The Wave

di MinervaDrago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Difficile Vita di un Giovane Pallavolista ***
Capitolo 2: *** A Proposito di Luca ***
Capitolo 3: *** Il Momento Del Riscatto ***
Capitolo 4: *** Una partita a Beach Volley ***
Capitolo 5: *** Un Piccolo Dubbio Amletico ***
Capitolo 6: *** La Rivelazione che mi costò la sanità mentale ***



Capitolo 1
*** La Difficile Vita di un Giovane Pallavolista ***


THE WAVE

 

“The World I love

The tears I drop

To be part of the wave can’t stop

Ever wonder if it’s all for you”

[Red Hot Chili Peppers – Can’t Stop]

 

 

CAPITOLO 1

 

LA DIFFICILE VITA DI UN GIOVANE PALLAVOLISTA

 

 

 

È mattino, sono le otto in punto e, se non mi sbrigo, farò tardi a scuola.

Afferro lo zaino e il borsone e mi fiondo giù al piano terra, senza neanche curarmi di fare colazione. Sono uno di quei tipi che possono essere tranquillamente definiti come “ritardatari”. La mia classe mi conosce come “quello che entra solo a seconda ora” e difatti, cronometrando mentalmente il tempo che impiego da casa mia a scuola a piedi, pur correndo come se non ci fosse un domani, ho capito che anche oggi dovrò mettere mano al libretto delle giustificazioni, che con tutte le firme che contiene, pare un trattato di pace firmato da tutti i paesi dell’Onu. Fortunatamente ho compiuto diciotto anni a Gennaio e quindi posso firmare tutti quei diamine di ritardi da solo (e volendo anche le “uscite illegali” dalle pallosissime assemblee d’istituto), senza scocciare quel santo martire di mio padre che, probabilmente, sospettoso dei miei innumerevoli ritardi, crede che mi sia dato a qualche strana attività diurna, tipo spaccio di versioni latine prese dal solito sito, studio tattico prima delle interrogazioni, pennichella strategica dietro la scuola, o ancora, che mi sia dato allo spionaggio internazionale in collaborazione con l’FBI….o semplicemente che mi faccia le canne prima di entrare in classe.

A tal proposito, da qualche mese a questa parte, mia madre ha cominciato a prendersi l’abitudine di sniffarmi tutti i vestiti e di frugarmi nei cassetti mentre non ci sono, manco fosse alla ricerca del tesoro di Barbanera «Se scopro che fai uso di stupefacenti» mi minaccia ogni giorno a mezzogiorno (per modo di dire, perché arrivo in ritardo pure a casa) «ti faccio lasciare la squadra!» eh, si, in quanto minacce mia madre non può certo definirsi il Gordon Ramsay della situazione, ma, poveretta, questa è davvero l’unica scusa che può utilizzare per provocarmi un mezzo infarto fulminante e farmi rigare immediatamente dritto, perché il suo unico e adorato figlio maschio, a parte giocare a pallavolo, collezionare CD dei Red Hot e scopiazzare versioni a livello olimpico, non fa altro nella sua misera vita…

E comunque, sul fatto delle versioni, non sto affatto scherzando, è praticamente da quattro anni ormai che mi alleno a farlo! (Sono diventato talmente bravo da essermi guadagnato il titolo di “amanuense” più celere di tutto l’istituto).

In ogni caso, tornando al discorso di prima, il vero motivo per cui arrivo sempre in ritardo a scuola e per cui non riesco a svegliarmi la mattina, è che passo intere nottate a farmi schemi mentali su possibili formazioni per il torneo scolastico e a farmi pippe mentali su come Elia, il capitano della squadra, possa pensarne in merito.

Ora, non vorrei generalizzare troppo, ma a conti fatti, Elia è il tipico studente del liceo Classico: figlio di papà, ricco quanto Paperon De’ Paperoni, ruffiano da fare schifo (si, anche con il prof di religione) ma, ahimè, manzo come pochi.

Il vero problema, alla fine, è che noi due non andiamo molto d’accordo; mentre io cerco di suggerire qualche strategia e di dare supporto al nostro piccolo gregge di pecore sgangherate, per vincere almeno una cavolo di partita, lui, dall’alto del suo metro e novantadue, preferisce impartire ordini, talvolta davvero nonsense (giusto per il gusto di farlo) a chiunque gli capiti a tiro. In poche parole: il tipico despota con il complesso di superiorità.

Purtroppo neanche gli altri sono molto d’aiuto poiché, in quanto volontà e autorevolezza, possono essere classificati facili da plasmare, un po’ come la plastilina colorata con cui ti fanno giocare alle scuole materne, e quindi finisce sempre che fanno tutto quello che Elia dice loro di fare.

E qui pongo il mio quesito: come possono, queste esimie teste di anguria macinata, credere di lasciare tutto nelle mani di due sole persone che, per ovvi motivi, non possono sempre gestire tutto da soli? Tralasciando il fatto che io possa saltare come una molla e che il “manzo” sia alto quanto la Torre di Pisa, non potremmo comunque salvare le loro chiappette per sempre!

Comunque sia, tanto per cambiare discorso, una volta entrato in classe (ovviamente a seconda ora, dato che i bidelli si divertono a giocare a fare le guardie carceriere, se solo ti azzardi a varcare la soglia della scuola dopo le otto e venti) trovo i miei compagni di classe intenti a concepire una formazione efficace per copiare come i dannati al compito di matematica.

Indovinate a chi chiedono ausilio, disperati, manco stessero per affrontare la Seconda Guerra Punica da soli e a mani nude? Ovviamente a quello che la notte si fa gli schemi mentali: Corrado, il vostro umile narratore.

«Potessi fare degli schemi così efficaci come li fai nei compiti» m’informa il secchia della classe, ignaro del fatto che i miei schemi, non passano nemmeno per la “Camera dei Deputati” che c’è nella testa del manzo «con molta probabilità gli scarrafoni sarebbero una squadra accettabile».

Cerco di mantenere la calma mentre mi dirigo al mio posto, il penultimo banco vicino al muro dalla parte dell’entrata, per rivestire del mio solito ruolo di fotocopiatrice umana. Maledico mentalmente Elia per esistere e il Coach per avere scelto un nome così ridicolo (ma incredibilmente adatto) per il team: “Red Beatles”, che tradotto sarebbe “gli scarafaggi rossi”. Se ve lo state chiedendo (perché pure io me lo sono chiesto), il Coach è un fan sfegatato dei Beatles e, ovviamente, non ha potuto fare a meno di dare alla sua squadra questo nome. Ora, non dico che sia una pessima idea, personalmente ne avessi una tutta mia la chiamerei “Red Peppers”, ma lo scarafaggio non mi pare un animale adatto per una squadra di pallavolo (e sinceramente nemmeno i peperoncini, ma lasciamo perdere).

Dopo quella fatidica ora, per metà passata a guardare il soffitto e far finta di scrivere e per l’altra metà a divulgare le soluzioni del secchia agli altri deficienti davanti, mi ritiro per qualche minuto per cercare Armando, il libero della nostra squadra, soprannominato, vuoi per assonanza, vuoi per il modo creativo con il quale si butta a terra “l’armadillo” (tranne da me, perché fisicamente sembra tutto, meno che un armadillo).

Armando è un ragazzo vivace quanto un Labrador da riporto e sentimentale quanto un film d’amore strappalacrime, inoltre è uno dei pochi ragazzi con cui abbia legato di più nella squadra. Quando entro nella sua classe, lo trovo in uno stato di shock nel suo banco.

«La fisica ha fatto strage anche oggi?» commento per attirare la sua attenzione.

«Qualcosa del genere, ma non per me».

Lo guardo, stranito «E allora perché hai quella faccia?».

«Mi sono appena accorto che domani ho compito».

Il mio cuore perde un battito «E cosa comporta la cosa?».

«Che non so nulla».

Sbuffo, spazientito «Si, immaginavo, quindi?».

Armando si alza improvvisamente e mi afferra per il colletto.

«E quindi sono morto! Un uomo morto! Come la mia speranza di diplomarmi!» Cerco di liberarmi dalla sua stretta e di farlo ragionare «Non essere ridicolo, gli esami li passano cani e porci, perché non dovresti passarli anche tu?» Finalmente mi leva le sue dita salsicciose di dosso e torna a sedersi con una faccia talmente desolata che neanche Natalie Portman ne Il Cigno Nero avrebbe mai potuto farne una simile.

«E se saltassi l’allenamento? Dopotutto è a fin di bene!».

Ammetto che se non fosse per la sua simpatica facciona da Labrador narcolettico, probabilmente lo avrei riempito di botte, legato con le cordicelle che servono per tirar su le veneziane, seppellito in palestra e dato fuoco al locale tanto per gradire, ma Dio mi ha voluto amante degli animali e uomo compassionevole, quindi perché non perdonare questo tenero faccia di cane?

«Potresti studiare durante le pause», provo suggerirgli disperato.

«Non saprei…credi che funzionerà? Conoscendo Elia e il megafono che ha al posto del diaframma, non so se riuscirò a concentrarmi».

«Fa come vuoi». Alzo le spalle per mostrare indifferenza, ma in realtà sto piangendo in cinquanta lingue diverse e contemporaneamente nel mio cervello (cosa inimmaginabile ma, data la fervida immaginazione del sottoscritto, abbastanza fattibile).

Improvvisamente una luce divina colpisce il suo intelletto, già poco illuminato di suo, e gli mette in bocca le parole più brillanti che gli abbia mai potuto sentir dire:

«Embè, cosa cambia in fondo? Farò schifo lo stesso, tanto vale che copio».

Il criceto che gira dentro la mia testa esulta, facendo un triplo salto mortale carpiato e cantando l’inno nazionale italiano al contrario e tradotto in greco antico, tradotto: “Che ce voleva?”.

Dopo scuola, io e il Labrador andiamo a farcire i nostri stomaci nel forno dietro la scuola, dopodiché ci dirigiamo verso la palestra, dove assistiamo a una scena al quanto singolare. Elia è in piedi, il petto all’ in fuori come quello di un pollo da combattimento, le mani poggiate ai fianchi e uno sguardo assassino rivolto verso la faccia di Antonio, il centrale, detto “Ntonti”, ma per gli amici intimi “Er Vitello”, per via del suo fisico da capotavola, che sta a pochi centimetri dalla sua faccia, anche lui con uno sguardo poco amichevole.

Accanto a loro, Ettore, soprannominato “er californiano” per la sua pelle scura e i capelli biondo cenere, se ne sta appollaiato su una trave sotto il quadro svedese ad osservare la scena.

«è arrivato er tribbuno da plebbe!» grida Ettore additandomi, «parlatene con lui!».

Il manzo mi rivolge il suo sguardo da serial killer in piena crisi isterica e ammetto che in quel preciso istante, avrei voluto fuggire a grandi falcate verso l’infinito e oltre, per poi svanire all’orizzonte.

«Che cosa significa questa storia del “cambio”?».

Ok, fermi tutti, vi spiego: da un mese a questa parte, il pensiero di stare in una squadra che, per qualche arcano motivo, sebbene sia riuscita a qualificarsi per le semifinali del torneo studentesco, è praticamente andata avanti a miracoli, non mi fa dormire la notte.

Un tempo eravamo fortissimi, arrivavamo sempre in finale alle regionali, ma dal terzo anno in poi, qualcosa è cambiata: la squadra non era più affiatata come prima e i ragazzi sembravano stranamente scoraggiati, nessuno riusciva più a giocare come si doveva e, in men che non si dica, il nostro sestetto ha perso quell’affiatamento di un tempo. Durante una partita, alle qualificazioni, mi sono reso conto che il vero problema della squadra è la nostra formazione: ci sono alcuni dettagli che mi hanno fatto capire che i nostri ruoli non sono adatti e che probabilmente dovremmo cambiare strategia, per privilegiare alcuni aspetti che, fino ad ora, a causa di chi si voleva far notare, non erano mai stati tenuti in conto; insomma, mica si può sempre vivere a “botte de culo” dato che, al momento, il nostro gioco si basa principalmente sull’attacco, o come lo chiama Ettore “er bubusettete tattico”.

Ovviamente ne ho parlato con le uniche persone ragionevoli della squadra, Armando e Antonio, ma gli ho anche raccomandato di non svelare tutto ad Elia, perché avrei voluto parlarne con lui di persona (magari tutto bardato e con il casco da protezione, onde evitare di essere picchiato come un vecchio sacco da boxe).

Purtroppo qualcuno non ha saputo trattenere la lingua e ha voluto spoilerare tutto al grand’uomo quando non doveva…e quindi eccoci qui.

«Era solo un’idea» cerco di giustificarmi tenendo lo sguardo basso.

«Un idea del cavolo! Ti rendi conto che cambiare proprio adesso, in vista del torneo, può rivelarsi un disastro?».

«Ma a me non pare un’idea malvagia» interviene a sorpresa Armando, «potremmo fare una prova». La cosa deve aver lasciato Elia interdetto, perché proprio Armando è il suo “annuitore” ufficiale, cioè colui che non lo contraddice mai. Adesso è proprio lui a tenere lo sguardo basso, il suo animo sembra essersi calmato, ma nonostante tutto continua ad insistere: «Quindi ne eri a conoscenza pure tu? Cos’è, una congiura? Cos’altro mi state nascondendo?»

«Non ti stiamo nascondendo nulla». Le parole di Armando mi hanno incoraggiato a tal punto da trovare la forza di rispondere (eh, si, vado ad incoraggiamenti): «Ho solo suggerito una strategia, ma se preferisci rimanere con tutti e due i piedi nel pantano, fa come vuoi».

Ok, ammetto che palesare il mio pensiero così sgarbatamente non è stata proprio un’idea da premio nobel per la scienza, perché posso vedere il “fuoco della morte” riaccendersi nei suoi occhi. «Ah, certo! Sono io quello sbagliato adesso! Io quello con i piedi nel pantano, vero? Tu forse non hai capito che senza di me siete tutti fottuti!». Il manzo guarda tutti con disprezzo e poi torna a me. «Sai una cosa? Se ti piace così tanto fare da capitano, perché non lo fai tu?».

Si avvicina a me e con gesto rapido mi dà una spinta.

Poco prima che la cosa potesse degenerare —perché stavo veramente per saltargli addosso per strangolarlo— Armando ed Ettore lo afferrano per le braccia e cercano di calmarlo.

«Dai, Elia, non mi sembra il caso».

