180 days

di Blablia87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Da 210 a 180 ***
Capitolo 2: *** Da 180 a 179 ***
Capitolo 3: *** Da 179 a 176 ***
Capitolo 4: *** Da 175 a 170 ***
Capitolo 5: *** Da 169 a 157 ***
Capitolo 6: *** Da 155 a 148 ***
Capitolo 7: *** Da 147 a 143 ***
Capitolo 8: *** Da 143 a 139 ***
Capitolo 9: *** Da 138 a 137 ***
Capitolo 10: *** Da 136 a 130 ***
Capitolo 11: *** Da 129 a 127 ***
Capitolo 12: *** Da 126 a 124 ***
Capitolo 13: *** Da 123 a 117 ***
Capitolo 14: *** Da 116 a 112 ***
Capitolo 15: *** Da 111 a 109 ***
Capitolo 16: *** Da 108 a 104 ***
Capitolo 17: *** 103 ***
Capitolo 18: *** Da 102 a 100 ***



Capitolo 1
*** Da 210 a 180 ***





+93
2.230 ore circa dall’Impatto.
 
Il medico ha ammesso che le possibilità di recupero della parte sinistra sono scarse, quelle della zona inferiore pressoché nulle.
Mio fratello lo ha fulminato con lo sguardo.
Come se non lo avessi già dedotto dalle sue mani contratte, o dai sorrisi di circostanza delle infermiere ad ogni ingresso nella mia stanza durante quest’ultimo mese.
 
“Oggi torni a casa.” Continuano a dirmi.
Quella non è casa mia.
Casa mia è a chilometri di distanza da qui.
E l’ho persa, insieme a tutto il resto.
 
 
 


+96
73 ore circa dal mio ingresso trionfale nella mia nuova “vita”.
 
Mycroft ha rinunciato alla propria dépendance e di conseguenza a circa ottanta metri quadri della sua “magione” estiva per ricavarne un luogo adatto a me, come ama ripetere.
Nella fattispecie l’adattamento si traduce in un groviglio di cavi e guide che percorrono per intero il soffitto, permettendo ad una specie di amaca di trasportarmi qua e là come un pezzo di carne appena uscito dal macello (che, in modo piuttosto ironico, è esattamente quello che sembro senza vestiti addosso). Un cavo per entrare nella vasca, un cavo per uscire dalla piccola piscina per la “riabilitazione”, un cavo per scendere dal letto.
Ho cercato il violino con gli occhi, senza trovarlo.
Gentile, da parte sua, nasconderlo alla mia vista. Come se l’impatto avesse leso i miei centri del ricordo, e mi fossi dimenticato di averlo chiesto espressamente. Come se non sapessi che si crede misericordioso, nell’aver scelto di portarlo via. Sempre che l’abbia mai davvero preso, da Baker Street.
 
L’unica cosa con la quale interagisco realmente è questo schermo. È divertente, vederlo reagire a input così rapidi come il movimento delle pupille. Alle volte uso la mano destra, ma sono insopportabilmente lento.
 
Ho scritto una mail alla signora Hudson, per rassicurarla.
L’ho inviata al panettiere. Ha dieci anni meno di lei e più dimestichezza con la tecnologia.
Magari si chiederà come ho ottenuto il suo indirizzo, ma non farà tante domande.
 
Gli ho inviato una missiva personale ieri. Gli ho detto di far avere alla signora il messaggio, o io farò avere il mio al fisco.
 
No. Non credo farà domande.
 
 
 
 
(0,0)
Nessun orientamento.
Solo un punto.
 
Oggi ho fatto una scelta.
 
La scelta.
 
 
 
 
(0,0) +2
Oggi ho informato Mycroft.
 
Inutile dire quale sia stata la sua reazione.
Ma per quanto cerchi “di farmi ragionare”, come avrà ripetuto almeno dieci volte, sa che la sua ferrea logica non avrà la meglio sulla mia, questa volta.
Perché, per quanto ammetterlo lo spaventi, è cosciente che la ragione risieda dalla mia parte della bilancia, tra le ruote silenziose di questo odioso mezzo di trasporto meccanico che porta il mio corpo in giro per queste stanze.
 
Oggi piove, e il cielo grigio del Sussex sembra voler entrare dalle vetrate di questa prigione di cristallo.
 
 
 
 
-210
Per quanto non volessi, ho dovuto contrattare. Al momento gestisce lui il denaro, così come i mezzi di trasporto. Una delle tante cose che odio, da quando ho riaperto gli occhi su questa esistenza a metà.
 
Ha chiesto un anno. Io non volevo aspettare più di tre mesi. Alla fine, ci siamo accordati per sette.
 
Cinque mesi persi per lui.
Quattro per me.
 
Quindi, alla fine, ho vinto io. Come sempre.
 
210 giorni.
 
 
 
 
-209
 
La signora Hudson mi ha risposto.
Vorrei dirle che sì, tornerò presto a casa, ma non amo mentirle quando non è strettamente necessario.
 
Magari le scriverò una lettera, quando sarà il momento. Una lettera vera, con francobollo e tutto.
 
Sono contento che abbia deciso di lasciare il 221b libero per me. Ma, prima o poi, dovrà radunare tutte quelle cose e mandarle al macero. È inevitabile. Non ancora, però.
 
Mi piace pensare di poter tornare alla mia poltrona un’ultima volta.
 
Magari chiederò a Mycroft di allungare il viaggio di andata verso la Svizzera. Di fare una deviazione. Magari due.
Lestrade potrebbe rimanerci male, nello scoprire che dovrà vedersela da solo con tutti quei delinquenti che quasi sempre riescono a sfuggirgli davanti agli occhi.
 
Certo, non credo che sarà peggio di trovarmi quasi morto su una delle sue scene del crimine…
In effetti, non gli ho mai chiesto come l’ha presa.
 
 
 
 
-207
Prevedibile.
 
Mycroft mi ha fatto recapitare una cartella piena di casi irrisolti.
 
Un solerte tecnico ha armeggiato con il computer, e adesso ho una piccola icona che mi mette in collegamento diretto con la divisione di Lestrade.
Gentile, da parte sua, settare la telecamera in modo che mi inquadri solo il viso.
 
Quindi eccola qui, la contromossa di mio fratello. Una meravigliosa alternativa all’uso degli arti.
 
Peccato che non funzioni poi così bene, come distrazione, quando ogni due ore un’infermiera deve venire a controllare il mio stato di saluto generale. Diciamo che è un cadenzato risveglio dalla realtà.
 
Alla fine, ad ogni modo, ho ceduto. Se sfoglio i fascicoli non posso muovere la sedia, ma non è poi così necessario.
 
Vorrei semplicemente poter uscire a fumare una sigaretta, ma le porte al momento sono inattraversabili, con questo transatlantico sul quale passo circa diciotto delle mie venti ore di veglia giornaliera.
 
L’infermiera delle 16:00 - della quale ignoro il nome ma non il fatto (abbastanza palese) che tradisca il marito con almeno due uomini diversi - trova divertente definire la mia sedia “il Titanic delle carrozzine elettriche”. Non credo di aver mai invocato così tante volte che un iceberg ci investisse, ponendo fine alle sue ciance e alla mia (maggiorata) agonia nel sentirle.
 
Comunque.
Al momento ho pile su pile di visi sconosciuti pinzati a verbali per lo più illeggibili a tenermi compagnia.
 
Mio fratello insiste che mi alleni in acqua per almeno due ore al giorno.
 
Capisco cosa stia provando a fare e, in parte, mi dispiace per lui.
Più mi guarda più vede la mia convinzione.
 
È come assistere ad una lentissima marcia nel braccio della morte, domandandosi perché il prigioniero continui a camminare con tanta testardaggine.
 
Quindi entro il acqua (fili a sollevare, fili ad abbassare), e gli concedo un paio di bracciate con la destra, portandomi sinistra e gambe appresso, come una zavorra.
 
Le dita della mancina formicolano, alle volte, ma non gliel’ho detto.
 
In 200 giorni arriverò al massimo a sollevare l’indice quel tanto da poter accusare l’infermiera di aver davvero parlato troppo, poco altro. Importa davvero quanta mobilità avrò, quando sarà il momento?
 
 
 
 
-200
Ogni tanto sogno il Volo.
 
Quell’attimo di epifania che ti allarga i sensi mentre sai di star per morire.
Spalanco gli occhi a metà della caduta, realizzando che l’impatto col suolo avverrà nel giro di pochi secondi.
 
Mi risveglio a letto, congelato in una statica posa supina.
 
Non ho mai dormito in questa posizione in tutta la vita.
Eppure non posso fare diversamente.
I fili non ti girano da un lato. Non alzano lenzuola.
 
Ma mai a nessuno darò il potere di sentirsi indispensabile, per me.
Non dipendo che da quel patto con mio fratello.
 
200 giorni alla mia libertà.
 
 
 
 
-198
Piove.
 
Il giardino è umido, carico di acqua e forme di vita, ed io vorrei riuscire a portare la sedia oltre le maledette porte scorrevoli di questa teca nella quale sto perdendo la ragione.
 
Lestrade dice che non posso chiamarlo ad ogni ora del giorno, che i casi devono essere un aiuto, non un’ossessione.
 
Mycroft non deve avergli detto del nostro patto, o si sentirebbe in colpa a impormi regole sulla quantità di tempo da passare insieme.
O, ancor più presumibilmente, mio fratello gli ha riferito che ho smesso di mangiare con regolarità, da quando ho ricevuto i plichi.
 
La verità è che occorrerebbero due mani, per poter sfogliare i documenti e nutrirsi allo stesso momento. Sfortunatamente, ne ho solo una nel pieno delle sue capacità.
 
Mi si paventa lo spettro del sondino nasogastrico come se fosse un mostro orribile, mentre per me sarebbe la scelta migliore. Che mi riempiano di nutrienti liquidi, se sono tanto preoccupati della mia salute. Mi chiedo cosa cambi mai, qualche chilo in più o in meno.
 
198 giorni.
 
 
 
 
-193
Il vento spazza l’erba e fa tremare i vetri.
 
Non credo di ricordare come fosse, sentirlo tra i capelli.
Mi manca, come mi manca Londra ed i suoi vicoli, dove soffiava con forza contro il bavero alzato del mio cappotto.
 
Ho terminato i casi in mio possesso, e con loro la poca voglia che ho avuto negli ultimi giorni di continuare ad “alzarmi” dal letto.
 
Poco più di 190 giorni mi sembrano un’eternità, se mi fermo a riflettere di doverli trascorrere qui, una cavia informe in un labirinto lustro.
 
Se non fosse per l’infermiera (castana, timida) della mattina, muta assistente delle funzioni che mi ostino ad espletare da solo, non credo che il mio transatlantico motorizzato si troverebbe davanti a questo schermo con me sopra, adesso.
 
Ho chiesto a Lestrade altri casi.
 
Ho chiesto a Mycroft il mio violino.
 
Ho anche invocato la morte, ma per quella occorrerà un po’ più di tempo.
 
D’altronde, se non mi ha ucciso l’Atterraggio, dubito che potrà mai farlo l’acqua calda della piscina o, ancor più semplicemente, la noia.
 
193 giorni al termine del tedio.
 
 
 
 
-184
Gli unici casi ancora aperti in mano a Lestrade sono quelli che la sua divisione sta seguendo con l’aiuto di un consulente esterno, un professore di neuroscienze con cattedra al King's College di Londra.
 
Non mi ha voluto dire di più, con la convinzione che questo mi facesse desistere dalla mia richiesta continua di un diversivo all’immobilità alla quale hanno condannato i miei neuroni.
 
Non c’è voluto molto, ad ogni modo, a rintracciare il suo nome. Lestrade lo ha definito “giovane”, e l’unico titolare di un corso al Dipartimento di Neuroscienze Cliniche e di Base sotto i settant’anni risponde al nome di John H. Watson.
 
Ho fatto altre ricerche sul suo conto, ed ho scoperto che è un ex chirurgo militare, Capitano della quinta Northumberland Fucilieri, congedato in seguito ad un ferimento in Afghanistan.
 
La sua pagina sul sito del College ha poche informazioni, ma una foto che lo ritrae durante una lezione.
 
Usa un bastone, da quel che ho potuto vedere, ma da come poggia il peso sull’impugnatura non sembra gravare realmente con il corpo su di esso. Immagino sia un postumo dell’agguato in missione. E non mi sorprenderebbe se fosse del tutto psicosomatico.
 
Gli ho scritto una breve mail all’indirizzo accademico, presentandomi e domandando se avesse bisogno di un aiuto esterno per la risoluzione dei casi.
 
Non che conti su una sua risposta affermativa, ma tanto vale provare.
 
L’infermiera delle 16:00 è qui, e ancora non ricordo il suo nome.
 
Fingerò che mi interessi lo stato delle mie ferite e lascerò pazientemente che cambi le medicazioni.
 
“Su, sposti il Titanic verso di me, da bravo.” Cinguetta, giuliva.
 
Vorrei avere la forza fisica di cacciarla da qui.
Potrei urlarle contro ogni sua più piccola, profonda, infima lordura, ma poi Mycroft troverebbe qualcun’altra, e sarebbe di sicuro ancora più sgradevole di lei.
 
Quindi avanti. Salviamo questo “diario”, o qualunque cosa sia, e diamoci una mossa.
 
 
 
-182
Non sembra uomo di molte parole, il professor Watson.
 
Ha risposto alla mia mail con un secco no, senza molte argomentazioni o spiegazioni.
 
“Non credo che Scotland Yard apprezzerebbe.”
Un diniego cortese, ma fermo.
 
Il pranzo si sta freddando, e le dita della mano sinistra percepiscono appena la temperatura del piatto che le sfiora.
 
Dio, il Dottor Ross griderebbe al miracolo, e Mycroft proverebbe di nuovo a “farmi ragionare”. Come se cinque falangi appena sensibili mi ridessero l’uso del mio corpo, la mia città, il mio violino.
 
La signora Hudson continua a farmi scrivere. Prima o poi si stancherà.
 
Molly mi manda i suoi saluti attraverso un messaggio sul cellulare, e posso percepire la sua ansia nello scriverli anche attraverso lo schermo e l’armatura pesante dei miei nervi danneggiati. Le ho detto addio. Sorprendentemente, sembra l’unica ad aver davvero capito.
 
Poco più di sei mesi.
 
Ed io vorrei ancora riuscire ad attraversare la portafinestra.
 
Ma forse certi viaggi sono troppo anche per i transatlantici.
 
 
 
 
-180
Mycroft ha insistito affinché mangiassi tutta la colazione, ed ha presenziato personalmente alle mie “grandi manovre” del mattino. Credo che, in una qualche maniera, goda nel vedermi dimenare come un pesce privo di pinne e branchie.
 
Mi aiuto con le corde, i piccoli argani a motore fanno il resto.
Il braccio destro si è rafforzato, il sinistro adesso ha un diametro di circa la metà, se li raffronto.
 
Mio fratello ha detto di prepararmi, che stasera verrò portato a cena nella sala da pranzo, scuse o meno.
 
Sì, dev’essere divertente per lui avere finalmente il controllo.
 
Ha imposto all’infermiera del mattino la mia rasatura (con il risultato di avermi donato due nuove ferite da medicare), e insistito che venissi vestito “in modo adeguato”.
 
Adesso, fermo davanti a questo computer con addosso una camicia inamidata ed un paio di pantaloni nuovi dei quali non percepisco la stoffa contro le gambe, mi sento poco più di un maledetto bambolotto.
 
Una macchina svolta sul vialetto, la nebbia pomeridiana a coprirle le ruote di foschia densa.
 
Vista da qui, sembra quasi galleggiare.
 
Non riesco a vederne la targa, ma riconosco il suono del motore. È Hank, l’uomo che ci porta i rifornimenti dalla città due volte la settimana.
 
È in anticipo di tre giorni, ed io non credo di aver mangiato così tanto da terminare le scorte in due.
 
Forse Mycroft. Di sicuro non la sua assistente, evidentemente sotto peso e con abitudini (sarebbe meglio dire storture) alimentari ben in mostra.
 
Il motore si spenge, l’auto è ferma. Da questa posizione non riesco a vedere molto, l’angolo lungo della casa mi taglia la visuale del vialetto e dell’ingresso.
 
C’è qualcosa che…
 
Oh.
 
Ma certo, è evidente, come ho fatto a non pensarci prima?
 
Abbiamo ospiti.
 
Spero solo che non sia stato tanto idiota da dirlo a nostra madre e nostro padre.
 


 
 
 
 


[11:34] Sei arrivato? GL
 
[11:36] Sono appena sceso dal treno. Poi, un giorno, mi spiegherai perché sono qui. JW
[11:37] È… È complicato, John. Ma ti ringrazio molto di aver acconsentito ad andare da lui con i fascicoli. GL
 
[11:39] Non sapevo che la polizia consultasse i dilettanti. JW
[11:40] Capirai presto. GL
 
[11:42] Capirò cosa? JW
[11:43] Che la polizia non consulta dilettanti. GL
 
[11:45] Devo andare, la macchina è arrivata. JW
 
 
 
 
 


“In assoluto la sua è l’espressione più idiota che qualcuno mi abbia mai dedicato ad un primo incontro. È venuto fin qui da Londra solo per osservarmi con quella faccia?”
 
“Nella mail sembrava decisamente men—”
 
“Paraplegico?”
 
“Stavo per dire odioso. Ma anche paraplegico funziona, se preferisce.”
 
“Allora, da dove vogliamo cominciare?”
 
“Oh, beh, non saprei. Se per lei va bene, direi dalle presentazioni.”
 
 
 
 

Angolo dell’autrice:
Avete presente “Io prima di te”, libro del 2012 di Jojo Moyes appena uscito al cinema nella sua versione su pellicola?
 
Ecco, io no.
 
Non sapevo della sua esistenza fin quando due giorni fa, aspettando l’inizio di “Suicide Squad”, non ho assistito al trailer della trasposizione su grande schermo. Non chiedetemi perché, ma ne sono rimasta affascinata. Così ho letto quanto più possibile della trama del libro, scoprendo un plot decisamente sorprendente, in alcune scelte.
 
Da quel momento sono solo riuscita a pensare: devo riadattarlo su John e Sherlock. DEVO.
 
Ecco, questa storia nasce (per assurdo) proprio da lì. Da un’idea che ho amato ed un romanzo che non ho letto.
 
In realtà all’inizio doveva essere strutturata tutt’altro modo, con un narratore in terza persona e uno sviluppo più lineare.
Ma, devo essere sincera: dopo “The Final Problem” non sono ancora pronta a gettarmi di nuovo in particolari minuziosi e lunghe descrizioni.
 
Quindi questa long si muoverà tra le pagine digitali di Sherlock e gli appunti cartacei di John, intervallando qua e là con sms o dialoghi. Nient’altro.
Ho inserito l'avvertimento OOC perché, per una volta, non sono affatto sicura di riuscire a gestire i personaggi in modo super coerente.
È anche la prima AU totalmente staccata dalla serie nella quale mi imbarco, quindi ho decisamente timore di "uscire" dal personaggio. In caso, però, fatemelo notare. ^_^

Non so bene dove questo mare mi porterà, ma sentivo di dover salpare. Chiunque voglia affrontare il viaggio con me, come sempre, sarà più che benvenuto.
 
Grazie a tutti, as usual, per aver letto fin qui. ^_^
 
A presto,
B.



 

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Capitolo 2
*** Da 180 a 179 ***


 
 
[14:36] Cosa gli hai detto, esattamente, di me? JW
 
 
[14:39] Praticamente niente. Solo che sei un nostro consulente esterno e lavori all’università. GL
[14:40] Perché? GL
 
 
 
[14:46] John? GL
 
 
 
 
-180
Il Professor Watson è decisamente un uomo singolare.
 
Ha guardato distrattamente la stanza, appena entrato qui dentro - poco più di una pigra rotazione della testa - per poi raggiungermi con passo zoppicante, apparentemente poco impressionato dalla ragnatela di fili che si snoda lungo il soffitto.
 
Si appoggiava al bastone solo per camminare, scordandosi totalmente di usarlo quando ha smesso di farlo. Posava il peso su entrambi i piedi senza distinzione, eppure sembrava incapace di compiere un movimento cinetico in assenza di sostegno.
 
Era evidente che fosse una zoppia psicosomatica, e non ci vuole un grosso sforzo di inventiva, per farla risalire all’incidente occorso in missione.
 
A incuriosirmi era in realtà il fatto che un professore di Neuroscienze fosse incapace di comprendere che a inchiodarlo al suolo è il cervello, e non i muscoli della gamba sinistra.
 
Poi ho capito.
Lo sa.
 
È cosciente di trasportarsi dietro un fardello irreale.
 
Arrivare a formulare che si stesse in qualche modo punendo e approdare al sempre sopravvalutato senso di colpa è stato un attimo.
 
Più o meno la stessa frazione di tempo trascorsa tra il mio evitare di stringergli la mano e presentarmi - chiedendo invece per quale grave mancanza si sentisse così colpevole da menomarsi volontariamente – ed il suo uscire dalla porta con passo marziale e, assai poco sorprendentemente, postura corretta.
 
Ho come l’impressione che mio fratello cenerà da solo anche questa sera.
 
 
 
 
 

 
[14:51] Se è per qualcosa che ha detto… Fa sempre così. GL

 
 
 

-180
Come dicevo, uomo singolare, il Professor Watson.
 
Inaspettatamente è ricomparso alla mia porta un’ora più tardi, periodo presumibilmente passato in giardino, a giudicare dallo strato di fanghiglia che gli sporcava le scarpe e copriva il puntale in gomma del bastone.
 
È rimasto in piedi accanto all’ingresso della dépendance, ancora una volta senza appoggiarsi al suo sostegno.
 
“Come ha fatto?” Ha domandato, asciutto.
 
“A fare?” Ho ribattuto, tornando con lo sguardo al monitor.
 
“Lo sa, cosa.”
 
Ecco,  è stato il suo tono. Quel velo di fastidio che lasciava volutamente trasparire e quella punta di curiosità che, invece, non voleva che mi arrivasse.
 
“È stato abbastanza facile, a dire la verità.”
 
Ha ascoltato la mia spiegazione con attenzione, gli occhi fissi nei miei. Non ha fatto attenzione al fatto che gesticolassi goffamente, in una pallida imitazione di me stesso. No. Gli occhi sul viso, sempre.
 
È rimasto in silenzio qualche secondo, quando ho smesso di parlare, concentrato su chissà quale pensiero.
 
“Saprebbe dirmi altro, sul mio conto?” Ha chiesto quindi, socchiudendo gli occhi.
 
“Certo. Mi basta il suo cellulare.”
 
Si può capire molto, dal cellulare di una persona. Nello specifico, dal suo ho dedotto l’esistenza di un fratello (che poi ho scoperto essere una sorella, c’è sempre qualcosa…) con problemi di dipendenza dall’alcool e divorziato da poco, con il quale il Professore ha un rapporto rado e poco profondo, evidentemente conflittuale in un passato recente (non è nell’elenco delle chiamate, e il loro ultimo scambio di messaggi risale a Natale: un messaggio anonimo inviato di certo a più persone.)
 
Il suo viso mentre elencavo piccoli tasselli della sua esistenza è stato il più strano miscuglio di emozioni che avessi mai visto durante una delle mie spiegazioni. Era sorpreso, ma non sconvolto; attento, ma non turbato. Gli si leggeva negli occhi la più limpida forma di curiosità e, dopo mesi di sguardi carichi di pietà mal celata, è stato un balsamo avere di fronte qualcuno che mi ascoltasse così intensamente.
 
“Incredibile.” Ha commentato, dopo qualche secondo.
 
Incredibile.

In tutta la vita mai nessuno aveva detto una cosa simile. Tanto meno Lestrade, o i suoi uomini, alla fine di ogni caso consegnato su un piatto d’argento davanti ai loro occhi miopi e menti limitate.
 
Credo che lo stupore di quell’attimo mi si sia letto sul viso, perché ha aggiunto: “Davvero straordinario.” Dopo poco, avvicinandosi di nuovo (ancora una volta le mani sul bastone ed il peso sbilanciato) ha continuato: “Quindi, al momento, lei sa molto di me ed io assai poco di lei.”
 
Descrivermi è stato facile, rapido. Consulente investigativo. Violino. Alle volte muto per giorni interi.
 
Capire che chi avevo descritto era una persona che non mi somiglia più, è stato più lento.
 
E molto più faticoso.
 
 
Ad ogni modo, dopo cena parleremo dei casi.
 
A quanto pare, mio fratello è riuscito ad avere compagnia per il pasto serale, alla fine.
 
 
 
 
 
[17:41] Avevi ragione. JW
 
[17:43] Ho paura a chiederti su che cosa… GL
[17:44] Sul fatto che la polizia non consulta i dilettanti. JW
 
[17:46] È incredibile, vero? GL
 
 
 
[17:57] Sì… Decisamente, sì. JW
 
 
 
 

 
 
Non scrivevo su quest’agenda da mesi.
Ella sarebbe molto fiera di me, probabilmente.
 
Il fatto è che…
 
Non lo so, in realtà. È solo lui, credo, in tutta la sua...
 
Il suo dono, direi.
 
Dio, se sentissi un mio studente parlare in questa maniera ad un esame delle capacità intellettive di qualcuno, lo boccerei immediatamente.
 
Greg non mi ha aveva detto che le sue condizioni fossero così gravi, quando ho chiesto qualche informazione sull’uomo dal quale mi stava mandando, carico di fascicoli sui quali lavoro da tempo.
“Un incidente”, lo ha definito. “Un incidente durante un caso”.
 
Ad ogni modo, nonostante il suo atteggiamento borioso, quello che è in grado di fare nell’analisi logica di fatti e particolari è davvero prodigioso.
 
Farò qualche ricerca su di lui più tardi, se la ricezione del mio smartphon migliorerà.
 
Adesso devo prepararmi per la cena.
 
E per la prima “sessione” di studio dei casi in compagnia di Sherlock Holmes
 
 
 
 
 
“Vuole uscire?”
 
“Come, scusi?”
 
“Le ho chiesto se vuole uscire. Vedo che spesso osserva la portafinestra, cos—“
 
“Se volessi davvero uscire, Professore, lo avrei fatto.”
 
 
 
“C’è un gradino, le guide dei vetri scorrevoli. Non credo che possa attraversarlo da solo.”
 
“Possiamo cortesemente concentrarci sull’uccisione di questo avvocato? Il fascicolo dice che sospettate della moglie.”
 
“Ha confessato.”
 
“Quindi perché stiamo ancora parlando di loro, esattamente?”
 
“Perché non sono convinto della confessione.”
 
“Interessante… Motivi specifici? Cos… CHE DIAVOLO PENSA DI FARE?!”
 
“Lei cosa crede che stia facendo?”
 
“LA SMETTA! ADESSO!”
 
“Tolga la mano dai raggi, o si farà male.”
 
“Smetta immediatamente di spingere questa dannata sedia, o sarà lei a farsi molto male!”
 
 
 
 
“Non è meglio?”
 
“Sono quasi caduto. E lei si è quasi reso zoppo, questa volta sul serio.”
 
“Ma almeno adesso ho tutta la sua attenzione. E poi il fresco della notte aiuta a mantenersi svegli.”
“Vogliamo ricominciare?”
“Signor Holmes.”
“Va bene… Mi dispiace, la riporto dentro.”
 
“Sherlock. Mi chiami Sherlock. Ma non mi spinga mai più da nessuna parte, sono stato chiaro?!”
 
“Vuole rimanere qui, allora?”
 
“Eravamo rimansti alla confessione, mi pare. Al fatto che non la convinca.”
 
“Lo prenderò come un . Non mi convince, perché credo soffra di DSM.”
 
“Disturbo istrionico di personalità… Interessante. Perché lo pensa?”
 
“Beh, durante il colloquio…”
 
 
 
 
 
-179
 
Sono quasi le quattro del mattino, e il Professor John Watson se n’è appena andato. Il caso è complesso, ma sento che ne riusciremo a venire a capo.
L’avvocato di una grande azienda farmaceutica è…
 
Al diavolo.
 
Mi ha portato oltre la portafinestra semplicemente perché “la stavo osservando”.
 
Ha capito con uno sguardo che non sarei mai stato davvero capace di attraversarla da solo.
 
Le ruote si sono impuntate, per poco non sono caduto in avanti. Per cercare di riportare indietro il peso del Titanic ha finito col prendere una storta, cadendo a terra.
 
Un attimo, e si è rimesso in piedi, prendendo meglio le misure per portarci entrambi al di là dei binari.
 
Mi chiedo cosa spinga qualcuno a fare una cosa simile. Mi chiedo perché io non sia furioso, per questa sua decisione. Non sono un maledetto oggetto da spostare a piacimento.
 
Io…
 
Ho sentito il vento, il freddo.
 
Vorrei odiarlo, e potrei farlo con facilità, ma sarebbe ingiusto.
Stavo realmente guardando oltre i vetri.
 
 
179 giorni all’ultimo ostacolo, poi, finalmente sarò libero.
 
 
 
 
 
 
Mi accorgo solo ora che John ha scordato qui il suo bastone.
Deve averlo poggiato al divano sul quale stava seduto quando ha deciso di portarci entrambi a congelare nella notte della campagna inglese.
 
 
Psicosomatico.
 
 
Lo sapevamo entrambi.
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Un messaggio velocissimo solo per ringraziarvi.
Non mi aspettavo un riscontro simile, dopo la pubblicazione del primo capitolo, e la cosa non può che farmi felice. ^_^
 
A presto,
B.

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Capitolo 3
*** Da 179 a 176 ***


 
 

Ancora una volta, i fantasmi si sono fatti strada tra i pensieri, impedendomi di dormire.
Mi sono passato più volte le pillole da una mano all’altra, indeciso se concedermi o meno qualche ora di sonno artificiale.
 
Alla fine ho preferito vestirmi di nuovo e scendere in giardino.
 
Ho dimenticato il bastone nell’appartamento di Sherlock (mi ha concesso di chiamarlo per nome), e me ne sono accorto solo quando, in un automatismo ormai radicato, ho allungato la mano verso il comodino prima di scendere dal letto.
 
Non provo dolore, a muovermi in assenza di sostegni. Ma vergogna, quella sì.
 
I fantasmi mi seguono ovunque, si attaccano ai muscoli delle gambe, fiaccandoli, e si aggrappano con tenacia al collo e alle spalle, incurvandole.
 
Però, per la prima volta in quasi due anni, riesco a camminare e scrivere assieme, come amavo fare nei periodi di studio e ricerca all’università prima che l’esercito chiedesse nuovamente mi richiamasse.
 
L’erba bagnata cede sotto i miei passi, ma non affondo in profondità come mi capitava col bastone.
 
Fa freddo, qui fuori. Mentre discutevo con Sherlock del caso, seduto nella veranda, non avevo fatto caso a quanto bassa fosse in realtà la temperatura.
 
C’è una piccola luce accesa, oltre i vetri della dépendance.
 
Mi chiedo cosa faccia, quando resta solo.
 
Mi chiedo cosa possa pensare un uomo ridotto all’immobilità di una persona che ha volutamente menomato i propri passi.
 
Forse pensa che sia un ingrato.
Uno stupido.
 
Per adesso so solo che guardarlo lavorare è tra le cose più sorprendenti che abbia mai visto fare a qualcuno.
 
Pensiero laterale.
 
Ma Sherlock lo applica in un modo… Incredibile.
 
Non è “laterale”, ha una dimensione propria. È… tridimensionale.
Il suo intelletto ha un peso, un peso preciso, specifico.
 
E quando parla, per il tempo che la sua voce satura la mia mente, mi sembra quasi di riuscire a dimenticare i fantasmi.
 

 
 

-179
 
Posso vedere John Watson camminare attraverso il giardino, dalla mia postazione.
 
Poco più di un’ombra scura che si staglia tra le altre, ondeggiando al vento.
 
È curvo, e si muove lento, le braccia piegate.
 
Sta leggendo qualcosa, o forse scrivendo, nella poca luce dei lampioni che circondano la villa.
 
Mi domando chi fosse, prima di essere un uomo schiacciato dai sensi di colpa. Non che me lo chieda per un qualche motivo specifico, semplicemente decodificare le persone è il mio lavoro.
 
Ha a che fare con il ferimento, chiaramente, per quanto il proiettile lo abbia colpito alla spalla destra. Non c’è voluto molto, a capirlo. Alza il braccio destro meno di quello sinistro, e nel freddo della nostra chiacchierata alla ricerca dell’assassino dell’avvocato, si è sfiorato spesso con le dita un punto ben preciso sopra la clavicola.
 
Dev’essere una brutta cicatrice, se il freddo ancora oggi gli crea dei fastidi.
 
Adesso sembra essersi fermato. Chissà cosa sta osservando. Riesco a vedere il profilo dei suoi capelli, ma è solo un grumo nero lontano una decina di metri. Impossibile dire se mi dia le spalle o invece sia rivolto del tutto in direzione della casa.
 
L’erba dev’essere umida, in questa ora che volge all’aurora. Carica di gocce di rugiada.
 
Mi piacerebbe poter arrivare fin lì. Solo per ricordare come fosse, camminare in silenzio, nascosto dalla notte.
 
Lo facevo spesso, a Londra. E nelle aiuole ai bordi delle strade vedevo la stessa condensa che ora so essere lì fuori, aggrappata ai suoi pantaloni.
 
Inizio a sentire freddo.
 
Credo che mi stia venendo un po’ di febbre. Niente di grave.
 
Sentire i brividi scorrere sotto la pelle significa pur sempre sentire.
 
E, al momento, sentire qualcosa è per me un privilegio al quale non voglio rinunciare.


 
 
 
 


 
“Adesso ci infiliamo la camicia, va bene?”
 
Lei mi infilerà la camicia. Io mi limiterò ad alzare un braccio.”
 
“Oh, su, perché deve sempre farla così difficile?”
 
“E lei perché deve sempre fingere che sia così tanto divertente, il suo lavoro? Cambia cateteri per la maggior parte del tempo, per l’amor del cielo. Non c’è proprio niente di cui essere tanto allegri.”
 
“Aiuto le persone, e mi piace farlo. Adesso, da bravo, anche l’altro braccio. Ecco, così.”
 
 
 
“Oh, ok. Scusate. Troppo presto, a quant—“
 
“No, anzi. Il suo intempestivo ingresso è la cosa migliore che potesse capitare al momento. Signora, penso possa andare, adesso.”
 
“Ma signor Holmes, dobbiamo ancora provvedere alla rasatura, e…”
 
“Ho detto vada. Sono in grado di svolgere il resto delle impellenze da solo. Resterà qui il Professor Watson. Se proprio dovessi rischiare di morire per un taglio da rasatura penserà lui a me. Giusto?”
 
“Beh, sì… direi di sì. Sono un medico, tra le altra cose.”
 
“Uno bravo, immagino.”
 
“Molto bravo.”
 
“Eccellente. Come vede, non c’è nulla da temere. Può andare.”
 
 
 
 
“Resti lì e si prenda pure una tazza di the, se vuole. Sarò di ritorno tra breve.”
 
“Non si è mai rasato da solo da dopo l’intervento, vero?”
“Sherlock.”
 
“Il braccio destro funziona perfettamente. Vede? È solo questione di pratica. Torno subito.”
 
“Ok, ma…”
“Lasci la porta del bagno aperta, per favore.”
 
“Così potrà accorrere in soccorso del povero paraplegico ferito ed incapace anche di radersi in autonomia?”
 
“Così saprò quando avrà finito e potrò andare in camera a prendere quanto più allume di potassio possibile.”
 
 
“Perché lascia che mi rada da solo, sapendo già che mi ferirò?”
 
“Lei perché vuole farlo da solo, essendo arrivato già alla stessa conclusione?”
 
 
“Non passerò i prossimi mesi a dipendere da qualcuno per ogni cosa.”
 
“Benissimo. Non è mia abitudine identificare e catalogare le persone in base a cosa siano fisicamente in grado di fare o meno. Sono certo che si taglierà, come sono sicuro che non lo farà così a fondo da trasformare la sua voglia di autonomia in una minaccia per la sua salute. Quando avrà finito medicheremo i punti che ne avranno bisogno e poi inizieremo semplicemente la nostra giornata.”
 
 
 
 
 
 
 
“Ha dimenticato qui il bastone, questa notte. E neanche se n’è accorto.”
 
“Lei ha dimenticato di radersi un punto a sinistra, sotto il mento, e neanche se n’è accorto. Mentre provvede vado a prendere le medicazioni. Senza bastone. Perché sapevamo entrambi che potevo camminare senza…”
“Come sapevamo entrambi che si sarebbe rasato senza morire nel tentativo. Torno subito.”
 
 
 
 

 
 
 
-179
 
Non credo di aver mai visto Mycroft con un’espressione simile sul viso.
 
Più accusava John di avermi lasciato solo con un rasoio in mano, più i bordi del viso gli divenivano paonazzi.
 
“Si rende conto di cosa sarebbe potuto succedere?!” Ha sibilato, cercando di recuperare il controllo del proprio viso.
 
“Direi che era piuttosto prevedibile che si sarebbe tagliato, in alcuni punti.” Ha ribattuto John, con tono tranquillo.
 
“Le sembra una cosa normale?!” Sì, decisamente mio fratello non era mai diventato così rosso.
 
“Che un uomo di…?” Si è voltato verso di me.
“Trentacinque.” Ho risposto io, tentando di mantenere un’espressione distaccata.
“Trentacinque anni si rada da solo e si ferisca nel farlo? Sinceramente, .” Ha continuato John, e Mycroft è sembrato sul punto di scoppiare.
 
“È arrivato solo ieri, per l’amor del cielo, e già lo asseconda nelle sue follie?!”
 
“Oh, adesso basta, Mycroft!” Era assurdo che quella discussione avvenisse davanti ai miei occhi, come se non avessi voce in capitolo su quanto accaduto. “Nessuno mi avrebbe comunque fatto la barba, questa mattina, che lui ci fosse stato o meno. Non sono un dannato bambolotto. Il braccio destro funziona. E non costringermi a dimostrartelo in modi scurrili.”
 
John si è voltato verso di me, con le pupille leggermente dilatate e un’espressione sorpresa sul viso. Gli ho visto distintamente mordere il labbro inferiore, nel tentativo di non scoppiare a ridere.
 
Mezzo minuto dopo, Mycroft era già oltre la porta, le punte delle orecchie paonazze.
 
John è scoppiato a ridere circa un secondo dopo, una risata sincera, che gli ha cambiato il viso, allargando le labbra e stringendo gli occhi.
 
Non so neanche perché, esattamente, abbia iniziato a ridere anche io.
 
Era solo…
 
Qualcosa che sembrava essere sempre stata in mezzo al petto, finalmente libera. Non credo di ricordare l’ultima volta nella quale ho riso tanto.
 
In realtà, penso di non averlo mai fatto fino al punto di dovermi trattenere il petto.
 
“Dato che siamo in punizione, che ne dice di lavorare un po’ sul caso?”
Ha tossito John, dopo qualche altro secondo.
 
“Ad una condizione.” Ho ribattuto.
 
“Sono tutto orecchie.”
 
 
 
“Che mi dia del tu.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 [14:56] Come procede? GL
 
[14:58] Siamo vicini ad una svolta, credo. Riprenderemo a lavorarci nel pomeriggio. JW
[14:59] Sherlock come sta? GL
 
[15:01] Non credi che dovresti chiederlo a lui? JW
 
[15:03] Diciamo che mi piacerebbe un parere professionale. Non è molto affidabile nella valutazione delle sue condizioni. GL
[15:04]? JW
 
[15:06] Lo hai visto mangiare, durante le analisi dei casi? GL
 
[15:08] No, in effetti. Ad ogni modo, come vuoi che stia? Ha una paralisi completa degli arti inferiori e parziale del tronco. JW
[15:09] Credo non sia facile, per lui… GL
[15:10] Non sarebbe facile per nessuno, Greg. JW
 
[15:12] Sì, immagino di sì. GL
 
 
[15:15] Com’era, prima della caduta? È sempre stato così… spigoloso, nel carattere? JW
 
[15:17] Non credi che dovresti chiederlo a lui? GL
[15:18] Non rigirare le mie parole contro di me. JW
 
[15:20] È stato scortese? GL
[15:21] No, non particolarmente. Non con me direttamente, quanto meno. JW
 
[15:23] Sai, penso che dovresti davvero parlarne con lui. GL
 


 
*

 
 
Prov a pr o va
 
Che st ai facen do?
 
No nonpa rla re, stoce rca nd o di se t t ar e la   scri ttu r   a vo  ca   le
 
Sei tro ppo lo ntano dal microfono, non puoi pensare che funzioni ad una distanza simile!
 
M  a   mi  a nno i  o  
 
Il fiato non ti serve per nuotare? Sei in una piscina, e invece di nuotare stai urlando da una parte all’altra della stanza. Però accidenti! Quello che dico io lo sta scrivendo senza un solo errore!
 
V o l e   vo ra  gi  on  are   ad   alt a    voc    e   del    ca   so
 
E non puoi farlo una volta uscito da lì?
 
Nu   o ta   re   è   noio  s o
 
Fare fisioterapia può solo aiutarti.
 
N    o    iiiiiiiiiiiiii a
 
Così lo manderai in tilt. Ho capito, aspetta. Prendo il fascicolo e mi siedo al bordo, così tu puoi allenarti, non annoiarti e allo stesso tempo non perdere il poco fiato che sembri avere.
Ec   c o  ci  qu  a. D  o   ve   era   v a   mo   ri   ma   st    i?
S   her   l o  ck?
 
S  cus    a,   m i  so   n  o   di  str  att   o. Di  ce  vam   o ch   e  l  ui e l  a bi  ol  oga f  ors  e ran  o
ama   n ti e ch  e   po  tre  b b  e   es  se r e  sta  ta   le  i   a d  ucc   i de  r   l  o
 
Co   n  t i nu a  a   nu  ota  re. I  o   ti   legg   o   il   ver  bale    del   s u  o inte  r rog   ato   rio
 
 
 
 
 
 
 
 
 
[17:14] Vorrei che mi rispondessi. V
 
 
[18:26] Sherlock. V
 
 
[18:54] Sono preoccupato per te, per favore, rispondi. V
 
 
[19:19] D’accordo. Come vuoi. Riproverò domani. V
 
 
 
 

 
 
 
-178
 
Qualche minuto dopo mezzanotte.
 
John ha insistito affinché mangiassi qualcosa, prima di riprendere in mano il caso.
Al mio ulteriore rifiuto, mi ha fatto presente che non mi nutrivo adeguatamente da ore.
 
Gli ho detto che la mia alimentazione non è affar suo, come di chiunque altro.
 
Ha chiuso i plichi, ed è uscito.
 
“Se hai intenzione di lasciarti morire di fame, liberissimo di farlo. Ma non ho alcuna intenzione di assistere.”
 
Dio.
 
Perché accidenti devono sempre pensare a come far sopravvivere il mio maledetto corpo, senza preoccuparsi di non far deperire la mia mente?
 
Non ho bisogno di lui, per finire il caso.
 
 
 
Solo che è più stimolante, quando è seduto da qualche parte a dipanare con me la matassa dei miei pensieri.
 
 
È di nuovo in giardino, la solita sagoma nera china.
 
 
Credo che abbia seri problemi legati al sonno. Me lo dicono i segni attorno agli occhi, strati e strati di notti troppo lunghe trasformati in un alone scuro che gli adombra lo sguardo.
 
 
 
 
Oh, al diavolo.
 
Ho tirato il portapenne contro la vetrata, un suono secco che lo ha fatto voltare verso la casa.
Anche se non posso vederla, non è difficile immaginare la sua espressione mentre mi osserva in lontananza alzare il toast ormai freddo in segno di resa.
 
“Va bene, maledizione. Hai vinto tu. Vedi? Mangio. Ora torna qui.”
 
 
 
Sta bussando al vetro, adesso.
E già odio l’espressone soddisfatta sul suo viso.
 
 
 
- 177
 
Questa mattina, John si è presentato di nuovo troppo presto al nostro appuntamento.
 
L’infermiera lo ha fulminato con lo sguardo.
 
Io, invece, ho notato la piccola stecca di allume confezionato che faceva capolino dalla tasca anteriore dei suoi pantaloni. Mi ha fatto un rapido cenno di intesa, e per poco non sono scoppiato a ridere di fronte all’espressione truce di lei.
 
Mi sono tagliato. Ma meno di ieri.
 
Per ricompensarlo, ho mangiato un po’ delle uova strapazzate che ci hanno servito poco dopo.
 
Detesto l’espressione che gli compare sul viso quando mi vede fare qualcosa che sa comportare per me una “scesa a patti”.
 
La odio.
 
E allo stesso tempo, inspiegabilmente, vorrei che fosse sempre lì, in bilico tra i suoi occhi e le labbra stese in un sorriso divertito.
 
 
 
- 176
 
Non è stata la biologa.
 
Lei aveva rubato delle pillole nel laboratorio della casa farmaceutica per consegnarle alla vittima, ma ad uccidere l’avvocato è stato uno dei ricercatori che stavano lavorando al farmaco sperimentale che la donna aveva sottratto in cerca di conferme alla sua teoria che gli effetti collaterali fossero troppo gravi per la commercializzazione della medicina.
 
Sono sicuro che se Lestrade indagherà in questa direzione, scoprirà che la donna sta ricattando il collega.
E scoprirà anche che lui non è stato abbastanza furbo da gettar via il cappotto che aveva addosso la sera dell’omicidio.
 
John è al telefono con l’ispettore proprio adesso.
 
Fa avanti e indietro nella veranda, gesticolando in modo concitato.
 
La zoppia è scomparsa del tutto, così come più chiari si sono fatti i segni sotto gli occhi.
 
Penso che abbia dormito bene, questa notte.
 
“Non è incredibile?” La voce di John mi giunge ovattata, ma questo non mi impedisce di sentire il suo entusiasmo, che definire eccessivo sarebbe un eufemismo.
 
“Te lo avevo detto, che non era stata la moglie.”
 
Già, è vero. Lo ha sempre detto.
Il neuroscienziato che è in lui è bravo, perspicace.
 
“Certo, ti faremo sapere appena ci saranno sviluppi su gli altri casi.”
 
Gli altri casi…
Giusto.
 
Ne restano tre.
 
 
Tre casi alla partenza di John.
 
 
 
176 giorni al mio ultimo viaggio.
 
 
 





* La registrazione (e la conseguente simultanea trasformazione della traccia audio in qualcosa di scritto) è da intendersi nel seguente modo: più la persona è vicina al microfono, più chiara è la traduzione del computer. Le prime frasi di John mostrano un accenno di imperfezione perché l'ho immaginato pronunciarle appena entrato nella stanza, per poi avvicinarsi al pc, incuriosito da quanto vedeva sullo schermo. La piscina dove si trova Sherlock, invece, è molto più distante, cosa che rende molto meno fluida la trascrizione.

Non ero sicura che si capisse, ho preferito specificare. ^_^''   XD
 
 
 
Angolo dell’autrice:
Ancora una volta, approfitto di questo spazio per un saluto velocissimo.
 
Sto aggiornando molto rapidamente perché questa storia si è insinuata sotto la pelle quasi con forza, e voglio assecondare l’ispirazione il più possibile, sfruttando anche questo scampolo di ferie che mi rimane.
 
Grazie per tutte le recensioni che mi state regalando, e per l’attenzione che state dedicando alla storia, inserendola in qualche categoria. ^_^
 
A presto,
B.

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Capitolo 4
*** Da 175 a 170 ***



 
 
 
-175
 
“Prosopoagnosia.” Ho ripetuto questa mattina, facendo eco alle sue parole, alzando un sopracciglio con aria dubbiosa.
“Credo che sia un po’ troppo rara, come patologia, per costruirci sopra un impianto accusatorio.”
 
John è sembrato confuso, per qualche secondo. Assorto in un pensiero che non sono riuscito ad afferrare.
 
