United we stand, divided we fall.

di charliespoems
(/viewuser.php?uid=847270)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La verità e l'addio. ***
Capitolo 2: *** Si inizia. ***



Capitolo 1
*** La verità e l'addio. ***


Capitolo uno:
La verità e l'addio.

In molti non sono a crederci,
ma si dice che sia l’uomo a scegliere
che elemento utilizzare,
e non vice versa.
 
   Sin dall’inizio dei tempi, i quattro elementi girovagavano per la Terra indisturbati, consci del fatto che, prima o poi, qualcuno sarebbe riuscito ad utilizzarli, a plasmarli, ad adoperarli come meglio credeva. Da quando l’umanità era apparsa nel pianeta, si è sempre creduto che terra, acqua, aria e fuoco fossero penetrati nella mente e nel corpo dei prescelti, guidandoli e facendosi guidare, addomesticandoli e facendosi addomesticare. Nessuno ancora lo sapeva, ma gli uomini e gli elementi avrebbero condiviso molto insieme: non solo le giornate, i mesi, gli anni; non solo la loro vita. Avrebbero trascorso un cammino lungo ed inesorabile, avrebbero condiviso avventure e miriadi di esistenze, decadi di combattimenti e sangue. Avrebbero condiviso guerre, sventure, gioie e vittorie. Ma, soprattutto, avrebbero condiviso leggende.

   Le quattro Nazioni, anche dopo la pace, erano rimaste in combutta tra loro. Certo, si erano giurate fedeltà eterna, ma il sottile strato di rivalità non poteva non mancare. Dopo la Prima Grande Guerra, le morti erano state così tante da decimare la popolazione, arrivando così poi a stipulare un accordo per far cessare quello sterminio. Le azioni positive, però, c’erano. Infatti i bambini delle varie nazioni crescevano cercando di non attaccarsi l’uno con l’altro, senza far prevalere inutili pregiudizi inculcati dai più anziani. I genitori dovevano stare molto attenti, in quel frangente. La cosa più importante che ciascun popolo rispettava era l’addestramento dei più piccoli, poiché loro sarebbero stati il futuro, l’orgoglio di ciascuna nazione, e come tali dovevano ricevere un insegnamento esemplare. Questo era sempre diverso, si passava da estremamente rigido quale quello della Nazione del Fuoco a quello meno pesante – per quanto meno pesante si possa intendere, ovviamente – ovvero quello dei Nomadi dell’Aria. Il credo popolare, comunque, era quello che fosse l’elemento a scegliere l’individuo. E se quell’individuo nasceva nella Tribù dell’acqua, voleva dire che la sua discendenza era predestinata alla Tribù dell’acqua. In questo modo non si verificarono mai miscugli fra elementi. Chi era della terra si accoppiava con chi era altrettanto della terra e così via. L’orgoglio era esagerato da quel punto di vista.

   Comunque, dopo la pace, tutta la popolazione cercava di dare il proprio contributo per salvaguardare il mondo e rendere in equilibrio i quattro Elementi, in modo da evitare che si ripetessero tragedie simili. Della Prima Guerra non era rimasto molto, in realtà, se non il dolore delle perdite, le toppe dei vestiti sgualciti, pochissimi diari di viaggio e qualche quadro che cercava di rappresentare le tipologie degli scontri. Si cercava sempre di capire e di studiare i metodi di combattimento in modo tale da insegnare ai più giovani più tecniche possibili. Agli stessi giovani, prima di infilarsi nel proprio futon e entrare in un sonno profondo, venivano raccontate le avventure straordinarie che i loro antenati avevano vissuto proprio durante quella guerra. Per loro era un qualcosa di strabiliante, sentir parlare così della propria famiglia, dei propri poteri. Quelle storie aiutavano i loro cuori a battere più velocemente, a far scorrere l’adrenalina nelle vene, mentre la mente viaggiava per meandri colmi di potere e avventura.

