Il gioco della vita di alessandroago_94 (/viewuser.php?uid=742337)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
CAPITOLO 1
Il giorno in cui lo vidi per la prima volta, stavo suonando
il pianoforte. Con forza, le mie dita domavano i tasti sottostanti, creando una
sinfonia che mi rallegrava fin dentro l’anima.
Come ogni giorno, ero appena tornato da scuola e la mia
monotona vita si stava rivelando un disastro; i voti non erano mai stati troppo
positivi ma in compenso la mia immensa voglia di scrivere e di suonare non
pareva avere limiti.
Il mio pianoforte, che custodivo gelosamente in un angolo
appartato della piccola saletta della casa in cui vivevo con mia madre, era
l’estensione delle mie dita e potevo suonarlo per ore intere senza minimamente
affaticarmi, mentre i miei arti sfogavano la tensione che avevo accumulato per
l’intera mattinata.
Ero un ragazzo non tanto bello, basso e tarchiato, con spesse
sopracciglia e un volto glabro e quasi da bambino, mentre i miei capelli
castani erano ribelli e irti come gli aculei di un istrice.
Ero sincero all’epoca, forse anche troppo, e di certo non ero
un asso nello studio e nei rapporti sociali. In poche parole, ero il tipico
ragazzo emarginato, il classico soggetto che si mette in disparte e che resta
succube della sua timidezza.
Una timidezza che pareva volermi strozzare a volte, e che non
mi faceva sentire pienamente me stesso.
I tasti del mio pianoforte mi permettevano di alzarmi in volo
e di librarmi come un’aquila, sfruttando le correnti ascensionali dei miei
pensieri, per poi gettarmi nel cuore più vero della musica, lasciando libera la
mia passione e permettendole di far di me tutto ciò che lei avrebbe voluto.
E fu durante uno di quei momenti di esclusione dal mondo e di
estasi che lui entrò nella mia vita.
I tasti continuavano a scivolarmi sotto le dita, mentre
chiudevo gli occhi e ripercorrevo quella melodia tutta mia che avevo composto
tre anni prima, e che da allora era diventata una sorta di inno nazionale del
mio cuore, ma quel giorno non andò come avrei voluto che tutto andasse.
Qualcuno violò la mia intimità, ed entrò nella piccola sala e
si sedette sulla comoda e soffice poltrona che distava solo un paio di passi da
me e che un tempo era stata proprietà esclusiva di mio padre.
Quell’interruzione della mia quiete mi rese nervoso, e fui
costretto ad aprire gli occhi e ad abbandonare il mio mondo, rallentando i
tocchi sui tasti e tornando rapidamente alla realtà.
Quando vidi l’uomo che si era seduto sulla poltrona, in controluce,
per un attimo mi parve di scorgere la sagoma del mio genitore, e una rabbia
cieca mi pervase. Mio padre se n’era andato di casa quando avevo solo nove
anni, e da quel momento in poi si era sempre rifiutato di vedermi e di
rivolgermi la parola.
Non so il perché, ma credevo realmente che lui non mi avesse
mai apprezzato. Alto e burbero, il suo viso era stato solo in grado solo di
esprimere costantemente disprezzo e nervosismo, da quel che mi ricordavo in
quel momento.
Quando era riuscito a trovarsi una nuova compagna, era
fuggito alla prima occasione, piantando in asso me e mia madre, che da quel
momento si era vista costretta ad affittare alcune camere della casa a persone
di passaggio o a turisti, in modo da poter fare qualche soldo con cui potere
tirare avanti la baracca. E visto che mia madre in quel periodo lavorava
saltuariamente ed io dovevo almeno riuscire a concludere le superiori, qualche
soldo in più in tasca non poteva far altro che del bene.
Se non sbagliavo, quel perfetto sconosciuto doveva trattarsi
del nuovo affittuario, che doveva essere arrivato assieme a sua moglie e a suo
figlio quella stessa mattina intanto che ero a scuola, e prontamente aveva
allungato le mani su tutta la casa come solo i maleducati sanno fare,
interrompendo brutalmente il mio momento di sfogo musicale.
Notando il mio sguardo gelido e prolungato, e forse anche la
mia espressione inebetita ed irritata, l’uomo sorrise con calore.
‘’Ho interrotto qualcosa? Mi dispiace. Ma suona pure,
tranquillo, a me non dai alcun fastidio. Anzi, la tua musica mi rilassa’’,
disse il nuovo arrivato, adagiandosi meglio sulla comoda poltrona ed afferrando
un giornale posato sul tavolino che aveva di fronte.
Pareva che si stesse già sentendo il nuovo padrone di casa, ed
io non potevo fargliela passare liscia.
Era vero che pagava una retta settimanale per soggiornare in
casa mia, ma mia madre stabiliva sempre in anticipo che l’ingresso era vietato
in quella piccola stanza, poiché sapeva che se qualcuno violava i miei momenti
liberi poi perdevo le staffe. Ero timido, certo, ma mai quando si trattava di
difendere i miei spazi personali.
E quel tizio pareva davvero maleducato, e lì per lì mi fece
innervosire.
‘’Non ho intenzione di suonare con lei di fronte a me. La
prego, se ne vada; era scritto nel contratto che ha firmato che in questa
stanza non ci sarebbe mai potuto entrare, né lei né i membri della sua
famiglia’’, dissi, trovando un po’ di coraggio e continuando a guardarlo storto.
Lui inforcò gli occhiali da lettura con un gesto rapido, e
per la prima volta da quando era entrato nella stanza mi fissò in modo diretto,
mostrandomi il suo viso e l’ennesimo irriverente sorriso.
Era un uomo sulla cinquantina, il volto contornato da una
corta barba grigia e la testa praticamente calva. Gli occhi scuri come la notte
incutevano un timore reverenziale che entrò subito dentro di me, invitandomi cautamente
ad abbassare la cresta.
Ma la rabbia mi spingeva invece a continuare a lottare per il
rispetto delle regole e dei miei diritti.
‘’Ragazzo, non ti conosco ma mi sembri un tipo a posto. Ti
prego quindi di lasciarmi in pace a leggere il mio giornale e di non aggiungere
altro’’.
Quell’uomo era davvero un maleducato. Se voleva la guerra, doveva
sapere che io avrei combattuto come un leone per di vincerla.
‘’Allora lei non ha proprio capito ciò che le ho detto’’,
mormorai, scuotendo la testa e sillabando tutto con crescente irritazione. Lo
sconosciuto maleducato doveva sparire subito dal mio campo visivo.
L’uomo sospirò, e mentre posava con delicatezza il giornale
sul tavolino, si alzò in piedi e mi venne vicino. Era basso e tarchiato, ma
incuteva comunque soggezione.
Pure io a quel punto mi alzai in piedi, in preda al panico;
mi aveva colto alla sprovvista con quella reazione, e per un attimo temetti che
quel perfetto sconosciuto avrebbe cercato di farmi del male, visto come l’avevo
trattato.
D’altronde, poteva tranquillamente essere un malvivente o un
serial killer, oppure un maniaco, e visto che in quel momento in casa non c’era
neppure mia madre, temetti il peggio.
Ed invece, come per prendersi gioco dei miei folli e
spaventati pensieri, l’uomo mi allungò la mano.
‘’Rilassati, ragazzo. Mica ti mangio!’’, ridacchiò il mio
interlocutore sfacciato, continuando a scuotere la sua mano destra sotto il mio
naso.
‘’Io sono Roberto Arriga, il nuovo inquilino di tua madre.
Sono arrivato questa mattina con mia moglie e mio figlio, che in questo momento
non sono in casa, per cui te li presenterò questa sera’’, continuò a dire
l’uomo, presentandosi.
Mio malgrado, mi vidi costretto a stringerli la mano.
‘’Io sono Antonio Giacomelli, il figlio… della proprietaria
di casa’’, mormorai timidamente, mentre la sua stretta solida e forte mi
passava una certa sicurezza.
C’era qualcosa di quel breve contatto che mi creava
confusione e sospetto, ma che mi dava anche una sensazione tremendamente
piacevole.
‘’Ora che ci siamo presentati, fammi il piacere di darmi del
tu. Ok?’’, tornò a dire Roberto, sciogliendo la stretta di mano e dandomi una
lieve pacca sulla spalla.
Stranamente, a quel punto mi sfuggì un sorriso. Mi sgridai da
solo, perché in quel momento non c’era nulla di cui sorridere e la questione su
cui si stava dibattendo poco prima non era affatto risolta.
Infatti, il nuovo inquilino tornò ad accomodarsi sulla
poltrona, riafferrando il giornale di mia madre e preparandosi a leggere.
‘’C’è qualcosa che lei… che tu non hai capito. Questa è la
stanza dove suono e dove passo la maggior parte del tempo libero, e avere
qualcuno accanto non mi piace affatto. In più, era già stato stabilito…’’.
‘’Sì, so esattamente cosa ho firmato e cosa posso o non posso
fare. Però, adoro leggere con un sottofondo musicale, e tu suonavi così tanto
bene che non ho saputo resistere e sono entrato ugualmente, trovandomi di
fronte ad una magnifica e comoda stanzetta.
‘’Ti prego davvero di essere cortese, e di violare le regole
di casa solo per una volta. E magari di suonare qualcosa mentre leggo. Saresti
così tanto gentile?’’.
Gli occhi di quell’uomo mi parvero estremamente sinceri ed
interessati alla mia musica. Non ebbi il coraggio di aggiungere altro, e con un
immenso sospiro ripresi ad appoggiare le dita sui tasti.
Subito, la mia sinfonia riprese ad aleggiare per tutta la
stanza, anche se non mi sentivo completamente a mio agio. Non avevo mai suonato
con uno sconosciuto a fianco, e neppure con mia madre accanto, ed era la prima
volta che lasciavo che qualcuno violasse il mio magico momento privato.
Alzai un attimo lo sguardo e vidi che Roberto aveva ripreso a
leggere, mentre il suo volto pareva tranquillo e rilassato. Per un istante, mi
parve anche compiaciuto.
Chiusi gli occhi e ripresi vigore.
Le mie dita ricominciarono magicamente a volare sui tasti, e
smisi di seguire ogni misero e stupido spartito.
In quel periodo mi ero ricreato una sinfonia tutta mia nella
mente, composta dal suono ritmico e costante di alcune note basse e dal suono
dolce, e mi piaceva talmente tanto che in quei momenti di pace assoluta mi
lanciavo in una corsa frenetica fino a giungere ad un culmine ritmico che mi
passava un grande senso di soddisfazione. Una sorta di orgasmo musicale.
Dal tanto che ero preso dalla musica, neppure mi accorsi che
il tempo passò molto in fretta, e mi riscossi solo quando capii di essere
osservato.
A quel punto, il fastidio e il nervosismo di poco prima
tornarono a farsi spazio dentro di me, e persi ritmo e voglia di suonare,
mentre le note morivano sulla tastiera e le mie mani sembravano essere diventate
rigide come la pietra. Pareva avessi perso tutte le mie capacità, e alzai lo
sguardo con rabbia crescente.
Roberto mi guardava, ancora seduto sulla poltrona e con gli
occhiali da lettura perfettamente adagiati sul naso lievemente adunco,
fissandomi in un modo strano e rimettendo a posto il giornale che aveva letto
fino a quel momento. Sul mio viso dovette apparire una smorfia di disappunto,
poiché l’uomo sorrise.
Poi, incredibilmente, batté le mani.
‘’Hai un grande talento, Antonio. Non ho mai udito nulla del
genere!’’, mi disse, continuando a sorridere ed alzandosi nuovamente dalla
poltrona.
‘’Mi piace improvvisare e suonare ogni volta qualcosa di
nuovo. Odio limitarmi a seguire gli spartiti’’, mormorai con incertezza.
Roberto mi si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla
destra.
‘’Sei davvero bravissimo. Continua così!’’. E dopo aver detto
questo, abbandonò la stanza, lasciandomi solo.
Abbassai lo sguardo, già pronto a riprendere a suonare ma
qualcosa mi bloccò. Pigiai due tasti ma le mie dita non erano più in grado di suonare
e di solcare quella marea musicale che volevo ricreare.
Mi imbronciai e per un attimo non capii.
Quando compresi che ciò che mi mancava era la sua presenza,
sorrisi; ero davvero uno sciocco. Mi chiesi come fosse stato possibile che una
persona appena entrata nella mia vita fosse già riuscita ad influenzarmi e a
lasciare una traccia dentro di me, ma non seppi darmi una risposta. Forse, era
stato per il fatto che mi aveva fatto dei complimenti.
Durante il corso della mia vita, non ne avevo mai ricevuti
prima di quel momento. Per i miei compagni e conoscenti ero solo lo sfigato di
turno, per mia madre solo un peso e i miei parenti neppure sapevano che in un
qualche sfortunato giorno di diciotto anni prima io ero venuto al mondo. Non si
erano mai degnati una volta di cercarmi, ed io avevo fatto lo stesso con loro.
Mio padre aveva sempre detto che per lui ero un fallimento,
un qualcosa di brutto, ma forse solo perché ero il frutto di un suo amore
finito male. O forse perché la mia nascita l’aveva costretto a legarsi con una
donna che non aveva mai realmente amato; mia madre.
I miei genitori non erano mai andati particolarmente
d’accordo, eppure erano riusciti ad avere quel rapporto che mi aveva generato.
E appena aveva potuto, mio padre se n’era andato, abbandonandomi tra i suoi
insulti e il suo disprezzo. Era davvero un uomo spregevole ed infinitamente
perfido, ed in fondo ero contento che se ne fosse andato e che ci avesse
lasciato in pace.
La rabbia riprese a crescere dentro di me, e fui costretto ad
alzarmi e a dirigermi verso la finestra della stanza, ma prima mi soffermai a
bere un sorso d’acqua dal mio bicchiere, posato sul tavolo accanto al giornale
abbandonato lì da poco dal nuovo arrivato.
Con un sospiro, mi passai una mano sulla fronte e tornai a
rivolgere il mio sguardo al pianoforte, ma compresi che per quel giorno non
sarei più riuscito a suonare.
Quando i brutti ricordi riaffioravano dai meandri della mia
mente, non riuscivo più a suonare e a rilassarmi, quindi decisi di andare a
fare una passeggiata al parchetto sotto casa, in modo da distrarmi un po’ e da
prendere un po’ d’aria.
Uscii velocemente all’aria aperta, mentre un sorriso
spontaneo compariva sul mio volto, sorprendendomi.
Solo quando ebbi raggiunto il vicino parchetto mi accorsi che
l’unica cosa che desideravo di più in quel momento era di rivedere quell’uomo
che poco fa aveva voluto entrare forzatamente nella mia vita, concedendomi
qualche complimento e regalandomi un sorriso e una stretta di mano sincera.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, e grazie per aver letto il primo capitolo di
questo mio nuovo racconto J
La vicenda è strana, non lo nego. Anche il modo in cui ho
deciso di raccontarla lo è. Più avanti nella narrazione scopriremo il perché
delle mie scelte.
Ci tengo a precisare che tutto quanto è frutto della mia
immaginazione.
Spero che la vicenda abbia già iniziato ad incuriosirvi!
Ne approfitto per ringraziarvi nuovamente J a presto J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
CAPITOLO 2
Trascorsi ore ed ore nel parchetto sotto casa, seduto su una
panchina e con le cuffie nelle orecchie, gustandomi un po’ di bella musica.
La musica era la mia vita, e in quel momento la passione per
l’alternative aveva iniziato a prendere sempre più forza dentro di me. Il rock
classico non mi piaceva proprio per nulla, meglio se veniva mitigato da suoni
più dolci e da voci meno scatenate.
Mi rilassai guardando il cielo limpido, mentre una lieve
brezza mi sfiorava, quasi mi volesse fare delle dolci carezze.
Quando ebbi la forza di tornare a casa e di abbandonare quel
mio piccolo paradiso all’aria aperta, era quasi buio.
Entrai in casa di soppiatto, sperando che nessuno mi notasse,
nel vano tentativo di potermi gettare nuovamente a suonare il mio pianoforte
senza che nessuno mi potesse ostacolare in un qualche modo. Eppure, non feci in
tempo a muovere due passi verso la mia piccola sala che Roberto mi si parò
davanti.
‘’Oh! Ecco il mio pianista preferito. Vieni, Federico!’’,
disse l’uomo, sorridendo e facendomi cenno verso le scale che portavano al
piano superiore.
Per un attimo rimasi perplesso, poiché non capii subito chi
potesse essere quel Federico appena citato, ma quando un ragazzetto spocchioso
ebbe concluso la rapida discesa delle scale, compresi che doveva trattarsi del
figlio dell’uomo.
Il ragazzo mi guardò storto. Doveva all’incirca la mia età,
eppure mi aveva già abbondantemente superato in altezza. Era forte e
palestrato, con un tatuaggio irriverente per ciascun avambraccio. Nonostante
fosse già autunno, era ancora a mezze maniche, insensibile all’aria frizzantina
pur di poter mostrare i capolavori che si era fatto tatuare, e alcuni piercing
brillavano distintamente dal lobo di entrambe le orecchie.
‘’Antonio, lui è Federico, mio figlio’’, disse Roberto, allungando
una mano per cercare di sfiorare tra i capelli ribelli del nuovo arrivato, che
si limitò a scostarsi e a sottrarsi al tocco paterno.
Con incredulità, notai che i due non si assomigliavano per
niente; Federico era alto e antipatico, con una chioma folta e scura come la
notte, mentre suo padre era basso e tarchiato, oltre che ormai calvo. Ma almeno
di tanto in tanto sorrideva.
Porsi una mano al mio coetaneo, non sapendo far di meglio in
quella situazione, ma lui la deviò e si gettò in cucina.
Seguii il ragazzo con lo sguardo, allibito da tanta
scortesia. Nessuno prima di allora si era mai comportato in un modo così
maleducato nei miei confronti, tranne mio padre, ma quello era un altro
discorso. Un discorso molto più delicato e complicato.
‘’Chiedo scusa, noi due abbiamo appena avuto una discussione…
ed ora è molto scontroso’’, disse Roberto, cercando di minimizzare il
comportamento del figlio. Ma io potei leggergli in faccia con chiarezza che la
sua espressione era mutata; ero sicuro che avrebbe ripreso e sgridato Federico
per il modo in cui si era comportato.
Io mi trovai sempre più in difficoltà in quella situazione
non proprio tranquilla, e decisi di tirarmene fuori con una falsa ed ipocrita
indifferenza.
‘’Non fa nulla, capita di essere nervosi. A dopo’’.
E così dicendo, voltai frettolosamente le spalle all’uomo e
mi diressi verso la mia camera dal letto, al piano superiore.
Potei udire qualche frase di rimprovero proveniente dalla
cucina, ma non mi degnai di preoccuparmene, e senza rallentare minimamente mi
fiondai nella mia stanza, ribattendo subito la porta dietro di me. Con un
intenso sospiro, mi gettai sul letto, che mia madre aveva amorevolmente messo
in ordine prima di andare al lavoro, sprofondando nel caldo abbraccio del mio
soffice materasso.
Io amavo quel calore e quella morbidezza, e molto spesso ero
costretto a riconoscere che mai nella mia vita qualcuno mi aveva accolto con
maggior amore tra le sue braccia. Quindi, in mancanza abbracci umani, non mi dispiaceva
affatto di restare così, sprofondato nel mio soffice giaciglio, circondato da
altrettanto soffici cuscini.
Crogiolandomi nel mio attimo di riposo prima del pasto
serale, udii un chiacchiericcio sommesso, proveniente alla stanza attigua alla
mia, quella affittata dalla coppia Arriga. La signora, a quanto pareva, si
stava già dando alle telefonate, ed io non avevo affatto voglia di udire quel
continuo parlottio.
A volte, la convivenza con degli sconosciuti sapeva essere
molto dura e difficile, ma non avevo alcun modo, e soprattutto nessun pretesto
per dire a mia madre che la smettesse di affittare le due stanze da letto in
più della casa. Io mi ritenevo solo un peso, un mangiapane e nient’altro, e per
salvaguardare il mio stomaco, la dispensa e quei pochi beni che erano rimasti
in nostro possesso, non potevo far altro che accettare ogni scelta materna.
Sbuffando, mi alzai dal letto, affrettandomi ad uscire dalla
stanza e a dirigermi nuovamente verso il piano inferiore della casetta, per
andare a suonare un po’ il mio pianoforte, prima di cena. Poi, avrei dovuto
studiare, e quindi il relax delle ultime ore sarebbe brutalmente svanito.
‘’Antonio! Antonio, vieni qui!’’.
La voce di mia madre, che giunse dall’adiacente cucina, mi
fermò nel bel mezzo della porta della piccola sala dove soggiornava il mio
pianoforte, costringendomi quindi a lanciare una triste occhiata al mio
ingombrante strumento musicale e a fare dietrofront, facendo poi
frettolosamente capolino nella cucina.
Mia madre, una donnina piccina e gracile, si stava dando da
fare ai fornelli, in modo da poter dignitosamente soddisfare l’appetito dei
soggiornanti. Poiché, per racimolare qualche soldo in più, quella povera donna
offriva anche il vitto, oltre che l’alloggio.
Insomma, casa nostra era ormai per davvero una sorta di
pensione clandestina, e questo a volte mi turbava, ma solo per brevi periodi,
poiché in genere i pensionanti se ne andavano nel giro di qualche settimana.
‘’Sono qui, mamma. Cosa vuoi?’’, chiesi cortesemente, ma con
un po’ di fretta.
Con una rapida occhiata nella stanza, potei constatare che
Roberto e Federico erano seduti poco distante, attorno al tavolo. Il primo mi
guardava sorridendo, mentre il secondo non mi degnò neppure di una minima
attenzione, continuando a smanettare col cellulare, un magnifico Samsung di
ultima generazione, mantenendo sempre rigido il suo broncio insoddisfatto, ben
impresso sul viso.
Risposi frettolosamente al sorriso dell’uomo e mi affrettai a
distogliere lo sguardo dal tavolo imbandito, evitando quindi di continuare a
soffermarmi su quel ragazzo sbruffone. Mi stava già più che antipatico.
‘’Oh, Antonio, questi sono i nuovi affittuari! Non so se hai
già avuto modo di conoscerli’’, disse mia madre, alzando gli occhi dai fornelli
e sorridendomi anch’essa.
Indossava ancora l’abito con cui si era recata al lavoro
quella mattina, con un lungo grembiule bianco appena appoggiato sopra, mentre
sul suo volto scuro e abbronzato appariva una qualche ruga, a ricordare che
quella era stata l’ennesima lunghissima giornata lavorativa precaria e mal
pagata. I capelli, di un moro scuro naturale, quella sera erano anche
evidentemente scarmigliati, e gli occhi verdi e vivaci erano adombrati.
I giorni si stavano facendo sempre più lunghi e faticosi, per
lei. Per un attimo, mi sentii in colpa, d’altronde lavorava e stava faticando
anche per me, per mantenermi gli studi e sfamarmi, ed io spesso e volentieri
non facevo altro che darle insoddisfazioni, portando a casa voti bassi o
pessimi.
Mi ripromisi di migliorare a partire da quell’anno scolastico,
che era cominciato da appena un paio di settimane. Volevo davvero renderla
felice e soddisfatta del mio operato per una volta, poiché senza dubbio se lo
meritava.
Mia madre aveva quarant’anni, e mi aveva partorito che era
poco più che una ragazzina. Una ragazza costretta a diventare una donna forte,
dopo essere stata dapprima disprezzata e in seguito abbandonata dal marito,
lasciata poi sola con un figlio ancora piccolo da crescere e da accudire.
‘’Certo, mamma. Ho già avuto il grandissimo piacere di far la
conoscenza del gentilissimo signor Roberto e di Federico’’, le risposi dopo un
attimo, smettendo di pensare come un forsennato e sorvolando sul quanto quelle
conoscenze fossero state brusche.
‘’Rivolgiti a me in modo più confidenziale, Antonio, te l’ho
già chiesto. Per favore. Grazie signora Maria per averci presentato suo figlio,
comunque’’, rispose cortesemente Roberto, agitandosi sulla sua sedia. Federico
non represse un sospiro irritato e continuò a guardare lo schermo del suo
cellulare.
Mamma Maria sorrise compiaciuta, e continuò a preparare il
contorno per la carne che stava cucinando.
‘’Tra poco avrò modo di presentarvi anche mia moglie. Vi
prego di perdonarla, ma è ancora chiusa in camera, poiché è sempre assillata
dalle chiamate di lavoro…’’, buttò lì l’uomo, dopo un attimo di esitazione.
Io e mia madre ci limitammo ad annuire, sorridendo entrambi
allo stesso modo, quasi fossimo anime sincronizzate. Da parte mia però, pensai
che quelle chiamate che avevo udito qualche istante prima avevano davvero poco
di professionale, ma naturalmente tacqui, sfruttando quell’attimo in cui mia
madre continuava a pensare al pasto per allontanarmi prontamente e raggiungere
il mio pianoforte, lo strumento della mia felicità.
‘’Dove credi di andare?! Torna qui!’’, sibilò dolcemente mia
madre, non appena vide con la coda dell’occhio che mi stavo allontanando dalla
soglia della cucina.
Non capendo quel che volesse, e iniziando ad arrossire
lievemente, feci di nuovo capolino nella cucina, imbarazzato. Ero un ragazzo
timidissimo, ed essere al centro dell’attenzione mi faceva sempre arrossire.
‘’Cosa c’è, mamma?’’, chiesi cortesemente, ma con grande
impazienza di svignarmela.
‘’Tra poco ceniamo. Il signor Roberto ha detto che non
rechiamo alcun fastidio alla sua famiglia, quindi mangiamo assieme, allo stesso
tavolo. Oh, ancora grazie! Lei non sa quanto io sia stanca alla sera, e
preparare per due volte la tavola e per due volte la cena mi sfianca’’, tornò a
dire mia madre, prolungandosi in fastosi ringraziamenti rivolti a Roberto, che
con un cenno della mano face capire che non doveva neppure pensarci, e che era
tutto a posto.
Essendo piccola la nostra casa, e godendo di una sola cucina
con tanto di tavolo per consumare i pasti, senza alcun muro a separare i due
ambienti e a trattenere gli odori, per lasciare un po’ di riservatezza agli
affittuari mia madre preparava prima la cena per loro, poi quella per noi due,
che in genere consumavamo dopo che i primi si erano già ritirati nelle loro
camere da letto che avevano affittato.
Di certo, quel prospetto di cena condivisa fu per me una
grande novità, e il rossore lieve che aveva iniziato ad imporporare le mie
guance ben presto divenne il colore del mio intero volto. Non ero abituato a
cenare con estranei, e dovetti ammettere anche che il fatto di dovermi sedere
attorno allo stesso tavolo di Federico mi metteva in soggezione. Quel mio
coetaneo proprio non m’ispirava fiducia.
‘’Ecco, è tutto pronto’’, mormorò dopo un istante mia madre, tra
sé e sé e molto soddisfatta, per poi indicarmi un posto a tavola col dito,
proprio a fianco di Federico. Per me fu l’inizio di un incubo.
Mia madre mise il pasto in tavola, mentre io mi dirigevo
verso la mia sedia alla velocità di un bradipo e Roberto si alzava bruscamente
dal tavolo.
‘’Chiamo mia moglie’’, disse l’uomo, mentre io lo guardavo
con sorpresa. Inutile dire che il figlio non alzò neppure gli occhi dal suo
cellulare.
‘’Non serve, se ora non può scendere, gli preparerò qualcosa
quando ne avrà voglia’’, si affrettò a dire mia madre, preparandosi a servire
in tavola. Era sempre così quella donna, estremamente disponibile. Forse fin
troppo.
‘’Scherza, signora!? Ora la chiamo subito’’, disse di rimando
Roberto, per poi uscire dalla cucina e incamminarsi nel corridoio.
Sotto l’attento sguardo di mia madre, presi posizione, sedendomi
a fianco di Federico, mentre lei preparava le porzioni nei piatti con gesti
lenti e calibrati, che esprimevano una grande stanchezza.
‘’Allora, Federico, com’è stato questo primo giorno in questa
cittadina?’’, tornò a chiedere la mia cara mamma, forse per voler rompere quel
momentaneo velo di silenzio che opprimeva la stanza.
Il ragazzo, ben seduto a mio fianco, si limitò a scrollare le
spalle, senza degnarsi di rispondere e continuando a guardare lo schermo del
suo Samsung. Io guardai da tutt’altra parte, mentre notavo che mia madre non
osava replicare altro, imbarazzata.
Da quel momento, iniziai a provare un disgusto incredibile
nei confronti di quel mio coetaneo molto maleducato.
Ma proprio mentre continuavo a riflettere sul comportamento
di Federico, Roberto fece il suo ingresso in cucina, tenendo a braccetto colei
che doveva essere sua moglie. La donna, alta una spanna in più del marito e con
una testa di capelli biondi rigorosamente tinti ed arricciati, aveva ben
dipinta sul viso la stessa smorfia odiosa di suo figlio, e così potei
facilmente intuire da dove provenisse tutta quella sua antipatia.
‘’Questa è Livia, mia moglie’’, la presentò platealmente
Roberto, scostandone la sedia dal tavolo e facendola accomodare tra mille
attenzioni.
Livia sorrise e bofonchiò un paio di parole di cortesia
rivolte a mia madre, ma a quel punto mi era tutto più chiaro.
Seduto sulla mia sedia, allo stesso desco di quella gente che
fino a quella mattina erano perfetti sconosciuti, e tuttavia lo erano quasi
ancora, mi sentii a disagio come non mai. Guardando il volto di Livia, che si
era seduta al lato opposto del tavolo, e osservando come articolava le finte
parole di cortesia che rivolgeva a mia madre, compresi che quella donna si
sentiva anch’essa fuor d’acqua, in un posto che non l’aggradava, così come non
aggradava neppure suo figlio.
Ero sicuro che quelle erano persone con la puzza sotto al
naso, dei veri e propri aristocratici moderni che non volevano assolutamente
abbandonare quel loro piedistallo di grandezza e di superiorità sul quale si
erano posati. Era evidente che si sentivano a disagio, con a fianco me e mia
madre e in quella squallida casetta.
A quel punto, non facevo altro che chiedermi il perché del
fatto che una famiglia così fosse finita proprio in casa nostra. Avevano tutta
l’aria di possedere molti soldi, e mentre Federico indossava solo abiti firmati
e perfettamente in ordine, sua madre era tutta ingioiellata e ben truccata,
manco dovesse partecipare ad un gran galà.
L’unico di quella stramba famiglia che sembrava a suo agio
era proprio Roberto; l’uomo ringraziava con sincerità ed era rilassato e
solare. Un ometto positivo, senz’ombra di dubbio, ma allo stesso tempo
diversissimo dagli altri componenti della sua famiglia.
Una marea di domande presero a vorticarmi in testa, e mentre
il mio imbarazzato rossore se ne andava in fretta dal mio volto, capii che
quella curiosa famiglia doveva avere dei segreti. Neppure quando mia madre mi
servì, praticamente per ultimo, distolsi la mia mente dai quesiti e dalla
curiosità provocatami da quei nuovi arrivati.
Solo quando iniziai a sbocconcellare la mia cena compresi che
stavo sbagliando, e che qualsiasi segreto stesse nascondendo quella famiglia a
me non doveva importare. Cercai quindi di riprendere fiato e di concentrarmi
solo sul mio piatto e sul cibo, e al massimo di rivolgere un breve pensiero al
mio pianoforte e alla musica, anche se tutto ciò mi risultava difficile.
Non mi era mai capitato di sentirmi attratto dagli inquilini
di mia madre, ma forse semplicemente per il fatto che essi si limitavano ad
essere molto schivi e di una gentilezza normale, e nessuno aveva mai voluto
comunque cenare assieme a noi e tentare di renderci partecipi del loro breve
soggiorno, come invece aveva cercato di fare Roberto.
L’uomo, che in quel momento stava consumando anch’esso la sua
cena e di certo aveva compreso che qualcosa stava prendendo la piega da lui non
voluta, visto che nessuno fiatava e tutti se ne stavano con gli sguardi fissi
sul cibo, e sembrava a disagio anch’esso, a quel punto.
‘’Antonio, come va con il tuo pianoforte? Hai suonato ancora,
oggi?’’, chiese tutto d’un tratto, ammiccando con la testa e sorridendo
cortesemente.
Io, bruscamente sottratto ai miei più intimi pensieri, quasi
ebbi un tremore.
Poi, deglutendo a vuoto, mi arrischiai a rispondere. Non
sapevo perché Roberto dovesse proprio chiedere qualcosa a me, quando poteva
benissimo fare un’osservazione a suo figlio o parlare con sua moglie.
Nel frattempo, Federico continuava a mandar giù cospicui
bocconi di cibo, mentre di tanto in tanto afferrava il suo cellulare e
riprendeva a smaneggiarci quasi con avidità. Stava indubbiamente facendo una
pessima figura ai miei occhi.
‘’No, non ho più avuto modo di suonare, per oggi’’, risposi,
la voce ridotta ad un tremito. Ero davvero molto timido, e parlare di me di
fronte a Livia e Federico mi metteva in soggezione. Non che quei due mi
degnassero di uno sguardo, anzi, però era comunque qualcosa che m’intimidiva. Anche
perché capivo che non gradivano la mia presenza a quel desco.
‘’Peccato. Hai un grande talento, sai? Dovresti seriamente
pensare di iscriverti a un istituto musicale. Non sciupare le tue grandi
capacità’’.
‘’Vedo che ha già avuto modo di udire mio figlio mentre
suonava’’, si crogiolò mia madre, tutta contenta.
‘’Oh, mi ha anche concesso di osservarlo. Ha suonato un po’
anche per me, intanto che leggevo il giornale’’.
La frase buttata lì da Roberto fece cedere definitivamente la
mascella di mia madre.
La mamma mi guardò quasi a bocca spalancata per lo stupore e
con un’espressione alquanto sbalordita sul volto, abbandonando per un attimo
gli strumenti con cui stava preparando le ultime porzioni da servire in tavola.
Io la guardai sorridendo di sbieco, e non osai dire nulla a riguardo, mentre
lei riprendeva a svolgere le sue mansioni come se nulla fosse successo.
Arrossii, sapendo quanto mia madre dovesse essere rimasta
sbigottita di fronte a quella notizia, visto che non le avevo mai concesso di
osservarmi mentre suonavo. Le avevo sempre detto che m’imbarazzava essere
osservato mentre stavo di fronte al pianoforte.
‘’Spero che abbia suonato bene. Sa, mio figlio è molto
timido, e più volte mi ha impedito di osservarlo mentre suonava’’, disse mia
madre, continuando a svolgere le sue ordinarie mansioni come se nulla fosse.
‘’Oh, beh, certo. È timido, sì, ma ha talento’’, biascicò
Roberto, tornando poi a mangiare.
Io continuai a tenere gli occhi ben fissi sul mio piatto,
bordò in volto. Ero in uno di quei momenti dove l’imbarazzo e la timidezza
quasi mi paralizzavano.
‘’Certo, ha talento, lo riconosco. Spero che abbiate modo di
udirlo suonare ancora, durante la vostra permanenza’’, affermò cortesemente la
mamma, riprendendo poi il suo posto a sedere e ricominciando a mangiare.
‘’La nostra permanenza sarà molto lunga, quindi immagino che
avrò, anzi avremo, modo di poterlo udire suonare altre volte’’, tornò a dire
l’uomo, lanciandomi un sorrisetto di sottecchi.
Mi sorpresi a fissare quel sorriso pieno di complicità con
sorpresa, e tornai a riabbassare di nuovo la testa. Stranamente, nonostante
l’imbarazzo che mi offuscava la mente, non potei non provare una qualche sorta
di sensazione involontaria nello scoprire che la permanenza di quella famiglia
in casa mia sarebbe stata piuttosto lunga. E questa scoperta m’imbarazzò ancor
di più.
Immerso nel silenzio surreale della cucina, dove non volò
neppure una mosca dopo lo scambio di quelle tre o quattro frasi su di me tra
mia madre e Roberto, finii il mio pasto in fretta, deglutendo fino all’ultimo
boccone del buon passato di verdure che aveva preparato mia madre solo per me.
Sapeva quanto amavo le verdure, e non mancava mai un’occasione per metterle nel
mio piatto ed inserirle nei miei pasti.
Quando discostai la sedia dal tavolo, mi sembrò quasi di aver
provocato un rumore talmente forte da aver provocato un terremoto, dal tanto
che il silenzio regnava nella stanza.
Mia madre masticava a testa bassa, così come faceva anche
Roberto, mentre Federico si divideva ancora tra il suo pasto e il cellulare,
sempre a portata di mano. Era stato seduto a mio fianco per tutta la durata
della cena, e neppure mi aveva mai degnato di uno sguardo, così come sua madre,
la signorona aristocratica che pareva davvero che avesse una gran puzza sotto
il naso.
Quella donna e suo figlio non mi convincevano affatto, mi
sembravano davvero due tipi loschi.
‘’Vado in camera. Buona serata’’, mormorai, frantumando
definitivamente il silenzio che mi circondava.
Tutti risposero al mio congedo con qualche parola pronunciata
a bassa voce, ed io mi allontanai in fretta, ben sapendo che l’indomani mattina
avrei dovuto affrontare la prima interrogazione di scienze dell’anno scolastico
e non avevo studiato ancora nulla.
Dopo essermi fatto le scale praticamente di corsa, mi fiondai
nella mia cameretta ed affondai tra i libri scolastici, soffocando ogni mio
imbarazzo o pensiero che non riguardasse la scuola. Eppure, quella era stata
davvero una giornata curiosa per me, ed avevo come la vaga sensazione che da
quel momento in poi qualcosa nella mia vita sarebbe irrimediabilmente cambiato.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo.
Vi sono grato per aver dedicato tanta attenzione al primo
capitolo di questo racconto, e spero che anche quest’ultimo sia stato di vostro
gradimento.
Devo dire che non mi aspettavo di ricevere così tanto
apprezzamento con questa storia, e spero che non si riveli una noia per
qualcuno di voi.
Il racconto ho iniziato a scriverlo(e lo scrivo tuttora) per
divertimento personale, sfruttando la voglia che ho di scrivere qualcosa di
totalmente diverso da quello che ho scritto finora. Spero davvero che il
risultato possa essere positivo.
Nell’intero racconto cercherò di utilizzare un linguaggio
abbastanza semplice, più simile a quello parlato e senza particolari termini
complessi, poiché così cercherò di essere più verosimile e di esprimere meglio
le varie rapide sequenze di pensieri del protagonista.
Per ora non posso far altro che ringraziarvi infinitamente
per tutta l’attenzione che mi state rivolgendo.
Grazie di cuore per tutto J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
CAPITOLO 3
Molti adulti affermano che i ragazzi non hanno alcun
problema, e che la vita durante la gioventù non è altro che un grande parco
ricco di divertimenti. Forse la loro mente deve aver rimosso ogni frettolosa
levataccia, oppure erano stati talmente tanto perfetti da non aver mai commesso
un qualche sbaglio non intenzionale.
Pure io, che ero sempre puntualissimo e attentissimo in
tutto, la mattina successiva all’arrivo della famiglia Arriga feci fatica ad
alzarmi. Avevo studiato tantissimo durante la serata precedente, e la
situazione mi era facilmente sfuggita di mano, lasciandomi quindi a passare
buona parte della notte sui libri.
Ovviamente, la sveglia quella mattina non suonò affatto ed io
fui costretto a correre come un folle, pur di non giungere in ritardo a scuola.
Con due balzi decisi, percorsi la scala di casa, e senza neppure guardarmi
attorno mi fiondai dritto in strada, diretto verso l’istituto scolastico che
frequentavo.
Poteva sembrare impossibile che un ragazzo come me, interessato
solo alla musica e ai lavoretti un po’ più manuali avesse scelto di iscriversi
ad un liceo; anche ciò era quasi un controsenso, una sorta di assurdità.
Eppure, per star dalla parte del sicuro, alla fine della terza media avevo
preferito la comodità di una scuola vicino a casa che un lungo viaggio in treno
o in autobus verso un istituto che poi magari avrei abbandonato, assieme alle
mie passioni. Ed invece, tutto ciò che mi era rimasto erano proprio quelle
ultime, e la musica e la voglia di suonare erano sempre con me, come in quel
momento.
Correndo all’impazzata, a momenti rischiai di andare a
sbattere contro qualche passante e di finire sotto a un paio d’automobili, ma
alla fine riuscii comunque a giungere a scuola proprio mentre la prima
campanella stava suonando.
Prima di varcare la soglia, attesi pazientemente che la calca
davanti a me si disperdesse, scomparendo con rapidità all’interno
dell’istituto, mentre ne approfittai per riprendere fiato per un istante,
risistemandomi con le mani i capelli e appoggiando un attimo lo zaino a terra,
sperando che nessuno dei miei compagni mi vedesse ridotto in quello stato. E
non potevo assolutamente presentarmi in classe così, ma non potevo neppure
perdere tempo, poiché sarebbe stata tutta questione di pochi minuti, poi avrebbe
rischiato il ritardo.
Se mia madre, che quella mattina era andata al lavoro alle
sei e mezzo, avesse saputo che ero giunto in ritardo a scuola, che peraltro era
praticamente sotto casa, mi avrebbe di certo come minimo sottoposto ad un linciaggio
pubblico. Quindi, non appena la calca si diradò da davanti all’ingresso, entrai
nella mia ben poco amata scuola.
I corridoi, che odoravano ancora lievemente dalle sostanze
con cui le bidelle adoravano spazzolare il pavimento, erano già pressoché sgombri,
mentre dalle aule si levavano grida e il chiasso regnava ovunque.
Con lo squillo della seconda campanella, mi affrettai a
raggiungere la mia sezione, immaginando che la megera d’italiano, la prof più
rigida e puntuale di tutte e che quella mattina avrei dovuto affrontare già fin
dalla prima ora, stesse già iniziando a fare l’appello.
Mi fiondai verso la mia classe scoprendo però che la porta
era già chiusa, e deglutendo la aprii in fretta, fiondandomi dentro e sperando
che nessuno mi avesse già segnato assente all’appello.
‘’Buon…’’.
Non appena fui entrato nella classe, azzardai un sorriso e un
saluto alla prof, che come mi aspettavo era già seduta alla cattedra, ma le
parole mi morirono in gola. Infatti, in piedi a fianco della prof d’italiano, c’era
lui. Federico Arriga.
Non riuscii a non rendere visibile il mio sbigottimento, e
per un attimo rimasi immobile a fissarlo, sorpreso, mentre nella classe tutti
guardavano noi due.
‘’Antonio, stavo proprio per presentare Federico, il vostro
nuovo compagno di classe. Ma… perché lo guardi così? Lo conosci già?’’, chiese
la prof, con incredibile cortesia.
Quella donna, che in volto era tutta una ruga, faceva fatica
a giungere ad un metro e sessanta d’altezza, ma non per questo era meno pericolosa
degli insegnanti più alti di statura. I suoi capelli ispidi, grigi e ribelli
volteggiavano quando parlava, e adorava gridare forte. La prof Carlucci sapeva
essere davvero molto severa, quando voleva, eppure quel giorno pareva molto
rilassata e troppo, davvero troppo cortese. Forse lo era solo per non
terrorizzare fin da subito il nuovo arrivato, ma quindi evidentemente non
sapeva come me che quel ragazzo era il più grande maleducato da poco giunto
nella nostra cittadina.
In un attimo, compresi che quel nuovo compagno di classe
sarebbe stato la mia rovina. Non sappi spiegarmi il perché di questa sensazione
che invase improvvisamente il mio cuore e la mia mente durante quel minuto di
sbandamento e di sorpresa, ma davvero, capii che quel giovane mi avrebbe
portato solo guai.
Federico, che nel frattempo ricambiava il mio sguardo
stupito, sembrava molto a suo agio, e sul suo volto aleggiava un lieve
sorrisetto, di quelli che non aveva mai mostrato a casa mia durante il giorno e
la sera precedenti.
‘’Sì’’, mi limitai a rispondere, proprio quando mi accorsi di
aver attirato su di me l’attenzione dell’intera platea, grazie all’immenso
stupore che avevo esternato. Poi, senza dire o attendere altro, mi mossi verso
il mio banco, nell’ultima fila.
‘’Ho già avuto modo di conoscerlo ieri, prof, non appena sono
arrivato in questa cittadina. Sua madre è colei che ha affittato alcune stanze
a me e ai miei genitori’’, aggiunse Federico, mentre mi sistemavo al mio posto.
Di solito mi ritrovavo sempre da solo là in fondo, eppure quel giorno il banco
a fianco del mio era occupato da materiale scolastico sconosciuto.
Di nuovo, provai una sensazione di grande disagio, presagendo
che quel materiale scolastico dovesse appartenere proprio al mio nuovo compagno
di classe.
‘’Bene, allora conosci già qualcuno. Comunque, ragazzi,
questo vostro nuovo compagno di classe si chiama Federico Arriga, e frequenterà
assieme a voi quest’ultimo anno di superiori. Avrete poi modo di conoscerlo
meglio durante l’intervallo’’, concluse la prof Carlucci, sorridendo e lasciando
poi tornare a posto Federico, anch’esso sorridente.
Io era rimasto basito nello scoprire che quel maleducato
avrebbe passato l’intero anno scolastico nella mia stessa classe, e perlopiù
nella mia stessa cittadina. Ciò stava quindi a significare che Roberto e la sua
famiglia si sarebbero soffermati in casa mia per un periodo di tempo davvero
molto lungo, contando che la scuola era iniziata da appena due settimane, e che
mancavano all’incirca otto mesi alla sua fine, senza poi pensare all’esame di
maturità, che avrebbe protratto l’anno scolastico di almeno un mese in più.
Questo mi offriva sensazioni contrastanti.
Come avevo cercato di non prevedere, Federico sarebbe
diventato il mio vicino di banco, visto che si sistemò nel posto a fianco del
mio, dopo aver sorriso a tutte le ragazze della classe. Con la sua t-shirt col
colletto lievemente slabbrato e i suoi jeans Armani, abbinati ad un magnifico
paio di Nike bianche con striscioline nere, il ragazzo faceva la sua figura.
Inoltre, la sua altezza lo faceva svettare quasi su tutti, e
il suo sorriso sfrontato, ben inquadrato al di sotto di una chioma lievemente
riccioluta ed un paio di occhi di un verde intenso, lo rendevano di certo molto
piacente. Da come tutti si voltavano a dargli un’occhiata, avevo già capito che
era riuscito ad attirare ampliamente l’attenzione generale, e solo io me ne
restavo rintanato sul mio banco, senza azzardarmi a spostare i miei bulbi
oculari verso quel personaggio che odiavo fin dalla prima volta che avevo avuto
modo di incontrarlo in casa mia.
La lezione iniziò prontamente, e mentre la prof spiegava, io
già mi annoiavo.
Abbassai lo sguardo sul libro di letteratura aperto, leggendo
qualche verso di una poesia di Leopardi, pensando di riuscire a pensare solo a
quella per un attimo, ma mi sbagliai. I miei occhi quella volta non seppero
resistere, e corsero quasi spontaneamente a guardare Federico.
Il mio nuovo vicino di banco non aveva perso il sorrisetto
sfrontato che aveva mostrato fino a quel momento, e pareva completamente a suo
agio, lì nel fondo. La sua attenzione era tutta incentrata verso la sua borsa a
tracolla, ben appoggiata sul banco, davanti ai libri, così mentre fingeva di
leggere e di essere attento, giocava col suo cellulare, nascosto tra il materiale
scolastico.
Ero allibito; nessuno della mia classe si era mai gettato
così prontamente a giocare col cellulare durante le lezioni. La prof Carlucci
era una delle poche professoresse che permetteva agli alunni di tenere i propri
zaini o borse sul banco, ben sapendo che spesso gli studenti erano più
concentrati su sms, messaggini vari o giochetti dei telefoni, ma nella classe
non c’era mai stato quel vizio pesante e dilagante.
Io, dal fondo dell’aula, avevo modo di vedere ciò che
facevano i miei compagni, osservandoli alle loro spalle, e sapevo che spesso
alcuni utilizzavano i cellulari per inviare qualche messaggio, ma mai nessuno
si era permesso di lanciarsi in una partita di calcio virtuale, giocata fin dal
primo minuto. Federico, infatti, all’interno della sua tracolla muoveva le dita
con una rapidità impressionante, scartando giocatori e cercando di andare in
goal con la sua squadra in maglia bianconera, immerso in un campo da gioco di
un verde intenso.
Ritrassi il mio sguardo e ritornai ad abbassarlo sul mio
libro, sapendo che mi aspettavano altre due ore tra letteratura e storia, e
questo non mi rendeva affatto felice. Però, decisi fermamente di iniziare a
concentrarmi su ciò che spiegava l’insegnante, essendomi ripromesso di cercare
di stare attento in classe, in modo poi da ricordarmi più cose e da dover
studiare di meno a casa.
Anche perché, una volta a casa, la mia attenzione scivolava
rapidamente verso il pianoforte e la musica, e il pomeriggio passava in fretta,
abbandonandomi a lunghe serate sommerse di libri, ovviamente con scarsi
risultati di attenzione e studio. E quell’anno volevo davvero chiuderlo in
bellezza e con dei buoni voti, una volta tanto, quindi dovevo mettercela tutta.
Quindi, raddrizzai la mia testa e mi concentrai sulla voce
della prof Carlucci, smettendo di prestare attenzione a ciò che faceva il mio
antipatico vicino di banco, sempre occupato con i suoi giochi calcistici sul
cellulare.
Quando suonò la campanella dell’intervallo, quasi non me ne
accorsi.
Ero riuscito completamente a concentrarmi sulle parole e
sulle varie spiegazioni della professoressa, e per la prima volta durante la
mia carriera scolastica, fui soddisfatto di me e del mio atteggiamento. Avevo
tutto ben chiaro nella testa e molto probabilmente quel pomeriggio non avrei
neppure dovuto riguardare ciò che era stato spiegato durante quella mezza
mattinata.
Con immensa soddisfazione, estrassi il mio solito pacchetto
di cracker dallo zaino e mi alzai dal mio posto, notando che Federico era già
uscito dall’aula, così come la maggior parte dei miei compagni di classe. Pure
io mi affrettai a riversarmi nel corridoio pieno di gente, rischiando
costantemente di urtare qualcuno.
Non ero un tipo molto sociale, ma avevo qualche amico di cui
mi fidavo, perlopiù ragazzi che frequentavano altre classi dell’istituto e che
conoscevo da una vita, e logicamente sapevo esattamente dove si raggruppavano
durante l’intervallo.
Mi diressi prontamente verso il termosifone del bagno dei
ragazzi, dove in genere tutti i miei migliori conoscenti si soffermavano un
attimo a bighellonare e a trascorrere quei brevi quindici minuti di pausa dalle
lezioni. Lì infatti c’era già Davide, uno tra i miei pochi amici, assieme a
Luca e Giulio, anche loro miei buoni conoscenti.
Ma la più grande sorpresa per me fu scoprire che Federico era
lì assieme a loro, a parlottare e ridacchiare. Fu un boccone amaro da mandar
giù; quell’antipatico sembrava che mi volesse perseguitare ovunque.
Tentennando, decisi infine di avvicinarmi al mio solito gruppetto,
cercando di apparire disinvolto e rilassato. Forse, avevo sbagliato a valutare
Federico con un piglio così critico, d’altronde lo conoscevo poco, e magari era
pure molto divertente, visto come stava intrattenendo il mio trio di buoni conoscenti.
‘’Ciao, ragazzi! Come va?’’, salutai, avvicinandomi con
nonchalance. I tre ragazzi risposero al mio saluto con un grande sorriso,
mentre invece Federico si rabbuiò.
‘’Ehi, Antò! Tutto a posto, grazie’’, mi rispose Davide.
Conoscevo quel mio amico fin dall’asilo, e nonostante il fatto che a volte non
avessimo frequentato le stesse classi lungo il nostro intero percorso
scolastico, restava sempre e comunque un appiglio apprezzabile per me. Ero
sempre molto timido, forse troppo, e sapere che quel ragazzone altro un metro e
novanta dal peso di un centinaio di chili era lì, sempre disposto a dirmi una
parola di conforto o a darmi una mano e a sostenermi, mi faceva davvero sentire
ben protetto e difeso.
Davide non era per nulla palestrato, era il classico ragazzone
imponente che amava vestire con jeans strappati e larghissimi, indossando
sempre uno strato di abiti quasi a voler coprire il ventre voluminoso, i
capelli scuri sempre tutti scompigliati e un volto che molto probabilmente non
aveva neppure mai visto uno specchio. Era un mio coetaneo davvero molto
trascurato, ma forse era tutta quella trascuratezza che s’infliggeva da solo a
renderlo così temibile, circondato da un’aura di spaventosa potenza.
Al contrario, Luca e Giulio erano due ragazzi più simili a me,
bassi e minuti, ma molto più muscolosi del sottoscritto. Frequentavano assieme
la stessa palestra, e passavano interi pomeriggi ad allenare la loro
muscolatura. Sembravano gemelli; non tanto alti, stessi capelli ribelli e
castani, stessi occhi verdi e stesso tono di voce sommesso.
Forse, era questa grande somiglianza ad averli resi così
inseparabili tra loro. Vestivano sempre o quasi alla stessa maniera, ed ormai
erano due migliori amici molto consolidati.
Ebbene, anch’io rientravo marginalmente in quella piccola
cerchia, una piccola èlite scolastica, e ne andavo fiero, poiché per un ragazzo
timido ed introverso come me quello era un grande traguardo.
‘’Allora? Che si racconta oggi di bello?’’, chiesi,
sorridendo e preparandomi alla solita caterva di sciocchezze e di pettegolezzi.
‘’Abbiamo fatto la conoscenza di Federico’’, mi rispose
prontamente Giulio, indicandomi con un cenno il mio antipatico inquilino. Il
nuovo arrivato si era appoggiato al muro del bagno ed aveva tirato fuori dalla
tasca dei jeans il suo cellulare, lanciandosi subito a digitare qualcosa con il
volto imbronciato.
‘’Federico, questo è Antonio’’, gli disse Davide, scuotendolo
per un attimo dal suo torpore tecnologico. Avrei voluto dire al trio dei miei
amici di non scomodarsi a presentarmelo, poiché lo conoscevo già, ma ormai il
danno era fatto. I tre ragazzi non erano in classe con me e non avevano affatto
assistito al mio momento imbarazzato di poco più di un paio d’ore prima.
Federico alzò gli occhi su di me, neri come la notte e pieni
di nervosismo. Solo allora mi accorsi che masticava una cicca con un modo di
fare rabbioso.
Mi sentii quasi incenerire, sotto la potenza di quello
sguardo.
‘’Conosco già quello sfigato’’, sputò fuori Federico,
rivolgendomi la parola per la prima volta e sputandomi direttamente in faccia
un concetto schiacciante.
Feci due passi indietro, mentre gli altri tre miei amici
erano allibiti.
‘’Cosa…?’’, si lasciò sfuggire Luca, sorpreso da una tale
reazione.
‘’Ho già avuto modo di conoscere Antonio. I miei hanno
affittato due stanze a casa sua, ed è una vera piattola. Un vero sfigato, che
si diverte pure a sputare fango su tutti coloro che conosce’’, tornò a dire
Federico, mettendo in mostra tutto il suo astio.
Quando ebbi il coraggio di fissarlo in volto, notai che stava
ghignando. Era un ghigno tutto per me quello, un ghigno perfido.
Non capii dove voleva arrivare, e non riuscii a dire nulla,
troppo sbigottito da ciò che stava accadendo.
‘’No, dai… starai scherzando… lo conosco da tempo, è timido
ma è un ragazzo corretto’’, disse Davide, per poi ridacchiare nervosamente.
‘’No, non scherzo. Come credete che io abbia fatto a
conoscervi e a sapere dove stazionavate durante l’intervallo? Quel verme non fa
altro che parlare di voi, mi ha detto che una palla di lardo di nome Davide è
sempre posizionato davanti al bagno dei maschi e che…’’.
‘’Tu sei un falso! Una persona disgustosa. Non sono a
conoscenza del perché del fatto che tu mi odi senza neppure conoscermi, ma ti
prego di starmi alla larga e di non mentire sul mio conto’’, sibilai, senza
sapere da dove proveniva la mia forza. Ero sempre stato molto timido, e in quel
momento sentii il mio volto diventare bordò, mentre additavo Federico e tutti
nel corridoio sul quale si affacciava il bagno mi stavano guardando, visto che
avevo gridato quasi tutto. Per fortuna, la sala insegnanti era lontana, e
nessun prof avrebbe mai avuto modo di notare la disputa.
Non ebbi il coraggio di sostenere oltre lo sguardo di tutta
quella gente, e con la faccia in fiamme mi girai, pronto a dirigermi di nuovo
nella mia classe e a rintanarmi sul mio banco.
Non potevo sopportare che quel bellimbusto piombato lì dal
nulla rovinasse tutte le mie scarse amicizie in quel modo, e volevo ribellarmi
a lui, ma in quel momento mi pareva di aver già fatto troppo. La timidezza mi
strozzava, e ammetto che in quel momento avrei potuto anche compiere pazzie.
Come in quasi tutte le persone timide ed introverse, quando esplode la rabbia
all’interno del cuore la propria mente non è più in grado di ragionare a
dovere.
Mentre muovevo i primi passi verso la mia tana, il mio
adorato banco, mi accorsi che ero ancora fissato da mezzo istituto, e capii di
aver esagerato nel gridare in faccia a Federico. Non avendo la coscienza
sporca, avrei dovuto comportarmi in modo più diplomatico e pacato, magari
mandandolo velatamente a quel paese e cercando di riprendermi l’attenzione del
mio amato trio. Ma purtroppo, quel ragazzo aveva davvero esagerato, sia la sera
precedente col suo disgustoso snobismo, sia pochi istanti prima con il suo
carico di vergognose menzogne, sparate decisamente senza alcun motivo a me
conosciuto.
Mentre camminavo, pieno di paure e di timori, un braccio
forte mi afferrò la spalla destra, costringendomi a voltarmi nuovamente.
Mi trovai a faccia a faccia con Federico, che continuava a
tenere ben salda la sua stretta, fissandomi con due occhi quasi fuori dalle
orbite. In quel momento, ebbi come l’impressione di essermi messo involontariamente
in un guaio più grande di me.
Davanti a tutti, il mio nuovo nemico mi afferrò per
l’orecchio sinistro, appallottolandomelo ed accartocciandomelo senza pietà,
facendomi sfuggire dalle labbra un gridolino carico di dolore e di sorpresa.
Tutti osservavano la scena, mentre il nuovo arrivato mi
costringeva con forza ad inchinarmi davanti a lui, fin tanto che il mio volto
non sfiorò il pavimento. Non ebbi nessuna forza per reagire, mentre il mondo
crollava attorno a me e il dolore si faceva insopportabile.
Poi, con una rapidissima spinta finale, mi fece colpire il
pavimento con il volto. Quello fu un momento di una lunghezza infinita, quasi
esagerata.
Dopo che mi ebbe lasciato l’orecchio, mi rialzai in fretta da
terra, con il volto livido e il naso che mi doleva e che forse stava per
sanguinare, ma questo non m’importava molto. Ero uscito sconfitto al primo
diverbio della mia vita, umiliato e deriso.
Attorno a me, gli sguardi attoniti di buona parte del
pubblico femminile non osavano staccarsi minimamente dal mio volto violaceo,
mentre Davide, Giulio e Luca non si erano neppure mossi dal loro termosifone,
immersi in un’immobilità che non mi faceva presagire nulla di buono. Quelle
poche parole che Federico aveva appena detto li avevano già cambiati, e molto
probabilmente a breve lui avrebbe continuato a lavorarseli in quella maniera
subdola.
Mi avrebbero sicuramente odiato, di lì a poco. E, forse, mi
avrebbero sottoposto per vendetta allo stesso trattamento che mi aveva inflitto
il nuovo arrivato, che aveva già dato fin da subito una dimostrazione della sua
forza.
Le lacrime corsero giù lungo le mie guancie a rivoli, come
piccoli fiumi, mentre iniziavo quasi a correre lungo il corridoio, verso quel
banco che ormai era diventato la mia tana.
‘’La prossima volta che mi urli in faccia ti faccio finire con
la testa giù nel cesso, sfigato…’’.
La voce prepotente di Federico mi accompagnò fin dentro
all’aula, fin sopra al banco sul quale mi acquattai, premendomi un fazzoletto
sul naso, che fortunatamente non era rotto, ma la botta che aveva subìto non
gli aveva fatto affatto bene.
‘’Antonio, cos’è successo?!’’.
La professoressa Carlucci mi piombò sopra come una poiana
affamata, preoccupata per la vista di qualche gocciolina di sangue nel mio
fazzoletto e per il mio volto livido. Molto probabilmente, nessun insegnante
aveva assistito a ciò che era accaduto nel corridoio dei bagni.
‘’Sono scivolato in bagno. Non è nulla…’’, sussurrai con
convinzione, mentre la professoressa annuiva con poca convinzione. Non potevo
permettere di far entrare gli insegnanti e gli altri adulti in questa sfida tra
me e quel mostruoso prepotente appena arrivato in quella scuola; ormai era una
questione di onore. Avrei dovuto imparare a difendermi da solo, sempre se
quell’essere infido avesse continuato a causarmi problemi, come molto probabilmente
sarebbe accaduto. Altrimenti, gli avrei offerto solo motivi ben più fondati per
dirmi dietro e magari deridermi.
Alla fine del breve intervallo, quando tutti i miei compagni
rientrarono in classe, io continuai a restare afflosciato sul mio banco, la faccia
ancora bordò e pieno di vergogna.
Quasi tutti loro dovevano aver assistito a ciò a cui ero
stato sottoposto, eppure nessuno disse nulla all’insegnate o mi parlò. Solo
Federico rassicurò la prof, dicendole che ero per davvero scivolato in bagno.
Mi vergognai ancora di più, sentendomi un verme schiacciato
al suolo e lasciandomi scivolare addosso l’ultimo paio d’ore di lezione senza
neppure azzardarmi a lanciare un’occhiata al mio aguzzino, che era seduto nel
banco a fianco al mio. Almeno, in quel momento avevo una precisa idea di che
pasta fosse fatto.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo J
Come avrete ormai inteso con chiarezza, la storia non
tratterà solo di musica, ma anche di bullismo e di rapporti umani. Ci tengo a
continuare a ripetere che tutto ciò che vi ho descritto e che vi descriverò,
dal primo capitolo fino ad ora e fino alla fine del racconto, è tutto frutto
della mia immaginazione(credo che si noti), e quindi mai accaduto nella realtà.
Se qualcuno troverà somiglianze con fatti realmente accaduti, è tutto puramente
casuale.
Vi ringrazio per seguire questa storia. Giuro che non mi
aspettavo tanto supporto, e spero che il racconto non vi deluda.
Grazie di cuore a tutti J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
CAPITOLO 4
Quando finalmente suonò la campanella che sanciva la fine
delle lezioni, mi lanciai subito verso l’uscita della scuola, tenendo la testa
abbassata e pensando solo a raggiungere casa mia in fretta. Sul mio volto
aleggiava ancora il rossore per l’imbarazzo di quella repentina violenza
subita, mentre il mio naso sembrava a posto, per fortuna.
Nessuno dei miei compagni si era particolarmente preoccupato
per me, ed ero certo che la maggior parte di essi avesse assistito alla
violenta scena, ma in ogni caso nel corso dei quattro precedenti anni
scolastici non ero mai riuscito a farmi apprezzare da loro, forse per via della
mia eccessiva timidezza, che m’impediva di gettarmi in spacconate o in gesti
degni d’attenzione.
Poiché si sa che i soggetti maleducati molto spesso diventano
i più amati ed apprezzati, mentre coloro che sono timidi possono anche morire
immersi nei loro silenzi, poiché nessuno li nota. La timidezza era e rimane
sinonimo di emarginazione.
Scivolai lungo i corridoi pieni di gente come se fossi uno
spettro, pronto ad andarmi a rifugiare in casa mia, per poi magari chiudermi
nella mia piccola saletta e gettarmi subito sul mio pianoforte, in modo da
poter cercare di alleviare il mio dolore interno e la mia frustrazione.
Mai nessuno prima di quel giorno si era mai azzardato a
sottopormi a percosse fisiche o a violenze simili, e quella prima volta mi
aveva lasciato atterrito. Da quel momento, avevo la certezza che Federico era
una persona dalla quale dovevo stare lontano, poiché ne valeva della mia
incolumità.
Non avevo idea di come avrei fatto a sopportare il fatto di
doverlo rivedere anche tra qualche ora a casa, sotto il mio stesso tetto, ma
per quello avrei avuto modo di pensarci per bene. Avrei potuto inventare
qualche scusa, evitare la cena e i pasti. Ma forse quella non era la scelta più
appropriata.
Decisi quindi che avrei combattuto, e che la sua prepotenza
non l’avrebbe avuta vinta su di me. Me la sarei cavata da solo, e in un qualche
modo avrei saputo tenergli testa, nel caso che quel nuovo arrivato tentasse di
nuovo di farmi del male. Dovevo trovarne la forza.
Uscii rapidamente da scuola, a passo frettoloso, mentre tanti
altri studenti camminavano con minor fretta, chiacchierando tra loro e
lanciandomi una qualche occhiata, non appena passavo a loro fianco. Federico
era lì, a pochi passi dall’uscita, mentre chiacchierava e ridacchiava con quei
tre ragazzi che fino al giorno prima credevo fossero miei amici, ma che ormai
sembravano totalmente assorbiti e presi dal nuovo arrivato, che effettivamente
con loro pareva comportarsi da ragazzo esemplare, simpatico ed appariscente al
punto giusto.
Quando passai a loro fianco, non mi salutarono, facendo finta
di non vedermi, ed io stetti ben attento a non dire nulla e a non tentare neppure
di soffermarmi.
La mia camminata spedita si stava trasformando in una sorta
di fuga precipitosa, mentre potevo sentire gli occhi gelidi di Federico ben
incentrati su di me e sulle mie spalle.
Quando finalmente imbucai il vialetto che mi avrebbe condotto
a casa, rallentai il passo e mi sfiorai le guance, scoprendo che ancora
parevano essere in fiamme. Dovevo essere bordò.
Con un sospiro agitato, mi appoggiai con la schiena al tronco
di uno di quei grandi platani che fiancheggiavano la strada, coprendomi gli
occhi con le mani e riprendendo fiato, cercando di calmarmi.
Avrei voluto fermarmi lì per una manciata di minuti, così da
cercare di calmarmi e perdere un po’ quella tonalità violacea del mio volto, in
modo da non giungere a casa trafelato come una persona appena fuggita da chissà
cosa, ma fui violentemente preso dal timore che anche Federico avesse percorso
la mia stessa strada per fare ritorno alla nostra dimora, e provai
improvvisamente una grande paura; quella di incontrarlo di nuovo.
Eppure, nonostante tutte le mie paure, i miei tremiti e i
miei pensieri, continuai a restarmene così, immobile e appoggiato al tronco di
quel grande ed anonimo albero, mentre le auto scorazzavano attorno a me, e il
mondo continuava ad ignorare la mia sofferenza. Confidavo nel fatto che il
prepotente restasse ancora un po’ a chiacchierare con i suoi nuovi conoscenti.
In quel momento, avrei desiderato tanto avere qualcuno a mio
fianco, con cui poter parlare e confidarmi.
Odiando la mia timidezza, pressai con più forza i palmi delle
mie mani sugli occhi, continuando a cercare di regolare il respiro. Riconobbi
che quella mattina avevo subìto un vero e proprio trauma, poiché nella mia vita
nulla mi aveva mai colpito così tanto, fino a quel momento.
‘’Ho visto quello che ti ha fatto, questa mattina’’.
Una voce femminile, da ragazza, interruppe i miei pensieri. Qualcuno
si stava avvicinando alle mie spalle. Non trovai la forza per togliere le mani
da davanti agli occhi, sperando vivamente che si trattasse di una persona che
si stesse rivolgendo a qualcun altro, magari parlando al cellulare.
Invece, quella persona era interessata a me, e si avvicinò
ulteriormente. Sentii le mani della sconosciuta mentre si appoggiavano sulle
mie, togliendomele con delicatezza da sopra gli occhi.
Sorpreso, la lasciai fare.
‘’Come stai? Ti ha fatto molto male, vero?’’.
La ragazza che mi stava parlando era visibilmente
preoccupata, lo intuii dal suo tono di voce pacato e sincero, e quando mi
ritrovai a fissarla la riconobbi. Si trattava di Alice Casagrande, una
studentessa del mio stesso istituto scolastico, che frequentava la quarta
superiore nella sezione a fianco della mia.
Avevo avuto modo di vederla più volte nei corridoi, sempre
affiancata da qualche amica, e col fatto che viveva a due isolati da me, la conoscevo
di vista da sempre. Comunque, tra me e lei non si era mai andati oltre ad un
semplice e striminzito ciao, fino a quel momento, e non ci eravamo mai
soffermati a parlare né a conoscerci meglio.
Trovarmela lì di fronte, così preoccupata per me, mi sorprese
e mi fece una certa impressione.
‘’Non molto’’, risposi dopo un attimo di esitazione,
abbassando lo sguardo.
‘’Lo conoscevi già, quello stronzo?’’, tornò a chiedermi la
ragazza, sfiorandomi con delicatezza il volto.
‘’Sì, è il figlio dei nuovi inquilini di mia madre. È
arrivato ieri, assieme alla sua famiglia, e pare già intenzionato a rovinarmi
la vita’’, risposi, sempre tenendo lo sguardo ben fisso a terra. Avevo paura
che la mia vicina di casa potesse vedermi troppo turbato, o che magari
scorgesse troppo chiaramente quel rossore che continuava a tenere sotto scacco
il mio volto.
‘’Ma che gli hai fatto per trattarti così?’’, mi chiese
nuovamente Alice, sospirando con nervosismo.
Quella domanda mi riscosse dal torpore che mi avvolgeva, e
quasi sobbalzai. Non mi ero mai posto adeguatamente quel quesito, senz’altro
fondato. Federico aveva messo piede nella mia cittadina solo il giorno prima, e
con lui non avevo mai avuto nulla da spartire, non l’avevo neppure mai visto e
fino a ventiquattro ore prima non ero neppure a conoscenza della sua esistenza,
eppure lui mi aveva preso fin da subito di mira.
Non seppi darmi una risposta.
‘’Non ne ho idea. Non lo conosco neppure tanto bene… l’ho
visto ieri sera per la prima volta. Eppure, mi sa che mi ha preso in antipatia
fin da subito’’, mi limitai a rispondere, scrollando le spalle. Quel rancore
immotivato nei miei confronti non aveva alcun senso per me, in quel momento.
Alice fece una piccola smorfia dispiaciuta.
‘’E’ un pallone gonfiato, lo si vede da lontano. Ti consiglio
di lasciarlo perdere e di girargli alla larga, mi pare anche un po’ matto. Ti
va di compiere il tragitto verso casa assieme a me?’’, chiese poi la ragazza,
cortesemente, dopo aver espresso i suoi logici pensieri.
Mi scostai dal tronco su cui avevo appoggiato la mia schiena
e, per la prima volta in quella giornata, sorrisi blandamente.
Anche Alice rispose al mio sorriso, lasciando che la affiancassi
silenziosamente sullo stretto marciapiede, ormai rovinato dalle radici degli
alberi, che in alcuni punti l’avevano pure frantumato. La ragazza era alta
nella media, snella al punto giusto, con dei bei capelli castani a caschetto e
un paio d’occhi neri e penetranti.
Non attirava assolutamente l’attenzione, poiché sembrava
sempre molto tranquilla, come anche in quel preciso momento. Indossava una felpa
piuttosto pesante per il periodo ancora mite di fine settembre, che aggiunta ad
un paio di jeans attillati e ad una borsa blu pareva renderla più adulta,
abbagliando lievemente quell’aura da giovane e brillante diciassettenne che la
circondava ovunque essa andasse. La conoscevo di vista da sempre, ma mai
l’avevo osservata in modo così approfondito, e in un attimo compresi che non
era poi tanto male come ragazza.
La rabbia e l’imbarazzo per ciò che era accaduto a scuola
quella mattina iniziò pian piano a quietarsi, dentro di me, mentre riflettevo.
‘’Non mi piacciono i prepotenti, sai?’’, tornò a dire Alice,
stoppando tutti i miei pensieri.
‘’Neppure a me’’, risposi, di poche parole come sempre. Con
le ragazze poi, in genere la mia timidezza mi costringeva a riflettere troppo
prima di parlare, poiché non avevo alcuna idea di che dire.
Il genere femminile di solito mi metteva in assoluta
soggezione, cosa che però non stava capitando con Alice; con quella ragazza,
che conoscevo solo di vista e che era stata l’unica ad interessarsi un attimo a
me e a dedicarmi qualche piccola attenzione, mi sentivo a mio agio.
‘’Se si azzarda ancora a crearti problemi, fammelo sapere. Se
sono in giro per i corridoi e vedo un altro di quei gesti, giuro che
intervengo. Ti chiedo scusa se questa mattina non ho potuto far nulla, ma ero
troppo scossa, così come anche le mie amiche; non abbiamo mai visto nulla di
simile. Non siamo abituate a vedere gesti del genere e quel tizio ci ha colte
di sorpresa, ma ora sono, anzi siamo, pronte ad intervenire’’, tornò a dire la
ragazza, con spirito battagliero.
‘’Grazie’’, sussurrai, ma quella volta con fare poco deciso.
Non era che mi dispiacesse aver trovato per caso un’alleata, o forse più d’una,
ma ammetto che mi avrebbe fatto più piacere sapermi difendere da solo. Non mi
chiesi da che parte si fossero schierati quei tre che credevo miei amici;
immaginavo già la triste risposta a quella domanda, purtroppo.
Alice mi guardò, poi sorrise.
‘’Tranquillo, immagino che un mio intervento possa metterti
in imbarazzo. Però, se noterò qualcos’altro simile a ciò che è accaduto oggi,
niente e nessuno riuscirà a farmi star zitta. E se non lo farai tu, sarò io
stessa a dirlo con gli insegnanti’’, sibilò la ragazza con rabbia, per poi
tornare a rivolgermi un sorriso amichevole e tranquillo.
Se per un attimo avevo avuto il timore che lei mi avesse
raccattato per strada come se fossi un gatto randagio o una bestiola da
allontanare dopo avergli posto qualche curiosa domanda, in quel momento nei
suoi occhi lessi sicurezza e sincerità, e fui certo che si stava interessando a
me con tutta sé stessa. Mi pareva incredibile che una quasi sconosciuta si
preoccupasse realmente per me, e dovetti riconoscere il fatto che doveva essere
davvero una ragazza gentile.
Mi limitai solo a rivolgerle un sorrisetto insicuro e pieno
di timidezza, capendo che avrei dovuto dire qualcosa, ma senza poi riuscire a
trovarne il coraggio per farlo. Era in momenti come quello in cui comprendevo
quanto ancora dovevo migliorare e crescere sotto alcuni aspetti
comportamentali, almeno provando ad affrontare quella cappa di timidezza che a
volte pareva voler trattenere le parole, quasi come se me le rubasse prima che
io potessi pensarle e pronunciarle.
Mentre sorridevo timidamente, udii uno scalpiccio poco più
indietro, e voltandomi vidi distintamente l’alta e slanciata figura di Federico,
che procedeva spedito qualche metro dietro di noi, con una sigaretta accesa tra
le labbra e il cellulare in mano.
Feci un’impercettibile cenno con la testa ad Alice, ed
anch’essa lo vide.
‘’Sta andando a casa anche lui…’’, mugugnai, ben sapendo che
sarebbe rientrato assieme a me. Sperai che in casa non si azzardasse a cercare
di fare il prepotente, ma ne dubitavo.
Avevo sperato che si soffermasse un po’ assieme ai suoi nuovi
amichetti, invece a quanto pareva aveva tutta l’intenzione di rientrare in
fretta.
‘’Non è un problema. Se non ti va di stare in casa con lui o
di trovartelo sempre tra i piedi, non sarebbe un disturbo per me se volessi
venire a casa mia, questo pomeriggio. Potremmo studiare assieme, se ti va. So
che non affrontiamo lo stesso programma, però possiamo metterci lì sui libri insieme,
scambiando due parole di tanto in tanto e studiando in pace…’’, suggerì Alice,
stringendosi nelle spalle.
Rimasi stupito ascoltando quell’invito a casa sua, e tornai a
sorridere.
‘’Certo, va bene, se per te non è un problema’’, le dissi con
cortesia.
‘’Non è assolutamente un problema’’.
‘’Bene, allora… a che ora?’’, chiesi, timidamente.
‘’Uhm, vieni quando vuoi. Io sono sempre in casa’’, mi
rispose la ragazza, sorridendo.
Sembrava felice che io avessi accettato il suo invito, ed
ovviamente a quel punto fui felice anch’io. Ma fu solo una felicità passeggera,
poiché ci trovavamo già praticamente di fronte a casa sua.
‘’A dopo, allora’’, mi disse, continuando a sorridermi ed
entrando rapidamente nel piccolo giardinetto antistante la sua abitazione.
‘’A dopo’’, le dissi frettolosamente, congedandomi e
riprendendo a camminare un po’ più freneticamente.
Federico, che continuava a fumare pochi passi dietro di me,
proseguiva anch’esso spedito, e non volevo farmi raggiungere. Ormai, quel
ragazzo era diventato una sorta di fissa.
Fortunatamente, dopo pochi minuti mi ritrovai anch’io sotto
casa mia, e lasciando aperto il cancelletto dietro di me, quasi mi lanciai tra
le mura domestiche.
Una volta in casa, non attesi altro tempo; non avevo fame in
quel momento, e visto che avrei studiato più tardi da Alice, mi decisi a
recarmi al cospetto del mio pianoforte, in modo da poter suonare qualcosa e
sfogare finalmente tutta la tensione di quella lunga ed agitata mattinata.
Entrai nella mia saletta, richiudendo la porta dietro di me
ed appoggiando lo zaino a terra, per poi sedermi sul piccolo sgabello e
afferrare uno spartito a caso. Alla fine lasciai perdere, poiché ero talmente
tanto agitato che tutto mi tremava tra le mani, e decisi di lasciar perdere
quell’azione che mi pareva troppo burocratica, per gettarmi direttamente sui
tasti, abbandonando ogni limite che avesse potuto schiavizzare ciò che stavo
per suonare.
In quel momento, mi resi conto che cercavo solo quella
libertà assoluta che mi avrebbe permesso di rilassarmi e di raggiungere la mia
quotidiana armonia. Socchiusi gli occhi, e non appena udii la porta di casa
richiudersi, capendo che anche il mio nemico era rientrato, mi buttai sul
pianoforte come un avvoltoio affamato di musica, lanciatosi in picchiata verso
una carogna composta da tasti bianchi come la neve.
Iniziai a suonare lentamente, prendendoci gusto, per poi
cominciare a fare sul serio. Mi sentivo davvero realizzato a quel punto, e
tutto ciò che era accaduto quella mattina era ormai qualcosa di lontano,
qualcosa che non aveva bisogno di essere ricordato.
Non seppi per quanto tempo restai così, suonando tutto solo e
quasi in estasi. Seppi solo che a un certo punto udii lo scricchiolio della
porta della piccola sala mentre si apriva, e capii che qualcuno era entrato.
Non avendo visto nessuno in casa, e sapendo che mia madre era
al lavoro, temetti per un attimo che si trattasse di Federico, che ancora
indispettito ne voleva approfittare di quell’attimo in cui eravamo soli in casa
per colpirmi nuovamente, mentre udivo di nuovo lo stesso rumore sommesso,
sinonimo del fatto che la porta era stata nuovamente richiusa dall’invasore,
che si stava avvicinando poco dietro di me.
Nella mia mente balenò una visione oscura, la figura di quel
ragazzo mentre mi faceva di nuovo del male.
Non me ne importai molto, continuai a tenere gli occhi chiusi
e a suonare senza sosta; mi sentivo invulnerabile. Capivo che lui avrebbe
potuto farmi ancora del male, ma ero spinto da una voglia primordiale di
continuare a suonare e di fregarmene del resto del mondo e dell’invasore che
stava violando il mio territorio, muovendosi lentamente verso di me.
Mi sentivo assolutamente al sicuro, così immerso nella mia
roccaforte musicale, e la mia mente non aveva alcuna intenzione di abbandonare
quel suo momento di svago.
Mi rilassai un attimo solo quando udii distintamente il
cigolio delle molle della poltroncina alle mie spalle, segnale che qualcuno si
doveva essere seduto lì. A quel punto, seppi quasi con certezza che non ero in
pericolo, e anzi, che ero più al sicuro di prima.
Continuai a distendermi e ripresi a suonare con vigore,
sempre senza alcuna logica o schema, l’importante era solo che ne venisse fuori
una melodia accettabile, quindi feci fronte a qualche mia piccola e
inconsistente lacuna utilizzando quasi esclusivamente le note che conoscevo di
più.
Suonavo il pianoforte da sempre, e fin dalla più tenera età
mia madre aveva fatto tutto quello che poteva per lasciarmi seguire la mia
passione, pagandomi anche qualche lezione privata al pomeriggio e permettendomi
di fare un po’ di pratica. Ma ormai non avevo più bisogno di insegnanti,
fortunatamente. Non avevo alcun progetto futuro a riguardo, e quindi quel che
sapevo mi bastava per offrirmi il mio solito svago, e di ciò mi accontentavo.
Continuai a suonare fintanto che non fui ebbro di musica, e
fin quando capii che avrei dovuto iniziare a prepararmi per andare a casa di
Alice, se non volevo lasciar trascorrere tutto il pomeriggio, poiché molto
probabilmente doveva già essere passata più di un’ora da quando mi ero messo a
suonare. Quindi, con lentezza graduale, abbassai il ritmo delle mia dita e mi
riscossi pian piano, e nell’istante in cui conclusi tutto, premendo l’ultimo
tasto, spalancai gli occhi.
Sapevo che l’intruso era ancora lì, visto che non avevo udito
nessun altro rumore, e mi voltai con lentezza verso la poltrona, dopo essermi
assicurato che fosse tutto in ordine sul mio pianoforte, spartiti compresi.
Roberto era lì, occhiali da vista sul naso e il volto
rilassato, ben immerso nella lettura del suo solito quotidiano.
Non appena notò che non avrei ripreso a suonare, alzò gli
occhi dal giornale e si voltò anche lui verso di me, incrociando il suo sguardo
col mio.
‘’Bene, sei sempre più bravo. Ti dispiacerebbe continuare
ancora un po’?’’, chiese l’uomo, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso.
‘’No, ma ora non posso. Devo uscire’’, risposi, tentennando
un attimo.
Sapevo che dovevo alzarmi e lasciare quella stanza, ormai
vittima di più di un’invasione nelle ultime ventiquattro ore, ma quella volta non
ero assolutamente indispettito dal fatto che Roberto avesse passato un po’ di
tempo lì con me. Mi aveva fatto sentire protetto, poiché se c’era lui, molto
probabilmente suo figlio non si sarebbe azzardato a darmi fastidio.
‘’Sei tornato a casa tutto trafelato, hai gettato a terra le
tue cose, non hai mangiato nulla… c’è qualcosa che non va?’’, tornò a chiedere
l’uomo, indicando con un cenno della testa il mio zaino, riverso malamente al
suolo a pochi passi da me.
Deglutii, incerto. Avrei voluto sputargli in faccia che suo
figlio era un prepotente, che mi aveva fatto del male davanti a tutti, ma non
ci riuscii.
Volevo tenere quell’umiliazione per me, poiché condividerla
con altri mi avrebbe fatto sentire nuovamente in imbarazzo, e sicuramente se
Federico fosse stato sgridato dal padre, avrebbe avuto un motivo in più per
deridermi ed offendermi una volta fuori casa e a scuola. E questo non potevo
permetterlo.
Mi era chiaro in quel momento che quella era una questione
che dovevo affrontare assolutamente da solo, senza commettere più altri passi
falsi o coinvolgere altre persone.
‘’E’ tutto a posto, non preoccuparti’’, gli dissi dopo aver
riflettuto un attimo, alzandomi e avvicinandomi mestamente al mio zaino.
‘’Beh, sappi che se c’è qualcosa che ti turba puoi parlarmene
tranquillamente… e spero di non avere disturbato, sedendomi qui mentre
suonavi’’, tornò a dire Roberto, con sincerità.
Per un attimo, quelle parole mi stupirono; mai nessuno prima
di quel momento si era offerto di ascoltarmi, poiché in genere non mi ascoltava
mai nessuno. Forse era anche per quel motivo che non riuscivo mai a far fronte
alla mia eccessiva timidezza.
‘’Va bene, lo terrò senz’altro presente. E comunque, non mi
hai assolutamente disturbato. Anzi, se anche altre volte vorrai entrare, e
farmi silenziosamente compagnia intanto che suono, beh, potrai farlo senza
problemi’’, dissi, arrossendo lievemente. In realtà gli stavo chiedendo
tacitamente di tornare ad ascoltarmi mentre suonavo solo perché temevo che in
quella stanza avesse potuto entrare suo figlio, ed avevo una leggera paura.
‘’Ti ringrazio’’, mi rispose lui, sorridendomi.
Mi misi il mio zaino in spalla e mi diressi verso la porta.
‘’A questa sera’’, gli dissi, cortesemente.
‘’A dopo’’.
Lo lasciai lì a leggere, nella mia saletta, sapendo che la
sua presenza avrebbe garantito l’integrità del mio pianoforte.
Forse, in quella casa, Roberto sarebbe potuto diventare una
specie di difesa, una sorta di scudo protettivo che mi avrebbe salvaguardato da
ogni possibile cattiveria, poiché ero certo che lui non avrebbe mai permesso a
Federico di comportarsi da bullo violento. E quell’uomo attirava
incredibilmente la mia attenzione, forse per il forte contrasto che generava
col figlio e per il fatto che i due, da quel che mi era parso, non andavano
molto d’accordo.
Con un sospiro, scesi nel piccolo giardinetto di casa, quasi
sbattendo la porta d’ingresso dietro di me, e uscii in strada con lo zaino
sulle spalle, diretto a casa di Alice.
Avevo il cuore in gola poiché anche quella sarebbe stata una
sorta di nuova avventura, visto che non ero abituato a stare con altri durante
il pomeriggio, e neppure a recarmi in visita ad altre case. Eppure, anche
quella ragazza mi aveva lasciato una buona impressione di sé, e in oltre le
avevo detto che le avrei fatto visita, quindi non potevo rimangiarmi la parola
o non presentarmi.
Pochi minuti dopo, infatti, mi trovavo già sotto il suo
portone, e con un sospiro teso suonai il campanello, sperando che Alice, quella
ragazza che non avevo mai avuto modo di conoscere meglio, si potesse rivelare
cortese e che avesse saputo mettermi a mio agio, nonostante la mia grande
timidezza.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti! Grazie per aver letto anche questo capitolo, e
per continuare a seguire il racconto.
Siamo solo all’inizio ma la situazione generale pian piano inizia
a delinearsi. C’è ancora tanto, tantissimo da dire e non ho idea di quanto
verrà lunga la storia, per ora… beh, spero solo che la vicenda continui ad
essere di vostro gradimento.
Un grande grazie a tutti i gentilissimi recensori! I vostri
pareri e il vostro supporto sono per me ciò che mi dà una grande forza e
un’immensa voglia di proseguire con questa avventura.
Grazie di cuore! A lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
CAPITOLO 5
La casa di Alice era un’abitazione molto semplice, come tante
di questa stessa cittadina, ma era davvero spaziosa al suo interno, più di
quanto potesse sembrare se vista dall’esterno. La padrona di casa non mi aveva
fatto attendere, e molto probabilmente già mi aspettava, poiché non appena
avevo suonato il campanello, lei aveva spalancato subito la porta e mi aveva
cortesemente fatto entrare, per condurmi nello spazioso soggiorno su cui si
affacciava il corridoio d’ingresso.
‘’Sei davvero molto timido. Più di quanto credessi’’, mi
disse subito Alice dopo avermi accolto in casa, notando i miei movimenti
impacciati.
A quelle parole arrossii in modo molto veemente, poiché
ritengo che nessuna situazione ponga più in imbarazzo di quella in cui qualcuno
ti fa notare proprio il tuo stesso imbarazzo.
Io sorrisi, naturalmente, ma sempre restando il solito
ragazzino impacciato. La mia nuova amica ridacchiò, guardandomi.
‘’Non volevo farti arrossire così tanto, giuro. Comunque, con
me puoi stare tranquillo… rilassati’’, mi disse Alice, arrossendo leggermente
anche lei. Ci guardammo a vicenda e scoppiammo a ridere, ormai consapevoli del
fatto che entrambi avevamo un’indole piuttosto timida.
‘’Accomodati pure su una delle poltroncine, ti porto qualcosa
da mangiare’’, mi disse poi cortesemente, indicandomi con un dito le quattro
poltroncine posizionate tutte una a fianco dell’altra a lato della finestra del
soggiorno, proprio dietro ad un magnifico ed elegante tavolino di legno, che
faceva un figurone nella stanza. Non feci in tempo a dirle di non scomodarsi,
poiché era già sparita, certamente diretta in fretta verso la cucina.
Sospirando, e temendo che la mia ansia da ragazzo timidissimo
tornasse a prendere il sopravvento su di me, mi andai a sedere proprio dove la
mia coetanea mi aveva consigliato di fare, scegliendo una poltroncina di lato
alle altre, scoprendone tutta la sua comodità e abbandonando il mio zaino a
terra.
A momenti rischiai di chiudere gli occhi e di lasciarmi
sfuggire un sorriso beato e rilassato, ma la padrona di casa tornò a piombare
nella stanza, stringendo a fatica un sacchetto di patatine e una bottiglia di
aranciata nella mano destra, mentre la sinistra era alle prese con due
bicchierini di plastica impilati.
Sorrisi quando notai che, con difficoltà, posizionava tutto sul
tavolino, offrendomi un bicchiere con attenzione.
Poi, nel soggiorno entrò anche un’altra ragazza, e quasi
sobbalzai.
‘’Oh, questa è Jasmine, ma sicuramente sai già chi è… spero
che tu non ne abbia per male se ho invitato anche lei. Passiamo molto tempo
assieme, e se non lo sai siamo anche migliori amiche’’, disse Alice, sedendosi
sulla poltroncina a fianco della mia.
‘’Non c’è problema, ci mancherebbe’’, risposi, sorridendo
timidamente.
Sapevo chi era Jasmine, anche perché era impossibile non
notarla; la sua altezza impressionante, unita alla bellissima pelle color ebano
e a un sorriso splendente, la rendeva davvero unica nel liceo che frequentavo.
Jasmine era una ragazza molto diversa da Alice, sia per l’aspetto fisico che
per quello relazionale.
Tutti conoscevano la sua storia. Figlia di un impiegato e di
una casalinga di origini senegalesi, era da anni una delle ragazze più
conosciute della scuola, poiché era anche una grandissima sportiva e inoltre,
cosa più rara ma davvero apprezzabile da chiunque, era sempre pronta a
sorridere. Anche in quel momento, mentre mi fissava, mi sorrideva. I suoi denti
bianchi rilucevano come fossero splendidi diamanti, e penso che quella fu la
prima volta che mi colpì così tanto la sua presenza.
‘’Ciao, Antonio’’, mi disse poi, sempre senza smettere di
sorridere e sedendosi anche lei.
‘’Ciao, Jasmine’’, le dissi, sempre in modo molto timido.
Mi sentivo in imbarazzo, non lo nascosi affatto. Non avevo
mai parlato con Jasmine, nonostante il fatto che a volte ci incontrassimo nei
corridoi o davanti alle nostre aule. Quel pomeriggio era pieno di novità per
me, e anche solo ventiquattrore prima non avrei mai potuto immaginare di finire
in quella casa, per incontrarmi amichevolmente con le due ragazze che formavano
uno dei gruppi più conosciuti di tutta la scuola.
Sapevo che Jasmine e Alice erano grandi amiche, e anche se
non frequentavano la stessa classe si incontravano assiduamente durante il
breve intervallo. Eppure, non potevano esistere al mondo ragazze più diverse,
poiché il modo di vestire estremamente alla moda di Jasmine si scontrava
violentemente con il solito stile casual e non appariscente di Alice, eppure,
anche se esteriormente distanti anni luce l’una dall’altra, le due ragazze
parevano andare d’accordo. Molto d’accordo.
A quel punto, la padrona di casa voleva assolutamente
togliermi dall’imbarazzo, e con uno sguardo tranquillo afferrò un libro da una
borsa a tracolla abbandonata miseramente sul pavimento tra le poltroncine, che
la mia ansia non mi aveva permesso di notare fino a quel momento, e lo aprì.
‘’Beh, Antonio, hai portato qualcosa su cui studiare?’’,
disse, timidamente. Effettivamente, lo studio non era un gran argomento su cui
dibattere, però quella semplice domanda ruppe il silenzio carico di timidezza
che era stava opprimendo la stava.
‘’Sì’’, risposi, sorridendo e aprendo il mio zaino, già
pronto ad estrarre il libro di scienze. In quegli stessi giorni era iniziato il
primo giro di interrogazioni, ma per fortuna non ero ancora stato chiamato
dall’insegnante. Per di più, quell’ultimo anno di superiori mi ero davvero
ripromesso di cercare di studiare e di fare del mio meglio, per cercare di
portare a casa qualche soddisfazione per me stesso e per mia madre, che tanto
se la meritava.
Con solerzia, ne approfittai per affondare lo sguardo tra le
varie pagine, sperando di riuscire a concentrarmi anche se qualcuno mi stava
osservando. Ero davvero molto timido, e così come non riuscivo a suonare con
gente di fronte a me, non riuscivo neppure a studiare se sottoposto allo
sguardo di altri.
Eppure, m’immersi rapidamente nella lettura, ma la mano di
Alice scivolò sulla pagina, costringendomi quindi a uscire in fretta dal mio
blando momento di concentrazione.
Alzando lo sguardo, la fissai come inebetito, mentre lei si
accingeva a parlarmi e si stava prendendo un momento quasi come per riflettere,
come se avesse avuto qualcosa di talmente importante da dirmi per cui doveva
cercare le parole più adatte per esprimerlo.
Osservai anche Jasmine, con la coda dell’occhio, e potei
notare il suo sguardo consapevole. In meno di un secondo, potei già immaginare
quale fosse l’argomento che si stava per affrontare.
‘’Antonio, lei sa tutto. Come me ha visto ciò che ti è accaduto
questa mattina’’, iniziò a dire Alice, indicando con lo sguardo Jasmine, che
annuì lentamente. Alzai subito la mano destra con risolutezza.
‘’Non voglio più parlarne’’, dissi, in modo diretto. Non
volevo ripensare a quei momenti orribili.
‘’Beh, sappi che con noi puoi confidarti e trovare conforto.
Ti vediamo sempre solo a scuola, e questo ci dispiace. Se vuoi unirti a noi
durante l’intervallo, e passare quindici minuti in compagnia, sai dove
trovarci, immagino’’, tornò a dire la ragazza, che comunque parve non voler
tornare direttamente sul discorso appena sfiorato poco prima. Annuii, poco
convinto.
‘’Quel nuovo arrivato sa metterti nei guai. Dev’essere un
bullo, un prepotente. Ho visto fin da subito come si comporta e con quale
arroganza si muove tra gli altri ragazzi… è appena arrivato eppure ha già
saputo compiere gesti atroci e mettersi in mostra’’, disse Jasmine, parlandomi
per la prima volta.
Io mi limitai ad abbassare lo sguardo, senza avere altro da
aggiungere. Effettivamente, la ragazza aveva ragione. Da quando era arrivato,
Federico era stato in grado di attirare su di sé l’attenzione di tutti, e non
solo a scuola, ma anche a casa. Pure mia madre pareva incuriosita da quell’aura
sfrontata che sprigionava.
Mi venne in mente infatti che anch’io, la sera prima, subito
dopo averlo visto avevo iniziato a pormi delle domande, capendo che era strano
e che forse dietro alla sua figura silenziosamente opprimente e maleducata poteva
nascondersi qualcosa. Di certo, si nascondeva qualche ostilità rivolta verso di
me.
‘’Ecco, noi ti vogliamo dire che… non sei solo, se lo vuoi.
Sei un ragazzo delicato ed altruista, anche intelligente, e se vorrai unirti al
nostro gruppo, sarai ben accetto. Noi siamo in due, però ci supportiamo molto…
beh, se vuoi, noi due per te ci saremo sempre, e ovviamente saremo pronte a
darti man forte in caso di bisogno. Se non ti vergognerai di far parte di un
gruppo composto da altre due componenti di sesso femminile, naturalmente’’,
concluse Alice, con difficoltà.
Io la guardai ma non dissi nulla, in un primo momento. Avevo
notato due aspetti distinti in ciò che mi aveva detto; di certo, sia lei che
Jasmine dovevano aver parlato di me precedentemente, e dovevano aver deciso di
provare ad affiancarmi. Inoltre, la frase finale con cui aveva concluso il suo
discorso frammentato da alcune piccolissime pause era stato pronunciato con un
po’ di irritazione, quasi a volermi accusare o far passare per misogino.
Dovevo rispondere, e lì per lì mi soffermai un altro istante
a riflettere, poiché se da una parte la loro alleanza e la loro vicinanza mi
avrebbe fatto comodo, offrendomi comunque due amicizie per il momento sincere e
pronte a togliermi un po’ dalla mia solitudine in cui ultimamente mi ero
calato, dall’altra mi faceva sentire ridicolo.
Non per piccoli particolari, ma per il fatto che sembrava
che, con quell’invito così frettoloso ma tremendamente studiato, entrambe
volessero prendermi sotto le loro ali protettrici come si fa con una persona
pietosa. E io di pietà non volevo proprio smuoverne in nessun cuore.
Le mie interlocutrici notarono la mia mancata risposta e i
miei tentennamenti, e dopo essersi lanciate un’occhiata a vicenda, sembravano
perdute. Mi chiesi se fosse stato possibile che non avessero potuto prevedere
un mio tentennamento, e capii che forse mi avevano davvero preso sottogamba,
credendomi sciocco o comunque uno sfigato, come probabilmente pensavano tutti. Per
un secondo, un’irrazionale nervosismo prese vita dentro di me, per poi
dissolversi altrettanto in fretta.
Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, riuscii ad
intendere le buone intenzioni delle due ragazze, continuando a notare le loro
occhiate cariche di sincera ansia, e comunque decisi di dar loro una chance e
di provare a fidarmi. D’altronde, non avevo nulla da perdere e non mi
sembravano persone scorrette. Esse stesse stavano davanti a me in evidente
apprensione, senza mostrare alcun segno di volermi prendere in giro o di
raccattarmi per pietà.
Sorrisi all’improvviso, squarciando il velo di flebile
tensione che era sceso sulla stanza, poiché ero certo che le mie interlocutrici
pensavano che non avessi inteso ciò che volevano dirmi o che comunque io non
volevo lasciarmi avvicinare così facilmente.
‘’Va bene, ragazze. Grazie per avermi offerto un appoggio’’,
dissi, rassicurandole ma non promettendo null’altro.
Jasmine e Alice sorrisero anch’esse, e tuttavia poi non
chiesero più nulla e non tornarono sull’argomento.
Studiammo per l’intero pomeriggio, senza sosta, a volte
passandoci i libri ed interrogandoci a vicenda, ma senza più affrontare vicende
maggiormente personali. Così, trascorse in fretta il primo pomeriggio in
compagnia di quelle che poi sarebbero diventate per davvero le mie nuove
amiche.
Era già sera inoltrata quando tornai a casa.
L’aria fresca degli ultimi giorni di settembre era pungente,
e velocizzai il mio passo pur di rientrare in fretta e di non infreddolirmi.
Non volevo ammalarmi, ma tuttavia dovetti anche ammettere che al solo pensiero
di dovere rincontrare Federico mi faceva sentire male. Speravo che se ne fosse
andato, e che magari si trattasse solo di un semplice incubo, ma sapevo che
quel mio coetaneo era reale.
Entrai in casa di soppiatto, e quasi scivolando mi affrettai
a rintanarmi nella mia piccola saletta, in compagnia del mio pianoforte. Faceva
caldo lì dentro, e scoprii che mia madre doveva già aver acceso il
riscaldamento.
Mi guardai ancora un po’ attorno, prima di dirigermi verso il
mio strumento.
Di Roberto non c’era più alcuna traccia, se non un giornale
abbandonato sul tavolino di fronte alla poltrona. Quasi dispiaciuto, mi avvidi
di gettare nuovamente a terra(e con tanta malagrazia) il mio zainetto,
togliendomi poi anche in fretta il cappotto e mi catapultai come un rapace sul
mio pianoforte, saggiandone prima di tutto i tasti.
Iniziai solo con un assaggio, una sorta di riscaldamento che
avrebbe poi permesso alle mie dita di essere meno rigide quando avrei
affrontato una sinfonia seria. Eppure, udii distintamente la porta mentre si
apriva.
‘’Antonio!’’.
La voce stridula di mia madre mi riportò al mondo reale,
fatto di persone che forse parlavano troppo e nei momenti meno appropriati.
Ammetto che mi voltai verso di lei con una smorfia irritata ben impressa sul
volto.
‘’Dimmi, mamma’’, dissi, sospirando.
Ero stanco e sfinito, non mi andava di ascoltare ciò che il
mio unico genitore aveva da dirmi, e in quel momento non mi sarebbe affatto
dispiaciuto liquidarla in fretta per poi riprendere il corteggiamento rivolto
alla tastiera del mio pianoforte. Poiché tuttora sono convinto che i piccoli
tasti siano come le donne; se non le si sfiorano con amore sincero, esse non ti
vorranno mai accanto per più di un battito di ciglia. E per i tasti era uguale,
poiché se non si riusciva a sfiorarli con la giusta e amorevole ispirazione,
essi poi non avrebbero mai prodotto la sequenza rapida di suoni e di note che
si volevano ricreare.
‘’Sono un po’ preoccupata per te. Il signor Roberto mi ha
detto che sei uscito per andare da qualche amica e che saresti tornato per
cena, quindi non mi sono preoccupata molto, ma anche lui ha notato che
quest’oggi ti sei comportato in modo strano… c’è qualche problema?’’, mi chiese
poi mia madre, visibilmente preoccupata.
Mi vergognai per aver mostrato una smorfia scocciata,
d’altronde lei voleva e cercava solo il mio bene.
Mi preparai quindi per risponderle con grande remissività, ma
comunque sapevo già dal retrogusto amaro dei miei pensieri che le avrei
mentito.
‘’No, è tutto a posto. È solo che oggi ho conosciuto due
ragazze, con le quali ho studiato fino a poco fa. Nessun problema’’, le
risposi, sorridendo debolmente. Non volevo che lei si preoccupasse
ulteriormente per me, e non avevo affatto intenzione di raccontarle del mio
scontro con Federico. Non volevo neppure che quella notizia giungesse fin
dentro casa, poiché molto probabilmente il nuovo e bruto inquilino doveva aver
reagito così spropositatamente solo perché magari quel primo giorno di scuola
nel paese doveva averlo reso nervoso.
Per un po’, giusto il tempo necessario per rassicurare mia madre,
mi autoconvinsi di ciò, raccontandomi una grande fandonia che rendeva tutto
molto più dolce.
Infatti mia madre sorrise, rassicurata dalle mie parole.
‘’Bene, ero davvero un po’ in pensiero per te, e sono felice
che tu abbia trovato qualche nuova amica. I nuovi affittuari hanno già cenato,
e anch’io l’ho fatto dopo di loro. Ora andrei a riposarmi, sono davvero
sfinita… ti ho lasciato un po’ di arrosto nel tegame, ancora caldo sui
fornelli. Se vuoi…’’.
‘’No, mamma, non preoccuparti. Vai a riposare. Più tardi
cenerò, ora ho bisogno di suonare un poco’’, le risposi, continuando la frase
che aveva lasciato in sospeso. Lei teneva molto a me, e avrebbe compiuto pure i
tripli salti mortali per accudirmi al meglio, e molte volte mi chiedevo se ero
io stesso a volerla vedere a volte così lontana da me.
Era sempre stata poco presente nella mia vita, ma
semplicemente perché lavorava tantissimo. Ogni sua lacuna aveva in realtà una
solida risposta basilare che a volte non volevo riconoscere, forse per estremo
egocentrismo, ma stava di fatto che lei mi voleva davvero bene. Tutto il resto
era solo un problema mio.
La mia cara mamma mi lasciò lì, chiudendo la porta con
delicatezza dietro di sé e senza smettere di sorridere.
Sorrisi anch’io e scrollai la testa, non appena mi ebbe
lasciato solo, e spensi la luce emessa dal lampadario per accendere l’abatjour
seminascosta in un angolino della mia saletta, in modo da illuminare
parzialmente la stanza.
Poi mi risiedetti alla mia postazione di poco prima e con
delicatezza cominciai finalmente a suonare.
L’ambientazione per perfetta per me, mi sentivo nel mio
habitat naturale nonostante la penombra che costantemente m’insidiava da ogni
lato e le ombre frettolose che io stesso imprimevo sui muri con i miei gesti in
controluce.
Già dopo qualche istante la mia vista si fece flebile e
sfocata, sia a causa della stanchezza accumulata durante il giorno sia per via
di quella soporifera penombra che incitava i miei sensi ad abbandonarmi
miseramente, e ben presto mi trovai a chiudere gli occhi e muovermi
sinuosamente e quasi automaticamente sulla tastiera del mio strumento, cadendo
in una sorta di ecstasy indotta dal mio crescente senso di rilassatezza e
sonnolenza.
Suonare il pianoforte per me era da sempre fonte di calma e
tranquillità. Ero come unito da un legame mistico e trascendentale al mio
strumento musicale, mi sentivo in sintonia con lui e in quei momenti così
tranquilli quasi rischiavamo di divenire un tutt’uno.
E proprio in quell’istante udii riaprirsi la porta di quello
che ormai si era tramutato nel mio nascondiglio, dove mi rintanavo in cerca di
pace, ma che purtroppo ultimamente stava venendo violato un po’ troppo.
Ebbi il timore che si trattasse di Federico, ma fui sfiorato
solo per un istante da quel simile dubbio, poiché udii i passi lenti e
calibrati che da qualche giorno ormai avevo imparato a riconoscere molto bene.
E, mentre nella stanza aleggiava la mia musica, che cercavo comunque di
mantenere calibrata per non fare eccessivo baccano, una mano si posò sulla mia
spalla.
Sentendone la sua stretta rilassata e il suo calore, mi
fermai di colpo, ma rimasi con gli occhi socchiusi e non mi girai a guardare
l’intruso. Volevo che fosse lui a parlare per primo, visto che mi aveva
interrotto.
‘’E’ tardi, Antonio. È ora di andare a riposare’’.
La voce di Roberto mi giunse come una melodia alle mie
orecchie, già sfinite dalla musica che avevo suonato fino ad un istante prima.
‘’E’ tardi e non ho ancora cenato’’, sospirai, quasi
sobbalzando e tornando nel mondo reale. Mentre il mio stomaco cominciava a
brontolare rumorosamente, accompagnato dalla consapevolezza di aver perso la
cognizione del tempo, quasi mi gettai a spegnere l’abatjour e ad accendere la
luce del lampadario.
‘’Sono le ventidue’’, mi disse il mio interlocutore, restando
fermo nel mezzo della stanza e facendomi notare l’ora, e mi venne davvero da
emettere un rantolo disperato. Erano passate almeno due ore da quando mi ero
messo a suonare, era già piuttosto tardi e dovevo ancora cenare, preparare lo
zaino per l’indomani mattina, fare una doccia e poi dormire un poco.
Non volevo andare a letto tardi, quindi avrei dovuto darmi
una smossa fin da subito. E fu quello che feci.
Raccolsi il mio zaino abbandonato a terra, lo tenni stretto
tra le mani e controllai che fosse tutto a posto nella stanza, per poi spegnere
la luce.
Roberto mi era venuto dietro, e poi si era diretto
prontamente verso la cucina mentre io chiudevo la porta del mio rifugio con un
giro di chiave. Non si poteva mai sapere cosa sarebbe accaduto in una casa
durante la notte, soprattutto con qualche sconosciuto che si aggirava tra le
sue mura.
Mi fidavo di Roberto, ma non riponevo alcuna fiducia in
Federico, e la signora ancora non avevo avuto modo di conoscerla per bene. Nel
dubbio, la stanza sarebbe rimasta chiusa a chiave durante la notte.
Lentamente, mi mossi verso la cucina, preparandomi a scaldare
la mia tardiva cena e sperando che non mi restasse tutta sullo stomaco.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno, carissimi lettori, e buon inizio di settimana a
tutti voi.
Spero davvero che il racconto continui ad essere di vostro
interesse. Mi rendo conto che la narrazione non è un granché, ma comunque
questo è pur sempre un racconto introspettivo, scritto principalmente per
mostrare il fluire dei pensieri del protagonista e le situazioni che lo
coinvolgono. Spero che la trama non vi annoi, e comunque vi assicuro che ne
vedremo di tutti i colori, attraverso gli occhi di Antonio.
Grazie infinite a tutti coloro che si sono soffermati finora
a leggere la storia e a sostenerla con i loro preziosissimi pareri. Siete la
mia forza!
Grazie di cuore per tutto! A lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6
CAPITOLO 6
Non appena entrai in cucina, vidi Roberto alle prese con
padelle e fornelli.
Non gli prestai caso, pensando che gli fosse tornata la fame
e volesse scaldarsi qualcosa, e senza pensare ad altro andai a prendere una
forchetta dall’apposito cassetto delle posate e la misi vicino al piatto pulito
che mia madre aveva avuto la premura di lasciare nel mio solito posto dove
consumavo i pasti.
‘’E’ quasi caldo. Un attimo’’.
La voce di Roberto attirò nuovamente la mia attenzione su di
lui. L’uomo mi dava le spalle, mentre ancora era occupato sui fornelli.
Avrei potuto comprendere fin da subito il significato di ciò
che mi aveva appena detto, ma lì per lì non ci pensai neanche e mi diressi
anch’io verso i fornelli. La nostra casa era un’abitazione ristretta, e non
avevamo un cucinotto o uno spazio ristretto dedicato solo alla preparazione dei
pasti, quindi tutto si svolgeva in un’unica stanza, come nella più umile dimora
di questo mondo. Questo a volte era un problema che ero costretto a riconoscere
ogni giorno, ma d’altronde tutto dipendeva da ciò che si cucinava.
Roberto si voltò verso di me, lanciandomi un’occhiatina
mentre mi avvicinavo anch’io alla sua postazione.
‘’Abbi pazienza per un altro attimo, per favore. È quasi
pronto, come ti ho detto un secondo fa’’, mi disse nuovamente, tornando a
lavorare nel tegame con un cucchiaio.
‘’Ti è tornata la fame?’’, gli chiesi, immaginando che
comunque stesse scaldando un pasto per entrambi. Non avrebbe dovuto scomodarsi
per me, e glielo stavo per dire, ma mi rispose più in fretta del previsto.
‘’No, io sono a posto, ho già cenato un’ora fa. Ti sto
scaldando la cena, se non l’hai ancora capito’’, mi rispose, sorridendo di
spalle.
A quel punto mi era chiaro che stava lavorando sui fornelli solo
per me. Lasciai andare un sospiro teso e mi sentii arrossire.
‘’Non dovevi scomodarti per me’’, sospirai, non riuscendo
proprio a capire perché quell’uomo misterioso mi avesse così a cuore.
Effettivamente, quello che stava facendo era davvero un bel gesto, ed io non mi
sentivo meritevole di alcuna attenzione, tantomeno ricevuta da una persona che
conoscevo a malapena da qualche giorno e di cui sapevo solo il nome.
‘’Non devi preoccuparti di nulla. Quello che faccio, lo
faccio sempre con grande piacere’’, mi disse poi Roberto, lanciandomi un’altra
occhiata e continuando a sorridere.
Inutile dire che in quel momento ero in panne. Panico totale;
l’imbarazzo provocato da quelle piccole attenzioni mi aveva stretto in una
morsa letale.
Per non fare sbagli di alcun genere e per non rischiare di
mancare di rispetto all’uomo, mi andai remissivamente a sedere di fronte al mio
piatto ancora vuoto, restando sempre un po’ frastornato e confuso.
‘’Grazie’’, mi limitai a dire, quasi con un bisbiglio. L’uomo
diede una scrollatina di spalle.
‘’Di nulla, ti ho già detto di non preoccuparti’’.
E così, attesi ancora qualche istante, mentre Roberto finiva
di riscaldarmi la cena. Ero abbastanza imbambolato e imbarazzato, e magari se
ci fosse stato qualcun altro al mio posto avrebbe saputo intavolare una qualche
chiacchierata e ringraziare con maggior vigore ed insistenza, ma non ero
proprio la persona giusta per quel genere di cose.
E restai così, remissivo e passivo, in attesa. Un’attesa che,
fortunatamente, durò poco.
‘’Ecco, è pronto. Ora è sufficientemente caldo’’, disse
infatti Roberto poco dopo, mentre si allungava per prendere il mio piatto e
servirmi un po’ dell’arrosto lasciatomi da mia madre qualche ora prima.
Lo lasciai fare, ovviamente, continuando a indirizzargli
ringraziamenti di tanto in tanto, mentre lui continuava a sorridere e a
svolgere quel compito che non gli spettava affatto. E ben presto mi trovai
davanti ad un bel piatto colmo di buon cibo, che di certo mi faceva venire
l’acquolina in bocca, per poi timidamente ammettere a me stesso che quel
gustoso arrosto accompagnato da un contorno di patate non era proprio l’ideale
per il mio stomaco, vista l’ora ormai avanzata. Naturalmente, considerando
anche il fatto che ben presto sarei dovuto andare a letto, per non subire
traumi poi il mattino successivo, quando mi sarei dovuto svegliare presto per
prepararmi con calma e tornare a scuola.
Al solo pensiero rivolto alla scuola mi salì un conato di
vomito; si trattava dello stesso luogo dove, all’incirca dodici ore prima,
avevo dovuto sopportare la più grande umiliazione pubblica alla quale ero mai
stato sottoposto fino a quel momento.
Eppure, dovetti distogliere l’attenzione da quei pensieri
molto alla svelta, prima che sul mio volto potesse prendere forma una maschera
colma di disgusto, che avrebbe potuto urtare la brava persona che fino a
quell’istante si era prodigata per scaldarmi la cena e favorirmi il pasto, ed
io gliene ero immensamente grato per tutto.
Gli sorrisi, mostrandomi nuovamente riconoscente, e iniziai a
mangiare la mia mega porzione appena servita, calda e fumante come se fosse
appena stata cucinata.
Mentre mi accingevo ad ingurgitare il primo boccone, Roberto
si diresse verso la finestra e la aprì, mettendosi una sigaretta tra le labbra
e appoggiandosi sul davanzale, sporgendosi leggermente fuori mentre si
preparava a maneggiare l’accendino.
Lo fissai per un attimo, stupito da quell’azione rapida, non
aspettandomi neppure che fumasse. Mi resi conto in un batter d’occhio di quanto
ancora avessi da scoprire su quell’uomo entrato solo da un paio di giorni nella
mia vita, eppure sempre così disponibile e gentile nei miei confronti.
Roberto dovette sentire il mio sguardo su di sé, poiché prima
di accendersi la sigaretta mi chiese il permesso.
‘’Do fastidio? Mi sporgo leggermente, così il fumo non viene
in casa. Comunque, se dovessi aver freddo e tutto ciò ti disturbasse, sono disposto
ad uscire in giardino’’, mi disse, senza particolari preamboli.
Preso alla sprovvista, non potei fargli il torto di mandarlo
in giardino.
‘’Assolutamente, non dai alcun fastidio’’, mi affrettai a
rispondergli, ben sapendo che io odiavo l’odore del fumo.
Il fumo delle sigarette lo definivo puzzo, così come lo
definisco tuttora, e non lo tolleravo affatto. Nella mia ristrettissima
famiglia, non aveva mai fumato nessuno a parte mio padre, e dopo che se n’era
andato le sigarette erano diventate un tabù in casa nostra.
Mia madre, come me, non sopportava l’odore pungente prodotto
dal tabacco che brucia lentamente, così come non lo sopportavo pure io.
Ripresi a mangiare, senza farmi problemi, mentre Roberto
fumava pigramente la sua sigaretta, emettendo piccoli sbuffi di fumo che, in
lotta contro il buio della notte messo in difficoltà dalla luce della stanza e
da alcuni lampioni sulla strada, si mischiava alla condensa di quella fresca
sera e formava una nuvoletta scura e ben distinguibile.
Ma non finì completamente la sua sigaretta, poiché dopo
qualche attimo la spense con un gesto di stizza e la gettò giù, verso la
strada. Poi, chiuse con sveltezza la finestra.
Non badai ai suoi gesti rapidi, anzi, dal canto mio proseguii
rapidamente ad ingozzarmi di quelle delizie preparate da mia madre, senza tener
più conto del fatto che poi avrei rischiato di fare un’indigestione.
Roberto scostò una sedia di fronte a me e si sedette,
appoggiando i gomiti sul tavolo e infossando il viso tra le mani con un gesto pieno
di stanchezza.
Solo allora mi soffermai ad approfondire il suo aspetto. Mi
parve strano il fatto di come fosse vestito; nonostante che io non ci avessi
prestato caso fino a quel momento, dal tanto che ero preso prima dalla musica,
poi dalla frettolosità del mio pasto, in quell’istante mi parve vestito da
persona importante. Da adulto importante, da uomo affermato.
Indossava ancora la camicia scura a quadretti che gli dava
un’aria rilevante, unita alla cravatta bordò, anch’essa di un colore che brillava
sul capo scuro sul quale era posata. Tuttavia, l’aria sfinita che si portava
appresso quell’uomo m’inquietava parecchio.
Come avevo già avuto ben modo di notare, non era di statuaria
altezza, anzi, era piuttosto basso e ancora senza quella panciona prominente
tipica degli uomini di mezza età. In quel momento il suo viso, contornato da
una barba grigia e folta, ma comunque lunga pochi centimetri e dalla parvenza
curata, sembrava un’antica maschera greca, di quelle che venivano utilizzate
nelle rappresentazioni teatrali e nelle tragedie, dal tanto che pareva sbattuto
dalla stanchezza.
I vestiti, degni di nota e che quel mattino dovevano essere
apparsi ben stirati, erano in disordine; i polsini erano sbottonati, la camicia
stessa era stropicciata in più punti e il nodo della cravatta appariva lento e
forzato.
Roberto aveva in sé qualcosa di grande che si mischiava
abilmente con altro di decadente, un qualcosa di misterioso che mi spinse ad
osservarlo ancora un po’ mentre finivo la cena e a farmi delle domande. Inutile
affermare che ero davvero incuriosito dalla sua strana figura.
‘’Ti vedo molto stanco’’, osai dire, iniziando un discorso,
mentre mi accingevo ad iniziare a sbucciare una mela, in modo da concludere al
meglio il mio pasto serale.
Roberto, l’unico presente oltre a me nella stanza e nel piano
inferiore della casa, sobbalzò a quelle parole, come se io l’avessi risvegliato
da un attimo di sonno. Si tolse le mani dal viso e mi dedicò un sorriso tiepido
e tremolante, per via di quella che a me continuava ad apparire come
stanchezza. Ma che effettivamente poteva trattarsi anche di preoccupazione, e
mi venne da pensarci solo dopo un poco.
‘’Vero. Sono molto stanco’’, si limitò a rispondermi, di
poche parole ma comunque espresse con cortesia.
‘’Dovresti andare a letto, penso’’, suggerii, mentre
sbucciavo la mia mela. Lui mi lanciò uno sguardo vacuo.
‘’Meglio di no, per ora. Non riuscirei ad addormentarmi’’.
Non disse altro. Ed io non aggiunsi altro. Preferii curarmi
del mio frutto, piuttosto che aggiungere altro, anche perché se avessi voluto
chiedere altro la mia timidezza non me l’avrebbe permesso.
‘’Ho cercato lavoro, oggi. Ho disseminato curriculum per
tutto il paese, ma non credo che qualcuno si degnerà di contattarmi’’.
Fu lui a togliermi dal mio silenzio.
Quella volta fui io a sollevare gli occhi e a guardarlo,
contrariamente alla precedente. Dovetti ammettere che mi credevo che avesse già
un lavoro, ma forse a causa della crisi economica doveva averlo perso. In ogni
caso, mi faceva sempre impressione vedere uomini già di una certa età ancora in
cerca di lavoro.
‘’Lo faranno di certo. Mi sembri molto presentabile, molto
esperto…’’.
‘’Tutti mi hanno risposto che cercano giovani laureati. Ho
risposto loro che la laurea ce l’ho pure io, ed ho anche l’esperienza. Troppo
maturo, mi hanno detto. Sinceramente, non credo di poter trovare qualcosa con i
miei cinquantadue anni suonati da poco, soprattutto scoprendo il precedente
mestiere che ho svolto’’, mi disse, interrompendomi per la prima volta.
Ascoltai ciò che aveva da dirmi, poi scrollai le spalle, non capendo fino in
fondo il suo problema.
‘’Dipende il lavoro che hai svolto in precedenza’’, mi
limitai a rispondergli, cercando di sfiorare con delicatezza l’argomento. Non
volevo che si sentisse obbligato a dirmi di più.
‘’Mi sono laureato in filosofia, tanto tempo fa, ma non ho
mai praticato nulla in un primo momento. Sono rimasto alle dipendenze di mio
padre, rigido gestore di un’azienda agricola, a sciuparmi per quasi dieci anni.
Poi, dopo il matrimonio, sono riuscito tramite concorso ad avere una cattedra precaria
in un istituto scolastico. Da quel momento in poi, per alcuni anni ho
insegnato, in altri mi sono lasciato andare…’’, concluse l’uomo, parlando a
voce bassa. Mi guardava, e il suo volto esprimeva una stanchezza incredibile.
Mi limitai ad annuire, mordendo la fetta di mela che avevo
appena sbucciato e tagliato.
‘’Ovvio che ora non voglio e non posso tornare in cattedra.
L’anno scolastico è già iniziato e comunque mi sono ripromesso di non insegnare
mai più. Mi accontento anche di un qualche lavoretto precario e manuale, mi
sono stancato di supplenze saltuarie’’, aggiunse dopo, come a voler completare
la frase pronunciata poco prima.
‘’Perché ti sei ripromesso di non voler insegnare mai più?’’,
chiesi, rendendomi audace grazie alla spinta della mia immotivata curiosità. Mi
avevano colpito le sue parole, pronunciate in modo così consapevole e freddo.
Roberto parve rimanere colpito dal fatto che gli avessi posto
una domanda, di certo la prima così diretta.
‘’Non mi ritengo la persona giusta per insegnare qualcosa
agli altri’’. E così dicendo, parve chiudere l’argomento.
Non indagai oltre e mangiai l’ultima fetta di mela quasi
voracemente, prima di alzarmi dalla sedia. Avevo intenzione di ritirarmi nella
mia stanza, vista l’ora tarda e il fatto che quell’uomo ancora non mi
convincesse del tutto. Era vero che era estremamente gentile nei miei
confronti, ma comunque restava così misterioso, quasi sommerso da tante, forse
troppe, cose non dette.
Mi preparai per congedarmi cortesemente, ma Roberto parve
uscire da quello stato di stanchezza che l’aveva caratterizzato per tutta quella
serata e mi afferrò per un braccio, con una rapidità sorprendente.
Spalancai gli occhi, sbigottito da quel gesto, e richiusi la
bocca, ormai già semiaperta e pronta a salutare.
‘’Ti sei comportato in modo strano, oggi. Me l’ha
sottolineato di nuovo anche tua madre. C’è qualcosa che ti turba?’’, mi chiese
direttamente, senza darmi tempo per riprendermi dal suo gesto. Eppure, mentre
la sua stretta sul mio braccio si allentava con lentezza, mi salì alla gola un
moto di stizza, e in me crebbe una discreta voglia di dirgli in faccia che se
mi ero comportato stranamente quel giorno, era solo a causa di suo figlio.
Sapevo che se glielo avessi detto, avrei risolto i miei
problemi. Eppure non lo feci e mi trattenni; credevo di doverli risolvere da
solo. Mi stavo facendo male da solo.
‘’No, è tutto a posto, te l’ho già detto’’, sospirai, mentre
la sua mano calda mi lasciava il braccio.
Roberto mi guardò con un debole sorriso ben impresso sulle
labbra.
‘’Sappi che se c’è qualcosa che ti assilla, un qualunque
problema di cui non vuoi o non ti senti di affrontare con altri, di me ti puoi
fidare’’.
Eccola, una frase fatta. Anche nel primo pomeriggio mi aveva
detto qualcosa di simile. Davanti a me si aprì un mondo, eppure tacqui e non
dissi nulla se non un grazie, mormorato tra l’altro tra i denti e con una
discreta forzatura.
‘’Gli adulti servono anche per questo. Per dare sostegno ai
più giovani, nel caso se lo meritino’’, concluse l’uomo, abbassando lo sguardo
ed abbandonando il suo sorriso.
Non attesi altro tempo e mi congedai in fretta, con un
semplice buonanotte calorosamente ricambiato, e mi diressi direttamente nella
mia stanza. Non sapevo che però per quel giorno il mio calvario non era ancora
concluso.
La mia sveglia segnava le ventitré e trenta, e in un attimo
la puntai e mi preparai per andare a letto, rinviando la doccia e lo zaino all’indomani
mattina, visto che non avevo tempo in quel momento. Crollavo dal sonno, e non
mi andava di ripensare alle parole di Roberto, che forse avevano lasciato un
segno dentro di me e mi avevano turbato. Non volli chiedermi il perché io mi
meritassi simili attenzioni, poiché non ci capivo molto di quello che stava
accadendo negli ultimi giorni. La mia vita assolutamente monotona era stata
come travolta da una serie di eventi che stavano rapidamente mutando la mia
realtà, e questo mi dava angoscia. Quindi, mi gettai sotto le coperte e spensi
la luce in un battibaleno, chiudendo anche i miei occhi ed affondando il viso
nel cuscino, cercando di riposare e di non pensare a nulla.
Ma quella notte la buona sorte non era a mio fianco, e non
era disposta a concedermi un sonno tranquillo e un buon riposo. E il bello è
che ciò non fu causato dalla cena troppo abbondante e pesante.
Infatti, dalla camera da letto a fianco della mia, quella di
Roberto e Livia, potevo distintamente udire un parlottio sommesso, identico a
quello che avevo avuto modo di udire la sera prima. Ma quella volta era più
marcato. Probabilmente, la signora Arriga doveva essersi distesa sul letto,
posizionato esattamente dall’altro lato della sottile parete del mio.
In quel momento capii l’errore madornale che era stato
commesso da mia madre e che ormai non si poteva più rimediare.
Un paio di settimane prima, gli imbianchini avevano
tinteggiato di nuovo i muri di casa, approfittando del fatto che non avevamo
nessun ospite pagante nell’abitazione, e la mia buona mamma si era presa la
premura di riposizionare il letto nella suddetta stanza, poiché altri
affittuari poco tempo prima si erano lamentati del fatto che esso fosse
posizionato troppo vicino alla finestra, e che la mattina presto il camion
della spazzatura li svegliava bruscamente, essedo vicino all’unico ingresso
delle fonti di rumore esterne all’abitazione.
Io non credevo che spostare il letto da un lato all’altro
della camera avesse potuto cambiare qualcosa, ma mia madre quando andava in
fissa diventava irremovibile nelle sue decisioni, e grossolanamente e senza
pensarci aveva fatto il guaio di posizionarlo proprio a ridosso del muro che
divideva la mia cameretta dall’altra stanza più ampia, adibita per un utilizzo
di coppia. Nessuno di noi due aveva pensato ai possibili effetti collaterali di
tale spostamento. Non mi restava quindi altro da fare che sperare che i nuovi
inquilini si comportassero decentemente e in modo corretto, poiché potevo
davvero udire soffusamente ogni loro rumore.
Ma purtroppo in quel momento mi ritrovavo con una perfetta
sconosciuta che, ad una ventina di centimetri da me, chiacchierava e
ridacchiava ad un cellulare. Non c’era nulla che potessi fare per alleviare il
mio fastidio, e sperai che la signora la smettesse con le chiamate di lavoro,
così come le aveva menzionate suo marito durante la sera precedente. Eppure,
Livia continuava a chiacchierare animatamente, nonostante fosse ormai mezzanotte.
Non potei a quel punto non farmi curioso e non cercare di
origliare qualcosa, mio malgrado. Mi pareva il giusto prezzo da pagare per il
fatto che costei mi stava recando involontariamente fastidio.
Non riuscendo a prendere sonno, origliai dei piccoli sussurri,
delle paroline dette a mezza voce e che non mi giunsero chiaramente alle mie
orecchie poco allenate nello spionaggio, ma ero pronto a giurarci che ciò che
stava venendo detto non riguardava assolutamente alcun lavoro serio, udendo
anche qualche risatina.
Mi sembrava un parlottio da poco di buono, ma a quel punto
misi a tacere i miei pensieri e i miei pareri personali e mi limitai a
cominciare a sperare che la signora smettesse presto di creare quel basso ma
fastidiosissimo trambusto, che solo io potevo udire, poiché le altre camere da
letto erano posizionate nell’altro lato del piano superiore di casa.
Mi chiesi se Roberto fosse in camera. L’avevo lasciato in
cucina, ma da allora doveva già essere trascorsa una mezzoretta. Non avevo
udito nessun passo dirigersi verso la stanza, e nel resto di casa vigeva un
silenzio tombale, costringendomi ad ammettere che molto probabilmente l’uomo
doveva trovarsi ancora al piano inferiore.
I brutti pensieri iniziarono a invadere la mia mente a ritmo
incalzante, e cercai disperatamente di reprimerli tutti quanti e di cercare di
rilassarmi, con scarsi risultati. E, mentre il tempo continuava a scorrere, i
sussurri non si quietavano minimamente.
Ammetto che mi lasciai un po’ trasportare dal nervosismo, ma
me ne rimasi lì immerso nel buio consolatore della mia cameretta, a sorbirmi
quella cantilenante sequenza di parole pronunciate sottovoce e in un modo che
iniziò a sembrarmi davvero deplorevole.
All’improvviso, quando cominciavo a perdere le speranze e la
mia voglia di starmene sotto le calde coperte del mio giaciglio, udii il rumore
lieve di passi, che con attenzione si dirigevano al piano superiore. Intuii
facilmente che si trattava di Roberto che andava a letto.
Doveva essere già passata la mezzanotte.
I passi infatti si interruppero proprio davanti alla porta a
fianco della mia, e potei sentire distintamente quando si aprì, lasciando
entrare l’uomo. La moglie nel frattempo aveva smesso improvvisamente di
bisbigliare e di ridacchiare.
Udii distintamente la voce matura e profonda di Roberto, che
con un tono incredibilmente innervosito chiedeva qualcosa alla moglie.
‘’Chiacchieravo solo con una mia amica, tutto qui’’.
La voce di Livia giunse per la prima volta in modo chiaro
alle mie orecchie.
Sorrisi tra me e me, non credendo a quelle parole.
Eppure, tutto si concluse lì. Dopo un qualche tramestio,
nulla provenne più dalla stanza a fianco, e tirai quasi un sospiro di sollievo,
decidendo di approfittare di quella tregua.
Sospirai e cercai di concentrarmi sulla mia stanchezza, per
provare ad addormentarmi una volta per tutte, ma la mia mente continuava a
tornare a riflettere sulla famiglia Arriga. Tutti e tre i suoi componenti erano
strani, e dovevo ammettere che non li avevo ancora capiti del tutto.
Nascondevano qualcosa, questo mi pareva certo ed ero sempre più convinto di
ciò.
Mentre ancora restavo impantanato nei miei pensieri notturni,
pesanti come fardelli, scivolai senza accorgermene nel sonno, e potei
fortunatamente godere di una magnifica dormita.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti per aver letto anche questo capitolo!
Dal prossimo, il racconto decollerà e si velocizzerà un po’,
restando comunque pur sempre una storia introspettiva, e quindi piena di
pensieri e di ragionamenti del nostro protagonista. Per ora, abbiamo avuto modo
di conoscere meglio sia Antonio sia i membri della famiglia Arriga, assieme ai
loro comportamenti strani.
Spero che il racconto possa continuare a essere gradevolmente
leggibile.
Grazie di cuore a tutti i recensori, e buona giornata J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7
CAPITOLO 7
Dopo l’ennesimo risveglio disastroso, seguito da una folle
agitazione, poiché dovetti darmi una sistemata in fretta per poi preparare
anche la cartella, quel viaggio verso la scuola si rivelò un incubo.
Non erano neppure passate ventiquattro ore dal momento in cui
ero stato umiliato da Federico, e su di me bruciava ancora tutta la vergogna
della mattina scorsa. Tuttavia, giunsi a destinazione in perfetto orario, e me
ne rimasi in disparte senza avvicinarmi a nessuno, aspettando quei cinque
minuti che mancavano al suono della prima campanella, che permetteva agli
studenti di entrare nell’istituto scolastico e di potersi recare nelle rispettive
classi, dando loro un po’ di tempo per sistemarsi sui banchi prima dell’inizio
delle quotidiane lezioni.
Non scorsi il mio nemico tra la folla, e neppure l’avevo
sentito uscire da casa quella mattina, ma sapevo che era sempre molto
silenzioso nei movimenti e che quindi doveva essere comunque uscito senza che
io me ne accorgessi, continuando a constatare mio malgrado che avevo dovuto
sopportare un risveglio piuttosto traumatico e caotico anche quello stesso
giorno.
Difatti, lo vidi dopo aver ispezionato meglio il piazzale antistante
al liceo, mentre chiacchierava animatamente con Davide, Giulio e Luca. Ridevano
e si divertivano i quattro, e assolutamente non mi azzardai ad avvicinarli.
Abbassai lo sguardo e mi misi ancora più ai margini della
folla, camminando lentamente e cercando di non stare fermo, per non farmi prendere
dall’ansia che mi stavano creando tutti gli sguardi che si posavano su di me.
La scuola che frequentavo era piuttosto piccola, tutti i suoi
studenti si conoscevano almeno di vista e nessun viso era sconosciuto, e quella
mattina non furono pochi gli sguardi che indugiarono su di me, chi con
curiosità e chi con una rapidissima occhiata, subito deviata altrove.
Mentre camminavo lentamente e senza meta, attendendo il suono
della prima campanella, mi sentivo come un fantasma, solo ed emarginato. Mi
ostinavo a cercare di tenere lo sguardo basso, cercando di non incrociare più
altri sguardi, e proprio mentre continuavo a infliggermi quella sorta di
penitenza, sentii una mano calda che mi si posava sulla spalla.
‘’Ciao, Antonio’’, mi disse Alice, affiancandomi e
salutandomi con calore.
Le sorrisi e ricambiai caldamente il suo saluto, per poi
essere salutato ad affiancato anche da Jasmine, anche lei sorridente e solare
come sempre.
Da quell’istante in poi, mi lasciai riflettere nei loro
sorrisi e nei loro occhi, colmi di calore e di piacere di conversare con me, e
mi sentii rinascere dalle mie ceneri. Non ero più solo, a quanto pareva.
‘’Pronto per affrontare questa lunga giornata scolastica?’’,
mi chiese Jasmine, dopo i saluti e i vari sorrisi ricambiati.
Scossi leggermente la testa dall’alto verso il basso, lasciandole
intendere che lo ero. In verità, non lo ero affatto. Soprattutto, non ero
pronto e preparato ad affrontare nuovamente il mio nuovo vicino di banco.
La nostra chiacchierata amichevole in realtà non fece in
tempo a spingersi oltre ai semplici convenevoli e a qualche domanda di rito,
poiché la campanella suonò e le nostre strade si divisero, con la promessa che
ci saremmo rincontrati durante l’intervallo.
Raggiunsi la mia aula in fretta e mi posai sul banco,
ricordando che nelle prime due ore avremmo avuto la lezione settimanale di
educazione fisica. Infatti, il prof Giulianini era già in aula ad attenderci, e
senza aspettare oltre ci spinse a recarci in palestra, senza neppure fare
l’appello.
Era sempre di fretta, il prof; alto e calvo, con un pancione
prominente, sembrava più il soggetto adatto per svolgere il ruolo di attore
protagonista in una lunga pubblicità delle patatine in tv che l’uomo sportivo,
ma tuttavia nessuno faceva caso al suo aspetto fisico, poiché era sempre
gioviale e cortese, oltre che estremamente rilassato, tutto il contrario della
prof Carlucci. Sapeva come farsi apprezzare dagli allievi, ed era sempre
gentile e cordiale.
E così, l’incubo di quella giornata incominciò dagli
affollati spogliatoi maschili della palestra.
La nostra classe era esattamente equilibrata, con numero
uguale di componenti maschili e femminili, ma gli spogliatoi parevano sessisti
e di parte, poiché quello destinato alle ragazze era ampio e ben aerato, e
quello dedicato ai ragazzi molto più ridotto e senza finestre, illuminato da
una luce al neon che pendeva dal soffitto mal intonacato.
E questo creava problemi d’odori a tutti noi, poiché si sa
che i ragazzi sono meno profumati delle ragazze, ed ogni volta si finiva con
l’irritarsi e col litigare per anche una minima cosa, chi per un calzino
dubbiamente pulito lasciato in giro o gettato nello zaino altrui o per una
maglietta sudata all’inverosimile e lasciata appoggiata al termosifone caldo,
che tuttavia doveva essere proprietà comune ed ogni ragazzo gli faceva la ronda
durante le fredde mattine per appoggiarcisi qualche istante, prima del
riscaldamento. Comportamento scorretto per i muscoli, ma corretto per noi
poveri giovincelli svegli da poco e già in fase di preparazione per affrontare
le due ore settimanali di attività fisica, svolte assieme per risparmiare col
riscaldamento negli ambienti scolastici.
La crisi economica era asfissiante. Ma quella mattina, di
asfissiante c’era anche il nuovo componente della classe, il mio nuovo nemico.
Io avevo già indossato i calzoncini della tuta quando lui
entrò nello spogliatoio, tra gli ultimi. Il suo sguardo signorile ed
aristocratico, più elevato dei comuni mortali, fu puntato verso una panchina
centrale, e lì si diresse, facendosi spazio e gettando a terra gli indumenti di
chi era già giunto in precedenza.
Nessuno disse nulla, mentre un gelido silenzio regnava nello
spogliatoio, interrotto solo da qualche fruscio di vestiti. Poi, dopo l’impatto
iniziale, si riprese a parlare, tuttavia senza che nessuno si avvicinasse
troppo a Federico, che neppure era stato rimproverato per il suo comportamento
alquanto scorretto.
Mi sembrava ovvio che la classe lo temesse.
Mi preparai in fretta, e sgattaiolai fuori dallo spogliatoio
non appena potei, dirigendomi direttamente in palestra, dove il prof si
accingeva a fare l’appello, e lì me ne rimasi fintanto che non fu pronta la
classe intera, seduto a terra in un angolo riscaldato della pavimentazione
verde. Nessuno dei miei compagni ridacchiò per ciò che mi era accaduto il
giorno precedente, e neppure ne parlarono.
I miei occhi tornarono nuovamente a osservare la figura di
Federico, non appena lui entrò nella palestra, ovviamente per ultimo. Con
addosso una maglietta smanicata, i suoi tatuaggi quasi risplendevano come i
piercing che aveva nei lobi delle orecchie. I tatuaggi erano composti da colori
sgargianti, uno raffigurante un noto emblema calcistico, l’altro invece era composto
da stelline, e da una sorta di palloncino rosso in mezzo al tutto. Mi parve
molto femmineo, ma non m’importò della mia flebile constatazione e mi concentrai
sugli sguardi degli altri.
Tutta la classe lo guardava, sempre immersa in uno strano
silenzio, così come lo fissava pure il prof, che si affrettò a farne la
conoscenza. Poi, dopo il rapido appello, e dopo un frettoloso riscaldamento, si
cominciò a giocare.
Amavo infinitamente quelle due ore di educazione fisica;
anche se non ero molto portato per lo sport in generale, il movimento e il
gioco di squadra erano da sempre stati divertenti anche per me, e nonostante
fossi una persona che normalmente se ne sta sulle sue e molto timida, mentre si
giocava tuttavia riuscivo facilmente a interagire con i miei compagni. L’ora e
mezzo di gioco a scelta era quindi per me un momento relativamente molto felice
e poco noioso.
Come nella maggior parte delle volte, dopo un breve
riscaldamento, il prof ci permise di dividerci la palestra e di praticare uno
sport di squadra a nostra scelta, mentre lui se ne stava placidamente seduto
nella sua piccola cattedra distante e di lato all’immensa stanza, pure senza
guardarci a volte. Lo si poteva poi vedere assorto sui suoi registri, come se
noi allievi non esistessimo neppure più, ma quello non era un grande danno per
noi, liberi di divertirci.
Molto probabilmente si fidava di ragazzi ormai diciannovenni.
Ma quella volta si sbagliava grossolanamente.
Come di consuetudine, l’insegnante si mise quindi a sfogliare
i suoi registri, mentre la classe si divideva in due parti, una composta dai
ragazzi e l’altra dalle ragazze. Ovviamente, le ragazze si presero la parte
della palestra con la rete e cominciarono a giocare a pallavolo, mentre noi
ragazzi cominciammo a organizzarci per la classica partitella di calcio, di
routine da quasi cinque anni, eppure mai noiosa.
Non essendo all’aria aperta, eravamo pressoché costretti a
giocare ad una sorta di calcetto, con reti rigorosamente formate da due
giacchette appoggiate al pavimento ad una distanza eguale l’una dall’altra.
Anche se non era una classica e divertente partita di calcio nella norma, anche
una partitella di calcetto era sempre qualcosa di soddisfacente per la nostra
voglia di giocare maschile, e formammo due squadre composte da cinque elementi
ciascuna, divisi a seconda del colore chiaro o scuro della maglia.
Per casualità, assieme alla mia maglietta chiara finii
proprio in squadra con Federico, che in un attimo prese subito in mano la
situazione.
‘’Tu sarai il portiere’’, disse altezzosamente, indicando la
porta segnata da due maglie a Francesco, un ragazzo basso e cicciottello non
tanto agile. Io, Andrea e Giacomo, gli altri tre componenti della squadra, lo lasciammo
fare.
‘’E voi’’, disse poi il gradasso, indicando noi tre rimasti,
‘’state indietro, difendete la porta e servitemi. Solo io cercherò di
finalizzare, e ricordate che l’importante è subire pochi goal’’. E così, il
prepotente si era imposto su di tutti, poiché tutti e tre facemmo proprio come
lui ci aveva detto. Si sentiva davvero un leader.
Giacomo aveva voglia di dire qualcosa, lo udii borbottare, ma
Andrea glielo impedì, scrollando le spalle e dicendo che non ne valeva la pena,
di discutere per una partitella sciocca.
Il match cominciò subito, con la squadra avversaria
pressante, e con me e i miei compagni incapaci di reagire. Federico, sempre
troppo avanti e irraggiungibile, solitario ed immobile, quasi attese per
ripicca nelle vicinanze della porta avversaria, senza fare una piega.
In dieci minuti, subimmo quattro goal. A me non importava
molto, ma Giacomo, il ragazzo più polemico della classe, andò a parlare subito
con Federico, con fare provocatorio ed irritato, ma il nuovo arrivato lo mise a
tacere con uno spintone.
‘’Non osare dire a me che ho sbagliato qualcosa. Sono un
attaccante e se nessuno mi serve a dovere non posso svolgere il mio ruolo di
finalizzatore’’, replicò, con una smorfia indecifrabile impressa sul volto.
‘’Scherzi?! Durante le partite di calcetto, ogni componente della
squadra si muove e ricopre più ruoli, indietreggiando ed aiutando a difendere
la porta in caso di bisogno. La colpa…’’.
‘’La colpa è sua’’, disse Federico, interrompendo la valanga
di parole di Giacomo. E con un dito indicò l’incolpevole Francesco, il
portiere.
Me ne rimasi fermo ad osservare la scena e ad ascoltare il
battibecco, mettendomi le braccia ai fianchi e cercando di riprendere fiato,
seguendo l’evoluzione degli eventi. A volte mi sembrava sciocco che in un gioco
di squadra come il calcio si debba sempre attribuire la colpa di una sconfitta a
un unico individuo, nella stragrande maggioranza dei casi.
Gli attaccanti vengono visti come divinità assolute, sempre
ricercate ed apprezzate da uno stadio intero, che indosserà le loro maglie e
invocherà i loro nomi come se fossero quelli dei santi patroni delle più grandi
città del mondo, mentre non resta nulla o quasi per tutto il resto della squadra.
Mediani che si devastano per novanta minuti e poco più a smistare e gestire
palloni, difensori costretti ad inseguire avversari rapidi come lepri e magari
buttarli giù quando essi cercano di sfuggire alle loro marcature, le ali che si
bruciano per un’intera carriera a correre come forsennati lungo le fasce del
campo per servire l’attaccante, il finalizzatore supremo che in molti casi non
deve far nulla se non avanzare di qualche passo e sfruttare l’assist che gli
viene offerto.
E quando esso segna, l’intera tifoseria esplode con un boato
assordante, un grido di giubilo puro, mentre tutti lo acclamano, senza tener
presente che il suo goal in realtà è frutto di una moltitudine di azioni
importantissime compiute da altri componenti della squadra. Sarebbe più giusto
invocare il nome della squadra, invece che quello di un singolo giocatore.
D’altro canto, quando si perde è quasi sempre colpa del
portiere; così sprovveduto che non ha visto neppure il pallone che gli è
sfrecciato sotto il naso ed è finito all’interno della sua rete, senza contare
che nella maggior parte dei casi se ciò è avvenuto è sinonimo del fatto che
l’intera squadra non gira bene il pallone, concedendolo agli avversari, magari
anche lasciando spazio agli attaccanti avversari in area di rigore e
lasciandoli tirare in porta a loro piacimento.
Il calcio in generale era visto quindi da me come uno sport
bello e divertente, ed è così tuttora, ma fintanto che risulta un gioco
semplice e puramente di squadra. Oltre, perde ogni significato e si cade nella
trappola dell’individualità, che in un gioco di squadra appare come uno dei più
grandi controsensi esistenti. Nella nostra partitella tra pivelli, quindi, in
quel momento si stava riflettendo tutto il mondo del calcio professionistico,
assieme ai suoi problemi.
‘’Non è di Francesco, la colpa. Se tu avessi difeso assieme a
noi, invece di startene imbambolato là davanti, avremmo di certo subìto meno
goal’’, battibeccò Andrea, difendendo gli altri compagni. Federico rise.
‘’Non sono io l’imbambolato, ma quello lì. Ci scommetto che
se gli faccio un tiro centrale in porta, non lo para neppure’’, disse il nuovo,
sistemandosi tra i piedi il pallone.
Giacomo non voleva affatto dargliela per vinta, così come
anche Andrea. Ma era troppo tardi.
Infatti, senza badare a ciò che gli dicevano i suoi nuovi
compagni, Federico si lanciò palla al piede verso la porta e l’ignaro portiere,
che in meno di un attimo fu trafitto da una pallonata potentissima, che
s’infilò senza alcuna difficoltà nella porta delimitata dalle due piccole masse
di vestiti appoggiati sulla pavimentazione verde. Verde come un vero campo da
gioco, verde come la speranza che svanì dagli occhi di Francesco, quando in
meno di un istante dopo si trovò faccia a faccia con Federico.
‘’E’ davvero un buono a nulla! Questo ha le mani bucate, e
neppure arriva a parare un pallone’’. E detto ciò, senza che nessuno di noi
avesse avuto il tempo anche solo per contrarre un muscolo del volto, il
prepotente smollò un sonoro calcio al ventre al mio compagno minuto.
Tutto si fermò attorno a me, per un istante; io stesso, che
solo il giorno prima ero stato vittima del prepotente, ora che mi ero tramutato
in muto spettatore ero pietrificato sul posto, nella stessa posizione di poco
prima.
Francesco era a terra, e si teneva stretto il ventre tra le
mani, la testa china a toccare il pavimento riscaldato della palestra. Giacomo
fu il primo a reagire e ad andare in soccorso al nostro compagno, raggomitolato
al suolo.
Noi tutti ci raccogliemmo a ridosso dell’infortunato, mentre le
ragazze, un po’ più lontane ed ignare dell’accaduto, continuavano a
schiamazzare e a giocare rumorosamente. Il professore era ancora chino sui suoi
registri, col volto sereno.
‘’Ma sei davvero un gran coglione! A me piacerebbe proprio
sapere da dove sei piombato fuori. Sei venuto in questa scuola solo per
spadroneggiare?!’’, imprecò una voce certamente indirizzata a Federico, che non
riconobbi in quel momento. Ero immerso nel dolore del mio compagno ancora a
terra, poiché in lui rivedevo il me del giorno precedente. Solo che Francesco
aveva avuto la fortuna di essere stato soccorso da qualcuno. Se non mi chinai a
suo fianco e se non cercai di dargli una piccola pacca di conforto, fu solo a
causa della mia timidezza.
Poi, calò il silenzio più assoluto. Solo qualche voce
concitata, che chiamava il professore.
Voci femminili, agitate.
Nessuno schiaffeggiava più la palla da pallavolo. Tutto era
sospeso.
Il professore arrivò in fretta sul posto, e solo allora mi
riscossi e quasi tremai di fronte alla sua collera. Però, l’adulto parve
sopirsi per un attimo, richinandosi con delicatezza infinita su Francesco. Gli
sussurrò qualcosa, dolcemente, e il mio compagno annuì, rialzandosi lentamente
in piedi. Il suo volto era ancora contratto dal dolore di poco prima, livido
come il mio durante la scorsa giornata.
‘’Voglio sapere esattamente cos’è successo’’, disse a quel
punto l’insegnante, rivolgendosi a tutti. Eravamo sotto la sua responsabilità,
e logicamente era infuriato e forse anche leggermente spaventato per ciò che
era accaduto.
Francesco se la svignò rapidamente verso gli spogliatoi,
mormorando qualcosa, mentre le ragazze guardavano il nostro gruppetto con aria
interrogativa.
Giacomo, che del gruppo era quello più infervorato, non
attendeva altro che raccontare ciò che era accaduto, mentre tutta la platea
maschile annuiva alle sue parole, me compreso.
Fu con grande disgusto che notai che Federico tentò di
difendersi. Non solo; mentì. Scrollò la testa di fronte alle parole pesanti del
compagno di classe ma non intervenne fintanto che non fu interpellato da uno
sguardo nervoso del prof, comportandosi più educatamente di ogni qualsiasi
altro imputato del mondo.
‘’Prof, stavamo giocando a calcetto ed ho cercato di fare
goal. Ho quasi perso l’equilibrio e, involontariamente, ho colpito Francesco
con un calcio’’, disse quello che ormai era riconosciuto da tutti come bullo.
In quel momento, notai che l’aura che era riuscito a creare attorno a sé e al
suo possente fisico tatuato stava velocemente svanendo; solo sguardi colmi di
disgusto e di sospetto erano puntati su di lui. Negli occhi delle ragazze non
brillava più la curiosità, ma solo un misto tra irrequietezza e nervosismo. Nei
miei e in quelli dei ragazzi invece, c’era solo rabbia.
Un verso di protesta si levò dal pubblico maschile alle
parole del nuovo compagno, in modo sdegnato. Era vero che Francesco, proprio
come me, era un componente della classe piuttosto emarginato, e che quindi non
aveva molti amici tra i compagni, ma quell’azione doveva essere stata la goccia
che aveva fatto traboccare il vaso.
Visto che chi stava difendendo il mio sfortunato compagno
molto probabilmente aveva visto anche ciò che era accaduto a me durante
l’intervallo del giorno prima, doveva essere spaventato per il fatto che aveva
scoperto che prima o poi sarebbe toccato anche a lui subire le angherie di
Federico. Inoltre, il suo ingresso negli spogliatoi di un’ora prima aveva già ampliamente
irritato gli animi maschili.
