Il gioco della vita

di alessandroago_94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

CAPITOLO 1

 

 

 

 

 

Il giorno in cui lo vidi per la prima volta, stavo suonando il pianoforte. Con forza, le mie dita domavano i tasti sottostanti, creando una sinfonia che mi rallegrava fin dentro l’anima.

Come ogni giorno, ero appena tornato da scuola e la mia monotona vita si stava rivelando un disastro; i voti non erano mai stati troppo positivi ma in compenso la mia immensa voglia di scrivere e di suonare non pareva avere limiti.

Il mio pianoforte, che custodivo gelosamente in un angolo appartato della piccola saletta della casa in cui vivevo con mia madre, era l’estensione delle mie dita e potevo suonarlo per ore intere senza minimamente affaticarmi, mentre i miei arti sfogavano la tensione che avevo accumulato per l’intera mattinata.

Ero un ragazzo non tanto bello, basso e tarchiato, con spesse sopracciglia e un volto glabro e quasi da bambino, mentre i miei capelli castani erano ribelli e irti come gli aculei di un istrice.

Ero sincero all’epoca, forse anche troppo, e di certo non ero un asso nello studio e nei rapporti sociali. In poche parole, ero il tipico ragazzo emarginato, il classico soggetto che si mette in disparte e che resta succube della sua timidezza.

Una timidezza che pareva volermi strozzare a volte, e che non mi faceva sentire pienamente me stesso.

I tasti del mio pianoforte mi permettevano di alzarmi in volo e di librarmi come un’aquila, sfruttando le correnti ascensionali dei miei pensieri, per poi gettarmi nel cuore più vero della musica, lasciando libera la mia passione e permettendole di far di me tutto ciò che lei avrebbe voluto.

E fu durante uno di quei momenti di esclusione dal mondo e di estasi che lui entrò nella mia vita.

I tasti continuavano a scivolarmi sotto le dita, mentre chiudevo gli occhi e ripercorrevo quella melodia tutta mia che avevo composto tre anni prima, e che da allora era diventata una sorta di inno nazionale del mio cuore, ma quel giorno non andò come avrei voluto che tutto andasse.

Qualcuno violò la mia intimità, ed entrò nella piccola sala e si sedette sulla comoda e soffice poltrona che distava solo un paio di passi da me e che un tempo era stata proprietà esclusiva di mio padre.

Quell’interruzione della mia quiete mi rese nervoso, e fui costretto ad aprire gli occhi e ad abbandonare il mio mondo, rallentando i tocchi sui tasti e tornando rapidamente alla realtà.

Quando vidi l’uomo che si era seduto sulla poltrona, in controluce, per un attimo mi parve di scorgere la sagoma del mio genitore, e una rabbia cieca mi pervase. Mio padre se n’era andato di casa quando avevo solo nove anni, e da quel momento in poi si era sempre rifiutato di vedermi e di rivolgermi la parola.

Non so il perché, ma credevo realmente che lui non mi avesse mai apprezzato. Alto e burbero, il suo viso era stato solo in grado solo di esprimere costantemente disprezzo e nervosismo, da quel che mi ricordavo in quel momento.

Quando era riuscito a trovarsi una nuova compagna, era fuggito alla prima occasione, piantando in asso me e mia madre, che da quel momento si era vista costretta ad affittare alcune camere della casa a persone di passaggio o a turisti, in modo da poter fare qualche soldo con cui potere tirare avanti la baracca. E visto che mia madre in quel periodo lavorava saltuariamente ed io dovevo almeno riuscire a concludere le superiori, qualche soldo in più in tasca non poteva far altro che del bene.

Se non sbagliavo, quel perfetto sconosciuto doveva trattarsi del nuovo affittuario, che doveva essere arrivato assieme a sua moglie e a suo figlio quella stessa mattina intanto che ero a scuola, e prontamente aveva allungato le mani su tutta la casa come solo i maleducati sanno fare, interrompendo brutalmente il mio momento di sfogo musicale.

Notando il mio sguardo gelido e prolungato, e forse anche la mia espressione inebetita ed irritata, l’uomo sorrise con calore.

‘’Ho interrotto qualcosa? Mi dispiace. Ma suona pure, tranquillo, a me non dai alcun fastidio. Anzi, la tua musica mi rilassa’’, disse il nuovo arrivato, adagiandosi meglio sulla comoda poltrona ed afferrando un giornale posato sul tavolino che aveva di fronte.

Pareva che si stesse già sentendo il nuovo padrone di casa, ed io non potevo fargliela passare liscia.

Era vero che pagava una retta settimanale per soggiornare in casa mia, ma mia madre stabiliva sempre in anticipo che l’ingresso era vietato in quella piccola stanza, poiché sapeva che se qualcuno violava i miei momenti liberi poi perdevo le staffe. Ero timido, certo, ma mai quando si trattava di difendere i miei spazi personali.

E quel tizio pareva davvero maleducato, e lì per lì mi fece innervosire.

‘’Non ho intenzione di suonare con lei di fronte a me. La prego, se ne vada; era scritto nel contratto che ha firmato che in questa stanza non ci sarebbe mai potuto entrare, né lei né i membri della sua famiglia’’, dissi, trovando un po’ di coraggio e continuando a guardarlo storto.

Lui inforcò gli occhiali da lettura con un gesto rapido, e per la prima volta da quando era entrato nella stanza mi fissò in modo diretto, mostrandomi il suo viso e l’ennesimo irriverente sorriso.

Era un uomo sulla cinquantina, il volto contornato da una corta barba grigia e la testa praticamente calva. Gli occhi scuri come la notte incutevano un timore reverenziale che entrò subito dentro di me, invitandomi cautamente ad abbassare la cresta.

Ma la rabbia mi spingeva invece a continuare a lottare per il rispetto delle regole e dei miei diritti.

‘’Ragazzo, non ti conosco ma mi sembri un tipo a posto. Ti prego quindi di lasciarmi in pace a leggere il mio giornale e di non aggiungere altro’’.

Quell’uomo era davvero un maleducato. Se voleva la guerra, doveva sapere che io avrei combattuto come un leone per di vincerla.

‘’Allora lei non ha proprio capito ciò che le ho detto’’, mormorai, scuotendo la testa e sillabando tutto con crescente irritazione. Lo sconosciuto maleducato doveva sparire subito dal mio campo visivo.

L’uomo sospirò, e mentre posava con delicatezza il giornale sul tavolino, si alzò in piedi e mi venne vicino. Era basso e tarchiato, ma incuteva comunque soggezione.

Pure io a quel punto mi alzai in piedi, in preda al panico; mi aveva colto alla sprovvista con quella reazione, e per un attimo temetti che quel perfetto sconosciuto avrebbe cercato di farmi del male, visto come l’avevo trattato.  

D’altronde, poteva tranquillamente essere un malvivente o un serial killer, oppure un maniaco, e visto che in quel momento in casa non c’era neppure mia madre, temetti il peggio.

Ed invece, come per prendersi gioco dei miei folli e spaventati pensieri, l’uomo mi allungò la mano.

‘’Rilassati, ragazzo. Mica ti mangio!’’, ridacchiò il mio interlocutore sfacciato, continuando a scuotere la sua mano destra sotto il mio naso.

‘’Io sono Roberto Arriga, il nuovo inquilino di tua madre. Sono arrivato questa mattina con mia moglie e mio figlio, che in questo momento non sono in casa, per cui te li presenterò questa sera’’, continuò a dire l’uomo, presentandosi.

Mio malgrado, mi vidi costretto a stringerli la mano.

‘’Io sono Antonio Giacomelli, il figlio… della proprietaria di casa’’, mormorai timidamente, mentre la sua stretta solida e forte mi passava una certa sicurezza.

C’era qualcosa di quel breve contatto che mi creava confusione e sospetto, ma che mi dava anche una sensazione tremendamente piacevole.

‘’Ora che ci siamo presentati, fammi il piacere di darmi del tu. Ok?’’, tornò a dire Roberto, sciogliendo la stretta di mano e dandomi una lieve pacca sulla spalla.

Stranamente, a quel punto mi sfuggì un sorriso. Mi sgridai da solo, perché in quel momento non c’era nulla di cui sorridere e la questione su cui si stava dibattendo poco prima non era affatto risolta.

Infatti, il nuovo inquilino tornò ad accomodarsi sulla poltrona, riafferrando il giornale di mia madre e preparandosi a leggere.

‘’C’è qualcosa che lei… che tu non hai capito. Questa è la stanza dove suono e dove passo la maggior parte del tempo libero, e avere qualcuno accanto non mi piace affatto. In più, era già stato stabilito…’’.

‘’Sì, so esattamente cosa ho firmato e cosa posso o non posso fare. Però, adoro leggere con un sottofondo musicale, e tu suonavi così tanto bene che non ho saputo resistere e sono entrato ugualmente, trovandomi di fronte ad una magnifica e comoda stanzetta.

‘’Ti prego davvero di essere cortese, e di violare le regole di casa solo per una volta. E magari di suonare qualcosa mentre leggo. Saresti così tanto gentile?’’.

Gli occhi di quell’uomo mi parvero estremamente sinceri ed interessati alla mia musica. Non ebbi il coraggio di aggiungere altro, e con un immenso sospiro ripresi ad appoggiare le dita sui tasti.

Subito, la mia sinfonia riprese ad aleggiare per tutta la stanza, anche se non mi sentivo completamente a mio agio. Non avevo mai suonato con uno sconosciuto a fianco, e neppure con mia madre accanto, ed era la prima volta che lasciavo che qualcuno violasse il mio magico momento privato.

Alzai un attimo lo sguardo e vidi che Roberto aveva ripreso a leggere, mentre il suo volto pareva tranquillo e rilassato. Per un istante, mi parve anche compiaciuto.

Chiusi gli occhi e ripresi vigore.

Le mie dita ricominciarono magicamente a volare sui tasti, e smisi di seguire ogni misero e stupido spartito.

In quel periodo mi ero ricreato una sinfonia tutta mia nella mente, composta dal suono ritmico e costante di alcune note basse e dal suono dolce, e mi piaceva talmente tanto che in quei momenti di pace assoluta mi lanciavo in una corsa frenetica fino a giungere ad un culmine ritmico che mi passava un grande senso di soddisfazione. Una sorta di orgasmo musicale.

Dal tanto che ero preso dalla musica, neppure mi accorsi che il tempo passò molto in fretta, e mi riscossi solo quando capii di essere osservato.

A quel punto, il fastidio e il nervosismo di poco prima tornarono a farsi spazio dentro di me, e persi ritmo e voglia di suonare, mentre le note morivano sulla tastiera e le mie mani sembravano essere diventate rigide come la pietra. Pareva avessi perso tutte le mie capacità, e alzai lo sguardo con rabbia crescente.

Roberto mi guardava, ancora seduto sulla poltrona e con gli occhiali da lettura perfettamente adagiati sul naso lievemente adunco, fissandomi in un modo strano e rimettendo a posto il giornale che aveva letto fino a quel momento. Sul mio viso dovette apparire una smorfia di disappunto, poiché l’uomo sorrise.

Poi, incredibilmente, batté le mani.

‘’Hai un grande talento, Antonio. Non ho mai udito nulla del genere!’’, mi disse, continuando a sorridere ed alzandosi nuovamente dalla poltrona.

‘’Mi piace improvvisare e suonare ogni volta qualcosa di nuovo. Odio limitarmi a seguire gli spartiti’’, mormorai con incertezza.

Roberto mi si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla destra.

‘’Sei davvero bravissimo. Continua così!’’. E dopo aver detto questo, abbandonò la stanza, lasciandomi solo.

Abbassai lo sguardo, già pronto a riprendere a suonare ma qualcosa mi bloccò. Pigiai due tasti ma le mie dita non erano più in grado di suonare e di solcare quella marea musicale che volevo ricreare.

Mi imbronciai e per un attimo non capii.

Quando compresi che ciò che mi mancava era la sua presenza, sorrisi; ero davvero uno sciocco. Mi chiesi come fosse stato possibile che una persona appena entrata nella mia vita fosse già riuscita ad influenzarmi e a lasciare una traccia dentro di me, ma non seppi darmi una risposta. Forse, era stato per il fatto che mi aveva fatto dei complimenti.

Durante il corso della mia vita, non ne avevo mai ricevuti prima di quel momento. Per i miei compagni e conoscenti ero solo lo sfigato di turno, per mia madre solo un peso e i miei parenti neppure sapevano che in un qualche sfortunato giorno di diciotto anni prima io ero venuto al mondo. Non si erano mai degnati una volta di cercarmi, ed io avevo fatto lo stesso con loro.

Mio padre aveva sempre detto che per lui ero un fallimento, un qualcosa di brutto, ma forse solo perché ero il frutto di un suo amore finito male. O forse perché la mia nascita l’aveva costretto a legarsi con una donna che non aveva mai realmente amato; mia madre.

I miei genitori non erano mai andati particolarmente d’accordo, eppure erano riusciti ad avere quel rapporto che mi aveva generato. E appena aveva potuto, mio padre se n’era andato, abbandonandomi tra i suoi insulti e il suo disprezzo. Era davvero un uomo spregevole ed infinitamente perfido, ed in fondo ero contento che se ne fosse andato e che ci avesse lasciato in pace.

La rabbia riprese a crescere dentro di me, e fui costretto ad alzarmi e a dirigermi verso la finestra della stanza, ma prima mi soffermai a bere un sorso d’acqua dal mio bicchiere, posato sul tavolo accanto al giornale abbandonato lì da poco dal nuovo arrivato.

Con un sospiro, mi passai una mano sulla fronte e tornai a rivolgere il mio sguardo al pianoforte, ma compresi che per quel giorno non sarei più riuscito a suonare.

Quando i brutti ricordi riaffioravano dai meandri della mia mente, non riuscivo più a suonare e a rilassarmi, quindi decisi di andare a fare una passeggiata al parchetto sotto casa, in modo da distrarmi un po’ e da prendere un po’ d’aria.

Uscii velocemente all’aria aperta, mentre un sorriso spontaneo compariva sul mio volto, sorprendendomi.

Solo quando ebbi raggiunto il vicino parchetto mi accorsi che l’unica cosa che desideravo di più in quel momento era di rivedere quell’uomo che poco fa aveva voluto entrare forzatamente nella mia vita, concedendomi qualche complimento e regalandomi un sorriso e una stretta di mano sincera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, e grazie per aver letto il primo capitolo di questo mio nuovo racconto J

La vicenda è strana, non lo nego. Anche il modo in cui ho deciso di raccontarla lo è. Più avanti nella narrazione scopriremo il perché delle mie scelte.

Ci tengo a precisare che tutto quanto è frutto della mia immaginazione.

Spero che la vicenda abbia già iniziato ad incuriosirvi!

Ne approfitto per ringraziarvi nuovamente J a presto J

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

CAPITOLO 2

 

 

 

 

 

Trascorsi ore ed ore nel parchetto sotto casa, seduto su una panchina e con le cuffie nelle orecchie, gustandomi un po’ di bella musica.

La musica era la mia vita, e in quel momento la passione per l’alternative aveva iniziato a prendere sempre più forza dentro di me. Il rock classico non mi piaceva proprio per nulla, meglio se veniva mitigato da suoni più dolci e da voci meno scatenate.

Mi rilassai guardando il cielo limpido, mentre una lieve brezza mi sfiorava, quasi mi volesse fare delle dolci carezze.

Quando ebbi la forza di tornare a casa e di abbandonare quel mio piccolo paradiso all’aria aperta, era quasi buio.

Entrai in casa di soppiatto, sperando che nessuno mi notasse, nel vano tentativo di potermi gettare nuovamente a suonare il mio pianoforte senza che nessuno mi potesse ostacolare in un qualche modo. Eppure, non feci in tempo a muovere due passi verso la mia piccola sala che Roberto mi si parò davanti.

‘’Oh! Ecco il mio pianista preferito. Vieni, Federico!’’, disse l’uomo, sorridendo e facendomi cenno verso le scale che portavano al piano superiore.

Per un attimo rimasi perplesso, poiché non capii subito chi potesse essere quel Federico appena citato, ma quando un ragazzetto spocchioso ebbe concluso la rapida discesa delle scale, compresi che doveva trattarsi del figlio dell’uomo.

Il ragazzo mi guardò storto. Doveva all’incirca la mia età, eppure mi aveva già abbondantemente superato in altezza. Era forte e palestrato, con un tatuaggio irriverente per ciascun avambraccio. Nonostante fosse già autunno, era ancora a mezze maniche, insensibile all’aria frizzantina pur di poter mostrare i capolavori che si era fatto tatuare, e alcuni piercing brillavano distintamente dal lobo di entrambe le orecchie.

‘’Antonio, lui è Federico, mio figlio’’, disse Roberto, allungando una mano per cercare di sfiorare tra i capelli ribelli del nuovo arrivato, che si limitò a scostarsi e a sottrarsi al tocco paterno.

Con incredulità, notai che i due non si assomigliavano per niente; Federico era alto e antipatico, con una chioma folta e scura come la notte, mentre suo padre era basso e tarchiato, oltre che ormai calvo. Ma almeno di tanto in tanto sorrideva.

Porsi una mano al mio coetaneo, non sapendo far di meglio in quella situazione, ma lui la deviò e si gettò in cucina.

Seguii il ragazzo con lo sguardo, allibito da tanta scortesia. Nessuno prima di allora si era mai comportato in un modo così maleducato nei miei confronti, tranne mio padre, ma quello era un altro discorso. Un discorso molto più delicato e complicato.

‘’Chiedo scusa, noi due abbiamo appena avuto una discussione… ed ora è molto scontroso’’, disse Roberto, cercando di minimizzare il comportamento del figlio. Ma io potei leggergli in faccia con chiarezza che la sua espressione era mutata; ero sicuro che avrebbe ripreso e sgridato Federico per il modo in cui si era comportato.

Io mi trovai sempre più in difficoltà in quella situazione non proprio tranquilla, e decisi di tirarmene fuori con una falsa ed ipocrita indifferenza.

‘’Non fa nulla, capita di essere nervosi. A dopo’’.

E così dicendo, voltai frettolosamente le spalle all’uomo e mi diressi verso la mia camera dal letto, al piano superiore.

Potei udire qualche frase di rimprovero proveniente dalla cucina, ma non mi degnai di preoccuparmene, e senza rallentare minimamente mi fiondai nella mia stanza, ribattendo subito la porta dietro di me. Con un intenso sospiro, mi gettai sul letto, che mia madre aveva amorevolmente messo in ordine prima di andare al lavoro, sprofondando nel caldo abbraccio del mio soffice materasso.

Io amavo quel calore e quella morbidezza, e molto spesso ero costretto a riconoscere che mai nella mia vita qualcuno mi aveva accolto con maggior amore tra le sue braccia. Quindi, in mancanza abbracci umani, non mi dispiaceva affatto di restare così, sprofondato nel mio soffice giaciglio, circondato da altrettanto soffici cuscini.

Crogiolandomi nel mio attimo di riposo prima del pasto serale, udii un chiacchiericcio sommesso, proveniente alla stanza attigua alla mia, quella affittata dalla coppia Arriga. La signora, a quanto pareva, si stava già dando alle telefonate, ed io non avevo affatto voglia di udire quel continuo parlottio.

A volte, la convivenza con degli sconosciuti sapeva essere molto dura e difficile, ma non avevo alcun modo, e soprattutto nessun pretesto per dire a mia madre che la smettesse di affittare le due stanze da letto in più della casa. Io mi ritenevo solo un peso, un mangiapane e nient’altro, e per salvaguardare il mio stomaco, la dispensa e quei pochi beni che erano rimasti in nostro possesso, non potevo far altro che accettare ogni scelta materna.

Sbuffando, mi alzai dal letto, affrettandomi ad uscire dalla stanza e a dirigermi nuovamente verso il piano inferiore della casetta, per andare a suonare un po’ il mio pianoforte, prima di cena. Poi, avrei dovuto studiare, e quindi il relax delle ultime ore sarebbe brutalmente svanito.

‘’Antonio! Antonio, vieni qui!’’.

La voce di mia madre, che giunse dall’adiacente cucina, mi fermò nel bel mezzo della porta della piccola sala dove soggiornava il mio pianoforte, costringendomi quindi a lanciare una triste occhiata al mio ingombrante strumento musicale e a fare dietrofront, facendo poi frettolosamente capolino nella cucina.

Mia madre, una donnina piccina e gracile, si stava dando da fare ai fornelli, in modo da poter dignitosamente soddisfare l’appetito dei soggiornanti. Poiché, per racimolare qualche soldo in più, quella povera donna offriva anche il vitto, oltre che l’alloggio.

Insomma, casa nostra era ormai per davvero una sorta di pensione clandestina, e questo a volte mi turbava, ma solo per brevi periodi, poiché in genere i pensionanti se ne andavano nel giro di qualche settimana.

‘’Sono qui, mamma. Cosa vuoi?’’, chiesi cortesemente, ma con un po’ di fretta.

Con una rapida occhiata nella stanza, potei constatare che Roberto e Federico erano seduti poco distante, attorno al tavolo. Il primo mi guardava sorridendo, mentre il secondo non mi degnò neppure di una minima attenzione, continuando a smanettare col cellulare, un magnifico Samsung di ultima generazione, mantenendo sempre rigido il suo broncio insoddisfatto, ben impresso sul viso.

Risposi frettolosamente al sorriso dell’uomo e mi affrettai a distogliere lo sguardo dal tavolo imbandito, evitando quindi di continuare a soffermarmi su quel ragazzo sbruffone. Mi stava già più che antipatico.

‘’Oh, Antonio, questi sono i nuovi affittuari! Non so se hai già avuto modo di conoscerli’’, disse mia madre, alzando gli occhi dai fornelli e sorridendomi anch’essa.

Indossava ancora l’abito con cui si era recata al lavoro quella mattina, con un lungo grembiule bianco appena appoggiato sopra, mentre sul suo volto scuro e abbronzato appariva una qualche ruga, a ricordare che quella era stata l’ennesima lunghissima giornata lavorativa precaria e mal pagata. I capelli, di un moro scuro naturale, quella sera erano anche evidentemente scarmigliati, e gli occhi verdi e vivaci erano adombrati.

I giorni si stavano facendo sempre più lunghi e faticosi, per lei. Per un attimo, mi sentii in colpa, d’altronde lavorava e stava faticando anche per me, per mantenermi gli studi e sfamarmi, ed io spesso e volentieri non facevo altro che darle insoddisfazioni, portando a casa voti bassi o pessimi.

Mi ripromisi di migliorare a partire da quell’anno scolastico, che era cominciato da appena un paio di settimane. Volevo davvero renderla felice e soddisfatta del mio operato per una volta, poiché senza dubbio se lo meritava.

Mia madre aveva quarant’anni, e mi aveva partorito che era poco più che una ragazzina. Una ragazza costretta a diventare una donna forte, dopo essere stata dapprima disprezzata e in seguito abbandonata dal marito, lasciata poi sola con un figlio ancora piccolo da crescere e da accudire.

‘’Certo, mamma. Ho già avuto il grandissimo piacere di far la conoscenza del gentilissimo signor Roberto e di Federico’’, le risposi dopo un attimo, smettendo di pensare come un forsennato e sorvolando sul quanto quelle conoscenze fossero state brusche.

‘’Rivolgiti a me in modo più confidenziale, Antonio, te l’ho già chiesto. Per favore. Grazie signora Maria per averci presentato suo figlio, comunque’’, rispose cortesemente Roberto, agitandosi sulla sua sedia. Federico non represse un sospiro irritato e continuò a guardare lo schermo del suo cellulare.

Mamma Maria sorrise compiaciuta, e continuò a preparare il contorno per la carne che stava cucinando.

‘’Tra poco avrò modo di presentarvi anche mia moglie. Vi prego di perdonarla, ma è ancora chiusa in camera, poiché è sempre assillata dalle chiamate di lavoro…’’, buttò lì l’uomo, dopo un attimo di esitazione.

Io e mia madre ci limitammo ad annuire, sorridendo entrambi allo stesso modo, quasi fossimo anime sincronizzate. Da parte mia però, pensai che quelle chiamate che avevo udito qualche istante prima avevano davvero poco di professionale, ma naturalmente tacqui, sfruttando quell’attimo in cui mia madre continuava a pensare al pasto per allontanarmi prontamente e raggiungere il mio pianoforte, lo strumento della mia felicità.

‘’Dove credi di andare?! Torna qui!’’, sibilò dolcemente mia madre, non appena vide con la coda dell’occhio che mi stavo allontanando dalla soglia della cucina.

Non capendo quel che volesse, e iniziando ad arrossire lievemente, feci di nuovo capolino nella cucina, imbarazzato. Ero un ragazzo timidissimo, ed essere al centro dell’attenzione mi faceva sempre arrossire.

‘’Cosa c’è, mamma?’’, chiesi cortesemente, ma con grande impazienza di svignarmela.

‘’Tra poco ceniamo. Il signor Roberto ha detto che non rechiamo alcun fastidio alla sua famiglia, quindi mangiamo assieme, allo stesso tavolo. Oh, ancora grazie! Lei non sa quanto io sia stanca alla sera, e preparare per due volte la tavola e per due volte la cena mi sfianca’’, tornò a dire mia madre, prolungandosi in fastosi ringraziamenti rivolti a Roberto, che con un cenno della mano face capire che non doveva neppure pensarci, e che era tutto a posto.

Essendo piccola la nostra casa, e godendo di una sola cucina con tanto di tavolo per consumare i pasti, senza alcun muro a separare i due ambienti e a trattenere gli odori, per lasciare un po’ di riservatezza agli affittuari mia madre preparava prima la cena per loro, poi quella per noi due, che in genere consumavamo dopo che i primi si erano già ritirati nelle loro camere da letto che avevano affittato.

Di certo, quel prospetto di cena condivisa fu per me una grande novità, e il rossore lieve che aveva iniziato ad imporporare le mie guance ben presto divenne il colore del mio intero volto. Non ero abituato a cenare con estranei, e dovetti ammettere anche che il fatto di dovermi sedere attorno allo stesso tavolo di Federico mi metteva in soggezione. Quel mio coetaneo proprio non m’ispirava fiducia.

‘’Ecco, è tutto pronto’’, mormorò dopo un istante mia madre, tra sé e sé e molto soddisfatta, per poi indicarmi un posto a tavola col dito, proprio a fianco di Federico. Per me fu l’inizio di un incubo.

Mia madre mise il pasto in tavola, mentre io mi dirigevo verso la mia sedia alla velocità di un bradipo e Roberto si alzava bruscamente dal tavolo.

‘’Chiamo mia moglie’’, disse l’uomo, mentre io lo guardavo con sorpresa. Inutile dire che il figlio non alzò neppure gli occhi dal suo cellulare.

‘’Non serve, se ora non può scendere, gli preparerò qualcosa quando ne avrà voglia’’, si affrettò a dire mia madre, preparandosi a servire in tavola. Era sempre così quella donna, estremamente disponibile. Forse fin troppo.

‘’Scherza, signora!? Ora la chiamo subito’’, disse di rimando Roberto, per poi uscire dalla cucina e incamminarsi nel corridoio.

Sotto l’attento sguardo di mia madre, presi posizione, sedendomi a fianco di Federico, mentre lei preparava le porzioni nei piatti con gesti lenti e calibrati, che esprimevano una grande stanchezza.

‘’Allora, Federico, com’è stato questo primo giorno in questa cittadina?’’, tornò a chiedere la mia cara mamma, forse per voler rompere quel momentaneo velo di silenzio che opprimeva la stanza.

Il ragazzo, ben seduto a mio fianco, si limitò a scrollare le spalle, senza degnarsi di rispondere e continuando a guardare lo schermo del suo Samsung. Io guardai da tutt’altra parte, mentre notavo che mia madre non osava replicare altro, imbarazzata.

Da quel momento, iniziai a provare un disgusto incredibile nei confronti di quel mio coetaneo molto maleducato.

Ma proprio mentre continuavo a riflettere sul comportamento di Federico, Roberto fece il suo ingresso in cucina, tenendo a braccetto colei che doveva essere sua moglie. La donna, alta una spanna in più del marito e con una testa di capelli biondi rigorosamente tinti ed arricciati, aveva ben dipinta sul viso la stessa smorfia odiosa di suo figlio, e così potei facilmente intuire da dove provenisse tutta quella sua antipatia.

‘’Questa è Livia, mia moglie’’, la presentò platealmente Roberto, scostandone la sedia dal tavolo e facendola accomodare tra mille attenzioni.

Livia sorrise e bofonchiò un paio di parole di cortesia rivolte a mia madre, ma a quel punto mi era tutto più chiaro.

Seduto sulla mia sedia, allo stesso desco di quella gente che fino a quella mattina erano perfetti sconosciuti, e tuttavia lo erano quasi ancora, mi sentii a disagio come non mai. Guardando il volto di Livia, che si era seduta al lato opposto del tavolo, e osservando come articolava le finte parole di cortesia che rivolgeva a mia madre, compresi che quella donna si sentiva anch’essa fuor d’acqua, in un posto che non l’aggradava, così come non aggradava neppure suo figlio.

Ero sicuro che quelle erano persone con la puzza sotto al naso, dei veri e propri aristocratici moderni che non volevano assolutamente abbandonare quel loro piedistallo di grandezza e di superiorità sul quale si erano posati. Era evidente che si sentivano a disagio, con a fianco me e mia madre e in quella squallida casetta.

A quel punto, non facevo altro che chiedermi il perché del fatto che una famiglia così fosse finita proprio in casa nostra. Avevano tutta l’aria di possedere molti soldi, e mentre Federico indossava solo abiti firmati e perfettamente in ordine, sua madre era tutta ingioiellata e ben truccata, manco dovesse partecipare ad un gran galà.

L’unico di quella stramba famiglia che sembrava a suo agio era proprio Roberto; l’uomo ringraziava con sincerità ed era rilassato e solare. Un ometto positivo, senz’ombra di dubbio, ma allo stesso tempo diversissimo dagli altri componenti della sua famiglia.

Una marea di domande presero a vorticarmi in testa, e mentre il mio imbarazzato rossore se ne andava in fretta dal mio volto, capii che quella curiosa famiglia doveva avere dei segreti. Neppure quando mia madre mi servì, praticamente per ultimo, distolsi la mia mente dai quesiti e dalla curiosità provocatami da quei nuovi arrivati.

Solo quando iniziai a sbocconcellare la mia cena compresi che stavo sbagliando, e che qualsiasi segreto stesse nascondendo quella famiglia a me non doveva importare. Cercai quindi di riprendere fiato e di concentrarmi solo sul mio piatto e sul cibo, e al massimo di rivolgere un breve pensiero al mio pianoforte e alla musica, anche se tutto ciò mi risultava difficile.

Non mi era mai capitato di sentirmi attratto dagli inquilini di mia madre, ma forse semplicemente per il fatto che essi si limitavano ad essere molto schivi e di una gentilezza normale, e nessuno aveva mai voluto comunque cenare assieme a noi e tentare di renderci partecipi del loro breve soggiorno, come invece aveva cercato di fare Roberto.

L’uomo, che in quel momento stava consumando anch’esso la sua cena e di certo aveva compreso che qualcosa stava prendendo la piega da lui non voluta, visto che nessuno fiatava e tutti se ne stavano con gli sguardi fissi sul cibo, e sembrava a disagio anch’esso, a quel punto.

‘’Antonio, come va con il tuo pianoforte? Hai suonato ancora, oggi?’’, chiese tutto d’un tratto, ammiccando con la testa e sorridendo cortesemente.

Io, bruscamente sottratto ai miei più intimi pensieri, quasi ebbi un tremore.

Poi, deglutendo a vuoto, mi arrischiai a rispondere. Non sapevo perché Roberto dovesse proprio chiedere qualcosa a me, quando poteva benissimo fare un’osservazione a suo figlio o parlare con sua moglie.

Nel frattempo, Federico continuava a mandar giù cospicui bocconi di cibo, mentre di tanto in tanto afferrava il suo cellulare e riprendeva a smaneggiarci quasi con avidità. Stava indubbiamente facendo una pessima figura ai miei occhi.

‘’No, non ho più avuto modo di suonare, per oggi’’, risposi, la voce ridotta ad un tremito. Ero davvero molto timido, e parlare di me di fronte a Livia e Federico mi metteva in soggezione. Non che quei due mi degnassero di uno sguardo, anzi, però era comunque qualcosa che m’intimidiva. Anche perché capivo che non gradivano la mia presenza a quel desco.

‘’Peccato. Hai un grande talento, sai? Dovresti seriamente pensare di iscriverti a un istituto musicale. Non sciupare le tue grandi capacità’’.

‘’Vedo che ha già avuto modo di udire mio figlio mentre suonava’’, si crogiolò mia madre, tutta contenta.

‘’Oh, mi ha anche concesso di osservarlo. Ha suonato un po’ anche per me, intanto che leggevo il giornale’’.

La frase buttata lì da Roberto fece cedere definitivamente la mascella di mia madre.

La mamma mi guardò quasi a bocca spalancata per lo stupore e con un’espressione alquanto sbalordita sul volto, abbandonando per un attimo gli strumenti con cui stava preparando le ultime porzioni da servire in tavola. Io la guardai sorridendo di sbieco, e non osai dire nulla a riguardo, mentre lei riprendeva a svolgere le sue mansioni come se nulla fosse successo.

Arrossii, sapendo quanto mia madre dovesse essere rimasta sbigottita di fronte a quella notizia, visto che non le avevo mai concesso di osservarmi mentre suonavo. Le avevo sempre detto che m’imbarazzava essere osservato mentre stavo di fronte al pianoforte.

‘’Spero che abbia suonato bene. Sa, mio figlio è molto timido, e più volte mi ha impedito di osservarlo mentre suonava’’, disse mia madre, continuando a svolgere le sue ordinarie mansioni come se nulla fosse.

‘’Oh, beh, certo. È timido, sì, ma ha talento’’, biascicò Roberto, tornando poi a mangiare.

Io continuai a tenere gli occhi ben fissi sul mio piatto, bordò in volto. Ero in uno di quei momenti dove l’imbarazzo e la timidezza quasi mi paralizzavano.

‘’Certo, ha talento, lo riconosco. Spero che abbiate modo di udirlo suonare ancora, durante la vostra permanenza’’, affermò cortesemente la mamma, riprendendo poi il suo posto a sedere e ricominciando a mangiare.

‘’La nostra permanenza sarà molto lunga, quindi immagino che avrò, anzi avremo, modo di poterlo udire suonare altre volte’’, tornò a dire l’uomo, lanciandomi un sorrisetto di sottecchi.

Mi sorpresi a fissare quel sorriso pieno di complicità con sorpresa, e tornai a riabbassare di nuovo la testa. Stranamente, nonostante l’imbarazzo che mi offuscava la mente, non potei non provare una qualche sorta di sensazione involontaria nello scoprire che la permanenza di quella famiglia in casa mia sarebbe stata piuttosto lunga. E questa scoperta m’imbarazzò ancor di più.

Immerso nel silenzio surreale della cucina, dove non volò neppure una mosca dopo lo scambio di quelle tre o quattro frasi su di me tra mia madre e Roberto, finii il mio pasto in fretta, deglutendo fino all’ultimo boccone del buon passato di verdure che aveva preparato mia madre solo per me. Sapeva quanto amavo le verdure, e non mancava mai un’occasione per metterle nel mio piatto ed inserirle nei miei pasti.

Quando discostai la sedia dal tavolo, mi sembrò quasi di aver provocato un rumore talmente forte da aver provocato un terremoto, dal tanto che il silenzio regnava nella stanza.

Mia madre masticava a testa bassa, così come faceva anche Roberto, mentre Federico si divideva ancora tra il suo pasto e il cellulare, sempre a portata di mano. Era stato seduto a mio fianco per tutta la durata della cena, e neppure mi aveva mai degnato di uno sguardo, così come sua madre, la signorona aristocratica che pareva davvero che avesse una gran puzza sotto il naso.

Quella donna e suo figlio non mi convincevano affatto, mi sembravano davvero due tipi loschi.

‘’Vado in camera. Buona serata’’, mormorai, frantumando definitivamente il silenzio che mi circondava.

Tutti risposero al mio congedo con qualche parola pronunciata a bassa voce, ed io mi allontanai in fretta, ben sapendo che l’indomani mattina avrei dovuto affrontare la prima interrogazione di scienze dell’anno scolastico e non avevo studiato ancora nulla.

Dopo essermi fatto le scale praticamente di corsa, mi fiondai nella mia cameretta ed affondai tra i libri scolastici, soffocando ogni mio imbarazzo o pensiero che non riguardasse la scuola. Eppure, quella era stata davvero una giornata curiosa per me, ed avevo come la vaga sensazione che da quel momento in poi qualcosa nella mia vita sarebbe irrimediabilmente cambiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo.

Vi sono grato per aver dedicato tanta attenzione al primo capitolo di questo racconto, e spero che anche quest’ultimo sia stato di vostro gradimento.

Devo dire che non mi aspettavo di ricevere così tanto apprezzamento con questa storia, e spero che non si riveli una noia per qualcuno di voi.

Il racconto ho iniziato a scriverlo(e lo scrivo tuttora) per divertimento personale, sfruttando la voglia che ho di scrivere qualcosa di totalmente diverso da quello che ho scritto finora. Spero davvero che il risultato possa essere positivo.

Nell’intero racconto cercherò di utilizzare un linguaggio abbastanza semplice, più simile a quello parlato e senza particolari termini complessi, poiché così cercherò di essere più verosimile e di esprimere meglio le varie rapide sequenze di pensieri del protagonista.

Per ora non posso far altro che ringraziarvi infinitamente per tutta l’attenzione che mi state rivolgendo.

Grazie di cuore per tutto J a lunedì prossimo J

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

CAPITOLO 3

 

 

 

 

 

Molti adulti affermano che i ragazzi non hanno alcun problema, e che la vita durante la gioventù non è altro che un grande parco ricco di divertimenti. Forse la loro mente deve aver rimosso ogni frettolosa levataccia, oppure erano stati talmente tanto perfetti da non aver mai commesso un qualche sbaglio non intenzionale.

Pure io, che ero sempre puntualissimo e attentissimo in tutto, la mattina successiva all’arrivo della famiglia Arriga feci fatica ad alzarmi. Avevo studiato tantissimo durante la serata precedente, e la situazione mi era facilmente sfuggita di mano, lasciandomi quindi a passare buona parte della notte sui libri.

Ovviamente, la sveglia quella mattina non suonò affatto ed io fui costretto a correre come un folle, pur di non giungere in ritardo a scuola. Con due balzi decisi, percorsi la scala di casa, e senza neppure guardarmi attorno mi fiondai dritto in strada, diretto verso l’istituto scolastico che frequentavo.

Poteva sembrare impossibile che un ragazzo come me, interessato solo alla musica e ai lavoretti un po’ più manuali avesse scelto di iscriversi ad un liceo; anche ciò era quasi un controsenso, una sorta di assurdità. Eppure, per star dalla parte del sicuro, alla fine della terza media avevo preferito la comodità di una scuola vicino a casa che un lungo viaggio in treno o in autobus verso un istituto che poi magari avrei abbandonato, assieme alle mie passioni. Ed invece, tutto ciò che mi era rimasto erano proprio quelle ultime, e la musica e la voglia di suonare erano sempre con me, come in quel momento.

Correndo all’impazzata, a momenti rischiai di andare a sbattere contro qualche passante e di finire sotto a un paio d’automobili, ma alla fine riuscii comunque a giungere a scuola proprio mentre la prima campanella stava suonando.

Prima di varcare la soglia, attesi pazientemente che la calca davanti a me si disperdesse, scomparendo con rapidità all’interno dell’istituto, mentre ne approfittai per riprendere fiato per un istante, risistemandomi con le mani i capelli e appoggiando un attimo lo zaino a terra, sperando che nessuno dei miei compagni mi vedesse ridotto in quello stato. E non potevo assolutamente presentarmi in classe così, ma non potevo neppure perdere tempo, poiché sarebbe stata tutta questione di pochi minuti, poi avrebbe rischiato il ritardo.

Se mia madre, che quella mattina era andata al lavoro alle sei e mezzo, avesse saputo che ero giunto in ritardo a scuola, che peraltro era praticamente sotto casa, mi avrebbe di certo come minimo sottoposto ad un linciaggio pubblico. Quindi, non appena la calca si diradò da davanti all’ingresso, entrai nella mia ben poco amata scuola.

I corridoi, che odoravano ancora lievemente dalle sostanze con cui le bidelle adoravano spazzolare il pavimento, erano già pressoché sgombri, mentre dalle aule si levavano grida e il chiasso regnava ovunque.

Con lo squillo della seconda campanella, mi affrettai a raggiungere la mia sezione, immaginando che la megera d’italiano, la prof più rigida e puntuale di tutte e che quella mattina avrei dovuto affrontare già fin dalla prima ora, stesse già iniziando a fare l’appello.

Mi fiondai verso la mia classe scoprendo però che la porta era già chiusa, e deglutendo la aprii in fretta, fiondandomi dentro e sperando che nessuno mi avesse già segnato assente all’appello.

‘’Buon…’’.

Non appena fui entrato nella classe, azzardai un sorriso e un saluto alla prof, che come mi aspettavo era già seduta alla cattedra, ma le parole mi morirono in gola. Infatti, in piedi a fianco della prof d’italiano, c’era lui. Federico Arriga.

Non riuscii a non rendere visibile il mio sbigottimento, e per un attimo rimasi immobile a fissarlo, sorpreso, mentre nella classe tutti guardavano noi due.

‘’Antonio, stavo proprio per presentare Federico, il vostro nuovo compagno di classe. Ma… perché lo guardi così? Lo conosci già?’’, chiese la prof, con incredibile cortesia.

Quella donna, che in volto era tutta una ruga, faceva fatica a giungere ad un metro e sessanta d’altezza, ma non per questo era meno pericolosa degli insegnanti più alti di statura. I suoi capelli ispidi, grigi e ribelli volteggiavano quando parlava, e adorava gridare forte. La prof Carlucci sapeva essere davvero molto severa, quando voleva, eppure quel giorno pareva molto rilassata e troppo, davvero troppo cortese. Forse lo era solo per non terrorizzare fin da subito il nuovo arrivato, ma quindi evidentemente non sapeva come me che quel ragazzo era il più grande maleducato da poco giunto nella nostra cittadina.

In un attimo, compresi che quel nuovo compagno di classe sarebbe stato la mia rovina. Non sappi spiegarmi il perché di questa sensazione che invase improvvisamente il mio cuore e la mia mente durante quel minuto di sbandamento e di sorpresa, ma davvero, capii che quel giovane mi avrebbe portato solo guai.

Federico, che nel frattempo ricambiava il mio sguardo stupito, sembrava molto a suo agio, e sul suo volto aleggiava un lieve sorrisetto, di quelli che non aveva mai mostrato a casa mia durante il giorno e la sera precedenti.

‘’Sì’’, mi limitai a rispondere, proprio quando mi accorsi di aver attirato su di me l’attenzione dell’intera platea, grazie all’immenso stupore che avevo esternato. Poi, senza dire o attendere altro, mi mossi verso il mio banco, nell’ultima fila.

‘’Ho già avuto modo di conoscerlo ieri, prof, non appena sono arrivato in questa cittadina. Sua madre è colei che ha affittato alcune stanze a me e ai miei genitori’’, aggiunse Federico, mentre mi sistemavo al mio posto. Di solito mi ritrovavo sempre da solo là in fondo, eppure quel giorno il banco a fianco del mio era occupato da materiale scolastico sconosciuto.

Di nuovo, provai una sensazione di grande disagio, presagendo che quel materiale scolastico dovesse appartenere proprio al mio nuovo compagno di classe.

‘’Bene, allora conosci già qualcuno. Comunque, ragazzi, questo vostro nuovo compagno di classe si chiama Federico Arriga, e frequenterà assieme a voi quest’ultimo anno di superiori. Avrete poi modo di conoscerlo meglio durante l’intervallo’’, concluse la prof Carlucci, sorridendo e lasciando poi tornare a posto Federico, anch’esso sorridente.

Io era rimasto basito nello scoprire che quel maleducato avrebbe passato l’intero anno scolastico nella mia stessa classe, e perlopiù nella mia stessa cittadina. Ciò stava quindi a significare che Roberto e la sua famiglia si sarebbero soffermati in casa mia per un periodo di tempo davvero molto lungo, contando che la scuola era iniziata da appena due settimane, e che mancavano all’incirca otto mesi alla sua fine, senza poi pensare all’esame di maturità, che avrebbe protratto l’anno scolastico di almeno un mese in più. Questo mi offriva sensazioni contrastanti.

Come avevo cercato di non prevedere, Federico sarebbe diventato il mio vicino di banco, visto che si sistemò nel posto a fianco del mio, dopo aver sorriso a tutte le ragazze della classe. Con la sua t-shirt col colletto lievemente slabbrato e i suoi jeans Armani, abbinati ad un magnifico paio di Nike bianche con striscioline nere, il ragazzo faceva la sua figura.

Inoltre, la sua altezza lo faceva svettare quasi su tutti, e il suo sorriso sfrontato, ben inquadrato al di sotto di una chioma lievemente riccioluta ed un paio di occhi di un verde intenso, lo rendevano di certo molto piacente. Da come tutti si voltavano a dargli un’occhiata, avevo già capito che era riuscito ad attirare ampliamente l’attenzione generale, e solo io me ne restavo rintanato sul mio banco, senza azzardarmi a spostare i miei bulbi oculari verso quel personaggio che odiavo fin dalla prima volta che avevo avuto modo di incontrarlo in casa mia.

La lezione iniziò prontamente, e mentre la prof spiegava, io già mi annoiavo.

Abbassai lo sguardo sul libro di letteratura aperto, leggendo qualche verso di una poesia di Leopardi, pensando di riuscire a pensare solo a quella per un attimo, ma mi sbagliai. I miei occhi quella volta non seppero resistere, e corsero quasi spontaneamente a guardare Federico.

Il mio nuovo vicino di banco non aveva perso il sorrisetto sfrontato che aveva mostrato fino a quel momento, e pareva completamente a suo agio, lì nel fondo. La sua attenzione era tutta incentrata verso la sua borsa a tracolla, ben appoggiata sul banco, davanti ai libri, così mentre fingeva di leggere e di essere attento, giocava col suo cellulare, nascosto tra il materiale scolastico.

Ero allibito; nessuno della mia classe si era mai gettato così prontamente a giocare col cellulare durante le lezioni. La prof Carlucci era una delle poche professoresse che permetteva agli alunni di tenere i propri zaini o borse sul banco, ben sapendo che spesso gli studenti erano più concentrati su sms, messaggini vari o giochetti dei telefoni, ma nella classe non c’era mai stato quel vizio pesante e dilagante.

Io, dal fondo dell’aula, avevo modo di vedere ciò che facevano i miei compagni, osservandoli alle loro spalle, e sapevo che spesso alcuni utilizzavano i cellulari per inviare qualche messaggio, ma mai nessuno si era permesso di lanciarsi in una partita di calcio virtuale, giocata fin dal primo minuto. Federico, infatti, all’interno della sua tracolla muoveva le dita con una rapidità impressionante, scartando giocatori e cercando di andare in goal con la sua squadra in maglia bianconera, immerso in un campo da gioco di un verde intenso.

Ritrassi il mio sguardo e ritornai ad abbassarlo sul mio libro, sapendo che mi aspettavano altre due ore tra letteratura e storia, e questo non mi rendeva affatto felice. Però, decisi fermamente di iniziare a concentrarmi su ciò che spiegava l’insegnante, essendomi ripromesso di cercare di stare attento in classe, in modo poi da ricordarmi più cose e da dover studiare di meno a casa.

Anche perché, una volta a casa, la mia attenzione scivolava rapidamente verso il pianoforte e la musica, e il pomeriggio passava in fretta, abbandonandomi a lunghe serate sommerse di libri, ovviamente con scarsi risultati di attenzione e studio. E quell’anno volevo davvero chiuderlo in bellezza e con dei buoni voti, una volta tanto, quindi dovevo mettercela tutta.

Quindi, raddrizzai la mia testa e mi concentrai sulla voce della prof Carlucci, smettendo di prestare attenzione a ciò che faceva il mio antipatico vicino di banco, sempre occupato con i suoi giochi calcistici sul cellulare.

 

Quando suonò la campanella dell’intervallo, quasi non me ne accorsi.

Ero riuscito completamente a concentrarmi sulle parole e sulle varie spiegazioni della professoressa, e per la prima volta durante la mia carriera scolastica, fui soddisfatto di me e del mio atteggiamento. Avevo tutto ben chiaro nella testa e molto probabilmente quel pomeriggio non avrei neppure dovuto riguardare ciò che era stato spiegato durante quella mezza mattinata.

Con immensa soddisfazione, estrassi il mio solito pacchetto di cracker dallo zaino e mi alzai dal mio posto, notando che Federico era già uscito dall’aula, così come la maggior parte dei miei compagni di classe. Pure io mi affrettai a riversarmi nel corridoio pieno di gente, rischiando costantemente di urtare qualcuno.

Non ero un tipo molto sociale, ma avevo qualche amico di cui mi fidavo, perlopiù ragazzi che frequentavano altre classi dell’istituto e che conoscevo da una vita, e logicamente sapevo esattamente dove si raggruppavano durante l’intervallo.

Mi diressi prontamente verso il termosifone del bagno dei ragazzi, dove in genere tutti i miei migliori conoscenti si soffermavano un attimo a bighellonare e a trascorrere quei brevi quindici minuti di pausa dalle lezioni. Lì infatti c’era già Davide, uno tra i miei pochi amici, assieme a Luca e Giulio, anche loro miei buoni conoscenti.

Ma la più grande sorpresa per me fu scoprire che Federico era lì assieme a loro, a parlottare e ridacchiare. Fu un boccone amaro da mandar giù; quell’antipatico sembrava che mi volesse perseguitare ovunque.

Tentennando, decisi infine di avvicinarmi al mio solito gruppetto, cercando di apparire disinvolto e rilassato. Forse, avevo sbagliato a valutare Federico con un piglio così critico, d’altronde lo conoscevo poco, e magari era pure molto divertente, visto come stava intrattenendo il mio trio di buoni conoscenti.

‘’Ciao, ragazzi! Come va?’’, salutai, avvicinandomi con nonchalance. I tre ragazzi risposero al mio saluto con un grande sorriso, mentre invece Federico si rabbuiò.

‘’Ehi, Antò! Tutto a posto, grazie’’, mi rispose Davide. Conoscevo quel mio amico fin dall’asilo, e nonostante il fatto che a volte non avessimo frequentato le stesse classi lungo il nostro intero percorso scolastico, restava sempre e comunque un appiglio apprezzabile per me. Ero sempre molto timido, forse troppo, e sapere che quel ragazzone altro un metro e novanta dal peso di un centinaio di chili era lì, sempre disposto a dirmi una parola di conforto o a darmi una mano e a sostenermi, mi faceva davvero sentire ben protetto e difeso.

Davide non era per nulla palestrato, era il classico ragazzone imponente che amava vestire con jeans strappati e larghissimi, indossando sempre uno strato di abiti quasi a voler coprire il ventre voluminoso, i capelli scuri sempre tutti scompigliati e un volto che molto probabilmente non aveva neppure mai visto uno specchio. Era un mio coetaneo davvero molto trascurato, ma forse era tutta quella trascuratezza che s’infliggeva da solo a renderlo così temibile, circondato da un’aura di spaventosa potenza.

Al contrario, Luca e Giulio erano due ragazzi più simili a me, bassi e minuti, ma molto più muscolosi del sottoscritto. Frequentavano assieme la stessa palestra, e passavano interi pomeriggi ad allenare la loro muscolatura. Sembravano gemelli; non tanto alti, stessi capelli ribelli e castani, stessi occhi verdi e stesso tono di voce sommesso.

Forse, era questa grande somiglianza ad averli resi così inseparabili tra loro. Vestivano sempre o quasi alla stessa maniera, ed ormai erano due migliori amici molto consolidati.

Ebbene, anch’io rientravo marginalmente in quella piccola cerchia, una piccola èlite scolastica, e ne andavo fiero, poiché per un ragazzo timido ed introverso come me quello era un grande traguardo.

‘’Allora? Che si racconta oggi di bello?’’, chiesi, sorridendo e preparandomi alla solita caterva di sciocchezze e di pettegolezzi.

‘’Abbiamo fatto la conoscenza di Federico’’, mi rispose prontamente Giulio, indicandomi con un cenno il mio antipatico inquilino. Il nuovo arrivato si era appoggiato al muro del bagno ed aveva tirato fuori dalla tasca dei jeans il suo cellulare, lanciandosi subito a digitare qualcosa con il volto imbronciato.

‘’Federico, questo è Antonio’’, gli disse Davide, scuotendolo per un attimo dal suo torpore tecnologico. Avrei voluto dire al trio dei miei amici di non scomodarsi a presentarmelo, poiché lo conoscevo già, ma ormai il danno era fatto. I tre ragazzi non erano in classe con me e non avevano affatto assistito al mio momento imbarazzato di poco più di un paio d’ore prima.

Federico alzò gli occhi su di me, neri come la notte e pieni di nervosismo. Solo allora mi accorsi che masticava una cicca con un modo di fare rabbioso.

Mi sentii quasi incenerire, sotto la potenza di quello sguardo.

‘’Conosco già quello sfigato’’, sputò fuori Federico, rivolgendomi la parola per la prima volta e sputandomi direttamente in faccia un concetto schiacciante.

Feci due passi indietro, mentre gli altri tre miei amici erano allibiti.

‘’Cosa…?’’, si lasciò sfuggire Luca, sorpreso da una tale reazione.

‘’Ho già avuto modo di conoscere Antonio. I miei hanno affittato due stanze a casa sua, ed è una vera piattola. Un vero sfigato, che si diverte pure a sputare fango su tutti coloro che conosce’’, tornò a dire Federico, mettendo in mostra tutto il suo astio.

Quando ebbi il coraggio di fissarlo in volto, notai che stava ghignando. Era un ghigno tutto per me quello, un ghigno perfido.

Non capii dove voleva arrivare, e non riuscii a dire nulla, troppo sbigottito da ciò che stava accadendo.

‘’No, dai… starai scherzando… lo conosco da tempo, è timido ma è un ragazzo corretto’’, disse Davide, per poi ridacchiare nervosamente.

‘’No, non scherzo. Come credete che io abbia fatto a conoscervi e a sapere dove stazionavate durante l’intervallo? Quel verme non fa altro che parlare di voi, mi ha detto che una palla di lardo di nome Davide è sempre posizionato davanti al bagno dei maschi e che…’’.

‘’Tu sei un falso! Una persona disgustosa. Non sono a conoscenza del perché del fatto che tu mi odi senza neppure conoscermi, ma ti prego di starmi alla larga e di non mentire sul mio conto’’, sibilai, senza sapere da dove proveniva la mia forza. Ero sempre stato molto timido, e in quel momento sentii il mio volto diventare bordò, mentre additavo Federico e tutti nel corridoio sul quale si affacciava il bagno mi stavano guardando, visto che avevo gridato quasi tutto. Per fortuna, la sala insegnanti era lontana, e nessun prof avrebbe mai avuto modo di notare la disputa.

Non ebbi il coraggio di sostenere oltre lo sguardo di tutta quella gente, e con la faccia in fiamme mi girai, pronto a dirigermi di nuovo nella mia classe e a rintanarmi sul mio banco.

Non potevo sopportare che quel bellimbusto piombato lì dal nulla rovinasse tutte le mie scarse amicizie in quel modo, e volevo ribellarmi a lui, ma in quel momento mi pareva di aver già fatto troppo. La timidezza mi strozzava, e ammetto che in quel momento avrei potuto anche compiere pazzie. Come in quasi tutte le persone timide ed introverse, quando esplode la rabbia all’interno del cuore la propria mente non è più in grado di ragionare a dovere.

Mentre muovevo i primi passi verso la mia tana, il mio adorato banco, mi accorsi che ero ancora fissato da mezzo istituto, e capii di aver esagerato nel gridare in faccia a Federico. Non avendo la coscienza sporca, avrei dovuto comportarmi in modo più diplomatico e pacato, magari mandandolo velatamente a quel paese e cercando di riprendermi l’attenzione del mio amato trio. Ma purtroppo, quel ragazzo aveva davvero esagerato, sia la sera precedente col suo disgustoso snobismo, sia pochi istanti prima con il suo carico di vergognose menzogne, sparate decisamente senza alcun motivo a me conosciuto.

Mentre camminavo, pieno di paure e di timori, un braccio forte mi afferrò la spalla destra, costringendomi a voltarmi nuovamente.

Mi trovai a faccia a faccia con Federico, che continuava a tenere ben salda la sua stretta, fissandomi con due occhi quasi fuori dalle orbite. In quel momento, ebbi come l’impressione di essermi messo involontariamente in un guaio più grande di me.

Davanti a tutti, il mio nuovo nemico mi afferrò per l’orecchio sinistro, appallottolandomelo ed accartocciandomelo senza pietà, facendomi sfuggire dalle labbra un gridolino carico di dolore e di sorpresa.

Tutti osservavano la scena, mentre il nuovo arrivato mi costringeva con forza ad inchinarmi davanti a lui, fin tanto che il mio volto non sfiorò il pavimento. Non ebbi nessuna forza per reagire, mentre il mondo crollava attorno a me e il dolore si faceva insopportabile.

Poi, con una rapidissima spinta finale, mi fece colpire il pavimento con il volto. Quello fu un momento di una lunghezza infinita, quasi esagerata.

Dopo che mi ebbe lasciato l’orecchio, mi rialzai in fretta da terra, con il volto livido e il naso che mi doleva e che forse stava per sanguinare, ma questo non m’importava molto. Ero uscito sconfitto al primo diverbio della mia vita, umiliato e deriso.

Attorno a me, gli sguardi attoniti di buona parte del pubblico femminile non osavano staccarsi minimamente dal mio volto violaceo, mentre Davide, Giulio e Luca non si erano neppure mossi dal loro termosifone, immersi in un’immobilità che non mi faceva presagire nulla di buono. Quelle poche parole che Federico aveva appena detto li avevano già cambiati, e molto probabilmente a breve lui avrebbe continuato a lavorarseli in quella maniera subdola.

Mi avrebbero sicuramente odiato, di lì a poco. E, forse, mi avrebbero sottoposto per vendetta allo stesso trattamento che mi aveva inflitto il nuovo arrivato, che aveva già dato fin da subito una dimostrazione della sua forza.

Le lacrime corsero giù lungo le mie guancie a rivoli, come piccoli fiumi, mentre iniziavo quasi a correre lungo il corridoio, verso quel banco che ormai era diventato la mia tana.

‘’La prossima volta che mi urli in faccia ti faccio finire con la testa giù nel cesso, sfigato…’’.

La voce prepotente di Federico mi accompagnò fin dentro all’aula, fin sopra al banco sul quale mi acquattai, premendomi un fazzoletto sul naso, che fortunatamente non era rotto, ma la botta che aveva subìto non gli aveva fatto affatto bene.

‘’Antonio, cos’è successo?!’’.

La professoressa Carlucci mi piombò sopra come una poiana affamata, preoccupata per la vista di qualche gocciolina di sangue nel mio fazzoletto e per il mio volto livido. Molto probabilmente, nessun insegnante aveva assistito a ciò che era accaduto nel corridoio dei bagni.

‘’Sono scivolato in bagno. Non è nulla…’’, sussurrai con convinzione, mentre la professoressa annuiva con poca convinzione. Non potevo permettere di far entrare gli insegnanti e gli altri adulti in questa sfida tra me e quel mostruoso prepotente appena arrivato in quella scuola; ormai era una questione di onore. Avrei dovuto imparare a difendermi da solo, sempre se quell’essere infido avesse continuato a causarmi problemi, come molto probabilmente sarebbe accaduto. Altrimenti, gli avrei offerto solo motivi ben più fondati per dirmi dietro e magari deridermi.

Alla fine del breve intervallo, quando tutti i miei compagni rientrarono in classe, io continuai a restare afflosciato sul mio banco, la faccia ancora bordò e pieno di vergogna.

Quasi tutti loro dovevano aver assistito a ciò a cui ero stato sottoposto, eppure nessuno disse nulla all’insegnate o mi parlò. Solo Federico rassicurò la prof, dicendole che ero per davvero scivolato in bagno.

Mi vergognai ancora di più, sentendomi un verme schiacciato al suolo e lasciandomi scivolare addosso l’ultimo paio d’ore di lezione senza neppure azzardarmi a lanciare un’occhiata al mio aguzzino, che era seduto nel banco a fianco al mio. Almeno, in quel momento avevo una precisa idea di che pasta fosse fatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo J

Come avrete ormai inteso con chiarezza, la storia non tratterà solo di musica, ma anche di bullismo e di rapporti umani. Ci tengo a continuare a ripetere che tutto ciò che vi ho descritto e che vi descriverò, dal primo capitolo fino ad ora e fino alla fine del racconto, è tutto frutto della mia immaginazione(credo che si noti), e quindi mai accaduto nella realtà. Se qualcuno troverà somiglianze con fatti realmente accaduti, è tutto puramente casuale.

Vi ringrazio per seguire questa storia. Giuro che non mi aspettavo tanto supporto, e spero che il racconto non vi deluda.

Grazie di cuore a tutti J a lunedì prossimo J

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

CAPITOLO 4

 

 

 

 

 

Quando finalmente suonò la campanella che sanciva la fine delle lezioni, mi lanciai subito verso l’uscita della scuola, tenendo la testa abbassata e pensando solo a raggiungere casa mia in fretta. Sul mio volto aleggiava ancora il rossore per l’imbarazzo di quella repentina violenza subita, mentre il mio naso sembrava a posto, per fortuna.

Nessuno dei miei compagni si era particolarmente preoccupato per me, ed ero certo che la maggior parte di essi avesse assistito alla violenta scena, ma in ogni caso nel corso dei quattro precedenti anni scolastici non ero mai riuscito a farmi apprezzare da loro, forse per via della mia eccessiva timidezza, che m’impediva di gettarmi in spacconate o in gesti degni d’attenzione.

Poiché si sa che i soggetti maleducati molto spesso diventano i più amati ed apprezzati, mentre coloro che sono timidi possono anche morire immersi nei loro silenzi, poiché nessuno li nota. La timidezza era e rimane sinonimo di emarginazione.

Scivolai lungo i corridoi pieni di gente come se fossi uno spettro, pronto ad andarmi a rifugiare in casa mia, per poi magari chiudermi nella mia piccola saletta e gettarmi subito sul mio pianoforte, in modo da poter cercare di alleviare il mio dolore interno e la mia frustrazione.

Mai nessuno prima di quel giorno si era mai azzardato a sottopormi a percosse fisiche o a violenze simili, e quella prima volta mi aveva lasciato atterrito. Da quel momento, avevo la certezza che Federico era una persona dalla quale dovevo stare lontano, poiché ne valeva della mia incolumità.

Non avevo idea di come avrei fatto a sopportare il fatto di doverlo rivedere anche tra qualche ora a casa, sotto il mio stesso tetto, ma per quello avrei avuto modo di pensarci per bene. Avrei potuto inventare qualche scusa, evitare la cena e i pasti. Ma forse quella non era la scelta più appropriata.

Decisi quindi che avrei combattuto, e che la sua prepotenza non l’avrebbe avuta vinta su di me. Me la sarei cavata da solo, e in un qualche modo avrei saputo tenergli testa, nel caso che quel nuovo arrivato tentasse di nuovo di farmi del male. Dovevo trovarne la forza.

Uscii rapidamente da scuola, a passo frettoloso, mentre tanti altri studenti camminavano con minor fretta, chiacchierando tra loro e lanciandomi una qualche occhiata, non appena passavo a loro fianco. Federico era lì, a pochi passi dall’uscita, mentre chiacchierava e ridacchiava con quei tre ragazzi che fino al giorno prima credevo fossero miei amici, ma che ormai sembravano totalmente assorbiti e presi dal nuovo arrivato, che effettivamente con loro pareva comportarsi da ragazzo esemplare, simpatico ed appariscente al punto giusto.

Quando passai a loro fianco, non mi salutarono, facendo finta di non vedermi, ed io stetti ben attento a non dire nulla e a non tentare neppure di soffermarmi.

La mia camminata spedita si stava trasformando in una sorta di fuga precipitosa, mentre potevo sentire gli occhi gelidi di Federico ben incentrati su di me e sulle mie spalle.

Quando finalmente imbucai il vialetto che mi avrebbe condotto a casa, rallentai il passo e mi sfiorai le guance, scoprendo che ancora parevano essere in fiamme. Dovevo essere bordò.

Con un sospiro agitato, mi appoggiai con la schiena al tronco di uno di quei grandi platani che fiancheggiavano la strada, coprendomi gli occhi con le mani e riprendendo fiato, cercando di calmarmi.

Avrei voluto fermarmi lì per una manciata di minuti, così da cercare di calmarmi e perdere un po’ quella tonalità violacea del mio volto, in modo da non giungere a casa trafelato come una persona appena fuggita da chissà cosa, ma fui violentemente preso dal timore che anche Federico avesse percorso la mia stessa strada per fare ritorno alla nostra dimora, e provai improvvisamente una grande paura; quella di incontrarlo di nuovo.

Eppure, nonostante tutte le mie paure, i miei tremiti e i miei pensieri, continuai a restarmene così, immobile e appoggiato al tronco di quel grande ed anonimo albero, mentre le auto scorazzavano attorno a me, e il mondo continuava ad ignorare la mia sofferenza. Confidavo nel fatto che il prepotente restasse ancora un po’ a chiacchierare con i suoi nuovi conoscenti.

In quel momento, avrei desiderato tanto avere qualcuno a mio fianco, con cui poter parlare e confidarmi.

Odiando la mia timidezza, pressai con più forza i palmi delle mie mani sugli occhi, continuando a cercare di regolare il respiro. Riconobbi che quella mattina avevo subìto un vero e proprio trauma, poiché nella mia vita nulla mi aveva mai colpito così tanto, fino a quel momento.

‘’Ho visto quello che ti ha fatto, questa mattina’’.

Una voce femminile, da ragazza, interruppe i miei pensieri. Qualcuno si stava avvicinando alle mie spalle. Non trovai la forza per togliere le mani da davanti agli occhi, sperando vivamente che si trattasse di una persona che si stesse rivolgendo a qualcun altro, magari parlando al cellulare.

Invece, quella persona era interessata a me, e si avvicinò ulteriormente. Sentii le mani della sconosciuta mentre si appoggiavano sulle mie, togliendomele con delicatezza da sopra gli occhi.

Sorpreso, la lasciai fare.

‘’Come stai? Ti ha fatto molto male, vero?’’.

La ragazza che mi stava parlando era visibilmente preoccupata, lo intuii dal suo tono di voce pacato e sincero, e quando mi ritrovai a fissarla la riconobbi. Si trattava di Alice Casagrande, una studentessa del mio stesso istituto scolastico, che frequentava la quarta superiore nella sezione a fianco della mia.

Avevo avuto modo di vederla più volte nei corridoi, sempre affiancata da qualche amica, e col fatto che viveva a due isolati da me, la conoscevo di vista da sempre. Comunque, tra me e lei non si era mai andati oltre ad un semplice e striminzito ciao, fino a quel momento, e non ci eravamo mai soffermati a parlare né a conoscerci meglio.

Trovarmela lì di fronte, così preoccupata per me, mi sorprese e mi fece una certa impressione.

‘’Non molto’’, risposi dopo un attimo di esitazione, abbassando lo sguardo.

‘’Lo conoscevi già, quello stronzo?’’, tornò a chiedermi la ragazza, sfiorandomi con delicatezza il volto.

‘’Sì, è il figlio dei nuovi inquilini di mia madre. È arrivato ieri, assieme alla sua famiglia, e pare già intenzionato a rovinarmi la vita’’, risposi, sempre tenendo lo sguardo ben fisso a terra. Avevo paura che la mia vicina di casa potesse vedermi troppo turbato, o che magari scorgesse troppo chiaramente quel rossore che continuava a tenere sotto scacco il mio volto.

‘’Ma che gli hai fatto per trattarti così?’’, mi chiese nuovamente Alice, sospirando con nervosismo.

Quella domanda mi riscosse dal torpore che mi avvolgeva, e quasi sobbalzai. Non mi ero mai posto adeguatamente quel quesito, senz’altro fondato. Federico aveva messo piede nella mia cittadina solo il giorno prima, e con lui non avevo mai avuto nulla da spartire, non l’avevo neppure mai visto e fino a ventiquattro ore prima non ero neppure a conoscenza della sua esistenza, eppure lui mi aveva preso fin da subito di mira.

Non seppi darmi una risposta.

‘’Non ne ho idea. Non lo conosco neppure tanto bene… l’ho visto ieri sera per la prima volta. Eppure, mi sa che mi ha preso in antipatia fin da subito’’, mi limitai a rispondere, scrollando le spalle. Quel rancore immotivato nei miei confronti non aveva alcun senso per me, in quel momento.

Alice fece una piccola smorfia dispiaciuta.

‘’E’ un pallone gonfiato, lo si vede da lontano. Ti consiglio di lasciarlo perdere e di girargli alla larga, mi pare anche un po’ matto. Ti va di compiere il tragitto verso casa assieme a me?’’, chiese poi la ragazza, cortesemente, dopo aver espresso i suoi logici pensieri.

Mi scostai dal tronco su cui avevo appoggiato la mia schiena e, per la prima volta in quella giornata, sorrisi blandamente.

Anche Alice rispose al mio sorriso, lasciando che la affiancassi silenziosamente sullo stretto marciapiede, ormai rovinato dalle radici degli alberi, che in alcuni punti l’avevano pure frantumato. La ragazza era alta nella media, snella al punto giusto, con dei bei capelli castani a caschetto e un paio d’occhi neri e penetranti.

Non attirava assolutamente l’attenzione, poiché sembrava sempre molto tranquilla, come anche in quel preciso momento. Indossava una felpa piuttosto pesante per il periodo ancora mite di fine settembre, che aggiunta ad un paio di jeans attillati e ad una borsa blu pareva renderla più adulta, abbagliando lievemente quell’aura da giovane e brillante diciassettenne che la circondava ovunque essa andasse. La conoscevo di vista da sempre, ma mai l’avevo osservata in modo così approfondito, e in un attimo compresi che non era poi tanto male come ragazza.

La rabbia e l’imbarazzo per ciò che era accaduto a scuola quella mattina iniziò pian piano a quietarsi, dentro di me, mentre riflettevo.

‘’Non mi piacciono i prepotenti, sai?’’, tornò a dire Alice, stoppando tutti i miei pensieri.

‘’Neppure a me’’, risposi, di poche parole come sempre. Con le ragazze poi, in genere la mia timidezza mi costringeva a riflettere troppo prima di parlare, poiché non avevo alcuna idea di che dire.

Il genere femminile di solito mi metteva in assoluta soggezione, cosa che però non stava capitando con Alice; con quella ragazza, che conoscevo solo di vista e che era stata l’unica ad interessarsi un attimo a me e a dedicarmi qualche piccola attenzione, mi sentivo a mio agio.

‘’Se si azzarda ancora a crearti problemi, fammelo sapere. Se sono in giro per i corridoi e vedo un altro di quei gesti, giuro che intervengo. Ti chiedo scusa se questa mattina non ho potuto far nulla, ma ero troppo scossa, così come anche le mie amiche; non abbiamo mai visto nulla di simile. Non siamo abituate a vedere gesti del genere e quel tizio ci ha colte di sorpresa, ma ora sono, anzi siamo, pronte ad intervenire’’, tornò a dire la ragazza, con spirito battagliero.

‘’Grazie’’, sussurrai, ma quella volta con fare poco deciso. Non era che mi dispiacesse aver trovato per caso un’alleata, o forse più d’una, ma ammetto che mi avrebbe fatto più piacere sapermi difendere da solo. Non mi chiesi da che parte si fossero schierati quei tre che credevo miei amici; immaginavo già la triste risposta a quella domanda, purtroppo.

Alice mi guardò, poi sorrise.

‘’Tranquillo, immagino che un mio intervento possa metterti in imbarazzo. Però, se noterò qualcos’altro simile a ciò che è accaduto oggi, niente e nessuno riuscirà a farmi star zitta. E se non lo farai tu, sarò io stessa a dirlo con gli insegnanti’’, sibilò la ragazza con rabbia, per poi tornare a rivolgermi un sorriso amichevole e tranquillo.

Se per un attimo avevo avuto il timore che lei mi avesse raccattato per strada come se fossi un gatto randagio o una bestiola da allontanare dopo avergli posto qualche curiosa domanda, in quel momento nei suoi occhi lessi sicurezza e sincerità, e fui certo che si stava interessando a me con tutta sé stessa. Mi pareva incredibile che una quasi sconosciuta si preoccupasse realmente per me, e dovetti riconoscere il fatto che doveva essere davvero una ragazza gentile.

Mi limitai solo a rivolgerle un sorrisetto insicuro e pieno di timidezza, capendo che avrei dovuto dire qualcosa, ma senza poi riuscire a trovarne il coraggio per farlo. Era in momenti come quello in cui comprendevo quanto ancora dovevo migliorare e crescere sotto alcuni aspetti comportamentali, almeno provando ad affrontare quella cappa di timidezza che a volte pareva voler trattenere le parole, quasi come se me le rubasse prima che io potessi pensarle e pronunciarle.

Mentre sorridevo timidamente, udii uno scalpiccio poco più indietro, e voltandomi vidi distintamente l’alta e slanciata figura di Federico, che procedeva spedito qualche metro dietro di noi, con una sigaretta accesa tra le labbra e il cellulare in mano.

Feci un’impercettibile cenno con la testa ad Alice, ed anch’essa lo vide.

‘’Sta andando a casa anche lui…’’, mugugnai, ben sapendo che sarebbe rientrato assieme a me. Sperai che in casa non si azzardasse a cercare di fare il prepotente, ma ne dubitavo.

Avevo sperato che si soffermasse un po’ assieme ai suoi nuovi amichetti, invece a quanto pareva aveva tutta l’intenzione di rientrare in fretta.

‘’Non è un problema. Se non ti va di stare in casa con lui o di trovartelo sempre tra i piedi, non sarebbe un disturbo per me se volessi venire a casa mia, questo pomeriggio. Potremmo studiare assieme, se ti va. So che non affrontiamo lo stesso programma, però possiamo metterci lì sui libri insieme, scambiando due parole di tanto in tanto e studiando in pace…’’, suggerì Alice, stringendosi nelle spalle.

Rimasi stupito ascoltando quell’invito a casa sua, e tornai a sorridere.

‘’Certo, va bene, se per te non è un problema’’, le dissi con cortesia.

‘’Non è assolutamente un problema’’.

‘’Bene, allora… a che ora?’’, chiesi, timidamente.

‘’Uhm, vieni quando vuoi. Io sono sempre in casa’’, mi rispose la ragazza, sorridendo.

Sembrava felice che io avessi accettato il suo invito, ed ovviamente a quel punto fui felice anch’io. Ma fu solo una felicità passeggera, poiché ci trovavamo già praticamente di fronte a casa sua.

‘’A dopo, allora’’, mi disse, continuando a sorridermi ed entrando rapidamente nel piccolo giardinetto antistante la sua abitazione.

‘’A dopo’’, le dissi frettolosamente, congedandomi e riprendendo a camminare un po’ più freneticamente.

Federico, che continuava a fumare pochi passi dietro di me, proseguiva anch’esso spedito, e non volevo farmi raggiungere. Ormai, quel ragazzo era diventato una sorta di fissa.

Fortunatamente, dopo pochi minuti mi ritrovai anch’io sotto casa mia, e lasciando aperto il cancelletto dietro di me, quasi mi lanciai tra le mura domestiche.

Una volta in casa, non attesi altro tempo; non avevo fame in quel momento, e visto che avrei studiato più tardi da Alice, mi decisi a recarmi al cospetto del mio pianoforte, in modo da poter suonare qualcosa e sfogare finalmente tutta la tensione di quella lunga ed agitata mattinata.

Entrai nella mia saletta, richiudendo la porta dietro di me ed appoggiando lo zaino a terra, per poi sedermi sul piccolo sgabello e afferrare uno spartito a caso. Alla fine lasciai perdere, poiché ero talmente tanto agitato che tutto mi tremava tra le mani, e decisi di lasciar perdere quell’azione che mi pareva troppo burocratica, per gettarmi direttamente sui tasti, abbandonando ogni limite che avesse potuto schiavizzare ciò che stavo per suonare.

In quel momento, mi resi conto che cercavo solo quella libertà assoluta che mi avrebbe permesso di rilassarmi e di raggiungere la mia quotidiana armonia. Socchiusi gli occhi, e non appena udii la porta di casa richiudersi, capendo che anche il mio nemico era rientrato, mi buttai sul pianoforte come un avvoltoio affamato di musica, lanciatosi in picchiata verso una carogna composta da tasti bianchi come la neve.

Iniziai a suonare lentamente, prendendoci gusto, per poi cominciare a fare sul serio. Mi sentivo davvero realizzato a quel punto, e tutto ciò che era accaduto quella mattina era ormai qualcosa di lontano, qualcosa che non aveva bisogno di essere ricordato.

Non seppi per quanto tempo restai così, suonando tutto solo e quasi in estasi. Seppi solo che a un certo punto udii lo scricchiolio della porta della piccola sala mentre si apriva, e capii che qualcuno era entrato.

Non avendo visto nessuno in casa, e sapendo che mia madre era al lavoro, temetti per un attimo che si trattasse di Federico, che ancora indispettito ne voleva approfittare di quell’attimo in cui eravamo soli in casa per colpirmi nuovamente, mentre udivo di nuovo lo stesso rumore sommesso, sinonimo del fatto che la porta era stata nuovamente richiusa dall’invasore, che si stava avvicinando poco dietro di me.

Nella mia mente balenò una visione oscura, la figura di quel ragazzo mentre mi faceva di nuovo del male.

Non me ne importai molto, continuai a tenere gli occhi chiusi e a suonare senza sosta; mi sentivo invulnerabile. Capivo che lui avrebbe potuto farmi ancora del male, ma ero spinto da una voglia primordiale di continuare a suonare e di fregarmene del resto del mondo e dell’invasore che stava violando il mio territorio, muovendosi lentamente verso di me.

Mi sentivo assolutamente al sicuro, così immerso nella mia roccaforte musicale, e la mia mente non aveva alcuna intenzione di abbandonare quel suo momento di svago.

Mi rilassai un attimo solo quando udii distintamente il cigolio delle molle della poltroncina alle mie spalle, segnale che qualcuno si doveva essere seduto lì. A quel punto, seppi quasi con certezza che non ero in pericolo, e anzi, che ero più al sicuro di prima.

Continuai a distendermi e ripresi a suonare con vigore, sempre senza alcuna logica o schema, l’importante era solo che ne venisse fuori una melodia accettabile, quindi feci fronte a qualche mia piccola e inconsistente lacuna utilizzando quasi esclusivamente le note che conoscevo di più.

Suonavo il pianoforte da sempre, e fin dalla più tenera età mia madre aveva fatto tutto quello che poteva per lasciarmi seguire la mia passione, pagandomi anche qualche lezione privata al pomeriggio e permettendomi di fare un po’ di pratica. Ma ormai non avevo più bisogno di insegnanti, fortunatamente. Non avevo alcun progetto futuro a riguardo, e quindi quel che sapevo mi bastava per offrirmi il mio solito svago, e di ciò mi accontentavo.

Continuai a suonare fintanto che non fui ebbro di musica, e fin quando capii che avrei dovuto iniziare a prepararmi per andare a casa di Alice, se non volevo lasciar trascorrere tutto il pomeriggio, poiché molto probabilmente doveva già essere passata più di un’ora da quando mi ero messo a suonare. Quindi, con lentezza graduale, abbassai il ritmo delle mia dita e mi riscossi pian piano, e nell’istante in cui conclusi tutto, premendo l’ultimo tasto, spalancai gli occhi.

Sapevo che l’intruso era ancora lì, visto che non avevo udito nessun altro rumore, e mi voltai con lentezza verso la poltrona, dopo essermi assicurato che fosse tutto in ordine sul mio pianoforte, spartiti compresi.

Roberto era lì, occhiali da vista sul naso e il volto rilassato, ben immerso nella lettura del suo solito quotidiano.

Non appena notò che non avrei ripreso a suonare, alzò gli occhi dal giornale e si voltò anche lui verso di me, incrociando il suo sguardo col mio.

‘’Bene, sei sempre più bravo. Ti dispiacerebbe continuare ancora un po’?’’, chiese l’uomo, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso.

‘’No, ma ora non posso. Devo uscire’’, risposi, tentennando un attimo.

Sapevo che dovevo alzarmi e lasciare quella stanza, ormai vittima di più di un’invasione nelle ultime ventiquattro ore, ma quella volta non ero assolutamente indispettito dal fatto che Roberto avesse passato un po’ di tempo lì con me. Mi aveva fatto sentire protetto, poiché se c’era lui, molto probabilmente suo figlio non si sarebbe azzardato a darmi fastidio.

‘’Sei tornato a casa tutto trafelato, hai gettato a terra le tue cose, non hai mangiato nulla… c’è qualcosa che non va?’’, tornò a chiedere l’uomo, indicando con un cenno della testa il mio zaino, riverso malamente al suolo a pochi passi da me.

Deglutii, incerto. Avrei voluto sputargli in faccia che suo figlio era un prepotente, che mi aveva fatto del male davanti a tutti, ma non ci riuscii.

Volevo tenere quell’umiliazione per me, poiché condividerla con altri mi avrebbe fatto sentire nuovamente in imbarazzo, e sicuramente se Federico fosse stato sgridato dal padre, avrebbe avuto un motivo in più per deridermi ed offendermi una volta fuori casa e a scuola. E questo non potevo permetterlo.

Mi era chiaro in quel momento che quella era una questione che dovevo affrontare assolutamente da solo, senza commettere più altri passi falsi o coinvolgere altre persone.

‘’E’ tutto a posto, non preoccuparti’’, gli dissi dopo aver riflettuto un attimo, alzandomi e avvicinandomi mestamente al mio zaino.

‘’Beh, sappi che se c’è qualcosa che ti turba puoi parlarmene tranquillamente… e spero di non avere disturbato, sedendomi qui mentre suonavi’’, tornò a dire Roberto, con sincerità.

Per un attimo, quelle parole mi stupirono; mai nessuno prima di quel momento si era offerto di ascoltarmi, poiché in genere non mi ascoltava mai nessuno. Forse era anche per quel motivo che non riuscivo mai a far fronte alla mia eccessiva timidezza.

‘’Va bene, lo terrò senz’altro presente. E comunque, non mi hai assolutamente disturbato. Anzi, se anche altre volte vorrai entrare, e farmi silenziosamente compagnia intanto che suono, beh, potrai farlo senza problemi’’, dissi, arrossendo lievemente. In realtà gli stavo chiedendo tacitamente di tornare ad ascoltarmi mentre suonavo solo perché temevo che in quella stanza avesse potuto entrare suo figlio, ed avevo una leggera paura.

‘’Ti ringrazio’’, mi rispose lui, sorridendomi.

Mi misi il mio zaino in spalla e mi diressi verso la porta.

‘’A questa sera’’, gli dissi, cortesemente.

‘’A dopo’’.

Lo lasciai lì a leggere, nella mia saletta, sapendo che la sua presenza avrebbe garantito l’integrità del mio pianoforte.

Forse, in quella casa, Roberto sarebbe potuto diventare una specie di difesa, una sorta di scudo protettivo che mi avrebbe salvaguardato da ogni possibile cattiveria, poiché ero certo che lui non avrebbe mai permesso a Federico di comportarsi da bullo violento. E quell’uomo attirava incredibilmente la mia attenzione, forse per il forte contrasto che generava col figlio e per il fatto che i due, da quel che mi era parso, non andavano molto d’accordo.

Con un sospiro, scesi nel piccolo giardinetto di casa, quasi sbattendo la porta d’ingresso dietro di me, e uscii in strada con lo zaino sulle spalle, diretto a casa di Alice.

Avevo il cuore in gola poiché anche quella sarebbe stata una sorta di nuova avventura, visto che non ero abituato a stare con altri durante il pomeriggio, e neppure a recarmi in visita ad altre case. Eppure, anche quella ragazza mi aveva lasciato una buona impressione di sé, e in oltre le avevo detto che le avrei fatto visita, quindi non potevo rimangiarmi la parola o non presentarmi.

Pochi minuti dopo, infatti, mi trovavo già sotto il suo portone, e con un sospiro teso suonai il campanello, sperando che Alice, quella ragazza che non avevo mai avuto modo di conoscere meglio, si potesse rivelare cortese e che avesse saputo mettermi a mio agio, nonostante la mia grande timidezza.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti! Grazie per aver letto anche questo capitolo, e per continuare a seguire il racconto.

Siamo solo all’inizio ma la situazione generale pian piano inizia a delinearsi. C’è ancora tanto, tantissimo da dire e non ho idea di quanto verrà lunga la storia, per ora… beh, spero solo che la vicenda continui ad essere di vostro gradimento.

Un grande grazie a tutti i gentilissimi recensori! I vostri pareri e il vostro supporto sono per me ciò che mi dà una grande forza e un’immensa voglia di proseguire con questa avventura.

Grazie di cuore! A lunedì prossimo J

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

CAPITOLO 5

 

 

 

 

 

La casa di Alice era un’abitazione molto semplice, come tante di questa stessa cittadina, ma era davvero spaziosa al suo interno, più di quanto potesse sembrare se vista dall’esterno. La padrona di casa non mi aveva fatto attendere, e molto probabilmente già mi aspettava, poiché non appena avevo suonato il campanello, lei aveva spalancato subito la porta e mi aveva cortesemente fatto entrare, per condurmi nello spazioso soggiorno su cui si affacciava il corridoio d’ingresso.

‘’Sei davvero molto timido. Più di quanto credessi’’, mi disse subito Alice dopo avermi accolto in casa, notando i miei movimenti impacciati.

A quelle parole arrossii in modo molto veemente, poiché ritengo che nessuna situazione ponga più in imbarazzo di quella in cui qualcuno ti fa notare proprio il tuo stesso imbarazzo.

Io sorrisi, naturalmente, ma sempre restando il solito ragazzino impacciato. La mia nuova amica ridacchiò, guardandomi.

‘’Non volevo farti arrossire così tanto, giuro. Comunque, con me puoi stare tranquillo… rilassati’’, mi disse Alice, arrossendo leggermente anche lei. Ci guardammo a vicenda e scoppiammo a ridere, ormai consapevoli del fatto che entrambi avevamo un’indole piuttosto timida.

‘’Accomodati pure su una delle poltroncine, ti porto qualcosa da mangiare’’, mi disse poi cortesemente, indicandomi con un dito le quattro poltroncine posizionate tutte una a fianco dell’altra a lato della finestra del soggiorno, proprio dietro ad un magnifico ed elegante tavolino di legno, che faceva un figurone nella stanza. Non feci in tempo a dirle di non scomodarsi, poiché era già sparita, certamente diretta in fretta verso la cucina.

Sospirando, e temendo che la mia ansia da ragazzo timidissimo tornasse a prendere il sopravvento su di me, mi andai a sedere proprio dove la mia coetanea mi aveva consigliato di fare, scegliendo una poltroncina di lato alle altre, scoprendone tutta la sua comodità e abbandonando il mio zaino a terra.

A momenti rischiai di chiudere gli occhi e di lasciarmi sfuggire un sorriso beato e rilassato, ma la padrona di casa tornò a piombare nella stanza, stringendo a fatica un sacchetto di patatine e una bottiglia di aranciata nella mano destra, mentre la sinistra era alle prese con due bicchierini di plastica impilati.

Sorrisi quando notai che, con difficoltà, posizionava tutto sul tavolino, offrendomi un bicchiere con attenzione.

Poi, nel soggiorno entrò anche un’altra ragazza, e quasi sobbalzai.

‘’Oh, questa è Jasmine, ma sicuramente sai già chi è… spero che tu non ne abbia per male se ho invitato anche lei. Passiamo molto tempo assieme, e se non lo sai siamo anche migliori amiche’’, disse Alice, sedendosi sulla poltroncina a fianco della mia.

‘’Non c’è problema, ci mancherebbe’’, risposi, sorridendo timidamente.

Sapevo chi era Jasmine, anche perché era impossibile non notarla; la sua altezza impressionante, unita alla bellissima pelle color ebano e a un sorriso splendente, la rendeva davvero unica nel liceo che frequentavo. Jasmine era una ragazza molto diversa da Alice, sia per l’aspetto fisico che per quello relazionale.

Tutti conoscevano la sua storia. Figlia di un impiegato e di una casalinga di origini senegalesi, era da anni una delle ragazze più conosciute della scuola, poiché era anche una grandissima sportiva e inoltre, cosa più rara ma davvero apprezzabile da chiunque, era sempre pronta a sorridere. Anche in quel momento, mentre mi fissava, mi sorrideva. I suoi denti bianchi rilucevano come fossero splendidi diamanti, e penso che quella fu la prima volta che mi colpì così tanto la sua presenza.

‘’Ciao, Antonio’’, mi disse poi, sempre senza smettere di sorridere e sedendosi anche lei.

‘’Ciao, Jasmine’’, le dissi, sempre in modo molto timido.

Mi sentivo in imbarazzo, non lo nascosi affatto. Non avevo mai parlato con Jasmine, nonostante il fatto che a volte ci incontrassimo nei corridoi o davanti alle nostre aule. Quel pomeriggio era pieno di novità per me, e anche solo ventiquattrore prima non avrei mai potuto immaginare di finire in quella casa, per incontrarmi amichevolmente con le due ragazze che formavano uno dei gruppi più conosciuti di tutta la scuola.

Sapevo che Jasmine e Alice erano grandi amiche, e anche se non frequentavano la stessa classe si incontravano assiduamente durante il breve intervallo. Eppure, non potevano esistere al mondo ragazze più diverse, poiché il modo di vestire estremamente alla moda di Jasmine si scontrava violentemente con il solito stile casual e non appariscente di Alice, eppure, anche se esteriormente distanti anni luce l’una dall’altra, le due ragazze parevano andare d’accordo. Molto d’accordo.

A quel punto, la padrona di casa voleva assolutamente togliermi dall’imbarazzo, e con uno sguardo tranquillo afferrò un libro da una borsa a tracolla abbandonata miseramente sul pavimento tra le poltroncine, che la mia ansia non mi aveva permesso di notare fino a quel momento, e lo aprì.

‘’Beh, Antonio, hai portato qualcosa su cui studiare?’’, disse, timidamente. Effettivamente, lo studio non era un gran argomento su cui dibattere, però quella semplice domanda ruppe il silenzio carico di timidezza che era stava opprimendo la stava.

‘’Sì’’, risposi, sorridendo e aprendo il mio zaino, già pronto ad estrarre il libro di scienze. In quegli stessi giorni era iniziato il primo giro di interrogazioni, ma per fortuna non ero ancora stato chiamato dall’insegnante. Per di più, quell’ultimo anno di superiori mi ero davvero ripromesso di cercare di studiare e di fare del mio meglio, per cercare di portare a casa qualche soddisfazione per me stesso e per mia madre, che tanto se la meritava.

