Insane

di GuapaLocaa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Mad Man in a Prison ***
Capitolo 2: *** Over the Window ***
Capitolo 3: *** A Present for you ***



Capitolo 1
*** A Mad Man in a Prison ***


Capitolo 1

A Mad Man in a Prison

Era una fredda giornata invernale ed Harleen passeggiava solitaria per Gotham, stringendosi sempre di più al suo piumino per ripararsi dal gelo, in direzione del suo luogo di lavoro.

L’Arkham Asylum era un ospedale psichiatrico in stile neogotico. Era un luogo tetro che, secondo la dottoressa, più che aiutare nella riabilitazione dei pazienti, li istigava al suicidio.

Odiava quel posto. Era tutto troppo grigio, troppo sciatto e squallido: sapeva di morte.

 

Quando si era appena laureata in psichiatria, non pensava che, un giorno, si sarebbe abbassata a tanto. Per fare carriera nella vita, però, purtroppo bisogna accettare tutto quello che la sorte ci offre e lei, dal canto suo, aveva colto al volo quell’opportunità, sperando, per il futuro, di diventare una psichiatra di fama mondiale.

Erano passati, però, diversi anni dall’inizio del suo incarico, e dell’avanzamento di carriera non si vedeva neanche l’ombra.

 

Ridestandosi dai suoi pensieri, varcò, finalmente arrivata, la soglia di quel lugubre posto, facendo fatica a causa del suo esile corpo, come ogni giorno, a spingere quel maledetto portone massiccio, unica via d’entrata e d’uscita del carcere in cui, stranamente, quella mattina vi era un gran trambusto.

Tutta la prigione era in subbuglio.

Il tetro silenzio dei detenuti, lasciava posto ad urla e schiamazzi da parte degli stessi. Evidentemente qualcosa doveva aver stuzzicato le loro menti perverse.

Era arrivato un nuovo paziente, aveva scoperto subito dopo Harleen, in seguito a una chiacchierata veloce davanti all’unico distributore di bevande della prigione.

A detta dei suoi colleghi, il paziente zero, il primo uomo ad essere stato rinchiuso in quel posto e che, ogni volta, non si sapeva come mai, riusciva prontamente a fuggire, provocando irreparabili danni non solo al penitenziario in sé, ma anche alla sua reputazione, secondo le voci più indiscrete, era finalmente tornato, pronto a regalare qualche giorno di spettacolo prima di fuggire verso una nuova meta.

Tutti erano eccitati per quel raro avvenimento. Da anni nessuno aveva più rivisto il manigoldo che, finalmente, era saltato fuori dal suo nascondiglio, facendosi arrestare.

Proprio così. Perché checché se ne dicesse, era il criminale a decidere quando farsi arrestare, manipolando le forze di polizia, e non viceversa.

 

Una decina di guardie, in uniforme nera tattica, stavano avanzando per il corridoio principale del manicomio, trasportando su una sedia a rotelle quell’uomo dai capelli dipinti di verde, in pendant col colore dei suoi occhi, intrappolato come una una bestia, che rideva in modo macabro, nonostante la camicia di forza e quella sottospecie di museruola per cani che era solito indossare ogni nuovo arrivato.

 

Al suo passaggio, il cuore di Harleen sussultò. Quell’uomo l’aveva guardata, per un momento, con un guizzo frenetico degli occhi, quasi perverso. Era stato un secondo, un movimento impercettibile per occhi poco attenti. Ma lei, abituata a studiare ogni più piccolo dettaglio e gesto del corpo, quel movimento lo aveva notato e, per un attimo, l’aveva destabilizzata.

Era possibile che si trattasse di un criminale tanto spietato? pensò tra sé e sé come per convincere sé stessa. I suoi occhi, ad una prima impressione, le erano sembrati così umani, così vivi, così folli.

 

Quello che, a detta degli altri, era il criminale più spietato di tutta Gotham, le era sembrato solo un ragazzo comune, uno spaccone qualunque che, puntando sulla propria immagine, aveva giocato con le paure più recondite della gente. I tatuaggi e i capelli tinti contribuivano solo a rendere più minacciosa la maschera perversa che stava indossando, sotto la quale si nascondeva un uomo fragile, bisognoso di pompare il suo ego a causa di un inconscio complesso di inferiorità, ne era certa.

Dall’alto della sua conoscenza, la dottoressa aveva già tracciato, mentalmente, una diagnosi del nuovo arrivato e si sentiva terribilmente eccitata all’idea di fare la conoscenza di quell’individuo in grado di manipolare la psiche umana. Era impaziente: sperava, in cuor suo, di ottenere l’affidamento del caso, per poter avere un immediato confronto con quell’uomo.