‘’Francesco era nella tua stessa squadra. Perché dovresti
aver calciato il pallone nella tua stessa porta? Mi stai ricoprendo di bugie,
ragazzo…’’, sibilò il professore, anch’esso irritato. Tutti sapevamo quanto s’innervosisse
di fronte agli episodi di prepotenza, e quella volta si erano davvero superati
i limiti.
‘’Non è come sembra. Nulla è come sembra…’’, mormorò
Federico, tramutandosi da carnefice a vittima e mostrando un visetto
piagnucoloso.
Il prof si sbollì in un istante, e comunque dovette credere
al fatto che era stato un puro e mero incidente. Ed inoltre Francesco non si
era fatto troppo male, e nel giro di poco sarebbe passato tutto quanto.
Con la solita inerzia che caratterizzava buona parte del
nostro gruppo di insegnanti, Giulianini scelse di non infierire nella vicenda,
anche notando il fatto che in fondo Federico era appena arrivato, e che doveva
ancora ambientarsi al nuovo ambiente. Quindi, ci ordinò di andare a cambiarci e
di recarci subito in classe, dove per il restante tempo che aveva a
disposizione ci avrebbe parlato dell’importanza della correttezza del
comportamento nello sport.
Una noia, in pratica, che lasciò sul volto di tutti un
marchio d’indelebile tristezza, poiché ci aspettavamo almeno un richiamo
scritto. Invece, Federico fu assolto, anche se lo aspettava una bell’oretta di
chiacchierata sulla sportività in generale e sugli atteggiamenti corretti da
mantenere durante il gioco e le varie pratiche sportive.
Ci dirigemmo tutti amaramente e in silenzio verso gli
spogliatoi, irritati ed innervositi.
Sospirando, lasciai che i miei compagni entrassero per primi,
attendendo non so cosa. Forse, era stata la mia sfortuna a bloccarmi, poiché
rimasi per un attimo solo nella penombra del corridoio, senza accorgermi che
qualcuno mi stava tendendo un agguato.
Infatti, all’improvviso sentii un braccio che, passandomi da
sotto la gola, iniziò a stringersi con una forza incredibile attorno al mio
collo, e per un attimo i miei occhi si spalancarono dallo stupore e dalla
paura.
Il mio aggressore m’impedì di emettere qualsiasi suono grazie
alla sua stretta ferrea, mentre da dietro manovrava il mio corpo in preda al
terrore, costringendomi a muovere qualche passo indietro e ad andare a sbattere
col viso contro il muro. Non riuscii neppure a emettere un lamento o un
mugugno, mentre l’aria mi mancava sempre di più.
Potevo sentire il lento respirare del mio nemico, che col
volto a pochi centimetri dietro la mia testa emetteva una sorta di piccoli
sospiri affaticati. Ero in preda al panico, e sentii che stavo per svenire da
un momento all’altro, mentre le mie unghie cercavano di affondare nel braccio
del nemico sconosciuto, con scarsi risultati purtroppo, e quando notai che il
tatuaggio colorato sull’avambraccio del prepotente, capii di chi si trattava,
se non l’avevo già chiaro da qualche attimo.
Non potevo crederci. Pensavo volesse uccidermi per davvero,
quella volta.
‘’Quel professore del cazzo mi farà la predica, tra poco.
Tutti i tuoi stupidi compagni diranno qualcosa contro di me, ma tu non
azzardarti a raccontare del nostro piacevole scontro di ieri nei bagni. Tutti
qui non ti sopportano, sfigato, quindi nessun altro parlerà per te. Di te non
importa nulla a nessuno. E se provi a fare qualche azione contro di me o a
raccontare qualcosa, o con gli insegnanti o a casa, io ti spezzo in due.
Intesi?’’.
La voce di Federico mi giunse calma e pacata alle orecchie,
dolcemente bisbigliata.
Mentre la mia vista si appannava, annuii fermamente.
‘’Questo e quello di ieri sono stati solo piccoli assaggi.
Qualsiasi parola o azione contro di me si tramuterà in dolore, sappilo’’. E
così dicendo, il mio nemico mi lasciò andare.
Mentre scivolavo a terra, appoggiandomi con le mani ai muri,
mi parve che un’ombra si fosse mossa dietro a quella ancora attenta su di me
del mio nemico, ma credetti che si trattasse di un’allucinazione. E lo era
stata per davvero, pensai.
Federico, dopo essersi accertato che respiravo e che non
avrei emesso alcun grido, si dileguò in fretta nel vicino spogliatoio,
stranamente silenzioso.
Dopo qualche altro attimo trascorso al suolo, mi massaggiai
il collo e, rosso di vergogna, andai anch’io a cambiarmi con gli altri, facendo
finta di nulla e chiudendomi nel mio mondo. Avevo perfettamente inteso il
messaggio del mio aguzzino.
Dopo un’oretta abbondante di lavaggio di cervello,
l’intervallo giunse con gaiezza, e mi permise di abbandonare quell’aula
dall’aria opprimente.
Io mi ero fatto gli affari miei, stando silenzioso ed
accasciato mogiamente sul mio banco, senza neppure tenare di intervenire in
alcun modo nella discussione che ne era scaturita nuovamente tra i miei
compagni e Federico. Francesco stava bene e si era ripreso, e il prof,
diplomatico, aveva zittito dopo poco entrambe le parti in causa ed aveva
parlato per tutto il tempo di correttezza e di comportamenti corretti, immerso
tra una ventina abbondante di musi lunghi.
Mentre mi dirigevo verso il bagno, lungo il corridoio
incrociai gli sguardi di quel trio di conoscenti che credevo miei amici, e che
stavano già chiacchierando con il mio nemico, sempre il primo ad abbandonare
l’aula dopo il suono della campanella e che a quanto pareva mi aveva sostituito
senza alcun problema in quel gruppo.
Non avevo mai creduto che anche a quei tre ragazzi a me tanto
cari in realtà non fosse mai importato nulla di me. Faceva male scoprire certe
cose, ma non mi restava altro che prenderne dolorosamente atto e mandare giù il
boccone amaro.
Prima di giungere al bagno, Alice quasi mi piombò addosso,
sfrecciando rapidamente fuori dalla porta della sua aula.
‘’Mamma mia! Quel pazzo va fermato!’’, mi disse, lasciandomi
capire che era già a conoscenza degli eventi di quella mattinata.
‘’Ma…’’, provai a dire, sorpreso.
Alice mi fece un gesto quasi banale, indicando la tasca dei
suoi jeans e il piccolo rigonfiamento creato dal cellulare. Mi fu chiaro che
grazie ai messaggi le voci circolavano più in fretta del previsto, da un’aula
all’altra e per tutto il liceo.
‘’Lascia perdere i ma. Oh… che hai fatto nel collo?!’’, mi
disse la ragazza, indicando i segni che dovevano essere rimasti dalla stretta
ferrea di Federico. Non mi ero accorto di avere ancora quel marchio, anche
perché non potevo vederlo da solo. Dopo un istante d’imbarazzo scrollai le
spalle, cercando di ostentare disinteresse.
‘’Non lo so. Sarà stata la maglia col colletto troppo stretto
che indosso per educazione fisica’’, azzardai, sapendo di aver sparato la prima
sciocchezza che mi passava per la testa.
Alice tuttavia annuì con la testa e non chiese più nulla a
riguardo.
‘’Dai, raccontami l’accaduto’’, mi chiese poi, curiosa più
che mai. In quel momento ci raggiunse anche Jasmine, anche lei pronta ad
ascoltare gli eventi di quella mattinata tramite la mia bocca.
Mentre narravo tutto, con grande fedeltà alla realtà, notai
che Federico e il suo nuovo gruppetto mi stavano osservando, a poca distanza.
Lo notarono anche le mie due interlocutrici, ma subito dopo tornarono assorte
nel mio racconto, che riferivo a voce piuttosto bassa, in modo che il rumore
del corridoio pieno di gente potesse assorbire e distruggere le mie parole
prima che potessero giungere ad altre orecchie.
Poi, andammo a prenderci un tè alle macchinette e lo
sorseggiammo negli ultimi tre minuti di pausa rimasti.
Allo squillo della campanella, lasciai le mie due nuove
amiche per recarmi nuovamente in classe, dove quella volta ero certo che sarei
stato interrogato in scienze. Ero un po’ rassegnato e spaventato, tuttavia credevo
davvero che sarei riuscito a raggiungere almeno la sufficienza.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie, cari lettori, per aver letto anche questo capitolo.
Non so come sta venendo questa storia… spero solo che si
segua bene. Ripeto che tutto ciò che sto narrando è frutto della mia
immaginazione, così come anche i luoghi che sto ricreando e in cui farò
svolgere la vicenda.
Grazie di cuore per continuare a seguire il racconto J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8
CAPITOLO 8
Quando uscii da scuola, quel giorno, ero comunque
soddisfatto, nonostante tutte le brutte vicende che erano accadute.
Ero stato interrogato in scienze ed avevo ottenuto un otto a
sorpresa, e un voto così elevato non l’avevo mai visto durante tutti gli scorsi
anni passati in quel liceo. Mi ritenevo quindi davvero molto soddisfatto per
quell’ottimo e incredibile risultato, ma del resto una certa sensazione di disagio
interiore continuava ad assillarmi.
La stretta ferrea del braccio destro di Federico mi sembrava
ancora reale, e a volte passavo le dita delle mie mani sul collo, quasi volessi
assicurarmi che i segni della violenza subita se ne fossero andati.
Mi affrettai a percorrere quel breve tragitto che mi separava
da casa, a passi rapidi. Quel giorno non avevo avuto la fortuna di incontrare
Alice all’uscita o lungo la strada, quindi ero totalmente solo, e non sapendo
dove si trovasse il mio persecutore e neppure quando fosse riuscito ad uscire
dalla calca della folla del liceo, sempre festosa e pronta a spintonare quando
si trattava di dover tornare a casa.
Avevo timore che, dietro ad uno di quei grandi platani che
sorvegliavano ambo i lati dei marciapiedi e delle strade che stavo percorrendo,
si nascondesse il mio aguzzino, pronto a balzar fuori all’improvviso e a
somministrarmi una qualche punizione.
Ero anche soddisfatto, mio malgrado, di non averlo stimolato
ulteriormente e di non aver raccontato nulla agli insegnanti, neppure quando
indirettamente si era presentata la situazione più idonea e adatta per farlo.
Come sempre, avevo accettato passivamente la mia sorte, e come solo un vero
stupido avrebbe potuto fare, me ne ero rimasto mogio sul mio banco.
Iniziavo davvero a credere che Federico, quando mi chiamava
sfigato, fosse riuscito a trovare un nome giusto ed adeguato per me. Era brutto
da pensare, ma in quel momento credevo fosse proprio così.
Forse ero io ad accrescere da solo i miei problemi, ingigantendo
coi miei silenzi e la mia omertà una situazione che in realtà si sarebbe potuta
semplicemente risolvere denunciando senza paura i fatti accaduti. Eppure,
preferivo lagnarmene a me stesso, piangermi addosso in solitudine e cercando di
non farmi aiutare neppure da quei pochi che avrebbero voluto farlo.
Mentre camminavo lentamente sull’ennesimo marciapiede, mi
ritenevo davvero uno sciocco, poiché avevo la soluzione di tutto sottomano e
non la sfruttavo. Ero certo che se avessi riferito a Roberto tutto ciò che suo
figlio mi aveva fatto, le minacce che mi aveva rivolto e i fattacci che erano
accaduti a scuola, lui gli avrebbe rimesso fin da subito la testa a posto. Ma
forse ero troppo codardo per fare pure quello. Anzi, mi pareva che fosse di
certo così.
Da quel momento, invece di sentirmi un giovane coraggioso che
affronta un bullo e un prepotente a suon di silenzi e di pensieri malvagi, mai
tramutati in azioni, mi sentivo più un verme, un vero debole sotto tutti i
punti di vista. Questo doveva riflettersi in tutto e per tutto su di me, in
modo chiaro ed evidente, e così mi ero offerto come pasto facile per il
prepotente.
Mi fermai un attimo, stoppando la mia lenta marcia verso
casa, in modo da raccogliere le idee. In realtà, avevo poco da raccogliere; avevo
troppo timore di parlarne con Roberto e con altri, e temevo ancor di più le
probabili eventuali ripicche amare del mio nemico, quindi tornai a rassicurarmi
dicendomi che il mio silenzio e il mio subire erano l’azione migliore da
scegliere in quel preciso momento. Poi, magari, più avanti avrei riveduto i
miei piani, ma nell’immediato avrei continuato a seguire questi ultimi.
Ripresi a camminare nuovamente, sempre solo ed immerso nei
miei pensieri, riflettendo sul fatto che mi stavo facendo un sacco di problemi
per nulla, e che la soluzione definitiva, anche se molto costosa con inclusa
qualche possibile ripicca, era a portata di mano.
Sorrisi, al pensiero che ero davvero un ragazzo debole e
fragile. Mi venne in mente mio nonno materno, a quel punto, e il suo ricordo fu
come uno di quei fulmini che squarciano il velo cupo delle nuvole scure, poco
prima di un forte temporale estivo.
Mio nonno mi aveva lasciato molti ricordi, e aveva vissuto
assieme a me e a mia madre fino ad un paio d’anni prima, quando il cancro se
l’era portato via mestamente. Esso parlava sempre del suo passato, un po’ come
tutti gli anziani, ma lui sapeva parlarne in un modo eloquente e coinvolgente,
in grado di rapire la mia flebile attenzione da adolescente e catapultarmi
vividamente all’interno delle sue storie giovanili, sempre colme di povertà e
di dolore, non solo fisico purtroppo.
Era poco più che un bambino quando i tedeschi avevano
occupato il suo paesino natale, disperso nel bel mezzo delle campagne, ed
avevano effettuato rastrellamenti, uccidendo molti dei conoscenti ed amici
della sua famiglia, lasciandone poi i cadaveri lungo le rive dei fossi,
insepolti ed in pasto alle fiere.
Ricordi rosso sangue infestavano la memoria dell’anziano, che
non si stancava mai di narrare quando i treni giungevano nelle piccole stazioni
di provincia pieni di soldati allo sbaraglio, di ragazzetti, alcuni dei quali
certamente minorenni, che con la candela al naso cercavano di combattere una
guerra non loro, approfittando di ogni occasione per tentare di fuggire e
disertare.
Il nonno Vincenzo aveva vissuto l’incubo dapprima del
fascismo e poi dell’occupazione nazista e del passaggio del fronte. Era
sopravvissuto ai rastrellamenti, alle granate che cadevano sulle case in cui si
credeva si nascondessero partigiani, era sopravvissuto alla fame cieca e alla
rabbia per aver perso un padre chissà dove, senza neppure avere un posto dove
poter pregare per la sua anima. Nessun altro suo conoscente aveva più fatto
ritorno a casa, alla fine della guerra, e non si era mai saputo quale fosse
stata la sua fine. Molto probabilmente il mio bisnonno era diventato una delle
tantissime vittime rimaste anonime dell’ultima grande guerra.
Il piccolo Vincenzo era cresciuto elemosinando un tozzo di
pane dai vicini di casa, sempre pronti a brontolare poiché di cibo non ce n’era
per nessuno, durante l’inverno, e durante l’estate cercando di arrampicarsi
sugli alberi che tenevano in piedi i vecchi vigneti incolti, dove gli uccellini
selvatici durante la stagione riproduttiva crescevano i pulcini, o magari
rubando qualche frutto dalle terre dei più ricchi, sempre sorvegliate da persone
armate e pronte a sparare contro i ladri.
Il nonno in quel momento mi appariva come un grande uomo. Era
un uomo alto, al contrario di me, e sempre sicuro di sé. Io mi lagnavo con me
stesso in continuazione per ogni minuscola sciocchezza, ed ero certo che se lui
fosse stato in quel momento a mio fianco, e gli avessi parlato di ciò che mi
era accaduto a scuola, lui avrebbe riso, senza deridermi in alcun modo, ma ero
certo che avrebbe riso per il mio sciocco problema.
Per secoli l’umanità aveva combattuto contro sé stessa, la
gente aveva sofferto la fame, la guerra, la carestia e la prepotenza di
signorotti e re. Solo nel Novecento, milioni di persone avevano sofferto ogni
sorta di patimento, perendo nelle tremende trincee, soffocate da gas tossici e
letali, finendo dilaniate da granate, oppure restando per sempre mutilate.
Genitori che avevano perso i figli al fronte, persone condotte in campi di
sterminio e assassinate senza alcuna pietà, città totalmente rase al suolo e
vite di interi popoli da ricostruire daccapo, con una periodicità da brividi.
Nei paesi del Terzo Mondo e in quelli dove la guerra
imperversava da anni, anche in quel momento bambini innocenti stavano morendo
di fame, senza genitori o magari impiegati in conflitti armati, mandati avanti
per saggiare il terreno e controllare che non ci fossero mine nascoste.
Al solo pensiero di tutto ciò, il mio problema mi appariva
stupido e insignificante. Mi pareva incredibile che noi giovani, che eravamo
tanto fortunati ad avere case, auto, genitori abbastanza servizievoli e scuole
e pane a volontà, stessimo ogni giorno a rovinarci la vita a vicenda. La Terra
sarebbe potuta essere il giardino dell’Eden, se i suoi abitanti umani
l’avessero voluto tutti quanti alla stessa maniera.
E invece, valeva davvero una regola raggelante. Homo homini
lupus, l’uomo è lupo per sé stesso, combatte contro la sua stessa specie, e in
questo preciso punto mi inalberai nuovamente, poiché proprio in quell’inizio di
ottobre stavamo riprendendo Hobbes a scuola, in vista dell’esame che ci
aspettava alla fine di quell’anno e che avrebbe richiesto anche qualche
competenza affrontata negli anni precedenti, e la filosofia mi affascinava
talmente tanto che a volte proprio non potevo non immedesimarmi nei grandi pensatori
del passato.
E Hobbes, con il suo pensiero, esprimeva tutto ciò che mi
stava frullando per la mente in quel momento, e riconobbi per davvero l’egoismo
che permeava tutti i livelli della nostra società.
Riconobbi anche che al mondo forse c’era spazio solo per i più
sciocchi sognatori, e gli altri realisti non avrebbero potuto far altro che
prendere nota del fatto che non ci sarebbe mai stata pace per nessuno, che ogni
sorta di violenza, anche la più piccola, avrebbe continuato ad essere innescata
ogni giorno, anche gratuitamente. Pareva ovvio che la Terra in realtà non fosse
un paradiso, che questo non fosse il miglior mondo possibile e che le cose non
andavano affatto come dovevano andare.
Nel mio spirito giovane, inesperto e appena affacciato sulla
porta che dà sul mondo degli adulti, esisteva quindi solo un gran subbuglio ed
un discreto grado di pessimismo in quel momento. Pensando alle sofferenze
affrontate dalle generazioni passate, tremavo e sorridevo nel mio tormento, ma
poi, ripensandoci, il mio sorriso spariva, perché anche la mia paura di
Federico, di quel bullo prepotente ed insulso, in realtà mi spaventava
tantissimo.
Per l’ennesima volta in pochi minuti, fui costretto a dar
ragione all’ennesimo filosofo, Bernardo di Chartres*, che aveva osato affermare
che tutti noi in fondo siamo come nani sulle spalle di giganti, giganti delle
generazioni precedenti che hanno saputo far fronte a situazioni tremende ed
hanno saputo lottare per la loro sopravvivenza, e che noi siamo riusciti a
vedere le cose meglio di loro solo perché sollevati e portati sulle spalle da
queste persone coraggiose che hanno avuto il coraggio di affrontare il male, di
ribellarsi e di dire no, elevandosi ed elevando anche noi.
Ma a quel punto mi chiesi se la loro vita di sacrifici era
valsa a qualcosa; nel mio Paese regnava apparentemente la pace, eppure ogni
giorno sotterfugi e violenze non mancavano. E, tutt’attorno, nuvoloni neri come
la crisi economica ed alcune guerre insidiose gli facevano la ruota come se
fossero stati magnifici pavoni.
Inoltre, se io ero il risultato di millenni di evoluzione,
questo non si vedeva affatto, se avevo pure il timore di risolvere una
situazione che in realtà non era neppure tanto difficile da sviscerare, e che
pareva davvero molto insulsa se analizzata attraverso un pensiero più critico e
meno superficiale e spaventato.
Ricacciai in fretta indietro tutti questi pensieri forse
troppo intrisi di filosofia per un ragazzino come me, davvero troppo giovane
per dare giudizi assoluti e commentare e smontare le idee di grandi uomini che
col loro pensiero avevano saputo lasciare un’impronta eterna nella Storia.
Mi affrettai quindi a riprendere a camminare di buona lena e
a cercare di raggiungere rapidamente a casa. Desiderio quest’ultimo che tra
l’altro per fortuna fu facilmente realizzato, poiché mancavano a malapena
cinquanta passi dalla mia dimora.
Rientrai, e quella volta avevo davvero molta fame. Poiché mia
madre spesso non rincasava a mezzodì, mangiando un panino in giro, non avevo
mai pasti pronti e quel giorno non faceva assolutamente eccezione. Quindi,
affamato com’ero, dopo aver lasciato lo zaino nella mia saletta ed aver
richiuso la porta, mi diressi prontamente verso il frigorifero.
Ero un grande sfaticato, e guai anche solo a pensare di
dovermi mettere ai fornelli dopo una mattinata di scuola, dove per altro ero
pure stato interrogato e seviziato da un bullo, quindi, cercando di
sdrammatizzare in modo ironico all’interno della mia mente, mi accontentai di
afferrare un pacchettino con all’interno del formaggio molle e spalmabile.
Naturalmente, mi fornii anche di pane e di un ovetto sodo. In pratica, tutto
ciò che mi era capitato sottomano.
Mangiai tutto molto rapidamente, e quindi in fretta giunse il
momento della frutta. Vado ghiotto per la frutta, e così anche a quel tempo
andavo a caccia di frutti per la dispensa di casa, sempre piuttosto sguarnita.
Tuttavia, trovai un grappolino d’uva e mi accontentai.
Mentre finivo di bere un bel bicchiere d’acqua, a conclusione
del mio frettoloso pasto, udii la porta di casa che si riapriva, e uno
scalpiccio tremendamente familiare. Lo stesso che avevo udito quella stessa
mattina nel corridoio che congiungeva la palestra agli spogliatoi, proprio una
frazione di secondo prima che un braccio tatuato si stringesse attorno al mio
collo come un boa stritolatore.
Federico era rientrato. Mi ero totalmente scordato di lui
durante il mio pasto, e in modo molto grossolano avevo lasciato che la mia
attenzione fosse indirizzata totalmente verso il cibo e i miei pensieri. In una
frazione di secondo, fui costretto a notare che eravamo anche da soli in casa,
poiché non avevo intravisto nessuno nel piano in cui mi trovavo e non avevo
udito alcun minimo rumore. Quindi, decisi che era meglio darsela a gambe.
Prima che avessi avuto modo di muovermi però, il mio nemico
sfrecciò di fronte alla porta della cucina, diretto al piano superiore, ed
offrendomi quindi la via libera per raggiungere la mia saletta. Mi affrettai a
raccogliere i miei beni personali, zaino e giubbino, e mi catapultai nel
corridoio, giungendo incolume al mio nascondiglio e chiudendomi poi al suo
interno con un giro di chiave.
Sentendomi al sicuro, la mia mente si rilassò in un attimo,
così come anche il mio corpo, e i miei pensieri ripresero a viaggiare.
Decisi di recarmi dal mio amato pianoforte, che come un
fedelissimo ed inseparabile amante pareva attendere solo il momento in cui le
mie dita si sarebbero posate su di lui, sui suoi punti più delicati e
sensibili, ovvero i suoi tasti. Mi diressi verso il mio strumento ma quello non
era il momento giusto, a quanto pareva, poiché qualcuno suonò il campanello.
Prontamente, mi diressi alla porta, senza indugiare neppure
un istante.
Quando aprii la porta d’ingresso, trovai una sorpresa gradita
davanti al cancelletto del giardino. Anzi, più d’una.
Si trattava di Jasmine e Alice.
‘’Ehi!’’, mormorai a mezza voce, lasciandomi sfuggire un
sorriso felicemente sorpreso.
‘’Ciao, Antonio. Siamo uscite a fare una passeggiata, per
rilassarci un po’ dopo la dura mattinata scolastica, e quando ci siamo trovate
qui davanti, beh… abbiamo deciso di fermarci a farti un saluto’’, disse Alice,
sorridendo anch’essa. Quando si trattava di parlare e di introdurre qualche
discorso, lei aveva sempre il discorso pronto sulla punta della lingua.
La invidiavo un po’, quella ragazza. In modo particolare per
la sua tendenza a combattere la sua timidezza, riuscendo a trovarsi quasi sempre
a suo agio in ogni minima situazione, oltre che per la sua innata loquacità,
che a volte sapeva far capolino all’improvviso.
‘’Ma certo! Entrate pure’’.
E così dicendo, tutto felice, invitai le mie inattese ospiti
nella mia umile dimora. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, come poi ebbi modo
di scoprire in seguito.
Infatti, dopo qualche frase sulla bellezza del piccolo
giardino, le due ragazze entrarono in casa, e prontamente le feci dirigere
verso la cucina, dove avrei potuto offrire loro almeno qualcosa da bere. Mi
pareva la scelta più appropriata in quel momento, conoscendo l’amore che
entrambe le mie ospiti provavano per la coca-cola e per le bibite frizzanti in
generale, ma non appena varcammo la soglia della stanza ci trovammo di fronte a
Federico.
Volevo dire qualcosa alle mie amiche, ma oltre alle parole
pure il sorriso mi morì sulle labbra in meno di un secondo. Era la prima volta
che lo fronteggiavo da solo tra le mura domestiche, e per di più avevo gettato
le due ragazze appena arrivate ed ignare di tutto tra le fauci della belva. Avevo
creduto che si trovasse al piano superiore, e non avevo immaginato che si
sarebbe precipitato subito in cucina.
Mi sentii crollare il mondo addosso, mentre notavo che il mio
nemico, che nel frattempo stava cominciando a mangiare il suo pasto, ci stava
fissando, indirizzandoci uno sguardo piuttosto scocciato.
Alice, dietro di me, dovette percepire il mio imbarazzo e mi
posò una mano sulla spalla destra. Quel breve contatto mi bastò a farmi tornare
alla realtà e a spingermi a rimediare la mia sciocca azione.
‘’Bene, ragazze, beh… venite, se avete sete vi offro qualcosa
da bere’’, riuscii a dire, cercando di sciogliermi e muovendomi verso il lato
opposto della cucina.
Le due ospiti annuirono e mi seguirono, anch’esse senza
badare minimamente a Federico.
Mentre offrivo loro un posto a sedere e due bicchieri, e mi
accingevo ad afferrare una bottiglia ancora chiusa di coca-cola, notai con la
coda dell’occhio che il mio nemico stava mangiando cibo non della casa, bensì
proveniente da un qualche McDonald. I vari contenitori delle pietanze
mostravano palesemente quel simbolo tanto noto, e il cibo era di quello
schifosamente fritto ed intriso di olio.
Non analizzai oltre quelle che parevano crocchette, poiché
altrimenti avevo il timore di tentennare e di attirare l’attenzione di tutti i
presenti. Servii quindi la bevanda alle mie ospiti, incurante del gelo che
regnava nella stanza e senza sapere come cavarmela.
In realtà, fu proprio il mio nemico ad offrire una spiacevole
soluzione al silenzio generale.
‘’Volete proprio diventare gonfie come delle balene, bevendo
tutta quella roba gassata’’, sbottò Federico, al secondo giro di coca-cola.
Dall’altro lato del tavolo, il mio nemico ci fissava di sottecchi, senza
smettere di masticare.
‘’Parla quello che si sta ingozzando di sbobba fritta e ricca
solo di grassi saturi’’, disse di risposta Jasmine, scrollando le spalle.
‘’Non è colpa mia se in questa casa non c’è nulla da
mangiare. È davvero un posto merdoso’’. E così dicendo, Federico sottolineò con
attenzione la parolaccia con cui aveva concluso il paio di frasi appena
pronunciate.
‘’Senti, ma tu sai
solo parlare in modo disgustosamente offensivo e far del male alla gente?!’’,
ribatté Alice, irritata più dell’amica.
Improvvisamente mi accorsi che la situazione mi stava
sfuggendo di mano; Federico era riuscito ad attirare l’attenzione su di sé, e
le mie due ospiti parevano essere cadute nella sua classica trappola. E il
bello era che non sapevo come risolvere quella vicenda sempre più complicata.
‘’Come, sei gelosa degli epiteti che rivolgo alle case
altrui? Pensa che potrei rivolgerli anche contro di te’’, disse infatti il
nemico, accorgendosi di essere riuscito nel suo intento e cominciando a
muoversi nel suo naturale ambiente.
‘’Mi fai davvero schifo. E comunque, le tue parolacce non mi
sfiorano e non mi spaventano’’, concluse Alice, riservando a Federico uno
sguardo colmo di disgusto.
‘’Sembri una racchia, da come parli e da come ti atteggi.
Nessuno ti ha mai mandato affanculo?’’, chiese il quarto incomodo con un
pizzico di divertimento.
Jasmine abbassò lo sguardo e spalancò lievemente gli occhi,
quasi a voler reprimere ed allontanare da sé quelle parole parecchio scortesi.
Alice, invece, afferrò il suo bicchiere, e dopo essersi scolata il liquido che
ancora conteneva e in un unico sorso, lo riappoggiò sul tavolo con un gesto di
stizza.
‘’Antonio, ti ringrazio per averci offerto un piccolo
ristoro, ma non ho intenzione di restare oltre in questa stanza, in forzata
compagnia di questo idiota. Preferirei, che so, andare in giardino’’, mi buttò
lì la mia nuova amica, alzandosi della sedia, subito seguita da Jasmine.
A quel punto però avevo bisogno di sedermi io. Il mondo
pareva che mi stesse crollando addosso, e tremavo dalla vergogna al solo
pensiero che le mie due simpatiche e cordiali conoscenti, a cui tra l’altro
tenevo molto, se ne volessero andare di casa mia e che magari se la fossero
pure presa.
Mi diedi dello sciocco, dello stupido e mi rivolsi
mentalmente i peggiori insulti che riuscii a rievocare in quell’attimo, sapendo
che era stata la mia involontaria superficialità ad aver reso così complicata
quella situazione.
‘’Hai ragione’’, riconobbi, e feci loro cenno di seguirmi.
Sfilai sotto lo sguardo torvo del mio nemico, che mi fissò
fintanto che non scomparvi nel corridoio. Non sapendo dove andare, fui
fulminato da un’idea che non trovai tanto bislacca, e, deciso a salvare quel
pomeriggio, mi diressi verso la saletta del mio pianoforte, quella stessa
stanza che era stata vittima di parecchie invasioni, di recente. Una in più non
avrebbe guastato nulla, e quindi mi affrettai ad aprire quella porta che, per
anni, era stata la barriera che aveva separato il mondo e la realtà dai miei
sogni infantili.
‘’Entrate pure’’, dissi, invitando le mie due amiche ad
accomodarsi al suo interno.
A quell’ora del pomeriggio, il sole illuminava la stanza come
se fosse appena giunto al suo zenit, e il mio pianoforte faceva un figurone
così avvolto dalla luminosità. Io stesso rimasi stupito dalla bellezza che
sprigionava in quel momento il mio fantastico strumento.
‘’Che bella stanza! E che bel pianoforte! Non dirmi che tu lo
sai suonare!?’’, disse Jasmine, l’unica rimasta colpita quanto me da cotanta
bellezza.
Annuii, timidamente.
‘’Mamma mia, che bello! Non sapevo che tu fossi anche un
pianista’’, tornò a dire la ragazza, mentre Alice si avvicinava alla
poltroncina che ormai era divenuta la postazione abituale di Roberto.
‘’Non esageriamo, dai’’, dissi, frenando la sua euforia.
‘’Per favore, mi faresti sentire qualcosa? Suoneresti qualche
nota per me?’’.
‘’Per noi’’, aggiunse Alice, mettendosi a sedere con un
leggero tonfo.
Sospirai, a quel punto. Non ero abituato a suonare con degli
spettatori, ma ormai grazie a Roberto avevo iniziato a farci un po’ il callo a
quel genere di situazioni. Ero comunque ben consapevole che, se volevo salvare
il pomeriggio e la mia cortesia, avrei dovuto accettare la proposta delle
ragazze.
Dopo un silenzioso attimo di riflessione, quindi, presi
frettolosamente la mia decisione.
‘’Va bene, ma vi avverto, non sono molto bravo’’, dissi,
umilmente. Avrei in quel modo salvato la faccia se, come al solito, la mia
timidezza mi avrebbe impedito di suonare seriamente, e non avrei per nulla
smorzato i desideri delle mie nuove e sincere amiche, che si affrettarono a
dire che a loro il risultato non importava. Volevano ascoltare un po’ di
musica, ed io ero assolutamente pronto a esaudire questo loro desiderio.
Mi sedetti quindi di fronte al pianoforte, socchiusi gli
occhi, accecato dalla grande luminosità della stanza, e saggiai i tasti.
Credetti per un attimo di ritrovarmi con le mani legate e le dita pesanti, a
causa della mia solita timidezza, ma quella volta non accadde e mi lanciai
molto rapidamente a suonare una sinfonia piuttosto complessa.
Da quel momento in poi, persi la cognizione del tempo. Planai
con la mia mente su quella marea musicale composta da note potenti come onde,
senza più tener conto del fatto che qualcuno mi stava osservando. Ero riuscito
a raggiungere il mio mondo fatto di suoni e di tasti. Nulla più contava per me.
Solo dopo un po’ rientrai nella mia pelle e tornai sulla
Terra. A quel punto però, la sinfonia mi morì sulle dita, e a testimoniare il
fatto che quel momento di magico equilibrio si era interrotto dentro ed attorno
a me, le mie mani smisero rapidamente di muoversi e le dita cercarono gli
ultimi due tasti. Poi, il silenzio più assoluto e pesante mi avvolse e quasi mi
schiacciò.
Mi voltai verso le mie due amiche con timore, mentre il mio
viso s’imporporava di un lieve rossore. Rimasi sorpreso nel trovarle entrambe
con la bocca semiaperta e con lo sguardo attento, come se fossero state rapite
dalla mia musica, e mi misi in attesa di udire il loro giudizio.
‘’Fantastico’’.
La prima a dire una parola fu Jasmine.
‘’Jasmine, tu sei sempre così riduttiva… fantastico è poco, è
una parola troppo generalizzante. Ebbene, mio caro Antonio, non ti credevo un
maestro! Sei… super mega ultra fantastico! Suoni benissimo! Giuro!’’, si
affrettò ad aggiungere Alice, estasiata.
Mi sentivo svenire, così immerso nei complimenti e nel mio
rossore imbarazzato. Non sapendo che altro rispondere, e non volendo lasciarmi
andare troppo, i miei sensi mi spinsero a riaffrontare di nuovo il mio
strumento musicale, e a tornare a suonarlo per le mie gentilissime spettatrici.
Quello fu uno dei momenti più belli e appaganti della mia
vita, il pomeriggio perfetto che trascorse troppo in fretta, purtroppo.
Io, per miracolo e grazie allo strumento e alla colonna
sonora della mia vita, ero riuscito a dare una svolta a quell’incontro. Più di
quanto avessi mai potuto credere.
*Bernardo di Chartres, filosofo medioevale, fu un maestro di
retorica del XII secolo. Di lui non ci è rimasta nessuna opera, ma lo
conosciamo solo grazie alle parole del suo più famoso discepolo, Giovanni di
Salisbury, che nei suoi scritti sottolinea il concetto base del pensiero del
suo maestro, ovvero che l’intera umanità a lui contemporanea fosse composta da
piccoli nani, adagiati sulle spalle di giganti(logicamente, i giganti erano i
grandi autori antichi). Io ho voluto rendere più ‘’odierno’’ il pensiero del
filosofo medioevale, adattandolo leggermente al mio testo e ai pensieri di
Antonio; spero di non aver scritto un obbrobrio, ma d’altronde la filosofia si
è sviluppata nei secoli per essere sempre utile e per dare un sostegno
all’uomo.
NOTA DELL’AUTORE
Continuo a ringraziare infinitamente chi sta continuando a
seguire questo racconto. Davvero, non credevo che sarebbe riuscito ad attirare
l’attenzione di alcuni lettori! Spero solo che esso possa fornirvi una
gradevole lettura, e magari dieci minuti di piacevole relax.
Ho tanti dubbi sulla vicenda, ma sto portando avanti la
battitura, per fortuna.
Grazie di cuore per tutto, e buon inizio di settimana! A
lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo 9
CAPITOLO 9
Il pomeriggio successivo alla mia sorta di concerto esclusivo
rivolto alle mie due nuove amiche, mi crogiolavo nel mio giardino.
Se c’era un aspetto positivo dell’abitazione in cui vivevo,
beh, quello era il ristretto spazio verde che si estendeva per qualche metro
davanti all’ingresso e tutt’attorno all’edificio. Nel retro, poi, ero riuscito
a lavorare con una piccola vanga un lembo di terra e a creare una sorta di
minuscolo orto.
Da sempre ero un grande appassionato del verde, e le piante
non mi dispiacevano affatto. Trovavo molto divertente piantare i piccoli semini
nel soffice terreno ed aspettare che essi germogliassero.
L’attesa della germinazione era la parte più bella ma allo
stesso tempo più irritante; costantemente mi chiedevo se la piantina sarebbe
nata, oppure se magari qualche bestiola ne avesse rovinato il seme, o, peggio
ancora, un qualche passerotto l’avesse trovato in un qualche modo, per poi
ingerirlo ed andarsene.
Accudire il terreno nel quale quella piccola vita stava per
mettere le radici si rivelava sempre qualcosa di magico, e con cura andava
dolcemente irrigato.
Una volta nata la piantina, le cure erano altre ma tutto
prendeva una sua velocità, e in tempi piuttosto brevi ero riuscito a far
crescere qualche pianta di pomodoro e due di zucchine. Eppure, l’autunno già
faceva la voce grossa in quei giorni, e le mie magnifiche piante, regine
dell’estate con i loro fiori colorati e i loro gustosi frutti, avevano completato
la crescita e il loro ciclo vitale.
Quelle che solo due settimane prima erano steli verdissimi e
sani, in quel momento avevano assunto una colorazione verde marcio, e le foglie
tanto soffici al tatto ed odorose erano tristemente ingiallite ed appassite.
Quindi, con infinita amarezza, non mi restava altro che osservare le mie piante
da orto mentre giungevano rapidamente al capolinea, alla fine della loro vita
durata solo sei mesi.
Ciò mi faceva riflettere sulla caducità della vita, e
soprattutto sull’importanza del tempo. In soli sei mesi, durante il corso della
loro naturale esistenza, le piante da seme erano diventate loro stesse
produttrici di seme, pronte a lottare per lasciare una loro eredità genetica nel
mondo in cui avevano messo le radici. Ed effettivamente, il loro volersi
sforzare a produrre una grande quantità di frutti pieni di semini e di nuova
vita non era poi cosa vana.
Accadeva infatti che, parecchie volte, qualche pomodoro più o
meno maturo finisse a terra, a causa del vento forte provocato da un violento
temporale, e si sporcasse di terra. Per mia pigrizia, a volte mi era capitato
di non raccoglierli, oppure, invece di gettarli nell’apposito cassonetto dei
rifiuti organici, di seppellirli sotto un po’ di terra, in modo che la loro
decomposizione potesse poi arricchire il mio terreno tanto povero di humus.
Ebbene, l’anno successivo, dopo aver smosso la terra, avevo
avuto modo di notare con regolarità la nascita di tantissime piantine di
pomodoro, mai seminate volontariamente da me. Alla fine, quindi, in un modo o
nell’altro la vita era una forza troppo potente per essere arginata, mangiata o
cestinata.
La vita mi appariva come un fiume impetuoso, ma soprattutto
coraggioso e temerario. Anche fortuito, poiché poteva incanalarsi in ogni
minimo avvallamento, e raggiungere anche il più remoto anfratto nascosto. La
vita è fatta per generare vita.
Mentre riflettevo e sorridevo tra me e me, udii un colpo di
tosse che mi fece bruscamente trasalire. Alzando lo sguardo, notai, attraverso
il reticolato che divideva il mio cortile da quello della casa vicina, che
l’anzianissimo Ottaviano era già stato portato vicino alla strada, dove
trascorreva i pomeriggi più soleggiati e caldi ad osservare le auto e i pedoni
che gli passavano di fronte.
Era un vecchio amico di mio nonno, la persona che più mi
mancava a quel mondo e che ricordavo spesso e volentieri, prendendolo sempre
come esempio, e doveva aver già superato la novantina, mentre i problemi
causatagli dall’avanzare implacabile dell’età si potevano distintamente notare.
Purtroppo, rimasto incapace di camminare, la sua vita era incatenata su una
sedia a rotelle, spinta per ore da una badante dell’Est, che si prendeva anche
cura di lui.
Mi soffermai a fissare anche il vecchio, mentre quest’ultimo
mi dava le spalle, rivolgendo lo sguardo alla strada e tossendo di tanto in
tanto. In passato, mentre parlava con mio nonno e le sue visite a casa mia
erano frequenti e costanti, l’avevo udito più volte dire che non aspettava
altro che la vecchiaia gli portasse via anche i ricordi, che assieme alla sua
triste condizione fisica continuavano incessantemente a tormentarlo. Affermava
che non si poteva sperare di morire, poiché quello era l’unico desiderio
erroneo dell’essere umano, ma di dimenticare e di smettere di soffrire sì.
Quattro anni dopo aver udito quell’affermazione più volte
ripetuta, in quel preciso momento, immaginai che fosse relativamente
soddisfatto per il fatto che le sue speranze si fossero parzialmente realizzate,
poiché a volte restava per ore in uno stato piuttosto confusionale e la memoria
andava e veniva con molta rapidità.
‘’Ciao, Antonio!’’.
Il saluto grintoso proveniente dal piccolo giardino della
casa a fianco mi fece sobbalzare lievemente.
Ludmilla, la bionda e slanciata badante ucraina dell’anziano,
si stava dirigendo proprio verso Ottaviano, molto probabilmente per riportarlo
in casa. Ricambiai il suo cortese saluto, mentre l’anziano, vedendola ed udendo
la nostra breve conversazione, si mise a chiedere di chi si trattasse.
‘’C’è Antonio, di là dalla recinzione’’, gli rispose
Ludmilla, iniziando a spingere la carrozzella verso l’ingresso di casa.
Voltandola, l’anziano poté vedermi.
Quel pomeriggio lo trovai in forma, rispetto ad altri in cui
l’avevo visto totalmente abbandonato, con la testa reclinata da una parte e gli
occhi sbarrati e colmi di quella paura generata dall’avanzare costante ed
opprimente della demenza senile.
‘’Antonio, come stai?’’, disse l’anziano, mentre la sua
badante sorridente lo portava vicino a me.
Ludmilla era una persona solare, una donna che teneva
veramente molto alla sua professione, e si vedeva dal modo in cui si comportava
con Ottaviano, accudendolo con affetto e cercando sempre di parlargli e di far
interagire l’anziano, in modo che le sue attività cognitive non andassero
definitivamente a rotoli. Ciò era un processo costante ormai, ma lei lottava
per arginarlo, cercando di combattere la sua effettiva emarginazione.
Il fatto che l’anziano mi avesse riconosciuto senza
difficoltà era già un grande evento, quindi ne approfittò un attimo per
portarlo di fronte a me, al di là della bassa recinzione metallica.
‘’Tutto bene, ti ringrazio’’, gli risposi cortesemente,
mentre lui allungava una mano e, lentamente, faceva sfiorare il reticolato con
un dito.
Non sapevo che dire, e non osai chiedergli come stesse lui,
perché mi pareva ridicola ed insensata come cosa. Mi faceva davvero una gran tenerezza;
un mucchietto d’ossa sorridente, la testa incanutita, una mano gentilmente
protesa verso la recinzione.
‘’Sai, ti assomigli sempre di più a Giovanni, il mio
Giovanni’’, tornò a dire Ottaviano, osservandomi con i suoi occhi chiari e
velati.
Giovanni era il nipote più grande dell’anziano, di poco più
grande di me, e anche quello tenuto più in considerazione dal nonno. Un vero
peccato che Giovanni si preoccupasse del povero vecchietto per quei cinque soli
minuti all’anno, in prossimità del Capodanno, quando l’anziano elargiva un
cinquantone ai nipoti che passavano a trovarlo per l’importante evento, che in
quel caso si facevano ghiottoni un po’ sotto tutti i punti di vista,
devastandogli non solo la dispensa ma anche il portafoglio, e tutto ciò in un
tempo talmente tanto ristretto che il nonno semiparalizzato difficilmente
riusciva a scorgere i loro volti per più di un fugace istante.
‘’Che caro ragazzo!’’, prese a dire l’anziano, senza
lasciarmi il tempo per poter dire qualcosa. Annuii, sorridendo blandamente.
‘’Caro, caro ragazzo!’’, ripeté. Poi, l’anziano ripiombò nel
suo silenzio, lo sguardo perso e puntato verso il cielo, fissato con quegli
occhi saggi che dovevano averne viste di tutte durante gli anni migliori.
‘’E’ l’ora delle medicine, andiamo. A presto, Antonio!’’, mi
salutò Ludmilla, riprendendo a spingere la carrozzella verso la soglia della
dimora. Salutai, mentre l’anziano biascicava qualcos’altro di poco sensato.
Incrociai le braccia sul petto e sospirai, guardando la
sagoma rattrappita del vecchietto come se fosse l’ultima volta che mi fosse
stata concessa la possibilità di vederlo, e il mio pensiero non poté far altro
che sfiorare l’amarezza che la senilità aveva riservato a quell’uomo. Padre di
quattro figli e con un nome importante, altisonante ed antico, Ottaviano aveva
sempre amato i nipotini, che però erano sempre vissuti lontano, e le nuore si
erano in fretta preoccupate del fatto che i figlioli non pensassero troppo al
nonno.
La distanza geografica che lo aveva separato dai figli e dai
nipoti non era esagerata, poiché essi vivevano ad una quindicina di chilometri
dal nostro paesetto, inglobati dalla grande e caotica Bologna, ma tuttavia per
un anziano infermo quei chilometri si erano rivelati un ostacolo
insormontabile. E i figli, laureati da tempo e con una buona carriera ormai
consolidata in città, non avevano fatto nulla per farlo sentire loro più
vicino, se non passandogli una badante, stipendiata in parte con la pensione
dall’anziano stesso, ed abbandonandolo in quella sorta di esilio forzato,
lontano dai suoi affetti e solo, visto che la moglie con cui viveva era venuta
a mancare cinque anni prima.
Aveva sofferto tanto per questa distanza, il buon vecchietto,
ed aveva desiderato di perdere la memoria pur di non soffrire più e di non
pensare.
Alla fine, lasciai il mio orticello con una discreta amarezza
che imperversava nella mia mente, e fui costretto a riconoscere che, se nel
medioevo gli emarginati erano i lebbrosi, nella società in cui vivevo molto
spesso gli emarginati erano gli anziani, e ovviamente i timidi, come ero stato
costretto a constatare anche qualche giorno prima.
Mentre ritornavo in casa, però, notai che era davvero brutto
sentirsi inutile e non voluto, abbandonato dalla stessa società di cui si fa
parte e dalle persone che più avrebbero dovuto volerci bene. Il povero
Ottaviano era rimasto totalmente solo dopo una vita di sforzi. Io, invece, ero
sempre rimasto ai margini della realtà dei miei coetanei, oltre che oltraggiato
per l’ingrata mancanza della figura paterna.
Mi accorsi che i miei pensieri si stavano rapidamente
muovendo verso un argomento pericoloso, ovvero quello riguardante mio padre, e decisi
prontamente di staccare quel flusso inarrestabile e travolgente che ruscellava
e prendeva vita nella mia mente. A volte credevo che pensare e riflettere
potesse anche fare male, troppo male.
Staccai, quindi, rivolgendo la mia attenzione al mio
pianoforte, che avevo raggiunto con circospezione, stando attento a non fare
rumore ed entrando nell’atrio.
Dentro al mio rifugio faceva caldo, forse troppo, per cui
aprii un attimo i vetri della finestra e mi misi appoggiato sul davanzale, a
guardare la strada proprio come faceva prima il mio anziano vicino.
Aprii la bocca, lasciando che un rivoletto di alito caldo
creasse una leggerissima e inconsistente condensa, e mi accinsi a richiudere i
vetri, ma qualcuno attirò la mia attenzione. Si trattava della signora Arriga,
che rincasava frettolosamente.
Passandomi di fronte e a qualche centimetro dal viso,
infagottata all’inverosimile e pronta ad entrare in casa, la donna mi dedicò un
rapido e freddo sguardo, oltre che un buonasera stentato.
Risposi cortesemente e con più calore al suo distante saluto,
non riuscendo a comprendere quell’aura strana ed insolita che circondava Livia.
La signora Arriga era sempre sfuggevole, sempre distante.
Incredibilmente, nonostante avessi già imparato a conoscere
lievemente i modo di comportarsi degli altri due componenti della sua famiglia,
di lei non sapevo davvero nulla, e non avevo la benché minima idea di quel che
facesse tutto il giorno fuori casa e di come fosse in realtà. Fino a quel
momento, si era limitata ad essere schiva, a tratti scortese e con la puzza
sotto al naso, per quello l’avevo soprannominata l’aristocratica, e tendeva a
liquidare sia me che mia madre con una semplice rapida occhiata e con un saluto
striminzito e distante, di quelli che si rivolgono agli umili sguatteri di un
palazzo signorile.
Non che io pretendessi di costruire un rapporto di fiducia
con la signora, oppure che lei desse confidenza a mia madre come fanno tutte le
donne normali, però mi dava fastidio quel suo snobismo talmente pressante da
sfociare in una sorta di muta e silenziosa prepotenza. Quella stessa prepotenza
che suo figlio aveva imparato a esternare senza problemi, grazie alla sua
muscolatura e al suo corpo adatto a sottomettere gli altri.
Tuttavia, non volevo fare di tutta l’erba un fascio, quindi
non avevo alcuna intenzione di lasciarmi andare a giudizi frettolosi nei suoi
confronti. D’altronde di Livia conoscevo solo le chiamate notturne e serali,
che effettuava quando suo marito non era in camera e che erano gli unici suoi
momenti di svago all’interno di casa mia, che sembrava per lei la peggior prigione
dell’umanità.
Con una leggera scrollata di spalle, decisi di accantonare
nuovamente i miei pensieri e di smetterla di tormentarmi con quel flusso
costante e a tratti irritante che a quanto pareva regnava indiscusso
all’interno della mia giovane mente, troppo giovane per dare giudizi. Quindi,
mi affrettai a richiudere i vetri della finestra e a fiondarmi dal mio
pianoforte, che in quel momento mi pareva che fosse una creatura solitaria ed
indifesa, bisognosa di attenzioni, reclamate attraverso la sua attraente
voluminosità e la sua inebriante superficie lucida.
Il mio strumento era davvero un tesoro, ed io lo adoravo e
non sapevo neppure immaginare la mia vita senza di esso.
Mi sedetti, prendendo posizione in fretta, e cominciai a
saggiare i tasti, con i miei classici movimenti testati e riprovati ogni beata
volta che mi sedevo di fronte al mio strumento, e che comunque mi permettevano
di riuscire a sciogliermi per bene e di iniziare a snodare per bene i miei
arti.
Suonai qualche nota, poi cercai di prendere ritmo, ma udii un
rumore fastidiosissimo, che non mi permise di continuare a restare nel mio
mondo, in cui avevo appena cercato di entrare in punta di piedi. Qualcuno stava
bussando alla porta della mia stanza, e poi l’aprì, mentre io mi voltavo verso
il disturbatore, che si rivelò essere Roberto.
Mi rilassai e gli sorrisi, notando che non l’avevo affatto
visto durante quella giornata, e che ciò era una cosa strana, poiché passava la
maggior parte del tempo tra le mura domestiche. Forse, doveva essere uscito a
cercare un qualche lavoro, per essere poi rientrato da poco, visto che
indossava abiti formali e una cravatta più sgargiante del solito.
Non potei non chiedermi perché avesse bussato, quando tante
altre volte era entrato come un silenzioso invasore, ma fu proprio lui a dare
la risposta a quel mio interrogativo, senza aspettare che io lo invitassi a
farlo.
‘’Antonio, qui c’è una ragazza che ti cerca. Ha suonato il
campanello poco fa, tu ovviamente non l’hai sentito perché stavi suonando.
Avendola già vista nei giorni scorsi di sfuggita in tua compagnia, ho pensato
di farla entrare’’, spiegò l’uomo, rispondendo al mio sorriso con un altro
altrettanto valido. E, dietro di lui, fece capolino la testa di Jasmine, che
superava abbondantemente in altezza il mio maturo inquilino.
La ragazza non disse nulla ma mi sorrise e mi fece un cenno
di saluto con la mano.
‘’Ma certo, lasciala pure entrare! Grazie per averle aperto
la porta’’, mi affrettai a dire, ringraziando e congedando Roberto ed invitando
cortesemente Jasmine a fare il suo ingresso nella stanza. L’uomo lasciò quindi
entrare la mia amica, e richiuse la porta dietro di sé, senza smettere di
sorridere.
Ancora seduto sul mio scomodo sgabello, mi ritrovai a fissare
Jasmine per la prima volta da solo, senza Alice o altri che avrebbero potuto
distogliere la mia attenzione da lei. E fui costretto a riconoscere che era
davvero bellissima.
Mi sorrideva, mostrandomi i suoi magnifici e curati denti
bianchi come l’avorio, mentre i suoi capelli scuri e riccioluti erano stati
raccolti in mille treccine, che fungevano quasi come contorno a quella testa
nera come la notte più profonda e cupa, ma allo stesso tempo arricchivano di
bellezza quel fisico atletico, alto e slanciato, che culminava col più bel viso
che io avessi mai avuto il piacere di vedere durante la mia giovane vita. Gli
occhi della ragazza erano profondi, e mentre si avvicinava a me potevo quasi
rispecchiarmici in quegli iridi scurissimi, mentre lo stesso taglio di questi
ultimi era anch’esso decisamente africano e gradevole.
Si morse leggermente un labbro mentre ricopriva gli ultimi
passi che ci separavano, e vedendola così pensierosa, ma allo stesso tempo
estremamente bella e delicata, mi parve di trovarmi di fronte ad una splendida
sfinge, pronta a spalancare la sua splendida bocca dalle labbra rosse e carnose
e a sottopormi ad un qualche antico indovinello. Indovinello che, di certo, non
sarei riuscito a risolvere, ma che mi avrebbe fatto perdere la testa per chi me
l’avesse sottoposto.
‘’Ti ho disturbato?’’, mi chiese, formalmente. Appariva tesa.
Solo in quel momento rientrai in me. Non mi ero mosso di un
millimetro da quando Jasmine aveva fatto capolino nella stanza, e mi accorsi
pure che avevo trattenuto il fiato. Mi ero lasciato trasportare in un’altra
realtà dalla bellezza genuina e selvaggia di quella giovane che conoscevo
ancora così poco, ma che era stata così tanto gentile da venire a farmi visita
e a presentarmisi davanti con quel suo sorriso così esotico.
Capii che non ero mai stato attratto così tanto da qualcosa
che non fosse il mio pianoforte, che era esso stesso la mia vita e il mio
diletto preferito, e mi affrettai a togliermi dal mio stato di stallo e a
rispondere con cortesia alla mia interlocutrice.
‘’Ma che dici! Una tua visita non può che farmi piacere. Sai,
temevo che, dopo la scorsa e prima volta, ti fosse passata la voglia di tornare
in questa casa… ti ringrazio per essere passata, mi ha fatto davvero piacere
vederti anche questo pomeriggio! A cosa debbo questa tua graditissima
visita?’’, chiesi, ricolmo di una raffinata cortesia.
Quasi non mi accorsi del fatto che mi ero lasciato andare, e
che, essendo sempre di poche parole, quella volta avevo decisamente strafatto,
sommergendo la mia amica con una valanga di parole pronunciate in tutta fretta.
Mi sorpresi di tanta loquacità e cortesia così rapidamente
gestite. Non era un comportamento da timido com’ero, ma non stetti a chiedermi
del perché io avessi reagito così. In quel momento ero tremendamente stanco di
restare arroccato nella mia mente e di riflettere incessantemente, e volevo
solo godere della splendida compagnia che mi trovavo di fronte.
‘’Tu credevi che io mi fossi lasciata spaventare da quel
pallone gonfiato?! Ah, ah! Sorvoliamo. So che non hai fatto apposta a farcelo
incontrare. Ma tu sei stato gentilissimo, e per questo sono tornata. In
realtà…’’. Non concluse la frase che stava pronunciando, poiché tornò a
mordersi il labbro inferiore con quel piccolo gesto involontario che a quanto
pareva veniva mostrato solo nei pochi momenti in cui si trovava a corto di
parole e in lieve imbarazzo.
‘’In realtà?’’, chiesi, sollecitandola a parlare, senza perdere
la mia cordialità e non smettendo di sorridere.
‘’Beh, ecco, passavo da qui davanti e mi è parso giusto
fermarmi a farti un saluto. Sai, la tua casa è sulla traiettoria che mi porta
da Alice. E poi… volevo chiederti se suonavi qualcos’altro per me. Sei davvero
bravissimo! Ieri mi hai davvero colpito tantissimo’’, disse, trovando le parole
giuste ed indicando il mio pianoforte, che giaceva abbandonato alle mie spalle.
‘’Oh’’, mormorai, sorpreso. Non credevo ancora di essere
riuscito a far così tanto colpo sulla mia spettatrice, e, in un certo senso, la
sua pacata richiesta mi lusingò.
‘’Se per te non è un disturbo’’, si affrettò a dire la
ragazza, per non apparire scortese. Si stava comportando in modo piacevolmente
educato.
‘’Scherzi?! Sarà un vero piacere suonare qualcosa per te’’,
le risposi, mostrando tutta la mia sincerità e la mia pazza voglia di farle
sentire qualche pezzo che lei molto probabilmente non aveva mai udito.
Quell’inaspettata ma tanto gradita visita mi aveva davvero
reso molto euforico, e quasi mi esaltò. Non sapevo il perché di quella gioia
irrazionale che stavo provando, ma l’assecondai senza pensare ad altro.
‘’Grazie! Sei sempre così gentile’’.
Ridacchiai a quelle parole, e mi sistemai di nuovo di fronte
al mio pianoforte.
‘’Ti faccio sentire subito qualcosa, accomodati pure’’, le
dissi, felice di poter tornare a concentrami sul mio strumento musicale ed
indicandole la poltroncina dove abitualmente si sedeva Roberto.
La bellissima Jasmine continuò a ringraziarmi, tutta
sorridente, e ciò mi spinse ad affrettare i tempi e a cercare una risolutezza
che dentro di me ancora non c’era. I risultati si videro già un istante dopo, e
mi trovai a sbattere la testa contro il muro della realtà, che si discostava
tantissimo dalla mia esagerata felicità.
Col piede sfiorai uno dei pedali, ma non feci pressione.
Nemmeno per scherzo, in quel momento. Quello era solo un gesto rassicurante,
poiché stavo sentendo che l’ansia stava tornando a salire dentro di me.
La timidezza; eccola, la mia nemica, mentre mi colpiva a
tradimento e alle spalle, cancellandomi il sorriso sicuro che per un paio di
minuti aveva regnato sul mio viso e rendendomi nuovamente quel tremolante
ragazzetto che se la faceva sotto per ogni cosa. Mi sentivo un debole, e a quel
punto avevo timore di deludere le aspettative della mia bella visitatrice.
Con le dita allora sfiorai i tasti, ma neppure così mi
calmai. Ansia e timidezza, fuse assieme, quasi m’immobilizzavano, e già sentivo
aleggiare sul mio volto il classico rossore che caratterizzava la mia cute
esposta alla vista altrui. Quello era il segno che stavo per cedere.
Per un secondo, mi passò per la mente l’idea di girarmi verso
Jasmine e di offrirle prima qualcosina da mangiare e da bere, invece di
iniziare a suonare, andando in cerca di un disperato escamotage che avrebbe
potuto permettermi di recuperare il mio equilibrio interno, essenziale per
poter suonare serenamente. Ma non me la sentivo di ritirarmi così in fretta
dopo la mia prima dimostrazione di gioiosa e sicura risolutezza.
Jasmine ancora mi fissava, potevo sentire il suo muto sguardo
ben fisso dietro alle mie spalle, e ciò incredibilmente invece di intimidirmi
ulteriormente, mi diede la forza di affrontare il mio solito muro d’imbarazzo.
In quell’istante compresi che la sua bellezza e la sua
gentilezza avevano influito tantissimo su di me, generando quell’ultima caterva
di sentimenti e sensazioni contrastanti ed opposte che negli ultimi minuti
avevano cercato di imporsi su di me, quasi fossero stati tutti quanti miei
padroni. E così, a sorpresa, ripresi padronanza di me.
Mi gettai a capofitto sulla tastiera, e cominciai a suonare,
mandando in frantumi tutti i miei recenti pensieri e tutte quelle varie
sensazioni che avevano cercato di dominarmi, e in men che non si dica non
esisteva più né la mia timidezza, né il mio imbarazzo. E neppure la paura di
sbagliare tutto. Ero padrone di me stesso, per un fugace momento.
In realtà, il momento si protrasse per un po’, e suonai.
Suonai nella più totale libertà, senza pensare a nulla e abbandonando ogni
spartito, lasciandomi andare come facevo nei miei soliti momenti di estasi
musicale.
Il tutto funzionò, ogni tanto sbagliai qualcosa ma non stonai
mai nella sinfonia che volevo ricreare, e mi fermai solo quando la mia
spettatrice mi pose una mano sulla spalla destra.
‘’Dire che sei bravo è riduttivo, Antonio, ha ragione Alice.
Sono estasiata e senza parole di fronte alle tue capacità musicali’’, mi disse
Jasmine, con dolcezza.
Sorrisi, e mi voltai a guardarla.
Era bella come il sole. Forse anche più del nostro astro più
amato.
‘’Ma ora devo andare a casa, devo studiare… tornerò
senz’altro ad ascoltarti!’’, mi disse, a sorpresa.
‘’Certo. Ti aspetto, vieni quando vuoi’’, le dissi,
sentendomi leggermente smontato. Ammetto che mi aspettavo che mi richiedesse il
bis, ma effettivamente ero io che sul momento stavo esagerando troppo.
Era la sua bellezza a turbarmi.
Accompagnandola alla porta, e gettando un occhio al mio
orologio da polso, notai che era già passata un’ora da quando avevo iniziato a
suonare per Jasmine. Il tempo, come al solito, volava quando suonavo, e quindi
mi ritrovai a comprendere maggiormente la richiesta di congedo della mia
spettatrice.
Sulla porta di casa, Jasmine non mi salutò a parole, ma si
avvicinò rapidamente a me e mi diede un frettoloso ma caldo bacio sulla guancia
sinistra. Inutile dire che rimasi inebetito e di sasso di fronte a quel gesto
inatteso, accorgendomi che forse, dentro di me, l’avevo bramato.
Lei non mi disse nulla, e allontanandosi nuovamente da me
raggiunse il cancelletto e poi la strada, allontanandosi velocemente dalla mia
dimora e accennando un saluto con una mano, senza smettere di sorridermi.
‘’Perdonami se mi permetto, Antonio, ma stai facendo entrare
tutto il freddo in casa’’.
La voce calda e calma di Roberto mi colse impreparato, mentre
mi trovavo ancora impietrito nel bel mezzo della porta aperta, nonostante la
mia cara Jasmine fosse scomparsa già da un po’.
Mi riscossi e in fretta chiusi l’uscio, sorridendo
impacciatamente all’uomo, mentre il mio volto era raggiante. Lui mi guardò con
curiosità, ed io frettolosamente sottrassi il mio viso alla sua vista,
gettandomi verso il piano superiore e la mia stanza da letto, con la vaga
intenzione di andare a studiare. Ma in realtà, una volta in camera mi resi
conto che quella era solo una scusa, e che per quel che restava di quel
pomeriggio difficilmente sarei riuscito a prendere un libro tra le mani.
Quel bacio, quella vicinanza fisica e quell’interessamento mi
avevano sconvolto.
Ero contento, davvero, ma poi la mia felicità a tratti si
scontrava con la razionalità, e comprendevo che quello era il modo di Jasmine
di farmi capire la sua amicizia. Quello che mi aveva rivolto era stato solo un
bacetto di saluto, come vedevo spesso fare tutti i miei coetanei.
Divenni rosso dall’imbarazzo quando, affondando nel mio
soffice letto, mi accorsi che stavo correndo troppo, e che la mia mente mi
stava giocando dei brutti scherzi, d’altronde neppure sapevo se Jasmine mi
piacesse realmente oppure no. In più, la conoscevo solo da pochi giorni.
Ero in confusione totale, e capii che ciò era dovuto al fatto
che, non avendo avuto molte relazioni sociali, la minima vicinanza creava in me
uno strano mix di sentimenti.
In ogni caso, io ero attratto da quella splendida ragazza
nera come la notte. E questa era l’unica cosa sicura.
Di fronte a ciò, decisi per l’ennesima volta di sopprimere i
miei pensieri e di affrontare per davvero lo studio. Inutile ammettere che
scorrevo le pagine senza riuscire a ricordarmi nulla di ciò che leggevo, ma
almeno così riuscii a controllare per un po’ i miei irrequieti sensi.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, e grazie per continuare a seguire il racconto J
Vorrei soffermarmi a ringraziare calorosamente Rossella0806,
Clairy93, GreenWind, JustBigin45 e BandBfun! Grazie per continuare a seguire
con costanza la vicenda e per sostenermi sempre con i vostri magnifici pareri,
che si rivelano sempre dei veri tesori. Grazie infinite per tutta la fiducia
che riponete in me, e per tutta la gentilezza che mi rivolgete.
Grazie di cuore per tutto J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10
CAPITOLO 10
Un’altra mattinata scolastica si era appena conclusa, e stavo
tornando a casa, compiendo in solitudine il piccolo tragitto che separava casa
mia da quella di Alice, visto che la mia cara amica l’avevo già lasciata di
fronte al suo cancello.
Mi trovavo bene con quella ragazza. E, ovviamente, mi trovavo
bene anche con Jasmine.
Non avevo avuto più modo di vederla in quell’inizio di settimana,
poiché non era venuta a scuola, e quindi non avevo neppure avuto modo di poter
saggiare l’opinione delle mie emozioni dopo quel timido evento di alcuni
pomeriggi prima. Da quel che mi aveva detto Alice, si era ammalta ed era
affetta da un forte mal di gola e da un po’ di febbre.
Sempre dalla mia amica, ormai mia compagna d’intervallo, mi
ero fatto dare il numero di cellulare di Jasmine, e quello stesso pomeriggio
avrei cercato di mandarle un messaggio in modo da informarmi cortesemente sul
suo stato di salute. E se poi avesse voluto continuare a fare quattro
chiacchiere con me, ciò mi avrebbe fatto solo piacere.
Era una sorta di prova quella, me lo sentivo.
Sbuffai, notando che il cancello del mio giardino era rimasto
aperto, sinonimo del fatto che il prepotente doveva essere rientrato prima di
me quel giorno, lasciandolo spalancato come suo solito.
Federico, dopo l’aggressione ai danni di Francesco, era
diventato più calmo. Sembrava che stesse preparando una sua azione in grande
stile, sempre confabulando con gli altri miei tre ex conoscenti, con cui faceva
comunella ogni volta che poteva. In classe era distante, e nonostante fosse il
mio vicino di banco, mai una volta mi aveva degnato di uno sguardo, restando
sempre concentrato sul suo cellulare.
Non mi aveva più importunato nei giorni scorsi, così come non
aveva più fatto del male ad altri. Sembrava che la ramanzina a parole del
professore di educazione fisica avesse placato la sua indole.
Ammisi che non credevo a questa mera supposizione, quindi mi
preparavo a giorni più bui, non appena il bullo avrebbe avuto modo di
riorganizzarsi. Temevo che anche i suoi tre nuovi ed inseparabili amici
avrebbero potuto seguirlo, nell’eventualità successiva; in genere, chi va con
lo zoppo impara a zoppicare, questo è ed era certo.
Tuttavia in quel momento mi strinsi nelle mie spalle e mi
affrettai a richiudere il cancelletto dietro di me, per rientrare in casa.
Rientrai, e andai direttamente in cucina, dove vi trovai
Roberto impegnato ai fornelli. Anzi, dopo un’occhiata più attenta potei notare
che aveva già concluso il suo lavoro ai fornelli, ed era alle prese con la
scolatura di una buona razione di pasta.
Ammetto che a quel punto ero in imbarazzo; non volevo
assolutamente che l’inquilino di mia madre si prendesse cura di me come se
fossi un bebè, anche perché ciò non era assolutamente giusto. Sperai quindi che
il cibo che aveva preparato fosse per suo figlio, che però non vidi lì attorno.
L’uomo, vedendo che ero rincasato, mi guardò e mi rivolse uno
dei suoi soliti sorrisi. Naturalmente, pure io gliene rivolsi uno più
impacciato, però, poiché già mi trovavo in imbarazzo in quella situazione. Fui
fortunato quella volta, poiché ad attirare la mia attenzione fu il tramestio
prodotto dai passi di Federico, che dopo aver sceso le scale con due balzi, già
si stava avventando verso la porta d’ingresso, quasi di corsa e con una gran
fretta.
‘’Federico!’’, ruggì il padre, a sorpresa e richiamandolo
indietro, mentre il ragazzo ormai doveva aver già raggiunto l’atrio.
Come se nulla fosse, io andai a recuperare il mio bicchiere e
lo riempii d’acqua, cominciando a sorseggiarla lentamente ed attendendo le
mosse degli Arriga. Ero curioso di ascoltare ciò che doveva dire il padre al
figlio, anche perché ciò non mi era capitato tanto di frequente, e soprattutto
da una certa distanza. Inoltre, non potevo svignarmela in quel momento.
Se poi il mio coetaneo si fosse messo a pranzare col padre, ne
avrei approfittato per abbandonare la cucina e dirigermi da qualche altra
parte, ma in quell’istante proprio non potevo darmela a gambe. Curiosità e
imbarazzo mi tenevano inchiodato lì, e comunque ero pur sempre in casa mia e
potevo starmene dove più mi pareva opportuno.
Federico si affacciò alla porta della cucina; nella mano
destra stringeva il suo magnifico cellulare, con la sinistra invece si affrettò
a darsi una sistemata ai capelli, quel giorno ancora più mossi del solito,
mentre sul volto aveva ben impressa quell’espressione scocciata ed altezzosa
che esibiva in tutte le occasioni in cui si irritava, così come anche i suoi
occhi porcini e socchiusi lasciavano chiaramente intendere.
I tatuaggi di cui evidentemente andava fiero erano coperti
quel giorno, grazie all’aria fresca dell’autunno che gli impediva già di
gironzolare smanicato, e non tardò un’istante in più ad appoggiare la sua
regale spalla allo stipite della porta, mettendosi in una posizione invidiabile
anche per i fotomodelli.
Distolsi lo sguardo da lui e mi concentrai sulla bottiglia e
sul bicchiere che avevo di fronte, mandando giù un sorso di tanto in tanto.
‘’Sì?’’, chiese il prepotente dopo essersi preparato a
puntino.
Suo padre stava mettendo il sugo sulla pasta che aveva
cucinato, potevo udire il rumore provocato dagli arnesi da cucina che
tintinnavano tra loro, sfiorandosi.
‘’Ti ho preparato un po’ di pasta. Oggi pranziamo assieme’’,
disse l’uomo, continuando a svolgere il suo lavoro.
Addio pasto, pensai. Se i due Arriga avessero pranzato
assieme, non mi sarebbe rimasto altro da fare che attendere che essi stessi
avessero concluso il pranzo, prima di tornare per mettere pure io qualcosa
nello stomaco.
‘’No, oggi vado a mangiare fuori con dei miei amici’’, sbuffò
Federico, lasciandomi sorpreso. Pensavo che non si sarebbe opposto in modo così
veemente al padre.
In quel momento provai un pizzico di nervosismo; magari
l’avessi avuto io un padre che mi attendeva a casa con un pasto pronto da
condividere con me. Federico l’aveva, e lo rifiutava con sgarbo. Ciò che io
avevo sempre desiderato, come la semplicità dei gesti e della vita comune, e
che il mio coetaneo fortunato stava ottenendo senza particolari difficoltà, lui
lo stava allontanando.
E così, mi scoprii ad invidiare Federico, ma anche a
rimproverarlo mentalmente, per l’ennesima volta.
‘’Ho detto che oggi mangi a casa, e soprattutto mangerai cibo
decente, e non la solita spazzatura. Dì con i tuoi amici che sarà per un’altra
volta’’, rimboccò Roberto, tenendo il tono di voce basso e fermo.
Sentivo odore di scontro. Riempii di nuovo il mio bicchiere e
mi volsi verso la finestra, dando le spalle ad entrambi.
‘’E io ho detto di no. A questa sera’’, concluse il mio
coetaneo, scostandosi dalla porta ed allontanandosi con i suoi soliti passi
pesanti.
‘’Una volta o l’altra, mi arrabbierò per davvero. Una volta o
l’altra…’’, sibilò il padre, mentre la serratura della porta d’ingresso già
scattava.
Il nervosismo era palpabile.
Mi accinsi a posare il mio bicchiere e ad abbandonare la
cucina, dove un furioso Roberto se ne era rimasto a braccia conserte ed
appoggiato al lavabo, ma incredibilmente Federico tornò indietro.
Mi affrettai a mantenere la mia posizione e a fingermi
assorto.
‘’Ho bisogno di soldi’’, disse il ragazzo, e quella volta gli
lanciai un’occhiatina rapida. Stringeva tra le mani il suo portafoglio, ben
aperto, ed era totalmente concentrato su suo padre.
‘’Io non te ne do. Ti ho già proposto di mangiare a casa e tu
hai rifiutato. I soldi per i tuoi capricci chiedili a tua madre’’, sbottò
l’irritato Roberto. Era la prima volta che avevo modo di saggiare il suo
nervosismo, visto che di solito era una persona calma e pacata.
‘’La mamma non è a casa, lo sai. E poi, i miei non sono
capricci’’, replicò il prepotente, dopo aver atteso un attimo.
‘’Non ti do nulla, vai a pranzo o fai tardi. I tuoi amici
potrebbero adirarsi. E poi, chi sono questi amici?’’, chiese a sorpresa
Roberto, con un tono inquisitorio, quella volta.
Non compresi il motivo di quella domanda così strana, ma
pensai che i fantomatici amici fossero quel trio che aveva conosciuto al liceo,
a me tanto caro un tempo. Eppure, ricordai che i tre non avevano mai pranzato
fuori dopo la scuola. Non era una loro abitudine.
E, allora, mi chiesi anch’io chi stesse per incontrare
Federico, o cosa andasse a fare fuori.
‘’Dammi almeno trenta euro, ti prego’’.
Federico non ottenne risposta. Supplicò e il suo tono
impertinente, a sorpresa, si smorzò.
‘’Non hai risposto alla mia domanda. È una sola tra l’altro,
non ci impiegheresti molto’’, tornò alla carica il padre.
‘’Ragazzi del liceo che ho conosciuto qualche giorno fa. Non
voglio finire per essere un emarginato anche qui! Lasciami uscire’’, tornò a
sua volta alla carica il mio nemico, questa volta con un tono davvero molto
sommesso o pietoso.
Aguzzai le orecchie udendo un accenno al passato del ragazzo,
e quei scarni particolari che si era lasciato sfuggire mi incuriosivano tanto.
Sapevo che lui stava tenendo il suo tono di voce basso e
controllato solo sperando che io potessi udire in modo chiaro il minor numero
di parole possibile, ma d’altronde anche se lì ero il terzo incomodo, non
potevo neppure andarmene. Stavo bevendo, e d’altronde bere è importante,
pensai, ironicamente.
Per la prima volta nella mia vita mi ritrovai ad essere
crudelmente sarcastico, ma ero anche a conoscenza del fatto che il mio nemico
in una situazione simile e a posizioni invertite si sarebbe comportato proprio
come me, se non peggio, magari approfittandone per mettere in giro altre voci
sul mio conto o per farmi del male in altro modo.
Non mi volsi a guardare la scena, ma a quel punto potei
intendere che Roberto avesse ceduto. Al suo posto, non sarebbero stati tanti i
genitori in grado di tener testa ad una supplica così forte mossa dalla prole.
Udii un lieve fruscio, prodotto da una qualche banconota che passava da un
portafoglio all’altro. Poi, non sentii più nulla a parte il rumore dei passi di
Federico, che si era nuovamente lanciato verso la porta. Dopo un attimo, era
già in strada, puntando dritto verso il centro del nostro paese.
A quel punto, lasciai il mio bicchiere e, impacciatamente, mi
mossi verso la porta. Non avevo più tanta fame, e pensai di lasciare sbollire
Roberto, che nel frattempo aveva ripreso la posizione corrucciata e tormentata
di poco prima, per andare a dedicarmi al mio pianoforte.
Quando le acque si sarebbero calmate, sarei tornato a
mangiare un boccone.
‘’Antonio, hai fame?’’, disse però l’uomo, intercettandomi
proprio mentre muovevo gli ultimi passi verso la porta.
Mi voltai verso di lui e gli lanciai un’occhiatina
imbarazzata, prima di tornare a riabbassare lo sguardo. Solo in quel momento
sentivo su di me tutto il peso della mia maleducazione, che poco prima mi aveva
portato a sostare e ad origliare il dibattito privato tra padre e figlio.
‘’Non molta’’, replicai, con un sospiro.
‘’Guarda, qui c’è un bel po’ di pasta. Ne avevo preparato per
tutti e tre, e mi dispiace che Federico non abbia voluto pranzare a casa. Se ne
vuoi un po’…’’, mi disse, mostrandomi lo scolapasta ancora mezzo pieno di un
invitante contenuto scondito.
Si era preoccupato per me anche quel giorno, e a quel punto
rifiutare quel neppure tanto tacito invito mi avrebbe reso un vigliacco tanto
quanto suo figlio. Sorrisi ed accettai con un semplice cenno della testa.
Roberto parve rinfrancato dal mio assenso, e in fretta mi
servì una porzione mastodontica di pasta, che si affrettò a condire con un bel
po’ di soffritto. Mi ritrovai servito talmente tanto in fretta che quasi non
riuscii a prendere posizione a tavola e a sedermi.
‘’Tu sì che sei un bravo ragazzo. Federico… lui, beh, non dà
una soddisfazione manco a morire’’, mi tornò a dire, ancora parecchio
amareggiato.
‘’Ti ringrazio’’, mi limitai a dire, ringraziandolo per il
complimento contenuto nella prima frase da lui pronunciata, e non commentando
il seguito. Non erano affari miei quelli, e per di più sapevo che il mio nemico
era pericoloso.
‘’Hai visto come mi tratta? È sempre stato così, eh. Per lui
non sono mai valso nulla, a volte mi lancia delle occhiatacce con quei suoi
occhi scuri e freddi, ed ho l’impressione di fargli davvero schifo. Ma un
giorno, forse neppure tanto lontano, quando capirà chi è stato in tutta questa
vicenda a sacrificarsi di più, forse cambierà atteggiamento’’, aggiunse
Roberto, sempre con tono irritato. Si stava sfogando, cercando di liberarsi da
quel nervosismo che aveva turbato il suo solito comportamento quieto.
Non trovai opportuno rispondere o aggiungere qualcosa alle
sue parole, poiché come poco prima tutto ciò non era affare mio. Quindi continuai
a tacere, stando a testa bassa sul mio piatto e gustandomi il pranzo, prima che
potesse raffreddarsi ulteriormente e diventare pessimo.
‘’Ma no, ma che sto dicendo! Lui non cambierà mai il suo modo
di comportarsi, ormai ne sono certo per davvero. Sono convinto che non cambierà
mai, ma davvero mai. Non importa tutto quello che abbiamo fatto per lui, ciò
che ci siamo lasciati alle spalle per il suo bene. A lui non importa nulla se
non i soldi, gli abiti firmati, i tatuaggi e la sua arroganza’’, concluse
infine il mio interlocutore, e alzando lo sguardo per un attimo notai che sul
suo viso, in disordine come sempre, aleggiava un sorriso colmo di amarezza.
Che dire, mi dispiaceva davvero tanto per lui. Non sapevo
come si fosse comportato Federico nei suoi confronti prima di giungere a casa
mia, ma il resto potevo confermarlo tutto quanto.
Roberto notò il mio silenzio, e nonostante tutto lo gradì.
‘’Antonio, scusa se ti tormento con le mie parole gonfie di
irritazione. Non voglio assillarti con problemi non tuoi. Tuttavia…’’. L’uomo
mi si era rivolto nuovamente con un tono di scuse, quella volta, e non concluse
la frase.
Per un attimo, la lasciò in sospeso mentre si serviva
anch’esso una bella porzione di pasta, mentre io alzavo nuovamente il mio
sguardo dal mio pranzo, e mi sentivo a disagio, poiché in realtà il
comportamento di Federico era anche un problema mio, vista la prepotenza che mi
riservava.
‘’Tuttavia’’, tornò a dirmi, mentre si metteva a sedere, ‘’so
che voi due frequentate la stessa classe già da qualche settimana. Volevo
chiederti se hai notato un qualche suo… atteggiamento strano, diciamo così,
oppure se si comporta come tutti gli altri ragazzi e se socializza’’.
A quelle parole mi crollò il mondo addosso. La mia sedia si
tramutò in uno strumento di tortura che mi teneva inchiodato in quella stanza,
e senza accorgermene la forchetta mi scivolò tra le dita, cadendo dolcemente
sul tavolo.
La poca fame che avevo si tramutò in voglia di scappare, e
non alzai lo sguardo, tenendolo fisso contro la parete opposta alla mia faccia,
tappezzata dalla miriade di presine multicolore che mia madre pareva
collezionare appositamente per ogni uso ed eventualità.
Mentre mi agitavo leggermente sulla mia sedia, mi pareva
chiaro che in quel momento ero di fronte ad un bivio, e che le scelte possibili
che avevo a disposizione erano solo e soltanto due; dire la verità e parlare
delle prepotenze di Federico, oppure mentire ed insabbiare tutto, continuando
la mia politica dell’omertà.
Non ero totalmente scemo e sapevo che se avessi confessato a
Roberto tutto ciò che il figlio aveva già combinato in quelle due settimane
scarse di frequentazione al liceo, lui non avrebbe esitato un attimo a
richiamarlo indietro e a fargli una ramanzina, irritato com’era. E ciò avrebbe
fatto sì che il mio nemico scoprisse che avevo fatto qualcosa contro di lui,
dando quindi il via libera a quella serie di violente ripercussioni di cui mi
aveva parlato l’altro mattino nel corridoio della palestra, quando mi aveva
quasi soffocato.
La mia scelta, viste le considerazioni fatte, non poteva che
essere una sola. La più semplice.
‘’Non ho avuto modo di parlarci molto, penso di non stargli
simpatico. Del resto, lo vedo sempre in compagnia di altri tre ragazzi
dell’istituto, mi sembra sereno’’, mi limitai a dire, quasi sussurrando. Le
bugie bruciavano dentro la mia anima, e tormentavano la mia mente.
‘’Meglio così’’, replicò Roberto, poco distante e alle prese
con il suo pranzo. Non aveva notato quell’attimo di sbandamento che mi aveva
dato tormento.
A disagio, riafferrai la mia forchetta e mi sforzai di finire
la pasta che avevo rimasto nel piatto, che improvvisamente fu come se avesse
preso un sapore più amaro. Per non pensare alle mie menzogne e al loro peso,
diressi i miei pensieri verso altri lidi, colmi di mistero. Mi domandai il
perché di quelle domande. Forse, Federico negli anni precedenti aveva mostrato comportamenti
strani e devianti, magari violenti come quelli che stava riversando addosso a
me e a chi gli poteva sembrare una preda abbordabile.
‘’Ha ripreso a comportarsi in modo strano, ultimamente. Se
noti qualcosa di anormale, ti prego di farmelo sapere, Antonio’’, tornò a dirmi
cortesemente Roberto, evidentemente anche lui a disagio e in apprensione per
qualcosa che ancora mi sfuggiva, in quel momento. Naturalmente annuii con la
testa in modo veemente, e conclusi in fretta il mio pranzo.
I miei pensieri non erano più con me, planavano lontano. E io
li assecondavo, poiché non volevo che i più ragionevoli di loro mi facessero
notare quanto ero sciocco a comportarmi così.
Se io avessi vuotato il sacco qualche tempo prima,
denunciando i misfatti del figlio al padre, magari le cose poi sarebbero andate
diversamente; ma, ovviamente, se fosse andata così sarebbe stata tutta un’altra
storia, e io non sarei ancora qui a rievocarla e a rifletterci sopra. Per
l’ennesima volta, il destino quel giorno forse mi aveva servito la possibilità
di salvarmi su un piatto d’argento, ma io avevo gettato via anche quella volta
il suo sconosciuto contenuto. Forse, meritavo davvero ciò a cui ero e a cui
sarei stato sottoposto in seguito.
A quel punto quindi ringraziai colui che ormai era diventato
una sorta di cuoco personale, o anche di secondo genitore volendo, visto come
mi seguiva sempre a casa e come mi si rivolgeva con attenzione, cercando di
instaurare un vero dialogo con me. Mi sembrava uno di quegli psichiatri che, lanciati
come segugi sulle tracce mnemoniche di un qualche disadattato sociale, cercasse
di tirare fuori da me quel lato di figlio che non ero mai riuscito a mostrare
con nessuno.
Con Roberto infatti mi sentivo a mio agio, non mi mostravo
mai scocciato per via della sua presenza che ormai gradivo, mi piaceva come mi
trattava, come si atteggiava e come si relazionava con la vita. Era come se
dentro di sé avesse avuto un faro, in gradi di attirare il vuoto buio cosmico
che mi circondava dal giorno in cui ero venuto al mondo, e che fortunatamente
nell’ultimo periodo sembrava aver voglia di diradarsi, ma solo in modo
impercettibile.
Con mia madre era sempre stato tutto leggermente diverso,
poiché purtroppo rientrava sempre di sera e quand’ero piccolo mi accudivano
sempre i miei adorati ma ormai defunti nonni. Forse, tra me e lei si sarebbe
potuto sviluppare un rapporto più intenso se la società in cui vivevamo non ci
avesse spinto come carriole pur di soddisfare i bisogni più materiali, ed
effettivamente grazie agli sforzi materni non mi era mai mancato nulla.
Mi era mancato solo un padre, ma appena mi passò per la mente
la sua ormai sfocata figura, mi affrettai a ricacciare tutto nel dimenticatoio
e ad accantonare il mio silenzioso dolore in un angolo della mia confusa e
provata mente, come al solito.
A quel punto, mi allontanai dalla cucina, continuando a
ringraziare, e mi avviai verso il mio rifugio, dove avrei potuto trovare un po’
di pace suonando il mio amatissimo pianoforte, mia linfa vitale.
Suonavo senza sosta, parevo aver perso me stesso. Ero su un
altro pianeta, e ne gioivo, perché suonare per me significava essere totalmente
libero.
Mi sentivo felice così, e credevo di essere finito già in
paradiso. E invece, avevo sbagliato le mie valutazioni ed ero all’inferno.
Mentre continuavo a suonare, ed ero totalmente assorto dalla
mia marea musicale che continuava ad innalzarsi attorno a me già da un bel po’,
udii un tenue rumore. Si trattava della porta della saletta che si apriva.
Pensai, avvolto nella mia musica, che si trattasse di
Roberto; infatti, solo per lui avevo lasciato aperto la porta, senza chiuderla
a chiave dall’interno, poiché speravo in una sua visita. Altrimenti, mi sarei
barricato dentro, come facevo abitualmente quando condividevo la casa con degli
sconosciuti e mia madre non era presente.
M’insospettii quando non udii i suoi soliti passi leggermente
pesanti, e mi accorsi che, grazie a un lieve movimento d’aria, qualcuno si
doveva essere posizionato dietro di me.
‘’E’ bello suonare, vero?’’.
Non ebbi neppure il tempo di sussultare, poiché Federico si
era mosso rapidamente, e altrettanto velocemente aveva parlato, per poi
mettermi una mano sulla bocca e tapparmela.
Sgranai gli occhi mentre il prepotente passava il suo braccio
destro sotto il mio collo, e per l’ennesima volta mi rendeva vittima della sua
stretta micidiale. Mi mancò il respiro, e non pensai neppure a cercare di
urlare, di divincolarmi o magari di piantare le mie unghie nel braccio
dell’avversario; Federico era forte e rigido come una roccia, e poteva
sovrastarmi e sottopormi ad ogni genere di angheria.
Io, così debole, pensavo solo a cercare di respirare. Anche
riuscire a far entrare un po’ d’aria nei miei polmoni sarebbe stato un grande
traguardo.
‘’Suonare è bello, ma parlare è ancora meglio. Giusto?’’, mi
chiese il mio aguzzino, bisbigliandomi tutto all’orecchio sinistro.
In preda al panico e senza comprendere ciò che mi stava
chiedendo, annuii in fretta.
‘’Sappi che ho notato che lui ti ha preso a cuore. È da
quando siamo giunti in questa schifosa casa che non fa altro che parlare di te,
come se fossi un modello da seguire. Pende dalle tua labbra, ti ascolta. Ma tu
sei solo una nullità, lo vedi come ti piego? Beh, ti ho visto oggi mentre
ascoltavi i nostri discorsi, aguzzando il tuo udito. Tu prova anche solo a dire
in giro ciò che senti in questa casa, oppure ciò a cui ti sottopongo, e io ti
farò scontare tutto quanto con il dolore. Questo dolore’’, continuò a
sussurrarmi Federico, implacabile.
Il mio viso iniziava a diventare rosso, i miei polmoni
collassavano mentre il mio aguzzino continuava ad infierire e a stringere il
mio collo in una morsa sempre più ferrea. Non riuscivo neppure a deglutire.
‘’Se so che sparli di me con mio padre, oppure che cerchi
aiuto, o che stai cercando di organizzare una qualsiasi azione sempre contro di
me, ti spezzo. Giuro che questa sorta di caloroso e fraterno abbraccio si
tramuterà in una morsa ancor più letale. Sappilo’’.
Altra brevissima pausa, mentre mi sentivo svenire. Neppure mi
muovevo più.
‘’E poi… questo strumento potrebbe anche rompersi. Ti
immagini se facessi saltare i tasti? Proprio così’’. E con un pugno colpì la
tastiera.
Con le blande forze che mi restavano, cercai di divincolarmi,
ma persi le forze. Stavo per scivolare a terra, il mio volto doveva essere
cianotico, e il prepotente ormai si era reso conto della mia situazione estrema,
premendomi contro la sua schiena e stringendomi sempre col braccio destro,
mentre con quello sinistro cercava di danneggiare il mio pianoforte.
‘’Tu farai ciò che ti dico io, e te ne starai in silenzio.
Sei un bambolotto tra le mie mani, e se non vuoi che la tua merdosa vita non
abbia ripercussioni, così come anche tua madre e il tuo pianoforte, mi
obbedirai. Per ora basta così, la lezione di oggi dovresti averla capita’’,
concluse Federico, lasciando tutto d’un tratto la sua stretta ed afferrandomi
per i capelli, per poi far sbattere la mia inerme testa contro i tasti del mio
pianoforte straziato, che pareva anch’esso gridare dal dolore.
In meno di un istante,
il mio aguzzino era di nuovo dalla porta, che aveva socchiuso, per poi
volatilizzarsi nel corridoio. Ed io mi lasciai scivolare a terra, inerme e
senza fiato.
Annaspai disperatamente, mentre mi sdraiavo sotto al mio
strumento, dopo essere caduto con estrema lentezza. Mi sentivo morto, sfinito.
La lezione l’avevo capita, eccome se l’avevo capita.
Rimasi steso al suolo, traendo piacere dal mio respiro che
ritrovava la sua regolarità e chiudendo gli occhi, ancora dolorante.
‘’Antonio! Antonio,
che ti è successo?!’’.
Mi accorsi solo dopo un po’ che Roberto mi stava fissando dal
bel mezzo della porta, per poi dirigersi rapidamente verso di me. Se solo fosse
giunto un attimo prima, avrebbe potuto vedere ciò che stava accadendo.
Eppure, i miei occhi semiaperti lo fissavano con astio,
poiché volevo solo che lui mi stesse lontano. Era solo grazie alla sua presenza
e a suo figlio se ero ridotto così in quel momento.
‘’Ero al piano di sopra, ed ho sentito dei rumori strani. Ma
non mi sarei mai creduto di ritrovarti così… mio Dio!’’, continuò a dire,
cercando di farmi reagire.
‘’Chiamo il 118! Hai avuto indubbiamente un malore’’, tornò a
dire Roberto, afferrando il suo vecchio cellulare.
‘’No, va tutto bene. Ho rischiato di soffocarmi con… con una
caramella. Mi è andata di traverso. Ora è tutto a posto’’.
Non seppi mai come feci quella volta ad inventare una simile
sciocchezza e a riuscire a rispondere con tanta prontezza, nonostante la
situazione a me indubbiamente sfavorevole. Tuttavia, assieme alla regolare
respirazione, anche il mio viso tornò normale in fretta, così come anche il mio
corpo in generale.
Stimolato dall’uomo, mi rimisi in fretta in piedi, e stando
attento a non sfiorarmi il collo, alzai il bavero della giacchetta che avevo
indosso e, senza guardarlo, iniziai a saggiare il mio pianoforte, in modo da
accorgermi se esso avesse avuto dei danni. Era stato proprio sul mio strumento
che quel demonio si era maggiormente sfogato, e se si fosse rotto qualcosa poi
non avrei avuto neppure i soldi per ripararlo.
Ero in ansia, ma per fortuna tutto parve fin da subito a
posto.
‘’Una caramella?!’’, continuava a chiedere il mio
interlocutore, ma non mi importava più nulla di lui.
Irritato, gli diedi le spalle e mi diressi prontamente verso
la mia camera da letto, in modo da potermi lasciare andare ad un pianto
isterico, una volta raggiunti i miei soffici cuscini e il mio morbido
materasso. Per quel giorno, ne avevo avuto abbastanza di lui e di suo figlio, e
anche se era in realtà innocente in quel momento non potevo non rivolgere parte
del mio astio anche contro quell’uomo, ingiustamente.
NOTA DELL’AUTORE
Continuo a ringraziare chiunque stia continuando a seguire il
racconto, e in modo particolare tutti coloro che si soffermano a lasciare un loro
parere. Grazie!
Grazie di cuore, davvero, a tutti quanti. Buona giornata! A
lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo 11
CAPITOLO 11
Questa è la prima volta che la mia memoria vacilla, in questo
mio voler ripercorrere i miei ricordi di un passato ancora piuttosto recente.
Non avevo chiaro neppure al momento in cui il fatto si svolse
se io avessi inteso bene e se avessi realmente vissuto quel flash di scene, e
se per davvero avessi origliato qualcosa d’importante. Ma, alla luce dei fatti
futuri, sono sempre convinto che sì, io quella notte avevo sentito bene e nulla
era frutto della mia immaginazione.
Stava di fatto che, dopo essermi leccato le mie ferite
interiori e aver studiato un po’, perlopiù letto poiché i miei sentimenti e la
mia umiliazione non mi permettevano di concentrarmi troppo, quella stessa sera
in cui avevo dovuto far fronte all’invasione del mio rifugio e alla violenza
del mio nemico riuscii ad addormentarmi senza difficoltà, quasi a sorpresa.
Calai quindi in un sonno leggero, agitato e ricco di sogni, che tendevano a
tramutarsi in incubi.
Attorno a metà nottata, mi svegliai di soprassalto, senza
però uscire dal mio stato di pesante sonnolenza, e guidato da un impellente
bisogno di andare in bagno, fui costretto ad uscire dalla mia stanzetta.
Tenendo socchiusi gli occhi e muovendomi per casa senza accendere le luci, in
modo da non risvegliare totalmente i miei sensi, mi affidai alla luce fioca dei
lampioni che, entrando dalle finestrelle della scala, illuminava pacatamente i
luoghi che dovevo attraversare.
Per raggiungere il bagno, dovevo affrontare un percorso un
po’ scomodo, poiché esso si trovava al piano inferiore, visto che quello al
piano superiore era a disposizione dei nostri affittuari, quindi scesi le scale
con lentezza, sempre tenendo gli occhi socchiusi, e come un automa giunsi
finalmente al bagno.
Fortunatamente, non mi gettai subito sulla maniglia della
porta, poiché udii un parlottio proveniente dal suo interno. Credevo si
trattasse di mia madre, eppure non l’avevo mai sentita parlare da sola, e
bisbigliare in quel modo così concitato. E la voce mi sembrava maschile.
Allungai la testa ed appoggiai il mio orecchio destro contro
il legno della porta; il parlottio mi giungeva attutito, quasi distante, eppure
qualche frase la potei udire chiaramente. E, ovviamente, potei anche capire che
non era mia madre colei che si era chiusa dentro al nostro bagno, bensì
Federico. Il suo bagno era al piano superiore, e il fatto che si recasse nel
nostro mi dava molto fastidio, e non potei non chiedermi il perché di quella
scelta.
In realtà, feci in fretta a conoscere la risposta. Il bagno a
disposizione sua e dei suoi familiari era posizionato al lato opposto della mia
stanza, ed era appiccato alla camera dei suoi genitori. Quindi, se lui voleva
chiacchierare al telefono senza essere udito, il nostro bagno al piano
inferiore si rivelava essere per davvero il luogo perfetto, poiché lì dentro
poteva nascondersi senza essere scoperto, visto che raramente sia io che mia
madre ci alzavamo durante la notte, a volte anche a costo di lottare un po’,
imparando a resistere ai bisogni pur di non sfatare la nostra pigrizia notturna
e di non perdere il sonno.
Mestamente e cercando di non fare rumore, avvicinai il mio
orecchio al legno della porta, e potei udire la voce stanca ed assonnata del
mio coetaneo, che cercava di convincere qualcuno a far qualcosa. Il tutto mi
era ignoto.
‘’Te l’ho detto, oggi pomeriggio mi è arrivata quella roba…
nessun rischio, dai! Se volete… no, per ora ho parlato anche troppo, magari ci
accordiamo domani… a domattina, ora ormai è notte fonda e voglio andare a
chiudere un occhio…’’.
Udendo quelle parole, dopo essere rimasto per un po’ ad
origliare, mi ritrassi dalla porta, e a passi felpati mi diressi prontamente
verso il piano superiore. A quanto pareva, Federico stava per concludere una
qualche conversazione telefonica, e non volevo farmi trovare nei paraggi del
bagno o in giro per casa.
Il mio cuore batteva all’impazzata mentre, con attenzione,
cercavo di raggiungere la mia stanza da letto, ed avevo il timore che i suoi
battiti facessero frastuono come i tuoni di un temporale, dal tanto che
risuonavano nel mio petto e nella mia mente.
Salii rapidamente le scale, giusto in tempo per udire il
rumore attutito della serratura del bagno del piano inferiore che scattava, e m’infilai
nella mia camera richiudendo in fretta la porta, stando sempre attento a non
fare alcun genere di rumore.
Solo quando mi fui nuovamente barricato al sicuro, e fui
certo che il mio nemico non doveva essersi accorto di essere stato spiato, tirai
un sospiro di sollievo, mentre il mio cuore pian piano quietava i suoi battiti
folli.
Tornai in fretta sotto le coperte, ormai incurante del
bisogno fisico che mi aveva spinto a scendere al piano inferiore, e spensi la
luce, coprendomi per bene con le lenzuola e riflettendo. In realtà i miei
bisogni li potevo ancora sentire in tumulto dentro me, mentre mi rivolgevano
qualche dolorosa richiesta, però in modo meno impellente, poiché la mia mente
era tutta concentrata sul discorso che avevo avuto modo di udire poco prima.
Federico di certo si era nascosto a parlare al cellulare
dentro al nostro piccolo bagno per essere sicuro di non venir udito dai
genitori, nascondendosi anche nel luogo meno trafficato di casa mia. Inoltre,
solo in quel momento mi venne da chiedermi cosa intendesse il mio coetaneo con
la parola roba. E poi, quel pomeriggio era andato a pranzare fuori con amici,
non a prendere qualcosa. A meno che tutto non fosse poi così limpido e chiaro
come avevo voluto vederlo io fino a quel momento, ma che si trattasse proprio
di quel genere di roba.
Volli allontanare quella supposizione malevola, forse
eccessiva e dalla parvenza ancora infondata.
I movimenti loschi del mio nemico, le domande di Roberto che
mi avevano tormentato durante il pomeriggio del giorno precedente, le chiamate
segrete, la prepotenza in generale, tutto ciò non mi lasciava tregua e si
sovrapponeva nella mia mente. I miei pensieri erano diventati tutto a un tratto
una sorta di vortice, che mi spingeva giù, verso un punto a me sconosciuto.
Senza poter riflettere oltre, tornai a sprofondare nuovamente
in un sonno agitato, che mi avrebbe lasciato poi piuttosto confuso al risveglio.
Quando mi svegliai, la mattina successiva, fuori il sole
stava sorgendo e gli uccellini cinguettavano sul tetto.
Tutto aveva una parvenza normale, tutto tranne me. I miei
occhi erano infossati, stanchi e dilaniati da una nottata colma di incubi,
dominata da un sonno agitato ed inclemente, senza contare tutto il resto delle
difficoltà. E senza pensare a ciò che avevo udito.
Esordii scrollando le spalle, e preparandomi per andare a
scuola, anche se, inutile ormai dirlo, rischiavo di collassare sul posto e di
riprendere a dormire. Eppure, quella nottata mi aveva lasciato un retrogusto
amaro, e, visto che nella mia mente gli incubi si confondevano con la realtà,
mischiandosi abilmente, giunsi persino a pensare di aver sognato di essere
andato in bagno. D’altronde, il mio aguzzino mi aveva fatto del male anche la
sera prima, e quindi la mia mente estremamente suggestionata doveva aver
riprodotto in modo verosimile tutto ciò in un semplice sogno.
Mi autoconvinsi di ciò, e comunque la mia irritazione riposta
nei confronti del giovane Arriga mi spingeva anche a farmi gli affari miei e a
cercare di indagare o fantasticare il meno possibile su di lui, e di girargli
alla larga senza stare a farmi troppi viaggi mentali, che come in quel caso
apparivano assurdi.
Molto probabilmente avevo sognato tutto, e se così non fosse
stato non era affare mio. Certo, mi scocciava per il fatto del bagno occupato,
ma non mi restava altro da fare che sperare nel fatto che le successive notti
non si fosse riverificato quello stesso problema.
Deciso a sotterrare tutto quanto, mi affrettai a scendere al
piano inferiore con lo zaino in spalla, giusto in tempo per bere due sorsi di
latte e trangugiare una di quelle brioches ipercaloriche che tanto piacevano a
mia madre, per poi salutare rapidamente Roberto, che in giardino si gustava il
timido sole di ottobre.
‘’Di fretta, questa mattina?’’, mi pungolò l’uomo. Temendo
che potesse attaccar bottone per tornare a chiedere del mio stato di salute e a
farmi rievocare gli eventi della sera precedente, non gli diedi assolutamente
corda e sveltii il passo.
‘’Come sempre’’, mi limitai a dirgli, abbandonando
frettolosamente il mio giardino. Sapevo che mi stavo comportando in modo non
molto educato, ma non riuscivo a fare altrimenti, e un po’ mi dispiaceva per
quell’uomo che invece in fondo mi stava simpatico, oltre che sempre pronto a
dimostrarsi premuroso nei miei confronti.
A passo rapido, dopo che ebbi effettuato la prima svolta, mi
ritrovai a rallentare, solo per riprendere fiato.
Giunsi comunque a scuola con un po’ di anticipo, arrivando in
modo calmo e tranquillo nel piazzale antistante l’edificio. E lì mi attendevano
nuovi eventi.
Notai fin da subito che l’atmosfera era strana; tutti i
ragazzi dell’istituto che erano già presenti sul posto formavano dei piccoli
capannelli, allo stesso modo dei cospiratori. Logicamente, i vari gruppi parevano
essersi riuniti per chiacchierare di qualcosa di recentemente accaduto.
In cinque anni di frequentazione, di fronte al mio liceo
c’era stato quel clima teso solo poche volte, perlopiù nei giorni di sciopero,
quando si cercava di convincere i pochi compagni restii a salire sul primo
autobus e a dar buca alla scuola, e quando era accaduto qualcosa di brutto ad
alcune personalità eminenti o molto conosciute nell’ambiente scolastico. Quella
mattina, così davvero tanto lontana dal clima disteso e pacifico che regnava
quasi ogni giorno a quell’ora, era davvero molto strana.
Mentre mi muovevo in cerca di Alice, che avevo scorto di
sfuggita poco distante, mi ricordai che il giorno precedente non avevo scritto
neppure un messaggino a Jasmine, per sincerarmi del suo stato di salute; quasi
mi fermai a dare una testata contro un vicino lampione, rimproverandomi per la
mia sbadataggine, scusandola con il fatto che ero rimasto vittima dell’ennesimo
attacco del mio aguzzino, e pure nel mio rifugio quella volta.
Mi ritenni imperdonabile, e brontolando mi ripromisi di
scriverle entro le due del pomeriggio di quello stesso giorno. Stavo anzi per
afferrare il mio cellulare, un vecchio Nokia Lumia che aveva visto giorni
decisamente migliori, in modo da poter rimediare subito alla mia dimenticanza,
ma il clima teso che mi circondava tornò ad allontanarmi dal mio intento,
guadagnando la mia attenzione. In qualche gruppetto regnavano le risatine, in
altri i toni cupi e sommessi.
Alice non mi aveva notato e continuava a muoversi da sola nel
mezzo della folla, e mentre la raggiungevo scorsi in lontananza Federico, che
naturalmente era assieme al suo solito trio, che un tempo credevo di conoscere
tanto bene e di apprezzare. I quattro ragazzi ridacchiavano e scherzavano tra loro,
parevano rilassati.
Tornai a concentrarmi su Alice, che nel frattempo avevo
raggiunto alle spalle e senza che lei se ne accorgesse, per poi sfiorarle delicatamente
un braccio. La ragazza sobbalzò al mio contatto.
‘’Oh, Antonio!’’, disse poi, una volta tranquillizzatasi
dalla mia comparsa a sorpresa.
Mi sorrise dolcemente. Anch’io le sorrisi.
‘’Jasmine non viene neppure oggi a scuola, non so quando
rientrerà… ha le placche, mi sa’’, aggiunse, con tono deluso e dispiaciuto.
Mi parve di sentir rigirare il coltello nella piaga, e tornai
a darmi dello stupido. Quella ragazza per me era bellissima, stupenda e
gentilissima. Ancora non riuscivo a farmene una ragione del come avessi fatto a
dimenticarmi di fare quel passo avanti che volevo effettuare il giorno prima.
Il destino mi aveva lasciato un altro po’ di tempo a disposizione per farlo, ma
comunque la mia rabbia e il mio nervosismo furono parzialmente rivolti a
Federico.
Non avevo mai odiato con intensità nessuno in vita mia, ma in
quel momento mi sorpresi ad odiare parecchio quel mio coetaneo, quasi a
ribollire di rabbia solo a pensarlo. Eppure, non avevo il coraggio per fare
altro ed oppormi alle sue prepotenze.
‘’Mi spiace, pomeriggio le scrivo, così sento come sta.
Piuttosto, che è accaduto questa mattina? Mi sembra tutto così insolito’’,
dissi, cercando di deviare il discorso e percorrendo l’intero piazzale con lo
sguardo.
‘’Sai che ho udito strane cose, poco fa? Proprio due minuti
fa mi ha raccontato qualcosa Angela, quella di terza b. Non ci ho capito molto,
ma a quanto pare Federico deve averne compiuta un’altra, questa volta con
l’ausilio dei suoi tre amichetti’’, si limitò a rispondermi Alice, anche lei
osservando gli altri. Di tanto in tanto, qualche risata di elevava da alcuni
gruppetti, dove i vari componenti erano tutti occupatissimi a tenere gli
sguardi fissi sugli schermi dei loro cellulari.
‘’Uhm…’’, mormorai, pensieroso, chiedendomi se tutto ciò
aveva qualcosa a che fare con quello che forse avevo sognato durante la notte.
‘’Ne sai qualcosa di più, tu?’’, mi chiese, ma io scossi la
testa. Provai a ricordare qualche frase forse udita durante la nottata ma non
riuscii a collegare nulla all’ambiente scolastico.
Alice allora scrollò le spalle, come per volersi lasciare
scivolare addosso ogni altro pensiero riguardante Federico, per poi sorridermi
di nuovo, timidamente.
‘’Oggi ho ben due verifiche. Le prime dell’anno! Mamma mia,
giuro che tremo solo a pensarci…’’, tornò a dire la mia amica, per poi
rabbrividire per davvero.
‘’Stai tranquilla, sono certo che andrà tutto bene. E poi,
non hai mai avuto problemi di nessun genere a differenza di altri’’, cercai di
tranquillizzarla, mostrando un sorrisetto tremolante e mettendola
indirettamente al corrente delle mie difficoltà a raggiungere le sufficienze
nei precedenti anni scolastici.
‘’No, non posso stare tranquilla. Oggi ho anche la verifica
di matematica, e come se non bastasse ho anche un po’ di mal di testa’’,
aggiunse, senza sorridere quella volta.
Scese il gelo su di noi; la matematica era il grande incubo
di chiunque, al liceo.
Non avevamo insegnanti particolarmente validi in quella
materia così complessa, ma essi apparivano comunque molto esigenti soprattutto
nelle verifiche scritte, che quasi nella totalità dei casi finivano per essere
valutate ampiamente sotto la soglia della sufficienza. Anche i più bravi in
tutte le altre materie vacillavano abbondantemente in matematica, finendo per
crollare sotto il peso di tutti quei calcoli astrusi.
Provavo pena per la mia povera amica, e non la invidiavo
affatto, ma ciò portò pure me a tremare. Sapevo che ben presto sarebbe stato il
turno della mia classe, e in quella materia non ero riuscito a concludere
praticamente nulla.
I compiti a casa non lo facevo quasi mai; l’insegnante non
controllava se erano stati svolti, ed io non me ne preoccupavo, preferendo
dedicare il mio tempo al pianoforte. Ma quando poi mi trovavo con la verifica
sotto al naso e non ero in grado di risolvere nulla, molto spesso mi veniva da
lasciarmi andare ad un pianto silenzioso ed impotente, anche se poi logicamente
mi trattenevo.
Però, sapevo che era inutile disperarsi sul latte ormai
versato, e quindi l’unica cosa che potevo fare era cercare di ripromettermi di
prepararmi meglio per il compito in classe successivo, e di impegnarmi a
svolgere gli esercizi e i compiti a casa, cosa che puntualmente non facevo. E,
allora, la medesima situazione della verifica consegnata pressoché bianca si
riverificava con costanza, ogni mese e per anni.
Questa vicenda si è poi tramutata in uno dei miei incubi più
ricorrenti; ancora oggi, quando ho un sonno agitato, mi ritrovo in quella
stessa aula e con grande realismo scorgo quelle fotocopie colme di numeri e di
concetti che non so gestire, dominato da una lugubre impotenza e
dall’incapacità di fare qualcosa. Solo, incapace di muovermi dalla sedia,
trascorro intere notti a rivivere quei momenti che, effettivamente, dovevano
avermi segnato moltissimo nell’istante in cui li vivevo.
Tuttora spero che, prima o poi, questo incubo ricorrente
possa sparire dai miei sogni, ma ne dubito, vista la costanza con cui esso si
ripresenta. Nulla viene dimenticato tanto in fretta, così come non ho mai
dimenticato finora l’espressione che aveva sul volto la mia cara Alice quella
mattina, che si preannunciava così lugubre e tesa sotto tutti gli aspetti.
Non riuscii a dirle altro, o a parlarle dei miei problemi in
quella materia, poiché la campanella suonò e fummo costretti a dividerci, per
dirigersi nelle nostre classi. La mia amica era così triste e agitata che
pareva che stesse per essere condotta al patibolo.
E così, senza alcun buono auspicio, entrai nella mia sezione
e mi preparai ad affrontare la nuova mattinata scolastica.
Non sapevo ancora il perché, ma i miei compagni di classe in
quel periodo parevano essere diventati più gentili, nei miei confronti. Se fino
a qualche tempo prima nessuno manco mi salutava, ed era come se fossi un
fantasma e non esistessi, in quei giorni qualcuno cominciò a rivolgermi qualche
superficiale buongiorno, o mi rivolgeva qualche frase di rito.
Niente di che, ma era un passo in avanti che a mio avviso non
avevo in alcun modo cercato di compiere con le mie forze, visto che avevo
gettato la spugna già durante il primo anno, quando tutti mi prendevano in giro
per il rossore che compariva sul mio viso quando dovevo parlare con qualcuno di
loro, ma tuttavia la situazione che si stava creando non mi dispiaceva affatto.
Anzi, il gracile Francesco aveva pure cominciato a rivolgermi qualche sorriso,
come se l’evento di bullismo al quale entrambi eravamo stati sottoposti dallo stesso
aguzzino ci avesse avvicinati.
Se il quasi insormontabile divario tra me e gli altri
componenti della classe si era ridotto di qualche millimetro, quello tra me e
Federico continuava ad essere violentemente insostenibile.
Per far capire chiaramente che con me non voleva averci nulla
a che fare, umile sfigato com’ero, ogni mattina aveva preso l’abitudine di
staccare leggermente il suo banco dal mio. Un gesto simbolico, un’espressione
senza parole che mi faceva capire che per lui ero solo uno scarto, e che ai
suoi occhi dovevo apparire come l’essere più indegno del mondo.
Non mi dispiaceva comunque stargli lontano, e in classe tutti
lo guardavano in modo diverso rispetto al primo giorno in cui si era
presentato. Anche lui a modo suo stava diventando una sorta di emarginato,
all’interno dell’ambiente scolastico, e le uniche persone con cui era riuscito
a legare erano proprio Giulio, Luca e Davide, ed ormai erano diventati i suoi
unici compagni fissi durante le brevi pause.
Come ogni mattina, le lezioni iniziarono in fretta e in modo
noioso, mentre per il momento continuavo ancora a ringraziare il Cielo per il
fatto che nella nostra classe i vari professori erano stati molto clementi fino
a quel momento, e solo pochi avevano iniziato ad interrogare e ad appuntare sui
registri qualche verifica scritta.
La prof Carlucci quella mattina sarebbe tornata a parlare di
Leopardi, cosa che ormai faceva dall’inizio della scuola, affermando di non
voler lasciare nessun punto interrogativo su quel grand’uomo che si era reso
immortale grazie ai suoi scritti. Le sue poesie non mi piacevano molto, lo
ammetto, poiché le trovavo spesso troppo articolate, e magari eccessivamente
complesse, e ciò si scontrava con l’idea che avevo della poesia, ovvero che
essa dovesse essere una forma semplice di espressione. Ma non ho mai voluto
sminuire quel grandissimo poeta, che tuttavia non mi dispiaceva studiare.
Con la coda dell’occhio notai che Federico aveva cominciato
fin dall’inizio delle lezioni a giocare col suo cellulare, e mi chiesi se in
quelle tre settimane di frequentazione avesse mai sfiorato una penna con un
dito. Si era fatto coraggioso, e spesso, come in quel momento, paciugava col
suo attrezzo elettronico ben posizionato sul tavolo, protetto dalla vista della
prof dalla borsa a tracolla scura, sempre adagiata sul banco e tirata
leggermente su come se fosse una barriera protettiva.
Non gli prestai ulteriore attenzione, e mi sopii, lasciando
trascinare i miei pensieri lontano, lungo il tortuoso percorso poetico di
Leopardi.
Immerso nelle spiegazioni della prof, e cercando di stare
attento e di assimilare più informazioni possibili, per poi dover studiare di
meno una volta giunto a casa, sobbalzai quando scoppiò un putiferio
inaspettato, ma che non mi dispiacque per nulla.
‘’Professoressa Carlucci, un suo studente non fa altro che
giocare al cellulare’’, disse improvvisamente una voce, frantumando il silenzio
che regnava nell’aula, interrotto solo dal roco tono monocorde dell’insegnante.
Il tempo parve fermarsi, e mi voltai indietro di scatto,
seguendo il suono di quella voce che aveva interrotto le spiegazioni, notando
che apparteneva a una delle due insegnanti di sostegno che, di tanto in tanto,
seguivano una mia compagna, Clara. Entrambe entravano poco in classe, visto che
Clara aveva seri problemi a concentrarsi e a seguire lo svolgimento delle
lezioni, e quindi seguiva parzialmente un programma più semplificato, restando
in classe con noi solo alcune ore al giorno.
Nessuno aveva notato che l’insegnante di sostegno era entrata
in classe assieme alla nostra compagna, poiché erano state molto silenziose ed
avevano utilizzato la porta secondaria situata nell’ampio retro dello stanzone,
di cui potevano usufruire in modo da poter entrare e uscire senza dover
interrompere le lezioni con il loro passaggio, visto che la porta principale
dell’aula era situata proprio alla sinistra dell’insegnante e di fronte agli
alunni.
Ebbene, l’insegnante di sostegno, una donnina minuta e
dall’aspetto gentile ma deciso, stava proprio segnalando Federico alla
professoressa.
Vidi il mio nemico che, a pochi centimetri da me, era stato
colto di sorpresa, e con rapidità si era lasciato sfilare il cellulare tra le
mani, per poi spegnerne lo schermo e cercare di infilarlo all’interno della
tracolla, ma ovviamente a quel punto non poteva più fare altro senza essere
visto, poiché tutti quanti lo stavamo fissando.
La professoressa Carlucci, che era sempre stata più cortese
ed accomodante nei confronti del nuovo arrivato, forse nel vano tentativo di
farlo sentire più a suo agio in quell’ambiente nuovo, quella volta lo osservava
con un’espressione attonita e colma di rancore talmente tanto sorprendente che
ancora oggi la ricordo come se l’avessi avuta di nuovo di fronte a me.
Con lentezza, si mosse verso Federico, che se n’era rimasto
totalmente spiazzato ed inerme, senza neppure più cercare di insabbiare i
fatti, e allungò una mano, afferrando il cellulare. Osservò per un attimo il
magnifico Samsung, mentre tutti i presenti se ne stavano in silenzio a gustarsi
la scena, prima di parlare.
‘’Questo è sequestrato. Eravamo stati chiari sul fatto che in
ambiente scolastico è severamente vietato utilizzare il cellulare, per
qualsiasi futile motivo. Ora annoto l’evento nel registro, e per riavere il
telefono dovrai far venire a scuola un tuo genitore, in modo che possa prendere
atto del tuo atteggiamento scorretto e che possa parlare con me, la
coordinatrice di classe’’.
Sentenza severa ed apparentemente inappellabile.
‘’Non è la prima volta che lo vedo mentre gioca col telefono.
Anzi, l’ho visto quasi tutte le volte che sono venuta in classe’’, aggiunse
l’insegnante che aveva segnalato il misfatto, quasi infierendo.
Federico si voltò indietro e la incenerì con un’occhiataccia,
prima di tornare a fissare la prof Carlucci, ormai davvero molto irritata.
Sapevamo tutti che era sempre parecchio severa, e che non si faceva problemi a
rispettare il regolamento scolastico e a distribuire sanzioni appropriate ma
pesanti. Tuttavia, si trattava di sanzioni giuste.
‘’Prof, sono maggiorenne. Me lo riprendo il telefono, mi
metta pure una nota. E lei si faccia gli affari suoi, non è una mia
professoressa!’’, concluse il furioso Federico, addentando l’insegnante di
sostegno.
‘’Tu non puoi nulla. E non azzardarti a rispondere in questo
modo agli insegnanti di questo istituto, o ti mando direttamente nell’ufficio
della preside. Per quanto riguarda il resto, fai venire qui a scuola i tuoi
genitori, perché ho come l’impressione che tu non ti stia comportando in modo
corretto, in alcuni casi, e vorrei poter parlare a quattr’occhi con loro. Anzi,
li vado a chiamare subito dalla segreteria’’, disse la professoressa, implacabile
e senza lasciar parlare il colpevole, facendo cenno all’insegnante di sostegno
di non rispondere in alcun modo alle provocazioni. Si doveva essere sentita
presa in giro dal nuovo arrivato, e non l’avevo mai vista così tanto arrabbiata.
‘’No…’’, si lasciò sfuggire il mio nemico, con un ultimo
rantolo colmo di disperazione.
La prof uscì nel corridoio, affidandoci per un attimo alla
sorveglianza dell’insegnante di sostegno, ed andò a contattare Roberto e Livia.
Non mi sembrava vero; guardavo estasiato il mio nemico, per
poi riabbassare gli occhi sui miei libri, per non farmi sfuggire un sorriso. Mi
dispiaceva tantissimo per Roberto, ma ritenevo che quella fosse la giusta
punizione per Federico, che dal canto suo rivolgeva occhiate furenti
all’insegnante che l’aveva denunciato alla prof.
Per la prima volta dopo alcune settimane, per un po’ mi
sentii meglio, crogiolandomi nell’ansia e nell’agitazione del figlio degli
inquilini di mia madre, che tante volte si era mostrato perfido ed implacabile
con me, e in quel momento gli stava venendo reso una minuscola parte del conto
da pagare.
Mi sentivo perfido come non mai, ma quella volta non mi
importava davvero. Avevo solo una gran voglia di sorridere.
NOTA DELL’AUTORE
Continuo a ringraziare chiunque stia seguendo e sostenendo il
racconto. Davvero, grazie di cuore per la fiducia che riponete in me e nei miei
scritti.
Ancora grazie, e buona giornata! A lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo 12
CAPITOLO 12
Le ripercussioni di ciò che era accaduto a Federico non tardarono
a farsi sentire, in casa mia.
Roberto e Livia erano stati per davvero convocati dalla
professoressa Carlucci, la quale, in qualità di coordinatrice di classe, aveva
poi restituito il cellulare del figlio. Naturalmente, doveva aver detto loro
qualcos’altro, che però non era giunto alle mie orecchie. E così, quel
pomeriggio stesso, dopo aver prelevato da scuola il loro figlio, i due coniugi
Arriga erano tornati a casa col vago intento di intavolare un leggero dibattito
col ragazzo, che però era degenerato in un litigio tra loro due.
Federico, ribelle come sempre, li aveva piantati in asso fin
da subito, e l’avevo potuto vedere sgusciare fuori di casa proprio mentre stavo
per concludere il mio pranzo. Era ovvio che lui non aveva proprio nulla da dire
ai genitori, che dal canto loro avevano cominciato a litigare.
Essendo rimasto l’unico presente in casa a parte loro in quel
pomeriggio colmo di tensione, ne avevo approfittato per rinchiudermi nella mia
stanza e lasciare il giusto spazio ai due adulti, che parevano voler litigare
di brutto. Era la prima volta che in casa mia si teneva una discussione così,
da quando mio padre se n’era andato.
Ricordavo vagamente, rimestando nei miei ricordi d’infanzia,
che i miei genitori quando litigavano lo facevano in modo molto chiassoso. Ed
io, povero bambino, andavo a rifugiarmi tra le braccia dei miei amati nonni,
ben lungi dal voler prendere parte a quei litigi. Alla fine era sempre il nonno
a mettere fine alle dispute, semplicemente andando ad intimare il silenzio.
Ciò funzionò per un ristretto periodo, poi mio padre ci
piantò in asso.
Viceversa, i coniugi Arriga litigavano a bassa voce; la loro
era una lotta che s’incespicava persino fin dentro al sentiero più difficile
del litigio, ovvero quello di cercare di trovare un modo per tenere a freno il
tono della voce. Ci riuscivano, ma i ringhi sommessi li potevo udire dalla mia
stanza.
Quando i due cominciarono a discutere e a bisticciare nella
loro stanza da letto, potei udire qualche frase frammentaria, che comunque mi
permise di farmi un quadro preciso su ciò su cui stavano dibattendo in quel
momento; Roberto voleva che Federico fosse meno libero di agire, e che gli
fossero consegnati meno soldi tra le mani, mentre Livia pareva intestardirsi
eccessivamente sul fatto che il suo amato figlio doveva aver commesso un
errore, e che ciò non sarebbe accaduto più.
Secondo lei, sarebbe bastato solo continuare ad assecondarlo,
in modo da non farlo inasprire ulteriormente, visto che dargli una lieve
punizione avrebbe solo rischiato di far aggravare i suoi comportamenti egoisti
e piuttosto veementi che ormai parevano essere riapparsi per dominarlo.
Udendo quei discorsi, mi venne da chiedermi chi fosse in
realtà Federico, e quale fosse stato il suo passato. Mi chiesi anche come si
fosse comportato nella scuola che aveva precedentemente frequentato, ma
naturalmente non seppi darmi risposta.
Non volli ascoltare e curiosare ulteriormente nella privacy
della famiglia Arriga, quindi li lasciai soli al piano superiore e mi fiondai a
suonare un po’ il mio pianoforte, in modo da coprire con la musica quel lieve e
rabbioso brusio che continuava a giungere alle mie orecchie ovunque mi
trovassi.
Ci riuscii, per un po’, e non suonai neppure tanto bene,
poiché la mia mente era concentrata solo su ciò che stava accadendo in casa
mia, e percepivo tutta la tensione di quegli eventi, anche se non mi
riguardavano in prima persona. Mi mettevano in ansia, poiché mi sembrava di
rivivere una pagina della mia vita che credevo già superata.
Quando smisi di suonare, dopo non molto tempo, mi recai in
cucina per bere un sorso d’acqua, e lì trovai Roberto che mi dava le spalle,
mentre fumava nervosamente e stava appoggiato al davanzale della finestra
aperta. In strada, la signora Arriga stava salendo sulla sua Panda giallina, e
Federico era già seduto nel sedile del passeggero, a fianco della madre che si
accingeva a mettersi la cintura e ad accendere il mezzo.
Non mi servì udire il rumore del motore dell’auto che si
accendeva, per poi allontanarsi rapidamente; mi era chiaro che la signora aveva
riacciuffato il figlio, ed assieme se n’erano andati.
Guardai amaramente Roberto, che non aveva dato cenni di vita,
se non per portarsi la sigaretta alle labbra, e per un istante fui in procinto
di dire qualcosa. Ma, ovviamente, mi morsi la lingua e lo lasciai lì, solo. Lui
avrebbe trovato una parola per me, se la situazione fosse stata invertita, ne
ero certo, ma proprio io non me la sentivo di fare nulla.
Mi diressi di nuovo nella mia cameretta, e, davvero
dispiaciuto, feci ciò che avrei dovuto fare già il giorno prima, ovvero mandare
un messaggino a Jasmine. Ciò non quietò il mio cuore colmo di dolore e
d’inquietudine, però.
Mi ritrovai ancora sveglio a notte fonda, mentre fuori il
vento tempestava la tapparella della mia stanza, abbassata ma brutalmente
percossa. Non potevo smettere di pensare.
Avevo appena salutato Jasmine, augurandole la buona notte per
messaggio. La ragazza si era dimostrata felice del fatto che io l’avessi contattata,
ed avevamo chiacchierato tramite sms per tutto il pomeriggio e la serata, ed io
ero entusiasta di ciò.
Nonostante tutto, non l’avrei rivista per più di una
settimana; aveva le placche in gola, e la febbre le era salita ulteriormente
nelle ultime ore. Però, ci saremmo sentiti per telefono, così come ci eravamo
promessi, e questo mi bastava a farmi sentire più sollevato.
La situazione in casa era ancora angosciante, visto che Livia
non era tornata, e neppure Federico. Roberto aveva cenato con me e mia madre,
solo e ammutolito, per poi svignarsela in fretta in camera sua. Mia madre non
aveva fatto domande, come suo solito, e, stanca morta, era andata a dormire
pure lei. Ed io, in compagnia virtuale della mia Jasmine, ne avevo approfittato
per studiare un po’.
In quel momento erano le ventitré e trenta, Jasmine mi aveva
salutato ed avevo finito di studiare, ma io non avevo sonno per nulla. L’unica
mia consolazione era che l’indomani non ci sarebbe stata la scuola, visto che
era sabato notte.
Ero angosciato e disperato, e mi dispiaceva infinitamente per
Roberto, ma d’altronde non potevo proprio fare nulla per lui.
Decisi di spezzare il mio turbamento notturno andando a fare
un giretto in bagno, al piano inferiore, in modo da fare quattro passi e
cambiare aria per un paio di minuti, sperando che fosse la soluzione giusta a
quella mia sorta d’insonnia.
Mi diressi quindi prontamente al piano inferiore, scendendo
le scale nel modo più silenzioso possibile, per poi raggiungere la toilette. In
realtà, non avevo particolari bisogni, e mi ero già accontentato della mia
escursione notturna ed ero nuovamente pronto per ritornare nella mia stanza, ma
notai che la porta della saletta del mio rifugio era aperta e illuminata da una
luce soffusa che si propagava per una parte del corridoio centrale.
Non capii subito, e temendo qualche brutta sorpresa mi
diressi subito verso la mia stanza preferita, che conteneva il mio adorato
pianoforte.
‘’Antonio? Sei tu?’’, la voce di Roberto mi giunse senza che
io avessi ancora avuto il tempo di affacciarmi sulla porta.
Mi rilassai lievemente, sapendo che c’era lui all’interno
della stanza, e feci il mio ingresso, incurante del fatto che stessi indossando
un pigiama ridicolo.
L’uomo aspettava il mio ingresso, e non appena entrai i suoi
occhi erano già puntati su di me.
‘’Sì, sono io, come puoi vedere’’, gli risposi, guardandomi
attorno.
Mi ritrovai immerso in un’atmosfera surreale, e non potei non
restare stupito da ciò che avevo davanti ai miei occhi; l’abatjour era accesa,
e la sua luce fioca illuminava la stanza ricreando quei magnifici tratti
d’ombra che tanto adoravo, mentre la superficie del mio pianoforte mandava
tenui bagliori, a seconda di come mi muovevo all’interno della camera.
Ma a sorprendermi di più fu il fatto che, quando mi trovai di
fronte a Roberto, vidi che stava fumando. Non una delle sue classiche sigarette
del tabaccaio, bensì una pipa. Un’autentica pipa.
Soffocai per un attimo il moto di ribrezzo che stava per
spingermi ad urlare addosso al mio inquilino per come si stava comportando
nella mia saletta, visto che stava fumando al suo interno ed io odiavo l’olezzo
del fumo, senza contare che era entrato senza avvertirmi e senza avere il
permesso.
Decisi di non concentrarmi sull’atteggiamento scorretto
dell’uomo, quindi, per lasciare fluire la mia sorpresa.
‘’Mi dispiace se mi sono rintanato qui dentro, a fumare. Ti
chiedo umilmente scusa, ma davvero, avevo bisogno di farlo e, come ben sai, non
potevo uscire in giardino o riempire di fumo mezza casa o la cucina’’, mi disse
Roberto, come se avesse inteso il mio disappunto.
Me ne restai imbambolato a fissarlo. I suoi occhi erano
socchiusi, il suo viso rotondeggiante appariva stanco e distrutto, le sue mani
si tormentavano a vicenda, per poi sfiorare periodicamente la pipa,
quell’oggetto che era la prima volta che vedevo in casa mia.
In quel momento lo vidi in tutta la sua debolezza, che
trasudava da ogni suo poro. Un ometto così piccolo, più basso rispetto alla
media, e così tormentato non poté non smuovere dentro di me un moto di
compassione, e per un istante desiderai di dirgli qualcosa di rassicurante, oppure
sfiorargli leggermente una spalla, facendogli capire col mio tocco che
percepivo il suo dolore. Ma ero e sono tuttora un ragazzo molto freddo, che
difficilmente riesce ad esternare ciò che prova, anche per via della mia innata
timidezza, quindi non feci nulla, mio malgrado.
‘’Lo so che sono stato maleducato, ma ti prego di capirmi. Ti
va di sederti qui con me e di fare quattro chiacchiere? Tanto noto che
gironzoli per casa in preda all’insonnia’’, mi disse poi, notando il mio
silenzio ed indicandomi la sedia a fianco della poltroncina.
‘’Va bene. Certo, non riesco proprio a prendere sonno questa
sera…’’, mormorai, per nulla dispiaciuto dall’invito ricevuto. Però, prima di
sedermi, andai ad aprire la finestra, lasciando che l’impetuoso e fresco vento
autunnale entrasse a ripulire un po’ l’aria carica di fumo della stanza.
‘’Il vento ci porterà via pure noi, se lascerai la finestra
aperta’’, mi disse ironicamente Roberto, guardando la finestra che avevo appena
spalancato.
Scrollai le spalle, ma effettivamente l’uomo non aveva tutti
i torti, poiché le furiose raffiche a volte entravano all’interno della stanza
e parevano volerla strapazzare fin nel suo angolo più nascosto, ma in fondo non
aveva importanza per me, visto che gli spartiti e tutto ciò che poteva prendere
il volo e cadere a terra erano già tutti dentro al piccolo mobile a fianco del
pianoforte, ben chiusi e al sicuro.
‘’Mi dispiace per ciò che è accaduto oggi’’, gli dissi, senza
preamboli. Mi sembrava il momento giusto per esternare il mio dispiacere, senza
se e senza ma, evitando ogni tentennamento.
Incredibilmente, Roberto posò la sua pipa sul tavolino che
aveva di fronte e mi sorrise.
‘’Oh, non devi preoccuparti. Torneranno prima di quanto tu
possa credere’’.
Dal sorriso che mi mostrava, e dall’espressione delusa che
aveva ben impressa sul volto, capii che quella non doveva essere stata la prima
volta che un fatto così accadeva in casa Arriga.
Chinai il capo, poiché non avevo altro da aggiungere, visto
che il mio interlocutore pareva proprio non aver tanta voglia di proseguire quel
discorso, e a me non sembrava giusto cercare di andare più a fondo. Avevo
svolto la mia parte da persona educata, dichiarando il mio dispiacere, e se lui
avesse voluto continuare a parlarne l’avrebbe fatto da sé. Non era una vicenda
che mi riguardava, e ci tenevo comunque a farmi i fatti miei.
‘’Ti piace davvero tanto la mia pipa, eh?’’, mi chiese
Roberto, rompendo quel breve silenzio che era sceso tra noi.
Mi resi conto che, senza volerlo, avendo abbassato lo sguardo
esso poi si era posato sulla pipa appoggiata sul tavolino, ormai senza più
vita. Il tabacco al suo interno non bruciava più, e il mio interlocutore doveva
aver smesso appositamente di fumarla, scorgendo il disappunto che provavo per
il fumo.
‘’Sì, non ne avevo mai viste di così belle, fino ad ora’’,
gli risposi, riscuotendomi e notando che Roberto stava abilmente sviando la
discussione verso altri lidi, rispetto a quello più delicato appena sfiorato
poco prima.
La pipa mi sembrava più grande del normale; non che io fossi
un esperto di quegli oggetti, ma la sua dimensione mi colpiva. Inoltre era
anche tutta elaborata, pareva quasi intarsiata da piccole figure geometriche
che, nella penombra, non riuscivo a scorgere bene.
‘’In realtà, non avevo mai visto nessuno neppure ad
utilizzarla’’, aggiunsi, un istante dopo.
Roberto si lasciò sfuggire un sospiro.
‘’Questa è un’eredità che mi ha lasciato mio padre. La
utilizzava lui, per fumare logicamente, preferendola anche ai sigari’’, disse
poi, raccogliendo tra le mani il suo oggetto ed avvicinandoselo al viso, quasi
come se stesse per sottoporlo ad un qualche esame visivo. Strinse ulteriormente
gli occhi.
‘’Capisco’’, mi limitai a dire, non sapendo bene che altro
aggiungere.
Un piccolo sbadiglio interruppe i miei pensieri.
‘’Non era un bravo genitore, sai. No, mi spiego meglio,
altrimenti sembra che io fossi entrato in contrasto con lui; diciamo che era
bravo, diligente e perspicace, ma non molto buono e paziente con me, suo unico
figlio. Però mi ha lasciato tanti ricordi… non tutti spiacevoli’’, aggiunse
nuovamente Roberto, senza alzare lo sguardo dalla sua pipa, che continuava a
rigirare tra le mani. Sembrava che non prestasse neppure più caso alla mia
presenza, ma che stesse parlando solo perché aveva bisogno di farlo, forse
anche per sfogarsi.
‘’Io sono anni che non sento mio padre. E ammetto che non mi
manca molto e neppure mi dispiace di ciò’’, dissi, lasciandomi andare pure io.
‘’Non avete un buon rapporto?’’, mi chiese il mio
interlocutore, ancora con gli occhi fissi sulla pipa.
‘’No, credo di non piacergli per nulla. Non mi ha degnato mai
di un’attenzione neppure quando ero piccolo’’.
Roberto sospirò di fronte alle mie parole, e parve tornare in
sé per un momento, riappoggiando la pipa sul tavolino e sistemandosi meglio gli
occhiali sul naso, prima di tornare a guardarmi.
‘’Mio padre era molto rigido, ed aveva un’idea ben precisa su
come educare al meglio un figlio. Diceva che un paio di rami a volte valevano
più di una carezza, e questo era la base del suo metodo educativo.
‘’La sua stagione preferita era l’autunno, poiché era proprio
durante essa che poteva mettere in pratica al meglio il suo punto fisso,
approfittandone per creare uno strumento che lui stesso chiamava treccina. In
pratica, andava tra i filari della nostra vigna a potare le viti, e ogni sera al
suo ritorno a casa si portava sempre con sé una treccina nuova e fresca, molto
flessibile, poiché creata dall’abile intreccio manuale di tre rami di vite
recisi durante l’operazione della potatura.
‘’Ebbene, stringendo una lunga treccina tra le mani, voleva
vedere i miei risultati scolastici di quella giornata; se gli mostravo note,
votacci o altro di negativo, la treccina poi si tramutava in un doloroso
frustino. Giuro che quei rami lasciavano dei segni sulla pelle in grado di far
male per ore… ma dopotutto si trattava solo di colpi molto superficiali, e la
mattina successiva non si notava più nulla sulla mia pelle. Come se non fossi
mai stato colpito…’’.
Roberto aveva continuato a parlare rivolgendosi a me, ma
guardando verso la finestra aperta. Fuori, quel vento stranamente tiepido per
la stagione pareva percuotere la casa proprio come la treccina di cui mi aveva
appena parlato il mio interlocutore, ed io lo fissavo sbalordito, senza dire
nulla.
‘’Tuttavia, l’aspetto simpatico della vicenda era che la
treccina si assomigliava davvero alla treccia di una ragazza, se vista da vicino.
Mio padre era un’artista quando si trattava d’intrecciare sfalci di viti. Inoltre, anche se il metodo era molto
doloroso per me, oserei dire che funzionava; infatti ci misi davvero poco a
diventare uno studente modello.
‘’Non gli diedi molte insoddisfazioni, e neppure problemi,
anche se fino al giorno della sua morte mi ha sempre rinfacciato il fatto che
avesse investito molti soldi sul mio studio, ed io invece di trovare uno spazio
per me non sono mai riuscito a percorrere una strada soddisfacente e
redditizia. Penso che avesse ragione anche lì.
‘’Oh, era davvero un vecchio orso, rigido come buona parte
dei genitori di quel tempo, ma a volte aveva ragione. Voi della vostra
generazione siete più fortunati; i genitori vi accontentano in tutto e per tutto,
e in un modo o nell’altro siete tutelati… io e molti miei coetanei ci siamo
beccati solo cinghiate, a volte. Una sola occhiataccia paterna ci faceva
zittire, e non c’era tanto margine di discussione…’’, continuò a dire l’uomo,
con lo sguardo vacuo e fisso altrove, lontano da me.
Ebbi come l’impressione che Roberto, con quelle ultime parole
sofferte e pronunciate lentamente, non senza omettere piccole pause, volesse
riferirsi alla prepotenza e all’insoddisfazione continua del figlio. Federico
infatti non faceva altro che chiedere denaro e far ciò che più gli pareva,
senza volerne render conto a nessuno e senza far nulla, neppure a scuola.
‘’E tua madre? Non diceva nulla, a riguardo dell’utilizzo
della treccina?’’, chiesi, lasciando da parte la mia solita timidezza ed
azzardando una domanda forse troppo intima.
‘’Mia mamma ci ha lasciati molto prima del tempo, purtroppo.
È morta quando avevo solo cinque anni, la sua vita è stata stroncata
prematuramente da un tumore non diagnosticato in tempo, come accadeva spesso
mezzo secolo fa. Non c’era molta prevenzione, e neppure molte cure disponibili…’’.
Roberto tornò a fermarsi. Guardandolo, notai che aveva gli
occhi lucidi. Non mi aspettavo che riprendesse a parlare, tanto che per uscire
da quel momento troppo intimo e doloroso mi alzai e mi diressi a chiudere la
finestra, ancora aperta, visto che non c’era rimasta più alcuna traccia
dell’odore del fumo all’interno della stanza.
‘’A volte mi sono chiesto come sarebbe stata la mia infanzia
se lei fosse stata al mio fianco ed avesse avuto modo di crescermi. Ma la
risposta che mi do è sempre la stessa; le cose sarebbero state esattamente come
sono andate.
‘’Nell’unico barlume di ricordo che ho rimasto di lei, mi
sembra sempre di scorgere una donna in preghiera. Non credo che quel mio
lontanissimo ricordo infantile sia stato manipolato dal passare del tempo,
poiché guardando alcune vecchie foto in bianco e nero che mi sono rimaste di
lei, ho notato che essa stringe sempre un rosario tra le mani, con lo sguardo
rivolto leggermente verso terra, come se fosse immersa nella preghiera anche
durante il momento dello scatto. Pure mio padre mi diceva sempre che mia madre
pregava tanto, ma davvero tanto, e quando era in vena diceva che l’avrebbero
dovuta far santa.
‘’I miei genitori venivano dal sud della penisola, ed erano
molto credenti, mia madre fin quasi alla follia, oltre ad essere una donna
totalmente devota e obbediente al volere del marito. Penso che, quindi, alla
fine si sarebbe limitata a pregare, che so, magari per la mia anima e per il
mio bene, ma non avrebbe detto una parola per fermare la mano che dava la forza
alla treccina per abbattersi sui miei polpacci, o sul mio fondoschiena’’,
concluse Roberto, con la voce leggermente incrinata dall’emozione.
Io nel frattempo avevo richiuso la finestra, ed ero tornato a
sedermi, pendendo dalle sue labbra ed apprezzando il suo racconto, che aveva il
gusto di quei discorsi che vengono effettuati a mezzanotte, di quelle caterve
di frasi che, poi, alla luce del giorno non sarebbero mai potute venire fuori
in modo così fluido.
Sapevo che il mio interlocutore in realtà in quel momento non
era molto interessato a me come ascoltatore, ma più che altro voleva tirar
fuori alcuni ricordi brucianti della sua infanzia a mo’ di sfogo per tutte le
ingiustizie che aveva sopportato in giovane età, e per quelle che stava subendo
anche in quei giorni nelle vesti di padre, e non più di figlio. Nonostante
tutto, fin lì potevo capirlo.
‘’E tu? Sei molto credente?’’, gli chiesi, dolcemente.
Non so perché mi venne da porgli quella domanda, ma mi
appariva consona al momento. La mia mente era avvolta dalle nebbie sinergiche
di quella stramba notte, ed ormai ero rimasto intrappolato lì, in quella stanza
ed in compagnia di quell’uomo che solo un mese prima non sapevo neppure che
esistesse, ascoltando la sua storia e i suoi vari pensieri.
Roberto, tuttavia, udendo la mia domanda dapprima parve
sorpreso, poi rise, sempre più forte, prima di stopparsi e di tornare
improvvisamente serio. In quell’ambiente così soffusamente illuminato e pieno
di ombre, i miei occhi annebbiati facevano fatica a cogliere tutto e
l’atmosfera da piacevole si stava tramutando in una vaga e generale sensazione
d’inquietante.
‘’Mi piacerebbe esserlo, mi piacerebbe davvero tanto. Ma sono
in linea coi tempi, non sono un essere anacronista’’, mi rispose, sempre
continuando a restare serio.
Ammetto che non capii quello che voleva dirmi, e anche se non
aggiunsi nulla a parole, gli rivolsi uno di quegli sguardi perplessi tipici di
chi non ha compreso bene qualcosa, ma che comunque non vuole approfondire il
discorso. Tuttavia, Roberto colse il mio sguardo sperduto e lo rese uno stimolo
per proseguire ciò che aveva appena accennato.
‘’Per i pagani, più di duemila anni fa, credere negli dei era
importante, ma in fondo se ci pensi bene i romani avevano tantissime divinità,
concepite allo stesso modo degli umani. Divinità permalose, sempre in lotta tra
loro, gelose… e ciascuna famiglia, ciascun ceto sociale e ciascuna singola
professione aveva la propria divinità protettrice, alla quale si rivolgevano la
maggior parte dei sacrifici e delle attenzioni.
‘’Il mondo pagano era variegato da migliaia di piccole
sfumature, e quello romano derivava dalla fusione di varie culture e religioni
del Mediterraneo, anche se prevalentemente basato sul pantheon greco. Infatti,
mentre l’impero espandeva i suoi confini, esso assimilava culture e trovava
nuove divinità, basti pensare al dio Mitra, una divinità orientale che in breve
tempo riuscì a trovare migliaia di adepti tra i soldati romani, sempre in cerca
di nuove forze protettrici. Oppure al culto di Iside.
‘’Il paganesimo e i suoi vari culti precedenti al
cristianesimo includevano quindi religioni che si rivelavano utili alla vita di
tutti i giorni, religioni aperte e in grado di assimilare altri dei e di essere
quasi sovrapponibili l’un l’altra; scovare nuove divinità sconosciute al
proprio popolo non era blasfemia, ma era concepito con un aspetto colmo di
curiosità, di voglia di conoscere, e ciò era in linea coi tempi.
‘’Così parzialmente accadde col cristianesimo; dopo la morte
di Cristo, il messaggio religioso ed evangelico solcò il Mediterraneo e si
sparse in fretta in tutti gli angoli dell’impero. Stranamente, i romani
iniziarono una dura repressione contro questo nuovo culto, proveniente dalla
Giudea, poiché esso era adorato soprattutto dagli schiavi e dai plebei, dai più
poveri in generale, passando un messaggio di pace e di uguaglianza che non
faceva affatto comodo ai più ricchi e ai patrizi.
‘’Ben presto, il cristianesimo divenne l’unica religione
riconosciuta dell’impero, e gli stessi imperatori furono battezzati e divennero
adoratori della Croce, riconoscendo che il messaggio di questa religione era il
più consono con i tempi, che stavano rapidamente cambiando. Infatti, i barbari
stavano cominciando a varcare i Limes, il Reno e il Danubio non erano più frontiere
stabili, e gli antichi numi parevano essersi eclissati, lasciando quindi soli i
romani a combattere contro esseri umani sconosciuti, provenienti da steppe
lontane e violenti fino all’inverosimile. E allora il nascente clero cominciò a
prendere potere, l’impero romano d’Occidente cadde e la Chiesa divenne l’unica
protettrice di una parte di mondo che stava venendo travolta.
‘’I primi papi pagarono per sviare le aggressioni dei barbari
pagani, per poi mandare componenti del fresco clero tra di loro, cercando di
convertirli, cosa che col tempo riuscì parzialmente bene. I malanni del corpo,
in primis le pestilenze e altri morbi, uccidevano a frotte le persone, e
allora, di fronte a malanni incurabili e ad una povertà insostenibile, la gente
pregava Dio, e ciò quindi era in linea coi tempi. Di fronte poi alla miseria
del Medioevo, ai soprusi dei feudatari, alla violenza del barbari e alla
dolorosa morte giovanile causata dalla peste, l’essere umano Occidentale non
poteva far altro che pregare, che credere nel Signore Onnipotente’’.
Senza smettere di guardarmi, Roberto aveva concesso una pausa
al suo lunghissimo discorso. Non sapevo bene dove volesse andare a parare, ma
non potevo non ascoltarlo senza rivolgergli tutta la mia attenzione; mi pareva
ovvio che in quel momento si era rimesso addosso gli abiti del filosofo, nonché
dell’insegnante, e con parole semplici stesse cercando di farmi capire qualcosa
di molto complesso, derivante da millenni di sviluppo del sapere umano.
‘’Del resto, poi, sappiamo tutti com’è andata; il male
fisico, il bisogno di protezione, l’abbandono e la paura spingevano le persone
tra le braccia della Chiesa e di Dio. Fin dal Medioevo chi faceva parte della
Chiesa aveva numerosi vantaggi; il cibo non scarseggiava, e si era
relativamente potenti e protetti, senza contare che i primi vescovi convivevano
tranquillamente con donne, dalle quali avevano figli. Poi, il vizietto si
estese anche fin dentro al Vaticano, in seguito, ma questo non importa, poiché
non voglio deviare il discorso dal mio obiettivo principale, ovvero quello di
farti capire che il credente ha creduto fintanto che non ha avuto altre valide alternative.
‘’Dalla fine del Medioevo fino a metà del Novecento, la
povertà e le guerre tremende hanno terrorizzato buona parte del mondo, e pensa
che effetto che avevano sui poveri soldati, che durante le guerre mondiali
partivano per il fronte senza sapere se sarebbero mai tornati a casa! Pensa a
quest’ultimo esempio; un pover’uomo, semplice contadino quasi analfabeta, che
non aveva neppure finito le scuole elementari, veniva mandato a combattere
praticamente disarmato contro granate e un vasto assortimento di artiglieria
pesante, senza molte prospettive di ritorno e tra mille e più atrocità. E
allora, che altro poteva fare per sperare nella salvezza della sua vita e in un
possibile ritorno a casa, se non pregare Dio?’’.
Altra piccola pausa.
Annuii, facendogli
intendere che seguivo il suo discorso.
‘’Al giorno d’oggi, per fortuna, nella nostra Italia non ci
sono più guerre. In compenso ci sono medici, scienziati, studiosi di ogni
sorta… anche se c’è la crisi economica, nessuno pensa più che per risolvere i
problemi monetari o per guarire da una qualche malattia serva mettersi tra le
mani di Dio. Nessuno prega più Dio perché esso è stato accantonato, e nel mio
piccolo ho fatto altrettanto.
‘’Dio ha perso il suo significato, cioè quello di essere
protettore, assieme ai suoi adepti umani. Chi sceglierebbe di non farsi curare
e visitare da un medico, per mettersi tra le mani di Dio, magari pregando?
Sarebbe una scelta folle. E d’altronde, quando questo semplice concetto di
protezione vien meno, una religione vacilla. E una religione non c’è più,
qui’’, concluse, alzando l’indice verso il cielo.
Scossi la testa. Non mi trovavo d’accordo, o, perlomeno, mi
trovavo d’accordo ma solo parzialmente.
Roberto doveva essere nervoso, e doveva aver parlato troppo e
in modo vistosamente confuso, non rispettando i limiti di un discorso civile.
Non seppi perché, ma mi ritrovai ad essere irritato.
‘’Tu quindi vuoi dirmi che per te Dio è come se fosse morto,
al giorno d’oggi? Mi hai fatto un excursus storico per voler affermare che il
concetto religioso è stato concepito solo per avere una sua utilità… ma io non
mi trovo d’accordo. Si può credere ugualmente anche oggigiorno, e magari ciò
non significa che si debba compiere scelte estreme e sconsiderate, magari
rifiutando l’evoluzione del pensiero scientifico, ma soltanto vivere la propria
religiosità in modo più pacato. Penso quindi che il tuo discorso abbia uno
sfondo amaro, ingiusto…’’, mi ritrovai a dire, sorpreso da me stesso.
‘’Hai ragione. Parlo così solo perché io stesso mi sento
abbandonato da Dio… abbandonato da tutti. Deluso dalla mia vita’’.
