchiandosi e stringendosi le ginocchia con le
braccia. “Fidati, so di cosa parlo. Riuscirà a disperdere la sua barriera. E lo
farà, poiché Onigumo odia lui più di quanto odi te e me.”
Appoggia il mento alle ginocchia
unite, lo sguardo lontano, come parlando a se stessa.
“Io sola posso adoperare quella
terra. Sì, solo da me Onigumo si lascia toccare.” Rabbrividisce di nuovo, e Inuyasha
si accorge che è ripugnanza quel che la fa tremare.
“Non c’è più altro luogo nel
quale Onigumo attenda, ormai.” Poi, inclina le testa, seguendo il filo dei suoi
pensieri, un sorrisetto gelido sulla bocca. “No, mi sbaglio. Dev’esserci per
forza un altro posto, per lo meno. Lui deve avere nascosto il kokoro da qualche parte. Non può averlo
distrutto. Solo la Shikon
no Tama può distruggerlo. Per questo la cerca così disperatamente. Povero,
smarrito hanyou. Non è finita tra noi due, Naraku.”
Inuyasha la vede persa in quei
misteri incomprensibili nei quali lei e Naraku si trovano così a loro agio e
che a lui sono del tutto oscuri. Per di più, si accorge di come i suoi
lineamenti si stiano irrigidendo in quell’espressione fredda e spietata che lo
fa spasimare dallo strazio, mentre ricorda com’era splendida da viva, forte e
dolce e fiera e limpida.
Inuyasha capisce che la morte è
preferibile alla tortura di vederla di continuo riapparire e scomparire a
questo modo. E’ orrendo quanto essere costretti a guardare la donna che si ama
affogare, e non poter fare nulla per impedirlo.
Non sa che cosa si agita dentro
di lui. Come può saperlo? Lui odia, con tutto se stesso, questi maledetti
misteri. Perciò, farà l’unica cosa in cui è bravo. Una volta di più, le darà la
caccia.
Posa per terra la freccia che lei
gli ha dato, sfregandosi la mano sugli hakama, come per togliersi qualcosa di
sozzo dalle dita. Poi si sporge, mentre lo sguardo di lei è ancora perso nel
vuoto e, proprio come farebbe se stesse annegando, le passa il braccio attorno
alle spalle e se la stringe al petto.
Subito la sente irrigidirsi. La
zittisce prima che possa parlare.
“Stanotte il mio posto è qui. Non
dire nulla. Non mi convincerai ad andarmene. Mi puoi ammazzare, ma non puoi
mandarmi via.”
“Non essere stupido, Inuyasha!
Potrei davvero ucciderti!” Ma la sua voce non è ferma. “Non puoi fidarti di me.
Non lasciarti ingannare dal mio aspetto! Io …”
“Non dirlo!”
Kikyou sente la voce mancare
nell’impatto violento del suo comando, ma non si lascia zittire.
“Io non sono più Kikyou! Non sono
più niente, io! Niente! Niente!!”
L’ha detto, finalmente!
Confessarlo a voce alta, dopo tutto questo tempo, la lascia debole e tremante.
Niente! Cos’è rimasto di lei!? Niente! Ecco, l’ha ammesso! Dannazione! Forse lo
ucciderebbe sul momento, se potesse, ma è così debole da non riuscire a
muoversi.
Inuyasha scrolla la testa.
“Stavolta sei tu che ti sbagli, Kikyou. Comunque a me non importa nulla. Io
resto.”
Si accomoda a terra, senza
lasciarla andare, e poi appoggia entrambe le loro schiene al tronco della
quercia.
Kikyou gli resiste per poco; poi
posa la testa sulla sua spalla, tenendo le palpebre ben strette.
Passano minuti e diventano ore.
Gli shinidamachu le offrono una tamashii dopo l’altra. Inuyasha assiste
impotente ai suoi sussulti e alle sue smorfie; non può far altro che tenersela
stretta, mentre lei lotta una lotta che lui non capisce.
Il furore di vederla così lo
soverchia; dovrebbe esserci lui, al suo posto! Ha fallito, l’ha tradita, e non
gli è neppure consentito di pagare il prezzo del proprio fallimento!
Per averla toccata. Per averla spezzata. Per averla sporcata.
Io ti farò strisciare. Voglio i miei artigli a scavarti il petto, a
cercarti il cuore. Anche tu ne hai uno, fidati. Non importa quanto bene tu
possa nasconderlo. Fracasserò le tue ossa, verserò il tuo sangue, e vivrai
abbastanza a lungo, sì abbastanza da guardarmi mentre ti faccio in pezzi.
Tu l’hai toccata …
(sacrilegio un sacrilegio)
… e io te ne farò pentire…
Inuyasha sente dentro di sé
levarsi l’urlo del sangue di suo padre e della sua discendenza. Per una volta,
non si sforza di zittirlo, per quanto male gli faccia. Sarebbe un insulto alla
sofferenza di lei.
E d’improvviso un odore nuovo gli
giunge da Kikyou. Annusa con più attenzione. Non capisce. Di che odore si
tratta? Così intenso da coprire quello di terra e ossa che la pervade. Un odore
quale non ne ha mai sentito di simili. Anzi, tanti odori. Che lottano e si
scontrano e si intrecciano e …
Tamashii.
Che succede?
Ma anche da se stesso! Sì, un
odore nuovo anche su di sé. Cosa vuol dire?
Che gli importa!? Pur di
raggiungerla. A qualsiasi prezzo.
Resisti. Mia. Mia …
Mia amata.
Gli odori sconosciuti su di lei e
su di sé si avvincono. Inuyasha caccia gli artigli nel palmo della mano libera.
Male! Che male terribile!
Questo!? Questo lei deve affrontare ogni giorno!?! La vista annebbiata,
Inuyasha scuote la testa.
Resisti. Kikyou. Mia amata!
Non sa quanto tempo restano
immobili. Infine, lei si stacca da lui. Non può impedirglielo; è troppo
frastornato.
Kikyou si scosta di poco. Le
tamashii non l’avevano mai assaltata con la violenza che le hanno riservato
questa notte.
In qualche modo è passata, però.
Qualcosa di lei è ancora intatto. Ora ha un gran bisogno di dormire. La testa
le ciondola per la fatica.
Ma gli incubi! Da quando Naraku
l’ha sconfitta sull’Hakurei, le sue notti sono popolate da incubi.
Il suo sonno, per quanto fosse
accompagnato da sogni dolorosi, era comunque una oasi nella quale abbandonare
per un po’ il tormento che l’affligge. Anche questo ha perduto. Come si
addormenta, vede e rivede la smorfia di odio e vittoria del suo assassino, i
tentacoli affilati che la trafiggono, la caduta nel veleno soffocante.
Ma la stanchezza è più forte
della paura. Il sonno si fa avanti a reclamarla. Non può resistergli.
“Inuyasha. Vorresti … vorresti
vegliare il mio sonno, stanotte?” Un bisbiglio la voce.
Non risponde; ma una mano la
carezza i capelli guidandola a poggiare la testa sulla sua gamba.
“Inuyasha. Quando sentirai nel
mio odore che sto per svegliarmi …” La sua coscienza si sta già dissolvendo, ma
deve dirglielo. “Quando te ne accorgerai, vattene. Torna dai tuoi amici. Non
lasciare che ti veda, domani.”
Si aspetta qualcuna delle sue
solite obiezioni, e lei non ha più voce; il torpore l’ha già paralizzata.
“Come vuoi tu, Kikyou.” Gli sente
dire soltanto.
Il sogno è diverso.
Non il monte, ma la caverna. Lei
sta di nuovo camminando verso la scura entrata della cava dove Onigumo la
attende.
Sa che sta sognando, ma al tempo
stesso è come se non lo sapesse.
Sa che dovrebbe scappare; è
talmente terrorizzata che scoppierebbe a piangere, ma sa di non poterlo fare.
Non può piangere
(non più)
e non ricorda bene il perché.
Ha qualcosa a che fare col freddo
che, assieme alla paura, la fa rabbrividire? Col dolore che la scuote a ogni
passo? Con l’angoscia di sentirsi mancare il fiato, mentre cerca invano di
strappare una boccata d’aria alla sua gola chiusa?
Cosa le succede? Ma è un sogno,
non deve avere senso! Vero? Sta sognando. Vero?
O no? Perché? Perché questa paura? Perché è sicura che c’è una cosa enorme da
ricordare, che potrebbe spiegare il freddo, il dolore, l’angoscia, la perdita …
No! Non ricorda, e non vuole
ricordare!
Che cosa strana, i sogni!
Non li si può colpire, né evitare, né ferire. Ma loro sanno sempre come
raggiungere e colpire e ferire te.
Lo sguardo di Kikyou sfreccia a
destra e sinistra. Le è parso di aver udito la voce di Inuyasha. Ma è costretta
a proseguire il suo cammino, senza poter distogliere gli occhi dalla caverna.
Dista solo una ventina di metri.
Dall’imboccatura emerge una sagoma.
E’ una creatura che un tempo
poteva essere umana. Tutta avvolta in bende sporche di pus e sangue, sfatte e
disordinate, che si possa vedere la nera carne sottostante. Piena di piaghe e
tagli che si aprono e chiudono come bocche dalle quali cola una bava rossastra
di cui le fasciature sono zuppe. Un braccio piegato in angoli impossibili, la
mano che ciondola come il gambo spezzato di fiore mostruoso; l’altro braccio
più simile a un tentacolo guizzante, le gambe storte ma robuste; una più corta
dell’altra, il ventre prominente, simile a quello di un cadavere lasciato a
marcire e gonfio dei gas della putrefazione.
La testa cieca la cerca. Il
tentacolo punta verso di lei. Stenta a riconoscerne la voce quando parla,
perché di continuo muta. E’ Onigumo nelle sue voglie? Naraku nella sua fredda
durezza? Il Kami del meidou, Okuninushi, che le sibila all’orecchio quello che
lei non vuole ricordare?
“Kikyou. Eccoti. Mia luna. Mia
carceriera.”
“Quanto sei bella, amore! Bella
come la morte! Lasciami toccare la tua pelle. Non aver paura, non tremerai alle
mie carezze. Nessuna carezza può farti più tremare! Non te lo ricordi?”
“No.” Geme lei. Non sa se sta
rispondendo alla domanda o se sta negando la creatura che ha di fronte.
La cosa ride. La risata sembra un
mucchio di sassi che scricchiolano l’uno contro l’altro.
“Maledetta donna. Lasciami
sentire il tuo respiro schifoso nella bocca. Il tuo fiato di ghiaccio. Nessuno
può più sopportarlo, solo io. Ci sono solo io per te, mia carceriera. Non lo
sai il perché?”
“No. Mi dispiace, no, io …” La
creatura si sta avvicinando, i pochi denti a sbattere gli uni contro gli altri,
piena di frenetica allegria. Kikyou non capisce se è più spaventata nel vederlo
avvicinare o nel sentirlo parlare.
“Mia regina. Sei magnifica. Sì,
lo sapevo, appena ti ho vista l’ho saputo; sei forte, tanto da resistere.
Abbastanza da diventare perfetta. Perfetta per me. Quello che ho sempre voluto.
Quel che mi è sempre mancato.”
Kikyou scuote la testa, senza più
voce.
“Non osare!” L’urlo della
creatura si leva sempre più. “Tu non hai idea! Quel che ho fatto per te! Quello
che ho dovuto sopportare! Stupida donna! Donna dannata! Lo sai!? Cosa
significa!? Vedersi tradire da tutto ciò che si è!? Prigionieri di un corpo che
è una bara!? Oh sì! Sì! Sì! Adesso lo sai! Non osare dimenticarlo! Neppure per
un istante! Ciò che lui mi promise è diventato realtà. I miei desideri; lui li
ha realizzati, oltre ogni mia più sfrenata immaginazione! Né tu né lui mi
toglierete quel che mi sono conquistato! Mai. Mai!! Mia regina. Mia
carceriera!”
Il mostro si scaglia verso di
lei. Kikyou arretra, perde l’equilibrio e cade in terra. Il suo volto non ha
altri connotati che la bocca. Le bende allentate che in parte glielo nascondono
sono impregnate del nero pus che gronda dalle verruche che costellano i suoi
lineamenti come tanti piccoli vulcani in eruzione.
Vicino. Di più! Tre metri. Due.
Uno.
Un ruggito.
Il mostro si immobilizza, e fa
appena in tempo a sollevare la testa che un corpo grande e peloso lo colpisce
al petto con la forza di un ariete, sbattendolo in terra.
La creatura rotola, ribalzando a
casaccio come una bambola di pezza, e Kikyou si trova davanti al nuovo venuto.
Il pelo d’argento del cane è
immacolato, i muscoli potenti guizzano sotto la pelliccia. E’ grosso come un
pony, un ringhio basso gli esce dalla bocca piena di zanne, le zampe artigliate
bucano il terreno. Il testone allungato si gira verso di lei.
Ci sono due strisce azzurre, una
per parte, lungo il muso, e gli occhi sono rossi come il magma e pieni di
rabbia. Kikyou porta le mani alla bocca, singhiozzando mentre riconosce la
forma di quelle orecchie morbide.
Il cane punta il naso verso di
lei e annusa. Si avvicina e lei si accorge che, man mano che si riempie le
narici col suo odore, il rosso acceso degli occhi si appanna, scolorisce,
sostituito da una luce dorata.
Kikyou allunga timida la mano,
poggiandola sul naso nero e vibrante, poi affonda le dita nella pelliccia del
muso e vi appoggia la guancia. Com’è vellutata! Che strano! Che bella
sensazione che le dà! Godere della morbidezza di questo pelo candido – come se
fosse un privilegio perduto per sempre e misteriosamente ritrovato. Il cane si
fa silenzioso, e le si sfrega contro con un basso uggiolìo.
Non ha più paura. Sparita! Come
se non fosse mai esistita. Adesso non vorrebbe svegliarsi più. Sorride,
circondando con le braccia il collo enorme del segugio bianco e lasciandosi
cullare. E’ tornata una bimba ancora una volta, e stavolta è … libera.
Che cosa strana, i sogni!
Il cane si stacca bruscamente da
lei, ruotando la testa a sinistra. Kikyou guarda a sua volta, rabbrividendo.
Il mostro caracolla verso di loro
– non c’è altro modo per descrivere il suo passo zoppicante eppure rapidissimo.
“Arrivo! Mia carceriera!
Eccomi!!” E ride.
Il ringhio riprende vita nel
petto del cane, il corpo muscoloso si irrigidisce.
Il mostro si arresta,
azzittendosi, e per un secondo a Kikyou pare sorpreso. Lei ne capisce subito la
ragione.
I laghi di furia dorata che sono
gli occhi del cane, stanno gridando una parola sola.
Usurpatore.
Poi il cane balza di nuovo, ma
stavolta il mostro è pronto a riceverlo. Cadono assieme in un groviglio di arti
e zampe.
Il cane spalanca le fauci e le
affonda nel petto del mostro. Il mostro attorciglia il tentacolo attorno al
collo del cane per soffocarlo. Rotolano uno sull’altro, percuotendosi senza
pausa.
E nella risata del mostro c’è
l’esultante pazzia di una brama inestinguibile, che non si lascia né domare né
smorzare né sottomettere; e nel latrare rabbioso e indignato del segugio, la
forza infinita di una creatura eterna che non conosce il significato del tempo.
Il mostro solleva a forza la
testa del cane, ridendo nonostante la gola squarciata. Il pelo d’argento è
inzaccherato di icore nero.
“Dovrai fare meglio di così,
hanyou! Sì, molto meglio di così per fermarmi! Già!”
Ma il ruggito del cane bianco è
più forte persino della risata. Allungando la testa, il segugio strappa via con
un morso il tentacolo che sta cercando invano di strozzarlo.
La testa cieca si volta verso di
lei, mentre il cane fa a brandelli il suo nemico.
“Mia carceriera! La prossima
volta! La prossima volta non ci sarà nessuno a proteggerti! Non dimenticartelo!
Sei, e resti, MIA!”
Le immagini si fanno liquide e
sbiadite. Kikyou prova la sensazione vertiginosa di cascare nel buio più
profondo; un buio che non fa paura, però, un oblio riposante al quale è bello
abbandonarsi. E’ come se un palmo indurito le si fosse posato con tenerezza
sulla guancia.
Chiude gli occhi.
Sorride.
E dorme di un sonno senza sogni.
Quando si sveglia, lui se ne è
già andato. Le ha ubbidito.
L’erba è schiacciata, là dove lui
è rimasto seduto durante la notte. Vi fa scorrere sopra il palmo, ma non può
avvertire alcun calore. Trema tutta, si contorce, inarca la schiena, nel
tentativo inutile di sfuggire alla disperazione.
Si afferra i capelli nei pugni,
inizia a strattonarli, e la frustrazione non fa altro che aumentare. Nessun dolore.
Nessun dolore!
“Inuyasha! Oh, Inuyasha, che io
sia maledetta! Se una volta. Se una volta soltanto, fossi stata capace di
dirtelo! Di dirti che, sì!, anche io avevo paura! Che mi sentivo smarrita; se
ti avessi detto, una volta soltanto, una sola dannazione!, di vegliare il mio
sonno, di … ho dovuto attraversare tutti i miei inferni per capirlo! E per
cosa!? Eh!? Ditemelo! E’ tardi! Tardi per tutto! Per tutto! Ho buttato tutto
quello che avrei potuto avere, per sempre! Che io sia maledetta! Me lo merito!
Maledetta! Maledetta!!”
Kikyou si piega su se stessa, in
preda al tormento, e – di sicuro è la sua immaginazione – ode in lontananza la
risata roca di Onigumo. Apre la bocca per scagliare altre maledizioni.
Smettila immediatamente.
Un singulto di sorpresa la
zittisce. Solleva la testa di qualche pollice sperando contro ogni speranza che
lui sia tornato sui suoi passi, che le parli, che la accarezzi con la mano di
cui lei può sentire solo il peso, ma non il tocco, che la baci sopportando il
puzzo della morte che la impregna, che …
Ti ho detto di smetterla.
“Cosa? Chi è!?” Saetta lo sguardo
all’intorno.
La voce non viene da fuori. E’
nella sua testa.
Questo è solo un modo come un altro per credere alle sue menzogne.
Perciò, smettila.
“Io ti ho già sentita. Sulla cima
dell’Hakurei! Sì, eri tu!”
E non era nemmeno la prima volta, quella, giovane miko.
Kikyou ha la sensazione di
cogliere delle immagini guizzanti, macchie, come quando un tempo fissava troppo
a lungo il sole.
Abbassa le palpebre.
Vede …
Vede una vecchia sdraiata su un
giaciglio, in una stanza povera e poco illuminata. Da una finestrella si
scorgono appena le stelle. Attorno a lei, in ginocchio, donne giovani e meno
giovani. Una ragazza le tiene la mano sottile, mentre l’alzarsi e l’abbassarsi
del suo petto si fa via via più lento.
Tu …
Vede una donna inginocchiata a un
tavolino basso. Un vestito ricco e sfarzoso, la complicata acconciatura retta
da spilloni d’argento, il volto coperto da un trucco pesante, le labbra rosse,
lo sguardo rivolto verso il basso, versa con eleganza del the all’interno di
delicate tazzine di porcellana.
Posa la teiera su un panno. Ruota
un bastoncino di bambù nella prima tazzina e la fa scivolare sospingendola con
entrambe le mani verso un uomo robusto e più basso di lei. L’uomo porta la
tazza alle labbra sporgenti, rimirando la donna, soddisfatto e cupido.
Tu sei …
Vede una ragazza. E’ all’aperto,
nel cortile brullo antistante un palazzo non molto grande. Indossa un’armatura
leggera e impugna con fermezza un bokken, i capelli castani sciolti sulle
spalle, gli occhi nocciola …
come i miei!
… scintillanti, le guance brune
accese per lo sforzo, mentre ribatte colpo su colpo gli attacchi e i fendenti
di un giovane uomo …
(fratello)
… vestito e armato come lei.
L’uomo sposta il peso in avanti e
mena un fendente verso il basso. La donna leva il bokken sopra la testa,
reggendolo orizzontalmente davanti a sé, con entrambe le mani, per l’elsa e
lungo l’asta, parando il colpo. Butta il peso in avanti, lasciando che la sua
arma scivoli per tutta la lunghezza del bokken dell’avversario, colpendolo con
violenza alle mani, strappandogli un grido e disarmandolo.
Un unico movimento aggraziato, e
ruota su se stessa, scivolando dietro all’uomo sbilanciato, e con un colpo
deciso dietro le ginocchia lo sbatte in terra facendogli fare una mezza
capriola.
E poi ride, eccitata e felice.