 

 

Il paziente era stato, in seguito, condotto in isolamento, nell’unica cella che Harleen, in tutta la sua carriera lavorativa, non aveva mai visto neppure aprire. Nessun altro vi era mai entrato, eccetto quell’uomo misterioso che venne sedato prima di essere rinchiuso in gattabuia.

 

Quella notte la dottoressa non riuscì a dormire. La pioggia batteva incessante sul vetro della sua finestra. Continuava a fissare il tetto della sua camera da letto, ripensando al brevissimo gioco di sguardi della mattina precedente. Aveva la gola secca, come se mille spilli le stessero trafiggendo la trachea. Si alzò dal letto per prendere un bicchiere d’acqua dalla cucina. Un lampo nel cielo notturno rischiarò l’abitacolo. Fu allora che lo vide. Una figura alta e slanciata, dai capelli verdi e dei denti metallici. L’uomo la afferrò per la gola, e con una violenza inaudita la spinse al muro, sovrastandola. Non riusciva a liberarsi dalla sua morsa, né ad urlare, a chiedere aiuto. Le forze la stavano lentamente abbandonando. Le stava stringendo il collo, sempre di più, fino a soffocare.

Harleen si svegliò di colpo, intontita dal temporale che impazzava fuori.

 

Era solo un sogno.

 

Corse in cucina col cuore in gola. Non c’era assolutamente nulla di strano.

Una finestra si era spalancata a causa della tempesta. Le tende svolazzavano spinte dal vento. La richiuse frettolosamente, subito prima di tornare in camera. Si voltò e lo vide.

Un messaggio scarlatto sul muro.

 

AHAHAHAHAH

 

Una risata, una risata che infrangeva la perfezione di quella parete bianchissima e asettica. Accanto un coltello conficcato che reggeva una carta da poker al muro.

Era sua firma.

Il Joker la stava sfidando, o forse le stava, più semplicemente, chiedendo aiuto.

 

 

Il giorno seguente il nuovo arrivato era sulla bocca di tutti. Jack Napier, o almeno questo si credeva che fosse il suo nome, era l’uomo del momento.

Harleen, come ogni mattina, una volta arrivata ad Arkham, si recò immediatamente nell’ufficio del direttore che la reclamava urgentemente.

L’uomo, un tipo sulla cinquantina, barbuto e abbastanza autoritario, le aveva chiesto di fare degli straordinari, ovviamente non retribuiti, e prendere in affidamento tre nuovi pazienti, per permettere ai suoi colleghi, più anziani ed esperti, di occuparsi del caso Napier.

Era sempre la solita solfa. Ogni volta che in quel macabro luogo arrivava qualcuno di interessante, questi veniva affidato agli esperti. Mai una volta aveva ricevuto un caso serio. Lei doveva occuparsi sempre e solo dei detenuti meno pericolosi.

Non aveva mai osato ribattere, forse perché intimorita da quell’uomo baffuto, forse per codardia, fino a quel giorno. Oggi era diverso, oggi sentiva una scarica d’adrenalina nuova scuoterla come da tempo non accadeva ormai.

 

«Sig. Arkham, lasci il paziente a me, la prego! –lo aveva implorato, con insistenza, Harleen, battendo i palmi delle mani sulla scrivania in mogano del direttore, spazientita- Sto scrivendo un libro a proposito di casi clinici particolari, e lui è il soggetto perfetto per la mia ricerca.»

Si era spinta troppo oltre?

Subito si pentì di aver agito tanto sconsideratamente.

Era sempre così controllata, così dannatamente controllata.

Dopo la notte precedente, però, qualcosa si era risvegliato in lei. Era come un campanello d’allarme che la invitava ad uscire da quegli schemi preimpostati che con gli anni si era imposta, ma che non le appartenevano veramente.

 

Non aveva avuto paura.

Era strano, chiunque ne avrebbe avuta nella sua situazione.

Dopo aver raccolto il biglietto da visita del nuovo arrivato si era accesa in lei una nuova luce.

Una tentazione che la invogliava a voler studiare quell’uomo, a comprendere le sue perversioni più oscure. Voleva conoscerlo e analizzarlo.

Il rischio era forte, lo sapeva, ma lei non aveva paura del pericolo.

Non si sarebbe più lasciata calpestare.

Da nessuno.

 

«Va bene –aveva ceduto infine il direttore, incuriosito dalla sua spavalderia- ma stia molto attenta. Chiunque, accanto a lui, finisce con l’impazzire. Lei è ancora giovane, cerchi di non cadere nella sua trappola».

«Grazie mille sig. Arkham, non si pentirà di avermi affidato l’incarico!» affermò, con professionalità, la donna, congedandosi per tornare poi nel proprio ufficio e iniziare a compilare la cartella clinica del suo nuovo paziente.