L’ammissione rapida dell’uomo mi fece capire che soffriva,
nel fondo del suo cuore, per quello che era accaduto durante la precedente
giornata. Poi, da fianco della sua poltroncina estrasse una bottiglia, che non
avevo notato fino a quel momento, e con cura si versò un po’ del suo contenuto
all’interno di un bicchiere appoggiato sul tavolino. Si trattava di un qualche
liquore giallino, non seppi capire bene di quale si trattasse, e non
m’importava neppure.
Mi ritrovai a capire in fretta che quello non era il posto
per me; Roberto mi aveva irritato col suo modo di comportarsi, effettivamente
scorretto fin dall’inizio, fin da quando aveva preso possesso della mia stanza
per fumarci liberamente al suo interno e berci alcolici, per poi cercare di
farmi una mezza ramanzina quando io gli avevo posto solo una domanda educata a
cui sarebbe bastata una breve risposta. Senza contare che, in tutto il suo
excursus storico inutile e confuso, appariva una componente aggressiva, e
comunque annichilente.
Notando che forse doveva essere anche alticcio, non mi pareva
più opportuno restare in sua compagnia. Non m’importava se soffriva, avrebbe
dovuto comportarsi in modo più corretto.
L’uomo dovette notare il mio sguardo carico di disappunto,
che vagava tra il suo viso, il bicchiere colmo di un qualche liquore e il
pacchetto di sigarette posizionato a fianco della pipa, e mi guardò con un
interesse parziale, quasi superficiale.
In un attimo, mi fece schifo. Non seppi cosa mi spinse a
detestarlo così rapidamente, penso sia stata l’ora tarda, la notte confusa e
l’atmosfera carica di energie negative che permeavano la stanza, quel mio
rifugio immacolato che era stato irrimediabilmente sporcato da tutti quei
comportamenti scorretti.
‘’Ora ho sonno, vado a dormire’’, sbottai, alzandomi
improvvisamente dalla mia sedia e dirigendomi subito verso la porta. Credo che
lui avesse voluto fermarmi, in quel momento, eppure mi lasciò andare e non mi
rispose.
Salii al piano superiore, deluso e sconfortato un po’ per
tutto, e mi rimisi sotto le mie coperte, ben barricato nella mia camera da
letto, preparandomi ad affrontare quella lunga nottata insonne. Ma, nonostante
tutto, attorno alle tre del mattino riuscii a prendere sonno e ad
addormentarmi.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo.
Mi spiace, Roberto finora era rimasto il personaggio più
‘’perfetto’’ del racconto, quasi immacolato, ed io ho voluto offrirvene anche
uno spaccato più umano, diciamo così.
Ci stiamo preparando ad addentrarci sempre più nel fulcro del
racconto e spero che la vicenda continui ad essere interessante. Non è facile
scrivere un racconto che tratti della quotidianità di una persona, me ne sto
rendendo conto sempre più.
Grazie di cuore per aver letto anche questo capitolo, e un
grazie ancora più intenso e particolare a tutti coloro che mi lasciano sempre
un loro gentilissimo e graditissimo parere. Grazie!! Siete la mia forza!
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì
prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo 13
CAPITOLO 13
La mattina successiva alla mia strana discussione con
Roberto, mi alzai che erano quasi le undici. La tempesta autunnale che aveva
flagellato la mia casa per tutta la notte pareva essersi placata, e un sole
tiepido scaldava lievemente l’aria umida e fresca di quella domenica di metà
ottobre.
Mi vestii in fretta, ma tentennai quando mi trovai di fronte
alla porta della mia stanza, poiché uscire da essa significava anche correre il
rischio di rivedere il mio inquilino. E questo mi dava un po’ fastidio; mi
frullavano ancora per la testa le sue parole, e rivedevo vividamente ciò che
faceva nella stanza del mio pianoforte, all’interno del mio rifugio dal mondo.
Ero nervoso, non potevo nasconderlo. Tuttavia decisi di non
farmi drammi mentali, cercando di non rovinarmi fin da subito quel prezioso
giorno festivo.
Scesi quindi al piano inferiore e mi diressi verso la cucina
ostentando una certa tranquillità, anche se dentro di me ero tutt’altro che
tranquillo. Comunque non incontrai nessuno, visto che molto probabilmente mia
madre doveva già essersi recata nella vicina chiesa per assistere alla Messa e
Roberto… beh, non sapevo dove fosse. Non mi restava altro da fare che sperare
che fosse andato a letto, e che lì fosse rimasto.
Non riuscii a trattenere oltre la mia curiosità e il mio
nervosismo, e, deviando la cucina, mi diressi prontamente verso la mia saletta
e il mio pianoforte. Temevo di trovare qualcosa in disordine, o almeno della
puzza di fumo, dopo tutto quello che era accaduto durante la nottata.
Con il cuore in gola, aprii la porta, e sobbalzai;
incredibilmente, già ad una prima sbirciata la stanza appariva perfettamente in
ordine, anzi, addirittura più linda del giorno precedente. La tapparella era
alzata, e la luce entrava soffusa al suo interno, mentre l’aria odorava di
pulito, e non aveva alcun olezzo strano o di tabacco.
Mi azzardai ad entrare, timidamente, mentre con lo sguardo
sfioravo ogni oggetto, addirittura soffermandomi ad osservare per un attimo il
tavolino su cui il mio inquilino aveva paciugato con la sua pipa, quello
strambo attrezzo che mi aveva donato curiosità e repulsione assieme. Pure
quello era pulitissimo.
Alla fine, passandomi una mano sul volto, fui costretto a
riconoscere che le tracce della chiacchierata e di quella sorta di avventura
notturna erano rimaste solo nella mia mente, poiché nella mia saletta regnava
un ordine impeccabile ed assoluto, come se nessuno ci avesse mai fumato al suo
interno, e come se la sua finestra non fosse mai rimasta aperta per almeno mezz’ora
mentre le raffiche di vento di una rabbiosa tempesta entravano al suo interno,
martoriandola.
‘’Mi sono soffermato a ripulire e a risistemare la stanza,
questa mattina. Spero di aver fatto un buon lavoro’’.
La voce di Roberto mi colse alla sprovvista, e
involontariamente mi voltai a fissarlo; non avrei voluto, ma fu più forte di
me.
L’uomo mi aveva raggiunto di soppiatto, piantandosi nel bel
mezzo della porta e fissandomi con uno sguardo stanco. Due leggere occhiaie
attirarono la mia attenzione, e senz’altro mi sarei aspettato di vedere anche
qualche ruga sul suo viso, ma esse dovevano essere state abilmente nascoste
dalla fitta peluria della barba, che regnava su buona parte del suo volto.
‘’Era il minimo che potevi fare…’’, mi lasciai sfuggire,
amaramente. Ma d’altronde non trovavo altro di meglio da dirgli, in quel
momento.
Roberto a quel punto mi sorprese ulteriormente, poiché con
una rapidità incredibile si mosse verso di me, afferrando il mio braccio
sinistro. Non provai paura, né timore, e in modo irritato fissai il mio sguardo
sulla sua mano, che toccava gentilmente il mio braccio, senza stringere troppo
ma facendomi sentire il suo calore. Mi pareva chiaro il suo scopo, ovvero attirare
tutta la mia attenzione.
‘’Antonio, ti devo davvero chiedere scusa. Perdonami! Questa
notte mi sono comportato in modo scorretto con te, riversandoti addosso le mie
parole stupide e vuote, insensibili ed inutili. E tu non hai colpa di nulla… in
più ho anche invaso i tuoi spazi più privati. Ti giuro che mi vergogno
tantissimo per quello che ho fatto, e ci sto malissimo’’, mi disse, mentre
sentivo il peso del suo sguardo sul mio viso. Non lo fissai, preferendo
indugiare sulla sua mano.
‘’Capisco’’, gli risposi, vago.
La sua mano era grossa e lievemente arrossata sulle nocche,
una mano da vero contadino, eredità forse ricevuta dal padre, con qualche pelo
nero come la notte che le spuntava sul dorso. Pareva incredibile, ma in quel
momento preferii sostare sul suo arto, invece di affrontare il suo viso.
Allora, notando il mio indugio, lui lasciò che la sua mano
scivolasse lontano da me, di nuovo sui suoi fianchi, e non mi rimase altro che
puntare i miei occhi sul mio pianoforte.
‘’Ti prego! Così non mi rassicuri’’, tornò a dirmi, a bassa
voce.
‘’Non capisco cosa vuoi da me’’, gli dissi, freddo e
distante. Non seppi mai del perché del fatto che la mia mente in quell’istante
tanto delicato mi spingesse a comportarmi in un modo tanto distaccato, eppure
ciò funzionò solo a metà, poiché il mio interlocutore era tenace.
‘’Voglio solo il tuo perdono. Voglio solo che tu mi dica che
hai perdonato il mio comportamento errato, e che hai dimenticato le mie parole
scorrette’’, mi rispose, in fretta. Poi, sospirò.
‘’Senti, nella vita non va tutto sempre come vorresti. Nella
mia poi, beh, nulla è andato per il verso giusto. È andato tutto storto, e
nonostante il fatto che io cerchi sempre di mantenere un buon autocontrollo,
prima o poi anche il mio essere interiore vacilla. E tu non sai quanto io sono
debole dentro, anche se ormai ho una certa età e dovrei essere ampliamente
vaccinato per ogni situazione. Mi spiace, sono umano ed ho sbagliato, e tu sei
un ragazzo buono, meritevole, nonché l’unica persona di questo mondo che si
degna di ascoltarmi, di dedicarmi un attimo di attenzione, di suonare qualcosa
per me, di dialogare con me… e tu non sai quanto ciò valga per la mia povera
mente solitaria! Ed io ho rischiato di rovinare tutto… mi spiace. Per tutto, lo
giuro. Mi dispiace’’.
Lo guardai, a quel punto. I suoi occhi erano socchiusi,
lucidi. Era davvero dispiaciuto, e appariva come mortalmente addolorato.
In quel momento, il muro d’irritata freddezza che la mia
mente aveva messo abilmente in piedi vacillò definitivamente, vedendo
quell’uomo ormai maturo che si scusava così tanto con me, in modo sincero e
sentito. Riconobbi il suo coraggio, e ripudiai mentalmente le parole che aveva
pronunciato poco prima su di sé; per me lui era un leone, un vero forte. La
parola scusa e la capacità di riconoscere i propri errori erano i segreti dei
veri re, quelli dei giusti. E lui ormai era diventato di certo una sorta di pacifico
re, ai miei occhi.
Non mi trattenni oltre e l’abbracciai, proprio come avrei
voluto fare tante volte con mio padre, con impeto e calore.
‘’Giuro che sei perdonato’’, gli dissi, dandogli poi una
lieve pacca sulle spalle.
Roberto, rimasto scosso dal mio abbraccio e dal mio
comportamento, mi guardò di nuovo con quei suoi occhi scuri, supplichevoli ma
pieni di energia.
‘’Sei un ragazzo d’oro, Antonio. Il tuo cuore è indubbiamente
puro e nobile. Grazie per avermi permesso di conoscerti un po’ ‘’, mi disse con
gentilezza.
Io ero commosso di fronte alle sue parole e al suo
atteggiamento remissivo. Era come se mi stesse dicendo apertamente che per lui
valevo qualcosa, e anche tanto, e questo non poteva non rallegrarmi. Ma non
aggiunsi altro alle sue parole, e mi limitai ad arrossire debolmente e ad
abbassare lo sguardo, come ogni volta in cui la mia timidezza tornava a farsi
viva.
‘’Sai, ho pensato a una cosa prima, mentre aeravo e rimettevo
in ordine la stanza. Per farmi perdonare, volevo chiederti se ti andasse, una
delle prossime domeniche, di venire con me a pescare. Noto che non esci mai da
questo paesetto, e mi farebbe piacere portarti con me a fare una scampagnata…
se vuoi, eh’’, mi propose l’uomo, anche lui leggermente imbarazzato.
‘’Certo. Non sono in grado di pescare, e non mi piace neanche
come attività, se devo essere sincero, però non mi dispiacerebbe uscire un po’
da queste due mura e queste quattro strade’’, mi affrettai a dire, annuendo con
la testa. In realtà non sopportavo la pesca, per il semplice fatto che vedere
quei poveri pesciolini mentre morivano sotto ai miei occhi mi faceva davvero
sentire in colpa, ma comunque uscire un po’ non mi dispiaceva affatto.
Accettai la proposta di Roberto, riconoscendo che forse non
sarei stato in grado di rifiutare ogni altra sua idea, visto in che modo dolce
si stava comportando con me.
Giuro che in quel momento il mio vile e basso rancore che
avevo provato nei suoi confronti fino a poco prima si tramutò in qualcosa di
più digeribile, in una sorta di piacevole interesse. Se ricordavo ciò che era
accaduto durante la notte, in quell’istante mi si parava davanti una figura più
umana, una figura fragile che Roberto non aveva mai mostrato in precedenza,
rendendomi quindi conto che forse nella mia mente mi ero costruito un’immagine
distorta dell’uomo, e che forse l’avevo voluto rendere più forte del previsto.
Mi resi quindi conto di apprezzarlo per davvero, e non
nascondo neppure che avrei tanto desiderato che la proposta fattami poco prima
da lui fosse uscita dalla bocca di mio padre con altrettanta cortesia,
quand’ero più piccolo. Ma mentre il mio genitore non mi aveva mai degnato di
attenzioni, e non si era mai rivolto a me con altrettanta gentilezza, Roberto
si era comportato come avrei voluto che mio padre facesse.
Stavo svolgendo un ragionamento contorto e pericoloso, nella
mia mente; mi ritrovai ad adorare quell’uomo che mi stava davanti senza mezzi
termini, riversando un sacco di mie attenzioni sulla sua figura, accorgendomi
che in fondo mi ero affezionato a lui. Smisi di pensare in fretta, deviando il
mio sguardo fuori dalla finestra, immergendolo nel tiepido bagliore del sole
autunnale.
‘’Grazie, sarò davvero felice di farti conoscere un luogo che
non hai mai visto! Ti garantisco che andremo in un bel posto, promesso. Tante
volte ho chiesto con Federico di venire con me, ma lui ha sempre rifiutato…
ebbene, tu ti renderai conto di ciò che si è perso!’’, mi disse Roberto,
dandomi una leggerissima gomitata come per voler attirare nuovamente la mia
attenzione su di lui e ridacchiando mestamente.
Effettivamente, tornai a guardarlo; i suoi occhi brillavano
di una luce strana. Si trattava di gioia.
In quel momento compresi che non stava soffrendo
eccessivamente per la distanza dalla moglie e dal figlio, ma più che altro per
quella sorta di solitudine in cui la sua ristretta famiglia lo aveva lasciato
immerso, per anni a quanto pareva. Mi faceva pena, ma allo stesso tempo lo
apprezzavo.
Gli sorrisi caldamente.
‘’Ora vado a vestirmi per bene, è quasi mezzogiorno e non mi
sono neppure tolto questi calzoni di calda flanella… devo rimediare! Anche
perché prevedo che a breve la mia cara mogliettina farà il suo ritorno… a
dopo!’’, tornò a dirmi, sorridendomi anch’esso. Mi appariva felice per davvero,
nonostante tutto.
‘’Ma… come fai ad essere così sicuro che… insomma… beh… che
torneranno…?’’.
Il mio balbettio colse l’uomo di sorpresa. Dopo un attimo di
pensieroso sbigottimento, mi fissò con serietà.
‘’Tu non sai quante volte si sono comportati così.
Praticamente, fuggono ogni volta che hanno una discussione con me. Pensano di
farmi sentire in colpa, forse… ma vedrai, entro questa sera torneranno, come se
nulla fosse mai accaduto. Sono andati a sbollirsi… non preoccuparti per quei
due’’, concluse Roberto, rispondendo parzialmente al mio quesito e dandomi le
spalle, per poi recarsi al piano superiore per vestirsi meglio.
Io sospirai e, appoggiandomi allo stipite della porta della
mia saletta, continuai a pensare alla stranezza della famiglia Arriga, e a
tutte quelle cose non dette e misteriose che aleggiavano su di loro, e che
rischiavano di inghiottire pure me. Essi non creavano pienezza, quella
completezza tipica delle famiglie più affiatate, ma basavano la loro vita su un
baratro pericoloso, il cui fondo mi era sconosciuto, sempre se c’era.
Scrollai le spalle e, cercando di smettere di tormentarmi con
i miei inutili pensieri, chiusi la porta della stanza e per un po’ mi misi a
suonare il mio pianoforte, cercando di rilassarmi ulteriormente.
Non nascondo che rimasi comunque sorpreso, quando poco prima
di mezzogiorno mi ritrovai ad osservare il ritorno di Livia e Federico.
Avevo appena smesso di suonare il mio pianoforte, e stavo per
andare in cucina per gustare il pranzetto che doveva aver preparato mia madre,
un po’ come per tutti i giorni festivi, e mentre mi dirigevo verso la mia meta,
la porta d’ingresso si spalancò di colpo, lasciando entrare i miei due
inquilini, che dal giorno precedente non si erano più fatti vivi.
Io li guardai e, leggermente meravigliato, accennai un saluto
rivolto alla signora Arriga, che mi squadrò in un attimo da capo a piedi e si
diresse prontamente anch’essa in cucina, senza ricambiare la mia leggera
cortesia e seguita a ruota dal figlio, che passandomi da fianco quasi mi
spintonò.
Erano tornati, e non mi restava altro che tornare a subire.
In fondo, riconobbi che in quelle ventiquattro ore in cui si erano assentati,
ero stato benissimo, nonostante i miei piccoli inghippi con Roberto. Ma l’uomo
non era neppure paragonabile a quelle due persone, che davvero mi risultavano
odiose all’inverosimile.
Rimasi fermo sul posto, nel bel mezzo del corridoio, indeciso
se tornare a suonare qualcosa, oppure andare pure io in cucina da mia madre, ma
fortunatamente fu proprio quest’ultima a togliermi dalle mie domande.
Mamma Maria uscì in fretta dalla cucina, dopo aver scambiato
due parole che non avevo udito con i due appena tornati, e vedendomi lì
imbambolato mi si avvicinò mestamente. Era così bassa e piccola che in quel
momento mi venne quasi da paragonarla a Roberto, ma ricacciai indietro le mie
stupide considerazioni, poiché lei evidentemente aveva qualcosa da dirmi.
Infatti, mi afferrò delicatamente per un braccio, e m’invitò
silenziosamente a fare due passi indietro e a tornare dentro alla mia saletta,
senza però chiudere la porta.
‘’La signora e il figlio sono tornati, a quanto pare, e mi
sembrano molto agitati. Sono entrati in cucina a passi baldanzosi, e senza
neppure salutare, Livia ha detto che se possibile oggi vorrebbero pranzare da
soli, senza terze presenze. Per non suscitare una reazione di quella donna, le
ho detto che lascerò il pasto pronto sui fornelli, così potranno arrangiarsi
loro a suddividersi le pietanze. Mi sembra anche giusto, forse devono ritrovare
una loro armonia, che ormai sembrano aver perduto. Noi due pranzeremo più
tardi, quindi…’’.
‘’Sì, certo, e magari mangeremo pure i loro avanzi, proprio
come farebbero i bravi cani sottomessi. Mamma, quella gente non mi piace! Non
sopporto più la presenza di Federico e di quell’aristocratica della signora
Livia!’’, sbottai, ormai definitivamente innervosito.
A farmi parlare in quel modo insolitamente irriverente e
irrispettoso non era stato tanto il fatto di non dover essere presenti in
cucina durante il loro pasto, ma il come loro volessero trattarci da padroni.
Erano piombati a casa dopo essere fuggiti, e logicamente non avevano mai
avvisato nessuno, così mia madre come la più umile delle serve doveva essere a
disposizione dei loro più prepotenti capricci ad ogni ora del giorno. Mia madre
aveva preparato il pranzo per tre persone, per me, lei e Roberto, non sapendo
del loro ritorno, e quindi avrebbero mangiato pure il mio di pasto.
A Federico non bastava avermi umiliato più volte, ma voleva
tutto, assieme a sua madre. In quel momento, li detestavo tantissimo.
‘’Calmati, calmati. Non fare così! A volte capita… capita.
Non so neppure io che dire, certo, questi pagano sempre, e i loro soldi ci
fanno comodo, ma mi sembrano gli affittuari più scortesi che noi abbiamo mai
avuto in questa casa. Ciò non vale per Roberto, penso’’, aggiunse mia madre,
guardandomi e parlando sottovoce.
‘’No, no, Roberto è diverso. È umano e a volte sbaglia, ma
non è fatto della stessa pasta di quei due demoni’’, mi affrettai a dire,
anch’io a voce bassissima. Mia madre mi diede una leggera gomitata.
‘’Oh, non esageriamo adesso! Stai tranquillo, preparerò
qualcos’altro per noi, anche se quindi pranzeremo un po’ più tardi del
solito’’.
E così dicendo, la mamma si allontanò, dirigendosi nuovamente
in cucina. Ed io rimasi ancora lì impalato, in piedi nel bel mezzo della mia
saletta a rodermi nei miei pensieri, chiedendomi quante altre umiliazioni
avremmo dovuto subire. Gli Arriga si stavano comportando scorrettamente, e la
nostra convivenza si stava tramutando in qualcosa di scomodo, anche se era
durata solo un mese e mezzo, fino a quel momento, e sarebbe dovuta continuare
ancora per lungo tempo.
Scossi la testa e tornai a dirigermi verso il mio pianoforte,
cercando di tornare a distrarmi nuovamente.
Quella domenica la trascorsi così, suonando il mio strumento
e senza fare altro. Avrei dovuto studiare e fare i compiti, ma avevo posposto
tutto. Avrei svolto il mio ruolo da bravo studente solo in serata.
Così avevo suonato per buona parte della giornata, alzandomi
solo per i pasti, piuttosto magri e freddi tra l’altro, visto che la famiglia
Arriga non ci voleva tra i piedi, ma non mi sentivo soddisfatto, poiché non
avevo suonato bene e non ero riuscito a concentrarmi e a calarmi nella mia pace
interiore. Tanti pensieri offuscavano la mia mente e la rendevano meno
reattiva, impedendomi quindi di affrontare la musica col piglio giusto.
Alla fine quindi, dopo la tardiva cena, rinunciai al mio
strumento e chiusi a chiave e in fretta la mia saletta, sapendo che il
pericoloso Federico era in giro e che avrebbe potuto rovinare qualcosa, per poi
dirigermi verso la mia camera da letto, dove avrei potuto studiare un po’ e
fare qualche compito. Il lunedì era sempre traumatico sotto tutti i punti di
vista, e quindi ci tenevo a prepararmi per bene e con largo anticipo.
Mentre salivo le scale, mi ritrovai a pensare che
effettivamente quell’ultimo anno di scuola superiore non era cominciato col
piede sbagliato, ed anzi, che stava andando parecchio bene, e mi ritenevo
soddisfatto del mio operato, fino a quel momento.
Speravo solo di riuscire a mantenere il giusto ritmo, e di
non commettere errori o sbagli, poiché non volevo giungere alla fine di
quell’anno davvero molto importante con grandi dubbi e lacune. Era vero che non
potevo recuperare il tempo perduto durante gli scorsi anni, ma almeno potevo
provare a metterci una pezza, sfruttando la buona forza di volontà che permeava
il mio cuore e la mia mente. Un vero peccato però che ci fosse Federico a
rovinare quel periodo tutto sommato discreto.
Una volta giunto al piano superiore, incontrai nuovamente mia
madre, che mi sorrise e mi bloccò di nuovo.
‘’Mamma, devo andare a studiare e a fare i compiti!’’,
sbottai, immaginando che avesse altre richieste da farmi. Conoscevo il suo modo
di abbordarmi, e quando lo faceva con quel sorriso timidino e tremolante
riuscivo a capire in anticipo che doveva chiedermi qualcosa, magari qualche
altro sacrificio in favore degli Arriga.
‘’Ti devo chiedere una cosa importante! Ti tratterrò solo un
attimo’’, mi rispose, bloccandomi lo stesso sul posto.
Sospirai.
‘’Antonio, la signora Livia mi ha chiesto una cortesia. In
pratica, vorrebbe che le prestassimo… no, non a lei, ma che prestassimo a suo
figlio quei vasetti di plastica per i fiori, che ha visto in garage. Ha detto
che Federico avrebbe espresso il desiderio di coltivare qualche piantina, e
visto che so che tu durante l’autunno e l’inverno non li utilizzi, le ho
promesso di darglieli’’, mi narrò mia madre a voce bassissima, timidamente e
mangiandosi qualche parola di tanto in tanto.
Ero sbigottito; Federico non lo vedevo proprio in compagnia
di magnifici fiorellini. Tenevo molto a quei vasetti di plastica, poiché mi
permettevano di dar libero sfogo al mio pollice verde durante la buona
stagione, e anche se in quel periodo dell’anno non me ne facevo proprio nulla,
mi scocciava che il mio nemico ci posasse sopra i suoi artigli, per farne
chissà cosa.
Ero certo che, se fossero finiti tra le sue mani, non li
avrei mai più rivisti indietro.
‘’Mamma, non se ne parla. Dille che se li compri, sono tanti
i negozi che li vendono… e poi quello lì chissà cosa deve farsene. Me li
romperà di certo’’, risposi, cercando di mantenere la calma. In realtà, ero
davvero innervosito.
‘’Dai, non fare lo sciocco. Ormai glieli ho promessi! E poi
ce li ridarà entro la primavera, ed intatti. Controllerò, e se ce ne sarà uno
solo dei rotti, glielo farò ripagare, non temere’’, cercò di rassicurarmi.
‘’Giuro che questa vicenda sta cominciando a snervarmi’’, le
risposi, anche leggermente in malo modo.
‘’Ti prego, non fare scenate. I loro soldi ci fanno comodo,
non mandare tutto all’aria per un paio di vasetti di plastica! E poi, Federico
deve piantarci dentro i suoi rarissimi peperoncini piccanti della Guyana.
Magari insegnerà anche a te a coltivarli, se glielo chiederai’’, ribatté mia
madre, accennando a chiudere il discorso.
‘’Cosa?! Peperoncini piccanti di che?!’’, sbottai nuovamente,
sentendomi preso in giro. Non avevo mai udito un nome del genere.
‘’Oh, non lo so neppure io… della Guyana, mi sembra. E
comunque il nostro discorso è chiuso, ora che ti ho informato’’. E così
dicendo, mia madre scese al piano inferiore, mettendo fine alle mie proteste. I
due perfidi Arriga avevano vinto ancora.
Estrassi il mio cellulare dalla tasca, e mi affrettai ad
andare su Internet a digitare il nome di quei peperoncini, scoprendo in fretta
che la mia ricerca non aveva risultati. Quei peperoncini non esistevano, e la
signora aveva preso in giro mia madre, e chissà cosa doveva piantare suo figlio
nei miei vasetti.
Innervosito, mi precipitai in camera mia, ed accesi la luce,
per poi trovarmi faccia a faccia proprio col mio nemico.
‘’Ma… che…’’, riuscii a dire, trovandolo dentro alla mia
stanza e ad un palmo dal mio viso.
Capii che mi aveva teso un agguato anche lì dentro, e che
nella mia casa ormai non c’era più un luogo sicuro per me e per la mia
incolumità.
‘’Piaciuta la sorpresa? Tranquillo, non ho fatto danni,
volevo solo spaventarti un po’… e poi oggi sono di buon umore, non mi va di
dartele di santa ragione. Quindi, fai ciò che ti sto per chiedere ed io ti
lascerò in pace e non ti torcerò neppure un capello, per questa sera’’, mi
disse il mio aguzzino, sorridendo mestamente e gettando sul mio letto almeno
cinque quaderni, che fino a quel momento doveva aver tenuto in mano.
‘’Ti serve una mano per piantare i tuoi peperoncini della
Guyana? Ho il pollice verde, stai per chiedere l’aiuto della persona giusta’’,
chiesi, facendomi forza. Non so perché lo stimolai a farmi del male.
Lui mi guardò, lanciandomi un’occhiata perplessa ma seria, ed
indubbiamente non aveva inteso ciò che gli avevo detto.
‘’Non so a cosa ti stai riferendo, ma farò finta di non aver
sentito’’.
‘’Tua madre ha chiesto dei vasetti di plastica alla mia, per
conto tuo, poiché vorresti piantarci dentro i tuoi peperoncini’’, gli risposi
con fare sornione, incrociando le braccia.
‘’Oh! Non impicciarti allora. Sono affari che non ti
riguardano, quelli’’, mi rispose Federico, mentre sul suo volto compariva un
sorriso mesto, che sparì subito dopo.
Compresi facilmente che dietro alla richiesta dei vasetti si
nascondeva qualcos’altro, e chissà cosa ne avrebbe fatto il mio nemico. A quel
punto, l’ansia mi prese tra le sue braccia, e deglutii.
‘’Senti, impiastro, non sono qui per discutere o per farti
del male, questa volta, ma se proprio vuoi potrei farti assaggiare di nuovo la
mia stretta attorno al tuo collo. Non dirmi che ti va eh, perché sta sera non
ne ho proprio voglia. Ma se me lo chiedi per favore, non mi farei problemi
a…’’.
‘’Vai al punto. Cosa vuoi da me?’’, gli dissi, interrompendo
il suo discorso contorto, tra il serio e l’ironico.
‘’Ecco, così mi piaci! Sono qui per chiederti di fare una
cosetta per me, per mio conto’’, disse, tenendo a bada la voce.
Annuii con la testa. Non avevo molte altre alternative.
‘’Gli insegnanti del liceo si sono anche accorti che non ho
mai svolto i compiti a casa, e a loro dire non faccio nulla se non giocare al
cellulare o compiere atti moralmente scorretti, come ha detto quella stronza
che mi ha sequestrato il cellulare. Quindi, visto che sei abbastanza secchione,
credo proprio che mi potrai essere utile, poiché i compiti a casa me li farai
tu. Li scriverai a matita, ed io con la penna poi li copierò. Intesi?
‘’Hai due opzioni, di fronte a te; o accetti la mia proposta
gentile e ti metti subito al lavoro, oppure prendere un bel po’ di botte, e non
me ne frega nulla se c’è pure tua madre in casa. Se mi scopre, gliene do tante
pure a lei! Però sai che questa sera non mi va. Se mi obblighi a farlo,
quindi…’’.
‘’Farò ciò che mi hai detto, non temere’’, sospirai,
piegandomi. Non volevo cercare altri guai, soprattutto considerando anche le
parole pesanti che stavano volando, e alle neppure tanto velate minacce rivolte
a mia madre.
Andai subito a prendere i quaderni, quindi.
‘’Bravo, bravo. Quando avrai concluso tutto, lasciali sul
tavolo della cucina, poi mi arrangio da solo. Non osare mai entrare in camera
mia, intesi? Lasciali sul tavolo della cucina’’, mi ripeté, quasi ringhiando.
Poi, uscì dalla mia stanza in fretta e sparì nel buio del corridoio.
Mi passai una mano tra i capelli, mentre qualche goccia di
sudore freddo mi scivolava lungo la schiena.
Afferrando i quaderni di Federico, pensai che avrei anche
potuto stracciarli, oppure non svolgere i suoi ordini, ma poi compresi che
sarei andato in cerca di altri guai. Decisi quindi che avrei fatto i compiti a
casa e poi li avrei copiati sui quaderni del mio nemico a matita, in modo da
accontentarlo ed evitare altre possibili ripicche.
Con un sospiro, compresi che non si poteva più andare avanti
così, e che stavo davvero per esplodere, ma non mi sentivo neppure in
condizione per far qualcosa o ribellarmi. La verità era che Federico mi faceva
davvero paura, e mi sembrava un folle pronto a tutto.
Promettendomi che un giorno mi sarei vendicato per tutte
quelle ingiustizie subite, mi misi subito al lavoro, ma non prima di aver
chiuso a chiave la porta della mia stanza. Da quell’istante capii che sarebbe
stato meglio farlo sempre.
Eppure, fremetti di spavento per tutto l’arco della serata,
mentre svolgevo i compiti miei e del mio nemico, consolandomi pensando al fatto
che bastava fare i miei e copiarli sui quaderni del prepotente, visto che erano
gli stessi, frequentando la stessa classe. Una magra consolazione, ma che mi
bastava per tirare avanti.
Mi sentivo davvero una nullità, in quel momento.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, cari lettori!
Ringrazio chiunque sia giunto fin qui, e spero che tutto
sommato la storia continui ad essere interessante da seguire.
Ringrazio tantissimo tutti i recensori.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì
prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Capitolo 14
CAPITOLO 14
Quello che sto rievocando nella mia mente fu un periodo che
ricordo tuttora molto bene, poiché esso fu pieno di svolte nella mia vita, e
nell’arco di pochi giorni accaddero eventi che ebbero grandi ripercussioni
sulla mia stessa esistenza.
Dopo quella domenica sera in cui ero stato obbligato dal mio tormentatore
a mettermi a fare i suoi compiti a casa, lui non mi aveva più importunato, ed
inoltre aveva sempre girato alla larga sia dalla mia camera da letto sia dalla
mia saletta. Stava rispettando quella sorta di tacito ed immaginario patto di
non belligeranza, ed io per tenerlo buono sia nei miei confronti sia in quelli
di mia madre mi impegnavo molto sui suoi quaderni.
In realtà, avevo scoperto che quella costrizione mi aveva
reso più ligio al mio dovere, e in un certo senso non mi dispiaceva. Quando
giungevo a casa studiavo e svolgevo fin da subito i miei compiti, poi li
copiavo leggermente a matita sui quaderni di Federico, che ogni volta che
tornava a casa dal liceo me li lasciava sul tavolo della cucina, per poi
tornare al piano inferiore a rimetterli dove il nemico me li aveva lasciati.
Quindi, per me era iniziata una sorta di fase dove veniva
prima il dovere del piacere, e forse ciò non era neppure del tutto negativo,
visto che fino alle settimane prima perdevo tanto tempo in compagnia del mio
pianoforte o facendo altro, riducendomi a studiare in tarda serata e magari non
svolgendo neppure i compiti. Nel giro di pochi giorni, mi ero reso conto che
giungevo a scuola più preparato, e le ultime interrogazioni erano andate
piuttosto bene.
Ciò però non toglieva il fatto che ero comunque vittima di
soprusi, ma quel sopruso in particolare potevo sopportarlo meglio di altri.
Federico continuava a farmi paura, e non avevo assolutamente ancora il coraggio
di confidarmi o di parlarne con qualcuno, anche per timore di altre
ripercussioni, che lui mi aveva già promesso più di una volta. Per cui,
fintanto che non mi tormentava e che si accontentava dei miei umili servigi, mi
ritenevo fortunato.
Si era preso anche i miei vasetti di plastica, visto che
glieli aveva consegnati mia madre, e li aveva portati nella sua stanza. La sua
camera da letto era diventata una sorta di luogo sacro ed inviolabile, dove
neppure a mia madre era stato più concesso di entrare; il letto al ragazzo
glielo sistemava la mamma aristocratica, che si accollava pure le pulizie della
stanza stessa.
Un atteggiamento che attirava molto la mia curiosità, poiché
avevo iniziato a credere che ci fosse qualcosa che non si dovesse vedere
proprio all’interno di casa mia, un qualcosa di sospetto, ma non era neppure
giusto che io facessi le mie indagini, d’altronde Federico era sorvegliato da
sua madre, e non credevo che la signora Arriga, così distinta e perfetta,
cercasse di nascondere qualcosa, magari entrando in combutta col figlio.
Quindi, volevo credere fermamente che tutto fosse a posto, in casa mia.
Se tutto era a posto lì, non lo era invece a scuola; il
liceo, infatti, ultimamente appariva piuttosto in subbuglio. Federico non aveva
picchiato più nessuno, anche se aveva ripreso a volte a giocare di nuovo col
cellulare, ma in modo più attento e discreto.
Passava tutto il tempo non occupato dalle lezioni a
confabulare col suo affermatissimo trio di amici, senza degnare altri di uno
sguardo. Temevo che stesse progettando qualcosa, e non mi sbagliavo, come avrei
confermato quello strano giovedì mattina della prima settimana di novembre.
Procedendo con ordine, comunque, in modo da non rimescolare
troppo i miei ricordi, riesco ancora a far riaffiorare l’atmosfera carica di
disagio di quella strana mattinata.
Avevo già notato quella sorta di frenesia e di nervosismo che
aveva caratterizzato buona parte degli studenti durante le settimane
precedenti, e quel giovedì mattina non era tanto meglio; tutti gironzolavano
con i cellulari tra le mani, parlottando e comportandosi in modo irritato,
oppure ridacchiando di tanto in tanto. Io non capivo e non sapevo nulla di ciò
che stava accadendo, proprio come nei giorni precedenti.
Però, poco prima che la campanella suonasse e permettesse
agli studenti di entrare a scuola, ebbi modo di intrattenere una discreta
chiacchierata con Alice, che come tutte le mattine la trovai già nel piazzale
antistante il liceo, già pronta a fare il suo ingresso e ad iniziare ad
affrontare le lezioni.
‘’La verifica di matematica non è andata tanto bene,
purtroppo…’’, continuò a sussurrarmi, leggermente arrossata in viso. Sapevo che
ci teneva molto a prendere dei bellissimi voti, ma ero anche a conoscenza del
fatto che la matematica restava il suo tallone d’Achille, e che questo la
tormentava parecchio, soprattutto quando arrivavano risultati mediocri in
quella materia tanto scabrosa.
‘’Non preoccuparti troppo, c’è tempo per rimediare, non
temere’’, cercai di rassicurarla anche quella volta, ripetendo ciò che le avevo
detto praticamente ogni giorno della scorsa settimana.
‘’Se solo Jasmine tornasse… oh, è lei la mia unica salvezza!
Se riuscisse a rimettersi un po’, mi darebbe di certo una mano. Lei è
bravissima, in matematica! Un vero genio’’, tornò a dire Alice, sconsolata.
Effettivamente, Jasmine non riusciva a riprendersi, ed era
già più di dieci giorni che non era venuta a scuola. Io la sentivo quasi ogni
giorno, anche solo per sincerarmi della sua salute, e sapevo che molto
probabilmente non sarebbe tornata al liceo per almeno altri cinque o sei
giorni. I suoi genitori l’avevano accompagnata da uno specialista, per cercare
di curare il problema che la tormentava nella gola e che pareva non volersi
arrendere, dandole sempre febbre alta e altri disagi fisici.
Pareva che fosse rimasta affetta da un qualche ceppo
batteriologico piuttosto resistente, ma che le cure del medico privato stessero
dando i loro frutti. Infatti, la febbre negli ultimi giorni si era vistosamente
abbassata, e Jasmine contava di riuscire a riprendersi entro una settimana. Una
previsione che avrebbe poi dovuto incontrarsi con quella del medico, ma ero
comunque certo che la mia amica, che mi stava tanto a cuore e che mi mancava
davvero molto, sarebbe tornata a riprendersi molto presto.
Con questa speranza, il mio cuore si sentiva più leggero.
‘’Stai tranquilla, a breve si rimetterà, e così potrà
aiutarti e darti una mano’’, le dissi, sovrappensiero.
Ultimamente avevo notato che la mia mente volava spesso verso
Jasmine, e che lei mi mancava costantemente. Avevo ancora ben impresso la sua
ultima visita a casa mia, la sua bellezza esotica, il suo modo gentile e
cortese di avvicinarmi.
Mi sentivo infatuato da lei, ed avevo voglia di rivederla,
anche se sapevo bene che le condizioni di quel momento non lo permettevano, sia
per il problema suo di salute, sia per il fatto che non sarei mai riuscito a
trovare il coraggio di presentarmi sotto casa sua, anche perché non sapevo
neppure di preciso dove abitasse.
‘’Oh, come sei venale questa mattina! Non credere che io
rivoglia in forma la nostra Jasmine solo per farmi aiutare in matematica… lei è
così speciale! Senza la sua presenza sempre costante, mi sento un po’ persa, ed
avrei tanta voglia di rivederla, e magari abbracciarla anche in questo stesso
momento!’’, continuò a dire l’amica, molestando il mio flusso di pensieri.
‘’A chi lo dici…’’, bisbigliai, lasciando fluire fuori le mie
vere emozioni.
Alice mi guardò.
‘’Cos’hai detto? Non ho capito’’, mi chiese prontamente, con
curiosità.
‘’Nulla… mi stavo chiedendo a cosa fosse dovuta questa
agitazione costante, che pare tenere un po’ sulle spine buona parte della
nostra scuola’’, le dissi, cambiando abilmente la rotta del discorso.
Non era che non mi fidavo di Alice, ma non mi piaceva aprirmi
troppo, e nonostante tutto non volevo parlarle di Jasmine in un modo troppo
ricco di particolari, poiché neppure io sapevo ancora cosa provassi per lei. Di
certo, si trattava di un sentimento nuovo per me, ma non osavo approfondirlo e
farmi troppe domande.
Mi bastava avere quella ragazza sempre fissa nei miei
pensieri, e il resto in quel momento non mi importava affatto, e non volevo di
certo sbilanciarmi e passare per quello che è andato in fissa per una ragazza
che conosceva a malapena da poco più di un mese, e perlopiù di vista. Era vero
che ci sentivamo anche per telefono, ma un conto era chiacchierare del più o
del meno, ed un altro era aprirsi e parlare di sé stessi, e magari conoscersi
ancora meglio.
Ecco, questo feeling tra noi ancora mancava, e comunque mi
sentivo davvero un po’ perso quando pensavo a quella ragazza, anche se non
nascondo che mi piaceva farlo spesso. E d’altronde, non mi sentivo ancora
pronto per parlarne con altri.
‘’Mamma mia, temo che questa volta la stia combinando grossa,
il nostro caro bulletto’’, sbottò la mia cara amica, lanciandomi uno sguardo
vacuo. Mi accigliai vistosamente.
‘’A quanto pare, lui e i suoi tre amici hanno creato un
gruppo su un social. Un gruppo privato, una sorta di luogo virtuale dove alcuni
componenti della scuola, capitanati dallo stesso Federico, si divertono a
prendere in giro altri… insomma, un qualcosa di molto squallido e scomodo!’’,
continuò Alice, vedendomi perplesso.
Abbassai lo sguardo ed osservai l’asfalto circostante,
restando comunque accigliato. Non mi ero mai iscritto ad un social network, di
nessun tipo, ma un po’ me ne intendevo comunque. Se era presente la componente
dei gruppi, Alice doveva essersi di certo riferita a Facebook, e la vicenda
proprio non mi piaceva. Se Federico e compagni avessero cominciato a praticare
il cyber bullismo, sarebbero stati guai amari per tutti quanti, dapprima per le
vittime, derise dai prepotenti, e poi per gli stessi prepotenti, visto che si
trattava comunque di azioni ignobili e punibili per legge.
Non volli approfondire il discorso con la mia amica, e
scrollai le spalle, cercando di ostentare disinteresse.
‘’Certo, una mossa da persone schifose. Ma comunque sono
certo che finirà male per loro, se hanno cominciato a commettere atti del genere’’,
mi limitai a risponderle, mentre la campanella suonava proprio in
quell’istante.
‘’Ne sono convinta pure io. Si prospettano tempi bui… a
dopo!’’, mi salutò la mia interlocutrice, abbandonando anch’essa il discorso e
venendo ingurgitata dalla folla che, spintonandosi con forza, si muoveva in
massa verso l’ingresso del liceo.
Io mi limitai ad attendere che la ressa si fosse dissipata
leggermente, prima di entrare nella scuola, con in bocca un sapore di bile
strano, amaro, che quasi mi fece pensare di essermi ammalato, di star male pure
io. Ma quello forse era il semplice sentore del fatto che tutta l’intera
vicenda stava per prendere una strada ben definita, e in quella stessa giornata
sarebbe iniziata una sorta di svolta, sia per me che per il mio nemico e
inquilino, Federico.
Non appena giunsi in classe, notati subito che qualcosa non
andava. Giacomo stava parlando ad Andrea e alle ragazze con voce concitata,
mentre loro si chiudevano a cerchio attorno a lui, ascoltandolo.
Salutai, non ricambiato da nessuno a parte Francesco, già
seduto nel suo banco, e mi diressi verso la mia postazione, notando che
Federico aveva già distaccato il suo banco e pareva immerso nel suo mondo.
Non ci feci caso, come al solito, e appoggiando il mio zaino
sul banco e restando in piedi, cominciai a sistemare il materiale scolastico
della giornata. Eppure, quella era destinata a non essere una mattinata
tranquilla.
Sentii dei passi dietro di me, e voltandomi mi vidi
oltrepassato da un Giacomo furioso, col volto violaceo dalla rabbia, che con
altri due passi si piantò davanti a Federico, che restò seduto, immobile. Solo
in quel momento notai che aveva le cuffiette nelle orecchie, nere e mimetizzate
dalla folta chioma ribelle, mentre per non mostrare il filo che le collegava
all’mp3 le aveva fatte passare da sotto la felpa.
Tutti quanti nella classe guardammo in silenzio Giacomo, che,
ancora più innervosito, strappava un’auricolare a Federico, attirando
efficacemente la sua intenzione. Aveva fretta, e sapeva che disponeva di
quattro minuti, prima che giungesse l’insegnante.
Il prepotente doveva aver scorto la sua figura, ma l’aveva
deliberatamente ignorata, sempre col suo menefreghismo di classe, ma quando fu
sfiorato dalle dita dell’altro ragazzo parve esplodere all’improvviso, senza
comunque alzarsi dalla sedia in cui era seduto e lasciandosi quindi dominare
dall’alto dall’interlocutore arrabbiato.
‘’Che vuoi?’’, gli sbottò in faccia, cercando di tenere basso
il tono della voce e togliendosi anche l’altra auricolare, cercando di fare
tutto con lentezza come se non gliene importasse nulla. Invece, dai suoi
movimenti irritati capivo che doveva essersi innervosito parecchio anche lui.
Tutti i presenti nella classe continuavano a pregustarsi lo
scontro in silenzio, senza intervenire, e anch’io osservai tutto con grande
interesse.
‘’Hai il coraggio di chiedermi cosa voglio, stronzo? Sono
giorni che vengo deriso in rete, e che persino i miei vicini di pianerottolo mi
sfottono per delle cose che avresti messo in giro tu virtualmente… voglio
sapere come si chiama questo gruppo che hai formato su Facebook, voglio
leggerne i contenuti e poi farti denunciare dai miei’’, rispose Giacomo, per
nulla intenzionato a sbollirsi.
Federico si lasciò sfuggire un sorriso mesto.
‘’Innanzi tutto, è un gruppo privato di satira. Non sai cos’è
la satira? E’ una…’’.
‘’E’ una presa per il culo rivolta a chi ti sta antipatico.
So che ce l’hai con me, così come ce l’hai con tanti altri della classe e non,
ma a me non importa, perché a me non mi prendi in giro in questo modo subdolo,
alle spalle e mettendo in circolazione un sacco di diffamazioni e di
provocazioni. Se hai qualcosa da dirmi, me lo dici in faccia, verme schifoso!’’.
Federico a quelle parole arrossì, diventando incredibilmente
nervosissimo, e quasi mi aspettai di vederlo balzare al collo di Giacomo, per
stringerlo nella sua stretta micidiale. Invece, la professoressa Carlucci entrò
in classe, a sorpresa, udendo le ultime parole pronunciate da Giacomo.
‘’Ragazzi!’’, sbraitò, redarguendo subito i due contendenti,
che pareva avessero voglia di aggredirsi anche fisicamente.
‘’Io faccio ciò che mi pare. Non ti temo, e non temo
nessuno!’’, sibilò tra i denti Federico, facendosi intendere
dall’interlocutore, che gli lanciò un’occhiataccia prima di prendere le
distanze dal nemico.
‘’Ti farò smettere di comportarti così, anche a costo
tagliarti quelle alucce prepotenti che ti sei voluto costruire… sei tu lo
sfigato, qui’’, concluse infine Giacomo, sempre a bassa voce, per poi dirigersi
verso il suo banco, abbandonando le retrovie.
‘’Ragazzi, è successo qualcosa di cui dovrei essere
informata?’’, chiese subito la prof, col suo classico tono di voce rimbombante.
‘’Assolutamente nulla, prof. Stavamo solo facendo amicizia,
tutto qui’’, rispose Giacomo, per poi lanciare un’altra occhiataccia al nemico,
come per avvisarlo che non era finita lì. Federico scrollò le spalle, e con la
sua indolenza tornò ad abbassarsi sul suo banco, ultimamente sempre sgombro,
visto che gli insegnanti non volevano più che si tenesse la tracolla davanti,
dopo la vicenda del cellulare.
La professoressa parve non voler indagare oltre, visto che
tutto pareva essersi messo a tacere e noi ragazzi avevamo già preso posizione
sui nostri banchi, e quindi non chiese altro e si accinse a fare l’appello. Ma
quella non era destinata ad essere una mattinata tranquilla, come avevo già
avuto modo di sottolineare.
All’improvviso, l’insegnante di sostegno che aveva scovato e
fatto punire Federico la settimana precedente fece una sorta di irruzione in
classe, preferendo entrare dalla porta principale, mostrandosi tutta trafelata.
Sul suo volto era ben impressa un’espressione arrabbiata, consona alle altre che
avevo già scorto durante quella frenetica mattina.
‘’Giovanna! Hai rimediato il tuo problema?’’, le chiese la
prof Carlucci, in modo confidenziale e non badando a noi alunni, che avevamo
puntato tutti i nostri occhi sulla nuova entrata.
‘’Scherzi? A causa di chi mi ha sfasciato la macchina nel
parcheggio sotto casa, mi sono dovuta assentare tre giorni dalla scuola. Tre
giorni! In più, per farla riparare dato che mi serviva subito, ho speso un
patrimonio. Ma sai qual è l’unica soddisfazione, ciò che dà un retrogusto
dolciastro alla vicenda? E’ che la giustizia farà il suo corso, e chiunque sia
stato pagherà per il crimine commesso. Ciò che è accaduto sabato notte non
resterà un evento impunito, lo giuro’’, sbraitò l’insegnante, mentre la
Carlucci si accigliava.
La prof di sostegno sembrava parlare ad alta voce e darsi da
fare per farsi udire al meglio dalla platea, ed al momento non avevo ancora
compreso bene il perché di quella scelta.
‘’Hai una vaga idea di chi sia stato, almeno? Avevi avuto
discussioni con qualche vicino, o con qualcuno che per vendicarsi di qualcosa
ha compiuto un simile gesto?’’, tornò a chiedere la nostra professoressa, a
voce bassa, mentre apriva il libro di letteratura.
‘’Il tutto è stato filmato dalle telecamere presenti in zona,
non temere. Richiederò che esse siano controllate da chi di dovere, in modo che
gli artefici, o l’artefice di tutto ciò venga scoperto, così che mi possa
risarcire dei danni subiti, e logicamente sarà poi anche affidato alla
giustizia’’, concluse l’insegnante di sostegno con grande enfasi, sottolineando
con particolare attenzione la parola artefice.
Tutti capimmo che la donna doveva già avere un’idea ben
precisa di chi fosse stato a commettere quel tale crimine appena accennato, ma
pure io non badai molto a quel veloce dibattito, preferendo stare a testa china
sui libri di scuola, cercando di sistemare con ordine il mio materiale.
Poi, improvvisamente tutto si fece molto più interessante e
vivace.
L’insegnante di sostegno si mosse verso il fondo dell’aula,
dirigendosi verso Clara, già in piedi e pronta ad uscire dalla porta
secondaria, e passando di fianco a Federico, gli disse qualcosa. Solo io,
all’interno della classe, potei udire quelle poche parole che furono
pronunciate al mio nemico, data la mia vicinanza.
‘’Ti sei divertito sabato notte a sfasciarmi l’auto, ma la
pagherai cara’’.
Poche parole, che finirono dritte al punto.
Udendole, sollevai lo sguardo dal mio libro, stupefatto, e
spalancai involontariamente la bocca, mentre il mio inquilino si alzava dalla
sua sedia, furibondo.
‘’Come si permette di gettarmi addosso una tale infamia?! Io
la denuncio’’, gridò, furioso e pieno di sé.
La reazione chiassosa e repentina tornò a far attirare
l’intera attenzione della classe sul ragazzo, che poi spintonò Giovanna e si
precipitò fuori dalla classe.
‘’Arriga! Torna subito in classe!’’, urlò subito la
professoressa, senza alcun risultato, precipitandosi anche lei nel corridoio.
‘’Mi spiace, ma so che è stato lui a compiere quel gesto, una
sorta di ripicca per la vicenda del cellulare. Mi mancano solo le prove per incastrarlo,
ma le troveranno molto presto’’, tornò a dire l’insegnante di sostegno a tutti
noi, pubblico ancora sbigottito dagli eventi che stavano svolgendosi in fretta,
per poi voltarsi e darci le spalle, abbandonando la classe assieme a Clara.
Lasciati momentaneamente soli, tutti i miei compagni presero
a borbottare, e notai che più d’uno aveva un sorrisetto per nulla dispiaciuto
ben impresso sul volto.
Ancora ben posizionato sul mio banco, capii che la breve
parentesi di impunibilità di Federico stava per concludersi, notando la piega
che stavano prendendo gli eventi.
Come un fulmine a ciel sereno, mi tornò alla mente la fuga
del sabato precedente, di Federico e Livia, e mi chiesi se fosse possibile che
i due avessero approfittato della discussione col marito e padre per andare a
compiere una qualche vendetta, fracassando una macchina parcheggiata chissà
dove, e mi parve tutto inverosimile ed impossibile, principalmente per il fatto
che la signora Arriga, la donna aristocratica e perfetta, non mi sembrava assolutamente
il tipo che aiutava e copriva il figlio in situazioni del genere. Quindi, in
quel momento mi convinsi che si doveva trattare di un qualche errore, e che
l’insegnante di sostegno avesse reagito d’istinto, lasciandosi trasportare
dall’eccessivo nervosismo. In più, chissà se il prepotente conosceva la targa
dell’insegnante, e dove essa abitasse. Tutto mi appariva molto improbabile.
Ancora perplesso, osservai la Carlucci mentre rientrava in
classe, scura in volto, e socchiudeva la porta dietro di sé.
‘’E’ scappato da scuola?’’, chiese prontamente Giacomo,
curioso più che mai. Ormai, ce l’aveva con Federico, e doveva odiarlo con tutto
sé stesso.
‘’No, no… l’ho lasciato un attimo coi bidelli, a sbollirsi.
Vuole chiamare a casa a tutti i costi… qui le cose si mettono male. Ma ora
basta, sono arcistufa di pensare solo a quel nuovo arrivato. Per favore,
incominciamo la lezione; abbiamo perso fin troppo tempo’’, mormorò la
professoressa, dapprima quasi come se stesse riflettendo tra sé e sé, per poi
tornare ad imporsi col suo classico vocione.
Ovviamente, incominciammo la lezione e non fummo più
interrotti. Solo quando Federico rientrò in classe qualcuno gli rivolse una
rapida occhiata, ma tutto si concluse lì.
Il resto della giornata scolastica si svolse con regolarità,
visto che tutti erano sazi di conflitti, ma restò sempre immersa in un clima
molto teso.
Uscii da scuola mestamente, cercando di raggiungere casa mia
il più in fretta possibile. Avevo voglia di fiondarmi a suonare il mio
pianoforte, logicamente dopo aver svolto in fretta i compiti, sia per me che
per il mio nemico, rimasto mogio per tutta la giornata. Se c’era un aspetto
positivo delle vicende accadute durante quella mattinata, l’unico era che il
prepotente pareva non avermi più in mente, momentaneamente, preferendo pensare
ad altro.
Alice era andata a casa dopo la prima ora, accusando un mal di
testa insopportabile, e quindi avrei dovuto chiamare anche lei per informarmi
sulla sua salute.
Mentre speravo di giungere in fretta a casa, immerso nei miei
pensieri, qualcuno mi chiamò, o così mi parve, poiché nel bel mezzo delle voci
alte dei ragazzi festosi che tornavano alle loro dimore mi era parso di udire
qualcuno che urlava il mio nome. Voltandomi, notai che non avevo udito male,
poiché Giacomo si stava muovendo rapidamente verso di me, guardandomi e
raggiungendomi in fretta.
‘’Antonio, io, ecco… mi sento un po’ in colpa. Ti devo delle
scuse’’, mi disse, senza preamboli ed allontanandomi leggermente dal fiume di
gente in movimento verso la strada.
‘’E di che?’’, gli chiesi, leggermente stupito.
Erano cinque anni che ci conoscevamo, e che frequentavamo la
stessa classe, ma noi due non avevamo mai avuto nulla da spartire. Lui, molto
conosciuto e sempre al centro dell’attenzione; io, invece, sempre ai margini,
isolato. I nostri due mondi paralleli e distinti non si erano mai incrociati.
‘’Ho visto… ecco, un paio di settimane fa, ho assistito, come
tanti altri, all’umiliazione che ti ha imposto Federico nei bagni. Alcuni
giorni dopo quell’evento, ho scorto di sfuggita ciò che ti ha fatto nel
corridoio degli spogliatoi della palestra, quando ti ha stretto alla gola… e mi
dispiace. Ti chiedo scusa per non aver detto nulla, e neppure agito in tuo
favore. Ora che so quel che vuol dire essere deriso ed umiliato da quel
prepotente, e subire prepotenze in generale, mi dispiace per non aver fatto
nulla nei tuoi confronti’’, mi disse, esprimendosi con difficoltà.
Notavo la sua sincerità, ed effettivamente ricordai di aver
notato un’ombra che si allontanava, il giorno della violenza nel corridoio
degli spogliatoi, che poi avevo creduto che si fosse trattata di una semplice
allucinazione.
Non sapevo che dire, ma riconoscevo il suo coraggio nel
chiedermi delle scuse, e nel voler comprendere la mia situazione. E non era
neppure a conoscenza di tutte le prepotenze che subivo.
‘’Tranquillo. Non dovevi fare nulla, hai fatto bene a starne
fuori, ed anzi, ti chiedo di non parlare più di ciò che hai visto e di ciò che
mi è accaduto. Accetto le tue scuse, e ti ringrazio per il tuo coraggio;
anch’io vorrei aver la forza di prendere quel prepotente di petto, proprio come
hai fatto tu questa mattina’’, gli dissi, facendo due passi indietro. Speravo
con tutto me stesso che Federico non vedesse che in quel momento stavo
confabulando con uno dei suoi peggiori nemici.
‘’Beh, volevo soltanto dirti che… non sei più solo, d’ora in
poi. Se vorrai, potremmo uscire assieme durante l’intervallo, anche se comunque
ho visto che hai legato con alcune ragazze… oppure incontrarci durante i
pomeriggi… come vuoi, insomma! Ti sono vicino, e se avrai altri problemi con
quel tipo, dillo con me, che poi ci penso io a conciarlo per le feste’’, tornò
a dirmi, sempre leggermente impacciato.
Giacomo era un tipo molto pratico, non amava parlare, e in
quel momento si stava un po’ perdendo tra le parole. Gli sorrisi.
‘’Ti ringrazio per la tua richiesta d’amicizia. Certo, se
vorrai, potremmo anche giocare un po’ alla play assieme, durante i prossimi
pomeriggi… o magari uscire a vedere un film, qualche sera… e stai tranquillo,
non preoccuparti per me. Sono abituato a subire, ormai!’’, gli risposi, anch’io
sempre più impacciato. Non ero abituato a situazioni del genere, e la mia
timidezza emerse molto in fretta, facendomi imporporare il viso con grande
rapidità.
‘’Va bene, allora i prossimi giorni ci mettiamo d’accordo,
ok? A domani’’, concluse il mio compagno di classe, sorridendomi e dandomi una
pacca amichevole sulla spalla destra, prima di incamminarsi anch’esso verso
casa.
Anch’io ripresi il mio cammino verso la mia umile dimora, più
rincuorato, però; sembrava che il mio scontro con Federico stesse portando
anche qualcosa di positivo pure a me, ed effettivamente ci avevo guadagnato
qualche amico, e alcune amiche speciali. E chi trova un amico, trova un tesoro,
no? Io a quanto pareva ne avevo trovati alcuni sinceri e coraggiosi, e questo
era davvero importante per me.
Giunsi a casa molto rincuorato e tranquillo, quel giorno.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!
Ecco a voi un altro capitolo di questo racconto. Spero che
tutto sommato vi stia piacendo.
Continuo a ringraziare tantissimo tutti voi, che continuate a
seguire la storia e a sostenerla con i vostri cortesi e graditi pareri. Grazie,
vi sono davvero infinitamente grato di tutto!
Grazie di cuore, e buon inizio di settimana. A lunedì
prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Capitolo 15
CAPITOLO 15
I giorni trascorsero davvero in fretta, dopo quello strambo
giovedì, e mi ritrovai a giungere alla domenica totalmente sorpreso. Sul serio,
la mia vita era cambiata parecchio nel corso di quegli ultimi due mesi,
addirittura da giungere al punto di essere uscito pure in compagnia di Giacomo
e Andrea, il sabato sera precedente a quella domenica.
Come aveva promesso, il mio compagno di classe pareva
intenzionato a volermi inserire nel suo gruppo, e dovevo ammettere che tutto
stava andando piuttosto bene; ci intendevamo tutti di calcio, di musica, di
film, e quindi mi ero trovato a mio agio fin da subito, riuscendo pure a tenere
in scacco la mia classica timidezza, che a tratti si nascondeva quando riuscivo
ad entrare in sintonia con le persone che mi circondavano.
Non voglio mentire a me stesso, poiché la mia timidezza mi è
tuttora di grande impiccio, e quindi non aveva cominciato a scomparire, anzi,
però stavo imparando anche un po’ a tenerla a bada.
Inoltre, Jasmine stava meglio, e si approssimava la data del
suo ritorno a scuola, sempre più prossimo, mentre Alice, rimasta vittima di una
leggera influenza, era praticamente k.o. in quei giorni, ma pure lei si sarebbe
ripresa in fretta, e la febbre e il mal di testa già si approssimavano a
lasciarla in pace. Le mie due amiche quindi mi avevano momentaneamente
lasciato, ma i ragazzi le sapevano rimpiazzare bene, e molto probabilmente nei
successivi pomeriggi ci saremmo rincontrati per giocare un po’ alla play per qualche
oretta.
Tutto andava per il meglio, a scuola; il primo round di
verifiche e interrogazioni si era rivelato davvero snervante, poiché erano state
tutte quante ammucchiate nel giro di pochi giorni, ma fortunatamente i miei
risultati erano stati più alti del previsto, contando anche un incredibile sei
e mezzo nell’interrogazione di matematica, non un voto eccessivo ma sempre
tantissimo per una schiappa come me.
Dovevo ammettere che la costrizione a cui mi aveva
segretamente sottoposto Federico aveva dato risultati inattesi, visto che
obbligandomi a svolgere i compiti a casa mi aveva praticamente costretto anche
a studiare e ad approfondire, quindi era per me più facile affrontare
interrogazioni e verifiche, ed ero sempre molto più preparato rispetto agli
anni precedenti, dove svolgevo il mio ruolo da bravo studente in modo davvero
molto altalenante e comunque più superficiale.
Lo stesso prepotente nell’ultimo periodo aveva preferito
lasciarmi perdere, donandomi di tanto in tanto qualche occhiataccia odiosa e
preferendo restare rinchiuso in camera sua; sapevo che era teso, anche per la
storia dell’auto sfasciata e per i problemi che aveva a scuola, soprattutto per
la vicenda riguardante quel fantomatico gruppo su Internet. Comunque, più era
teso e meno pensava a me, e questo mi rinfrancava.
Stavo quindi trascorrendo un periodo davvero più calmo del
solito anche a casa, dove mia madre mi pareva stranamente più rilassata, mentre
Livia era solo una presenza lontana e di sfondo, comparendo solo al momento dei
pasti principali. Per me restava un mistero, così come le sue telefonate alle
ore più strane ed insolite, ma ormai avevo perso interesse in tutto ciò. Non
erano affari miei, e non era giusto che io cercassi di ficcanasare, anche se a
volte qualche telefonata serale mi turbava e mi recava disturbo, un po’ meno
dei primi tempi però, poiché stavo facendo il callo anche a quel genere di
situazione a tratti davvero scomoda.
Roberto, l’unico a cui non ho rivolto un pensiero fino a
questo momento, era davvero un brav’uomo, e lo apprezzavo. Quella stessa
domenica mattina mi ero svegliato all’alba, vestendomi in fretta, proprio per
recarmi a pescare assieme a lui; si prospettava quindi una mattinata intensa,
poiché non sapevo cosa mi sarei dovuto aspettare dall’uomo e da quell’attività
che, ammetto, non mi piaceva affatto. Ma lui era tanto caro con me che mi
sarebbe dispiaciuto dargli buca, quindi l’avrei seguito.
Stranamente, quando la sera prima avevo avvertito mia madre
di quest’uscita, lei mi aveva sollecitato ad andare con il nostro inquilino,
affermando che avrei trascorso una piacevole giornata. Un po’ le sue parole mi
avevano colto alla sprovvista, poiché ero abituato ad una madre assente ma a
tratti chioccia, nelle rare volte che era in casa, quindi mi ero atteso un suo
rifiuto, o comunque qualche domanda.
Invece, no; via libera. Sarei andato con Roberto a pescare, e
mentre scendevo le scale, ancora avvolto dalla penombra del primo mattino,
sperai che fuori non facesse troppo freddo e che l’uomo si comportasse in
maniera corretta con me, magari anche tenendo a freno la lingua e cercando di
non riproporre la stessa scenata dell’ultima volta in cui eravamo rimasti soli,
io e lui.
Feci colazione in fretta, senza intravedere Roberto.
Cominciai a nutrire qualche dubbio a riguardo di tutto, ma la sonnolenza che
ancora mi appestava non mi permetteva di riflettere o pensare troppo.
‘’Antonio! Ti attendo in auto’’, mi disse l’uomo, sfrecciando
davanti alla finestra della cucina.
La sua voce giunse soffusa in casa, e gli lanciai uno sguardo
provato, senza che lui potesse vedermi. Poi, mi misi gli stivaletti che mi ero
preparato per l’occasione, e dopo aver indossato il giubbotto fui pronto ad
uscire pure io. Fuori faceva fresco, ma la giornata si preannunciava
soleggiata, e molto probabilmente ben presto l’aria si sarebbe intiepidita un
po’, dopo l’alba.
Mi diressi al garage, ovvero un piccolo capanno di fortuna
interamente in legno e costruito da mio nonno parecchio tempo addietro,
addossato alla casa, per poi trovarne già il portone aperto. Logicamente,
entrai dentro.
Non mi recavo quasi mai in garage, al massimo quattro o
cinque volte l’anno, dato che comunque mia madre lo cedeva agli affittuari ed
io non avevo neppure una macchina. Al suo interno, Roberto era già appostato
dentro la sua auto, un’Opel corsa grigia e cupa, e con la testa si stava
sporgendo fuori dal finestrino semiaperto, fumando una sigaretta.
Mi prese quasi un accidente vedendo che stava già fumando, e
a quel punto tentennai, pensando che stavamo cominciando non proprio al meglio.
Non che io volessi che non fumasse, ma non sopportando il fumo, mi disgustava
assai entrare in quell’auto, magari proprio piena di quell’odore fastidioso.
‘’Oh! Entra pure, vieni!’’, mi disse Roberto, notandomi lì
imbambolato. Spense la sigaretta e gettò il mozzicone fuori dall’auto, per poi
allungarsi ed aprirmi lo sportello.
Con una smorfia impacciata sul volto, scivolai all’interno
del mezzo e, posizionandomi sul sedile e annusando l’aria, scoprii che l’uomo
era stato attento mentre fumava, poiché al suo interno si sentiva sì un po’ di
lezzo di fumo, ma l’aria non ne era estremamente contaminata. Era stato bravo a
sporsi al punto giusto, riconobbi con sollievo, mentre allacciavo la cintura di
sicurezza.
Se all’interno del veicolo l’aria fosse stata irrespirabile
per me, non sarei mai partito quel giorno.
‘’Si preannuncia una bella giornata… guarda che alba
rosata!’’, mi disse Roberto, girando la chiave nel cruscotto e mettendo in moto
l’auto.
Mentre il veicolo usciva dal nostro giardino, e dopo aver
lanciato un’occhiata alla splendida alba, che effettivamente era da tempo che
non vedevo, mi soffermai anche a fissare per un attimo il mio interlocutore.
L’uomo era pimpante, e sul viso aveva ben impressa un’espressione molto
soddisfatta e sveglia, contrariamente alla mia, corrugata dalla levataccia.
A me non dispiaceva quell’ipotetica scampagnata, ma non mi
esaltava neppure, mentre invece il mio unico compagno di viaggio mi sembrava
davvero euforico. Tornai a guardare fuori dal finestrino, essendo contento per
lui, ma un po’ meno per me.
Percependo il mio smorto silenzio, Roberto mi lanciò dapprima
un’occhiata in tralice, senza mai abbassare l’attenzione rivolta alla strada
che, deserta a quell’ora della domenica mattina, si snodava davanti a noi come
un lungo e freddo serpente, per poi allungare una mano e sfiorare i piccoli
tasti della radio, azionandola. Improvvisamente, all’interno del veicolo
cominciarono a risuonare le canzoni dei Police, ad un volume parecchio elevato.
‘’Spero ti piacciano’’, tornò a dirmi il mio interlocutore,
moderando un po’ il volume.
Scrollai le spalle, con gentilezza. I Police sapevano troppo
di anni passati, e a volte trovavo le loro canzoni un po’ superate, anche se
tuttavia piacevoli.
‘’Che musica ascolti, di solito? Non dirmi che suoni solo’’.
Roberto non voleva stare in silenzio, e comprendevo che
voleva coinvolgermi nella sua euforia. Forse, col senno di poi, potevo anche
intuire che doveva aver il timore di annoiarmi con la sua presenza, e pareva
anche abbastanza insicuro mentre si rivolgeva a me.
‘’No, no, ne ascolto molta’’, dissi, estraendo il mio mp3
dalla tasca dei pantaloni e mostrandoglielo, ‘’ma non mi piacciono troppo i
gruppi che considero retrò. Preferisco i Green Day, i Linkin Park, i Blink 182,
Sum41, 5sos…’’, continuai, elencandogli alcuni dei gruppi rock ed alternative
che più mi mandavano in visibilio.
Mi raggiunse un’altra occhiatina sfuggevole del guidatore,
che nel frattempo conduceva il mezzo con attenzione e a velocità decisamente
moderata.
‘’Ma quelli son tutti gruppi di ragazzini… e sai, vero, da
chi hanno appreso i ragazzini? Dai grandi gruppi degli anni Settanta e Ottanta.
Gli stessi Police hanno rivoluzionato la musica, grazie ai loro suoni gradevoli
e alla magnifica voce del loro cantante…’’.
‘’Certo, di questo non ne dubito e lo so. Resta il fatto che
preferisco ascoltare musica di gruppi più giovanili e affrontare le nuove
frontiere del rock, che peraltro difficilmente mi piace se è proprio classico.
Troppi urlacci, troppo baccano… l’alternativo mi piace di più’’, conclusi,
sorridendogli. Mi piaceva parlare di musica, lo trovavo rilassante.
‘’Ho capito. È giusto, d’altronde ciascuno di noi ha i propri
gusti, ed è figlio della propria epoca. Ad esempio, io ascolto quasi sempre i
Police, poiché mi ricordano i bei tempi passati, i miei anni più spensierati…
si ricollegano a ricordi piacevoli’’, aggiunse Roberto, ricambiando il mio
tiepido sorriso.
Dopo alcuni minuti di altro pesante silenzio, il cd
all’interno della radio mi offrì la mia canzone preferita dei Police, Message in a bottle.
‘’I’ll send an S.O.S. to the world…’’, presi a canticchiare,
seguendo piacevolmente il ritmo del ritornello.
Il mio interlocutore ridacchiò, soddisfatto comunque di
essere riuscito a farmi sentire più a mio agio, e continuò a guidare con la
solita tranquillità che lo contraddistingueva dalla maggior parte delle altre
persone, sempre troppo frenetiche al volante, per i miei gusti.
Giungemmo in fretta a destinazione. Credevo che Roberto mi
volesse portare più lontano, ed invece il viaggio durò giusto il tempo di
un’altra decina di Message in a bottle,
ovviamente rigorosamente canticchiate dal sottoscritto.
Era tuttavia naturale che non avessi comunque cambiato idea
sui Police, ritenendoli piuttosto vintage per rientrare nelle mie classifiche
mentali di gradimento, però quella canzone aveva un retrogusto che la rendeva
unica alle mie orecchie.
‘’Scendi pure, siamo arrivati’’, mi disse Roberto,
parcheggiando su un prato verde scuro. L’alba stava lasciando spazio al tiepidissimo
sole autunnale, e la giornata si stava per davvero presentando nel miglior modo
possibile, mentre scendevo dall’auto.
Roberto andò nel portabagagli, e dopo averci pastrocchiato
dentro per qualche attimo, ne trasse fuori i suoi attrezzi e due cestini. Uno
me lo porse.
‘’Qui dentro c’è qualcosa da mangiare. Tua madre ci teneva a
prepararci un buon pranzo al sacco’’, mi disse sorridendomi, mentre lo
afferravo. Lo trovai piuttosto pesante, ed immaginai che mia madre avesse messo
al suo interno talmente tante cibarie che sarebbero bastate a sfamarci per tre
giorni.
Poi, il mio interlocutore chiuse l’auto e mi fece cenno di
seguirlo. Non sapevo di preciso dove ci trovavamo; ci eravamo lasciati alle
spalle la nostra cittadina, ma dopo esserci dispersi nelle campagne avevo perso
totalmente il mio senso dell’orientamento.
Stava di fatto però che quel posto era magnifico, e che
attorno a noi si estendevano solo prati verdi, lievemente imbiancati dalla
leggera patina di brina formatasi durante la nottata, e un leggero sentiero che
stavamo percorrendo attentamente, che si inoltrava poi in un basso boschetto di
piante cespugliose, spoglie in quel periodo dell’anno.
‘’Spero che tu non prenda freddo! Ti avevo detto di coprirti
bene’’, mi si rivolse Roberto, lanciandomi una rapida occhiata dalla testa ai
piedi.
Non avevo freddo, l’aria era frizzantina ma sopportabile, ed
in più mi ero preparato a puntino, e ammisi che le sue parole per un attimo mi
irritarono. Avevo quasi diciannove anni, non ero più un bambino al quale va
detto e ridetto tutto quanto. Poi, però, la mia attenzione fu attirata dal
vestiario del mio compagno di scampagnata; l’uomo infatti si era messo addosso
un completo tutto d’un colore verde scuro, una sorta di quelli militari o da
cacciatori, e si stava sistemando sulla testa un berretto verde a macchie
scure.
‘’Mi sono preparato e vestito alla perfezione, mica dovevo
andare a combattere in Vietnam’’, ribattei, accennando ai suoi vestiti.
Roberto per un istante mi fissò con perplessità, non avendo
inteso a cosa mi riferissi, poi, comprendendo e guardandosi i calzoni, sorrise.
‘’Siamo nel bel mezzo della natura, è giusto rispettarla. Con
addosso questi vestiti, non turbo la quiete degli animali, ed in più essi
tengono molto caldo. Fidati, si sta anche comodi’’.
Annuii alle sue motivazioni, e poi ci addentrammo per qualche
metro all’interno della bassa boscaglia, per ritrovarci di fronte ad un
magnifico laghetto dopo qualche altro passo.
Io rimasi estasiato dalla bellezza di quello specchio
d’acqua, restando a fissare il suo riflesso argenteo, che pareva volersi
confondere col cielo in fiamme dell’alba ormai da poco superata, mentre il mio
compagno adulto già si preoccupava della sua attrezzatura.
‘’Ti piace questo posto?’’, mi chiese dopo un po’ Roberto,
probabilmente notando il mio sguardo perso.
‘’Sì, certo, è magnifico! E poi adesso è autunno inoltrato…
non riesco ad immaginarmelo d’estate, tutto circondato di verde e con le sue
acque limpide. Sei sicuro comunque che qui si possa pescare?’’, gli chiesi, non
per voler sminuire il suo acume ma sono per accertarmi che l’uomo non cercasse
di far del male in modo illecito alle creature che vivevano in quel luogo
splendido.
‘’Mi ritieni una sorta di bracconiere?! Certo che si può. Ho
anche la licenza e le carte in regola per farlo. Ma non temere, noi non
rovineremo quest’aura magica che avvolge la zona’’, mi rassicurò, facendomi
l’occhiolino. Mi fidai delle sue parole, e dopo qualche altro minuto aveva già
preparato la canna da pesca e ne aveva già gettato l’amo.
Non mi misi ad osservarlo mentre svolgeva tutti i suoi
lavoretti, preferendo concentrarmi su ciò che mi circondava, ma il silenzio che
ci avvolgeva fu interrotto dal suono del mio cellulare. Erano le otto di
mattina, e Jasmine mi dava il suo buongiorno.
‘’Immagino si tratti di quella… Jasmine, se non sbaglio.
Quella ragazza che veniva spesso a farti visita’’, disse Roberto, mentre
rispondevo al messaggio.
Annuii.
‘’Ti piace?’’.
‘’Uhm… ehm… un po’ ‘’, risposi alla sua domanda diretta, dopo
due colpetti di tosse tattici. In fondo però sapevo che potevo fidarmi di
Roberto; lui non era come gli altri miei coetanei, che magari avrebbero potuto
riderci sopra o spifferare in giro i miei sentimenti.
‘’Bene, mi sembra una brava ragazza. Umile d’animo,
intelligente, educata…’’, aggiunse l’uomo, cominciando a montare una sorta di
tendina.
‘’Vero. Ma a volte ho tanti dubbi. Insomma, lei mi piace, è
carina e cortese, si interessa a me e sembra che ricambi almeno un po’ il mio
interesse, ma ciò che mi spaventa è che… siamo così diversi. Ho paura di non
piacerle veramente, d’altronde chi vorrebbe stare con uno sfigato come me?!’’,
sospirai, lasciandomi andare.
Roberto sgranò leggermente gli occhi a quelle parole, e
lasciando perdere ciò che stava facendo per un attimo, si diresse verso di me e
mi mise le sue mani sulle spalle.
‘’Non dovresti parlare così. Non sei sfigato, sei solo una
persona molto timida e chiusa, che però è stracolma di qualità e pregi. Sono
certo che un giorno riuscirai ad affrontare di petto la tua timidezza, e magari
ad aprirti un po’ di più con chi ti circonda, ma nel frattempo non farti
problemi inutili. Tu e Jasmine siete diversi, sia fisicamente che negli atteggiamenti,
ma questo è giusto; la diversità è qualcosa che in fondo avvicina, poiché è
novità, e molte volte è bellezza ed attrazione. Non dovresti esserne spaventato
o inquieto’’.
Annuii alle sue parole.
‘’Certo, hai ragione. Io non ne sono spaventato, ti ho già
detto che lei in fondo mi piace, credo, ma…’’.
‘’Oh, basta con questi ma, ragazzo. Ti fai troppi problemi. Frequentala,
e sii sempre gentile con lei; se poi sarà la persona giusta, vedrai che tutto
il resto verrà da sé. Non si progetta mai nulla in anticipo, quando si
contratta con l’amore’’, concluse Roberto, lasciandomi alle spalle e tornando
alle sue mansioni.
‘’Hai ragione’’, ammisi, senza saper aggiungere altro alle
sue parole colme di verità.
‘’Sai, sono tante le persone false, che cercano di starti
vicino solo per attrazione fisica, o, ancora peggio, per averne guadagno e per
soldi. Jasmine non mi sembra una di queste, non mi pare una ragazza che se la
tiri o piena di sé. Mi sembra una comunissima ragazza, e poi dovevi vedere
l’altro giorno quando l’ho lasciata entrare, ed ha chiesto di te… era così
dolcemente impacciata! Sì, credo proprio che sia una bella persona. Continua a
frequentarla, se te ne darà la possibilità’’.
‘’La sua è un’amicizia gratuita, incondizionata’’, aggiunsi,
ricordando quando lei ed Alice mi avevano offerto il loro supporto, dopo aver
visto ciò che Federico mi aveva fatto.
‘’Esatto. E al giorno d’oggi, fidati di me, ciò che è
gratuito ed incondizionato scarseggia’’.
‘’Purtroppo è vero’’.
‘’Sai che non sono la persona giusta per parlare; avrai
notato di certo il motivo per cui ho scelto di non insegnare mai più. Che
potrei passare a dei giovani studenti? Sono ormai un vecchio dalla barba grigia,
avvilito e frustrato. Quando parlo a volte non mi riconosco, e neppure quando
penso riesco più a gestirmi. Mi sembra di essermi imbevuto in un pessimismo
cosmico, che non mi lascia più vedere l’aspetto puro della nostra società.
‘’Come sai, sono laureato in filosofia, e mi ritenevo a modo
mio un filosofo; ma un filosofo deve avere una visione giusta e sua del mondo,
prima di parlare. Io invece vedo tutto nero ultimamente, e ciò è ingiusto. Non
credo in Dio, ma credo solo che esso sia l’esternazione estrema delle più
irrazionali e profonde paure dell’uomo, e credo fermamente che l’uomo odierno
non abbia più alcuni valori, e che si muova verso gli altri solo per guadagno,
seguendo solo il denaro e il sesso, nelle loro forme più vili. Non sono più un
uomo in grado di passare qualcosa, anche perché ho fallito in ogni mio
obiettivo’’.
‘’Stai parlando come un… depresso’’, intervenni, esitando
prima di sancire la mia sentenza di un’unica parola. Non volevo offenderlo, e
fortunatamente il mio interlocutore non se la prese.
‘’Può darsi che io lo sia. Ma che ci resta, oltre alla
depressione? Tu vedi qualcosa in cui credere, a questo mondo? L’uomo deve
credere in qualcosa, per vivere. Ci hanno portato via il lavoro, la fede, la
felicità, gli anni migliori sono trascorsi…’’.
‘’Ora sei tu però che perseveri nella tua ingiustizia. Guarda
attorno a te; guarda questo luogo splendido! A me trasmette una gran calma e
serenità. Il mondo e la realtà non sono solo esseri umani perfidi e tentatori,
come mi vuoi mostrare tu, ma è anche natura, animali, piante, fiori, laghetti
stupendi…’’, mi lancia a dire, interrompendolo.
‘’Vedrai che l’odio umano distruggerà ogni cosa, prima o
poi’’.
La sua sentenza cadde come un macigno sui miei pensieri,
schiacciandoli. Non seppi cosa ribattere, poiché anche ciò in fondo era vero.
Non ho mai sopportato i sognatori, poiché ho sempre creduto
che essi abbiano da sempre l’intenzione di rendere più dolce la realtà,
rendendola a loro modo pura fantasia, però non ho mai negato che sognare faccia
bene. Ti tiene semplicemente a galla, anche nei momenti più difficili. Ma
l’odio… l’odio, beh, è una questione più spinosa.
In quel momento, mentre parlavo con Roberto e mi ero
azzittito, non sapevo di preciso cosa fosse l’amore, ma ero a conoscenza della
potenza dell’odio. L’odio era quella sensazione che provavo quando scorgevo
Federico, me ne rendevo conto in modo ancor più evidente in quell’istante. Era
qualcosa di devastante, e in più a volte creava anche disagio e spavento,
dentro di me.
‘’Cos’è per te l’odio?’’, domandai a Roberto, a bruciapelo,
esternando le mie inquietanti riflessioni.
L’uomo sollevò gli occhi dal suo lavoro, risistemandosi gli
occhiali sul naso con fare leggermente stupito, per poi correre con le mani a
estrarre una sigaretta dal pacchetto nella tasca dei calzoni mimetici.
‘’La ruota motrice dell’umanità, ciò che ha reso l’uomo
quello che è oggi. In altre parole, ciò che ha donato l’evoluzione alla nostra
specie’’.
Un sorriso mesto e pessimista apparve sul suo volto, mentre
si fermava per accendere la sigaretta, passandosi poi la mano destra sulla
barba.
Io mi limitai a guardarlo, attendendo il proseguimento del
suo discorso.
‘’In natura, difficilmente gli animali uccidono esemplari
della loro stessa specie. E’ vero, durante la stagione riproduttiva i maschi
combattono per il territorio e per le femmine, ma quasi mai lo scontro porta
alla morte di uno dei contendenti.
‘’Invece, l’essere umano ha saputo evolvere un aspetto
mancante alle altre specie; l’odio. L’odio rivolto verso i suoi simili, quel
sentimento che lo porta a voler vedere morto i suoi vicini di casa, a
massacrare i suoi fratelli, genitori e zii… non so se mi spiego.
‘’Tieni solo presente che la nostra specie, nel corso dei
millenni e della nostra evoluzione, ha saputo far fruttare al massimo
quell’aspetto che noi conosciamo in natura come istinto di sopravvivenza,
innato in tutte le creature viventi. Un istinto primordiale, che noi mammiferi
ci portiamo dietro ancora da quando i nostri antenati comuni, piccoli come
topolini, erano esseri notturni che cercavano di vivere nascosti dai grandi
nemici, come i dinosauri e i grandi rettili. Ebbene, l’essere umano, nel corso
della sua evoluzione, è riuscito, contrariamente alla maggior parte degli altri
mammiferi, a convogliare questo istinto primordiale in un sentimento ancora più
potente, che l’ha spinto a migliorarsi.
‘’Se tu ci pensi, la mente umana ha progettato e la sua mano
ha costruito soprattutto per scopi bellici, per imporsi sulla natura e sui suoi
simili. L’odio è diventato il motore della realtà umana, ciò che spinge ad
ingegnarsi, e naturalmente l’insieme di questo complicato processo ha indotto
un’evoluzione ancora più marcata della nostra specie.
‘’Addirittura, questo sentimento spregevole, e che tutti noi
possediamo all’interno della nostra mente, è talmente tanto potente da essere
chiamato con centinaia di nomi differenti, che intasano i vocabolari; da astio
a rancore, da insofferenza a risentimento… e questi sono solo alcuni esempi, ma
essi sono tutte sfumature e sinonimi dell’odio, che noi abbiamo voluto
categorizzare in base alla profondità di ciò che si prova nei confronti
dell’altro, solo per non dover pronunciare ogni volta quella parola che ci
suona tanto brutta. Ma, in realtà, è l’odio il re del mondo e della realtà’’,
concluse l’uomo, con un’enfasi che mi avrebbe lasciato senza dubbio a bocca
aperta, se non l’avessi conosciuto. Era un grande oratore, spietato sotto quel
punto di vista, questo dovevo assolutamente riconoscerglielo.
Tuttavia, trovavo che nel suo pensiero esso desse troppo peso
all’odio, che certo, era un sentimento dominante nella vita quotidiana umana, ma
che non avesse preso in considerazione il suo opposto e antagonista.
‘’Esiste anche l’amore, Roberto’’, gli dissi, con calma.
Lui, che stava finendo di montare la tendina da campo, non mi
degnò neanche di uno sguardo, ma solo di qualche parola fredda.
‘’E chi l’ha mai conosciuto per davvero?’’.
Discorso chiuso. Io, personalmente, l’amore non l’avevo mai
conosciuto in profondità, ma mi aspettavo che un uomo adulto e con una vita
sentimentale ancora attiva, anche se a tratti tormentata, sapesse cosa esso
volesse dire. Ma non aggiunsi altro, poiché il discorso che aveva concluso poco
prima effettivamente non lasciava alcun margine di conversazione. E il peggio
era che dovevo riconoscergli il fatto che la sua posizione estrema avesse un
fondo di verità inviolabile.
Sapevo che molti degli strumenti più tecnologici che
utilizziamo al giorno d’oggi erano stati progettati prima di tutto per uno
scopo bellico, e che la corsa all’avanguardia tecnologica era una sorta di
spinta costante, come la creazione di macchine o ordigni da guerra. Nulla era
stato creato per il bene comune e con fini strettamente benefici e gratuiti, ed
in ogni caso dietro c’era sempre la costante brama umana di ottenere un po’ di
fama e un cospicuo ricavo in denaro, anche a discapito delle vite altrui.
Scuotendo la testa, rassegnato, tornai a fissare il lago
color turchese, inspirando ed espirando con una regolarità tesa.
Dopo qualche attimo, Roberto si mise davanti a me,
imponendosi nel mio campo visivo.
‘’Ti devo chiedere perdono anche questa volta, Antonio. Tutte
le volte che vorrei fare un discorso con te, cado nelle mie sciocche
convinzioni, e rovino sempre tutto. Ti prego di dimenticare anche questa volta
le mie parole. Ti scongiuro’’, mi disse, davvero pentito.
Sapevo che non lo faceva apposta, e che lasciarsi andare alle
sue critiche estreme e brutali faceva parte di lui. Però lo stimavo
profondamente per il fatto che, con le sue parole, mi trattava da vero uomo, da
suo pari.
Non raddolciva i suoi discorsi, non li rendeva più semplici o
meno lunghi e complessi solo perché aveva un ragazzino davanti, ma si
comportava esattamente come se avesse avuto di fronte una persona della sua età
e del suo stesso ambiente intellettuale. Inoltre, la mancanza di malafede nei
miei confronti era lampante, e mi trovavo comunque a mio agio con lui.
Gli sorrisi.
‘’Non devi scusarti di nulla, questa volta hai espresso
concetti che, in parte, ritengo siano giusti, caro professore e filosofo’’, gli
dissi, in tono leggermente disteso ed ironico ma per nulla canzonatorio.
‘’Ora conosci ancora meglio il motivo per cui ho scelto di
non insegnare mai più’’, mi disse, allungandomi una piccola pacca.
‘’Grazie per la sopportazione. So che sono logorroico, e che
quando mi metto a parlare non la smetto più. Ma tu sei un ragazzo educato, non
mi interrompi mai e non ti mostri scocciato. Sei l’unica persona di questo
mondo che non mi mette all’angolo, che mi ascolta davvero, e di questo ti sono
grato, ma sono anche consapevole di abusare del tuo cortese interesse. Sei
molto maturo ed educato, ma il mio Inconscio sembra sempre spingermi ad
approfittarne, come avrebbe detto in questi casi il buon Sigmund Freud. Ma non
parliamone più, e la smetto subito di rovinare questa domenica che dovrebbe
essere serena sotto tutti i punti di vista’’, concluse, sorridendomi e
rivolgendomi, a modo suo, dei bei complimenti.
Sorrisi nuovamente e tornai a guardare il lago, mentre il
sole ormai stava già prendendo una posizione più privilegiata e meno marginale
nel cielo stranamente blu, per nulla grigio o nebbioso.
Ero consapevole che quella sarebbe stata una lunga giornata,
e sperai davvero che tutto potesse andare per il meglio e per il verso giusto,
e che magari il destino mi offrisse anche qualche occasione per svagarmi un po’,
senza finire congelato sulle rive di un laghetto disperso nel bel mezzo di
quelle ignote ed isolate campagne.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!
Questo capitolo non finisce qui, poiché ho preferito
spezzarlo in due più distinti, in modo da non pubblicarne uno unico d’infinita
lunghezza. Quindi, nel prossimo aggiornamento scopriremo come si evolverà
questa giornata di pesca sempre attraverso il punto di vista di Antonio, e,
soprattutto, se poi accadrà qualcosa. Chissà.
Beh, nel frattempo, spero che anche questo capitolo sia stato
di vostro gradimento, e che non vi abbia annoiato.
Il tema del rapporto amore-odio nell’essere umano, affrontato
dal protagonista e da Roberto in questo capitolo, sarà una tematica che
comparirà altre volte nel corso della narrazione. Su di essa, e collegata
quindi al racconto, alcune settimane fa ho scritto e pubblicato una poesia,
contenuta nella mia raccolta Avanzi di
pensieri, ed intitolata Amare,
precisamente la numero 69 della raccolta stessa.
Vi ringrazio per aver letto anche questo capitolo e per
continuare a seguire e a sostenere il racconto, e chiedo scusa se vi ho
annoiato anche con queste lunghe note.
Grazie di cuore per tutto, e buon proseguimento di settimana!
A lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Capitolo 16
CAPITOLO 16
In realtà, quella mattinata insolita passò abbastanza in
fretta. Inutile dire che il mio sguardo si perse più volte in quell’ambiente
selvatico.
Avevo sempre vissuto dentro le quattro mura della mia
abitazione, inglobata all’interno di un anonimo paesetto che, tuttavia,
anch’esso voleva tramutarsi in città, e nonostante la crisi economica ogni anno
si gettavano sempre le basi di tanti cantieri edili, e non stentavo a credere
nel fatto che ben presto anche quella piccola realtà si sarebbe tramutata in
qualcosa di più vasto e complesso. Comunque, essendo abituato a mura di mattoni
e di cemento, tutto quel verde scuro dell’erba provata dai primi freddi di
stagione mi aveva davvero stregato.
Erano passate più di un paio d’ore da quando eravamo giunti
lì, ma non mi ero ancora stancato di osservare e di esplorare ciò che mi
circondava.
Roberto, che non aveva ancora pescato nulla, se ne stava in piedi
a bordo del lago, le braccia incrociate su petto, mentre aveva fissato la canna
da pesca, in modo da non doverla tenere continuamente tra le mani.
‘’Allora, Antonio, che ne pensi di tutto questo?’’, mi
chiese, dopo aver passato un bel po’ di tempo in silenzio.
‘’Penso che sia favoloso. Mi piace questo posto, te l’ho già
detto’’, gli risposi, andandomi a sedere su una sediolina pieghevole che si era
portato dietro il mio interlocutore.
‘’Sono davvero felice che questo posto ti piaccia. Grazie per
aver scelto di venire a farmi compagnia’’, mi disse, rivolgendomi uno sguardo
tranquillo e sorridente.
‘’Grazie a te, per avermi fatto conoscere questo luogo.
Sicuramente, se non mi ci avessi portato tu, non l’avrei neppure mai visto’’,
mi limitai a rispondere, sedendomi sotto al tiepidissimo sole autunnale.
‘’Chissà. Fiero comunque di avertici portato’’.
Tornò il silenzio tra noi, e ben presto mi trovai a rialzarmi
e a dirigermi verso il boschetto circostante.
Osservai le piante rampicanti che mi circondavano, notando
cespugli di splendide rose canine, purtroppo spoglie in quel periodo dell’anno,
e ripresi a fantasticare sulla bellezza del luogo durante la calda estate. M’immaginai
di trovarmi lì, immerso nella verde e fiorita natura, e mi parve un sogno.
Effettivamente, lo era, e mi ritrovai a rabbrividire a causa del fresco della
mattina. Decisi quindi di tornare alla mia postazione soleggiata.
Roberto era ancora lì, in piedi, sulla riva del laghetto.
‘’Mi è venuto un certo languorino. Constatando che sono quasi
le undici, direi che potremmo anche fare uno spuntino, visto che le proviste
non ci mancano… che ne dici?’’, mi chiese, sciogliendosi momentaneamente dalla
sua posizione irrigidita.
‘’Per me va bene’’, risposi, riconoscendo che pure io avrei
messo volentieri qualcosa sotto i denti, dato che la colazione rapidissima e
magra di quella mattina si era rivelata molto poco sostanziosa per il mio
stomaco, come in effetti era per davvero.
L’uomo si mosse verso di me, e smettendo di badare la canna
da pesca, ancora abbassata nelle acque placide e totalmente immobili del
laghetto, si diresse direttamente all’interno della piccola tenda da campo,
estraendo il cestino contenente le vivande.
‘’Mangiamo dentro, oppure fuori? Tieni presente che, se
mangiamo dentro, dobbiamo stare comunque seduti a terra… se invece pranziamo
fuori, possiamo usufruire del piacere delle sedie. Decidi tu’’, mi chiese,
guardandomi.
‘’Mangeremo fuori’’, mi limitai a rispondere, come se fosse
stata una risposta ovvia e scontata. Effettivamente, la tendina mi appariva
ristretta, e in più mi andava di continuare a stare immerso nella luce del
sole, che a quell’ora finalmente cominciava un po’ a scaldare il mio vestiario,
e di conseguenza anche il mio corpo.
Roberto annuì e, dopo aver sistemato le sedie ed aver messo
su una sorta di tavolino fai da te, ovviamente fragile ma costruito in un lampo
con un grosso pezzo di tronco trovato in zona e ricoperto dal muschio, con
appoggiato sopra una lamierina che, molto probabilmente, non avevo scorto prima
poiché era rimasta all’interno della tenda da campeggio. Rimasi sorpreso da
tanta abilità di arrangiarsi.
‘’Sono stupito dalle tue capacità’’, gli feci infatti notare,
sedendomi. Lui ridacchiò sotto i folti baffi.
‘’Sono stato abituato fin da piccolo all’arte di arrangiarmi,
e col tempo ho imparato a sfruttare ogni oggetto che mi capita a tiro, e che
può essermi utile sul momento. Certo, un po’ di previdenza aiuta, però bisogna
anche sapersela cavare. E questo è quello che in certi casi manca a quelli
della vostra generazione’’.
‘’Uhm… è vero’’, mi limitai a dirgli, riconoscendo che io non
sarei stato in grado di sapermela cavare così tanto in fretta.
‘’La campagna era un luogo duro, e mio padre pure. Ti ho già
raccontato, durante quella notte insonne, che il mio genitore non era certo un
santo. Per non rischiare punizioni, dovevo fare in fretta tutto ciò che mi
diceva; in fondo, questa continua spinta dettata dalla paura non mi ha fatto
male’’.
Annuii, mentre lui frugava dentro al cestino, che gli avevo
nuovamente consegnato.
‘’Quanto mi piacerebbe tornare a vivere in campagna.
Purtroppo, le vicissitudini me l’hanno impedito, finora, ma spero di tornarci
un giorno’’, tornò a dire il mio interlocutore, porgendomi un panino
incellofanato ed amorevolmente preparato da mia madre.
‘’Vedrai, se lo vorrai un giorno potrai realizzare questo tuo
desiderio’’.
‘’Tu credi? Speriamo. Sta di fatto che Livia odia gli
ambienti rurali, e lei non verrebbe mai a viverci. Figuriamoci Federico! E poi,
per ora siamo incatenati in paese. Se il futuro sarà clemente, forse un giorno
realizzerò il mio desiderio, hai ragione… d’altronde, la casa dei miei genitori
è ancora di mia proprietà, ed è gestita da alcuni contadini di fiducia, che danno
anche un’occhiata alla produzione agricola delle terre rimaste in mio possesso.
Niente di che eh, si tratta di un qualche vigneto e qualche ettaro tenuto a
foraggio, che però se fossero gestiti al meglio potrebbero fruttare molto di
più.
‘’Un giorno, se vorrai, potremmo andare a farci un giro; non
dista molto da qui, solo che è parecchio fuori mano… pure io è da un sacco di
tempo che non vado a farci una visita. Però l’ambiente è ristrutturato e tenuto
bene’’, continuò a dirmi Roberto, afferrando anche lui un panino e addentandolo
lentamente.
‘’Immagino’’, mi limitai a dirgli, concentrato sul mio pasto
e sulla masticazione.
‘’Eh, ma la mia famiglia è più direzionata verso la città.
Già il tuo paese sta a loro stretto, immaginati la campagna sperduta! Mia
moglie tra l’altro ha avuto la fortuna di ereditare, da una lontana zia
zitella, un bell’appartamento a pochi passi dalla zona centrale di Bologna, parecchio
spazioso ma logicamente situato in una zona parecchio caotica della città, e
come potrai ben immaginare quello non è un posto che mi piace. Però, credo che
il prossimo anno andremo a vivere tutti lì, non appena Federico avrà completato
le superiori. Magari poi potrà andare a studiare all’università, da lì più facilmente
raggiungibile, ed avere tanti vantaggi… comunque, è totalmente arredato anche
quello, e pronto all’uso. È proprio in quel posto dove sono andati a rifugiarsi
l’altro giorno, lei e Federico, dopo che avevano discusso con me’’, concluse,
rabbuiandosi leggermente e continuando a mangiare.
Io nel frattempo non mi azzardavo ad appoggiarmi a quella
sorta di tavolino, temendo di ribaltare tutto, e mi affrettai ad assimilare
tutte le informazioni che mi stava passando l’uomo. Non sapevo che i coniugi
Arriga possedessero già ben due abitazioni abitabili, e questo mi lasciò un po’
perplesso, perché non riuscivo a comprendere il motivo del fatto che avessero
scelto di venire a passare dieci mesi della loro vita in affitto, e in più nel
mio paese, così distante da ambo i loro possedimenti.
Inutile sottolineare che quella volta non riuscii a
trattenere ulteriormente la mia curiosità.
‘’Cosa vi ha spinto allora a venire in affitto a casa mia?
Beh, avete già due case, in due ambienti diversi…’’, chiesi, lasciando che
l’ultima frase mi morisse lentamente in gola. Non ero fatto per chiedere.
Roberto mi guardò per un attimo, riabbassò poi lo sguardo e
mugugnò qualcosa.
‘’Non sto a raccontarti il motivo di questa scelta, magari un
giorno te lo dirò oppure lo scoprirai da solo. Per ora, non ritengo opportuno
parlarne, poiché ciò potrebbe andare a discapito di altri, al momento non
presenti’’, chiuse il discorso, con un modo leggermente brusco.
Quella volta fui io ad abbassare lo sguardo, comprendendo che
dovevo aver toccato un tasto sbagliato, che aveva fatto stonare il componimento
quieto su cui fino a quel momento avevamo basato il nostro discorso.
Capii anche che il motivo di tale scelta abitativa doveva essersi
resa necessaria per una qualche situazione famigliare non proprio limpida,
forse proprio nata da qualche problema del mio nemico. Non credevo che la
scelta fosse stata effettuata per Livia, quindi la mia attenzione scivolò verso
Federico. Mi chiesi, interiormente quella volta, quale fosse il problema di
quel ragazzo, riconoscendo che forse qualche aspetto di esso dovevo già averlo
assaggiato e conosciuto.
Riscacciai quindi i miei intimiditi pensieri, stando in
silenzio e non aggiungendo altro a quello che pareva un discorso chiuso dal mio
interlocutore, che comunque dopo un qualche istante di silenzio e di pesante
cupezza parve voler uscire da sotto quel velo misterioso che aveva gettato
sulla vicenda da me appena accennata.
‘’Ti piacerebbe vivere in campagna?’’, chiese, a bruciapelo.
Sapevo che lo faceva per raddrizzare di nuovo il discorso, in modo da
riportarlo su una più retta e meglio gestibile via.
‘’… sì’’, gli risposi, seccamente e dopo un lieve sospiro,
che parve divenire parte di un’ipotetica frase.
Roberto tornò a guardarmi, comprendendo che il mio disagio
era tornato a farsi vivo, e che l’equilibrio precario che eravamo riusciti a
raggiungere vacillava impietosamente. Di fronte alla mia risposta, che non
lasciava tanto margine di discorso, parve anche lui in difficoltà a spiccicar
parola.
Fui io a toglierlo dal pasticcio e ad aiutarlo, tuttavia
dispiaciuto, poiché lui si stava comportando bene con me, ed io d’altronde non
avevo alcun diritto di ficcanasare liberamente nella sua vita privata, quasi
pretendendo egoisticamente delle risposte.
‘’Un giorno mi piacerebbe, sì. Però, chissà. Mi piacerebbe
fare tante cose, dal suonare all’andare all’università’’, aggiunsi al mio sì
biascicato poco prima.
‘’Uhm, tutti percorsi interessanti. Io ti consiglierei
vivamente di cercare di farti spazio nel mondo della musica; sei davvero
portato, per il pianoforte. In più hai inventiva, e segui spesso il tuo cuore
mentre suoni. Hai una buona fantasia e una discreta creatività, a mio avviso, e
questo è davvero qualcosa d’importante’’, riprese a dire l’uomo, visibilmente
sollevato dal fatto che fossi stato io stesso ad incentivarlo a riprendere a
parlare.
‘’Mi piacerebbe, ma si sa, a volte la vita prende strade
strane… io stesso ho un po’ paura del futuro, lo ammetto. A volte, vorrei che
il futuro fosse un foglio di carta bianco ed immacolato, dove ciascuno di noi
potesse avere la possibilità di scriverci sopra e di realizzarci ciò che più lo
renderebbe felice’’, dissi, in modo molto ingenuo.
‘’Sei un sognatore, noto. Ebbene, mi pare anche di
comprendere che ti piacerebbe che fosse possibile riuscire ad organizzare
l’intera vita, mettendo ordine al suo interno…’’.
‘’Prima di tutto, non mi ritengo un sognatore. Anzi, non
sopporto molto chi sogna troppo e si distacca dalla realtà. Però, posso dirti
tranquillamente che mi piacerebbe che tutto fosse più prevedibile, in modo da
potersi preparare in anticipo a possibili urti, o ad altri problemi… insomma,
avrai capito ciò che voglio dire. Mi piacerebbe che ci fosse un po’ più di
prevedibile ordine ovunque’’, risposi, con difficoltà. Non trovavo facile
spiegare ciò che stavo pensando, mentre nel frattempo cercavo anche di gustarmi
il mio pasto.
‘’Sì, ok, ho capito ciò che intendi. Beh, in fondo hai
ragione; sarebbe bello che ciascuno di noi potesse programmare la propria vita,
a suo piacimento, e magari mettere anche ordine ovunque, pure nei vari eventi
che si susseguono continuamente. Ma ti rendi conto che non si può domare il
caos, che è sovrano della realtà? Insomma, bisogna arrendersi alla sorte e al
caso, per forza di cose. E poi, la vita sarebbe molto noiosa se il tuo
desiderio, che sarebbe sicuramente apprezzato da tante altre persone, si
avverasse. Non esisterebbe più neppure lo stupore, ma una noia piatta, dato che
sapremmo già tutto quello che ci capiterà, e questa non sarebbe quasi più vita’’,
mi disse Roberto, saggiamente. Estrasse anche la bottiglia dell’acqua minerale
naturale e colmò i bicchieri di entrambi.
‘’Penso che tu abbia ragione’’, aggiunsi, bevendo subito
qualche sorso.
‘’Se ci pensi su un attimo, capirai che l’umanità, oltre
tutto, ha affrontato i suoi limiti ed ha provato a cercare di rendere la realtà
più semplice e prevedibile, grazie ai suoi più validi pensatori. Ad esempio, i
matematici è dall’inizio dei tempi che cercano di dare certezze attraverso i
numeri di loro invenzione, e alle loro regole e leggi, che nel corso di
millenni sono diventate sempre più complesse ed astruse, finendo anche per
diventare ingestibili tanto quanto il caos iniziale’’.
‘’Eh, a chi lo dici… io di matematica ci capisco davvero
poco’’, dissi, ridacchiando.
‘’Vedi? In fondo, gli stessi numeri, inventati dall’uomo
stesso per rendere la vita quotidiana più semplice e maggiormente organizzata,
la rendono ancora più caotica. Non fermarti a pensare ai numeri che vanno
dall’uno al dieci, non ha senso; rifletti con maggiore profondità, smonta la
certezza matematica.
‘’Ad esempio; sappiamo per certo che, tra un numero intero ed
un altro, esistono un’infinità di sequenze di altri numeri. Tra l’uno e il due,
esistono infiniti numeri; uno virgola uno, uno virgola due, e così via, senza
stare ad elencare un’improbabile ed infinita sfilza di lunghi numeri periodici.
Tu pensa quante possibili combinazioni numeriche esistono tra l’uno e il dieci;
infinite, e infiniti numeri.
‘’Lo sappiamo, inconsciamente, eppure la nostra mente, così
tanto abituata a volerci semplificare la vita, non si sofferma su questo
sconvolgente particolare, e vuole ripeterci che esiste l’uno, il due, il tre, e
che uno più uno fa due, due più due fa quattro, e tre più tre fa sei. La
matematica è una sorta di camera chiusa che cerca di contenere un’infinità di
varianti numeriche e di probabilità, che logicamente non riescono ad essere
contenute all’interno delle sue inesistenti quattro mura.
‘’Possiamo quindi dire che la matematica stessa, anche a
rigore di logica, è una sorta di stanza dalle mura invisibili, create come per
magia dall’essere umano, ma invisibili ed inconsistenti nella realtà’’.
Roberto stava nuovamente filosofando, ne ero certo, ma non
gli stavo più dietro. Era un peccato, poiché effettivamente ciò che diceva
aveva un senso, ma era troppo complesso e macchinoso per essere afferrato nella
sua totalità da uno come me.
L’uomo, notando la perplessità che era impressa sul mio
volto, si fermò improvvisamente e, guardandomi con fermezza, parve sciogliersi
e mi sorrise.
‘’Ecco, stavo per tornare ad esagerare. Ma questa volta mi
sono fermato in tempo. Tuttavia, riconosco di essere una sorta di nichilista, e
lo sono, a modo mio. Diciamo che non credo a nulla che ai miei occhi possa
sembrare in ordine, poiché esso nasconde sempre il caos, suo originario
principio. In verità, mi piacerebbe smontare tutto ciò che vedo, in modo da poterlo
analizzare meglio con piglio più critico, ma ci vuole forza per farlo, bisogna
essere un grande pensatore per poterci davvero riuscire.
‘’Non dico che bisogna essere un grande scienziato, poiché
gli scienziati molto spesso basano interi loro studi su appunti matematici, ed
ho appena parlato male della matematica stessa, che trovo sì utile, ma fallace
nel suo punto cardine, che sarebbe quello di offrire certezze e punti fermi,
riuscendoci, ma solo in parte e parecchio superficialmente. Ma a questo punto
mi chiedo; io chi sono? Uno sciocco, ovvio. Che annoia e che spara
sciocchezze’’, concluse, alzando un dito in aria. Poi, mi allungò il cestino
contenente tante altre cibarie, e si mise a bere a grandi sorsi.
Io avevo a malapena finito il mio panino, dal tanto che ero
stato trasportato dalle parole del mio interlocutore.
‘’Non è vero che sei uno sciocco, anzi. Il tuo modo di
pensare, oserei dire per assurdo, mi piace parecchio. È solo che è un po’
difficile starti dietro’’, gli dissi, esprimendo il mio parere sulle sue
autocritiche parole.
Roberto non smise di sorridermi.
‘’Tu sei troppo gentile, te lo dico sempre. Ehi, ma guarda un
po’ chi c’è…’’, disse improvvisamente il mio saggio interlocutore, voltandosi
di lato.
Seguendo il suo sguardo, notai con sorpresa che a pochi passi
da noi c’era una magnifica papera, piccola e scura, che si stava dirigendo
lentamente e timidamente verso il nostro tavolino improvvisato e traballante.
‘’Diamole qualcosina da mangiare’’, aggiunse Roberto,
lanciandole qualche briciola di pane, subito divorata in gran fretta dal
simpatico e piccolo volatile, per nulla intimidito dalla nostra presenza.
Mi affrettai a fare la stessa scelta dell’uomo, lanciandole
anch’io qualche briciola.
‘’Non ci teme, la giovincella. Qui durante l’estate è sempre
pieno di bambini, che le danno da mangiare briciole o pezzetti di pane. È
abituata alla presenza umana’’, mi spiegò Roberto, senza togliere lo sguardo
dall’animale selvatico.
‘’E’ una femmina?’’, chiesi, incuriosito dal fatto che il mio
interlocutore avesse parlato della creatura utilizzando il femminile.
‘’Sì, è una femmina di germano reale. È difficile riconoscere
i maschi dalle femmine durante questo periodo dell’anno, visto che durante
l’autunno e l’inverno il loro piumaggio non è affatto differenziato. I maschi
generalmente durante il periodo riproduttivo hanno le piume grigie, che
diventano di una sfumatura verde scuro sulla testa e nera sulla parte centrale
del dorso. Le femmine invece restano tutto l’anno di quel colore lì, marrone
scuro. Questa femmina resta comunque distinguibile dai miei occhi esperti,
poiché non ha alcuna sfumatura di altri colori maschili, che tuttavia non
scompaiono totalmente neppure dopo la muda autunnale’’, mi spiegò il mio saggio
interlocutore.
‘’Però! Te ne intendi di animali’’, gli dissi, assimilando le
nuove nozioni che mi aveva passato. Non ero un esperto di volatili e di papere,
ma mi piaceva sempre scoprire qualcosa di nuovo sui vari animali, visto che la
natura restava uno dei miei interessi principali, assieme alla musica.
‘’Beh, come ben sai, ho sempre vissuto in campagna. Se un
giorno tornerò a viverci, giuro che acquisterò una coppia di anatre domestiche.
Mi piacciono questi volatili dai piedi palmati, non so il perché’’, mi disse
con semplicità Roberto, tornando a lanciare qualche altra briciola alla
bestiola, che, dal canto suo, doveva essere ormai sazia. Infatti, dopo un poco
si allontanò da noi, sempre col suo passo altalenante e dalla parvenza goffa,
per tornare a mollo nel lago.
Mentre osservavo l’anatra, un rumore forte e musicale mi
spaventò, e mi fece sobbalzare sulla mia sedia, rischiando di far traballare il
precario tavolino. Direzionando subito il mio sguardo verso il mio compagno di
scampagnata, notai che tra le mani si rigirava una piccola fisarmonica a fiato.
Lo guardai, estasiato, tramutando il mio piccolo spavento in
una folle curiosità.
‘’No… non dirmi che la sai suonare’’, gli chiesi, impacciato.
‘’Certo. L’ho appena provata, un attimo… ecco, beh, ho
imparato a suonarla in gioventù, ora non sono più tanto esperto, ma per me
questo oggetto è diventato una sorta di ricordo portafortuna. Lo porto sempre
in tasca, con me’’, mi rispose, accennando alla tasca dei pantaloni. Poi,
rapidamente, si mise l’oggetto tra le labbra, e stringendolo con la mano destra
cominciò a soffiarci dentro e a muoverlo rapidamente. Ne uscì una sinfonia
gradevole da udire, totalmente libera, di quelle che mi piacevano da morire.
Restai con le mani incrociate sotto al mento ad ascoltare
quella gradevole musica per un po’, ma non mi sarei mai stancato di farlo, e
avrebbe potuto suonare per tutto il pomeriggio imminente.
‘’Bravissimo, complimenti! Che bello, suoni benissimo!’’, gli
dissi, estasiato, facendo anche un paio di applausi con le mani, non appena
l’uomo allontanò il piccolo strumento dalle labbra.
Mi sorrise, placidamente.
‘’Beh, dai, diciamo che so ancora cavarmela. Piacere tutto
mio, di aver suonato un po’ per te; diciamo che ho ricambiato brevemente la tua
cortesia costante’’, tornò a dire Roberto, accennando ovviamente ai giorni in
cui ne approfittava per entrare di soppiatto nella mia saletta ad ascoltare ciò
che suonavo col pianoforte.
Poi, l’uomo mi fece l’occhiolino, si mise in tasca la
fisarmonica e abbandonò la sua sedia, per tornare a dirigersi verso il lago e
la sua canna da pesca, ancora immobile e con l’esca immersa nell’acqua.
Il pomeriggio passò con una fretta incredibile. Mai mi sarei
creduto che me la sarei spassata così tanto, durante quella piccola uscita che
non mi aveva mai entusiasmato neppure a provare a pensarla, nei giorni scorsi.
Eppure, per un lungo periodo stetti in compagnia dei germani reali, visto che
la femmina era ben presto tornata in compagnia di altri tre suoi simili, alla
ricerca di cibo, e visto che ci era rimasto pane a volontà, dato che mia madre
aveva riempito il cestino dei viveri con così tanta roba che avrebbe potuto
sfamare un mezzo reggimento, ne approfittai per nutrirli abbondantemente.
I simpatici volatili mi si avvicinarono, ed io mi persi a
guardarli, fintanto che Roberto non tornò da me, dopo aver ritratto la sua
canna da pesca, ed averne già ridotto la sua lunghezza facendo la classica
pressione sulle parti da cui era composta.
‘’Dai, su, smontiamo tutto. Sono già le quindici e trenta, e tra
poco comincerà a fare troppo fresco’’, mi disse, cominciando a smontare la
tenda, rimasta pressoché inutilizzata per tutta la giornata. Una giornata che
era stata tiepida e soleggiata, e non avevo nulla da recriminarle.
Mi diressi verso di lui, per offrirgli un aiuto, quando un
pensiero ovvio mi folgorò.
‘’Ma non hai pescato nulla?!’’, gli chiesi, esponendo quella
domanda che mi pareva doverosa, dato che non l’avevo mai visto tirare su la
canna da pesca dall’acqua, e il secchiello bianco che si era portato dietro era
ancora totalmente vuoto ed immacolato.
Roberto mi guardò, elargendomi uno dei suoi soliti sorrisi
rilassati.
‘’No, ovvio che no. Questo lago è di dimensioni troppo
ridotte per contenere pesci, e i pochi pesciolini presenti sono molti piccoli e
non possono abboccare all’amo’’, mi rispose, con grande semplicità. Io rimasi
scosso da quell’affermazione, che detta così poteva apparire scontata.
‘’Ma come?! Non capisco. Hai detto che ci saremo recati qui
per pescare…’’.
‘’Non porti troppe domande, Antonio. Sono un filosofo, no, me
l’hai riconosciuto pure tu. E poi, quel che m’interessava era fare un’uscita, e
magari far conoscere un posto nuovo anche a te, e la pesca era solo un pretesto
che ho utilizzato per dare una motivazione sensata alla mia voglia. Sai, non mi
andava di rovinare questa splendida giornata pescando e uccidendo pesci,
basando quindi la mia felicità personale sulla pelle, o meglio, sulle squame di
altre creature viventi’’.
Motivazione semplice e plausibile, peccato che io non
l’avessi capita fino in fondo. Roberto era un uomo a volte imprevedibile, e il
suo viso rilassato e sornione nascondeva in realtà una mente che era in grado
di cogliermi sempre in contropiede, quando voleva.
Mi arresi a lui, e alla sua superiorità mentale.
‘’Ha ragione, maestro’’, gli dissi, cercando di sciogliere il
mio stupore con una pacata ironia.
L’uomo rise a voce alta udendo quelle parole, poi andò alla
ricerca del pacchetto delle sigarette, mettendosene poi una di esse tra le
labbra.
‘’Caro discepolo, ti ho detto che nella vita regna il caos,
ed esso a volte si può nascondere dietro ad una parvenza di regolarità. Bisogna
imparare a non prevedere nulla, e a non volere dare sempre un senso forzato ad
ogni situazione, cercando motivazioni varie anche quando le più valide sono
state ormai smontate. Ora mi fumo questa sigaretta, piego la tenda e prendo su
la lamierina e la canna da pesca, e se ti andrà, tu potrai portare alla
macchina il secchiello e il cestino dei viveri. Torniamo a casa’’.
Giunsi a casa ancora scosso dal comportamento di Roberto. Ma
ero piacevolmente rilassato.
Il viaggio di ritorno era stato più silenzioso di quello
d’andata, però sempre allietato dalle varie canzoni dei Police. Mi ritenevo
sodisfatto di quella giornatina, che tutto sommato si era rivelata piacevolmente
gradevole. Mi ero preparato per affrontarla con giorni d’anticipo, studiando e
facendo tutti i compiti durante il sabato, e non avevo nulla da recriminarmi;
mi sentivo in pace con me stesso e la scampagnata, nonostante tutto, mi aveva
fatto bene e mi aveva aiutato a staccare per un po’ la spina dalla solita,
opprimente e noiosa routine.
Appena sceso dalla macchina, non feci in tempo neppure a
richiudere lo sportello che notai mia madre ben piazzata nel mezzo della porta
del garage, che ci veniva incontro per aiutarci a scaricare ciò che c’eravamo
portati dietro fino al lago.
Mi rivolse un caldo sorriso, prima di chiedermi come fosse
andata la giornata.
‘’Bene, mamma. È stata una giornatina piacevole’’, le
risposi, sorridendo anch’io. Era la verità.
Poiché mia madre era una donna del tutto dedita ad ogni sorta
di lavoro, non si perse in altre inutili chiacchiere, e dopo aver afferrato il
cestino dei viveri, ancora pieno per metà, tornò in casa, seguita a ruota da
me. Roberto rimase in garage, a sistemare il secchio e la tenda, cercando di
rimetterli nell’angolo in cui erano stati riposti fino a quel giorno.
Una volta rientrato nella mia umile dimora, mi diressi in
cucina, e quasi sbattei contro ad un torvo Federico, che mi passò da fianco e
si diresse al piano superiore.
Mia madre aveva già la cena pronta, e la lasciò nel bel mezzo
del tavolo, e non appena Roberto rientrò, pochi minuti dopo, chiamò al piano
inferiore la sua intera piccola famiglia, per affrontare il pasto serale. Erano
le diciannove, circa, e fuori ormai il buio regnava sovrano, contrastato solo
dai lampioni lungo la strada e dalle luci dell’illuminazione blanda del nostro
giardino.
Mentre entravano nella cucina, ed io mi dirigevo nella mia
saletta, ad accudire il mio caro pianoforte, mi soffermai a guardare i miei
inquilini; sia Livia che Federico mi lanciarono occhiate di fuoco, parecchio
infastidite. Compresi che non avevo fatto bene quel giorno a seguire l’uomo
della loro famiglia, e che forse avevo innervosito qualcuno, ma non volli
prestarci caso.
Ero ancora rilassato, e su di me sentivo tutta la
tranquillità di quella giornata ormai conclusa ed estremamente piacevole, e non
mi andava di cominciare ad andare in paranoia e di rovinarmi la serata. Quindi,
m’infilai in fretta nella mia buia saletta, che illuminai subito.
Mi sedetti al mio pianoforte, senza avere l’intenzione di
suonare subito, ma solo di osservarlo per un po’, ma per quel giorno non erano
finite le sorprese che il destino mi aveva riservato.
‘’Antonio, per favore, vai ad aprire la porta, che qualcuno
ha suonato il campanello! Io sto servendo la cena…’’, disse ad alta voce mia
madre, probabilmente dalla porta della cucina.
Con un sospiro, abbandonai il mio pianoforte e mi diressi
verso l’ingresso come se fossi un automa, irritato dal fatto che la mia cara
mamma in quel momento stava venendo selvaggiamente sfruttata dall’aristocratica
e dal bullo, tuttavia obbedii al richiamo che mi aveva fatto ad alta voce.
Non avevo udito il campanello dalla mia saletta, come al
solito, e dopo aver abbandonato il mio rifugio mi diressi a passi lenti verso
l’atrio e la porta d’ingresso, chiedendomi di chi si potesse trattare a quell’ora.
In genere, nessuno veniva mai a farci visita.
Sapendo che non si trattava di certo di qualcuno dei miei
nuovi amici, aprii la porta con curiosità, lanciando una sbirciatina, per poi
sobbalzare subito dopo. Di fronte a me, un uomo alto e magro mi stava fissando,
dopo essere entrato nel giardino da solo, violando il cancelletto esterno senza
alcuna autorizzazione.
Il problema principale era che sapevo chi era quell’uomo, e
la mia mente era caduta in un baratro colmo di trepidante timore.
‘’Allora, mi vuoi fare entrare in casa oppure no? Cos’è, non
mi riconosci più? Certo, sono passati dieci anni dall’ultima volta che mi hai
visto, ma tu non sei cambiato per nulla, resti il solito imbambolato’’.
La sua voce tagliente mi tornò alla memoria, e confermò i
miei più tremendi pensieri. Non mi scostai dalla porta, continuando a restare
pietrificato sulla soglia.
‘’Oh, diamine, lasciami entrare’’, mi disse l’uomo con fare
scocciato, spintonandomi indietro ed entrando in casa, con una discreta
prepotenza.
Mio padre era improvvisamente tornato, dopo anni di
latitanza, e a me non restava altro da fare che prenderne atto.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti, carissime lettrici e carissimi lettori!
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.
Il ritorno del padre di Antonio sarà un evento che
scombussolerà un po’ le carte in tavola… vedremo come.
Per adesso ci tengo solo a ringraziare infinitamente tutti i
lettori e i recensori del racconto. Vi adoro, e siete la mia forza! Senza di
voi, questo racconto non sarebbe lo stesso, e forse neppure io lo sarei. Grazie
per tutta la fiducia che riponete in questo scritto, e per i bellissimi
complimenti che mi rivolgete ogni volta!
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a presto J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Capitolo 17
CAPITOLO 17
Gli eventi cominciarono a susseguirsi senza alcuna sosta, e
quasi mi travolsero. Fu come se quella giornatina rilassante e strana, passata
in compagnia di Roberto tra le campagne e sulle rive del laghetto sperduto e
dalle acque limpide e turchesi, fosse stata una sorta di magica quiete prima
della tempesta.
In questo punto i miei ricordi si fanno inquieti, poiché essi
sembrano volere venir fuori tutti in una volta, ma così facendo rischierebbero
di creare una situazione caotica, e in questo momento non devo assolutamente
lasciarmi andare a qualcosa del genere. Devo essere attento e riflessivo, devo
ripercorrere questo passato recente con attenzione, come un’equilibrista che,
sul proprio filo teso sul baratro oscuro, trattiene il respiro e spera di non
precipitare giù, verso una fine a lui ignota, eppure tanto chiara.
Ebbene, il breve momento di tregua si spezzò con il ritorno
di mio padre. Non sapevo a cosa fosse dovuta questa sua mossa, e a dirla tutta
mi parve che il mondo mi fosse crollato addosso.
Prima di tutto, lì per lì fui travolto dai ricordi più
lontani ed inquieti della mia infanzia.
Mio padre era stato un uomo eccentrico, strano, a tratti
prepotente. Ricordo che il suo primo, e forse anche l’unico insegnamento che mi
volle passare, fu proprio quello di compiere sempre le mie scelte, ma di non
dover mai contare su di lui. Non so se questo fosse un discorso giusto da fare
a un bambino, ma non credo proprio che sia così.
Mio padre è sempre stato un grande scherzatore, un
denigratore nato. Abile nell’umiliare gli altri, non passava giorno che non
tornasse a casa raccontando qualche aneddoto che gli era accaduto, sputando
giudizi e strafottenti sentenze su colleghi e persone con cui aveva avuto
contatto durante quella giornata. Mia madre ad un certo punto non lo tollerava
più, ed essi litigavano giorno e notte.
A mio padre è sempre piaciuto compiere scelte, ma
contrariamente agli insegnamenti che voleva passarmi, l’ha sempre fatto sulla
pelle degli altri, fregandosene del fatto che chi lo circonda è anch’esso
umano, e grazie al Cielo ha anche lui una personalità ed un punto di vista,
corretto o meno. Il suo modo di motivare le scelte era, e lo è ancora, quello
di alzare la voce, dimostrandosi imponente e prepotente.
Non seppi mai per certo come fece mia madre ad innamorarsi di
lui, ma con i vaghi indizi che sono riuscito a raccogliere nel tempo dapprima
dai miei nonni, e poi da lei stessa, ho potuto riscostruire mentalmente tutta
la loro vicenda sentimentale, premettendo però che mio padre è un tipo ambiguo,
a due facce, una per la vita pubblica e l’altra per la vita privata. Un
approfittatore prepotente in casa, un uomo perfetto al di fuori delle mura
domestiche.
Ma procedo con ordine, come mi sono più volte ripromesso.
Mia madre conobbe mio padre durante la sua breve parentesi
universitaria. All’epoca lei aveva quasi vent’anni, ed aveva appena cominciato
a frequentare le lezioni di economia e commercio, prevedendo per lei un buon
futuro. Poteva effettivamente averlo; i suoi genitori potevano mantenerle gli
studi e supportarla, ed inoltre era davvero brava e portata per lo studio. Era
uscita dalle superiori con voti da favola, e poteva davvero credere nei suoi
sogni.
Ebbene, a metà del primo anno e in prossimità di alcuni esami
che si preannunciavano molto tosti, mia madre ebbe il timore di non sentirsi
comunque preparata a dovere per affrontarli, accorgendosi di alcune sue lacune,
e chiese una mano ai suoi, che ovviamente non seppero soccorrerla in modo più
concreto che cercarle un qualcuno in grado di poterle offrire un dignitoso e
valido aiuto.
Mamma Maria è sempre stata precisina in tutto ciò che ha
fatto, e me la potrei immaginare in ogni momento afflitta dall’ansia di non
riuscire ad affrontare degnamente un qualche ostacolo, e il pensiero e il
timore degli esami imminenti dovevano averla stressata così tanto da farla
spaventare parecchio. Inoltre i professori universitari erano molto più rigidi
e severi di ora, da quel che una volta mi ha raccontato, ed erano molto meno
disposti a venire incontro agli studenti. Se una cosa la capivi bene, se non la
capivi nella maggior parte dei casi t’arrangiavi.
Mio nonno, ormai profondo conoscitore del timore disperato
della figlia, riuscì a contattare un insegnante disponibile a darle una mano
per prepararla al meglio. L’insegnante in questione era ritenuto molto bravo in
economia, a suo tempo laureato a pieni voti e molto stimato in ambito
universitario. Una persona indubbiamente preparatissima.
Insomma, il miglior soggetto in circolazione che potesse dare
una mano a mia madre.
Il suo nome era Sergio Giacomelli, all’epoca aveva trentanove
anni e si trattava proprio di colui che poi sarebbe diventato mio padre.
Non ho idea di come accadde il misfatto, se così lo si può
chiamare; so solo che, ad un certo punto, tra loro due nacque una sorta di
frequentazione assidua, tenuta nascosta agli occhi dei miei nonni materni e
camuffata con la scusa delle lezioni private e con tante altre scuse varie.
Dopo tre mesi dal loro primo incontro, mia madre incontrava
mio padre assiduamente, probabilmente infatuata dalla sua aura da uomo maturo,
capace e competente, inventando sempre scuse nuove da dire ai suoi genitori, in
modo da non attirare la loro attenzione, cosa che comunque riuscì solo in
parte, visto che Maria usciva di casa tutta gioiosa e truccata.
Logicamente, i miei nonni compresero in fretta che la loro
figlia tanto timida e riservata, che fino a pochi mesi prima aveva sempre
cercato di passare inosservata, stava cercando di attirare l’attenzione di
qualcuno, e che forse l’aveva già attirata, frequentandosi di nascosto con un
ignoto.
Non sospettando nulla di così importante, o comunque credendo
che si trattasse di un qualche suo coetaneo e lasciando che la ragazza se la
cavasse da sola nella sua probabile vita sentimentale, i genitori non ficcarono
il naso ovunque, ma la lasciarono abbastanza libera. Mia madre era molto matura
per la sua età, a livello mentale s’intende, e tutti si fidavano di lei. Non
credevano che potesse lasciarsi andare a scelte troppo complesse, o comunque
involontariamente ingenue.
Poi, una notte, la mia futura mamma si svegliò in preda a dei
fastidiosi dolori; accompagnata dai genitori in fretta all’ospedale Sant’Orsola
di Bologna, venne fuori la verità; era al secondo mese di gravidanza, e col
fatto che non l’avesse previsto e che si fosse trascurata, nei giorni prima del
forte fastidio, aveva rischiato un aborto spontaneo.
Quella minuscola creatura che aveva rischiato di morire molto
prima del tempo ero proprio io.
Da questo punto in poi, la vicenda mi è sempre risultata
piuttosto limpida, poiché mio nonno, su mia esplicita richiesta, aveva da
sempre fatto chiarezza su tutto.
Mia madre, una ragazza all’epoca molto matura, ma molto
ingenua sotto il punto di vista più intimo e riguardante la vita sessuale
attiva, a quella scoperta gioì, senza avere la più pallida idea di cosa potesse
comportare avere un figlio in giovane età, e per di più senza fare i conti col
futuro padre e con i genitori, che erano rimasti sbalorditi da ciò che avevano
appena avuto modo di conoscere. Nessuno si era mai aspettato un simile evento.
Da quel momento in poi, la gioia finì per la mia giovanissima e cara mamma,
visto che mio padre non fu tanto contento della gravidanza, e i suoi genitori
non furono tanto contenti del genero, dopo averlo conosciuto.
Mio nonno aveva quarantanove anni, all’epoca, e mio padre
trentanove, e per lui era come se sua figlia avesse scelto un uomo inadatto per
lei, un uomo che poteva essere suo padre. Tuttavia, nonostante Sergio fosse inizialmente
riluttante, alla fine sposò mia madre, e per qualche tempo tutto parve filare
liscio.
Poi, giunse il momento della drastica scelta, quella che poi
cambiò per sempre e indelebilmente la vita di mia madre; quella di lasciare
l’università. Una giovane ragazza incinta, al primo anno e già con notevoli
difficoltà a seguire il percorso, non aveva alcuna chance di poter continuare
il corso di studi.
Tutto andò a rotoli in fretta, in pratica, e anche il
rapporto con mio padre scivolò rapidamente verso un baratro oscuro.
A volte penso che entrambi i miei genitori avessero pensato
che forse l’aborto non doveva essere una scelta sbagliata, in questo caso,
poiché avrebbe permesso loro di tornare a vivere le loro vite senza alcun
ostacolo o convivenza forzata, prima del matrimonio. Ma, effettivamente, questi
sono miei pensieri personali di cui non ho mai avuto conferma nella realtà, né
altro. Forse è la mia visione troppo pessimista del rapporto di coppia dei miei
ad avermi spinto a pensare una simile e perfida idiozia. Ma il matrimonio, come
ho già specificato, ci fu, e la loro unione fu legalizzata, com’era molto
importante qualche decennio addietro. E dopo, mia madre non gioì mai più,
poiché fu la fine dei suoi sogni.
L’abbandono degli studi, il rapporto teso col novello marito,
le discussioni con i genitori e la gravidanza la stressarono e la sfiancarono
talmente tanto che, ad un certo punto, dovette recarsi di sua spontanea
iniziativa e in anonimato presso un centro assistenziale di Bologna, il cui
obiettivo era quello di aiutare le ragazze come lei, giovani e deluse, a
cercare di vivere con maggiore serenità la realtà. Era una sorta di primo
approccio all’odierna assistenza psicologica, credo.
Mio nonno l’accompagnava ogni giovedì sera in quel luogo, e
le sue visite continuarono fino al periodo strettamente precedente alla mia
nascita.
Dopo la mia nascita, mia madre non ebbe più bisogno di
affrontare cure o percorsi, poiché aveva trovato nel suo pargolo una nuova
forza, che le permise di tornare a rafforzarsi interiormente e di riprendere in
mano la sua vita, e ciò non andò molto bene al marito, geloso e comunque molto possessivo,
anche se aveva un modo tutto suo di dimostrare ciò.
Credo che a mio padre non fosse mai importato molto di mia
madre; lei, ai suoi occhi, doveva apparire come una conquista giovane e
fertile, una ragazza come tante altre, solo che gli aveva dato un figlio. Però,
restava pur sempre possessivo, e non appena la mamma compiva qualche passo
verso una sua libertà, magari cercando un lavoretto e tentando di diventare più
indipendente dallo stipendio del marito, che nel frattempo si stava accingendo
a diventare a tutti gli effetti un docente universitario, lui cercava di smontarla
in ogni modo.
Nei miei ricordi d’infanzia appaiono molte scene che, anche
se sfocate nella mia mente, riportano parole pesanti, come scema, sciocca,
stupida. Erano quelle le parole che Sergio diceva a Maria, davanti a suo figlio
piccolo, senza pensare troppo al fatto che i suoceri abitavano al piano
superiore, dove ora ci sono le nostre stanze da letto.
Mia madre col tempo prese forza, e quando lui la umiliava e
si divertiva a smontare crudelmente le sue idee e la sua vita, lei gli si
rivoltava contro, con grida e spergiuri. Difficile credere che una donnetta
così piccola potesse avere tanta forza, eppure era così.
I miei litigarono per qualche anno, poi, poco dopo che ebbi
compiuto nove anni, mio padre se ne andò, senza dire nulla, e dopo l’ennesima
sfuriata. Mia madre era certa che lui avesse un’altra donna, che fosse riuscito
a trovare un’altra vittima innocente, da rendere sua succube, ma non sapemmo
mai nulla di certo. Sparì dalle nostre vite, per tornare all’incirca una decina
di anni dopo.
Il mio unico genitore rimasto non cercò mai denaro dall’uomo
che un tempo aveva creduto di amare, e si era dato da fare per lavorare
duramente, giungendo pure a mettersi a pulire wc pubblici, pur di portare a
casa qualche soldo e mantenermi nel migliore dei modi. Io sono molto grato a
mia madre, quella grande donna.
Seppi che mio nonno aveva cercato informazioni su mio padre,
andando a cercare i suoi parenti, visto che Sergio aveva ben due fratelli
maschi, tutti e due sposati e inferiori d’età, ma loro non si degnarono mai di
rispondere ad alcuna domanda, e neppure di pensare a me, loro nipote.
Così, i miei vissero separati, ma senza alcuna separazione e
successivo divorzio, visto che mio padre era praticamente irrintracciabile per
mia madre e non avrebbe firmato i fogli e le varie pratiche, per ripicca.
Non avevo mai avuto contatti con i membri della mia famiglia
paterna, e non li avevo neppure mai visti.
Questa era la storia della mia famiglia. Una storia destinata
a mutare molto in fretta, dal momento in cui Sergio rientrò improvvisamente
nelle nostre vite, senza alcun motivo apparente. Non diede alcuna spiegazione a
mia madre, ma la convinse coi suoi modi bruschi a restare a dormire per un paio
di notti a casa nostra, sul piccolo divanetto al margine della cucina, e lei,
troppo buona e pietosa, accettò. Ma vedevo che mamma Maria era tornata ad
essere irritata e nervosa, da quando lui era tornato.
Io avevo perso la mia saletta, dopo il suo ritorno, visto che
era tornato ad utilizzare la sua poltroncina per leggere i suoi giornali, e non
voleva essere disturbato in alcun modo.
Avevo perso la mia felicità, la tranquillità di mia madre,
l’equilibrio che regnava in casa mia, il mio rifugio, e per di più anche il mio
amato pianoforte e la mia musica. Avevo perso tutto, in un colpo solo.
Una sorta di cupa depressione mi afflisse nel giro di poche
ore, assieme ad un crescente nervosismo.
Insomma, avevo perso la mia tranquillità tra le mura domestiche,
e ciò si ripercosse già dal primo giorno sulla mia vita scolastica, vista la
mia irritazione continua e lo stato emozionale in cui navigavo. Però, ne
dovevano ancora accadere di ogni sorta.
La mattina dopo al ritorno di mio padre, mi sbrigai a prepararmi
e a sfrecciare verso il liceo.
Il mio genitore, alle sette e mezzo di mattina, era già
sveglio e se ne stava placidamente seduto sulla poltroncina della mia saletta,
recentemente riconquistata. Quel posto era tornato ad essere in fretta il suo
territorio.
Con l’amaro in bocca, pregai che mia madre prendesse una
decisione in fretta, e che magari lo cacciasse via di casa. Pure chiamando i
carabinieri, se il caso l’avesse richiesto; l’abitazione era di proprietà della
mamma, e quel mascalzone prepotente doveva andarsene. Era brutto da pensare, ma
non potevo già più reggerlo.
Giungendo davanti al liceo in fretta, prima di tutto notai a
distanza che sia Alice che Jasmine erano presenti, e stavano chiacchierando ai
margini della folla. Il mio cuore si mise a battere ancora più rapidamente, e,
non aspettandomi il loro lieto ritorno, mi avvicinai rapidamente. Averle viste
mi aveva donato un attimo di felicità.
‘’Ragazze!’’, dissi gioiosamente, non nascondendo la mia
felicità di averle trovate lì, pronte ad entrare a scuola ed entrambe in
apparente buona salute.
Loro si voltarono verso di me, e notando la mia gioia mi
sorrisero. Jasmine lo fece in modo molto più caloroso, mentre Alice pareva un
po’ più fredda.
‘’Antonio! Vedi, sono tornata… me la son vista bruttina sta
volta eh, però mi sono rimessa in sesto perfettamente e sono guarita alla
perfezione’’, mi rassicurò prontamente Jasmine, continuando a sorridere.
‘’Io ancora no… oh mamma, mi sento uno straccio da pavimenti…
la febbre mi si è abbassata ma ho ancora un gran mal di testa e non sono di
certo al meglio, però dovevo venire oggi a scuola… se no chi la recupera più la
verifica di storia…’’, mormorò Alice, con la voce roca. Annuii alle sue parole.
‘’Capisco. Restare indietro coi compiti in classe è sempre
un’arma a doppio taglio. Se da una parte ci si può preparare meglio, poi però
si accumulano. In bocca al lupo, per tutto’’, le dissi, donandole il mio
sostegno.
‘’Crepi, il maledetto lupo. O forse creperò io, prima di questa
sera’’, ribatté la mia amica, tragica.
‘’Caspita Alice, oggi sei davvero insopportabile. Dovevi
startene a casa…’’, replicò Jasmine, stimolata dall’umore nero dell’amica.
‘’Se fossi stata a casa, assieme ad una delle verifiche più
importanti e pesanti del trimestre mi sarei persa anche l’opera d’arte…’’,
aggiunse Alice, con un tenue sospiro finale.
Non capii a cosa si stava riferendo, con le ultime parole, ma
mi aiutò Jasmine, indicando con la mano la parete frontale del liceo.
‘’Certo che si sono dati da fare, eh. Chissà chi è stato, ma…
a dire il vero un’idea ce l’avrei’’, disse la ragazza riccia, allungando il suo
braccio verso la nostra scuola, ancora un po’ distante.
E allora notai ciò che mi era sfuggito. Effettivamente, mi
ero lasciato così prendere dalla vista delle mie care amiche che non avevo
rivolto uno sguardo alla scuola e agli altri presenti. Di fronte all’ingresso
del liceo, c’era una gran ressa di studenti, che si spintonavano per vedere una
sorta di grandissimo murales, dipinto con le classiche bombolette spray, che
aveva praticamente imbrattato tutta la bassa facciata della scuola con tante
figure oscene, e con parecchie parolacce scritte su uno sfondo spruzzato in
tutta fretta.
Ero allibito e senza parole. Rimasi ammutolito ad osservare a
distanza, e parzialmente, quello scenario inaudito.
‘’Non dirmi che non l’avevi notato, prima di venirci
incontro. Chissà questa notte quanto hanno lavorato i vari ‘’artisti’’ ‘’, mi
disse Jasmine, sfiorandomi una mano con la sua, ben più calda. Provai una sorta
di brivido piacevole, simile a quello provato dopo il suo bacetto che mi aveva
impresso sulla guancia, ma il complesso dei miei sentimenti entrò in contrasto
con lo stupore che provavo in quel momento.
‘’A dire il vero, mi sono recato direttamente verso di voi e
non mi sono guardato attorno. Quindi, mi accorgo solo ora dello scempio’’,
ammisi, osservando alcuni carabinieri che, vestiti a puntino, si stavano
dirigendo verso i vergognosi disegni. Riconobbi che la preside doveva già aver
avvertito le autorità dell’accaduto, e sperai che i vandali non avessero fatto
altri danni.
Mentre continuavo a fissare ciò che stava accadendo, una
bidella si affacciò all’improvviso sull’ingresso dell’istituto, e ad alta voce
invitò tutti gli alunni presenti ad entrare, e a recarsi nelle aule, in modo da
non turbare il sopralluogo delle forze dell’ordine.
Ancora ammutolito e senza parole salutai quindi a malincuore
e con un semplice sguardo le mie due amiche, mentre ci dirigevamo tutti
all’interno del liceo.
Varcando l’atrio, notai i segni che alcune sassate avevano
lasciato negli spessissimi vetri della piccola e bassa pensilina della scuola,
e continuai a restare allibito dall’operato di quei vandali distruttori. Non so
il perché ma la visione di tale violenza mi portò direttamente ad accusare
Federico, anche se non ne avevo le prove. In più, il mio inquilino la sera
prima era in casa. A meno che non fosse poi uscito in tarda serata, e mi fosse
sfuggito un qualche suo spostamento.
Mi diressi verso la mia classe, immerso nelle strida ad alta
voce degli altri studenti, già nelle loro aule, che fantasticavano
sull’accaduto, oppure ridevano. C’era anche chi era rimasto colpito dall’evento,
per fortuna, e si aggirava per i corridoi in silenzio, proprio come me.
Nella mia aula, stranamente, regnava una sorta di silenzio
pesante, che s’ingigantì con l’ingresso di Federico, che entrò poco dopo di me,
per nulla colpito da ciò che doveva aver visto pure lui. La cosa mi puzzava, e
davvero, quasi mi affrettai a dargli mentalmente delle colpe. Però, poi misi a
tacere i miei pensieri personali, senza basi fondate al momento.
Restammo tutti in silenzio, ed aprii la bocca solo per
salutare Francesco e Giacomo, ormai miei buoni conoscenti, che mi rivolsero un
caloroso sorriso.
A toglierci da quella situazione pesante fu l’improvviso
suono della prima campanella, e l’altrettanto inaspettato ingresso in classe
della professoressa Carlucci, che quella mattina doveva venire nella nostra
aula solo per la quinta ora, seguita sorprendentemente a ruota dalla preside.
Tutti noi, sorpresissimi, ci alzammo in piedi, salutando con
una diligenza che soltanto il colpo di scena poteva imporci. La preside del
liceo era sempre stata una personalità lontana, e praticamente gli alunni
potevano scorgerla di vista qualche volta nel corso del loro percorso
scolastico, magari nei corridoi o all’ingresso, e in genere non si recava
davvero mai nelle classi singole, magari preferendo mostrarsi nell’aula magna,
di fronte all’intero plesso.
La preside era una signora ancora piuttosto giovane,
abbastanza alta e con un fisico attraente. L’unica cosa che storpiava un po’ il
suo visetto rotondo e leggermente paffuto, ma piacevole alla vista e
dall’espressione gentile, era la sua chioma arricciata e di un colore piuttosto
sbiadito e strano. Sembrava quasi che, su una tinta bionda, ci avesse fatto
rovesciare della candeggina. Questo in genere suscitava l’ilarità dei ragazzi,
ma non quella volta, poiché la signora pareva in preda ad una rabbia talmente
tanto potente da averle sconvolto i lineamenti pacati che regnavano sempre ben
impressi sul suo viso.
‘’Seduti, prego’’, disse ad alta voce la preside, mentre
prendeva posizione alla cattedra, con la prof Carlucci a suo fianco e in
rigoroso silenzio.
‘’Non voglio fare preamboli, oppure prendere la vicenda alla
lontana o perdere inutilmente tempo. Andrò subito al dunque, quindi’’, tornò a
dire la signora, facendo una pausa ad effetto e aspettando che tutti noi ci
fossimo risistemati sulle sedie, nel modo più tranquillo e silenzioso
possibile.
Guardai i volti dei miei compagni, e fui certo che anche loro
immaginavano che quella repentina visita a sorpresa fosse dovuta a ciò che i
vandali avevano combinato.
‘’Sono accaduti dei fatti molto gravi, questa notte. Avrete
senz’altro notato, entrando, ciò che qualche malintenzionato ha combinato. Sono
rimasta senza parole di fronte a tanta volgarità, e a tanta violenza riservate
e riposte contro un edificio pubblico, emblema dell’imparziale istruzione, e
ammetto che nella mia vita non mi era mai capitato prima di dover vedere un
simile scempio, così trucemente impartito ed organizzato.
‘’Dovete sapere che ho come il vago sospetto che tutto ciò
sia partito dall’interno del liceo, e dalle classi più avanzate. Sono settimane
che ascolto strani discorsi; un’insegnante dell’istituto mi ha riportato di un
brutto incidente accaduto alla sua auto, e che secondo lei è dovuto a una
vicenda consumatasi tra queste mura scolastiche. Una coordinatrice di classe mi
ha parlato di episodi strani, di alunni che non fanno il loro dovere, di altri
più maleducati. Un altro insegnante mi ha messo al corrente di un episodio
violento accaduto nella palestra poco tempo fa, e negli scorsi giorni ho
rinvenuto una lettera anonima di uno studente, lasciata sotto la porta del mio
ufficio, che dichiara che qualche altro giovane di questa scuola si sta
comportando in modo scorretto su Internet, a danno della comunità.
‘’Ebbene, sappiate che tutto ciò è stato messo agli atti, e
che personalmente combatterò una battaglia in nome di questo istituto
scolastico, per far venire fuori la verità su tutte queste vicende, poiché ciò
che accade dentro queste mura è anche e soprattutto sotto la mia
responsabilità.
‘’Ragazzi, qui in questa classe siete tutti maggiorenni,
ormai; sappiate che ciò che è stato commesso è considerato reato a tutti gli
effetti dalla legge italiana. Siete ormai dei giovani uomini e delle giovani
donne, e se commettete dei reati, sarete poi direttamente sottoposti alle rispettive
sanzioni. Dato che ormai sembra certo che la vicenda non si tratta di una
ragazzata, ma di una vera e propria catena di violenza, farò si che le forze
dell’ordine indaghino su ciò che è accaduto e su ciò che si teme sia correlato
a vicende interne al liceo, in modo da trovare in fretta il colpevole, o i
colpevoli, e di fare in modo che essi paghino per ciò che hanno commesso’’,
continuò la preside, senza sosta e piena di foga. Ci stava facendo la
paternale.
Nessuno di noi l’aveva mai vista così tanto arrabbiata, ed
eravamo raggelati sui nostri banchi.
‘’Ci sono giunti fascicoli da altre scuole, dove si parla di
altri comportamenti similmente scorretti, accaduti negli scorsi anni e causati,
da quel che si dice, da allievi che in questi giorni starebbero frequentando
questo liceo. Consiglio davvero a chiunque di non cercare più di mettersi nei
guai, e spero che se qualcuno è in grado di offrire informazioni sui fatti
accaduti si rechi a vuotare il sacco o a dire quello che sa, fornendo un
contributo attivo nelle indagini che naturalmente potrà essere poi considerato
leggermente in suo favore.
‘’Nel frattempo, giuro che farò in modo che le forze
dell’ordine facciano chiarezza su ciò che è successo e su ciò che sta
succedendo. Mi impegnerò anche a fare il giro di ogni singola sezione, in modo
che tutti quanti siano informati di ciò. Buona giornata’’. E così dicendo, la
signora preside uscì dalla classe, scura in volto, lasciandoci allibiti.
Sapevo, come gli altri penso, che quel discorso era rivolto
in modo particolare al nuovo arrivato, a Federico, che dal canto suo non pareva
molto scosso dalle parole della donna. Ma non mostrava neppure la sua solita
sicurezza.
‘’Ragazzi, ciò che è accaduto e che sta accadendo è
gravissimo. Spero vivamente che nessun fatto sia collegato a qualche componente
di questa classe’’, disse la professoressa Carlucci, rompendo per un attimo la
coltre di glaciale silenzio e dileguandosi anch’essa. Poi, entrò subito
l’insegnante di scienze, che regolarmente fece subito incominciare la lezione
quotidiana, visto che eravamo già in ritardo.
Non riuscii a concentrami molto su ciò che ci spiegò la prof,
poiché la mia mente viaggiava ed era curiosa. Prima di tutto, ero curioso di
scoprire se Federico fosse coinvolto nella vicenda, ma non avevo idea di come
fare per trovarne un’effettiva certezza. In secondo luogo, ero tormentato dal
fatto di sapere che quello era il momento giusto per denunciare ciò a cui il
prepotente mi aveva sottoposto a scuola.
La mia anima era spaccata in due parti contrastanti e in
lotta tra loro, e la mia emotività mi stava davvero sfiancando in quegli
istanti. Ma non sapevo che l’amarezza per quella giornata non era conclusa, e
che mi aspettava ancora qualche altro momento decisamente più spiacevole di
questo.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a chiunque sia giunto a seguirmi fin qui! Non finirò
mai di ringraziarvi.
Stiamo per affrontare la parte più drammatica del racconto,
ma anche quella che porterà più sconvolgimenti all’interno della vita del protagonista.
Spero che essa, tutto sommato, possa risultare di vostro gradimento.
Ringrazio tantissimo e per l’ennesima volta tutti coloro che
sostengono e supportano il racconto.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì
prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Capitolo 18
CAPITOLO 18
Mi veniva da rimettere, quella sera a tavola. La situazione
era insostenibile.
Incredibilmente, dopo un po’ di tempo in cui le nostre due
famiglie avevano consumato i pasti in modo distinto, Roberto aveva insistito
per far sì che quella sera avessimo cenato tutti insieme. Forse, gli era parso
cortese fare quel cordiale invito, considerato anche l’improvviso e
inspiegabile ritorno di mio padre. Ma effettivamente aveva sbagliato tutto, e
il suo sbaglio lo stavo scontando io, sulla mia pelle.