“Qualcosa ti turba?” Ho chiesto quindi, osservandolo scuotere via l’ombra che gli adombrava gli occhi come una persona scuote via la neve che si posa sulle spalle durante una nevicata.
 
“No.” Ha risposto, una bugia così palese da aver volutamente evaso il mio sguardo per i successivi minuti.
 
“Non è poi così brutto, non riuscire a catalogare come familiare il volto di chi in realtà si conosce.” Era chiaro che fosse quel preciso aspetto della condizione degli affetti da prosopoagnosia a turbarlo. Diventava più evidente ad ogni occhiata attenta che regalava alla foto dell’uomo del quale stavamo discorrendo.
“Io lo faccio ogni mattina da quasi due mesi. Come vedi, me la cavo comunque abbastanza bene.”
 
Non volevo essere ironico. Volevo solo che tornasse a parlare del caso, e a guardarmi.
 
L’espressione che mi ha dedicato è stata la cosa più complessa che abbia mai visto prender forma sul viso di qualcuno. Conosco le emozioni. Sono il mio lavoro.
 
Ma quella… Quella resta un mistero, per me, anche adesso, dopo aver trascorso ore a tentare di decodificarla.
 
 
 
 
“Quale credi che sia l’ultimo pensiero che attraversa la mente di un moribondo?” Ho domandato dopo qualche minuto, serio.
 
Me lo chiedo spesso, quale sarà il mio. La Caduta è stata troppo veloce, per poterne formulare uno degno di questo nome. Forse, semplicemente, mi sentirò sollevato, alla fine.  Libero.
Volevo sapere se lui ci avesse mai riflettuto.
 
“Dio, ti prego. Lasciami vivere.” Ha risposto lui, tornando a fissare le foto.
 
Il mio giudizio immediato alle sue parole è stato: “banale”.
 
“Tutta qui, la tua immaginazione?”
 
“Non ho dovuto immaginarlo.” Ha ribattuto, asciutto.
 
Indelicato da parte mia, immagino, non aver preso in considerazione la cosa prima di parlare.
 
Siamo rimasti in silenzio per un po’, John con le mani tra i fascicoli, io con gli occhi su di lui.
 
“Io ho solo pensato che una volta oltre la balaustra, non avrei avuto modo di evitare l’impatto. È l’ultimo pensiero che ricordo di aver avuto.”
 
È strano che lo abbia detto. Non l’avevo mai fatto, prima di oggi. Non sono neanche sicuro del motivo che mi abbia spinto a confidarlo a lui. Forse, è stato una specie di riflesso. Un atto di sincerità in cambio ad un atto di sincerità.
 
Sopravvivere ad una caduta come la mia sarebbe da molti giudicata una fortuna. Una seconda occasione.
 
Anche sopravvivere ad un proiettile in missione è cosa rara.
 
Io e lui siamo due miracolati agli occhi del mondo, ma non ai nostri.
 
Però…
 
Provo una strana forma di affezione verso l’idea che una traiettoria sbagliata abbia permesso che sopravvivesse fino ad oggi, portandolo qui, con i suoi casi irrisolti e quel mezzo sorriso che gli si accende sul viso alla fine delle mie infinite spiegazioni su dove le sue teorie vacillino.
 
Mi chiedo se ci saremmo mai incontrati, a Londra.
 
Se un giorno - entrando nell’ufficio di Lestrade attorniato da i soliti incompetenti – lo avrei trovato lì, spalle alla porta, intento a spiegare con pazienza e cura chissà quale patologia.
 
Sarebbe stato diverso?
 
Mi avrebbe ascoltato con tanta attenzione, o anche questo fa parte dell’enorme dose di empatia che si trascina dietro come un giogo?
 
No. Non credo che lo avrebbe fatto.
 
E probabilmente io non avrei dedicato alla sua analisi più di qualche secondo, il tempo necessario per identificare qualche punto debole sul quale fare leva in caso di bisogno.
 
È quanto mio fratello mi ha insegnato rispetto alle relazioni umane.
 
 
 
Pochi secondi, niente di più.
 
 
 
 
 
Se ci fossimo incontrati a Londra…
 
Sarei andato ad una sua lezione.
Mi piace, sentirlo parlare.
 
La sua voce ferma i pensieri.
 

 
-174
 
Mi serve il mio violino.
 
Siamo ad un punto morto con il caso, e avere tra le mani il mio Stradivari mi aiuterebbe a lavorare meglio.
 
Mycroft continua ad ignorare la mia richiesta, ed io ho smesso di preoccuparmi di quanto alta ed alterata risulti la mia voce mentre lo chiedo.
 
“Quando starai meglio.” Ha ripetuto per l’ennesima volta questa mattina, ottuso come non è mai stato, premuroso come finge di essere.
 
Non starò mai meglio, maledizione.
 
“Posso pizzicare le corde. E comunque non è affar tuo cosa io faccia o meno del mio strumento.”
 
Neanche urlare è servito.
Dovrei supplicare, forse? Se abbassassi la testa, invece di scoppiare in un’ira cieca, mi asseconderebbe?
 
 
Devo pensare. Ho bisogno di farlo.
 
E lo faccio meglio, se qualche nota di Brahms riempie l’aria.
 
 
 
Sono le quattro passate e John non è ancora sceso.
Forse la discussione di questa mattina tra me e Mycroft ha toccato qualche punto dolente di quella parte di lui che ancora non riesco a comprendere del tutto.
 
È come se ci fosse una zona d’ombra, una macchia, un’eclisse che ciclicamente gli oscura e fiacca l’animo.
 
Sarebbe più facile capirlo, se avessi il mio violino.
 
Sarebbe più facile smettere di pensare a questo corpo, se John si decidesse a scendere.
 
 

 


 
 
 
“Lo sai che ore sono?!”
 
“Mhm… no.”
 
“Sono quasi le sette di sera. Dove accidenti sei finito per tutto il pomeriggio? Pensavo fossi qui per lavorare.”
“Sto parlando con te, John.”
“John!”
 
“Un attimo, dammi il tempo di…”
 
“Di? Trovare un valido motivo per essere scomparso per ore?”
 
“No, per capire come funzioni questo accidenti…”
 
“Sei stato in città? Odori come l’emporio che c’è in centro, e hai la parte alta del cappotto sporca di polvere.”
 
“Sono stato in città. Mi hai scoperto.”
 
“Se mi dici cosa stai cercando di fare sul mio computer, probabilmente potrei darti una mano. Non mi sembri particol—“
 
“Oh, finalmente.”
 
 
 
 
“Spengi immediatamente.”
 
 
 
 
“Cosa…? Perché? Mi era parso di capire che ti piacesse.”
 
“Mi piace, infatti, ma…”
 
“Pensi di poterti accontentare di un misero violinista del quale ignoro il nome che suona qualcosa di cui ignoro ancor più il nome, per adesso? Prometto che troverò il modo di farti avere il tuo violino, ma per adesso questo è tutto il Brahms che sono riuscito a reperire all’emporio.”
“Sherlock?”
“Sherlock…?”
 
“Concerto per violino op. 77 in tre movimenti.”
 
“Scusa?”
 
“È quello che hai comprato: il concerto per violino.”
 
“Non ti piace…?”
“Vuoi che lo tolga?”
 
“Io… Lo adoro, per la verità.”
 
“Ok…  Bene, allora. Giusto? Vuoi che prenda i fascicoli, così possiamo lavorare un po’ prima di cena?”
 
 
 
“Vorrei che ti sedessi e lo ascoltassi con me. Se ritieni di non annoiarti troppo, è chiaro.”
 
“Sposto una sedia vicino a te?”
 
“Se vuoi.”
 
 
 
“John?”
 
“Sherlock.”
 
 
 
“Grazie.”
 
 
 
 

 
 
 
-172
 
Quasi le tre di notte.
 
John si è addormentato sul divano, la testa reclinata all’indietro ed un plico di fogli in bilico sulle ginocchia accavallate.
 
Il suono del vento proveniente dallo spiraglio aperto della portafinestra che increspa la superficie piatta della piscina è ipnotico, rilassante.
 
Ed io sto mentendo, e non so neanche perché.
 
L’ho capito questa mattina, poco dopo le 11, chi è stato ad uccidere quella donna.
 
John ricapitolava i dettagli ad alta voce, camminando aventi e indietro, e all’improvviso la soluzione, semplicemente, era lì, come se risplendesse tra le sue parole e lui fosse un conduttore.
 
Eppure, non gliel’ho detto. Non l’ho fermato.
 
E non l’ho fatto neanche questo pomeriggio, quando con frustrazione si è passato una mano tra i capelli, stanco di rileggere le solite frasi.
 
 
Potrei farlo adesso. Liberarmi di questo peso. Di questa assurdo senso di colpa.
 
Non dovrei sentirmi così.
È assurdo. Irrazionale.
 
Dovrei essere preoccupato.
 
Perché diavolo non provo l’istinto di dar sfoggio del fine ragionamento che mi ha condotto ad identificare come colpevole quell’uomo?
 
Perché non lo sveglio per dirgli che aveva ragione, che è stato proprio lui, il malato di prosopoagnosia,  e che lo ha fatto non avendo riconosciuto nella persona che stava aggredendo la moglie?
 
Devono cercare il corpo. Devono constatare che probabilmente la donna aveva mutato in qualche modo i  segni distintivi che permettevano al sospettato di riconoscerla (capelli, vestiario…)
 
Devono…
 
 
 
John ha un’aria tesa. Irrigidisce la postura, stringe i pugni.
Lo fa a cadenze regolari.
 
Sogna. Ed ogni fase di sonno popolato da immagini sembra essere dolorosa.
 
 
Vorrei svegliarlo con una leggera pressione sulle spalle, ma non posso. Il tavolino da caffè davanti al divano mi impedisce di arrivare a sfiorarlo.
 
Odio questa sedia.
 
Odio questo corpo inutile.
 
 
 
Odio costringerlo a rimanere qui oltre lo stretto necessario senza alcun motivo ragionevole, e odio desiderare che invece lo faccia.
 
 
“John?” Lo chiamo. Si muove appena, poi socchiude gli occhi, confuso.
 
“Credo di sapere che fine ha fatto la signora Olena.”
 
 
 
 
John mi ha ascoltato, attento, prendendo qualche appunto.
 
“Stupendo, Sherlock, davvero. Era proprio quello che ci serviva.” Ha detto, con un’espressione raggiante.
 
Mi piace quando mi guarda in quel modo. Quello che prima esternavo per puro gusto di realizzazione personale, adesso prende forma e senso nelle righe che si formano attorno ai suoi occhi quando smetto di parlare.
 
È… Non lo so.
 
 
Dovrei andare a letto, immagino.
 
 
 
Vorrei tornare a Londra.
 
 
Vorrei davvero assistere ad una sua lezione.
 

 
 
 


 
 
 
 
[15:09] Mycroft mi ha detto dove vi trovate. Vorrei venire a trovarti. V
 
 
 
[15:15] Mio fratello dovrebbe imparare a non intromettersi nella mia vita. Non sprecare un viaggio. SH
[15:16] So di non essere stato… d’aiuto. Ma ero spaventato. Adesso sono pronto, davvero. V
 
[15:18] Il patto non prevedeva l’ “essere pronti”, qualunque valore tu attribuisca al termine. SH
[15:19] Non credi che la situazione cambi “il patto”? V
 
[15:21] No, affatto. SH
[15:22] Sherlock. Potrei esserti d’aiuto. Potresti tornare a Londra, stare con me. V
 
[15:24] Sherlock! V
 
 
 
 


 
 
 
-171
 
Ancora un caso.
 
Immaginavo che John volesse iniziare subito ad analizzarlo, in modo da poter terminare questo soggiorno non previsto in questa landa desolata in compagnia di un paraplegico e far ritorno a Londra ma, inspiegabilmente, il fascicolo è ancora sulla mia scrivania, ben chiuso.
 
È come se avessimo un tacito accordo.
 
Nessuno dei due lo nomina, e nessuno dei due domanda all’altro il perché di questo silenzio.
 
Trascorriamo la maggior parte del tempo in veranda. Devo dar atto a John di aver imparato a gestire la “traversata” del Titanic piuttosto bene: al momento giusto da una spinta sola, precisa, quanto basta a farmi attraversare le guide della porta scorrevole. Poi, paziente, attende che mi posizioni in un punto per trascinare la sua sedia di fianco alla mia.
 
“Così passavi le estati qui, eh?” Mi ha domandato oggi, dopo quasi un’ora di silenzio.
 
Mi sono limitato ad annuire, gli occhi verso l’orizzonte.
 
“Immagino ti annoiassi a morte.”
 
“Parecchio.” Ho ammesso. “Ma avevo sempre la Baia, in caso di necessità.”
 
“La Baia?” Si è voltato verso di me, un mezzo sorriso in bilico sulle labbra e negli occhi una sincera curiosità.
 
“Una sciocchezza. Un pezzo di spiaggia privata che…”
 
“Avete una spiaggia privata?” Sembrava così sconvolto che non ho potuto trattenere lo sbuffo di una risata.
 
Mio fratello ha una spiaggia privata. Io ho rinunciato alla mia parte di questa proprietà molti anni fa.”
 
È sembrato sul punto di domandare il motivo della mia scelta ma, sorprendentemente, non l’ha fatto.
 
“Andavo lì a leggere, o semplicemente a pensare. Il più delle volte di notte, quando il buio era completo e potevo orientarmi solo con rumore della risacca.”
 
“Dal tono con il quale ne parli, sembra un posto magico.”
 
“Lo è.” Ho confermato.
 
E lo è realmente. Amo alla follia quel pezzo di mondo dimenticato. Dopo Londra e Baker Street è il luogo che più mi rattrista sapere che non rivedrò mai più.
 
“Vorresti andarci?”  Mi ha chiesto. Probabilmente la mia espressione rispecchiava i pensieri.
E lui sembra così abile, a capirli.
 
“L’ultimo tratto di strada è costituito da una ripida scalinata ricavata nella roccia del promontorio.” Mi sono limitato a rispondere.
 
Lui ha annuito, lanciando uno sguardo al Titanic, in silenzio.
 
Non abbiamo bisogno di molte parole, né di riempire i vuoti ad ogni costo.
 
Mi piace il silenzio, se lui è abbastanza vicino.
 
Lo riempie.
 
 
 

 
 
 
-170
 
“Sherlock…?”
 
“John? Che accidenti…”
 
“Shhhh, non urlare.”
 
“Non avevamo detto che avremmo iniziato a lavorare al caso domani? Non sono neanche vestit—“
“CHE ACCIDENTI PENSI DI FARE?”
 
“Vuoi stare zitto! Finirai con svegliare Mycroft.”
 
“Tu levami le mani di dosso, ed io smetterò di urlare!”
 
“Ti fidi di me?”
 
“No, non mi fido di te se farlo significa permetterti di stare a tre millimetri dal mio viso, in ginocchio sul mio letto e con l’aria di quello che sembra pronto a infilarmi una maglia come fossi un manichino.”
 
“Ho le chiavi del fuoristrada.”
 
“Scusa?”
 
“Hai presente il giardiniere che è arrivato ieri e ch—“
 
“So di quale fuoristrada stai parlando, quello che non capisco è perché tu abbia le sue maledette chiavi!”
 
“Se preferisci vestirti da solo ok, ma fallo in fretta, o rischiamo di farci beccare.”
 
“Farci “beccare”? Cos’hai, quindici anni?”
 
“Vuoi chiudere la bocca e metterti qualcosa di pesante addosso?”
 
“Vuoi spiegarmi una buona volta cos… Oh.”
 
“Adesso guardami negli occhi e dimmi che non vuoi farlo.”
 
“È assurdo, John, come pensi di fare per…”
 
Ti fidi di me?
 
 
 
 
“Infilami questi maledetti vestiti. E sbrigati.”
 
 
 
 
 



 
 
-170
 
La febbre sta arrivando.
La sento muoversi nelle ossa, tra i respiri infuocati.
 
Ma non mi importa.
 
Anche morissi adesso, completamente bagnato come sono, non mi importerebbe.
 
John è salito in camera sua a farsi una doccia calda.
Io dovrei seguire il suo esempio e, quanto meno, lasciarmi cadere in piscina ma…
 
Ma…
 
Ma…
 
Ho bisogno di scriverlo, prima che la stanchezza abbia la meglio.
 
Di cosa John Watson abbia fatto stanotte. Per me.
 
Mi ha portato oltre questa stanza, ancora un volta.
 
Ha guidato a fari spenti, fin quando non siamo stati sicuri che le luci non fossero visibili dalla casa.
 
Ha  portato il mio inutile corpo fino alla spiaggia, continuando a scherzare su quanto porti magnificamente i suoi quarantadue anni, per non farmi sentire a disagio.
 
Ha riportato da me la sedia, sicuramente un peso maggiore del mio da trasportare lungo i gradini, al buio. Ma lo ha fatto. Con calma, attenzione, cura.
 
Si è fatto guidare. Nell’ombra, sulla sabbia bagnata, una mano posata al Titanic ma non per spingere, bensì per seguire.
 
Si è lasciato convincere a rimanere, anche quando ha iniziato a piovere. È rimasto in silenzio, affianco a me.
 
 
John Watson mi ha portato alla Baia.
 
Ed io ho potuto dirle addio.
 
Neanche lo sa, che questo v oo gh l i p a  o ed
 
 
 
 
 
Il puntatore ottico non funziona molto bene.
Sono stanco, e il braccio destro risponde poco.
Ma voglio scriverlo, cosa ha fatto John Watson stanotte, per me.
 
Lui…
 
 
 
 
 


 
 
-170
 
Sono quasi le due del pomeriggio, e John non è ancora tornato.
 
 
Ho detto all’infermiera che non c’era alcun bisogno di allarmarsi, che sarebbe bastata un’aspirina. Non ha voluto ascoltarmi.
 
Mycroft è piombato qui pochi minuti dopo.
 
Le ruote della sedia erano piene di sabbia, il sedile umido, i miei capelli ancora bagnati… Gliel’ho letto negli occhi, che aveva capito tutto.
 
John avrebbe sistemato il Titanic appena uscito dalla doccia, ma abbiamo fatto troppo tardi… l’infermiera del mattino è arrivata prima di lui.
 
 
 
Mycroft ha allontanato le guide dal letto, e la sedia.
 
Mi ha praticamente relegato qui, un prigioniero che non necessita di catene.
 
Io…
 
 
MYCROFT!
 
 
MYCROFT!!!
 
 
 
 
 
 
Sì ,   S   he   rl   oc    k
 
Dov’è John?
RISPONDIMI!
 
È do v  e   è   g  iu  s   to   ch   e   si    a.   S   u   un    t r   e      n   o   d i   r  e   t  to  a  L  on   dr  a.
 
Tu… TU.  Cosa gli hai dett—
 
 
Oh  ,   n  i e n   te   ch   e n  on   fo  s s   e    l a    ve  r  i t  à.   E,  ch  e  tu   l  o   c r   ed   a  o   me  n  o,   h  a   sce   l to   l  u i    di   an  dar  se  ne.
 
 
 
 


 
 
 
Ha intenzione di ucciderlo prima del tempo?
Sono state queste le sue parole.
 
Devo essergli parso davvero confuso, mentre scendevo l’ultimo gradino delle scale, diretto nella stanza di Sherlock.
 
“Non credo di capire.” Ho ammesso.
 
“Mio fratello. Ha la febbre, e chissà che altro potrà svilupparsi in un corpo fragile come il suo, dopo la vostra idea geniale. Non ritiene che almeno gli ultimi mesi dovrebbe passarli in modo tranquillo?!”
 
“Gli ultimi mesi?” Propri non riuscivo a capire.
Non ho mai pensato, neanche per un secondo…
 
Dio, come ho fatto ad essere così stupido?
 
 
Avrei dovuto immaginarlo. Capirlo.
 
Forse non ho voluto volontariamente soffermarmi su i dettagli, gli indizi…
 
Non…
 
La verità è che sono un egoista.
 
Ho visto morire troppe persone, e…
Se tornassi indietro passerei ogni minuto a cercare di convincerlo che non sia la scelta giusta.
 
Ma lo penso davvero?
 
Forse per lui lo è. Sono io che non riesco a immaginare di… di…
 
Se fossi stato al suo posto, probabilmente, avrei fatto lo stesso.
 
È solo…
 
 
È solo che la sua vita lo rende infelice.
Ma il fatto che viva… di saperlo vivo, rende felice me. E Dio solo sa da quanto non mi sentissi così.
 
Neanche riesco a capire perché la prospettiva che ci sia una scadenza mi sconvolga tanto.
Tutti moriamo. Tutti i cuori si fermano.
 
Ma il suo…
 
Assurdo. Non sembro neanche un fottuto medico.
 
L’unica cosa che so è che non ha bisogno di qualcuno che lo spinga a cambiare idea. È la sua vita. E ha il diritto di scegliere.
 
 
Ed io…
 
 
Io ho bisogno di dimenticare la sua voce. I suoi occhi.
 
 
Lui.


 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Non credo di aver mai scritto, credetemi, niente di più complicato delle ultime riflessioni di John.
Mi rendo conto che appaiano sconnesse, ma… ad un certo punto il magone che sentivo mi ha fisicamente impedito di comporre frasi dotate di una struttura degna di questo nome.
 
Con questo capitolo, lo avrete capito, comincia la discesa nell’angst vero e proprio. Vi chiedo scusa già da ora. ^_^’
 
 
Grazie, come sempre, per aver letto fin qui, e per tutte le bellissime recensioni che avete lasciato allo scorso capitolo.
Prometto di rispondere il prima possibile.  :)
 
A presto,
B.

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Capitolo 5
*** Da 169 a 157 ***


 
 
 
 
 
-169
 
 
“Esci immediatamente da qui.”
 
“Sherlock.”
 
“FUORI, MYCROFT!”
 
“Per quanto ti risulti difficile crederlo, non ho chiesto al Professor Watson di andarsene.”
“Sherlock.”
 
“È la mia vita. Era una mia scelta dirglielo o meno. VATTENE.”
 
“Se ti ostinerai a non mangiare, mi costringerai a ricorrere all’alimentazione artificiale.”
 
“Bene. Fallo. E pensa anche ad un modo per rendere inutilizzabile anche il braccio destro, dopo avermi infilato il sondino giù per la gola. Perché ti giuro che lo ritirerò fuori a forza dopo ogni inserimento.”
 
“La tua reazione non ha alcun senso.”
 
“La mia fottuta vita non ha alcun senso, Mycroft. Non per me. Ti avevo concesso sei mesi. Perfetto. Il tempo si è ridotto al naturale evolversi delle mie condizioni cliniche.”
 
“Sherlock.”
 
“Passa un buon pomeriggio. Ora fuori dai piedi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-168
 
 
[11:09] Ho saputo che sei rientrato a Londra. Tutto bene? GL
 
 
 
[11:32] John? GL
 
 
 
[11:43] Ok, non mi lasci molte scelte. Sto venendo in facoltà. GL
 
[11:45] Tu lo sapevi, non è vero? JW
[11:46] ? GL
 
[11:48] Che ha deciso di ricorrere all’eutanasia, in Svizzera.  JW
[11:49] Come hai potuto non dirmelo?! JW
 
[11:51] Ma di che diavolo stai parlando? GL
 
[11:53] Sto parlando di Sherlock Holmes, e del fatto che abbia deciso di morire. E tu mi hai comunque mandato da lui. JW
 
 
 
[12:08] Ti GIURO che non ne sapevo niente. E adesso rispondi a questo dannato telefono. Dobbiamo parlarne. GL
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-167
 
Questa mattina Lestrade mi ha chiamato, chiedendo come procedesse il caso.
 
Gli ho detto che non avevo ancora aperto il plico, cosa che – stranamente – è la pura e semplice verità.
 
La sua videochiamata è comparsa sullo schermo del computer all’ora esatta nella quale di solito John entrava in stanza interrompendo il fastidioso elenco di “dovrebbe” che tanto piace pronunciare alla donna in camice che si vanta di “essere qui solo per essere d’aiuto.”
 
John deve avergli riferito della “Scelta”, come la definisce mio fratello quasi fosse un’entità concreta.
Dalla sua espressione e dal tono di voce era palese che sapesse, e che il fascicolo fosse poco più di una banale scusa rivestita, per giunta, delle più tragica incapacità di mentire.
 
Immagino (anche se non riesco a capirne il motivo) che John gli abbia anche suggerito l’orario nel quale effettuare la chiamata.
 
Forse perché sa quanto odi che non mi si dia ascolto mentre tento di spiegare cosa sia perfettamente in grado di fare anche senza l’aiuto di qualcuno, e voleva fare in modo che avessi una scusa per cacciare l’infermiera.
 
Salvarmi da questa snervante routine senza dirlo esplicitamente era uno dei tanti patti non verbali che avevamo instaurato, presumo.
 
Ma il risultato non è stato lo stesso.
Lei se n’è andata, certo.
 
Lui, però, non è qui.
 
 
 
 
Mycroft ha dato istruzioni affinché venga nutrito per via parenterale.
 
La vena prescelta è, chiaramente, la basilica del braccio destro. Impossibile per me rimuovere l’ago. Non muovo le dita della mano sinistra in modo sufficiente, e non riesco a raggiungere il punto di inserimento con i denti.
 
Ha vinto lui, immagino, almeno di non incappare in una provvidenziale flebite chimica.
 
Continuerò a vivere, se così può essere definito questo insieme di respiri che vorrei essere capace di interrompere volontariamente.
 
 
167 giorni.
 
 
 
-166
 
Piove.
 
Le note di Brahms si mescolano al suono delle gocce sui vetri.
 
Vorrei poter andare in veranda.
 
Vorrei sentire la pioggia insinuarsi tra i capelli.
 
 
 
Vorrei John in piedi accanto a me, con gli occhi verso un mare che non vede ma che ha lasciato di buon grado che gli descrivessi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La zoppia si è ripresentata, in modo ancor più accentuato.
Ho dovuto comprare un bastone nuovo. Il mio è rimasto nella stanza di Sherlock.
 
Greg mi ha detto che si rifiuta di mangiare, e che Mycroft gli ha riferito di essere stato costretto ad avviare l’alimentazione per via venosa.
 
Io…
 
Forse avrei dovuto parlargi. Spiegare perché me ne stessi andando.
 
Ma lo avrebbe letto sul mio viso, il dolore ed il disappunto. E non merita né pietà, né fardelli.
 
Merita la vita che vuole, o di scegliere di non vivere, se preferisce.
 
Sarebbe tutto più facile, se smettessi di sognare la veranda, e quella stupida sedia da spingere senza che se ne accorga, per aiutarlo un po’ durante gli spostamenti.
 
Le mie notti sarebbero migliori, se la guerra tornasse a prendere il posto del suo viso. Non riuscirei comunque a dormire… Ma potrei consolarmi dicendomi che niente esiste più, ormai.
 
Sherlock Holmes, invece, esiste ancora.
Respira, vive, si muove, per quanto odi tutto questo.
Vorrei continuare a vederglielo fare. A guardarlo compiere magie mentre risolve un caso.
 
La verità è che dovrò starmene qui, ad attendere che anche lui divenga un ricordo irraggiungibile.
 
 
 
Come ha scelto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-165
 
Ho chiesto a Lestrade di mandare qualcuno a riprendere i fascicoli.
Mi ha risposto che non c’è alcuna fretta, di lavorarci con calma.
 
Non ha capito.
 
Non li voglio qui.
 
Non voglio leggerli, né risolverli.
 
Voglio solo che spariscano, insieme all’ombra del ricordo di John chino su di loro.
 
 
 
 
-164
 
Dal bagno sono scomparsi tutti i rasoi.
 
Mycroft ha anche fatto ulteriormente alzare lo specchio. Impossibile per me sperare di scagliare qualcosa sufficientemente in alto da far cadere a terra qualche frammento. E anche ci riuscissi, non sarei in grado di raccoglierli.
 
164 giorni ancora.
 
Le mie cellule celebrali muoiono ad ogni ora passata qui dentro, bloccato in una serie di gesti altrui che mi limito a subire passivamente.
 
Il mio corpo…
Quello ha smesso di esistere nel momento stesso nel quale un calcolo sbagliato lo ha portato oltre la balausta di quel palazzo.
 
 
 
È stato un errore dimenticarlo, solo perché lui era qui.
 
 
 
-163
 
Mycroft ha rimesso in moto la macchina “dell’accoglienza”.
Dedurre per l’arrivo di chi, è stato fin troppo semplice.
 
L’unica cosa che ho potuto evitare è stata la rasatura. Ho afferrato il polso dell’infermiera mentre compiva la prima passata. Le lame sono andate così in profondità che il sangue si è arrestato solo dopo qualche minuto.
 
Davanti alla faccia sconvolta della donna e la preoccupazione rivestita di disappunto di mio fratello, ho semplicemente messo in chiaro che, almeno di non decidere di immobilizzarmi il braccio destro e rendere evidente cosa davvero sia – ovvero un prigioniero – nessuno dovrà mai più avvicinarsi a me per alcun motivo.
 
Certo, continueranno ad infilarmi aghi nell’illusione che prima o poi decida di nutrirmi nuovamente.
 
Ma tutto il resto…
 
Che vedano la verità di quello che mi stanno facendo, invece di continuare a nasconderla sotto un tappeto di lustra normalità.
 
 
Spero solo che Victor capisca molto in fretta quanto poco desideri la sua presenza in questa casa.
 
Non credo che abbia mai capito, davvero, cosa quel patto stesse a significare.
 
Non farsi coinvolgere non era una delle tante opzioni.
 
Era la regola.
 
Ma la colpa, immagino, sia anche mia. Avrei dovuto troncare definitivamente ben prima che sei piani si frapponessero tra me e la vita che amavo fare.
 
Una macchina sta risalendo il vialetto.
 
È ora.
 
 
 
 
-162
 
È più forte di lui.
 
Non riesce ad evitare di guardarmi in quel modo, con la stessa compassionevole espressione che spesso accompagna il silenzio teso di chi si sente palesemente a disagio in presenza delle piccole e grandi deformità della vita.
 
Le difformità e le macchie sulla superficie splendente lo bloccano, lo agitano. Nella sua infanzia fatta di regole e buone maniere non c’è stato spazio per affrontare le diversità del mondo e la sua vastità di aspetti. Ne è una dimostrazione palese il fatto che i suoi genitori considerino disdicevole che alla soglia dei quarant’anni non si sia ancora accasato, trovando pace tra le braccia di qualche paziente ragazza londinese.
 
Il fatto che abbia frequentato solo uomini, fin dagli anni dell’università, è qualcosa della quale nessuno fa menzione durante i pochi momenti di aggregazione familiare, ad esempio i pranzi di Natale.
 
 
Capisco ogni singolo meccanismo della sua risposta emotiva a quanto sia successo.
Davvero.
 
Sono un’enorme pozza di sporcizia sul suo immacolato stile di vita.
Potesse, immagino che pregherebbe per me.
Non mi sorprenderei se scoprissi che lo fa davvero. In effetti, non conosco affatto la sua routine serale: non ho mai permesso che si fermasse una sola notte a Baker Street.
 
Ma il modo in cui mi guarda è solo uno dei mille motivi per i quali non voglio che resti.
 
Adesso si trova in sala da pranzo, con Mycroft. Uno dei tanti pasti ai quali ho evitato di presenziare, da quando il Titanic ha preso il posto delle mie gambe.
 
Staranno parlando di cosa fare per farmi cambiare idea. Di quali cure sperimentali intraprendere. Di quanto una relazione affettiva possa giovare alla mia salute mentale.
 
Stronzate.
 
Un cumulo nauseabondo di stronzate che mi riguardano, senza parlare mai davvero di me.
 
Io…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
[13:03] Dovresti mangiare.
 
 
 
 
 
 
 
… Credo che…
 
 
 
 
 
 
 
 
[13:04] Non sto scherzando. Dovresti mangiare.
 
 
 
 
 
 
 
John.
 
 
 
 
 
 
 
 
[13:06] Non credo sia affar tuo, la mia alimentazione. SH
[13:07] Vero. Ma sarebbe un peccato mandare in debito di zuccheri il tuo prezioso cervello. JW
 
 
[13:09] Te ne sei andato. Non hai alcun diritto di scrivermi. SH
 
[13:10] Mi hai lasciato a marcire qui dentro. SH
 
[13:12] Sei tornato a Londra nel modo più meschino, patetico, codardo possibile. SH
 
 
 
 
[13:26] Hai ragione... non avrei dovuto scrivere. Ti chiedo scusa. JW
 
[13:28] Pensi che basti chiedere scusa? Eh? SH
 
[13:30] Che razza di soldato sei stato? SH
 
 
 
 
[13:37] Saresti dovuto rimanere qui. SH
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-161
 
Ho rimandato la lezione di oggi.
 
È solo… che non riesco a stare in piedi come e quanto vorrei.
 
È solo che oggi trovo più difficile di altri giorni alzarmi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Dovresti alzarti, Sherlock…”
 
“Dovresti andartene, Victor.”
 
“Non è per vederti dissolvere su un materasso, che sono venuto fin qui, lo sai.”
 
“Oh, certo che lo so. Sei qui per lenire il tuo senso di colpa e di impotenza, giusto? Sei qui per spingere la mia sedia per il giardino, sederti accanto a me sulla veranda e fingere che prima o poi potrò alzarmi a riprendere a condurre una vita consona al futuro di bugie e menzogne che hai previsto per te ed il tuo futuro, sventurato, compagno. Vita che, per inciso, ho sempre detto di non volere.”
 
“Questo è… è… “
 
“Crudele? Io sono crudele, Victor. Un mostro anaffettivo. Quale sarebbe la novità? Lo hai sempre saputo.”
 
“Ho sempre pensato che…”
 
“Che? Sarei venuto da te una sera con un anello? Che avremmo vissuto insieme?”
 
“No. Che un giorno avresti capito.
 
“Capito? Capito cosa?”
 
“Cosa voglia dire volere accanto qualcuno. Sentirne la mancanza, desiderare che il tempo non passi. Che…”
 
“Io non sono così, maledizione! Lo sai, lo hai sempre saputo! Io non cerco qualcuno con cui condividere il tempo, con il quale passare ore in silenzio solo perché la sua presenza è sufficiente. La mia mente non funziona così! Io ho bisogn—“
 
 
 
“Di quell’uomo. Non è vero? Di quel professore di cui Mycroft parla a denti stretti.”
 
 
 
“Io… No. NO. Non ho bisogno né di lui, né tanto meno di te. Ho bisogno che mi si lasci libero di decidere cosa fare della mia vita. E nessuno, nessuno, qui, lo sta facendo.”
 
 
 
 
 
 
 
-160
 
[01:06] Vorrei andare oltre la portafinestra, John. SH
 
 
 
 
 
 
 
-159
 
Victor se n’è andato.
 
Una stretta di mano impacciata, due destre incapaci di incastrarsi a dovere.
Questo corpo rende difficile anche la cosa più semplice.
 
Non credo che mio fratello gli abbia parlato della mia decisione. Se lo avesse fatto, glielo avrei letto negli occhi.
 
Le tristezze sono di tanti tipi diversi, ed ognuna segna il viso delle persone in un modo ben preciso. In fondo alle sue iridi non c’era paura, o la consapevolezza dell’ineluttabilità.
 
Meglio così.
 
Nessuna macchia viene via peggio da una coscienza dell’aver lasciato che una persona compisse un gesto come quello che sono pronto a fare. È come se tutti sentissero la presa delle dita attorno ad un cappio invisibile che sanno stringersi ogni giorno di più sotto la mia testa.
 
Lui non lo avrebbe sopportato, e sono sollevato che non debba farlo.
 
Non è nelle lacrime di qualcuno che voglio un pezzo della mia immortalità, ma nelle orecchie tese di chi ascolterà chi davvero fossi e cosa amassi e sapessi fare.
 
 
 
 
Sono stato portato a forza fuori dal letto, e messo davanti al pc.
 
Mycroft dovrà far rientro a Londra a breve, e ormai ha deciso di abbandonare la strada della diplomazia, a quanto pare.
 
Non potrà controllarmi costantemente, e la cosa lo terrorizza.
 
“Penso che dovresti aprire il link che ti ho inviato tramite mail. Entro le 15, possibilmente.” Si è limitato a dire, uscendo dalla stanza, più di un’ora fa.
 
Fallito il “tentativo Victor”, non voglio sapere cos’altro stia tentando di fare, per convincermi quanto meno a mangiare.
 
E più guardo quella sequela di numeri e lettere, più la voglia di scoprirlo si fa esile.
 
 
 
 
 
 
-158
 
 
John.
 
 
John in aula.
 
John in piedi davanti ad una lavagna ingombra di esemplificazioni di segnali neurochimici, lo sguardo stanco e l’andatura claudicante.
 
John che si apre in un sorriso mentre risponde ad una domanda, aiutandosi a fornire un quadro esaustivo con qualche piccola formula tracciata con cura al bordo della tavola luminosa che proietta il suo lavoro su il muro sopra di lui.
 
 
John che fa lezione.
 
 
Mycroft ha mandato qualcuno a riprendere il suo corso.
 
Io…
 
 
Ho rivisto la registrazione altre tre volte, dopo la diretta.
 
Conosco ogni espressione del suo viso, e buona parte del monologo iniziale con il quale ha introdotto l’argomento ai suoi studenti.
 
Ha il volto più tirato di quanto non ricordassi, e l’insonnia dev’essere peggiorata. Sicuramente la sua deambulazione lo ha fatto, e molto. Adesso poggia il peso anche quando si ferma. 
 
Però…
 
È… è lui. In ogni parte, in ogni centimetro di pelle e in ogni sguardo.
 
Ed è bravo. Dannatamente bravo.
Lento, pacato, ma estremamente preciso.
 
Uno di quei professori che ti fa venir voglia di prendere appunti, di alzare la mano.
Di interagire, di continuare a capire. Di ascoltarlo parlare ancora, e ancora…
 
 
“Lo farai di nuovo?” Ho chiesto a Mycroft, quando nel pomeriggio di ieri si è affacciato alla porta con sguardo attento.
 
“Dipende.” Ha risposto. Non è stato necessario specificare di cosa stessimo parlando.
 
“Fallo ancora, e fa’ in modo che possa fargli una domanda attraverso il tuo uomo.” Ho ribattuto.
 
“Ed in cambio, io, cosa dovrei ottenere?”
 
 
 
“Fammi partecipare ad una sua lezione, ed io ti concederò un pasto. Un pasto solido.”
 
Non ha aggiunto altro. Non ce n’è stato bisogno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-157
 
A quanto pare Sherlock ha un ragazzo. O dovrei dire un ex ragazzo, come ha puntualizzato poco dopo.
 
È venuto oggi durante l’orario di ricevimento.
 
Victor… credo.
 
Quando mi ha teso la mano, presentandosi, la frase “il fidanzato di Sherlock” ha per un attimo oscurato ogni altro senso, impedendomi di registrare correttamente le informazioni ricevute prima di quel momento.
 
Lui è… beh, davvero attraente. La cosa non mi stupisce affatto.
 
 
 
Dio, non posso credere che la prima definizione che mi sia venuta in mente sia “attraente”…
 
 
 
In realtà vorrei riuscire a capire perché l’idea che Sherlock avesse una relazione abbia generato in me un grado di confusione tale da avermi attanagliando la testa da quando è uscito dalla porta del mio ufficio fino a questo preciso momento.
 
Forse è solo perché non ho mai pensato a lui in quel modo… voglio dire, in qualsiasi modo.
 
Mi è sempre sembrato così distante, algido…
Che idiota. Perché mai non dovrebbe aver avuto anche lui storie, come chiunque altro?
 
O forse è stato quell’errore voluto di Victor nel presentarsi, come a voler marcare un territorio che, io, non sapevo neanche fosse stato delineato ed oltrepassato. Che esistesse.
 
 
 
“Ex”… perché Sherlock non vuole più saperne di lui.
Ex perché ha scelto di lasciarsi morire dentro un letto, piuttosto che reagire.
Ex perché, a quanto pare, la mia partenza deve aver messo in moto un qualche meccanismo che non riesco a comprendere del tutto.
 
“Fidanzato” affinché sappia che c’è, qualunque sia il rapporto che mi lega…va a Sherlock.
Fidanzato per spiegare con una stretta di mano che non ha intenzione di lasciarlo andare, ma che ha bisogno che io “faccia quello che ero solito fare con lui”.
Fidanzato perché lo aiuti a riavere lo Sherlock che sente di aver perso.
 
 
 
Razionalmente, ho individuato ogni singolo accento nascosto nelle sue parole, ogni sfumatura dei gesti. Ho capito l’uso delle frasi, il loro costrutto.
Ho compreso quali messaggi volesse che arrivassero.
 
Però…
 
Istintivamente, emotivamente…
Mi sento improvvisamente solo, ignorato.
 
 
È la cosa più infantile ed insensata che abbia sperimentato negli ultimi vent’anni.
 
In assoluto la più gratuita.
 
Eppure il pensiero che resta in cima al cumulo di tutti gli altri è uno solo:
Sherlock Holmes, in una qualche realtà parallela, avrebbe forse avuto modo di interessarsi a me.
 
E benché non ci avessi mai pensato prima di oggi, e conosca la situazione…
 
 
Continuo solo a vedere i suoi occhi a pochi centimetri dai miei, mentre cerco di convincerlo a vestirsi per andare alla Baia.
 
 
 
E a pensare che non li rivedrò mai più.
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
Oggi quest'angolo sarà silenzioso.
Lascerò che sia una grande poetessa del XIX secolo, a trovare le parole.


 
“ La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta la melodia senza parole, e non si ferma mai. 
(Emily Dickinson)
 
 
B.

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Capitolo 6
*** Da 155 a 148 ***




 
 
 -155
 
“Professore, cosa ne pensa della Sindrome di Capgras?”
 
Uno studente del corso sui principi delle neuroscienze mi ha posto questa domanda, oggi.
 
Immagino di dover essere apparso davvero sorpreso, perché raramente chi frequenta il ciclo di lezioni di introduzione alla materia conosce patologie simili. E, in tutta la mia carriera all’interno dell’università, lui è stato il primo a far menzione di quella specifica malattia.
 
“Vuole sapere di cosa si tratti, o quale sia il mio parere in merito alla veridicità di molti dei casi annoverati sotto tale dicitura?” Ho chiesto, cercando di circoscrivere il campo il più possibile, in modo da poter fornire una risposta esaustiva ma non troppo articolata.
 
Lui è apparso confuso. “Entrambe, se possibile.” Ha ribattuto poi, dopo qualche secondo di esitazione.
 
Sono rimasto in silenzio, cercando di riordinare le idee.
Non analizzavo quella specifica condizione da molto tempo, e renderla chiara ad un gruppo di ragazzi con poca dimestichezza delle disfunzioni cognitive non è esattamente un compito semplice.
Si rischia di confonderli con paroloni inutili o, ancor peggio, di annoiarli.
 
Alla fine, mio malgrado, ho optato per la descrizione più banale - ma immediatamente comprensibile - tra quelle che affollavano la mia mente in quel momento: “Capgras syndrome: ovvero di come mio marito sia stato sostituito da un alieno.”
 
 
 
Sherlock avrebbe reagito con un’espressione disgustata, di fronte ad un sunto simile…
E io, invece, DEVO smettere di pensare a lui.
 
 
 
“Chi soffre di questa patologia neurologica è in grado di riconoscere le fattezze ed il volto dei propri cari ma, nonostante la familiarità, l’attivazione affettiva ed emotiva nei loro confronti viene completamente a mancare. Per esempio, un uomo può continuare a riconoscere correttamente la propria moglie, ma allo stesso tempo non provare più alcun sentimento per lei: una simile dissonanza cognitiva viene “risolta” dal paziente con un delirio, ossia con la ferma convinzione che il proprio caro sia stato sostituito da un impostore, un robot o un alieno che si limita ad assomigliare in tutto e per tutto alla persona amata.”
 
Nella classe si è sparso un basso brusio. Qualche studente distratto fino a quel momento ha iniziato a prendere appunti. Altri, invece, hanno sollevato le penne dai blocchi per poter ascoltare con più attenzione.
 
“È comunque qualcosa che studierete più in là, nei corsi avanzat—“
 
“Come reagiscono le persone, di fronte a questi “sosia”?” Ha chiesto ancora il ragazzo.
 
“Beh, spesso mettono in atto comportamenti aggressivi e violenti nei confronti di quelli che considerano a tutti gli effetti degli impostori, soprattutto in risposta a tentativi di mettere in discussione le loro convinzioni deliranti.”
 
Al termine di questa spiegazione sommaria si sono alzate molte mani, e la discussione si è approfondita ed ampliata via via.
 
Il ragazzo che aveva dato inizio a tutto, però, non è più intervenuto. Si è limitato ad osservarmi in silenzio, lo zaino sul banco e l’espressione distante.
 
Quando - alla fine della lezione - gli ho chiesto perché avesse fatto proprio quella specifica domanda, si è limitato a rispondere con un’alzata di spalle prima di uscire in fretta dall’aula.
 
 
 
Non so perché stia scrivendo tutto questo.
 
Forse perché sono quasi le due di notte, ed io non riesco a dormire. O forse perché una parte del mio cervello si ostina a non voler lasciare andare quel momento, come se la riflessione non fosse terminata al suono della campanella.
 
 
La sindrome di Capgras.
 
 
Perché mai dovrebbe essere tanto importante?
 
 
 
 


 
 
 
-155
 
“Mio marito è un alieno”.
 
Questa è stata la sintesi stringata di John alla mia domanda su cosa pensasse della sindrome di Capgras.
 
E - per quanto non mi sarebbe mai passato per la mente di definire una cosa tanto complessa in un modo così banale - quella frase dimostra in modo palese quanto bravo sia nel suo lavoro di insegnante.
 
La domanda lo ha spiazzato, è stato evidente: per una frazione di secondo la sua presa sul bastone si è allentata.
 
Era una richiesta particolare, in un contesto simile, e immagino che i suoi “recettori” alle potenziali fonti di argomentazioni interessanti abbiano vibrato, così come vedevo accadere quando era qui.
 
Ogni volta che un argomento fuori contesto emergeva dalle analisi che stavamo compiendo, le sue pupille si allargavano appena, ed il respiro diveniva più superficiale.
 
L’adrenalina viene rilasciata nel nostro corpo in vari modi e sotto la spinta di fattori scatenanti diversificati.
 
Immagino che discorrere di argomenti stimolanti sia il palliativo con il quale ha sostituito la violenta risposta emotiva provata durante gli anni nell’esercito.
 
Mi piace, quando il suo viso assume quell’aspetto.
 
Riesco a vedere sotto le rughe dell’uomo fiaccato lo sguardo del Capitano che, un tempo, è stato.
 
 
 
Avevo iniziato a leggere il fascicolo dell’ultimo caso poco prima che Mycroft decidesse di mostrarmi la lezione di John.
 
Dopo giorni passati per la maggior parte a letto, le gambe stavano venandosi di eritemi sempre più estesi, anticamera di gravi lesioni da pressione.
 
Avere nuove parti del mio corpo da sottoporre a tediose sessioni di pulizia e medicazione è l’ultima cosa che desidero, mentre sbatto tra le pareti di questa stanza come una mosca bloccata in un barattolo.
Ho ripreso ad analizzare i plichi, quindi, scoprendo - non senza una certa sorpresa - di non riuscire a concentrarmi in modo adeguato senza la presenza di John.
 
E, quando l’ipotesi della Capgras ha fatto capolino tra le righe dei verbali, ascoltare la sua voce parlarne è divenuta una necessità.
 
Non ho mai sentito l’esigenza di condividere pensieri e riflessioni con qualcuno, in tutti gli anni trascorsi a seguire tracce, collegare parole ai fatti e scoprire menzogne.
 