«Armando c’ha ragione, non c’è bisogno de scaldarsi per una sciocchezza, vedete di risolverla in modo pacifico». Il manzo si libera facilmente dalla loro stretta e mi si avvicina dondolando le braccia. «Va bene, signor so-tutto-io, fammi vedere cos’hai in quella tua zucca malata e poi, forse, ne riparleremo». Quasi inconsciamente gli rivolgo un sorriso; in quel momento avrei voluto afferrarlo per il colletto, stampargli un bel bacio nella capoccia, correre urlando per tutta la palestra e buttarmi giù dal quadro svedese gridando a tutto il mondo che il dio della manzaggine e della rabbia repressa mi aveva dato la sua benedizione, ma non faccio nemmeno in tempo ad aprir bocca che il bel bronzo di Riace (ve lo giuro, è stato il Coach a dargli questo soprannome) mi sgonfia l’entusiasmo.

«Ma lo farai domani, oggi ci alleneremo come di consueto, così ti faccio vedere io una bella strategia vincente». Sbuffo, sconfitto, e gli faccio un cenno col capo per iniziare.

Un altro problema che si è aggiunto al seguito del famoso terzo anno, è quello che Elia, da quel momento in poi (non si sa per quale motivo, anche se io ho le mie teorie), è diventato praticamente un tiranno: se prima accettava volentieri le idee degli altri e faceva pesare poco il fatto che fosse praticamente la star della squadra, adesso è diventato il solo ed unico stratega, le cui idee devono essere seguite alla perfezione, pena una tensione talmente viva da poter essere tagliata con un grissino. Forse è stato proprio questo cambiamento, avvenuto nella vera anima della squadra, a portare tutto alla rovina, poiché quella che prima era la guida e il pneuma di tutto, ora ne è diventato il vero ostacolo.

Dopo gli allenamenti vado nello spogliatoio a cambiarmi. Antonio e Armando fanno gli scemi in mutande, mentre Ettore racconta qualche aneddoto sulla miopia del coach alle riserve, i cosiddetti “scarafaggini” (perché sono quasi tutti del terzo e del secondo anno). Mentre mi cambio mi arriva una bella frustata sul fondoschiena da un asciugamano bagnato, mi giro di scatto per ricambiare il mio assalitore con la sua stessa moneta, ma, non appena mi accorgo che a frustarmi è stato proprio il granitico manzo, decido che forse è meglio astenersi (ho già rischiato la vita due volte oggi, devo smetterla di cercare rogne se voglio continuare a vivere). «Non vedo l’ora di scoprire quale follia hai organizzato per domani». Elia mi rivolge il suo sorriso più malefico «Ci sarà da ridere». Preferisco non rispondergli, quindi sto zitto e continuo a cambiarmi.

«Ma mi stai ascoltando?».

Mentre mi alzo per sistemarmi i pantaloni, vedo un suo braccio imponente superarmi e poggiarsi sul muro dietro di me.

«E allora? Perché non mi parli? Solitamente hai sempre qualche critica in serbo per me».

Infastidito dal suo gesto, e anche imbarazzato dalla brevissima distanza che ci separa (e soprattutto per il fatto di avere davanti un uomo alto quanto una porta, praticamente semi nudo), gli volto le spalle e raccolgo le mie cose.

«Abbi pazienza, le critiche te le farò domani, adesso ho altro per la testa» e me ne vado.

Il sole sta tramontando, durante il mio tragitto mi fermo un attimo a ripensare a tutto quello che era accaduto poco prima. Perché le cose più assurde capitano sempre a me? Perché sto in una squadra di dementi? Perché Elia mi fa lo stesso effetto di un’aspirina nella Coca Cola?

Durante la mia “meditazione” profonda, vengo improvvisamente colpito da qualcuno: un ragazzo molto alto, con una tuta da ginnastica blu e incappucciato.

«Ma insomma!», impreco ancora innervosito da quei pensieri.

«Mi dispiace amico, vado di fretta…» prima che potessi aprir bocca per mandarlo a quel paese, il ragazzo misterioso mi si avvicina con aria stupita e mi osserva meglio, dopo avermi scrutato dalla testa ai piedi, spalanca gli occhi e sorride esclamando: «Corrado, sei veramente tu!».

Mi allontano inquietato e balbetto qualcosa tipo: «Si, mi chiamo così, come fai a saperlo?»

Cinque ragazzi, larghi quanto un tavolino e alti quasi quanto il manzo, ci vengono incontro imprecando e agitando armi improvvisate.

«Non c’è tempo per spiegare, Corrado, dobbiamo fuggire!».

L’incappucciato mi afferra per un polso e mi trascina verso un vicolo dietro la scuola.

Durante questa corsa surreale, comincio a sentirmi come in un film poliziesco americano, le premesse infatti ci sono tutte: inseguitori, vie scognite al mondo, gente che guarda la scena scioccata, un misterioso salvatore… mancava solo una colonna sonora ansiogena da inseguimento e qualche esplosione in background alla Michael Bay e ci potevano pure fare qualche ripresa! Io e il misterioso ragazzo abbiamo passato minuti che sembravano eterni a fuggire da quella stramba banda di gorilla, ma, solo dopo mezz’ora di corse pazze, riusciamo a trovare un nascondiglio in una delle vie più sconosciute dell’intera città, di cui nemmeno io sapevo l’esistenza. «Ma si può sapere chi diamine sei?» gli chiedo a tradimento, «e perché quei cosi ti stanno inseguendo? E poi, perché hai coinvolto proprio me?!».

Il ragazzo prova a riprendere fiato e si affaccia un attimo dal nostro nascondiglio per controllare se quei tipi non avessero cambiato strada, come probabilmente aveva pianificato.

«Ma come, non ti ricordi di me? Pensavo che l’avessi capito».

Togliendosi il cappuccio mi mostra un volto tremendamente familiare, l’ultimo volto che avrei voluto vedere in quella squallida giornata.

«Luca?!»

 

 Note della "narratrice narrante":

Era agosto, Zaytzev e la sua cresta volavano per tutto il campo di Rio de Janeiro per affrontare per la seconda volta gli Usa per la lotta alle semifinali, quando la suddetta, a suon di Dark Necessities dei Red Hot, partoriva questa storia. In men che non si dica sono nati tanti personaggi e tante storie che insieme hanno permesso la nascita di “The Wave”; un grazie grande quanto una casa (o come un grattacielo) va a franch_toast, che mi ha fatto da ostetrica per partorire questa storia e ha sopportato i miei scleri per mesi (e, fidatevi, non è cosa da poco), a GinevraGwenWhite, che si è prodigata a controllare se non avessi scritto bestemmie grammaticali e a voi, umili lettori, che vi siete avventurati a leggere questa mia insulsa storiella!

 

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Capitolo 2
*** A Proposito di Luca ***


CAPITOLO 2

 

A PROPOSITO DI LUCA

 

 

The more I see,

the less I know

The more I like to let it go

[Red Hot Chili Peppers – Snow, Hey Ho]

 

 

Sono sempre stato ossessionato dalla pallavolo, sin da quando ero bambino.

Allora ci giocavo ore e ore con i miei cuginetti e i vicini di casa, sembravamo tanti nanetti che si lanciavano addosso una palla logora e sgonfia. In particolar modo c’era un bambino con cui amavo giocare, ma lui viveva in una casa abbastanza lontana, circondata da un immenso terreno e cinta da una maledettissima recinzione che, per dei bambini alti quanto un metro e una Vigorsol, sembrava un muro invalicabile.

La distanza, in fin dei conti, non aveva mai rappresentato un problema: io e i miei amici, pur di rendere partecipi il ragazzo e i suoi fratelli dei nostri giochi, avevamo deciso di utilizzare quella recinzione come rete per giocare a pallavolo; fu allora che mi appassionai sul serio.

Col passare degli anni, quel gioco si era trasformato in una consuetudine ed io e il ragazzo dell’altra villetta eravamo diventati talmente bravi da volerci iscrivere in una vera squadra per giocare nello stesso team, non più separati dalla rete. Ebbene, quel ragazzo è proprio Luca.

In genere giocavamo come palleggiatore e schiacciatore, ma a volte ci scambiavamo i ruoli per confondere l’avversario, dal momento che eravamo entrambi bravi sia in attacco che in ricezione.

Insieme avevamo vinto un sacco di gare a livello regionale e quando non gareggiavamo, come se non bastasse, ci allenavamo con la solita recinzione.

Ad essere sincero, non ho mai conosciuto qualcuno tanto appassionato a questo gioco come lui, che fosse sempre disponibile a giocarci per interi pomeriggi e a condividere lo stesso sogno e le stesse ambizioni. Finché io e lui facevamo squadra, tutto era perfetto e nulla ci poteva fermare.

Purtroppo, un giorno, i suoi genitori ebbero la simpatica idea di trasferirsi in un’altra città e così io e Luca, che non avevamo nemmeno undici anni, ci separammo e da allora non ci siamo più visti. All’epoca nessuno dei due aveva un cellulare e i suoi genitori avevano cambiato recapito telefonico, dunque non c’era alcun modo di poterlo contattare.

Delle volte, ancora oggi, mi ritrovo a soffermarmi davanti a quella recinzione e a poggiarci sopra una mano, quasi ad aspettare quella di Luca per stringere la mia, come in quel saluto che utilizzavamo quando ci congedavamo dalle nostre solite partite per andare a cenare.

Erano davvero dei bei vecchi tempi.

Prima di partire per la nuova città, ricordo che giocammo un’ultima partita, era mattino presto e dovevamo trovare un modo per chiudere i conti.

Fu una di quelle partite che possono solo essere definite come “epiche”: durò almeno due ore e nessuno dei due, in tutto quel tempo, era riuscito a trarre vantaggio sull’altro, probabilmente perché ormai conoscevamo a memoria le nostre mosse.

Alla fine, nel bel mezzo dell’ultimo set, che avrebbe decretato chi dei due fosse il migliore giocatore, i genitori di Luca, già pronti per partire, lo richiamarono e il momento di salutarci arrivò , senza che nessuno dei due se ne fosse accorto.

«Prometti» mi disse Luca, passando la mano dalla recinzione per stringere un ultima volta la mia «che un giorno giocheremo insieme alle Olimpiadi, non importa quanto tempo ci vorrà».

«Te lo prometto» farfugliai, abbattuto.

Luca mi passò il suo prezioso pallone dorato, quello che usavamo solo per i tornei che organizzavamo nel vicinato, infine mi rivolse un ultimo sorriso.

«Tienilo, ti poterà fortuna. Usalo per mostrare a quegli smidollati come si gioca davvero a pallavolo!» e se ne andò via, sparendo in un orizzonte che pareva fuoco.

Era estate e decisi che quel piccolo tesoro che mi aveva affidato, doveva essere seppellito assieme a tutte quelle belle promesse che, con ogni probabilità, non sarebbero mai state mantenute.

Dopo la sua partenza non trovai più gusto a giocare a pallavolo, così decisi di smettere di giocare per un po’ e di organizzare tornei con gli amici.

Fu allora che non si parlò più di quello sport nel mio quartiere.

La mia pausa durò almeno tre anni, ma al liceo, preso da una strana crisi di astinenza, decisi che era arrivato il momento di ricominciare.

Certo, senza di lui non era la stessa cosa, ma finalmente avevo ritrovato l’entusiasmo perduto e me ne feci una ragione.

 

Rivedere il suo volto dopo tanti anni mi fa quasi commuovere, ma allo stesso tempo innervosire; anche se non avrebbe materialmente potuto, mi sarebbe piaciuto rincontrarlo in un modo meno strambo.

Luca mi sorride con il suo solito vecchio sorriso a trentadue denti e mi poggia una mano sulla spalla.

«Mi dispiace di non avertelo detto prima, ma sai, quei cosi non mi davano tregua… in ogni caso, come stai? Cos’hai fatto in tutti questi anni?».

La sua domanda pare talmente inopportuna al momento, che preferisco rimandare la mia risposta in un contesto meno turbolento.

«Niente di ché, ma non importa adesso…forse è meglio che ce ne andiamo via da qui, prima che ritornino quegli energumeni». Luca annuisce e iniziamo a correre verso una scorciatoia che ci riporta al punto di partenza.

Mentre ci dirigiamo verso la piazzetta, per parlare seriamente delle varie questioni irrisolte, ci fermano dei poliziotti che cominciano a bombardare Luca con domande su una presunta banda di spacciatori che si aggirava da quelle parti. Luca risponde in modo molto nervoso e i poliziotti cominciano a sospettare qualcosa, così, con prontezza, cerco di aiutarlo rivelando agli agenti che effettivamente avevamo visto qualcuno di sospetto correre verso i vicoli dai quali arrivavamo.

I poliziotti ci ringraziano e si dirigono subito in quella direzione con la volante.

Mi giro verso di Luca per chiedergli spiegazioni, ma lui reagisce in un modo che non mi sarei mai aspettato: mi afferra per le spalle e inizia a scuotermi manco fossi una bustina di Oki.

«Raddo, non dovevi dirglielo, ora sono nei guai! Mi verranno sicuramente a cercare».

Poggio istintivamente entrambe le mani sulle sue spalle per fermarlo.

«Ma cosa vuoi che ne sappia? Sei scomparso nel nulla, non ti fai vivo per anni, mi trascini in queste situazioni assurde senza che io ti abbia nemmeno riconosciuto e credi pure che debba leggerti nel pensiero? E poi si può sapere che problemi hai con i poliziotti? Guarda che se li beccano, tu potresti non rivederli più!». Luca abbassa lo sguardo e comincia a frugare nelle tasche della tuta. Dopo aver cercato in mezzo ad un traffico di chiavi e fazzolettini usati, mi mostra il perché della sua ansia.

«Tu sei completamente pazzo!» esclamo, guardando attonito l’erba che tiene tra le mani. «Non aspettarti che io continui ad aiutarti».

«Ma, Corrado, è stato solo un piccolo incidente! Non vuoi tornare a parlare con me, come ai vecchi tempi?».

Ammetto che, gettata così, quella domanda mi confonde; certo che voglio tornare a parlare con te! Dobbiamo recuperare anni di assenza, tutte le mega partite che avremmo potuto farci! Per te, lascerei persino la mia squadra, perché adesso che sei di nuovo qui, possiamo giocare dove ci pare, anche nella squadra più insulsa del mondo!

Il mio buon senso mi ferma al volo, lo guardo un attimo e noto quanto sia cambiato:

Adesso è molto più alto di me — all’epoca eravamo della stessa altezza — ma adesso, a occhio e croce, dovrebbe raggiungere almeno il metro e ottanta. Ha la barba e i capelli lunghi, legati da un elastico, le spalle sono molto larghe, ma i fianchi stretti. Se non fosse per la forma degli occhi e per il volto, non l’avrei mai e poi mai riconosciuto.

