Ainadamar di stormy (/viewuser.php?uid=696)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - Argento ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - Porcellana ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Oro ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno - Argento ***
Questa
storia nasce dopo un’ispirazione improvvisa,
dovuta a una festa in pieno stile Middle-Earth con tanto di
“lembas bread” &
“ale”.
A
dire il vero era da tempo che pensavo ad una storia del
genere.
Il
protagonista è Frodo, il personaggio che più
adoro in
assoluto.
Ho
sempre ritenuto perfetto il finale scritto dal mio
caro compaesano Tolkien, ma non nego che la curiosità sul
destino del Portatore
dell’Anello è rimasta.
Di
fatto abbiamo poche certezze e si può solo immaginare
quale sia stata la sua Eternità.
È
infine davvero guarito?
Oppure
le ferite continuano ancora a tormentarlo?
Questo
è un mio tentativo di risposta.
Perché
poi una sudafricana scrive in una lingua non sua,
su un sito italiano di ff? Ebbene è stato quando ho vissuto
in Italia che sono
passata dall’altro lato della barricata, non limitandomi
più a leggere ma
iniziando appunto a scrivere. Continuo su questa linea insomma.
È
stato così che ho conosciuto delle persone speciali,
come Silvia,
alla quale dedico
questa storia insieme a Sascha, colui che di fatto è il mio
Sam. ♥
Prima
di lasciarvi sappiate
che tutto quanto di nuovo troverete e soprattutto non conforme agli
scritti del
“maestro”, sono mie licenze poetiche. E abbiate
pietà di me se c’è qualche
strafalcione che non ho notato o che alle mie orecchie suonava invece
bene…
Vi
lascio alla lettura
___________________________
How do you pick up the threads of an old life?
How
do you go on, when in your heart you begin to understand there is no
going
back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go
too deep,
that have taken hold…
AINADAMAR
Capitolo
uno
Argento
Passi
leggeri riecheggiavano appena per il lungo patio.
Il
pavimento rivestito da losanghe di marmo candido, scolpite finemente da
motivi
modulari.
Un
giardino magnificamente tenuto.
Un
mare di verde.
Un’intricata
quanto perfettamente studiata trama di rami e foglie lussureggianti.
Siepi
basse e curate dalle abili mani di giardinieri a fiancheggiare un
brevissimo
sentiero.
Una
fontana seminascosta e imponente.
Il
rumore discreto e musicale dell’acqua, ritmico nella sua
melodia interiore e
priva di spartito cartaceo, a fungere da sottofondo a quella notte
altrimenti
silenziosa.
Assenza
di suono.
La
logica conseguenza della fine del giorno che da qualche ora aveva
ceduto alle
lusinghe delle tenebre.
Quiete.
Il
riflesso dell’anima di coloro i quali dimoravano in quelle
Terre Imperiture e
le cui vite erano rientrate nei binari della tranquillità.
Ora
che la minaccia dell’Anello era stata sventata e la spirale
impazzita di sangue
scarlatto allontanata definitivamente.
Per
tutti.
Per
tutti…?
La
Luna si stagliava contro la nera ardesia di una cupola eterea infinita
e
sgombra di nubi.
Signora
della notte.
Maestosa.
Regale.
Distante.
Una
nota disarmonica.
A
conferma di ciò, un tremito gelido attraversò la
schiena della figura che
percorreva lentamente lo spazio semicoperto.
Il
marmo sembrava riflettere e ridare all’esterno la freddezza
di quella luce
serica. Esattamente come accadeva di giorno, quando a essere assorbito
era
invece il calore dei raggi del Sole. Nelle ore nelle quali la canicola
era
maggiore, la pietra lattiginosa assumeva una tonalità di
bianco insopportabile
agli occhi. Quel candore feriva brutalmente le iridi e marchiava a
fuoco le
piante dei piedi di quanti si avventuravano per quei corridoi senza
calzature.
Lui
era uno di quelli.
Gli
occhi, di un azzurro intenso, sembravano enormi su quel volto pallido.
La
fronte appena velata da gocce opalescenti di sudore freddo.
L’andatura sicura,
sebbene non esattamente vigorosa.
Si
fermò.
Distolse
lo sguardo dalla sua guida notturna.
La
Luna.
Colei
che gli aveva provocato quel senso di malessere.
Era
raro in lui.
Era
raro in qualsiasi creatura della sua specie.
Abituato
alla vita a stretto contatto con la natura e gli elementi che la
costituivano,
dal più banale stelo d’erba coperto dalla rugiada
del mattino sino ai più alti
rappresentanti, quali erano gli Astri, aveva finito con lo stabilire
loro dei
legami di tipo quasi panico. Come li avesse personificati. Li
rispettava come
era solito fare con qualsiasi altro Hobbit, Elfo, Nano o rappresentante
della Gente
Alta che conoscesse. Aveva imparato a non temerli, piuttosto ad amarli.
Nel
caso particolare della Luna poi, aveva sempre sorriso alle notti nelle
quali,
piena, era visibile in tutto il suo splendore, esattamente come soleva
salutare
le giornate ridenti di Sole, riscaldate dai raggi fecondi.
Poi
qualcosa era cambiato.
Durante
i mesi nei quali aveva vagato per la Terra di Mezzo.
In
quell’occasione aveva smesso di guardare alla Luna
positivamente. Aveva
iniziato a non soffrirne più la presenza, a non trovare
più in lei nessuna
bellezza, nessuna traccia di maestà.
Solo
un profondo senso di amarezza.
Era
diventata l’icona di quella parte del giorno, inteso come
entità di
ventiquattro ore, che non riusciva più a considerare come
ristoratrice o
confortante.
Precisamente
di notte tutti i pensieri funesti tornavano in superficie con maggiore
prepotenza, rendendogli impossibile il riposo, penoso il trascorrere
delle ore,
lì a occhi spalancati aspettando il sorgere del Sole, ed
insostenibile il peso
del fardello che aveva finito per trascinare avanti sempre con maggiore
fatica.
Un
semplice cerchietto d’oro, contenente un potere negativo di
incommensurabile
proporzione ed effetto.
Un
Anello che aveva deviato il tranquillo corso della sua esistenza.
Un
Anello che si era impossessato a tratti della sua mente, smuovendo le
acque
della sua solitamente affabile natura, rendendolo scontroso, bramoso di
un
potere che non gli era mai interessato, rendendolo cieco di fronte
all’evidenza, facendogli allontanare da sé il
leale Samwise e dare invece
ascolto alla volontà malata e infida di Gollum.
Gli
occhi, allontanati dal disco argenteo notturno, si posarono sul marmo.
Lo
sguardo si focalizzò sull’ombra grigio chiaro che
si stagliava longilinea sulla
pietra cesellata ad arte e lucida di fronte a lui.
“Sam…”.
Un
sorriso triste gli incurvò i lineamenti dolci del volto.
L’ovale
sorridente e appena paffuto dell’amico gli riempì
la memoria.
Fotogrammi
della loro vita nella Contea, poi altri in viaggio per Terra di Mezzo,
gli attimi
di sconforto, le incomprensioni, le lacrime che avevano versato allo
stremo
delle forze, Sam che lo proteggeva da Gollum…
“Gollum…”.
Gli
occhi si chiusero, mentre il ricordo di quell’essere di
difficile
classificazione, il risultato della deformazione di colui che un tempo
era
stato lo Hobbit Sméagol, sostituiva quello malinconico, ma
indubbiamente
positivo e ricco di calore di Sam.
Una
strana morsa gli contorse lo stomaco, mentre il corpo si irrigidiva
dolorosamente e le mani si stringevano a pugno. Violentemente e in un
gesto
poco consono per lui. Respirò profondamente, cercando di
allontanare quel
disagio e quello strano sapore metallico che si stava impossessando del
suo
palato. Dovette passare qualche istante, prima di riaprire gli occhi e
voltarsi
dietro di sé.
Un
riflesso incondizionato, che non aveva potuto evitare, le iridi che si
muovevano guardinghe come a temere l’arrivo, tanto
inaspettato quanto
repentino, dell’essere che aveva cercato di ucciderlo.
Ancora
rivedeva la schiena arcuata e attraversata da
un’evidentissima spina dorsale a
tendere il sottile strato di pelle grigio-rosa malsano di quel corpo
semi-deformato, ma incredibilmente agile, dinoccolato e resistente. Poi
quegli
occhi spropositati ad occupare un buon settanta per cento del volto
grinzoso di
colui che era stato un membro della sua stessa specie.
E
poi quella voce, sibilante e in grado di assumere più
tonalità ingannevoli. Da
quella spietata e avida di Gollum, a quella lamentosa e infantile di
Sméagol.
…
il mio tesoro…
Ma
era stato Gollum a vincere in quella faida bipolare.
Quello
stesso essere verso il quale aveva mostrato più volte
pietà.
In
maniera inspiegabile per Samwise.
In
maniera del tutto logica per lui, invece.
Gollum,
ai suoi occhi, non era mai stato troppo diverso dall’essere
nel quale lui
stesso era andato trasformandosi durante l’Avventura
dell’Anello. Aveva rivisto
in lui la sua stessa corruzione, sebbene ad un livello molto
più avanzato.
L’ex
Hobbit aveva, infatti, ceduto completamente alla brama effimera del
potere
dell’Unico Anello.
Lui
no.
Aveva
allontanato il torpore che aveva sopraffatto le sue membra esauste e la
sua
mente continuamente sottoposta all’invito mellifluo della
voce di Sauron,
proprio nell’attimo immediatamente precedente
l’azione che aveva rischiato di
compromettere l’esito positivo dell’Impresa.
Salvandosi.
Salvandosi…?
Sospirò
ingiungendosi di calmarsi.
Gollum
era morto.
La
lava incandescente aveva liquefatto il suo essere, insieme
all’Anello che si
era impossessato della sua anima dannandola e degradandola.
Proprio
dopo essersi appropriato di Lui.
Il
tesoro così chiamato, l’aveva voluto per sempre
con sé, in quel mare
gorgogliante di bollicine sature di gas e zampillante di schizzi
iridescenti,
cangianti, dall’arancione più vivido al giallo
più puro e rovente.
Uno
scherzo del destino.
…
il mio tesoro…
Spostò
le iridi, che ora mostravano appena i residui di quello stato di
agitazione,
soffermandole sui contorni del paesaggio che lo circondava e poi sulla
seconda
ombra proiettata dalla Luna. Dietro di sé e appena
più chiara di quella che si
stagliava sul lato opposto.
Due
ombre che prendevano vita dalla base dei suoi piedi, appena divaricati.
Piedi
da Hobbit.
Non
troppo piccoli, candidi e coperti da una curiosa peluria.
Due
ombre lunghissime.
Sorrise
impercettibilmente e per un attimo in maniera spontanea.
Per
i suoi piedi buffi, per la sua ombra altissima.
Ironia.
Può
uno Hobbit avere un’ombra così lunga?
Sì.
Scosse
la testa, mentre muoveva il busto in avanti.
L’espressione
del volto nuovamente assorta, come se quel sorriso fosse stato un
accessorio
stridente.
E
forse era così.
Se
nel vecchio Frodo della Contea la tristezza era una nota poco consona
adesso,
nel nuovo Frodo della Contea esiliato volontariamente a Valinor, nel
Regno
Eterno che si estendeva al di là dei Porti Grigi, era una
caratteristica quasi
comune e spesso mal celata.
I
piedi si poggiarono con l’usuale leggerezza sugli ampi
scalini che permettevano
l’accesso al giardino. Imboccò deciso e senza
saggiare ulteriormente con lo
sguardo le silhouette delle piante maestose che conosceva ormai a
menadito.
L’aspetto
pregevole della fontana gli riempì le iridi. Come
ipnotizzato dal rumore
monotono dell’acqua limpida che scorreva incessante, si
avvicinò presso la
scultura ricavata da una nivea roccia calcarea. Il bordo della vasca
inferiore
gli arrivava all’altezza del petto, pur non essendo questa
esageratamente
elevata.
Alzò
il mento e osservò il corpo centrale, dal quale sgorgava il
flusso in tanti
getti copiosi. Sollevandosi poi sulla punta dei piedi,
poggiò le mani
sull’estremità della vasca e sporse in avanti il
volto, studiandone
l’improvviso riflesso emerso sulla superficie dello specchio
d’acqua, mosso qua
e là dagli zampilli che vi si tuffavano dentro.
Il
quadro che ne risultava era un primo piano tremolante e non
perfettamente
visibile a causa dell’ombra prodotta dalle fronde degli
alberi più imponenti.
“Frodo
Baggins…”.
La
voce del piccolo Hobbit modulò il suono come assente e con
un’intrinseca nota
d’incertezza.
Quasi
un volersi chiedere:
Sono
davvero io?
O
forse, più precisamente:
Sono
ancora io?
“Frodo
Baggins…”.
Di
nuovo, a voce più alta, il giovane originario della Contea
ripeté il proprio
nome, cercando di coglierne l’essenza e sforzandosi di capire
se quelle due
parole lo rappresentassero ancora.
Non
stentava a credere che molti avessero di lui un’immagine
diversa. Memorie
relative a un essere allegro, solare, gentile. Tutto parzialmente vero.
Era
rimasto cortese, questo sì, ma per il resto era cambiato.
L’aver
distrutto l’Anello e l’aver ricondotto
l’anima nera di Sauron laddove non
poteva più nuocere, non aveva avuto come conseguenza
scontata l’estinzione del
fardello che gli aveva gravato sulle spalle.
Era
rimasto un qualcosa.
Un
residuo duro a morire.
Una
sorta di demone che gli impediva di godere appieno della vita
nell’accogliente
Contea che gli aveva dato i natali, facendolo sentire fuori luogo,
senza motivo
apparente.
Peregrin
Took, Meriadoc e Samwise erano riusciti a riadattarsi nuovamente alle
loro
routine precedenti la creazione della Compagnia.
Lui
no.
Era
un suo problema dunque.
Era
un malessere al quale egli stesso non sapeva dare un appellativo, ma
che
avvertiva, inequivocabilmente.
Senza
nome.
Un
male oscuro.
Ma
era lì.
Con
lui.
Non
lo aveva del tutto abbandonato.
Nemmeno
in quel di Valinor.
Nella
terra della letizia e della gioia imperiture.
Nella
terra dei Luminosi per antonomasia che lo aveva accolto però
ugualmente,
insieme a Bilbo, nonostante la loro natura non elfica.
Una
terra nella quale si era augurato di poter ricominciare, quasi sperando
che la
sua malinconia si dileguasse tra le acque azzurre del Mare, durante il
lungo
viaggio che li aveva fatti allontanare a Ovest della Terra di Mezzo.
Aveva
sperato che tutto svanisse in maniera impalpabile, ma al tempo stesso
decisa,
come vedeva puntualmente fare alla densa bruma mattutina, quando cedeva
il
passo ai raggi tiepidi del Sole nascente a Est.
Ma
lui stava ancora aspettando il suo Sole.
Chissà
poi se sarebbe mai sorto.
Chissà
se sarebbe mai giunto.
Chissà
se lo avrebbe mai trovato.
Sarebbe
mai riuscito di nuovo ad alzarsi al mattino serenamente, al colmo
dell’aspettativa nei confronti del dì nascente?
E
si sarebbe mai di nuovo coricato a letto la sera, soddisfatto della
giornata
appena trascorsa e desideroso quindi di concedersi un riposo
ristoratore?
Sarebbe
mai di nuovo riuscito a sedere a tavola e concedersi un pasto di quelli
luculliani, tanto cari agli esseri della sua specie, e indice della sua
ritrovata gioia di vivere?
Sarebbe
tornato mai alla sua vecchia vita?
Nemmeno
scrivere la storia nata da quei mesi di avventura, lo aveva aiutato.
Gli
incubi che spesso gli rovinavano il sonno avevano come comune
denominatore
quella strana sensazione di fastidio, irrequietezza.
Perenne
a quanto sembrava.
Eterna
all’apparenza, come la Terra che adesso lo ospitava.
Non
bastava avere accanto la presenza rassicurante di Bilbo o
dell’accorto Gandalf,
né quella discreta ma solidale degli Elfi.
Nessuna
parola gentile da loro, nessuna conversazione o gesto affettuoso
potevano
lenire quell’infelicità, quando tornava in
superficie. E non c’era modo di
prevederlo. Giungeva senza preavviso, guastando la sua permanenza in
quel luogo
deputato alla tranquillità e alla serenità per
antonomasia.
L’Anello,
in un modo o nell’altro, aveva segnato la vita del suo
Portatore, e la purezza
d’animo di colui che generosamente si era offerto per
l’incarico, pur avendo
resistito a lungo, aveva funto da terreno ideale per il Male,
anziché essere un
mezzo in più per sconfiggerlo del tutto, come sarebbe stato
naturale pensare.