Con solerzia, ne approfittai per affondare lo sguardo tra le varie pagine, sperando di riuscire a concentrarmi anche se qualcuno mi stava osservando. Ero davvero molto timido, e così come non riuscivo a suonare con gente di fronte a me, non riuscivo neppure a studiare se sottoposto allo sguardo di altri.

Eppure, m’immersi rapidamente nella lettura, ma la mano di Alice scivolò sulla pagina, costringendomi quindi a uscire in fretta dal mio blando momento di concentrazione.

Alzando lo sguardo, la fissai come inebetito, mentre lei si accingeva a parlarmi e si stava prendendo un momento quasi come per riflettere, come se avesse avuto qualcosa di talmente importante da dirmi per cui doveva cercare le parole più adatte per esprimerlo.

Osservai anche Jasmine, con la coda dell’occhio, e potei notare il suo sguardo consapevole. In meno di un secondo, potei già immaginare quale fosse l’argomento che si stava per affrontare.

‘’Antonio, lei sa tutto. Come me ha visto ciò che ti è accaduto questa mattina’’, iniziò a dire Alice, indicando con lo sguardo Jasmine, che annuì lentamente. Alzai subito la mano destra con risolutezza.

‘’Non voglio più parlarne’’, dissi, in modo diretto. Non volevo ripensare a quei momenti orribili.

‘’Beh, sappi che con noi puoi confidarti e trovare conforto. Ti vediamo sempre solo a scuola, e questo ci dispiace. Se vuoi unirti a noi durante l’intervallo, e passare quindici minuti in compagnia, sai dove trovarci, immagino’’, tornò a dire la ragazza, che comunque parve non voler tornare direttamente sul discorso appena sfiorato poco prima. Annuii, poco convinto.

‘’Quel nuovo arrivato sa metterti nei guai. Dev’essere un bullo, un prepotente. Ho visto fin da subito come si comporta e con quale arroganza si muove tra gli altri ragazzi… è appena arrivato eppure ha già saputo compiere gesti atroci e mettersi in mostra’’, disse Jasmine, parlandomi per la prima volta.

Io mi limitai ad abbassare lo sguardo, senza avere altro da aggiungere. Effettivamente, la ragazza aveva ragione. Da quando era arrivato, Federico era stato in grado di attirare su di sé l’attenzione di tutti, e non solo a scuola, ma anche a casa. Pure mia madre pareva incuriosita da quell’aura sfrontata che sprigionava.

Mi venne in mente infatti che anch’io, la sera prima, subito dopo averlo visto avevo iniziato a pormi delle domande, capendo che era strano e che forse dietro alla sua figura silenziosamente opprimente e maleducata poteva nascondersi qualcosa. Di certo, si nascondeva qualche ostilità rivolta verso di me.

‘’Ecco, noi ti vogliamo dire che… non sei solo, se lo vuoi. Sei un ragazzo delicato ed altruista, anche intelligente, e se vorrai unirti al nostro gruppo, sarai ben accetto. Noi siamo in due, però ci supportiamo molto… beh, se vuoi, noi due per te ci saremo sempre, e ovviamente saremo pronte a darti man forte in caso di bisogno. Se non ti vergognerai di far parte di un gruppo composto da altre due componenti di sesso femminile, naturalmente’’, concluse Alice, con difficoltà.

Io la guardai ma non dissi nulla, in un primo momento. Avevo notato due aspetti distinti in ciò che mi aveva detto; di certo, sia lei che Jasmine dovevano aver parlato di me precedentemente, e dovevano aver deciso di provare ad affiancarmi. Inoltre, la frase finale con cui aveva concluso il suo discorso frammentato da alcune piccolissime pause era stato pronunciato con un po’ di irritazione, quasi a volermi accusare o far passare per misogino.

Dovevo rispondere, e lì per lì mi soffermai un altro istante a riflettere, poiché se da una parte la loro alleanza e la loro vicinanza mi avrebbe fatto comodo, offrendomi comunque due amicizie per il momento sincere e pronte a togliermi un po’ dalla mia solitudine in cui ultimamente mi ero calato, dall’altra mi faceva sentire ridicolo.

Non per piccoli particolari, ma per il fatto che sembrava che, con quell’invito così frettoloso ma tremendamente studiato, entrambe volessero prendermi sotto le loro ali protettrici come si fa con una persona pietosa. E io di pietà non volevo proprio smuoverne in nessun cuore.

Le mie interlocutrici notarono la mia mancata risposta e i miei tentennamenti, e dopo essersi lanciate un’occhiata a vicenda, sembravano perdute. Mi chiesi se fosse stato possibile che non avessero potuto prevedere un mio tentennamento, e capii che forse mi avevano davvero preso sottogamba, credendomi sciocco o comunque uno sfigato, come probabilmente pensavano tutti. Per un secondo, un’irrazionale nervosismo prese vita dentro di me, per poi dissolversi altrettanto in fretta.

Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, riuscii ad intendere le buone intenzioni delle due ragazze, continuando a notare le loro occhiate cariche di sincera ansia, e comunque decisi di dar loro una chance e di provare a fidarmi. D’altronde, non avevo nulla da perdere e non mi sembravano persone scorrette. Esse stesse stavano davanti a me in evidente apprensione, senza mostrare alcun segno di volermi prendere in giro o di raccattarmi per pietà.

Sorrisi all’improvviso, squarciando il velo di flebile tensione che era sceso sulla stanza, poiché ero certo che le mie interlocutrici pensavano che non avessi inteso ciò che volevano dirmi o che comunque io non volevo lasciarmi avvicinare così facilmente.

‘’Va bene, ragazze. Grazie per avermi offerto un appoggio’’, dissi, rassicurandole ma non promettendo null’altro.

Jasmine e Alice sorrisero anch’esse, e tuttavia poi non chiesero più nulla e non tornarono sull’argomento.

Studiammo per l’intero pomeriggio, senza sosta, a volte passandoci i libri ed interrogandoci a vicenda, ma senza più affrontare vicende maggiormente personali. Così, trascorse in fretta il primo pomeriggio in compagnia di quelle che poi sarebbero diventate per davvero le mie nuove amiche.

 

 

Era già sera inoltrata quando tornai a casa.

L’aria fresca degli ultimi giorni di settembre era pungente, e velocizzai il mio passo pur di rientrare in fretta e di non infreddolirmi. Non volevo ammalarmi, ma tuttavia dovetti anche ammettere che al solo pensiero di dovere rincontrare Federico mi faceva sentire male. Speravo che se ne fosse andato, e che magari si trattasse solo di un semplice incubo, ma sapevo che quel mio coetaneo era reale.

Entrai in casa di soppiatto, e quasi scivolando mi affrettai a rintanarmi nella mia piccola saletta, in compagnia del mio pianoforte. Faceva caldo lì dentro, e scoprii che mia madre doveva già aver acceso il riscaldamento.

Mi guardai ancora un po’ attorno, prima di dirigermi verso il mio strumento.

Di Roberto non c’era più alcuna traccia, se non un giornale abbandonato sul tavolino di fronte alla poltrona. Quasi dispiaciuto, mi avvidi di gettare nuovamente a terra(e con tanta malagrazia) il mio zainetto, togliendomi poi anche in fretta il cappotto e mi catapultai come un rapace sul mio pianoforte, saggiandone prima di tutto i tasti.

Iniziai solo con un assaggio, una sorta di riscaldamento che avrebbe poi permesso alle mie dita di essere meno rigide quando avrei affrontato una sinfonia seria. Eppure, udii distintamente la porta mentre si apriva.

‘’Antonio!’’.

La voce stridula di mia madre mi riportò al mondo reale, fatto di persone che forse parlavano troppo e nei momenti meno appropriati. Ammetto che mi voltai verso di lei con una smorfia irritata ben impressa sul volto.

‘’Dimmi, mamma’’, dissi, sospirando.

Ero stanco e sfinito, non mi andava di ascoltare ciò che il mio unico genitore aveva da dirmi, e in quel momento non mi sarebbe affatto dispiaciuto liquidarla in fretta per poi riprendere il corteggiamento rivolto alla tastiera del mio pianoforte. Poiché tuttora sono convinto che i piccoli tasti siano come le donne; se non le si sfiorano con amore sincero, esse non ti vorranno mai accanto per più di un battito di ciglia. E per i tasti era uguale, poiché se non si riusciva a sfiorarli con la giusta e amorevole ispirazione, essi poi non avrebbero mai prodotto la sequenza rapida di suoni e di note che si volevano ricreare.

‘’Sono un po’ preoccupata per te. Il signor Roberto mi ha detto che sei uscito per andare da qualche amica e che saresti tornato per cena, quindi non mi sono preoccupata molto, ma anche lui ha notato che quest’oggi ti sei comportato in modo strano… c’è qualche problema?’’, mi chiese poi mia madre, visibilmente preoccupata.

Mi vergognai per aver mostrato una smorfia scocciata, d’altronde lei voleva e cercava solo il mio bene.

Mi preparai quindi per risponderle con grande remissività, ma comunque sapevo già dal retrogusto amaro dei miei pensieri che le avrei mentito.

‘’No, è tutto a posto. È solo che oggi ho conosciuto due ragazze, con le quali ho studiato fino a poco fa. Nessun problema’’, le risposi, sorridendo debolmente. Non volevo che lei si preoccupasse ulteriormente per me, e non avevo affatto intenzione di raccontarle del mio scontro con Federico. Non volevo neppure che quella notizia giungesse fin dentro casa, poiché molto probabilmente il nuovo e bruto inquilino doveva aver reagito così spropositatamente solo perché magari quel primo giorno di scuola nel paese doveva averlo reso nervoso.

Per un po’, giusto il tempo necessario per rassicurare mia madre, mi autoconvinsi di ciò, raccontandomi una grande fandonia che rendeva tutto molto più dolce.

Infatti mia madre sorrise, rassicurata dalle mie parole.

‘’Bene, ero davvero un po’ in pensiero per te, e sono felice che tu abbia trovato qualche nuova amica. I nuovi affittuari hanno già cenato, e anch’io l’ho fatto dopo di loro. Ora andrei a riposarmi, sono davvero sfinita… ti ho lasciato un po’ di arrosto nel tegame, ancora caldo sui fornelli. Se vuoi…’’.

‘’No, mamma, non preoccuparti. Vai a riposare. Più tardi cenerò, ora ho bisogno di suonare un poco’’, le risposi, continuando la frase che aveva lasciato in sospeso. Lei teneva molto a me, e avrebbe compiuto pure i tripli salti mortali per accudirmi al meglio, e molte volte mi chiedevo se ero io stesso a volerla vedere a volte così lontana da me.

Era sempre stata poco presente nella mia vita, ma semplicemente perché lavorava tantissimo. Ogni sua lacuna aveva in realtà una solida risposta basilare che a volte non volevo riconoscere, forse per estremo egocentrismo, ma stava di fatto che lei mi voleva davvero bene. Tutto il resto era solo un problema mio.

La mia cara mamma mi lasciò lì, chiudendo la porta con delicatezza dietro di sé e senza smettere di sorridere.

Sorrisi anch’io e scrollai la testa, non appena mi ebbe lasciato solo, e spensi la luce emessa dal lampadario per accendere l’abatjour seminascosta in un angolino della mia saletta, in modo da illuminare parzialmente la stanza.

Poi mi risiedetti alla mia postazione di poco prima e con delicatezza cominciai finalmente a suonare.

L’ambientazione per perfetta per me, mi sentivo nel mio habitat naturale nonostante la penombra che costantemente m’insidiava da ogni lato e le ombre frettolose che io stesso imprimevo sui muri con i miei gesti in controluce.

Già dopo qualche istante la mia vista si fece flebile e sfocata, sia a causa della stanchezza accumulata durante il giorno sia per via di quella soporifera penombra che incitava i miei sensi ad abbandonarmi miseramente, e ben presto mi trovai a chiudere gli occhi e muovermi sinuosamente e quasi automaticamente sulla tastiera del mio strumento, cadendo in una sorta di ecstasy indotta dal mio crescente senso di rilassatezza e sonnolenza.

Suonare il pianoforte per me era da sempre fonte di calma e tranquillità. Ero come unito da un legame mistico e trascendentale al mio strumento musicale, mi sentivo in sintonia con lui e in quei momenti così tranquilli quasi rischiavamo di divenire un tutt’uno.

E proprio in quell’istante udii riaprirsi la porta di quello che ormai si era tramutato nel mio nascondiglio, dove mi rintanavo in cerca di pace, ma che purtroppo ultimamente stava venendo violato un po’ troppo.

Ebbi il timore che si trattasse di Federico, ma fui sfiorato solo per un istante da quel simile dubbio, poiché udii i passi lenti e calibrati che da qualche giorno ormai avevo imparato a riconoscere molto bene. E, mentre nella stanza aleggiava la mia musica, che cercavo comunque di mantenere calibrata per non fare eccessivo baccano, una mano si posò sulla mia spalla.

Sentendone la sua stretta rilassata e il suo calore, mi fermai di colpo, ma rimasi con gli occhi socchiusi e non mi girai a guardare l’intruso. Volevo che fosse lui a parlare per primo, visto che mi aveva interrotto.

‘’E’ tardi, Antonio. È ora di andare a riposare’’.

La voce di Roberto mi giunse come una melodia alle mie orecchie, già sfinite dalla musica che avevo suonato fino ad un istante prima.

‘’E’ tardi e non ho ancora cenato’’, sospirai, quasi sobbalzando e tornando nel mondo reale. Mentre il mio stomaco cominciava a brontolare rumorosamente, accompagnato dalla consapevolezza di aver perso la cognizione del tempo, quasi mi gettai a spegnere l’abatjour e ad accendere la luce del lampadario.

‘’Sono le ventidue’’, mi disse il mio interlocutore, restando fermo nel mezzo della stanza e facendomi notare l’ora, e mi venne davvero da emettere un rantolo disperato. Erano passate almeno due ore da quando mi ero messo a suonare, era già piuttosto tardi e dovevo ancora cenare, preparare lo zaino per l’indomani mattina, fare una doccia e poi dormire un poco.

Non volevo andare a letto tardi, quindi avrei dovuto darmi una smossa fin da subito. E fu quello che feci.

Raccolsi il mio zaino abbandonato a terra, lo tenni stretto tra le mani e controllai che fosse tutto a posto nella stanza, per poi spegnere la luce.

Roberto mi era venuto dietro, e poi si era diretto prontamente verso la cucina mentre io chiudevo la porta del mio rifugio con un giro di chiave. Non si poteva mai sapere cosa sarebbe accaduto in una casa durante la notte, soprattutto con qualche sconosciuto che si aggirava tra le sue mura.

Mi fidavo di Roberto, ma non riponevo alcuna fiducia in Federico, e la signora ancora non avevo avuto modo di conoscerla per bene. Nel dubbio, la stanza sarebbe rimasta chiusa a chiave durante la notte.

Lentamente, mi mossi verso la cucina, preparandomi a scaldare la mia tardiva cena e sperando che non mi restasse tutta sullo stomaco.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno, carissimi lettori, e buon inizio di settimana a tutti voi.

Spero davvero che il racconto continui ad essere di vostro interesse. Mi rendo conto che la narrazione non è un granché, ma comunque questo è pur sempre un racconto introspettivo, scritto principalmente per mostrare il fluire dei pensieri del protagonista e le situazioni che lo coinvolgono. Spero che la trama non vi annoi, e comunque vi assicuro che ne vedremo di tutti i colori, attraverso gli occhi di Antonio.

Grazie infinite a tutti coloro che si sono soffermati finora a leggere la storia e a sostenerla con i loro preziosissimi pareri. Siete la mia forza!

Grazie di cuore per tutto! A lunedì prossimo J

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

CAPITOLO 6

 

 

 

 

 

Non appena entrai in cucina, vidi Roberto alle prese con padelle e fornelli.

Non gli prestai caso, pensando che gli fosse tornata la fame e volesse scaldarsi qualcosa, e senza pensare ad altro andai a prendere una forchetta dall’apposito cassetto delle posate e la misi vicino al piatto pulito che mia madre aveva avuto la premura di lasciare nel mio solito posto dove consumavo i pasti.

‘’E’ quasi caldo. Un attimo’’.

La voce di Roberto attirò nuovamente la mia attenzione su di lui. L’uomo mi dava le spalle, mentre ancora era occupato sui fornelli.

Avrei potuto comprendere fin da subito il significato di ciò che mi aveva appena detto, ma lì per lì non ci pensai neanche e mi diressi anch’io verso i fornelli. La nostra casa era un’abitazione ristretta, e non avevamo un cucinotto o uno spazio ristretto dedicato solo alla preparazione dei pasti, quindi tutto si svolgeva in un’unica stanza, come nella più umile dimora di questo mondo. Questo a volte era un problema che ero costretto a riconoscere ogni giorno, ma d’altronde tutto dipendeva da ciò che si cucinava.

Roberto si voltò verso di me, lanciandomi un’occhiatina mentre mi avvicinavo anch’io alla sua postazione.

‘’Abbi pazienza per un altro attimo, per favore. È quasi pronto, come ti ho detto un secondo fa’’, mi disse nuovamente, tornando a lavorare nel tegame con un cucchiaio.

‘’Ti è tornata la fame?’’, gli chiesi, immaginando che comunque stesse scaldando un pasto per entrambi. Non avrebbe dovuto scomodarsi per me, e glielo stavo per dire, ma mi rispose più in fretta del previsto.

‘’No, io sono a posto, ho già cenato un’ora fa. Ti sto scaldando la cena, se non l’hai ancora capito’’, mi rispose, sorridendo di spalle.

A quel punto mi era chiaro che stava lavorando sui fornelli solo per me. Lasciai andare un sospiro teso e mi sentii arrossire.

‘’Non dovevi scomodarti per me’’, sospirai, non riuscendo proprio a capire perché quell’uomo misterioso mi avesse così a cuore. Effettivamente, quello che stava facendo era davvero un bel gesto, ed io non mi sentivo meritevole di alcuna attenzione, tantomeno ricevuta da una persona che conoscevo a malapena da qualche giorno e di cui sapevo solo il nome.

‘’Non devi preoccuparti di nulla. Quello che faccio, lo faccio sempre con grande piacere’’, mi disse poi Roberto, lanciandomi un’altra occhiata e continuando a sorridere.

Inutile dire che in quel momento ero in panne. Panico totale; l’imbarazzo provocato da quelle piccole attenzioni mi aveva stretto in una morsa letale.

Per non fare sbagli di alcun genere e per non rischiare di mancare di rispetto all’uomo, mi andai remissivamente a sedere di fronte al mio piatto ancora vuoto, restando sempre un po’ frastornato e confuso.

‘’Grazie’’, mi limitai a dire, quasi con un bisbiglio. L’uomo diede una scrollatina di spalle.

‘’Di nulla, ti ho già detto di non preoccuparti’’.

E così, attesi ancora qualche istante, mentre Roberto finiva di riscaldarmi la cena. Ero abbastanza imbambolato e imbarazzato, e magari se ci fosse stato qualcun altro al mio posto avrebbe saputo intavolare una qualche chiacchierata e ringraziare con maggior vigore ed insistenza, ma non ero proprio la persona giusta per quel genere di cose.

E restai così, remissivo e passivo, in attesa. Un’attesa che, fortunatamente, durò poco.

‘’Ecco, è pronto. Ora è sufficientemente caldo’’, disse infatti Roberto poco dopo, mentre si allungava per prendere il mio piatto e servirmi un po’ dell’arrosto lasciatomi da mia madre qualche ora prima.

Lo lasciai fare, ovviamente, continuando a indirizzargli ringraziamenti di tanto in tanto, mentre lui continuava a sorridere e a svolgere quel compito che non gli spettava affatto. E ben presto mi trovai davanti ad un bel piatto colmo di buon cibo, che di certo mi faceva venire l’acquolina in bocca, per poi timidamente ammettere a me stesso che quel gustoso arrosto accompagnato da un contorno di patate non era proprio l’ideale per il mio stomaco, vista l’ora ormai avanzata. Naturalmente, considerando anche il fatto che ben presto sarei dovuto andare a letto, per non subire traumi poi il mattino successivo, quando mi sarei dovuto svegliare presto per prepararmi con calma e tornare a scuola.

Al solo pensiero rivolto alla scuola mi salì un conato di vomito; si trattava dello stesso luogo dove, all’incirca dodici ore prima, avevo dovuto sopportare la più grande umiliazione pubblica alla quale ero mai stato sottoposto fino a quel momento.

Eppure, dovetti distogliere l’attenzione da quei pensieri molto alla svelta, prima che sul mio volto potesse prendere forma una maschera colma di disgusto, che avrebbe potuto urtare la brava persona che fino a quell’istante si era prodigata per scaldarmi la cena e favorirmi il pasto, ed io gliene ero immensamente grato per tutto.

Gli sorrisi, mostrandomi nuovamente riconoscente, e iniziai a mangiare la mia mega porzione appena servita, calda e fumante come se fosse appena stata cucinata.

Mentre mi accingevo ad ingurgitare il primo boccone, Roberto si diresse verso la finestra e la aprì, mettendosi una sigaretta tra le labbra e appoggiandosi sul davanzale, sporgendosi leggermente fuori mentre si preparava a maneggiare l’accendino.

Lo fissai per un attimo, stupito da quell’azione rapida, non aspettandomi neppure che fumasse. Mi resi conto in un batter d’occhio di quanto ancora avessi da scoprire su quell’uomo entrato solo da un paio di giorni nella mia vita, eppure sempre così disponibile e gentile nei miei confronti.

Roberto dovette sentire il mio sguardo su di sé, poiché prima di accendersi la sigaretta mi chiese il permesso.

‘’Do fastidio? Mi sporgo leggermente, così il fumo non viene in casa. Comunque, se dovessi aver freddo e tutto ciò ti disturbasse, sono disposto ad uscire in giardino’’, mi disse, senza particolari preamboli.

Preso alla sprovvista, non potei fargli il torto di mandarlo in giardino.

‘’Assolutamente, non dai alcun fastidio’’, mi affrettai a rispondergli, ben sapendo che io odiavo l’odore del fumo.

Il fumo delle sigarette lo definivo puzzo, così come lo definisco tuttora, e non lo tolleravo affatto. Nella mia ristrettissima famiglia, non aveva mai fumato nessuno a parte mio padre, e dopo che se n’era andato le sigarette erano diventate un tabù in casa nostra.

Mia madre, come me, non sopportava l’odore pungente prodotto dal tabacco che brucia lentamente, così come non lo sopportavo pure io.

Ripresi a mangiare, senza farmi problemi, mentre Roberto fumava pigramente la sua sigaretta, emettendo piccoli sbuffi di fumo che, in lotta contro il buio della notte messo in difficoltà dalla luce della stanza e da alcuni lampioni sulla strada, si mischiava alla condensa di quella fresca sera e formava una nuvoletta scura e ben distinguibile.

Ma non finì completamente la sua sigaretta, poiché dopo qualche attimo la spense con un gesto di stizza e la gettò giù, verso la strada. Poi, chiuse con sveltezza la finestra.

Non badai ai suoi gesti rapidi, anzi, dal canto mio proseguii rapidamente ad ingozzarmi di quelle delizie preparate da mia madre, senza tener più conto del fatto che poi avrei rischiato di fare un’indigestione.

Roberto scostò una sedia di fronte a me e si sedette, appoggiando i gomiti sul tavolo e infossando il viso tra le mani con un gesto pieno di stanchezza.

Solo allora mi soffermai ad approfondire il suo aspetto. Mi parve strano il fatto di come fosse vestito; nonostante che io non ci avessi prestato caso fino a quel momento, dal tanto che ero preso prima dalla musica, poi dalla frettolosità del mio pasto, in quell’istante mi parve vestito da persona importante. Da adulto importante, da uomo affermato.

Indossava ancora la camicia scura a quadretti che gli dava un’aria rilevante, unita alla cravatta bordò, anch’essa di un colore che brillava sul capo scuro sul quale era posata. Tuttavia, l’aria sfinita che si portava appresso quell’uomo m’inquietava parecchio.

Come avevo già avuto ben modo di notare, non era di statuaria altezza, anzi, era piuttosto basso e ancora senza quella panciona prominente tipica degli uomini di mezza età. In quel momento il suo viso, contornato da una barba grigia e folta, ma comunque lunga pochi centimetri e dalla parvenza curata, sembrava un’antica maschera greca, di quelle che venivano utilizzate nelle rappresentazioni teatrali e nelle tragedie, dal tanto che pareva sbattuto dalla stanchezza.

I vestiti, degni di nota e che quel mattino dovevano essere apparsi ben stirati, erano in disordine; i polsini erano sbottonati, la camicia stessa era stropicciata in più punti e il nodo della cravatta appariva lento e forzato.

Roberto aveva in sé qualcosa di grande che si mischiava abilmente con altro di decadente, un qualcosa di misterioso che mi spinse ad osservarlo ancora un po’ mentre finivo la cena e a farmi delle domande. Inutile affermare che ero davvero incuriosito dalla sua strana figura.

‘’Ti vedo molto stanco’’, osai dire, iniziando un discorso, mentre mi accingevo ad iniziare a sbucciare una mela, in modo da concludere al meglio il mio pasto serale.

Roberto, l’unico presente oltre a me nella stanza e nel piano inferiore della casa, sobbalzò a quelle parole, come se io l’avessi risvegliato da un attimo di sonno. Si tolse le mani dal viso e mi dedicò un sorriso tiepido e tremolante, per via di quella che a me continuava ad apparire come stanchezza. Ma che effettivamente poteva trattarsi anche di preoccupazione, e mi venne da pensarci solo dopo un poco.

‘’Vero. Sono molto stanco’’, si limitò a rispondermi, di poche parole ma comunque espresse con cortesia.

‘’Dovresti andare a letto, penso’’, suggerii, mentre sbucciavo la mia mela. Lui mi lanciò uno sguardo vacuo.

‘’Meglio di no, per ora. Non riuscirei ad addormentarmi’’.

Non disse altro. Ed io non aggiunsi altro. Preferii curarmi del mio frutto, piuttosto che aggiungere altro, anche perché se avessi voluto chiedere altro la mia timidezza non me l’avrebbe permesso.

‘’Ho cercato lavoro, oggi. Ho disseminato curriculum per tutto il paese, ma non credo che qualcuno si degnerà di contattarmi’’.

Fu lui a togliermi dal mio silenzio.

Quella volta fui io a sollevare gli occhi e a guardarlo, contrariamente alla precedente. Dovetti ammettere che mi credevo che avesse già un lavoro, ma forse a causa della crisi economica doveva averlo perso. In ogni caso, mi faceva sempre impressione vedere uomini già di una certa età ancora in cerca di lavoro.  

‘’Lo faranno di certo. Mi sembri molto presentabile, molto esperto…’’.

‘’Tutti mi hanno risposto che cercano giovani laureati. Ho risposto loro che la laurea ce l’ho pure io, ed ho anche l’esperienza. Troppo maturo, mi hanno detto. Sinceramente, non credo di poter trovare qualcosa con i miei cinquantadue anni suonati da poco, soprattutto scoprendo il precedente mestiere che ho svolto’’, mi disse, interrompendomi per la prima volta. Ascoltai ciò che aveva da dirmi, poi scrollai le spalle, non capendo fino in fondo il suo problema.

‘’Dipende il lavoro che hai svolto in precedenza’’, mi limitai a rispondergli, cercando di sfiorare con delicatezza l’argomento. Non volevo che si sentisse obbligato a dirmi di più.

‘’Mi sono laureato in filosofia, tanto tempo fa, ma non ho mai praticato nulla in un primo momento. Sono rimasto alle dipendenze di mio padre, rigido gestore di un’azienda agricola, a sciuparmi per quasi dieci anni. Poi, dopo il matrimonio, sono riuscito tramite concorso ad avere una cattedra precaria in un istituto scolastico. Da quel momento in poi, per alcuni anni ho insegnato, in altri mi sono lasciato andare…’’, concluse l’uomo, parlando a voce bassa. Mi guardava, e il suo volto esprimeva una stanchezza incredibile.

Mi limitai ad annuire, mordendo la fetta di mela che avevo appena sbucciato e tagliato.

‘’Ovvio che ora non voglio e non posso tornare in cattedra. L’anno scolastico è già iniziato e comunque mi sono ripromesso di non insegnare mai più. Mi accontento anche di un qualche lavoretto precario e manuale, mi sono stancato di supplenze saltuarie’’, aggiunse dopo, come a voler completare la frase pronunciata poco prima.

‘’Perché ti sei ripromesso di non voler insegnare mai più?’’, chiesi, rendendomi audace grazie alla spinta della mia immotivata curiosità. Mi avevano colpito le sue parole, pronunciate in modo così consapevole e freddo.

Roberto parve rimanere colpito dal fatto che gli avessi posto una domanda, di certo la prima così diretta.

‘’Non mi ritengo la persona giusta per insegnare qualcosa agli altri’’. E così dicendo, parve chiudere l’argomento.

Non indagai oltre e mangiai l’ultima fetta di mela quasi voracemente, prima di alzarmi dalla sedia. Avevo intenzione di ritirarmi nella mia stanza, vista l’ora tarda e il fatto che quell’uomo ancora non mi convincesse del tutto. Era vero che era estremamente gentile nei miei confronti, ma comunque restava così misterioso, quasi sommerso da tante, forse troppe, cose non dette.

Mi preparai per congedarmi cortesemente, ma Roberto parve uscire da quello stato di stanchezza che l’aveva caratterizzato per tutta quella serata e mi afferrò per un braccio, con una rapidità sorprendente.

Spalancai gli occhi, sbigottito da quel gesto, e richiusi la bocca, ormai già semiaperta e pronta a salutare.

‘’Ti sei comportato in modo strano, oggi. Me l’ha sottolineato di nuovo anche tua madre. C’è qualcosa che ti turba?’’, mi chiese direttamente, senza darmi tempo per riprendermi dal suo gesto. Eppure, mentre la sua stretta sul mio braccio si allentava con lentezza, mi salì alla gola un moto di stizza, e in me crebbe una discreta voglia di dirgli in faccia che se mi ero comportato stranamente quel giorno, era solo a causa di suo figlio.

Sapevo che se glielo avessi detto, avrei risolto i miei problemi. Eppure non lo feci e mi trattenni; credevo di doverli risolvere da solo. Mi stavo facendo male da solo.

‘’No, è tutto a posto, te l’ho già detto’’, sospirai, mentre la sua mano calda mi lasciava il braccio.

Roberto mi guardò con un debole sorriso ben impresso sulle labbra.

‘’Sappi che se c’è qualcosa che ti assilla, un qualunque problema di cui non vuoi o non ti senti di affrontare con altri, di me ti puoi fidare’’.

Eccola, una frase fatta. Anche nel primo pomeriggio mi aveva detto qualcosa di simile. Davanti a me si aprì un mondo, eppure tacqui e non dissi nulla se non un grazie, mormorato tra l’altro tra i denti e con una discreta forzatura.

‘’Gli adulti servono anche per questo. Per dare sostegno ai più giovani, nel caso se lo meritino’’, concluse l’uomo, abbassando lo sguardo ed abbandonando il suo sorriso.

Non attesi altro tempo e mi congedai in fretta, con un semplice buonanotte calorosamente ricambiato, e mi diressi direttamente nella mia stanza. Non sapevo che però per quel giorno il mio calvario non era ancora concluso.

La mia sveglia segnava le ventitré e trenta, e in un attimo la puntai e mi preparai per andare a letto, rinviando la doccia e lo zaino all’indomani mattina, visto che non avevo tempo in quel momento. Crollavo dal sonno, e non mi andava di ripensare alle parole di Roberto, che forse avevano lasciato un segno dentro di me e mi avevano turbato. Non volli chiedermi il perché io mi meritassi simili attenzioni, poiché non ci capivo molto di quello che stava accadendo negli ultimi giorni. La mia vita assolutamente monotona era stata come travolta da una serie di eventi che stavano rapidamente mutando la mia realtà, e questo mi dava angoscia. Quindi, mi gettai sotto le coperte e spensi la luce in un battibaleno, chiudendo anche i miei occhi ed affondando il viso nel cuscino, cercando di riposare e di non pensare a nulla.

Ma quella notte la buona sorte non era a mio fianco, e non era disposta a concedermi un sonno tranquillo e un buon riposo. E il bello è che ciò non fu causato dalla cena troppo abbondante e pesante.

Infatti, dalla camera da letto a fianco della mia, quella di Roberto e Livia, potevo distintamente udire un parlottio sommesso, identico a quello che avevo avuto modo di udire la sera prima. Ma quella volta era più marcato. Probabilmente, la signora Arriga doveva essersi distesa sul letto, posizionato esattamente dall’altro lato della sottile parete del mio.

In quel momento capii l’errore madornale che era stato commesso da mia madre e che ormai non si poteva più rimediare.

Un paio di settimane prima, gli imbianchini avevano tinteggiato di nuovo i muri di casa, approfittando del fatto che non avevamo nessun ospite pagante nell’abitazione, e la mia buona mamma si era presa la premura di riposizionare il letto nella suddetta stanza, poiché altri affittuari poco tempo prima si erano lamentati del fatto che esso fosse posizionato troppo vicino alla finestra, e che la mattina presto il camion della spazzatura li svegliava bruscamente, essedo vicino all’unico ingresso delle fonti di rumore esterne all’abitazione.

Io non credevo che spostare il letto da un lato all’altro della camera avesse potuto cambiare qualcosa, ma mia madre quando andava in fissa diventava irremovibile nelle sue decisioni, e grossolanamente e senza pensarci aveva fatto il guaio di posizionarlo proprio a ridosso del muro che divideva la mia cameretta dall’altra stanza più ampia, adibita per un utilizzo di coppia. Nessuno di noi due aveva pensato ai possibili effetti collaterali di tale spostamento. Non mi restava quindi altro da fare che sperare che i nuovi inquilini si comportassero decentemente e in modo corretto, poiché potevo davvero udire soffusamente ogni loro rumore.

Ma purtroppo in quel momento mi ritrovavo con una perfetta sconosciuta che, ad una ventina di centimetri da me, chiacchierava e ridacchiava ad un cellulare. Non c’era nulla che potessi fare per alleviare il mio fastidio, e sperai che la signora la smettesse con le chiamate di lavoro, così come le aveva menzionate suo marito durante la sera precedente. Eppure, Livia continuava a chiacchierare animatamente, nonostante fosse ormai mezzanotte.

Non potei a quel punto non farmi curioso e non cercare di origliare qualcosa, mio malgrado. Mi pareva il giusto prezzo da pagare per il fatto che costei mi stava recando involontariamente fastidio.

Non riuscendo a prendere sonno, origliai dei piccoli sussurri, delle paroline dette a mezza voce e che non mi giunsero chiaramente alle mie orecchie poco allenate nello spionaggio, ma ero pronto a giurarci che ciò che stava venendo detto non riguardava assolutamente alcun lavoro serio, udendo anche qualche risatina.

Mi sembrava un parlottio da poco di buono, ma a quel punto misi a tacere i miei pensieri e i miei pareri personali e mi limitai a cominciare a sperare che la signora smettesse presto di creare quel basso ma fastidiosissimo trambusto, che solo io potevo udire, poiché le altre camere da letto erano posizionate nell’altro lato del piano superiore di casa.

Mi chiesi se Roberto fosse in camera. L’avevo lasciato in cucina, ma da allora doveva già essere trascorsa una mezzoretta. Non avevo udito nessun passo dirigersi verso la stanza, e nel resto di casa vigeva un silenzio tombale, costringendomi ad ammettere che molto probabilmente l’uomo doveva trovarsi ancora al piano inferiore.

I brutti pensieri iniziarono a invadere la mia mente a ritmo incalzante, e cercai disperatamente di reprimerli tutti quanti e di cercare di rilassarmi, con scarsi risultati. E, mentre il tempo continuava a scorrere, i sussurri non si quietavano minimamente.

Ammetto che mi lasciai un po’ trasportare dal nervosismo, ma me ne rimasi lì immerso nel buio consolatore della mia cameretta, a sorbirmi quella cantilenante sequenza di parole pronunciate sottovoce e in un modo che iniziò a sembrarmi davvero deplorevole.

All’improvviso, quando cominciavo a perdere le speranze e la mia voglia di starmene sotto le calde coperte del mio giaciglio, udii il rumore lieve di passi, che con attenzione si dirigevano al piano superiore. Intuii facilmente che si trattava di Roberto che andava a letto.

Doveva essere già passata la mezzanotte.

I passi infatti si interruppero proprio davanti alla porta a fianco della mia, e potei sentire distintamente quando si aprì, lasciando entrare l’uomo. La moglie nel frattempo aveva smesso improvvisamente di bisbigliare e di ridacchiare.

Udii distintamente la voce matura e profonda di Roberto, che con un tono incredibilmente innervosito chiedeva qualcosa alla moglie.

‘’Chiacchieravo solo con una mia amica, tutto qui’’.

La voce di Livia giunse per la prima volta in modo chiaro alle mie orecchie.

Sorrisi tra me e me, non credendo a quelle parole.

Eppure, tutto si concluse lì. Dopo un qualche tramestio, nulla provenne più dalla stanza a fianco, e tirai quasi un sospiro di sollievo, decidendo di approfittare di quella tregua.

Sospirai e cercai di concentrarmi sulla mia stanchezza, per provare ad addormentarmi una volta per tutte, ma la mia mente continuava a tornare a riflettere sulla famiglia Arriga. Tutti e tre i suoi componenti erano strani, e dovevo ammettere che non li avevo ancora capiti del tutto. Nascondevano qualcosa, questo mi pareva certo ed ero sempre più convinto di ciò.

Mentre ancora restavo impantanato nei miei pensieri notturni, pesanti come fardelli, scivolai senza accorgermene nel sonno, e potei fortunatamente godere di una magnifica dormita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie a tutti per aver letto anche questo capitolo!

Dal prossimo, il racconto decollerà e si velocizzerà un po’, restando comunque pur sempre una storia introspettiva, e quindi piena di pensieri e di ragionamenti del nostro protagonista. Per ora, abbiamo avuto modo di conoscere meglio sia Antonio sia i membri della famiglia Arriga, assieme ai loro comportamenti strani.

Spero che il racconto possa continuare a essere gradevolmente leggibile.

Grazie di cuore a tutti i recensori, e buona giornata J a lunedì prossimo J

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

CAPITOLO 7

 

 

 

 

 

Dopo l’ennesimo risveglio disastroso, seguito da una folle agitazione, poiché dovetti darmi una sistemata in fretta per poi preparare anche la cartella, quel viaggio verso la scuola si rivelò un incubo.

Non erano neppure passate ventiquattro ore dal momento in cui ero stato umiliato da Federico, e su di me bruciava ancora tutta la vergogna della mattina scorsa. Tuttavia, giunsi a destinazione in perfetto orario, e me ne rimasi in disparte senza avvicinarmi a nessuno, aspettando quei cinque minuti che mancavano al suono della prima campanella, che permetteva agli studenti di entrare nell’istituto scolastico e di potersi recare nelle rispettive classi, dando loro un po’ di tempo per sistemarsi sui banchi prima dell’inizio delle quotidiane lezioni.

Non scorsi il mio nemico tra la folla, e neppure l’avevo sentito uscire da casa quella mattina, ma sapevo che era sempre molto silenzioso nei movimenti e che quindi doveva essere comunque uscito senza che io me ne accorgessi, continuando a constatare mio malgrado che avevo dovuto sopportare un risveglio piuttosto traumatico e caotico anche quello stesso giorno.

Difatti, lo vidi dopo aver ispezionato meglio il piazzale antistante al liceo, mentre chiacchierava animatamente con Davide, Giulio e Luca. Ridevano e si divertivano i quattro, e assolutamente non mi azzardai ad avvicinarli.

Abbassai lo sguardo e mi misi ancora più ai margini della folla, camminando lentamente e cercando di non stare fermo, per non farmi prendere dall’ansia che mi stavano creando tutti gli sguardi che si posavano su di me.

La scuola che frequentavo era piuttosto piccola, tutti i suoi studenti si conoscevano almeno di vista e nessun viso era sconosciuto, e quella mattina non furono pochi gli sguardi che indugiarono su di me, chi con curiosità e chi con una rapidissima occhiata, subito deviata altrove.

Mentre camminavo lentamente e senza meta, attendendo il suono della prima campanella, mi sentivo come un fantasma, solo ed emarginato. Mi ostinavo a cercare di tenere lo sguardo basso, cercando di non incrociare più altri sguardi, e proprio mentre continuavo a infliggermi quella sorta di penitenza, sentii una mano calda che mi si posava sulla spalla.

‘’Ciao, Antonio’’, mi disse Alice, affiancandomi e salutandomi con calore.

Le sorrisi e ricambiai caldamente il suo saluto, per poi essere salutato ad affiancato anche da Jasmine, anche lei sorridente e solare come sempre.

Da quell’istante in poi, mi lasciai riflettere nei loro sorrisi e nei loro occhi, colmi di calore e di piacere di conversare con me, e mi sentii rinascere dalle mie ceneri. Non ero più solo, a quanto pareva.

‘’Pronto per affrontare questa lunga giornata scolastica?’’, mi chiese Jasmine, dopo i saluti e i vari sorrisi ricambiati.

Scossi leggermente la testa dall’alto verso il basso, lasciandole intendere che lo ero. In verità, non lo ero affatto. Soprattutto, non ero pronto e preparato ad affrontare nuovamente il mio nuovo vicino di banco.

La nostra chiacchierata amichevole in realtà non fece in tempo a spingersi oltre ai semplici convenevoli e a qualche domanda di rito, poiché la campanella suonò e le nostre strade si divisero, con la promessa che ci saremmo rincontrati durante l’intervallo.

Raggiunsi la mia aula in fretta e mi posai sul banco, ricordando che nelle prime due ore avremmo avuto la lezione settimanale di educazione fisica. Infatti, il prof Giulianini era già in aula ad attenderci, e senza aspettare oltre ci spinse a recarci in palestra, senza neppure fare l’appello.

Era sempre di fretta, il prof; alto e calvo, con un pancione prominente, sembrava più il soggetto adatto per svolgere il ruolo di attore protagonista in una lunga pubblicità delle patatine in tv che l’uomo sportivo, ma tuttavia nessuno faceva caso al suo aspetto fisico, poiché era sempre gioviale e cortese, oltre che estremamente rilassato, tutto il contrario della prof Carlucci. Sapeva come farsi apprezzare dagli allievi, ed era sempre gentile e cordiale.

E così, l’incubo di quella giornata incominciò dagli affollati spogliatoi maschili della palestra.

La nostra classe era esattamente equilibrata, con numero uguale di componenti maschili e femminili, ma gli spogliatoi parevano sessisti e di parte, poiché quello destinato alle ragazze era ampio e ben aerato, e quello dedicato ai ragazzi molto più ridotto e senza finestre, illuminato da una luce al neon che pendeva dal soffitto mal intonacato.

E questo creava problemi d’odori a tutti noi, poiché si sa che i ragazzi sono meno profumati delle ragazze, ed ogni volta si finiva con l’irritarsi e col litigare per anche una minima cosa, chi per un calzino dubbiamente pulito lasciato in giro o gettato nello zaino altrui o per una maglietta sudata all’inverosimile e lasciata appoggiata al termosifone caldo, che tuttavia doveva essere proprietà comune ed ogni ragazzo gli faceva la ronda durante le fredde mattine per appoggiarcisi qualche istante, prima del riscaldamento. Comportamento scorretto per i muscoli, ma corretto per noi poveri giovincelli svegli da poco e già in fase di preparazione per affrontare le due ore settimanali di attività fisica, svolte assieme per risparmiare col riscaldamento negli ambienti scolastici.

La crisi economica era asfissiante. Ma quella mattina, di asfissiante c’era anche il nuovo componente della classe, il mio nuovo nemico.

Io avevo già indossato i calzoncini della tuta quando lui entrò nello spogliatoio, tra gli ultimi. Il suo sguardo signorile ed aristocratico, più elevato dei comuni mortali, fu puntato verso una panchina centrale, e lì si diresse, facendosi spazio e gettando a terra gli indumenti di chi era già giunto in precedenza.

Nessuno disse nulla, mentre un gelido silenzio regnava nello spogliatoio, interrotto solo da qualche fruscio di vestiti. Poi, dopo l’impatto iniziale, si riprese a parlare, tuttavia senza che nessuno si avvicinasse troppo a Federico, che neppure era stato rimproverato per il suo comportamento alquanto scorretto.

Mi sembrava ovvio che la classe lo temesse.

Mi preparai in fretta, e sgattaiolai fuori dallo spogliatoio non appena potei, dirigendomi direttamente in palestra, dove il prof si accingeva a fare l’appello, e lì me ne rimasi fintanto che non fu pronta la classe intera, seduto a terra in un angolo riscaldato della pavimentazione verde. Nessuno dei miei compagni ridacchiò per ciò che mi era accaduto il giorno precedente, e neppure ne parlarono.

I miei occhi tornarono nuovamente a osservare la figura di Federico, non appena lui entrò nella palestra, ovviamente per ultimo. Con addosso una maglietta smanicata, i suoi tatuaggi quasi risplendevano come i piercing che aveva nei lobi delle orecchie. I tatuaggi erano composti da colori sgargianti, uno raffigurante un noto emblema calcistico, l’altro invece era composto da stelline, e da una sorta di palloncino rosso in mezzo al tutto. Mi parve molto femmineo, ma non m’importò della mia flebile constatazione e mi concentrai sugli sguardi degli altri.

Tutta la classe lo guardava, sempre immersa in uno strano silenzio, così come lo fissava pure il prof, che si affrettò a farne la conoscenza. Poi, dopo il rapido appello, e dopo un frettoloso riscaldamento, si cominciò a giocare.

Amavo infinitamente quelle due ore di educazione fisica; anche se non ero molto portato per lo sport in generale, il movimento e il gioco di squadra erano da sempre stati divertenti anche per me, e nonostante fossi una persona che normalmente se ne sta sulle sue e molto timida, mentre si giocava tuttavia riuscivo facilmente a interagire con i miei compagni. L’ora e mezzo di gioco a scelta era quindi per me un momento relativamente molto felice e poco noioso.

Come nella maggior parte delle volte, dopo un breve riscaldamento, il prof ci permise di dividerci la palestra e di praticare uno sport di squadra a nostra scelta, mentre lui se ne stava placidamente seduto nella sua piccola cattedra distante e di lato all’immensa stanza, pure senza guardarci a volte. Lo si poteva poi vedere assorto sui suoi registri, come se noi allievi non esistessimo neppure più, ma quello non era un grande danno per noi, liberi di divertirci.

Molto probabilmente si fidava di ragazzi ormai diciannovenni. Ma quella volta si sbagliava grossolanamente.

Come di consuetudine, l’insegnante si mise quindi a sfogliare i suoi registri, mentre la classe si divideva in due parti, una composta dai ragazzi e l’altra dalle ragazze. Ovviamente, le ragazze si presero la parte della palestra con la rete e cominciarono a giocare a pallavolo, mentre noi ragazzi cominciammo a organizzarci per la classica partitella di calcio, di routine da quasi cinque anni, eppure mai noiosa.

Non essendo all’aria aperta, eravamo pressoché costretti a giocare ad una sorta di calcetto, con reti rigorosamente formate da due giacchette appoggiate al pavimento ad una distanza eguale l’una dall’altra. Anche se non era una classica e divertente partita di calcio nella norma, anche una partitella di calcetto era sempre qualcosa di soddisfacente per la nostra voglia di giocare maschile, e formammo due squadre composte da cinque elementi ciascuna, divisi a seconda del colore chiaro o scuro della maglia.

Per casualità, assieme alla mia maglietta chiara finii proprio in squadra con Federico, che in un attimo prese subito in mano la situazione.

‘’Tu sarai il portiere’’, disse altezzosamente, indicando la porta segnata da due maglie a Francesco, un ragazzo basso e cicciottello non tanto agile. Io, Andrea e Giacomo, gli altri tre componenti della squadra, lo lasciammo fare.

‘’E voi’’, disse poi il gradasso, indicando noi tre rimasti, ‘’state indietro, difendete la porta e servitemi. Solo io cercherò di finalizzare, e ricordate che l’importante è subire pochi goal’’. E così, il prepotente si era imposto su di tutti, poiché tutti e tre facemmo proprio come lui ci aveva detto. Si sentiva davvero un leader.

Giacomo aveva voglia di dire qualcosa, lo udii borbottare, ma Andrea glielo impedì, scrollando le spalle e dicendo che non ne valeva la pena, di discutere per una partitella sciocca.

Il match cominciò subito, con la squadra avversaria pressante, e con me e i miei compagni incapaci di reagire. Federico, sempre troppo avanti e irraggiungibile, solitario ed immobile, quasi attese per ripicca nelle vicinanze della porta avversaria, senza fare una piega.

In dieci minuti, subimmo quattro goal. A me non importava molto, ma Giacomo, il ragazzo più polemico della classe, andò a parlare subito con Federico, con fare provocatorio ed irritato, ma il nuovo arrivato lo mise a tacere con uno spintone.

‘’Non osare dire a me che ho sbagliato qualcosa. Sono un attaccante e se nessuno mi serve a dovere non posso svolgere il mio ruolo di finalizzatore’’, replicò, con una smorfia indecifrabile impressa sul volto.

‘’Scherzi?! Durante le partite di calcetto, ogni componente della squadra si muove e ricopre più ruoli, indietreggiando ed aiutando a difendere la porta in caso di bisogno. La colpa…’’.

‘’La colpa è sua’’, disse Federico, interrompendo la valanga di parole di Giacomo. E con un dito indicò l’incolpevole Francesco, il portiere.

Me ne rimasi fermo ad osservare la scena e ad ascoltare il battibecco, mettendomi le braccia ai fianchi e cercando di riprendere fiato, seguendo l’evoluzione degli eventi. A volte mi sembrava sciocco che in un gioco di squadra come il calcio si debba sempre attribuire la colpa di una sconfitta a un unico individuo, nella stragrande maggioranza dei casi.

Gli attaccanti vengono visti come divinità assolute, sempre ricercate ed apprezzate da uno stadio intero, che indosserà le loro maglie e invocherà i loro nomi come se fossero quelli dei santi patroni delle più grandi città del mondo, mentre non resta nulla o quasi per tutto il resto della squadra. Mediani che si devastano per novanta minuti e poco più a smistare e gestire palloni, difensori costretti ad inseguire avversari rapidi come lepri e magari buttarli giù quando essi cercano di sfuggire alle loro marcature, le ali che si bruciano per un’intera carriera a correre come forsennati lungo le fasce del campo per servire l’attaccante, il finalizzatore supremo che in molti casi non deve far nulla se non avanzare di qualche passo e sfruttare l’assist che gli viene offerto.

E quando esso segna, l’intera tifoseria esplode con un boato assordante, un grido di giubilo puro, mentre tutti lo acclamano, senza tener presente che il suo goal in realtà è frutto di una moltitudine di azioni importantissime compiute da altri componenti della squadra. Sarebbe più giusto invocare il nome della squadra, invece che quello di un singolo giocatore.

D’altro canto, quando si perde è quasi sempre colpa del portiere; così sprovveduto che non ha visto neppure il pallone che gli è sfrecciato sotto il naso ed è finito all’interno della sua rete, senza contare che nella maggior parte dei casi se ciò è avvenuto è sinonimo del fatto che l’intera squadra non gira bene il pallone, concedendolo agli avversari, magari anche lasciando spazio agli attaccanti avversari in area di rigore e lasciandoli tirare in porta a loro piacimento.

Il calcio in generale era visto quindi da me come uno sport bello e divertente, ed è così tuttora, ma fintanto che risulta un gioco semplice e puramente di squadra. Oltre, perde ogni significato e si cade nella trappola dell’individualità, che in un gioco di squadra appare come uno dei più grandi controsensi esistenti. Nella nostra partitella tra pivelli, quindi, in quel momento si stava riflettendo tutto il mondo del calcio professionistico, assieme ai suoi problemi.

‘’Non è di Francesco, la colpa. Se tu avessi difeso assieme a noi, invece di startene imbambolato là davanti, avremmo di certo subìto meno goal’’, battibeccò Andrea, difendendo gli altri compagni. Federico rise.

‘’Non sono io l’imbambolato, ma quello lì. Ci scommetto che se gli faccio un tiro centrale in porta, non lo para neppure’’, disse il nuovo, sistemandosi tra i piedi il pallone.

Giacomo non voleva affatto dargliela per vinta, così come anche Andrea. Ma era troppo tardi.

Infatti, senza badare a ciò che gli dicevano i suoi nuovi compagni, Federico si lanciò palla al piede verso la porta e l’ignaro portiere, che in meno di un attimo fu trafitto da una pallonata potentissima, che s’infilò senza alcuna difficoltà nella porta delimitata dalle due piccole masse di vestiti appoggiati sulla pavimentazione verde. Verde come un vero campo da gioco, verde come la speranza che svanì dagli occhi di Francesco, quando in meno di un istante dopo si trovò faccia a faccia con Federico.

‘’E’ davvero un buono a nulla! Questo ha le mani bucate, e neppure arriva a parare un pallone’’. E detto ciò, senza che nessuno di noi avesse avuto il tempo anche solo per contrarre un muscolo del volto, il prepotente smollò un sonoro calcio al ventre al mio compagno minuto.

Tutto si fermò attorno a me, per un istante; io stesso, che solo il giorno prima ero stato vittima del prepotente, ora che mi ero tramutato in muto spettatore ero pietrificato sul posto, nella stessa posizione di poco prima.

Francesco era a terra, e si teneva stretto il ventre tra le mani, la testa china a toccare il pavimento riscaldato della palestra. Giacomo fu il primo a reagire e ad andare in soccorso al nostro compagno, raggomitolato al suolo.

Noi tutti ci raccogliemmo a ridosso dell’infortunato, mentre le ragazze, un po’ più lontane ed ignare dell’accaduto, continuavano a schiamazzare e a giocare rumorosamente. Il professore era ancora chino sui suoi registri, col volto sereno.

‘’Ma sei davvero un gran coglione! A me piacerebbe proprio sapere da dove sei piombato fuori. Sei venuto in questa scuola solo per spadroneggiare?!’’, imprecò una voce certamente indirizzata a Federico, che non riconobbi in quel momento. Ero immerso nel dolore del mio compagno ancora a terra, poiché in lui rivedevo il me del giorno precedente. Solo che Francesco aveva avuto la fortuna di essere stato soccorso da qualcuno. Se non mi chinai a suo fianco e se non cercai di dargli una piccola pacca di conforto, fu solo a causa della mia timidezza.

Poi, calò il silenzio più assoluto. Solo qualche voce concitata, che chiamava il professore.

Voci femminili, agitate.

Nessuno schiaffeggiava più la palla da pallavolo. Tutto era sospeso.

Il professore arrivò in fretta sul posto, e solo allora mi riscossi e quasi tremai di fronte alla sua collera. Però, l’adulto parve sopirsi per un attimo, richinandosi con delicatezza infinita su Francesco. Gli sussurrò qualcosa, dolcemente, e il mio compagno annuì, rialzandosi lentamente in piedi. Il suo volto era ancora contratto dal dolore di poco prima, livido come il mio durante la scorsa giornata.

‘’Voglio sapere esattamente cos’è successo’’, disse a quel punto l’insegnante, rivolgendosi a tutti. Eravamo sotto la sua responsabilità, e logicamente era infuriato e forse anche leggermente spaventato per ciò che era accaduto.

Francesco se la svignò rapidamente verso gli spogliatoi, mormorando qualcosa, mentre le ragazze guardavano il nostro gruppetto con aria interrogativa.

Giacomo, che del gruppo era quello più infervorato, non attendeva altro che raccontare ciò che era accaduto, mentre tutta la platea maschile annuiva alle sue parole, me compreso.

Fu con grande disgusto che notai che Federico tentò di difendersi. Non solo; mentì. Scrollò la testa di fronte alle parole pesanti del compagno di classe ma non intervenne fintanto che non fu interpellato da uno sguardo nervoso del prof, comportandosi più educatamente di ogni qualsiasi altro imputato del mondo.

‘’Prof, stavamo giocando a calcetto ed ho cercato di fare goal. Ho quasi perso l’equilibrio e, involontariamente, ho colpito Francesco con un calcio’’, disse quello che ormai era riconosciuto da tutti come bullo. In quel momento, notai che l’aura che era riuscito a creare attorno a sé e al suo possente fisico tatuato stava velocemente svanendo; solo sguardi colmi di disgusto e di sospetto erano puntati su di lui. Negli occhi delle ragazze non brillava più la curiosità, ma solo un misto tra irrequietezza e nervosismo. Nei miei e in quelli dei ragazzi invece, c’era solo rabbia.

Un verso di protesta si levò dal pubblico maschile alle parole del nuovo compagno, in modo sdegnato. Era vero che Francesco, proprio come me, era un componente della classe piuttosto emarginato, e che quindi non aveva molti amici tra i compagni, ma quell’azione doveva essere stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Visto che chi stava difendendo il mio sfortunato compagno molto probabilmente aveva visto anche ciò che era accaduto a me durante l’intervallo del giorno prima, doveva essere spaventato per il fatto che aveva scoperto che prima o poi sarebbe toccato anche a lui subire le angherie di Federico. Inoltre, il suo ingresso negli spogliatoi di un’ora prima aveva già ampliamente irritato gli animi maschili.

‘’Francesco era nella tua stessa squadra. Perché dovresti aver calciato il pallone nella tua stessa porta? Mi stai ricoprendo di bugie, ragazzo…’’, sibilò il professore, anch’esso irritato. Tutti sapevamo quanto s’innervosisse di fronte agli episodi di prepotenza, e quella volta si erano davvero superati i limiti.

‘’Non è come sembra. Nulla è come sembra…’’, mormorò Federico, tramutandosi da carnefice a vittima e mostrando un visetto piagnucoloso.

Il prof si sbollì in un istante, e comunque dovette credere al fatto che era stato un puro e mero incidente. Ed inoltre Francesco non si era fatto troppo male, e nel giro di poco sarebbe passato tutto quanto.

Con la solita inerzia che caratterizzava buona parte del nostro gruppo di insegnanti, Giulianini scelse di non infierire nella vicenda, anche notando il fatto che in fondo Federico era appena arrivato, e che doveva ancora ambientarsi al nuovo ambiente. Quindi, ci ordinò di andare a cambiarci e di recarci subito in classe, dove per il restante tempo che aveva a disposizione ci avrebbe parlato dell’importanza della correttezza del comportamento nello sport.

Una noia, in pratica, che lasciò sul volto di tutti un marchio d’indelebile tristezza, poiché ci aspettavamo almeno un richiamo scritto. Invece, Federico fu assolto, anche se lo aspettava una bell’oretta di chiacchierata sulla sportività in generale e sugli atteggiamenti corretti da mantenere durante il gioco e le varie pratiche sportive.

Ci dirigemmo tutti amaramente e in silenzio verso gli spogliatoi, irritati ed innervositi.

Sospirando, lasciai che i miei compagni entrassero per primi, attendendo non so cosa. Forse, era stata la mia sfortuna a bloccarmi, poiché rimasi per un attimo solo nella penombra del corridoio, senza accorgermi che qualcuno mi stava tendendo un agguato.

Infatti, all’improvviso sentii un braccio che, passandomi da sotto la gola, iniziò a stringersi con una forza incredibile attorno al mio collo, e per un attimo i miei occhi si spalancarono dallo stupore e dalla paura.

Il mio aggressore m’impedì di emettere qualsiasi suono grazie alla sua stretta ferrea, mentre da dietro manovrava il mio corpo in preda al terrore, costringendomi a muovere qualche passo indietro e ad andare a sbattere col viso contro il muro. Non riuscii neppure a emettere un lamento o un mugugno, mentre l’aria mi mancava sempre di più.

Potevo sentire il lento respirare del mio nemico, che col volto a pochi centimetri dietro la mia testa emetteva una sorta di piccoli sospiri affaticati. Ero in preda al panico, e sentii che stavo per svenire da un momento all’altro, mentre le mie unghie cercavano di affondare nel braccio del nemico sconosciuto, con scarsi risultati purtroppo, e quando notai che il tatuaggio colorato sull’avambraccio del prepotente, capii di chi si trattava, se non l’avevo già chiaro da qualche attimo.

Non potevo crederci. Pensavo volesse uccidermi per davvero, quella volta.

‘’Quel professore del cazzo mi farà la predica, tra poco. Tutti i tuoi stupidi compagni diranno qualcosa contro di me, ma tu non azzardarti a raccontare del nostro piacevole scontro di ieri nei bagni. Tutti qui non ti sopportano, sfigato, quindi nessun altro parlerà per te. Di te non importa nulla a nessuno. E se provi a fare qualche azione contro di me o a raccontare qualcosa, o con gli insegnanti o a casa, io ti spezzo in due. Intesi?’’.

La voce di Federico mi giunse calma e pacata alle orecchie, dolcemente bisbigliata.

Mentre la mia vista si appannava, annuii fermamente.

‘’Questo e quello di ieri sono stati solo piccoli assaggi. Qualsiasi parola o azione contro di me si tramuterà in dolore, sappilo’’. E così dicendo, il mio nemico mi lasciò andare.

Mentre scivolavo a terra, appoggiandomi con le mani ai muri, mi parve che un’ombra si fosse mossa dietro a quella ancora attenta su di me del mio nemico, ma credetti che si trattasse di un’allucinazione. E lo era stata per davvero, pensai.

Federico, dopo essersi accertato che respiravo e che non avrei emesso alcun grido, si dileguò in fretta nel vicino spogliatoio, stranamente silenzioso.

Dopo qualche altro attimo trascorso al suolo, mi massaggiai il collo e, rosso di vergogna, andai anch’io a cambiarmi con gli altri, facendo finta di nulla e chiudendomi nel mio mondo. Avevo perfettamente inteso il messaggio del mio aguzzino.

 

 

Dopo un’oretta abbondante di lavaggio di cervello, l’intervallo giunse con gaiezza, e mi permise di abbandonare quell’aula dall’aria opprimente.

Io mi ero fatto gli affari miei, stando silenzioso ed accasciato mogiamente sul mio banco, senza neppure tenare di intervenire in alcun modo nella discussione che ne era scaturita nuovamente tra i miei compagni e Federico. Francesco stava bene e si era ripreso, e il prof, diplomatico, aveva zittito dopo poco entrambe le parti in causa ed aveva parlato per tutto il tempo di correttezza e di comportamenti corretti, immerso tra una ventina abbondante di musi lunghi.

Mentre mi dirigevo verso il bagno, lungo il corridoio incrociai gli sguardi di quel trio di conoscenti che credevo miei amici, e che stavano già chiacchierando con il mio nemico, sempre il primo ad abbandonare l’aula dopo il suono della campanella e che a quanto pareva mi aveva sostituito senza alcun problema in quel gruppo.

Non avevo mai creduto che anche a quei tre ragazzi a me tanto cari in realtà non fosse mai importato nulla di me. Faceva male scoprire certe cose, ma non mi restava altro che prenderne dolorosamente atto e mandare giù il boccone amaro.

Prima di giungere al bagno, Alice quasi mi piombò addosso, sfrecciando rapidamente fuori dalla porta della sua aula.

‘’Mamma mia! Quel pazzo va fermato!’’, mi disse, lasciandomi capire che era già a conoscenza degli eventi di quella mattinata.

‘’Ma…’’, provai a dire, sorpreso.

Alice mi fece un gesto quasi banale, indicando la tasca dei suoi jeans e il piccolo rigonfiamento creato dal cellulare. Mi fu chiaro che grazie ai messaggi le voci circolavano più in fretta del previsto, da un’aula all’altra e per tutto il liceo.

‘’Lascia perdere i ma. Oh… che hai fatto nel collo?!’’, mi disse la ragazza, indicando i segni che dovevano essere rimasti dalla stretta ferrea di Federico. Non mi ero accorto di avere ancora quel marchio, anche perché non potevo vederlo da solo. Dopo un istante d’imbarazzo scrollai le spalle, cercando di ostentare disinteresse.

‘’Non lo so. Sarà stata la maglia col colletto troppo stretto che indosso per educazione fisica’’, azzardai, sapendo di aver sparato la prima sciocchezza che mi passava per la testa.

Alice tuttavia annuì con la testa e non chiese più nulla a riguardo.

‘’Dai, raccontami l’accaduto’’, mi chiese poi, curiosa più che mai. In quel momento ci raggiunse anche Jasmine, anche lei pronta ad ascoltare gli eventi di quella mattinata tramite la mia bocca.

Mentre narravo tutto, con grande fedeltà alla realtà, notai che Federico e il suo nuovo gruppetto mi stavano osservando, a poca distanza. Lo notarono anche le mie due interlocutrici, ma subito dopo tornarono assorte nel mio racconto, che riferivo a voce piuttosto bassa, in modo che il rumore del corridoio pieno di gente potesse assorbire e distruggere le mie parole prima che potessero giungere ad altre orecchie.

Poi, andammo a prenderci un tè alle macchinette e lo sorseggiammo negli ultimi tre minuti di pausa rimasti.

Allo squillo della campanella, lasciai le mie due nuove amiche per recarmi nuovamente in classe, dove quella volta ero certo che sarei stato interrogato in scienze. Ero un po’ rassegnato e spaventato, tuttavia credevo davvero che sarei riuscito a raggiungere almeno la sufficienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie, cari lettori, per aver letto anche questo capitolo.

Non so come sta venendo questa storia… spero solo che si segua bene. Ripeto che tutto ciò che sto narrando è frutto della mia immaginazione, così come anche i luoghi che sto ricreando e in cui farò svolgere la vicenda.

Grazie di cuore per continuare a seguire il racconto J a lunedì prossimo J

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

CAPITOLO 8

 

 

 

 

 

Quando uscii da scuola, quel giorno, ero comunque soddisfatto, nonostante tutte le brutte vicende che erano accadute.

Ero stato interrogato in scienze ed avevo ottenuto un otto a sorpresa, e un voto così elevato non l’avevo mai visto durante tutti gli scorsi anni passati in quel liceo. Mi ritenevo quindi davvero molto soddisfatto per quell’ottimo e incredibile risultato, ma del resto una certa sensazione di disagio interiore continuava ad assillarmi.

La stretta ferrea del braccio destro di Federico mi sembrava ancora reale, e a volte passavo le dita delle mie mani sul collo, quasi volessi assicurarmi che i segni della violenza subita se ne fossero andati.

Mi affrettai a percorrere quel breve tragitto che mi separava da casa, a passi rapidi. Quel giorno non avevo avuto la fortuna di incontrare Alice all’uscita o lungo la strada, quindi ero totalmente solo, e non sapendo dove si trovasse il mio persecutore e neppure quando fosse riuscito ad uscire dalla calca della folla del liceo, sempre festosa e pronta a spintonare quando si trattava di dover tornare a casa.

Avevo timore che, dietro ad uno di quei grandi platani che sorvegliavano ambo i lati dei marciapiedi e delle strade che stavo percorrendo, si nascondesse il mio aguzzino, pronto a balzar fuori all’improvviso e a somministrarmi una qualche punizione.

Ero anche soddisfatto, mio malgrado, di non averlo stimolato ulteriormente e di non aver raccontato nulla agli insegnanti, neppure quando indirettamente si era presentata la situazione più idonea e adatta per farlo. Come sempre, avevo accettato passivamente la mia sorte, e come solo un vero stupido avrebbe potuto fare, me ne ero rimasto mogio sul mio banco.

Iniziavo davvero a credere che Federico, quando mi chiamava sfigato, fosse riuscito a trovare un nome giusto ed adeguato per me. Era brutto da pensare, ma in quel momento credevo fosse proprio così.

Forse ero io ad accrescere da solo i miei problemi, ingigantendo coi miei silenzi e la mia omertà una situazione che in realtà si sarebbe potuta semplicemente risolvere denunciando senza paura i fatti accaduti. Eppure, preferivo lagnarmene a me stesso, piangermi addosso in solitudine e cercando di non farmi aiutare neppure da quei pochi che avrebbero voluto farlo.

Mentre camminavo lentamente sull’ennesimo marciapiede, mi ritenevo davvero uno sciocco, poiché avevo la soluzione di tutto sottomano e non la sfruttavo. Ero certo che se avessi riferito a Roberto tutto ciò che suo figlio mi aveva fatto, le minacce che mi aveva rivolto e i fattacci che erano accaduti a scuola, lui gli avrebbe rimesso fin da subito la testa a posto. Ma forse ero troppo codardo per fare pure quello. Anzi, mi pareva che fosse di certo così.

Da quel momento, invece di sentirmi un giovane coraggioso che affronta un bullo e un prepotente a suon di silenzi e di pensieri malvagi, mai tramutati in azioni, mi sentivo più un verme, un vero debole sotto tutti i punti di vista. Questo doveva riflettersi in tutto e per tutto su di me, in modo chiaro ed evidente, e così mi ero offerto come pasto facile per il prepotente.

Mi fermai un attimo, stoppando la mia lenta marcia verso casa, in modo da raccogliere le idee. In realtà, avevo poco da raccogliere; avevo troppo timore di parlarne con Roberto e con altri, e temevo ancor di più le probabili eventuali ripicche amare del mio nemico, quindi tornai a rassicurarmi dicendomi che il mio silenzio e il mio subire erano l’azione migliore da scegliere in quel preciso momento. Poi, magari, più avanti avrei riveduto i miei piani, ma nell’immediato avrei continuato a seguire questi ultimi.

Ripresi a camminare nuovamente, sempre solo ed immerso nei miei pensieri, riflettendo sul fatto che mi stavo facendo un sacco di problemi per nulla, e che la soluzione definitiva, anche se molto costosa con inclusa qualche possibile ripicca, era a portata di mano.

Sorrisi, al pensiero che ero davvero un ragazzo debole e fragile. Mi venne in mente mio nonno materno, a quel punto, e il suo ricordo fu come uno di quei fulmini che squarciano il velo cupo delle nuvole scure, poco prima di un forte temporale estivo.

Mio nonno mi aveva lasciato molti ricordi, e aveva vissuto assieme a me e a mia madre fino ad un paio d’anni prima, quando il cancro se l’era portato via mestamente. Esso parlava sempre del suo passato, un po’ come tutti gli anziani, ma lui sapeva parlarne in un modo eloquente e coinvolgente, in grado di rapire la mia flebile attenzione da adolescente e catapultarmi vividamente all’interno delle sue storie giovanili, sempre colme di povertà e di dolore, non solo fisico purtroppo.

Era poco più che un bambino quando i tedeschi avevano occupato il suo paesino natale, disperso nel bel mezzo delle campagne, ed avevano effettuato rastrellamenti, uccidendo molti dei conoscenti ed amici della sua famiglia, lasciandone poi i cadaveri lungo le rive dei fossi, insepolti ed in pasto alle fiere.

Ricordi rosso sangue infestavano la memoria dell’anziano, che non si stancava mai di narrare quando i treni giungevano nelle piccole stazioni di provincia pieni di soldati allo sbaraglio, di ragazzetti, alcuni dei quali certamente minorenni, che con la candela al naso cercavano di combattere una guerra non loro, approfittando di ogni occasione per tentare di fuggire e disertare.

Il nonno Vincenzo aveva vissuto l’incubo dapprima del fascismo e poi dell’occupazione nazista e del passaggio del fronte. Era sopravvissuto ai rastrellamenti, alle granate che cadevano sulle case in cui si credeva si nascondessero partigiani, era sopravvissuto alla fame cieca e alla rabbia per aver perso un padre chissà dove, senza neppure avere un posto dove poter pregare per la sua anima. Nessun altro suo conoscente aveva più fatto ritorno a casa, alla fine della guerra, e non si era mai saputo quale fosse stata la sua fine. Molto probabilmente il mio bisnonno era diventato una delle tantissime vittime rimaste anonime dell’ultima grande guerra.

Il piccolo Vincenzo era cresciuto elemosinando un tozzo di pane dai vicini di casa, sempre pronti a brontolare poiché di cibo non ce n’era per nessuno, durante l’inverno, e durante l’estate cercando di arrampicarsi sugli alberi che tenevano in piedi i vecchi vigneti incolti, dove gli uccellini selvatici durante la stagione riproduttiva crescevano i pulcini, o magari rubando qualche frutto dalle terre dei più ricchi, sempre sorvegliate da persone armate e pronte a sparare contro i ladri.

Il nonno in quel momento mi appariva come un grande uomo. Era un uomo alto, al contrario di me, e sempre sicuro di sé. Io mi lagnavo con me stesso in continuazione per ogni minuscola sciocchezza, ed ero certo che se lui fosse stato in quel momento a mio fianco, e gli avessi parlato di ciò che mi era accaduto a scuola, lui avrebbe riso, senza deridermi in alcun modo, ma ero certo che avrebbe riso per il mio sciocco problema.

Per secoli l’umanità aveva combattuto contro sé stessa, la gente aveva sofferto la fame, la guerra, la carestia e la prepotenza di signorotti e re. Solo nel Novecento, milioni di persone avevano sofferto ogni sorta di patimento, perendo nelle tremende trincee, soffocate da gas tossici e letali, finendo dilaniate da granate, oppure restando per sempre mutilate. Genitori che avevano perso i figli al fronte, persone condotte in campi di sterminio e assassinate senza alcuna pietà, città totalmente rase al suolo e vite di interi popoli da ricostruire daccapo, con una periodicità da brividi.

Nei paesi del Terzo Mondo e in quelli dove la guerra imperversava da anni, anche in quel momento bambini innocenti stavano morendo di fame, senza genitori o magari impiegati in conflitti armati, mandati avanti per saggiare il terreno e controllare che non ci fossero mine nascoste.

Al solo pensiero di tutto ciò, il mio problema mi appariva stupido e insignificante. Mi pareva incredibile che noi giovani, che eravamo tanto fortunati ad avere case, auto, genitori abbastanza servizievoli e scuole e pane a volontà, stessimo ogni giorno a rovinarci la vita a vicenda. La Terra sarebbe potuta essere il giardino dell’Eden, se i suoi abitanti umani l’avessero voluto tutti quanti alla stessa maniera.

E invece, valeva davvero una regola raggelante. Homo homini lupus, l’uomo è lupo per sé stesso, combatte contro la sua stessa specie, e in questo preciso punto mi inalberai nuovamente, poiché proprio in quell’inizio di ottobre stavamo riprendendo Hobbes a scuola, in vista dell’esame che ci aspettava alla fine di quell’anno e che avrebbe richiesto anche qualche competenza affrontata negli anni precedenti, e la filosofia mi affascinava talmente tanto che a volte proprio non potevo non immedesimarmi nei grandi pensatori del passato.

E Hobbes, con il suo pensiero, esprimeva tutto ciò che mi stava frullando per la mente in quel momento, e riconobbi per davvero l’egoismo che permeava tutti i livelli della nostra società.

Riconobbi anche che al mondo forse c’era spazio solo per i più sciocchi sognatori, e gli altri realisti non avrebbero potuto far altro che prendere nota del fatto che non ci sarebbe mai stata pace per nessuno, che ogni sorta di violenza, anche la più piccola, avrebbe continuato ad essere innescata ogni giorno, anche gratuitamente. Pareva ovvio che la Terra in realtà non fosse un paradiso, che questo non fosse il miglior mondo possibile e che le cose non andavano affatto come dovevano andare.

Nel mio spirito giovane, inesperto e appena affacciato sulla porta che dà sul mondo degli adulti, esisteva quindi solo un gran subbuglio ed un discreto grado di pessimismo in quel momento. Pensando alle sofferenze affrontate dalle generazioni passate, tremavo e sorridevo nel mio tormento, ma poi, ripensandoci, il mio sorriso spariva, perché anche la mia paura di Federico, di quel bullo prepotente ed insulso, in realtà mi spaventava tantissimo.

Per l’ennesima volta in pochi minuti, fui costretto a dar ragione all’ennesimo filosofo, Bernardo di Chartres*, che aveva osato affermare che tutti noi in fondo siamo come nani sulle spalle di giganti, giganti delle generazioni precedenti che hanno saputo far fronte a situazioni tremende ed hanno saputo lottare per la loro sopravvivenza, e che noi siamo riusciti a vedere le cose meglio di loro solo perché sollevati e portati sulle spalle da queste persone coraggiose che hanno avuto il coraggio di affrontare il male, di ribellarsi e di dire no, elevandosi ed elevando anche noi.

Ma a quel punto mi chiesi se la loro vita di sacrifici era valsa a qualcosa; nel mio Paese regnava apparentemente la pace, eppure ogni giorno sotterfugi e violenze non mancavano. E, tutt’attorno, nuvoloni neri come la crisi economica ed alcune guerre insidiose gli facevano la ruota come se fossero stati  magnifici pavoni.

Inoltre, se io ero il risultato di millenni di evoluzione, questo non si vedeva affatto, se avevo pure il timore di risolvere una situazione che in realtà non era neppure tanto difficile da sviscerare, e che pareva davvero molto insulsa se analizzata attraverso un pensiero più critico e meno superficiale e spaventato.

Ricacciai in fretta indietro tutti questi pensieri forse troppo intrisi di filosofia per un ragazzino come me, davvero troppo giovane per dare giudizi assoluti e commentare e smontare le idee di grandi uomini che col loro pensiero avevano saputo lasciare un’impronta eterna nella Storia.

Mi affrettai quindi a riprendere a camminare di buona lena e a cercare di raggiungere rapidamente a casa. Desiderio quest’ultimo che tra l’altro per fortuna fu facilmente realizzato, poiché mancavano a malapena cinquanta passi dalla mia dimora.

Rientrai, e quella volta avevo davvero molta fame. Poiché mia madre spesso non rincasava a mezzodì, mangiando un panino in giro, non avevo mai pasti pronti e quel giorno non faceva assolutamente eccezione. Quindi, affamato com’ero, dopo aver lasciato lo zaino nella mia saletta ed aver richiuso la porta, mi diressi prontamente verso il frigorifero.

Ero un grande sfaticato, e guai anche solo a pensare di dovermi mettere ai fornelli dopo una mattinata di scuola, dove per altro ero pure stato interrogato e seviziato da un bullo, quindi, cercando di sdrammatizzare in modo ironico all’interno della mia mente, mi accontentai di afferrare un pacchettino con all’interno del formaggio molle e spalmabile. Naturalmente, mi fornii anche di pane e di un ovetto sodo. In pratica, tutto ciò che mi era capitato sottomano.

Mangiai tutto molto rapidamente, e quindi in fretta giunse il momento della frutta. Vado ghiotto per la frutta, e così anche a quel tempo andavo a caccia di frutti per la dispensa di casa, sempre piuttosto sguarnita. Tuttavia, trovai un grappolino d’uva e mi accontentai.

Mentre finivo di bere un bel bicchiere d’acqua, a conclusione del mio frettoloso pasto, udii la porta di casa che si riapriva, e uno scalpiccio tremendamente familiare. Lo stesso che avevo udito quella stessa mattina nel corridoio che congiungeva la palestra agli spogliatoi, proprio una frazione di secondo prima che un braccio tatuato si stringesse attorno al mio collo come un boa stritolatore.

Federico era rientrato. Mi ero totalmente scordato di lui durante il mio pasto, e in modo molto grossolano avevo lasciato che la mia attenzione fosse indirizzata totalmente verso il cibo e i miei pensieri. In una frazione di secondo, fui costretto a notare che eravamo anche da soli in casa, poiché non avevo intravisto nessuno nel piano in cui mi trovavo e non avevo udito alcun minimo rumore. Quindi, decisi che era meglio darsela a gambe.

Prima che avessi avuto modo di muovermi però, il mio nemico sfrecciò di fronte alla porta della cucina, diretto al piano superiore, ed offrendomi quindi la via libera per raggiungere la mia saletta. Mi affrettai a raccogliere i miei beni personali, zaino e giubbino, e mi catapultai nel corridoio, giungendo incolume al mio nascondiglio e chiudendomi poi al suo interno con un giro di chiave.

Sentendomi al sicuro, la mia mente si rilassò in un attimo, così come anche il mio corpo, e i miei pensieri ripresero a viaggiare.

Decisi di recarmi dal mio amato pianoforte, che come un fedelissimo ed inseparabile amante pareva attendere solo il momento in cui le mie dita si sarebbero posate su di lui, sui suoi punti più delicati e sensibili, ovvero i suoi tasti. Mi diressi verso il mio strumento ma quello non era il momento giusto, a quanto pareva, poiché qualcuno suonò il campanello.

Prontamente, mi diressi alla porta, senza indugiare neppure un istante.

 

Quando aprii la porta d’ingresso, trovai una sorpresa gradita davanti al cancelletto del giardino. Anzi, più d’una.

Si trattava di Jasmine e Alice.

‘’Ehi!’’, mormorai a mezza voce, lasciandomi sfuggire un sorriso felicemente sorpreso.

‘’Ciao, Antonio. Siamo uscite a fare una passeggiata, per rilassarci un po’ dopo la dura mattinata scolastica, e quando ci siamo trovate qui davanti, beh… abbiamo deciso di fermarci a farti un saluto’’, disse Alice, sorridendo anch’essa. Quando si trattava di parlare e di introdurre qualche discorso, lei aveva sempre il discorso pronto sulla punta della lingua.

La invidiavo un po’, quella ragazza. In modo particolare per la sua tendenza a combattere la sua timidezza, riuscendo a trovarsi quasi sempre a suo agio in ogni minima situazione, oltre che per la sua innata loquacità, che a volte sapeva far capolino all’improvviso.

‘’Ma certo! Entrate pure’’.

E così dicendo, tutto felice, invitai le mie inattese ospiti nella mia umile dimora. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, come poi ebbi modo di scoprire in seguito.

Infatti, dopo qualche frase sulla bellezza del piccolo giardino, le due ragazze entrarono in casa, e prontamente le feci dirigere verso la cucina, dove avrei potuto offrire loro almeno qualcosa da bere. Mi pareva la scelta più appropriata in quel momento, conoscendo l’amore che entrambe le mie ospiti provavano per la coca-cola e per le bibite frizzanti in generale, ma non appena varcammo la soglia della stanza ci trovammo di fronte a Federico.

Volevo dire qualcosa alle mie amiche, ma oltre alle parole pure il sorriso mi morì sulle labbra in meno di un secondo. Era la prima volta che lo fronteggiavo da solo tra le mura domestiche, e per di più avevo gettato le due ragazze appena arrivate ed ignare di tutto tra le fauci della belva. Avevo creduto che si trovasse al piano superiore, e non avevo immaginato che si sarebbe precipitato subito in cucina.

Mi sentii crollare il mondo addosso, mentre notavo che il mio nemico, che nel frattempo stava cominciando a mangiare il suo pasto, ci stava fissando, indirizzandoci uno sguardo piuttosto scocciato.

Alice, dietro di me, dovette percepire il mio imbarazzo e mi posò una mano sulla spalla destra. Quel breve contatto mi bastò a farmi tornare alla realtà e a spingermi a rimediare la mia sciocca azione.

‘’Bene, ragazze, beh… venite, se avete sete vi offro qualcosa da bere’’, riuscii a dire, cercando di sciogliermi e muovendomi verso il lato opposto della cucina.

Le due ospiti annuirono e mi seguirono, anch’esse senza badare minimamente a Federico.

Mentre offrivo loro un posto a sedere e due bicchieri, e mi accingevo ad afferrare una bottiglia ancora chiusa di coca-cola, notai con la coda dell’occhio che il mio nemico stava mangiando cibo non della casa, bensì proveniente da un qualche McDonald. I vari contenitori delle pietanze mostravano palesemente quel simbolo tanto noto, e il cibo era di quello schifosamente fritto ed intriso di olio.

Non analizzai oltre quelle che parevano crocchette, poiché altrimenti avevo il timore di tentennare e di attirare l’attenzione di tutti i presenti. Servii quindi la bevanda alle mie ospiti, incurante del gelo che regnava nella stanza e senza sapere come cavarmela.

In realtà, fu proprio il mio nemico ad offrire una spiacevole soluzione al silenzio generale.

‘’Volete proprio diventare gonfie come delle balene, bevendo tutta quella roba gassata’’, sbottò Federico, al secondo giro di coca-cola. Dall’altro lato del tavolo, il mio nemico ci fissava di sottecchi, senza smettere di masticare.

‘’Parla quello che si sta ingozzando di sbobba fritta e ricca solo di grassi saturi’’, disse di risposta Jasmine, scrollando le spalle.

‘’Non è colpa mia se in questa casa non c’è nulla da mangiare. È davvero un posto merdoso’’. E così dicendo, Federico sottolineò con attenzione la parolaccia con cui aveva concluso il paio di frasi appena pronunciate.

 ‘’Senti, ma tu sai solo parlare in modo disgustosamente offensivo e far del male alla gente?!’’, ribatté Alice, irritata più dell’amica.

Improvvisamente mi accorsi che la situazione mi stava sfuggendo di mano; Federico era riuscito ad attirare l’attenzione su di sé, e le mie due ospiti parevano essere cadute nella sua classica trappola. E il bello era che non sapevo come risolvere quella vicenda sempre più complicata.

‘’Come, sei gelosa degli epiteti che rivolgo alle case altrui? Pensa che potrei rivolgerli anche contro di te’’, disse infatti il nemico, accorgendosi di essere riuscito nel suo intento e cominciando a muoversi nel suo naturale ambiente.

‘’Mi fai davvero schifo. E comunque, le tue parolacce non mi sfiorano e non mi spaventano’’, concluse Alice, riservando a Federico uno sguardo colmo di disgusto.

‘’Sembri una racchia, da come parli e da come ti atteggi. Nessuno ti ha mai mandato affanculo?’’, chiese il quarto incomodo con un pizzico di divertimento.

Jasmine abbassò lo sguardo e spalancò lievemente gli occhi, quasi a voler reprimere ed allontanare da sé quelle parole parecchio scortesi. Alice, invece, afferrò il suo bicchiere, e dopo essersi scolata il liquido che ancora conteneva e in un unico sorso, lo riappoggiò sul tavolo con un gesto di stizza.

‘’Antonio, ti ringrazio per averci offerto un piccolo ristoro, ma non ho intenzione di restare oltre in questa stanza, in forzata compagnia di questo idiota. Preferirei, che so, andare in giardino’’, mi buttò lì la mia nuova amica, alzandosi della sedia, subito seguita da Jasmine.

A quel punto però avevo bisogno di sedermi io. Il mondo pareva che mi stesse crollando addosso, e tremavo dalla vergogna al solo pensiero che le mie due simpatiche e cordiali conoscenti, a cui tra l’altro tenevo molto, se ne volessero andare di casa mia e che magari se la fossero pure presa.

Mi diedi dello sciocco, dello stupido e mi rivolsi mentalmente i peggiori insulti che riuscii a rievocare in quell’attimo, sapendo che era stata la mia involontaria superficialità ad aver reso così complicata quella situazione.

‘’Hai ragione’’, riconobbi, e feci loro cenno di seguirmi.

Sfilai sotto lo sguardo torvo del mio nemico, che mi fissò fintanto che non scomparvi nel corridoio. Non sapendo dove andare, fui fulminato da un’idea che non trovai tanto bislacca, e, deciso a salvare quel pomeriggio, mi diressi verso la saletta del mio pianoforte, quella stessa stanza che era stata vittima di parecchie invasioni, di recente. Una in più non avrebbe guastato nulla, e quindi mi affrettai ad aprire quella porta che, per anni, era stata la barriera che aveva separato il mondo e la realtà dai miei sogni infantili.

‘’Entrate pure’’, dissi, invitando le mie due amiche ad accomodarsi al suo interno.

A quell’ora del pomeriggio, il sole illuminava la stanza come se fosse appena giunto al suo zenit, e il mio pianoforte faceva un figurone così avvolto dalla luminosità. Io stesso rimasi stupito dalla bellezza che sprigionava in quel momento il mio fantastico strumento.

‘’Che bella stanza! E che bel pianoforte! Non dirmi che tu lo sai suonare!?’’, disse Jasmine, l’unica rimasta colpita quanto me da cotanta bellezza.

Annuii, timidamente.

‘’Mamma mia, che bello! Non sapevo che tu fossi anche un pianista’’, tornò a dire la ragazza, mentre Alice si avvicinava alla poltroncina che ormai era divenuta la postazione abituale di Roberto.

‘’Non esageriamo, dai’’, dissi, frenando la sua euforia.

‘’Per favore, mi faresti sentire qualcosa? Suoneresti qualche nota per me?’’.

‘’Per noi’’, aggiunse Alice, mettendosi a sedere con un leggero tonfo.

Sospirai, a quel punto. Non ero abituato a suonare con degli spettatori, ma ormai grazie a Roberto avevo iniziato a farci un po’ il callo a quel genere di situazioni. Ero comunque ben consapevole che, se volevo salvare il pomeriggio e la mia cortesia, avrei dovuto accettare la proposta delle ragazze.

Dopo un silenzioso attimo di riflessione, quindi, presi frettolosamente la mia decisione.

‘’Va bene, ma vi avverto, non sono molto bravo’’, dissi, umilmente. Avrei in quel modo salvato la faccia se, come al solito, la mia timidezza mi avrebbe impedito di suonare seriamente, e non avrei per nulla smorzato i desideri delle mie nuove e sincere amiche, che si affrettarono a dire che a loro il risultato non importava. Volevano ascoltare un po’ di musica, ed io ero assolutamente pronto a esaudire questo loro desiderio.

Mi sedetti quindi di fronte al pianoforte, socchiusi gli occhi, accecato dalla grande luminosità della stanza, e saggiai i tasti. Credetti per un attimo di ritrovarmi con le mani legate e le dita pesanti, a causa della mia solita timidezza, ma quella volta non accadde e mi lanciai molto rapidamente a suonare una sinfonia piuttosto complessa.

Da quel momento in poi, persi la cognizione del tempo. Planai con la mia mente su quella marea musicale composta da note potenti come onde, senza più tener conto del fatto che qualcuno mi stava osservando. Ero riuscito a raggiungere il mio mondo fatto di suoni e di tasti. Nulla più contava per me.

Solo dopo un po’ rientrai nella mia pelle e tornai sulla Terra. A quel punto però, la sinfonia mi morì sulle dita, e a testimoniare il fatto che quel momento di magico equilibrio si era interrotto dentro ed attorno a me, le mie mani smisero rapidamente di muoversi e le dita cercarono gli ultimi due tasti. Poi, il silenzio più assoluto e pesante mi avvolse e quasi mi schiacciò.

Mi voltai verso le mie due amiche con timore, mentre il mio viso s’imporporava di un lieve rossore. Rimasi sorpreso nel trovarle entrambe con la bocca semiaperta e con lo sguardo attento, come se fossero state rapite dalla mia musica, e mi misi in attesa di udire il loro giudizio.

‘’Fantastico’’.

La prima a dire una parola fu Jasmine.

‘’Jasmine, tu sei sempre così riduttiva… fantastico è poco, è una parola troppo generalizzante. Ebbene, mio caro Antonio, non ti credevo un maestro! Sei… super mega ultra fantastico! Suoni benissimo! Giuro!’’, si affrettò ad aggiungere Alice, estasiata.