Insomma, come posso fidarmi di qualcuno di cui non so più nulla? Anche se fisicamente è rimasto più o meno lo stesso, chissà cos’altro sarà cambiato in lui.

«Mi dispiace, Luca, ma io e te non abbiamo più nulla a che fare», faccio per andarmene, pregustando già l’amaro sentimento di sconfitta e delusione che mi pervaderà una volta tornato a casa, ma Luca mi trattiene prontamente per un polso e mi trascina fino ad un angoletto vicino.

«Ti prego, perdonami, so che non ti ho fatto proprio una bella impressione, ma ti giuro che sono sempre io! Non sai quanto mi sei mancato in tutti questi anni, quanto ti abbia pensato…facciamo pace?». Con una richiesta così infantile non riesco a non trattenere le risate. «è vero, non sei cambiato affatto, sei il solito marmocchio di sempre!».

Il suo sguardo è talmente serio da farmi sentire in imbarazzo per quella reazione.

«Va bene, Luca, facciamo così: vediamoci domani pomeriggio, alla stessa ora, alla piazzetta — se ricordi dov’è— così ti racconterò tutto».

Luca torna finalmente a sorridere e si congeda con una pacca sulla spalla.

Io invece rimango in quell’angolo a pensare a quante cose siano accadute fin’ora.

Una volta tornato a casa, mi fiondo subito nel letto e, dopo tanto tempo, mi addormento finalmente senza pensare ad altro.

 

Note della narratrice narrante:

alla fine siete arrivati a capire chi è Luca? Ahahaha, ho voluto svelarlo solo adesso perché, se l’avessi fatto nel capitolo precedente, probabilmente non mi avreste più seguita e vi sareste annoiati (genio del male); nello scrivere questo capitolo mi sono sinceramente venuti i feels, perché alcune cose sono abbastanza autobiografiche (cioè il tema dell’amico scomparso nel nulla durante la tua infanzia poi ritrovato a caso, cambiato, adulto e vaccinato…più o meno).

Spero continuerete a seguire The Wave per capire come si evolverà la storia! Detto ciò, grazie ancora per avere letto!

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Capitolo 3
*** Il Momento Del Riscatto ***


CAPITOLO 3

 

IL MOMENTO DEL RISCATTO

 

Oh, our lives don't collide, I'm aware of this
The differences and impulses and your obsession with
The little things you like stick, and I like aerosol
Don't give a fuck, not giving up, I still want it all

[Troye Sivan, Fools]

 

 

 

 

Al mio risveglio mi sento come uno di quegli Zombie dei videogiochi che hanno bisogno di mangiare cervelli per sopravvivere. Nonostante abbia dormito più di otto ore, sento come una strana sensazione di pesantezza che mi tiene inchiodato al letto, così decido di prendermela comoda (e quindi di entrare a seconda ora) per cercare di risvegliarmi da quello stato di semi-morte. Una volta arrivato a scuola, tanto per completare l’opera, mi assale una sensazione indescrivibile, che si rivela essere un misto di ansia e angoscia, la stessa che probabilmente teorizzava quel depresso di Kierkegaard quando diceva che nella propria vita ci si trova spesso davanti un bivio in cui bisogna fare una scelta importante, che potrebbe cambiare per sempre le nostre vite. In effetti stamattina ero proprio indeciso se fuggire in Messico con il primo aereo, cambiare identità e comparire su Chi l’ha visto? o se affrontare Luca ed Elia insieme per fargli i culi a stelle e strisce. Ovviamente scelgo la seconda opzione, ma non perché sia un ragazzo coraggioso e responsabile, ma semplicemente perché ormai mi sono alzato dal letto e sono qui, tanto vale che mi faccia stendere per bene come un vecchio tappeto persiano, così avrò almeno un buon motivo per morire davvero su quel letto.

Finita la giornata scolastica, passata praticamente ad “ansiogenare” e ad abbandonarmi a fantasie che, probabilmente, nemmeno nei peggiori film horror avrebbero potuto realizzarsi, alle tre e mezza mi presento in palestra per la resa dei conti.

Faccio un bel respiro profondo che si trasforma in asma non appena varco la soglia.

Armando nel frattempo mi si avvicina con la solita faccia da cagnone che ha bisogno di qualche bastoncino per il riporto.

«Tutto bene?»

«Voglio morire».

Mi fiondo nello spogliatoio e mi butto a pesce su una panchina in mezzo ai vestiti e alle scarpe puzzolenti degli altri ragazzi, mi copro il volto con le mani e inizio a piagnucolare.

«Corrado, cosa ti prende?». Il labrador narcolettico si siede accanto a me e mi massaggia la schiena come se stesse carezzando il suo gatto.

«Non sei contento che Elia ti abbia dato un’opportunità?».

«E questa me la chiami opportunità?», lo guardo disperato, «Quello farà di tutto per rovinarmi i piani! So cosa si cela nella sua testa, lo sta facendo a posta!».

Armando abbassa un attimo lo sguardo, come a voler prendersi del tempo per cercare le parole adatte.

«Io e gli altri non l’abbiamo presa così male, anzi».

«Lo so, non siete voi il problema».

«E allora qual è? Tu non hai mai avuto paura di dire quello che pensi a Elia, perché ne hai timore proprio adesso?». Mi volto a guardarlo stupito.

Aveva perfettamente ragione, non mi sono mai astenuto nel proporre le mie strategie a quel montato di Elia, neanche nel periodo più oscuro della squadra, ma per qualche strana ragione adesso me ne vergogno.

Probabilmente sarà tutta colpa di quella filosofia che studio e che mi sta facendo diventare un depresso cronico come chi l’ha teorizzata, oppure…

Scuoto la testa e mi faccio forza, «Hai ragione, Armando, probabilmente sono solo stanco, andiamo!».

Il labrador scatta in piedi dalla felicità e mi solleva per un braccio.

«È questo lo spirito giusto! Adesso andiamo e facciamogli vedere quanto si sbagliava!».

Anche se sono rimasto un po’ scioccato da questa sua ultima affermazione (poiché, fino a quel momento pensavo che, per paura, parteggiasse un po’ per il lato oscuro della forza), rimango quasi inebriato da quella frase; penso proprio che me la farò appendere su tutte le pareti di casa: “Elia hai sbagliato”.

Se potessi la userei come stato perenne di WhatsApp e me la farei tatuare in fronte con tanto di stelline e fuochi d’artificio e mi ci farei costruire una bella statuetta dorata da esporre in giardino, magari sopra una fontana di marmo con tanto di putti che sbucano ai lati a sorreggere il tutto. Eh sì, erano proprio queste le parole che volevo sentir dire.

Adesso mi sento talmente gasato da riuscire a sentire la voce di Shia LaBeouf urlarmi in testa: “JUST DO IT!”.

Vado a passo deciso verso Elia, che stranamente sta immobile davanti alla porta della palestra, con una faccia talmente contratta in una smorfia d’odio tale da sembrare Grumpy Cat.

«Quelle sciacquette ci hanno fregato la palestra» e mi fa cenno con la testa indicando il dentro del locale. Non appena mi affaccio vedo le ragazze del liceo Coreutico, con i loro tutù color Big Babol, volteggiare tra le note di quell’altro depresso di Chopin e della sua depressissima Tristesse (“Viva L’allegria” sembra il motto di questa mattina).

«Ho provato a parlargli», ci informa il manzo, «ma quelle galline sono davvero fastidiose».

«Però sono molto carine» aggiunge Armando, sorridendo come un ebete.

Io ed Elia ci ritroviamo a guardarci negli occhi, stupiti dall’affermazione del Labrador.

«A me stanno solo sul-»

«Quindi dobbiamo usare il cortile?» domando, interrompendo il delicato eufemismo del manzo.

«Si, il problema è che non possiamo usare la rete».

«Non è detto» interviene Ettore, che entra in scena con una spettacolare pacca sul sedere ad Armando (che praticamente non se n’era neanche accorto di quanto era concentrato a guardare le ballerine, diciamo che si è limitato a saltellare dal dolore).

«Possiamo attaccarla alle finestre e alle colonne del cortile».

Il manzo s’illumina d’immenso, «Perfetto, andiamo, non c’è tempo da perdere! Ettore, recupera l’Orlando Innamorato, Corrado, vai cor Vitello a recuperare la rete».

«E tu cosa fai in tutto questo?» gli chiedo infastidito.

«Vado a fare strage di pollame!».

In meno di un secondo Elia si catapulta in palestra gridando contro le ballerine, un po’ come fanno i cani pastore con il gregge o con le galline per levare di mezzo, poi ci fa un cenno con la mano e così lo raggiungiamo per aiutarlo a trasportare la rete.

Non so perché ma in quel momento ogni rancore che avevo in serbo per lui era scomparso nel nulla, forse per via della scena surreale che avevo appena visto o forse per via del fatto che non lo vedevo così divertito da anni: anche se in genere è espressivo come una pentola a pressione, questa volta posso scorgere sul suo volto un vero sorriso.

Posiamo la rete in cortile e stavolta sono io a rimanere incantato da quella scena: Elia è davvero molto bello quando ride, sembra quasi un’altra persona. Proprio mentre mi chiedo perché diamine oscurasse sempre quel sorriso così meraviglioso, invece di rivolgere uno sguardo da assassino seriale al mondo intero, ‘Ntonti fa schioccare le dita a pochi centimetri dalla mia faccia, risvegliandomi da quello stato di trance.

«Sei sveglio? A cosa stai pensando?».

Dire che in quel momento sono diventato rosso come un peperoncino, è dire poco.

Mi giro per nascondere il volto, convinto che il rossore sia molto evidente e comincio a farfugliare qualcosa.

«Dai, dammi una mano ad attaccare la rete».

‘Ntonti mi passa un capo da attaccare a una colonna del cortile mentre io inizio a disperarmi per quelle cose imbarazzanti e senza senso che avevo pensato poco prima su Elia.

Sarei voluto morire lì.

Una volta addobbato il cortile con la rete, manco fosse un albero di natale, cerco di scacciare via ogni pensiero negativo, perché è finalmente arrivato il momento del riscatto.

Mi posiziono al centro (il solito posto del manzo) e comincio a parlare della strategia:

«Qui tutto è sbagliato», nessuno batte ciglio, «I nostri ruoli, secondo me, non sono adatti a definire quelle che sono le nostre vere potenzialità. Quella dell’abitudine è solo una scusa e penso che dovremmo assolutamente puntare su qualcosa di nuovo, senza spaventarsi dei tempi da impiegare. Armando, per esempio, sarebbe un ottimo centrale e il suo ruolo non mi sembra adatto, per non parlare di Ciccio, il nostro “tifone” che…», li guardo un attimo, «…dov’è Ciccio?».

Francesco, detto “er tifone”, è il nostro centrale, un ragazzo dall’energia inesauribile tanto da essersi guadagnato questo soprannome. Come centrale non mi ha mai convinto, anzitutto, perché come me non è proprio altissimo e poi la sua energia e i suoi riflessi potrebbero essere utilizzati in un ruolo alternativo, come quello del libero. In genere è sempre presente agli allenamenti ma in quanto puntualità ce la giochiamo entrambi, quindi confido nel fatto che stia ancora arrivando.

«Come dicevo prima», riprendo il mio discorso da oratore romano, «dovremmo provare a scambiarci i ruoli, giusto per vedere cosa accade». A discorso finito mi sentivo un po’ come Izma deLe Follie dell’Imperatore quando è riuscita a rimpiazzare Cuzco, spacciandolo per morto; Elia infatti sembrava essersi un po’ alienato dalla cosa e io mi sentivo talmente onnipotente, in quel breve momento in cui potevo finalmente sottomettere il manzo alla mia volontà, che ero tentato a dire ad Armando: «Abbassa la leva, Kronk!».

Antonio e Armando sembrano entusiasti della cosa, Ettore invece non mi pare proprio convinto.

«Non saprei, io mi sono sempre trovato bene col mio ruolo», ammette il californiano.

«Si tratta solo di una prova», mi giustifico, «non è una cosa definitiva e poi, se devo essere sincero, per te non avevo pensato nulla di particolare».

«Allora dicci cosa avevi pensato». Ecco che Elia comincia a spazientirsi, al suo solito.

«Dunque, innanzitutto vorrei che…» improvvisamente Ciccio arriva con nonchalance, col borsone sulle spalle e una faccia assonnatissima.

«Che mi sono perso?»

«Alla buon’ora!» il manzo gli fa cenno di avvicinarsi e quello trova subito posto nel cerchio. «Ciccio, ti dispiace se oggi ci fai da libero?», gli chiedo sperando in una risposta quanto meno positiva.

«Io? Libero?»

«Sì, libero», glielo ripeto, «ti chiedo solo di sostituire momentaneamente Armando».

«Perché, sta male?», lo indica con un mezzo gesto.

«No, voglio solo proporvi un piccolo scambio, tutto qui».

Dallo sguardo di Ciccio capisco che è completamente assente: con molta probabilità starà viaggiando verso altri mondi, alla ricerca di qualcosa di surreale per salvare una principessa dall’aspetto ridicolmente psichedelico, che nemmeno una canna ti farebbe mai immaginare.

«Boh, per me va bene», alza le spalle e va a cambiarsi nello spogliatoio, come se nulla fosse. Rimango interdetto per qualche secondo, ma cerco subito di riprendermi. Ciccio è sicuramente la persona più imprevedibile che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita: non sai mai cosa gli passa per la testa. Delle volte è in grado di starti ad ascoltare per ore e ore e darti un suo parere sincero ed esaustivo, ma molto spesso gli capita di vivere momenti di puro “disagio” in cui non riesce proprio a seguirti e si limita a risponderti a monosillabi, mentre gioca con l’ultimo giochino stupido consigliato dall’ App Store.

Capendo che si tratta di una delle sue giornate no, continuo a esporre la mia strategia:

«Come stavo dicendo, Armando tu ora fai da centrale e Ciccio sarà il nostro libero. Ettore, tu rimani laterale. Antonio mi sostituirà».

Dopo aver fatto un piccolo calcolo mentale, Elia finalmente capisce dove voglio arrivare, così mi rivolge uno sguardo minaccioso, «E quindi chi sarebbe l’opposto?».

Lo guardo con decisione e confesso: «Vorrei fossi tu».

Elia per me è sempre stato un giocatore eccezionale. Ha avuto modo di dimostrarlo tante volte, quando ai tornei s’improvvisava opposto per sostituire Antonio e le sue mire imprevedibili. Come palleggiatore non è un granché, inoltre, non ha una visione delle cose così rapida e funzionale. Infatti le strategie che mette in pratica funzionano solo al 50% e il gioco non è distribuito poi così bene.  Il punto è che lui vuole sempre comandare e, per qualche strana ragione, quel ruolo gli sembra adatto alla sua persona, forse perché gli piace pensare di avere tutta la situazione sotto controllo.