Mio padre, dopo aver trascorso il primo giorno a sbafo nella
nostra casa, senza neppure avere offerto a nessuno una qualche spiegazione, si
era limitato a starsene nella mia saletta a leggere, oppure sul piccolissimo
divano a lato della cucina, stesso luogo in cui i suoi bagagli erano stati
accatastati in un angolo, in piena confusione, come se a suo tempo fossero
stati preparati in fretta e furia, per poi essersi rivelati di scarsa
importanza una volta giunti alla meta. Mia madre non gli aveva offerto alcun
letto, e nessun posto dove sistemare le sue cose, ed effettivamente quello
pareva già un chiaro invito ad andarsene, ma costui restava, tenendo in pugno
la situazione come mai prima di quel momento.
E proprio in quel momento, mentre cenavamo, lui stava
parlando di me.
‘’Sapete, ricordo ancora quando mio figlio, che all’epoca
aveva già sette anni, capitombolava a terra un giorno sì e l’altro no come un
fantoccio, entrando in casa. Non aveva equilibrio, non era in grado di gestire
il proprio corpo già nel momento in cui si sarebbe dovuta consolidare la sua
sicurezza. Senza contare che, a otto anni, doveva ancora succhiarsi il pollice
come i lattanti…’’.
Ero bordò dalla vergogna. Non ricordo neppure se ciò che
stava narrando su di me fosse vero; sapevo solo che era umiliante, la
situazione.
Sergio parlava senza fermarsi mai, sicuro di sé, usufruendo
del suo vocione potente e mascolino, e sorridendo di tanto in tanto ai vari
commensali, che attorno al tavolo assumevano comportamenti diversi.
Incredibilmente, la situazione appariva esattamente ribaltata
e al contrario delle altre cene svolte assieme. La signora Arriga, che
generalmente si mostrava sempre scocciata quando era con noi, stava osservando
con interesse l’interlocutore, che parlava di me, raccontando brutture e
sciocchezze senza senso.
Federico, dal canto suo, se era sempre stato mogio e scosso
durante la giornata in quel momento appariva in forma splendente, ed ascoltava proprio
tutto quanto; aveva assunto il classico atteggiamento-spugna di chi vuole
davvero ricordarsi e assimilare ogni parola di ciò che stava udendo,
atteggiamento che sarebbe stato ottimale a scuola, ma non in quella situazione.
Immaginavo che stesse memorizzando tutto ciò che stava ascoltando per poi farne
il suo solito futile uso.
A mio fianco, l’uno alla mia destra e l’altra alla mia
sinistra, Roberto e mia madre non partecipavano affatto alla denigrazione
generale, loro che erano sempre stati quelli che cercavano disperatamente di
salvare ogni cena in comune con i loro discorsi. Roberto era curvo sul suo
piatto, in rigoroso silenzio, e con un’espressione indecifrabile impressa sul
suo viso, mentre la mamma appariva in apprensione per me, e ogni tanto mi
lanciava un’occhiata, ma non osava interrompere il marito. Neppure io osavo, e
lo temevo.
Sottostavo alla sua voce, e, come avevo sempre fatto durante
tutto il corso della mia vita, continuai a subire in silenzio quella sorta di
pubblica ed insensata umiliazione. Non sapevo perché mio padre si stesse
comportando così. Se gli facevo così tanto schifo, poteva starsene dove aveva
vissuto fino a qualche giorno prima.
‘’…sinceramente, non comprendo perché gli dovrei lasciare la
saletta a disposizione, come mi ha richiesto Maria, tanto con quel pianoforte
non saprà mai combinarci nulla’’, concluse mio padre, dopo aver esposto tante
argomentazioni stupide e dannose per la mia immagine a sostegno del fatto che
non voleva cedermi quello che era diventato il mio rifugio dal mondo.
Con il suo sguardo austero, mosse i suoi occhi su tutti i
presenti, esaminandone i volti ad uno ad uno, saltando solo me.
‘’Credo che suo figlio abbia delle grandi capacità. Poi, se
da piccolo aveva qualche atteggiamento strano, ciò era dovuto alla tenera
età’’, intervenne a sorpresa Roberto, rompendo il suo silenzio.
Lo avrei voluto tanto ringraziare, ma non riuscii ad alzare
gli occhi dal mio piatto, contenente ancora la mia porzione di cibo
praticamente intatta. Non avevo la forza per reagire, per difendermi da quello
che avrebbe potuto essere benissimo uno sconosciuto, e il mio volto rosso
infuocato non riusciva ad alzarsi, ad aprire la sua bocca e a urlare basta.
Mi sentivo così tanto pietoso che mi vergognavo di me stesso
e di com’ero.
‘’Lei dice? Mah. Io non lo credo affatto! E’ durante
l’infanzia che si forma il nostro carattere, e se uno dimostra già molte
difficoltà in quel periodo, difficilmente riuscirà a fare poi della strada’’,
sbottò mio padre, in risposta alle affermazioni di Roberto.
Sergio si stava dando da fare, sempre con le sue stolte e
ignobili argomentazioni, solo per tenersi la saletta. E io gliela avrei
lasciata.
Lui era un professore, un uomo istruito, una persona che, in
confronto alle altre sarebbe dovuta essere comprensibile, gentile, intelligente
e con una mentalità aperta. Ed invece era solo il bastardo arrogante di cui mi
ero sempre ricordato, e che avevo cercato ogni volta di dimenticare. Le sue
parole non valevano neppure come uno sputo catarroso, e anche se magari fosse
stato un bene che io avessi cercato di difendermi da solo, era anche vero che
ciò che lui stava dicendo e sostenendo erano tutte tesi insulse che parlavano
da sé.
Pensare che una persona del genere volesse passare qualcosa
ai miei coetanei e agli altri mi inquietava parecchio, lo dovetti ammettere.
‘’Lei ha una visione strana del reale, signor Sergio’’,
aggiunse Roberto, tornando a calare il suo volto sul suo piatto.
Smisi di guardare di sottecchi e lanciai anch’io uno sguardo
ai commensali, continuando a notare il lieve e rinnovato distacco snob di
Livia, l’imbarazzo di mia madre e il divertimento di Federico, che pregustando
un qualche diverbio verbale tra i due uomini adulti stava aguzzando le
orecchie. E non solo, stava limando anche la lingua, per usarla come una spada.
‘’Sarà stato anche balbuziente, da piccolo’’, suppose il
ragazzo, intervenendo nel momento colmo di una lieve tensione ed inserendosi
all’improvviso e con gusto nella discussione.
Mio padre, che non l’aveva ancora degnato di altro oltre a
qualche sguardo, gli regalò tutta la sua attenzione, voltandosi a guardarlo con
un barlume di stupore che gli brillava negli occhi.
‘’Come fai a saperlo, te l’ha detto lui? Comunque sì, ha
avuto un periodo un cui era balbuziente’’.
Giuro che stavo per rimettere sul serio. O per alzarmi e
lanciare via una sedia, dal nervoso che mi pervadeva.
‘’Ho notato che è uno un po’ particolare, immaginavo che
avesse avuto problemi di ogni sorta’’, rispose Federico, con una nota di spicco
nella voce. Non si stava rivolgendo col suo tono alterato, che in genere
riservava a chiunque, ma stava parlando con una vocina adorabile, esprimendosi
con una sembianza di profonda intelligenza.
Era vero, da piccolo avevo avuto un periodo durante il quale
avevo balbettato. All’età di sei anni avevo subìto un brutto spavento, causatomi
da un cane di un passante che mi aveva quasi aggredito a sorpresa, mentre
allungavo una mano verso di lui attraverso la recinzione del mio giardino. Fortunatamente,
l’animale era al guinzaglio e il suo proprietario era riuscito a tenerlo a
bada, ma il pitbull dalle fauci aperte che mi ringhiava selvaggiamente contro
l’avevo sognato per mesi, apparendomi anche nella maggior parte dei miei incubi
infantili.
L’incubo del cane era poi stato sostituito da quello
ricorrente riguardante i compiti in classe di matematica, il classico incubo
d’esame che secondo Freud tutti prima o poi avevano modo di conoscere sulla
propria pelle, lungo il corso della vita. In ogni caso, per me, ancora bambino,
quello spavento si era rivelato alquanto infame, poiché mi aveva recato un
qualche danno, dato che per un po’ avevo balbettato invece di riuscire a
parlare correttamente, come in precedenza riuscivo a fare.
Lo specialista al quale si era rivolto mia madre aveva
assicurato che col tempo il problema si sarebbe risolto, ed infatti nell’arco
di un annetto avevo ripreso e consolidato il dominio sulla mia bocca e sulle
mie parole, però ciò aveva lasciato un segno che, a quanto pareva, non voleva
affatto essere occultato.
Non seppi mai come ebbe fatto Federico a rivoltare il dito
nella piaga, e non solo, ficcandoci pure un uncino, per farmi sentire ancora
più male e umiliato.
Non ne potevo più, e lentamente allontanai il mio piatto da
me.
Federico, lo schifoso prepotente, rideva in quel momento.
Rideva di me, del bambino che a causa di un brutto spavento aveva balbettato
per circa un anno, dell’imbranato che, a dire di mio padre, cascava come una
pera cotta ogni volta che tornava a casa. Rideva dello sfigato che poi a scuola
avrebbe preso in giro, e magari memorizzava anche tutto quanto ciò che stava
udendo per metterlo in rete e deridermi anche con perfetti sconosciuti.
Ecco a voi Antonio Giacomelli, il guitto di corte, lo
zimbello di tutti, lo scemo e l’imbranato.
Ero umiliato, rosso come un pomodoro, e, ancora peggio, senza
alcuna forza per difendermi, per dire una parola o muovermi. Un verme
paralizzato sulla propria sedia, mentre il mondo attorno a sé lo deride.
‘’Per favore, Sergio…’’, provò a redarguirlo mia madre,
quando anche mio padre si mise a ridere di gusto con Federico.
‘’Taci, Maria, ciò che stiamo dicendo è la verità, e chiunque
deve prenderne atto’’, la mise subito a tacere mio padre, a quel punto divertendo
anche Livia.
L’aristocratica apparve come divertita, e l’irritazione in me
continuò a crescere a dismisura; il mio cuore pareva essersi spostato nel mio
volto, avevo il sangue alla testa, tutto rimbombava nella mia mente.
Ero riuscito a diventare lo zimbello anche della mummia aristocratica,
sempre tirata e composta, impettita dietro la sua maschera signorile che
rendeva essa stessa ridicola.
Volevo sputare, scappare, gridare, fuggire, insultare,
rovesciare la sedia su cui ero seduto, lanciare un piatto contro il muro.
Volevo fare tutto ciò assieme, pur che la si facesse finita. Che avevo fatto a
loro, mi chiesi, per subire un simile trattamento, se non essere una povera
persona timida che non sa difendersi? Ero un debole, punto. E nella vita reale,
i deboli sono solo tappetini e tutti li pestano e ci puliscono sopra le scarpe
inzaccherate di fango e schifo vario.
‘’Adesso basta’’.
Roberto, il mio salvatore. L’uomo era intervenuto con
risolutezza.
Le risate si smorzarono tutte d’un colpo.
‘’Chi è lei per potersi permettere di dire basta?’’, chiese
mio padre, glaciale. Aveva già cambiato espressione, nel giro di un istante.
I due si rivolgevano l’un l’altro occhiatacce gelide, e i
loro toni restarono distanti, arroccati sul volersi dare del lei per mantenersi
lontani l’uno dall’altro.
‘’Sono un genitore, come lo è lei! Federico, vai in camera
tua a studiare, visto che non hai più fame e che a scuola mi è stato riferito
che non ti hanno ancora visto con la penna in mano’’, tornò a dire Roberto,
rivolgendosi in tutta tranquillità al giovane prepotente, che sgranò gli occhi.
‘’Siete solo geloso del fatto che stavamo ridendo, tutti
tranne lei. Non mi dica che lei è uno di quelli che si divertono a smorzare il
divertimento altrui? Perdoni il giro di parole’’, tornò alla carica mio padre,
serissimo.
‘’Federico, vai in camera tua a studiare. Fila. E tu, Livia,
non dovevi fare delle chiamate di lavoro, questa sera? Vai a telefonare, dai,
così Maria può sparecchiare e sistemare la cucina, e poi potrà riposare un po’
‘’, continuò Roberto, senza badare alle parole di mio padre, che sentendosi
inascoltato e snobbato si rabbuiò bruscamente.
Di fronte alla risolutezza dell’uomo, però, l’aristocratica
madre e il figlio sembrarono dapprima colpiti ed irritati, per poi alzarsi dai
loro posti ed andarsene, con una smorfia sdegnosa impressa sui loro visi. Una
smorfia dolce-amara per Federico, che aveva comunque rimasto a disposizione
tanto materiale per deridermi, se ne avesse avuto voglia e necessità.
‘’Senta, lei non deve permettersi di giudicare come mi
comporto nei confronti di mio figlio, o magari di interrompere un momento
d’ironia tra queste mura. Mangi e si faccia gli affari suoi. Anzi, sarà meglio,
molto meglio, che le prossime sere cenassimo separatamente come al solito’’,
tornò alla carica mio padre, trovandosi sguarnito e senza spettatori, tutto
d’un tratto. Non voleva perdere quella battaglia, lo notavo chiaramente.
‘’Questa non è neppure casa tua, Sergio. Non puoi fare ciò
che vuoi…’’.
‘’Stai zitta una buona volta! Possibile che devi mettere la
lingua dappertutto?! Taci!’’, si rivoltò mio padre, mettendo nuovamente a
tacere la mia povera madre che, di fronte a quell’attacco inaspettato, si alzò
dal suo posto e lasciò la stanza, umiliata di fronte a suo figlio e al suo
inquilino.
‘’Di fronte a me, lei è pregato di non rivolgersi ai suoi
famigliari in questo modo e con questo tono, intesi?’’.
Roberto, notando l’umiliazione generale che regnava ovunque,
si fece aggressivo. Erano rare le volte in cui perdeva le staffe, ma quando si
arrabbiava diventava anche lui una sorta di belva, capace di colpire col tono
freddo e risoluto con cui si rivolgeva all’interlocutore.
Mi ritrovai solo, in compagnia dei due uomini di casa, eppure
non riuscivo ancora a muovermi. I miei occhi vagarono per un istante,
posizionandosi prima sull’uno poi sull’altro contendente. Mio padre, un alto,
statuario sessantenne ben rasato e ben vestito, dai capelli cortissimi e
ingrigiti, pareva un gigante che stesse per affrontare una pulce. La pulce era
Roberto, così piccolo, basso, dal pancino leggermente sporgente, ma non troppo
evidente ad una prima occhiata e nascosto dai vestiti, per nulla ben rasato,
anzi, la barba grigia e la capigliatura quasi rasata e rada lo rendevano una
sorta di reincarnazione di un antico filosofo greco.
Pareva lo scontro epico tra Davide e Golia, riproposto nel
mondo contemporaneo con il materiale a disposizione della sorte.
‘’Senta, mi ha proprio stufato. Non ha il diritto di
intervenire così bruscamente attorno a questa tavola, e di sancire come devo o
non devo comportarmi con mio figlio e con mia moglie’’.
Mio padre, sempre più scuro in volto, si alzò in piedi e non
mollò la presa sulla possibile preda.
‘’A quanto mi risulta, lei è stato latitante fino ad ora. Ed
ecco che ricompare…’’.
‘’Io?! Latitante?! Ma non dica sciocchezze! Guardi, io
insegno all’università qui vicino, ad una trentina di chilometri da questa
casa; se qualcuno avesse voluto, avrebbe potuto contattarmi…’’.
‘’Sì, magari suonando
al campanello dell’università, e chiedendo alle studentesse di indicar loro
quel professore chiamato Sergio…’’.
‘’Ma sa quello che sta dicendo?! Lei adesso sta decisamente esagerando.
Non faccia dell’ironia! Non si azzardi eh!’’, interruppe mio padre, allungando
un dito sotto al naso di Roberto, impassibilmente divertito.
‘’Magari Maria avrebbe potuto contattarvi tramite posta
elettronica, non crede? Oppure suo…’’.
‘’No, guardi, lei non ha davvero capito nulla. Mi sembra
un’idiota, e questo è quello che è, forse. Vado a leggere qualcosa, per darmi
una calmata, perché qui la situazione mi sta sfuggendo di mano’’, continuò ad
interrompere mio padre, alzando ulteriormente la voce.
A quel punto, Roberto abbandonò il suo divertimento.
‘’Vede come si arrabbia, se io la sfotto? E suo figlio, poveretto,
che fino a poco fa lei l’ha deriso, come dovrebbe sentirsi, dopo essere stato
sfottuto brutalmente da un genitore ingrato e prepotente che è appena tornato a
casa…’’.
‘’Mi farà commettere una follia, questa sera, se continua
così. Giuro che mi farà andare fuori di me! E ora spenga quella ciabatta che ha
al posto della bocca e torni al suo posto, che io me ne vado da questa stanza. Non
si permetta più di dire anche solo una parola su come cerco di educare mio
figlio, perché altrimenti… non so quanto riuscirò a tenermi a freno’’, concluse
mio padre, allontanandosi di qualche passo.
Sperai che Roberto se ne stesse in silenzio, ma non fu così,
anzi; allungò placidamente le sue braccia sul tavolo, e tornò a parlare.
‘’Se il suo metodo educativo è basato sul prendere in giro
gli altri e deriderli, beh, questo è davvero un pessimo metodo, si fidi. Glielo
garantisco; non credo dia risultati utili’’.
‘’Parla lei che ha appena cacciato sua moglie e suo figlio
dalla cucina come se fossero stati cani! Si vergogni lei! E poi, se una persona
la si deride, poi essa non farà più gli stessi sbagli, per non essere
nuovamente derisa’’.
‘’Lei vede in un modo tutto suo la realtà, credo. Uno sfottò
è ritenuto un’umiliazione, a casa mia, non un gesto educativo e a fin di bene.
E poi, le pare forse giusto giudicare un ragazzo per ciò che gli è accaduto da
bambino? Ma dai, la smetta di dire cavolate’’.
‘’Io con lei, caro signor Roberto, non ho più nulla da dire
per questa sera. Buona serata’’. E così dicendo, mio padre troncò la
discussione in corso e, violaceo in volto dalla rabbia e dal nervoso, se ne
andò nella mia saletta. Nella mia ex saletta, in quel momento.
Roberto a quel punto tornò a concentrarsi su di me, povero
essere depresso e solitario, che in quell’istante ancora si sentiva un debole e
un verme, immobilizzato al suo posto.
‘’Avevi ragione quando mi dicevi che non era una bella
persona! E’ davvero un lurido prepotente, e pure alquanto stupido. Ma non te la
prendere troppo, su! Ciò che esce dalla sua bocca vale come la merda. Anzi, la
merda ha un valore superiore’’, mi disse l’uomo, indirizzandomi un rassicurante
occhiolino. Roberto non era mai volgare, ma quella volta lo fu, per
sottolineare per bene il suo pensiero.
Io gli sorrisi, spezzando quell’immobilità e
quell’impassibilità di pietra che avevano dominato il mio viso fino a quel
momento, e poi, senza ringraziare, sgusciai via dalla cucina quasi di corsa, e
in due balzi fui in giardino.
Il mio cuore bruciava d’ingratitudine; avrei voluto ringraziare
a dovere Roberto per avermi difeso, e magari soffermarmi con lui, ed invece ero
scappato, proprio nell’istante meno opportuno.
Colmo di una sensazione che non sapeva più di nulla, se non
di un dolore profondo ed opprimente, uscii dal mio cortile e mi fermai sul
ciglio della strada, per poi finire seduto sul ciglio del marciapiede, quasi
nel bel mezzo di uno spazio riservato al posteggio delle auto, in quel momento
non occupato, mentre le automobili in corsa sfrecciavano ad un metro e mezzo
scarso dal mio naso.
Il mio corpo, quasi raggomitolato su sé stesso, mi fece
restare lì, fermo e in panne, senza alcuna facoltà di giudizio. Stavo male, e
forse in quella serata mio padre non era stato l’unico a rischiare di andare
fuori di sé. C’era chi c’era andato per davvero.
Nel vuoto della fredda oscurità, le macchine sfrecciavano a
pochi passi da me e io non capivo più nulla, non fissavo nulla.
La mia non era più disperazione, o disgusto per essere stato
deriso, deluso e ferito, ma era un senso d’abbandono profondo, un sentirsi
inadatto alla vita, mal sopportato da tutti. Immerso nel mio dolore, non sapevo
più uscirne o reagire.
Poi, però, apparve il mio angelo custode.
Il mio angelo era nero, come il buio di quella prematura
notte tardo autunnale.
‘’Antonio! Ma che ci fai qui fuori, in questa posizione?!
Mamma mia, ti sarai agghiacciato tutto…’’, mi disse Jasmine, sbucata non so
come a fianco a me e, notando il mio sguardo perso nel vuoto, mi stava come
scuotendo dal mio tossico torpore. Le sue mani sui miei vestiti, troppo sottili
per contenere il freddo autunnale, erano calde, e il suo tocco poteva scaldarmi
più che il cappotto che avevo lasciato in casa, troppo preso dalla mia voglia
di scappare per aver avuto l’accortezza d’indossarlo.
Ero fuori di me, ed ogni istante che passava mi rendeva
sempre più chiaro quel concetto.
‘’Antonio?! Antonio, perché non mi rispondi? Caspita, che
hai?’’.
L’angelo mi percuoteva.
Riuscii solo a donarle un sorriso splendente, senza nessuna
parola. Mi guardò, e potei notare il sollievo nei suoi occhi e sul suo viso,
rischiarato dalla luce dei lampioni che dalla loro altezza ci dominavano.
Lei ci teneva a me, lo vedevo. E io le volevo bene, solo che
gliene volevo molto.
I suoi occhi così scuri, la sua pelle così esotica, la sua
premura, la sua voce perfetta e melodica, tutto di lei mi rendeva folle. Mi
sentii pervadere di un’altra sorta di follia, un tipo di libidine potente e
ancestrale.
‘’Passavo di qui, sto per andare a far visita ad Alice… che
rottura, si è raffreddata e sembra che sia più morta che viva. Una tragedia!
Ora faccio un saltino a trovarla, poi quando ripasso da qui magari mi fermo un
po’ anche da te. Ti va?’’, mi chiese, rilassata e cortese. Parlava, era
tranquilla, e si era sciolta definitivamente.
Rimasi leggermente amareggiato dal fatto che lei non
chiedesse nulla del mio dolore e di ciò che provavo in quel momento, ma capii
che quello era un mio modo di pensare troppo egoistico e di quel preciso
istante, d’altronde lei non poteva essere informata di ciò che mi turbava,
poiché passava di lì per caso, e trovandomi spaurito ed abbandonato come un
cane randagio si era soffermata un attimo a prendersi cura di me.
Involontariamente, ma col cuore, aveva compiuto un’azione
molto dolce nei miei confronti.
In quel momento credetti di essere riuscito a mettere ordine
nei miei pensieri, e di sapere con chiarezza ciò che provavo per lei. E mentre
Jasmine continuava a parlarmi, tranquilla e rilassata come se niente fosse, io
mi rialzai lentamente, per poi guardarla direttamente negli occhi. La ragazza
aveva continuato a parlare fino a quell’istante, e nonostante tutto continuò a
parlare, anche se rallentò il ritmo di quel discorso che io non stavo neppure
ascoltando.
Le emozioni mi stavano giocando un brutto scherzo, ed io, all’apice
di quella sorta di estrema eccitazione sentimentale, non ero totalmente padrone
di me, in quella determinata situazione. E fu così che a sorpresa cedetti al
mio impulso e la baciai.
Baciai per la prima volta le sue labbra carnose, senza
cercare di fare altro se non stabilire un leggero contatto tra i nostri due
corpi.
Quello era il primo bacio della mia vita.
Mi accorsi di aver reagito con un’estrema frenesia con un po’
di ritardo. All’inizio, per una frazione di secondo, mi parve che lei, colta
totalmente di sorpresa e spiazzata, avesse avuto voglia di ricambiarmi con
calore. Ed invece, mi mollò un tremendo ceffone, anche quello a sorpresa,
ovviamente. Quella era la serata delle sorprese.
Abbassai lo sguardo e mi allontanai subito da lei, ferito e
colmo di vergogna per il fatto di non aver saputo gestire in modo decente e
corretto le mie emozioni.
Jasmine mi guardava, sentivo i suoi occhi cupi puntati su di
me, sul mio viso ormai nuovamente imporporato ma nascosto dalla notte, e io mi
sentivo da schifo, schiacciato sotto le colpe dei miei folli istinti ormonali
ed emozionali dovuti alla mia giovane età e alla più totale inesperienza. Poi,
senza dire altro, si allontanò da me in fretta e furia, tornando sui suoi passi
e sparendo in fretta nel buio.
Inutile rievocare il mio ennesimo e doloroso crollo; la
confusione regnava assoluta nella mia mente, e nessun barlume di lucidità mi
stava più a fianco.
Ero stanco morto, avevo sbagliato tutto, mi sentivo un verme
da deridere. Immaginando mio padre e Federico che ridevano di me, mi lasciai
scivolare di nuovo sul ciglio del marciapiede, fregandomene del freddo e
dell’ora ormai tarda, affondando il mio viso tra i palmi delle mani e
lasciandomi andare ad un pianto isterico.
Come se non bastasse, un fitto banco di nebbia mi avvolse nel
suo umido e gelido abbraccio, come a volermi cullare nel mio dolore e a voler
tentare e fomentare la mia sorta di momentanea e cupa depressione, dovuta ad un
insieme di situazioni diverse che, nel complesso, non mi erano state per nulla
favorevoli durante quella giornata infernale.
NOTA DELL’AUTORE
Carissimi lettori e carissime lettrici, continuo a
ringraziarvi per lo splendido supporto che mi offrite sempre e in ogni
aggiornamento. Leggere i vostri pareri colmi d’interesse per la storia e la
vicenda mi rende davvero felice, e mi spinge a cercare di metterci tutto me
stesso nella stesura di questo racconto. Grazie per tutta la forza che mi passate,
attraverso lo stupendo supporto che mi offrite ogni volta J
Spero che, nonostante tutto, anche questo capitolo sia stato
interessante e di vostro gradimento.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
Capitolo 19
CAPITOLO 19
A venirmi a salvare fu Roberto.
Ero rimasto per non so quanto tempo sul ciglio della strada,
la testa infossata tra le mani e il corpo praticamente raggomitolato su sé
stesso, adagiato in modo contorto sull’asfalto. Non stavo particolarmente bene
in quel momento, ma si sa, ne avevo passate talmente tante in quei giorni che
la mia testa non ragionava ormai più. Era come se fossi impazzito totalmente.
Roberto, una sorta di costante in quella mia vita fatta ormai
di strani alti e di profondi bassi, toccò una mia spalla, mi scosse, mi parlò,
ma io, con gli abiti tutti inumiditi e gelidi, e la mente altrove, non riuscii
a reagire prontamente.
Lo lasciai fare.
‘’Tua madre è disperata, pensava che tu fossi scappato…
voleva telefonare alla polizia e ai carabinieri, per farti ricercare per tutto
il paesino… non si da pace… diamine, smettila di startene lì a terra… non vale
la pena di soffrire così tanto per ciò che ti ha detto, ricorda le mie parole
di poco prima…’’, continuava a ripetermi, scuotendomi di tanto in tanto, mentre
io mi limitavo ad ascoltare spezzoni delle sue frasi.
Se solo avesse saputo che io ero disperato non solo per come
si era comportato mio padre nei miei confronti, poiché in fondo ciò era
l’evento di minor importanza, se paragonato a tutto quello che ero stato
costretto a subire nell’ultimo periodo, a partire dalle violenze fisiche e
psicologiche messe in atto contro di me da suo figlio, fino a giungere allo
schiaffo ricevuto poco prima. Ecco, era lo schiaffo che aveva fatto
ulteriormente tracimare il vaso della mia razionalità.
Eppure, se per un attimo obbligavo la mia disperazione a
retrocedere e a perdere terreno all’interno della mia mente, comprendevo che la
reazione di Jasmine era comprensibile, e che dopo un mio repentino ed
improvviso comportamento del genere non potevo aspettarmi altro che un gesto
simile.
Alla fine, dopo un po’ di tempo, accettai la mano che mi
porgeva Roberto e mi rialzai, tornando effettivamente nella mia casa.
Rientrando, mi mancò il fiato; sentivo l’odore dei panni di
mio padre ovunque, mi pareva di udire gli sghignazzamenti di Federico, mi
sembrava che i muri di casa, che stavano contenendo l’aria calda che cercava
invano di intrufolarsi sotto i miei vestiti gelidi e umidi, stessero per
rovinarmi addosso.
Incrociai lo sguardo di Roberto, che nel frattempo taceva, e
notai i suoi occhi stanchi, ma pieni di premurosa preoccupazione. Mi stringeva
ancora la mano, come se fossi un bambino, o come se avesse avuto il timore che,
non appena avessi rimesso i piedi in casa, me la sarei data di nuovo a gambe.
Un timore non del tutto infondato, tra l’altro.
Dopo essere sfrecciato di fronte alla cucina ed aver attraversato
tutto il piano inferiore, salii le scale assieme al mio accompagnatore, che mi
portò fino alla mia stanza, dove mia madre mi aspettava, rigorosamente in
lacrime, seduta sul mio letto.
‘’Piccolo mio! Sei tutto bagnato…’’, mi disse, con un tono
così tanto colmo d’amore che mi fece tremare il cuore nel petto. Tremare era la
parola più giusta al momento, poiché il mio organo vitale pareva essersi
congelato, dato che non sentivo quel suo classico pompaggio rapido e forte che
avevo nei momenti di maggiore e di estremo imbarazzo.
Senza dire altro, la mamma mi porse il mio pigiama, e con
delicatezza mi aiutò a cambiarmi e a mettermi a letto, mentre Roberto se ne
stava nel bel mezzo della porta, come un cane da guardia posto a difesa di noi
due.
Una volta asciutto e cambiato, non appena finii sotto le
coperte provai un brivido piacevole, che mi percosse abilmente dalla testa ai
piedi, mentre mia madre mi prometteva di andare al piano inferiore a prepararmi
una qualche tisana calda. Si offrì Roberto di farlo, ma scese anche lei poco
dopo.
L’uomo tornò da me dopo qualche istante, stringendo tra le
mani una tazzina piena di dolce e bollente camomilla, che trangugiai con eccessiva
fretta, riscaldando anche i miei organi interni, mentre un leggero torpore
conquistava rapidamente la mia mente.
Dal piano inferiore, invece, cominciarono a giungere grida
forti, arrabbiate; erano i miei genitori che litigavano. Come ai vecchi tempi.
E mi resi conto improvvisamente del casino che avevo combinato, con la mia
reazione spropositata e da adolescente smidollato.
I miei litigavano, e Roberto stava a mio fianco, seduto sul
ciglio del letto, teso. Avrei voluto parlargli a lungo, raccontargli ciò che
provavo, e lo schifo che avevo sia nella testa che nel corpo, ma non ci
riuscii. Per attirare la sua attenzione, gli sfiorai un braccio, con lentezza.
Solo quando fui certo di avere i suoi occhi su di me, aprii
la bocca.
‘’Scusa. Mi sono comportato come un perfetto idiota’’, gli
dissi, sottovoce e senza guardarlo.
‘’Non è a me che devi chiedere scusa, ma a tua madre. Si è
preoccupata e spaventata, non si aspettava una reazione così da un ragazzo
molto maturo ed intelligente come te. Però, è anche vero che non hai nulla da
farti scusare; sai, capita nella vita di credere di avere toccato il fondo una
volta per tutte, e di commettere qualche sciocchezza. È normale. E in genere il
giorno dopo è tutta acqua passata. Quindi riposa, mio giovane amico. Domani ti
voglio in forma smagliante, e sorridente’’, concluse il filosofo, parlando
lentamente e con dolcezza.
I miei occhi si chiusero, anche se non volevo e nonostante il
litigio che infuriava nel piano inferiore e la luce della stanza che mi colpiva
in pieno il volto. Mi addormentai così, senza avere neppure idea di che ore
fossero, e senza cercare di rassicurare mia madre o di fare altro.
Caddi in un sonno profondo, sotto l’attento sguardo di
Roberto, un uomo basso e minuto ma in grado di difendere chi lo circondava. Mi
sentivo al sicuro, caldo e tranquillo, per la prima volta in quella giornata. E
il sonno in un primo momento mi cullò, anche se fu tormentato da qualche incubo
fastidioso.
Quella fu comunque una notte difficile. Nonostante il fatto
che mi fossi addormentato subito, a sorpresa, più volte mi ritrovai a
rivoltarmi tra le mie calde coperte, in preda ad ansiosi incubi dovuti ai miei
pasticci e ai miei problemi, che mi volevano davvero tormentare continuamente.
Ad un certo punto, mi svegliai completamente, e di soprassalto
mi tirai su dal letto, sedendomi sulla sua sponda.
Il buio mi avvolgeva nel suo tenero abbraccio, e uno
spiraglio di luce dei lampioni che entrava dai buchini della mia tapparella
colpiva direttamente la mia sveglia sul comodino, che segnava le quattro
spaccate. Piena notte, insomma.
Mi mossi, deciso a recarmi in bagno, e rischiai di finire
addosso a qualcosa di vivo e di caldo. Leggermente impaurito, le mie mani si
mossero sul corpo che se ne stava adagiato sulla sedia e si distendeva leggermente
sulla scrivania a fianco del letto, dove le braccia incrociate sostenevano la
testa. La persona dormiva, senz’ombra di dubbio, e non era un ladro o un
intruso.
Nel buio quasi totale non capii all’istante di chi si
trattasse, e per un secondo pensai che fosse mia madre. Le mie mani sfiorarono
dapprima la testa, dai pochi capelli e quasi calva, per poi incontrare una
folta peluria ispida e irta.
Si trattava senz’altro di Roberto, ed avevo appena tastato il
suo viso e la sua barba.
Per fortuna l’uomo non si svegliò. Ero rimasto colpito dal
fatto di essermelo trovato lì, e mi chiesi il perché non fosse andato a dormire
nella sua stanza, con sua moglie. Tuttavia, erano le quattro del mattino e la
mia mente non tanto sveglia ed ancora leggermente scossa dagli eventi della
sera precedente mi spinse a proseguire il mio cammino verso il bagno, al piano
inferiore. Avevo come la vaga impressione che la moglie fosse più contenta se
lui non stava a suo fianco, e che lui stesso lo sapesse.
Cercai di non fare alcun rumore, e ci riuscii, poi
sgattaiolai in fretta giù dalle scale, ma quando giunsi a destinazione mi
accorsi che la porta del bagno era chiusa. Ed udii un rumore soffuso che
proveniva dal suo interno. Qualcuno parlava al cellulare, ed ebbi fin da subito
un vago presentimento.
La casa era avvolta dal buio, e molto probabilmente tutti
quanti al suo interno dormivano, tranne due; io e il mio coetaneo, che,
approfittando del bagno isolato dalle altre stanze, telefonava liberamente.
Capivo il motivo del fatto che a scuola fosse tanto poco reattivo, visto che
faceva bisboccia tutta la notte col cellulare.
Avvicinai un orecchio alla porta, per udire i discorsi del
prepotente. Ero certo che fosse lui, riconoscevo la sua voce, nonostante
cercasse di tenerla bassa e controllata.
‘’Sì, sì… avete ragione, sì… certo, è vero, ultimamente mi
sto dando poco da fare, ma i miei mi rompono con la scuola e quant’altro… in
camera mia non cresce bene, non so il perché. La innaffio ogni giorno, sto attento
a tutto… ok, ho capito. Arrivo subito, per fortuna ho un po’ di roba pronta.
Aspettami, esco in strada’’.
Avevo origliato fin troppo, godendomi anche le brevi pause in
cui l’interlocutore doveva affermare qualcosa al mio nemico, che aveva sempre
cercato di parlare a bassa voce, sospirando forte mentre ascoltava le parole
dette dall’altro. O dall’altra, non avevo idea di chi si potesse trattare.
Quelle chiamate notturne mi erano sempre più sospette, ma non
avevo tempo a disposizione per tentennare o riflettere; Federico aveva chiuso
la chiamata e si stava dirigendo verso la porta.
Mi levai in fretta, e cercai di raggiungere il piano
superiore muovendomi come un felino, con rapidità nel buio e cercando di non
fare rumore. Ero terrorizzato dal fatto che il mio nemico avesse potuto
scoprire che avevo origliato e avevo scoperto i suoi movimenti notturni per
casa, e la paura aveva effetti miracolosi su di me, a volte, e quella volta
effettivamente mi rese più simile ad una lince che ad un ragazzetto in fuga.
Giunsi al sicuro appena in tempo, poiché non appena misi
piede al piano superiore lui uscì dal bagno, ma non si diresse in qualche
stanza al piano inferiore, bensì direttamente verso la porta d’ingresso,
muovendosi con circospezione e tastandosi qualcosa nella tasca. Col cellulare
in mano, percorse il corridoio illuminandolo con lo schermo acceso dell’oggetto
fino alla porta, che poi aprì con attenzione e silenziosamente, e sgusciò fuori
dalla mia abitazione. Ed io, ancora impalato nel bel mezzo del corridoio, non
potei far altro che dirigermi altrettanto silenziosamente nella mia stanza,
dove il caro Roberto stava ancora dormendo in quella posizione scomoda in cui
si era addormentato.
Ringraziai mentalmente l’uomo, per quanto stava tenendo a me
e per le attenzioni che mi rivolgeva. Era davvero dolce e di buon cuore, al
contrario di suo figlio.
Col timore di svegliarlo, anche perché poi non avrei saputo
che dirgli a quell’ora di notte, mi mossi lentamente verso il mio letto, senza
più badare ai miei bisogni che mi avevano spinto al piano inferiore. Mi
capitava spesso di reprimerli durante la notte, fino al mattino, e altrettanto
spesso ci riuscivo egregiamente.
Ammisi a me stesso che la presenza di Roberto nella mia
stanza mi dava sicurezza, anche se dormiva, ed averlo a fianco del mio letto mi
spinse ancor più volentieri verso il mio soffice materasso, sicuro di essere
protetto da qualunque insidia, visto anche il fatto che il prepotente si stava
aggirando per casa, ed era appena uscito.
La consapevolezza di quell’uscita notturna mi colpì solo in
quell’istante, con un effetto ritardato sorprendente. E, altrettanto
sorprendentemente, mi ritrovai a riconoscere che se il bullo usciva senza
problemi mentre tutti noi dormivamo, quello poteva voler dire che, nelle scorse
notti, aveva avuto campo libero per condurre la sortita contro il liceo,
imbrattandone i muri.
Rimasi bloccato e a bocca aperta di fronte a quella
consapevolezza, e in quell’istante ebbi come la certezza più sicura che
Federico avesse un ruolo centrale in quell’ennesimo reato. Scrollai la testa,
per togliermi dai miei pensieri, e ripresi il mio lento movimento verso il
letto. Ma gli occhi mi caddero sulla mia tapparella, e sui suoi buchini aperti,
che facevano entrare una flebilissima luce che attirò il mio sguardo.
Fu proprio posando il mio sguardo su uno dei buchini che mi
fu permesso di avere uno scorcio sulla strada sottostante, e, quasi per caso,
riconobbi la figura di Federico, che piuttosto infagottata nel suo giubbotto
invernale si stava muovendo a passi rapidissimi verso il parchetto poco
distante. Inutile dire che la mia curiosità ebbe il sopravvento, e che in meno
di un secondo mi posizionai perfettamente di fronte alla mia finestra, senza
alzare la tapparella o fare rumori, limitandomi a seguire i movimenti nemici
dai quanto mai utili buchetti.
Poi, però, in fretta compresi che non avrei mai saputo dove
si sarebbe diretto il nemico, o cosa avrebbe combinato, poiché ben presto
sarebbe scomparso dietro ad altre case e sarei stato costretto a perderlo di
vista. Inoltre, un banco di nebbia lo avvolse in modo piuttosto completo per
qualche attimo, nascondendolo ulteriormente ai miei occhi, non in grado di
riuscire a continuare quell’impresa ardua.
Ebbi un moto di stizza e di rassegnazione, ma per fortuna non
distolsi subito lo sguardo. Infatti, i miei occhi furono casualmente attirati
dalla potente luce emessa dai fari abbaglianti dell’unica automobile che si
stava muovendo nella mia strada.
L’auto era velocissima, ma rallentò e quasi inchiodò di
fronte alla figura di Federico, e il ragazzo era nuovamente visibile ma sempre
più lontano dai miei occhi, ormai pronto a sparire dietro il profilo della casa
di Ottaviano. La nebbiolina si era diradata attorno a lui, posizionato in quel
momento proprio sotto ad un lampione, mentre la macchina si fermava senza
spegnere i fari, e un qualcuno scendeva dal posto del guidatore.
Federico mi parve che fece due passi indietro, probabilmente
non aspettandosi quella mossa(se si trattava di una mossa, eh), ma forse
riconoscendo il tizio parve riacquistare sicurezza, e si fermò sul posto,
attendendo che la figura vestita di nero, un uomo ne son sicuro, l’affiancasse.
Poi, il ragazzo gli passò un pacchettino bianco appena estratto dalla tasca dei
suoi jeans, e l’uomo gli diede qualcos’altro, una mazzetta, forse soldi. Anzi,
di certo soldi.
Dopo, più nulla; lo sconosciuto si mosse rapidamente di nuovo
verso la sua auto, entrò nell’abitacolo in fretta e furia e fece ripartire il
suo mezzo a tutto gas, sfrecciando in fretta lontano. Federico parve contare i
soldi che gli erano stati dati, e poi, con nonchalance, mise tutto nel
portafogli e riprese a muoversi lungo la strada deserta, col chiaro intento di
rientrare. Aveva concluso la sua missione, molto probabilmente.
Tornai a letto, giusto in tempo per udire, una volta sotto le
coperte, la signora Arriga che, dalla stanza accanto, stava telefonando
anch’essa.
‘’Ti voglio bene’’.
Quelle tre parole, pronunciate con una dolcezza rivoltante,
furono le uniche che giunsero chiaramente alle mie orecchie. Poi, la porta del
piano inferiore si riaprì e si richiuse in fretta; Federico era rincasato.
Ero spaventato, quegli sconosciuti mi inquietavano, loro e i
loro strambi atteggiamenti notturni. Poi, le parole dette dall’aristocratica mi
fecero salire prima il vomito e poi la bile, e fui lì per svegliare Roberto,
che continuava a dormire ad un passo da me.
Ma non lo feci; lui in quella casa era l’unico essere vivente
in grado di proteggermi mediocremente da chiunque, e se l’avessi svegliato gli
avrei dovuto dare spiegazioni, e si sarebbe allontanato da lì. Inoltre,
Federico avrebbe scoperto che sapevo che aveva scambi illeciti durante la notte,
e dopo essere riuscito a convincere il padre che si era recato semplicemente a
prendere una boccata d’aria fresca in giardino, me l’avrebbe fatta pagare,
senza contare le ripercussioni dell’aristocratica, sempre così schifosa nei
miei confronti.
Quindi decisi di non rischiare; d’altronde non ero certo che
il mio nemico avesse qualche traffico illecito, non essendo riuscito a vedere
esattamente cosa barattava sul ciglio della strada deserta a quell’ora, e Livia
avrebbe potuto benissimo indirizzare quelle tre belle parole ad una collega di
lavoro. Ma le colleghe di lavoro credevo dormissero, di notte.
Misi a tacere i miei pensieri, mentre udivo l’ultimo
tramestio prodotto dalle scarpe di Federico, che tornò nella sua camera, e pure
la signora riattaccò. Ero certo che la madre sapesse dei movimenti notturni del
figlio; era praticamente impossibile che, dalla stanza vicina, non avesse udito
nulla.
Deglutii, chiedendomi quanti segreti nascondessero quei due
soggetti, sempre più loschi ai miei occhi. Smisi in fretta di farlo, poiché mi
sorse una leggera emicrania che mi spinse a favorire il sonno. Ma, prima di
chiudere gli occhi, lanciai nuovamente un’occhiata al profilo di Roberto,
l’unico della sua famiglia che mi apparisse decente, e che in quel momento russava
leggermente.
Mi chiesi se nascondesse qualcosa anche lui; in fondo, ne ero
più che certo. Ma non avevo idea di quale sorta di segreti stesse celando nel
suo animo.
Tornai quindi ad addormentarmi in fretta, con la mente e il
corpo confusi dalle vicende e dalle scenate delle ultime ore, cercando un po’
di quiete almeno nel mondo dei sogni, desiderio che peraltro quella volta fu
esaudito miracolosamente, visto che dormii fino al mattino senza avere altri
incubi, passando quindi fortunatamente un breve periodo di sonno tranquillo e
profondo, protetto dalla consapevolezza che Roberto era lì, a mio fianco, e che
se anche dormiva non mi sarebbe mai potuto accadere nulla di male.
Il mattino dopo, quando mi risvegliai, scoprii che erano già
le dieci del mattino, e visto che la sera precedente dopo tutto il trambusto e
la mia agitazione non avevo puntato la sveglia, nessuno si era preso la briga
di svegliarmi.
Era un martedì come tutti gli altri, di scuola, ma ben presto
avrei scoperto che aveva un retrogusto speciale. Molto speciale.
Di Roberto non c’era più alcuna traccia in camera mia, e
tutto appariva in ordine.
La sera precedente mi parve solo un ricordo sfocato e
lontano. Persino lo schiaffo.
Mi vestii in fretta, e scesi prontamente al piano inferiore,
senza importarmene del fatto che avrei potuto incontrare qualche soggetto
scomodo, come mio padre. Difatti lo scorsi subito di sfuggita, mentre entrava
nella mia saletta, ma lui non mi degnò di uno sguardo.
Sfrecciai verso la cucina, ed appena ci entrai rimasi scosso
trovandoci Roberto e mia madre, che quella mattina sarebbe dovuta essere al
lavoro.
‘’Mamma…’’, mi ritrovai a dire, perplesso. Lei mi guardò
sorridendo con dolcezza.
‘’Antonio, come va oggi?’’, mi chiese, con tono indagatore.
‘’Tutto a posto. Tranquilla. Ieri sera ero fuori di me, mi
sono comportato come uno sciocco’’, tornai a dire, a malincuore per dover
ricordare di nuovo.
‘’Mi ero spaventata tantissimo, non ti avevo mai notato in
uno stato simile. Questa mattina ho pensato di lasciarti dormire, ci andrai
solo domani a scuola’’, tornò a dire la mamma, premurosa.
‘’E tu…?’’, chiesi, senza riuscire a formulare per bene la
domanda.
‘’Avevo bisogno di prendermi un giorno di riposo. Tutto
questo lavorare senza sosta mi aveva sfinito’’, aggiunse mia madre alle mie
parole, sorridendomi dolcemente. Mi stava mentendo, lo sapevo; lei non faceva
mai un giorno di sosta, neppure se era influenzata. Doveva essere rimasta a
casa per controllare le mie condizioni al risveglio, come se fossi un individuo
totalmente pazzo.
Tutto ciò mi fece rabbuiare per un attimo, quasi rattristare;
poi, compresi in fretta che mamma mi voleva bene, punto. Non dovevo fregarmene
di quello che mi frullava per la testa quella volta, poiché dovevo solo
prendere atto del suo gesto dolce, gentile e senza doppi sensi. Si era
preoccupata per me fino a giungere a stare a casa un giorno dal lavoro che
aveva cercato tanto, odiato a suo tempo ma imparato ad apprezzare solo per il
fatto che le permetteva di tirare avanti.
Di fronte alle mie varie consapevolezze non mi rimase molto
altro da fare se non sorridere e abbracciarla a sorpresa, con calore e affetto,
gesto che lei accolse dapprima con evidente stupore, visto che era tanto tempo
che non le concedevo un abbraccio, per poi sciogliersi e ricambiare la mia
stretta, cominciando a singhiozzare per la commozione.
Roberto, che stava assistendo a tutta la scena in diretta, ci
guardava, tranquillo e impassibile come sempre.
‘’Antonio, si comprende il tuo comportamento di ieri sera, ma
davvero, vorrei donarti un consiglio, ovvero di non dar più retta a ciò che
esce dalla bocca di chi non vuole vedere al di là del proprio naso, oppure
parla con arroganza, stupidità e prepotenza di cose in realtà sciocche. Non ti
sto consigliando di non dar più ascolto a tuo padre, bada bene, ma di seguire e
di far tuo solo ciò che dice di sensato. Sei un bravo ragazzo, hai molte
capacità e sei molto intelligente, e questo te l’assicuro io, te lo assicura
tua madre e chi ti vuole bene. Non lasciare che le parole di altri tormentino
inutilmente il tuo animo gentile e sincero’’, mi disse l’uomo, soppesando le
parole con attenzione e accortezza.
Sciolsi l’abbraccio da mia madre e gli rivolsi un sorriso.
‘’Grazie. Grazie anche a te, per tutto quello che hai fatto
per me, e per essere stato a vigilare sul mio sonno’’, gli dissi, colmo di
riconoscenza nei suoi confronti.
‘’Tranquillo, è tutto a posto così’’, mi rispose, impacciato
di fronte alla mia potente e sfrontatissima riconoscenza.
Mia madre, udendo quelle parole, rivolse un sorriso anche a
lui, un sorriso complice e pieno di sentimento. Non soppesai ulteriormente
quell’occhiata, poiché il campanello di casa suonò, interrompendo il nostro
momento d’intimità.
‘’Qualcuno vuole andare ad aprire la porta, oppure no?!’’,
gridò mio padre dalla mia saletta, col suo solito piglio severo.
Roberto si accigliò e mia madre si irritò, di fronte
all’ennesimo grido del mio genitore, ma io sorrisi e feci loro un occhiolino
rilassato. Volevo fosse chiaro che era tutto a posto ed avevo compreso il loro
messaggio.
Essendo l’unico già alzato, mi diressi rapidamente verso la
porta, ma un braccio mi afferrò all’improvviso, trovandomi mio padre ad un
palmo dal naso, a soli pochi passi dall’atrio.
‘’Se qualche persona suonerà a questo campanello, e chiederà
di me, tu dille che non mi hai visto da tempi immemori e che non sono mai
passato di qui. Intesi, ragazzino?’’, mi ringhiò contro, senza motivo. Il suo
viso mi spaventava, coi suoi occhi arrossati dal nervosismo e con quel volto
teso che lo caratterizzava.
Deglutii più rumorosamente del previsto, ascoltando le parole
che mi aveva rivolto a bassa voce, ed annuii in fretta, mentre lui già tornava
a dileguarsi in tutta fretta nel mio ex rifugio. Probabilmente, avrebbe pure
controllato con attenzione dalla finestra di chi si trattava.
Col cuore in gola, e senza comprendere quell’eccessivo
avvertimento(che tra l’altro mi spinse a preoccuparmi, poiché mi pareva chiaro
a quel punto che mio padre si stava nascondendo da qualcuno), aprii la porta, e
ciò che mi trovai di fronte mi spinse a dimenticare ogni cosa e ogni
avvenimento recente.
Il cuore parve voler uscire dal mio petto.
Jasmine, la ragazza che avevo baciato la sera prima in preda
alla follia dei miei ormoni, confusi dalla critica condizione famigliare in cui
versavo, mi stava osservando, al di là della recinzione.
Attraversai il giardino timidamente, con gli occhi bassi, non
comprendendo che ci facesse lei lì, avvolta dalla nebbia di quel classico
giorno autunnale padano. Pure lei non disse nulla, lasciando che mi avvicinassi
per aprirle il cancelletto a mano, e guardandomi con intensità.
Quando mi accinsi ad aprire il cancelletto, appoggiò la sua
mano sulla mia, bloccandomi ed avvicinandomisi.
Mi attesi un altro ceffone, ovvero la punizione conclusiva
per l’atto sconsiderato della sera precedente. Non sapevo davvero che altro
attendermi da lei, così bella eppure così distante da me.
‘’Non ho dormito questa notte, in preda al rimorso. Ecco, non
so neanch’io come spiegarmi… non sono neppure riuscita ad andare a scuola, e
sono finita col fare buco per… per venirti a dare questo’’, mi disse,
impacciatissima. Era fortunata a non essere di carnagione bianca, altrimenti
sarebbe stata bordò in quel momento.
E poi, rapidissimamente, mi scoccò un bacio sulle labbra,
allungandosi sul cancelletto.
‘’Anche tu mi piaci, Antonio. Non cambiare mai, sei il
ragazzo più bello e talentuoso che io abbia mai avuto il piacere di conoscere’’,
mi disse, staccandosi dalle mie labbra e donandomi un veloce e timido sorriso a
labbra tremolanti, per poi darmi le spalle e allontanarsi quasi di corsa,
seguendo il percorso che l’avrebbe portata chissà dove.
Io, rimasto di pietra, avrei voluto richiamarla indietro,
dirle almeno qualcosa, ma quella volta non mi fu donato il tempo necessario per
farlo. Lei si volatilizzò in fretta, ed io non riuscii ad inseguirla.
Jasmine ricambiava il mio interesse, e a quel punto ciò mi
era chiaro. Nel mio cuore ci fu un’esplosione di gioia intensa, leggermente a
scoppio ritardato, e fui lì per cercare le tracce della ragazza che amavo, per
poterle donare un altro bacio magari, riacciuffandola chissà dove e dicendole
parole dolci, rassicurandola sui miei sentimenti. Ma forse mi stavo lasciando
trasportare troppo da quel magnifico evento.
A interrompere il mio momento di festosa confusione mentale
fu mio padre, che d’in casa mi rivolse contro qualche improprio per aver
lasciato la porta aperta, e a malincuore tornai a rincasare tra quelle quattro
misere mura.
A quel punto, ancora non sapevo che a rendere più felici i
miei giorni sarebbe stato proprio l’amore.
Afferrai il cellulare, e affrontando la mia timidezza le
mandai un messaggio chiaro, in cui le scrivevo che ero innamorato pazzo di lei.
Non attesi un’ipotetica risposta, avevo paura lo ammetto, e spensi il cellulare
per rimetterlo subito in tasca, tornando a chiudere la porta di casa e
preparandomi ad affrontare il mio calvario domestico anche per quel giorno.
Feci un grande sospiro, chiusi gli occhi per un istante e mi
parve di volare via di lì.
Poi, l’ennesimo borbottio innervosito e lontano del mio
genitore, rassicurato dal fatto che chiunque avesse suonato al campanello se ne
fosse già rapidamente andato, mi spinse di nuovo a stare coi piedi per terra.
Tristemente, ma con tante belle speranze.
NOTA DELL’AUTORE
Carissime lettrici, spero che questo capitolo vi sia
piaciuto!
Ne sono accadute un po’ di tutte, e poi ecco anche la
sorpresa che Jasmine ha riservato al protagonista…
Beh, io vi ringrazio. Ringrazio chiunque sia giunto fin qui,
e tutti coloro che continuano a seguire assiduamente il racconto, supportandomi
con un calore e un affetto inimmaginabile. Io vi sono eternamente grato per
tutto.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Capitolo 20 ***
Capitolo 20
CAPITOLO 20
Nel pomeriggio di quella stessa giornata, dopo aver trascorso
una mattinata oziosa ma colma di pensieri di ogni sorta, mi preparai per
recarmi a casa di Alice.
La ragazza mi aveva mandato un sms in cui mi pregava di
andare da lei a farle visita, se potevo e se stavo bene, poiché aveva qualcosa
di cui parlarmi. Altrimenti, sarebbe venuta lei stessa a farmi visita. Senza
farmi troppe domande, sono quindi andato da lei.
Jasmine non aveva risposto al messaggio che le avevo mandato,
e questo mi faceva stare in ansia, ma non troppo, dato che avevo scoperto e sapevo
che in un qualche modo ricambiava il mio interesse. E ciò era la cosa più bella
che avessi mai potuto scoprire.
Dopo essermi sistemato di fretta, uscii di casa con
tranquillità, sapendo che mio padre non c’era. Avevo come l’impressione che
l’uomo fosse tornato a casa nostra per scappare da qualcuno, per depistare le
sue tracce. Anzi, era più che una semplice impressione ormai, visto anche come
cercava di essere una presenza furtiva anche per il vicinato, cercando di
mostrarsi il meno possibile all’aria aperta. Senza considerare ciò che mi aveva
detto quella mattina.
Mi venne da chiedermi se avesse commesso qualche reato, o
chissà cosa, ma mi parve una domanda sciocca, dato che quel giorno era tornato
all’università, dopo due di assenza. Non avevo idea di quale ruolo ricoprisse
al momento al suo interno, credevo che fosse addirittura un docente, ma non
stava a me porgli domande. Mi accontentavo che mi stesse lontano e che mi
rivolgesse la parola il meno possibile.
Sapevo che neppure mia madre era riuscita a scucirgli le
labbra, e questo mi irritava, ma in fondo solo relativamente. Non m’importava
molto di quel tizio, e non mi piaceva davvero per nulla.
Mi bastò percorrere pochi metri per essere già di fronte alla
dimora della mia amica, trovandola nel bel mezzo della porta d’ingresso,
aprendomi da distanza il cancelletto e facendomi cenno di seguirla e di entrare
tranquillamente in casa, mentre lei si intrufolava già dentro.
Non sopporto tuttora chi vuole concedere troppe libertà in
casa sua, ed entrare in quell’abitazione a me poco conosciuta senza nessuno che
mi accompagnasse si rivelò un poco imbarazzante, poiché nonostante ci fossi
stato invitato e che la padrona mi attendesse al suo interno, restava pur
sempre un ambiente non mio.
Entrai comunque in casa di Alice, muovendo qualche passo
trepidante nel largo corridoio del vasto atrio, molto più elegante e spazioso
del mio, mentre la mia amica faceva capolino da una porta poco distante e
aperta, facendomi cenno di entrare lì.
Ero un po’ innervosito da quell’accoglienza, però mi limitai
a seguire la padrona di casa, anche se in modo timido ed impacciato.
Mi ritrovai a rientrare attraverso un secondo ingresso in
quella stanza ampia in cui mi aveva accompagnato Alice la prima volta che avevo
messo piede in quella casa, la stessa in cui avevo conosciuto Jasmine. La mia
amica era seduta su una delle poltroncine, e alle sue spalle aveva spalancato
tutte le finestre. Le sorrisi e mi mossi verso di lei, ma rimasi amareggiato
quando la vidi stringere tra le mani una sigaretta accesa, per poi mettersela
in bocca e fare un tiro.
Alice, notando il fatto che mi ero immobilizzato sul posto
quando l’avevo vista fumare, mi mostrò un sorriso pacato, facendolo comparire
con una sorta di spontanea lentezza sul suo viso.
‘’Che c’è, non ti piace chi fuma? Oh, no, dovevo immaginarlo.
Dovresti provare anche tu, almeno una volta’’, mi disse, mostrandomi un
pacchetto di sigarette appena aperto, dove ne mancavano due, e un altro nuovo,
ancora avvolto dall’apposito involucro di plastica. Gettò un accendino sul
tavolino poco distante, poi si rimise in bocca la sigaretta e aspirò nuovamente
una boccata di quello che ritenevo una sorta di puzzolente gas.
‘’No, in casa mia c’è già gente che lo fa, e non apprezzo la
cosa’’, mi limitai a risponderle, senza far nulla per disgelarmi. Quel giorno,
il suo strano modo di comportarsi aveva cominciato ad allontanarla da me all’improvviso,
nella stessa modalità in cui mi si era avvicinata la prima volta ed avevo avuto
modo di conoscerla meglio e di frequentarla, soprattutto durante l’intervallo e
durante qualche pomeriggio.
‘’Ma fumare non è questione di piacere o no… o meglio, non
deve piacere obbligatoriamente a te stesso. Sappi che agli altri piace vederti
con una di queste tra le labbra’’, aggiunse la mia amica, con apparente
indifferenza.
Ero allibito; Alice stava cambiando, senza preavviso. Lei, la
ragazza timida ed introversa, quella che vestiva sempre in modo casual,
rilassata e tranquilla ma allo stesso tempo molto amichevole, in quel momento
era piazzata davanti a me sulla sua poltroncina, sul volto ben impressa
un’espressione sorniona e soddisfatta, mentre si portava nuovamente la
sigaretta alle labbra e con la mano libera si sfiorò per un secondo i suoi
jeans, che mi parvero tirati e nuovi.
Non indugiai oltre con lo sguardo su di lei, preferendo
spostarlo al di fuori della finestra aperta.
‘’I miei non sono a casa, se vuoi puoi fare qualche tiro
anche tu, così impari…’’.
‘’Non mi interessa, grazie’’, le risposi direttamente,
interrompendola con freddezza.
‘’Ok, ok, va bene, non prendertela, non insisto oltre. Ecco,
io ti ho invitato qui per sapere una cosa, invece… cosa sarebbe questa storia
con Jasmine?’’, mi chiese, senza lasciarmi il tempo per seguirla. Il suo volto
si era leggermente arrossato, quando tornai a guardarla per un attimo, e
compresi che era leggermente in imbarazzo.
‘’Beh, l’ho baciata la scorsa notte. E lei questa mattina ha
baciato me’’, le risposi, con sincerità e continuando a stare in piedi sul
posto.
Alice abbassò lo sguardo, distogliendolo dal mio viso. Quasi
sentii quel suo peso venir meno su di me.
‘’State insieme, quindi’’, aggiunse la ragazza, sfoggiando
una smorfia che non compresi subito.
‘’No, no, non stiamo affatto insieme per ora. Le ho mandato
un messaggio, lei non mi ha neppure risposto… e poi…’’.
‘’Non importa, lei è fatta così. Vi state per mettere
assieme’’, concluse Alice, con un tono sempre più profondo e strano. Anzi, mi
parve profondamente deluso, con una vena di velato nervosismo al suo interno.
‘’Non è così…’’, facile come sembra, avrei voluto aggiungere,
se la mia interlocutrice non mi avesse interrotto di nuovo.
‘’E’ così, punto. Ora che ne ho la certezza, però, dovrei
studiare. Da sola, perché in compagnia non riesco a concentrarmi’’.
La guardai, spaesato quella volta. Non sapevo che dirle, non
sapevo come reagire di fronte alla sua reazione chiusa, così… gelosa.
Ecco, capii in quel momento che Alice era gelosa ed invidiosa
per qualcosa. Era invidiosa di me e Jasmine, dei nostri due baci strappati al
destino, del nostro modo di approcciarci.
Mi si gelò il sangue nelle vene. Non potevo crederci.
‘’Va bene, allora me ne vado…’’, le dissi, cogliendo la palla
al balzo per togliere il disturbo da quell’ambiente così impregnato di
cattiveria repressa. Non mi sarei mai aspettato un atteggiamento simile da
parte di quella ragazza che mi era sempre parsa così matura, così intelligente
e propositiva, ed aperta a livello mentale.
Lei si alzò, senza fretta, per poi sfrecciarmi davanti ed
andarmi ad aprire la porta e il cancello. A capo chino, col volto arrossato
dall’imbarazzo generato da quella situazione e senza parole, mi diressi verso
casa mia, accennando un ciao che sapeva d’addio, nel bel mezzo del cancelletto
della casa della ragazza. Appariva come ironico ai miei occhi in quel momento
il fatto che quasi la totalità delle case del mio paesino si assomigliassero
tutte esteriormente, col classico giardinetto recintato e quella facciata
tristemente ed anonimamente bianca, mentre al suo interno vivevano persone così
tanto diverse l’une dalle altre.
A quel punto, Alice si mosse verso di me, mi afferrò a
sorpresa una mano e me la spalancò, per poi posarci in fretta l’accendino, che
doveva aver raccolto dal tavolo quando si era alzata dalla poltroncina, e
ficcandoci anche il pacchetto di sigarette iniziato che mi aveva mostrato poco
prima.
‘’Tieni questa roba, altrimenti prima di sera rischio di
fumarmela tutta. L’appiccio te lo lascio, così se cambierai idea potrai
cominciare a fumare anche tu. Sai, fumare fa abbassare lo stress, e l’ansia… e
pure il nervosismo’’.
‘’Ci vediamo domani a scuola, allora’’, le dissi, chiudendo
il discorso con disinteresse, e preparandomi a restituirle ciò che mi aveva
ficcato in mano a tradimento.
‘’Non contarci, forse faccio buco. Ho conosciuto gente nuova,
ragazzi del paese vicino… credo che andremo al centro commerciale. Oppure, a
Bologna… chissà’’. E così dicendo, si allontanò da me con un balzo, rapida come
un felino, richiudendo il cancello dietro di sé e intrufolandosi di nuovo in
casa sua, chiudendo anche la porta d’ingresso. Ed io, ancora imbambolato di
fronte a quella casa, me ne rimasi con quegli oggetti tra le mani, ancora
troppo stupito per fare altro.
Forse aveva ragione mio padre, quando mi diceva che sono una
sorta di bamboccio. Un debole.
Sapevo che Alice si stava dando da fare anche a conoscere
nuove persone, ma non ne aveva mai frequentate fino a quel momento, prima di
quel cambiamento repentino. In lei si era spezzato un qualche equilibrio a me
ignoto, e dato che purtroppo non ne sapevo molto sulle ragazze, preferii non
scendere nei dettagli. L’unica cosa di cui ero certo era che in quel mutamento
improvviso doveva aver svolto la sua parte anche una discreta gelosia. Alice
era caduta in basso, troppo in basso per i miei gusti.
Mortificato, mi allontanai da quella casa, quasi piangendo.
Non mi sarei mai creduto che quella ragazza che mi aveva offerto una mano poi
l’avesse ritirata tanto in fretta, e con quella dose di sgarbo notevole. Ero
rimasto ferito, ma a quanto pareva ciò era quello che sapeva fare meglio la
gente che mi circondava.
Con nervosismo, giunsi quasi sotto casa mia in un lampo,
scuro in volto, lontanissimo dalla serenità. Ero ridotto anch’io a un fantasma
colmo di dubbi e di dolore, a riguardo di tutto. Due baci, Jasmine che poi
fugge da me e non risponde al mio messaggio d’amore, Alice che tutt’a un tratto
cambia e s’ingelosisce di qualcosa a me sconosciuto, mio padre il villano, Livia
l’aristocratica con la puzza sotto al naso, mia madre preoccupata e debole,
Federico il bullo, la mia scenata della sera prima, la mia sorta di continuo
inquieto tormento interiore. Era tutto questo quello che mi frullava per la
testa in quell’istante, non permettendomi di andare a fondo nei miei pensieri e
di riflettere razionalmente. Mi sentii come la sera precedente, come se fossi
nuovamente sul ciglio di un baratro.
Mi fermai, poggiando la schiena contro uno di quei grandi
platani spogli che circondavano la strada, e con un movimento lento avvicinai
al mio viso ciò che Alice mi aveva posto in mano, ovvero cose di cui non mi ero
ancora sbarazzato.
Avvicinai quelle sigarette al naso, scoprendole ancora impregnate
del suo profumo, che miscelato con l’odore del tabacco creava un mix di
fragranze affascinante, dovetti riconoscere. Poi, per un attimo, la mia mente
si annebbiò a causa del nervosismo crescente.
Mi chiesi il perché di quella situazione, dato che il mondo e
la realtà parevano avercela con me. E mi chiesi anche il perché del fatto che
la gente, non appena ha un problema, si getta o a fumare o a bere. Ecco,
l’alcool lo odiavo infinitamente e lo odio ancora oggi, ma in quel momento
quelle sigarette mi parvero una sorta di attrazione curiosa. Se volevo scoprire
com’era fumare, e cosa quella sorta di trastullo recava alle persone che lo
apprezzavano e lo utilizzavano, avevo la risposta sottomano, per la prima volta
nella mia vita.
Non resistendo oltre, essendo la mia umana natura piuttosto
curiosa, mi misi tra le labbra una di quelle sigarette e poi, con attenzione,
con l’accendino la accesi.
A quel punto, fui ad un bivio; non sapevo se inspirare o meno.
Ero nervoso e curioso allo stesso tempo, e senza farmi troppe domande inspirai,
lentamente ma in modo deciso, facendo incanalare l’aria in quello strumento che
mi era sempre parso schifoso; la sigaretta.
La mia curiosità e la mia frettolosità furono smorzate in
fretta, e tornai improvvisamente alla realtà quando il fumo giunse ai miei
polmoni.
Inutile sottolineare che quella prima boccata fu anche
l’ultima.
Mi tolsi quell’oggetto schifoso dalle labbra, per poi
gettarlo sul marciapiede e spegnerlo sotto una scarpa. Poi, gettai a terra
l’intero contenuto del pacchetto, e con decisione lo distrussi, sempre
pestandolo con le scarpe, e sempre con costante rabbia.
Nel frattempo, tossivo senza sosta, pareva che l’odore acre e
disgustoso del fumo, con l’aggiunta del suo sapore, avesse conquistato non solo
la mia bocca, ma anche tutti i miei organi interni e il mio naso. Sentivo
sapore ed odore di fumo ovunque dentro me e addosso a me, visto che in casa di
Alice i miei abiti dovevano essersi impregnati col lezzo del fumo passivo. Pure
il mio alito puzzava pesantemente di fumo.
A quel punto, avevo trovato la risposta alla mia domanda e
alla mia curiosità; chi fumava doveva proprio essere stressato all’inverosimile,
oppure si doveva trattare per davvero di un’abitudine-dipendenza, per giungere
a sfogare la propria tensione inquinando il proprio corpo in quel modo.
Scuotendo la testa e finendo di sfogare il mio nervosismo sul
pacchetto di sigarette, ormai disintegrato al suolo e dilaniato dalle mie
suole, mi mossi verso casa, mentre una passante col proprio cagnolino al
guinzaglio mi rivolgeva un’occhiata incuriosita, dopo aver notato il mio scatto
d’ira.
Fregandomene altamente, strinsi tra le dita l’accendino di
Alice, e poi me lo misi in tasca. Non l’avrei distrutto, quello. L’avrei
conservato, e un giorno glielo avrei restituito, quando lei sarebbe stata
disposta a riaverlo.
Ma le sorprese non erano finite neppure per quella giornata.
Avevo appena compiuto quella ventina di passi che mi
separavano dalla mia casa, e il mio leggero nervosismo di poco prima pareva
essersi placato.
Mi accinsi ad aprire, per l’ennesima volta, il cancello che
mi separava dal mio giardino interno, quando un gruppetto di cinque ragazze mi
passò a fianco, seguendo il marciapiede e ridacchiando. Non mi soffermai a
guardarle intensamente e con curiosità, non sono mai stato così volgare durante
la mia giovane vita, e mi affrettai a scostare il cancelletto e a rientrare.
Le cinque si allontanarono e continuarono a ridacchiare e
battibeccare allegramente, e mentre stavo per rientrare nella mia dimora vidi
con la coda dell’occhio che ad una del gruppo era caduto qualcosa, e lei non se
n’era accorta. Guardando attentamente e da un po’ di distanza, mi parve chiaro
che ciò che aveva appena perso era un portafoglio, di quelli tipici delle
ragazze e piuttosto variopinto.
Notando che il gruppetto continuava il suo cammino, in modo
imperterrito, decisi di fare una buona azione. Tornai quindi sui miei passi,
tirandomi di nuovo dietro il cancelletto, e mi chinai a raccogliere l’oggetto,
che era effettivamente conteneva un po’ di monete, dato che risuonarono al suo
interno non appena l’afferrai.
Velocizzai il passo e raggiunsi le ragazze, delle tipe che
non avevo mai visto in vita mia, e che non si erano neppure accorte che mi
stavo avvicinando a loro, dal tanto che erano prese dalle loro chiacchiere e
dai loro battibecchi.
‘’Ehi, scusa… ma hai perso questo’’, dissi, sfiorando una
spalla alla ragazza alla quale mi era parso di veder cadere l’oggetto dalla
tasca.
La tipa si fermò, il suo viso si fece serio e mi guardò con
curiosità, mentre anche le altre quattro facevano la stessa cosa, smettendo
improvvisamente di chiacchierare e lasciando spazio solo al silenzio. Poi, mi
sorrise all’improvviso, riconoscendo l’oggetto di sua proprietà.
‘’Oh, grazie!’’, mi disse, continuando a rivolgermi un
sorriso diffidente, per poi afferrare il portafoglio ed aprirlo, controllandone
il contenuto con una rapida occhiata.
‘’Te lo dico sempre, Mel, di mettere le tue cose nella borsa.
Sono più al sicuro’’, disse una delle altre quattro, sorridendo alla prima e a
me.
Io, nel frattempo, ero rimasto quasi pietrificato; non tanto
dal fatto che la tipa avesse controllato il contenuto dell’oggetto che gli
avevo appena cortesemente restituito, ma dal volto della ragazza stessa.
Anzi, non appena le guardai tutte e cinque da vicino, con
intensa perplessità, notai che si assomigliavano tutte. E tutte avevano un che
di familiare, che sul momento non riuscii a collegare a nulla di preciso ma che
m’inquietava un pochino. Eppure, fui costretto a mettere a tacere quei pensieri
forse davvero insulsi, per sciogliermi nuovamente in un largo sorriso.
‘’No, scherzi?! Gli scippatori professionisti per prima cosa
ti fregano la borsetta, strappandotela dalle mani. È più semplice e facile
riporre gli oggetti più preziosi in tasca… soprattutto nelle tasche dietro. Sai,
poi fanno anche più volume in quella zona lì, e i ragazzi ci guardano con più
interesse’’, si limitò a rispondere la ragazza, scherzosamente, mentre però si
affrettava a mettere il suo oggetto dentro alla borsa, quella volta.
Le altre quattro alla battuta ridacchiarono, mentre io me ne
rimasi serio e perplesso. Quelli non erano dei discorsi in grado di suscitare
la mia ilarità, e la mia attenzione era ancora tutta concentrata sui visi delle
giovani, tutti più o meno simili.
Le ragazze erano tutte della stessa altezza, e non sembravano
separate da un grande divario d’età, anzi, dovevano essere più o meno coetanee,
anche se la più giovane forse doveva avere tre o quattro anni in meno di quella
che appariva leggermente più matura, forse ventenne. Avevano tutte e cinque gli
stessi occhi castani, e gli stessi capelli di un castano scuro, leggermente
mossi in prossimità delle spalle.
‘’Senti, scusa se ne approfittiamo di te e della tua
gentilezza, ma ci siamo perse. Siamo giunte fin qui in treno un’oretta fa, e
non siamo ancora state capaci di trovare il centro del paese. Sapresti darci
qualche indicazione precisa?’’, mi chiese una delle giovani sconosciute,
costringendomi ad abbassare lo sguardo per non apparire insistente e
maleducato.
‘’Guardate, il paese è molto piccolo. Per giungere nel
piccolo centro basta che proseguitate dritto, e giungerete direttamente nel
viale principale. Svoltate a destra, proseguite per un altro centinaio di metri
e poi ci siete. Ma non dovete credere che ci sia la possibilità di fare
shopping o quant’altro… il paese è piccolissimo, e il centro consiste in una
piccola piazza rotonda con una gelateria da un lato e una macelleria dall’altro,
e due piccoli bar a poca distanza l’uno dall’altro’’, risposi loro, parlando e
continuando a muovere gli occhi sui loro visi, senza mai indugiare troppo però.
Non riuscivo proprio a capire perché quei loro visi mi fossero così tanto familiari,
anche perché ero certo di non averle mai incontrate quelle tizie. Doveva
trattarsi di una mia strana sensazione momentanea.
‘’Ecco, Mel! Felice? Ci hai mandato fin qui da Bologna,
dicendo che eri certa che in questo paesino sperduto ci fossero parecchi negozi
di moda e di abiti. Ed invece ci troviamo disperse in un luogo remoto, e se ci
va bene potremmo solo gustarci un gelato’’, disse un’altra, rivolgendosi a quella
che aveva rischiato di perdere il portafoglio.
‘’Non è colpa mia se mi avevano detto che erano appena stati
aperti tanti nuovi negozi, qui. Sei certo che non ne hanno aperti di
recente?’’, tornò ad interrogarmi l’interpellata, mentre tutti gli occhi si
puntarono su di me, speranzosi.
‘’Che io sappia, no’’, risposi, smorzando le speranze del
gruppetto, che si fece deluso.
‘’Capisco. Comunque io mi chiamo Melissa, e loro sono le mie
quattro cugine; Martina, Francesca, Giorgia e Claudia, e veniamo dalle
periferie di Bologna. Grazie per avermi restituito ciò che avevo rischiato di
perdere’’, disse la ragazza del portafoglio, presentandosi e presentando le
altre quattro, seguendo l’ordine in cui erano disposte davanti a me.
‘’Io mi chiamo Antonio, e abito proprio nella casa a cui ora
sto dando le spalle’’, dissi loro, presentandomi timidamente.
‘’Grazie ancora per prima, Antonio. Ehm… dato che sei del
posto e di certo conoscerai bene il paesino, avresti tempo per accompagnarci
fino in centro? Siamo piuttosto imbranate, in più in questa zona mi sa che c’è
poca connessione e siamo senza Maps’’, mi chiese timidamente Melissa, che a
quanto pareva tra le cugine era lei la leader del gruppetto, mostrando una
smorfia strana sul viso, indecisa e imbarazzata.
‘’Se tu avessi ricaricato le batterie del cellulare, avremmo
avuto Maps per orientarci in qualsiasi momento, e non avremmo avuto bisogno di
importunare passanti’’, la punzecchiò quella che mi era stata appena presentata
per Francesca, molto simile alle altre. Parevano quasi gemelle, e il fatto che
fossero parenti strette si notava senza difficoltà alcuna.
‘’Ti prego, stai zitta, che non avevi neppure effettuato la
ricarica… così sei pure senza Internet’’, ribatté un’altra, mentre le restanti
avevano ripreso a ciarlare e a prendersela l’una contro le altre.
‘’Ehi, non è colpa mia se avete scelto di venire a fare
shopping in questo luogo sperduto e fuori mano! Sono stata una pazza a
seguirvi’’.
‘’Per fare shopping bisogna trovare sempre posti nuovi, e
nuovi mercati. Mi ero stufata dei soliti negozi’’.
‘’Ah, quindi questa sarebbe stata una sorta di scoperta
dell’America. Quattro sorelle e una cugina alla ricerca di nuovi negozi in cui
fare shopping, in una zona dimenticata dal mondo’’.
‘’Oh, su, non facciamola tragica. In fin dei conti ci stiamo
divertendo comunque, vero? E poi, quando ci siamo stancate di questo paesino
sperduto prendiamo di nuovo il treno alla stazione e ce ne torniamo a casa’’.
‘’Ovvio, se per divertimento intendi perdere oggetti
personali ed importunare passanti, stiamo andando alla grande, davvero!’’.
Non le seguivo più, parevano sclerate e fuori di testa. I
miei occhi si soffermavano prima su una, poi su un’altra, e alla fine li
distolsi definitivamente e mi preparai ad eclissarmi da quelle sconosciute
strane, e che mi mettevano in soggezione.
Mi chiesi se fosse possibile che facessero così ogni volta,
quando dovevano accordarsi su qualcosa. Non ci si capiva nulla. Ma la risposta
mi appariva scontata, visto il chiacchiericcio che me le aveva fatte notare
poco prima.
‘’Ehm, ok, noi saremmo pronte per muoverci. Ci
accompagneresti, per favore?’’, chiese timidamente Melissa, riuscendo a
quietare per un attimo il caos generato dalle cugine.
‘’Sì, non c’è problema’’, risposi loro, accogliendo comunque
di buon grado il diversivo che mi avrebbe allontanato sia da Federico, che
probabilmente a quell’ora doveva essere a casa, sia da fosche riflessioni che
mi portavano ad Alice, e persino dai pensieri strambi che mi facevano giungere
direttamente tra le braccia di Jasmine. Se a tutto andava aggiunto che con la
scuola ero a posto con tutto, nonostante quel giorno non l’avessi frequentata,
gironzolare per il paesino con una masnada di scalmanate sconosciute cugine e
tutte pressoché identiche mi pareva un qualcosa di sfizioso, sputando contro la
mia solita timidezza.
In realtà le tipe mi trattarono come una guida turistica;
smisero per un po’ di fare le oche e si comportarono decentemente, mentre mostravo
loro lo scialbo negozietto d’abbigliamento per anziani del piccolissimo centro
lastricato a sampietrini, e poi, al culmine della loro disperata delusione,
decisero di fermarsi a prendere un gelato, prima di fare ritorno a casa e di
tornare nella stazione del paese, tra l’altro non molto distante.
‘’Ragazze, buon gelato allora’’, dissi loro, col chiaro
intento di svignarmela. Ammetto avevo continuato a fissare i loro volti,
colpito da non so che cosa. Però, mi ero stufato di fare il loro valletto.
Inoltre, fermarmi a prendere un gelato in pieno autunno mi
pareva una bestemmia, col freddo che provavo di tanto in tanto. Tra l’altro, la
stessa gelateria avrebbe poi chiuso i battenti a partire dalla settimana
successiva, fino alla fine del clou dell’inverno, quando avrebbe poi ripreso la
sua regolare attività.
‘’Ma che dici… vieni, ti offriamo un gelato, per ringraziarti
di tutto quello che hai fatto per noi. Sei stato davvero troppo gentile! Giuro,
neppure in casa nostra riescono a sopportarci, quando siamo tutte e cinque
assieme. Immagino che tu sia sfinito’’, si affrettò a dire Melissa, invitandomi
e ridacchiando.
Sfoggiai un sorriso di cortesia, poiché era stato tutto
proprio come lei aveva detto.
Mi diressi quindi in gelateria con loro, dove presi un
cornetto alla panna(che dovetti acquistare con i miei soldi, visto che le tipe
dopo aver raggranellato tutte le monetine possibili dai loro borsellini e
portafogli variopinti fasullamente griffati non erano riuscite a pagarlo anche
a me. Non seppi mai come avevano intenzione di fare shopping, senza un soldo in
tasca!), e una volta uscito tentai nuovamente di dileguarmi, ma loro mi
invitarono a sedermi un po’ nei tavolini esterni del locale. Dato che faceva
freddo e che ero sfinito, mi sembrò di vivere un calvario.
Eppure, non riuscivo a dir loro di no; mi incuriosivano.
Melissa poi, quella che pareva la più matura e la più intelligente, mi attirava
ancor più delle altre. Mi pareva speciale. Non vivevo quella sorta di
attrazione che provavo se pensavo a Jasmine, ma qualcosa di simile che sul
momento non mi seppi spiegare.
‘’Hai qualche hobby?’’, mi chiese improvvisamente Melissa,
mentre eravamo ancora seduti attorno al tavolino e le altre quattro avevano
ricominciato a bisticciare per qualcosa che per fortuna non avevo inteso, forse
per i soldi. Ormai, stanco com’ero, avevo lasciato che i miei pensieri prendessero
il sopravvento sulla realtà, alla quale prestavo poco interesse, ma la domanda
della ragazza mi costrinse a tornare sul mondo.
‘’Uhm… sì… mi piace suonare. Il pianoforte’’, le risposi,
mugugnando con le labbra zuccherose e leggermente impastate.
‘’Che bello! Anch’io in casa ho un pianoforte, era di mio
nonno paterno. Ora lui non lo utilizza più, è piuttosto vecchiotto, e lo
strumento se ne sta a prendere la polvere…’’, mi rispose la ragazza, finendo di
mangiare il suo gelato e passando lo sguardo sulle cugine, ancora ben prese dal
loro bisticcio.
‘’Peccato’’. Fu l’unica parola che riuscii a dire.
‘’Senti, Antonio… ti abbiamo scocciato in tutti i modi oggi,
e tu sei stato davvero gentilissimo. Ci hai sopportato, ci hai fatto da guida,
ci hai restituito ciò che avevamo rischiato di perdere, e non meno importante
ti sei pure dovuto pagare un gelato, che forse non ti andava, per seguirci. Se
vorrai venire a farci visita… non mi dispiacerebbe. Non ci dispiacerebbe
affatto, anzi. Tra l’altro, mi piacerebbe molto imparare a suonare il
pianoforte, e se tu ne sei capace potresti darmi una mano! Io non riesco a
mettermici d’impegno, e mio nonno ritiene un inutile spreco di tempo tentare di
insegnarmi qualcosa a riguardo’’, tornò a dire la ragazza, cogliendomi alla
sprovvista. Mi chiesi se ci stesse provando con me.
‘’Sarebbe un’idea, perché no…’’, le risposi, senza
sbilanciarmi ed essere scortese.
‘’Se non sei già stanco di sopportarci. Noi siamo una grande
famiglia, e viviamo praticamente assieme, incontrandoci tutti i giorni, quindi
tornerai a vedere anche loro. Magari potrai insegnare qualche nota anche alle
mie adorate cugine’’, continuò a perseverare la ragazza.
‘’Ma che dici… tranquilla’’, mi limitai a dire, continuando a
cercare di non prendere una posizione e di non badare alla seconda parte del
breve discorso appena uscito dalle sue labbra.
‘’Tieni, questo è il mio numero di cellulare. Non smetterò
mai di esserti grata per la gentilezza che ci hai rivolto’’, aggiunse Melissa,
afferrando un fogliettino da dentro la borsetta, assieme ad un mozzicone di
matita e scrivendoci il suo numero, per poi consegnarmelo in fretta.
‘’Aspetta, ti do anche il mio’’, le dissi, dettandole poi il
mio numero, che lei scrisse su un fazzolettino di carta, che si rimise poi in
borsa.
‘’Ragazze, è ora di andare in stazione’’, disse poi,
alzandosi dal suo posto e richiamando alla decenza le altre quattro, che
prontamente annuirono e si alzarono, muovendosi verso la stazione.
‘’Un attimo, temo che stiamo per perderci nuovamente’’, disse
quella che doveva chiamarsi Giorgia, guardandosi attorno.
Mi affrettai a spiegare loro nuovamente il tragitto da
compiere, raccogliendo altri ringraziamenti come se le avessi salvate da un
peregrinare eterno. Mi sentivo il salvatore di un gruppetto di simpatiche oche
giulive.
‘’Grazie di cuore, Antonio. Ci teniamo in contatto, eh! Ci
conto che tu voglia venire a farci visita, se lo vorrai. Appena arrivo a casa,
metto sotto carica la batteria del cellulare e poi ti mando un messaggio! A
presto, quindi!’’, mi salutò Melissa, al momento degli addii.
Annuii con poca convinzione, mentre il gruppetto chiassoso
tornava ad allontanarsi da me, quella volta forse per sempre. Dubitavo che la
ragazza sarebbe tornata a farsi sentire.
Mentre tornavo anch’io a casa, continuai a lasciar affiorare
i profili delle sconosciute nella mia mente, continuando a notare un qualcosa
di stranamente insolito. Poi, tornò a riaffiorare anche il triste incontro con
Alice.
L’amarezza mi pervase dalla testa ai piedi, e non appena
rincasai ne approfittai subito per andare a farmi un bel bagno caldo, in modo
da cercare di scacciare tutte le varie riflessioni, purtroppo dolorose e
piuttosto inutili in quel momento.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno, carissime lettrici, e buon inizio di settimana J
Grazie per aver letto anche questo capitolo e per continuare
a seguire il racconto! Esso avrà ancora un po’ da narrarci, grazie ai vari
pensieri e ricordi del nostro caro protagonista.
Grazie infinite a tutti i recensori!
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a lunedì prossimo J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** Capitolo 21 ***
Capitolo 21
CAPITOLO 21
Ricordo che trascorsi notti tormentate, dopo ciò che era
accaduto tra me e Alice.
La ragazza non era più venuta a scuola, pareva
irraggiungibile, e non avevo idea di come agire. Credetti che starmene sulle
mie mi sarebbe stato decisamente più utile che cercare di invischiarmi
nell’animo di quella tipa che effettivamente non dovevo aver conosciuto tanto
bene, e così feci.
Neppure Jasmine l’aveva rivista più, e si era rifiutata di
concederle ogni sorta d’incontro; a lei aveva raccontato che non stava affatto
bene, e che forti emicranie la tormentavano, per lasciare spazio poi a momenti
di grande lucidità, in cui aveva problemi a riconoscersi. Ammetto che
ridacchiai su quei discorsi, per me privi di fondamento e talmente tanto
esagerati che potevano solo significare che Alice non ci voleva più tra i piedi
e che aveva fatto le sue scelte, giustamente. Ero a conoscenza del fatto che
negli ultimi mesi non era stata affatto bene, però scherzare sulla propria
salute in questo modo mi disgustava ed inquietava allo stesso tempo.
Il mio scetticismo però non intaccò Jasmine, sempre convinta
che in ciò che l’amica le aveva detto ci fosse almeno un fondo di verità. Lei
poi la conosceva da tutta la vita, ed aveva avuto maggior confidenza con quella
ragazza che non potevo far altro che reputare strana.
Oh, tra me e Jasmine andava tutto a gonfie vele; tra noi non
c’era bisogno di dialoghi e parole, per intenderci. Non aveva risposto al mio
messaggio d’amore, era vero, ma la mattina successiva mi attendeva davanti
all’ingresso del liceo, ancora parzialmente rovinato dai vandali, e con un grande
sorriso e un’immensa dose di delicatezza mi aveva preso le mani tra le sue. Non
ci eravamo detti nulla, e neppure baciati, eppure tutto ci pareva chiaro.
Nei due giorni successivi, tutto era proseguito così. Ci
tenevamo per mano, ci donavamo un abbraccio a vicenda di tanto in tanto,
stavamo assieme, in compagnia al parchetto poco distante da casa mia, chiacchieravamo
ma non c’eravamo mai azzardati a sfiorare l’argomento del nostro rapporto di
coppia. Tutto, a quanto pareva, doveva apparire semplice e spontaneo, e Jasmine
e il suo modo di fare molto naturale ed esotico mi piacevano da impazzire.
Non trovavo quindi il senso di pronunciare un altro ti amo,
quando cercavamo comunque il contatto tra i nostri corpi e una discreta
vicinanza continua. Credo che entrambi all’epoca avessimo paura di fare troppi
passi avanti in una sola volta. E quindi procedemmo con calma, ma allo stesso
tempo con tacita sicurezza e tanta voglia di restare assieme.
Lei stessa pareva molto contenta di avermi sempre vicino.
Anche Melissa poi si era fatta risentire, tramite messaggio;
sembrava che si fosse affezionata a me.
Ciò generava nel mio animo una sorta di inquietudine, dato
che il mio interesse era totalmente rivolto a Jasmine, ma comunque sentivo che
per quella ragazza pressoché ancora sconosciuta provavo una discreta e
primitiva curiosità, rivolta anche alle sue strambe cugine. Avevo quindi deciso
di non troncare quel flebile rapporto ma di non dare neppure troppa corda alla
ragazza.
Giacomo e Francesco erano venuti nei giorni scorsi a fare una
partitella alla play, e tutto sommato ci eravamo divertiti, anche perché ero
stato ben attento a non farli venire negli orari in cui era in casa il mio
irascibile signor padre, l’uomo che continuava a vivere a sbafo e come
clandestino in casa nostra, ma senza intenzione alcuna di spiegarcene il motivo
o di voler levare le tende.
Livia e Federico erano sempre più assenti. Pareva che il
prepotente avesse qualche giro strano, e che si trattenesse fuori molto tempo,
ed io mi limitavo a consegnargli i compiti a casa già fatti pur di mantenere
quel flebile momento di tregua. Non aveva voglia di picchiare o imporsi, e la
sua testa era impegnata in altri lidi e su altri fronti, questo mi era chiaro,
e non volevo stuzzicarlo. A metà del primo trimestre i suoi voti erano
ampliamente insufficienti in quasi tutte le materie, e ciò turbava Roberto, che
era sempre più schivo anche lui, chissà poi se ciò fosse dovuto solo ai
problemi del figlio.
Pure mia madre era sempre più assente, risucchiata dai suoi
lavori precari.
Ed io studiavo, e per fortuna a scuola andavo parecchio bene
quell’anno, mentre morivo e mi deprimevo senza pianoforte, ancora inutilizzato
a causa di mio padre, che spesso per ripicca si divertiva a chiudere a chiave
la porta della mia saletta quando non era occupata da lui, portandosi poi
dietro le chiavi stesse.
Non restava altro da fare quindi che riflettere sulla mia solita
routine, per non pensare troppo e non deprimermi.
Tenevo in considerazione il serio rischio di perdere parte
delle mie capacità musicali, se fossi stato un altro mese senza poter suonare
il mio strumento, e ciò mi distruggeva. Ma, semplicemente, non potevo farci
nulla.
E poi, dal buio che a tratti avvolgeva la mia mente, emergeva
un desiderio infame, traditore; quello di voler svelare il segreto che si
celava dentro la stanza da letto del mio nemico. Era vero che non volevo
stuzzicarlo, ma se avessi solo dato una sbirciatina lui non si sarebbe accorto
di nulla ed io avrei avuto modo di soddisfare la mia subdola curiosità, nata
ancora durante quella notte in cui avevo udito la telefonata di Federico,
intrattenuta nel mio bagno. Quella stanza, che aveva inglobato anche i miei amati
e utili vasetti di plastica per piante, doveva celare qualcosa che io volevo
svelare. Avevo qualche sospetto ben definito, ma non volevo riconoscerlo a me
stesso.
Poi, magari dopo una semplice sbirciatina tutto si sarebbe
rivelato infondato e non avrei trovato nulla di insolito in quella stanza,
nulla in grado di attirare la mia attenzione o di nascondere un segreto, e ciò
forse sarebbe stato meglio. La tentazione era tanta e tanta restava, comunque.
Avevo quindi un gran tormento addosso, e non riuscivo a
liberarmene né di giorno né di notte. Dovevo far qualcosa per tornare sulla
giusta carreggiata, in modo da evitare possibili altri crolli come quello di
quella sera neppure tanto lontana.
In questo clima di effervescente agitazione interiore,
anche dolorosa a volte, e in piena crisi d’astinenza dalla musica, decisi che,
una volta tornato a casa da scuola, quel sabato pomeriggio di metà novembre
l’avrei passato a riguardarmi i filmati su mio nonno, conservati gelosamente da
mia madre. Era materiale su vecchie videocassette, roba d’altri tempi ormai, ma
in piena crisi emotiva pensavo che riascoltare la voce del mio amato nonno mi
avrebbe potuto far solo che bene, e magari aiutarmi a non compiere scelte
sciocche o affrettate.
Quindi, mi ero preparato con due giorni d’anticipo per
quel pomeriggio, prendendo in prestito le videocassette dalla stanza di mia
madre(in realtà le presi senza neppure chiederglielo, sperando che non si
accorgesse del mio piccolo furto e della mia intrusione nell’intimità della sua
camera da letto).
Non so cosa mi avesse spinto a compiere quel gesto,
forse solo l’estrema agitazione del mio animo, che negli ultimi mesi era stato
davvero sottoposto ad ogni genere di stress emotivo. Insomma, seppi solo che mi
sentivo di comportarmi così, e così feci, coerentemente.
Mio padre non era in casa, così come mia madre.
Neppure Livia e Federico c’erano, li avevo visti uscire poco prima. A campo
pressoché libero, quindi, potei recarmi nel piccolissimo salotto a fianco della
cucina, nel quale non entravo praticamente mai, e dove c’era la televisione
principale e dallo schermo più grande, con tutta l’attrezzatura che mi serviva.
Però, prima di piazzarmi lì, non nascondo che mi recai
dal mio amato ex rifugio, e con mano titubante avevo cercato di aprirne la
porta. Niente da fare, mio padre l’aveva chiusa a chiave anche quel giorno, e logicamente
la chiave se l’era portata con sé.
Ribollivo dalla rabbia, ed avevo voglia di piangere.
Senza riflettere ulteriormente, abbassai leggermente
la tapparella del salotto e accesi la tv, inserendo poi una delle due
videocassette che avevo tra le mani e cominciando a pasticciare coi
telecomandi. Non ricordavo neppure più come azionare tutto, ma il nervosismo e
un po’ di fortuna riuscirono in fretta a togliermi dai miei problemi tecnici. E
poi, lo schermo della tv si illuminò e apparve la sagoma di mio nonno.
Si trattava di vecchi filmati amatoriali, girati da un
vecchio amico di famiglia che una ventina d’anni prima aveva avuto la stramba
idea di voler raccontare la storia del mio paese attraverso le voci di chi in
esso aveva vissuto i momenti più salienti della propria vita. Mio nonno non
poteva mancare in un simile filmato, dove tra l’altro era il primo a parlare e
a cercare di illustrare, nei suoi quaranta minuti che aveva a disposizione,
com’era la vita nel paese negli anni prima del passaggio del fronte, e come si
era evoluta poi in seguito, nel primo dopoguerra.
Lì il mio caro familiare ormai defunto da anni
rievocava la sua infanzia e la sua dura giovinezza, con grande lucidità, e
mentre cominciavo ad ascoltare la sua narrazione attraverso la videocassetta,
mi parve di averlo ancora lì, a mio fianco, a raccontarmi quelle storie che mi
aveva spiegato un’infinità di volte, ma che non mi stancavo mai di ascoltare.
Mi sedetti, e appoggia il mento sulle mie due mani
unite, continuando ad ascoltare la voce registrata del nonno, che di tanto in
tanto si concedeva una qualche pausa, colma di riflessione, nella ricerca dei
ricordi.
Di tanto in tanto, mostrava un leggero sorriso sul suo
volto glabro, con qualche ruga impressa sotto gli zigomi, e la testa
parzialmente calva pareva mandare qualche riflesso, in quel filmato che avrei
ben potuto considerare scadente, considerato anche il fatto che era uno dei
primi a colori e tutto quanto dava un’insolita espressione di strano. Quando il
tutto era stato girato, mancava ancora poco più di un anno alla mia nascita.
Mentre me ne restavo imbambolato ad ascoltare le
parole del nonno, la mia mente non riuscì tuttavia a concentrarsi e a smetterla
di struggersi e di tormentarsi; anzi, la visione e l’ascolto del filmato la
inasprì ulteriormente.
‘’Cosa stai guardando di bello?’’.
Mi voltai verso Roberto, che aveva fatto capolino
dalla porta leggermente scostata.
Non nascosi una smorfia irritata; mi ero preparato per
tutto, da giorni, ed avevo atteso il momento più opportuno per cercare la pace
tra quei filmati, come un nostalgico depresso, ed invece non avevo fatto i
conti con quell’uomo curioso.
‘’Un filmato…’’, gli dissi, a labbra strette e
tornando a guardare lo schermo della tv.
Mi aspettavo che se ne andasse, ed invece venne a
sedersi a mio fianco, guardando anch’esso la televisione.
Sospirai. Se voleva fare quattro chiacchiere, quello
era il momento meno appropriato.
‘’E’ strano che un ragazzo giovane come te si metta a
guardare simili filmati’’, mi disse, incuriosito e lanciandomi uno sguardo.
Si mosse leggermente e mi giunse al naso l’odore del
suo dopobarba, che doveva essersi spalmato nel collo, l’unica parte dove si
radeva. Il resto della barba continuava ad essere lunga un paio di centimetri
forse, comunque sempre ben curata, mentre il collo se lo sbarbava sempre, al di
sotto del viso, per evitare poi il fastidio che i peli potevano dare in quel
punto, quando si muoveva il capo o lo si chinava durante la vita quotidiana.
Io, alle mie prime e frequenti esperienze con la rasatura, capivo appieno la
sua scelta e il suo gesto, poiché anche a me infastidivano parecchio i peli in
quel determinato punto.
Sospirai nuovamente, prima di aggiungere qualcosa alla
sua osservazione.
‘’Non è un filmato qualsiasi. La persona che sta
parlando è mio nonno’’, gli risposi, di poche parole.
‘’Ah, ho capito, ora mi è tutto più chiaro. Dovevi
essergli molto affezionato’’, notò, sistemandosi meglio sulla sua postazione.
‘’Certo. Gli devo tantissimo’’.
Era vero. Dovevo molto ai miei nonni materni, ma
soprattutto al nonno; era stata lui la figura maschile di riferimento durante
la mia infanzia. E poi, non potevo nascondere il fatto che i miei nonni erano
perfetti.
Della nonna ricordo molto poco, essendo venuta a
mancare quando avevo solo undici anni, ma del nonno ricordo parecchio. Mi aveva
difeso, mi aveva preso in braccio quando avevo paura, ed era a lui che mi
rivolgevo quando avevo un qualche problema o mi serviva un qualche consiglio,
oppure una qualche domanda da porre, che la mia curiosità da bambino m’imponeva
a vagonate. Era stato lui a spiegarmi quello che dovevo sapere del mondo, a
piccoli passi.
Sapevo perché la sua figura mi era sempre parsa
perfetta.
Il nonno era stato per me un punto di riferimento
stabile e fisso, e non mi aveva mai deriso o giudicato. Con me aveva pazienza e
tanto tempo da rivolgermi, al contrario di chiunque altro, e rispondeva ad ogni
mio interrogativo, sempre aperto con me. Contrariamente, i miei genitori erano
stati l’opposto di lui, sempre sbrigativi ed indaffarati. Se per mia madre
tutto ciò era dovuto a motivi ovvi, per mio padre tutto ciò era dovuto alla sua
arroganza, alla sua diversità. Non ero stato fortunato con quella figura
genitoriale.
Quindi, i nonni e la loro stabilità familiare(basata
sul dialogo, anche sulla sopportazione a volte, senza mai un litigio ad alta
voce o qualche comportamento violento), erano stati per me ciò che più cercavo
da piccolo, quella stabilità che i miei genitori non potevano offrirmi.
In una società che invecchia e che allo stesso tempo
cambia continuamente, in una sorta di mutevole e precaria danza, i nonni mi
erano parsi come entità inviolabili e sagge, mentre i miei genitori mi erano
sembrati più deboli, più umani, e quindi più giudicabili. Se mio padre e mia
madre erano stati per me, in parte ingiustamente, soggetti di cui giudicare il
loro operato e le loro vite moderne, più dissolute e problematiche, il nonno e
la nonna erano ciò che significava tranquillità, amore e pazienza. Dei
pilastri, insomma, contrapposti a capitelli meno resistenti, dalle più
biasimevoli incisioni e dalla maggior precarietà.
‘’Capisco’’, si limitò a dirmi Roberto, dopo essersi
passato una mano sulle guance ispide e ricoperte di grigia peluria, ed essersi
concesso un attimo di silenzio.
Io me ne stetti in silenzio, continuando ad ascoltare
la voce del mio caro nonno, e a osservarne le fattezze familiari del viso che
mi erano tanto mancate, ma in fretta ci stavo perdendo gusto.
‘’Non trovi un controsenso che, dopo la morte fisica,
una parte di sé resti intrappolata all’interno di fotografie, ritratti, video,
audio…?’’, chiesi, a bruciapelo e senza sapere il perché. La domanda, espressa
tra l’altro in modo scorretto, mi frullava per la testa in quel momento.
Roberto mi guardò di nuovo.
‘’Non parlare come i nativi americani, Antonio. In
questo video non è rimasto nulla di tuo nonno, se non una riproduzione uditiva della
sua voce e visiva di parte del suo corpo, e sicuramente tutto ciò è venuto
riprodotto in modo diverso dall’originale’’.
‘’Sì, scusa, hai ragione, ho espresso malissimo la mia
domanda. Comunque, ecco, mi pare davvero un controsenso che dopo la nostra
morte possano restare video in cui noi parliamo, o registrazioni in cui si
possa ancora udire la nostra voce che, anche se riprodotta, resta pur sempre la
nostra voce. Oppure foto, scattate mentre sorridevamo, oppure mentre vivevamo
un momento felice e lontano delle nostre esistenze, già interrotte’’, mi
limitai ad aggiungere, correggendo leggermente il contenuto.
‘’Non pensare troppo a queste cose, sono tutte
sciocchezze.
‘’No, però a pensarci bene, in fondo, la tua
osservazione non è errata; a modo loro sono una sorta di paradosso. Insomma, al
giorno d’oggi, i più giovani ma anche noi adulti, amiamo farci foto, e video, e
magari postarli su qualche account su Internet o altro… insomma, amiamo
immortalarci in ogni modo possibile. Forse, in un certo senso, immortalando un
determinato momento in un video o in una foto in modo indiretto può sembrarci
un voler salvare immutato e per l’eternità quello stesso istante. Tipo volerlo
rendere immortale.
‘’E invece poi, il passare del tempo prima ucciderà
noi, poi danneggerà foto, video, audio… che sono solo riproduzioni superficiali,
vaghe consolazioni utili solo a chi ci è sopravvissuto e vuole sapere com’era
un pressappoco la nostra voce o il nostro viso. Poi, anche ciò svanirà, col
tempo. E ciò che non svanirà prima o poi sarà dimenticato per sempre’’, aggiunse
Roberto, articolando al meglio il suo discorso, e facendosi pensieroso.
Sapevo che quando assumeva quell’espressione
concentrata stava per dar libero sfogo alla sua parte interiore di filosofo.
‘’Vero’’, annuii.
‘’Beh, io non so il motivo più profondo che ti ha
spinto a guardare questo filmato, e magari è solo per un puro interesse
personale, o che so, per curiosità riguardo al passato, ma non credo sia solo
questo. Sta di fatto che se cercherai altro oltre alla più limpida semplicità,
non troverai nulla rifugiandoti in questa visione’’.
Lo guardai, irritato; il mio interlocutore sapeva
sempre centrare il punto cardine di ciò che mi spingeva a far qualcosa, con
tempismo perfetto.
Io, effettivamente, non stavo guardando il filmato per
curiosità o qualcosa di più superficiale, ma ero spinto da una sorta di
nostalgia, di voglia di ritrovare una parte di quell’uomo che aveva lasciato
quel mondo con tanta sofferenza e prima del tempo, facendomi perdere un
pilastro della mia vita proprio nel bel mezzo dell’adolescenza, e di
riascoltare la sua voce e di rivedere il suo viso.
‘’Come fai a saperlo? Sono convinto che, quando l’avrò
ricordato a fondo, alla fine di questa parte di video, avrò ritrovato parte
della mia tranquillità’’, gli dissi, tutt’a un tratto, lasciandomi
effettivamente ed infantilmente andare. Troppo, per i miei gusti.
‘’Non so cosa ti turba, ma le soluzioni di ogni tuo
problema non le ritroverai facendo così. Noto che tu hai un atteggiamento
troppo spesso chiuso in te stesso; a volte, per risolvere qualcosa, bisogna
saper agire. Tentennare non sempre è positivo, ed affogare i propri pensieri in
un passato che mai nessuno ti restituirà è una scelta sciocca’’, mi disse Roberto,
con gli occhi luccicanti e prendendo la palla al balzo.
Nel frattempo, il filmato continuava a scivolare
dinanzi ai miei occhi, divisi tra lo schermo del televisore e l’uomo reale che
mi parlava.
‘’Guarda, sto passando un periodo da incubo. Desidererei
solo essere lasciato in pace, a finire la visione di questo filmato’’, gli
risposi, sempre più scocciato dalla sua intrusione. Chissà cosa voleva
quell’uomo dalla mia vita.
‘’Senti, come devo fare a farti capire che in quello
che stai vedendo non troverai mai ciò che realmente cerchi?’’, sbottò l’uomo,
in risposta.
Lo fulminai con lo sguardo.
‘’Ma cosa vuoi saperne tu di quello che io cerco?!’’,
mormorai, ormai affranto dalla sua insistenza.
‘’Mi hai donato tanti indizi per capirlo, se non te ne
sei accorto. In pratica mi hai lasciato chiaramente intendere che il nonno, che
è stato molto importante nella tua vita fino al suo decesso, ti è ancora molto
caro. Poi, le tue domande e le tue riflessioni a riguardo del senso dei filmati
e delle foto dopo la nostra morte… tu stai praticamente cercando di provare a
ritrovare indirettamente qualche attimo felice, attraverso questo. Insomma, mi
è tutto abbastanza chiaro, mi pare’’.
M’imbronciai ancora di più.
‘’Adesso basta, per favore’’, gli dissi, sentendomi
ormai vulnerabile. Aveva ragione; mi ero scoperto troppo, quella volta.
‘’Hai presente il paradosso della nave di Teseo?’’, mi
chiese, improvvisamente, non badando alla mia richiesta di essere lasciato in
pace.
Strabuzzai gli occhi.
‘’Cosa?! Che c’entra una nave, adesso?!’’, gli dissi,
ancora più scocciato.
Mi rigettai a guardare la tv; avevo deciso che l’avrei
ignorato da quel momento in poi, chissà se avesse scelto poi di alzare il
sedere da quella sedia e di andarsene.
Alzai un po’ il volume del televisore, per aggiungere
qualcosa alla ripicca.
‘’C’entra, eccome; ascolta un po’, compone una
storiella interessante. Hai presente Teseo? Chi era, insomma? Beh, immagino
proprio di sì; chi non lo conosce?! Proprio quello del Minotauro e del filo di
Arianna.
‘’Ebbene, si narra che la nave del prode Teseo, gran
navigatore in vita, fu conservata per anni e anni dagli ateniesi, in modo che
tutti, ma proprio tutti, potessero ammirarla, così da poter ricordare per
sempre il grande uomo che l’aveva utilizzata per muoversi per mare e andare a
compiere le sue immani avventure. La nave venne conservata intatta, ma col
trascorrere del tempo le sue parti in legno cominciarono a deteriorarsi, in un
processo senza fine, che non poteva essere limitato. Si sa che il tempo è inclemente,
con la materia!
‘’Giunse quindi un momento in cui tutte le parti
utilizzate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave
stessa conservasse nel modo più identico la sua forma originaria. Da qui nacque
una situazione paradossale, poiché come puoi ben intendere anche tu, che sei un
ragazzo molto intelligente, qualcuno di perspicace si chiese se la nave fosse
ancora quella di Teseo, o se non lo fosse più.
‘’Il paradosso crea una questione ancora attuale,
visto che riflettendoci non si sa definire con chiarezza se quell’imbarcazione,
ancora identica esteriormente all’originale ma con tutti i suoi componenti
cambiati e non più autentici, fosse ancora rimasta la nave di Teseo. La nave di
Teseo, quindi, si è conservata oppure no? L’entità dell’imbarcazione,
modificata nella sua sostanza ma senza alcuna variazione nella sua forma
esteriore, è ancora la stessa entità, o è un qualcosa che le somiglia soltanto,
una vana ed inutile riproduzione, senza alcun valore e senso?’’.
Non risposi alle sue domande, ma restai accigliato.
Ammisi a me stesso che Roberto era un grande oratore
quando voleva, tenace ed attento. Ciò che mi stava spiegando non lo avevo
ancora capito, ma m’interessava a suo modo, poiché ne coglievo una certa
arguzia. Comunque, mentre lui si concedeva una pausa, ne approfittai per pormi
anch’io il quesito, comprendendo in fretta che la risposta era davvero
difficile da dare.
Il mio interlocutore, che non era affatto uno sciocco,
sapeva che non gli avrei rivolto la parola in quel momento, e si accinse a
riprendere il suo discorso e a cercare di giungere in fretta a ciò che mi
voleva passare.
Abbassai leggermente il volume del televisore.
‘’Questo paradosso si può applicare anche a noi umani;
non è forse vero che ogni giorno in noi qualcosa cambia? Non siamo mai identici
al giorno precedente, o addirittura al secondo prima. Le nostre idee cambiano
costantemente, i nostri pensieri pure.
‘’E la nostra pelle! Anche lei cambia e si rinnova
costantemente. Eppure, nonostante questo continuo ed incessante mutare,
continuiamo ad apparire la stessa persona. Quando la mia pelle si sarà
rinnovata tutta, non mi chiamerò Alfredo, ma ancora Roberto. Eppure, non sono
più il Roberto che ero! Dilemma’’, continuò il mio interlocutore, dando di sprone
alle sue idee.
Mi venne improvvisamente da sorridere di fronte a
quella valanga di pensieri, parole e paradossi. Mi avevano assolutamente
confuso, e in tutta sincerità non sapevo che dire o che aggiungere, né dove
l’uomo volesse andare a parare, ma per fortuna io mi volevo estraniare da quel
discorso.
‘’Ecco, di fronte a tutto ciò, come puoi credere che
in quel vecchio filmato possa annidarsi qualcosa che possa esserti d’aiuto, o
magari compiere il miracolo di risollevarti il morale? Tuo nonno vivrà per
sempre nel tuo cuore, e nei tuoi pensieri, nell’attimo in cui sei riuscito a
conservare una sua nitida immagine nei tuoi ricordi. Lui sarà la tua forza, ma
dentro di te, non devi cercarlo in vane rappresentazioni, che non hanno nulla a
che vedere con la realtà.
‘’Non struggerti per lui, immagino che l’amore e
l’affetto di una persona possa giungere in qualsiasi luogo e, senza andare a
pensare alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, penso che una parte di chi
non c’è più resti per sempre con noi. Ma dentro alla nostra mente, quella sorta
di ingranaggio potentissimo, ancora più potente di ogni oggetto meccanico
inventato dall’uomo. È nel nostro cervello che si nasconde la vera ricchezza,
la risposta ad ogni cosa, anche se a volte è difficile da raggiungere, e può
sembrare impossibile.
‘’Chissà, forse un giorno gli stessi paradossi di cui
ti ho parlato avranno una risposta chiara nonostante le premesse ragionevoli ma
che portano a risultati opposti e parzialmente inaccettabili, e ciò che resta
di noi dopo la morte non sarà più una domanda che richiede una risposta così
teologica e metafisica.
‘’Nel frattempo, dai retta a me; se qualcosa ti
tormenta così tanto da costringerti ad affidarti ad un vecchissimo filmato, ti
consiglio di agire una volta tanto. Il filmato ti darà magari la soddisfazione
di qualche attimo colmo di ricordi, ma alla sua fine non resterà altro che
l’amarezza, mentre se invece ti alzerai ed agirai, almeno una volta, potrai
dire di avere avuto in mano il tuo destino. Chissà, a volte affrontare i
problemi di petto può portare a situazioni inattese, e speriamo che esse
possano essere più positive delle presenti, che ti assillano’’, continuò a dire
il mio interlocutore, quasi parlando da solo.
Non si era lasciato spaventare dall’apparente barriera
che avevo innalzato; aveva continuato a parlare, argomentando per bene le sue
affermazioni e facendomi ragionare, nonostante il fatto che io non partecipassi
attivamente alle varie riflessioni.
Non era vero che io non lo avevo ascoltato. Anche se
non volevo farlo, avevo origliato tutto attentamente, ed effettivamente alla
fine del discorso dell’uomo quel video in televisione mi pareva per davvero
qualcosa di vuoto.
Sentivo una nuova carica dentro di me, qualcosa che mi
suggeriva insistentemente di alzarmi di lì, di rimettere tutto a posto e di
andare a risolvere almeno uno di quei tanti problemi che mi tormentavano. Non
ascoltavo più le parole del mio povero nonno, e questo mi dispiaceva, ma a quel
punto non potei non mettere in pausa il filmato.
Poi, all’improvviso, scelsi di spegnere tutto.
‘’Oh, quindi hai ascoltato le mie parole, alla
fine?’’, mi chiese Roberto, retoricamente, guardandomi mentre andavo a sfilare
la videocassetta dalla mia vecchia e obsoleta attrezzatura.
‘’Sai, Roberto, a volte sono costretto a riconoscere
che avresti dovuto fare l’avvocato. Ascoltandoti, avresti saputo mettere dalla
tua parte anche i muri, col tuo modo di pensare e di parlare’’, gli dissi,
serio, cercando di inserire la videocassetta nel suo apposito contenitore.
‘’Tu credi? Beh, io spero solo di non aver rovinato
nulla. La mia lingua sciolta a volte rovina tante cose, e ti chiedo scusa se ho
interrotto il tuo momento d’intimità interiore per parlare ed argomentare le
mie sciocchezze. Spero tuttavia che qualcosa di ciò che ho detto possa esserti
utile, ma i miei sono solo consigli, ovviamente. Quindi, se lo vorrai, me ne
andrò da questa stanza, e tu potrai startene in pace…’’.
‘’No, no, tranquillo. Davvero, mi hai fatto ragionare
un po’, e anche se non posso non dirti che inizialmente mi hai infastidito, non
posso neppure non ammettere che, effettivamente, hai giocato tutte le carte più
inconfutabili in tuo possesso. Ottimo lavoro’’, gli dissi, interrompendolo
prima che potesse continuare con le sue scuse fuori luogo al momento,
sorridendogli e rimettendomi in piedi.
‘’E… adesso?’’, mi chiese, titubante ma soddisfatto,
guardando la nuova luce piena di determinazione che doveva essere apparsa nei
miei occhi.
‘’Ora devo pensare un po’, devo trovare almeno una
soluzione ad almeno uno dei miei problemi’’, gli dissi, sornione e sorridente,
lasciandolo poi solo nella stanza e catapultandomi verso il piano superiore e
verso la stanza di mia madre, dove dovevo risistemare le videocassette. Poi, ovviamente,
avrei riflettuto per risolvere qualcosa, visto che qualche idea già ce l’avevo,
anche se metterla in pratica avrebbe avuto il suo costo e la giusta dose di
rischio.
Un sorrisetto mi sbocciò improvvisamente sulle labbra,
in controtendenza rispetto al periodo e alle situazioni che stavo vivendo.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime
lettrici, e grazie per aver letto anche questo capitolo e per continuare a
seguire il racconto con grande puntualità e attenzione.
Diciamo che d’ora in poi la fase totalmente passiva di
Antonio si chiuderà, ma vedremo che in realtà si sta per aprire un nuovo
periodo duro e tormentato…
Un immenso grazie a tutti i carissimi e gentilissimi
recensori che continuano a sostenere la vicenda! Spero che la storia,
nonostante la sua lunghezza, stia continuando ad attirare la vostra attenzione.
Grazie di cuore, e buon Ferragosto a tutti! A lunedì
prossimo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** Capitolo 22 ***
Capitolo 22
CAPITOLO 22
In quel periodo della mia vita mi erano chiare solo poche
cose.
Tra quelle poche, che mi chiamavo Antonio Giacomelli e che
avevo qualcosa che mi tormentava. Non mi sentivo pienamente me stesso, ma
vittima di soprusi e di un destino forse troppo pesante per un ragazzo poco più
che adolescente.
Va bene, ciò che mi aveva lasciato intendere Roberto,
cercando di farmi ragionare tramite i suoi pensieri sempre complessi e
contorti, mi aveva riscosso, e sapevo che dovevo agire in un qualche modo ed
uscire dalla mia inerzia, che mi stava costringendo a vivere quel lunghissimo e
doloroso periodo di stallo. Uno stallo che stava coinvolgendo un po’ tutti gli
ambiti della mia vita. Ed io dovevo almeno riuscire a interromperlo, in un
qualche suo punto.
In quei giorni, non so di preciso cosa mi spinse ad accettare
di recarmi da Melissa. Anzi, fui proprio io a cercarla e a dirle che, se
voleva, avevo un po’ di tempo libero e potevo recarmi da lei.
Stavo comunque continuando a mentire a me stesso, poiché
sapevo esattamente cosa mi aveva spinto a compiere quel gesto, che per un po’
di tempo avevo preferito evitare con qualche scusa.
Il motivo era che la ragazza, da quel che mi aveva detto, in
casa teneva un pianoforte, ed io necessitavo assolutamente di esso. Dovevo
tornare a posare le mie dita sui tasti di quello strumento, suonarlo e ritrovare
almeno in parte la mia pace interiore, visto che ciò in casa mia ormai mi era
negato per dispetto.
Ero certo che mio padre chiudesse a chiave la porta della
saletta per recarmi danno, e mia madre a riguardo non sapeva imporsi, visti i
modi dell’uomo. Neppure Roberto poteva darmi una mano, poiché gli veniva
continuamente detto che in quella casa nulla era affare suo, a parte quelle tre
stanze che aveva affittato, ed io non riuscivo neppure a parlare col mio losco
genitore, poiché se lo facevo dapprima Sergio non mi degnava neanche di uno
sguardo, e poi mi rispondeva con una risata. Mi rideva in faccia, quindi, da
vero fellone. Sapevo che non avrebbe acconsentito alla mia richiesta, ed anzi,
più volte l’avrei supplicato di lasciarmi suonare, più lui ci avrebbe trovato
gusto a chiudere la stanza. Ed io ero completamente disperato, senza la musica
e il mio strumento.
Sapendo che quella era la causa principale e la base dei miei
tormenti, decisi quindi di aggirare l’ostacolo tentando di andare a casa di
Melissa e sperando che essa mi lasciasse toccare il suo strumento. Magari,
avrei potuto tornare a suonarlo per un po’ e a riprenderci la mano.
Dopo aver concordato tutto con Melissa ed essermi organizzato
in fretta, avvisai con altrettanta frettolosità mia madre e mi recai in
stazione, dove acquistai i biglietti che mi servivano.
La stazione del mio paesetto era davvero piccola, una sorta
di capanna con due misere rotaie che l’attraversavano. Tra l’altro uno dei
pochi treni che avrebbe fatto la sua fermata lì quel giorno era proprio quello
che faceva al caso mio, e che mi avrebbe condotto alle periferie di Bologna.
Mi attendeva davvero un viaggetto corto, ma grazie alla mia
totale imbranataggine in fatto di treni, feci fatica fin da subito a muovermi.
Per fortuna i mezzi che si fermavano alla stazione erano davvero pochi.
Dopo un viaggio molto corto, di neppure una mezzoretta,
giunsi a destinazione, e lì ad attendermi trovai Melissa, che era stata di
parola. Mi aveva infatti detto che mi avrebbe atteso alla stazione per
accompagnarmi a casa sua, e così fece.
La ragazza, che a quanto pareva aveva un anno in più di me,
mi portò a casa sua con la sua auto, un’utilitaria molto comune nell’aspetto
esteriore, guidando con una prudenza che molte volte sfociava in una sorta di
insicurezza. Non mi aveva fatto tanta festa alla stazione, limitandosi a
sorridermi e ad accompagnarmi alla sua macchina, e all’interno del mezzo stesso
non disse praticamente nulla, tenendo sempre gli occhi fissi sulla strada,
sgranandoli leggermente quando doveva effettuare un qualche sorpasso,
operazione che tra l’altro limitava ai casi più estremi.
Non mi sentivo per nulla in buone mani e cominciai a sentirmi
in pericolo quando la ragazza imbucò una strada a carreggiata unica che portava
in campagna, e che deviava dalla fitta rete di case dei quartieri più
periferici di Bologna. Infatti, la carreggiata era molto stretta ed ogni volta
che incrociavamo un auto proveniente dal senso opposto di marcia la guidatrice
era costretta a lasciare il passo, oppure ad affiancare lei stessa l’altra auto
che si era fermata per concedere la precedenza corretta e la corsia.
Ebbene, Melissa a volte titubava, ed io restavo sempre per
qualche istante col fiato sospeso.
C’era il detto popolare e diffuso che mi tornava alla mente e
che narrava il fatto che una donna al volante è un pericolo costante, ma non
avevo mai creduto a ciò, poiché ritenevo che molte donne fossero più brave
degli uomini a guidare, visto che erano più attente a tutto, ma in
quell’occasione mi dovetti ricredere per qualche istante. In seguito, col senno
di poi, compresi di non essere mai stato realmente in pericolo all’interno del
mezzo, ma in ogni caso quei tentennamenti che la guidatrice aveva dimostrato
non erano certo segno di sicurezza.
Per fortuna, anche quel viaggetto durò molto poco, a malapena
un quarto d’ora. Un quarto d’ora intenso, però.
Quando finalmente giungemmo a destinazione, le mie mani erano
leggermente sudate e il mio viso tirato, e molto probabilmente dovevo avere
assunto una strana espressione sul volto, forse a causa della tensione
accumulata negli ultimi minuti, e non riuscii a gustarmi appieno l’abitazione
della mia amica, in un primo momento.
Solo quando lei parcheggiò l’auto, dopo essere entrata in un
vasto giardino ben curato ed immerso nel verde, dopo aver varcato un bel
cancello di ferro battuto, notai che di fronte a me si estendeva un’abitazione
niente male. I genitori di Melissa non dovevano essere persone da nulla.
‘’Che bella casa!’’, le dissi infatti, dopo un attimo in cui
cercai di ristabilire i miei sensi.
‘’Grazie! Beh, sì, è una classica villa di campagna…’’, mi
rispose l’amica, sorridendomi compiaciuta mentre chiudeva lo sportello
dell’auto. Aveva detto tutto quanto come se avesse parlato di una casa qualsiasi,
quando invece a me quella pareva una reggia.
Avrei voluto chiederle se la voleva scambiare con la mia, ma
stetti zitto, lasciando perdere la vena ironica che sul momento mi aveva colto
all’improvviso. Non ero mai stato bravo a fare dell’ironia e temevo già di
impantanarmi in qualche sabbia mobile fin da subito.
‘’E comunque non è tutta casa mia e dei miei genitori. Al
piano inferiore ci vivono i miei zii e mio nonno paterno’’, aggiunse poi la
giovane, come se anche lei si fosse accorta che comunque l’abitazione era
davvero ampia. Si trattava di una di quelle abitazioni signorili di metà
Ottocento, restaurata in modo sublime, ed esteriormente appariva già più vasta
di quello che avrei mai potuto immaginare.
Conducendomi verso l’ingresso di casa attraverso un bel
sentiero di ghiaino, tutto ben curato, Melissa di tanto in tanto mi rivolgeva
qualche occhiata, ma la mia attenzione era totalmente rivolta all’ambiente accudito
e nobiliare che mi circondava.
‘’Davvero, mai mi sarei creduto che tu abitassi in una simile
villa’’, le dissi, continuando a guardarmi attorno. Il giardino era anch’esso
spazioso, e ovviamente recintato e pieno di alberi e piante varie, anche a
cespuglio, che purtroppo in quella stagione donavano una sfumatura di marrone
ovunque, e non di vivace verde come dovevano apparire durante i sei mesi più
caldi dell’anno.
‘’Te l’ho già detto, non è tutto dei miei’’, ribadì la mia
interlocutrice, come a voler dimostrare che un simile sfarzo purtroppo lo
doveva condividere con altri parenti. Inconsciamente, mi chiesi chi fossero i
genitori e i nonni della ragazza, per potersi permettere tutto ciò.
Mentre ancora mi guardavo attorno e i miei pensieri erano più
concentrati verso gli aspetti più materiali di ciò che mi circondava, quasi
venni travolto dalle quattro cugine di Melissa, che uscendo di casa ci vennero
incontro con il loro solito modo di fare molto rumoroso. Ebbi un momento di
confusione di fronte al loro festante e incasinato saluto collettivo, e continuai
a notare che quelle ragazze, quando erano assieme, dovevano essere davvero
pestifere ed insopportabili. Peccato che, molto probabilmente, dovevano passare
molto tempo assieme.
Notando il mio comportamento impacciato e sopraffatto dalla
moltitudine di cugine, Melissa, la più grande di tutte tra l’altro, mi trasse
in salvo e mi condusse in fretta dentro l’abitazione, mentre le ragazze se ne
rimasero in giardino.
Entrato in casa, mi condusse direttamente al piano superiore,
ma non potei non notare il vasto atrio, e le belle opere d’arte appese alle
pareti d’un bianco candido. Le ampie scale interne che collegavano il piano
inferiore a quello superiore erano una sorta di divisorio tra i vari alloggi,
ed erano tutte di un bel marmo tenuto splendente.
Melissa doveva aver notato il fatto che mi sentivo in
soggezione nell’ambiente, e che effettivamente non ero a mio agio fin dal
momento in cui avevo lasciato il treno, per poi salire sulla sua auto. Forse
per quello decise di cominciare la visita col botto, donandomi uno zuccherino
estremamente dolce e appetibile. In pratica, mi offrì il mio desiderio su un
piatto d’argento.
Non incontrammo nessuno nel tragitto che ci portò fin di
fronte ad una stanza dalla porta chiusa, che fu aperta dalla mia
accompagnatrice e padrona di casa, che a quel punto parve rilassarsi anche lei.
‘’Ecco, ho pensato che, per cominciare…’’.
Non l’ascoltavo neanche più. Non appena mi affacciai in
quella stanza spaziosa, ben arredata e con a lato un magnifico pianoforte, il
mio cuore esplose di gioia e felicità.
Una sensazione assurda mi pervase dalla testa ai piedi,
mentre a passi lenti mi avvicinavo allo strumento.
Melissa stava dicendo qualcosa, mostrandosi per la prima
volta timida, sfoggiando un atteggiamento che, in un’altra situazione, mi
avrebbe fatto subito pensare che con me fosse in soggezione, chissà per quale
motivo, ma in quell’istante i miei occhi planavano sul vicino strumento
musicale e nelle mie orecchie già risuonava una possibile sinfonia.
Lentamente, constatai che quel pianoforte era un modello
molto antico, e molto più pregiato del mio. Tutto in sé risplendeva, tuttavia.
Non seppi trattenermi oltre, di fronte alla spinta dei miei
desideri.
‘’Posso provare a suonare qualcosina?’’, chiesi
improvvisamente alla ragazza, che ancora stava parlando di qualcosa che non mi
importava.
Lo so che è bruttissimo da pensare e da ammettere, ma
effettivamente sapevo che avevo fatto tanta strada e mi ero permesso quel
viaggetto solo ed esclusivamente per quello strumento musicale, e non per
ascoltare Melissa, o parlare con lei. Dentro di me, il mio lato più oscuro mi
passava soddisfazione e tentazione di suonare, mentre l’altra parte di me,
opposta, mi consigliava di vergognarmi per quel mio comportamento da misero
approfittatore.
Ma, d’altro canto, si sa che la natura umana è debole, e che
di fronte alle tentazioni della vita non sa proprio dire di no. Quindi, anche
se non volevo, in realtà stavo quasi sbavando come un cane di fronte ad una ciotola
di fragranti crocchette, come avrebbe potuto affermare il grande studioso Ivan Pavlov,
e molto probabilmente non mi sarei dato tregua fintanto che non avessi avuto
modo di appoggiare le mie dita su quei tasti tanto invitanti.
Melissa mi allungò uno sguardo leggermente sorpreso per la
mia richiesta frettolosa, e forse neanche troppo gentile, ma non si oppose
minimamente.
‘’Beh, certo, se vuoi…’’.
Non mi serviva altro. Avevo il permesso per appoggiare le mie
dita su quel magnifico strumento, e il resto veniva tutto dopo e non
m’importava, in realtà.
Venni colto da una frenesia ansiosa che per qualche istante
mi fece provare qualche brivido per tutto il corpo, per poi calmarmi non appena
mi fui ben seduto di fronte alla mia possibile fonte di felicità ed ebbi sfiorato
i tasti. Da quel momento in poi, vissi qualche minuto di panico.
Melissa continuava a parlarmi e a guardarmi, e avevo voglia
di spegnerla come avrei fatto con una tv o una radio molesta, mentre io cercavo
di familiarizzare con quello strumento che in realtà non era mio e che quindi
aveva qualcosa di diverso. Ogni oggetto è diverso dall’altro, ogni cosa ha una
sorta di propria anima, in grado di renderla distinta e differente dalle altre,
a meno che non sia prodotta in serie dalle industrie dalla tecnologia più
avanzata.
Mi accorsi a quel punto che tremavo nuovamente. Frenesia,
ansia e altre mille sensazioni differenti si erano unite alla mia impellente
voglia di esaudire subitissimo il mio desiderio, ed io ancora riflettevo su non
so bene cosa.
Mi feci coraggio ed affrontai tutto di petto.
‘’Non hai un qualche spartito?’’, chiesi alla padroncina di
casa, che ormai si era accorta che non la ascoltavo e se ne stava mogia alle
mie spalle, immersa in un muto silenzio che poteva voler dire molte cose, nascondendone
altre, tra cui anche la curiosità.
‘’No, questo è il vero problema. Nessuno in casa è capace di
suonare il pianoforte, a parte mio nonno, ma lui i suoi spartiti li tiene
sempre con sé e non li lascia incustoditi in questa stanza…’’.
Ok, ciò non aveva particolare importanza, pensai, tagliando
di nuovo i punti col mondo reale. Ero pronto a suonare qualsiasi cosa, anche
una sinfonia immaginaria e orribilmente storpiata. Sapevo che mi stavo
comportando come un gran maleducato, ma ormai avevo perso ogni nesso con la
realtà, e l’oggetto dei miei desideri era lì, a portata delle mie dita.
Mi chiusi totalmente in me stesso, e l’ansia che mi
attanagliava da ogni parte svanì come la nebbia autunnale dinnanzi al primo
tiepido sole della giornata, e pure io come il nostro grande e luminoso astro
m’innalzai sopra ad ogni mio limite.
A quel punto, inutile dire che persi il controllo di me. Non
so per quanto suonai, e neppure cosa suonai di preciso, per tutto il tempo.
Sapevo solo che nessuno aveva cercato di interrompermi in alcun modo.
Ero talmente tanto preso da quello strumento che mi era molto
mancato in quelle ultime settimane che non badai a nulla, se non a cercare di
suonare e di ricreare qualcosa di decente. Il resto veniva dopo, e il mio
livello di attenzione era davvero bassissimo, in quegli attimi.
Fu una sorta di raptus, di quei momenti in cui si esce da sé
stessi per entrare in sintonia con un oggetto che diventa prolungamento del
proprio corpo, e tutto ciò che mi circondava veniva dopo. Il pianoforte,
nonostante non fosse quello che tanto amavo e utilizzavo a casa mia, si
dimostrò un valido compagno, e non deluse assolutamente le mie aspettative,
anzi.
Dopo un periodo di tempo indeterminato, le forze sembrarono
venirmi a mancare tutte assieme. La sintonia che avevo raggiunto con lo
strumento si sciolse, lentamente, oppure troppo in fretta, dipendeva da come si
rifletteva sulla situazione, ed io rientrai in me, rendendomi conto di quello
che avevo fatto.
Le dita si fecero pesanti, le gambe molli, la vista sfocata.
Lasciai perdere e, in pochi secondi, lasciai anche che le mie mani scivolassero
giù, lontane dai tasti. E allora mi voltai, sentendo il mio viso arrossarsi,
comprendendo che doveva essere trascorso un bel po’ di tempo da quando mi ero
praticamente impossessato di quell’oggetto non mio, quasi snobbando la povera
Melissa, che doveva esserci rimasta davvero male.
Quando mi girai, cercandola con lo sguardo, mi trovai di
fronte ad una platea di gente, che in silenzio mi osservava con attenzione.
La mia mandibola cedette un po’ e per un attimo mi parve di
restare senza fiato, trovandomi immerso in una situazione quasi paradossale ed
in una casa che mi era sconosciuta, così come la maggior parte dei suoi
abitanti.
Tra le persone che avevano preso posto nell’ampia stanza, riuscii
a riconoscere Melissa, che incrociando il mio sguardo stupito sorrise, e poi
notai anche le altre quattro cugine, più in un angolo rispetto agli altri
presenti, che non conoscevo e non avevo mai visto in vita mia. Quella fu la mia
prima sorta di concerto, tra l’altro a sorpresa.
Tutti mi osservavano in silenzio, quasi mi studiavano con
insistenza. L’unico seduto, posizionato tra l’altro in una posizione centrale
della camera, era un uomo anziano, a cui diedi un’ottantina d’anni, coi capelli
bianchi tirati all’indietro ed un volto severo, dai tratti marcati nonostante
l’età e le rughe lasciate dal tempo, e dai baffetti allungati e leggermente
arricciati, che mi ricordavano tanto quelli rappresentati nei ritratti di fine
Ottocento.
Fu proprio lui il primo a parlarmi e a interrompere il
silenzio.
‘’Come ti chiami, ragazzo?’’, mi chiese, con una voce forte
che risuonò nella stanza, una voce della stessa specie di quella di mio padre.
Imbarazzato e in soggezione, deglutii prima di rispondere con titubanza.
‘’Antonio’’, gli dissi, semplicemente.
L’uomo anziano annuì col capo.
‘’Bene, Antonio, piacere di conoscerti. Potrei sapere come
sei finito in questa casa?’’.
‘’L’ho invitato io, nonno. Io e le ragazze l’abbiamo conosciuto
qualche settimana fa, in un posto dove eravamo andate a fare un giretto. Insomma,
è stato tanto gentile, e ci ha fatto anche da guida. Quando ho scoperto per
caso che apprezzava il pianoforte e lo sapeva suonare, beh, l’ho invitato a
farci visita’’, spiegò Melissa, prima che io potessi rispondere in un qualche
modo e spiegando tutto quanto.
Il vecchio annuì nuovamente, con aria seria, mentre tutti
tacevano ancora nella stanza. I presenti, dieci in tutto comprese le mie
giovani amiche, erano tutti maturi a parte le ragazze, e mi pareva evidente che
formassero una grande famiglia, quella di cui mi aveva accennato Melissa.
‘’La tua visita è stata molto apprezzata. Sei molto bravo e
dotato, e mi fa piacere che le mie nipoti abbiano avuto modo di conoscerti.
Spero veramente che vorrai tornare in questa casa, e grazie per la musica che
hai suonato, era davvero splendida’’. E così dicendo, l’anziano si alzò dalla
sedia senza alcun tentennamento, e poi, appoggiandosi ad un bel bastone da
passeggio, abbandonò la stanza, senza mai abbandonare quella sua aria severa e
tirata, subito seguito a ruota dalle due coppie di adulti, che non mi degnarono
neppure di uno sguardo in quel frangente. Non me ne dispiacque.
Subito, le ragazze si avvicinarono a me.
‘’Grande, Antonio! La tua musica è risuonata tra le mura di
questa abitazione, è giunta ovunque. Noi e i nostri genitori, assieme al nonno,
non abbiamo saputo resistere e siamo venuti ad ascoltarti, senza disturbarti’’.
‘’Sei un maestro, mentre suonavi sembravi perso in te
stesso!’’.
‘’Grande, davvero’’.
‘’Hai fatto un figurone, sono pochi coloro che riescono a
piacere al nonno. E tu gli piaci. Scommetto che se tornerai a farci visita, ti
passerà un suo prezioso spartito’’, mi disse Melissa, emergendo dal caos delle
scatenate cugine, che come ogni volta infuriavano su di me, ancora seduto. Le
sorrisi.
Poi, i miei occhi caddero sul mio piccolo orologio da polso;
segnava le diciassette.
‘’Ragazze, io sono felice di esservi piaciuto e di avervi
fatto udire qualcosa, ma ora dovrei proprio lasciarvi. Entro quindici minuti
dovrei essere in stazione’’, dissi loro, smorzandone l’entusiasmo e mostrando
una smorfia agitata. L’ultimo treno che mi avrebbe potuto condurre al mio paese
passava alle diciassette e quindici, e quindi dovevo fare in fretta a giungere
in stazione, per non rimanere a piedi. In quel caso, nessuno sarebbe passato a
prendermi lì, e chissà come avrei fatto a passare la notte.
Sperai anche in un piccolo ritardo del mezzo.
‘’Oh, certo, capisco. Allora andiamo, ti riporto in
stazione’’, mi disse prontamente Melissa, comprendendo subito la mia necessità.
Le sorrisi e a passo svelto la seguii fuori dalla stanza,
dopo aver salutato le cugine che, dal canto loro, parevano deluse di non
potermi tormentare più col loro chiacchiericcio. Quando Giorgia si azzardò ad
inseguire Melissa e a chiederle se poteva venire con noi in auto, lei non si
era preoccupata di dirle di no. Forse anche la più grande tra le cugine la
pensava un po’ come me, a volte.
Non incontrammo nessun altro in giro per quell’immensa
abitazione silenziosa, e in un attimo fummo dall’auto, mentre la cupa sera
autunnale già aveva voglia di lasciare spazio alla prematura notte di quel
periodo dell’anno.
Inutile dire che partimmo con una sgommata, di quelle
classiche, ma non seppi mai se fosse voluta oppure no. Preferii restare col
dubbio e non chiederlo con la guidatrice, di nuovo tesa al volante. Non volevo
parlarle, per non disturbarla da quella missione che pareva portarle via tutta
l’attenzione(d’altronde, ne valeva anche della mia salute personale), ma fu lei
a rivolgersi a me.
‘’Grazie per essere venuto a trovarmi, davvero. Anche se
magari non l’hai capito, la tua visita ha davvero portato una ventata di novità
in casa nostra, e ciò mancava da tempo. Avrai notato che i miei genitori, i
miei zii e il nonno sono molto seri e severi, eppure tu sei riuscito a
svagarli, ne sono certa. Ed hai svagato e sorpreso anche me e le mie cugine!
Grazie’’, mi disse la ragazza, continuando a guidare con attenzione.
‘’Piacere tutto mio’’, le risposi, con grande galanteria. In
realtà, la mia mente era già in stazione, e in un corpo possibilmente illeso da
quel viaggio.
‘’Sei il nuovo idolo di casa Giacomelli, insomma’’, aggiunse,
ridacchiando per la prima volta.
Sgranai gli occhi a quelle parole.
‘’Come?!’’, sbottai, stupito dall’aver udito il mio stesso
cognome.
‘’Ho detto che sei il nuovo… oh, insomma, ti attendiamo
ancora a casa Giacomelli, per farla corta. Per la cronaca, mi chiamo Melissa
Giacomelli’’, mi disse la mia interlocutrice, cercando di fare un po’ d’ironia
e non comprendendo la mia perplessità.
‘’Come si chiama tuo padre?’’, le chiesi, a bruciapelo. Avevo
ormai una vaga impressione che mi girava per la testa.
‘’Piero, Piero Giacomelli. Ma… perché tanto interesse?! Il
tuo cognome qual è?’’, mi chiese lei, sempre più perplessa dalle mie parole.
‘’Abitate in una gran bella casa, davvero’’, mi affrettai a
risponderle, cercando di deviare il discorso e sperando che la ragazza
abboccasse e che non mi riproponesse la domanda, obbligandomi in un qualche
modo a fornirle una risposta.
Se non ricordavo male, mio padre aveva un fratello minore di
nome Piero, e quindi forse Melissa e le altre ragazze erano le mie cugine, a
rigore di logica. E l’anziano che aveva ascoltato la mia musica era mio nonno
paterno, sempre forse. Ecco il motivo di quella strana familiarità che avevo
trovato in loro fin dal primo momento in cui avevo avuto modo di recuperare il
portafoglio della mia interlocutrice.
Il mondo mi parve crollare addosso assieme alla sorta di
flebile consapevolezza di aver conosciuto casualmente le mie cugine e di aver
frequentato la loro casa senza che nessuno di noi fosse volutamente al corrente
del nostro grado di parentela. Sperai vivamente che le cose non fossero così e
che tutto si rivelasse molto meno complicato. Ma sapevo che non c’erano molte
altre possibilità.
‘’Hai ragione, è davvero molto bella’’, mi rispose
cortesemente Melissa, lanciandomi un breve sorriso e lasciando cadere la sua
domanda nel nulla. E poi, per fortuna, il viaggetto in auto finì e giungemmo in
stazione, giusto in tempo.
Scesi dalla macchina in fretta e furia, mentre la ragazza mi
diceva un semplice ciao e un ci risentiamo per messaggio, lanciandomi verso il
punto dove il mio treno mi avrebbe aspettato per riportarmi a casa, non badando
alla mia maleducazione. Per quel giorno, avevo strafatto a riguardo.
Il treno giunse puntualissimo e non dovetti attendere neppure
un attimo, saltando subito in carrozza e riprendendo poi il fiato, una volta
sedutomi in un posto vicino al finestrino, in quella terza classe in cui pochi
in quella sera stavano viaggiando. Avevo la mente confusa, non volevo pensare a
nulla e non vedevo l’ora di tornare a casa mia e di rinfrescarmi le idee.
Non badai neppure al cellulare, quando esso suonò per un po’.
Avevo paura, e nonostante il fatto che io avessi appena trovato lo sfogo ad una
mia necessità ed avessi esaudito un mio desiderio, facendomi avanti come mi
aveva suggerito Roberto, il risultato era stato solo la nascita di un nuovo
caos nella mia mente.
Tenni gli occhi socchiusi per buona parte del viaggio,
cercando di non pensare a nulla e di stare in un qualche modo tranquillo.
Quando giunsi alla mia meta, e scesi alla stazione del mio
paese, trovai una sorpresa ad attendermi.
Jasmine, imbronciata, mi attendeva lì, sola e in piedi. Non
appena mi vide, si diresse subito verso di me, con grande rapidità.
‘’Ti pare questo il modo di comportarti?! Tua madre temeva
fossi sparito…’’.
‘’Ehi, stai tranquilla! Mia madre crede che io nell’ultimo
periodo sia diventato pazzo, ma non è così. E poi, lo sapeva che sarei stato
via tutto il pomeriggio’’, le dissi io, cercando di avvolgerla in un abbraccio
tranquillo. Ma lei si ritrasse, bruscamente.
‘’A volte non riesco a capirti, Antonio. Dei giorni mi sembri
un ragazzo limpido e sereno, altri mi sembri un dannato che sta cercando in un
qualche modo di nascondere qualcosa. Ha forse un’altra ragazza?’’, mi chiese, a
bruciapelo. Era la prima volta che mi affrontava così di petto, da quando ci
conoscevamo.
Alzai le mani, in segno di resa e di sincerità.
‘’Ti giuro, non ho nessun’altra ragazza. Oggi pomeriggio
dovevo andare in un posto, e ho scoperto… insomma, non so nulla di certo e in
questo momento ho solo una gran confusione in testa, un altro giorno ti
spiegherò tutto quanto, ok? Ma sappi che io amo solo te’’, le risposi,
sinceramente.
Lei mi rivolse un’occhiatina perplessa, ma non volle
infierire. Ed io ne approfittai per allungarle un bacio sulle labbra, molto
gradito.
‘’Se ti comporti ancora in questo modo, me la prendo sul
serio’’, mi disse poi Jasmine, allontanandosi da me e donandomi un breve
sorriso, prima di darmi le spalle e di tornare a dirigersi verso casa sua.
Scossi leggermente la testa, divertito dall’atteggiamento
della ragazza che, pur cercando di nasconderlo e di non dirmelo direttamente,
si era preoccupata per me. E questo era davvero un bel gesto da parte sua.
Inoltre, indirettamente, mi aveva fatto capire quanto mi
amava. La conoscevo bene ormai, e sapevo che dentro di lei scorreva un sangue
selvaggio e indomito, e che mai si sarebbe piegata a dichiarare profondamente
il suo amore in modo aperto, poiché lo riteneva quasi una sorta di umiliazione.
Io e Jasmine ci capivamo, ci volevamo bene e ci amavamo in un modo tutto nostro
ed originale, poiché entrambi avevamo le nostre ben precise idee sull’amore e
su ogni cosa.
Ma l’importante, in fondo, era amarsi, e decantare in giro e
a parole il nostro amore non ci soddisfaceva, e ci importavano di più i nostri
sporadici contatti fisici e i nostri sguardi. Il resto, contava molto meno,
durante quei primissimi tempi della nostra relazione.
Giunsi a casa in fretta, e altrettanto in fretta mia madre mi
si piazzò davanti, sbucando da chissà dove e come un’indemoniata.
‘’Signorino, dov’è stato quest’oggi?’’, mi chiese, in un modo
che mi irritò in un solo secondo.
‘’Mamma, non c’era bisogno di fare una scenata così, cavolo!
Te l’avevo detto che sarei stato via tutto questo pomeriggio, e che sarei
tornato per la sera. Hai spaventato anche Jasmine’’, le dissi, allargando le
braccia.
‘’Ah, la ragazza che ha bussato alla nostra porta nel
pomeriggio… era davvero preoccupata per te, quando le ho detto che pure io lo
ero. In più, eri anche irraggiungibile e non rispondevi al cellulare…’’.
Mia madre stava sfogando la sua disperazione, mostrandomi due
occhietti inumiditi dalle lacrime.
‘’Oh, mamma… devi smetterla di preoccuparti così tanto per
me’’, mi limitai a dirle a quel punto, donandole un piccolo abbraccio, subito
ricambiato.
‘’Sai, dopo ciò che è accaduto qualche sera fa…’’.
‘’Non sono impazzito. Quello è stato solo un momento di
sconforto. Sto crescendo, e devi avere più fiducia in me’’. Sciolsi
l’abbraccio, lestamente.
‘’Non ho fame, magari ceno più tardi, quando l’aristocratica
madre e il figlio sono saliti in camera, così non li disturbo col mio brutto
muso mentre giro per casa’’, mi limitai a dirle di nuovo, per poi deviarla e
dirigermi verso il piano superiore.
‘’Ma…’’. Mia madre tentò di dirmi qualcosa, ma io non le
badai. Anzi, mi volsi un attimo verso di lei, prima di cominciare a salire le
scale.
‘’Mamma, uno dei fratelli di… di papà, si chiama Piero?’’, le
chiesi, a bruciapelo.
Tentennai quando era giunto il momento di dire la parola
papà, ma alla fine l’avevo detta lo stesso per agevolarmi la vita. Però, mi
scocciava chiamare quel soggetto papà, anche se purtroppo lo era. Ed avevo
bisogno di conferme, in fretta.
‘’Da quel che so, sì’’, mi rispose lei, annuendo, ma con fare
molto incuriosito.
Cercò di chiedermi altro, visibilmente sorpresa dalla mia
strana domanda, ma a quel punto avevo la risposta a ciò che mi aveva tormentato
per tutto il viaggio in treno. A quanto pareva, era certo che agendo ero
entrato in contatto con i familiari di mio padre, in modo del tutto
involontario ed inaspettato. Anche quella volta Roberto non aveva sbagliato la
sua previsione, effettuata solo il giorno prima.
Mi catapultai verso il piano superiore, felice per non aver
incontrato nessun altro a parte mia madre, e cercando di celare la confusione
che le nuove consapevolezze avevano generato nella mia mente.
Entrai in camera mia a passo baldanzoso; niente e nessuno,
neppure il più maligno e pressante dei miei tormentati pensieri, mi avrebbe
impedito di farmi una doccia dopo aver studiato un po’ per le verifiche dei
giorni successivi.
Però, le sorprese non erano finite per quella giornata.
Accendendo la luce e chiudendo la porta dietro di me, quasi non
mi accorsi che qualcuno mi aveva atteso nel buio.
‘’Alla buon ora’’, mi disse Federico, placidamente sistemato
sulla sedia della mia piccola scrivania, a fianco del letto. Mi guardava con i
suoi occhi porcini e perfidi, mentre ogni tanto si passava una mano tra i
capelli ricci e ribelli.
Inspirai sonoramente, e restai immobile per una manciata di
secondi, senza stupirmi troppo per quella presenza e imprecando contro la mia
sbadataggine, che mi aveva portato a dimenticarmi di chiudere la porta della mia
stanza da letto a chiave. Ma purtroppo, per tutta quella giornata la mia mente
era stata altrove, ed in quel momento ne stavo pagando le conseguenze.
Federico, avendo abbassato la pressione su di me, mi aveva
concesso una parvenza di precaria tregua ed io avevo abbassato la guardia, come
un pivello stolto. E mai abbassare la guardia, quando si ha un nemico da
combattere, poiché esso potrebbe tornare alla ribalta ancor prima di quanto lo
si possa immaginare.
‘’Cosa vuoi?’’, gli chiesi, scocciato. Ero indeciso se aprire
la porta e fare una scenata pazzesca, visto che in giro per casa dovevano
esserci anche i suoi, oppure starmene buono.
‘’Non provare neppure a pensare di chiedere aiuto, perché se
lo fai, ti balzo addosso alle spalle ancor prima che tu possa aprire la bocca e
ti schiaccio come una mosca’’.
‘’Tranquillo’’, lo rassicurai, con un pizzico di cupa ironia,
che stonava in quella situazione. In quel momento avevo già compiuto la mia
scelta, ed era molto meglio per me starmene zitto ed ascoltare le sue sozze
richieste.
‘’Senti, domani abbiamo la verifica di matematica. Dato che,
come ben saprai, io non ho mai aperto libro e quaderno, e non ho la più pallida
idea neppure dell’argomento che stiamo affrontando, vorrei farti una richiesta
gentile; in poche parole, tu domattina in classe dovrai lasciarmi copiare. Nel
modo che preferisci, ma devi lasciarmi copiare’’, mi disse, tutto d’un fiato.