Mi sentivo svenire, così immerso nei complimenti e nel mio rossore imbarazzato. Non sapendo che altro rispondere, e non volendo lasciarmi andare troppo, i miei sensi mi spinsero a riaffrontare di nuovo il mio strumento musicale, e a tornare a suonarlo per le mie gentilissime spettatrici.

Quello fu uno dei momenti più belli e appaganti della mia vita, il pomeriggio perfetto che trascorse troppo in fretta, purtroppo.

Io, per miracolo e grazie allo strumento e alla colonna sonora della mia vita, ero riuscito a dare una svolta a quell’incontro. Più di quanto avessi mai potuto credere.

 

 

 

 

 

*Bernardo di Chartres, filosofo medioevale, fu un maestro di retorica del XII secolo. Di lui non ci è rimasta nessuna opera, ma lo conosciamo solo grazie alle parole del suo più famoso discepolo, Giovanni di Salisbury, che nei suoi scritti sottolinea il concetto base del pensiero del suo maestro, ovvero che l’intera umanità a lui contemporanea fosse composta da piccoli nani, adagiati sulle spalle di giganti(logicamente, i giganti erano i grandi autori antichi). Io ho voluto rendere più ‘’odierno’’ il pensiero del filosofo medioevale, adattandolo leggermente al mio testo e ai pensieri di Antonio; spero di non aver scritto un obbrobrio, ma d’altronde la filosofia si è sviluppata nei secoli per essere sempre utile e per dare un sostegno all’uomo.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Continuo a ringraziare infinitamente chi sta continuando a seguire questo racconto. Davvero, non credevo che sarebbe riuscito ad attirare l’attenzione di alcuni lettori! Spero solo che esso possa fornirvi una gradevole lettura, e magari dieci minuti di piacevole relax.

Ho tanti dubbi sulla vicenda, ma sto portando avanti la battitura, per fortuna.

Grazie di cuore per tutto, e buon inizio di settimana! A lunedì prossimo J

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

CAPITOLO 9

 

 

 

 

Il pomeriggio successivo alla mia sorta di concerto esclusivo rivolto alle mie due nuove amiche, mi crogiolavo nel mio giardino.

Se c’era un aspetto positivo dell’abitazione in cui vivevo, beh, quello era il ristretto spazio verde che si estendeva per qualche metro davanti all’ingresso e tutt’attorno all’edificio. Nel retro, poi, ero riuscito a lavorare con una piccola vanga un lembo di terra e a creare una sorta di minuscolo orto.

Da sempre ero un grande appassionato del verde, e le piante non mi dispiacevano affatto. Trovavo molto divertente piantare i piccoli semini nel soffice terreno ed aspettare che essi germogliassero.

L’attesa della germinazione era la parte più bella ma allo stesso tempo più irritante; costantemente mi chiedevo se la piantina sarebbe nata, oppure se magari qualche bestiola ne avesse rovinato il seme, o, peggio ancora, un qualche passerotto l’avesse trovato in un qualche modo, per poi ingerirlo ed andarsene.

Accudire il terreno nel quale quella piccola vita stava per mettere le radici si rivelava sempre qualcosa di magico, e con cura andava dolcemente irrigato.

Una volta nata la piantina, le cure erano altre ma tutto prendeva una sua velocità, e in tempi piuttosto brevi ero riuscito a far crescere qualche pianta di pomodoro e due di zucchine. Eppure, l’autunno già faceva la voce grossa in quei giorni, e le mie magnifiche piante, regine dell’estate con i loro fiori colorati e i loro gustosi frutti, avevano completato la crescita e il loro ciclo vitale.

Quelle che solo due settimane prima erano steli verdissimi e sani, in quel momento avevano assunto una colorazione verde marcio, e le foglie tanto soffici al tatto ed odorose erano tristemente ingiallite ed appassite. Quindi, con infinita amarezza, non mi restava altro che osservare le mie piante da orto mentre giungevano rapidamente al capolinea, alla fine della loro vita durata solo sei mesi.

Ciò mi faceva riflettere sulla caducità della vita, e soprattutto sull’importanza del tempo. In soli sei mesi, durante il corso della loro naturale esistenza, le piante da seme erano diventate loro stesse produttrici di seme, pronte a lottare per lasciare una loro eredità genetica nel mondo in cui avevano messo le radici. Ed effettivamente, il loro volersi sforzare a produrre una grande quantità di frutti pieni di semini e di nuova vita non era poi cosa vana.

Accadeva infatti che, parecchie volte, qualche pomodoro più o meno maturo finisse a terra, a causa del vento forte provocato da un violento temporale, e si sporcasse di terra. Per mia pigrizia, a volte mi era capitato di non raccoglierli, oppure, invece di gettarli nell’apposito cassonetto dei rifiuti organici, di seppellirli sotto un po’ di terra, in modo che la loro decomposizione potesse poi arricchire il mio terreno tanto povero di humus.

Ebbene, l’anno successivo, dopo aver smosso la terra, avevo avuto modo di notare con regolarità la nascita di tantissime piantine di pomodoro, mai seminate volontariamente da me. Alla fine, quindi, in un modo o nell’altro la vita era una forza troppo potente per essere arginata, mangiata o cestinata.

La vita mi appariva come un fiume impetuoso, ma soprattutto coraggioso e temerario. Anche fortuito, poiché poteva incanalarsi in ogni minimo avvallamento, e raggiungere anche il più remoto anfratto nascosto. La vita è fatta per generare vita.

Mentre riflettevo e sorridevo tra me e me, udii un colpo di tosse che mi fece bruscamente trasalire. Alzando lo sguardo, notai, attraverso il reticolato che divideva il mio cortile da quello della casa vicina, che l’anzianissimo Ottaviano era già stato portato vicino alla strada, dove trascorreva i pomeriggi più soleggiati e caldi ad osservare le auto e i pedoni che gli passavano di fronte.

Era un vecchio amico di mio nonno, la persona che più mi mancava a quel mondo e che ricordavo spesso e volentieri, prendendolo sempre come esempio, e doveva aver già superato la novantina, mentre i problemi causatagli dall’avanzare implacabile dell’età si potevano distintamente notare. Purtroppo, rimasto incapace di camminare, la sua vita era incatenata su una sedia a rotelle, spinta per ore da una badante dell’Est, che si prendeva anche cura di lui.

Mi soffermai a fissare anche il vecchio, mentre quest’ultimo mi dava le spalle, rivolgendo lo sguardo alla strada e tossendo di tanto in tanto. In passato, mentre parlava con mio nonno e le sue visite a casa mia erano frequenti e costanti, l’avevo udito più volte dire che non aspettava altro che la vecchiaia gli portasse via anche i ricordi, che assieme alla sua triste condizione fisica continuavano incessantemente a tormentarlo. Affermava che non si poteva sperare di morire, poiché quello era l’unico desiderio erroneo dell’essere umano, ma di dimenticare e di smettere di soffrire sì.

Quattro anni dopo aver udito quell’affermazione più volte ripetuta, in quel preciso momento, immaginai che fosse relativamente soddisfatto per il fatto che le sue speranze si fossero parzialmente realizzate, poiché a volte restava per ore in uno stato piuttosto confusionale e la memoria andava e veniva con molta rapidità.

‘’Ciao, Antonio!’’.

Il saluto grintoso proveniente dal piccolo giardino della casa a fianco mi fece sobbalzare lievemente.

Ludmilla, la bionda e slanciata badante ucraina dell’anziano, si stava dirigendo proprio verso Ottaviano, molto probabilmente per riportarlo in casa. Ricambiai il suo cortese saluto, mentre l’anziano, vedendola ed udendo la nostra breve conversazione, si mise a chiedere di chi si trattasse.

‘’C’è Antonio, di là dalla recinzione’’, gli rispose Ludmilla, iniziando a spingere la carrozzella verso l’ingresso di casa. Voltandola, l’anziano poté vedermi.

Quel pomeriggio lo trovai in forma, rispetto ad altri in cui l’avevo visto totalmente abbandonato, con la testa reclinata da una parte e gli occhi sbarrati e colmi di quella paura generata dall’avanzare costante ed opprimente della demenza senile.

‘’Antonio, come stai?’’, disse l’anziano, mentre la sua badante sorridente lo portava vicino a me.

Ludmilla era una persona solare, una donna che teneva veramente molto alla sua professione, e si vedeva dal modo in cui si comportava con Ottaviano, accudendolo con affetto e cercando sempre di parlargli e di far interagire l’anziano, in modo che le sue attività cognitive non andassero definitivamente a rotoli. Ciò era un processo costante ormai, ma lei lottava per arginarlo, cercando di combattere la sua effettiva emarginazione.

Il fatto che l’anziano mi avesse riconosciuto senza difficoltà era già un grande evento, quindi ne approfittò un attimo per portarlo di fronte a me, al di là della bassa recinzione metallica.

‘’Tutto bene, ti ringrazio’’, gli risposi cortesemente, mentre lui allungava una mano e, lentamente, faceva sfiorare il reticolato con un dito.

Non sapevo che dire, e non osai chiedergli come stesse lui, perché mi pareva ridicola ed insensata come cosa. Mi faceva davvero una gran tenerezza; un mucchietto d’ossa sorridente, la testa incanutita, una mano gentilmente protesa verso la recinzione.

‘’Sai, ti assomigli sempre di più a Giovanni, il mio Giovanni’’, tornò a dire Ottaviano, osservandomi con i suoi occhi chiari e velati.

Giovanni era il nipote più grande dell’anziano, di poco più grande di me, e anche quello tenuto più in considerazione dal nonno. Un vero peccato che Giovanni si preoccupasse del povero vecchietto per quei cinque soli minuti all’anno, in prossimità del Capodanno, quando l’anziano elargiva un cinquantone ai nipoti che passavano a trovarlo per l’importante evento, che in quel caso si facevano ghiottoni un po’ sotto tutti i punti di vista, devastandogli non solo la dispensa ma anche il portafoglio, e tutto ciò in un tempo talmente tanto ristretto che il nonno semiparalizzato difficilmente riusciva a scorgere i loro volti per più di un fugace istante.

‘’Che caro ragazzo!’’, prese a dire l’anziano, senza lasciarmi il tempo per poter dire qualcosa. Annuii, sorridendo blandamente.

‘’Caro, caro ragazzo!’’, ripeté. Poi, l’anziano ripiombò nel suo silenzio, lo sguardo perso e puntato verso il cielo, fissato con quegli occhi saggi che dovevano averne viste di tutte durante gli anni migliori.

‘’E’ l’ora delle medicine, andiamo. A presto, Antonio!’’, mi salutò Ludmilla, riprendendo a spingere la carrozzella verso la soglia della dimora. Salutai, mentre l’anziano biascicava qualcos’altro di poco sensato.

Incrociai le braccia sul petto e sospirai, guardando la sagoma rattrappita del vecchietto come se fosse l’ultima volta che mi fosse stata concessa la possibilità di vederlo, e il mio pensiero non poté far altro che sfiorare l’amarezza che la senilità aveva riservato a quell’uomo. Padre di quattro figli e con un nome importante, altisonante ed antico, Ottaviano aveva sempre amato i nipotini, che però erano sempre vissuti lontano, e le nuore si erano in fretta preoccupate del fatto che i figlioli non pensassero troppo al nonno.

La distanza geografica che lo aveva separato dai figli e dai nipoti non era esagerata, poiché essi vivevano ad una quindicina di chilometri dal nostro paesetto, inglobati dalla grande e caotica Bologna, ma tuttavia per un anziano infermo quei chilometri si erano rivelati un ostacolo insormontabile. E i figli, laureati da tempo e con una buona carriera ormai consolidata in città, non avevano fatto nulla per farlo sentire loro più vicino, se non passandogli una badante, stipendiata in parte con la pensione dall’anziano stesso, ed abbandonandolo in quella sorta di esilio forzato, lontano dai suoi affetti e solo, visto che la moglie con cui viveva era venuta a mancare cinque anni prima.

Aveva sofferto tanto per questa distanza, il buon vecchietto, ed aveva desiderato di perdere la memoria pur di non soffrire più e di non pensare.

Alla fine, lasciai il mio orticello con una discreta amarezza che imperversava nella mia mente, e fui costretto a riconoscere che, se nel medioevo gli emarginati erano i lebbrosi, nella società in cui vivevo molto spesso gli emarginati erano gli anziani, e ovviamente i timidi, come ero stato costretto a constatare anche qualche giorno prima.

Mentre ritornavo in casa, però, notai che era davvero brutto sentirsi inutile e non voluto, abbandonato dalla stessa società di cui si fa parte e dalle persone che più avrebbero dovuto volerci bene. Il povero Ottaviano era rimasto totalmente solo dopo una vita di sforzi. Io, invece, ero sempre rimasto ai margini della realtà dei miei coetanei, oltre che oltraggiato per l’ingrata mancanza della figura paterna.

Mi accorsi che i miei pensieri si stavano rapidamente muovendo verso un argomento pericoloso, ovvero quello riguardante mio padre, e decisi prontamente di staccare quel flusso inarrestabile e travolgente che ruscellava e prendeva vita nella mia mente. A volte credevo che pensare e riflettere potesse anche fare male, troppo male.

Staccai, quindi, rivolgendo la mia attenzione al mio pianoforte, che avevo raggiunto con circospezione, stando attento a non fare rumore ed entrando nell’atrio.

Dentro al mio rifugio faceva caldo, forse troppo, per cui aprii un attimo i vetri della finestra e mi misi appoggiato sul davanzale, a guardare la strada proprio come faceva prima il mio anziano vicino.

Aprii la bocca, lasciando che un rivoletto di alito caldo creasse una leggerissima e inconsistente condensa, e mi accinsi a richiudere i vetri, ma qualcuno attirò la mia attenzione. Si trattava della signora Arriga, che rincasava frettolosamente.

Passandomi di fronte e a qualche centimetro dal viso, infagottata all’inverosimile e pronta ad entrare in casa, la donna mi dedicò un rapido e freddo sguardo, oltre che un buonasera stentato.

Risposi cortesemente e con più calore al suo distante saluto, non riuscendo a comprendere quell’aura strana ed insolita che circondava Livia. La signora Arriga era sempre sfuggevole, sempre distante.

Incredibilmente, nonostante avessi già imparato a conoscere lievemente i modo di comportarsi degli altri due componenti della sua famiglia, di lei non sapevo davvero nulla, e non avevo la benché minima idea di quel che facesse tutto il giorno fuori casa e di come fosse in realtà. Fino a quel momento, si era limitata ad essere schiva, a tratti scortese e con la puzza sotto al naso, per quello l’avevo soprannominata l’aristocratica, e tendeva a liquidare sia me che mia madre con una semplice rapida occhiata e con un saluto striminzito e distante, di quelli che si rivolgono agli umili sguatteri di un palazzo signorile.

Non che io pretendessi di costruire un rapporto di fiducia con la signora, oppure che lei desse confidenza a mia madre come fanno tutte le donne normali, però mi dava fastidio quel suo snobismo talmente pressante da sfociare in una sorta di muta e silenziosa prepotenza. Quella stessa prepotenza che suo figlio aveva imparato a esternare senza problemi, grazie alla sua muscolatura e al suo corpo adatto a sottomettere gli altri.

Tuttavia, non volevo fare di tutta l’erba un fascio, quindi non avevo alcuna intenzione di lasciarmi andare a giudizi frettolosi nei suoi confronti. D’altronde di Livia conoscevo solo le chiamate notturne e serali, che effettuava quando suo marito non era in camera e che erano gli unici suoi momenti di svago all’interno di casa mia, che sembrava per lei la peggior prigione dell’umanità.

Con una leggera scrollata di spalle, decisi di accantonare nuovamente i miei pensieri e di smetterla di tormentarmi con quel flusso costante e a tratti irritante che a quanto pareva regnava indiscusso all’interno della mia giovane mente, troppo giovane per dare giudizi. Quindi, mi affrettai a richiudere i vetri della finestra e a fiondarmi dal mio pianoforte, che in quel momento mi pareva che fosse una creatura solitaria ed indifesa, bisognosa di attenzioni, reclamate attraverso la sua attraente voluminosità e la sua inebriante superficie lucida.

Il mio strumento era davvero un tesoro, ed io lo adoravo e non sapevo neppure immaginare la mia vita senza di esso.

Mi sedetti, prendendo posizione in fretta, e cominciai a saggiare i tasti, con i miei classici movimenti testati e riprovati ogni beata volta che mi sedevo di fronte al mio strumento, e che comunque mi permettevano di riuscire a sciogliermi per bene e di iniziare a snodare per bene i miei arti.

Suonai qualche nota, poi cercai di prendere ritmo, ma udii un rumore fastidiosissimo, che non mi permise di continuare a restare nel mio mondo, in cui avevo appena cercato di entrare in punta di piedi. Qualcuno stava bussando alla porta della mia stanza, e poi l’aprì, mentre io mi voltavo verso il disturbatore, che si rivelò essere Roberto.

Mi rilassai e gli sorrisi, notando che non l’avevo affatto visto durante quella giornata, e che ciò era una cosa strana, poiché passava la maggior parte del tempo tra le mura domestiche. Forse, doveva essere uscito a cercare un qualche lavoro, per essere poi rientrato da poco, visto che indossava abiti formali e una cravatta più sgargiante del solito.

Non potei non chiedermi perché avesse bussato, quando tante altre volte era entrato come un silenzioso invasore, ma fu proprio lui a dare la risposta a quel mio interrogativo, senza aspettare che io lo invitassi a farlo.

‘’Antonio, qui c’è una ragazza che ti cerca. Ha suonato il campanello poco fa, tu ovviamente non l’hai sentito perché stavi suonando. Avendola già vista nei giorni scorsi di sfuggita in tua compagnia, ho pensato di farla entrare’’, spiegò l’uomo, rispondendo al mio sorriso con un altro altrettanto valido. E, dietro di lui, fece capolino la testa di Jasmine, che superava abbondantemente in altezza il mio maturo inquilino.

La ragazza non disse nulla ma mi sorrise e mi fece un cenno di saluto con la mano.

‘’Ma certo, lasciala pure entrare! Grazie per averle aperto la porta’’, mi affrettai a dire, ringraziando e congedando Roberto ed invitando cortesemente Jasmine a fare il suo ingresso nella stanza. L’uomo lasciò quindi entrare la mia amica, e richiuse la porta dietro di sé, senza smettere di sorridere.

Ancora seduto sul mio scomodo sgabello, mi ritrovai a fissare Jasmine per la prima volta da solo, senza Alice o altri che avrebbero potuto distogliere la mia attenzione da lei. E fui costretto a riconoscere che era davvero bellissima.

Mi sorrideva, mostrandomi i suoi magnifici e curati denti bianchi come l’avorio, mentre i suoi capelli scuri e riccioluti erano stati raccolti in mille treccine, che fungevano quasi come contorno a quella testa nera come la notte più profonda e cupa, ma allo stesso tempo arricchivano di bellezza quel fisico atletico, alto e slanciato, che culminava col più bel viso che io avessi mai avuto il piacere di vedere durante la mia giovane vita. Gli occhi della ragazza erano profondi, e mentre si avvicinava a me potevo quasi rispecchiarmici in quegli iridi scurissimi, mentre lo stesso taglio di questi ultimi era anch’esso decisamente africano e gradevole.

Si morse leggermente un labbro mentre ricopriva gli ultimi passi che ci separavano, e vedendola così pensierosa, ma allo stesso tempo estremamente bella e delicata, mi parve di trovarmi di fronte ad una splendida sfinge, pronta a spalancare la sua splendida bocca dalle labbra rosse e carnose e a sottopormi ad un qualche antico indovinello. Indovinello che, di certo, non sarei riuscito a risolvere, ma che mi avrebbe fatto perdere la testa per chi me l’avesse sottoposto.

‘’Ti ho disturbato?’’, mi chiese, formalmente. Appariva tesa.

Solo in quel momento rientrai in me. Non mi ero mosso di un millimetro da quando Jasmine aveva fatto capolino nella stanza, e mi accorsi pure che avevo trattenuto il fiato. Mi ero lasciato trasportare in un’altra realtà dalla bellezza genuina e selvaggia di quella giovane che conoscevo ancora così poco, ma che era stata così tanto gentile da venire a farmi visita e a presentarmisi davanti con quel suo sorriso così esotico.

Capii che non ero mai stato attratto così tanto da qualcosa che non fosse il mio pianoforte, che era esso stesso la mia vita e il mio diletto preferito, e mi affrettai a togliermi dal mio stato di stallo e a rispondere con cortesia alla mia interlocutrice.

‘’Ma che dici! Una tua visita non può che farmi piacere. Sai, temevo che, dopo la scorsa e prima volta, ti fosse passata la voglia di tornare in questa casa… ti ringrazio per essere passata, mi ha fatto davvero piacere vederti anche questo pomeriggio! A cosa debbo questa tua graditissima visita?’’, chiesi, ricolmo di una raffinata cortesia.

Quasi non mi accorsi del fatto che mi ero lasciato andare, e che, essendo sempre di poche parole, quella volta avevo decisamente strafatto, sommergendo la mia amica con una valanga di parole pronunciate in tutta fretta.

Mi sorpresi di tanta loquacità e cortesia così rapidamente gestite. Non era un comportamento da timido com’ero, ma non stetti a chiedermi del perché io avessi reagito così. In quel momento ero tremendamente stanco di restare arroccato nella mia mente e di riflettere incessantemente, e volevo solo godere della splendida compagnia che mi trovavo di fronte.

‘’Tu credevi che io mi fossi lasciata spaventare da quel pallone gonfiato?! Ah, ah! Sorvoliamo. So che non hai fatto apposta a farcelo incontrare. Ma tu sei stato gentilissimo, e per questo sono tornata. In realtà…’’. Non concluse la frase che stava pronunciando, poiché tornò a mordersi il labbro inferiore con quel piccolo gesto involontario che a quanto pareva veniva mostrato solo nei pochi momenti in cui si trovava a corto di parole e in lieve imbarazzo.

‘’In realtà?’’, chiesi, sollecitandola a parlare, senza perdere la mia cordialità e non smettendo di sorridere.

‘’Beh, ecco, passavo da qui davanti e mi è parso giusto fermarmi a farti un saluto. Sai, la tua casa è sulla traiettoria che mi porta da Alice. E poi… volevo chiederti se suonavi qualcos’altro per me. Sei davvero bravissimo! Ieri mi hai davvero colpito tantissimo’’, disse, trovando le parole giuste ed indicando il mio pianoforte, che giaceva abbandonato alle mie spalle.

‘’Oh’’, mormorai, sorpreso. Non credevo ancora di essere riuscito a far così tanto colpo sulla mia spettatrice, e, in un certo senso, la sua pacata richiesta mi lusingò.

‘’Se per te non è un disturbo’’, si affrettò a dire la ragazza, per non apparire scortese. Si stava comportando in modo piacevolmente educato.

‘’Scherzi?! Sarà un vero piacere suonare qualcosa per te’’, le risposi, mostrando tutta la mia sincerità e la mia pazza voglia di farle sentire qualche pezzo che lei molto probabilmente non aveva mai udito.

Quell’inaspettata ma tanto gradita visita mi aveva davvero reso molto euforico, e quasi mi esaltò. Non sapevo il perché di quella gioia irrazionale che stavo provando, ma l’assecondai senza pensare ad altro.

‘’Grazie! Sei sempre così gentile’’.

Ridacchiai a quelle parole, e mi sistemai di nuovo di fronte al mio pianoforte.

‘’Ti faccio sentire subito qualcosa, accomodati pure’’, le dissi, felice di poter tornare a concentrami sul mio strumento musicale ed indicandole la poltroncina dove abitualmente si sedeva Roberto.

La bellissima Jasmine continuò a ringraziarmi, tutta sorridente, e ciò mi spinse ad affrettare i tempi e a cercare una risolutezza che dentro di me ancora non c’era. I risultati si videro già un istante dopo, e mi trovai a sbattere la testa contro il muro della realtà, che si discostava tantissimo dalla mia esagerata felicità.

Col piede sfiorai uno dei pedali, ma non feci pressione. Nemmeno per scherzo, in quel momento. Quello era solo un gesto rassicurante, poiché stavo sentendo che l’ansia stava tornando a salire dentro di me.

La timidezza; eccola, la mia nemica, mentre mi colpiva a tradimento e alle spalle, cancellandomi il sorriso sicuro che per un paio di minuti aveva regnato sul mio viso e rendendomi nuovamente quel tremolante ragazzetto che se la faceva sotto per ogni cosa. Mi sentivo un debole, e a quel punto avevo timore di deludere le aspettative della mia bella visitatrice.

Con le dita allora sfiorai i tasti, ma neppure così mi calmai. Ansia e timidezza, fuse assieme, quasi m’immobilizzavano, e già sentivo aleggiare sul mio volto il classico rossore che caratterizzava la mia cute esposta alla vista altrui. Quello era il segno che stavo per cedere.

Per un secondo, mi passò per la mente l’idea di girarmi verso Jasmine e di offrirle prima qualcosina da mangiare e da bere, invece di iniziare a suonare, andando in cerca di un disperato escamotage che avrebbe potuto permettermi di recuperare il mio equilibrio interno, essenziale per poter suonare serenamente. Ma non me la sentivo di ritirarmi così in fretta dopo la mia prima dimostrazione di gioiosa e sicura risolutezza.

Jasmine ancora mi fissava, potevo sentire il suo muto sguardo ben fisso dietro alle mie spalle, e ciò incredibilmente invece di intimidirmi ulteriormente, mi diede la forza di affrontare il mio solito muro d’imbarazzo.

In quell’istante compresi che la sua bellezza e la sua gentilezza avevano influito tantissimo su di me, generando quell’ultima caterva di sentimenti e sensazioni contrastanti ed opposte che negli ultimi minuti avevano cercato di imporsi su di me, quasi fossero stati tutti quanti miei padroni. E così, a sorpresa, ripresi padronanza di me.

Mi gettai a capofitto sulla tastiera, e cominciai a suonare, mandando in frantumi tutti i miei recenti pensieri e tutte quelle varie sensazioni che avevano cercato di dominarmi, e in men che non si dica non esisteva più né la mia timidezza, né il mio imbarazzo. E neppure la paura di sbagliare tutto. Ero padrone di me stesso, per un fugace momento.

In realtà, il momento si protrasse per un po’, e suonai. Suonai nella più totale libertà, senza pensare a nulla e abbandonando ogni spartito, lasciandomi andare come facevo nei miei soliti momenti di estasi musicale.

Il tutto funzionò, ogni tanto sbagliai qualcosa ma non stonai mai nella sinfonia che volevo ricreare, e mi fermai solo quando la mia spettatrice mi pose una mano sulla spalla destra.

‘’Dire che sei bravo è riduttivo, Antonio, ha ragione Alice. Sono estasiata e senza parole di fronte alle tue capacità musicali’’, mi disse Jasmine, con dolcezza.

Sorrisi, e mi voltai a guardarla.

Era bella come il sole. Forse anche più del nostro astro più amato.

‘’Ma ora devo andare a casa, devo studiare… tornerò senz’altro ad ascoltarti!’’, mi disse, a sorpresa.

‘’Certo. Ti aspetto, vieni quando vuoi’’, le dissi, sentendomi leggermente smontato. Ammetto che mi aspettavo che mi richiedesse il bis, ma effettivamente ero io che sul momento stavo esagerando troppo.

Era la sua bellezza a turbarmi.

Accompagnandola alla porta, e gettando un occhio al mio orologio da polso, notai che era già passata un’ora da quando avevo iniziato a suonare per Jasmine. Il tempo, come al solito, volava quando suonavo, e quindi mi ritrovai a comprendere maggiormente la richiesta di congedo della mia spettatrice.

Sulla porta di casa, Jasmine non mi salutò a parole, ma si avvicinò rapidamente a me e mi diede un frettoloso ma caldo bacio sulla guancia sinistra. Inutile dire che rimasi inebetito e di sasso di fronte a quel gesto inatteso, accorgendomi che forse, dentro di me, l’avevo bramato.

Lei non mi disse nulla, e allontanandosi nuovamente da me raggiunse il cancelletto e poi la strada, allontanandosi velocemente dalla mia dimora e accennando un saluto con una mano, senza smettere di sorridermi.

‘’Perdonami se mi permetto, Antonio, ma stai facendo entrare tutto il freddo in casa’’.

La voce calda e calma di Roberto mi colse impreparato, mentre mi trovavo ancora impietrito nel bel mezzo della porta aperta, nonostante la mia cara Jasmine fosse scomparsa già da un po’.

Mi riscossi e in fretta chiusi l’uscio, sorridendo impacciatamente all’uomo, mentre il mio volto era raggiante. Lui mi guardò con curiosità, ed io frettolosamente sottrassi il mio viso alla sua vista, gettandomi verso il piano superiore e la mia stanza da letto, con la vaga intenzione di andare a studiare. Ma in realtà, una volta in camera mi resi conto che quella era solo una scusa, e che per quel che restava di quel pomeriggio difficilmente sarei riuscito a prendere un libro tra le mani.

Quel bacio, quella vicinanza fisica e quell’interessamento mi avevano sconvolto.

Ero contento, davvero, ma poi la mia felicità a tratti si scontrava con la razionalità, e comprendevo che quello era il modo di Jasmine di farmi capire la sua amicizia. Quello che mi aveva rivolto era stato solo un bacetto di saluto, come vedevo spesso fare tutti i miei coetanei.

Divenni rosso dall’imbarazzo quando, affondando nel mio soffice letto, mi accorsi che stavo correndo troppo, e che la mia mente mi stava giocando dei brutti scherzi, d’altronde neppure sapevo se Jasmine mi piacesse realmente oppure no. In più, la conoscevo solo da pochi giorni.

Ero in confusione totale, e capii che ciò era dovuto al fatto che, non avendo avuto molte relazioni sociali, la minima vicinanza creava in me uno strano mix di sentimenti.

In ogni caso, io ero attratto da quella splendida ragazza nera come la notte. E questa era l’unica cosa sicura.

Di fronte a ciò, decisi per l’ennesima volta di sopprimere i miei pensieri e di affrontare per davvero lo studio. Inutile ammettere che scorrevo le pagine senza riuscire a ricordarmi nulla di ciò che leggevo, ma almeno così riuscii a controllare per un po’ i miei irrequieti sensi.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, e grazie per continuare a seguire il racconto J

Vorrei soffermarmi a ringraziare calorosamente Rossella0806, Clairy93, GreenWind, JustBigin45 e BandBfun! Grazie per continuare a seguire con costanza la vicenda e per sostenermi sempre con i vostri magnifici pareri, che si rivelano sempre dei veri tesori. Grazie infinite per tutta la fiducia che riponete in me, e per tutta la gentilezza che mi rivolgete.

Grazie di cuore per tutto J a lunedì prossimo J

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

CAPITOLO 10

 

 

 

 

 

Un’altra mattinata scolastica si era appena conclusa, e stavo tornando a casa, compiendo in solitudine il piccolo tragitto che separava casa mia da quella di Alice, visto che la mia cara amica l’avevo già lasciata di fronte al suo cancello.

Mi trovavo bene con quella ragazza. E, ovviamente, mi trovavo bene anche con Jasmine.

Non avevo avuto più modo di vederla in quell’inizio di settimana, poiché non era venuta a scuola, e quindi non avevo neppure avuto modo di poter saggiare l’opinione delle mie emozioni dopo quel timido evento di alcuni pomeriggi prima. Da quel che mi aveva detto Alice, si era ammalta ed era affetta da un forte mal di gola e da un po’ di febbre.

Sempre dalla mia amica, ormai mia compagna d’intervallo, mi ero fatto dare il numero di cellulare di Jasmine, e quello stesso pomeriggio avrei cercato di mandarle un messaggio in modo da informarmi cortesemente sul suo stato di salute. E se poi avesse voluto continuare a fare quattro chiacchiere con me, ciò mi avrebbe fatto solo piacere.

Era una sorta di prova quella, me lo sentivo.

Sbuffai, notando che il cancello del mio giardino era rimasto aperto, sinonimo del fatto che il prepotente doveva essere rientrato prima di me quel giorno, lasciandolo spalancato come suo solito.

Federico, dopo l’aggressione ai danni di Francesco, era diventato più calmo. Sembrava che stesse preparando una sua azione in grande stile, sempre confabulando con gli altri miei tre ex conoscenti, con cui faceva comunella ogni volta che poteva. In classe era distante, e nonostante fosse il mio vicino di banco, mai una volta mi aveva degnato di uno sguardo, restando sempre concentrato sul suo cellulare.

Non mi aveva più importunato nei giorni scorsi, così come non aveva più fatto del male ad altri. Sembrava che la ramanzina a parole del professore di educazione fisica avesse placato la sua indole.

Ammisi che non credevo a questa mera supposizione, quindi mi preparavo a giorni più bui, non appena il bullo avrebbe avuto modo di riorganizzarsi. Temevo che anche i suoi tre nuovi ed inseparabili amici avrebbero potuto seguirlo, nell’eventualità successiva; in genere, chi va con lo zoppo impara a zoppicare, questo è ed era certo.

Tuttavia in quel momento mi strinsi nelle mie spalle e mi affrettai a richiudere il cancelletto dietro di me, per rientrare in casa.

Rientrai, e andai direttamente in cucina, dove vi trovai Roberto impegnato ai fornelli. Anzi, dopo un’occhiata più attenta potei notare che aveva già concluso il suo lavoro ai fornelli, ed era alle prese con la scolatura di una buona razione di pasta.

Ammetto che a quel punto ero in imbarazzo; non volevo assolutamente che l’inquilino di mia madre si prendesse cura di me come se fossi un bebè, anche perché ciò non era assolutamente giusto. Sperai quindi che il cibo che aveva preparato fosse per suo figlio, che però non vidi lì attorno.

L’uomo, vedendo che ero rincasato, mi guardò e mi rivolse uno dei suoi soliti sorrisi. Naturalmente, pure io gliene rivolsi uno più impacciato, però, poiché già mi trovavo in imbarazzo in quella situazione. Fui fortunato quella volta, poiché ad attirare la mia attenzione fu il tramestio prodotto dai passi di Federico, che dopo aver sceso le scale con due balzi, già si stava avventando verso la porta d’ingresso, quasi di corsa e con una gran fretta.

‘’Federico!’’, ruggì il padre, a sorpresa e richiamandolo indietro, mentre il ragazzo ormai doveva aver già raggiunto l’atrio.

Come se nulla fosse, io andai a recuperare il mio bicchiere e lo riempii d’acqua, cominciando a sorseggiarla lentamente ed attendendo le mosse degli Arriga. Ero curioso di ascoltare ciò che doveva dire il padre al figlio, anche perché ciò non mi era capitato tanto di frequente, e soprattutto da una certa distanza. Inoltre, non potevo svignarmela in quel momento.

Se poi il mio coetaneo si fosse messo a pranzare col padre, ne avrei approfittato per abbandonare la cucina e dirigermi da qualche altra parte, ma in quell’istante proprio non potevo darmela a gambe. Curiosità e imbarazzo mi tenevano inchiodato lì, e comunque ero pur sempre in casa mia e potevo starmene dove più mi pareva opportuno.

Federico si affacciò alla porta della cucina; nella mano destra stringeva il suo magnifico cellulare, con la sinistra invece si affrettò a darsi una sistemata ai capelli, quel giorno ancora più mossi del solito, mentre sul volto aveva ben impressa quell’espressione scocciata ed altezzosa che esibiva in tutte le occasioni in cui si irritava, così come anche i suoi occhi porcini e socchiusi lasciavano chiaramente intendere.

I tatuaggi di cui evidentemente andava fiero erano coperti quel giorno, grazie all’aria fresca dell’autunno che gli impediva già di gironzolare smanicato, e non tardò un’istante in più ad appoggiare la sua regale spalla allo stipite della porta, mettendosi in una posizione invidiabile anche per i fotomodelli.

Distolsi lo sguardo da lui e mi concentrai sulla bottiglia e sul bicchiere che avevo di fronte, mandando giù un sorso di tanto in tanto.

‘’Sì?’’, chiese il prepotente dopo essersi preparato a puntino.

Suo padre stava mettendo il sugo sulla pasta che aveva cucinato, potevo udire il rumore provocato dagli arnesi da cucina che tintinnavano tra loro, sfiorandosi.

‘’Ti ho preparato un po’ di pasta. Oggi pranziamo assieme’’, disse l’uomo, continuando a svolgere il suo lavoro.

Addio pasto, pensai. Se i due Arriga avessero pranzato assieme, non mi sarebbe rimasto altro da fare che attendere che essi stessi avessero concluso il pranzo, prima di tornare per mettere pure io qualcosa nello stomaco.

‘’No, oggi vado a mangiare fuori con dei miei amici’’, sbuffò Federico, lasciandomi sorpreso. Pensavo che non si sarebbe opposto in modo così veemente al padre.

In quel momento provai un pizzico di nervosismo; magari l’avessi avuto io un padre che mi attendeva a casa con un pasto pronto da condividere con me. Federico l’aveva, e lo rifiutava con sgarbo. Ciò che io avevo sempre desiderato, come la semplicità dei gesti e della vita comune, e che il mio coetaneo fortunato stava ottenendo senza particolari difficoltà, lui lo stava allontanando.

E così, mi scoprii ad invidiare Federico, ma anche a rimproverarlo mentalmente, per l’ennesima volta.

‘’Ho detto che oggi mangi a casa, e soprattutto mangerai cibo decente, e non la solita spazzatura. Dì con i tuoi amici che sarà per un’altra volta’’, rimboccò Roberto, tenendo il tono di voce basso e fermo.

Sentivo odore di scontro. Riempii di nuovo il mio bicchiere e mi volsi verso la finestra, dando le spalle ad entrambi.

‘’E io ho detto di no. A questa sera’’, concluse il mio coetaneo, scostandosi dalla porta ed allontanandosi con i suoi soliti passi pesanti.

‘’Una volta o l’altra, mi arrabbierò per davvero. Una volta o l’altra…’’, sibilò il padre, mentre la serratura della porta d’ingresso già scattava.

Il nervosismo era palpabile.

Mi accinsi a posare il mio bicchiere e ad abbandonare la cucina, dove un furioso Roberto se ne era rimasto a braccia conserte ed appoggiato al lavabo, ma incredibilmente Federico tornò indietro.

Mi affrettai a mantenere la mia posizione e a fingermi assorto.

‘’Ho bisogno di soldi’’, disse il ragazzo, e quella volta gli lanciai un’occhiatina rapida. Stringeva tra le mani il suo portafoglio, ben aperto, ed era totalmente concentrato su suo padre.

‘’Io non te ne do. Ti ho già proposto di mangiare a casa e tu hai rifiutato. I soldi per i tuoi capricci chiedili a tua madre’’, sbottò l’irritato Roberto. Era la prima volta che avevo modo di saggiare il suo nervosismo, visto che di solito era una persona calma e pacata.

‘’La mamma non è a casa, lo sai. E poi, i miei non sono capricci’’, replicò il prepotente, dopo aver atteso un attimo.

‘’Non ti do nulla, vai a pranzo o fai tardi. I tuoi amici potrebbero adirarsi. E poi, chi sono questi amici?’’, chiese a sorpresa Roberto, con un tono inquisitorio, quella volta.

Non compresi il motivo di quella domanda così strana, ma pensai che i fantomatici amici fossero quel trio che aveva conosciuto al liceo, a me tanto caro un tempo. Eppure, ricordai che i tre non avevano mai pranzato fuori dopo la scuola. Non era una loro abitudine.

E, allora, mi chiesi anch’io chi stesse per incontrare Federico, o cosa andasse a fare fuori.

‘’Dammi almeno trenta euro, ti prego’’.

Federico non ottenne risposta. Supplicò e il suo tono impertinente, a sorpresa, si smorzò.

‘’Non hai risposto alla mia domanda. È una sola tra l’altro, non ci impiegheresti molto’’, tornò alla carica il padre.

‘’Ragazzi del liceo che ho conosciuto qualche giorno fa. Non voglio finire per essere un emarginato anche qui! Lasciami uscire’’, tornò a sua volta alla carica il mio nemico, questa volta con un tono davvero molto sommesso o pietoso.

Aguzzai le orecchie udendo un accenno al passato del ragazzo, e quei scarni particolari che si era lasciato sfuggire mi incuriosivano tanto.

Sapevo che lui stava tenendo il suo tono di voce basso e controllato solo sperando che io potessi udire in modo chiaro il minor numero di parole possibile, ma d’altronde anche se lì ero il terzo incomodo, non potevo neppure andarmene. Stavo bevendo, e d’altronde bere è importante, pensai, ironicamente.

Per la prima volta nella mia vita mi ritrovai ad essere crudelmente sarcastico, ma ero anche a conoscenza del fatto che il mio nemico in una situazione simile e a posizioni invertite si sarebbe comportato proprio come me, se non peggio, magari approfittandone per mettere in giro altre voci sul mio conto o per farmi del male in altro modo.

Non mi volsi a guardare la scena, ma a quel punto potei intendere che Roberto avesse ceduto. Al suo posto, non sarebbero stati tanti i genitori in grado di tener testa ad una supplica così forte mossa dalla prole. Udii un lieve fruscio, prodotto da una qualche banconota che passava da un portafoglio all’altro. Poi, non sentii più nulla a parte il rumore dei passi di Federico, che si era nuovamente lanciato verso la porta. Dopo un attimo, era già in strada, puntando dritto verso il centro del nostro paese.

A quel punto, lasciai il mio bicchiere e, impacciatamente, mi mossi verso la porta. Non avevo più tanta fame, e pensai di lasciare sbollire Roberto, che nel frattempo aveva ripreso la posizione corrucciata e tormentata di poco prima, per andare a dedicarmi al mio pianoforte.

Quando le acque si sarebbero calmate, sarei tornato a mangiare un boccone.

‘’Antonio, hai fame?’’, disse però l’uomo, intercettandomi proprio mentre muovevo gli ultimi passi verso la porta.

Mi voltai verso di lui e gli lanciai un’occhiatina imbarazzata, prima di tornare a riabbassare lo sguardo. Solo in quel momento sentivo su di me tutto il peso della mia maleducazione, che poco prima mi aveva portato a sostare e ad origliare il dibattito privato tra padre e figlio.

‘’Non molta’’, replicai, con un sospiro.

‘’Guarda, qui c’è un bel po’ di pasta. Ne avevo preparato per tutti e tre, e mi dispiace che Federico non abbia voluto pranzare a casa. Se ne vuoi un po’…’’, mi disse, mostrandomi lo scolapasta ancora mezzo pieno di un invitante contenuto scondito.

Si era preoccupato per me anche quel giorno, e a quel punto rifiutare quel neppure tanto tacito invito mi avrebbe reso un vigliacco tanto quanto suo figlio. Sorrisi ed accettai con un semplice cenno della testa.

Roberto parve rinfrancato dal mio assenso, e in fretta mi servì una porzione mastodontica di pasta, che si affrettò a condire con un bel po’ di soffritto. Mi ritrovai servito talmente tanto in fretta che quasi non riuscii a prendere posizione a tavola e a sedermi.

‘’Tu sì che sei un bravo ragazzo. Federico… lui, beh, non dà una soddisfazione manco a morire’’, mi tornò a dire, ancora parecchio amareggiato.

‘’Ti ringrazio’’, mi limitai a dire, ringraziandolo per il complimento contenuto nella prima frase da lui pronunciata, e non commentando il seguito. Non erano affari miei quelli, e per di più sapevo che il mio nemico era pericoloso.

‘’Hai visto come mi tratta? È sempre stato così, eh. Per lui non sono mai valso nulla, a volte mi lancia delle occhiatacce con quei suoi occhi scuri e freddi, ed ho l’impressione di fargli davvero schifo. Ma un giorno, forse neppure tanto lontano, quando capirà chi è stato in tutta questa vicenda a sacrificarsi di più, forse cambierà atteggiamento’’, aggiunse Roberto, sempre con tono irritato. Si stava sfogando, cercando di liberarsi da quel nervosismo che aveva turbato il suo solito comportamento quieto.

Non trovai opportuno rispondere o aggiungere qualcosa alle sue parole, poiché come poco prima tutto ciò non era affare mio. Quindi continuai a tacere, stando a testa bassa sul mio piatto e gustandomi il pranzo, prima che potesse raffreddarsi ulteriormente e diventare pessimo.

‘’Ma no, ma che sto dicendo! Lui non cambierà mai il suo modo di comportarsi, ormai ne sono certo per davvero. Sono convinto che non cambierà mai, ma davvero mai. Non importa tutto quello che abbiamo fatto per lui, ciò che ci siamo lasciati alle spalle per il suo bene. A lui non importa nulla se non i soldi, gli abiti firmati, i tatuaggi e la sua arroganza’’, concluse infine il mio interlocutore, e alzando lo sguardo per un attimo notai che sul suo viso, in disordine come sempre, aleggiava un sorriso colmo di amarezza.

Che dire, mi dispiaceva davvero tanto per lui. Non sapevo come si fosse comportato Federico nei suoi confronti prima di giungere a casa mia, ma il resto potevo confermarlo tutto quanto.

Roberto notò il mio silenzio, e nonostante tutto lo gradì.

‘’Antonio, scusa se ti tormento con le mie parole gonfie di irritazione. Non voglio assillarti con problemi non tuoi. Tuttavia…’’. L’uomo mi si era rivolto nuovamente con un tono di scuse, quella volta, e non concluse la frase.

Per un attimo, la lasciò in sospeso mentre si serviva anch’esso una bella porzione di pasta, mentre io alzavo nuovamente il mio sguardo dal mio pranzo, e mi sentivo a disagio, poiché in realtà il comportamento di Federico era anche un problema mio, vista la prepotenza che mi riservava.

‘’Tuttavia’’, tornò a dirmi, mentre si metteva a sedere, ‘’so che voi due frequentate la stessa classe già da qualche settimana. Volevo chiederti se hai notato un qualche suo… atteggiamento strano, diciamo così, oppure se si comporta come tutti gli altri ragazzi e se socializza’’.

A quelle parole mi crollò il mondo addosso. La mia sedia si tramutò in uno strumento di tortura che mi teneva inchiodato in quella stanza, e senza accorgermene la forchetta mi scivolò tra le dita, cadendo dolcemente sul tavolo.

La poca fame che avevo si tramutò in voglia di scappare, e non alzai lo sguardo, tenendolo fisso contro la parete opposta alla mia faccia, tappezzata dalla miriade di presine multicolore che mia madre pareva collezionare appositamente per ogni uso ed eventualità.

Mentre mi agitavo leggermente sulla mia sedia, mi pareva chiaro che in quel momento ero di fronte ad un bivio, e che le scelte possibili che avevo a disposizione erano solo e soltanto due; dire la verità e parlare delle prepotenze di Federico, oppure mentire ed insabbiare tutto, continuando la mia politica dell’omertà.

Non ero totalmente scemo e sapevo che se avessi confessato a Roberto tutto ciò che il figlio aveva già combinato in quelle due settimane scarse di frequentazione al liceo, lui non avrebbe esitato un attimo a richiamarlo indietro e a fargli una ramanzina, irritato com’era. E ciò avrebbe fatto sì che il mio nemico scoprisse che avevo fatto qualcosa contro di lui, dando quindi il via libera a quella serie di violente ripercussioni di cui mi aveva parlato l’altro mattino nel corridoio della palestra, quando mi aveva quasi soffocato.

La mia scelta, viste le considerazioni fatte, non poteva che essere una sola. La più semplice.

‘’Non ho avuto modo di parlarci molto, penso di non stargli simpatico. Del resto, lo vedo sempre in compagnia di altri tre ragazzi dell’istituto, mi sembra sereno’’, mi limitai a dire, quasi sussurrando. Le bugie bruciavano dentro la mia anima, e tormentavano la mia mente.

‘’Meglio così’’, replicò Roberto, poco distante e alle prese con il suo pranzo. Non aveva notato quell’attimo di sbandamento che mi aveva dato tormento.

A disagio, riafferrai la mia forchetta e mi sforzai di finire la pasta che avevo rimasto nel piatto, che improvvisamente fu come se avesse preso un sapore più amaro. Per non pensare alle mie menzogne e al loro peso, diressi i miei pensieri verso altri lidi, colmi di mistero. Mi domandai il perché di quelle domande. Forse, Federico negli anni precedenti aveva mostrato comportamenti strani e devianti, magari violenti come quelli che stava riversando addosso a me e a chi gli poteva sembrare una preda abbordabile.

‘’Ha ripreso a comportarsi in modo strano, ultimamente. Se noti qualcosa di anormale, ti prego di farmelo sapere, Antonio’’, tornò a dirmi cortesemente Roberto, evidentemente anche lui a disagio e in apprensione per qualcosa che ancora mi sfuggiva, in quel momento. Naturalmente annuii con la testa in modo veemente, e conclusi in fretta il mio pranzo.

I miei pensieri non erano più con me, planavano lontano. E io li assecondavo, poiché non volevo che i più ragionevoli di loro mi facessero notare quanto ero sciocco a comportarmi così.

Se io avessi vuotato il sacco qualche tempo prima, denunciando i misfatti del figlio al padre, magari le cose poi sarebbero andate diversamente; ma, ovviamente, se fosse andata così sarebbe stata tutta un’altra storia, e io non sarei ancora qui a rievocarla e a rifletterci sopra. Per l’ennesima volta, il destino quel giorno forse mi aveva servito la possibilità di salvarmi su un piatto d’argento, ma io avevo gettato via anche quella volta il suo sconosciuto contenuto. Forse, meritavo davvero ciò a cui ero e a cui sarei stato sottoposto in seguito.

A quel punto quindi ringraziai colui che ormai era diventato una sorta di cuoco personale, o anche di secondo genitore volendo, visto come mi seguiva sempre a casa e come mi si rivolgeva con attenzione, cercando di instaurare un vero dialogo con me. Mi sembrava uno di quegli psichiatri che, lanciati come segugi sulle tracce mnemoniche di un qualche disadattato sociale, cercasse di tirare fuori da me quel lato di figlio che non ero mai riuscito a mostrare con nessuno.

Con Roberto infatti mi sentivo a mio agio, non mi mostravo mai scocciato per via della sua presenza che ormai gradivo, mi piaceva come mi trattava, come si atteggiava e come si relazionava con la vita. Era come se dentro di sé avesse avuto un faro, in gradi di attirare il vuoto buio cosmico che mi circondava dal giorno in cui ero venuto al mondo, e che fortunatamente nell’ultimo periodo sembrava aver voglia di diradarsi, ma solo in modo impercettibile.

Con mia madre era sempre stato tutto leggermente diverso, poiché purtroppo rientrava sempre di sera e quand’ero piccolo mi accudivano sempre i miei adorati ma ormai defunti nonni. Forse, tra me e lei si sarebbe potuto sviluppare un rapporto più intenso se la società in cui vivevamo non ci avesse spinto come carriole pur di soddisfare i bisogni più materiali, ed effettivamente grazie agli sforzi materni non mi era mai mancato nulla.

Mi era mancato solo un padre, ma appena mi passò per la mente la sua ormai sfocata figura, mi affrettai a ricacciare tutto nel dimenticatoio e ad accantonare il mio silenzioso dolore in un angolo della mia confusa e provata mente, come al solito.

A quel punto, mi allontanai dalla cucina, continuando a ringraziare, e mi avviai verso il mio rifugio, dove avrei potuto trovare un po’ di pace suonando il mio amatissimo pianoforte, mia linfa vitale.

 

Suonavo senza sosta, parevo aver perso me stesso. Ero su un altro pianeta, e ne gioivo, perché suonare per me significava essere totalmente libero.

Mi sentivo felice così, e credevo di essere finito già in paradiso. E invece, avevo sbagliato le mie valutazioni ed ero all’inferno.

Mentre continuavo a suonare, ed ero totalmente assorto dalla mia marea musicale che continuava ad innalzarsi attorno a me già da un bel po’, udii un tenue rumore. Si trattava della porta della saletta che si apriva.

Pensai, avvolto nella mia musica, che si trattasse di Roberto; infatti, solo per lui avevo lasciato aperto la porta, senza chiuderla a chiave dall’interno, poiché speravo in una sua visita. Altrimenti, mi sarei barricato dentro, come facevo abitualmente quando condividevo la casa con degli sconosciuti e mia madre non era presente.

M’insospettii quando non udii i suoi soliti passi leggermente pesanti, e mi accorsi che, grazie a un lieve movimento d’aria, qualcuno si doveva essere posizionato dietro di me.

‘’E’ bello suonare, vero?’’.

Non ebbi neppure il tempo di sussultare, poiché Federico si era mosso rapidamente, e altrettanto velocemente aveva parlato, per poi mettermi una mano sulla bocca e tapparmela.

Sgranai gli occhi mentre il prepotente passava il suo braccio destro sotto il mio collo, e per l’ennesima volta mi rendeva vittima della sua stretta micidiale. Mi mancò il respiro, e non pensai neppure a cercare di urlare, di divincolarmi o magari di piantare le mie unghie nel braccio dell’avversario; Federico era forte e rigido come una roccia, e poteva sovrastarmi e sottopormi ad ogni genere di angheria.

Io, così debole, pensavo solo a cercare di respirare. Anche riuscire a far entrare un po’ d’aria nei miei polmoni sarebbe stato un grande traguardo.

‘’Suonare è bello, ma parlare è ancora meglio. Giusto?’’, mi chiese il mio aguzzino, bisbigliandomi tutto all’orecchio sinistro.

In preda al panico e senza comprendere ciò che mi stava chiedendo, annuii in fretta.

‘’Sappi che ho notato che lui ti ha preso a cuore. È da quando siamo giunti in questa schifosa casa che non fa altro che parlare di te, come se fossi un modello da seguire. Pende dalle tua labbra, ti ascolta. Ma tu sei solo una nullità, lo vedi come ti piego? Beh, ti ho visto oggi mentre ascoltavi i nostri discorsi, aguzzando il tuo udito. Tu prova anche solo a dire in giro ciò che senti in questa casa, oppure ciò a cui ti sottopongo, e io ti farò scontare tutto quanto con il dolore. Questo dolore’’, continuò a sussurrarmi Federico, implacabile.

Il mio viso iniziava a diventare rosso, i miei polmoni collassavano mentre il mio aguzzino continuava ad infierire e a stringere il mio collo in una morsa sempre più ferrea. Non riuscivo neppure a deglutire.

‘’Se so che sparli di me con mio padre, oppure che cerchi aiuto, o che stai cercando di organizzare una qualsiasi azione sempre contro di me, ti spezzo. Giuro che questa sorta di caloroso e fraterno abbraccio si tramuterà in una morsa ancor più letale. Sappilo’’.

Altra brevissima pausa, mentre mi sentivo svenire. Neppure mi muovevo più.

‘’E poi… questo strumento potrebbe anche rompersi. Ti immagini se facessi saltare i tasti? Proprio così’’. E con un pugno colpì la tastiera.

Con le blande forze che mi restavano, cercai di divincolarmi, ma persi le forze. Stavo per scivolare a terra, il mio volto doveva essere cianotico, e il prepotente ormai si era reso conto della mia situazione estrema, premendomi contro la sua schiena e stringendomi sempre col braccio destro, mentre con quello sinistro cercava di danneggiare il mio pianoforte.

‘’Tu farai ciò che ti dico io, e te ne starai in silenzio. Sei un bambolotto tra le mie mani, e se non vuoi che la tua merdosa vita non abbia ripercussioni, così come anche tua madre e il tuo pianoforte, mi obbedirai. Per ora basta così, la lezione di oggi dovresti averla capita’’, concluse Federico, lasciando tutto d’un tratto la sua stretta ed afferrandomi per i capelli, per poi far sbattere la mia inerme testa contro i tasti del mio pianoforte straziato, che pareva anch’esso gridare dal dolore.

 In meno di un istante, il mio aguzzino era di nuovo dalla porta, che aveva socchiuso, per poi volatilizzarsi nel corridoio. Ed io mi lasciai scivolare a terra, inerme e senza fiato.

Annaspai disperatamente, mentre mi sdraiavo sotto al mio strumento, dopo essere caduto con estrema lentezza. Mi sentivo morto, sfinito. La lezione l’avevo capita, eccome se l’avevo capita.

Rimasi steso al suolo, traendo piacere dal mio respiro che ritrovava la sua regolarità e chiudendo gli occhi, ancora dolorante.

 ‘’Antonio! Antonio, che ti è successo?!’’.

Mi accorsi solo dopo un po’ che Roberto mi stava fissando dal bel mezzo della porta, per poi dirigersi rapidamente verso di me. Se solo fosse giunto un attimo prima, avrebbe potuto vedere ciò che stava accadendo.

Eppure, i miei occhi semiaperti lo fissavano con astio, poiché volevo solo che lui mi stesse lontano. Era solo grazie alla sua presenza e a suo figlio se ero ridotto così in quel momento.

‘’Ero al piano di sopra, ed ho sentito dei rumori strani. Ma non mi sarei mai creduto di ritrovarti così… mio Dio!’’, continuò a dire, cercando di farmi reagire.

‘’Chiamo il 118! Hai avuto indubbiamente un malore’’, tornò a dire Roberto, afferrando il suo vecchio cellulare.

‘’No, va tutto bene. Ho rischiato di soffocarmi con… con una caramella. Mi è andata di traverso. Ora è tutto a posto’’.

Non seppi mai come feci quella volta ad inventare una simile sciocchezza e a riuscire a rispondere con tanta prontezza, nonostante la situazione a me indubbiamente sfavorevole. Tuttavia, assieme alla regolare respirazione, anche il mio viso tornò normale in fretta, così come anche il mio corpo in generale.

Stimolato dall’uomo, mi rimisi in fretta in piedi, e stando attento a non sfiorarmi il collo, alzai il bavero della giacchetta che avevo indosso e, senza guardarlo, iniziai a saggiare il mio pianoforte, in modo da accorgermi se esso avesse avuto dei danni. Era stato proprio sul mio strumento che quel demonio si era maggiormente sfogato, e se si fosse rotto qualcosa poi non avrei avuto neppure i soldi per ripararlo.

Ero in ansia, ma per fortuna tutto parve fin da subito a posto.

‘’Una caramella?!’’, continuava a chiedere il mio interlocutore, ma non mi importava più nulla di lui.

Irritato, gli diedi le spalle e mi diressi prontamente verso la mia camera da letto, in modo da potermi lasciare andare ad un pianto isterico, una volta raggiunti i miei soffici cuscini e il mio morbido materasso. Per quel giorno, ne avevo avuto abbastanza di lui e di suo figlio, e anche se era in realtà innocente in quel momento non potevo non rivolgere parte del mio astio anche contro quell’uomo, ingiustamente.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Continuo a ringraziare chiunque stia continuando a seguire il racconto, e in modo particolare tutti coloro che si soffermano a lasciare un loro parere. Grazie!

Grazie di cuore, davvero, a tutti quanti. Buona giornata! A lunedì prossimo J

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

CAPITOLO 11

 

 

 

 

 

Questa è la prima volta che la mia memoria vacilla, in questo mio voler ripercorrere i miei ricordi di un passato ancora piuttosto recente.

Non avevo chiaro neppure al momento in cui il fatto si svolse se io avessi inteso bene e se avessi realmente vissuto quel flash di scene, e se per davvero avessi origliato qualcosa d’importante. Ma, alla luce dei fatti futuri, sono sempre convinto che sì, io quella notte avevo sentito bene e nulla era frutto della mia immaginazione.

Stava di fatto che, dopo essermi leccato le mie ferite interiori e aver studiato un po’, perlopiù letto poiché i miei sentimenti e la mia umiliazione non mi permettevano di concentrarmi troppo, quella stessa sera in cui avevo dovuto far fronte all’invasione del mio rifugio e alla violenza del mio nemico riuscii ad addormentarmi senza difficoltà, quasi a sorpresa. Calai quindi in un sonno leggero, agitato e ricco di sogni, che tendevano a tramutarsi in incubi.

Attorno a metà nottata, mi svegliai di soprassalto, senza però uscire dal mio stato di pesante sonnolenza, e guidato da un impellente bisogno di andare in bagno, fui costretto ad uscire dalla mia stanzetta. Tenendo socchiusi gli occhi e muovendomi per casa senza accendere le luci, in modo da non risvegliare totalmente i miei sensi, mi affidai alla luce fioca dei lampioni che, entrando dalle finestrelle della scala, illuminava pacatamente i luoghi che dovevo attraversare.

Per raggiungere il bagno, dovevo affrontare un percorso un po’ scomodo, poiché esso si trovava al piano inferiore, visto che quello al piano superiore era a disposizione dei nostri affittuari, quindi scesi le scale con lentezza, sempre tenendo gli occhi socchiusi, e come un automa giunsi finalmente al bagno.

Fortunatamente, non mi gettai subito sulla maniglia della porta, poiché udii un parlottio proveniente dal suo interno. Credevo si trattasse di mia madre, eppure non l’avevo mai sentita parlare da sola, e bisbigliare in quel modo così concitato. E la voce mi sembrava maschile.

Allungai la testa ed appoggiai il mio orecchio destro contro il legno della porta; il parlottio mi giungeva attutito, quasi distante, eppure qualche frase la potei udire chiaramente. E, ovviamente, potei anche capire che non era mia madre colei che si era chiusa dentro al nostro bagno, bensì Federico. Il suo bagno era al piano superiore, e il fatto che si recasse nel nostro mi dava molto fastidio, e non potei non chiedermi il perché di quella scelta.

In realtà, feci in fretta a conoscere la risposta. Il bagno a disposizione sua e dei suoi familiari era posizionato al lato opposto della mia stanza, ed era appiccato alla camera dei suoi genitori. Quindi, se lui voleva chiacchierare al telefono senza essere udito, il nostro bagno al piano inferiore si rivelava essere per davvero il luogo perfetto, poiché lì dentro poteva nascondersi senza essere scoperto, visto che raramente sia io che mia madre ci alzavamo durante la notte, a volte anche a costo di lottare un po’, imparando a resistere ai bisogni pur di non sfatare la nostra pigrizia notturna e di non perdere il sonno.

Mestamente e cercando di non fare rumore, avvicinai il mio orecchio al legno della porta, e potei udire la voce stanca ed assonnata del mio coetaneo, che cercava di convincere qualcuno a far qualcosa. Il tutto mi era ignoto.

‘’Te l’ho detto, oggi pomeriggio mi è arrivata quella roba… nessun rischio, dai! Se volete… no, per ora ho parlato anche troppo, magari ci accordiamo domani… a domattina, ora ormai è notte fonda e voglio andare a chiudere un occhio…’’.

Udendo quelle parole, dopo essere rimasto per un po’ ad origliare, mi ritrassi dalla porta, e a passi felpati mi diressi prontamente verso il piano superiore. A quanto pareva, Federico stava per concludere una qualche conversazione telefonica, e non volevo farmi trovare nei paraggi del bagno o in giro per casa.

Il mio cuore batteva all’impazzata mentre, con attenzione, cercavo di raggiungere la mia stanza da letto, ed avevo il timore che i suoi battiti facessero frastuono come i tuoni di un temporale, dal tanto che risuonavano nel mio petto e nella mia mente.

Salii rapidamente le scale, giusto in tempo per udire il rumore attutito della serratura del bagno del piano inferiore che scattava, e m’infilai nella mia camera richiudendo in fretta la porta, stando sempre attento a non fare alcun genere di rumore.

Solo quando mi fui nuovamente barricato al sicuro, e fui certo che il mio nemico non doveva essersi accorto di essere stato spiato, tirai un sospiro di sollievo, mentre il mio cuore pian piano quietava i suoi battiti folli.

Tornai in fretta sotto le coperte, ormai incurante del bisogno fisico che mi aveva spinto a scendere al piano inferiore, e spensi la luce, coprendomi per bene con le lenzuola e riflettendo. In realtà i miei bisogni li potevo ancora sentire in tumulto dentro me, mentre mi rivolgevano qualche dolorosa richiesta, però in modo meno impellente, poiché la mia mente era tutta concentrata sul discorso che avevo avuto modo di udire poco prima.

Federico di certo si era nascosto a parlare al cellulare dentro al nostro piccolo bagno per essere sicuro di non venir udito dai genitori, nascondendosi anche nel luogo meno trafficato di casa mia. Inoltre, solo in quel momento mi venne da chiedermi cosa intendesse il mio coetaneo con la parola roba. E poi, quel pomeriggio era andato a pranzare fuori con amici, non a prendere qualcosa. A meno che tutto non fosse poi così limpido e chiaro come avevo voluto vederlo io fino a quel momento, ma che si trattasse proprio di quel genere di roba.

Volli allontanare quella supposizione malevola, forse eccessiva e dalla parvenza ancora infondata.

I movimenti loschi del mio nemico, le domande di Roberto che mi avevano tormentato durante il pomeriggio del giorno precedente, le chiamate segrete, la prepotenza in generale, tutto ciò non mi lasciava tregua e si sovrapponeva nella mia mente. I miei pensieri erano diventati tutto a un tratto una sorta di vortice, che mi spingeva giù, verso un punto a me sconosciuto.

Senza poter riflettere oltre, tornai a sprofondare nuovamente in un sonno agitato, che mi avrebbe lasciato poi piuttosto confuso al risveglio.

 

Quando mi svegliai, la mattina successiva, fuori il sole stava sorgendo e gli uccellini cinguettavano sul tetto.

Tutto aveva una parvenza normale, tutto tranne me. I miei occhi erano infossati, stanchi e dilaniati da una nottata colma di incubi, dominata da un sonno agitato ed inclemente, senza contare tutto il resto delle difficoltà. E senza pensare a ciò che avevo udito.

Esordii scrollando le spalle, e preparandomi per andare a scuola, anche se, inutile ormai dirlo, rischiavo di collassare sul posto e di riprendere a dormire. Eppure, quella nottata mi aveva lasciato un retrogusto amaro, e, visto che nella mia mente gli incubi si confondevano con la realtà, mischiandosi abilmente, giunsi persino a pensare di aver sognato di essere andato in bagno. D’altronde, il mio aguzzino mi aveva fatto del male anche la sera prima, e quindi la mia mente estremamente suggestionata doveva aver riprodotto in modo verosimile tutto ciò in un semplice sogno.

Mi autoconvinsi di ciò, e comunque la mia irritazione riposta nei confronti del giovane Arriga mi spingeva anche a farmi gli affari miei e a cercare di indagare o fantasticare il meno possibile su di lui, e di girargli alla larga senza stare a farmi troppi viaggi mentali, che come in quel caso apparivano assurdi.

Molto probabilmente avevo sognato tutto, e se così non fosse stato non era affare mio. Certo, mi scocciava per il fatto del bagno occupato, ma non mi restava altro da fare che sperare nel fatto che le successive notti non si fosse riverificato quello stesso problema.

Deciso a sotterrare tutto quanto, mi affrettai a scendere al piano inferiore con lo zaino in spalla, giusto in tempo per bere due sorsi di latte e trangugiare una di quelle brioches ipercaloriche che tanto piacevano a mia madre, per poi salutare rapidamente Roberto, che in giardino si gustava il timido sole di ottobre.

‘’Di fretta, questa mattina?’’, mi pungolò l’uomo. Temendo che potesse attaccar bottone per tornare a chiedere del mio stato di salute e a farmi rievocare gli eventi della sera precedente, non gli diedi assolutamente corda e sveltii il passo.

‘’Come sempre’’, mi limitai a dirgli, abbandonando frettolosamente il mio giardino. Sapevo che mi stavo comportando in modo non molto educato, ma non riuscivo a fare altrimenti, e un po’ mi dispiaceva per quell’uomo che invece in fondo mi stava simpatico, oltre che sempre pronto a dimostrarsi premuroso nei miei confronti.

A passo rapido, dopo che ebbi effettuato la prima svolta, mi ritrovai a rallentare, solo per riprendere fiato.

Giunsi comunque a scuola con un po’ di anticipo, arrivando in modo calmo e tranquillo nel piazzale antistante l’edificio. E lì mi attendevano nuovi eventi.

Notai fin da subito che l’atmosfera era strana; tutti i ragazzi dell’istituto che erano già presenti sul posto formavano dei piccoli capannelli, allo stesso modo dei cospiratori. Logicamente, i vari gruppi parevano essersi riuniti per chiacchierare di qualcosa di recentemente accaduto.

In cinque anni di frequentazione, di fronte al mio liceo c’era stato quel clima teso solo poche volte, perlopiù nei giorni di sciopero, quando si cercava di convincere i pochi compagni restii a salire sul primo autobus e a dar buca alla scuola, e quando era accaduto qualcosa di brutto ad alcune personalità eminenti o molto conosciute nell’ambiente scolastico. Quella mattina, così davvero tanto lontana dal clima disteso e pacifico che regnava quasi ogni giorno a quell’ora, era davvero molto strana.

Mentre mi muovevo in cerca di Alice, che avevo scorto di sfuggita poco distante, mi ricordai che il giorno precedente non avevo scritto neppure un messaggino a Jasmine, per sincerarmi del suo stato di salute; quasi mi fermai a dare una testata contro un vicino lampione, rimproverandomi per la mia sbadataggine, scusandola con il fatto che ero rimasto vittima dell’ennesimo attacco del mio aguzzino, e pure nel mio rifugio quella volta.

Mi ritenni imperdonabile, e brontolando mi ripromisi di scriverle entro le due del pomeriggio di quello stesso giorno. Stavo anzi per afferrare il mio cellulare, un vecchio Nokia Lumia che aveva visto giorni decisamente migliori, in modo da poter rimediare subito alla mia dimenticanza, ma il clima teso che mi circondava tornò ad allontanarmi dal mio intento, guadagnando la mia attenzione. In qualche gruppetto regnavano le risatine, in altri i toni cupi e sommessi.

Alice non mi aveva notato e continuava a muoversi da sola nel mezzo della folla, e mentre la raggiungevo scorsi in lontananza Federico, che naturalmente era assieme al suo solito trio, che un tempo credevo di conoscere tanto bene e di apprezzare. I quattro ragazzi ridacchiavano e scherzavano tra loro, parevano rilassati.

Tornai a concentrarmi su Alice, che nel frattempo avevo raggiunto alle spalle e senza che lei se ne accorgesse, per poi sfiorarle delicatamente un braccio. La ragazza sobbalzò al mio contatto.

‘’Oh, Antonio!’’, disse poi, una volta tranquillizzatasi dalla mia comparsa a sorpresa.

Mi sorrise dolcemente. Anch’io le sorrisi.

‘’Jasmine non viene neppure oggi a scuola, non so quando rientrerà… ha le placche, mi sa’’, aggiunse, con tono deluso e dispiaciuto.

Mi parve di sentir rigirare il coltello nella piaga, e tornai a darmi dello stupido. Quella ragazza per me era bellissima, stupenda e gentilissima. Ancora non riuscivo a farmene una ragione del come avessi fatto a dimenticarmi di fare quel passo avanti che volevo effettuare il giorno prima. Il destino mi aveva lasciato un altro po’ di tempo a disposizione per farlo, ma comunque la mia rabbia e il mio nervosismo furono parzialmente rivolti a Federico.

Non avevo mai odiato con intensità nessuno in vita mia, ma in quel momento mi sorpresi ad odiare parecchio quel mio coetaneo, quasi a ribollire di rabbia solo a pensarlo. Eppure, non avevo il coraggio per fare altro ed oppormi alle sue prepotenze.

‘’Mi spiace, pomeriggio le scrivo, così sento come sta. Piuttosto, che è accaduto questa mattina? Mi sembra tutto così insolito’’, dissi, cercando di deviare il discorso e percorrendo l’intero piazzale con lo sguardo.

‘’Sai che ho udito strane cose, poco fa? Proprio due minuti fa mi ha raccontato qualcosa Angela, quella di terza b. Non ci ho capito molto, ma a quanto pare Federico deve averne compiuta un’altra, questa volta con l’ausilio dei suoi tre amichetti’’, si limitò a rispondermi Alice, anche lei osservando gli altri. Di tanto in tanto, qualche risata di elevava da alcuni gruppetti, dove i vari componenti erano tutti occupatissimi a tenere gli sguardi fissi sugli schermi dei loro cellulari.

‘’Uhm…’’, mormorai, pensieroso, chiedendomi se tutto ciò aveva qualcosa a che fare con quello che forse avevo sognato durante la notte.

‘’Ne sai qualcosa di più, tu?’’, mi chiese, ma io scossi la testa. Provai a ricordare qualche frase forse udita durante la nottata ma non riuscii a collegare nulla all’ambiente scolastico.

Alice allora scrollò le spalle, come per volersi lasciare scivolare addosso ogni altro pensiero riguardante Federico, per poi sorridermi di nuovo, timidamente.

‘’Oggi ho ben due verifiche. Le prime dell’anno! Mamma mia, giuro che tremo solo a pensarci…’’, tornò a dire la mia amica, per poi rabbrividire per davvero.

‘’Stai tranquilla, sono certo che andrà tutto bene. E poi, non hai mai avuto problemi di nessun genere a differenza di altri’’, cercai di tranquillizzarla, mostrando un sorrisetto tremolante e mettendola indirettamente al corrente delle mie difficoltà a raggiungere le sufficienze nei precedenti anni scolastici.

‘’No, non posso stare tranquilla. Oggi ho anche la verifica di matematica, e come se non bastasse ho anche un po’ di mal di testa’’, aggiunse, senza sorridere quella volta.

Scese il gelo su di noi; la matematica era il grande incubo di chiunque, al liceo.

Non avevamo insegnanti particolarmente validi in quella materia così complessa, ma essi apparivano comunque molto esigenti soprattutto nelle verifiche scritte, che quasi nella totalità dei casi finivano per essere valutate ampiamente sotto la soglia della sufficienza. Anche i più bravi in tutte le altre materie vacillavano abbondantemente in matematica, finendo per crollare sotto il peso di tutti quei calcoli astrusi.

Provavo pena per la mia povera amica, e non la invidiavo affatto, ma ciò portò pure me a tremare. Sapevo che ben presto sarebbe stato il turno della mia classe, e in quella materia non ero riuscito a concludere praticamente nulla.

I compiti a casa non lo facevo quasi mai; l’insegnante non controllava se erano stati svolti, ed io non me ne preoccupavo, preferendo dedicare il mio tempo al pianoforte. Ma quando poi mi trovavo con la verifica sotto al naso e non ero in grado di risolvere nulla, molto spesso mi veniva da lasciarmi andare ad un pianto silenzioso ed impotente, anche se poi logicamente mi trattenevo.

Però, sapevo che era inutile disperarsi sul latte ormai versato, e quindi l’unica cosa che potevo fare era cercare di ripromettermi di prepararmi meglio per il compito in classe successivo, e di impegnarmi a svolgere gli esercizi e i compiti a casa, cosa che puntualmente non facevo. E, allora, la medesima situazione della verifica consegnata pressoché bianca si riverificava con costanza, ogni mese e per anni.

Questa vicenda si è poi tramutata in uno dei miei incubi più ricorrenti; ancora oggi, quando ho un sonno agitato, mi ritrovo in quella stessa aula e con grande realismo scorgo quelle fotocopie colme di numeri e di concetti che non so gestire, dominato da una lugubre impotenza e dall’incapacità di fare qualcosa. Solo, incapace di muovermi dalla sedia, trascorro intere notti a rivivere quei momenti che, effettivamente, dovevano avermi segnato moltissimo nell’istante in cui li vivevo.

Tuttora spero che, prima o poi, questo incubo ricorrente possa sparire dai miei sogni, ma ne dubito, vista la costanza con cui esso si ripresenta. Nulla viene dimenticato tanto in fretta, così come non ho mai dimenticato finora l’espressione che aveva sul volto la mia cara Alice quella mattina, che si preannunciava così lugubre e tesa sotto tutti gli aspetti.

Non riuscii a dirle altro, o a parlarle dei miei problemi in quella materia, poiché la campanella suonò e fummo costretti a dividerci, per dirigersi nelle nostre classi. La mia amica era così triste e agitata che pareva che stesse per essere condotta al patibolo.

E così, senza alcun buono auspicio, entrai nella mia sezione e mi preparai ad affrontare la nuova mattinata scolastica.

 

Non sapevo ancora il perché, ma i miei compagni di classe in quel periodo parevano essere diventati più gentili, nei miei confronti. Se fino a qualche tempo prima nessuno manco mi salutava, ed era come se fossi un fantasma e non esistessi, in quei giorni qualcuno cominciò a rivolgermi qualche superficiale buongiorno, o mi rivolgeva qualche frase di rito.

Niente di che, ma era un passo in avanti che a mio avviso non avevo in alcun modo cercato di compiere con le mie forze, visto che avevo gettato la spugna già durante il primo anno, quando tutti mi prendevano in giro per il rossore che compariva sul mio viso quando dovevo parlare con qualcuno di loro, ma tuttavia la situazione che si stava creando non mi dispiaceva affatto. Anzi, il gracile Francesco aveva pure cominciato a rivolgermi qualche sorriso, come se l’evento di bullismo al quale entrambi eravamo stati sottoposti dallo stesso aguzzino ci avesse avvicinati.

Se il quasi insormontabile divario tra me e gli altri componenti della classe si era ridotto di qualche millimetro, quello tra me e Federico continuava ad essere violentemente insostenibile.

Per far capire chiaramente che con me non voleva averci nulla a che fare, umile sfigato com’ero, ogni mattina aveva preso l’abitudine di staccare leggermente il suo banco dal mio. Un gesto simbolico, un’espressione senza parole che mi faceva capire che per lui ero solo uno scarto, e che ai suoi occhi dovevo apparire come l’essere più indegno del mondo.

Non mi dispiaceva comunque stargli lontano, e in classe tutti lo guardavano in modo diverso rispetto al primo giorno in cui si era presentato. Anche lui a modo suo stava diventando una sorta di emarginato, all’interno dell’ambiente scolastico, e le uniche persone con cui era riuscito a legare erano proprio Giulio, Luca e Davide, ed ormai erano diventati i suoi unici compagni fissi durante le brevi pause.

Come ogni mattina, le lezioni iniziarono in fretta e in modo noioso, mentre per il momento continuavo ancora a ringraziare il Cielo per il fatto che nella nostra classe i vari professori erano stati molto clementi fino a quel momento, e solo pochi avevano iniziato ad interrogare e ad appuntare sui registri qualche verifica scritta.

La prof Carlucci quella mattina sarebbe tornata a parlare di Leopardi, cosa che ormai faceva dall’inizio della scuola, affermando di non voler lasciare nessun punto interrogativo su quel grand’uomo che si era reso immortale grazie ai suoi scritti. Le sue poesie non mi piacevano molto, lo ammetto, poiché le trovavo spesso troppo articolate, e magari eccessivamente complesse, e ciò si scontrava con l’idea che avevo della poesia, ovvero che essa dovesse essere una forma semplice di espressione. Ma non ho mai voluto sminuire quel grandissimo poeta, che tuttavia non mi dispiaceva studiare.

Con la coda dell’occhio notai che Federico aveva cominciato fin dall’inizio delle lezioni a giocare col suo cellulare, e mi chiesi se in quelle tre settimane di frequentazione avesse mai sfiorato una penna con un dito. Si era fatto coraggioso, e spesso, come in quel momento, paciugava col suo attrezzo elettronico ben posizionato sul tavolo, protetto dalla vista della prof dalla borsa a tracolla scura, sempre adagiata sul banco e tirata leggermente su come se fosse una barriera protettiva.

Non gli prestai ulteriore attenzione, e mi sopii, lasciando trascinare i miei pensieri lontano, lungo il tortuoso percorso poetico di Leopardi.

Immerso nelle spiegazioni della prof, e cercando di stare attento e di assimilare più informazioni possibili, per poi dover studiare di meno una volta giunto a casa, sobbalzai quando scoppiò un putiferio inaspettato, ma che non mi dispiacque per nulla.

‘’Professoressa Carlucci, un suo studente non fa altro che giocare al cellulare’’, disse improvvisamente una voce, frantumando il silenzio che regnava nell’aula, interrotto solo dal roco tono monocorde dell’insegnante.

Il tempo parve fermarsi, e mi voltai indietro di scatto, seguendo il suono di quella voce che aveva interrotto le spiegazioni, notando che apparteneva a una delle due insegnanti di sostegno che, di tanto in tanto, seguivano una mia compagna, Clara. Entrambe entravano poco in classe, visto che Clara aveva seri problemi a concentrarsi e a seguire lo svolgimento delle lezioni, e quindi seguiva parzialmente un programma più semplificato, restando in classe con noi solo alcune ore al giorno.

Nessuno aveva notato che l’insegnante di sostegno era entrata in classe assieme alla nostra compagna, poiché erano state molto silenziose ed avevano utilizzato la porta secondaria situata nell’ampio retro dello stanzone, di cui potevano usufruire in modo da poter entrare e uscire senza dover interrompere le lezioni con il loro passaggio, visto che la porta principale dell’aula era situata proprio alla sinistra dell’insegnante e di fronte agli alunni.

Ebbene, l’insegnante di sostegno, una donnina minuta e dall’aspetto gentile ma deciso, stava proprio segnalando Federico alla professoressa.

Vidi il mio nemico che, a pochi centimetri da me, era stato colto di sorpresa, e con rapidità si era lasciato sfilare il cellulare tra le mani, per poi spegnerne lo schermo e cercare di infilarlo all’interno della tracolla, ma ovviamente a quel punto non poteva più fare altro senza essere visto, poiché tutti quanti lo stavamo fissando.

La professoressa Carlucci, che era sempre stata più cortese ed accomodante nei confronti del nuovo arrivato, forse nel vano tentativo di farlo sentire più a suo agio in quell’ambiente nuovo, quella volta lo osservava con un’espressione attonita e colma di rancore talmente tanto sorprendente che ancora oggi la ricordo come se l’avessi avuta di nuovo di fronte a me.

Con lentezza, si mosse verso Federico, che se n’era rimasto totalmente spiazzato ed inerme, senza neppure più cercare di insabbiare i fatti, e allungò una mano, afferrando il cellulare. Osservò per un attimo il magnifico Samsung, mentre tutti i presenti se ne stavano in silenzio a gustarsi la scena, prima di parlare.

‘’Questo è sequestrato. Eravamo stati chiari sul fatto che in ambiente scolastico è severamente vietato utilizzare il cellulare, per qualsiasi futile motivo. Ora annoto l’evento nel registro, e per riavere il telefono dovrai far venire a scuola un tuo genitore, in modo che possa prendere atto del tuo atteggiamento scorretto e che possa parlare con me, la coordinatrice di classe’’.

Sentenza severa ed apparentemente inappellabile.

‘’Non è la prima volta che lo vedo mentre gioca col telefono. Anzi, l’ho visto quasi tutte le volte che sono venuta in classe’’, aggiunse l’insegnante che aveva segnalato il misfatto, quasi infierendo.

Federico si voltò indietro e la incenerì con un’occhiataccia, prima di tornare a fissare la prof Carlucci, ormai davvero molto irritata. Sapevamo tutti che era sempre parecchio severa, e che non si faceva problemi a rispettare il regolamento scolastico e a distribuire sanzioni appropriate ma pesanti. Tuttavia, si trattava di sanzioni giuste.

‘’Prof, sono maggiorenne. Me lo riprendo il telefono, mi metta pure una nota. E lei si faccia gli affari suoi, non è una mia professoressa!’’, concluse il furioso Federico, addentando l’insegnante di sostegno.

‘’Tu non puoi nulla. E non azzardarti a rispondere in questo modo agli insegnanti di questo istituto, o ti mando direttamente nell’ufficio della preside. Per quanto riguarda il resto, fai venire qui a scuola i tuoi genitori, perché ho come l’impressione che tu non ti stia comportando in modo corretto, in alcuni casi, e vorrei poter parlare a quattr’occhi con loro. Anzi, li vado a chiamare subito dalla segreteria’’, disse la professoressa, implacabile e senza lasciar parlare il colpevole, facendo cenno all’insegnante di sostegno di non rispondere in alcun modo alle provocazioni. Si doveva essere sentita presa in giro dal nuovo arrivato, e non l’avevo mai vista così tanto arrabbiata.

‘’No…’’, si lasciò sfuggire il mio nemico, con un ultimo rantolo colmo di disperazione.

La prof uscì nel corridoio, affidandoci per un attimo alla sorveglianza dell’insegnante di sostegno, ed andò a contattare Roberto e Livia.

Non mi sembrava vero; guardavo estasiato il mio nemico, per poi riabbassare gli occhi sui miei libri, per non farmi sfuggire un sorriso. Mi dispiaceva tantissimo per Roberto, ma ritenevo che quella fosse la giusta punizione per Federico, che dal canto suo rivolgeva occhiate furenti all’insegnante che l’aveva denunciato alla prof.

Per la prima volta dopo alcune settimane, per un po’ mi sentii meglio, crogiolandomi nell’ansia e nell’agitazione del figlio degli inquilini di mia madre, che tante volte si era mostrato perfido ed implacabile con me, e in quel momento gli stava venendo reso una minuscola parte del conto da pagare.

Mi sentivo perfido come non mai, ma quella volta non mi importava davvero. Avevo solo una gran voglia di sorridere.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Continuo a ringraziare chiunque stia seguendo e sostenendo il racconto. Davvero, grazie di cuore per la fiducia che riponete in me e nei miei scritti.

Ancora grazie, e buona giornata! A lunedì prossimo J

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

CAPITOLO 12

 

 

 

 

 

Le ripercussioni di ciò che era accaduto a Federico non tardarono a farsi sentire, in casa mia.

Roberto e Livia erano stati per davvero convocati dalla professoressa Carlucci, la quale, in qualità di coordinatrice di classe, aveva poi restituito il cellulare del figlio. Naturalmente, doveva aver detto loro qualcos’altro, che però non era giunto alle mie orecchie. E così, quel pomeriggio stesso, dopo aver prelevato da scuola il loro figlio, i due coniugi Arriga erano tornati a casa col vago intento di intavolare un leggero dibattito col ragazzo, che però era degenerato in un litigio tra loro due.

Federico, ribelle come sempre, li aveva piantati in asso fin da subito, e l’avevo potuto vedere sgusciare fuori di casa proprio mentre stavo per concludere il mio pranzo. Era ovvio che lui non aveva proprio nulla da dire ai genitori, che dal canto loro avevano cominciato a litigare.

Essendo rimasto l’unico presente in casa a parte loro in quel pomeriggio colmo di tensione, ne avevo approfittato per rinchiudermi nella mia stanza e lasciare il giusto spazio ai due adulti, che parevano voler litigare di brutto. Era la prima volta che in casa mia si teneva una discussione così, da quando mio padre se n’era andato.

Ricordavo vagamente, rimestando nei miei ricordi d’infanzia, che i miei genitori quando litigavano lo facevano in modo molto chiassoso. Ed io, povero bambino, andavo a rifugiarmi tra le braccia dei miei amati nonni, ben lungi dal voler prendere parte a quei litigi. Alla fine era sempre il nonno a mettere fine alle dispute, semplicemente andando ad intimare il silenzio.

Ciò funzionò per un ristretto periodo, poi mio padre ci piantò in asso.

Viceversa, i coniugi Arriga litigavano a bassa voce; la loro era una lotta che s’incespicava persino fin dentro al sentiero più difficile del litigio, ovvero quello di cercare di trovare un modo per tenere a freno il tono della voce. Ci riuscivano, ma i ringhi sommessi li potevo udire dalla mia stanza.

Quando i due cominciarono a discutere e a bisticciare nella loro stanza da letto, potei udire qualche frase frammentaria, che comunque mi permise di farmi un quadro preciso su ciò su cui stavano dibattendo in quel momento; Roberto voleva che Federico fosse meno libero di agire, e che gli fossero consegnati meno soldi tra le mani, mentre Livia pareva intestardirsi eccessivamente sul fatto che il suo amato figlio doveva aver commesso un errore, e che ciò non sarebbe accaduto più.

Secondo lei, sarebbe bastato solo continuare ad assecondarlo, in modo da non farlo inasprire ulteriormente, visto che dargli una lieve punizione avrebbe solo rischiato di far aggravare i suoi comportamenti egoisti e piuttosto veementi che ormai parevano essere riapparsi per dominarlo.

Udendo quei discorsi, mi venne da chiedermi chi fosse in realtà Federico, e quale fosse stato il suo passato. Mi chiesi anche come si fosse comportato nella scuola che aveva precedentemente frequentato, ma naturalmente non seppi darmi risposta.

Non volli ascoltare e curiosare ulteriormente nella privacy della famiglia Arriga, quindi li lasciai soli al piano superiore e mi fiondai a suonare un po’ il mio pianoforte, in modo da coprire con la musica quel lieve e rabbioso brusio che continuava a giungere alle mie orecchie ovunque mi trovassi.

Ci riuscii, per un po’, e non suonai neppure tanto bene, poiché la mia mente era concentrata solo su ciò che stava accadendo in casa mia, e percepivo tutta la tensione di quegli eventi, anche se non mi riguardavano in prima persona. Mi mettevano in ansia, poiché mi sembrava di rivivere una pagina della mia vita che credevo già superata.

Quando smisi di suonare, dopo non molto tempo, mi recai in cucina per bere un sorso d’acqua, e lì trovai Roberto che mi dava le spalle, mentre fumava nervosamente e stava appoggiato al davanzale della finestra aperta. In strada, la signora Arriga stava salendo sulla sua Panda giallina, e Federico era già seduto nel sedile del passeggero, a fianco della madre che si accingeva a mettersi la cintura e ad accendere il mezzo.

Non mi servì udire il rumore del motore dell’auto che si accendeva, per poi allontanarsi rapidamente; mi era chiaro che la signora aveva riacciuffato il figlio, ed assieme se n’erano andati.

Guardai amaramente Roberto, che non aveva dato cenni di vita, se non per portarsi la sigaretta alle labbra, e per un istante fui in procinto di dire qualcosa. Ma, ovviamente, mi morsi la lingua e lo lasciai lì, solo. Lui avrebbe trovato una parola per me, se la situazione fosse stata invertita, ne ero certo, ma proprio io non me la sentivo di fare nulla.

Mi diressi di nuovo nella mia cameretta, e, davvero dispiaciuto, feci ciò che avrei dovuto fare già il giorno prima, ovvero mandare un messaggino a Jasmine. Ciò non quietò il mio cuore colmo di dolore e d’inquietudine, però.

 

Mi ritrovai ancora sveglio a notte fonda, mentre fuori il vento tempestava la tapparella della mia stanza, abbassata ma brutalmente percossa. Non potevo smettere di pensare.

Avevo appena salutato Jasmine, augurandole la buona notte per messaggio. La ragazza si era dimostrata felice del fatto che io l’avessi contattata, ed avevamo chiacchierato tramite sms per tutto il pomeriggio e la serata, ed io ero entusiasta di ciò.

Nonostante tutto, non l’avrei rivista per più di una settimana; aveva le placche in gola, e la febbre le era salita ulteriormente nelle ultime ore. Però, ci saremmo sentiti per telefono, così come ci eravamo promessi, e questo mi bastava a farmi sentire più sollevato.