Nonostante sia in evidente disaccordo con me, preferisce non aprire discussioni inutili e va a collocarsi direttamente in campo, assieme agli altri.

Giunti alla fine dell’insolito allenamento, tutto quello che avevo teorizzato per giorni, il lavoro organizzato in lunghissime notti insonni, si era rivelato un completo fallimento:

Armando non era un granché come centrale e Antonio non sembrava stare bene nel suo nuovo ruolo, per non parlare di me. Come palleggiatore facevo proprio pena.

L’unica cosa azzeccata era la mia teoria su Ciccio ed Elia.

«Non male come idea», afferma inaspettatamente il manzo, contento come un bambino nell’aver capito che come opposto può fare tranquillamente Jackpot, «ma c’è qualche pecca, anzi, ce ne sono troppe. Direi che alla fine non abbiamo concluso molto, oggi.»

 
 

Sfinito e avvilito da quel risultato inaspettato, non gli rispondo e faccio per tornare nello spogliatoio, però all’improvviso sento una sua grossa mano trattenermi per un polso.

«Ti sei offeso?».

Cerco di non guardarlo negli occhi, deluso come sono non credo di riuscire a sostenere il suo sguardo maligno. «No, avevi ragione tu. Forse era solo un’idea stupida».

Il manzo sbuffa seccato e si abbassa alla mia altezza per guardarmi negli occhi.

«Ho detto che mi sono ricreduto, ma penso che la strategia vada rivista».

Il suo volto è talmente vicino al mio da poter sentire ogni suo respiro; una strana sensazione di calore si espande per tutto il mio viso, provo ancora una volta a fuggire da quello sguardo, ma Elia mi afferra il volto tra le mani e inizia a sussurrare: «Forse hai aspettative troppo alte. Cerca di ricordare perché il coach ha scelto me e non te come leader».

Dentro di me, quella piacevole e dolce sensazione di calore si trasforma in rabbia, lo spingo con le braccia per allontanarlo e fuggo verso lo spogliatoio, sbattendo la porta.

«Stupido, stupido, stupido!», mi dico, lasciando cadere a terra ogni cosa.

Cosa diamine mi ha fatto credere che quella strategia avrebbe funzionato? Forse avrei dovuto lasciarla lì, nella mia testa, insieme a tutte quelle cose che vorrei ma non posso dire al mondo intero. Mi siedo un attimo in una panchina per contenere la rabbia, mi metto le cuffiette e ascolto Behind Blue Eyes dei Limp Bizkiz.

Tra le note di quella canzone, m’interrogo sul perché di tanta sofferenza, di tanto rancore, se effettivamente non è successo nulla di grave e soprattutto su quale strano meccanismo mi abbia fatto reagire in quel modo così idiota davanti a Elia.

Perché poi questa cosa funziona solo con lui? Perché ho così tanta confusione in testa quando gli parlo? Ci sono volte in cui vorrei proprio farlo fuori alla prima occasione, ma qualcosa mi blocca proprio nel momento in cui sono pronto ad affrontarlo. Ripenso a quella scena della frustata nello spogliatoio e a quella dello strano calore, provato qualche istante prima.

Cosa sta succedendo dentro di me? È solo voglia di riscatto, o c’è dell’altro? Improvvisamente sento come lo strano bisogno di parlarne con qualcuno e la prima persona che mi viene in mente è Luca.

Già, Luca! Avevo appuntamento con lui cinque minuti fa!

Per la fretta indosso la tuta sopra la divisa, non levando nemmeno le ginocchiere, e comincio a correre verso la piazzetta sperando di non averlo fatto aspettare troppo.

Una volta arrivato lì non trovo nessuno. Mi siedo su una panchina qualsiasi e abbasso la testa per guardare il vuoto.

Ci mancava solo questo per finire in bellezza…

Mentre vengo completamente assalito dall’angoscia esistenziale, manco fossi Schopenhauer, vedo spuntarmi a pochi centimetri dalla faccia una lattina di Coca Cola, la afferro e guardo con la coda dell’occhio colui che me l’ha passata.

«Giornata no?», Luca si siede accanto a me, sorseggiando una lattina di tè freddo alla pesca.

«Diciamo di sì», finalmente stacco lo sguardo da terra per cercare conforto nel suo viso pacato.

«Non so te, ma io non sono per nulla soddisfatto del mio percorso»

«Chi non lo è?»

«Secondo te, è possibile essere perennemente delusi?»

«Certo ed è per questo che bisogna trovare una ragione per non esserlo».

Lo guardo confuso, «E come? Tutto va sempre per il verso sbagliato! Non so come fare, mi sento impotente, vorrei migliorare le cose, ma non riesco… e non so nemmeno perché ti stia confidando una cosa del genere, non sai nemmeno cosa mi sia accaduto prima!».

«Posso provare a immaginare, ma devi essere tu a dirmelo».

Lo guardo negli occhi e cerco di riordinare i pensieri, «Saresti disposto ad ascoltarmi parlare per ore e ore?»

«Come sempre».

 

Anche se fisicamente davanti a me c’è uno straniero dalle fattezze vichinghe, posso ancora sentir parlare quel bambino con cui giocavo un tempo, che sapeva sempre cosa dire al momento giusto.

Tentando di evitare l’eventuale possibilità di scoppiare a piangere da un momento all’altro, gli racconto tutto col groppo in gola: gli parlo della squadra, della mia ansia di voler realizzare un sogno di gloria che sembra allontanarsi ogni giorno di più, di Elia e infine dell’enorme confusione che mi ha causato il suo arrivo improvviso in un momento particolarmente delicato. Luca mi ascolta assorto dai miei discorsi e ogni tanto mi dà una pacca sulla schiena per incoraggiarmi.

«Io penso», interrompe il mio monologo da tragedia greca, «che tu abbia troppe cose per la testa e che dovresti risolverle con calma, affrontandole una ad una, però sono fermamente convinto che tutti i tuoi problemi sono legati ad una sola persona».

Lo guardo con gli occhi lucidi, incapace di esprimere altro: «E chi sarebbe?»

«Beh, che domande! Quel…Elio, ovvio!»

«Elia?», lo correggo.

«Sì, sì, quello lì! Insomma, se tu risolvessi con lui, probabilmente sbloccheresti un sacco di situazioni».

Lo guardo quasi infastidito dalle sue parole, «E come faccio? Io non ho alcuna voglia di risolvere con quel pezzo di manzo essiccato!». Mi tappo la bocca, imbarazzatissimo per la definizione che ho appena attribuito pubblicamente a quel deficiente, mentre Luca sbotta a ridere.

«Invece sì che lo vuoi! Anzi, sai una cosa? Credo proprio che ti piaccia»

«Come?».

Ora si che la situazione si fa davvero comica: non solo mi sono fatto fraintendere alla grande, ma ho persino risposto in una maniera infantile e ridicola! Ci manca solo che pensi che gli vada sbavando dietro e ho finito di vivere.

«Insomma», Luca si ricompone, «quello che tu dici di provare per lui, cioè odio o antipatia, come vuoi tu, alla fine è pur sempre una forma di amore. Anzi, è quel sentimento che s’instaura tra due persone quando non si riesce a entrare in armonia con l’altro, ma lo vorresti».

Ancora scioccato da quella roba profonda che mi ha appena detto (ve lo giuro, non mi sarei mai aspettato di sentir dire certe cose così filosofiche da uno che il giorno prima fuggiva con dell’erba in tasca), sospiro sollevato per il fatto che non abbia davvero frainteso.

«Lo pensi sul serio?»

«Certo, è così! Ne sono più che sicuro e, sai una cosa? Dovresti provare a far pace con questo “tonno essiccato”», sorriso soddisfatto accompagnato dalle sue risate.

«Anche il tuo modo di ridere è cambiato, ma sono felice che almeno tra noi le cose siano rimaste le stesse».

Luca mi sorride «è vero, a essere sincero avevo paura che non mi avresti mai riconosciuto».

«In realtà non l’avevo capito subito… se non fosse stato per i tuoi occhi da faina, probabilmente ti avrei mandato a quel paese». Sbottiamo entrambi a ridere e continuiamo a parlare un altro po’ prima di lasciarci.

«Da quanto tempo sei qui?», gli chiedo.

«Da circa due mesi. Mi sono trasferito perché ai miei mancava questa città e perché…», Luca si gratta la nuca, imbarazzato, «qui studia la mia ragazza».

Lo guardo stupito: «Hai una ragazza?»

«Sì, ed è molto carina», ridacchia come un bambino, «sai, è una pallavolista anche lei!».

Non so perché, ma quest’ultima affermazione mi ha alquanto infastidito. Certo, sono felice di sapere che almeno lui abbia trovato qualcuno, ma ciò mi lascia intendere che adesso c’è un altro ostacolo tra di noi, che potrebbe allontanarci ancora una volta.

«Ti somiglia molto».

Lo guardo confuso, «In che senso? Ha anche lei i capelli rosso-carota e le lentiggini sulle spalle?».

«No, in realtà ha i capelli neri e la pelle scura, ma intendevo caratterialmente».

Gli faccio una smorfia, poco convinto della cosa «E come fai a saperlo? Insomma, non pensi che in tutto questo tempo possa essere cambiato? Sai, la gente non rimane sempre la stessa…»

«Anche lei è una tipa ambiziosa e un’ottima schiacciatrice», m’interrompe, «diciamo che in quanto grinta mi ricorda tantissimo te, persino nel suo modo di insultare», ride.

«Ah, davvero?».

Senza conoscerla, mi sta già sui campi di melograno: non solo è il mio rimpiazzo in campo, ma è pure schiacciatrice! E se l’ha scelta Luca allora deve essere proprio una con i contro-servizi!

Ahimè, son destinato a rimanere solo persino in amicizia!

«Tu, invece? Non hai una ragazza?», mi chiede a tradimento.

«No e personalmente non la voglio avere».

Luca mi dà una pacca sulla spalla talmente forte che posso sentire la cena di ieri, la colazione, il pranzo e i polmoni schizzare via in un solo colpo, «Fai bene! Fai bene!».

Lui si alza dalla panchina e si sgranchisce le gambe, «Dammi il tuo numero, per rimanere in contatto. Potremmo organizzarci per una bella partita».

Con quest’ultima frase, ritorna in me la gioia di vivere. Posso sentire il suono delle trombe e delle campane suonare a festa dentro il mio cervello esultante: ogni parte di me sorrideva in quell’istante, persino il malleolo! Che non so nemmeno dove sia! Ci scambiamo i numeri di telefono e lo prego di mantenere la sua promessa.

«Stai tranquillo, verrò a prenderti non appena potrò», Luca mi fa l’occhiolino e se ne va, io corro subito a casa, saltellando come un demente per strada.

Appena entro a casa vado a baciare tutti: mio padre, mia madre, il mio cane Honey e gli schifosissimi e pelosissimi porcellini d’india di mia madre, infine mi fiondo in giardino.

Con una vecchia pala arrugginita, mi metto a scavare per disseppellire la preziosa palla dorata di Luca, manco fossi un allegro becchino uscito fuori da un film di Tim Burton.

Dopo mezz’ora di scavo (già sono impedito con queste cose e poi il sole era tramontato e stavo scavando con la torcia del cellulare in bocca), prendo la palla, ancora intatta dentro una scatola di cartone, e la sollevo in aria e gridando:

«Annuntio vobis gaudium magnum, habemus Papam!».

 

 

Note della narratrice narrante che narra:

Rispetto al primo e al secondo capitolo, il terzo sembra quasi non finire mai! L’ispirazione mi ha illuminata tantissimo e quindi è nata sta roba. Da questo momento in poi, come avete potuto notare, Corrado adesso inizia a vivere momenti di pura confusione (già presenti dal primo capitolo, ma meno espliciti), inoltre le situazioni e i personaggi cominciano ad aumentare; detto ciò, spero che continuerete a leggere il resto! Grazie ancora per aver seguito la storia fin qui!
P.S. per chi non conoscesse il famoso "just do it" citato nel testo, questo è il link: https://www.youtube.com/watch?v=ZXsQAXx_ao0

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Capitolo 4
*** Una partita a Beach Volley ***


CAPITOLO 4

 

UNA PARTITA A BEACH VOLLEY

 

I know what’s wrong,

God, you complicated everything

I know you’re wrong

[Corey Taylor – From Can to Can’t]

 

 

 

 

I tre giorni che seguirono l’incontro con Luca passarono nella più totale euforia.

Mi sono allenato con la palla dorata assieme ad Armando, che è venuto a farmi compagnia per il week-end, dato che i miei si sono voluti concedere una bella gitina al mare con Honey.

Ho anche mandato una serie di messaggi a Luca per vedere se non fosse disponibile per uscire, ma mi ha risposto dicendomi che, a causa del lavoro, è sempre molto impegnato: mi ha confessato di aver perso un anno dopo il diploma, così ha deciso di fare da cameriere in un bar vicino al centro, per racimolare soldi per gli studi futuri.

Un po’ avvilito dalla cosa, realizzo che io e lui potremmo vederci solamente durante i suoi giorni liberi, cioè il lunedì e la domenica.

Chiedo ad Armando se questa sera gli va di fare una capatina al bar di Luca, giusto per salutarlo e lui annuisce contento (in fondo non avevamo nient’altro d’interessante da fare).

Improvvisamente, alle cinque e mezza del pomeriggio, quando io e il Labrador stavamo guardando una partita in televisione, con tanto di buffet di schifezze varie e commentando con la stessa delicatezza di due scaricatori di porto, sento la suoneria del mio cellulare (rigorosamente Can’t Stop dei Red Hot) risuonare da sotto un cuscino del divano.

Spingo Armando che si accascia su un bracciolo del divano e comincio a gettare in aria tutti i cuscini per cercarlo. Non appena lo trovo, noto che è proprio Luca a chiamarmi.

 «Pronto?»

«Preparati, tra cinque minuti ti vengo a prendere per una partita!».

La voce di Luca è momentaneamente oscurata dalle grida di un Armando furioso cui faccio cenno di abbassare il volume. «No, aspetta! Una partita? Ma non sono nemmeno pronto…» e stacca la chiamata.

«Chi era?» mi chiede il Labrador con il faccione ancora attaccato allo schermo.

«Era Luca, ha detto che ci sta venendo a prendere…».