Completato poi il lavoro, decise che era giunta l’ora di fare la conoscenza di quell’uomo dagli occhi vispi che l’aveva colpita così tanto.

 

Facendosi accompagnare da due guardie, la donna entrò nella cella del Joker, quel misterioso luogo che non aveva mai visto e che un po’ la intimoriva.

Era diversa dalle altre celle: più grande, più luminosa, ma anche più spoglia, più triste e più lugubre.

Qualsiasi oggetto superfluo era stato rimosso. Restavano soltanto un materasso, abbandonato a terra, senza brandina, un minuscolo bagno, ed infine un tavolo e due sedie, portati lì per l’occasione.

Cosa avrà mai fatto di tanto grave per meritarsi quel trattamento? –pensò Harleen tra sé e sé.

Adesso avrebbe potuto scoprirlo da sola. Finalmente poteva osservare da vicino quell’uomo.

Era l’essere più particolare che avesse mai visto. Un uomo sulla trentina, avrebbe detto, a giudicare dalle apparenze. Gli zigomi marcati, le labbra carnose e dei vivaci occhi verdi, liquidi, completavano il quadro del suo splendido viso diafano, deturpato, purtroppo, da una miriade di cicatrici.

 

«Salve, sono la dottoressa Harleen Frances Quinzel, piacere di conoscerla.

Sono qui per aiutarla a essere reintegrato nella società, perciò passeremo diverso tempo insieme» iniziò Harleen, presentandosi con professionalità, cercando di entrare nelle simpatie del detenuto che rispose con un grugnito.

«Oh, lo so bene chi è lei professoressa. Lei è una di loro. Una strizzacervelli che vuole tentare di capirmi come tutti gli altri che, prima di lei, hanno fallito nel suo incarico.» disse, con tono suadente.

 

So bene chi è lei.

 

Un messaggio che gli altri non potevano recepire.

Lei sapeva.

Sapeva che Jack Napier alludeva a quella notte. Sapeva che in quel momento si trovava nella tela del ragno, ma aveva bisogno di ascoltarlo, di sentire qualcosa di interessante, di rompere la monotonia quotidiana che affliggeva la sua vita.

Voleva sentire cosa lo aveva avvicinato al mondo del crimine.

Lo desiderava ardentemente.

 

«Potreste lasciarmi da sola col paziente?» chiese infine Harleen, con professionalità, alle guardie che la guardavano dubbiose continuando a puntare le loro armi contro il detenuto, data la sua pericolosità.

«Gentilmente…» aggiunse poi, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, mentre i due omoni abbassavano i fucili, uscendo dalla cella e richiudendosi la porta alle spalle.

 

«Sei diversa bambolina! Non hai paura di me come tutti gli altri?» chiese, in tono divertito, il detenuto.

«Perché, dovrei averne signor Napier?» lo sfidò lei, sostenendo il suo sguardo, sedendosi nel tavolo di fronte alla brandina del detenuto, accavallando le gambe e invitandolo a fare altrettanto.

«NON MI CHIAMI COSÌ!» urlò, scattando in piedi con un lampo folle negli occhi, il criminale, facendola sussultare.

«Non le piace quel nome? Come posso chiamarla? Le piace Mr. J? -chiese imbarazzata la ragazza a quell’uomo che le stava di fronte, annuendo compiaciuto alla sua domanda.

«Bene, Mr. J, io credo veramente nel frutto del mio lavoro! Se lei mi venisse incontro sono sicura che potremmo ottenere degli ottimi risultati.» esclamò con convinzione la dottoressa.

 

«Andiamo bambolina, credi veramente che mi facciano uscire da questo posto? Ti facevo più sveglia -aggiunse con una risata sarcastica l’uomo- a loro non vado molto a genio. Ti rivelo un segreto -continuò sussurrandole all’orecchio- Dicono che sono un sociopatico. Ahahahahah!»

 

«Sai una cosa? Mi piaci bambolina!» continuò, poi, sorridendo quel folle uomo.

«Mi chiami per nome, la prego» sorrise di rimando la ragazza, rassicurandolo.

«Harleen…» soffiò lui sulle sue labbra.

«Jack» rispose lei, con un fil di voce, sempre più intimorita ma morbosamente attratta dalla mente degenerata del suo paziente.

«NON INTERROMPERMI MAI PIÙ! –urlò lui, in tono autoritario, facendo vacillare per un attimo la dottoressa- Harleen, come stavo dicendo, non tentare di capirmi, impazziresti.» concluse in tono più pacato, lasciandola per un attimo interdetta.

 

«Chi ti ha fatto questo?» chiese la donna interrompendo poi quel silenzio imbarazzante che lei stessa aveva creato.