La situazione in casa era ancora angosciante, visto che Livia non era tornata, e neppure Federico. Roberto aveva cenato con me e mia madre, solo e ammutolito, per poi svignarsela in fretta in camera sua. Mia madre non aveva fatto domande, come suo solito, e, stanca morta, era andata a dormire pure lei. Ed io, in compagnia virtuale della mia Jasmine, ne avevo approfittato per studiare un po’.

In quel momento erano le ventitré e trenta, Jasmine mi aveva salutato ed avevo finito di studiare, ma io non avevo sonno per nulla. L’unica mia consolazione era che l’indomani non ci sarebbe stata la scuola, visto che era sabato notte.

Ero angosciato e disperato, e mi dispiaceva infinitamente per Roberto, ma d’altronde non potevo proprio fare nulla per lui.

Decisi di spezzare il mio turbamento notturno andando a fare un giretto in bagno, al piano inferiore, in modo da fare quattro passi e cambiare aria per un paio di minuti, sperando che fosse la soluzione giusta a quella mia sorta d’insonnia.

Mi diressi quindi prontamente al piano inferiore, scendendo le scale nel modo più silenzioso possibile, per poi raggiungere la toilette. In realtà, non avevo particolari bisogni, e mi ero già accontentato della mia escursione notturna ed ero nuovamente pronto per ritornare nella mia stanza, ma notai che la porta della saletta del mio rifugio era aperta e illuminata da una luce soffusa che si propagava per una parte del corridoio centrale.

Non capii subito, e temendo qualche brutta sorpresa mi diressi subito verso la mia stanza preferita, che conteneva il mio adorato pianoforte.

‘’Antonio? Sei tu?’’, la voce di Roberto mi giunse senza che io avessi ancora avuto il tempo di affacciarmi sulla porta.

Mi rilassai lievemente, sapendo che c’era lui all’interno della stanza, e feci il mio ingresso, incurante del fatto che stessi indossando un pigiama ridicolo.

L’uomo aspettava il mio ingresso, e non appena entrai i suoi occhi erano già puntati su di me.

‘’Sì, sono io, come puoi vedere’’, gli risposi, guardandomi attorno.

Mi ritrovai immerso in un’atmosfera surreale, e non potei non restare stupito da ciò che avevo davanti ai miei occhi; l’abatjour era accesa, e la sua luce fioca illuminava la stanza ricreando quei magnifici tratti d’ombra che tanto adoravo, mentre la superficie del mio pianoforte mandava tenui bagliori, a seconda di come mi muovevo all’interno della camera.

Ma a sorprendermi di più fu il fatto che, quando mi trovai di fronte a Roberto, vidi che stava fumando. Non una delle sue classiche sigarette del tabaccaio, bensì una pipa. Un’autentica pipa.

Soffocai per un attimo il moto di ribrezzo che stava per spingermi ad urlare addosso al mio inquilino per come si stava comportando nella mia saletta, visto che stava fumando al suo interno ed io odiavo l’olezzo del fumo, senza contare che era entrato senza avvertirmi e senza avere il permesso.

Decisi di non concentrarmi sull’atteggiamento scorretto dell’uomo, quindi, per lasciare fluire la mia sorpresa.

‘’Mi dispiace se mi sono rintanato qui dentro, a fumare. Ti chiedo umilmente scusa, ma davvero, avevo bisogno di farlo e, come ben sai, non potevo uscire in giardino o riempire di fumo mezza casa o la cucina’’, mi disse Roberto, come se avesse inteso il mio disappunto.

Me ne restai imbambolato a fissarlo. I suoi occhi erano socchiusi, il suo viso rotondeggiante appariva stanco e distrutto, le sue mani si tormentavano a vicenda, per poi sfiorare periodicamente la pipa, quell’oggetto che era la prima volta che vedevo in casa mia.

In quel momento lo vidi in tutta la sua debolezza, che trasudava da ogni suo poro. Un ometto così piccolo, più basso rispetto alla media, e così tormentato non poté non smuovere dentro di me un moto di compassione, e per un istante desiderai di dirgli qualcosa di rassicurante, oppure sfiorargli leggermente una spalla, facendogli capire col mio tocco che percepivo il suo dolore. Ma ero e sono tuttora un ragazzo molto freddo, che difficilmente riesce ad esternare ciò che prova, anche per via della mia innata timidezza, quindi non feci nulla, mio malgrado.

‘’Lo so che sono stato maleducato, ma ti prego di capirmi. Ti va di sederti qui con me e di fare quattro chiacchiere? Tanto noto che gironzoli per casa in preda all’insonnia’’, mi disse poi, notando il mio silenzio ed indicandomi la sedia a fianco della poltroncina.

‘’Va bene. Certo, non riesco proprio a prendere sonno questa sera…’’, mormorai, per nulla dispiaciuto dall’invito ricevuto. Però, prima di sedermi, andai ad aprire la finestra, lasciando che l’impetuoso e fresco vento autunnale entrasse a ripulire un po’ l’aria carica di fumo della stanza.

‘’Il vento ci porterà via pure noi, se lascerai la finestra aperta’’, mi disse ironicamente Roberto, guardando la finestra che avevo appena spalancato.

Scrollai le spalle, ma effettivamente l’uomo non aveva tutti i torti, poiché le furiose raffiche a volte entravano all’interno della stanza e parevano volerla strapazzare fin nel suo angolo più nascosto, ma in fondo non aveva importanza per me, visto che gli spartiti e tutto ciò che poteva prendere il volo e cadere a terra erano già tutti dentro al piccolo mobile a fianco del pianoforte, ben chiusi e al sicuro.

‘’Mi dispiace per ciò che è accaduto oggi’’, gli dissi, senza preamboli. Mi sembrava il momento giusto per esternare il mio dispiacere, senza se e senza ma, evitando ogni tentennamento.

Incredibilmente, Roberto posò la sua pipa sul tavolino che aveva di fronte e mi sorrise.

‘’Oh, non devi preoccuparti. Torneranno prima di quanto tu possa credere’’.

Dal sorriso che mi mostrava, e dall’espressione delusa che aveva ben impressa sul volto, capii che quella non doveva essere stata la prima volta che un fatto così accadeva in casa Arriga.

Chinai il capo, poiché non avevo altro da aggiungere, visto che il mio interlocutore pareva proprio non aver tanta voglia di proseguire quel discorso, e a me non sembrava giusto cercare di andare più a fondo. Avevo svolto la mia parte da persona educata, dichiarando il mio dispiacere, e se lui avesse voluto continuare a parlarne l’avrebbe fatto da sé. Non era una vicenda che mi riguardava, e ci tenevo comunque a farmi i fatti miei.

‘’Ti piace davvero tanto la mia pipa, eh?’’, mi chiese Roberto, rompendo quel breve silenzio che era sceso tra noi.

Mi resi conto che, senza volerlo, avendo abbassato lo sguardo esso poi si era posato sulla pipa appoggiata sul tavolino, ormai senza più vita. Il tabacco al suo interno non bruciava più, e il mio interlocutore doveva aver smesso appositamente di fumarla, scorgendo il disappunto che provavo per il fumo.

‘’Sì, non ne avevo mai viste di così belle, fino ad ora’’, gli risposi, riscuotendomi e notando che Roberto stava abilmente sviando la discussione verso altri lidi, rispetto a quello più delicato appena sfiorato poco prima.

La pipa mi sembrava più grande del normale; non che io fossi un esperto di quegli oggetti, ma la sua dimensione mi colpiva. Inoltre era anche tutta elaborata, pareva quasi intarsiata da piccole figure geometriche che, nella penombra, non riuscivo a scorgere bene.

‘’In realtà, non avevo mai visto nessuno neppure ad utilizzarla’’, aggiunsi, un istante dopo.

Roberto si lasciò sfuggire un sospiro.

‘’Questa è un’eredità che mi ha lasciato mio padre. La utilizzava lui, per fumare logicamente, preferendola anche ai sigari’’, disse poi, raccogliendo tra le mani il suo oggetto ed avvicinandoselo al viso, quasi come se stesse per sottoporlo ad un qualche esame visivo. Strinse ulteriormente gli occhi.

‘’Capisco’’, mi limitai a dire, non sapendo bene che altro aggiungere.

Un piccolo sbadiglio interruppe i miei pensieri.

‘’Non era un bravo genitore, sai. No, mi spiego meglio, altrimenti sembra che io fossi entrato in contrasto con lui; diciamo che era bravo, diligente e perspicace, ma non molto buono e paziente con me, suo unico figlio. Però mi ha lasciato tanti ricordi… non tutti spiacevoli’’, aggiunse nuovamente Roberto, senza alzare lo sguardo dalla sua pipa, che continuava a rigirare tra le mani. Sembrava che non prestasse neppure più caso alla mia presenza, ma che stesse parlando solo perché aveva bisogno di farlo, forse anche per sfogarsi.

‘’Io sono anni che non sento mio padre. E ammetto che non mi manca molto e neppure mi dispiace di ciò’’, dissi, lasciandomi andare pure io.

‘’Non avete un buon rapporto?’’, mi chiese il mio interlocutore, ancora con gli occhi fissi sulla pipa.

‘’No, credo di non piacergli per nulla. Non mi ha degnato mai di un’attenzione neppure quando ero piccolo’’.

Roberto sospirò di fronte alle mie parole, e parve tornare in sé per un momento, riappoggiando la pipa sul tavolino e sistemandosi meglio gli occhiali sul naso, prima di tornare a guardarmi.

‘’Mio padre era molto rigido, ed aveva un’idea ben precisa su come educare al meglio un figlio. Diceva che un paio di rami a volte valevano più di una carezza, e questo era la base del suo metodo educativo.

‘’La sua stagione preferita era l’autunno, poiché era proprio durante essa che poteva mettere in pratica al meglio il suo punto fisso, approfittandone per creare uno strumento che lui stesso chiamava treccina. In pratica, andava tra i filari della nostra vigna a potare le viti, e ogni sera al suo ritorno a casa si portava sempre con sé una treccina nuova e fresca, molto flessibile, poiché creata dall’abile intreccio manuale di tre rami di vite recisi durante l’operazione della potatura.

‘’Ebbene, stringendo una lunga treccina tra le mani, voleva vedere i miei risultati scolastici di quella giornata; se gli mostravo note, votacci o altro di negativo, la treccina poi si tramutava in un doloroso frustino. Giuro che quei rami lasciavano dei segni sulla pelle in grado di far male per ore… ma dopotutto si trattava solo di colpi molto superficiali, e la mattina successiva non si notava più nulla sulla mia pelle. Come se non fossi mai stato colpito…’’.

Roberto aveva continuato a parlare rivolgendosi a me, ma guardando verso la finestra aperta. Fuori, quel vento stranamente tiepido per la stagione pareva percuotere la casa proprio come la treccina di cui mi aveva appena parlato il mio interlocutore, ed io lo fissavo sbalordito, senza dire nulla.

‘’Tuttavia, l’aspetto simpatico della vicenda era che la treccina si assomigliava davvero alla treccia di una ragazza, se vista da vicino. Mio padre era un’artista quando si trattava d’intrecciare sfalci di viti.  Inoltre, anche se il metodo era molto doloroso per me, oserei dire che funzionava; infatti ci misi davvero poco a diventare uno studente modello.

‘’Non gli diedi molte insoddisfazioni, e neppure problemi, anche se fino al giorno della sua morte mi ha sempre rinfacciato il fatto che avesse investito molti soldi sul mio studio, ed io invece di trovare uno spazio per me non sono mai riuscito a percorrere una strada soddisfacente e redditizia. Penso che avesse ragione anche lì.

‘’Oh, era davvero un vecchio orso, rigido come buona parte dei genitori di quel tempo, ma a volte aveva ragione. Voi della vostra generazione siete più fortunati; i genitori vi accontentano in tutto e per tutto, e in un modo o nell’altro siete tutelati… io e molti miei coetanei ci siamo beccati solo cinghiate, a volte. Una sola occhiataccia paterna ci faceva zittire, e non c’era tanto margine di discussione…’’, continuò a dire l’uomo, con lo sguardo vacuo e fisso altrove, lontano da me.

Ebbi come l’impressione che Roberto, con quelle ultime parole sofferte e pronunciate lentamente, non senza omettere piccole pause, volesse riferirsi alla prepotenza e all’insoddisfazione continua del figlio. Federico infatti non faceva altro che chiedere denaro e far ciò che più gli pareva, senza volerne render conto a nessuno e senza far nulla, neppure a scuola.

‘’E tua madre? Non diceva nulla, a riguardo dell’utilizzo della treccina?’’, chiesi, lasciando da parte la mia solita timidezza ed azzardando una domanda forse troppo intima.

‘’Mia mamma ci ha lasciati molto prima del tempo, purtroppo. È morta quando avevo solo cinque anni, la sua vita è stata stroncata prematuramente da un tumore non diagnosticato in tempo, come accadeva spesso mezzo secolo fa. Non c’era molta prevenzione, e neppure molte cure disponibili…’’.

Roberto tornò a fermarsi. Guardandolo, notai che aveva gli occhi lucidi. Non mi aspettavo che riprendesse a parlare, tanto che per uscire da quel momento troppo intimo e doloroso mi alzai e mi diressi a chiudere la finestra, ancora aperta, visto che non c’era rimasta più alcuna traccia dell’odore del fumo all’interno della stanza.

‘’A volte mi sono chiesto come sarebbe stata la mia infanzia se lei fosse stata al mio fianco ed avesse avuto modo di crescermi. Ma la risposta che mi do è sempre la stessa; le cose sarebbero state esattamente come sono andate.

‘’Nell’unico barlume di ricordo che ho rimasto di lei, mi sembra sempre di scorgere una donna in preghiera. Non credo che quel mio lontanissimo ricordo infantile sia stato manipolato dal passare del tempo, poiché guardando alcune vecchie foto in bianco e nero che mi sono rimaste di lei, ho notato che essa stringe sempre un rosario tra le mani, con lo sguardo rivolto leggermente verso terra, come se fosse immersa nella preghiera anche durante il momento dello scatto. Pure mio padre mi diceva sempre che mia madre pregava tanto, ma davvero tanto, e quando era in vena diceva che l’avrebbero dovuta far santa.

‘’I miei genitori venivano dal sud della penisola, ed erano molto credenti, mia madre fin quasi alla follia, oltre ad essere una donna totalmente devota e obbediente al volere del marito. Penso che, quindi, alla fine si sarebbe limitata a pregare, che so, magari per la mia anima e per il mio bene, ma non avrebbe detto una parola per fermare la mano che dava la forza alla treccina per abbattersi sui miei polpacci, o sul mio fondoschiena’’, concluse Roberto, con la voce leggermente incrinata dall’emozione.

Io nel frattempo avevo richiuso la finestra, ed ero tornato a sedermi, pendendo dalle sue labbra ed apprezzando il suo racconto, che aveva il gusto di quei discorsi che vengono effettuati a mezzanotte, di quelle caterve di frasi che, poi, alla luce del giorno non sarebbero mai potute venire fuori in modo così fluido.

Sapevo che il mio interlocutore in realtà in quel momento non era molto interessato a me come ascoltatore, ma più che altro voleva tirar fuori alcuni ricordi brucianti della sua infanzia a mo’ di sfogo per tutte le ingiustizie che aveva sopportato in giovane età, e per quelle che stava subendo anche in quei giorni nelle vesti di padre, e non più di figlio. Nonostante tutto, fin lì potevo capirlo.

‘’E tu? Sei molto credente?’’, gli chiesi, dolcemente.

Non so perché mi venne da porgli quella domanda, ma mi appariva consona al momento. La mia mente era avvolta dalle nebbie sinergiche di quella stramba notte, ed ormai ero rimasto intrappolato lì, in quella stanza ed in compagnia di quell’uomo che solo un mese prima non sapevo neppure che esistesse, ascoltando la sua storia e i suoi vari pensieri.

Roberto, tuttavia, udendo la mia domanda dapprima parve sorpreso, poi rise, sempre più forte, prima di stopparsi e di tornare improvvisamente serio. In quell’ambiente così soffusamente illuminato e pieno di ombre, i miei occhi annebbiati facevano fatica a cogliere tutto e l’atmosfera da piacevole si stava tramutando in una vaga e generale sensazione d’inquietante.

‘’Mi piacerebbe esserlo, mi piacerebbe davvero tanto. Ma sono in linea coi tempi, non sono un essere anacronista’’, mi rispose, sempre continuando a restare serio.

Ammetto che non capii quello che voleva dirmi, e anche se non aggiunsi nulla a parole, gli rivolsi uno di quegli sguardi perplessi tipici di chi non ha compreso bene qualcosa, ma che comunque non vuole approfondire il discorso. Tuttavia, Roberto colse il mio sguardo sperduto e lo rese uno stimolo per proseguire ciò che aveva appena accennato.

‘’Per i pagani, più di duemila anni fa, credere negli dei era importante, ma in fondo se ci pensi bene i romani avevano tantissime divinità, concepite allo stesso modo degli umani. Divinità permalose, sempre in lotta tra loro, gelose… e ciascuna famiglia, ciascun ceto sociale e ciascuna singola professione aveva la propria divinità protettrice, alla quale si rivolgevano la maggior parte dei sacrifici e delle attenzioni.

‘’Il mondo pagano era variegato da migliaia di piccole sfumature, e quello romano derivava dalla fusione di varie culture e religioni del Mediterraneo, anche se prevalentemente basato sul pantheon greco. Infatti, mentre l’impero espandeva i suoi confini, esso assimilava culture e trovava nuove divinità, basti pensare al dio Mitra, una divinità orientale che in breve tempo riuscì a trovare migliaia di adepti tra i soldati romani, sempre in cerca di nuove forze protettrici. Oppure al culto di Iside.

‘’Il paganesimo e i suoi vari culti precedenti al cristianesimo includevano quindi religioni che si rivelavano utili alla vita di tutti i giorni, religioni aperte e in grado di assimilare altri dei e di essere quasi sovrapponibili l’un l’altra; scovare nuove divinità sconosciute al proprio popolo non era blasfemia, ma era concepito con un aspetto colmo di curiosità, di voglia di conoscere, e ciò era in linea coi tempi.

‘’Così parzialmente accadde col cristianesimo; dopo la morte di Cristo, il messaggio religioso ed evangelico solcò il Mediterraneo e si sparse in fretta in tutti gli angoli dell’impero. Stranamente, i romani iniziarono una dura repressione contro questo nuovo culto, proveniente dalla Giudea, poiché esso era adorato soprattutto dagli schiavi e dai plebei, dai più poveri in generale, passando un messaggio di pace e di uguaglianza che non faceva affatto comodo ai più ricchi e ai patrizi.

‘’Ben presto, il cristianesimo divenne l’unica religione riconosciuta dell’impero, e gli stessi imperatori furono battezzati e divennero adoratori della Croce, riconoscendo che il messaggio di questa religione era il più consono con i tempi, che stavano rapidamente cambiando. Infatti, i barbari stavano cominciando a varcare i Limes, il Reno e il Danubio non erano più frontiere stabili, e gli antichi numi parevano essersi eclissati, lasciando quindi soli i romani a combattere contro esseri umani sconosciuti, provenienti da steppe lontane e violenti fino all’inverosimile. E allora il nascente clero cominciò a prendere potere, l’impero romano d’Occidente cadde e la Chiesa divenne l’unica protettrice di una parte di mondo che stava venendo travolta.

‘’I primi papi pagarono per sviare le aggressioni dei barbari pagani, per poi mandare componenti del fresco clero tra di loro, cercando di convertirli, cosa che col tempo riuscì parzialmente bene. I malanni del corpo, in primis le pestilenze e altri morbi, uccidevano a frotte le persone, e allora, di fronte a malanni incurabili e ad una povertà insostenibile, la gente pregava Dio, e ciò quindi era in linea coi tempi. Di fronte poi alla miseria del Medioevo, ai soprusi dei feudatari, alla violenza del barbari e alla dolorosa morte giovanile causata dalla peste, l’essere umano Occidentale non poteva far altro che pregare, che credere nel Signore Onnipotente’’.

Senza smettere di guardarmi, Roberto aveva concesso una pausa al suo lunghissimo discorso. Non sapevo bene dove volesse andare a parare, ma non potevo non ascoltarlo senza rivolgergli tutta la mia attenzione; mi pareva ovvio che in quel momento si era rimesso addosso gli abiti del filosofo, nonché dell’insegnante, e con parole semplici stesse cercando di farmi capire qualcosa di molto complesso, derivante da millenni di sviluppo del sapere umano.

‘’Del resto, poi, sappiamo tutti com’è andata; il male fisico, il bisogno di protezione, l’abbandono e la paura spingevano le persone tra le braccia della Chiesa e di Dio. Fin dal Medioevo chi faceva parte della Chiesa aveva numerosi vantaggi; il cibo non scarseggiava, e si era relativamente potenti e protetti, senza contare che i primi vescovi convivevano tranquillamente con donne, dalle quali avevano figli. Poi, il vizietto si estese anche fin dentro al Vaticano, in seguito, ma questo non importa, poiché non voglio deviare il discorso dal mio obiettivo principale, ovvero quello di farti capire che il credente ha creduto fintanto che non ha avuto altre valide alternative.

‘’Dalla fine del Medioevo fino a metà del Novecento, la povertà e le guerre tremende hanno terrorizzato buona parte del mondo, e pensa che effetto che avevano sui poveri soldati, che durante le guerre mondiali partivano per il fronte senza sapere se sarebbero mai tornati a casa! Pensa a quest’ultimo esempio; un pover’uomo, semplice contadino quasi analfabeta, che non aveva neppure finito le scuole elementari, veniva mandato a combattere praticamente disarmato contro granate e un vasto assortimento di artiglieria pesante, senza molte prospettive di ritorno e tra mille e più atrocità. E allora, che altro poteva fare per sperare nella salvezza della sua vita e in un possibile ritorno a casa, se non pregare Dio?’’.

Altra piccola pausa.

 Annuii, facendogli intendere che seguivo il suo discorso.

‘’Al giorno d’oggi, per fortuna, nella nostra Italia non ci sono più guerre. In compenso ci sono medici, scienziati, studiosi di ogni sorta… anche se c’è la crisi economica, nessuno pensa più che per risolvere i problemi monetari o per guarire da una qualche malattia serva mettersi tra le mani di Dio. Nessuno prega più Dio perché esso è stato accantonato, e nel mio piccolo ho fatto altrettanto.

‘’Dio ha perso il suo significato, cioè quello di essere protettore, assieme ai suoi adepti umani. Chi sceglierebbe di non farsi curare e visitare da un medico, per mettersi tra le mani di Dio, magari pregando? Sarebbe una scelta folle. E d’altronde, quando questo semplice concetto di protezione vien meno, una religione vacilla. E una religione non c’è più, qui’’, concluse, alzando l’indice verso il cielo.

Scossi la testa. Non mi trovavo d’accordo, o, perlomeno, mi trovavo d’accordo ma solo parzialmente.

Roberto doveva essere nervoso, e doveva aver parlato troppo e in modo vistosamente confuso, non rispettando i limiti di un discorso civile. Non seppi perché, ma mi ritrovai ad essere irritato.

‘’Tu quindi vuoi dirmi che per te Dio è come se fosse morto, al giorno d’oggi? Mi hai fatto un excursus storico per voler affermare che il concetto religioso è stato concepito solo per avere una sua utilità… ma io non mi trovo d’accordo. Si può credere ugualmente anche oggigiorno, e magari ciò non significa che si debba compiere scelte estreme e sconsiderate, magari rifiutando l’evoluzione del pensiero scientifico, ma soltanto vivere la propria religiosità in modo più pacato. Penso quindi che il tuo discorso abbia uno sfondo amaro, ingiusto…’’, mi ritrovai a dire, sorpreso da me stesso.

‘’Hai ragione. Parlo così solo perché io stesso mi sento abbandonato da Dio… abbandonato da tutti. Deluso dalla mia vita’’.

L’ammissione rapida dell’uomo mi fece capire che soffriva, nel fondo del suo cuore, per quello che era accaduto durante la precedente giornata. Poi, da fianco della sua poltroncina estrasse una bottiglia, che non avevo notato fino a quel momento, e con cura si versò un po’ del suo contenuto all’interno di un bicchiere appoggiato sul tavolino. Si trattava di un qualche liquore giallino, non seppi capire bene di quale si trattasse, e non m’importava neppure.

Mi ritrovai a capire in fretta che quello non era il posto per me; Roberto mi aveva irritato col suo modo di comportarsi, effettivamente scorretto fin dall’inizio, fin da quando aveva preso possesso della mia stanza per fumarci liberamente al suo interno e berci alcolici, per poi cercare di farmi una mezza ramanzina quando io gli avevo posto solo una domanda educata a cui sarebbe bastata una breve risposta. Senza contare che, in tutto il suo excursus storico inutile e confuso, appariva una componente aggressiva, e comunque annichilente.

Notando che forse doveva essere anche alticcio, non mi pareva più opportuno restare in sua compagnia. Non m’importava se soffriva, avrebbe dovuto comportarsi in modo più corretto.

L’uomo dovette notare il mio sguardo carico di disappunto, che vagava tra il suo viso, il bicchiere colmo di un qualche liquore e il pacchetto di sigarette posizionato a fianco della pipa, e mi guardò con un interesse parziale, quasi superficiale.

In un attimo, mi fece schifo. Non seppi cosa mi spinse a detestarlo così rapidamente, penso sia stata l’ora tarda, la notte confusa e l’atmosfera carica di energie negative che permeavano la stanza, quel mio rifugio immacolato che era stato irrimediabilmente sporcato da tutti quei comportamenti scorretti.

‘’Ora ho sonno, vado a dormire’’, sbottai, alzandomi improvvisamente dalla mia sedia e dirigendomi subito verso la porta. Credo che lui avesse voluto fermarmi, in quel momento, eppure mi lasciò andare e non mi rispose.

Salii al piano superiore, deluso e sconfortato un po’ per tutto, e mi rimisi sotto le mie coperte, ben barricato nella mia camera da letto, preparandomi ad affrontare quella lunga nottata insonne. Ma, nonostante tutto, attorno alle tre del mattino riuscii a prendere sonno e ad addormentarmi.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo.

Mi spiace, Roberto finora era rimasto il personaggio più ‘’perfetto’’ del racconto, quasi immacolato, ed io ho voluto offrirvene anche uno spaccato più umano, diciamo così.

Ci stiamo preparando ad addentrarci sempre più nel fulcro del racconto e spero che la vicenda continui ad essere interessante. Non è facile scrivere un racconto che tratti della quotidianità di una persona, me ne sto rendendo conto sempre più.

Grazie di cuore per aver letto anche questo capitolo, e un grazie ancora più intenso e particolare a tutti coloro che mi lasciano sempre un loro gentilissimo e graditissimo parere. Grazie!! Siete la mia forza!

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo J

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

CAPITOLO 13

 

 

 

 

 

La mattina successiva alla mia strana discussione con Roberto, mi alzai che erano quasi le undici. La tempesta autunnale che aveva flagellato la mia casa per tutta la notte pareva essersi placata, e un sole tiepido scaldava lievemente l’aria umida e fresca di quella domenica di metà ottobre.

Mi vestii in fretta, ma tentennai quando mi trovai di fronte alla porta della mia stanza, poiché uscire da essa significava anche correre il rischio di rivedere il mio inquilino. E questo mi dava un po’ fastidio; mi frullavano ancora per la testa le sue parole, e rivedevo vividamente ciò che faceva nella stanza del mio pianoforte, all’interno del mio rifugio dal mondo.

Ero nervoso, non potevo nasconderlo. Tuttavia decisi di non farmi drammi mentali, cercando di non rovinarmi fin da subito quel prezioso giorno festivo.

Scesi quindi al piano inferiore e mi diressi verso la cucina ostentando una certa tranquillità, anche se dentro di me ero tutt’altro che tranquillo. Comunque non incontrai nessuno, visto che molto probabilmente mia madre doveva già essersi recata nella vicina chiesa per assistere alla Messa e Roberto… beh, non sapevo dove fosse. Non mi restava altro da fare che sperare che fosse andato a letto, e che lì fosse rimasto.

Non riuscii a trattenere oltre la mia curiosità e il mio nervosismo, e, deviando la cucina, mi diressi prontamente verso la mia saletta e il mio pianoforte. Temevo di trovare qualcosa in disordine, o almeno della puzza di fumo, dopo tutto quello che era accaduto durante la nottata.

Con il cuore in gola, aprii la porta, e sobbalzai; incredibilmente, già ad una prima sbirciata la stanza appariva perfettamente in ordine, anzi, addirittura più linda del giorno precedente. La tapparella era alzata, e la luce entrava soffusa al suo interno, mentre l’aria odorava di pulito, e non aveva alcun olezzo strano o di tabacco.

Mi azzardai ad entrare, timidamente, mentre con lo sguardo sfioravo ogni oggetto, addirittura soffermandomi ad osservare per un attimo il tavolino su cui il mio inquilino aveva paciugato con la sua pipa, quello strambo attrezzo che mi aveva donato curiosità e repulsione assieme. Pure quello era pulitissimo.

Alla fine, passandomi una mano sul volto, fui costretto a riconoscere che le tracce della chiacchierata e di quella sorta di avventura notturna erano rimaste solo nella mia mente, poiché nella mia saletta regnava un ordine impeccabile ed assoluto, come se nessuno ci avesse mai fumato al suo interno, e come se la sua finestra non fosse mai rimasta aperta per almeno mezz’ora mentre le raffiche di vento di una rabbiosa tempesta entravano al suo interno, martoriandola.

‘’Mi sono soffermato a ripulire e a risistemare la stanza, questa mattina. Spero di aver fatto un buon lavoro’’.

La voce di Roberto mi colse alla sprovvista, e involontariamente mi voltai a fissarlo; non avrei voluto, ma fu più forte di me.

L’uomo mi aveva raggiunto di soppiatto, piantandosi nel bel mezzo della porta e fissandomi con uno sguardo stanco. Due leggere occhiaie attirarono la mia attenzione, e senz’altro mi sarei aspettato di vedere anche qualche ruga sul suo viso, ma esse dovevano essere state abilmente nascoste dalla fitta peluria della barba, che regnava su buona parte del suo volto.

‘’Era il minimo che potevi fare…’’, mi lasciai sfuggire, amaramente. Ma d’altronde non trovavo altro di meglio da dirgli, in quel momento.

Roberto a quel punto mi sorprese ulteriormente, poiché con una rapidità incredibile si mosse verso di me, afferrando il mio braccio sinistro. Non provai paura, né timore, e in modo irritato fissai il mio sguardo sulla sua mano, che toccava gentilmente il mio braccio, senza stringere troppo ma facendomi sentire il suo calore. Mi pareva chiaro il suo scopo, ovvero attirare tutta la mia attenzione.

‘’Antonio, ti devo davvero chiedere scusa. Perdonami! Questa notte mi sono comportato in modo scorretto con te, riversandoti addosso le mie parole stupide e vuote, insensibili ed inutili. E tu non hai colpa di nulla… in più ho anche invaso i tuoi spazi più privati. Ti giuro che mi vergogno tantissimo per quello che ho fatto, e ci sto malissimo’’, mi disse, mentre sentivo il peso del suo sguardo sul mio viso. Non lo fissai, preferendo indugiare sulla sua mano.

‘’Capisco’’, gli risposi, vago.

La sua mano era grossa e lievemente arrossata sulle nocche, una mano da vero contadino, eredità forse ricevuta dal padre, con qualche pelo nero come la notte che le spuntava sul dorso. Pareva incredibile, ma in quel momento preferii sostare sul suo arto, invece di affrontare il suo viso.

Allora, notando il mio indugio, lui lasciò che la sua mano scivolasse lontano da me, di nuovo sui suoi fianchi, e non mi rimase altro che puntare i miei occhi sul mio pianoforte.

‘’Ti prego! Così non mi rassicuri’’, tornò a dirmi, a bassa voce.

‘’Non capisco cosa vuoi da me’’, gli dissi, freddo e distante. Non seppi mai del perché del fatto che la mia mente in quell’istante tanto delicato mi spingesse a comportarmi in un modo tanto distaccato, eppure ciò funzionò solo a metà, poiché il mio interlocutore era tenace.

‘’Voglio solo il tuo perdono. Voglio solo che tu mi dica che hai perdonato il mio comportamento errato, e che hai dimenticato le mie parole scorrette’’, mi rispose, in fretta. Poi, sospirò.

‘’Senti, nella vita non va tutto sempre come vorresti. Nella mia poi, beh, nulla è andato per il verso giusto. È andato tutto storto, e nonostante il fatto che io cerchi sempre di mantenere un buon autocontrollo, prima o poi anche il mio essere interiore vacilla. E tu non sai quanto io sono debole dentro, anche se ormai ho una certa età e dovrei essere ampliamente vaccinato per ogni situazione. Mi spiace, sono umano ed ho sbagliato, e tu sei un ragazzo buono, meritevole, nonché l’unica persona di questo mondo che si degna di ascoltarmi, di dedicarmi un attimo di attenzione, di suonare qualcosa per me, di dialogare con me… e tu non sai quanto ciò valga per la mia povera mente solitaria! Ed io ho rischiato di rovinare tutto… mi spiace. Per tutto, lo giuro. Mi dispiace’’.

Lo guardai, a quel punto. I suoi occhi erano socchiusi, lucidi. Era davvero dispiaciuto, e appariva come mortalmente addolorato.

In quel momento, il muro d’irritata freddezza che la mia mente aveva messo abilmente in piedi vacillò definitivamente, vedendo quell’uomo ormai maturo che si scusava così tanto con me, in modo sincero e sentito. Riconobbi il suo coraggio, e ripudiai mentalmente le parole che aveva pronunciato poco prima su di sé; per me lui era un leone, un vero forte. La parola scusa e la capacità di riconoscere i propri errori erano i segreti dei veri re, quelli dei giusti. E lui ormai era diventato di certo una sorta di pacifico re, ai miei occhi.

Non mi trattenni oltre e l’abbracciai, proprio come avrei voluto fare tante volte con mio padre, con impeto e calore.

‘’Giuro che sei perdonato’’, gli dissi, dandogli poi una lieve pacca sulle spalle.

Roberto, rimasto scosso dal mio abbraccio e dal mio comportamento, mi guardò di nuovo con quei suoi occhi scuri, supplichevoli ma pieni di energia.

‘’Sei un ragazzo d’oro, Antonio. Il tuo cuore è indubbiamente puro e nobile. Grazie per avermi permesso di conoscerti un po’ ‘’, mi disse con gentilezza.

Io ero commosso di fronte alle sue parole e al suo atteggiamento remissivo. Era come se mi stesse dicendo apertamente che per lui valevo qualcosa, e anche tanto, e questo non poteva non rallegrarmi. Ma non aggiunsi altro alle sue parole, e mi limitai ad arrossire debolmente e ad abbassare lo sguardo, come ogni volta in cui la mia timidezza tornava a farsi viva.

‘’Sai, ho pensato a una cosa prima, mentre aeravo e rimettevo in ordine la stanza. Per farmi perdonare, volevo chiederti se ti andasse, una delle prossime domeniche, di venire con me a pescare. Noto che non esci mai da questo paesetto, e mi farebbe piacere portarti con me a fare una scampagnata… se vuoi, eh’’, mi propose l’uomo, anche lui leggermente imbarazzato.

‘’Certo. Non sono in grado di pescare, e non mi piace neanche come attività, se devo essere sincero, però non mi dispiacerebbe uscire un po’ da queste due mura e queste quattro strade’’, mi affrettai a dire, annuendo con la testa. In realtà non sopportavo la pesca, per il semplice fatto che vedere quei poveri pesciolini mentre morivano sotto ai miei occhi mi faceva davvero sentire in colpa, ma comunque uscire un po’ non mi dispiaceva affatto.

Accettai la proposta di Roberto, riconoscendo che forse non sarei stato in grado di rifiutare ogni altra sua idea, visto in che modo dolce si stava comportando con me.

Giuro che in quel momento il mio vile e basso rancore che avevo provato nei suoi confronti fino a poco prima si tramutò in qualcosa di più digeribile, in una sorta di piacevole interesse. Se ricordavo ciò che era accaduto durante la notte, in quell’istante mi si parava davanti una figura più umana, una figura fragile che Roberto non aveva mai mostrato in precedenza, rendendomi quindi conto che forse nella mia mente mi ero costruito un’immagine distorta dell’uomo, e che forse l’avevo voluto rendere più forte del previsto.

Mi resi quindi conto di apprezzarlo per davvero, e non nascondo neppure che avrei tanto desiderato che la proposta fattami poco prima da lui fosse uscita dalla bocca di mio padre con altrettanta cortesia, quand’ero più piccolo. Ma mentre il mio genitore non mi aveva mai degnato di attenzioni, e non si era mai rivolto a me con altrettanta gentilezza, Roberto si era comportato come avrei voluto che mio padre facesse.

Stavo svolgendo un ragionamento contorto e pericoloso, nella mia mente; mi ritrovai ad adorare quell’uomo che mi stava davanti senza mezzi termini, riversando un sacco di mie attenzioni sulla sua figura, accorgendomi che in fondo mi ero affezionato a lui. Smisi di pensare in fretta, deviando il mio sguardo fuori dalla finestra, immergendolo nel tiepido bagliore del sole autunnale.

‘’Grazie, sarò davvero felice di farti conoscere un luogo che non hai mai visto! Ti garantisco che andremo in un bel posto, promesso. Tante volte ho chiesto con Federico di venire con me, ma lui ha sempre rifiutato… ebbene, tu ti renderai conto di ciò che si è perso!’’, mi disse Roberto, dandomi una leggerissima gomitata come per voler attirare nuovamente la mia attenzione su di lui e ridacchiando mestamente.

Effettivamente, tornai a guardarlo; i suoi occhi brillavano di una luce strana. Si trattava di gioia.

In quel momento compresi che non stava soffrendo eccessivamente per la distanza dalla moglie e dal figlio, ma più che altro per quella sorta di solitudine in cui la sua ristretta famiglia lo aveva lasciato immerso, per anni a quanto pareva. Mi faceva pena, ma allo stesso tempo lo apprezzavo.

Gli sorrisi caldamente.

‘’Ora vado a vestirmi per bene, è quasi mezzogiorno e non mi sono neppure tolto questi calzoni di calda flanella… devo rimediare! Anche perché prevedo che a breve la mia cara mogliettina farà il suo ritorno… a dopo!’’, tornò a dirmi, sorridendomi anch’esso. Mi appariva felice per davvero, nonostante tutto.

‘’Ma… come fai ad essere così sicuro che… insomma… beh… che torneranno…?’’.

Il mio balbettio colse l’uomo di sorpresa. Dopo un attimo di pensieroso sbigottimento, mi fissò con serietà.

‘’Tu non sai quante volte si sono comportati così. Praticamente, fuggono ogni volta che hanno una discussione con me. Pensano di farmi sentire in colpa, forse… ma vedrai, entro questa sera torneranno, come se nulla fosse mai accaduto. Sono andati a sbollirsi… non preoccuparti per quei due’’, concluse Roberto, rispondendo parzialmente al mio quesito e dandomi le spalle, per poi recarsi al piano superiore per vestirsi meglio.

Io sospirai e, appoggiandomi allo stipite della porta della mia saletta, continuai a pensare alla stranezza della famiglia Arriga, e a tutte quelle cose non dette e misteriose che aleggiavano su di loro, e che rischiavano di inghiottire pure me. Essi non creavano pienezza, quella completezza tipica delle famiglie più affiatate, ma basavano la loro vita su un baratro pericoloso, il cui fondo mi era sconosciuto, sempre se c’era.

Scrollai le spalle e, cercando di smettere di tormentarmi con i miei inutili pensieri, chiusi la porta della stanza e per un po’ mi misi a suonare il mio pianoforte, cercando di rilassarmi ulteriormente.

 

Non nascondo che rimasi comunque sorpreso, quando poco prima di mezzogiorno mi ritrovai ad osservare il ritorno di Livia e Federico.

Avevo appena smesso di suonare il mio pianoforte, e stavo per andare in cucina per gustare il pranzetto che doveva aver preparato mia madre, un po’ come per tutti i giorni festivi, e mentre mi dirigevo verso la mia meta, la porta d’ingresso si spalancò di colpo, lasciando entrare i miei due inquilini, che dal giorno precedente non si erano più fatti vivi.

Io li guardai e, leggermente meravigliato, accennai un saluto rivolto alla signora Arriga, che mi squadrò in un attimo da capo a piedi e si diresse prontamente anch’essa in cucina, senza ricambiare la mia leggera cortesia e seguita a ruota dal figlio, che passandomi da fianco quasi mi spintonò.

Erano tornati, e non mi restava altro che tornare a subire. In fondo, riconobbi che in quelle ventiquattro ore in cui si erano assentati, ero stato benissimo, nonostante i miei piccoli inghippi con Roberto. Ma l’uomo non era neppure paragonabile a quelle due persone, che davvero mi risultavano odiose all’inverosimile.

Rimasi fermo sul posto, nel bel mezzo del corridoio, indeciso se tornare a suonare qualcosa, oppure andare pure io in cucina da mia madre, ma fortunatamente fu proprio quest’ultima a togliermi dalle mie domande.

Mamma Maria uscì in fretta dalla cucina, dopo aver scambiato due parole che non avevo udito con i due appena tornati, e vedendomi lì imbambolato mi si avvicinò mestamente. Era così bassa e piccola che in quel momento mi venne quasi da paragonarla a Roberto, ma ricacciai indietro le mie stupide considerazioni, poiché lei evidentemente aveva qualcosa da dirmi.

Infatti, mi afferrò delicatamente per un braccio, e m’invitò silenziosamente a fare due passi indietro e a tornare dentro alla mia saletta, senza però chiudere la porta.

‘’La signora e il figlio sono tornati, a quanto pare, e mi sembrano molto agitati. Sono entrati in cucina a passi baldanzosi, e senza neppure salutare, Livia ha detto che se possibile oggi vorrebbero pranzare da soli, senza terze presenze. Per non suscitare una reazione di quella donna, le ho detto che lascerò il pasto pronto sui fornelli, così potranno arrangiarsi loro a suddividersi le pietanze. Mi sembra anche giusto, forse devono ritrovare una loro armonia, che ormai sembrano aver perduto. Noi due pranzeremo più tardi, quindi…’’.

‘’Sì, certo, e magari mangeremo pure i loro avanzi, proprio come farebbero i bravi cani sottomessi. Mamma, quella gente non mi piace! Non sopporto più la presenza di Federico e di quell’aristocratica della signora Livia!’’, sbottai, ormai definitivamente innervosito.

A farmi parlare in quel modo insolitamente irriverente e irrispettoso non era stato tanto il fatto di non dover essere presenti in cucina durante il loro pasto, ma il come loro volessero trattarci da padroni. Erano piombati a casa dopo essere fuggiti, e logicamente non avevano mai avvisato nessuno, così mia madre come la più umile delle serve doveva essere a disposizione dei loro più prepotenti capricci ad ogni ora del giorno. Mia madre aveva preparato il pranzo per tre persone, per me, lei e Roberto, non sapendo del loro ritorno, e quindi avrebbero mangiato pure il mio di pasto.

A Federico non bastava avermi umiliato più volte, ma voleva tutto, assieme a sua madre. In quel momento, li detestavo tantissimo.

‘’Calmati, calmati. Non fare così! A volte capita… capita. Non so neppure io che dire, certo, questi pagano sempre, e i loro soldi ci fanno comodo, ma mi sembrano gli affittuari più scortesi che noi abbiamo mai avuto in questa casa. Ciò non vale per Roberto, penso’’, aggiunse mia madre, guardandomi e parlando sottovoce.

‘’No, no, Roberto è diverso. È umano e a volte sbaglia, ma non è fatto della stessa pasta di quei due demoni’’, mi affrettai a dire, anch’io a voce bassissima. Mia madre mi diede una leggera gomitata.

‘’Oh, non esageriamo adesso! Stai tranquillo, preparerò qualcos’altro per noi, anche se quindi pranzeremo un po’ più tardi del solito’’.

E così dicendo, la mamma si allontanò, dirigendosi nuovamente in cucina. Ed io rimasi ancora lì impalato, in piedi nel bel mezzo della mia saletta a rodermi nei miei pensieri, chiedendomi quante altre umiliazioni avremmo dovuto subire. Gli Arriga si stavano comportando scorrettamente, e la nostra convivenza si stava tramutando in qualcosa di scomodo, anche se era durata solo un mese e mezzo, fino a quel momento, e sarebbe dovuta continuare ancora per lungo tempo.

Scossi la testa e tornai a dirigermi verso il mio pianoforte, cercando di tornare a distrarmi nuovamente.

 

Quella domenica la trascorsi così, suonando il mio strumento e senza fare altro. Avrei dovuto studiare e fare i compiti, ma avevo posposto tutto. Avrei svolto il mio ruolo da bravo studente solo in serata.

Così avevo suonato per buona parte della giornata, alzandomi solo per i pasti, piuttosto magri e freddi tra l’altro, visto che la famiglia Arriga non ci voleva tra i piedi, ma non mi sentivo soddisfatto, poiché non avevo suonato bene e non ero riuscito a concentrarmi e a calarmi nella mia pace interiore. Tanti pensieri offuscavano la mia mente e la rendevano meno reattiva, impedendomi quindi di affrontare la musica col piglio giusto.

Alla fine quindi, dopo la tardiva cena, rinunciai al mio strumento e chiusi a chiave e in fretta la mia saletta, sapendo che il pericoloso Federico era in giro e che avrebbe potuto rovinare qualcosa, per poi dirigermi verso la mia camera da letto, dove avrei potuto studiare un po’ e fare qualche compito. Il lunedì era sempre traumatico sotto tutti i punti di vista, e quindi ci tenevo a prepararmi per bene e con largo anticipo.

Mentre salivo le scale, mi ritrovai a pensare che effettivamente quell’ultimo anno di scuola superiore non era cominciato col piede sbagliato, ed anzi, che stava andando parecchio bene, e mi ritenevo soddisfatto del mio operato, fino a quel momento.

Speravo solo di riuscire a mantenere il giusto ritmo, e di non commettere errori o sbagli, poiché non volevo giungere alla fine di quell’anno davvero molto importante con grandi dubbi e lacune. Era vero che non potevo recuperare il tempo perduto durante gli scorsi anni, ma almeno potevo provare a metterci una pezza, sfruttando la buona forza di volontà che permeava il mio cuore e la mia mente. Un vero peccato però che ci fosse Federico a rovinare quel periodo tutto sommato discreto.

Una volta giunto al piano superiore, incontrai nuovamente mia madre, che mi sorrise e mi bloccò di nuovo.

‘’Mamma, devo andare a studiare e a fare i compiti!’’, sbottai, immaginando che avesse altre richieste da farmi. Conoscevo il suo modo di abbordarmi, e quando lo faceva con quel sorriso timidino e tremolante riuscivo a capire in anticipo che doveva chiedermi qualcosa, magari qualche altro sacrificio in favore degli Arriga.

‘’Ti devo chiedere una cosa importante! Ti tratterrò solo un attimo’’, mi rispose, bloccandomi lo stesso sul posto.

Sospirai.

‘’Antonio, la signora Livia mi ha chiesto una cortesia. In pratica, vorrebbe che le prestassimo… no, non a lei, ma che prestassimo a suo figlio quei vasetti di plastica per i fiori, che ha visto in garage. Ha detto che Federico avrebbe espresso il desiderio di coltivare qualche piantina, e visto che so che tu durante l’autunno e l’inverno non li utilizzi, le ho promesso di darglieli’’, mi narrò mia madre a voce bassissima, timidamente e mangiandosi qualche parola di tanto in tanto.

Ero sbigottito; Federico non lo vedevo proprio in compagnia di magnifici fiorellini. Tenevo molto a quei vasetti di plastica, poiché mi permettevano di dar libero sfogo al mio pollice verde durante la buona stagione, e anche se in quel periodo dell’anno non me ne facevo proprio nulla, mi scocciava che il mio nemico ci posasse sopra i suoi artigli, per farne chissà cosa.

Ero certo che, se fossero finiti tra le sue mani, non li avrei mai più rivisti indietro.

‘’Mamma, non se ne parla. Dille che se li compri, sono tanti i negozi che li vendono… e poi quello lì chissà cosa deve farsene. Me li romperà di certo’’, risposi, cercando di mantenere la calma. In realtà, ero davvero innervosito.

‘’Dai, non fare lo sciocco. Ormai glieli ho promessi! E poi ce li ridarà entro la primavera, ed intatti. Controllerò, e se ce ne sarà uno solo dei rotti, glielo farò ripagare, non temere’’, cercò di rassicurarmi.

‘’Giuro che questa vicenda sta cominciando a snervarmi’’, le risposi, anche leggermente in malo modo.

‘’Ti prego, non fare scenate. I loro soldi ci fanno comodo, non mandare tutto all’aria per un paio di vasetti di plastica! E poi, Federico deve piantarci dentro i suoi rarissimi peperoncini piccanti della Guyana. Magari insegnerà anche a te a coltivarli, se glielo chiederai’’, ribatté mia madre, accennando a chiudere il discorso.

‘’Cosa?! Peperoncini piccanti di che?!’’, sbottai nuovamente, sentendomi preso in giro. Non avevo mai udito un nome del genere.

‘’Oh, non lo so neppure io… della Guyana, mi sembra. E comunque il nostro discorso è chiuso, ora che ti ho informato’’. E così dicendo, mia madre scese al piano inferiore, mettendo fine alle mie proteste. I due perfidi Arriga avevano vinto ancora.

Estrassi il mio cellulare dalla tasca, e mi affrettai ad andare su Internet a digitare il nome di quei peperoncini, scoprendo in fretta che la mia ricerca non aveva risultati. Quei peperoncini non esistevano, e la signora aveva preso in giro mia madre, e chissà cosa doveva piantare suo figlio nei miei vasetti.

Innervosito, mi precipitai in camera mia, ed accesi la luce, per poi trovarmi faccia a faccia proprio col mio nemico.

‘’Ma… che…’’, riuscii a dire, trovandolo dentro alla mia stanza e ad un palmo dal mio viso.

Capii che mi aveva teso un agguato anche lì dentro, e che nella mia casa ormai non c’era più un luogo sicuro per me e per la mia incolumità.

‘’Piaciuta la sorpresa? Tranquillo, non ho fatto danni, volevo solo spaventarti un po’… e poi oggi sono di buon umore, non mi va di dartele di santa ragione. Quindi, fai ciò che ti sto per chiedere ed io ti lascerò in pace e non ti torcerò neppure un capello, per questa sera’’, mi disse il mio aguzzino, sorridendo mestamente e gettando sul mio letto almeno cinque quaderni, che fino a quel momento doveva aver tenuto in mano.

‘’Ti serve una mano per piantare i tuoi peperoncini della Guyana? Ho il pollice verde, stai per chiedere l’aiuto della persona giusta’’, chiesi, facendomi forza. Non so perché lo stimolai a farmi del male.

Lui mi guardò, lanciandomi un’occhiata perplessa ma seria, ed indubbiamente non aveva inteso ciò che gli avevo detto.

‘’Non so a cosa ti stai riferendo, ma farò finta di non aver sentito’’.

‘’Tua madre ha chiesto dei vasetti di plastica alla mia, per conto tuo, poiché vorresti piantarci dentro i tuoi peperoncini’’, gli risposi con fare sornione, incrociando le braccia.

‘’Oh! Non impicciarti allora. Sono affari che non ti riguardano, quelli’’, mi rispose Federico, mentre sul suo volto compariva un sorriso mesto, che sparì subito dopo.

Compresi facilmente che dietro alla richiesta dei vasetti si nascondeva qualcos’altro, e chissà cosa ne avrebbe fatto il mio nemico. A quel punto, l’ansia mi prese tra le sue braccia, e deglutii.

‘’Senti, impiastro, non sono qui per discutere o per farti del male, questa volta, ma se proprio vuoi potrei farti assaggiare di nuovo la mia stretta attorno al tuo collo. Non dirmi che ti va eh, perché sta sera non ne ho proprio voglia. Ma se me lo chiedi per favore, non mi farei problemi a…’’.

‘’Vai al punto. Cosa vuoi da me?’’, gli dissi, interrompendo il suo discorso contorto, tra il serio e l’ironico.

‘’Ecco, così mi piaci! Sono qui per chiederti di fare una cosetta per me, per mio conto’’, disse, tenendo a bada la voce.

Annuii con la testa. Non avevo molte altre alternative.

‘’Gli insegnanti del liceo si sono anche accorti che non ho mai svolto i compiti a casa, e a loro dire non faccio nulla se non giocare al cellulare o compiere atti moralmente scorretti, come ha detto quella stronza che mi ha sequestrato il cellulare. Quindi, visto che sei abbastanza secchione, credo proprio che mi potrai essere utile, poiché i compiti a casa me li farai tu. Li scriverai a matita, ed io con la penna poi li copierò. Intesi?

‘’Hai due opzioni, di fronte a te; o accetti la mia proposta gentile e ti metti subito al lavoro, oppure prendere un bel po’ di botte, e non me ne frega nulla se c’è pure tua madre in casa. Se mi scopre, gliene do tante pure a lei! Però sai che questa sera non mi va. Se mi obblighi a farlo, quindi…’’.

‘’Farò ciò che mi hai detto, non temere’’, sospirai, piegandomi. Non volevo cercare altri guai, soprattutto considerando anche le parole pesanti che stavano volando, e alle neppure tanto velate minacce rivolte a mia madre.

Andai subito a prendere i quaderni, quindi.

‘’Bravo, bravo. Quando avrai concluso tutto, lasciali sul tavolo della cucina, poi mi arrangio da solo. Non osare mai entrare in camera mia, intesi? Lasciali sul tavolo della cucina’’, mi ripeté, quasi ringhiando. Poi, uscì dalla mia stanza in fretta e sparì nel buio del corridoio.

Mi passai una mano tra i capelli, mentre qualche goccia di sudore freddo mi scivolava lungo la schiena.

Afferrando i quaderni di Federico, pensai che avrei anche potuto stracciarli, oppure non svolgere i suoi ordini, ma poi compresi che sarei andato in cerca di altri guai. Decisi quindi che avrei fatto i compiti a casa e poi li avrei copiati sui quaderni del mio nemico a matita, in modo da accontentarlo ed evitare altre possibili ripicche.

Con un sospiro, compresi che non si poteva più andare avanti così, e che stavo davvero per esplodere, ma non mi sentivo neppure in condizione per far qualcosa o ribellarmi. La verità era che Federico mi faceva davvero paura, e mi sembrava un folle pronto a tutto.

Promettendomi che un giorno mi sarei vendicato per tutte quelle ingiustizie subite, mi misi subito al lavoro, ma non prima di aver chiuso a chiave la porta della mia stanza. Da quell’istante capii che sarebbe stato meglio farlo sempre.

Eppure, fremetti di spavento per tutto l’arco della serata, mentre svolgevo i compiti miei e del mio nemico, consolandomi pensando al fatto che bastava fare i miei e copiarli sui quaderni del prepotente, visto che erano gli stessi, frequentando la stessa classe. Una magra consolazione, ma che mi bastava per tirare avanti.

Mi sentivo davvero una nullità, in quel momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, cari lettori!

Ringrazio chiunque sia giunto fin qui, e spero che tutto sommato la storia continui ad essere interessante da seguire.

Ringrazio tantissimo tutti i recensori.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo J

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

CAPITOLO 14

 

 

 

 

Quello che sto rievocando nella mia mente fu un periodo che ricordo tuttora molto bene, poiché esso fu pieno di svolte nella mia vita, e nell’arco di pochi giorni accaddero eventi che ebbero grandi ripercussioni sulla mia stessa esistenza.

Dopo quella domenica sera in cui ero stato obbligato dal mio tormentatore a mettermi a fare i suoi compiti a casa, lui non mi aveva più importunato, ed inoltre aveva sempre girato alla larga sia dalla mia camera da letto sia dalla mia saletta. Stava rispettando quella sorta di tacito ed immaginario patto di non belligeranza, ed io per tenerlo buono sia nei miei confronti sia in quelli di mia madre mi impegnavo molto sui suoi quaderni.

In realtà, avevo scoperto che quella costrizione mi aveva reso più ligio al mio dovere, e in un certo senso non mi dispiaceva. Quando giungevo a casa studiavo e svolgevo fin da subito i miei compiti, poi li copiavo leggermente a matita sui quaderni di Federico, che ogni volta che tornava a casa dal liceo me li lasciava sul tavolo della cucina, per poi tornare al piano inferiore a rimetterli dove il nemico me li aveva lasciati.

Quindi, per me era iniziata una sorta di fase dove veniva prima il dovere del piacere, e forse ciò non era neppure del tutto negativo, visto che fino alle settimane prima perdevo tanto tempo in compagnia del mio pianoforte o facendo altro, riducendomi a studiare in tarda serata e magari non svolgendo neppure i compiti. Nel giro di pochi giorni, mi ero reso conto che giungevo a scuola più preparato, e le ultime interrogazioni erano andate piuttosto bene.

Ciò però non toglieva il fatto che ero comunque vittima di soprusi, ma quel sopruso in particolare potevo sopportarlo meglio di altri. Federico continuava a farmi paura, e non avevo assolutamente ancora il coraggio di confidarmi o di parlarne con qualcuno, anche per timore di altre ripercussioni, che lui mi aveva già promesso più di una volta. Per cui, fintanto che non mi tormentava e che si accontentava dei miei umili servigi, mi ritenevo fortunato.

Si era preso anche i miei vasetti di plastica, visto che glieli aveva consegnati mia madre, e li aveva portati nella sua stanza. La sua camera da letto era diventata una sorta di luogo sacro ed inviolabile, dove neppure a mia madre era stato più concesso di entrare; il letto al ragazzo glielo sistemava la mamma aristocratica, che si accollava pure le pulizie della stanza stessa.

Un atteggiamento che attirava molto la mia curiosità, poiché avevo iniziato a credere che ci fosse qualcosa che non si dovesse vedere proprio all’interno di casa mia, un qualcosa di sospetto, ma non era neppure giusto che io facessi le mie indagini, d’altronde Federico era sorvegliato da sua madre, e non credevo che la signora Arriga, così distinta e perfetta, cercasse di nascondere qualcosa, magari entrando in combutta col figlio. Quindi, volevo credere fermamente che tutto fosse a posto, in casa mia.

Se tutto era a posto lì, non lo era invece a scuola; il liceo, infatti, ultimamente appariva piuttosto in subbuglio. Federico non aveva picchiato più nessuno, anche se aveva ripreso a volte a giocare di nuovo col cellulare, ma in modo più attento e discreto.

Passava tutto il tempo non occupato dalle lezioni a confabulare col suo affermatissimo trio di amici, senza degnare altri di uno sguardo. Temevo che stesse progettando qualcosa, e non mi sbagliavo, come avrei confermato quello strano giovedì mattina della prima settimana di novembre.

Procedendo con ordine, comunque, in modo da non rimescolare troppo i miei ricordi, riesco ancora a far riaffiorare l’atmosfera carica di disagio di quella strana mattinata.

Avevo già notato quella sorta di frenesia e di nervosismo che aveva caratterizzato buona parte degli studenti durante le settimane precedenti, e quel giovedì mattina non era tanto meglio; tutti gironzolavano con i cellulari tra le mani, parlottando e comportandosi in modo irritato, oppure ridacchiando di tanto in tanto. Io non capivo e non sapevo nulla di ciò che stava accadendo, proprio come nei giorni precedenti.

Però, poco prima che la campanella suonasse e permettesse agli studenti di entrare a scuola, ebbi modo di intrattenere una discreta chiacchierata con Alice, che come tutte le mattine la trovai già nel piazzale antistante il liceo, già pronta a fare il suo ingresso e ad iniziare ad affrontare le lezioni.

‘’La verifica di matematica non è andata tanto bene, purtroppo…’’, continuò a sussurrarmi, leggermente arrossata in viso. Sapevo che ci teneva molto a prendere dei bellissimi voti, ma ero anche a conoscenza del fatto che la matematica restava il suo tallone d’Achille, e che questo la tormentava parecchio, soprattutto quando arrivavano risultati mediocri in quella materia tanto scabrosa.

‘’Non preoccuparti troppo, c’è tempo per rimediare, non temere’’, cercai di rassicurarla anche quella volta, ripetendo ciò che le avevo detto praticamente ogni giorno della scorsa settimana.

‘’Se solo Jasmine tornasse… oh, è lei la mia unica salvezza! Se riuscisse a rimettersi un po’, mi darebbe di certo una mano. Lei è bravissima, in matematica! Un vero genio’’, tornò a dire Alice, sconsolata.

Effettivamente, Jasmine non riusciva a riprendersi, ed era già più di dieci giorni che non era venuta a scuola. Io la sentivo quasi ogni giorno, anche solo per sincerarmi della sua salute, e sapevo che molto probabilmente non sarebbe tornata al liceo per almeno altri cinque o sei giorni. I suoi genitori l’avevano accompagnata da uno specialista, per cercare di curare il problema che la tormentava nella gola e che pareva non volersi arrendere, dandole sempre febbre alta e altri disagi fisici.

Pareva che fosse rimasta affetta da un qualche ceppo batteriologico piuttosto resistente, ma che le cure del medico privato stessero dando i loro frutti. Infatti, la febbre negli ultimi giorni si era vistosamente abbassata, e Jasmine contava di riuscire a riprendersi entro una settimana. Una previsione che avrebbe poi dovuto incontrarsi con quella del medico, ma ero comunque certo che la mia amica, che mi stava tanto a cuore e che mi mancava davvero molto, sarebbe tornata a riprendersi molto presto.

Con questa speranza, il mio cuore si sentiva più leggero.

‘’Stai tranquilla, a breve si rimetterà, e così potrà aiutarti e darti una mano’’, le dissi, sovrappensiero.

Ultimamente avevo notato che la mia mente volava spesso verso Jasmine, e che lei mi mancava costantemente. Avevo ancora ben impresso la sua ultima visita a casa mia, la sua bellezza esotica, il suo modo gentile e cortese di avvicinarmi.

Mi sentivo infatuato da lei, ed avevo voglia di rivederla, anche se sapevo bene che le condizioni di quel momento non lo permettevano, sia per il problema suo di salute, sia per il fatto che non sarei mai riuscito a trovare il coraggio di presentarmi sotto casa sua, anche perché non sapevo neppure di preciso dove abitasse.

‘’Oh, come sei venale questa mattina! Non credere che io rivoglia in forma la nostra Jasmine solo per farmi aiutare in matematica… lei è così speciale! Senza la sua presenza sempre costante, mi sento un po’ persa, ed avrei tanta voglia di rivederla, e magari abbracciarla anche in questo stesso momento!’’, continuò a dire l’amica, molestando il mio flusso di pensieri.

‘’A chi lo dici…’’, bisbigliai, lasciando fluire fuori le mie vere emozioni.

Alice mi guardò.

‘’Cos’hai detto? Non ho capito’’, mi chiese prontamente, con curiosità.

‘’Nulla… mi stavo chiedendo a cosa fosse dovuta questa agitazione costante, che pare tenere un po’ sulle spine buona parte della nostra scuola’’, le dissi, cambiando abilmente la rotta del discorso.

Non era che non mi fidavo di Alice, ma non mi piaceva aprirmi troppo, e nonostante tutto non volevo parlarle di Jasmine in un modo troppo ricco di particolari, poiché neppure io sapevo ancora cosa provassi per lei. Di certo, si trattava di un sentimento nuovo per me, ma non osavo approfondirlo e farmi troppe domande.

Mi bastava avere quella ragazza sempre fissa nei miei pensieri, e il resto in quel momento non mi importava affatto, e non volevo di certo sbilanciarmi e passare per quello che è andato in fissa per una ragazza che conosceva a malapena da poco più di un mese, e perlopiù di vista. Era vero che ci sentivamo anche per telefono, ma un conto era chiacchierare del più o del meno, ed un altro era aprirsi e parlare di sé stessi, e magari conoscersi ancora meglio.

Ecco, questo feeling tra noi ancora mancava, e comunque mi sentivo davvero un po’ perso quando pensavo a quella ragazza, anche se non nascondo che mi piaceva farlo spesso. E d’altronde, non mi sentivo ancora pronto per parlarne con altri.

‘’Mamma mia, temo che questa volta la stia combinando grossa, il nostro caro bulletto’’, sbottò la mia cara amica, lanciandomi uno sguardo vacuo. Mi accigliai vistosamente.

‘’A quanto pare, lui e i suoi tre amici hanno creato un gruppo su un social. Un gruppo privato, una sorta di luogo virtuale dove alcuni componenti della scuola, capitanati dallo stesso Federico, si divertono a prendere in giro altri… insomma, un qualcosa di molto squallido e scomodo!’’, continuò Alice, vedendomi perplesso.

Abbassai lo sguardo ed osservai l’asfalto circostante, restando comunque accigliato. Non mi ero mai iscritto ad un social network, di nessun tipo, ma un po’ me ne intendevo comunque. Se era presente la componente dei gruppi, Alice doveva essersi di certo riferita a Facebook, e la vicenda proprio non mi piaceva. Se Federico e compagni avessero cominciato a praticare il cyber bullismo, sarebbero stati guai amari per tutti quanti, dapprima per le vittime, derise dai prepotenti, e poi per gli stessi prepotenti, visto che si trattava comunque di azioni ignobili e punibili per legge.

Non volli approfondire il discorso con la mia amica, e scrollai le spalle, cercando di ostentare disinteresse.

‘’Certo, una mossa da persone schifose. Ma comunque sono certo che finirà male per loro, se hanno cominciato a commettere atti del genere’’, mi limitai a risponderle, mentre la campanella suonava proprio in quell’istante.

‘’Ne sono convinta pure io. Si prospettano tempi bui… a dopo!’’, mi salutò la mia interlocutrice, abbandonando anch’essa il discorso e venendo ingurgitata dalla folla che, spintonandosi con forza, si muoveva in massa verso l’ingresso del liceo.

Io mi limitai ad attendere che la ressa si fosse dissipata leggermente, prima di entrare nella scuola, con in bocca un sapore di bile strano, amaro, che quasi mi fece pensare di essermi ammalato, di star male pure io. Ma quello forse era il semplice sentore del fatto che tutta l’intera vicenda stava per prendere una strada ben definita, e in quella stessa giornata sarebbe iniziata una sorta di svolta, sia per me che per il mio nemico e inquilino, Federico.

 

Non appena giunsi in classe, notati subito che qualcosa non andava. Giacomo stava parlando ad Andrea e alle ragazze con voce concitata, mentre loro si chiudevano a cerchio attorno a lui, ascoltandolo.

Salutai, non ricambiato da nessuno a parte Francesco, già seduto nel suo banco, e mi diressi verso la mia postazione, notando che Federico aveva già distaccato il suo banco e pareva immerso nel suo mondo.

Non ci feci caso, come al solito, e appoggiando il mio zaino sul banco e restando in piedi, cominciai a sistemare il materiale scolastico della giornata. Eppure, quella era destinata a non essere una mattinata tranquilla.

Sentii dei passi dietro di me, e voltandomi mi vidi oltrepassato da un Giacomo furioso, col volto violaceo dalla rabbia, che con altri due passi si piantò davanti a Federico, che restò seduto, immobile. Solo in quel momento notai che aveva le cuffiette nelle orecchie, nere e mimetizzate dalla folta chioma ribelle, mentre per non mostrare il filo che le collegava all’mp3 le aveva fatte passare da sotto la felpa.

Tutti quanti nella classe guardammo in silenzio Giacomo, che, ancora più innervosito, strappava un’auricolare a Federico, attirando efficacemente la sua intenzione. Aveva fretta, e sapeva che disponeva di quattro minuti, prima che giungesse l’insegnante.

Il prepotente doveva aver scorto la sua figura, ma l’aveva deliberatamente ignorata, sempre col suo menefreghismo di classe, ma quando fu sfiorato dalle dita dell’altro ragazzo parve esplodere all’improvviso, senza comunque alzarsi dalla sedia in cui era seduto e lasciandosi quindi dominare dall’alto dall’interlocutore arrabbiato.

‘’Che vuoi?’’, gli sbottò in faccia, cercando di tenere basso il tono della voce e togliendosi anche l’altra auricolare, cercando di fare tutto con lentezza come se non gliene importasse nulla. Invece, dai suoi movimenti irritati capivo che doveva essersi innervosito parecchio anche lui.

Tutti i presenti nella classe continuavano a pregustarsi lo scontro in silenzio, senza intervenire, e anch’io osservai tutto con grande interesse.

‘’Hai il coraggio di chiedermi cosa voglio, stronzo? Sono giorni che vengo deriso in rete, e che persino i miei vicini di pianerottolo mi sfottono per delle cose che avresti messo in giro tu virtualmente… voglio sapere come si chiama questo gruppo che hai formato su Facebook, voglio leggerne i contenuti e poi farti denunciare dai miei’’, rispose Giacomo, per nulla intenzionato a sbollirsi.

Federico si lasciò sfuggire un sorriso mesto.

‘’Innanzi tutto, è un gruppo privato di satira. Non sai cos’è la satira? E’ una…’’.

‘’E’ una presa per il culo rivolta a chi ti sta antipatico. So che ce l’hai con me, così come ce l’hai con tanti altri della classe e non, ma a me non importa, perché a me non mi prendi in giro in questo modo subdolo, alle spalle e mettendo in circolazione un sacco di diffamazioni e di provocazioni. Se hai qualcosa da dirmi, me lo dici in faccia, verme schifoso!’’.

Federico a quelle parole arrossì, diventando incredibilmente nervosissimo, e quasi mi aspettai di vederlo balzare al collo di Giacomo, per stringerlo nella sua stretta micidiale. Invece, la professoressa Carlucci entrò in classe, a sorpresa, udendo le ultime parole pronunciate da Giacomo.

‘’Ragazzi!’’, sbraitò, redarguendo subito i due contendenti, che pareva avessero voglia di aggredirsi anche fisicamente.

‘’Io faccio ciò che mi pare. Non ti temo, e non temo nessuno!’’, sibilò tra i denti Federico, facendosi intendere dall’interlocutore, che gli lanciò un’occhiataccia prima di prendere le distanze dal nemico.

‘’Ti farò smettere di comportarti così, anche a costo tagliarti quelle alucce prepotenti che ti sei voluto costruire… sei tu lo sfigato, qui’’, concluse infine Giacomo, sempre a bassa voce, per poi dirigersi verso il suo banco, abbandonando le retrovie.

‘’Ragazzi, è successo qualcosa di cui dovrei essere informata?’’, chiese subito la prof, col suo classico tono di voce rimbombante.

‘’Assolutamente nulla, prof. Stavamo solo facendo amicizia, tutto qui’’, rispose Giacomo, per poi lanciare un’altra occhiataccia al nemico, come per avvisarlo che non era finita lì. Federico scrollò le spalle, e con la sua indolenza tornò ad abbassarsi sul suo banco, ultimamente sempre sgombro, visto che gli insegnanti non volevano più che si tenesse la tracolla davanti, dopo la vicenda del cellulare.

La professoressa parve non voler indagare oltre, visto che tutto pareva essersi messo a tacere e noi ragazzi avevamo già preso posizione sui nostri banchi, e quindi non chiese altro e si accinse a fare l’appello. Ma quella non era destinata ad essere una mattinata tranquilla, come avevo già avuto modo di sottolineare.

All’improvviso, l’insegnante di sostegno che aveva scovato e fatto punire Federico la settimana precedente fece una sorta di irruzione in classe, preferendo entrare dalla porta principale, mostrandosi tutta trafelata. Sul suo volto era ben impressa un’espressione arrabbiata, consona alle altre che avevo già scorto durante quella frenetica mattina.

‘’Giovanna! Hai rimediato il tuo problema?’’, le chiese la prof Carlucci, in modo confidenziale e non badando a noi alunni, che avevamo puntato tutti i nostri occhi sulla nuova entrata.

‘’Scherzi? A causa di chi mi ha sfasciato la macchina nel parcheggio sotto casa, mi sono dovuta assentare tre giorni dalla scuola. Tre giorni! In più, per farla riparare dato che mi serviva subito, ho speso un patrimonio. Ma sai qual è l’unica soddisfazione, ciò che dà un retrogusto dolciastro alla vicenda? E’ che la giustizia farà il suo corso, e chiunque sia stato pagherà per il crimine commesso. Ciò che è accaduto sabato notte non resterà un evento impunito, lo giuro’’, sbraitò l’insegnante, mentre la Carlucci si accigliava.

La prof di sostegno sembrava parlare ad alta voce e darsi da fare per farsi udire al meglio dalla platea, ed al momento non avevo ancora compreso bene il perché di quella scelta.

‘’Hai una vaga idea di chi sia stato, almeno? Avevi avuto discussioni con qualche vicino, o con qualcuno che per vendicarsi di qualcosa ha compiuto un simile gesto?’’, tornò a chiedere la nostra professoressa, a voce bassa, mentre apriva il libro di letteratura.

‘’Il tutto è stato filmato dalle telecamere presenti in zona, non temere. Richiederò che esse siano controllate da chi di dovere, in modo che gli artefici, o l’artefice di tutto ciò venga scoperto, così che mi possa risarcire dei danni subiti, e logicamente sarà poi anche affidato alla giustizia’’, concluse l’insegnante di sostegno con grande enfasi, sottolineando con particolare attenzione la parola artefice.

Tutti capimmo che la donna doveva già avere un’idea ben precisa di chi fosse stato a commettere quel tale crimine appena accennato, ma pure io non badai molto a quel veloce dibattito, preferendo stare a testa china sui libri di scuola, cercando di sistemare con ordine il mio materiale.

Poi, improvvisamente tutto si fece molto più interessante e vivace.

L’insegnante di sostegno si mosse verso il fondo dell’aula, dirigendosi verso Clara, già in piedi e pronta ad uscire dalla porta secondaria, e passando di fianco a Federico, gli disse qualcosa. Solo io, all’interno della classe, potei udire quelle poche parole che furono pronunciate al mio nemico, data la mia vicinanza.

‘’Ti sei divertito sabato notte a sfasciarmi l’auto, ma la pagherai cara’’.

Poche parole, che finirono dritte al punto.

Udendole, sollevai lo sguardo dal mio libro, stupefatto, e spalancai involontariamente la bocca, mentre il mio inquilino si alzava dalla sua sedia, furibondo.

‘’Come si permette di gettarmi addosso una tale infamia?! Io la denuncio’’, gridò, furioso e pieno di sé.

La reazione chiassosa e repentina tornò a far attirare l’intera attenzione della classe sul ragazzo, che poi spintonò Giovanna e si precipitò fuori dalla classe.

‘’Arriga! Torna subito in classe!’’, urlò subito la professoressa, senza alcun risultato, precipitandosi anche lei nel corridoio.

‘’Mi spiace, ma so che è stato lui a compiere quel gesto, una sorta di ripicca per la vicenda del cellulare. Mi mancano solo le prove per incastrarlo, ma le troveranno molto presto’’, tornò a dire l’insegnante di sostegno a tutti noi, pubblico ancora sbigottito dagli eventi che stavano svolgendosi in fretta, per poi voltarsi e darci le spalle, abbandonando la classe assieme a Clara.

Lasciati momentaneamente soli, tutti i miei compagni presero a borbottare, e notai che più d’uno aveva un sorrisetto per nulla dispiaciuto ben impresso sul volto.

Ancora ben posizionato sul mio banco, capii che la breve parentesi di impunibilità di Federico stava per concludersi, notando la piega che stavano prendendo gli eventi.

Come un fulmine a ciel sereno, mi tornò alla mente la fuga del sabato precedente, di Federico e Livia, e mi chiesi se fosse possibile che i due avessero approfittato della discussione col marito e padre per andare a compiere una qualche vendetta, fracassando una macchina parcheggiata chissà dove, e mi parve tutto inverosimile ed impossibile, principalmente per il fatto che la signora Arriga, la donna aristocratica e perfetta, non mi sembrava assolutamente il tipo che aiutava e copriva il figlio in situazioni del genere. Quindi, in quel momento mi convinsi che si doveva trattare di un qualche errore, e che l’insegnante di sostegno avesse reagito d’istinto, lasciandosi trasportare dall’eccessivo nervosismo. In più, chissà se il prepotente conosceva la targa dell’insegnante, e dove essa abitasse. Tutto mi appariva molto improbabile.

Ancora perplesso, osservai la Carlucci mentre rientrava in classe, scura in volto, e socchiudeva la porta dietro di sé.

‘’E’ scappato da scuola?’’, chiese prontamente Giacomo, curioso più che mai. Ormai, ce l’aveva con Federico, e doveva odiarlo con tutto sé stesso.

‘’No, no… l’ho lasciato un attimo coi bidelli, a sbollirsi. Vuole chiamare a casa a tutti i costi… qui le cose si mettono male. Ma ora basta, sono arcistufa di pensare solo a quel nuovo arrivato. Per favore, incominciamo la lezione; abbiamo perso fin troppo tempo’’, mormorò la professoressa, dapprima quasi come se stesse riflettendo tra sé e sé, per poi tornare ad imporsi col suo classico vocione.

Ovviamente, incominciammo la lezione e non fummo più interrotti. Solo quando Federico rientrò in classe qualcuno gli rivolse una rapida occhiata, ma tutto si concluse lì.

Il resto della giornata scolastica si svolse con regolarità, visto che tutti erano sazi di conflitti, ma restò sempre immersa in un clima molto teso.

 

Uscii da scuola mestamente, cercando di raggiungere casa mia il più in fretta possibile. Avevo voglia di fiondarmi a suonare il mio pianoforte, logicamente dopo aver svolto in fretta i compiti, sia per me che per il mio nemico, rimasto mogio per tutta la giornata. Se c’era un aspetto positivo delle vicende accadute durante quella mattinata, l’unico era che il prepotente pareva non avermi più in mente, momentaneamente, preferendo pensare ad altro.

Alice era andata a casa dopo la prima ora, accusando un mal di testa insopportabile, e quindi avrei dovuto chiamare anche lei per informarmi sulla sua salute.

Mentre speravo di giungere in fretta a casa, immerso nei miei pensieri, qualcuno mi chiamò, o così mi parve, poiché nel bel mezzo delle voci alte dei ragazzi festosi che tornavano alle loro dimore mi era parso di udire qualcuno che urlava il mio nome. Voltandomi, notai che non avevo udito male, poiché Giacomo si stava muovendo rapidamente verso di me, guardandomi e raggiungendomi in fretta.

‘’Antonio, io, ecco… mi sento un po’ in colpa. Ti devo delle scuse’’, mi disse, senza preamboli ed allontanandomi leggermente dal fiume di gente in movimento verso la strada.

‘’E di che?’’, gli chiesi, leggermente stupito.

Erano cinque anni che ci conoscevamo, e che frequentavamo la stessa classe, ma noi due non avevamo mai avuto nulla da spartire. Lui, molto conosciuto e sempre al centro dell’attenzione; io, invece, sempre ai margini, isolato. I nostri due mondi paralleli e distinti non si erano mai incrociati.

‘’Ho visto… ecco, un paio di settimane fa, ho assistito, come tanti altri, all’umiliazione che ti ha imposto Federico nei bagni. Alcuni giorni dopo quell’evento, ho scorto di sfuggita ciò che ti ha fatto nel corridoio degli spogliatoi della palestra, quando ti ha stretto alla gola… e mi dispiace. Ti chiedo scusa per non aver detto nulla, e neppure agito in tuo favore. Ora che so quel che vuol dire essere deriso ed umiliato da quel prepotente, e subire prepotenze in generale, mi dispiace per non aver fatto nulla nei tuoi confronti’’, mi disse, esprimendosi con difficoltà.

Notavo la sua sincerità, ed effettivamente ricordai di aver notato un’ombra che si allontanava, il giorno della violenza nel corridoio degli spogliatoi, che poi avevo creduto che si fosse trattata di una semplice allucinazione.

Non sapevo che dire, ma riconoscevo il suo coraggio nel chiedermi delle scuse, e nel voler comprendere la mia situazione. E non era neppure a conoscenza di tutte le prepotenze che subivo.

‘’Tranquillo. Non dovevi fare nulla, hai fatto bene a starne fuori, ed anzi, ti chiedo di non parlare più di ciò che hai visto e di ciò che mi è accaduto. Accetto le tue scuse, e ti ringrazio per il tuo coraggio; anch’io vorrei aver la forza di prendere quel prepotente di petto, proprio come hai fatto tu questa mattina’’, gli dissi, facendo due passi indietro. Speravo con tutto me stesso che Federico non vedesse che in quel momento stavo confabulando con uno dei suoi peggiori nemici.

‘’Beh, volevo soltanto dirti che… non sei più solo, d’ora in poi. Se vorrai, potremmo uscire assieme durante l’intervallo, anche se comunque ho visto che hai legato con alcune ragazze… oppure incontrarci durante i pomeriggi… come vuoi, insomma! Ti sono vicino, e se avrai altri problemi con quel tipo, dillo con me, che poi ci penso io a conciarlo per le feste’’, tornò a dirmi, sempre leggermente impacciato.

Giacomo era un tipo molto pratico, non amava parlare, e in quel momento si stava un po’ perdendo tra le parole. Gli sorrisi.

‘’Ti ringrazio per la tua richiesta d’amicizia. Certo, se vorrai, potremmo anche giocare un po’ alla play assieme, durante i prossimi pomeriggi… o magari uscire a vedere un film, qualche sera… e stai tranquillo, non preoccuparti per me. Sono abituato a subire, ormai!’’, gli risposi, anch’io sempre più impacciato. Non ero abituato a situazioni del genere, e la mia timidezza emerse molto in fretta, facendomi imporporare il viso con grande rapidità.

‘’Va bene, allora i prossimi giorni ci mettiamo d’accordo, ok? A domani’’, concluse il mio compagno di classe, sorridendomi e dandomi una pacca amichevole sulla spalla destra, prima di incamminarsi anch’esso verso casa.

Anch’io ripresi il mio cammino verso la mia umile dimora, più rincuorato, però; sembrava che il mio scontro con Federico stesse portando anche qualcosa di positivo pure a me, ed effettivamente ci avevo guadagnato qualche amico, e alcune amiche speciali. E chi trova un amico, trova un tesoro, no? Io a quanto pareva ne avevo trovati alcuni sinceri e coraggiosi, e questo era davvero importante per me.

Giunsi a casa molto rincuorato e tranquillo, quel giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!

Ecco a voi un altro capitolo di questo racconto. Spero che tutto sommato vi stia piacendo.

Continuo a ringraziare tantissimo tutti voi, che continuate a seguire la storia e a sostenerla con i vostri cortesi e graditi pareri. Grazie, vi sono davvero infinitamente grato di tutto!

Grazie di cuore, e buon inizio di settimana. A lunedì prossimo J

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15

CAPITOLO 15

 

 

 

 

 

I giorni trascorsero davvero in fretta, dopo quello strambo giovedì, e mi ritrovai a giungere alla domenica totalmente sorpreso. Sul serio, la mia vita era cambiata parecchio nel corso di quegli ultimi due mesi, addirittura da giungere al punto di essere uscito pure in compagnia di Giacomo e Andrea, il sabato sera precedente a quella domenica.

Come aveva promesso, il mio compagno di classe pareva intenzionato a volermi inserire nel suo gruppo, e dovevo ammettere che tutto stava andando piuttosto bene; ci intendevamo tutti di calcio, di musica, di film, e quindi mi ero trovato a mio agio fin da subito, riuscendo pure a tenere in scacco la mia classica timidezza, che a tratti si nascondeva quando riuscivo ad entrare in sintonia con le persone che mi circondavano.

Non voglio mentire a me stesso, poiché la mia timidezza mi è tuttora di grande impiccio, e quindi non aveva cominciato a scomparire, anzi, però stavo imparando anche un po’ a tenerla a bada.

Inoltre, Jasmine stava meglio, e si approssimava la data del suo ritorno a scuola, sempre più prossimo, mentre Alice, rimasta vittima di una leggera influenza, era praticamente k.o. in quei giorni, ma pure lei si sarebbe ripresa in fretta, e la febbre e il mal di testa già si approssimavano a lasciarla in pace. Le mie due amiche quindi mi avevano momentaneamente lasciato, ma i ragazzi le sapevano rimpiazzare bene, e molto probabilmente nei successivi pomeriggi ci saremmo rincontrati per giocare un po’ alla play per qualche oretta.

Tutto andava per il meglio, a scuola; il primo round di verifiche e interrogazioni si era rivelato davvero snervante, poiché erano state tutte quante ammucchiate nel giro di pochi giorni, ma fortunatamente i miei risultati erano stati più alti del previsto, contando anche un incredibile sei e mezzo nell’interrogazione di matematica, non un voto eccessivo ma sempre tantissimo per una schiappa come me.

Dovevo ammettere che la costrizione a cui mi aveva segretamente sottoposto Federico aveva dato risultati inattesi, visto che obbligandomi a svolgere i compiti a casa mi aveva praticamente costretto anche a studiare e ad approfondire, quindi era per me più facile affrontare interrogazioni e verifiche, ed ero sempre molto più preparato rispetto agli anni precedenti, dove svolgevo il mio ruolo da bravo studente in modo davvero molto altalenante e comunque più superficiale.

Lo stesso prepotente nell’ultimo periodo aveva preferito lasciarmi perdere, donandomi di tanto in tanto qualche occhiataccia odiosa e preferendo restare rinchiuso in camera sua; sapevo che era teso, anche per la storia dell’auto sfasciata e per i problemi che aveva a scuola, soprattutto per la vicenda riguardante quel fantomatico gruppo su Internet. Comunque, più era teso e meno pensava a me, e questo mi rinfrancava.

Stavo quindi trascorrendo un periodo davvero più calmo del solito anche a casa, dove mia madre mi pareva stranamente più rilassata, mentre Livia era solo una presenza lontana e di sfondo, comparendo solo al momento dei pasti principali. Per me restava un mistero, così come le sue telefonate alle ore più strane ed insolite, ma ormai avevo perso interesse in tutto ciò. Non erano affari miei, e non era giusto che io cercassi di ficcanasare, anche se a volte qualche telefonata serale mi turbava e mi recava disturbo, un po’ meno dei primi tempi però, poiché stavo facendo il callo anche a quel genere di situazione a tratti davvero scomoda.

Roberto, l’unico a cui non ho rivolto un pensiero fino a questo momento, era davvero un brav’uomo, e lo apprezzavo. Quella stessa domenica mattina mi ero svegliato all’alba, vestendomi in fretta, proprio per recarmi a pescare assieme a lui; si prospettava quindi una mattinata intensa, poiché non sapevo cosa mi sarei dovuto aspettare dall’uomo e da quell’attività che, ammetto, non mi piaceva affatto. Ma lui era tanto caro con me che mi sarebbe dispiaciuto dargli buca, quindi l’avrei seguito.

Stranamente, quando la sera prima avevo avvertito mia madre di quest’uscita, lei mi aveva sollecitato ad andare con il nostro inquilino, affermando che avrei trascorso una piacevole giornata. Un po’ le sue parole mi avevano colto alla sprovvista, poiché ero abituato ad una madre assente ma a tratti chioccia, nelle rare volte che era in casa, quindi mi ero atteso un suo rifiuto, o comunque qualche domanda.

Invece, no; via libera. Sarei andato con Roberto a pescare, e mentre scendevo le scale, ancora avvolto dalla penombra del primo mattino, sperai che fuori non facesse troppo freddo e che l’uomo si comportasse in maniera corretta con me, magari anche tenendo a freno la lingua e cercando di non riproporre la stessa scenata dell’ultima volta in cui eravamo rimasti soli, io e lui.

 

Feci colazione in fretta, senza intravedere Roberto. Cominciai a nutrire qualche dubbio a riguardo di tutto, ma la sonnolenza che ancora mi appestava non mi permetteva di riflettere o pensare troppo.

‘’Antonio! Ti attendo in auto’’, mi disse l’uomo, sfrecciando davanti alla finestra della cucina.

La sua voce giunse soffusa in casa, e gli lanciai uno sguardo provato, senza che lui potesse vedermi. Poi, mi misi gli stivaletti che mi ero preparato per l’occasione, e dopo aver indossato il giubbotto fui pronto ad uscire pure io. Fuori faceva fresco, ma la giornata si preannunciava soleggiata, e molto probabilmente ben presto l’aria si sarebbe intiepidita un po’, dopo l’alba.

Mi diressi al garage, ovvero un piccolo capanno di fortuna interamente in legno e costruito da mio nonno parecchio tempo addietro, addossato alla casa, per poi trovarne già il portone aperto. Logicamente, entrai dentro.

Non mi recavo quasi mai in garage, al massimo quattro o cinque volte l’anno, dato che comunque mia madre lo cedeva agli affittuari ed io non avevo neppure una macchina. Al suo interno, Roberto era già appostato dentro la sua auto, un’Opel corsa grigia e cupa, e con la testa si stava sporgendo fuori dal finestrino semiaperto, fumando una sigaretta.

Mi prese quasi un accidente vedendo che stava già fumando, e a quel punto tentennai, pensando che stavamo cominciando non proprio al meglio. Non che io volessi che non fumasse, ma non sopportando il fumo, mi disgustava assai entrare in quell’auto, magari proprio piena di quell’odore fastidioso.

‘’Oh! Entra pure, vieni!’’, mi disse Roberto, notandomi lì imbambolato. Spense la sigaretta e gettò il mozzicone fuori dall’auto, per poi allungarsi ed aprirmi lo sportello.

Con una smorfia impacciata sul volto, scivolai all’interno del mezzo e, posizionandomi sul sedile e annusando l’aria, scoprii che l’uomo era stato attento mentre fumava, poiché al suo interno si sentiva sì un po’ di lezzo di fumo, ma l’aria non ne era estremamente contaminata. Era stato bravo a sporsi al punto giusto, riconobbi con sollievo, mentre allacciavo la cintura di sicurezza.

Se all’interno del veicolo l’aria fosse stata irrespirabile per me, non sarei mai partito quel giorno.

‘’Si preannuncia una bella giornata… guarda che alba rosata!’’, mi disse Roberto, girando la chiave nel cruscotto e mettendo in moto l’auto.

Mentre il veicolo usciva dal nostro giardino, e dopo aver lanciato un’occhiata alla splendida alba, che effettivamente era da tempo che non vedevo, mi soffermai anche a fissare per un attimo il mio interlocutore. L’uomo era pimpante, e sul viso aveva ben impressa un’espressione molto soddisfatta e sveglia, contrariamente alla mia, corrugata dalla levataccia.

A me non dispiaceva quell’ipotetica scampagnata, ma non mi esaltava neppure, mentre invece il mio unico compagno di viaggio mi sembrava davvero euforico. Tornai a guardare fuori dal finestrino, essendo contento per lui, ma un po’ meno per me.

Percependo il mio smorto silenzio, Roberto mi lanciò dapprima un’occhiata in tralice, senza mai abbassare l’attenzione rivolta alla strada che, deserta a quell’ora della domenica mattina, si snodava davanti a noi come un lungo e freddo serpente, per poi allungare una mano e sfiorare i piccoli tasti della radio, azionandola. Improvvisamente, all’interno del veicolo cominciarono a risuonare le canzoni dei Police, ad un volume parecchio elevato.