Ci fu un attimo di silenzio e uno scambio di sguardi confusi, ma subito dopo il panico si era impossessato dei nostri corpi, che cominciarono a sparpagliarsi per tutta la casa cercando di rimettere in ordine e di cambiarci in tempo record (diciamo che, quando io e Armando siamo insieme, casa mia diventa il regno del Caos primordiale). Luca è arrivato talmente in anticipo che entrambi non eravamo nemmeno pronti.

«Vai, usciamo!» spingo il Labrador fuori dalla porta, con le scarpe ancora slacciate e prendo le chiavi di casa. Non appena ci avviciniamo alla sua macchina, vedo seduta accanto a lui quella che dovrebbe essere la sua ragazza: a occhio e croce potrebbe avere la sua stessa età, è una ragazza molto bella come me l’aveva descritta lui: pelle scura, capelli lunghi, neri con una frangetta ben curata e gli zigomi alti. Noto che entrambi stanno indossando la tuta e nei sedili posteriori c’è un borsone.

«è un problema se viene anche Armando?». Luca mi fa cenno di entrare con la mano, «Assolutamente no, più siamo meglio è!» ed entriamo.

Nella macchina non c’è molto spazio, infatti, Armando ed io ci ritroviamo inevitabilmente spalla contro spalla.

«Pronti per una bella partita a Beach Volley?».

«Ma non lavoravi oggi?»

«Sì, ma ho chiesto a qualcuno se poteva darmi il cambio, così lo sostituisco lunedì».

«Se me l’avessi detto prima, mi sarei vestito meglio!»

«Cosa vuoi che sia un po’ di sabbia nei jeans? In ogni caso, adesso vi porto in un bel posticino!».

La ragazza di Luca si gira verso di noi, rivolgendoci un sorriso degno delle migliori riviste di bellezza e mi porge la mano, «Io sono Elena, piacere di conoscervi».

«Piacere Elena, lui è Armando, saluta Armando!» Armando la saluta “scodinzolando” (nel senso che, se avesse una coda l’avrebbe fatto sicuramente), «ed io sono…»

«Corrado! Certo che ti conosco, Luca mi parla sempre di te!»

«Davvero?»

«Oh, sì, mi ha detto tutto di voi due e, a essere sincera, sono proprio curiosa di vederti giocare. Da come me ne ha parlato dovresti essere tipo una leggenda!».

Faccio una smorfia, «Ah, beh…non è proprio così».

Armando si schiaccia contro lo sportello per avere lo spazio necessario per darmi una pacca sulla spalla.

«Ma che dici? Se non fosse per te a quest’ora non saremmo da nessuna parte!» e mi circonda con un suo grosso braccio «Corrado è il nostro schiacciatore, in campo lo chiamiamo “il castigatore”». Ridacchio innervosito dall’intervento inopportuno del Labrador, che in qualche modo sembra aver divertito Elena.

«è un soprannome davvero interessante!» commenta lei.

«Sembra un nome da maniaco sessuale» aggiunge Luca in tono ironico, «Come mai questo soprannome?».

«Devi capire che il nostro pel di carota ha una mossa segreta che fa solo quando ci troviamo nei guai: lui entra in Berserk e comincia a fare punti a raffica!».

«Wow, come in un anime giapponese! Ha pure un nome questa tecnica?»

«Veramente…»

«Certo che sì!», continua a interrompermi Armando, «Noi la chiamiamo la “Grande Onda di Hokusai ”, ma per chi non riesce a ricordarlo è semplicemente “l’Onda”»

«Armando, ti prego» mi passo una mano in faccia.

«Guarda che questo nome l’ha scelto Elia, non prendertela con me!»

«Cosa? È stato lui ha dargli questo nome?» Luca si mette a ridere mentre Elena gli fa notare che dovrebbe stare più attento alla rotatoria.

«Sai, ti ci vedo a gridare “Grande Onda di Okunai” nel bel mezzo della partita, magari con le stesse mosse dei Cavalieri dello Zodiaco!»

«è “Hokusai”» lo correggo.

«Okunai, Okumai, fa lo stesso, no?»

«Anche tu giochi a pallavolo?» chiede Elena al Labrador, «Sì, come dicevo prima, siamo entrambi nella stessa squadra, io sono il libero…» mi guarda sottecchi e sussurra «…per ora».

Dopo dieci minuti di viaggio arriviamo al lungomare, il luogo scelto da Luca ed Elena per questa partita.

«Dividiamoci a squadre».

Luca esce fuori dal borsone un pallone e me lo lancia, rivolgendomi uno sguardo divertito.

«So che vorresti fare squadra con me, ma prima voglio testare le tue abilità, e poi…» volge lo sguardo verso la sua ragazza, «io e lei non giochiamo mai nella stessa squadra». Personalmente non ho nulla da obbiettare, anch’io voglio vedere com’è cambiato in campo. Ci dividiamo in squadre: Luca e Armando contro Elena ed io.

Ci togliamo le scarpe e mettiamo un po’ di musica attaccando il cellulare di Elena all’amplificatore portatile di Luca.

«Vi avviso che ho gusti strani, quindi se sentite persone cantare in coreano, non dite che non vi avevo avvisati prima!» ci informa Elena.

«Tranquilli, tanto poi arriva la musica buona».

Ammetto che giocare con delle band coreane in sottofondo non è proprio il massimo…ma alla fine, chi sono io per giudicare i gusti degli altri?

«Pronto per una sonora sconfitta?» mi chiede Luca.

«E tu sei pronto per piangere sabbia?» lui mi sorride e senza perdere altro tempo iniziamo la partita.

Secondo voi come potevo sentirmi in quel momento, a giocare di nuovo con il mio migliore amico dopo otto anni, in una partita che anche questa volta si è rivelata più difficile di un parto? Rispondo io: stavo morendo di gioia! Se il destino avesse casualmente deciso di farmi morire lì, me ne sarei andato felice e, anche a distanza di millenni, gli archeologi avrebbero ritrovato la mia mummia, sepolta tra la sabbia e la rete, con un sorriso più bello e inquietante di quello della Monna Lisa! Durante la partita ho avuto modo di assistere agli incredibili miglioramenti di Luca; anche Elena sembra essere altrettanto brava, l’unica differenza col suo ragazzo è che predilige il gioco di squadra. Armando, infatti, con Luca che gestiva tutto il gioco, si limitava ad alzargli la palla e a rimanere come uno stoccafisso mentre Luca martellava come un dannato. Mi sono anche accorto che, dai modi di fare di Elena, i due sono praticamente fatti l’uno per l’altra: ogni volta che uno di loro metteva a segno un punto si metteva a gridare manco fosse un vichingo (o una valchiria) nel periodo delle razzie estive, infatti mi sentivo un po’ come all’interno del telefilm Vikings: ci mancava solo una nave in legno intarsiata da fregi nordici e potevamo partire alla scoperta delle terre dell’Ovest.

La partita alla fine si è conclusa tre a due per Luca, che ha vinto solo perché è riuscito a distrarre me ed Elena con una battuta talmente oscena da lasciarci completamente attoniti.

Ovviamente lo abbiamo accusato di aver barato, ma quello se ne usciva dicendo che: “un bravo giocatore non si farebbe mai distrarre da nulla, nemmeno da una caccola sul naso”.

Dopo averlo impanato per benino sulla sabbia, ci facciamo una passeggiata sulla riva, mentre Elena ogni tanto fa qualche selfie che posta su Instagram.

«Hai una comitiva?» mi chiede Luca mentre mette i piedi a mollo.

«No, mai avuta una», improvvisamente, a quell’illuminata mente di Luca viene la geniale idea di schizzarmi con l’acqua, bagnandomi tutti i vestiti (che erano oltretutto già sporchi di sabbia).

«Certo che sei proprio uno sfigato!» inizia a ridere, «non hai una ragazza, sei sempre depresso, non hai una comitiva…». Gli rivolgo uno sguardo sinceramente offeso; non c’è bisogno di ricordarmelo, ottuso vichingo, mi faccio già schifo da solo!

«Dato che non hai nessuno con cui stare, perché non esci con me ed Elena? Saremmo felicissimi di averti con noi» rivolge lo sguardo agli altri due che stavano discutendo su quali filtri mettere alle foto.

«Ovviamente puoi uscire anche tu con noi, Orlando» Armando si gira verso di lui, rivolgendogli un sorriso da cagnone felice, «Ti ringrazio, ma mi chiamo Armando, non Orlando». Io faccio finta di essere indeciso, giusto per tirarmela un po’, ma alla fine insceno il cedimento e accetto la sua proposta (certo, sono anni che lo aspetto, col cavolo che me lo faccio scappare di nuovo!).

«Bene, vorrà dire che questa volta non ci perderemo più di vista!». Luca mi dà una delle sue pacche micidiali sulla schiena e sorride, ma io lo guardo serio.

«me lo prometti?».

«Tranquillo, sono un uomo di parola e se dovesse succedere di nuovo, cercherò di non coinvolgerti in strani avvenimenti».

Senza pensarci due volte lo abbraccio, lui mi fa pat pat sulla schiena ma, quell’azione che avrebbe dovuto essere qualcosa di scherzoso, produce in me una reazione che nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare: come se nulla fosse inizio a piangere come un disperato.

 Armando ed Elena, sorpresi dalla cosa, capiscono che forse è meglio non intromettersi, così Luca gli fa cenno di aspettare lì mentre mi porta al largo verso la scogliera, tenendo con una mano il mio volto contro il suo petto, dove avevo provato a nascondere il mio viso, imbarazzato dalla mia stessa reazione.

Una volta seduti su uno scoglio dalla forma inspiegabilmente rettangolare (scusate, mi perdo sempre nei dettagli, colpa del mio essere un bravo osservatore), Luca comincia a carezzarmi la testa.

«Hey, perché stai piangendo? Che cosa è successo?» io cerco di riprendermi, trattenendo i singhiozzi come meglio potevo.

«Perché è tutto così assurdo, non mi pare nemmeno vero che tu sia qui… e non posso credere di aver reagito in un modo così cretino!».

Luca mi rivolge un sorriso talmente tenero da sembrare uno di quei tipici sorrisi che i genitori fanno ai loro bambini per rassicurarli sul fatto che Babbo Natale esista davvero.

«Se reagisci così vuol dire che ci tieni a me, no? In fondo cosa c’è di male? Anch’io piango».

Mi asciugo le lacrime con la manica della felpa e poi lo guardo negli occhi, «No, non si tratta di questo —o almeno, in parte— il fatto è che non controllo più le mie emozioni, non mi era mai capitato di fare così!»

«Forse perché hai sempre nascosto quello che provi veramente e, adesso che stanno succedendo delle cose importanti, non puoi più trattenerti».

Lo guardo stranito, «Che vuoi dire?»

«Beh, ti ricordo che da piccolo eri un gran piagnucolone, piangevi praticamente alla minima spinta!»

«Non è vero!» cerco di difendere il mio onore.

«E invece sì! Per esempio: ti ricordi quando abbiamo perso alla regionale per una manciata di punti? Hai pianto per giornate intere!»

«Io non lo ricordo affatto!»

«Io invece lo ricordo benissimo: quella volta ti sei chiuso in stanza per non vedere nessuno. Avevi detto che non avresti più giocato, che avresti lasciato la squadra perché avevano perso per colpa tua, che non ti saresti più fatto vedere in giro e bla bla bla. Insomma, Corrado, tu sei sempre stata una persona sensibile e nasconderti dietro una maschera da duro non ti aiuterà a molto».

Abbasso lo sguardo e sospiro, «Ci sentiamo da pochi giorni e già hai capito tutto di me…come fai?»

«Perché ti conosco, potrai anche essere cresciuto ma alla fine, vuoi o non vuoi, rimaniamo sempre gli stessi».

Rimaniamo qualche minuto in silenzio, ad ascoltare il rumore dell’acqua infrangersi sullo scoglio, dietro di noi.

«Da come parli sembri una di quelle rubriche dei magazine settimanali per ragazzine adolescenti; hai presente quelle che ti insegnano a vivere comunque la tua vita e ad accettarti per quello che sei, nonostante la media delle sue lettrici abbia solo quattordici anni massimo? Ecco, m’ispiri questo, però dici cose maledettamente vere…ti giuro che, a parte le cose che mi hai raccontato su di te, non so ancora come inquadrarti».

«Non devi farlo per forza, ogni cosa ha il suo tempo»

«Lo so, ma…», improvvisamente mi viene in mente la scena dell’inseguimento random del giorno in cui ci siamo ritrovati e mi ricordo anche di aver perso più di una volta l’occasione di chiedergli il perché.

«mi piacerebbe sapere cosa ti frulla per la testa, che vita fai…per esempio: Elena lo sa che fumi erba?».

Luca cambia subito espressione: il suo volto diventa pallido, i suoi occhi si spalancano dalla sorpresa e comincia a guardarsi intorno, manco avesse delle telecamere puntate addosso.

«Beh, circa, insomma… le avevo promesso di smettere».

Stavolta sono io a rimanerci secco, «Ma allora, si può sapere perché lo fai? Mi dici tutte queste cose confortanti da uomo maturo e poi mi lasci intendere che ti fai le canne di nascosto?».

Ci penso un attimo e arrivo alla soluzione dell’inseguimento: «Quindi l’erba l’hai rubata da quei tizi, ecco perché t’inseguivano!»

«No, non è così!»

«E allora com’è?» Luca non riesce a rispondere, farfuglia cose insensate e continua a giustificarsi: «Sai, ho attraversato periodi difficili, poi si sa, la dipendenza, cioè, quando intraprendi una strada…» gli faccio un gesto con la mano per farlo smettere di parlare.

«Luca, invece di dirmi di levare la maschera, faresti bene a levartela prima tu».

Lui abbassa lo sguardo, colpevole. «Non so quale motivazione ti abbia portato a farlo, ma se vuoi dirmelo io sarò felice di ascoltarti»

«Mi dispiace, Raddo».

Lo guardo deluso, evidentemente non vuole sollevare la questione.

«Allora avevo ragione io: altro che lati che rimangono sempre gli stessi, noi due siamo cambiati e facciamo solo finta di conoscerci l’un l’altro, come allora».

Luca non fiata, preferisce rimanere lì, tutto ingobbito a girarsi i pollici.

«Andiamo, gli altri a quest’ora si staranno preoccupando per noi», gli chiedo con tono seccato. «Va bene».