Kikyou riapre gli occhi,
allibita.
“Tsuyako! Tsuyako? Ma come …?
Come posso riconoscerti?”
Davvero? Sei una miko e non lo sai?
“Non …”
Kikyou chiude di nuovo le
palpebre. L’immagine della geisha che un tempo era stata una samurai riappare.
Una giovane donna dalla
carnagione scura che indossa un’armatura e impugna in una mano, con fare
incurante, una katana.
“Cosa significa? Cosa succede? E
perché? Perché non avverto rimpianto dentro di te?”
Gli occhi nocciola di Tsuyako
brillano, il suo sorriso scintilla come la lama della sua spada.
Non c’è mai stato rimpianto in me, giovane miko.
“Ma, allora … ?”
Quando la morte venne a portarmi via, e la mia tamashii abbandonò le
mie amiche e sorelle, gheishe come me, udii il tuo dolore portato dal vento, e
decisi di farmi catturare da uno dei tuoi shinidamachu per venire da te. Già
allora sapevo che avrei avuto un’altra occasione per combattere. Sappilo. Io non
ho mai smesso di essere una samurai.
Kikyou china la testa.
“Io. No, stavolta non capisco.”
Nella sua mente, Kikyou vede
l’anima della samurai porgerle la mano libera.
Non capisci? Non importa. Colui che ami lo sa bene, molto meglio di te.
Certe volte, capire non è tanto importante. Certe volte capire, è proprio
inutile!
Ma la notte appena passata tu ci hai fatto un dono grande; anzi, da
molto tempo lo stai facendo, senza neppure accorgertene.
La bocca di Kikyou si muove senza
emettere suono. Come sagome nella nebbia, delle figure appaiono alle spalle
della samurai dal sorriso duro e la pelle scura.
E’ tempo. E’ tempo che sia tu a lasciarci combattere per te, giovane
miko.
“No. Non … non posso …
permetterlo.”
Sì, invece. Tu lo sai. E’ una questione d’onore, giovane miko.
“Ma che cosa …?”
Alzati. Prima che il sole sorga. Alzati. Forza! Alzati, Kikyou!
Kikyou sorride suo malgrado.
“E’ la prima volta. E’ la prima
volta che una di voi mi chiama per nome.”
E un suono giunge alle sue
orecchie.
E’ come.
Come quando si scioglie la neve.
Non è uno sgocciolio, come
possono credere coloro che non conoscono la neve, oh no.
E’ come se da dieci, cento, mille
direzioni diverse, uno scroscio, un ruscellare gentile e deciso arrivasse alle
orecchie, come se dieci, cento, mille rivoli distinti si protendessero per dare
vita a un unico suono che cattura in una promessa di musica.
Anche quest anno. La neve si scioglie. L’inverno finisce.
Kikyou ricorda. Quel rumore
speciale, di una sola nota fatta di infinite note assieme, uguali, ma ciascuna
differente, la raggiungeva quando era ancora sdraiata sul futon, sotto le
coperte. Prima ancora che i suoi occhi si aprissero, prima ancora che fosse del
tutto sveglia, veniva rapita da quell’annuncio.
E, per quante preoccupazioni
avesse nella testa, per quanto potesse essere pesante la giornata che
l’attendeva, ogni anno quel suono la faceva sorridere contenta e le faceva
battere un po’ più forte il cuore.
Come la musica del Fato, ma più dolce, più discreta, e per nulla
spaventosa, né temibile nelle sue ultraterrene, ineludibili pretese.
E l’anno, quell’unico anno in cui
c’era stato Inuyasha, quando era arrivato il primo giorno nel quale si scioglie
la neve, lei si era svegliata da una notte nella quale, oh no, Onigumo non
l’aveva tormentata nei suoi orribili incubi.
Quest anno diverso da tutti gli altri. Quest anno c’è anche lui, con
me. E mi starà accanto, ad ascoltare la neve sciogliersi. Quest anno. Quest
anno non sarò sola!
E i brividi che l’avevano
percorsa pensandoci, e gli angoli degli occhi che pizzicavano; ma lei, stupida,
si era morsa il labbro e aveva ricacciato le lacrime. Perché lei era quella
forte, lei era quella su cui gli altri dovevano sempre poter contare; mentre
lei, no, lei non doveva aver bisogno di nessuno, mai, lei doveva essere quella
capace di stare sempre in piedi senza aiuto; e allora, indietro queste lacrime
inutili.
Però che bello! Si scioglie la neve …
Una fitta al ventre la scuote,
caccia un lamento, mentre le voci delle donne morte si levano dentro di lei.
Resisti! Resisti e alzati! Svelta!
Un’altra fitta, più dolorosa
della precedente. Kikyou stringe i denti, le gambe tremanti, e si afferra alla
cieca alla quercia alle sue spalle.
Le sagome confuse dietro a
Tsuyako prendono a delinearsi.
Contadine e serve dalle mani
callose, viaggiatrici coi vestiti impolverati, mogli, samurai, figlie di
daymio, miko come lei, provenienti da ogni tempo; giovani, vecchie dalla
schiena piegata, deboli e forti, e di più, e ancora!
“Cosa volete? Come siete arrivate
fin qui?”
Ti aspettavamo da molto; in questo luogo siamo giaciute in attesa di te.
“Io sono … ”
Ricordo; quanto odiavo la sguattera che mi portava da bere, mentre il
vaiolo mi consumava. Sarei stata felice, se si fosse ammalata anche lei …
“ … la dimora …?”
Sì, dovetti abbandonare l’uomo che amavo, promessa a un altro …
“Io …”
Lo so, i miei figli sono morti per niente, sulla punta delle lance,
rifiutando la resa per difendere un onore senza importanza.
“Io sono la dimora dei morti.”
…ma …
…quando morii lei pianse per me! Quella ragazza di cui quasi ignoravo
il nome …
Kikyou punta i talloni a terra,
artigliando la quercia per sollevarsi sfidando il dolore.
… una sera ci dicemmo addio; e nel mio grembo crebbe un figlio col suo
volto …
Poggia la guancia sulla corteccia
ruvida, gemendo.
... ma quando fummo una cosa sola, una sola cosa insieme …
Sbarra gli occhi; alle voci si
aggiungono altre voci chiare; nulla più che sussurri. Sussurri che neppure la
potenza di un uragano saprebbe vincere.
Questo. Nessuno!
“No, non è possibile, non ha
senso, non ha ragione di succedere.”
Nessuno potrà togliercelo!
“Fu così che andò!?”
Nessuno, mai!
“Onigumo! Fu questo che
accadde!?”
Una voce pacata al suo orecchio
destro.
Fu proprio questo.
“Oh, Naraku! Ora ti vedo! Ora ho
capito!!”
Una voce ridente al suo orecchio
sinistro.
Solo, completamente diverso.
“Naraku! Che stolti! Due
sciocchi, non siamo altro!”
Le donne la stanno fissando serie
e mute, unite in schiera.
“Che terribile errore! Che
terribile errore hai commesso, Naraku!”
Ansima, affannata, una mano
aggrappata a un ramo basso, l’altra schiacciata al grembo pieno di dolore.
Ghiaccio. Rotto.
“E te ne accorgerai presto, mio
assassino …”
Stai pronta …
… prima che sorga il sole …
Kikyou.
Sii coraggiosa.
… Kikyou …
E’ da quest’alba.
Da quest’alba, ci saremo noi a recitare per te, il suo Kotodama.
Kikyou. Kikyou.
Kikyou.
Neve. Sciolta.
Le catene di fiamma che straziano
la sua anima si tendono, la
Furia si leva, fiacca, pulsante, per restarle attaccata,
nello sforzo di spezzare i sigilli, di respingere questo incomprensibile,
insensato fenomeno.
Il dolore impallidisce pian piano
e recede, e a esso si sovrappone un’estasi dolce e violenta.
“Sarebbe stato così?”
La notte in cui Inuyasha avrebbe ucciso una volta per sempre la vergine
custode della Shikon no Tama? Lasciando al suo posto semplicemente … me?
“Questo dolore insignificante?
Questa gioia immensa?”
Kikyou si dà una spinta,
barcollando un paio di passi e restando in piedi senza alcun sostegno, come da
sempre è abituata a fare.
I lacci di fuoco che incatenano
la sua tamashii si spezzano, uno dopo l’altro; per quanto si sforzi, la Furia perde la presa, perde
la sua crudele coesione.
“La mia anima! Ho capito,
Onigumo! Ora so come fu!”
Posa lo sguardo sull’alba.
Chi sei? Chi sei tu?
“Io …”
La voce della samurai.
Puoi dirlo, Kikyou.
Avanti. Dillo!
“Io sono Kikyou! Sono Kikyou! Mi
senti!? Mi senti, Kami!? Okuninushi! Ascoltami! Dov’è la tua risata adesso!? Io
sono Kikyou! Io sono Kikyou!!”
Leva i pugni all’altezza del
volto, e i suoi occhi sfolgorano pieni di sfida.
La risata che le sembra ora
quella di Naraku, ora quella di Onigumo, ora quella del Kami; la risata che ha
sentito ogni attimo, da quando è ritornata nel mondo, si spezza colma di timore
e sconcerto, per poi ridursi; e si riduce fino a svanire.
Si posa il palmo sulla guancia.
La sua pelle è morta, come prima. Non avverte il suo stesso tocco.
Non è cambiato niente.
E’ cambiato tutto.
Scoppia a ridere.
La risata di un morto riempie la
bocca del sapore del fiele.
Ma questa non è la risata di un
morto.
“Sono tornata! Sono libera!”
L’immagine delle donne che hanno
trovato rifugio dentro di lei; una a una, con un gesto della testa, si
congedano, ritirandosi alla sua vista, e lei può sentirle prendere posto, e
sussurrare incessanti il Kotodama che è diventato il suo nome.
“Sono tornata, Naraku!
Combatteremo ad armi pari! Tu non hai mai conosciuta nel mio vero potere! Non
c’è più solo la custode della Shikon no Tama. C’è Kikyou! C’è Kikyou che ti
sfida! Sappilo, e trema!”
“Naraku. E come farai? Come
farai, ora che ti sei strappato dal petto la più potente e terribile tra tutte
le tue armi?”
“E ce ne sono altre. Armi che
potrò svelare dalle tenebre dentro le quali attendono, e portarle alla luce per
usartele contro. Che terribile errore hai commesso, Naraku!”
Le donne sono scomparse, tutte a
eccezione della samurai.
Kikyou fruga nella manica alla
ricerca del nastro per acconciarsi i capelli, sorridendo.
“Ti ricordi quando ci siamo
incontrate la prima volta, Tsuyako?”
Le mani scivolano sulla nuca,
catturando le sue chiome.
Dunque hai deciso, Kikyou.
Stringe il nodo con maestria.
Nessuno dei due hanyou dovrà saperlo.
“Lo so. Inuyasha potrebbe
morirne. Naraku troverebbe il modo di approfittarne. Non lo saprà nessuno.”
Perciò, ti accontenti di questo.
Kikyou si scosta alcune ciocche
dalla fronte, e il suo sorriso non esita.
“Il mio è tempo rubato,
nient’altro. Ho lottato per avere questa notte. Con le unghie e con i denti!
Onigumo non sarebbe riuscito a fare meglio. L’ho strappata ai Kami, al mio
assassino, al Fato stesso. E’ mia. No, è nostra. E’ venuta e andata e nessuno
potrà togliercela, mai, in nessun modo.”
Tsuyako annuisce.
“La mia prima, e unica, notte di
nozze.” Ride di nuovo, senza tristezza. “Non è stata come l’avevo sognata, ma è
stata bella! Non avrei saputo desiderare di meglio. Non ce ne saranno altre.”
Esita, e l’occhio della sua
preveggenza si spalanca dentro di lei con chiarezza perfetta.
“Sì, la prossima volta che
giacerò tra le sue braccia, sarà anche l’ultima per sempre. Va bene. Ho già
avuto … tantissimo.”
“E non ti ho ancora ringraziata
per avermi salvata, Tsuyako!”
L’espressione della samurai si fa
spazientita.
Non ti ho salvata. Ti ho solo ricordato chi è lui e chi sei tu, visto
che lo stavi dimenticando. Tu sei la miko Kikyou, sei stata forgiata per
sopportare tutto, proprio come la mia katana, e sei potente! Molto più di lui,
ancora. Solo con l’inganno avrebbe potuto sconfiggerti, proprio come fece
cinquanta anni fa. E tu hai quasi creduto per la seconda volta alle sue bugie.
Strano che ci sia chi ti definisce saggia!
Kikyou scuote la testa, mentre
Tsuyako svanisce per unirsi alle altre anime di donna.
“Non mi riferivo a quello,
vecchia samurai.”
Sta ritta in fronte alla sua
prima alba; alla luce, dorata come le pupille di lui.
“Mio guardiano.” Mormora.
“Grazie.”
“Hakushin.”
Poiché prima di imparare a servire, è più importante imparare a essere
serviti.
“Grazie.”
“Suikotsu. Kansuke Rasetsu.”
Intreccia le dita al petto.
“Grazie!”
“Mio assassino.”
… ho udito che esiste un monte dove anche le anime dei peccatori più
incalliti possono essere redente …
Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da
Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor
Ah, anche se non credo che
interessi a qualcuno, ho deciso di pubblicare uno strano intermezzo, che
occuperà un certo numero di capitoli e potrebbe essere anche letto come storia
a se stante; e dovrebbe aiutarmi a tirare certi fili e chiarire determinati
punti futuri ... se mai riuscirò ad arrivarci, cosa di cui dubito, a dire il
vero:P
Per la cronaca, in definitiva ho
scritto una specie di prequel! Visto che van tanto di moda, ultimamente!!
heimin: casta delle “persone
comuni”. Un samurai ha il diritto di uccidere un heimin che si comporta
rudemente, come un heimin ha il diritto di uccidere un hinin che si comporti
allo stesso modo;
giri: dovere; ma il dovere
nostrano sta al giri giapponese come arco e frecce stanno a un bazooka ;)
futakuchi-onna: un tipo di youkai
(vedrete);
kashin: lo spirito nato da un
fiore;
weize: vocabolo cinese; è una
delle due più pregevoli qualità di peonia esistenti e significa “regina dei
fiori”.
“La più potente e terribile tra
tutte le mie armi.”
Naraku annuisce al fantasma.
“Come hai ragione, Kikyou. Sai,
mia nemesi, credo che sia per questo che mi manchi. Mi hai sempre insegnato più
di chiunque altro. Sia nella sconfitta che nella vittoria, mi hai permesso di
conoscermi in un modo che altrimenti non avrei saputo. Guidata dalla tua sete
di vendetta, ogni tuo sforzo di battermi mi hai reso più forte, costringendomi
a imparare quel che sono e quel che posso essere.”
Kikyou gli risponde con una
beffarda riverenza.
“Mi fai un onore che non merito,
Naraku. Entrambi in lotta alla ricerca di un equilibrio impossibile nella
nostra natura storta, ci siamo scambiati lezioni preziose.”
“Ma dimmi, come capisti quel che
ti stava accadendo?”
“Fu soprattutto grazie alla mia
secondogenita. E tu, Kikyou? Poiché anche tu ti ritrovasti indifesa, per una
guarigione divenuta sventura.”
“Nessuna guarigione può essere
sventura, Naraku: ma questa è una di quelle cose che non ti è dato di
comprendere.”
“A ogni modo, fu il mio sensei.
Fu lui a dirmi, decenni fa, che infiniti sono gli equilibri possibili e tante
le strade per smarrirli e per ripristinarli. Tu l’hai capito da solo, vedo,
Naraku, e di questo puoi farti vanto.”
Tocca a Naraku piegarsi in un
piccolo inchino.
“Vorrei prendermene l’intero
merito, ma purtroppo non posso. Perché in una cosa ti sei sempre ingannata,
Kikyou.”
“E in cosa mai, Naraku?”
“Una cosa che non potevi sapere.
Giacché, non solo Inuyasha.”
“Non solo Inuyasha, ma anche
Onigumo, una volta ti vide danzare …”
Ripiega con cura in quattro parti
la lettera in carta di riso che ha appena finito di leggere, il volto
impassibile e lo sguardo fisso nel vuoto.
La luce del mattino rischiara la
spoglia celletta che, da quando aveva sei anni, è il luogo dove riposa e si
ritira per scrivere, cucire o leggere. Guarda senza vederli i rami dei limoni
che fanno capolino dalle finestrelle poste alla sua destra. Giallo del sole e
giallo dei frutti, mescolato al verde delle foglie.
E’ inginocchiata, la sua postura
elegante non si è scomposta, gli alluci sono restati incrociati l’uno
sull’altro, com’è adeguato. Le sue mani erano ferme mentre piegava la lettera,
e sono ferme tutt’ora. Le scruta per scorgere un tremito. Nulla. Bene.
Respira a fondo. L’aria
primaverile, già tiepida, le riempie i polmoni coi suoi profumi.
Alla destra del tavolino c’è il
suo bauletto. Poco più piccolo di un forziere, in legno, dove tiene riposte
alcune delle poche, semplici cose che possiede: un pettine di cedro dai denti
fitti col quale mettere in ordine i lunghi capelli, l’involto di pelle di daino
che protegge lo specchio col telaio d’argento donatole da sua madre – unico
oggetto, tra quanti possiede, di un certo valore – i pennelli, puliti e
ordinatamente riposti, da intingere nell’inchiostro per tracciare i kanji per
gli esercizi di scrittura, alcuni rotoli di carta bianchi, il pugnale riposto
nel fodero di cuoio, la punta di una freccia.
Prende un plico di lettere
trattenute da uno spago, accanto ai pennelli, e lo poggia sul tavolo. Scioglie
il nodo. Le missive che ha ricevuto dal suo villaggio durante questi anni non
sono poi molte: i suoi genitori le hanno scritto tre volte l’anno da quando
abita al tempio di sensei Nobunaga. Le lettere più vecchie sono ingiallite
dagli anni passati e tutte sono ripiegate in quattro parti, proprio come quella
che il messaggero le ha consegnato stamattina presto, appena due ore dopo il
sorgere del sole.
Sarebbe voluto arrivare prima, ha
detto e ridetto, ma il tramonto lo aveva colto prima che riuscisse a coprire
gli ultimi chilometri che lo separavano dal tempio e si era dovuto accampare.
La legge non permetteva a nessuno di viaggiare la notte. Confidava che lo
comprendesse, e scusasse la sua vergognosa lentezza.
Kikyou calcola che, per avere
raggiunto in poco più di venti giorni il tempio, deve avere sfiancato parecchi
cavalli, oltre ad arrivare allo stremo delle sue proprie forze.
Fa scorrere le vecchie lettere
col pollice, soprappensiero, assaporando il contatto con la carta e il lieve
fruscio. C’è un anno di sei anni prima, in cui le erano stati recapitati
quattro messaggi, e non i soliti tre. Sua madre le comunicava che era nata sua
sorella: una bambina a cui era stato dato il nome di Kaede.
Adesso ha l’età che avevo io quando venni portata qui. La stessa età.
Nonostante non avesse il permesso
di fare né di ricevere visite presso i suoi consanguinei fino a conclusione
dell’addestramento, il sensei le aveva eccezionalmente concesso di andare a
trovarla. L’aveva vista una volta sola, ma ricorda ancora molto bene quella
minuscola bimbetta di neppure un anno. Non sa perché, ma crede che, se la
rivedesse, saprebbe riconoscerla anche oggi.
Dispone con cura l’ultima lettera
sopra tutte le altre, le lega assieme e le mette via. Prende il pettine e lo
specchio.
Esamina con occhio critico il suo
volto riflesso. Ha compiuto da poco quattordici anni; ma i suoi lineamenti
stanno già perdendo alcune delle caratteristiche della prima giovinezza per
svelarle quale sarà il suo viso tra pochi anni. Sa che i pochi visitatori del
tempio la scambiano spesso per una ragazza più grandicella, e pensa che sia
giusto così. Il mese scorso, un pellegrino di passaggio, parlandole, ha creduto
che fosse già entrata nell’età adulta, anche se mancano ancora quasi due anni.
Non può nascondersi che il malinteso l’ha lusingata.
Passa il pettine tra i capelli
neri come l’ala dei corvi. Non c’è tremito sulla sua bocca, non un guizzo sulla
guancia che sta già dimenticando le rotondità infantili, nessuna ombra nei suoi
occhi nocciola.
Un’ora intera se ne va così.
D’improvviso si interrompe. Le
sue chiome non sono mai state tanto lisce! Si sfiora cauta la testa, saggiando
il dolore che si diffonde dalla radice dei suoi capelli.