‘’Spero ti piacciano’’, tornò a dirmi il mio interlocutore, moderando un po’ il volume.

Scrollai le spalle, con gentilezza. I Police sapevano troppo di anni passati, e a volte trovavo le loro canzoni un po’ superate, anche se tuttavia piacevoli.

‘’Che musica ascolti, di solito? Non dirmi che suoni solo’’.

Roberto non voleva stare in silenzio, e comprendevo che voleva coinvolgermi nella sua euforia. Forse, col senno di poi, potevo anche intuire che doveva aver il timore di annoiarmi con la sua presenza, e pareva anche abbastanza insicuro mentre si rivolgeva a me.

‘’No, no, ne ascolto molta’’, dissi, estraendo il mio mp3 dalla tasca dei pantaloni e mostrandoglielo, ‘’ma non mi piacciono troppo i gruppi che considero retrò. Preferisco i Green Day, i Linkin Park, i Blink 182, Sum41, 5sos…’’, continuai, elencandogli alcuni dei gruppi rock ed alternative che più mi mandavano in visibilio.

Mi raggiunse un’altra occhiatina sfuggevole del guidatore, che nel frattempo conduceva il mezzo con attenzione e a velocità decisamente moderata.

‘’Ma quelli son tutti gruppi di ragazzini… e sai, vero, da chi hanno appreso i ragazzini? Dai grandi gruppi degli anni Settanta e Ottanta. Gli stessi Police hanno rivoluzionato la musica, grazie ai loro suoni gradevoli e alla magnifica voce del loro cantante…’’.

‘’Certo, di questo non ne dubito e lo so. Resta il fatto che preferisco ascoltare musica di gruppi più giovanili e affrontare le nuove frontiere del rock, che peraltro difficilmente mi piace se è proprio classico. Troppi urlacci, troppo baccano… l’alternativo mi piace di più’’, conclusi, sorridendogli. Mi piaceva parlare di musica, lo trovavo rilassante.

‘’Ho capito. È giusto, d’altronde ciascuno di noi ha i propri gusti, ed è figlio della propria epoca. Ad esempio, io ascolto quasi sempre i Police, poiché mi ricordano i bei tempi passati, i miei anni più spensierati… si ricollegano a ricordi piacevoli’’, aggiunse Roberto, ricambiando il mio tiepido sorriso.

Dopo alcuni minuti di altro pesante silenzio, il cd all’interno della radio mi offrì la mia canzone preferita dei Police, Message in a bottle.

‘’I’ll send an S.O.S. to the world…’’, presi a canticchiare, seguendo piacevolmente il ritmo del ritornello.

Il mio interlocutore ridacchiò, soddisfatto comunque di essere riuscito a farmi sentire più a mio agio, e continuò a guidare con la solita tranquillità che lo contraddistingueva dalla maggior parte delle altre persone, sempre troppo frenetiche al volante, per i miei gusti.

 

Giungemmo in fretta a destinazione. Credevo che Roberto mi volesse portare più lontano, ed invece il viaggio durò giusto il tempo di un’altra decina di Message in a bottle, ovviamente rigorosamente canticchiate dal sottoscritto.

Era tuttavia naturale che non avessi comunque cambiato idea sui Police, ritenendoli piuttosto vintage per rientrare nelle mie classifiche mentali di gradimento, però quella canzone aveva un retrogusto che la rendeva unica alle mie orecchie.

‘’Scendi pure, siamo arrivati’’, mi disse Roberto, parcheggiando su un prato verde scuro. L’alba stava lasciando spazio al tiepidissimo sole autunnale, e la giornata si stava per davvero presentando nel miglior modo possibile, mentre scendevo dall’auto.

Roberto andò nel portabagagli, e dopo averci pastrocchiato dentro per qualche attimo, ne trasse fuori i suoi attrezzi e due cestini. Uno me lo porse.

‘’Qui dentro c’è qualcosa da mangiare. Tua madre ci teneva a prepararci un buon pranzo al sacco’’, mi disse sorridendomi, mentre lo afferravo. Lo trovai piuttosto pesante, ed immaginai che mia madre avesse messo al suo interno talmente tante cibarie che sarebbero bastate a sfamarci per tre giorni.

Poi, il mio interlocutore chiuse l’auto e mi fece cenno di seguirlo. Non sapevo di preciso dove ci trovavamo; ci eravamo lasciati alle spalle la nostra cittadina, ma dopo esserci dispersi nelle campagne avevo perso totalmente il mio senso dell’orientamento.

Stava di fatto però che quel posto era magnifico, e che attorno a noi si estendevano solo prati verdi, lievemente imbiancati dalla leggera patina di brina formatasi durante la nottata, e un leggero sentiero che stavamo percorrendo attentamente, che si inoltrava poi in un basso boschetto di piante cespugliose, spoglie in quel periodo dell’anno.

‘’Spero che tu non prenda freddo! Ti avevo detto di coprirti bene’’, mi si rivolse Roberto, lanciandomi una rapida occhiata dalla testa ai piedi.

Non avevo freddo, l’aria era frizzantina ma sopportabile, ed in più mi ero preparato a puntino, e ammisi che le sue parole per un attimo mi irritarono. Avevo quasi diciannove anni, non ero più un bambino al quale va detto e ridetto tutto quanto. Poi, però, la mia attenzione fu attirata dal vestiario del mio compagno di scampagnata; l’uomo infatti si era messo addosso un completo tutto d’un colore verde scuro, una sorta di quelli militari o da cacciatori, e si stava sistemando sulla testa un berretto verde a macchie scure.

‘’Mi sono preparato e vestito alla perfezione, mica dovevo andare a combattere in Vietnam’’, ribattei, accennando ai suoi vestiti.

Roberto per un istante mi fissò con perplessità, non avendo inteso a cosa mi riferissi, poi, comprendendo e guardandosi i calzoni, sorrise.

‘’Siamo nel bel mezzo della natura, è giusto rispettarla. Con addosso questi vestiti, non turbo la quiete degli animali, ed in più essi tengono molto caldo. Fidati, si sta anche comodi’’.

Annuii alle sue motivazioni, e poi ci addentrammo per qualche metro all’interno della bassa boscaglia, per ritrovarci di fronte ad un magnifico laghetto dopo qualche altro passo.

Io rimasi estasiato dalla bellezza di quello specchio d’acqua, restando a fissare il suo riflesso argenteo, che pareva volersi confondere col cielo in fiamme dell’alba ormai da poco superata, mentre il mio compagno adulto già si preoccupava della sua attrezzatura.

‘’Ti piace questo posto?’’, mi chiese dopo un po’ Roberto, probabilmente notando il mio sguardo perso.

‘’Sì, certo, è magnifico! E poi adesso è autunno inoltrato… non riesco ad immaginarmelo d’estate, tutto circondato di verde e con le sue acque limpide. Sei sicuro comunque che qui si possa pescare?’’, gli chiesi, non per voler sminuire il suo acume ma sono per accertarmi che l’uomo non cercasse di far del male in modo illecito alle creature che vivevano in quel luogo splendido.

‘’Mi ritieni una sorta di bracconiere?! Certo che si può. Ho anche la licenza e le carte in regola per farlo. Ma non temere, noi non rovineremo quest’aura magica che avvolge la zona’’, mi rassicurò, facendomi l’occhiolino. Mi fidai delle sue parole, e dopo qualche altro minuto aveva già preparato la canna da pesca e ne aveva già gettato l’amo.

Non mi misi ad osservarlo mentre svolgeva tutti i suoi lavoretti, preferendo concentrarmi su ciò che mi circondava, ma il silenzio che ci avvolgeva fu interrotto dal suono del mio cellulare. Erano le otto di mattina, e Jasmine mi dava il suo buongiorno.

‘’Immagino si tratti di quella… Jasmine, se non sbaglio. Quella ragazza che veniva spesso a farti visita’’, disse Roberto, mentre rispondevo al messaggio.

Annuii.

‘’Ti piace?’’.

‘’Uhm… ehm… un po’ ‘’, risposi alla sua domanda diretta, dopo due colpetti di tosse tattici. In fondo però sapevo che potevo fidarmi di Roberto; lui non era come gli altri miei coetanei, che magari avrebbero potuto riderci sopra o spifferare in giro i miei sentimenti.

‘’Bene, mi sembra una brava ragazza. Umile d’animo, intelligente, educata…’’, aggiunse l’uomo, cominciando a montare una sorta di tendina.

‘’Vero. Ma a volte ho tanti dubbi. Insomma, lei mi piace, è carina e cortese, si interessa a me e sembra che ricambi almeno un po’ il mio interesse, ma ciò che mi spaventa è che… siamo così diversi. Ho paura di non piacerle veramente, d’altronde chi vorrebbe stare con uno sfigato come me?!’’, sospirai, lasciandomi andare.

Roberto sgranò leggermente gli occhi a quelle parole, e lasciando perdere ciò che stava facendo per un attimo, si diresse verso di me e mi mise le sue mani sulle spalle.

‘’Non dovresti parlare così. Non sei sfigato, sei solo una persona molto timida e chiusa, che però è stracolma di qualità e pregi. Sono certo che un giorno riuscirai ad affrontare di petto la tua timidezza, e magari ad aprirti un po’ di più con chi ti circonda, ma nel frattempo non farti problemi inutili. Tu e Jasmine siete diversi, sia fisicamente che negli atteggiamenti, ma questo è giusto; la diversità è qualcosa che in fondo avvicina, poiché è novità, e molte volte è bellezza ed attrazione. Non dovresti esserne spaventato o inquieto’’.

Annuii alle sue parole.

‘’Certo, hai ragione. Io non ne sono spaventato, ti ho già detto che lei in fondo mi piace, credo, ma…’’.

‘’Oh, basta con questi ma, ragazzo. Ti fai troppi problemi. Frequentala, e sii sempre gentile con lei; se poi sarà la persona giusta, vedrai che tutto il resto verrà da sé. Non si progetta mai nulla in anticipo, quando si contratta con l’amore’’, concluse Roberto, lasciandomi alle spalle e tornando alle sue mansioni.

‘’Hai ragione’’, ammisi, senza saper aggiungere altro alle sue parole colme di verità.

‘’Sai, sono tante le persone false, che cercano di starti vicino solo per attrazione fisica, o, ancora peggio, per averne guadagno e per soldi. Jasmine non mi sembra una di queste, non mi pare una ragazza che se la tiri o piena di sé. Mi sembra una comunissima ragazza, e poi dovevi vedere l’altro giorno quando l’ho lasciata entrare, ed ha chiesto di te… era così dolcemente impacciata! Sì, credo proprio che sia una bella persona. Continua a frequentarla, se te ne darà la possibilità’’.

‘’La sua è un’amicizia gratuita, incondizionata’’, aggiunsi, ricordando quando lei ed Alice mi avevano offerto il loro supporto, dopo aver visto ciò che Federico mi aveva fatto.

‘’Esatto. E al giorno d’oggi, fidati di me, ciò che è gratuito ed incondizionato scarseggia’’.

‘’Purtroppo è vero’’.

‘’Sai che non sono la persona giusta per parlare; avrai notato di certo il motivo per cui ho scelto di non insegnare mai più. Che potrei passare a dei giovani studenti? Sono ormai un vecchio dalla barba grigia, avvilito e frustrato. Quando parlo a volte non mi riconosco, e neppure quando penso riesco più a gestirmi. Mi sembra di essermi imbevuto in un pessimismo cosmico, che non mi lascia più vedere l’aspetto puro della nostra società.

‘’Come sai, sono laureato in filosofia, e mi ritenevo a modo mio un filosofo; ma un filosofo deve avere una visione giusta e sua del mondo, prima di parlare. Io invece vedo tutto nero ultimamente, e ciò è ingiusto. Non credo in Dio, ma credo solo che esso sia l’esternazione estrema delle più irrazionali e profonde paure dell’uomo, e credo fermamente che l’uomo odierno non abbia più alcuni valori, e che si muova verso gli altri solo per guadagno, seguendo solo il denaro e il sesso, nelle loro forme più vili. Non sono più un uomo in grado di passare qualcosa, anche perché ho fallito in ogni mio obiettivo’’.

‘’Stai parlando come un… depresso’’, intervenni, esitando prima di sancire la mia sentenza di un’unica parola. Non volevo offenderlo, e fortunatamente il mio interlocutore non se la prese.

‘’Può darsi che io lo sia. Ma che ci resta, oltre alla depressione? Tu vedi qualcosa in cui credere, a questo mondo? L’uomo deve credere in qualcosa, per vivere. Ci hanno portato via il lavoro, la fede, la felicità, gli anni migliori sono trascorsi…’’.

‘’Ora sei tu però che perseveri nella tua ingiustizia. Guarda attorno a te; guarda questo luogo splendido! A me trasmette una gran calma e serenità. Il mondo e la realtà non sono solo esseri umani perfidi e tentatori, come mi vuoi mostrare tu, ma è anche natura, animali, piante, fiori, laghetti stupendi…’’, mi lancia a dire, interrompendolo.

‘’Vedrai che l’odio umano distruggerà ogni cosa, prima o poi’’.

La sua sentenza cadde come un macigno sui miei pensieri, schiacciandoli. Non seppi cosa ribattere, poiché anche ciò in fondo era vero.

Non ho mai sopportato i sognatori, poiché ho sempre creduto che essi abbiano da sempre l’intenzione di rendere più dolce la realtà, rendendola a loro modo pura fantasia, però non ho mai negato che sognare faccia bene. Ti tiene semplicemente a galla, anche nei momenti più difficili. Ma l’odio… l’odio, beh, è una questione più spinosa.

In quel momento, mentre parlavo con Roberto e mi ero azzittito, non sapevo di preciso cosa fosse l’amore, ma ero a conoscenza della potenza dell’odio. L’odio era quella sensazione che provavo quando scorgevo Federico, me ne rendevo conto in modo ancor più evidente in quell’istante. Era qualcosa di devastante, e in più a volte creava anche disagio e spavento, dentro di me.

‘’Cos’è per te l’odio?’’, domandai a Roberto, a bruciapelo, esternando le mie inquietanti riflessioni.

L’uomo sollevò gli occhi dal suo lavoro, risistemandosi gli occhiali sul naso con fare leggermente stupito, per poi correre con le mani a estrarre una sigaretta dal pacchetto nella tasca dei calzoni mimetici.

‘’La ruota motrice dell’umanità, ciò che ha reso l’uomo quello che è oggi. In altre parole, ciò che ha donato l’evoluzione alla nostra specie’’.

Un sorriso mesto e pessimista apparve sul suo volto, mentre si fermava per accendere la sigaretta, passandosi poi la mano destra sulla barba.

Io mi limitai a guardarlo, attendendo il proseguimento del suo discorso.

‘’In natura, difficilmente gli animali uccidono esemplari della loro stessa specie. E’ vero, durante la stagione riproduttiva i maschi combattono per il territorio e per le femmine, ma quasi mai lo scontro porta alla morte di uno dei contendenti.

‘’Invece, l’essere umano ha saputo evolvere un aspetto mancante alle altre specie; l’odio. L’odio rivolto verso i suoi simili, quel sentimento che lo porta a voler vedere morto i suoi vicini di casa, a massacrare i suoi fratelli, genitori e zii… non so se mi spiego.

‘’Tieni solo presente che la nostra specie, nel corso dei millenni e della nostra evoluzione, ha saputo far fruttare al massimo quell’aspetto che noi conosciamo in natura come istinto di sopravvivenza, innato in tutte le creature viventi. Un istinto primordiale, che noi mammiferi ci portiamo dietro ancora da quando i nostri antenati comuni, piccoli come topolini, erano esseri notturni che cercavano di vivere nascosti dai grandi nemici, come i dinosauri e i grandi rettili. Ebbene, l’essere umano, nel corso della sua evoluzione, è riuscito, contrariamente alla maggior parte degli altri mammiferi, a convogliare questo istinto primordiale in un sentimento ancora più potente, che l’ha spinto a migliorarsi.

‘’Se tu ci pensi, la mente umana ha progettato e la sua mano ha costruito soprattutto per scopi bellici, per imporsi sulla natura e sui suoi simili. L’odio è diventato il motore della realtà umana, ciò che spinge ad ingegnarsi, e naturalmente l’insieme di questo complicato processo ha indotto un’evoluzione ancora più marcata della nostra specie.

‘’Addirittura, questo sentimento spregevole, e che tutti noi possediamo all’interno della nostra mente, è talmente tanto potente da essere chiamato con centinaia di nomi differenti, che intasano i vocabolari; da astio a rancore, da insofferenza a risentimento… e questi sono solo alcuni esempi, ma essi sono tutte sfumature e sinonimi dell’odio, che noi abbiamo voluto categorizzare in base alla profondità di ciò che si prova nei confronti dell’altro, solo per non dover pronunciare ogni volta quella parola che ci suona tanto brutta. Ma, in realtà, è l’odio il re del mondo e della realtà’’, concluse l’uomo, con un’enfasi che mi avrebbe lasciato senza dubbio a bocca aperta, se non l’avessi conosciuto. Era un grande oratore, spietato sotto quel punto di vista, questo dovevo assolutamente riconoscerglielo.

Tuttavia, trovavo che nel suo pensiero esso desse troppo peso all’odio, che certo, era un sentimento dominante nella vita quotidiana umana, ma che non avesse preso in considerazione il suo opposto e antagonista.

‘’Esiste anche l’amore, Roberto’’, gli dissi, con calma.

Lui, che stava finendo di montare la tendina da campo, non mi degnò neanche di uno sguardo, ma solo di qualche parola fredda.

‘’E chi l’ha mai conosciuto per davvero?’’.

Discorso chiuso. Io, personalmente, l’amore non l’avevo mai conosciuto in profondità, ma mi aspettavo che un uomo adulto e con una vita sentimentale ancora attiva, anche se a tratti tormentata, sapesse cosa esso volesse dire. Ma non aggiunsi altro, poiché il discorso che aveva concluso poco prima effettivamente non lasciava alcun margine di conversazione. E il peggio era che dovevo riconoscergli il fatto che la sua posizione estrema avesse un fondo di verità inviolabile.

Sapevo che molti degli strumenti più tecnologici che utilizziamo al giorno d’oggi erano stati progettati prima di tutto per uno scopo bellico, e che la corsa all’avanguardia tecnologica era una sorta di spinta costante, come la creazione di macchine o ordigni da guerra. Nulla era stato creato per il bene comune e con fini strettamente benefici e gratuiti, ed in ogni caso dietro c’era sempre la costante brama umana di ottenere un po’ di fama e un cospicuo ricavo in denaro, anche a discapito delle vite altrui.

Scuotendo la testa, rassegnato, tornai a fissare il lago color turchese, inspirando ed espirando con una regolarità tesa.

Dopo qualche attimo, Roberto si mise davanti a me, imponendosi nel mio campo visivo.

‘’Ti devo chiedere perdono anche questa volta, Antonio. Tutte le volte che vorrei fare un discorso con te, cado nelle mie sciocche convinzioni, e rovino sempre tutto. Ti prego di dimenticare anche questa volta le mie parole. Ti scongiuro’’, mi disse, davvero pentito.

Sapevo che non lo faceva apposta, e che lasciarsi andare alle sue critiche estreme e brutali faceva parte di lui. Però lo stimavo profondamente per il fatto che, con le sue parole, mi trattava da vero uomo, da suo pari.

Non raddolciva i suoi discorsi, non li rendeva più semplici o meno lunghi e complessi solo perché aveva un ragazzino davanti, ma si comportava esattamente come se avesse avuto di fronte una persona della sua età e del suo stesso ambiente intellettuale. Inoltre, la mancanza di malafede nei miei confronti era lampante, e mi trovavo comunque a mio agio con lui.

Gli sorrisi.

‘’Non devi scusarti di nulla, questa volta hai espresso concetti che, in parte, ritengo siano giusti, caro professore e filosofo’’, gli dissi, in tono leggermente disteso ed ironico ma per nulla canzonatorio.

‘’Ora conosci ancora meglio il motivo per cui ho scelto di non insegnare mai più’’, mi disse, allungandomi una piccola pacca.

‘’Grazie per la sopportazione. So che sono logorroico, e che quando mi metto a parlare non la smetto più. Ma tu sei un ragazzo educato, non mi interrompi mai e non ti mostri scocciato. Sei l’unica persona di questo mondo che non mi mette all’angolo, che mi ascolta davvero, e di questo ti sono grato, ma sono anche consapevole di abusare del tuo cortese interesse. Sei molto maturo ed educato, ma il mio Inconscio sembra sempre spingermi ad approfittarne, come avrebbe detto in questi casi il buon Sigmund Freud. Ma non parliamone più, e la smetto subito di rovinare questa domenica che dovrebbe essere serena sotto tutti i punti di vista’’, concluse, sorridendomi e rivolgendomi, a modo suo, dei bei complimenti.

Sorrisi nuovamente e tornai a guardare il lago, mentre il sole ormai stava già prendendo una posizione più privilegiata e meno marginale nel cielo stranamente blu, per nulla grigio o nebbioso.

Ero consapevole che quella sarebbe stata una lunga giornata, e sperai davvero che tutto potesse andare per il meglio e per il verso giusto, e che magari il destino mi offrisse anche qualche occasione per svagarmi un po’, senza finire congelato sulle rive di un laghetto disperso nel bel mezzo di quelle ignote ed isolate campagne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!

Questo capitolo non finisce qui, poiché ho preferito spezzarlo in due più distinti, in modo da non pubblicarne uno unico d’infinita lunghezza. Quindi, nel prossimo aggiornamento scopriremo come si evolverà questa giornata di pesca sempre attraverso il punto di vista di Antonio, e, soprattutto, se poi accadrà qualcosa. Chissà.

Beh, nel frattempo, spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento, e che non vi abbia annoiato.

Il tema del rapporto amore-odio nell’essere umano, affrontato dal protagonista e da Roberto in questo capitolo, sarà una tematica che comparirà altre volte nel corso della narrazione. Su di essa, e collegata quindi al racconto, alcune settimane fa ho scritto e pubblicato una poesia, contenuta nella mia raccolta Avanzi di pensieri, ed intitolata Amare, precisamente la numero 69 della raccolta stessa.

Vi ringrazio per aver letto anche questo capitolo e per continuare a seguire e a sostenere il racconto, e chiedo scusa se vi ho annoiato anche con queste lunghe note.

Grazie di cuore per tutto, e buon proseguimento di settimana! A lunedì prossimo J

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

CAPITOLO 16

 

 

 

 

In realtà, quella mattinata insolita passò abbastanza in fretta. Inutile dire che il mio sguardo si perse più volte in quell’ambiente selvatico.

Avevo sempre vissuto dentro le quattro mura della mia abitazione, inglobata all’interno di un anonimo paesetto che, tuttavia, anch’esso voleva tramutarsi in città, e nonostante la crisi economica ogni anno si gettavano sempre le basi di tanti cantieri edili, e non stentavo a credere nel fatto che ben presto anche quella piccola realtà si sarebbe tramutata in qualcosa di più vasto e complesso. Comunque, essendo abituato a mura di mattoni e di cemento, tutto quel verde scuro dell’erba provata dai primi freddi di stagione mi aveva davvero stregato.

Erano passate più di un paio d’ore da quando eravamo giunti lì, ma non mi ero ancora stancato di osservare e di esplorare ciò che mi circondava.

Roberto, che non aveva ancora pescato nulla, se ne stava in piedi a bordo del lago, le braccia incrociate su petto, mentre aveva fissato la canna da pesca, in modo da non doverla tenere continuamente tra le mani.

‘’Allora, Antonio, che ne pensi di tutto questo?’’, mi chiese, dopo aver passato un bel po’ di tempo in silenzio.

‘’Penso che sia favoloso. Mi piace questo posto, te l’ho già detto’’, gli risposi, andandomi a sedere su una sediolina pieghevole che si era portato dietro il mio interlocutore.

‘’Sono davvero felice che questo posto ti piaccia. Grazie per aver scelto di venire a farmi compagnia’’, mi disse, rivolgendomi uno sguardo tranquillo e sorridente.

‘’Grazie a te, per avermi fatto conoscere questo luogo. Sicuramente, se non mi ci avessi portato tu, non l’avrei neppure mai visto’’, mi limitai a rispondere, sedendomi sotto al tiepidissimo sole autunnale.

‘’Chissà. Fiero comunque di avertici portato’’.

Tornò il silenzio tra noi, e ben presto mi trovai a rialzarmi e a dirigermi verso il boschetto circostante.

Osservai le piante rampicanti che mi circondavano, notando cespugli di splendide rose canine, purtroppo spoglie in quel periodo dell’anno, e ripresi a fantasticare sulla bellezza del luogo durante la calda estate. M’immaginai di trovarmi lì, immerso nella verde e fiorita natura, e mi parve un sogno. Effettivamente, lo era, e mi ritrovai a rabbrividire a causa del fresco della mattina. Decisi quindi di tornare alla mia postazione soleggiata.

Roberto era ancora lì, in piedi, sulla riva del laghetto.

‘’Mi è venuto un certo languorino. Constatando che sono quasi le undici, direi che potremmo anche fare uno spuntino, visto che le proviste non ci mancano… che ne dici?’’, mi chiese, sciogliendosi momentaneamente dalla sua posizione irrigidita.

‘’Per me va bene’’, risposi, riconoscendo che pure io avrei messo volentieri qualcosa sotto i denti, dato che la colazione rapidissima e magra di quella mattina si era rivelata molto poco sostanziosa per il mio stomaco, come in effetti era per davvero.

L’uomo si mosse verso di me, e smettendo di badare la canna da pesca, ancora abbassata nelle acque placide e totalmente immobili del laghetto, si diresse direttamente all’interno della piccola tenda da campo, estraendo il cestino contenente le vivande.

‘’Mangiamo dentro, oppure fuori? Tieni presente che, se mangiamo dentro, dobbiamo stare comunque seduti a terra… se invece pranziamo fuori, possiamo usufruire del piacere delle sedie. Decidi tu’’, mi chiese, guardandomi.

‘’Mangeremo fuori’’, mi limitai a rispondere, come se fosse stata una risposta ovvia e scontata. Effettivamente, la tendina mi appariva ristretta, e in più mi andava di continuare a stare immerso nella luce del sole, che a quell’ora finalmente cominciava un po’ a scaldare il mio vestiario, e di conseguenza anche il mio corpo.

Roberto annuì e, dopo aver sistemato le sedie ed aver messo su una sorta di tavolino fai da te, ovviamente fragile ma costruito in un lampo con un grosso pezzo di tronco trovato in zona e ricoperto dal muschio, con appoggiato sopra una lamierina che, molto probabilmente, non avevo scorto prima poiché era rimasta all’interno della tenda da campeggio. Rimasi sorpreso da tanta abilità di arrangiarsi.

‘’Sono stupito dalle tue capacità’’, gli feci infatti notare, sedendomi. Lui ridacchiò sotto i folti baffi.

‘’Sono stato abituato fin da piccolo all’arte di arrangiarmi, e col tempo ho imparato a sfruttare ogni oggetto che mi capita a tiro, e che può essermi utile sul momento. Certo, un po’ di previdenza aiuta, però bisogna anche sapersela cavare. E questo è quello che in certi casi manca a quelli della vostra generazione’’.

‘’Uhm… è vero’’, mi limitai a dirgli, riconoscendo che io non sarei stato in grado di sapermela cavare così tanto in fretta.

‘’La campagna era un luogo duro, e mio padre pure. Ti ho già raccontato, durante quella notte insonne, che il mio genitore non era certo un santo. Per non rischiare punizioni, dovevo fare in fretta tutto ciò che mi diceva; in fondo, questa continua spinta dettata dalla paura non mi ha fatto male’’.

Annuii, mentre lui frugava dentro al cestino, che gli avevo nuovamente consegnato.

‘’Quanto mi piacerebbe tornare a vivere in campagna. Purtroppo, le vicissitudini me l’hanno impedito, finora, ma spero di tornarci un giorno’’, tornò a dire il mio interlocutore, porgendomi un panino incellofanato ed amorevolmente preparato da mia madre.

‘’Vedrai, se lo vorrai un giorno potrai realizzare questo tuo desiderio’’.

‘’Tu credi? Speriamo. Sta di fatto che Livia odia gli ambienti rurali, e lei non verrebbe mai a viverci. Figuriamoci Federico! E poi, per ora siamo incatenati in paese. Se il futuro sarà clemente, forse un giorno realizzerò il mio desiderio, hai ragione… d’altronde, la casa dei miei genitori è ancora di mia proprietà, ed è gestita da alcuni contadini di fiducia, che danno anche un’occhiata alla produzione agricola delle terre rimaste in mio possesso. Niente di che eh, si tratta di un qualche vigneto e qualche ettaro tenuto a foraggio, che però se fossero gestiti al meglio potrebbero fruttare molto di più.

‘’Un giorno, se vorrai, potremmo andare a farci un giro; non dista molto da qui, solo che è parecchio fuori mano… pure io è da un sacco di tempo che non vado a farci una visita. Però l’ambiente è ristrutturato e tenuto bene’’, continuò a dirmi Roberto, afferrando anche lui un panino e addentandolo lentamente.

‘’Immagino’’, mi limitai a dirgli, concentrato sul mio pasto e sulla masticazione.

‘’Eh, ma la mia famiglia è più direzionata verso la città. Già il tuo paese sta a loro stretto, immaginati la campagna sperduta! Mia moglie tra l’altro ha avuto la fortuna di ereditare, da una lontana zia zitella, un bell’appartamento a pochi passi dalla zona centrale di Bologna, parecchio spazioso ma logicamente situato in una zona parecchio caotica della città, e come potrai ben immaginare quello non è un posto che mi piace. Però, credo che il prossimo anno andremo a vivere tutti lì, non appena Federico avrà completato le superiori. Magari poi potrà andare a studiare all’università, da lì più facilmente raggiungibile, ed avere tanti vantaggi… comunque, è totalmente arredato anche quello, e pronto all’uso. È proprio in quel posto dove sono andati a rifugiarsi l’altro giorno, lei e Federico, dopo che avevano discusso con me’’, concluse, rabbuiandosi leggermente e continuando a mangiare.

Io nel frattempo non mi azzardavo ad appoggiarmi a quella sorta di tavolino, temendo di ribaltare tutto, e mi affrettai ad assimilare tutte le informazioni che mi stava passando l’uomo. Non sapevo che i coniugi Arriga possedessero già ben due abitazioni abitabili, e questo mi lasciò un po’ perplesso, perché non riuscivo a comprendere il motivo del fatto che avessero scelto di venire a passare dieci mesi della loro vita in affitto, e in più nel mio paese, così distante da ambo i loro possedimenti.

Inutile sottolineare che quella volta non riuscii a trattenere ulteriormente la mia curiosità.

‘’Cosa vi ha spinto allora a venire in affitto a casa mia? Beh, avete già due case, in due ambienti diversi…’’, chiesi, lasciando che l’ultima frase mi morisse lentamente in gola. Non ero fatto per chiedere.

Roberto mi guardò per un attimo, riabbassò poi lo sguardo e mugugnò qualcosa.

‘’Non sto a raccontarti il motivo di questa scelta, magari un giorno te lo dirò oppure lo scoprirai da solo. Per ora, non ritengo opportuno parlarne, poiché ciò potrebbe andare a discapito di altri, al momento non presenti’’, chiuse il discorso, con un modo leggermente brusco.

Quella volta fui io ad abbassare lo sguardo, comprendendo che dovevo aver toccato un tasto sbagliato, che aveva fatto stonare il componimento quieto su cui fino a quel momento avevamo basato il nostro discorso.

Capii anche che il motivo di tale scelta abitativa doveva essersi resa necessaria per una qualche situazione famigliare non proprio limpida, forse proprio nata da qualche problema del mio nemico. Non credevo che la scelta fosse stata effettuata per Livia, quindi la mia attenzione scivolò verso Federico. Mi chiesi, interiormente quella volta, quale fosse il problema di quel ragazzo, riconoscendo che forse qualche aspetto di esso dovevo già averlo assaggiato e conosciuto.

Riscacciai quindi i miei intimiditi pensieri, stando in silenzio e non aggiungendo altro a quello che pareva un discorso chiuso dal mio interlocutore, che comunque dopo un qualche istante di silenzio e di pesante cupezza parve voler uscire da sotto quel velo misterioso che aveva gettato sulla vicenda da me appena accennata.

‘’Ti piacerebbe vivere in campagna?’’, chiese, a bruciapelo. Sapevo che lo faceva per raddrizzare di nuovo il discorso, in modo da riportarlo su una più retta e meglio gestibile via.

‘’… sì’’, gli risposi, seccamente e dopo un lieve sospiro, che parve divenire parte di un’ipotetica frase.

Roberto tornò a guardarmi, comprendendo che il mio disagio era tornato a farsi vivo, e che l’equilibrio precario che eravamo riusciti a raggiungere vacillava impietosamente. Di fronte alla mia risposta, che non lasciava tanto margine di discorso, parve anche lui in difficoltà a spiccicar parola.

Fui io a toglierlo dal pasticcio e ad aiutarlo, tuttavia dispiaciuto, poiché lui si stava comportando bene con me, ed io d’altronde non avevo alcun diritto di ficcanasare liberamente nella sua vita privata, quasi pretendendo egoisticamente delle risposte.

‘’Un giorno mi piacerebbe, sì. Però, chissà. Mi piacerebbe fare tante cose, dal suonare all’andare all’università’’, aggiunsi al mio sì biascicato poco prima.

‘’Uhm, tutti percorsi interessanti. Io ti consiglierei vivamente di cercare di farti spazio nel mondo della musica; sei davvero portato, per il pianoforte. In più hai inventiva, e segui spesso il tuo cuore mentre suoni. Hai una buona fantasia e una discreta creatività, a mio avviso, e questo è davvero qualcosa d’importante’’, riprese a dire l’uomo, visibilmente sollevato dal fatto che fossi stato io stesso ad incentivarlo a riprendere a parlare.

‘’Mi piacerebbe, ma si sa, a volte la vita prende strade strane… io stesso ho un po’ paura del futuro, lo ammetto. A volte, vorrei che il futuro fosse un foglio di carta bianco ed immacolato, dove ciascuno di noi potesse avere la possibilità di scriverci sopra e di realizzarci ciò che più lo renderebbe felice’’, dissi, in modo molto ingenuo.

‘’Sei un sognatore, noto. Ebbene, mi pare anche di comprendere che ti piacerebbe che fosse possibile riuscire ad organizzare l’intera vita, mettendo ordine al suo interno…’’.

‘’Prima di tutto, non mi ritengo un sognatore. Anzi, non sopporto molto chi sogna troppo e si distacca dalla realtà. Però, posso dirti tranquillamente che mi piacerebbe che tutto fosse più prevedibile, in modo da potersi preparare in anticipo a possibili urti, o ad altri problemi… insomma, avrai capito ciò che voglio dire. Mi piacerebbe che ci fosse un po’ più di prevedibile ordine ovunque’’, risposi, con difficoltà. Non trovavo facile spiegare ciò che stavo pensando, mentre nel frattempo cercavo anche di gustarmi il mio pasto.

‘’Sì, ok, ho capito ciò che intendi. Beh, in fondo hai ragione; sarebbe bello che ciascuno di noi potesse programmare la propria vita, a suo piacimento, e magari mettere anche ordine ovunque, pure nei vari eventi che si susseguono continuamente. Ma ti rendi conto che non si può domare il caos, che è sovrano della realtà? Insomma, bisogna arrendersi alla sorte e al caso, per forza di cose. E poi, la vita sarebbe molto noiosa se il tuo desiderio, che sarebbe sicuramente apprezzato da tante altre persone, si avverasse. Non esisterebbe più neppure lo stupore, ma una noia piatta, dato che sapremmo già tutto quello che ci capiterà, e questa non sarebbe quasi più vita’’, mi disse Roberto, saggiamente. Estrasse anche la bottiglia dell’acqua minerale naturale e colmò i bicchieri di entrambi.

‘’Penso che tu abbia ragione’’, aggiunsi, bevendo subito qualche sorso.

‘’Se ci pensi su un attimo, capirai che l’umanità, oltre tutto, ha affrontato i suoi limiti ed ha provato a cercare di rendere la realtà più semplice e prevedibile, grazie ai suoi più validi pensatori. Ad esempio, i matematici è dall’inizio dei tempi che cercano di dare certezze attraverso i numeri di loro invenzione, e alle loro regole e leggi, che nel corso di millenni sono diventate sempre più complesse ed astruse, finendo anche per diventare ingestibili tanto quanto il caos iniziale’’.

‘’Eh, a chi lo dici… io di matematica ci capisco davvero poco’’, dissi, ridacchiando.

‘’Vedi? In fondo, gli stessi numeri, inventati dall’uomo stesso per rendere la vita quotidiana più semplice e maggiormente organizzata, la rendono ancora più caotica. Non fermarti a pensare ai numeri che vanno dall’uno al dieci, non ha senso; rifletti con maggiore profondità, smonta la certezza matematica.

‘’Ad esempio; sappiamo per certo che, tra un numero intero ed un altro, esistono un’infinità di sequenze di altri numeri. Tra l’uno e il due, esistono infiniti numeri; uno virgola uno, uno virgola due, e così via, senza stare ad elencare un’improbabile ed infinita sfilza di lunghi numeri periodici. Tu pensa quante possibili combinazioni numeriche esistono tra l’uno e il dieci; infinite, e infiniti numeri.

‘’Lo sappiamo, inconsciamente, eppure la nostra mente, così tanto abituata a volerci semplificare la vita, non si sofferma su questo sconvolgente particolare, e vuole ripeterci che esiste l’uno, il due, il tre, e che uno più uno fa due, due più due fa quattro, e tre più tre fa sei. La matematica è una sorta di camera chiusa che cerca di contenere un’infinità di varianti numeriche e di probabilità, che logicamente non riescono ad essere contenute all’interno delle sue inesistenti quattro mura.

‘’Possiamo quindi dire che la matematica stessa, anche a rigore di logica, è una sorta di stanza dalle mura invisibili, create come per magia dall’essere umano, ma invisibili ed inconsistenti nella realtà’’.

Roberto stava nuovamente filosofando, ne ero certo, ma non gli stavo più dietro. Era un peccato, poiché effettivamente ciò che diceva aveva un senso, ma era troppo complesso e macchinoso per essere afferrato nella sua totalità da uno come me.

L’uomo, notando la perplessità che era impressa sul mio volto, si fermò improvvisamente e, guardandomi con fermezza, parve sciogliersi e mi sorrise.

‘’Ecco, stavo per tornare ad esagerare. Ma questa volta mi sono fermato in tempo. Tuttavia, riconosco di essere una sorta di nichilista, e lo sono, a modo mio. Diciamo che non credo a nulla che ai miei occhi possa sembrare in ordine, poiché esso nasconde sempre il caos, suo originario principio. In verità, mi piacerebbe smontare tutto ciò che vedo, in modo da poterlo analizzare meglio con piglio più critico, ma ci vuole forza per farlo, bisogna essere un grande pensatore per poterci davvero riuscire.

‘’Non dico che bisogna essere un grande scienziato, poiché gli scienziati molto spesso basano interi loro studi su appunti matematici, ed ho appena parlato male della matematica stessa, che trovo sì utile, ma fallace nel suo punto cardine, che sarebbe quello di offrire certezze e punti fermi, riuscendoci, ma solo in parte e parecchio superficialmente. Ma a questo punto mi chiedo; io chi sono? Uno sciocco, ovvio. Che annoia e che spara sciocchezze’’, concluse, alzando un dito in aria. Poi, mi allungò il cestino contenente tante altre cibarie, e si mise a bere a grandi sorsi.

Io avevo a malapena finito il mio panino, dal tanto che ero stato trasportato dalle parole del mio interlocutore.

‘’Non è vero che sei uno sciocco, anzi. Il tuo modo di pensare, oserei dire per assurdo, mi piace parecchio. È solo che è un po’ difficile starti dietro’’, gli dissi, esprimendo il mio parere sulle sue autocritiche parole.

Roberto non smise di sorridermi.

‘’Tu sei troppo gentile, te lo dico sempre. Ehi, ma guarda un po’ chi c’è…’’, disse improvvisamente il mio saggio interlocutore, voltandosi di lato.

Seguendo il suo sguardo, notai con sorpresa che a pochi passi da noi c’era una magnifica papera, piccola e scura, che si stava dirigendo lentamente e timidamente verso il nostro tavolino improvvisato e traballante.

‘’Diamole qualcosina da mangiare’’, aggiunse Roberto, lanciandole qualche briciola di pane, subito divorata in gran fretta dal simpatico e piccolo volatile, per nulla intimidito dalla nostra presenza.

Mi affrettai a fare la stessa scelta dell’uomo, lanciandole anch’io qualche briciola.

‘’Non ci teme, la giovincella. Qui durante l’estate è sempre pieno di bambini, che le danno da mangiare briciole o pezzetti di pane. È abituata alla presenza umana’’, mi spiegò Roberto, senza togliere lo sguardo dall’animale selvatico.

‘’E’ una femmina?’’, chiesi, incuriosito dal fatto che il mio interlocutore avesse parlato della creatura utilizzando il femminile.

‘’Sì, è una femmina di germano reale. È difficile riconoscere i maschi dalle femmine durante questo periodo dell’anno, visto che durante l’autunno e l’inverno il loro piumaggio non è affatto differenziato. I maschi generalmente durante il periodo riproduttivo hanno le piume grigie, che diventano di una sfumatura verde scuro sulla testa e nera sulla parte centrale del dorso. Le femmine invece restano tutto l’anno di quel colore lì, marrone scuro. Questa femmina resta comunque distinguibile dai miei occhi esperti, poiché non ha alcuna sfumatura di altri colori maschili, che tuttavia non scompaiono totalmente neppure dopo la muda autunnale’’, mi spiegò il mio saggio interlocutore.

‘’Però! Te ne intendi di animali’’, gli dissi, assimilando le nuove nozioni che mi aveva passato. Non ero un esperto di volatili e di papere, ma mi piaceva sempre scoprire qualcosa di nuovo sui vari animali, visto che la natura restava uno dei miei interessi principali, assieme alla musica.

‘’Beh, come ben sai, ho sempre vissuto in campagna. Se un giorno tornerò a viverci, giuro che acquisterò una coppia di anatre domestiche. Mi piacciono questi volatili dai piedi palmati, non so il perché’’, mi disse con semplicità Roberto, tornando a lanciare qualche altra briciola alla bestiola, che, dal canto suo, doveva essere ormai sazia. Infatti, dopo un poco si allontanò da noi, sempre col suo passo altalenante e dalla parvenza goffa, per tornare a mollo nel lago.

Mentre osservavo l’anatra, un rumore forte e musicale mi spaventò, e mi fece sobbalzare sulla mia sedia, rischiando di far traballare il precario tavolino. Direzionando subito il mio sguardo verso il mio compagno di scampagnata, notai che tra le mani si rigirava una piccola fisarmonica a fiato.

Lo guardai, estasiato, tramutando il mio piccolo spavento in una folle curiosità.

‘’No… non dirmi che la sai suonare’’, gli chiesi, impacciato.

‘’Certo. L’ho appena provata, un attimo… ecco, beh, ho imparato a suonarla in gioventù, ora non sono più tanto esperto, ma per me questo oggetto è diventato una sorta di ricordo portafortuna. Lo porto sempre in tasca, con me’’, mi rispose, accennando alla tasca dei pantaloni. Poi, rapidamente, si mise l’oggetto tra le labbra, e stringendolo con la mano destra cominciò a soffiarci dentro e a muoverlo rapidamente. Ne uscì una sinfonia gradevole da udire, totalmente libera, di quelle che mi piacevano da morire.

Restai con le mani incrociate sotto al mento ad ascoltare quella gradevole musica per un po’, ma non mi sarei mai stancato di farlo, e avrebbe potuto suonare per tutto il pomeriggio imminente.

‘’Bravissimo, complimenti! Che bello, suoni benissimo!’’, gli dissi, estasiato, facendo anche un paio di applausi con le mani, non appena l’uomo allontanò il piccolo strumento dalle labbra.

Mi sorrise, placidamente.

‘’Beh, dai, diciamo che so ancora cavarmela. Piacere tutto mio, di aver suonato un po’ per te; diciamo che ho ricambiato brevemente la tua cortesia costante’’, tornò a dire Roberto, accennando ovviamente ai giorni in cui ne approfittava per entrare di soppiatto nella mia saletta ad ascoltare ciò che suonavo col pianoforte.

Poi, l’uomo mi fece l’occhiolino, si mise in tasca la fisarmonica e abbandonò la sua sedia, per tornare a dirigersi verso il lago e la sua canna da pesca, ancora immobile e con l’esca immersa nell’acqua.

 

Il pomeriggio passò con una fretta incredibile. Mai mi sarei creduto che me la sarei spassata così tanto, durante quella piccola uscita che non mi aveva mai entusiasmato neppure a provare a pensarla, nei giorni scorsi. Eppure, per un lungo periodo stetti in compagnia dei germani reali, visto che la femmina era ben presto tornata in compagnia di altri tre suoi simili, alla ricerca di cibo, e visto che ci era rimasto pane a volontà, dato che mia madre aveva riempito il cestino dei viveri con così tanta roba che avrebbe potuto sfamare un mezzo reggimento, ne approfittai per nutrirli abbondantemente.

I simpatici volatili mi si avvicinarono, ed io mi persi a guardarli, fintanto che Roberto non tornò da me, dopo aver ritratto la sua canna da pesca, ed averne già ridotto la sua lunghezza facendo la classica pressione sulle parti da cui era composta.

‘’Dai, su, smontiamo tutto. Sono già le quindici e trenta, e tra poco comincerà a fare troppo fresco’’, mi disse, cominciando a smontare la tenda, rimasta pressoché inutilizzata per tutta la giornata. Una giornata che era stata tiepida e soleggiata, e non avevo nulla da recriminarle.

Mi diressi verso di lui, per offrirgli un aiuto, quando un pensiero ovvio mi folgorò.

‘’Ma non hai pescato nulla?!’’, gli chiesi, esponendo quella domanda che mi pareva doverosa, dato che non l’avevo mai visto tirare su la canna da pesca dall’acqua, e il secchiello bianco che si era portato dietro era ancora totalmente vuoto ed immacolato.

Roberto mi guardò, elargendomi uno dei suoi soliti sorrisi rilassati.

‘’No, ovvio che no. Questo lago è di dimensioni troppo ridotte per contenere pesci, e i pochi pesciolini presenti sono molti piccoli e non possono abboccare all’amo’’, mi rispose, con grande semplicità. Io rimasi scosso da quell’affermazione, che detta così poteva apparire scontata.

‘’Ma come?! Non capisco. Hai detto che ci saremo recati qui per pescare…’’.

‘’Non porti troppe domande, Antonio. Sono un filosofo, no, me l’hai riconosciuto pure tu. E poi, quel che m’interessava era fare un’uscita, e magari far conoscere un posto nuovo anche a te, e la pesca era solo un pretesto che ho utilizzato per dare una motivazione sensata alla mia voglia. Sai, non mi andava di rovinare questa splendida giornata pescando e uccidendo pesci, basando quindi la mia felicità personale sulla pelle, o meglio, sulle squame di altre creature viventi’’.

Motivazione semplice e plausibile, peccato che io non l’avessi capita fino in fondo. Roberto era un uomo a volte imprevedibile, e il suo viso rilassato e sornione nascondeva in realtà una mente che era in grado di cogliermi sempre in contropiede, quando voleva.

Mi arresi a lui, e alla sua superiorità mentale.

‘’Ha ragione, maestro’’, gli dissi, cercando di sciogliere il mio stupore con una pacata ironia.

L’uomo rise a voce alta udendo quelle parole, poi andò alla ricerca del pacchetto delle sigarette, mettendosene poi una di esse tra le labbra.

‘’Caro discepolo, ti ho detto che nella vita regna il caos, ed esso a volte si può nascondere dietro ad una parvenza di regolarità. Bisogna imparare a non prevedere nulla, e a non volere dare sempre un senso forzato ad ogni situazione, cercando motivazioni varie anche quando le più valide sono state ormai smontate. Ora mi fumo questa sigaretta, piego la tenda e prendo su la lamierina e la canna da pesca, e se ti andrà, tu potrai portare alla macchina il secchiello e il cestino dei viveri. Torniamo a casa’’.

 

Giunsi a casa ancora scosso dal comportamento di Roberto. Ma ero piacevolmente rilassato.

Il viaggio di ritorno era stato più silenzioso di quello d’andata, però sempre allietato dalle varie canzoni dei Police. Mi ritenevo sodisfatto di quella giornatina, che tutto sommato si era rivelata piacevolmente gradevole. Mi ero preparato per affrontarla con giorni d’anticipo, studiando e facendo tutti i compiti durante il sabato, e non avevo nulla da recriminarmi; mi sentivo in pace con me stesso e la scampagnata, nonostante tutto, mi aveva fatto bene e mi aveva aiutato a staccare per un po’ la spina dalla solita, opprimente e noiosa routine.

Appena sceso dalla macchina, non feci in tempo neppure a richiudere lo sportello che notai mia madre ben piazzata nel mezzo della porta del garage, che ci veniva incontro per aiutarci a scaricare ciò che c’eravamo portati dietro fino al lago.

Mi rivolse un caldo sorriso, prima di chiedermi come fosse andata la giornata.

‘’Bene, mamma. È stata una giornatina piacevole’’, le risposi, sorridendo anch’io. Era la verità.

Poiché mia madre era una donna del tutto dedita ad ogni sorta di lavoro, non si perse in altre inutili chiacchiere, e dopo aver afferrato il cestino dei viveri, ancora pieno per metà, tornò in casa, seguita a ruota da me. Roberto rimase in garage, a sistemare il secchio e la tenda, cercando di rimetterli nell’angolo in cui erano stati riposti fino a quel giorno.

Una volta rientrato nella mia umile dimora, mi diressi in cucina, e quasi sbattei contro ad un torvo Federico, che mi passò da fianco e si diresse al piano superiore.

Mia madre aveva già la cena pronta, e la lasciò nel bel mezzo del tavolo, e non appena Roberto rientrò, pochi minuti dopo, chiamò al piano inferiore la sua intera piccola famiglia, per affrontare il pasto serale. Erano le diciannove, circa, e fuori ormai il buio regnava sovrano, contrastato solo dai lampioni lungo la strada e dalle luci dell’illuminazione blanda del nostro giardino.

Mentre entravano nella cucina, ed io mi dirigevo nella mia saletta, ad accudire il mio caro pianoforte, mi soffermai a guardare i miei inquilini; sia Livia che Federico mi lanciarono occhiate di fuoco, parecchio infastidite. Compresi che non avevo fatto bene quel giorno a seguire l’uomo della loro famiglia, e che forse avevo innervosito qualcuno, ma non volli prestarci caso.

Ero ancora rilassato, e su di me sentivo tutta la tranquillità di quella giornata ormai conclusa ed estremamente piacevole, e non mi andava di cominciare ad andare in paranoia e di rovinarmi la serata. Quindi, m’infilai in fretta nella mia buia saletta, che illuminai subito.

Mi sedetti al mio pianoforte, senza avere l’intenzione di suonare subito, ma solo di osservarlo per un po’, ma per quel giorno non erano finite le sorprese che il destino mi aveva riservato.

‘’Antonio, per favore, vai ad aprire la porta, che qualcuno ha suonato il campanello! Io sto servendo la cena…’’, disse ad alta voce mia madre, probabilmente dalla porta della cucina.

Con un sospiro, abbandonai il mio pianoforte e mi diressi verso l’ingresso come se fossi un automa, irritato dal fatto che la mia cara mamma in quel momento stava venendo selvaggiamente sfruttata dall’aristocratica e dal bullo, tuttavia obbedii al richiamo che mi aveva fatto ad alta voce.

Non avevo udito il campanello dalla mia saletta, come al solito, e dopo aver abbandonato il mio rifugio mi diressi a passi lenti verso l’atrio e la porta d’ingresso, chiedendomi di chi si potesse trattare a quell’ora. In genere, nessuno veniva mai a farci visita.

Sapendo che non si trattava di certo di qualcuno dei miei nuovi amici, aprii la porta con curiosità, lanciando una sbirciatina, per poi sobbalzare subito dopo. Di fronte a me, un uomo alto e magro mi stava fissando, dopo essere entrato nel giardino da solo, violando il cancelletto esterno senza alcuna autorizzazione.

Il problema principale era che sapevo chi era quell’uomo, e la mia mente era caduta in un baratro colmo di trepidante timore.

‘’Allora, mi vuoi fare entrare in casa oppure no? Cos’è, non mi riconosci più? Certo, sono passati dieci anni dall’ultima volta che mi hai visto, ma tu non sei cambiato per nulla, resti il solito imbambolato’’.

La sua voce tagliente mi tornò alla memoria, e confermò i miei più tremendi pensieri. Non mi scostai dalla porta, continuando a restare pietrificato sulla soglia.

‘’Oh, diamine, lasciami entrare’’, mi disse l’uomo con fare scocciato, spintonandomi indietro ed entrando in casa, con una discreta prepotenza.

Mio padre era improvvisamente tornato, dopo anni di latitanza, e a me non restava altro da fare che prenderne atto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti, carissime lettrici e carissimi lettori!

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Il ritorno del padre di Antonio sarà un evento che scombussolerà un po’ le carte in tavola… vedremo come.

Per adesso ci tengo solo a ringraziare infinitamente tutti i lettori e i recensori del racconto. Vi adoro, e siete la mia forza! Senza di voi, questo racconto non sarebbe lo stesso, e forse neppure io lo sarei. Grazie per tutta la fiducia che riponete in questo scritto, e per i bellissimi complimenti che mi rivolgete ogni volta!

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a presto J

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

CAPITOLO 17

 

 

 

 

Gli eventi cominciarono a susseguirsi senza alcuna sosta, e quasi mi travolsero. Fu come se quella giornatina rilassante e strana, passata in compagnia di Roberto tra le campagne e sulle rive del laghetto sperduto e dalle acque limpide e turchesi, fosse stata una sorta di magica quiete prima della tempesta.

In questo punto i miei ricordi si fanno inquieti, poiché essi sembrano volere venir fuori tutti in una volta, ma così facendo rischierebbero di creare una situazione caotica, e in questo momento non devo assolutamente lasciarmi andare a qualcosa del genere. Devo essere attento e riflessivo, devo ripercorrere questo passato recente con attenzione, come un’equilibrista che, sul proprio filo teso sul baratro oscuro, trattiene il respiro e spera di non precipitare giù, verso una fine a lui ignota, eppure tanto chiara.

Ebbene, il breve momento di tregua si spezzò con il ritorno di mio padre. Non sapevo a cosa fosse dovuta questa sua mossa, e a dirla tutta mi parve che il mondo mi fosse crollato addosso.

Prima di tutto, lì per lì fui travolto dai ricordi più lontani ed inquieti della mia infanzia.

Mio padre era stato un uomo eccentrico, strano, a tratti prepotente. Ricordo che il suo primo, e forse anche l’unico insegnamento che mi volle passare, fu proprio quello di compiere sempre le mie scelte, ma di non dover mai contare su di lui. Non so se questo fosse un discorso giusto da fare a un bambino, ma non credo proprio che sia così.

Mio padre è sempre stato un grande scherzatore, un denigratore nato. Abile nell’umiliare gli altri, non passava giorno che non tornasse a casa raccontando qualche aneddoto che gli era accaduto, sputando giudizi e strafottenti sentenze su colleghi e persone con cui aveva avuto contatto durante quella giornata. Mia madre ad un certo punto non lo tollerava più, ed essi litigavano giorno e notte.

A mio padre è sempre piaciuto compiere scelte, ma contrariamente agli insegnamenti che voleva passarmi, l’ha sempre fatto sulla pelle degli altri, fregandosene del fatto che chi lo circonda è anch’esso umano, e grazie al Cielo ha anche lui una personalità ed un punto di vista, corretto o meno. Il suo modo di motivare le scelte era, e lo è ancora, quello di alzare la voce, dimostrandosi imponente e prepotente.

Non seppi mai per certo come fece mia madre ad innamorarsi di lui, ma con i vaghi indizi che sono riuscito a raccogliere nel tempo dapprima dai miei nonni, e poi da lei stessa, ho potuto riscostruire mentalmente tutta la loro vicenda sentimentale, premettendo però che mio padre è un tipo ambiguo, a due facce, una per la vita pubblica e l’altra per la vita privata. Un approfittatore prepotente in casa, un uomo perfetto al di fuori delle mura domestiche.

Ma procedo con ordine, come mi sono più volte ripromesso.

Mia madre conobbe mio padre durante la sua breve parentesi universitaria. All’epoca lei aveva quasi vent’anni, ed aveva appena cominciato a frequentare le lezioni di economia e commercio, prevedendo per lei un buon futuro. Poteva effettivamente averlo; i suoi genitori potevano mantenerle gli studi e supportarla, ed inoltre era davvero brava e portata per lo studio. Era uscita dalle superiori con voti da favola, e poteva davvero credere nei suoi sogni.

Ebbene, a metà del primo anno e in prossimità di alcuni esami che si preannunciavano molto tosti, mia madre ebbe il timore di non sentirsi comunque preparata a dovere per affrontarli, accorgendosi di alcune sue lacune, e chiese una mano ai suoi, che ovviamente non seppero soccorrerla in modo più concreto che cercarle un qualcuno in grado di poterle offrire un dignitoso e valido aiuto.

Mamma Maria è sempre stata precisina in tutto ciò che ha fatto, e me la potrei immaginare in ogni momento afflitta dall’ansia di non riuscire ad affrontare degnamente un qualche ostacolo, e il pensiero e il timore degli esami imminenti dovevano averla stressata così tanto da farla spaventare parecchio. Inoltre i professori universitari erano molto più rigidi e severi di ora, da quel che una volta mi ha raccontato, ed erano molto meno disposti a venire incontro agli studenti. Se una cosa la capivi bene, se non la capivi nella maggior parte dei casi t’arrangiavi.

Mio nonno, ormai profondo conoscitore del timore disperato della figlia, riuscì a contattare un insegnante disponibile a darle una mano per prepararla al meglio. L’insegnante in questione era ritenuto molto bravo in economia, a suo tempo laureato a pieni voti e molto stimato in ambito universitario. Una persona indubbiamente preparatissima.

Insomma, il miglior soggetto in circolazione che potesse dare una mano a mia madre.

Il suo nome era Sergio Giacomelli, all’epoca aveva trentanove anni e si trattava proprio di colui che poi sarebbe diventato mio padre.

Non ho idea di come accadde il misfatto, se così lo si può chiamare; so solo che, ad un certo punto, tra loro due nacque una sorta di frequentazione assidua, tenuta nascosta agli occhi dei miei nonni materni e camuffata con la scusa delle lezioni private e con tante altre scuse varie.

Dopo tre mesi dal loro primo incontro, mia madre incontrava mio padre assiduamente, probabilmente infatuata dalla sua aura da uomo maturo, capace e competente, inventando sempre scuse nuove da dire ai suoi genitori, in modo da non attirare la loro attenzione, cosa che comunque riuscì solo in parte, visto che Maria usciva di casa tutta gioiosa e truccata.

Logicamente, i miei nonni compresero in fretta che la loro figlia tanto timida e riservata, che fino a pochi mesi prima aveva sempre cercato di passare inosservata, stava cercando di attirare l’attenzione di qualcuno, e che forse l’aveva già attirata, frequentandosi di nascosto con un ignoto.

Non sospettando nulla di così importante, o comunque credendo che si trattasse di un qualche suo coetaneo e lasciando che la ragazza se la cavasse da sola nella sua probabile vita sentimentale, i genitori non ficcarono il naso ovunque, ma la lasciarono abbastanza libera. Mia madre era molto matura per la sua età, a livello mentale s’intende, e tutti si fidavano di lei. Non credevano che potesse lasciarsi andare a scelte troppo complesse, o comunque involontariamente ingenue.

Poi, una notte, la mia futura mamma si svegliò in preda a dei fastidiosi dolori; accompagnata dai genitori in fretta all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, venne fuori la verità; era al secondo mese di gravidanza, e col fatto che non l’avesse previsto e che si fosse trascurata, nei giorni prima del forte fastidio, aveva rischiato un aborto spontaneo.

Quella minuscola creatura che aveva rischiato di morire molto prima del tempo ero proprio io.

Da questo punto in poi, la vicenda mi è sempre risultata piuttosto limpida, poiché mio nonno, su mia esplicita richiesta, aveva da sempre fatto chiarezza su tutto.

Mia madre, una ragazza all’epoca molto matura, ma molto ingenua sotto il punto di vista più intimo e riguardante la vita sessuale attiva, a quella scoperta gioì, senza avere la più pallida idea di cosa potesse comportare avere un figlio in giovane età, e per di più senza fare i conti col futuro padre e con i genitori, che erano rimasti sbalorditi da ciò che avevano appena avuto modo di conoscere. Nessuno si era mai aspettato un simile evento. Da quel momento in poi, la gioia finì per la mia giovanissima e cara mamma, visto che mio padre non fu tanto contento della gravidanza, e i suoi genitori non furono tanto contenti del genero, dopo averlo conosciuto.

Mio nonno aveva quarantanove anni, all’epoca, e mio padre trentanove, e per lui era come se sua figlia avesse scelto un uomo inadatto per lei, un uomo che poteva essere suo padre. Tuttavia, nonostante Sergio fosse inizialmente riluttante, alla fine sposò mia madre, e per qualche tempo tutto parve filare liscio.

Poi, giunse il momento della drastica scelta, quella che poi cambiò per sempre e indelebilmente la vita di mia madre; quella di lasciare l’università. Una giovane ragazza incinta, al primo anno e già con notevoli difficoltà a seguire il percorso, non aveva alcuna chance di poter continuare il corso di studi.

Tutto andò a rotoli in fretta, in pratica, e anche il rapporto con mio padre scivolò rapidamente verso un baratro oscuro.

A volte penso che entrambi i miei genitori avessero pensato che forse l’aborto non doveva essere una scelta sbagliata, in questo caso, poiché avrebbe permesso loro di tornare a vivere le loro vite senza alcun ostacolo o convivenza forzata, prima del matrimonio. Ma, effettivamente, questi sono miei pensieri personali di cui non ho mai avuto conferma nella realtà, né altro. Forse è la mia visione troppo pessimista del rapporto di coppia dei miei ad avermi spinto a pensare una simile e perfida idiozia. Ma il matrimonio, come ho già specificato, ci fu, e la loro unione fu legalizzata, com’era molto importante qualche decennio addietro. E dopo, mia madre non gioì mai più, poiché fu la fine dei suoi sogni.

L’abbandono degli studi, il rapporto teso col novello marito, le discussioni con i genitori e la gravidanza la stressarono e la sfiancarono talmente tanto che, ad un certo punto, dovette recarsi di sua spontanea iniziativa e in anonimato presso un centro assistenziale di Bologna, il cui obiettivo era quello di aiutare le ragazze come lei, giovani e deluse, a cercare di vivere con maggiore serenità la realtà. Era una sorta di primo approccio all’odierna assistenza psicologica, credo.

Mio nonno l’accompagnava ogni giovedì sera in quel luogo, e le sue visite continuarono fino al periodo strettamente precedente alla mia nascita.

Dopo la mia nascita, mia madre non ebbe più bisogno di affrontare cure o percorsi, poiché aveva trovato nel suo pargolo una nuova forza, che le permise di tornare a rafforzarsi interiormente e di riprendere in mano la sua vita, e ciò non andò molto bene al marito, geloso e comunque molto possessivo, anche se aveva un modo tutto suo di dimostrare ciò.

Credo che a mio padre non fosse mai importato molto di mia madre; lei, ai suoi occhi, doveva apparire come una conquista giovane e fertile, una ragazza come tante altre, solo che gli aveva dato un figlio. Però, restava pur sempre possessivo, e non appena la mamma compiva qualche passo verso una sua libertà, magari cercando un lavoretto e tentando di diventare più indipendente dallo stipendio del marito, che nel frattempo si stava accingendo a diventare a tutti gli effetti un docente universitario, lui cercava di smontarla in ogni modo.

Nei miei ricordi d’infanzia appaiono molte scene che, anche se sfocate nella mia mente, riportano parole pesanti, come scema, sciocca, stupida. Erano quelle le parole che Sergio diceva a Maria, davanti a suo figlio piccolo, senza pensare troppo al fatto che i suoceri abitavano al piano superiore, dove ora ci sono le nostre stanze da letto.

Mia madre col tempo prese forza, e quando lui la umiliava e si divertiva a smontare crudelmente le sue idee e la sua vita, lei gli si rivoltava contro, con grida e spergiuri. Difficile credere che una donnetta così piccola potesse avere tanta forza, eppure era così.

I miei litigarono per qualche anno, poi, poco dopo che ebbi compiuto nove anni, mio padre se ne andò, senza dire nulla, e dopo l’ennesima sfuriata. Mia madre era certa che lui avesse un’altra donna, che fosse riuscito a trovare un’altra vittima innocente, da rendere sua succube, ma non sapemmo mai nulla di certo. Sparì dalle nostre vite, per tornare all’incirca una decina di anni dopo.

Il mio unico genitore rimasto non cercò mai denaro dall’uomo che un tempo aveva creduto di amare, e si era dato da fare per lavorare duramente, giungendo pure a mettersi a pulire wc pubblici, pur di portare a casa qualche soldo e mantenermi nel migliore dei modi. Io sono molto grato a mia madre, quella grande donna.

Seppi che mio nonno aveva cercato informazioni su mio padre, andando a cercare i suoi parenti, visto che Sergio aveva ben due fratelli maschi, tutti e due sposati e inferiori d’età, ma loro non si degnarono mai di rispondere ad alcuna domanda, e neppure di pensare a me, loro nipote.

Così, i miei vissero separati, ma senza alcuna separazione e successivo divorzio, visto che mio padre era praticamente irrintracciabile per mia madre e non avrebbe firmato i fogli e le varie pratiche, per ripicca.

Non avevo mai avuto contatti con i membri della mia famiglia paterna, e non li avevo neppure mai visti.

Questa era la storia della mia famiglia. Una storia destinata a mutare molto in fretta, dal momento in cui Sergio rientrò improvvisamente nelle nostre vite, senza alcun motivo apparente. Non diede alcuna spiegazione a mia madre, ma la convinse coi suoi modi bruschi a restare a dormire per un paio di notti a casa nostra, sul piccolo divanetto al margine della cucina, e lei, troppo buona e pietosa, accettò. Ma vedevo che mamma Maria era tornata ad essere irritata e nervosa, da quando lui era tornato.

Io avevo perso la mia saletta, dopo il suo ritorno, visto che era tornato ad utilizzare la sua poltroncina per leggere i suoi giornali, e non voleva essere disturbato in alcun modo.

Avevo perso la mia felicità, la tranquillità di mia madre, l’equilibrio che regnava in casa mia, il mio rifugio, e per di più anche il mio amato pianoforte e la mia musica. Avevo perso tutto, in un colpo solo.

Una sorta di cupa depressione mi afflisse nel giro di poche ore, assieme ad un crescente nervosismo.

Insomma, avevo perso la mia tranquillità tra le mura domestiche, e ciò si ripercosse già dal primo giorno sulla mia vita scolastica, vista la mia irritazione continua e lo stato emozionale in cui navigavo. Però, ne dovevano ancora accadere di ogni sorta.

 

La mattina dopo al ritorno di mio padre, mi sbrigai a prepararmi e a sfrecciare verso il liceo.

Il mio genitore, alle sette e mezzo di mattina, era già sveglio e se ne stava placidamente seduto sulla poltroncina della mia saletta, recentemente riconquistata. Quel posto era tornato ad essere in fretta il suo territorio.

Con l’amaro in bocca, pregai che mia madre prendesse una decisione in fretta, e che magari lo cacciasse via di casa. Pure chiamando i carabinieri, se il caso l’avesse richiesto; l’abitazione era di proprietà della mamma, e quel mascalzone prepotente doveva andarsene. Era brutto da pensare, ma non potevo già più reggerlo.

Giungendo davanti al liceo in fretta, prima di tutto notai a distanza che sia Alice che Jasmine erano presenti, e stavano chiacchierando ai margini della folla. Il mio cuore si mise a battere ancora più rapidamente, e, non aspettandomi il loro lieto ritorno, mi avvicinai rapidamente. Averle viste mi aveva donato un attimo di felicità.

‘’Ragazze!’’, dissi gioiosamente, non nascondendo la mia felicità di averle trovate lì, pronte ad entrare a scuola ed entrambe in apparente buona salute.

Loro si voltarono verso di me, e notando la mia gioia mi sorrisero. Jasmine lo fece in modo molto più caloroso, mentre Alice pareva un po’ più fredda.

‘’Antonio! Vedi, sono tornata… me la son vista bruttina sta volta eh, però mi sono rimessa in sesto perfettamente e sono guarita alla perfezione’’, mi rassicurò prontamente Jasmine, continuando a sorridere.

‘’Io ancora no… oh mamma, mi sento uno straccio da pavimenti… la febbre mi si è abbassata ma ho ancora un gran mal di testa e non sono di certo al meglio, però dovevo venire oggi a scuola… se no chi la recupera più la verifica di storia…’’, mormorò Alice, con la voce roca. Annuii alle sue parole.

‘’Capisco. Restare indietro coi compiti in classe è sempre un’arma a doppio taglio. Se da una parte ci si può preparare meglio, poi però si accumulano. In bocca al lupo, per tutto’’, le dissi, donandole il mio sostegno.

‘’Crepi, il maledetto lupo. O forse creperò io, prima di questa sera’’, ribatté la mia amica, tragica.

‘’Caspita Alice, oggi sei davvero insopportabile. Dovevi startene a casa…’’, replicò Jasmine, stimolata dall’umore nero dell’amica.

‘’Se fossi stata a casa, assieme ad una delle verifiche più importanti e pesanti del trimestre mi sarei persa anche l’opera d’arte…’’, aggiunse Alice, con un tenue sospiro finale.

Non capii a cosa si stava riferendo, con le ultime parole, ma mi aiutò Jasmine, indicando con la mano la parete frontale del liceo.

‘’Certo che si sono dati da fare, eh. Chissà chi è stato, ma… a dire il vero un’idea ce l’avrei’’, disse la ragazza riccia, allungando il suo braccio verso la nostra scuola, ancora un po’ distante.

E allora notai ciò che mi era sfuggito. Effettivamente, mi ero lasciato così prendere dalla vista delle mie care amiche che non avevo rivolto uno sguardo alla scuola e agli altri presenti. Di fronte all’ingresso del liceo, c’era una gran ressa di studenti, che si spintonavano per vedere una sorta di grandissimo murales, dipinto con le classiche bombolette spray, che aveva praticamente imbrattato tutta la bassa facciata della scuola con tante figure oscene, e con parecchie parolacce scritte su uno sfondo spruzzato in tutta fretta.

Ero allibito e senza parole. Rimasi ammutolito ad osservare a distanza, e parzialmente, quello scenario inaudito.

‘’Non dirmi che non l’avevi notato, prima di venirci incontro. Chissà questa notte quanto hanno lavorato i vari ‘’artisti’’ ‘’, mi disse Jasmine, sfiorandomi una mano con la sua, ben più calda. Provai una sorta di brivido piacevole, simile a quello provato dopo il suo bacetto che mi aveva impresso sulla guancia, ma il complesso dei miei sentimenti entrò in contrasto con lo stupore che provavo in quel momento.

‘’A dire il vero, mi sono recato direttamente verso di voi e non mi sono guardato attorno. Quindi, mi accorgo solo ora dello scempio’’, ammisi, osservando alcuni carabinieri che, vestiti a puntino, si stavano dirigendo verso i vergognosi disegni. Riconobbi che la preside doveva già aver avvertito le autorità dell’accaduto, e sperai che i vandali non avessero fatto altri danni.

Mentre continuavo a fissare ciò che stava accadendo, una bidella si affacciò all’improvviso sull’ingresso dell’istituto, e ad alta voce invitò tutti gli alunni presenti ad entrare, e a recarsi nelle aule, in modo da non turbare il sopralluogo delle forze dell’ordine.

Ancora ammutolito e senza parole salutai quindi a malincuore e con un semplice sguardo le mie due amiche, mentre ci dirigevamo tutti all’interno del liceo.

Varcando l’atrio, notai i segni che alcune sassate avevano lasciato negli spessissimi vetri della piccola e bassa pensilina della scuola, e continuai a restare allibito dall’operato di quei vandali distruttori. Non so il perché ma la visione di tale violenza mi portò direttamente ad accusare Federico, anche se non ne avevo le prove. In più, il mio inquilino la sera prima era in casa. A meno che non fosse poi uscito in tarda serata, e mi fosse sfuggito un qualche suo spostamento.

Mi diressi verso la mia classe, immerso nelle strida ad alta voce degli altri studenti, già nelle loro aule, che fantasticavano sull’accaduto, oppure ridevano. C’era anche chi era rimasto colpito dall’evento, per fortuna, e si aggirava per i corridoi in silenzio, proprio come me.

Nella mia aula, stranamente, regnava una sorta di silenzio pesante, che s’ingigantì con l’ingresso di Federico, che entrò poco dopo di me, per nulla colpito da ciò che doveva aver visto pure lui. La cosa mi puzzava, e davvero, quasi mi affrettai a dargli mentalmente delle colpe. Però, poi misi a tacere i miei pensieri personali, senza basi fondate al momento.

Restammo tutti in silenzio, ed aprii la bocca solo per salutare Francesco e Giacomo, ormai miei buoni conoscenti, che mi rivolsero un caloroso sorriso.

A toglierci da quella situazione pesante fu l’improvviso suono della prima campanella, e l’altrettanto inaspettato ingresso in classe della professoressa Carlucci, che quella mattina doveva venire nella nostra aula solo per la quinta ora, seguita sorprendentemente a ruota dalla preside.

Tutti noi, sorpresissimi, ci alzammo in piedi, salutando con una diligenza che soltanto il colpo di scena poteva imporci. La preside del liceo era sempre stata una personalità lontana, e praticamente gli alunni potevano scorgerla di vista qualche volta nel corso del loro percorso scolastico, magari nei corridoi o all’ingresso, e in genere non si recava davvero mai nelle classi singole, magari preferendo mostrarsi nell’aula magna, di fronte all’intero plesso.

La preside era una signora ancora piuttosto giovane, abbastanza alta e con un fisico attraente. L’unica cosa che storpiava un po’ il suo visetto rotondo e leggermente paffuto, ma piacevole alla vista e dall’espressione gentile, era la sua chioma arricciata e di un colore piuttosto sbiadito e strano. Sembrava quasi che, su una tinta bionda, ci avesse fatto rovesciare della candeggina. Questo in genere suscitava l’ilarità dei ragazzi, ma non quella volta, poiché la signora pareva in preda ad una rabbia talmente tanto potente da averle sconvolto i lineamenti pacati che regnavano sempre ben impressi sul suo viso.

‘’Seduti, prego’’, disse ad alta voce la preside, mentre prendeva posizione alla cattedra, con la prof Carlucci a suo fianco e in rigoroso silenzio.

‘’Non voglio fare preamboli, oppure prendere la vicenda alla lontana o perdere inutilmente tempo. Andrò subito al dunque, quindi’’, tornò a dire la signora, facendo una pausa ad effetto e aspettando che tutti noi ci fossimo risistemati sulle sedie, nel modo più tranquillo e silenzioso possibile.

Guardai i volti dei miei compagni, e fui certo che anche loro immaginavano che quella repentina visita a sorpresa fosse dovuta a ciò che i vandali avevano combinato.

‘’Sono accaduti dei fatti molto gravi, questa notte. Avrete senz’altro notato, entrando, ciò che qualche malintenzionato ha combinato. Sono rimasta senza parole di fronte a tanta volgarità, e a tanta violenza riservate e riposte contro un edificio pubblico, emblema dell’imparziale istruzione, e ammetto che nella mia vita non mi era mai capitato prima di dover vedere un simile scempio, così trucemente impartito ed organizzato.

‘’Dovete sapere che ho come il vago sospetto che tutto ciò sia partito dall’interno del liceo, e dalle classi più avanzate. Sono settimane che ascolto strani discorsi; un’insegnante dell’istituto mi ha riportato di un brutto incidente accaduto alla sua auto, e che secondo lei è dovuto a una vicenda consumatasi tra queste mura scolastiche. Una coordinatrice di classe mi ha parlato di episodi strani, di alunni che non fanno il loro dovere, di altri più maleducati. Un altro insegnante mi ha messo al corrente di un episodio violento accaduto nella palestra poco tempo fa, e negli scorsi giorni ho rinvenuto una lettera anonima di uno studente, lasciata sotto la porta del mio ufficio, che dichiara che qualche altro giovane di questa scuola si sta comportando in modo scorretto su Internet, a danno della comunità.

‘’Ebbene, sappiate che tutto ciò è stato messo agli atti, e che personalmente combatterò una battaglia in nome di questo istituto scolastico, per far venire fuori la verità su tutte queste vicende, poiché ciò che accade dentro queste mura è anche e soprattutto sotto la mia responsabilità.

‘’Ragazzi, qui in questa classe siete tutti maggiorenni, ormai; sappiate che ciò che è stato commesso è considerato reato a tutti gli effetti dalla legge italiana. Siete ormai dei giovani uomini e delle giovani donne, e se commettete dei reati, sarete poi direttamente sottoposti alle rispettive sanzioni. Dato che ormai sembra certo che la vicenda non si tratta di una ragazzata, ma di una vera e propria catena di violenza, farò si che le forze dell’ordine indaghino su ciò che è accaduto e su ciò che si teme sia correlato a vicende interne al liceo, in modo da trovare in fretta il colpevole, o i colpevoli, e di fare in modo che essi paghino per ciò che hanno commesso’’, continuò la preside, senza sosta e piena di foga. Ci stava facendo la paternale.

Nessuno di noi l’aveva mai vista così tanto arrabbiata, ed eravamo raggelati sui nostri banchi.

‘’Ci sono giunti fascicoli da altre scuole, dove si parla di altri comportamenti similmente scorretti, accaduti negli scorsi anni e causati, da quel che si dice, da allievi che in questi giorni starebbero frequentando questo liceo. Consiglio davvero a chiunque di non cercare più di mettersi nei guai, e spero che se qualcuno è in grado di offrire informazioni sui fatti accaduti si rechi a vuotare il sacco o a dire quello che sa, fornendo un contributo attivo nelle indagini che naturalmente potrà essere poi considerato leggermente in suo favore.

‘’Nel frattempo, giuro che farò in modo che le forze dell’ordine facciano chiarezza su ciò che è successo e su ciò che sta succedendo. Mi impegnerò anche a fare il giro di ogni singola sezione, in modo che tutti quanti siano informati di ciò. Buona giornata’’. E così dicendo, la signora preside uscì dalla classe, scura in volto, lasciandoci allibiti.

Sapevo, come gli altri penso, che quel discorso era rivolto in modo particolare al nuovo arrivato, a Federico, che dal canto suo non pareva molto scosso dalle parole della donna. Ma non mostrava neppure la sua solita sicurezza.

‘’Ragazzi, ciò che è accaduto e che sta accadendo è gravissimo. Spero vivamente che nessun fatto sia collegato a qualche componente di questa classe’’, disse la professoressa Carlucci, rompendo per un attimo la coltre di glaciale silenzio e dileguandosi anch’essa. Poi, entrò subito l’insegnante di scienze, che regolarmente fece subito incominciare la lezione quotidiana, visto che eravamo già in ritardo.

Non riuscii a concentrami molto su ciò che ci spiegò la prof, poiché la mia mente viaggiava ed era curiosa. Prima di tutto, ero curioso di scoprire se Federico fosse coinvolto nella vicenda, ma non avevo idea di come fare per trovarne un’effettiva certezza. In secondo luogo, ero tormentato dal fatto di sapere che quello era il momento giusto per denunciare ciò a cui il prepotente mi aveva sottoposto a scuola.

La mia anima era spaccata in due parti contrastanti e in lotta tra loro, e la mia emotività mi stava davvero sfiancando in quegli istanti. Ma non sapevo che l’amarezza per quella giornata non era conclusa, e che mi aspettava ancora qualche altro momento decisamente più spiacevole di questo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie a chiunque sia giunto a seguirmi fin qui! Non finirò mai di ringraziarvi.

Stiamo per affrontare la parte più drammatica del racconto, ma anche quella che porterà più sconvolgimenti all’interno della vita del protagonista. Spero che essa, tutto sommato, possa risultare di vostro gradimento.

Ringrazio tantissimo e per l’ennesima volta tutti coloro che sostengono e supportano il racconto.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo J

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18

CAPITOLO 18

 

 

 

 

Mi veniva da rimettere, quella sera a tavola. La situazione era insostenibile.

Incredibilmente, dopo un po’ di tempo in cui le nostre due famiglie avevano consumato i pasti in modo distinto, Roberto aveva insistito per far sì che quella sera avessimo cenato tutti insieme. Forse, gli era parso cortese fare quel cordiale invito, considerato anche l’improvviso e inspiegabile ritorno di mio padre. Ma effettivamente aveva sbagliato tutto, e il suo sbaglio lo stavo scontando io, sulla mia pelle.

Mio padre, dopo aver trascorso il primo giorno a sbafo nella nostra casa, senza neppure avere offerto a nessuno una qualche spiegazione, si era limitato a starsene nella mia saletta a leggere, oppure sul piccolissimo divano a lato della cucina, stesso luogo in cui i suoi bagagli erano stati accatastati in un angolo, in piena confusione, come se a suo tempo fossero stati preparati in fretta e furia, per poi essersi rivelati di scarsa importanza una volta giunti alla meta. Mia madre non gli aveva offerto alcun letto, e nessun posto dove sistemare le sue cose, ed effettivamente quello pareva già un chiaro invito ad andarsene, ma costui restava, tenendo in pugno la situazione come mai prima di quel momento.

E proprio in quel momento, mentre cenavamo, lui stava parlando di me.

‘’Sapete, ricordo ancora quando mio figlio, che all’epoca aveva già sette anni, capitombolava a terra un giorno sì e l’altro no come un fantoccio, entrando in casa. Non aveva equilibrio, non era in grado di gestire il proprio corpo già nel momento in cui si sarebbe dovuta consolidare la sua sicurezza. Senza contare che, a otto anni, doveva ancora succhiarsi il pollice come i lattanti…’’.

Ero bordò dalla vergogna. Non ricordo neppure se ciò che stava narrando su di me fosse vero; sapevo solo che era umiliante, la situazione.

Sergio parlava senza fermarsi mai, sicuro di sé, usufruendo del suo vocione potente e mascolino, e sorridendo di tanto in tanto ai vari commensali, che attorno al tavolo assumevano comportamenti diversi.

Incredibilmente, la situazione appariva esattamente ribaltata e al contrario delle altre cene svolte assieme. La signora Arriga, che generalmente si mostrava sempre scocciata quando era con noi, stava osservando con interesse l’interlocutore, che parlava di me, raccontando brutture e sciocchezze senza senso.

Federico, dal canto suo, se era sempre stato mogio e scosso durante la giornata in quel momento appariva in forma splendente, ed ascoltava proprio tutto quanto; aveva assunto il classico atteggiamento-spugna di chi vuole davvero ricordarsi e assimilare ogni parola di ciò che stava udendo, atteggiamento che sarebbe stato ottimale a scuola, ma non in quella situazione. Immaginavo che stesse memorizzando tutto ciò che stava ascoltando per poi farne il suo solito futile uso.

A mio fianco, l’uno alla mia destra e l’altra alla mia sinistra, Roberto e mia madre non partecipavano affatto alla denigrazione generale, loro che erano sempre stati quelli che cercavano disperatamente di salvare ogni cena in comune con i loro discorsi. Roberto era curvo sul suo piatto, in rigoroso silenzio, e con un’espressione indecifrabile impressa sul suo viso, mentre la mamma appariva in apprensione per me, e ogni tanto mi lanciava un’occhiata, ma non osava interrompere il marito. Neppure io osavo, e lo temevo.

Sottostavo alla sua voce, e, come avevo sempre fatto durante tutto il corso della mia vita, continuai a subire in silenzio quella sorta di pubblica ed insensata umiliazione. Non sapevo perché mio padre si stesse comportando così. Se gli facevo così tanto schifo, poteva starsene dove aveva vissuto fino a qualche giorno prima.

‘’…sinceramente, non comprendo perché gli dovrei lasciare la saletta a disposizione, come mi ha richiesto Maria, tanto con quel pianoforte non saprà mai combinarci nulla’’, concluse mio padre, dopo aver esposto tante argomentazioni stupide e dannose per la mia immagine a sostegno del fatto che non voleva cedermi quello che era diventato il mio rifugio dal mondo.

Con il suo sguardo austero, mosse i suoi occhi su tutti i presenti, esaminandone i volti ad uno ad uno, saltando solo me.

‘’Credo che suo figlio abbia delle grandi capacità. Poi, se da piccolo aveva qualche atteggiamento strano, ciò era dovuto alla tenera età’’, intervenne a sorpresa Roberto, rompendo il suo silenzio.

Lo avrei voluto tanto ringraziare, ma non riuscii ad alzare gli occhi dal mio piatto, contenente ancora la mia porzione di cibo praticamente intatta. Non avevo la forza per reagire, per difendermi da quello che avrebbe potuto essere benissimo uno sconosciuto, e il mio volto rosso infuocato non riusciva ad alzarsi, ad aprire la sua bocca e a urlare basta.

Mi sentivo così tanto pietoso che mi vergognavo di me stesso e di com’ero.

‘’Lei dice? Mah. Io non lo credo affatto! E’ durante l’infanzia che si forma il nostro carattere, e se uno dimostra già molte difficoltà in quel periodo, difficilmente riuscirà a fare poi della strada’’, sbottò mio padre, in risposta alle affermazioni di Roberto.

Sergio si stava dando da fare, sempre con le sue stolte e ignobili argomentazioni, solo per tenersi la saletta. E io gliela avrei lasciata.

Lui era un professore, un uomo istruito, una persona che, in confronto alle altre sarebbe dovuta essere comprensibile, gentile, intelligente e con una mentalità aperta. Ed invece era solo il bastardo arrogante di cui mi ero sempre ricordato, e che avevo cercato ogni volta di dimenticare. Le sue parole non valevano neppure come uno sputo catarroso, e anche se magari fosse stato un bene che io avessi cercato di difendermi da solo, era anche vero che ciò che lui stava dicendo e sostenendo erano tutte tesi insulse che parlavano da sé.

Pensare che una persona del genere volesse passare qualcosa ai miei coetanei e agli altri mi inquietava parecchio, lo dovetti ammettere.

‘’Lei ha una visione strana del reale, signor Sergio’’, aggiunse Roberto, tornando a calare il suo volto sul suo piatto.

Smisi di guardare di sottecchi e lanciai anch’io uno sguardo ai commensali, continuando a notare il lieve e rinnovato distacco snob di Livia, l’imbarazzo di mia madre e il divertimento di Federico, che pregustando un qualche diverbio verbale tra i due uomini adulti stava aguzzando le orecchie. E non solo, stava limando anche la lingua, per usarla come una spada.

‘’Sarà stato anche balbuziente, da piccolo’’, suppose il ragazzo, intervenendo nel momento colmo di una lieve tensione ed inserendosi all’improvviso e con gusto nella discussione.

Mio padre, che non l’aveva ancora degnato di altro oltre a qualche sguardo, gli regalò tutta la sua attenzione, voltandosi a guardarlo con un barlume di stupore che gli brillava negli occhi.

‘’Come fai a saperlo, te l’ha detto lui? Comunque sì, ha avuto un periodo un cui era balbuziente’’.

Giuro che stavo per rimettere sul serio. O per alzarmi e lanciare via una sedia, dal nervoso che mi pervadeva.

‘’Ho notato che è uno un po’ particolare, immaginavo che avesse avuto problemi di ogni sorta’’, rispose Federico, con una nota di spicco nella voce. Non si stava rivolgendo col suo tono alterato, che in genere riservava a chiunque, ma stava parlando con una vocina adorabile, esprimendosi con una sembianza di profonda intelligenza.

Era vero, da piccolo avevo avuto un periodo durante il quale avevo balbettato. All’età di sei anni avevo subìto un brutto spavento, causatomi da un cane di un passante che mi aveva quasi aggredito a sorpresa, mentre allungavo una mano verso di lui attraverso la recinzione del mio giardino. Fortunatamente, l’animale era al guinzaglio e il suo proprietario era riuscito a tenerlo a bada, ma il pitbull dalle fauci aperte che mi ringhiava selvaggiamente contro l’avevo sognato per mesi, apparendomi anche nella maggior parte dei miei incubi infantili.

L’incubo del cane era poi stato sostituito da quello ricorrente riguardante i compiti in classe di matematica, il classico incubo d’esame che secondo Freud tutti prima o poi avevano modo di conoscere sulla propria pelle, lungo il corso della vita. In ogni caso, per me, ancora bambino, quello spavento si era rivelato alquanto infame, poiché mi aveva recato un qualche danno, dato che per un po’ avevo balbettato invece di riuscire a parlare correttamente, come in precedenza riuscivo a fare.

Lo specialista al quale si era rivolto mia madre aveva assicurato che col tempo il problema si sarebbe risolto, ed infatti nell’arco di un annetto avevo ripreso e consolidato il dominio sulla mia bocca e sulle mie parole, però ciò aveva lasciato un segno che, a quanto pareva, non voleva affatto essere occultato.

Non seppi mai come ebbe fatto Federico a rivoltare il dito nella piaga, e non solo, ficcandoci pure un uncino, per farmi sentire ancora più male e umiliato.

Non ne potevo più, e lentamente allontanai il mio piatto da me.

Federico, lo schifoso prepotente, rideva in quel momento. Rideva di me, del bambino che a causa di un brutto spavento aveva balbettato per circa un anno, dell’imbranato che, a dire di mio padre, cascava come una pera cotta ogni volta che tornava a casa. Rideva dello sfigato che poi a scuola avrebbe preso in giro, e magari memorizzava anche tutto quanto ciò che stava udendo per metterlo in rete e deridermi anche con perfetti sconosciuti.

Ecco a voi Antonio Giacomelli, il guitto di corte, lo zimbello di tutti, lo scemo e l’imbranato.

Ero umiliato, rosso come un pomodoro, e, ancora peggio, senza alcuna forza per difendermi, per dire una parola o muovermi. Un verme paralizzato sulla propria sedia, mentre il mondo attorno a sé lo deride.

‘’Per favore, Sergio…’’, provò a redarguirlo mia madre, quando anche mio padre si mise a ridere di gusto con Federico.

‘’Taci, Maria, ciò che stiamo dicendo è la verità, e chiunque deve prenderne atto’’, la mise subito a tacere mio padre, a quel punto divertendo anche Livia.

L’aristocratica apparve come divertita, e l’irritazione in me continuò a crescere a dismisura; il mio cuore pareva essersi spostato nel mio volto, avevo il sangue alla testa, tutto rimbombava nella mia mente.