Annuii, come un automa.
‘’Io un’idea ce l’ho; quando ci faranno spostare in banchi,
tu sistemerai il tuo proprio davanti al mio. Dato che siamo in fondo all’aula,
praticamente, il professore difficilmente si accorgerà quando io sfiorerò con
un piede la tua sedia, e allora sentendo il contatto della mia scarpa alzerai
leggermente il tuo foglio dal banco, in modo che io da dietro possa leggere e
copiare ciò che tu hai scritto. Perché so che scriverai qualcosa nella
verifica, dato che sai svolgere bene tutti i compiti a casa e ti impegni,
fottuto secchione.
‘’E non ti azzardare a non fare ciò che ti ho detto, perché
ne va della tua incolumità; se mi tiri un brutto scherzetto, sappi che prima
meno te, poi spacco il tuo pianoforte, che ora è in mano di tuo padre e in
balìa mia, se lo volessi, dato che lui si fida di me e mi lascia entrare nella
saletta, e poi faccio uno scherzetto spiacevole anche a tua madre, spiacevole
almeno come quello che tu hai tirato a me. Questa è una promessa’’, sibilò il
mio nemico, alzandosi poi in piedi ed abbandonando furtivamente la mia stanza,
passandomi a fianco dopo avermi donato un’occhiata colma di disprezzo.
Di nuovo solo, mi adagiai sul mio letto ed affondai il mio
viso in uno dei miei cuscini, lasciandomi andare alla disperazione. Il destino
pareva essersi accanito su di me e su ogni aspetto della mia vita, tutto d’un
colpo, e stavo davvero vivendo un periodo che, sul momento, fui certo che prima
o poi mi avrebbe mandato fuori di testa.
Tuttavia, mentre me ne stavo immerso nella mia disperazione,
la mia mente continuò a cercare una via d’uscita, che lì per lì non riuscì a
trovare.
Ancora non immaginavo quanto mi sarei cacciato nei guai a
causa delle mie sconsiderate scelte, nei giorni successivi.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno, carissimi lettori e carissime lettrici!
Grazie per aver letto anche questo capitolo, e per continuare
a seguire il racconto.
Continuo a sperare che la vicenda continui ad attirare il
vostro interesse e ad offrire una gradevole e curiosa lettura.
Grazie infinite a tutti i favolosi, gentilissimi e
cordialissimi recensori, che mi sostengono sempre con un’infinità di pazienza e
di bontà!
Grazie di cuore per tutto e a tutti, e buon inizio di
settimana. A lunedì prossimo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Capitolo 23 ***
Capitolo 23
CAPITOLO 23
Nevicava, quel mercoledì di fine novembre. Non
abbondantemente, ma dal cielo cadevano quei piccoli candidi fiocchi in grado di
far alzare gli occhi di tutti, per poi sciogliersi una volta aver toccato il
suolo.
In poche parole, quei piccoli fiocchi di nevischio mi
sembravano i miei sogni.
Per tutta la sera precedente avevo ripassato matematica e
avevo cenato solo sul tardi, stando attento ad evitare chiunque in casa mia, ma
tanto nessuno mi aveva più importunato. Mio padre era sempre segregato nel mio
ormai ex rifugio dal mondo, e l’unica nota positiva di questa sua scelta era
proprio il fatto che gironzolava poco per casa, e quindi almeno non l’avrei
incontrato troppo spesso.
Col cuore in gola, giunsi al liceo tremando come una foglia.
Avevo paura per quella verifica di matematica, ma dentro di me sapevo che ero
molto più preparato rispetto alle altre volte.
Nella solitudine della mia stanza da letto ero tornato a
prendere in mano anche i libri degli scorsi anni, in modo da cercare di
ripassare e di comprendere meglio quelle robe folli che il professore ci faceva
studiare, con risultati per fortuna non proprio scadenti.
Però, ad intimorirmi, era Federico. Avrei deciso sul momento
come comportarmi con lui e nei suoi confronti, anche se in realtà avevo ben
poco margine di scelta. Sapevo che se non l’avessi fatto copiare poi avrebbe
mantenuto volentieri le sue promesse, e mi avrebbe davvero fatto a pezzi,
spinto dalla rabbia.
Entrai nella scuola lanciando un sorriso sfuggevole a
Jasmine, che era giunta prima di me e che si stava già dirigendo verso la sua
classe. La prima campanella era già suonata.
Mi diressi rapidamente verso la mia sezione, mentre un
pensiero sfuggevole andava verso Alice, la ragazza che non avevo scorto neppure
quella mattina e che forse non sarebbe tornata a scuola neanche quel giorno, ma
repressi le mie preoccupazioni, ritenendole insulse e comunque cercando di non
importarmi di quel soggetto che evidentemente non avevo mai conosciuto davvero
bene.
Appena varcata la soglia dell’aula, notai la classica
frenesia da compito in classe attorno a me, e tutti si davano da fare a
spostare e preparare i loro banchi. Chi doveva copiare cercava di sistemare i
bigliettini, chi era incerto continuava a tenere un occhio fisso sul quaderno.
Federico, nel fondo della classe, era l’unico rilassato; era già seduto al suo
posto, ed aveva già premurosamente preparato il mio banco, che trovai già
spostato e posizionato alla perfezione davanti al suo.
Il bullo, vedendomi arrivare, mi sorrise e con un dito puntò
il mio banco. Facendomi mogio, presi posizione e mi accorsi che il mio nemico
aveva preparato già tutto nel modo migliore, visto che la sedia sulla quale mi
sarei dovuto sedere era esattamente alla portata del suo piede.
Preparai quindi penna, matita, gomma e foglio a quadretti, e
mi sistemai al mio posto, sotto l’attenta sorveglianza del prepotente,
tramutatosi in cane da guardia.
Mi volsi indietro solo una volta, incrociando subito il suo
sguardo pesante, ma comunque pieno di certezze. Federico dava già per scontato
che io avrei obbedito ai suoi ordini come ogni altra volta, ed effettivamente
ero costretto a riconoscergli il fatto che non avesse tutti i torti a crederlo
così fermamente.
Sapevo che avrebbe mantenuto le sue promesse, tanto valeva
quindi sottomettermi alle sue pressanti richieste. Però, lo sfruttamento
selvaggio che imponeva nei miei confronti aveva cominciato a stancarmi, e non
poco, e devo ammettere che in quel preciso istante il suo sguardo pieno di
strafottente sicurezza fece vacillare la mia ragione, sempre più provata sia in
casa mia che a scuola.
Tenetti a freno la mia irritazione solo nel timore di
lasciarmi andare troppo al rancore, per poi perdere di vista l’obiettivo
principale della giornata, ovvero quello di riuscire per la prima volta nella
mia carriera da liceale ad arraffarmi un voto superiore al quattro e mezzo in
matematica. Tutti gli scorsi anni li avevo passati col tre fisso, negli
scritti. Un quattro e mezzo mi avrebbe donato un sorriso, un cinque una vera e
propria gioia, ma dal quattro in giù mi sarei davvero demoralizzato. Non
chiedevo molto alla sorte e comunque mi ero davvero preparato.
Quando il professore Olivucci entrò in classe, noi studenti
eravamo già preparati per il mattatoio, silenziosi e trepidanti. Il prof era
una personcina qualsiasi, un cinquantenne dall’aspetto sempre tirato e cortese,
occhialini e visetto da topo, voce a tratti tonante, ma non era né un tipo troppo
paziente e neppure un grande insegnante. Alcune volte aveva pure riscontrato
difficoltà a svolgere gli esercizi più complessi alla lavagna, e per risolvere
il problema nell’ultimo periodo aveva cominciato a portarsi i fogli con le
soluzioni già pronte da casa, per spiegarci i vari argomenti.
Tutti avevamo come il vago sospetto che non fosse poi un
genio in matematica, ma comunque era molto largo coi voti nelle prove orali, e
ciò soddisfaceva parecchio gli alunni e tutti alla fine non si facevano troppe
supposizioni.
In controtendenza al superficialismo dimostrato un po’ in
tutti gli altri ambiti del suo insegnamento, il prof era infernale nelle
verifiche scritte, che in genere richiedevano l’applicazione di calcoli molto
complessi e parevano scritti neppure in numeri, ma in una lingua conosciuta
solo a lui. E nei compiti scritti fioccavano le insufficienze, come avevo avuto
modo di notare e ricordare anche in precedenza.
Quando mi giunse tra le mani la fotocopia della mia verifica,
rimasi subito un po’ deluso. Passai in rapida rassegna tutti gli esercizi con
gli occhi, e notai che almeno una buona parte non avevo idea di come
risolverli, ma qualcuno forse sì. Era già qualcosa, e decisi di accontentarmi.
Cominciai quindi a scrivere sul mio foglio, dopo aver avuto
la premura di segnare nome e cognome, e ci presi gusto, nonostante tutto.
Per più di mezz’ora, scrissi; buttai giù tutto quello che
potei, partendo dalla risoluzione degli esercizi che mi parevano più semplici,
per poi tentare di affrontare i più complessi e i difficilissimi. Mi dimenticai
perfino dell’esistenza del bullo, che dietro di me forse continuava a seguire i
movimenti della mia penna sul foglio, e continuai a scrivere senza sosta,
cercando davvero di dare il meglio di me e di non perdere la concentrazione che
ero riuscito a conquistare con tanta fatica.
Mi accorsi, ad un certo punto, di essere riuscito a
risolvere, o almeno a fornire un risultato, a quasi tutti gli esercizi proposti
nel compito in classe, utilizzando tutti i metodi che avevo avuto modo di
imparare studiando da solo sul libro di testo.
Alzai gli occhi dal foglio, in quel momento, accorgendomi che
difficilmente sarei riuscito a svolgere gli esercizi più complessi, e fissai
per qualche istante Anna, l’unica della scuola ad essere in grado di ottenere
sempre il massimo dei voti in quella materia. La mia compagna di classe stava
scrivendo come una forsennata, ed immaginai che con quel ritmo ormai avesse
concluso lo svolgimento di tutti gli esercizi.
Non la invidiavo affatto; sapevamo tutti, infatti, che il segreto
di tanta bravura si celava dietro ad ore ed ore di ripetizioni private che le
pagavano i suoi genitori. E poi, con quella non ci avevo neppure mai parlato,
visto anche il suo modo molto snob di atteggiarsi con gli altri.
Attorno a me, gli altri componenti della classe erano
impegnati in attività varie, da chi aveva già consegnato la sua verifica,
rassegnato di fronte a quella moltitudine di esercizi, a chi stava meditando
ancora sul foglio pressoché immacolato, a chi mulinava la penna tra le dita,
tirando qualche rigone di tanto in tanto e cercando di risolvere qualcosa. Mi
era già più che chiaro che quel compito in classe avrebbe avuto gli stessi catastrofici
risultati dei precedenti.
Tornai a fissare il mio foglio a quadretti, almeno dignitosamente
ricoperto di calcoli, e per un attimo mi colmai di soddisfazione, di fronte al
mio discreto lavoro; non sapevo se tutto era corretto o meno, ma almeno ci
avevo provato.
Per un attimo mi frullò per la testa l’idea carina di
scrivere, al di sotto del mio nome e cognome, che se avevo buttato giù qualcosa
sul foglio non era stato di certo grazie al mio insegnante, bensì solo alla mia
forza di volontà e allo studio che avevo affrontato tra le mura domestiche.
L’idea mi fece sorridere ma logicamente non la misi in pratica.
Tornai quindi a posare gli occhi sul mio foglio, dopo essermi
preso quell’attimo di pausa, e mi preparai a tentare di affrontare gli esercizi
che non avevo ancora avuto il coraggio di risolvere.
Mi ero totalmente scordato di Federico, così impegnato nei
miei pensieri com’ero, e quello fu un grave errore, poiché quando sentii la
lieve percossa che mi aveva allungato con un piede, mi ritrovai a sussultare.
Il prepotente infatti mi stava spronando solo in quel momento ad alzare
leggermente il foglio e a farlo copiare, sfiorando con la sua scarpa la gamba
della mia sedia.
Deglutii, tornando alla realtà e maledicendolo mentalmente
per aver interrotto il mio sublime momento di concentrazione, primo della mia
vita in matematica, e mi accinsi a mostrargli ciò che ero riuscito a scrivere
fino a quell’istante. Poi, però, mi assalì un qualcosa che non so tuttora
descrivere bene, ma penso si trattasse di una sorta di voglia di ribellarmi a
ciò che mi veniva imposto.
Tentennai sul mio banco, senza muovermi. Federico, dopo un
attimo di pausa, tornò a ricordarmi il mio impegno, sfiorando di nuovo la gamba
della mia sedia.
Non volli cedere subito il mio risultato tanto sudato, e
finsi di fiondarmi a scrivere qualcosa, naturalmente muovendo la mia penna sul
foglio e fingendomi concentrato, senza scrivere nulla. Il bullo dovette capire
che io non avevo percepito il suo segnale, e quindi decise, dopo un po’ e non
notando alcuna mia reazione, di aumentare la sua pressione.
Infatti, di lì a poco sentii un leggero calcio sul fondo
della sedia.
A quel punto mi era chiaro che in quegli istanti mi sarei
giocato tutto. A me la scelta; alzare il foglio e mostrare ciò che avevo
scritto sudando sette camicie, sacrificando così a favore di chi non se lo
meritava tutto il mio impegno, oppure continuare a tenermi giù e a fingere di
non essermi accorto dell’insistenza nemica. Ma sapevo che l’ultima opzione
significava botte e dolore, per me. Ma la scelsi comunque.
A spingermi a compiere quella scelta rischiosa fu proprio il
fatto che, per la prima volta nella mia vita, ero felice di essere riuscito a
scrivere qualcosa di decente in un compito in classe di matematica, perlopiù
anche parecchio complesso, e non mi andava affatto che un nullafacente che non
aveva mai sfiorato una penna con un dito ne approfittasse. Almeno fosse stato
un compagno gentile e bisognoso, ma quello era davvero solamente un gran
prepotente stronzo. Non meritava nulla, e volevo liberarmi da quel circolo
vizioso nel quale mi aveva costretto ad entrare.
Mentre continuavo la mia commedia, sudando freddo sul mio
banco, e probabilmente impallidendo, il nemico perse rapidamente le staffe,
cominciando a colpire la mia sedia senza mezzi termini. A quel punto i
componenti della classe più vicini ai nostri banchi ci stavano già osservando
con curiosità, ma il trambusto non era sufficiente a richiamare l’attenzione
del professore, serio e curvo sul suo registro, che in quel preciso momento si
stava limitando a badare solo le prime file.
Mi parve chiaro che quella ormai era diventata una gara di
resistenza; sia io che Federico ci stavamo giocando il tutto per tutto. Ormai
il mio oppressore non temeva di uscire definitivamente dai gangheri, poiché
sapeva perfettamente che se non fosse riuscito a consegnare qualcosa di scritto
neppure in quella verifica si sarebbe trovato nei guai a causa della sua moltitudine
di insufficienze gravi. Io, invece, tenevo duro, per salvaguardare il mio
ultimo barlume di dignità.
Avevo subìto le sue botte, le sue percosse, i suoi insulti,
gli avevo svolto i compiti per mesi, ero stato sottomesso alle sue derisioni
svolte assieme a mio padre, ed in quell’istante sentivo di averlo in pugno.
Quello che fino a poco prima era stata paura, dentro di me si tramutò in
frenesia, in un fuoco che arse la mia coscienza.
Mi sarebbe bastato alzare un po’ il foglio per mettere la
parola fine alla vicenda. Ma non mollai di un centimetro e tenni botta.
L’ultima percossa di Federico alla mia sedia fu catastrofica.
Udii la sua imprecazione impietosa a mezza voce, prima che mi sferrasse un
calcio talmente tanto forte da farmi sobbalzare.
Non seppi mai se mi diedi un po’ di spinta anch’io in quel
frangente, ma mi ritrovai a cascare dalla sedia, con le parole del bruto che mi
risuonavano nella mente, sapendo che quelle stesse parole erano cariche d’odio
nei miei confronti.
‘’Cosa sta succedendo?!’’, ruggì il professore, sbalordito e
sorpreso dal rumore prodotto dall’ultimo calcio di Federico e dalla mia
successiva scivolata verso il suolo.
Il prepotente, notando la mia caduta e il fatto che io forse avessi
volontariamente assecondato la sua potente spinta, si alzò anch’esso dal suo
banco, dirigendosi rapidamente verso di me col chiaro intento di farmela pagare
sul posto, ma la rabbia l’aveva così tanto accecato da farlo inciampare nella
gamba della mia sedia rovesciata, facendolo capitombolare ad un paio di passi
da me.
Il professore in un attimo ci sovrastò e, con una mano ferma
e decisa, afferrò Federico per una spalla, costringendolo a non saltarmi
addosso, avendo evidentemente capito che quel pazzo ce l’aveva con me. Ho
ancora davanti a me gli occhi arrossati dalla furia del mio nemico, che
sgranati mi osservavano, implacabili.
‘’Voleva copiare, ha percosso la mia sedia fino ad ora. E
adesso mi vuole menare, perché non ho alzato il mio foglio…’’, spiegai, con
grande calma, all’insegnante, rispondendo alla domanda che aveva posto un
attimo prima, mentre accadeva il patatrac.
Da quel momento in poi i miei ricordi si fanno sfocati; le
emozioni che stavo provando erano troppo forti, per me. Mi sentivo come se mi
fossi trovato su un ring.
Ricordo chiaramente la voce del prof alterata, Federico che
non cercava neppure di difendersi quella volta dalle mie pesanti ma vere
accuse, l’accenno alla nota e alla sospensione scolastica, la promessa del
viaggetto nell’ufficio della preside, la quale seguiva ancora le indagini in
corso per il disastro dei vandali e lo sfascio dell’auto dell’insegnante di
sostegno, tutto in quel momento irrisolto a causa del tempo che serviva per
controllare ciò che le telecamere avevano registrato.
Per ultimo, ricordo lo
sguardo che mi lanciò proprio il mio nemico, prima di essere mandato
direttamente nell’ufficio della preside, in fretta e furia. I suoi occhi non
erano più sgranati come qualche secondo prima, ma parevano promettere vendetta.
Ed io, notando che mi fissava, mi rialzai in piedi e gli donai un sorriso da vincitore,
prima che esso fosse condotto fuori dal professore e sparisse dalla mia vista.
Dopo di che, la gloria che per un attimo mi aveva fatto
sentire vittorioso sul mostro si spense in maniera decisa, e lasciò spazio ad
un improvviso sconforto.
Pur non volendo, cominciai a contare i secondi, anche in
parte con macabra ironia. Il conto alla rovescia prima della mia morte era
cominciato.
Sapevo che non l’avrei passata liscia, ed ero a conoscenza
del fatto che sarei stato pestato al più presto, considerando anche l’ultimissimo
affronto che gli avevo lanciato. Già vedevo il mio pianoforte semidistrutto,
mia madre umiliata, io che venivo preso per il collo, per poi essere mortificato
di nuovo.
Sono dell’idea che, quando un uomo decide di averla vinta su
un altro, che magari lo opprimeva in qualche modo, debba poi essere almeno
certo di aver parzialmente neutralizzato il nemico, in modo che esso poi, meno
forte di prima, non possa tornare alla carica tanto facilmente. Ebbene, io
quella volta l’avevo avuta vinta, per pura fortuna e con il caso favorevole, ma
non avevo messo al tappeto il nemico, anzi, gli avevo fornito tanti nuovi buoni
motivi per colpirmi in modo ancora più cruento.
Sapevo che una volta messo piede al di fuori della scuola,
quel giorno, mi sarei ritrovato totalmente scoperto e solo, e l’unica cosa che
avrei potuto fare sarebbe stata quella di attendermi qualche sua orrenda mossa.
Avrei sofferto, e anche tanto, ne ero certo.
Mentre un’assistente scolastico era entrato in classe a
badare che tutti ce ne stessimo al nostro posto e a completare la verifica
senza far baccano o copiare, in assenza dell’insegnante, compito tra l’altro
molto difficile vista l’agitazione provocata dagli eventi appena accaduti, io
tornai a risistemarmi al meglio sul mio banco e a godermi quegli ultimi venti
minuti da vincitore, quei venti minuti che mi stavano separando, molto
probabilmente, dalla più orribile delle cadute.
Il fragile equilibrio fatto di sottomissione tra me e
Federico si era così infranto, dopo più di tre settimane tranquillissime, e non
si sarebbe mai più ristabilito. Era guerra ufficiale, e quella volta ci
sarebbero stati combattimenti senza quartiere, e mi aspettavo che anche gli
altri tre amici del prepotente collaborassero in un qualche modo.
Sospirando, la smisi di tormentarmi, essendo a conoscenza di
aver messo la mia firma sul contratto che sanciva la mia morte. Perché quel
pazzo mi avrebbe fatto soffrire talmente tanto da farmi quasi preferire la
morte, constatai a malincuore.
Con le lacrime agli occhi, e con un misto di gioia ed estrema
ed inevitabile tristezza nel cuore, mi misi a scrivere le ultime cose che
sapevo su quel foglio a quadretti, per la prima volta macchiato dall’inchiostro
per la bellezza di ben tre facciate su quattro, e cercai di fare decollare i
miei pensieri verso altri lidi.
Non potei, e logicamente non ci riuscii in alcun modo.
La campanella che sanciva la fine delle lezioni suonò
esattamente venti minuti dopo ciò che era accaduto tra me e Federico.
Il prof di matematica era tornato in classe, torvo come non
mai, ed aveva ritirato le verifiche di tutti, donando uno sguardo particolare a
quella del prepotente, e tirando subito un rigone rosso per ciascuna delle due
facciate esterne e vuote del foglio protocollo. Quando poi lo aprì e
scivolarono a terra dei bigliettini abilmente nascosti al suo interno, non ci
prestò neppure tanto caso, e forse si aspettava pure quello.
Io non me l’aspettavo invece, e con un pizzico d’ironia mi
ritrovai a riconoscere che avevo sottovalutato il nemico, che effettivamente
aveva preso in mano una penna per scriverli. Oppure, magari li aveva estorti a
qualcun altro, e pensai che forse era stato proprio così, visto che alla fine non
li aveva neppure saputi utilizzare.
Il nemico che non era ancora uscito dall’ufficio della
preside. Già m’immaginavo il caos che sarebbe scoppiato a casa mia, tra i
coniugi Arriga, e quella volta ci sarebbe stato pure mio padre in mezzo, magari
a far commenti a mezza voce o ad infastidire ulteriormente tutti quanti con la
sua irritante presenza.
Quando suonò la campanella, senza attendere altro sfrecciai
direttamente verso l’uscita; per me cominciava ufficialmente la maratona per la
vita. Dovevo approfittare del fatto che Federico molto probabilmente fosse
ancora sotto processo, per sfruttare quei preziosi minuti che mi avrebbero
ricondotto verso casa.
Da quel momento in poi, il gioco si sarebbe fatto ancor più
pericoloso, e non potevo assolutamente permettermi di offrirmi facilmente in
pasto al nemico tentennando per strada da solo, lungo il tragitto che mi
avrebbe ricondotto a casa, ma dovevo passare più tempo possibile tra le mura
domestiche, magari in prossimità di Roberto, oppure in luoghi considerati
maggiormente sicuri. E lungo il tragitto che compivo ogni giorno, per ben due
volte, ero più vulnerabile che in tutti gli altri posti.
Mentre mi stavo muovendo molto rapidamente verso casa però,
fui bloccato due passi all’infuori del liceo da Giacomo, che mi si parò
davanti. Quel ragazzo alto oltre un metro e ottanta era un grado di apparire
come una vera roccaforte di potenza, e non mi sottrassi al suo sorriso
amichevole, prima che mi desse pure due piccole pacche amichevoli sulla spalla.
‘’Sei stato grandioso poco fa, Antonio! L’hai fatto sgamare
per bene, quello stronzo. E chissà se adesso uscirà più dalle fauci tremende di
quella bestia della preside’’, ridacchiò il mio compagno di classe ed amico,
mentre altri ragazzi si stavano raccogliendo attorno a noi.
‘’Io preferirei cento volte di più stare tra le sue tette,
che tra le sue fauci!’’, urlò a mo’ di giubilo Stefano, un ragazzo
conosciutissimo in tutto il liceo per la sua irrefrenabile ed oscena ironia,
con il cui però non avevo mai avuto niente da spartire fino a quel momento.
Incredibilmente, mi accorsi di aver accolto il consenso
popolare e tutti si congratulavano con me per il mio gesto, ben felici e con un
gran sorriso stampato sul volto.
Sorriso che morì sul volto della platea quando, dopo pochi
istanti, i tre amichetti di Federico ci oltrepassarono, scuri in faccia e
divorandomi con la rabbia che avevano negli occhi. Ciò che era accaduto poco
prima si era già divulgato in ogni angolo dell’istituto.
‘’Ragazzi, mi sa che difficilmente vivrò fino a domattina’’,
dissi, mogio e serio. Giacomo annuì.
‘’Capisco, anzi, capiamo le tue preoccupazioni. Quel brutto
ceffo, non appena sarà di nuovo in libertà, cercherà di farti subito del male. Abbiamo
visto come ha tentato subito di picchiarti. Beh, puoi contare su di noi! Se non
ti spiace, la mattina passo poco distante da casa tua e non mi dispiacerebbe
allungare di qualche metro il tragitto che compio a piedi, pur di farti da
scorta, e idem all’uscita da scuola. Con me attorno, se ne staranno tutti
lontani da te. E poi, al pomeriggio potremmo tornare ad incontrarci più
assiduamente…’’.
‘’Grazie, davvero. Accetto il tuo aiuto!’’, dissi,
grintosamente.
Il fatto di sapere che non sarei stato solo nella mia ormai
dichiarata guerra contro il prepotente e i suoi amici mi faceva sentire più
sollevato. Perché tra me e lui non c’era purtroppo più alcuno spazio per una
qualche sorta di nuovo equilibrio, ma c’era solo una guerra aperta.
Giacomo e qualche altro ragazzo suo conoscente e di altre
classi mi accompagnarono fino a casa, senza intoppi di nessun tipo, e quando
rientrai nella mia abitazione mi sentii un po’ meglio, ma non al sicuro.
Per un paio d’ore, mi barricai in camera, tappandomi dentro e
chiudendo a chiave la porta.
Federico aveva fatto ritorno nel tardo pomeriggio, scatenando
un nuovo putiferio in casa mia.
Livia e Roberto, di nuovo convocati per ore nell’ufficio
della preside, erano furiosi, soprattutto l’uomo. Mio padre, invece, la vicenda
se la sghignazzava tutta, stando ben attento a continuare ad addossarsi
quell’aura di ospite indesiderato che l’aveva avvolto fin dalla prima volta che
era piombato in casa nostra dopo anni di latitanza, ovvero più o meno un
mesetto prima.
Io dapprima avevo continuato a starmene al piano superiore,
ben blindato all’interno della mia stanza da letto, poi ne avevo approfittato
per scendere giù, approfittandone del fatto che Roberto fosse in casa. Quella
volta, se il pazzo mi avesse anche solo sfiorato, non avrei esitato a chiamarlo
o a gridare.
L’epoca dei tentennamenti e delle tribolazioni gratuite l’avevo
dichiarata conclusa alla fine di quella stessa mattinata.
Al piano inferiore, mi ritrovai ad ascoltare solo parole
irose.
‘’Mio figlio non sarà dato in pasto ad uno psicologo. Lui non
è un matto’’, disse ad alta voce Livia, all’improvviso, mentre io transitavo
proprio a pochi passi dalla cucina.
Mi bloccai sul posto.
‘’La preside ha detto che accetterà che il ragazzo continui a
frequentare il liceo solo se darà il suo consenso, e noi con lui, di avere un
supporto psicologico, almeno fintanto che non sarà fatta chiarezza su tutte le
questioni di cui è stato pacatamente accusato. Nel caso che tutto ciò sia
attribuito a Federico dalle autorità competenti, sarà direttamente espulso dal
liceo e quasi di certo perderà l’anno, a quel punto. Ci conviene quindi assecondare
questa proposta ragionevole’’, ribatté Roberto.
Mi addossai al muro, origliando i discorsi dei due coniugi
ignari di essere spiati; non riuscii a farne a meno, la mia curiosità era
troppa per essere contenuta. A quanto pareva, Federico se l’era già svignata da
casa, e chissà dov’era andato. Sperai non a progettare qualche ritorsione
contro di me, magari in compagnia dell’odiosissimo trio dei suoi amici.
‘’No’’. La risposta di Livia fu categorica.
‘’Sì, invece. Gli insegnanti chiuderanno un occhio su ciò che
è accaduto oggi, e sul pessimo andamento scolastico, almeno per un momento, e
Federico potrà avere un po’ di tranquillità interiore, magari. Potremmo
guadagnarci tutti! Accettiamo l’aiuto di uno psicologo’’, continuò ad insistere
Roberto, con convinzione.
‘’Non posso accettare che quel figlio di una sguattera metta
nei guai mio figlio. Questo è insostenibile! Dobbiamo andarcene di qui. Domani
andiamo a ritirare il ragazzo dal liceo e ce ne andiamo’’, riprese a dire la
signora.
Non avevo ancora compreso chi fosse il figlio di una
sguattera, e continuai ad origliare.
‘’Sai che Antonio è un bravo ragazzo, su! Non si è mai
inventato nulla… in più Federico gli ha percosso la sedia sulla quale era
seduto. Non ha nessuna colpa’’.
Bene, per fortuna Roberto mi difendeva.
A quanto pareva, il figlio di una sguattera ero proprio io.
Ecco, sul momento me la presi, poi pensandoci meglio, da solo e in camera,
avevo compreso che al mondo c’erano figli di donne ben peggiori, quindi ciò che
mi era stato rivolto non l’avevo più considerata un’offesa.
Ma in quell’istante ribollii di rabbia e rischiai quasi di
farmi scoprire, cercando subito di trattenere la mia ira.
‘’Ma non capisci che è giunta l’ora di affrontare la realtà?
Non possiamo scappare tutta la vita! Federico deve affrontare una vita
scolastica vera, d’ora in poi’’, continuò a dire l’uomo, sempre con
convinzione.
‘’Tu te ne devi star zitto! Chi è che ti mantiene, eh? Con quali
soldi hai mangiato, fino ad ora? Tu fai ciò che io ti dico. E poi, Federico non
è tuo…’’.
Mi appiccicai con l’orecchio al muro pur di origliare, ma non
conobbi mai la fine della frase, oltre quel Federico non è tuo, e qualcosa che
non riuscii ad ascoltare. Livia pareva davvero un serpente, dal tanto che
sibilava le parole con odio e prepotenza.
Purtroppo, quando la conversazione si era fatta davvero
interessante, aveva trillato il campanello, facendomi sussultare e quasi
imprecare.
Con nervosismo, dapprima silenziosamente e poi in modo più
tranquillo, mi diressi verso la porta di casa, poco distante. Qualche intruso
aveva rovinato irrimediabilmente la mia azione di spionaggio. Quando qualcuno
suonava al campanello, era perché non era di casa, poiché tutti noi avevamo le
nostre chiavi a disposizione, e quindi per un attimo chissà cosa mi aspettai,
persino un agguato.
Ma quando aprii la porta, lentamente, trovai davanti al
cancello, sulla strada, una giovanissima ragazza, forse addirittura mia
coetanea.
Guardai la sconosciuta e spalancai la porta, uscendo nel
piccolo guardino. La tizia mi sorrise, timidamente, mentre il suo giovane volto
si imporporava di un tenue rossore colmo di imbarazzo. Era abbastanza alta,
slanciata, e dal fisico formoso ma perfetto, con una lunga treccia di capelli
scuri che scendeva dietro la nuca. I suoi occhi castani mi parvero grandi e
sinceri, e soprattutto tranquilli, ed era vestita in modo piuttosto alla moda.
Lasciai che fosse lei ad aprire la bocca per prima.
‘’Ciao! Scusa se disturbo, ma vorrei sapere se è qui che vive
ora un signore di nome Sergio Giacomelli’’, mi disse la ragazza, rivolgendosi a
me in tono gentile e formale, con la voce leggermente tentennante a causa di
una buona dose di timidezza.
Mi corrucciai in un attimo; la giovane chiedeva di mio padre,
e lui mi aveva assolutamente vietato di aprire la casa a persone che lo
cercavano.
Non sapevo davvero che fare, poiché non potevo starmene lì a
bocca dischiusa per un po’, cercando di riflettere e di trovare una soluzione
al dilemma, ma non potevo neppure dire che sì, mio padre era in quella casa
anche in quel momento, perché se l’avessi fatto poi lei avrebbe insistito per
accomodarsi o parlargli e dopo io sarei stato ancor più nei guai, con un
quell’uomo imbestialito nei miei confronti. E dato che di gente che mi odiava
ne avevo già abbastanza, decisi di giocarmi la carta più facile e tentare di
tergiversare e prendere tempo.
‘’Chi sei?’’, le chiesi, anche con un piccolissimo pizzico di
curiosità che poteva ben nascondersi in quella domanda che avrebbe
tranquillamente potuto precedere l’introduzione in casa.
La ragazza continuò a sorridermi, e a tratti ad abbassare gli
occhi.
‘’Mi chiamo Stefania Gelsomini e…’’.
Stefania in realtà non riuscì a finire la frase, poiché mio
padre, che doveva essere uscito dalla mia saletta e che doveva essere anche
totalmente ignaro della visita inattesa, aveva cominciato a sbraitare da dentro
all’abitazione.
‘’La vuoi chiudere una buona volta questa maledetta porta, o
deve…’’, tentò di ruggire l’uomo, piazzandosi proprio nel bel mezzo dell’uscio.
Ma sia lui che Stefania si interruppero quando i loro sguardi ebbero modo di
incontrarsi e di riconoscersi.
‘’Che… che ci fai tu qui?!’’, disse mio padre, colto di
sorpresa. Era stato lui stesso a cadere in trappola in modo inconsapevole,
poiché altrimenti dopo aver scoperto chi fosse io l’avrei cacciata quella
ragazza, con gentilezza naturalmente.
‘’Mi lasceresti entrare un attimo nel giardino, per
favore?’’, mi chiese Stefania, senza scomporsi.
‘’Tornatene da dove sei venuta e lasciami in pace’’, ribatté
mio padre, che mentre si riprendeva dallo stupore iniziale stava tornando ad
essere il solito scorbutico arrogante.
‘’Devo parlarti. È importante! Aprimi, per favore’’, tornò ad
invocarmi la ragazza, ed io esaudii il suo desiderio.
Stefania si diresse verso mio padre, tentò un contatto con
lui ma l’uomo la deviò e la fece entrare in casa, non prima di avermi rivolto
un’occhiataccia infamante. Anche lui se l’era presa con me, per qualcosa che
non conoscevo affatto. Sperai solo che il nervosismo gli passasse.
Restai in giardino, interdetto e travolto dagli eventi,
mentre la porta di casa si chiudeva di fronte a me, come a voler sigillare quel
mondo di pazzi che si stavano muovendo al suo interno. Ed io, amareggiato e
triste come non mai, decisi di recarmi nel mio piccolo orto, ormai totalmente
privo di vita, poiché esso era un posto sicuro dove poter sbollire un po’ della
mia inquietudine.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, cari lettori e carissime lettrici!
Alla fine, Antonio ha scelto di non lasciar copiare Federico…
logicamente, questo gesto avrà delle sue precise conseguenze, proprio come il
protagonista sa. Incrociamo le dita…
Bene, vorrei anche dirvi che ora tutti i personaggi primari e
secondari sono prontamente schierati all’interno della trama. Toccherà a me
farveli conoscere un po’ meglio e cercare di gestire la vicenda e l’intreccio
nel miglior modo possibile. Spero di riuscirci! La storia in sé mi sta molto a
cuore e sarebbe una gran soddisfazione per me portarla a termine in modo
meritevole.
Vorrei anche aggiungere a queste mie note tutto l’immenso
dispiacere e il cordoglio che provo per le persone coinvolte dal sisma. L’ho
già fatto durante la scorsa settimana all’interno della mia raccolta di poesie,
e vorrei farlo anche qui, esprimendo tutta la mia vicinanza a queste
popolazioni che purtroppo hanno dovuto conoscere un dolore infinito e
inimmaginabile.
Grazie di cuore a tutti voi lettori per continuare a seguire
e a sostenere il racconto! Vi auguro una serena giornata e una buona settimana.
A lunedì prossimo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Capitolo 24 ***
Capitolo 24
CAPITOLO 24
Quando mia madre tornò a casa dal lavoro, cioè poco dopo
l’ingresso di quella ragazza sconosciuta in casa nostra, mi trovò solo soletto
a fissare il mio orticello fatto solo di terra marrone. C’era qualche piantina
di cavolfiore, ma solo in un angolo del piccolo appezzamento.
Quel giorno neppure il vecchio Ottaviano era fuori, dal tanto
che la nebbia inumidiva e bagnava quel tipico pomeriggio autunnale padano. Persino
il nevischio di quella mattina si era poi dovuto arrendere al clima del
territorio.
Quindi, mi trovavo solo coi miei pensieri, tutti davvero parecchio
negativi.
‘’Cosa ci fai qui
fuori al freddo?!’’, sbottò la mamma, mentre deviava di qualche passo verso di
me.
Le mostrai un sorriso che mi costò tantissimo, poiché dovetti
sforzare parecchio le mie labbra per riuscire anche solo ad incresparle
lievemente, dato il mio stato d’animo.
‘’Non mi va di stare in casa con quella banda di pazzi’’, le
dissi, con sincerità. Lei si fermò e mi guardò con curiosità.
‘’Perché dici così? È successo qualcosa di nuovo e di cui non
sono a conoscenza?’’.
‘’Tra i signori Arriga pare che tutto non vada tanto bene, e
penso che siano parecchio nervosi, quindi stai attenta, soprattutto
all’aristocratica. Oggi sembra davvero una vipera velenosa. E poi, poco fa, è arrivata
una ragazza, che cercava papà…’’.
‘’Una ragazza che cercava Sergio?!’’, mi fece quasi eco mia
madre, interrompendomi. Era sempre più curiosa, e questo non era da lei. Ero
abituato a vedere sempre mia madre a capo chino, e a farsi gli affari suoi, e
tutto questo interesse per quella tipa di poco prima m’insospettì, non seppi il
perché, ma comunque sapevo che la mamma non poteva sapere chi fosse o da dove
provenisse, poiché stava rincasando solo in quel momento.
‘’Sì, mamma, una tipa giovane. Non so chi sia, si è
presentata ma neppure ricordo il suo nome, e sono certo di non averla mai vista
prima d’ora’’, mi limitai a dirle, scrollando le spalle.
‘’Ho capito, grazie per avermi informata. Indagherò a
riguardo’’, mi rispose, per poi affrettarsi ad entrare in casa.
Avevo come l’impressione che mia madre sapesse qualcosa, ma
che me lo stesse nascondendo in un modo molto inconsueto per lei. Eravamo
sempre stati molto aperti tra noi, e non avevamo mai avuto problemi a parlare
di ogni sorta di questione, ma tuttavia fui costretto a riconoscere che
ultimamente entrambi eravamo cambiati; io da un po’ le stavo nascondendo i miei
problemi con i bulli, e lei mi stava nascondendo qualcos’altro che non ero
ancora riuscito ad afferrare.
Oppure, forse mi stavo fasciando la testa proprio per niente.
Non credevo che lei potesse saperne qualcosa in più, e ciò mi fu confermato
solo in seguito. Molto probabilmente, provava solo qualche chiaro sospetto.
Sapendo che era inutile che io stessi a pormi quesiti che al
momento non avrebbero potuto avere una risposta soddisfacente, decisi di non
stare ad assillare ulteriormente la mia povera mente sempre più devastata dai
drammi che stavo vivendo, e pensai che fosse più utile dirigere i miei pensieri
verso altri lidi.
In realtà non ne feci in tempo, poiché al di là della
recinzione mi apparve Jasmine, che dalla strada stava venendo dalla direzione
della casa di Alice.
‘’Antonio!’’, mi chiamò, senza neppure darmi il tempo di
poterla salutare per primo. Il suo viso era in disordine, i suoi grandi occhi
parevano più spalancati del solito, quasi spaventati o turbati.
Notai quindi la sua agitazione anche da una buona distanza
fisica, e preoccupandomi subito per lei, mi affrettai a raggiungere il cancello
del giardino.
‘’Jasmine, che c’è? Ti vedo agitatissima’’, le dissi,
avvicinandomi e aprendo il cancello, per poi cercare di afferrarle le mani.
La ragazza, sfuggevole come sempre, si ritrasse al mio tocco,
ma non ne rimasi dispiaciuto, poiché col senno di poi sapevo che dall’interno
di casa mia qualcuno avrebbe potuto vedermi, e la mia sorta di pallida e
tiepida relazione che stavo avendo con Jasmine non volevo che trapelasse tra le
mura domestiche, e che magari finisse sulle labbra di qualche persona scomoda,
col rischio che qualcuno mettesse in giro voci assurde.
‘’Ho paura che… per Alice…’’.
Due lacrime parvero voler scendere lungo il suo viso.
‘’Basta pensare a quella lì! Era una gran stronza, non vedi
come ci ha piantato in asso?! E senza pensare poi a come si è comportata a
scuola… pareva una studentessa perfetta, poi ha cominciato a fare buco.
Insomma, è una di quelle tizie dalla doppia personalità che è meglio evitare’’,
le dissi, sorridendole. Non mi importava più molto di Alice, dopo che mi aveva
trattato in un modo parecchio scorretto e che non avevo affatto apprezzato.
‘’Tu non capisci! Temo che stia male davvero, e che le sia
capitato qualcosa di brutto. Sono andata a casa sua poco fa, e non c’era
nessuno, se non una signora delle pulizie che non ha voluto dirmi che fine che
hanno fatto la nostra amica e i suoi genitori, ed ha lasciato trapelare solo
una certa inquietudine e una parola, ovvero ospedale’’.
‘’Calmati, stai tranquilla. Non sarà accaduto niente di male,
di certo. Non temere…’’.
‘’Le scriverò tra poco, al cellulare. Non mi darò per vinta,
sono davvero preoccupata per lei’’, tornò alla carica Jasmine, totalmente
disinteressata alle mie parole.
Nei suoi occhi brillava qualche luce a me sconosciuta, ma
molto bella e pura. Era la motivazione, la voglia di non mollare, il desiderio
sincero di voler pensare a colei che era stata tanto amica per lungo tempo, e
che ultimamente era sparita dalla circolazione, e anche dal paese, a quanto
pareva.
‘’Fai quello che ti senti, ma io non la cercherò più’’, le
dissi, anch’io testardo come pochi. In quel momento riuscivo solo a dar ragione
al mio orgoglio, e che errore che feci, ma purtroppo sono un essere umano, e si
sa, sbagliare è tipico della nostra specie.
‘’Ho paura che le sia capitato qualcosa di brutto. E smettila
di impuntarti sempre con le tue idee’’, mi suggerì la ragazza, facendo qualche
passo indietro.
‘’Hai ragione, fai bene a cercarla. Fammi poi sapere se le
tue ricerche hanno dato qualche frutto’’, mi limitai a dirle, mostrando una
leggera apertura e lasciandola quindi a preoccuparsi per la sua amica.
Personalmente, in quell’istante continuava a non importarmi molto
di Alice, e per come si era atteggiata nei miei confronti provavo ancora una
sorta di pacato astio verso di lei.
‘’Vado subito a tentare di contattarla sul cellulare. In
realtà temo che il suo sia spento, però a casa ho scritto da qualche parte il
numero di sua madre, che aveva scambiato con la mia, e quindi penso che proverò
dapprima a contattare quest’ultima. Se poi Alice ha scelto di non voler più
condividere alcun momento della sua vita con me, con noi, non me la prenderò ed
avrò la coscienza pulita, dato che la pessima figura sarebbe davvero tutta sua.
Ma fidati, non è da lei questo cambiamento improvviso, e questo assenteismo. In
più, i suoi non sono neppure mai andati in vacanza, e se si sono mossi in pieno
inverno dev’esserci una ragione ben precisa… speriamo che non sia accaduto nulla
di grave, ma questa storia puzza’’, ribatté Jasmine, convinta.
Non potei far altro che annuire alle sue parole. A lei la
scelta di proseguire come meglio le pareva.
‘’Vado, ora. A più tardi! Poi, se scopro qualcosa, ti faccio
sapere’’, mi disse la ragazza, notando il mio silenzioso comportamento.
Si allontanò da me in tutta fretta, non prima di avermi
sfiorato una mano con la sua, donandomi uno di quei suoi classici contatti
rapidi ma colmi di significato, poiché sapevo che lei era una giovane fatta
così, a modo suo, e che non mi avrebbe mai sfiorato e non si sarebbe mai
azzardata a cercarmi e a confidarsi con me se non avesse ricambiato qualcosa.
Se la nostra sorta di storia d’amore esisteva davvero, essa
era realmente molto fragile, ma allo stesso tempo piacevole, poiché entrambi a
nostro modo ci dedicavamo l’uno all’altra, senza però lasciarci andare ad
inutili ed insulse smancerie che avrebbero solo rischiato di attirare
l’attenzione di tutti, se svolte in pubblico. Il nostro era un amore segreto,
racchiuso all’interno dei nostri due cuori, e solo noi eravamo partecipi ad
esso.
Rientrai nel mio giardino solo quando Jasmine fu scomparsa ai
miei occhi, e ancora pensieroso per tutto mi diressi nuovamente verso quello
squallido lembo di terra umida che io continuavo a chiamare orticello.
D’inverno faceva davvero schifo, ma io sapevo comunque coglierne la vita
dormiente che in esso si sarebbe poi risvegliata durante la buona stagione.
In quell’istante, dall’interno della casa mi giunsero delle
voci distorte, arrabbiate. Capii che tra le mura della mia dimora qualcuno
stava litigando animatamente, ma non ero riuscito a cogliere per bene di chi si
trattasse di preciso.
In ogni caso, quel giorno segnava la fine di ogni fragile
equilibrio che mi avvolgeva, e tutto si stava preparando alla svolta finale,
poiché a quel punto la svolta ci sarebbe stata, ne ero certo, e in più essa
avrebbe rischiato di colpire ogni aspetto della mia vita. Sperai solo che tutto
sommato potesse accadere anche qualcosa di positivo, ma ne dubitavo, pessimista
com’ero fino al midollo.
Me ne rimasi quindi tutto il pomeriggio lì fuori, immerso
nell’umidità gelida e dalla nebbia, ma almeno relativamente al sicuro da
qualsiasi insidia. Sapevo che se fossi rientrato in casa avrei rischiato di
impazzire pure io.
Anche la nottata di quel giorno fu tormentata. Morfeo mi
accolse tra le sue braccia non prima di avermi fatto attendere un po’, e
comunque donandomi sogni orribili, nei quali ero costretto a subire angherie da
Federico.
Proprio durante uno di quegli incubi mi svegliai di
soprassalto, tutto sudato ed indispettito.
Ero ancora innervosito per la piega che stava prendendo tutto
in casa mia, e per il fatto che qualche ora prima avevo dovuto rifiutare la
visita di Giacomo, che voleva passare da me per giocare un po’ alla
playstation, ma purtroppo quella non era la serata giusta.
In casa mia il clima era cupo, e mentre la coppia di Arriga
era nervosa, Federico era ancora assente ed avvolto da quell’aria di mistero
tipica di chi già sta ampliamente tramando per qualcosa che potevo parzialmente
immaginare con chiarezza, e mio padre, dopo la visita della ragazza, era
rimasto muto e turbato, anch’esso dimostrando quindi una reazione strana, dato
che non era da lui chiudersi in sé stesso e non fare battute, o deridere
qualche malcapitato che gli capitava a tiro. Aveva smesso di ridere, e tutto
sommato gli stava davvero bene.
Anche mia madre si era fatta triste e pensierosa, ed ero
certo che il motivo di quel comportamento riguardasse la comparsa di quella
ragazza. Ma non potevo far nulla per scoprire di più su tutto, se non
aspettare.
In quell’istante ebbi la fortuna di aver bisogno di andare in
bagno, e il nume del caso quella volta decise di concedersi a me nel modo più
totale possibile.
Scesi al piano inferiore, e per la prima volta dopo un bel
po’ di tempo, lo trovai con la porta serrata per bene. In genere, mia madre
alla sera ne lasciava sempre la porta socchiusa, in modo da sapere con certezza
durante la notte se qualcuno c’era dentro o meno, così da non fare inutile
chiasso, e subito ne approfittai per aguzzare il mio udito.
La mia mente era ancora suggestionata dagli incubi che mi
avevano tormentato fino a poco prima, ma quella volta tuttavia riuscì a
mostrarsi comunque sveglissima e pronta all’azione di spionaggio.
Infatti, feci davvero bene a prepararmi ad origliare, poiché
non appena cominciai a tentare di spiare, mi giunse fin da subito alle orecchie
la voce bassa e stanca di Federico, che ancora non aveva scoperto che io alcune
volte l’avevo abilmente monitorato da lì. Il nemico probabilmente stava ben
attento a cambiare orario ogni notte, per chiudersi nel nostro bagno, e doveva
aver controllato anche che nessuno di noi fosse in circolazione. Il silenzio
regnava assoluto in casa, e quindi la mia curiosità di scoprire che stava
dicendo anche quella volta già stuzzicava i miei sensi.
Peccato che, poco più in là e dal divano sfatto in un angolo
della cucina, mio padre stesse russando come un porcello, generando di tanto in
tanto dei rumori così irritanti che mi sarebbe venuta voglia di andare a
svegliarlo, pur di farlo smettere. Logicamente, non lo feci.
‘’… in camera mia, sì, nella mia stanza sta bene e sta
crescendo. Poi ti farò sapere meglio a riguardo… sì, ne raccoglierò qualche
foglia, poi te la porto! Ma occhio, è roba buona, vale un sacco…’’.
Allontanai il mio orecchio dalla porta, col timore di finire
per fare pressione sul legno e causare qualche rumore che avrebbe rovinato
tutto. Non potevo permettermi di fare passi falsi, durante quel periodo di
guerra aperta.
Riprendendo un attimo il respiro e preparandomi di nuovo a
tentare di origliare qualcos’altro, dando anche un’occhiata attorno per vedere
se c’era qualche luce accesa in casa e se avessi rischiato d’essere colto il
flagrante durante la spiata, non riuscii nel frattempo a nascondere quella
curiosità pressante che mi stava turbando da parecchie settimane, ovvero a
riguardo della stanza da letto del prepotente.
Molte frasi da me origliate riportavano a quel luogo avvolto
dal mistero da quando Federico ne aveva preso possesso, poco più di un paio di
mesi prima, e dentro di me una vocina insistente mi consigliava di andare a
dare un’occhiata, in modo da farmi un’idea di ciò che c’era al suo interno, di
tanto importante e in fase di crescita.
Misi a tacere i miei insulsi pensieri notturni e tornai a
riavvicinare l’orecchio destro alla porta del piccolo bagno, dopo aver
constatato che in casa continuavano a dormire tutti. Il nemico stava
ridacchiando, in quel momento.
‘’Ho organizzato tutto alla perfezione; ascoltami bene, poi
lo dici con gli altri due, ok? Il pezzo di merda passa tutti i giorni per la
via… quella che a fianco ha i platani, dai, ora non ne ricordo il nome, sai che
non sono di qui e tutto non l’ho ancora imparato per bene… ok, sì, proprio
quella. Bene, noi lo aspetteremo all’altezza della prima traversa. Appena lui
passerà di lì, dopo essere uscito da scuola, lo intercetteremo e gli daremo una
strigliata… no, nessun problema, state tranquilli; quello non vi denuncerà, lo
metterò io in silenzio.
‘’Se non vuole che io gli spacchi il pianoforte e la mammina
cara, sarà meglio che obbedisca! Deve subire un po’, mi ha tirato un brutto
scherzetto, che non ho ancora mandato giù! Così impara a fare il furbo… va
bene, sì, a domattina allora, poi ne riparliamo meglio, ma entro il primo pomeriggio
di domani voglio che questa lezione sia stata impartita! Altroché le sue amate
lezioni scolastiche…’’.
La voce di Federico a quel punto si smorzò in una risatina
che sapeva di saluti. Era quindi tempo che mi allontanassi.
Tremavo come una foglia per quello che avevo udito, e quasi
svenni mentre risalivo in silenzio le scale, per via delle informazioni che
avevo appena origliato, e pensai inizialmente alla perfidia della sorte, che
aveva voluto che io avessi avuto modo di scoprire prima del tempo dove mi
sarebbe stato teso l’agguato punitivo, perché tanto ero certo che tutto ciò che
avevo ascoltato nella seconda parte della conversazione telefonica riguardasse
me.
Quando giunsi in camera mia mi barricai al suo interno, e
dopo qualche istante udii la porta del bagno aprirsi, mentre il nemico si
avviava anch’egli verso il piano superiore.
La mia mente era atterrita, e in subbuglio, e non sapevo
davvero che fare; forse, avrei dovuto cambiare strada ed allungare il mio
tragitto per tornare a casa da scuola, il giorno successivo. Anzi, molto
probabilmente quella sarebbe stata la soluzione più appropriata per evitare
l’agguato.
Mentre mi rimettevo sotto le coperte e il prepotente si
chiudeva anch’esso nella sua camera da letto, cominciai a rodermi senza tregua,
fintanto che non ebbi un’idea.
Avevo assolutamente bisogno di sfogarmi e di confidarmi con
qualcuno, poiché si sa, i problemi che nascono nel cuore della notte sono i più
atroci ed opprimenti, e dato che in casa mia non potevo svegliare nessuno, e
neppure parlar loro di ciò che mi avrebbe atteso il giorno successivo, decisi
di tentare di chiamare qualcuno. Non Jasmine, lei doveva assolutamente starne
fuori da quella vicenda, così come mia madre e le persone più care e deboli.
Troppo agitato per poter ragionare al meglio, alla fine mi
convinsi ad afferrare il mio cellulare dal comodino e a cercare il numero in
rubrica dell’unico essere umano che avrebbe potuto darmi una mano in quel
frangente, ovvero Giacomo. Aveva promesso di aiutarmi, poche ore prima, assieme
anche ad altri elementi del liceo, ma essendo lui il ragazzo con cui avevo più
confidenza, decisi quindi di telefonargli.
Guardando l’ora nel display, scoprii che erano le due di
notte, ma non mi feci problemi, e a dirla tutta mi aspettavo che il cellulare
del mio compagno di classe fosse spento, oppure in silenzioso, e che non mi
avrebbe mai risposto.
Per non continuare a rodermi nel dubbio, premetti con
decisione il disegnino verde impresso sullo schermo e avviai la chiamata.
Il cellulare squillava, e squillò per un po’, e quando col
cuore sollevato stavo per chiudere la chiamata, che sarebbe poi stata ritrovata
subito il mattino successivo, il mio compagno rispose.
‘’Pronto?’’.
La voce insonnolita di Giacomo risuonò nel mio orecchio
destro, proprio quando meno me l’aspettavo.
‘’Giacomo, sono Antonio’’, mi presentai, tentennando e con
timidezza.
La mia folle paura che mi aveva spinto a telefonargli si stava
già rapidamente quietando, mentre finalmente comprendevo la sciocchezza che
avevo fatto, svegliando il mio coetaneo nel cuore della notte per un mio
personale problema. Ero stato davvero molto egoista, ma la notte e la paura sul
momento mi avevano portato a reagire così, e di certo non potevo più tornare
sui miei passi. Tanto valeva cercare di tenere viva la telefonata.
‘’Sai che ore sono,
vero?’’, mi chiese, lentamente, dopo un attimo di silenzio.
‘’Sì, certo che lo so, e ti chiedo scusa per averti
disturbato e probabilmente svegliato, ma ho un problema gigantesco, di
proporzioni epiche. Posso parlartene?’’, gli chiesi, cercando di avviare
rapidamente il discorso e di parlare a voce molto moderata.
‘’Ormai mi hai già
svegliato, quindi sì… ti ascolto’’, mi disse il mio interlocutore, sempre
con un gran vocione insonnolito ma paziente.
‘’Ti ringrazio, ma davvero, mi è capitato di udire…’’.
E così gli raccontai tutto quanto avevo origliato, e tutti i
miei timori, senza lasciarlo parlare e sempre cercando di tenere il tono di
voce davvero molto controllato. Gli Arriga erano ad un palmo dalla mia testa, e
sperai che stessero dormendo profondamente.
Alla fine della narrazione, ero affannato e facevo quasi
fatica a riuscire a reggere il discorso per più di qualche secondo di fila,
dato che la mia tentata concentrazione a tratti vacillava sotto l’impeto di
tutto ciò che volevo dire, e della mia sorta di sfogo.
Appena tacqui, ci fu un attimo di incredibile silenzio, e
temetti che il mio interlocutore si fosse addormentato. Quasi ci rimasi male,
ma poi udii un leggero mugugno, di quelli che il mio compagno di classe
emetteva quando rifletteva attentamente.
‘’Ho capito, sei in un
bel guaio, ma immaginavo una possibile reazione del nemico. Sei sicuro di non
aver udito male, e che tutto sia esattamente come me l’hai raccontato? Perché
se fosse così, una soluzione si potrebbe trovare’’, mi disse Giacomo, dopo
un altro attimo di riflessione.
‘’Ne sono sicurissimo. Oddio, e meno che non cambino tutto
all’ultimo momento, ma so per certo che ciò che hanno pianificato poco fa
riguardava me’’, gli assicurai in fretta, con una sicurezza troppo eccessiva e
pressata dalle mie paure.
‘’Va bene, ok. Ti
credo. Ho un piano in mente, ma non te lo posso dire ora, perché lo affinerò
domani. Però, ora che so tutto, mi piacerebbe che tu ti fidassi di me e che ti
mettessi tra le mie mani. Io cercherò di offrirti la soluzione definitiva alla
vicenda, e al tutto addirittura, ma tu dovrai fare esattamente ciò che ti dico
io’’, tornò a dire il mio interlocutore. Fremetti, alle sue parole.
‘’Ovvero?’’, gli chiesi, timoroso.
‘’Devi comportarti in
modo assolutamente normale per tutta la mattinata di domani, come se tu non
sospettassi nulla. Poi, quando uscirai da scuola, dovrai percorrere le stesse
strade che affronti ogni giorno, e finire direttamente e in modo apparentemente
casuale proprio nel punto in cui hai udito che ti tireranno il tranello. Non è
difficile, devi comportarti come ogni altro giorno’’.
‘’In pratica mi stai chiedendo di andare dritto tra le fauci
del pazzo prepotente e dei suoi amichetti?’’, gli chiesi, lentamente. La
questione non mi piaceva e per un attimo temetti di sentire la puzza d’inganno,
ma mi fu chiaro fin da subito che Giacomo, con l’odio che riponeva nei
confronti di Federico, non poteva mandarmi direttamente al macello in quel modo
così semplice ma subdolo.
Quasi mi pentii di averlo contattato a quell’ora e di essermi
sfogato con lui, nella vana ricerca di un aiuto che avrebbe potuto cambiarmi la
vita, ma misi subito a tacere ogni mio pensiero pessimista. A quel punto, non
potevo lasciarmi andare, proprio per nulla.
‘’Sì, in pratica sì. Tu
percorri le tue solite strade normalmente, e ti prometto che se qualcuno
cercherà davvero di farti del male nel punto che mi hai citato, sarai tirato
fuori da ogni guaio, spero per sempre. A che ora transiti nel punto del
possibile agguato?’’, tornò a chiedermi Giacomo, sicuro di sé.
‘’In genere, tra l’una e venti e l’una e venticinque.
Nell’arco di questi cinque minuti’’, gli dissi, cercando di ostentare una
sicurezza che in realtà non avevo.
L’ora era certa, perché in genere osservavo sempre l’orologio
prima di giungere a casa, e dalla traversa possibilmente incriminata mancano
praticamente pochi passi a casa mia, ma non riuscivo a capirci più nulla.
L’unica cosa che riuscivo a provare nella mia mente era solo la paura, e
nient’altro. La paura, per tutto.
Ma sapevo che provando paura non si faceva tanta strada e non
si risolveva nulla, anzi, si rischiava di amplificare il problema da affrontare.
‘’Perfetto. Bene, ora
me l’appunto e poi ne riparliamo domani. Anzi, non ne riparliamo proprio, e non
parlarne con altri, altrimenti corri il rischio che la tua consapevolezza venga
scoperta e che i prepotenti cambino tattica. Ed io voglio metterli nel sacco,
questa volta. Non posso più sopportare quegli stronzi, e non voglio che ti
mettano di nuovo le mani addosso! Tu comportati esattamente come ti ho detto, e
vedrai che non te ne pentirai. Ho una bella idea in mente, un’idea che cercherò
di attuare solo per te, perché so della tua situazione complicata’’, sibilò
il mio interlocutore, innervosendosi per un attimo.
Sospirai.
‘’Ora vorrei tornare a
dormire. Sei in buone mani ed hai richiesto l’aiuto della persona giusta, non
temere. Lo stronzo si getterà in una dolorosa trappola proprio con le sue gambe’’,
riprese a dire Giacomo, ridacchiando in un modo parecchio difficoltoso ed
impastato dal recente sonno.
‘’Hai la mia incolumità fisica tra le tue mani, fai il
bravo’’, gli dissi, senza sapere che altro dire.
‘’Lo farò. Buonanotte,
e dormi sereno. Domani sarà un grande giorno e prima di sera avremo sconfitto per
sempre il nemico, se seguirai i miei consigli. E ti consiglio caldamente di
seguirli’’, continuò a ripetermi il mio possibile salvatore, che poi dopo i
miei saluti appena mormorati riattaccò di colpo, lasciandomi solo in compagnia
di quella lunghissima notte e dei miei ben truci pensieri.
Non sapevo se fidarmi o no di Giacomo, ma una cosa mi
appariva certa, ovvero che lui mi era apparso l’unico in grado di aiutarmi,
poiché da lungo tempo era istigato contro il prepotente, ed inoltre mi era
parso sincero quando mi aveva assicurato che tutto sarebbe andato per il meglio
e di seguire i suoi consigli. E quella era, effettivamente, l’unica cosa che
avrei potuto fare nell’immediato.
Dato che immaginavo che se fossi riuscito a scampare da
quell’agguato i miei aguzzini me ne avrebbero preparato un altro, decisi
fermamente e sul momento di seguire i consigli del mio amico e compagno di
classe. Così, chiusi la battaglia infernale in corso nella mia mente, e spensi
la luce della stanza, coprendomi per bene e cercando di chiudere gli occhi,
ovviamente non riuscendoci per più di una manciata di secondi.
Quella per me fu una notte lunghissima, una delle più lunghe
della mia breve vita, e più volte mi sentii come se fossi stato pronto per
essere portato direttamente al patibolo. Ma, d’altro canto, la guerra aperta
l’avevo voluta anch’io, e avrei dovuto affrontarne le conseguenze, tanto meglio
se una volta per tutte e in modo deciso.
Tra piccoli sospiri e movimenti rapidi sotto le coperte,
cercai di stare tranquillo, ma il mattino successivo mi colse che ero ancora
sveglio, e logicamente stanco, stressato ed impreparato ad affrontare quella
lunga giornata.
Avrei voluto parlarne con Jasmine, oppure con mia madre, o
con Roberto, o addirittura con Melissa, quella mia cugina che avevo conosciuto
per caso e frequentato per un solo pomeriggio, qualche giorno prima, ma sapevo
che quella era la mia giornata, il dì in cui avrei dovuto superare una grande
prova, contando solo sulle mie forze e sulla fiducia e l’amicizia di Giacomo.
Facendomi coraggio, al solito orario mi alzai e mi preparai
ad andare a scuola, esattamente come facevo ogni mattina, con la sola
differenza che quella volta le gambe mi tremavano come foglie al vento, e due
leggere occhiaie gravavano sul mio viso, impietose e silenziose testimoni dei
miei tormenti interiori.
NOTA DELL’AUTORE
Salve a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo
e per continuare a seguire il racconto.
Beh, dal prossimo capitolo entreremo nel vivo dell’azione!
Inoltre, avremo modo di scoprire cosa accadrà ad Antonio… e se tutto alla fine
prenderà una piega a lui favorevole.
Continuo a ringraziarvi tutti, in modo particolare i
carissimi recensori, sempre presenti e gentilissimi.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì
prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** Capitolo 25 ***
Capitolo 25
CAPITOLO 25
Appena alzato, dopo aver evitato ogni contatto col cibo, nel
vano tentativo di tenere sotto controllo il mio stomaco nel caso ce ne fosse
stato bisogno fin da subito, cercai di dirigermi il più velocemente possibile
verso la porta di casa. Il cellulare però mi squillò, poiché mi era arrivato un
messaggino.
Stoppai per un attimo la mia corsa, ma solo per accendere lo
schermo e scoprire che il mittente era proprio Melissa, la ragazza che avevo
pensato anche poco prima, e che quasi di certo era la mia parente che avevo
conosciuto per caso.
Non lo lessi, anzi, spensi definitivamente il cellulare, e
salii di nuovo in camera per riporlo con attenzione sulla scrivania e
richiudere di nuovo la porta con due giri di chiave. Poi, la mia lenta corsa
dentro casa riprese.
Giunsi alla porta incolume; ero stato attentissimo ad evitare
mio padre e Roberto, che quella mattina gironzolavano placidamente per casa.
Avrei voluto parlare con mia madre, ma ovviamente non lo
feci. Avrei voluto salutare Roberto, come facevo ogni mattina, ma anche quello
non lo feci, e uscii in fretta dalla mia dimora.
Avevo voluto cristallizzare tutto ciò che mi circondava,
quella mattina. Era come se io avessi cercato di mettere tutto quanto in
standby, lasciando quindi ogni vicenda in sospeso, fino a quel pomeriggio. Fino
alla cosiddetta ora della punizione, che tanto mi terrorizzava.
Mentre abbandonavo il mio giardino, cominciando subito a
percorrere il marciapiede che limitava la strada in cui abitavo, mi sentivo
strano, e addirittura la mia saliva aveva un sapore insolito, lasciandomi
chiaramente comprendere che ero vittima della paura. Sapendo che avrei dovuto
affrontare tutto a testa alta, e che non ero solo, rialzai le mie spalle con un
gesto da vero guerriero, colmo di qualche motivata consapevolezza, ma la mia
voglia di affrontare ciò che avevo tanto fomentato mi stava stretta, ed anzi,
quasi mi schiacciava.
Mentre camminavo spedito verso il liceo, per una frazione di
secondo mi pentii di non aver alzato il foglio e di non aver lasciato che il
prepotente copiasse, in modo da non provocarlo, ma tanto subito dopo la mia
razionalità mi fece reprimere quegli sciocchi pensieri, poiché sapevo che
Federico mi avrebbe spremuto ogni giorno, e sempre di più, se glielo avessi
permesso. Avevo solo chiuso un circolo vizioso. Forse.
Il giorno prima ero stato coraggioso ad aver tentato di
interrompere questa serie di azioni spiacevoli che si stava costruendo e
solidificando da tempo, e dovevo continuare ad avere coraggio, se non volevo
che quello sforzo non diventasse vano. Dovevo combattere, e soprattutto avere
fiducia sia in me stesso che nel mio ipotetico salvatore e compagno di scuola.
Quando giunsi al liceo, mi addentrai subito al suo interno,
dato che la prima campanella era già suonata da qualche secondo, e non appena
entrai in classe incontrai subito lo sguardo di Giacomo, già all'interno dell’aula.
Il mio amico mi fece un occhiolino carico di una sicurezza che mi lasciò senza
parole, per un attimo, ma che mi convinse a fidarmi ciecamente di lui.
Presi posto nel mio banco, senza parlare con nessuno se non
per salutare, e notai già da un primissimo momento che Federico quel giorno non
era venuto a scuola. Era assente, e chissà che stava combinando e tramando al
di fuori delle mura scolastiche e da quelle domestiche.
Deglutendo un’infinità di volte e in un modo che mi parve
quasi troppo rumoroso, riuscii a trascorrere quella mattinata scolastica, che
per fortuna filò liscia come l’olio, dato che non dovevo affrontare né
verifiche né interrogazioni, ma la mia concentrazione ne risentì parecchio.
Comunque, poco importava; se fossi riuscito a superare quella
giornata, l’indomani sarebbe stato un altro giorno, un giorno nuovo, e forse
anche migliore e più libero.
La mia ora x, l’ora del cambiamento o dell’umiliazione più
bruciante, mi attendeva ed era ormai alle porte, e a quel punto non mi sarei
più tirato indietro.
Quando uscii da scuola, ero ancora più inquieto. Non avevo
affatto coraggio, e il tempo era trascorso troppo in fretta, mi pareva.
Giacomo si era volatilizzato fin da subito, ed ammisi a me
stesso che mi sarei aspettato che fosse stato a mio fianco, o che avesse
cercato di interagire con me in un qualche modo, ed invece niente. Ed io ero
solo, se non in compagnia del mio più lieto ma immaginario compagno di viaggio,
ovvero il panico che regnava nella mia povera mente. Lui era effervescente, io
molto meno.
La cosa più inquietante che avevo scoperto era stata che
neppure il trio di amichetti del prepotente si era presentata a scuola, ed
immaginai facilmente che tutti e quattro si fossero organizzati per bene. Non
sapevo cosa aspettarmi, e mentre camminavo verso casa mia sapevo perfettamente
che ogni passo che muovevo era anche un passo verso l’umiliazione suprema,
un’umiliazione che non sapevo ancora come si sarebbe svolta, ma che avrebbe
incluso un bel po’ di botte, quasi di sicuro.
Ad un certo punto, fui lì per abbandonare il percorso e
deviare, in modo da non incappare nel punto dove mi attendeva il tranello, ma
decisi che avrei affrontato tutto, e che mi sarei fidato di Giacomo, anche se
lui mi aveva lasciato completamente solo, visto che il problema andava
affrontato il prima possibile. Non volevo trascorrere un’altra notte e un altro
giorno in quello stato, senza neppure sapere quando e dove i prepotenti
avrebbero cercato di farmi del male.
Per un attimo pensai anche al tradimento del mio compagno di
classe, che consigliandomi di non parlarne con nessuno e di lasciare tutto in
mano sua, per poi volatilizzarsi, forse avrebbe voluto partecipare e ridere
anche lui per ciò a cui mi avrebbero sottoposto, ma accantonai in fretta quel
pensiero.
In quel momento feci chiarezza nella mia mente, e quando
oltrepassai l’ultima stradina che mi avrebbe permesso di aggirare il più che probabile
ostacolo, seppi che sarei andato incontro al mio destino, qualunque esso fosse.
Immaginavo che il nemico non volesse ammazzarmi e neppure farmi troppo male
fisico, per non incorrere in guai grossi, quindi alla fin fine sarei
sopravvissuto a tutto, in ogni caso.
Camminai spedito, procedendo forse in modo un po’ più rapido
rispetto agli altri giorni, fintanto che non apparve ai miei occhi l’unica e
prima traversa che si innestava nella mia via, l’ultima prima di casa mia, che
distava davvero ormai solo pochi metri. Il fatto che una cosa così spiacevole
mi stesse attendendo a così poca distanza da casa mia m’inquietava tantissimo,
anche perché lì mi sentivo al sicuro, lungo la mia strada, in quella stessa via
in cui ero cresciuto ed avevo mosso i miei primi passi.
Eppure, proseguii a camminare abbastanza spedito, cercando di
guardarmi attorno il meno possibile, e ad un certo punto giungendo pure a
sperare che nulla mi sarebbe accaduto, e che nessun agguato mi era stato teso,
poiché la situazione pareva inverosimilmente calma. Non c’era traccia di
Giacomo, che a quanto pareva mi aveva lasciato totalmente solo per davvero, e
non c’era traccia di possibili aggressori nei paraggi. Era tutto surreale.
Fintanto che non oltrepassai il punto dove mi attendevo
l’agguato, ovvero la sorta di piccolo incrocio che si formava nell’innesto
della traversa nella mia strada, tutto mi parve tranquillo e come ogni altro
giorno, e ammetto che in quell’istante tirai un sospiro di sollievo. Continuavo
a sentirmi solo, come se avessi vissuto una qualche sorta di allucinazione, che
avesse poi rischiato di farmi precipitare in un gorgo colmo di pazzia.
Era come se avessi superato un esame. Ma stavo esultando
troppo presto, come scoprii a breve.
Infatti, dopo pochi altri passi mossi verso casa mia, udii un
flebile rumore, proveniente dalle mie spalle.
Deglutii e decisi assolutamente di non fermarmi e di non
voltarmi indietro, poiché avevo davvero troppa paura di ciò che avrei potuto
trovarmi di fronte, e cercai di rassicurarmi pensando che si trattasse di un
passante. Solo che pochi istanti prima mi ero guardato attorno, e non avevo
visto nessuno; allora, per continuare a cercare di tenere saldi i miei nervi,
cercai di convincermi pure che magari si trattasse di una qualche persona
appena uscita da una qualche casa che dava sulla strada, senza che io me ne
accorgessi.
Nel frattempo, velocizzai ulteriormente il passo.
Il tempo fu come se si fosse rallentato attorno a me, e ad
ogni passo verso casa sembrava che io avessi dovuto alzare un macigno tramite
il movimento sincronizzato delle mie gambe.
‘’Fuggi da qualcuno, Antonio?’’.
La voce beffarda del prepotente mi giunse dalle mie spalle,
così come il suo alito caldo che mi sfiorò l’orecchio sinistro. La
consapevolezza di essere stato raggiunto in modo rapidissimo e di essere in
trappola mi fece raggelare il sangue nelle vene, e, inutile a dirlo, mi
pietrificai sul posto, troppo spaventato per tornare a muovermi in modo deciso
verso casa.
‘’Lasciami in pace’’, gli dissi, a singhiozzo. Poi, mi voltai
involontariamente verso di lui.
Mi trovai di fronte al bullo, che evidentemente mi attendeva
ed aveva pianificato tutto dalla prima mattina, e mentre mi arpionava una
spalla con quelle sue manacce che parevano grinfie, cercai una soluzione al
problema. Sapendo che ormai non potevo più scappare, poiché già avvinghiato
dalla stretta ferrea e più decisa di Federico, decisi che avrei gridato,
invocando aiuto.
Tentennai un istante, lanciando una fugace occhiata attorno a
me e non notando anima viva lungo il marciapiede e neppure per strada, sgombra
da automobili e bici, in quel momento. Il mio paesetto sapeva rivelarsi un vero
mortorio, quando voleva.
Spalancai la bocca, deciso a gridare ugualmente a
squarciagola, ma all’improvviso un’altra mano salda mi si piantò sulle labbra,
e un’altra sotto al mento, tappandomi di fatto l’unica via con cui avrei potuto
utilizzare la mia voce.
Ero circondato, mi stavano assalendo da tutte le parti e non
sapevo quante persone fossero coinvolte in quell’agguato; sapevo solo che
quella era stata una vera e propria operazione in grande, così come mi
aspettavo, organizzata fin nei minimi dettagli. Ed io non ero neppure stato in
grado di accorgermi di essere stato circondato in modo banale, e sciocco, e
questo mi abbatté talmente tanto da lasciarmi avvilito e senza forze in un
momento così critico, quando tutto poteva tornarmi utile.
I tizi dovevano essersi nascosti a bordo della strada, magari
dietro alla miriade di cassonetti della raccolta differenziata che erano stati
posizionati proprio ai margini del marciapiede, ed io, come un cieco, ero
passato a loro fianco già assaporando il sapore del pranzo che mi sarei gustato
una volta giunto a casa incolume.
Però, in quel momento capii che non era necessario che io
stessi a recriminare tutto, ma che lo era di più cercare di fare qualcosa per
riuscire a cavarmela, in un qualche modo. Anche perché ormai avevo la certezza
di essere rimasto totalmente solo; solo contro un’intera banda di giovani
criminali violenti ed assetati di vendetta.
Il mio inquilino si distaccò da me e si diresse verso la
piccola traversa inglobata da entrambi i lati dagli edifici che davano sulla
strada, facendo rapidi gesti al resto degli assalitori, che riconobbi
facilmente. In realtà, Federico non aveva cercato chissà chi per punirmi, ma
proprio come mi attendevo aveva utilizzato quel trio con cui tempo prima
trascorrevo interi intervalli. Proprio come avevo previsto.
Luca e Giulio sgusciarono a fianco di Federico, e immaginai
che a trattenermi e a tapparmi la bocca fosse proprio quel gigante di Davide,
davvero troppo forte per me. A quel punto mi parve ovvio che mi avrebbero
trascinato proprio a fianco di quei grandi cassonetti della spazzatura che fino
a pochi istanti prima avevano offerto loro un buon nascondiglio, e che
sarebbero serviti come abile copertura per il mio probabile pestaggio.
Cercai di ribellarmi, e di uscire finalmente dalla mia inerzia,
ma non riuscii ovviamente a divincolarmi dalla stretta di quello che avevo
sempre creduto un gigante buono, e allora, mentre Davide mi trascinava di peso
e rapidamente verso il punto già raggiunto dagli altri tre, tentai di mordergli
la mano che mi aveva posato sulla bocca, ma capendo le mie intenzioni
l’assalitore mosse il suo grande arto e, con abilità, riuscì a immobilizzare la
mia mandibola.
A quel punto, non potevo fare molto. Ero totalmente travolto
dalla forza altrui. Se fossi stato un po’ più alto e un po’ più pesante, i miei
aguzzini avrebbero di certo fatto molta più fatica a sbatacchiarmi in fretta
dalla strada fino a fianco dei cassonetti, ma la mia natura esile aveva
ampiamente facilitato i loro interessi.
In una frazione di secondo, fui scaraventato a terra senza
troppi complimenti, trovandomi perfettamente incastrato tra i grandi bidoni
della spazzatura, tra quello immenso e di latta dell’indifferenziata e quello
altrettanto alto e invadente della carta, quasi appoggiati da dietro ai muri e
piuttosto stretti tra loro.
I miei quattro assalitori si strinsero su di me, mentre io
cercavo di rivoltarmi un attimo e almeno di riuscire ad afferrare con le mani
un qualche appiglio. Non ero dotato di tanta forza, ma dato che ero
momentaneamente libero, pensai che se fossi riuscito ad afferrare una parte del
cassonetto, forse sarei riuscito a spostarlo e a crearmi in fretta una
probabile via di fuga, dato che quello della carta non doveva essere molto
pesante. Ma, quasi inutile a dirlo, Davide riuscì abilmente a bloccarmi al
suolo, senza lasciarmi alcun margine di movimento.
Tremavo tutto, il mio volto doveva essere arrossato e il mio
corpo pareva rigido come uno stoccafisso, senza contare che in quel momento mi
accorsi che delle lacrime ricolme di terrore stavano solcando il mio viso,
infradiciandolo in ogni suo angolo. Fu così che mi accorsi che stavo piangendo,
e che capii che avevo smesso di lottare e che mi aspettavo solo chissà cosa, da
quel momento in poi.
Guardai per un attimo Davide, piantando i miei occhi
strapazzati dalla paura e dal pianto nei suoi, e riconobbi che pure lui non era
tranquillo, e che cercava di guardarmi il meno possibile. E compresi che stava
solo svolgendo il compito che Federico gli aveva relegato, come se quel bullo prepotente
fosse riuscito a fargli il lavaggio del cervello e a farsi obbedire ciecamente
dall’affiatato trio di amici.
Il mio prepotente inquilino si era allontanato per un attimo,
mentre Giulio e Luca si erano ritratti, ed io ne avevo approfittato subito per
attaccare Davide con l'unico strumento concessomi in quel momento, ovvero la
voce.
‘’Perché lo fai? Io non ti ho mai fatto nulla. Lasciami
andare, ti prego’’, gli dissi, supplichevolmente spaventato e a voce alta.
‘’Cosa credi, che Federico non mi abbia raccontato quando,
alcuni mesi fa, parlavi male di me e degli altri a casa, per poi mandare di
nascosto tua madre dai professori per dirci dietro? Pensavi davvero che non te
l’avremmo fatta pagare, vero, e che magari non l’avremmo mai saputo… ecco perché
negli anni scorsi avevamo sempre voti bassissimi nella valutazione sul
comportamento. Adesso è tutto chiaro e spiegato, e anche se mi sarebbe piaciuto
fartela pagare in altro modo, ora ci penserà il nostro nuovo amico a darti una
lezione’’, mi spiegò Davide, moderatamente rabbioso.
Io scossi il capo, devastato da ciò che stavo udendo e che
effettivamente non stava neppure in piedi.
‘’Federico si è inventato tutto! Giuro che non ho mai mosso
un dito contro di voi né detto nulla, e soprattutto alle spalle, e poi non
frequentiamo neppure la stessa classe! Come avrei potuto…’’.
‘’Stai zitto, una buona volta, bugiardo. Sei davvero un gran
stronzo’’. E detto questo, il mio interlocutore mi zittì facendomi sbattere la
testa contro l’asfalto sottostante.
Ero davvero spacciato, e tutto questo mi stava capitando
anche grazie alla marea di assurde falsità a cui Federico aveva sottoposto i
miei tre ex amici, che forse non erano mai stati neppure tanto miei amici e
neppure tanto intelligenti e benpensanti come credevo tempo addietro, per
lasciarsi raggirare così tanto facilmente dal primo pazzoide che aveva avuto la
fortuna di incontrarli.
Dal momento della mia cattura fino a quell’istante non
dovevano essere trascorsi più di due o tre minuti, ma per me il tempo era come
se stesse scorrendo al rallentatore. La strada era ancora sgombra, io non
potevo far nulla per salvarmi, ancora immobilizzato al suolo, e un altro mezzo
secondo dopo si piazzarono su di me anche gli altri tre.
Notai subito che Federico stringeva tra le mani una sbarra di
ferro, e sperai che non avesse davvero l’intenzione di usarla su di me. Notando
il mio sguardo atterrito, il ragazzo mi sorrise serenamente.
‘’Non preoccuparti per questa, l’ho presa solo per
spaventarti. Mica vogliamo ammazzarti, tranquillo! Vogliamo solo darti una
buona ripassata, così saremo certi che su di noi non dirai altre cose malvagie
e che non ci farai altri brutti scherzetti. In caso contrario, ti prometto che
utilizzerò anche questa, ma sta volta no’’, mi disse, sornione e beffardo, per
poi lasciare cadere il possibile oggetto contundente vicino ai cassonetti.
Ammetto che non ero assolutamente rassicurato dalle sue
parole, e approfittai del momento in cui Davide mi liberò dalla sua stretta a
tenaglia per cercare di sgusciare via, ma ancora una volta dimenticavo che
tutto era stato preparato, e non si stava improvvisando. Da solo, non avevo
margine di scampo.
Infatti, non appena fui liberato, non credetti ai miei occhi
e cercai di ruzzolarmi di lato, nel poco spazio che l’angusto e puzzolente
luogo mi offriva, per tentare di rialzarmi o almeno di infilarmi sotto un
cassonetto, anche se ciò appariva quasi impossibile, dato che non ero un gatto.
Però, avrei voluto almeno tentare, ma non me ne fu dato il tempo.
In effetti, non riuscii nemmeno a muovermi di un centimetro,
dato che un potente calcio mi colpì al costato. Da quell’istante in poi,
cominciarono a piovere calci e pugni su di me, non tanto indirizzati verso il
mio volto, bensì verso il resto del mio corpo.
Mi raggomitolai su me stesso, gemendo dal dolore, eppure le
botte continuarono a giungermi da ogni lato. Piangevo, ero disperato e soffrivo
come non mai. Facevo pure fatica a prendere fiato.
‘’Per ora basta, che dici?’’, chiese Davide dopo qualche
secondo di brutale e rapido pestaggio, quando avevo già ricevuto parecchi colpi
dai quattro prepotenti.
La sua voce nascondeva un qualche timore, e compresi che in
fondo doveva avere paura di essere scoperto. Il ragazzone non era mai stato
troppo coraggioso.
‘’Scherzi?! Fintanto che non notiamo qualche passante in
lontananza, o qualche auto, continuiamo’’, lo riprese il prepotente capo. E i
colpi continuarono a percuotermi.
‘’Anzi, voglio provare pure questa’’, tornò a dire Federico,
e dal rumore che produsse potei facilmente capire che doveva aver recuperato la
sua sbarra di ferro.
Ero finito. Gemevo, rantolavo, gridavo, ma era come se il
mondo attorno a me continuasse a girare senza che nessuno si accorgesse della
mia situazione critica e del mio bisogno d’aiuto.
Poi, i colpi cessarono per un istante e un bavaglio mi tappò
la bocca, per farmi smettere di fare rumore. E sentii il freddo del ferro che
premeva contro la mia guancia sinistra, e una risatina sommessa e cupa di
Federico, promessa di altre botte in arrivo, ancora più dolorose delle
precedenti.
Ero pronto a subire il primo colpo, a sentire quel ferro
mentre percuoteva le mie carni, continuando a rantolare a terra, e a piangere
su me stesso e sulla mia umiliazione suprema, oltre che su quel dolore fisico e
psicologico che non mi dava tregua. In due parole, ero perduto.
Proprio quando mi attendevo un’altra dolorosa percossa, però,
accadde qualcosa di inatteso.
‘’Fermi tutti! Che nessuno si azzardi più a colpirlo!’’.
Udii quegli ordini perentori, e lì sul momento non capii.
Sentii i miei aguzzini mentre cercavano di dire qualcosa, o
di fuggire, dato il tramestio che provocarono, ma quando alzai lo sguardo e mi
trovai di fronte a due carabinieri, per nulla intenzionati a lasciarsi sfuggire
il cospicuo raccolto, intesi a fatica che per me era tutto finito. Era finito
l’incubo.
E quando in mezzo ai due carabinieri apparve Giacomo, avrei
davvero tanto voluto raggiungerlo e abbracciarlo, ma ci misi un’infinità di
tempo a rialzarmi dal suolo. Ero in una situazione penosa, e riuscii a malapena
a rimettermi in piedi e a strapparmi l’improvvisato bavaglio.
‘’Non state neppure a cercare di fuggire, ragazzi. Sappiamo
esattamente chi siete e conosciamo le vostre identità, e se ve la darete a
gambe rischierete solo di aggravare la lista di reati da voi commessi. Verrete
tutti quanti in caserma con noi, e non pensate neppure a fare scherzi. Ogni eventuale
resistenza e ogni altro reato che commetterete si aggiungerà alla vostra lista
di quelli già compiuti, e tutto rischierà solo di aggravarsi. Mi auguro solo
che non vogliate peggiorare ulteriormente la vostra situazione’’, disse uno dei
due carabinieri, lentamente e con fare deciso, spiegando tutto per bene.
I miei quattro aggressori, sconvolti dal fatto di essersi
lasciati cogliere ingenuamente in flagrante, erano diventati rigidi come
statue, e difficilmente sarebbero riusciti a muoversi.
Rifiutai categoricamente di far chiamare un’ambulanza per me,
e assieme, tutti e cinque, fummo scortati verso la volante, lasciata lungo la
mia via e per metà sul marciapiede, frettolosamente, ed io, Giacomo, Federico e
Davide salimmo, lasciando gli altri due in compagnia del secondo carabiniere,
in attesa di rinforzi per portarci tutti in caserma.
Giacomo mi aiutò a camminare e a salire in auto, mentre
ancora mi asciugavo le lacrime e i prepotenti ormai erano loro ad essersi
lasciati andare al pianto. La situazione si era improvvisamente invertita.
Piangevano tutti, tranne Federico, il cui sguardo era ancora
colmo d’incredulità e di stupore.
Anch’io ero ancora stupito, e non riuscivo a capire per bene
ciò che poteva essere accaduto. Evidentemente, i miei aguzzini si dovevano
essere lasciati andare talmente tanto al mio pestaggio da non essersi accorti
che erano stati scoperti, ma qualcos’altro evidentemente mi sfuggiva.
Una volta dentro alla volante, Giacomo si avvicinò al mio
orecchio destro, per sussurrarmi qualcosa. Lo lasciai fare, naturalmente, anche
se ancora il dolore delle botte non mi faceva star sereno.
Sperai solo di non avere niente di rotto.
‘’Visto? Ti avevo detto di fidarti di me. Poi, se vorrai, ti
spiegherò tutto, ma ora non è il momento’’, mi sussurrò, per poi sogghignare.
Io mi lasciai andare sul sedile posteriore, troppo debole per
replicare, porre oppure pormi domande.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!
Beh, uno dei capitoli più duri del racconto l’abbiamo appena
letto e superato. Diciamo che, forse, d’ora in poi la strada comincerà ad
essere in discesa per il protagonista… ma le difficoltà saranno ancora tante,
da superare.
Bene, nel prossimo capitolo faremo delle… scoperte. Grazie ad
Antonio, ovviamente!
Ringrazio tantissimo tutti i lettori e i vari recensori,
sempre estremamente gentili e puntuali.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì
prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** Capitolo 26 ***
Capitolo 26
CAPITOLO 26
Giunti in caserma, prima il nostro gruppetto, e poi, dopo
qualche minuto, anche quello composto dal secondo carabiniere e da Luca e
Giulio, tra di noi regnava un’apparente calma.
Io ne approfittai un attimo per controllare il mio corpo, che
era stato percosso da calci e pugni che però effettivamente non avevano
provocato lesioni gravi ai miei organi, poiché di dolore non ne provavo più se
non sfioravo la mia pelle, che probabilmente nelle ore successive si sarebbe
ricoperta di lividi. Ero riuscito ad uscire dallo scontro ancora piuttosto
integro, e dovetti ammettere a me stesso che sarebbe potuta andare molto
peggio.
Riconobbi anche che forse il trio manovrato da Federico non
aveva voluto colpirmi con eccessiva forza, poiché altrimenti un solo calcio
ricevuto dai potenti zamponi di Davide mi avrebbe di certo spedito direttamente
al camposanto. Addossai quindi tutte le colpe a quell’indemoniato del mio
inquilino, con una fretta raggelante e spontanea, che forse non aveva neppure
tutti i torti a mostrarsi.
‘’Mi avevi avvisato di quello che ti volevano fare, e allora
io mi sono premunito. Appena ha suonato la campanella, sono sgusciato fuori dal
liceo in tutta fretta, e, col cellulare alla mano, mi sono precipitato nel
luogo del presunto agguato, dove ho notato che i furfanti si stavano già
appostando, e dal tanto che erano presi dai loro brutti intenti non hanno
neppure notato quando mi sono appostato dietro un auto in sosta, una decina di
metri più avanti del punto in cui ti hanno pestato’’, incominciò a narrarmi
Giacomo, all’orecchio, mentre mi sedevo e mi massaggiavo un braccio.
Attorno a noi c’era un gran via vai, e tante voci che
rimbombavano da ogni parte. I carabinieri erano davvero molto indaffarati, ma
comunque nella piccola caserma piuttosto spoglia di arredi del nostro piccolo
paese, i vari militari presenti sapevano i fatti loro e si muovevano agilmente
nel loro caos.
Uno di essi ci controllava a distanza, posizionato sulla
porta d’ingresso.
‘’Ho atteso quindi quei quattro minuti circa, poi sei
arrivato tu, ed ho notato dapprima la tensione sul tuo volto, e poi un leggero
sorriso da scemo, non ti offendere. E ti sei fatto beccare alle spalle da
Federico, sgusciato fuori dal suo nascondiglio dietro i cassonetti che facevano
angolo con la strada, senza neppure accorgerti di nulla in tempo, e facendoti
agguantare subito.
‘’Il resto è quasi inutile che te lo racconti, perché te lo
puoi immaginare; quando ho visto come ti hanno afferrato e trattato, ed ho
udito i tuoi gemiti di dolore, ho chiamato subito i carabinieri. Per fortuna
mio zio, uno dei due carabinieri che è intervenuto sul posto, oggi era in
servizio, e quindi ho avuto ancor meno difficoltà a raccontargli la vicenda, e
comunque in un attimo era subito qui assieme ad un suo collega’’, concluse il
mio compagno di classe, che a quanto pareva non aveva alcuna intenzione di
lasciarmi solo in quel luogo, anche se si trattava di una caserma popolata da
uomini in divisa e appartenenti alle Forze dell’Ordine.
‘’Non taccerò, anzi, sono qui per raccontare anch’io ciò a
cui sono stato sottoposto, e a sporgere la prima denuncia della mia vita.
Quegli stronzi gestiscono degli account su un social network in cui mi
sfottono, ed è giusto che siano svolte le dovute indagini e che siano puniti’’,
tornò a dire Giacomo a sorpresa, proprio quando mi aspettavo che avesse finito
di parlare.
Con la cattiveria e la scocciatura tipiche di una persona
stressata, dolorante e ammaccata, pensai che non mi sarebbe dispiaciuto se il
mio giovane e provvidenziale amico in quel momento fosse sparito, lasciandomi
un po’ solo a riflettere. Immaginavo che quello che era accaduto tra me,
Federico e il trio avrebbe avuto discrete ripercussioni, a partire proprio da
ciò che sarebbe poi successo tra le mura domestiche, quando i nostri genitori
avrebbero scoperto tutto il patatrac che era stato combinato.
Un gentilissimo carabiniere mi si avvicinò per chiedere
nuovamente se c’era bisogno di un’ambulanza, oppure di una visita al pronto
soccorso, ma rifiutai categoricamente. Non so se fosse stato il fatto che
finalmente mi ero tolto quel peso che mi bruciava dentro, ma mi sentivo davvero
meglio, nonostante tutte le legnate che mi erano state date.
Nel giro d’un ora accadde ciò che mi attendevo, ovvero
l’arrivo in caserma di mia madre e di Roberto e Livia, oltre che dei genitori
degli altri tre prepotenti aggregatisi al mio inquilino, anch’essi molto
preoccupati. Avevamo tutti chiamato casa per avvisare del nostro mancato
ritorno, senza spiegare troppo bene le motivazioni che ci avevano fatto finire
in caserma, e quindi, nonostante fossimo tutti quanti maggiorenni, i nostri
amati parenti volevano venire a sincerarsi dell’accaduto e a comprendere bene
la vicenda.
Mia madre fece per avvicinarsi a me e per parlarmi, e
probabilmente notando il mio viso dolorante, si accigliò, ma non riuscì a fare
nulla, perché fui chiamato dai militari per lasciare la mia deposizione e la
mia testimonianza.
Deviai quindi l’unico genitore che si preoccupava per me, e
lanciai un’occhiata a Roberto e Livia, chini sul figlio. Non seppi comprendere
le loro emozioni del momento.
Entrai nella stanza dove mi attendevano due carabinieri, che
mi fecero qualche domanda e mi chiesero dell’accaduto, e come stavo, e dopo un
quarto d’ora pieno di parole di routine e di accertamenti, fui libero di
andarmene.
Ero stato il primo ad aver affrontato quella sorta
d’interrogatorio, e notai che il prossimo a doverlo affrontare doveva essere
Davide.
Mi diressi verso l’uscita, salutando tra i denti Giacomo,
anche lui in attesa di avere l’occasione di andare a dire la sua, e incrociai
mia madre, che nel frattempo stava chiacchierando con Roberto, con fare
agitato. Livia invece era ancora china sul figlio, poco distante, quasi a
volerlo coccolare.
‘’Antonio, ma cos’è successo?! Spiegamelo per bene’’, mi
chiese subito mamma Maria, arpionandomi ad un braccio e facendomi sfuggire un
gemito di dolore. Non mi piaceva il fatto che stesse a me spiegare tutto, anche
perché pensavo che stesse ad altri narrare ciò che li aveva spinti a
comportarsi in quel modo, ma non potevo fuggire in quel momento.
‘’Mi hanno pestato, quelli lì. In strada, poco prima di
rientrare… e per fortuna Giacomo è stato rapido a chiamare i carabinieri, se no
mi avrebbero ammazzato’’, risposi, con semplicità allarmante e con un pizzico
di veritiera esagerazione.
Effettivamente, non potevo immaginare ciò che mi avrebbe
potuto fare Federico, con quella sbarra di ferro tra le mani. Per fortuna erano
prontamente intervenute le forze dell’ordine.
Per supportare le mie parole, alzai leggermente la felpa e la
maglietta della salute e mostrai un bel livido violaceo che si stava già
formando per bene sulla mia pelle magra e tirata. Mia madre emise un gridolino,
mentre Roberto s’incupì ancor di più.
‘’Tu e Federico vi comportavate in modo strano ultimamente,
ed in più non avete mai legato. Immaginavo che tra di voi ci fosse qualcosa che
nascondevate ai nostri occhi, e pensavo si trattasse solo di qualche rancore da
ragazzini, ma non mi sarei mai atteso che sarebbe andato tutto a finire in
questo modo. Voi due non andavate d’accordo, vero? C’erano stati altri episodi
violenti, prima di questo?’’, m’interpellò l’uomo, nervoso.
Io mi limitai ad annuire, chinando il capo.
‘’Lo immaginavo. Potevi dirmelo! Quante volte ti ho chiesto
se…’’.
‘’Basta! Lasciami in pace!’’, gli urlai in faccia,
interrompendolo, e punto nel vivo. Poi, con passo deciso, mi diressi verso
l’uscita, bordò in volto per via della mia orribile reazione. Non avevo mai
risposto in quel modo a nessuno, prima di quel momento, e l’imbarazzo e lo
sconforto stavano portando avanti una strenua lotta contro la rabbia e il
nervosismo che regnavano dentro di me.
‘’Antonio, aspetta!’’, mi disse mia madre, cercando di
venirmi dietro, ma un carabiniere la fermò.
‘’Attenda un po’ signora, abbiamo bisogno di parlare anche
con lei’’, le disse il militare, bloccandola. Ed io ebbi via libera per
andarmene.
Una volta uscito dalla caserma, con la promessa di tenermi a
disposizione se ci fosse stato bisogno di altri particolari da chiarire, presi
a correre come un forsennato lungo la strada. Casa mia era molto distante, ed
ero consapevole del fatto che avrei dovuto percorrere tutto il tragitto a
piedi, vista la mia precipitosa fuga.
Sapevo perché avevo reagito così male alle parole di Roberto;
sapevo che lui aveva ragione, e che avrei dovuto vuotare il sacco molto tempo
prima, senza giungere a quella situazione allarmante. E il peso della verità
bruciava ed ardeva dentro di me, così come anche la consapevolezza che si stava
facendo largo dentro la mia mente proprio in quel momento, ovvero di aver messo
in difficoltà anche mia madre. Volevano parlare anche con lei, e Dio solo sapeva
come fosse messa con l’affitto degli Arriga.
Abituata com’era a dare alloggio alla gente di passaggio e
solo per poche settimane massimo, non credevo che fosse in regola come una
sorta di pensionante agli occhi dello Stato, e quindi sarebbe di certo stata
multata e punita, se, come probabile, sarebbe venuto fuori tutto quanto. E
chissà, magari sarebbero stati fatti anche sopralluoghi in casa nostra, e il
casino avrebbe investito buona parte delle nostre vite, sempre vissute ai
margini della società e lontane dai riflettori della Legge.
Giacomo, quindi, grazie alla sua azione aveva sgominato in
modo magistrale la banda di Federico e l’aveva gettata tra le fauci dei
carabinieri, senza sapere che ciò forse avrebbe avuto ripercussioni indirette
su altre sfere della nostra vita privata.
Mentre percorrevo il mio cammino verso casa, camminando
frettolosamente lungo il ciglio della strada mentre un’infinità di automobili
sfrecciavano in entrambi i sensi a qualche centimetro da me, non mi sentivo in
pericolo, bensì con la coscienza a posto, e anche se mi creava dispiacere anche
solo il pensare che mia madre avrebbe potuto essere punita a causa mia, ero
perfettamente a conoscenza del fatto che anche lei sapesse che avrebbe potuto
correre rischi di ogni sorta.
Però, a quel punto, mi era rimasto un interrogativo
pressante, e che mi tormentava da tanto tempo, senza contare che esso poi
avrebbe potuto illuminare per bene ogni mia consapevolezza, dato che ciò poteva
nascondere altri guai per tutta la mia famiglia e per casa mia, ovvero cosa
nascondesse la camera di Federico.
In quel momento, nella mia mente continuava a frullare la
vaga impressione che al suo interno si nascondesse materiale illecito di una
qualche sorta. Inoltre, il nervosismo per la sorte dei miei vasetti mi aveva
tenuto sulle spine per fin troppo tempo.
Fu così che, mentre cercavo di giungere alla mia dimora al
più presto possibile, nacque dentro di me la voglia di commettere una follia.
Una voglia così forte che difficilmente sarei riuscito a contenere, dato che
era già da fin troppo tempo che stavo trattenendo la mia curiosità, e sapendo
che forse avrei avuto pure campo libero.
Però, prima di tutto finii per andare a recuperare il mio
zainetto nella zona incriminata, del quale mi ero pressoché totalmente
dimenticato dal momento in cui Federico mi aveva agguantato, e dopo averlo
raccolto da terra ed averlo ripulito dalla polvere e dalla sporcizia, me lo
gettai nuovamente in spalla e mi preparai a rincasare.
Quando giunsi a casa, avevo già preso una decisione.
Dopo aver dato un’occhiata in giro, notai che di mio padre
non c’era traccia, quindi molto probabilmente doveva essere andato al lavoro o
dove diavolo gli fosse parso, l’importante era che non fosse tra i piedi, in
quel giorno tanto delicato. Sapevo esattamente che tutti gli altri abitanti
della dimora erano ancora tutti trattenuti nella caserma, e allora, come un
fiume in piena, la mia curiosità e la mia voglia di far luce su tutte le ombre
che regnavano tra quelle quattro mura prese il sopravvento.
Sbarrai la porta d’ingresso lasciando la chiave all’interno della
serratura, in modo che da fuori nessuno potesse entrare senza che io non
intervenissi da dentro, così da non essere colto in flagrante mentre
ficcanasavo nelle stanze altrui, e mi diressi prontamente al piano superiore.
Ero ancora tutto ammaccato e dolorante, e, inutile a
ripeterlo, l’unica cosa che mi dava tutta quell’energia e quella voglia di
muovermi era proprio la curiosità. Quella era l’occasione buona, senza nessuno
in casa, per svelare tutto ciò che c’era da scoprire a pochi passi da me e che fine
avessero fatto i miei adorati vasetti. Inoltre, dentro alla mia mente
continuava ad aleggiare il vago sospetto che all’interno della camera del
prepotente ci fosse nascosto qualcosa che non si doveva vedere, e che di lì a
poco avrebbe potuto anche creare problemi a tutti.
A passi sicuri, ignorando ogni mio fastidio fisico, mi
diressi alla porta della stanza di Federico, e con decisione afferrai la
maniglia e feci pressione. Ovviamente, era chiusa a chiave.
Che ingenuo che ero stato a credere che tutto potesse essere
più facile! Dovevo rimediare.
C’era poco da fare, purtroppo, se non commettere un piccolo
illecito che, unito a quelli che avrei commesso negli attimi immediatamente
successivi, forse sarebbe anche potuto apparire come il più piccolo. L’unico
modo che avevo per entrare nella stanza di Federico era quello di soffiare il
mazzo di chiavi di riserva di mia madre.
Sapevo perfettamente che la mamma possedeva una seconda
chiave di ogni stanza di casa, anche di quelle che in genere affittava, semplicemente
per il fatto che nella vita non si poteva mai sapere la piega degli eventi e
comunque potevano risultare utili, se gli inquilini le perdevano e se fosse
sorto un qualsiasi problema. Lei ovviamente non andava mai a ficcanasare negli
ambienti altrui, grazie alle proprie riserve, e neppure io l’avevo mai fatto,
ma quello era un caso eccezionale, forse unico.
Mi diressi in camera di mia madre e, in tutta fretta,
estrassi il mazzo con tutte le chiavi delle porte di casa, tutte quante riunite
nello stesso portachiavi vintage e conservate all’interno del suo soprammobile
preferito, ovvero un vaso di ceramica laccato ed anch’esso dal vago gusto
retrò.
Ahimè, conoscevo tutti i segreti della stanza della mia cara
mamma, poiché da piccolo ficcanasavo sempre dappertutto, e lei non aveva il
vizio di cambiare di posizione alle cose, magari tentando di cercare
nascondigli più sicuri, anche perché forse si fidava di me. Comportarmi come
stavo facendo in quel momento mi costava davvero tanto, poiché sapevo che stavo
sbagliando, e che magari sarei entrato nella stanza del nemico solo per notare
i miei vasetti ben in ordine e a terra, e constatare che tutto era immerso in
una regolarità da brividi.
Questa ipotesi mi spiazzava e se si fosse rivelata vera mi
avrebbe di certo fatto sentire in colpa per i secoli a venire, ma la parte più
cattiva di me mi spronava a continuare di cercare di andare a fondo nella
vicenda, di togliermi di dosso ogni domanda e curiosità.
Giunsi in fretta e trafelato di nuovo di fronte alla porta
chiusa del mio nemico, e, sospirando, appoggiai la testa contro il suo legno,
facendomi forza e continuando a lottare sia contro il mio fisico abbattuto e
dolorante e sia contro la mia mente, divisa tra due scelte e due posizioni ben
distinte.
Ancora ostentando decisione, cominciai a provare con grande
fretta tutte le chiavi, poiché non sapevo quale era quella giusta, continuando
a rimanere appoggiato alla porta. Mia madre aveva segnato ciascuna con una
sigla conosciuta solo a lei, e quindi dovevo arrangiarmi.
Al quarto tentativo, con grande fortuna, la serratura scattò.
Avrei saltellato di gioia come un bambino, se solo il mio fisico me l’avesse
permesso, ma dato che era tutto ammaccato m’impedì ogni esternazione colma di
contentezza.
Poi, col fiato sospeso, finalmente feci capolino all’interno
della stanza.
Dentro era tutto avvolto dall’oscurità, logico segno che le
tapparelle erano abbassate, come potevo constatare, e quindi con la mano cercai
l’interruttore della luce, pronto a fare una leggera pressione su di esso e di
usufruire per un attimo dell’elettricità.
Conoscevo esattamente la sua posizione, così come quella
della mobilia all’interno della camera, poiché avevo aiutato tante volte mia
madre a fare le pulizie al suo interno quando i vari inquilini se ne andavano,
ed inoltre quella era stata la saletta dedicata a me e ai miei giochi, da
piccolo, essendo posta proprio di lato a quella che era stata la stanza da letto
dei miei nonni, in quel momento in mano ai coniugi Arriga, che in quel modo
potevano sempre avermi vicino quando mia madre non era a casa e sorvegliarmi meglio,
senza dovere lasciarmi gironzolare per tutta l’abitazione.
In ogni caso, quando sfiorai l’interruttore attesi poi un
attimo prima di premerlo, e quando lo feci e tutto di fronte a me s’illuminò, mi
trovai di fronte ad uno scenario inatteso e in grado di mozzarmi quel poco di
fiato che avevo trattenuto fino a quell’istante.
Quella stanza che mi era da sempre stata familiare e dalla
parvenza perfetta e sempre in ordine, a quanto pareva si era ridotta ad essere
una sorta di porcilaia, e per una frazione di secondo mi passò davanti agli
occhi la possibile faccia di mia madre, sempre maniaca dell’ordine e della
pulizia, se avesse avuto modo di vedere anche lei quello schifo.
Il letto, al centro di tutto, era rigorosamente sfatto, e a
terra tutt’attorno giaceva un’infinità di roba che andava dai panni sporchi
fino alle cartacce di qualche brioches. Calzini abbandonati un po’ ovunque, una
scarpa posizionata sul piccolo comodino, una felpa appesa alla maniglia interna
della porta, che cadde non appena cercai di aprirmi un varco maggiore,
facendomi sussultare. Subito dietro al letto, su una sedia erano posizionati i
vestiti che dovevano essere ancora puliti, assieme ad un po’ di biancheria
intima. Su tutto aleggiava un’aria pesante e dall’odore forte e strano, quasi
rivoltante.
Con un sospiro, riconobbi che non avrei neppure mai dovuto
pensare che l’aristocratica si mettesse a pulire e a mettere in ordine la
stanza del figlio, riconoscendo, non senza una buona dose di cattiveria, che la
signora doveva essere una di quelle inquiline che non appena se ne andavano da
una casa altrui ed affittata, lasciavano tutto sporco per far dispetto ai
proprietari, che poi avrebbero dovuto togliere la schifezza che regnava
dappertutto.
Mi chiesi solo il perché del fatto che Federico avesse
lasciato tutto il vestiario fuori o a terra, senza metterlo nell’armadio, anche
se magari in disordine, ma logicamente lì per lì mi parve di comprendere che
ciò non fosse accaduto a causa di un’eccessiva pigrizia.
Con una spinta, spalancai la porta, e, grazie alla maggior
visuale di cui potevo godere in quel momento, i miei occhi caddero sui piccoli
oggetti scuri posizionati sul davanzale della finestra, e sul pavimento proprio
sotto di essa. Si trattava dei miei vasetti.
Mi avvicinai con cautela, e notai che erano colmi di
terriccio, e che ciascuno conteneva una piantina striminzita, ancora abbastanza
piccola. Con un pizzico d’ironia, notai che almeno la signora aveva fatto
posizionare sotto di essi dei piccoli sottovasi, in modo da non allagare tutta
la casa, quando venivano innaffiate.
Mi chinai in fretta e con grande curiosità per comprendere di
quali piantine si trattasse, e non mi venne in mente nulla, guardando le loro
anonime foglioline ancora troppo piccole per essere osservate in modo chiaro e
distinto. Le pianticelle dovevano essere nate qualche giorno prima, e per un
attimo provai sollievo, constatando che almeno i miei vasetti erano un buono
stato e non erano stati disintegrati per farmi dispetto.
Fu solo quando alzai lo sguardo e con esso percorsi il resto
della stanza che quasi mi prese un accidente, e fui costretto a rimangiarmi
tutto quello che avevo pensato fino a quel momento.
Ad avere colpito la mia attenzione era stato l’armadio,
lasciato socchiuso, che da quella parte della stanza potevo osservare in modo
più diretto, dato che me lo trovavo di fronte e non più di lato, come quando mi
ero solo affacciato sulla porta. Infatti, da una delle due ante leggermente
discoste, avevo notato qualcosa di verde che sbucava timidamente, quasi a far
capolino all’infuori del buio che regnava all’interno del mobile.
Non comprendendo di cosa potesse trattarsi, dato che pareva
materia vivente, e ormai preso dalla curiosità, sapendo che non avrei potuto
poi tornare tanto facilmente a ficcanasare nell’habitat del nemico, mi diressi
prontamente verso l’armadio, scavalcando piccole pile di vestiti da lavare e di
cartacce gettate sul pavimento, tra cui spiccava anche qualche libro di scuola
ormai tutto stropicciato e rovinato a forza di essere abbandonato tra quella
spazzatura.
Stando attento a non creare ancora più disordine di quello
che c’era già, e di non mutare troppo il caos presente all’interno della
stanza, per far sì che al suo ritorno il prepotente non si accorgesse subito che
qualcuno era entrato nel suo spazio privato, giunsi all’armadio e stetti
attento a non sfiorare il letto, che a fianco del mobile aveva una discreta
parvenza sudicia.
Con una smorfia di disgusto, fui costretto ad ammettere che,
se tutto fosse sopravvissuto agli eventi di quel giorno e alla trascuratezza
dell’Arriga, alla fine della permanenza di quegli inquilini sarebbe stato
meglio contattare un’impresa specializzata nelle pulizie più profonde e nelle
disinfestazioni, o, ancor meglio, chiamare un camion della più vicina
discarica, in modo che potesse portare via ciò che era stato ormai rovinato.
Trattenendo lo schifo e il mio dolore fisico, che ancora mi
tormentava, perlopiù all’addome, aprii lentamente l’anta dell’armadio, e mi
trovai di fronte a qualcosa d’inaspettato che mi lasciò totalmente stupefatto e
senza parole. Infatti, all’interno del mobile erano state rinchiuse due grandi
piante, alte quasi quanto me, ma contenute in due vasetti piccolissimi ed ormai
rotti a causa della pressione delle radici.
Non avevo dubbi a riguardo della specie di quelle due; si
trattava di marijuana. Le loro foglie di un verde intenso quasi stuzzicavano il
mio naso, protendendosi verso di me e lasciandomi capire che non vivevano da
sempre dentro a quell’armadio, ma che dovevano aver vissuto anche fuori, in
giro per la camera, e sicuramente Federico doveva essersene preso cura con premura.
Notando l’eccessiva altezza, constatai che forse non erano neppure nate in casa
mia, quelle.
Di fronte all’evidenza, e con sotto agli occhi quelle foglie
così particolari e in grado di essere riconosciute da tutti, il mondo parve
crollarmi addosso. Non ebbi neppure più dubbi a riguardo della natura delle
piantine più piccole che avevo notato per prime, dato che dovevano di certo
appartenere a qualche altro vegetale produttore di sostanze allucinogene.
Allucinogene e vietate dalla legge.
Avere la consapevolezza di aver vissuto in casa propria con a
pochi metri da sé una vera piantagione di materiale illegale genera uno di
quegli strapazzi mentali in grado di far passare ogni dolore ed ogni problema,
e di far aumentare solo i battiti cardiaci. Altroché peperoncini della Guyana,
come aveva detto un mesetto prima l’aristocratica.
Non avevo mai saputo nulla di quelle cose, né io né mia
madre, ed ero allibito.
Appoggiandomi le mani sul volto e cercando quindi di
togliermi dal davanti quelle schifezze, che stavano crescendo in modo
rigoglioso, compresi che non sapevo davvero che fare e come comportarmi.
Sapevo che il prepotente non avrebbe mai rinunciato ai suoi
produttori di traffici illeciti, e che io non potevo arrischiarmi di fare
spifferate o altro, dato che avrei quindi ammesso di essere andato a
ficcanasare tra le cose altrui, e sarei stato soggetto a chissà quante altre
prese di mira. Inoltre, ero anche a conoscenza del fatto che, se i carabinieri
o la Guardia di Finanza avessero deciso di fare un sopralluogo a casa mia, dato
che molto probabilmente sarebbe venuto fuori di lì a poco che mia madre
affittava in nero qualche stanza a degli inquilini di passaggio, avrebbero di
certo trovato tutto quel materiale, e sarebbero stati guai ancora più seri per
tutti. Rischiavamo almeno di finire in tribunale, e dopo in carcere, con tutta
quella robaccia tra le mura domestiche.
Se avessi denunciato il fatto, di certo sarei stato indagato
pure io, assieme a mia madre. In ogni caso, potevamo solo finire in guai grossi,
e pure senza averlo immaginato.
Presi quindi in fretta una decisione, la più rapida della mia
vita, e anche la più pericolosa. Mi tolsi le mani da sopra gli occhi e mi
ripetei che quella roba doveva sparire, e anche subito, prima che qualcuno
tornasse a casa.
Avevo davvero paura per me e per mia madre, e per tutto, e la
paura mi tolse tutta la razionalità che possedevo. Pensai per prima cosa di
recuperare un sacchetto della spazzatura e gettare via tutto, indistintamente,
ma compresi che delle piante di quella misura non dovevano essere facili, da
cestinare.
E allora, ricorsi ad un’altra idea, e mi diressi il più
velocemente possibile in cucina, al piano inferiore, per poi rifare di nuovo il
percorso che mi avrebbe riportato al piano superiore zoppicando e stringendo
nella mano destra un coltello e un sacchetto della spazzatura, e nella sinistra
un piccolo tagliere di plastica, molto leggero e maneggevole.
Tornai nella stanza del nemico, e barcollando, mi feci un
poco di spazio libero sul pavimento, spostando con le scarpe il ciarpame che
regnava ovunque, tanto ormai mi pareva chiaro che se il mio piano fosse andato
in porto non appena Federico sarebbe tornato a casa avrebbe scoperto che
qualcuno era entrato a ficcanasare, e appoggiai a terra ciò che mi ero portato
dietro dal piano inferiore.
Poi, allungai di poco un braccio ed afferrai la prima delle
due piante più grandi, gettandola malamente fuori dall’armadio nel quale doveva
restare rinchiusa quando il suo proprietario non era presente, forse sempre
nella speranza che nessuno lo scoprisse.
Con rabbia, le ruppi il flebile ma alto stelo, e dopo averlo
ripiegato più volte su sé stesso lo appoggiai sul tagliere, e cominciai a
lavorare col coltello. In pochi secondi, quella che era stata una pianta
produttrice di droghe era diventata una sorta di poltiglia triturata, sotto i fendenti
della mia arma, spinta dalla mia ira.
Stavo scoppiando, lentamente, e il nervosismo costante mi
stava portando ad allontanarmi sempre più dalla realtà, spingendomi solo a
continuare la mia opera e a fregarmene di tutto il resto.
In men che non si dica, afferrai anche l’altra pianta adulta
e la sottoposi al medesimo trattamento, per poi estrarne anche le radici e
triturare pure quelle, con tanto di terriccio in mezzo. Non mi fermai e non
risparmiai neppure le piantine più piccole, che non seppi comprendere a quale
specie appartenessero, ma immaginando che anch’esse fossero produttrici di
sostanze illecite mi affrettai a distruggerle, sradicandole facilmente con un
dito e triturandole.
Conclusi la mia follia in pochissimo tempo, e raccolsi tutto
il materiale da me prodotto, gettandolo in tutta fretta dentro il sacchetto
della spazzatura, di cui mi ero munito in precedenza.
Dopo aver raccolto tutto, mi ripresi anche i miei vasetti di
plastica, deciso a non volerli lasciare tra le mani di quel furfante, e, con
tutte le forze che mi restavano, spinsi fuori dalla stanza tutto il materiale
che avevo portato fin lì pochi minuti prima, e dopo aver lanciato un’ultima
occhiata al caos che regnava all’interno di quella sorta di immondezzaio,
spensi la luce e poi richiusi la porta a chiave dietro di me, esattamente come
l’avevo trovata. Non mi preoccupai del lezzo che aleggiava ovunque, tanto anche
se avessi spalancato la finestra non sarebbe sparito tanto in fretta. L’unica
cosa importante per me in quel momento era far sparire tutto quel materiale
fisico e tangibile.
Scesi la piccola rampa di scale di casa carico come un
facchino, e rischiai anche di cadere, ma sapevo che dovevo tenere duro, poiché
ne andava quasi della mia stessa vita. Immaginavo che a breve qualcuno sarebbe
tornato a casa, e la consapevolezza di dovermela spicciare mi spinse ad avere
ancora più fretta.
In un batter d’occhio lavai in bagno sia il coltello che il
tagliere, che riposi poi dove li avevo trovati, e mi ritrovai con un sacchetto
della nettezza e i miei vasetti abbandonati sul pavimento.
Finii di svuotare e di ripulire senza alcuna difficoltà i
vasetti dentro al sacchetto, liberandoli dal terriccio che era rimasto al loro
interno, e ne gettai via due, poiché rotti dalle piante più grandi, poi li
impilai di nuovo e meglio l’uno sopra l’altro, ed essendo della stessa
grandezza fu facilissimo incastrarli per bene e ridurre il loro volume ad una
sorta di piccolo e semplice fusto di plastica.
Non sapendo come proseguire, dato che li avevo appena
strappati dalle mani del nemico e non potevo farmeli trovare di nuovo in giro
per casa, altrimenti li avrebbe di certo ripresi e riutilizzati, decisi che li
avrei nascosti da qualche parte.
Finita la parentesi frenetica, mi ritrovai nel bel mezzo del
corridoio di casa, assieme al sacchetto della spazzatura e alla mia piccola
pila di vasetti, senza sapere cos’altro fare. Il mio corpo reclamava
incessantemente riposo, ed io glielo avrei senz’altro fornito se non avessi
saputo che non potevo lasciare un lavoro a metà. In poche parole, dovevo
nascondere i vasi e sbarazzarmi della spazzatura.
Consapevole anche di essere stato fortunato a non esser stato
disturbato da nessuno, dato che la mia abitazione era sempre molto trafficata,
abitandoci in sei, decisi di non tentare oltre la fortuna e di proseguire nel
mio piano un po’ folle, ma giusto a mio avviso.
Afferrai la piccola e leggera pila di vasi e il sacchetto
pieno a metà di vegetali distrutti e triturati, mischiati col terriccio e le
loro radici, anch’esse irrimediabilmente rovinate e fatte a pezzi, e mi diressi
alla porta di casa, tornando a sbloccarne la serratura e uscendo in giardino.
Tutto era ancora tranquillo, e nessuno dei miei familiari o
inquilini sembrava voler fare ritorno a casa tanto presto, e quindi continuai
ad approfittarne, andando nel retro e nascondendo i miei vasetti in un luogo
dove Federico e sua madre non sarebbero mai andati a riprenderli o a cercarli,
ovvero nel mio piccolo orto confinante con la casa di Ottaviano, e ne
approfittai di un secchio che tenevo lì tutto l’anno per metterli al suo
interno, e chiuderlo con il suo apposito coperchio di plastica.
Soddisfatto del mio operato, fino a quel momento, decisi di
completare tutto e di andare a sbarazzarmi dei residui organici compromettenti
che mi erano rimasti tra le mani.
Tenendo ben stretto tra le mani il sacchetto della
spazzatura, ben sigillato, abbandonai a malincuore e dolorante il mio giardino,
per direzionarmi verso il primo cassonetto pubblico dell’organico. Non ebbi
difficoltà a notare il primo, ovvero quello pochi metri più in là del punto in
cui poche ore prima ero stato picchiato, ma decisi con ribrezzo di non fermarmi
lì.
Proseguii, e dopo altre due piccole traverse trovai un bel
cassonetto già quasi pieno di sfalci, totalmente anonimo e lontano da casa mia,
che poteva davvero fare al caso mio. Mi ci avvicinai, e non dovetti neanche
aprirlo, poiché la gente l’aveva già pressoché riempito di residui della
potatura di un alloro, dato che le foglie verde scuro della pianta erano
facilmente riconoscibili, ed il loro odore giungeva alle mie narici senza
difficoltà, e così mi decisi ad agire.
Mi guardai attorno, sperando che non ci fosse nessuno. Sapevo
che difficilmente qualcuno sarebbe andato a controllare ciò che un comune
ragazzo gettava in un cassonetto, ed in più ciò che stavo buttando era
praticamente irriconoscibile anche ad uno sguardo attento, ma la prudenza non è
mai troppa, si sa.
Anche in quella via regnava il mortorio del mio paese, e mi
affrettai a procedere. Rovesciai il sacchetto dentro al cassonetto, e lasciai
che i miei residui organici si mischiassero per bene con gli altri, e dal
frusciare che emisero compresi che parecchi di essi dovevano essere finiti sul
fondo, attraversando le fronde gettate in modo molto caotico all’interno del
grande contenitore.
Abbastanza soddisfatto anche lì, poi mi sbarazzai anche del
sacchetto della spazzatura, gettandolo nell’apposito cassonetto della plastica,
anch’esso presente in quel piccolo centro di raccolta della differenziata, e mi
accinsi a tornarmene a casa, strofinandomi le mani l’una sull’altra.
Mentre tornavo alla mia dimora, sentivo su di me tutto il
peso di ciò che mi era accaduto e di ciò che avevo fatto durante quella
giornata, e i miei pensieri s’ingarbugliavano freneticamente all’interno della
mia mente, senza darmi tregua, come loro solito ormai, e quando mi accorsi che
zoppicavo leggermente e che una caviglia mi faceva ancor più male del ventre,
mi limitai solo a cercare di giungere a casa il più in fretta possibile,
cercando di non cedere proprio in quel momento.
Fortunatamente rincasai in fretta, e ritrovando la mia
abitazione ancora vuota, ne approfittai per raggiungere di nuovo il piano
superiore e lasciarmi affondare nel soffice materasso del mio letto, dopo
essermi lavato attentamente le mani.
Non avevo idea di come avesse potuto reagire Federico non
appena sarebbe tornato a casa, non trovando più la sua fonte di guadagni
illeciti, ma immaginai che non avrebbe più potuto farmi nulla, visto come si
erano messe le cose.
Mentre la stanchezza e il tormento fisico cominciavano a
tediarmi in modo insopportabile, mi ritrovai a comprendere che durante quella
giornata ero riuscito a compiere due vittorie importantissime e necessarie sul
nemico, che forse quella volta l’avrebbero effettivamente messo in uno stato in
cui difficilmente avrebbe saputo rialzarsi e tornare prepotente come prima.
In sole tre ore, la situazione di netto svantaggio in cui
versavo si era tramutata in una più vantaggiosa e di predominio, anche se tutto
aveva lasciato segni sul mio corpo e nella vita mia e di mia madre, e
ovviamente anche di Roberto, immaginai. Ma tutto ha un suo prezzo, è sempre
stato così, purtroppo.
Mentre continuavo a restare sprofondato nell’abbraccio caldo
del mio letto, pensai che forse chiamare un’ambulanza non doveva essere una
scelta inappropriata, siccome il dolore continuava a tormentarmi sempre più ed
ovunque in giro per il mio corpo, in seguito dell’abbassamento drastico
dell’adrenalina che mi aveva spinto a compiere azioni che non mi sarei mai
aspettato di dover eseguire, ma decisi di tentare di starmene fermo ed
immobile, immaginando che dopo un po’ di riposo tutto sarebbe andato meglio.
Non avevo nulla di rotto, per fortuna, e le ammaccature sarebbero passare col
giusto tempo e col migliore riposo.
Tormentato e senza pace, mi lasciai scivolare lentamente in
un sonno leggero e turbato, che ben presto sarebbe stato interrotto dalle
persone che sarebbero ritornate in casa mia, ma decisi tuttavia di godermi quei
pochi minuti di tregua e di lasciarmi andare tra le braccia di Morfeo, che mi
stava reclamando quasi ad alta voce.
Mi addormentai in pochi minuti, bisognoso della pace e della
tranquillità che solo un breve periodo di sonno poteva offrirmi, dato che avevo
passato in modo insonne anche la precedente notte, preparandomi a mio modo ad
affrontare il ritorno di mia madre e le spiegazioni che le avrei dovuto offrire,
sapendo che non sarei più potuto scappare da lei e dalle due domande, giuste
tra l’altro.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici, e
grazie per aver letto anche questo capitolo.
Continuo a ripetere e a sottolineare che ciò che accade in
questo racconto è puramente frutto della mia immaginazione e non ha alcun nesso
con la realtà o con fatti realmente accaduti. I luoghi in cui si muovono i
personaggi e il protagonista sono gestiti da me in modo verosimile, ma
anch’essi non esistono e sono frutto della mia immaginazione.
Vi ringrazio per avere letto e ricopro di infiniti
ringraziamenti tutti i miei buonissimi, puntualissimi e gentilissimi recensori.
Senza di voi e il vostro costante supporto, forse il racconto si sarebbe
arenato molto prima del previsto.
Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** Capitolo 27 ***
Capitolo 27
CAPITOLO 27
Riuscii a riposare per un poco, nonostante tutto, dopo ciò
che mi era accaduto durante quella giornataccia, e mi risvegliai totalmente
solo quando udii la porta di casa aprirsi, e mia madre che rincasava assieme a
qualcun altro. Dalla voce mi sembrò Roberto.
Restai a letto, dato che non me la sentivo di affrontarli o
di scendere di sotto, troppo ammaccato sia fisicamente che mentalmente per
poter affrontare dignitosamente anche solo una sfida verbale, che però in quel
caso mi appariva già persa in partenza.
Infatti, invece di far scoppiare un caos del genere tutto in
una volta, avrei almeno potuto parlarne ed aprirmi con qualcuno degli abitanti
della mia casa, considerando che non tutti erano cattivi come lo erano altri.
Non sarebbe cambiato nulla, anzi, magari sarebbe solo potuto peggiorare tutto,
ma avrei almeno tentato di comportarmi lealmente, invece di lasciar cadere
all’improvviso intere famiglie nel baratro oscuro in cui ormai si muoveva la
mia vita durante gli ultimi mesi appena trascorsi.
Ancora amareggiato, riconobbi che tutto ciò che era accaduto
durante quella giornata poteva essere interpretabile come la mia più grande e
totale vittoria su Federico e sulle sue prepotenze, ed indirettamente anche su
Livia e le sue coperture, dato che probabilmente la signora doveva essere a
conoscenza della piantagione di marijuana del figlio(sperando però che nessuno
di loro due volesse vendicarsi di nuovo, e in quel momento lo escludevo), ma
ciò avrebbe potuto creare un distacco tra me stesso, mia madre e Roberto, da me
abbandonati dapprima in caserma con un grido, e poi snobbati a casa.
Non sapevo proprio come comportarmi. Per fortuna, furono
proprio loro due a togliermi da quel problema.
Udii i loro passi che si avvicinavano alla mia stanza, dopo
aver risalito le scale, e cercai di restare calmo e di fingere di riposare, ma
la mamma aprì lentamente la porta e, dopo aver dato una sbirciata, la spalancò
ed entrò.
‘’Come stai, Antonio?’’, mi chiese subito mamma Maria, senza
troppe premure e non preoccupandosi se stessi dormendo o no.
Non potendomi sottrarre nuovamente a lei, e sapendo che
dopotutto non potevo evitare per sempre quello scambio di battute, nonostante
non avessi davvero voglia di chiacchierare o di dare spiegazioni di qualsiasi
sorta, mi girai verso la sua bassa figura, notando che Roberto si era fermato
sulla soglia della porta, senza entrare completamente all’interno della mia
camera da letto.
‘’Sono solo un po’ ammaccato, mamma. Se riesco a fare una
buona dormita, poi torno a stare bene’’, le risposi, con la voce pesante ed
impastata dalla recente sonnolenza.
‘’Sicuro che non hai bisogno di essere visitato da un
dottore?’’, tornò a chiedermi il mio genitore, con un tono premuroso e venendo
a sedersi sul mio letto, a qualche centimetro dal mio corpo disteso.
‘’No, no, stai tranquilla’’, la rassicurai, ‘’è tutto a
posto, non ho nulla di rotto. E comunque, come ti ho detto, mi è rimasto
qualche livido ed un po’ d’indolenzitura, e nient’altro’’.
Avevo leggermente mentito, poiché provavo ancora un bel po’
di dolore a tratti, ma ero certo che presto sarebbe passato tutto, entro
qualche giorno.
‘’Doveva proprio finire così?’’, tornò a chiedermi la mamma,
gentilmente e con un tono sommesso, ma meno premuroso di quello utilizzato fino
ad un attimo prima.
Sapendo che era giunto il momento di qualche spiegazione,
sbuffai ed abbassai lo sguardo, sentendo anche gli occhi di un silenziosissimo
Roberto puntati sul mio viso.
‘’Puoi parlarmene, anzi, devi. Devi raccontarci tutto quello
che è accaduto in questi mesi, sia a scuola che a casa, tra te e Federico. Qui
è presente anche Roberto, come avrai notato, e non avere timore di lui; se è
venuto ad ascoltarti è perché ci tiene a te e vuole sapere come sono andate le
cose, e come si sono evolute, visto che da ciò che ci hai detto, quella di poco
fa non è stata la prima violenza da te subita’’.
L’unico mio genitore sempre preoccupato per me m’incalzava
senza tregua, ed immaginavo che presto o tardi non mi sarebbe rimasto altro da
fare che cedere e raccontare tutto, d’altronde non aveva neanche più importanza
non farlo. Ma prima di sciogliermi la lingua, dopo mesi di tormenti di ogni
sorta, mi preoccupai per lei, siccome quel pensiero non mi permetteva di
rilassarmi.
‘’Prima vorrei sapere se, per causa mia, sarai multata o
avrai dei problemi per via degli affitti…’’, le dissi, interiormente
preoccupato, sempre sapendo che avrebbe inteso a cosa mi stessi riferendo. Lei
mi sorrise, sempre seduta vicino a me.
‘’Per fortuna, credo di no. Siamo riusciti a deviare tutta
l’attenzione sul grave fatto accaduto… e non preoccuparti per tutto il resto,
la tua salute è molto più importante. Sul serio, non pensare a nulla, è tutto a
posto, non sono poi così una sprovveduta. Ora, racconta’’, tornò a chiedermi la
mamma, rassicurandomi solo parzialmente.
‘’E… lui dov’è?’’, tornai a chiedere, lanciando un’occhiata
verso Roberto e la porta. L’uomo era impassibile e muto, e neppure quella volta
si degnò di aprire la bocca e di parlarmi. Quel silenzio mi faceva male, e allo
stesso tempo mi turbava.
Non avevo pronunciato il nome del prepotente, ma anche quella
volta immaginavo che entrambi avessero compreso a chi mi stessi riferendo.
‘’Federico è ancora in caserma, con sua madre… ma ti ho detto
che non devi preoccuparti di altro, per ora. Devi solo raccontarci tutto, e non
tenere nulla per te, senza distorcere i fatti. Ci serve ascoltare ciò che è
accaduto senza che ce ne accorgessimo, poiché ci sarà utilissimo…’’.
‘’Sì, lo so. Va bene. E mi scuso per avervi taciuto tutto
quanto, ma lui’’, e continuai a riferirmi a Federico con un semplice lui, ‘’mi
prometteva continuamente botte e ritorsioni, e azioni violente anche contro di
te, mamma. Ora vi racconto tutto, promesso’’.
Dopo il breve preambolo, inspirai e mi feci forza.
Sotto lo sguardo sempre più raddolcito di mia madre e sotto
quello freddo e distante di Roberto, che doveva aver abbandonato moglie e
figlio in caserma pur di ascoltare la mia versione dei fatti senza che nessuno
potesse turbarci, narrai tutto quanto, impiegandoci almeno mezz’ora. Parlai da
solo, senza che nessuno m’interrompesse o mi chiedesse altro o di approfondire,
e non ebbi problemi a ripercorrere tutto ciò che avevo dovuto subire, fin dai
primi giorni dopo l’arrivo del nuovo e prepotente inquilino.
Non nascosi proprio nulla. Finii di parlare proprio nel
momento in cui si udì aprirsi la porta di casa, e qualche parola di mio padre
giunse fino al piano superiore.
A confessione finita, Roberto abbassò lo sguardo e si
dileguò, sempre immerso nel suo mutismo, e mia madre mi sorrise amaramente, e
con le lacrime agli occhi mi sfiorò una guancia e mi mandò un bacetto, così
come faceva quand’ero più piccolo.
‘’Mi spiace per tutto quello che hai dovuto subire, e per di
più a causa mia e del nostro bisogno di denaro. Mi dispiace, per tutto’’, mi
disse, davvero dispiaciuta.
‘’Non è colpa tua, mamma’’, la rassicurai, con la voce
leggermente roca, a furia di parlare senza sosta. Avevo la gola secca, e
necessitavo davvero di un bicchiere d’acqua.
Ad interrompere il nostro breve momento d’intimità, fu
l’ennesima parola pronunciata da mio padre, che giunse fino al piano superiore,
quasi urlata.
Innervosita, mia madre si alzò dal letto e mi fece cenno che
sarebbe andata al piano inferiore, per comprendere che stava succedendo, poiché
l’uomo pareva parecchio agitato. Mentre lei scendeva le scale, decisi che
l’avrei seguita, perlomeno per andare a bere qualcosina.
Ancora non immaginavo che al piano inferiore mi attendevano
tante novità da conoscere.
Non appena giunsi al piano inferiore, trovai mia madre già
alle prese con mio padre, innervosito e scuro dalla rabbia. Lui parlava a voce
alta e le intimava di non aprire la porta, mentre lei insisteva per farlo.
Non appena li raggiunsi, posi fine ai loro litigi premendo a
distanza il tasto a fianco del citofono interno, facendo di fatto scattare la
serratura della porta.
Mio padre mi lanciò un’occhiataccia sorpresa e carica di
nervoso, e poi, riconoscendo la nostra vittoria, si ritrasse alzando le mani e
dirigendosi verso la mia saletta, per poi scomparire al suo interno, mentre la
mamma apriva lentamente l’ingresso, guardando chi fosse il soggetto a cui
l’altro mio genitore voleva impedire l’accesso nella nostra dimora.
Per un attimo, la mia mente fu offuscata dalla tensione che
provavo per il fatto che, ormai, nell’ultimo periodo fosse diventata
consuetudine consolidata di Sergio quella di rintanarsi in modo ancor più
irritante all’interno di quello che un tempo era il mio rifugio dal mondo, e il
mio spazio dedicato alla mia creatività musicale.
Creatività che, tra l’altro, molto probabilmente stava
risentendo di quel lungo e continuo periodo di pausa, ma come tantissime altre
volte ero stato costretto a riconoscere, non avevo molte possibilità di
riappropriarmi dei miei spazi, se mia madre non avrebbe avuto il coraggio di
cacciare l’altro mio genitore da casa, e se avesse continuato a tentennare in
modo così evidente nei suoi confronti.
Misi bruscamente a tacere i miei pensieri non appena fece capolino
il volto di Stefania, arrossato dall’imbarazzo, che chiedeva alla mamma il
permesso di entrare, che gli fu subito concesso.
La ragazza varcò la soglia e mi rivolse un timido saluto, e
anche se non mi era chiaro come avesse fatto ad essere già entrata all’interno
del giardino, lasciai perdere ogni altro mio ragionamento, dato che forse
doveva aver seguito mio padre quando rientrava, magari sorprendendolo nel bel
mezzo del cancelletto.
Che Stefania fosse stata una sorta di perseguitatrice per
lui? Oh, sul momento quasi sorrisi a quel pensiero davvero molto sciocco,
poiché mio padre non mi appariva proprio il tipo giusto da importunare
continuamente. Incuriosito ed innervosito allo stesso tempo per via di quella
ragazza che, a quanto pareva, voleva a tutti costi far presenza in casa mia,
come se non ci fossero già abbastanza problemi da risolvere ed affrontare, feci
finta di nulla e mi diressi lentamente verso la cucina, e la mia tanto
desiderata acqua.
Ma evidentemente quel giorno non dovevo assolutamente essere
lasciato in pace, giacché, mentre soddisfacevo il mio impellente bisogno di
liquidi, mia madre ebbe l’idea di accettare per davvero la presenza di Stefania
e di condurla proprio in cucina.
‘’Vieni, ti do un bicchiere d’acqua. Mi sembri davvero molto
scossa’’, le disse, affiancandomi e prendendo un bicchiere.
‘’Non si scomodi, signora Maria’’, iniziò a dire la
timidissima ragazza, che sempre cercava di non fissare mai lo sguardo su di
noi.
Stefania lì per lì m’incuriosiva sempre più, in primis per il
fatto che non riuscivo a comprendere perché cercasse sempre un dialogo con mio
padre, anche se lui era restio, e ovviamente anche perché ero curioso di
scoprire quale fosse il suo problema, che l’aveva spinta a presentarsi più volte
al nostro portone, considerando che mia madre non era riuscita a scoprire nulla
su di lei, e aleggiava un velo di mistero su tutto quanto, come una leggera
patina di condensa che bisognava far sparire, per poterci vedere in modo più
chiaro.
Alla ragazza comunque fu offerta dell’acqua, e fu invitata ad
accomodarsi un attimo su una sedia, ed io compresi che mia madre aveva
intenzione di indagare sul serio quella volta, e di scoprire cosa volesse da
mio padre, cercando di trattarla cortesemente e di farla sentire a suo agio, oltre
che a trattenerla con qualche gentilezza.
‘’Davvero, devo proprio andare. Scusatemi’’, continuò a
ripetere Stefania, come se fosse andata in fissa, per poi alzarsi dalla sedia.
A quel punto, mia madre, che tanto sciocca non era, fu
costretta a fare il tanto temuto balzo in avanti, pur di non lasciare fuggire
la preda dalla trappola della sua curiosità. Curiosità che, tra l’altro,
spingeva anche me a fare presenza e a restarmene imbambolato in quella cucina
che dava sempre l’impressione di essere stretta e soffocante, quando si sentiva
l’odore di una qualche ipotetica discussione.
‘’Senti, cara Stefania, io non voglio apparire scortese ai
tuoi occhi, ma vorrei solo farti una domanda, visto che questa è già la seconda
volta che vieni a fare una scenata in casa mia, e che te ne vai pronunciando le
tue frasette di rito e col viso in fiamme e in procinto di lasciarsi andare al
pianto. Ecco, volevo chiederti se vuoi qualcosa da noi…’’.
‘’Non le ha raccontato nulla Sergio?’’, chiese a quel punto
la ragazza, apparentemente sorpresa, sempre mantenendo il suo tono rispettoso
ed educato.
‘’No, non mi ha detto nulla a riguardo. Se c’è qualcosa che
possiamo fare per te, diccelo, ma in caso contrario smettila di venire a
turbare la già troppo scarsa tranquillità di questa dimora’’, disse mia madre,
con un tono leggermente seccato. Anche lei voleva giungere al punto, e pure io
naturalmente, anche se lì facevo solo presenza in quel momento.
Stefania sospirò e tornò a sedersi.
‘’Non credo che non le abbia raccontato nulla, altrimenti
sarebbe davvero un gran coniglio. Però, voglio crederle, e, poiché lei me l’ha
chiesto, non ho problemi a raccontarle cosa voglio e cosa mi ha portato qui, a
bussare alla vostra porta, quasi ad elemosinare l’attenzione di Sergio’’,
esordì la ragazza, in modo parecchio sincero ma teso. Noi due presenti
continuammo a guardarla, senza dire nulla.
Mi balzò solo all’occhio che mio padre avesse preferito
nascondersi che affrontare la realtà, lasciandoci di fatto campo libero. Mi
pareva lampante che avesse la coscienza sporca, per via di qualcosa che non
conoscevo ma che mi stavo accingendo ad apprendere, dopo aver atteso tanto
quelle possibili e probabili risposte ai miei interrogativi.
‘’Io… io, ecco, come sapete, mi chiamo Stefania, ed ho
ventidue anni. Da tre di essi frequento l’Università di Bologna, ed è stato
proprio durante i miei primi mesi di frequentazione che ho conosciuto
casualmente Sergio. Non era un mio docente, avendo scelto la facoltà di Medicina,
però ho avuto modo di fare la sua conoscenza una sera, in un bar poco distante
dall’università, dove mi ero fermata a fare un piccolo spuntino, siccome,
purtroppo, non sono affatto brava a cucinare, ed in più ero davvero spaesata.
‘’Ho vissuto nelle periferie di Carpi per tutta la mia vita,
e quando sono finita inglobata dentro al caos della grande Bologna, per via
della mia scelta di studio alla quale tengo molto, mi sono anche ritrovata a
vivere in un minuscolo monolocale, e a dover affrontare ogni giorno tutte le
mie necessità primarie. Insomma, in questo smarrimento iniziale, ho conosciuto…
l’uomo che mi ha cambiato la vita, un po’ in tutti i sensi’’.
‘’Lui… è… il tuo… compagno?’’, chiese mia madre, balbettando.
Io, inarcando un sopracciglio, rimasi in silenzioso ascolto.
‘’Sì… o, almeno, lo è stato. Avevo diciannove anni, ero una
ragazza sola e nella metropoli non conoscevo nessuno. Quando ho avuto la
fortuna d’incontrare un uomo maturo e galante, che mi ha abbordato coi suoi
modi gentili, offrendomi lo spuntino al bar e chiacchierando amabilmente con
me, sfoggiando una grande cultura, ne sono rimasta colpita. Ci siamo promessi
che ci saremo rincontrati, e da lì è iniziato un periodo di galanterie che mi hanno
lasciato senza fiato. Ma sono stata soltanto raggirata, me ne rendo conto solo
ora! Lui ha solo sfruttato la mia ingenuità…’’.
Fece una piccola pausa, iniziando a piangere sommessamente.
‘’Caspiterina…’’, sbottò mia madre, neppure tanto colpita
dalle rivelazioni appena udite, mentre porgeva un fazzolettino di carta alla
ragazza, che pareva davvero intenzionata a raccontarci tutto. Da quando si era
aperta, era stata in grado di affrontare degnamente la sua timidezza, e non
pareva più in nostra soggezione, ma soltanto disperata.
‘’Insomma, abbiamo cominciato a vederci. All’inizio i nostri
incontri parevano quasi casuali, ma sapevamo che in fondo non lo erano, poiché
cercavamo sempre di raggiungere gli stessi luoghi in cui c’incontravamo più di
frequente. Poi, abbiamo cominciato ad uscire assieme alla sera, lui mi ha
raccontato di essere single… e mi aveva mentito… non mi importava la sua età…
anche se aveva quarant’anni in più restava ancora un bell’uomo… i miei ad un
certo punto non hanno più potuto sostenere le mie spese, e se n’è fatto parzialmente
carico lui… ho cominciato a passare il mio tempo libero a casa sua, mi
insegnava tante cose, mi apprezzava, poi…’’.
Con la voce continuamente rotta dai singhiozzi, Stefania fu
costretta a soffermarsi per riempire di nuovo d’aria i suoi polmoni.
‘’Poi mi ha baciato, un giorno, quasi a tradimento. Mi è
piaciuta come cosa, lo ammetto, e ci ho preso gusto. Pensavo che mi amasse.
Insomma, da quel momento è cominciato un periodo in cui vivevamo come una sorta
di coppia clandestina… non ha mai voluto presentarmi a qualcuno, però mi
cercava, mi telefonava, si curava di me come nessun altro stava facendo. Mi
sentivo così sola, e le sue attenzioni colmavano il mio bisogno d’affetto.
Pensavo di amarlo’’.
Mia madre a quel punto era davvero sbigottita, e cercava di
non affrontare gli occhi della ragazza. Anch’io ero a bocca aperta, e pendevo
dalle labbra di Stefania, che aveva una parvenza sempre più disperata. Ma lei
aveva il diritto di venire in casa nostra per sputarci in faccia certe cose in
quel modo?! Non mi era ben chiaro. Ma, d’altronde, eravamo proprio stati noi a
cercare con avidità quelle risposte. In quel momento dovevamo solo
accontentarci.
‘’L’ho amato e lo amo ancora. Nonostante tutto, abbiamo
cominciato ad andare a letto insieme solo sei mesi fa, circa, e non mi vergogno
a dire che gli ho davvero concesso tutto di me, corpo e anima. Sono stata sua.
Ma da quando ha scoperto che…’’.
Altra pausa, mentre le lacrime ormai formavano fiumi lungo le
sue guance.
‘’Hai scoperto che…?’’, la spinse mia madre, quasi
brutalmente.
‘’Il mese scorso, ho scoperto che sono rimasta incinta.
Pensavo che la notizia gli avrebbe fatto piacere, ma quando gli ho detto di
legalizzare il nostro rapporto, e l’ho informato della gravidanza, lui è
sparito ed ha fatto perdere le sue tracce’’.
‘’E’ per questo che è tornato qui, allora!’’, quasi gridò la
mamma.
Non seppi mai se fosse rimasta colpita, o se provasse gelosia
per quella ragazza, ma credo che non gliene sia mai importato più nulla di mio
padre, dopo che l’aveva abbandonata. Invece, io ero allibito, e senza parole.
Non riuscivo neppure più a battere le ciglia, dallo stupore e dal nervoso che
stava generando dentro di me quel racconto.
‘’E’ scappato, ha lasciato tutto… si è assentato pure alcuni
giorni dal suo posto di lavoro, non sapevo più come fare… dovevo assolutamente
ritrovarlo e… quasi facevo appostamenti, quasi… poco tempo fa è tornato a
riprendere a svolgere il suo ruolo, anche se non è ritornato a casa sua, e
allora ne ho approfittato per pedinarlo e seguire la sua macchina e i suoi
spostamenti, e così sono giunta fin qui…’’, continuò a raccontare la ragazza,
che piangeva come una matta davanti ai nostri occhi e pareva non darsi tregua.
Io ero ancora senza parole, non avendo neppure compreso bene
se quella giovane che avevo di fronte fosse in dolce attesa di un mio
fratellastro o meno, ed ero in subbuglio non tanto meno di lei. Mia madre
pareva voler mantenere la calma, nonostante tutto, e non faceva altro che
passare fazzoletti alla nostra ospite in lacrime.
Fu in quel momento tanto delicato che mio padre ebbe l’idea
di uscire dalla sua tana, finalmente, e di affrontare la situazione. Quasi fece
irruzione in cucina, e quando entrò, portando con sé la sua notevole stazza e
il suo solito fare deciso, tutti noi lo guardammo.
‘’Bene, il teatrino è concluso. Grazie per la bella
sceneggiata, Stefania! Ti sei impegnata a dipingermi come un mostro, come un
essere disgustoso, di fronte alla mia famiglia. Adesso però è ora che tu torni
a casa’’, disse, con la sua voce dura e tonante.
La ragazza si alzò in piedi, e gli si avvicinò lentamente.
‘’Non è la tua famiglia, questa…’’, sentii sibilare mia
madre, ma a bassissima voce. Nessuno la udì, a parte me.
‘’Non ti riconosco più, Sergio. Da quando sei fuggito da me,
senza un motivo, non sei più l’uomo affascinante e maturo che mi ha tanto
ricoperta di attenzioni, per quasi tre anni’’, gli disse Stefania, pacatamente.
Mio padre smollò un pugno sul lavabo.
‘’Un motivo c’è, e tu lo sai qual è. Se tu mi vuoi, e mi ami
come dici, fai quello che ti ho detto l’ultima volta che ci siamo parlati, ed
io tornerò com’ero prima; gentile, premuroso e sempre attento a te’’.
‘’Non pensarci neanche, non abortirò mai. Sappilo!’’, sibilò
la ragazza, andando sulla difensiva.
A quel punto, anche mia madre era allibita e senza parole.
Io, ancora ammaccato e dolorante, di fronte a tutte quelle novità e a sentir
parlare d’aborto quasi mi sentii male.
‘’Te l’avevo detto un’infinità di volte, di continuare a
prendere la pillola. Perché hai sospeso tutto senza dirmelo? Credevi di farmi
una sorpresa? Ti sei sbagliata, invece. Ma hai ancora tempo per rimediare il
tuo errore. Hai ancora un mese per farlo’’, aggiunse mio padre, lentamente e
con tanta spietatezza.
Spalancai la bocca, totalmente preso da quel dibattito. Dal
canto loro, i due litiganti parevano essersi eclissati dalla realtà, e non
badavano ai presenti.
‘’L’ho fatto perché io ti amavo. Non sapevo che tu avessi già
un figlio, non me l’avevi detto, ed io credevo…’’.
‘’Tu non credevi niente, stupida ragazzina! Non dovevi
impicciarti di nulla, dovevi solo seguire quello che io ti dicevo di fare! Cosa
vuoi saperne tu di gravidanze, di figli e di vita?’’, ruggì il mio genitore, ed
io in quel momento mi vergognai tantissimo di lui. Come avesse fatto a
mantenere la sua maschera e a fingere con Stefania non lo sapevo, ma in quella
manciata di minuti stava mostrando il suo vero volto.
‘’Ora finalmente capisco. Mi credevi un tuo gioco, ecco
cos’ero per te! Una ragazzina da circuire… dovevo essere una sorta di tuo
passatempo, la tua sgualdrina personale e consenziente’’, disse piano Stefania,
appoggiando poi una sua piccola mano sul tavolo, con poca lucidità.
‘’Io ti amavo, io ti amo ancora…’’.
E così dicendo, tra sé e sé, la ragazza riprese a piangere in
un modo travolgente. I singhiozzi scuotevano il suo corpicino, che in confronto
a quello di mio padre appariva davvero minuto, e s’immerse nuovamente nella sua
più cupa disperazione.
‘’Non fare così, Ste… tutto tornerà come prima, se farai ciò
che ti dico. Io ti amerò di nuovo, ma prima la piccola creatura deve proprio
andarsene. Di figli ne ho già uno, e mi basta e avanza…’’, tornò a dire mio
padre, questa volta con una dolcezza incredibile, avanzando verso la ragazza e
posando le sue manone sulle piccole spalle di lei.
‘’Ho passato la sessantina, ormai. Come credi che io possa
essere un padre presente, per nostro figlio? Non sarei un bravo genitore, anche
perché verrei a mancare molto presto…’’.
‘’Smettila di dire sciocchezze. Le tue sono tutte ironiche
scuse, che stai utilizzando come pretesto per farmi compiere quel gesto estremo
che neanche vuoi comprendere fino in fondo. Quello che porto in grembo è una
vita, ed è mio figlio! Nostro figlio, il frutto del mio primo amore serio!’’,
quasi strillò Stefania, riscuotendosi dal torpore provocatole dal pianto
isterico nel quale era immersa.