Messo via specchio e pettine si
alza; le sue giovani ginocchia non emettono il minimo scricchiolio. Indossa
lentamente le semplici vesti bianche da apprendista stese accanto al suo
giaciglio. Non la tenuta di una miko: com’è giusto, poiché lei non è una miko.
Non ancora.
Calza i sandali preparandosi a
uscire. Ripensandoci, torna al suo bauletto e vi fruga dentro di nuovo,
prendendo la punta della freccia, una conchiglia liscia e delicata e sbrecciata
su un lato, un sassolino bianco e screziato d’oro, una treccia di capelli di
quand’era piccola.
Poche, piccole cose che da
bambina le erano sembrate meravigliose e degne di essere conservate. La punta
della freccia è una delle prime che era stata capace di mandare a bersaglio,
quando sensei Nobunaga l’aveva instradata a Kyujutsu, la via dell’arco. Aveva
imparato presto che l’esercizio nell’arco era ben più di una semplice arte
marziale. Come il sensei le aveva assicurato, era stato il primo passo per
apprendere Aiki, l’armonia e il silenzio dell’anima nel quale padroneggiare i
suoi poteri spirituali.
Come per qualsiasi altra cosa, vi
si è dedicata con tutta se stessa. Le sue braccia sono diventate forti come o
più di quelle di un maschio della sua stessa età.
Si rigira la punta della freccia
tra le dita, meditabonda. Con un gesto secco, la scaglia dalla finestra. La
sente perdersi tra le fronde dei rami. Sasso e conchiglia seguono la compagna
degli anni passati. Il guscio della conchiglia era leggero, ma è riuscita a
imprimere abbastanza vigore nel lancio da gettarla fuori assieme al resto.
Rimane la vecchia ciocca di capelli. Sta per buttarla per terra, ma cambia idea
e la ripone in una delle tasche nascoste della sua ampia manica.
Poi prende il suo arco – un arco
fatto per una persona adulta, ormai – e la faretra, e se ne va.
Scende le scale di legno e
attraversa il corridoio per uscire. Questo edificio è quello in cui alloggiano
lei e le altre due apprendiste, nonché sensei Nobunaga.
Al primo piano dormono le
allieve. A piano terra, oltre agli alloggi del sensei, c’è la cucina, il
refettorio e i bagni. Le apprendiste si occupano di cucinare, pulire e svolgere
qualsiasi altra mansione sia loro richiesta. Non si sentono rumori, poiché al
momento non c’è nessuno.
D’estate, se ha bisogno di
parlare col sensei, sa che è facile trovarlo intento alla cura del giardino.
Che stia dissodando un pezzetto di terra, poti un cespuglio, innaffi un fiore,
raccolga foglie cadute, cerchi la migliore disposizione per una pietra, Kikyou
sa che quel che sta facendo in realtà è creare un’armonia nella quale ogni cosa
sia legata a tutte le altre, di modo da dare al giardino un senso e compimento
che sarebbe turbato rimuovendo o spostando anche uno solo degli elementi che lo
compongono.
Mentre percorre il sentiero di
rocce, all’ombra degli alberi di limone, per raggiungere il ponticello, ricorda
con piacere quando il sensei le aveva ordinato di comporre la statua
dell’airone che si è appena lasciata alle spalle. Non era stato semplice
collocare le pietre che quasi fanno della statua un mosaico tridimensionale.
Aveva scoperto che ogni pietra era già pronta a trovare il suo posto accanto
alle altre per dare vita alla forma che le era stato comandato di svelare. Era
lei l’ostacolo. Era lei a non riuscire a capire in che modo i sassi volevano
che lei li disponesse.
Col passar del tempo, si era resa
conto che, come per Kyujutsu, solo mettendosi attenta in ascolto della musica
del Fato, avrebbe potuto svolgere il compito che il sensei le aveva assegnato.
Non l’aveva deluso, ovviamente.
Mentre ode i tonfi attutiti dei
suoi passi sul ponticello, scruta l’acqua chiara sottostante, dove un ponte di
legno rivoltato all’ingiù è percorso in fretta da una giovane ragazza dalla
carnagione pallida e un arco tenuto in pugno, che a sua volta la fissa.
Dopo quella volta, sensei
Nobunaga l’aveva invitata spesso a lavorare assieme a lui, e così facendo le
aveva insegnato non solo a udire la musica, ma a cantare all’interno di essa; prima
da sola, poi intrecciando le sue canzoni con quelle di lui.
E il controllo sui suoi poteri
era andato vieppiù crescendo.
Oggi però il sensei non si sta
occupando del giardino.
Il sentiero si apre in uno
spiazzo d’erba ben curata, circondato da cipressi, sul quale si affaccia il
primo dei tre torii – i portali
d’accesso – che conducono al tempio shinto
nascosto all’interno di bassi muri in legno.
Sensei Nobunaga e Natsume sono
uno di fronte all’altra. Lui è ben dritto, muscoloso nonostante l’età, avvolto
in una stretta veste viola. Lei è inginocchiata, mani in grembo, a fissarlo a
pochi metri di distanza, arco e faretra rispettivamente poggiati alla sua
destra e alla sua sinistra.
La sua irruzione non passa
inosservata. A nessuno è permesso disturbare la prova alla quale Natsume sta
per sottoporsi: quella che, se superata con successo, le permetterà di
diventare una miko.
Il sensei e Natsume voltano il
capo a fissarla: lui senza cambiare espressione, lei con un sussulto mentre
l’intensa concentrazione nella quale si era immersa viene bruscamente spezzata.
Kikyou rimane paralizzata per una
manciata di secondi; cosa fare, ora? Apre la bocca senza avere idea di che cosa
dirà.
“Torna nelle tue stanze,
Natsume.”
La giovane butta la testa
all’indietro come se le avessero rifilato uno schiaffo. Kikyou sente lo stomaco
stringersi e deve sforzarsi per impedire al rossore di accenderle il volto.
Stringe l’arco con tutte le forze, fino a sbiancarsi le nocche, per darsi
coraggio.
“Questo è quanto stavo per dire a
te, Kikyou. Torna nelle tue stanze. Discuteremo più tardi della tua punizione.”
La voce del sensei è pacata e per
nulla sorpresa. Mentre sente sciogliersi la tensione, Kikyou procede decisa
verso Natsume, ignorandolo.
La giovane allieva la fissa a
occhi sbarrati, come se fosse impazzita; le labbra le tremano. Un angolo della
mente di Kikyou fa in tempo a prendere nota di questi dettagli e disapprovarli,
prima di essere assalita da un profondo senso di colpa.
Natsume è stata un po’ la sua
tutrice: quando lei era arrivata al tempio, aveva undici anni, cinque più di
Kikyou, e l’aveva aiutata ad ambientarsi in quel posto nuovo. Neppure il passar
del tempo e la lenta presa di coscienza, da parte di entrambe, che Kikyou le
fosse di molto superiore, aveva incrinato il loro legame.
Ma questa volta non perdonerà.
Perché oggi la diciannovenne
Natsume è stata chiamata a superare le prove che faranno di lei una miko.
Kikyou la arpiona con lo sguardo.
“Torna nelle tue stanze, Natsume.
A te toccherà l’anno venturo.”
La bocca di Natsume si muove
senza emettere suono e il sensei parla di nuovo, la voce piatta come prima.
“Hai oltrepassato il limite,
Kikyou. Vattene immediatamente.”
Natsume, tutt’ora in ginocchio,
guarda Kikyou stupefatta.
La giovane volge le spalle al
loro sensei, il corpo teso, senza degnarlo di un’occhiata e di una risposta,
come se fosse un estraneo privo d’importanza. L’attenzione di Kikyou è tutta su
di lei. Natsume cerca di ricordarla quando era appena giunta fin lì, sperduta e
spaventata, ma si accorge di non esserne capace. Riesce solo a vedere la
ragazzina dagli occhi fermi e lucidi, percepire l’elementare, terrificante
volontà che vuole costringerla ad andarsene. Il potere è tutto raccolto attorno
a lei, come le spire di un pitone.
La bambina. La bambina non c’è più.
“Kikyou …” Non riesce ad
aggiungere altro, il cuore pieno di sconcerto e paura.
“Torna nelle tue stanze.” Le
ripete per la terza volta, con una punta di inflessibile dolcezza. “Prenderò io
il tuo posto.”
“Kikyou. Domani stesso lascerai
le tue stanze e abbandonerai il tempio.”
E’ solo quando Natsume vede
Kikyou annuire appena, come unico segno a dimostrazione di aver udito il
terribile comando di sensei Nobunaga, che terrore e pena si gonfiano dentro di
lei come il cavallone di una nera onda di piena.
Cos’è successo? La bambina!? Perché la bambina non c’è più?
Qualcosa dentro di lei si tende e
si spezza. Non può sopportare la vista di quegli occhi scuri un attimo di più.
Sussurra senza accorgersene un “Mi dispiace.”, afferra alla cieca le sue armi,
si alza e fugge via.
Kikyou osserva la corsa
precipitosa di Natsume e si decide quindi a voltarsi in fronte al suo sensei.
Getta arco e faretra a terra, si
inginocchia, e poi fa una cosa che non aveva mai fatto prima d’oggi: poggia i
palmi davanti a sé e si prostra fino a toccare il suolo con la fronte e a
sfiorarlo col naso.
“Vi chiedo perdono, sensei. Il
mio comportamento è inqualificabile.”
“Lo è, infatti. E’
imperdonabile.”
“Imperdonabile. Avete ragione.
Come mi avete ordinato, lascerò per sempre questi luoghi che sono stati la mia
casa per tanti anni. In un modo o nell’altro, da domani non sarò più la vostra
allieva.”
“Ma oggi che ancora la sono, sensei,
oso chiedervi di lasciarmi affrontare le prove per diventare una miko.”
Kikyou resta immobile e tesa, gli
occhi serrati, l’odore della terra asciutta nel naso, erba tra i capelli, un
sassolino aguzzo conficcato nel ginocchio sinistro.
“Inaudito. Dovrei cacciarti oggi
stesso.”
Kikyou sente le auree dei loro
poteri sbattere come due burrasche. Pur restando prostrata, si risolve a
sollevare la faccia verso quella del sensei e a cercare il suo sguardo.
Gli occhi di lui sono impassibili
quanto la sua voce, ma le rughe che gli solcano il volto sono tanto profonde da
darle l’illusione che abbia indossato una maschera. Si sforza di rendere la
voce piatta come la sua.
“Intendete dire che il mio
addestramento non è completo, sensei?”
Nobunaga deve compiere uno sforzo
per proibirsi di contrarre la mascella. Non ha mai veduto Kikyou umiliarsi in
questo modo: eppure, nonostante gli sia prostrata innanzi, non c’è nulla, in
lei, che dia la sensazione di una vera sottomissione. Anche se ha le spalle
incassate e il suo mento quasi poggia al suolo, l’espressione è liscia e seria;
gli parla come se non fosse in difetto e se ne stesse dritta davanti a lui, e
negli occhi nocciola c’è la durezza dell’acciaio con cui è fatta la sua anima.
Riluce come la lama di una katana che il samurai libera appena dal fodero per
costringere un insolente heimin a
chinare il capo.
E’ piegata ai suoi piedi, eppure
lo sta sfidando con ogni fibra del suo essere.
Nobunaga lascia che l’ammirazione
che prova per lei e il dispetto per l’affronto che sta subendo convivano dentro
di lui, mantenendo così inalterata l’armonia del suo spirito.
“Non hai raggiunto l’età per
sostenere la prova, Kikyou.”
Ciò che dice è vero. Le apprendiste
vengono chiamate a diventare miko tra i diciassette e venti, ventun’anni. Mai
nessuna prima di averne compiuti sedici. Ma si rende conto di aver commesso un
passo falso un istante dopo aver parlato.
“Lo so, sensei Nobunaga, ma io
non vi ho chiesto questo. Non è completo il mio addestramento? Non ho forse
imparato tutto quel che avevate da insegnarmi?”
L’espressione di Nobunaga non
cambia.
“Molte sono le cose che devi
ancora imparare, Kikyou, e il solo fatto che tu me lo chieda lo dimostra. Sì,
sei la migliore allieva che abbia mai avuto, e già adesso hai appreso alla
perfezione ogni tecnica, esercizio e pratica per adoperare i tuoi poteri
immensi. Eppure, se fosse dipeso da me, avresti dovuto attendere almeno altri
sei anni la venuta della tua prova. Ci sono nemici dai quali non sarai in grado
di difenderti, e che ormai non avrò il tempo di insegnarti ad affrontare come
dovresti. Oggi c’è solo il tuo fallimento.”
L’espressione di Kikyou si fa
fosca; Nobunaga sa che non può capire. Gli pare che il suo corpo prostrato
abbozzi un movimento, ma si irrigidisce in tempo.
“So che non potrete perdonare il
mio comportamento, sensei: ma io non posso attendere né un giorno, né un anno,
né sei. Sono pronta per affrontare qualsiasi youkai e qualunque maleficio.
Mettetemi alla prova.”
“Vi prego. Siate il mio sensei;
solo per oggi ancora.”
“Non c’è più niente che possa
fare per te, Kikyou.”
Poi Nobunaga vede Kikyou
sorridere di un sorriso lieve e misterioso, e sente un impercettibile brivido
alla base della spina dorsale.
“Lo dite davvero, sensei?
Lasciate che vi chieda una cosa soltanto, dunque, e poi non vi importunerò
più.”
“Per quale ragione non avete dato
inizio alla prova di Natsume? Cosa stavate aspettando?”
Nobunaga corruga la fronte. E’
più impudente di quanto potesse immaginare. E, forse, persino più abile.
“Cosa vuoi dire?” Ma lui lo sa
benissimo.
“La prova di Natsume sarebbe
dovuta cominciare almeno un’ora fa. Lo so, perché ho passato quell’ora in
attesa di una decisione che, nel mio cuore, era già presa. E dunque, sensei?
L’avete udito anche voi, non ho forse ragione? La prova che avete preparato
oggi … non c’era Natsume nei vostri pensieri quando la stavate preparando,
vero? La mia impertinenza ha già superato ogni limite, lo so. Perciò, non
stupitevi se mi permetto di ricordarvi che siete stato voi stesso a insegnarmi
a riconoscere la menzogna nelle parole altrui. Dunque, siate ben attento a come
mi risponderete!”
Nobunaga resta interdetto per un
momento, fissando la giovane ragazza chinata a terra e il suo minuscolo sorriso
malizioso e fiero.
Ha commesso un errore a
sottovalutarla. Il freddo provato poc’anzi alla base della spina dorsale si fa
risentire con più forza. La preveggenza e l’intuito di Kikyou sono spaventevoli
nella loro vastità. Ma che cosa deve provare, questa ragazzina, a essere
custode di un potere tanto immenso?
E lui? Sarà stato capace, in
questi anni, di insegnarle abbastanza bene?
E’ lui che l’ha addestrata, è lui
responsabile di ciò che sta diventando. Adesso sì che capisce quell’impasto di
orgoglio, timore, umiliazione e rabbia nel quale il padre di Kikyou si
dibatteva, quando gliela affidò.
Neppure un’ombra gli ha
attraversato il viso a lasciare trapelare i suoi pensieri, ne è certo. Ma la
sua esitazione è già una risposta sufficiente. Vede il sorriso di lei
accentuarsi, negli occhi un lampo. Le volta la schiena per nasconderle il suo
riluttante rispetto.
“Preparati per la tua prova,
Kikyou.”
La sente rialzarsi in piedi così
in fretta da fargli intendere che non si aspettava altra risposta se non
quella; e l’eco del suo potere erompe come un tuono.
Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da
Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor
La cucitura del maledetto stivale
sta cedendo.
Ha la testa abbassata a fissarlo,
mentre cammina e a ogni passo solleva nuvolette di polvere, perciò la sua
smorfia si perde tra le ombre del suo viso. Proprio in questo villaggio
squallido e dimenticato dai Kami dovevano cedergli le cuciture dello stivale?
Non c’è neppure un artigiano a cui chiedere di aggiustarlo – e lui non ha né
voglia né tempo di occuparsene.
Già.
Questo è un villaggio di hinin, d’altronde. La casta delle
non-persone. Non ci si può aspettare che sia molto meglio di com’è. Né lui è
infastidito nel mischiarsi coi fuori casta, anche se è pronto ad ammazzare
chiunque lo scambi per uno di loro.
Gli piacciono gli hinin. Li si può uccidere liberamente, e
questo è … divertente.
“Dai, Onigumo. Lasciami portare
il bottino! Chi ha detto che debba tenerlo tu per tutto il tempo?”
Onigumo alza la testa e fissa il
ciccione col suo sguardo spento e torbido.
“Prenditelo, se vuoi.”
Il ciccione è l’unico dei tre più
grosso di lui, ed è probabilmente anche più forte. E’ pure un combattente abile
e spietato, Onigumo ne è stato testimone. Eppure, appena lui lo fissa, si
scosta tanto in fretta da far ballonzolare il suo rivoltante doppio mento.
Prima che il ciccione possa
rispondergli, l’ubriacone si mette in mezzo.
No, non è ubriaco in questo
momento; anzi, l’ha visto solo una volta sopraffatto dai fumi dell’alcool. Ma
il saké gli piace davvero molto! Capillari rossi gli attraversano di già il
naso e le guance, anche se ha un anno in meno di lui. Quando il suo corpo non
riuscirà più a sopportare tutto quel che si caccia in gola ogni giorno, si
squaglierà come uno di quegli stupidi pupazzi di neve che i marmocchi si
divertono a fare quando nevica.
Onigumo sorride di piacere
all’idea. Sempre che sopravviva fino a quel giorno, s’intende.
“Su, Noriki, non c’è bisogno di
litigare tra noi, giusto? Tanto tra pochi giorni ci separeremo e ognuno andrà
per la propria strada. Giusto, Onigumo?”
“Giusto. Hai parlato bene.”
Ribatte Onigumo, il sorriso ancora stampato sulla bocca. Il ciccione si chiama
Noriki. L’ubriacone, invece, è Kasetsu. Aggrotta la fronte. Col passar degli
anni, gli è sempre più difficile ricordare i nomi della gente, anche di coloro
coi quali ha a che fare, come questi tre imbecilli che lo hanno aiutato a
derubare il mercante di seta. Il mercante di seta aveva fatto proprio dei buoni
affari, come gli avevano riferito i suoi contatti. La prova sta dentro il
sacchettino di pelle pieno di monete che gli preme sulla gamba, da dentro la
saccoccia. E ci sono addirittura delle monete d’oro! E due perle! Due!
L’ubriacone annuisce soddisfatto,
credendo forse che il sorriso di Onigumo sia il risultato delle sue parole.
“Potremmo anche spartire il
bottino stasera stessa. Prima ci separiamo, prima i nostri inseguitori avranno un
maggior numero di piste da seguire. La nostra fuga diventerà più facile.”
Gambestorte non è furbo come
crede di essere, questo Onigumo lo sapeva già. Trattiene un sospiro infastidito
prima di rispondere.
“La città di Ishimatsu è a due giorni
di marcia ed è il posto migliore dove far perdere le nostre tracce. Se ci
dividessimo adesso, ci dirigeremmo comunque tutti là. Cioè, a meno che tu non
decida di scappare in campo aperto, dove i segni del tuo passaggio saranno
molto più facili da seguire.”
Non aggiunge ‘idiota’ ma il
timbro della sua voce è più che sufficiente a lasciarlo intendere.
La faccia brutta come la malaria
di gambestorte si contorce in una smorfia; ma non riesce a sostenere il suo
sguardo per molto.
“Ah, va bene. Come ti pare.”
Onigumo scrolla le spalle
massicce. E’ avvezzo all’effetto che fa sugli altri. Anche se il ciccione è più
forte di lui, l’ubriacone più furbo – fin quando il suo cervello non finirà
spappolato dal suo vizio – e gambestorte è più brutale quando si abbandona alla
violenza, lo accettano tutti e tre come il loro capo.
E non perché è stato lui a
concepire l’astuzia che ha permesso loro di derubare il mercante di seta:
Onigumo è il primo a riconoscere di essere stato assistito da una buona dose di
fortuna, come spesso gli capita.
E’ che questi tre idioti hanno
paura di lui, come chiunque altro lo abbia conosciuto, e questo senza che
Onigumo abbia fatto niente di speciale per ispirargliela – non ancora, almeno.
“Se vogliamo separarci prima, non
dobbiamo far altro che attraversare il bosco, invece di costeggiarne il bordo.
Risparmieremo più di un giorno di viaggio, non avremo testimoni del nostro
passaggio e le nostre tracce si perderanno facilmente.”