Ero riuscito a diventare lo zimbello anche della mummia aristocratica, sempre tirata e composta, impettita dietro la sua maschera signorile che rendeva essa stessa ridicola.

Volevo sputare, scappare, gridare, fuggire, insultare, rovesciare la sedia su cui ero seduto, lanciare un piatto contro il muro. Volevo fare tutto ciò assieme, pur che la si facesse finita. Che avevo fatto a loro, mi chiesi, per subire un simile trattamento, se non essere una povera persona timida che non sa difendersi? Ero un debole, punto. E nella vita reale, i deboli sono solo tappetini e tutti li pestano e ci puliscono sopra le scarpe inzaccherate di fango e schifo vario.

‘’Adesso basta’’.

Roberto, il mio salvatore. L’uomo era intervenuto con risolutezza.

Le risate si smorzarono tutte d’un colpo.

‘’Chi è lei per potersi permettere di dire basta?’’, chiese mio padre, glaciale. Aveva già cambiato espressione, nel giro di un istante.

I due si rivolgevano l’un l’altro occhiatacce gelide, e i loro toni restarono distanti, arroccati sul volersi dare del lei per mantenersi lontani l’uno dall’altro.

‘’Sono un genitore, come lo è lei! Federico, vai in camera tua a studiare, visto che non hai più fame e che a scuola mi è stato riferito che non ti hanno ancora visto con la penna in mano’’, tornò a dire Roberto, rivolgendosi in tutta tranquillità al giovane prepotente, che sgranò gli occhi.

‘’Siete solo geloso del fatto che stavamo ridendo, tutti tranne lei. Non mi dica che lei è uno di quelli che si divertono a smorzare il divertimento altrui? Perdoni il giro di parole’’, tornò alla carica mio padre, serissimo.

‘’Federico, vai in camera tua a studiare. Fila. E tu, Livia, non dovevi fare delle chiamate di lavoro, questa sera? Vai a telefonare, dai, così Maria può sparecchiare e sistemare la cucina, e poi potrà riposare un po’ ‘’, continuò Roberto, senza badare alle parole di mio padre, che sentendosi inascoltato e snobbato si rabbuiò bruscamente.

Di fronte alla risolutezza dell’uomo, però, l’aristocratica madre e il figlio sembrarono dapprima colpiti ed irritati, per poi alzarsi dai loro posti ed andarsene, con una smorfia sdegnosa impressa sui loro visi. Una smorfia dolce-amara per Federico, che aveva comunque rimasto a disposizione tanto materiale per deridermi, se ne avesse avuto voglia e necessità.

‘’Senta, lei non deve permettersi di giudicare come mi comporto nei confronti di mio figlio, o magari di interrompere un momento d’ironia tra queste mura. Mangi e si faccia gli affari suoi. Anzi, sarà meglio, molto meglio, che le prossime sere cenassimo separatamente come al solito’’, tornò alla carica mio padre, trovandosi sguarnito e senza spettatori, tutto d’un tratto. Non voleva perdere quella battaglia, lo notavo chiaramente.

‘’Questa non è neppure casa tua, Sergio. Non puoi fare ciò che vuoi…’’.

‘’Stai zitta una buona volta! Possibile che devi mettere la lingua dappertutto?! Taci!’’, si rivoltò mio padre, mettendo nuovamente a tacere la mia povera madre che, di fronte a quell’attacco inaspettato, si alzò dal suo posto e lasciò la stanza, umiliata di fronte a suo figlio e al suo inquilino.

‘’Di fronte a me, lei è pregato di non rivolgersi ai suoi famigliari in questo modo e con questo tono, intesi?’’.

Roberto, notando l’umiliazione generale che regnava ovunque, si fece aggressivo. Erano rare le volte in cui perdeva le staffe, ma quando si arrabbiava diventava anche lui una sorta di belva, capace di colpire col tono freddo e risoluto con cui si rivolgeva all’interlocutore.

Mi ritrovai solo, in compagnia dei due uomini di casa, eppure non riuscivo ancora a muovermi. I miei occhi vagarono per un istante, posizionandosi prima sull’uno poi sull’altro contendente. Mio padre, un alto, statuario sessantenne ben rasato e ben vestito, dai capelli cortissimi e ingrigiti, pareva un gigante che stesse per affrontare una pulce. La pulce era Roberto, così piccolo, basso, dal pancino leggermente sporgente, ma non troppo evidente ad una prima occhiata e nascosto dai vestiti, per nulla ben rasato, anzi, la barba grigia e la capigliatura quasi rasata e rada lo rendevano una sorta di reincarnazione di un antico filosofo greco.

Pareva lo scontro epico tra Davide e Golia, riproposto nel mondo contemporaneo con il materiale a disposizione della sorte.

‘’Senta, mi ha proprio stufato. Non ha il diritto di intervenire così bruscamente attorno a questa tavola, e di sancire come devo o non devo comportarmi con mio figlio e con mia moglie’’.

Mio padre, sempre più scuro in volto, si alzò in piedi e non mollò la presa sulla possibile preda.

‘’A quanto mi risulta, lei è stato latitante fino ad ora. Ed ecco che ricompare…’’.

‘’Io?! Latitante?! Ma non dica sciocchezze! Guardi, io insegno all’università qui vicino, ad una trentina di chilometri da questa casa; se qualcuno avesse voluto, avrebbe potuto contattarmi…’’.

 ‘’Sì, magari suonando al campanello dell’università, e chiedendo alle studentesse di indicar loro quel professore chiamato Sergio…’’.

‘’Ma sa quello che sta dicendo?! Lei adesso sta decisamente esagerando. Non faccia dell’ironia! Non si azzardi eh!’’, interruppe mio padre, allungando un dito sotto al naso di Roberto, impassibilmente divertito.

‘’Magari Maria avrebbe potuto contattarvi tramite posta elettronica, non crede? Oppure suo…’’.

‘’No, guardi, lei non ha davvero capito nulla. Mi sembra un’idiota, e questo è quello che è, forse. Vado a leggere qualcosa, per darmi una calmata, perché qui la situazione mi sta sfuggendo di mano’’, continuò ad interrompere mio padre, alzando ulteriormente la voce.

A quel punto, Roberto abbandonò il suo divertimento.

‘’Vede come si arrabbia, se io la sfotto? E suo figlio, poveretto, che fino a poco fa lei l’ha deriso, come dovrebbe sentirsi, dopo essere stato sfottuto brutalmente da un genitore ingrato e prepotente che è appena tornato a casa…’’.

‘’Mi farà commettere una follia, questa sera, se continua così. Giuro che mi farà andare fuori di me! E ora spenga quella ciabatta che ha al posto della bocca e torni al suo posto, che io me ne vado da questa stanza. Non si permetta più di dire anche solo una parola su come cerco di educare mio figlio, perché altrimenti… non so quanto riuscirò a tenermi a freno’’, concluse mio padre, allontanandosi di qualche passo.

Sperai che Roberto se ne stesse in silenzio, ma non fu così, anzi; allungò placidamente le sue braccia sul tavolo, e tornò a parlare.

‘’Se il suo metodo educativo è basato sul prendere in giro gli altri e deriderli, beh, questo è davvero un pessimo metodo, si fidi. Glielo garantisco; non credo dia risultati utili’’.

‘’Parla lei che ha appena cacciato sua moglie e suo figlio dalla cucina come se fossero stati cani! Si vergogni lei! E poi, se una persona la si deride, poi essa non farà più gli stessi sbagli, per non essere nuovamente derisa’’.

‘’Lei vede in un modo tutto suo la realtà, credo. Uno sfottò è ritenuto un’umiliazione, a casa mia, non un gesto educativo e a fin di bene. E poi, le pare forse giusto giudicare un ragazzo per ciò che gli è accaduto da bambino? Ma dai, la smetta di dire cavolate’’.

‘’Io con lei, caro signor Roberto, non ho più nulla da dire per questa sera. Buona serata’’. E così dicendo, mio padre troncò la discussione in corso e, violaceo in volto dalla rabbia e dal nervoso, se ne andò nella mia saletta. Nella mia ex saletta, in quel momento.

Roberto a quel punto tornò a concentrarsi su di me, povero essere depresso e solitario, che in quell’istante ancora si sentiva un debole e un verme, immobilizzato al suo posto.

‘’Avevi ragione quando mi dicevi che non era una bella persona! E’ davvero un lurido prepotente, e pure alquanto stupido. Ma non te la prendere troppo, su! Ciò che esce dalla sua bocca vale come la merda. Anzi, la merda ha un valore superiore’’, mi disse l’uomo, indirizzandomi un rassicurante occhiolino. Roberto non era mai volgare, ma quella volta lo fu, per sottolineare per bene il suo pensiero.

Io gli sorrisi, spezzando quell’immobilità e quell’impassibilità di pietra che avevano dominato il mio viso fino a quel momento, e poi, senza ringraziare, sgusciai via dalla cucina quasi di corsa, e in due balzi fui in giardino.

Il mio cuore bruciava d’ingratitudine; avrei voluto ringraziare a dovere Roberto per avermi difeso, e magari soffermarmi con lui, ed invece ero scappato, proprio nell’istante meno opportuno.

Colmo di una sensazione che non sapeva più di nulla, se non di un dolore profondo ed opprimente, uscii dal mio cortile e mi fermai sul ciglio della strada, per poi finire seduto sul ciglio del marciapiede, quasi nel bel mezzo di uno spazio riservato al posteggio delle auto, in quel momento non occupato, mentre le automobili in corsa sfrecciavano ad un metro e mezzo scarso dal mio naso.

Il mio corpo, quasi raggomitolato su sé stesso, mi fece restare lì, fermo e in panne, senza alcuna facoltà di giudizio. Stavo male, e forse in quella serata mio padre non era stato l’unico a rischiare di andare fuori di sé. C’era chi c’era andato per davvero.

 

Nel vuoto della fredda oscurità, le macchine sfrecciavano a pochi passi da me e io non capivo più nulla, non fissavo nulla.

La mia non era più disperazione, o disgusto per essere stato deriso, deluso e ferito, ma era un senso d’abbandono profondo, un sentirsi inadatto alla vita, mal sopportato da tutti. Immerso nel mio dolore, non sapevo più uscirne o reagire.

Poi, però, apparve il mio angelo custode.

Il mio angelo era nero, come il buio di quella prematura notte tardo autunnale.

‘’Antonio! Ma che ci fai qui fuori, in questa posizione?! Mamma mia, ti sarai agghiacciato tutto…’’, mi disse Jasmine, sbucata non so come a fianco a me e, notando il mio sguardo perso nel vuoto, mi stava come scuotendo dal mio tossico torpore. Le sue mani sui miei vestiti, troppo sottili per contenere il freddo autunnale, erano calde, e il suo tocco poteva scaldarmi più che il cappotto che avevo lasciato in casa, troppo preso dalla mia voglia di scappare per aver avuto l’accortezza d’indossarlo.

Ero fuori di me, ed ogni istante che passava mi rendeva sempre più chiaro quel concetto.

‘’Antonio?! Antonio, perché non mi rispondi? Caspita, che hai?’’.

L’angelo mi percuoteva.

Riuscii solo a donarle un sorriso splendente, senza nessuna parola. Mi guardò, e potei notare il sollievo nei suoi occhi e sul suo viso, rischiarato dalla luce dei lampioni che dalla loro altezza ci dominavano.

Lei ci teneva a me, lo vedevo. E io le volevo bene, solo che gliene volevo molto.

I suoi occhi così scuri, la sua pelle così esotica, la sua premura, la sua voce perfetta e melodica, tutto di lei mi rendeva folle. Mi sentii pervadere di un’altra sorta di follia, un tipo di libidine potente e ancestrale.

‘’Passavo di qui, sto per andare a far visita ad Alice… che rottura, si è raffreddata e sembra che sia più morta che viva. Una tragedia! Ora faccio un saltino a trovarla, poi quando ripasso da qui magari mi fermo un po’ anche da te. Ti va?’’, mi chiese, rilassata e cortese. Parlava, era tranquilla, e si era sciolta definitivamente.

Rimasi leggermente amareggiato dal fatto che lei non chiedesse nulla del mio dolore e di ciò che provavo in quel momento, ma capii che quello era un mio modo di pensare troppo egoistico e di quel preciso istante, d’altronde lei non poteva essere informata di ciò che mi turbava, poiché passava di lì per caso, e trovandomi spaurito ed abbandonato come un cane randagio si era soffermata un attimo a prendersi cura di me.

Involontariamente, ma col cuore, aveva compiuto un’azione molto dolce nei miei confronti.

In quel momento credetti di essere riuscito a mettere ordine nei miei pensieri, e di sapere con chiarezza ciò che provavo per lei. E mentre Jasmine continuava a parlarmi, tranquilla e rilassata come se niente fosse, io mi rialzai lentamente, per poi guardarla direttamente negli occhi. La ragazza aveva continuato a parlare fino a quell’istante, e nonostante tutto continuò a parlare, anche se rallentò il ritmo di quel discorso che io non stavo neppure ascoltando.

Le emozioni mi stavano giocando un brutto scherzo, ed io, all’apice di quella sorta di estrema eccitazione sentimentale, non ero totalmente padrone di me, in quella determinata situazione. E fu così che a sorpresa cedetti al mio impulso e la baciai.

Baciai per la prima volta le sue labbra carnose, senza cercare di fare altro se non stabilire un leggero contatto tra i nostri due corpi.

Quello era il primo bacio della mia vita.

Mi accorsi di aver reagito con un’estrema frenesia con un po’ di ritardo. All’inizio, per una frazione di secondo, mi parve che lei, colta totalmente di sorpresa e spiazzata, avesse avuto voglia di ricambiarmi con calore. Ed invece, mi mollò un tremendo ceffone, anche quello a sorpresa, ovviamente. Quella era la serata delle sorprese.

Abbassai lo sguardo e mi allontanai subito da lei, ferito e colmo di vergogna per il fatto di non aver saputo gestire in modo decente e corretto le mie emozioni.

Jasmine mi guardava, sentivo i suoi occhi cupi puntati su di me, sul mio viso ormai nuovamente imporporato ma nascosto dalla notte, e io mi sentivo da schifo, schiacciato sotto le colpe dei miei folli istinti ormonali ed emozionali dovuti alla mia giovane età e alla più totale inesperienza. Poi, senza dire altro, si allontanò da me in fretta e furia, tornando sui suoi passi e sparendo in fretta nel buio.

Inutile rievocare il mio ennesimo e doloroso crollo; la confusione regnava assoluta nella mia mente, e nessun barlume di lucidità mi stava più a fianco.

Ero stanco morto, avevo sbagliato tutto, mi sentivo un verme da deridere. Immaginando mio padre e Federico che ridevano di me, mi lasciai scivolare di nuovo sul ciglio del marciapiede, fregandomene del freddo e dell’ora ormai tarda, affondando il mio viso tra i palmi delle mani e lasciandomi andare ad un pianto isterico.

Come se non bastasse, un fitto banco di nebbia mi avvolse nel suo umido e gelido abbraccio, come a volermi cullare nel mio dolore e a voler tentare e fomentare la mia sorta di momentanea e cupa depressione, dovuta ad un insieme di situazioni diverse che, nel complesso, non mi erano state per nulla favorevoli durante quella giornata infernale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Carissimi lettori e carissime lettrici, continuo a ringraziarvi per lo splendido supporto che mi offrite sempre e in ogni aggiornamento. Leggere i vostri pareri colmi d’interesse per la storia e la vicenda mi rende davvero felice, e mi spinge a cercare di metterci tutto me stesso nella stesura di questo racconto. Grazie per tutta la forza che mi passate, attraverso lo stupendo supporto che mi offrite ogni volta J

Spero che, nonostante tutto, anche questo capitolo sia stato interessante e di vostro gradimento.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a lunedì prossimo J

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

CAPITOLO 19

 

 

 

 

A venirmi a salvare fu Roberto.

Ero rimasto per non so quanto tempo sul ciglio della strada, la testa infossata tra le mani e il corpo praticamente raggomitolato su sé stesso, adagiato in modo contorto sull’asfalto. Non stavo particolarmente bene in quel momento, ma si sa, ne avevo passate talmente tante in quei giorni che la mia testa non ragionava ormai più. Era come se fossi impazzito totalmente.

Roberto, una sorta di costante in quella mia vita fatta ormai di strani alti e di profondi bassi, toccò una mia spalla, mi scosse, mi parlò, ma io, con gli abiti tutti inumiditi e gelidi, e la mente altrove, non riuscii a reagire prontamente.

Lo lasciai fare.

‘’Tua madre è disperata, pensava che tu fossi scappato… voleva telefonare alla polizia e ai carabinieri, per farti ricercare per tutto il paesino… non si da pace… diamine, smettila di startene lì a terra… non vale la pena di soffrire così tanto per ciò che ti ha detto, ricorda le mie parole di poco prima…’’, continuava a ripetermi, scuotendomi di tanto in tanto, mentre io mi limitavo ad ascoltare spezzoni delle sue frasi.

Se solo avesse saputo che io ero disperato non solo per come si era comportato mio padre nei miei confronti, poiché in fondo ciò era l’evento di minor importanza, se paragonato a tutto quello che ero stato costretto a subire nell’ultimo periodo, a partire dalle violenze fisiche e psicologiche messe in atto contro di me da suo figlio, fino a giungere allo schiaffo ricevuto poco prima. Ecco, era lo schiaffo che aveva fatto ulteriormente tracimare il vaso della mia razionalità.

Eppure, se per un attimo obbligavo la mia disperazione a retrocedere e a perdere terreno all’interno della mia mente, comprendevo che la reazione di Jasmine era comprensibile, e che dopo un mio repentino ed improvviso comportamento del genere non potevo aspettarmi altro che un gesto simile.

Alla fine, dopo un po’ di tempo, accettai la mano che mi porgeva Roberto e mi rialzai, tornando effettivamente nella mia casa.

Rientrando, mi mancò il fiato; sentivo l’odore dei panni di mio padre ovunque, mi pareva di udire gli sghignazzamenti di Federico, mi sembrava che i muri di casa, che stavano contenendo l’aria calda che cercava invano di intrufolarsi sotto i miei vestiti gelidi e umidi, stessero per rovinarmi addosso.

Incrociai lo sguardo di Roberto, che nel frattempo taceva, e notai i suoi occhi stanchi, ma pieni di premurosa preoccupazione. Mi stringeva ancora la mano, come se fossi un bambino, o come se avesse avuto il timore che, non appena avessi rimesso i piedi in casa, me la sarei data di nuovo a gambe. Un timore non del tutto infondato, tra l’altro.

Dopo essere sfrecciato di fronte alla cucina ed aver attraversato tutto il piano inferiore, salii le scale assieme al mio accompagnatore, che mi portò fino alla mia stanza, dove mia madre mi aspettava, rigorosamente in lacrime, seduta sul mio letto.

‘’Piccolo mio! Sei tutto bagnato…’’, mi disse, con un tono così tanto colmo d’amore che mi fece tremare il cuore nel petto. Tremare era la parola più giusta al momento, poiché il mio organo vitale pareva essersi congelato, dato che non sentivo quel suo classico pompaggio rapido e forte che avevo nei momenti di maggiore e di estremo imbarazzo.

Senza dire altro, la mamma mi porse il mio pigiama, e con delicatezza mi aiutò a cambiarmi e a mettermi a letto, mentre Roberto se ne stava nel bel mezzo della porta, come un cane da guardia posto a difesa di noi due.

Una volta asciutto e cambiato, non appena finii sotto le coperte provai un brivido piacevole, che mi percosse abilmente dalla testa ai piedi, mentre mia madre mi prometteva di andare al piano inferiore a prepararmi una qualche tisana calda. Si offrì Roberto di farlo, ma scese anche lei poco dopo.

L’uomo tornò da me dopo qualche istante, stringendo tra le mani una tazzina piena di dolce e bollente camomilla, che trangugiai con eccessiva fretta, riscaldando anche i miei organi interni, mentre un leggero torpore conquistava rapidamente la mia mente.

Dal piano inferiore, invece, cominciarono a giungere grida forti, arrabbiate; erano i miei genitori che litigavano. Come ai vecchi tempi. E mi resi conto improvvisamente del casino che avevo combinato, con la mia reazione spropositata e da adolescente smidollato.

I miei litigavano, e Roberto stava a mio fianco, seduto sul ciglio del letto, teso. Avrei voluto parlargli a lungo, raccontargli ciò che provavo, e lo schifo che avevo sia nella testa che nel corpo, ma non ci riuscii. Per attirare la sua attenzione, gli sfiorai un braccio, con lentezza.

Solo quando fui certo di avere i suoi occhi su di me, aprii la bocca.

‘’Scusa. Mi sono comportato come un perfetto idiota’’, gli dissi, sottovoce e senza guardarlo.

‘’Non è a me che devi chiedere scusa, ma a tua madre. Si è preoccupata e spaventata, non si aspettava una reazione così da un ragazzo molto maturo ed intelligente come te. Però, è anche vero che non hai nulla da farti scusare; sai, capita nella vita di credere di avere toccato il fondo una volta per tutte, e di commettere qualche sciocchezza. È normale. E in genere il giorno dopo è tutta acqua passata. Quindi riposa, mio giovane amico. Domani ti voglio in forma smagliante, e sorridente’’, concluse il filosofo, parlando lentamente e con dolcezza.

I miei occhi si chiusero, anche se non volevo e nonostante il litigio che infuriava nel piano inferiore e la luce della stanza che mi colpiva in pieno il volto. Mi addormentai così, senza avere neppure idea di che ore fossero, e senza cercare di rassicurare mia madre o di fare altro.

Caddi in un sonno profondo, sotto l’attento sguardo di Roberto, un uomo basso e minuto ma in grado di difendere chi lo circondava. Mi sentivo al sicuro, caldo e tranquillo, per la prima volta in quella giornata. E il sonno in un primo momento mi cullò, anche se fu tormentato da qualche incubo fastidioso.

 

Quella fu comunque una notte difficile. Nonostante il fatto che mi fossi addormentato subito, a sorpresa, più volte mi ritrovai a rivoltarmi tra le mie calde coperte, in preda ad ansiosi incubi dovuti ai miei pasticci e ai miei problemi, che mi volevano davvero tormentare continuamente.

Ad un certo punto, mi svegliai completamente, e di soprassalto mi tirai su dal letto, sedendomi sulla sua sponda.

Il buio mi avvolgeva nel suo tenero abbraccio, e uno spiraglio di luce dei lampioni che entrava dai buchini della mia tapparella colpiva direttamente la mia sveglia sul comodino, che segnava le quattro spaccate. Piena notte, insomma.

Mi mossi, deciso a recarmi in bagno, e rischiai di finire addosso a qualcosa di vivo e di caldo. Leggermente impaurito, le mie mani si mossero sul corpo che se ne stava adagiato sulla sedia e si distendeva leggermente sulla scrivania a fianco del letto, dove le braccia incrociate sostenevano la testa. La persona dormiva, senz’ombra di dubbio, e non era un ladro o un intruso.

Nel buio quasi totale non capii all’istante di chi si trattasse, e per un secondo pensai che fosse mia madre. Le mie mani sfiorarono dapprima la testa, dai pochi capelli e quasi calva, per poi incontrare una folta peluria ispida e irta.

Si trattava senz’altro di Roberto, ed avevo appena tastato il suo viso e la sua barba.

Per fortuna l’uomo non si svegliò. Ero rimasto colpito dal fatto di essermelo trovato lì, e mi chiesi il perché non fosse andato a dormire nella sua stanza, con sua moglie. Tuttavia, erano le quattro del mattino e la mia mente non tanto sveglia ed ancora leggermente scossa dagli eventi della sera precedente mi spinse a proseguire il mio cammino verso il bagno, al piano inferiore. Avevo come la vaga impressione che la moglie fosse più contenta se lui non stava a suo fianco, e che lui stesso lo sapesse.

Cercai di non fare alcun rumore, e ci riuscii, poi sgattaiolai in fretta giù dalle scale, ma quando giunsi a destinazione mi accorsi che la porta del bagno era chiusa. Ed udii un rumore soffuso che proveniva dal suo interno. Qualcuno parlava al cellulare, ed ebbi fin da subito un vago presentimento.

La casa era avvolta dal buio, e molto probabilmente tutti quanti al suo interno dormivano, tranne due; io e il mio coetaneo, che, approfittando del bagno isolato dalle altre stanze, telefonava liberamente. Capivo il motivo del fatto che a scuola fosse tanto poco reattivo, visto che faceva bisboccia tutta la notte col cellulare.

Avvicinai un orecchio alla porta, per udire i discorsi del prepotente. Ero certo che fosse lui, riconoscevo la sua voce, nonostante cercasse di tenerla bassa e controllata.

‘’Sì, sì… avete ragione, sì… certo, è vero, ultimamente mi sto dando poco da fare, ma i miei mi rompono con la scuola e quant’altro… in camera mia non cresce bene, non so il perché. La innaffio ogni giorno, sto attento a tutto… ok, ho capito. Arrivo subito, per fortuna ho un po’ di roba pronta. Aspettami, esco in strada’’.

Avevo origliato fin troppo, godendomi anche le brevi pause in cui l’interlocutore doveva affermare qualcosa al mio nemico, che aveva sempre cercato di parlare a bassa voce, sospirando forte mentre ascoltava le parole dette dall’altro. O dall’altra, non avevo idea di chi si potesse trattare.

Quelle chiamate notturne mi erano sempre più sospette, ma non avevo tempo a disposizione per tentennare o riflettere; Federico aveva chiuso la chiamata e si stava dirigendo verso la porta.

Mi levai in fretta, e cercai di raggiungere il piano superiore muovendomi come un felino, con rapidità nel buio e cercando di non fare rumore. Ero terrorizzato dal fatto che il mio nemico avesse potuto scoprire che avevo origliato e avevo scoperto i suoi movimenti notturni per casa, e la paura aveva effetti miracolosi su di me, a volte, e quella volta effettivamente mi rese più simile ad una lince che ad un ragazzetto in fuga.

Giunsi al sicuro appena in tempo, poiché non appena misi piede al piano superiore lui uscì dal bagno, ma non si diresse in qualche stanza al piano inferiore, bensì direttamente verso la porta d’ingresso, muovendosi con circospezione e tastandosi qualcosa nella tasca. Col cellulare in mano, percorse il corridoio illuminandolo con lo schermo acceso dell’oggetto fino alla porta, che poi aprì con attenzione e silenziosamente, e sgusciò fuori dalla mia abitazione. Ed io, ancora impalato nel bel mezzo del corridoio, non potei far altro che dirigermi altrettanto silenziosamente nella mia stanza, dove il caro Roberto stava ancora dormendo in quella posizione scomoda in cui si era addormentato.

Ringraziai mentalmente l’uomo, per quanto stava tenendo a me e per le attenzioni che mi rivolgeva. Era davvero dolce e di buon cuore, al contrario di suo figlio.

Col timore di svegliarlo, anche perché poi non avrei saputo che dirgli a quell’ora di notte, mi mossi lentamente verso il mio letto, senza più badare ai miei bisogni che mi avevano spinto al piano inferiore. Mi capitava spesso di reprimerli durante la notte, fino al mattino, e altrettanto spesso ci riuscivo egregiamente.

Ammisi a me stesso che la presenza di Roberto nella mia stanza mi dava sicurezza, anche se dormiva, ed averlo a fianco del mio letto mi spinse ancor più volentieri verso il mio soffice materasso, sicuro di essere protetto da qualunque insidia, visto anche il fatto che il prepotente si stava aggirando per casa, ed era appena uscito.

La consapevolezza di quell’uscita notturna mi colpì solo in quell’istante, con un effetto ritardato sorprendente. E, altrettanto sorprendentemente, mi ritrovai a riconoscere che se il bullo usciva senza problemi mentre tutti noi dormivamo, quello poteva voler dire che, nelle scorse notti, aveva avuto campo libero per condurre la sortita contro il liceo, imbrattandone i muri.

Rimasi bloccato e a bocca aperta di fronte a quella consapevolezza, e in quell’istante ebbi come la certezza più sicura che Federico avesse un ruolo centrale in quell’ennesimo reato. Scrollai la testa, per togliermi dai miei pensieri, e ripresi il mio lento movimento verso il letto. Ma gli occhi mi caddero sulla mia tapparella, e sui suoi buchini aperti, che facevano entrare una flebilissima luce che attirò il mio sguardo.

Fu proprio posando il mio sguardo su uno dei buchini che mi fu permesso di avere uno scorcio sulla strada sottostante, e, quasi per caso, riconobbi la figura di Federico, che piuttosto infagottata nel suo giubbotto invernale si stava muovendo a passi rapidissimi verso il parchetto poco distante. Inutile dire che la mia curiosità ebbe il sopravvento, e che in meno di un secondo mi posizionai perfettamente di fronte alla mia finestra, senza alzare la tapparella o fare rumori, limitandomi a seguire i movimenti nemici dai quanto mai utili buchetti.

Poi, però, in fretta compresi che non avrei mai saputo dove si sarebbe diretto il nemico, o cosa avrebbe combinato, poiché ben presto sarebbe scomparso dietro ad altre case e sarei stato costretto a perderlo di vista. Inoltre, un banco di nebbia lo avvolse in modo piuttosto completo per qualche attimo, nascondendolo ulteriormente ai miei occhi, non in grado di riuscire a continuare quell’impresa ardua.

Ebbi un moto di stizza e di rassegnazione, ma per fortuna non distolsi subito lo sguardo. Infatti, i miei occhi furono casualmente attirati dalla potente luce emessa dai fari abbaglianti dell’unica automobile che si stava muovendo nella mia strada.

L’auto era velocissima, ma rallentò e quasi inchiodò di fronte alla figura di Federico, e il ragazzo era nuovamente visibile ma sempre più lontano dai miei occhi, ormai pronto a sparire dietro il profilo della casa di Ottaviano. La nebbiolina si era diradata attorno a lui, posizionato in quel momento proprio sotto ad un lampione, mentre la macchina si fermava senza spegnere i fari, e un qualcuno scendeva dal posto del guidatore.

Federico mi parve che fece due passi indietro, probabilmente non aspettandosi quella mossa(se si trattava di una mossa, eh), ma forse riconoscendo il tizio parve riacquistare sicurezza, e si fermò sul posto, attendendo che la figura vestita di nero, un uomo ne son sicuro, l’affiancasse. Poi, il ragazzo gli passò un pacchettino bianco appena estratto dalla tasca dei suoi jeans, e l’uomo gli diede qualcos’altro, una mazzetta, forse soldi. Anzi, di certo soldi.

Dopo, più nulla; lo sconosciuto si mosse rapidamente di nuovo verso la sua auto, entrò nell’abitacolo in fretta e furia e fece ripartire il suo mezzo a tutto gas, sfrecciando in fretta lontano. Federico parve contare i soldi che gli erano stati dati, e poi, con nonchalance, mise tutto nel portafogli e riprese a muoversi lungo la strada deserta, col chiaro intento di rientrare. Aveva concluso la sua missione, molto probabilmente.

Tornai a letto, giusto in tempo per udire, una volta sotto le coperte, la signora Arriga che, dalla stanza accanto, stava telefonando anch’essa.

‘’Ti voglio bene’’.

Quelle tre parole, pronunciate con una dolcezza rivoltante, furono le uniche che giunsero chiaramente alle mie orecchie. Poi, la porta del piano inferiore si riaprì e si richiuse in fretta; Federico era rincasato.

Ero spaventato, quegli sconosciuti mi inquietavano, loro e i loro strambi atteggiamenti notturni. Poi, le parole dette dall’aristocratica mi fecero salire prima il vomito e poi la bile, e fui lì per svegliare Roberto, che continuava a dormire ad un passo da me.

Ma non lo feci; lui in quella casa era l’unico essere vivente in grado di proteggermi mediocremente da chiunque, e se l’avessi svegliato gli avrei dovuto dare spiegazioni, e si sarebbe allontanato da lì. Inoltre, Federico avrebbe scoperto che sapevo che aveva scambi illeciti durante la notte, e dopo essere riuscito a convincere il padre che si era recato semplicemente a prendere una boccata d’aria fresca in giardino, me l’avrebbe fatta pagare, senza contare le ripercussioni dell’aristocratica, sempre così schifosa nei miei confronti.

Quindi decisi di non rischiare; d’altronde non ero certo che il mio nemico avesse qualche traffico illecito, non essendo riuscito a vedere esattamente cosa barattava sul ciglio della strada deserta a quell’ora, e Livia avrebbe potuto benissimo indirizzare quelle tre belle parole ad una collega di lavoro. Ma le colleghe di lavoro credevo dormissero, di notte.

Misi a tacere i miei pensieri, mentre udivo l’ultimo tramestio prodotto dalle scarpe di Federico, che tornò nella sua camera, e pure la signora riattaccò. Ero certo che la madre sapesse dei movimenti notturni del figlio; era praticamente impossibile che, dalla stanza vicina, non avesse udito nulla.

Deglutii, chiedendomi quanti segreti nascondessero quei due soggetti, sempre più loschi ai miei occhi. Smisi in fretta di farlo, poiché mi sorse una leggera emicrania che mi spinse a favorire il sonno. Ma, prima di chiudere gli occhi, lanciai nuovamente un’occhiata al profilo di Roberto, l’unico della sua famiglia che mi apparisse decente, e che in quel momento russava leggermente.

Mi chiesi se nascondesse qualcosa anche lui; in fondo, ne ero più che certo. Ma non avevo idea di quale sorta di segreti stesse celando nel suo animo.

Tornai quindi ad addormentarmi in fretta, con la mente e il corpo confusi dalle vicende e dalle scenate delle ultime ore, cercando un po’ di quiete almeno nel mondo dei sogni, desiderio che peraltro quella volta fu esaudito miracolosamente, visto che dormii fino al mattino senza avere altri incubi, passando quindi fortunatamente un breve periodo di sonno tranquillo e profondo, protetto dalla consapevolezza che Roberto era lì, a mio fianco, e che se anche dormiva non mi sarebbe mai potuto accadere nulla di male.

 

Il mattino dopo, quando mi risvegliai, scoprii che erano già le dieci del mattino, e visto che la sera precedente dopo tutto il trambusto e la mia agitazione non avevo puntato la sveglia, nessuno si era preso la briga di svegliarmi.

Era un martedì come tutti gli altri, di scuola, ma ben presto avrei scoperto che aveva un retrogusto speciale. Molto speciale.

Di Roberto non c’era più alcuna traccia in camera mia, e tutto appariva in ordine.

La sera precedente mi parve solo un ricordo sfocato e lontano. Persino lo schiaffo.

Mi vestii in fretta, e scesi prontamente al piano inferiore, senza importarmene del fatto che avrei potuto incontrare qualche soggetto scomodo, come mio padre. Difatti lo scorsi subito di sfuggita, mentre entrava nella mia saletta, ma lui non mi degnò di uno sguardo.

Sfrecciai verso la cucina, ed appena ci entrai rimasi scosso trovandoci Roberto e mia madre, che quella mattina sarebbe dovuta essere al lavoro.

‘’Mamma…’’, mi ritrovai a dire, perplesso. Lei mi guardò sorridendo con dolcezza.

‘’Antonio, come va oggi?’’, mi chiese, con tono indagatore.

‘’Tutto a posto. Tranquilla. Ieri sera ero fuori di me, mi sono comportato come uno sciocco’’, tornai a dire, a malincuore per dover ricordare di nuovo.

‘’Mi ero spaventata tantissimo, non ti avevo mai notato in uno stato simile. Questa mattina ho pensato di lasciarti dormire, ci andrai solo domani a scuola’’, tornò a dire la mamma, premurosa.

‘’E tu…?’’, chiesi, senza riuscire a formulare per bene la domanda.

‘’Avevo bisogno di prendermi un giorno di riposo. Tutto questo lavorare senza sosta mi aveva sfinito’’, aggiunse mia madre alle mie parole, sorridendomi dolcemente. Mi stava mentendo, lo sapevo; lei non faceva mai un giorno di sosta, neppure se era influenzata. Doveva essere rimasta a casa per controllare le mie condizioni al risveglio, come se fossi un individuo totalmente pazzo.

Tutto ciò mi fece rabbuiare per un attimo, quasi rattristare; poi, compresi in fretta che mamma mi voleva bene, punto. Non dovevo fregarmene di quello che mi frullava per la testa quella volta, poiché dovevo solo prendere atto del suo gesto dolce, gentile e senza doppi sensi. Si era preoccupata per me fino a giungere a stare a casa un giorno dal lavoro che aveva cercato tanto, odiato a suo tempo ma imparato ad apprezzare solo per il fatto che le permetteva di tirare avanti.

Di fronte alle mie varie consapevolezze non mi rimase molto altro da fare se non sorridere e abbracciarla a sorpresa, con calore e affetto, gesto che lei accolse dapprima con evidente stupore, visto che era tanto tempo che non le concedevo un abbraccio, per poi sciogliersi e ricambiare la mia stretta, cominciando a singhiozzare per la commozione.

Roberto, che stava assistendo a tutta la scena in diretta, ci guardava, tranquillo e impassibile come sempre.

‘’Antonio, si comprende il tuo comportamento di ieri sera, ma davvero, vorrei donarti un consiglio, ovvero di non dar più retta a ciò che esce dalla bocca di chi non vuole vedere al di là del proprio naso, oppure parla con arroganza, stupidità e prepotenza di cose in realtà sciocche. Non ti sto consigliando di non dar più ascolto a tuo padre, bada bene, ma di seguire e di far tuo solo ciò che dice di sensato. Sei un bravo ragazzo, hai molte capacità e sei molto intelligente, e questo te l’assicuro io, te lo assicura tua madre e chi ti vuole bene. Non lasciare che le parole di altri tormentino inutilmente il tuo animo gentile e sincero’’, mi disse l’uomo, soppesando le parole con attenzione e accortezza.

Sciolsi l’abbraccio da mia madre e gli rivolsi un sorriso.

‘’Grazie. Grazie anche a te, per tutto quello che hai fatto per me, e per essere stato a vigilare sul mio sonno’’, gli dissi, colmo di riconoscenza nei suoi confronti.

‘’Tranquillo, è tutto a posto così’’, mi rispose, impacciato di fronte alla mia potente e sfrontatissima riconoscenza.

Mia madre, udendo quelle parole, rivolse un sorriso anche a lui, un sorriso complice e pieno di sentimento. Non soppesai ulteriormente quell’occhiata, poiché il campanello di casa suonò, interrompendo il nostro momento d’intimità.

‘’Qualcuno vuole andare ad aprire la porta, oppure no?!’’, gridò mio padre dalla mia saletta, col suo solito piglio severo.

Roberto si accigliò e mia madre si irritò, di fronte all’ennesimo grido del mio genitore, ma io sorrisi e feci loro un occhiolino rilassato. Volevo fosse chiaro che era tutto a posto ed avevo compreso il loro messaggio.

Essendo l’unico già alzato, mi diressi rapidamente verso la porta, ma un braccio mi afferrò all’improvviso, trovandomi mio padre ad un palmo dal naso, a soli pochi passi dall’atrio.

‘’Se qualche persona suonerà a questo campanello, e chiederà di me, tu dille che non mi hai visto da tempi immemori e che non sono mai passato di qui. Intesi, ragazzino?’’, mi ringhiò contro, senza motivo. Il suo viso mi spaventava, coi suoi occhi arrossati dal nervosismo e con quel volto teso che lo caratterizzava.

Deglutii più rumorosamente del previsto, ascoltando le parole che mi aveva rivolto a bassa voce, ed annuii in fretta, mentre lui già tornava a dileguarsi in tutta fretta nel mio ex rifugio. Probabilmente, avrebbe pure controllato con attenzione dalla finestra di chi si trattava.

Col cuore in gola, e senza comprendere quell’eccessivo avvertimento(che tra l’altro mi spinse a preoccuparmi, poiché mi pareva chiaro a quel punto che mio padre si stava nascondendo da qualcuno), aprii la porta, e ciò che mi trovai di fronte mi spinse a dimenticare ogni cosa e ogni avvenimento recente.

Il cuore parve voler uscire dal mio petto.

Jasmine, la ragazza che avevo baciato la sera prima in preda alla follia dei miei ormoni, confusi dalla critica condizione famigliare in cui versavo, mi stava osservando, al di là della recinzione.

Attraversai il giardino timidamente, con gli occhi bassi, non comprendendo che ci facesse lei lì, avvolta dalla nebbia di quel classico giorno autunnale padano. Pure lei non disse nulla, lasciando che mi avvicinassi per aprirle il cancelletto a mano, e guardandomi con intensità.

Quando mi accinsi ad aprire il cancelletto, appoggiò la sua mano sulla mia, bloccandomi ed avvicinandomisi.

Mi attesi un altro ceffone, ovvero la punizione conclusiva per l’atto sconsiderato della sera precedente. Non sapevo davvero che altro attendermi da lei, così bella eppure così distante da me.

‘’Non ho dormito questa notte, in preda al rimorso. Ecco, non so neanch’io come spiegarmi… non sono neppure riuscita ad andare a scuola, e sono finita col fare buco per… per venirti a dare questo’’, mi disse, impacciatissima. Era fortunata a non essere di carnagione bianca, altrimenti sarebbe stata bordò in quel momento.

E poi, rapidissimamente, mi scoccò un bacio sulle labbra, allungandosi sul cancelletto.

‘’Anche tu mi piaci, Antonio. Non cambiare mai, sei il ragazzo più bello e talentuoso che io abbia mai avuto il piacere di conoscere’’, mi disse, staccandosi dalle mie labbra e donandomi un veloce e timido sorriso a labbra tremolanti, per poi darmi le spalle e allontanarsi quasi di corsa, seguendo il percorso che l’avrebbe portata chissà dove.

Io, rimasto di pietra, avrei voluto richiamarla indietro, dirle almeno qualcosa, ma quella volta non mi fu donato il tempo necessario per farlo. Lei si volatilizzò in fretta, ed io non riuscii ad inseguirla.

Jasmine ricambiava il mio interesse, e a quel punto ciò mi era chiaro. Nel mio cuore ci fu un’esplosione di gioia intensa, leggermente a scoppio ritardato, e fui lì per cercare le tracce della ragazza che amavo, per poterle donare un altro bacio magari, riacciuffandola chissà dove e dicendole parole dolci, rassicurandola sui miei sentimenti. Ma forse mi stavo lasciando trasportare troppo da quel magnifico evento.

A interrompere il mio momento di festosa confusione mentale fu mio padre, che d’in casa mi rivolse contro qualche improprio per aver lasciato la porta aperta, e a malincuore tornai a rincasare tra quelle quattro misere mura.

A quel punto, ancora non sapevo che a rendere più felici i miei giorni sarebbe stato proprio l’amore.

Afferrai il cellulare, e affrontando la mia timidezza le mandai un messaggio chiaro, in cui le scrivevo che ero innamorato pazzo di lei. Non attesi un’ipotetica risposta, avevo paura lo ammetto, e spensi il cellulare per rimetterlo subito in tasca, tornando a chiudere la porta di casa e preparandomi ad affrontare il mio calvario domestico anche per quel giorno.

Feci un grande sospiro, chiusi gli occhi per un istante e mi parve di volare via di lì.

Poi, l’ennesimo borbottio innervosito e lontano del mio genitore, rassicurato dal fatto che chiunque avesse suonato al campanello se ne fosse già rapidamente andato, mi spinse di nuovo a stare coi piedi per terra. Tristemente, ma con tante belle speranze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Carissime lettrici, spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Ne sono accadute un po’ di tutte, e poi ecco anche la sorpresa che Jasmine ha riservato al protagonista…

Beh, io vi ringrazio. Ringrazio chiunque sia giunto fin qui, e tutti coloro che continuano a seguire assiduamente il racconto, supportandomi con un calore e un affetto inimmaginabile. Io vi sono eternamente grato per tutto.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a lunedì prossimo J

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20

CAPITOLO 20

 

 

 

 

Nel pomeriggio di quella stessa giornata, dopo aver trascorso una mattinata oziosa ma colma di pensieri di ogni sorta, mi preparai per recarmi a casa di Alice.

La ragazza mi aveva mandato un sms in cui mi pregava di andare da lei a farle visita, se potevo e se stavo bene, poiché aveva qualcosa di cui parlarmi. Altrimenti, sarebbe venuta lei stessa a farmi visita. Senza farmi troppe domande, sono quindi andato da lei.

Jasmine non aveva risposto al messaggio che le avevo mandato, e questo mi faceva stare in ansia, ma non troppo, dato che avevo scoperto e sapevo che in un qualche modo ricambiava il mio interesse. E ciò era la cosa più bella che avessi mai potuto scoprire.

Dopo essermi sistemato di fretta, uscii di casa con tranquillità, sapendo che mio padre non c’era. Avevo come l’impressione che l’uomo fosse tornato a casa nostra per scappare da qualcuno, per depistare le sue tracce. Anzi, era più che una semplice impressione ormai, visto anche come cercava di essere una presenza furtiva anche per il vicinato, cercando di mostrarsi il meno possibile all’aria aperta. Senza considerare ciò che mi aveva detto quella mattina.

Mi venne da chiedermi se avesse commesso qualche reato, o chissà cosa, ma mi parve una domanda sciocca, dato che quel giorno era tornato all’università, dopo due di assenza. Non avevo idea di quale ruolo ricoprisse al momento al suo interno, credevo che fosse addirittura un docente, ma non stava a me porgli domande. Mi accontentavo che mi stesse lontano e che mi rivolgesse la parola il meno possibile.

Sapevo che neppure mia madre era riuscita a scucirgli le labbra, e questo mi irritava, ma in fondo solo relativamente. Non m’importava molto di quel tizio, e non mi piaceva davvero per nulla.

Mi bastò percorrere pochi metri per essere già di fronte alla dimora della mia amica, trovandola nel bel mezzo della porta d’ingresso, aprendomi da distanza il cancelletto e facendomi cenno di seguirla e di entrare tranquillamente in casa, mentre lei si intrufolava già dentro.

Non sopporto tuttora chi vuole concedere troppe libertà in casa sua, ed entrare in quell’abitazione a me poco conosciuta senza nessuno che mi accompagnasse si rivelò un poco imbarazzante, poiché nonostante ci fossi stato invitato e che la padrona mi attendesse al suo interno, restava pur sempre un ambiente non mio.

Entrai comunque in casa di Alice, muovendo qualche passo trepidante nel largo corridoio del vasto atrio, molto più elegante e spazioso del mio, mentre la mia amica faceva capolino da una porta poco distante e aperta, facendomi cenno di entrare lì.

Ero un po’ innervosito da quell’accoglienza, però mi limitai a seguire la padrona di casa, anche se in modo timido ed impacciato.

Mi ritrovai a rientrare attraverso un secondo ingresso in quella stanza ampia in cui mi aveva accompagnato Alice la prima volta che avevo messo piede in quella casa, la stessa in cui avevo conosciuto Jasmine. La mia amica era seduta su una delle poltroncine, e alle sue spalle aveva spalancato tutte le finestre. Le sorrisi e mi mossi verso di lei, ma rimasi amareggiato quando la vidi stringere tra le mani una sigaretta accesa, per poi mettersela in bocca e fare un tiro.

Alice, notando il fatto che mi ero immobilizzato sul posto quando l’avevo vista fumare, mi mostrò un sorriso pacato, facendolo comparire con una sorta di spontanea lentezza sul suo viso.

‘’Che c’è, non ti piace chi fuma? Oh, no, dovevo immaginarlo. Dovresti provare anche tu, almeno una volta’’, mi disse, mostrandomi un pacchetto di sigarette appena aperto, dove ne mancavano due, e un altro nuovo, ancora avvolto dall’apposito involucro di plastica. Gettò un accendino sul tavolino poco distante, poi si rimise in bocca la sigaretta e aspirò nuovamente una boccata di quello che ritenevo una sorta di puzzolente gas.

‘’No, in casa mia c’è già gente che lo fa, e non apprezzo la cosa’’, mi limitai a risponderle, senza far nulla per disgelarmi. Quel giorno, il suo strano modo di comportarsi aveva cominciato ad allontanarla da me all’improvviso, nella stessa modalità in cui mi si era avvicinata la prima volta ed avevo avuto modo di conoscerla meglio e di frequentarla, soprattutto durante l’intervallo e durante qualche pomeriggio.

‘’Ma fumare non è questione di piacere o no… o meglio, non deve piacere obbligatoriamente a te stesso. Sappi che agli altri piace vederti con una di queste tra le labbra’’, aggiunse la mia amica, con apparente indifferenza.

Ero allibito; Alice stava cambiando, senza preavviso. Lei, la ragazza timida ed introversa, quella che vestiva sempre in modo casual, rilassata e tranquilla ma allo stesso tempo molto amichevole, in quel momento era piazzata davanti a me sulla sua poltroncina, sul volto ben impressa un’espressione sorniona e soddisfatta, mentre si portava nuovamente la sigaretta alle labbra e con la mano libera si sfiorò per un secondo i suoi jeans, che mi parvero tirati e nuovi.

Non indugiai oltre con lo sguardo su di lei, preferendo spostarlo al di fuori della finestra aperta.

‘’I miei non sono a casa, se vuoi puoi fare qualche tiro anche tu, così impari…’’.

‘’Non mi interessa, grazie’’, le risposi direttamente, interrompendola con freddezza.

‘’Ok, ok, va bene, non prendertela, non insisto oltre. Ecco, io ti ho invitato qui per sapere una cosa, invece… cosa sarebbe questa storia con Jasmine?’’, mi chiese, senza lasciarmi il tempo per seguirla. Il suo volto si era leggermente arrossato, quando tornai a guardarla per un attimo, e compresi che era leggermente in imbarazzo.

‘’Beh, l’ho baciata la scorsa notte. E lei questa mattina ha baciato me’’, le risposi, con sincerità e continuando a stare in piedi sul posto.

Alice abbassò lo sguardo, distogliendolo dal mio viso. Quasi sentii quel suo peso venir meno su di me.

‘’State insieme, quindi’’, aggiunse la ragazza, sfoggiando una smorfia che non compresi subito.

‘’No, no, non stiamo affatto insieme per ora. Le ho mandato un messaggio, lei non mi ha neppure risposto… e poi…’’.

‘’Non importa, lei è fatta così. Vi state per mettere assieme’’, concluse Alice, con un tono sempre più profondo e strano. Anzi, mi parve profondamente deluso, con una vena di velato nervosismo al suo interno.

‘’Non è così…’’, facile come sembra, avrei voluto aggiungere, se la mia interlocutrice non mi avesse interrotto di nuovo.

‘’E’ così, punto. Ora che ne ho la certezza, però, dovrei studiare. Da sola, perché in compagnia non riesco a concentrarmi’’.

La guardai, spaesato quella volta. Non sapevo che dirle, non sapevo come reagire di fronte alla sua reazione chiusa, così… gelosa.

Ecco, capii in quel momento che Alice era gelosa ed invidiosa per qualcosa. Era invidiosa di me e Jasmine, dei nostri due baci strappati al destino, del nostro modo di approcciarci.

Mi si gelò il sangue nelle vene. Non potevo crederci.

‘’Va bene, allora me ne vado…’’, le dissi, cogliendo la palla al balzo per togliere il disturbo da quell’ambiente così impregnato di cattiveria repressa. Non mi sarei mai aspettato un atteggiamento simile da parte di quella ragazza che mi era sempre parsa così matura, così intelligente e propositiva, ed aperta a livello mentale.

Lei si alzò, senza fretta, per poi sfrecciarmi davanti ed andarmi ad aprire la porta e il cancello. A capo chino, col volto arrossato dall’imbarazzo generato da quella situazione e senza parole, mi diressi verso casa mia, accennando un ciao che sapeva d’addio, nel bel mezzo del cancelletto della casa della ragazza. Appariva come ironico ai miei occhi in quel momento il fatto che quasi la totalità delle case del mio paesino si assomigliassero tutte esteriormente, col classico giardinetto recintato e quella facciata tristemente ed anonimamente bianca, mentre al suo interno vivevano persone così tanto diverse l’une dalle altre.

A quel punto, Alice si mosse verso di me, mi afferrò a sorpresa una mano e me la spalancò, per poi posarci in fretta l’accendino, che doveva aver raccolto dal tavolo quando si era alzata dalla poltroncina, e ficcandoci anche il pacchetto di sigarette iniziato che mi aveva mostrato poco prima.

‘’Tieni questa roba, altrimenti prima di sera rischio di fumarmela tutta. L’appiccio te lo lascio, così se cambierai idea potrai cominciare a fumare anche tu. Sai, fumare fa abbassare lo stress, e l’ansia… e pure il nervosismo’’.

‘’Ci vediamo domani a scuola, allora’’, le dissi, chiudendo il discorso con disinteresse, e preparandomi a restituirle ciò che mi aveva ficcato in mano a tradimento.

‘’Non contarci, forse faccio buco. Ho conosciuto gente nuova, ragazzi del paese vicino… credo che andremo al centro commerciale. Oppure, a Bologna… chissà’’. E così dicendo, si allontanò da me con un balzo, rapida come un felino, richiudendo il cancello dietro di sé e intrufolandosi di nuovo in casa sua, chiudendo anche la porta d’ingresso. Ed io, ancora imbambolato di fronte a quella casa, me ne rimasi con quegli oggetti tra le mani, ancora troppo stupito per fare altro.

Forse aveva ragione mio padre, quando mi diceva che sono una sorta di bamboccio. Un debole.

Sapevo che Alice si stava dando da fare anche a conoscere nuove persone, ma non ne aveva mai frequentate fino a quel momento, prima di quel cambiamento repentino. In lei si era spezzato un qualche equilibrio a me ignoto, e dato che purtroppo non ne sapevo molto sulle ragazze, preferii non scendere nei dettagli. L’unica cosa di cui ero certo era che in quel mutamento improvviso doveva aver svolto la sua parte anche una discreta gelosia. Alice era caduta in basso, troppo in basso per i miei gusti.

Mortificato, mi allontanai da quella casa, quasi piangendo. Non mi sarei mai creduto che quella ragazza che mi aveva offerto una mano poi l’avesse ritirata tanto in fretta, e con quella dose di sgarbo notevole. Ero rimasto ferito, ma a quanto pareva ciò era quello che sapeva fare meglio la gente che mi circondava.

Con nervosismo, giunsi quasi sotto casa mia in un lampo, scuro in volto, lontanissimo dalla serenità. Ero ridotto anch’io a un fantasma colmo di dubbi e di dolore, a riguardo di tutto. Due baci, Jasmine che poi fugge da me e non risponde al mio messaggio d’amore, Alice che tutt’a un tratto cambia e s’ingelosisce di qualcosa a me sconosciuto, mio padre il villano, Livia l’aristocratica con la puzza sotto al naso, mia madre preoccupata e debole, Federico il bullo, la mia scenata della sera prima, la mia sorta di continuo inquieto tormento interiore. Era tutto questo quello che mi frullava per la testa in quell’istante, non permettendomi di andare a fondo nei miei pensieri e di riflettere razionalmente. Mi sentii come la sera precedente, come se fossi nuovamente sul ciglio di un baratro.

Mi fermai, poggiando la schiena contro uno di quei grandi platani spogli che circondavano la strada, e con un movimento lento avvicinai al mio viso ciò che Alice mi aveva posto in mano, ovvero cose di cui non mi ero ancora sbarazzato.

Avvicinai quelle sigarette al naso, scoprendole ancora impregnate del suo profumo, che miscelato con l’odore del tabacco creava un mix di fragranze affascinante, dovetti riconoscere. Poi, per un attimo, la mia mente si annebbiò a causa del nervosismo crescente.

Mi chiesi il perché di quella situazione, dato che il mondo e la realtà parevano avercela con me. E mi chiesi anche il perché del fatto che la gente, non appena ha un problema, si getta o a fumare o a bere. Ecco, l’alcool lo odiavo infinitamente e lo odio ancora oggi, ma in quel momento quelle sigarette mi parvero una sorta di attrazione curiosa. Se volevo scoprire com’era fumare, e cosa quella sorta di trastullo recava alle persone che lo apprezzavano e lo utilizzavano, avevo la risposta sottomano, per la prima volta nella mia vita.

Non resistendo oltre, essendo la mia umana natura piuttosto curiosa, mi misi tra le labbra una di quelle sigarette e poi, con attenzione, con l’accendino la accesi.

A quel punto, fui ad un bivio; non sapevo se inspirare o meno. Ero nervoso e curioso allo stesso tempo, e senza farmi troppe domande inspirai, lentamente ma in modo deciso, facendo incanalare l’aria in quello strumento che mi era sempre parso schifoso; la sigaretta.

La mia curiosità e la mia frettolosità furono smorzate in fretta, e tornai improvvisamente alla realtà quando il fumo giunse ai miei polmoni.

Inutile sottolineare che quella prima boccata fu anche l’ultima.

Mi tolsi quell’oggetto schifoso dalle labbra, per poi gettarlo sul marciapiede e spegnerlo sotto una scarpa. Poi, gettai a terra l’intero contenuto del pacchetto, e con decisione lo distrussi, sempre pestandolo con le scarpe, e sempre con costante rabbia.

Nel frattempo, tossivo senza sosta, pareva che l’odore acre e disgustoso del fumo, con l’aggiunta del suo sapore, avesse conquistato non solo la mia bocca, ma anche tutti i miei organi interni e il mio naso. Sentivo sapore ed odore di fumo ovunque dentro me e addosso a me, visto che in casa di Alice i miei abiti dovevano essersi impregnati col lezzo del fumo passivo. Pure il mio alito puzzava pesantemente di fumo.

A quel punto, avevo trovato la risposta alla mia domanda e alla mia curiosità; chi fumava doveva proprio essere stressato all’inverosimile, oppure si doveva trattare per davvero di un’abitudine-dipendenza, per giungere a sfogare la propria tensione inquinando il proprio corpo in quel modo.

Scuotendo la testa e finendo di sfogare il mio nervosismo sul pacchetto di sigarette, ormai disintegrato al suolo e dilaniato dalle mie suole, mi mossi verso casa, mentre una passante col proprio cagnolino al guinzaglio mi rivolgeva un’occhiata incuriosita, dopo aver notato il mio scatto d’ira.

Fregandomene altamente, strinsi tra le dita l’accendino di Alice, e poi me lo misi in tasca. Non l’avrei distrutto, quello. L’avrei conservato, e un giorno glielo avrei restituito, quando lei sarebbe stata disposta a riaverlo.

Ma le sorprese non erano finite neppure per quella giornata.

 

Avevo appena compiuto quella ventina di passi che mi separavano dalla mia casa, e il mio leggero nervosismo di poco prima pareva essersi placato.

Mi accinsi ad aprire, per l’ennesima volta, il cancello che mi separava dal mio giardino interno, quando un gruppetto di cinque ragazze mi passò a fianco, seguendo il marciapiede e ridacchiando. Non mi soffermai a guardarle intensamente e con curiosità, non sono mai stato così volgare durante la mia giovane vita, e mi affrettai a scostare il cancelletto e a rientrare.

Le cinque si allontanarono e continuarono a ridacchiare e battibeccare allegramente, e mentre stavo per rientrare nella mia dimora vidi con la coda dell’occhio che ad una del gruppo era caduto qualcosa, e lei non se n’era accorta. Guardando attentamente e da un po’ di distanza, mi parve chiaro che ciò che aveva appena perso era un portafoglio, di quelli tipici delle ragazze e piuttosto variopinto.

Notando che il gruppetto continuava il suo cammino, in modo imperterrito, decisi di fare una buona azione. Tornai quindi sui miei passi, tirandomi di nuovo dietro il cancelletto, e mi chinai a raccogliere l’oggetto, che era effettivamente conteneva un po’ di monete, dato che risuonarono al suo interno non appena l’afferrai.

Velocizzai il passo e raggiunsi le ragazze, delle tipe che non avevo mai visto in vita mia, e che non si erano neppure accorte che mi stavo avvicinando a loro, dal tanto che erano prese dalle loro chiacchiere e dai loro battibecchi.

‘’Ehi, scusa… ma hai perso questo’’, dissi, sfiorando una spalla alla ragazza alla quale mi era parso di veder cadere l’oggetto dalla tasca.

La tipa si fermò, il suo viso si fece serio e mi guardò con curiosità, mentre anche le altre quattro facevano la stessa cosa, smettendo improvvisamente di chiacchierare e lasciando spazio solo al silenzio. Poi, mi sorrise all’improvviso, riconoscendo l’oggetto di sua proprietà.

‘’Oh, grazie!’’, mi disse, continuando a rivolgermi un sorriso diffidente, per poi afferrare il portafoglio ed aprirlo, controllandone il contenuto con una rapida occhiata.

‘’Te lo dico sempre, Mel, di mettere le tue cose nella borsa. Sono più al sicuro’’, disse una delle altre quattro, sorridendo alla prima e a me.

Io, nel frattempo, ero rimasto quasi pietrificato; non tanto dal fatto che la tipa avesse controllato il contenuto dell’oggetto che gli avevo appena cortesemente restituito, ma dal volto della ragazza stessa.

Anzi, non appena le guardai tutte e cinque da vicino, con intensa perplessità, notai che si assomigliavano tutte. E tutte avevano un che di familiare, che sul momento non riuscii a collegare a nulla di preciso ma che m’inquietava un pochino. Eppure, fui costretto a mettere a tacere quei pensieri forse davvero insulsi, per sciogliermi nuovamente in un largo sorriso.

‘’No, scherzi?! Gli scippatori professionisti per prima cosa ti fregano la borsetta, strappandotela dalle mani. È più semplice e facile riporre gli oggetti più preziosi in tasca… soprattutto nelle tasche dietro. Sai, poi fanno anche più volume in quella zona lì, e i ragazzi ci guardano con più interesse’’, si limitò a rispondere la ragazza, scherzosamente, mentre però si affrettava a mettere il suo oggetto dentro alla borsa, quella volta.

Le altre quattro alla battuta ridacchiarono, mentre io me ne rimasi serio e perplesso. Quelli non erano dei discorsi in grado di suscitare la mia ilarità, e la mia attenzione era ancora tutta concentrata sui visi delle giovani, tutti più o meno simili.

Le ragazze erano tutte della stessa altezza, e non sembravano separate da un grande divario d’età, anzi, dovevano essere più o meno coetanee, anche se la più giovane forse doveva avere tre o quattro anni in meno di quella che appariva leggermente più matura, forse ventenne. Avevano tutte e cinque gli stessi occhi castani, e gli stessi capelli di un castano scuro, leggermente mossi in prossimità delle spalle.

‘’Senti, scusa se ne approfittiamo di te e della tua gentilezza, ma ci siamo perse. Siamo giunte fin qui in treno un’oretta fa, e non siamo ancora state capaci di trovare il centro del paese. Sapresti darci qualche indicazione precisa?’’, mi chiese una delle giovani sconosciute, costringendomi ad abbassare lo sguardo per non apparire insistente e maleducato.

‘’Guardate, il paese è molto piccolo. Per giungere nel piccolo centro basta che proseguitate dritto, e giungerete direttamente nel viale principale. Svoltate a destra, proseguite per un altro centinaio di metri e poi ci siete. Ma non dovete credere che ci sia la possibilità di fare shopping o quant’altro… il paese è piccolissimo, e il centro consiste in una piccola piazza rotonda con una gelateria da un lato e una macelleria dall’altro, e due piccoli bar a poca distanza l’uno dall’altro’’, risposi loro, parlando e continuando a muovere gli occhi sui loro visi, senza mai indugiare troppo però. Non riuscivo proprio a capire perché quei loro visi mi fossero così tanto familiari, anche perché ero certo di non averle mai incontrate quelle tizie. Doveva trattarsi di una mia strana sensazione momentanea.

‘’Ecco, Mel! Felice? Ci hai mandato fin qui da Bologna, dicendo che eri certa che in questo paesino sperduto ci fossero parecchi negozi di moda e di abiti. Ed invece ci troviamo disperse in un luogo remoto, e se ci va bene potremmo solo gustarci un gelato’’, disse un’altra, rivolgendosi a quella che aveva rischiato di perdere il portafoglio.

‘’Non è colpa mia se mi avevano detto che erano appena stati aperti tanti nuovi negozi, qui. Sei certo che non ne hanno aperti di recente?’’, tornò ad interrogarmi l’interpellata, mentre tutti gli occhi si puntarono su di me, speranzosi.

‘’Che io sappia, no’’, risposi, smorzando le speranze del gruppetto, che si fece deluso.

‘’Capisco. Comunque io mi chiamo Melissa, e loro sono le mie quattro cugine; Martina, Francesca, Giorgia e Claudia, e veniamo dalle periferie di Bologna. Grazie per avermi restituito ciò che avevo rischiato di perdere’’, disse la ragazza del portafoglio, presentandosi e presentando le altre quattro, seguendo l’ordine in cui erano disposte davanti a me.

‘’Io mi chiamo Antonio, e abito proprio nella casa a cui ora sto dando le spalle’’, dissi loro, presentandomi timidamente.

‘’Grazie ancora per prima, Antonio. Ehm… dato che sei del posto e di certo conoscerai bene il paesino, avresti tempo per accompagnarci fino in centro? Siamo piuttosto imbranate, in più in questa zona mi sa che c’è poca connessione e siamo senza Maps’’, mi chiese timidamente Melissa, che a quanto pareva tra le cugine era lei la leader del gruppetto, mostrando una smorfia strana sul viso, indecisa e imbarazzata.

‘’Se tu avessi ricaricato le batterie del cellulare, avremmo avuto Maps per orientarci in qualsiasi momento, e non avremmo avuto bisogno di importunare passanti’’, la punzecchiò quella che mi era stata appena presentata per Francesca, molto simile alle altre. Parevano quasi gemelle, e il fatto che fossero parenti strette si notava senza difficoltà alcuna.

‘’Ti prego, stai zitta, che non avevi neppure effettuato la ricarica… così sei pure senza Internet’’, ribatté un’altra, mentre le restanti avevano ripreso a ciarlare e a prendersela l’una contro le altre.

‘’Ehi, non è colpa mia se avete scelto di venire a fare shopping in questo luogo sperduto e fuori mano! Sono stata una pazza a seguirvi’’.

‘’Per fare shopping bisogna trovare sempre posti nuovi, e nuovi mercati. Mi ero stufata dei soliti negozi’’.

‘’Ah, quindi questa sarebbe stata una sorta di scoperta dell’America. Quattro sorelle e una cugina alla ricerca di nuovi negozi in cui fare shopping, in una zona dimenticata dal mondo’’.

‘’Oh, su, non facciamola tragica. In fin dei conti ci stiamo divertendo comunque, vero? E poi, quando ci siamo stancate di questo paesino sperduto prendiamo di nuovo il treno alla stazione e ce ne torniamo a casa’’.

‘’Ovvio, se per divertimento intendi perdere oggetti personali ed importunare passanti, stiamo andando alla grande, davvero!’’.

Non le seguivo più, parevano sclerate e fuori di testa. I miei occhi si soffermavano prima su una, poi su un’altra, e alla fine li distolsi definitivamente e mi preparai ad eclissarmi da quelle sconosciute strane, e che mi mettevano in soggezione.

Mi chiesi se fosse possibile che facessero così ogni volta, quando dovevano accordarsi su qualcosa. Non ci si capiva nulla. Ma la risposta mi appariva scontata, visto il chiacchiericcio che me le aveva fatte notare poco prima.

‘’Ehm, ok, noi saremmo pronte per muoverci. Ci accompagneresti, per favore?’’, chiese timidamente Melissa, riuscendo a quietare per un attimo il caos generato dalle cugine.

‘’Sì, non c’è problema’’, risposi loro, accogliendo comunque di buon grado il diversivo che mi avrebbe allontanato sia da Federico, che probabilmente a quell’ora doveva essere a casa, sia da fosche riflessioni che mi portavano ad Alice, e persino dai pensieri strambi che mi facevano giungere direttamente tra le braccia di Jasmine. Se a tutto andava aggiunto che con la scuola ero a posto con tutto, nonostante quel giorno non l’avessi frequentata, gironzolare per il paesino con una masnada di scalmanate sconosciute cugine e tutte pressoché identiche mi pareva un qualcosa di sfizioso, sputando contro la mia solita timidezza.

In realtà le tipe mi trattarono come una guida turistica; smisero per un po’ di fare le oche e si comportarono decentemente, mentre mostravo loro lo scialbo negozietto d’abbigliamento per anziani del piccolissimo centro lastricato a sampietrini, e poi, al culmine della loro disperata delusione, decisero di fermarsi a prendere un gelato, prima di fare ritorno a casa e di tornare nella stazione del paese, tra l’altro non molto distante.

‘’Ragazze, buon gelato allora’’, dissi loro, col chiaro intento di svignarmela. Ammetto avevo continuato a fissare i loro volti, colpito da non so che cosa. Però, mi ero stufato di fare il loro valletto.

Inoltre, fermarmi a prendere un gelato in pieno autunno mi pareva una bestemmia, col freddo che provavo di tanto in tanto. Tra l’altro, la stessa gelateria avrebbe poi chiuso i battenti a partire dalla settimana successiva, fino alla fine del clou dell’inverno, quando avrebbe poi ripreso la sua regolare attività.

‘’Ma che dici… vieni, ti offriamo un gelato, per ringraziarti di tutto quello che hai fatto per noi. Sei stato davvero troppo gentile! Giuro, neppure in casa nostra riescono a sopportarci, quando siamo tutte e cinque assieme. Immagino che tu sia sfinito’’, si affrettò a dire Melissa, invitandomi e ridacchiando.

Sfoggiai un sorriso di cortesia, poiché era stato tutto proprio come lei aveva detto.

Mi diressi quindi in gelateria con loro, dove presi un cornetto alla panna(che dovetti acquistare con i miei soldi, visto che le tipe dopo aver raggranellato tutte le monetine possibili dai loro borsellini e portafogli variopinti fasullamente griffati non erano riuscite a pagarlo anche a me. Non seppi mai come avevano intenzione di fare shopping, senza un soldo in tasca!), e una volta uscito tentai nuovamente di dileguarmi, ma loro mi invitarono a sedermi un po’ nei tavolini esterni del locale. Dato che faceva freddo e che ero sfinito, mi sembrò di vivere un calvario.

Eppure, non riuscivo a dir loro di no; mi incuriosivano. Melissa poi, quella che pareva la più matura e la più intelligente, mi attirava ancor più delle altre. Mi pareva speciale. Non vivevo quella sorta di attrazione che provavo se pensavo a Jasmine, ma qualcosa di simile che sul momento non mi seppi spiegare.

‘’Hai qualche hobby?’’, mi chiese improvvisamente Melissa, mentre eravamo ancora seduti attorno al tavolino e le altre quattro avevano ricominciato a bisticciare per qualcosa che per fortuna non avevo inteso, forse per i soldi. Ormai, stanco com’ero, avevo lasciato che i miei pensieri prendessero il sopravvento sulla realtà, alla quale prestavo poco interesse, ma la domanda della ragazza mi costrinse a tornare sul mondo.

‘’Uhm… sì… mi piace suonare. Il pianoforte’’, le risposi, mugugnando con le labbra zuccherose e leggermente impastate.

‘’Che bello! Anch’io in casa ho un pianoforte, era di mio nonno paterno. Ora lui non lo utilizza più, è piuttosto vecchiotto, e lo strumento se ne sta a prendere la polvere…’’, mi rispose la ragazza, finendo di mangiare il suo gelato e passando lo sguardo sulle cugine, ancora ben prese dal loro bisticcio.

‘’Peccato’’. Fu l’unica parola che riuscii a dire.

‘’Senti, Antonio… ti abbiamo scocciato in tutti i modi oggi, e tu sei stato davvero gentilissimo. Ci hai sopportato, ci hai fatto da guida, ci hai restituito ciò che avevamo rischiato di perdere, e non meno importante ti sei pure dovuto pagare un gelato, che forse non ti andava, per seguirci. Se vorrai venire a farci visita… non mi dispiacerebbe. Non ci dispiacerebbe affatto, anzi. Tra l’altro, mi piacerebbe molto imparare a suonare il pianoforte, e se tu ne sei capace potresti darmi una mano! Io non riesco a mettermici d’impegno, e mio nonno ritiene un inutile spreco di tempo tentare di insegnarmi qualcosa a riguardo’’, tornò a dire la ragazza, cogliendomi alla sprovvista. Mi chiesi se ci stesse provando con me.

‘’Sarebbe un’idea, perché no…’’, le risposi, senza sbilanciarmi ed essere scortese.

‘’Se non sei già stanco di sopportarci. Noi siamo una grande famiglia, e viviamo praticamente assieme, incontrandoci tutti i giorni, quindi tornerai a vedere anche loro. Magari potrai insegnare qualche nota anche alle mie adorate cugine’’, continuò a perseverare la ragazza.

‘’Ma che dici… tranquilla’’, mi limitai a dire, continuando a cercare di non prendere una posizione e di non badare alla seconda parte del breve discorso appena uscito dalle sue labbra.

‘’Tieni, questo è il mio numero di cellulare. Non smetterò mai di esserti grata per la gentilezza che ci hai rivolto’’, aggiunse Melissa, afferrando un fogliettino da dentro la borsetta, assieme ad un mozzicone di matita e scrivendoci il suo numero, per poi consegnarmelo in fretta.

‘’Aspetta, ti do anche il mio’’, le dissi, dettandole poi il mio numero, che lei scrisse su un fazzolettino di carta, che si rimise poi in borsa.

‘’Ragazze, è ora di andare in stazione’’, disse poi, alzandosi dal suo posto e richiamando alla decenza le altre quattro, che prontamente annuirono e si alzarono, muovendosi verso la stazione.

‘’Un attimo, temo che stiamo per perderci nuovamente’’, disse quella che doveva chiamarsi Giorgia, guardandosi attorno.

Mi affrettai a spiegare loro nuovamente il tragitto da compiere, raccogliendo altri ringraziamenti come se le avessi salvate da un peregrinare eterno. Mi sentivo il salvatore di un gruppetto di simpatiche oche giulive.

‘’Grazie di cuore, Antonio. Ci teniamo in contatto, eh! Ci conto che tu voglia venire a farci visita, se lo vorrai. Appena arrivo a casa, metto sotto carica la batteria del cellulare e poi ti mando un messaggio! A presto, quindi!’’, mi salutò Melissa, al momento degli addii.

Annuii con poca convinzione, mentre il gruppetto chiassoso tornava ad allontanarsi da me, quella volta forse per sempre. Dubitavo che la ragazza sarebbe tornata a farsi sentire.

Mentre tornavo anch’io a casa, continuai a lasciar affiorare i profili delle sconosciute nella mia mente, continuando a notare un qualcosa di stranamente insolito. Poi, tornò a riaffiorare anche il triste incontro con Alice.

L’amarezza mi pervase dalla testa ai piedi, e non appena rincasai ne approfittai subito per andare a farmi un bel bagno caldo, in modo da cercare di scacciare tutte le varie riflessioni, purtroppo dolorose e piuttosto inutili in quel momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno, carissime lettrici, e buon inizio di settimana J

Grazie per aver letto anche questo capitolo e per continuare a seguire il racconto! Esso avrà ancora un po’ da narrarci, grazie ai vari pensieri e ricordi del nostro caro protagonista.

Grazie infinite a tutti i recensori!

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata J a lunedì prossimo J

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21

CAPITOLO 21

 

 

 

 

Ricordo che trascorsi notti tormentate, dopo ciò che era accaduto tra me e Alice.

La ragazza non era più venuta a scuola, pareva irraggiungibile, e non avevo idea di come agire. Credetti che starmene sulle mie mi sarebbe stato decisamente più utile che cercare di invischiarmi nell’animo di quella tipa che effettivamente non dovevo aver conosciuto tanto bene, e così feci.

Neppure Jasmine l’aveva rivista più, e si era rifiutata di concederle ogni sorta d’incontro; a lei aveva raccontato che non stava affatto bene, e che forti emicranie la tormentavano, per lasciare spazio poi a momenti di grande lucidità, in cui aveva problemi a riconoscersi. Ammetto che ridacchiai su quei discorsi, per me privi di fondamento e talmente tanto esagerati che potevano solo significare che Alice non ci voleva più tra i piedi e che aveva fatto le sue scelte, giustamente. Ero a conoscenza del fatto che negli ultimi mesi non era stata affatto bene, però scherzare sulla propria salute in questo modo mi disgustava ed inquietava allo stesso tempo.

Il mio scetticismo però non intaccò Jasmine, sempre convinta che in ciò che l’amica le aveva detto ci fosse almeno un fondo di verità. Lei poi la conosceva da tutta la vita, ed aveva avuto maggior confidenza con quella ragazza che non potevo far altro che reputare strana.

Oh, tra me e Jasmine andava tutto a gonfie vele; tra noi non c’era bisogno di dialoghi e parole, per intenderci. Non aveva risposto al mio messaggio d’amore, era vero, ma la mattina successiva mi attendeva davanti all’ingresso del liceo, ancora parzialmente rovinato dai vandali, e con un grande sorriso e un’immensa dose di delicatezza mi aveva preso le mani tra le sue. Non ci eravamo detti nulla, e neppure baciati, eppure tutto ci pareva chiaro.

Nei due giorni successivi, tutto era proseguito così. Ci tenevamo per mano, ci donavamo un abbraccio a vicenda di tanto in tanto, stavamo assieme, in compagnia al parchetto poco distante da casa mia, chiacchieravamo ma non c’eravamo mai azzardati a sfiorare l’argomento del nostro rapporto di coppia. Tutto, a quanto pareva, doveva apparire semplice e spontaneo, e Jasmine e il suo modo di fare molto naturale ed esotico mi piacevano da impazzire.

Non trovavo quindi il senso di pronunciare un altro ti amo, quando cercavamo comunque il contatto tra i nostri corpi e una discreta vicinanza continua. Credo che entrambi all’epoca avessimo paura di fare troppi passi avanti in una sola volta. E quindi procedemmo con calma, ma allo stesso tempo con tacita sicurezza e tanta voglia di restare assieme.

Lei stessa pareva molto contenta di avermi sempre vicino.

Anche Melissa poi si era fatta risentire, tramite messaggio; sembrava che si fosse affezionata a me.

Ciò generava nel mio animo una sorta di inquietudine, dato che il mio interesse era totalmente rivolto a Jasmine, ma comunque sentivo che per quella ragazza pressoché ancora sconosciuta provavo una discreta e primitiva curiosità, rivolta anche alle sue strambe cugine. Avevo quindi deciso di non troncare quel flebile rapporto ma di non dare neppure troppa corda alla ragazza.

Giacomo e Francesco erano venuti nei giorni scorsi a fare una partitella alla play, e tutto sommato ci eravamo divertiti, anche perché ero stato ben attento a non farli venire negli orari in cui era in casa il mio irascibile signor padre, l’uomo che continuava a vivere a sbafo e come clandestino in casa nostra, ma senza intenzione alcuna di spiegarcene il motivo o di voler levare le tende.

Livia e Federico erano sempre più assenti. Pareva che il prepotente avesse qualche giro strano, e che si trattenesse fuori molto tempo, ed io mi limitavo a consegnargli i compiti a casa già fatti pur di mantenere quel flebile momento di tregua. Non aveva voglia di picchiare o imporsi, e la sua testa era impegnata in altri lidi e su altri fronti, questo mi era chiaro, e non volevo stuzzicarlo. A metà del primo trimestre i suoi voti erano ampliamente insufficienti in quasi tutte le materie, e ciò turbava Roberto, che era sempre più schivo anche lui, chissà poi se ciò fosse dovuto solo ai problemi del figlio.

Pure mia madre era sempre più assente, risucchiata dai suoi lavori precari.

Ed io studiavo, e per fortuna a scuola andavo parecchio bene quell’anno, mentre morivo e mi deprimevo senza pianoforte, ancora inutilizzato a causa di mio padre, che spesso per ripicca si divertiva a chiudere a chiave la porta della mia saletta quando non era occupata da lui, portandosi poi dietro le chiavi stesse.

Non restava altro da fare quindi che riflettere sulla mia solita routine, per non pensare troppo e non deprimermi.

Tenevo in considerazione il serio rischio di perdere parte delle mie capacità musicali, se fossi stato un altro mese senza poter suonare il mio strumento, e ciò mi distruggeva. Ma, semplicemente, non potevo farci nulla.

E poi, dal buio che a tratti avvolgeva la mia mente, emergeva un desiderio infame, traditore; quello di voler svelare il segreto che si celava dentro la stanza da letto del mio nemico. Era vero che non volevo stuzzicarlo, ma se avessi solo dato una sbirciatina lui non si sarebbe accorto di nulla ed io avrei avuto modo di soddisfare la mia subdola curiosità, nata ancora durante quella notte in cui avevo udito la telefonata di Federico, intrattenuta nel mio bagno. Quella stanza, che aveva inglobato anche i miei amati e utili vasetti di plastica per piante, doveva celare qualcosa che io volevo svelare. Avevo qualche sospetto ben definito, ma non volevo riconoscerlo a me stesso.

Poi, magari dopo una semplice sbirciatina tutto si sarebbe rivelato infondato e non avrei trovato nulla di insolito in quella stanza, nulla in grado di attirare la mia attenzione o di nascondere un segreto, e ciò forse sarebbe stato meglio. La tentazione era tanta e tanta restava, comunque.

Avevo quindi un gran tormento addosso, e non riuscivo a liberarmene né di giorno né di notte. Dovevo far qualcosa per tornare sulla giusta carreggiata, in modo da evitare possibili altri crolli come quello di quella sera neppure tanto lontana.

 

In questo clima di effervescente agitazione interiore, anche dolorosa a volte, e in piena crisi d’astinenza dalla musica, decisi che, una volta tornato a casa da scuola, quel sabato pomeriggio di metà novembre l’avrei passato a riguardarmi i filmati su mio nonno, conservati gelosamente da mia madre. Era materiale su vecchie videocassette, roba d’altri tempi ormai, ma in piena crisi emotiva pensavo che riascoltare la voce del mio amato nonno mi avrebbe potuto far solo che bene, e magari aiutarmi a non compiere scelte sciocche o affrettate.

Quindi, mi ero preparato con due giorni d’anticipo per quel pomeriggio, prendendo in prestito le videocassette dalla stanza di mia madre(in realtà le presi senza neppure chiederglielo, sperando che non si accorgesse del mio piccolo furto e della mia intrusione nell’intimità della sua camera da letto).

Non so cosa mi avesse spinto a compiere quel gesto, forse solo l’estrema agitazione del mio animo, che negli ultimi mesi era stato davvero sottoposto ad ogni genere di stress emotivo. Insomma, seppi solo che mi sentivo di comportarmi così, e così feci, coerentemente.

Mio padre non era in casa, così come mia madre. Neppure Livia e Federico c’erano, li avevo visti uscire poco prima. A campo pressoché libero, quindi, potei recarmi nel piccolissimo salotto a fianco della cucina, nel quale non entravo praticamente mai, e dove c’era la televisione principale e dallo schermo più grande, con tutta l’attrezzatura che mi serviva.

Però, prima di piazzarmi lì, non nascondo che mi recai dal mio amato ex rifugio, e con mano titubante avevo cercato di aprirne la porta. Niente da fare, mio padre l’aveva chiusa a chiave anche quel giorno, e logicamente la chiave se l’era portata con sé.

Ribollivo dalla rabbia, ed avevo voglia di piangere.

Senza riflettere ulteriormente, abbassai leggermente la tapparella del salotto e accesi la tv, inserendo poi una delle due videocassette che avevo tra le mani e cominciando a pasticciare coi telecomandi. Non ricordavo neppure più come azionare tutto, ma il nervosismo e un po’ di fortuna riuscirono in fretta a togliermi dai miei problemi tecnici. E poi, lo schermo della tv si illuminò e apparve la sagoma di mio nonno.

Si trattava di vecchi filmati amatoriali, girati da un vecchio amico di famiglia che una ventina d’anni prima aveva avuto la stramba idea di voler raccontare la storia del mio paese attraverso le voci di chi in esso aveva vissuto i momenti più salienti della propria vita. Mio nonno non poteva mancare in un simile filmato, dove tra l’altro era il primo a parlare e a cercare di illustrare, nei suoi quaranta minuti che aveva a disposizione, com’era la vita nel paese negli anni prima del passaggio del fronte, e come si era evoluta poi in seguito, nel primo dopoguerra.

Lì il mio caro familiare ormai defunto da anni rievocava la sua infanzia e la sua dura giovinezza, con grande lucidità, e mentre cominciavo ad ascoltare la sua narrazione attraverso la videocassetta, mi parve di averlo ancora lì, a mio fianco, a raccontarmi quelle storie che mi aveva spiegato un’infinità di volte, ma che non mi stancavo mai di ascoltare.

Mi sedetti, e appoggia il mento sulle mie due mani unite, continuando ad ascoltare la voce registrata del nonno, che di tanto in tanto si concedeva una qualche pausa, colma di riflessione, nella ricerca dei ricordi.

Di tanto in tanto, mostrava un leggero sorriso sul suo volto glabro, con qualche ruga impressa sotto gli zigomi, e la testa parzialmente calva pareva mandare qualche riflesso, in quel filmato che avrei ben potuto considerare scadente, considerato anche il fatto che era uno dei primi a colori e tutto quanto dava un’insolita espressione di strano. Quando il tutto era stato girato, mancava ancora poco più di un anno alla mia nascita.

Mentre me ne restavo imbambolato ad ascoltare le parole del nonno, la mia mente non riuscì tuttavia a concentrarsi e a smetterla di struggersi e di tormentarsi; anzi, la visione e l’ascolto del filmato la inasprì ulteriormente.

‘’Cosa stai guardando di bello?’’.

Mi voltai verso Roberto, che aveva fatto capolino dalla porta leggermente scostata.

Non nascosi una smorfia irritata; mi ero preparato per tutto, da giorni, ed avevo atteso il momento più opportuno per cercare la pace tra quei filmati, come un nostalgico depresso, ed invece non avevo fatto i conti con quell’uomo curioso.

‘’Un filmato…’’, gli dissi, a labbra strette e tornando a guardare lo schermo della tv.

Mi aspettavo che se ne andasse, ed invece venne a sedersi a mio fianco, guardando anch’esso la televisione.

Sospirai. Se voleva fare quattro chiacchiere, quello era il momento meno appropriato.

‘’E’ strano che un ragazzo giovane come te si metta a guardare simili filmati’’, mi disse, incuriosito e lanciandomi uno sguardo.

Si mosse leggermente e mi giunse al naso l’odore del suo dopobarba, che doveva essersi spalmato nel collo, l’unica parte dove si radeva. Il resto della barba continuava ad essere lunga un paio di centimetri forse, comunque sempre ben curata, mentre il collo se lo sbarbava sempre, al di sotto del viso, per evitare poi il fastidio che i peli potevano dare in quel punto, quando si muoveva il capo o lo si chinava durante la vita quotidiana. Io, alle mie prime e frequenti esperienze con la rasatura, capivo appieno la sua scelta e il suo gesto, poiché anche a me infastidivano parecchio i peli in quel determinato punto.

Sospirai nuovamente, prima di aggiungere qualcosa alla sua osservazione.

‘’Non è un filmato qualsiasi. La persona che sta parlando è mio nonno’’, gli risposi, di poche parole.

‘’Ah, ho capito, ora mi è tutto più chiaro. Dovevi essergli molto affezionato’’, notò, sistemandosi meglio sulla sua postazione.

‘’Certo. Gli devo tantissimo’’.

Era vero. Dovevo molto ai miei nonni materni, ma soprattutto al nonno; era stata lui la figura maschile di riferimento durante la mia infanzia. E poi, non potevo nascondere il fatto che i miei nonni erano perfetti.

Della nonna ricordo molto poco, essendo venuta a mancare quando avevo solo undici anni, ma del nonno ricordo parecchio. Mi aveva difeso, mi aveva preso in braccio quando avevo paura, ed era a lui che mi rivolgevo quando avevo un qualche problema o mi serviva un qualche consiglio, oppure una qualche domanda da porre, che la mia curiosità da bambino m’imponeva a vagonate. Era stato lui a spiegarmi quello che dovevo sapere del mondo, a piccoli passi.

Sapevo perché la sua figura mi era sempre parsa perfetta.

Il nonno era stato per me un punto di riferimento stabile e fisso, e non mi aveva mai deriso o giudicato. Con me aveva pazienza e tanto tempo da rivolgermi, al contrario di chiunque altro, e rispondeva ad ogni mio interrogativo, sempre aperto con me. Contrariamente, i miei genitori erano stati l’opposto di lui, sempre sbrigativi ed indaffarati. Se per mia madre tutto ciò era dovuto a motivi ovvi, per mio padre tutto ciò era dovuto alla sua arroganza, alla sua diversità. Non ero stato fortunato con quella figura genitoriale.

Quindi, i nonni e la loro stabilità familiare(basata sul dialogo, anche sulla sopportazione a volte, senza mai un litigio ad alta voce o qualche comportamento violento), erano stati per me ciò che più cercavo da piccolo, quella stabilità che i miei genitori non potevano offrirmi.

In una società che invecchia e che allo stesso tempo cambia continuamente, in una sorta di mutevole e precaria danza, i nonni mi erano parsi come entità inviolabili e sagge, mentre i miei genitori mi erano sembrati più deboli, più umani, e quindi più giudicabili. Se mio padre e mia madre erano stati per me, in parte ingiustamente, soggetti di cui giudicare il loro operato e le loro vite moderne, più dissolute e problematiche, il nonno e la nonna erano ciò che significava tranquillità, amore e pazienza. Dei pilastri, insomma, contrapposti a capitelli meno resistenti, dalle più biasimevoli incisioni e dalla maggior precarietà.

‘’Capisco’’, si limitò a dirmi Roberto, dopo essersi passato una mano sulle guance ispide e ricoperte di grigia peluria, ed essersi concesso un attimo di silenzio.

Io me ne stetti in silenzio, continuando ad ascoltare la voce del mio caro nonno, e a osservarne le fattezze familiari del viso che mi erano tanto mancate, ma in fretta ci stavo perdendo gusto.

‘’Non trovi un controsenso che, dopo la morte fisica, una parte di sé resti intrappolata all’interno di fotografie, ritratti, video, audio…?’’, chiesi, a bruciapelo e senza sapere il perché. La domanda, espressa tra l’altro in modo scorretto, mi frullava per la testa in quel momento.

Roberto mi guardò di nuovo.

‘’Non parlare come i nativi americani, Antonio. In questo video non è rimasto nulla di tuo nonno, se non una riproduzione uditiva della sua voce e visiva di parte del suo corpo, e sicuramente tutto ciò è venuto riprodotto in modo diverso dall’originale’’.

‘’Sì, scusa, hai ragione, ho espresso malissimo la mia domanda. Comunque, ecco, mi pare davvero un controsenso che dopo la nostra morte possano restare video in cui noi parliamo, o registrazioni in cui si possa ancora udire la nostra voce che, anche se riprodotta, resta pur sempre la nostra voce. Oppure foto, scattate mentre sorridevamo, oppure mentre vivevamo un momento felice e lontano delle nostre esistenze, già interrotte’’, mi limitai ad aggiungere, correggendo leggermente il contenuto.

‘’Non pensare troppo a queste cose, sono tutte sciocchezze.