«Siete stati tutti voi. Voi sciocchi umani non cambierete mai! Voi che, con le vostre insulse vite, cercate di comprendermi! Hai mai vissuto realmente Harleen?» rispose, ridendo sguaiatamente, il paziente zero, mentre le guardie tornavano in cella avvisandoli che la loro visita per oggi era da considerarsi conclusa.

 

Hai mai vissuto veramente Harleen?

 

Quelle parole le risuonavano nella mente, perché lei, per ventiquattro anni, aveva semplicemente cercato di tirare avanti, sopravvivendo alla giornata, senza mai vivere davvero.

 

 

 

NOTE D’AUTRICE:

Salve a tutti :D

Sono tornata con questa long su Harley Quinn e Joker.

Spero che vi piaccia.

Vorrei riuscire a caratterizzare bene i personaggi.

Spero di riuscire nel mio intento.

Fatemi sapere che ne pensate nelle recensioni.

Un bacio,

                                                                               Nina

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Capitolo 2
*** Over the Window ***


Capitolo 2

Over the Window

Anche quella notte Harleen non era riuscita a dormire a causa degli incubi.

 

Aveva sognato di correre per la strada, senza arrivare mai, salvo poi ritrovarsi bloccata in un vicolo cieco, e poi lo sparo.

Lui l’aveva colpita dritta in fonte.

 

A quel punto si era svegliata, col fiato corto e il pigiama madido di sudore, e si era resa conto che si trattava di un altro incubo. Oggi ci sarebbe stata la prima vera visita psichiatrica col suo nuovo paziente.

Sarebbero stati nel suo ufficio, da soli, senza telecamere ad osservare la sua follia omicida.

Era un po’ intimorita.

Il giorno prima, per fortuna, era andato tutto a meraviglia nella cella del Joker.

Avrebbe dovuto portare con sé qualche arma per difendersi?

Istintivamente i suoi occhi guizzarono verso il comodino dove teneva la sua revolver.

Si trattava di una Chiappa Rhino 60DS nera con canna da 6”, caricata con sei colpi in calibro 357 Magnum a punta cava. Non l’aveva mai usata, a dire il vero.

L’aveva comprata, solo per difendersi da possibili aggressioni notturne.

Gotham non era di certo rinomata per la sua vivibilità.

 

Ridestandosi dai suoi pensieri, Harleen si preparò per un’altra intensa giornata di lavoro.

 

Arrivata nel suo ufficio indossò il solito camice, perfettamente bianco, in pendant con il resto di quella stanza spoglia, prendendo poi ad affilare le sue matite, perfettamente appuntite ed ordinate l’una accanto all’altra.

Dopo aver sistemato le ultime scartoffie, la donna chiamò le guardie che, prontamente, dopo nemmeno dieci minuti fecero accomodare il signor Napier nel suo ufficio, togliendo la camicia di forza e ammanettando il suo polso sinistro al tavolo, dileguandosi subito dopo.

Era una regola non scritta.

La dottoressa non voleva essere disturbata durante il suo lavoro; questa era l’unica regola che aveva imposto ai subordinati dell’Arkham Asylum fin dal primo giorno in cui le era stato affidato il posto di psichiatra presso quel centro.

Chiuse la porta a chiave, in modo che nessuno potesse entrare, sotto lo sguardo sorpreso e divertito del detenuto, che esordì, con fare teatrale, a mo’ di riverenza:

«Buongiorno bambolina!»

«Benvenuto Mr. J -ricambiò lei con un sorriso di circostanza, sedendosi di fronte a lui, tirando fuori dal cassetto della scrivania un block-notes ed una penna, e raccogliendo i capelli in un morbido chignon, fermato da una matita temperata per l’occasione - Oggi ha inizio la nostra prima seduta. Mi parli un po’ della sua vita. Inizi da dove preferisce»

«D’accordo bambolina. Avevo una moglie, era bellissima… proprio come te!

Lei mi diceva sempre che mi preoccupavo troppo, mi diceva che dovevo sorridere di più, che giocava d’azzardo e si metteva in un mare di guai con gli strozzini…

Hey! Un giorno le sfregiano il viso. Ma non abbiamo i soldi per la plastica.

Lei non lo sopporta. Ma io voglio solo vederla tornare a sorridere!

Hm? Voglio che lei sappia che non me ne importa delle cicatrici! E allora, mi ficco il rasoio in bocca -recitò, estraendole la matita dai capelli con un gesto repentino e ficcandosela in bocca, iniziando a squartarsi la carne, partendo dall’angolo destro della bocca, con la punta- e mi riduco così… da solo. E sai che succede? Non ce la fa neanche a guardarmi! E mi ha lasciato. Ora ne vedo il lato buffo: ora sorrido sempre!»