   Per Oikawa ed Iwaizumi era sempre stato così. Si sedevano composti insieme ai loro fratelli, ciascuno raccolto nel proprio futon, e ascoltavano ciò che l’Obaa-chan aveva da dire. Ogni notte era una storia diversa. Che poi la nonna – così come doveva essere chiamata dai più piccoli poiché più anziana e più saggia – inventasse qualche racconto era palese, ma le espressioni gioiose ed emozionate nel volto di quei piccoli valeva qualsiasi prezzo.
Tooru e Hajime erano da sempre cresciuti insieme. Nonostante il primo fosse di un anno più grande – e contava molto, nella tribù – ci teneva particolarmente alla compagnia del più piccolo, mostrandogli di tanto in tanto tecniche e posti nuovi. Non che al Polo Sud, nella Tribù dell’Acqua per l’appunto, si potesse girovagare in lungo e in largo, ma scoprire nuovi ghiacciai sapeva essere molto divertente. I due passavano per la maggior parte del tempo le giornate insieme, a scribacchiare su sogni e creature mistiche, su viaggi da intraprendere alla ricerca di persone da sfidare e un bagaglio culturale da aumentare. Si dividevano solamente durante il periodo dell’addestramento. Tooru, essendo un anno più grande, veniva addestrato in modo diverso con esercizi e difficoltà leggermente più elevate. Quando terminava, zompettava tutto sudato ma contento verso il suo amico, mostrandogli i frutti del suo lavoro. A quel tempo non si chiese mai perché invece Hajime non utilizzava i suoi poteri. Non di fronte a lui, almeno. O questo era quello che pensava.

   La Tribù dell’Acqua era divisa in due parti, una sostava al Polo Nord ed una al Polo Sud. Vivere in posti del genere era un po’ difficoltoso per quanto riguardava le provviste, poiché tutto dipendeva dagli oceani, ma grazie agli orsi, alle alghe commestibili e alle prugne di mare, la popolazione sapeva vivere in tranquillità. La Tribù del Sud differiva da quella del Nord in quanto nella prima il governo era strettamente patriarcale, mentre nella seconda vi era una monarchia e leggi più rigide. Difatti, nella Tribù del Nord, era impensabile veder combattere una donna, poiché il suo lavoro era strettamente casalingo e tale doveva essere. Ma è anche vero che la Tribù del Settentrione non aveva sofferto la Prima Guerra quanto quella del Meridione, quando la Nazione del Fuoco aveva sterminato quasi tutti e quindi anche le signore erano state costrette ad armarsi.

   Tooru era contento di vivere nella Tribù del Sud. Contava solamente venticinque abitanti di cui dodici erano bambini e quattro ragazzi più grandi. Erano pochi ma stavano bene tra loro, si conoscevano quasi tutti e anche gli allenamenti sembravano molto più semplici da affrontare. Tooru passava molto tempo a pensare vicino al piccolo ruscello nascosto da una piccola discesa di ghiaccio accanto alla sua tenda. Sostava lì, le ginocchia al petto e lo sguardo fisso sull’acqua che scorreva. L’acqua. Più la guardava e più sentiva come se potesse innamorarsene. Quello era l’elemento della benevolenza, dell’adattabilità. Le persone che avevano l’onore di manipolarla si dicevano essere ricche di emozioni, di vita pura che scorreva nelle vene. Lui ne era sempre rimasto affascinato, perché in qualche modo – mentre con l’indice faceva un movimento circolare verso il cielo e subito dopo una minuscola scia d’acqua lo seguiva – si sentiva invincibile, pieno di sé stesso e delle sue abilità. A cena avrebbe chiesto ad Iwa-chan, il suo ormai fidato compagno di avventure e – ormai lo sapeva, lo sperava – di vita, cosa ne pensava lui, dell’Acqua.

   «Non ci penso molto» rispose il ragazzino, spiazzandolo. «Ma come Iwa-chan, l’acqua è la nostra essenza! Come puoi non pensarci?» sbuffò l’altro, mettendo le braccia e le mani conserte contemporaneamente. Iwaizumi sbuffò rumorosamente al broncio dell’altro.  «Non ci penso Oikawa, e basta. Non sono mica un fanatico come te» per poi sbuffare un sorriso alla smorfia con tanto di linguaccia del più grande. «Se non ti piace basta dirlo sai?» continuò l’altro, come se non avesse ascoltato una parola. «Non mi piace essere predestinato» Iwaizumi con quelle parole finì, lasciando un Tooru senza parole e con la bocca dello stomaco in subbuglio dalla delusione.
«Okaa-chan, dov’è Iwa-chan?» chiese Oikawa, saltellando da una parte all’altra della cucina. Ormai aveva tredici anni e doveva compiere l’esame per assicurarsi di poter proseguire i suoi studi. «Non lo so amore, non l’ho visto stamattina» «Uff, baka-Iwa-chan! Proprio oggi che devo sostenere l’esame. E io che non vedevo l’ora di fargli vedere il mio drago d’acqua!» sbuffò pestando i piedi, chiedendosi mentalmente dove l’amico si potesse essere cacciato. Uscì di corsa fuori casa, per poi andare a sbattere proprio contro la testona di quel cattivone del suo amico. Lo guardò furioso per un paio di secondi a causa della preoccupazione, ma si sciolse subito dopo in un sorriso, cercando di stritolarlo con un abbraccio. «Iwa-chan, allora sei arrivato!» L’altro cercò di scansarsi inutilmente, finendo poi per appoggiare la fronte sulla spalla dell’altro. «Oggi ti sei arreso presto» rise Tooru, riferendosi all’abbraccio. Strano. «Muoviti, il tuo esame non inizia tra molto» gli rispose Iwaizumi, invitandolo a prepararsi.