L’occhio
nero di Sauron aveva avuto la sua piccola rivincita.
Il
volto tremolante, sul quale adesso aveva fissato il proprio sguardo,
non gli
propose nulla di nuovo in un certo senso. Fisicamente era ancora lui.
“Frodo
Baggins…”, formularono quasi come a se stesse le
labbra dalla linea
improvvisamente dura.
Lineamenti
armoniosi ed espressivi.
Numerosi
riccioli castani scendevano a mo’ di frangia su una fronte
pallida e ancora
imperlata di sudore, indice del suo disagio. L’aria era
appena calda, una
temperatura che difficilmente avrebbe fatto sudare se non unita a
quell’inquietudine interiore. Alcune di quelle ciocche erano
umide, più scure e
incollate sulla pelle, quelle appena più lunghe invece gli
facevano il
solletico sulla base del collo.
Due
orecchie dalla classica sagoma puntiforme facevano capolino da quelle
trame
color caffè. Il suo biglietto da visita più
distintivo in un certo senso. Una
delle caratteristiche più evidenti ad un occhio estraneo,
grazie alla quale si
comprendeva la sua natura non umana.
Anche
gli Elfi avevano quel tipo di orecchi, ma la somiglianza con gli Hobbit
si
fermava lì. Nulla della leggiadria dei Signori della Terra
che lo ospitava lo
caratterizzava, né tanto meno la linea particolarmente
aggraziata ed efebica
del corpo, né il portamento regale ed innato. No. Suoi erano
invece l’altezza
non esaltante, il fisico appena tozzo sebbene snello e niente affatto
grossolano nei movimenti, e in generale un sembiante che ispirava
istintivamente simpatia e senso di protezione nelle creature delle
altre
stirpi.
Il
suo aspetto lo faceva sembrare ancora un bambino per via dei tratti
delicati e
fanciulleschi che gli schizzavano la superficie ultimamente cerea del
volto.
Gli
occhi erano comunque senza dubbio il dettaglio di maggiore rilevanza.
Gli
occhi di un saggio sul volto di un bambino.
Occhi
screziati da lame argentee a farsi beffa, con la loro perfezione, della
luce
lunare e a rifletterla, contemporaneamente, in un inconsueto gioco di
specchi.
L’iride
di un azzurro intenso era per l’appunto arricchita da quella
tempesta di
acciaio splendente.
Una
smorfia di sofferenza modificò quel quadro stabile. Le dita
delle mani
strinsero con maggiore determinazione il bordo della vasca, il corpo
divenne
all’improvviso pesantissimo e dovette poggiare interamente le
piante dei piedi,
ora incapaci di sopportare il suo pur discreto peso, a terra.
Subito,
parte dell’immagine riflessa venne meno e la testa, come
mozzata da un colpo
preciso di spada, fu visibile solo dal naso in su.
Gli
occhi.
Ancora
una volta.
Il
mezzo attraverso il quale denunciava il suo disagio.
Uno
sguardo assorto nella maggior parte dei casi, mai interamente privo di
quel
grigio antracite paragonabile a delle nuvole cariche di pioggia in un
cielo
terso sull’immacolato verde della Contea.
Si
passò una mano tremante sulla fronte, avvertendo sui
polpastrelli ghiacciati,
il sudore che imperlava in maniera malsana la pelle.
Allontanò i capelli dal
volto, come a cercare ristoro, ma il movimento gli risultò
impacciato. Sentiva
il tessuto della leggera camicia che indossava umido. Inspiegabilmente
però
aveva freddo.
E
il dolore che lo aveva riscosso dalla contemplazione meccanica e
spassionata
del proprio volto, non accennava a diminuire. Era per quella stessa
pena fisica
che si era alzato di scatto e ritrovato a sedere sul soffice materasso
della
propria camera da letto, ormai alcune ore prima. Una fitta martellante
e
persistente all’altezza della spalla, laddove il
più temibile dei Nazgûl, Witch-king,
lo aveva pugnalato, inferendogli
una ferita profonda. Era accaduto a Weathertop. Una
scheggia della lama
con cui era stato colpito si era fatta velocemente strada verso il
cuore, ma
non del tutto, grazie alle cure prodigategli da Elrond, Signore di
Rivendell.
Una
ferita dunque rimarginatasi tecnicamente dal punto di vista medico, ma
che lo
aveva tormentato durante tutta l’estensione del viaggio,
soprattutto quando i
poteri malvagi dell’Anello avevano cercato di avere la meglio
sulla sua
razionalità, oppure se si era trovato a distanza ravvicinata
dalle creature
totalmente schiave di quel cerchietto d’oro recante una,
all’apparenza
sibillina, iscrizione nella Lingua di Mordor.
Lo
stesso fastidio, sebbene con minore frequenza, si palesava quando a
svegliarsi
era la seconda delle ferite che aveva riportato durante il viaggio.
Quella
dovuta al pungiglione dell’aracnide che aveva tentato di
ucciderlo più volte e
contro la quale aveva combattuto strenuamente prima di cedere.
Shelob…
Era
questo il nome di quell’essere innaturalmente enorme e in
grado di produrre una
ragnatela tanto spessa quanto viscosa che lo aveva impedito nei
movimenti,
rendendogli estremamente difficile la fuga.
Era
andato a letto relativamente tardi, dopo una cena consumata in
compagnia della cerchia di Elfi cortigiani della Dama Galadriel e del
suo
consorte Celeborn, presso la dimora che era stata loro destinata a
Valinor.
Non
erano rare riunioni del genere a dire il vero. Come non era inusuale
imbattersi in gruppi più o meno numerosi, costituiti dai
protagonisti
dell’Avventura dell’Anello, passeggiare sulla
sabbia finissima della spiaggia
che costituiva il limite orientale di Valinor. Solitamente appena dopo
il
levarsi del Sole, oppure nel tardo pomeriggio, quando le colorazioni
dai toni
più disparati iniziavano a tinteggiare il cielo
all’orizzonte, preparando un
testimone ideale per la notte. Rosa, sfumature inconsuete di lilla,
nuvole
topazio, soffici e corpose come panna montata, a dipingere
l’etere.
Frodo
aveva goduto di quell’atmosfera serena e al tempo stesso
gioiosa,
sebbene assolutamente parca in espressioni colorite o sollevamenti di
gomito.
Si sorprendeva sempre per come quelle creature immortali sapessero
dosare
positivamente le emozioni, negative o positive che fossero,
distillandole.
Tutt’altra cosa accadeva invece tra gli Hobbit e i Nani, ma
anche tra gli
Uomini, lo sapeva bene. Abbandonati i cerimoniali ampollosi, anche
quest’ultimi
erano dalla natura decisamente solare e godereccia.
Era
stato lieto di vedere che Dama Galadriel si era del tutto ripresa da un
paio di settimane che l’avevano vista non in perfetta forma
dal punto di vista
fisico. La sua ospite aveva rallegrato il convivio cantando delle
melodie
particolarmente belle e questo l’aveva resa ancora di
più la Regina
incontrastata della serata, come a rivendicare l’essersi
riappropriata di
quell’aura luminosa e splendente che la circondava sempre e
che l’aveva
abbandonata solo per qualche giorno nefasto.
La
notizia del suo misterioso malore aveva francamente sorpreso tutti e
per
quindici giorni era stato impossibile vederla. Frodo si era recato a
palazzo
più di una volta e si era informato delle sue condizioni
rivolgendo domande a
Sire Celeborn, il quale non aveva però rilevato cosa avesse
causato il
malessere.
Qualche
pomeriggio prima, di fronte alla notizia di una ripresa della Dama,
si era allontanato più sollevato dalla dimora elfica,
osservando a lungo le
finestre delle stanze che sapeva ospitavano Galadriel e le aveva
augurato una
completa guarigione, per poi congedarsi con un inchino.
Tornato
a casa, aveva trovato Bilbo in piena fase creativa, intento a
scribacchiare versi su versi, seduto nel loro studiolo e assolutamente
concentrato sul suo lavoro. Nonostante avesse provato a chiamarlo, per
palesare
così almeno il suo rientro dopo un intero pomeriggio fuori
casa, non aveva
ricevuto nessun cenno particolare da parte del cugino e lo aveva visto
di nuovo
conscio della realtà che lo circondava, solo quando nella
cucina si respiravano
ormai i profumi di quella che era una tipica cena Hobbit. Ricca come
sempre.
Zuppa
di funghi, stufato di carne, bruschette dorate e condite con un filo
d’olio e salse appetitose, l’immancabile birra e
poi una crostata rustica con marmellata
di mirtilli e frutti di bosco. Sebbene non mangiasse più con
l’appetito di un
tempo, amava cucinare e continuava a farlo soprattutto per Bilbo, per
quel suo
formidabile appetito che non accennava a diminuire.
Lo
Hobbit più anziano lo aveva salutato con un:
“Salve Frodo! Sei qui da
molto, ragazzo mio? Direi di sì visto che hai avuto il tempo
di cucinare tutte
queste pietanze”, aveva esordito autorispondendosi, per poi
dare un morso
deciso ad un crostino e masticarlo con gusto, annuendo ad indirizzo del
più
giovane cugino che, non potendo trattenere un sorriso di fronte a tanta
genuinità, si apprestava a servire la zuppa in alcune
terrine d’argilla bruna
smaltata.
Durante
la cena avevano conversato del più e del meno e Frodo aveva
poi
accennato alla sua visita a palazzo.
Bilbo
aveva finito di sgranocchiare la sua terza fetta di dolce, mandandola
giù con un abbondante sorso di tè nero con
aggiunta di fiori di melissa,
complimentandosi ancora per l’ottima cena e aveva poi
parlato: “Mi fa piacere
sapere che la Dama stia meglio. Vuol dire che dovrò
sbrigarmi. Spero comunque
che ne venga fuori qualcosa di ugualmente decente”.
Frodo
aveva preso a sparecchiare il tavolo nel frattempo e, fermandosi per
guardare interrogativamente il suo coinquilino, aveva esternato il
proprio
dubbio: “Di cosa stai parlando? Devi affrettarti a fare
cosa?” aveva, infatti,
inquisito, iniziando a riempire una bacinella con dell’acqua
tiepida e pronto a
lavare i piatti.
“Questo
può aspettare, ragazzo mio”, gli aveva sorriso
affettuosamente
Bilbo, riferendosi alle stoviglie da insaponare e appoggiandogli
delicatamente
una mano sulla spalla che sapeva essere stata ferita.
“Aspettami fuori sotto il
portico. Ti raggiungo tra un minuto”.
Scuotendo
la testa di fronte a quell’ennesima bizzarria, Frodo si era
asciugato le mani con un canovaccio di lino appeso presso il lavello ed
era
uscito di casa. L’aria della notte profumava intensamente di
elanor e
niphredil. Un angolo del loro giardino era appunto coperto interamente
da un
cuscino latteo di niphredil e uno contiguo, ma dorato, di bellissimi
quanto
piccoli e delicati elanor. Un regalo di Galadriel, la quale aveva
portato con
sé da Lothlórien due vasetti, colmi
rispettivamente delle due specie floreali
nel bel mezzo della loro fioritura primaverile. Un ricordo del suo
Regno Dorato
nella Terra di Mezzo.
Bilbo
si era affacciato poco dopo portando con sé dei fogli
scribacchiati,
quelli ai quali stava lavorando in precedenza, aveva intuito Frodo
fumando un
po’ di erba pipa. Mansione che faceva spesso dopo cena, nelle
serate nelle
quali si sentiva più sereno del solito.L’odore
acre ma al tempo stesso piacevole delle foglie di Vecchio Tobia che
bruciavano lentamente si era così unito a quello
più dolce dei fiori e,
osservando ancora le azioni dell’altro Hobbit, che era
nuovamente piombato in
casa per poi uscirne con in mano un calamaio colmo di inchiostro nero e
un
pennino creato appositamente per lui dagli Elfi,
aveva aspettato che quest'ultimo si appunto
spiegasse.
Cosa
che era avvenuta appena un istante dopo. La bella voce baritonale di
Bilbo aveva, infatti, preso a echeggiare intorno a loro, fluttuando
sotto il
portico ligneo e facendo disegnare sul volto di Frodo
l’ennesimo, e raro,
sorriso della serata.
"Che
te ne pare?”, aveva infine chiesto, gli occhi vivacissimi per
via
della lettura ad alta voce dei versi che aveva appena concluso.
“Mi
sembra un’idea bellissima. Credo che la Dama lo
apprezzerà molto”,
aveva risposto Frodo, ripassando mentalmente le strofe che aveva appena
udito e
saggiandone così le rime. Anche lui come il suo genitore
adottivo, aveva sempre
nutrito un interesse particolare per la letteratura e le arti in
generale ed
aveva quindi un ottimo orecchio e un ottimo gusto in fatto di canzoni e
poesie,
eventualmente musicate.
“Davvero,
Frodo? Non lo dici solo per farmi piacere?”.
Di
fronte a quel dubbio così profondamente sentito, il giovane
Hobbit aveva
negato con la testa e rassicurato l’altro con la
sincerità che gli era propria.
“Niente affatto. Non sono solito mentire, lo sai bene. E men
che meno a te.
Quello che hai scritto è un canto eccellente, un augurio di
pronta guarigione
che descrive perfettamente le qualità della Signora del
Bosco d’Oro. È uno dei
tuoi lavori migliori, mio caro Bilbo".
"Oh,
beh. Grazie allora, mio piccolo Frodo", aveva scherzato
Bilbo ricalcando il tono paternale con il quale l’altro aveva
concluso il suo
discorso, in un chiaro intento di imitare il finto burbero, distratto e
assolutamente affettuoso Gandalf. "Ho seguito un'improvvisa
ispirazione,
sai? Oggi pomeriggio, poco dopo che tu eri uscito, stavo fumando
proprio come
te ora, qui seduto su questi stessi scalini e mentre osservavo il mare
ho
spostato lo sguardo verso la dimora della Dama. I versi si sono
susseguiti
nella mia mente in maniera fluida, credo di poter dire, e questo
è il
risultato”.
Frodo
aveva annuito, come sempre colpito dall'entusiasmo infantile e
contagioso di Bilbo quando si trattava di nuove composizioni poetiche.
Gli era
sempre piaciuta quella freschezza in lui e sapere che lo avrebbe
accompagnato
per l'eternità lo rendeva felice.
"Queste
sono le note che ho buttato giù. Sono solo una specie di
spartito abbozzato, si capisce”, aveva ripreso lo Hobbit
ultracentenario
porgendo un paio di fogli al suo interlocutore che aveva smesso di
fumare la
pipa e preso invece a scorrere con occhi interessati la serie di note
che erano
neonate in quel pomeriggio di calma benedetta dai Valar, come sempre
lì nelle
Terre Imperiture.
"Hai
pensato proprio a tutto, eh?”, aveva sorriso genuinamente lo
Hobbit dalla morbida e riccioluta capigliatura castana, colpito
positivamente
dall'armonia delle note. Un degno accompagnamento per quei versi
così melodici
già di per se stessi.
"Beh",
aveva sorriso a sua volta Bilbo, una smorfia sorniona e
soddisfatta sul volto che aveva recuperato l'aspetto che lo aveva
caratterizzato fino a quando aveva posseduto l'Anello. Di fatto la sua
vecchiaia era scomparsa una volta messo piede a Valinor. "Credo che
cantare i miei versi senza accompagnamento musicale sarebbe stato in un
certo
senso... incompleto", aveva spiegato con lo stesso ghigno furbo ad
illuminargli il volto.
"Decisamente...",
gli aveva allora fatto eco Frodo, tenendogli il
gioco.Una
serata come tante in un certo senso.
Una
serata come quelle che avevano vissuto innumerevoli volte nella Contea,
prima della Quest che aveva modificato le loro esistenze.
Un
velo di nostalgia aveva oscurato per un attimo i loro volti, prima di
essere cacciato di nuovo via, in favore dell'argomento che aveva dato
origine a
quell'atmosfera rilassata e serena."Vorresti
aiutarmi a comporre la strofa finale, Frodo?", aveva
allora ripreso a parlare Bilbo.
"Ne
sarei onorato", aveva risposto serio lo Hobbit più giovane,
alzandosi e sedendosi sui soffici cuscini della panca che ospitava
già il
cugino. Capo chino sui fogli, la luce viva e appena tremolante del
lampadario
in ferro battuto, alimentato da una quantità appropriata di
olio, ad
accompagnarli nel resto di quella serata, il rumore appena udibile del
pennino
che tracciava segni grafici eleganti su quella carta appena ruvida, e
quindi
perfetta per assorbire subito l’inchiostro, man mano che il
canto veniva
completato e modificato qua e là.