“Ma Onigumo. Li hai sentiti anche
tu! Dicono che il bosco sia infestato da terribili youkai! Nessuno osa
entrarvi, e chi ha tentato non ne esce, tranne i pochi fortunati che hanno
abbandonato solo la ragione, e non anche la vita, tra gli alberi! Gli unici
insediamenti sorti vicino a questa foresta maledetta, infatti, sono quelli
degli hinin! Sì, a parte quel tempio
shinto e le sue misteriose miko. Che a me fanno paura quasi come gli youkai,
però! Chi può sapere di cosa siano capaci quelle streghe?”
Onigumo alza la voce, infastidito
dal tono stridulo dell’ubriacone.
“Stupidaggini. Youkai! Bha!
Leggende, sciocche leggende per ingannare i creduloni! Le miko entrano nel
bosco, giusto? Se ci riescono quelle stupide donne, possiamo farlo anche noi!”
Prima che qualcuno dei suoi
compagni possa ribattere, Onigumo viene interrotto da una risata stridula da
vecchia alla sua sinistra.
“Potresti scoprire di non essere
forte quanto una delle stupide donne che tanto disprezzi, straniero.” La voce
cigolante, quasi artritica, immobilizza Onigumo. Gli altri tre si scambiano
occhiate timorose.
Onigumo gira rigidamente la
testa. Rannicchiata nella polvere, la schiena ingobbita poggiata alla parete in
legno di una capanna, il corpo sottile coperto di stracci, c’è una vecchia dai
capelli sparuti.
Onigumo le si avvicina, il passo
pesante.
“Che cos’hai detto, vecchia?” le
chiede.
“Mi hai sentito, straniero.”
Ribatte la vecchia, levando la testa verso la voce di lui. Onigumo vede i pochi
denti ballerini occhieggiare nel suo sorriso raggrinzito, e le pupille oscurate
dalle cataratte. La vecchia è cieca. Un umore biancastro le cola lento dagli
occhi.
“Quelle donne potrebbero
stupirti. Oh sì!”
Onigumo si rannicchia per portare
la testa alla stessa altezza di quella della vecchia.
“Quelle donne sono uguali a tutte
le altre; buone per una cosa sola. E quando poi diventano dei rottami come te,
vecchia cieca, non sono più buone a nulla.”
La faccia avvizzita della vecchia
si raggrinzisce ulteriormente, ma Onigumo si accorge che non è né arrabbiata né
spaventata: questo stuzzica la sua pigra curiosità.
“Ah! Parole coraggiose da dire a
una vecchia cieca, vero, straniero? Ma chissà se saresti altrettanto coraggioso
davanti alle creature che infestano i boschi qui attorno. Io li ho visti, sai,
straniero? Sì, li vidi molte e molte volte, spiriti della notte e del giorno,
di tenebra e pazzia e bellezza e nobiltà senza pari, davanti ai quali tu sei
meno della polvere che mi si incolla agli stracci che indosso.”
“Io non ho paura di niente e di
nessuno, vecchia cieca.”
La vecchia prosegue senza dar mostra
di averlo udito.
“Mi ricordo di luci rosse, e di
ombre che sparivano non appena ne scorgevo il movimento, e di festoni di
muschio che erano ben altro, e di una nebbia che strisciava come viva – e
affamata. Vidi tante cose; fin quando i miei occhi decisero di precedermi nella
morte e non vidi più nulla.”
“Tutti mi chiamano pazza e mi stanno lontani.
Scommetto che lo trovi divertente! Una vecchia che persino gli hinin evitano! Scommetto che hai un
sorriso in faccia e sorridi all’idea che io non possa vederlo. Ho indovinato?”
Il sorriso di Onigumo si spegne.
“Attenta a quel che dici, vecchia.”
La vecchia sghignazza. “Oh sì,
attenta devo essere! Perché altrimenti, cosa potresti farmi, coraggioso
straniero, che la vita non mi abbia già fatto prima di te? Ho udito e visto,
cose che tu non udrai né vedrai nella tua vita intera!” La vecchia ride ancora,
forte, e un impalpabile velo di saliva sfiora la guancia di Onigumo. La mano
del bandito scatta veloce ad afferrare con le dita dure il braccio secco della
vecchia.
Onigumo sente una scossa
propagarglisi dalla mano su per il braccio e in tutto il corpo, fino a
raggrinzirgli i lombi. Ringhia, stringendo di più la presa sul braccio della
vecchia, in una reazione istintiva. Dalla bocca spalancata della vecchia cola
un filo di bava; gli occhi ciechi ruotano nelle orbite. Un artiglio rachitico
ghermisce la mano di Onigumo che le stringe il braccio.
“Cosa stai facendo, vecchia?”
“Mi sbagliavo! Oh, mi sbagliavo!”
La voce della vecchia sembra al tempo stesso, più forte e più lontana, fredda e
colma di timore. “Non c’è paura in te, no. Ma neppure coraggio! Cos’è che vai
cercando? Eh? Cos’è che vai cercando?”
Il peso nel ventre di Onigumo
aumenta. E’ come se avesse mangiato pietre per colazione. E’ come se avesse
addentato limoni acerbi. E’ come se un furetto gli stesse rosicchiando
l’inguine.
“Cosa stai facendo, vecchia
pazza? Smettila subito … o …”
La voce gli viene meno. Onigumo
cerca di allentare la presa, ma senza riuscirci.
“Cos’è che vai cercando senza
posa, morto dentro? Cos’è che vai cercando? Il tuo coraggio? La tua paura? La
fame che non riesci a soddisfare? La forma del fuoco da cui ti lasci divorare?
E’ questo che cerchi, morto dentro? E’ questo? Cos’altro può essere?” La
vecchia chiude le palpebre; una smorfia come se le si fosse parato innanzi uno
spettacolo ributtante. “No! No, non voglio vedere! No, Kami, non fatemi vedere,
vi prego no, è troppo non lo sopporto vattene vattene! Vattene nel tuo inferno
vattene nella tua morte! Non ho niente a che fare con te morto dentro vattene
vattene!”
Onigumo impallidisce mentre la
voce della vecchia cresce sempre più d’intensità fino a diventare un urlo
stridulo.
Non riesce a muoversi.
Uno dei suoi compagni potrebbe
colpirlo alle spalle e prendergli il bottino, come farebbe lui, senza neppure
starci a pensare, se le loro posizioni fossero invertite.
Sa che gli hinin stanno formando un capannello, attratti dalle grida della
vecchia.
Eppure niente di tutto ciò lo
preoccupa. Riesce a pensare a una cosa soltanto.
“Smettila di chiamarmi così.”
Spinge a fatica le parole attraverso i denti digrignati. “Smettila subito di
chiamarmi così, vecchia pazza, o rimpiangerai di non essere nata morta.”
“Vattene! E’ la tua sposa che
cerchi, dunque!? E allora vattene! Vattene nella foresta del tuo inferno, dalle
fuoco col tuo fuoco! Vattene dalla tua sposa, morto dentro!”
Usando ogni grammo della sua
volontà Onigumo solleva la mano libera. La voce della vecchia è un sibilo.
“La tua morta sposa attende il
tuo cuore morto affinché possiate darvi l’un l’altra morte e vita.”
Si prende il polso e se lo torce,
costringendosi a liberare il braccio della vecchia. Con un grugnito di rabbia
si rimette in piedi, gira su se stesso, allontanandosi, beccheggiando come un
marinaio sul ponte di una nave in balia delle intemperie. Sente la vecchia
singhiozzare e ridere.
I pochi hinin che si sono fermati a seguire lo spettacolo si allontanano
alla svelta, la testa bassa. Cinque bambini, lerci ma con la faccia raggiante
di meraviglia, fuggono lanciando alte grida di paura non appena vedono la sua
smorfia. Un sesto resta immobile, forse più lento o più coraggioso degli altri.
Onigumo barcolla verso di lui col braccio levato, la testa ronzante e piena
solo dell’immagine del suo pugno che fracassa la bocca del marmocchio.
L’ubriacone gli blocca l’avambraccio, mentre il bambino scappa via.
“Cosa vuoi fare, Onigumo? Cosa
succede!? Sei impazzito?”
Onigumo gli rivolge il suo
sguardo smorto e l’ubriacone trema suo malgrado.
“Lasciami. Va bene. Tutto a
posto, lasciami.”
“D’accordo. Però dimmi cosa …”
Onigumo lo allontana e torna sui
suoi passi, verso la vecchia. Si sente già quasi del tutto se stesso, anche se
non è abituato a provare ... turbamento, deve essere quella la parola.
La vecchia è piombata nel silenzio,
il mento poggiato al petto, tremante. Onigumo sorride, si china di nuovo su di
lei e le afferra la mandibola, costringendola a sollevare il volto. La vecchia
piagnucola, cercando debolmente di sottrarsi.
“Non ridi più, vecchia pazza? Io
non ho paura di nulla. E non sono quel che dici.”
“Come ti pare! Lasciami e
vattene! Fai quel che vuoi! Io …”
Onigumo si bea nello spettacolo
della paura che adesso tormenta la vecchia. Il suo ghigno si allarga quando
un’idea nuova gli passa per la testa.
“Tu eri una miko, vero, vecchia
pazza?” annuisce tra sé “Già, ecco come fai a sapere tante cose. Sì, una miko,
una oh! persona così nobile e rispettata. Mi piacerebbe sapere come hai fatto a
ridurti così, vecchia pazza, oggi che neppure gli hinin ti rivolgono la parola e i pidocchi fanno nido fra i tuoi
capelli. Già, sono sicuro che ascoltare la tua storia sarebbe divertente. Un
vero peccato non averne il tempo.”
Il fragile corpo della vecchia si
scuote, un’unica lacrima solca la sua guancia rugosa: Onigumo capisce di averla
ferita e se ne compiace.
“Ah! Lasciami! Vattene! Ti
diverte così tanto tormentare una vecchia, morto dentro? Credi che ci sia
coraggio in quel che fai? Se sei tanto forte, perché non …”
Le parole della vecchia vengono
interrotte come da un colpo di scure, la nuca sbatte contro la parete della
capanna quando la testa viene proiettata all’indietro, spinta via dallo
schiaffo col quale Onigumo la colpisce.
“Ti avevo detto di non chiamarmi
più in quel modo, vecchia pazza.”
La vecchia scivola in uno stato
di semincoscienza. Onigumo si rialza in piedi, allontanandosi, senza pensare a
nulla.
Il ciccione, l’ubriacone e
gambestorte gli si accodano, mantenendo una certa distanza, sconcertati.
Onigumo vede con la coda dell’occhio gambestorte fare un segno per allontanare
la mala sorte. Lascia che i suoi piedi lo accompagnino dove vogliono. Fissa la
cucitura dello stivale che sta cedendo. Si tocca la sacoccia col denaro.
Spiriti? Sciocchezze! Youkai? Ah! Eppure …
(morto dentro)
Onigumo rialza la testa. La
strada polverosa finisce, là dove finiscono le capanne. Le capanne più
squallide di questo squallido paesello di hinin.
Persino tra i senza casta ci sono differenze, dunque? Persino quando si viene
gettati in un fosso pieno di fango, già, si può sempre scavare.
Queste sono le case più vicine al
bosco di salici. Da qua il terreno declina ripido per una cinquantina di metri
tappezzati di erba scura. Nessuno coltiva niente in questa striscia di terra.
I tronchi degli alberi sono
vestiti di muschio, le fronde dei salici gli ricordano capelli di donna che
cadono disordinati per nascondere un volto tumefatto. Sì, è estate, eppure c’è
freddo. Onigumo avverte sulla pelle sudata il freddo che si protende verso di
lui. Chissà se quel freddo può avere la meglio sul suo fuoco?
Il suo ghigno riprende vigore. Si
tocca di nuovo la tasca colle monete.
“Avanti, Onigumo. Beviamo un
goccetto e dimentichiamoci di quella vecchia! E poi andiamocene da questo
villaggio.” L’ubriacone. E’ capace di pensare solo a bere, già.
“No. Ce ne andiamo subito.” Senza
voltarsi, fa un piccolo balzo e abbandona la strada. Passi rapidi. Evita
d’istinto le buche nascoste tra l’erba alta.
“Ehi, Onigumo! Cosa stai
facendo!? Sei impazzito!?” Patetico ciccione, corrimi dietro se ci riesci.
Piccola corsa.
Il freddo aumenta alla pari del
suo ghigno. La cucitura dello stivale gli cede un altro po’. Se dovesse
rompersi adesso cadrebbe in malo modo. E cosa gli farebbero i suoi compagni se
dovessero raggiungerlo? Sì, pericoloso. Ma a lui non importa. Non gli importa
niente, come non gli è mai importato niente. Di. Niente. Sposta il peso del
corpo e accelera l’andatura, correndo e saltando a destra e a sinistra come una
scimmia idrofoba.
“Fermo! Onigumo, fermati subito!”
Sente che gambestorte ha abbandonato
la strada, ma non lo sta inseguendo con molta convinzione.
E adesso Onigumo vola, salta un
piccolo fossato pieno d’acqua torbida. Le ombre nel bosco dei salici sono
fitte. Appena raggiunge i primi alberi, si ferma col fiato corto e si gira
poggiando una mano su un tronco scivoloso.
I tre idioti sono a più di
quaranta metri.
“Ho deciso che prenderemo una
scorciatoia!” Ansima e i polmoni gli si riempiono d’aria fredda. “E’ la
soluzione migliore. Su, venite! Non avrete paura?”
Gambestorte sfodera la wakizashi.
“Se torni indietro subito, potremmo decidere di non ucciderti, Onigumo.”
“Non credo che tu capisca, dato
che sei tanto stupido quanto brutto, ma non importa. Avanti, sbrighiamoci. Oh,
se non ve la sentite, potete prendere la strada più lunga, ma non so se i
nostri cammini si incroceranno di nuovo in questa vita.”
I tre lo fissano a bocca aperta.
“Onigumo, non puoi dire sul serio
…”
Con un inchino beffardo, Onigumo
si incammina nel folto della vegetazione.
Approfitto di
questo piccolo spazio per ringraziare due nuove lettrici:
@Angorian: non
preoccuparti, anch'io mi sono scoraggiato per la lunghezza!! Non era affatto
previsto che questo racconto diventasse così lungo XDA maggior ragione, sono contento che tu
l'abbia apprezzato - e abbia apprezzato il fascino malefico di Naraku :P
@Crisan: ogni
tanto passa anche qualche vecchietto per questi lidi! XD Ma l'importante è
essere giovani dentro! (sì, sì, certo ...). Bene, spero proprio di avere
soddisfatto almeno un po' le tue aspettative; fatti sentire, se ti va - eh,
adesso sono un po' curioso, devo ammettere.
Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da
Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor
Ci sono solo salici tutt’attorno;
alcuni tanto vecchi da meritarsi senza timor di smentita l’appellativo di antichi.
Il freddo innaturale del bosco
penetra attraverso i vestiti, i passi sul sentiero sono attutiti, il silenzio
pesante: nessun rumore di uccelli o selvaggina, come se gli alberi fossero così
forti nella loro lussureggiante presenza da bandire qualsiasi altra forma di
vita, finanche l’erba e i fiori.
“Parlami della musica, Kikyou.”
Il corso dei pensieri di Kikyou
devia con naturalezza, ricordando le passate conversazioni con il suo sensei.
“La musica del Fato esiste a
prescindere da tutti noi, eppure al tempo stesso ciascuno di noi è parte di
essa e agisce al suo interno. Noi siamo nella musica, e l’intreccio delle
nostre azioni, è melodia.”
“Vi sono coloro che hanno il
potere di udire la musica. Costoro sono chiamati dagli uomini veggenti, profeti
o streghe. Poi vi sono coloro che hanno il potere non solo di udire la musica,
ma di cantare all’interno di essa. E io sono una di loro.”
“Lasciami ascoltare il tuo
potere, dunque, Kikyou.”
Kikyou annuisce. La ragione per
la quale la foresta è un luogo speciale è che la musica del Fato si ode molto
bene, in note intessute da rami e radici, tronchi e foglie. Come lacrime verdi
stillano nell’aria umida.
Si lascia catturare dai suoni
ultraterreni, vi si abbandona e la sua voce si leva adattandosi morbida e
sommessa alla sinfonia misteriosa che li circonda.
I salici hanno voci e si
protendono per farsi udire, per raccontarle di eventi ai quali i più vecchi di
loro assistettero quando erano solo piccoli semi, e l’avvisano di stare
attenta, di stare in guardia dai predatori che si aggirano in mezzo a loro.
Senza interrompere il canto,
Kikyou parla di nuovo.
“Ma ogni azione e pensiero
malvagio è una nota stridula che piaga la musica e la storce, e quando queste
note stridenti si fanno forti a sufficienza il tessuto stesso del mondo si
lacera, sfigurato in sì tanti modi diversi, che neppure il più saggio tra i
saggi può prevedere.”
Sensei Nobunaga la interrompe.
“Uno dei salici qui intorno è
malato, Kikyou. Dimmi qual è.”
Kikyou si lascia condurre dalla
melodia. Intorno a lei la musica scorre solenne e pacata e lei si limita a
lasciarsela sgorgare dalle labbra; ma c’è un tratto nel quale la sua voce incespica.
In quel passaggio, la musica non le parla di salute e crescita e vigore, ma di
agonia e marciume. Kikyou si fa scudo con la disciplina della mente che le è
stata insegnata per tenere lontano da sé il dolore, e osserva con distacco il
suo stesso braccio sollevarsi a indicare un albero apparentemente uguale a
tutti gli altri.
“Quello.”
“Brava. Prosegui.”
“Ogni disgrazia, malattia,
maleficio e crudeltà riverbera nella musica del Fato. In quest’epoca sciagurata
di sangue e dolore, la rabbia, l’odio, la disperazione e il rimpianto danno
linfa a sempre nuove discordanze. E quando queste divengono intollerabili, ecco
che una nuova sventura guasta la terra.”
“Ora parlami degli youkai,
Kikyou.”
“Gli youkai si nutrono della
musica del Fato in un modo che noi non possiamo comprendere. Passioni,
desideri, paure, cupidigie, speranze infrante; da queste cose e da molte altre
nascono e si fortificano gli youkai, coloro il cui nome significa visione che seduce. Poiché suscitare nel
cuore degli uomini desideri infocati è ciò di cui hanno bisogno per sostenersi
e proliferare, ed essi sono simili agli ardori dai quali prendono vita.”
“E quali sono i più pericolosi
tra gli youkai, Kikyou?”
“I più pericolosi tra gli youkai
sono quelli che più assomigliano agli esseri umani, poiché non nella zanna o
nel braccio o nell’artiglio risiede la loro arma più temibile, ma nella loro
maestria di suscitare brama grande a sufficienza da potersi chiamare follia.”
“Ora parlami del tuo potere,
Kikyou.”
“Il mio potere, come il potere di
qualsiasi altra miko, è di riportare l’armonia nella musica del Fato. Silenzio
dell’anima e disciplina dello spirito e forma impeccabile di pensiero, parola e
gesto.”
Nobunaga la interrompe di nuovo.
“Ci sono numerosi youkai che ci
stanno osservando, Kikyou.”
“Sì, li sento.”
“Chiamali verso di noi.”
Kikyou si tende in ascolto:
youkai di violenza e spargimento di sangue, collera e fratricidio. Canta verso
di loro un duro canto di battaglia, cozzare d’acciaio e grida e tamburi e
corni, lacrime e pioggia e fango che risucchia i piedi, e di tutte le altre
cose che sono per loro irresistibili quanto l’oro per il mercante.
Urli striduli li sferzano,
facendo stormire i rami dei salici e precipitando verso di loro da ogni
direzione.
“Preparati.”
Kikyou impugna l’arco e incocca
una freccia senza smettere di camminare. Dalle ombre scaturiscono corpi
vermiformi, teste galleggianti circondate da criniere di capelli bianchi,
folletti saltellanti, dalle zampe uncinate e denti come aghi.
E’ la prima volta che vede una
quantità di youkai tanto spaventosi: ma solo per un momento permette al suo
spirito di tremare, poiché non può concedersi più tempo. Poi scaglia aggraziata
la freccia e mentre lo fa, immagina la musica non com’è in quel momento, ma
come dovrebbe essere. Aiki.
Il dardo veleggia contro gli
youkai e la punta si incendia di luce candida, passando attraverso le creature
e cancellandoli come se non fossero mai esistiti.
Kikyou reprime l’esultanza che
potrebbe distrarla e prepara una seconda freccia, mentre altri youkai sbucano
da dietro i tronchi degli alberi, strisciando e svolazzando e camminando e
rotolando com’è consono alla loro forma.