   Subito dopo, il più piccolo raggiunse la madre di Oikawa, tremendamente in imbarazzo. «Hajime-chan! Come stai? Tooru ti cercava poco fa» «S-sì, mi ha trovato. E-em, ecco, io vorrei chiedere una cosa» strinse forte i pugni, Iwaizumi, perché non sapeva se avrebbe trovato il coraggio per dire quelle parole. «Dì pure, Hajime-chan» «Tooru… Tooru parteciperà alle Olimpiadi, giusto? Quando avrà diciassette anni. Lo manderete in quel posto orribile, vero?» chiese, il tono fermo e lo sguardo rivolto dritto verso gli occhi della signora Oikawa. Le Olimpiadi si tenevano ogni quattro anni in uno spiazzo del pianeta che non faceva parte di nessuna Nazione. Non era mai stato utilizzato se non per quell’evento così importante. Durante le Olimpiadi, ragazzi e ragazze di tutte le Nazioni gareggiavano elemento contro elemento per classificare chi fosse il più forte. Tutto secondo la legge, ovviamente, e monitorato in modo che nessuno si facesse male veramente. Certo, questo era ciò che tutti dicevano, ma Hajime lo sapeva – lui lo sapeva – che non poteva essere in quel modo. Non era possibile perché la rivalità tra i popoli regnava sovrana e mai nessuno si sarebbe accontentato di arrivare secondo anziché primo. Hajime odiava quel mondo, odiava gli Anziani, odiava i Re e chiunque governasse ciascuna Nazione. I suoi genitori non erano morti per caso, dopo aver partecipato a quelle dannate Olimpiadi, e poi- «Okay, sono prontoo! Andiamo, Iwa-chan? Mi raccomando, fa’ tifo per me, altrimenti mi arrabbio!»

   L’esame di Oikawa era andato a gonfie vele, riuscendo a mantenere la calma nel modo giusto e calibrando la forza con l’essenza che appartiene al suo elemento – e in fondo anche a lui stesso – era riuscito a stupire Obaa-chan, che gli fece addirittura un applauso. Il suo drago d’acqua aveva fatto ben due giri della morte e, anche se era stracolmo di sudore e vedeva doppio per lo sforzo, si riteneva assolutamente soddisfatto. L’unica cosa che gli fece rovinare il sorriso, però, fu girarsi di spalle e vedere che il suo migliore amico non c’era. E ancora non sapeva che da lì a pochi minuti tutto sarebbe caduto in miseria.

   Quando andò a cercarlo nella sua tenda sentì delle urla in lontananza, Iwaizumi circondato da adulti – sua madre compresa – con espressioni che non trasmettevano nulla di buono. «Perché negate?» sentì urlare il suo amico, mentre pestava i piedi a terra dall’indignazione. Non si aspettava di certo questo, ad esame terminato. Ancora tutto grondante, cercò di avvicinarsi senza dare troppo nell’occhio. «I Giochi, le Olimpiadi, non sono altro che un suicidio. Lui stravede per quelle gare e voi volete solo mandarlo a morire!» «Hajime cosa diavolo-» «Questo ragazzino è imperdonabile!» «A dodici anni come ti permetti di dire certe cose a degli adulti? Sei un ingrato» «I MIEI GENITORI SONO MORTI A CAUSA VOSTRA. CHI SAREBBE L’INGRATO?» gridò, inginocchiandosi per terra e sferrando pugni sul freddo strato di ghiaccio che giaceva nel pavimento. Oikawa giurò di sentire qualcosa rompersi dentro di sé a vedere il suo Iwa-chan in quello stato. Non lo avrebbe mai voluto, non per lui. Sapeva quanto soffrisse per la morte dei suoi genitori – era l’unico bambino rimasto orfano, il che poteva essere intesa sia come una fortuna che come una disgrazia – ma Iwaizumi era tipo da lasciar perdere quel tipo di cose, di lasciar scorrere i problemi e di andare avanti a testa alta. Lui era quello che rassicurava, non che si faceva rassicurare.