La
cena di quella sera appena conclusasi, era stata appunto l'occasione
per
omaggiare Galadriel con il loro presente. Timidamente Bilbo aveva
chiesto a
Celeborn e alla Dama se era possibile per lui e Frodo onorare quel
banchetto
con una loro canzone. Il permesso era stato accordato immediatamente,
suscitando esclamazioni di piacere. Gli Elfi amavano moltissimo i canti
e Bilbo
e Frodo erano noti per la loro bravura.
Tutti si erano aspettati evidentemente una canzone Hobbit
per così dire,
un componimento già noto alle loro orecchie e pronunciato
nella Lingua della
Contea, per questo grande stupore aveva causato l'ascoltare quel
melodioso
sovrapporsi di voci maschili cantare nell'Elfico propriamente di
Lothlórien. Un
Elfo aveva ricevuto da Bilbo una copia dello spartito e con dita veloci
ed
abili, aveva pizzicato l'arpa durante tutta la durata del canto,
fungendo da
accompagnamento musicale.
Tutti
gli occhi dei commensali erano rimasti incollati sui due Hobbit che
avevano appunto espresso la loro gioia per la guarigione di Galadriel
in quel
modo così speciale. Quando l'ultima nota si era oramai
dispersa tra le pareti
del salone che li ospitava, volti sorridenti e un applauso entusiasta
avevano
salutato l'esibizione dei due abitanti della Contea. Dama Galadriel li
aveva
ringraziati con un breve, ma sentito discorso e illuminati
letteralmente con
uno dei suoi sorrisi più splendenti.
Quella
sera poi a Frodo aveva fatto particolarmente bene conversare con
Gandalf, seduto accanto ad Elrond. Aveva intuito che fossero a
conoscenza del
suo malessere. Tutti lo erano a Valinor. E tutti erano preoccupati per
la sua
salute. Il suo stato di Portatore dell’Anello, lo aveva reso
personaggio
notissimo e benvoluto. Se prima era spesse volte appellato come Amico
degli
Elfi, adesso era molto di più.
Era
comprensibile che i suoi amici poi fossero turbati dalla sua
infelicità. E
ugualmente comprensibile era la loro impotenza di fronte quella
situazione. Se
era in qualche modo lecito non aspettarsi un’esternazione dei
propri dubbi da
Elrond, vista la sua natura discreta, poco ipotizzabile era invece che
lo stesso
Bilbo, così energico e vicino a lui grazie ad un legame che
andava molto più in
là della mera genetica, si sentisse inibito e preferisse
quasi glissare
sull’argomento.
Frodo
aveva avvertito su di sé gli sguardi dissimulati, ma vigili
dei commensali.
Gandalf,
Elrond e la stessa signora di Lothlórien erano
tutt’altro che ciechi o stolti.
Sapevano leggere tra righe ed era chiaro che avessero cognizione della
sua
sofferenza e con quelle riunioni regolari non facevano altro che
ripetergli
silenziosamente che era circondato da persone che tenevano molto a lui.
Nessuno
gli aveva mai chiesto direttamente il motivo di tale
infelicità, anacronistica
in un certo senso, ora che la minaccia di Sauron era stata allontanata.
Non
era necessario chiedere.
Loro
già sapevano.
Sapevano
che il suo disagio sì proveniva da quelle cicatrici fisiche
che interrompevano
la tessitura liscia e perfetta del suo corpo, ma soprattutto, ed era
questo il
punto focale, era a livello psicologico e interiore che si poteva
parlare chiaramente
di segni fino a quel momento indelebili.
Tutto
proveniva da lì.
Da
quel senso di spossatezza ed esaurimento delle energie fisiche e
morali, come
avesse perduto la propria anima, vendendola effettivamente a Sauron.
Era
la conseguenza del viaggio e sarebbe stata lì per
l’eternità ormai,
accompagnandolo come un velo trasparente, ma dal riflesso opaco,
grigiastro, a
coprire come una patina quanto vedeva e viveva e a minare dunque la
freschezza
e l’essenza più limpida di quegli istanti.
Attimi
che diventavano così pesantemente uno simile
all’altro, senza distinzione, né
differenza sensibile.
Una
cortina pesante, su spalle provate da un’esperienza tanto
fuori dal comune
quanto distruttiva.
Si
era congedato cortesemente, rispettando la sua natura intrinseca di
Gentilhobbit ed era rincasato con Bilbo, particolarmente rinvigorito da
quei
convivi ed entusiasta per la conversazione che aveva avuto con
l’ospitale
Elrond e ovviamente per il buon esito della loro esibizione. Pur
essendo
rimasti in silenzio, mentre percorrevano il sentiero che permetteva
l’accesso
alla loro abitazione, Frodo aveva percepito l’entusiasmo
dell’anziano cugino in
maniera palpabile. Sinceramente contento per Bilbo aveva girato la
piccola
chiave d’argento che apriva il portone principale della casa.
Volendola
guardare dall’esterno avrebbe sicuramente ricordato Bag End di Hobbiton. E la somiglianza
non era affatto casuale. Con
loro grande sorpresa, non appena messo piede sul suolo sacro di
Valinor, Frodo
e Bilbo erano stati condotti in quella che era una casetta Hobbit sotto
tutti i
punti di vista. Un tentativo per farli sentire a proprio agio da subito.
Situata
verso Nord, con tipiche porte e finestre circolari, ad un solo piano e
all’interno con dei soffitti a misura di Mezzuomo. Il
giardino che la
circondava poi era un tripudio di piante in fiore. Un lavoro accurato,
degno
del più laborioso dei Samwise Gamgee, tale era la cura nei
dettagli e
l’evidente armonia dei colori di quella flora perfettamente
miscelata.
Una
cascata di edera dalle foglie verde cadmio con delle ridenti sfumature
verde
bottiglia si arrampicava sulla parete frontale della casa, costituendo
una
trama bella e ridente. Il prato era stato tagliato di recente e
nell’aria si
respirava ancora l’odore caratteristico dell’erba
recisa. Siepi di rododendri
in fiore delimitavano il perimetro del giardino in tutta la sua
lunghezza. I
fiorellini di un rosso vivace interrompevano la superficie verde scuro
che dava
loro vita. L’aiuola di niphredil candidi
si armonizzava con altrettante
aiuole di camelie purpuree, violacee e rosate, nonché gli elanor già citati. Non
mancavano infine delicate dalie dalle
sfumature calde del giallo, rosso e arancio, con tutte le nuance intermedie.
Anche
l’interno ricordava Bag End
con tanto
di studio nel quale ambo i cugini avevano trascorso molto del loro
tempo.
Accompagnato
Bilbo alla sua porta, gli aveva augurato la buonanotte, per
poi recarsi nella sua stanza. Una volta svestitosi si era gettato sul
letto
psicologicamente esausto e, contrariamente ad ogni aspettativa, era
crollato in
un sonno pesantissimo e all’apparenza senza sogni.
Svegliandosi
di soprassalto aveva avuto l’impressione che le pareti
gialline della camera da letto lo stessero soffocando. Portatosi le
mani
intorno al collo, aveva sentito pulsare una vena selvaggiamente.
Costretto da
una necessità violenta poi, aveva spostato le proprie dita
sulla spalla,
stringendola convulsamente e premendo sulla cicatrice della pugnalata,
come a
voler sedare quell’improvviso risvegliarsi delle carni.
L’aveva sentita
martellare contro il palmo della mano, in sintonia con il proprio cuore
che
batteva senza tregua, la gola secca, le labbra doloranti e screpolate
come non
bevesse da tempo immemorabile e paradossalmente il torace e il volto a
ricoprirsi
di quell’insano strato di sudore gelido.
Poi,
così come era venuto, il tamburellare impazzito di quello
spirito
fosco che era rimasto intrappolato nelle sue carni dal giorno triste
dello
scontro contro il più temibile di Neri Sovrani, era scemato,
lasciandolo però
provato, lo sguardo incupito e una reazione furiosa contro se stesso,
per
quella debolezza che lo coglieva e contro la quale poco poteva o, per
meglio
dire, nulla poteva.
Si era alzato di scatto, scorgendo di sfuggita il riflesso del proprio
corpo snello e parzialmente nudo riflesso dalla parete limpida dello
specchio,
la luce crepuscolare data dalle fiamme tremolanti delle candele accese
con le
quali dormiva da quando era ritornato ad Hobbiton, l’odore
della cera che
fondeva man mano che lo stoppino bruciava.
I
suoi occhi avevano colto solo il segno scarlatto che le proprie dita,
strette come una morsa, avevano lasciato intorno alla spalla, poi aveva
afferrato velocemente una camicia e un paio di pantaloni abbandonati su
una
sedia di fianco al letto ed era uscito dalla stanza, richiudendosi la
porta
alle spalle ed iniziando a percorrere lo smial silenzioso ed immerso
nella
penombra.
Quasi
senza accorgersene, aveva aperto il cancelletto che aveva cigolato
impercettibilmente e, dopo averlo richiuso alle sue spalle, si era
incamminato
come posseduto da una qualche entità sovrannaturale, sebbene
non esattamente un
Valar protettore.
Aveva
dormito pochissimo, si era accorto osservando la posizione della Luna.
Forse un
paio di ore e di nuovo si trovava a percorrere il sentiero verso il
Castello di
Galadriel.
Difficile
dire perché.
Però
era lì.
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Capitolo 2 *** Capitolo due - Porcellana ***
AINADAMAR
Capitolo due
Porcellana
Frodo
aveva incrociato delle
quasi invisibili quanto attente Guardie Elfo notturne che,
riconoscendolo,
avevano chinato la testa biondo oro, in maniera elegante e quasi
impercettibile, volendolo così salutare e riprendere poi a
mimetizzarsi con la
quiete notturna. Si era fermato, poco sorpreso dalla loro mansione,
sebbene lì
a Valinor fosse forse superfluo quel tipo di accorgimento difensivo,
dalla loro
presenza e dal fatto che l’avessero palesata in quel modo
così tipicamente cortese.
Aveva
ricambiato il gesto,
accennando un sorriso, per poi proseguire indisturbato. Nessuno gli
avrebbe mai
chiesto il perché di quella visita notturna non ufficiale, a
distanza di una
immediatamente precedente e sì regolata dai crismi del
cerimoniale.
Le
gambe lo avevano condotto
presso i piani inferiori, rallentando di fronte quella che sapeva
essere la
stanza che ospitava Gandalf.
Lo
aveva immaginato sveglio,
seduto sull’ampio davanzale di una delle enormi finestre che
davano sui
numerosi giardini della dimora, immerso nella contemplazione della
notte,
assorto nelle sue riflessioni, le folte sopracciglia corrugate dal
cruccio, la
pipa tra le mani, intento ad assaporare con voluttà il
tabacco che bruciava
lentamente e sperimentando nuove forme nelle quali far confluire lo
sbuffo di
fumo azzurrino.
Durante
la cena lo aveva
ringraziato dell’attenzione nei suoi confronti, affidandosi
ad uno sguardo di
gratitudine, piuttosto che a gesti o parole. Forse per non guastare
quello che
era il protocollo elfico, forse perché a parole non sarebbe
riuscito ad
esprimere nemmeno un terzo di quanto i suoi occhi affranti, ma
incredibilmente
belli e sinceri in quel frangente, avevano lasciato trasparire, simili
a due
gemme dall’indubbia purezza.
Aveva
lasciato vagare lo
sguardo sul legno immacolato della porta che separava la stanza di
Mithrandir
dal resto del Castello, accarezzandola virtualmente e mandandogli un
messaggio
in codice, un ulteriore segno di riconoscenza che sapeva sarebbe stato
colto,
senza indugio, da quella creatura incredibilmente solidale ed accorta
nei suoi
confronti.
“Frodo…”.
Lo
guardo profondo del Maiar, infatti, aveva captato in contemporanea
l’avvicinarsi e la sosta brevissima del piccolo Hobbit di
fronte la parete
lignea che li divideva. Aveva concentrato il suo udito finissimo sui
passi
felpati all’esterno della propria stanza. Da una sfumatura
appena accennata
aveva compreso che, nonostante la leggerezza, non era un Elfo a
percorrere
solitario i corridoi, ma uno Hobbit.
Chi
altri se non Frodo?
Aveva
avvertito la sua presenza, sorpreso per quel tornare sui propri
passi. Era un dettaglio che lo aveva portato ad intuirne, ancora di
più, se
possibile, i pensieri amareggiati e recidivi, difficili da ordinare
coerentemente, ma non si era mosso dalla finestra presso la quale aveva
passato
buona parte della nottata a fumare ed osservare il bosco rigoglioso che
cingeva
il lato Ovest della nuova dimora di Galadriel, andando a terminare in
un
declivio sabbioso che si gettava quasi direttamente nel Mare
cristallino di
Valinor.
Si
era reso conto del fatto che non poteva fare nulla di più
per Frodo, se
non fargli intendere, di nuovo, che ricambiava pienamente il suo
affetto.
“Non
è abbastanza…”, aveva mormorato tra
sé e sé, mentre una ruga più
decisa delle altre aveva deturpato la superficie dell’alta
fronte. Lo sguardo
si era incupito dalla preoccupazione e la sofferenza, per
quell’impossibilità
di agire - i suoi poteri non avrebbero risolto nulla in quel caso,
infatti - al
punto da rendere impossibile distinguere il nero della pupilla dal blu
notte
dell’iride solitamente luminosa.
Non
è abbastanza…
Tutti
coloro che avevano partecipato all’Avventura
dell’Anello e che adesso
dimoravano al di là dei Porti Grigi, avevano espresso
così la loro frustrazione
nei confronti della situazione di Frodo ed egli stesso non poteva fare
altro
che annuire in quel senso. Elrond lo aveva ribadito ulteriormente,
mentre si
congedava dai suoi ospiti, una mezz’ora dopo
l’uscita di scena di Frodo e
Bilbo. Il vederlo cantare serenamente per alcuni istanti, non li aveva
ingannati e solo parzialmente rincuorati.
Il
Signore di Gran Burrone si era così guadagnato
un’occhiata grave, ma
colma di assenso da parte di Galadriel, cosa che lo aveva rammaricato.
L’ammirazione profonda che aveva sempre nutrito nei confronti
della Signora dei
Galadhrim, madre di Celebrían, sua sposa ritrovata, lo aveva
fatto dispiacere. Il
momento di impasse era stato superato grazie ai cenni di assenso da
parte dei
convitati che si erano trattenuti più a lungo e, confortato
della stretta di
mano di Celebrían, si era con lei eclissato nella quiete
della notte, per
raggiungere la propria dimora imperitura.
Vedendo
le due figure regali e luminose allontanarsi dal Castello, Gandalf
aveva riflettuto sul fatto che quella comunanza di idee non lo faceva
sentire
meglio. Era ingiusto che il piccolo Hobbit avesse dovuto sopportare da
solo,
dapprima il fardello dell’Anello e adesso, le conseguenze di
quell’insieme di
circostanze che si erano intrecciate in maniera così
inestricabile con la sua
vita, al punto da continuare a segnarla.
That wound will never fully heal. He will carry
it for
the rest of his life…
Lo
aveva predetto moltissimo tempo prima con il Signore di Rivendell, ma
ora comprendeva appieno il significato di quella frase e desiderava
fortemente
di aver avuto torto.
Si
chiese allora fino a che punto fosse stato positivo l’aver
condotto
Frodo al di là dei Porti Grigi. L’averlo
condannato all’infelicità eterna lo
faceva sentire enormemente colpevole. Non era questo che si era
augurato per
quello Hobbit che tanto amava.
Queste
erano state le
riflessioni di Gandalf, mentre Frodo aveva proseguito il suo cammino
notturno,
fino a raggiungere il patio marmoreo e deviare poi in direzione della
fontana
dalle acque zampillanti.
Ora
avvertiva scemare poco
alla volta il dolore alla spalla che era tornato a tormentarlo anche
lì fuori,
e se prima, nella sua stanza, aveva avuto forse senso uscire per
cercare un
qualche conforto nella vastità dello spazio aperto, adesso
sarebbe risultato
assolutamente incongruo allontanarsi ulteriormente o, peggio, tornare
indietro,
accalappiato e pressato da mura opprimenti.
Rimase
dunque lì.
Solo
dopo aver preso quella
decisione inconscia, ma determinata, sembrò rendersi conto
della meta finale
del suo vagabondaggio notturno.
Era
tornato di nuovo nel
Castello della Dama di Lothlórien.