Una seconda freccia, e poi una
terza, e le moltitudini delle creature vengono abbattute, ma non per questo
esitano, e anzi si scagliano contro di loro quasi come se bramassero di essere
annientati, e sconfitta e vittoria fossero per loro la medesima cosa e solo la
battaglia avesse importanza.
Uno youkai simile a una palla
carnosa e costellata di aculei, più svelto o fortunato degli altri, sopravvive
alle sue frecce e, ribalzando, piroetta nella direzione di sensei Nobunaga, che
resta immobile come se nulla stesse accadendo.
Kikyou respinge la fitta della
paura e d’istinto, allo stesso modo di una donna che leva una mano a scacciare
una mosca che le ronza d’improvviso sotto il naso, intreccia una barriera sacra
attorno al suo sensei. Un istante dopo lo youkai si schianta contro
l’invisibile ostacolo, con tale violenza da fracassarsi gran parte dei
pungiglioni, e cade a terra in una pozza di icore giallastro.
Ancora due frecce e degli youkai
non v’è più traccia.
Nobunaga sorride appena.
“Vedo che hai imparato molto bene
come usare le tue barriere, Kikyou.”
“Ma, sensei! Perché non vi siete
difeso? Se non fossi stata abbastanza veloce …” Le si dilatano le pupille e le
gambe si fanno molli. Poggia l’estremità dell’arco a terra per sorreggersi, la
tensione della sua prima vera battaglia si attenua, facendole girare la testa.
“Finché resteremo nel bosco, la
mia vita sarà nelle tue mani, Kikyou. E ora ricomponiti! Una miko non si lascia
turbare da pochi deboli youkai.”
Nobunaga riprende il cammino.
Kikyou si affretta a seguirlo.
Onigumo scosta un drappeggio di
muschio che sta per carezzargli la faccia, senza rallentare il passo. Deve
sbrigarsi, perché l’avidità ha convinto i suoi compagni che, in fondo, gli
youkai non esistono, o che, se pure esistono, non sono pericolosi come dicono
le leggende. Già, altrimenti non si capisce per quale ragione avrebbero deciso
di inseguirlo dentro la foresta dei salici: e deve spicciarsi, perché se
riusciranno a raggiungerlo, lui sarà un uomo morto. In tre contro uno, non ha
speranze di spuntarla.
Onigumo fa spallucce: la morte fa
parte degli incerti del suo mestiere.
Alza la testa per orientarsi col
sole. I rami dei salici non sono così fitti da bandire la luce, eppure gli pare
che il buio, semplicemente, si rifiuti di lasciarsi disperdere, stendendosi
come un mantello sulla foresta. Uno strano fenomeno, che sembra nebbia senza
esserla. Anche se ha viaggiato parecchio, Onigumo non ricorda di essersi mai
imbattuto in niente di simile.
Ma non ci fa troppo caso, perché
il ricordo della vecchia pazza gli brucia nella mente come acido.
Cos’è che vai cercando? Cos’è che vai cercando, morto dentro?
“No. Non sono quello che dici,
vecchia.”
Ma cos’è che cerchi? Dicci cosa vuoi, sì, diccelo e noi ti esaudiremo.
Cosa? Cosa?
“Io non.”
Ricchezze? Potere? Battaglie? Cosa?
Bisbigli nelle tenebre del bosco
gli solleticano l’orecchio, simili dapprima al bisbiglio della vecchia pazza.
Dimmi solo cosa, morto dentro.
Dicci cosa.
Immagini d’oro e argento e sete e
broccati; palazzi e cavalli e armi e gioielli e gemme.
Onigumo sorride: non è per questo
che si trova qui adesso? Per non dover dividere un bottino coi suoi compagni di
malaffare?
“Onigumo! Torna indietro! Non
fare il pazzo, siamo in pericolo, torna indietro e ci metteremo d’accordo in
qualche modo!”
“Credete che sia idiota quanto
voi, vero? Già.”
Sussurra.
E’ abituato a parlare da solo.
Dato che nessun altra persona gli è mai sembrata vera, vera fino in fondo, ha
sviluppato negli anni sempre più l’abitudine a parlar da solo.
Di nuovo visioni di sconfinate
ricchezze gli baluginano davanti agli occhi: ah! Potrebbe fare molte cose con
tutto quel denaro. Sarebbe bello. Eppure, non …
Il tuo fuoco non ha volto, morto dentro.
Cos’è che vuoi davvero?
Tra i bisbigli si insinua un
gemito differente. Le visioni spariscono, si sciolgono e scoloriscono come un
sogno.
“Guardate! Avete visto!? Come,
dove!?! Ma là, proprio là!! Per tutti i Kami, come fate a non vedere! Che
Onigumo se ne vada all’inferno! Guardate che roba!!”
E’ l’ubriacone, forse? Sì,
Onigumo è certo che sia la sua voce. L’ubriacone grida, e poi, rami che si
spezzano sotto passi concitati, e rumori di lotta e il gemito diventa poco a
poco uno stridio agghiacciante.
Onigumo scrolla la testa per
schiarirsi le idee, senza capire per quale ragione la pelle della schiena gli
si è accapponata; dalla memoria i ricordi di ciò che ha visto svaniscono come
trucioli consumati dalle fiamme di un camino.
“Non sono quel che dici, vecchia
pazza. Mi sono sempre preso tutto quel che desideravo. Sempre, già. E quindi.
Non sono. Quel che hai detto.”
Onigumo si lecca le labbra
secche, e prosegue più in fretta, senza udire risposta alcuna, né fuori né
dentro di sé.
Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da
Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor
“Parlami del tuo addestramento,
Kikyou.”
Lungo le tappe del loro cammino,
Kikyou ha abbattuto youkai, ha visto auree sovrannaturali, levato invisibili
barriere, aperto scorci sul futuro e sul passato, adoperando il suo potere con
la delicatezza di un musico che carezza le corde della sua arpa.
Mentre faceva tutto questo e
molto di più, Nobunaga l’ha interrogata in continuazione e lei gli ha risposto,
senza smettere di cantare per un solo momento.
“Il mio potere è dentro di me fin
da quando nacqui. Ciò che ho imparato venendo da voi, sensei, è la disciplina e
le vie per adoperarlo.”
“Noi siamo custodi. Questo lo
sai, vero, Kikyou?”
“Sì, sensei. Io sono la custode
del mio potere: nel vuoto dell’anima e nell’equilibrio dei quattro spiriti mi è
dato di riportare ordine nella musica. Tale è il prezzo che pagano coloro che
percorrono sia il mondo degli uomini che quello degli youkai: di non
appartenere ad alcuno di essi. Affinché coloro che mi saranno affidati possano
essere custoditi dalle minacce del mondo spettrale, mi è chiesto di essere fra
di loro, ma non una di loro. Umana solo per metà.”
“Sei sicura di essere pronta?”
“Sì, sensei. Adempierò ai miei
doveri.”
“E credi che una tale rinuncia
sia giusta?”
Kikyou lo guarda stupita e
riflette sulla domanda qualche minuto.
“Né giusto, né sbagliato.” Dice
infine. “E’ così e basta. E’ come deve essere. Mi sono stati affidati poteri
quali nessuna miko ha mai posseduto, tranne forse una: voi stesso me l’avete
detto. Rifiutarmi di servirmene – no, di servirli – sarebbe un disonore,
un’indegna vergogna.”
“Ti sembra una risposta
sufficiente, Kikyou?”
“Sì.”
“E se scoprissi di desiderare
qualcosa di diverso? Se non fossi felice?”
Kikyou solleva un sopracciglio.
“Non mi avete mai chiesto nulla
del genere fin’oggi, sensei. Qual è la ragione di queste domande oziose?”
“Non ti ho mai posto domande del
genere, Kikyou, perché non sapevo, fino a stamani, che sarei stato il tuo sensei
per un giorno ancora.” Sospira. “In così poco tempo, non ti posso insegnare
quel che avresti bisogno di sapere. E adesso rispondi.”
Il giovane viso di Kikyou diventa
pensieroso.
“Cos’è mai la felicità, sensei?
Non è forse un’illusione, un breve palpito che presto svanisce lasciandoci
nient’altro che il ricordo del suo sapore nella bocca? Chi nasce contadino
muore contadino. Chi nasce samurai muore samurai, anche qualora venga
disonorato. Chi nasce daimyo è destinato a diventarlo, o a perire nel
tentativo. Desiderare ciò che non possiamo essere ci distrae da ciò che siamo e
ci ruba la felicità che vorremmo. Perché per me dovrebbe essere diverso? Sono
nata per essere una miko, e diventerò ciò che sono nata per essere. Mi sono
stati fatti tanti e tanti doni. Se pretendessi altro sarei un’ingrata e una
sciocca. No, non mi lascerò ingannare da futili illusioni.”
Nobunaga si lascia andare a uno
dei suoi rari sorrisi, inseguendo un ricordo immerso nelle nebbie degli anni.
“Vedo che, nonostante tutto quel
che sai, sei pur sempre una ragazzina. Questo è consolante.”
Kikyou si fa turbata. “Non capisco
cosa vogliate dire, sensei. Perché volete insinuarmi questi dubbi? Ho detto
qualcosa di sbagliato? Non è forse necessario che i quattro spiriti della mia
anima restino in perpetuo equilibrio, per articolare i miei poteri?”
“Sì.”
“E per farlo non è forse
necessaria la disciplina che mi avete insegnato in tutti questi anni?”
“Sì.”
“E se i Kami mi hanno dato un
potere quale solo io posseggo, non è forse mio preciso dovere, il mio giri, consacrarmi a esso senza
esitazione alcuna?”
“Così pare.”
“Dunque, per quale ragione
interrogarmi su quel che potrebbe essere o accadere? Sono, perdonatemi se oso,
domande sciocche e non ho ragione di pormele. Il contadino sa di doversi alzare
ogni mattino e coltivare la terra che gli è stata data, cercando di strapparne
il frutto che potrà per sfamare la sua famiglia. Ha motivo di chiedersi altro?
E il samurai che scende in battaglia per dare la vita per il proprio daimyo?
Può forse lasciare che la sua mente sogni come sarebbe stato essere un
mercante? Mai lo farebbe, e terribile insulto al suo onore sarebbe porgli una
domanda di tal fatta.”
“Hai ragione, Kikyou.”
Kikyou guarda Nobunaga con
franchezza.
“Perché mi state insultando, sensei?
E’ una punizione per la mia condotta di stamane?”
Nobunaga scuote la testa senza
rispondere e si infila in un piccolo passaggio tra i salici che devia dal
sentiero che hanno percorso per tutte le ore precedenti.
“Ti ricordi di Setsume, moglie di
Kagenaru?”
Kikyou non si lascia sconcertare
dal cambiamento improvviso di conversazione.
“Sì. E’ morta lo scorso inverno.
E’ sempre stata cagionevole di salute; o almeno così ho sentito dire.”
“Hai anche sentito le voci che
sono circolate, quando mi sono offerto di occuparmi della sua sepoltura al
posto di suo marito?”
Kikyou annuisce, lanciando
occhiate tutt’attorno. E’ strano che vi siano meno youkai nascosti ai bordi di
questo sentiero.
“Sì, sensei. La vostra offerta è
stata davvero inusuale.”
“Non ti ho mai chiesto cosa ne
pensassi, Kikyou. Molti non hanno nascosto la loro disapprovazione alla mia
richiesta di occuparmi della salma e di rifiutarmi di svelare persino a
Kagenaru il luogo di sepoltura. So per certo che anche Natsume è tra costoro.
Tu hai trovato le mie pretese disdicevoli?”
L’esitazione di Kikyou è molto
breve.
“No, sensei. Voi avete solo fatto
una richiesta a Kagenaru. Toccava a lui, saputo i termini dell’accordo che
proponevate, in qualità di marito di Setsume, rifiutarvi quanto gli chiedavate.
Ma Kagenaru è sempre stato un uomo avaro e gretto. Pur di non spendere il denaro
che avrebbe richiesto una degna sepoltura, e in cambio di poche monete, ha
accettato la vostra offerta. E’ lui a dover essere riprovato, non certo voi.”
“Un uomo avaro e gretto. Sì,
Kagenaru lo è sempre stato. Devi sapere, Kikyou, che Setsume non era
cagionevole di salute. Lui la prese in moglie perché sapeva che, fin da
ragazza, si rifiutava di mangiare più dello stretto necessario. Per questo era
sempre debole e smunta, non a causa di qualche malattia. Nessuno, neppure io, è
mai riuscito a convincerla ad abbandonare questa incomprensibile abitudine, che
anzi andò via via peggiorando, se mai possibile, durante gli anni del suo
matrimonio.”
I due continuano il cammino, in
silenzio salvo il canto sommesso di Kikyou. Quanto più si addentrano lungo questo
nuovo sentiero, tanto più lei sente le auree degli youkai allontanarsi, ma al
tempo stesso una diversa minaccia stagliarsi più avanti.
“Consegnami il tuo arco e la
faretra, Kikyou.”
Lei ubbidisce senza profferir
parola.
Pochi altri metri e una piccola
radura si apre davanti a loro. E’ spoglia e brulla. Alcuni dei salici che ne
segnano il perimetro sono malati, privi di foglie, i rami perfino più piegati
di quanto dovrebbero essere.
Kikyou ne conta quattro – no
cinque, anzi, sei! – morti da poco, il midollo rinsecchito, risucchiato via
come se dei parassiti l’avessero divorato.
Al centro esatto della radura, un
piccolo tumulo senza segni.
“Fatti avanti, Kikyou.”
Fa alcuni passi, strizzando gli
occhi. La misteriosa oscurità del bosco è più densa al di sopra del tumulo.
Cerca di vedere meglio che può, ma all’improvviso il buio si dissipa a rivelare
la sagoma di una donna inginocchiata.
“Setsume.” bisbiglia,
riconoscendola.
Nello stesso momento, sente che
il suo canto viene inghiottito, come se nel centro della radura vi fosse un
gorgo di silenzio impenetrabile dove la musica cessa di colpo.
La donna la scruta con
attenzione: sembra stupita. Il suo volto è affilato e bianco, gli occhi piatti;
indossa un kimono elegante, verde come le foglie dei salici, a nascondere le
membra sottili. I capelli scuri e lunghi come i suoi.
“Kikyou? Sei Kikyou? Sei venuta a
trovarmi, piccola Kikyou? Non sai quanto mi faccia piacere!”
Setsume si alza in piedi, le
labbra stirate in un sorriso esangue.
“Sono tanto sola. Oh, tanto!
Vieni. Vienimi vicina.”
Il canto di Kikyou si spegne:
musica e potere avvizziscono appena sfiorano la donna emaciata che scivola
lieve verso di lei.
Caracolla come una marionetta, il
sorriso e lo sguardo fissi. Una lingua bianca come il gesso guizza svelta a
leccarsi le labbra, per poi schioccare rumorosamente contro il palato.
“E, Kikyou … non mi hai portato
qualcosa da mangiare, per caso?”
L’avidità nello sguardo di
Setsume è evidente. Kikyou resta immobile, morbosamente affascinata dalle fattezze
della donna conosciuta in vita, dal lento ondeggiare dei suoi capelli, dalla
voce ispessita da una voglia repressa a stento.
“Lontana.” La bocca di Kikyou si
muove appena. “Stai lontana da me.”
“Sì che hai qualcosa, Kikyou. Su,
avanti, vieni. Lo sento nel tuo odore; c’è qualcosa di delizioso e salato
dentro di te. Dammelo!!”
Setsume si scaglia in avanti,
mettendosi all’improvviso a correre, i capelli ritti in aria come tentacoli, la
voce rauca e che d’un tratto scaturisce da dietro la testa.
Il suo collo ruota su se stesso,
disarticolato, con un molle plop!, e
a Kikyou si svela una bocca aperta sulla nuca, senza labbra e spalancata, le
ciocche di capelli che vi galleggiano attorno, i denti piccoli e appuntiti.
Trova la forza per levare un
grido. “Stai lontana da me, Futakuchi-onna!” prima che Setsume le sia addosso.
Troppo vicino e troppo tardi,
leva una difesa, ma i capelli vivi le si annodano ai polsi sottili e alla vita,
pungendola come il filo tagliente di tanti fogli di carta. Il suo potere bianco
le erompe dai palmi, ma svanisce in un silenzio sordo. L’innaturale bocca di
Setsume ride.
“Sì! Sì, ti prego! Ho fame, tanta
fame!”
Ancora e ancora, il sacro potere
di Kikyou colpisce per svanire, mentre la bocca di Setsume si avvicina pian
piano alla sua spalla. Cedendo a un primo brivido di paura, Kikyou gira la
testa d’istinto a cercare Nobunaga, e lo vede assistere impassibile allo
scontro, le braccia conserte sul petto.
Strattona, le braccia
immobilizzate, chiude gli occhi davanti a quella bocca ridente, chiama a
raccolta altro potere, compie uno sforzo sovrumano per divincolarsi, il bianco
esplode attorno a lei, assordandola; i capelli che la imprigionano fremono, per
un istante allentano i nodi.
Ma prima che lei possa sfuggire
si rinserrano.
“Che delizie mi hai portato.
Grazie, Kikyou, oh grazie! Per favore. Ancora un po’.”
La paura si fa panico quando
sente i denti affondarle nella spalla e non può far altro che gemere. Gli
sforzi per scappare si fanno più frenetici e impacciati e le forze le vengono
meno.
Setsume singhiozza e geme con la
bocca libera.
Il gemito ha il potere di
penetrare la coltre del terrore che ha imprigionato Kikyou. Di nuovo, rovescia
il suo potere spirituale sulla Futakuchi-onna. I denti minuti serrati sulla sua
spalla si stringono di più e Setsume geme di nuovo con l’altra bocca, per poi
cacciare un urlo forte e abbandonarsi a piccoli singhiozzi.
E’ nel momento in cui capisce
cosa il suo sensei si aspetta da lei, che il panico scivola via da Kikyou.
Attingendo a coraggio e disciplina, si rilassa, piega quanto può le braccia
attorno al corpo dello youkai e si zittisce. Affonda sempre più nel silenzio di
Setsume, come in un lago ghiacciato, cade e cade finché non raggiunge il fondo
assordante del vuoto attorno a lei, in un’assenza di suoni che le tappa le
orecchie.
Fame.
E’ fame fame fame. Semplice,
elementare, prepotente. Lo stomaco raggrinzito, la bocca piena di saliva, la
lingua schiacciata sul palato. Vuoto e fame. Fame dappertutto.
Di nuovo, Kikyou leva il suo canto
di potere e lo lascia uscire da sé, e chiama al suo posto il vuoto della fame
che la schiaccia, le preme addosso e la invade.
I tentacoli, i capelli che la
imprigionano si indeboliscono. Abbraccia stretta Setsume, che con una bocca
succhia e l’altra piange, le carezza le tempie, le bacia uno zigomo ossuto,
eppoi poggia la fredda guancia sulla sua guancia tiepida.
“Mangia.”
Le forze l’abbandonano e c’è fame
sempre più, che soffia in gola, morde e si attorciglia, che pulsa nelle vene e
le toglie colore dal volto e forza dalle membra.
Il corpo di Setsume le crolla
addosso e il guscio di gelido silenzio si rompe: è un uovo, liscio, perfetto e
saporito; la musica entra nella frattura del silenzio, dissipandolo.
C’è il sussurro di un grazie e il
nulla. Kikyou crolla in ginocchio, sola con la sua fame.
Le dita a stringere lo stomaco,
batte i denti: è vuoto e bisogno e odore di sudore e spezie e caldo di zuppa
che scivola giù nella gola, e c’è qualcosa di caldo nella gola, caldo, non
buono, acido, soffoca, lei affoga, affoga e in un singhiozzo si piega in avanti
e la bocca e il naso sono pieni e puzza e conati, rovescia fuori in un verso un
bolo tiepido e la puzza è orribile come una ferita; tossisce, geme. Aspetta,
impotente, un altro moto della marea che l’ha presa, e ancora sputa e vomita e
piange e trema. Ha freddo, fa così freddo nella terra c’è buio e freddo e
niente. Niente dentro. Niente attorno.
Vomita filamenti di bava e aria.
Ancora. Finisce.
Kikyou resta inginocchiata a
riprendere fiato. Ogni tanto sputa e soffia. E’ bianca, gelata e vuota, e il
ricordo della fame è forte abbastanza da essere fame esso stesso. Pian piano si
acquieta, le mani smettono di tremare.
Vuota. Questo l’aspetta? Vuota?
Così? Sì? Questo, sì certo. Ma se il suo sensei crede che basti a farla
recedere, significa che non la conosce abbastanza.
Guarda con distacco la pozza del
vomito vicino a lei. Disciplina. Si alza. Barcolla. Si gira. Il sensei non si è
mosso.
“Rivuoi il tuo arco, Kikyou?”