   Quando vide una massa d’acqua bollente e sentì il grido spacca orecchie del suo migliore amico, le gambe gli cedettero. Obaa-chan lo aveva ormai superato, mentre controllava l’acqua sopra la sua testa e Hajime restava inerme, a tremare, sentendosi un verme, mentre l’acqua gli ustionava un fianco. «Disonore» sussurrò l’anziana, guardandolo. «B-Brava, uccidimi p-proprio come ha-hai fat-to con m-mamma e pa-ah-pà» lo vide raggomitolarsi un po’ più su se stesso, coprendo con più parti di corpo possibili la porzione da carne ormai ustionata dall’acqua. «Pentiti, Hajime» disse l’Anziana, guardandolo fisso negli occhi. «Chiedi scusa e va’ a letto immediatamente. Non ci posso credere. È per questo che ti rifiuti di usare i tuoi poteri?» se possibile, Oikawa rimase ancora più privo di parole. Lui... Lui non li aveva mai usati? Non era una questione di vergogna o di orgoglio. Lui si.. rifiutava? Lo vide alzarsi, gemendo dal dolore. Si chiese come potesse sopportare una ferita così straziante. «A-avanti, uccidimi» lo sentì sussurrare, la testa affossata nelle spalle e lo sguardo rivolto verso il terreno.

   «NO!» Le sue gambe si mossero prima che potesse fare qualcosa per bloccarle. Si piazzò davanti ad Hajime, prendendolo per le spalle e scuotendole continuamente, come se potesse risvegliarlo da chissà quale ipnosi. «Iwa-chan» sussurrò. «Iwa-chan, cosa diavolo dici?» continuò. «Levati» gli diede uno spintone, cercando di superarlo, ma Tooru lo prese per un braccio – dolorante, dalla smorfia che il compagno fece – e lo tenne stretto a sé. «Piantala di dire scemenze» provò a convincerlo. «TU NON SAI NIENTE!» gridò forte, Iwaizumi, tanto da farlo sussultare. Perdeva le staffe con lui, sì, ma tanto da dargli qualche colpetto nelle braccia, qualche scappellotto o battergli il dito medio sulla fronte. Non aveva... mai… alzato la voce. «Ed è giusto così, perché le cose cambieranno» sussurrò poi.  «Io vi odio. E non mi pentirò mai» si rivolse alla vecchia, allora, guardandola come se potesse ucciderla con il solo potere di uno sguardo. «Iwaizumi Hajime» si voltò di spalle, lasciando tutti con il fiato sospeso. «Raggiungerai la mia sede immediatamente. Sei Diseredato»

   Oikawa aveva fatto di tutto per entrare anche lui nella sede e vedere in che schifo di modo lo stavano trattando, perché quelle grida erano inumane e nessuno poteva trattare Iwa-chan così. Lui non se lo meritava, doveva stare con lui, dovevano proteggersi a vicenda, non poteva lasciarlo solo. Era un anno più piccolo di lui e avrebbe davvero voluto proteggerlo. Invece… Invece! Si mise a gridare pestando la porta, graffiandola con le unghie e versando quantità infinite di lacrime, dando pugni e calci sino a ritrovarsi i polpastrelli pieni di acqua salata e sangue, molto sangue. «IWA-CHAN!» urlò con tutte le sue forze, Oikawa. Inutilmente. Si fermò solamente quando le sue gambe non lo ressero più in piedi, sentendo due braccia che lo avvolgevano e addormentandosi su un futon fin troppo comodo, sentendo qualcuno chiamarlo in lontananza.
Oikawa non seppe mai cosa successe quel giorno, ma lo sognava ogni notte, avvertendo in sé un senso di vuoto e di solitudine.
Oikawa non avrebbe mai saputo.
O forse sì.







 
Angolo autrice:
Io non so da che cosa è uscito fuori tutto... questo.
Mi sono solo immaginata i pargoli in un universo simile a quello che vediamo in Avatar - la leggenda di Aaang/Korra e, bé, ho cominciato a scrivere e... bé... non mi sono più fermata.
Spero che tutto sia abbastanza comprensibile per ora, se ci fossero dei dubbi non esitate a chiedere. Se notate che i personaggi siano troppo OOC, non esitate a sottolinearlo. Se pensato che sia un minestrone di troppe cose e che risulta troppo pesante, non esitate a farmelo sapere.
In caso non lo sappiate, "Obaa-chan" vuol dire letteralmente "nonna" in giapponese, così come "Okaa-chan" per "mamma".
Essendo un primo capitolo ho lasciato trasparire un po' di cose che approfondiremo più avanti, come ad esempio spezzoni di vita su Iwa e Tooru, per non parlare del fatto che poi ci saranno nuovi personaggi e così via.
Ci terrei veramente tanto a sapere cosa ne pensate, in modo tale da capire se continuare o meno.
Un bacione,
Charlie;