La
gola gli parve
incredibilmente riarsa ed una sete improvvisa prese a torturargli il
palato,
dal quale, da qualche minuto, il retrogusto, tanto familiare quanto
detestato,
del metallo della paura era scomparso. Facendo leva sulle braccia e
sollevandosi così un po’ dal terreno, immerse la
testa quasi completamente
nell’acqua deliziosamente fresca e bevve sorsate lunghe e
ravvicinate. Quando
riemerse, una sequela di gocce simultanee gli cadeva sul volto,
scendendo dai
capelli grondanti come tante lacrime copiose. Vi passò
allora le mani
strizzandoli grosso modo, per poi chiudere per un attimo gli occhi,
godere di
quella sensazione di sazietà e pulito, come se
l’acqua avesse mondato parte
dell’umore melanconico che avvertiva costantemente, ed infine
riaprirli, le
ciglia brune imperlate da piccole gemme trasparenti, fissandoli sulle
proprie
mani adesso immerse a loro volta nell’acqua.
Illuminate
da quella luce
notturna e complice la trasparenza del liquido vitale, apparivano quasi
opalescenti, di un bianco-rosato difficilmente riscontrabile in natura.
Forse
solo alcuni marmi riuscivano a rendere l’idea oppure la
carnagione sana
sapientemente tinteggiata dai Valar, sul volto di qualche creatura
particolarmente fortunata da questo punto di vista.
Ormai
avrebbe dovuto esservi
abituato, ma non era ancora così. Non totalmente almeno.
Ritrovarsi di fronte
agli occhi nove dita anziché dieci, non poteva essere
considerato normale. Non
era una caratteristica degli Hobbit quella. Pippin, Merry, Sam, Bilbo e
perfino
quell’antipatica di Lobelia avevano dieci dita. A lui ne
rimanevano invece
nove, e a causa dello scontro più brutale e
dell’attacco più selvaggio che
avesse mai subito da Gollum.
Gli
si erano stampati a fuoco
nella memoria gli attimi di quel delirio finale, la bramosia dello
Hobbit
mutato in mostro senza razionalità, che era andato ben oltre
la semplice
volontà di strozzarlo, come era accaduto prima
dell’attacco decisivo di Shelob
oppure successivamente, quando era con Sam sul sentiero che avrebbe
loro permesso
l’accesso presso Mount Doom.
L’attimo
di incertezza che lo
aveva colto, quando avrebbe dovuto invece gettare senza ripensamenti
l’Anello,
era stato fatale perché aveva permesso il ritorno di un
Gollum inferocito, che
gli si era aggrappato addosso nonostante il suo essere invisibile e gli
aveva
così strappato l’Anello dal dito, mordendoglielo
con un odio spropositato e
finendo con il recidergli nettamente una buona parte del medio.
Il
mio tesoro!
Il
dolore era stato
insopportabile. Sul momento però, aveva percepito solo il
fluire del sangue
dall’odore dolciastro e ferroso e reagito istintivamente,
scagliandosi contro
Gollum, facendolo finire nella lava.
Deglutendo
malamente al
ricordo di quell’attacco cattivo e onestamente feroce contro
la sua persona,
sentì tutta
l’angoscia investirlo di
nuovo, come se si fosse trovato in balia di un fiume in piena,
ingrossato da
piogge torrenziali.
Sebbene
il dolore fisico
fosse adesso un ricordo e la ferita rimarginata, quel moncherino gli
sbatteva
continuamente sotto gli occhi che lui non era più quel Frodo Baggins.
Ecco
dunque a risposta alla
domanda:
Sono
ancora io?
No.
Se
lo era a questo punto solo
formalmente di nome*, non poetava più esserlo di fatto.
Frodo
Baggins della Contea
avrebbe abbracciato spontaneamente Gandalf o chiunque altro esprimendo
gratitudine.
Frodo
Baggins esiliato dalla
Contea no.
Si
rivide solo, una volta
fatto ritorno nel verde lussureggiante di Hobbiton, a Casa Baggins, i
giorni
che passavano, il tentativo di rimettere ordine nella sua vita normale,
le ore
trascorse a scrivere il suo manoscritto da aggiungere a quello dello
stesso
Bilbo, le stanze forse troppo silenziose nonostante la presenza di Sam,
Rosie e
della piccola Elanor, la casa all’improvviso troppo grande ed
estranea, il
malessere latente che diveniva sempre più palese, la
decisione di abbandonare
la Contea e usufruire così del posto vacante, sulla nave
diretta a Valinor, che
un tempo era stato assegnato ad Arwen Undómiel.
I
suoi ricordi vennero
interrotti bruscamente da un rumore di sottofondo. L’eco
intrecciata di
centinaia di voci lamentose e piangenti. Sforzandosi di capire da dove
venissero, ebbe come l’impressione che fossero le acque della
fontana a
produrle. Gli parve di riconoscervi anche dei singhiozzi a lui noti,
sebbene
non poté dare loro un nome concreto.
Un
po’ spaesato da quelle
grida silenziose e forse frutto della sua mente non del tutto serena,
percepì
il frusciare appena percettibile, eppure inconfondibile, di lunghe
gonne
femminili.
Prima
di averla accanto, la
riconobbe per via del profumo delicato di essenze di fiori di niphredil
e miele che ne avvolgeva costantemente la persona regale. Voltandosi
allora
lentamente, ne scorse l’immagine per intero.
Galadriel,
Signora della Luce
Sempiterna, sostava a meno di tre metri dal piccolo Hobbit.
Magnificamente vestita
con un lungo abito bianco di tessuto impalpabile e iridescente, stretto
appena
intorno alla vita sottile da una morbida fascia, con scollo quadrato e
ampie
maniche a sbuffo, ricamate con lo stesso tulle prezioso che adornava
anche
l’orlo della gonna e della sottogonna, si stagliava, come la
creatura eterea
che era, su quello scenario naturale e di innegabile effetto visivo.
I
lunghissimi capelli biondo
platino le incorniciavano il volto dalla bellezza non comune e
ricercata,
seppur niente affatto costruita, scendendo come tante onde appena mosse
nei
pressi delle punte, perfettamente sfumate in una tonalità di
oro purissimo.
Il
capo era privo di
coroncine preziose o altri ornamenti e lo stesso manto setoso dei
capelli era
stato liberato dalle forcine che di giorno ne mettevano invece ordine e
con
un’arte particolarmente squisita.
Il
volto era esattamente di
quell’incarnato che Frodo aveva ricordato qualche attimo
prima, le guance lisce
e ravvivate da una sfumatura pesca appena percepibile.
Gli
occhi, leggermente
allungati nella forma, erano di un cupo blu oltremare, profondi, in
grado di
comprendere appieno e forse ancora di vaticinare, esattamente come lo
specchio
omonimo che le apparteneva, e frangiati da ciglia naturalmente lunghe e
curve.
Una
silhouette alta, aggraziata e dalle
tipiche orecchie a punta, ad
indicare la sua natura elfica.
I
suoi lineamenti assunsero
un’espressione particolarmente dolce osservando la figuretta
tenera ed un po’
smarrita del piccolo Halfling. Sorrise incrociandone lo sguardo serio
che aveva
in quel momento un misto tra l’innocenza del bambino, la
saggezza di un
novantenne mortale e paradossalmente la grazia di un Elfo.
Era
una descrizione che
corrispondeva perfettamente alla natura sfaccettata di Frodo e aveva
avuto modo
di pensarlo in più di un’occasione.
Lo
aveva amato da subito,
sorprendendosi lei stessa per prima, di un amore puro, fatto di affetto
profondo, empatia istintiva e qualcosa di simile alla cura materna o al
desiderio di proteggerlo. Un sentimento dunque al quale era difficile
dare un
nome standardizzato, ma che ben stava sotto la categoria Amore,
appunto, nella
sua accezione più ampia. E questo di per sé era
un fatto eccezionale, essendo
lei un Elfo e quindi poco propensa alla manifestazione esplicita dei
propri
sentimenti, men che meno nei confronti di sconosciuti.
Dopo
aver superato la
tentazione dell’Anello, in occasione del loro primo in contro
in quel di
Lothlórien, aveva deciso di sostenerlo con ogni mezzo
possibile, avendo chiaro
il quadro delle appena posteriori difficoltà della Compagnia
che si sarebbe,
infatti, di lì a poco divisa.
Gli
aveva donato la fiala
vitrea contenente la stella di Eärendil affinché la
utilizzasse nei momenti
difficili, ma non lo aveva aiutato solo così. Era entrata
nei suoi sogni,
cercando di confortarlo con quel legame onirico, dandogli letteralmente
la mano
in alcune circostanze. Sperava di esservi in parte riuscita ed aveva
accolto
con gioia la notizia della sua traversata del sulla nave per Valinor.
Lo aveva
aspettato lì sull’imbarcadero, con Elrond e
Gandalf e anche in quell’occasione
lo aveva salutato con un sorriso rassicurante e pieno di calore,
dispiacendosi
di averlo trovato così provato e ancora molto coinvolto
dall’eredità di
quell’esperienza così deleteria per lui.
E
nessuno meglio di lei
poteva capire cosa volesse dire solitudine, per via di una grande
responsabilità.
Lei
stessa era la Custode di
uno dei Tre Anelli Elfici.
Ne
aveva ancora chiara
l’immagine sul molo, intento a salutare commosso e diviso in
due da più voci
prive di comunanza di idee, gli Hobbit suoi amici. Poi c’era
stata la voce di
Gandalf a richiamarlo e a farlo salire sull’imbarcazione che
lentamente aveva
preso a solcare le acque limpide e di un verde dalle molteplici
sfumature.
Li
ricordava appunto così gli
Hobbit. Piccoli nella statura, ma dalla grandezza morale indiscutibile
e dotati
di una resistenza fisica che avrebbe fatto invidia al più
grande degli Uomini.
E relativamente a Frodo, lo vedeva ancora così: piccino,
vicino la fontana;
comprensibilmente sorpreso nel vederla lì, almeno quanto era
sorpreso di
trovarsi di nuovo nella sua dimora regale; confuso, perché
colto nel bel mezzo
di riflessioni che lo avevano estraniato dalla realtà
circostante.
Ore
prima, dopo aver salutato due silenziosi Elrond e Celebrían,
la figlia
che aveva infine riabbracciato, e un pensieroso Gandalf, aveva
raggiunto i
pieni superiori del Castello. Accompagnata da un rassicurante e
protettivo
Celeborn, si era congedata da quest’ultimo con
un’occhiata che aveva parlato
per lei.
Voleva
stare sola.
Il
Signore dei Galadhrim aveva sostenuto il suo sguardo ceruleo e,
chinando
appena di lato il bel capo color dell’oro più
luminoso, le aveva sorriso
comprensivo. Prendendole delicatamente una mano tra le sue, ne aveva
baciato poi
il palmo, augurandole così la buonanotte, e proseguito verso
le sue stanze,
situate appena qualche decina di metri più in là.
Aveva
aspettato che la figura reale e armoniosa di Celeborn scomparisse
dietro la porta candida dell’appartamento, prima di entrare
silenziosamente nei
suoi locali. Subito, l’ancella deputata al suo servizio
personale, l’aveva
accolta andandole incontro con un bel sorriso ad illuminare i
lineamenti
giovani del viso sbarazzino. Nel giro di pochissimo, un’altra
ancella le aveva
preparato un bagno caldo. Sulla superficie dell’acqua fumante
galleggiavano
fiori di niphredil essiccati
e dal
profumo intenso.
Improvvisamente
più scoraggiata che stanca, aveva lasciato che le due
giovani si prendessero cura di lei, godendo anche del massaggio che le
dita
abili di Miriel, la più anziana, stavano portando avanti,
aiutate da un olio essenziale.
Dopo aver indossato la sua veste da notte, le aveva congedate,
sentendosi
augurare la buonanotte e vedendole scomparire silenziose dai locali
illuminati
dalla luce soffusa di diverse candele aromatiche e dalla forma panciuta.
Di
fronte lo specchio ovale, che faceva bella presenza sulla toilette di
legno intarsiato poco lontana da una delle numerose finestre, aveva
preso a
spazzolarsi i capelli, appena umidi per il vapore del bagno,
sciogliendo così
abilmente i nodi che si erano formati e rilassandosi con
quell’operazione che
amava tanto fare.
Appoggiando
la spazzola d’argento sul ripiano di alabastro del
mobile-toilette,
aveva avvertito la fragranza inequivocabile della vegetazione che
nasceva poco
lontana dal Mare. Ne aveva dedotto che spirava una brezza appena
accennata da Est.
Piacevolmente presa da quell’odore così salmastro,
ma al tempo stesso attenuato
dalla nota più dolciastra delle gardenie che facevano
orgogliosamente mostra di
sé, sottoforma di cuscino vellutato e bellissimo a vedersi,
nel giardino
sottostante, avanzò lentamente verso la finestra.
Uno
lembo consistente di spiaggia e Mare erano visibili da
quell’angolatura.
Il
riflesso argentato di Ithil tracciava una scia luccicante sulle
tranquille acque salmastre.
La
sabbia invece appariva bianchissima per via del riflesso lunare.
Bianchissima
come le gardenie che stava appunto fissando dall’alto del suo
appartamento, orgogliosa di tanta perfezione.
Bianchissima
come la stoffa della camicia indossata dalla piccola figurina
che sostava nei pressi della fontana.
“Frodo…”,
aveva mormorato a voce bassissima, stupendosi di vederlo di nuovo
lì. Sembrava quasi che la sua mente lo avesse chiamato,
facendogli abbandonare
la nuova Bag End di Valinor in favore di quel Castello così
simile, eppure così
diverso, dalla sua dimora di Lórien, forse ancora
più incantato e bello se
possibile, data l’aura di regalità che sembrava
caratterizzare ogni singolo
essere, elemento o cosa nelle Terre al di là dei Porti Grigi.
Lo
aveva osservato a lungo, non vista, dalla finestra della camera
nuziale.
A cena invece, ne aveva annotato, dissimulando, le espressioni del
volto, i
gesti e la conversazione all’apparenza distesa con Gandalf.
Nonostante la
serenità ostentata, nonostante il sorriso che aveva
aleggiato su quel volto
fanciullesco durante il canto dolce che avevano composto in suo onore,
nonostante il rossore che aveva ridato vita a quelle guance altrimenti
pallide
durante l’applauso dei commensali tutti, non si era lasciata
ingannare da
quelle apparenze e aveva notato a malincuore la sua sostanziale
insofferenza,
al punto da darne per scontato il sonno intermittente, forse agitato.
La
conferma era stata lo scorgerne la silhouette infantile, emersa pochi
attimi
prima dal patio inferiore e direttasi verso la Fontana, incantata a suo
modo e
lattea sotto la luce di una Luna che sapeva per lui di poco conforto.
La
decisione di scendere e fargli compagnia era stata logica quanto
naturale.
Frodo
aveva spalancato gli
occhi arrossati dalla stanchezza e a questo punto ombreggiati da tracce
violacee, avendo conferma che l’ambasciatrice che era stata
annunciata dalla
delicata fragranza che le sue narici ancora avvertivano, si trovasse
esattamente lì, in carne e ossa.
I
lamenti sembravano essersi
volatilizzati come una bolla di sapone nell’aria.
Deglutendo
con difficoltà, riuscì
a spiccicare parola, salutandola.
“Mia
Signora…”.
La
vide avanzare verso di sé,
dopo avergli sorriso nell’esatto momento in cui i loro occhi
si erano incontrati.
Un sorriso che non era riuscito a ricambiare e che invece spesse volte
gli era
stato rivolto dall’Elfo.
La
Dama lo aveva raggiunto
dopo aver reso nulla la distanza tra loro due con la sua tipica
andatura
forgiata nell’eleganza più pura e naturale che
potesse mai esserci.
Vedendola
praticamente a suo
lato, chinò rispettosamente il capo bruno ancora umido e poi
sollevò lo sguardo
ad incrociarne il volto sereno. Allora accennò un sorriso,
spontaneo per quanto
non esente dall’usuale malinconia.
“Frodo…”,
modulò la voce
melodiosa e senza tempo di Galadriel, toccata dal rispetto insito nel
gesto di
saluto.