Ma con lui…
 
Non so nemmeno se si sia mai reso pienamente conto di quanta chiarezza portasse tra i miei pensieri, nella confusione organizzata del mio Mind Palace.
 
È come se non brillasse di luce propria, ma riflettesse e accrescesse quella che riceve da stimoli esterni, ampliandola in uno spettro di consapevolezza talmente… vasto, da risultare abbacinante.
 
Per quanto smielato e assurdo possa apparire è, per la mia mente, quanto di più vicino ad un brillante possa esistere.
 
Come lui, la sua “bellezza” nasce da una reazione banale, apparentemente priva di ogni interesse. Carbonio, nient’altro.
 
Come lui, la luce nasce dal suo essere diviso, frammentato.
 
 
 
Dio, quanto patetico può mai apparire, un ragionamento simile?
 
 
 
Come se scrivere parole del genere su questo schermo cambiasse la realtà delle cose.
 
Come se sentirlo rispondere ad una mia domanda posta tramite la bocca di qualcun altro servisse davvero a fingere di lavorare ancora con lui su questo caso.
 
Come se mi ridesse qualcosa, di quanto ho perso.
 
 
 
L’unica cosa alla quale è servita questa idiozia è stata vedere l’espressione soddisfatta di Mycroft mentre mi osservava pagare il mio pegno, ingoiando controvoglia pezzi di pane tostato e uova.
 
Basta.
 
 
 
 



 
 
 
-154
 
[19:46] Sto per staccare. Ti va una birra? GL
 
[19:48] Non è serata. Ma grazie lo stesso. JW
 
[19:50] Avanti John! È più di una settimana che esci di casa solo per andare a lezione! GL
 
 
[19:53] Sai, inizio a pensare che non avrei dovuto mandarti da lui. GL
 
 
 
[20:13] No… Forse non avresti dovuto. JW

 
 
 


 
 
 
-153
 
Credo di essere impazzito definitivamente.
 
Forse dovrei ricominciare ad assumere le pillole per dormire, e porre fine a questa ruota di elucubrazioni mentali senza alcun senso.
 
L’ultimo caso… quello che dovevamo iniziare ad analizzare con Sherlock prima che…
Prima che sapessi.
 
La sindrome di Capgras renderebbe comprensibili molti dei comportamenti messi in atto dalla sospettata.
 
In realtà, li spiegherebbe tutti.
 
È per questo, credo, che non sono stato in grado di allontanare del tutto quel pensiero dalla mente, in questi giorni…
 
Ma non è questo il problema. A preoccuparmi è il fatto che tenti di legare quanto successo a Sherlock, ancora una volta.
 
È come se fossi improvvisamente divenuto incapace di immaginare che qualcosa possa accadere nella mia vita senza che lui ne sia l’artefice, in qualche modo.
 
Sua la capacità di distrarre la mia mente dai fantasmi del passato.
Lui la causa del dolore che ho provato nello scoprire che volesse morire.
Suo il viso che compare nei miei sogni, rendendoli un’agonia dalla quale cerco ristoro nella veglia.
Suo il senso di estraneità che mi si è aggrappato addosso da quando sono di nuovo a Londra, come se avessi lasciato il mio involucro tra quei campi, portando con me solo nervi scoperti e scossi.
 
E sua, adesso, anche la risoluzione di un caso che neanche abbiamo affrontato insieme.
 
È assurdo.
Privo di ogni logica.
 
Ho vissuto più di quarant’anni portandomi dietro una sola certezza: chi fossi.
E, adesso, una conoscenza di poco più di dieci giorni mi ha modellato su una forma che non sapevo nemmeno di avere.
 
Mi sento rovente, piegato a forza sull’incudine di sensazioni che credevo dimenticate.
 
Ho bisogno di trovare il modo di riempire ancora una volta le falle. Devo rimanere a galla.
 
Eppure non faccio altro che imbarcare dolore, aspettando che l’ultima boccata di sale richiuda finalmente l’acqua sopra di me.
 
Come può, un uomo che ha deciso di morire, essere divenuto un faro per chi annaspa in cerca della sopravvivenza?
 

 
 

 
 

-153
 
John ha disdetto la lezione di oggi.
 
Ho guardato l’aula vuota riflessa nello schermo per qualche minuto, fino a quando l’uomo di Mycroft non mi ha chiesto se potesse andare.
 
Non mi piace vedere quella cattedra senza la sua borsa di cuoio poggiata sopra.
È John il cuore di quell’apparato di sedie e menti. Senza di lui, quel posto è solo una stanza.
Sbagliata. Spoglia.
Morta.
 
 
 
 
 
Questa mattina ho realizzato che la mano sinistra ha riacquistato una leggera sensibilità.
 
Il mignolo formicolava e, tentando di fermare la sensazione di fastidio che la cosa mi procurava, ho premuto con forza attorno alla falange. Sentire la pressione è stato inaspettato, tanto che per svariati secondi ho osservato il dito stretto nella presa della mano destra senza riuscire davvero a collegare il gesto con la reazione celebrale che stavo avendo.
 
“Conosci la leggenda del filo rosso del destino?”
 
Non so nemmeno perché sia stato quello il primo pensiero che ho avuto, poco dopo.
 
Quel ricordo risale alle estati della mia infanzia, passate all’ombra dei grandi alberi del giardino di mia nonna, seduto accanto a lei con qualche libro aperto sulle ginocchia sbucciate, le sue dita nodose ad indicare sulla pagina una specifica frase o parola.
 
“Ogni persona porta - fin dalla nascita - un filo rosso invisibile legato al mignolo della mano sinistra, che lo lega alla propria anima gemella. È un filo magico, sai? Non può essere distrutto in alcun modo.” Aveva detto, pizzicandomi appena il dito incriminato.
 
A ben pensarci dev’essere per quello, che proprio quell’immagine è riaffiorata dalle nebbie di un passato tanto lontano.
 
“Le due persone che il filo lega sono destinate, prima o poi, ad incontrarsi ed innamorarsi.”
 
Chissà se funziona ugualmente, quando una paralisi ti impedisce di sentire se dall’altro capo qualcuno tira o meno la fune, mi è venuto da pensare. Mia nonna inorridirebbe davanti a tanto cinismo, immagino.
 
La verità è che neanche un filo indistruttibile arresta una Caduta.
 
E, se muori senza averla incontrata, la tua anima gemella – così tanto predestinata a te - neanche se ne accorgerà.
 
Perché, poi, le persone tendano a rivestire l’amore di mantelli dorati che nascondano cosa in realtà sia, non riuscirò mai a capirlo.
 
Siamo macchine gestite da reazioni chimiche, innamorarsi non è un’eccezione a questa regola.
 
In un certo modo, sarebbe altrettanto romantico scendere a patti col fatto che l’odore di qualcuno attivi in noi recettori che giacciono inerti in presenza di altri.
 
Se sol…
 
 
 
 
 

 
 
 
 
[15:33] La sindrome di Capgras. JW
 
[15:35] Non credo di capire. SH
[15:36] Hai letto il fascicolo del caso Pierce? JW
 
[15:38] C’è un motivo in particolare, per cui dovrei discutere di cosa abbia fatto o meno con te? SH
[15:39] Lo prenderò come un sì. La moglie è affetta dalla sindrome di Capgras. JW
 
[15:41] Per quanto odi ripetermi, vedrò di fare un’eccezione per te: non credo di capire. SH
 
[15:43] E comunque non c’è alcun motivo per discutere del caso insieme. SH
[15:44] Te ne sei andato. SH
 
 
 
[15:53] Avresti dovuto dirmelo. JW
 
[15:55] No, non avrei. E non l’ho fatto. Cosa decido di fare della mia vita non è affar tuo. SH
[15:56] Come io decido di reagire alle tue scelte, allora, non è affar tuo. JW
 
[15:58] Non è la stessa cosa. Non sei tu quello costretto a convivere con un corpo che non riconosci. SH
 
[16:00] Sono davanti a Baker Street. Non so neanche come ci sia finito JW
[16:00] Anche se per qualche strano motivo, era più facile, quando eri qui. SH
 
 
[16:04] Hai ragione. Sono un egoista. JW
 
[16:06] No, sei un codardo. SH
 
 
[16:11] Sai… avrei preferito non conoscerti. JW
 
 
 
[16:15] Anche io. SH
 
 
 



 
 
Idiota. Sono solo un idiota.
 

 
 
 
 

-152
 
“Penso che dovresti parlargli. Spiegare.”
 
“Non vuole spiegazioni. Vuole solo che sparisca dalla sua vita. Cosa che mi chiedo ancora perché mi ostini a non fare.”
 
“Ascolta, conosco Sherlock da molto tempo. E so che se non desiderasse avere contatti con te, si limiterebbe a non averli.”
 
“Ho detto una cosa orribile, ieri. È… stato imperdonabile.”
 
“Ma ti ha risposto, giusto?”
 
“Certo. Due parole per sottolineare quanto anche lui detesti il fatto di avermi conosciuto.”
 
“John…”
 
“Sono un codardo, Sherlock ha espresso il concetto in modo egregio, come sempre. Spiegargli perché io lo sia, non sarebbe di alcun aiuto.”
 
“Non sei un codardo, maledizione. Sei un essere umano.”
 
“E lo è anche lui, per quanto ami atteggiarsi a macchina invincibile. Non gli serve che qualcuno gli riversi addosso il proprio vissuto. Ha già il suo con il quale fare i conti.”
 
“Senti - Dio, questa birra è orribile - senti, dicevo. Sherlock non ammetterà mai che tu abbia potuto migliorare la sua vita in un qualche modo ma credimi, lo hai fatto. Non c’è niente… di sbagliato, a fargli vedere le tue ferite. Lui non ha potuto evitare di farlo, e questo è qualcosa con il quale non è bravo a convivere. Mostragli che… come dire…”
 
“Vuoi che cerchi di muovere a compassione un uomo che ha deciso di morire?”
 
“No, dico che secondo me apprezzerebbe se “giocaste” ad armi pari… Dio, John, sei stato congedato da anni, e nemmeno io so cosa diavolo sia successo, laggiù. Sarebbe così terribile, lasciare almeno una parte di quel peso?”
 
“E dovresti lasciarla a lui? Io non voglio gravare su di lui in alcun modo, e…”
 
“Lui non vuole la tua compassione, John.”
 
“Io non lo compatisco!”
 
“In realtà è esattamente quello che fai. Lo proteggi, e preservi, come se fosse fragile ed indifeso. Pensi che lo apprezzi?”
 
“Io…”
 
“Se a metterlo su quella sedia fosse stata una mina in Afghanistan, gli avresti parlato di quanto successo in missione?”
 
“Greg…”
 
“Ne fai una questione di grado di sofferenza, ma non è così. Non ti aveva detto di aver scelto di morire perché non voleva che tu cambiassi la tua prospettiva su di lui, che lo trattassi in modo diverso, come un moribondo, o un pazzo. Eppure, per quanto tu non voglia, compatirlo è esattamente quello che stai facendo, fin da quando hai capito cosa stesse succedendo.”
 
“Tu non capisci… Io non… Non ha alcun senso, me ne rendo conto, ma… Io non voglio lasciarlo andare. Non ci riesco.”
 
 
 
“Allora smettila di scappare.”
 
 
 
 

 
-149
 
 
Avrò iniziato questa lettera almeno cinque volte.
Intestandola, non intestandola, provando un approccio distaccato ed uno più amichevole.
 
La verità è che non esiste modo corretto per raccontare il contenuto di queste pagine, per cui, alla fine, ho smesso di cercarne uno.
 
Mi hai chiesto che genere di militare possa mai essere stato.
La risposta è: uno pessimo.
 
La verità è che ho provato ad essere un buon soldato, ed un buon Capitano. Ma questo non ha impedito che ci assaltassero, e uccidessero quasi tutti i miei uomini in un’imboscata.
 
Essere sopravvissuto a loro è la mia pena, e non sarà mai troppo pesante, o opprimente. Nessun dolore mi proverà al punto da farmi sentire di averla espiata a dovere, rendendomi libero di lasciarla andare.
 
Sogno quello scontro quasi ogni notte, e negli occhi persi e vuoti che popolano i miei incubi e nei quali continuo a rispecchiarmi non c’è riposo, o perdono.
 
C’era un ragazzo, quel giorno… Il soldato Ross. Aveva poco più di vent’anni, sul viso l’entusiasmo e l’orgoglio di non essere più costretto a fare simulazioni, ma di essere diventato “un soldato vero”.
 
Il ginocchio destro fu la prima cosa che colpirono. Si piegò davanti a me con lo sguardo sorpreso, le labbra schiuse. Non credo che il dolore abbia mai avuto il tempo di raggiungere pienamente la sua coscienza. Lo tenevo stretto per le spalle, cercando di fare in modo che non cadesse, quando pochi secondi dopo un altro colpo gli oltrepassò la visiera.
 
Se chiudo gli occhi… vedo ogni goccia di sangue. Sono così nitide che potrei contarle. Così reali, che se allungassi una mano ne sentirei il calore, la viscosità.
 
L’ho lasciato cadere… Quel poco che ne rimaneva. Ho lasciato che toccasse il suolo, e si riempisse di polvere. Non faccio altro che pensare a questo.
 
Ci sono attimi in cui non percepisci niente, nemmeno te stesso. È come precipitare nel vuoto.
 
Il proiettile dentro la spalla non l’ho sentito fin quando la sabbia non è entrata nella ferita, e non mi sono reso conto di essere sdraiata tra le dune.
 
E allora ho pregato di vivere, perché se avessi avuto il fiato per respirare, lo avrei avuto anche per dare ordini per il rientro ai pochi uomini che potevano essere sopravvissuti.
 
La realtà è che non sono stato in grado di parlare. E che sono stati loro, gli unici due superstiti di quella carneficina, ad aver trovato me.
 
Non meritavo quegli uomini. Non meritavo il loro rispetto e non meritavo di sopravvivere a ragazzi con la metà dei miei anni.
 
La mia mente ha elaborato la zoppia come cilicio. Mi ha azzoppato, come se il primo proiettile di Ross fosse stato mio, non potendomi prendere il secondo.
 
È vero.
Sono scappato, quando ho saputo della tua scelta.
 
L’ho fatto perché non posso vivere accanto a qualcuno sapendo che ancora una volta una vita mi scapperà dalle dita.
 
L’ho fatto perché non riuscirei ad impedire a me stesso di tentare ogni cosa, pur di farti cambiare idea, e questo non mi renderebbe migliore ai tuoi occhi di chi ogni mattina cerca di trascinarti in bagno contro la tua volontà.
 
Tu... mi hai regalato un sonno senza fantasmi, e giorni senza catene.
Ed io sarei in grado di ripagarti solo con la mia paura.
 
 
Mi hai definito codardo.
Come vedi, non è che la verità.
 
E sono anche un bugiardo.
Ritengo l’averti conosciuto un privilegio.
Non mi aspettavo niente, da questa vita, e la sorpresa di un incontro come il nostro è più di quanto potessi augurare a me stesso. O ritenga di meritare.
 
Mi dispiace di averti deluso. Di averti lasciato solo.
 
Il tuo disprezzo sarà un altro peso del quale mi farò volentieri carico, se servirà a sapere di averti lasciato libero di vivere in pace la tua vita, in qualunque modo tu voglia condurla, o terminarla.
 
 
 
Mi manca Brahms, per quanto non l’abbia mai ascoltato prima di quel pomeriggio con te.
Mi piace il modo in cui la sua musica balla nei tuoi occhi, quando lo ascolti.
 
E mi dispiace che tu non possa vederti per come ti vedo io. Forse non detesteresti tanto la tua vita.
 
Ecco, questo è proprio il tipo di frasi che mi troverei a ripetere ad ogni ora.
Immagino già la tua faccia.
“Dio, John, dov’è finita l’infermiera? Meglio la rasatura coatta a sciocchezze simili!”
 
Sto divagando, me ne rendo conto.
Non sapevo come iniziare questa lettera, e ancora meno so come terminarla.
 
Penso che lascerò che a farlo siano le due parole che più occupano la mia mente se ripenso a “noi”. Dopo il tuo nome, chiaramente.
 
 
Scusami.
 
 
Grazie.
 
 
 
 
 



 
 
-148
 
[11:09] La signora Pierce è sicuramente affetta da Capgras. Ma per confermarlo ho bisogno del tuo aiuto. SH
 
 
[11:16] Sherlock… JW
 
[11:18] Ho bisogno del mio violino. SH
[11:19] E tu hai promesso che avresti trovato il modo di portarmelo. SH
 
 
 
 

Angolo dell’autrice:
 
Scrivere questo capitolo non è stato facile, per vari motivi. Primo fra tutti, la lettera di John. Come già successo, dar voce al suo dolore è stata un’esperienza densa, perticolare, e… totalizzante. Spero di essere riuscita a portare a voi un po’ di quelle sensazioni. Purtroppo, quando scrivo di getto, raramente riesco ad essere del tutto obiettiva sul risultato. ^_^’'
 
Poi, la comparsa qualche giorno fa di una storia improntata sullo stesso identico concetto dal quale questa è nata mi ha "spiazzata", diciamo.
 
Mi sono domandata se fosse il caso di continuare o fermarmi fino alla conclusione dell’altra, per non incorrere in confronti tra trame e sviluppi (com’è naturale che succeda) o confusione da parte di chi legge.
 
Dopo un bel po’ di riflessioni (e di pazienza da parte di adlerlock XD) ho ritenuto che interrompere non fosse la scelta giusta.
 
Amo questa storia, come amo da impazzire scriverla.
 
Finché vi andrà di seguirla, sarà qui per voi. :)
Ed io mi godrò il viaggio di trasformarla in parole fin quando non mi avrà condotta in un porto sicuro.
 
 
Quindi, come sempre, grazie a chiunque abbia letto fin qui. :)
 
A presto,
B.

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Capitolo 7
*** Da 147 a 143 ***





 
 
-147
 
 
Entrare in casa di qualcuno per la prima volta senza che questi sia presente, somiglia ad un bieco gesto di spinto voyeurismo emotivo.
 
Il luogo che scegliamo come abitazione finisce con l’assomigliarci, e col raccontare di noi – alle volte - molto più di quanto vorremmo.
 
Il 221b di Baker Street sussurra di uno Sherlock che non ho mai conosciuto, lasciando che emerga tra i dettagli.
La posizione degli oggetti, ad esempio. Apparentemente lasciata al caso, svela una voracità di vita che non riesce a riprodursi, nella stanza asettica dove adesso è costretto a trascorre le sue giornate.
 
Ogni singola cosa, qui, appare toccata, maneggiata, manipolata più volte. Riesco quasi a immaginarlo, muoversi tra queste pareti con dita agili, instancabili, posate prima sulla spalliera di una sedia, poi tra i libri che ingombrano gli scaffali, infine veloci a lambire la mensola che sovrasta il caminetto.
 
In mezzo a questo caos pulsante, una poltrona.
Un’isola di stoffa che si erge in mezzo al mare in tempesta di fogli e ritagli di giornale.
Sembra quasi un trono, nella pulita eleganza che le ha accordato, lasciandola sgombra.
Deve amarla molto. Probabilmente trascorreva tra quei cuscini molto del tempo passato in questa stanza.
 
Era solito accavallare le gambe? O le lasciava allungarsi davanti a sé?
 
Com’era il suo passo, quando da qui raggiungeva la cucina?
 
Non ho mai pensato a lui così, nonostante sappia che la sua condizione sia molto recente.
 
E adesso che questa immagine si è affacciata alla mia attenzione, non riesco a non domandarmi come apparisse, nelle sue piene facoltà di movimento.
 
C’è una parte di me - ora, seduto a questo tavolo ingombro – che non riesce a non essere… atterrita, dall’ineluttabile verità che quella parte della sua esistenza mi sarà preclusa per sempre.
Il suono dei suoi passi lungo le scale, ad esempio. Non li conoscerò mai.
E più questa lapalissiana epifania si fa largo nel mio petto, più sento un’inesauribile sete di informazioni mischiarsi ad una forma ancestrale di tristezza.
 
 
 
Non dovrei essere qui.
 
Non da solo.
 
 
 
La padrona di casa, la signora Hudson, sta preparando il the nel suo appartamento.
 
“Lei dev’essere l’amico del quale Sherlock mi ha parlato nella mail!” Ha esordito aprendomi la porta, prima di spostarsi per farmi spazio sulla soglia.
 
“Amico?” Ho ripetuto, sorpreso.
 
A quanto pare, Sherlock le ha scritto ieri sera, dicendole che nel pomeriggio di oggi sarebbe passato a prendere alcune cose “un suo amico.”
 
Non so come una parola tanto semplice possa far stringere così forte il respiro di qualcuno, ma è successo. Una breve stretta, tiepida, che mi ha fatto mancare un battito.
 
L’anziana donna mi ha accolto nell’ingresso con un sorriso materno e uno sguardo dolce, guidandomi all’appartamento con convenevoli poco sentiti e curiosità reali.
 
“Come vi siete conosciuti?” Ha domandato una volta arrivati al pianerottolo del primo piano, dando una piccola spinta alla porta per aiutarla ad aprirsi verso l’interno.
 
“È… complicato.” Perché abbia balbettato, per la prima volta dopo quasi trent’anni, è qualcosa sulla quale dovrei lavorare con Ella. Per adesso, preferisco vigliaccamente ignorare che sia accaduto.
 
“Con Sherlock è sempre tutto complicato, non è vero?” Ha riso, ma con una tenerezza nella voce che ne tradiva l’emozione.
 
Mi sono limitato ad annuire, perso davanti alla vista del salotto nel quale eravamo entrati.
 
“Gradirebbe un the, mentre cerca quello per cui è venuto?”
 
“Sarebbe meraviglioso.”
 
Quando se n’è andata, per qualche attimo mi è sembrato di non riuscire a respirare correttamente. Troppi input, troppe informazioni a mescolarsi tra loro.
Colori, odori.
 
Il suo profumo, ho pensato. Quale, fra tutti questi, è il suo? Quello che lo avvolgeva, prima che lo sterile sentore di disinfettante prendesse il suo posto?
 
Poi, poco a poco, sono comparsi i dettagli, i singoli oggetti.
È stato come riuscire a mettere a fuoco dopo un lungo pianto, come incamerare ossigeno al termine di un’estenuante immersione.
 
 
 
Ho trovato il violino esattamente dove aveva detto sarebbe stato: nella sua custodia, poggiata sotto la finestra più vicina alla poltrona.
 
Non sono riuscito a toccarlo per più di un minuto, immobile davanti ad un involucro scuro che racchiudeva, tra il raso dell’imbottitura interna, una serie di sensazioni ed emozioni che sentivo risalire lungo la gola fino agli occhi.
 
Domande. Ancora. Sempre di più.
 
Era bravo, a suonarlo?
Certo, non potrebbe essere altrimenti.
 
Come doveva appare, con quel legno lucido e delicato stretto a sé, mentre muoveva le dita veloci e precise sulla tastiera?
 
Restava fermo, immobile?
O si muoveva, assecondando le note col proprio corpo…?
 
Altre cose che non saprò mai. Frammenti irraggiungibili.
 
Pezzi di lui che appartengono ad altri.
 
Se ci penso bene – ignorando il mio istinto di lasciare che queste riflessioni rimangano solo in superficie, smosse e coperte dai venti veloci dei pensieri estemporanei - mi scopro a non provare invidia, ma rabbia.
 
Sono furioso, che qualcosa lo abbia strappato a quelle corde, al suo salotto.
 
Che lo abbia trascinato lontano da questi fogli, dal profumo di carta e inchiostro che permea ogni angolo.
 
 
Victor lo avrà visto, immagino. Saprà.
Un altro pensiero sul quale non voglio soffermarmi.
 
 
 
Sento i passi della signora Hudson risalire le scale.
Berremo il the, discorrendo di cose semplici, innocue.
 
 
E, se vorrà, le chiederò di condividere con me un po’ dei frammenti di Sherlock che appartengono a lei.
 
 

 


 
 
-146
 

Ho sognato la Caduta, questa notte.
 
No, non è del tutto corretto.
 
Ho sognato la balaustra e, come ogni volta, il peso del mio corpo sbilanciato all’indietro mentre le scivola sopra.
 
 
Ma non c’è stata alcuna Caduta.
 
Nessun vuoto, nessun pensiero congelato nella comprensione di stare per morire.
 
 
 
 
Solo John.
 
 
 
 
Le mani strette attorno ai miei polsi ed i piedi puntati contro il parapetto.
 
 
Mi sono svegliato senza riuscire a capire se il suo peso ci avrebbe portati a terra, o se il mio ci avrebbe trascinati entrambi oltre la barriera.
 
 
 
Non riesco a fermare i tremiti.
 
Non riesco a smettere di pensare che...
 
 
 
Se tornerà qui, finirò col trascinarlo nel vuoto con me.
 
 
 
 
 


 
[04:02] Non voglio più il violino. Puoi tenerlo. SH
 
 
 
 
[06:46] Non riesco a capire. Non vuoi più che venga? JW
 
 
[06:51] Esatto. SH
 
[06:53] Potrei almeno sapere perché? JW
 
[06:55] Ci ho riflettuto. È vero, saresti solo un fastidio, con la tua convinzione che stia facendo la scelta sbagliata. SH
[06:56] Grazie comunque. SH
 
 
[06:59] E lo hai realizzato alle quattro del mattino? JW
 
 
[07:09] Sherlock…? JW
 
 
 
 
 

 
 
-144
 

La vena del braccio dove viene inserito l’ago per l’alimentazione duole ormai da un paio di giorni, e la zona sta diventando calda.
 
Credo anche di avere qualche linea di febbre.
 
Poco male: la flebite era una delle tante controindicazioni all’introduzione di nutrienti per via parenterale e, purtroppo, in una vena tanto superficiale raramente i rischi che comporta sono seri ed i risvolti realmente pericolosi.
 
Solo un fastidio in più da sopportare, assieme al formicolio sempre più esteso alla mano sinistra.
 
 
 
John ha provato ad inviarmi altri due messaggi, ieri, poi il telefono è rimasto muto.
 
Con molta probabilità, si è arreso all’evidenza che non avrei più risposto.
 
Anche in questo è diverso da tutti gli altri.
 
Lui non insiste. Non impone.
 
Ma ho scoperto che il silenzio che agogno provenga da altri riempie di agitazione i miei gesti, quando ne è lui la fonte.
 
Ho controllato il cellulare con una frequenza che ero solito dedicare solo all’attesa di una chiamata da parte di Lestrade nei periodi di particolare calma professionale.
 
Ridicolo, a ben pensarci, chiedere a qualcuno di non farsi più sentire e poi passare il tempo a verificare che lo stia facendo realmente.
 
 
Non importa.
 
Ho sognato di nuovo la Caduta, stanotte.
 
E sentire solo il mio peso perdersi nel vuoto, è stato un sollievo.
 
 
 
Non voglio John aggrappato a quella ringhiera.
 
 
 
O forse, semplicemente, l’idea che sia il suo volto l’ultima cosa messa a fuoco dai miei occhi prima della “fine”, mi renderebbe detestabile l’arrivo del buio.
 
E non posso permetterlo.
 
 
 


 
 
-142
 
 
[23:01] Dovresti dormire di più. JW
[23:02] E mangiare, di più. JW
 
 
[23:06] Che diavolo stai farneticando? SH
[23:07] Una volta mi hai detto che se avessi voluto uscire, saresti semplicemente uscito. JW
[23:08] Hai per caso bevuto? SH
[23:09] Sta diluviando.  JW
 
[23:11] John… SH
[23:11] Che ne dici di limitarti ad aprire la portafinestra? JW
 
[23:13] Sto congelando. JW
 

 


 
 
“Sei forse impazzito?!”
 
“Se non ti sposti, non posso entrare.”
 
“Non devi entrare! Che diavolo ci fai qui?!”
 
“Ti ho portato il tuo violino, come avevi chiesto. Se solo m—“
 
“Ti ho detto che NON lo volevo! E comunque non vedo alcun violino.”
 
“Vuoi farmi entrare, per favore?! Sono completamente fradicio!”
“Oh, grazie.”
 
“Il tuo bastone?”
 
“È in giardino, da qualche parte. Quando ha iniziato a piovere ho dovuto scegliere.”
 
“Scegliere…?”
 
“Tra appoggiarmi a lui o proteggere… questo.”
“Tranquillo. Non ha preso una sola goccia.”
“Sherlock?”
 
“Sei completamente bagnato…”
 
“Sì. Decisamente.”
 
“La custodia ti ha rovinato l’interno del giaccone…”
 
“Come? Ah. Non importa, è solo uno strappo. Lo farò sistemare.”
 
“Devi essere impazzito. È quasi mezzanotte! Cosa sarebbe successo, se non fossi stato sveglio? Se avessi deciso di non aprirti?“
 
“Non va mai a dormire prima dell’una di notte. E se avessi deciso di non vedermi avrei lasciato il violino sotto il patio all’ingresso.”
 
“Perché non lo hai fatto, allora?”
 
“Perché non mi risulta che sia tu ad aprire quella porta, la mattina. Lasciarlo lì significava consegnarlo a Mycroft. Ma, in mancanza di altre soluzioni…”
 
“Non ho visto auto risalire il vialetto.”
 
“Mi sono fatto lasciare al cancello principale, quello vicino alla strada.”
 
“Hai percorso quasi un chilometro a piedi?!”
“John!”
 
“Sì, Sherlock. È un piacere anche per me, rivederti.”
 
 
 
 
“Ti avevo detto di non venire.”
 
 
 
 
“La signora Hudson mi ha detto di portarti i suoi saluti.”
E di non darti mai ascolto.”
 


 

 
 
 
-143
 

Per qualche attimo, l’infermiera del mattino è sembrata totalmente persa, come se si fosse spenta.
Con le pupille dilatate e la bocca socchiusa, è rimasta immobile ad osservare la figura di John – capelli in disordine ed una delle mie camicie (quelle che lei tanto ama infilarmi solo per il gusto di potersi sentire utile mentre mi chiude i bottoni) addosso – seduto ad uno degli angoli del mio letto, un sorriso cordiale ad illuminargli il volto.
 
Il tempo di un battito di ciglia, ed ogni pensiero che le si agitava in testa è comparso in modo chiaro sul suo viso.
 
Devo urlare?
Chiamare aiuto?
Limitarmi a svolgere il mio lavoro senza fare domande?
 
L’opzione finale scelta è stata la più basilare forma di risposta allo stress che una persona poco avvezza a situazioni destabilizzanti possa mettere in atto: la fuga.
 
In silenzio, senza riuscire praticamente a respirare, è scomparsa oltre la porta con passo rigido.
 
“Tuo fratello mi ucciderà.”
Ha sussurrato John, cercando di arrotolare le maniche troppo lunghe della camicia fino al gomito.
 
“Ha sempre detto di non averti chiesto espressamente di andartene, quindi…” Mi sono limitato a rispondere, distratto, cercando di sfregare il punto di ingresso dell’ago fisso senza che se ne accorgesse.
 
“È vero. Non me lo hai mai chiesto.” Ha confermato lui, rabbuiandosi per un attimo.
“Che hai al braccio?”
 
“Niente.” Bugie: sono sempre stato bravo, a raccontarle.
 
“Non è vero. Fa’ vedere.” Ha invece ribattuto lui, alzandosi e venendo verso di me.
 
Forse non sono più bravo come una volta.
 
O forse non sono capace di guardarlo in faccia, mentirgli e sembrare convincente mentre lo faccio.
 
 
“Ho detto che non è niente.” Ho ripetuto, cercando di scansarmi e finendo con la sedia più vicino alla scrivania.
 
“Cristo Santo, Sherlock, devi togliere l’ago subito! Hai un’infiammazione! Vuoi… stare… fermo… un attimo?!”
 
È stato in quel momento, che l’ho sentito.
Il polso sinistro.
John ci si era poggiato appena, più per tenersi in equilibrio sul Titanic senza cadermi addosso mentre osservava il braccio destro che per la ricerca volontaria di un contatto.
 
Credo di essere sembrato un completo idiota, mentre fissavo le sue dita sopra la mia pelle, riuscendo a sentirne la leggera pressione. Il calore.
 
Per fortuna la sua attenzione era completamente rivolta altrove.
 
“Vado a lavare le mani e ti sfilo questa cannula. Adesso.” Ha detto dopo qualche secondo di ulteriore analisi, alzando il viso a pochi centimetri dal mio.
 
 
Policromia iridea.
 
 
Impossibile notarla al buio, o con poca luce.
 
John ha gli occhi blu ma, nel punto più vicino alle pupille, piccole striature miele si allargano in isole di terra dai colori caldi.
 
Galassie.
 
Esistono nebulose con “strutture” cromatiche simili. Alcuni punti di quella di Magellano, ad esempio.
 
 
Prima che potessi ribattere, è tornato in posizione eretta, mettendo fine al contatto.
 
Dove fino a qualche secondo prima si trovava la sua mano, non è rimasto che un lieve tepore.
 
“Se arriva Mycroft digli che non ho nessuna intenzione di andarmene prima di averti medicato come si deve.” Ha annunciato - tono duro ma un sorriso in bilico ai lati delle labbra - dirigendosi con passo appena incerto verso il bagno.
 
L’ho seguito con lo sguardo fin quando mi è stato possibile. Poi mi sono girato verso il violino, poggiato con cura contro il divano.
 
Per proteggerlo dalla pioggia, John lo ha messo all’interno del cappotto. Tenerlo fermo in quella posizione – stando attento a non farlo cadere - dev’essere stato complicato, e deve aver rallentato non poco i suoi passi sul terreno umido.
 
Immagino che sia stato quello, il motivo per cui ha lasciato cadere il bastone.
 
 
 
 
“Perché sei venuto lo stesso?” Gli ho chiesto questa notte, mentre si asciugava dopo essersi fatto una doccia calda.
 
“Perché non bisognerebbe mai rinunciare al proprio violino alle quattro di mattina di un anonimo giovedì sera.” Ha risposto, chinato in avanti nel tentativo di togliere più acqua possibile dai capelli.
 
“E cosa andrebbe fatto, alle quattro di mattina di un anonimo giovedì sera?”
Ho esalato, il fiato spezzato dalle corde che mi stavano portando al centro del letto.
 
“Non saprei… Ma posso dirti cosa si può fare nel bel mezzo di un banale lunedì.”
 
“Sono davvero curioso.”
 
“Si può smettere di avere paura di cosa accadrà domani.” Ha sussurrato, alzando la testa e lanciandomi un’occhiata veloce. “E decidere di portare un violino a casa del suo legittimo proprietario.”
 
Ho sentito, letteralmente, le ultime parole vibrare in mezzo al petto.
È stato… Incredibile.
 
Come se la voce di John fosse una corda pizzicata, vibrante, ma la cassa di risonanza delle sue note fosse il mio torace.
 
 
 
 
“Ancora nessuno all’orizzonte?” Ha riso, apparendo di nuovo oltre la soglia del bagno.
 
“Starà chiamando i suoi uomini per farti prelevare in elicottero.” Ho risposto, trovandomi ad allungare il braccio in sua direzione ancor prima di essermene davvero reso conto.
 
“Accidenti, dovrò davvero sbrigarmi, allora.”
 
 
Vale di certo il fastidio di una flebite ed il bruciore di un’infiammazione, vedere John nella sua veste di medico, e sentire le sue dita muoversi sulla pelle.
 
È qualcosa che ha a che fare con i suoi occhi… con lo sguardo che ha, mentre compie quei pochi gesti, attento e preciso.
 
Non credevo fosse possibile lasciare che qualcuno si occupasse di me senza provare l’irrefrenabile bisogno di spostarmi, di rivendicare le ultime briciole sparse della mia autonomia perduta.
 
 
Alla fine, invece, è arrivato lui.
 
 
Che mi ha fasciato il braccio, facendo il modo che il sangue tornasse a circolare normalmente.
 
Che ha aspettato pazientemente che mio fratello arrivasse, preparandosi a difendere la sua posizione con toni bassi e pacati.
 
Che, alla fine, ha deciso di uscire ed andare a cercarlo, perché “è giusto così”.
 
Che adesso si muove avanti e indietro davanti alla veranda, chiedendo gentilmente ad uno dei suoi assistenti di mandargli una valigia con qualche vestito e di sostituirlo per la fine del semestre.
 
Che si ferma e si volta verso di me ad intervalli regolari, per essere certo che stia mangiando a piccoli bocconi il pranzo che Mycroft ci ha fatto recapitare.
 
 
Lui che indossa la mia camicia, che gli sta comicamente larga.
 
Lui che sembra perfettamente a suo agio anche così.
 
 
 
Lui che, nonostante tutto, nonostante me
 
 
 
 
In un banale lunedì, ha scelto di tornare.
 
 
 
 

 
Angolo dell’autrice:
 
Oggi sono rientrata a lavoro, ma spero che questo non rallenti troppo la pubblicazione (non dovrebbe, ad ogni modo). ^_^
 
Grazie come sempre a chiunque abbia letto fin qui, e per tutte le bellissime recensioni che state lasciando alla storia. Prometto di rispondere al più presto ad ognuna di loro.
 
A presto!
B.
 
PS: Ieri, risistemando la libreria, mi è capitato tra le mani uno dei miei libri preferiti di Pablo Neruda. Sfogliandolo, sono “incappata” nella frase (non troppo allegra ma meravigliosa) che vi lascio qui sotto, a chiusura di questo capitolo:
 
 
“Solo chi ama senza speranza conosce il vero amore.”

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Capitolo 8
*** Da 143 a 139 ***





 
-143
 
Mycroft Holmes non è sicuramente un uomo facile.
 
Ma, per quel poco che mi è stato dato di vedere, prova nei confronti di suo fratello un enorme senso di protezione, indice di un profondo (anche se impacciato nelle sue dimostrazioni) affetto.
 
Quando sono andato a cercarlo per spiegargli perché fossi di nuovo in casa loro (o, per meglio dire, sua) e avessi scelto di riportare il violino a Sherlock, l’ho trovato nel salotto di rappresentanza, una tazza di the ben stretta tra le mani e la postura rigida.
 
“Forse si chiederà il motiv—“ Ho esordito, prima che un suo rapido cenno delle dita mi bloccasse.
 
“Perché non si accomoda, Professore?”
Con voce pacata, distaccata, mi ha indicato una delle poltrone di fronte a sé.
 
In silenzio, docilmente, mi sono lasciato andare tra i cuscini morbidi posti ai lati del pellame chiaro, come mi era stato chiesto.
 
“Ha una qualche idea su chi fosse mio fratello, prima dell’incidente?” Ha domandato, facendo ondeggiare il liquido ambrato nel suo recinto di ceramica dipinta.
 
No. Non lo so.
Non lo saprò mai.
 
“Chiaramente, nessuna.” Mi sono limitato a dire, lanciando un’occhiata lungo l’enorme libreria alle sue spalle.
 
Lui ha sorriso, un sorriso spento di gioia e carico di amarezza.
 
“Bene. In parte, neanche io.” Una sorsata ha soffocato le ultime sillabe, facendo sparire i suoi occhi alla mia vista.
 
“In parte è colpa mia, immagino.” Ha ripreso poco dopo. “Sono sempre stato piuttosto rigido, a causa di alcuni avvenimenti legati alla sua adolescenza.”
 
Il tono che ha marcato il termine “avvenimenti” mi ha tolto ogni voglia di indagare meglio quell’aspetto. Senza sapere cosa dire, mi sono limitato ad annuire, in attesa che continuasse.
 
“Da quando si è creata questa situazione, tento in ogni modo di mantenere Sherlock in vita. Chiaramente, l’approccio da me adottato è del tutto inutile, me ne rendo sempre più conto. Nutrirlo a forza non è di alcun aiuto nel convincerlo che vivere sia ancora un’opzione possibile.”
 
“Se la sua scelta è quella di morire, non credo che esista alcun approccio che risulti migliore di altri nel condurlo su una strada diversa.” Ho tossito, un nodo stretto attorno alla gola.
 
“Ha perso altri chili, dopo la sua partenza.” Una pausa, una nuova sorsata.
 
“Sì, me ne sono accorto.”
 
È evidente. Solo qualche minuto prima ero stato capace di chiudere il suo polso tra le dita.
 
“Pensa di riuscire a convincerlo a mangiare? Lo faceva, quando lei era qui.”
La voce ha tremato appena. Una piccola incrinatura, subito nascosta da un’alzata di sopracciglia.
 
“Non credo che lo si possa convincere a far nulla che non voglia.” Chissà se qualcuno mai ci sia riuscito. “Però ho dovuto togliergli la cannula, la vena stava cedendo. Diciamo che se ci facesse avere del cibo solido, sono abbastanza sicuro che – con i suoi tempi ed alle sue condizioni - ne mangerà un po’.”
 
Lui è rimasto per qualche secondo in silenzio, negli occhi lo sguardo di chi sta soppesando con attenzione pro e contro.
 
“E se dovesse decidere di non farlo?”
Ha chiesto.
 
“Aspetteremo ancora.”
 
 
 
 
 
D’altronde, non si tratta forse di questo?
 
Di aspettare?
 
 
Alla fine, si aspetta sempre qualcosa.
Un ritorno, una partenza, un addio, un “per sempre”, un perdono.
 
La vita è scandita di attese, alcune piacevoli, altre che non vorremmo affrontare.
 
Nonostante tutto, con gli anni, ho capito che aspettare è sempre un regalo.
Perché dona tempo, e avere tempo significa la possibilità di parlare, sistemare, prepararsi.
 
 
 
“Ha intenzione di andarsene di nuovo, o rimarrà fino alla fine?” Ha chiesto Mycroft, prima di congedarmi.
 
“Ho intenzione di esserci. Qualsiasi cosa Sherlock deciderà che significhi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-142
 
 
Ho sempre amato l’etimologia delle parole.
 
I termini sono come formule chimiche: hanno un senso esatto ed una forma precisa, che serve alla loro comprensione univoca.
 
Nulla è un caso, nella lingua. Nulla si crea per pura assonanza, seppure tutto sia suono.
 
 
Ad esempio, la parola incantesimo.
 
 
Ha una derivazione latina, incantàre, termine composto da due parti: “in” e “cantare”.
“Cantare”, nello specifico, indica il far uso della voce, della sua modulazione.
 
Che si canti una poesia accompagnati dal suono di un’arpa o un’antica formula magica, poco importa. Il risultato è il medesimo.
 
 
L’incanto.
 
 
Ecco.
 
La voce di John è incanto, mentre si muove - senza che lui se ne renda nemmeno conto - tra le mura di questa stanza.
 
Un caleidoscopio di note diverse, ognuna con cucita addosso un’emozione, ed un colore.
 
Sinestesia.
John l’ha portata qui assieme al violino, all’odore di Londra ed al profumo del suo dopobarba.
L’ha fatta entrare con sé, senza saperlo, e me l’ha fatta scivolare sotto la pelle, fino alla testa, ai pensieri.
 
 
 
“Sherlock?” Il mio nome è rosso, come un campanello dall’allarme. Vibra in mezzo al mio petto, caldo.
 
“Stavo pensando…” è il giallo della curiosità che si accende.
 
“Buonanotte” è nero come del cielo che guardiamo oltre le finestre quando lo sussurra.
 
Ed io resto fermo come adesso, vuoto, bianco, aspettando che la mattina lo riporti qui con tutti i suoi frammenti cangianti.
 
 
 
Con il suo incanto, che evoca spiriti e immagini di un futuro impossibile al quale non riesco a trovare la voglia di sottrarmi.
 
 
 
 
 
-141
 
 
Nella tarda mattinata, un corriere ha recapitato gli abiti di John in un grosso scatolone, chiuso con cura e meticolosa attenzione da uno dei suoi assistenti.
 
Lui è sembrato sollevato di poter mettere nuovamente addosso vestiti della sua taglia, nonostante abbia usato i miei in questi giorni senza mostrare alcun segno di fastidio.
 
Ha indicato il cartone lasciato davanti alla mia porta da uno dei domestici ed ha sorriso.
“Torno subito.”
 
Non avrei mai potuto credere sopportabile, per me, il pensiero che qualcuno usasse le mie cose.
 
Dopo una vita passata a rendere impenetrabile la mia corazza di orgoglio, dopo averla rivestita di calibrato disprezzo, vederla creparsi ad una simile velocità dovrebbe terrorizzarmi.
Stranamente, non provo paura, né fastidio.
 
Forse sono solo divenuto pienamente cosciente che non abbia più molto senso perdere tempo in cose simili.
 
 
 
“Preoccuparsi non è un vantaggio”, ha sempre detto mio fratello, probabilmente l’unica cosa sensata uscita dalla sua bocca.
 
Tutte le vite finiscono. Tutti i cuori vengono spezzati.
 
Eppure, l’idea che il suo battesse sotto la stoffa dove anche il mio lo aveva fatto era, a suo modo, affascinante.
 
Comunque…
 
I vestiti che ha usato verranno lavati, inamidati e stirati, perdendo ogni traccia di chi li aveva indossati fino a poche ore prima.
 
Mi domando se non sia così anche per la vita delle persone.
 
Quando morirò, quanto tempo passerà prima che il mio ricordo venga ripiegato e chiuso in un cassetto? Quanto, prima che venga coperto da altri pensieri, sparendo verso il fondo della coscienza di chi mi avrà conosciuto?
 
Immagino che non dovrei preoccuparmene.
 
Cosa e quanto resterà di me sarà il fardello di chi mi sopravvivrà, non il mio.
Eppure, questo pensiero si affaccia spesso alla mia attenzione, da quando John è di nuovo qui.
 
Ha vissuto quarant’anni senza di me.
 
Io, se davvero sceglierà di rimanere fino alla fine, sarò per lui poco più di una parentesi.
 
Sei mesi sono lo 0,6% di un’esistenza media di un individuo che si consideri in grado di raggiungere l’età di ottant'anni. 
 
Quanto tempo impiegherà, il mio ricordo, a sparire?
 
Perché improvvisamente ha così tanta importanza, come una singola persona gestirà qualcosa di cui non sarò nemmeno cosciente?
 
No. Non mi interessa.
 
E non ha alcun senso che me ne preoccupi.
 
 
 
Ma…
 
Vorrei che, quando accadrà, scegliesse di ricordare.
 
Non spesso, non quotidianamente, no.
 
 
Vorrei essere una striatura miele nel blu delle sue riflessioni mattutine.
 
Un piccolo granello della sua galassia.
 
 
Ecco.
 
 
 
Quello, per me, sarebbe l’eterno.
 
 
 
 
 
 
Dio, è uscito da poco più di dieci minuti, e già sento i pensieri accavallarsi, comprimersi.
 
L’ho realizzato la scorsa notte.
 
John è un arcolaio.
Resta immobile, permettendo di dipanare le emozioni. Non appena la ruota smette di girare, e la porta di chiude alle sue spalle, la matassa torna ad essere un grumo pulsante, doloroso.
 
Ed io mi perdo in riflessioni che non dovrei fare.
 
 
 
 
 
 
 
-140
 
“Ecco, prendi questo.”
 
“Il mio cappotto? Cosa dovrei farci?”
 
“Beh, non saprei, in effetti possono aprirsi vari scenari sull’utilizzo di un cappotto… Indossarlo, Sherlock, cosa vuoi farci?”
 
“Non ho nessuna intenzione di indossare il cappotto.”
 
“Poco male, vorrà dire che ti prenderai un raffreddore.”
 
“John, potresti farmi la cortesia di dirmi di cosa accidenti tu stia blaterando?”
 
“Non blatero, mi pare di fare un uso più che corretto della nostra lingua. Metti. Il. Cappotto.”
“Ok, va bene! Voleva essere una sorpresa, ma non sia mai che non si faccia qualcosa come vuoi tu…! Andiamo in città.”
 
“In città.”
 
“In città. A pranzo. Andiamo ad uno stupido ristorante, in una stupida città, come due stupidi uomini qualunque.”
 
“No.”
 
“Oh, avanti, non rendermi le cose difficili!”
 