Lei annuisce.
Nobunaga le porge l’arma, poi si
allontana per la strada che hanno seguito.
“Adesso è libera?” un gemito
arrochito.
“Sì. Sei stata brava, Kikyou.”
Porta il palmo pieno d’acqua alla
bocca e beve. E’ dolce.
Non ha le idee molto chiare su
come sia arrivato fin lì o quanto tempo sia passato da quando è entrato nel
bosco dei salici, ma fermarsi a bere gli è parsa una buona idea. La testa ronza
e gli sembra piena di bambagia. Deve essere colpa dei sussurri che lo
tormentano e che non capisce. Crede che sia meglio non capirli. Deve aver
camminato piuttosto a lungo. Glielo dice non solo la sete, ma anche le gambe
che gli bruciano e la cucitura dello stivale quasi del tutto rotta.
Si passa la mano sulla faccia,
ritraendola appiccicaticcia di sudore e resina. Fa una smorfia, immerge le mani
nella polla e si butta l’acqua sulla faccia e sul collo, la testa china, per
poi bere ancora. Forse ce n’è uno che lo sta ancora inseguendo. Il ciccione. E’
grosso. E’ sicuro di avere sentito il suo passo, pesante, pochi minuti fa.
Gambestorte, invece. Gambestorte rideva. Quanto è passato? Mezz’ora? Un’ora?
Onigumo lo aveva già sentito
ridere così una volta.
Era stato quando si era accanito
su un ragazzetto che avevano catturato, due mesi prima. Da poco si era unito ai
tre per formare la loro temporanea banda.
Gli altri due si erano
allontanati subito, per non assistere. Non avevano voglia di rovinarsi la
digestione, avevano detto. Onigumo era rimasto a guardare, mentre gambestorte
tagliava le guance del loro prigioniero col coltello, e rideva alle sue urla.
Tagli verticali, lungo la linea degli zigomi.
Poi, gli aveva preso un orecchio.
Gliel’aveva staccato un poco alla volta. Era restato un buco rosso che sembrava
entrargli dritto nella testa. Poi era passato alle palpebre e sì, era
imbrattato di sangue fino ai gomiti e in faccia, e il ragazzo ululava e
piangeva e sussultava come pazzo nonostante fosse ben legato e chiamava la
morte, e dopo un po’ gli occhi di Onigumo si erano riempiti di lacrime di noia
mentre sbadigliava da slogarsi la mascella, e si era ritrovato a chiedersi cosa
ci trovassero mai, l’uno di così divertente, e gli altri due così disgustoso,
in quella pagliacciata.
Appena formulato, quel pensiero
l’aveva riempito della sua vecchia compagna, la rabbia. Era stato preso dalla
voglia di alzarsi, spaccare la testa di gambestorte con un sasso e tagliare la
gola del ragazzo e poi andare dagli altri due e …
Le risa da demente di gambestorte
sono le stesse che ha udito poco fa. Impossibile sbagliarsi.
Onigumo rutta dopo aver bevuto
troppo in fretta e si sfrega la guancia.
Niente. Lo sapeva. Non c’è nulla
in questo bosco. Tutte menzogne. Vuote menzogne e allucinazioni per confondere
i deboli. Già!
Sospira, più stanco di quanto
dovrebbe essere, si rimette in piedi, piega il collo finché le vertebre non
scricchiolano in risposta.
Non c’è proprio niente che tu voglia, morto dentro?
Ancora la voce della vecchia. La
rabbia trabocca dentro di lui, snuda i denti, mette la mano sull’elsa della
wakizashi, girando la testa nella direzione dalla quale è venuto. Avrebbe
dovuto uccidere la vecchia prima di entrare nel bosco. Maledetta vecchia pazza.
Ecco cosa vorrebbe. Forse, se facesse alla vecchia quel che gambestorte fece al
ragazzo. Forse.
Non c’è il bisogno nei tuoi desideri, morto dentro. Non c’è mai stato.
“Non sono quel che dici! Vecchia
dannata, avanti, dove sono le luci! E le ombre!? Ah! Lo sapevo! Bugie buone per
i vigliacchi!”
Onigumo alza i pugni al cielo e
sbraita, sputa e scalcia. I bisbigli che gli sembra di sentire diventano più
sommessi e spariscono. La faccia rossa, gli occhi strabuzzati, fa un passo
nella direzione da cui è venuto, già immagina come sarà cacciare la sua lama
nello stomaco della vecchia e lasciarla lì, ma senza ucciderla. Troppo facile,
sarebbe troppo facile.
“Onigumo!? Onigumo, sei tu!?
Parla! Oh ti prego, tieniti il denaro, quello che ti pare! Basta che mi tiri
fuori da qua, per amor dei Kami, Onigumo, fatti trovare e portami fuori di qua!”
E c’è di nuovo il passo pesante
del ciccione. Sta venendo verso di lui. Onigumo esita, la fronte corrugata. Un
trucco. Potrebbe tendere un’imboscata e ammazzare il ciccione? Ma come può
essere sicuro che non lo stiano inseguendo ancora tutti e tre? Meglio scappare.
Si è fatto tradire dall’immaginazione, mettendosi a gridare al vento. Strano,
lui non sogna mai, tanto meno a occhi aperti. I deliri della vecchia pazza lo
hanno impressionato più di quanto pensasse.
Sghignazzando di se stesso,
riprende la sua strada e scappa.
Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da
Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor
Kikyou cammina con la testa
abbassata, in silenzio e senza guardare niente in particolare. Tutte le volte
che si accorge di voler sputare per alleviare il saporaccio che ha in bocca, si
trattiene e, invece, deglutisce. Non vuole lasciarsi vedere da Nobunaga mentre
sputa.
Non ha bisogno di cantare per
usare il suo potere: potrebbe farlo, ma la gola inaridita le toglie la voglia
di provarci. I pochi youkai che cercano di attaccarli finiscono spazzati via
dalle sue frecce.
Ha freddo, le pulsa la testa e
c’è una parte di lei che vorrebbe rannicchiarsi per terra e mettersi a dormire.
Come può venirle voglia di dormire in una situazione simile?
Quasi non si accorge che sono
entrati in una nuova radura. Si irrigidisce e solleva il capo di scatto, ancora
fresco il ricordo di quel che ha dovuto sopportare neppure un’ora prima. Mette
a fuoco lo sguardo, e la bocca le si schiude in una perfetta O di sorpresa.
A differenza del resto del bosco,
in questa radura cresce un’erba folta e corta, tagliata con cura. Pietre bianche
e lisce ne delimitano il confine e disegnano al suo interno linee e curve. Un
sozu alimentato da una piccola fonte fa udire il suo tonfo monotono su una
roccia. A Kikyou sembra che, per qualche misterioso prodigio, un frammento del
giardino di sensei Nobunaga sia stato trasportato in mezzo alla foresta.
Al centro esatto dello spiazzo
leva orgogliosa il capo un’unica peonia sbocciata.
Il fiore pare a Kikyou splendido
da non sembrare vero, coi suoi innumerevoli petali violetti a dargli la forma
di una piramide, traslucido come una statua di giada. Spicca come una goccia di
sangue su un manto verde.
Kikyou ride e batte le mani
contenta, incapace di trattenersi a quella vista stupefacente.
“Sensei! Siete stato voi! Ma come
avete fatto!? E quando?”
Sorridente, scruta il viso di
Nobunaga, ma l’aria grave di lui raffredda il suo entusiasmo.
“Sono stato qua diverse volte. E’
stato un lavoro lungo e difficile, preparare il teatro per l’ultima prova. E
sì, Kikyou, avevi ragione. E’ per te. E’ sempre stato per te.”
Kikyou drizza le spalle. Nobunaga
la invita a seguirlo con un cenno della mano e si avvicina al cuore del
giardino, poi si inginocchia a pochi metri dalla peonia.
“Ricorda. Finché siamo nel bosco,
la mia vita è nelle tue mani.”
Chiude gli occhi.
Sgocciolano i minuti, lenti come
olio. Un’aura di grande potere si addensa. Non può impedirsi di fare una passo
indietro, quando una donna alta e bellissima si materializza, apparendo
silenziosa da uno squarcio nell’aria. Altera quanto una regina, non la degna di
uno sguardo. Il viso squisito e impassibile si ammorbidisce quando posa gli
occhi sull’uomo inginocchiato davanti a lei.
“Mio amato.” Dice.
Lei si ricorda di tutta la sua
vita.
Ricorda quando, assieme alle sue
sorelle, l’uomo l’aveva messa nella sacchetta. Erano tutte una addosso
all’altra, e ridevano e sussurravano i loro ruvidi sussurri soffregandosi pelle
a pelle. Il viaggio era stato breve e poi la mano gigantesca dell’uomo le aveva
sepolte, sole, nella terra umida. Del buio non ha mai avuto paura. Il buio e la
terra sono accoglienti, l’hanno sempre cullata con braccia morbide. Non ha mai
capito perché gli esseri umani ne hanno paura, e in fondo non le è mai
importato capirlo. Era passato del tempo, e aveva imparato a riconoscere il
passo dell’uomo. La venuta dell’uomo spesso coincideva con la dolce acqua. A
volte la terra che la teneva sepolta veniva rimestata, quando arrivava l’uomo
col suo passo rumoroso, e poteva capitare che la luce la toccasse qualche
istante. Neanche l’uomo l’aveva mai spaventata. L’uomo si prendeva cura di lei,
le parlava e a volte cantava, e nella sua voce c’era una dolcezza che le faceva
venire voglia di uscire dalla morbida terra. Quando l’uomo parlava, ma non a
lei, non c’era mai quella dolcezza nella sua voce.
Lei non sapeva come uscire dalla
terra, però. Finché (era passato altro tempo), un dolore strano l’aveva
afferrata in una morsa, continuo e più forte. Ma c’era la voce dell’uomo, così
lei non aveva avuto paura, neppure quella volta, neppure quando la sua pelle si
era crepata fino a rompersi. Neppure quando il dolore l’aveva spezzata e aveva
creduto d’esser morta, aveva avuto paura. C’era l’uomo là fuori da qualche
parte che la aspettava.
Aveva imparato con stupore la
forma del suo nuovo corpo. I suoi piedi, piccolini ma intrepidi, avevano
assaggiato la terra che le dava la vita. Aveva levato la testa, spingendo un
pochino per volta, cocciuta; avrebbe sempre amato la terra che l’aveva
protetta, ma adesso voleva conoscere la luce solo poche volte intravista. E anche
l’uomo che parlava e cantava e portava, assieme al suo passo rumoroso, l’acqua
che la dissetava.
Era stata svelta. Era stata
forte. E vedere la luce era stato bello come aveva immaginato. Aveva teso verdi
dita minute verso la faccia gialla e aveva riso di gioia perché era bello
essere viva ed essere giovane e stare sotto la burbera faccia gialla.
Quando poi l’uomo era venuto le
aveva sorriso e le aveva detto che era stata brava e che era fiero di lei e
l’aveva accarezza con la punta di un dito e la sua carezza era stata così lieve
e così tenera che si era scossa tutta. Qualunque cosa! Qualunque cosa avrebbe
fatto e dato, per ricevere altre carezze e altre lodi.
Era passato altro tempo, stagioni
fredde nelle quali si addormentava e tornava all’abbraccio materno della
morbida terra, e stagioni calde nella quali era sveglia e vispa, e l’uomo
veniva sempre, e lei cresceva e diventava robusta e alta. Aveva steso le
braccia come una donna che si sveglia, tante braccia che crescevano in numero e
lunghezza, e aveva imparato a spalancare i palmi verdi alla burbera faccia
gialla che amava quanto la morbida terra, persino quando la baciava tutto il
giorno, nella stagione in cui stava a lungo in cielo, e alla fine della
giornata le sue braccia erano stanche e piegate. Ma sapeva che i baci della
burbera faccia gialla erano i soli baci che conosceva e che faccia gialla non
sapeva amare in nessun altro modo. Eppoi c’era l’uomo che le portava acqua e
parole gentili, canzoni e carezze leggere, alla fine di quelle giornate, e lei
si sentiva scoppiare, di vita e di qualcos’altro.
C’erano le sue sorelle vicino a
lei. Non tutte, perché alcune non erano state capaci di uscire dal letto della
morbida terra, e si erano assopite poco a poco finché le loro voci non erano
sparite del tutto in un sonno senza più risveglio.
Le sorelle che non si erano
addormentate per sempre le facevano compagnia, e a volte fra loro ciarlavano;
specie quando il vento giocava a rincorrersi da sé solo tra le loro braccia e
di tanto in tanto rifilava loro uno spintone che le faceva gridare di
eccitazione e spavento.
Ma le sue sorelle parlavano fra
di loro più che con lei, perché lei era la preferita dell’uomo. Tutte lo
sapevano ed erano gelose. Lei era stata la prima a uscire dalla terra, lei era
più alta di loro, più forte di loro, e a lei l’uomo dedicava più attenzione e
più affetto che a tutte loro.
Era passato altro tempo ancora:
sette volte le quattro stagioni, e lei aveva capito che qualcosa di nuovo le
stava capitando. Sulla sua testa la cosa nuova e misteriosa si stava
ingrossando e appesantendo. Lei non se ne era preoccupata, era forte abbastanza
da sopportare molte volte quel peso. Anzi, era euforica e agitata perché sapeva
che la cosa nuova e misteriosa era il compimento, la ragione ultima della sua stessa
vita; e le nuove e più amorevoli cure dell’uomo avevano alimentato la sua
certezza.
La prima volta nella sua vita in
cui aveva conosciuto la paura era stato il giorno in cui l’uomo aveva scavato
la morbida terra attorno a lei e aveva messo in una sacca la terra assieme ai
suoi piedi, che nel passare delle stagioni si erano fatti robusti e lunghi, e
l’aveva portata via dalle sue sorelle e dal posto verde che era stato il suo
mondo. Non capiva perché l’uomo aveva voluto portarla via dalla sua casa e aveva
combattuto la paura con la fiducia che nutriva per l’uomo che l’aveva accudita
da sempre.
L’uomo era entrato in un bosco
buio e pieno solo di alberi. Gli alberi non erano cattivi, non proprio, ma
erano forti e vecchi e mal sopportavano qualsiasi presenza salvo la loro.
Tenevano fuori persino burbera faccia gialla, accontentandosi di lasciargli
scaldare solo le loro più alte fronde. La sua paura sarebbe diventata terrore,
se l’uomo non avesse cominciato a cantare (senza aprire la bocca, però)
costringendo gli alberi e le altre cose nel buio a lasciarli passare.
Erano arrivati in uno spiazzo che
assomigliava al posto verde che era stato il suo mondo. Un anello di pietre lo
circondava, e nel disegno di quelle pietre c’era l’impronta dell’uomo, così
come nella terra dove lei affondava i piedi c’era la sua impronta. Il buio del
bosco non poteva oltrepassare le pietre e burbera faccia gialla l’aveva baciata
non appena erano entrati nello spiazzo. Lei aveva subito alzato la testa che
non si era accorta di aver chinato. Non era mai stata tanto contenta dei baci
della burbera faccia gialla.
L’uomo l’aveva liberata dalla
sacca, e aveva messo i suoi piedi e la terra in un buco al centro dello
spiazzo. Per tutto il resto del giorno si era preso cura di lei, aveva posto vicino
ai suoi piedi altra terra, ricca e scura, le aveva dato da bere, l’aveva
accarezzata, le aveva detto di essere coraggiosa, le aveva detto che era bella,
e lei si era scordata la paura, gioendo di tutte le sue attenzioni.
Quando se n’era andato, non aveva
sofferto la solitudine, anche se non c’era nessuna delle sue sorelle. C’erano
altre cose. C’erano cose che non aveva mai conosciuto, cose di cui lei non
sapeva il nome e che erano capaci di parlare con lei e di ascoltarla. Le cose
le parlavano e parlandole le insegnavano. I nomi, per esempio. Che tutto aveva
un nome. Burbera faccia gialla si chiamava sole (ma per lei sarebbe stata
sempre burbera faccia gialla). Gli alberi erano salici. Il posto verde in cui
era cresciuta, e pure quello dove l’uomo l’aveva portata, si chiamava giardino.
E, no, non sapevano come si chiamasse l’uomo. E lei? Lei non aveva un nome? Le
cose avevano riso e le avevano detto che sì, certo che aveva un nome!
Lei si chiamava weize, che significa ‘regina dei fiori’,
ed era una peonia.
Una volta abituatasi alla sua
nuova casa, Weize era stata molto felice del cambiamento, perché dove stava ora
poteva imparare tantissime cose che altrimenti non avrebbe mai saputo. E poi
c’era la cosa nuova e misteriosa (a volte se n’era quasi dimenticata, persa nel
turbine di cambiamenti che aveva catturato la sua vita) che cresceva e … e
cosa?
Le voci del bosco avevano
chiamato la cosa nuova e misteriosa ‘gemma’ e Weize aveva pensato che non
potesse esserci un nome più giusto, e
le avevano detto che presto sarebbe sbocciata.
Così era stato. Dopo una notte
insonne di travaglio e fatica e gioia era fiorita. Voleva fiorire e
nient’altro: tutta la sua vita precedente era stata la preparazione di
quell’unico evento. E voleva fiorire in quella mattina perché sapeva che l’uomo
sarebbe venuto e voleva ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei
nell’unico modo che conosceva.
Aveva udito il suo passo
familiare. Aveva steso i suoi mille petali viola e non aveva avuto alcun timore
nella perfetta certezza della sua bellezza.
E l’uomo era arrivato e quando
l’aveva vista erano stati perduti entrambi. Si era inginocchiato, le aveva
sorriso, aveva cantato e il suo canto era poesia e la sua poesia non era da
meno della bellezza di lei e lei sapeva cos’era quel che rendeva bello il suo
canto.
Era stato come sbocciare di
nuovo. C’erano occhi da aprire per vederlo come non aveva mai fatto. Poteva
guardarlo dall’alto perché gli occhi si aprivano in un viso, e sotto il viso un
corpo simile a quello dell’uomo eppure dissimile: candido e tiepido; occhi
verdi, capelli di fuoco e bocca rossa; membra sottili, dolcezza nei fianchi e
morbidezza del seno. Avrebbe avuto tempo, dopo, di prendere confidenza col suo
nuovo corpo: e non era certo quella la prima volta che le succedeva qualcosa
del genere. La sua felicità era per una cosa soltanto: avere una bocca per
poter parlare, e, dopo tutti quegli anni, chiederglielo.
“Qual è il vostro nome, mio
amato?”
L’uomo era restato in ginocchio.
“Mi chiamo Nobunaga. E tu conosci
il tuo nome, Kashin?”
Aveva sorriso.
“Io so di chiamarmi Weize e so
che vi amo, Nobunaga. E voi mi amate, mio amato?”
L’uomo aveva chinato la testa
come per una sconfitta.
“Ti amo, mia amata.”
E Weize gli aveva carezzato il
volto rugoso e gliel’aveva sollevato, poi l’aveva fatto alzare, gli aveva preso
le rugose mani, che da sempre conosceva, le aveva guidate su di sé e gli aveva
chiuso la bocca con la sua bocca nuova.
Ognuno dei suoi giorni era ricco
come un anno della sua vita precedente. Aveva imparato cos’era e cos’erano le
cose che le avevano parlato prima della sua ultima fioritura. Youkai. E lei era
una regina. Regina tra i fiori e regina tra gli youkai, superiore in bellezza e
superiore in potere, poiché quel che le aveva dato vita era quanto di più forte,
esclusivo e spaventoso youkai e umani potessero conoscere e condividere.
Fin nei più remoti angoli del
bosco poteva spingere il suo sguardo, e dai più remoti angoli del bosco
venivano per renderle omaggio, prostrarsi ai suoi piedi e baciare la terra
nella quale affondava le radici – sì, conosceva ora tutti i nomi e tutta la
propria vita, fin da quando era stata un seme.
E il suo amato Nobunaga andava
tutti i giorni da lei e le cantava poemi ispirati dal suo amore, e lei
ascoltava e imparava e gli parlava dei segreti degli youkai. Poi venivano altri
segreti da conoscere assieme, ed estasi che le ricordava un po’ – ma molto più
grande e forte – i baci della burbera faccia gialla.
Sarebbe dovuto essere tutto
perfetto e non capiva da dove veniva l’ansia crescente che non smetteva di
tormentarla.
Proprio su questo si stava
interrogando la mattina in cui aveva visto il suo amato entrare nel bosco
accompagnato dalla ragazza pallida. Ne era stata sbalordita e non solo. Un
pungolo bruciante, aveva sentito, e si era chiesta se era quello che provavano
le sue sorelle quando Nobunaga dedicava a lei la maggior parte delle sue
attenzioni.