Il resto della serata è passato in modo tranquillo: io e Luca facevamo finta di niente, anche se ammetto di essermi trattenuto tantissimo: ogni volta che mi passava accanto avrei voluto riempirlo di schiaffi, dirgli che è uno psicologo fallito e che mi ha deluso a livello umano; ma se l’avessi fatto, chi l’avrebbe spiegato agli altri due? E soprattutto, chi glielo spiegava alla povera Elena? Anche se non la conosco, posso in parte capire come debba essersi sentita nello scoprire che il suo ragazzo, dall’apparenza così calma e dallo stesso temperamento di un lamantino spiaggiato, si drogasse di nascosto. Deve essere stato davvero un brutto colpo per lei.

Una volta tornati a casa alle due di notte, perché ci siamo messi a parlare di vari argomenti per ore, manco fossimo gli ospiti televisivi di Barbara D’Urso, saluto Luca con freddezza ma non riesco a liberarmi dalla stretta affettuosa di Elena, che ricambio solo perché ancora travolto da quel sentimento di compassione (sì, odio il contatto fisico, ma questa volta mi sono quasi sentito in dovere di darle un abbraccio consolatorio, anche se non sa ancora nulla).

Una volta rientrati a casa Armando si getta sul divano, sprofondando il volto tra i cuscini, io invece mi siedo accanto a lui, desideroso di sapere cosa ne potesse pensare a riguardo (ovviamente levando la situazione dal suo contesto).

«Cosa faresti se un tuo caro amico si drogasse?». Armando mi guarda confuso, con il faccione che è praticamente diventato un tutt’uno con i cuscinetti.

«Corrado…devi dirmi qualcosa?».

Sospiro, spazientito, «No, Armando, non devo dirti nulla».

Perché tutti gli esseri di questo fottuto universo pensano che mi droghi? Sono solo un po’ asociale e sfigato, ma non mi pare una scusa valida per strappare un biglietto per “Psichedelicolandia”.

«Perché me lo stai chiedendo?»

«Beh, sai…» tento di inventarmi una scusa plausibile da fargli bere all’istante, «Mi è venuto in mente e ho pensato di chiedertelo».

 Che scusa del cavolo…Probabilmente dirgli “Mi drogo e non sapevo come dirtelo” avrebbe avuto più senso.

«Ma è rivolto a qualcuno in particolare?»

«No, affatto, te lo sto chiedendo così, perché volevo solo una tua opinione».

Anche se sembra poco convinto della cosa, Armando capisce benissimo che, qualora ci fosse stato o no un soggetto in questione, non avrebbe dovuto azzardarsi a chiedermelo.

«Boh, penso che gli parlerei, lo prenderei in disparte e gli chiederei il perché».

Dall’universo Armando non mi giunge niente di nuovo, ma io esigo una risposta valida al mio quesito: «E se lui non volesse parlartene?»

«In quel caso credo che farei di tutto per farlo stare bene… sai, se uno si droga ci deve essere per forza un motivo sotto, cioè, a meno che non sia solo per attirare l’attenzione o per fare il figo, non penso che lo faccia così a caso; inoltre, in queste situazioni, avere il supporto di qualcuno è fondamentale».

Adesso sì che mi sento soddisfatto dalle sue parole! Ora so cosa fare nel caso in cui Luca abbia la favolosa idea di ostinarsi a non dirmi nulla (non che non sapessi già cosa fare a riguardo, ma al posto del famoso Boogie Men, il mio “demone inseguitore” si chiama Ansia Sociale, quindi, come ho già detto in principio: ho bisogno di essere incoraggiato in queste situazioni). Scompiglio i capelli di Armando come se stessi accarezzando le orecchiette pelose del mio Cocker e faccio per salire in camera mia.

«Secondo me dovresti parlarne con Ciccio», la voce del Labrador sembra arrivare direttamente dall’oltretomba.

«Perché proprio a Ciccio?»

«Perché anche lui ha avuto questo tipo di problema»

«Aveva amici che si drogavano?»

«Non proprio…» Armando alza il busto per guardarmi meglio, «era lui quello che si drogava»

«Ah…fantastico» lo ringrazio per l’informazione e gli auguro la buonanotte, quando entro in camera mi distendo sul letto e inizio a pensare.

Mi sembra di vivere dentro una Telenovelas argentina: ogni giorno c’è un plot twist nuovo pronto a lasciarmi di stucco, facendomi continuamente crogiolare nell’ansia, preoccupato per ciò che accadrà in seguito. Penso a Luca e a tutte le bugie che avrebbe potuto dirmi e convengo che forse non lo conoscerò mai per quello che è realmente… in effetti, se già non sapevo questa cosa su Ciccio che conosco da quattro anni, figurati se posso sapere cosa si cela dietro la maschera da bravo lamantino vichingo di Luca! Ora magari scopro che Elia è un fan di Lady Gaga e che si fa i cannoni allucinogeni prima di entrare in campo!

Al momento ero talmente arrabbiato che non feci nemmeno caso al fatto che stavo pensando di nuovo al manzo, semplicemente lo mandai a quel paese insieme a Luca, ai suoi inseguimenti da strapazzo, a Ciccio drogato e al mondo intero.

 

 

 

 

 

Note della “narratrice narrante” che narra i fatti narrati:

Sapere che un tuo amico ha un problema grave e notare che non ha nemmeno il coraggio di confessartelo, forse perché non si fida ancora di te, è davvero straziante; figuratevi se a vivere questa situazione è proprio Corrado che, penso avrete capito tutti che finora, di situazioni del genere non ha mai avuto la fortuna di affrontare. Spero che continuerete a seguire la storia, perché ancora siamo a metà dell’opera! Riuscirà il nostro “eroe” a scoprire perché Luca ha voluto fare quattro salti a Psichedelicolandia? 

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Capitolo 5
*** Un Piccolo Dubbio Amletico ***


CAPITOLO 5

 

UN PICCOLO DUBBIO AMLETICO

 

Come to decide that the things that I tried

Were in my life just to get high on

When I sit alone

Come get a little known

But I need more than myself this time

[Red Hot Chili Peppers – Snow Hey Ho]

 

 

 

 

Aprile sta giungendo al termine, il mese prossimo si disputeranno le semifinali che determineranno chi delle quattro squadre che hanno superato le eliminatorie potrà vincere le regionali. La nostra squadra, nonostante i vari problemi e la mancanza di una vera e propria tattica, è riuscita a giostrarsi bene sotto la guida di Elia e del Coach, ma ha ancora un ultimo inconveniente da risolvere prima di fare una figura di merda davanti un pubblico di gente che, ovviamente, non si aspetta mica di vedere una partita da “oratorio” avendo pagato i biglietti. Il mese scorso sono successe così tante cose che spero vivamente di staccare la spina e rilassarmi per un po’ di tempo, e dunque di potermi concentrare solo e unicamente a queste benedette partite. Per quanto riguarda la storia di Luca, ho seguito il consiglio di Armando e ho cercato di essergli vicino quanto più possibile, anche se alla fine, dato che mi facevo sentire praticamente tutto il santo giorno, mi sono sentito un vero e proprio Stalker: «Mi cerchi più tu che la mia ragazza» è stata la frase che mi ha fatto capire quanto abbia esagerato. In ogni caso oggi, dopo una settimana di pausa dal torneo, finalmente ricominciano gli allenamenti. Arrivo in palestra un po’ in ritardo e trovo i ragazzi nella solita posizione a cerchio intorno a Elia, che tiene in mano una lavagnetta che il Coach usa per spiegarci le strategie. A guardarli bene sembrano quasi il sistema solare: Armando e gli altri ragazzi sono i pianeti che girano attorno a Elia che, ovviamente, è il “manzo-sole”. Prendo posto nel cerchio trattenendo le risate per quella strana metafora che avevo pensato e per l’idea di mettermi gli occhiali da sole in sua presenza. Non appena oso avvicinarmi alla sua orbita, il discorso del Bronzo di Riace si interrompe bruscamente: «Complimenti, in quanto puntualità non ti smentisci mai, Ciccio è arrivato persino prima di te». Ciccio mi fa ciao ciao con la manina.

«Mi dispiace, ho avuto un—»

«Non m’interessa» Elia mi fa un gesto con la mano e si mette a camminare avanti e indietro con la lavagnetta, «Come stavo dicendo prima, la scorsa settimana, dopo l’ultima partita, ho parlato con il Coach dell’idea di Corrado». In quel momento mi sentivo talmente in soggezione da riuscire a sentire in sottofondo il motivetto “ansiogeno” del Chi Vuol Essere Milionario, ma allo stesso tempo mi sentivo lusingato del fatto che quel testone del manzo ne abbia parlato col Coach e che gli abbia riferito che quella strategia è tutta farina del mio sacco… o almeno spero sia stato così, sennò è la volta buona che lo arrostisco per bene e lo servo con un bel piattone di insalata con i fagiolini.

«Lui mi ha risposto che, effettivamente, da un anno a questa parte aveva notato che c’era qualcosa che non andava e così ha accettato l’idea di un ipotetico cambio di ruoli» fa una pausa per guardare tutti negli occhi con la sua solita espressione da cane rabbioso. «Ovviamente, dopo quel folle “esperimento”, mi sono fatto anch’io un’idea».

Lo guardo sottecchi e mi preparo ad ascoltare il suo piano malvagio.

«Punto primo: Antonio non deve fare il laterale, i suoi riflessi non sono adatti per questo ruolo», si volta verso di me, forse in attesa di un feedback di qualche tipo, ma preferisco stare immobile e non dargliela vinta.

«Punto secondo: Armando come centrale è qualcosa di osceno, non voglio assolutamente che lo rifaccia».

Ecco che comincia ad andarci giù pesante…

«Punto terzo: per Ettore, non ho nulla da dire, credo che il tuo ruolo sia sempre stato adatto, per quanto riguarda Corrado invece…».

Signori e signore, allacciatevi le cinture, sta per arrivare un mega complimento offerto dal re degli scaricatori di porto in persona!

«Credo che “Corrado” e “Palleggiatore” sia un binomio davvero inquietante, degno di un film horror, oserei dire».

Carramba che sorpresa! Come mai stavolta non si è espresso con il suo solito linguaggio colto ed elegante? Che si sia stancato di esprimersi esclusivamente col turpiloquio?

«Mentre per Ciccio… beh, stavolta, non posso che dare ragione alla Samara dei Palleggiatori».

Finalmente mi volto a guardarlo, sollevato dal fatto che almeno una cosa me l’abbia riconosciuta.

«Dunque, oggi voglio controllare un paio di cosette, se avrò le risposte che mi servono vi svelerò cosa abbiamo pensato di fare con il Coach».

I ragazzi sembrano tutti d’accordo con lui, dopo il discorso alcuni vanno a cambiarsi mentre le riserve (annoiate da un discorso che non li riguardava, poiché spettava al “sestetto titolare”) sono corsi a prendere le palle da gioco.

Una volta sistemata la rete, Elia mi si avvicina con fare minaccioso (e quando mai?).

«Ti posso parlare?» finisco di sistemare la rete prima di rispondergli, giusto per farlo aspettare un po’.

«Di cosa si tratta?»

«Vieni un attimo fuori».

Il cuore comincia a battermi manco avessi la tachicardia. 

Anche se non so spiegarmi il perché di quest’ansia, credo sia dovuta dal fatto che, ogni volta che Elia si apparta con qualcuno, questo qualcuno torna sordo e con qualche osso fratturato. Il manzo mi conduce in cortile chiudendo le porte della palestra dietro di sé, poi prende un lungo respiro e mi fissa dritto negli occhi (io comunque ero già pronto per difendermi e sferrare un calcio poderoso nella sua mascella).

«Mi dispiace per come mi sono comportato l’ultima volta, non avrei dovuto deridere la tua idea».

Rimango immobile, incapace di proferire alcun verbo.

Non posso credere che Elia, il sole rincarnato in un essere dalle fattezze divine, si stia scusando con me, povero essere mortale che non riesce nemmeno a guardare senza riempirlo di critiche e insulti come se piovessero dal cielo.

«Il punto è che questa sarà la nostra ultima partita come squadra e sinceramente vorrei viverla senza alcun rimpianto».

Per quanto possa odiare ogni singola cellula del suo essere, Elia ha tremendamente ragione e il fatto che veda la cosa in modo così malinconico mi fa scoprire un lato di lui che non pensavo potesse appartenergli.

Abbasso lo sguardo, rattristato per essermi ricordato che sarà l’ultima partita anche per me.

«No, scusami tu, è solo che anch’io la vorrei vivere in modo dignitoso! Non so se gli altri accetteranno l’idea di continuare a fare squadra un giorno, ma voglio che sia tutto perfetto per le semifinali».

«Allora ci intendiamo benissimo», come se nulla fosse, Elia mi mette una mano sulla spalla e mi osserva con uno sguardo diverso dal solito.

«Non ho mai dubitato delle tue capacità, tu sei una delle poche persone che ritengo siano dotate di vero talento, ed è per questo che voglio che tu dia il massimo al torneo, perché sarà il nostro momento di gloria».

In quel preciso istante sentii riaffiorare in me quella strana sensazione di calore e le parole di Luca cominciarono a risuonarmi per la testa.

«Lo pensi sul serio?»

«Certo che lo penso! Sennò che te lo dico a fare? Lo sai che odio i ruffiani, figurati se poi mi devo ritrovare a farlo pure io, che tra l’altro in questo caso non ci guadagnerei nulla».

Come no? Vallo a dire ai tuoi professori, manzo ruffiano, e poi ne riparliamo!

«Comunque sia, Corrado, so quanto possa essere difficile per entrambi andare d’accordo, ma voglio proporti una tregua momentanea, anche perché, ora come ora, ho bisogno di discutere con qualcuno che di strategie se ne intenda».

Ancora un po’ scioccato da questo suo nuovo modo di porsi, così civile e ragionevole, annuisco debolmente e azzardo una domanda:

«Quindi riconosci che anch’io sappia elaborare delle strategie valide?», lui mi fa una smorfia, «Sì… ma non sono poi così precise», Elia si volta per aprire le porte della palestra, «Per questo motivo dobbiamo occuparcene in due».

Questo suo parlare al plurale è davvero strano, il fatto di collaborare finalmente con lui mi fa sentire come se fossi riuscito a scalare l’Everest senza imbracatura, cioè come in una situazione fantascientifica, anche se ne sono davvero felice.

Elia, Elia, Elia, finalmente la tua testa ha deciso di funzionare!

Dopo gli allenamenti il manzo non era ancora convinto, così ci confessa di voler riprovare il giorno dopo per schiarirsi meglio le idee, chiede soprattutto la presenza di Antonio e Armando. Dopo esserci salutati, Elia mi fa cenno di avvicinarmi e così lo raggiungo.

«Hai un minuto?»

«Anche venti se vuoi».

Elia mi rivolge un sorriso beffardo prima di mostrarmi i suoi appunti.