“Ho detto no, John. Nessuno deve vedermi ridotto così.”
 
“Così mi offendi.”
 
“Scusa?”
 
“Mi rendo conto di essere un uomo di mezza età, con i primi capelli bianchi e qualche ruga, ma addirittura dire che non vuoi farti vedere in giro ridotto a frequentare uno come me…!”
 
“Ma cosa… Tanto per cominciare, noi non ci stiamo frequentando. Secondo… è una cravatta, quella?”
 
“La migliore del mio guardaroba di cartone pressato.”
 
“Hai messo la cravatta per portarmi a pranzo?!”
 
“In città. Sì. In uno dei migliori locali della zona sud.”
 
“Che è poco più di una rosticceria.”
 
“Esatto. Pensa che figurone che faresti, con un uomo in giacca e cravatta in una rosticceria.”
 
“Hai anche una giacca, sotto il cappotto?!”
 
“Potrei.”
 
“È assolutamente ridicolo, che un uomo in completo scuro pranzi in una tavola calda.”
 
“Probabile. Fingerò di non sentire i mormorii scandalizzati degli astanti.”
 
“I mormorii saranno tutti per me, John, come fai a non rendertene conto?”
 
 
“Facile: non ascolterò nemmeno quelli. Allora, vieni, o hai deciso di mangiare di nuovo uova sode e pane in cassetta chiuso qui dentro?”
 
 
 



 
-140
 
Fango.
 
Fango sulle ruote della sedia, fango sulle mie gambe, schizzi di fango sulla mie fronte e fango tra i capelli di John, che ha cercato di liberare il Titanic dalla pozza sabbiosa dove s’era arenato asciugandosi poi il sudore con mani cariche di terra.
 
Parcheggiare il fuoristrada a pochi passi dal locale senza tener conto del terreno è stata una sciocchezza. Provare a superare l’inabissamento spingendo semplicemente più forte, è stata semplicemente un’idiozia.
 
Mi sono puntato con i piedi e le basette di plastica nell’erba umida, una povera mosca caduta nel ventre appiccicoso di una pianta grassa.
 
“Ok, direi che non ci lasceranno mai entrare, così.” Ha costatato John quando, finalmente, abbiamo raggiunto lo spiazzo in mattoni antistante l’ingresso.
 
“Puoi sempre chiedergli se possono farci un tavolo qui fuori, tipo quello che si prepara ai bambini durante le cene importarti per tenere il loro chiasso distante dai discorsi seri dagli adulti.” Ho ribattuto, acido.
 
Il tempo di alzare gli occhi al cielo, e John era scomparso oltre la porta d’ingresso.
 
“Non ci posso credere…” Ho sussurrato, guardandomi attorno.
 
Per qualche secondo, immobile al centro di quello slargo deserto, mi sono sentito perso, solo.
 
Non mi era mai successo, prima.
 
Ho sempre amato la solitudine, il senso di protezione che emana.
 
Se non hai niente, nessuno, non puoi perderlo.
 
Eppure, con lui non riesco ad applicare nessun meccanismo mentale consolidato, neanche il più basilare.
 
“Ecco qua.”
 
Una decina di minuti dopo, John è ricomparso con due enormi borse bianche strette tra le mani.
 
“Ho sulla coscienza una cameriera e la buona digestione di circa cinque persone, ma sono riuscito a prendere un menù completo per entrambi.” Ha sorriso, radioso.
 
“Quanto fango hai lasciato sul loro pavimento, esattamente?” Ho chiesto, cercando di non scoppiare a ridere.
 
“Non saprei. Molto, immagino, dato che una delle cameriere ha iniziato a girarmi intorno con uno scopettone umido con lo stesso sguardo che uno squalo dedica ad un polpaccio umano.” Ha risposto, posando a terra i sacchetti e dirigendosi verso la macchina con gli occhi allegri.
 
“Quindi abbiamo fatto tutta questa strada per mangiare qui fuori? Ti ricordo che ho un braccio praticamente paralizzato, e usare delle gambe che non percepisco come tavolo potrebbe essere difficoltoso.”
 
“Mai stato in campeggio, vero?” È stato tutto quello che ha detto, tirando su il vetro del lunotto posteriore della jeep ed abbassando lo sportello del portabagagli.
 
“Ecco qua. Un perfetto piano d’appoggio.”
 
Devo averlo osservato apparecchiare con occhi sgranati perché, una volta terminato di preparare, voltandosi verso di me è sembrato perplesso.
 
“Ok, non era quello che intendevo quando ho detto “pranzo fuori”, però devi darmi atto che per essere coperto di fango fino alle orecchie non me la sono cavata poi tanto male.”
 
“Capelli.” Ho precisato.
 
“Scusa?”
 
“Sei coperto di fango fino ai capelli.”
 
 
 
Ad ogni modo… no.
Non se l’è cavata affatto male.
 
 
E, in ogni caso, nessun ristorante di lusso sarebbe valso quanto guardarlo seduto in bilico sulla punta del portellone, intento a masticare una lasagna fredda con un sorriso compiaciuto stretto tra le rughe all’angolo degli occhi.
 
 
 
“Ti piace, insegnare?” Gli ho chiesto dopo un po’, la voce impastata da un piccolo pezzo di polpettone.
 
Alle volte, mi sembra che mi osservi con la stessa espressione che gli illumina il viso quando spiega un concetto ai suoi studenti, in classe.
 
“Sì. Amo farlo.” Ha ribattuto subito, pronto.
 
Amore.
Per un attimo, la parola ha riempito ogni angolo del mio Mind Palace, in una deflagrazione di possibili significati.
 
“Sherlock?”
 
Sinestesia. Rosso. Caldo.
 
“Tutto bene.” Ho tossito, sotto un suo sguardo accigliato.
 
Abbiamo continuato a mangiare in silenzio.
Ogni tanto, John seguiva con gli occhi un’auto passare, o qualcuno uscire dal locale.
Io, invece, seguivo lui, i suoi lineamenti, cercando di capire quali riflessioni si affacciassero alla sua attenzione.
 
“Mi dispiace non essere riuscito a portarti a pranzo come si deve.” Ha sussurrato al termine del pasto, iniziando a raggruppare in uno dei sacchetti gli avanzi e le cose da buttare.
 
“Non importa. Sarà per la prossima volta.”
 
Non so neanche perché lo abbia detto. Volevo semplicemente che quella piccola ombra che avevo visto passare nei suoi occhi sparisse.
 
“Però niente cravatta.” Ho aggiunto, come spinta di incoraggiamento al sorriso accennato sul suo volto ad aprirsi del tutto.
 
“Va bene, niente cravatta. Tanto questa era l’unica che mi avevano inviato, ed è da buttare!”
 
Ecco… c’è qualcosa nel suo modo di ridere, che mi obbliga a fargli eco con la mia voce.
 
Qualcosa che aggioga le mie labbra alle sue, facendo in modo che debbano seguire le stesse pieghe, la stessa forma.
 
 
Incanto, dicevo.
 
 
Il sortilegio di un uomo al quale, tra poco (non appena si sarà lavato a sua volta), permetterò di aiutarmi a sciacquare via il fango dai capelli.
 
Al quale ho chiesto aiuto, senza sentirmi umiliato.
 
Che ha accettato con un sorriso.
 
Che…
 
 
 
Oh.
 
 
 



 
 
-140
 
“Così mi mandi lo shampoo negli occhi!”
 
“Se. Solo. Stessi. Fermo…!”
 
“Possibile che tu, con due mani, riesca a fare peggio di me con una?”
 
“Immagino che non ti dimeni tanto, però, quando fai il bagno da solo!”
 
“Certo che no, ho cinque corde che mi tengono seduto! Non potrei muovermi neanche volessi!”
 
“Mi spieghi perché devi agitare la testa così tanto?!”
 
“PERCHÉ MI STAI FACENDO MANGIARE IL SAPONE!”
 
“Sarebbe stato più facile, se mi avessi permesso di aiutarti a fare un bagno completo, invece di insistere che si aiutassi solo a lavare i capelli!”
 
“Non ho bisogno di un bagno completo, al momento. Né che tu mi assista come se fossi un bambino in una tinozza troppo grande. Ho chiesto uno shampoo!”
 
“La smetti di spingermi di lato? Stiamo allagando il bagno!”
“Sherlock!”
 
 
 
 
“Lasciami… lasciami il braccio, John.”
 
“Scusa… cercavo solo… Non lo so. Mi dispiace. Se cerchi di non muoverti troppo ti prometto di sciacquare tutto in fretta stando più lontano possibile.”
“Sarebbe più facile, se continuassi a dirmi quanto poco capace sia di fare questa cosa in modo corretto.”
“Ok… va bene. Credo di aver finito… Ti aiuto a rimet—“
 
“Posso farlo da solo, grazie.”
 
“Certo… Io… “
“…Credo che andrò in camera a riposare un po’, va bene per te?”
 
“Sei libero di fare tutto ciò che desideri. Non sei la mia balia.”
 
“Sì, lo so. Non intendev—”
“Lascia stare... Ci vediamo più tardi.”

 
 


 
 
Quanto idiota devi essere, per bloccare un uomo contro una vasca da bagno e fermarti sbigottito a pochi centimetri dal suo viso?
 
Dio.
 
Era spaventato a morte. Ed ora sarà furioso.
 
Come mi è potuto anche solo passare per la mente?!
 
 
 
 
 
 
-139
 
Quasi l’una di notte.
 
John non è più sceso, dopo questo pomeriggio.
 
La cosa non dovrebbe sorprendermi e, in effetti, non lo fa.
 
 
Ho lasciato volutamente che fraintendesse.
Ho scelto di non impedire che provasse vergogna, disagio, che sentisse il bisogno di allontanarsi.
 
Volevo che credesse al mio fastidio, alla mia repulsione, che la usasse da sprone per staccarsi.
 
 
La verità è che se non lo avessi spinto ad allontanarsi subito, non avrei atteso che colmasse lui quella distanza tanto labile.
 
Devo essere impazzito.
 
Non so neanche se avesse realmente intenzione di baciarmi.
 
In realtà non so quasi niente di lui, ancor meno di quali siano le sue inclinazioni.
Cercava solo di fare in modo che non mi facessi male, probabilmente.
 
 
John è un arcolaio, dicevo…. E come tale ha anche parti aguzze, che possono ferire, lacerare, trattenere.
 
 
Non posso rimanere aggrappato a qualcosa.
 
 
Non posso impigliarmi a un’emozione, o finirà con l’essere tutto…
 
 
Devo solo riprendere a contare.
Ricordare chi fossi, non immaginare chi potrei essere.
 
 
 
Contare.
 
Nient’altro.
 
139.
 
 
Ancora 139 giorni.
 
 


 
Angolo dell’autrice:
 
È un periodo strano, dove fatico molto più del solito a trovare le parole.
 
Ancora una volta, quindi, lascerò che siano altri a parlare per me.
 
Come sempre, ringrazio chiunque abbia letto fin qui.
E grazie per le recensioni meravigliose che state lasciando, sono uno sprone enorme.
 
A presto,
B.
 
 
“Ci sono due forze motrici fondamentali: la paura e l’amore.”
(J. Lennon)

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Capitolo 9
*** Da 138 a 137 ***


 
 
 
 
-138
 
L’imbarazzo è, da molti punti di vista, quanto di più simile alla vergogna si possa provare.
 
Ed ogni cosa, nei gesti di John di questa mattina, ne era rivestita, impregnata.
 
L’imbarazzo gli scuriva gli occhi, e abbassava la voce.
Gli si era attaccato alle gambe, facendolo camminare peggio del solito, più curvo e appesantito.
Si trovava tra le labbra tirate e pallide, e le sopracciglia aggrottate.
 
“Mi… dispiace per ieri.” Ha esordito, seguendo con lo sguardo il profilo dell’infermiera intenta a chiudermi i polsini della camicia.
 
“Non è necessario.” Ho risposto, tentando di stroncare sul nascere una conversazione che non avevo intenzione di affrontare in alcun modo.
 
Lui è rimasto in silenzio, aspettando vicino alla porta che la donna finisse i propri compiti e decidesse di uscire.
Quando gli è passata accanto le ha dedicato un breve sorriso di circostanza, che lei ha ricambiato con qualche titubanza.
 
Non capirò mai cosa spinga le persone a fare cose del genere. Perché sorridere a qualcuno solo per dovere?
 
Ad ogni modo, immagino che il dovere sia stata anche la molla emotiva che lo ha spinto questa mattina, gradino dopo gradino, fino alla mia porta.
 
“No. È necessario, invece.” Ha ripreso non appena la porta si è richiusa dietro di lui, facendoci rimanere soli nella stanza.
 
“È stato fastidioso che tu mi abbia bloccato il braccio. Molto. Ma questo non significa che ci sia qualcosa di cui parlare. La persone fanno costantemente cose che non voglio con il mio corpo, orm—“
 
“Io non sono “le persone”.” Ha sottolineato, e di nuovo l’imbarazzo ha mosso i fili del suo viso.
 
“Tecnicamente…”
 
“Oh, piantala. Potresti almeno permettermi di chiedere scusa senza rendere la cosa ancor più difficile di quanto già non sia?!” Ha sbottato, allargando le braccia.
 
Tu la stai rendendo difficile. Io ho detto che non era necessario.”
 
“Sei sempre stato così?” Ha domandato, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo. “È sempre stato tanto complesso per le persone comunicare con te?”
 
“Decisamente.” Ho confermato, annuendo con veemenza.
 
Sì. È sempre stato complicato.
 
“Io sono così, John. Sono questo. Non è stata la Caduta a rendermi cinico, e non è la paralisi la causa del mio essere poco accondiscendente. Immagino che la cosa ti stupirà, ma essere malato, o infermo, o moribondo, non rende una persona buona o cattiva. Si resta chi si era, o meglio, si amplificano i propri tratti distintivi. Questa sedia è solo una cassa di risonanza. Se ci fossi tu, seduto qui sopra, probabilmente emanerebbe uno stucchevole calore ed un immotivato attaccamento alla vita nonostante tutto.”
 
 È rimasto in silenzio per qualche secondo, con le labbra socchiuse, come se non riuscisse a respirare correttamente.
 
Poi - lentamente, senza essere realmente presente con i pensieri - ha annuito, portandosi il labbro inferiore tra i denti.
 
“Forse non sarei dovuto tornare.” Ha sussurrato dopo qualche secondo, continuando a muovere il capo. “Probabilmente non è me la persona che ti serve avere accanto, al momento.”
 
Ho aggrottato la fronte, incapace di capire a cosa stesse facendo riferimento.
 
“Mi rendo conto solo ora del fatto che il mio ripresentarmi qui sia stato del tutto fuori luogo, vista anche la recent—“
 
“Dio.” Devo aver ringhiato, perché ho sentito la gola vibrare. “Non dirmi che Mycroft ha osato…”
 
“Victor è venuto a trovarmi all’università.” Ha buttato fuori, tutto insieme, facendo scorrere le dita delle mani tra loro, come per aiutarsi a rimanere concentrato.
 
Per un attimo, ho perso del tutto la capacità di percepire l’ambiente circostante.
 
È stato come un’esplosione muta, un fischio bianco che si è sparso per le sinapsi.
 
Spezzoni di frasi pronunciate da John emergevano dal silenzio, per inabissarsi subito dopo.
 
“…dovuto pensarci…”
“…credo che…”
“è stato imperdonabile…”
 
Ho alzato la mano destra, cercando di farlo tacere.
 
“Cosa…” ho iniziato, riuscendo a malapena a sentire la mia stessa voce.  “Cosa ti ha detto, esattamente?”
 
John ha esitato, evidentemente a disagio.
 
“Che vi eravate appena lasciati, e che non stavi mangiando né dormendo a sufficienza. E…”
 
“E?”
 
“E che era colpa mia, in qualche modo.”
 
La risata nella quale sono scoppiato deve averlo colto di sorpresa, perché ha sgranato gli occhi in modo evidente.
 
“Sei tornato qui perché ti sentivi in colpa?!” Ho esternato, con un sarcasmo che voleva essere una lama.
 
“No, certo che no!” Ha ribattuto lui, indignato.
 
“Quindi sei tornato per riportarmi il violino, giusto?” Ho infierito.
 
“Sono tornato per te, razza di idiota.” È esploso, nella voce ira e frustrazione. “E per me. Sono tornato perché non riuscivo a dormire. Non riuscivo a lavorare. Non riuscivo a vivere, maledizione. Vuoi che ti dica che il violino era una scusa?! BENISSIMO. Era una scusa. Qual è il tuo motivo per avermelo chiesto?! Per avermi chiesto di andare a casa tua, dopo aver letto la mia lettera? Perché l’hai letta, non è vero?!”
 
Ha aspettato per qualche secondo che rispondessi. Io, in realtà, non riuscivo a mettere a fuoco un solo pensiero coerente.
 
“Ti ho detto perché ero andato via. Ti ho spiegato ogni cosa. Mi hai chiesto di tornare e l’ho fatto. Mi sono imposto di non cercare di cambiare la tua decisione, e solo il cielo sa quanto mi stia sforzando per tener fede al proposito. Ma non basta, giusto? Cos’è che vuoi, esattamente? Cosa… cosa vuoi che faccia? Che me ne vada? Che resti? Che ti stia accanto? Che neanche ti sfiori? Cosa, Sherlock!”
 
“IO NON LO SO!”
 
Non mi sono reso conto di aver urlato fin quando non ho sentito la mia stessa voce ricadermi addosso, acuta, aguzza.
 
“John esci, per favore.”
 
Ancora una volta, non ha fatto alcuna resistenza. Si è semplicemente voltato e, ancora più a fatica, si è diretto alla porta.
 
 
Questo, più di quattro ore fa.
 
È quasi ora di pranzo.
Ed io mi chiedo se scenderà.
 
No, probabilmente no.
 
Io non lo farei.
 
 
 
 
 
È vero.
La Caduta non ha cambiato la mia natura.
 
La malattia, non lo ha fatto.
 
 
 
Ma John… John lo sta facendo.
Ed io…
Non sono sicuro di volere che accada.
 
Non posso permettere, che accada.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-138
 
[11:43] Sta’ lontano da John Watson. Sono stato chiaro? SH
 
 
 
 
[11:58] E così, è tornato. O, quanto meno, vi siete parlati. V
[11:59] Non farmelo ripetere, Victor. SH
 
[12:03] Ti ha già raccontato di sua moglie? C’era una foto del loro matrimonio, nel suo studio. V
 
 
 
[12:11] Devo interpretare il tuo silenzio come un no? V
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-138
 
“Sherlock! Come stai?!”
 
“Non ti ho chiamato per scambiare stupidi convenevoli, Lestrade.”
 
“Certo…. Come ho potuto anche solo pensarlo.”
 
“Ho bisogno di informazioni su John.”
 
“John.”
 
“Perché devi costringermi costantemente a ripetere le cose?! Neanche Anderson è così ottuso!”
 
“Fingerò di non averti sentito…”
 
“Non posso chiedere a mio fratello, me lo rinfaccerebbe per… beh, per quanto mi resta, e su internet non ho trovato assolutamente niente di utile, quindi non rimani che tu.”
 
“È bello sentirsi indispensabili.”
 
“Parlami di sua moglie.”
“LESTRADE!”
 
“È stato lui a dirti di lei?”
 
“Certo, mi ha raccontato tutto, è per questo che cerco informazioni utili da te.”
 
“Sherlock, senti…”
 
“Sua. Moglie.”
 
“La sua ex moglie. E ripeto, dovresti chiedere a lui.”
 
“Ex. Da quanto?”
 
“Non posso aiutarti, mi dispiace.”
 
“Da quanto, Lestrade.”
 
“Se n’è andata di casa un paio di mesi dopo il rientro di John dalla missione. Contento adesso? Se vuoi i particolari, chiedi a lui. Se invece vuoi un consiglio da parte di qualcuno che lo conosce bene e tiene alla sua serenità, non toccare l’argomento. Ok?”
“Sherlock?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-138
 
“Raccontami di tua moglie.”
 
Sono state queste le prime parole di Sherlock quando ho aperto la porta della mia camera, sul viso l’evidente stupore che fosse arrivato, di sua spontanea volontà, tanto lontano della sua stanza.
 
“Perdonami…?”
Devo aver balbettato, gli occhi fissi sulla moquette del corridoio profondamente scavata dalle ruote della sedia. “Come…?”
 
“C’è un montacarichi in fondo al corridoio, serve solitamente alla servitù. Possiamo parlare di quello che ti ho chiesto, per favore?”
 
Gli ho guardato la mano destra, gonfia e rossa per lo sforzo.
 
“Sì, è stato faticoso, e sì, sono stanco.” Mi ha preceduto, seguendo la traiettoria del mio sguardo.
 
“Sei venuto fin quassù per chiedermi di mia moglie? Tra l’altro, come fai a… “ È stato in quel momento, che mi sono ricordato con quanta attenzione Victor avesse osservato la foto del matrimonio che conservo sulla libreria, nel mio studio. “Te lo ha detto lui, vero?”
 
Ha annuito con espressione seria, facendomi cenno con la testa di voler entrare.
Con un sospiro sconfitto mi sono scostato dalla porta, permettendogli di spostarsi in camera.
 
“Parlami di lei.” Ha ripetuto una volta dentro, lanciando uno sguardo per la stanza.
 
“Perché dovrei.” Ho ribattuto.
 
Non ho più parlato di Mary, da quando se n’è andata. Ed è stato “facile”, in un certo qual modo, dato che le poche persone che potevo definire “amici” sembravano aver volutamente scelto di ignorare la sua assenza e, in modo ancor più radicale, la sua stessa esistenza.
 
“Perché te l’ho chiesto?”
 
Sono scoppiato a ridere di getto, una risata assolutamente vuota, acuta.
 
“Certo, come potrei rifiutarmi, in questo caso. Fammi pensare… No, grazie.” Ho ribattuto. “Ma tu puoi parlarmi di Victor, se vuoi.”
 
“No. Grazie.” Mi ha fatto il verso, fermandosi poco prima del letto e girandosi del tutto in mia direzione.
 
“Bene. Con questo direi che possiamo considerare chiusa la conversazione.” Ho scrollato le spalle. “Posso fare qualcos’altro, per te?”
 
Mi ha fissato per qualche secondo socchiudendo gli occhi, pensieroso.
 
“Va bene.” Ha sospirato rotendo gli occhi, sconfitto. “Victor ed io ci siamo conosciuti all’università. Per qualche mese abbiamo condiviso un appartamento vicino al campus. Non ha mai detto ai suoi di noi, non che ci fosse qualcosa da dire. I patti erano che avremmo continuato a frequentarci fin quando la nostra “storia” non avesse intralciato i rispettivi piani per il futuro. Nessun innamoramento, nessuna “evoluzione”. Mycroft lo ha scoperto durante uno dei miei ultimi “errori di calcolo” nella dose di morfina da iniettarmi, Victor aveva trovato il suo contatto tra i numeri del mio cellulare e lo aveva avvisato del mio ricovero. Da allora, mio fratello crede che sia una specie di angelo salvatore, o qualcosa di simile. Ecco qui. Tocca a te.” Ha buttato fuori, ad una velocità tale che, a tratti, ho faticato a comprendere tutte le parole.
 
Devo essere apparso davvero stupido, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Ma la mole di informazioni che mi era appena stata riversata addosso era incredibile.
 
In un attimo, il motivo dietro al tono col quale Mycroft aveva parlato di “situazioni” era divenuto perfettamente chiaro.
 
“Allora?”
 
“Beh, ok…” Ho boccheggiato. “Sincerità brutale, giusto? È questa la strada che hai intrapreso?”
 
“Se così la ritieni.” Ha ribattuto, lapidario.
 
Ho chiuso gli occhi, portandomi le dita della mano sinistra sull’attaccatura del naso.
Riflettere.
Avevo bisogno di riflettere.
 
“Mary ed io…” Ho iniziato, tentando di trovare un filo in grado di legare i pensieri sconnessi che si agitavano nella mia mente. “Ci siamo sposati poco prima della mia partenza per l’Afghanistan. In verità… credo di averglielo chiesto proprio per questo. Stavamo insieme da pochi mesi, ma volevo andarmene col pensiero di avere qualcuno dal quale fare ritorno. Si chiamano “pensieri felici”, quelle cose che ti mantengono attento durante i turni di guardia e attaccato alla vita in caso di agguati. Poi… Beh, è successo quel che è successo, e quando sono tornato riuscivo solamente a pensare che non fosse giusto, che io fossi ancora vivo. Lei non ha sopportato l’idea di non essere abbastanza, per me, e se n’è andata.”
 
“Abbastanza per scacciare gli incubi ed i sensi di colpa?”
 
“Abbastanza per convincermi a vivere.”
 
Non so cosa abbia attraversato gli occhi di Sherlock in quel momento, ma so che l’azzurro ghiaccio delle sue iridi è sembrato vibrare.
 
“Le persone pensano sempre che si debba vivere per loro.” Ha commentato, dopo qualche secondo. “Cercano costantemente un modo per farsi del male, convincendosi che ogni scelta li riguardi.”
 
“In realtà… aveva ragione.”
Dio… non credo di averlo mai ammesso, prima.
“Non era abbastanza. Non per cancellare tutto quell’orrore.”
 
“Avrebbe potuto aspettare.”
 
“No. Non sarebbe stato giusto.”
 
 
“Tu, perché stai aspettando?” Ha chiesto, dopo qualche secondo.
 
 
Neuroni specchio.
 
Una classe di neuroni che si attivano, indistintamente, quando un individuo compie un'azione e quando osserva la stessa azione compiuta da un altro soggetto.
 
 
“Perché si aspetta sempre qualcosa.” Ho risposto.
 
 “Aspetti che cambi idea?”
 
Sì, maledizione, aspetto che tu decida di vivere.
 
“No. Semplicemente, aspetto con te.”
 
“La mia morte?”
 
“Dio, no. La vera domanda è: tu cosa stai aspettando? Se è la morte, ok. Sarà ciò che attenderò con te.”
 
Siamo stati in silenzio per qualche secondo, gli occhi fissi l’uno in quelli dell’altro.
 
“Perché hai ancora una foto nel tuo ufficio?” Ha domandato, deglutendo.
 
“Mi ricorda che le scelte che si fanno cambiano per sempre la nostra vita e quella degli altri. Io ho deciso di sposarmi troppo presto, lei di andarsene. In un modo o nell’altro, ci siamo contaminati. Nessuno dei due sarà più come prima.”
 
Sherlock ha annuito distrattamente, lo sguardo fisso davanti a sé. Poi, lentamente, ha iniziando a spostare la sedia.
 
 
“Ti andrebbe di farmi compagnia per pranzo?” Mi ha domandato, la voce poco più di un sussurro.
 
“Certo.” Ho sorriso. “Va’ avanti. Ti raggiungo tra un attimo.”
 
 
Il tempo di scrivere queste righe.
E di ricordarmi che oggi, grazie a lui, sono riuscito a parlare di lei.
 
E, con lei, di una parte di me.
 
 
 
 
 
 
 
 
-137
 
Quasi l’alba.
 
John, raggomitolato in posizione fetale sul mio letto, ne occupa solo una piccola parte.
È strano, vederlo lì.
Ancora più strano, è essere riuscito ad alzarmi senza svegliarlo, nonostante le corde ed il motore dei piccoli argani.
 
Doveva essere davvero stanco.
 
 
 
Gli occhi bruciano, e non credo di riuscire a scrivere molto.
 
Ma voglio farlo. Devo.
 
 
 
“Hai provato a baciarmi, ieri?” Ho esordito dopo cena mentre – una birra tra le mani e un paio di coperte a proteggerci le spalle - sedevamo ancora una volta vicini, nella veranda.
 
Non è sembrato sorpreso, anzi, ha accennato un sorriso nella penombra.
 
“Perché lo chiedi?” Ha ribattuto, portandosi la seconda birra della serata alle labbra. “Conosci già la risposta, per quanto cerchiamo entrambi di ignorarla da quasi ventiquattr’ore.”
 
“Mi sorprende, dato che dal discorso intercorso tra noi nella tarda mattinata di oggi è apparso evidente il tuo interesse a tutt’altro genere.”
 
Si è voltato verso di me, osservandomi con occhi socchiusi prendere un sorso dalla mia bottiglia.
 
“Conosci Joan Peter Boom?1
 
“Le opere letterarie, quelle musicali o cinematografiche?” Ho risposto, un’espressione divertita sul volto.
 
“Lo prenderò come un sì.” John ha alzato lo sguardo verso il cielo. “Mi dispiace, non avrei dovuto. È stato… inappropriato. Davvero.”
 
Avrei voluto dirgli che non c’era niente di cui scusarsi. Avrei dovuto ammettere di non aver mai desiderato così tanto qualcosa e, allo stesso tempo, di non aver mai provato tanta paura.
 
“Resterai fino alla fine?” Ho chiesto invece, finendo in un paio di sorsate la mia birra.
 
“Tu vuoi che resti?”
 
“Sì. Sì, credo di sì.” Ho balbettato appena, la voce impastata.
 
“Bene.”
 
“Bene.”
 
 
 
 
“Allora buonanotte Sherlock.”
 
Che suono produce il nero che si mischia al rosso?
Per me, assomiglia al battito del mio cuore che prende corpo nel mio petto, come se fino a pochi attimi prima non avesse vissuto.
 
“Potresti… ti andrebbe di rimanere?” Ho chiesto, sentendo letteralmente la gola chiudersi in uno spasmo.
 
John è rimasto fermo per qualche secondo, una mano già posata sulla maniglia della porta.
 
“Posso prendere un paio di coperte ed un cuscino da camera mia e mettermi sul divano…”
 
“Perché non ti sdrai qui? Questo letto è enorme, neanche ci accorgeremo l’uno dell’altro. E poi, ultimamente non mi muovo molto, nel sonno.”
 
Direi qualsiasi cosa, per vedere il suo sorriso trasformarsi in un accenno di risata, per il momento esatto della fioritura del suo viso.
 
“Ok.” È tornato indietro, aspettando che mi sistemassi nel mio lato del materasso e mi liberassi dalle corde. Poi, con attenzione, si è sdraiato al lato opposto.
 
 
 
“Buonanotte, allora.” Ha ripetuto, ed ho potuto sentire il calore del suo respiro lambirmi il collo.
 
“Buonanotte.” Gli ho fatto eco, voltandomi un attimo per guardarlo.
 
“Ad ogni modo, non resterò fino alla fine.” Ha sussurrato, la voce impastata dal sonno, girandosi di lato e portandosi le gambe al petto. “Resterò per sempre.”
 
“Credo tu sia un po’ alticcio, sai?” Ho risposto, senza riuscire a staccare gli occhi da lui.

“L’alcool interagisce anche con il sistema neurale GABA-ergico in parti specifiche del cervello. Si suppone che sia questo il motiv—”
 
“Non sei a lezione, John.”
 
“La risposta inibitoria delle mie sinapsi è ridotta.” Ha sintetizzato, schiudendo un attimo gli occhi. “Quindi mi permetterò di non sentirmi in nessun modo a disagio per quanto detto.”
 
 
 
“Mi mancherai.” Ho sussurrato. Ma prima di farlo, mi sono accertato che il suo respiro si fosse fatto regolare, e profondo.
 
 
 
 
 
 
Fra poco dovrò svegliarlo.
Si accorgerà che tremo, e posandomi una mano sulla fronte non ci metterà molto a capire che la mia temperatura corporea è decisamente sopra i 38°.
Ci vorrà un solo colpo di tosse, per rendergli il quadro clinico evidente.
 
Embolia polmonare.
 
Uno dei tanti possibili effetti collaterali della flebite dalla quale ha cercato di preservarmi senza, a quanto pare, i risultati sperati.
 
Lo guardo dormire e penso che dovrei svegliarlo, e farmi portare in ospedale.
 
Ma penso anche che potrebbe essere l’ultima volta che vedo il suo viso, e…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-137
 
“John…”
 
“Mhm.”
 
“John… svegliati… ho bisogno di aiuto…”
 
“Sherlock, dove… Ehi.“
“Cazzo. Cazzo, cazzo.”
“Resta qui, ok. Tieni gli occhi su di me, non devi chiuderli per nessun motivo, mi hai capito?!”
“Ok, ok, ho suonato il campanello d’allarme, adesso arriverà qualcuno e ti porteremo in ospedale. Ma tu resta sveglio. Respira a piccoli sorsi, ok? Con me. Piano.”
 
 
 
 
“Che sta…”
 
“Mycroft! Chiama un ambulanza, adesso! E se per qualsiasi motivo volesse il cielo che in casa ci sia dell’eparina, me la devi procurare ORA.”
“No, no, no. Mi devi guardare, Sherlock, non ti devi azzardare a smettere di guardarmi, chiaro?”
“Sherlock, devi aprire gli occhi.”
“SHERLOCK!”
 
 
 
 
 
 
Note:  1)  Joan Peter Boom è stato un attivista, cantante e attore olandese (da qui la “battuta” di Sherlock), teorico della pansessualità.
La pansessualità è un orientamento sessuale caratterizzato da una potenziale attrazione (estetica, sessuale o romantica) per le persone indipendentemente dalla loro identità di genere.
 
Amo molto questo termine, perché trovo che sia la più bella descrizione di Amore che si possa dare, quello che non guarda a nessun sesso né genere. ^_^
 
Ho preferito spiegarlo qui, invece che forzare il testo, perché mi sembrava strano dover far spiegare a John una cosa simile. :)
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Ormai ho preso l’abitudine di chiudere con una frase non mia, per cui farò lo stesso anche oggi.
 
Dato i problemi di server che ci hanno accompagnati fin da domenica pomeriggio, ho visto le recensioni apparire e scomparire ad intervalli regolari, cosa che mi ha impedito di rispondere. Vi ringrazio comunque già da ora per averle lasciate, e prometto di rimettermi in pari il prima possibile (ora il sito poggia su un solo server, ma almeno è stabile, quindi non dovrebbero esserci problemi. :D )
 
A presto,
B.
 
 
“Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è starci seduto vicino e sapere che non lo potrai avere mai.”
(Gabriel Garcia Marquez)
 
 
 
 
 
P.S.: ho trovato l’immagine che vi allego su internet e… niente. Solo dolore. (Chiedo perdono, davvero! ^_^’’)

 
 

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Capitolo 10
*** Da 136 a 130 ***


 
 
 
 
 
-136
 
L’embolo era di dimensioni massicce.
 
Sherlock ha perso i sensi quasi immediatamente ed ancora adesso, a più di dodici ore dalla crisi acuta, non ha ripreso conoscenza.
 
Stanno provando con i fibrinolitici… se non dovessero funzionare, non resterà che tentare con un filtro cavale.
 
Questo, se i farmaci non gli creeranno prima un’emorragia che gli sarà fatale.
 
Ci hanno bloccati in questa maledetta sala d’attesa, e non abbiamo informazioni da ore.
 
Guardo ogni medico che si avvicina a noi con un timore che si trasforma immediatamente in paura se la sua espressione non è, a mio avviso, sufficientemente rassicurante.
 
Mycroft è rimasto in piedi di fianco alla porta del reparto da quando siamo arrivati.
 
L’unico momento nel quale ho sentito la sua voce, è stato quello in cui ha sussurrato qualcosa riguardo ai genitori, domandandosi se fosse il caso di avvertirli o meno.
 
Ancora adesso è immobile nella stessa posizione, sul viso un muto smarrimento che lo fa somigliare ad una riproduzione di cera, un involucro vuoto di se stesso.
 
 
 
 
So che Sherlock ha scelto di morire comunque.
 
So che fra poco più di quattro mesi – anche dovesse salvarsi - ci ritroveremo nella stessa situazione, prigionieri di una sala d’attesa, con l’unica differenza di un finale certo.
 
Ma, per quanto mi chieda se abbia un qualche senso cercare di tenerlo ancora qui con tanta foga, se sia davvero quello che lui vorrebbe…
Non riesco a non sobbalzare ad ogni camice che viene verso di noi.
 
A non sentire il petto andare in frantumi in ogni secondo che passa senza che ci dicano come sta.
 
 
Non sono pronto.
 
 
Non sono pronto a lasciarlo andare.
 
 
Dio, ti prego… Fa’ che viva.
 
 
 
-135
 
Greg mi ha scritto per quasi tutta la notte, chiacchierando delle cose più insignificanti.
 
Birra, football, i casi irrisolti...
 
Non ha più chiesto di Sherlock, dopo la mia telefonata nel quale gli spiegavo quanto successo. Ma ogni messaggio era pieno di lui, il suo nome era racchiuso in ognuno negli spazi vuoti tra le lettere…
 
Uno dei tanti meccanismi di compensazione che la nostra mente mette in atto di fronte all’idea della morte, niente di più.
 
La si nasconde, le si da le forme più strane.
 
Si tende a ridere molto, a divagare. Oppure si resta muti, attoniti. Piangere è raro, almeno all’inizio. Bisogna essere padroni di un pensiero, per poterne piangere. Solitamente, la concezione che qualcuno che amiamo ci stia lasciando è un bolo emotivo che la nostra mente metabolizza piano, quasi avesse paura che ne morissimo a nostra volta, che un’indigestione di dolore potesse ucciderci.
 
È un patto silente, universale, quello del condurre la mente altrove per aiutarla a sopportare.
Ne sono tutti coscienti, ma a nessuno ne parla.
 
Greg mi racconta del goal segnato al novantesimo minuto dalla sua squadra del college, e facendolo mi regala per un secondo un’immagine da sovrapporre a quella di Sherlock, senza realmente coprirla, cancellarla.
Lo sa bene, come lo so io.
 
In questi casi, accavallare le pellicole dei ricordi, mischiare le carte, è quanto di più vicino ad un abbraccio si possa regalare a qualcuno.
 
Mycroft, seduto di fronte a me, usa il telefono con aria impacciata.
È evidente che non ami scrivere, che preferirebbe di gran lunga parlare.
Ma sembra non riuscirci, le labbra così contratte da essere divenute una prigione.
 
Penso che se Sherlock riuscisse a vederlo così, gli perdonerebbe qualsiasi cosa sia potuta accadere tra loro, finendo con l’allontanarli.
 
“Vado a cercare del cibo… Vuoi qualcosa?” Gli ho chiesto più di due ore fa.
Per un attimo è sembrato accendersi, tornare in sé. Poi – semplicemente - ha fatto cenno di no col capo, tornando immobile nella stessa posizione nella quale ancora si trova.
 
Stasera decideranno se operare o meno, e non sono più sicuro di sapere cosa sia meglio.
 
 
 
Ho smesso di guardare i medici, al loro passaggio.
Non voglio che da nessuno di loro dipenda la vita di Sherlock.
 
Nessuno di loro merita un privilegio simile.
 
 
 
-134
 
I farmaci hanno procurato un’emorragia massiva.
L’intervento chirurgico è ormai diventato necessario, e su più livelli.
Devono arrestare la perdita di sangue e riuscire ad aspirare l’embolo.
 
Mycroft adesso è sulle scale antincendio esterne, a fumare un’altra sigaretta.
 
Io continuo a scrivere, e mi sembra di non capirne più il motivo.
 
Non ha senso che stia qui. Non ha senso che riempia pagine intere di parole, mentre da qualche parte stanno preparando Sherlock per un intervento che lo ucciderà quasi sicuramente.
 
Non ha senso che resti aggrappato all’idea che viva, solo per poter egoisticamente poter dire in futuro di aver passato un altro centinaio di giorni con lui.
 
Non ha senso Greg che continua a scrivere, non ha senso che Mycroft non mi parli, non ha senso che sia tornato se questo
 
 
non
 
ha
 
cambiato
 
NULLA.
 
 
 
 
 
-133
 
Il letto sembra enorme, o forse è lui ad essere divenuto ancora più esile, fragile.
 
Ho percorso con gli occhi ogni cavo che entra ed esce dal suo corpo, saprei disegnare quella ragnatela di vita liquida anche ad occhi chiusi, ormai.
 
Fili che portano aiuto, fili che allontanano rischi. Flebo e cateteri, autostrade di tubi carichi di fluidi. Sherlock probabilmente alzerebbe gli occhi al cielo, se solo li aprisse e riuscisse a vedersi.
 
“Vedi John, perché non voglio vivere così? Ovunque vada sono sempre attaccato a dei cavi, sembro una maledetta marionetta.”
 
Ma io resto seduto a fianco al suo letto, e penso solo che se vincerà ciò che che entra rispetto a ciò che esce, potrò sentire ancora la sua voce lamentarsi di quanto inutile sia tutto questo.
 
Ed io non aspetto altro, da egoista e pavido quale sono.
 
 
Perché la mia mente non riesce a ricreare in modo adeguato la profondità del suo timbro vocale, né il chiarore dei suoi occhi.
 
E mi odio, per non aver prestato abbastanza attenzione.
 
Come muove la mano, quando parla? Quante sono quelle piccole rughe che si formano all’attaccatura del suo naso, quanto si finge scandalizzato, o infastidito?
 
Non ho abbasta, di lui, per poterlo conservare con me, e la cosa mi terrorizza.
Non voglio che resti un profilo approssimato stagliato contro il cielo notturno di una veranda stilizzata.
 
Ho bisogno di più tempo.
 
Ti prego, Sherlock.
 
 
Devi darmi più tempo.
 
 
 
 
 
 
 
-132
 
 
“Mycroft!”
“MYCROFT!”
 
“Victor? Cosa… Cosa fai qui?!”
 
“Ho telefonato a casa, non ricevendo notizie da qualche giorno, ed una delle domestiche mi ha detto cos’era successo… Sono arrivato con il primo treno disponibile.”
 
“Non credo sia una buona idea.”
 
“Io… Io non capisco… Non avevamo una specie di accordo? Io ti avrei tenuto informato su cosa stesse accadendo a Sherlock, e tu avresti fatto altrettanto? Come hai potuto non dirmelo?”
“Come sta? Posso vederlo?”
 
“Sapremo con certezza la sua situazione una volta diminuiti i farmaci che lo mantengono sedato. Non è il caso che tu rimanga, Victor, devi darmi ascolto.”
 
“Non crederai davvero che abbia fatto ore di viaggio per farmi rimandare indietro…”
 
Nessuno ti ha chiesto di farlo.”
 
“TU, tu mi hai chiesto di farlo, Mycroft! Per quasi dieci anni! Di farti da sentinella umana per quel fratello che non riuscivi a gestire!”
 
“Bene… Hai ragione. Adesso, però, le cose sono cambiate. Tu stesso sai cosa pensi Sherlock della tua presenza al suo capezzale.”
 
“Ho fatto un errore, uno solo. Questo non può cancellare di colpo ogni cosa!”
 
“Abbassa la voce, siamo nel corridoio di un ospedale, ti ricordo.”
 
“Tu devi lasciare che lo veda. Se… se morisse, io…”
 
“C’è il professor Watson, nella sua stanza, Victor.”
“E non riesco a capacitarmi che la cosa ti sorprenda.”
 
“Non… non mi importa. Ho il diritto di vederlo.”
 
“Avevi il dovere di non lasciarlo da solo in ospedale la prima volta, solo perché non sapevi come giustificare la cosa ai tuoi genitori, o come affrontarla.”
 
“Io NON h—“
 
“Ci abbiamo provato, va bene? Hai visto come ha reagito Sherlock alla tua presenza. Adesso, ti prego, va’ a casa.”
“Victor.”
“Victor!”
 
 
 
 
 
 
 
-131
 
Quasi le due di notte.
 
Le nocche delle mani continuano a bruciare, ma questo non mi impedisce di tenere la destra stretta con forza attorno alla sinistra di Sherlock, questo blocco in bilico sulle gambe mentre cerco di scrivere queste righe.
 
 
 
Ho scelto la carriera militare con l’intento primario di fare del bene.
 
Non sono mai stato solo un militare. La croce rossa che portavo cucita sulla divisa era un segno universale, immediatamente riconoscibile, comprensibile.
 
Avevo all’altezza del cuore il segnale per ogni persona che incrociava il mio cammino che da me non sarebbe venuto alcun male, ma aiuto.
 
Che proteggere chi si ama giustifichi – in casi estremi - anche l’uso preventivo della violenza, è sempre stata una di quelle cose che sentivo uscire dalla bocca dei commilitoni e che, su di me, riusciva solo ad avere un effetto urticante.
 
Cazzate, pensavo.
 
Nulla giustifica l’uso della violenza gratuita. Solo il pericolo concreto per la propria vita o per quello di un nostro caro, può dare un senso a gesti simili.
 
 
 
Adesso - seduto qui con la pelle delle mani aperta in più punti - cerco di convincermi che ci fosse un motivo reale, valido, per fare quanto ho fatto.
 
Per portare di peso fuori da questa stanza Victor Trevor e “convincerlo” – non a parole, ma in modo feroce – a non metterci più piede.
 
Forse è stato il suo ingresso improvviso.
O forse l’espressione con la quale mi ha chiesto di uscire.
 
Probabilmente è bastato il solo modo in cui ha guardato Sherlock, per farmi perdere la ragione.
 
 
 
“Esca. Voglio stare da solo con lui.”
 
“No. È molto debole, e…”
 
“Ho detto esca. Ho più diritto io di stare seduto di fianco al suo letto di quanto lei non potrai mai avere.”
 
 
Lo spiego spesso, in aula, ai miei studenti.
La rabbia può davvero, letteralmente, portare a non vederci più.
 
L’influenza modulatrice della neocorteccia nell’attività del sistema limbico. Niente di più semplice ma - allo stesso tempo, se sovraccaricata – brutale.
 
Quando finalmente sono riuscito a mettere di nuovo a fuoco l’ambiente circostante, il viso di Victor è apparso a pochi centimetri dal mio.
 
Lo tenevo fermo per le spalle contro il muro di fronte alla porta di Sherlock, le nocche premute contro lo stucco ruvido. Più cercava di divincolarsi, più la pelle delle mani si apriva nel tentativo di tenerlo fermo.
 
Ho allentato la presa solo quando Mycroft – qualche attimo dopo - è comparso oltre l’angolo del corridoio, lasciando due piccole macchie di sangue sul muro ad incorniciargli le spalle.
 
“Ti avevo detto di andare a casa.” Ha sibilato Mycroft, ed io non credo di essere mai apparso tanto sorpreso.
 
Victor mi ha lanciato un’occhiata carica di disprezzo, prima di sistemarsi la camicia con un gesto brusco delle mani e staccarsi dalla parete.
 
“Crede che cacciarmi di qui servirà a cancellare dieci anni di vita, professore? Crede di occupare un qualche posto “d’onore”, nella vita di Sherlock? Non voleva me nella sua vita più di quanto non voglia lei, o te, Mycroft. Siete comparse, come chiunque altro.”
 
Con postura rigida ha iniziato a muoversi lungo il corridoio, fermandosi un attimo a fianco di Mycroft una volta alla sua altezza.
“Pensi che tenerlo qui farà cambiare idea a tuo fratello?” Ha ringhiato, indicandomi. “Ha scelto di morire, Mycroft. E da quando lo conosco non ha mai cambiato idea su qualcosa. Tu lo sai. Come lo so io. Perché noi lo conosciamo.”
 
 
 
Ha ragione, sai? Io non ti conosco.
 
Me ne sto qui, tenendoti la mano, e penso che non ho idea di chi sia stato l’uomo libero di muoversi per Londra che ho intravisto tra le pareti di Baker Street.
 
Ma non conoscerti mi da un vantaggio.
 
Perché posso sperare.
 
Illudermi che, in un qualche momento passato, tu abbia già rivisto una tua posizione.
Che a qualcun altro, in un altro luogo, in un altro momento, tu abbia confessato che, alla fine, non porresti davvero fine alla tua vita, qualunque fossero le tue condizioni.
 
E questo, adesso, mi fa capire quanto poco conosca me stesso.
 