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Si inizia. ***


1
 Si inizia.
 

      Oikawa si risvegliò fradicio dalla testa ai piedi. Gli incubi non lo lasciavano in pace da anni, ma in quell’ultimo periodo sembravano essersi accumulati e avvinghiati al suo sonno. Non era una sensazione piacevole, l’inquietudine costante e la paura di non riuscire a dormire. Solitamente, da bambino, si infilava nel futon dei genitori, si sistemava in mezzo a loro avvolgendosi nelle coperte di pelle d’orso bianco – le più calde che avesse mai avuto – e si stringeva a loro, strizzando così forte gli occhi da lasciare andare via ogni cattivo pensiero. Quel metodo non funzionava più. Tooru era cresciuto, aveva messo su muscolatura, i capelli erano cresciuti arricciati alle punte, era diventato sempre più alto tanto da superare la maggior parte degli adulti e, inevitabilmente, era diventato il più bravo manipolatore dell’acqua della Tribù del Sud.

     «Oikawa-san» sobbalzò quando sentì una voce. Si chiese se avrebbe avuto un attimo di pace.
«Oikawa san,» lo richiamarono. «stiamo per partire. Stiamo aspettando solo lei» solamente quando sentì i passi di Hanamaki sprofondare nella neve si permise di sbuffare. Quello era il grande giorno e non c’era persona che da mesi a quella parte non glielo ricordasse. Come se lui non lo sapesse, poi. Insomma, spettava a lui combattere contro il più forte manipolatore dell’acqua della Tribù del Nord, dopotutto, no? Era compito suo dover vincere per poi andare ai Grandi Giochi, giusto? E allora perché tutta quest’ansia, tutto questo incoraggiamento? Perché dovevano stargli con il fiato sul collo da quando-

      Si accorse di non star più respirando solamente quando il petto cominciò a dolergli. Sul suo campo visivo vi era il ricamo fatto da Obaa-chan che ritraeva lui e il suo migliore amico. Sorridevano, lui e Iwaizumi. Sorridevano in quel modo così ingenuo e stupido che solo il ricordo faceva male. Sorridevano sperando in un futuro che mai sarebbe arrivato. Per quel che poteva saperne, Iwaizumi era morto. Lo avevano cacciato dalla Tribù dopo quel famoso giorno e parlare di lui era diventato un tabù, un disonore. Strinse quel ricordo al petto. Si era promesso di proteggerlo, ma la verità era triste e dolorosa: non era in grado nemmeno di proteggere sé stesso. Perché lui si era fatto delle domande, dopo il discorso di Hajime. Si era chiesto se dietro alle Olimpiadi non ci fosse sul serio qualcosa di losco, di terribile. Ma non aveva trovato risposta. E ora si trovava in quella porzione di tenda, con un peso troppo grande da portare sulle spalle e la malinconia che lo abbracciava per intero.

        L’ultimo ricordo del viso di Hajime era nitido ai suoi occhi: lui che correva, si dimenava fra le braccia di chi cercava di agguantarlo, dava spintoni e urlava. Urlava così forte che pensò di perdere la voce, quel giorno. Ricordò le lacrime che scorrevano mentre vedeva Iwaizumi girarsi a guardarlo, salire sulla scialuppa e sorriderli. A percorrergli la guancia, dal sopracciglio sino al mento un’ustione verticale che inevitabilmente gli distruggeva il viso. Era un peccato, perché la pelle scura e forte di Hajime era bellissima. Ricordò il dolore improvviso alle gambe, il ritrovarsi in ginocchio, il sapore amaro dell’addio e le parole che non poteva uscire dalle labbra. L’aveva osservato allontanarsi fino a quando non fu sparito, perché sapeva di non poter fare nulla. Era un addio, dopotutto.

       Il viaggio finì per essere estenuante. Faceva più freddo del solito, mentre la barca scorreva sul fiume, e aveva perso il conto di quante fossero ormai le ore di viaggio. In più cominciava a diventare nervoso. Del suo avversario conosceva solamente il nome: Kageyama Tobio. Si vociferava fosse un fuoriclasse, un mostro quasi. Oikawa sorrideva ogni volta, perché lui era il re di quell’elemento: nessuno poteva batterlo.
«Quanto manca ancora?» chiese, sbadigliando.
«Forse tre ore. Sei agitato, Tooru?» sua madre gli carezzò il viso, apprensiva. Ne andava anche del suo futuro, d’altronde. Se avesse vinto avrebbe portato onore alla famiglia, alla sua città. Sarebbe stato meglio per tutti.
«Un po’» rispose. Era la sua grande occasione. Stava per compiere il grande passo. E allora perché non provava nulla? Perché si sentiva come fosse uno scrigno vuoto, privato del suo tesoro? Vedeva il paesaggio circolare davanti a sé: distese di neve e ghiaccio, ogni tanto ricoperte da erba fresca. Avevano deciso di percorrere la strada più lunga, quella in cui non avrebbero incontrato nessun altro Paese. Si chiese se avesse visto la terra che avrebbe ospitato le Olimpiadi. Si ricordò solo dopo che questa era situata al centro fra la Nazione del Fuoco e la terra dei Nomadi dell’Aria.