«Tanto che fretta hai? Sei sempre in ritardo tu!» gli levo bruscamente il quadernetto dalle mani e gli do un’occhiata, offeso.

«Siamo nella cacca», inveisce mentre alzo le sopracciglia alla vista della sua scrittura dall’aspetto cuneiforme (non sto scherzando, ha una scrittura davvero indecifrabile, mi ci sono voluti almeno dieci minuti prima di capire cosa diamine ci fosse scritto!).

«Non so come inquadrare Armando, adesso che Ciccio si è rivelato un libero migliore di lui…»

«Ha una buona schiacciata»

«Sì, ma non ho assolutamente intenzione di sostituire te ed Ettore».

Rimaniamo a fissare i suoi geroglifici per un po’, ma mentre lui si scervella per cercare una qualsiasi soluzione, a me, non so per quale strano motivo dato che quando si parla di strategie sono sempre concentrato, mi viene da chiedergli qualcosa che non ha a che fare con tutto questo: « dopo la scuola hai intenzione di continuare con la pallavolo?».

Elia mi guarda sorpreso ed esita un po’ prima di rispondere.

«Certo che sì, ho assolutamente intenzione di farne una carriera, tu?»

«Non saprei»

«Hai altri piani?»

«In realtà no»

«E allora perché non dovresti continuare?»

«Non so se ai miei piacerà l’idea».

Elia si alza di scatto, provocandomi un mezzo infarto (diciamo che la sua delicatezza da pachiderma incinta ti porta spesso a chiederti se non abbia avuto uno spasmo o se si sia improvvisamente ricordato di qualcosa), posa i suoi geroglifici sopra la cattedra e mi fa cenno di seguirlo in corridoio.

«Sono sempre stato dell’opinione che farsi condizionare dai propri genitori, per quanto riguarda il futuro, è un po’ come tapparsi le ali da soli; tu hai talento, porca miseria!» comincia a innervosirsi. «E mi fai arrabbiare! Delle volte vorrei prenderti e farti sbattere la testa al muro. Sai una cosa? Credo che noi due stiamo perdendo troppo tempo qui e dovremmo stare in una squadra vera».

Rimango in silenzio per un po’: le sue parole mi ricordano il discorso che Luca pronunciò da bambino prima di lasciarci.

«Quando usciremo da qui non saremo più i Red Beatles, prenderemo ognuno la propria strada, com’è giusto che sia, e poi chi si è visto si è visto!» Elia si piazza davanti a me, guardandomi con decisione.

«Con o contro di me, io voglio che tu continui a giocare»

«Perché ci tieni così tanto?» gli chiedo a tradimento, sperando in chissà quale risposta.

«Perché è un peccato»

«Solo per questo?».

il manzo aggrotta le sopracciglia, confuso,«Certo, per cos’altro sennò?».

Sbuffo un po’ deluso e lo guardo negli occhi, «Beh, in ogni caso ti ringrazio per la fiducia…»

«E ovviamente perché mi piaci».

Stavolta sono io a guardarlo confusissimo.

«Finora non ho mai incontrato qualcuno in grado di tenermi testa come te, sia in campo che nella vita quotidiana…e poi, diciamocelo chiaro, come mi fai arrabbiare tu, non mi fa arrabbiare nessuno!».

Sorrido imbarazzatissimo, «La stessa cosa vale per me»

«Felice di vedere che l’odio sia ricambiato». Restiamo in silenzio per un po’, guardando il pavimento ai nostri piedi, poi decidiamo di tornare.

«Comunque sia, è meglio andare prima che i bidelli ci chiudano qua dentro»

«Come vuoi»

«Hai bisogno di un passaggio?». Quella domanda così inaspettata mi ha lasciato talmente perplesso da farmi quasi balbettare: «Ehmm…n-no! Casa mia è a due passi da qui, non ce n’è bisogno, davvero!», il manzo alza un sopracciglio, poco convinto dalle mie parole.

«Ne sei sicuro?»

«Sì, sì, non preoccuparti, va pure!».

Senza aggiungere altro Elia va a cambiarsi ed esce di scena, io invece mi trattengo nello spogliatoio ancora per un po’, mi metto le solite cuffiette e ascolto The Longest Wave dei miei amati Red Hot. Devo concentrarmi, manca pochissimo alla fine di tutto, dopo di ciò potrei anche non giocare più, potrei non rivedere più Elia….

Mi copro la faccia con le mani ed emetto lunghi sospiri; devo anche ricordarmi di smetterla di pensare a lui, perché non ne ho motivo e perché sta diventando un’ossessione, perciò devo cercare di mantenere la calma…ma come?

Improvvisamente mi ricordo quel discorso di Luca e penso che forse, se sistemassi le cose con lui, tutto andrebbe per il meglio.

Invece no, la verità è che ho paura di sistemare le cose, perché a questo punto non so più cosa provo: è ammirazione? Gelosia? O qualche strana forma di simpatia? Cos’è che mi piace di lui poi? Sarà forse l’aspetto, che potrebbe benissimo mettere in soggezione anche un morto vivente, o forse il suo carattere, anche se in realtà non lo sopporto proprio… qualsiasi cosa sia, spero svanisca presto dai miei pensieri, perché non posso permettermi certe debolezze proprio adesso, anche se…

Prendo il cellulare e chiamo l’unica persona al mondo che potrebbe davvero aiutarmi in una situazione del genere: Chiara, la mia vicina di casa.

 

 

 

 

 

Note della “narratrice narrante”:

Quando lo feci leggere per la prima volta alla mia cara amica french_toast, lei esclamò: “finalmente un personaggio femminile!”; effettivamente mi ero accorta che, a parte la madre di Corrado ed Elena, finora di ragazze non se n’era vista neanche l’ombra ahahaha, curiosi di sapere chi è questa Chiara? Allora vi consiglio di leggere il prossimo capitolo!

Se no invece….vabbè, ci ho provato!

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Capitolo 6
*** La Rivelazione che mi costò la sanità mentale ***


 

CAPITOLO 6

 

LA RIVELAZIONE CHE MI COSTO’ LA SANITA’ MENTALE

 

You don’t know my mind,

You don’t know my kind,

Dark Necessities are part of my design,

Tell the world that I’m falling from the sky

Dark Necessities are part of my design

[Red Hot Chili Peppers – Dark Necessities]

 

 

 

 

Io e Chiara siamo amici sin da quando lei e la sua famiglia si sono trasferiti nel villino di Luca, qualche anno dopo la sua partenza. Lei ha solo un anno in meno di me, ma è una ragazza matura ed estremamente comprensiva. Chiara è una delle famose ballerine del Coreutico e dall’aspetto sembra quasi una bambina (forse per via del fisico molto esile e della sua altezza modesta), però è davvero graziosa, di fatti Armando n’è rimasto particolarmente colpito (anche se oserei dire “cotto come una pera sotto un sole di mezzogiorno in piena estate”).

Con lei parlo spesso anche di argomenti molto intimi. Anche se sono l’essere più chiuso in se stesso di quest’universo, lei è l’unica persona con cui riesco a parlare in tutta sincerità, senza paura di esprimere il mio pensiero.

Le mando un messaggio e, come al solito, mi risponde subito (mi sono scordato di dirvi che Chiara e il suo cellulare sono una cosa sola) dicendomi che al momento è impegnata con le prove del saggio, ma che potrà vedermi  solo dopo cena, così la invito a prendere qualcosa fuori.

Dopo averla aspettata con ansia tutto il pomeriggio, verso le nove di sera mi reco sotto casa sua. Chiara si presenta tutta bella e sistemata con la sua inseparabile Pinko e un vestitino a fiori, che la fa sembrare un bouquet coi piedi.

Appena arrivati al pub le offro il solito Tè al limone (diciamo non siamo proprio due cultori dell’alcol) e ci accomodiamo nell’angolo più appartato del locale, ossia nel tavolo vicino ai cessi.

«Allora, di cosa di tratta?», le mi sorride radiosa, il suo rossetto rosa la fa sembrare una bambolina, io invece sembro essere appena uscito dal Tartaro, dopo aver attraversato lo Stige e il Lete a nuoto, tra le anime dei peccatori.

«Vedi, ultimamente c’è qualcosa che mi sta facendo impazzire…anzi qualcuno».

Lei mi guarda intrigata, «E di chi si tratta?»

«Quello non è importante, il vero problema è che questa persona non mi vuole uscire più dalla testa e non so davvero come fare!»

«Mi sembra normale», commenta lei con la sua solita compostezza, «Prima o poi capita a tutti di trovare qualcuno che ci piace»

«Ma questa persona non mi piace, non andiamo nemmeno d’accordo e poi, ogni volta che mi parla, mi fa smuovere tutti i gironi infernali!»

«Beh, sai, alla fine potresti anche nascondere quello che provi per lei dietro questo finto atteggiamento d’odio—»

«Chiara» la interrompo, «il punto è che sto parlando di un uomo».

Lei si ferma un attimo a guardarmi per realizzare la cosa, dopo di ché mi rivolge un sorriso inedito, un espressione birichina che non le avevo mai visto fare, nemmeno quando, sciaguratamente, le chiesi di spiegarmi la trama di Cinquanta Sfumature di Grigio (Non pensate male, ero semplicemente curioso dato ne parlavano tutti!).

«Un uomo, dici?»

«Sì…un uomo».

Chiara fa passare un dito sul bordo del bicchiere e poi mi guarda sorridendo.

«A cosa pensi?», le chiedo un po’ intimorito.

«Beh, io e te ci conosciamo da tanto tempo e, in tutti questi anni mi sono sempre chiesta se un giorno sarei mai arrivata a confessartelo o meno» Chiara si guarda furtivamente intorno e poi mi si avvicina con la sedia per sussurrarmi: «ho sempre pensato che fossi gay».

Ok, diciamo che in quel momento mi stava per venire un mega infarto fulminante; di tutto mi sarei potuto immaginare, ma non questo! Avrei anche accettato una risposta nonsense tipo: “Corrado, io credo che tu stia morendo”, e l’avrei presa comunque bene, anzi, mi sarei alzato e mi sarei messo a gridare euforico ringraziando tutti, pure il barista che ci stava provando con la figlia del mio prof di fisica, e gli avrei dato un bacio nella capoccetta stempiata dicendogli che non avrebbe avuto speranze nemmeno con un uomo (giusto perché siamo in tema).

Io? Gay?! Ma stiamo scherzando? Non mi sono mai azzardato a pensare cose sconce sugli uomini, né tantomeno a provarci o ad avere strani sentimenti per qualcuno del mio stesso sesso. Anzi, a dir la verità, in generale dell’amore non me n’è mai importato nulla! Ma ve lo immaginate, io, il cinismo fatto a iperbole, mano nella mano con qualcuno? Impossibile! A meno che quel qualcuno non sia il cinismo fatto a metafore o qualcosa del genere! In poche parole: solo una figura retorica potrebbe far colpo su di me, tranne lo Zeugma, che in cinque anni che faccio il classico non ho ancora capito cosa diamine sia! (un po’ come il malleolo).

Le rivolgo uno sguardo serio e cerco di risponderle con lucidità (la mia mente iperbolica è talmente agitata che potrei iniziare a parlare come un poeta Ermetista, ergo con metafore che solo la mia testa potrebbe capire, quindi è meglio evitare): «Non credevo pensassi questo di me, cioè, da cosa lo avresti capito?»

«Da tante cose: dal tuo modo di fare e di porti con gli altri, dal fatto che il corpo femminile non sembri quasi interessarti…e poi ne ho le prove!».

La guardo come se mi avesse detto la cosa più scandalosa del mondo.

«Di quali prove parli?»

«Ti ricordi quella volta in cui, a fine saggio, ti ho portato con me nello spogliatoio e ti ho chiesto di aiutarmi a togliere il vestito? O di quella volta in cui ti ho aperto mentre ero praticamente in mutande? Ecco…tu non mi sembravi affatto agitato, era come se non te ne importasse un fico secco. In te non ho mai visto uno sguardo malizioso o imbarazzato nei confronti di ragazze seminude o in bikini, come a mare».

Cerco di riscattare il mio onore: «Beh, perché sei mia amica! Anzi, sei come una sorella per me, perché siamo cresciuti insieme e non provo alcun tipo di imbarazzo! Insomma…ti ho vista anche in condizioni peggiori: con pigiamini davvero ridicoli con tanto di orsacchiotti inquietanti e capelli che non avevano forma umana!»

«Ti ringrazio per la fiducia, ma…quelle volte lo feci apposta per risolvere ogni mio dubbio su di te».

Rimango un attimo in silenzio, con l’orgoglio ferito e il cervello che inizia a partorire le peggio stronzate pur di uscire da quella situazione imbarazzante, ma alla fine batto una mano sul tavolo e decido di sfogarmi:

«No, io non lo accetto, io non sono gay e non mi piacciono gli uomini. Se ho fatto tutte quelle cose con te è perché sono una persona gentile e non ho mai avuto pensieri loschi su nessuno»

«Perché dici così? È naturale! So che la sessualità è una cosa difficile da comprendere, ma non bisogna nascondersi!»

«Io non sto nascondendo nulla, non ho mai avuto pensieri strani sugli uomini e mai ne avrò!»

«E allora cosa mi dici del tuo tipo?»

«Beh, io…» mi ritrovo inspiegabilmente con le spalle al muro, «Credo che mi stia solo sul cazzo»

«Ne sei sicuro? E allora se lo sai, a cosa ti è servito il mio aiuto?».

Rimango immobile a fissare il vuoto, incapace di trovare una risposta valida.

«Non lo so…e se fosse solo soggezione?».

Lei mi guarda poco convinta, sorseggia l’ultima goccia di Tè che è rimasta nel suo bicchiere e poi torna a fissarmi.

«Non ti sei mai soffermato a guardare un ragazzo più del dovuto?» penso a tutte le volte in cui sono rimasto semi-ipnotizzato dal manzo.

«Sì, ma…»

«Ti senti in imbarazzo se qualcuno del tuo stesso sesso ti tocca o ti sta troppo vicino?», mi torna anche in mente la scena dell’inspiegabile calore e della famosa frustata, quando il manzo si è avvicinato per la prima volta a me.

«Un pochino, forse, ma credo sia normale, non mi piace avere la gente addosso in generale»

«Se non ne sei poi così convinto, dovresti provare a scoprirlo da solo»

«Provare a fare cosa?»

«Provare a vedere se è solo soggezione o se c’è davvero qualcosa dentro di te, ovviamente».

Mi gratto la nuca imbarazzato e le rispondo con un filo di voce, arreso all’idea: «E come?».