Col cuore in gola, aveva
assistito impotente gli youkai cercare di uccidere il suo amato, traendone
furore e spavento: il suo potere era inutile, poiché confinato dal cerchio di
pietre della radura. Non le era mai capitato di preoccuparsi dell’incolumità di
Nobunaga, perché lui sapeva proteggersi facilmente da tutti i pericoli che
abitavano il bosco dei salici. Ma quella mattina era diversa. Il suo amato non
si difendeva, aveva messo la sua vita nelle mani della sciocca ragazzina
pallida. Se gli fosse successo qualcosa, gli youkai e la ragazzina avrebbero
assaggiato la violenza della sua vendetta: pietre o non pietre, avrebbe trovato
il modo di raggiungerli e di farla pagare a tutti quanti.
Ma la ragazzina pallida sapeva
combattere abbastanza bene, doveva dargliene atto. Weize aveva capito che il
suo amato stava venendo da lei, seppur seguendo un percorso lungo e tortuoso. E
perché si era fatto accompagnare dalla ragazza? L’ansia era cresciuta a
dismisura dentro di lei. Poco prima che arrivassero si era nascosta, ma quando
Nobunaga le si era avvicinato e si era inginocchiato non aveva potuto
resistere.
In tutta la sua inumana bellezza
gli era apparsa, perché la gioia di potergli solo rivolgere la parola le era
avvinghiata dentro, come le sue radici erano avvinghiate al terreno.
E “Mio amato.” Aveva detto.
Lo sconcerto di Kikyou la lascia
paralizzata e incapace di pensare. Lo spirito della peonia ha preso vita
diventando Kashin. Non ha mai neppure immaginato che potesse esistere una tale
bellezza. Deve imporsi di non inginocchiarsi vicino al suo sensei per la
riverenza che le ispira. Poi il senso del saluto con il quale il Kashin si è
rivolta a Nobunaga si fa strada nella sua mente. ‘Mio amato’? Un velo di sudore
sulla schiena la fa rabbrividire. Negli occhi della youkai brucia un violento
fuoco verde che le fa accapponare la pelle talmente è intenso.
“Perché non mi rispondete, mio
amato? Che cos’avete? Siete forse arrabbiato con la vostra Weize?”
Nobunaga resta immobile, il
respiro cadenzato, le palpebre abbassate.
Weize per un attimo pare
perplessa, poi si rizza in tutta la sua statura, e le si rivolge con un tono
tanto sprezzante quanto era tenero quello che ha usato per parlare a Nobunaga.
“Ho dimenticato l’educazione e me
ne scuso.” Comincia, senza dare la benché minima impressione di scusarsi di
alcunché. “Hai protetto il mio amato e devo ringraziarti per questo, ragazza
pallida. Ora, dimmi. Sai per quale ragione mi sta ignorando? Il mio sguardo vi
ha seguiti per tutto il tempo e sono certa che non sia stato ferito. Dunque,
perché non mi parla? Ti prego di rispondermi.”
L’imperioso portamento e la
regalità di Weize fa tremare le labbra di Kikyou alla ricerca di una risposta
che non possiede.
Scrolla la testa e parla mossa da
un’ispirazione improvvisa.
“Io ti conosco. Ti ho già vista.
Nel giardino di sensei Nobunaga. Sì. Ho innaffiato le piante di peonia che lui
seminò nell’anno in cui giunsi al tempio. Tutte. Ma non tu. Mi disse … lui mi
disse di innaffiare … di innaffiare tutte voi. Tranne te.”
Lo sguardo di Weize sembra
passarle attraverso.
“Non hai risposto alla mia
domanda, ragazza pallida.”
“Mi chiamo Kikyou.”
Un sopracciglio alzato.
“Porti il nome di un fiore.
Ubbidiscimi, dunque. Dei fiori, come di questo bosco, io sono la regina.”
Kikyou deve lottare contro lo
sconcerto che non si lascia allontanare e anche tenere a bada la paura, perché
il potere del Kashin è tangibile e indispettirla potrebbe rivelarsi pericoloso.
“Perché sensei Nobunaga ti ha
portata qui? Quale ragione …?”
“Che importanza ha? Perché il mio
amato mi sta ignorando? Rispondi!”
Occhi scuri incrociano occhi
verdi. Kikyou si piega in una riverenza.
“Permettetemi di scoprirlo, mia
regina.”
Il Kashin la scruta piena di
sospetto, poi annuisce secca.
Kikyou leva il suo canto,
lasciandolo rimbalzare tra Weize e Nobunaga, la voce incerta, l’orecchio teso,
alla ricerca di quel che il suo sensei vuole farle capire.
Le pupille le si dilatano per il
panico quando tocca le radici del Kashin. Radici affondate fin nel profondo
nella tamashii del suo sensei.
“Sono stata portata qui per
ucciderti, Kashin.”
Una voce di ragazza, tremante ma
bella, carezza il suo orecchio e svanisce.
“Cosa?” Onigumo inclina il capo
in ascolto.
Weize si mette a ridere di una
risata colma di disprezzo.
“Mio piccolo fiore, è molto
sciocco da parte tua covare simili pensieri e, soprattutto, condividerli con me
a voce alta.”
Torce la mano affusolata che un
attimo prima era posata lieve sulla sua bocca e Kikyou viene scaraventata a
terra in un battito di ciglia.
“Provaci, ragazzina.”
Kikyou torna in piedi con una
torsione. La sua avversaria ha un sorrisetto divertito e attende a braccia
conserte.
“Non te ne sei accorta, Kashin?”
dice, invece di attaccare. Ingaggiare battaglia col Kashin potrebbe esserle
fatale.
“Di cosa mi sarei dovuta
accorgere, piccolo fiore?” Divertita. Ma forse la luce verde dei suoi occhi ha
tremolato?
“Lo stai consumando. Non dirmi
che non ti sei resa conto che lo stai consu …”
Kikyou si ritrova sbattuta a
terra sulla schiena, senza fiato, le costole le scricchiolano. La barriera
sacra che ha provato a levare per proteggersi è finita sbriciolata in un
istante.
“Non so di che parli, piccolo
fiore.”
Kikyou solleva il collo,
sbattendo le palpebre per scacciare i puntini luminosi che ballano nel suo
sguardo. Si rialza in piedi, usando l’arco per fare leva. Sfila una freccia
dalla faretra e la lascia partire con tutta la sua velocità e la sua letale
perizia. La freccia si incendia di luce bianca, ma si blocca a mezz’aria per
spezzarsi con uno schiocco secco.
“Ti ho vista combattere, piccolo
fiore. Sì, sei abile. Ma non abbastanza, credimi.”
“Sensei Nobunaga ha affidato a me
la sua vita fino al termine della mia prova. Non dirmi che non sapevi quello
che …”
Weize le balza contro, buttandola
a terra per la terza volta. Il volto bellissimo e contorto dalla furia è a
pochi pollici dal suo, i polsi imprigionati in una morsa. Kikyou invoca tutto
il suo potere e le basta appena per impedire al Kashin di fracassarle le
braccia.
“E’ malia, mia regina. Non amore.
E lo sta uccidendo.”
“Bugiarda!” ringhia. “Noi ci
amiamo! Non me lo porterai via! Sarò io a uccidere te!”
Kikyou riprende il suo canto
interrotto.
Non si è mosso. Nulla si è mosso.
Aspetta, il respiro lento, i peli delle braccia ritti per la tensione. Non se
l’è immaginato. Aspetta.
Poi sorride.
Il canto di ragazza è
ricominciato.
Weize trattiene al suolo con
violenza la ragazza pallida. Se non stesse usando il suo potere per
proteggersi, l’avrebbe già uccisa. Ma non importa. E’ una questione di tempo.
Non sarà in grado di resistere ancora per molto e neppure lotta per sfuggirle.
Il piccolo fiore non potrà
sopravvivere a lungo; e questo perché, come tutti i fiori …
Weize si irrigidisce, il pensiero
spontaneo nato nella sua mente la trafigge come se fosse la punta della freccia
che ha spezzato poco fa.
Il piccolo fiore, ragazza
pallida, Kikyou, torce la bocca nella
smorfia di un sorriso, parlandole attraverso il suo canto.
“Lo hai capito, vedo, Kashin. Lo
sai, no? Quanto vive un fiore, intendo.”
Weize si ritrae con un urlo di
angoscia, cadendo sui gomiti e pedalando coi talloni per allontanarsi da
Kikyou.
“No! Ragazza malvagia! No, no!
Malvagia e bugiarda!”
Gli occhi scuri e gelidi della
ragazza la imprigionano.
“Lo hai sempre saputo, Kashin. Lo
hai sempre saputo, ma hai preferito ignorarlo. Lo chiami amore?” La ragazza
malvagia ride con un disprezzo non dissimile a quello che lei le ha riservato
poco prima. “Se fosse amore ti saresti fermata.”
Weize si ricompone, chiudendosi
al dolore per non mostrarlo alla ragazza malvagia che la vuole uccidere.
Non tremerà e non avrà paura. Non
ha mai avuto paura con il suo amato accanto e se dovrà morire oggi non lo farà
tradendo quello che è sempre stata.
Si rizza in piedi, gettandosi i
capelli all’indietro.
“Ti sbagli, Kikyou. Puoi crederlo
se vuoi, ma sbagli. L’amore non è fatto per lasciare andare chi si ama.”
La ragazza malvagia si rialza
anch’essa.
“Dagli il nome che preferisci,
Kashin, ma lo stai uccidendo. Quel che c’è fra voi non è permesso, né tra la
mia gente, né tra la vostra. Tu lo sai il perché. Per quanto lui sia forte, il
suo bisogno lo sta distruggendo. Per quanto tu
sia forte, il tempo della fioritura è già finito. Con tutto il tuo potere, non
potrai tenere a bada la morte ancora per molto.”
Weize trema, ferita dalle parole
gelide della ragazza.
“Sei crudele. Io l’ho amato da
sempre. Non posso fare altro, perché quello che sono non si può cambiare. Cosa
faresti tu al mio posto, piccolo fiore?”
Kikyou non le risponde, immobile.
Weize alza la faccia verso la
burbera faccia gialla e sorride. No, non c’è ragione di avere paura davanti a
questa ragazza.
“Hai ragione, piccolo fiore.”
Annuisce, come se Kikyou le avesse risposto, il volto baciato di continuo dalla
burbera faccia gialla. “Io sono quella che sono e non posso essere diversa,
proprio come te.”
Incrocia di nuovo i suoi occhi in
quelli scuri della ragazza.
“Io sono stata fatta per amare,
anche se tu credi che non ne sia capace. E tu, che invece sei umana, sei stata
fatta per il vuoto. Perciò, anche se oggi tu mi ucciderai, io piangerò per te,
piccolo fiore.”
La ragazza non riesce a
nasconderle il suo stupore. Weize sorride mesta e si inginocchia vicina al suo
amato, accarezzandogli il braccio.
“Davvero il mio amore vi sta
uccidendo, mio amato? Mi dispiace. Perdonatemi! Non è mai stata mia intenzione
farvi del male. Se devo morire per voi, morirò. Sarò coraggiosa. Voi mi avete
sempre detto quanto io sia …” La gola stretta, non riesce a andare oltre.
Stringe il braccio che sta accarezzando, si avvicina alla bocca del suo amore
per baciarlo un’ultima volta. “Non potete dirmi addio, almeno, mio amato? Non
vi chiederò niente di più. Solo quest’unica cosa.”
Freme, piena della speranza di
sentire la sua voce. Sfiora le sue labbra con le labbra.
Nulla.
Si alza un’ultima volta, le
spalle dritte di fierezza, e annuisce.
“Ho capito.”
“Fai quel che devi, piccolo
fiore.”
Cammina a passo svelto nella
direzione del canto. Vuole sbrigarsi, vuole trovare la proprietaria di quella
voce prima che si azzittisca. Vuole vedere. Vuole ascoltare.
Vuole.
Ora che il Kashin le ha dato il
permesso e se ne sta diritta di fronte a lei, vicina al suo sensei
inginocchiato, e la fissa con occhi verdi e lucidi, Kikyou esita. E’ così bella
e così … così …
Scrolla la testa. No: è solo la
malia del Kashin, nient’altro. Deve stare attenta a non farsene irretire come
ha fatto Nobunaga. Ma adesso, come farà?
Il Kashin le sorride per la prima
volta da quando si sono incontrate e il suo sorriso ha il potere di
trasformarle il viso in qualcosa di ancora più bello, luminoso e impavido.
“Non sai come fare, piccolo
fiore? Se mi uccidi ucciderai anche lui, giusto?”
Kikyou annuisce, troppo sorpresa
per rispondere.
“Il mio amore ha fatto radici
dentro il mio amato. C’è solo una cosa da fare, dunque. E se lui ti ha portata
qui, vuol dire che è convinto che tu ne sia capace.”
Kikyou si piega per la seconda
volta in una deferente riverenza: ma questa volta non c’è inganno nel suo
gesto.
“Siete davvero coraggiosa, mia
regina. Ora capisco perché sensei Nobunaga vi ama.”
Kikyou si abbandona alla musica,
lasciandosene catturare, e intreccia il suo canto con la danza.
Miko-mai.
C’è una radura e quando Onigumo
scosta i rami di un salice la scena che gli si presenta non ha alcun senso, e
lui si chiede se per caso non è impazzito come l’ubriacone gli ha detto che
sono impazziti i pochi sopravvissuti usciti dal bosco.
Cosa ci fa qua un giardino? Un
giardino piccolo, ma completo in ogni suo aspetto, compreso uno di quegli
odiosi sozu che con il loro tonfo
continuo gli han sempre allegato i denti.
E poi c’èun vecchio prete con il naso schiacciato che
se ne sta in ginocchio a occhi chiusi.
E c’è, e questo è interessante,
una ragazzina dai folti capelli neri, vestita di bianco, che gli gira la
schiena. E’ lei la cantante la cui voce l’ha attirato sin qua. Ulteriore
stranezza, sembra che la ragazza stia parlando mentre canta (e come ci
riesce?), rivolgendosi a un invisibile interlocutore. Onigumo strizza gli occhi
in due fessure: no, non c’è nessun altro. Che succede?
Ma la silenziosa domanda viene
subito dimentica, perché in quel momento la ragazzina solleva un braccio al
cielo e, piegandosi nella movenza più aggraziata che Onigumo ricordi di aver
mai visto in vita sua, comincia a danzare.
E’ come se le radici del Kashin
fossero abbarbicate alla musica del Fato. La voce di Kikyou e i suoi passi
disegnano un intrico nella terra in cui Weize è piantata, risalendo fino a
toccare la tamashii di Nobunaga. Il tumulto combinato delle passioni del suo sensei
e del Kashin la colpiscono con tale violenza da farla urlare e perdere
l’equilibrio. Si sente un pescatore che affronta la più violenta tempesta su
una fragile barchetta.
La ragazza fa qualche passo di
danza, ma cade a terra con un grido. Scuote la testa e sembra che rialzarsi in
piedi le costi fatica. Apre e chiude le mani a pugno.
Poi leva di nuovo il canto e lo
splendore della sua danza gli strappa un rantolo rauco dalla gola.
Kikyou afferra la prima radice
del Kashin, sciogliendone il viluppo attorcigliato attorno all’anima del suo sensei.
Dolore come lame le si conficca nei polpacci, più intenso a ognuno dei suoi
passi di danza.
La ragazza sta ballando intorno
al vecchio inginocchiato, ma Onigumo ha occhi solo per lei. Non ha mai veduto
niente di altrettanto meraviglioso. Se solo riuscisse a guardarla in viso. Se
solo …
Appena sotto al canto, il
sommesso brusio si fa risentire.
Per ciascuna delle radici che
riesce a strappare, il dolore si fa più straziante, tormentandole il cuore come
non avrebbe mai creduto. Lacrime le scorrono lungo le guance e tutta la forza
del suo addestramento è ridotta a niente. Sposta lo sguardo da Nobunaga a
Weize. Molti dei petali della peonia si sono arricciati, perdendo il loro
vigoroso violetto per diventare di uno spento color marrone.
Ma il Kashin non sembra
spaventata. La sua bellezza è intatta e quando si accorge che la sta fissando,
le sorride per incoraggiarla.
Kikyou avverte qualcosa
rivoltarsi dentro di sé. Scuote la testa, pur senza smettere di ballare e
cantare.
“No, non ci riesco, non posso.
Non credevo che ...”
Il Kashin le muove incontro e
solo allora Kikyou si accorge che numerosi squarci si aprono sulle sue caviglie
e sui piedi. Lascia dietro di sé impronte sanguinolente sull’erba mentre le si
avvicina per sorreggerla, prendendole un gomito.
“Stai facendo bene, piccolo
fiore. Non fermarti adesso.”
E poi Weize le mozza il fiato per
l’incredulità quando, con voce soave e sicura, affianca al suo canto uno dei
canti di potere di sensei Nobunaga.
La ragazza incespica, ma ritrova
l’equilibrio in qualche modo. Però ha rallentato i suoi movimenti. Se dovesse
girarsi verso l’albero dietro il quale è nascosto, se i suoi capelli si
scostassero al momento giusto, allora forse potrebbe …
Il brusio nelle sue orecchie
aumenta di qualche ottava. Onigumo irrigidisce di scatto le spalle, le narici
dilatate come un animale, il suo sopraffino istinto di sopravvivenza all’erta
come non mai. Dimentica la ragazza per una manciata di secondi, dardeggiando
l’oscurità alle sue spalle. Il gelo del bosco gli serra lo stomaco.
Sostenuta dal canto del Kashin,
Kikyou sente nuovo vigore scorrere dentro sé e riesce a recidere le ultime
radici.
Weize le sorride mentre il suo
corpo impallidisce.
“Mi dispiace! Mia regina! Weize!
Mi dispiace, oh mi dispiace tanto!”
Il suo nuovo corpo sta
scomparendo e, anche se lei sa che non ce ne saranno altri, non è spaventata.
Nei pochi giorni della sua fioritura ha conosciuto il compimento della sua
vita. Cosa può chiedere di meglio, un fiore?
La sua voce si affievolisce,
incapace di proseguire il canto d’amore che il suo amato cantò per lei la
mattina in cui la vide sbocciata. Le guance del piccolo fiore sono solcate di
lacrime, poiché si è presa carico del dolore di tutti loro. Le sorride.
Vorrebbe dirle che non la odia, che le è grata per avere salvato il suo amato.
Schiude la bocca, ma proprio in quel momento un gelo nuovo la ferisce. C’è
qualcosa nascosto dietro a un salice. Qualcosa di morto e che, come tutte le
cose morte, era fin’ora riuscito a sfuggire alla sua vista, ma che adesso sta
prendendo vita.
L’immagine che si presenta alla
sua mente è quella di un bruco: uno di quei grassi, bianchi bruchi ciechi,
ottusi e sempre affamati, tutti zampe e denti, uno di quei mostri che Nobunaga
teneva lontano dal giardino in cui ha trascorso la sua infanzia. Oh sì, certo,
quei bruchi a volte diventavano delle bellissime farfalle. Ma non questo: ciò
che è destino debba nascere da questo bruco è nero e informe, mostruoso oltre ogni
immaginazione, ed è un pericolo. E c’è un fiore in particolare, che questo
bruco vorrà divorare a qualsiasi costo.
Weize prova a sollevare il
braccio, ma si accorge di essere caduta in ginocchio senza accorgersene. Kikyou
sta ruotando su se stessa negli ultimi passi di danza, il canto sta
raggiungendo l’apice.
“Attenta, piccolo fiore!” la sua
voce è inudibile. “Nessun fiore è destinato a vivere a lungo. Stai attenta!
Attenta all’Oni!”
La danza e il canto della ragazza
sono di una tale, struggente bellezza, da lasciarlo paralizzato. Cos’è questo
nodo nel fondo della gola? E adesso la ragazza sta per voltarsi proprio di
fronte a lui. Vedrà il suo viso. Eppure il gelo è più fitto che mai, gli entra
nelle ossa, il brusio nelle orecchie cresce e cresce, diventa un ronzio, gli
trapana il cranio, quasi sembra che ci siano parole e lui non deve udirle,
altrimenti …
La gola strozzata, Onigumo geme
un rauco “No!” e si schiaccia le mani sulla faccia un momento prima che la
ragazza si volti del tutto.
Guarda. Guarda la tua morta sposa, morto dentro. Guardala e datevi l’un
l’altra l’unico amore che vi meritate.
Le mani schiacciate in faccia
come un bambino, Onigumo divarica un po’ le dita.