 

Concluso il racconto dell’uomo la dottoressa si portò una mano alla bocca, come per trattenere un conato di vomito. L’aria era diventata pesante.

Improvvisamente le mancava il respiro.

Si alzò, per aprire una finestra, ma immediatamente si ritrovò un corpo molto più possente di lei afferrarle la gola da dietro, con una matita puntata contro la carotide.

Prontamente Harleen afferrò la revolver, estraendola dalla fondina e puntandogliela contro il fianco.

Subito Jack allentò la presa, tornando a sedersi al suo posto e lasciando cadere, il pastello, ancora insanguinato sul pavimento freddo.

«Hai fegato da vendere bambolina! Sai che dovresti stare attenta a maneggiare certe cose? Potresti farti male, molto male. Soprattutto se sfortunatamente quella pistola dovesse finire nelle mani sbagliate… Non sei d’accordo con me?» concluse il Joker, in tono ironico.

 

La dottoressa tornò immediatamente al suo posto, ignorando le sue parole e riponendo l’arma nella custodia.

«Gradisce un caffè?» chiese, infine, accendendo la macchinetta e prendendo due tazzine a un cenno affermativo del paziente.

Prese poi le due bevande, appoggiandole sul tavolo e domandandogli: «Zucchero?»

Il joker non rispose, limitandosi a giocherellare con gli aghi della pianta grassa sulla scrivania della dottoressa.

«Mi parli della sua infanzia» gli intimò lei, con fare freddo e professionale.

«I miei genitori erano molto amorevoli. C’erano mia madre, mio padre e Jack. Era la classica famiglia Mulino Bianco.» disse lui, con un sorriso quasi… nostalgico?

«E allora perché li ha uccisi?» continuò con un filo di disprezzo nella voce lei.

«Vuoi sapere come mi sono fatto queste cicatrici? Mio padre era un alcolista e un maniaco e una notte dà di matto ancora più del solito…

Mamma prende un coltello da cucina per difendersi, ma a lui questo non piace neanche un pochetto! Allora mentre io li guardo, la colpisce col coltello, ridendo mentre lo fa… Si gira verso di me e dice: “Perché sei così serio?!”. Viene verso di me con il coltello e mi ficca la lama in bocca. “Mettiamo un bel sorriso su questo faccino! Perché sei così serio!”»

 

Harleen, adirata per la sua presa in giro, battè il palmo delle mani sul tavolo.

 

«Basta così Mr. J., è chiaro che lei non vuole collaborare. Smettiamola di prenderci in giro a vicenda!» disse la dottoressa, alzando per un attimo il tono della voce, sempre così pacata.

 

«Non ti stavo affatto prendendo in giro bambolina. Smettila di entrarmi nel cervello. Attenta: la follia è come la gravità… basta solo una piccola spinta -le sussurrò lui all’orecchio -lentamente la accoglierai di tua spontanea volontà. Sarà allora che si impadronirà di te… e ti consumerà!» concluse il clown ridendo sguaiatamente, con quel lampo folle negli occhi che lo contraddistingueva.

 

«Non ho paura Mr. Joker, perché si ostina a rifiutare il mio aiuto?» chiese, ancora nervosa, la dottoressa iniziando a mordicchiarsi le unghie, sempre perfettamente curate e sbeccandone lo smalto rosso.

«Mi hanno trattato come un mostro, e sono diventato un mostro. -rispose l’uomo con un bagliore perverso ad illuminargli gli occhi- Non sono qualcuno che può essere amato. Io sono un’idea, uno stato d’animo. Sono un’ombra, che si insinua nella mente, come un parassita, corrompendoti prima che tu possa accorgertene. Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!» concluse, esternando la propria devianza, prima di tornare nella sua cella lanciandole uno sguardo intimidatorio e dicendole «Avevo ragione dottoressa Quinzel, lei è proprio deliziosa» scomparendo dietro la porta, scortato dalla vigilanza.

 

Quella notte la dottoressa restò di turno al manicomio.

Quel posto non era bello nemmeno di giorno, figuriamoci quando veniva avvolto dalle tenebre.

Harleen restava chiusa nel suo ufficio scrivendo la cartella clinica del Joker e prendendo spunto per il suo libro.

 

 

CARTELLA CLINICA

Elizabeth Arkham Asylum for the Criminally Insane

                                                            Detenuto n°  O  

 

Nome: Jack

Cognome: Napier (?)

Alias: Il Joker

Età: //

Altezza: 183 cm

Peso: 73 kg

Occhi: Verdi

Capelli: Verdi

 

 

 

Diagnosi critica del disturbo:

Il paziente è affetto da diverse psicosi caratterizzate da sociopatia, alterazione del pensiero, e del comportamento. Ha difficoltà a relazionarsi col prossimo, 

e tende ad alternare fasi di bipolarismo cronico.