‘’No, però a pensarci bene, in fondo, la tua osservazione non è errata; a modo loro sono una sorta di paradosso. Insomma, al giorno d’oggi, i più giovani ma anche noi adulti, amiamo farci foto, e video, e magari postarli su qualche account su Internet o altro… insomma, amiamo immortalarci in ogni modo possibile. Forse, in un certo senso, immortalando un determinato momento in un video o in una foto in modo indiretto può sembrarci un voler salvare immutato e per l’eternità quello stesso istante. Tipo volerlo rendere immortale.

‘’E invece poi, il passare del tempo prima ucciderà noi, poi danneggerà foto, video, audio… che sono solo riproduzioni superficiali, vaghe consolazioni utili solo a chi ci è sopravvissuto e vuole sapere com’era un pressappoco la nostra voce o il nostro viso. Poi, anche ciò svanirà, col tempo. E ciò che non svanirà prima o poi sarà dimenticato per sempre’’, aggiunse Roberto, articolando al meglio il suo discorso, e facendosi pensieroso.

Sapevo che quando assumeva quell’espressione concentrata stava per dar libero sfogo alla sua parte interiore di filosofo.

‘’Vero’’, annuii.

‘’Beh, io non so il motivo più profondo che ti ha spinto a guardare questo filmato, e magari è solo per un puro interesse personale, o che so, per curiosità riguardo al passato, ma non credo sia solo questo. Sta di fatto che se cercherai altro oltre alla più limpida semplicità, non troverai nulla rifugiandoti in questa visione’’.

Lo guardai, irritato; il mio interlocutore sapeva sempre centrare il punto cardine di ciò che mi spingeva a far qualcosa, con tempismo perfetto.

Io, effettivamente, non stavo guardando il filmato per curiosità o qualcosa di più superficiale, ma ero spinto da una sorta di nostalgia, di voglia di ritrovare una parte di quell’uomo che aveva lasciato quel mondo con tanta sofferenza e prima del tempo, facendomi perdere un pilastro della mia vita proprio nel bel mezzo dell’adolescenza, e di riascoltare la sua voce e di rivedere il suo viso.

‘’Come fai a saperlo? Sono convinto che, quando l’avrò ricordato a fondo, alla fine di questa parte di video, avrò ritrovato parte della mia tranquillità’’, gli dissi, tutt’a un tratto, lasciandomi effettivamente ed infantilmente andare. Troppo, per i miei gusti.

‘’Non so cosa ti turba, ma le soluzioni di ogni tuo problema non le ritroverai facendo così. Noto che tu hai un atteggiamento troppo spesso chiuso in te stesso; a volte, per risolvere qualcosa, bisogna saper agire. Tentennare non sempre è positivo, ed affogare i propri pensieri in un passato che mai nessuno ti restituirà è una scelta sciocca’’, mi disse Roberto, con gli occhi luccicanti e prendendo la palla al balzo.

Nel frattempo, il filmato continuava a scivolare dinanzi ai miei occhi, divisi tra lo schermo del televisore e l’uomo reale che mi parlava.

‘’Guarda, sto passando un periodo da incubo. Desidererei solo essere lasciato in pace, a finire la visione di questo filmato’’, gli risposi, sempre più scocciato dalla sua intrusione. Chissà cosa voleva quell’uomo dalla mia vita.

‘’Senti, come devo fare a farti capire che in quello che stai vedendo non troverai mai ciò che realmente cerchi?’’, sbottò l’uomo, in risposta.

Lo fulminai con lo sguardo.

‘’Ma cosa vuoi saperne tu di quello che io cerco?!’’, mormorai, ormai affranto dalla sua insistenza.

‘’Mi hai donato tanti indizi per capirlo, se non te ne sei accorto. In pratica mi hai lasciato chiaramente intendere che il nonno, che è stato molto importante nella tua vita fino al suo decesso, ti è ancora molto caro. Poi, le tue domande e le tue riflessioni a riguardo del senso dei filmati e delle foto dopo la nostra morte… tu stai praticamente cercando di provare a ritrovare indirettamente qualche attimo felice, attraverso questo. Insomma, mi è tutto abbastanza chiaro, mi pare’’.

M’imbronciai ancora di più.

‘’Adesso basta, per favore’’, gli dissi, sentendomi ormai vulnerabile. Aveva ragione; mi ero scoperto troppo, quella volta.

‘’Hai presente il paradosso della nave di Teseo?’’, mi chiese, improvvisamente, non badando alla mia richiesta di essere lasciato in pace.

Strabuzzai gli occhi.

‘’Cosa?! Che c’entra una nave, adesso?!’’, gli dissi, ancora più scocciato.

Mi rigettai a guardare la tv; avevo deciso che l’avrei ignorato da quel momento in poi, chissà se avesse scelto poi di alzare il sedere da quella sedia e di andarsene.

Alzai un po’ il volume del televisore, per aggiungere qualcosa alla ripicca.

‘’C’entra, eccome; ascolta un po’, compone una storiella interessante. Hai presente Teseo? Chi era, insomma? Beh, immagino proprio di sì; chi non lo conosce?! Proprio quello del Minotauro e del filo di Arianna.

‘’Ebbene, si narra che la nave del prode Teseo, gran navigatore in vita, fu conservata per anni e anni dagli ateniesi, in modo che tutti, ma proprio tutti, potessero ammirarla, così da poter ricordare per sempre il grande uomo che l’aveva utilizzata per muoversi per mare e andare a compiere le sue immani avventure. La nave venne conservata intatta, ma col trascorrere del tempo le sue parti in legno cominciarono a deteriorarsi, in un processo senza fine, che non poteva essere limitato. Si sa che il tempo è inclemente, con la materia!

‘’Giunse quindi un momento in cui tutte le parti utilizzate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse nel modo più identico la sua forma originaria. Da qui nacque una situazione paradossale, poiché come puoi ben intendere anche tu, che sei un ragazzo molto intelligente, qualcuno di perspicace si chiese se la nave fosse ancora quella di Teseo, o se non lo fosse più.

‘’Il paradosso crea una questione ancora attuale, visto che riflettendoci non si sa definire con chiarezza se quell’imbarcazione, ancora identica esteriormente all’originale ma con tutti i suoi componenti cambiati e non più autentici, fosse ancora rimasta la nave di Teseo. La nave di Teseo, quindi, si è conservata oppure no? L’entità dell’imbarcazione, modificata nella sua sostanza ma senza alcuna variazione nella sua forma esteriore, è ancora la stessa entità, o è un qualcosa che le somiglia soltanto, una vana ed inutile riproduzione, senza alcun valore e senso?’’.

Non risposi alle sue domande, ma restai accigliato.

Ammisi a me stesso che Roberto era un grande oratore quando voleva, tenace ed attento. Ciò che mi stava spiegando non lo avevo ancora capito, ma m’interessava a suo modo, poiché ne coglievo una certa arguzia. Comunque, mentre lui si concedeva una pausa, ne approfittai per pormi anch’io il quesito, comprendendo in fretta che la risposta era davvero difficile da dare.

Il mio interlocutore, che non era affatto uno sciocco, sapeva che non gli avrei rivolto la parola in quel momento, e si accinse a riprendere il suo discorso e a cercare di giungere in fretta a ciò che mi voleva passare.

Abbassai leggermente il volume del televisore.

‘’Questo paradosso si può applicare anche a noi umani; non è forse vero che ogni giorno in noi qualcosa cambia? Non siamo mai identici al giorno precedente, o addirittura al secondo prima. Le nostre idee cambiano costantemente, i nostri pensieri pure.

‘’E la nostra pelle! Anche lei cambia e si rinnova costantemente. Eppure, nonostante questo continuo ed incessante mutare, continuiamo ad apparire la stessa persona. Quando la mia pelle si sarà rinnovata tutta, non mi chiamerò Alfredo, ma ancora Roberto. Eppure, non sono più il Roberto che ero! Dilemma’’, continuò il mio interlocutore, dando di sprone alle sue idee.

Mi venne improvvisamente da sorridere di fronte a quella valanga di pensieri, parole e paradossi. Mi avevano assolutamente confuso, e in tutta sincerità non sapevo che dire o che aggiungere, né dove l’uomo volesse andare a parare, ma per fortuna io mi volevo estraniare da quel discorso.

‘’Ecco, di fronte a tutto ciò, come puoi credere che in quel vecchio filmato possa annidarsi qualcosa che possa esserti d’aiuto, o magari compiere il miracolo di risollevarti il morale? Tuo nonno vivrà per sempre nel tuo cuore, e nei tuoi pensieri, nell’attimo in cui sei riuscito a conservare una sua nitida immagine nei tuoi ricordi. Lui sarà la tua forza, ma dentro di te, non devi cercarlo in vane rappresentazioni, che non hanno nulla a che vedere con la realtà.

‘’Non struggerti per lui, immagino che l’amore e l’affetto di una persona possa giungere in qualsiasi luogo e, senza andare a pensare alla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, penso che una parte di chi non c’è più resti per sempre con noi. Ma dentro alla nostra mente, quella sorta di ingranaggio potentissimo, ancora più potente di ogni oggetto meccanico inventato dall’uomo. È nel nostro cervello che si nasconde la vera ricchezza, la risposta ad ogni cosa, anche se a volte è difficile da raggiungere, e può sembrare impossibile.

‘’Chissà, forse un giorno gli stessi paradossi di cui ti ho parlato avranno una risposta chiara nonostante le premesse ragionevoli ma che portano a risultati opposti e parzialmente inaccettabili, e ciò che resta di noi dopo la morte non sarà più una domanda che richiede una risposta così teologica e metafisica.

‘’Nel frattempo, dai retta a me; se qualcosa ti tormenta così tanto da costringerti ad affidarti ad un vecchissimo filmato, ti consiglio di agire una volta tanto. Il filmato ti darà magari la soddisfazione di qualche attimo colmo di ricordi, ma alla sua fine non resterà altro che l’amarezza, mentre se invece ti alzerai ed agirai, almeno una volta, potrai dire di avere avuto in mano il tuo destino. Chissà, a volte affrontare i problemi di petto può portare a situazioni inattese, e speriamo che esse possano essere più positive delle presenti, che ti assillano’’, continuò a dire il mio interlocutore, quasi parlando da solo.

Non si era lasciato spaventare dall’apparente barriera che avevo innalzato; aveva continuato a parlare, argomentando per bene le sue affermazioni e facendomi ragionare, nonostante il fatto che io non partecipassi attivamente alle varie riflessioni.

Non era vero che io non lo avevo ascoltato. Anche se non volevo farlo, avevo origliato tutto attentamente, ed effettivamente alla fine del discorso dell’uomo quel video in televisione mi pareva per davvero qualcosa di vuoto.

Sentivo una nuova carica dentro di me, qualcosa che mi suggeriva insistentemente di alzarmi di lì, di rimettere tutto a posto e di andare a risolvere almeno uno di quei tanti problemi che mi tormentavano. Non ascoltavo più le parole del mio povero nonno, e questo mi dispiaceva, ma a quel punto non potei non mettere in pausa il filmato.

Poi, all’improvviso, scelsi di spegnere tutto.

‘’Oh, quindi hai ascoltato le mie parole, alla fine?’’, mi chiese Roberto, retoricamente, guardandomi mentre andavo a sfilare la videocassetta dalla mia vecchia e obsoleta attrezzatura.

‘’Sai, Roberto, a volte sono costretto a riconoscere che avresti dovuto fare l’avvocato. Ascoltandoti, avresti saputo mettere dalla tua parte anche i muri, col tuo modo di pensare e di parlare’’, gli dissi, serio, cercando di inserire la videocassetta nel suo apposito contenitore.

‘’Tu credi? Beh, io spero solo di non aver rovinato nulla. La mia lingua sciolta a volte rovina tante cose, e ti chiedo scusa se ho interrotto il tuo momento d’intimità interiore per parlare ed argomentare le mie sciocchezze. Spero tuttavia che qualcosa di ciò che ho detto possa esserti utile, ma i miei sono solo consigli, ovviamente. Quindi, se lo vorrai, me ne andrò da questa stanza, e tu potrai startene in pace…’’.

‘’No, no, tranquillo. Davvero, mi hai fatto ragionare un po’, e anche se non posso non dirti che inizialmente mi hai infastidito, non posso neppure non ammettere che, effettivamente, hai giocato tutte le carte più inconfutabili in tuo possesso. Ottimo lavoro’’, gli dissi, interrompendolo prima che potesse continuare con le sue scuse fuori luogo al momento, sorridendogli e rimettendomi in piedi.

‘’E… adesso?’’, mi chiese, titubante ma soddisfatto, guardando la nuova luce piena di determinazione che doveva essere apparsa nei miei occhi.

‘’Ora devo pensare un po’, devo trovare almeno una soluzione ad almeno uno dei miei problemi’’, gli dissi, sornione e sorridente, lasciandolo poi solo nella stanza e catapultandomi verso il piano superiore e verso la stanza di mia madre, dove dovevo risistemare le videocassette. Poi, ovviamente, avrei riflettuto per risolvere qualcosa, visto che qualche idea già ce l’avevo, anche se metterla in pratica avrebbe avuto il suo costo e la giusta dose di rischio.

Un sorrisetto mi sbocciò improvvisamente sulle labbra, in controtendenza rispetto al periodo e alle situazioni che stavo vivendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici, e grazie per aver letto anche questo capitolo e per continuare a seguire il racconto con grande puntualità e attenzione.

Diciamo che d’ora in poi la fase totalmente passiva di Antonio si chiuderà, ma vedremo che in realtà si sta per aprire un nuovo periodo duro e tormentato…

Un immenso grazie a tutti i carissimi e gentilissimi recensori che continuano a sostenere la vicenda! Spero che la storia, nonostante la sua lunghezza, stia continuando ad attirare la vostra attenzione.

Grazie di cuore, e buon Ferragosto a tutti! A lunedì prossimo!

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22

CAPITOLO 22

 

 

 

 

 

In quel periodo della mia vita mi erano chiare solo poche cose.

Tra quelle poche, che mi chiamavo Antonio Giacomelli e che avevo qualcosa che mi tormentava. Non mi sentivo pienamente me stesso, ma vittima di soprusi e di un destino forse troppo pesante per un ragazzo poco più che adolescente.

Va bene, ciò che mi aveva lasciato intendere Roberto, cercando di farmi ragionare tramite i suoi pensieri sempre complessi e contorti, mi aveva riscosso, e sapevo che dovevo agire in un qualche modo ed uscire dalla mia inerzia, che mi stava costringendo a vivere quel lunghissimo e doloroso periodo di stallo. Uno stallo che stava coinvolgendo un po’ tutti gli ambiti della mia vita. Ed io dovevo almeno riuscire a interromperlo, in un qualche suo punto.

In quei giorni, non so di preciso cosa mi spinse ad accettare di recarmi da Melissa. Anzi, fui proprio io a cercarla e a dirle che, se voleva, avevo un po’ di tempo libero e potevo recarmi da lei.

Stavo comunque continuando a mentire a me stesso, poiché sapevo esattamente cosa mi aveva spinto a compiere quel gesto, che per un po’ di tempo avevo preferito evitare con qualche scusa.

Il motivo era che la ragazza, da quel che mi aveva detto, in casa teneva un pianoforte, ed io necessitavo assolutamente di esso. Dovevo tornare a posare le mie dita sui tasti di quello strumento, suonarlo e ritrovare almeno in parte la mia pace interiore, visto che ciò in casa mia ormai mi era negato per dispetto.

Ero certo che mio padre chiudesse a chiave la porta della saletta per recarmi danno, e mia madre a riguardo non sapeva imporsi, visti i modi dell’uomo. Neppure Roberto poteva darmi una mano, poiché gli veniva continuamente detto che in quella casa nulla era affare suo, a parte quelle tre stanze che aveva affittato, ed io non riuscivo neppure a parlare col mio losco genitore, poiché se lo facevo dapprima Sergio non mi degnava neanche di uno sguardo, e poi mi rispondeva con una risata. Mi rideva in faccia, quindi, da vero fellone. Sapevo che non avrebbe acconsentito alla mia richiesta, ed anzi, più volte l’avrei supplicato di lasciarmi suonare, più lui ci avrebbe trovato gusto a chiudere la stanza. Ed io ero completamente disperato, senza la musica e il mio strumento.

Sapendo che quella era la causa principale e la base dei miei tormenti, decisi quindi di aggirare l’ostacolo tentando di andare a casa di Melissa e sperando che essa mi lasciasse toccare il suo strumento. Magari, avrei potuto tornare a suonarlo per un po’ e a riprenderci la mano.

Dopo aver concordato tutto con Melissa ed essermi organizzato in fretta, avvisai con altrettanta frettolosità mia madre e mi recai in stazione, dove acquistai i biglietti che mi servivano.

La stazione del mio paesetto era davvero piccola, una sorta di capanna con due misere rotaie che l’attraversavano. Tra l’altro uno dei pochi treni che avrebbe fatto la sua fermata lì quel giorno era proprio quello che faceva al caso mio, e che mi avrebbe condotto alle periferie di Bologna.

Mi attendeva davvero un viaggetto corto, ma grazie alla mia totale imbranataggine in fatto di treni, feci fatica fin da subito a muovermi. Per fortuna i mezzi che si fermavano alla stazione erano davvero pochi.

Dopo un viaggio molto corto, di neppure una mezzoretta, giunsi a destinazione, e lì ad attendermi trovai Melissa, che era stata di parola. Mi aveva infatti detto che mi avrebbe atteso alla stazione per accompagnarmi a casa sua, e così fece.

La ragazza, che a quanto pareva aveva un anno in più di me, mi portò a casa sua con la sua auto, un’utilitaria molto comune nell’aspetto esteriore, guidando con una prudenza che molte volte sfociava in una sorta di insicurezza. Non mi aveva fatto tanta festa alla stazione, limitandosi a sorridermi e ad accompagnarmi alla sua macchina, e all’interno del mezzo stesso non disse praticamente nulla, tenendo sempre gli occhi fissi sulla strada, sgranandoli leggermente quando doveva effettuare un qualche sorpasso, operazione che tra l’altro limitava ai casi più estremi.

Non mi sentivo per nulla in buone mani e cominciai a sentirmi in pericolo quando la ragazza imbucò una strada a carreggiata unica che portava in campagna, e che deviava dalla fitta rete di case dei quartieri più periferici di Bologna. Infatti, la carreggiata era molto stretta ed ogni volta che incrociavamo un auto proveniente dal senso opposto di marcia la guidatrice era costretta a lasciare il passo, oppure ad affiancare lei stessa l’altra auto che si era fermata per concedere la precedenza corretta e la corsia.

Ebbene, Melissa a volte titubava, ed io restavo sempre per qualche istante col fiato sospeso.

C’era il detto popolare e diffuso che mi tornava alla mente e che narrava il fatto che una donna al volante è un pericolo costante, ma non avevo mai creduto a ciò, poiché ritenevo che molte donne fossero più brave degli uomini a guidare, visto che erano più attente a tutto, ma in quell’occasione mi dovetti ricredere per qualche istante. In seguito, col senno di poi, compresi di non essere mai stato realmente in pericolo all’interno del mezzo, ma in ogni caso quei tentennamenti che la guidatrice aveva dimostrato non erano certo segno di sicurezza.

Per fortuna, anche quel viaggetto durò molto poco, a malapena un quarto d’ora. Un quarto d’ora intenso, però.

Quando finalmente giungemmo a destinazione, le mie mani erano leggermente sudate e il mio viso tirato, e molto probabilmente dovevo avere assunto una strana espressione sul volto, forse a causa della tensione accumulata negli ultimi minuti, e non riuscii a gustarmi appieno l’abitazione della mia amica, in un primo momento.

Solo quando lei parcheggiò l’auto, dopo essere entrata in un vasto giardino ben curato ed immerso nel verde, dopo aver varcato un bel cancello di ferro battuto, notai che di fronte a me si estendeva un’abitazione niente male. I genitori di Melissa non dovevano essere persone da nulla.

‘’Che bella casa!’’, le dissi infatti, dopo un attimo in cui cercai di ristabilire i miei sensi.

‘’Grazie! Beh, sì, è una classica villa di campagna…’’, mi rispose l’amica, sorridendomi compiaciuta mentre chiudeva lo sportello dell’auto. Aveva detto tutto quanto come se avesse parlato di una casa qualsiasi, quando invece a me quella pareva una reggia.

Avrei voluto chiederle se la voleva scambiare con la mia, ma stetti zitto, lasciando perdere la vena ironica che sul momento mi aveva colto all’improvviso. Non ero mai stato bravo a fare dell’ironia e temevo già di impantanarmi in qualche sabbia mobile fin da subito.

‘’E comunque non è tutta casa mia e dei miei genitori. Al piano inferiore ci vivono i miei zii e mio nonno paterno’’, aggiunse poi la giovane, come se anche lei si fosse accorta che comunque l’abitazione era davvero ampia. Si trattava di una di quelle abitazioni signorili di metà Ottocento, restaurata in modo sublime, ed esteriormente appariva già più vasta di quello che avrei mai potuto immaginare.

Conducendomi verso l’ingresso di casa attraverso un bel sentiero di ghiaino, tutto ben curato, Melissa di tanto in tanto mi rivolgeva qualche occhiata, ma la mia attenzione era totalmente rivolta all’ambiente accudito e nobiliare che mi circondava.

‘’Davvero, mai mi sarei creduto che tu abitassi in una simile villa’’, le dissi, continuando a guardarmi attorno. Il giardino era anch’esso spazioso, e ovviamente recintato e pieno di alberi e piante varie, anche a cespuglio, che purtroppo in quella stagione donavano una sfumatura di marrone ovunque, e non di vivace verde come dovevano apparire durante i sei mesi più caldi dell’anno.

‘’Te l’ho già detto, non è tutto dei miei’’, ribadì la mia interlocutrice, come a voler dimostrare che un simile sfarzo purtroppo lo doveva condividere con altri parenti. Inconsciamente, mi chiesi chi fossero i genitori e i nonni della ragazza, per potersi permettere tutto ciò.

Mentre ancora mi guardavo attorno e i miei pensieri erano più concentrati verso gli aspetti più materiali di ciò che mi circondava, quasi venni travolto dalle quattro cugine di Melissa, che uscendo di casa ci vennero incontro con il loro solito modo di fare molto rumoroso. Ebbi un momento di confusione di fronte al loro festante e incasinato saluto collettivo, e continuai a notare che quelle ragazze, quando erano assieme, dovevano essere davvero pestifere ed insopportabili. Peccato che, molto probabilmente, dovevano passare molto tempo assieme.

Notando il mio comportamento impacciato e sopraffatto dalla moltitudine di cugine, Melissa, la più grande di tutte tra l’altro, mi trasse in salvo e mi condusse in fretta dentro l’abitazione, mentre le ragazze se ne rimasero in giardino.

Entrato in casa, mi condusse direttamente al piano superiore, ma non potei non notare il vasto atrio, e le belle opere d’arte appese alle pareti d’un bianco candido. Le ampie scale interne che collegavano il piano inferiore a quello superiore erano una sorta di divisorio tra i vari alloggi, ed erano tutte di un bel marmo tenuto splendente.

Melissa doveva aver notato il fatto che mi sentivo in soggezione nell’ambiente, e che effettivamente non ero a mio agio fin dal momento in cui avevo lasciato il treno, per poi salire sulla sua auto. Forse per quello decise di cominciare la visita col botto, donandomi uno zuccherino estremamente dolce e appetibile. In pratica, mi offrì il mio desiderio su un piatto d’argento.

Non incontrammo nessuno nel tragitto che ci portò fin di fronte ad una stanza dalla porta chiusa, che fu aperta dalla mia accompagnatrice e padrona di casa, che a quel punto parve rilassarsi anche lei.

‘’Ecco, ho pensato che, per cominciare…’’.

Non l’ascoltavo neanche più. Non appena mi affacciai in quella stanza spaziosa, ben arredata e con a lato un magnifico pianoforte, il mio cuore esplose di gioia e felicità.

Una sensazione assurda mi pervase dalla testa ai piedi, mentre a passi lenti mi avvicinavo allo strumento.

Melissa stava dicendo qualcosa, mostrandosi per la prima volta timida, sfoggiando un atteggiamento che, in un’altra situazione, mi avrebbe fatto subito pensare che con me fosse in soggezione, chissà per quale motivo, ma in quell’istante i miei occhi planavano sul vicino strumento musicale e nelle mie orecchie già risuonava una possibile sinfonia.

Lentamente, constatai che quel pianoforte era un modello molto antico, e molto più pregiato del mio. Tutto in sé risplendeva, tuttavia.

Non seppi trattenermi oltre, di fronte alla spinta dei miei desideri.

‘’Posso provare a suonare qualcosina?’’, chiesi improvvisamente alla ragazza, che ancora stava parlando di qualcosa che non mi importava.

Lo so che è bruttissimo da pensare e da ammettere, ma effettivamente sapevo che avevo fatto tanta strada e mi ero permesso quel viaggetto solo ed esclusivamente per quello strumento musicale, e non per ascoltare Melissa, o parlare con lei. Dentro di me, il mio lato più oscuro mi passava soddisfazione e tentazione di suonare, mentre l’altra parte di me, opposta, mi consigliava di vergognarmi per quel mio comportamento da misero approfittatore.

Ma, d’altro canto, si sa che la natura umana è debole, e che di fronte alle tentazioni della vita non sa proprio dire di no. Quindi, anche se non volevo, in realtà stavo quasi sbavando come un cane di fronte ad una ciotola di fragranti crocchette, come avrebbe potuto affermare il grande studioso Ivan Pavlov, e molto probabilmente non mi sarei dato tregua fintanto che non avessi avuto modo di appoggiare le mie dita su quei tasti tanto invitanti.

Melissa mi allungò uno sguardo leggermente sorpreso per la mia richiesta frettolosa, e forse neanche troppo gentile, ma non si oppose minimamente.

‘’Beh, certo, se vuoi…’’.

Non mi serviva altro. Avevo il permesso per appoggiare le mie dita su quel magnifico strumento, e il resto veniva tutto dopo e non m’importava, in realtà.

Venni colto da una frenesia ansiosa che per qualche istante mi fece provare qualche brivido per tutto il corpo, per poi calmarmi non appena mi fui ben seduto di fronte alla mia possibile fonte di felicità ed ebbi sfiorato i tasti. Da quel momento in poi, vissi qualche minuto di panico.

Melissa continuava a parlarmi e a guardarmi, e avevo voglia di spegnerla come avrei fatto con una tv o una radio molesta, mentre io cercavo di familiarizzare con quello strumento che in realtà non era mio e che quindi aveva qualcosa di diverso. Ogni oggetto è diverso dall’altro, ogni cosa ha una sorta di propria anima, in grado di renderla distinta e differente dalle altre, a meno che non sia prodotta in serie dalle industrie dalla tecnologia più avanzata.

Mi accorsi a quel punto che tremavo nuovamente. Frenesia, ansia e altre mille sensazioni differenti si erano unite alla mia impellente voglia di esaudire subitissimo il mio desiderio, ed io ancora riflettevo su non so bene cosa.

Mi feci coraggio ed affrontai tutto di petto.

‘’Non hai un qualche spartito?’’, chiesi alla padroncina di casa, che ormai si era accorta che non la ascoltavo e se ne stava mogia alle mie spalle, immersa in un muto silenzio che poteva voler dire molte cose, nascondendone altre, tra cui anche la curiosità.

‘’No, questo è il vero problema. Nessuno in casa è capace di suonare il pianoforte, a parte mio nonno, ma lui i suoi spartiti li tiene sempre con sé e non li lascia incustoditi in questa stanza…’’.

Ok, ciò non aveva particolare importanza, pensai, tagliando di nuovo i punti col mondo reale. Ero pronto a suonare qualsiasi cosa, anche una sinfonia immaginaria e orribilmente storpiata. Sapevo che mi stavo comportando come un gran maleducato, ma ormai avevo perso ogni nesso con la realtà, e l’oggetto dei miei desideri era lì, a portata delle mie dita.

Mi chiusi totalmente in me stesso, e l’ansia che mi attanagliava da ogni parte svanì come la nebbia autunnale dinnanzi al primo tiepido sole della giornata, e pure io come il nostro grande e luminoso astro m’innalzai sopra ad ogni mio limite.

A quel punto, inutile dire che persi il controllo di me. Non so per quanto suonai, e neppure cosa suonai di preciso, per tutto il tempo. Sapevo solo che nessuno aveva cercato di interrompermi in alcun modo.

Ero talmente tanto preso da quello strumento che mi era molto mancato in quelle ultime settimane che non badai a nulla, se non a cercare di suonare e di ricreare qualcosa di decente. Il resto veniva dopo, e il mio livello di attenzione era davvero bassissimo, in quegli attimi.

Fu una sorta di raptus, di quei momenti in cui si esce da sé stessi per entrare in sintonia con un oggetto che diventa prolungamento del proprio corpo, e tutto ciò che mi circondava veniva dopo. Il pianoforte, nonostante non fosse quello che tanto amavo e utilizzavo a casa mia, si dimostrò un valido compagno, e non deluse assolutamente le mie aspettative, anzi.

Dopo un periodo di tempo indeterminato, le forze sembrarono venirmi a mancare tutte assieme. La sintonia che avevo raggiunto con lo strumento si sciolse, lentamente, oppure troppo in fretta, dipendeva da come si rifletteva sulla situazione, ed io rientrai in me, rendendomi conto di quello che avevo fatto.

Le dita si fecero pesanti, le gambe molli, la vista sfocata. Lasciai perdere e, in pochi secondi, lasciai anche che le mie mani scivolassero giù, lontane dai tasti. E allora mi voltai, sentendo il mio viso arrossarsi, comprendendo che doveva essere trascorso un bel po’ di tempo da quando mi ero praticamente impossessato di quell’oggetto non mio, quasi snobbando la povera Melissa, che doveva esserci rimasta davvero male.

Quando mi girai, cercandola con lo sguardo, mi trovai di fronte ad una platea di gente, che in silenzio mi osservava con attenzione.

La mia mandibola cedette un po’ e per un attimo mi parve di restare senza fiato, trovandomi immerso in una situazione quasi paradossale ed in una casa che mi era sconosciuta, così come la maggior parte dei suoi abitanti.

Tra le persone che avevano preso posto nell’ampia stanza, riuscii a riconoscere Melissa, che incrociando il mio sguardo stupito sorrise, e poi notai anche le altre quattro cugine, più in un angolo rispetto agli altri presenti, che non conoscevo e non avevo mai visto in vita mia. Quella fu la mia prima sorta di concerto, tra l’altro a sorpresa.

Tutti mi osservavano in silenzio, quasi mi studiavano con insistenza. L’unico seduto, posizionato tra l’altro in una posizione centrale della camera, era un uomo anziano, a cui diedi un’ottantina d’anni, coi capelli bianchi tirati all’indietro ed un volto severo, dai tratti marcati nonostante l’età e le rughe lasciate dal tempo, e dai baffetti allungati e leggermente arricciati, che mi ricordavano tanto quelli rappresentati nei ritratti di fine Ottocento.

Fu proprio lui il primo a parlarmi e a interrompere il silenzio.

‘’Come ti chiami, ragazzo?’’, mi chiese, con una voce forte che risuonò nella stanza, una voce della stessa specie di quella di mio padre. Imbarazzato e in soggezione, deglutii prima di rispondere con titubanza.

‘’Antonio’’, gli dissi, semplicemente.

L’uomo anziano annuì col capo.

‘’Bene, Antonio, piacere di conoscerti. Potrei sapere come sei finito in questa casa?’’.

‘’L’ho invitato io, nonno. Io e le ragazze l’abbiamo conosciuto qualche settimana fa, in un posto dove eravamo andate a fare un giretto. Insomma, è stato tanto gentile, e ci ha fatto anche da guida. Quando ho scoperto per caso che apprezzava il pianoforte e lo sapeva suonare, beh, l’ho invitato a farci visita’’, spiegò Melissa, prima che io potessi rispondere in un qualche modo e spiegando tutto quanto.

Il vecchio annuì nuovamente, con aria seria, mentre tutti tacevano ancora nella stanza. I presenti, dieci in tutto comprese le mie giovani amiche, erano tutti maturi a parte le ragazze, e mi pareva evidente che formassero una grande famiglia, quella di cui mi aveva accennato Melissa.

‘’La tua visita è stata molto apprezzata. Sei molto bravo e dotato, e mi fa piacere che le mie nipoti abbiano avuto modo di conoscerti. Spero veramente che vorrai tornare in questa casa, e grazie per la musica che hai suonato, era davvero splendida’’. E così dicendo, l’anziano si alzò dalla sedia senza alcun tentennamento, e poi, appoggiandosi ad un bel bastone da passeggio, abbandonò la stanza, senza mai abbandonare quella sua aria severa e tirata, subito seguito a ruota dalle due coppie di adulti, che non mi degnarono neppure di uno sguardo in quel frangente. Non me ne dispiacque.

Subito, le ragazze si avvicinarono a me.

‘’Grande, Antonio! La tua musica è risuonata tra le mura di questa abitazione, è giunta ovunque. Noi e i nostri genitori, assieme al nonno, non abbiamo saputo resistere e siamo venuti ad ascoltarti, senza disturbarti’’.

‘’Sei un maestro, mentre suonavi sembravi perso in te stesso!’’.

‘’Grande, davvero’’.

‘’Hai fatto un figurone, sono pochi coloro che riescono a piacere al nonno. E tu gli piaci. Scommetto che se tornerai a farci visita, ti passerà un suo prezioso spartito’’, mi disse Melissa, emergendo dal caos delle scatenate cugine, che come ogni volta infuriavano su di me, ancora seduto. Le sorrisi.

Poi, i miei occhi caddero sul mio piccolo orologio da polso; segnava le diciassette.

‘’Ragazze, io sono felice di esservi piaciuto e di avervi fatto udire qualcosa, ma ora dovrei proprio lasciarvi. Entro quindici minuti dovrei essere in stazione’’, dissi loro, smorzandone l’entusiasmo e mostrando una smorfia agitata. L’ultimo treno che mi avrebbe potuto condurre al mio paese passava alle diciassette e quindici, e quindi dovevo fare in fretta a giungere in stazione, per non rimanere a piedi. In quel caso, nessuno sarebbe passato a prendermi lì, e chissà come avrei fatto a passare la notte.

Sperai anche in un piccolo ritardo del mezzo.

‘’Oh, certo, capisco. Allora andiamo, ti riporto in stazione’’, mi disse prontamente Melissa, comprendendo subito la mia necessità.

Le sorrisi e a passo svelto la seguii fuori dalla stanza, dopo aver salutato le cugine che, dal canto loro, parevano deluse di non potermi tormentare più col loro chiacchiericcio. Quando Giorgia si azzardò ad inseguire Melissa e a chiederle se poteva venire con noi in auto, lei non si era preoccupata di dirle di no. Forse anche la più grande tra le cugine la pensava un po’ come me, a volte.

Non incontrammo nessun altro in giro per quell’immensa abitazione silenziosa, e in un attimo fummo dall’auto, mentre la cupa sera autunnale già aveva voglia di lasciare spazio alla prematura notte di quel periodo dell’anno.

Inutile dire che partimmo con una sgommata, di quelle classiche, ma non seppi mai se fosse voluta oppure no. Preferii restare col dubbio e non chiederlo con la guidatrice, di nuovo tesa al volante. Non volevo parlarle, per non disturbarla da quella missione che pareva portarle via tutta l’attenzione(d’altronde, ne valeva anche della mia salute personale), ma fu lei a rivolgersi a me.

‘’Grazie per essere venuto a trovarmi, davvero. Anche se magari non l’hai capito, la tua visita ha davvero portato una ventata di novità in casa nostra, e ciò mancava da tempo. Avrai notato che i miei genitori, i miei zii e il nonno sono molto seri e severi, eppure tu sei riuscito a svagarli, ne sono certa. Ed hai svagato e sorpreso anche me e le mie cugine! Grazie’’, mi disse la ragazza, continuando a guidare con attenzione.

‘’Piacere tutto mio’’, le risposi, con grande galanteria. In realtà, la mia mente era già in stazione, e in un corpo possibilmente illeso da quel viaggio.

‘’Sei il nuovo idolo di casa Giacomelli, insomma’’, aggiunse, ridacchiando per la prima volta.

Sgranai gli occhi a quelle parole.

‘’Come?!’’, sbottai, stupito dall’aver udito il mio stesso cognome.

‘’Ho detto che sei il nuovo… oh, insomma, ti attendiamo ancora a casa Giacomelli, per farla corta. Per la cronaca, mi chiamo Melissa Giacomelli’’, mi disse la mia interlocutrice, cercando di fare un po’ d’ironia e non comprendendo la mia perplessità.

‘’Come si chiama tuo padre?’’, le chiesi, a bruciapelo. Avevo ormai una vaga impressione che mi girava per la testa.

‘’Piero, Piero Giacomelli. Ma… perché tanto interesse?! Il tuo cognome qual è?’’, mi chiese lei, sempre più perplessa dalle mie parole.

‘’Abitate in una gran bella casa, davvero’’, mi affrettai a risponderle, cercando di deviare il discorso e sperando che la ragazza abboccasse e che non mi riproponesse la domanda, obbligandomi in un qualche modo a fornirle una risposta.

Se non ricordavo male, mio padre aveva un fratello minore di nome Piero, e quindi forse Melissa e le altre ragazze erano le mie cugine, a rigore di logica. E l’anziano che aveva ascoltato la mia musica era mio nonno paterno, sempre forse. Ecco il motivo di quella strana familiarità che avevo trovato in loro fin dal primo momento in cui avevo avuto modo di recuperare il portafoglio della mia interlocutrice.

Il mondo mi parve crollare addosso assieme alla sorta di flebile consapevolezza di aver conosciuto casualmente le mie cugine e di aver frequentato la loro casa senza che nessuno di noi fosse volutamente al corrente del nostro grado di parentela. Sperai vivamente che le cose non fossero così e che tutto si rivelasse molto meno complicato. Ma sapevo che non c’erano molte altre possibilità.

‘’Hai ragione, è davvero molto bella’’, mi rispose cortesemente Melissa, lanciandomi un breve sorriso e lasciando cadere la sua domanda nel nulla. E poi, per fortuna, il viaggetto in auto finì e giungemmo in stazione, giusto in tempo.

Scesi dalla macchina in fretta e furia, mentre la ragazza mi diceva un semplice ciao e un ci risentiamo per messaggio, lanciandomi verso il punto dove il mio treno mi avrebbe aspettato per riportarmi a casa, non badando alla mia maleducazione. Per quel giorno, avevo strafatto a riguardo.

Il treno giunse puntualissimo e non dovetti attendere neppure un attimo, saltando subito in carrozza e riprendendo poi il fiato, una volta sedutomi in un posto vicino al finestrino, in quella terza classe in cui pochi in quella sera stavano viaggiando. Avevo la mente confusa, non volevo pensare a nulla e non vedevo l’ora di tornare a casa mia e di rinfrescarmi le idee.

Non badai neppure al cellulare, quando esso suonò per un po’. Avevo paura, e nonostante il fatto che io avessi appena trovato lo sfogo ad una mia necessità ed avessi esaudito un mio desiderio, facendomi avanti come mi aveva suggerito Roberto, il risultato era stato solo la nascita di un nuovo caos nella mia mente.

Tenni gli occhi socchiusi per buona parte del viaggio, cercando di non pensare a nulla e di stare in un qualche modo tranquillo.

 

Quando giunsi alla mia meta, e scesi alla stazione del mio paese, trovai una sorpresa ad attendermi.

Jasmine, imbronciata, mi attendeva lì, sola e in piedi. Non appena mi vide, si diresse subito verso di me, con grande rapidità.

‘’Ti pare questo il modo di comportarti?! Tua madre temeva fossi sparito…’’.

‘’Ehi, stai tranquilla! Mia madre crede che io nell’ultimo periodo sia diventato pazzo, ma non è così. E poi, lo sapeva che sarei stato via tutto il pomeriggio’’, le dissi io, cercando di avvolgerla in un abbraccio tranquillo. Ma lei si ritrasse, bruscamente.

‘’A volte non riesco a capirti, Antonio. Dei giorni mi sembri un ragazzo limpido e sereno, altri mi sembri un dannato che sta cercando in un qualche modo di nascondere qualcosa. Ha forse un’altra ragazza?’’, mi chiese, a bruciapelo. Era la prima volta che mi affrontava così di petto, da quando ci conoscevamo.

Alzai le mani, in segno di resa e di sincerità.

‘’Ti giuro, non ho nessun’altra ragazza. Oggi pomeriggio dovevo andare in un posto, e ho scoperto… insomma, non so nulla di certo e in questo momento ho solo una gran confusione in testa, un altro giorno ti spiegherò tutto quanto, ok? Ma sappi che io amo solo te’’, le risposi, sinceramente.

Lei mi rivolse un’occhiatina perplessa, ma non volle infierire. Ed io ne approfittai per allungarle un bacio sulle labbra, molto gradito.

‘’Se ti comporti ancora in questo modo, me la prendo sul serio’’, mi disse poi Jasmine, allontanandosi da me e donandomi un breve sorriso, prima di darmi le spalle e di tornare a dirigersi verso casa sua.

Scossi leggermente la testa, divertito dall’atteggiamento della ragazza che, pur cercando di nasconderlo e di non dirmelo direttamente, si era preoccupata per me. E questo era davvero un bel gesto da parte sua.

Inoltre, indirettamente, mi aveva fatto capire quanto mi amava. La conoscevo bene ormai, e sapevo che dentro di lei scorreva un sangue selvaggio e indomito, e che mai si sarebbe piegata a dichiarare profondamente il suo amore in modo aperto, poiché lo riteneva quasi una sorta di umiliazione. Io e Jasmine ci capivamo, ci volevamo bene e ci amavamo in un modo tutto nostro ed originale, poiché entrambi avevamo le nostre ben precise idee sull’amore e su ogni cosa.

Ma l’importante, in fondo, era amarsi, e decantare in giro e a parole il nostro amore non ci soddisfaceva, e ci importavano di più i nostri sporadici contatti fisici e i nostri sguardi. Il resto, contava molto meno, durante quei primissimi tempi della nostra relazione.

 

Giunsi a casa in fretta, e altrettanto in fretta mia madre mi si piazzò davanti, sbucando da chissà dove e come un’indemoniata.

‘’Signorino, dov’è stato quest’oggi?’’, mi chiese, in un modo che mi irritò in un solo secondo.

‘’Mamma, non c’era bisogno di fare una scenata così, cavolo! Te l’avevo detto che sarei stato via tutto questo pomeriggio, e che sarei tornato per la sera. Hai spaventato anche Jasmine’’, le dissi, allargando le braccia.

‘’Ah, la ragazza che ha bussato alla nostra porta nel pomeriggio… era davvero preoccupata per te, quando le ho detto che pure io lo ero. In più, eri anche irraggiungibile e non rispondevi al cellulare…’’.

Mia madre stava sfogando la sua disperazione, mostrandomi due occhietti inumiditi dalle lacrime.

‘’Oh, mamma… devi smetterla di preoccuparti così tanto per me’’, mi limitai a dirle a quel punto, donandole un piccolo abbraccio, subito ricambiato.

‘’Sai, dopo ciò che è accaduto qualche sera fa…’’.

‘’Non sono impazzito. Quello è stato solo un momento di sconforto. Sto crescendo, e devi avere più fiducia in me’’. Sciolsi l’abbraccio, lestamente.

‘’Non ho fame, magari ceno più tardi, quando l’aristocratica madre e il figlio sono saliti in camera, così non li disturbo col mio brutto muso mentre giro per casa’’, mi limitai a dirle di nuovo, per poi deviarla e dirigermi verso il piano superiore.

‘’Ma…’’. Mia madre tentò di dirmi qualcosa, ma io non le badai. Anzi, mi volsi un attimo verso di lei, prima di cominciare a salire le scale.

‘’Mamma, uno dei fratelli di… di papà, si chiama Piero?’’, le chiesi, a bruciapelo.

Tentennai quando era giunto il momento di dire la parola papà, ma alla fine l’avevo detta lo stesso per agevolarmi la vita. Però, mi scocciava chiamare quel soggetto papà, anche se purtroppo lo era. Ed avevo bisogno di conferme, in fretta.

‘’Da quel che so, sì’’, mi rispose lei, annuendo, ma con fare molto incuriosito.

Cercò di chiedermi altro, visibilmente sorpresa dalla mia strana domanda, ma a quel punto avevo la risposta a ciò che mi aveva tormentato per tutto il viaggio in treno. A quanto pareva, era certo che agendo ero entrato in contatto con i familiari di mio padre, in modo del tutto involontario ed inaspettato. Anche quella volta Roberto non aveva sbagliato la sua previsione, effettuata solo il giorno prima.

Mi catapultai verso il piano superiore, felice per non aver incontrato nessun altro a parte mia madre, e cercando di celare la confusione che le nuove consapevolezze avevano generato nella mia mente.

 

Entrai in camera mia a passo baldanzoso; niente e nessuno, neppure il più maligno e pressante dei miei tormentati pensieri, mi avrebbe impedito di farmi una doccia dopo aver studiato un po’ per le verifiche dei giorni successivi.

Però, le sorprese non erano finite per quella giornata.

Accendendo la luce e chiudendo la porta dietro di me, quasi non mi accorsi che qualcuno mi aveva atteso nel buio.

‘’Alla buon ora’’, mi disse Federico, placidamente sistemato sulla sedia della mia piccola scrivania, a fianco del letto. Mi guardava con i suoi occhi porcini e perfidi, mentre ogni tanto si passava una mano tra i capelli ricci e ribelli.

Inspirai sonoramente, e restai immobile per una manciata di secondi, senza stupirmi troppo per quella presenza e imprecando contro la mia sbadataggine, che mi aveva portato a dimenticarmi di chiudere la porta della mia stanza da letto a chiave. Ma purtroppo, per tutta quella giornata la mia mente era stata altrove, ed in quel momento ne stavo pagando le conseguenze.

Federico, avendo abbassato la pressione su di me, mi aveva concesso una parvenza di precaria tregua ed io avevo abbassato la guardia, come un pivello stolto. E mai abbassare la guardia, quando si ha un nemico da combattere, poiché esso potrebbe tornare alla ribalta ancor prima di quanto lo si possa immaginare.

‘’Cosa vuoi?’’, gli chiesi, scocciato. Ero indeciso se aprire la porta e fare una scenata pazzesca, visto che in giro per casa dovevano esserci anche i suoi, oppure starmene buono.

‘’Non provare neppure a pensare di chiedere aiuto, perché se lo fai, ti balzo addosso alle spalle ancor prima che tu possa aprire la bocca e ti schiaccio come una mosca’’.

‘’Tranquillo’’, lo rassicurai, con un pizzico di cupa ironia, che stonava in quella situazione. In quel momento avevo già compiuto la mia scelta, ed era molto meglio per me starmene zitto ed ascoltare le sue sozze richieste.

‘’Senti, domani abbiamo la verifica di matematica. Dato che, come ben saprai, io non ho mai aperto libro e quaderno, e non ho la più pallida idea neppure dell’argomento che stiamo affrontando, vorrei farti una richiesta gentile; in poche parole, tu domattina in classe dovrai lasciarmi copiare. Nel modo che preferisci, ma devi lasciarmi copiare’’, mi disse, tutto d’un fiato.

Annuii, come un automa.

‘’Io un’idea ce l’ho; quando ci faranno spostare in banchi, tu sistemerai il tuo proprio davanti al mio. Dato che siamo in fondo all’aula, praticamente, il professore difficilmente si accorgerà quando io sfiorerò con un piede la tua sedia, e allora sentendo il contatto della mia scarpa alzerai leggermente il tuo foglio dal banco, in modo che io da dietro possa leggere e copiare ciò che tu hai scritto. Perché so che scriverai qualcosa nella verifica, dato che sai svolgere bene tutti i compiti a casa e ti impegni, fottuto secchione.

‘’E non ti azzardare a non fare ciò che ti ho detto, perché ne va della tua incolumità; se mi tiri un brutto scherzetto, sappi che prima meno te, poi spacco il tuo pianoforte, che ora è in mano di tuo padre e in balìa mia, se lo volessi, dato che lui si fida di me e mi lascia entrare nella saletta, e poi faccio uno scherzetto spiacevole anche a tua madre, spiacevole almeno come quello che tu hai tirato a me. Questa è una promessa’’, sibilò il mio nemico, alzandosi poi in piedi ed abbandonando furtivamente la mia stanza, passandomi a fianco dopo avermi donato un’occhiata colma di disprezzo.

Di nuovo solo, mi adagiai sul mio letto ed affondai il mio viso in uno dei miei cuscini, lasciandomi andare alla disperazione. Il destino pareva essersi accanito su di me e su ogni aspetto della mia vita, tutto d’un colpo, e stavo davvero vivendo un periodo che, sul momento, fui certo che prima o poi mi avrebbe mandato fuori di testa.

Tuttavia, mentre me ne stavo immerso nella mia disperazione, la mia mente continuò a cercare una via d’uscita, che lì per lì non riuscì a trovare.

Ancora non immaginavo quanto mi sarei cacciato nei guai a causa delle mie sconsiderate scelte, nei giorni successivi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno, carissimi lettori e carissime lettrici!

Grazie per aver letto anche questo capitolo, e per continuare a seguire il racconto.

Continuo a sperare che la vicenda continui ad attirare il vostro interesse e ad offrire una gradevole e curiosa lettura.

Grazie infinite a tutti i favolosi, gentilissimi e cordialissimi recensori, che mi sostengono sempre con un’infinità di pazienza e di bontà!

Grazie di cuore per tutto e a tutti, e buon inizio di settimana. A lunedì prossimo!

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23

CAPITOLO 23

 

 

 

 

Nevicava, quel mercoledì di fine novembre. Non abbondantemente, ma dal cielo cadevano quei piccoli candidi fiocchi in grado di far alzare gli occhi di tutti, per poi sciogliersi una volta aver toccato il suolo.

In poche parole, quei piccoli fiocchi di nevischio mi sembravano i miei sogni.

Per tutta la sera precedente avevo ripassato matematica e avevo cenato solo sul tardi, stando attento ad evitare chiunque in casa mia, ma tanto nessuno mi aveva più importunato. Mio padre era sempre segregato nel mio ormai ex rifugio dal mondo, e l’unica nota positiva di questa sua scelta era proprio il fatto che gironzolava poco per casa, e quindi almeno non l’avrei incontrato troppo spesso.

Col cuore in gola, giunsi al liceo tremando come una foglia. Avevo paura per quella verifica di matematica, ma dentro di me sapevo che ero molto più preparato rispetto alle altre volte.

Nella solitudine della mia stanza da letto ero tornato a prendere in mano anche i libri degli scorsi anni, in modo da cercare di ripassare e di comprendere meglio quelle robe folli che il professore ci faceva studiare, con risultati per fortuna non proprio scadenti.

Però, ad intimorirmi, era Federico. Avrei deciso sul momento come comportarmi con lui e nei suoi confronti, anche se in realtà avevo ben poco margine di scelta. Sapevo che se non l’avessi fatto copiare poi avrebbe mantenuto volentieri le sue promesse, e mi avrebbe davvero fatto a pezzi, spinto dalla rabbia.

Entrai nella scuola lanciando un sorriso sfuggevole a Jasmine, che era giunta prima di me e che si stava già dirigendo verso la sua classe. La prima campanella era già suonata.

Mi diressi rapidamente verso la mia sezione, mentre un pensiero sfuggevole andava verso Alice, la ragazza che non avevo scorto neppure quella mattina e che forse non sarebbe tornata a scuola neanche quel giorno, ma repressi le mie preoccupazioni, ritenendole insulse e comunque cercando di non importarmi di quel soggetto che evidentemente non avevo mai conosciuto davvero bene.

Appena varcata la soglia dell’aula, notai la classica frenesia da compito in classe attorno a me, e tutti si davano da fare a spostare e preparare i loro banchi. Chi doveva copiare cercava di sistemare i bigliettini, chi era incerto continuava a tenere un occhio fisso sul quaderno. Federico, nel fondo della classe, era l’unico rilassato; era già seduto al suo posto, ed aveva già premurosamente preparato il mio banco, che trovai già spostato e posizionato alla perfezione davanti al suo.

Il bullo, vedendomi arrivare, mi sorrise e con un dito puntò il mio banco. Facendomi mogio, presi posizione e mi accorsi che il mio nemico aveva preparato già tutto nel modo migliore, visto che la sedia sulla quale mi sarei dovuto sedere era esattamente alla portata del suo piede.

Preparai quindi penna, matita, gomma e foglio a quadretti, e mi sistemai al mio posto, sotto l’attenta sorveglianza del prepotente, tramutatosi in cane da guardia.

Mi volsi indietro solo una volta, incrociando subito il suo sguardo pesante, ma comunque pieno di certezze. Federico dava già per scontato che io avrei obbedito ai suoi ordini come ogni altra volta, ed effettivamente ero costretto a riconoscergli il fatto che non avesse tutti i torti a crederlo così fermamente.

Sapevo che avrebbe mantenuto le sue promesse, tanto valeva quindi sottomettermi alle sue pressanti richieste. Però, lo sfruttamento selvaggio che imponeva nei miei confronti aveva cominciato a stancarmi, e non poco, e devo ammettere che in quel preciso istante il suo sguardo pieno di strafottente sicurezza fece vacillare la mia ragione, sempre più provata sia in casa mia che a scuola.

Tenetti a freno la mia irritazione solo nel timore di lasciarmi andare troppo al rancore, per poi perdere di vista l’obiettivo principale della giornata, ovvero quello di riuscire per la prima volta nella mia carriera da liceale ad arraffarmi un voto superiore al quattro e mezzo in matematica. Tutti gli scorsi anni li avevo passati col tre fisso, negli scritti. Un quattro e mezzo mi avrebbe donato un sorriso, un cinque una vera e propria gioia, ma dal quattro in giù mi sarei davvero demoralizzato. Non chiedevo molto alla sorte e comunque mi ero davvero preparato.

Quando il professore Olivucci entrò in classe, noi studenti eravamo già preparati per il mattatoio, silenziosi e trepidanti. Il prof era una personcina qualsiasi, un cinquantenne dall’aspetto sempre tirato e cortese, occhialini e visetto da topo, voce a tratti tonante, ma non era né un tipo troppo paziente e neppure un grande insegnante. Alcune volte aveva pure riscontrato difficoltà a svolgere gli esercizi più complessi alla lavagna, e per risolvere il problema nell’ultimo periodo aveva cominciato a portarsi i fogli con le soluzioni già pronte da casa, per spiegarci i vari argomenti.

Tutti avevamo come il vago sospetto che non fosse poi un genio in matematica, ma comunque era molto largo coi voti nelle prove orali, e ciò soddisfaceva parecchio gli alunni e tutti alla fine non si facevano troppe supposizioni.

In controtendenza al superficialismo dimostrato un po’ in tutti gli altri ambiti del suo insegnamento, il prof era infernale nelle verifiche scritte, che in genere richiedevano l’applicazione di calcoli molto complessi e parevano scritti neppure in numeri, ma in una lingua conosciuta solo a lui. E nei compiti scritti fioccavano le insufficienze, come avevo avuto modo di notare e ricordare anche in precedenza.

Quando mi giunse tra le mani la fotocopia della mia verifica, rimasi subito un po’ deluso. Passai in rapida rassegna tutti gli esercizi con gli occhi, e notai che almeno una buona parte non avevo idea di come risolverli, ma qualcuno forse sì. Era già qualcosa, e decisi di accontentarmi.

Cominciai quindi a scrivere sul mio foglio, dopo aver avuto la premura di segnare nome e cognome, e ci presi gusto, nonostante tutto.

Per più di mezz’ora, scrissi; buttai giù tutto quello che potei, partendo dalla risoluzione degli esercizi che mi parevano più semplici, per poi tentare di affrontare i più complessi e i difficilissimi. Mi dimenticai perfino dell’esistenza del bullo, che dietro di me forse continuava a seguire i movimenti della mia penna sul foglio, e continuai a scrivere senza sosta, cercando davvero di dare il meglio di me e di non perdere la concentrazione che ero riuscito a conquistare con tanta fatica.

Mi accorsi, ad un certo punto, di essere riuscito a risolvere, o almeno a fornire un risultato, a quasi tutti gli esercizi proposti nel compito in classe, utilizzando tutti i metodi che avevo avuto modo di imparare studiando da solo sul libro di testo.

Alzai gli occhi dal foglio, in quel momento, accorgendomi che difficilmente sarei riuscito a svolgere gli esercizi più complessi, e fissai per qualche istante Anna, l’unica della scuola ad essere in grado di ottenere sempre il massimo dei voti in quella materia. La mia compagna di classe stava scrivendo come una forsennata, ed immaginai che con quel ritmo ormai avesse concluso lo svolgimento di tutti gli esercizi.

Non la invidiavo affatto; sapevamo tutti, infatti, che il segreto di tanta bravura si celava dietro ad ore ed ore di ripetizioni private che le pagavano i suoi genitori. E poi, con quella non ci avevo neppure mai parlato, visto anche il suo modo molto snob di atteggiarsi con gli altri.

Attorno a me, gli altri componenti della classe erano impegnati in attività varie, da chi aveva già consegnato la sua verifica, rassegnato di fronte a quella moltitudine di esercizi, a chi stava meditando ancora sul foglio pressoché immacolato, a chi mulinava la penna tra le dita, tirando qualche rigone di tanto in tanto e cercando di risolvere qualcosa. Mi era già più che chiaro che quel compito in classe avrebbe avuto gli stessi catastrofici risultati dei precedenti.

Tornai a fissare il mio foglio a quadretti, almeno dignitosamente ricoperto di calcoli, e per un attimo mi colmai di soddisfazione, di fronte al mio discreto lavoro; non sapevo se tutto era corretto o meno, ma almeno ci avevo provato.

Per un attimo mi frullò per la testa l’idea carina di scrivere, al di sotto del mio nome e cognome, che se avevo buttato giù qualcosa sul foglio non era stato di certo grazie al mio insegnante, bensì solo alla mia forza di volontà e allo studio che avevo affrontato tra le mura domestiche. L’idea mi fece sorridere ma logicamente non la misi in pratica.

Tornai quindi a posare gli occhi sul mio foglio, dopo essermi preso quell’attimo di pausa, e mi preparai a tentare di affrontare gli esercizi che non avevo ancora avuto il coraggio di risolvere.

Mi ero totalmente scordato di Federico, così impegnato nei miei pensieri com’ero, e quello fu un grave errore, poiché quando sentii la lieve percossa che mi aveva allungato con un piede, mi ritrovai a sussultare. Il prepotente infatti mi stava spronando solo in quel momento ad alzare leggermente il foglio e a farlo copiare, sfiorando con la sua scarpa la gamba della mia sedia.

Deglutii, tornando alla realtà e maledicendolo mentalmente per aver interrotto il mio sublime momento di concentrazione, primo della mia vita in matematica, e mi accinsi a mostrargli ciò che ero riuscito a scrivere fino a quell’istante. Poi, però, mi assalì un qualcosa che non so tuttora descrivere bene, ma penso si trattasse di una sorta di voglia di ribellarmi a ciò che mi veniva imposto.

Tentennai sul mio banco, senza muovermi. Federico, dopo un attimo di pausa, tornò a ricordarmi il mio impegno, sfiorando di nuovo la gamba della mia sedia.

Non volli cedere subito il mio risultato tanto sudato, e finsi di fiondarmi a scrivere qualcosa, naturalmente muovendo la mia penna sul foglio e fingendomi concentrato, senza scrivere nulla. Il bullo dovette capire che io non avevo percepito il suo segnale, e quindi decise, dopo un po’ e non notando alcuna mia reazione, di aumentare la sua pressione.

Infatti, di lì a poco sentii un leggero calcio sul fondo della sedia.

A quel punto mi era chiaro che in quegli istanti mi sarei giocato tutto. A me la scelta; alzare il foglio e mostrare ciò che avevo scritto sudando sette camicie, sacrificando così a favore di chi non se lo meritava tutto il mio impegno, oppure continuare a tenermi giù e a fingere di non essermi accorto dell’insistenza nemica. Ma sapevo che l’ultima opzione significava botte e dolore, per me. Ma la scelsi comunque.

A spingermi a compiere quella scelta rischiosa fu proprio il fatto che, per la prima volta nella mia vita, ero felice di essere riuscito a scrivere qualcosa di decente in un compito in classe di matematica, perlopiù anche parecchio complesso, e non mi andava affatto che un nullafacente che non aveva mai sfiorato una penna con un dito ne approfittasse. Almeno fosse stato un compagno gentile e bisognoso, ma quello era davvero solamente un gran prepotente stronzo. Non meritava nulla, e volevo liberarmi da quel circolo vizioso nel quale mi aveva costretto ad entrare.

Mentre continuavo la mia commedia, sudando freddo sul mio banco, e probabilmente impallidendo, il nemico perse rapidamente le staffe, cominciando a colpire la mia sedia senza mezzi termini. A quel punto i componenti della classe più vicini ai nostri banchi ci stavano già osservando con curiosità, ma il trambusto non era sufficiente a richiamare l’attenzione del professore, serio e curvo sul suo registro, che in quel preciso momento si stava limitando a badare solo le prime file.

Mi parve chiaro che quella ormai era diventata una gara di resistenza; sia io che Federico ci stavamo giocando il tutto per tutto. Ormai il mio oppressore non temeva di uscire definitivamente dai gangheri, poiché sapeva perfettamente che se non fosse riuscito a consegnare qualcosa di scritto neppure in quella verifica si sarebbe trovato nei guai a causa della sua moltitudine di insufficienze gravi. Io, invece, tenevo duro, per salvaguardare il mio ultimo barlume di dignità.

Avevo subìto le sue botte, le sue percosse, i suoi insulti, gli avevo svolto i compiti per mesi, ero stato sottomesso alle sue derisioni svolte assieme a mio padre, ed in quell’istante sentivo di averlo in pugno. Quello che fino a poco prima era stata paura, dentro di me si tramutò in frenesia, in un fuoco che arse la mia coscienza.

Mi sarebbe bastato alzare un po’ il foglio per mettere la parola fine alla vicenda. Ma non mollai di un centimetro e tenni botta.

L’ultima percossa di Federico alla mia sedia fu catastrofica. Udii la sua imprecazione impietosa a mezza voce, prima che mi sferrasse un calcio talmente tanto forte da farmi sobbalzare.

Non seppi mai se mi diedi un po’ di spinta anch’io in quel frangente, ma mi ritrovai a cascare dalla sedia, con le parole del bruto che mi risuonavano nella mente, sapendo che quelle stesse parole erano cariche d’odio nei miei confronti.

‘’Cosa sta succedendo?!’’, ruggì il professore, sbalordito e sorpreso dal rumore prodotto dall’ultimo calcio di Federico e dalla mia successiva scivolata verso il suolo.

Il prepotente, notando la mia caduta e il fatto che io forse avessi volontariamente assecondato la sua potente spinta, si alzò anch’esso dal suo banco, dirigendosi rapidamente verso di me col chiaro intento di farmela pagare sul posto, ma la rabbia l’aveva così tanto accecato da farlo inciampare nella gamba della mia sedia rovesciata, facendolo capitombolare ad un paio di passi da me.

Il professore in un attimo ci sovrastò e, con una mano ferma e decisa, afferrò Federico per una spalla, costringendolo a non saltarmi addosso, avendo evidentemente capito che quel pazzo ce l’aveva con me. Ho ancora davanti a me gli occhi arrossati dalla furia del mio nemico, che sgranati mi osservavano, implacabili.

‘’Voleva copiare, ha percosso la mia sedia fino ad ora. E adesso mi vuole menare, perché non ho alzato il mio foglio…’’, spiegai, con grande calma, all’insegnante, rispondendo alla domanda che aveva posto un attimo prima, mentre accadeva il patatrac.

Da quel momento in poi i miei ricordi si fanno sfocati; le emozioni che stavo provando erano troppo forti, per me. Mi sentivo come se mi fossi trovato su un ring.

Ricordo chiaramente la voce del prof alterata, Federico che non cercava neppure di difendersi quella volta dalle mie pesanti ma vere accuse, l’accenno alla nota e alla sospensione scolastica, la promessa del viaggetto nell’ufficio della preside, la quale seguiva ancora le indagini in corso per il disastro dei vandali e lo sfascio dell’auto dell’insegnante di sostegno, tutto in quel momento irrisolto a causa del tempo che serviva per controllare ciò che le telecamere avevano registrato.

 Per ultimo, ricordo lo sguardo che mi lanciò proprio il mio nemico, prima di essere mandato direttamente nell’ufficio della preside, in fretta e furia. I suoi occhi non erano più sgranati come qualche secondo prima, ma parevano promettere vendetta. Ed io, notando che mi fissava, mi rialzai in piedi e gli donai un sorriso da vincitore, prima che esso fosse condotto fuori dal professore e sparisse dalla mia vista.

Dopo di che, la gloria che per un attimo mi aveva fatto sentire vittorioso sul mostro si spense in maniera decisa, e lasciò spazio ad un improvviso sconforto.

Pur non volendo, cominciai a contare i secondi, anche in parte con macabra ironia. Il conto alla rovescia prima della mia morte era cominciato.

Sapevo che non l’avrei passata liscia, ed ero a conoscenza del fatto che sarei stato pestato al più presto, considerando anche l’ultimissimo affronto che gli avevo lanciato. Già vedevo il mio pianoforte semidistrutto, mia madre umiliata, io che venivo preso per il collo, per poi essere mortificato di nuovo.

Sono dell’idea che, quando un uomo decide di averla vinta su un altro, che magari lo opprimeva in qualche modo, debba poi essere almeno certo di aver parzialmente neutralizzato il nemico, in modo che esso poi, meno forte di prima, non possa tornare alla carica tanto facilmente. Ebbene, io quella volta l’avevo avuta vinta, per pura fortuna e con il caso favorevole, ma non avevo messo al tappeto il nemico, anzi, gli avevo fornito tanti nuovi buoni motivi per colpirmi in modo ancora più cruento.

Sapevo che una volta messo piede al di fuori della scuola, quel giorno, mi sarei ritrovato totalmente scoperto e solo, e l’unica cosa che avrei potuto fare sarebbe stata quella di attendermi qualche sua orrenda mossa. Avrei sofferto, e anche tanto, ne ero certo.

Mentre un’assistente scolastico era entrato in classe a badare che tutti ce ne stessimo al nostro posto e a completare la verifica senza far baccano o copiare, in assenza dell’insegnante, compito tra l’altro molto difficile vista l’agitazione provocata dagli eventi appena accaduti, io tornai a risistemarmi al meglio sul mio banco e a godermi quegli ultimi venti minuti da vincitore, quei venti minuti che mi stavano separando, molto probabilmente, dalla più orribile delle cadute.

Il fragile equilibrio fatto di sottomissione tra me e Federico si era così infranto, dopo più di tre settimane tranquillissime, e non si sarebbe mai più ristabilito. Era guerra ufficiale, e quella volta ci sarebbero stati combattimenti senza quartiere, e mi aspettavo che anche gli altri tre amici del prepotente collaborassero in un qualche modo.

Sospirando, la smisi di tormentarmi, essendo a conoscenza di aver messo la mia firma sul contratto che sanciva la mia morte. Perché quel pazzo mi avrebbe fatto soffrire talmente tanto da farmi quasi preferire la morte, constatai a malincuore.

Con le lacrime agli occhi, e con un misto di gioia ed estrema ed inevitabile tristezza nel cuore, mi misi a scrivere le ultime cose che sapevo su quel foglio a quadretti, per la prima volta macchiato dall’inchiostro per la bellezza di ben tre facciate su quattro, e cercai di fare decollare i miei pensieri verso altri lidi.

Non potei, e logicamente non ci riuscii in alcun modo.

 

La campanella che sanciva la fine delle lezioni suonò esattamente venti minuti dopo ciò che era accaduto tra me e Federico.

Il prof di matematica era tornato in classe, torvo come non mai, ed aveva ritirato le verifiche di tutti, donando uno sguardo particolare a quella del prepotente, e tirando subito un rigone rosso per ciascuna delle due facciate esterne e vuote del foglio protocollo. Quando poi lo aprì e scivolarono a terra dei bigliettini abilmente nascosti al suo interno, non ci prestò neppure tanto caso, e forse si aspettava pure quello.

Io non me l’aspettavo invece, e con un pizzico d’ironia mi ritrovai a riconoscere che avevo sottovalutato il nemico, che effettivamente aveva preso in mano una penna per scriverli. Oppure, magari li aveva estorti a qualcun altro, e pensai che forse era stato proprio così, visto che alla fine non li aveva neppure saputi utilizzare.

Il nemico che non era ancora uscito dall’ufficio della preside. Già m’immaginavo il caos che sarebbe scoppiato a casa mia, tra i coniugi Arriga, e quella volta ci sarebbe stato pure mio padre in mezzo, magari a far commenti a mezza voce o ad infastidire ulteriormente tutti quanti con la sua irritante presenza.

Quando suonò la campanella, senza attendere altro sfrecciai direttamente verso l’uscita; per me cominciava ufficialmente la maratona per la vita. Dovevo approfittare del fatto che Federico molto probabilmente fosse ancora sotto processo, per sfruttare quei preziosi minuti che mi avrebbero ricondotto verso casa.

Da quel momento in poi, il gioco si sarebbe fatto ancor più pericoloso, e non potevo assolutamente permettermi di offrirmi facilmente in pasto al nemico tentennando per strada da solo, lungo il tragitto che mi avrebbe ricondotto a casa, ma dovevo passare più tempo possibile tra le mura domestiche, magari in prossimità di Roberto, oppure in luoghi considerati maggiormente sicuri. E lungo il tragitto che compivo ogni giorno, per ben due volte, ero più vulnerabile che in tutti gli altri posti.

Mentre mi stavo muovendo molto rapidamente verso casa però, fui bloccato due passi all’infuori del liceo da Giacomo, che mi si parò davanti. Quel ragazzo alto oltre un metro e ottanta era un grado di apparire come una vera roccaforte di potenza, e non mi sottrassi al suo sorriso amichevole, prima che mi desse pure due piccole pacche amichevoli sulla spalla.

‘’Sei stato grandioso poco fa, Antonio! L’hai fatto sgamare per bene, quello stronzo. E chissà se adesso uscirà più dalle fauci tremende di quella bestia della preside’’, ridacchiò il mio compagno di classe ed amico, mentre altri ragazzi si stavano raccogliendo attorno a noi.

‘’Io preferirei cento volte di più stare tra le sue tette, che tra le sue fauci!’’, urlò a mo’ di giubilo Stefano, un ragazzo conosciutissimo in tutto il liceo per la sua irrefrenabile ed oscena ironia, con il cui però non avevo mai avuto niente da spartire fino a quel momento.

Incredibilmente, mi accorsi di aver accolto il consenso popolare e tutti si congratulavano con me per il mio gesto, ben felici e con un gran sorriso stampato sul volto.

Sorriso che morì sul volto della platea quando, dopo pochi istanti, i tre amichetti di Federico ci oltrepassarono, scuri in faccia e divorandomi con la rabbia che avevano negli occhi. Ciò che era accaduto poco prima si era già divulgato in ogni angolo dell’istituto.

‘’Ragazzi, mi sa che difficilmente vivrò fino a domattina’’, dissi, mogio e serio. Giacomo annuì.

‘’Capisco, anzi, capiamo le tue preoccupazioni. Quel brutto ceffo, non appena sarà di nuovo in libertà, cercherà di farti subito del male. Abbiamo visto come ha tentato subito di picchiarti. Beh, puoi contare su di noi! Se non ti spiace, la mattina passo poco distante da casa tua e non mi dispiacerebbe allungare di qualche metro il tragitto che compio a piedi, pur di farti da scorta, e idem all’uscita da scuola. Con me attorno, se ne staranno tutti lontani da te. E poi, al pomeriggio potremmo tornare ad incontrarci più assiduamente…’’.

‘’Grazie, davvero. Accetto il tuo aiuto!’’, dissi, grintosamente.

Il fatto di sapere che non sarei stato solo nella mia ormai dichiarata guerra contro il prepotente e i suoi amici mi faceva sentire più sollevato. Perché tra me e lui non c’era purtroppo più alcuno spazio per una qualche sorta di nuovo equilibrio, ma c’era solo una guerra aperta.

Giacomo e qualche altro ragazzo suo conoscente e di altre classi mi accompagnarono fino a casa, senza intoppi di nessun tipo, e quando rientrai nella mia abitazione mi sentii un po’ meglio, ma non al sicuro.

Per un paio d’ore, mi barricai in camera, tappandomi dentro e chiudendo a chiave la porta.

 

Federico aveva fatto ritorno nel tardo pomeriggio, scatenando un nuovo putiferio in casa mia.

Livia e Roberto, di nuovo convocati per ore nell’ufficio della preside, erano furiosi, soprattutto l’uomo. Mio padre, invece, la vicenda se la sghignazzava tutta, stando ben attento a continuare ad addossarsi quell’aura di ospite indesiderato che l’aveva avvolto fin dalla prima volta che era piombato in casa nostra dopo anni di latitanza, ovvero più o meno un mesetto prima.

Io dapprima avevo continuato a starmene al piano superiore, ben blindato all’interno della mia stanza da letto, poi ne avevo approfittato per scendere giù, approfittandone del fatto che Roberto fosse in casa. Quella volta, se il pazzo mi avesse anche solo sfiorato, non avrei esitato a chiamarlo o a gridare.

L’epoca dei tentennamenti e delle tribolazioni gratuite l’avevo dichiarata conclusa alla fine di quella stessa mattinata.

Al piano inferiore, mi ritrovai ad ascoltare solo parole irose.

‘’Mio figlio non sarà dato in pasto ad uno psicologo. Lui non è un matto’’, disse ad alta voce Livia, all’improvviso, mentre io transitavo proprio a pochi passi dalla cucina.

Mi bloccai sul posto.

‘’La preside ha detto che accetterà che il ragazzo continui a frequentare il liceo solo se darà il suo consenso, e noi con lui, di avere un supporto psicologico, almeno fintanto che non sarà fatta chiarezza su tutte le questioni di cui è stato pacatamente accusato. Nel caso che tutto ciò sia attribuito a Federico dalle autorità competenti, sarà direttamente espulso dal liceo e quasi di certo perderà l’anno, a quel punto. Ci conviene quindi assecondare questa proposta ragionevole’’, ribatté Roberto.

Mi addossai al muro, origliando i discorsi dei due coniugi ignari di essere spiati; non riuscii a farne a meno, la mia curiosità era troppa per essere contenuta. A quanto pareva, Federico se l’era già svignata da casa, e chissà dov’era andato. Sperai non a progettare qualche ritorsione contro di me, magari in compagnia dell’odiosissimo trio dei suoi amici.

‘’No’’. La risposta di Livia fu categorica.

‘’Sì, invece. Gli insegnanti chiuderanno un occhio su ciò che è accaduto oggi, e sul pessimo andamento scolastico, almeno per un momento, e Federico potrà avere un po’ di tranquillità interiore, magari. Potremmo guadagnarci tutti! Accettiamo l’aiuto di uno psicologo’’, continuò ad insistere Roberto, con convinzione.

‘’Non posso accettare che quel figlio di una sguattera metta nei guai mio figlio. Questo è insostenibile! Dobbiamo andarcene di qui. Domani andiamo a ritirare il ragazzo dal liceo e ce ne andiamo’’, riprese a dire la signora.

Non avevo ancora compreso chi fosse il figlio di una sguattera, e continuai ad origliare.

‘’Sai che Antonio è un bravo ragazzo, su! Non si è mai inventato nulla… in più Federico gli ha percosso la sedia sulla quale era seduto. Non ha nessuna colpa’’.

Bene, per fortuna Roberto mi difendeva.

A quanto pareva, il figlio di una sguattera ero proprio io. Ecco, sul momento me la presi, poi pensandoci meglio, da solo e in camera, avevo compreso che al mondo c’erano figli di donne ben peggiori, quindi ciò che mi era stato rivolto non l’avevo più considerata un’offesa.

Ma in quell’istante ribollii di rabbia e rischiai quasi di farmi scoprire, cercando subito di trattenere la mia ira.

‘’Ma non capisci che è giunta l’ora di affrontare la realtà? Non possiamo scappare tutta la vita! Federico deve affrontare una vita scolastica vera, d’ora in poi’’, continuò a dire l’uomo, sempre con convinzione.

‘’Tu te ne devi star zitto! Chi è che ti mantiene, eh? Con quali soldi hai mangiato, fino ad ora? Tu fai ciò che io ti dico. E poi, Federico non è tuo…’’.

Mi appiccicai con l’orecchio al muro pur di origliare, ma non conobbi mai la fine della frase, oltre quel Federico non è tuo, e qualcosa che non riuscii ad ascoltare. Livia pareva davvero un serpente, dal tanto che sibilava le parole con odio e prepotenza.

Purtroppo, quando la conversazione si era fatta davvero interessante, aveva trillato il campanello, facendomi sussultare e quasi imprecare.

Con nervosismo, dapprima silenziosamente e poi in modo più tranquillo, mi diressi verso la porta di casa, poco distante. Qualche intruso aveva rovinato irrimediabilmente la mia azione di spionaggio. Quando qualcuno suonava al campanello, era perché non era di casa, poiché tutti noi avevamo le nostre chiavi a disposizione, e quindi per un attimo chissà cosa mi aspettai, persino un agguato.

Ma quando aprii la porta, lentamente, trovai davanti al cancello, sulla strada, una giovanissima ragazza, forse addirittura mia coetanea.

Guardai la sconosciuta e spalancai la porta, uscendo nel piccolo guardino. La tizia mi sorrise, timidamente, mentre il suo giovane volto si imporporava di un tenue rossore colmo di imbarazzo. Era abbastanza alta, slanciata, e dal fisico formoso ma perfetto, con una lunga treccia di capelli scuri che scendeva dietro la nuca. I suoi occhi castani mi parvero grandi e sinceri, e soprattutto tranquilli, ed era vestita in modo piuttosto alla moda.

Lasciai che fosse lei ad aprire la bocca per prima.

‘’Ciao! Scusa se disturbo, ma vorrei sapere se è qui che vive ora un signore di nome Sergio Giacomelli’’, mi disse la ragazza, rivolgendosi a me in tono gentile e formale, con la voce leggermente tentennante a causa di una buona dose di timidezza.

Mi corrucciai in un attimo; la giovane chiedeva di mio padre, e lui mi aveva assolutamente vietato di aprire la casa a persone che lo cercavano.

Non sapevo davvero che fare, poiché non potevo starmene lì a bocca dischiusa per un po’, cercando di riflettere e di trovare una soluzione al dilemma, ma non potevo neppure dire che sì, mio padre era in quella casa anche in quel momento, perché se l’avessi fatto poi lei avrebbe insistito per accomodarsi o parlargli e dopo io sarei stato ancor più nei guai, con un quell’uomo imbestialito nei miei confronti. E dato che di gente che mi odiava ne avevo già abbastanza, decisi di giocarmi la carta più facile e tentare di tergiversare e prendere tempo.

‘’Chi sei?’’, le chiesi, anche con un piccolissimo pizzico di curiosità che poteva ben nascondersi in quella domanda che avrebbe tranquillamente potuto precedere l’introduzione in casa.

La ragazza continuò a sorridermi, e a tratti ad abbassare gli occhi.

‘’Mi chiamo Stefania Gelsomini e…’’.

Stefania in realtà non riuscì a finire la frase, poiché mio padre, che doveva essere uscito dalla mia saletta e che doveva essere anche totalmente ignaro della visita inattesa, aveva cominciato a sbraitare da dentro all’abitazione.

‘’La vuoi chiudere una buona volta questa maledetta porta, o deve…’’, tentò di ruggire l’uomo, piazzandosi proprio nel bel mezzo dell’uscio. Ma sia lui che Stefania si interruppero quando i loro sguardi ebbero modo di incontrarsi e di riconoscersi.

‘’Che… che ci fai tu qui?!’’, disse mio padre, colto di sorpresa. Era stato lui stesso a cadere in trappola in modo inconsapevole, poiché altrimenti dopo aver scoperto chi fosse io l’avrei cacciata quella ragazza, con gentilezza naturalmente.

‘’Mi lasceresti entrare un attimo nel giardino, per favore?’’, mi chiese Stefania, senza scomporsi.

‘’Tornatene da dove sei venuta e lasciami in pace’’, ribatté mio padre, che mentre si riprendeva dallo stupore iniziale stava tornando ad essere il solito scorbutico arrogante.

‘’Devo parlarti. È importante! Aprimi, per favore’’, tornò ad invocarmi la ragazza, ed io esaudii il suo desiderio.

Stefania si diresse verso mio padre, tentò un contatto con lui ma l’uomo la deviò e la fece entrare in casa, non prima di avermi rivolto un’occhiataccia infamante. Anche lui se l’era presa con me, per qualcosa che non conoscevo affatto. Sperai solo che il nervosismo gli passasse.

Restai in giardino, interdetto e travolto dagli eventi, mentre la porta di casa si chiudeva di fronte a me, come a voler sigillare quel mondo di pazzi che si stavano muovendo al suo interno. Ed io, amareggiato e triste come non mai, decisi di recarmi nel mio piccolo orto, ormai totalmente privo di vita, poiché esso era un posto sicuro dove poter sbollire un po’ della mia inquietudine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Buongiorno a tutti, cari lettori e carissime lettrici!

Alla fine, Antonio ha scelto di non lasciar copiare Federico… logicamente, questo gesto avrà delle sue precise conseguenze, proprio come il protagonista sa. Incrociamo le dita…

Bene, vorrei anche dirvi che ora tutti i personaggi primari e secondari sono prontamente schierati all’interno della trama. Toccherà a me farveli conoscere un po’ meglio e cercare di gestire la vicenda e l’intreccio nel miglior modo possibile. Spero di riuscirci! La storia in sé mi sta molto a cuore e sarebbe una gran soddisfazione per me portarla a termine in modo meritevole.

Vorrei anche aggiungere a queste mie note tutto l’immenso dispiacere e il cordoglio che provo per le persone coinvolte dal sisma. L’ho già fatto durante la scorsa settimana all’interno della mia raccolta di poesie, e vorrei farlo anche qui, esprimendo tutta la mia vicinanza a queste popolazioni che purtroppo hanno dovuto conoscere un dolore infinito e inimmaginabile.

Grazie di cuore a tutti voi lettori per continuare a seguire e a sostenere il racconto! Vi auguro una serena giornata e una buona settimana. A lunedì prossimo!

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Capitolo 24

CAPITOLO 24

 

 

 

 

Quando mia madre tornò a casa dal lavoro, cioè poco dopo l’ingresso di quella ragazza sconosciuta in casa nostra, mi trovò solo soletto a fissare il mio orticello fatto solo di terra marrone. C’era qualche piantina di cavolfiore, ma solo in un angolo del piccolo appezzamento.

Quel giorno neppure il vecchio Ottaviano era fuori, dal tanto che la nebbia inumidiva e bagnava quel tipico pomeriggio autunnale padano. Persino il nevischio di quella mattina si era poi dovuto arrendere al clima del territorio.

Quindi, mi trovavo solo coi miei pensieri, tutti davvero parecchio negativi.

 ‘’Cosa ci fai qui fuori al freddo?!’’, sbottò la mamma, mentre deviava di qualche passo verso di me.

Le mostrai un sorriso che mi costò tantissimo, poiché dovetti sforzare parecchio le mie labbra per riuscire anche solo ad incresparle lievemente, dato il mio stato d’animo.

‘’Non mi va di stare in casa con quella banda di pazzi’’, le dissi, con sincerità. Lei si fermò e mi guardò con curiosità.

‘’Perché dici così? È successo qualcosa di nuovo e di cui non sono a conoscenza?’’.

‘’Tra i signori Arriga pare che tutto non vada tanto bene, e penso che siano parecchio nervosi, quindi stai attenta, soprattutto all’aristocratica. Oggi sembra davvero una vipera velenosa. E poi, poco fa, è arrivata una ragazza, che cercava papà…’’.

‘’Una ragazza che cercava Sergio?!’’, mi fece quasi eco mia madre, interrompendomi. Era sempre più curiosa, e questo non era da lei. Ero abituato a vedere sempre mia madre a capo chino, e a farsi gli affari suoi, e tutto questo interesse per quella tipa di poco prima m’insospettì, non seppi il perché, ma comunque sapevo che la mamma non poteva sapere chi fosse o da dove provenisse, poiché stava rincasando solo in quel momento.

‘’Sì, mamma, una tipa giovane. Non so chi sia, si è presentata ma neppure ricordo il suo nome, e sono certo di non averla mai vista prima d’ora’’, mi limitai a dirle, scrollando le spalle.

‘’Ho capito, grazie per avermi informata. Indagherò a riguardo’’, mi rispose, per poi affrettarsi ad entrare in casa.

Avevo come l’impressione che mia madre sapesse qualcosa, ma che me lo stesse nascondendo in un modo molto inconsueto per lei. Eravamo sempre stati molto aperti tra noi, e non avevamo mai avuto problemi a parlare di ogni sorta di questione, ma tuttavia fui costretto a riconoscere che ultimamente entrambi eravamo cambiati; io da un po’ le stavo nascondendo i miei problemi con i bulli, e lei mi stava nascondendo qualcos’altro che non ero ancora riuscito ad afferrare.

Oppure, forse mi stavo fasciando la testa proprio per niente. Non credevo che lei potesse saperne qualcosa in più, e ciò mi fu confermato solo in seguito. Molto probabilmente, provava solo qualche chiaro sospetto.

Sapendo che era inutile che io stessi a pormi quesiti che al momento non avrebbero potuto avere una risposta soddisfacente, decisi di non stare ad assillare ulteriormente la mia povera mente sempre più devastata dai drammi che stavo vivendo, e pensai che fosse più utile dirigere i miei pensieri verso altri lidi.

In realtà non ne feci in tempo, poiché al di là della recinzione mi apparve Jasmine, che dalla strada stava venendo dalla direzione della casa di Alice.

‘’Antonio!’’, mi chiamò, senza neppure darmi il tempo di poterla salutare per primo. Il suo viso era in disordine, i suoi grandi occhi parevano più spalancati del solito, quasi spaventati o turbati.

Notai quindi la sua agitazione anche da una buona distanza fisica, e preoccupandomi subito per lei, mi affrettai a raggiungere il cancello del giardino.

‘’Jasmine, che c’è? Ti vedo agitatissima’’, le dissi, avvicinandomi e aprendo il cancello, per poi cercare di afferrarle le mani.

La ragazza, sfuggevole come sempre, si ritrasse al mio tocco, ma non ne rimasi dispiaciuto, poiché col senno di poi sapevo che dall’interno di casa mia qualcuno avrebbe potuto vedermi, e la mia sorta di pallida e tiepida relazione che stavo avendo con Jasmine non volevo che trapelasse tra le mura domestiche, e che magari finisse sulle labbra di qualche persona scomoda, col rischio che qualcuno mettesse in giro voci assurde.

‘’Ho paura che… per Alice…’’.

Due lacrime parvero voler scendere lungo il suo viso.

‘’Basta pensare a quella lì! Era una gran stronza, non vedi come ci ha piantato in asso?! E senza pensare poi a come si è comportata a scuola… pareva una studentessa perfetta, poi ha cominciato a fare buco. Insomma, è una di quelle tizie dalla doppia personalità che è meglio evitare’’, le dissi, sorridendole. Non mi importava più molto di Alice, dopo che mi aveva trattato in un modo parecchio scorretto e che non avevo affatto apprezzato.

‘’Tu non capisci! Temo che stia male davvero, e che le sia capitato qualcosa di brutto. Sono andata a casa sua poco fa, e non c’era nessuno, se non una signora delle pulizie che non ha voluto dirmi che fine che hanno fatto la nostra amica e i suoi genitori, ed ha lasciato trapelare solo una certa inquietudine e una parola, ovvero ospedale’’.

‘’Calmati, stai tranquilla. Non sarà accaduto niente di male, di certo. Non temere…’’.

‘’Le scriverò tra poco, al cellulare. Non mi darò per vinta, sono davvero preoccupata per lei’’, tornò alla carica Jasmine, totalmente disinteressata alle mie parole.

Nei suoi occhi brillava qualche luce a me sconosciuta, ma molto bella e pura. Era la motivazione, la voglia di non mollare, il desiderio sincero di voler pensare a colei che era stata tanto amica per lungo tempo, e che ultimamente era sparita dalla circolazione, e anche dal paese, a quanto pareva.

‘’Fai quello che ti senti, ma io non la cercherò più’’, le dissi, anch’io testardo come pochi. In quel momento riuscivo solo a dar ragione al mio orgoglio, e che errore che feci, ma purtroppo sono un essere umano, e si sa, sbagliare è tipico della nostra specie.

‘’Ho paura che le sia capitato qualcosa di brutto. E smettila di impuntarti sempre con le tue idee’’, mi suggerì la ragazza, facendo qualche passo indietro.

‘’Hai ragione, fai bene a cercarla. Fammi poi sapere se le tue ricerche hanno dato qualche frutto’’, mi limitai a dirle, mostrando una leggera apertura e lasciandola quindi a preoccuparsi per la sua amica.

Personalmente, in quell’istante continuava a non importarmi molto di Alice, e per come si era atteggiata nei miei confronti provavo ancora una sorta di pacato astio verso di lei.

‘’Vado subito a tentare di contattarla sul cellulare. In realtà temo che il suo sia spento, però a casa ho scritto da qualche parte il numero di sua madre, che aveva scambiato con la mia, e quindi penso che proverò dapprima a contattare quest’ultima. Se poi Alice ha scelto di non voler più condividere alcun momento della sua vita con me, con noi, non me la prenderò ed avrò la coscienza pulita, dato che la pessima figura sarebbe davvero tutta sua. Ma fidati, non è da lei questo cambiamento improvviso, e questo assenteismo. In più, i suoi non sono neppure mai andati in vacanza, e se si sono mossi in pieno inverno dev’esserci una ragione ben precisa… speriamo che non sia accaduto nulla di grave, ma questa storia puzza’’, ribatté Jasmine, convinta.

Non potei far altro che annuire alle sue parole. A lei la scelta di proseguire come meglio le pareva.

‘’Vado, ora. A più tardi! Poi, se scopro qualcosa, ti faccio sapere’’, mi disse la ragazza, notando il mio silenzioso comportamento.

Si allontanò da me in tutta fretta, non prima di avermi sfiorato una mano con la sua, donandomi uno di quei suoi classici contatti rapidi ma colmi di significato, poiché sapevo che lei era una giovane fatta così, a modo suo, e che non mi avrebbe mai sfiorato e non si sarebbe mai azzardata a cercarmi e a confidarsi con me se non avesse ricambiato qualcosa.

Se la nostra sorta di storia d’amore esisteva davvero, essa era realmente molto fragile, ma allo stesso tempo piacevole, poiché entrambi a nostro modo ci dedicavamo l’uno all’altra, senza però lasciarci andare ad inutili ed insulse smancerie che avrebbero solo rischiato di attirare l’attenzione di tutti, se svolte in pubblico. Il nostro era un amore segreto, racchiuso all’interno dei nostri due cuori, e solo noi eravamo partecipi ad esso.