        Aveva letto qualcosa sugli altri Paesi, ma non si era mai soffermato a studiarne i particolari. Durante quel periodo di tempo in cui era rimasto solo si era dedicato solamente agli esercizi con l’acqua. Voleva diventare il più forte a tutti i costi, voleva concentrarsi, focalizzarsi sul suo obiettivo, perché altrimenti la tristezza gli avrebbe corroso ogni cellula. Non era debole, Oikawa, ma con Iwaizumi si sentiva sicuramente più forte. Gli voleva bene per forza, quel genere di bene incondizionato che vuoi ad un fratello anche se ti fa arrabbiare. Quel genere di bene che, se l’altro sparisce da un momento all’altro, distrugge.

        La Tribù del Nord era completamente diversa da quella del Sud. C’era, in qualche modo, molta più civilizzazione. Vedeva strani aggeggi elettronici un po’ ovunque. Anche il modo di vestire era differente. Nella sua Tribù si vestiva maggiormente con pelle di orso o di tricheco. Ogni tanto, di foca. Ci pensavano le signore più anziane a lavorarle e cucirle. Gli animali venivano utilizzati per tanti scopi. Erano, probabilmente, la forma più utilizzata di sostentamento. In quella Tribù invece ci si vestiva sempre in modo pesante, ma in qualche modo gli abiti sembravano più raffinati, di pelle pregiata. Non si soffermò a guardare il resto del paese, comunque, poiché troppo occupato a rispondere agli sguardi indagatori e poi spalancati dei passanti, che gli davano ai nervi. Sì, lui era lo sfidante del famosissimo Kageyama-kun, che tra l’altro era di ben due anni più piccolo di lui. E dunque? Avrebbe voluto urlarlo un po’ in faccia a tutti, ma decise di contenersi. Si limitò solo nel fare delle linguacce a qualche bambino a caso.

    «Co-Come diavolo è possibile che loro abbiano un castello di ghiaccio? Da dove diavolo se le sono tirati fuori?» chiese Mattsukawa, rimanendo paralizzato per qualche secondo. Il castello non era di proporzioni così grandi, ma sicuramente si faceva notare. Non era cosa da tutti i giorni vedere una costruzione del genere.
«Hanno sicuramente molti più fondi di noi» sbuffò un ragazzo più in fondo, le braccia conserte dietro il collo.
Oikawa non li ascoltò nemmeno, si diresse direttamente verso l’entrata.
«Prima finiamo, prima ce ne andiamo. Giusto?» guardò Obaa-chan che, nonostante l’età, aveva praticamente costretto tutti quanti a lasciarla partire. Lei annuì, visibilmente tesa. 
«Bene. Io vado. Voi fatevi un giro e divertitevi, mh?» fece il segno della pace con una mano, per poi dirigersi verso l’interno.
Il castello era completamente fatto in ghiaccio, sembrava per lo più che fosse composto da pezzi accatastati l’uno sull’altro.
Non vi erano nemmeno merletti o torri d’avvistamento. Sembrava tutto abbastanza ridicolo, a pensarci bene. Si chiese se fosse scivoloso.

       Una volta chiusa la porta, domandò se ci fosse qualcuno.
Aggiunse alla lista mentale delle cose negative di quel paese la mancanza quasi totale di luce. Si chiese dove l’incontro si sarebbe tenuto.
«Allora, c’è nessun-» si spostò di lato, sentendo una fiamma scottargli improvvisamente parte della casacca.
Spense immediatamente il fuoco con un gesto della mano. Vide davanti a sé un ragazzo poco più alto di lui che, con la testa piegata da un lato, lo fissava.
«Non pensavo che Kageyama-kun fosse un manipolatore del fuoco. O almeno, non è quello che mi è stato detto» sputò, acido.

**

       «Sei proprio sicuro? Ti ha detto di fare questo?» gli chiese, un sopracciglio arcuato.
«Sì, e l’unico di cui può occuparsene al momento è lui, dato che gestisce il suo elemento opposto e, in questo caso, dominante. Dobbiamo solo aspettare. Non sappiamo quanto sia forte in realtà Oikawa-san. In caso non collabori, ovviamente» rispose Kageyama, nascondendo l’agitazione schioccandosi le dita. Kageyama era sempre stato affascinato dalla Tribù del Sud. Numerose volte aveva promesso a sé stesso di visitarla, durante una vacanza magari.