Perché non prego quasi mai, ma l’ho fatto. Per te.
Perché pensavo di non essere capace di usare violenza su qualcuno senza essere in pericolo, ma l’ho fatto. Per te.
Perché non volevo veder più morire nessuno, ma sono ancora qui. Per te.
 
 
Perché non credevo che potesse più accadermi, ma credo di essermi innamorato.
 
Di te.
 
 
In modo così disperato da illudermi che le tue dita si stiano stringendo attorno alle mie.
Così irrecuperabile da desiderare che non facciano altro.
 
Domani diminuiranno i farmaci…
 
Ed io non vedo l’ora di sentirti chiedere con tono infastidito per quale stupida ragione io abbia gli occhi lucidi.
 
 
 
 
-130
 
Non credo di aver mai trattenuto il fiato tanto a lungo come nei momenti che hanno seguito la chiusura di tutte le valvole di somministrazione dei barbiturici ed antibiotici che tenevano Sherlock sedato.
 
“Avanti, avanti.”
 
Ho sillabato in silenzio, così tante volte da perderne il conto.
 
Mycroft - al mio fianco, le mani strette tra loro all’altezza della vita - ha sollevato il mento in un goffo tentativo di nascondere la paura sotto uno strato di finta altezzosità, senza però spostare lo sguardo un solo attimo dal suo viso.
 
Quando, dopo quasi un minuto, ho visto le palpebre di Sherlock tremare e schiudersi, è stato come tornare a vivere.
 
Solo dopo che, lentamente, ha posato i suoi occhi arrossati su di me, ho percepito di nuovo le singole parti del mio corpo dove li faceva fermare. Prima le mani, vicino al suo braccio sinistro. Poi il petto, il collo. Infine, il viso.
 
“Ehi.” Ho cercato di dire, forzando un sorriso che non ne voleva sapere di avere la meglio su le lacrime che sentivo premere ai lati degli occhi.
 
“Vi sono mancato?” Ha gracchiato lui ed io, semplicemente, ho lasciato che una di loro si liberasse per scendere fino alle labbra.
 
“Mi hai fatto morire di paura.” Ho stretto con forza le mani attorno alla sua, sentendola muoversi sotto le dita.
 
“Lieto che tu sia ancora tra noi, fratello caro.” Mycroft ha distolto lo sguardo solo allora, dopo qualche secondo di contatto visivo tra loro.
 
“Che non si dica che non tengo fede alle promesse.” Ha singhiozzato Sherlock, le parole spinte fuori a piccoli bocconi.
 
“Certo.” È stata la lapidaria disposta del maggiore, prima di dirigersi con passi calibrati verso la porta.
 
“Non d
 
 
 
 
 

 
 
 
 
-130
 
“John…?”
 
“Ehi, sei sveglio allora…”
 
“Che stai… facendo?”
 
“Niente, scrivo qualche sciocchezza per passare il tempo.”
 
“Che… hai fatto… alle mani?”
 
“Mhm? Ah, questo? Niente, una sciocchezza. Te ne parlo domani.”
 
“John…?”
 
“Sherlock.”
 
“Ti andrebbe di… stare un po’… seduto… sul… letto?”
 
“Certo. Vuoi che ti porti anche un po’ d’acqua? Per aiutarti a schiarire la voce.”
 
“Ok… Ma non… metterci troppo.”
 
“Neanche ti accorgerai che sia stato via.”
 
“Mi… accorgo sempre… quando non ci sei.”
“John…?”
 
“Niente… Niente, mi sono solo distratto per un attimo. Perdonami. Torno subito.”
 
“Ok…”
 
 
 
 
 
 
-130
 
 
“Non d
 
 
 
Non credo che il mio nome avesse una forma, prima che fosse lui a chiamarmi.
Adesso ne ha una precisa, quella delle sue labbra.
 
Ed io non posso far altro che rispondere.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
A costo di risultare noiosa e ripetitiva, occuperò questo spazio per ringraziarvi per aver letto fin qui, aver aggiunto la storia in una delle categorie (iniziate davvero ad essere tante/i! ^_^) e per le parole stupende che lasciate ad ogni recensione.
 
Confrontarmi con voi è sempre un piacere, e mi spinge a proseguire con entusiasmo questo viaggio. ^_^
 
Ormai è abitudine che vi lasci una frase od una citazione, e ho pensato di farlo anche oggi. La scelta è ricaduta su uno dei sonetti più famosi di Shakespeare, il 116 (o meglio, sulla parte centrale, che mi sembra adatta a chiudere questo capitolo).
 
A presto,
B.
 
 
 
 
 
 
 
[…] Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio […]

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Capitolo 11
*** Da 129 a 127 ***


 
 
 
 
-129
 
Ho detto a Sherlock di Victor.
 
Per un attimo, dietro la coltre ghiaccio dei suoi occhi, mi è sembrato di vedere ardere un fuoco bollente, carico d’ira.
 
Un battito di ciglia ed è scomparso, annegato in quel mare azzurro che gli circonda le pupille. Ciò che ne rimaneva è uscito sotto forma di un breve sospiro dalle sue labbra, mentre continuava a guardarmi le mani.
 
“Non è niente, sono stato sciocco io a non afferrarlo in modo adeguato.” Ho ripetuto ancora una volta, tentando di distrarlo delle piccole croste scure.
 
“Sei stato sciocco ad afferrarlo.” Ha ribattuto, passando velocemente la punta delle dita della mano destra sulle mie nocche. “Così hai fatto il suo gioco.”
 
“Il suo gioco era rischiare di essere preso a pugni nel corridoio di un ospedale?” Ho domandato, godendo per qualche secondo di quel contatto inaspettato, appena accennato.
 
“No. Era infastidirti. E direi che…”
 
“Ci è riuscito.” Ho ammesso scrollando le spalle, con noncuranza. “Non è un grosso problema.”
 
Lui è rimasto in silenzio, continuando ad osservare le spaccature nella pelle con aria attenta.
 
“Perché?” Ha esordito dopo qualche secondo, mentre l’ultima goccia di flebo raggiungeva il diffusore.
 
“Perché non mi interessa affatto cosa lui pensi di me, o se abbia “vinto” qualcosa, facendomi perdere la pazienza.”  Ho risposto, provvedendo a chiudere il regolatore di flusso.
 
“No. Perché ti ha infastidito.” Ha puntualizzato, cercando di togliersi l’ago a farfalla.
 
“La vuoi smettere? Più volte lo toglierai, più volte dovranno rimetterlo!” Gli ho fermato la mano, riapplicando il cerotto nei bordi che aveva alzato.
 
“Prima smetteranno di infilare a forza cose nei miei vasi sanguigni, prima me ne potrò andare.”
 
“E pensi che continuando a sfilare la cannula prima o poi si stancheranno?” Ho riso, gli occhi sul suo viso imbronciato.
 
“Potrebbe essere. E comunque non hai risposto alla mia domanda.” Ha sbuffato, la voce ridotta ad un sussurro costretto a farsi largo tra le labbra rivolte verso il basso.
 
“Non ti dimetteranno solo perché non vuoi un ago in vena, Sherlock. E, venendo a Victor, mi ha infastidito il suo essere convinto di meritare di stare al tuo fianco più di me.”
 
Ho confessato. Perché mentire.
 
“Meritare.” Ha ripetuto lui. “Come se fosse un premio.”
 
“Non intend—“
 
“Non si vince qualcosa, a stare al capezzale di un moribondo. Lo sai, vero?” Ha infierito, alzando su di me uno sguardo fermo.
 
Devo aver cambiato espressione, perché dopo pochi secondi anche la sua è mutata, divenendo perplessa, appena esitante.
 
“Pensi che sia divertente?” Ho sibilato, il cuore in gola ed il sangue improvvisamente bollente nelle vene.
“Credi che la ritenga una gara, o qualcosa di simile?”
 
“Sei tu che hai parlato di meriti...” Ha iniziato, la voce leggermente incerta.
 
“Sono stato giorni seduto su quella sedia. Giorni. A pregare che ti svegliassi e, allo stesso tempo, a sentirmi in colpa per star desiderando qualcosa che forse neanche volevi. Io non sono nessuno, per te, me ne rendo conto. E forse aveva ragione lui, alla fine: non ho e non avrò mai alcun diritto. Ma ho il dovere di far fede a quanto mi sono ripromesso, e questo significa che nessuno, NESSUNO, potrà dirmi di andarmene, se non tu.”
 
Siamo rimasti a guardarci, in silenzio, per qualche secondo.
 
“Vuoi… vuoi che me ne vada?” Ho domandato, alla fine, le parole bloccate in gola.
 
“No.” Ha scosso la testa, abbassando gli occhi. “No.”
 
“Bene.” Ho tossito, sentendo qualcosa sciogliersi all’altezza del petto. “Bene. Tanto non lo avrei fatto comunque.” Ho abbozzato un sorriso, sperando di riuscire a coinvolgerlo.
 
Lui, invece, è rimasto con lo sguardo fisso davanti a sé, un’espressione seria sul volto.
 
 
 
“Non cambierò idea, John.”
 
 
 
Le parole, alle volte, hanno il potere di aprire squarci.
 
Sono lame, e non hanno bisogno di attraversare la carne per arrivare nei punti più profondi del nostro essere.
 
Puoi sentirle attraversarti la gola, farsi largo tra i polsi, affondare nel cuore, impedendogli di battere in modo regolare.
 
 
 
“Lo so.”
 
 
 
Ed è vero. Ne sono consapevole.
 
Lo ero anche prima che Victor desse forma ai miei timori attraverso la sua voce.
 
Lo sono sempre stato.
 
“È la mia vita, e non voglio trascorrerla così.” Ha proseguito lui, senza quasi respirare.
“E la tua presenza non mi aiuta.”
 
“Non capisco.“
 
“Mi chiedo come sarebbe stato, conoscerti prima. E so la risposta: mi avresti detestato ed io, probabilmente, ti avrei ignorato.”
 
Mi sono seduto all’angolo del letto, in silenzio, aspettando che continuasse.
 
“Perché è questo che faccio, solitamente. E tu non saresti stato un’eccezione.”
 
Ho annuito, accorgendomi solo in quel momento di quanto forte stessi serrando i denti.
 
“Però mi domando anche come sarebbe stato se, per un qualsiasi motivo, non fosse andata così. E odio farlo. Lo ODIO, perché non ha senso. Non c’è nessun bivio, nessuna strada alternativa. E pensarci non mi aiuta.”
 
“Cosa pensi avremmo fatto, se “non fosse andata così”?” Ho chiesto.
 
Volevo sapere. Dovevo.
 
“Non lo so… Camminato per Londra parlando di assassini e patologie mentali?” Ha gesticolato, la mano destra con il palmo rivolto verso l’alto e la sinistra appena girata.
 
“Potremmo sempre farlo.” Ho ribattuto, concentrando l’attenzione sul lato sinistro del suo corpo, molto meno rigido di quanto non apparisse al momento del nostro primo incontro.
 
Mi chiedo se se ne sia reso conto.
 
 
“Certo.” Ha sbuffato, con tono ironico.
 
“No, dico sul serio. Non dobbiamo per forza rimanere qui.” Per un attimo, nei suoi occhi si è accesa una luce che non avevo mai visto. “Restano quattro mesi, più o meno. Perché passarli per forza nel Sussex?”
 
“Non saprei… Forse perché non posso muovermi?” Ha ribattuto, sprezzante.
 
“Cazzate. Riesci a muoverti in modo più che sufficiente per stare a Londra, o da qualsiasi altra parte.”
 
“Hai visto quante scale ci sono, a Baker Street?”
 
“Sì. E ho anche visto che c’è un appartamento al piano terra, di fianco a quello della signora Hudson.” Ho risposto, insistente.
 
“Non potrò autonomamente andare in bagno, o a letto.”
 
“Oh, avanti, è davvero questo il problema?!”
 
Sherlock è rimasto in silenzio per qualche secondo, gli occhi persi a rincorrere pensieri che vedevo prendere forma sul suo viso ma non riuscivo ad afferrare, ancora una volta.
 
“Senti, non importa. Ho detto una sciocchezza, fa’ finta che questa conversazione non sia mai avvenuta, ok?” Ho sospirato, alzandomi.  “Andrà bene qualsiasi scelta, per me. Sempre.”
 
Ho mosso qualche passo verso la porta, per andare in cerca di qualcosa da mangiare.
 
“Va bene.” La voce di Sherlock era poco più di un sussurro, inchiodandomi al suolo, incapace di muovere un altro passo se non nuovamente verso di lui.
“Alla fine, ho ancora quattro mesi di vita. Tanto vale viverli. È più… logico.”
 
Ha accennato un sorriso, ed io non sono riuscito a pensare ad altro se non che fosse la cosa più bella che avessi mai visto.
 
 
 
Sono cosciente che questo non cambia la realtà dei fatti.
 
Come lo sono, e non posso negarlo, che una parte di me non si arrenderà mai del tutto, fino all’ultimo minuto di questo folle conto alla rovescia.
 
Non so se tornare a Londra potrà fargli cambiare idea…
 
 
 
In verità, ho smesso di chiedermelo, o sperarlo.
 
Alla fine, ha ragione Sherlock.
 
 
Semplicemente, tanto vale vivere.
 
 
 
 
 
 
 
 
-128
 
Il passato delle persone, il loro vissuto, non scompare mai del tutto.
 
Resta aggrappato addosso, in fondo agli occhi, tra le mani, nelle pieghe dei vestiti.
 
Ciò che è stato forgia ciò che sarà, le nostre versioni future, il nostro io di domani.
 
 
John è stato un militare e, in certi aspetti, lo è ancora.
 
 
Lo si capisce dal modo rigido in cui si pone quando sente lo stress accumularsi attorno a lui, o nel modo deciso nel quale avanza dopo aver preso una decisione.
 
Ha parlato con me, poi con mio fratello, infine con Lestrade. Si è fatto dare il numero della signora Hudson e, con voce gentile ed infinita pazienza, ha sistemato con lei i dettagli del mio trasferimento e le modifiche da apportare all’appartamento al piano terra.
 
Seduto al bordo del mio letto ha - con una naturalezza che continuo a trovare stupefacente - rivoluzionato un mondo intero.
 
E continua a sorridere, in mille sfumature diverse, mille colori.
 
 
Un sorriso educato ma deciso per far capire a Mycroft che no, non stiamo scherzando.
 
Uno divertito mentre ascolta Lestrade dire qualcosa dall’altro capo del telefono, arrossendo appena.
 
Uno aperto, disponibile, mentre la padrona di casa gli domanda come un fiume in piena una miriade di dettagli inutili: di che colore vuole le pareti? Vuole un "divano letto"? I ripiani dell’angolo cottura?
 
“Basta che ci sia una rampa all’ingresso, signora Hudson, davvero. Non importa se la carta da parati è un po’ ingiallita… Come quella del piano di sopra, dice? Va bene, se ne ha ancora uno scampolo…”
 
Il tutto con una mano appoggiata al lenzuolo, le dita a pochi centimetri dalle mie gambe.
 
 
Se mi toccasse - mi viene da pensare ogni volta che metto a fuoco quel dettaglio - non riuscirei a sentirlo.
 
Mi rendo sempre più conto che tutto ciò che odio con particolare forza della mia situazione è, in questo momento, legato a lui.
 
La Caduta mi ha privato di ogni cosa.
Ma quello che riempie i miei pensieri, li satura, è solo quanto di lui mi sia stato precluso.
 
 
È ridicolo, me ne rendo conto.
Nella mia mente si accavallano una serie di pensieri cangianti dei quali John resta l’unico ed il solo perno, e questo non aiuta.
 
Forse è l’immobilità protratta.
La mancanza di casi.
 
Non avendo altro su cui focalizzare la mia attenzione, la concentro sul solo elemento di discrepanza che esula del basilare e banale espletamento delle mie funzioni vitali primarie.
 
Non lo so.
 
 
Qualche volta, mentre mi parla, mi concentro sulle sue labbra.
 
Analizzo come si muovono, la forma che assumono nel pronunciare determinate parole.
 
Il mio nome gli procura sempre una lieve increspatura ai lati della bocca, una specie di breve sfarfallio.
 
Carica molto le “t”, e ha un leggero difetto di pronuncia delle “s” che siano seguite da vocali.
 
Lo osservo parlare e penso che quell’uomo dagli occhi striati ha ammesso che mi avrebbe baciato.
 
 
Non sono mai stato particolarmente interessato a quell’aspetto specifico delle relazioni umane. Certo, lo conosco, ma non ne ho mai fatto un punto focale di riflessione.
 
Con Victor era, in un certo qual modo, più facile.
E mi rendo conto solo adesso che probabilmente scegliere lui, con tutti i suoi “irrisolti”, è stata una valutazione consapevole, qualcosa di cercato. Un modo come un altro per assicurare a me stesso che il coinvolgimento non diventasse mai superiore alla mia personale soglia di sopportazione.
 
Non ho mai desiderato da lui qualcosa, né mi sono mai soffermato a lungo a riflettere su quanto accadeva tra noi.
 
Adesso, invece, guardo John e mi domando cosa sarebbe accaduto, se non lo avessi cacciato dalla mia stanza.
 
Come sarebbe stato, sentire le sue labbra premere contro le mie?
 
E ad ogni domanda trovo sempre la stessa risposta: importa davvero?
 
Importerà, fra quattro mesi? Avrà avuto un qualche senso, o sarà solo servito a rendere tutto più complicato, più difficile?
 
 
Ci sono momenti nei quali arrivo a pensare che quello che provo, sento, quando sono con lui sia solo un estremo tentativo della mia mente di rimanere aggrappata a se stessa.
 
Alla fine l’istinto all’autoconservazione è la base dell’evoluzione della nostra specie.
 
Forse uso John come un espediente per non ammettere di avere paura.
 
Ma il fatto è che, sorprendentemente, quando lui è qui io non provo nessuna paura.
 
Se fossi certo di chiudere gli occhi portando con me l’immagine dei suoi come ultimo specchio di questo mondo, io so, so con tutto me stesso, che non proverei alcun timore.
 
 
“Sembra triste, quando lui non c’è.”
 
Ha detto l’infermiera del turno mattutino dopo aver atteso che John fosse uscito dalla stanza, iniziando le medicazioni.
 
Mi chiedo se sia vero.
 
Mi chiedo come sembri lui, quando non posso vederlo.
 
Non voglio che soffra. Non voglio essere un’altra foto su uno scaffale che gli ricordi quanto male può nascere da un’assenza.
 
 
C’è stato un momento, oggi, mentre passeggiava avanti e indietro di fronte al mio letto parlando di quanto Lestrade fosse entusiasta all’idea che tornassi, in cui ho pensato che potrei farlo.
 
Potrei vivere così, per lui, se questo volesse dire poter vedere ogni giorno i suoi occhi accendersi in quel modo.
 
Ma il calore di questi pensieri muore ad ogni richiesta di aiuto che sono costretto a fare per poter svolgere anche le cose più basilari.
Si spenge tra il freddo delle gambe, ed il torpore del lato sinistro del mio corpo.
 
E torno a pensare che sia solo paura, l’attaccamento che sento crescere e diramarsi sotto la pelle.
 
 
 
Deve essere questo.
 
 
 
 
 
 
 
 
-127
 
“Il primario mi ha confermato che verrai dimesso dal reparto domani nel primo pomeriggio.”
 
“Bene.”
 
“Sei ancora convinto di voler tornare a Londra? Forse sarebbe meglio attendere qualche altro gior—“
 
“Esistono gli ospedali anche a Londra, Mycroft.”
 
“Lo so. Solo… vorrei che foste prudenti.”
 
“Non ho molto tempo a disposizione, per potermi permettere di esserlo.”
 
“No. Immagino di no.”
“Manderò un’ambulanza privata a prelevarvi a l’ora stabilita.”
 
“Andremo in treno, Mycroft. Te lo avremo detto almeno dieci volte.”
 
“Non ha senso. Sarebbe estremamente stancante, per te. Debilitante.”
 
“Probabilmente sarà il mio ultimo viaggio prima di quello verso Berna. Non voglio farlo su un’ambulanza. Ti prometto che mi farò legare buono buono ad una barella, quando saremo diretti in Svizzera.”
“Mycroft.”
 
“E sia, Sherlock. Come vuoi. Sempre, come vuoi.”
 
 
 
“Mycroft, aspetta.”
 
“Dimmi.”
 
“Io so bene quale sia la natura umana, ed il fine ultimo di ogni esistenza. Ne abbiamo parlato a lungo, e sei stato tu stesso a spiegarmi le tappe della vita, da bambino.”
 
“Sì, me lo ricordo. Redbeard era appena stato soppresso.”
 
“Sì…”
“Io… Io cerco sempre di mantenere un approccio razionale, nel mio rapporto con le cose del mondo. Anche alla mia decisione. Ma ci sono dei momenti, dei piccoli attimi, nei quali…”
“Ho paura. Una paura irrazionale. Non è legata alla scelta di per sé, né a me direttamente. È solo… paura.”
 
“E la cosa ti preoccupa? Credo sia perfettamente normale.”
 
“Mi disturba. Non ha senso, che mi senta così.”
 
“Ok… Mi stai chiedendo di parlarne?”
 
“Ti sto chiedendo un confronto.”
 
 
“Conosci l’etimologia del termine “paura”1), immagino.”
 
“Certo.”
 
“Ne consegue che un tale sentimento sia legato ad una sensazione fisica che, in quanto tale, è svincolata dal gesto specifico.”
 
“Chiaramente.”
 
“Ora… la domanda che dovresti porti, forse, non è perché tu stia provando questa specifica emozione, ma per cosa. La paura è legata al timore di “essere percossi”, non ai motivi per i quali ciò potrebbe avvienire. Di cosa hai paura?”
 
“Non certo della scelta che ho fatto.”
 
“No. Credo anch’io che non sia quello, il punto focale.”
 
 
“Bene, dato il prolungarsi del silenzio, ti lascio alle tue riflessioni. Sempre che tu non abbia bisogno di continuare l’analisi.”
 
“No… Va’ pure.”
 
 
 
“Mycroft.”
 
“Sì, Sherlock.”
 
 
“Grazie.”
“Mycroft?”
“È un sorriso, quello?”
 
“Assolutamente no.”
 
“Sarà meglio.”
 
 
 
 
 
 
 
 
-127
 
John si è addormentato sul piccolo divano logoro vicino alla porta.
 
Ho cercato di convincerlo ad andare a casa, ma non mi ha dato ascolto, testardo come sempre.
 
Il suo respiro leggero che si muove nella stanza somiglia ad una carezza, quando giunge fino a me.
Placa i sensi, azzera i rumori esterni.
 
Una guaina che tiene fuori ogni cosa, che ci isola in un momento.
 
 
 
Di cosa ho paura, ha domandato Mycroft.
Continuo a chiedermelo, anche ora, alla luce di questa lampadina fioca, gli occhi che si muovono costantemente verso di lui.
 
 
 
Ho paura che il mondo entri.
 
Ogni volta che accade, che quella porta si apre, è come venire riportati di peso in una realtà che mi incatena al suolo.
 
 
 
Ho paura di lasciare che si occupi di me.
 
Che veda le cicatrici. Le storture, la bruttezza.
 
 
 
Ho paura di leggere la pietà nei suoi occhi, perché non potrei sopportarlo.
Da tutti, ma non da lui.
 
 
 
Ho paura che soffra, che si menomi nello spirito quanto io lo sono nel corpo.
Che divenga uno specchio incrinato sotto il peso delle mie scelte.
 
 
 
Ho paura che si avvicini.
Che mi sfiori.
Che legga nei miei occhi quanta voglia abbia, in realtà, che lo faccia.
Che mi baci, e di scoprire che potrei vivere solo di quello.
 
 
Ho paura che mi costringa a svelarmi, ed ho paura che non accada.
 
 
 
 
 
Ho paura di ammettere di essermi innamorato. Senza un motivo razionale, senza un perché. Io.
 
 
 
 
Ed ho paura di leggere amore nei suoi occhi, perché mi priverebbe di una scelta lucida, guidandomi verso una vita che fino a qualche tempo fa giudicavo indegna di essere vissuta.
 
 
E, allo stesso tempo, ho paura di non leggerne affatto, perché ne morirei.
 
A quanto pare, esistono diversi modi di morire.
 
 
 
Ed io lo scopro solo ora, con il suo respiro che danza tra le pareti e la consapevolezza di non aver mai agognato nulla, prima di adesso, al pari di un silenzio saturo della sua presenza.
 
 
 
 
Mai nulla, quanto lui.
 
 
 
 
 
Note: 1)  “Paura”, dal latino “pavòrem”, formato su “pàveo” per “pàt-veo”, ovvero io temo, io sono percosso.
 
Si è capito che amo l’etimologia delle parole? XD
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Insieme al capitolo precedente, questo è sicuramente quello con la maggior dose di introspezione. Da prossimo ricomincerà la “narrazione” vera e propria (se così la si può chiamare! XD), ma questi passaggi erano obbligati, per varie ragioni.
 
La prima è che sia John che Sherlock dovevano approdare ad una qualche forma di “illuminazione” riguardo ai loro sentimenti.
 
La seconda è che, per ovvie ragioni, la situazione del detective obbliga entrambi ad una staticità accentuata, cosa che diminuisce il numero degli avvenimenti ma aumenta il tempo per le riflessioni. XD
 
 
 
Ho espresso in alcune risposte ai commenti del passato capitolo e poi in privato una mia difficoltà, al momento, ad approcciarmi al sito il modo corretto. I motivi sono molti, e non mi va di ammorbarvi.
 
Per essere del tutto sinceri, al momento ho problemi ad approcciarmi alla vita in generale (a partire da novembre mi trasferirò per un anno in Francia, cosa che nello specifico si traduce in: sto lasciando il lavoro e facendo formazione a chi mi sostituirà, sto impazzendo a visionare case oltralpe, sto ri-impazzendo a sistemare le cose per chiudere quella dove abito per dodici mesi, devo pensare alla collocazione della figlia pelosa [anche detta “la gatta malefica”], devo rispolverare il francese che non riguardi solo il cibo [a meno di non voler vivere solo di “baguette”, “champignons” e “ganache”] etc.) cosa che mi sta creando un vago quanto assortitissimo repertorio di tic e qualche incapacità a gestire lo stress aggiuntivo, di qualunque forma e natura (“efpiano” incluso).
 
Questo, chiaramente, alle volte si trasforma in una certa fatica “generalizzata”, che nulla toglie al mio amore per questa storia e alla voglia di portarla a compimento.
 
Vi chiedo scusa già da ora, quindi, se gli aggiornamenti seguiranno un andamento “a fisarmonica”. Da novembre (sempre che non l’abbia conclusa prima ^_^) tutto tornerà regolare, compreso il mio umore (si spera! XD).
 
As usual, grazie per aver letto (oltre che per il sostegno morale e l’infinita pazienza. ^_^’)
 
 
Come sempre, vi lascio con una frase.
 
A presto,
B.
 
 
 
“È la nostra luce, non la nostra ombra, quella che ci spaventa di più.”
 (Nelson Mandela)

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Capitolo 12
*** Da 126 a 124 ***


 
 
 
 
-126
 
John, seduto di fronte a me, guarda fuori dal finestrino con aria assorta, la campagna inglese a mischiarsi al suo riflesso pallido sul vetro.
 
Sembra perso nell’inseguimento di un qualche pensiero lontano e - a tratti - mi sento un intruso, nel mio costante osservarlo. Tento di rubare alle espressioni del suo viso frammenti di una parte di lui che non riesco a raggiungere, chiusa oltre la barriera dei suoi occhi, ma è troppo distante da me, da noi, perché riesca a toccarla.
 
 
Ogni tanto si volta nella mia direzione, abbozzando un sorriso.
 
Ho l’impressione che voglia accertarsi, ad intervalli regolari, che sia ancora qui.
Davvero qui.
 
 
 
Ci sono, John.
 
 
 
“Funziona il puntamento, con questo dondolio?” Ha domandato dopo una ventina di minuti di viaggio, indicando il computer portatile appoggiato al tavolino che ci divide.
 
“Cerco di oscillare la testa con la stessa frequenza, in modo che i due movimenti si annullino.” Ho scherzato, scoprendo - ancora una volta - di trovare affascinante il sorriso che gli illumina gli occhi quando azzardo piccoli attimi di impacciato umorismo.

“Mi sembra sensato.” Ha ribattuto, increspando le labbra in modo che fossero di contorno alla luce allegra che si muoveva tra le iridi.
 
Assurdo quanto possa abbassarmi a risultare ridicolo, solo per vedere quell’espressione affiorare sul suo viso.
 
“Sono contento che tu abbia accettato di tornare.”
 
 
 
Sono contento di tornare, se farlo vuol dire poterlo avere intorno ancora un po’.
 
 
 
 
 
 
 
 
[16:36] Siete arrivati? GL
 
[16:38] Non ancora. Abbiamo appena superato l’Orbital. JW
[16:39] Sto finendo il turno, se vuoi posso venire a prendervi. GL
 
[16:41] Ti ringrazio, ma non è necessario. JW
 
[16:43] Sei sicuro? Come farai con i bagagli? GL
[16:44] Sono sicuro. JW
[16:45] E poi, Sherlock ed io abbiamo un patto. JW
[16:46]?
 
[16:48] “Nessuna rinuncia.” JW
 
[16:50] Suona bene! Anche se non ho ancora capito come coprirete il percorso Victoria - Baker Street. GL
 
[16:52] Come ogni buon londinese… JW
[16:53] Chiameremo un taxi. JW
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-125
 
Quasi le due di notte.
 
La signora Hudson è riuscita nell’impresa di ricreare il 221B all’interno dell’appartamento C, cosa che non avrei mai, in tutta onestà, creduto possibile.
 
Certo ci sono delle differenze (ad esempio il posto delle finestre, ed il troppo silenzio dettato dall’affaccio interno) ma, per essere stato un lavoro svolto in pochissimi giorni, è piuttosto… gradevole.
 
 
 
Rivedere la signora Hudson si è rivelato… bello, anche se a tratti irruento.
 
Ritrovarmi avvolto nel suo profumo di mughetto e the mentre mi abbracciava sulla soglia è stato come riuscire ad afferrare concretamente un ricordo perso nel tempo, nelle distanze.
 
Quello è l’odore che satura l’ingresso, le scale.
È l’odore del 221 di Baker Street.
 
Parte di ciò che rende questo luogo casa mia.
 
Percepirlo di nuovo è ciò che ha trasformato questo viaggio in un ritorno.
 
 
 
John, seduto su una delle poltrone (la mia, per la precisione) che la padrona di casa ha fatto portare al piano terra, continua a muoversi, incapace di trovare una posizione sufficientemente comoda.
 
Il computer sulle ginocchia, scorre con aria seria le mail che i suoi studenti hanno inviato in questi giorni.
 
Io, invece, ho fatto sistemare il pc sul tavolo della cucina, nel posto dove una volta sedevo a lavorare al microscopio. Da questa posizione riesco a vederlo in parte, seminascosto dallo schienale dell’altra seduta, ma tanto basta per riuscirne a scorgere ogni particolare importante.
 
Ad esempio come il suo viso cambi completamente, quando è intento a svolgere compiti che richiedano un certo grado di attenzione.
 
È come se divenisse “a fuoco”, si delineasse in modo più chiaro.
 
Un disegno a matita al quale vengono ripassati bordi e dettagli.
 
 
John Watson è, in modo oggettivo, un uomo esteticamente gradevole. 
 
Ha i tratti regolari, gli occhi grandi, la proporzioni adeguate.
 
Ma, quando aggrotta le sopracciglia e socchiude gli occhi, completamente assorto, il suo aspetto trascende il semplice accostamento di elementi in armonia tra loro. È…
 
Bello.
 
Nel modo più semplice, spontaneo, banale.
 
Nell’unico modo nel quale riuscirei a scorgere bellezza in qualcuno.
 
 
 
Si muove ancora, allungando le gambe davanti a sé. Da come tiene la sinistra, deve provare un qualche fastidio all’altezza dell’adduttore.
 
Uno strappo?
 
Sì, dev’essere un strappo muscolare.
 
Quando…
 
Oh. Certo.
 
Il taxi.
 
 
 
Scendere a Victoria Station è stato come tornare a respirare.
Come allineare nuovamente il battito cardiaco al pulsare della città.
 
Il vociare concitato delle persone, il loro muoversi, correre… 
 
 
Londra è un pacemaker, ed io avevo dimenticato cosa volesse dire sentire il cuore lavorare a pieno ritmo, forte, potente.
 
 
John, circondato da bagagli, mi ha guardato con espressione soddisfatta, un sorriso in bilico ai lati della bocca.
 
“Allora? Come ti senti?” Ha chiesto, aggiustandosi meglio il borsone sulla spalla destra.
 
“Mi sentirò davvero bene una volta a casa.” Ho risposto, incapace di staccare gli occhi dalla copertura di metallo e vetro della stazione, così bella, così familiare.
 
“Allora taxi, come avevamo detto?” Ha domandato, guardandosi attorno in cerca di indicazioni.
 
“Hudson's Place, l’uscita vicino al binario uno.” Piegato di lato, ho cercato di mostrargli la strada attraverso il muro di persone che stavano attraversando la hall.
 
“Perfetto. Andiamo. Ah, Sherlock? Tieni.”
 
Con un leggero slancio, mi ha lasciato cadere sulle gambe una delle valige che si trovavano ai suoi piedi.
 
“Un paio di bagagli a testa, e dovremo farcela.” Ha riso davanti alla mia espressione sorpresa. “Non penserai davvero che trascini da solo tutte le borse fino a Baker Street!”
 
“E come dovrei portare il secondo trolley fin lì?” Ho sbuffato in risposta, facendo cenno alla sedia.
 
“Allora… aspetta…” Accovacciato accanto a me, ad uno dei due lati del Titanic, ha iniziato a lavorare dietro lo schienale.
 
“Ecco qua!” Soddisfatto è tornato in posizione eretta dopo qualche secondo, mostrandomi con un ampio gesto delle braccia uno dei bagagli più grandi incastrato con il braccio telescopico nella manopola di spinta della sedia.
 
“Ah, perfetto, sono diventato un carrello umano.” Ho protestato, cercando di nascondere quanto, in realtà, mi venisse da ridere per la sua espressione a metà tra l’offeso ed il mortificato.
 
Nessuna rinuncia, giusto?” Ha ribattuto dopo qualche attimo, abbandonando ogni timore. “Perché rinunciare ad aiutare un amico a portare le sue pesantissime valige fino al taxi più vicino?” Sorridendo, ha iniziato a camminare verso il primo binario.
 
“Avanti Sherlock. Ti sarei davvero grato, se mi dessi una mano.”
 
 
Sono rimasto immobile, osservandolo allontanarsi tra la folla.
 
Mai, mai, dal giorno della Caduta, ho pensato che qualcuno avrebbe potuto chiedere nuovamente il mio aiuto per qualcosa di prettamente fisico.
 
Le infermiere (su ordine di Mycroft) erano convinte di dovermi aiutare persino ad allacciare i bottoni della camicia che mi avevano infilato poco prima.
 
Invece John mi stava lasciando nel bel mezzo della hall di una delle stazioni più grandi di Londra, con due valige e la convinzione che avrei saputo seguirlo fino alla banchina dei taxi.
 
La piena consapevolezza di quanto stesse accadendo mi ha riempito il petto, la gola, un fiotto bollente dal sapore agrodolce.
 
 
Mi ritiene evidentemente capace di vivere, ed in grado di poterlo fare nel modo più pieno e più completo del termine, per quanto possibile.
 
Mi domando, però, se questo tentare di dimostrarlo ad ogni costo altro non sia che un mezzo per provare a convincermi ad abbandonare la strada intrapresa o se faccia davvero parte di lui, del suo modo di affrontare la situazione.
 
 
“Sherlock?” Mi ha chiamato a voce alta, ormai lontano, dopo essersi accorto che non lo stavo seguendo. “Va bene, aspettami qui. Cerco un taxi, poso questi bagagli e ven—“ Ha iniziato, tornando indietro.
 
Ho fatto cenno di no con la testa, muovendomi verso di lui.
 
Ha aspettato che lo raggiungessi, prima di voltarsi di nuovo.
Con il passo tarato sulla mia velocità, abbiamo attraversato la stazione vicini, fianco a fianco, in silenzio.
 
Attorno a noi una città che continuava a vivere ma che, per la prima volta, aveva perso per me parte della sua attrattiva: ogni volta che alzavo gli occhi Victoria Station - ridotta a poco più di un vago sfondo – diveniva sempre più opaca e distante, superata e sconfitta dallo sguardo di John che ricambiava il mio con un sorriso.
 
 
 
Una mano dietro la mia schiena ed una sotto le gambe, John ha provato ad alzarmi di peso dalla sedia per aiutarmi a prendere posto nel taxi.
 
Ho cercato di spingerlo via, ma non ha lasciato la presa.
 
“Vuoi star fermo? Voglio solo aiutarti!” Ha soffiato, il viso a pochi centimetri dal mio e un leggero rossore ad irradiarsi lungo le guance.
 
“Non sono una sposa, John. Lasciami.” Ho ringhiato io, lo sguardo scuro e il fiato corto.
 
“Non puoi farlo da solo, Sherlock. Non c’è abbastanza spazio di manovra.”
 
“Allora rimarrò qui.” Ho ribattuto, la mano destra sulla sua spalla ed il braccio teso per tenerlo a distanza.
 
“Smettila… di… fare… l’idiota!” Con un colpo secco mi ha alzato, caricando il peso sulla gamba sinistra per spostare la sedia indietro, in modo da avere l’intero ingombro della portiera aperta a disposizione.
 
 
Dev’essere stato in quel momento, che si è fatto male.
 
 
Una volta sul sedile mi ha lasciato, permettendomi di prendere posto da solo.
 
In silenzio, affannato, ha aiutato il tassista a chiudere il Titanic e sistemarlo nel portabagagli, facendo il giro della macchina e salendo infine dalla parte opposta alla mia.
 
 
“Avrei potuto farlo da solo.” Gli ho rinfacciato poco dopo, non appena in viaggio.
 
“Lo so, ma…”
 
“Ma cosa? Ci avrei messo troppo? Era più facile alzarmi di peso come una bambola?”
 
“Ti saresti fatto male!” Con voce alta e pupille dilatate, si è voltato verso di me di scatto. “Non c’era spazio per farti salire “a modo tuo” senza che strusciassi contro il metallo della parte interna della portiera, va bene?”
 
“E quindi? Pensi che qualche graffio in più o in meno possa fare la differenza?” Ho ribattuto, sarcastico.
 
Ha riso, una risata nera, scuotendo la testa.
 
“Tu non capisci, vero?”
 
“No, non capisco.” Ho ammesso, mordendomi il labbro inferiore, teso.
 
“Non mi interessa quanto martoriato pensi sia il tuo corpo, o quanto stupido, brutto od inutile tu ritenga sia. Finché ci sarò, finché potrò evitarlo in un qualsiasi modo, non permetterò che tu ti faccia alcun male. Mai. Nemmeno degli stupidi graffi.” Ha buttato fuori, la rabbia a tingere la fine delle parole di un tono rauco.
 
“Hai permesso che mi radessi e mi tagliassi.” Gli ho fatto presente.

Per un attimo è sembrato perso, le labbra socchiuse e gli occhi grandi.
 
“È… è diverso.” Ha balbettato.
 
“Perché sarebbe diverso?”
 
“Perché lo è.” Ha risposto, voltandosi dall’altra parte.
 
Siamo rimasti in silenzio per  il resto del viaggio.
 
Una volta arrivati ho lasciato che mi aiutasse ad uscire, senza che nessuno dei due facesse cenno a quanto successo poco prima.
 
 
Non abbiamo più toccato l’argomento, e
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-125
 
“Ti fa male la gamba?”
 
“Mhm?”
 
“La gamba sinistra. La tieni in modo strano.”
 
“Ah. Non è niente, sono uno stiramento.”
 
“John…?”
 
“Dimmi.”
 
“Perché sarebbe diverso?”
 
“A cosa ti riferisci?”
 
“Al taxi. Perché è diverso se mi taglio radendomi, o se mi graffio entrando in una macchina?”
 
“Non è diverso… Non la cosa in sé, intendo.”
 
“Non capisco.”
 
“Senti, io… non voglio che tu ti faccia male, se posso evitare che accada.”
 
“Oh.”
 
“Non posso impedire che tu ti ferisca radendoti, a meno di non essere io a farti la barba, cosa che nessuno di noi desidera. Ma… non lo so, Sherlock. Non lo so davvero. Potessi, semplicemente, renderei questo mondo sicuro. Per te.”
 
“Sarebbe più logico preferire che fossi io all’altezza di questo mondo, invece di pensare a rendere lui innocuo per me.”
 
“Ma io non vorrei mai cambiarti! Non cambierei niente, in te! E penso che tu sia all’altezza di qualsiasi luogo su questa Terra. Cambiare il resto sarebbe più facile, per me. Non correrei il rischio di perdere qualcosa di unico, facendolo.”
 
 
 
“Sherlock?”
 
 
 
“Un bagno caldo ti aiuterebbe, con la gamba.”
 
“Davvero? Parliamo di cambiare il mondo, e tu mi suggerisci un bagno caldo?”
 
“Quando avrai finito, vorrei che mi aiutassi ad entrare nella vasca, in modo che possa farne uno a mia volta.”
“Cos’è quella faccia? Le cose si cambiano un pezzo alla volta, John. E avere due gambe funzionanti è meglio. Soprattutto se devi alzare di peso il tuo coinquilino.”
 
 
“Sì, io… Immagino di sì.”
 
 
“Allora? Cos’hai deciso di fare?”
 
“Torno subito.”
 
 
 
 
“Ah, Sherlock…?”
 
“Sì.”
 
“Sono felice, di essere qui.”
 
 
 
“Sono… sono felice anche io, che tu sia qui.”
 
 
 
 
 
 
 
-125
 
 
“Perché sarebbe diverso?”
 
Sarebbe più facile rispondere a questa domanda, se tu fossi riuscito a percepire quanto mi tremassero le mani mentre ti sollevo, facendo attenzione a non farti male.
 
Sarebbe più facile, se invece di preoccuparti di come potesse apparirmi il tuo corpo, lo avessi visto riflesso nel mie occhi.
 
Perché non ho il coraggio, né la forza, di dar voce a quanto sento dilaniarmi il petto dall’interno.
 
Perché se ti dicessi che mi sono innamorato, se lo lasciassi uscire fuori, se mi liberassi di questo peso meraviglioso che mi incurva le spalle, sarebbe solo una violenza.
 
Un egoistico (e fallimentare) tentativo di convincerti che potrei essere un’alternativa.
Una delusione, ai tuoi occhi.
 
Ma… vorrei che tu riuscissi a legarmi, a sovrapporre la mia presenza ad una qualche forma d’amore.
Mi basterebbe.
Che l’immagine che hai di me si potesse mischiare ad altro, a sentimenti d’affetto che ti sono familiari.
 
Vorrei poterti sfiorare senza sentirmi in difetto, meschino.
 
Vorrei…
 
Non lo so.
 
Non so cosa devo fare, con te, Sherlock.
 
 
 
 
 
 
 
 
-124
 
[18:06] Dove sei? SH
 
[18:08] John? SH
 
[18:10] Scusami, sono dovuto venire all’università per incontrare alcuni studenti, non mi sono reso conto di quanto si fosse fatto tardi. JW
[18:11] Stai mentendo. SH
 
[18:13] Scusa? JW
[18:14] Menti. Tendi sempre ad aggiungere dettagli inutili, quanto racconti una bugia. SH
 
[18:16] Non sto mentendo! JW
[18:16] Come ieri, quando hai detto alla signora Hudson quanto buoni fossero i biscotti, raccontando di come ti ricordassero quelli di tua nonna di origini italiane. SH
[18:17] Quando in realtà li detestavi. SH
[18:18] Sherlock, smettila. JW
 
[18:20] Fossi stato davvero all’università, avresti risposto “sono in facoltà”. Come questa mattina, quando ti ho domandato dove fossi, ed eri al Tesco. SH
[18:21] Hai scritto semplicemente: “sono al supermercato.” SH
 
[18:23] Avevo le mani occupate! JW
[18:24] Dove sei? Davvero? SH
[18:25] John? SH
 
 
[18:28] John! SH
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-124
 
“Sei dovuto andare anche a cena, con i tuoi studenti?”
“Lo sai che ora sono?”
“John!”
 
“Lo so, va bene? Mi dispiace.”
 
“Dov’eri.”
 
“Se solo mi dessi qualche second—“
 
“Con chi eri?”
 
“Scusa?”
 
“Non hai risposto a nessuna delle mie chiamate.”
 
“No, non l’ho fatto.”
 
“È chiaro che non dovessi sentire con chi fossi, e cosa steste facendo, e…”
“Che diavolo stai facendo?”
 
“Ti faccio vedere cosa mi ha insegnato Sasha oggi pomeriggio.”
 
Sasha?
 
“Sasha, sì. Un mio collega all’università.”
 
“Davvero non riesco ad immaginare cosa possa averti insegnato Sasha, che preveda l’uso del mio violino.”
 
“Sasha è docente… di violino barocco… alla Junior Academy1) e…”
 
“John…”
 
“Sherlock.”
 
“Cosa diavolo pensi di fare, lì dietro?!”
 
“Conosci l’ “Inno alla gioia”, immagino.”
 
“C’è davvero qualcuno che non conosce Beethoven?”
 
“Bene. Suonala.”
 
“Scusa?”
 
“Suona, Sherlock. Non ti prometto un suono fluido, o il miglior pezzo della tua vita, ma…”
 
“Stai dicendo che ti sei fatto spiegare come tenere l’archetto…?”
 
“Sto dicendo che so tenerlo sufficientemente bene da rendere intellegibili le note che comporrai sulla tastiera.”
 
“Sei stato tutto il pomeriggio ad imparare come suonare l’Inno alla gioia?”
 
“Solo la parte delle corde. Sì.”
 
 
 
“Sherlock?”
 
 
 
“Pensavo… Scusami, è stata un’idea idiota. Perdonami.”
 
 
 
“No… No. Torna qui.”
“Va… va bene. Solo… devi metterti più vicino, e spostarti un po’ più di lato.”
 
“Così va bene?”
 
“Sarà un disastro.”
 
“Perché?”
 
“Perché è un violino, John. La tastiera si suona con la sinistra.”
 
“Mi dispiace, non c’ho pensato. Non mi è proprio venuto in mente…”
 
“In realtà non importa. Mycroft mi sfidava sempre a suonare con la destra, quando eravamo piccoli. Conosco le note, anche se sono anni che non suono più in quel modo…2)
 
“Quindi… vuoi provare?”
 
“Aiutami a togliere la mentoniera.”
 
 
“Pronto?”
 
“Quando vuoi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-124
 
Ho appena suonato il più orribile, il più stonato, inesatto, stridulo, sgradevole, terribile “Inno alla gioia” della mia vita.
 
 
E, in tutta onestà... non credo di aver mai amato niente al pari di quelle note acute.
 
 
Sicuramente mai nessuno quanto John Watson, mentre dava loro forma torturando il mio violino.
 
 
 
 
 
 
Note:
 
1)  La Junior Academy, per allievi al di sotto dei diciotto anni, fa parte della Royal Academy of Music, la scuola di musica (conservatorio) più antica del Regno Unito. Le lezioni hanno luogo il sabato.
 
2)  Non suonando il violino, ho dovuto chiedere assistenza esterna su questo punto. Diciamo che è assai raro trovare qualcuno che suoni il violino imbracciandolo a destra ma, con il dovuto esercizio, non è “impossibile”. Mi faccio scudo dietro alle mille, incredibili, mirabolanti abilità di Sherlock, e mi allontano fischiettando fingendo che vada tutto bene.
In realtà amavo così tanto l’idea di questa scena che l’avrei messa comunque, anche a costo di fingere di dimenticare che la parte inabile del detective sia, in questa storia, la sinistra. ^_^’
Per fortuna, non ce n’è stato bisogno. XD
 
 

Angolo dell’autrice:
 
Venerdì ho assistito l’ultimo paziente, da lunedì parte la formazione delle nuove leve che mi sostituiranno a lavoro.
 