“Non
riuscivate a dormire, Mia Signora?”, chiese lo Hobbit, scrutando tracce di difficoltà o
pallore
innaturale sul viso invece assolutamente privo di cruccio della sua
ospite. Si
era immediatamente preoccupato per il suo stato di salute, pregando che
non
fosse stato un malessere a turbare il suo sonno. Solo un attimo dopo si
rese
conto che non si era minimamente scusato per quella sua visita
così poco
rispettosa del protocollo. “Scusate, Dama
Galadriel…”, rimediò allora,
profondamente contrito per quel suo atteggiamento irrispettoso e poco
consono
alla sua natura di Gentilhobbit. “Non era mia intenzione
disturbare il vostro
riposo, presentandomi di nuovo al Castello senza
preavviso…”, cercò di
spiegare, rendendosi però conto che, affermare di non
essersi recato lì in
propria coscienza, ma come un sonnambulo poco consapevole di quanto lo
circondava,
avrebbe voluto dire ammettere pubblicamente i suoi problemi di insonnia.
Galadriel
si sforzò di mantenere l’espressione serena,
simulandola però evidentemente in
quel caso. Era preoccupata, ma temeva che esternarlo non avrebbe
aiutato.
Piuttosto, rimase colpita dalla preoccupazione di Frodo nei confronti
della sua
salute. Le era stato riferito che durante la sua convalescenza, le
aveva fatto
visita ogni giorno, domandando alle sue ancelle oppure a Celeborn
notizie sui
suoi miglioramenti. Era un essere incredibilmente buono
d’animo e generoso e la
riprova era che aveva subito messo da parte i propri pensieri per
interessarsi
di cosa le avesse fatto abbandonare il proprio letto a
quell’ora poco consona.
Era
stata poco bene, era vero, ma nessun malore propriamente fisico le
aveva fatto lasciare
il proprio appartamento quella notte. I suoi occhi cerulei si
soffermarono sulla
massa di riccioli bruni e lucidi del Mezzuomo, prima di rispondergli.
“Non
c‘è bisogno di scusarsi. La mia casa è
sempre aperta per te”, lo tranquillizzò
vedendolo inquieto e capendo che si era mentalmente rimproverato per il
fatto
di essersi ritrovato lì, senza poter fare nulla per
evitarlo. “No”, aggiunse
poi, rispondendo così cripticamente alla domanda postale.
Era
la verità.
Non
era di fatto riuscita a prendere sonno.
“Mi
dispiace…”, considerò Frodo, la
sincerità negli occhi che ne palesavano il
rammarico. “Posso fare qualcosa per Voi?”,
s’informò poi volendola aiutare.
“No,
piccolo Hobbit”, negò di nuovo Galadriel, con una
sfumatura affettuosa palese
nella voce ed un sorriso ora mesto sul volto, mentre notava le gocce
trasparenti che comparivano qua e là su quel bel volto
tormentato. “No”, disse
ancora accompagnando con un movimento della testa il diniego.
“Mi chiedevo però
se potessi fare io qualcosa per te. Se così fosse anche il
mio cruccio
scomparirebbe”, concluse seria in volto.
L’apparente tranquillità abbandonata.
Frodo
abbassò lo sguardo, comprendendo immediatamente
l’allusione.
“Non
era mia intenzione quella di… farvi preoccupare per
me”, si scusò, tornando a
focalizzare il volto dell’Elfo. “Non voglio che
nessuno si preoccupi per me. Né
Voi, né Gandalf, né nessun altro”,
continuò sentendosi a disagio ed in qualche
modo in colpa per aver creato motivi di dispiacere in quelle persone
che
stimava e amava moltissimo allo stesso tempo.
“Non
devi preoccuparti per noi”, scandì dolcemente la
Dama del Bosco d’Oro, scossa
da un moto puro di partecipazione. “Il peso che ti sta
schiacciando è
unicamente sulle tue spalle. Il nostro dispiacere per non poterti
aiutare è
poca cosa se paragonato alle memorie difficili con le quali
convivi”.
Frodo
tacque, riflettendo su quell’analisi stringata ma precisa.
“È
il risultato della convivenza forzata con
l’Anello…”, parlò brevemente,
esternando così la sua non troppa voglia di affrontare
l’argomento. Nessuna
nota lamentosa o di avvilimento aveva accompagnato quel discorso
essenziale.
La
Signora di Lothlórien
sedette allora sul bordo della vasca della fontana, i piedi sollevati
un palmo
da terra, in una posa curiosamente poco regale trattandosi di lei, il
piccolo
Hobbit silenzioso al suo fianco, con lo sguardo fisso davanti a
sé.
Era
vero, annuì mentalmente. L’Halfling era
l’erede primario di quel periodo
incredibilmente colmo di sventure, sofferenza, morte e influssi
violenti e
negativi, contro tutta Middle-Earth e contro la sua stessa persona
nonché il
suo carattere fiducioso e privo di cattiveria.
Sebbene
ne fosse già a conoscenza, sentirselo dire in quella maniera
così diretta e
priva di autocommiserazione, le fece un certo effetto. Poteva essere
piccolo di
statura, ma sulla levatura morale pochi avrebbero potuto concorrere con
lui, si
disse ancora una volta.
…Even the smallest person can change the course
of
the future…
Questo
era quanto aveva avuto modo di dirgli a Lórien, presso il mallorn.
Parole
profetiche, in un certo senso.
“Non
avrei mai voluto che anche le conseguenze di quanto hai dovuto portare
avanti
da solo, fossero, ancora una volta, tutte per te…”.
Frodo
si strinse nelle spalle.
Facendo
poi leva sulle braccia e sollevandosi con una certa fatica, sedette a
sua volta
sulla fontana, i piedi ad almeno cinque palmi dal terreno.
“È
l’Anello”, ripeté monocorde.
“L’influsso negativo più considerevole
è stato
assorbito da me in quanto Portatore. Lo stesso vale per le conseguenze.
È una
conclusione logica, immagino”.
“Logica…”,
ripeté Galadriel lentamente, come saggiando il senso
intrinseco di quella
parola. “Immagino anch’io che lo sia”,
aggiunse poi, senza che la sua
proverbiale retorica elfica le venisse incontro in quel frangente.
“Ma non sono
completamente certa che sia anche giusta”,
parlò sentendo all’improvviso
un malessere profondo coglierla di fronte
all’inutilità di quel ragionamento,
che esprimeva però indubbiamente il suo coinvolgimento.
“Avremmo dovuto
impedirlo… impedire che fossi tu il Portatore
dell’Unico Anello”.
Strano
che fosse lei a dirlo.
Lei
che aveva saputo prima di chiunque altro cosa sarebbe accaduto.
Frodo
parve comprendere ugualmente perché, contravvenendo ogni
legge, sfiorò appena
la mano bianca della Dama, dalle lunghe dita sulle quali spiccavano
unghie di
media lunghezza curatissime, appoggiata sul marmo della fontana.
“Non si può
cambiare…”, mormorò in un soffio,
semplicemente, esprimendo una considerazione
assolutamente obiettiva e volendo quasi consolare la sua ospite con
quel gesto
impercettibile.
L’Elfo
sentì un groppo in gola ascoltando quella sentenza
inequivocabile e percependo
all’improvviso la gravità e il peso
dell’angoscia del piccolo Hobbit, intrisa
di disillusione. Si concentrò istintivamente sul gesto
gentile e appena timido
che aveva fatto e ne osservò la mano a un centimetro dalla
sua. Una mano
piccola davanti ai suoi occhi, in grado di vedere andando ben oltre la
semplice
apparenza. Una mano candida, sulla quale non era possibile non scorgere
l’assenza
del medio, deturpato selvaggiamente da quella creatura che
corrispondeva al
nome di Gollum.
Le
venne da chiudere gli occhi, agghiacciata di fronte a tutto quello che
Frodo
aveva vissuto con la sola compagnia di Sam, ma si trattenne. Non era
stata lei
ad aver vissuto quell’orrore, non aveva il diritto di
mostrarsi scioccata se
Frodo affrontava invece tutto con quella maturità coadiuvata
da una nota di
dignità solenne, che lo rendeva così diverso da
un qualsiasi altro abitante
della Contea.
Un
modo di rapportarsi agli eventi quasi cerebrale.
Contro
natura?
Questo
era quanto traspariva in quegli istanti.
Capacità
quasi meccanica di affrontare quanto accadeva ed era accaduto.
Contando
semplicemente sulle proprie forze.
Non
poteva però credere che la fiamma insita in ogni spirito,
anche in quello del
più miserabile degli Orchi, fosse del tutto spenta nello
Hobbit.
Non
poteva essere.
L’idea
era atroce.
Frodo
non poteva essersi trasformato in un fantasma privo di
umanità e totalmente
svuotato di volontà o sentimenti.
Era
certa del fatto che soffrisse terribilmente, dunque questo avrebbe
dovuto
polverizzare i suoi dubbi, ma quell’accettazione
così matura e appunto
disillusa, le trasmetteva un senso di oppressione ed angoscia che la
spaventava.
L’aspetto
era ancora quello dolcissimo di sempre, ma all’improvviso le
parve come
sottilissimo, fatto di materiale impalpabile, uno spettro contornato da
un’aura
opaca che veniva così a macchiarne l’usuale
candore e bellezza.
Mossa
da un’ondata pura di amore, unito a quella specie di
malessere che la impauriva
contraddittoriamente, nei confronti di quell’esserino
straordinario, alle prese
con quella gravosa lotta interiore che lo stava sfinendo, gli strinse
gentilmente la mano menomata e, con un gesto premuroso, se la
portò alle
labbra, stampando un bacio tenero sul palmo morbido ed incrociando uno
sguardo
stupito, quanto all’improvviso lucido, su un volto ora
tornato concreto davanti
alle sue iridi.
“Ti
ammiro, mellon
nîn**”, sussurrò osservandolo spalancare
gli
occhi, enormi in quel momento.
“Mia
signora…”, mormorò in
maniera appena udibile Frodo, abbassando lo sguardo sfocato dalle
tracce salate
trattenute caparbiamente, sulla mano che iniziava a scaldarsi perdendo
parte
della rigidità che la caratterizzava e tenuta ancora dalla
stretta affettuosa
dell’Elfo.
Si
rese conto all’improvviso
di come sentisse la necessità di un qualche conforto altrui,
di sentirsi dire
in maniera infantile e semplicistica che sarebbe andato tutto bene.
Un
piccolo autoinganno.
Aveva
bisogno di un qualche
contatto fisico, per quanto non intimo. Non era di
quest’ultimo che
necessitava, ma di un calore diverso, che arrivava comunque diritto in
fondo
all’anima. Realizzò che ne era stato privato
troppo a lungo, e per scelta
personale e per incapacità, visto il suo malessere costante
e per l’ambiente
per lo più elfico e formale nel quale viveva.
Galadriel,
dopo il primo
impatto immediato a Lothlórien, che lo aveva onestamente
turbato, aveva avuto
un effetto rassicurante su di lui. Lo aveva preso sotto la sua ala
protettrice,
riempito di un calore che non poteva definire come sincero. E adesso
era lì. In
carne ed ossa. Non il prodotto onirico della sua mente in
difficoltà. E anche
il suo calore era reale. Poteva percepire l’aura di
positività che la
circondava e rendeva particolarmente luminosa e bella la sua figura.
“Ammiro
il tuo coraggio…”,
confermò lei specchiandosi nelle iridi cristalline dello
Hobbit che scuoteva la
testa come a voler dire non mi sento
coraggioso. “Vorrei che ognuno di noi, coinvolto
nella vicenda dell’Anello,
portasse con sé parte della pena che stai trascinando da
solo… se così fosse,
le singole percentuali sarebbero così piccole da non
incidere negativamente su
nessuno… ma così non è, e tanto meno
esiste un incantesimo che possa
cambiarlo…”. Galadriel fece una pausa prima di
continuare. “Non negare di
possedere una straordinaria forza d’animo. È
evidente a noi tutti. Nessuno escluso”,
lo invitò quindi.
Il
volto di Frodo si
contrasse allora repentinamente in una smorfia incredula e al tempo
stesso
derisoria, a suo stesso indirizzo, negando con la testa. “Non
è corretto. Senza
Sam al mio fianco, non sarei riuscito a distruggere l’Anello,
né avrei
raggiunto il Monte Fato…Senza Aragorn, Legolas, Gimli,
Gandalf, Merry, Pippin e
tutti coloro che hanno lottato di pari passo al mio viaggio con Sam, i
miei
sforzi non sarebbero valsi a nulla. Sarei un altro Gollum, adesso. Non
sono coraggioso, Mia Signora. Ho
rischiato
più volte di soccombere all’invito
dell’Anello e forse in fin dei conti è stato
così. Non so nemmeno adesso se mi sia scagliato contro
Gollum per gettarlo nel
Monte Fato oppure se l’abbia fatto solo per cercare di
riprendermi l’Anello… se
ho visto in lui un rivale, esattamente come ero io per lui…
Ho avuto paura.
Tantissime volte. E continuo ad averla. Io sono solo uno Hobbit,
non sono un eroe”,
scandì in maniera chiara, lenta ed udibile.
Arrabbiato
con se stesso e per
quell’apprezzamento, che a suo giudizio non meritava
pienamente.
Lui
aveva fallito.
Perché
altrimenti continuava
a vivere quegli incubi?
La
risposta dell’Elfo non si
fece attendere. Una punta di amarezza e anche sorpresa nel tono di
voce, man
mano che il suo pensiero veniva espresso. Di certo non si era aspettata
una
reazione negativa per via di quel suo commento, che aveva avuto come
intento un
obiettivo diametralmente opposto a quel risultato.
“Quello
che dici è vero...
Compi però lo sbaglio di sminuire il tuo ruolo. Il tuo
elogio nei confronti dei
Membri della Compagnia e degli Eserciti di Rohan e Gondor è
legittimo, ma dare
loro il giusto merito non vuol dire pensare alla tua impresa personale
come ad
un fallimento. È una questione di giusto mezzo. Tutti hanno
avuto la loro parte
attiva nell’Avventura. Samwise the
Brave,
come tu stesso lo hai ribattezzato, primo tra tutti. È stato
un lavoro di
squadra. Cementato dai legami fortissimi di amicizia e rispetto
reciproco che
vi hanno unito, nonché dalla comunanza di ideali. Ma non
posso non valutare
positivamente quello che tu hai
fatto
in prima persona. Quello che stai vivendo, Frodo, dovrebbe farti capire
il tuo
ruolo eccezionale. Lo intendo in maniera etimologica.
Chi
sta soffrendo le
conseguenze di quell’Azione contro il Male di Mordor?
Tu,
piccolo Hobbit della Contea.
Tu
solo.
L’aiuto
degli altri è stato di
inestimabile valore, ma perché credi sia stata creata la
Compagnia?
Nessuno
si aspettava che ce
la facessi da solo.
L’oscuro
potere dell’Anello
ha irretito me stessa; Mithrandir; ha plagiato un saggio come
Saruman… chiunque
lo avvicinasse. Non devi sentirti di aver sbagliato, solo
perché anche tu sei
stato tentato. Guarda oltre questo, Frodo. Tu hai resistito e hai
distrutto
l’Unico Anello, scagliandoti contro Gollum e rischiando di
cadere nella fornace
di magma del Monte Fato. Come puoi non definirti coraggioso? Tu sei uno
Hobbit, è vero, ma anche
un eroe a mio avviso. E non
perché non hai
avuto paura, ma perché hai portato a termine la tua impresa,
investendo tutto te
stesso, rischiando di vedere distrutti per sempre e da un giorno
all’altro, la tua
purezza e il tuo mondo”.
“Ho
sempre creduto di aver
fallito… ho sempre ritenuto il mio malore un sintomo del mio
fallimento, non
della mia vittoria su Sauron”. Le parole erano state
accompagnate da un diniego
del capo ed una voce che aveva perso ogni nota d’asprezza,
finendo in una
specie di sussurro inintelligibile.
“Tu
non hai fallito”, rimarcò
fermamente Galadriel. “Le mie parole sono sincere, ma devi
considerarle tali
anche tu. Non sono un tentativo sterile di rassicurazione. A sostegno
di quanto
ti dico ho tra le mani un’oggettività che tu non
puoi avere adesso, in quanto
coinvolto in prima persona e ancora succube delle memorie. Credimi,
Frodo.
Cerca di sfare uno sforzo in questa direzione… Capisci cosa
voglio dire?”,
concluse in un
soffio, all’improvviso sconfortata
davanti il muro di amarezza e disinganno che aveva di fronte e che le
sembrò
incorruttibile, nel suo impianto saldo e rinforzato da un punto di
vista manifestamente
erroneo, a suo avviso, eppure contro il quale non era certa di poter
lottare
alla pari. Inoltre, iniziava a temere una seconda reazione ostile e
neanche
questo rientrava nei suoi obiettivi. Il ritardo poi di una risposta che
invece
sperava, contribuiva ancora di più a farle preventivare
l’idea di un
fallimento.