I lineamenti di mio padre tornarono improvvisamente a farsi
duri e rigidi, mentre io sospiravo, in modo impercettibilmente colmo di dolore,
perché proprio non ce la facevo più.
In quel momento, in cui potevo godere del piacere di avere tutte
le risposte che mi servivano, e tra l’altro tutto spiegato in modo molto chiaro
dai diretti interessati, avrei tanto desiderato sparire da quel mondo che mi
stava menando fendenti un po’ da tutte le parti. Stavo male sia fisicamente che
mentalmente, e non riuscivo a far altro che sospirare, di tanto in tanto, e
restarmene imbambolato ad ascoltare quella sequenza di frasi che contenevano
tanti sentimenti contrastanti tra loro.
Per un attimo sperai che mia madre sbattesse fuori entrambi.
Era giunto il momento per farlo, le carte erano tutte sul tavolo; ma lei, invece,
non lo fece. Restò immobile ed imbambolata, come me.
‘’Ma quale amore! Ma ti rendi conto di come stai parlando?!
Cos’è l’amore per te, sentiamo? Rose e fiori, bambini a volontà… tutte cose infantili!
Non sei la ragazza che credevo di avere di fronte, furba e scaltra. Sei solo
una giovane donna con la mentalità da bambina!’’, tornò alla carica mio padre,
calcando per bene le sue parole con rabbia. Ormai non palesava neppure più i
suoi sentimenti astiosi.
Spossato e senza forze, quasi mi ritrovai a sorridere di
fronte alla cattiveria realista di mio padre, osservando anche la reazione da
debole della ragazza che mi era di fronte.
Quando mi accorsi di ciò, quasi mi feci schifo, comprendendo
che stavo per sorridere di fronte all’estremo dolore altrui, e all’umiliazione.
Era chiaro e lampante che, così come io ero stato tormentato ed umiliato per
anni, Stefania era rimasta intrappolata nella rete che le aveva teso mio padre,
che logicamente non l’amava, ma che l’aveva utilizzata per il suo personale
piacere e in modo anche palesemente freddo, anche se lei non se n’era neppure
accorta. Forse, la sua giovane età l’aveva resa più vulnerabile alle avance di
un uomo più adulto e infingardo.
Notando il mio primo approccio alle affermazioni di mio
padre, che stava per sfociare in un aperto sorriso, mi venne da chiedermi se in
fondo anche dentro di me vivesse una parte di lui, spregevole e fredda,
disposta a nascondersi dietro a muri di finta bontà e a mostrarsi nei momenti
opportuni, quando si poteva ferire un’altra persona che ci stava
vulnerabilmente davanti.
Oppure, se la mia involontaria reazione fosse stata spinta
dal fatto che ero geloso, geloso di mio padre e di quella ragazza che aspettava
un figlio suo, a quanto pareva, e non riuscivo ancora a comprendere chiaramente
che quel bimbo, che mio padre voleva cestinare come un qualsiasi oggetto
vecchio, era il mio fratellastro, un essere vivente in cui scorreva parte del
mio stesso sangue.
Queste consapevolezze turbavano tantissimo il mio animo già
inquieto.
‘’Io ti amavo, Sergio, io ti amo ancora! Non puoi parlarmi
così, non puoi…’’.
‘’Ora basta! Taci e tornatene a casa. Sistemeremo la
questione e prenderemo una decisione più avanti, ma mi farò vivo io, tu non
tornare più a cercarmi’’, tornò a dire il mio genitore, sempre con aria severa.
Ma a quel punto, in un attimo, Stefania parve esplodere.
Compì quei pochi passi che la separavano da mio padre in meno di un secondo,
poi cominciò a dargli dei piccoli pugni sul petto.
‘’Non puoi trattarmi così! Non sono un tuo oggetto, noi due
non siamo un tuo oggetto di cui ti puoi sbarazzare quando vuoi, per poi
riprenderci. Non perderò il mio bambino e non permetterò che lui non venga al
mondo per colpa di un capriccio di suo padre…’’.
La reazione impazzita e colma di rabbia di Stefania fu messa
a tacere altrettanto in fretta, poiché mio padre le mollò due schiaffi sul
volto a piene mani, facendola bruscamente ritrarre da lui e barcollare.
Mi venne spontaneo coprirmi gli occhi con le mani, mentre mia
madre, che fino a quel momento era rimasta lì imbambolata come me, saltò su
dalla sua sedia e cominciò a borbottare qualcosa, spaventata e innervosita.
‘’Non voglio che queste cose accadano mai più in casa mia! Se
volete parlare del vostro futuro, e azzuffarvi in questo modo, andatevene a
casa vostra! Anzi, andatevene subito, che dovete stare a fare in questa
abitazione?! Fuori di qui!’’, disse infatti mamma Maria, fuori di sé e
innervosita dapprima dalle rivelazioni di Stefania, ed in seguito dagli
atteggiamenti e dalle parole di mio padre, che effettivamente l’avevano fatta
arrabbiare talmente tanto che pure lei sembrava essere diventata una belva.
‘’E tu stai zitta! Cosa vuoi da noi? Se non vuoi ascoltare o
vedere, vattene in un’altra stanza, invece di stare lì ad annusare l’aria come
una cagna…’’.
‘’Ma questa è casa mia! Vattene tu e la tua prepotenza
ignorante e vile!’’.
Mia madre non smollava di un centimetro, neppure di fronte
alla rozzezza prepotente e schifosa di mio padre, e non voleva più sentire
parolacce rivolte contro di lei in casa sua. Ma l’uomo, inferocito come non
mai, spinse da parte Stefania, che gli bloccava il passaggio, e si avventò su
di lei, cercando di smollarle uno di quei ceffoni che fino a quel momento aveva
riservato alla ragazza.
La differenza di forza era chiara, e anche quella violenza
sarebbe stata consumata, se non ci fossi stato io.
Senza che lui se l’aspettasse, Sergio si trovò un mio braccio
a deviare la sua forte mano, mentre cercava di abbattersi su mia madre.
‘’La mamma ha ragione. Devi andartene di qui’’, gli dissi,
incurante del dolore che mi aveva provocato la mia azione repentina, e dello
spavento che stava generando su di me.
L’uomo infatti, furioso, dopo essersi concentrato sulle due
donne, in quel momento stava rivolgendo i suoi occhi solo a me, sempre più
schiumante di rabbia e totalmente fuori controllo.
Mio padre era un uomo prepotente, e talmente tanto vile da
alzare le mani contro due donne inermi, e questo mi bastava a offrirmi la
spinta necessaria per affrontarlo così apertamente, anche se non avevo idea di
come fare a resistere ad un suo attacco. Era molto forte, nonostante l’età, ed
evidentemente sapeva come fare per picchiare in modo doloroso.
Ero consapevole di avere di fronte a me un mostro, un
violento contro le donne, un prepotente che faceva il signorotto in casa
altrui, e la rabbia dentro di me cresceva, senza però avere una valvola di
sfogo. Senza contare che forse le avrei prese pure io. Per la seconda volta in
un giorno.
‘’Ora basta, sono io a dovermene andare. Scusate per il
trambusto’’, disse mestamente Stefania, interrompendo il concitato momento e
tornando in sé. Probabilmente, essendosi resa conto del patatrac creato dalle
sue rivelazioni e dalla sua presenza in casa nostra, la sua timidezza era
tornata a farsi strada e a scacciare quel pizzico di follia da ragazza in preda
agli ormoni che l’aveva portata ad affrontare mio padre lì davanti a noi, quasi
come un’eroina, sfidando la sua violenza per essere poi pubblicamente umiliata.
La giovane prese con sé la sua borsetta, con la quale si era
presentata alla nostra porta, e poi si allontanò a passi veloci e a testa
bassa, mortificata e piangente.
Nessuno la seguì o le disse nulla, e si ribatté la porta
dietro di sé con un tondo sordo. E noi tre, ancora immobili, non c’eravamo
ancora mossi dalla stessa posizione che avevamo assunto una manciata di secondi
prima, quando la rabbia e il nervosismo l’avevano avuta vinta su ogni
razionalità.
Mio padre, con una mano ancora alzata verso di me, assunse
un’espressione corrucciata sul viso, ed increspando le labbra e corrugando la
fronte, quasi come se anche il suo corpo stesse comprendendo ciò che aveva
combinato fino a pochi istanti prima, si affrettò ad abbassare il suo arto,
sbuffando sonoramente e dandoci in fretta le spalle, per tornare nella saletta
del pianoforte senza dire null’altro.
Io e mia madre, improvvisamente soli, ci guardammo, e
riconoscendo un pacato velo di disperazione all’interno dei nostri occhi, ci
stringemmo in un caloroso e muto abbraccio, tacitamente sapendo che in quel
delicato momento dovevamo restare uniti, almeno noi due. Avremmo continuato a
sostenerci a vicenda, così come avevamo sempre fatto, senza lasciare che nulla
potesse mai minare il nostro rapporto.
Questa consapevolezza silenziosa che aleggiava su noi due fu
la nostra salvezza, alla fine.
NOTA DELL’AUTORE
Continuo a ringraziare tantissimo tutti i vari lettori e
recensori. Siete sempre la mia forza!
Grazie di cuore per tutto e a tutti, e buona giornata! A
lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** Capitolo 28 ***
Capitolo 28
CAPITOLO 28
Dopo il caloroso abbraccio ricambiato da mia madre, ricordo
perfettamente che salii in camera mia.
Troppe le novità che erano state gettate su di me, e troppe
anche le sberle subite durante quella giornata lunghissima, che pareva proprio
non volere finire più. Sia il mio corpo che la mia anima erano letteralmente a
pezzi.
Avevo lasciato mia madre in cucina, ancora triste e perplessa
per poco prima, e mio padre rintanato nella mia saletta, come suo solito, quel
codardo prepotente e violento. Avevo scoperto di lui un altro aspetto che non
conoscevo, e che davvero non volevo vedere riaffiorare mai più.
Speravo solo che, ora che era stato rintracciato e che noi
sapevamo tutto quello che ci stava nascondendo, se ne andasse prendendo su le
sue poche cose, tornando così alla sua vita precedente. Non mi sarebbe affatto
dispiaciuto se fosse andato via, per sempre quella volta.
Mia madre non aveva il coraggio di far nulla contro di lui,
me ne stavo rendendo conto, e non potevo darle tutti i torti. Se fossero
intervenuti i carabinieri a cacciarlo, quello magari si sarebbe ripresentato,
prima o poi, anche solo per picchiarci. Era meglio non scherzare con un mostro
del genere.
Il mio caro Roberto non l’avevo più rivisto, e questo mi
faceva molto male. Sperai solo che non se la fosse presa con me, per avergli
taciuto tante cose, e molto probabilmente doveva essere rinchiuso in camera
sua.
L’aristocratica e il figlio non erano ancora tornati a casa,
e pensai che fosse preoccupato per loro, anche se potevo capire facilmente che
ciò non era vero, altrimenti non li avrebbe lasciati soli là in caserma.
Con il magone in gola, che mi costringeva anche a tossire di
tanto in tanto, rientrai nella mia stanza da letto e mi fiondai di nuovo verso
il letto, ma un oggetto colpì la mia attenzione. Infatti, notando il mio
cellulare abbandonato sul comodino, mi affrettai a recuperarlo, dato che mi era
tornato in mente che quella mattina l’avevo spento senza leggere il messaggio
di Melissa. Inoltre, temevo che Jasmine mi avesse cercato durante quel
pomeriggio, nel quale ero stato irrintracciabile.
Mi sedetti sul letto ed attesi pazientemente che il mio
telefono si accendesse, per poi sentirlo subito produrre quel classico suono
che avvisava dell’arrivo dei messaggi. Ero curioso, poiché quello di Melissa mi
era già giunto, e quindi qualcun altro doveva avermi scritto.
Guardando nel display, riconobbi che i miei timori di poco
prima erano fondati, e che Jasmine, la mia amatissima Jasmine, mi aveva scritto
qualche ora prima, ed aveva tentato di telefonarmi più volte. Sapevo che non
era una ragazza insistente, e che se aveva cercato di contattarmi
incessantemente doveva essere accaduto qualcosa d’importante, forse a riguardo
delle ricerche che stava portando avanti su Alice, e di cui io mi ero
totalmente dimostrato disinteressato.
Sapendo quindi che con ogni probabilità la mia Jasmine voleva
parlarmi di lei ed aveva qualcosa da narrarmi, preferii leggere prima ciò che
mi aveva scritto Melissa quella mattina, anche perché ciò m’incuriosiva, ed
inoltre era da un’infinità di tempo che attendeva una mia ipotetica risposta.
Mi ritrovai di fronte ad un messaggio di poche righe, scarno
ma cortese, in cui la giovane mi invitava ardentemente ad andare a casa sua al
più presto, poiché aveva bisogno di vedermi.
Perplesso, lì per lì non seppi che rispondere, tutto
ammaccato com’ero, ma poi le scrissi che se tutto fosse andato bene, sarei
andato da lei già il pomeriggio successivo, visto che era l’unico che avevo
vuoto e senza impegni. Molto probabilmente, l’indomani mattina non sarei andato
a scuola, e prendermi un pomeriggio di svago non sarebbe stato male. Inoltre,
avevo davvero voglia di tornare a rincontrare la ragazza e quel branco di
ochette chiassose, che a quanto pareva, a rigore di logica, dovevano essere le
mie cugine.
Un brivido mi percosse dalla testa ai piedi, pensando che
tutte quelle ragazze avevano lo stesso sangue di mio padre nelle vene, ma poi
mi tranquillizzai comprendendo che pure io l’avevo, eppure non ero un mostro
prepotente ed ottuso come lui. E poi ero curioso di scoprire cosa volesse da
me, e il perché del fatto che avesse bisogno di vedermi.
Forse, mi dissi, aveva scoperto la mia identità. E il fatto che
eravamo parenti.
Mi tolsi subito quell’idea dalla testa, e decisi di non
pensarci su oltre, poiché mi giunse in quell’istante anche la puntuale risposta
di Melissa, che mi diceva solo che mi aspettava l’indomani pomeriggio.
Con un profondo sospiro, dopo aver sistemato quella faccenda
lì, mi accinsi ad affrontare il messaggio di Jasmine, ovvero quello che si
preannunciava un po’ più duro da leggere, probabilmente.
Lo aprii senza tanti altri tentennamenti, e anche lì mi
trovai di fronte ad un altro messaggio molto scarno, ovvero due parole in croce
in cui la ragazza mi diceva che era riuscita ad avere notizie su Alice, e che
quando esse avrebbero trovato conferma me le avrebbe dette, oltre che in quel
momento era in viaggio coi suoi, siccome si stava facendo portare dall’amica,
che a quanto pareva era riuscita pure a rintracciare.
Con inerzia, le risposi solo con un bene e buon viaggio,
quasi una risposta non da me, ma io con Alice me l’ero egoisticamente presa e non
riuscivo più a vederla come una buona amica, dopo ciò che era accaduto dopo il
nostro ultimo incontro a casa sua. Tutto tra noi due pareva essersi guastato, e
non avevo intenzione di perdere del mio tempo per cercarla, come stava facendo
Jasmine con disperazione.
Più tardi, compresi che la mia Jasmine si stava comportando
come una vera e leale amica, io un po’ meno, e di questo a suo tempo me ne
pentii.
Insonnolito, spensi di nuovo il cellulare e spensi la luce,
dopo aver chiuso a chiave la porta della mia stanza, ed andai a dormire così,
addirittura senza mettermi sotto le coperte e lasciandomi andare semplicemente
sul letto. Per fortuna, in casa c’era il riscaldamento acceso.
La mattina successiva, dormii fino a tardi.
Nessuno mi disturbò, e mia madre andò al lavoro senza
svegliarmi. Voleva davvero che riposassi per bene, dopo tutto quello che era
accaduto durante il giorno precedente.
Quando mi svegliai, erano all’incirca le dieci, se non
ricordo male, e nel momento in cui cercai baldanzosamente di alzarmi dal letto,
scoprii che tutte le botte che mi erano state rifilate il giorno prima stavano
facendo sentire tutto il loro peso, considerando che mi sentivo tutto
indolenzito e dolorante, più della sera precedente. Le mie articolazioni erano
a pezzi più delle parti che avevano ricevuto le percosse più violente, ed avevo
un bel po’ di lividi che facevano capolino ovunque. Ma ero vivo e stavo
relativamente bene, e quello era l’importante.
Mi vestii in fretta e scesi al piano inferiore, pronto per
fare la prima colazione.
Come al solito, una discreta ansia mi pervase mentre scendevo
le scale, ma quella volta l’accantonai, consapevole che il giorno precedente
doveva aver lasciato il suo indelebile segno su tutto. Erano finite le violenze
di Federico su di me, e se avesse cercato di nuovo di farmi del male o di
ricattarmi per qualcosa, non mi sarei fatto problemi a far scoppiare un altro
casino, sfruttando l’onda d’urto da me generata meno di ventiquattr’ore prima.
Ero vagamente consapevole del fatto che il prepotente fosse
tornato a casa, in tarda serata ed assieme alla madre, poiché il trambusto
provocato dal loro rientro mi aveva fatto svegliare per un attimo, ma poi ero
tornato subito a dormire profondamente. Poco male, la questione non m’importava
più.
Quella mattina la casa giaceva in una tranquillità assoluta,
di quelle quasi oppressive e strane, e mentre mi dirigevo in cucina lanciai
un’occhiata alla porta della mia saletta, che era chiusa. Non mi chiesi se quel
fellone di mio padre si stesse nascondendo al suo interno, ed entrai in cucina.
Scorsi la sagoma di qualcuno, in controluce, e per un attimo
pregai che si trattasse di Roberto, con il quale non avevo più avuto modo di
scambiare neppure una parola, ma invece mi trovai improvvisamente davanti a
Livia, che, appoggiata al davanzale della finestra, mi stava guardando.
Quando misi a fuoco per bene il suo viso, dopo un attimo di
smarrimento, poiché ero sempre abituato a non incrociarla quasi mai durante la
mia vita quotidiana, notai che mi stava fissando quasi come se volesse
incenerirmi.
Non ci fu bisogno che io provassi a fare una qualsiasi mossa,
giacché ero rimasto lì impietrito per un attimo senza sapere come dovevo
comportarmi, ed effettivamente con un moto di mediocrità ero stato quasi sul
punto di salutare, come mio solito, ma i saluti non avevano più alcun valore
tra quelle mura, sempre se ne avevano avuto in precedenza.
Livia infatti si smosse dalla sua postazione, e lasciando
trapelare il suo disgusto per avermi incontrato, arricciando il suo nasino
aristocratico e dedicandomi una smorfia tutta sua e snob, si accinse a lasciare
la cucina.
Passandomi a fianco, diede due delicati colpi di tosse, senza
mai smettere d’indossare quella sua aria schifosamente disgustata.
‘’Sarai contento ora, che sei riuscito a mettere fuori dai
giochi mio figlio. Sappiamo che sei stato tu ad entrare anche nella sua stanza,
mentre gli avevi tirato quel brutto scherzetto. Ma devi anche sapere che se hai
vinto una battaglia, ne perderai altre, poiché noi entro un paio di giorni ce
ne andiamo, e addio ai nostri soldi! Tu e quella buona a nulla di tua madre
andrete assieme a sturare e a pulire dei gabinetti pubblici, pur di poter
tirare avanti’’, mi disse la signora, tutto ad un tratto, quando ormai non mi
aspettavo più un suo attacco.
Mi volsi lentamente verso di lei, visto che mi aveva già
superato e le stavo volgendo le spalle, e fui io a guardarla in modo schifato,
quella volta.
‘’Meglio sturare dei cessi che avere in casa propria degli
spacciatori e dei bulli ricattatori e violenti’’, le sputai in faccia, ormai
snervato da quella situazione.
La donna mi fulminò di nuovo con lo sguardo, ma non ribatté
nulla e si volatilizzò in corridoio, dirigendosi verso le scale.
Logicamente, non la seguii, e non seppi neppure come ebbi
fatto sul momento ad affrontare la mia timidezza e a tentare un affondo. Non ci
riflettei su, ma mi soffermai solo a riconoscere che la signora di certo doveva
sapere dell’esistenza della piantagione illegale in camera di suo figlio, e ne
ero sempre più convinto, soprattutto dopo aver udito ciò che mi aveva appena
detto.
Provai un brivido nel comprendere che forse quella donna
voleva cercare di colpirmi lei stessa, ora che suo figlio navigava in cattive
acque. Certo, non avevo immaginato che se ne sarebbero voluti andare da casa
mia ma avrei dovuto, poiché ero già a conoscenza del fatto che la signora
voleva andarsene già tempo addietro, ed in più la nostra convivenza forzata e
basata solo su esigenze personali ormai non aveva più senso.
Era finita, alla fine, e anche molto prima del tempo. Non
seppi mai perché avessero rilasciato il ragazzo, anzi, un secondo prima di
addormentarmi, la sera prima, l’avevo immaginato in carcere, ma evidentemente
non era andata così.
In ogni caso, in quel momento temevo Livia, che mi aveva
quasi lasciato intendere, col suo sguardo schifosamente penetrante, che di
certo prima di andarsene mi avrebbe tirato un brutto scherzetto. Avrei forse
dovuto affrontare anche la donna, ma chissà come, siccome immaginavo che non mi
avrebbe menato come invece avrebbe fatto il figlio. Mi attendevo un qualche
attacco subdolo, magari rivolto verso mia madre.
Scossi la testa, cominciando a stare male solo a sfiorare
quei pensieri, e mi rassicurai, comunque certo di aver vinto buona parte degli
scontri finali. Se poi la donna voleva cercare un suo premio di consolazione,
sarei sempre stato all’erta, e se mi fosse stata concessa l’occasione, avrei
potuto di certo sconfiggere anche lei, così come avevo battuto il male,
rappresentato da suo figlio.
Senza agitarmi o preoccuparmi oltre, mi misi a far colazione,
sapendo che a breve avrei dovuto cominciare a prepararmi ad uscire poiché poi
nel primo pomeriggio ero già atteso da Melissa, e chissà poi perché, dato che
la ragazza dalle sue parole aveva lasciato trapelare quasi un secondo scopo. Mi
chiesi di nuovo se fosse possibile che avessero scoperto chi fossi, ma poi
ancora cercai di non farmi problemi, capendo che in ogni caso dovevo affrontare
la realtà, così come avevo fatto con Federico, e solo in quel modo avrei potuto
avere delle risposte.
Con risoluzione, quindi, completai il mio pasto e tornai di
nuovo in camera mia, vestendomi a dovere e raccattando i soldi che mi servivano
per acquistare i due biglietti del treno.
In quel giorno di fine novembre, uscii da casa mia e mi
lasciai avvolgere dall’abbraccio gelido e umido della nebbia, l’unica presenza
quasi costante del tardo autunno del mio paesino.
Avevo detto a mia madre che sarei uscito, chiamandola poco
prima, e lei era parsa sospettosa, forse troppo, ed immaginavo che prima o poi
le avrei dovuto dire esplicitamente e con sincerità dove mi recavo in treno. Di
dirlo con mio padre, neanche a pensarlo; quell’essere volevo proprio tenerlo
lontano dalla mia vita. E a lui, d’altronde, non importava davvero nulla.
Mentre mi muovevo lentamente verso la stazione, fui costretto
a riconoscere che, durante quella mattinata, non avevo visto nessuno della
famiglia Arriga, se non sporadicamente quell’antipatica della signora Livia, e
questo era stato davvero strano, ma pensai che quasi di certo Federico doveva
esser stato richiamato in caserma, e Roberto… beh, riguardo a lui non seppi
darmi una risposta precisa.
Mi faceva male sentirlo distante da me, perché ormai lo era
veramente, in fondo. Credevo fermamente che cercasse di evitarmi, o di stare
chiuso in camera il più possibile per non incontrarmi, e questo stava rovinando
il nostro rapporto. A rovinarlo ero stato io, coi miei silenzi, e con tutte le
situazioni che sono stato bravo a creare, e questa consapevolezza mi faceva
doppiamente male.
A Roberto mi ci ero affezionato, e sapevo che quando se ne
sarebbe andato molto probabilmente avrei sofferto a causa della sua assenza.
M’immaginai la vita in casa mia senza la sua figura positiva, in balìa di un
padre tornato dopo anni d’assenza ed imbestialito e pericoloso, che si era pure
involontariamente trascinato dietro una ragazza incinta di un figlio suo, e una
madre sempre assente per via del lavoro, e totalmente incapace di condurre la
nostra vita famigliare con risolutezza.
Quella non era una vita dignitosa, e riconobbi che l’Arriga
forse era stato per me una sorta di salvezza. Era sempre stato a mio fianco nei
recenti momenti di sconforto, e non volevo perderlo per un mio errore. Si era
rivelato come una figura adulta di riferimento. Avrei dovuto parlargli, quindi,
perché ci tenevo davvero tanto a farlo, e non me ne importava se non ero bravo
con le parole, almeno ci avrei provato a riappacificarmi con lui.
Un'altra vicenda che mi preoccupava leggermente era Jasmine;
quella ragazza selvatica e indomabile pareva aver perso la testa nella ricerca
di Alice. Quel giorno non si era fatta sentire, ed io avevo provato a
telefonarle poco prima ma il suo cellulare risultava irraggiungibile.
L’unico che si era fatto sentire ed era allegro era stato
proprio Giacomo, ancora fiero della sua azione del giorno precedente, e mi ero
affrettato a rassicurarlo sul mio stato di salute.
Con un sospiro, volli allontanare tutto quel miscuglio di
pensieri dalla mia mente, poiché ero quasi giunto a destinazione, ed in
perfetto orario. Acquistai due biglietti, uno per l’andata e l’altro per il
ritorno, e non dovetti neppure attendere qualche minuto, poiché il mio treno
giunse subito, stranamente puntuale.
Inutile dire che per tutto il viaggio fui tormentato dai
pensieri, ma non dagli stessi di poco prima, bensì da quelli riguardanti
Melissa, la mia parentela con lei e il suo pianoforte. Riconobbi che a
spingermi fin lì non era la voglia di conoscerla meglio o altro, ma di suonare
un po’ con quello strumento che a casa mia ormai era diventato intoccabile,
poiché posizionato in territorio nemico, ed ero in piena crisi d’astinenza in
quel momento.
Mi chiesi nuovamente il perché di quell’invito lampo e di
quel bisogno di vedermi al più presto, ma ancora non volli concentrami su
quelle domande, preferendo fantasticare ed immaginare le mie mani che si
posavano di nuovo su quello splendido pianoforte che troneggiava in quella casa
immensa, all’interno di quel villone di campagna davvero molto sfarzoso. E così
il tempo del viaggio trascorse in un batter d’occhio.
Quando giunse il momento di scendere, il mio cuore batteva
forte, e non appena vidi Melissa che mi veniva incontro, tutta sorridente, mi
soffermai sui suoi lineamenti, quasi a voler cercare una qualche somiglianza
con mio padre, che in effetti c’era, soprattutto nella fisionomia del volto, ma
non aveva alcuna parvenza cattiva e stupida come quella del mio genitore. Non
mi lasciai inquietare e smisi di tormentarmi con quei pensieri, cercando di
rilassarmi un po’.
‘’Ciao, Antonio! Grazie per essere venuto’’, mi disse subito
la ragazza, cordialissima, cominciando ad avviarsi verso la sua auto.
Io ricambia timidamente il suo sorriso, riconoscendo che non
doveva aver di certo scoperto nulla sul mio conto e sulla mia identità, data la
sua tranquillità, e mi approssimai solo a chiedermi se avessi dovuto
sopravvivere anche quella volta a quel viaggio sul mezzo della mia amica e
parente.
Già mi tremavano le gambe solo a pensarlo, ed ero certo che,
se fossi stato sottoposto per l’ennesima volta a una guida così tesa, non sarei
riuscito a stare zitto. Ma preferii mordermi la lingua, proprio mentre stavo
salendo sull’utilitaria, poiché sapevo che io molto probabilmente al volante
sarei stato ancor più pericoloso, anche perché non sapevo neppure guidare, e quindi
la mia ragione mi riportò alla pazienza.
Allacciai per bene la cintura, e Melissa fu pronta a partire.
‘’Allora? Che mi racconti di bello?’’, mi chiese la mia
interlocutrice, concentrandosi fin da subito sulla strada che stava
placidamente affrontando.
‘’Niente di che. Tu?’’, mi limitai a risponderle, senza
sbilanciarmi in alcun discorso. Non mi conveniva e non ne avevo voglia, attento
com’ero alle mosse della guidatrice stessa.
‘’Oh, tutto come al solito, a parte qualche vicenda
riguardante le mie cugine. Ah, sono sempre le solite, e questa volta si sono
proprio messe nei guai. L’ho detto loro che frequentano troppi ragazzi!
Sapessi… se ti va ti racconto’’.
‘’Ma certo’’.
‘’Sicuro che non ti annoio?’’, tornò a chiedermi Melissa,
titubante.
‘’Assolutamente no, raccontami pure tutto quello che vuoi’’,
le risposi nuovamente, cercando di mantenere un tono di voce possibilmente
interessato.
La ragazza effettivamente partì subito col narrare le vicende
delle cugine, e dato che a me proprio non me ne importava un fico secco, anche
se sapevo che erano mie parenti, preferii lasciarmi scivolare passivamente
addosso tutti quei racconti di adolescenti un po’ pazze e vittime dello scoppio
ormonale, tentando di restare concentrato su me stesso, e scoprendo che non ero
felice di essere lì.
Non mi chiesi allora cosa mi avesse spinto a tornare di nuovo
in quel posto, poiché sapevo la risposta parziale, ma d’altro canto l’altra
parte di risposta aveva un retrogusto troppo amaro per essere accettata. Ero
spaventato dal fatto di dover riaffrontare quei visi ostili che mi ricordavano
tanto mio padre, e quelle persone che avevano il mio stesso sangue.
Comunque, ormai ero lì in quel momento e dovevo essere
contento della mia scelta, al di là di tutto, e ne presi atto.
Il viaggio che ci portò a casa della ragazza durò meno del
primo, oppure ciò parse solo a me, come probabilmente accadde, dato che ormai
mi ero abituato un po’ a quel percorso, e per fortuna giungemmo illesi e senza
aver subìto particolari spaventi. Tutto regolare.
Giunti nel giardino della grande villa di campagna, ripresi a
sentirmi come un pesce fuor d’acqua, ma per fortuna i calorosi sorrisi che mi
rivolgeva Melissa erano in grado di tranquillizzarmi.
Subito, come la precedente volta, le cugine ci piombarono
addosso come avvoltoi, curiose e chiacchierone come sempre, e a fatica riuscii
a salutarle dignitosamente, sommerso dalle loro chiacchiere. Non ci capii
molto, dato che come al solito le ragazze si parlavano l’una sopra l’altra, ed
assieme sembravano una banda di pazze.
Fu Melissa a togliermi dai pasticci, come sempre ultimamente.
‘’Ragazze, non dovevate andare ad una festa questo
pomeriggio?’’, chiese loro, titubante.
Mi sfuggì un sorriso, riconoscendo che anche lei forse voleva
sbarazzarsi momentaneamente di quella banda scalmanata.
‘’E’ vero!’’, urlò Martina, dopo aver riflettuto per un
attimo e battendosi una mano sulla fronte. Le altre tre, ricordando,
sfoggiarono un’espressione stupita e quasi incredula.
‘’E’ tutta colpa tua, Giorgia! Ci fai sempre perdere tempo e
poi alla fine dimentichiamo la metà delle cose che dobbiamo fare!’’, tornò a
dire Martina, prendendosela con la sorella, che doveva avere un annetto in meno
di lei.
Da quel momento scoppiò un putiferio, poiché presero a
litigare lì davanti a me, e Melissa dovette metterci di nuovo lo zampino per
riuscire a mettere tutto a posto.
‘’Se continuate a litigare, sarete ancora più in ritardo. È
meglio che andiate a prepararvi’’, fece loro saggiamente notare.
‘’Macché preparare, siamo già pronte così!’’, si lasciò
sfuggire con un singulto Martina.
‘’Ha ragione Mel, dobbiamo proprio andare. Ci attendevano
mezz’ora fa, credo’’, fece notare Francesca.
‘’Andiamo, allora, che stiamo aspettando?! Papà! Papà!’’,
prese a gridare Claudia, la più piccola del gruppetto, che dimostrava sì e no
una quindicina d’anni.
Le cugine si allontanarono quindi in un batter d’occhio,
continuando a battibeccare e a litigare, quella volta infuriate contro Claudia
che voleva che fosse loro padre a portarle alla festa, mentre tutte le altre preferivano
essere accompagnate dalla madre.
Lanciai un’occhiatina sarcastica a Melissa, che la ricambiò
con imbarazzo, dopo aver distolto i suoi occhi dal gruppetto delle chiassose
cugine che si stavano allontanando, girandosi di tanto in tanto per gridarmi un
ciao e salutarmi.
‘’Ti ho già detto di non far loro troppo caso, si comportano
sempre così quando sono insieme. Sono sorelle e sono molto legate tra loro, e
dato che qui non abbiamo vicini di casa o altri coetanei, sono sempre cresciute
assieme ed hanno avuto modo di instaurare un bellissimo rapporto. Però, a volte
sono una vera scocciatura, quando si impegnano’’, ammise la ragazza,
cominciando a muoversi verso casa non appena il gruppetto chiassoso fu sparito
al suo interno.
‘’C’è un motivo per cui ti ho invitato con tanta fretta,
Antonio’’, tornò a dirmi la mia accompagnatrice, questa volta con serietà e con
il solito modo leggermente impacciato di chi è timido.
La fissai, bloccandomi con curiosità proprio sull’ingresso
dell’immensa dimora, senza spronare la ragazza a dirmi qualcos’altro su ciò che
l’aveva spinta a richiedere la mia presenza con così lieve ma evidente
pressione. Per un attimo, quasi temetti chissà cosa, ma cercai di
tranquillizzarmi, tentando di far leva sulla mia razionalità, che mi diceva che
in ogni caso non avevo nulla da nascondere con troppa attenzione, o da temere.
‘’Ecco, mio nonno è rimasto molto colpito dalla tua bravura
nel suonare al pianoforte. Mi ha chiesto di tornare ad invitarti al più presto
possibile, poiché vuole udirti di nuovo suonare. Il motivo non lo conosco… so
comunque che può sembrare maleducato averti invitato solo per farti suonare di
fronte ad un anziano, e quindi ti chiedo di farlo solo se lo vuoi e se ti fa piacere,
e magari di portare anche un pizzico di pazienza’’, mi disse la mia
interlocutrice, cautamente.
Io pensavo chissà cosa, e quando udii quelle parole sorrisi
apertamente e in modo sincero. Melissa era brava a parlare, e anche se aveva un
solo anno in più di me, sembrava già un’icona di gentilezza e di cortesia, al
contrario di tanti altri nostri coetanei. Si vedeva che era cresciuta in un
ottimo ambiente.
‘’Non vedo l’ora di farlo, Mel’’, le dissi, realmente felice,
poiché non vedevo davvero l’ora di tornare ad appoggiare le mie dita sui tasti
di un pianoforte, interrompendo così la mia lunga astinenza, durata fin troppo.
La presenza dell’anziano passava in secondo piano, dato il mio impellente
desiderio di suonare.
La ragazza mi sorrise anch’essa, più serena, e con un breve
cenno mi invitò a seguirla al piano superiore, dove risiedeva lo strumento
musicale.
La seguii senza dire altro, ancora una volta in soggezione di
fronte alla magnificenza della dimora di mia cugina, e un brivido freddo mi
attraverso da capo a piedi non appena mi sfiorò il pensiero che forse quella
era anche un po’ casa mia. Sapevo che mio padre era nato in una villa di
campagna, e forse era proprio la stessa in cui stavo camminando in quel momento,
anche se doveva di certo esser stata ristrutturata, nel frattempo.
Dopo aver quasi affiancato la mia accompagnatrice, varcammo
pressoché simultaneamente la soglia della grande stanza del pianoforte, e ci
trovammo di colpo davanti all’anziano. Il nonno era posizionato proprio a
fianco dello strumento, e notando la posizione che stava assumendo,
appoggiandosi leggermente sul suo bel bastone da passeggio, compresi che ci
stava aspettando.
L’uomo non badò minimamente alla nipote, con una freddezza
incredibile, e si mosse verso di me, lentamente, per poi lasciar trapelare un
mezzo sorrisetto su quel volto glabro e gelido, ed io di fronte a lui e a
quegli occhi così duri, scuri e profondi come quelli di mio padre, restai
immobile, forse anche in modo non volutamente maleducato.
‘’Ben tornato, Antonio. Grazie per essere venuto di nuovo a
farci visita’’, mi disse l’anziano, impettendosi, dopo essermisi avvicinato di
un altro paio di passi.
‘’Grazie a Lei per l’ospitalità’’, gli dissi, formalmente e
timidamente, quasi balbettando, non sapendo bene come relazionarmi. Il vecchio
mi inquietava.
‘’Dammi pure del tu, ragazzo. Mi chiamo Aldo, nel caso che tu
ancora non lo sapessi. Comunque, caro ospite, so che sei tornato su invito di
mia nipote, e sono felice che voi due andiate d’accordo, ed ammetto che sono
altrettanto felice di sapere che un giovane talentuoso come te frequenta la mia
casa’’, tornò a dirmi il nonno, rigido. Era il nonno di Melissa, ma era anche
il mio di nonno, anche se non lo sapeva, e questo mi fece provare altre
emozioni contrastanti, subito sopite. Riconoscevo gli occhi di mio padre nei
suoi, ed ero sempre più certo di aver ereditato anch’io qualcosa da lui.
‘’Grazie, troppo gentile’’, continuai a limitarmi a
rispondere con serietà, sempre immobile nella posizione di poco prima. Non
riuscivo davvero a sciogliermi.
‘’Grazie a te. E, se posso, vorrei chiederti un piccolo
piacere, ritienila quasi una mia piccola richiesta di soddisfazione personale.
Se ti farebbe piacere, mi piacerebbe che tu suonassi qualcosa per me, al
pianoforte ovviamente. Non so se mia nipote ti ha già accennato qualcosa,
comunque io ho già preparato alcuni spartiti, in modo che, questa volta, ciò
che suonerai sia un po’ più ordinato, non come quella precedente, in cui mi sei
parso sì colmo di talento, ma un po’ caotico. Mi piacerebbe ascoltare una sorta
di tua… esibizione musicale, chiamiamola così’’.
Alle parole dell’anziano, fremetti nuovamente.
‘’Io… io lo farò volentieri, se ci tieni, però per
correttezza devo anche dire che sono molto timido, e che difficilmente…’’.
‘’Non pensare alla timidezza, e non preoccuparti se farai
qualche errore, sarò poi io a comprendere se si tratta di un piccolo timido
errorino oppure un fallace erroraccio dovuto a qualche grave lacuna’’, mi disse
Aldo, questa volta con più autorità del previsto.
Immaginai che in casa fosse lui a comandare, come una sorta
di patriarca di un tempo, servito e riverito da tutti. Melissa stessa, la
ragazza sempre piena di vita e chiacchierona che avevo conosciuto da un po’ di
tempo, se ne stava quasi in un angolo, muta e silenziosamente attenta al nostro
dibattito.
L’anziano, comprendendo di aver esagerato nei toni e nel modo
di parlare, dato che tutto ciò che mi aveva detto pareva quasi un rigidissimo
ordine, parve sul ciglio di dire altro per raddolcire le sue parole, ma si
limitò a donarmi uno dei suoi alquanto rari sorrisetti.
‘’Suonerò… suonerò per… per te molto volentieri’’, dissi,
balbettando. Ero già nella più totale soggezione e ci stavo facendo una figura vergognosa.
Incapace di gestire le mie emozioni, mi chiesi come avrei fatto anche solo a
scegliere una nota giusta.
‘’Grazie, Antonio, sei molto gentile con questo povero
vecchio, le cui anziane orecchie vorrebbero trovare un po’ di ristoro tramite
un po’ di musica. Se vuoi sederti e suonare qualcosa per me, lì c’è lo sgabello
e il pianoforte. Logicamente, se vuoi farlo. Dopo, potrai tornare a
chiacchierare con mia nipote’’, mi disse nuovamente il vecchio, continuando a
rivolgermi un suo sorrisetto tiepido.
Compresi chiaramente che il suo insistente invito era più un
ordine che altro, ma sapevo che se non avessi voluto suonare non se la sarebbe
neppure presa troppo con me. Tuttavia, scelsi di suonare, anche perché ero
davvero bisognoso di farlo e necessitavo assolutamente di tornare a sfiorare
con le mie dita i tasti di un pianoforte.
‘’Va bene, suonerò’’, dissi, già con la mente altrove.
Mi avvicinai allo strumento musicale con grande fretta, quasi
fossi un rapace affamato che ha individuato qualcosa di commestibile a terra, e
presi immediatamente posizione.
La mia attenzione fu subito catturata dalla tastiera del pianoforte,
e da quel momento in poi poco mi curai dei possibili spettatori, tanto ormai ci
ero abituato a quel genere di situazioni, ed inoltre la mia voglia di suonare
era troppo pressante per essere contenuta. L’unico mio interrogativo era quello
riguardante a come avrei suonato, dato che era da un pochetto che non lo
facevo, ed avevo davvero paura di essermi un po’ arrugginito.
In ogni caso, la mia frenetica voglia di tornare all’azione
su quegli splendidi tasti vinse su tutto.
Gettai una rapida occhiata agli spartiti che l’anziano doveva
avermi preparato con cura, ed ebbi un attimo di smarrimento, poiché essi erano
ordinatissimi, ma mostravano solo parte dei componimenti che il padrone di casa
aveva piacere che suonassi. Il tutto aveva il sapore di una prova a me ignota,
quindi.
Non badai troppo alle formalità, e mi misi al lavoro,
inizialmente posizionandomi al meglio e saggiando un po’ i tasti, con cura e
con lentezza, cercando di riuscire a riattivare la mia familiarità con essi, e
ci riuscii in un tempo relativamente breve.
Quando mi sentii pronto, decisi di cominciare a fare sul
serio, e puntai i miei occhi sulle prime note mostrate in evidenza sullo
spartito, e prima di cominciare a mettermi all’opera, riconobbi che mi era
stata preparata in primis una parte, forse la più semplice, di un componimento
di Yiruma, ovvero Love hurts.
Mi affrettai a far planare le mie dita verso la tastiera, ma
per una frazione di secondo mi bloccai, poiché mi riapparve davanti la figura
di Stefania, e il suo racconto del giorno prima, e questo mi turbò. Ero
riuscito a scacciare dalla mente quello spiacevole ricordo per almeno metà
giornata, lasciandolo involontariamente riaffiorare proprio in quel momento
magico.
Chiusi gli occhi per un istante, e cercando di riprendere in
mano la situazione, feci un profondo sospiro ed inspirai a pieni polmoni,
immettendo talmente tanto ossigeno dentro di me e tutto d’un colpo quasi da
provocarmi un leggero giramento di testa.
Stordendomi da solo, dopo un’altra frazione di secondo che
non pareva passare mai, ripresi con decisione la padronanza di me e mi gettai
sui tasti, quasi con fretta e con una pazza ed improvvisa ingordigia. Il nonno
evidentemente voleva che io suonassi solo la parte da lui selezionata e
propostami negli spartiti, ed anche se già conoscevo molto bene quel
componimento, dovetti comunque seguire attentamente ciò che mi era stato
proposto.
Mi scaldai senza problemi, e notando che non avevo fatto
alcun errore, conclusi la parte di Love
hurts consigliatami e proseguii col componimento seguente, prendendomi un
secondo di pausa, mentre la mia musica aleggiava ancora per tutta la stanza, e
il vecchio e Melissa, che doveva essere ancora lì, se ne stavano in profondo
silenzio.
Cercando di non pensare alla loro presenza, mi trovai ad
affrontare Divenire, di Ludovico
Einaudi. Un altro componimento assolutamente alla mia portata e che conoscevo
molto bene, e ne suonai una parte con decisione e scioltezza, anche se mi
dispiacque interrompere nel punto stabilito.
Einaudi era ed è senz’ombra di dubbio il mio compositore
italiano preferito, con un immenso talento e con le capacità più spiccate di
ogni altro, a mio avviso, e quindi quasi mi spiacque abbandonarlo, per
affrontare un’altra traccia. Esatto, poiché avevo compreso in quegli attimi che
si trattava di tracce, e che all’anziano Aldo non importava che io suonassi
tutto un componimento, poiché ciò avrebbe portato via molto tempo, ma gli
interessava solo sentirmi suonare e scoprire in che modo affrontavo i vari elaborati
e la mia maturità musicale.
A seguire affrontai The
enchantress, di Alan Menken, altro componimento che conoscevo abbastanza
bene, ma leggermente più difficile dei precedenti. Quella che era diventata
ormai una sorta di colonna sonora del cartone animato La Bella e la Bestia fu anch’essa molto piacevole da suonare, e
giunsi piacevolmente al test finale, trovandomi di fronte finalmente ad un
classico.
Conoscevo bene alcuni classici, e Per Elisa di Beethoven non mi spaventava minimamente, ed ebbi
quindi modo di sfoggiare una buona prestazione musicale anche in quel caso.
Cominciavo comunque a stancarmi, ero fuori forma e ultimamente mi ero dilettato
poco con quel mio amato strumento, e l’ansia cominciò ben presto a farsi spazio
dentro di me, e desiderai ardentemente, ed incredibilmente, di concludere in
fretta quella specie di prova.
L’ultima proposta da suonare era Alla turca, di Mozart.
Lì sbagliai qualche nota, ormai sfinito, ma nel complesso
riuscii a suonare mediocremente, concludendo ciò che l’anziano aveva detto di
voler udire.
Sospirai nuovamente, una volta concluso tutto, mentre una gocciolina
di sudore scendeva lungo le mie tempie, per poi asciugarla con la manica della
mia felpa e voltarmi lentamente verso il nonno, ritrovandolo in piedi e rigido,
pochi passi più indietro di me. Melissa era a suo fianco, anche lei in piedi.
Aldo mi guardò con severità e serietà, storcendo un po’ le
labbra prima di parlare.
‘’Nella mia lunga vita ho udito suonare tanti altri pianisti,
mio caro Antonio, e devo ammettere che quasi tutti erano meglio di te. Ogni
tanto commetti una qualche ingenuità, ma hai uno stile fluido, e secondo me
potresti essere un ottimo compositore, considerando che mi sei piaciuto di più
la scorsa volta, quando suonavi liberamente. Però, ti riconosco che hai tanto
talento’’, mi disse l’anziano, riflettendo e col suo vocione, tanto simile a
quello di mio padre, a tratti.
Rabbrividii.
‘’Grazie. Finora ho sempre suonato da solo, a casa mia, e
quindi qualche lacuna ci sarà di certo’’, fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Ero consapevole di non essere un pianista perfetto, però il
giudice di casa Giacomelli a quanto pareva era davvero stato molto severo, in
quel momento. Anzi, lo fu troppo, sono costretto a riconoscerlo anche ora,
mentre tutto ciò ormai è solo un ricordo che ha soltanto voglia di sfocarsi
all’interno della mia memoria, però in quell’istante non me la presi, e forse
non lo feci mai. Ciascuno deve avere sempre il diritto di dire la propria opinione
in libertà, in modo particolare se è anche il padrone di casa.
‘’Come avrai compreso, ti ho fatto affrontare una piccola prova,
quasi a tua insaputa, per saggiare le tue potenzialità, e riconosco che ne hai
parecchie, ma non puoi credere di fare della strada nel mondo musicale con
quelle poche basi che hai, sempre se lo hai mai desiderato. Ecco, però mi hai
colpito, e poiché sempre meno giovani suonano il pianoforte, se non ti spiace
ho deciso di valorizzarti’’, continuò l’anziano, sempre rigido come una statua
di pietra. Mi limitai a guardarlo con perplessità.
‘’Anch’io suonavo, da ragazzo. Quello è il mio strumento, che
a suo tempo era stato di mia madre, ereditato a sua volta da suo padre. E’
molto antico. Comunque, ho ancora a disposizione parecchi amici e conoscenti,
nel mondo della musica, e vorrei proprio consigliarti, e magari metterti tra le
mani di un bravo insegnante, in modo che esso, con le sue capacità, possa
limarti per bene e far di te un pianista perfetto, siccome, secondo me,
potresti davvero riuscirci se ti impegnerai’’.
Non abbandonai la mia perplessità.
‘’Io, beh, dico grazie per l’offerta, ma non credo faccia al
caso mio. Prima di tutto, non avrei neppure i soldi per pagarlo…’’.
‘’Per i soldi, non preoccuparti. Se ti interessa la mia
offerta, dammi i tuoi dati e il tuo indirizzo, e entro breve farò venire a casa
tua un bravo insegnante. Ci penserò io a stipendiarlo, e naturalmente lo
interpellerò ogni tanto per capire se t’impegni e se fai progressi’’,
m’interruppe l’anziano, quasi rudemente.
Abbassai lo sguardo. Nonostante tutto, riconobbi che non
potevo accettare.
Casa mia era ancora in subbuglio, con l’ipotetica partenza
degli Arriga e il caos e le prepotenze generate da mio padre, e sapevo che a
breve, molto probabilmente, non sarei riuscito neppure a riavere sotto mano il
mio strumento preferito.
‘’Non posso accettare, davvero. Sono all’ultimo anno delle
superiori, e devo studiare molto… magari, potrei cominciare questa estate, ma
in ogni caso non vorrei essere in debito con… con te’’, dissi, molto
timidamente e in imbarazzo.
‘’Nessun debito, ragazzo. Sono ormai vecchio, e per mia
fortuna ho un bel po’ di soldi da parte, e non mi spiacerebbe spendere qualche
spicciolo per donare un buon futuro ad un giovane meritevole e talentuoso, visto
le capacità che hai. Vedi tu; a te la scelta. Io sono sempre disponibile a
realizzare il tutto, e comunque immagino che ci rivedremo spesso, dato
l’amicizia che ha cominciato a legarti a mia nipote. Quindi, hai tempo e se
vorrai mi farai sapere la tua risposta definitiva, quando preferirai. Pensaci
un po’ su’’, concluse l’anziano, senza più insistere, per poi far sbocciare sul
suo viso glabro e segnato dall’età l’ennesimo piccolo sorrisetto, di congedo
quella volta.
Pensai che fosse tutto finito, e anche Melissa doveva
pensarlo, dato che da parte sua mi donò un sorrisone rilassato, sempre in piedi
e muta a fianco del nonno.
Poi, però, Aldo ci sorprese ancora. Impugnando il suo nobile
e lucido bastone da passeggio, compì qualche passo verso di me, e mi allungò la
mano, come a volermela stringere per siglare un patto, alla moda antica.
Io gliela allungai, in modo un po’ intimidito ed impacciato,
e rimasi perplesso quando notai che il vecchio mi stava guardando intensamente
nel viso, quasi studiandomi.
‘’Come ti chiami?’’, mi chiese, a bruciapelo.
‘’Antonio’’, risposi, perplesso.
‘’Questo lo so già. Ma di cognome?’’, tornò alla carica,
severamente.
Spalancai leggermente la bocca, non sapendo come reagire.
Avrei voluto rivelarmi in quel momento, e dirgli che ero suo nipote, un
Giacomelli proprio come lui, ma decisi di non svelare il mio vero cognome,
comunque. Non volevo che l’uomo credesse che mi fossi intrufolato in casa sua
per approfittare abilmente delle sue gentilezze.
‘’Graziani. Antonio Graziani’’, risposi, dandomi un cognome a
caso, e dopo un attimo di esitazione.
L’uomo mugugnò qualcosa, poi afferrò la mia mano saldamente,
e dopo una rapida stretta la lasciò andare, continuando a guardarmi.
‘’Caro ospite, hai degli occhi molto profondi. Mi ricordano
molto qualcuno, che ora non c’è più’’. E così dicendo, l’anziano mi diede le
spalle ed abbandonò la stanza, silenziosamente.
Io, ancora imbambolato sul posto, spostai il mio sguardo su
Melissa, l’unica rimasta presente nella stanza oltre a me.
‘’L’hai davvero colpito, Antonio. Non era facile’’, mi disse
la ragazza, sorridendomi. Risposi al suo sorriso, e guardai l’orologio da
polso; purtroppo, era già ora di andare.
‘’Piacere di averlo fatto, allora. Comunque, purtroppo…’’.
Non conclusi la frase, indirizzando il mio sguardo verso
l’orologio. Melissa capì all’istante, riconoscendo anche lei che s’era fatto
tardi ed era già ora di tornare in stazione.
‘’Hai ragione, andiamo’’, tornò a dirmi, facendosi mogia e smorzando
la sua allegria. Compresi che avrebbe avuto piacere di passare un po’ di tempo
con me, ma il pianoforte e il nonno mi avevano allontanato da lei, durante quel
pomeriggio.
Fui in procinto d’invitarla a casa mia, nei giorni a seguire,
certo che sarebbe venuta, ma mi morsi la lingua poiché ero perfettamente a
conoscenza della disastrosa situazione che regnava tra le mura domestiche.
Meglio evitare, momentaneamente.
La ragazza continuò ad essere amareggiata e silenziosa anche
durante il viaggio verso la stazione, ma leggermente più rilassata alla guida,
forse perché la sua mente non si stava più solo concentrando esclusivamente
sulla strada.
Io, dal canto mio, non osai dire quasi nulla, poiché dentro
di me mi sentivo veramente sporco. Mi sentivo esattamente come gli Arriga, che
avevano cercato di nascondere più segreti in casa mia, e come mio padre,
anch’egli prepotente e bugiardo, che aveva cercato di insabbiare le sue vicende
amorose nell’ambiente familiare mio e di mia madre. Ecco, io stesso come questi
soggetti avevo nascosto qualcosa a quelli che erano i miei parenti, tacendo la
mia identità e mentendo spudoratamente, quando la situazione lo richiedeva.
Mi sentivo in colpa, e la mia coscienza era in tumulto.
Salutai Melissa senza troppo entusiasmo, e con un pizzico
d’amarezza, della stessa provata da colei che mi stava di fronte, e ripresi il
treno che mi avrebbe ricondotto a casa. Le sensazioni che provavo dentro di me
erano contrastanti e confuse, un po’ come la mia triste situazione familiare, e
per ammazzare un po’ il tempo mi misi ad ascoltare la musica del mio mp3,
durante il viaggio di ritorno.
Quando scesi alla stazione del mio paesetto, e spensi l’mp3, mi
sentii ancor più sporco, poiché molto probabilmente, una volta a casa, avrei dovuto
mentire anche a mia madre, se lei mi avesse chiesto dove mi fossi recato
durante quel pomeriggio. Ma purtroppo non avevo ancora intenzione di svelarle
che casualmente avevo conosciuto le mie cugine e i miei parenti paterni, anche
perché lei me ne aveva sempre parlato discretamente male e non sapevo come
avrebbe potuto reagire constatando come mi ero comportato.
Forse, le sarebbe potuto apparire tutto quanto come una mia
macchinazione, e che io in realtà fossi andato appositamente alla loro ricerca,
ma non era così. Rischiavo il fraintendimento.
Misi a tacere la voce della mia coscienza, che ancora
gridava, sempre più inascoltata, e cominciai a camminare frettolosamente verso
casa mia, sotto una leggera pioggerellina.
Quando all’improvviso cominciò a squillare il mio cellulare,
mi accinsi ad estrarlo dalla tasca destra dei jeans e a rispondere
tranquillamente. Mi fermai un secondo e al riparo del mio ombrellino portatile
e pieghevole, senza lontanamente immaginare che anche quella giornata aveva in
serbo altre sorprese per me.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, cari lettori e care lettrici, e grazie
per continuare a seguire e sostenere questo raccontino.
Continuo a ringraziare infinitamente tutti i recensori che mi
sostengono fedelmente, e chiunque stia leggendo.
Ci tengo a ringraziare, in modo particolare, la gentilissima
GreenWind, che a suo tempo mi ha aiutato a scegliere i componimenti da far
suonare ad Antonio in questo capitolo. Grazie, carissima Green, per avermi dato
una mano e qualche importantissimo consiglio.
Grazie di cuore a tutti e per tutto, e buona giornata! A
lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** Capitolo 29 ***
Capitolo 29
CAPITOLO 29
Quando risposi frettolosamente al cellulare, mi ritrovai ad
udire dei singhiozzi disperati, emessi certamente dalla mia Jasmine.
‘’Jasmine?’’, chiesi, preoccupato.
Lei continuò a piangere, colma di disperazione.
‘’Oh, Antonio, è così orribile
la vita’’, mi disse, dopo un po’, mentre la mia perplessità cresceva.
Rielaborando mentalmente quella frase che mi aveva appena
rivolto, mi venne subito da intendere che in quell’eccesso di disperazione ci
fosse sicuramente qualcosa che riportava ad Alice.
Jasmine era sempre stata una ragazza molto tranquilla, forse
anche fredda a volte, oltre che indomita e ottimista, e non avevo mai avuto
l’occasione fino a quel momento di venire a contatto in modo così diretto con
un grado di sconforto così elevato in lei.
‘’Non dirmi che Alice ti ha trattato male’’, sancii, dopo un
attimo d’esitazione.
La frase mi uscì spontanea dalle labbra, e in modo
leggermente infastidito ed irritato. Quella questione stava cominciando davvero
a stufarmi.
‘’No, no… oh, se solo
sapessi!’’, continuò lei, con un tono angoscioso.
‘’Non so nulla, infatti. Mi vuoi spiegare allora che ti è
accaduto?’’, le chiesi, leggermente spazientito. La pioggia aveva cominciato a
tamburellare con più insistenza sul mio ombrello, e preferii soffermarmi un
attimo a fianco di una grande insegna pubblicitaria, dato che cadeva di vento.
Quasi imprecai tra i denti.
‘’Vieni a casa mia.
Vieni subito, te ne prego… poi ti spiegherò meglio’’, mi sussurrò, sempre
dopo un attimo di pianto isterico.
‘’Va bene, sono già in strada. Dove abiti di preciso?’’, le
chiesi, riconoscendo che non ero neppure a conoscenza del suo indirizzo, e di
questo mi vergognai un po’.
‘’Circa duecento metri
dietro casa tua. Verso la stazione… hai presente il viale della stazione? Ecco,
abito al suo imbocco, nella prima casa gialla che avrai modo di vedere’’.
Il mio viso quasi s’illuminò quando Jasmine mi disse dove
abitava, poiché allora non dovevo fare tanta fatica per raggiungerla. Ero già
nel viale da lei citato, e quindi le ero davvero vicinissimo.
Abbandonai il mio pressoché inutile riparo e, rapidamente, mi
mossi con decisione verso l’imbocco del viale che stavo percorrendo, sempre
sotto la pioggia ma certo di essere praticamente già a destinazione.
‘’Sono lì tra un attimo, nel frattempo tranquillizzati. A tra
poco’’, le dissi, interrompendo la conversazione.
Misi di nuovo il cellulare in tasca e, afferrando a due mani
l’ombrello, quasi come se fosse stata la mia arma, cominciai a percorrere il
più velocemente possibile quei pochi passi che mi separavano dalla mia meta.
Infatti, in un batter d’occhio, coprii quegli ultimi metri
che mi separavano dalla casa di Jasmine, individuando subito la prima abitazione
giallognola posta quasi all’imbocco del viale. La raggiunsi e con grande fretta
mi attaccai al campanello, anche in modo molto scortese, ma d’altronde la
pioggia aveva cominciato a cadere a catinelle e non mi andava di farmi un
bagno, poiché anche se avevo l’ombrello a proteggermi tutto quanto stava
cominciando a diventare più simile ad un diluvio universale che a una
pioggerellina invernale.
Jasmine fu rapidissima a venire ad aprirmi, e subito, notando
a distanza il suo viso, potei notare i segni della disperazione ben impressi su
di esso.
Diedi un rapido sguardo all’esterno dell’abitazione, notando
che anche la mia amata in famiglia non doveva cavarsela male; la casa aveva un
bel giardinetto curato che dava sulla strada, come la maggior parte delle
dimore del mio paesetto, ed aveva un aspetto molto elegante, quasi antico. Il
grande ingresso dava un senso d’imponenza al tutto, che forse rendeva esagerata
la prima impressione che si poteva avere del complesso, e quando mi trovai di
fronte ai battenti di scuro ferro posizionati simbolicamente sulla porta che
dava sulla strada, quasi fui in soggezione.
Accorgendomene, avrei voluto lasciarmi sfuggire un sorriso,
riconoscendo che ormai ero sempre in soggezione davanti a tutti e ad ogni cosa,
e questo era quasi ridicolo e che avrei dovuto davvero cominciare ad affrontare
la mia innata e pressante timidezza, ma la scocciatura della pioggia e il fatto
di trovarmi di fronte ad una Jasmine dal volto sconvolto dal pianto recente mi
fecero rapidamente allontanare questa balzana e frettolosa idea dalla mente.
‘’Sei stato veloce come un fulmine!’’, mi disse la ragazza,
scansandosi per farmi entrare.
Le rivolsi un sorrisetto mesto, mentre chiudevo l’ombrello
fradicio e lo appoggiavo a fianco della porta, sul marciapiede.
‘’Ne dubitavi?! Appena ho sentito il tuo pianto, mi sono
precipitato subito. Ma che è successo?’’, le chiesi, non indugiando oltre e
cacciando dal mio viso ogni segno che poteva far nascondere la mia
preoccupazione.
Entrai in casa dopo essermi pulito ed asciugato scrupolosamente
le scarpe sul grande zerbino che dominava l’atrio, e mi trovai di fronte ad un
corridoio per nulla ampio e spazioso, simile a quello di casa mia, ma tappezzato
da grandi tele dipinte con i classici disegni africani, che donavano
all’ambiente una discreta aura esotica. Restai piacevolmente sorpreso dallo
stile di ciò che mi circondava.
Non ottenni alcuna risposta da parte di Jasmine, che riprese
a piangere sommessamente, e fui costretto a richiudere la mia dannata
boccaccia, ancora mezza spalancata per lo stupore causatomi da quell’insolito
ambiente che mi ero trovato improvvisamente di fronte, poiché la ragazza piombò
letteralmente tra le mie braccia.
Tra me e lei c’era sempre stato una sorta di feeling fisico,
spesso ci eravamo tenuti per mano, o scambiati qualche bacetto quasi casto
sulle labbra, insomma tutto era stato piuttosto freddo fino a quel momento, in
cui il selvaggio cuore della mia amata doveva aver abbandonato ogni sua ultima
resistenza, forse a causa di quella disperazione causatale da qualcosa ancora a
me ignoto.
Sbalordito, ma per fortuna in modo piacevole, ne approfittai
per stringerla anch’io tra le mie braccia, tra le quali lei si era fatta
gentilmente spazio, senza imporsi ma facendomi capire che aveva bisogno di me.
Ed io c’ero, ed ero tutto per lei.
Nel bel mezzo dell’ingresso di casa sua, mentre a pochi passi
da noi una fitta pioggia invernale faceva da padrona indiscussa di quella
giornata cupa e grigia, ma piena di sorprese per me, io e l’unica persona che
amavo con tutto me stesso ce ne siamo stati abbracciati, quasi avvinghiati, per
qualche minuto, che in quel caso valeva quasi quanto ore o giorni.
Jasmine continuò a piangere, e ricordo perfettamente come io
cercai di infonderle calore col mio corpo, di stringerla in modo consapevole a
me, così da non farle male ma da passarle tutti i miei sentimenti senza alcun
bisogno di aggiungere futili parole a quella situazione che già parlava da sé.
Poi, lei si ritrasse improvvisamente, e affrettandosi ad asciugarsi le lacrime,
richiuse anche la porta d’ingresso.
‘’Non riesco a raccontartelo subito. Proprio non riesco. Ma
dovrò farlo, prima o poi…’’, tornò a dire la ragazza, singhiozzando di nuovo in
maniera disperata.
Il mio cuore era allegro ma a pezzi, non riuscendo a capacitarmi
di fronte a tutto quel dolore, e anche in me crebbe una disperata impotenza, un
sentimento troppo duro per essere trattenuto. Mi avvicinai a lei e le sfiorai
gentilmente un braccio, per attirare la sua attenzione su di me e tentare di
farla smettere di disperarsi, in un vano tentativo di riportarla alla ragione.
‘’E’ tutta colpa di Alice, giusto?’’, le chiesi, quella volta
con maggior insistenza ed affondando il dito nella piaga, seppure
inconsciamente. Dovevo comunque scoprire la causa di tutto quel dolore, e non
sopportavo più il fatto che essa mi fosse celata dietro a quelle lacrime.
Jasmine, udendo le mie parole, spalancò gli occhi in maniera
vistosa, e mi afferrò le mani, stringendomele tra le sue.
‘’Smettila, ti prego, di parlare di lei con questo tono. Non
lo merita’’, tornò a dirmi, senza scomporsi. Avrebbe voluto dirmi altro, ma una
coppia di persone adulte fece capolino da una delle stanze vicine, entrando a
tutti gli effetti nel corridoio che fino a quel momento era stato l’unico e
muto testimone del nostro incontro.
‘’Figliola, perché non fai accomodare il tuo ospite? Abbiamo
atteso tanto per conoscerlo. Antonio, giusto?’’, disse l’uomo, gentilissimo,
mentre faceva qualche passo verso di me, tendendomi maturamente la mano.
Compresi fin da subito che doveva trattarsi del padre di
Jasmine, così come la signora doveva essere la madre.
‘’Sì, è così. Antonio Giacomelli’’, dissi timidamente,
stringendo la mano dell’uomo, mentre Jasmine, che era stata rapidissima a
lasciare le mie mani quando i genitori avevano fatto capolino nella scena, si
ritrasse un po’ da me e si diresse verso la madre.
‘’Io mi chiamo Giorgio Camilletti, piacere di conoscerti, e
sono il padre di Jasmine’’, mi disse nuovamente il genitore della mia amata,
mentre mi stringeva calorosamente la mano.
Quello che mi stava davanti era un uomo alto, ma ancora
slanciato, e maturo. Gli diedi più o meno cinquant’anni, anche se i capelli
eccessivamente ingrigiti forse lasciavano intendere che avesse qualcosa in più.
I suoi occhi erano gli stessi della figlia, di un castano molto scuro, ed era
perfettamente rasato e ben vestito.
La donna che gli stava alle spalle, invece, riuscii solo a
scorgerla di sfuggita in quel primo momento, e comunque anche lei era alta
almeno tanto quanto il marito, e magra come uno spillo. La sua pelle era scura,
nera ed esotica, quanto quella della figlia.
‘’Piacere mio’’, sussurrai, ancora timidamente e sentendo che
la mia pelle pian piano si stava arrossendo sul viso.
‘’E questa è mia moglie, Claire’’, me la presentò Giorgio,
sfruttando al massimo il momento delle presentazioni e tornando a lasciarmi la
mano e ad indietreggiare di qualche passo.
La signora mi sorrise, e riconobbi che anche lei aveva una
parvenza molto dolce. Pareva davvero una di quelle classiche signore di colore
che apparivano nei film, di quelle buone e gentili, magari anche sfacciate
quando la situazione poteva richiederlo, ma comunque con un certo charme e un
animo pacato.
Io mi sono sempre affidato spesso alle prime impressioni, e
in quel caso furono entrambe positive, e dovetti ammettere a me stesso che quel
primo impatto non era stato male, e che i genitori della mia Jasmine mi erano
apparsi fin da subito come due gran brave persone.
‘’Ma vieni, accomodati pure’’, tornò a dire il padre della
ragazza, invitandomi ad entrare nella stanza dalla quale erano sbucati entrambi
poco prima. Sorrisi timidamente, accogliendo il suo invito e seguendolo,
seguito a ruota dalle due donne, per poi trovarmi nell’ennesimo ambiente
arredato in stile africano.
Quella sorta di soggiorno non era molto spazioso, ma in
quattro ci si stava bene, e c’erano più poltrone e un divano, con un televisore
posizionato un po’ marginalmente all’interno della stanza. C’era un po’ di
mobilia, tutta europea quella, ma sopra di essa ed ovunque regnava l’Africa,
indiscussa regina di casa Camilletti. Non soltanto i muri continuavano ad
essere tappezzati da carte da parati variopinte e ricoperte di disegni
africani, ma come soprammobili c’erano decine e decine di statuette di legno
intagliate in un legno scuro sempre proveniente dall’Africa.
Ero estasiato.
‘’Vivete in una casa molto bella, e molto ben arredata’’, mi
azzardai, sempre timidamente.
Giorgio sorrise, mentre la moglie si accomodava a suo fianco
sul divano, e Jasmine si avvicinava lentamente a me, che stavo prendendo
posizione su una delle poltrone.
‘’Io sono nato in questo paesino, ma ho sempre lavorato in
Africa. Sono un ingegnere, e per mia scelta ho deciso, a suo tempo, di
dedicarmi a lavori e progetti molto ardui. Ho avuto modo di lavorare in Libia,
Etiopia ed Eritrea, e sono totalmente innamorato dell’Africa, delle sue
popolazioni e delle sue culture, come puoi vedere. Poi, mia moglie ha fatto il
resto. Ha cambiato la mia vita, da quando l’ho conosciuta una ventina d’anni fa
ad Addis Abeba’’, disse l’uomo, sempre con un sorrisetto stampato sul volto ed
afferrando la mano della moglie.
‘’Non ascoltarlo, Antonio. È stato lui a cambiare la mia
vita; ti basti pensare che prima d’incontrarlo ero sempre stata una straniera
nel grande Continente Nero, ed ho vissuto una vita di fame e colma di dolore.
‘’I miei genitori erano appartenenti a nazionalità diverse,
mia madre era ugandese e mio padre senegalese. Il mio genitore era un uomo che
aveva studiato nel suo Paese, avendo avuto accesso ai primi aiuti
internazionali, ma a causa delle guerre e dei disagi continui aveva dovuto
abbandonare la sua casa, trasferendosi in Uganda, conoscendo poi mia madre, una
ragazza povera del posto, i cui genitori erano pescatori, campando di ciò che
il grande lago Vittoria poteva loro offrire.
‘’Non seppi mai il vero motivo del perché avesse scelto, un
uomo come lui, di andare a vivere proprio in Uganda, un Paese così fragile, poiché
morì di una malattia incurabile quando avevo pochi anni di vita. Mia madre lo
raggiunse qualche anno dopo, ed io, che ero solo una ragazzina affamata,
dovetti abbandonare il mio paesetto natale, a seguito dello scoppio
dell’ennesima guerra tra etnie.
‘’Mi aggregai a migliaia di altri profughi, in marcia verso
ogni possibile direzione, dato che l’importante era fuggire dalla guerra interna
del nostro Paese, e siccome la vicina Etiopia pareva non voler cercare di
bloccare il movimento dei profughi, riuscimmo a raggiungerla a piedi dopo
alcune settimane passate pressoché senza cibo e solo con qualche goccio
d’acqua, attraversando le savane dell’Africa centrale.
‘’Continuando la mia marcia verso nord tutta sola, forse
nell’impossibile tentativo di tentare di raggiungere l’Egitto e quindi le coste
del Mediterraneo, riuscii a fuggire dal campo profughi etiope costruito al
confine con la Tanzania da alcuni volontari europei, e raggiunsi Addis Abeba
grazie alla bontà della gente del posto, povera ma disponibile ad aiutare chi
ha bisogno’’.
‘’E lì ci conoscemmo. Io ero un giovane ingegnere, come ti ho
già detto, e quando ho incrociato per la prima volta gli occhi di questa
splendida ragazza, in un vicolo povero della capitale etiope, decisi di darle
una mano e di sostenere quella tacita richiesta di soccorso che brillava nel
suo sguardo.
‘’E il resto puoi immaginarlo; ci siamo innamorati ed amati,
fino a questo momento. Poi, stufo di questa vita vagabonda e molto dura, ho
deciso di tornare in Italia, precisamente nel mio paesino natale, e ovviamente
mia moglie mi ha seguito, in seguito scoprendo che era già incinta di
Jasmine’’, aggiunse il marito, facendomi l’occhiolino e dando fiato alla
moglie. I due apparivano come una coppia loquace ed affiatata, e questo quasi
mi sorprese.
Sorrisi, avendo ascoltato tutta quella vicenda narratami per
la maggior parte dalla voce dolce ed esotica di Claire, e guardando i due
coniugi l’uno a fianco all’altro, mi parve evidente che la figlia dalla madre
avesse ereditato solo la colorazione della pelle.
Infatti, Jasmine sul volto aveva ben impressi i lineamenti
occidentali ed europei del padre, e mi meravigliai quasi di non essermene mai
accorto. Ma, logicamente, fino a quel momento non avevo mai visto il padre,
però almeno potevo cogliere qualcosa in quel bellissimo viso, che fino a pochi
istanti prima mi era sempre parso molto esotico.
Ancora colpito dalla storia colma di coraggio appena
narratami, dato che non avrei mai potuto immaginare una simile epopea nella
vita di quella semplice signora, che doveva avere solo qualche anno in meno del
marito, notando i suoi capelli ricci e striati leggermente di un grigio
naturale, e continuando i miei ragionamenti sui lineamenti del viso della mia
amata, quasi la mia mente si rilassò troppo.
‘’Siamo contenti che tu sia accorso a casa nostra, non appena
nostra figlia ha avuto bisogno di una presenza amica a suo fianco, in questa
giornata così triste per lei’’, riprese a dire Giorgio con grande serietà,
mentre un piccolo singhiozzo truce di Jasmine tornava a risuonare nell’aria.
Ancora non ci avevo capito molto, e mi stavo accingendo a
ringraziare e a chiedere ancor più esplicitamente le cause di tutto questo
dolore, magari cercando di riformulare la domanda in modo molto cortese, ma la
ragazza non me ne diede il tempo.
‘’Mamma, papà, ve l’ho già detto, Antonio non è un semplice
amico… è il mio ragazzo’’, disse infatti Jasmine, a sorpresa.
Mentre i due coniugi si concedevano un altro sorriso, questa
volta quasi commosso, io quasi mi strozzai deglutendo, essendo totalmente
impreparato ad un annuncio di quel genere.
Dopo aver dato due colpi di tosse, mi volsi verso la ragazza
che amavo, ma che fino a poco tempo prima era stata sì mia, ma anche molto
fredda, e non mi sarei mai creduto fino a quel momento che lei potesse aver già
parlato di me con i suoi, giungendo anche a presentarmi in quel modo.
Jasmine mi stava guardando con una dolcezza infinita, e
pareva aver sospeso momentaneamente il suo disperato dolore, ed io non potei
far a meno che sorriderle e rilassarmi, convinto che a quel punto noi due
eravamo giunti ad una nuova fase della nostra relazione, non più quasi
distaccata e distante, molto infantile, ma più matura ed adatta a ragazzi della
nostra età.
‘’Ci sembri davvero un bravo ragazzo. Complimenti per aver
conquistato il cuore di nostra figlia!’’, si complimentò il padre, anche lui
molto emozionato.
Mi sentivo ironicamente quasi ad un passo dal matrimonio,
vista l’emozione dei possibili futuri suoceri, e questo mi fece tornare a
sorridere di nuovo, ma d’altro canto ero felice che pure loro fossero contenti
della nostra giovanile e primissima relazione. Inutile dire che ero diventato
bordò in volto dall’imbarazzo, ma comunque cercai di contenere la mia eccessiva
ed innata timidezza.
‘’Però, Antonio, non ti ho chiamato qui solo per farti
conoscere i miei e per farti ascoltare le loro storie, ma per un altro motivo
molto più importante’’, tornò a dire Jasmine, oscurandosi di nuovo e
preannunciando nuove lacrime.
Io la guardai, restando in silenzio, per spronarla a parlare.
Ormai mi aspettavo di tutto.
‘’Vorrei che tu mi accompagnassi, assieme ai miei genitori, a
trovare Alice’’, concluse, emettendo un piccolo singhiozzo finale.
Strabuzzai gli occhi, come se avessi appena ricevuto un pugno
nel ventre.
‘’Guarda, vorrei davvero venire, ma ieri sono caduto e mi
sono fatto male…’’, tentai di dire, cercando qualche scusa.
La mia amata non doveva essere a conoscenza del mio incidente del giorno prima, dato che io
non l’avevo messa al corrente. Le avrei narrato tutto al momento opportuno.
‘’So che non vuoi venire perché credi che lei ce l’abbia con
te, e che il suo repentino cambio d’umore e di comportamento nei tuoi confronti
derivi da una qualche antipatia, o dalla gelosia per qualcosa, ma non è
così!’’, trillò disperatamente Jasmine, con un vocino stridulo, cercando come
sempre di farmi capire qualcosa che non voleva dire direttamente.
‘’Antonio, Alice è malata. Non era più in sé, ultimamente’’,
mi disse pacatamente Claire, sempre seduta di fronte a me.
‘’In poche parole, la ragazza è malata da tempo, e forse è
addirittura incurabile, dato che la sua malattia è stata scoperta troppo tardi…
e con essa, ovviamente, anche la causa dei suoi disturbi. Alice ha un tumore al
cervello’’, disse Giorgio, preferendo pochi giri di parole e andando
direttamente al dunque.
Rimasi a bocca aperta, senza parole. Jasmine, a mio fianco,
riprese a piangere udendo ciò che aveva detto il padre, come se fino a poco
prima avesse lottato per rimuovere tutto.
‘’Vado a prepararmi. Antonio, conto sulla tua presenza’’.
E così dicendo, la mia amata lasciò la stanza, disperatamente
scompigliata. Claire si scusò con un semplice sguardo e si precipitò ad
inseguire la figlia, già lanciata probabilmente verso la sua stanza.
Rimasto solo con Giorgio, e ancora a bocca semi spalancata
dall’incredulità, fissai l’uomo che avevo di fronte, impettito e serio.
‘’Ti prego di perdonare mia figlia, lei era molto attaccata
ad Alice. Hanno sempre frequentato le stesse classi e le stesse scuole, fin
dall’asilo, e si sono sempre incontrate a casa. Erano grandi amiche, e la sua
improvvisa e strana scomparsa, seguita da questa notizia, l’hanno
destabilizzata. Temiamo che possa compiere qualche sciocchezza, e sono due
giorni che piange ininterrottamente.
‘’Ti prego quindi, con tutto il cuore, di venire con noi,
perché lei vorrebbe farle visita all’ospedale in cui è ricoverata ed ha bisogno
di avere a suo fianco ogni persona a cui tiene. E lei ci tiene molto a te,
sapessi quanto ci ha parlato della tua timidezza, dei tuoi sguardi dolci, della
tua gentilezza… ecco, non lasciarla proprio adesso.
‘’Stalle a fianco se ti va, altrimenti ti prego di fare un
piccolo sforzo, rivolto a chi sta soffrendo tantissimo e ti ama con tutto il
suo cuore. Conosco mia figlia, e so che non ha mai amato nessuno come ama te, e
se anche questa sarà la vostra prima storia d’amore, una storiella tra ragazzi,
avrà pur sempre una grande importanza per tutta la vostra esistenza. Fallo per
lei, te ne prego, stalle a fianco in questo momento’’, disse il padre della mia
amata, quasi commosso.
‘’Starò a suo fianco, lo farò di certo, costi quel che costi.
Anch’io tengo molto a lei, e a dirla tutta devo molto anche ad Alice. Verrò con
voi, sono già pronto’’, rassicurai l’uomo, in modo molto schietto e sincero.
Era ciò che pensavo in quel momento tanto concitato e doloroso.
Quasi non riuscivo, o non volevo crederci a ciò che avevo
appena saputo. Avevo accusato per un bel po’ di tempo Alice, non sapendo che
essa stava covando un male di cui neppure lei era a conoscenza, e stavo davvero
malissimo.
‘’Anche noi conosciamo bene i suoi genitori, sono davvero
delle brave persone, e non meritano tutto questo, così come non lo sta
meritando Alice. Oh, quanto mi dispiace! Queste sono davvero cose orribili, che
non dovrebbero mai accadere, se il mondo fosse giusto…’’.
Smisi di ascoltare Giorgio e mi richiusi in me stesso e nelle
mie paure.
Mi accorsi dopo un po’ che stavo tremando, quasi fremendo, e
non ne comprendevo il motivo.
Non ascoltai più nessuno, e seppi solo sfiorare una mano alla
mia Jasmine, quando essa si dichiarò pronta per partire, e salii in macchina
assieme a lei e ai suoi genitori. Non avvisai neppure mia madre del mio
possibile ritardo, dal tanto che ero mentalmente disastrato.
Dimenticai tutto ciò che mi era accaduto nei giorni
precedenti e nelle ultime ore, e mi lasciai di nuovo trascinare verso un
disperato abisso che sapeva anche di colpevolezza, poiché avevo attribuito
tante colpe ad una ragazza gravemente malata e, a quanto pareva, in fin di
vita. Anche se non lo sapevo nelle settimane precedenti, ero stato una canaglia
a comportarmi così.
Stavo malissimo, su quel bel fuoristrada bianco che si stava
approssimando ad imboccare l’autostrada.
Se fino a questo momento i miei ricordi sono sempre stati
piuttosto vividi, e comunque in ogni caso sono riuscito a rimetterli assieme e
a risistemarli in un ordine che forse non è perfetto, ma è sempre molto meglio
del caos, ebbene, di quello che vorrei rimembrare in questo particolare istante
non riesco a collegare nulla di concreto.
Forse è perché non voglio farlo per davvero, e il mio
Inconscio sta cercando di nascondermi una parte della mia esistenza per non
farmi rivivere un trauma, come direbbe di certo qualsiasi buon conoscitore di
Freud in modo molto semplicistico, e credo che in fondo sia meglio così.
Per far luce sulla mia visita in ospedale ad Alice, beh, mi
restano solo poche immagini sfocate, che assieme a qualche parola danzano
liberamente nella mia mente, generando un’impietosa confusione all’interno
della mia già provata scatola cranica. Mi accontenterò quindi di sfiorare
qualche ricordo, come se tentassi di fare solo un timido assaggio di esso.
Insomma, dopo il viaggio in auto con i genitori di Jasmine e
Jasmine stessa che piangeva e mi stringeva forte le mani tra le sue, giungemmo
all’ospedale, penso fosse il Sant’Orsola, quello tanto legato alla mia vita
prenatale. Non lo ricordo e non ci tengo a cercare dei dettagli, in questo caso.
La nostra visita fu breve, ricordo, e ripiena di dolore.
Jasmine era disperata, e gli stessi suoi genitori con lei. Io ancora non volevo
crederci.
Dentro la struttura, incontrammo casualmente i genitori di
Alice, ma il padre ci deviò e la madre invece si lasciò avvicinare. Un trauma,
per noi e per lei. Ci diedero il permesso di vederla, ma senza entrare in
contatto con la ragazza, e potemmo solo scorgere il suo viso pallido e la sua
testa calva e tutta bendata.
‘’Le hanno aperto il cranio, nel tentativo di rimarginare
l’ammasso che si era creato al suo interno. Ora è ancora addormentata, ma non è
detto che si svegli, e se quando si sveglierà sarà ancora come prima.
L’intervento era quasi impossibile, dato lo stadio avanzato della massa
tumorale’’.
Queste le uniche parole della madre di Alice, una donnina
tutta tirata e dall’aspetto perbene che ormai pareva aver finito le lacrime da
piangere. Queste sono le uniche parole che io ricordo e che ricorderò per
sempre, e per l’eternità esse rimbomberanno nella mia mente ogni volta che
addosserò qualche colpa a qualcuno senza avere la certezza che sia colpevole.
Alice era malata, e nessuno di noi se n’era accorto. I suoi
frequenti mal di testa erano stati associati ad una forte propensione
all’emicrania, molto comune nel periodo focoso dell’adolescenza a causa dello
sviluppo ormonale, e le sue febbri e la sua debolezza erano passate per una
semplice forma influenzale difficile da estirpare. Nessuno aveva fatto svolgere
analisi del sangue o quant’altro, nessuno aveva neppure lontanamente immaginato
una simile tragedia.
Quando la ragazza aveva cominciato pure a dare di matto e a
comportarsi in modi inusuali, mostrando vari disturbi comportamentali mai
mostrati fino a quei fatidici momenti, i genitori si erano preoccupati,
scegliendo anche di farla frequentare da uno psicologo, ma poi non c’era stato
il tempo per fare altro, poiché Alice una sera era svenuta e non aveva più
ripreso conoscenza. La successiva corsa in ospedale aveva fatto chiarezza sul
reale stato delle cose.
Stavo per mettermi a piangere anch’io in quegli istanti, la
mia stessa vista era sfocata.
Alice, quella ragazza tanto dolce che avevo conosciuto, era
stata monopolizzata da una malattia, e quella che per me si era dimostrata come
una forma di schifosa gelosia in realtà era l’espressione più chiara del suo
subdolo male. Ed io, invece di starle a fianco o di cercare comunque di
comprendere meglio la sua reazione di quell’ormai lontano giorno in cui mi
aveva praticamente sbattuto fuori da casa sua, mi ero allontanato da lei,
lasciandola sola.
Lei mi era stata vicina quando non avevo neppure un cane a
mio fianco, quando tutto pareva perduto e un bullo mi perseguitava ovunque, e
mi aveva permesso di conoscere Jasmine e di avere più fiducia in me stesso. Io
l’avevo ricompensata fregandomene altamente di lei.
Il mio castello di carta che mi ero costruito all’interno
della mia mente collassò di nuovo, e tornai ad affrontare un altro momento
buio, molto più meschino e coinvolgente dei precedenti, poiché quella volta si
trattava di una battaglia contro me stesso. Mi sentivo da schifo, e forse ero
davvero uno schifo di persona.
Sapevo che non avevo cause in tutto questo, però avrei potuto
almeno stare vicino a quella ragazza che mi aveva dato tanto, senza
allontanarmi da lei al primo incrocio, abbandonandola da sola. Lei non
l’avrebbe fatto con me.
Convissi con le mie consapevolezze fintanto che non fui
giunto di nuovo a casa mia, totalmente svampito ed incapace anche solo di
riuscire a mettere assieme una frase dotata di senso logico, ma d’altronde non
mi serviva questa facoltà, poiché certe situazioni non si possono davvero
descrivere con immagini o parole, e si possono soltanto ed arduamente vivere
sulla propria pelle.
Abbandonato l’ospedale e il capezzale di Alice, e una volta
tornato al mio paesetto, schizzai fuori dalla macchina dei miei accompagnatori
la prima volta che si fermarono ad un semaforo periferico, e tornai a casa a
piedi, senza averli neppure salutati. Almeno, aveva smesso di piovere.
Spensi subito il cellulare, e una volta tornato a casa deviai
mia madre, sfoggiandole un muso duro da spavento e correndo a chiudermi a
chiave in camera mia, al buio e da solo.
Non badai a nient’altro, immerso nell’oscurità del mio dolore
e nel baratro delle mie riflessioni.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti voi, cari lettori e care lettrici!
Ed ecco svelato il mistero che gravava su Alice… purtroppo è
stata una scoperta molto dura.
Vi ringrazio per continuare a leggere e a seguire il
racconto.
Grazie di cuore, e buona giornata a tutti! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 30 *** Capitolo 30 ***
Capitolo 30
CAPITOLO 30
I miei ricordi riprendono ad essere chiari a partire dal
mattino successivo a quella mia tragica scoperta.
Mentre i lividi fisici lasciati dalle mie disavventure delle
giornate precedenti cominciavano a dolere molto meno, facendo sentire il mio
corpo in forma quasi smagliante, il mio animo invece era a pezzi. E la
conseguenza di tutto ciò era che mi sentivo davvero mentalmente scarico. Un
catorcio, in poche parole.
Appena mi svegliai, mi andai ad arenare su una delle tre
piccole e scomode sedie posizionate nel salotto a fianco della cucina, dove
c’era anche il televisore dotato dello schermo più grande di casa.
Mi misi quasi in panciolle, dopo aver adeguatamente avvisato
mia madre degli eventi del giorno precedente, più nello specifico quelli
riguardanti ciò che era accaduto ad Alice.
La mia povera mamma doveva aver creduto che io fossi
innamorato della ragazza, visto come ne parlavo, e scossa anche lei dalla
notizia mi aveva prontamente perdonato per il mio comportamento della sera
prima. Mi aveva di conseguenza perdonato anche per non averle aperto la porta
della mia stanza quando lei bussava disperatamente, per informarsi di ciò che
mi era successo, dato che ero rientrato in casa ad ora tarda e sconvolto, e
naturalmente aveva approvato la mia proposta di stare a casa anche quel giorno
da scuola. Era un sabato, quindi sarei rientrato al liceo solo la settimana
successiva.
Con la consapevolezza che a scuola non avrei perso molto, e
che comunque non ci sarei andato neppure per quel giorno, avevo poi acceso il
cellulare e trovato decine di telefonate di Jasmine. Logicamente la richiamai e
la rassicurai, siccome sia lei che i suoi genitori si erano preoccupati quando
avevo abbandonato la loro auto durante il ritorno, ma cercai di chiudere la
chiamata il più in fretta possibile. Ero troppo affranto per continuare a
parlare di ciò che avevo scoperto il giorno prima.
Ero come affetto da una sorta di dolore primordiale ed
ancestrale, come un grande senso di colpa opprimente, ma anche molto
irrazionale e forse non troppo sensato. Mi sentivo quasi come se avessi la
coscienza sporca, e dovetti riconoscere che forse un po’ l’avevo per davvero. E
il problema era che non avevo la benché minima idea di come rimediare.
Potei soltanto ripromettermi che non avrei mai più giudicato
una persona cara senza cercare di starle a fianco e di scoprire cosa
l’affliggeva, in modo da non lasciarla mai sola, nonostante tutto quanto.
Devastato mentalmente e confuso, me ne rimasi quindi già da buona
ora in una posizione strana, e seduto nella stanzetta più angusta di casa,
fatta sistemare a dovere dai miei nonni un decennio prima, quando avevano
deciso di sacrificare parte della cucina, siccome era un’ambiente troppo grande
per tutti noi, per creare un piccolo spazio dedicato alla tv, in modo che chi
volesse guardarla potesse anche non stare in mezzo agli odori della cucina o al
chiasso di casa. Quella era una sorta di camera isolata e letteralmente
stritolata tra quattro mura, ed era il posto migliore in cui andarmi a
rifugiare in quel momento.
Con le gambe incrociate sotto il sedere, così come le
posizionavo quando ero estremamente agitato, mi dondolai un po’ con la schiena
e poi accesi la televisione, cercando di soffocare la mia insolita ansia e i
miei problemi provando a seguire qualche trasmissione o film.
Fui fortunato, poiché non appena accesi l’apparecchio mi
trovai subito di fronte ad una serie tv, di quelle poliziesche che continuano
tutt’ora ad andare di moda, e che un paio d’anni fa impazzavano liberamente e
grandiosamente un po’ su tutti i canali. Inutile dire che non seguii più di
tanto la trama, ma almeno rimasi bloccato per un po’ davanti allo schermo
televisivo senza darmi troppe noie.
Durante uno degli spazi pubblicitari, che sempre appaiono
infinitamente lunghi, osservai alcune pubblicità come se fossi pietrificato.
Erano pubblicità dei panettoni, dei regali natalizi e di festività.
Deglutendo, fui costretto a riconoscere che nell’ultimo
periodo mi ero lasciato talmente tanto andare ai miei problemi personali da
dimenticare addirittura l’imminente avvicinamento del Natale e delle vacanze
natalizie, Natale che si sarebbe festeggiato tra poco più di due settimane. Ed
io quell’anno ero così triste e provato da non riuscire neppure a realizzare
tutto ciò.
Quelle pubblicità mi facevano davvero tanta pena, soprattutto
quasi mi disgustava vedere quei babbi natale che spuntavano ovunque, con il
loro sorriso mediocre che sarebbe dovuto apparire alla gente come un qualcosa
di buono e di disinteressato, quando invece dietro a quelle lunghe barbe
bianche e rigorosamente finte si nascondeva il volto di uomini che venivano
pagati per fare tutto ciò, e che pubblicizzavano qualche prodotto.
Anche il Natale ormai era diventato un appuntamento col
consumismo, non un qualcosa da vivere felicemente assieme, in famiglia o con
gli amici, cercando tutti di volerci più bene e di essere più buoni con il
prossimo. Era semplicemente la festa dei soldi spesi in cibarie e nei regali,
tutto qui.
‘’Quella che era una delle festività più importanti del mondo
cristiano è diventata solamente la festa dei pandori e dei panettoni’’.
Roberto, che parlò alle mie spalle, mi aveva quasi
spaventato. L’uomo doveva avermi cercato, per poi prendere parola non appena mi
aveva intravisto.
Mi volsi leggermente verso di lui, per poi distogliere subito
lo sguardo dopo aver annuito leggermente con la testa. Era da due giorni che
non mi parlava, ovvero da quando tra me e Federico c’era stato il confronto
finale, e finalmente, non seppi mai il perché, aveva deciso di rompere
volontariamente il velo di silenzio che era sceso tra di noi, quasi a dividerci
per sempre.
Il mio inquilino se ne stette in piedi alle mie spalle,
mentre l’ennesima pubblicità dei panettoni si snocciolava in tv ed io me ne
restavo chiuso nel mondo cupo dei miei tristi pensieri e delle mie riflessioni
forse fin troppo banali.
‘’E’ quasi uno scherzo del destino, se ci pensi un attimo su.
Gesù Cristo è nato e morto per noi, ha dato la vita per salvare la nostra anima
dal peccato e per concederci l’opportunità della vita eterna, e noi stessi come
ricambiamo il suo sacrificio? Ma è ovvio, mangiando panettoni e pandori, e
ricoprendoci a vicenda di regali. Viva l’egocentrismo nella sua massima
espressione! Sono gli umani che vogliono trasformarsi in divinità, sfruttando
la materia’’, continuò il mio interlocutore, leggermente divertito. Continuava
a parlarmi per cercare di ottenere una risposta, e mi chiesi se si stesse
comportando così perché mia madre gli avesse detto qualcosa a riguardo del mio
stato d’animo del momento, ma questa mi parve fin da subito una sciocchezza.
‘’Non vedi mai nulla di positivo nell’essere umano’’,
sbottai, senza aggiungere altro.
‘’Guarda Antonio, io mi ricordo le festività di Natale di
tanti anni fa, quand’ero ancora un bambino o un ragazzo come te. Io e mio padre
festeggiavamo il santo giorno organizzando assieme un bel pranzo con tutti i
nostri parenti, e per tutto l’arco della settimana prima di quel momento
stavamo assieme, ci preparavamo assieme ed io cercavo di offrire il mio
contributo attivo nella preparazione dei pasti, nonostante che solitamente
finissi per combinare pasticci. Ma durante quella settimana, e durante quella
santa giornata, noi andavamo perfettamente d’accordo e non litigavamo mai. E
sai che mio padre era un tipo tosto, te l’ho già detto tante volte!
‘’Il Natale quindi compiva un miracolo, ed io non vedevo l’ora
che arrivasse. Poi, al pranzo partecipavano anche i parenti della mia defunta
madre, a volte, e anche se mio padre non ci era mai andato d’accordo in
gioventù, in quel giorno si sforzava di essere accogliente e buono, si
sacrificava davvero per il bene comune. Ed io ero tanto felice! Non si
scambiavano tutti questi regali come si fa ora, e non c’erano vagonate di
pandori, panettoni e prodotti vari, ma si stava assieme, si mangiava e si
beveva in compagnia, si parlava del più e del meno e si andava d’accordo.
Questa era la magia del Natale.
‘’Oggi, invece, ci si ricopre di doni e via, non ci si
sofferma più a stare assieme, a concedersi una pausa piacevole dalla frenesia
del mondo e della vita quotidiana. Nessuno attende più questo santo giorno per
stare in compagnia di persone che magari non vede mai durante l’anno, o per
concedersi una pausa dalle diatribe e magari cercare attivamente una soluzione
per tentare di andare d’accordo. La magia del Natale è svanita! Si attende solo
il regalo, magari un bel paccone grande, e non la presenza altrui. Uno schifo,
davvero’’, concluse Roberto, fin troppo esaustivo come sempre.
‘’Hai ragione, ma penso che non sia così per tutti’’,
replicai, sempre cercando di attaccare la sua idea pessimista sull’umanità, che
in parte condividevo silenziosamente.
‘’No, per fortuna no. Ma la maggior parte di voi ragazzi è
così’’, obiettò il mio interlocutore, a sostegno della sua tesi.
Mi mossi leggermente sulla mia sedia e non risposi, facendo
finta di non aver udito. L’ultima cosa su cui m’importava parlare in quel
momento era proprio il Natale.
Fui sul punto di cercare di aprirmi con Roberto, e di
parlargli dei miei tormenti interiori, spinto dalla sua voglia di avvicinarmi,
ma non ci riuscii. Pensai che se l’avessi fatto forse sarei potuto star meglio,
anche perché quell’uomo ormai era diventato un soggetto di cui mi fidavo, e
sapevo che non avrebbe né riso né messo in giro chiacchiere.
Era saggio, e forse una parola per me o un consiglio avrebbe
potuto averli. Ma la mia timidezza e l’agitazione di quel giorno m’impedivano
davvero di aprirmi autonomamente a qualcun altro, quindi finii per restarmene
muto e in rigoroso silenzio, mentre sullo schermo della televisione il break
pubblicitario finiva e riprendeva la trasmissione della serie tv.
Sullo schermo riapparì il solito poliziotto americano con in
mano una pistola carica, che si guardava attentamente attorno prima di chinarsi
sul corpo senza vita di una ragazza, a quanto pareva uccisa nel suo
appartamento inglobato all’interno di una grandissima e classica metropoli
della East Coast, mentre Roberto non pareva affatto convinto di me e non aveva
alcuna intenzione di abbandonare la stanzetta.
‘’Come fai a guardare quello schifo?! È assurdo!’’, sbottò,
più tra sé e sé che con me.
Gli rivolsi uno sguardo provato.
‘’E perché mai?’’, gli chiesi, lentamente. Non che
m’importasse di quella serie tv, che tra l’altro non avevo mai seguito
assiduamente ma che conoscevo solo per la sua grande fama, ma forse
interiormente m’interessava scoprire cosa aveva da ridire anche a riguardo di
tutto ciò.
‘’Non per fare polemica eh, ma le serie tv di quel genere non
fanno altro che rimbambire i ragazzi e instradarli sulla via del male. A parte
il fatto che ormai sembrano tutte uguali, e che comunque stanno crescendo ed
arricchendo il bagaglio utile per i criminali’’.
‘’Ma le fanno vedere in tv…’’, provai a dire, ingenuamente e
superficialmente. Inutile che io stia qui a rievocare mentalmente il suo
classico sospiro esasperato.
‘’In tv fanno vedere quello che fa comodo e ciò che fa
guadagnare soldi, quindi ovviamente tutto ciò che ha molti telespettatori.
Queste serie sono molto vivaci, non ne dubito, e chi le guarda rimane intrigato
e segue attentamente le varie indagini, ma offrono indirettamente una visione
del mondo errata’’, riprese a sancire il mio interlocutore.
‘’E sarebbe?’’, chiesi, un po’ incuriosito.
‘’Beh, tanto per cominciare in ogni episodio o puntata
appaiono persone uccise. Un telespettatore che si piazza davanti alla
televisione ogni giorno e alla stessa ora per seguirla con puntualità, pian
piano viene assuefatto da quel mondo. Ci si affeziona ai protagonisti, e agli
attori vari… mentre svanisce lentamente il timore reverenziale che si ha per il
crimine e per la morte. Tutti seguono sbavando le varie indagini di poliziotti
in gamba, capitani e commissari esperti, medici della scientifica e tanto
altro, ma nessuno si preoccupa più della vittima in questione, che viene
mostrata riversa al suolo e uccisa barbaramente. La morte, il crimine e
l’omicidio diventano quindi una cosa ritenuta normale, mentre invece è
anormale’’.
‘’Non ti seguo. Questa comunque è finzione, e quelli sono
attori. Nessuno muore realmente, e nessun crimine è incentivato’’, osservai,
perplesso.
‘’Va bene, è così e tu che sei una persona normalissima non
perdi mai di vista questo punto chiave. Se tutti interpretassero ciò che vedono
sullo schermo in questo modo, non ci sarebbero problemi! Ma sai quante persone
con disturbi o con intenti omicidi seguono con attenzione alcuni punti di
queste puntate, sempre più gestite in modo verosimile, per avere un’idea di
come potrà reagire la polizia di fronte ad una possibile situazione simile e
reale? E poi, non è forse vero che alcuni videogiochi violenti sono riusciti ad
influenzare in modo diretto attentatori e criminali vari? Alla fine, tutto
offre uno spunto a chi lo cerca. E in questo caso non è affatto positivo’’,
considerò Roberto, sedendosi sulla seconda sedia a pochi passi da me.
Annuii senza pronunciarmi, considerando che tutto sommato ciò
che stava dicendo l’uomo poteva avere una base comprensibile. Il tutto però mi
appariva alquanto esagerato, nel complesso.
Mi volsi improvvisamente verso il mio interlocutore, e rimasi
folgorato nello scoprire che anche lui mi stava guardando, con un leggero
sorrisetto stampato sul viso. E cascai improvvisamente dal pero.
Compresi improvvisamente che Roberto aveva parlato fino a
quel momento solo per farmi uscire dal mio muto e doloroso silenzio, anche
cercando di farmi conoscere in modo diretto alcune sue idee, e dovetti
constatare che era riuscito nel suo intento di allontanarmi anche solo per
qualche istante da quella routine di pensieri cupi che affollavano la mia mente
da ore ed ore.
Risposi al suo sorriso appena abbozzato con uno ancor più deciso.
‘’Ecco, un sorriso era proprio quello che ci voleva, anche se
non ci sarebbe proprio nulla da sorridere…’’, disse l’uomo, sfoggiando un
sorriso più sicuro e marcato.
‘’Non c’è davvero nulla da sorridere, ultimamente…’’,
sospirai, tornando serio.
‘’Qualcosa non va?’’, mi chiese, debolmente e senza essere
indiscreto.
‘’Direi proprio di sì. Ieri nel tardo pomeriggio ho scoperto
che Alice, quella ragazza col caschetto che è venuta anche alcune volte in
questa casa, è malata’’, dissi, a voce bassa e spegnendo il televisore.
‘’Spero non sia nulla di grave’’, mi disse di nuovo Roberto,
sempre debolmente e con voce fioca e bassa. Stava parlando con cortesia, per
non urtare i miei sentimenti e per non spronarmi ad andare dove io non avessi
voglia di giungere.
‘’Ha un cancro al cervello’’, quasi gli sputai in faccia,
senza mezzi termini. Sul momento non riuscii ad addolcire la tristissima
verità, e non ritenevo neppure giusto ed opportuno farlo.
Notando la sua mancata reazione, immaginai che mia madre gli
avesse già anticipato tutto. Mi chiesi nuovamente se fosse possibile che fosse
proprio stata lei a chiedergli di cercare di parlarmi, conoscendo il fatto che
lui era sempre stato abile a farmi aprire e che tutto sommato eravamo sempre
andati d’accordo. In fondo, parlare con un uomo loquace e scaltro come Roberto
si rivelava sempre un’avventura interessante.
‘’Mi dispiace. Di fronte a simili tragedie, purtroppo, anche
le parole rischiano di diventare inutili’’, mi disse, quasi scusandosi per non
poter confortare il mio dolore, ma leggermente sollevato per essere riuscito a
farmi aprire.
‘’Fidati, anche i pensieri rischiano di diventarlo’’,
aggiunsi, ben conoscendo il mio tormento, e realizzando in quel momento quanto
in realtà fosse inutile.
Ormai la mia amica era malata, io non potevo far nulla per
salvarla o almeno alleviare una qualche sua sofferenza e ciò che avevo pensato
su di lei fino a qualche giorno prima era stato un mio grave errore, che avevo
già riconosciuto e di cui mi ero ampiamente e profondamente pentito. Ma,
nonostante questa nuova consapevolezza, non riuscivo davvero a star meglio, o
almeno a tirarmi su un attimo il morale.
Almeno ero certo di aver imparato la lezione; mai sparare
giudizi o farsi precise idee senza prima avere la certezza che tutto ciò sia
fondato.
Stava di fatto che, in ogni caso, il dolore provocatomi per
ciò che stava accadendo ad Alice era tanto, e il dispiacere immenso.
‘’Capisco. Se ti va di parlarne…’’.
‘’Non vedo cosa ci sia da parlarne’’, obiettai io alla
cortese proposta del mio interlocutore.
‘’Parlare ad un altro dei nostri tormenti interiori a volte
aiuta molto, e ci fa stare meglio. Se ti va, e se ti fidi di me, sai che io ti
ascolterò sempre’’, aggiunse Roberto, pacatamente.
Sospirai.
‘’Il dolore per ciò che è accaduto ad Alice è immenso, forse
troppo per essere razionalizzato. Lei mi ha salvato dalla mia solitudine,
qualche mese fa, e mi ha aperto molte porte… aggiungendo che mi ha fatto anche
conoscere Jasmine. Poi, però, tutt’a un tratto ha cambiato repentinamente comportamento
nei miei riguardi, e subito io ho pensato a una qualche forma di gelosia
provata nei confronti miei e di Jasmine, la sua migliore amica, poiché siamo
sempre andati profondamente d’accordo fin da quando ci siamo conosciuti.
‘’Ammetto che per giorni, anche se solo le riservavo un
pensiero, mi si metteva in subbuglio lo stomaco. Poi, ieri ecco la doccia
fredda e l’amara scoperta… la mia amica non era cambiata per via della gelosia
e dell’invidia, ma a causa di un male che le opprimeva il cervello. Ecco, ora
puoi trarre da te le conclusioni, e capire perché non mi do pace da ieri
sera’’, conclusi, dopo aver narrato tutti i punti principali della vicenda e
del mio tormento interiore.
Roberto mi aveva ascoltato con la sua solita e matura
impassibilità, e annuì alla fine del mio breve riassunto.
‘’Capita a volte di farci certe idee su qualcuno. Idee che
alla fine si rivelano sbagliate e molto lontane dalla verità. Non tormentarti
per un tuo errore! Siamo umani, e sbagliamo a volte. L’importante è che tu
abbia compreso che hai commesso uno sbaglio e che ti sia pentito di tutto ciò. Il
resto verrà da sé. E a riguardo della malattia della tua amica, beh… Alice non
è ancora morta, quindi su col morale, e speriamo assieme che questo maledetto e
subdolo male non l’abbia vinta su di lei! E so che anche quella ragazza
combatterà duramente per riprendersi in mano la sua vita’’, mi disse il mio
interlocutore, cercando di passarmi un po’ di speranza.
‘’E’ vero. Ora è incosciente, sotto l’effetto di potenti sedativi…
ma credo che se si risveglierà, lotterà con tutta sé stessa. Il più sarà
risvegliarsi dopo l’intervento dei giorni scorsi’’, dissi, ricordando le parole
udite all’ospedale il giorno precedente e riconoscendo che effettivamente
Roberto aveva ragione, in quello che mi aveva detto poco prima.
‘’Non perdere la speranza, mio caro e giovane amico. Non
perderla mai. Alice era una brava ragazza e comprendo dalle tue parole che era
una persona dall’animo gentile e piena di cortesia, e che ha fatto del bene
anche te. Vedrai che Dio ne terrà conto’’.
Sobbalzai a quelle parole.
‘’Non dubito di ciò che hai detto e ti do ragione su tutto,
ma… tu mi avevi detto che non credevi in Dio’’, gli feci notare, ancora
leggermente stupito dalla sua affermazione a sorpresa di poco prima.
‘’Non credo in Dio come entità, così come lo vuole la
religione, ma credo in Dio come bene e speranza. Non credo quindi che esista un
Signore che sta in Cielo e che da lassù ci guarda, ci giudica, ci perdona e
quant’altro… ma voglio credere che una scintilla primordiale di bene, molto
potente e imparziale, viva qui tra noi, su questa Terra, e che non sia poi così
tanto distante. Non so se mi sono spiegato bene’’, proseguì Roberto, tornando a
elargire un piccolo e tirato sorriso.
Annuii, lasciando che il mio sguardo scivolasse lentamente
verso il pavimento della stanza, di un bianco quasi accecante.
Incredibilmente, dopo quella conversazione mi sentivo davvero
molto meglio, come se condividendo il mio tormento e ascoltando il parere di un
uomo colto, intelligente e razionale come Roberto mi avesse aiutato ed
illuminato. Infatti, in quell’istante nel mio cuore e nella mia mente si era
fatta spazio la speranza, e davvero, io avrei creduto nella guarigione e nel
sollievo di Alice fino all’ultimo, fin quando ce ne sarebbe stata la
possibilità.
Le sarei stato mentalmente vicino, pensandola e sperando che
tutto potesse andare bene. Non l’avrei mai più lasciata sola, neppure nei miei pensieri,
che in fondo mi piaceva pensare che anch’essi avessero una loro forza, oltre ad
avere un peso in grado di schiacciare il nostro povero mondo interiore.
‘’Grazie per queste belle parole. Mi hai illuminato’’, dissi
all’uomo, poco dopo. Stavo davvero molto meglio.
Roberto sorrise ancor più apertamente.
‘’Grazie a te per avermi ascoltato, come al solito. Non ho
fatto niente di che’’, mi rispose l’uomo, sincero.
A quel punto, tornai ad oscurarmi nuovamente.
‘’Temevo che te la fossi presa con me, poiché erano più di
due giorni che non mi avevi rivolto la parola’’, dissi, esprimendo quei dubbi
che mi avevano tormentato fin dai momenti successivi alla mia colluttazione
finale con Federico.
Il mio interlocutore, udendo quelle parole, parve per la
prima volta leggermente sorpreso, poi scosse leggermente la testa.
‘’No, non ero per nulla arrabbiato con te. Tu non hai alcuna
colpa. È che purtroppo ormai mi sono rassegnato io… e vedere i frutti di tutto
quello che ho cercato di fare negli ultimi vent’anni abbondanti è stato davvero
tremendo. Non preoccuparti, sul serio, ero io che avevo bisogno di stare sulle
mie, e mi scuso se ti ho tenuto poco in considerazione nei giorni scorsi’’.
A seguito di quel breve discorso, fu il mio turno di scuotere
leggermente la testa.
‘’No, assolutamente… ciascuno di noi ha i propri problemi a
cui pensare, e non devi scusarti di nulla. Volevo solo sapere se te l’eri presa
con me per tutta quella vicenda oppure no… ma mi hai già risposto’’, conclusi,
timidamente e in modo impacciato. Non volevo di certo che Roberto mi facesse da
balia o mi stesse sempre dietro, d’altronde tra me e lui si era instaurato un
buon rapporto, ma io non ero nessuno per lui, ed era pur sempre un estraneo che
aveva anche una sua famiglia a cui pensare, tra l’altro piena di problemi.
‘’No, non ero arrabbiato con te, come ti ho già detto. Non
dovevi nemmeno pensare ad una cosa del genere. Ora, comunque, vado a prepararmi
un caffè… a più tardi’’, mi disse l’uomo, strizzandomi leggermente l’occhio
destro some suo solito e dileguandosi con gentilezza.
Ed io, rimasto lì solo, non potei non lasciarmi scivolare di
nuovo nel limbo dei miei pensieri, che questa volta erano più leggeri e meno
opprimenti, poiché in essi aveva preso spazio anche la speranza. E si sa, la
speranza quando radica è poi l’ultima a morire, dentro l’animo umano.
Rivolsi quindi un pensiero ad Alice e sperai con tutto me
stesso che la vicenda non finisse in tragedia, ma che il sole potesse tornare a
spuntare di nuovo su di lei, perché davvero non meritava tutto quello che stava
passando.
Quel pomeriggio fu da incubo.
Ancora mi ricordo in modo perfetto ciò che accadde. Infatti,
subito dopo pranzo, tornò a casa nostra Stefania, che dopo quel giorno in cui
si era beccata una percossa da mio padre non si era fatta più vedere né
sentire.
Non fui io a farla entrare in casa, bensì il mio stesso
padre, forse convinto che la ragazza si fosse decisa a mettere fine alle
ostilità seguendo i suoi consigli. Stefania, dal canto suo, doveva essere
venuta in quell’orario inusuale per le visite proprio per non incontrare mia
madre, che logicamente non era in casa, ma era al lavoro. Io avevo osservato
l’ingresso dell’ospite dalle scale, stando attento a non farmi scorgere, ma
tanto non corsi minimamente il rischio, giacché i due che fino a poco prima
dovevano aver formato una coppia erano interessati solo l’uno all’altro.
Sergio le si avvicinò, quasi come volerle dare un bacio
conciliatorio sulla guancia, ma lei si ritrasse con sdegno. Da quel momento in
poi mi fu chiaro che la giovane era giunta fin lì per portare avanti la sua
guerra personale.
I due si ritirarono silenziosamente in cucina, dove chiusero
la porta dietro di loro, e cominciarono a parlare.
Io, ancora imbambolato sulle scale di casa, mi chiesi se per
mio padre fosse un vizio quello di avvicinare donne molto più giovani di lui,
magari seducendo ignare studentesse o ragazze che potevano apparirgli
abbastanza ingenue da essere sottoposte al suo misero e vigliacco gioco. Pure
la mia povera madre doveva aver vissuto, anche se magari in modo un po’ meno
drammatico, ciò che stava vivendo Stefania in quel momento.
Scuotendo la testa da solo e senza saper offrirmi una
risposta, mi chiesi dove dirigermi, e lì sul posto fui praticamente folgorato
da una voglia assurda di suonare. D’altronde, mio padre aveva da discutere con
la sua ex, e i due coniugi Arriga erano al piano di sopra, ritirati nella loro
stanza, forse anch’essi a bisticciare come avevano cominciato a fare
assiduamente nell’ultimo periodo, ed io avevo campo libero.
Col cuore in gola, e con una voglia assurda di riprendere
possesso del mio strumento musicale, raggiunsi la mia saletta e mi tappai al
suo interno.
Prevedendo che il mio genitore sarebbe stato occupato per un
po’, mi feci forza e spalancai i vetri della finestra, facendo così uscire
l’aria viziata rimasta intrappolata da settimane tra quelle quattro mura, quasi
gelosamente custodita dal freddoloso Sergio, e poi, per la prima volta dopo più
di un mese, mi avvicinai al mio pianoforte. Fu una sensazione strana, anzi, un
mix di sensazioni differenti, ma in grado di rendermi piacevolmente inquieto.
Un leggero strato di polvere ricopriva tutto quanto, e
facendomi coraggio ripulii tutto in un batter d’occhio e con il panno apposito,
ancora conservato all’interno del mobiletto vicino. Poi, giunse il momento
tanto atteso; quello di sedermi di nuovo lì, di fronte al mio amico di sempre,
e tornare a dargli vita e voce.
Deglutii, senza più pensare a chi mi circondava su quel
misero mondo, e con una ritrovata voglia di suonare mi misi a sfiorare i tasti
del mio strumento preferito e tanto amato.
La sinfonia mi venne subito perfetta e accorta, ma
soprattutto corretta e piacevole da udire, e in quegli istanti colmi di gioia
mi lasciai un po’ andare, senza seguire alcuno spartito o altro.
Spartiti che, tra l’altro, avevo lasciato dentro al
mobiletto, senza neanche tentare di estrarli, correndo quindi poi il rischio di
dimenticarli e di farli individuare da mio padre, che magari per ripicca me li
avrebbe pure rotti, e io non potevo proprio correre rischi del genere. Meglio
che stessero al sicuro, e che io avessi la possibilità di sfogare ciò che avevo
dentro in tutta libertà, ritrovando quindi quell’armonia che mi mancava da un
bel po’ di tempo.
Suonai per un po’, innalzandomi finalmente libero
nell’infinito splendore della musica, e lasciandomi scivolare addosso tutti i
problemi che avevo accumulato negli ultimi mesi, sentendomi fin da subito
davvero molto meglio e più felice e soddisfatto. Stavo ritrovando la mia pace
interiore.
Dopo un po’, il mio ritmo s’allentò, anche a causa dei rumori
che avevano cominciato a circondarmi con maggior insistenza e a disturbare la
mia attenzione. I rumori in questione giungevano dal piano superiore, proprio
sopra alla mia testa, dove i due coniugi Arriga avevano cominciato a litigare a
voce più alta del solito, e dalla cucina dove Stefania e Sergio pareva che
stessero per scannarsi a vicenda.
Quel pensiero violento mi bloccò definitivamente, lasciando
che le mie braccia smettessero di muoversi assieme alle mie dita ad un ritmo da
me voluto e ricercato.
Mi chiesi se fosse meglio che andassi a fare un giretto in
corridoio, magari controllando che la situazione nella stanza attigua non
degenerasse come durante la scorsa volta, dov’erano volati anche schiaffi, ma
poi decisi di non muovermi da lì, tanto non avrei potuto davvero far nulla per
calmare un probabile eccesso d’ira del mio genitore.
Udendo anche il litigio in contemporanea degli Arriga, mi
sentii oppresso in quel luogo che un tempo era stato il mio rifugio dal mondo e
dai suoi urti. Mi chiesi se anche Federico fosse in ansia per quello che stava
accadendo tra i suoi genitori, ma logicamente lasciai perdere quella domanda,
dato che colui che era stato il mio più acerrimo nemico ormai sembrava aver
perso le forze anche per tirare avanti. Da due giorni era il fantasma di sé
stesso, muto e sfuggevole, sempre rinchiuso nella sua stanza.
Aveva perso tutto, e anche lui stava affrontando una caduta,
finalmente, e di certo del rapporto dei suoi genitori non doveva importargli
molto, d’altronde non gli era mai importato troppo di loro, dalle impressioni
che avevo sempre avuto.
La situazione effettivamente degenerò dopo poco, e quasi
all’improvviso, quando mio padre urlò qualcosa e udii la porta della cucina che
si spalancava.
Tremai, ancora seduto alla mia postazione, senza sapere come
reagire. L’uomo non aveva ovviamente accolto l’appello mio e di mia madre ad
andarsene, e continuava così a causarci problemi, sia lui che la sua amante.
Stefania un po’ mi faceva pena, però la sua ingenuità a
tratti mi faceva innervosire e sorridere. Ed inoltre, anche se lei aveva dentro
al suo ventre una sorta di parte di me, attendendo un mio fratellastro, non
riusciva a convincermi della sua più totale buonafede nei confronti di mio
padre. Chissà se tra i due c’era mai stato qualche sentimento sano, oppure se tutta
la loro falsa relazione fosse stata instaurata per bisogno e necessità di
entrambi, quasi mentendosi doppiamente e reciprocamente.
‘’Sei davvero un uomo schifoso! Non ti cercherò mai più,
fidati, e non vorrò mai più rivederti!’’, urlò Stefania all’improvviso, nel bel
mezzo del corridoio, poiché la voce mi giunse molto chiara e nitida alle
orecchie.
Mio padre, dal canto suo, mugugnò qualcosa dalla cucina, per
poi dirigersi anch’egli nel corridoio e sbottare un’orribile e irripetibile
bestemmia disperata.
Schifato da tutta quella scenata, mi venne l’impulso di
appoggiare le mie dita sulla vicina tastiera e di emettere qualche suono, e
quasi involontariamente lo feci, come se anche il mio corpo in modo autonomo
volesse proteggersi e tutelarsi da tutto quel violento e volgare pandemonio.
‘’E smettila di strimpellare con quel dannato coso,
altrimenti poi lo spacco, porca…’’, ruggì l’imbestialito Sergio, udendo subito
le mie note appena suonate, logicamente aggiungendo un’altra impronunciabile
robaccia sul finale della frase.
Coprendomi le orecchie e cercando di salvarmi da
quell’ambiente malato, potei soltanto udire altri rumori soffusi provenire dal
piano di sopra, meno violenti di quelli prodotti dal mio genitore però, mentre
le strida acute di Stefania rimbombavano ovunque attorno a me. La ragazza
doveva essersi portata già davanti alla porta d’ingresso, pronta anch’essa a
dileguarsi dopo le ennesime e brutali promesse che stava facendo al suo ex
amante, poiché da quel che gli stava dicendo intesi chiaramente che non aveva
più intenzione di cercarlo o di rinstaurare qualcosa con lui.
Mi venne spontaneo chiedermi le sorti del mio fratellastro,
che in quegli istanti dovevano già essere state decise, ma davvero in quel
momento non potevo preoccuparmi di altri o di altro se non di me stesso e della
mia incolumità mentale, tentata da quegli orribili, volgari e violenti litigi. Intanto,
un rapido tramestio provenne anche dalle scale, segnale che qualcun altro
voleva andarsene da quella casa e uscire all’aperto.
Ormai dimentico pure del mio pianoforte, tornai ad agire come
un pazzo, pur di fuggire da quel posto che puzzava di malsano e di male.
Sfruttando quindi la finestra aperta della stanza, per
fortuna al piano terra, uscii frettolosamente in giardino e mi dileguai in
fretta senza che nessuno se ne accorgesse, raggiungendo senza intoppi il
cancelletto e lasciandomi alle spalle e con un sospiro di sollievo tutto quel
patatrac. Volevo solo fuggire da lì, e in quei fatidici istanti pensai di
poterci riuscire.
Ma in strada dovetti affrontare l’ennesimo ostacolo, prima di
poter raggiungere una qualche sorta di piccola libertà.
Nulla, nella vita, è mai troppo
semplice o scontato.
NOTA DELL’AUTORE
Salve a tutti!
Continuo a ringraziare chiunque sia
giunto a leggere fin qui, e tutti i gentilissimi recensori che mi seguono
sempre con grande puntualità ed attenzione. Grazie, davvero!!
Grazie di cuore a tutti e per tutto,
e buona giornata! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 31 *** Capitolo 31 ***
Capitolo 31
CAPITOLO 31
Non appena varcai il cancelletto, pronto a riversarmi in
strada assieme a tutta la mia voglia di lasciarmi quella casa alle spalle, m’imbattei
quasi per caso in Livia.
La donna, tutta torva e agitata, si stava approssimando a
salire sulla sua auto, ed io rimasi davvero molto sorpreso per essermela
trovata di fronte così all’improvviso.
Molto probabilmente, lo scalpiccio nelle scale che avevo
udito poco prima doveva essere stato prodotto da lei, che dopo l’ultimo e lungo
litigio col marito si voleva allontanare di lì, proprio come stavo facendo io,
ma quella volta senza il figlio. Doveva essere uscita direttamente, magari
passando immusita davanti a mio padre e a Stefania, il cui dibattere potevo
ancora udirlo pure da fuori.
L’aristocratica mi rivolse uno sguardo agghiacciante, mentre
io ero rimasto come imbambolato di fronte a lei, senza neanche avere la forza
per rimproverarmi per non aver prestato maggior attenzione mentre uscivo in
strada. Se fossi stato più attento, magari l’avrei potuta notare, ed avrei
avuto modo di soffermarmi una frazione di secondo in più nel mio giardino,
attendendo che se ne andasse. Ed invece, purtroppo, anche quella volta mi ero
lasciato andare ciecamente all’ansia frettolosa provocata dai miei sentimenti.
‘’Sei felice ora, che hai combinato tutto questo casino? E’
tutta colpa tua. Ma tu, nella tua stupidità e nel tuo egoismo, te ne stai lì ad
addossare la colpa agli altri, e a fare la vittima. Contento del risultato?’’,
mi pungolò incessantemente la signora, con perfidia, richiudendo lo sportello
dell’auto e muovendo qualche passo verso di me.
Compresi solo in seguito che forse avrei fatto meglio ad
ignorarla, invece di soffermarmi un attimo a ribattere, poiché non ne valeva
davvero la pena. Ma, sul momento, ebbi un moto di stizza che non riuscii
affatto a contenere.
‘’E’ tutta colpa mia, vero? Colpa mia se mio padre è una
bestia, se ha messo incinta una ragazza che ora ci tormenta continuamente, se
tuo figlio è uno schifoso e stupido bullo e te e lui avete avuto l’idea di
mettervi a coltivare droghe in casa nostra?’’, le sputai con brutale decisione
in faccia, mentre sentivo il mio volto che s’imporporava in fretta, quella
volta soprattutto a causa della rabbia che provavo. Un nervoso eccessivo per
essere riprodotto col semplice pensiero.
‘’Senti ragazzino, mi fai davvero schifo. Sappi che io ti
odio con tutta me stessa, anche se sei solo una pulce e un verme umano, che non
meriterebbe neppure di essere visionato dai miei occhi. Ti odio perché hai
fatto del male a me e a mio figlio! Me la pagherai’’, mi sputò in faccia la
signora, con una prepotenza assurda.
Ero allibito all’indescrivibile.
Sapevo che quella persona disgustosa che mi stava di fronte
era una vera stronza, ma non mi aspettavo un assalto così violento da lei.
Constatai in modo superficiale e frettoloso che l’aristocratica, nel corso
degli ultimi giorni, pareva fosse cambiata davvero tantissimo, molto
probabilmente per il fatto che il suo amato figlioletto era stato finalmente
messo praticamente con le spalle al muro.
‘’E come, sentiamo?’’, quasi sussurrai, intimorito, anche se
non volevo assolutamente mostrarlo.
La donna mi sorrise, e giuro che in quel momento mi parve
davvero una strega indemoniata, con quei suoi occhiacci da arpia spalancati e
spiritati più del solito ed un piccolo e curioso ghigno impresso sulle labbra.
‘’Un modo lo troverò, vermiciattolo. E allora, finalmente
finirai schiacciato come uno scarafaggio, proprio come meriti. E non demorderò
fintanto che non avrò avuto vendetta per mio figlio’’, disse quella maledetta,
tornando verso la sua auto e allungando una mano verso lo sportello, già pronta
ad aprirlo di nuovo.
‘’Io a tuo figlio non ho fatto nulla; al massimo è stato lui
a fare del male a me’’, dissi, quasi in modo pietoso.
In quel momento mi ero davvero spaventato. Sarà stato che
quella donnaccia perfida era riuscita abilmente ad inculcarmi una discreta dose
di paura, nella mia povera mente frastornata.
‘’Poverino! Tu sei un santo, sei l’unico innocente della
vicenda. Beh, allora la mia vendetta ti renderà un martire’’.
E così dicendo, non senza uno spicchio di schifosa ironia,
Livia s’infilò nella sua Panda e la mise in moto, per poi andarsene in un
attimo.
Io, ancora interdetto sul marciapiede, deglutii a fatica,
chiedendomi come quella strega avrebbe cercato di colpirmi. Sapevo che se me lo
aveva promesso l’avrebbe fatto. Non avevo idea di come tentare di difendermi,
poiché quella volta nessuno avrebbe potuto aiutarmi e nessuno avrebbe accolto
una mia richiesta d’aiuto. Non avevo neppure prove tangibili a mio favore.
Fui costretto a riconoscere con maggior convinzione che Livia
era cambiata tantissimo, da quando ero riuscito a mettere in guai seri suo
figlio, guai che tra l’altro si era ampiamente cercato. Sembrava che la donna,
ferita nel fatto che uno sfigato come me avesse contrastato il suo amato
pargolo, sangue del suo sangue e perfetto ai suoi occhi, mi odiasse davvero con
tutta sé stessa e stesse follemente cercando per davvero un modo per colpirmi
alle spalle, e per farmi del male.
Come avrebbe fatto, però, non lo sapevo, essendo più
imprevedibile di suo figlio, immaginando che nel caso di quest’ultimo mi
sarebbero aspettate solo delle botte. Infatti, era stata proprio quella
prevedibilità e un pizzico di fortuna a salvarmi dalla vendetta di quel
pazzoide. Ma la signora era totalmente impossibile da comprendere fino in
fondo.
Sospirai e m’imbronciai, cominciando ad allontanarmi da casa
mia e sempre seguendo il marciapiede, comprendendo anche che quella persona
schifosa credeva per davvero che nella vicenda fossi io il cattivo e il mostro,
quando in realtà lo erano lei, suo figlio e mio padre, quell’uomo che sapeva
sempre farla sorridere quando mi urlava contro qualcosa o raccontava qualche
particolare selezionato del mio passato.
Mi parevano soltanto loro i mostri, in tutta quella vicenda.
Forse quella donna perfida credeva di mandarmi totalmente in
confusione, in modo da diventare una sua più facile preda, e magari farmi
uscire di senno, ma quella strega si era davvero sbagliata, se credeva di facilitarsi
ancor di più la vita in quel modo. O, forse, la pazza della situazione era lei.
Cercai di smettere di riflettere sulla discussione accesa
affrontata pochi istanti prima, ma la rabbia era tale che non riuscivo davvero
a sopirla. Dovevo sfogarmi, ma sapendo che questo forse mi avrebbe portato a
farmi ancor più male, scelsi di cercare in modo concreto un po’ di compagnia.
Lì per lì rimasi perplesso dalla mia idea, che fino a poco
tempo prima avrei considerato balzana vista la mia timidezza eccessiva e la mia
totale chiusura interiore, ma sapevo che in quei giorni un po’ di amici ce li
avevo, e potevo contattarli.
Decisi subito di lasciar perdere Melissa, e optai per non
incontrare Jasmine, poiché le vicende e le scoperte del giorno prima erano
ancora troppo fresche per essere rimestate, e ciò sarebbe di certo accaduto se
l’avessi rincontrata.
Un po’ temevo pure di rovinare il nostro rapporto ormai
ufficialmente dichiarato anche ai suoi genitori, dovetti ammetterlo. Pensai,
sempre mentre camminavo lentamente verso una meta ancora imprecisata, che
sarebbe stato cortese da parte mia fare chiarezza con mia madre, e farle
conoscere quella che era per davvero la mia ragazza, la prima della mia vita,
ma scartai quell’eventualità fin da subito. Tutto ciò non era caso di
affrontarlo in quel momento troppo delicato.
Decisi quindi con risolutezza che avrei per davvero contattato
Giacomo; erano giorni che non ci incontravamo, e non ci eravamo neppure visti a
scuola. Mi mancava, in fondo, e la sua compagnia era sempre qualcosa di
eccezionale.
Sorridendo tra me e me, estrassi il mio cellulare dalla tasca
destra dei jeans e gli mandai un sms.
La risposta non si fece attendere più di un secondo, e sempre
sorridendo mi incamminai verso un luogo che effettivamente conoscevo poco, ma
che poteva rivelarsi piacevole per trascorrerci un pomeriggio in compagnia di
un amico.
Incontrai Giacomo al parchetto pubblico, un piccolo spazio
simile a quello che avevo a pochi passi dalla mia dimora, ma situato ancor più
in periferia.
Non di molto, in realtà restava a dieci minuti di camminata
sostenuta dalla mia abitazione, ma era posizionato proprio al confine con
l’aperta campagna e con l’inizio dei campi coltivati, e lì si respirava per
davvero l’odore di libertà tipico dei luoghi agresti, non essendo comunque
infossato tra varie abitazioni e inquinato dalle strade e dalle auto. Era per
questo, credo, che nonostante fosse ormai pieno inverno il mio amico aveva
optato per recarci in quel posto pacifico e rilassante.
Quando lo raggiunsi, lo trovai in compagnia di Stefano, il
ragazzo più volgare del liceo, e Francesco, uno dei più timidi. Avevano già in
mano i loro telefonini, e i sorrisi impressi sui loro volti, uniti al fatto che
Stefano stava narrando qualcosa con un tono di voce già piuttosto alto, nel
complesso mi suggerirono che il più volgare dei tre avesse nuovamente cominciato
a narrare qualcosa di ridicolo.
Non appena mi scorsero, però, mi salutarono e tutto finì lì.
‘’Antonio, sono già due giorni che manchi da scuola. Non è
che hai intenzione di far buco anche il giorno dell’esame di maturità,
vero?!’’, esordì Giacomo, sfoggiando un tono di voce petulante e l’espressione
tipica della professoressa Carlucci.
Non riuscii a trattenere un sorriso, che sbocciò in fretta
sulle mie labbra.
‘’No, no, tranquilli… e poi sai che cosa mi è accaduto poco
più di un paio di giorni fa. Mi sto fisicamente rimettendo solo ora’’, dissi
loro, parlando alla platea dei tre e accomodandomi sulla vicina panchina, non
prima di aver passato una mano sulla sua superficie ed essermi accertato che
non fosse bagnata.
Ricordo che una volta, cinque o sei anni prima di quello che
sto ricordando ora, mi sedetti su un’altra panchina senza essermi accertato del
suo stato, e rialzandomi in fretta mi ero ritrovato coi pantaloni tutti bagnati
proprio nell’area del sedere. Stando poi in piedi e cercando di rimediare,
l’umido aveva conquistato un altro pochino di terreno e pareva che mi fosse
successo un imbarazzante incidente.
Da quel giorno in cui mi ero vergognato tantissimo, dato che
ero in gita scolastica ed ero stato costretto a gironzolare in quello stato
fintanto che il bagnato non si era asciugato, sono sempre stato attento alle
panchine, analizzandole attentamente prima di utilizzarle.
‘’Sai vero che quello stronzo non è più tornato a scuola?
Anche i suoi due amici… li abbiamo proprio messi nei guai! Mio zio poi mi ha
anche detto che si cercherà d’indagare il più in fretta possibile, poiché ormai
la questione è stata presa davvero a cuore dalla preside, che non vuole simili
incidenti nel suo istituto. Poi quello che ti è accaduto è successo fuori dalla
scuola, e a lei non resta altro che immaginare che le ostilità fossero
cominciate proprio nel suo ambiente scolastico, e ciò è comunque un gravissimo
reato.
‘’Nei prossimi giorni le scriverò un’altra lettera anonima’’,
terminò Giacomo, serio.
‘’Una letterina d’amore?’’, domandò Stefano, non lasciandosi
sfuggire l’occasione propizia per aprir bocca e tentare di fare lo sciocco.
‘’Sì, se vuoi la firmo a tuo nome però!’’, sbottò Giacomo,
dapprima con sembianze irritate, per poi finire col ridere.
‘’Lascia perdere quella megera… utilizzatela per lanciarla
contro quel pazzo scemo di Federico e dei suoi amichetti’’, tornò a dire il
burlone dopo qualche risata, mentre tutti noi eravamo ovviamente d’accordo con
lui.
‘’E’ proprio quello che intendiamo fare. Io, personalmente,
mi lavorerò anche la Carlucci. È già molto irritata nei confronti del bullo, e
sarà una missione facile. Anche la preside lo è, quindi non dovremmo
riscontrare problemi nella nostra battaglia contro il nemico. Spero veramente
che lo espellano’’, aggiunse poi Giacomo, come sempre molto risoluto quando si
trattava di colpire Federico. Lo odiava e il suo astio era sempre più
palpabile.
‘’Sai che in questi giorni non l’ho neppure visto in giro? Se
ne sta sempre chiuso in camera sua, da quando è tornato dalla caserma… sembra
davvero che sia molto giù di morale’’, dissi, riprendendo a pensare allo strano
comportamento del nemico.
Fui costretto a pensare che forse si trattava di una qualche
nuova strategia, dato che ormai era stato quasi del tutto smascherato e ben
presto gli sarebbero piovuti addosso solo tanti altri problemi e guai.
Capii improvvisamente che, molto probabilmente, il suo
atteggiamento da depresso che stava cercando d’indossare in quei giorni poteva
anche trattarsi di una semplice tattica per far innervosire la madre nei miei
confronti, e in quelli di chiunque lo aveva contrastato.
In effetti, Federico era sul punto di essere sconfitto, ed
ormai era già nel bel mezzo di problemi con la Legge per quello che aveva fatto
a me e in strada, e ben presto sarebbe potuta giungere un’altra mazzata dalla
scuola e dalle forze dell’ordine a riguardo degli atti vandalici degli scorsi
mesi. Quindi ciò che gli restava era proprio la madre, l’ultima carta da
giocare e l’ultima difesa contro tutti, una sorta di scudo umano.
Livia infatti, grazie al suo repentino cambiamento, sembrava
fuori di sé dalla rabbia, forse anche perché seguiva il suo istinto materno e
protettivo, che le imponeva di difendere con tutta sé stessa il proprio figlio,
prendendosela ovviamente anche con me.
‘’Bene, allora dobbiamo prepararci a dargli il colpo finale,
legalmente s’intende’’, riconobbe Giacomo, sempre molto attento e riflessivo.
Riconobbi che la sua figura che fino a qualche mese fa mi era
sempre parsa frivola in realtà nascondeva una personalità forte ed
intelligente. Era davvero un bravo ragazzo e un buon amico.
‘’Solo che ora quella stronza di sua madre pare avercela con
me e con chiunque sfiori il suo figlioletto anche solo con un pensiero
malvagio. Si è messa in testa di farmela pagare…’’, quasi sussurrai alla
platea.
‘’Cosa?!’’, dissero quasi all’unisono i tre ragazzi, pure il
sempre muto e silenzioso Francesco, dal tanto che erano rimasti colpiti dalla
mia rivelazione.
Feci una smorfia e poi, con rassegnazione, raccontai loro
l’episodio di poco prima, e notando la loro attenzione ne approfittai anche per
narrare ciò che copriva la madre, non nascondendo ai tre amici neppure la
vicenda riguardante la marijuana.
Dopo qualche istante, a seguito della conclusione della mia
narrazione, i tre ragazzi erano ammutoliti e sbalorditi. Chiesi cortesemente
loro di non far chiacchiere e di tenere tutto quanto per sé.
Non mi avrebbe fatto piacere che tutti nel liceo sapessero
ciò che accadeva in casa mia.
‘’Fidati, non ci tengo a raccontare in giro una storia del
genere. Mi prenderebbero per matto! Ma sono quegli Arriga dei veri matti…
devono finire in carcere! Sono un pericolo pubblico!’’, gridacchiò Stefano, con
la sua solita enfasi.
Io sorrisi, sapendo che anche di lui mi potevo fidare. Se con
Giacomo ero in una botte di ferro, lo ero anche col taciturno e silenzioso
Francesco e col bonaccione casinaro di Stefano, che avevo imparato a conoscere
un pochino, e sapevo della sua lealtà nei confronti di chi conosceva.
‘’Solo madre e figlio sono così. Il padre è una brava
persona’’, dissi loro, nell’intento di far chiarezza.
‘’Senti Antonio, questi hanno traffici di stupefacenti, il
figlio è un bullo che sta in giro tutta la notte a compiere atti vandalici e la
moglie è visibilmente pazza e magari gli fa un sacco di corna… e lui non sa
niente e non sospetta neppure nulla?! Non è possibile’’, negò Giacomo.
Mi ritrovai a non sapere che dire. Roberto mi era sempre
parso limpido, gentile e corretto, e non riuscivo proprio a vederlo in un’ottica
simile a quella dei suoi familiari. Eppure, anche a me tutto puzzava un poco,
ma io volevo davvero riporre un’immensa fiducia in quell’uomo.
Sapevo che Roberto era una brava persona, ma che a volte
peccava un po’ d’ingenuità, e volli attribuirgli questa causa alla sua mancata
comprensione dei problemi interni alla sua famiglia. In realtà, magari
sospettava qualcosa e non me l’aveva mai detto, ma io ero più che certo che
quel brav’uomo non centrava nulla in tutta quell’orribile vicenda.
‘’Roberto, il signor Arriga, è una bravissima persona. Ha
fatto tanto per me, e non mi sento di giudicarlo. Lui non è come loro’’,
ribadii, quella volta con maggior sicurezza. Nessuno avrebbe potuto scalfire
l’idea che mi ero fatto di quell’uomo, anche perché era sempre stato così
attento, gentile e premuroso con me che io non potevo assolutamente neppure
permettermi di fargli il torto di pensar male di lui e di sparlargli alle
spalle con degli estranei, anche se essi erano miei amici. Restava quindi
un’icona di perfezione, nella mia mente.
‘’Sarà… ma sta di fatto che devi liberarti di quei pazzi. Non
devi lasciare che quella donnaccia ti calpesti a suo piacimento, soprattutto
ora che siamo ad un passo dalla giusta fine del figlio’’, rincarò Giacomo,
davvero molto arrabbiato nei confronti dei miei inquilini.
Non potei far altro che annuire, senza aggiungere altro.
Il mio amico aveva ragione; quella donna non doveva
assolutamente neppure intromettersi nella mia vita o cercare di fare delle
ripicche. Suo figlio era un gran prepotente e maleducato, di questo io non ne
avevo colpa, e logicamente se sarebbe stato punito nessuno doveva punire me,
tantomeno la madre di quello stronzo.
Tuttavia, il mio ragionamento logico e la mia voglia estrema
di non finire vittima dell’aristocratica si scontrarono contro la realtà dei
fatti, ovvero che non avevo la benché minima idea di come fare a premunirmi dal
suo possibile e promesso attacco imminente.
Decisi quindi alla fine di non stare a pensarci troppo su in
quel momento, e di godermi un po’ la compagnia dei ragazzi, svagandomi in quel
posto che profumava di campagna. Al solo ricordare quest’ultima parola, mi
torna ancora in mente la scampagnata al lago con Roberto, in quel giorno ormai
parecchio lontano ma mai dimenticato, facendomi sfuggire un sorriso.
Inutile dire che m’impegnai per cambiare discorso.
I miei piccoli sforzi non furono inutili, poiché ben presto
quasi ci scordammo di Livia, della sua perfidia e di suo figlio, e ci
trastullammo in quel parchetto dicendo sciocchezze, di quelle tipiche che si
dicono tra ragazzi coetanei, e lasciando che Stefano si scatenasse con le sue
brutture e il suo baccano, che in fondo non era male e a tratti pure simpatico.
Poi, infine, quando già il sole cominciava a calare
all’orizzonte, decidemmo di salutarci fermandoci un attimo al bar lì vicino,
dove avremmo potuto fare una partitella a biliardino e acquistare qualche
Goleador, le fantastiche e gustosissime caramelle gommose che ancora oggi sono
amatissime da me e dai miei amici e conoscenti.
Nonostante tutto, il pomeriggio era passato in fretta ed io
mi ero divertito un po’, forse meno il povero Francesco che se n’era sempre
stato zitto, ma tuttavia sapevamo che lui era fatto così ed era sempre
taciturno, e in fondo molto probabilmente era stato bene in compagnia.
Ci dirigemmo quindi mestamente verso il bar più vicino, che
in realtà era l’unico nei pressi del parchetto. Il mio piccolo paese contava
solo tre bar di numero, di cui uno nel piccolo centro, ed un altro in una
viuzza laterale ad esso. Il terzo era proprio quello, quasi in periferia, il
meno trafficato e quello anche più riservato e tranquillo.
Eravamo sfiniti, avevamo parlato tutto il tempo e neppure
Stefano riusciva più ad aprir bocca.
‘’Sarà meglio che mi prenda anche un bicchiere d’acqua,
altrimenti qui chissà come va a finire’’, continuava a ripetere il più casinaro
e manesco dei quattro, mentre attraversavamo la strada che divideva il
parchetto pubblico dalla nostra vicina meta.
Giungemmo in fretta al bar semideserto, come suo solito, ma
per fortuna dotato di un biliardino all’aperto, che quel giorno era tutto
umidiccio ma utilizzabile e libero. I più giovani, infatti, frequentavano quel
locale solo saltuariamente ed esclusivamente per passare un po’ di tempo
giocando con esso, che di certo era più utilizzato delle tazzine da caffè.
Il vecchio barista, un uomo oltre la settantina che faticava
a portare avanti la baracca per via dei debiti, secondo quanto affermavano tutti,
ci osservava attentamente di là dalla vetrata del suo locale, totalmente vuoto
a parte una coppia di persone sedute ad un tavolo lontano dalla porta, un uomo
adulto e una donna che ci dava le spalle.
Sapendo che giocare era gratuito, e che il vecchio era un
vero tirchio, per cortesia prima di scatenarci mandammo Stefano a comprare
Goleador per tutti e a bere un po’, così da non apparire almeno formalmente
come scrocconi.
‘’Io e te stiamo in squadra assieme’’, mi propose Giacomo
durante la breve attesa.
‘’Gestisco la difesa?’’, chiesi, già tacitamente accettando e
informandomi.
‘’Portiere e difensori. Io proverò a far goal a Francesco’’,
tornò a dire il mio amico, dando una leggera gomitata al ragazzo timido e
taciturno, che anch’esso stava attendendo assieme a noi. Ci rivolse un
sorrisetto impacciato.
Stefano interruppe le nostre macchinazioni in modo brusco,
piombandoci addosso da dietro e facendo di nuovo baccano.
‘’Caramelle per tutti, bambini! Ah ah, mi sono ripreso,
visto! Un sorso d’acqua ed eccomi come nuovo!’’, strillò il nostro compagno
casinaro, donandoci una nuova ed indispettita occhiataccia dell’anziano
barista, che pareva essersi calmato dopo aver visto che almeno uno del gruppo
aveva comprato qualcosa, ma che era tornato all’erta non appena aveva udito
quegli schiamazzi.
‘’Stefano, dai, smettila un po’… il vecchio altrimenti ci
caccia’’, fece notare Giacomo, cercando di farlo rinsavire da uno di quei suoi
soliti momenti di eccessiva euforia.
Il ragazzo se ne accorse anch’esso, notando lo sguardo
irritato del barista disoccupato, che con un asciugamano tra le mani si era
posizionato proprio a fissarci in modo diretto.
‘’Avete ragione. Ma non garantisco che riuscirò a stare
calmo, durante la partita’’, disse poi Stefano, piombando sul biliardino, dopo
aver frettolosamente consegnato un pacchettino da due caramelle a ciascuno di
noi.
Io e Giacomo ci guardammo, e dopo aver scrollato la testa
prendemmo anche noi posizione, mentre Francesco raggiungeva tacitamente il
compagno di squadra.
All’improvviso però, il cellulare di Stefano squillò.
‘’Scusate, ragazzi’’, disse il nostro amico, imbronciandosi
per un attimo e rispondendo.
Subito, una voce roca e squillante giunse fino alle nostre
orecchie, che pareva stesse bruscamente sgridando il ragazzo, per poi
riattaccare dopo un istante.
‘’Chiedo scusa, amici, ma ora non posso davvero più fermarmi
qui a giocare con voi, neppure una partita. Mia madre si è incavolata perché le
avevo promesso che entro le cinque sarei stato a casa, ed invece sono quasi le
sei di sera… e il fatto che io ho tante materie sotto non mi aiuta affatto ad
avere un po’ più di libertà, e vuole sempre che io studi qualche ora. Quindi,
per evitare ulteriori casini in famiglia e a scuola, è meglio che io torni a
casa’’, disse Stefano, sconsolato, non riuscendo neppure a guardarci e tenendo
lo sguardo basso, verso terra. Poi, ci passò qualche altro pacchettino di caramelle,
come per volerle aggiungere alle sue scuse.
‘’Capiamo, e ci dispiace. Sarà per un'altra volta, ora vai a
casa’’, acconsentì in fretta Giacomo, comprendendo al volo la situazione.
‘’Lunedì ci vediamo a scuola, poi magari organizziamo un
altro pomeriggio o un’altra serata in questo modo’’, aggiunse il nostro amico,
che in quel momento era davvero molto mogio e senza entusiasmo, mettendosi in
fretta il cellulare in tasca e già cominciando ad allontanarsi da noi a piedi.
‘’Sì, certo’’, rispondemmo io e Giacomo quasi all’unisono,
per poi salutarlo a distanza.
Dopo un istante si era già volatilizzato nella penombra di
quella gelida e prematura sera d’inizio dicembre.
‘’Ragazzi, mi sa che devo proprio andare anch’io’’, ci disse
Francesco, prendendo la palla al balzo.
Per nulla sorpresi da quella sorta di forfait, lo salutammo e
lo lasciammo andare, a quel punto non del tutto convinti che avesse passato un
pomeriggio piacevole in nostra compagnia. Ma si sapeva che lui era un ragazzo
fatto così.
Rimasti solo noi due, io e Giacomo, con un sorriso spento ci
fissammo l’un l’altro.
‘’Non resta altro da fare che salutarci anche noi, immagino…
che facciamo, altrimenti?’’, gli chiesi, tiepidamente.
‘’Una partitella in due, che dici?’’, mi propose, mentre una
nuova scintilla d’interesse luccicava di nuovo nelle profondità dei suoi occhi.
‘’Mah, non mi va di stare qui, osservato dal vecchio
irritato… meglio tornare a casa. Tra poco sarà buio’’, gli dissi accennando
leggermente verso il barista, che pareva un mastino da guardia, e cercando di
dileguarmi. In fondo, anch’io avevo ancora tutti i compiti da fare a casa, e da
recuperare gli ultimi giorni in cui non avevo fatto un bel nulla per la scuola.
Giacomo annuì, un po’ rattristato per il fatto che alla fine
tutti l’avevamo piantato in asso, ma non disse nulla e mi sorrise
amichevolmente. Era giunto il momento dei saluti anche per noi.
‘’Ci vediamo lunedì, allora’’, mi disse il mio amico, mentre
pian piano prendevamo le distanze dal biliardino e imboccavamo rapidamente il
marciapiede.
‘’Sì, sì. Se tutto va bene, lunedì dovrei…’’.
Avrei voluto dire che lunedì ci sarei dovuto essere, ma non
ci riuscii. Infatti, un qualcosa aveva attirato la mia attenzione, e quasi come
se fossi stato sotto l’effetto di un antico sortilegio, non riuscii neppure a
concludere la frase o a farfugliare qualcos’altro.
Ad avermi colpito era stato un qualcuno che dapprima avevo
intravisto solo con la coda dell’occhio, mentre mi stavo allontanando col mio
amico dal bar, e poi, girandomi e osservando meglio, ero riuscito a riconoscere
una figura a me amaramente nota.
Sul marciapiede, una decina di metri dietro di noi, la
signora Arriga stava parlando animatamente con un uomo, quello che avevo
intravisto all’interno del bar poco prima, e riconobbi che Livia era la donna
che mi aveva dato le spalle in lontananza, seduta allo stesso tavolino interno
al locale, in compagnia del tizio.
Improvvisamente, lì vicino alla strada, i due si
abbracciarono con uno slancio che aveva un che di amoroso.
Ancora inebetito a causa della sorpresa, cercai di tornare in
me e non appena mi volsi verso Giacomo, notai che anche lui stava fissando la
medesima scena con interesse.
‘’Ma quella non è la stronza che ti vuole creare dei
problemi? La madre di Federico? L’ho intravista l’altro giorno quando usciva
dall’ufficio della preside’’, disse il mio amico, splendidamente perspicace.
‘’E’ proprio lei. E quello non è suo marito…’’, annuii,
confermando le sue ipotesi e lasciandomi sfuggire una piccola osservazione
stupita.
Nel frattempo, i due non accennavano a sciogliere il loro
abbraccio, e non parevano intenzionati a farlo, almeno nell’immediato.
L’uomo che Livia stava abbracciando appassionatamente era di
tutt’altro aspetto del marito, poiché era alto, slanciato e con un fisico
prestante, anche se doveva avere anche lui più o meno la stessa età di
quest’ultimo, ed in più non aveva alcuna traccia di barba ed era dotato di una folta chioma liscia ed ingrigita. Non ci
misi molto a comprendere che i due stavano mettendo le corna al mio carissimo
Roberto.
Ebbi paura di essere riconosciuto, e siccome non volevo aver
problemi o dover dare spiegazioni alla signora, rischiando quindi di inasprirla
ancor di più nei miei confronti, ammetto solo ora che fui sul punto di darmela
a gambe.
Devo solo ringraziare la dea bendata, che in quel pomeriggio
inoltrato mi aveva lasciato a mio fianco Giacomo, un ragazzo davvero
intelligente, sveglio e sempre pronto all’azione, che non si fece affatto
intimorire da ogni pronostico e, senza tanto titubare, strappò il mio cellulare
dalla tasca dei miei pantaloni e si mise a paciugare per un istante, per poi dirigersi
prontamente verso la coppietta affiatata, che non stava di certo badando ad un comune
passante.
Non feci in tempo a dire nulla, non sapendo neppure cosa
aspettarmi, e non avendo avuto neppure il coraggio di alzare la voce o di
richiamare indietro il mio amico, m’imboscai in tutta fretta in una viuzza
laterale poco distante. Ero atterrito, non sapevo che aspettarmi da Giacomo e
non volevo essere riconosciuto da Livia ed essere ancor più in pericolo.