Kikyou intravede soltanto il
Kashin, tra le lacrime che le velano gli occhi, crollare in ginocchio,
sorridente alla morte. Poco prima di svanire per sempre, ritornando alla terra
che le ha dato la vita, la sua espressione cambia e muove le labbra come per
dirle qualcosa.
Attenta, piccolo fiore. Nessun fiore è destinato a vivere a lungo.
Non capisce se aggiunge altro. Il
corpo pieno di ferite si accascia e Kikyou assapora, indifesa, la sua morte.
Le sue dita si divaricano, contro
la sua stessa volontà, il bisogno di sbirciare è irresistibile, vedere i
lineamenti della ragazzina vestita di bianco, chissà chi è, chissà com’è fatta,
chissà …
Con un ringhio, Onigumo si torce,
scostando la testa come se avesse ricevuto un pugno, cade a quattro zampe e
gattona, goffo, allontanandosi dal giardino e dalla ragazza che sta ballando.
Guarda, Onigumo. Guarda. Morto dentro, guarda.
“Ah-ah, no, non va bene, no non
oggi, ci sarà già un’altra volta oggi no, no, no …”
Borbotta le sue smozzicate
negazioni senza avvedersene e scappa quasi strisciando dal più grave pericolo
che abbia mai conosciuto.
Nobunaga solleva le palpebre e si
poggia il palmo sul petto, dove pulsa un vuoto doloroso e desolante.
Kikyou è inginocchiata e sta
piangendo in silenzio accanto alla peonia annerita e morta fino alle radici.
Nelle mani a coppa regge la corolla, tutta grigia e marrone e consumata. La
culla piano e lui la sente mormorare tra le lacrime.
Si avvicina e coglie qualche
parola tra i singhiozzi.
“Mia regina perdonatemi, mi
spiace, non volevo! Oh, guardate cosa vi ho fatto, io …”
Le posa la mano sulla spalla, ma
Kikyou se la scrolla via con un grido, travolgendolo con un’occhiata piena di
rabbia.
“Non mi toccare!”
E poi si rannicchia come se
dovesse proteggere il fiore morto che tiene tra le mani.
Nobunaga afferra la spalla
sottile della ragazza con più decisione. Stavolta lei non si sottrae,
limitandosi a piegarsi di più su se stessa.
“Kikyou.” Mormora, si china su di
lei, le scosta i capelli e le asciuga le lacrime dalle guance con il pollice.
Weize è la sola che saprebbe
riconoscere tutta la dolcezza del suo gesto.
“Kikyou.” Insiste. “In piedi.
Avanti. Alzati.”
Scrolla la testa, muta; poi posa
la corolla avvizzita accanto allo stelo morto e annuisce.
Onigumo ha corso carponi,
ignorando i palmi sbucciati, e malfermo sulle gambe ha ritrovato l’equilibrio,
senza smettere di correre neppure per un attimo. Ha i capelli ritti, ansima e
corre come se tutte le sue vittime lo stessero inseguendo: deve uscire da
questo bosco prima che il vociare nelle sue orecchie diventi intelligibile.
Altrimenti …
Lacrime asciugate, capo
orgoglioso levato, sguardo perso a scrutare lontano.
“Hai superato tutte le prove alle
quali ti ho sottoposto, miko Kikyou. Da questo momento in avanti tu sei una
miko, la più giovane che abbia mai addestrato. Dimmi: conosci ora il nome dei
tuoi più temibili nemici?”
“Sì, sensei Nobunaga.” Voce
composta, fredda quanto lo sguardo.
“Sono forse gli youkai, miko
Kikyou?”
“No, sensei.”
“Sono il dolore, la perdita, la
paura?”
“No, sensei.”
Ci sono parole nelle sue
orecchie: Onigumo si sforza di non ascoltare e corre, salta per schivare radici
che vogliono fargli lo sgambetto, ignora rami che gli frustano la faccia ed ecco
che forse c’è una luce là in fondo; in mezzo a quei tronchi finisce la tenebra
stregata del bosco dei salici …
Non vuoi vedere? Non vuoi sapere? Sì che lo vuoi. Chiedici pure, non
avere paura, chiedici il suo nome, noi che conosciamo il nome di tutte le cose
e possiamo insegnarlo a chi ci compiace. Devi solo chiedere: chiedi il suo nome.
“Dimmi i loro nomi, dunque.”
“I nomi dei miei nemici più
temibili, sensei, sono amore …”
“No, oggi no no non oggi …”
Ma c’è una parte di lui che vuole
chiedere, che vuol sapere, ed è così strano! Lui, per cui i nomi non hanno mai
significato niente.
Il suo nome, Onigumo. Il suo nome è …
K …
“ … e desiderio. Perché non c’è
barriera che li possa fermare, addestramento per tenerli lontani, disciplina
che li possa governare, equilibrio che non possano frantumare, e nella breccia
lasciata dalla devastazione del loro passaggio, qualunque cosa può entrare:
cupidigia, gelosia, pena, tristezza, paura, speranza, abbandono, gioia, bisogno
e tutte le altre cose di cui gli youkai si sfamano. E a me non sarà concesso di
conoscere …”
Lo sguardo di Kikyou è angosciato
ma fermo.
“… nessuna di queste cose.”
Urla a squarciagola per
nascondere al suo orecchio le voci invisibili e con un ultimo salto delle gambe
robuste si slancia attraverso i due salici. La luce improvvisa lo acceca e non
c’è più terra sotto i piedi, perché un declivio improvviso e imprevisto segna
la fine del maledetto bosco. Onigumo cade urlando e mentre cade il suo urlo si
trasforma in risata. Sbatte la testa e vede le stelle e ride, rotola su se
stesso, incapace di frenare la sua caduta e ride, sa che potrebbe spezzarsi il
collo e ride, mentre si rovescia di nuovo su se stesso, le gambe per aria e le
braccia davanti alla faccia e ride, e di nuovo ricade, la caviglia sbatte
contro qualcosa di duro, un sasso, la cucitura del suo stivale cede del tutto e
gli vola via e ride, tira indietro la lingua appena in tempo, prima che
l’ennesima botta gli faccia serrare i denti come una morsa col rischio magari
di mozzargliene via un pezzetto e oh! l’idea è troppo esilarante per non farlo
ridere e ridere!
Sbatte sul fondo del breve
pendio, ricadendo seduto a gambe larghe, illeso, le ossa scosse da capo a
piedi: la violenza della caduta tutta scaricata sui testicoli gli mozza la
risata in gola.
Sbianca, a un passo dallo
svenire, il dolore è una palla di piombo nel ventre, la bocca aperta e i
tendini del collo tirati in un urlo silenzioso, la mano sullo scroto e si
accascia piangente, sbuffa per riprendere fiato, ritrovandosi quasi a masticare
l’erba, oh dolore! Ma, solo pochi minuti, e tra gli sbuffi si infila suo
malgrado un cigolio sottile. Un po’ alla volta, Onigumo si rimette a ridere.
Percorrono una strada più breve
per riguadagnare l’uscita del bosco e lo fanno in silenzio, immersi ciascuno
nei propri pensieri.
Fuori alla luce, a raggiungere lo
spiazzo dal quale si sono incamminati la mattina, oltrepassato uno dopo l’altro
i tre torii, i rossi cancelli di
accesso al santuario shinto, a entrare nel recinto di pannelli di legno che
chiude il perimetro della radura sacra, accostandosi alla fonte: Nobunaga per
primo e poi lei.
Kikyou si lava le mani, prima la
sinistra, poi la destra, poi assieme, sfregandosele con forza fino ad
arrossarle; si china, trattenendo i capelli perché non le ricadano in faccia, e
procede all’abluzione rituale: l’acqua le ripulisce la bocca degli ultimi
rimasugli dell’orribile sapore del vomito.
Entrambi purificati, raggiungono
la campana del tempio. Nobunaga la invita con un cenno: Kikyou afferra la corda
ricavando un rintocco sonoro, china il capo due volte e batte le mani; di nuovo
suona la campana e si prepara ad allontanarsi, ma si trattiene, sapendo che
manca ancora qualcosa. Fruga all’interno della manica, prendendo la ciocca di
capelli che aveva deciso di conservare – le sembra sia passata una vita e non
poche ore! – e la posa accanto alla scatola delle offerte. Ripreso il cammino,
sono infine in vista del tempio vero e proprio, il Jinja: Nobunaga si lascia alle spalle le statue in pietra dei
koma-inu, i cani leone preposti a proteggerne l’entrata dagli spiriti maligni,
e le fa strada nell’unica stanza immersa in penombra.
Kikyou resta attonita per un po’,
scrutando con cura il proprio riflesso nello specchio sacro che riposa
all’interno del tempio. L’immagine è diversa da stamane – lei è diversa. La
gravità e il distacco nel suo volto e nello sguardo, la postura diritta e
solitaria: sì, il suo addestramento è davvero completo. Reprime un brivido,
lascia che gli insegnamenti appresi in tutti gli anni passati allontanino quel
che prova
(struggimento?)
e allenta i nodi della sua bianca
veste da apprendista.
Quattro i tentativi prima di
riuscire ad alzarsi da terra. Per tre volte si è accasciato, l’inguine pulsante
a spedirgli nella pancia e nelle vene sofferenza di ogni colore. E tutte le
volte, senza preoccuparsi di peggiorare il suo tormento, si è messo a
ridacchiare, piangendo ma ridendo; perdendo i sensi alcuni minuti e belando la
sua risatina ancor prima di aver ripreso conoscenza.
I suoi passi sono una tortura, il
sudore gli finisce negli occhi in grossi goccioloni, ma seguita a scoppiare a
ridere e ride come non gli pare d’aver mai riso, neppure da bambino. Le sue
sorelle e suo fratello: loro ridevano a quel modo, a volte, ma avevano imparato
presto a nascondersi da lui quando lo facevano, perché avevano scoperto a loro
spese che ridere così se lui era a portata d’orecchio scatenava una degli
incontrollabili scoppi di rabbia che di tanto in tanto lo coglievano.
Eppure adesso che assaggia la
stessa risata, non può fare a meno di pensare che sia piacevole.
Prosegue per più di due ore, il
sole inclinato nel tardo pomeriggio, il martellio nell’inguine ormai
sopportabile, e la sua allegria non si è spenta. Lo coglie alla sprovvista di
tanto in tanto e quando succede Onigumo solleva la testa al cielo ridendo, le
braccia ciondoloni nella sua andatura dinoccolata ma agile.
“Visto? Non sono quel che hai
detto, vecchia pazza.”
E continua così, parlando da
solo, sbuffando, imprecando quando un sassolino o un ramoscello gli pungono la
pianta del piede indifesa, ma traendo divertimento persino da questi piccoli
incidenti che, in un altro giorno, lo avrebbero fatto imbestialire.
Si sta avvicinando alla città di
Ishimatsu: di questo passo la raggiungerà prima di sera! Ride anche di questo e
girando la testa vede un solitario contadino con un cappello di paglia a tesa
larga, attardatosi nei campi vicino alla strada che sta seguendo, fargli un
saluto sorridendo alla sua immotivata allegria.
Onigumo gli risponde con un ampio
gesto del braccio, ghignando e sventolando le dita in un gesto quasi lezioso.
Il contadino si leva il cappello e fa un piccolo inchino. La mano destra di
Onigumo scivola dietro la sua schiena.
Gli hakama sono rossi, mentre
l’hitoe da miko è bianco ma di una fattura diversa da quello che indossava
poc’anzi. Kikyou aggiusta le pieghe delle sue nuove vesti e si lascia scorrere
tra le dita il liscio nastro bianco col quale tra poco si annoderà i capelli.
Senza smettere di agitare il
braccio sinistro, Onigumo sfila dalla cintura il pugnale e lo lascia volare a
piantarsi nel petto del contadino sconosciuto che piomba fra il grano fitto
senza neppure un grido.
“Benvenuta a voi, miko Kikyou.”
Kikyou volta la schiena alla miko
imprigionata nello specchio.
“Bentrovato a voi, houshi
Nobunaga.”
La faccia del contadino ha
conservato il sorriso col quale gli ha dato il benvenuto e forse non si è
neppure accorto di essere morto. Ci sono di sicuro molti modi peggiori per
crepare, già.
Il ghigno di Onigumo si dilata.
“Begli stivali.” Sibila, e ride.
Sono una volta di più nella
radura dalla quale tutto è cominciato. Nobunaga guarda la giovane ragazza e
deve serrare le palpebre perché davanti allo sguardo gli è danzata l’immagine
fantasma di Weize.
Perciò, incapace di trattenersi,
tradisce se stesso.
“Non andartene domani, Kikyou.”
Kikyou non aggrotta neppure la
fronte.
“Sensei, da domani non sarò più
una vostra allieva, quindi non ho ragione di restare. Come voi stesso avete
predetto, lascerò le mie stanze e il tempio per non tornare.”
“Potresti rimanere comunque, come
miko. Hai ancora molte cose da imparare: infiniti sono gli equilibri possibili
e tante le strade per smarrirli e per ripristinarli. Tu sei troppo giovane per
conoscere queste cose … e …”
Nobunaga abbassa la testa,
umiliato, quando si accorge di stare balbettando, e il viso di Kikyou si
illumina di un sorriso che la restituisce alla sua vera età.
“Non abbiate paura per me,
sensei. Sarete orgoglioso della vostra allieva, vedrete.”
“Ma io già lo sono, Kikyou.”
Torna seria per aggiungere.
“Vi chiedo un ultimo favore:
assegnatemi come miko al mio villaggio natio.”
“C’è già una miko nel tuo
villaggio, Kikyou.”
“Non più. E’ morta di tifo più di
un mese fa.”
“Capisco. Sarà come desideri,
dunque. C’è altro?”
“In quanto miko, rivendico il
diritto di scegliermi un’allieva a cui insegnare quel che so.”
Nobunaga annuisce in silenzio.
“L’anno passato mia madre mi
scrisse che mia sorella Kaede stava dimostrando anch’ella un considerevole
talento nelle arti delle miko. Designo lei a essere mia allieva e la addestrerò
al nostro villaggio.”
“Se non sbaglio tua sorella ha
compiuto da poco i sei anni, vero?”
Tocca a Kikyou annuire e Nobunaga
continua con dolcezza.
“E’ stato poi tanto terribile
crescere qua, Kikyou?”
La ragazza sgrana gli occhi,
imbarazzata.
“E i tuoi genitori? Quando è
stato?”
“Mia madre fra i primi.” Ribatte
capendo subito il senso della domanda. “Mio padre mi ha scritto di averla
seppellita lui stesso. Lui ha resistito più a lungo. Ventun giorni fa. Il
messaggero è partito con la sua missiva subito dopo.”
“Mentre Kaede …”
“Lei non si è ammalata, grazie ai
Kami.”
“Potreste restare entrambe …”
riprova lui.
“Vi ringrazio, sensei, ma
preferisco occuparmene io.”
“Come vuoi: ma stai attenta
perché, vedi?, non sei ancora tornata a casa, ma tua sorella ti sta già
insegnando ad amarla.”
Kikyou ha un’aria sorpresa.
“Insegnando? Sarà lei la mia
allieva, sensei: io insegnerò a lei. Io a lei, non lei a me.”
Il silenzio attonito che segue la
sua ultima dichiarazione viene rotto quando entrambi si mettono a ridere,
spazzando via l’oppressione lasciata della giornata.
“Ho detto davvero una cosa del
genere? Oh, sensei, sono più provata di quanto credessi!”
Il giorno successivo, salutata
per l’ultima volta la sua allieva prediletta, Nobunaga sarebbe restato a badare
al giardino fino a sera, contemplandone la bellezza perfetta eppure spoglia,
tastandosi di tanto in tanto il petto per saggiare le cicatrici rimaste dentro
di sé e leggendo il proprio destino nell’intreccio delle radici e dei fiori.
Avrebbe sospirato passandosi la mano tremolante da vecchio sul viso e sapendo
che avrebbe dovuto restituire alla terra la sua vita quello stesso inverno.
Forse chissà, così avrebbe rincontrato il suo amore.
Masashiro è in ritardo, perciò
cammina alla svelta. Il sole è quasi tramontato e lui deve rientrare in città
prima che faccia buio, altrimenti quei bastardi lo terranno fuori dai cancelli
fino all’indomani. Distratto da questo pensiero nella testa, la manata lo
colpisce tra le scapole cogliendolo del tutto di sorpresa, buttandolo in avanti
e mancando poco dal farlo cadere rovinosamente in terra. Il dolore e la
sorpresa lo fanno gridare e gira su se stesso, la mano sull’elsa del coltello,
pronto a ridisegnare in modo fantasioso i connotati dell’uomo che si è permesso
di giocargli un tiro del genere.
Le dita contratte si rilassano
non appena riconosce nella luce morente il suo misterioso aggressore.
Deglutisce e qualsiasi problema potrebbe avere con le guardie alle porte di
Ishimatsu finisce all’ultimo posto nella lista delle sue preoccupazioni.
“Proprio una giornata benedetta
dalla fortuna, già. Dunque, cosa aspetti? Non si salutano gli amici?”
“Onigumo …” Masashiro annaspa
alla ricerca di qualcosa di poco impegnativo da aggiungere: non può farci
niente, Onigumo gli mette sempre addosso i brividi. E dannazione, ma è
possibile che le loro strade dovessero incrociarsi in questo modo? “ … non ti
aspettavo prima di un paio di giorni, almeno.”
Onigumo gli sorride, mettendo in
mostra i suoi grossi denti. Ha un’aria strana: Masashiro non capisce cosa sia,
però sa che gli fa più paura del solito.
“Ho preso una scorciatoia. Sì,
davvero un giorno molto fortunato: incontrarci proprio qua ne è un degno
coronamento. Chi l’avrebbe mai detto, eh?” e gli rifila un’altra pacca sulla
spalla.
Onigumo non è mai così espansivo,
euforico. E i suoi occhi, che di solito sono sempre cupi, spenti, da
ricordargli pozze di sabbie mobili, gli brillano di una luce strana. La paura
di Masashiro diventa terrore quando capisce che in questo momento Onigumo
potrebbe ucciderlo senza ragione, per il solo gusto di festeggiare a modo suo
la sua oscura allegria.
“I compagni di cui mi avevi
parlato? Sono rimasti più indietro, lungo la strada?”
Onigumo esplode in una risata che
è un grido, come avesse sentito la battuta più spassosa della sua vita. Le
ginocchia di Masashiro tremano e sfiora senza volere l’elsa del coltello.
“Sì, l’hai detto! Erano un
bagaglio inutile e li ho lasciati indietro lungo la strada, sìsì.”
“Ma cosa fai con quel coltello,
eh?”
Fa un sorriso sciocco e apre le
mani vuote. “Nulla. Piuttosto, vogliamo andare? Immagino che vorrai riposare in
una bella locanda in città, vero? Avanti, ho già in mente un alloggio adatto.
Ti piacerà!”
Onigumo scrolla la testa su e
giù, invitandolo con la mano a procedere, e Masashiro si avvia, rilassandosi
appena. L’ha scampata bella, ne è sicuro: c’è qualcosa addosso a Onigumo,
stasera, come un’ombra, un riflesso, che trasforma i suoi intestini in acqua;
ma se starà attento …
Ricordandosi uno dei passatempi
preferiti di Onigumo, aggiunge.
“E ci sono delle ragazze davvero
graziose, tra l’altro, pronte a farci compagnia per un prezzo ragionevole. Se
il colpo che avevi in mente è andato bene come credo, non avrai difficoltà a
comprarti una nottata piacevole. Immagino che dopo un viaggio faticoso un po’
di svago sia quello che …”
La grossa mano di Onigumo gli
serra una spalla costringendolo a ruotare su se stesso. Con un gridolino di cui
fa in tempo a vergognarsi, Masashiro chiude gli occhi, sicuro che sia arrivata
la sua ora. Onigumo gli stringe l’altra spalla con la mano libera. Masashiro
schiude le palpebre, trovandosi a scrutare lo sguardo smorto e cupo dell’altro.
Ma non sono solo i pazzi a cambiare umore da un momento all’altro in questo
modo? Sì: però Onigumo non gli ha mai dato l’impressione di essere pazzo. Quasi
lo preferirebbe.
“Non ho mai pagato per possedere
una donna.”
“Ce-certo, Onigumo, scusami non
intendevo dire …”
Gli stringe le spalle con più
forza.
“Né mai avrò bisogno di farlo.”
E poi Masashiro vede l’esatto
momento in cui la vita sembra ritornare una volta ancora in quegli spenti occhi
marrone, illuminandoglieli. Onigumo gira la testa a sinistra, come attratto da
un richiamo.
“Forse.”
Gli lascia le spalle, gli
aggancia un braccio al collo e lo trascina a grandi passi verso la città.