Tutto
intorno a loro era
immutato ed ugualmente privo di suono, tranne l’instancabile
flusso acquatico
alle loro spalle. Frodo rimase immobile per qualche istante, totalmente
immerso
in quella cornice sibillina e lunare, facendo proprie quelle parole,
per infine
parlare ancora.
“Hannon
le***”.
Le parole sussurrate in un
elfico dall’accento quasi inesistente, si resero udibili
timidamente, colme di
emozione frammista ad assenso. Frodo appariva incredibilmente indifeso
in
momento, nonostante lo sguardo fosse mortalmente serio e brillasse di
fredda
luce adamantina, senza recare più traccia alcuna di lacrime
represse. Come a
rallentatore, e seguendo un qualche istinto dettato dalla frustrazione
e dalla
solitudine interiore che lo stavano soffocando, abbassò il
capo bruno,
avvicinandosi a Galadriel. La cinse con il braccio libero
all’altezza della
vita e poi, lasciando che la stretta delle loro mani si sciogliesse,
permise
anche all’altro arto di scivolarle delicatamente dietro
schiena. Si ritrovò
così accoccolato contro il suo corpo diafano. Caldo come un
furetto
rannicchiato su se stesso, la stringeva forte, la fronte contro il suo
seno, il
volto affondato nel suo ventre, esercitando una pressione appena
percepibile e
non invadente.
La
Signora del Bosco d’Oro
rimase per un attimo ferma, trattenendo quasi il respiro, colta da
un’emozione
fortissima, paragonabile solo a quella che provava quando erano
Celebrían
oppure Arwen a stringerla in quella maniera così intima e
speciale, come a
voler rimarcare quella sorta di legame tellurico che aveva stabilito
anche con
Frodo e del quale adesso ne stava avendo ulteriore conferma, per poi
chinarsi
sulla chioma castana e morbida che si stagliava contro il candore della
sua
veste da notte e circondargli a sua volta, con le sue braccia
flessuose, le
spalle esili.
Lo
Hobbit si era quasi del
tutto rilassato, adesso che il calore della Dama di Lórien
lo avvolgeva
completamente. Tranquillizzato dal fatto che lei avesse ricambiato
semplicemente il gesto, senza sentirsi offesa per quello slancio forse
poco riguardoso,
rimase quasi scioccato dallo stupore, quando percepì la
pressione del capo
regale di lei chino sul suo e poi la dolcezza di un bacio stampato sui
suoi
capelli, mentre mani gentili gli accarezzavano la schiena, come tempo
addietro
aveva fatto sua madre Primula, per consolarlo di un qualche cruccio o
delusione
infantile.
Seppe
allora con certezza che
il suo inconscio lo aveva guidato sin lì per un motivo ben
preciso.
Come
se nella Dama dei
Galadhrim risiedesse parte della chiave di volta della sua situazione.
Era
davvero possibile?
C’era
davvero una chiave di
volta, se non miracolosa, almeno in grado di fargli squarciare il velo
opaco
che minava l’effettiva fondatezza delle sue percezioni e
allontanava ogni
speranza positiva per l’Eternità?
_______________
* “Frodo” in Old English
significa “peaceful”.
**
“Amico mio”. Inserisco
questa nota per i non LotR dipendenti.
***
“Grazie”. Ibidem
_______________
Grazie
per i commenti graditissimi!
Ho trovato splendide le vostre metafore.
Un
abbraccio speciale va a Lothiriel.
:) Non mi aspettavo minimamente che qualcuno mettesse la storia nel
topic dei
consigli (anzi ne ignoravo proprio l’esistenza, eh!).
Rispondo
ora alla domanda sul
titolo, più che lecita. Mea culpa – ho dimenticato
di inserire una nota nel
primo capitolo. Dunque, “Ainadamar”
è una parola araba e vuol dire “Fontana
delle Lacrime”.
Cosa
c’entra con Tolkien e
Frodo a Valinor? Apparentemente nulla, sennonché
è stato leggendo “Poeta en
Nuova York” di F.G. Lorca che mi sono decisa a scrivere.
È una delle mie
raccolte poetiche preferite, dai toni surrealisti, piuttosto cupi.
È rileggendo
le note sulla sua morte che l’occhio mi è caduto
sul luogo della fucilazione,
appunto Ainadamar oppure Fuente Grande in spagnolo, nei pressi di
Granada.
È
una parola suggestiva, che
mi comunica una grande tristezza, insita ad un male di vivere che mi
taglia un
po’ le gambe ogni volta che la ricollego a quelle poesie. Mi
è sembrato un
titolo adatto in qualche modo. In merito alla pronuncia,
l’accento va
sull’ultima /a/.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo tre - Oro ***
Ancora
un grazie a tutte,
ragazze. I vostri commenti significano moltissimo per me, specie
perché sto cercando
di cimentarmi in un genere che non è propriamente il mio,
descrivendo
personaggi che sono tutt’altro che inclini al mio
“normale” modo di vedere le
cose, come qualcuno ha fatto giustamente notare (♥).
Questo capitolo è l’ultimo
di “Ainadamar”, storia prologo a una prossima alla
quale sto lavorando e che
dovrebbe chiamarsi: “This thing of darkness I acknowledge
mine”, citazione da
“La Tempesta” di W. Shakespeare e che vorrebbe dire
“Questa creatura dell’oscurità
che riconosco simile a me” o varianti affini.
Cosa
c’entra con LotR?
Cercherò
di spiegarvelo
prossimamente…
Buona
lettura.
*
AINADAMAR
Capitolo
tre
Oro
Lo
sguardo affettuoso di
Gandalf, di un cobalto intenso e ombreggiato da sopracciglia candide e
cespugliose, incrociò quello colmo di tristezza di Galadriel.
Silenzioso,
il Maiar aveva abbandonato le sue stanze per parlare infine con
Frodo. Senza indugiare ulteriormente si era diretto nel giardino
dabbasso, un
luogo che lui stesso amava, in particolar modo quella fontana, simbolo
dell’eterno ciclo della vita, con il suo flusso appunto senza
fine e in grado
di tradurre in realtà i pensieri più cupi di
quanti decidevano di sostarvi
presso, immersi nelle proprie riflessioni. Stimando che Frodo si
sarebbe
sentito a disagio, torturato dall’eco feroce dei suoi incubi
peggiori, non era
più riuscito a rimanere confinato nel suo appartamento.
Un
luogo idoneo alla riflessione durante le nottate insonni.
Un
luogo positivo e negativo allo stesso tempo, giacché da quel
confronto
crudo e diretto con le proprie memorie, si poteva uscire sia vincitori
che
definitivamente sconfitti.
La
seconda opzione lo aveva fatto rabbrividire e pregare i Valar,
affinché l’amico
dimostrasse ancora una volta la sua incredibile capacità di
resistere e
fronteggiare le situazioni difficili.
Ma
qualcuno lo aveva preceduto.
Avanzando
con leggerezza e senza produrre alcun rumore, si era fermato
sugli scalini d’accesso al giardino e scorto così
l’immagine da un lato
insolita, dall’altro innegabilmente dolce, di Galadriel e lo
Hobbit.
Accennò
un sorriso alla sua
ospite, speculare a quello che lei gli fece di rimando. Un miscuglio
non ben
distinto di mestizia e sollievo. Rimase fermo sui gradini, la tunica
nivea che
indossava a creare una macchia di colore lunare, visti i raggi
dell’astro che
ne valorizzavano la trama della stoffa immacolata. Gli occhi si
abbassarono
sino a focalizzarsi su un’aiuola colma di iris bianchissimi.
Socchiuse allora le
palpebre, sospirando appena percettibilmente e avvertendo lo spirare di
una
brezza tiepida dal Mare poco lontano, a Oriente, per poi tornare ad
osservare
quella scena singolare.
Che
la Signora del Castello
fosse riuscita a scalfire il muro di simulazione che Frodo aveva
costruito
intorno a sé per non farli preoccupare e che lui,
Mithrandir, per primo, non
aveva avuto il coraggio di provare a scalfire?
Che
Frodo aveva ammesso il
suo disagio sinceramente e non solo a se stesso?
Riflettendo
su questi interrogativi,
chinò appena il capo canuto, congedandosi da Galadriel e
tornando
silenziosamente nella sua stanza da letto, invisibile e discreto come
era
comparso solo alcuni istanti prima. Avrebbe rimandato il suo discorso
con il
piccolo abitante della Contea e, in cuor suo, sperava avvenisse quanto
prima.
Desiderava scambiare di nuovo quattro chiacchiere con lo Hobbit,
vederlo
sorridere di fronte alle sue trovate bizzarre, godere dello spettacolo
di
quegli occhi incredibilmente azzurri spalancarsi dallo stupore,
ascoltare la
sua voce musicale fare domande e dare risposte. Desiderò
come non mai che Frodo
Baggins tornasse se stesso.
Così
innocente e sincero da
far male il solo pensarci.
E
proprio costui, ignaro di
quanto gli stesse accadendo intorno, si allontanò
gentilmente dall’Elfo del
Bosco d’Oro, sciogliendo così
l’abbraccio che li legava. Uno sguardo
riconoscente colmò i suoi occhi azzurro cupo e, senza
cambiare posizione,
continuò ad osservare il volto luminoso della Signora dei
Galadhrim.
Uno
sguardo il suo che oltre
ad esprimere riconoscenza, comunicava però anche attesa.
Galadriel
lo comprese
immediatamente, senza stupirsi troppo. Frodo era in grado di cogliere
le
sfumature come il più perspicace degli Elfi e gli anni
trascorsi in compagnia
dei Luminosi, non avevano fatto altro che rafforzare questa
caratteristica
latente in lui, prima di venire così positivamente affinata.
Sorridendogli
con il volto
privo di ombre meste, appoggiò i piedi a terra. Il fruscio
delle vesti
accompagnò quel movimento e anche sul volto di Frodo si
dipinse un sorriso.
Rinfrancata da quello sguardo sereno, concentrò la propria
attenzione su quei
lineamenti ora distesi.
Il
vecchio Frodo della Contea
non doveva poi essere diverso dall’essere con gli occhi
scintillanti di attesa
e speranza come quello che sostava ancora seduto ad un passo da lei.
Un’immagine
bellissima che
testimoniava una purezza e un’onestà difficili da
esprimersi a parole.
Porgendogli
la mano, lo
invitò a scendere dalla fontana e quindi a seguirla.
Frodo
osservò la mano che
Galadriel gli aveva porto, comprendendo che la sua aspettativa stava
per essere
soddisfatta e tutti i suoi interrogativi forse chiariti, per afferrarla
senza
aspettare un attimo di più e, silenzioso, camminarle accanto.
Percorsero
diversi metri
prima di deviare sulla destra del giardino e ritrovarsi quindi di
fronte la
parete di pietra calcarea, verde di edera e candida di gardenie, che
Galadriel
aveva osservato in precedenza, dall’alto della sua stanza. Il
profumo dei fiori
era quasi stordente e a Frodo balenò dinanzi
l’immagine del giardino di Bag End
curato ad arte dalle mani
laboriose di Sam.
Scesero
una decina di
scalini, coperti qua e là di muschio vellutato ed
accedettero infine al piano
inferiore del parco. Un cantuccio seminascosto e cinto da un boschetto
di mellyrn. Quest’ala del
parco era un
piccolo angolo di Lothlórien trasferito al di là
del Mare. Se il resto del
castello poteva in qualche modo ricordare Gran Burrone o forse
addirittura
Minas Tirith, per via del candore immacolato delle mura e delle pareti,
qui le
cose cambiavano.
Il
boschetto di mellyrn risplendeva
come oro brunito.
Sia la corteccia degli alberi, sia le loro foglie erano splendenti di
riverberi
gialli e luminosi. Sollevando lo sguardo sulle cime dei mellyrn,
Frodo poté intravedere i tipici flet,
i miniappartamenti che aveva conosciuto a Lórien e sui quali
aveva dormito durante il suo soggiorno in quella Terra. In un certo
senso non
era stupito da quella scoperta, né da
quell’improvviso salto nel passato.
Galadriel era la regina dei
Galadhrim, la Gente degli Alberi per l’appunto, era
impossibile che lì a
Valinor avesse dimenticato la sua vera natura. A completare quel quadro
di oro
splendente concorreva un intero prato di elanor,
dai tipici fiorellini a stella e dai petali appuntiti, risplendente
come non
mai per via di quel rifrangersi intrecciato di riflessi.
Un
cambiamento improvviso, ma
ugualmente mozzafiato rispetto al candore perlaceo che invece
caratterizzava il
piano superiore del giardino.
Un
ricordo ulteriore prese
forma nella sua mente. Ancora di più quando vide, sulla
destra dell’ellisse che
li ospitava, quello che conosceva con il nome di Specchio di Galadriel.
La bassa e poco profonda vasca
d’argento
incassata nella pietra che, colmata d'acqua, era in grado di rivelare
immagini
del passato, del presente e del futuro, risplendeva, infatti, nella
penombra,
come la stella lucente di Eärendil.
Voltò
la testa in segno di domanda e Galadriel gli rivolse
un’espressione enigmatica
che lo fece irrigidire. Stava accadendo tutto come nel loro incontro a
Lórien,
quando il vaticinio improvviso della Dama lo aveva più
spaventato che
rassicurato. La mano calda dell’Elfo però
continuava a stringere la sua
premurosamente e ciò lo rese ancora più confuso.
Galadriel
percepì quell’improvvisa titubanza da parte della
piccola creaturina,
ritrovandosi lei stessa immersa nel déjà-vu
del loro primo incontro.
Chiuse, infatti, gli occhi per un attimo, e tornò quindi a
guardarlo per
accarezzargli lievemente una guancia.
“Non
hai nulla da temere”, lo rassicurò con voce
affettuosa.
“Lo
Specchio…”, articolò Frodo.
“Non ho dei bei ricordi…”,
spiegò, mentre un
intrecciarsi di voci si rincorrevano nella sua testa.
Will you look into the mirror?
>>What will I see?
Not even the wisest can say, for the mirror
shows many
things. Things that are, things that were, and some things that have
not yet
come to pass.
>>I cannot do this alone.
You are a Ring-bearer, Frodo. To bear a ring of
power
is to be alone. This task was appointed to you, and if you do not find
a way,
no one will.
>>Then, I know what I must do.
It's just I am
afraid to do it.
“Avevo
visto immagini di
Legolas, Merry e Pippin, Sam quindi… Gandalf con le sue
nuove vesti. La Contea
così come l’avevo lasciata, poi devastata, piena
di Orchi, come avrei scoperto
al mio ritorno. Sam in catene… infine l’Occhio e
l’Anello che diventava sempre
più pesante, come avesse voluto tuffarsi nelle acque dello
Specchio”, elencò
ricordando adesso chiaramente quanto la superficie riflettente aveva
profetizzato e portandosi istintivamente le mani al collo, come a
cercare la
catenina con il cerchietto dorato.
Non
trovandolo però sollevò
di nuovo lo sguardo smarrito su Galadriel.
“Ricordo la tua visione,
Frodo”, annuì costei, spiacendosi di vederlo di
nuovo confuso e sofferente, a
cercare quell’Anello che sembrava essere diventato una sorta
di appendice mai
dimenticata, data quella reazione immediata. Le sue stesse parole,
colme di
notizie nefaste, si facevano spazio negli scomparti della sua memoria...
I know what it is you have seen, for it is also
in my
mind…
The Fellowship is breaking.
Already it has begun.
He will try to take the Ring.
You know of whom I speak.
One
by one, it will destroy them all.
“…ma appartiene al passato”,
continuò tornando in sé. “Se siamo qui,
non è per
rivangare le cose che sono state”.
Frodo sospirò pesantemente,
facendo scivolare via la sua mano da quella di Galadriel per
avvicinarsi ancora
di più presso lo Specchio. “Per un attimo mi
è sembrato di trovarmi ancora lì…
ho quasi percepito la presenza fisica dell’Anello”.
L’Elfo
era rimasto invece
qualche metro più in là, osservando la figuretta
dello Hobbit e ascoltando
attentamente le sue parole. “È il passato,
Frodo”, ribadì con l’usuale tono
melodico
della voce, ma con, allo stesso tempo, una determinazione che forse
strideva
con la sua aura solitamente quasi fragile. “Dovresti darti
una possibilità…
guardare al futuro”, aggiunse sibillina.
“Guardare
al futuro?”, chiese
Frodo abbassando lo sguardo e fissandolo per un attimo su un punto
indefinito
tra sé e Galadriel. “Quale futuro?”,
domandò poi con voce incredula. “Verso
quale futuro dovrei guardare, Mia Signora? Ho davanti
l’Eternità e,
contrariamente a quello che credevo, non c’è nulla
di cui essere lieti…”.