Sbirciando dalla mia sorta di compassionevole nascondiglio,
nel quale mi sentivo davvero un verme, provando il classico miscuglio di
sentimenti negativi che mi addossavo in ogni situazione simile, notai che i due
pure si baciavano in quel momento, mentre Giacomo, che appariva un qualunque
ragazzo intento a scrivere un messaggio col suo cellulare e totalmente
assorbito dal suo oggetto tecnologico, passava a malapena a qualche passo da
loro, con grande disinvoltura.
Alla prima traversa, la imbucò e scomparve alla mia vista,
mentre anche Livia e il suo amante, poiché ormai ero certo che si trattasse di
ciò, si lasciavano andare e scioglievano il caloroso abbraccio ricco di baci,
per poi salutarsi vivacemente e riprendere ciascuno la propria strada.
La Panda della signora la scorsi in lontananza, non appena vidi
che lei si stava muovendo verso di essa, per poi probabilmente tornare a casa e
indossare di nuovo quella maschera da donna perfetta ed aristocratica che aveva
la puzza sotto al naso. Mi fece quasi venire il vomito anche solo il pensiero
che di lì a poco avrei dovuto rincontrarla tra le mura domestiche.
Ritornando rapidamente in me, e avendo via libera, pensai che
l’unica cosa che potevo fare in quel momento era cercare di ritrovare quel
burlone di Giacomo e farmi restituire il cellulare, per poi tornare alla mia
dimora.
Imbucai quindi con decisione la direzione che mi avrebbe
riportato di nuovo davanti al bar in cui avevamo sostato poco prima, col chiaro
intento di mettermi sulle tracce del mio amico, anche un po’ infuriato nei suoi
confronti, ma fu lui a sorprendermi, sbucandomi alle spalle col fiatone.
‘’Ah, caro Antonio, quanti sforzi mi costi! Possibile che
debba essere sempre io a tirarti fuori dai guai?!’’, mi disse, sghignazzando e
sorridendo, mentre riprendeva fiato. Doveva aver percorso quasi di corsa tutte
le stradine laterali limitrofe, per non ripassare di fronte ai due amanti e per
raggiungermi in fretta, col timore che io rovinassi tutto con la mia ingenuità.
‘’Perdonami, ma non capisco’’, gli dissi infatti, perplesso.
‘’Guarda cosa ho scattato col tuo cellulare. I due non mi
hanno dedicato neppure uno sguardo, troppo concentrati sui loro baci per
prestare attenzione ad un giovane passante che s’intratteneva col telefonino,
ed io ne ho approfittato per scattare loro qualche primo piano, di cui uno in
particolare non mi è venuto sfocato… ero in movimento, capisci che non potevano
venirmi perfetti, e con questo cellulare vecchio poi è ancora peggio’’, mi
disse Giacomo, realmente divertito, andando subito nella galleria del mio
telefono e mettendomi sotto al naso alcuni primi piani in cui si vedeva e si
riconosceva distintamente il volto di Livia, mentre baciava con passione e stava
stretta al suo misterioso amante.
‘’Con queste in mano, puoi neutralizzare quella strega.
Mostrale a suo marito, se cerca di crearti problemi, dato che hai detto che non
sa nulla e non sospetta niente a riguardo. A lunedì, caro amico’’, proseguì colui
che per l’ennesima volta mi aveva messo tra le mani una sorta di salvezza, che
io avrei dovuto saper fare fruttare, mentre mi riconsegnava frettolosamente il
cellulare e si dileguava nella penombra della sera, lasciandomi solo a fissare
quelle foto compromettenti.
Restai un po’ lì imbambolato sul posto, come a voler cercare
di far chiarezza nella mia mente, e alla fine decisi di spegnere lo schermo del
telefono e di rimetterlo in tasca, per poi mettermi in movimento verso casa.
Non sapevo che ne avrei fatto di quegli scatti clandestini, né se li avrei mai
utilizzati, sempre nel rispetto di Roberto, siccome della moglie non me ne
importava un fico secco, e mugugnando qualcosa senza senso ripresi a dirigermi
verso la mia dimora.
Mi dispiaceva infinitamente per Roberto; lui non meritava
tutto quello. Per giunta, era stato cornificato da un uomo davvero molto
diverso da lui, sia nell’aspetto fisico che nel modo di fare.
La mia mente era di nuovo immersa in un’addolorata
confusione, e decisi quindi drasticamente di non pensare più per un po’ alle
foto appena scattate, alla signora Arriga e al suo orribile tradimento, ma solo
ed esclusivamente allo studio e ai compiti che mi attendevano a casa, giacché
quello era l’anno più importante delle superiori e nonostante tutto a giugno mi
attendeva un tosto esame.
Se poi il destino mi avesse costretto, avrei potuto tentare
di far fruttare ciò che avevo tra le mani, oppure di cancellare tutto e farlo
sparire per sempre.
In quel momento non potevo di nuovo lasciarmi andare e
distrarmi, e decisi stranamente di rincasare con un bel sorriso sicuro sulle
labbra, cosa che per altro alla fine feci. Era come se avessi voluto cercare di
dissimulare tutto ciò che avevo avuto modo di vedere fino a poco prima.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno, cari lettori e care lettrici,
e grazie, come sempre, per continuare a seguire il racconto.
Forse alcuni di voi già immaginavano che Livia tradiva il
marito… beh, spero che il capitolo che avete letto vi sia piaciuto comunque e
anche questa volta.
Continuo a ringraziarvi tutti, e buona giornata. A lunedì
prossimo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 32 *** Capitolo 32 ***
Capitolo 32
CAPITOLO 32
Mi accingo a ricordare una delle cose più disgustose che io
abbia mai fatto nel corso della mia giovane vita, uno di quei gesti che restano
impressi nella memoria per anni e anni, forse per sempre.
In realtà, più che di una cosa, si è trattata di un’azione
infame, vile e orripilante, ma sfido chiunque a trovare una via d’uscita da
quel mondo fatto di male, odio e malumore che mi circondava ormai da fin troppo
tempo.
Sapevo che gli Arriga avevano intenzione di andarsene; la
signora era stata chiara a riguardo. Aveva sottolineato a mia madre che al più
presto avrebbero lasciato il paesino, non appena un altro istituto scolastico
di Bologna avesse accettato Federico come studente. Non so se questo continuo
viaggio del mio nemico tra vari ambienti scolastici fosse mai stato redditizio,
ma non credo, visto e considerando i risultati.
Sapevo pure che l’aristocratica voleva assolutamente fuggire
da quella piccola realtà, e anche alcune settimane prima avevo avuto modo di udire
la sua discussione a riguardo col marito. In quei concitati momenti, Livia
appariva atterrita e spaesata; le forze dell’ordine stavano indagando sui vari
fattacci accaduti di recente, e la vicenda tra me e suo figlio non si era
ancora chiusa, dato che comunque c’era una denuncia pesante e la preside aveva
scelto di compiere l’ardua scelta di separarci, iscrivendo Federico all’altra e
unica quinta del piccolo liceo a parte la mia.
Logicamente sua madre non l’aveva presa affatto bene. Inoltre
il prepotente se ne stava sempre chiuso in camera, così a scuola proprio non ci
aveva messo più piede dopo il giorno in cui avrei dovuto fargli copiare la
verifica di matematica, e invece gli avevo giocato uno scherzetto ed avevo
reagito.
Io quel lunedì sarei dovuto andare a scuola, ma i fatti del
sabato ancora mi turbavano, così come pure soffrivo ancora per la questione
riguardante Alice, e alla fine anche quella domenica tanto attesa era stata
rovinata dai brutti pensieri, ma soprattutto dall’azione più sconsiderata che io
abbia mai commesso.
Giuro tuttora a me stesso che non farò mai più una scelta
simile, poiché tra moglie e marito nessun estraneo deve mettere il dito. È un
detto vero, in fondo.
Ma quella volta fu una tragedia, e a causarla fui proprio io.
Che fossi realmente un mostro, come mi aveva detto quella
donnaccia che gironzolava per casa mia? Non lo so, alla luce dei miei
ragionamenti futuri mi verrebbe da dire di no, e che ho agito in quel modo
orrendo e subdolo solo perché non ne potevo più e dovevo pur difendermi in un
qualche maniera, ma sta di fatto che feci direttamente del male anche a chi
volevo sinceramente bene.
Trascorsi il sabato sera in ansia, nonostante mi fossi
inizialmente sforzato per mantenere un’ombra di un sorriso sulle labbra, e più
volte le mie mani correvano verso il mio cellulare, riposto nella solita tasca
dei jeans. Quell’oggetto conteneva ciò che mi faceva agitare di più, ovvero le
foto scattate da Giacomo, quelle più compromettenti.
Più volte mi chiesi se fosse giusto che Roberto venisse
ingannato in quel modo dalla moglie, e se sospettasse almeno qualcosa, ma in
quel momento non sapevo davvero darmi risposta. Sapevo solo che gli ero
debitore di tante cose, che per me era una persona saggia ed importante per la
mia vita, avendo condiviso con me la parte più movimentata e dolorosa della mia
esistenza, e che per me era ormai diventato un pilastro, al cui non temevo
ormai più neppure di rivolgergli la parola, sfidando anche la mia timidezza
eccessiva, siccome sapevo che nella sua infinita e onesta bontà era sempre
pronto ad ascoltarmi e a tenere per sé ciò che io gli rivelavo.
Insomma, non sapevo ancora con chiarezza chi fosse, e sul suo
passato ancora aleggiavano tante ombre, ma nei miei confronti si era sempre
comportato nel modo migliore possibile, tenendo anche presente che restava pur
sempre un estraneo alla nostra ben poco affiatata famiglia.
Ho paura, di nuovo, di ricordare, ma in questo momento mi
serve; devo imparare a reggere questa sequenza di ricordi, a rievocarli e a
soppesarli a dovere, perché a loro modo essi nascondono ciò che di più prezioso
mi sto affannando a cercare, ed imparare ad esaminarli e a valutarli, in modo
da individuare tutti i miei eventuali errori ed apprendere da essi, per tentare
di cercare di non compierli mai più in futuro.
In poche parole, affrontando direttamente e di petto i miei
ricordi più lineari, quel sabato sera non ressi lo sguardo della signora Livia,
che secondo me era ormai definitivamente andata fuori di sé. Temevo davvero che
quella pazza avesse serie intenzioni di commettere qualche follia in casa
nostra o contro di me.
Ricordo che a tratti pure mi seguiva, in casa, puntandomi
addosso quei suoi occhiacci leggermente fuori dalle orbite, irritati e
sconvolti, ma ero certo che lo facesse per intimorirmi e per spaventarmi,
conoscendo la mia indole molto fragile, e non sospettava di certo che io
sapessi ciò che stava combinando quando usciva, come poi ebbi modo di trovare
conferma in seguito.
Se avesse anche solo immaginato che io ero in possesso delle
prove schiaccianti, rese foto dal mio amato amico, penso proprio che in quegli
istanti non si sarebbe fatta troppi problemi a farmi fuori lì, nel mezzo del
corridoio della mia dimora, magari balzandomi alla gola come un’animale
selvatico impazzito.
Lo so, stavo esagerando, ma la mia mente finì per andare in
confusione, mi sentivo stressato e pedinato, oltre che in gravissimo pericolo. Chissà
che poteva combinare una donna in quello stato confusionario! E fu proprio in
quei concitati momenti che presi la mia decisione, molto affrettata e
probabilmente errata.
Per Roberto quella doveva essere una serata come tutte le
altre, lo vedevo molto tranquillo e rilassato mentre leggeva un giornale
sportivo in cucina, subito dopo cena. Io, con apparente disinvoltura e con una
buona dose di stronzaggine e di tremolante timore, gli passai sotto al naso il
mio cellulare, con un bel primo piano della moglie che baciava l’amante.
Rendendomi subito contro del mio gesto sconsiderato, mi
attesi che l’uomo si alzasse dalla sua postazione e mi desse una bella sberla,
e quasi mi ritrassi, ma il mio inquilino restò per una frazione di secondo come
di pietra, per poi afferrare dolcemente il mio telefonino e sfilarmelo dalle
mani.
Se lo avvicinò al viso, come se non vedesse bene, ed io
ammisi che mi attendevo che lo lanciasse contro il muro della cucina.
Invece, nulla.
L’uomo se ne rimase tranquillo, come se dentro di sé non
vivessero emozioni ma solo amare e nuove consapevolezze, e dopo aver rimirato
per un po’ le foto scattate da Giacomo, lasciò scivolare sul tavolo quel
giornale che stava leggendo e si alzò definitivamente dalla sua postazione
seduta, porgendomi il mio cellulare.
Non esitai un attimo a riprendere il mio oggetto e a
spegnerne lo schermo, infilandolo subito nella mia tasca dei pantaloni, e
tornando ad alzare lo sguardo rimasi molto scosso dall’espressione di Roberto.
L’uomo che era sempre apparso sicuro di sé e sorridente in ogni situazione,
oppure talmente tanto impassibile da apparire apatico a volte, aveva impressa
sul viso un’espressione d’indecifrabile e cupo dolore.
Dopo un attimo, compresi il suo viso non lasciava trapelare
solo dolore, ma soprattutto tanta rassegnazione.
‘’Dove le hai scattate?’’, mi chiese, lentamente e
all’improvviso.
Gli spiegai rapidamente come e dove si era svolta la vicenda,
a bassa voce e quasi tremando, ben sapendo che se la mia nemica pazza mi avesse
scoperto mentre le commettevo quel torto non avrebbe di certo atteso oltre a
colpire. Magari sarebbe pure impazzita definitivamente ed avrebbe commesso direttamente
una qualche follia.
Ma, per fortuna, la signora se ne stette in camera sua e la
sua presenza fisica non mi turbò assolutamente.
‘’Immaginavo… Livia è furba, non avrebbe potuto mettere in
atto i suoi loschi e schifosi scopi in pieno centro cittadino. No, ha scelto
come punto d’incontro il bar in periferia…’’, disse Roberto non appena smisi di
parlare.
Poi, improvvisamente, la sua espressione da delusa e
rassegnata tornò all’improvviso impassibile. Ed io restai immerso nella mia
cupa consapevolezza di aver reagito in modo azzardato e pericoloso, nonché
odioso nei confronti di una persona alla quale mi ero affezionato e a cui volevo
bene.
Sapevo che in una situazione invertita lui mi avrebbe
parlato, mi avrebbe spiegato per bene la situazione ed avrebbe cercato di
proteggermi dall’urto della verità con la sua grande dose di bontà, sempre se
avesse scelto di farmi del male raccontandomi una simile vicenda dopo avermi
colpito a morte con delle foto da lui scattate.
Mi resi conto che un altro uomo mi avrebbe come minimo
insultato, e dopotutto me la sarei anche meritata un’azione così, dopo aver
involontariamente ficcanasato nella vita altrui, e poi sarebbero sorti nuovi
guai con la moglie. Ma io avevo di fronte Roberto, una persona con una
personalità tutta sua, e non reagì subito ed in nessun modo.
Dopo la sua amara constatazione, infatti, si allontanò da me,
ma non andò dalla moglie, bensì si recò in giardino a fumare una sigaretta, ed
io che lo guardavo da dietro le spalle, immerso nel buio sfidato dai lampioni
della vicinissima strada, non riuscivo a notare alcuna traccia d’irrequietudine
in lui. Questo mi permise di tranquillizzarmi, e di sperare in nessuna sua
azione repentina o violenta, e non so più cosa provai dopo, perché l’ho
dimenticato. O l’ho voluto rimuovere, dato che la mia coscienza per la prima
volta si era macchiata in modo indelebile con quell’azione ignobile.
Adesso mi viene solo in mente che andai a letto turbato, ma
che non udii alcun litigio proveniente dalla camera accanto. E la mia unica
domanda fu se Roberto sapeva già che la moglie lo tradiva, considerando la sua
reazione fin troppo contenuta e pacata.
Nel giorno immediatamente successivo al mio disgustoso
misfatto, tutto era incredibilmente calmo e pacifico.
A sollevarmi momentaneamente dal pensiero di ciò che avevo
commesso la sera prima, un peccatuccio assai pesante, era che i miei inquilini
erano placidissimi anche durante quella domenica mattina. Federico non era
uscito dalla sua camera, dove la madre ormai gli recapitava pure i pasti, però
avevo sentito la tapparella alzarsi poco prima, quindi doveva essere già
sveglio a continuare quella scenata che ormai perdurava da metà settimana. La
signora Arriga, invece, l’avevo intravista uscire attorno alle otto, mattiniera
come sempre, non senza avermi lanciato una delle sue classiche ed
insopportabili occhiatacce.
Ero certo che Roberto non le avesse raccontato nulla a
riguardo di ciò che gli avevo mostrato, altrimenti quell’arpia mi avrebbe di
sicuro affrontato di petto. Avevo tanta paura di quell’essere adulto che ancora
non avevo compreso del tutto.
Il fatto che Roberto non avesse fatto scoppiare un caos con
la moglie mi insospettiva assai, ma allo stesso tempo mi faceva sentire più
quieto.
A mente più lucida, rispetto alla sera precedente, mi ero
preparato già di buonora ad attendere l’uomo, per approfittarne del fatto che
la moglie era uscita per fermarlo e dirgli che avevo sbagliato a fare ciò che
avevo fatto la sera prima, ed ero pronto pure a dirgli che quello che aveva
visto era in realtà un fotomontaggio, che mi ero fatto preparare da un mio
amico bravo in quel genere di cose, e tutto questo perché sua moglie a volte mi
turbava coi suoi comportamenti un po’ strani. In ogni caso volevo dire che non
si trattava di nulla di personale e che mi vergognavo per quell’azione insulsa
che avevo messo in atto.
Insomma, sapevo che in ogni caso ci avrei fatto una figura
pessima, e la mia mente in quel momento lavorava come una pazza e quasi per
assurdo.
Anzi, direi totalmente per assurdo. Era l’imbarazzo estremo
che provavo a farmi quasi sclerare, molto probabilmente a seguito della
costante consapevolezza del pasticcio che avevo combinato. Nel frattempo, avevo
già cancellato tutti gli scatti clandestini.
Mentre mio padre bofonchiava qualcosa dalla saletta del
pianoforte, da solo e con un tono di voce basso e fastidioso che mi fece quasi
irritare, rischiai di perdere la concentrazione sul mio obiettivo, ovvero
intercettare Roberto e parlargli, poiché l’uomo aveva sceso rapidamente le
scale e si stava dirigendo a tutta velocità verso la porta d’ingresso, la
stessa che era stata varcata qualche decina di minuti prima dalla consorte.
Riuscii a intercettarlo solo in giardino, lontano dalle
orecchie di mio padre e dopo essermi mosso con attenzione verso di lui.
L’uomo, notando che l’avevo seguito dall’interno fino a
fuori, si piazzò di fronte a me con un sorriso frettoloso ben saldo sulle
labbra, ed io involontariamente rabbrividii mentre mi avvicinavo a lui. Non
comprendevo come fosse possibile che sulle sue labbra si mostrasse quel segno
di evidente tranquillità e rilassatezza, ma il mio inquilino era un vero
maestro in impassibilità e depistaggio del proprio stato d’animo da parte di
occhi altrui.
Attesi fino all’ultimo per parlare, anche se sul viso dovevo
avere impressa l’espressione di chi si accinge a dire qualcosa che gli preme
dentro ed ha una gran voglia di uscire fuori a parole, ma la mia infinita
timidezza, che a volte sa tramutarsi quasi in codardia, mi tenne bloccato
fintanto che non poté più farne a meno, poiché colui con cui volevo
interloquire mi stava fissando, ancora ben piantato sul posto e dall’apparenza sorridentemente
rilassata.
‘’Senti, Roberto… a riguardo di ciò che ho fatto ieri sera…
io non volevo… e me ne vergogno… e avrei qualcosa da dirti…’’.
Che scena penosa! Manco riuscivo a spiegarmi e a parlare con
chiarezza. Inutile sottolineare che il mio viso era diventato rosso come un
pomodoro ben maturo, tanto diventava quasi sempre di quel colore. Ma quella
volta ne ero certo che fosse di una colorazione più marcata rispetto alle
precedenti.
Roberto mi sorprese, come sempre, mantenendo la sua placidità
ed allungando una mano verso di me, per poggiarmela sulla spalla destra,
mettendo fine alla mia difficile farneticazione.
‘’Non devi scusarti di nulla, anzi, non ci crederai ma sono
io a ringraziarti, perché mi hai aperto definitivamente gli occhi. Però, adesso
sta a me dovermi scusare, perché devo proprio andare in un certo posto ed ho
fretta… se vuoi dirmi qualcos’altro, me lo dirai più tardi, con calma. Ma non
preoccuparti assolutamente per quello che mi hai mostrato ieri sera, e non
pensarci neppure più! Non ti metterò in mezzo a questa questione con mia
moglie, non temere, so quanto può essere pericolosa se provocata, soprattutto
in questo periodo. A dopo’’, mi salutò, lasciando la sua debole stretta ed
allontanandosi da me a passi molto decisi e con evidente fretta.
Io, ancora imbambolato nel mezzo del giardino, non potei fare
altro che lasciarlo andare, per poi far cadere lentamente le mie spalle, quasi
provenissi da una fatica immane. Non sapevo che attendermi dall’uomo, ma mi
pareva che avesse trovato una qualche strategia, poiché il mio caro inquilino
usciva di casa molto raramente durante l’arco delle giornate trascorse a casa
nostra, e se lo faceva era per un motivo strettamente necessario, tipo andare a
fare un po’ di spesa o a compiere qualche semplice ed ordinaria commissione.
Quel giorno andò via con la sua auto, e questo era ancora più
strano, considerando che la utilizzava pochissimo.
Non volli continuare a stare a chiedermi cose di cui non
avrei potuto avere un’immediata e soddisfacente risposta, e siccome non avevo
affatto voglia di fasciarmi la testa inutilmente, visto che comunque me la
fasciavo sempre spesso e volentieri, decisi di rientrare in casa e di andare a
riprendere un libro in mano, o almeno provarci.
Da quando non dovevo più fare i compiti anche per il
prepotente, la vecchia e malsana abitudine di lasciarli perdere stava ricominciando
rapidamente a farsi strada in me, ma sapevo che dovevo continuare a darmi da
fare con assiduità e costanza, se non volevo tornare ai livelli più mediocri
degli scorsi anni.
Visto che Giacomo mi aveva mandato poco prima per messaggio
ciò che era stato affrontato durante i giorni della mia assenza da scuola,
avevo un po’ di nuovo lavoro su cui dovevo impegnarmi, e quindi decisi di
cogliere al balzo quel mio raro momento caratterizzato da una decisa voglia di
studiare, per andare subito in camera mia per tentare di prendere tra le mani i
vari libri, e magari concentrarmi sullo studio e staccare un pochino dalla mia
movimentata e continuamente dolorosa routine quotidiana.
Riuscii a studiare.
Col passare del tempo, ho avuto modo di avere la certezza che
il problema più grande dell’essere umano è trovare l’ispirazione o la voglia
per fare qualcosa. Una volta che si desidera davvero di inseguire un sogno,
oppure di svolgere qualcosa d’importante e di più concreto, si è già a metà
strada del percorso da compiere. E pareva che un po’ di voglia e di determinazione
fosse tornata a vivere in me, dopo alcuni giorni parecchio scialbi, fatti solo
di pensieri cupi e quant’altro.
Ricordo che dopo qualche ora di studio e nell’immediato primo
pomeriggio telefonai a Jasmine, informandomi su Alice e scoprendo che versava
ancora in uno stato d’incoscienza simile al coma, e che forse l’operazione non
avrebbe dato alcun risultato utile, proprio come si temeva.
Ricordo anche che tagliai corto, dopo aver sentito quelle
brutte notizie, e per nulla intenzionato ad incontrare la mia amata, ben
sapendo che tra noi due in quelle giornate ci sarebbe stato solo spazio per una
condivisione carica di dolore, la salutai quasi frettolosamente e in modo
abbattuto, e forse passai un po’ per villano, ma in cuor mio sapevo che la mia
Jasmine era una ragazza profondamente intelligente e mi avrebbe di certo saputo
capire.
Telefonai brevemente anche a Giacomo, per raccontagli cosa ne
avevo fatto delle sue foto e narrargli le mie preoccupazioni a riguardo, ma
ricordo solo che rise, per poi dirmi che anche lui, se fosse stato al posto
mio, avrebbe agito in quel modo, e di non preoccuparmi troppo per la sorte
della famiglia Arriga.
Il mio amico sperava solo che gli Arriga se ne andassero,
l’avevo capito da secoli ormai; ma io non sapevo ancora in cosa sperare. Sapevo
solo che se Roberto se ne fosse andato, io sarei rimasto solo in quella casa
maledetta in compagnia di mia madre, una donnina troppo fragile e indecisa, che
lavorava sempre ormai, e di quell’essere volgare e disgustoso di mio padre, assieme
alla sua petulante amante che di tanto in tanto si faceva viva, quando mia
madre non c’era. Ed erano solo urlacci e parolacce.
Avrei voluto tenermi stretto Roberto, quindi, l’unico adulto
in quel mondo in grado di capirmi e capace di starmi vicino in modo costante e
gratuito. Se avessi perso pure lui, sarei impazzito.
Però, purtroppo, ero consapevole che in ogni caso del destino
quell’uomo se ne sarebbe andato di casa mia, ma pregai solo che mi fosse
concessa l’opportunità di averlo a fianco fintanto che quel periodo
d’instabilità non si fosse finalmente stabilizzato. Prima o poi, il sereno
sarebbe dovuto ritornare a trionfare su tutti quei nuvoloni cupi.
Salutai in fretta anche Giacomo, non condividendo il suo odio
incondizionato riposto verso tutti e tre i membri della famiglia Arriga, poiché
lui stava commettendo lo sbaglio di giudicare senza conoscere. Se Livia e
Federico erano due gran stronzi folli, non era assolutamente necessario e
conseguente che il marito e padre di famiglia lo fosse pure lui.
Purtroppo però non riuscivo davvero a far capire quel
semplice concetto al mio amico, gasato per i grandi successi ottenuti contro il
nemico e sempre in attesa della ciliegina sulla torta, ovvero il colpo di
grazia, quello che avrebbe fatto espellere finalmente Federico dal liceo e
magari fargli assicurare qualche pena pesantissima, poiché ormai si sapeva che
almeno qualcos’altro di grave su di lui sarebbe emerso alle forze dell’ordine e
alla preside. E tutto ciò si sarebbe aggiunto anche all’aggressione che mi
aveva teso.
Il bullo in quel momento occupava l’ultimo dei miei pensieri,
per fortuna, e quindi sorvolai su tutte le asprezze espresse da Giacomo, e dopo
qualche minuto di sfogo congedai pure lui, pronto a tornare a riprendere i
libri in mano dopo quella piccola pausa e a cercare di ripassare ciò che avevo
affrontato nelle ore precedenti.
Dopo una manciata di minuti, però, qualcuno suonò al
campanello.
Essendo solo in casa quel pomeriggio, naturalmente senza
contare il prepotente che faceva la larva nella sua stanza, andai subito con
due balzi al piano inferiore e mi affrettai a dirigermi alla porta, curioso di
scoprire di chi si trattasse. Non aspettavamo alcuna visita, e credendo che si
trattasse di uno di quei soliti venditori ambulanti già mi accingevo a
prepararmi mentalmente le classiche frasi per declinare le loro offerte, senza
contare che si sarebbe potuta trattare anche di una visita inattesa.
Infatti, non appena aprii la porta, notai che Melissa se ne
stava proprio di fronte al mio cancelletto, con lo sguardo abbassato verso il
citofono, senza sapere che esso ormai non funzionava più da anni e che mia madre
non aveva voluto spendere soldi per farlo riparare.
‘’Mel! Che sorpresa!’’, mi lasciai sfuggire, attirando subito
la sua attenzione.
La ragazza mi guardò e mi sorrise.
‘’Allora non ricordavo male! E’ proprio questa la tua casa’’,
mi disse, evidentemente sollevata.
La giovane non era mai
venuta a trovarmi, e molto probabilmente doveva aver ricordato in modo blando
la casa che le avevo indicato il primo giorno in cui ci siamo visti, ovvero
quello in cui le avevo restituito il suo variopinto portafoglio ed era in
compagnia delle cugine.
‘’Sì, non ti sei affatto sbagliata’’, le dissi, mentre le
aprivo il cancelletto e la osservavo, notando che aveva gettato un ultimo
sguardo all’indirizzo e al nome di mia madre, scritto sul campanello.
Mi venne per un attimo da chiedermi se avesse sospettato per
un attimo che quello era il nome di sua zia, la moglie del fratello di suo
padre, ma quasi sorrisi di fronte a quel pensiero insulso, riconoscendo che la
ragazza non doveva sapere più di tanto sull’esistenza di quello zio mai
presente nella sua vita, e probabilmente tenuto a distanza dai fratelli minori.
Smisi di pensare solo quando la mia cugina si piazzò davanti
a me, con un sorriso delicato sulle labbra.
‘’A cosa devo questa tua improvvisa visita?’’, le chiesi,
titubante. Non avrei mai immaginato di trovarmela alla porta.
‘’Mi mancavi. Dato che ti fai sentire tanto poco, e che sei
sempre venuto tu a trovarmi, ho pensato di farti una sorpresa. Disturbo, forse?
È una domenica, magari hai qualche programma…’’.
‘’Nessun programma, vieni pure in casa’’, le dissi, non
lasciando che in lei sorgesse il dubbio di non essere la benvenuta, perché non
era così.
Con un pizzico di pungente curiosità, la lasciai accomodare
in cucina.
‘’Che casetta carina’’, mi disse gentilmente, guardandosi
attorno.
Ridacchiai, ancora frastornato da quella presenza inattesa.
‘’Nulla in confronto a casa tua’’, mi limitai a dirle, mentre
si sedeva.
‘’Mi hai detto che hai anche un pianoforte, qui a casa’’,
quasi mi sollecitò Melissa, togliendosi il suo giubbotto scuro e sistemandosi
leggermente con le mani la felpa rosa chiaro che indossava.
‘’Sì, sì. Vieni, se ti va te lo faccio vedere’’, suggerii,
cogliendo al volo l’occasione per uscire un attimo dal silenzioso imbarazzo che
stava prendendo piede dentro di me e sfruttando quel momento in cui mio padre
non era in casa.
Avevo come il sospetto che l’uomo stesse tramando
qualcos’altro che ancora mi era ignoto, ma non potevo neppure in quel caso
supporre qualcosa di certo. Ciò che però m’insospettiva era che, ultimamente,
non si assentava solo per recarsi al lavoro, ma lo faceva pure durante i giorni
festivi.
La mia povera madre, invece, quella domenica era stata praticamente
obbligata a svolgere dello straordinario, dato che c’era una palazzina intera
da ripulire urgentemente entro il giorno successivo. Lei e le sue povere
colleghe precarie erano state subito impiegate in quell’impresa che poteva
apparire epica.
‘’Certo, mi farebbe molto piacere vederlo’’, rispose la
ragazza, con tranquilla sincerità, dopo avermi sorriso per un attimo.
Allora la condussi nella mia saletta, dove il pianoforte
troneggiava ancora al suo interno, nonostante il fatto che stesse nuovamente
accumulando un po’ di polvere sulla sua superficie.
Mi sedetti sul mio piccolo sgabello, mentre la mia ospite ne sfiorava
i tasti con le dita.
‘’E’ bello quanto quello di mio nonno’’, disse, con un
sospiro, dopo aver osservato lo strumento per qualche istante, e allungando una
mano per accarezzarne nuovamente la tastiera.
‘’Quello di… di tuo nonno è molto più bello, pregiato ed
antico. Un pezzo di grande valore’’, dissi, titubante.
Su di me sentivo tutto il peso delle mie bugie. Avrei voluto
saltare al collo della ragazza e stringerla forte, dicendole che ero quel
cugino che lei non aveva mai conosciuto, e di cui magari non sapeva neppure
della sua esistenza o non si era mai chiesta nulla a riguardo. Però, anche in
quel caso dovevo tenere a freno ogni mia reazione e sentimento.
Avevo paura di interrompere quella farsa che stava
continuando forse da fin troppo tempo, anche perché non avevo idea di quale
reazione avrebbe potuto avere la ragazza di fronte alla mia rivelazione.
‘’Tu dici? Io sono dell’idea che uno strumento può avere
anche un sacco di valore, ma solo se è utilizzato ed affidato ad una persona
che ne abbia altrettanto’’, suggerì la ragazza, sapientemente.
‘’Uhm, può darsi. Comunque, io mi riferivo ad altro…’’.
‘’Anch’io lo stavo facendo, anche se indirettamente’’, quasi
m’interruppe Melissa, a voce bassissima, allontanando le mani dalla tastiera.
‘’Non capisco dove volevi arrivare, allora…’’, tentai di
dire, leggermente perplesso ed incrociando le braccia.
‘’Possibile che tu non l’abbia capito? Beh, volevo solo farti
capire che tu vali molto, Antonio. A volte tendi a sottovalutare le tue
capacità, ma fidati, tu sei davvero un ragazzo bravissimo, molto intelligente,
gentile ed… ed è…’’.
‘’Ed è…?’’, chiesi, quasi sussurrando e fissando per la prima
volta dopo qualche minuto il volto della mia interlocutrice.
Melissa pareva essersi inceppata, e con grande difficoltà e
con un pizzico di imbarazzo riuscì a concludere la frase che già da un po’
stava cercando disperatamente di pronunciare.
‘’Ed è per questo che mi piaci. Molto’’.
Sussultai. Non me l’aspettavo davvero.
Quel molto nel finale del breve discorso aveva un suo peso, e
rischiai di rimanerci intrappolato sotto, grazie anche al fatto che la mia
timidezza scattò fuori dal nascondiglio dove si era momentaneamente rintanata
per piombarmi addosso come una leonessa.
Arrossii tantissimo, e quasi fui lì per cominciare a
borbottare qualcosa d’insensato, ma Melissa avvicinò bruscamente il suo volto
al mio in un vago tentativo di baciarmi.
Prima che ciò avvenisse, riuscii a bloccare le sue labbra
posando sopra di esse l’indice alzato della mia mano destra, fermando il gesto
della ragazza a meno di un palmo dal mio volto.
‘’No’’, le dissi, sussurrandolo.
Lei mi guardò, inarcando leggermente le sopracciglia e
allontanandosi leggermente da me, come se fosse tornata in sé dopo qualche
secondo di follia. Mai e poi mai mi sarei creduto di trovarmi in una situazione
del genere.
‘’Perché no?’’, mi sussurrò lei di risposta, arrossendo
notevolmente.
‘’Perché io amo già un’altra ragazza’’, le risposi,
debolmente.
‘’Certo. Io sono sempre la seconda, la più brutta, lo scarto
che nessun ragazzo vuole…’’, disse improvvisamente Melissa, anche lei in modo
debole, per poi lasciar scivolare alcune lacrime sulle sue guance.
‘’Smettila. Sei una bellissima ragazza, molto cortese…’’,
tentai di dire, giustamente.
‘’Ok, ma a te non piaccio per nulla’’, mi sibilò tra i denti,
nervosa.
Non capivo la causa di quel momento di teso nervosismo, o,
almeno, non la capivo fino in fondo. La ragazza poi scoppiò a piangere,
lasciandosi sfuggire singhiozzi sempre più decisi.
A quel punto, anch’io esasperato da quella situazione che da
alcuni minuti tormentava entrambi, sfidai la mia timidezza e mi avvicinai
cautamente a lei, per poi donarle un piccolo ma caloroso abbraccio.
‘’Non è questione di piacermi o meno. Noi due siamo cugini’’,
le dissi, sputando fuori la mia rivelazione del secolo.
‘’Cosa… cosa stai dicendo?’’, mi chiese infatti Melissa,
quasi sobbalzando e costringendomi a sciogliere l’abbraccio.
Fu così che vuotai il sacco. Posandomi una mano sulla fronte
e sospirando, le raccontai tutto quello che avevo scoperto in quel mese
abbondante in cui avevamo avuto modo di conoscerci.
‘’… ed io mi chiamo Antonio Giacomelli, e sono il figlio di
Sergio, fratello maggiore di tuo padre’’, le dissi infine, come se volessi
soltanto continuare a far chiarezza su quel concetto.
In realtà, a quel punto sapevo che era giusto che la mia cara
cugina ed amica non avesse più dubbi a riguardo, e che smettesse di soffrire e
di farsi delle storie inutili, quindi le mostrai anche la mia carta d’identità.
Ma lei scosse ugualmente la testa.
‘’Ci sono tanti Giacomelli in Italia, non credo che tu sia
proprio quel cugino che non ho mai avuto modo di conoscere’’, mi disse,
cercando di non riconoscerlo a sé stessa. Capivo la sua sorpresa.
‘’Sono proprio io, te lo giuro’’, confermai, lasciandomi
scivolare di nuovo sul mio sgabello, sfinito da quella conversazione.
‘’E se sei proprio tu… perché siamo dovuti giungere a questo
punto, prima di conoscerci per davvero? A me sei piaciuto fin dalla prima volta
in cui ci siamo visti, ed ho celato e custodito il mio amore per te, mentre tu
mi hai nascosto la tua vera identità…’’, cercò di dire Melissa, lasciandosi poi
sfuggire un nuovo singhiozzo.
‘’Quando ti ho conosciuta, non sapevo neppure io che ero tuo
parente. L’ho scoperto solo dopo, ma… non ho mai avuto il coraggio per dire
realmente chi ero. Avevo paura che tu e la tua famiglia mi aveste potuto
prendere per approfittatore, o chissà cos’altro, perché nel frattempo ero già
venuto a casa vostra a suonare il piano e ad incontrarti… beh, per te volevo
restare un semplice amico. E poi, non sapevo neppure cosa ti avevano raccontato
su di me’’, aggiunsi, con sincerità.
A me, sulla sua famiglia mi era sempre stato detto che erano
persone fredde, a cui non era mai importato nulla di quel nipote generato dal
figlio maggiore e più scapestrato. Immaginavo quindi che qualche freddura fosse
circolata anche sui miei, almeno una volta in casa sua.
‘’Non so davvero cosa pensare’’.
‘’Ti giuro che non mi sono mai intrufolato in casa tua solo
per mettere scompiglio, o per farmi gli affari vostri o per altri doppi fini.
Io voglio restare ad essere per sempre un tuo amico, un tuo buon amico. Niente
di più, niente di meno’’, conclusi, chiarendomi al meglio.
‘’Capisco. Grazie per avermi detto la verità, anche se un po’
in ritardo, e per avermi concesso l’opportunità di conoscerti senza alcun
pregiudizio. Resterai per sempre il mio amico… e il mio unico cugino maschio.
Sei un gran bravo ragazzo e una bella persona, Antonio’’, mi disse la ragazza,
finalmente sciogliendosi e sfoggiando un sorriso tremolante.
Mi sentii rassicurato di fronte alla sua reazione, e proprio
mentre ci rivolgevamo uno sguardo ed io stavo per ringraziarla per le belle
parole che mi aveva rivolto e per dirle che le ricambiavo pienamente, ci
trovammo a volgere all’improvviso lo sguardo verso la finestra della saletta,
poiché tanti piccoli fiocchi bianchi avevano cominciato a cadere dal cielo con
un’intensità incredibile.
Per qualche istante, ce ne stemmo entrambi così, a guardare
la prima intensa nevicata della stagione, mentre i grandi fiocchi avevano
cominciato in pochi istanti a cadere ancor con maggiore insistenza e rapidità,
spinti dal vento che all’improvviso aveva cominciato a soffiare con violenza.
‘’Sembra una tormenta… sarà meglio che mi rechi in stazione e
che prenda il primo treno, prima che tutto sia difficile da raggiungere e che
ci siano dei disagi nei trasporti’’, disse la mia interlocutrice, rompendo il
magico silenzio che era sceso tra noi.
‘’Sono d’accordo con te’’, fui costretto a riconoscere,
notando che il tempo stava facendo le bizze, all’infuori della mia casa. Non
avrei mai voluto essere nei panni della mia adorata amica e cugina, che avrebbe
dovuto affrontare quel clima avverso.
Ci salutammo, lei mi diede un bacetto sulla guancia e mi
disse che tra di noi era tutto a posto, e che era davvero felice di aver
scoperto la mia vera identità. Non se la prese per il fatto che per lungo tempo
le avevo praticamente mentito, ma forse aveva compreso davvero ogni mia
motivazione e paura.
Forse, dentro di lei le condivideva.
Melissa è sempre stata una ragazza profondamente attenta ed
intelligente, quindi so che su di lei ho sempre potuto far affidamento e che mi
ha da sempre capito, perdonato ed amato, come un grande amico però.
Capì tutto, per fortuna, e fin quasi da subito. Sperai solo
che non si stesse preparando per far del casino in casa sua, dopo quella
scoperta, ma sapevo che lei era davvero una persona saggia e con la testa sulle
spalle, quindi mi fidavo profondamente di ogni sua scelta. D’altro canto, in
quel frangente ogni colpa era solo e solamente mia.
Melissa se ne andò così di casa mia, quasi improvvisamente
come si era presentata, sotto ad una fitta e copiosa nevicata, mentre il
gelidissimo vento della tempesta la sfiorava con decisione. Lei mi sorrise,
prima di sparire dalla mia vista, ed ebbi come la consapevolezza che quel
sorriso avesse molti significati, e che tra me e lei non si sarebbe mai
concluso il nostro splendido rapporto. Quest’ultimo non sarebbe stato d’amore
da coppia affiatata, bensì di rispetto e di parentale fratellanza.
Quando tornai in casa, dopo aver richiuso la porta d’ingresso
alle mie spalle, mi sentii da subito come svuotato, come se mi fossi tolto un
grandissimo peso di dosso, dopo aver fatto chiarezza su tutto quanto con la mia
cugina. E pensai che molto probabilmente anche lei doveva condividere quel
sollievo, almeno in parte, poiché le aveva permesso veramente di capirmi e di
guardarmi dentro, senza più alcun velo. E forse questo era stato meglio del
bacio che voleva darmi sulle labbra.
Tra me e Melissa finalmente era stata fatta chiarezza, e con
un po’ di stanchezza salii nuovamente al piano superiore, soddisfatto anche del
fatto che nessuno fosse stato in casa in quel momento a turbare la nostra
conversazione privata, e mi sdraiai sul mio letto, osservando con indolenza i
fiocchi candidi di neve che sfioravano il vetro della mia finestra, per poi
miseramente sciogliersi.
Rapito dalla magia della neve, dopo un po’ mi addormentai,
nonostante fosse pomeriggio inoltrato, mentre qualcuno al piano inferiore stava
rincasando.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!
Grazie, come sempre, per continuare a leggere, seguire e sostenere questo
racconto.
Finalmente tra Melissa e Antonio è tutto più chiaro; la
situazione, infatti, a lungo andare stava per sfuggire di mano ad entrambi.
Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro
gradimento.
Continuo a ringraziarvi tutti di cuore, e vi auguro una
serena giornata! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 33 *** Capitolo 33 ***
Capitolo 33
CAPITOLO 33
Dormii per un po’, nonostante che di tanto in tanto udissi un
discreto tramestio proveniente dal piano di sotto. Ma mai avrei sospettato che
sarebbe accaduto ciò che Giacomo prevedeva e desiderava da tempo.
Ricordo solo che, dopo un po’, mia madre entrò in camera mia
e mi svegliò, con impressa sul viso un’espressione agitata e preoccupata.
‘’Cos’è successo, mamma?!’’, le chiesi, già in ansia e con la
voce impastata e fioca.
‘’Ero appena rincasa quando hanno suonato il campanello, e…
alla porta si sono presentati due carabinieri! Hanno chiesto di Federico, ed io
l’ho chiamato giù. Il ragazzo, che tutto s’aspettava tranne questo genere di
visita, non appena li ha scorti ha fatto delle storie, ma loro l’hanno voluto
condurre immediatamente in caserma. Il motivo non lo so affatto, han detto che
ne avrebbero potuto parlare solo con i membri della sua famiglia, per motivi di
privacy. Ecco, ora mi chiedevo se fosse meglio contattare Roberto…’’, mi narrò
mia madre con il classico impeto di chi è rimasto davvero colpito da ciò che è
successo.
Deglutii, facendo scivolare un po’ di saliva all’interno
della mia gola arida e lievemente arrossata, prima di riconoscere che sì, forse
era davvero meglio telefonargli per avvisarlo.
Annuii senza dire nulla, ed alzandomi lentamente dal letto
riconobbi che i due coniugi Arriga non dovevano ancora aver fatto ritorno a
casa da quella mattina, e tutto ciò era sospetto. Mai entrambi erano stati
fuori per tanto tempo, e lo stesso Roberto non aveva mai saltato un pranzo a
casa.
‘’Mamma, chiamalo… faglielo sapere’’, le dissi poi, per
confermare le mie idee. Roberto andava avvisato, e poi sapevo che la questione
gli stava a cuore.
Fu il turno di mia madre ad annuire, per poi abbandonare la
mia stanza, immersa in un turbato silenzio.
Io non riuscii a far altro che restarmene in camera mia,
sveglio però, ad ascoltarla mentre telefonava a Roberto e l’avvisava
dell’accaduto. Tutto sommato, devo riconoscere tuttora che non ero affatto
dispiaciuto per Federico.
Il nulla.
Ci sono quei momenti, durante la propria esistenza, in cui
una persona vorrebbe essere il nulla, mischiarsi abilmente con esso e sparire
per un po’, volatilizzandosi come per magia.
Il voler uscire dai propri problemi, dalle situazioni scomode
e il non voler sfiorare tasti dolenti a volte può dare questa impressione, che personalmente
mi capita spesso di provare.
Quando ripenso ai concitati momenti successivi a quella sorta
di arresto di Federico, non posso non provare un umiliante brivido. Umiliante,
proprio così. Non tanto per me, ma per una persona che mi sta talmente tanto a
cuore da farmi immedesimare nella sua drammatica situazione.
Ma procedo un passo per volta, altrimenti rischio
d’ingarbugliarmi nel groviglio concitato e frenetico di questi ricordi.
Mia madre aveva avvisato Roberto, ovunque esso fosse, e
l’uomo, da quel che lei aveva capito, doveva essersi recato dal figlio.
‘’Mi… mi sembrava che stesse piangendo!’’, mi disse però
l’unico genitore di cui mi fidavo, sbottando la frase quasi in modo ingenuo ed
incredulo.
Anch’io pensai che quella fosse stata solo una sua
impressione, dovuta alla concitazione del momento. Ma sbagliai.
Roberto rincasò solo qualche ora dopo, seguito dalla moglie.
Io e mia madre stavamo già cenando, dopo aver lasciato qualcosa da parte per
quel fannullone di mio padre, che ancora non era tornato da chissà dove, ed
eravamo in attesa di notizie da parte dei coniugi, se ovviamente avrebbero
voluto condividere qualcosa con noi.
Mia madre sapeva che se Federico era nei guai era anche per
causa mia, e temeva che questo avrebbe potuto guastare irreparabilmente i rapporti con gli inquilini, lei che era tanto
egoisticamente amante della pace, ma stava di fatto che ormai era tutto finito
e le carte erano già tutte in tavola. Non si poteva fare più nulla per
cambiarle.
Ci alzammo da tavola, sentendoli rientrare, e fui parecchio
sorpreso di vederli rincasare assieme, ma immaginai che provenissero dalla
caserma. Federico non era con loro. Roberto appariva livido in volto, più
demoralizzato che arrabbiato, mentre Livia era furente.
I due entrarono nella cucina l’uno dopo l’altra, come furie,
ed io e mia madre ce ne restammo in piedi a lanciarci a vicenda uno sguardo
allarmato.
‘’Il nostro soggiorno in questa casa è terminato. Entro
domani ce ne andiamo da questo tugurio e da questo paesino insignificante’’,
esordì Livia, con un tono di voce molto deciso e tagliente.
Il suo chiaro intento era umiliare mia madre, con le sue
parole e il suo insulto rivolto alla nostra dimora, ma lei non colse l’offesa,
parve lasciarsela scivolare addosso. Notai che il suo sguardo era tutto
dedicato a Roberto, rimasto ancora in silenzio in quel primo concitato momento,
in cui la moglie pareva su tutte le furie.
‘’Parla per te e tuo figlio. Io resto, almeno per un po’ ‘’,
disse l’uomo, e riconobbi che la sua voce era davvero incrinata. Sembrava che
avesse pianto, anzi, ne ero quasi sicuro.
‘’Certo, ma chi ti vuole? Anche la nostra storia è finita
qui, sempre se è mai esistita’’, ribatté l’aristocratica, facendo una smorfia
di evidente disgusto ed afferrando un bicchiere pulito dal lavabo.
Io e mia madre eravamo allibiti, e la mia cara genitrice,
preoccupata, si mise a servire l’ultima porzione della nostra cena, in modo che
noi potessimo concluderla in fretta per poi lasciare spazio agli Arriga. Tornai
quindi a sedermi.
I due coniugi, dal canto loro, parevano non aver voglia di
uscire dalla stanza; mentre Roberto si era lasciato scivolare lentamente su una
sedia libera posizionata a fianco del tavolo, la signora sembrava davvero
intenzionata a sorseggiarsi in tutta tranquillità un po’ di succo di frutta,
che si era appena versata nel bicchiere.
Riconobbi che forse sarebbe stato meglio se avesse
sorseggiato un po’ di camomilla calda, visto il suo stato.
‘’Il nostro percorso assieme…’’, tentò di dire Roberto,
subito interrotto brutalmente dalla risata stridula della moglie, che soverchiò
ogni altro rumore.
‘’Il nostro percorso assieme! Il nostro percorso! Ma sei
davvero ridicolo, Roberto. Ho sempre saputo che eri un uomo che non valeva
nulla, ma almeno pensavo che tu ci arrivassi a comprendere almeno qualcosa di
elementare. Non c’è mai stato nessun nostro percorso! C’è stato solo il mio’’,
disse ad alta voce Livia, mentre io e mia madre continuavamo a mangiare. Il
cibo quasi mi formava un nodo in gola di fronte a quelle orrende parole, tra
l’altro pronunciate di fronte a noi due estranei alla loro famiglia, come se
fossero cose di normale routine su cui chiacchierare.
‘’Antonio, finiamo di cenare dopo. Lasciamo che…’’, tentò di
dire mia madre, ma l’ennesima risata isterica della signora la interruppe.
‘’No, potete ascoltare, state tranquilli! Ora chiedete il
permesso, quando non avete fatto altro che origliare, spiare e controllarci per
tutto il periodo in cui abbiamo soggiornato qui. Restate, vi prego! Questa è la
resa dei conti, quel momento a cui avete partecipato attivamente per costruirlo
negli ultimi mesi… ascoltate e guardate i risultati che avete ottenuto!’’,
disse la donna, amaramente.
‘’Noi non abbiamo mai spiato nessuno’’, sussurrò mia madre,
sconcertata dall’esagerata reazione dell’aristocratica.
‘’Ah no? No, ne sei proprio sicura? Tu, pulitrice di
gabinetti e quell’infame vermiciattolo di tuo figlio non avete fatto altro che
remarci contro dal primo giorno in cui ci avete visto. Bastardi! Lo so che
odiate me e mio figlio, ma…’’.
‘’Livia, questa è una faccenda che riguarda noi due e
Federico. Non tirare in ballo persone che non c’entrano nulla in tutta questa
storia’’, la bloccò Roberto, quando ormai la moglie era totalmente e
rabbiosamente scagliata contro di me e di mia madre, che da parte sua abbassò
lo sguardo e non trovò la forza per replicare nulla.
A volte mi sento un po’ come la mia mamma, e devo riconoscere
che neppure lei è mai stata una donna d’animo forte e sicuro. Quella fu una
situazione in cui tutta la sua debolezza trasparì in un modo talmente tanto
chiaro da farmi sentire male anche per lei.
Con quelle parole, Livia aveva umiliato entrambi, ma nessuno
di noi due era riuscito a tener testa a quella che pareva un’ira repressa,
venuta fuori lentamente e nel corso dei vari giorni precedenti a questo
momento, per poi esplodere definitivamente tutta d’un colpo.
‘’Il fetente è entrato più volte in camera di mio figlio.
L’ha provocato fino a farlo impazzire! E poi si lamenta se gli ha dato un
qualche scapaccione! Ed ecco che il povero Federico è nei guai, guai grossi
questa volta, e lui se ne sta qui dietro la sottana di sua madre, a fare il
santo, solo perché ha ricevuto un calcino nel didietro… nei guai dovevi esserci
tu, deforme mentale!’’, aggiunse la signora, rincarando comunque la dose.
Fui lì per rispondere qualcosa, ormai troppo nervoso per
riuscire a stare zitto e a lasciarmi sottomettere dalla mia naturale timidezza,
ma Roberto si alzò e in lampo si avvicinò a me, appoggiandomi una mano sulla
spalla destra e chinandosi leggermente verso il mio volto.
‘’Non rispondere a questi insulti, Antonio. Non dar seguito
alle parole di una donna che ormai ha perso tutto, anche la dignità di donna
coniugata, ed è impazzita’’, mi disse, a voce bassa, ma non tanto da non essere
udita dalla vicina moglie, che però quella volta non rise, anzi, strabuzzò gli
occhi.
‘’Ecco, sono una pazza anche per te… questa è la ricompensa
per quello che ho fatto per il tuo bene! Essere chiamata pazza, essere
odiata…’’.
Livia era ancora furente, ma non aveva intenzione di
schiodarsi dalla sua postazione, appoggiata leggermente con la schiena contro
la bassa credenza della cucina, quasi avesse bisogno di un supporto fisico per
restare in piedi.
‘’Ad aver sbagliato tutto e ad averci rimesso, in questa
storia, sono stato proprio io. Fin dall’inizio. E per questo ritengo giusto che
ogni rapporto tra noi due abbia immediatamente fine’’, mormorò Roberto, sempre
affranto e senza commentare le parole della moglie, che dal canto suo appariva
meno dispiaciuta e più fuori di sé.
‘’Non ti doveva neppure passare per l’anticamera del cervello
di corteggiarmi! Di fissarti con me… tu dovevi lasciarmi in pace! In questo
momento, io e Federico saremmo stati felici e lontani da qui, ancora a Bologna,
a goderci la vita e non a roderci l’anima’’.
‘’Non capisci proprio nulla. Credi che senza di me tu e
Federico avreste avuto una vita serena? I tuoi ti avrebbero costretto ad
abortire, o a lasciare il bambino in ospedale. Ricordi quello che ti diceva tuo
padre? Le brutte parole che ti rivolgeva, quando scoprì che eri incinta, e per
di più…’’.
‘’Basta così. Non rigirare il coltello nella piaga. Ma penso
che tu non abbia ragione, e a volte immagino di nuovo la mia vita libera, senza
di te. E d’ora in poi sarà proprio così che vivrò! Non sono più una ragazzina,
so esattamente quello che voglio’’, tagliò corto Livia, diventando pensierosa
per un attimo.
Mia madre si preparò improvvisamente a lasciare la stanza, e
lo fece, mentre quando io tentai di muovermi Roberto mi posò di nuovo le sue
mani sulle mie spalle, quasi invitandomi a stare lì.
‘’Non lasciarmi solo proprio in questo momento, mio giovane
amico’’, mi sussurrò infatti, con la voce sempre più incrinata.
Io ero pietrificato di fronte al suo dolore, e a ciò che
stava accadendo. Avevo come una vaga idea del fatto che fossi stato io
l’artefice dell’improvviso e repentino deterioramento del rapporto di coppia
dei coniugi Arriga, e questo mi faceva stare ancora peggio.
Non volevo udire quella loro discussione, poiché prima di
tutto non lo ritenevo giusto, e poi ne avevo sentite fin troppo durante la mia
giovane vita.
Nonostante tutto, decisi di restare lì, accettando
tacitamente la richiesta di quell’uomo che aveva fatto tanto per me, fino a
quel momento, e che io avevo ricompensato distruggendogli la famiglia e
rovinandogli l’esistenza. Ecco, interpretai quella mia scelta di non
abbandonare la cucina come la voglia di scontare la giusta punizione per il
grave peccato che avevo commesso la sera precedente, dove forse mi ero lasciato
influenzare troppo dalle parole critiche dei miei amici e soprattutto di
Giacomo, sempre troppo innervosito nei confronti degli Arriga.
Solo in seguito compresi che forse, in quei giorni, ero stato
davvero troppo severo con me stesso. I due coniugi Arriga parevano essere
giunti alla fine della loro relazione già da un po’; io e la mia scelta dissennata,
molto probabilmente, eravamo stati solo la goccia che aveva fatto traboccare
definitivamente il vaso.
‘’Sì, ragazzino, non lo lasciare solo! Da quando siamo giunti
qui, non ha fatto altro che scodinzolarti attorno. Tienitelo, questo cane…’’,
ribatté l’arpia, sempre pronta a ferire con la sua perfidia senza limiti.
‘’Adesso basta, stai esagerando. Falla finita e vai a
preparare le cose… le tue cose e quelle di tuo figlio. Non voglio più né voi né
nulla di vostro a portata dei miei occhi’’, sibilò Roberto, sempre vicino a me.
Mi sentivo davvero di troppo, volevo andarmene da quel luogo
ormai pieno d’odio e di rancore covato per anni e anni, e poi schiuso tutto ad
un tratto. Ma ricordavo sempre che avevo una pena da scontare e un amico da
supportare.
Perché Roberto era un mio amico, nonostante fosse molto più
grande di me; mi aveva passato molto, insegnandomi ad amare e a rispettare la
natura, a riflettere prima di commettere scelte sciocche, a guardare le cose e
gli eventi attraverso un’altra prospettiva, ovvero quella che poteva apparire
sempre come la più interessante e quasi impensabile. Non potevo e non volevo
lasciarlo solo, ma ammetto che, al solo ricordare le parole che Livia gli stava
rivolgendo, mi ribolle ancora il sangue nelle vene.
Sul momento avrei voluto rispondere in qualche modo a quelle
provocazioni, ma alla fine mi trattenni sempre, ben sapendo che quello che
stava accadendo tra i due adulti non era assolutamente un affare mio. Erano
persone grandi e vaccinate, e stava a loro regolare autonomamente i loro
rapporti, anche se in modo scorretto e malato.
Io ero solo un ragazzino, e la mia missione era quella di
supportare un amico grazie alla mia presenza fisica, e nient’altro.
‘’Certo, è proprio quello che ho intenzione di fare, ma prima
voglio spiattellartene un po’ nel naso, e proprio di fronte a qualcuno che
magari ti idealizza pure!
‘’Ti rendi conto?! Per più di vent’anni ho vissuto con un
uomo come te, un verme insulso, inabile in ogni genere di lavoro e totalmente
incapace… ho dovuto tirare avanti con le mie forze, ed ho dovuto instradare
nostro figlio in un modo poco responsabile, per far sì che potesse anch’esso
tirare avanti senza mai doverti chiedere troppo. E tutto questo perché?! Ma
perché sei un fallito, è ovvio!
‘’Non hai mai concluso nulla durante tutta la tua vita,
stando prima nascosto dietro la sagoma di tuo padre per poi venire allo
scoperto e prendermi a tradimento… ti rendi conto che per quasi ventidue anni
tu hai vissuto di buona carità? Tua moglie te l’ha fatta. Io avevo una sorta di
debito con te, e l’ho ripagato a modo mio; ma tu sei sempre stato come un cane,
proprio come ti ho detto poco fa.
‘’Sai, è stato come avere un pastore tedesco al posto di un
marito; un uomo cupo, riflessivo, per nulla attivo e che mangiava solo.
Un’incapace. Ti ho mantenuto così come tanti altri mantengono un animale
domestico’’, proseguì Livia, imperterrita e sfoggiando per la prima volta un
sorrisino soddisfatto, sempre contornato da quel nasetto leggermente aquilino e
quelle labbra increspate e rosse come il fuoco, grazie al rossetto, con quei
capelli ribelli come quelli del figlio e a quegli occhi sempre un po’ troppo
spalancati e a tratti leggermente impressionanti.
‘’Antonio!’’, mi richiamò mia madre dal corridoio, per
togliermi da quella situazione scomoda.
‘’E’ tutto a posto Maria, non temere… noi abbiamo già finito
di discutere, non abbiamo proprio più niente da dirci’’, la rassicurò
prontamente Roberto, alzando un po’ il tono della voce e cercando di non
rispondere direttamente alle orribili provocazioni lanciategli dalla moglie.
Livia era veramente una donna perfida e mediocre, e a quel punto e di fronte a
quelle parole di una forza tremenda, mi veniva da chiedermi quale fosse stata la
sua storia con l’uomo che aveva poi sposato.
Io ero sempre lì, pietrificato sulla mia sedia e mortificato
per via dell’umiliazione pesante e a parole che stava venendo inflitta al mio
caro inquilino. Inoltre, quel riferimento scorretto rivolto agli animali
domestici mi aveva davvero lasciato allibito; Livia era davvero impazzita.
Si dice che chi non vuol bene agli animali non è neppure in
grado di volerne alle persone. Ciò che Livia aveva tirato fuori spontaneamente,
in quell’agitatissima sera, forse era una piccola conferma del più noto detto
popolare.
Ora che ho avuto modo di imparare a convivere con gli animali
domestici, posso assicurare a chiunque che essi sanno essere pure molto meglio
degli umani. E di certo molto, ma davvero molto meglio di Livia.
‘’Sì, abbiamo finito di discutere, sguattera… vieni pure a
sistemare questo schifo di tavola, tanto io non mi ci siederò più attorno ad
essa’’, replicò Livia dopo aver udito le parole del marito e rivolgendosi a mia
madre, che dal canto suo preferì non rispondere. Come al solito.
‘’Sei liberissima di insultare me e di far del male a me, ma
non provocare e non tormentare le altre persone di questa casa. Ricorda che
questa non è casa tua’’.
Roberto era inflessibile. Non pareva poi neppure più di tanto
colpito dalle offese che gli erano state rivolte contro, ma sfoggiava ancora
quell’espressione rattristata e demoralizzata di poco prima.
‘’Con tutti i soldi che mi hanno fregato, facendomi pagare un
affitto spropositato per due camere, un bagno e una cucina condivisa, posso
tranquillamente rivolgere offese verso chiunque’’.
‘’Il tuo è tutto rancore. Ti provoca bruciore interiore il
fatto che non sei riuscita a prendermi in giro fino in fondo, ad abbindolarmi…
ed ora ne approfitti per prendertela con chiunque. Non sei mai cambiata, Livia!
Eri così da ragazzina, poi hai messo sul tuo viso quella maschera da donna
distaccata e forte quando tutto ti appariva più propizio, per lasciarla cadere
una volta per tutte quando la situazione ha preso una piega nuovamente a tuo
sfavore… ora vattene, ti prego. Vai in camera. Prepara le tue cose’’, riprese a
dire il consorte, con rassegnazione e facendo pressione per concludere quella
discussione imbarazzante, condotta di fronte ad estranei e carica di offese
umilianti.
‘’Sì, vado subito e non me lo faccio ripetere, stai
tranquillo… ci tengo però a farti capire che non devi cantar vittoria, perché
in tutto questo ho vinto solo io, mio caro; se non l’hai capito, ti ho tenuto a
mio fianco fintanto che facevi comodo a me e a Federico, ed ora che non ci
servi più, e che potrò avere un’altra alternativa parecchio più allettante,
lascio che tu vada a quel paese! Mi sono proprio stancata di vedere tutti i
giorni il tuo viso, di averti sempre tra i piedi… mi fai schifo, e me ne hai
sempre fatto, se non è mai stato chiaro fino a questo momento!’’.
Livia, ormai abbandonata la sua maschera e quasi urlando, ci
tenne a sottolineare per bene ogni concetto. Voleva averla davvero vinta su
quel marito che non mi era mai parso così tanto debole e passivo.
Di certo, la signora era una donna molto forte, ma che quando
si lasciava andare alle sue emozioni diventava una sorta di megera; ormai, come
le aveva riconosciuto anche il marito, aveva lasciato cadere la sua mediocre
maschera e si era rivelata per quella che era, concludendo quel percorso di
cambiamento che era cominciato da quando Federico aveva iniziato ad avere
problemi con me, per poi giungere a minacciarmi direttamente, qualche mattinata
prima.
La farsa dell’aristocratica poteva dirsi finalmente conclusa,
essendosi rivelata perfettamente per quello che era.
‘’E’ tutto molto chiaro. Vai a preparare le tue cose e
vattene. Prepara anche quelle di Federico’’, tornò a ripetere Roberto, sempre
senza rispondere in alcun modo alle offese rivoltegli contro.
Ero stupito dal fatto che l’uomo non volesse più vedere il
figlio, quel ragazzo che pareva voler seguire sempre con pazienza e cercando di
sforzarsi per andargli incontro in tutti i modi. Riconobbi sul momento che
quella era una di quelle classiche situazioni molto dolorose, soprattutto per
alcuni membri di una famiglia, e continuava a dispiacermi davvero molto per il
povero Roberto.
Ero anche più che certo che da quella mattina qualche
dinamica interna alla famiglia Arriga fosse stata stravolta.
Nel frattempo, Livia si distaccò dalla credenza, e,
attentamente, cercò di riprodurre un andamento sicuro di sé mentre sfrecciava
davanti ai nostri volti, dirigendosi finalmente verso il corridoio e le scale.
Mi venne quasi da tirare un sospiro di sollievo, mentre
Roberto si lasciava sfuggire un profondo gemito. Fu così che capii che anche le
parole appena dette avevano lasciato su di lui un indelebile segno.
Mentre l’uomo crollava su una sedia a fianco a me, e la
moglie sembrava davvero intenzionata a chiudere lì il dibattito e a sparire al
piano superiore, la porta d’ingresso si spalancò di colpo, facendo una botta
che quasi mi spaventò.
Pensavo che si trattasse di mio padre, con uno dei suoi
classici ingressi prepotenti e a sorpresa, ma dovetti ricredermi in fretta,
poiché una frazione di secondo dopo la brutale entrata in casa apparve un
trafelato Federico, ficcando per un istante il suo viso dentro la cucina, per
poi tentare di tirare dritto verso le scale non appena ebbe notato che non era
presente alcun viso amico per lui.
‘’Federico, figlio mio!’’, sentii singhiozzare Livia, ancora
nel corridoio, dove aveva atteso l’amato figliolo, per abbracciarlo proprio a
pochi passi dalla porta della cucina stessa. Potevo intravedere le loro sagome,
e decisi di spostarmi.
Dato che il combattimento tra coniugi era finito, potevo
anche bere qualcosa per riprendermi, e poi svignarmela.
Casa mia era diventata un inferno. Mentre mi alzavo dalla mia
sedia, mi venne da gettare un’occhiata alla roba di mio padre, sistemata in un
angolino e all’interno di due valigie ben chiuse, e solo quella breve visione
seppe infondermi tanta nuova amarezza.
Sul momento ricordo che non stavo male; come ho correttamente
ricordato poco fa, ero solo amareggiato dalla piega che aveva preso tutto
quanto. Era comunque una piega che si sarebbe potuta prevedere, ma che io nella
mia probabile stoltezza non ero riuscito a comprendere per bene. E quello che
restava era, come ora, la mia voglia di mischiarmi col nulla e di trovare un
po’ di pace e di sollievo da tutto ciò che stava accadendo.
‘’Mamma…’’, mugugnò il mio nemico, tra le braccia materne nel
corridoio.
Decisi di temporeggiare un attimo, in modo da evitare d’incontrare
madre e figlio nel corridoio, e di ammazzare qualche minuto bevendo, come mi
ero ripromesso, e sperando che i due si levassero di lì. Immaginavo che non
avessero affatto piacere di vedermi in faccia, e non mi andava proprio di
sfilare sotto al loro naso.
Eppure, la sorte non volle offrirmi la chance di riuscire a
dileguarmi, poiché Federico ebbe la balzana idea di tornare sui suoi passi, ed
incredibilmente di entrare in cucina, forse perché aveva visto me e Roberto e
ne aveva pensata subito una delle sue.
‘’Allora?’’, gli chiese il padre, lentamente, ancora seduto
sulla sua sedia. Il ragazzo gli rivolse solo una semplice occhiata in tralice,
prima di muoversi verso di me e verso il lavabo.
Mi feci subito da parte e mi diressi verso la finestra.
‘’Allora niente. Rischio un sacco di ripercussioni legali.
Secondo loro, ora ci sono ufficialmente tutte le prove che servono per
incastrarmi; sono io il vandalo che ha rovinato la facciata del liceo, sono io
che ho rovinato la macchina di un insegnante, poiché sarei stato ripreso con
chiarezza da una telecamera del posto recentemente visionata, sono io che ho
ideato… e che ho picchiato e messo in atto azioni di violento bullismo in rete
e nella vita reale. Insomma, sono proprio colpevole di tutto!
‘’Sarete pure contenti, adesso. Magari, han detto che se la
preside si accanisce e le denunce continuano a fioccare, e se le vittime di
questi gesti vorranno continuare ad andare fino in fondo, rischio fino ad un
anno e mezzo di galera… senza contare i danni che dovrò risarcire. Al momento
non sono stato arrestato, ma dovrò sempre fornire tutti i dati dei miei
spostamenti e non posso abbandonare la provincia. Devo essere sempre
rintracciabile, in attesa di quel che accadrà…’’, disse Federico, puntando il
suo sguardo su di me. Io lo distolsi subito, ma sapevo che lo stava facendo per
ferirmi e tentare per un’ultima volta di mettermi in soggezione.
Roberto era rimasto sbalordito, nel frattempo, e di fronte a
quelle parole pure sua madre era tornata silenziosamente ad affacciarsi alla
porta della cucina, con le mani unite a mo’ di preghiera al di sotto del mento.
‘’Quei tre stronzetti che avevo conosciuto al liceo sono
colpevoli, ma invece di confessare semplicemente, a quanto pare si sono messi
ad infierire, giurando che li ho strumentalizzati. È colpa mia se a loro andava
di far atti vandalici e pestaggi! Avrei dato loro dei soldi e il sostegno per
compierli.
‘’Ma forse sono stato io ad essere stato strumentalizzato da
loro. E comunque, io sono innocente ed estraneo a tutto ciò, e mi ritengo tale.
Mi sono solo trovato nei posti sbagliati in momenti sbagliati, tutto qui’’,
concluse il ragazzo, sempre fissando me.
Mi sentivo addosso tutto il peso del suo sguardo, e non so
ancora il perché del fatto che la sorte volle che dovessi assistere a tutta
quella sequenza di situazioni non di certo linde degli Arriga. Mi sentivo
davvero impotente e sfortunato, e non avevo neppure più il coraggio di uscire
da lì, poiché Livia l’avvoltoio se ne stava appollaiata nel bel mezzo della
porta della cucina, riprendendo a sgranare nervosamente i suoi occhiacci dopo
qualche secondo di normalità.
‘’Posso testimoniare io, che tu sei innocente! Ti giuro che
te la caverai…’’, sussurrò la madre, muovendo qualche passo verso il figlio, che
la mantenne a debita distanza solo alzando una mano.
Federico era tetro ed appariva stanco, ma manteneva un certo
comportamento austero e freddo, nonostante tutto.
‘’Livia, è possibile che non capisci? Ha sbagliato, e…’’.
‘’E un corno! Lo so che mi odi, sei un fottuto stronzo come
tutte le persone che ho incontrato durante la mia vita. Dai, comincia a remarmi
contro anche tu! Vai a sporgere una denuncia immaginaria, su!’’, sbottò
freddamente il ragazzo, interrompendo il padre.
‘’E non osare mai più tentare di parlarmi’’, ribatté Livia,
indirizzando la frase al marito, che dal canto suo si limitò ad alzare le
braccia in segno di disinteressata resa.
‘’Mamma, sono in guai grossi. Mamma, sono nei casini questa
volta…’’, cominciò improvvisamente a mormorare il mio nemico, per poi
finalmente vacillare. La sua espressione tesa ma distante scomparve in un
battito di ciglia, e il giovane cominciò all’improvviso a piangere a dirotto.
La madre, pronunciando parole di conforto, si avventò subito
su di lui, avvolgendolo in un caldo abbraccio.
Abbassai lo sguardo, imbarazzato, e approfittando del momento
tentai di dirigermi verso la porta.
Mentre mi muovevo, già sentivo la ventata d’aria di libertà
che avrei trovato nel corridoio, in quel momento lontano da quegli estranei
delinquenti e litigiosi, ma le carte in tavola furono nuovamente rimescolate
dall’ennesimo attacco di Roberto, ormai allo stremo. L’uomo pareva essersi
racchiuso nel suo mondo cupo e indifferente, freddo e passivo, nonché doloroso;
mai fino a quel punto l’avevo notato così scoraggiato e distante, lui che era
sempre vicino a tutti e caldo come il sole dell’estate.
‘’Federico, sei un uomo ormai! È mai possibile che tu non ti
sia accorto che stavi sbagliando, e che continuavi a seguire la via sbagliata
mentre io mi sgolavo a ripeterti che così non andava affatto bene... insomma,
in fondo è questione di maturità saper rendersi conto dei propri errori, e
accusarne le ripercussioni senza tante manfrine’’, disse infatti il padre di
famiglia, mentre già il figliolo scattava di fronte a questo discorso pesante
ma veritiero.
‘’Adesso basta. È da quando sono nato che mi giudichi, che mi
costringi ad indossare le tue idee, che vuoi che io faccia solo ciò che vuoi
tu… ma chi sei tu per potermelo dire? Eh?’’, sbottò arrogantemente il giovane,
smettendo di frignare ed allontanando la madre da lui.
Io raggiunsi la salvezza, ovvero il corridoio, e mi chiesi se
quello fosse il modo corretto di rivolgersi ad un genitore. Mi chiesi anche se
il caro Roberto avesse ancora avuto bisogno di una presenza amica a suo fianco,
in quegli istanti così lugubri e oscuri, ma non mi feci problemi a pensare che
quelli erano strettamente affari suoi, e la presenza di altri avrebbe solo
rischiato di far inasprire ulteriormente la situazione, come d’altronde pensavo
che fosse già accaduto.
In effetti, madre e figlio quando avevano calato gli affondi
più decisi avevano anche spostato lo sguardo su di me, forse per valutare se
anche su un estraneo alla vicenda quelle frasi avessero fatto l’effetto
desiderato.
In quei concitati momenti, Livia e Federico volevano
dimostrare la loro superiorità, nonostante tutto, seppur constatando di aver
perso un po’ su tutti i fronti. Il voler schiacciare prepotentemente Roberto
pareva quasi un ultimo tentativo in corner per cercare di avere almeno una
piccola vittoria, anche se piccolissima in confronto all’amarezza, sicura e
unica vincitrice dello scontro. Stavano cercando una sorta di contentino, che
potesse minimamente alleviare tutta la loro delusione provocata dalla vicenda.
‘’Sono… tuo…’’, tentò di dire Roberto dall’interno della
cucina, intanto.
‘’Tu non sei nessuno per me’’, tagliò corto Federico, per poi
rimettersi a piangere.
Io mi allontanai, e raggiunsi mia madre, che nel frattempo si
era seduta sui gradini delle scale, senza altro posto in cui andare. Mi fece un
po’ di spazio, quando mi vide arrivare, ed io mi accomodai a suo fianco.
‘’Ho sbagliato, Antonio. Mi perdonerai mai?’’, mi chiese,
quasi all’improvviso.
Io mi volsi verso di lei, giusto in tempo per notare la sua
espressione realmente dispiaciuta.
‘’Non so perché dici così…’’, dissi, un po’ frastornato. Mia
madre non mi aveva mai chiesto scusa per qualcosa, fino a quel momento.
‘’Ho lasciato che degli estranei entrassero in casa e
spadroneggiassero ovunque. Guarda ora come siamo ridotti; tu sei stato
malmenato da un bullo, io non ho neppure più una stanza in cui stare
liberamente… mi piaceva la cucina, cucinare e preparare i miei pasti… ed ora
quei pazzi se la sono presa, per litigare per l’ennesima volta ed insultarmi!
Tu non hai neppure più la tua saletta e il tuo pianoforte, e questo perché ho
permesso a quel prepotente di tuo padre di riappropriarsene. Insomma, questa è
casa mia, casa nostra e di noi due, ed io ho lasciato che tutta questa…
gentaglia si prendesse ogni cosa! Ora non ci resta altro che la disperazione’’,
rispose mia madre, facendo piccole pause quando le emozioni e le parole si
facevano più difficili da esprimere liberamente.
‘’Mamma, so che le tue intenzioni iniziali erano buone. I
soldi degli Arriga ci facevano assolutamente comodo, e Sergio era tornato come
un profugo… quindi, ripeto che ho compreso che ciò che è poi accaduto e che sta
accadendo non si è sviluppato volutamente. Il resto non importa’’, minimizzai,
comunque facendo leva sul fatto che mi era molto chiaro che mia madre non aveva
mai pensato che le sue piccole ed accorte scelte avessero potuto sconvolgere le
nostre esistenze in quel modo.
‘’Davvero? Quindi non ti fa senso il fatto di aver perso
tutto in quella che era casa nostra, dalla serenità…’’.
‘’No, mamma, no. Credo che ormai sia solo questione di poche ore
prima che tutto si concluda, e poi non dovremo più piangere sul latte
versato’’, le risposi, tagliando corto, e forse con un po’ troppa foga. Ma
avevo espresso una delle mie più concrete sensazioni interiori.
Con un po’ di fortuna ci saremmo potuti liberare di mio
padre, e quindi anche della rottura della sua ragazza, mentre Livia e Federico
molto probabilmente se ne sarebbero andati entro ventiquattro ore. Roberto,
poi, non era assolutamente un problema.
Mia madre annuì alle mie parole, ma non mi parve interamente
convinta.
‘’Questa gente ci ha influenzato troppo. Da quando sono
venuti a contatto con noi, hanno saputo cambiare le nostre vite’’.
Quelle parole appena pronunciate non avrebbero fatto effetto
su di me se non avessi notato un retrogusto di ignoto dietro ad esse. Non volli
comunque indagare più a fondo con mia madre a riguardo, e mi limitai a parlare
per me, senza tentare di approfondire o di cercare aghi in un pagliaio in quel
momento tanto agitato e doloroso. Il momento delle verità e delle scuse.
‘’E’ vero’’, dissi.
Mi limitai solo ad accettare il significato più superficiale
di quelle frasi, sistemandomi meglio sullo scomodo gradino di granito. Avrei
voluto andarmene al piano superiore, e già mi accingevo ad alzarmi, poiché
avevo bisogno di stare un po’ di tempo da solo e magari rimuginare sugli ultimi
eventi, ma neppure quella volta tutto ciò mi fu concesso dal destino.
Non seppi mai cosa fece tracimare il vaso della razionalità a
tratti infantile di Federico; a suo tempo mi è bastato udire un grido
raggelante, emesso da Livia, che risuonò per tutta casa e forse anche in quella
dei vicini.
Io e mia madre ci guardammo e scattammo in piedi, pronti a
dirigersi verso la cucina per scoprire ciò che era successo. Eravamo fin dal
primo momento convinti che si trattasse di qualcosa di realmente orribile,
poiché l’aristocratica non aveva mai cacciato un grido simile prima di
quell’istante.
Con la pelle accapponata, e, povero me, nascosto parzialmente
dietro a mia madre, facemmo in fretta capolino sulla soglia della cucina, dopo
che il mio unico genitore ragionevole mi aveva rapidamente mostrato tutte le
sue paure con un rapido sguardo. Anche lei temeva una pazzia di quegli
scellerati inquilini, date le circostanze, e purtroppo non ci sbagliavamo
affatto.
Non appena ci affacciammo quasi nello stesso istante alla
porta della stanza, notammo fin da subito che Federico era in piedi, nel bel
mezzo della camera, mentre tra le mani impugnava saldamente un lungo coltello
da cucina, prelevato da uno dei cassetti di mia madre. Livia era a pochi passi
da lui, con le mani sulla bocca come per sopprimere l’ennesimo grido bestiale,
e l’impassibile Roberto se ne stava ancora seduto sulla sua postazione, con gli
occhi abbassati e non rivolti direttamente alla scena.
Ciò che era più inquietante era che il ragazzo rivolgeva la
punta dell’oggetto tagliente verso il suo petto, e pareva deciso a non
abbassarlo affatto e a non lasciarne la presa.
‘’Se quelli mi fanno qualcosa, o mi mandano in tribunale a
causa di tutto quello che è successo, io mi ammazzo. Mamma, ho paura! Troppa
paura! Mi ammazzo. E tu guardami, imbecille! È anche per colpa tua se mi sono
ridotto così! Io mi ammazzo, mi ammazzo. Se mi danno una condanna, mi
ammazzo…’’. E così dicendo, Federico scoppiò di nuovo in lacrime.
Io e mia madre eravamo a bocca spalancata, senza aver avuto
la forza neppure per respirare, ancora troppo stupiti da quella scena. Poi,
all’improvviso, tutto si concluse così com’era iniziato, ovvero con incredibile
fretta.
Ancora in lacrime, Federico gettò via il coltello verso un
angolo della cucina, per poi correre rapidamente verso la porta. Io e la mamma
ci spostammo per lasciarlo passare, mentre anche Livia si riscosse e si mise ad
inseguirlo, passandoci a fianco sussurrando qualche parolaccia di difficile
comprensione rivolta verso il marito, che fu l’unico a restarsene ancora
placidamente immobile e pietrificato.
Il coltello, intanto, continuava a tintinnare al suolo nel
punto in cui era caduto, mentre la sua lama mandava qualche bagliore verso il
soffitto, colpita dalla luce.
‘’E’ un pazzo squilibrato e viziato, è da tempo che lo dico a
sua madre. Va aiutato… o meglio, andava aiutato. A questo punto, è già
rovinato. Ma questo non è più un problema mio…’’, mormorò con tono rassegnato
l’uomo, dedicandoci un rapido sguardo, per poi riabbassare nuovamente gli occhi.
Come ci eravamo ridotti, in quel momento! Sembravamo davvero
una banda di pazzi. Per fortuna non c’era mio padre, altrimenti lui avrebbe
potuto essere l’ennesimo folle della serata.
Io mi allontanai subito da lì, mi riscossi e giunsi quasi di
corsa fino in camera mia, senza pensare a mia madre che invece doveva essersi
diretta verso Roberto.
Non feci caso a nulla e non pensai a nulla, se non pregando
di dimenticare in fretta quella scenata a cui ero stato costretto dalle
circostanze ad assistere. Aveva ragione mia madre, quando diceva che quei tre
inquilini avevano cambiato la nostra vita. Più che altro, l’avevano
scombussolata.
E dentro di me restava solo un’infinita amarezza.
Non provavo dispiacere per Federico; passati quegli istanti
di spavento e di incredulità, mi era parso subito ovvio che stesse continuando,
con la sua solita irrazionalità, a giocare a fare la vittima e l’innocente. La
scena drammatica e quasi teatrale di poco prima forse l’aveva pure pianificata
da tempo, per far inasprire ulteriormente la madre, che stava utilizzando
abilmente come scudo umano e ultima difesa.
E Livia ormai era definitivamente impazzita; il figlio doveva
essere l’unica persona al mondo al quale voleva bene, e lui, utilizzando quel
pizzico d’amore genitoriale malato, stava inscenando tutto per farla uscire
definitivamente di senno, e magari per cercare di lanciarla contro chi lo stava
per mettere davvero alle strette, anche se sarebbe valso a poco il suo
intervento.
Riconobbi sul momento di aver analizzato tutto con estrema
freddezza, e che forse non era così, ma più semplicemente quell’ultima reazione
si trattava della dimostrazione della follia più genuina e del disagio
interiore che stava vivendo quel ragazzo prepotente ed emarginato.
Ma misi un paletto ai miei pensieri. Avevo assolutamente
bisogno di staccare un attimo la spina. Quella mostruosa realtà mi stava
lasciando cadere in un baratro oscuro.
Senza pensarci due volte, afferrai il mio cellulare e telefonai
alla persona che più amavo a quel mondo… in quegli istanti colmi di agitazione
e di tensione non sognavo altro che rivederla, poterla stringere a me e
chiacchierare con lei.
Il timore di affrontare l’argomento Alice era stato superato
in fretta grazie agli eventi traumatici a cui avevo appena assistito, ed avevo
bisogno assolutamente di stare un po’ con una mia amata coetanea.
Ne avevo necessità, e sperai con tutto il cuore che lei fosse
disponibile a venirmi incontro, quella volta.
NOTA DELL’AUTORE
Salve a tutti!
Come avrete notato, questo è uno dei capitoli più forti
dell’intero racconto. Spero di essere riuscito a ricostruire per bene questa
follia collettiva, che ormai sta travolgendo il povero protagonista…
Spero che il capitolo, nonostante tutto, abbia saputo
intrattenervi piacevolmente per un po’. Ripeto e ribadisco che tutto ciò che
accade in questo racconto è totalmente frutto di fantasia, ma credo che questo
si noti chiaramente, anche se ho cercato di ricostruire tutto in modo
verosimile.
Vi ringrazio tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 34 *** Capitolo 34 ***
Capitolo 34
CAPITOLO 34
Lei venne da me, senza titubare neppure per un secondo.
Come le avevo detto, la attendevo nel mio giardino, e il mio
cuore quasi esplose dalla gioia quando la vidi avvicinarsi col suo solito passo
sicuro.
Quando Jasmine fu ufficialmente entrata nel mio giardino, le
feci cenno di venirsi a sedere vicino a me, ovvero su quel vecchio, piccolo ed
arrugginito dondolo che se ne stava a disintegrarsi a pochi passi dalla nostra
porta d’ingresso, a metà strada tra l’entrata di casa nostra e il capanno
utilizzato come garage. Era l’unico oggetto che era posizionato nella nostra
piccola sorta di cortile, a parte un paio di misere sedie di plastica lasciate
sul ristretto marciapiede, ed era anche il più anonimo, quello a cui non ci
prestava caso mai nessuno.
Quando i miei nonni erano ancora in vita, essi ci si sedevano
sopra e osservavano la strada e i passanti, applicando uno dei classici
passatempi tipici degli anziani, ma dopo la loro scomparsa nessuno l’aveva più
utilizzato.
Che fosse stato per davvero un caso che io fossi finito per
appollaiarmici sopra? Chissà. Stava di fatto che l’intelaiatura fatta di
plastica dura e resistente era pure umida, pregna di quelle gelide goccioline
di rugiada che durante le notti invernali tendono a congelare, diventando brina
gelida entro il mattino successivo.
Io sentii che quella gelida umidità trapelava fin sotto ai
miei vestiti, ma non m’importava molto. Ero così immerso nei miei pensieri che
il resto del mondo passava in secondo piano, ai miei occhi.
Almeno, ciò accadde fintanto che non rividi chiaramente Jasmine.
La ragazza, quella volta a passi leggermente titubanti, si
mosse lentamente verso di me, avendo individuato la mia sagoma posizionata
nella penombra sul dondolo, quasi nella totale oscurità.
‘’Antonio? Che è successo?’’, mi chiese prontamente, con una
sfumatura di preoccupazione nella voce.
‘’Un po’ di tutto, Jasmine. Un po’ di tutto’’, mi limitai a
risponderle, sospirando tra la prima e la seconda frase. Se ad averla
contattata mi aveva spinto una primordiale voglia di aprirmi e di parlare con
qualcuno di fidato dei miei problemi e degli ultimi eventi, in quel momento
quasi mi sentivo voglioso di restare chiuso in me stesso, di non parlare e di
cercare di dondolarmi leggermente su quell’oggetto, i cui semplicistici e
basilari componenti erano ormai preda della ruggine.
Però, poi, dopo un primo impatto da scorbutico, all’interno
della mia mente fu sottolineato chiaramente il fatto che ero stato proprio io a
contattare e a far preoccupare la ragazza, e quindi, giustamente, dovevo
trattarla con grandissimo rispetto e gentilezza. E fu quello che feci.
È incredibile come le emozioni sappiano sempre donarci
momenti altalenanti ed estremamente contrastanti, negli istanti difficili della
nostra vita.
Jasmine, dal canto suo, parve per un attimo decisa a prendere
posizione a mio fianco, dato che c’era posto, ma dopo aver sfiorato la
superficie di plastica ritrasse in fretta il suo arto.
‘’Ma come fai a stare seduto lì sopra, in una serata del
genere?! È anche tutto umido…’’, disse poi, allontanandosi di qualche passo da
me.
Effettivamente, la tormenta di quel pomeriggio non aveva dato
alcun esito in quanto accumulo nevoso; per un’oretta circa era caduta dal cielo
talmente tanta neve che pareva dovesse formarsi un ghiacciaio di lì a poco, ed
invece poi col giungere della sera aveva smesso di nevicare e ciò che era
presente al suolo si era sciolto in fretta, quasi come se si fosse trattato di
una burla. Tutta colpa del cambiamento climatico, avrebbe detto la mia prof di
scienze, magari anche in modo leggermente ironico.
Un attimo dopo, la mia amata era di nuovo vicino a me, e
notai che era andata a prendere una delle sedie di plastica asciutte, per poi
sedersi lì sopra, infagottata come se si fosse trovata in Lapponia.
Non potevo darle torto, ovviamente, poiché nonostante il
fatto che la neve del pomeriggio si fosse rapidamente tramutata in misere pozze
al suolo, il cielo restava nuvoloso e di un rossore quasi infuocato, come a
voler rabbiosamente promettere a noi miseri umani che la tempesta non era
finita lì, e che altra neve sarebbe tornata ad avvolgere le nostre case, al
momento più propizio. Non soffiava vento né altro, ma l’aria si faceva sempre
più gelida ed immaginai che nel corso della notte molto probabilmente sarebbe
caduta nuova neve, e che quella volta si sarebbe conservata fino al mattino e
si sarebbe tramutata in duro ghiaccio.
‘’Nevicherà ancora questa notte, se è quello che ti stai
chiedendo’’, mi disse la mia invitata, parlando dolcemente e con un tono molto
controllato. Doveva aver notato il mio sguardo perso verso l’alto.
‘’Chissà’’, mi limitai a risponderle.
Per un attimo, fui in procinto di chiederle di entrare in
casa. Ma mi accorsi, seriamente, di non riuscirci; non potevo tornare ad
affrontare quella situazione perfida e caotica. Sapevo che stavo facendo
congelare sia il mio corpo che quello della mia paziente amata, ma in fondo era
come se stessi proteggendo la nostra integrità psichica, evitando ad entrambi
di raggiungere l’interno riscaldato.
Era come se ormai ritenessi stregata la mia casa. Come se
essa si fosse tramutata in un vero e proprio inferno. Per un attimo, mi lasciai
percorrere da un brivido, che però non mi fu provocato dal clima rigido che
avvolgeva il mio corpo, bensì dal fatto che la mia mente fu attraversata di
nuovo dal pensiero dell’imminente partenza degli Arriga, e delle ripercussioni
che ciò avrebbe avuto sulla mia vita.
Mi pareva scontato stare a ripetermi che l’allontanamento da
me da parte della signora e di suo figlio si sarebbe potuto rivelare un vero e
proprio toccasana per il mio animo e la mia salute, sia fisica che mentale, ma
a terrorizzarmi era proprio la probabile partenza di Roberto. Anche se aveva
lasciato chiaramente intendere che non se ne sarebbe andato fin da subito con
moglie e figlio, data la frattura all’interno della sua famiglia, era tuttavia
lampante che non se ne sarebbe rimasto con noi per molto. E questo continuava a
farmi davvero molto male, e a ferire e a straziare la mia povera mente.
Mi sentivo come quando ero un bambino, ed avevo bisogno del
supporto degli adulti. Roberto era diventato in fretta per me quasi una sorta
di secondo padre, addirittura anche primo, dato il comportamento del mio vero
genitore, e perderlo sarebbe stato davvero un trauma.
E poi, la vita di me e mia madre dopo la partenza degli
Arriga era ancora tutta da decidere, vista la perdita di un’importante
sostentamento economico e il fatto che non ci fosse alcun altro che fosse
interessato a prendere il loro posto. Prevedevo un nuovo momento di gravi ristrettezze
economiche in casa mia, e quindi addio università per me e addio pause e ferie
per mia madre.
Entrambi ci saremmo dovuti rimboccare le maniche, e non
riuscivo neppure a prevedere se avessi potuto concludere quell’ultimo anno di
superiori in modo sereno.
Mio padre aveva vissuto a sbafo in casa nostra durante
l’ultimo mese, e di certo avrebbe potuto mettere qualcosa anche lui per risollevare
la nostra situazione che si preannunciava già gravissima, ma ero più che
convinto che mia madre non gli avrebbe mai chiesto nulla, dato che da ciò
dipendeva la sua ultima e rigida forma d’orgoglio, e d’altronde quell’uomo
infame ed ingrato non avrebbe mai sborsato niente in ogni caso.
Neppure a me piaceva l’idea di chiedere denaro a mio padre
per tirare avanti, e al solo pensarci mi sembrava un’infamia. Mai mi sarei
chinato di fronte a lui, neppure per chiedergli un centesimo, un tozzo di pane
o un passaggio in auto. Tutti i possibili ponti tra noi erano già pressoché
crollati irrimediabilmente.
Insomma, in quegli istanti prevedevo solo guai e pasticci, e
mi sembrava davvero tutto nero.
Ad un certo punto, mi accorsi che stavo parlando; stavo
raccontando tutto, ogni mio pensiero, ogni mia paura e sofferenza a Jasmine,
narrando a voce molto bassa come se quasi avessi voluto sussurrare tutto a me
stesso, e la ragazza mi stava attentamente ascoltando, senza minimamente
importarsene del freddo che ci stava avvolgendo e quasi congelando.
Vidi il suo viso come se si fosse trattato della prima volta
in cui lo scorgevo, e tra l’altro potei osservarlo nella più debole penombra, siccome
era marginalmente illuminato dalla luce di un lampione che dalla strada tentava
di scacciare il buio della prematura notte invernale fin attorno ad ogni casa
del paese, come se avesse avuto un grande coraggio e fosse stato un prode
combattente.
Non mi fermai, né smisi di parlare e di riflettere, e non
controllai neppure il flusso di frasi che stavo pronunciando, lasciandomi
andare per davvero. La mia mente era assonnata e provata, e non volevo
sottoporla ad altre prove o fatiche, e visto che la mia amata era una ragazza
gentilissima, disponibilissima ed altruista, sapevo che mi avrebbe ascoltato e
consolato senza andare a spifferare tutto in giro o ridere sui miei problemi.
Jasmine era un tesoro, ed io ero fortunato ad averla accanto
e ad averla conosciuta.
Le raccontai tutto, lentamente e col giusto tempo, quasi vuotando
il sacco ed andando ancor più in profondità di quello che avevo detto ad ogni
altra persona o amico del mio mondo. Parlare mi fece molto bene, soprattutto
con una mia coetanea interessata ed amorevole come lo era la mia amata, pure molto
intelligente e comprensiva.
Non so neppure ora quando conclusi la mia narrazione; forse
ci misi una manciata di minuti, o forse addirittura più d’un ora. Mi lasciai
semplicemente trasportare dalla forza delle mie parole fintanto che ebbi fiato,
e la mia gola divenne un inferno bruciante.
Solo allora mi fermai, quando neppure più il naturale
deglutire della saliva mi riusciva nel modo più normale ed indolore. E Jasmine
a sorpresa si allungò e mi prese la mano tra le sue, caldissime nonostante il
gelo che ci avvolgeva.
‘’Hai davvero passato tutto questo, negli ultimi mesi? Sei un
eroe’’, mi disse poi, indirizzandomi quelle parole con un filo di voce.
‘’Non è così. Ho traballato tante volte, e traballerò ancora.
Se Federico se ne andrà per sempre, credo che eviterò di tornare ad infierire
penalmente, d’accordo anche con mia madre… e tutto tornerà come prima. Temo che
resteremo con mio padre…’’, dissi, semplicemente senza seguire un filo logico.
Ammisi a me stesso che, dopo aver parlato tanto, nella mia
povera mente aveva cominciato grandemente a scarseggiare l’attenzione.
Difficilmente, da quel momento in poi, sarei riuscito a pronunciare un altro
lunghissimo discorso coscientemente coerente.
‘’In ogni caso, io ci sarò, e tu resterai il mio eroe’’,
replicò altrettanto semplicemente Jasmine, col suo solito piglio facile e
spontaneo.
Avrei voluto sorridere, ma non lo feci; avevo davvero dato
tutto, per quella giornata.
‘’Avrei voluto vedere le stelle, questa sera. Sarebbero state
una bella presenza, sopra di noi, dopo questa lunga ed imprevista
chiacchierata’’, tornò a dire la mia amata, dopo aver incassato qualche attimo
di mio pensieroso silenzio e un’espressione impassibile e stanca impressa sul
mio viso.
‘’Invece ci sono solo le nubi compatte, un po’ come sulla mia
vita’’.
Quasi la corressi, con la mia frase rapida e diretta.
‘’Non dire così, perché sono certa che il sole tornerà a
splendere anche su di te, e splenderà ancora di più su di noi. Più ci penso e
più la vita mi sembra un’altalena! Ci sono periodi bui e tristi, magari anche
molto lunghi, e altri così pacifici che si rischia davvero di annoiarsi e di
lasciarsi sfuggire del tempo, come se fosse inutile pure esso… la vita è
strana’’, disse Jasmine, dopo aver soppesato per un secondo le mie parole.
‘’La vita è come un gioco, ragazzi. Potete scegliere se
giocarla bene, oppure se giocarla male… ma diciamo che, insita nella sua
essenza, c’è anche una buona dose di fortuna o di sfortuna. Proprio come nel
gioco vero e proprio, dove non basta sempre la grande bravura del giocatore e
la sua esperienza per vincere ogni gara o ogni partita’’.
Roberto, uscito silenziosamente da casa mia, si avvicinò a
noi, lasciandosi immergere nella penombra e non perdendo l’occasione per dire
qualche parola.
‘’E’ proprio vero! Lei ha ragione’’, riconobbe prontamente
Jasmine, per nulla in soggezione a causa del nuovo arrivato.
‘’Disturbo, ragazzi? Scusate, ma avevo bisogno di un po’
d’aria fresca. In casa, si sa… il riscaldamento acceso a volte dà fastidio alla
testa’’, disse l’uomo, cautamente e avanzando di qualche passo verso la strada,
puntando il suo sguardo oltre la recinzione metallica del mio giardino. Colsi comunque
un certo doppio senso in quelle parole.
Dubitavo che fosse uscito per prendere una boccata d’aria
fresca, come d’altronde fui costretto a riconoscere che faceva molto spesso. Mi
balzò alla mente anche l’idea che fosse venuto per darmi un’occhiata e
comprendere se in me fosse tutto a posto, dopo l’orribile e violenta
discussione a cui ero stato costretto ad assistere.
Mi pareva incredibile che il mio inquilino fosse ancora così
tanto di buon cuore da cercare di dimenticare quello che stava vivendo
all’interno della sua famiglia, per venire fuori a controllare me.
Roberto mi faceva sentire caldamente protetto, mi faceva
sentire importante per qualcuno, così come stavano facendo anche Jasmine e mia
madre, anche se quest’ultima lo stava continuando a fare più a modo suo che
altro, e di questo ero davvero molto grato a loro.
Ma sia Jasmine che mia madre avrebbero continuato a far parte
della mia vita in ogni caso, sperando in un pizzico di buona sorte, mentre lui
ero condannato a perderlo. E questa vaga consapevolezza mi trafiggeva
brutalmente il cuore.
‘’Assolutamente no’’, rispose educatamente Jasmine, dopo un
sospiro, e di fronte alla domanda del nuovo interlocutore adulto.
Sospirai pure io, appoggiandomi allo schienale del dondolo,
mentre Roberto raggiungeva la recinzione e si accendeva una sigaretta.
‘’Sembra una persona a posto e a modo’’, mi disse a bassa
voce Jasmine, dandomi una leggera gomitata ed approfittando del fatto che
l’uomo si fosse allontanato di qualche passo.
‘’Oh, lui sì. Come ti ho già detto, i pazzi sono gli altri
due…’’.
Non dissi altro, non ce n’era bisogno. Un qualcosa cadde dal
cielo, quasi all’improvviso ed inaspettatamente; si trattava di un piccolo
fiocco di neve.
‘’Riprende a nevicare. La neve di questo pomeriggio e quella
sorta di tormenta saranno nulla in confronto a quello che accadrà questa
notte’’, suggerì tranquillamente Roberto, sempre un po’ fisicamente distante,
notando anch’egli un fiocco. A dicembre inoltrato, ormai, era comunque il tempo
del clima più rigido, e non ne eravamo stupefatti nessuno.
‘’Antonio! Antonio, sei lì fuori?’’, chiese mia madre,
cautamente, venendo anche lei in giardino.
‘’Sì, mamma’’, le risposi, tornando a sospirare.
Per un istante, provai un improvviso e discreto timore;
quello che la mia cara mamma notasse Jasmine, e facesse delle domande a
riguardo. Ma poi, riflettendo un attimo, compresi che tutto ciò a cui stavo
pensando erano semplicemente sciocchezze.
Avevo chiaramente intenzione di far capire al mio unico
genitore decente che non era Alice che mi attraeva, o altre ragazze, bensì
Jasmine, la ragazza tanto gentile e decisa che già aveva trovato il modo più
diretto per farmi conoscere alla sua famiglia e farmi interagire con i suoi. Il
mio ambiente familiare era totalmente diverso dal suo, e questo un po’
m’imbarazzava, ma non avevo intenzione di nasconderla o di tenerla celata come
se io mi stessi vergognando di lei, quasi facendomi beffe della sua
gentilissima e cortese apertura nei miei confronti.
‘’Chi è questa bella ragazza? E’ quella Jasmine, vero, la
stessa che una volta è venuta a cercarti?’’, tornò a chiedere mia madre, quasi
all’improvviso, riscuotendomi dai miei pensieri e rendendoli fondati.
Le sorrisi, nel buio. Mamma Maria era sempre stata una
persona cordialmente curiosa, e si stava avvicinando a noi, decisa ad indagare.
Forse, voleva vedere pure lei come stavo reagendo all’orribile scenata di poco
prima, ma credevo sfuggisse a tutti il fatto che non ero più un bambino, e che
le fughe di fronte alle scenate facevano parte dell’infanzia, di fatto.
A quei pensieri, quasi scoppiai a ridere da solo; la verità
era che ero una persona debole e fragile, e che dopo la scorsa scenata, in cui
ero stato coinvolto in modo ancor più diretto poiché era stata gestita da mio
padre, che mi aveva deriso davanti a tutti, mi ero comportato come un folle. O
come un bambino.
Gli adulti facevano quindi bene ad avere un dubbio su di me,
e ciò era fondato.
‘’Mamma, sì, lei è Jasmine. È una grande amica di Alice, come
sai già… ed è la mia ragazza’’, le buttai lì, senza aspettare troppo e concedendomi
solo un attimo di riflessione.
Quasi mi mangiai la seconda metà della seconda frase, ma non
potevo rischiare di perdermi in un qualche discorso, prima di arrivare al
punto, così come avrebbero fatto tutti ed ogni persona normale. Mi conoscevo ormai,
e sapevo che se non avessi fatto chiarezza in quel momento, avrei rischiato di
non farla mai per via della mia timidezza e del mio carattere difficile.
Mia madre parve rimanerci di stucco, per qualche secondo, e
anche ciò era perfettamente comprensibile dato il mio poco tatto, ma poi
prontamente si sciolse, e si avvicinò rapidamente a Jasmine.
‘’Oh! Immaginavo che il mio figliolo fosse innamorato di
qualche ragazza! E mi fa tanto piacere scoprirlo ed avere di fronte questa
persona speciale! Lasciati abbracciare, cara!’’, disse in fretta, avvicinandosi
alla mia amata, che velatamente imbarazzata ed impacciata si alzò dalla sua
sedia e si lasciò travolgere dall’abbraccio caloroso e sincero di mia madre,
che da parte sua aveva improvvisamente cominciato a piangere, evidentemente
emozionata.
Le due donne si scambiarono un abbraccio fraterno ed
estremamente caloroso, e mi venne da distogliere gli occhi per un attimo da
quella scena così dolce per puntare il mio sguardo nomade su Roberto, e notare
che anche l’uomo stava guardando la scena, ma non riuscii a scorgerne con
chiarezza il volto, nascosto dalla semioscurità. Mi piacque immaginare però che
ci avesse ben impressa un’espressione di compiacimento, come suo solito durante
gli istanti più commuoventi.
Il rumore del cancelletto che si apriva mi costrinse a
gettare una rapida occhiata a mio padre che rincasava, e che notando la moglie
abbracciata con la ragazza di colore per un istante si soffermò a guardarle,
poi riprese a camminare mugugnando qualcosa.
‘’Una nera. Pure una nera abbraccia… pure…’’, riuscii a
comprendere, il tutto pronunciato con nervosismo, e per fortuna mia madre e
Jasmine non udirono.
Avrei voluto dire qualcosa, ma non ne valeva la pena; avrei
rischiato solo di generare un’altra scenata inutile, che sarebbe finita per
causare qualche problema alla mia relazione con la ragazza. Feci quindi uscire quelle
parole subito dall’orecchio opposto a quello che le aveva udite, ma mi
soffermai ad osservare il mio genitore che rientrava in casa, e quando aprì la
porta d’ingresso e fu investito in pieno dal fascio di luce del corridoio
illuminato, notai chiaramente la sua espressione disgustata.
Quell’uomo mi faceva davvero schifo. Non aveva un minimo di
rispetto per nessuno.
Mia madre e Jasmine parlarono per qualche minuto, dopo aver
sciolto quell’impetuoso abbraccio, e tutto pareva andare a gonfie vele, ed io
ero davvero felice in quegli istanti. Ormai, pareva che ogni problema o scenata
appartenessero ad un passato remoto e distante.
Ma non era così, purtroppo.
‘’Maria! Maria, vieni a scaldare immediatamente questa
sbobba! Non pretenderai mica che io mangi della schifezza del genere’’, disse
di lì a poco mio padre, aprendo la finestra della cucina per farsi sentire
meglio. Doveva essere davvero geloso ed innervosito per il fatto che mia madre
stava intrattenendo una relazione sociale ed umana con qualcuno, e pareva che
lui dovesse sempre isolarla da tutti e smontarla, offendendola e trattandola pubblicamente
come una serva.
La mamma Maria, udendo quelle parole, si congedò
frettolosamente ma educatamente da Jasmine, invitandola tante volte a casa
nostra, ma non chiedendole di entrare in quel momento.
Non era del tutto una sprovveduta e doveva immaginare che mio
padre, l’aristocratica e il pazzo avrebbero potuto irreparabilmente ferirla,
durante quella serata, se l’avessero scorta in un ambiente a loro favorevole.
L’avrebbero fatto per far del male a me, alla ragazza che amo
e alla mamma. Perché loro erano persone cattive, e di questo ne ero e ne sono
certo.
Maria avrebbe voluto cercare di rispondere a tono al marito,
quella volta, ma compì la saggia scelta di non dire nulla di fronte a Jasmine,
e ciò l’apprezzai, perché in fondo anche se la ragazza già sapeva che eravamo
sommersi dai problemi familiari, sarebbe stato ingiusto renderla partecipe di
uno scontro verbale poco educato.
Un altro rumore molto forte, quella volta proveniente dal
piano superiore, fece sobbalzare anche Roberto, ed i due adulti si dileguarono
e si congedarono molto rapidamente da noi, rientrando in casa ed andando a
controllare che ambo le situazioni problematiche fossero almeno sotto un minimo
controllo.
Inutile sottolineare che stavo male sia per Roberto che per
mia madre, sapendo che entrambi non meritavano tutto ciò che stava accadendo
loro, ma i due adulti si stavano comportando decentemente, a tratti in modo
molto maturo. Sentivo che avevo molto da imparare dal mio inquilino,
soprattutto nel modo che aveva di riuscire a dominare le sue emozioni.
Non capivo, in quei movimentati momenti, se l’uomo stesse
soffrendo per ciò che stava accadendo all’interno della sua famiglia e stesse
cercando di mettere sul suo viso una maschera, nel tentativo di insabbiare agli
occhi degli altri il suo turbamento e la sua tensione, oppure se fosse come se
avesse già più volte meditato su quella situazione, come se la situazione
stessa e complicata che si era mostrata all’improvviso in realtà fosse qualcosa
di poi non così tanto impensabile o lontano anni luce.
In ogni caso, per me Roberto era un vero duro, nonostante la
sua parvenza esteriore da debole e passivo. Era un filosofo, semplicemente, e
la sua mente era tutta da scoprire, e di certo non era chiusa e limitata. Era
una sorta di miniera a tratti oscura, ma tutta da esplorare.
Mia madre e lui, sotto certi aspetti, erano molto simili,
oltre ad essere accomunati da una discreta sfortuna famigliare.
‘’Hai notizie di Alice?’’, chiesi a Jasmine, non appena gli
adulti si erano dileguati. Deglutii, prima di porre la domanda, perché avevo
timore di sentirmi dire altre brutte notizie, ma d’altronde era certo che fosse
così.
Tuttavia, dovevo e volevo affrontare l’argomento, perché mi
stava a cuore e ancora mi sentivo un po’ in colpa. Tutto il resto, in quegli
istanti, non contava più nulla.
‘’Sì, i miei si stanno costantemente tenendo in contatto con
la madre, senza essere indiscreti e cercando di non disturbare. A quanto pare,
la situazione è ancora invariata, e la nostra amica è ancora incosciente,
immersa in un sonno indotto. Ma da quel che ho capito, presto tenteranno di
farla risvegliare… e lì… chissà… se…’’.
Jasmine scoppiò in lacrime, all’improvviso, ed ecco che
cominciai a star doppiamente male.
L’avvolsi subito in un tenero abbraccio, volevo che sapesse
chiaramente che le ero vicino, fisicamente e mentalmente a lei e mentalmente
alla povera Alice.
‘’Io… io spero solo che alla fine possa andare tutto bene’’,
dissi, semplicemente.
So che forse non era la frase più confortevole che potessi
pronunciare sul momento, ma almeno conteneva tutta la mia miglior speranza.
Speranza in un miracolo, in pratica.
‘’Anch’io’’, mi rispose flebilmente la mia amata, tra le mie
braccia ed annuendo debolmente.
Era così fragile! Mentre la cingevo con le mie braccia, me ne
rendevo perfettamente conto. E l’amavo ancora di più. Dentro di me, io bruciavo
per lei, e non sopportavo vederla piangere, anche se conoscevo il motivo di
quel gesto che faceva soffrire anche il mio debole animo.
‘’Ora non piangere più, però. Non voglio vederti così disperata,
perché mi piacerebbe che in cuor tuo vivesse la speranza, fino all’ultimo. Sono
certo che la nostra Alice, quella che abbiamo avuto modo di conoscere prima che
fosse troppo contaminata dalla malattia, avrebbe approvato queste parole’’, le
dissi, cercando di farle forza. La sentivo così spossata e debole, mentre era
quasi abbandonata tra le mie braccia, e stavo davvero in pena per lei.
‘’Hai ragione’’, acconsentì la ragazza dopo un sospiro, per
poi staccarsi in fretta da me per asciugarsi le lacrime e soffiarsi il naso.
Mentre Jasmine continuava a risistemarsi, cercando di
nascondere ogni traccia evidente del recente pianto, cominciò a nevicare di
nuovo in modo fitto, e all’improvviso.
‘’Oh, ci risiamo’’, mormorai, mentre la mia interlocutrice
alzava per un attimo gli occhi verso il cielo rossastro. Nuovamente, assieme ai
primi copiosi e grandi fiocchi, cominciò ad alzarsi un vento gelido e
tagliente.
‘’Eh, pare proprio di sì. Temo che farà bufera per tutta
questa notte… e forse è meglio se vado a casa’’, riprese a dire Jasmine, ed io
subito la incoraggiai a farlo.
Era già sera inoltrata, il paese era avvolto in più punti dal
buio totale e la nevicata copiosa e il vento stavano rendendo il luogo
spettrale e silenziosamente pericoloso, quindi la invitai caldamente ad andare
a casa, anche se avrei tanto voluto che stesse ancora lì con me, ma non volevo
mettere in nessun modo a rischio la sua incolumità o crearle problemi dovuti al
mio egocentrismo.
La mia ragazza, ovviamente, capì che i miei caldi consigli
erano fondati, e così ci salutammo sotto una fitta nevicata, dandoci
appuntamento per i giorni successivi, anche se poi le avrei scritto un
messaggino per augurarle la buona notte, com’era mio solito fare.
Mi tornò in mente anche il mio ultimo incontro con Melissa,
avvenuto proprio durante quello stesso pomeriggio, e quel giorno mi parve il
più strano della mia vita e mi è rimasto impresso nella memoria in un modo
incredibilmente approfondito, forse proprio perché il ritmo dei miei più importanti
saluti fu dettato da quella neve strana, pacata e copiosa.
In cuor mio, speravo che quella neve potesse seppellire anche
il mio costante tormento interiore, una volta per tutte, dato che da troppo
tempo soffrivo.
Speravo davvero in una svolta, e si vede che quella nevicata
magica mi portò davvero un poco di fortuna, poiché dal giorno successivo tutto
cominciò rapidamente a cambiare.
L’attesissima e profonda svolta era lì, finalmente ad un
passo, ed ora già fremo per ricordarla.
NOTA DELL’AUTORE
Ciao a tutti!
Carissimi amici lettori, solo quattro capitoli ci separano
dall’epilogo e dalla fine di questo racconto. Spero davvero che la storia
continui ad essere di vostro gradimento, e che possa piacervi fino all’ultimo.
Ringrazio tutti coloro che continuano a sostenere con grande
fedeltà e gentilezza questo racconto! Siete di una gentilezza infinita, e il
vostro sostegno mi ha infuso davvero tanta forza e voglia di mettermi in gioco
con questa vicenda.
Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì
prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 35 *** Capitolo 35 ***
Capitolo 35
CAPITOLO 35
Sono sempre stato dell’idea che l’uomo, l’umano maschio, col
passare degli anni possa evolvere il suo comportamento sempre in due o tre modi
piuttosto statici.
Se le donne in generale sono sempre meno prevedibili, più
ingegnose e propositive, nonostante il passare degli anni, per gli uomini non è
così, secondo me.
Ho da sempre avuto modo di notare il che il maschio umano, in
genere, fino ai quarant’anni può presentarsi mentalmente attraente e
propositivo, ingegnoso e positivo. Ma nella fascia d’età che va dai
quarantacinque ai sessantacinque anni, esso tende a diventare noioso,
insopportabile ed isterico.
Oltre i sessantacinque, ognuno di noi maschietti di solito
tende a perdere quel vigore di mezza età che ci conduce alla vecchiaia, e
allora, di solito e in generale diventiamo bravi nonni, mariti coscienziosi e
persone senza più eccessivi vizietti o cattiveria in corpo. Però, nella fascia
d’età più a rischio, c’è la tendenza contraria.
Ho avuto modo di notare che, nel corso di quella fascia d’età
ritenuta da me critica ed appena citata, ci sono uomini che cominciano a
comportarsi male, sia con le mogli che coi figli, ad essere insopportabili tra
le mura domestiche e magari invece tentare di essere i più bei damerini per le
gentili dame più attraenti che si incontrano durante il corso della propria
vita. In casa si litiga, fuori se ne capita l’occasione si tradisce la partner.
Questo gruppo di uomini è quella più vasta, ne fa parte anche
mio padre, anche se lui comincia ad essere un caso estremo, e può contare
milioni di soggetti simili tra le sue fila.
All’opposto, ci sono quegli uomini di mezza età pieni d’amore
per il prossimo ed incondizionato, che ascoltano chi li circonda e sono dotati di
una sensibilità strabiliante, e possono essere un vero tesoro per chi li
circonda.
Essi sono sempre curiosi, propositivi ed intelligenti.
Roberto fa parte di questo gruppo, e con lui pochi altri.
Loro sono una sorta di retti angeli contrapposti alle orde
delle altre categorie maschili.
La terza ed ultima categoria, o genere maschile, è quella
composta dagli uomini che diventano improvvisamente cialtroni, noiosi, scioccamente
pestiferi, logorroici e ripetitivi. Magari essi prendono anche il vizio di
sparlare, come le vecchie comari, e non hanno neppure tanto cervello ed
arguzia, sfoggiando uno stile da babbeo, meritandosi quindi solo una risata in
faccia dal prossimo. Magari, si ubriacano anche, e più volte alla settimana.
Questa, assieme con la prima, sono le categorie maschili
peggiori.
Per mia esperienza, ho potuto constatare che queste
situazioni e descrizioni possono applicarsi in un’infinità di casi, e a dirla
tutta spero veramente che questi miei pensieri siano frutto solo delle mie
esperienze, e che in realtà i maschietti siano tutti un po’ meglio di come
tendo a categorizzarli. Anche perché, per fortuna, qualche uomo che esce da
questo schema fisso pare esserci. Forse sono solo io che ho da sempre cercato
di razionalizzare troppo un po’ tutto.
Ma, venendo al sodo, questi pensieri mi hanno frullato per
una frazione di secondo all’interno della mia mente solo ed esclusivamente
perché mi sto accingendo a ricordare la fine della mia ultima brutta esperienza
con mio padre, e la sua nuova scomparsa.
Proprio così; a sorpresa, il mattino dopo la copiosa nevicata
serale e notturna, io e mia madre non ritrovammo più il mio genitore. Le sue
cose erano totalmente sparite, il suo fuoristrada scuro non era più
parcheggiato nel suo posteggio, ed il suo mazzo di chiavi di casa nostra era
stato miseramente abbandonato sul tavolo della cucina. Così, era finita l’avventura
di Sergio nella nostra dimora, conclusa in fretta e praticamente nello stesso
modo sorprendente con la quale essa era iniziata, qualche mese prima.
Durante la notte poi aveva continuato a nevicare, e quella
mattina al suolo c’erano una ventina di centimetri di manto bianco e candido,
ma almeno la nostra strada mi appariva abbastanza percorribile, grazie
all’azione perfettamente organizzata dei mezzi spazzaneve, e il mio fuggiasco
padre doveva aver deciso che quello era il momento giusto per darsela di nuovo
a gambe, nel più totale silenzio.
Il fatto che la sua auto avesse lasciato la sua sagoma ben
impressa sull’asfalto del posteggio davanti a casa ci fece subito capire che
l’uomo doveva essersene andato di prima mattina, forse all’alba, quando
dormivamo profondamente, dopo aver fatto attenzione a caricare i suoi pochi
bagagli in fretta. Chissà, magari se n’era tornato nella sua casa, quella per
cui versava l’affitto ogni mese, situata a Bologna e vicina al lavoro.
Quella era stata una brutta esperienza che, a quanto pareva,
si era conclusa, e sia io che mia madre eravamo certi che l’uomo non sarebbe
tornato da noi, non dopo averci lasciato pure le chiavi della porta d’ingresso.
Lo conoscevamo un pochino ormai, e sapevamo che quel gesto
aveva un senso dispregiativo nella sua mente, ma anche un qualcosa che lasciava
presagire che non sarebbe tornato mai più, o almeno non tanto presto. Doveva
aver pianificato meticolosamente tutto, nei giorni precedenti, considerando
anche le sue continue e strane assenze. E, comunque, nel caso si fosse
ripresentato alla nostra porta, di certo non l’avremmo fatto rientrare, ben
sapendo come si era comportato l’ultima volta in cui era stato riammesso
momentaneamente al suo interno.
Io e mia madre, quella volta, fummo perfettamente d’accordo
su tutto. Ma quello non fu l’unico addio di quella giornata.
Ero ancora molto preso dalla fuga di mio padre, quando anche
i due nemici Arriga si accinsero ad andarsene. A quanto pareva, la loro
promessa d’addio era stata freddamente mantenuta.
In una quindicina di minuti, la signora Livia e il figlio
portarono al piano terra i loro pochi bagagli, già preparati con cura durante
la sera precedente, e senza troppe difficoltà caricarono e sistemarono tutto
all’interno della Panda della donna.
Il tutto si svolse molto in fretta, mentre il gelo di quella
mattinata di ghiaccio e neve giungeva fin dentro alle ossa.
Ricominciarono a cadere nuovi fiocchi bianchi, mentre il
cielo restava cupissimo e le altre strade del paese dovevano risultare a tratti
difficilmente percorribili, poiché mia madre aveva telefonato in segreteria del
mio istituto scolastico e le era stato detto che per quel giorno a causa del
maltempo non ci sarebbe stato il regolare svolgimento delle lezioni.
Quella giornata quindi aveva un retrogusto speciale; non so
se ad altri, come è capitato a me, siano rimaste impresse quelle giornate
piacevolmente strane, che solo durante quella precedente dovevano risultare di
ordinaria frenesia, mentre poi all’ultimo si rivelavano tutt’altro.
La neve per me ha sempre avuto un significato magico, poiché
essa è sempre stata in grado di modificare le abitudini umane, di dare un colpo
di freno alla quotidiana frenesia e di concedere dei momenti tranquilli in
famiglia. Ma, a quanto pareva, in casa mia quel giorno si era rivelato propizio
per compiere la fuga generale.
Educatamente preoccupata, mia madre volle farsi avanti,
mentre io me ne stavo in disparte a guardare quella che doveva essere la fine
di un lungo incubo.
‘’Signora, lei e suo foglio potreste anche fermarvi per
questo giorno. Con questo tempo da lupi non è consigliabile mettersi in
marcia…’’, tentò di dire a Livia, con infinita cortesia. Scossi la testa di
fronte al suo bel gesto, sapendo fin dal principio come sarebbe andata a
finire.
‘’E restare un giorno in più in questa lurida bettola, in
compagnia di gente così schifosa?! Ma si figuri! Arrivederci’’, le sbottò in
faccia l’aristocratica, in modo orribilmente maleducato e allontanando la mia
povera mamma.
Sapevo che la mia povera Maria aveva tentato di offrire
cortesemente il suo tetto a quelle due persone disgustose solo per evitare che
corressero rischi per la strada, poiché se per mio padre lei era certa che se
la sarebbe cavata, in un modo o nell’altro, non ne era sicura che se la potesse
cavare la signora. E’ sempre stata di buon cuore, la mia cara mamma. Forse
anche troppo.
In fondo, se una persona come Livia si fosse schiantata ed
avesse lasciato questo mondo, non sarebbe poi stata una grave perdita per l’umanità
intera. A quel punto, riconobbi che ero io ad esagerare, però, e mi frenai.
Restai ad osservare la scena dalla finestra della mia
saletta, il mio territorio appena riconquistato, e vidi il grande momento della
partenza di quei due mostri.
Livia era già salita in macchina ed aveva già acceso il
motore, pronta a partire, mentre il mio prepotente nemico stava caricando il
suo ultimo e piccolo bagaglio, appoggiandolo sul sedile posteriore del mezzo.
Prima però di prendere posizione a fianco della madre, lo
vidi chinarsi all’improvviso, e per un attimo non capii la sua intenzione.
Poi, lo vidi lanciare qualcosa, e alcune urla si alzarono
dalla casa dei vicini, mentre il ragazzo s’infilava precipitosamente
all’interno dell’abitacolo e chiudeva lo sportello.
La madre si affrettò a partire, mentre le catene dell’auto
rumoreggiavano in modo impressionante, ed il prepotente ne approfittò anche
dell’ultimo secondo disponibile, abbassando il finestrino ed urlando un paio di
parolacce rivolte a tutti.
Ricordo molto bene che la permanenza di quelle due brutte
persone si concluse con quel gran vaffanculo a tutti che Federico urlò
dall’interno dell’auto di sua madre, mentre il veicolo già si allontanava forse
in modo troppo veloce, date le condizioni climatiche e della strada.
Continuando ad udire delle grida di dolore, provenienti dalla
casa di Ottaviano, mi affrettai ad uscire dalla mia abitazione per andare a
vedere cosa potesse essere accaduto, e cosa poteva aver combinato quel pazzo
durante i suoi ultimi secondi di permanenza nella nostra strada e nella nostra
vita. Ancora non mi capacitavo che se ne fosse finalmente andato, e che quello
fosse un vero e proprio addio.
Affacciandomi alla porta d’ingresso, rimasi sbalordito nel
ritrovarmi di fronte ad una scena che quasi mi fece piangere.
Infatti, Federico doveva aver visto l’anziano Ottaviano che, accompagnato
dalla badante, si era lasciato portare un attimo fuori per vedere la neve e la
nevicata in corso, e ne aveva approfittato per lanciargli addosso e a sorpresa
una grossa manciata di ghiaccio e neve, infradiciandolo e sporcandolo tutto.
L’anziano gemeva dal dolore e dal freddo, sulla sua sedia a
rotelle, mentre Ludmilla, la badante, cercava di gettare via i frammenti di
ghiaccio rimasti appiccicati sui vestiti del vecchietto, che per fortuna era
adeguatamente coperto.
Quasi fui spinto via da Roberto, che da dietro di me si
precipitò prontamente nel giardino dei vicini, correndo ad aiutare Ludmilla, e
vedendo la pronta azione dell’uomo pure io mi riscossi e corsi a dargli una
mano.
Non appena mi catapultai pure io a soccorrere il povero
Ottaviano, mi ritrovai di fronte al vecchietto atterrito, e alla badante
stupefatta e senza parole, ancora scossa dall’accaduto.
‘’… eravamo qui, in giardino. L’avevo portato un attimo
fuori, ma l’avrei riportato subito dentro! Ed invece, guardi qui. Ma le sembra
normale che un ragazzo si comporti così?’’, stava dicendo Ludmilla, arrabbiata.
La donna era da sempre un’icona di calma e moderatezza, ma
quando si innervosiva cominciava a fare gesti eloquenti e non aveva peli sulla
lingua, e in quel caso neppure si fece scrupolo di sottolineare la
maleducazione e la perfidia gratuita di Federico di fronte a suo padre, anche
se non lo conosceva, parlando con quel suo italiano quasi perfetto, ormai senza
più alcuna cadenza straniera, dopo quasi vent’anni di permanenza in Italia.
‘’Io, per fortuna, non ci ho più nulla a che vedere con quel
tipo lì. Spero voglia rinunciare anche al mio cognome’’, sbottò Roberto,
proprio mentre compivo gli ultimi passi che mi separavano dall’agitato
gruppetto.
Il fatto che l’uomo fosse così certo e sicuro di voler
allontanare il ragazzo dalla sua vita quasi mi spaventava; era come se… non lo
ritenesse per davvero figlio suo.
Turbato da quel tale e violento pensiero, che ultimamente
aveva più volte fatto capolino nella mia mente, preferii accantonare tutto
quanto, pure i pensieri, per mettermi a disposizione degli adulti, facendomi
prontamente avanti e cercando di aiutare Roberto e Ludmilla, che stavano
finendo di gettare a terra i vari frammenti di freddo ghiaccio rimasti
appiccicati agli abiti dell’anziano, che ancora a tratti si dimenava e gemeva,
in preda ad una turbatissima incoscienza.
‘’Antonio, grazie, sei sempre tanto caro! Tuo nonno sarebbe
stato fiero di te. Ma non preoccuparti, e neppure tu signore, è tutto a posto.
Ora riporto Ottaviano in casa, e gli do una cambiata…’’, disse prontamente la
badante, rivolgendomi uno dei suoi soliti sorrisi sinceri e caldi, e calmandosi
per un attimo, per poi tornare a prendere le redini del destino dell’anziano
affidatole e accingendosi a portare di nuovo l’uomo e la sua sedia a rotelle
verso l’abitazione.
‘’Se ha ancora bisogno di aiuto…’’.
‘’Stia tranquillo, come ho appena detto ora lo cambio e poi
lo asciugo per bene. Per fortuna non è successo nulla di eccessivamente grave,
ma è stato il gesto ad aver fatto più male a me e ad aver spaventato il povero
signor Ottaviano. La ringrazio molto per aver proposto un aiuto’’, disse la
donna, mentre il suo viso s’imporporava a causa della recente rabbia provata.
‘’Quell’infame. Io… io non l’ho cresciuto perché si
comportasse così’’, mormorò Roberto, rivolgendosi a me, dopo aver osservato la
badante che riportava in casa l’anziano, per asciugarlo per bene ed evitare che
prendesse freddo. L’uomo semiparalizzato era ancora agitatissimo e spaventato,
e questo mi faceva davvero stare male.
L’addio di Federico era stato un addio amaro, cattivo,
proprio come la sua essenza. Perfido e crudele fino in fondo.
‘’Non è colpa tua, noi tutti sappiamo che sei una brava
persona, a contrario di quel… di quel mascalzone’’, gli dissi, dopo aver
riflettuto sulla parola giusta con cui chiamare quel prepotente, poiché in quel
momento mi saliva alla bocca solo il vocabolo stronzo, ma non ritenevo fosse
appropriato dirlo. Ho sempre e profondamente odiato la volgarità, ed ho da
sempre cercato di limitarne l’uso il più possibile.
Roberto non replicò nulla, ma si sfiorò il volto con le mani
e prese le distanze da me, come a voler reclamare un attimo di solitudine, ed
io ne assecondai la scelta, lasciandolo solo sul marciapiede davanti al nostro
giardino, mentre rincasavo.
Purtroppo, non c’erano parole per descrivere il quoziente di
barbarità che Federico aveva nel sangue, ed ero sempre convinto che il suo
comportamento deviante fosse qualcosa di anomalo, qualcosa che richiedesse
quell’aiuto che la madre aveva sempre impedito che giungesse a destinazione.
Quel prepotente era solo, aveva dei problemi ed andava
seguito, in qualche modo, cosa che invece la madre non faceva in alcun modo,
anzi, pareva lo spronasse a far peggio. Anche poco prima aveva atteso che il
figlio entrasse nell’auto per poi andarsene, dopo che quest’ultimo aveva
commesso la sua atrocità, senza minimamente riprenderlo o fermarsi a chiedere
scusa e cercare di rimediare un po’.
Madre e figlio erano della stessa pasta, e a volte mi veniva
da chiedermi se fosse stato un po’ anche a causa di Livia se quel ragazzo era
venuto su in quel modo perverso e malato. Ed in quel momento immaginavo che,
dopo essere rimasti una volta per tutte loro due da soli, la situazione avrebbe
seriamente rischiato di peggiorare. Federico avrebbe potuto davvero diventare
un soggetto ancor più pericoloso.
Scuotendo la testa, rientrai in casa mia, cercando di
lasciare fuori da quelle mura quei miei foschi pensieri, nel vano tentativo di
tornare a rilassarmi, dopo quegli ultimi avvenimenti.
Avevo paura che anche Roberto fosse in procinto di andarsene.
Mi aspettavo che, non appena sarebbe rientrato, avrebbe
cominciato a fare i suoi bagagli, per lasciarci per sempre. Anche lui.
La nostra casa si era svuotata, e anche se ciò che se n’era
andato quasi all’improvviso era solo il maltempo, ammetto che in quel momento
mi ci ero quasi abituato, e anche se i nuvoloni neri parevano lontanissimi
ormai, sentivo un certo vuoto dentro, una sorta di amarezza che mi portava, e a
tratti mi porta ancora, a pensare che se il destino fosse stato più clemente
con me e con mia madre forse tutto sarebbe stato molto diverso.
Magari, in quegli istanti mi sarei trovato davanti al mio pianoforte
con a fianco un padre che mi ascoltava pazientemente e che mi voleva bene, mia
madre avrebbe avuto un marito che la amava e la ricopriva d’attenzioni,
Federico si sarebbe potuto rivelare un ottimo amico per me e Livia una buona
amica per mia madre, mentre Roberto sarebbe stato sorridente al fianco di un
bravo figliolo. Ma lo so, la semplicità e la bontà non fanno parte della vita
quotidiana di noi umani, dove sempre regna la precarietà, la paura e l’odio,
oltre che i conflitti di ogni sorta.
Se c’è una cosa che il genere umano sa fare egregiamente da
sempre è proprio quella di complicarsi l’esistenza, e quasi di rovinarsela da
solo.
Se tutte le mattine ci alzassimo col sorriso sulle labbra,
nonostante tutto, e pronti a cercare di migliorare la nostra condizione con
positività, tutto sarebbe di certo migliore. Ma questo è solo uno stupido ed
infantile sogno, che ancora oggi mi passa per la mente, di tanto in tanto.
La realtà è che il senso di profonda negatività in quegli
istanti mi pervase e mi stritolò quasi come se fosse stato un serpentone
dell’Amazzonia, e nonostante tutto continuavo a non stare bene mentalmente. Non
avevo una pace interiore, e dovevo ritrovare un equilibrio, ma purtroppo ciò
ormai pareva anch’esso un sogno lontano, dopo tanto tempo che lo cercavo.
Mi recai in cucina, varcando la soglia in modo mesto,
trovando mia madre seduta al tavolo, sola e mogia, mentre sorseggiava un po’ di
caffè caldo dalla sua solita tazzina dipinta a mano. Capivo il suo nervosismo,
ed immaginavo che fosse rivolto verso tutto.
Sapevo anche che purtroppo aveva avuto la consapevolezza di
non essere stata in grado di gestire al meglio ogni situazione, e questo le
faceva male, talmente tanto che aveva deciso di restare a casa per un giorno
dal lavoro, il secondo in pochi mesi. Questa decisione la diceva lunga sul suo
stato emotivo e psicologico.
Non trovai la forza per dirle qualcosa e semplicemente mi
avvicinai alla finestra, gettando uno sguardo fuori, mentre il bagliore candido
di quel giorno nevoso era qualcosa di abbagliante, e di magico, allo stesso
tempo.
Ricordo ancora, e ricordai anche in quel momento, che quando
ero più piccolo e nevicava uscivo a fare il classico pupazzo di neve, e siccome
nel mio paesino si creava molto spesso un bell’accumulo di materiale a me utile
per la mia opera, mi divertivo un sacco a costruirla. Un piccolo sorriso fece
involontariamente capolino sulle mie labbra, ma lo nascosi, e quando ne ebbi la
più totale consapevolezza di essermi lasciato andare per un attimo, mi
affrettai solo ad indossare di nuovo la mia classica maschera triste.
E, a quel punto, Roberto rientrò in casa e si diresse
direttamente verso la cucina, entrando a piccoli passi, dopo aver bruciato il
tragitto che lo separava dalla stanza in un paio di secondi.
Entrando, e trovandosi di fronte a mia madre rattristata e a
me, che stavo mostrando il mio viso imbronciato, preferì dirigersi verso la mia
mamma.
‘’Maria, pagherò di mia tasca l’affitto dei prossimi sei
mesi, come d’iniziale e consensuale accordo’’, disse l’uomo, forse non
comprendendo quello per cui la donna era rattristata. Io la conoscevo bene, e
sapevo che i suoi pensieri andavano molto al di là dei soldi, in quel momento.
‘’No, non li voglio, Roberto. Non preoccuparti per soldi e
accordi, è tutto a posto così’’, disse infatti mia madre, prontamente. Me
l’aspettavo.
‘’Allora cos’è che ti tormenta? O, meglio, cosa vi tormenta?
Livia e Federico vi hanno insultato ed offeso per tutto il periodo della loro
permanenza, così come ha fatto Sergio… non penso che dobbiate sentire la loro
mancanza. Non sarebbe giusto’’, disse mestamente l’uomo, rivolgendosi a noi
due, ma lasciando trapelare un po’ di commozione. Il suo cuore era in
subbuglio, quasi potevo sentire i suoi battiti più accelerati del normale e
vedere quei pensieri che forse non erano tutti cupi.
‘’Sai cosa mi tormenta? Che ho fallito. Mi sento una fallita.
Ho lasciato che tutti facessero quel che pareva loro con me e con mio figlio,
ed ora mi sento uno zerbino, anche se è tutto finito, a quanto pare. Ed è
finito tutto nel peggiore dei modi’’, disse mia madre, senza neanche darmi il
tempo per fiatare.
Era agitata, si tormentava le mani, strusciandole con forza
l’una contro l’altra.
‘’Ed io come dovrei sentirmi? Mia moglie ha appena finito
d’insultarmi, e quella squallida creatura di suo figlio ha combinato un’altra
violenza. Quel matto avrebbe bisogno di finire in carcere e di essere
condannato all’ergastolo’’.
Ascoltando le parole arrabbiate di Roberto, mai e poi mai mi
venne da chiedermi il perché non chiamasse Federico suo figlio. Credevo si
trattasse di semplice livore nei suoi confronti. Se solo penso a tutto ciò,
fremo per arrivare al punto, ma prima di giungerci so che devo sfiorare altre
parti del discorso, altrimenti farei solo confusione nella mia mente.
Mia madre, sul momento, sogghignò.
‘’Non è colpa tua. Quei due sono proprio cattivi dentro, non
c’è modo di migliorarli. Piuttosto, però, mi dispiace per voi. Mi sembra di
aver partecipato attivamente alla fine del vostro rapporto, e questo…’’.
‘’Ma non dirlo neanche per scherzo; quello che legava me a
Livia era già finito da secoli, ormai. Ed è stato grazie a tuo figlio se sono
riuscito definitivamente ad aprire gli occhi e ad allontanare quella pazza da
me’’, intervenne Roberto, interrompendo il flebile discorso mortificato della
mamma, che da parte sua a quel punto mi rivolse uno sguardo interrogativo.
Non sapendo proprio che dire, scrollai leggermente le spalle,
nel vago tentativo di farle capire prontamente a gesti che non avevo idea di
cosa si stesse riferendo il nostro interlocutore. In realtà ne avevo una ben
precisa, ed avevo proprio tanta paura che l’uomo la narrasse al mio genitore.
‘’Ha scattato delle foto a Livia, di nascosto, e poi me le ha
consegnate. Lei mi tradiva, e neppure tanto in modo nascosto, ma Antonio mi ha
scosso. Mi ha aperto gli occhi’’, disse però Roberto, sorridendo per la prima
volta, senza sapere che a quel punto rischiavo la lapidazione. Mia madre,
infatti, volse di nuovo lo sguardo verso di me a quelle parole, lanciandomi una
di quelle occhiatacce penetranti che promettono tante cose, ma nessuna
positiva.
Ero certo che in quel momento, se le fossi capitato a tiro,
me lo avrebbe mollato un ceffone. Mi aveva sempre detto di farmi gli affari
miei, di stare sulle mie e di comportarmi con gentilezza, non di fare il
guardone per poi far la spia ai mariti traditi, anche se tutto non era farina
del mio sacco, ma c’era stato pure l’importante zampino di Giacomo, in quel
momento non citato.
Ero pietrificato, non mi sarei mai aspettato di trovarmi in
una situazione tanto complessa, ed ammisi che mi sarebbe parso più probabile un
qualche insulto di Roberto durante il giorno prima, che sottostare allo sguardo
di un genitore inferocito e molto probabilmente deluso da me, che non mi aveva
mai sfiorato con un dito ma che forse in quegli istanti avrebbe potuto farlo.
Mi aspettavo un ceffone supersonico di lì a poco, ma l’uomo
si accorse del pasticcio che aveva combinato, e si affrettò a tentare di
rimediare.
‘’No, Maria, non prendertela con lui. Antonio è un ragazzo di
cuore, e se mi ha mostrato quelle foto era per il mio bene.
‘’Devi sapere che ha fatto la scelta giusta, e che mi ha solo
offerto su un piatto d’argento le prove di ciò che io non avevo mai avuto il
coraggio di vedere e di constatare in tutti questi anni. Capisci quindi che è
stato il mio effettivo salvatore? Non voglio che tu lo rimproveri per non
essersi fatto gli affari suoi’’.
In realtà, me li ero fatti abilmente.
Ero riuscito a togliere di mezzo sia Livia che Federico,
quelle due creature perfide, cattive e senza cuore.
‘’Si è fatto gli affari vostri, e non doveva. Io sono molto
delusa dal suo comportamento’’.
Mi sentivo già pressoché fritto. Mia madre non ragionava ed
io la capivo.
‘’Mi ha salvato dalla schiavitù dei miei pensieri. Ero come
cieco, ed incatenato. Ma lui mi ha liberato, mostrandomi abilmente e senza
farsi scrupoli proprio ciò che dovevo assolutamente vedere, dopo tanto tempo’’,
continuò Roberto, a quel punto volenteroso di scagionarmi ed utilizzando il suo
solito approccio filosofico, ma mia madre pareva irremovibile, così come lo era
il suo sguardo irritato puntato su di me.
‘’Ascolta, Livia mi tradiva. E lo sai con chi lo faceva?
Proprio con il suo amore giovanile. E chissà per quanto mi ha tradito… forse da
sempre. Oppure, solo da un po’, non ne ho idea… sta di fatto che questa mattina
l’ho seguita, e l’ho scoperta mentre se la spassava con un altro.
‘’Lei non aveva alcun lavoro, e si faceva passare soldi da
quell’uomo, ritornato da non so quanto tempo nella sua vita, e veniva pagata da
lui per fare chissà cosa… sempre con lui e in sua compagnia. Livia si è presa
gioco di me per tanto tempo, ed io mi vergogno solo a pensare che mai ho avuto
il polso o la forza di seguirla fino a questo momento. Il gesto di tuo figlio
me l’ha data’’.
A quel punto mia madre tolse il suo sguardo da me e lo
indirizzò verso il nostro caro interlocutore, un pochino sorpresa da quella
rivelazione.
‘’Il nostro rapporto si è da sempre basato sulla falsità. Non
mi faccio più scrupoli adesso a parlarvi, tanto è ora che scopriate la verità
sul nostro rapporto coniugale, poiché esso si è concluso e tali rivelazioni non
possono più ferire o ledere nessuno, neppure Federico… ed io che mi facevo
mille scrupoli per lui. Ma lui sapeva… sapeva… e di me rideva… non meritava
nulla’’.
Roberto aveva continuato a parlare, fin quasi a singhiozzare
in quel momento.
La sua delusione esplose fuori tutta d’un colpo, neppure io e
la mamma ci attendavamo una simile reazione. Ad un tratto, l’uomo ci parve
disperato, e bisognoso di sfogarsi, anche se le sue ultime parole confuse non
sapevamo proprio come collegarle ed interpretarle.
‘’Livia non è sempre stata così. Un tempo era una ragazza
piena di vita, e solare. A vent’anni aveva già un lavoro, era praticamente
indipendente e i suoi genitori, persone molto ricche e benestanti, le volevano
molto bene e la viziavano tantissimo. La prima volta che la conobbi, accadde
casualmente; a Cento, durante i festeggiamenti del carnevale del ’92,
m’imbattei in lei e nella sua piccola comitiva di amiche, e scoprii con piacere
che tutte loro venivano da Bologna proprio come me.
‘’Insomma, io mio ero recato fin lì con due amici per seguire
per un giorno e con scarsa curiosità la sfilata dei carri, ed invece mi sono
ritrovato ad aver conosciuto la ragazza che più ho amato durante la mia
gioventù. Lei era una giovane alla moda, spigliata con le parole e di certo
molto intraprendente, bella ed interessante, e mi colpì fin da subito.
‘’Una volta tornati a Bologna non perdemmo mai i contatti, e
tornai a rivederla più volte, ma c’era un problema; lei era fidanzata. Aveva un
ragazzo, esatto, un ventenne come lei, conosciuto nel suo posto di lavoro. In
breve, compresi che non avevo alcuna chances con Livia; il suo ragazzo per lei
era tutto e lo amava, trasportata da quelle passioni che si possono provare con
tale intensità solo in età giovanile. E ciò anche se suo padre non voleva che
lei passasse del tempo con lui, molto geloso della figlia…’’.
Roberto prese un attimo fiato, mentre io ascoltavo la
narrazione in modo attento, e mia madre pure.
‘’Accadde che Livia rimase incinta. Non di me, ovviamente, ma
di questo ragazzo. E fu la fine. Lei credeva che il giovane l’avrebbe sposata,
e magari l’avrebbe portata a casa sua dai suoi, e assieme avrebbero vissuto una
vita felice anche se suo padre non l’avrebbe più voluta rivedere, dato che non
aveva mai assecondato la relazione della figlia, che riteneva troppo prematura
per quel genere di cose.
‘’Nonostante lei amasse la creatura che aveva in grembo, e
fece di tutto per non far trapelare la notizia della sua gravidanza, nella vana
speranza che il suo ragazzo avesse potuto trovare un posto per entrambi prima
che comparisse il pancione, un luogo dove piantare il seme della loro futura
famiglia, ma non fu così. Infatti, tutto precipitò nel giro di pochi mesi, e
quando la vicenda si fece evidente, assieme alle piccole difficoltà del caso e
normali, la giovane perse il lavoro e il supporto della sua famiglia, ed
incredibilmente anche il suo ragazzo, che in modo evidente decise di non
prendersi a carico troppe responsabilità e sparì nel nulla.
‘’Sola e senza più nessuno, senza più neppure la sua
indipendenza da poco guadagnata, la ragazza invocò la pietà del padre, che si
decise a riprenderla in casa, ma con disgusto. Da quel momento in poi, per
Livia furono solo dolori, ritrovandosi in una casa dove ormai i suoi familiari
non potevano neppure più vederla, in attesa di veder nascere un bimbo che tutta
la società per bene non avrebbe mai potuto accettare tranquillamente. I suoi
genitori le avevano detto un’infinità di volte non frequentare quel tipo, ed
erano molto arrabbiati.
‘’Tutti avrebbero riso per sempre di lei, la ragazza stupida
che credeva nel suo principe azzurro, ed abbandonata da lui all’ultimo e pure
incinta’’.
Mia madre, mentre ascoltava quelle parole annuiva. Anche lei
aveva vissuto un’esperienza simile, ma almeno noi due eravamo sempre stati ben
accetti dalla sua famiglia, se pure a Sergio non importava più di tanto delle
nostre esistenze, giungendo poi a scomparire, in seguito.
Forse, eravamo stati pure un pizzico più fortunati
dell’aristocratica e di suo figlio, a suo tempo.
‘’Quasi depressa, la giovane Livia aveva perso anche i
contatti con le sue amiche, si vergognava a mostrarsi e non usciva praticamente
più di casa, e i suoi genitori a malapena le rivolgevano la parola. Fu lì che
entrai in scena io, commettendo una delle più grandi sciocchezze della mia
vita, ma che sul momento mi parve la scelta più giusta da fare.
‘’Cominciai a recarmi a casa loro in visita, e fui ben
accetto dalla famiglia di lei, e perdutamente innamorato della ragazza ad un
certo punto mi sorsero strane idee nella mente. La vedevo sfiorita, sofferente,
e mi rivolgeva solo sguardi apatici, nelle rare volte che accettava di
trascorrere un paio di minuti assieme a me.
‘’Di fronte a quell’orribile situazione, suo padre cominciò a
temere che la ragazza si sarebbe fatta del male da sola, visti i suoi
sentimenti feriti, il suo viso cupo e la gravidanza che stava procedendo già
verso l’ottavo mese, evidente e un po’ problematica, e poco custodita dalla
giovane, che effettivamente si lasciava spesso andare senza neppure stare un
po’ attenta al suo stato. In più, i genitori dovevano stare attenti a non far
trapelare nulla di quella situazione al di fuori delle mura domestiche; sarebbe
stato una vergogna, qualcosa che avrebbe meritato derisione. Forse, qualcuno
stava pensando di farle abbandonare il bambino in ospedale, appena nato, pur di
evitare ogni pettegolezzo.
‘’E fu così che, in quella situazione complessa, suo padre mi
fece una proposta, notando che ero rimasto ormai l’unico a continuare a
cercarla, nonostante la freddezza e l’astio che mi riservava, e che a me
continuava a piacere comunque. Ero davvero cotto di lei, nonostante tutto’’.
Altra piccola pausa, e ancora il mio stupore non si celava
più dietro a nulla. Ero troppo curioso di continuare ad ascoltare quel racconto
che sapeva di sfogo, e fortunatamente il mio desiderio fu esaudito.
‘’Mi offrì dei soldi’’, e così dicendo, Roberto alzò improvvisamente
gli occhi da terra e li puntò verso il soffitto, ‘’dei soldi, una sorta di
eredità anticipata di Livia, che valevano anche come dote. Bastava che me la
sposassi, e che mettessi la parola fine ad ogni voce, tanto i parenti della
giovane e chi la conosceva non avevano mai neppure visto il suo fidanzato e non
era a conoscenza dell’intera vicenda, dato che tutto era rimasto in famiglia e
nulla era trapelato al di fuori di quelle mura, nel corso dei precedenti mesi.
‘’Io, povero ragazzo di campagna, potevo avere tutto; la
ragazza che amavo, denaro, e potevo continuare a studiare, dato che ormai avevo
solo rimasto da affrontare l’ultimo anno di università, ed ero pure in
difficoltà economiche, poiché mio padre navigava in cattive acque. Avrei
risolto ogni mio problema, ed avrei risolto anche il problema dei genitori di
Livia, che non volevano accollarsi in casa una giovane con un bambino, con
vergogna e totalmente dipendente da loro, oppure costringere la figlia ad
applicare qualche soluzione spiacevole per tutti ed estrema.
‘’In cuor mio mi venne da pensare che avrei risolto anche i
problemi di Livia, giacché l’avrei sposata, ed avrei cancellato ogni voce sul
suo conto. L’unico interrogativo era il bambino che aveva in grembo, ma
Giovanni, il padre di mia moglie, promise altro denaro in futuro purché lo
crescessi per sempre come mio. Non ero proprio senza cuore, nonostante fossi
giovane ed arrivista, e non c’era bisogno della promessa di altro denaro per
crescere il bambino non mio, poiché amavo davvero Livia, e credevo che lei
avrebbe imparato a provare la stessa passione che provavo nei suoi confronti,
rivolta verso di me, col tempo.
‘’Fu così che incassai tacitamente sessanta milioni di
vecchie lire e scelsi il compromesso con Giovanni, e questo è stato il più
grande errore della mia vita’’.
La mia mandibola era a penzoloni. Ero senza parole, e mia
madre con me.
‘’Non so come fece l’uomo a convincere la figlia, so solo che
dopo un mese e mezzo ci sposammo. Mancavano venti giorni, all’incirca, alla
nascita del bimbo, e la cerimonia avvenne in fretta, solo con pochi invitati,
tutti parenti, e con mio padre allibito e sconvolto. Ha continuato ad odiarmi
per tutto il resto della sua vita, per questo mio errore, e non gli do torto,
ma sul momento in modo egoista io credevo davvero che tutto potesse funzionare.
‘’Sposai una muta Livia, abbandonata da una famiglia che non
aveva bisogno di lei, visto che suo padre aveva già due figli maschi più grandi
ed erano gli eredi adatti e preferiti per portare avanti tutti i possedimenti
familiari. La ragazza forse era riuscita ad accettare il compromesso solo per
fuggire da quella casa che ormai le faceva da prigione.
‘’Dopo il matrimonio, ci fu un ristoro molto frugale, e poi
andammo a vivere a casa mia, per qualche settimana, fintanto che le occhiatacce
di mio padre non ci spinsero ad andarcene. Federico è nato due giorni dopo che
noi ci eravamo trasferiti in un minuscolo appartamento, alle periferie di
Bologna, e fino ad allora noi due novelli coniugi non ci eravamo mai parlati.
‘’Robe da non crederci! Io cercavo di parlare con lei, ma lei
mi odiava. Aveva ragione a farlo!’’.
Dovevo bere. Quel racconto mi stava uccidendo.
Quando portai il mio bicchiere alle labbra, mi parve di
sorseggiare assenzio.
‘’Insomma, potete immaginare come fu la nostra vita in
seguito. Poco dialogo, mal sopportazione, litigi di tanto in tanto e molta
frustrazione. Ammetto che noi due abbiamo fatto l’amore, più di una volta dopo
la nascita di Federico, ma forse più che farlo per passione o per concepire
qualcosa lo facevamo solo di notte, avvolti nel buio della nostra stanza che, per
obbligo di cose, condividevamo, dato che l’altra stanzetta era stata riservata
al bambino, e lo facevamo solo perché ci sentivamo tanto soli al mondo.
‘’Avevamo sbagliato entrambi, lei a fidarsi di un ragazzo ed
io a scendere a compromessi, quasi comprandola come un oggetto al mercato. A
quel punto eravamo soli e sulla stessa barca, con un po’ di soldi da parte ma
anche con tanti problemi.