Se da una parte mi sento sollevata, dall’altra l’ansia continua a crescere. Credo che diminuirà solo una volta trovata una casa, firmato il contratto e stabilita la prima connessione internet da Marsiglia. XD
 
Ad ogni modo, ecco qui il nuovo capitolo. :)
 
Stranamente, nonostante tutto il trambusto che regola la mia vita in questo periodo, è in assoluto il più lungo mai scritto per questa storia.
Forse una parte di me si sentiva in colpa e si è messa particolarmente d’impegno. XD
 
Grazie - come sempre - a chiunque abbia letto fin qui e a chi, ad ogni capitolo, rinnova la sua fiducia alla storia.
Questo viaggio sarebbe triste, senza la vostra compagnia.
 
A presto,
B.
 
 
 
Ciò che non si può dire e ciò che non si può tacere, la musica lo esprime.
(Victor Hugo)
 
 
 
 
P.S.: vi lascio con una delle mie immagini preferite in assoluto.
 
Non è del tutto simile a quanto descritto nel capitolo (anzi, i ruoli sono completamente invertiti! XD), ma è troppo bella per non essere condivisa!
 
 

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Capitolo 13
*** Da 123 a 117 ***


 
 
 
  
-123
 
Anche questa mattina, è stato l’odore del caffè caldo a svegliarmi.
 
È interessante come si possa capire, in parte, la temperatura di una bevanda dalla sua emanazione olfattiva.
 
Il caffè freddo non parla, se non al palato. Quello tiepido ha note delicate, quasi impercettibili.
 
Quello che sobbolle ancora, riversandosi nel suo scrigno di alluminio temperato, è forte, pungente.
 
È il profumo di John appena alzato, quello che lo accompagna nella mia stanza come una scia, quello che riempie i miei polmoni mentre mi aiuta a sedermi correttamente sulla sedia e mi fa strada verso la cucina.
 
Non ho mai amato il caffè.
Ma addosso a lui, tra i suoi capelli, a mescolarsi con gli sbadigli, è…
Piacevole. Bello.
 
Vorrei si potesse sintetizzare.
Che gli si potesse dare una forma, cristallizzare.
Che si potesse toccare.
 
Non ho mai creduto a niente, mai, che non fosse possibile osservare, anche solo su un vetrino.
 
Eppure quell’aroma esiste, deve esistere, ed in qualche modo interagisce con le mie molecole.
Le smuove, le chiama a sé.
 
 
John ha i colori di una mattina che comincia negli occhi, ed il suo profumo tra i vestiti.
 
 
Ed io non riesco più a ricordare cosa mi svegliasse, prima.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-122
 
“Ma è palese che sia stato il padre!”
 
“Sherlock, ti prego… È solo un telefilm.”
 
“Un telefilm scontato. E banale. E prevedibile.”
 
“Ok, credo sia giunto il momento di chiedere a Greg se ha qualche nuovo caso.”
 
“Sul serio questa roba è famosa?”
 
“Non ci crederai, ma ha vinto persino dei premi. Sei Emmy, due…”
 
“A riprova di quanto la televisione sia un’invenzione del tutto inutile, così come i suoi fruitori.”
 
“Ho capito, va bene, spengo. Tanto avrei dovuto comunque iniziare a preparare il pranzo.”
 
“A te piace? Davvero?”
 
“È un modo come un altro per passare del tempo. Non lo trovo poi tanto male, nel panorama delle serie poliziesche.”
“Sherlock?”
 
“Mhm. E cos’altro ti piace?”
 
“Dipende dagli ambiti… di cosa stiamo parlando?”
 
“Qualsiasi. Elenca.”
 
“Devo elencare?”
 
“Non mi sembra una richiesta molto complessa. Cosa. Ti. Piace.”
 
“Cosa mi piace. Ok. Beh, mi piace lo sguardo che hanno gli studenti quando riesco a stimolare la loro curiosità. Mi piace leggere, principalmente articoli scientifici legati agli studi sulle aree funzionali del cervello. Ne ho anche scritti parecchi, ai tempi del dottorato. Poi… non saprei. La birra. La neve. Le mostre fotografiche. E serie televisive scontate, banali e prevedibili.”
“Senza parole per la tristezza del mio elenco?”
“Sherlock?”
 
“Forse hai ragione. È ora di chiedere a Lestrade se ha dei nuovi casi.”
 
 
 
 
 
 
 
-122
 
 
“Cosa ti piace?” Mi ha chiesto oggi Sherlock, mentre mi alzavo per raggiungere la cucina.
 
 
 
Diventa sempre più difficile, ora dopo ora.
 
È come se vedessi i giorni staccarsi come foglie autunnali da un albero.
Quando i rami saranno completamente nudi, lui non ci sarà più.
 
Ed io rimarrò a terra, sdraiato tra i suoi colori, sentendolo incresparsi nei ricordi fino a sgretolarsi.
 
 
 
Non pensavo fosse possibile, dopo la guerra, provare un senso di terrore più grande di quello vissuto tra quelle dune.
 
Sbagliavo.
 
 
 
Seguo con gli occhi le lancette dell’orologio continuare ad avanzare, inarrestabili, e mi sento un codardo.
 
Perché mentre lui avanza verso la meta, io cerco modi per riuscire a rompere i quadranti, spezzare le lancette, piegare il tempo.
 
Spaccio come meri espedienti estemporanei tentativi goffi di ridargli una vita che, me ne rendo conto, è sopportabile solo per me.
 
Suonare il violino, ad esempio. Quanto amorfa potrà mai essergli sembrata, quella melodia?
 
Ed io ero così preso, così abbacinato dall’idea di riportare la musica tra le sue dita, da non aver pensato ad altro.
 
 
 
“Cosa ti piace?”
 
 
Tu, Sherlock.
 
Passare del tempo con te.
 
 
 
Mi piacerebbe poter essere abbastanza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-121
 
[10:56] Hai qualche nuovo caso che potresti passare a Sherlock? JW
 
 
[10:59] John, ciao! Ti avrei telefonato a breve. Non ho casi aperti, al momento, ma ho bisogno di una consulenza per un vecchio processo. GL
[11:00] Tra qualche giorno ci sarà l’udienza per la libertà vigilata, e voglio essere certo che non venga concessa. GL
[11:01] Quel tizio è pericoloso. GL
 
 
[11:03] Ho capito. Dove e a che ora? JW
[11:04] HMP Pentonville, domani alle 10. Il caso è “Bills contro Walter”, ti mando il fascicolo via mail. GL
[11:05] Bene. JW
 
 
 
[11:11] Greg? JW
 
[11:13] Dimmi. GL
[11:14] Vorrei che venisse anche Sherlock. JW
 
[11:16] Non so se è una buona idea, nelle sue condizioni. GL
 
[11:18] È una splendida idea, nelle sue condizioni. E nessuno più di lui sa capire se e quando qualcuno sta mentendo. JW
[11:19] Fagli avere un Pass, per favore. JW
 
[11:21] Sherlock non è esattamente il tipo di persona che chiuderei in una stanza con un assassino. La diplomazia non è il suo forte. GL
 
[11:22] Garantisco io per lui. Andrà bene. Ci vediamo alle 10 davanti all’ingresso principale. JW
 
 
[11:24] Va bene… Ma non voglio risse, ho bisogno di una consulenza spendibile in aula. GL
 
[11:26] Non accadrà nulla. Te lo prometto. JW
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-120
 
Quando eravamo piccoli, Mycroft insisteva col dire costantemente che si dovesse imparare almeno una cosa nuova ogni giorno.
 
Nuovi vocaboli, nuove formule chimiche, nuove parole in altre lingue.
 
È un qualcosa che si finisce con l’interiorizzare, che lo si voglia o meno.
 
E -  incline da sempre a cercare di indispettirlo - ho via via alzato sempre più l’asticella delle nozioni giornaliere da incamerare.
 
Due, poi, tre, poi quattro… Fin quando non ho avuto l’impressione che il mio Mind Palace fosse sufficientemente ingombro. Con gli anni, naturalmente, ho dovuto cancellare delle cose, fare spazio ad altre.
 
E poi, semplicemente, mi sono fermato.
 
Ho iniziato ad usare le informazioni, a plasmarle, senza però aggiungere realmente altro materiale.
 
 
Dopo l’arrivo di John avevo bisogno di spazio per lui, per poterlo serbare in modo sufficientemente chiaro nella mente. Qualcosa è stato nuovamente sacrificato. Senza fatica, senza rimpianti. È stato naturale.
Tipi di tabacco, nozioni di astronomia…
 
Ho iniziato nuovamente ad imparare, ad accumulare, a nascondere negli anfratti.
 
 
Oggi altre due informazioni hanno preso posto nella stanza che è quasi del tutto ingombra dei suoi frammenti.
 
Ma non riguardano lui, no.
 
Riguardano me.
 
 
 
La prima è che se John - se la sua voce ed i suoi occhi - mi chiede di far silenzio, sono in grado di tacere senza sentirmi in alcun modo umiliato o legato nel farlo.
Anche a costo di leggere uno sguardo soddisfatto sul volto di un uxoricida bugiardo al quale sto facendo perdere la pazienza.
 
La seconda è che nessuno, mai, può minacciare John davanti a me.
 
 
“Perché non scrivi anche questo, sulla tua perizia, professorino?” Ha cantilenato l’uomo, sporgendosi in avanti, le mani legate al tavolo come barriera. “Scrivi: in un modo o nell’altro, anche dovessero di nuovo rinchiudermi qui dentro, io troverò il modo di farti finire a fare compagnia alla mia dolce signora.”
 
John lo ha osservato per qualche secondo, un sorriso scettico ad increspargli le labbra.
 
“Direi che, con questo, possiamo anche concludere il nostro incontro.” Ha sentenziato, appuntando le ultime parole sul taccuino ed alzandosi.
 
L’ho seguito fuori dalla stanza, aspettando che sistemasse il foglio preliminare della perizia e fosse pronto per andare a consegnarla nell’ufficio del direttore.
 
“Ci vediamo all’ingresso ok? Non ci metterò molto, al massimo una decina di minuti. Il tempo di avvisare i secondini che il colloquio è terminato e salire al piano di sopra per dar questo al Dottor Jess.”
 
Ho annuito, attendendo di vederlo sparire con passo veloce oltre l’angolo del corridoio.
 
Solo allora sono rientrato nella sala interrogatori, richiudendomi con cura la porta alle spalle.
 
“Ehi, storpio. Sei ancora qui?” Ha sogghignato lui.
 
Far passare il Titanic tra il tavolo ed il muro fino a raggiungerlo è stato decisamente più complicato che prendere i suoi capelli tra le dita della mano destra e costringerlo a portarsi con l’orecchio all’altezza delle mie labbra.
 
“Ci deve volere davvero un gran coraggio ad uccidere nel sonno una donna indifesa.” Gli ho soffiato con forza contro il lobo. “Sai cos’altro richiede coraggio? Minacciare qualcuno davanti ad un testimone. Farlo senza sapere che conosce circa tre modi per farti assassinare durante l’ora d’aria, invece, è pura idiozia.”
 
“Non farmi ridere…” Ha risposto lui, il collo inclinato in modo innaturale verso di me. Credo che il secondo strattone gli abbia fatto più male, perché l’ho sentito distintamente soffocare un gemito.
 
“Conosco almeno quattro membri dei Peaky Blinders chiusi qui dentro. Posso farti i nomi, se vuoi. O preferisci i Penny Mobs1)?” Ho insistito, aumentando la stretta. “Pensa, pronuncia o scrivi il nome di John Watson una sola volta, e non sarai tanto fortunato quanto lo sono stato io. Niente sedia a rotelle per te. Solo terra e vermi.”
 
L’ho lasciato andare solo quando i passi del secondino erano ormai vicini alla porta. Non si è voltato verso di me, ma ha cercato di spostarsi dal lato opposto a quello dove mi trovavo: un buon segnale che il messaggio fosse stato recepito.
 
 
È questo il bello di confrontarsi con i bugiardi di infima categoria: non capiscono mai quando sei tu, a mentire.
 
 
 
 
 
 
 
-119
 
“Allora io vado.”
 
“Di cosa parlerai, oggi?”
 
“Pensavo di trattare il caso clinico di Christina C. È piuttosto interessante: a fine degli anni ottanta, la paziente venne colpita da poliradicoloneurite, perdendo tutte le radici sensitive dei nervi cranici e spinali e, con esse, la propriocezione. Pur conservando praticamente inalterata la sensibilità superficiale e il senso del tatto, il suo corpo non era più in grado di attuare quei meccanismi che permettono ai muscoli di muoversi anche senza il controllo della vista. In altre parol—“
 
“Christina non era più in grado di fare alcun movimento se non teneva lo sguardo fisso sulla parte del corpo che voleva muovere.”
 
“Giusto! Molto bene!”
 
“Togliti quel sorriso soddisfatto dalla faccia, non sono un tuo studente.”
 
“Scusa, hai ragione. Solo… beh, mi piace discutere di queste cose.”
 
“Vorrei ben vedere. È il tuo lavoro!”
 
“E… se tu mi avessi permesso di terminare la frase, avrei detto: e mi piace ancor più farlo con te.”
 
“Oh.”
 
“Oh, esatto.”
“Va bene, adesso devo proprio andare, o farò tardi. Greg ha promesso di passare fra un paio d’ore con qualche fascicolo di vecchi casi irrisolti, in attesa di nuovi. Dovresti riuscire a non annoiarti troppo, fino al mio rientro.”
 
“John…?”
 
“Dimmi.”
 
“Vorrei… Potrei venire con te? Ti… andrebbe?”
 
“Vuoi venire all’università?”
 
“Voglio venire ad una tua lezione.”
 
“Oh.”
 
“Oh, esatto.”
 
“Beh… certo. Certo! Sarebbe… Mi farebbe davvero molto piacere.”
 
“Ok. Bene. Mi aiuteresti a indossare il cappotto, allora? Siamo già in ritardo, e sono piuttosto lento da solo.”
“John?”
 
 
“Sicuro. Chiamo un taxi e arrivo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-119
 
Amore.
 
 
L'etimologia della parola “amore” risale al sanscrito “kama”, che identifica il desiderio, la passione, l’attrazione.
 
Un’interpretazione più romantica ma sicuramente meno accurata vuole che derivi invece dal latino “a-mors”, ovvero “senza morte”.
 
Qualunque sia la verità, una cosa è certa: John ama insegnare.
 
Ama letteralmente trasmettere il suo sapere, e vedere la curiosità accendere gli sguardi di chi lo ascolta.
 
Sa come attrarre l’attenzione, e come dosare aneddoti e tecnicismi.
 
 
Guardarlo fare lezione è come seguire una partitura. Lui viaggia tra le righe del pentagramma, ne riempie gli spazi.
 
Procede lento, poi veloce. Non lascia che la noia di insinui tra lui e noi che, in silenzio, lo osserviamo domare con maestria dubbi e colmare lacune.
 
Muove le mani, e con esse tutto il corpo. Guarda tutti negli occhi, a turno, non lascia mai nessuno solo.
 
 
 
Guardarlo fare lezione è come seguire una partitura, dicevo.
Come fare l’amore con qualcuno del quale si è innamorati.
 
Almeno credo.
 
 
 
 
Mi illudo che ci sia un sorriso diverso in fondo alle sue iridi, quando si posano su di me, ma è un’impressione fugace come un sospiro.
 
 
John si sposta verso la lavagna e porta con sé ogni cosa. Visi, mani, respiri.
 
Ha una sua orbita, e noi non possiamo che girargli attorno.
 
 
 
 
Vorrei che con la stessa voce - con lo stesso sguardo - parlasse di me, un giorno.
 
Che raccontasse di quello strano uomo con il quale, per qualche mese, ha scelto di condividere la vita.
 
Sono sicuro che se pronunciasse il mio nome con la stessa passione, la morte sparirebbe davvero tra le pieghe delle sua labbra.
 
 
E sarebbe come se, in un qualche modo, mi avesse amato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-118
 
[18:34] Dove sei? JW
 
 
[18:37] Sherlock, rispondi alle chiamate, per favore. JW
 
[18:39] Mi stai facendo preoccupare. Non costringermi a chiedere aiuto a Mycroft. JW
 
 
[18:44] • Invia posizione   SH
 
[18:46] Che diavolo stai facendo lì?! JW
[18:47] Non ti muovere. Capito? Sto arrivando. JW
 
 
 
 
 
 
 
-118
 
“SHERLOCK!”
 
“Sono qui, John. Non c’è bisogno di urlare.”
 
“N-non c’è bisogno di urlare?! Mi hai spaventato a morte!”
 
“E perché mai? Questo posto non è pericoloso, senza qualcuno che cercando di sfuggire ti scaraventa oltre una balaustra.”
 
“Perché?! Perché non sei mai uscito da solo, prima! E l’unica volta che lo fai vieni nel posto dove sei… sei…”
 
“Caduto.”
 
“Lo sai che cosa ho pensato?!”
 
“Che avessi deciso di terminare l’opera?”
 
“SÌ, SÌ MALEDIZIONE!”
 
“E sarebbe cambiato qualcosa? Alla fine, intendo. Che sia ora, o fra tre mesi, il finale sarà sempre lo stesso.”
 
“Per te, forse. Non… non per me.”
“Inutile che mi guardi con quello sguardo confuso, come se non lo capissi. Sei l’uomo più intelligente che conosca, SO che lo capisci.”
 
“Sinceramente, John, no.”
 
“Pensi che sia lo stesso, per me, trovarti senza vita in un maledetto cantiere deserto, sapendo che hai sofferto, che eri solo, che… che…”
Io ho deciso di restare, ma tu non puoi, non…”
 
“Non volevo buttarmi.”
 
“Cosa…?”
 
“Non volevo buttarmi, John. Ho fatto una promessa. E, che mi piaccia o meno, la rispetterò. Volevo solo… non lo so, capire se ci sarebbe stato un altro modo.”
 
“Un altro modo?”
 
“Se, facendo o non facendo qualcosa, sarei riuscito a non cadere. Ma più analizzo i miei movimenti ed i suoi, più capisco che non ci sarebbe stato scampo. Mai, in nessun modo.”
 
“Mi dispiace, Sherlock.”
 
“A me no. Non sono dispiaciuto. Sono… furioso. Non c’è niente di giusto, in questo. Non c’è niente di miracoloso, nel salvarsi.”
 
“Non è vero, io credo ch—“
 
Io credo che non dovresti alzarti prima di me tutte le mattine, solamente perché non sono in grado di scendere dal letto da solo. Credo che dovrei potermi preparare un bagno caldo. Poter camminare per Londra senza limiti, e chiederti di farlo con me. Credo…”
 
“Puoi chiedermi di camminare con te per Londra, Sherlock. Sempre. E puoi farti un bagno da solo, impiegandoci un po’ di tempo. E…”
 
“Io vorrei essere morto, non lo capisci?”
 
“Sherlock…”
 
“Se fossi morto, sarebbe semplicemente tutto più facile. Non passerei ogni ora del giorno a chiedermi se quello che mi si muove in mezzo al petto è un sentimento o banale, schifosa paura. Non tremerei al pensiero di chiederti di rimanere, con la certezza che in te ci sia più pena che des—“
 
 
[Rumore di uno schiaffo]
 
 
“Sei un idiota. Un completo idiota. Non è PENA, quella che mi fa alzare ogni mattina, che mi fa preparare la colazione per entrambi, o che mi fa girare uno stupido rubinetto dell’acqua!”
 
“Non riesco davvero a capire cos’altro possa essere, visto quello che sono.”
 
 
 
 
“John…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-117
 
John non è ancora tornato a casa.
 
Non risponde alle mie chiamate, né hai messaggi.
 
Vorrei chiedere aiuto a Mycroft, ma…
 
Chiederebbe cosa sia successo, ed io non potrei…
 
Non posso dirgli di ieri. Del cantiere.
 
Non posso dirgli di avere ancora sul viso il segno dello schiaffo di John… di avere ancora sulle labbra la sensazione delle sue.
 
Non credevo che si potesse baciare disperatamente qualcuno.
Aggrapparsi ad una bocca come se da quel gesto dipendesse la vita stessa.
 
 
 
Non credevo si potesse amare disperatamente qualcuno.
 
 
Fin quando, in silenzio, non mi ha voltato le spalle, andando via.
 
 
 
 
 
Note:
 
1) I Peaky Blinders ed i Penny Mobs sono due gang londinesi.
 
 
Angolo dell’autrice:
 
A quanto pare, i sensi di colpa mi fanno davvero scrivere di più! XD
 
Chiedo immensamente, umilmente scusa per la scena finale. È cattiveria pura, me ne rendo conto. Prometto che andrà meglio. ^_^’
 
Grazie come sempre per aver letto fin qui.
 
Come sempre, vi lascio con una frase. :)
 
A presto (si spera! XD)
B.
 
“What we call our despair is often only the painful eagerness of unfed hope.”
(George Eliot)
 
Ovvero:
 
“Quella che chiamiamo disperazione è solamente l'ansia dolorosa della speranza non nutrita.”
 
 
 
 
 
P.S.:
 
Qualcuno ha capito quale serie tv Sherlock ha osato definire “scontata, banale e prevedibile”? XD
 
Di seguito il link per l’immagine animata più bella di sempre, della quale vi lascio un frame “in anteprima”:

 


 
http://br0-harry.deviantart.com/art/kiss-animation-monochrome-285981690

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Capitolo 14
*** Da 116 a 112 ***


 
 
 
 
-116
 
[11:01] John. SH
 
[11:03] Rispondi! SH
 
 
 
[11:32] Questa storia sta diventando ridicola. Sono passati due giorni. SH
 
[11:34] John! SH
 
 
 
[12:11] Esiste un numero precisato di tentativi superato il quale deciderai di rispondermi? SH
 
 
 
 
[14:44] John… SH
 
 
 
[16:52] Per favore. SH
 
 
 
 
 
 
 
-115
 
Ho sempre amato la veranda di Sarah.
 
L’ha ricavata chiudendo uno dei due piccoli terrazzi del suo appartamento nel nord di Londra, lasciando ampie vetrate a rincorrersi lungo quelli che, una volta, erano i parapetti.
 
Grandi tappeti intrecciati a coprire il pavimento ed un comodo divano (appartenuto a sua madre) donano a questo punto della casa un calore che lo rende immediatamente adatto a fungere da nido dove rintanarsi.
 
Quando, due giorni fa, mi ha aperto la porta con aria sorpresa, non ci ha messo molto a capire dove avessi bisogno di andare.
 
In silenzio mi ha guidato attraverso le stanze, fino alla veranda. Si è lasciata cadere sul divano, facendomi cenno di sedermi accanto a lei.
 
“Vuoi un the?” Ha domandato, ed io ho sorriso appena.
 
“Sarebbe meraviglioso. Grazie.”
 
 
 
 

Offrire del the è da sempre il primo passo con il quale, nella sua famiglia, affrontano i problemi.
Un modo per alleggerire la tensione, creare una connessione.
 
Bere offre una scusa per non parlare, se non si vuole farlo.
Il calore della tazza tra le mani, invece, fa trovare il coraggio di aprirsi e confidarsi, se lo si desidera.
 
Sua madre preparava il the ad ogni sguardo triste, ad ogni accenno di infelicità che vedeva affiorarci sul viso nei lunghi pomeriggi passati assieme, da ragazzi.
 
La settimana successiva alla morte della mia, Sarah ed io non facemmo altro che starcene raggomitolati sul divano, una tazza ricolma di infuso liquido tra le mani e gli occhi vuoti di lacrime, asciutti.
 
Posso affermare senza dubbio che lei sia una delle poche persone, se non l’unica, della mia infanzia che mi abbia reso felice.
 
Avevamo entrambi sei anni, quando si trasferì nella casa di fianco alla mia.

Da allora - nonostante i prolungati momenti di silenzio, gli anni e le distanze - in caso di bisogno ci siamo sempre stati, l’uno per l’altra.
 
 
 

 
“Ecco qui.” Ha esordito dopo qualche minuto, affacciandosi con un piccolo vassoio tra le mani.
“Ho preso le tazze grandi. A giudicare dallo stato dei tuoi occhi, ne berremo almeno due a testa.”
 
D’intinto ho alzato una mano verso il viso, sfiorando con i polpastrelli le palpebre.
 
“Hai pianto?” Mi ha chiesto, con voce bassa, iniziando a versare il the.
 
Ho fatto cenno di no con la testa, domandandomi come avessi fatto a camminare tanto a lungo senza versare una sola lacrima, dato che ogni singola fibra del mio essere sembrava invocare quella liberazione.
 
“Allora ti sei trattenuto sufficientemente a lungo da farti venire gli occhi rossi. Dev’essere grave, se non ti permetti di piangere.” Con un gesto delicato mi ha passato il piattino con sopra la tazza traboccante di liquido ambrato. “Ne vuoi parlare?”
 
Gli occhi fissi al cielo grigio oltre le vetrate, ho annuito impercettibilmente, rimanendo in silenzio. La mia mente annaspava in cerca delle parole adatte, mentre sentivo il cuore farsi sempre più piccolo, una morsa incandescente a rallentarne i battiti fino a renderli dolorosi.
 
“Quando vuoi, sono qui.” Ha sussurrato lei portandosi la tazza alle labbra, mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a scendere lungo i vetri.
 
 
 
Per quanto ci abbia provato, non sono riuscito a descriverle Sherlock come avrei voluto.
Ogni parola, ogni aggettivo, non era mai del tutto adeguato.
Non era… sufficiente.
 
Le ho raccontato di lui, di come ci fossimo conosciuti… della scelta.
 
“Hai paura di non riuscire a superare la sua morte?” Mi ha chiesto lei, con tono comprensivo, uno sguardo preoccupato sul viso.
 
“Ho paura di non volerlo fare.” Ho ammesso, soffiando fuori parole e fiato, le lacrime incastrate tra occhi e gola. “Ho paura di… non essere abbastanza forte per accompagnarlo in questo viaggio senza provare in ogni modo a convincerlo a restare. Se solo…”
 
“John…” con delicatezza mi ha posato una mano su un polso. “Perché sei qui? Per proteggere lui? O per proteggere te?”
 
Devo aver assunto un’espressione confusa, attraverso la patina che mi annebbiava la vista, perché Sara ha aumentato la pressione, cercando di aiutarmi a rimanere concentrato.
“È la sua vita, John. Non ha a che fare con te.”
 
“Non capisco…” Ho ammesso, mentre un lampo squarciava il cielo.
Mi sono chiesto se Sherlock avesse fatto in tempo a tornare a casa prima che iniziasse a piovere. L’idea che fosse ancora su quel tetto mi ha fatto torcere lo stomaco.
 
“Morire è una scelta che riguarda lo stato del suo corpo, John. Non quello del suo cuore.”
Si è seduta più comodamente sul divano, in modo da essere completamente rivolta verso di me.
 
“Quello che voglio dire è che se prova qualcosa per te…”
 
“Non prova niente, per me, Sarah.” L’ho interrotta, stringendo con forza le dita attorno alla stoffa dei pantaloni.
 
“Se prova qualcosa per te, - ha ripreso lei, ignorandomi – John, questo non cambierà comunque la sua scelta, probabilmente. Ma ciò non significa che tu non sia abbastanza. Solo… sei in un altro luogo del suo essere.”
 
“Continuo a non capire.” Ho tossito, la gola chiusa.
 
“Tua madre amava immensamente Harry e te. E mai, per nulla al mondo, avrebbe voluto farvi del male, o farvi soffrire. Era terrorizzata all’idea di lasciarvi da soli. Ma, alla fine… ha comunque invocato la morfina, ben sapendo che l’avrebbe uccisa.”
 
Siamo rimasti in silenzio per qualche secondo, ognuno immerso nel proprio personale ricordo di quei giorni.
 
“John, l’amore non può risanare i corpi. Perché, semplicemente, è su un altro piano. Sherlock odia il suo corpo, è vero. È arrabbiato, e ne ha ogni motivo. Questo non significa che non possa amare te. O che tu non sia abbastanza. Da quello che mi hai raccontato, dai suoi atteggiamenti… tu significhi molto per lui. Ma non vuoi vederlo, perché sei tu a non ritenerti abbastanza.”
 
“Abbastanza…” Ho ripetuto, la testa altrove.
 
“Ma tu sei abbastanza. Hai capito? Sei stato abbastanza forte da cacciare tuo padre di casa, dopo l’ennesimo scatto di violenza verso Harry. Sei stato capace di riemergere da l’inferno dell’Afghanistan. Sei ancora qui, John. E se c’è qualcuno che sappia cosa voglia dire sopravvivere, sei tu. Fino alla partenza verso la Svizzera, Sherlock sarà semplicemente… l’uomo del quale ti sei innamorato. E questo non può arrecargli nessun male. Nessuno. Smettila di aver paura di… costringerlo a fare qualcosa. Non mi sembra il tipo che si lasci influenzare. Sii… solo te stesso. Per il bene di entrambi, ti prego: sii solo John Watson.”
 
Ho annuito, gli occhi bassi.
 
 
 
Sarah ha ragione. Lo so.
 
Ha sempre ragione.
 
 
 
Ho passato le ultime tre notti sveglio, a riflettere.
 
Sherlock continua a scrivere, a telefonare.
Ad ogni messaggio Sarah sorride, come se tra le note di quella notifica vedesse la prova della correttezza delle sue affermazioni su di lui, su quello che prova per me.
 
Ed io leggo ogni parola, più e più volte, combattendo l’istinto di rispondere.
Cerco di immaginarlo a Baker Street, da solo, mentre ripete per l’ennesima volta alla signora Hudson che no, non ha bisogno di aiuto.
 
Lo immagino sforzarsi di raggiungere la sedia, al mattino.
 
Sporgersi con uno sbuffo verso i pomelli dell’acqua, la ceramica della vasca a fargli da ostacolo, bloccando le ruote del Titanic.
 
Ha detto di essere furioso, perché incapace di badare a sé stesso.
 
Io, però, so che non è vero. So che può farlo. So che può muoversi, vestirsi, lavarsi, senza di me.
 
Il fatto che facessi tutto questo al posto suo era solo un modo per riuscire a dare un ristoro ai miei sentimenti, per placare l’amore disperato che sentivo agitarsi nel petto… ed è stato scambiato per pietà. Per la conferma della sua impotenza.
 
 Voglio che veda. Che capisca. Che si convinca che può fare ogni cosa, anche senza di me.
 
Che torni ad essere, ai suoi occhi, una persona, non qualcosa di rotto, inutile.
 
Solo allora tornerò a Baker Street, sperando che voglia tenermi con sé.
 
Non per una necessità pratica dalla quale non credeva di potersi liberare.
 
 
Per scelta.
 
 
 
 
 
 
 
 
-114
 
[09:12] Lestrade, devi passare immediatamente a casa di John. SH
 
[09:14] Cosa? Che sta succedendo? GL
[09:15] VA’ A CASA DI JOHN! SH
 
 
 
 
 
[09:35] Ok, vuoi gentilmente dirmi cosa sta succedendo? Sono qui con due volanti, e non c’è assolutamente nulla di anche solo vagamente sospetto. GL
[09:36] John è lì? SH
[09:37] Scusa?! GL
[09:38] Ho chiesto: John è lì? Non mi sembra complicato, da capire. SH
 
[09:40] Dimmi che non mi hai fatto venire fino a qui con sei uomini solo per suonare il campanello. GL
[09:41] È lì o no?! SH
 
[09:43] No, Sherlock. NON è qui. E, a giudicare dalla posta, non passa a ritirarla almeno da quattro/cinque giorni. GL
 
[09:45] Aspetta… quindi era davvero questo, il motivo?! GL
 
 
[09:48] SHERLOCK! GL
 
 
 
 
[09:44] John. SH
 
[09:46] Non chiedo tanto, solo una risposta. SH
[09:47] Mi stai facendo preoccupare.  Avanti! SH
 
[09:49] Senti, se è per quello che ho detto l’altro giorno… Ti stai rendendo ridicolo. SH
 
[09:51] Non riesco a trovarti. Mi manchi. Ed ho paura che sia successo qualcosa. Potresti tornare…? Ti prego. SH [Messaggio non inviato.]
 
 
 
[09:53] Lo hai sentito, negli ultimi giorni? SH
 
[09:55] Non ho intenzione di rispondere più a nessun tuo messaggio. GL
[09:56] Tecnicamente, lo hai appena fatto. SH
[09:57] Oh, al diavolo! GL
[09:58] Ti ho solo chiesto che lo hai sentito. SH
 
[10:00] Sì, Sherlock. L’ho sentito ieri. GL
[10:01] Dov’è?!  Sta… bene? SH
 
[10:03] Sì, direi di sì, per quanto si possa capire attraverso un messaggio. Che sta succedendo? GL
 
[10:05] Sherlock? GL
 
 
 
[10:12] Devo davvero smettere di rispondere ai tuoi messaggi. GL
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-114
 
John sta bene.
 
Ha risposto ad un messaggio di Lestrade, ieri, quindi…
Sta bene.
 
 
Quando ho telefonato all’università, questa mattina, la segreteria di facoltà mi ha riferito (mentendo) che il Professor Watson risultava in malattia da un paio di giorni e che, quindi, non si era più presentato in aula a partire da quel momento.
 
Per un attimo ho avuto paura. Una paura irrazionale, totalizzante, accecante.
 
Una frase si è presentata con violenza davanti ai miei occhi, i bordi scuri e acuminati dell’impotenza ad appesantirla e renderla aguzza: “lo hai perso”.
 
 
 
Perdere.
 
 
 
Mai termine mi è sembrato più adeguato a definire un momento esatto, una sensazione precisa.
 
La sua etimologia evoca uno scenario di rovinosa miseria che pochi intravedono tra quella manciata di lettere: letteralmente, perdere qualcosa significa “mandarla a male”, “distruggerla”.
 
Non che si possa realmente perdere qualcuno. Non è possibile, così come non è possibile possedere qualcuno.
 
Ma si può, sicuramente, distruggere ogni collegamento, ogni connessione.
 
I ponti crollano, i computer si isolano.
Due punti possono essere attraversati dalla stessa linea, o vivere sullo stesso piano senza venir mai in contatto, attraversati da rette diversi, incapaci di toccarsi.
 
Le persone possono non trovare più il modo di comunicare.
 
 
Comunicare.
 
 
Non mi è mai interessato comunicare con gli altri.
 
Per farlo è necessario portar fuori, verso l’esterno, qualcosa di sé.
Il mio approccio con le persone si è sempre basato, invece, sul portare dentro qualcosa di loro, per poterle analizzare, smembrare, digerire mentalmente.
 
Non ho mai voluto che uscisse qualcosa. Che si creassero delle brecce.
Le falle permettono all’acqua di entrare, di sommergere, di cancellare.
 
Ma con John…
 
 
Con lui è come vivere in una costante osmosi.
 
 
Ho lasciato che entrasse ed ho permesso che prendesse qualcosa in cambio, vasi comunicanti che cercano di mantenere un equilibrio stabile.
 
E adesso che non è qui, mi sembra che manchi qualcosa.
Sono di nuovo incompleto, monco, ma in modo più imitante di quanto sia esserlo sul piano fisico.
 
 
Riesco ad alzarmi e a raggiungere la sedia da solo, la mattina, ed è quello che faccio.
 
Posso entrare ed uscire dalla vasca, radermi, vestirmi.
 
La mano sinistra formicola sempre più spesso, e adesso riesco a percepire distintamente tramite il palmo il calore o il gelo di una superficie.
 
Con qualche sforzo, sono in grado di alzarla al punto da potermi appoggiare al tavolo della cucina, o al bordo della vasca.
 
Ma non ha importanza, se non posso farglielo vedere.
 
Ho passato mesi a nascondere i segni di miglioramento, mentre adesso vorrei solo che John fosse qui per ripagarmi di tanto ed inutile sforzo con una delle sue espressioni compiaciute. Con uno dei suoi sorrisi incompleti, in bilico tra la gioia e la derisione bonaria.
 
 
Guarda John, riesco a poggiarmi alla scrivania con entrambe le mani.
Deliziosamente inutile.
Fastidiosamente eccezionale, nella sua banalità.
 
 
La verità è che…
 
Ho distrutto questo legame senza nemmeno essere riuscito a realizzare che - in un qualche preciso momento, in un qualche luogo specifico, senza una reale e plausibile ragione - fosse nato, che fosse stato costruito.
 
Come ho fatto ad essere così… cieco?
 
 
Ci sono stati dei segnali?
 
Forse avrei dovuto capirlo quella sera, mentre chino su di me si prodigava per cercare di non fare troppi danni mentre mi lavava i capelli.
 
O dal violino.
 
 
Sì…
 
 
Forse si aspettava qualcosa.
Una domanda? Una… risposta?
 
 
Ma, alla fine, tutto questo non cambia la realtà dei fatti.
 
Sempre che ancora volesse…
 
 
 
Ma cosa potrei mai offrirgli, io? 
 
 
 
 
 
 
 
 
-113
 
[02:04] In quel cantiere… Hai detto che non è la pietà a muoverti. SH
 
[02:06] Ho bisogno di sapere cos’è. SH
[02:07] Lo devo sapere, John. SH
 
[02:09] Lo devo sentire. SH
 
[02:11] Da te. SH
 
 
 
 
 
[03:15] Egoismo. JW
 
[03:17] Io amo passare del tempo con te. Amo parlare con te. JW
 
[03:19] Amo alzarmi prima di te, in modo da preparare il caffè e non doverlo fare dopo, quando giri per la cucina. JW
[03:20] Amo la scintilla che ti attraversa gli occhi quando hai un caso tra le mani. JW
 
 
[03:23] Io non ti sto vicino per pietà, Sherlock. JW
 
[03:25] Ti sto vicino perché farlo placa il frastuono dei pensieri che sento quando non lo faccio. JW
[03:26] Perché mi sembra di vivere in apnea, quando non sento la tua voce. JW
 
 
[03:28] Come vedi, non sono una persona caritatevole. JW
 
 
[03:34] Sono solo un egoista. JW
 
 
 
 
 
[04:46] Non posso offrirti nulla, nemmeno la metà di quanto tu puoi dare a me, John. SH
 
[04:48] È evidente che non ti sia chiaro il tuo valore, se scrivi certe cose. JW
 
[04:50] Non voglio niente, Sherlock. JW
 
 
[04:54] Quanto faccio per te non varrà mai un secondo dei tuoi occhi nei miei. JW
 
 
 
 
 
 
 
-113
 
“Hai fatto quanto ho chiesto?”
 
“Ciao, Sherlock. È un piacere sentire la tua voce, dopo giorni di silenzio ed un pomeriggio di minacce velate tramite sms.”
 
Hai fatto quanto ti ho chiesto, Mycroft?
 
“Sì, Sherlock. L’ho fatto. Era chiaro, che lo avrei fatto. Come avrei potuto rifiutarmi, data la tua gentilezza nel chiedere.”
 
“Bene.”
 
“Come pensi di arrivare fin lì? Vuoi che mandi una macchina a prenderti?”
 
“No. Voglio andare in taxi.”
 
“Posso almeno suggerire di richiederne uno facendo menzione alla tua… condizione? Senza il professor Wats—“
 
“Ci ho già pensato Mycroft, grazie.”
 
“D’accordo. La galleria vi aspetta per le 18.30. L’Alyn Williams at The Westbury1), invece, per le 20.30.”
 
“Perfetto.”
 
“Ah, Sherlock… mi sono premurato di prenotare l’intero ristorante. Quindi non allarmarti, nel caso il personale di sala apparisse oltremodo gentile nei vostri riguardi. Non c’è assolutamente nulla di sospetto.”
 
“Cos… Come…?”
 
“Il proprietario mi doveva un piccolo favore, niente di cui preoccuparsi. Goditi la serata.”
 
“Mycroft, io non cr—“
 
“Ciao, Sherlock.”
 
 
 
 
 
 
 
-113
 
“Barbican Art Gallery, ore 18.30. Vestiti elegante.”
 
 
Questo - parecchie ore più tardi - è stato l’unico messaggio ricevuto da Sherlock dopo la mia imbarazzante e puerile dichiarazione notturna.
 
Per un attimo, ho pensato che mi stesse prendendo in giro.
 
“Devi andare!” Ha esclamato Sarah dopo aver letto il messaggio, l’entusiasmo a colorirle la voce. “E mettiti il tuo vestito migliore!”
 
 
 
 “Sei bellissimo.” Ha commentato - un paio d’ore dopo, affacciandosi nella camera da letto di casa mia e osservando compiaciuta il completo scuro che avevo scelto dopo varie prove – il mio tentativo di corrispondere all’immagine di un uomo “elegante”.
 
Ho fatto cenno di no con la testa, sorridendo.
 
“Sì, invece! Sherlock Holmes è fortunato.” Ha ribattuto lei.
 
“In verità, mi sento più fortunato io.” Ho ammesso candidamente, sistemando meglio il fazzoletto chiaro nel taschino.
 
 
 
Più passa il tempo - più resto solo (Sarah se n’è andata da quasi un’ora), seduto in salotto in attesa di uscire - più inizio a sentire il cuore farsi sempre più piccolo.
Non vedo Sherlock da quel bacio, e…
 
Non lo so.
 
Ho paura. Una paura irrazionale.
 
Come quella che si prova da ragazzi, in attesa di uscire con il primo amore adolescenziale.
 
 
Non credevo avrei mai più potuto provare una sensazione simile.
 
 
Un altro miracolo di carne ed anima che Sherlock non si accorge nemmeno di aver compiuto.
 
 
 
 
 
 
 
-112
 
“Sei in ritardo.”
 
“Io… Sì, perdonami. Il tassista ha avuto qualche difficoltà con l’indirizzo e…”
“Oh.”
 
“Che te ne pare? Ti piace?”
 
“Una mostra fotografica di Wilson Bentley2)…? Certo che mi piace! Come non potrebbe?”
 
“Fotografia e neve per te, microscopi per me.”
 
“È… una bellissima idea, Sherlock! Stupenda, ma temo che la galleria sia chiusa, a quest’ora.”
 
“Solitamente, sì. Ma per noi faranno un’eccezione.”
 
“Cosa?”
 
“Allora, vieni?”
 
 
 
“È… è un tight, quello?”
 
“Se non ho sbagliato a scegliere la giacca dall’armadio…”
 
“Non avevo capito che dovessi essere così elegante.”
 
“Non dovevi, infatti. Ho voluto esagerare. Ora, dato che ho impiegato per prepararmi circa quattro ore, tra bagno, rasatura, e – che il cielo mi aiuti – chiudere il gilet ed annodare la cravatta, che ne dici se non perdiamo altro tempo e iniziamo quest—“
 
“Hai fatto tutto da solo?”
 
“Certo, sì. Ho solo chiesto alla signora Hudson di stringere la cravatta, una volta annodata.”
“John?”
 
“Sherlock… Grazie.”
 
“Di cosa, esattamente?”
 
“Di… questo. Di aver chiesto ad una galleria d’arte di allungare l’orario di apertura per noi. Di esserti preparato per me.”
 
“Volevo offrirti qualcosa. Per… ringraziarti.”
 
“Ringraziarmi?”
 
“Quando te ne sei andato, l’altro giorno… ho pensato che fosse giusto così. Che non avesse senso volere o sperare che restassi fino alla fine, perché il tuo esserci o meno non cambierà il finale di questa storia.”
 
“Sherlock…”
 
“Fammi finire, per favore.”
“Razionalmente, che tu mi stringa la mano sul letto di morte o te ne vada adesso, lasciandomi solo ad affrontare quel momento, non fa alcuna differenza. L’una o l’altra cosa non diminuirà la dose delle medicine, o non impedirà al mio cuore di smettere di battere.”
 
“Sherlock…”
 
Ma… c’è molta differenza, un’enorme differenza, per me. Una differenza che non ha a che fare con la testa, o con il corpo. Ha a che vedere con te e con il modo in cui riesci a farmi sentire quando ci sei. Io non sono mai stato interessato alle persone se non per puro fascino professionale. Non mi sono mai preoccupato di poter ferire qualcuno. Ma… con te è diverso.” “Tu mi rendi diverso. Mi fai venire voglia di essere migliore. E non voglio rinunciare a questo, solo perché so che un giorno finirà.”
“John…?”
 
“Credo che siano le parole più… più…”
 
“Qualunque cosa siano, sono le parole con le quali ti sto chiedendo di uscire con me.”
“Tu… vorresti uscire con me stasera, John?”
 
“Quello che voglio è vedere la neve.”
 
“Ok…”
 
 
 
“E non vorrei farlo con nessun altro se non con te.”
 
 
 
 
Note:
 
1) L’Alyn Williams at The Westbury è uno dei locali più “in” di Londra. Per farvi avere un’idea concreta di cosa con molta tranquillità Mycroft abbia prenotato per intero, vi lascio il link al loro sito. XD
http://www.alynwilliams.com
 
 
2) Wilson Bentley è stato tra i primi fotografi a imprimere su pellicola l’immagine di fiocchi di neve. Il suo metodo per catturare la neve era molto semplice: consisteva nel farla posare su un vassoio ricoperto di velluto e di posizionare i cristalli sul vetrino del microscopio usando un sottile strumento metallico.
Nelle oltre 5,000 fotografie da lui scattate non è stato possibile trovare due fiocchi di neve perfettamente identici, come scrisse nel libro “Snow Crystals” del 1931.
 
John, lo scorso capitolo, ha detto di amare la neve e la fotografia. Ecco perché Sherlock sceglie proprio quella particolare mostra. ^_^
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Con oggi si è concluso anche il periodo di formazione per chi dovrà sostituirmi a lavoro. Si può dire che, da adesso, io sia ufficialmente disoccupata (cosa che mi crea una certa ansia. ^_^’’)
 
Da martedì prossimo fino a domenica saremo a Marsiglia a caccia di appartamenti, quindi la pubblicazione di un eventuale nuovo capitolo è da considerarsi altamente improbabile. Spero che questo (il più lungo in assoluto!) sia sufficiente per fare da ponte fino al prossimo aggiornamento. :)
 
Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui. I vostri commenti sono stupendi, e spero di aver tempo per rispondere in modo adeguato quanto prima.
 
Vi lascio con una frase, come ormai faccio sempre. ^_^ Più giù vi pubblicherò un’immagine delle foto di Bentley, i fiocchi sono semplicemente meravigliosi!
 
 
“Immortale è chi accetta l'istante. Chi non conosce più un domani.”
(Cesare Pavese)
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Da 111 a 109 ***


 
 
 
 
 
 
-111
 
La neve è la prova di come grandi metamorfosi possano accadere nel silenzio più profondo.
 
Si posa lenta, un cristallo alla volta, fragile.  
 
I primi fiocchi muoiono quasi subito, macchie candide su letti scuri, scomodi.
Restano tra i capelli, sui vestiti, si sciolgono a contatto con il calore della pelle, del terreno.
 
Poi, ostinata, finisce col ricoprire ogni cosa. I paesaggi mutano, si piegano sotto la sua forza mite.
 
Gli occhi si riempiono di un bianco che racchiude in sé ogni altro colore, come uno scrigno.
 
La neve conserva, nasconde.
 
Immobili tra i fiocchi che ci circondano leggeri, sembra di essere dentro un segreto.
 
 
 
Ieri sera, intento ad osservare John muoversi elettrizzato tra i vari pannelli della mostra, ho capito.
 
Lui è neve.
 
La mia personale nevicata.
 
In silenzio si è adagiato sulla pelle, fino a scivolare sotto di essa, fino a divenire ossa, sangue e nervi.
Lentamente è arrivato agli occhi, riempiendoli di un mondo nuovo.
Ha rivestito di stupore una vita che consideravo persa, posandola tra le mie mani sotto una nuova forma.
 