“Sbagli,
Frodo”, ribatté
invece l’Elfo incamminandosi con passi lenti verso la vasca
argentata.
“L’Eternità non sarà
interamente grama con te, come adesso temi”, aggiunse
voltandosi di nuovo verso lo Hobbit e ritrovandosi così di
fronte a lui.
“L’Eternità
non sarà interamente
grama con me, come adesso temo…? Non capisco”.
“Guarda
al futuro”.
All’ennesimo
invito di
Galadriel, Frodo diresse lo sguardo, in quel frangente plumbeo come un
cielo
autunnale, verso il bagliore argenteo che nasceva sulla superficie
della vasca,
grazie al riflesso della Luna.
Guarda
al futuro…
“Lo
Specchio?”, domandò
allora fissando la Dama di Lothlórien.
Galadriel
annuì, prima di
afferrare la brocca brunita adagiata sul terreno, riempirla con le
acque
limpide della sorgente che sgorgava presso uno degli alberi dalle
grandi foglie
dorate e versarne il contenuto trasparente nello Specchio.
“È pronta, Frodo”,
comunicò subito dopo. Il suo volto era ermetico in quel
momento, quasi grave.
A
causa di questo, Frodo non
si sentì affatto rassicurato. L’atteggiamento e le
parole della sua ospite
erano più che contraddittori ai suoi occhi. Non riusciva a
comprendere da
quanto si erano detti cosa lo avrebbe aspettato. Incerto, si
voltò comunque
verso lo specchio d’acqua che sembrava aspettarlo. Sapeva che
l’Elfo conosceva
già l’esito del vaticinio e il fatto che
continuasse a guardarlo così
cripticamente non lo stava aiutando.
Doveva
esserci però un motivo
per il quale era stato condotto lì.
Un
motivo perché era stato invitato
a guardare nello Specchio.
Un
motivo per il quale
Galadriel gli aveva detto che la sua esistenza a Valinor non sarebbe
stata per
sempre così travagliata.
L’Eternità
non sarà interamente grama con te, come adesso temi
…
Guarda
al futuro…
Appoggiando
le mani sul bordo
della vasca, chiuse per un attimo gli occhi. Sentiva lo sguardo
dell’Elfo su di
sé, il silenzio della notte, quell’odore
fortissimo di fiori che lo circondavano,
la luce dorata che rendeva tutto ulteriormente irreale
nonché simile ad un
sogno e, concentrandosi sul pulsare del suo cuore che avvertiva
forsennato, si
disse che era giunto il momento.
Galadriel
era rimasta al suo
fianco e da lì ne osservò il volto, quando infine
prese a fissare l’acqua
cristallina che riempiva lo Specchio Incantato. Lo vide spalancare gli
occhi,
mentre le immagini si susseguivano una dietro l’altra e la
profezia del suo
futuro sfilava repentina davanti al suo sguardo.
L’aria
tutt’intorno sembrava
essersi all’improvviso come immobilizzata, poi era diventata
densa in maniera
insopportabile, l’eco assordante di pianti, grida e gemiti si
era resa all’improvviso
udibile ed assordante, facendo impallidire sgomenta la Dama, infine
tutto era
tornato di nuovo sereno.
Frodo
era rimasto a lungo con
lo sguardo incollato allo Specchio, stordito da quanto aveva visto e
ascoltato,
poi si era voltato lentamente verso Galadriel.
L’Elfo
gli apparve
all’improvviso luminoso come una stella e
l’impressione venne confermata dallo
sguardo di lei, tornato limpido e di un blu intenso. Un sorriso
rassicurante le
incurvava le labbra. L’immagine divenne
all’improvviso sfocata e poi
indistinta. Rimase davanti ai suoi occhi come una macchia candida con i
contorni sfumati da un pittore poco attento. Lo stesso valeva per il
giardino che
li ospitava. Tutto era diventato simile ad un quadro di verde, giallo
oro e
nero amalgamati arbitrariamente.
Lacrime
calde e salate gli rigavano
le guance adesso rosate dall’emozione. Gli occhi erano
splendenti, un azzurro
intenso, come ravvivato dalla componente salina del pianto.
Galadriel
gli si avvicinò,
sorridendo ora dolcemente, felice di vederlo così emozionato
e finalmente in
grado di esprimere quello che provava. Da Elfo la aveva sempre stupita
la
semplicità degli Hobbit. Quell’esternare le
passioni, positive o negative che
fossero. Era rimasta però senza parole quando si era resa
conto che Frodo aveva
perso quella capacità, trascinando avanti i suoi giorni
fortemente inibito ed
evidentemente infelice.
Gli
sfiorò il viso
asciugandogli le tracce umide che ancora scendevano e, sempre
sorridendo, lo
riprese per mano e condusse al piano superiore, tornando
così di nuovo a
sedersi sulla fontana presso la quale si erano incontrati.
Il
rumore dell’acqua
zampillante sembrava essersi quasi attutito, come a fungere da colonna
sonora
appena accennata al dialogo che di lì a poco avrebbe avuto
luogo.
L’acqua
adesso cadeva giù
goccia a goccia.
Stilla
dopo stilla.
Lacrima
dopo lacrima,
accompagnando lo sfogo silenzioso dello Hobbit.
Frodo
soffermò lo sguardo
sull’ambiente che lo circondava. Scorse, al di là
del bordo della balaustra, le
acque del Mare appena illuminate dalla fioca luce dell’alba.
Il
sorgere del Sole era
vicino.
“Ho
visto la Contea …”,
iniziò voltandosi a guardare l’Elfo quieto e
regale seduto a suo lato che lo
invitò a continuare con un cenno della testa.
“Gondor…”, proseguì.
“… i Porti
Grigi”.
Galadriel
annuì ancora,
confermandogli così il fatto che già sapesse.
“Merry
e Pippin si sono
sposati…”, considerò lo Hobbit, con una
nota di meraviglia palpabile nel tono
di voce.
“Conosci
le loro spose?”.
“Non
sono sicuro… Merry
potrebbe aver sposato la sorella di Fatty, ma non l’ho
riconosciuta
chiaramente”.
Di
fronte ai quei dubbi,
Galadriel parlò. Era lieta di spiegare i punti oscuri di
quanto Frodo aveva
visto. Molte cose erano successe nella Terra di Mezzo da quando
l’avevano
lasciata.
Anche
lei le aveva apprese
grazie al suo Specchio Incantato.
Diversi
giorni prima aveva deciso di interrogare l’oracolo acquatico.
Quella decisione era scaturita dopo settimane di ripensamenti e
congetture che
l’avevano vista però sconfitta. Assolutamente
incapace di allontanare
l’immagine mesta dello Hobbit dalla propria mente e di giorno
e ancor peggio di
notte, aveva abbandonato il proprio letto nuziale come in trance,
bloccata
all’ultimo momento dalla presa gentile, ma decisa della mano
di Celeborn
intorno al suo braccio nudo.
Come
risvegliatasi da qualche brutto sogno aveva allora osservato il volto
grave
del consorte, la fronte dai riverberi madreperlacei segnata da una ruga
interrogativa e nello sguardo di un blu cupo esplicita una domanda, per
quanto muta.
Facendo
una smorfia di impotenza, vista la momentanea incapacità di
spiegarsi e riassumere coerentemente tutti i dubbi che
l’avevano accompagnata
negli ultimi giorni, aveva sospirato affranta e, di fronte
all’occhiata colma
di dolcezza e sostegno di Celeborn, accennato un sorriso,
accarezzandogli una
guancia con mano tremante e ceduto a quell’invito tacito che
le consigliava di
confidarsi con lui.
“Voglio
interrogare lo Specchio”, aveva dichiarato con voce ferma,
soffermando nuovamente il proprio sguardo sul bel volto di Celeborn,
per
coglierne ogni singola sfumatura di fronte a quella che sapeva essere
una
pazzia.
“È
per Frodo, sbaglio forse?”.
“No…
anche se è mia intenzione cercare di veder chiaro nel mio
futuro e
intuire forse qualcosa del suo…come
conseguenza…”, aveva cercato di spiegarsi.
“Sapevo
che lo avresti fatto prima o poi”, aveva parlato Celeborn,
accennando un sorriso mesto.
“Tu…
sapevi?”.
“Sono
giorni che deambuli tra queste mura senza sollievo. Inoltre la
preoccupazione nei tuoi occhi è palese, Mia
Signora”, aveva chiarito l’Elfo,
indossando con gesti abili un lungo abito bianco, corredandolo con un
mantello
azzurro cielo.
“Cosa
stai facendo?”, aveva domandato Galadriel osservando i
movimenti del
compagno e sentendosi arrossire sotto quello sguardo acuto ed
intelligente.
“Ti
accompagno”, aveva risposto lui con un mezzo sorriso,
porgendole a sua
volta una veste immacolata e aiutandola ad indossarla, senza aggiungere
nessun’altra parola.
Silente
anch’essa, la Dama lo aveva seguito presso
quell’angolo di giardino
che ospitava lo Specchio Incantato.
Era
rimasta a lungo di fronte la vasca brunita, eretta e fiera nel suo
mantello candido, come in contemplazione. Prima di riempirla aveva
cercato
ancora una volta il sostegno negli occhi del Signore dei Galadhrim che
rimaneva
a una certa distanza.
Rassicurata
da un impercettibile cenno affermativo di quella testa regale,
aveva compiuto quel gesto così usuale per lei, versando il
liquido trasparente
della brocca nello Specchio.
Si
era concentrata con tutta se stessa, gli occhi chiusi, completamente
distaccata da quanto la circondava, ma nulla era accaduto. La
superficie
acquatica era rimasta immobile e nessun vaticinio era stato leggibile.
Di
fronte a quell’iniziale fallimento, non aveva desistito, ma
ancora per
due, tre volte nulla era avvenuto.
Era risuonata allora nell’aria
l’eco beffarda di quanto aveva detto un
tempo a Frodo, dopo aver superato la prova a cui l’aveva
sottoposta l’Unico
Anello.
I passed the test.
I will diminish, and go into the West, and
remain
Galadriel…
I will diminish…
I will diminish…
I
will diminish…
“Perderò
i miei poteri…”, aveva ripetuto allora a voce
alta, mentre il coro
scoraggiante e stridulo provocato dalla natura incantata delle acque,
che
alimentavano anche la fontana superiore, si estingueva.
“Ciò è quanto dissi a
Frodo… è così… ho perso i
miei poteri”, aveva continuato, sentendo la
disperazione sopraffarla e delle lacrime inaspettate bruciarle gli
angoli degli
occhi, ora colmi di delusione.
Celeborn
aveva tratto un profondo sospiro, intimamente lacerato di fronte a
quell’immagine estremamente fragile della sua sposa. In cuor
suo si era aspettato
un epilogo del genere, non per questo però ne gioiva. Si era
illuso in qualche
modo con lei che le capacità divinatorie sarebbero tornate
all’improvviso. Osservando
lo Specchio e le sue acque assolutamente immobili, gli era parso mesto
oltre
ogni dire, ma aveva sollevato di nuovo lo sguardo sul volto di una
Galadriel
indecisa sul da farsi come mai l’aveva vista.
“Prova
ancora…”, l’aveva invitata.
“Se è davvero questo l’unico modo per
cercare di aiutare Frodo, non devi arrenderti dopo alcuni primissimi
tentativi.
Sei stata una veggente per la maggior parte della tua esistenza. Parte
di quel
potere positivo deve essere rimasto in te anche qui a Valinor, come
è accaduto
al piccolo Hobbit, sebbene alle prese con una forza diametralmente
opposta alla
tua”.
Udendo
quel messaggio di speranza scandito da quella bella voce virile,
colma di sostegno, la Dama aveva cercato di liberare la propria mente
dai
residui di quell’eco doloroso che ribadiva la sua sconfitta e
che non aveva
risparmiato nemmeno lei. Aveva ricacciato indietro
l’afflizione ed era tornata
a concentrarsi.
Nulla
di notevole si era verificato inizialmente, ma poi le acque dello
Specchio
avevano iniziato a muoversi, dapprima impercettibilmente, in seguito
sempre di
più, infine una luce luminosa ne era scaturita e immagini
variegate e complete
si erano invece susseguite sulla superficie liquida in movimento.
Passato,
presente e futuro della Terra di Mezzo e di Valinor si erano
intrecciati,
facendole avere un quadro generale molto più ampio di quello
che si era
immaginata. E quanto aveva avuto modo di conoscere, l’aveva
di molto sollevata.
Soprattutto per Frodo. Nella fattispecie aveva visto esattamente parte
del
futuro del piccolo Hobbit, richiedendo al suo fisico ed alla sua mente
uno
sforzo grandissimo, che l’aveva fatta sentire
all’improvviso come svuotata e
crollare a terra, piegandosi sulle proprie ginocchia prive di forze.
Celeborn
le era stato subito accanto, chiamandola allarmato e trovandola
semicosciente. Le aveva allora accarezzato il volto pallido, ma tiepido
come
sempre e aveva sentito le mani nobili dalle dita sottili, stringere le
sue e
mormorare un flebile: “Ho visto…”.
“Lo
so…”, le aveva risposto sollevato, invitandola a
non sforzarsi
ulteriormente e, sollevandola da terra, l’aveva presa in
braccio e ricondotta
nelle proprie stanze, liquidando con un gesto rassicurante e imperioso
della
mano le ancelle che erano loro accorse incontro, vedendo lo stato di
sofferenza
nel quale sembrava immersa la propria signora.
Era
stato lui a occuparsi di lei, accorto e gentile. Le aveva tolto le
lunghe
vesti, appena macchiate di verde alla base per via del contatto con il
prato
del giardino e ricoperte qua e là di foglioline e rametti,
per farla distendere
sul letto, coprirla amorevolmente e vegliarla per tutta la notte e nei
successivi quindici giorni.
Tale
era stato il tempo della degenza e nulla rimaneva adesso di quel
malessere.
Era
guarita.
Il
suo organismo aveva recuperato gradualmente forza, così come
la sua
mente aveva riacquistato immagini, ricordi e capacità di
intendere,
momentaneamente venuti meno.
Forse
adesso aveva davvero perso i propri poteri.
Definitivamente.
Tuttavia
era stato per Frodo e non c’era null’altro da
aggiungere.
“Il
Signore della Terra di
Buck ha sposato Estella Bolger, sorella di Fredegar, come hai intuito.
Il Conte
Peregrin invece ha preso in sposa Diamante di Lungo
Squarcio”, rispose,
focalizzandosi di nuovo sul suo ansioso interlocutore.
Frodo
sorrise udendo i titoli
onorifici con i quali si era riferita ai due cugini.
L’espressione
affettuosa
dipinta sul suo volto intenerì l’Elfo. Il legame
che legava agli Hobbit sarebbe
davvero durato per l’Eternità, a prescindere dalla
loro presenza o non presenza
a Valinor.
“Hanno
ricevuto la giusta
onorificenza per quanto hanno portato avanti”, sorrise
serena, ricordando il
volto allegro dei due Hobbit della Terra di Buck.
“Sono
felice per loro”, annuì
Frodo sincero. “Li ho conosciuti giovani e spensierati. Li ho
rivisti avanti
negli anni e più maturi, ma per me rimarranno Merry e Pippin
per sempre”,
aggiunse a voce appena più bassa, velata da un
impercettibile nota malinconica.
“C’era un matrimonio…”, si
riprese subito dopo, curioso di chiarire i numerosi
punti oscuri insiti in ciò che aveva visto per degli attimi
brevissimi.
“Faramir…”,
rispose la Dama
di Lórien. “Il figlio di Diamante e Peregrin.
Sposerà Goldilocks… Gamgee”.
“Gamgee?”,
chiese Frodo
genuinamente sorpreso. “Sam e Pip con-suoceri?”,
rise spontaneamente, non
riuscendo a pensare a nulla di più improbabile in un certo
senso. “Ce n’è per
riempire più di un albero genealogico”,
considerò poi riferendosi alla passione
Hobbit per eccellenza.
“È
così…”, confermò
l’Elfo
sorridendo con lui.
“Arwen
Undómiel ed Elassar…”.
“Vivono
felici a Gondor,
Frodo. Regnano su quelle terre con saggezza. La Terra di Mezzo sta
conoscendo
una nuova era. Estremamente prolifica e indubbiamente
pacifica”.
“Esattamente
come quando
l’abbiamo lasciata”, disse Frodo, mentre, ad occhi
chiusi, rivedeva i volti
sereni sebbene un po’ invecchiati della Stella del Vespro e
di Aragorn. L’età
non li aveva però imbruttiti, piuttosto aveva loro conferito
una sorte di luce.