Pare che la malattia si sia manifestata d’improvviso, fin dalla più tenera età.

Tali accessi di durata più o meno lunga erano intercalati da periodi di quiete.

La sfrenata libidine lo rendeva spessissimo oggetto di scandalo per la pubblica morale. Qualche volta minacciava anche i parenti.

 

Il soffocamento di questi istinti primitivi ha portato il sig. Napier a sviluppare una visione distorta e perversa del mondo.

Talora presenta dei leggieri delirii che si estrinsecano in una forte tendenza all’autolesionismo.

Conserva memoria della maggior parte delle cose passate più o meno lontane, ma talora pare che abbia dimenticato tutto.

 

Si è riconosciuta la necessità di un urgente ricovero all’interno dell’istituto.

 


 

Mentre la dottoressa scriveva il verdetto di quel folle incontro, diverse voci continuavano a rimbombare nei corridoi del carcere.

Tra tutte, seppe distinguere una risata sadica che le era familiare.

Immediatamente si avviò, col cuore in gola, verso la sua cella, accasciandosi contro la porta, unico ostacolo che li separava.

 

«Chi è la?» sentì poi.

 

Un sussulto.

 

La sua voce quella sera era particolarmente sofferente.

«Sono… Sono io Mr J! -disse, con una nota di incertezza nella voce- Volevo chiederle se aveva bisogno di qualcosa, magari del cibo. So bene che la sbobba della prigione, non sia propriamente equiparabile al caviale.

Magari, essendo nuovo ha ancora bisogno di ambientarsi. Cosa posso fare per metterla a suo agio?»

 

«Dottoressa, lei mi delude -rispose il Joker, nel chiaro tentativo di provocarla- Non credevo che si facessero favoritismi tra detenuti»

 

«Io non volevo dire questo. Cioè… Insomma, se ha bisogno di qualcosa mi chiami pure» continuò cautamente.

 

«Avrei bisogno di fumare» si sentì rispondere.

 

«Va benissimo. Vedrò di fare quello che posso!» concluse, sorridendo tra sé e sé e dirigendosi a velocità inaudita nell’ufficio del direttore.

Conquistare la fiducia del detenuto era il primo passo verso una completa e totale guarigione.

Se fosse riuscita ad esplorare i cunicoli più stretti del subconscio del sig. Napiel, era certa che quest’ultimo ne avrebbe tratto solo beneficio.

La serratura della porta era leggermente arrugginita. Fu facile scassinarla.

Prese un paio di sigari, riposti accuratamente in una scatola di legno in bella mostra sulla massiccia scrivania in massello e un accendino, tornando velocemente indietro.

 

«Mr. J, sono tornata! -esordì- ho preso quello che mi ha chiesto…»

 

«È un piacere fare affari con lei, dottoressa Quinzel! Ha portato anche un accendino?» chiese con voce solenne.

 

Esitò un istante, rispondendo subito dopo con un filo di preoccupazione nella voce «Si, sto aprendo la finestra del cibo, le passo tutto da lì».

E così fece. Aprì la finestrella della cella con uno scatto e, tremando, con le sue esili mani affidò il bottino al detenuto che le sorrise ammiccando.

 

In fondo cosa avrebbe mai potuto fare un assassino pluriomicida con un misero accendino?

 

Il sig. Arkham aveva ragione.

 

Stava cadendo in balìa del clown.

 

Lei pensava di curarlo,

invece si stava innamorando di lui.

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Capitolo 3
*** A Present for you ***



Capitolo 3

A Present for you

Il mattino seguente la dottoressa si svegliò con la schiena terribilmente indolenzita e la testa poggiata sulla scrivania.

Evidentemente doveva essersi addormentata durante il turno di vigilanza notturna, pensò ancora frastornata.

Ripensando a quello che era accaduto la sera prima, Harleen alzaò lo sguardo sulle scartoffie ancora da compilare, dove un oggetto in particolare attirò la sua attenzione.

Un bocciolo di rosa se ne stava in bella mostra sul grosso plico di fogli che invadeva il sio ufficio. Sotto di esso una carta da poker contenente un messaggio per lei:

 

Scendi a trovarmi, qualche volta.

                                                 -J

Il mittente del biglietto era abbastanza evidente.

La ragazza prese, istintivamente il fiore tra le dita, inspirandone l’odore che aveva un vago sentore di tabacco, ed immediatamente sentì le gote arrossarsi per l’imbarazzo.

Certi pensieri non sarebbero nemmeno dovuti balenarle per la testa.

 

Qualcuno bussò improvvisamente alla porta del suo ufficio, facendola sobbalzare, tanto da pungersi, accidentalmente, con una spina, osservando, nel frattempo, il suo impeccabile camice bianco, irrorarsi di quel fluido scarlatto comunemente chiamato sangue.