       Sapeva quanto fosse diversa dalla sua: non c’era nessun tipo di tecnologia, non vi erano castelli o principati, si basava tutto su animali e forza autonoma. Probabilmente era per quel motivo che i migliori manipolatori dell’acqua partecipanti ai Giochi provenivano sempre da lì. Era da anni che la Tribù del Nord non prendeva parte alle Olimpiadi. Avevano più fondi, più possibilità, più persone su cui lavorare, eppure non riuscivano ad avere quella forza risoluta che gli sfidanti invece avevano. Non si sarebbe mai aspettato di dover combattere contro il più bravo manipolatore di quel Paese. Non era giusto. Pensava che entrambi meritassero il posto alle Olimpiadi, che quella divisione non era rispettosa per nessuna delle parti, prima di sapere e capire a cosa in realtà quei giochi servissero. Sentì il sangue gelargli nelle vene a quel pensiero. Era un miracolo che avesse scoperto tutto prima dell’evento. Proprio quell’anno i suoi genitori e gli Anziani decisero di promuoverlo e di nominarlo per i Giochi, facendogli credere quanto fosse importante parteciparvi. Era un onore importante, una faccenda che veniva inculcata ai bambini. La pulce nell’orecchio che fa sentire grandi, invincibili, causando poi l’effetto contrario.

       Si sentiva onorato di essere stato nominato per quella missione segreta, se così poteva essere definita. Rispettava molto i suoi senpai e confidava nel fatto che Oikawa-san, per quanto non lo conoscesse, sarebbe stato ragionevole nei loro confronti. Lo sperava davvero, anche perché altrimenti il tutto sarebbe andato a monte. Ad essere sincero, Tobio non amava alla follia Oikawa. Ne aveva sentito parlare come un re indiscusso del suo elemento, come un essere invincibile e tenebroso. Una volta gli dissero che il suo sguardo incuteva terrore: sembrava composto da ghiaccio puro. Si vociferava che fosse uno dei pochi in grado di poter sfruttare talmente a pieno il suo elemento da potercisi fondere in un tutt’uno. Kageyama non voleva crederci. Eppure se tutti quanti ne parlavano così bene voleva dire che quel ragazzo aveva effettivamente un potenziale, e in cuor suo lui sapeva di volerlo battere a tutti i costi. Voleva sconfiggerlo, era vero, ma in uno scontro in regola. In uno scontro in cui nessuna vita sarebbe stata messa in palio. Si chiese se il suo senpai sapesse tutta la verità.

       Kageyama aveva scoperto a cosa in realtà servissero i giochi sei mesi prima, quando per sbaglio aveva sentito una conversazione di troppo sul suo conto. I bambini, o ragazzi che fossero, venivano educati appositamente per affrontare quel periodo di tempo che li avrebbe condotti alle Olimpiadi. A soli tre anni, quando il bambino cominciava a muovere le manine e giocare con i primi spruzzi d’acqua, gli anziani li catalogavano nell’Elenco dei Volontari. Se crescendo il ragazzo aveva buone possibilità di addomesticare l’acqua a suo piacimento, era quasi del tutto sicuro che avrebbe, a diciassette anni, gareggiato. Impostare un elenco simile non era poi così oltraggioso, per alcuni era sinonimo di sicurezza, di ordine. Il punto era far valere la propria Tribù. Generalmente, specie anni prima, i bambini non facevano mai amicizia tra loro. Era vietato, poiché i rapporti umani – specialmente tra persone dello stesso sesso – avrebbero intralciato l’apprendimento. Le lezioni si basavano sull’Obaa-chan o l’Ojii-chan che spiegavano a ciascun alunno, in tempi diversi, ciò che avrebbero dovuto imparare per la volta successiva.

          Il controllo dell’acqua deriva da costante equilibrio con sé stessi, dall’estraniarsi dal mondo esterno e tuffarsi con corpo e anima in quell’elemento così potente qual era l’acqua. Le lezioni erano severe, probabilmente non quanto quelle della Nazione del fuoco, che godeva di un apprendimento estremamente rigido e faticoso, ma sicuramente non era una passeggiata. La cosa che più fece tremare di disgusto Kageyama, quando lo venne a sapere, era che i ragazzi erano destinati. Chi nasceva nelle Tribù doveva per forza addomesticare l’acqua, chi nasceva nella Nazione doveva manipolare il fuoco, e così via. Non c’era alcun tipo di scelta, altrimenti i ragazzi venivano diseredati o peggio uccisi. Molti si rifiutavano di voler combattere con un elemento con il quale non disponevano nulla, e allora venivano condannati. La stessa cosa accadeva a chi non raggiungeva delle buone impressioni nell’Elenco. Se un ragazzo non aveva potenziale, veniva automaticamente eliminato poiché ultima ruota del carro. Chi non era abbastanza capace, a detta degli anziani di qualsiasi Paese, doveva essere scartato definitivamente.