Testardo, ha mitigato le mie intemperanze, senza farle sparire.
 
Tra le sue braccia, sul suo viso, il profilo morbido di un segreto al quale non riesco ad accedere.
 
 
 
“Hai visto queste foto?! Sono stupende!” Ha esordito, muovendosi incerto tra le teche. “Sono troppe, non so da che parte incominciare!” Ha aggiunto poi, voltandosi verso di me, un sorriso radioso a illuminargli gli occhi.
 
“Ti piace?” Ho domandato, seguendo ogni suo passo, ogni gesto delle mani, in cerca di una conferma.
 
“Certo… Come potrebbe non piacermi?” Ha allargato le braccia, indicando le foto. “È… è bellissimo, Sherlock. Grazie.”
 
Ha sorriso di nuovo, ed io ho sentito la gioia che vedevo prendere forma sul suo viso allargarsi nel mio petto.
 
Neuroni specchio.
 
Una classe di neuroni che si attivano sia quando un individuo compie un'azione, sia quando l'individuo osserva la stessa azione compiuta da un altro soggetto.
 
Sinapsi e connessioni.
 
“Chimica organica, nient’altro” ho cercato di convincermi, invano, mentre rispondevo a mia volta al suo richiamo, increspando le labbra.
 
 
“Vogliamo fare un giro?” Ha chiesto dopo poco, allungando una mano verso di me.
 
Devo aver assunto un’espressione davvero confusa perché, dopo qualche secondo, ha riportato il braccio lungo i fianchi.
 
In silenzio si è portato alla mia sinistra, appoggiandosi alla maniglia del Titanic con un tocco leggero.
 
“Quando vuoi, sono pronto.” Ha aggiunto, allungando la schiena ed assumendo un’aria distinta, un’espressione divertita a far capolino ai bordi della bocca.
 
“Non guardarmi così. Cammino accanto ad un elegantissimo uomo in tight, cerco solo di non sfigurare.” Si è giustificato di fronte al mio sopracciglio alzato.
 
“Un bellissimo ed elegantissimo uomo in tight.” Ha aggiunto, abbassando la voce a poco più di un sussurro.
 
Ho sentito il calore affiorare sul viso ancor prima di aver percepito il cuore iniziare a battere più forte nello sterno.
 
Con la coda dell’occhio, ho visto anche le sue guance farsi rosse.
 
 
Neuroni specchio.
 
 
“Andiamo.” Mi sono limitato a rispondere, il respiro incastrato tra polmoni e gola.
 
“Andiamo.” Ha ripetuto lui, con voce morbida.
 
Vicini, muti, ci siamo incamminati verso il primo pannello.
 
 
 
 
 
 
Ritrovarsi forzatamente legato ad una sedia a rotelle ti costringe a guardare il mondo da una nuova prospettiva. Quasi tutte le persone accanto a te devono abbassare la testa, per parlarti o interagire con te, e tu non puoi far altro che spingere gli occhi verso l’alto, verso un mondo che prima era a tua misura e che, improvvisamente, è divenuto irraggiungibile.
 
È stata una delle cose, dopo la Caduta, alla quale mi sono abituato con più lentezza e maggior fastidio.
 
John, invece, non mi ha mai parlato chinandosi in avanti. Nemmeno una volta, se non costretto da necessità contingenti.
 
Me ne sono reso conto solo una volta arrivati all’Alyn Williams quando, non senza un certo imbarazzo, ci siamo ritrovati seduti l’uno di fronte all’altro in uno dei tavolini centrali della sala principale.
 
Avere i suoi occhi al livello dei miei non è stato strano, non ha riportato le cose “in equilibrio”.
 
Non c’è differenza tra noi, mai, o forse lui è così abile ad offuscarla con i suoi passi e la sua voce, a nasconderla con disinvoltura alla mia coscienza.
 
 
 “Questo posto…” Ha esalato, lasciando vagare lo sguardo per la sala deserta.
 
“Sì, lo so.” Ho cercato di bloccare il discorso sul nascere. “Preferisci vino rosso o bianco?”
 
“Non sono un esperto…” Ha risposto distrattamente, ancora incredulo. “Scegli tu. Sono sicuro che sarà ottimo comunque.”
 
 
È incredibile come l’imbarazzo possa comparire così, all’improvviso, non appena gli stimoli esterni allentano la presa su i nostri sensi.
 
Avevo già detto a John di ritenere la nostra uscita un “appuntamento”, così come gli avevo svelato fin dal primo momento le tappe della nostra serata, ma solo il fasto silenzioso di quei tavoli era riuscito a rendere improvvisamente la cosa concreta, reale.
 
 
“Allora…” Ha iniziato lui, inclinando la testa da un lato prima di alzare gli occhi su di me.
 
“Se stai per ringraziarmi ancora una volta, ti prego...” Ho cercato di fermarlo, alzando la mano destra.
 
“No, io… Cioè, certo, vorrei ringraziarti, ma date le premesse cercherò di contenere il mio entusiasmo.” Ha riso, osservando il cameriere versare il vino nel mio calice per l’assaggio.
 
“Perfetto, grazie.” Ho annuito in direzione dell’uomo non appena terminato di controllare profumo e gusto, attendendo che anche il bicchiere di John venisse riempito prima di portare nuovamente il mio alle labbra.
 
“Aspetta!” Mi ha bloccato, la luce delle candele a muoversi sul viso e perdersi negli occhi. “Mi concederesti un brindisi, per l’occasione?”
 
“Un brindisi.” Ho ripetuto.
 
“Sì, un brindisi. Alle gru.”
 
Confuso, ho riportato il bicchiere sul tavolo, aggrottando le sopracciglia.
 
“Le gru.”
 
“Sì.” Si è schiarito la gola, muovendosi sulla sedia in cerca di una posizione più comoda. “Uno dei miei libri preferiti, da bambino, si intitolava “Piegatura delle mille gru”. Era un libro sugli origami, scritto a fine del 1700.”  Si è fermato, un’ombra improvvisa a scurirgli il volto.
 
“Nel libro veniva spiegato che chiunque fosse riuscito a piegare mille gru di carta, avrebbe visto esauditi i propri desideri. Ecco, io… non sono mai riuscito a piegarne così tante, neanche quando mia madre ha iniziato a stare male.”
 
L’ombra si è addensata, fermandosi nel fondo dei suoi occhi, irrigidendogli la mascella.
 
“C’è stato un momento, durante queste notti… nel quale ho pensato che mi sarebbe piaciuto avere l’energia di terminare tutte quelle gru. Non per farti cambiare idea, no.”
 
Con un colpo di tosse, ha allontanato il tremore che si stava facendo largo tra le sue parole.
 
“Solo… per meritare un’occasione come questa. Per trovare il coraggio di sedermi di fronte a te in un ristorante e dirti che ho forza e determinazione a sufficienza per poter restare fin quando mi concederai di farlo.”
 
Si è fermato, deglutendo prima di sorridere, incerto.
 
“Forse non sono stato molto chiaro… Non importa.”
 
Ha alzato il bicchiere, e con lui lo sguardo sul mio viso.
 
 
“Alle gru, quindi. E a te, che le hai piegate per me esaudendo un desiderio.”
 
 
Sono rimasto immobile qualche secondo, tentando di metabolizzare quanto avevo appena sentito: John aveva un desiderio, ed era quello di farmi sapere che ci sarà.
 
Sempre.
 
Fino all’ultimo, se questa sarà la mia decisione.
 
Lento - tentando di nascondere il tremore che sentivo muoversi lungo il braccio - ho alzato il calice, sporgendomi verso di lui.
 
 
 
Il suono del cristallo che si incontrava a metà strada tra di noi è sembrato, alle mie orecchie, il sussurro di una promessa.
 
 
 
 
 
Una volta tornati a Baker Street, J...
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-111
 
 Sherlock ha portato il pc nella sua stanza.
 
Nel silenzio dell’appartamento, riesco a percepire il piccolo suono meccanico che il puntatore emette a cadenza regolare, per indicare il suo corretto funzionamento.
 
Pagherei, per sapere cosa stia scrivendo.
 
 
Parla di me?
 
Della mostra?
 
Della cena?
 
Parla del nostro viaggio di ritorno, seduti nell’ombra del sedile posteriore di un taxi, le dita a sfiorarsi?
 
 
Parla di noi, sul divano, il vino a dare coraggio alle labbra e forza alle mani?
 
Racconta di come mi abbia spinto via, quasi con violenza, dopo poco?
 
I suoi motivi per quel gesto, per la paura nei suoi occhi? Gli stessi che io ancora non conosco?
 
 
 
Staccarsi è stato… doloroso.
 
Far rallentare il battito, cercare di riprendere il controllo dei respiri, dei pensieri.
 
Leggere così tanto timore su un viso che non vorrei mai veder attraversato da nessuna emozione negativa.
 
 
 
Forse l’ho spaventato.
 
Forse non si aspettava tanta irruenza, da parte mia.
Posso essere davvero apparso minaccioso, mentre tenevo il suo volto tra le mie mani?
 
 
 
Non so cosa fare, adesso.
 
Dovrei chiedere scusa? Bussare alla sua porta?
Aspettare che sia lui a venire da me?
 
 
Perché ho l’impressione di sbagliare sempre qualcosa, con lui?
 
 
Sono uno stupido.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-111
 
Una volta tornati a Baker Street, John mi ha baciato.
 
Mi ero fatto aiutare a raggiungere il divano, e lui si era lasciato cadere al mio fianco con uno sbuffo sordo.
 
Siamo stati in silenzio per qualche attimo, aria che si riempiva dei nostri respiri e delle parole che non eravamo in grado di trovare.
 
Poi, semplicemente, si è sporto verso di me, posando le labbra contro le mie, leggero.
 
“Posso…?” Ha sussurrato, tiepido.
 
 
 
Per un attimo, è stato come perdersi.
 
Ho annuito, il cuore ad offuscare i pensieri.
 
 
 
Mi sono smarrito nei suoi respiri, andando in frantumi ad ogni carezza.
 
Respirare sulle sue labbra è stato come riuscire a farlo per la prima volta davvero.
 
 
Io… non mi sono mai sentito così, prima. Non ho mai avuto così tanta voglia di stringere qualcuno, fino a dimenticare ogni cosa, fino a trovare parti di me che non credevo di possedere.
 
 
 
 
È stato… magnifico.
E spaventoso.
 
 
 
 
Perché il mondo resta lo stesso, anche sotto una coltre candida. Conserva le sue storture, il suo buio.
 
Io, per quanto ami vedermi attraverso la lente del suo sguardo, resto lo stesso uomo che ero prima di incontrarlo.
 
 
Prima o poi, la natura corrosiva del mio essere, il mio calore insano, scioglierà la neve.
La farà sparire.
 
 
 
Posso convivere con l’idea dell’ineluttabile.
Con quella della perdita.
 
Ma non posso vedere… io non posso essere motivo di gioia, per lui, o le mie scelte creeranno un dolore del quale non voglio essere causa.
 
E non posso permettere che porti così tanta luce nella mia vita, o l’idea del buio diverrà insopportabile.
 
 
Ho sbagliato. Non avrei dovuto organizzare questa serata.
 
 
 
Ma come avrei potuto sapere… immaginare, che c’era così tanta meraviglia, ancora, oltre la barriera delle sue iridi?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-111
 
“Sherlock…?”
 
“Sherlock, so che sei sveglio… posso entrare?”
 
“Se ho fatto qualcosa, qualsiasi cosa di sbagliato, ho bisogno che tu me lo dica.”
“Per favore.”
 
“Va bene… se vuoi parlare, o urlarmi contro, o qualsiasi altra cosa, mi trovi in salotto.”
 
 
 
“È stato un appuntamento bellissimo. Mi dispiace averlo rovinato. Perdonami.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-111
 
[04:02] Non lo hai rovinato. SH
 
[04:04] Il fatto che tu mi stia scrivendo, invece di condividere una stanza con me, mi fa pensare il contrario. JW
[04:05] Non hai rovinato niente, John. Solo… forse è stato un errore. SH
 
[04:07] Adesso sono certo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Posso cercare di rimediare? Per favore. JW
[04:08] No. Non puoi. SH
 
[04:10] Dio, ti ho davvero spaventato fino a questo punto? Sono davvero un idiota… JW
 
[04:12] John… SH
 
[04:14] Mi dispiace, Sherlock. Te lo giuro, non volevo far nulla che potesse farti male, in nessun modo. JW
[04:15] È solo che avevo promesso di essere semplicemente me stesso, e… volevo tenerti un po’ più vicino. Solo questo. JW
 
[04:17] Non puoi rimediare. SH
[04:18] Sherlock… JW
 
 
[04:21] A meno che tu non possa cancellare dalla mia mente quanto bello sia sentire il tuo peso sul mio petto. SH
[04:22] O il tuo respiro sul viso. SH
 
[04:24] Non posso essere così felice, John, o non riuscirò a lasciarti andare. SH
[04:25] Perché dovresti lasciarmi andare…? JW
 
[04:27] Perché sono una nave che sta affondando, e se ci permetto di essere così tanto aggrappati l’uno all’altro finirai con l’annegare anche tu. SH
 
[04:29] Per quale motivo dai per scontato che non abbia abbastanza fiato per tenere entrambi a galla? JW
 
[04:31] Sherlock. JW
 
[04:33] Ho smesso di desiderare di rimanere a galla mesi fa. SH
[04:34] Allora nuota con me e, quando sarai stanco, smetti di farlo. Non ti costringerò a continuare. JW
 
[04:36] Ma tu non costringermi a rimanere solo in questo mare prima del tempo. JW
 
[04:38] Farà male, John. Non posso sopportarlo. SH
 
[04:40] La vita fa male, Sherlock. Costantemente. Non dipende da te il mio dolore. JW
 
 
 
[04:43] Però dipende da te la mia felicità. JW
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-111
 
“John…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-110
 
La neve ha iniziato a ricoprire Londra ieri mattina, proprio mentre i respiri di John cadevano come fiocchi leggeri sul mio corpo.
 
Del freddo ci siamo resi conto solo quanto i nostri brividi hanno trovato riparo tra le pieghe sgualcite dei vestiti, permettendoci di lanciare sguardi assonnati oltre i vetri chiari delle finestre.
 
“Meglio che vada a fare un po’ di spesa, o potrebbe diventare un problema.” Ha commentato dopo qualche minuto di silenzio voltandosi verso di me, ancora sul letto, un sorriso dolce negli occhi.
 
I capelli in disordine ed il viso segnato dalla stanchezza ma disteso, era di una bellezza scomposta che non avevo mai visto prima, in nessuno.
 
Per un attimo, mi è parso di riuscire a respirare solo attraverso lo sguardo.
 
Solo attraverso di lui.
 
Ho annuito, piano, lasciando che poggiasse per l’ultima volta le labbra sulle mie.
Seguendo con gli occhi i suoi passi incerti, ho aspettato che uscisse dalla stanza, prima di dedicarmi ad osservare con cura e timore le prove disseminate attorno a me di cosa fosse davvero successo.
 
 
 
Di come, nella maniera più spontanea, naturale, avessimo fatto l’amore, nonostante tutto.
 
Nonostante i limiti. Nonostante le paure.
 
Nonostante me.
 
 
Erano tutte lì, adagiate sopra i cuscini. Nascoste tra le lenzuola agitate, nel vuoto di una sedia dimenticata in un angolo, inutile, superflua.
 
 
 
Ho osservato la mano sinistra a lungo, muovendola per quanto possibile davanti al viso.
 
Ancora adesso, se mi concentro, riesco a sentire la presa di John farsi forte intorno alle dita.
Il suo calore riempirne i palmo.
 
 
 
Oggi, prima che uscisse per andare all’università, l’ho ammesso, con lo stesso timore di chi svela una verità nascosta a lungo dietro ad una bugia: “Sai… Credo di aver recuperato un po’ di sensibilità, nella parte sinistra.”
 
Ha spalancato gli occhi, sorpreso.
 
“Stupendo!” Ha gioito, avvicinandosi per sfiorarmi il braccio.
 
“La cosa ti preoccupa…?” Ha domandato poi, dopo aver alzato gli occhi su di me ed aver notato la mia espressione seria.
 
 
“No.” Ho mentito.
 
 
 
La verità è che ogni cosa cambia aspetto, sotto la carezza della neve.
 
Che, se recuperassi la piena funzionalità del lato sinistro…
 
Se fossi certo che John rimarrebbe comunque, anche se sapesse che non esiste più una data già scritta per il nostro addio…
 
 
Io credo che potrei vivere in questo modo.
 
Che potrei rinunciare all’idea di camminare, se lui decidesse di essere - con la sua presenza - le mie gambe.
 
 
E questo non mi preoccupa…
 
 
Mi terrorizza.
 
Più dell’idea di porre fine alla mia vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-109
 
Ho scoperto che l’amore ha gli occhi azzurri, la voce scura e la pelle chiara.
 
Ho scoperto che si nasconde agli angoli dell’esistenza, rimanendo sul bordo tra gioia e dolore.
 
 
Amo Sherlock tanto quanto odi l’idea di lasciarlo andare.
 
 
Ma ogni volta che sento questo pensiero divenire intollerabile, ogni volta che mi sporgo sull’abisso nero della paura, ogni volta che immagino come sarà ritrovare le mie mani vuote dopo averle avute piene, sature delle sue, respiro con più forza il suo profumo, spingendolo fin dentro alla più piccola parte di me.
 
Lo nascondo al mondo tra i miei ricordi, cercando di preservarlo.
 
E sorrido.
 
 
 
In modo che la paura non si accorga di me, che non scorga il mio viso.
 
 
In modo che non possa arrivare a lui, attraverso i miei occhi.
 
 


Angolo dell’autrice:
 
Siamo tornati sabato da quel di Marsiglia, un viaggio che ha dato i suoi frutti ma che ha regalato anche tanta stanchezza (come ho accennato nella OS pubblicata il 14).
 
Al momento ho vari problemi fisici (che gioia!) che hanno comportato la stesura di questo capitolo in una sorta di “nebbia mentale” che spero non traspaia troppo e non infici la lettura.
 
Nel caso vi chiedo scusa, cercherò di correggere quanto prima. ^_^’
 
Come ormai d’abitudine, vi lascio con una frase (anzi due!) e, subito sotto, con un’immagine che credo descriva "l'anima" di questo capitolo. :)
 
A presto (spero XD),
B.
 
 
 
“Fare all'amore è nuotare insieme assumendo l'altro come il mare che ci porta.”
(Lou von Salomé)

 
 
“Che tu voglia o no, quando fai l'amore con qualcuno il tuo corpo fa una promessa.”
(Vanilla Sky, 2001, regia di Cameron Crowe)
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** Da 108 a 104 ***


 
 
 
 
 
 
-108
 
Ho scoperto che l’immobilità non è poi tanto orribile, se è la mano di chi ti dorme affianco a trattenerti.  Una zavorra viva, fremente, sul tuo corpo.
 
Pensare di non volermi muovere per non correre il rischio di svegliarlo non cambia la realtà, chiaramente. 
 
È una scusa infantile, la fuga temporanea da una verità molto più misera, molto più organica.
 
Ne sono perfettamente consapevole.
 
Ma è anche ciò che trasforma una staticità innaturale, subita, in una normale, voluta.
 
 
 
Fino a due giorni fa non avevo idea di cosa significasse condividere il letto con qualcuno. Sentire la persona accanto a te muoversi, respirare… esserci.
 
Passo le notti ad analizzare ogni dettaglio, ad incamerare informazioni, ad applicare il metodo scientifico ad una realtà empirica. Osservo, registro. Preservo.
 
Come se il filtro dell’intelletto potesse trasformare il mistero in chiarezza.
 
 
 
John dorme prevalentemente sul fianco destro (nonostante si addormenti supino), la mano sinistra appoggiata sul mio petto.
 
Intervalla momenti di sonno profondo ad altri nei quali appare più agitato.
 
Muove le gambe, serra i pugni, il viso si contrae in spasmi dolorosi.
 
La guerra è ancora lì, è palese, sotto le palpebre abbassate e le ciglia chiare.
Aspetta che il sonno lo disarmi, prima di tornare ad aggredirlo con forza, vile.
 
 
Questa notte, dopo un momento particolarmente agitato, si è spinto più vicino a me, chiudendo tra le dita la casacca del mio pigiama.
 
“John…?” Ho provato a chiamarlo, portando la mano destra sulla sua e facendo una leggera pressione.
 
Ha mugugnato qualcosa, allentando la presa senza svegliarsi.
 
“Va tutto bene.”
 
Ho osservato il suo viso, in cerca di qualche segno di distensione.
 
“Ti copro io.”
 
Mentre i suoi movimenti si facevano più radi e lenti, fino a fermarsi, mi sono chiesto se – in quel momento - ci stesse sognando vicini, tra la sabbia fredda di una notte afghana.
 
 
Non ho mai desiderato essere un soldato.
 
Come ogni cosa che imponga una – a tratti illogica - disciplina ferrea ed una muta subordinazione, non ha mai destato la mia attenzione o riscosso la mia stima.
 
Ma succede, alle volte, che chiuda gli occhi e provi a immaginarmi al suo fianco.
 
Che tenti di capire come sarebbe stato esserci, trovarmi davvero così vicino da impedire che un proiettile lo colpisse. Che il suo sangue si mischiasse alla polvere.
 
 
Spesso - in passato - mi sono dovuto difendere, anche violentemente.
 
È sempre stato un meccanismo naturale, l’autoconservazione che allarga le pupille e rende rapidi movimenti, gambe e pugni.
 
Ogni colpo però, ogni cazzotto, è sempre stato unicamente per difendere me stesso.
 
 
Con la mano di John sul petto e il suo respiro caldo tra i capelli, invece, ho realizzato che potrei ferire qualcuno, per lui. Senza esitazione. Senza rimorsi.
 
In un certo modo, l’ho già fatto.
 
 
Ho capito che potrei uccidere, se da questo dipendesse la sua salvezza, e non ci sarebbe alcun timore a frenare le mie mani.
 
 
Non credevo che l’istinto di sopravvivenza potesse proiettarsi su qualcun altro.
 
Probabilmente, non è possibile.
 
Evidentemente sono altri i meccanismi che muovono i miei pensieri quando vaglio queste ipotesi durante la notte, incapace di staccare gli occhi dal suo viso così vicino al mio.
 
 
Mi sono anche domandato cosa sarebbe successo se, in bilico su quella balaustra, fossimo stati in due.
Se fosse stato lui a materializzarsi nel mio incubo, e solo uno di noi avesse avuto la certezza di salvarsi.
 
 
Questa mattina, mentre schiudeva gli occhi ed il blu delle sue iridi tornava a dare ossigeno ai miei pensieri, ho avuto la risposta.
 
 
 
Cadrei di nuovo.
 
 
 
Non importa quanta paura abbia provato, mentre sotto di me il vuoto diveniva denso e reale. 
 
 
 
Il mio sguardo che si chiude sul mondo varrà sempre meno del suo che si apre su una mattina qualsiasi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-107
 
[11:11] Ti andrebbe una birra, domani sera? Così mi racconti degli ultimi giorni e di queste “grandi novità” alle quali mi accennavi! GL
 
 
[11:14] Sarebbe meraviglioso, Greg. Oltretutto mi serve proprio una scusa per uscire. JW
[11:15] Una scusa? GL
 
[11:17] Devo passare in un posto, ed è aperto solo di sera. Non voglio che Sherlock lo sappia, però. JW
[11:18] Non per il momento, almeno. JW
 
[11:20] Se mi accompagni a sbrigare questa piccola faccenda poi andiamo al nostro vecchio caro pub a Britton Street. JW
 
[11:22] Devo preoccuparmi? GL
[11:23] No, tu no. Devo preoccuparmi io, dovessi sbagliare qualcosa! JW
 
[11:25] Mhm. Va bene… Ti passo a prendere alle 20? GL
[11:26] Perfetto. JW
 
 
 
[11:37] Ah, Greg! JW
[11:38] Non è che avresti qualche caso aperto? Sherlock si sta annoiando molto, e vorrei… non lo so, che provasse di nuovo a muoversi “sul campo”. JW
 
[11:40] Non ho molto, al momento. Ma se credi che sia pronto, posso contattarvi non appena ce ne sarà occasione. GL
[11:41] Sarebbe stupendo, grazie. JW
 
[11:43] D’accordo. Non ti nascondo che in questi mesi è stata molto dura, senza di lui. GL
[11:44] Non dispiacerebbe neanche a me tornare a sentire la sua voce darci degli incompetenti e subito dopo anche il nome del colpevole. GL
 
[11:46] È davvero molto bravo, vero? JW
 
[11:48] Già. Il migliore, che alla mia squadra piaccia ammetterlo o meno. GL
[11:49] Non avevo dubbi. JW
 
[11:51] Mi dispiace solo che vi siate dovuti conoscere in queste circostanze. GL
 
 
[11:55] Le circostanze ci ha portato dove siamo. Per quanto terribili siano, non cambierei niente del nostro vissuto insieme. JW
 
 
[11:58] Nemmeno un secondo. JW
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-106
 
Delle volte resto fermo, perso con lo sguardo tra i ricci scuri che si agitano sopra gli occhi attenti che animano il suo viso e danno forma alle sue espressioni.
 
Ne seguo le pieghe, i capricci, le fughe ribelli agli angoli delle orecchie, e penso che non esistano parole adatte a raccontare cosa mi squarci il petto le rare volte nelle quali lascia, docile, che le mie dita li attraversino.
 
 
Non so se si renda conto di quanto sia bello, chino sul suo microscopio come un bambino su uno stagno carico di vita.
 
Continuo a riportare gli occhi sullo schermo del pc che ho sulle gambe, mi sforzo di leggere le mail, di rispondere agli studenti, di tracciare in poche, inadeguate righe la descrizione dell’uomo che osservo di nascosto - quasi con timore - da una poltrona che fingo di non ricordare essere “la sua”… ma è inutile.
 
Mi ritrovo al suo viso non appena allento un po’ la presa sulla mia volontà, il canto della sua presenza come un richiamo ineluttabile.
 
 
 
Mi siedo qui, sempre, quando lui è in cucina.
 
Da questa posizione il Titanic scompare, e resta solo il suo profilo curvo e attento, la sua mascella che si contrae ritmicamente.
Resta l’uomo che era anche prima di me e che immagino sarebbe stato comunque - anche se non ci fossimo mai incontrati - troppo fiero, troppo testardo per arrendersi davvero senza tentare.
 
Ogni tanto si ferma, e si volta verso di me.
 
D’istinto, riporto sempre l’attenzione al computer, convinto che il mio ammirarlo da lontano sia rumoroso, persino fastidioso, ai suoi sensi.
 
 
“Stasera esco con Greg. Andiamo a bere una birra. Ti andrebbe di venire?” Ho chiesto qualche minuto fa, già conoscendo la risposta.
 
“No, direi di no. I pub non sono proprio il mio ambiente.” Ha risposto, senza distogliere l’attenzione dal vetrino.
 
“Non dovrei far troppo tardi, ad ogni modo.” Ho continuato, sentendomi improvvisamente ridicolo, un ragazzino che cerca di giustificare la sua assenza in casa dietro la scusa della scarsa durata dell’incontro.
 
Lui non ha aggiunto altro, limitandosi ad un leggero movimento del capo.
 
“Greg ha detto che ci chiamerà, dovessero esserci nuovi casi.”
 
Per un attimo il tremore della sua mano sinistra è stato evidente, nonostante la tenesse appoggiata al tavolo.
 
“Ancora fogli e fascicoli polverosi?”
 
“No, indagini sul campo.” Ho specificato.
 
Lui si è girato nuovamente verso di me, la bocca socchiusa.
 
“Niente carte. Scene del crimine.” Ho rincarato, mentre una felicità trattenuta compariva oltre il nero delle pupille.
 
“Sperando che siano a livello strada e senza barriere architettoniche.” Ha soffiato, dopo qualche secondo, di nuovo teso.
 
“Esistono gli ascensori.” Ho sorriso io.
 
“E se avessi bisogno di chinarmi sul corpo? Di analizzare una traccia?” Più parlava, più un timore che non avevo mai visto adombrare le sue parole si faceva largo nella voce.
 
“Mi dirai cosa guardare, cosa toccare, e lo farò io al posto tuo. Sempre che tu non lo faccia, semplicemente, da solo.” Ho inclinato la testa, cercando di apparire convincente.
 
“E se fosse a terra?” Ha continuato.

“E se fosse su un tavolo? Cambierebbe qualcosa? Cambierebbe la tua capacità di analisi?”
 
È rimasto in silenzio qualche secondo, gli occhi fissi davanti a sé.
 
“Verrai con me?”
 
“Certo. Certo che verrò con te. Non perderei l’occasione di vederti all’opera per nulla al mondo.”
 
Ha abbassato lo sguardo, prima di annuire.
 
“Bene. Le scene del crimine sono divertenti.”
 
Detto questo, è tornato a dedicarsi al microscopio.
 
 
 
 
No, non credo che sia consapevole della luce che emana, costantemente, anche dietro un velo di timore, anche davanti alle sue fragilità.
 
 
Di quanto buio prenderà il suo posto quando, alzando gli occhi, troverò solo un tavolo vuoto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-106
 
[20:22] Mayflower. SH
 
[20:24] Scusa…? GL
[20:25] Porta John al Mayflower. Rotherhithe Street. Lato sinistro del Tamigi. SH
 
[20:27] Potrei chiedere perché…? GL
[20:28] Perché detesta il tuo stupido pub su Britton Street. E ama il May. SH
 
[20:30] Ma non è vero! GL
[20:31] Sì che lo è. Non te lo ha mai detto perché sa che è uno dei tuoi posti preferiti. Ma lì servono solo birre alla spina, John ama quelle artigianali. SH
[20:32] Le migliori birre artigianali e la scelta più ampia ce l’ha il Mayflower. SH
 
[20:34] Ma… sono ANNI che andiamo a Britton! GL
[20:35] Quindi sono ANNI che John non si gode una birra come si deve. SH
 
[20:37] Te l’ha detto lui? GL
[20:38] No. Me lo dice il fatto che per uscire di casa abbia indossato il suo peggior cappotto. SH
 
[20:40] Ok. Non ha alcun senso. GL
 
[20:42] Non vuole che l’odore di fritto del pub si attacchi alla giacca buona. SH
[20:43] Ha scelto il soprabito più leggero, avrà freddo, ma preferisce il rischio di ammalarsi all’idea di andare in classe domani con addosso il “profumo” di fish and chips scadente che servono in quel posto. SH
[20:44] Prima che tu faccia domande stupide, sappi che ho controllato il menù personalmente via internet. So che servono fish and chips e, dalle foto, è chiaro che sia scadente. SH
 
[20:46] Portalo al Mayflower. SH
 
 
[20:48] Va bene… andremo al Mayflower! GR
[20:49] Lieto di averti convinto. SH
[20:50] In realtà a domanda diretta ha ammesso di odiare il pub su Britton Street. Ero SICURO che gli piacesse! GL
 
[20:52] Tu guardi ma non osservi. SH
 
[20:54] Ti ricordo che dipende da me il tuo rientro operativo su i casi. GL
 
 
[20:57] Ti ricordo che quasi sempre dipende da me, se su quei casi puoi scrivere “risolto”. SH
 
 
[20:59] Buon proseguimento di serata. SH
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-105
 
Questa mattina, al mio risveglio, John era già uscito.
 
È incredibile con quanta velocità la mente si abitui ai cambiamenti, si plasmi su nuove abitudini, duttile e malleabile come creta.
 
Dopo una vita intera a dormire solo - il più delle volte per poche ore ed in modo discontinuo - il vuoto della sua assenza sarebbe dovuto apparire ai miei sensi come normale.
 
Invece, sono stato sommerso da un improvviso timore e, per qualche attimo, mi sono sentito perso.
 
 
“John?” Ho provato a chiamare, tentando di portarmi il più velocemente possibile in posizione seduta.
 
“JOHN!”
 
 
Dopo qualche secondo, i passi leggere e cadenzati della signora Hudson hanno iniziato a farsi spazio nell’appartamento, sempre più vicini.
 
Quando - dopo aver bussato ed atteso il mio consenso ad entrare - si è affacciata alla porta, il suo viso è apparso perplesso.
 
“Dov’è John?” Ho chiesto, scostando il lenzuolo con la mano.
 
“A lavoro, caro! Sono quasi le dieci e mezza!” È stata la risposta, mentre avvicinava la sedia al bordo del letto.
 
Mi sono bloccato, le sopracciglia aggrottate.
 
“Non credevo di aver dormito tanto…” Ho esitato, voltandomi un’ultima volta in direzione della sua metà del letto.
 
“Evidentemente ne avevi bisogno.” Ha sorriso lei, tenendo fermo il Titanic mentre mi accomodavo sul sedile.
 
Immagino sia vero.
 
 
 
John si è lamentato per quasi tutta la notte, il viso contro il cuscino ed una mano attorno al mio polso.
 
Non è servito a niente cercare di parlargli, né vegliarlo per monitorare il suo sonno.
 
 
 
Più tentavo di placare i suoi spasmi, più la sua voce si arrochiva sulla mia, chiamandomi con una disperazione che non avevo mai sentito durante i suoi incubi sulla guerra.
 
 
Mi chiedo cosa possa aver sognato di tanto terribile da superare l’orrore ed il dolore dell’immagine di un soldato, un ragazzo, che si accascia esanime tra le tue braccia.
 
 
Possibile…
 
No. Non lo è.
 
Non voglio, non posso pensare di essere per lui peggio della guerra.
 
 
 
 
Non voglio essere un nuovo campo di battaglia dove far fiorire il suo dolore.
 
No, se dev’essere un’agonia tanto forte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-105
 
“Pronto? Sherlock? Che succede? Va tutto bene?”
 
“Non mi hai svegliato, andando via, questa mattina.”
 
“No, io… dormivi così bene che ho pensato di non disturbarti.”
 
Devi svegliarmi, la mattina.”
 
“Devo? Ma scus—“
 
“Non voglio svegliarmi e non trovarti, hai capito? Non voglio chiamarti e non sentire risposta!”
 
“Sherlock, non credevo d—“
 
“Hai capito?!”
 
“Sì, sì Sherlock, ho capito. Prometto di svegliarti, la prossima volta.”
 
“E se per te rimanere con me vuol dire essere di nuovo in guerra, i—“
 
“In guerra? Ma che stai dicendo? Che c’entra la guerra, adesso?”
 
“Cos’hai sognato, stanotte?”
“John!”
 
“Non me lo ricordo, Sherlock. Non tutti i sogni si ricordano, al mattino.”
 
“Stai mentendo.”
 
“Senti, gli studenti stanno per arrivare, e…”
 
“Se stare con me ti fa male, John, voglio che tu smetta. Adesso. Non è ancora troppo tardi.”
 
“Quello che dici non ha senso.”
 
“Cos’hai sognato?”
 
“Smettila. Ti ho già detto che non lo ricordo.”
 
“Ed io ho già detto che è una bugia.”
“JOHN.”
 
“Dio! Va bene! Ho sognato che eravamo in quel maledetto cantiere, ed io non riuscivo a muovermi mentre precipitavi verso di me! Sei contento adesso?!”
“Quando mi sono svegliato stavi dormendo. Profondamente. Vedevo il tuo petto muoversi, lento, vivo, e… semplicemente ho fatto l’evidente errore madornale di lasciarti riposare. Mi dispiace. Infinitamente. La prossima volta ti sveglierò anche fosse l’alba.”
 
“Sognavi la Caduta…? Io… pensavo stessi sognando…”
 
“Cosa? La tua morte? Sherlock… tu hai fatto una scelta, ed io ho detto di averla accettata. Non ho paura del dolore. Non del mio, almeno. Però… sono terrorizzato dal tuo.”
 
“Non farà male, John. Lo sai. Mi sederanno, e…”
 
“Già… ma lo ha fatto. Ha fatto un male orribile, ed io non ero lì.”
 
“Non.. non ha senso. Non ci conoscevamo neanche.”
 
“Lo so. Ma non posso farci niente. Preferirei saperti ignaro della mia esistenza ma al sicuro da quel momento, che stringerti ogni sera ricordando di essere arrivato tardi.”
“Ora…”
“Ora devo proprio andare. Scusami.”
 
 
 
“Ah, Sherlock… Hai già trovato il pacchetto in salotto?”
 
“Pacchetto? No. Non sono ancora andato di là.”
 
“Ok. Fammi sapere che ne pensi, quando puoi.”
 
 
 
“John…?”
 
“Sherlock.”
 
 
 
“Non sei arrivato tardi.”
 
 
 
“Io…”
 
“I tuoi studenti sono arrivati sul serio, adesso. Sento le loro voci. Va’ a riempire le loro teste di nozioni.”
 
“Sherloc—“
 
 “Buona lezione, John.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-105
 
“Cyrano de Bergerac, l’Opera lirica.”
 
L’unica scritta – nera, lucida – presente su i due piccoli biglietti dorati adagiati con cura sul fondo del pacchetto azzurro lasciato da John al centro del tavolo del salotto.
 
Royal Opera House, palco centrale del primo ordine, a giudicare dalla numerazione.
 
“Lo spettacolo è questa sera, ore 21. Il libretto è quello della stesura originale del 1936 di Henri Caïn, in francese. Spero possa andar bene. J.”
 
Ha scritto a penna, con grafia curata, su di un cartoncino avorio nascosto sotto i due talloncini.
 
Dev’essere impazzito.
 
Totalmente impazzito.

 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
-105
 
 
[12:37] Quanto hai speso, esattamente, per quei biglietti? SH
 
 
 
 
[13:01] Devo dedurre che tu abbia trovato il pacchetto? JW
 
[13:03] È la prima, John. Li avrai pagati una fortuna! SH
 
[13:05] Cercavo solo un modo per poter indossare anche io un tight. JW
[13:06] John. SH
 
[13:08] Sherlock. So che ami Cyrano, ho visto con quanta cura è riposto sulla libreria il libretto della commedia teatrale. JW
[13:09] È forse l’unica cosa incartata ed in ordine nell’intero appartamento. Avanti, è solo una serata a teatro! JW
 
[13:11] E mi farebbe davvero piacere che tu fossi il mio accompagnatore. JW
 
 
[13:16] Allora? Posso passare a ritirare il mio abito, prima di tornare a Baker Street? JW
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-105
 
“Scusa il ritardo, ci ho messo più del previsto a trovare i gemell—“
 
“La tua espressione, in questo momento, ricorda vagamente quella che avevi la prima volta che mi hai visto.”
 
“I capelli, e…”
 
“Ho chiesto la gentilezza alla signora Hudson di far venire qui il barbiere con il quale tradisce il panettiere da circa sei mesi, da quanto ho potuto dedurre.”
 
“Il panettiere…? No, voglio dire: stai benissimo, è…”
 
“È solo un po’ di gel. Sparirà alla prima doccia.”
 
“Beh, qualunque cosa sia e qualunque sia la sua durata sei… bellissimo.”
 
 
“Il tuo gilet ha l’abbottonatura bassa. Ed è grigio.”
 
“Cosa? Ah, sì. Mi dichiaro colpevole.”
 
“Ed è più scuro dei pantaloni.”
 
“Di nuovo, sì.”
 
“È una scelta bizzarra.”
 
“Ho sempre detestato il color avorio.”
 
“Una scelta simile renderebbe impresentabile la maggior parte delle persone.”
 
“Perfetto. Ora mi sento un idiota.”
 
“Ma, stranamente, a te dona molto.”
 
“Dovrebbe essere un complimento…?”
 
“Il fatto di rendere adeguato ad un gala un abito che da solo ridicolizzerebbe chiunque?”
 
“È un complimento.”
 
“L’unico del quale temo di essere capace.”
 
“Ne farò tesoro, allora. Vogliamo andare?”
“Ah, prima che me ne dimentichi… ecco… qua. Mancava proprio un fiore, all’occhiello.”
 
“Che fiore è?”
 
“Una camelia.1) Era l’unica cosa rimasta al fioraio sotto il mio appartamento. Prendo i cappotti.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-105
 
“Cosa c’è scritto, qui? Riesco a capire il senso, ma non a cogliere tutte le sfumature.”
 
Per la tua felicità darei in cambio la mia, quand'anche tu non lo sapessi mai; così, soltanto per sentirti ridere qualche volta, da lontano, di quella gioia data dal mio sacrificio.”
“Va tutto bene?”
 
“Sì, Sherlock… Va tutto bene.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-104
 
I fiocchi non chiedono niente in cambio della loro bellezza, non vogliono che si ricambi il loro amore.
 
Nascono, vivono e si sciolgono nel silenzio, un mistero stretto tra i cristalli trasparenti, visibile solo se ci si avvicina abbastanza.
Lo so.
 
Perché ne ho stretto uno tra le mani, questa notte.
 
 
 
 
 “Hai mai amato qualcuno senza che lo sapesse?” Ho chiesto a bruciapelo, una volta a casa, la voce roca e le mani gelate per il freddo, qualche fiocco di neve ancora in bilico sulle gambe.
 
John si è fermato un attimo, il cappotto tra le dita.
 
“Intendi dire come Cyrano?”
 
Ha appoggiato il soprabito sul divano, pensieroso, negli occhi la stessa ombra che avevo visto accompagnare il suo sguardo durante tutto lo svolgimento dell’opera, legandosi ad ogni parola, mentre - le mani appoggiate al velluto del parapetto - lasciava che il suo cuore si adagiasse tra le assi logore del palco.
 
“Può darsi.” Ho sussurrato, dopo qualche secondo.
 
“E perché hai deciso di restare in silenzio?” Ho continuato, incapace di riuscire a scorgere la verità - il segreto dietro al sipario del suo viso - alla quale volevo giungere ad ogni costo.
 
 
“Perché non sempre dire a qualcuno che lo si ama è la cosa giusta.”
 
 
Si è slacciato il gilet, lasciandosi cadere sul divano.
 
“Tu? Hai mai amato qualcuno da lontano?” Ha chiesto poi, accennando un sorriso.
 
“No, direi di no.” Mi sono affrettato a rispondere. “In realtà, non credo di aver mai amato nessuno.” Ho aggiunto, passandomi una mano tra i capelli, cercando di disfare il grumo di ordine innaturale che sentivo premere sulla testa.
 
John è rimasto in silenzio, annuendo appena. Si è portato il labbro inferiore tra i denti, stringendolo con aria assorta.
 
“Non ho neanche mai chiesto a qualcuno di uscire, in tutta sincerità. Penso tu sia stato il primo vero appuntamento della mia vita.”
 
Ha socchiuso la bocca, sorpreso, alzando uno sguardo incredulo su di me.
 
“E… Victor?”
 
“Victor non aveva bisogno di appuntamenti galanti. Preferiva l’ombra.”
 
Si è fermato di nuovo a riflettere.
 
“Io avrei bisogno di appuntamenti, invece?” Ha chiesto, dopo qualche secondo.
 
“È diverso.” Ho spostato il Titanic in modo da poter andare in cucina.
 
“Perché sarebbe diverso?” Ha insistito, con una vaga nota di fastidio nella voce.
 
“Perché io sono diverso.”
 
Si è alzato, seguendomi nell’altra stanza, i suoi passi a fare da accompagnamento al rumore soffuso delle ruote sul pavimento.
 
“Spiegami.” Con passo veloce mi ha superato, aggirando il tavolo e fermandosi di fianco al frigorifero.
 
“Non c’è niente da spiegare. Credo sia evidente che non sono più l’uomo che ero ai tempi della mia frequentazione con Victor.” Ho esternato, accompagnando le parole con un gesto plateale.
 
John ha deglutito un paio di volte prima di tornare indietro, verso il salotto, la testa bassa e i le mani strette lungo i fianchi.
 
 
 
“Tu credi di essere incompleto, difettoso, ma non è così.” Dopo qualche minuto la sua voce ha riempito il silenzio, giungendo in cucina stanca, ovattata. “Se solo volessi, potresti avere ancora ogni cosa. Anche lui.”
 
“Lui?” Ho chiesto, sorpreso, affacciandomi sul salotto e trovandolo in piedi, il viso verso una delle finestre.
 
“Non devi necessariamente pensare che non puoi avere qualcosa solo perché sei diverso dall’uomo che eri.” Ha continuato, senza voltarsi. “E non devi necessariamente cambiare le tue abitudini per adattarle alle mie.”
 
“John…” Ho iniziato, le ruote della sedia quasi immobili sotto il peso della stanchezza. “Credo che tu non abbia capito. Non rimpiango l’ombra. E se a volte la desidero, è perché nasconda il mio corpo quando è solo, non quello che diventa vicino al tuo.”
Ho buttato fuori velocemente, cercando di riprendere fiato, annaspando in cerca di aria.
 
Poi ho chiuso gli occhi, pronto a cadere di nuovo.
 
“Non ho mai chiesto a qualcuno di uscire perché non mi è mai interessato avere qualcuno accanto. Victor aveva timore che ci vedessero insieme ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Questa sedia mi ha portato via ogni cosa e la odio, è vero, così come odio il mio corpo.”
 
Mi sono fermato, la voce spezzata, irriconoscibile.
 
“Gli unici momenti nei quali trovo sopportabile trovarmi relegato qui sono quelli che passo in tua compagnia.” Ho esalato, esausto, riaprendo ed abbassando gli occhi mentre si voltava verso di me.
 
 “Gli unici momenti nei quali non odio questo corpo sono quelli nei quali… tu lo accarezzi. È diverso… - ho cercato di continuare, senza riuscire ad ammettere che un sussurro  - perché se lui non aveva bisogno di farsi vedere in pubblico con me, io ho bisogno di farlo con te.”
 
“Io non capisco.” Ha ammesso, avvicinandosi, incerto.
 
“Non è necessario.” Ho annaspato.
 
“Sì, invece.” Si è seduto a terra, con uno sbuffo, in modo da poter scorgere il mio viso dal basso. “Voglio capire, perché ho la costante paura di non essere abbastanza.”
 
Ha aspettato per qualche secondo che rispondessi, inutilmente.
Non riuscivo a trovare le parole adatte ad allontanare da lui l’ombra che nuovamente si allungava sul suo viso, nei suoi occhi.
 
“Va bene. Allora ti racconterò del mio amore non corrisposto.” Ha cominciato, arrotolando le maniche della camicia.
 
“Ero al liceo, ultimo anno. Ero perdutamente innamorato di una mia compagna del corso di inglese.”
 
Ho aggrottato la fronte, fissandolo con la coda dell’occhio.
 
“Non ci eravamo praticamente mai parlati ma io, con la risolutezza dei miei diciassette anni, ero convinto che fosse la mia anima gemella.” Ha sorriso al ricordo, ed io ho sentito una fitta attraversarmi il cuore, rovente.
 
“Avevo previsto ogni cosa: le avrei chiesto di venire al ballo di fine anno con me e poi, durante un lento, mi sarei dichiarato. Ma, alla fine, non feci nessuna delle due cose. Rimasi semplicemente fermo a guardarla ballare con il suo cavaliere per tutta la sera.”
 
“Perché?” Ho chiesto, confuso.
 
“Perché mi ero accorto che anche lei aveva gli occhi costantemente volti verso qualcuno. E quel qualcuno non ero io. Io non avevo speranze, ma lei sì. Ho deciso che fosse meglio che il ballo aiutasse loro a dirsi che si amavano.”
 
 
“Pensi… che preferirei ballare con qualcun altro?” Ho azzardato, dopo qualche attimo di silenzio.
 
“Penso che potresti ballare con chiunque, se solo volessi. E l’idea che tu stia ad un angolo della pista con me per paura e non per scelta mi logora.”
 
“Non sei un ripiego, John. Non sei niente di tutto questo.” Ho cercato di dire, la gola in fiamme.
 
Ha socchiuso gli occhi, di nuovo limpidi.
 
“Balleresti con me…?” Ha chiesto, dopo qualche secondo, incerto.
 