Il riflesso della loro felicità interiore,
considerò tra sé, riaprendo gli
occhi e rivolgendosi di nuovo a Galadriel.
“Parlatemi
di Sam, Mia
Signora”.
“Anch’egli
è molto felice,
Frodo. Il suo matrimonio con Rosie è benedetto dai Valar.
Hanno avuto una
famiglia numerosa. Tu hai avuto modo di conoscere solo Elanor, ma sono
nati
altri piccoli. Il secondogenito, Frodo-lad, porta il tuo stesso nome.
Poi sono
arrivati Rose, Merry, Pippin, Goldilocks, Hamfast, Daisy, Primrose,
Bilbo,
Ruby, Robin e Tolman. Sam è un padre giusto e molto
amato”.
Frodo
rimase in silenzio
trovando però conferma alle sue supposizioni. Aveva visto
con i suoi stessi
occhi la nascita dell’unione tra Rosie e Sam e adesso aveva
la conferma che
fosse di fatto indistruttibile. L’immagine di una Bag End pullulante di esserini dalle
orecchie a punta con il capo
colmo di riccioli biondi e dallo sguardo dolce lo fece sorridere e
sospirare di
malinconia al tempo stesso. Una morsa lo strinse forte
all’altezza del cuore,
mentre sentiva gli occhi farsi di nuovo umidi.
“Mi
mancano…”, mormorò
fiocamente, come riflettendo ad alta voce.
“Ti
manca la Contea?”,
inquisì Galadriel accortasi del repentino cambio di umore
nella creatura bruna
che adesso teneva ambo le mani strettamente chiuse intorno al bordo
della vasca
sulla quale erano seduti.
“Sì…
mi manca la mia vita lì…
ho nostalgia di tutto… soprattutto delle persone”.
“Perché
hai deciso di attraversare
il Mare, Frodo?”, azzardò allora la Dama.
“Non
so se si possa parlare
di una vera e propria decisione… non riuscivo più
a… vivere, a riprendere il
filo della mia esistenza dopo la distruzione dell’Anello e la
liberazione della
Contea. Era come se non appartenessi più a quei
luoghi...”, iniziò a spiegare
il giovane, la mente rivolta agli ultimi mesi nella Terra di Mezzo.
“Inoltre mi
ero reso conto che la mia presenza amareggiava in qualche modo
l’esistenza di
tutti coloro che mi erano vicini. Io non avevo più nulla da
vivere, né da
scrivere. Per questo me ne sono andato. Ho consegnato il Libro
Rosso a Sam, perché
era giusto che fosse lui a tenerlo e a continuare a riempire quelle
pagine. Non
era invece tale che continuassi a farlo preoccupare. Ho fatto la scelta
migliore andandomene, ma credo di essere stato allo stesso
tempo… egoista. Ho
pensato… solo a me. L’ho visto, Mia
Signora… ho visto Sam, mentre versava milioni
di lacrime a causa mia, dopo la mia partenza. Forse ancora di
più di quelle che
versava quando stavo male, ma condividevamo ancora lo stesso tetto. Ho
sentito
la sua voce… qui, la voce di tutti gli altri, prima che voi
arrivaste e poi
presso lo Specchio… Credevo di risolvere tutto
allontanandomi dalla Contea, ma i
Valar non erano dello stesso parere…”. Il discorso
era stato lungo, articolato
su delle lunghe pause e acceso nel finale. La voce salita di qualche
tono, a
testimoniare il dispiacere profondo che quelle immagini avevano
originato.
“Non
è stato egoismo, Frodo…
Samwise e tutti gli altri hanno sofferto molto per la tua partenza,
sentono
ancora la tua mancanza, ma cercano di vivere al meglio la loro
esistenza. Non
hanno reso vani i tuoi sforzi. Non hanno vanificato l’esito
dell’Avventura
dell’Anello, lasciandosi abbattere dalla
sofferenza”, parlò Galadriel
osservandolo adesso distante, le iridi cupe.
“Perché tu stai vanificando i loro
sforzi invece? Perché stai permettendo all’Anello
di avere la meglio sulla tua
natura? Questa è stata certamente modificata durante il
corso della Quest, Frodo, ma non
distrutta. Hai
conosciuto la corruzione, hai convissuto con lei a lungo, ma
continuando a
sentirti più legato a lei che ai tuoi affetti e alla tua
vita non riuscirai ad
allontanarla da te”.
Frodo
sentì le lacrime scorrergli
di nuovo sul volto, mentre rivedeva davanti a sé alcuni
flashback del passato,
e il tono privo dell’usuale amabilità, seppure non
irato o acuto, di Galadriel
scudisciava i suoi nervi già fortemente provati.
Quanti
avevano perso la vita
lottando contro Sauron?
Quante
volte Sam lo aveva
protetto?
Quanto
audaci erano stati
Merry e Pip a dispetto della loro natura pacifica?
Quanto
coraggiosi ed abili in
battaglia erano stati Aragorn, Legolas, Gimli, Éomer, Dama
Éowyn e tutti gli
eserciti che con loro avevano combattuto?
Stava
davvero vanificando
tutto, lasciandosi amareggiare dal suo personale rapporto con
l’Anello?
A
cosa era servito lottare
allora se adesso, a distanza di un tempo che iniziava ad essere
cospicuo, lui
soccombeva a quelle vecchie ferite e a quegli incubi notturni?
L’obiettivo
della Ricerca era
stato quello di riportare la serenità nella Terra di Mezzo,
perché allora si
era tagliato fuori da quell’atmosfera gioiosa ritrovata,
annullando gli sforzi
altrui?
Ignorando
le lacrime che
continuavano a scendere e cercando di trattenere i singhiozzi che
avvertiva in
gola, riprese a parlare. “Rosie
morirà…”, mormorò, rivedendo
l’immagine
dell’ormai anziana Hobbit circondata da fiori rosa e adagiata
in una bara
candida. Uno Hobbit che, dalla vivacità dello sguardo, aveva
riconosciuto
subito come Sam, nonostante l’aspetto fisico notevolmente
diverso, i capelli
ormai bianchi e il volto che esprimeva una sofferenza profonda per la
morte di
colei che era stata una compagna di vita per moltissimi anni.
Rispettando
la decisione dello
Hobbit nel cambiare parzialmente argomento, Galadriel rispose:
“Accadrà nel FO
61… compiuti i 98 anni”.
“Ho
visto uno Hobbit con in
mano il Libro Rosso di Bilbo, sul
molo… presso Grey Havens. Guardava verso Ovest… i
capelli biondi mossi dal
vento… poco distante da lei un altro Hobbit con in braccio
un piccolo di
qualche anno…”, descrisse Frodo, guardando la Dama
della Luce. “Elanor…?”,
azzardò quindi, dando voce al suo dubbio.
“Sì…
con suo marito, Fastred di
Verdolmo, e il piccolo Elfstan…”.
Lo
Hobbit allora si lasciò
sfuggire un mormorio di sorpresa, necessitando di qualche istante per
riprendersi. “È strano… per me,
pensarla madre… quando ho lasciato la Terra di
Mezzo era una bambina…”, spiegò
incredulo e come cosciente solo adesso che
nella Terra di Mezzo il tempo avesse davvero continuato la sua corsa.
“Amava le
mie storie… passavamo molte sere seduti sui gradini del
portico di Bag End, respirando il
profumo dei fiori
del giardino, bevendo limonata e mangiando dolci…”.
“È
molto graziosa, Frodo. È
stata spesse volte scambiata per un Elfo e si è guadagnata
appunto il
soprannome di Elanor la Bella. È una delle dame di
Arwen”, spiegò Galadriel
sorridendo al ricordo della nipote.
“Perché
una Fontana delle
Lacrime è qui? Valinor non è il regno della
gioia?”, chiese lo Hobbit
improvvisamente, assorbendo quelle informazioni, conscio del fatto che
lui non
aveva vissuto quei cambiamenti. “No…”,
si rispose da solo. “Almeno, non per
tutti allo stesso modo…”.
La
Dama annuì. “Questa fontana
è alimentata dalla sorgente che hai visto dabbasso. Avendo
vissuto il vaticinio
per via di questa stessa acqua, hai avuto modo di sentire il pianto di
Sam e di
tutti coloro che hanno perso la vita nella Terra di Mezzo a causa
dell’Anello. Sono
le tue memorie, Frodo. La fontana ha dato loro voce, ma non ha
inventato nulla.
Sei stato tu a fornirle quel materiale. È tutto nella tua
testa, racchiuso nel
tuo cuore e nella tua anima. È però uno strumento
dalla doppia faccia, può
aiutare o condannare definitivamente. E Valinor non è immune
dal male. Qui
penetra con minore vigore, ma vi penetra. Prima della vicenda
dell’Anello, ne
era completamente privo e le acque della sorgente non avevano nessun
potere…
Non devi però temerle. Non più almeno. Hai
superato la prova…”.
Come
ho fatto io… aggiunse
poi silenziosamente tra se e sé.
Frodo
rimase per un po’ in
silenzio, assimilando quelle nozioni e cercando di capire cosa volesse
dire hai superato la prova. Prese
così a
parlare, illustrando l’ultima immagine che aveva visto.
“Tutto
quello che ho scorto,
è destinato ad avverarsi, Mia Signora?”.
“Abbiamo
avuto modo di
appurare in più di un’occasione che i vaticini
dello Specchio sono
indiscutibili”.
Lo
Hobbit spalancò allora gli
occhi, avendo conferma dell’impossibile solo a pensarsi
appena qualche ora
prima.
“Dunque
Sam verrà qui… dopo
la morte di Rose… dopo aver consegnato il Libro
Rosso ad Elanor?”, espresse infine, sentendo la
voce tremargli e sentendosi
all’improvviso soffocare.
“Ti
piacerebbe rivederlo,
Frodo? Passare l’Eternità accanto al tuo migliore
amico?”.
“Ho
pensato spesse volte a
come sarebbe stato se avessimo avuto l’opportunità
di rivederci, ma essendo un
qualcosa legato ad una sua traversata verso Ovest, mi sono sempre detto
che era
impossibile… che io e Bilbo eravamo qui perché ci
era stato accordato un
permesso speciale… cosa che Sam e tutti gli altri componenti
della Compagnia
meriterebbero… ma che non hanno avuto”.
“Alcuni
di loro lo avranno…”,
intervenne Galadriel. “Gimli e Legolas… dopo
Samwise”, disse infine l’Elfo,
sorridendo dolcemente.
L’inconsueta
coppia formata
dal concreto Mastro Nano e dall’etereo Principe di Mirkwood,
fece sorridere di stupore
Frodo, ma quel sorriso divenne qualcosa di più avendo
conferma del fatto che
Sam e così parte della Contea lo avrebbero raggiunto.
Quasi
stordito dall’energia
che sentì attraversargli il corpo senza preavviso e
sentendosi di riflesso,
vivo come non lo era da secoli, sostenne lo sguardo amorevole della
Signora di
Lóthlorien, ora conscio di cosa volesse dire aver
superato la prova. Aveva archiviato parte di quelle memorie,
non aver ceduto di nuovo al loro carico di disperazione e malinconia
pur
avendole risentite grazie al potere di quell’acqua incantata,
ecco cosa voleva
dire.
Migliore
amico…
rimbombarono quelle due all’apparenza semplici parole
nella sua testa, riscaldandogli l’anima.
Padron
Frodo…
Signor
Frodo…
Gli
appellativi che Sam era
solito rivolgergli si palesarono allo stesso modo nella sua memoria, ma
fecero
male. Una fitta improvvisa e contro la quale si era trovato
impreparato. La
precedente sicurezza veniva repentinamente meno.
E
se Sam non lo considerasse il
suo migliore amico invece?
Se
si sentisse legato a lui
solo da un legame servo-padrone?
Era
riuscito a fargli capire
che in realtà per lui non era mai stato un servitore,
bensì un pari?
Sam
sarebbe davvero giunto a
Valinor per stare con lui spontaneamente o semplicemente avrebbe
seguito il suo
grandissimo senso del dovere, ritrovandosi così a seguire il
suo padrone anche
nell’Eternità?
Erano
pensieri crudi questi,
che gli procuravamo un dolore quasi più sordo di quello
della lama avvelenata di
Morgul.
Ma
qualcosa nel più profondo
gli diceva che non poteva essersi sbagliato fino a quel punto.
Sam
non poteva considerarlo
solo come il suo padrone.
Era
un’amicizia profonda e
speciale la loro, rinsaldata dagli avvenimenti che avevano avuto modo
di vivere
insieme, si ripeté caparbiamente, percependo parte del
calore precedente
l’intromissione di quei pensieri scomodi, tornare.
Galadriel
osservò il volto
rosato del piccolo abitante della Contea. Il pallore sembrava
scomparso, le
guance erano accese, la voglia di vivere sembrava circolare di nuovo in
quel
corpo provato da quei lunghi anni di sofferenza. Vedendolo riflettere
senza
esternare i suoi pensieri rimase anch’essa in silenzio,
sebbene avesse sentito
forte l’istinto di chiedergli qualcosa di più. Il
suo aspetto raggiante però
soddisfece in qualche modo la curiosità, esprimendo molto
più quanto avrebbero
fatto mille parole.
La
luce alabastrina dell’alba
squarciava il cielo all’orizzonte. Uno spettacolo come sempre
mozzafiato quello
della nascita del giorno. L’Elfo immerse una mano
nell’acqua fresca della fontana,
che aveva ripreso a essere alimentata da getti copiosi, ma quello che
avvertì
non fu angoscia, piuttosto un senso di tranquillità, forse
ritrovata.
Prova
superata.
I will not say, do not
weep, for not all tears are an evil.
Il
pianto non è sempre
sintomo di sofferenza.
Felicità.
Speranza.
Ciò
era quanto veniva
esternato in quel frangente.
Frodo
lasciò che le tracce
salate uscissero ancora a lungo dai suoi occhi. Non si accorse dello
sguardo
ceruleo di Celeborn né di quello blu di Gandalf il Bianco
che osservavano la
scena da prospettive diverse, ma entrambe nascoste. Lo stesso sorriso
disteso
ed enigmatico aleggiava però sui loro volti, mentre un
ringraziamento
telepatico giungeva in contemporanea alla mente di Galadriel.
Costei
avvertì immediatamente
le presenze dissimulate del consorte e del Maiar e li
salutò, splendente come
il mattino nascente che li circondava.
Un
sorriso gioioso sul bel
volto regale, grata loro per quel supporto.
Osservò
poi Frodo voltarsi
verso l’acqua che riempiva la vasca alle loro spalle e
fissò anch’essa il
riflesso di quel volto gentile, appena tremante per via dei getti
acquatici
provenienti dall’alto. Un’ultima lacrima solitaria
scivolò giù per la guancia
un tempo paffuta, ma ora non più cerea. La sfumatura rosata
dell’emozione la
faceva apparire meno scarna di quanto in realtà non fosse,
così come il fisico
minuto sembrava rinvigorito dalle ultime scoperte e gli occhi simili a
due
turchesi che scintillavano come il diamante più prezioso.
Frodo
immerse ambo le mani
nell’acqua per poi passarsele sul volto e così
rinfrescarsi. Le guance
scottavano al tatto, ma non era la solita febbriciattola a renderle
roventi.
Avvertire di nuovo l’entusiasmo pulsargli dentro dopo quella
che sembrava
davvero un’eternità. Ecco la causa.
Con
il volto ancora umido
scese dalla fontana, invitando silenziosamente Galadriel a seguirlo.
Dopo
pochi passi, si fermò
nei pressi della balaustra che si estendeva a sinistra del muro
ricoperto
dall’edera e dal cuscino di morbide gardenie.
Anch’essa nivea, la ringhiera
sembrava risplendere grazie al riflesso della luce mattutina. Da quel
punto il
Mare in lontananza era uno spettacolo di bellezza unica.
Ovviando
l’altezza del muro
altrimenti per lui proibitiva, si sollevò sulle punte dei
piedi e appoggiò le
braccia sul marmo del davanzale. Il vento leggero gli solleticava il
volto
disteso, asciugando le ultime gocce d’acqua.
“Ti
darai una possibilità?”
Dimenticherai
il passato?
La
mano di Galadriel si era
posata sulla sua spalla, mentre le labbra rosee formulavano dolcemente
quella
domanda. Annuì allora con un silenzioso cenno del capo,
mentre guardava
avidamente il Mare che risplendeva cristallino davanti ai suoi occhi
luminosi,
ringraziando mentalmente l’alba che stava cedendo il posto a
un mattino, dopo
molto tempo, portatore di speranza.
Il
suo Sole sembrava essere finalmente
giunto.
La
nebbia argentea della sua
esistenza iniziava parzialmente a dileguarsi.
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