 

Una guardia la avvisava che il prigioniero zero era pronto a ricevere visite.

Harleen ficcò, con stizza, il bigliettino nella tasca del camice, avviandosi, poi, a grandi falcate verso la cella al centro della sua attenzione.

 

«Ti spiacerebbe spiegarmi come è arrivato nel mio studio?» chiese spavalda lei, una volta rimasti soli, al clown, mostrandogli il pezzo di carta che stringeva nervosamente tra le dite.

 

Provava un immane senso di collera ne confronti di quell’uomo che si stava bellamente facendo beffa di lei.

«Ce l’ho messo personalmente…» constatò, ovvio, lui, ridendo sornione, sdraiato sulla sua brandina.

«Non credo che alle guardie farà piacere sapere che sei uscito dalla tua cella!» lo rimbeccò la dottoressa incrociando le braccia sotto al seno, in segno di rimprovero.

Il senso di fastidio che provava in quel momento cresceva ogni attimo di più nel suo corpo.

«Beh, ma se avessi veramente voluto informarle lo avresti già fatto» la sfidò Joker, alzandosi dal letto per venirle incontro, afferrandole la mano con uno scatto veloce e portandosene l’indice tra le labbra, succhiando via un rivolo di sangue.

«Mi piace il tuo nome, Harleen… -sussurrò, poi, a un soffio dal naso della dottoressa, sistemandole dietro l’orecchio una ciocca ribelle, sfuggita al suo controllo maniacale- Sento che sei una persona con la quale potrei confidarmi, una persona che saprebbe ascoltare i miei più oscuri segreti.»

Quelle parole fecero scattare un perverso meccanismo di cause ed effetti nella mente della dottoressa.

Niente sarebbe stato più allettante dei racconti del Joker per lei, in quel momento. Si sentiva come una falena rapita dalla luce.

Aveva tra le mani un tesoro inestimabile per la stesura del suo libro. Il che le avrebbe permesso di completare il suo dottorato di ricerca col massimo dei voti.

L’offerta proposta dal detenuto era tanto invitante, quanto pericolosa, ma Harleen, in quell’istante, non se ne rendeva minimamente conto.

Tutto ciò che percepiva in quel momento era fiducia nei confronti di quello sconosciuto.

Il suo orario di lavoro era ormai giunto al termine, così, si vide costretta a rimandare la seduta al giorno successivo.

 

Una volta nel suo appartamento la dottoressa Quinzel si precipitò all’interno della doccia. Aveva bisogna di lavare via ogni traccia di spossatezza dal suo corpo martoriato.

Niente era più piacevole della sensazione purificante dell’acqua che scorreva su di lei.

Ripensò alle ultime ventiquattrore ed, immediatamente, un viso diafano, si fece spazio nella sua testa.

Harleen lasciò vagare la mente, cercando di immaginare quello che si nascondeva sotto l’austera camicia di forza del suo detenuto prediletto.

Quei pensieri poco casti si impossessarono prepotentemente di lei. Era da tanto che non frequentava un uomo e non poteva di certo negare quanto quel criminale fosse attraente.

Da sempre la donna nutriva un interesse per le personalità estreme, trovandole decisamente più impegnative e stimolanti.

All’inizio lei stessa si era diagnosticata la Sindrome di Stoccolma, capendo, solo in seguito, che ciò che più la attirava, in quei delinquenti, era l’assoluta oscurità del loro animo. Ogni avanzo di galera stuzzicava la sua mente, mostrandole fino a dove si poteva spingere un essere umano.

Joker però era diverso da tutti gli altri. Il suo paziente aveva la rara capacità di piegare gli altri al suo volere. Era una personalità totalmente carismatica ed Harleen lo vedeva come una sfida continua. Il detenuto aveva conquistato il suo cuore e la sua mente, dopo solo pochi incontri e la bella bionda, inevitabilmente, si era ritrovata ad immaginarlo nella veste di amante. Con quell’aria da dominatore, mr. Napier emanava una carica erotica capace di farle tremare le gambe al solo pensiero, facendola bagnare lì, dove nessuno entrava da tanto tempo.

Harleen, iniziò, senza rendersene conto, a stuzzicare la propria intimità, pensando a quel gangster dai capelli tinti, fino a quando non venne travolta da un violento orgasmo che la costrinse ad accasciarsi sulle fredde mattonelle del bagno.

 

Cercare di interrogare il pezzo da novanta dell’Arkham Asylum si rivelò un grosso buco nell’acqua.

Non sarebbe mai riuscita a cavargli una sola parola di bocca, lo sapeva bene, ma il piacere di sentirlo farneticare, trascinandola in quel valzer di pura follia, era impagabile.