“Cosa?” Ho balbettato.

“Balleresti con me?” Ha ripetuto, più sicuro.
 
“Non posso, e lo sai.” Ho risposto di getto, una paura irrazionale e far tremare i nervi e le vene.
 
“Tu puoi fare ogni cosa, Sherlock.” Si è piegato in avanti, dandosi una spinta veloce per tornare in piedi. “Sei l’uomo più testardo e più coraggioso che abbia mai conosciuto. E credo in te più che in chiunque altro.”
 
Mi ha poggiato una mano su una spalla, stringendo appena, un sorriso dolce sul viso.
 
“Vado a fare la doccia, inizio ad essere un po’ stanco.”
 
Ho afferrato il suo polso con forza, con l’urgenza che non mettesse fine a quel contatto.
 
“Non so ballare, John. Non l’ho mai fatto.” Ho sussurrato, chiudendo gli occhi, le parole ormai parafrasi costante di quanto sentivo muoversi nel petto.
 
Lui è rimasto fermo per qualche attimo, voltato verso di me, le labbra socchiuse e gli occhi lucidi.
 
“Non importa saperlo fare. Non esiste un modo giusto o sbagliato. Basta riuscire a sentire la musica.”
 
Ancora imprigionato tra le mie dita è tornato indietro, liberandosi con dolcezza. Poi, aiutandosi ad alzare la stoffa rigida dei pantaloni si è inginocchiato a terra, in modo da portare il suo viso alla stessa altezza del mio.
 
Con gli occhi chiusi, ho lasciato che facesse incontrare le nostre fronti, sentendo le sue mani appoggiarsi alle mie spalle.
 
Piano, lenti, abbiamo iniziato ad oscillare, i nostri respiri come colonna sonora.
 
“Tu mi risuoni dentro.” Ho sussurrato, mentre anche i nostri nasi finivano con lo sfiorarsi.
 
“Il tuo nome mi sta nel cuore come in un sonaglio, e visto che io non faccio che vibrare per te, il sonaglio s'agita e il tuo nome mi risuona dentro.2)” Ho recitato, inciampando nelle parole, inesperto, spaventato.
 
“Se adesso io…” Ha iniziato lui, la voce spezzata. “Se adesso io ti dicessi che… Potrei dire qualcosa, qualsiasi cosa, che ti costringerebbe a cambiare idea…?” Ha chiesto, mentre pioveva sulle mie ciglia abbassate.
 
Ho mentito, scuotendo la testa in un cenno di diniego, fermo tra le sua mani.
 
“E qualcosa che potrebbe farti male…?” Ha domandato, ancora, mentre i fremiti divenivano brividi.
 
“No.” Ho esalato, portando la mano destra attorno al suo polso.
 
“Allora d’accordo.” Ha posato le labbra contro le mie, incapaci entrambi di smettere di tremare.
 
 
 
“Io… credo di essermi innamorato di te.”
 
 
 
Il mondo si è allargato all’interno del mio respiro stretto, una deflagrazione assordante racchiusa in un’implosione muta. Il tempo stesso si è fermato tra le nostre bocche, in bilico sulla sua voce.
 
“Da… quando?” Ho chiesto, sciocco, incredulo.
 
Rapito.
 
“Da prima dell’appuntamento, da prima di Londra, da ancora prima di aprirmi le nocche contro il muro di un ospedale… Non lo so.”
 
Siamo rimasti così, vicini, stretti, per un tempo che mi è sembrato comunque troppo breve.
Quando alla fine John si è staccato, il freddo è divenuto insopportabile.
 
“Sherlock…” Si è preoccupato.
 
“Fa freddo, quando non ci sei.” Ho provato a scherzare, increspando le labbra in un sorriso.
 
Ma deve far freddo, per poter assistere ai miracoli della neve.
 
 
“Andiamo, ti preparo un bagno caldo.”
 
 
 
 
 
I fiocchi non chiedono niente in cambio della loro bellezza, non vogliono che si ricambi il loro amore, dicevo.
 
John ha aperto l’acqua, si è lavato, poi è rimasto con me mentre lo facevo a mia volta.
A lungo, in silenzio, fino a far raggrinzire le dita delle mani, fino a sentire di nuovo freddo.
 
Un uomo temerario, coraggioso al punto da riuscire a confessare un amore.
Sufficientemente forte da non sentirsi ferito nel non aver ricevuto in cambio le stesse parole.
 
Abbastanza per non tentare di portarle fuori ad ogni costo dai miei occhi, strapparle dalle mie labbra, dalla gola stretta.
 
 
 
 
 
“E qualcosa che potrebbe farti male…?” Mi ha chiesto.
 
 
 
 
E a te, John…?  Potrebbe, potrei far male al punto da divenire insopportabile…?
 
 
Non voglio rischiare.
 
Non posso.
 
Non so se sia più facile perdere chi si ama senza essere ricambiati, o perdere un amore corrisposto.
Non ho mai maneggiato queste emozioni, prima.
Non hanno danzato sul mio petto, fino al suo arrivo.
 
 
Ma… so che un anello di una catena, se aperto in un punto, è più fragile di uno chiuso.
 
Un sentimento monco, forse, si spezzerà prima di uno completo.
 
 
Dimenticare sarà più veloce, senza i rimorsi e le domande sul futuro.
 
 
Però - prima di addormentarmi - mentre ancora una volta la sua mano si posava sul mio petto, ho permesso ai gioghi della coscienza di allentare la presa.
 
 
 
 
E, nel silenzio, ho dichiarato il mio amore inopportuno, inutile, sulle sue labbra.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
1)  Nella cultura orientale la camelia è il simbolo della devozione eterna tra gli innamorati. I petali e il calice percorrono il ciclo vitale congiuntamente (arrivando addirittura a distaccarsi insieme dalla pianta) rendendo questo fiore perfetto per rappresentare la persistenza dell’amore e la devozione reciproca.
 
Sì, John ha mentito quando ha detto di aver semplicemente preso l’ultimo fiore disponibile. :D
 
 
 
2) Come forse si era già capito nell’ultimo capitolo di “Before and After You” io AMO Cyrano, in ogni sua forma e trasposizione.
 
Quella che Sherlock cita è parte della magnifica dichiarazione d’amore che Cyrano fa a Rossella, anche se lei è convinta che a parlare sia Cristiano.
 
Vi lascio uno dei pezzi più importanti, perché merita davvero!
 
 
CIRANO: […] Tutto, tutto, tutto ciò che mi verrà, ve lo getterò a mazzi,
senza farne un bouquet. Io vi amo, soffoco, ti amo, sono pazzo, non ne
posso più, è troppo; il tuo nome mi sta nel cuore come in un sonaglio,
e visto che io non faccio che vibrare per te, sempre, Rossana, il
sonaglio s'agita e il tuo nome mi risuona dentro. Ricordo tutto di te,
amo tutto: ricordo che la mattina del 12 maggio, l'anno scorso, per
uscire, cambiasti pettinatura. A tal punto i tuoi capelli sono
diventati la mia luce che - come quando si è fissato il sole troppo a
lungo si finisce per vedere proiettato dappertutto un disco rosso
quando distolgo lo sguardo dal loro chiarore, riverberi biondi tutto
intorno mi bruciano gli occhi.
 
ROSSANA: Sì, questo è proprio amore...
 
CIRANO: Ne ha tutto il triste furore - qualcosa che m'invade,
terribile e geloso, e tuttavia non egoista. Per la tua felicità darei
in cambio la mia, quand'anche tu non lo sapessi mai; così, soltanto
per sentirti ridere qualche volta, da lontano, di quella gioia data
dal mio sacrificio. Cominci a capire adesso? A renderti conto? Senti
l'anima mia salire verso di te, nell'ombra? Davvero, è tutto troppo
bello stasera, troppo dolce. Io ti dico tutto questo, tu mi ascolti -
io, te! E' troppo. Nemmeno nei miei sogni più ambiziosi sono mai
arrivato a sperare tanto. Non mi resta che morire, subito! Mentre lei
trema tra i rami per le cose che le ho detto. Perché voi tremate,
tremate come una foglia tra le foglie! Tu tremi! Perché lo sento, che
tu lo voglia o no, lo sento il tremito adorato della tua mano scendere
giù per i rami di questo gelsomino.
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Questo capitolo è in assoluto il più lungo scritto per questa storia: quasi 18 pagine di word! ^_^’’
 
Sono iniziate le “grandi manovre”, tra le quali ripasso intensivo della lingua francese e preparazione delle scartoffie varie.
 
Spero di riuscire a ritagliarmi qua e là un po’ di tempo per scrivere ancora ma, nel frattempo, mi auguro che questo capitolo possa tenervi compagnia. :)
 
Ormai la nebbia mentale è grande compagna delle mie giornate, ma inizio ad orientarmi nella foschia. XD
 
Un abbraccio a tutte/i e perdonatemi se non ho ancora risposto alle meravigliose recensioni delle due ultime OS. Prometto di rimediare a questa vergognosa mancanza il prima possibile!
 
Come sempre, vi lascio con un frase (anzi due!) relativa al capitolo e con un'immagine (a mio avviso bellissima) reperita su internet. ^_^

A presto,
B.
 
 
 
Quando non puoi danzare tu, fai danzare la tua anima.
(Delbrel)
 
 
La danza può rivelare tutto il mistero che la musica tiene nascosto.
(Charles Baudelaire)
 



 


 
 
 
 
P.S.: della celebre frase sul bacio, questa è la frase originale: […] ma che cos'è poi un bacio? Un giuramento un po' più da vicino, una promessa più precisa, una confessione che cerca una conferma…”
 
Devo ammettere, però, di aver sempre amato di più la versione della trasposizione cinematografica del 1990 con Gérard Depardieu. Recita:
 
“Un bacio. Ma cos'è, così d'un tratto? Un giuramento reso tra sé e sé, un patto più stretto... È come un traguardo che insieme è un avvio…”
 
Meraviglioso, non trovate? *_*

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Capitolo 17
*** 103 ***


 
 
 
 
 
-103
 
 
Negazione.
 
Rabbia.
 
Negoziazione.
 
Depressione.
 
Accettazione.
 
 
Le cinque fasi del lutto.
 
 
Sono state elaborate nel 1970 da Elisabeth Kübler Ross - una  psichiatra svizzera - nel tentativo di racchiudere la vastità delle esperienze che legano gli uomini alla loro più grande paura - e, ironicamente, unica vera certezza - in uno schema comportamentale preciso.
 
Il motivo del suo studio e le relative conclusioni è piuttosto semplice, se non banale.
 
L’essere umano ha bisogno di schemi.
 
Costantemente.
 
 
Ricerca l’ordine, anche inconsciamente, quasi l’esistenza di regole precise potesse riuscire ad allontanare, esorcizzare, l’entropia verso cui tutti – per nostra stessa natura - tendiamo.
 
 
Ma la realtà è, come sempre, ben diversa.
 
I confini non esistono.
 
Non ci sono griglie ed elenchi capaci di delimitare o descrivere correttamente la varietà di reazioni possibili al cospetto di una vita al suo termine, che sia la propria o quella di qualcun altro.
 
 
In effetti è piuttosto bizzarro come la più atavica forma di confronto tra l’uomo e la sua natura ultima sia, in verità, estremamente mutevole.
 
Non siamo simili gli uni agli altri, mai, nemmeno nei due momenti che formano l’alfa e l’omega dell’esistenza e che, in qualche modo, la “avvolgono”.
 
 
Si nasce in modi diversi, il luoghi diversi, tra mani diverse.
 
Si muore in modi diversi, con sentimenti diversi, a velocità diverse.
 
 
Il che rende assurdo ritenere che chi resta debba tarare le proprie reazioni ed emozioni su cinque punti stereotipati ed asettici, agendo sotto l’egida e la guida di schemi precisi.
 
 
La morte è universale.
 
L’esperienza della morte, invece, no.
 
È personale.
 
 
Uno dei tanti motivi per i quali non ho mai amato cercare risposte nei libri, indottrinandomi tra gli scaffali polverosi di qualche biblioteca.
 
 
I dogmi non aiutano a capire.
 
Confondono. Accecano.
 
 
I visi, gli occhi, le mani… loro sono la chiave di ogni cosa.
Non serve altro.
 
Tutti i postulati e gli assiomi del mondo vivono tra le parole ed i respiri delle persone.
 
Nelle pieghe dei loro silenzi.
 
 
Mi muovo tra ripiani di uomini da così tanto tempo ormai, da riuscire a sfogliare le loro bugie come pagine, i loro sguardi sottolineature a penna di cose importanti o goffi tentativi di cancellatura.
 
 
Anche per questo posso affermare, con assoluta certezza, che i cinque punti della dottoressa Kübler Ross non esistano.
 
 
Un grande dolore può essere contenuto in una lacrima come in una risata assordante, in notti insonni come nei respiri di un riposo apparentemente sereno.
 
Un assassino può piangere al funerale della propria vittima ed una madre essere perfettamente truccata e composta a quello di un figlio che ha amato più di se stessa.
 
 
Le lacrime ingannano.
 
I sorrisi ingannano.
 
 
 
Le espressioni no, soprattutto quelle che si prova con ogni mezzo a tenere sotto controllo.
 
Le emozioni no, soprattutto quelle che ci si sforza di interpretare.
 
 
 
Per questo è stato così semplice, scoprire il colpevole.
 
 
 
 
“C’è stato un omicidio… vorresti venire a dare un’occhiata?»
 
Quando - poco prima delle nove di questa mattina - Lestrade si è affacciato sulla porta del salotto annunciato dalla signora Hudson, è stato piuttosto facile dedurre dal suo tono di voce e dall’imbarazzo sul suo viso che la mia presenza sulla scena del crimine non fosse indispensabile.
 
“Lo sai già chi è il colpevole, perché vuoi che venga?” Ho chiesto, voltandomi con aria interrogativa a guardare John che – con un sorriso morbido – ci osservava appoggiato allo stipite della porta che conduce alla cucina.
 
“Penso sia giunto il momento di tornare sul campo.” Ha risposto l’ispettore, semplicemente, alzando le spalle.
 
“Gli hai chiesto tu di farlo?” Ho continuato, rivolto a John, fingendo di non aver sentito.
 
“Penso sia giunto il momento di tornare sul campo.” Ha ribattuto lui, ripetendo con aria divertita le parole di Lestrade.
 
“Beh, no grazie.” Ho tagliato corto, spingendo la sedia in direzione del corridoio.
 
“Non ho bisogno di elemosina.” Ho soffiato, cercando di raggiungere la mia camera avanzando in modo più spedito rispetto ai passi di John dietro di me.
 
“Avanti, Sherlock!” Ha insistito, raggiungendomi ed appoggiando una mano sulla mia spalla, costringendomi a rallentare. “Mi piacerebbe davvero molto vederti all’opera.” Ha sussurrato, chinandosi in modo da portare le labbra vicino al mio orecchio.
 
“Mi ha già visto all’opera.” Ho sottolineato, tentando di divincolarmi dalla sua presa, certo di quale sarebbe stata la risposta che avrebbe dato.
 
“Non è la stessa cosa. Avanti, non ci vorrà molto.” Ha insistito, un tono di voce in bilico tra l’implorante ed il divertito. “Ci farà bene.”
 
“Non vedo come potrebbe farci bene.” Ho ribattuto, gli occhi ostinatamente rivolti alla porta della mia stanza, lontani dai suoi. Ho scoperto di non riuscire a pensare in modo del tutto lucido, quando mi specchio nelle sue iridi.
 
“È il tuo lavoro. La tua vita. Ciò che ti realizza.” Ha iniziato lui, girando attorno alla sedia per portarsi di fronte a me. “Ami stare sulle scene del crimine. So che è così.”
 
“Non vedo come questo possa far del bene a te, ad ogni modo.” Ho sussurrato, alzando con un sospiro sconfitto lo sguardo su di lui.
 
 
“Se tu stai bene, io sto bene.” Ha risposto, semplice, sul viso la tenue quiete della verità.
 
 
Empatia.
 
 
Una parola di origine greca, empatéia, composta dal prefisso en-, "dentro", e dal termine pathos, "sofferenza”, “sentimento”.
 
Veniva inizialmente usata per indicare il rapporto emozionale che legava un cantore a chi ascoltava la sua voce.
 
John porta con sé, come ho già detto, un carico di empatia che lo riempie, lo avvolge.
 
Ne è saturo, così come lo sono le sue parole, i suoi gesti.
 
Ed io resto confuso, spaesato, di fronte a questo continuo farsi carico dei sentimenti altrui – della sofferenza altrui, della mia - che lo osservo compiere ad ogni respiro.
 
Ma è lui il cantore, tra noi.
 
Io mi limito ad osservare, attento. Sorpreso.
 
La sua voce compone note che riconosco ma che mutano aspetto e forma, quando si trovano tra le sue labbra. Sul suo viso.
 
John dice di star bene nel vedermi star bene, ed io mi ritrovo uno spartito di battiti sconosciuti stretto tra le dita incerte, tremanti.
 
 
Vorrei poter toccare John, analizzarlo, fino a capire il punto centrale di questa “magia” che nasce nei suoi sguardi e muore su di me.
 
Invece, incapace, inadatto, mi ritrovo ogni volta ridotto al silenzio al cospetto del suo mistero.
 
 
John è empatico.
Lo è al punto da rendermi tale a mia volta.
 
Da desiderare di esserlo.
 
Io, che ho sempre catalogato ogni pulsione non controllata come nociva.
Un errore.
 
 
 
“Va bene…” Mi sono arreso, in attesa che un sorriso si affacciasse sul suo viso, illuminandolo.
 
Illuminandoci.
 
“Ma non più di un paio d’ore. E andiamo da soli!” Ho concluso, alzando la voce in modo sufficiente affinché Lestrade riuscisse a sentirmi.
 
“Come se fossi mai riuscito a farti venire con me da qualche parte su una volante!” Ha ribattuto lui, prima di fornire l’indirizzo dell’omicidio ed avviarsi lungo le scale con un brontolio sordo.
 
 
 
 
Per anni, le strade di Londra sono state il mio rifugio.
 
Ho respirato l’odore della pioggia sull’asfalto di questa città così tante volte da riuscire, ormai, a riconoscerne ogni sfumatura.
 
Ogni vicolo, ogni pietra, ogni fermata, ogni più piccolo aspetto è stato ricreato in un punto specifico del mio Mind Palace.
 
Fedele.
 
Riconoscibile.
 
 
Eppure, ho scoperto solo oggi l’esistenza di un’altra Londra.
 
Quella che vive alle spalle di John, mentre cammina al mio fianco lungo marciapiedi conosciuti.
 
Assoggettata, quasi dimenticata.
 
La città sfocata che fa da contorno al suo viso che entra – con morbida violenza - tra l’obiettivo dei miei sensi e tutto ciò che ci circonda, cancellando ogni altra cosa.
 
 
 Me ne sono reso conto una volta arrivati all’indirizzo fornito da Lestrade.
 
Davanti al cancello di quella piccola villetta di mattoni rossi apparentemente uguale a tutte le altre.
 
 
Le sopracciglia aggrottate, mi sono girato indietro cercando di ricordare che strada avessimo fatto per arrivare fin lì, nuovamente – dolorosamente - immerso in una realtà che avevo allontanato durante il percorso.
 
“Tutto bene?” Ha chiesto John, portandosi un passo più vicino.
 
“Sì…” Ho mentito, inclinando la testa da un lato e chiudendo gli occhi, in cerca di qualche dettaglio utile.
 
 
Oltre la barriera delle mie palpebre abbassate, però, sono riuscito a focalizzare ogni singola parola pronunciata durante il tragitto ma non un solo elemento in grado di svelarmi il percorso compiuto.
 
Il volto di John riempiva ogni attimo, ogni spazio utile del campo visivo.
 
 
“Sherlock…?” Mi ha richiamato lui, nel tono una vaga preoccupazione.
 
“Sì, ci sono.” Ho risposto, riaprendo gli occhi.
 
“Sicuro che vada tutto bene?” Ha domandato nuovamente, chinandosi verso di me.
 
 
Per un attimo, una serie frenetica di pensieri è esplosa nella mia mente.
 
 
No, John, non va tutto bene.
 
Stai prendendo il posto di ogni cosa, riempiendo ogni parte del mio essere.
 
Stai sostituendo parti di me con pezzi di te. Ricordi del passato scompaiono, di fronte al tuo viso.
 
Questo mi terrorizza.
 
Perché se te ne andassi, non mi resterebbe nulla.
 
Nulla.
 
La tua assenza mi spaventa più dell’idea stessa della morte.
 
 
“Certo.” Ho esalato - cercando di riemergere dalle onde, dai flutti agitati della paura - i suoi occhi preoccupati fissi sul mio viso. “Andiamo.”
 
 
 
 
Quando siamo arrivati il signor Elster – immobile di fianco alla porta d’ingresso all’esterno della villa, la testa china e gli occhi bassi - stava raccontando ad un poliziotto, ancora una volta, di come un ladro si fosse introdotto nell’abitazione durante la notte ed avesse ucciso sua moglie prima di fuggire.
 
Tutto, però - dal tono della sua voce alla posizione delle spalle - riportava un’altra verità.
 
 
Le espressioni non ingannano, dicevo.
Soprattutto quelle che si prova con ogni mezzo a tenere sotto controllo.
 
La paura, ad esempio. Quella di sbagliare qualche dettaglio. Di non apparire sufficientemente convincenti.
 
Le emozioni non ingannano.
Soprattutto quelle che ci si sforza di interpretare.
 
Come il dolore di una perdita.
 
 
Ecco perché è stato così semplice.
 
 
Non si può dire con le labbra di aver perso l’amore della propria vita e, nello stesso momento, cercare di capire se chi ci sta ascoltando stia credendo alle nostre parole.
 
 
“Il marito non mi convince…” Ha sussurrato John dopo qualche secondo, gli occhi attenti sul volto del padrone di casa.
 
“Perché?” Ho domandato io, curioso di capire come fosse giunto alla mia stessa conclusione, girandomi verso di lui.
 
“Ho visto molti corpi, in guerra.” Ha iniziato lui e, per un attimo, è sembrato distante, irraggiungibile.
 
“Distesi a terra, coperti da un lenzuolo, proprio come lei.” Con un movimento del capo ha indicato la signora Elster - immobile sul pavimento dell’ingresso - appena visibile oltre la soglia.
 
Con passi rapidi Lestrade è comparso alle nostre spalle, fermandosi dietro di noi sul vialetto d’ingresso.
 
“Si tende a non voler guardare. Serve anche a questo, coprirli. A cercare di renderli neutri ai nostri sensi fin quando occorre rimanere lucidi. Allo stesso tempo, però, si trova quasi insopportabile il pensiero di staccarsi da loro. Lui… lui si volta continuamente, ed ogni volta sembra quasi deluso di trovarla ancora lì. È come se…”
 
“È come se pensasse che finché sono in corso i rilevamenti, la sua storia non sia abbastanza credibile.” Ho terminato, voltandomi per alzare gli occhi sul volto confuso di Lestrade.
 
“Che state dicendo? Che è stato il marito?” Ha chiesto lui, spostando lo sguardo da me a John, per poi tornare a fissarmi. “Ma non è possibile, non abbiamo trovato l’arma da nessuna parte, in casa! Non avrebbe avuto il tempo d—”
 
“Infatti non ne ha avuto. O meglio, ne ha avuto troppo poco.” Ho sospirato, preparandomi ad esporre quello che era sotto gli occhi di tutti ma che, come sempre, non era stato notato da nessuno.
 
“Indossa i pantaloni del pigiama al contrario. Mi chiedo se non sia stato troppo precipitoso nel vestirsi… Anzi, nel rivestirsi. Sono quasi certo che se manderai qualcuno a controllare la lavanderia troverai un paio di calzini e dei pantaloni sporchi di terra. E…” Ho indicato con un dito un punto del giardino vicino alla staccionata. “Lì la terra sembra smossa di recente.”
 
In silenzio, sia John che Lestrade hanno seguito la traiettoria della mia mano.
 
“Maledizione!” Ha ringhiato l’ispettore superandoci quasi correndo, le mani strette a pugno a lambire i fianchi.
 
John si è voltato verso di me, negli occhi un’espressione di puro orgoglio.
 
 
È stato un attimo.
 
 
Il tempo di schiudere le labbra, sorpreso, ed il suo sguardo ha mutato l’intero senso dell’essere lì, donando una ragione nuova alla risoluzione di un caso così scontato.
 
Regalando un motivo reale, concreto, alla chiusura di ogni caso.
 
Perché, improvvisamente, non era più qualcosa di legato a me, ma a lui.
 
Al suo viso, all’amore mescolato alla soddisfazione che albergava tra le sue ciglia.
 
In modo inatteso e totalizzante, ogni deduzione fatta fino a quel momento senza lui ad ascoltare è apparsa del tutto sterile, sprecata per il mio solo piacere.
 
Debole.
 
Inutile.
 
 
“Beh, c’è voluto decisamente meno del previsto.” Ho tossito, girandomi ad osservare un poliziotto correre verso il punto che avevo indicato, tentando di riprendere il controllo del mio respiro.
 
“È stato fantastico.” Ha ribattuto John, accennando un sorriso.
 
“È stato banale.” Ho risposto, schiarendo la voce e scuotendo la testa. “Se solo la gente osservasse…”
 
“Ma la gente non lo fa. Tu sì. E questo è fantastico.” Mi ha interrotto, con voce sicura.
 
“È banale.” Ho ripetuto ancora una volta, mentre l’agente sollevava con una penna una pistola da una piccola buca nel terreno, mostrandola a Lestrade sotto lo sguardo vitreo del signor Elster.
 
“Non puoi perdere chi ami e avere quella freddezza negli occhi.” Ho concluso, voltandomi nuovamente verso di lui.
 
Un’ombra ha lambito gli occhi di John, oscurandone la luce.
 
“No. Non è possibile. È vero.” Ha risposto dopo qualche secondo, roco.
 
“Vogliamo andare?” Ha aggiunto, tentando di mascherare la tristezza dietro un tono dolce.
 
“Certo.” Mi sono limitato a dire, annuendo appena.
 
 
Solo quando eravamo arrivati sulla strada principale, ho davvero capito quale pensiero avesse attraversato la sua mente.
 
 
La possibilità - la sola remota eventualità - di perderlo mi spaventa, al punto da sentire il respiro incendiarsi.
 
Mi terrorizza come neanche il vuoto, la Caduta, ha saputo fare.
 
Mentre lui…
 
Lui vive ogni giorno con la certezza che questo accadrà.
 
Con la consapevolezza che dovrà lasciarmi andare.
 
Coraggioso come io non sarò mai, un cuore1) grande sufficientemente da bastare ad entrambi, forte al punto da aver ridato ritmo, vita, al mio.
 
 
Mi domando se io meriti tutto questo.
 
Mi domando se lui, meriti tutto quello che verrà.
 
 
Se meriti di rimanere in piedi in un corridoio asettico, l’anima sotto un lenzuolo, aspettando che la mia immagine diventi sufficientemente neutra da potersene staccare senza perdere una parte troppo grande di sé.
 
 
 
No.
 
La risposta è no.
 
 
Non merita alcun dolore. Ancor meno merita di soffrire a causa mia.
 
 
 
Vorrei davvero avere la forza di cacciarlo.
 
La forza di vestirmi nuovamente di boria, cattiveria e veleno. Vorrei saper riempire ancora la mia bocca di ingiurie gratuite.
 
Vorrei tornare “me stesso”.
 
Quello che ero prima che lui mi mostrasse la vera essenza del mio essere, svestendola con fragile fermezza di ogni armatura.
 
 
Ma poi alzo gli occhi ed incontro i suoi, morbidi.
 
E non riesco a sentire altro che il mio respiro albergare nel suo petto.
 
Io…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-103
 
 
“Mi dispiace.”
 
“Come?”
 
“Ho detto che mi dispiace, John.”
 
“Di cosa stai parlando?”
 
“Di nulla in particolare. Solo… Ti chiedo scusa.”
 
“Inizio a preoccuparmi, adesso. Seriamente.”
 
“Non devi. È stato il pensiero di un momento. Una sciocchezza. Dimenticala pure.”
 
 
 
“Sherlock.”
 
“Dimmi.”
 
“Non devi chiedermi scusa. Ho scelto io, di rimanere.”
 
“Com—”
 
“Ogni tanto, anche le persone mediocri sanno osservare.”
“Vogliamo pranzare?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-103
 
 
Ma poi alzo gli occhi ed incontro i suoi, morbidi.
 
E non riesco a sentire altro che il mio respiro albergare nel suo petto.
 
Io…
 
 
 
 
Non sei una persona mediocre.
Io lo sono.
 
Ridicola.
 
Inutile.
 
Inabile ad allontanarti come al saperti confessare amore.
 
Appena capace di chiedere scusa, incompetente nel maneggiare i sentimenti al punto da non riuscire quasi a farne parola.
 
Neanche adesso, mentre ti muovi verso la cucina per preparare, prepararci, l’ennesimo pasto, con il solito sorriso carico di ogni cosa abbia senso in questo mondo, sempre poi che qualcosa l’abbia davvero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-103
 
 
“John…?”
 
“Sì, Sherlock.”
 
“C’è una cosa che vorrei dirti. Ma non sono sicuro di esserne capace.”
 
“Prova. Se posso, cercherò di capire anche senza troppe parole.”
 
“Ok… Va bene.”
“Il fatto è che per tutta la vita… Per tutta la vita ho seguito la ragione come se fosse un faro. La ragione mi ha ricondotto al porto della verità e del raziocinio, ogni volta. Non sono mai stato capace di nuotare tra le emozioni, né ho mai voluto.”
 
“Sherlock, non importa, ho cap—“
 
“No. Quello che cerco di dire… quello che sto cercando di dire è che sei tu, adesso, il faro. Sei sempre tu. E quando scorgo la tua luce non mi importa che le onde mi ricoprano, o di non riuscire a restare a galla. Io…”
 
“Sherlock…”
 
“Non sono in grado di dire a qualcuno che l’amo. Non so farlo. E non ho mai avuto, o sentito, la necessità di farlo, prima di incontrarti. Ma tu sposti il mio orizzonte. Ogni coordinata della mia vita. E se ci fosse un’unica eccezione a questa regola del silenzio che mi serra la gola… Ecco… Saresti tu. Non potresti che essere tu.”
 
 
 
“John…?”
 
 
“Sì… sì, ci sono.”
 
“Io... Ho sbagliato qualcosa?”
 
“Cosa? No! No... Non hai sbagliato una sola parola, Sherlock.”
 
“E allora che succede…?”
 
“Niente. Sono solo felice.”
“Un felice stupido professore di mezza età che si è commosso.”
 
 
 
 
 
 
Note:
 
1) Sherlock si riferisce al cuore per una ragione specifica. “Coraggio” deriva dal latino “coraticum” (cor habeo), aggettivo che nasce dalla composizione di “cor, cordis”(ovvero cuore), e dal verbo “habere” (avere).
 
Letteralmente, quindi, significa “ho cuore”. :)
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Prima pubblicazione da quel di Marsiglia, grazie ad una connessione casalinga temporanea che ci sta “traghettando” verso quella fissa. :D
 
Il capitolo racconta un solo giorno ed è relativamente breve (in realtà si assesta sulle 13 pagine Word, quindi in linea con i primi), ma avevo bisogno di “testare” la scrittura in un luogo nuovo e con mezzi nuovi.
 
Come ho raccontato ad adlerlock, sono abituata a scrivere sempre nello stesso punto della casa, con la stessa luce e la stessa musica di sottofondo. È come se questa routine mi “sbloccasse”.
 
Farlo in posti così diversi non è stato facile e, in caso, mi scuso già da ora se il risultato non dovesse apparire “fluido” e ben collegato con quanto scritto in precedenza. Cercherò di ritrovare un mio equilibrio al più presto. ^_^
 
Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
Mi siete mancati terribilmente.
 
A presto,
B.
 
 
 
“Ho imparato che il coraggio non è l’assenza di paura, ma il trionfo su di essa. L’uomo coraggioso non è colui che non si sente impaurito, ma colui che vince la paura.”
(Nelson Mandela)

 

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Capitolo 18
*** Da 102 a 100 ***


 
 
 
 
 
-102
 
 
È interessante come ogni tentativo da parte delle persone di elevare l’amore a massima forma di altruismo e meravigliosa esperienza di vita finisca invece - ad ogni frase fatta, ad sospiro volutamente accentuato, ad ogni forzata incanalatura di un’emozione che dovrebbe essere personale in binari stabili e solidi, già percorsi da altri - col deformarlo, degradandolo a mero “prodotto”.
 
Spogliandolo delle sue fisiologiche storture per renderlo un inamidato oggetto da esposizione da ostentare con il terrore che non farlo conduca al perderlo per sempre o, peggio, significhi non averlo mai avuto.
 
Le persone amano rumorosamente, baciano con foga.
 
Guardano chi resta in silenzio con commiserazione.
 
Ma un sentimento non cresce in pari misura con l’attenzione che attira su di sé.  Molte parole leggere non pesano come pochi sguardi pesanti, pieni.
 
 
E l’amore non è quanto di più puro esista.
 
 
L’amore è egoista. È avvolto da paure.

Amare è un’esperienza opaca, imperfetta.
 
È scomporsi per cercare di assumere una forma che possa piacere all’altro, perdendo piccoli pezzi di sé.
 
È fondersi in una chimera che diluisce per sempre in un altro corpo una parte di noi stessi, di chi eravamo.
 
 
È lasciare che qualcuno prenda il comando della nostra vita, lasciarsi guidare.
 
 
Amare è come compiere un atto di fede. Come pregare.
 
E io - servo solo alla mia ragione - ho sempre osservato con aria di superiorità e distacco chi vedevo inginocchiarsi di fronte ad un altro essere umano.
 
Ma adesso…
 
 
John si è addormentato sulla mia poltrona, le braccia abbandonate lungo il corpo e la testa reclinata da un lato.
 
Posso vederlo perfettamente, da qui.
 
 
E mi trovo a pensare, ancora una volta, che - se le mie gambe lo permettessero - mi siederei a terra, ai suoi piedi, la testa sulle sue ginocchia.
 
Vorrei farlo.
 
E, allo stesso tempo, sono quasi grato di non potere.
 
Questo corpo che non riconosco, adesso, è ironicamente l’unico appiglio che mi resti alla persona che sono stato.
 
 
Ho paura di perdermi.
 
Ho paura di perderlo.
 
 
Di cambiare per poi scoprire di non essere più ciò che desidera.
 
 
 
Se decidessi di restare… lui farebbe altrettanto?
 
E per quanto?
 
Quanta riserva d’amore si deve avere, per poter vivere anni con una persona come me?
 
 
 
Più lo guardo, più mi rendo conto che dovrei lasciarlo andare.
 
Che la mia scelta non riguarda quasi più il mio corpo, ma il suo cuore.
 
 
 
Ma l’amore è egoista, dicevo.
 
 
 
E l’unica cosa che desideri è che si sdrai accanto a me, ancora una volta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-102
 

“John…?”
“John, svegliati. Andiamo a letto.”
 
“Mhm…”
 
“Avanti, su.”
“John!”
 
“Sì, sì, eccomi… io… ci sono. Scusa, non… devo essermi…”
 
“Ti sei addormentato sulla mia poltrona.”
 
“Davvero? Accidenti… Da… per quanto?”
 
“Almeno un’ora.”
 
“Mhm. Ok, arrivo.”
“Solo… devo andare un attimo in bagno. Non… non mi sento molto bene.”
“Dammi un paio di minuti.”
 
“Vuoi che venga con te?”
 
“Mhm? Oh, no, tranquillo. Ho solo un po’ di nausea. Forse ho preso freddo andando all’università, oggi.”
 
“John, non ti reggi in piedi.”
 
“Sono semplicemente stordito dalla dormita. Sto bene, Sherlock. Non ti preoccupare. Davvero.”
“Inizia a prepararti. Arrivo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-101
 
 
[08:03] Donovan, non posso venire in centrale, oggi. Coordina tu tutte le operazioni, ok? GL
 
 
 
[08:07] D’accordo capo. Va tutto bene?
 
[08:09] Adesso sì. Ma devo rimanere con Sherlock in ospedale. GL
[08:10] Che altro ha combinato, adesso?
 
 
 
[08:16] Nulla. Non è lui a stare male. Scusami, ci sentiamo più tardi. GL
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-100
 
 
Il battito cardiaco.
 
La respirazione.
 
L’affacciarsi continuo di pensieri alla coscienza.
 
Sono tutti automatismi, atti che compiamo ogni secondo senza renderci mai davvero conto che siano lì, a regolare la nostra vita.
 
Per un puro meccanismo biologico che affonda nella nostra forma più ancestrale, sono i primi fattori a mutare, in caso di pericolo.
 
Per un bizzarro meccanismo psicologico, finiamo con l’accorgerci della loro esistenza solo quando, repentinamente, subiscono un cambiamento drastico.
 
 
È stato l’ossigeno la prima cosa a mancare, mentre la gola si chiudeva in una stretta dolorosa.
 
“Trattenere il fiato”, come si è soliti definire questo “dispositivo” fisico, non rende l’idea.
 
Quando ho sentito il tonfo provenire dal bagno… non ho trattenuto il fiato.
 
È stato il respiro stesso, a spengersi.
 
 
E quando poi, dopo averlo chiamato in vano un paio di minuti ho avuto la forza di spingermi fino all’uscio del bagno.  
 
 
Quando l’ho visto…
 
 
Io… io non ho mai avuto tanta paura in tutta la mia vita.
 
Mai.
 
La certezza che sarei morto - provata mentre il mio corpo superava la balaustra in uno slancio innaturale - non mi ha spaventato quanto vedere il sangue attorno alla testa di John, riverso sul pavimento.
 
Io…
 
 
Per un attimo ho avuto la sensazione che il mio cuore si fosse rattrappito al punto da fermarsi, una morsa incandescente a serrare lo sterno, stritolandolo, mandandolo in frantumi.
 
 
Sono rimasto immobile, entrambe le mani stese di fronte a me, incapaci di toccarlo.
 
Entrambe le braccia.  
 
Un miracolo della paura e della disperazione inutile, tardivo, orrendo.
 
 
E con entrambi i palmi sono arrivato strisciando fino a lui quando, alla fine, ho trovato il coraggio di lasciarmi cadere sul pavimento per raggiungerlo.
 
Per sfiorarlo.
 
 
È stata la signora Hudson a telefonare per avere un’ambulanza, e ad avvertire Lestrade.
 
Almeno credo.
 
Non so quanto a lungo io l’abbia chiamata, immobile, le dita incapaci di fare qualsiasi cosa se non tremare.
 
Non sono neanche certo di averlo fatto.
 
 
Per la prima volta in tutta la mia vita non riuscivo a mettere a fuoco che pochi spezzoni, piccoli frammenti dell’ambiente scoordinati tra loro, scardinati dalla realtà.
 
Scampoli di pensieri confusi.
 
 
Il viso di John su le mie gambe.
 
Il taglio profondo sulla tempia.
 
Il suo respiro affannoso.
 
 
“John? John, adesso mi devi guardare e mi devi rispondere, va bene?”
 
 
Si può implorare qualcuno allo stesso tempo con amore, rabbia, dolore, terrore?
 
Immagino di sì, perché l’ho fatto così tante volte da non riuscire a ricordarle.
 
Contro i suoi capelli, le sue mani, il suo viso.
 
 
Lui ha aperto gli occhi un secondo, il tempo di fare un sorriso incerto e provare, ancora una volta, a rassicurarmi.
 
 
Quando sono arrivati i paramedici mi hanno spostato di peso da una parte.
 
Hanno dovuto faticare, per staccarmi da lui.
 
Fino all’arrivo di Lestrade sono semplicemente rimasto a terra, le braccia della signora Hudson attorno alle spalle e un unico pensiero che diveniva sempre più grande ad ogni movimento che vedevo svolgersi attorno a John: sono inutile.
 
 
Incapace di aiutarlo.
 
Di capire cosa succeda.
 
Di chiamare i soccorsi.
 
 
Non importa quanto John provi a mostrarmi costantemente il contrario.
Sono inutile, per lui.
 
Sono inutile, senza di lui.
 
 
 
 
Che avesse sbattuto la testa contro il lavandino cadendo è stato Lestrade a capirlo, non io.
 
Dai segni.
 
Dal sangue.
 
Mentre io non riuscivo neanche a capire perché la signora Hudson fosse andata con loro mentre noi eravamo ancora inchiodati il quel posto.
 
Forse, in un altro momento, avrei trovato ironico l’improvviso acume di Lestrade di fronte ai miei sensi obnubilati.
 
 
 
“Andiamo, ti accompagno in ospedale.” Ha detto, gentile, avvicinando la sedia.
 
Mi sono girato verso il Titanic, senza riuscire realmente a metterlo a fuoco.
 
“Andiamo.” Ha ripetuto lui dopo qualche secondo, alzandomi di peso.
 
 
Io, in silenzio, l’ho lasciato fare.
 
 
 
 
Non pensavo si potesse provare un terrore così profondo, così totalizzante.
 
 
Non pensavo che un uomo come me fosse capace di pregare per qualcosa.
 
Che mi sarei mai trovato a chiedere di barattare la mia vita con quella di un altro.
 
 
Non l’ho mai fatto. Non ho mai domandato nulla. Mai.
 
Non ho mai desiderato un miracolo per me, per la salvezza della mia vita.
 
Ma ho dato fondo ad ogni briciola della mia ragione, mentre andavamo in ospedale.
 
 
 
“Andrà tutto bene. I parametri erano nella norma, quando li hanno misurati.” Ha provato a rassicurarmi Lestrade in auto, le mani nervose attorno al volante.
 
 
“Vedrai che non è niente di grave.”
 
“Sono sicuro che starà bene.”
 
 
 
La parola piangere ha un’etimologia particolare.
Proviene dal latino, ed indica il gesto di percuotersi il petto.
 
Non avevo mai compreso fino in fondo quale fosse il senso di una scelta simile, fino a ieri notte.
 
Perché ho sentito il mio petto sconquassarsi.
 
Aprirsi in uno stridio di dolore puro, abissale.
 
 
Paura, dolore. Ira. Frustrazione.
 
 
Se mi fermo a rifletterci, non riesco a ricordare quale fosse stata l’ultima volta nella quale mi ero permesso di farlo.
Di piangere.
 
In presenza di altri, sono quasi certo che non fosse mai avvenuto.
 
 
Davanti al mio tentativo di ingoiare i singhiozzi cercando di fare meno rumore possibile, Lestrade ha continuato a guidare, in silenzio.
 
E gli sono grato, per questo.
 
 
Senza aggiungere una parola, poi, mi ha aiutato ad uscire dall’auto e accompagnato all’ingresso del pronto soccorso.
 
 
Ho permesso che mi sollevasse, che mi adagiasse, che mi spostasse. Che non chiedesse il permesso, ma lo facesse e basta.
 
 
Tutta la mia puntigliosa attenzione, la mia costante battaglia per non dipendere dagli altri dissolta, persa, un gomitolo di ego disfatto - in un secondo - in quel bagno.
 
 
 
Ci sono volute due ore per avere una diagnosi.
 
Due ore per poter tornare a respirare. A pensare.
 
A vivere.
 
 
 
Sincope del seno carotideo, hanno detto.
 
Una perdita di coscienza provocata da una momentanea costrizione dell’arteria carotidea.
 
 
Nessuna avvisaglia, nessuna conseguenza.
 
 
Solo la paura ed il tremore che ancora non riesco a
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-100
 

“Cosa stai scrivendo…?”
 
“John! Ehi… Non mi ero accorto che fossi sveglio.”
 
“Lo so. Mi piace, osservarti di nascosto.”
 
“Davvero…?”
 
“Davvero. Anche se non mi piaceva molto la tua espressione, mentre scrivevi…”
 
“Non è importante, adesso. Allora, sei pronto per tornare a casa?”
 
“Pronto. Un giorno in osservazione mi sembra più che sufficiente, per uno svenimento.”
 
“Non è stato solo uno svenimento. Hai sbattuto con forza la testa, John. Potresti avere una commozione celebrale. Il medico ha parlato di dimissioni protette. Dovrai stare a riposo per almeno un altro paio di giorni. Ho chiesto aiuto alla signora Hudson per—”
 
“Alla signora Hudson?”
 
“Beh, sì. Per preparare i pasti, aiutarti… aiutarmi nelle faccende…”
 
“Non puoi farlo tu?”
 
“John… io… non credo di essere capace di prendermi cura di qualcuno.”
 
“Io non sono “qualcuno”. E sono certo che sapresti prenderti cura di me.”
 
“No. Se fosse stato per me, saresti ancora sul pavimento del bagno. Io… Io… Io non credo che…”
 
“Tu temi che. Sei il mio compagno, ed io mi fido di te. Immensamente.”
“Sherlock…?”
 
“C-cosa…?”
 
“Mi fido di te, Sherlock.”
 
“No. Non… quello.”
 
“Sei il mio compagno…?”
“Non… non va bene?”
 
“In realtà non ho mai pensato a cosa fossimo o meno.”
 
“E pensi che potrebbe andarti bene, essere il mio compagno?”
“Sherlock…?”
“Ok, lascia stare. Fa’ finta ch—”
 
“Certo… certo, sì.”
 
“Certo che fingerai che non abbia detto nulla?”
 
“Certo che mi sta bene essere il tuo compagno. E…”
“Prendermi cura di te. Provare, a prendermi cura di te.”
 
“Vieni qui, vuoi?”
 
 
 
“Mi hai fatto morire di paura.”
 
“Lo so. Mi dispiace.”
 
 
 
“John…?”
 
“Dimmi.”
 
“Non andare da nessuna parte senza di me, ok?”
 
 
 
“Vorrei poterti chiedere la stessa cosa, lo sai…?”
 
“Lo so. Mi dispiace.”
 
“Non importa. Vieni qui, adesso.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-100
 
 
Solo la paura ed il tremore che ancora non riesco a controllare.
 
 
 
 
 
John.
 
Io sono sempre stato un uomo ridicolo.
 
Senza virtù, senza attenzione per la bellezza e senza desiderio di felicità.
 
 
Non ho mai voluto, non ho mai desiderato, essere il compagno di qualcuno.
 
 
Ma… se hai deciso che questo sia il mio ruolo… posso esserlo, per te.
 
Solo per te.
 
 
 
E anche se, alla fine, già sappiamo che sceglierò di non farlo…
Anche se sappiamo che non potrò, farlo…
 
Anche se non te lo dirò mai…
 
 
 

Io potrei restare, per te.

Resterei, per te.

 


Solo per te.
 
 
 
 
 


Angolo dell’autrice:
 
Questo capitolo arriva con più di un mese di ritardo.
 
È davvero vergognoso avervi fatto attendere tanto e, ancora una volta, vi chiedo scusa.
 
Ieri mattina mi sono imposta di sedermi al pc e di non alzarmi senza aver scritto almeno qualche pagina da pubblicare prima di Natale.
 
Questo - per quanto la mia capacità autocritica e di valutazione su quanto scrivo ultimamente sia davvero ridotta ai minimi termini e mi impedisca di capire quanto valido od orribile possa essere - è il risultato. ^_^
 
Spero che non sia troppo difforme dal resto dello scritto. Io ce l’ho messa tutta. :)
 

Quanto meno, possiamo dire che Sherlock abbia davvero capito cosa significhi “amare”  qualcuno più di se stessi!  :D
 
 
 
Come già fatto in “Apologize”, vorrei dedicare questo capitolo a voi.
 
A chiunque abbia letto fin qui, a chi mi accompagna in ogni viaggio fin dall’inizio e a chi è stato, o è, solo di passaggio.
 
Grazie di cuore, ancora una volta, per questo 2016 insieme.
 
 
 
A presto,
B.
 
 
 
 
 
“L'incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche: se c'è una qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati.”
(Carl Gustav Jung)

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