‘’Federico crebbe abbastanza sereno, per lui ci sforzammo di
mantenere una schermata da bravi ed affiatati genitori, anche se fu difficile,
e per ben due volte, nei nostri primi tre anni di vita assieme, Livia ha
concepito un figlio nostro, ed entrambe le volte ha scelto di abortire. Di
nascosto da me, me l’ha poi rivelato anni dopo.
‘’Le facevo schifo, non voleva perdere il suo tempo a
crescere qualcosa che discendeva anche da me, e per lei il bimbo concepito dal
suo primo amore era tutto ciò che la faceva star bene e la faceva continuare a
vivere. Io ero solo il suo scudo, lo schermo che narrava una frottola e che
teneva in piedi la parvenza perbene e normale della nostra famiglia, che vista
da fuori era perfetta’’.
Mi appoggiai al lavabo. Quasi tremavo, come se avessi avuto
la febbre. Avrei voluto scuotere quell’uomo che parlava, e dirgli di starsene
zitto e di tenersi simili storie per sé, ma la realtà era che finalmente stavo
capendo chi erano Livia e Federico.
‘’Negli ultimi anni Livia è cambiata. Il suo odio e il suo
disprezzo nei miei confronti sono solo aumentati, e tutto è sfociato in ciò che
è successo negli ultimi giorni.
‘’Livia non è mai più stata la ragazza serena di cui mi ero
innamorato, e questo poteva starci in un primo periodo, ma poi si era tramutata
in un mostro, in una persona cattiva fin dentro all’anima, e desiderosa di
ferire chi le stava attorno. Federico è cresciuto così, assieme a lei, che gli
ha passato tanta cattiveria, ed ora i risultati si notano. Io non ho mai avuto
il polso per far qualcosa.
‘’Ho voluto bene a Federico come ad un figlio, ma lui non ha
più ricambiato il mio interesse paterno, da quando sua madre, a quindici anni,
gli ha rivelato e spiegato che non era figlio mio. Da allora ha cominciato a
mostrare comportamenti devianti, a non rispettarmi più, e da quel momento in
poi è iniziata la nostra fuga da un quartiere all’altro, da una cittadina
limitrofa all’altra, da una scuola all’altra, fintanto che qui è giunta la
fine.
‘’Sono giunte anche un paio di bocciature, e un bel paio di
corna per me, dato che… dato che ieri ho seguito Livia e l’ho proprio trovata
in un bar con… con…’’.
Roberto s’interruppe, dopo una valanga di parole.
Piangeva, si era aperto. Era come se stesse rigettando quella
parte di vita sua, di sua moglie e di suo figlio, che noi tutti non conoscevamo
affatto.
‘’Con quello che doveva essere il ragazzo da lei amato, che
poi l’ha abbandonata. Non so come abbiano fatto a ritrovarsi, a
riappacificarsi, a ritornare ad amarsi… non so nulla! Credevo che lei andasse a
lavoro, non mi sono mai interessato troppo della sua vita per non metterle
pressioni inutili… ed invece lei aveva ritrovato la sua stabilità.
‘’Ora, assieme a suo figlio, potrà correre tra le sue
braccia. Federico avrà ritrovato un padre, Livia la felicità, e ci mancherebbe,
sono felice per me, ma posso sentirmi preso in giro? Ma no, non devo neppure
pensarci ad una cosa così. Mi sono meritato tutto’’, concluse l’uomo, a quel
punto disperato.
Solo allora tornai a guardare mia madre, incrociando il suo
sguardo stupefatto e sconvolto. Entrambi non avevamo neppure una parola da
dire, in quel momento, e noi due non avremmo mai immaginato una simile
situazione.
Potevo quindi comprendere meglio la figura cattiva di Livia,
della madre iperprotettiva e sconsiderata, a tratti mascherata da persona
impassibilmente elevata, sempre tentando di insabbiare il suo dolore. E
comprendevo un poco anche Federico, bimbo indesiderato, forse mai capito e reso
deviante da una madre che non aveva mai conosciuto la felicità.
Ciò però non giustificava minimamente i loro comportamenti
folli.
Da quel che avevo inteso, il prepotente aveva anche un paio
d’anni in più di me, ed immaginavo la sua rabbia e quel suo nascondersi dietro
alla violenza per non far scoprire nulla di sé, ma anche ciò non riusciva a
dare una ragione valida alla sua sorta di perdizione.
Accadde, a quel punto, qualcosa che non mi sarei mai
aspettato; infatti, mia madre allungò le mani verso quelle di Roberto, sul
tavolo, e gliele prese, stringendole tra le sue, quasi a voler placare quel
dolore interiore che in quel momento l’aveva fatto davvero crollare.
‘’Capita a tutti di sbagliare, e poi di cadere. L’importante però
è comprendere che abbiamo sbagliato, e soprattutto come abbiamo sbagliato, per
poi rialzarci’’, disse infatti mamma Maria, che pure lei dallo stupore estremo
era passata alla commozione.
In quel racconto appena udito doveva aver percepito una
minuscola parte di somiglianza a sé e alla sua storia personale, ed infatti ne
narrò qualcosina al suo interlocutore, ed io che ascoltai non potei far altro
che trovare maggior fondamento in tutto quello che mi avevano raccontato sulla
vicenda sua e riguardante lei e mio padre.
‘’Una piccola soddisfazione è che al giorno d’oggi tutte
queste scemenze e queste idee idiote sono quasi scomparse. Forse però, c’è un
po’ troppo liberalismo da parte dei ragazzi e delle famiglie, per quanto
riguarda le relazioni amorose. Fino a vent’anni fa i genitori erano opprimenti,
controllavano tutto e davano troppi giudizi, oggi non ne danno nessuno, e
rischiano di prenderle dai figli. Però, almeno, nessuno più si fa dei problemi
o prende in giro una mamma single, se la vede.
‘’Tempo addietro si cercava molte volte il matrimonio anche a
costo di rovinare i figli, solo per mantenere le apparenze della buona famiglia
d’appartenenza, mentre oggi… beh, oggi si esagera, i ragazzi sono davvero
sguinzagliati in un modo totalmente differente e spesso ingestibile’’, concluse
Roberto, dopo aver ascoltato parte della storia di mia madre, smettendo
effettivamente di disperarsi e tornando ad indossare la sua solita maschera
impassibile sul viso, anche se quella volta gli occhi arrossati e la voce un
po’ tremolante tradivano il suo effettivo stato d’animo.
Mi trovavo d’accordo con l’uomo, tuttavia, poiché pure io
pensavo che fosse totalmente cambiata l’idea dell’amore e del sesso,
all’interno della società, soprattutto ascoltando quei racconti di vita che per
un giovane come me erano difficili da comprendere, e apparivano come storie da
paleolitico.
Nonostante tutto, il contatto ricercato da parte di mia madre
mi lasciò qualche attimo basito, poiché sapevo che il mio genitore in genere
tentava di evitare i contatti fisici, seppur minimi. Però, diedi la colpa alla
situazione in cui ci trovavamo, che non poteva essere considerata normale.
Io fino a quel momento non avevo aperto bocca, limitandomi ad
ascoltare con attenzione, e non avevo intenzione di farlo. Di fronte a simili
storie, tra l’altro non mie e di cui non avevo esperienza alcuna, non potevo
permettermi di dire qualcosa, perché tutto era già stato detto.
Avevo quindi intenzione di stare ad ascoltare ancora i due
adulti, ormai concentrati l’uno sull’altra, ma improvvisamente ad interrompere
quella sorta di momento catartico fu il mio cellulare, che suonò per segnalarmi
l’arrivo di un messaggio.
L’estrassi subito dalla tasca ed andai ad accertarmi di chi
si trattasse, trovandomi di fronte ad un piccolo scritto di Melissa, contenente
un invito molto speciale. Talmente tanto speciale che avrei dovuto parlarne con
mia madre.
Rimettendo il cellulare in tasca, e smettendo di ascoltare i
due adulti, compresi che era giunto il momento per svelare il mio incontro
inizialmente casuale con i miei parenti, e parlarne finalmente con lei,
d’altronde non avrei potuto nascondere per sempre ciò che mi era capitato, e
che poi avevo assecondato.
Non sapevo come avrebbe reagito, ed era proprio
quell’incognita a crearmi un vago nodo alla gola, ma ero sicuro che avrei
dovuto parlarle a riguardo, ed anche a breve. Non potevo più rimandare.
E, quella volta, mi sarebbe piaciuto non mancare a quell’invito
gentile che in sé non aveva tanta importanza, forse per altri, ma che per me
valeva già davvero tanto.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!
Bene, questo capitolo segna una svolta importante nel
racconto. In più, abbiamo scoperto tutto ciò che non sapevamo sugli Arriga e la
loro strana famiglia…
Spero che tutto sia stato di vostro gradimento, e che il
capitolo vi abbia offerto una piacevole lettura, nonostante tutto.
Continuo a ringraziare senza sosta chiunque continua a
leggere e a sostenere questo racconto.
Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 36 *** Capitolo 36 ***
Capitolo 36
CAPITOLO 36
‘’Tu non ci andrai.
‘’Mi meraviglio di te, Antonio, ad andarti a impelagare con
quella gente lì! Non ne hai avuto a sufficienza di tuo padre?! Guarda come si è
comportato nei nostri confronti, quell’infame. Non hai visto la sua prepotenza?
E tu ora vuoi correre tra le braccia di quelle persone che sono come lui, hanno
il suo stesso sangue… sul volto si mettono una maschera impeccabile, e poi ti accoltellano
da dietro!
‘’Ho sbagliato con te, non dovevo permetterti di gironzolare
così tanto ultimamente, senza controllare i tuoi spostamenti’’.
Mia madre, dopo che avevo deciso di vuotare il sacco sulla
mia casuale scoperta dei miei parenti paterni, era come se fosse diventata
pazza, e si stava sfogando con tutta sé stessa.
Io avevo atteso la sera di quel giorno nevoso per
parlargliene, quando Roberto era uscito in giardino a fumarsi una sigaretta e ci
aveva lasciato momentaneamente soli, prendendo la palla al balzo. La mamma mi
stava facendo la paternale, e anche se era rimasta ad ascoltare tutta la
vicenda riguardante me e i parenti, fin dagli albori e dal primo contatto,
avevo avuto come la netta impressione che non mi stesse affatto credendo.
Lei mi parlava con astio represso per anni, e con un’enfasi
tipica della rabbia, ma i suoi occhi mi fulminavano. Non credeva assolutamente
che io avessi avuto l’occasione di aver preso contatto con Melissa e i
familiari di mio padre in quel modo così innocente e casuale come le avevo
spiegato, ma in quegli istanti era follemente convinta che io fossi andato a
cercarli, quasi ad elemosinare la loro attenzione.
Il fatto che Melissa, tramite quel messaggio che mi aveva
mandato durante il pomeriggio, mi avesse invitato a festeggiare il Natale a
casa loro, mi aveva impedito di continuare a tenere nascoste le mie
frequentazioni e di raccontare tutto al mio unico genitore rimastomi, prima che
essa avesse potuto scoprirlo da sola.
La ragazza, la mia coetanea cugina, mi aveva detto di non
aver detto niente sulla mia reale identità con i suoi familiari, però le
avrebbe fatto tanto piacere avermi al loro tavolo durante il pranzo di Natale,
a cui ormai mancava solo una settimana scarsa, se non avessi avuto altri
impegni in famiglia.
Ma la verità era che, me ne stavo accorgendo solo in quel
momento, io di famiglie non ne avevo proprio.
Avevo passato ogni Santo Natale in estrema solitudine,
pranzando con mia madre, e nonostante lei si sforzasse tanto per prepararmi
buoni manicaretti e rivolgermi qualche attenzione in più, dopo la continua
assenza che la caratterizzava per tutto l’anno, restava un giorno buio e cupo,
nel quale dalle altre case potevo udire la felicità dei miei vicini, che
ridevano e passavano assieme quella festività riunendo le loro famiglie sotto
lo stesso tetto, e potevo percepire l’amore, o almeno l’apparenza di esso, che
si manifestava un po’ dappertutto.
Fintanto che c’erano stati anche i nonni, non c’era stato
malaccio, ma da quando io e mia madre eravamo rimasti soli al mondo, tutto era
diventato così deprimente da spingermi ad odiare il Natale. Mi chiedevo perché
io ero diverso dagli altri, mi domandavo perché nelle altre abitazioni tutti in
quel giorno si scambiavano auguri e attenzioni, mentre invece in casa mia
regnava una freddezza quasi da obitorio, una noia che durante quel giorno si
rendeva evidente talmente tanto da farmi sentire un marziano.
Col passare di qualche annetto, ho poi compreso che ciò
accadeva perché in fondo di me e di mia madre non importava davvero a nessuno.
Era come se fossimo solo persone in più, solo numeri e una sequenza di lettere,
e nient’altro.
Della nostra umana vita non se ne fregava nessuno.
In quegli attimi colmi di acuti ricordi mi venne da provare
un pizzico di rabbia profonda, non rivolta verso mia madre, bensì verso Melissa
stessa, e quelle oche delle sue cugine. Se a lei e alla sua famiglia fosse
importato qualcosa di noi, avrebbe potuto cercarci prima, oppure compiere un
qualsiasi passo avanti, e non aspettare che fosse il caso a spianare la strada.
Ero certo che pure a lei non fosse mai importato nulla di me
fino al nostro casuale incontro, e che non si fosse neppure mai chiesta se
fossi vivo o meno, pur essendo a conoscenza della mia esistenza.
Per una frazione di secondo fui in procinto di afferrare il
mio cellulare e di rispondere a quel gentile messaggio con un altro un po’ meno
gentile e più freddo e distaccato. Mi sembrava giusto farlo, come se così facendo
avessi potuto rivolgere una piccola ripicca a chi di me si era proprio
disinteressato da sempre.
Poi, però, rinsavii in fretta, riconoscendo che comunque
stavo ragionando da vero egoista. Melissa mi era sempre sembrata una ragazza
gentile e a posto con la testa, così come anche il nonno. Mi stavo quindi
facendo influenzare troppo dalle parole rancorose di mia madre, e dal ricordo che
avevo di mio padre.
La mamma era una donna ferita nell’orgoglio e nell’animo, e
come tale stava parlando, senza essere troppo razionale e trasportata solo
dalle sue emozioni travolgenti, e mio padre era semplicemente un uomo strano,
diverso, e non era di certo la fotocopia di suo padre o delle mie cugine. Io le
avevo conosciute, al contrario di mia madre, che stava parlando attaccandosi
solo ad alcune sue idee e a pregiudizi infondati, ed ero certo che non fossero
assolutamente così come voleva cercare di dipingermele lei.
Sospirando, quindi, riconobbi che quella volta la scelta
doveva essere tutta mia. Si trattava di una scelta importante per me, anche se
qualcuno estraneo alla vicenda avrebbe potuto crederlo solo marginalmente, ed
avrei dovuto decidere con la mia testa e seguendo il mio cuore, punto.
‘’Mamma, stai facendo un gran caos per niente. Ti giuro che
quelle ragazze le ho conosciute di persona, così come mio nonno, e non sono
come mio padre… riguardo all’invito, deciderò nei prossimi giorni se accettarlo
o no’’, dissi a mia madre, dopo aver riflettuto un po’ e cercando di mostrare
un briciolo di motivazione.
Ma Maria non aveva alcuna intenzione di credermi; era davvero
troppo agitata ed emozionata. Avevo come la vaga sensazione che non si sarebbe
mai attesa che quel momento potesse giungere tanto presto, e forse credeva che
non sarebbe giunto mai.
‘’Ti rendi conto di come stai parlando? Hai chiamato mio nonno una persona che non si è mai
importata di te! Un vecchio balordo che ha coperto il figlio a suo tempo, e che
non ti ha mai e poi mai cercato né voluto vedere!
‘’Ma tu accetta questo invito, sono io a questo punto a
spingerti ad accettare e ad andare là. Così, finalmente, potrai aprirti gli
occhi! Perché quelli non ti hanno invitato per nulla. Quando sarai lì, ne
approfitteranno del momento opportuno per svelare la tua identità, dato che mi
hai detto che solo una di loro sa, e per darti un calcio nel sedere e sbatterti
fuori. Resterai ferito, e quello che accadrà ti segnerà per tutta la vita, ma
almeno non potrai dirmi che sono stata io a privarti di un’opportunità così
importante per te. Accetta, dai’’, replicò mia madre, quasi sibilando.
‘’Mamma…’’, tentai di dire, troppo scosso dal comportamento
anomalo del mio genitore.
‘’Credevo di averti cresciuto nel miglior modo possibile, e
che il caso ti avesse preservato dal dolore di avere a che fare con certa
gente… ed invece, ecco la scoperta. Vai, vai da loro, dalla tua nuova e
ritrovata famiglia’’, sussurrò mia madre molto amaramente, per poi quasi
scoppiare a piangere.
Ad un tratto mi fu tutto più chiaro, e compresi un altro
motivo che la stava spingendo a comportarsi così; la paura di restare sola.
Lei aveva solo me, poteva contare solo su di me al mondo, non
aveva più nessun altro, e il timore che io potessi restare ferito da qualche
incontro oppure allontanarmi da lì la spaventava, lasciandola effettivamente e
totalmente immersa nella sua solitudine, in quel mondo fatto ormai solo di
fantasmi. Fantasmi di un amore adolescenziale che l’aveva portata a perdere i
suoi sogni, mandandoli in frantumi, fantasmi dei suoi genitori ormai defunti da
anni, eppure ancora in grado di rispecchiarsi nei miseri oggetti che erano
posizionati ovunque nella nostra dimora, e fantasmi di ricordi lontani e dalla
parvenza felici.
In quel momento compresi appieno mia madre e presi subito la
decisione definitiva, in modo rapidissimo.
La mamma mi aveva voluto bene, aveva accantonato i suoi sogni
per me, aveva risparmiato sui suoi beni necessari per sfamarmi, si spaccava da
quasi vent’anni la schiena per otto ore al giorno solo per me, e il tutto senza
sosta. Giustamente, non mi aveva mai chiesto nulla in cambio dei suoi immensi
sacrifici, ma capivo che quello era il momento mio di fare un sacrificio per
lei. D’altronde, quello forse era solo un mio capriccio.
‘’Mamma, smettila di disperarti e di fare così. Non ci andrò,
questa sera scrivo a Melissa per dirle che non mi aspetti, e che ho altri
progetti per il Natale’’, replicai, non appena la donna mi diede modo di
parlare.
Mi attesi che lei smettesse di disperarsi, e che fosse felice
di aver udito quelle mie parole, ma mi resi conto fin da subito che non era
così. Infatti, la mamma sembrò rabbuiarsi ancora di più, per poi scuotere la
testa con un cenno d’insicuro diniego e darmi le spalle, uscendo nel corridoio
e lasciandomi solo.
Mi morsi il labbro inferiore con rabbia, non capendo cosa
avessi sbagliato, ma sapevo che tutto, sul momento, pareva sempre più difficile
da capire e da comprendere a fondo e con attenzione. I sentimenti dentro di me
erano in subbuglio e non potevo venire in contatto con la mia parte più
razionale, quindi decisi mestamente di prepararmi una tisana calda e di restare
lì in cucina, a rimuginare e a tentare di calmarmi interiormente.
Avevo sempre avuto il timore di fare quella rivelazione, e a
quanto pareva non mi ero affatto sbagliato nella previsione.
A venire a risvegliare la mia razionalità fu Roberto, come al
solito.
Non so il perché, ma pare che quell’uomo sia sincronizzato
col mio animo, ed ogni volta che ho avuto bisogno di un sospiro filosofico e
ragionevole, lui è sempre comparso quasi all’improvviso, e devo ammettere che
ciò accade tutt’ora, e quasi per magia. Forse, da quando l’ho incontrato per la
prima volta, è diventato il mio angelo custode.
L’uomo fece il suo ingresso in cucina poco dopo quella sorta
di fuga di mia madre, e lì per lì manco avevo capito cosa l’avesse portata a
compiere quella scelta invece di continuare a stare con me a parlare
decentemente della vicenda, visto che finalmente mi ero deciso a vuotare il
sacco.
Roberto si diresse a passi stanchi verso di me, strisciando
con forza le mani sui vestiti che sul ventre si erano spiegazzati, per il fatto
che poco prima era stato fuori ed aveva indossato quel suo solito giubbotto che
pareva andargli un po’ stretto, e si accomodò su una sedia. Io restai
impassibile, mentre mettevo sui fornelli un tegamino con un po’ d’acqua.
‘’Ti va un po’ di tè?’’, gli chiesi dopo qualche attimo di
silenzio, cortesemente.
L’uomo mi rivolse uno sguardo provato ed annuì, restando
sempre in silenzio. Aggiunsi un po’ d’acqua a quella che stavo già scaldando.
‘’E’ dura la verità, eh?’’, m’interpellò all’improvviso,
rompendo il silenzio che ci sovrastava. Nel frattempo, l’unico rumore che le
mie orecchie potevano udire era proprio quello delle fiamme del fornello del
gas, che parevano flagellare l’acciaio del tegamino.
‘’Sì, direi proprio di sì. Ed il bello è che è sempre dura da
accettare, in ogni caso…’’, mormorai, continuando a stare sulle mie.
‘’Anche tu sei nei guai con tua madre… per una cosa un po’
futile. Mi dispiace che se la sia presa così, quando ne ha avuto la conferma’’.
‘’La… conferma di cosa?!’’, dissi, risvegliando
improvvisamente i miei sensi e non capendo.
‘’Che avevi avuto modo di conoscere e di frequentare la
famiglia di tuo padre’’.
Una sola frase, schiacciante e sconvolgente.
‘’Lei… lei non lo sapeva’’, mormorai, sbalordito. Ero
frastornato, sul serio.
‘’Un genitore le sa certe cose. Più o meno un mesetto fa le
hai chiesto il nome del fratello di tuo padre, ed hai iniziato ad indagare… poi
non hai lasciato trapelare più nulla, ed hai cominciato a prendere il treno.
Per andare dove, poi? Ma a Bologna, dai tuoi parenti. Su questo, tua madre non
aveva dubbi. Però, in cuor suo sperava che non fosse così, che il suo fosse
solo una di quelle certezze destinate ad essere sfatate. Ma non avevi altre
motivazioni logiche, secondo lei, per andare fin là’’.
‘’Ma tu queste cose come fai a saperle?!’’, dissi, ancora sorpreso
da quelle parole.
‘’Maria mi parla spesso di te. Ultimamente capita che ci
siamo trovati in casa assieme, tutti soli… e di cosa vuoi che parli, una madre
preoccupata? Ma di suo figlio, ovvio’’, mi rispose l’uomo, sorridendomi
bonariamente.
‘’Per fortuna non mi avete fatto pedinare. Oppure mia madre
ha pagato qualcuno per farlo, ma voglio sperare che non sia giunta a questo
punto. Però, devo riconoscere che, in ogni caso, è una brava detective’’,
risposi, scrollando la testa. Effettivamente, avevo lasciato dietro di me tanti
piccoli indizi, e la mamma li aveva saputi cogliere, confermando la certezza
che non fosse affatto una stupida.
‘’Sono brave persone, almeno, o è come sospetta lei?’’,
chiese poi Roberto, un po’ titubante.
Era di certo curioso, e questa sua curiosità per un attimo
m’infastidì, ma quando mi volsi a guardarlo mi venne quasi da sorridere,
riconoscendo che non lo faceva per farsi gli affari miei, ma semplicemente
perché era fatto così. Doveva preoccuparsi per tutti quelli che lo
circondavano.
‘’Potete stare tranquilli, sono persone a posto, o almeno
così mi è parso’’, risposi, con sincerità e dicendo la verità.
‘’Non è solo questione di questo, Antonio… è questione di
scelte. Guarda me e tua madre, ora; due adulti frustrati, emarginati dalla realtà
e dalla società. Ciò è accaduto in seguito ad alcune nostre scelte, anche se in
questo caso molto diverse dalle tue, ma volevo solo sottolinearti, in questo
momento, che ogni volta che compirai un passo in questo mondo dovrai stare
attento. Non ti consiglio di farti delle fobie, figurati, ma solo di prestare
attenzione a tutto e a tutti, quando necessario, e di non comportarti in modo
ingenuo o superficiale.
‘’Noi siamo due persone adulte, che vedendo in te un ragazzo
così giovane e retto, ma anche così fragile a volte, e desideriamo solo che tu
apra gli occhi e che cammini consciamente per la tua strada, stando attento ai
sassolini o ai massi che incontrerai. Stai sempre con gli occhi ben aperti’’,
disse il mio interlocutore, premurosamente.
Scossi nuovamente il capo.
‘’Non penso di aver commesso così tante scemenze, fino ad ora,
per meritarmi una sorta di paternale di questo genere…’’.
‘’No, allora non hai capito. Il mio era solo un consiglio,
che sarà per sempre valido, e non solo in questo frangente o a riguardo di ciò
che hai già fatto.
‘’Ricorda una cosa; come ti ho detto la sera scorsa, la vita
è un gioco, e in virtù di ciò va giocata. Ogni scelta, ogni incontro, ogni
giorno, ogni ora è come se fosse una grande, lunga ed avvincente partita, in
cui si deve cercare di far bene la propria parte. Ma, come in ogni gioco, non
importa solo la bravura e la sicurezza con cui affronti tutto, a volte serve
anche un pizzico di fortuna e di raziocinio.
‘’Non esistono vincitori o perdenti, alla fine di tutto, ma
l’importante è solo tenersi stretto il magico dono che è la vita stessa, e
stare sempre con gli occhi aperti. Anche quelli della mente’’.
E così dicendo, Roberto s’interruppe.
Rivolgendogli un altro sguardo, lo vidi smarrito e
sofferente, e molto probabilmente era ancora ferito per poco prima, ed io
stesso non riuscivo neppure a ricordare ciò che ci aveva narrato nell’oretta
precedente senza avere un brivido di panico. Quella era stata una giornata
davvero molto difficile per tutti.
Per fortuna, il tè era pronto. Lo servii con attenzione, ma
né io né l’uomo tentammo di intavolare un altro discorso, troppo persi nei
nostri pensieri per poter cercare di aggiungere altro a parole.
Pranzammo tutti in silenzio, sempre assorti nei nostri
pensieri. Pareva che le rivelazioni e gli eventi di quel lungo giorno avessero
lasciato un segno indelebile su di noi, rendendoci chiusi e statici in un modo
anormale.
Io, da parte mia, non avevo il coraggio di tornare a parlare
con la mia provata e scarmigliata madre, che, nonostante tutto, si era
impegnata ed aveva cucinato un buon pranzetto, anche se meno elaborato dei
precedenti. Roberto, poveretto, non aveva altro da dire, e quindi restammo in
risoluto silenzio fino alla fine del pasto, quando l’uomo prontamente si ritirò
in camera ed io ne approfittai per svignarmela e per tornare nella mia saletta,
da poco riconquistata.
Entrare al suo interno mi faceva un certo effetto; l’aria
aveva ancora quello strano odore di chiuso e di viziato che aveva regnato
ovunque fintanto che mio padre era restato a casa nostra, e mi pareva che tutto
ancora risuonasse delle sue parole, e di quelle di Federico, quando lì dentro
mi aveva preso per il collo e mi aveva fatto male, un paio di mesi prima.
Mi sembrava che ancora tutte quelle vicende si stessero
svolgendo all’interno di quelle quattro mura, in altre realtà parallele, poiché
ciò che stavo ricordando mi riportava alla mente un’infinità di ricordi, tutti
spiacevolmente collegati tra loro.
Non mi mossi subito verso il mio pianoforte, impolverato e
richiedente di pulizie e di cure, ma mi diressi dapprima verso la poltroncina
di mio padre, che da un lato della stanza pareva fissarmi con astio, quasi come
se fosse stata felice di ospitare per tante ore sopra di essa quell’uomo losco
che non sopportavo. Non so il perché, ma mi avvicinai a quell’oggetto con
infinita lentezza, e forse per un attimo fui tentato di sedermi lì, ma non lo
feci, ovviamente.
Però, quando stavo per tornare sui miei passi, qualcosa
attirò la mia attenzione.
Infatti, a terra e leggermente sporgente da sotto la
poltroncina, faceva capolino una parte di un segnalibro. Mi affrettai a
recuperarlo, e, con un tuffo al cuore, lo riconobbi; si trattava di quel
segnalibro verdognolo che mio padre portava sempre con sé, e che utilizzava per
tenere il segno in tutto ciò che leggeva. Riconobbi che doveva essergli
scivolato e caduto, e nella fretta notturna di sistemare le sue poche cose
doveva averlo dimenticato.
Sfiorai quell’oggetto che il mio genitore aveva tenuto
un’infinità di volte tra le sue grandi e forti mani, e che doveva aver vissuto
con lui tante avventure letterarie e non, seguendolo anche sul suo posto di
lavoro e nei momenti di relax a casa.
Quel segnalibro aveva conosciuto meglio di me mio padre, e
per un momento i miei occhi si offuscarono bruscamente. Mi veniva da piangere.
Dio solo era a conoscenza di quanto avrei voluto avere la
possibilità di conoscerlo meglio, di stare un po’ con lui, ma solo se si fosse
comportato in maniera più decente.
Sembrava che i ricordi brucianti di tutto quello che mi aveva
fatto sopportare fossero già infinitamente distanti, quando in realtà lo erano
solo di meno di dodici ore. Capii che, in fondo, la mia mente aveva già scelto
di voltare pagina, e che tutto era concluso, ma che essa non voleva terminare
la vicenda con odio e rancore, ma solo con quel retrogusto amarognolo tipico di
quelle vicende finite in modo brusco e non chiaro fino in fondo.
Mi resi conto improvvisamente che io avrei voluto essere quel
segnalibro, per poter saggiare le lontane attenzioni di un genitore troppo
freddo, troppo sbagliato. Ero geloso di un oggetto.
Avrei voluto distruggerlo, in un primo istante, per farne
mille pezzettini da gettare fuori dalla finestra, e da lasciar cadere su quel
ghiaccio infame che si estendeva dappertutto, ma alla fine non lo feci. Mi
limitai ad osservarne per qualche secondo le piccole pieghe che l’usatissimo
pezzettino di cartoncino aveva accumulato, leggendone la sbiadita e piccola
frase filosofica che gli era stata impressa sopra anni addietro, di cui tra
l’altro alcune parole si erano cancellate, e poi lo piegai e me lo misi in
tasca.
Decisi improvvisamente che l’avrei tenuto sempre con me.
Sapevo che mio padre non sarebbe mai più tornato a riprenderselo, e che forse
non l’avrei neppure più rivisto per anni e anni, ed io me lo sarei tenuto
stretto.
Quello sarebbe stato per me una sorta di trofeo, in grado di
ricordarmi sempre che anche se il nostro rapporto padre-figlio era andato a
rotoli, l’odio non aveva vinto all’ultima battuta. Nonostante tutto, non odiavo
nel profondo il mio genitore, anche se ne biasimavo tanti suoi atteggiamenti.
Se lui mi avesse odiato, sarebbe stato lui il perdente della
vicenda, senza aver compreso il senso della vita, ma ero certo che dall’alto
dei suoi sessant’anni avrebbe compreso, anche se il suo animo era in preda al
male.
Con un rapido slancio, andai a spalancare i vetri della finestra,
facendo subito entrare tanta aria fredda e pura, per ricambiare quella che,
all’interno della stanza, sapeva di ricordi amari. Era cominciata una nuova epoca,
mentre mio padre e i nemici Livia e Federico dovevano già essere molto distanti
da lì, e quella volta per sempre.
Era tutto finito, alla fine. Tutto era venuto a galla e tutto
era stato spiegato e motivato.
Mi appoggiai lentamente sul davanzale della finestra, col
vago intento di inspirare una boccata di quella tagliente aria gelida, ma
quella volta la mia attenzione fu attirata da una persona che si avvicinava a
casa mia, e che si accingeva a suonare il campanello. La conoscevo bene, si
trattava proprio di Stefania.
Allibito, mi chiesi se fosse stata lei a proseguire l’incubo
a cui ero stato sottoposto negli ultimi mesi, ma guardandola attentamente
compresi che no, non sarebbe stata lei. Pareva disperata, mentre con un gesto
tremolante si toglieva la sciarpa.
Mia madre l’aprì, e seppur con disappunto, la lasciò entrare,
ed udii distintamente i loro passi che si dirigevano verso la cucina, mentre la
più giovane delle due rivolgeva parole di scuse e chiedeva solo di essere
ascoltata. Maria doveva aver accettato di farlo.
Dopo qualche istante, non resistetti oltre e decisi, con la
mia solita e pestifera curiosità, di andare ad ascoltare ciò che aveva da dire
la ragazza. Immagino che se qualcuno avesse modo di leggere i miei pensieri, in
questo momento, penserebbe di certo che ero stato educato molto male; infatti,
ero un portento quando si trattava di cercare di ficcanasare e di origliare di
nascosto.
In realtà mi è sempre stato detto di badare agli affari miei,
ma a volte pensare solo a quelli mi annoiava assai, e rischiava di mandarmi in
cupa paranoia, così finivo sempre a cercare di origliare qualcosina. Però devo
riconoscere, a mia discolpa, che tuttavia non facevo nulla di male, e in fondo
quelle conversazioni che avevo origliato trattavano pur sempre di vicende che
coinvolgevano me, direttamente o indirettamente, proprio come quella volta che
mi sto accingendo a rimembrare con attenzione.
Infatti, mi mossi verso la cucina, raggiungendone la
prossimità della porta dopo solo quattro passi, e mi misi ad ascoltare la
conversazione tra le due donne, che aveva già avuto inizio.
Nessuna delle due, per fortuna, aveva badato al basso
tramestio prodotto da me mentre mi avvicinavo mestamente alla porta.
‘’Te l’ho detto, se n’è andato questa notte. Non tornerà mai
più qui, e se vorrai cercarlo potrai trovarlo nell’abitazione dove viveva prima
di tornare a piombare in questa casa. Penso proprio che sia tornato al suo covo,
ne sono quasi certa’’.
Mia madre si stava di certo riferendo a mio padre.
‘’E’ inutile che io continui a cercare di elemosinare da lui,
non mi darà mai nulla. Non vuole questo bambino e pensa solo a volermi
costringere a fare ciò che mi ordina, ma non sarà così. So che può sembrare
maleducato e sfacciato il fatto che io sia venuta a piangere e a chiedere
conforto in questa casa, dove vive la sua legittima moglie e il suo primo figlio,
ma davvero, io non so più come fare!
‘’Maria, la prego di capirmi. Sono giovanissima ed inesperta,
e non ho la più pallida idea di come rivolgermi a qualcuno che possa aiutarmi.
I miei genitori, dopo aver scoperto tutta la vicenda, siccome non potevo nasconderla
più se volevo ricevere un sostegno completo, non mi vogliono più vedere e mi
hanno praticamente sbattuto fuori dalla loro casa. Pensano che io abbia
spillato finora dei soldi a loro solo per venire a fare ciò che più mi pareva a
Bologna, e a fare la poco di buono con un vecchio pervertito… io sono
disperata!
‘’Un’amica non ce l’ho, i soldi da pagare l’affitto del
prossimo mese non li ho, un lavoretto non lo si trova manco a inventarselo,
l’università va malissimo ed ormai mi ritrovo solo a rimandare gli esami… e il
frigorifero dell’appartamento contiene viveri solo per meno di altri quattro
giorni. Ma tanto, tra meno di una settimana sarò sfrattata.
‘’A questo punto, non ho una soluzione! O abortisco, dato che
sono ancora in tempo, e corro tra le braccia di chi mi ha messo anche le mani
addosso, o mi ammazzo. Ma non ucciderò mai la mia creatura, sono disposta solo
a morire assieme ad essa, per scappare da questo mondo schifoso’’.
Ero allibito. Ancora quelle parole, in casa mia.
Stefania era scoppiata in un pianto violento, sincero e
profondamente disperato, e stavo per mettermi a piangere anch’io. Il suo
discorso effettivamente era stato veementemente fortissimo, e d’altro canto se
mi fossi trovato io nella sua situazione non avrei proprio saputo che fare.
‘’Io non voglio sentirli mai più questi discorsi, Stefania. Hai
ventitré anni se non ricordo male, e non si può parlare così alla tua età’’,
disse mia madre, dopo essere stata in silenzio per un po’ di tempo e in modo
serio.
La mia amata mamma aveva assolutamente ragione; la sua
interlocutrice era una ragazza ormai adulta ma ancora molto giovane, con
un’intera vita davanti, ed era una persona onesta che si era comportata in modo
un po’ disattento, ma che voleva bene al frutto di quel suo amore non
ricambiato.
Un brivido mi trafiggeva dalla testa ai piedi se pensavo che
quella creatura minuscola e in formazione era il mio fratellastro, sangue del
mio sangue, e per un certo verso non potevo sopportare l’idea che quella vita
innocente fosse spazzata via a causa delle stesse persone che l’avevano
concepita. Dall’altro però non potevo farci nulla, davvero nulla.
‘’Chiedo scusa se sono venuta qui, per l’ennesima volta, a
frignare come una bambina. Non tornerò mai più ad assillarla, e nel frattempo
la ringrazio per non avermi cacciata…’’.
Senza concludere la frase, e con imbarazzo, la ragazza si
mosse dalla sedia e fece per spostarla ed alzarsi. Però, a bloccarla
probabilmente fu mia madre. Anzi, sono certo che fu così.
‘’A me dispiace tantissimo per te. Hai fatto bene a venire
qui. Sai quante storie simili alla tua ho avuto modo di conoscere? Tante. Anche
la mia lo è. Sergio è un mostro… ma non devi più preoccuparti, perché mi sembri
sincera e questa volta ho deciso di aiutarti, basta che tu non me ne faccia
pentire di averlo fatto. Ma sono certa che non lo farai’’.
Ero tutt’orecchie. Mi pareva incredibile di aver sentito
quelle parole così premurosamente e cortesemente pronunciate. Anche Stefania
era rimasta ammutolita, mentre io mi comprimevo ancor di più contro al muro. La
porta della cucina era aperta e non avevo difficoltà ad ascoltare tutto,
tuttavia avevo il timore di essere scoperto e di interrompere così un momento
molto importante per la nostra ospite.
‘’Ho una stanza libera, in questa casa. I miei inquilini se
ne sono andati oggi, e non ne troverò di certo fino all’estate prossima. Sono
disposta ad ospitarti, quindi, e a darti vitto e alloggio fintanto che le cose
non andranno meglio, e miglioreranno, fidati. Nel frattempo, avrai un tetto
sicuro sulla testa’’.
‘’Signora! Signora! Lei sta scherzando… io non ho…’’.
‘’Non hai bisogno di nulla. Prima di essere sfrattata, porta
qui le tue cose, ma non farlo prima di due giorni, perché quel maiale
dell’inquilino che ha usufruito della stanza prima di te ha lasciato tutto a
soqquadro, e dovrò risistemare l’ambiente… e non preoccuparti di altro, né di
soldi né di disturbo, né di vitto né d’alloggio’’.
‘’Io… io non voglio essere in debito… non so quando potrò risarcire…
temo di disturbare…’’.
Stefania era sorpresa ed emozionata quanto me, in quel
momento. Giuro che pure io ero commosso di fronte alla bontà e alla generosità
della mia mamma.
‘’Non devi preoccuparti assolutamente di nulla, te l’ho
appena detto, al massimo se proprio ci tieni ne riparleremo in futuro. Ma
nell’immediato mi farebbe piacere darti una mano, e spero che tu accetti questo
aiuto che ti porgo proprio con tutto il mio cuore. Voglio davvero aiutarti.
‘’Inoltre, in seguito potremmo anche provare a rivolgerci a
qualche avvocato, assieme, e tentare di trovare una qualche soluzione a
riguardo di Sergio… io, fino ad ora, non l’ho mai fatto. Ma tu attendi un
figlio suo e lui deve prendersi le sue responsabilità; non certo di starti
accanto, ma almeno di versarti mensilmente un mantenimento. Non sono un’esperta
in vicende legali, ma penso che questa sia la scelta giusta… e poi, vorrei
anche cercare di ricontattarlo in qualche modo lecito e legale, senza che sia
lui poi a denunciarmi per qualcosa di assurdo, perché penso sia giunta l’ora di
divorziare e di lasciarmi finalmente libera…’’.
Avevo sentito abbastanza. Il mio cuore martellava dentro al
mio petto, e la dolcezza che stava mostrando mia madre era davvero talmente
tanto zuccherosa e calda da far sciogliere ogni mio sentimento.
Dovetti quindi tornare nella mia saletta, silenziosamente,
per lasciarmi andare ad un pianto liberatore, ma quella volta assolutamente
privo di dolore. Nonostante tutto quello che avevamo passato, mia madre si era
dimostrata una donna con la testa sulle spalle e lodevole, e in quel momento di
bisogno non si era mai piegata, anzi, cercava soluzioni. Anche lei era maturata
un po’ dopo quell’ennesima e lunga serie di disavventure familiari, e mi ero
finalmente ritrovato a fianco una persona rinata dalle sue ceneri.
Mamma Maria doveva essere un esempio per me, e la mia gioia
di avere una madre così era infinita. La vicenda riguardante Melissa e i
parenti era già praticamente dimenticata.
Mentre continuavo a piangere, ringraziavo il Cielo per avermi
fatto il dono di avermi fatto nascere da una donna così, e la prova di quel
giorno era la dimostrazione che avevo un genitore speciale. Almeno uno dei due
lo era, ed immensamente.
Quella sera, mentre ero a letto, mia madre entrò nella mia
stanza.
Il fascio di luce che colpì il mio volto, proveniente dal
corridoio, risvegliò subito i miei sensi, ma lasciai che fosse il mio genitore
a fare il suo primo passo avanti.
Ero un po’ stupito, poiché la mamma non si era mai comportata
così, e immaginai che avesse qualcosa d’importante da dirmi. Infatti, socchiuse
leggermente la porta e si avvicinò al mio letto.
‘’Sei sveglio?’’, sussurrò, mentre si sedeva delicatamente
sul bordo del mio giaciglio.
‘’Sì’’, le risposi, nonostante tutto.
‘’Volevo chiederti scusa per come mi sono comportata questa
mattina. Tu ormai sei grande ed hai il diritto di scegliere di fare ciò che
vuoi. Ad aver parlato è stata la mia materna gelosia, e la paura di vederti
ferito, ma se tu che hai conosciuto quelle persone mi dici che non hai nulla da
temere, e neppure io, sarò dalla tua parte’’, cominciò a dirmi, sempre a bassa
voce.
‘’Capisco’’.
‘’Non voglio che tu diventi un adulto frustrato come lo sono
io. Voglio solo il meglio per te, e vorrei proteggerti da ogni urto della vita,
ma non posso, non voglio e non devo impedirti di fare le tue esperienze,
giustamente. Quindi, davvero, te lo dico col cuore in mano; se tu te la senti,
e se lo vuoi, accetta quell’invito. Vacci’’.
Mia madre parlava con sincerità, e in quel momento non era
più arrabbiata. La sua voce bassissima e melodica quasi mi cullava.
‘’Non voglio lasciarti sola, mamma. Avevo capito fin dall’inizio
le tue intenzioni e perché mi parlavi in quel modo, ma poi mi sono anche reso
conto che, durante una festività speciale come il Natale, io ti avrei lasciato
sola. Tu non l’hai mai fatto con me, e non vedo perché dovrei farlo io,
soprattutto in favore di persone che non hanno nemmeno mai considerato la mia esistenza
fino a qualche settimana fa…’’.
‘’Non preoccuparti per me, io non sarò mai sola. Ho sempre il
tuo affetto di figlio, a camminare a mio fianco’’, m’interruppe, sorridendomi
nella semioscurità.
‘’Va bene mamma, domattina dirò a Melissa che andrò da lei,
allora. Però, un po’ mi sento in colpa’’, ammisi.
‘’Non farlo assolutamente, hai tutto il mio sostegno. E
ricorda che, anche se delle volte ti sgrido, oppure litighiamo, io non potrei
mai volerti male… sei mio figlio ed io ti sarò accanto per sempre. Anche quando
avrai cinquanta o sessant’anni, resterai per sempre il mio bambino, e non farò
mai nulla contro di te o per impedirti qualcosa con cattiveria’’, aggiunse mia
madre, sempre dolcemente.
Non riuscii a rispondere a quelle parole, ed ammetto che ero
parecchio emozionato. Preferii quindi starmene in silenzio ad ascoltare.
‘’Bene, discorso chiuso allora. Però, avrei da dirti un'altra
cosa…’’, aggiunse la mamma, notando il mio mutismo.
‘’Spara’’.
Immaginai mia madre leggermente divertita, dopo il mio invito
molto giovanile ed informale a proseguire.
‘’Ecco… è difficile da spiegare. Oggi pomeriggio, si è
presentata alla nostra porta Stefania, la ragazza… quella che è stata la
ragazza di tuo padre. Era disperata, mi ha raccontato tante cose molto forti…
ed ho deciso di darle ospitalità, poiché dopo che ha litigato con i genitori si
trova in grandi difficoltà.
‘’Avevo pensato di metterle a disposizione la stanza lasciata
vuota da Federico, dopo che avrò finito di risistemarla per bene. Questa mia
scelta… ti disturba?’’, tornò ad interloquirmi, con titubanza. Non mi aveva
spiegato la storia nei minimi dettagli, però io la conoscevo ugualmente.
Sorrisi nel buio e mi affrettai a rassicurarla.
‘’No, assolutamente no. E grazie…’’.
‘’Di cosa?’’.
‘’Per la tua umanità. Non è da tutti non essere gelosi come
lo sei tu, d’altronde quella è una ragazza che in grembo porta il frutto di tuo
marito…’’, dissi, questa volta titubando io, senza sapere come esprimermi per
bene.
‘’Non preoccuparti neppure di questo. Sergio non è mio marito
e non lo è mai realmente stato, e figurati se io sono gelosa di quella ragazza
e del piccolo innocente che porta dentro di sé.
‘’Sergio è stato la mia prima sorta di amore, e l’uomo con
cui ho concepito il dono più bello che la vita avesse mai potuto darmi, ovvero
un ragazzo sensibile, di buon cuore, sempre gentile. Ma con lui io non ho
davvero più nulla da spartire! È solo un estraneo qualsiasi, per il mio
cuore’’, aggiunse Maria, quasi facendomi imbarazzare con quelle parole.
La mia mamma di certo mi voleva molto bene, ed io ne volevo
molto a lei.
‘’Non c’è nessun problema, mamma. Ora però vorrei dormire…
sono stanchissimo’’, le dissi ad un certo punto, cercando di mettere fine a
quella serena discussione. Avevo trovato quel dibattito così idilliaco che
avevo paura anche solo al pensiero di doverlo continuare, correndo così il
rischio di pronunciare qualche parola fuori posto e di fare incrinare tutto
quanto.
‘’Certo. Buonanotte, allora’’.
E dopo avermi sfiorato una mano con la sua, caldissima tra
l’altro, la donna se ne andò mestamente così come si era presentata.
Ed io, rimasto solo e immerso nel buio completo, non potei
far altro che socchiudere le palpebre e sospirare, cercando di addormentarmi
mentre mettevo in ordine i miei pensieri e gli eventi di quell’ennesima
giornata dalla parvenza infinita.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, e grazie per continuare a seguire questo
racconto.
Sono molto affezionato a questo capitolo, e spero che vi sia
piaciuto.
Continuo a ringraziare tantissimo tutti i gentilissimi
recensori!
Grazie di cuore a tutti e per tutto, e buona giornata! A
lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 37 *** Capitolo 37 ***
Capitolo 37
CAPITOLO 37
I giorni che mi separavano dal Natale passarono in fretta.
Roberto aveva scelto di fermarsi ancora un po’, senza alcuna
voglia di tornare in pieno inverno nella sua abitazione in campagna, che
necessitava pure di qualche ristrutturazione a suo dire, e mia madre era sempre
con lui. L’arrivo delle festività era stata una manna per la mia povera mamma,
gran lavoratrice, che aveva bisogno di riposare un po’, e per fortuna il calendario
le offriva qualche giorno davvero libero, finalmente.
I due adulti parevano andare molto d’accordo, sempre di più,
talmente tanto da spingermi a pensare che effettivamente sembravano due
migliori amici, inseparabili com’erano diventati. Gli eventi drammatici
dell’ultimo mese li avevano avvicinati molto, tantissimo.
Nonostante che tra loro esistesse già un dialogo informale, i
due avevano ormai imparato a chiacchierare del più e del meno, cosa che prima
accadeva di rado, parlando solo tramite classiche frasi sempre simili, e la
mamma pareva aver ricominciato a sorridere, dopo qualche giorno buio in cui mi
ero preoccupato seriamente per lei. Ero felice che avesse trovato nel suo quasi
coetaneo Roberto un buon amico, anche perché lui, con le sue parole, sapeva
farla riflettere e sorridere allo stesso tempo. Era una brava persona, e
l’ammiravo molto.
A dirla tutta, quel giorno avevo scelto di prendere l’unico
treno diretto da Melissa a cuor leggero, poiché avevo lasciato il mio genitore
buono e corretto con quell’uomo così cortese e caloroso, e che assieme si
stavano divertendo a preparare un pranzo di Natale, che logicamente sarebbe
stato poi consumato da loro due stessi. Non avevano nessun altro a quel mondo,
e per fortuna stavano bene insieme.
Stefania si era poi traferita da noi, momentaneamente aveva
specificato, ma non ci credevamo poi più di tanto. Tuttavia la ragazza era
sempre rimasta sulle sue, comportandosi correttamente e con grande discretezza,
sempre silenziosa e amabilmente pacata. Avevo avuto modo di conoscerla meglio e
mi stava simpatica, era sempre dolce e sorridente in ogni momento della
giornata, nonostante tutto.
La nostra convivenza era estremamente pacifica, e nessuna
tensione regnava più tra le nostre mura domestiche. Il nemico pareva davvero
sconfitto per sempre su tutti i fronti, e definitivamente allontanato.
Anche se noi quattro eravamo così diversi, non c’era voluto molto
a comprendere che non avremmo mai potuto litigare o discutere per nessun
motivo. Anzi, in quel momento ero leggermente sovrappensiero, poiché pensavo sempre
a Stefania, che in quel santo giorno avrebbe ritentato di mettere in piedi il
rapporto con la sua famiglia e i suoi genitori. Speravo davvero per lei che
tutto potesse andare per il verso giusto, come meritava.
Non era una giovane cattiva, oppure desiderosa di soldi,
potere o vecchi da spennare, ma era soltanto un po’ superficiale e distratta, a
volte, e dall’animo puro ed innocente, a tratti simile al mio per quanto
riguardava l’ingenuità. Mi ero già affezionato a lei e ai suoi sorridenti
silenzi, mai troppo cupi per fortuna, e a quella piccola vita che cresceva ogni
giorno nel suo grembo, mia consanguinea.
Ero quindi riuscito a trovare una parvenza di pace e di
tranquillità, e il mio caro Giacomo era sempre presente, con la sua simpatia,
un po’ come lo era naturalmente anche Jasmine, ma con lei era tutto un altro
discorso, decisamente più profondo.
Quella ragazza stava cominciando a dar sfoggio del suo calore
e della sua bontà, in modo più aperto rispetto all’inizio della nostra
relazione, ed io l’amavo sempre più e tutto andava a gonfie vele tra noi.
Quella stessa sera, tra l’altro, l’avrei rivista, poiché mi
aveva invitato a cena da lei, assieme ai suoi genitori. Era l’ennesima
occasione per conoscere meglio la sua famiglia, un’occasione che non volevo
farmi sfuggire per nessun motivo, ed infatti prevedevo di prendere l’ultimo e
unico treno delle diciotto per tornare a casa, ed essere da lei entro le
diciannove e trenta.
Per quanto riguardava la mia trasferta da Melissa, non ero
turbato per nulla; ero certo che la ragazza non avesse in alcun modo parlato di
me e del mio grado di parentela con i suoi e miei parenti, e che se ne fosse
stata zitta, come promesso. Avrei trascorso un mezzogiorno assieme a loro ed
avrei avuto modo di passare un po’ di tempo in loro compagnia, cosa che non mi
era mai capitata in modo così diretto e coinvolgente, ed avrei potuto farmi una
precisa idea su tutto e su tutti.
Ma sarei sempre stato un semplice amico, un terzo soggetto
che, da fuori delle dinamiche familiari, osservava attentamente ogni cosa ed
ogni comportamento. Non sarei stato nulla di più, e ciò mi dava un senso di
beatitudine e una sensazione di dolore allo stesso tempo.
Avrei tanto voluto avere il coraggio di presentarmi a loro
per quello che ero e per chi realmente ero, ma sapevo che rischiavo di passare
per un pazzo che li aveva seguiti in incognito mentendo anche sulla mia reale
identità, per poi svelarla in un momento in cui il mio ipotetico subdolo piano
avrebbe dovuto cominciare a prendere piede.
Avrei rischiato di passare per approfittatore, o di essere
allontanato, ma di certo sarei stato frainteso, assieme alle mie probabili intenzioni,
che in realtà non c’erano, se non semplicemente avere un contatto con loro,
anche a distanza. Nessuno avrebbe mai creduto nella casualità dell’evento, un
po’ come aveva fatto inizialmente mia madre.
Restavo, ripeto, tuttavia tranquillo, e credevo fermamente
nella mia copertura e sulla buona fede di Melissa, che in fondo era sempre
stata molto corretta con me e nel rispettare le mie volontà.
Quando scesi dal treno, me la ritrovai di fronte tutta
sorridente, e ci scambiammo un abbraccio d’impeto, chiamandoci per la prima
volta cugini.
Non credo che Melissa avesse realmente provato qualcosa per
me. Sono più propenso a credere che essa l’avesse scambiato con quella
primordiale curiosità che pure io avevo provato per lei la prima volta che l’ho
incontrata, pensando ingenuamente che fosse amore.
Ah, la mia cugina appariva davvero ancora molto inesperta, a
riguardo delle vicende amorose, forse ed addirittura molto più di me, che nonostante
tutto ci stavo provando con Jasmine. Lei, invece, non aveva nessuno ed era
single.
Mentre mi stava portando a casa sua, guidando la sua auto, mi
dedicò qualche sporadico sorriso e qualche parola cortese, niente di più
sciolto. Pareva tesa, e questo mi dava nell’occhio e rischiava di strapparmi di
dosso quel velo di tranquillità che avevo scelto d’indossare quella mattina.
Mi voleva bene, ne ero certo, ma pareva non proprio a suo
agio.
‘’Allora, cugino… che mi racconti di bello?’’, mi chiese dopo
un po’, titubante a parole ma un po’ più sicura nella guida.
Scrollai istintivamente le spalle.
‘’Ah, guarda… ne sono successe un bel po’… se vuoi ti
racconto qualcosa’’.
‘’Certo. Manca ancora un po’ prima di giungere a destinazione,
quindi raccontami pure ciò che ti è accaduto. Spero che quel pazzo che ti
tormentava abbia smesso di farlo’’.
Così dicendo, la mia cugina coglieva la palla al balzo per
far parlare me.
Non mi scomposi, né mi mostrai ulteriormente inquieto, tanto
non avevo nulla da nascondere e neppure da temere, almeno speravo in
quest’ultimo caso, e le narrai tutto ciò che ancora non sapeva su di me e sulle
mie recenti esperienze. Aveva avuto modo di conoscerle quasi nella loro
totalità dopo la visita a casa mia, circa due settimane prima, ma le mancavano
da ascoltare solo gli ultimi sviluppi di quelle varie vicende.
A furia di narrare ad altri le mie vicende personali, non mi
sorprende il fatto che tutti i punti più salienti di esse mi siano rimaste
impresse in modo così vivido e reale, quasi tangibile ancora adesso. Insomma, per
tutto il resto del breve viaggio fui io a parlare, e finii proprio quando
Melissa cominciò a percorrere il vialetto che l’avrebbe portata di fronte a
casa sua.
Lei si limitò ad annuire e a sorridermi, come a volermi dare
la prova concreta che mi aveva ascoltato attentamente anche se non aveva mai
fiatato, e cominciò a fare le sue solite piccole manovre per parcheggiare la
macchina sullo spazio coperto da una sorta di porticato, dal nudo suolo
ricoperto da uno spesso strato di bianco ghiaino, il tutto ben dedito ad
ospitare al meglio un buon numero di macchine.
Tra l’altro, mi sorpresi nello scorgere una bella Lamborghini
parcheggiata anch’essa lì, a pochi passi dalla misera macchina di Melissa, e mi
venne da sorridere pensando a quanta fiducia potevano riporre in lei i suoi
genitori, dato che loro viaggiavano solo su auto fantasticamente costose e alla
figlia avevano riservato un’utilitaria qualsiasi, comunissima.
Tuttavia, era vero che per i primi tempi di guida andava benissimo
anche quella, siccome non riuscivo neppure ad immaginare mia cugina alle prese
con un’altra macchina, magari più voluminosa ed accessoriata.
Quando scesi dall’auto, una volta uscito da quel
porticato-tettoia, mi ritrovai immerso nel freddo sole invernale, che era
riuscito misteriosamente a far capolino dal bel mezzo della classica nebbia
padana, padrona indiscussa dell’autunno e dell’inverno della mia zona. Sembrava
che, per quel Santo giorno, il nostro amato astro volesse farci anche lui i
suoi migliori auguri.
Io e Melissa non scambiammo più neppure una parola, da quel
momento in poi. Lei mi sorrideva e m’invitava tacitamente a seguirla, ed io le
andavo dietro a ruota, da bravo ospite, e appena potemmo entrammo in casa,
mentre mi sentivo sempre più a disagio.
Se il grande giardino del villone era totalmente spoglio,
come sempre, e poteva apparire lo stesso che avevo visto durante la mia prima
visita, l’interno della vasta dimora era adibita a festa; ovunque, i festoni
regnavano sovrani, soprattutto lungo le scale, mentre un bell’abete di una
notevole dimensione e ben agghindato pareva voler dare il suo benvenuto ad ogni
ospite in entrata, vista la posizione centrale in cui era stato posizionato.
Il mio cuore cominciò ad accelerare i battiti, ed io per
qualche istante credetti di svenire.
La grande porta d’ingresso si richiuse dietro di me,
lasciandomi avvolto da un potentissimo profumo di cibarie, dalla luminosità
prodotta dalle varie lucine che parevano lampeggiare dappertutto, dai bagliori
festosi prodotti da ogni oggetto agghindante e natalizio e da un piacevole
chiacchiericcio di sottofondo, davvero tranquillo.
Però, nonostante la parvenza calma che regnava ovunque in
quell’ambiente che non avevo mai scorto in quel modo, il mio animo prese a non
darmi tregua, e pure quel barlume di tranquillità che da quella mattina aveva
vissuto dentro di me parve sparire. Scoprii che essa si era quindi rivelata
effimera, e cominciai a sudare freddo.
Ero una persona timidissima, e non sapendo cosa mi avrebbe
aspettato di lì a poco, ero diventato improvvisamente tesissimo e faticavo pure
a deglutire o a respirare normalmente.
Per una frazione di secondo, pensai che forse avrei fatto
meglio se me ne fossi stato a casa, con mia madre e Roberto, invece che recarmi
ad assecondare quella sorta di trasferta.
Tutti i peggiori pensieri cominciarono a frullare
vorticosamente per la mia mente, spaventandomi ad un tratto, e non
permettendomi più di ragionare. Melissa parve non notare nessun cambiamento in
me, ma ero sicuro di aver perso anche l’ultimo barlume di sorriso, assumendo
un’espressione tesa. Lei fu gentile a non farmi notare nulla, ma ero certo di
stare sfoggiando un volto dall’espressione incredibilmente tirata, forse
persino considerabile ridicola, da alcuni. Ma lei, la mia speciale cugina,
forse mi comprendeva davvero fino in fondo.
Passando da fianco al grande alberello di Natale tutto
agghindato, dato che la padrona di casa non mi aveva condotto subito al piano
superiore dell’abitazione come aveva fatto tutte le altre volte precedenti,
notai con stupore un calzino nero e sgualcito che pendeva da un ramo. Per una
frazione di secondo, tutta la mia attenzione fu incentrata su quell’oggetto,
che fortunatamente me la distolse un attimo dai miei intimiditi e timorosi
pensieri.
‘’E’ stata Giorgia… l’ha già messa lì in previsione
dell’Epifania. In attesa della befana, insomma. Sai che le cugine a volte sanno
essere strane, anche senza bisogno d’impegnarsi troppo’’, sogghignò Melissa,
notando l’attimo in cui i miei occhi avevano indugiato su quell’oggetto
logorato e decisamente fuori posto, al momento.
Scossi leggermente la testa, col vago intento di farle
tacitamente intuire che avevo compreso, e mi limitai a continuare a seguirla,
fintanto che, dopo a malapena altri sette o otto passi, ci trovammo
direttamente ad entrare in un bel salone, sempre in stile ottocentesco.
Il fiato mi si mozzò all’improvviso, e dei momenti
immediatamente successivi ho solo un ricordo molto confuso.
Piatti, posate, cibo che veniva servito.
Un discreto rumorio prodotto da parecchie persone che
chiacchieravano animatamente, ma sempre in modo educato e rilassato, ed io
stretto tra Melissa e Francesca, una delle mie cugine più piccole, solo a
tratti interessata a me. Tutti, però, di tanto in tanto mi fissavano.
Il pranzo era cominciato poco dopo al mio arrivo, ritenuto
puntualissimo; nessuno dei presenti, che tra l’altro in un primo momento non
conoscevo, mi aveva posto domande. Si erano limitati a salutarmi cortesemente,
e a lanciarmi qualche profonda ed attenta occhiata.
Al tavolo avevo avuto modo di fare una rapida conoscenza con
i miei zii, che mi erano stati presentati da Melissa; in realtà, li avevo già
visti la prima volta che avevo suonato il pianoforte in quella casa, durante la
mia primissima visita, ma non ero riuscito a studiarmeli per bene. Quella volta
sì, però.
Lo zio Piero, padre di Melissa, era un uomo discretamente
simile a mio padre, più nell’aspetto che nel modo di fare. Appariva infatti
pacato un po’ con tutto, anche se manteneva una parvenza sempre molto formale.
Non doveva essere un pessimo genitore, o un uomo simile al fratello maggiore.
Sua moglie era invece una donnina timidissima, quieta, sempre
silenziosa, di quelle che ti aspetti che siano sempre succubi del marito, ed
invece al contrario di ciò i suoi occhi emanavano lampi di vita e di
resistenza. Non riuscii a capirla fino in fondo durante quel breve contatto,
però mi sembrava addirittura più chiusa dalla figlia, più rassomigliante ai
componenti della famiglia Giacomelli, ma non una donna sempliciotta o succube.
Lo zio Ludovico invece, padre delle altre quattro cugine,
spiccava nella tavolata, sia per via di una capigliatura parecchio scompigliata
e mossa, lasciata leggermente allungare, sia grazie alla sua continua voglia di
far battute sciocche o di sottolineare qualcosa che potesse far ridere i
commensali. A lui non mi ero avvicinato, era troppo sciolto per i miei gusti.
Ebbi quindi modo di comprendere da chi avevano preso le
quattro ragazze, figlie tra l’altro di una donna piuttosto robusta ed anch’essa
dall’aspetto più frivolo della madre di Melissa, quest’ultima decisamente più
composta della cognata.
Ogni tanto, quando il figlio più piccolo alzava un po’ troppo
il gomito, il nonno gli lanciava un’occhiataccia fredda, di quelle in grado di
mettere a tacere chiunque, e allora Ludovico si quietava per un attimo. Ma tra
lui, sua moglie e le sue figlie, pareva che dovessero ribaltare la casa solo
col loro baccano.
Il nonno era seduto a capotavola, e da lì osservava
silenziosamente tutti quanti. Mai lo vidi proferire più di un paio di parole e
per di più sottovoce, ed i suoi occhi si muovevano implacabili su di tutti.
Prima del pasto, aveva effettuato una piccola preghiera di
ringraziamento, e poi aveva preferito restare a guardare e a mangiare a tratti,
senza interagire direttamente quasi con nessuno.
Oltre a me, ai miei zii, a mio nonno e alle mie cugine, si erano
recati a pranzare lì anche qualche amico stretto di famiglia, tutti più che
altro avanti con l’età, e qualche vicino, ma erano stati posizionati tutti
marginalmente, verso il fondo della tavolata. Io, invece, ero a stretto
contatto con quella parentela che sì mi guardava, ma che credevo non sapesse
neppure chi fossi.
Pensavo che tutti avessero frainteso, e poiché Melissa mi
aveva superficialmente presentato come un amico carissimo essi pensassero che
fossi il suo fidanzato o chissà chi altro. Mi sentivo infatti osservato
continuamente, anche se i presenti parevano concentrati sempre su altro.
Non potei non notare chiaramente tutto ciò che accumunava mio
padre a quella gente; lo zio Ludovico appariva a volte un gran cialtrone
ciarlone, così come il mio genitore si faceva lagnone ed insopportabile, lo zio
Piero aveva il suo stesso sguardo austero, così come lo aveva il nonno, le mie
cugine erano una sintesi dei comportamenti dei loro genitori e di quelli
generali dei Giacomelli, e Melissa si assomigliava fisicamente al ramo paterno
della famiglia, ma anche a me, mostrando quel comportamento timidamente
riservato che è stato tipicamente mio.
Io mangiai pochissimo, tenni spesso la testa abbassata sul
mio piatto e partecipai a malapena ad una conversazione con la mia cugina più
grande, tra l’altro non più lunga di tre semplici frasi.
Durante i primi venti minuti del pranzo la mia povera testa
era in tilt, e la mia timidezza mi impediva di sfoggiare qualcosa che non fosse
il mio solito sorrisetto forzato e tirato, ma poi per fortuna riuscii a
rilassarmi un po’ di più e a comportarmi in modo più sciolto e meno
visibilmente impacciato, in mezzo a tutte quelle persone che in fondo erano
puri e meri sconosciuti. Tuttavia, non entrai mai realmente in partita, come
avrebbe potuto sancire un qualsiasi commentatore calcistico.
Almeno, fino ad un certo punto.
Il pranzo parve volersi concludere in fretta, con l’apertura
e la distribuzione di classici dolci natalizi, perlopiù pandori e panettoni, e
mentre gli adulti brindavano e le ragazze si scattavano foto da postare sui
social, io me ne rimasi sempre più in disparte.
Solo a quel punto compresi che, fino a quel momento, io mi
ero sentito stranamente in più, e non riuscivo a capacitarmi del motivo ben
preciso per cui Melissa mi avesse invitato a quel pranzo tanto importante e da
trascorrere in famiglia. Certo, io in fondo ero un loro famigliare, ma mi
sentivo troppo freddamente distante dalla loro dimostrazione di unità e di
gioiosità, oltre che dai loro sfarzi, avendo assunto un paio di cuoche in più
per l’occasione e mostrando anche la bellezza di sei inservienti, sempre pronti
a precipitarsi su chiunque avesse desiderato una seconda porzione di qualcosa e
logicamente soddisfare ogni esigenza a tavola.
Il senso di disagio sorse quindi con nuovo impeto nel finale
del pasto, dove non riuscii più ad ingerire nulla e lasciai che il mio sguardo
girovagasse distrattamente ovunque, senza più badare a nulla. Volevo solo
tornarmene a casa mia, non so il perché.
Però, poi, qualcosa improvvisamente cambiò, e quello statico
equilibrio che fino a quel momento aveva caratterizzato quella mia
partecipazione alla festività s’interruppe. Mia cugina Melissa, infatti, tutt’a
un tratto mi posò una mano sulla spalla, facendomi quasi sobbalzare.
‘’Antonio, potresti venire un attimo con me?’’, mi chiese, ma
sempre in un modo un po’ troppo rigido.
Naturalmente acconsentii a seguirla, e lei si diresse
prontamente fuori dal salone.
‘’Seguimi al piano superiore, per favore’’, tornò a dirmi la
ragazza, mentre mi precedeva e di tanto in tanto si volgeva indietro a
lanciarmi un tremolante sorriso che doveva avere la funzione di rassicurarmi.
Continuavo a notare un certo disagio in lei, ed esso crebbe
leggermente anche dentro di me, non comprendendo perché fossi stato richiamato
fuori e mia cugina mi stesse portando verso il piano superiore, tra l’altro
molto silenzioso.
Dal salone vicino continuava a provenire il soffuso schiamazzo
che fino a pochi istanti prima mi aveva circondato ed oppresso, ogni passo più
lontano da me. Quando cominciammo a percorrere la bella scalinata interna
addobbata, provai nuovamente un po’ d’ansia, non riuscendo proprio a capire il
motivo di quella sequenza di scelte della mia cugina ed amica, ma ormai mi
sentivo come spossato, stanco come se anche le mie emozioni nelle scorse due
ore avessero già dato il meglio di loro, restando presenti ma solo di
sottofondo, senza più forze.
Una vaga inquietudine mi pervase fino al piano superiore, per
poi quasi scomparire non appena Melissa accennò a farmi entrare nella grande
stanza dov’era riposto il pianoforte.
Pensando che volesse farmi suonare di nuovo, mi
tranquillizzai per una frazione di secondo, fintanto che non feci capolino
dentro la camera. E allora sussultai, poiché mi trovai di fronte non solo al
pianoforte che tanto apprezzavo, ma anche a mio nonno, che era seduto di fronte
ad esso. Non mi ero neppure accorto che si fosse eclissato dai festeggiamenti e
dal pranzo dal tanto che era stato taciturno e silenzioso, immerso nella
baldoria, e non seppi cosa pensare in quel delicato momento.
Capii lestamente che sia lui che Melissa dovevano essersi
accordati, per farmi quel genere di sorpresa.
Non sapendo che altro pensare, tentennai un attimo sulla
soglia, mentre la mia cugina si faceva silenziosamente da parte, come se lei
avesse concluso la sua missione, e il vecchio mi rivolgeva un’occhiata pesante
e penetrante.
‘’Vieni avanti, Antonio’’, mi disse l’uomo anziano,
invitandomi ad andare verso di lui.
Mi mossi in sua direzione, senza stare a pensare troppo. Non
riuscivo a comprendere. Poi, mi baluginò per la mente l’idea che la mia
identità fosse stata scoperta.
Il vecchio non attese che io mi avvicinassi troppo a lui;
quando notò che ero alla sua portata, si alzò di colpo con uno scatto
indicibilmente arzillo e posò attentamente una mano sul mio viso.
Istintivamente chiusi le palpebre, chissà perché, ma l’uomo era proprio
interessato ai miei occhi, ed infatti col suo pollice cercò di forzarle, ma
sempre con grande dolcezza e delicatezza.
‘’Fatti vedere, dai. Apri gli occhi’’, mi disse, stranamente
tranquillo e ritraendo la mano. Io riaprii le mie palpebre e lo guardai, mentre
anch’esso fissava me e negli occhi.
Quello sguardo profondo e carico di significato durò qualche
istante lungo una vita. Mi sentivo come se lui stesse frugando dentro di me,
cercando di raggiungere il mio animo.
‘’Ne ho la certezza, hai i suoi stessi occhi. E poi mia
nipote non mente, e neppure tu sei bravo a farlo. Hai lo stesso sguardo limpido
di tua nonna, Antonio. Quella moglie che ho amato con tutto il mio cuore, e che
purtroppo è venuta a mancare da alcuni anni’’.
Stupito, di fronte all’anziano sorridente, cercai di dire
qualcosa, anche se non so bene cosa. Ero molto sorpreso, ed ormai certo che
fosse venuto fuori tutto quanto.
‘’Non inquietarti così. In casa nostra ormai sappiamo tutti
chi sei; altrimenti credi che avresti meritato un posto d’onore a nostro
fianco, in questo bel pranzo? Io, i miei figli, le mie nuore e le mie nipoti
sappiamo tutto, Melissa ce l’ha raccontato’’.
Mi volsi ad incenerire con un rapido sguardo sorpreso la mia
cugina, dato che mi aveva promesso il silenzio assoluto su ciò che le avevo
narrato, e per un attimo mi sentii profondamente tradito e sconfortato.
Melissa non reagì al mio sguardo, tenendo la testa abbassata.
Solo in quel momento comprendevo la sua tensione.
‘’Non c’è bisogno che tu osservi tua cugina in quel modo,
tanto tutto prima o poi sarebbe venuto a galla…’’, tentò di dire il nonno,
severamente, ma la ragazza non seppe più
stare in silenzio.
‘’Antonio, appena tu mi hai fatto quelle rivelazioni, ed io
le ho potute ritenere fondate, non ho saputo stare zitta. Sono andata dal
nonno, solo dal nonno, e gli ho rivelato tutto; poi lui ha scelto di parlarne
alla famiglia riunita.
‘’Ma voglio che tu capisca che se io ho tradito il tuo
desiderio di restare in anonimato, l’ho fatto solo perché ti voglio bene e ti
ritengo un ottimo amico e una brava persona. Tu meriti di far parte della
nostra famiglia, ed io lo voglio con tutto il mio cuore’’, proruppe la ragazza,
interrompendo per la prima volta l’anziano della famiglia, che non se la prese
affatto per quell’intervento brusco. Anzi, mi offrì uno sguardo raddolcito, di
quelli che, su quel viso ormai scolpito dal passare degli anni, potevano
sembrare un arcobaleno dopo un violento temporale estivo.
‘’Mia nipote ha perfettamente ragione. Noi tutti qui siamo
desiderosi di conoscerti, di avere a che fare con te. Mi spiace che durante il
pranzo tu sia rimasto molto isolato, ma purtroppo con quel cialtrone di
Ludovico seduto allo stesso desco a volte resta poco da dire agli altri. Ma noi
tutti siamo fieri di te, ed io più di tutti, poiché conosco ogni cosa sul tuo
conto, siccome Melissa non fa altro che parlare di te’’, tornò a dire il nonno,
sempre con grande dolcezza.
Io chinai lo sguardo, mi sentii spossato, debole, mentre non
sapevo che dire o che fare.
‘’Non so cosa ti hanno raccontato su di noi. Crederai che non
ci sia mai importato nulla di te, ma io ogni sera rivolgevo un pensiero a quel
nipotino, l’unico maschio generato finora dalla mia prole, che non avevo mai
conosciuto.
‘’Abbiamo avuto degli screzi molto gravi con tuo nonno materno,
ed io per primo non ho mai ritenuto opportuno cercare di entrare nella vostra
vita, la tua e quella di tua madre. So che mio figlio maggiore è un essere
disonesto, che ha messo incinta di nuovo un’altra sua studentessa e che poi
l’ha lasciata, e che tutti state soffrendo a causa sua, e anche a causa mia e
nostra.
‘’Ma ora io vorrei farti entrare a pieno titolo in questa
famiglia, e dirti che noi, per te, ci saremo sempre. E per sempre’’.
Alle parole del nonno continuai a tenere lo sguardo
abbassato, non sapendo che dire o che pensare. In me viveva un antico astio che
ardeva come un focolare furioso, ma sopra di esso veniva gettata della sabbia e
dell’acqua, ovvero un nuovo sentimento simile al perdono.
L’anziano e la mia cugina mi stavano parlando apertamente e
correttamente, con sincerità, almeno apparente, e decisi di fidarmi.
‘’Non abbracci il tuo anziano nonno, nipote?’’, disse l’uomo,
con una saggezza infinita mista a commozione, nata durante il mio frastornante
e timido silenzio.
Alzai lo sguardo, e trovandomi di fronte all’anziano con gli
occhi lucidi e con le braccia già semiaperte, mi ci fiondai come un bambino,
seguendo un istinto innato.
Venni a contatto col corpo del vecchio, coi suoi vestiti e
col suo odore di dopobarba, tanto simile a quello di mio padre, e lasciai che
lui mi stringesse forte e calorosamente a sé, cominciando a singhiozzare.
Anch’io ero più che commosso, ma trattenni ogni espressione che avrebbe potuto
lasciarlo trapelare fuori.
Melissa lanciò un gridolino felice, anch’esso commosso e
gioioso, e restammo così per qualche minuto. Poi, il nonno sciolse l’abbraccio,
e ancora con gli occhi lucidi mi afferrò una mano e se la mise sul petto.
‘’Voglio che tu mi giuri una cosa, ovvero che accetterai il
mio sostegno in ogni cosa che sceglierai di fare. Innanzi tutto, se vorrai
continuare a suonare il pianoforte, mia vecchia passione, mi faresti davvero un
regalo se tu accettassi un insegnante privato stipendiato da me, come ti avevo
detto qualche settimana fa.
‘’E’ mio desiderio che tu mi prometta che accetterai ogni mio
aiuto; fai contento un vecchio, per favore. Manca poco alla fine della mia
vita, credi che non lo sappia? Tra qualche giorno, settimana, mese o al massimo
un paio d’anni mi ricongiungerò con mia moglie, morta sei anni fa, e che
anch’essa sarebbe stata felicissima di conoscerti. Lascio al mondo tre figli
totalmente indipendenti e benestanti, con poca testa purtroppo, ma questo non
c’entra, e voglio essere presente nella vita tua, dandoti anche un supporto
economico e contribuendo attivamente a farti diventare ciò che vuoi.
‘’Sono disposto a dare una mano anche a quella giovane che ha
lasciato tuo padre, sola e incinta, da quello che mi ha raccontato mia nipote.
Puoi dirlo anche lei…’’.
‘’Stefania la stiamo già ospitando io e mia madre… è in gravi
difficoltà…’’.
‘’Tu e tua madre siete persone di buon cuore. Vorrei tanto
conoscere meglio anche lei; pensi che me ne darà la possibilità?’’, chiese il
nonno, lentamente.
‘’Non lo so’’, lasciai scivolar fuori dalle mie labbra.
Sapevo ciò che il mio genitore pensava di quelle persone, e un contatto lo
credevo davvero difficile.
‘’Non importa. Io desidero esserci nelle vostre vite, e se
non volete vedere me almeno accettate un mio aiuto economico. Mi sento in colpa
per tutto, per ogni cosa…’’, singhiozzò il vecchio, ed allora capii chiaramente
che era pentito davvero di averci sempre lasciati soli, di averci indirettamente
isolati.
‘’Mi vergogno di mio figlio, di ciò che ti ha fatto passare…
odiava il pianoforte perché era il mio strumento preferito, e per questo ha
tentato di privartene mentre se ne stava a sbafo a casa vostra… fellone!
Bestia! Mi dispiace per tutto, io devo…’’.
‘’Non devi nulla, nonno. Io non voglio nulla da te se non il
tuo affetto e la tua vicinanza. Niente di più’’, gli dissi, semplicemente, ed
allora lui premette ancora più forte la mia mano contro il suo petto. Sentivo
il suo cuore che batteva all’impazzata, e il suo volto ormai arrossato dalla
commozione mi lasciava senza parole.
‘’Promettimi e giurami che lascerai che l’insegnante che ti
sceglierò possa darti una mano al pianoforte. Hai tanto talento, sarebbe un
peccato sciuparlo! Ci tengo, davvero’’.
‘’Lo prometto, nonno’’, cedetti, comunque felice della mia
scelta, anche senza tener conto delle possibili reazioni di mia madre. Ero
certo che lei avrebbe compreso.
Il nonno mi lasciò la mano e tornò a donarmi un rapido
abbraccio, ancora una volta colmo di sentimento.
‘’Sei un ragazzo sensibile, buono e dal cuore d’oro. Non
cambiare mai, mio caro nipotino, mai… non lasciare che la vita t’inaridisca… tu
sei speciale, ricordalo per sempre’’, mi sussurrò all’orecchio, e a quelle
parole il mondo parve perdere di significato, per me. Ero troppo felice, e pure
io mi lasciai andare ad un pianto liberatorio.
Noi tre presenti in quella stanza lasciammo così defluire
ogni nostro sentimento, assieme ed uniti.
Per sempre.
Dopo esserci calmati un po’, rientrammo nel salone assieme
agli altri.
Tutti smisero di parlare e di chiacchierare, non appena mio
nonno troneggiò su tutti, impettito e con un ritrovato sguardo severo,
aspettando il più assoluto silenzio prima di cominciare il suo importante ed
elegante discorso.
‘’Oggi è un giorno speciale e santo, non solo perché è il Natale,
ma anche per il fatto che Nostro Signore e Suo Figlio hanno voluto farmi il più
bel regalo della mia vita, ovvero quello di ritrovare un nipote e di poter
scoprire tutto il buono che c’è in lui, avendo la certezza che è un bravissimo
ragazzo. Che Dio sia lodato, e che Antonio possa per sempre essere trattato da
tutti noi presenti come uno di famiglia, e dai miei figli come se fosse un loro
stesso figlio’’, esordì e concluse l’anziano, tornando a commuoversi di fronte
a tutti ed inaspettatamente.
La commozione quella volta fu generale, ed ebbi modo di
essere baciato ed abbracciato da tutti i componenti della mia famiglia paterna.
Quello fu uno dei momenti più belli della mia giovane vita.
Un momento che mai e poi mai dimenticherò.
E da quegli istanti in poi esistette solo la felicità,
nonostante tutto.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno a tutti, carissimi lettori!
Questo è stato un capitolo colmo di belle sorprese, in vista
del finale imminente. Spero che vi sia piaciuto!
Il prossimo capitolo che pubblicherò sarà l’ultimo, poi ci
attenderà un epilogo conclusivo.
Grazie per continuare a seguire e a sostenere il racconto, vi
sono davvero grato per tutto.
Grazie di cuore, per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 38 *** Capitolo 38 ***
Capitolo 38
CAPITOLO 38
Quella santa sera, quando feci ritorno al mio paesino, decisi
di fare prima di tutto un saltino a casa, invece di recarmi subito da Jasmine.
L’ultimo e unico treno era stato puntualissimo quella volta, e mi erano rimasti
una ventina di minuti liberi prima dell’orario dell’appuntamento.
In quel giorno di festa, le strade erano vuote e i mezzi
pubblici erano tutti praticamente fermi, e pure il mio paesino assumeva
quell’aria spettrale che avrebbe saputo intimorire chiunque, se almeno non si
fossero udite le voci festose che di tanto in tanto trapelavano fuori dalle
abitazioni.
Solo in strada, ed immerso già nel buio, sfrecciai poco
distante dalla casa di Jasmine, dirigendomi verso la mia, per poi raggiungerla
in modo velocissimo.
Rincasai quindi quasi improvvisamente, e varcando la porta
d’ingresso, quella che oltrepassavo ormai da tempo immemore, provai un discreto
disagio. Avevo come il timore di trovarmi di fronte ad una madre dal muso
lungo, o ad un Roberto depresso, oppure ad una problematica Stefania.
Avevo paura che quella dose incredibile di felicità che mi
era stata innestata nella villa dei miei parenti paterni potesse sfumare tutta
all’improvviso, per via della vita che si conduceva in casa mia, sempre se
quella poteva chiamarsi più vita, a favore di ricordi degli anni passati e del
bel tempo che fu, anche se magari sul momento era parso tutto cupo. Insomma, pareva
che si fosse stato meglio quando si stava molto peggio.
Avevo ancora addosso la pura felicità dei miei parenti, che
non mi aveva per nulla lasciato in dubbio su qualcosa, e mi ero deciso a fidarmi
di loro, che grazie alle parole di Melissa e del nonno parevano già aver
cominciato ad apprezzarmi e a considerarmi uno di famiglia, ed io ero ancora
contentissimo. Ma in cuor mio fremevo e qualche pensiero mi faceva offuscare
leggermente, di tanto in tanto.
Mi mossi istantaneamente verso la cucina, senza titubare
oltre, poiché vidi fin da subito la luce accesa e potei udire alcune parole
pronunciate da Roberto.
Appena mi affacciai sulla porta, trovai mia madre tutta
sorridente e seduta sullo scomodo e vecchio divano che aveva fatto da letto a
mio padre durante la sua clandestina permanenza in casa nostra, mentre il
nostro inquilino si stava affaccendando attorno al tavolo, raccontando qualcosa
che io, col mio ingresso, interruppi. Infatti, non appena varcai leggermente la
soglia e i due mi intravidero, si stopparono immediatamente e rivolsero subito i
loro sguardi verso di me.
‘’Roberto, così la vizi troppo. Lascia che sia lei a mettere
i piatti in tavola!’’, sogghignai ironicamente, per cercare di far ritornare
tutto come poco prima. Mia madre rise a quelle parole, e l’uomo sorrise, mentre
continuava il suo lavoro.
‘’Oh, Antonio dovresti vedere quello che abbiamo cucinato!
Abbiamo un inquilino bravissimo ai fornelli, e non lo sapevamo. Abbiamo
preparato una cena coi fiocchi!’’, disse mia madre, tornando a sciogliersi.
‘’E’ bravo in tutto, credo’’, mi limitai ad aggiungere,
titubando.
Roberto era stato fin troppo bravo anche a far tornare felice
la mia mamma, nonostante il fatto che anche per lui quello fosse stato un
periodo molto duro, ed io gli ero grato per averle risollevato il morale.
‘’Dai, non esageriamo’’, disse l’uomo, lusingato.
Solo in quel momento a mia madre parve tornare alla mente che
io quella giornata non ero stato a casa, bensì mi ero recato a pranzare dai
miei parenti.
La donna si oscurò profondamente, e poi mi guardò con uno sguardo
preoccupato, molto turbato. Non ci fu bisogno che mi chiedesse a voce cosa aveva
fatto, per rabbuiarsi così, e non vidi il motivo per farle esprimere i suoi
dubbi e fingermi sciocco.
‘’E’ andato tutto bene, mamma. Si sono comportati nel
migliore dei modi, sono persone molto cortesi’’, le dissi, subito.
‘’Loro… sanno…’’.
‘’Lo sanno. Lo sanno tutti chi sono’’, sospirai.
‘’Mi avevi detto che non lo sapevano! Tu mi riempi di bugie,
ti sembra questo il modo…’’, cominciò a sbraitare mia madre, alzandosi
improvvisamente dal suo posto e cominciando a disperarsi.
Non sapevo che dire e neppure che fare; il suo modo di
approcciarsi alla verità era catastrofico, e mi chiesi se forse fosse stato
meglio dirle solo una mezza verità. O una mezza bugia.
Ad intervenire prontamente fu Roberto, che si avvicinò
rapidamente a lei e le posò le sua mani sulle spalle, fissandola in modo quasi
paterno.
‘’Maria, non devi preoccuparti. Devi lasciare che Antonio impari
a cavarsela da solo, in certe situazioni. Non ha importanza se loro sanno o
meno, ed in ogni caso prima o poi avrebbero scoperto tutto, ma l’unica cosa
importante è che tutto sia andato per il meglio e che nessuno ne sia uscito
ferito. Ferito nell’animo’’, disse l’uomo, calmo e pacato come sempre, senza
lasciarsi sconfortare dalla reazione esagerata della donna, che dal canto suo
parve calmarsi subito, dopo aver leggermente scosso il capo con un cenno
affermativo.
Scoprii quindi che, nonostante tutte le difficoltà e le
situazioni differentemente complicate che avevamo superato egregiamente
nell’ultimo periodo, ed assieme, la mamma non era ancora riuscita a cacciar via
o a mettere in un angolo quel suo lato così debole ed impressionabile. La grande
vicinanza di Roberto si stava rivelando fondamentale per lei, lo potevo notare
in modo chiaro, ma anche se l’apparenza ormai poteva ingannare, forse dentro di
sé Maria era sempre rimasta la stessa.
‘’Hai ragione. E’ vero’’, mugugnò poi la mamma, tornando a
sedersi sul divanetto, mentre il nostro inquilino tornava ad occuparsi delle
faccende che aveva abbandonato qualche istante prima, certo che si fosse già
tutto risistemato.
‘’Non devi preoccuparti, è tutto a posto’’, la rassicurai
ulteriormente, mostrandole un timido sorriso.
‘’Questa sera…’’, tornò a chiedermi il mio genitore, cercando
subito di passare sopra a ciò che era appena accaduto, senza voler continuare a
pigiare su quel possibile screzio della sera di Natale.
In realtà anche quella volta non mi chiese nulla, ma cominciò
la frase e mi lanciò un altro suo sguardo profondamente interrogativo.
‘’Devo andare da Jasmine. Sono a cena da lei, te l’avevo
detto’’, risposi, senza attendere inutile tempo. Non avevo nulla da nascondere.
‘’Oh, giusto. Salutamela tanto’’, rispose la mamma,
sfoggiando anche lei un tiepidissimo sorriso.
Feci poi due passi indietro, tornando sulla porta, ed
accorgendomi che era praticamente quasi l’ora di andare dalla mia carissima
ragazza, mi accinsi a svignarmela da quella casa, e a lasciare che i due adulti
tornassero alla loro routine.
‘’Ora devo proprio andare. Buona serata, ci vediamo tra un
po’ ‘’, salutai, accennando a muovermi verso la porta d’ingresso e il
corridoio.
‘’E’ un peccato che tu non ti fermi con noi! Io e Roberto
abbiamo preparato tanti manicaretti, ma davvero tanti’’, disse mia madre,
ancora dal divano.
‘’Non ti perdi nulla, Antonio. Si tratta di una frugale cena
qualsiasi, non c’è bisogno di continuare ad esagerare. Aspetta, ti accompagno
fuori’’, mi disse invece l’uomo, lasciando di nuovo da parte le sue faccende e
muovendosi verso di me, raggiungendomi con soli pochi passi. Non sapevo il
motivo di tanta cortesia, ma decisi di lasciarlo fare.
Appoggiandomi amichevolmente una mano sulla spalla, mi seguì
fino alla porta d’ingresso, per poi avvicinare il suo volto al mio orecchio
sinistro.
‘’Non prendertela per quello che ti ha detto tua madre. Lei
ti vuole bene, e penso che ultimamente sia diventata iperprotettiva e un po’
gelosa. Sei il suo unico figlio, comprendila; ma non lasciarti ostacolare
troppo dalle sue parole. Se una cosa ti senti di farla, falla e basta. Se
sbagli, avrai poi modo o di rimediare o di imparare la lezione. È così che
funziona il mondo degli adulti, e mi sembra giusto che anche tu cominci a fare
le tue esperienze’’, quasi mi sussurrò, facendomi poi l’occhiolino quando gli
dedicai un breve sguardo.
Gli rivolsi un sorriso.
‘’Ma certo, lo so. È solo che la mamma è sempre stata fatta
così… da quando siamo rimasti soli al mondo, mi è sempre stata un po’ col fiato
sul collo, quando poteva… anche in modo ingiusto a volte. Però ultimamente a
tratti è peggiorata, devo dire’’, mi limitai ad aggiungere, sempre a voce
bassissima, mentre mi preparavo ad aprire la porta d’ingresso.
‘’E’ solo un momento così… il problema è che ha ricevuto
qualche batosta, di recente, e deve ancora riprendersi. In questi giorni la
vedo già meglio, molto più tranquilla…’’.
‘’E questo grazie a te. Da quando siete soli assieme, ho
notato che avete instaurato un bel rapporto’’, volli dire, proprio per affinare
una mia curiosità e cercare una possibile reazione dell’uomo.
Roberto spalancò leggermente gli occhi, se ne stette un
secondo in silenzio e, togliendosi gli occhiali, quasi come per voler
guadagnare secondi preziosi, li pose delicatamente nella loro custodia, per poi
rimettere tutto in tasca.
‘’E’ una brava donna. Stare in sua compagnia, e parlare del
nostro passato e dei nostri problemi mi sta aiutando tantissimo. Mi sta aprendo
un mondo nuovo, a me sconosciuto’’, quasi sospirò, per poi umettarsi le labbra
e distogliere lo sguardo da me, puntandolo verso un punto indefinito.
Io lo guardai, leggermente sorpreso, poiché avevo inteso che
tra i due forse stava cominciando a crearsi un legame più solido e profondo di
quello che poteva esserci tra un inquilino e la padrona di casa, tra due
semplici conoscenti quindi, e lì sul momento non seppi che altro dire.
Fu proprio Roberto a togliermi dall’impiccio dei miei
perspicaci pensieri, che forse stavano andando decisamente oltre e potevano
essere ritenuti fuori luogo, considerando tutti i drammatici eventi degli
ultimi mesi, dato che l’uomo che avevo di fronte non è mai stato un sciocco. Il
mio interlocutore, furbo come sempre, aveva previsto i miei ragionamenti
logici, e con risolutezza e dolcezza, allo stesso tempo, tornò a guardarmi.
‘’Ehm, non dovevi andare?’’, mi chiese, impacciatissimo.
Gettai uno sguardo allo schermo del cellulare e gli diedi
ragione.
‘’Ehm, sì’’, dissi, sorridendo in modo tremolante.
Pareva una di quelle scene da telefilm comico, di quelle che
sempre più pullulano in tv.
Se non si fosse trattato di Roberto, ma di un qualsiasi altro
soggetto, avrei pensato che stesse cercando di buttarmi fuori da casa mia, con
tanto di battutina apparentemente ingenua e maleducata, ma dato che si trattava
del mio ormai ben conosciuto inquilino non me la presi affatto. Anzi, la presi
sul ridere.
‘’Buona serata. E fate i bravi’’, dissi, congedandomi con
ironia ed uscendo effettivamente di casa.
L’uomo tornò a sorridere di nuovo.
‘’Non siamo più bambini, abbiamo una certa età. Fidati se te
lo dico’’, rispose allo sberleffo, posizionandosi nel mezzo della porta
d’ingresso spalancata.
‘’Eh, ma con l’avanzare dell’età possono insorgere tante
patologie che rendono le persone meno affidabili. Basti pensare alla demenza
senile…’’.
Non finii la mia ultima derisione, poiché non riuscii a
trattenere una risata quando Roberto fece uno spergiuro, ovviamente anche lui
ridendo.
‘’A dopo’’, conclusi, salutando.
Stavo seriamente rischiando di arrivare tardi al mio
appuntamento, e fui costretto a spicciarmela per non dovere correre. Ho sempre
odiato le persone non puntuali, quelle che fanno aspettare più di mezz’ora chi
li attende, ogni volta.
Un ritardo di dieci minuti ci sta, ma più di mezz’ora è pari
ad un’offesa, soprattutto se il ritardo così evidente viene più volte ripetuto
e senza validi motivi. Non era quello il mio caso, naturalmente, ma me la
spicciai lo stesso. Volevo spaccare il secondo, quella sera.
Roberto richiuse la porta dietro di sé, quasi sigillando
quella parvenza di oasi felice che si era instaurata a casa nostra dopo la
partenza dei più perfidi, mentre io uscivo dal giardino e mi riversavo in
strada, dando un’altra occhiatina allo schermo del cellulare.
Inutile dire che quasi finii addosso ad un passante, che
s’accingeva a ripercorrere i miei passi.
Sussultando, e fortunatamente evitando lo scontro all’ultimo,
mi ritrovai davanti a Stefania.
‘’Antonio, sei ubriaco?! Procedevi a zig zag e a momenti mi
finivi addosso’’, mi chiese, tra l’ironico e il serio.
‘’No, tranquilla… ero perso nei miei pensieri e stavo
guardando il cellulare’’, le risposi, facendo definitamente scivolare il mio
oggetto tecnologico nella tasca dei jeans.
Che figuraccia! Effettivamente, quando mi mettevo a paciugare
col telefonino difficilmente stavo attento a ciò che mi circondava o a come
camminavo, e questo non era affatto un bene.
Stefania mi sorrise, e tentò di superarmi per poi rincasare,
quasi di certo. Mi tornò prepotentemente alla mente ciò che la ragazza avrebbe
dovuto fare durante quel santissimo pomeriggio, e non potei non tornare a
volgermi verso di lei, soffermandomi un istante in più.
‘’Com’è andata, poi?’’, le chiesi, educatamente. Ci stava,
non potevo fare proprio la figuraccia del disinteressato, anche se sarebbe
stata l’ennesima nel giro di un minuto.
Non c’era bisogno che chiedessi altro; la mia interlocutrice
aveva capito tutto al volo. D’altronde, era pressoché impossibile che non
avesse potuto capire subito.
Si volse di nuovo verso di me, bloccando la sua camminata
maestrale verso il vicinissimo cancello di casa mia, a ormai sei o sette passi
da lei, e mi rivolse uno sguardo rilassato, con le labbra leggermente piegate
ai lati all’insù. L’abbozzo di un tremolante sorriso.
‘’Sono tornata dai miei, ho scelto di far… di far loro una
sorta di sorpresa di Natale. Mia madre si è sciolta, mio padre è rimasto un
pezzo di ghiaccio, ma alla fine hanno detto che sono stati… sono stati felici
che io mi sia ripresentata a casa loro. Mi hanno trattato malissimo, un mesetto
fa, ed ho dovuto calpestare un po’ la mia dignità di giovane donna pur di
tornare a compiere questo passo. Ma ci sono riuscita.
‘’Tra di noi nulla è come prima, ma credo che ci siano buone
possibilità che i miei accettino le mie scelte. In primis, quella di tenere il
bambino anche se sono senza un uomo accanto e se ciò metterà di molto a rischio
i miei studi’’, disse, quasi tutto d’un fiato, molto emozionata.
La ragazza pareva contenta mentre mi raccontava tutto ciò, i
suoi occhi le brillavano, ed io intesi che tra lei e i genitori lo screzio si
stava già appianando. A quelle parole, non potei far altro che mostrare un
sincero sorriso.
‘’Che bello! Spero davvero che tutto tra voi possa tornare a
posto. E credo che sarà così’’, le dissi, rasserenato. Finalmente, sembrava che
un po’ tutto stesse ricominciando a prendere il giusto corso, come se dopo la
partenza di Federico, di sua madre e di mio padre tutto potesse per davvero
risistemarsi, e anche in un buon modo.
A quel punto anche Stefania si sciolse anch’essa in un dolce
sorriso.
‘’Io lo spero, con tutto il mio cuore. Ho passato un periodo
molto buio, ho avuto il timore di finire per commettere una pazzia, eppure ora
sono già più serena. Sono serena anche senza Sergio, senza uomini a fianco. Mi
sono sentita tanto sola, ma ora non più!’’, mormorò la mia interlocutrice, realmente
sollevata.
Mi ricordai delle parole del nonno, pronunciate solo alcune
ore fa, e i miei sentimenti presero a far capolino dentro di me, quasi
vorticando.
Ci abbracciammo improvvisamente e in modo spontaneo, come
fratello e sorella, sotto il cielo scuro e cupo di quella nottata sempre un po’
magica; io non provavo astio verso di lei, non la vedevo come una nemica, e le
volevo sinceramente bene, così come penso che anche lei ricambiasse.
‘’Non sei sola. Non sarai mai più sola’’, le sussurrai,
sicuro delle mie parole, prima di sciogliere il leggero abbraccio che ci
eravamo donati a vicenda.
Entrambi ci stavamo liberando di alcuni pesi e di alcune
paure, e nonostante il fatto che sapessimo che il peggio sarebbe ancora potuto
venire, almeno in quel momento stavamo relativamente bene. E questo, in fondo,
era importante, così come lo era gustarsi il presente.
‘’Grazie… grazie…’’, continuò a dire la ragazza, commossa.
Gli occhi le brillavano.
Stefania stava tornando a vivere in modo più sereno, com’era
giusto che fosse, mentre il suo ventre pareva crescere leggermente ogni giorno
in più. Lei e la vita che portava in grembo erano davvero molto forti.
Ci salutammo poi, e ripresi a procedere rapidamente per la
mia strada, consapevole di rischiare il ritardo. Ed io ho sempre odiato
giungere in ritardo ad un appuntamento importante, come mi ripetevo
continuamente. Quindi, cercai di togliere la commozione da dentro alla mia
mente, e di spingermi invece a camminare più spedito; la mia Jasmine mi stava
aspettando.
Ci sono giorni che sono destinati ad essere realmente
speciali e a restare fissati nel cuore e nella mente per tutta la vita. Quel
Natale fu uno di quelli, per me.
Giunsi da Jasmine in perfetto orario, per fortuna, e lei e i
suoi genitori già mi attendevano per la cena. Non avevano parenti, ed erano
felicissimi che io mi fossi aggregato a loro per quella santa festività.
Personalmente non avevo ricevuto regali, ma ero felicissimo
così, d’altronde era stato mio desiderio non riceverne affatto, però notai fin
da subito che la mia amata invece ne aveva ricevuti parecchi. Scarpe e
magliette a volontà, e persino una cover nuova tutta brillante. Ero davvero
felice per lei. Ma io, personalmente, avrei voluto donarle solo tutto il mio
affetto.
Mangiammo e cenammo assieme, noi quattro, e fu davvero come
se fossimo stati una grande famiglia, passando una gran bella serata.
Ammetto che non parlammo molto io e Jasmine, ma più che altro
i suoi genitori, che raccontarono un gran sacco di loro ricordi, ma non fu
affatto sgradevole ascoltarli, anzi. Entrambi avevano fatto tante esperienze
diverse, e soprattutto in realtà differenti, e stare ad udire come rievocavano
il Natale più speciale della loro vita era un vero piacere, di quelli anche dal
retrogusto esotico e lontano.
Io non avevo assolutamente nulla da aggiungere, poiché il mio
Natale più importante e speciale lo stavo vivendo proprio in quel momento.
La mamma di Jasmine aveva preparato un pasto a base di pesce,
tutto condito e preparato in modo da rispettare almeno in parte i sapori
dell’Africa subsahariana, e il sapore di spezie e l’odore di condimenti a me
ignoti e sconosciuti seppe avvilupparmi ed incuriosirmi. Inutile dire che tutto
quanto era buonissimo e gustosissimo, un mix unico di più culture.
Dopo un’oretta e mezzo circa, non appena concludemmo la cena,
neppure la mia innata e ancora ben radicata timidezza poté impedirmi di fare i
miei più sinceri complimenti alla cuoca, che li accettò con umiltà unica, e
quasi si emozionò troppo. Ma a quel punto, temevo che fosse già tutto finito, e
che quella giornata magica avrebbe avuto termine.
Magari sarei dovuto rincasare, proprio come ben sapevo che
avrei dovuto fare prima o poi, ma in quel momento proprio non mi andava e non
volevo neppure pensarci a quell’opzione. Non avevo altre alternative, però.
Per fortuna a togliermi da quel problema fu proprio Jasmine,
la mia amata, che poco prima che mi decidessi a congedarmi si allungò verso di
me e mi afferrò il polso, dolcemente.
‘’Ti va di fermarti ancora un po’? O sei stanco?’’, mi
chiese, tentennante.
‘’Posso fermarmi. Lo farò con grande piacere’’, le dissi,
indicibilmente sollevato.
Non sapevo cosa attendermi da lei; so solo che ad un certo
punto si congedò definitivamente dai suoi genitori, e mi fece cenno di
seguirla. Lo feci, e mi portò al piano superiore della sua dimora, dove non
avevo mai messo piede fino a quel momento. Ma non si fermò.
Jasmine cominciò a percorrere una ristrettissima scala a
chiocciola che portava ancora più un altro, ma chissà dove; ero certo che la
casa, almeno vista da fuori, dimostrasse di possedere solo due piani, e non
volevo proprio credere che la ragazza mi volesse portare in soffitta, così,
senza alcun motivo.
Dal lucernario entrava la luce della luna.
Quella era una delle rarissime sere invernali in cui la
nebbia non offuscava ed avvolgeva tutto.
Io e Jasmine eravamo sdraiati, l’uno a fianco dell’altra. Non
c’eravamo scambiati altro che un bacetto, fino a quel momento, e pure casto, e
l’unica cosa che avevamo fatto era stato sdraiarci sulla pavimentazione in
legno di quell’angolo di soffitta, bassa ma ampia.
‘’Vengo spesso, qui, la sera. D’estate fa troppo caldo, si
soffoca, ma durante l’inverno, quando non ci sono nubi o nebbia, e il cielo è
terso, si possono vedere tante stelle, e la luna…’’.
Jasmine aveva lo sguardo perso al di là di quel vetro che non
era poi più di tanto distante dalle nostre facce, ma che pareva volerci
separare irrimediabilmente dalla volta celeste, come volesse creare una
barriera invalicabile. L’imperscrutabile era sopra di noi, e ai miseri umani
restavano i sogni per potersi aggiudicare una parte di esso, seppur in modo
fantasioso.
‘’E’ un bel posto’’, mentii relativamente. Non mi ero ancora
rilassato lì, come invece era accaduto alla mia amata, che sembrava così tanto
persa nei suoi pensieri e con lo sguardo da non riuscire neppure più a vedermi.
Mi dava quell’impressione strana.
‘’Non è un bel posto, so che mi stai mentendo. Ti conosco un
po’ ormai, e so quando dici una bugia solo per farmi contenta. Non sei bravo
per nulla a dirle’’.
Sorrisi, alle parole per nulla adirate della mia cara
interlocutrice.
‘’Non essere così…’’.
‘’Non ha importanza, non devi scusarti di nulla. Capisco’’,
si limitò ad affermare di nuovo, non lasciandomi dire nulla.
Per un attimo, credetti che da lì a poco avremmo avuto il
primo screzio della nostra relazione, e lasciare che tutto s’incrinasse solo
per una situazione sciocca di quel genere mi fece quasi innervosire. Poi, però,
decisi di lasciarmi andare anch’io, come se la magia del Natale fosse riuscita
ad entrare dentro di me e a farsi uno spazio tutto suo.
L’imperscrutabile, ciò che si nascondeva dietro a
quell’invernale volta celeste, forse si stava manifestando anche dentro di me.
‘’Sono così stanca, Antonio’’, sussurrò Jasmine, dopo
parecchi minuti di fragoroso silenzio.
‘’Di cosa?’’.
Temetti quasi che stesse parlando di me.
‘’Di tante cose. Non mi va più nulla, ultimamente. Sono
sempre un po’ triste, ma per fortuna molte volte ci sei tu. Anche solo se ti
penso mi sento nuovamente piena di energie, non so se mi capisci’’.
‘’Ti capisco. Giuro’’.
‘’Grazie per esserci sempre. So che fino ad ora sono stata
spesso molto fredda con te. Mi dispiace, ma proprio faccio fatica a
sciogliermi, forse l’amore non fa per me. Però so cosa provo per te, e so che è
amore. Sei un ragazzo eccezionale’’.
Tutti quei sussurri erano stati pronunciati lentamente,
mentre la ragazza continuava a tenere lo sguardo fisso verso l’alto, senza mai
roteare il volto o gli occhi verso di me. Era totalmente assorbita
dall’infinità profonda del cielo.
‘’Grazie per queste belle parole’’, mi limitai a dirle,
impacciatamente, senza avere il coraggio per aggiungere altro.
‘’A volte sogno di diventare una scrittrice’’.
‘’Cosa?!’’, quasi sobbalzai, sorpreso da quella frase
pronunciata quasi con circospezione, ma comunque con sicurezza.
Stavamo parlando di tutt’altro ed ecco che la mia Jasmine
decise di cambiare repentinamente argomento. Fu come se lei mi stesse cercando
di dimostrare che aveva voglia di parlare del suo futuro, dei suoi sogni, e
questo mi spinse a desiderare che continuasse ad esprimersi, magari con maggior
chiarezza.
‘’Non stupirti. È un mio sogno, e ringraziami per il fatto
che te l’ho svelato’’, mi riprese, subito dopo.
Mi rilassai e sorrisi, tra me e me. La mia solita Jasmine
sapeva essere una dolce caramellina e un pezzo di ghiaccio allo stesso tempo,
quando voleva.
‘’Rilassati. E grazie per avermi detto qualcos’altro di te’’,
le dissi, dolcemente, afferrandole una mano con delicatezza.
Di fronte a quel gesto, la ragazza parve sciogliersi e
rilassarsi.
‘’Solo chi scrive può conoscere la libertà, a questo mondo’’,
quasi sospirò, gli occhi opachi e velati sempre puntati verso l’altro e le
stelle.
Non dissi nulla ma le strinsi con più calore la mano tra le
mie, sempre con dolcezza. Le nostre mani erano così diverse, parevano destinate
a non sfiorarsi mai. Eppure, ciò era ugualmente accaduto; non aveva avuto
importanza che le sue fossero più scure delle mie, che le sue dita fossero più
affusolate, che le sue unghie fossero ben fatte e più curate, mentre le mie
erano schifosamente larghe e in alcun modo belle alla vista.
Il nostro contatto era splendido, perché a sfiorarsi non era
solo qualche dito o due mani, ma la diversità e la voglia estrema di conoscersi
meglio. Tutto ciò mi sembrava magnifico.
‘’Se scrivi, puoi crearti il tuo mondo. Insomma, ti rendi
conto del potere della scrittura? Lo scrittore diventa una sorta di divinità
implacabile per i suoi personaggi e protagonisti, e può addirittura deciderne
la vita o la morte. La sua scrittura diventa una sorta di mondo parallelo dove
anche altri possono entrare in punta di piedi, e con il più grande strumento
che sia mai stato offerto all’essere umano, ovvero la mente e la sua
fantasia’’, proseguì Jasmine, notando il mio evidente silenzio.
‘’Anche la scrittura in fondo è un gioco, come la vita
reale’’, mi venne da buttare lì, senza riflettere troppo.
‘’Come?’’.
Non mi sarei mai aspettato che lei fosse così curiosa di
approfondire quella mia frase. Mi misi a riflettere, per non fare la figura
dello sciocco.
‘’La vita è come un gioco, se ci pensi, in fondo. Come ci ha
fatto superficialmente notare più volte Roberto, il mio inquilino! Ciascuno di
noi è quasi una sorta di pedina, che si muove su una scacchiera grande come il
nostro mondo, e nel suo piccolo, perché sarà sempre immerso nel suo piccolo,
sarà costretto a fare scelte per condurre al meglio la propria vita. Non so se
mi hai compreso. E lo scrittore fa la stessa cosa coi suoi personaggi; li
schiera, li mostra al lettore, li fa entrare un po’ per volta nello scacchiere
del racconto, e poi magari li fa uscire in qualche modo… insomma, scrittura e
vita reale sono molto simili’’, tentai di dire, sfruttando la mia profondità
del momento.
‘’E’ la vita che si riflette nella scrittura. Siamo umani,
no? E allora… l’uomo copia il vero gioco della vita all’interno delle sue
opere’’, aggiunse la ragazza, facendosi ancor più pensierosa e riflettendo
amabilmente su ciò che le avevo appena detto.
‘’Tu saresti un’ottima scrittrice. Lo vedo dai tuoi occhi,
così presi da tutto ciò che li circonda, così attenti. E poi serve molta
interiorità e forza di volontà, per portare a termine un libro o un racconto
scritto; e tu, fidati, le hai. Hai tutte le carte in regola’’.
La mia amata sospirò alle mie parole, e prese a ricambiare la
mia gentile stretta sulle sue mani. Anche i prolungamenti dei nostri arti si
stavano intrecciando un po’ come la trama di un racconto, mentre le nostre dita
giocherellavano le une contro le altre.
‘’Tu vedi sempre l’aspetto positivo di tutto. Sarò mai
all’altezza? Finora ho scritto solo qualche poesia, ma vorrei scrivere un
racconto vero e proprio. Di quelli articolati, a più capitoli, e con un inizio
e una fine’’.
‘’Ce la puoi fare. Sul serio, sei in gamba’’.
Guardai il suo viso, illuminato dal chiarore della luna, e
notai che la mia interlocutrice stava sorridendo.
‘’Sarebbe un sogno’’.
‘’Il bello dei sogni è che, se lo vuoi davvero, essi sanno
diventare realtà’’, quasi completai la frase.
‘’Per me sarebbe davvero stupendo realizzare questo sogno, ma
prima vorrei andare all’università, una volta finite le superiori. Così potrei
approfondire le mie conoscenze! E poi…’’.
Jasmine non riuscì mai a completare quella frase. Il suo
cellulare emise bruscamente uno squillo, ed interruppe irrimediabilmente il
nostro momento di catarsi interiore. Mi dispiacque tantissimo, anche perché non
eravamo mai giunti ad avvicinarci così tanto, quasi riuscendo ad afferrare a
vicenda le nostre agitate anime.
La ragazza non attese tempo, ovviamente, e con grande
curiosità lanciò la sua mano alla ricerca dello strumento tecnologico.
‘’Non ho idea di chi possa essere. Questa sera non doveva
farsi sentire nessuno, tantomeno mandarmi messaggi. Chi mi abbia scritto,
proprio non lo so’’, quasi si scusò, cercando di mantenere una parvenza quieta
mentre le sue mani agitate la tradivano, dopo essere fuggite improvvisamente
dalla mia pacata stretta.
Non appena afferrò il cellulare, estraendolo dalla tasca
laterale dei suoi classici jeans attillati e femminili, fece illuminare subito
lo schermo e s’irrigidì.
Non potendo sapere altro, io mi limitai a restare ad
osservarla, mentre lei, sempre più pensierosa ed agitata, leggeva quello che
doveva essere un lungo messaggio scritto. Mi limitai ad attendere pazientemente
e cortesemente che lei avesse finito, poi mi capitò d’incrociare fin da subito
il suo sguardo, per la prima volta volto verso di me da quando eravamo in quel
lucernario, e mi donò un sorriso, di quelli quasi increduli.
Io sostenni il suo sguardo ed assunsi un’espressione
interrogativa, di fronte a quella reazione non proprio consona al momento.
‘’Oddio, Antonio. Mi viene quasi da piangere dalla gioia’’,
disse all’improvviso, lasciando trasparire ancor più evidentemente le sue
emozioni.
‘’Ma… cos’è successo?!’’, sussurrai, cominciando ad agitarmi
senza motivo.
‘’Alice, Antonio. Alice. Sua madre mi ha appena mandato un
messaggio in cui m’informa che la ragazza si è risvegliata e sembrerebbe stare
bene. È sotto osservazione e resterà ancora per un bel po’ ricoverata in
ospedale, ma parrebbe che tutto abbia intenzione di rimediarsi, almeno in
parte.
‘’Da quel che ho capito si è risvegliata alcuni giorni fa, ma
il suo stato era molto precario, e solo ora i medici hanno fatto sapere che ci
sono ottime possibilità che la ragazza possa riprendere, nei prossimi mesi, a
vivere normalmente… ed inoltre pare, al momento, fuori immediato pericolo. Certo,
per lei sarà comunque un’esistenza dolorosa, purtroppo, e le difficoltà ci
saranno, ma almeno… almeno si è risvegliata. La nostra cara amica lotterà con
tutte le sue forze per vincere questa grande battaglia, ne sono certa!’’, e
dopo quella lunga serie di parole colme di speranze e di felicità allo stato
puro, Jasmine si rotolò in un attimo verso di me e mi abbracciò forte,
stringendomi a sé.
Senza parole, felice anch’io e speranzoso, ricambiai la sua
stretta euforica.
‘’Sono certo che ce la farà. Quando tornerà a casa andrò a
trovarla ogni giorno, non la lascerò mai più sola. Mai più…’’, continuò a
ripetere la ragazza, mentre ancora ci abbracciavamo.
‘’Ne sono certo’’, le assicurai, sfiorandole i capelli ricci
ed ispidi con le mie mani, per poi tornare a stringerla con vigore a me e a
darle un rapido bacio sulle labbra. Ma la mia amata era perduta nella sua
felicità. La felicità offertale dal fatto che forse la sua amica si sarebbe
potuta salvare da quel male che l’aveva condotta a pochi millimetri dalla
morte.
Anch’io ero molto felice, per quella notizia. In un certo
senso, mi sentivo un po’ sollevato da quel peso opprimente che dalle settimane
precedenti pareva non avere intenzione di darmi tregua.
Sono tutt’ora convinto che quel Natale fosse stato davvero
magico, impregnato di forze benigne, e lo ricordo ancora in un modo molto
nitido.
NOTA DELL’AUTORE
Carissime lettrici e carissimi lettori, siamo giunti quasi
alla fine!
Come ormai ben saprete, lunedì prossimo pubblicherò l’epilogo
di questo racconto.
Personalmente, non so ancora cosa pensare di esso. So solo
che a modo suo è stato una sorta di amico, che mi ha fatto compagnia nei
momenti vuoti e smorti di questi ultimi nove mesi.
Spero solo che a voi, che mi avete seguito fino a questo
punto(e non era facile farlo, quindi mi complimento davvero tantissimo con
chiunque sia giunto fin qui), la vicenda abbia saputo offrirvi un modesto
intrattenimento, e che abbia saputo passarvi un pizzico di speranza. In fondo,
lo scopo ufficiale dell’intero racconto era proprio questo, ovvero tentare di
mostrare che, anche quando sembra che si stia toccando il fondo, esiste pur
sempre un domani. E in un domani, anche imminente, il sole tornerà sempre a
sorgere di nuovo.
Grazie a chi ha continuato a sostenermi fino a questo punto!
Lunedì prossimo vi ringrazierò ancor più approfonditamente.
Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 39 *** Epilogo ***
Epilogo
EPILOGO
I miei ricordi si fermano qui. Tutto il resto, poi, è venuto
da sé.
Non so cosa mi abbia spinto a ripercorrere questo mio
percorso di vita, iniziato un anno e mezzo fa, ma sono a conoscenza del fatto
che rievocare questi momenti mi sia stato di grande aiuto, in questo preciso
istante.
Tremo come una foglia, ho paura. E allora sospiro di nuovo,
socchiudo gli occhi e lascio che il mio pensiero torni di nuovo a sfiorare
l’integrità di quel grande quadro che i miei ricordi sono appena riusciti a
formare e a dipingere con colori sgargianti, come se avessi appena vissuto
quelle situazioni solo due ore prima, quando invece ormai è trascorsa
un’eternità relativa di tempo.
Ho paura, e la paura vuole offuscare ciò che è in me e
attorno a me, e la percezione che ho del mondo che mi circonda, ma non devo
lasciarmi influenzare da essa, mi è stato detto più e più volte.
Non sono più il ragazzo timido all’inverosimile, ed è vero
che un po’ sono maturato nell’ultimo anno, ma comunque ogni volta che devo
affrontare anche solo una piccola prova, ecco che torna a galla tutta la mia
stressante fragilità.
È brutto dover lottare sempre con sé stessi, e a volte sogno
di avere un carattere forte e motivato, uno di quelli dei soggetti che sono
sempre sicuri e pronti a compiere ogni genere di scelta in modo incredibilmente
calcolatore e consapevole, nonostante considerando anche che magari la
situazione è a loro avversa. Ma le persone che hanno un carattere del genere o
sono stupide o sono eroi, oppure stanno recitando in un film d’azione, ed io
non credo di appartenere ad una di queste categorie.
Ora, d’altronde, mi è stato solo richiesto di mettere
pubblicamente in mostra ciò che ho avuto modo di imparare e di perfezionare gli
ultimi quattordici mesi della mia vita, e siccome mi è stato pure detto che
sono ritenuto già abbastanza capace, tutti si aspettano molto da me. Forse
troppo.
Su questo palco, che tra poco s’illuminerà, sarò fissato da
mia madre, e da tutta la mia famiglia, ed io, concentrato e quasi abbagliato, non
farò più alcun caso alle loro presenze. Ma forse non sarà così. Chissà.
Il verme del dubbio tarla il mio cuore, e la paura stritola
implacabilmente la mia mente.
E allora, che posso fare?
Mancano solo due minuti prima dell’inizio di tutto, ed ho già
preso posizione. Mi han fatto provare sei o sette volte tutto quanto, in modo
da non farmi trovare in alcun modo spaesato quando sarebbe giunto questo
momento, eppure io lo sono ugualmente.
Credo che resterò rigido, pietrificato su questo scomodo
sgabello e di fronte a questo pianoforte. E quando le luci si accenderanno e il
sipario si alzerà, gli spettatori potranno vedere solo una statua immobile, un
essere umano irrigidito che ha il terrore di muoversi e che non sa che fare.
Che figuraccia immensa. Tradirei la fiducia di tutti.
Ora mi restano quindi all’incirca centottanta secondi per
salvarmi da me stesso e dalle mie paure. Per allungare un braccio metafisico
alla mia coscienza vacillante e risollevarla, per non lasciarla mortificare. E
quindi mi lascio nuovamente scivolare in quella marea di ricordi che ho appena
finito di riportare alla luce, trovando di nuovo la forza di rivivere quei
momenti che mi hanno fortificato e che mi hanno aiutato a capire tante cose e a
crescere. Prima fra tutte, ho compreso che la speranza non deve morire mai.
Ormai ci ho fatto un bagno, in quei ricordi; negli ultimi
minuti, ho ripercorso una parte del mio passato in modo attento e peculiare,
senza tralasciare nulla, neppure le parti più dolorose per me, ma tutto questo
l’ho fatto per farmi coraggio e fortificarmi. Nulla sarà più come prima. Voglio
voltare pagina.
In realtà, l’ho già voltata; sento il piacevole calore che
comincia a riscaldare il mio cuore, e anche la mia mente, poiché mi è venuto
istantaneamente da pensare alla mia nuova famiglia. Esattamente, la mia nuova
famiglia.
Se solo ricordo il giorno in cui mia madre mi ha riferito,
cinque mesi dopo la partenza di Livia da casa nostra e a seguito della
successiva separazione tra Roberto e l’aristocratica, che lei e il nostro caro
inquilino avevano cominciato ad avere una relazione, ancora mi emoziono.
Mi emoziono perché avevo previsto tutto ciò. I due avevano
legato sempre di più, dopo il definitivo scatafascio di entrambe le loro
famiglie, e mamma Maria pareva sentirmi sempre più distante, anche perché passavo
meno tempo tra le mura domestiche. Ma non ha più cercato di impedirmi di vedere
i miei parenti, né ha più indagato a riguardo.
So solo che, come una benedizione del Cielo, qualche giorno
dopo questa rivelazione giunse a casa una lettera, scritta da un qualche
avvocato pagato da mio padre, che la invitava, se voleva, ad andare a firmare
gli atti per la separazione, e poi in seguito per il divorzio. Per lei era
stata la fine di un incubo, tutto ciò, e, a piccoli passi aveva cominciato a
prendere in mano le redini della sua vita e del suo nuovo amore, che io non
avevo mai osato tormentare. Maria e Roberto, dopo tutto quello che avevano
sopportato e il loro passato, meritavano di riuscire a ricostruire qualcosa di
umano, nonostante l’età ormai matura.
La proposta di mio padre parve a tutti quasi un regalo, e la
mamma la colse al volo. Nel minimo tempo necessario, tra lui e mia madre non
c’era più alcun vincolo.
Mamma Maria poi ha compiuto la sua scelta, ovvero quella di
stare a fianco del suo Roberto, anch’egli libero, ed allora la mia famiglia si è
ritrovata ad essere riformata.
Tutto è poi cambiato nella mia vita, nella mia e in quella di
Jasmine, dato che io mi sono trovato a seguire mia madre e il suo nuovo
compagno, e la mia amata invece, dopo aver concluso le superiori, ha scelto di
cominciare a frequentare l’università, ed ha lasciato anche lei il nostro
paesetto.
Io ora vivo in campagna, nella grande casa di proprietà di
Roberto, dove c’è tanto spazio per tutti e anche tantissimo lavoro da fare, tra
animali e terre da coltivare, mentre Jasmine vive a Bologna quasi in pianta
stabile.
Dopo il nostro trasferimento, alla fine del mio quinto anno
di liceo, tra l’altro conclusosi in modo brillante e con un’ottima valutazione
finale, ho deciso di seguire il mio cuore e mia madre, e non il mio orgoglio,
che magari mi spronava a cercare di voler continuare il mio percorso scolastico
e di completarlo al meglio.
Non so se ho sbagliato a non farlo, però so con chiarezza
che, da quando vivo in campagna, sto molto meglio, e, tramite i lavoretti che
ci sono da fare, ho trovato anche una maggior pace con me stesso e con il mondo
che mi circonda. Ho imparato a volermi più bene, e anche che per crescere e
diventare autonomi serve pure una buona dose di lavoro, e qualche piccola responsabilità.
Ho imparato ad apprezzare lo sforzo fisico, sempre
comprendendo che esso sa dare ottimi risultati, anche se magari sa costare
molto, in ambito di forza e di fatica.
Così, lavorando presso quella sorta di fattoria di Roberto,
tornata lustra e perfettamente funzionale come un tempo, sto mettendo da parte
un po’ di soldi e sto alimentando una parte di me che fino a qualche tempo
prima mi era totalmente sconosciuta, ma che ora mi fa stare meglio.
Sono sempre più rilassato, e più tranquillo, anche perché
pure mia madre e il padrone di casa lo sono, talmente tanto che all’età di
quarantadue anni mia madre è rimasta nuovamente incinta. Ma questo è tutto un
altro discorso.
Con la mia Jasmine continuiamo a vederci assiduamente, quando
possiamo; cerchiamo di organizzarci e di trovare tempo per tornare entrambi e
allo stesso momento in paese, e per passare così un paio d’ore assieme.
Lei, naturalmente, non ha mai messo in un angolo quel suo
sogno, di cui mi parlò in quel Natale magico e ormai distante, ma continua a
sostenere la sua passione per la scrittura tramite lo studio. Poi, tutto il
resto verrà da sé, mi dice sempre, ed io non posso far altro che essere
totalmente d’accordo con lei. E’ molto brava ed ha risultati brillanti in tutto
quello che fa, e sono certo che ha un futuro raggiante davanti a sé, se lo
vorrà e lo asseconderà.
La nostra relazione continua a restare ancora molto casta,
per ora, ma ha basi solidissime, e senza fare quattro chiacchiere ogni giorno
noi non viviamo in pace. Siamo sempre in contatto, costantemente, ed abbiamo
bisogno l’uno del supporto dell’altra, e viceversa, perché noi due ormai siamo
uniti da un filo invisibile, che ci tiene sempre vicini nonostante le notevoli
distanze geografiche.
È vero che ormai ho anche la patente e la mia auto, una
piccola utilitaria di seconda mano ma ben funzionante, ma non mi arrischierei
mai di mettermi nel traffico di Bologna con un macinino del genere, quindi
tutt’ora preferisco il treno, anche se poi da lei ci sono andato raramente, a
trovarla nell’appartamento che ha preso in affitto assieme ad un’altra
studentessa.
Per fortuna esistono telefoni e incontri a metà strada.
Il mio amore per lei non è mai diminuito nell’ultimo anno, e
penso che anche per lei stessa sia così.
La nostra casa in paese abbiamo preferito affittarla
regolarmente e nel rispetto di tutte le leggi a Stefania, che ora, nonostante
tutto, ha saputo rimettere egregiamente in piedi la sua vita, e anche se c’è
l’accordo che io posso andare ad utilizzare la mia stanza quando sono lì di
passaggio, l’unica di cui l’inquilina non può varcare neppure la soglia, grazie
ai nostri accordi, questo non la turba e non turba neppure me.
La ragazza ha partorito una bellissima bambina, chiamata
Veronica, che ha ormai un anno e mezzo e che è piena di vita. È sempre un
piacere per me vedere la mia sorellina, che tra l’altro la trovo molto
somigliante a mio padre, nell’aspetto fisico.
Stefania alla fine è riuscita a trovare un lavoro, anche se a
suo dire è parecchio sfiancante, presso un call center, dove per otto ore al
giorno è impiegata per compiere telefonate a scopo pubblicitario per una nota
azienda della zona. Lei se ne lamenta, e un po’ la capisco, però lo stipendio è
buono e dignitoso, quindi basterebbe che al momento si accontentasse di tutto
ciò, vista anche la crisi e i problemi economici di tutti.
Nel tempo, è pure riuscita a riallacciare per bene i rapporti
con i suoi genitori.
È riuscita anche, con parecchia fortuna, a trovare un ragazzo
che vuole molto bene sia a lei che a sua figlia; costui si chiama Daniele ed è
un vero fior di giovane, di quei galantuomini che al giorno d’oggi non si
trovano più, dotati di quella pacatezza e di quella gentilezza sempre più rare.
Ho come la vaga impressione che ben presto ufficializzeranno e
regolarizzeranno, tramite matrimonio, la loro relazione, e questo mi fa piacere
pensarlo.
Entrambi versano un piccolo affitto a mia madre, che si
accontenta di poco, e la nostra casa in paese ora è praticamente e quasi
totalmente a loro completa disposizione, tranne la mia stanza, come già
ricordato, che utilizzo comunque davvero pochissimo e senza disturbare la
quiete e l’intimità della novella coppia.
So per certo che mio padre è tornato a farsi vivo da
Stefania, così come ha cercato di farlo pure con me, ma ha trovato tutte le
porte sbarrate.
Mio padre sembra volerci dire costantemente che è cambiato,
che nell’ultimo periodo ha capito ciò che vuole davvero dalla vita, e l’ha
capito poco dopo la sua ultima fuga da casa nostra, durante quella nevosa notte
di pieno inverno. Il suo segnale d’apertura sarebbe stato la sua volontà di
voler sciogliere il legame che l’univa alla moglie, in modo da lasciarla libera,
e il desiderio di vedere la piccola Veronica e me.
Stefania si appellerà ai migliori avvocati, assieme al suo
compagno, per impedire che ciò avvenga fintanto che la bambina è troppo piccola,
in quanto certa di poter dimostrare che l’uomo è da sempre stato scorretto e
violento con lei, e senza rispetto per la sua gestazione, mentre io… beh, per
quanto mi riguarda, con lui ho chiuso. Non è tanto il fatto che sia il suo
volto a farmi paura o altro, ma ho il panico che possa aprire la sua bocca per
ferirmi, per deridermi, così com’è accaduto tante altre volte.
Ecco, un brivido freddo mi percorre dalla testa ai piedi
anche al solo pensiero che ciò possa di nuovo accadere, e quindi non lo voglio
tra i piedi.
Gliel’ho detto chiaramente, rispondendo ad uno dei tanti
messaggi che nell’ultimo periodo mi ha inviato sul cellulare, e chissà come ha
poi fatto ad avere il mio numero. Dev’esserselo copiato da solo dalla rubrica
telefonica di mia madre, quand’era ancora in casa nostra. So solo che deve
starmi lontano, di lui non mi fido più.
So che è brutto da pensare, e di certo una parte recondita
del mio animo si sta agitando, in preda al rimorso per la mia cattiveria, ma
non riesco più a vedere Sergio come un genitore o come una persona che si preoccupa
per chi gli sta al fianco. Sa solo ferire.
Questo invece non lo sa fare Melissa, sua nipote e mia
cugina, che invece mi è sempre stata a fianco. E’ venuta più volte a casa
nostra, in seguito, e incredibile a dirsi ma eppur vero, è andata parecchio
d’accordo con mia madre, che pare apprezzarla molto. E questo mi fa piacere,
anche perché sento spesso pure le altre cuginette, e anche con loro pare essere
tutto a posto.
Il nonno ha mantenuto la sua promessa, ed io la mia, alla
fine; ora, anche se purtroppo non sta molto bene ultimamente, continua a far sì
che un ottimo maestro di piano non smetta di darmi lezioni e di perfezionarmi,
ed io ho accettato ben volentieri questa situazione.
Mi piace continuare ad apprendere e migliorarmi. Forse, come
mi dice sempre quell’uomo stipendiato da mio nonno, un giorno potrò davvero
diventare qualcuno, e ogni passo avanti per me sarà fondamentale… ma queste non
sono cose a cui devo pensare adesso. Ora posso permettermi solo di stare
concentrato sul presente, e non devo pensare ad altro.
Manca un minuto all’inizio di tutto. O alla fine di tutto. È
relativo.
È incredibile comprendere quante cose si possano pensare in
un minuto, all’interno della nostra mente; in sessanta secondi si può trovare
il coraggio dentro di sé, che fifone, contrariamente a quel che si dice, si è
andato a nascondere nell’angolo più remoto del nostro essere. E sta a noi
ritrovarlo, per poi metterlo con le spalle al muro e scuoterlo, gridandogli che
non deve lasciarci soli, per poi rimetterlo al suo posto.
Lui non può e non deve lasciarmi solo, sempre se un po’ di
coraggio ne ho mai avuto. Tuttavia, sono sopravvissuto a diverse situazioni,
anche grazie all’aiuto provvidenziale di qualche amico importante, quindi credo
che potrò comunque cercare di superare questa prova tanto importante per me, in
un modo o in un altro.
Grazie a Giacomo, quel ragazzo che per tanti anni avevo
ritenuto diverso e distante da me, avevo scoperto il valore dell’amicizia più
profonda, e mi aveva salvato quella volta in cui stavo per soccombere, quando
quella banda di prepotenti mi stava legnando per strada.
Senza il mio caro Giacomo, non sarei di certo giunto qui
illeso. Anzi, qui non ci sarei mai arrivato, perché Federico e la sua banda mi
avrebbero portato via tutto, strappandomi anche l’ultima briciola di dignità
che mi portavo addosso. Non sapevo fin dove si sarebbero spinti, e chissà,
magari mi avrebbero reso solo un ammasso di poltiglia, sotto i colpi di quella
sbarra di ferro che possedevano… ma ecco, ora sto tornando ad esagerare. E devo
tenere i piedi ben saldi al suolo.
L’irrazionalità dettata dalla paura è un nemico perfido, che
ti fa vagheggiare e che poi ti lascia di stucco. Io devo assolutamente
controllarmi, e quindi mi concedo gli ultimi quaranta secondi di tempo per
ripensare ai miei amici, e in modo del tutto particolare ed esclusivo al mio
Giacomo, che ancora frequento, contrariamente a tutti gli altri miei compagni
di liceo, ormai tutti partiti per Bologna e occupati in altre situazioni, in
genere universitarie.
Lui all’università non c’è andato, proprio come me, ed ora è
un apprendista meccanico presso le officine di suo padre. Si è fidanzato anche
lui, e con… Alice.
Alice, la mia lottatrice, che pian piano ha saputo mettere in
difficoltà un male più grande di lei, grazie alla sua motivazione e alla sua
riscoperta voglia di vivere.
La ragazza, dopo essersi risvegliata, lentamente aveva saputo
riprendere le forze. Jasmine le è stata molto a fianco, io pure, e in questo
modo è venuta anche in contatto con Giacomo. E tra i due c’è stato feeling fin
da subito. E’ solo un mese che si sono messi ufficialmente insieme, e anche se
tutto è davvero complicato e la ragazza deve ancora seguire delle cure
intensive e un lento percorso di ritorno alla normalità, sembra che la loro
storia, in fin dei conti, funzioni.
Mi viene quasi da sorridere, bonariamente s’intende, se
ripenso a quando, qualche giorno fa, ho rinvenuto casualmente l’accendino della
ragazza, all’interno dell’unico cassetto del mio comodino, che apro raramente.
Se mi vengono in mente le circostanze in cui mi era finito
tra le mani, però, mi rabbuio. So solo che mi ero totalmente scordato della sua
esistenza, dopo che tutto il patatrac che accadeva in casa mia e attorno a me
pareva avermi letteralmente assorbito in un turbinio caotico, e ritrovarmelo di
fronte e per caso mi aveva lasciato allibito.
Mi aveva ricordato quei giorni in cui avevo preferito
allontanarmi da lei, preferendo la mia autostima ad un tentato approfondimento
o aiuto, quand’anche io non fossi nessuno, e come in quel lontano periodo
stessi perdendo tutta la mia dignità per via delle prepotenze schiaccianti di
quel mostro di Federico… non voglio ricordare. Non voglio ora, e non ho voluto
un paio di giorni fa. Per me quello è un capitolo chiuso, che ho voluto
sfogliare nella mia mente qualche istante prima, ma che non voglio tornare a
renderlo mio.
Comunque, alla fine quell’accendino l’ho cestinato.
Volevo dimenticare, nella mia umana voglia di non voler avere
più rimorsi a riguardo di nulla.
Riguardo a quel pazzo prepotente, non ho saputo più nulla
direttamente; sono solo venuto a conoscenza da Roberto che sia lui che sua
madre hanno avuto grandi problemi con la Legge.
Alla fine, Federico è finito in carcere, e a quanto parrebbe
per ora sarebbe stato destinato ad un anno e mezzo di detenzione. Nulla, in
confronto a tutto il male che ha fatto, ma è pur sempre qualcosa.
Livia, da quel che sappiamo, è ricoverata presso una clinica
psichiatrica di Bologna ed ha perso la ragione, poiché quell’uomo che aveva
sempre amato e che era stato per un certo periodo di tempo il suo amante, e che
l’aveva spinta come un caterpillar a rompere con Roberto, l’aveva lasciata. Di
nuovo.
Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, dovresti saperlo
ormai, cara aristocratica.
Così, la donna, rimasta senza figlio e senza amore, impotente
e sola, è mentalmente crollata in modo definitivo.
Dei loro amichetti Davide, Giulio e Luca, beh, non so quasi
nulla neppure su di quelli. Sono solo venuto a sapere tramite Giacomo che
Giulio e Luca si sono trasferiti in un altro paese con i loro genitori, alla
fine delle superiori, e Davide invece è rimasto, e dopo aver avuto anche lui
numerosi problemi con la Legge, alla fine è riuscito ad essere assunto dallo
zio calzolaio, dove cerca di imparare, con scarsi risultati, quel mestiere
ormai sul ciglio di sparire per sempre. Quella d’altronde è l’unica chance
dignitosa che il destino gli ha offerto.
Tutta questa gente non l’ho vista più, per fortuna, ed oggi…
oggi, beh, io sono libero. Ma non potevo non ricordare.
E la mia mente mi tormenta! A tratti non riesce proprio a non
sottolinearmi di nuovo che è pressoché impossibile credere che in pochissimi
secondi si possono pensare un’infinità di cose. In questo caso, rievocare.
Tic tac, so che ormai ho consumato tutto il mio tempo
disponibile, quello che mi ha permesso di stare chiuso in me per ore, prima di
questo momento, in modo da non cercare di stressarmi troppo a livello psicologico
e di ripercorrere, tentando di restare rilassato, il cammino che, in un modo o
in un altro, mi ha portato fin qui.
In fondo, tutto quello che è accaduto mi ha fortificato, e mi
ha aiutato tantissimo a comprendere che ogni giorno il bene si mescola con il
male, ed abilmente, e sta a noi stessi cercare di sezionarlo e di riconoscerlo,
stando attenti.
Le botte e gli insulti di Federico, uniti alle sue
oppressioni fisiche e mentali, sono ormai acqua passata, ma se un giorno mi
riaccadrà di trovarmi in una situazione del genere, sono certo che agirò fin da
subito, in un qualche modo possibile. Non subirò più così, non starò più con le
mani in grembo e in assoluto silenzio a soffrire. Una soluzione rapida c’è
sempre, per tutto, anche se potrà avere un suo costo; basta sapere far bene i
propri conti.
Io ho avuto modo di cominciare a farli in modo traumatico, e
sono riuscito ad ottenere qualche risultato grazie all’aiuto di un caro amico,
ma questo in fondo è solo l’inizio. Sono giovane, e la vita mi attende come una
madre paziente, aspettandosi da me il meglio. Devo solo vivere come meglio posso,
mettendo sempre il cuore in tutto quello che faccio. Il resto, si spera, verrà
da sé.
Il cammino umano è sempre lastricato in modo a volte
disconnesso, con buche ed avvallamenti, a sorpresa purtroppo, e una persona può
pure cadere a volte. L’importante è sapersi rialzare, sempre e comunque, anche
se sporchi ed impolverati.
I panni si lavano, la coscienza no. Basta ricordarlo…
Con un profondo sospiro, comincio ad odiare l’ultima manciata
di secondi che mi separano dall’inizio di tutto.
Voglio che tutto inizi e voglio giocarmela, questa occasione
unica. Il mio maestro privato mi ha preparato per un anno per questo evento,
ovvero un piccolo concerto musicale del paese, nulla di che, ma sempre
qualcosa, dove tutti i giovani musicisti della provincia si radunano ogni anno
per fronteggiarsi ed aggiudicarsi il primo premio.
Quest’anno, si è fatto incetta di pianisti, ma alla fine si
sono presentati davvero in pochissimi… e questo mi dispiace.
Ma la gara è comunque entusiasmante.
Io sono l’ultimo ad esibirmi. L’ultimo per cui il sipario del
teatro del paese si alzerà, l’ultimo che riceverà qualche applauso.
È notte fonda e la mia testa naviga verso i miei ricordi,
verso il mio passato, ma l’ora di rimembrare è conclusa e comincia il momento
di mettersi alla prova. Questa, ne sono certo, sarà solo e soltanto la prima,
minuscola sfida che voglio affrontare, nel mio percorso musicale.
Se andrà bene, il prossimo anno mi iscriverò ad un
conservatorio a Bologna e lì potrò ancor più affinarmi. Anzi, mi iscriverò
ugualmente, vada come vada, ormai ho deciso.
Ho preso una decisione così, su due piedi, confrontandomi con
una proposta del mio insegnante e senza pensare o riflettere. Son messo bene!
Ma la mezzanotte incalza, così come il sacrosanto momento che sto aspettando.
Ed ecco che… alla fine il sipario si alza, ed io accantono
subito i miei pensieri!
Per carità, essi mi assillano. È come se non volessero
proprio concedermi una tregua, mai. Ma ora lo so che finiranno accantonati.
Ormai alzato, in un lampo, il siparietto che mi divideva dal
pubblico, mentre attentamente cerco di concentrarmi e di rilassarmi, mi appare
di fronte e per un attimo tutta la platea. Nonostante l’ora ormai tarda, il
teatro storico del paese è ancora pieno, ricolmo di gente.
A me non importa vedere chi c’è, ma con una rapida occhiata,
prima che l’oscurità risucchi i miei osservatori per tutto il mio momento di
attività, riesco a scorgere, seduti nelle prime file, tutti coloro a cui voglio
bene. C’è mia madre assieme con Roberto, proprio al di sotto del palco, e
Giacomo e Alice, seduti a fianco di una Jasmine tesa quanto me.
Mio nonno ha fatto uno straforo per me, ed è in seconda fila
assieme a Melissa, che l’ha accompagnato fin lì, e apprezzo il fatto che sia
voluto venire lo stesso a vedere quella mia sorta di minuscolo debutto,
nonostante non stia tanto bene.
So che Stefania non c’è, nonostante l’avessi invitata; la
bambina durante la sera ha bisogno di molte attenzioni, e non poteva lasciare a
casa la piccola e neppure portarsela dietro.
Sono tesissimo, mentre la luce forte e quasi abbagliante si
accende sopra di me, quasi schiacciandomi sotto di essa. Ma, una frazione di
secondo prima che ciò accada, riesco a vedere una figura strana, che
spintonandosi con altre persone e facendosi largo tra le varie file di
poltroncine, avanza per guadagnarsi un posto per vedermi meglio all’opera, in
modo molto maleducato.
Non stento a riconoscere mio padre.
Mi mancano improvvisamente un paio di battiti cardiaci; ho
paura di sentirmi male. No, quell’uomo non lo volevo lì.
Mi giudicherà, e di certo si è presentato solo per farmi del
male o per deridermi.
Questi sono i miei primi pensieri, che poi lasciano posto a
quelli poco più positivi, e già vedo il mio genitore orgoglioso di me. No, non
è così, sto mentendo a me stesso e sono certo che lui non è qui per qualcosa di
buono; per un istante, nella mia mente tornano a scorrere le scene in cui lui
mi derideva, e quella volta in cui ha schiaffeggiato Stefania e ha quasi
picchiato pure me e mia madre. Lui è un mostro, e i mostri non cambiano mai.
Incredibilmente turbato da quei ricordi e da quella scoperta,
mi ritrovo di fronte al mio pianoforte, solo, mentre tutti già si aspettano che
io inizi a darmi da fare. Ma ne sono capace? Ci riuscirò? Non lo so proprio.
Sta di fatto che la presenza di mio padre è molto demotivante
per me, mi terrorizza. Per un altro attimo provo astio. Poi capisco.
Sia che lui ci sia o meno, devo impegnarmi per fare bene.
Sono giunto fin qui dalla mia nuova residenza in aperta campagna solo per
mostrare a tutti ciò di cui sono capace e per cui mi sono preparato, e non ho
intenzione di deludere nessuno. La presenza del mio perfido genitore dev’essere
per me un incentivo in più per fare ancora meglio ed impegnarmi oltre misura.
Devo ricordare che vengo da anni terribili, da un doloroso
trasloco, perché lasciare la casa dei miei ricordi per trasferirmi è stato un
grande dolore, e che mia madre è lì che mi osserva, al sesto mese di
gravidanza. Lei, a quarantadue anni ormai, con quel pancione… è venuta nonostante
sappia che è tutto rischioso per la sua condizione delicata.
Essere rimasta incinta alla sua età è stata una scelta quasi
scellerata, ma fortemente voluta. Roberto quel bambino se lo merita, nonostante
si faccia un sacco di problemi sulla sua età.
Questo mi fa sorridere, perché forse non ha inteso che il suo
fratellone, il suo fratellastro maggiore, non lo lascerà mai solo, qualunque
cosa accada. Nonostante il fatto che ormai la mia sia una famiglia allargata,
in pieno rispetto con l’evoluzione della famiglia del periodo, io voglio bene a
tutti e mi riprometto sempre che, per i miei consanguinei, anche solo da parte
di un genitore, ci sarò sempre. Sempre.
Con questi pensieri, mi sento ulteriormente orgoglioso di me.
E’ normale per ogni essere umano, alla fine di ogni vicenda,
pensare a chi ha vinto e a chi ha perso. Ma devono esserci per forza ed ogni
volta dei vinti e dei vincitori? No, nella mia esperienza personale non posso
dire ciò.
Chi ha vinto? Chi ha perso? Beh, di certo Federico, Livia e
mio padre hanno sicuramente perso qualcosa, mentre Alice sta cercando di
vincere una battaglia sovrumana.
Posso solo aggiungere che, almeno secondo me, vince sempre
chi ama. Gratuitamente.
Quanto è bello l’amore? Amare Jasmine mi ha aperto un mondo. Alice
dice lo stesso di Giacomo e Giacomo dice lo stesso di Alice.
Amare è la cosa che più dà forza all’essere umano e che più
lo spinge a voler bene anche a sé stesso. Quando si ama, nessun ostacolo pare
impossibile da superare. L’amore è forza interiore.
In conclusione alla mia frettolosissima riflessione, forse
anche banale e scontata sotto certi aspetti, posso solo aggiungere che io,
personalmente, del profondo odio non ne sto rivolgendo a nessuno e mai lo farò.
Anche alla fine di quei cinque mesi orribili io non odiavo nessuno, e non ho
intenzione di provare continuamente rancore né per mio padre né per altri.
L’odio sa essere come una droga, può far sentire potenti, ma
mai quanto l’amore. Chi odia lo fa perché non ha mai assaggiato il più
profondo, vero e puro amore.
Ebbene, la tastiera ora è di fronte a me e mi reclama
davvero; non ho più scuse.
Non posso più fermarmi a riflettere, pensare o altro. Devo
solo suonare.
Muovo le mie dita ma non suono, e già sento su di me gli
sguardi pressanti di tutti, come se già molti di essi pregustassero un qualcosa
di vergognoso per me, ovvero che io non riuscissi a combinare nulla.
La mia timidezza riesplode, in un attimo la sento per tutto
il corpo, m’impaccio da solo… eppure, ecco, un po’ di forza l’ho trovata,
mentre un piccolo applauso d’incoraggiamento lascia spazio al silenzio più
assoluto degli spettatori.
Sono riuscito a scovare un pizzico di coraggio, proprio
dentro di me, e utilizzandolo come alleato mi getto finalmente sui tasti, con
decisione, così come facevo tempo addietro quando, dopo essere tornato a casa
dal liceo, mi mettevo a suonare per rilassarmi.
Ora so, con certezza, che devo giocare la mia chance.
Come mi sussurrerebbe Roberto all’orecchio, questa è la mia
occasione per mostrare a tutti che io, nel gioco della vita, voglio partecipare
con attenzione e voglio giocarmela, in ogni caso. Anche se in realtà si tratta
di una piccola cosa. Ma è spesso dalle piccole cose che tutto ha inizio…
E allora tutto nella mia mente viene dimenticato, mi lascio
trascinare dalla mia voglia di suonare, ritrovata in un angolo sperduto del mio
animo, in compagnia del codardo coraggio, sempre intento a nascondersi quando
serve, e non mi fermo più.
Non mi fermo, mi rilasso e suono, dando un’occhiata allo
spartito che ho di fronte, e vada come deve andare. È giusto così, e l’indomani
per me sarà sempre e comunque un nuovo giorno, che mi ritroverà più forte ed
esperto del precedente.
È ora di dire momentaneamente addio ad ogni mio pensiero o
ricordo, alla mia intera coscienza, e di lasciare spazio solo e soltanto alla
musica.
NOTA DELL’AUTORE
Carissimi, eccoci alla fine di questo lungo viaggio, durato
la bellezza di… nove mesi. Nove mesi! Se ci penso, stento a crederci.
Il racconto doveva essere solo una OS; ricordo di aver
scritto il primo capitolo della vicenda a metà d’ottobre dello scorso anno. Non
avevo alcun progetto particolare per lui.
Ed invece, a sorpresa, ne è venuto fuori un racconto
articolato, e spero anche decente.
Questo racconto ha passato tanto a me, come ho già detto ha
saputo essere un fedele compagno di viaggio, in un anno che, sicuramente, non è
stato molto positivo e ricco di buone notizie. Nonostante tutto, lui mi ha dato
forza, sostenendomi. Scrivere mi rilassa da sempre, e per me è sempre una gran
gioia farlo.
Questo racconto doveva offrirmi il tempo per prepararmi ad
uno più impegnativo, ed invece si è rivelato davvero come una rivelazione
inaspettata.
Non chiedetemi perché è ambientato in Emilia; sinceramente, è
l’unica cosa che non so. Bologna e i suoi paesini circostanti non sono il luogo
in cui vivo, ma sicuramente mi hanno colpito a suo tempo e mi hanno saputo
ispirare.
Riguardo alla trama, beh, essa mi ha permesso di sfogare la
mia creatività, cercando sempre di restare nella verosimiglianza, almeno spero.
Inoltre, il racconto ha saputo offrire anche a me stesso un po’ di positività,
un po’ di forza per guardare il futuro in modo più positivo.
Bene, questa allora è la fine di questo lungo viaggio;
lasceremo Antonio alle prese col suo presente e col suo futuro, com’è giusto
che sia. E, a questo punto, non posso far altro che ringraziare chiunque ha
creduto in questo racconto, e mi ha seguito fin qui!
Sono rimasto piacevolmente e parecchio stupito dal seguito
che ha avuto la vicenda. Voglio ringraziarti, caro lettore e cara lettrice, per
tutto il supporto che mi hai offerto. Io e tutti i vari personaggi del racconto
ti ringraziamo tantissimo e all’infinito per tutto!
Grazie anche per aver letto questo racconto. So di non essere
un autore facile da seguire, e di certo comporta un bel sacrificio leggere i
miei capitoli forse un po’ troppo articolati. Comunque, tutte le parole
positive e i complimenti che ho ricevuto mi hanno fatto sentire fiero del
lavoro svolto, e poi… mi sono reso conto che tanti di voi mi hanno passato
qualcosa, e che questo è stato un viaggio condiviso. C’è stato qualcuno che mi
ha parlato del mio racconto vedendolo già come una serie tv, chi mi ha narrato
esperienze personali… insomma, seriamente, è stato un viaggio condiviso che mi
ha passato tantissimo e che mi ha interiormente arricchito.
Bene, io continuo a ringraziarvi tutti quanti e per tutto, e
vi chiedo scusa per queste note lunghissime, ma mi sembrava giusto spendere due
parole in più sull’intero racconto, sperando di non avere annoiato.
Vorrei soltanto aggiungere che questa non è stata l’ultima
avventura che sarà pubblicata da me qui sul sito. Dal prossimo lunedì, cercherò
di cominciare a pubblicare un altro racconto, di tutt’altro genere però. Il destino e la speranza, questo il suo
titolo, è una storia che sto scrivendo da più di un anno e mezzo e che, purtroppo,
non ho ancora concluso, ma che mi ha portato a studiare e a prepararmi a
dovere. Spero che possa rivelarsi un viaggio interessante per un qualche
lettore, e se qualcuno di voi vorrà continuare a seguirmi, sarò felicissimo di
ringraziarlo.
Grazie di cuore a tutti, e a presto, carissimi lettori! J
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3416027
|