 

Ben presto, nella dottoressa, sempre più assoggettata a quell’uomo, maturò l’idea che il Joker, descritto spesso come un pazzo furioso o come un pericoloso criminale, fosse in realtà una persona dall’animo sensibile e tormentato; un bambino afflitto e ferito che desiderava far sorridere il mondo alle sue buffonate, ma che veniva sempre ostacolato dal virtuoso e moralista Batman, determinato a rendere un inferno la vita del suo angelo.

 

Lo ammetteva: per quanto potesse sembrare poco professionale la dottoressa in poco tempo si era innamorata del suo paziente.

 

Sapeva che metà delle sue storie erano inventate, ma non le importava affatto.

Lei era stata educata a cogliere la verità tra le righe.

Jack Napier non aveva subito alcun trauma infantile, non era stato vittima di nessun abuso; lui era pazzo per scelta. Si divertiva a manipolare le menti fragili, per questo lui e la dottoressa erano due anime affini.

Quell’uomo era uno squilibrato, narcisista manipolatore pieno di sé, con un ego smisurato, ma era anche l’uomo più sexy e brillante che avesse mai conosciuto ed Harleen non riusciva a non amarlo per queste sue qualità.

Lui la stava plagiando e lei non stava facendo nulla per opporsi.

Era totalmente assoggettata a lui.

Stava lentamente diventando schiava di quel gioco perverso che l’avrebbe portata sempre più vicina al baratro.

 

Continuava a soddisfare, sottobanco, ogni vizio del detenuto, cercando di farselo amico. Non avrebbe sopportato una chiusura da parte sua.

Sei lui gliel’avesse chiesto, lei sarebbe stata capace di donargli la luna, o persino la testa del pipistrello su un piatto d’argento.

 

 

Una mattina d’autunno, come tante altre a Gotham, la dottoressa arrivò più tardi del solito al lavoro, trovando il prigioniero zero pronto ad attenderla in ufficio.

Il gangster la accolse immediatamente con un ampio sorriso, una volta valicata la soglia del penitenziario, notando che, quel giorno, la bionda era più truccata del solito.

«A cosa devo questo cambiamento dottoressa Quinzel?» domandò il carcerato, estasiato dal colore scarlatto che esaltava le labbra carnose della dottoressa.

 

«Mi dispiace Mr. J, ma questa domanda va oltre il nostro rapporto professionale» lo rimproverò lei, in realtà lusingata dalle attenzioni del suo paziente.

«Andiamo dottoressa, sono giorni che sono rinchiuso in isolamento. Mi lasci godere della sua visione» sussurrò, rilassandosi, a pochi centimetri dal collo sottile della donna che, a quelle parole, arrossì violentemente, destando l’ilarità del criminale.

 

«Perché non mi scioglie questa camicia di forza? -ammiccò poi nella sua direzione- sono sicuro che la seduta assumerebbe un aspetto più… divertente

Il cuore perse, per un momento, un battito, prendendo poi a martellare come un pazzo nel petto della povera Harleen che, senza farselo ripetere due volte, liberò il suo angelo da quel vincolo.

L’uomo con un gesto repentino assalì la donna, puntandole un machete alla carotide.

 

La psichiatra deglutì, violentemente, senza perdere la calma.

Non aveva affatto paura di quell’essere che, piuttosto, la faceva sentire… eccitata.

Lo sfidò, puntandogli contro i suoi grandi occhioni chiari.

Era una dottoressa; sapeva bene come utilizzare il linguaggio del corpo.

«Non hai paura, bambolina?» rise compiaciuto il clown, alla vista della spavalderia della ragazzina.

 

«Io credo semplicemente che quello che non ti uccide, ti rende più… strano! Me lo hai insegnato tu, no? -rispose lei afferrando la lama del coltello tra le esili dita- Se avessi voluto uccidermi lo avresti già fatto da un pezzo…» concluse poi, con un sorriso deviato stampato sul viso innocente, strappando definitivamente l’arma dalle mani del pazzo, squartandosi la pelle per riuscire nell’intento.

In un gesto disperato, la dottoressa strinse poi i capelli verdi del gangster, con la mano grondante di sangue, attirandolo a sé in un irrefrenabile bacio che avrebbe condannato, per sempre, la sua vita da quel momento in poi, fino alla fine dei suoi giorni.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE:

Salve a tutti, mi scuso dal profondo per la mia lunghissima assenza.

Purtroppo gli impegni universitari hanno avuto la meglio sulla mia voglia di scrivere.

Stanotte mi sono mentalmente imposta di dover dare un seguito a questa storia,

così dopo un’infinità di tempo vi propongo un nuovo capitolo.

Spero di non aver tradito le vostre aspettative.

Un bacio,

                                                                                                                                           Nina

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