Lei ricomincia a guardarsi intorno, aspetta che un tipo esca dal bagno e risponde:

«Vieni a casa mia, credo di avere la soluzione».

Dopo aver pagato il conto ed essere tornati nel quartiere (da bravi fanti appiedati e senza buon cavallo), lei mi fa’ accomodare a casa sua e mi porta subito nella sua stanza; mi sentivo molto in imbarazzo, per tutto il tragitto mi chiedevo cosa avesse intenzione di fare, infatti gliel’ho chiesto più volte, ma quella non rispondeva, alimentando sempre di più la mia ansia (come se già non n’è avessi abbastanza in corpo).

Una volta entrata anche lei, Chiara chiude la porta della sua stanza a chiave e mi chiede di sedermi sul letto, poi prende il suo portatile e si siede accanto a me.

«è il metodo più antico del mondo: guardare un film porno gay!».

La guardo sorpreso, non sapevo se morire lì nel suo letto o se buttarmi giù dalla finestra giusto per rendere la cosa più teatrale.

«E a te va bene se lo guardiamo insieme? Cioè, non ti vergogni?»

«Certo che mi vergogno, ma lo faccio per te!».

 Chiara cerca un qualsiasi filmato e ci mettiamo a gambe incrociate a guardare la scena.

In quel momento non sapevo davvero come reagire: ero disgustatissimo (non che non sapessi come si fa, cioè alla fine sono cose che si sanno, ma per come i due tipi lo stavano facendo sembrava una cosa fantascientifica).

Ero imbarazzato per Chiara, che nel frattempo si era aggrappata a me, ma allo stesso tempo mi stavo anche trattenendo le risate, perché visti dall’esterno sembrava che stessimo guardando un film horror.

«Non ti succede niente?» mi domanda Chiara, il cui rossore ormai è visibile pure al buio.

«Non lo so…» le rispondo mentre le tappo gli occhi alla scena dell’orgasmo, «So solo che dovremmo smetterla», metto pausa.

«Non hai provato eccitamento?»

«A essere sincero ero più imbarazzato…forse è per la tua presenza».

Chiara ci riflette un attimo. «Forse hai ragione, dovresti guardarlo quando sei da solo»

«Mi dispiace tantissimo».

Lei mi sorride, «Ma no, scusami tu, forse ho esagerato, però credo che tu debba assolutamente scoprirlo, insomma, si tratta pur sempre di una parte di te».

Prendo un lungo respiro e mi faccio coraggio: «Credi che se scoprissi cosa sono davvero, questo mi aiuterebbe a sentirmi un pochino meglio?»

«Certo che sì!».

abbasso lo sguardo e sbuffo.

«Ti ringrazio Chiara, davvero»

«Ma figurati».

Tornato a casa mi distendo subito su letto e mi ritrovo a fissare il soffitto, incapace di pensare ad altro, persino ai miei schemi.

E se dovessi scoprire di esserlo? Cosa comporterebbe ciò?

Sprofondo la testa nel cuscino e trattengo le grida.

No, questo non sono io, non può essere! Io sono normale, come tutti gli altri… eppure so di avere qualcosa che non va dentro di me…e poi, mettendo caso che lo ammettessi, cosa ne penserebbero i miei amici? E soprattutto, cosa ne potrebbero pensare i miei genitori? Useranno cinghie e fruste circensi per riportarmi alla retta via, o saranno quantomeno comprensivi? Mi ripudieranno come figlio, o faranno semplicemente finta di nulla?

Torno a guardare il soffitto e mi chiedo se sia davvero così necessario scoprire una cosa di cui puoi benissimo farne a meno, dopo di che mi addormento, senza darmi una vera risposta.

 

 

 

Il giorno dopo, al mio risveglio, mi ritrovo diecimila messaggi nel cellulare, altrettante sveglie perse e un numero infinito di chiamate dai miei. Noto che sono le dieci e che quindi non ho più chance di entrare a seconda ora, così vado per gradi e inizio a leggerli tutti:

 

Papà: 07.20 AM “Corradino, ti abbiamo lasciato la colazione sul tavolo. Io e mamma siamo partiti per la gita scolastica, come ti abbiamo già detto. Non fare tardi a scuola e puntati le sveglie.”

 

Luca: 09:35 AM “Ciao Raddo, ci sei oggi per una partita?  Stasera non sono di turno, fammi sapere! ;) “

 

Chiara: 08:44 AM “Buongiorno :) mi dispiace per ieri, ma volevo solo aiutarti a capire :( se vuoi oggi usciamo insieme, così ti svaghi un po’!”

 

Armando: 09:48 “Hey, amico, dove sei? Sei entrato a seconda? Ti va di pranzare insieme prima degli allenamenti? Ho voglia di panino con porchetta lol”

 

Elia: 10:02 AM “Gira voce che ti danno per disperso, se non vieni agli allenamenti ti pesto a sangue”

 

Mamma: 10:15 AM “CORRADO, PERCHE’ NON RISPONDI AL TELEFONO? IO E TUO PADRE CI SIAMO PREOCCUPATI!!!! CHE STAI FACENDO? RISPONDI!!!”

 

Perfetto, proprio oggi che non volevo vedere nessuno mi cercano tutti! Mi alzo a malapena dal letto e vado a riscaldarmi la colazione, accendo la TV per farmi compagnia e inizio a pensare come organizzarmi la giornata con un bello schemino tattico.

In base alle cose più importanti, decido di rispondere così:

A Papà: “Tranquillo Papà, stamattina mi sono puntato almeno sette sveglie, comunque, buona gita scolastica e salutami la mamma. P.s. dille che se non ho risposto è perché avevo il cellulare in silenzioso”.

(bugia numero uno)

 

A Luca: “Hey, Luca, non so se oggi potrò venire, ma ti farò sapere.”

(bugia numero due)

 

A Chiara: “Buongiorno, non preoccuparti per ieri, ti ho detto che non è nulla di grave, in ogni caso stasera ho un impegno, magari usciamo domani, ti va?”.

(bugia numero tre)

 

Ad Armando: “Scusami, non ho sentito la sveglia e non sono entrato, ma se sei solo possiamo pranzare insieme”.

 

A Elia: “Intanto ti calmi, e poi stai tranquillo, perché questa volta arrivo magari in anticipo”.

 

Dopo aver inviato tutti i messaggi, vado fuori per allenarmi un pochino per non pensare ad altro, ma non faccio nemmeno in tempo a mettere un piede fuori che mi arriva una risposta da Chiara: “Sei sicuro di non essere arrabbiato con me?”.

Sbuffo e mi preparo ad affrontare una conversazione chilometrica:

“No, Chiara. Non lo sono affatto, perché dovrei?”

“Non lo so, forse ti ho messo troppo in imbarazzo”.

Mi siedo sul terrazzo, abbandonandomi all’idea di dover passare un’intera mattinata a parlare con lei.

“Beh, sì, mi sono sentito in imbarazzo, ma so che hai ragione tu: prima o poi avrei dovuto pormi la domanda”

“Dici sul serio? :) “

“Sì, anzi, ti ringrazio per la tua disponibilità, come sempre, se non ci fossi tu probabilmente non mi sarei mai sfogato”, e me ne esco.

All’una e un quarto raggiungo Armando al solito posto e, dopo esserci farciti per bene (perché dovete capire che anch’io mangio come un ossesso, anzi, potenzialmente potrei essere più famelico e pericoloso di un Armando e un Antonio mesi insieme a un cenone natalizio), ci dirigiamo in palestra.

Ovviamente Elia è già lì, nella sua solita posizione di comando, con i suoi geroglifici in mano e con un’espressione da generale nazista.

Stavolta vederlo in faccia mi fa un effetto diverso, mi sembra quasi di vedere un’altra persona:

solo in quel momento mi accorgo di come le sue spalle siano incredibilmente larghe, delle sue rughette d’espressione che gli donano un aspetto perennemente incazzato ma affascinante, del suo fisico marmoreo e dell’orribile tatuaggio tribale sul braccio destro che glielo fa sembrare più grosso di quello che è (diciamo che le sue braccia sono già tre quarti di bue ciascuno). Quando si volta guardarmi, noto per la prima volta quanto meravigliosi possano essere i suoi occhi, che sono dello stesso colore dei lapislazzuli (so che la cosa può sembrare strana, ma con il fatto che abbia gli occhi piccoli e le grandi sopracciglia sempre inarcate, è come se li nascondesse perennemente, a tutto questo aggiungete pure me che odio guardare la gente negli occhi).

Convinto di essermi fatto suggestionare da Chiara, cerco di evitare di guardarlo per troppo tempo e volgo il mio sguardo altrove per distrarmi, così mi accorgo della presenza di Ciccio.

«Che ci fai tu qui?»

«Non avevo nulla da fare e così sono venuto»

«Beh, una mano in più non fa mai male a nessuno», non aggiungo altro e vado da Elia, contento di aver sprecato un po’  di tempo per non destare sospetto.

«Cosa dobbiamo fare oggi?», lui non mi guarda nemmeno, tant’è probabilmente concentrato a decifrare la sua stessa scrittura.

«Forse ho una soluzione al nostro problema», mi mostra i suoi , ma glieli torno indietro con un gesto della mano, sfiorando per sbaglio la sua.

«Scusami, non capisco la tua scrittura, forse è meglio se me lo dici per diretto».

Elia sbuffa seccato e mi fa cenno di avvicinarmi di più a lui.

«Io credo che potremmo sistemare Antonio come centrale e Armando come opposto»

«E non come palleggiatore?», Elia mi rivolge il solito sguardo di disappunto.

«Vuoi proprio che faccia io l’opposto?»

«Ad essere sincero, sì, dovresti provarci», il manzo ci riflette su (anche se sembrava aver già le idee chiare in testa, forse aveva bisogno solo della mia approvazione per diventare ufficialmente l’assassino della squadra)

«Va bene, allora vediamo come funziona la tua idea. Se si rivela una buona strategia ti bacio in testa».

Spalanco gli occhi e lo guardo imbarazzatissimo.

«Cosa?»

«Allora facciamo così», continua con il suo discorso, «per oggi usiamo Armando come palleggiatore».

Rimango un attimo interdetto: sono sordo o l’ha detto davvero? Vabbè, poco importa, a me non interessa niente, stava solo scherzando.

A fine allenamento, passato per metà a congratularmi con me stesso per l’idea geniale e per metà a convincermi della non esistenza di Elia, mi vedo spuntare il volto di Luca da fuori lo spogliatoio.

«Ciao, Raddo!», mi saluta con un cenno della mano.

«Luca, cosa ci fai qui?»

«Che domande, sono venuto a prenderti!»

«E come hai fatto a venire?»

«Con la macchina!»

Mi passo una mano in faccia. «No, idiota, intendevo: come hai fatto a capire che studio proprio qui?»

«Me l’ha detto Armando ed Elena conosceva già questa scuola, sua cugina studia qui, anzi, la conosci? Credo si chiami Cristina…O Carolina? Boh, non saprei proprio dirti al momento, ma so che è del terzo anno»

«Lascia perdere, tu con i nomi non ci sai proprio fare», finisco di mettere tutto nel borsone e faccio per andare via con Luca, ma Elia mi afferra per una spalla e mi volta verso di sé.

«Io e te dobbiamo discutere su un paio di cosette»

«Sì, lo so, ma non oggi», Elia si volta verso Luca e capisce la situazione.

«Allora ci vediamo domani»

«Va bene, Elia, a domani».

Non appena pronuncio quel nome, gli occhi di Luca s’illuminano all’improvviso.

«Dunque sei tu il famoso Elia?», il manzo lo guarda un po’ confuso, ma subito dopo gli rivolge un sorriso che fa solo quando qualcuno lo osanna.

«Sì, tu saresti?»

«Sono Luca Barbieri, gioco nella squadra del Coach Di Martino»

«Ah!» Elia non pare esserne particolarmente interessato, ma ce la mette tutta per sembrarlo. «Giochi nei Purple Ace, giusto?»

«Esattamente! Sai, sono un grande ammiratore di tuo padre, ho avuto l’onore di averlo come Coach per un po’ di tempo, quando si è ufficialmente ritirato dalla serie A1, non so se ti ricordi di me!».

Guardo Elia scioccato e mi faccio quattro conti:

Il suo cognome è De Gregorio, quindi, se suo padre ha partecipato in serie A1 e se la memoria non m’inganna…….

Allora il padre di Elia deve essere il mitico schiacciatore Stefano De Gregorio! Un pallavolista della generazione dei fenomeni, nonché uno dei giocatori che ammiro di più a livello nazionale!

Ecco spiegato il perché della sua bravura!

«Capisco», il manzo cerca di non dilungarsi, «è stato un piacere conoscerti, Luca, salutami il Coach Di Martino quando puoi»

«Lo farò senz’altro!».

Rimango un attimo a fissare Elia in silenzio, come se ne fossi ipnotizzato.

Maledetto manzo di carne essiccata! Non solo sei bello come un marmo del periodo classico, ma sei pure figlio di superstar e sei schifosamente raccomandato in tutto, persino nello sport!

Dentro di me sento montare una rabbia incredibile, forse dovuta alla gelosia che provo per questo essere immondo dalle chiappe forgiate dagli dei, che ha sempre tutte le porte spalancate quando non se le meriterebbe affatto. Prima di trasformarmi in un lanciafiamme umano, come Rabbia di Inside Out quando s’infervora, trascino via Luca dalla scuola e cerco di pensare ad altro.

«Quindi il “tuo” Elia è il figlio di De Gregorio, non avrei mai potuto immaginarlo!», ecco che sono nuovamente impossibilitato a mantenere la calma.

«Sì, Luca, è lui, ora possiamo andare, per piacere?»

«Complimentoni!», mi da una pacca sulla spalla che mi fa girare le sfere astrali, «ti sei scelto proprio un bel Tonno da esposizione! Non pensavo giocasse in questa squa—»

«No, complimenti a te e alla tua brillante idea di drogarti alle spalle della tua ragazza!».

Luca rimane immobile, sconcertato dall’incredibile randomicità della mia affermazione.

«Corrado…»

«No, Corrado un bel finocchio impanato in pastella! Tu ora vieni con me e mi racconti tutto, dall’inizio alla fine e guai a te se mi nascondi qualcosa!»

 

 

 

 

Note della “narratrice narrante”:

Ovviamente il babbo di Elia non esiste davvero, che io sappia non c’è mai stato nessun “Di Gregorio” appartenente alla generazione dei fenomeni, perciò fate solo finta che lo sia stato! Come avete potuto notare la narrazione inizia a farsi sempre più lunga, perché ora arrivano i guai, i guai seri! E Corrado stavolta non ha più scampo!

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