       Era solo una questione d’onore, un stupida convinzione secondo cui il più forte sopravvive e il più debole muore agonizzante. Kageyama, dopo aver letto i metodi dei vari assassini, si sentì male. Sentire quasi sottopelle quei trattamenti gli aveva strizzato così forte lo stomaco che rimettere il pasto era stato inevitabile. Non sapeva ancora tutto riguardo i Giochi, ma sapeva che erano il punto cruciale della Rivendicazione, così loro la chiamavano. Vendicare il proprio Paese dalla feccia con cui erano stati costretti a convivere. Faceva schifo solamente al pensiero. Aveva deciso di entrare in quel gruppo di persone che andavano contro quel trattamento immediatamente dopo aver appreso certe notizie. Non sapeva ancora chi gestisse l’ordinamento, se più persone o una sola, ma riteneva corretto parteciparvi.

      Non ricordava bene come fosse disposta la gerarchia. Ricordava soltanto che ogni fazione era divisa per Paese, dove intervenivano dei Capitani di tutti gli Elementi con qualche Principiante di supporto. Generalmente venivano mandati in azione due o tre Capitani, con un seguito di tre Principianti ciascuno. I Capitani erano principalmente i più capaci con il loro elemento, che dunque sapevano gestire al meglio le situazioni, sapevano analizzarle a dovere mantenendo sangue freddo e mente lucida. Era un compito che il singolo decideva di avere, o che “I piani alti” decidevano di assegnare. I Principianti non erano solamente coloro privi di esperienza come Kageyama, ma erano tutti quelli che non desideravano essere nominati come Capitani. Erano ovviamente molto capaci nella manipolazione del proprio elemento, ma preferivano prestare attenzione al singolo combattimento che alle strategie su come attuarlo.

      L’Ordinamento era stato creato molti anni prima, a detta dei suoi senpai. Ne aveva conosciuti alcuni, durante quella missione, che gli avevano raccontato qualcosa in più. Nessuno sapeva chi ci fosse al Vertice, ma molti Capitani si conoscevano l’uno con l’altro. Ad esempio, due dei Capitani che erano in missione con lui quel giorno si conoscevano da anni, nonostante manipolassero elementi diversi. Gli avevano parlato dell’Ordinamento come base segreta, del posto in cui ci si allena, di quanto potente sembri all’esterno. Kageyama non aveva mai avuto l’occasione di vederlo poiché ancora troppo giovane e inesperto. Il suo compito al momento era di fare la spia e dichiarare più quanto conosceva. Era abbastanza complicato ma al tempo stesso importante e lui ne andava fiero.

«Ci sta mettendo un po’. Dev’essere tosto come dicono» il Capitano rimasto insieme a loro rise.
«Chissà, magari è la volta buona che Kuroo ci rimette la pelle»





Angolo autrice:
chiedo scusa per questo imperdonabile ritardo. Ho avuto davvero un sacco da fare e sto avendo un sacco da fare per un concorso letterario a cui parteciperò e quindi gli aggiornamenti sono sempre un problema piuttosto grande da affrontare.
Prometto però che non sarà necessario aspettare così tanti mesi per la prossima pubblicazione.
Venendo al capitolo, vediamo che ci sono molte più carte in tavola adesso. Abbiamo la presentazione di più personaggi, alcuni dei motivi per il quale i Giochi siano così terribili - perché sì, Kageyama è ingenuo e sa pochissime cose - e i vari pensieri di Oikawa a riguardo che, chissà, vincerà? O ascolterà il manipolatore del fuoco?
Ovviamente la presentazione di Kageyama è ancora misera. Più avanti vedremo il suo caso in particolare, così come quelli degli altri personaggi.
Sinceramente non vedo l'ora di presentare gli altri Paesi perché trovo la loro descrizione estremamente affascinante.
Se c'è qualcosa di non chiaro sull'andamento della trama della storia sappiate che è più che legittimo chiedere. Ovviamente è in piena evoluzione, ci sono delle questioni non svelate appositamente, ma in caso sfugga qualcosa allora è giusto chiarirsi.
Spero che le descrizioni siano chiare e non troppo pesanti e spero che nonostante il ritardo questa storia possa continuare a piacervi.
Perdonate eventuali errori: scappano sempre.
Un bacio e a presto,
Charlie;

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3522901