Rientrai nel mio giardino solo quando Jasmine fu scomparsa ai miei occhi, e ancora pensieroso per tutto mi diressi nuovamente verso quello squallido lembo di terra umida che io continuavo a chiamare orticello. D’inverno faceva davvero schifo, ma io sapevo comunque coglierne la vita dormiente che in esso si sarebbe poi risvegliata durante la buona stagione.

In quell’istante, dall’interno della casa mi giunsero delle voci distorte, arrabbiate. Capii che tra le mura della mia dimora qualcuno stava litigando animatamente, ma non ero riuscito a cogliere per bene di chi si trattasse di preciso.

In ogni caso, quel giorno segnava la fine di ogni fragile equilibrio che mi avvolgeva, e tutto si stava preparando alla svolta finale, poiché a quel punto la svolta ci sarebbe stata, ne ero certo, e in più essa avrebbe rischiato di colpire ogni aspetto della mia vita. Sperai solo che tutto sommato potesse accadere anche qualcosa di positivo, ma ne dubitavo, pessimista com’ero fino al midollo.

Me ne rimasi quindi tutto il pomeriggio lì fuori, immerso nell’umidità gelida e dalla nebbia, ma almeno relativamente al sicuro da qualsiasi insidia. Sapevo che se fossi rientrato in casa avrei rischiato di impazzire pure io.

 

Anche la nottata di quel giorno fu tormentata. Morfeo mi accolse tra le sue braccia non prima di avermi fatto attendere un po’, e comunque donandomi sogni orribili, nei quali ero costretto a subire angherie da Federico.

Proprio durante uno di quegli incubi mi svegliai di soprassalto, tutto sudato ed indispettito.

Ero ancora innervosito per la piega che stava prendendo tutto in casa mia, e per il fatto che qualche ora prima avevo dovuto rifiutare la visita di Giacomo, che voleva passare da me per giocare un po’ alla playstation, ma purtroppo quella non era la serata giusta.

In casa mia il clima era cupo, e mentre la coppia di Arriga era nervosa, Federico era ancora assente ed avvolto da quell’aria di mistero tipica di chi già sta ampliamente tramando per qualcosa che potevo parzialmente immaginare con chiarezza, e mio padre, dopo la visita della ragazza, era rimasto muto e turbato, anch’esso dimostrando quindi una reazione strana, dato che non era da lui chiudersi in sé stesso e non fare battute, o deridere qualche malcapitato che gli capitava a tiro. Aveva smesso di ridere, e tutto sommato gli stava davvero bene.

Anche mia madre si era fatta triste e pensierosa, ed ero certo che il motivo di quel comportamento riguardasse la comparsa di quella ragazza. Ma non potevo far nulla per scoprire di più su tutto, se non aspettare.

In quell’istante ebbi la fortuna di aver bisogno di andare in bagno, e il nume del caso quella volta decise di concedersi a me nel modo più totale possibile.

Scesi al piano inferiore, e per la prima volta dopo un bel po’ di tempo, lo trovai con la porta serrata per bene. In genere, mia madre alla sera ne lasciava sempre la porta socchiusa, in modo da sapere con certezza durante la notte se qualcuno c’era dentro o meno, così da non fare inutile chiasso, e subito ne approfittai per aguzzare il mio udito.

La mia mente era ancora suggestionata dagli incubi che mi avevano tormentato fino a poco prima, ma quella volta tuttavia riuscì a mostrarsi comunque sveglissima e pronta all’azione di spionaggio.

Infatti, feci davvero bene a prepararmi ad origliare, poiché non appena cominciai a tentare di spiare, mi giunse fin da subito alle orecchie la voce bassa e stanca di Federico, che ancora non aveva scoperto che io alcune volte l’avevo abilmente monitorato da lì. Il nemico probabilmente stava ben attento a cambiare orario ogni notte, per chiudersi nel nostro bagno, e doveva aver controllato anche che nessuno di noi fosse in circolazione. Il silenzio regnava assoluto in casa, e quindi la mia curiosità di scoprire che stava dicendo anche quella volta già stuzzicava i miei sensi.

Peccato che, poco più in là e dal divano sfatto in un angolo della cucina, mio padre stesse russando come un porcello, generando di tanto in tanto dei rumori così irritanti che mi sarebbe venuta voglia di andare a svegliarlo, pur di farlo smettere. Logicamente, non lo feci.

‘’… in camera mia, sì, nella mia stanza sta bene e sta crescendo. Poi ti farò sapere meglio a riguardo… sì, ne raccoglierò qualche foglia, poi te la porto! Ma occhio, è roba buona, vale un sacco…’’.

Allontanai il mio orecchio dalla porta, col timore di finire per fare pressione sul legno e causare qualche rumore che avrebbe rovinato tutto. Non potevo permettermi di fare passi falsi, durante quel periodo di guerra aperta.

Riprendendo un attimo il respiro e preparandomi di nuovo a tentare di origliare qualcos’altro, dando anche un’occhiata attorno per vedere se c’era qualche luce accesa in casa e se avessi rischiato d’essere colto il flagrante durante la spiata, non riuscii nel frattempo a nascondere quella curiosità pressante che mi stava turbando da parecchie settimane, ovvero a riguardo della stanza da letto del prepotente.

Molte frasi da me origliate riportavano a quel luogo avvolto dal mistero da quando Federico ne aveva preso possesso, poco più di un paio di mesi prima, e dentro di me una vocina insistente mi consigliava di andare a dare un’occhiata, in modo da farmi un’idea di ciò che c’era al suo interno, di tanto importante e in fase di crescita.

Misi a tacere i miei insulsi pensieri notturni e tornai a riavvicinare l’orecchio destro alla porta del piccolo bagno, dopo aver constatato che in casa continuavano a dormire tutti. Il nemico stava ridacchiando, in quel momento.

‘’Ho organizzato tutto alla perfezione; ascoltami bene, poi lo dici con gli altri due, ok? Il pezzo di merda passa tutti i giorni per la via… quella che a fianco ha i platani, dai, ora non ne ricordo il nome, sai che non sono di qui e tutto non l’ho ancora imparato per bene… ok, sì, proprio quella. Bene, noi lo aspetteremo all’altezza della prima traversa. Appena lui passerà di lì, dopo essere uscito da scuola, lo intercetteremo e gli daremo una strigliata… no, nessun problema, state tranquilli; quello non vi denuncerà, lo metterò io in silenzio.

‘’Se non vuole che io gli spacchi il pianoforte e la mammina cara, sarà meglio che obbedisca! Deve subire un po’, mi ha tirato un brutto scherzetto, che non ho ancora mandato giù! Così impara a fare il furbo… va bene, sì, a domattina allora, poi ne riparliamo meglio, ma entro il primo pomeriggio di domani voglio che questa lezione sia stata impartita! Altroché le sue amate lezioni scolastiche…’’.

La voce di Federico a quel punto si smorzò in una risatina che sapeva di saluti. Era quindi tempo che mi allontanassi.

Tremavo come una foglia per quello che avevo udito, e quasi svenni mentre risalivo in silenzio le scale, per via delle informazioni che avevo appena origliato, e pensai inizialmente alla perfidia della sorte, che aveva voluto che io avessi avuto modo di scoprire prima del tempo dove mi sarebbe stato teso l’agguato punitivo, perché tanto ero certo che tutto ciò che avevo ascoltato nella seconda parte della conversazione telefonica riguardasse me.

Quando giunsi in camera mia mi barricai al suo interno, e dopo qualche istante udii la porta del bagno aprirsi, mentre il nemico si avviava anch’egli verso il piano superiore.

La mia mente era atterrita, e in subbuglio, e non sapevo davvero che fare; forse, avrei dovuto cambiare strada ed allungare il mio tragitto per tornare a casa da scuola, il giorno successivo. Anzi, molto probabilmente quella sarebbe stata la soluzione più appropriata per evitare l’agguato.

Mentre mi rimettevo sotto le coperte e il prepotente si chiudeva anch’esso nella sua camera da letto, cominciai a rodermi senza tregua, fintanto che non ebbi un’idea.

Avevo assolutamente bisogno di sfogarmi e di confidarmi con qualcuno, poiché si sa, i problemi che nascono nel cuore della notte sono i più atroci ed opprimenti, e dato che in casa mia non potevo svegliare nessuno, e neppure parlar loro di ciò che mi avrebbe atteso il giorno successivo, decisi di tentare di chiamare qualcuno. Non Jasmine, lei doveva assolutamente starne fuori da quella vicenda, così come mia madre e le persone più care e deboli.

Troppo agitato per poter ragionare al meglio, alla fine mi convinsi ad afferrare il mio cellulare dal comodino e a cercare il numero in rubrica dell’unico essere umano che avrebbe potuto darmi una mano in quel frangente, ovvero Giacomo. Aveva promesso di aiutarmi, poche ore prima, assieme anche ad altri elementi del liceo, ma essendo lui il ragazzo con cui avevo più confidenza, decisi quindi di telefonargli.

Guardando l’ora nel display, scoprii che erano le due di notte, ma non mi feci problemi, e a dirla tutta mi aspettavo che il cellulare del mio compagno di classe fosse spento, oppure in silenzioso, e che non mi avrebbe mai risposto.

Per non continuare a rodermi nel dubbio, premetti con decisione il disegnino verde impresso sullo schermo e avviai la chiamata.

Il cellulare squillava, e squillò per un po’, e quando col cuore sollevato stavo per chiudere la chiamata, che sarebbe poi stata ritrovata subito il mattino successivo, il mio compagno rispose.

‘’Pronto?’’.

La voce insonnolita di Giacomo risuonò nel mio orecchio destro, proprio quando meno me l’aspettavo.

‘’Giacomo, sono Antonio’’, mi presentai, tentennando e con timidezza.

La mia folle paura che mi aveva spinto a telefonargli si stava già rapidamente quietando, mentre finalmente comprendevo la sciocchezza che avevo fatto, svegliando il mio coetaneo nel cuore della notte per un mio personale problema. Ero stato davvero molto egoista, ma la notte e la paura sul momento mi avevano portato a reagire così, e di certo non potevo più tornare sui miei passi. Tanto valeva cercare di tenere viva la telefonata.

‘’Sai che ore sono, vero?’’, mi chiese, lentamente, dopo un attimo di silenzio.

‘’Sì, certo che lo so, e ti chiedo scusa per averti disturbato e probabilmente svegliato, ma ho un problema gigantesco, di proporzioni epiche. Posso parlartene?’’, gli chiesi, cercando di avviare rapidamente il discorso e di parlare a voce molto moderata.

‘’Ormai mi hai già svegliato, quindi sì… ti ascolto’’, mi disse il mio interlocutore, sempre con un gran vocione insonnolito ma paziente.

‘’Ti ringrazio, ma davvero, mi è capitato di udire…’’.

E così gli raccontai tutto quanto avevo origliato, e tutti i miei timori, senza lasciarlo parlare e sempre cercando di tenere il tono di voce davvero molto controllato. Gli Arriga erano ad un palmo dalla mia testa, e sperai che stessero dormendo profondamente.

Alla fine della narrazione, ero affannato e facevo quasi fatica a riuscire a reggere il discorso per più di qualche secondo di fila, dato che la mia tentata concentrazione a tratti vacillava sotto l’impeto di tutto ciò che volevo dire, e della mia sorta di sfogo.

Appena tacqui, ci fu un attimo di incredibile silenzio, e temetti che il mio interlocutore si fosse addormentato. Quasi ci rimasi male, ma poi udii un leggero mugugno, di quelli che il mio compagno di classe emetteva quando rifletteva attentamente.

‘’Ho capito, sei in un bel guaio, ma immaginavo una possibile reazione del nemico. Sei sicuro di non aver udito male, e che tutto sia esattamente come me l’hai raccontato? Perché se fosse così, una soluzione si potrebbe trovare’’, mi disse Giacomo, dopo un altro attimo di riflessione.

‘’Ne sono sicurissimo. Oddio, e meno che non cambino tutto all’ultimo momento, ma so per certo che ciò che hanno pianificato poco fa riguardava me’’, gli assicurai in fretta, con una sicurezza troppo eccessiva e pressata dalle mie paure.

‘’Va bene, ok. Ti credo. Ho un piano in mente, ma non te lo posso dire ora, perché lo affinerò domani. Però, ora che so tutto, mi piacerebbe che tu ti fidassi di me e che ti mettessi tra le mie mani. Io cercherò di offrirti la soluzione definitiva alla vicenda, e al tutto addirittura, ma tu dovrai fare esattamente ciò che ti dico io’’, tornò a dire il mio interlocutore. Fremetti, alle sue parole.

‘’Ovvero?’’, gli chiesi, timoroso.

‘’Devi comportarti in modo assolutamente normale per tutta la mattinata di domani, come se tu non sospettassi nulla. Poi, quando uscirai da scuola, dovrai percorrere le stesse strade che affronti ogni giorno, e finire direttamente e in modo apparentemente casuale proprio nel punto in cui hai udito che ti tireranno il tranello. Non è difficile, devi comportarti come ogni altro giorno’’.

‘’In pratica mi stai chiedendo di andare dritto tra le fauci del pazzo prepotente e dei suoi amichetti?’’, gli chiesi, lentamente. La questione non mi piaceva e per un attimo temetti di sentire la puzza d’inganno, ma mi fu chiaro fin da subito che Giacomo, con l’odio che riponeva nei confronti di Federico, non poteva mandarmi direttamente al macello in quel modo così semplice ma subdolo.

Quasi mi pentii di averlo contattato a quell’ora e di essermi sfogato con lui, nella vana ricerca di un aiuto che avrebbe potuto cambiarmi la vita, ma misi subito a tacere ogni mio pensiero pessimista. A quel punto, non potevo lasciarmi andare, proprio per nulla.

‘’Sì, in pratica sì. Tu percorri le tue solite strade normalmente, e ti prometto che se qualcuno cercherà davvero di farti del male nel punto che mi hai citato, sarai tirato fuori da ogni guaio, spero per sempre. A che ora transiti nel punto del possibile agguato?’’, tornò a chiedermi Giacomo, sicuro di sé.

‘’In genere, tra l’una e venti e l’una e venticinque. Nell’arco di questi cinque minuti’’, gli dissi, cercando di ostentare una sicurezza che in realtà non avevo.

L’ora era certa, perché in genere osservavo sempre l’orologio prima di giungere a casa, e dalla traversa possibilmente incriminata mancano praticamente pochi passi a casa mia, ma non riuscivo a capirci più nulla. L’unica cosa che riuscivo a provare nella mia mente era solo la paura, e nient’altro. La paura, per tutto.

Ma sapevo che provando paura non si faceva tanta strada e non si risolveva nulla, anzi, si rischiava di amplificare il problema da affrontare.

‘’Perfetto. Bene, ora me l’appunto e poi ne riparliamo domani. Anzi, non ne riparliamo proprio, e non parlarne con altri, altrimenti corri il rischio che la tua consapevolezza venga scoperta e che i prepotenti cambino tattica. Ed io voglio metterli nel sacco, questa volta. Non posso più sopportare quegli stronzi, e non voglio che ti mettano di nuovo le mani addosso! Tu comportati esattamente come ti ho detto, e vedrai che non te ne pentirai. Ho una bella idea in mente, un’idea che cercherò di attuare solo per te, perché so della tua situazione complicata’’, sibilò il mio interlocutore, innervosendosi per un attimo.

Sospirai.

‘’Ora vorrei tornare a dormire. Sei in buone mani ed hai richiesto l’aiuto della persona giusta, non temere. Lo stronzo si getterà in una dolorosa trappola proprio con le sue gambe’’, riprese a dire Giacomo, ridacchiando in un modo parecchio difficoltoso ed impastato dal recente sonno.

‘’Hai la mia incolumità fisica tra le tue mani, fai il bravo’’, gli dissi, senza sapere che altro dire.

‘’Lo farò. Buonanotte, e dormi sereno. Domani sarà un grande giorno e prima di sera avremo sconfitto per sempre il nemico, se seguirai i miei consigli. E ti consiglio caldamente di seguirli’’, continuò a ripetermi il mio possibile salvatore, che poi dopo i miei saluti appena mormorati riattaccò di colpo, lasciandomi solo in compagnia di quella lunghissima notte e dei miei ben truci pensieri.

Non sapevo se fidarmi o no di Giacomo, ma una cosa mi appariva certa, ovvero che lui mi era apparso l’unico in grado di aiutarmi, poiché da lungo tempo era istigato contro il prepotente, ed inoltre mi era parso sincero quando mi aveva assicurato che tutto sarebbe andato per il meglio e di seguire i suoi consigli. E quella era, effettivamente, l’unica cosa che avrei potuto fare nell’immediato.

Dato che immaginavo che se fossi riuscito a scampare da quell’agguato i miei aguzzini me ne avrebbero preparato un altro, decisi fermamente e sul momento di seguire i consigli del mio amico e compagno di classe. Così, chiusi la battaglia infernale in corso nella mia mente, e spensi la luce della stanza, coprendomi per bene e cercando di chiudere gli occhi, ovviamente non riuscendoci per più di una manciata di secondi.

Quella per me fu una notte lunghissima, una delle più lunghe della mia breve vita, e più volte mi sentii come se fossi stato pronto per essere portato direttamente al patibolo. Ma, d’altro canto, la guerra aperta l’avevo voluta anch’io, e avrei dovuto affrontarne le conseguenze, tanto meglio se una volta per tutte e in modo deciso.

Tra piccoli sospiri e movimenti rapidi sotto le coperte, cercai di stare tranquillo, ma il mattino successivo mi colse che ero ancora sveglio, e logicamente stanco, stressato ed impreparato ad affrontare quella lunga giornata.

Avrei voluto parlarne con Jasmine, oppure con mia madre, o con Roberto, o addirittura con Melissa, quella mia cugina che avevo conosciuto per caso e frequentato per un solo pomeriggio, qualche giorno prima, ma sapevo che quella era la mia giornata, il dì in cui avrei dovuto superare una grande prova, contando solo sulle mie forze e sulla fiducia e l’amicizia di Giacomo.

Facendomi coraggio, al solito orario mi alzai e mi preparai ad andare a scuola, esattamente come facevo ogni mattina, con la sola differenza che quella volta le gambe mi tremavano come foglie al vento, e due leggere occhiaie gravavano sul mio viso, impietose e silenziose testimoni dei miei tormenti interiori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Salve a tutti, e grazie per aver letto anche questo capitolo e per continuare a seguire il racconto.

Beh, dal prossimo capitolo entreremo nel vivo dell’azione! Inoltre, avremo modo di scoprire cosa accadrà ad Antonio… e se tutto alla fine prenderà una piega a lui favorevole.

Continuo a ringraziarvi tutti, in modo particolare i carissimi recensori, sempre presenti e gentilissimi.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25

CAPITOLO 25

 

 

 

 

 

 

Appena alzato, dopo aver evitato ogni contatto col cibo, nel vano tentativo di tenere sotto controllo il mio stomaco nel caso ce ne fosse stato bisogno fin da subito, cercai di dirigermi il più velocemente possibile verso la porta di casa. Il cellulare però mi squillò, poiché mi era arrivato un messaggino.

Stoppai per un attimo la mia corsa, ma solo per accendere lo schermo e scoprire che il mittente era proprio Melissa, la ragazza che avevo pensato anche poco prima, e che quasi di certo era la mia parente che avevo conosciuto per caso.

Non lo lessi, anzi, spensi definitivamente il cellulare, e salii di nuovo in camera per riporlo con attenzione sulla scrivania e richiudere di nuovo la porta con due giri di chiave. Poi, la mia lenta corsa dentro casa riprese.

Giunsi alla porta incolume; ero stato attentissimo ad evitare mio padre e Roberto, che quella mattina gironzolavano placidamente per casa.

Avrei voluto parlare con mia madre, ma ovviamente non lo feci. Avrei voluto salutare Roberto, come facevo ogni mattina, ma anche quello non lo feci, e uscii in fretta dalla mia dimora.

Avevo voluto cristallizzare tutto ciò che mi circondava, quella mattina. Era come se io avessi cercato di mettere tutto quanto in standby, lasciando quindi ogni vicenda in sospeso, fino a quel pomeriggio. Fino alla cosiddetta ora della punizione, che tanto mi terrorizzava.

Mentre abbandonavo il mio giardino, cominciando subito a percorrere il marciapiede che limitava la strada in cui abitavo, mi sentivo strano, e addirittura la mia saliva aveva un sapore insolito, lasciandomi chiaramente comprendere che ero vittima della paura. Sapendo che avrei dovuto affrontare tutto a testa alta, e che non ero solo, rialzai le mie spalle con un gesto da vero guerriero, colmo di qualche motivata consapevolezza, ma la mia voglia di affrontare ciò che avevo tanto fomentato mi stava stretta, ed anzi, quasi mi schiacciava.

Mentre camminavo spedito verso il liceo, per una frazione di secondo mi pentii di non aver alzato il foglio e di non aver lasciato che il prepotente copiasse, in modo da non provocarlo, ma tanto subito dopo la mia razionalità mi fece reprimere quegli sciocchi pensieri, poiché sapevo che Federico mi avrebbe spremuto ogni giorno, e sempre di più, se glielo avessi permesso. Avevo solo chiuso un circolo vizioso. Forse.

Il giorno prima ero stato coraggioso ad aver tentato di interrompere questa serie di azioni spiacevoli che si stava costruendo e solidificando da tempo, e dovevo continuare ad avere coraggio, se non volevo che quello sforzo non diventasse vano. Dovevo combattere, e soprattutto avere fiducia sia in me stesso che nel mio ipotetico salvatore e compagno di scuola.

Quando giunsi al liceo, mi addentrai subito al suo interno, dato che la prima campanella era già suonata da qualche secondo, e non appena entrai in classe incontrai subito lo sguardo di Giacomo, già all'interno dell’aula. Il mio amico mi fece un occhiolino carico di una sicurezza che mi lasciò senza parole, per un attimo, ma che mi convinse a fidarmi ciecamente di lui.

Presi posto nel mio banco, senza parlare con nessuno se non per salutare, e notai già da un primissimo momento che Federico quel giorno non era venuto a scuola. Era assente, e chissà che stava combinando e tramando al di fuori delle mura scolastiche e da quelle domestiche.

Deglutendo un’infinità di volte e in un modo che mi parve quasi troppo rumoroso, riuscii a trascorrere quella mattinata scolastica, che per fortuna filò liscia come l’olio, dato che non dovevo affrontare né verifiche né interrogazioni, ma la mia concentrazione ne risentì parecchio.

Comunque, poco importava; se fossi riuscito a superare quella giornata, l’indomani sarebbe stato un altro giorno, un giorno nuovo, e forse anche migliore e più libero.

La mia ora x, l’ora del cambiamento o dell’umiliazione più bruciante, mi attendeva ed era ormai alle porte, e a quel punto non mi sarei più tirato indietro.

 

Quando uscii da scuola, ero ancora più inquieto. Non avevo affatto coraggio, e il tempo era trascorso troppo in fretta, mi pareva.

Giacomo si era volatilizzato fin da subito, ed ammisi a me stesso che mi sarei aspettato che fosse stato a mio fianco, o che avesse cercato di interagire con me in un qualche modo, ed invece niente. Ed io ero solo, se non in compagnia del mio più lieto ma immaginario compagno di viaggio, ovvero il panico che regnava nella mia povera mente. Lui era effervescente, io molto meno.

La cosa più inquietante che avevo scoperto era stata che neppure il trio di amichetti del prepotente si era presentata a scuola, ed immaginai facilmente che tutti e quattro si fossero organizzati per bene. Non sapevo cosa aspettarmi, e mentre camminavo verso casa mia sapevo perfettamente che ogni passo che muovevo era anche un passo verso l’umiliazione suprema, un’umiliazione che non sapevo ancora come si sarebbe svolta, ma che avrebbe incluso un bel po’ di botte, quasi di sicuro.

Ad un certo punto, fui lì per abbandonare il percorso e deviare, in modo da non incappare nel punto dove mi attendeva il tranello, ma decisi che avrei affrontato tutto, e che mi sarei fidato di Giacomo, anche se lui mi aveva lasciato completamente solo, visto che il problema andava affrontato il prima possibile. Non volevo trascorrere un’altra notte e un altro giorno in quello stato, senza neppure sapere quando e dove i prepotenti avrebbero cercato di farmi del male.

Per un attimo pensai anche al tradimento del mio compagno di classe, che consigliandomi di non parlarne con nessuno e di lasciare tutto in mano sua, per poi volatilizzarsi, forse avrebbe voluto partecipare e ridere anche lui per ciò a cui mi avrebbero sottoposto, ma accantonai in fretta quel pensiero.

In quel momento feci chiarezza nella mia mente, e quando oltrepassai l’ultima stradina che mi avrebbe permesso di aggirare il più che probabile ostacolo, seppi che sarei andato incontro al mio destino, qualunque esso fosse. Immaginavo che il nemico non volesse ammazzarmi e neppure farmi troppo male fisico, per non incorrere in guai grossi, quindi alla fin fine sarei sopravvissuto a tutto, in ogni caso.

Camminai spedito, procedendo forse in modo un po’ più rapido rispetto agli altri giorni, fintanto che non apparve ai miei occhi l’unica e prima traversa che si innestava nella mia via, l’ultima prima di casa mia, che distava davvero ormai solo pochi metri. Il fatto che una cosa così spiacevole mi stesse attendendo a così poca distanza da casa mia m’inquietava tantissimo, anche perché lì mi sentivo al sicuro, lungo la mia strada, in quella stessa via in cui ero cresciuto ed avevo mosso i miei primi passi.

Eppure, proseguii a camminare abbastanza spedito, cercando di guardarmi attorno il meno possibile, e ad un certo punto giungendo pure a sperare che nulla mi sarebbe accaduto, e che nessun agguato mi era stato teso, poiché la situazione pareva inverosimilmente calma. Non c’era traccia di Giacomo, che a quanto pareva mi aveva lasciato totalmente solo per davvero, e non c’era traccia di possibili aggressori nei paraggi. Era tutto surreale.

Fintanto che non oltrepassai il punto dove mi attendevo l’agguato, ovvero la sorta di piccolo incrocio che si formava nell’innesto della traversa nella mia strada, tutto mi parve tranquillo e come ogni altro giorno, e ammetto che in quell’istante tirai un sospiro di sollievo. Continuavo a sentirmi solo, come se avessi vissuto una qualche sorta di allucinazione, che avesse poi rischiato di farmi precipitare in un gorgo colmo di pazzia.

Era come se avessi superato un esame. Ma stavo esultando troppo presto, come scoprii a breve.

Infatti, dopo pochi altri passi mossi verso casa mia, udii un flebile rumore, proveniente dalle mie spalle.

Deglutii e decisi assolutamente di non fermarmi e di non voltarmi indietro, poiché avevo davvero troppa paura di ciò che avrei potuto trovarmi di fronte, e cercai di rassicurarmi pensando che si trattasse di un passante. Solo che pochi istanti prima mi ero guardato attorno, e non avevo visto nessuno; allora, per continuare a cercare di tenere saldi i miei nervi, cercai di convincermi pure che magari si trattasse di una qualche persona appena uscita da una qualche casa che dava sulla strada, senza che io me ne accorgessi.

Nel frattempo, velocizzai ulteriormente il passo.

Il tempo fu come se si fosse rallentato attorno a me, e ad ogni passo verso casa sembrava che io avessi dovuto alzare un macigno tramite il movimento sincronizzato delle mie gambe.

‘’Fuggi da qualcuno, Antonio?’’.

La voce beffarda del prepotente mi giunse dalle mie spalle, così come il suo alito caldo che mi sfiorò l’orecchio sinistro. La consapevolezza di essere stato raggiunto in modo rapidissimo e di essere in trappola mi fece raggelare il sangue nelle vene, e, inutile a dirlo, mi pietrificai sul posto, troppo spaventato per tornare a muovermi in modo deciso verso casa.

‘’Lasciami in pace’’, gli dissi, a singhiozzo. Poi, mi voltai involontariamente verso di lui.

Mi trovai di fronte al bullo, che evidentemente mi attendeva ed aveva pianificato tutto dalla prima mattina, e mentre mi arpionava una spalla con quelle sue manacce che parevano grinfie, cercai una soluzione al problema. Sapendo che ormai non potevo più scappare, poiché già avvinghiato dalla stretta ferrea e più decisa di Federico, decisi che avrei gridato, invocando aiuto.

Tentennai un istante, lanciando una fugace occhiata attorno a me e non notando anima viva lungo il marciapiede e neppure per strada, sgombra da automobili e bici, in quel momento. Il mio paesetto sapeva rivelarsi un vero mortorio, quando voleva.

Spalancai la bocca, deciso a gridare ugualmente a squarciagola, ma all’improvviso un’altra mano salda mi si piantò sulle labbra, e un’altra sotto al mento, tappandomi di fatto l’unica via con cui avrei potuto utilizzare la mia voce.

Ero circondato, mi stavano assalendo da tutte le parti e non sapevo quante persone fossero coinvolte in quell’agguato; sapevo solo che quella era stata una vera e propria operazione in grande, così come mi aspettavo, organizzata fin nei minimi dettagli. Ed io non ero neppure stato in grado di accorgermi di essere stato circondato in modo banale, e sciocco, e questo mi abbatté talmente tanto da lasciarmi avvilito e senza forze in un momento così critico, quando tutto poteva tornarmi utile.

I tizi dovevano essersi nascosti a bordo della strada, magari dietro alla miriade di cassonetti della raccolta differenziata che erano stati posizionati proprio ai margini del marciapiede, ed io, come un cieco, ero passato a loro fianco già assaporando il sapore del pranzo che mi sarei gustato una volta giunto a casa incolume.

Però, in quel momento capii che non era necessario che io stessi a recriminare tutto, ma che lo era di più cercare di fare qualcosa per riuscire a cavarmela, in un qualche modo. Anche perché ormai avevo la certezza di essere rimasto totalmente solo; solo contro un’intera banda di giovani criminali violenti ed assetati di vendetta.

Il mio inquilino si distaccò da me e si diresse verso la piccola traversa inglobata da entrambi i lati dagli edifici che davano sulla strada, facendo rapidi gesti al resto degli assalitori, che riconobbi facilmente. In realtà, Federico non aveva cercato chissà chi per punirmi, ma proprio come mi attendevo aveva utilizzato quel trio con cui tempo prima trascorrevo interi intervalli. Proprio come avevo previsto.

Luca e Giulio sgusciarono a fianco di Federico, e immaginai che a trattenermi e a tapparmi la bocca fosse proprio quel gigante di Davide, davvero troppo forte per me. A quel punto mi parve ovvio che mi avrebbero trascinato proprio a fianco di quei grandi cassonetti della spazzatura che fino a pochi istanti prima avevano offerto loro un buon nascondiglio, e che sarebbero serviti come abile copertura per il mio probabile pestaggio.

Cercai di ribellarmi, e di uscire finalmente dalla mia inerzia, ma non riuscii ovviamente a divincolarmi dalla stretta di quello che avevo sempre creduto un gigante buono, e allora, mentre Davide mi trascinava di peso e rapidamente verso il punto già raggiunto dagli altri tre, tentai di mordergli la mano che mi aveva posato sulla bocca, ma capendo le mie intenzioni l’assalitore mosse il suo grande arto e, con abilità, riuscì a immobilizzare la mia mandibola.

A quel punto, non potevo fare molto. Ero totalmente travolto dalla forza altrui. Se fossi stato un po’ più alto e un po’ più pesante, i miei aguzzini avrebbero di certo fatto molta più fatica a sbatacchiarmi in fretta dalla strada fino a fianco dei cassonetti, ma la mia natura esile aveva ampiamente facilitato i loro interessi.

In una frazione di secondo, fui scaraventato a terra senza troppi complimenti, trovandomi perfettamente incastrato tra i grandi bidoni della spazzatura, tra quello immenso e di latta dell’indifferenziata e quello altrettanto alto e invadente della carta, quasi appoggiati da dietro ai muri e piuttosto stretti tra loro.

I miei quattro assalitori si strinsero su di me, mentre io cercavo di rivoltarmi un attimo e almeno di riuscire ad afferrare con le mani un qualche appiglio. Non ero dotato di tanta forza, ma dato che ero momentaneamente libero, pensai che se fossi riuscito ad afferrare una parte del cassonetto, forse sarei riuscito a spostarlo e a crearmi in fretta una probabile via di fuga, dato che quello della carta non doveva essere molto pesante. Ma, quasi inutile a dirlo, Davide riuscì abilmente a bloccarmi al suolo, senza lasciarmi alcun margine di movimento.

Tremavo tutto, il mio volto doveva essere arrossato e il mio corpo pareva rigido come uno stoccafisso, senza contare che in quel momento mi accorsi che delle lacrime ricolme di terrore stavano solcando il mio viso, infradiciandolo in ogni suo angolo. Fu così che mi accorsi che stavo piangendo, e che capii che avevo smesso di lottare e che mi aspettavo solo chissà cosa, da quel momento in poi.

Guardai per un attimo Davide, piantando i miei occhi strapazzati dalla paura e dal pianto nei suoi, e riconobbi che pure lui non era tranquillo, e che cercava di guardarmi il meno possibile. E compresi che stava solo svolgendo il compito che Federico gli aveva relegato, come se quel bullo prepotente fosse riuscito a fargli il lavaggio del cervello e a farsi obbedire ciecamente dall’affiatato trio di amici.

Il mio prepotente inquilino si era allontanato per un attimo, mentre Giulio e Luca si erano ritratti, ed io ne avevo approfittato subito per attaccare Davide con l'unico strumento concessomi in quel momento, ovvero la voce.

‘’Perché lo fai? Io non ti ho mai fatto nulla. Lasciami andare, ti prego’’, gli dissi, supplichevolmente spaventato e a voce alta.

‘’Cosa credi, che Federico non mi abbia raccontato quando, alcuni mesi fa, parlavi male di me e degli altri a casa, per poi mandare di nascosto tua madre dai professori per dirci dietro? Pensavi davvero che non te l’avremmo fatta pagare, vero, e che magari non l’avremmo mai saputo… ecco perché negli anni scorsi avevamo sempre voti bassissimi nella valutazione sul comportamento. Adesso è tutto chiaro e spiegato, e anche se mi sarebbe piaciuto fartela pagare in altro modo, ora ci penserà il nostro nuovo amico a darti una lezione’’, mi spiegò Davide, moderatamente rabbioso.

Io scossi il capo, devastato da ciò che stavo udendo e che effettivamente non stava neppure in piedi.

‘’Federico si è inventato tutto! Giuro che non ho mai mosso un dito contro di voi né detto nulla, e soprattutto alle spalle, e poi non frequentiamo neppure la stessa classe! Come avrei potuto…’’.

‘’Stai zitto, una buona volta, bugiardo. Sei davvero un gran stronzo’’. E detto questo, il mio interlocutore mi zittì facendomi sbattere la testa contro l’asfalto sottostante.

Ero davvero spacciato, e tutto questo mi stava capitando anche grazie alla marea di assurde falsità a cui Federico aveva sottoposto i miei tre ex amici, che forse non erano mai stati neppure tanto miei amici e neppure tanto intelligenti e benpensanti come credevo tempo addietro, per lasciarsi raggirare così tanto facilmente dal primo pazzoide che aveva avuto la fortuna di incontrarli.

Dal momento della mia cattura fino a quell’istante non dovevano essere trascorsi più di due o tre minuti, ma per me il tempo era come se stesse scorrendo al rallentatore. La strada era ancora sgombra, io non potevo far nulla per salvarmi, ancora immobilizzato al suolo, e un altro mezzo secondo dopo si piazzarono su di me anche gli altri tre.

Notai subito che Federico stringeva tra le mani una sbarra di ferro, e sperai che non avesse davvero l’intenzione di usarla su di me. Notando il mio sguardo atterrito, il ragazzo mi sorrise serenamente.

‘’Non preoccuparti per questa, l’ho presa solo per spaventarti. Mica vogliamo ammazzarti, tranquillo! Vogliamo solo darti una buona ripassata, così saremo certi che su di noi non dirai altre cose malvagie e che non ci farai altri brutti scherzetti. In caso contrario, ti prometto che utilizzerò anche questa, ma sta volta no’’, mi disse, sornione e beffardo, per poi lasciare cadere il possibile oggetto contundente vicino ai cassonetti.

Ammetto che non ero assolutamente rassicurato dalle sue parole, e approfittai del momento in cui Davide mi liberò dalla sua stretta a tenaglia per cercare di sgusciare via, ma ancora una volta dimenticavo che tutto era stato preparato, e non si stava improvvisando. Da solo, non avevo margine di scampo.

Infatti, non appena fui liberato, non credetti ai miei occhi e cercai di ruzzolarmi di lato, nel poco spazio che l’angusto e puzzolente luogo mi offriva, per tentare di rialzarmi o almeno di infilarmi sotto un cassonetto, anche se ciò appariva quasi impossibile, dato che non ero un gatto. Però, avrei voluto almeno tentare, ma non me ne fu dato il tempo.

In effetti, non riuscii nemmeno a muovermi di un centimetro, dato che un potente calcio mi colpì al costato. Da quell’istante in poi, cominciarono a piovere calci e pugni su di me, non tanto indirizzati verso il mio volto, bensì verso il resto del mio corpo.

Mi raggomitolai su me stesso, gemendo dal dolore, eppure le botte continuarono a giungermi da ogni lato. Piangevo, ero disperato e soffrivo come non mai. Facevo pure fatica a prendere fiato.

‘’Per ora basta, che dici?’’, chiese Davide dopo qualche secondo di brutale e rapido pestaggio, quando avevo già ricevuto parecchi colpi dai quattro prepotenti.

La sua voce nascondeva un qualche timore, e compresi che in fondo doveva avere paura di essere scoperto. Il ragazzone non era mai stato troppo coraggioso.

‘’Scherzi?! Fintanto che non notiamo qualche passante in lontananza, o qualche auto, continuiamo’’, lo riprese il prepotente capo. E i colpi continuarono a percuotermi.

‘’Anzi, voglio provare pure questa’’, tornò a dire Federico, e dal rumore che produsse potei facilmente capire che doveva aver recuperato la sua sbarra di ferro.

Ero finito. Gemevo, rantolavo, gridavo, ma era come se il mondo attorno a me continuasse a girare senza che nessuno si accorgesse della mia situazione critica e del mio bisogno d’aiuto.

Poi, i colpi cessarono per un istante e un bavaglio mi tappò la bocca, per farmi smettere di fare rumore. E sentii il freddo del ferro che premeva contro la mia guancia sinistra, e una risatina sommessa e cupa di Federico, promessa di altre botte in arrivo, ancora più dolorose delle precedenti.

Ero pronto a subire il primo colpo, a sentire quel ferro mentre percuoteva le mie carni, continuando a rantolare a terra, e a piangere su me stesso e sulla mia umiliazione suprema, oltre che su quel dolore fisico e psicologico che non mi dava tregua. In due parole, ero perduto.

Proprio quando mi attendevo un’altra dolorosa percossa, però, accadde qualcosa di inatteso.

‘’Fermi tutti! Che nessuno si azzardi più a colpirlo!’’.

Udii quegli ordini perentori, e lì sul momento non capii.

Sentii i miei aguzzini mentre cercavano di dire qualcosa, o di fuggire, dato il tramestio che provocarono, ma quando alzai lo sguardo e mi trovai di fronte a due carabinieri, per nulla intenzionati a lasciarsi sfuggire il cospicuo raccolto, intesi a fatica che per me era tutto finito. Era finito l’incubo.

E quando in mezzo ai due carabinieri apparve Giacomo, avrei davvero tanto voluto raggiungerlo e abbracciarlo, ma ci misi un’infinità di tempo a rialzarmi dal suolo. Ero in una situazione penosa, e riuscii a malapena a rimettermi in piedi e a strapparmi l’improvvisato bavaglio.

‘’Non state neppure a cercare di fuggire, ragazzi. Sappiamo esattamente chi siete e conosciamo le vostre identità, e se ve la darete a gambe rischierete solo di aggravare la lista di reati da voi commessi. Verrete tutti quanti in caserma con noi, e non pensate neppure a fare scherzi. Ogni eventuale resistenza e ogni altro reato che commetterete si aggiungerà alla vostra lista di quelli già compiuti, e tutto rischierà solo di aggravarsi. Mi auguro solo che non vogliate peggiorare ulteriormente la vostra situazione’’, disse uno dei due carabinieri, lentamente e con fare deciso, spiegando tutto per bene.

I miei quattro aggressori, sconvolti dal fatto di essersi lasciati cogliere ingenuamente in flagrante, erano diventati rigidi come statue, e difficilmente sarebbero riusciti a muoversi.

Rifiutai categoricamente di far chiamare un’ambulanza per me, e assieme, tutti e cinque, fummo scortati verso la volante, lasciata lungo la mia via e per metà sul marciapiede, frettolosamente, ed io, Giacomo, Federico e Davide salimmo, lasciando gli altri due in compagnia del secondo carabiniere, in attesa di rinforzi per portarci tutti in caserma.

Giacomo mi aiutò a camminare e a salire in auto, mentre ancora mi asciugavo le lacrime e i prepotenti ormai erano loro ad essersi lasciati andare al pianto. La situazione si era improvvisamente invertita.

Piangevano tutti, tranne Federico, il cui sguardo era ancora colmo d’incredulità e di stupore.

Anch’io ero ancora stupito, e non riuscivo a capire per bene ciò che poteva essere accaduto. Evidentemente, i miei aguzzini si dovevano essere lasciati andare talmente tanto al mio pestaggio da non essersi accorti che erano stati scoperti, ma qualcos’altro evidentemente mi sfuggiva.

Una volta dentro alla volante, Giacomo si avvicinò al mio orecchio destro, per sussurrarmi qualcosa. Lo lasciai fare, naturalmente, anche se ancora il dolore delle botte non mi faceva star sereno.

Sperai solo di non avere niente di rotto.

‘’Visto? Ti avevo detto di fidarti di me. Poi, se vorrai, ti spiegherò tutto, ma ora non è il momento’’, mi sussurrò, per poi sogghignare.

Io mi lasciai andare sul sedile posteriore, troppo debole per replicare, porre oppure pormi domande.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!

Beh, uno dei capitoli più duri del racconto l’abbiamo appena letto e superato. Diciamo che, forse, d’ora in poi la strada comincerà ad essere in discesa per il protagonista… ma le difficoltà saranno ancora tante, da superare.

Bene, nel prossimo capitolo faremo delle… scoperte. Grazie ad Antonio, ovviamente!

Ringrazio tantissimo tutti i lettori e i vari recensori, sempre estremamente gentili e puntuali.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26

CAPITOLO 26

 

 

 

 

Giunti in caserma, prima il nostro gruppetto, e poi, dopo qualche minuto, anche quello composto dal secondo carabiniere e da Luca e Giulio, tra di noi regnava un’apparente calma.

Io ne approfittai un attimo per controllare il mio corpo, che era stato percosso da calci e pugni che però effettivamente non avevano provocato lesioni gravi ai miei organi, poiché di dolore non ne provavo più se non sfioravo la mia pelle, che probabilmente nelle ore successive si sarebbe ricoperta di lividi. Ero riuscito ad uscire dallo scontro ancora piuttosto integro, e dovetti ammettere a me stesso che sarebbe potuta andare molto peggio.

Riconobbi anche che forse il trio manovrato da Federico non aveva voluto colpirmi con eccessiva forza, poiché altrimenti un solo calcio ricevuto dai potenti zamponi di Davide mi avrebbe di certo spedito direttamente al camposanto. Addossai quindi tutte le colpe a quell’indemoniato del mio inquilino, con una fretta raggelante e spontanea, che forse non aveva neppure tutti i torti a mostrarsi.

‘’Mi avevi avvisato di quello che ti volevano fare, e allora io mi sono premunito. Appena ha suonato la campanella, sono sgusciato fuori dal liceo in tutta fretta, e, col cellulare alla mano, mi sono precipitato nel luogo del presunto agguato, dove ho notato che i furfanti si stavano già appostando, e dal tanto che erano presi dai loro brutti intenti non hanno neppure notato quando mi sono appostato dietro un auto in sosta, una decina di metri più avanti del punto in cui ti hanno pestato’’, incominciò a narrarmi Giacomo, all’orecchio, mentre mi sedevo e mi massaggiavo un braccio.

Attorno a noi c’era un gran via vai, e tante voci che rimbombavano da ogni parte. I carabinieri erano davvero molto indaffarati, ma comunque nella piccola caserma piuttosto spoglia di arredi del nostro piccolo paese, i vari militari presenti sapevano i fatti loro e si muovevano agilmente nel loro caos.

Uno di essi ci controllava a distanza, posizionato sulla porta d’ingresso.

‘’Ho atteso quindi quei quattro minuti circa, poi sei arrivato tu, ed ho notato dapprima la tensione sul tuo volto, e poi un leggero sorriso da scemo, non ti offendere. E ti sei fatto beccare alle spalle da Federico, sgusciato fuori dal suo nascondiglio dietro i cassonetti che facevano angolo con la strada, senza neppure accorgerti di nulla in tempo, e facendoti agguantare subito.

‘’Il resto è quasi inutile che te lo racconti, perché te lo puoi immaginare; quando ho visto come ti hanno afferrato e trattato, ed ho udito i tuoi gemiti di dolore, ho chiamato subito i carabinieri. Per fortuna mio zio, uno dei due carabinieri che è intervenuto sul posto, oggi era in servizio, e quindi ho avuto ancor meno difficoltà a raccontargli la vicenda, e comunque in un attimo era subito qui assieme ad un suo collega’’, concluse il mio compagno di classe, che a quanto pareva non aveva alcuna intenzione di lasciarmi solo in quel luogo, anche se si trattava di una caserma popolata da uomini in divisa e appartenenti alle Forze dell’Ordine.

‘’Non taccerò, anzi, sono qui per raccontare anch’io ciò a cui sono stato sottoposto, e a sporgere la prima denuncia della mia vita. Quegli stronzi gestiscono degli account su un social network in cui mi sfottono, ed è giusto che siano svolte le dovute indagini e che siano puniti’’, tornò a dire Giacomo a sorpresa, proprio quando mi aspettavo che avesse finito di parlare.

Con la cattiveria e la scocciatura tipiche di una persona stressata, dolorante e ammaccata, pensai che non mi sarebbe dispiaciuto se il mio giovane e provvidenziale amico in quel momento fosse sparito, lasciandomi un po’ solo a riflettere. Immaginavo che quello che era accaduto tra me, Federico e il trio avrebbe avuto discrete ripercussioni, a partire proprio da ciò che sarebbe poi successo tra le mura domestiche, quando i nostri genitori avrebbero scoperto tutto il patatrac che era stato combinato.

Un gentilissimo carabiniere mi si avvicinò per chiedere nuovamente se c’era bisogno di un’ambulanza, oppure di una visita al pronto soccorso, ma rifiutai categoricamente. Non so se fosse stato il fatto che finalmente mi ero tolto quel peso che mi bruciava dentro, ma mi sentivo davvero meglio, nonostante tutte le legnate che mi erano state date.

Nel giro d’un ora accadde ciò che mi attendevo, ovvero l’arrivo in caserma di mia madre e di Roberto e Livia, oltre che dei genitori degli altri tre prepotenti aggregatisi al mio inquilino, anch’essi molto preoccupati. Avevamo tutti chiamato casa per avvisare del nostro mancato ritorno, senza spiegare troppo bene le motivazioni che ci avevano fatto finire in caserma, e quindi, nonostante fossimo tutti quanti maggiorenni, i nostri amati parenti volevano venire a sincerarsi dell’accaduto e a comprendere bene la vicenda.

Mia madre fece per avvicinarsi a me e per parlarmi, e probabilmente notando il mio viso dolorante, si accigliò, ma non riuscì a fare nulla, perché fui chiamato dai militari per lasciare la mia deposizione e la mia testimonianza.

Deviai quindi l’unico genitore che si preoccupava per me, e lanciai un’occhiata a Roberto e Livia, chini sul figlio. Non seppi comprendere le loro emozioni del momento.

Entrai nella stanza dove mi attendevano due carabinieri, che mi fecero qualche domanda e mi chiesero dell’accaduto, e come stavo, e dopo un quarto d’ora pieno di parole di routine e di accertamenti, fui libero di andarmene.

Ero stato il primo ad aver affrontato quella sorta d’interrogatorio, e notai che il prossimo a doverlo affrontare doveva essere Davide.

Mi diressi verso l’uscita, salutando tra i denti Giacomo, anche lui in attesa di avere l’occasione di andare a dire la sua, e incrociai mia madre, che nel frattempo stava chiacchierando con Roberto, con fare agitato. Livia invece era ancora china sul figlio, poco distante, quasi a volerlo coccolare.

‘’Antonio, ma cos’è successo?! Spiegamelo per bene’’, mi chiese subito mamma Maria, arpionandomi ad un braccio e facendomi sfuggire un gemito di dolore. Non mi piaceva il fatto che stesse a me spiegare tutto, anche perché pensavo che stesse ad altri narrare ciò che li aveva spinti a comportarsi in quel modo, ma non potevo fuggire in quel momento.

‘’Mi hanno pestato, quelli lì. In strada, poco prima di rientrare… e per fortuna Giacomo è stato rapido a chiamare i carabinieri, se no mi avrebbero ammazzato’’, risposi, con semplicità allarmante e con un pizzico di veritiera esagerazione.

Effettivamente, non potevo immaginare ciò che mi avrebbe potuto fare Federico, con quella sbarra di ferro tra le mani. Per fortuna erano prontamente intervenute le forze dell’ordine.

Per supportare le mie parole, alzai leggermente la felpa e la maglietta della salute e mostrai un bel livido violaceo che si stava già formando per bene sulla mia pelle magra e tirata. Mia madre emise un gridolino, mentre Roberto s’incupì ancor di più.

‘’Tu e Federico vi comportavate in modo strano ultimamente, ed in più non avete mai legato. Immaginavo che tra di voi ci fosse qualcosa che nascondevate ai nostri occhi, e pensavo si trattasse solo di qualche rancore da ragazzini, ma non mi sarei mai atteso che sarebbe andato tutto a finire in questo modo. Voi due non andavate d’accordo, vero? C’erano stati altri episodi violenti, prima di questo?’’, m’interpellò l’uomo, nervoso.

Io mi limitai ad annuire, chinando il capo.

‘’Lo immaginavo. Potevi dirmelo! Quante volte ti ho chiesto se…’’.

‘’Basta! Lasciami in pace!’’, gli urlai in faccia, interrompendolo, e punto nel vivo. Poi, con passo deciso, mi diressi verso l’uscita, bordò in volto per via della mia orribile reazione. Non avevo mai risposto in quel modo a nessuno, prima di quel momento, e l’imbarazzo e lo sconforto stavano portando avanti una strenua lotta contro la rabbia e il nervosismo che regnavano dentro di me.

‘’Antonio, aspetta!’’, mi disse mia madre, cercando di venirmi dietro, ma un carabiniere la fermò.

‘’Attenda un po’ signora, abbiamo bisogno di parlare anche con lei’’, le disse il militare, bloccandola. Ed io ebbi via libera per andarmene.

Una volta uscito dalla caserma, con la promessa di tenermi a disposizione se ci fosse stato bisogno di altri particolari da chiarire, presi a correre come un forsennato lungo la strada. Casa mia era molto distante, ed ero consapevole del fatto che avrei dovuto percorrere tutto il tragitto a piedi, vista la mia precipitosa fuga.

Sapevo perché avevo reagito così male alle parole di Roberto; sapevo che lui aveva ragione, e che avrei dovuto vuotare il sacco molto tempo prima, senza giungere a quella situazione allarmante. E il peso della verità bruciava ed ardeva dentro di me, così come anche la consapevolezza che si stava facendo largo dentro la mia mente proprio in quel momento, ovvero di aver messo in difficoltà anche mia madre. Volevano parlare anche con lei, e Dio solo sapeva come fosse messa con l’affitto degli Arriga.

Abituata com’era a dare alloggio alla gente di passaggio e solo per poche settimane massimo, non credevo che fosse in regola come una sorta di pensionante agli occhi dello Stato, e quindi sarebbe di certo stata multata e punita, se, come probabile, sarebbe venuto fuori tutto quanto. E chissà, magari sarebbero stati fatti anche sopralluoghi in casa nostra, e il casino avrebbe investito buona parte delle nostre vite, sempre vissute ai margini della società e lontane dai riflettori della Legge.

Giacomo, quindi, grazie alla sua azione aveva sgominato in modo magistrale la banda di Federico e l’aveva gettata tra le fauci dei carabinieri, senza sapere che ciò forse avrebbe avuto ripercussioni indirette su altre sfere della nostra vita privata.

Mentre percorrevo il mio cammino verso casa, camminando frettolosamente lungo il ciglio della strada mentre un’infinità di automobili sfrecciavano in entrambi i sensi a qualche centimetro da me, non mi sentivo in pericolo, bensì con la coscienza a posto, e anche se mi creava dispiacere anche solo il pensare che mia madre avrebbe potuto essere punita a causa mia, ero perfettamente a conoscenza del fatto che anche lei sapesse che avrebbe potuto correre rischi di ogni sorta.

Però, a quel punto, mi era rimasto un interrogativo pressante, e che mi tormentava da tanto tempo, senza contare che esso poi avrebbe potuto illuminare per bene ogni mia consapevolezza, dato che ciò poteva nascondere altri guai per tutta la mia famiglia e per casa mia, ovvero cosa nascondesse la camera di Federico.

In quel momento, nella mia mente continuava a frullare la vaga impressione che al suo interno si nascondesse materiale illecito di una qualche sorta. Inoltre, il nervosismo per la sorte dei miei vasetti mi aveva tenuto sulle spine per fin troppo tempo.

Fu così che, mentre cercavo di giungere alla mia dimora al più presto possibile, nacque dentro di me la voglia di commettere una follia. Una voglia così forte che difficilmente sarei riuscito a contenere, dato che era già da fin troppo tempo che stavo trattenendo la mia curiosità, e sapendo che forse avrei avuto pure campo libero.

Però, prima di tutto finii per andare a recuperare il mio zainetto nella zona incriminata, del quale mi ero pressoché totalmente dimenticato dal momento in cui Federico mi aveva agguantato, e dopo averlo raccolto da terra ed averlo ripulito dalla polvere e dalla sporcizia, me lo gettai nuovamente in spalla e mi preparai a rincasare.

 

Quando giunsi a casa, avevo già preso una decisione.

Dopo aver dato un’occhiata in giro, notai che di mio padre non c’era traccia, quindi molto probabilmente doveva essere andato al lavoro o dove diavolo gli fosse parso, l’importante era che non fosse tra i piedi, in quel giorno tanto delicato. Sapevo esattamente che tutti gli altri abitanti della dimora erano ancora tutti trattenuti nella caserma, e allora, come un fiume in piena, la mia curiosità e la mia voglia di far luce su tutte le ombre che regnavano tra quelle quattro mura prese il sopravvento.

Sbarrai la porta d’ingresso lasciando la chiave all’interno della serratura, in modo che da fuori nessuno potesse entrare senza che io non intervenissi da dentro, così da non essere colto in flagrante mentre ficcanasavo nelle stanze altrui, e mi diressi prontamente al piano superiore.

Ero ancora tutto ammaccato e dolorante, e, inutile a ripeterlo, l’unica cosa che mi dava tutta quell’energia e quella voglia di muovermi era proprio la curiosità. Quella era l’occasione buona, senza nessuno in casa, per svelare tutto ciò che c’era da scoprire a pochi passi da me e che fine avessero fatto i miei adorati vasetti. Inoltre, dentro alla mia mente continuava ad aleggiare il vago sospetto che all’interno della camera del prepotente ci fosse nascosto qualcosa che non si doveva vedere, e che di lì a poco avrebbe potuto anche creare problemi a tutti.

A passi sicuri, ignorando ogni mio fastidio fisico, mi diressi alla porta della stanza di Federico, e con decisione afferrai la maniglia e feci pressione. Ovviamente, era chiusa a chiave.

Che ingenuo che ero stato a credere che tutto potesse essere più facile! Dovevo rimediare.

C’era poco da fare, purtroppo, se non commettere un piccolo illecito che, unito a quelli che avrei commesso negli attimi immediatamente successivi, forse sarebbe anche potuto apparire come il più piccolo. L’unico modo che avevo per entrare nella stanza di Federico era quello di soffiare il mazzo di chiavi di riserva di mia madre.

Sapevo perfettamente che la mamma possedeva una seconda chiave di ogni stanza di casa, anche di quelle che in genere affittava, semplicemente per il fatto che nella vita non si poteva mai sapere la piega degli eventi e comunque potevano risultare utili, se gli inquilini le perdevano e se fosse sorto un qualsiasi problema. Lei ovviamente non andava mai a ficcanasare negli ambienti altrui, grazie alle proprie riserve, e neppure io l’avevo mai fatto, ma quello era un caso eccezionale, forse unico.

Mi diressi in camera di mia madre e, in tutta fretta, estrassi il mazzo con tutte le chiavi delle porte di casa, tutte quante riunite nello stesso portachiavi vintage e conservate all’interno del suo soprammobile preferito, ovvero un vaso di ceramica laccato ed anch’esso dal vago gusto retrò.

Ahimè, conoscevo tutti i segreti della stanza della mia cara mamma, poiché da piccolo ficcanasavo sempre dappertutto, e lei non aveva il vizio di cambiare di posizione alle cose, magari tentando di cercare nascondigli più sicuri, anche perché forse si fidava di me. Comportarmi come stavo facendo in quel momento mi costava davvero tanto, poiché sapevo che stavo sbagliando, e che magari sarei entrato nella stanza del nemico solo per notare i miei vasetti ben in ordine e a terra, e constatare che tutto era immerso in una regolarità da brividi.

Questa ipotesi mi spiazzava e se si fosse rivelata vera mi avrebbe di certo fatto sentire in colpa per i secoli a venire, ma la parte più cattiva di me mi spronava a continuare di cercare di andare a fondo nella vicenda, di togliermi di dosso ogni domanda e curiosità.

Giunsi in fretta e trafelato di nuovo di fronte alla porta chiusa del mio nemico, e, sospirando, appoggiai la testa contro il suo legno, facendomi forza e continuando a lottare sia contro il mio fisico abbattuto e dolorante e sia contro la mia mente, divisa tra due scelte e due posizioni ben distinte.

Ancora ostentando decisione, cominciai a provare con grande fretta tutte le chiavi, poiché non sapevo quale era quella giusta, continuando a rimanere appoggiato alla porta. Mia madre aveva segnato ciascuna con una sigla conosciuta solo a lei, e quindi dovevo arrangiarmi.

Al quarto tentativo, con grande fortuna, la serratura scattò. Avrei saltellato di gioia come un bambino, se solo il mio fisico me l’avesse permesso, ma dato che era tutto ammaccato m’impedì ogni esternazione colma di contentezza.

Poi, col fiato sospeso, finalmente feci capolino all’interno della stanza.

Dentro era tutto avvolto dall’oscurità, logico segno che le tapparelle erano abbassate, come potevo constatare, e quindi con la mano cercai l’interruttore della luce, pronto a fare una leggera pressione su di esso e di usufruire per un attimo dell’elettricità.

Conoscevo esattamente la sua posizione, così come quella della mobilia all’interno della camera, poiché avevo aiutato tante volte mia madre a fare le pulizie al suo interno quando i vari inquilini se ne andavano, ed inoltre quella era stata la saletta dedicata a me e ai miei giochi, da piccolo, essendo posta proprio di lato a quella che era stata la stanza da letto dei miei nonni, in quel momento in mano ai coniugi Arriga, che in quel modo potevano sempre avermi vicino quando mia madre non era a casa e sorvegliarmi meglio, senza dovere lasciarmi gironzolare per tutta l’abitazione.

In ogni caso, quando sfiorai l’interruttore attesi poi un attimo prima di premerlo, e quando lo feci e tutto di fronte a me s’illuminò, mi trovai di fronte ad uno scenario inatteso e in grado di mozzarmi quel poco di fiato che avevo trattenuto fino a quell’istante.

Quella stanza che mi era da sempre stata familiare e dalla parvenza perfetta e sempre in ordine, a quanto pareva si era ridotta ad essere una sorta di porcilaia, e per una frazione di secondo mi passò davanti agli occhi la possibile faccia di mia madre, sempre maniaca dell’ordine e della pulizia, se avesse avuto modo di vedere anche lei quello schifo.

Il letto, al centro di tutto, era rigorosamente sfatto, e a terra tutt’attorno giaceva un’infinità di roba che andava dai panni sporchi fino alle cartacce di qualche brioches. Calzini abbandonati un po’ ovunque, una scarpa posizionata sul piccolo comodino, una felpa appesa alla maniglia interna della porta, che cadde non appena cercai di aprirmi un varco maggiore, facendomi sussultare. Subito dietro al letto, su una sedia erano posizionati i vestiti che dovevano essere ancora puliti, assieme ad un po’ di biancheria intima. Su tutto aleggiava un’aria pesante e dall’odore forte e strano, quasi rivoltante.

Con un sospiro, riconobbi che non avrei neppure mai dovuto pensare che l’aristocratica si mettesse a pulire e a mettere in ordine la stanza del figlio, riconoscendo, non senza una buona dose di cattiveria, che la signora doveva essere una di quelle inquiline che non appena se ne andavano da una casa altrui ed affittata, lasciavano tutto sporco per far dispetto ai proprietari, che poi avrebbero dovuto togliere la schifezza che regnava dappertutto.

Mi chiesi solo il perché del fatto che Federico avesse lasciato tutto il vestiario fuori o a terra, senza metterlo nell’armadio, anche se magari in disordine, ma logicamente lì per lì mi parve di comprendere che ciò non fosse accaduto a causa di un’eccessiva pigrizia.

Con una spinta, spalancai la porta, e, grazie alla maggior visuale di cui potevo godere in quel momento, i miei occhi caddero sui piccoli oggetti scuri posizionati sul davanzale della finestra, e sul pavimento proprio sotto di essa. Si trattava dei miei vasetti.

Mi avvicinai con cautela, e notai che erano colmi di terriccio, e che ciascuno conteneva una piantina striminzita, ancora abbastanza piccola. Con un pizzico d’ironia, notai che almeno la signora aveva fatto posizionare sotto di essi dei piccoli sottovasi, in modo da non allagare tutta la casa, quando venivano innaffiate.

Mi chinai in fretta e con grande curiosità per comprendere di quali piantine si trattasse, e non mi venne in mente nulla, guardando le loro anonime foglioline ancora troppo piccole per essere osservate in modo chiaro e distinto. Le pianticelle dovevano essere nate qualche giorno prima, e per un attimo provai sollievo, constatando che almeno i miei vasetti erano un buono stato e non erano stati disintegrati per farmi dispetto.

Fu solo quando alzai lo sguardo e con esso percorsi il resto della stanza che quasi mi prese un accidente, e fui costretto a rimangiarmi tutto quello che avevo pensato fino a quel momento.

Ad avere colpito la mia attenzione era stato l’armadio, lasciato socchiuso, che da quella parte della stanza potevo osservare in modo più diretto, dato che me lo trovavo di fronte e non più di lato, come quando mi ero solo affacciato sulla porta. Infatti, da una delle due ante leggermente discoste, avevo notato qualcosa di verde che sbucava timidamente, quasi a far capolino all’infuori del buio che regnava all’interno del mobile.

Non comprendendo di cosa potesse trattarsi, dato che pareva materia vivente, e ormai preso dalla curiosità, sapendo che non avrei potuto poi tornare tanto facilmente a ficcanasare nell’habitat del nemico, mi diressi prontamente verso l’armadio, scavalcando piccole pile di vestiti da lavare e di cartacce gettate sul pavimento, tra cui spiccava anche qualche libro di scuola ormai tutto stropicciato e rovinato a forza di essere abbandonato tra quella spazzatura.

Stando attento a non creare ancora più disordine di quello che c’era già, e di non mutare troppo il caos presente all’interno della stanza, per far sì che al suo ritorno il prepotente non si accorgesse subito che qualcuno era entrato nel suo spazio privato, giunsi all’armadio e stetti attento a non sfiorare il letto, che a fianco del mobile aveva una discreta parvenza sudicia.

Con una smorfia di disgusto, fui costretto ad ammettere che, se tutto fosse sopravvissuto agli eventi di quel giorno e alla trascuratezza dell’Arriga, alla fine della permanenza di quegli inquilini sarebbe stato meglio contattare un’impresa specializzata nelle pulizie più profonde e nelle disinfestazioni, o, ancor meglio, chiamare un camion della più vicina discarica, in modo che potesse portare via ciò che era stato ormai rovinato.

Trattenendo lo schifo e il mio dolore fisico, che ancora mi tormentava, perlopiù all’addome, aprii lentamente l’anta dell’armadio, e mi trovai di fronte a qualcosa d’inaspettato che mi lasciò totalmente stupefatto e senza parole. Infatti, all’interno del mobile erano state rinchiuse due grandi piante, alte quasi quanto me, ma contenute in due vasetti piccolissimi ed ormai rotti a causa della pressione delle radici.

Non avevo dubbi a riguardo della specie di quelle due; si trattava di marijuana. Le loro foglie di un verde intenso quasi stuzzicavano il mio naso, protendendosi verso di me e lasciandomi capire che non vivevano da sempre dentro a quell’armadio, ma che dovevano aver vissuto anche fuori, in giro per la camera, e sicuramente Federico doveva essersene preso cura con premura. Notando l’eccessiva altezza, constatai che forse non erano neppure nate in casa mia, quelle.

Di fronte all’evidenza, e con sotto agli occhi quelle foglie così particolari e in grado di essere riconosciute da tutti, il mondo parve crollarmi addosso. Non ebbi neppure più dubbi a riguardo della natura delle piantine più piccole che avevo notato per prime, dato che dovevano di certo appartenere a qualche altro vegetale produttore di sostanze allucinogene. Allucinogene e vietate dalla legge.

Avere la consapevolezza di aver vissuto in casa propria con a pochi metri da sé una vera piantagione di materiale illegale genera uno di quegli strapazzi mentali in grado di far passare ogni dolore ed ogni problema, e di far aumentare solo i battiti cardiaci. Altroché peperoncini della Guyana, come aveva detto un mesetto prima l’aristocratica.

Non avevo mai saputo nulla di quelle cose, né io né mia madre, ed ero allibito.

Appoggiandomi le mani sul volto e cercando quindi di togliermi dal davanti quelle schifezze, che stavano crescendo in modo rigoglioso, compresi che non sapevo davvero che fare e come comportarmi.

Sapevo che il prepotente non avrebbe mai rinunciato ai suoi produttori di traffici illeciti, e che io non potevo arrischiarmi di fare spifferate o altro, dato che avrei quindi ammesso di essere andato a ficcanasare tra le cose altrui, e sarei stato soggetto a chissà quante altre prese di mira. Inoltre, ero anche a conoscenza del fatto che, se i carabinieri o la Guardia di Finanza avessero deciso di fare un sopralluogo a casa mia, dato che molto probabilmente sarebbe venuto fuori di lì a poco che mia madre affittava in nero qualche stanza a degli inquilini di passaggio, avrebbero di certo trovato tutto quel materiale, e sarebbero stati guai ancora più seri per tutti. Rischiavamo almeno di finire in tribunale, e dopo in carcere, con tutta quella robaccia tra le mura domestiche.

Se avessi denunciato il fatto, di certo sarei stato indagato pure io, assieme a mia madre. In ogni caso, potevamo solo finire in guai grossi, e pure senza averlo immaginato.

Presi quindi in fretta una decisione, la più rapida della mia vita, e anche la più pericolosa. Mi tolsi le mani da sopra gli occhi e mi ripetei che quella roba doveva sparire, e anche subito, prima che qualcuno tornasse a casa.

Avevo davvero paura per me e per mia madre, e per tutto, e la paura mi tolse tutta la razionalità che possedevo. Pensai per prima cosa di recuperare un sacchetto della spazzatura e gettare via tutto, indistintamente, ma compresi che delle piante di quella misura non dovevano essere facili, da cestinare.

E allora, ricorsi ad un’altra idea, e mi diressi il più velocemente possibile in cucina, al piano inferiore, per poi rifare di nuovo il percorso che mi avrebbe riportato al piano superiore zoppicando e stringendo nella mano destra un coltello e un sacchetto della spazzatura, e nella sinistra un piccolo tagliere di plastica, molto leggero e maneggevole.

Tornai nella stanza del nemico, e barcollando, mi feci un poco di spazio libero sul pavimento, spostando con le scarpe il ciarpame che regnava ovunque, tanto ormai mi pareva chiaro che se il mio piano fosse andato in porto non appena Federico sarebbe tornato a casa avrebbe scoperto che qualcuno era entrato a ficcanasare, e appoggiai a terra ciò che mi ero portato dietro dal piano inferiore.

Poi, allungai di poco un braccio ed afferrai la prima delle due piante più grandi, gettandola malamente fuori dall’armadio nel quale doveva restare rinchiusa quando il suo proprietario non era presente, forse sempre nella speranza che nessuno lo scoprisse.

Con rabbia, le ruppi il flebile ma alto stelo, e dopo averlo ripiegato più volte su sé stesso lo appoggiai sul tagliere, e cominciai a lavorare col coltello. In pochi secondi, quella che era stata una pianta produttrice di droghe era diventata una sorta di poltiglia triturata, sotto i fendenti della mia arma, spinta dalla mia ira.

Stavo scoppiando, lentamente, e il nervosismo costante mi stava portando ad allontanarmi sempre più dalla realtà, spingendomi solo a continuare la mia opera e a fregarmene di tutto il resto.

In men che non si dica, afferrai anche l’altra pianta adulta e la sottoposi al medesimo trattamento, per poi estrarne anche le radici e triturare pure quelle, con tanto di terriccio in mezzo. Non mi fermai e non risparmiai neppure le piantine più piccole, che non seppi comprendere a quale specie appartenessero, ma immaginando che anch’esse fossero produttrici di sostanze illecite mi affrettai a distruggerle, sradicandole facilmente con un dito e triturandole.

Conclusi la mia follia in pochissimo tempo, e raccolsi tutto il materiale da me prodotto, gettandolo in tutta fretta dentro il sacchetto della spazzatura, di cui mi ero munito in precedenza.

Dopo aver raccolto tutto, mi ripresi anche i miei vasetti di plastica, deciso a non volerli lasciare tra le mani di quel furfante, e, con tutte le forze che mi restavano, spinsi fuori dalla stanza tutto il materiale che avevo portato fin lì pochi minuti prima, e dopo aver lanciato un’ultima occhiata al caos che regnava all’interno di quella sorta di immondezzaio, spensi la luce e poi richiusi la porta a chiave dietro di me, esattamente come l’avevo trovata. Non mi preoccupai del lezzo che aleggiava ovunque, tanto anche se avessi spalancato la finestra non sarebbe sparito tanto in fretta. L’unica cosa importante per me in quel momento era far sparire tutto quel materiale fisico e tangibile.

Scesi la piccola rampa di scale di casa carico come un facchino, e rischiai anche di cadere, ma sapevo che dovevo tenere duro, poiché ne andava quasi della mia stessa vita. Immaginavo che a breve qualcuno sarebbe tornato a casa, e la consapevolezza di dovermela spicciare mi spinse ad avere ancora più fretta.

In un batter d’occhio lavai in bagno sia il coltello che il tagliere, che riposi poi dove li avevo trovati, e mi ritrovai con un sacchetto della nettezza e i miei vasetti abbandonati sul pavimento.

Finii di svuotare e di ripulire senza alcuna difficoltà i vasetti dentro al sacchetto, liberandoli dal terriccio che era rimasto al loro interno, e ne gettai via due, poiché rotti dalle piante più grandi, poi li impilai di nuovo e meglio l’uno sopra l’altro, ed essendo della stessa grandezza fu facilissimo incastrarli per bene e ridurre il loro volume ad una sorta di piccolo e semplice fusto di plastica.

Non sapendo come proseguire, dato che li avevo appena strappati dalle mani del nemico e non potevo farmeli trovare di nuovo in giro per casa, altrimenti li avrebbe di certo ripresi e riutilizzati, decisi che li avrei nascosti da qualche parte.

Finita la parentesi frenetica, mi ritrovai nel bel mezzo del corridoio di casa, assieme al sacchetto della spazzatura e alla mia piccola pila di vasetti, senza sapere cos’altro fare. Il mio corpo reclamava incessantemente riposo, ed io glielo avrei senz’altro fornito se non avessi saputo che non potevo lasciare un lavoro a metà. In poche parole, dovevo nascondere i vasi e sbarazzarmi della spazzatura.

Consapevole anche di essere stato fortunato a non esser stato disturbato da nessuno, dato che la mia abitazione era sempre molto trafficata, abitandoci in sei, decisi di non tentare oltre la fortuna e di proseguire nel mio piano un po’ folle, ma giusto a mio avviso.

Afferrai la piccola e leggera pila di vasi e il sacchetto pieno a metà di vegetali distrutti e triturati, mischiati col terriccio e le loro radici, anch’esse irrimediabilmente rovinate e fatte a pezzi, e mi diressi alla porta di casa, tornando a sbloccarne la serratura e uscendo in giardino.

Tutto era ancora tranquillo, e nessuno dei miei familiari o inquilini sembrava voler fare ritorno a casa tanto presto, e quindi continuai ad approfittarne, andando nel retro e nascondendo i miei vasetti in un luogo dove Federico e sua madre non sarebbero mai andati a riprenderli o a cercarli, ovvero nel mio piccolo orto confinante con la casa di Ottaviano, e ne approfittai di un secchio che tenevo lì tutto l’anno per metterli al suo interno, e chiuderlo con il suo apposito coperchio di plastica.

Soddisfatto del mio operato, fino a quel momento, decisi di completare tutto e di andare a sbarazzarmi dei residui organici compromettenti che mi erano rimasti tra le mani.

Tenendo ben stretto tra le mani il sacchetto della spazzatura, ben sigillato, abbandonai a malincuore e dolorante il mio giardino, per direzionarmi verso il primo cassonetto pubblico dell’organico. Non ebbi difficoltà a notare il primo, ovvero quello pochi metri più in là del punto in cui poche ore prima ero stato picchiato, ma decisi con ribrezzo di non fermarmi lì.

Proseguii, e dopo altre due piccole traverse trovai un bel cassonetto già quasi pieno di sfalci, totalmente anonimo e lontano da casa mia, che poteva davvero fare al caso mio. Mi ci avvicinai, e non dovetti neanche aprirlo, poiché la gente l’aveva già pressoché riempito di residui della potatura di un alloro, dato che le foglie verde scuro della pianta erano facilmente riconoscibili, ed il loro odore giungeva alle mie narici senza difficoltà, e così mi decisi ad agire.

Mi guardai attorno, sperando che non ci fosse nessuno. Sapevo che difficilmente qualcuno sarebbe andato a controllare ciò che un comune ragazzo gettava in un cassonetto, ed in più ciò che stavo buttando era praticamente irriconoscibile anche ad uno sguardo attento, ma la prudenza non è mai troppa, si sa.

Anche in quella via regnava il mortorio del mio paese, e mi affrettai a procedere. Rovesciai il sacchetto dentro al cassonetto, e lasciai che i miei residui organici si mischiassero per bene con gli altri, e dal frusciare che emisero compresi che parecchi di essi dovevano essere finiti sul fondo, attraversando le fronde gettate in modo molto caotico all’interno del grande contenitore.

Abbastanza soddisfatto anche lì, poi mi sbarazzai anche del sacchetto della spazzatura, gettandolo nell’apposito cassonetto della plastica, anch’esso presente in quel piccolo centro di raccolta della differenziata, e mi accinsi a tornarmene a casa, strofinandomi le mani l’una sull’altra.

Mentre tornavo alla mia dimora, sentivo su di me tutto il peso di ciò che mi era accaduto e di ciò che avevo fatto durante quella giornata, e i miei pensieri s’ingarbugliavano freneticamente all’interno della mia mente, senza darmi tregua, come loro solito ormai, e quando mi accorsi che zoppicavo leggermente e che una caviglia mi faceva ancor più male del ventre, mi limitai solo a cercare di giungere a casa il più in fretta possibile, cercando di non cedere proprio in quel momento.

Fortunatamente rincasai in fretta, e ritrovando la mia abitazione ancora vuota, ne approfittai per raggiungere di nuovo il piano superiore e lasciarmi affondare nel soffice materasso del mio letto, dopo essermi lavato attentamente le mani.

Non avevo idea di come avesse potuto reagire Federico non appena sarebbe tornato a casa, non trovando più la sua fonte di guadagni illeciti, ma immaginai che non avrebbe più potuto farmi nulla, visto come si erano messe le cose.

Mentre la stanchezza e il tormento fisico cominciavano a tediarmi in modo insopportabile, mi ritrovai a comprendere che durante quella giornata ero riuscito a compiere due vittorie importantissime e necessarie sul nemico, che forse quella volta l’avrebbero effettivamente messo in uno stato in cui difficilmente avrebbe saputo rialzarsi e tornare prepotente come prima.

In sole tre ore, la situazione di netto svantaggio in cui versavo si era tramutata in una più vantaggiosa e di predominio, anche se tutto aveva lasciato segni sul mio corpo e nella vita mia e di mia madre, e ovviamente anche di Roberto, immaginai. Ma tutto ha un suo prezzo, è sempre stato così, purtroppo.

Mentre continuavo a restare sprofondato nell’abbraccio caldo del mio letto, pensai che forse chiamare un’ambulanza non doveva essere una scelta inappropriata, siccome il dolore continuava a tormentarmi sempre più ed ovunque in giro per il mio corpo, in seguito dell’abbassamento drastico dell’adrenalina che mi aveva spinto a compiere azioni che non mi sarei mai aspettato di dover eseguire, ma decisi di tentare di starmene fermo ed immobile, immaginando che dopo un po’ di riposo tutto sarebbe andato meglio. Non avevo nulla di rotto, per fortuna, e le ammaccature sarebbero passare col giusto tempo e col migliore riposo.

Tormentato e senza pace, mi lasciai scivolare lentamente in un sonno leggero e turbato, che ben presto sarebbe stato interrotto dalle persone che sarebbero ritornate in casa mia, ma decisi tuttavia di godermi quei pochi minuti di tregua e di lasciarmi andare tra le braccia di Morfeo, che mi stava reclamando quasi ad alta voce.

Mi addormentai in pochi minuti, bisognoso della pace e della tranquillità che solo un breve periodo di sonno poteva offrirmi, dato che avevo passato in modo insonne anche la precedente notte, preparandomi a mio modo ad affrontare il ritorno di mia madre e le spiegazioni che le avrei dovuto offrire, sapendo che non sarei più potuto scappare da lei e dalle due domande, giuste tra l’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici, e grazie per aver letto anche questo capitolo.

Continuo a ripetere e a sottolineare che ciò che accade in questo racconto è puramente frutto della mia immaginazione e non ha alcun nesso con la realtà o con fatti realmente accaduti. I luoghi in cui si muovono i personaggi e il protagonista sono gestiti da me in modo verosimile, ma anch’essi non esistono e sono frutto della mia immaginazione.

Vi ringrazio per avere letto e ricopro di infiniti ringraziamenti tutti i miei buonissimi, puntualissimi e gentilissimi recensori. Senza di voi e il vostro costante supporto, forse il racconto si sarebbe arenato molto prima del previsto.

Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Capitolo 27

CAPITOLO 27

 

 

 

 

 

Riuscii a riposare per un poco, nonostante tutto, dopo ciò che mi era accaduto durante quella giornataccia, e mi risvegliai totalmente solo quando udii la porta di casa aprirsi, e mia madre che rincasava assieme a qualcun altro. Dalla voce mi sembrò Roberto.

Restai a letto, dato che non me la sentivo di affrontarli o di scendere di sotto, troppo ammaccato sia fisicamente che mentalmente per poter affrontare dignitosamente anche solo una sfida verbale, che però in quel caso mi appariva già persa in partenza.

Infatti, invece di far scoppiare un caos del genere tutto in una volta, avrei almeno potuto parlarne ed aprirmi con qualcuno degli abitanti della mia casa, considerando che non tutti erano cattivi come lo erano altri. Non sarebbe cambiato nulla, anzi, magari sarebbe solo potuto peggiorare tutto, ma avrei almeno tentato di comportarmi lealmente, invece di lasciar cadere all’improvviso intere famiglie nel baratro oscuro in cui ormai si muoveva la mia vita durante gli ultimi mesi appena trascorsi.

Ancora amareggiato, riconobbi che tutto ciò che era accaduto durante quella giornata poteva essere interpretabile come la mia più grande e totale vittoria su Federico e sulle sue prepotenze, ed indirettamente anche su Livia e le sue coperture, dato che probabilmente la signora doveva essere a conoscenza della piantagione di marijuana del figlio(sperando però che nessuno di loro due volesse vendicarsi di nuovo, e in quel momento lo escludevo), ma ciò avrebbe potuto creare un distacco tra me stesso, mia madre e Roberto, da me abbandonati dapprima in caserma con un grido, e poi snobbati a casa.

Non sapevo proprio come comportarmi. Per fortuna, furono proprio loro due a togliermi da quel problema.

Udii i loro passi che si avvicinavano alla mia stanza, dopo aver risalito le scale, e cercai di restare calmo e di fingere di riposare, ma la mamma aprì lentamente la porta e, dopo aver dato una sbirciata, la spalancò ed entrò.

‘’Come stai, Antonio?’’, mi chiese subito mamma Maria, senza troppe premure e non preoccupandosi se stessi dormendo o no.

Non potendomi sottrarre nuovamente a lei, e sapendo che dopotutto non potevo evitare per sempre quello scambio di battute, nonostante non avessi davvero voglia di chiacchierare o di dare spiegazioni di qualsiasi sorta, mi girai verso la sua bassa figura, notando che Roberto si era fermato sulla soglia della porta, senza entrare completamente all’interno della mia camera da letto.

‘’Sono solo un po’ ammaccato, mamma. Se riesco a fare una buona dormita, poi torno a stare bene’’, le risposi, con la voce pesante ed impastata dalla recente sonnolenza.

‘’Sicuro che non hai bisogno di essere visitato da un dottore?’’, tornò a chiedermi il mio genitore, con un tono premuroso e venendo a sedersi sul mio letto, a qualche centimetro dal mio corpo disteso.

‘’No, no, stai tranquilla’’, la rassicurai, ‘’è tutto a posto, non ho nulla di rotto. E comunque, come ti ho detto, mi è rimasto qualche livido ed un po’ d’indolenzitura, e nient’altro’’.

Avevo leggermente mentito, poiché provavo ancora un bel po’ di dolore a tratti, ma ero certo che presto sarebbe passato tutto, entro qualche giorno.

‘’Doveva proprio finire così?’’, tornò a chiedermi la mamma, gentilmente e con un tono sommesso, ma meno premuroso di quello utilizzato fino ad un attimo prima.

Sapendo che era giunto il momento di qualche spiegazione, sbuffai ed abbassai lo sguardo, sentendo anche gli occhi di un silenziosissimo Roberto puntati sul mio viso.

‘’Puoi parlarmene, anzi, devi. Devi raccontarci tutto quello che è accaduto in questi mesi, sia a scuola che a casa, tra te e Federico. Qui è presente anche Roberto, come avrai notato, e non avere timore di lui; se è venuto ad ascoltarti è perché ci tiene a te e vuole sapere come sono andate le cose, e come si sono evolute, visto che da ciò che ci hai detto, quella di poco fa non è stata la prima violenza da te subita’’.

L’unico mio genitore sempre preoccupato per me m’incalzava senza tregua, ed immaginavo che presto o tardi non mi sarebbe rimasto altro da fare che cedere e raccontare tutto, d’altronde non aveva neanche più importanza non farlo. Ma prima di sciogliermi la lingua, dopo mesi di tormenti di ogni sorta, mi preoccupai per lei, siccome quel pensiero non mi permetteva di rilassarmi.

‘’Prima vorrei sapere se, per causa mia, sarai multata o avrai dei problemi per via degli affitti…’’, le dissi, interiormente preoccupato, sempre sapendo che avrebbe inteso a cosa mi stessi riferendo. Lei mi sorrise, sempre seduta vicino a me.

‘’Per fortuna, credo di no. Siamo riusciti a deviare tutta l’attenzione sul grave fatto accaduto… e non preoccuparti per tutto il resto, la tua salute è molto più importante. Sul serio, non pensare a nulla, è tutto a posto, non sono poi così una sprovveduta. Ora, racconta’’, tornò a chiedermi la mamma, rassicurandomi solo parzialmente.

‘’E… lui dov’è?’’, tornai a chiedere, lanciando un’occhiata verso Roberto e la porta. L’uomo era impassibile e muto, e neppure quella volta si degnò di aprire la bocca e di parlarmi. Quel silenzio mi faceva male, e allo stesso tempo mi turbava.

Non avevo pronunciato il nome del prepotente, ma anche quella volta immaginavo che entrambi avessero compreso a chi mi stessi riferendo.

‘’Federico è ancora in caserma, con sua madre… ma ti ho detto che non devi preoccuparti di altro, per ora. Devi solo raccontarci tutto, e non tenere nulla per te, senza distorcere i fatti. Ci serve ascoltare ciò che è accaduto senza che ce ne accorgessimo, poiché ci sarà utilissimo…’’.

‘’Sì, lo so. Va bene. E mi scuso per avervi taciuto tutto quanto, ma lui’’, e continuai a riferirmi a Federico con un semplice lui, ‘’mi prometteva continuamente botte e ritorsioni, e azioni violente anche contro di te, mamma. Ora vi racconto tutto, promesso’’.

Dopo il breve preambolo, inspirai e mi feci forza.

Sotto lo sguardo sempre più raddolcito di mia madre e sotto quello freddo e distante di Roberto, che doveva aver abbandonato moglie e figlio in caserma pur di ascoltare la mia versione dei fatti senza che nessuno potesse turbarci, narrai tutto quanto, impiegandoci almeno mezz’ora. Parlai da solo, senza che nessuno m’interrompesse o mi chiedesse altro o di approfondire, e non ebbi problemi a ripercorrere tutto ciò che avevo dovuto subire, fin dai primi giorni dopo l’arrivo del nuovo e prepotente inquilino.

Non nascosi proprio nulla. Finii di parlare proprio nel momento in cui si udì aprirsi la porta di casa, e qualche parola di mio padre giunse fino al piano superiore.

A confessione finita, Roberto abbassò lo sguardo e si dileguò, sempre immerso nel suo mutismo, e mia madre mi sorrise amaramente, e con le lacrime agli occhi mi sfiorò una guancia e mi mandò un bacetto, così come faceva quand’ero più piccolo.

‘’Mi spiace per tutto quello che hai dovuto subire, e per di più a causa mia e del nostro bisogno di denaro. Mi dispiace, per tutto’’, mi disse, davvero dispiaciuta.

‘’Non è colpa tua, mamma’’, la rassicurai, con la voce leggermente roca, a furia di parlare senza sosta. Avevo la gola secca, e necessitavo davvero di un bicchiere d’acqua.

Ad interrompere il nostro breve momento d’intimità, fu l’ennesima parola pronunciata da mio padre, che giunse fino al piano superiore, quasi urlata.

Innervosita, mia madre si alzò dal letto e mi fece cenno che sarebbe andata al piano inferiore, per comprendere che stava succedendo, poiché l’uomo pareva parecchio agitato. Mentre lei scendeva le scale, decisi che l’avrei seguita, perlomeno per andare a bere qualcosina.

Ancora non immaginavo che al piano inferiore mi attendevano tante novità da conoscere.

 

Non appena giunsi al piano inferiore, trovai mia madre già alle prese con mio padre, innervosito e scuro dalla rabbia. Lui parlava a voce alta e le intimava di non aprire la porta, mentre lei insisteva per farlo.

Non appena li raggiunsi, posi fine ai loro litigi premendo a distanza il tasto a fianco del citofono interno, facendo di fatto scattare la serratura della porta.

Mio padre mi lanciò un’occhiataccia sorpresa e carica di nervoso, e poi, riconoscendo la nostra vittoria, si ritrasse alzando le mani e dirigendosi verso la mia saletta, per poi scomparire al suo interno, mentre la mamma apriva lentamente l’ingresso, guardando chi fosse il soggetto a cui l’altro mio genitore voleva impedire l’accesso nella nostra dimora.

Per un attimo, la mia mente fu offuscata dalla tensione che provavo per il fatto che, ormai, nell’ultimo periodo fosse diventata consuetudine consolidata di Sergio quella di rintanarsi in modo ancor più irritante all’interno di quello che un tempo era il mio rifugio dal mondo, e il mio spazio dedicato alla mia creatività musicale.

Creatività che, tra l’altro, molto probabilmente stava risentendo di quel lungo e continuo periodo di pausa, ma come tantissime altre volte ero stato costretto a riconoscere, non avevo molte possibilità di riappropriarmi dei miei spazi, se mia madre non avrebbe avuto il coraggio di cacciare l’altro mio genitore da casa, e se avesse continuato a tentennare in modo così evidente nei suoi confronti.

Misi bruscamente a tacere i miei pensieri non appena fece capolino il volto di Stefania, arrossato dall’imbarazzo, che chiedeva alla mamma il permesso di entrare, che gli fu subito concesso.

La ragazza varcò la soglia e mi rivolse un timido saluto, e anche se non mi era chiaro come avesse fatto ad essere già entrata all’interno del giardino, lasciai perdere ogni altro mio ragionamento, dato che forse doveva aver seguito mio padre quando rientrava, magari sorprendendolo nel bel mezzo del cancelletto.

Che Stefania fosse stata una sorta di perseguitatrice per lui? Oh, sul momento quasi sorrisi a quel pensiero davvero molto sciocco, poiché mio padre non mi appariva proprio il tipo giusto da importunare continuamente. Incuriosito ed innervosito allo stesso tempo per via di quella ragazza che, a quanto pareva, voleva a tutti costi far presenza in casa mia, come se non ci fossero già abbastanza problemi da risolvere ed affrontare, feci finta di nulla e mi diressi lentamente verso la cucina, e la mia tanto desiderata acqua.

Ma evidentemente quel giorno non dovevo assolutamente essere lasciato in pace, giacché, mentre soddisfacevo il mio impellente bisogno di liquidi, mia madre ebbe l’idea di accettare per davvero la presenza di Stefania e di condurla proprio in cucina.

‘’Vieni, ti do un bicchiere d’acqua. Mi sembri davvero molto scossa’’, le disse, affiancandomi e prendendo un bicchiere.

‘’Non si scomodi, signora Maria’’, iniziò a dire la timidissima ragazza, che sempre cercava di non fissare mai lo sguardo su di noi.

Stefania lì per lì m’incuriosiva sempre più, in primis per il fatto che non riuscivo a comprendere perché cercasse sempre un dialogo con mio padre, anche se lui era restio, e ovviamente anche perché ero curioso di scoprire quale fosse il suo problema, che l’aveva spinta a presentarsi più volte al nostro portone, considerando che mia madre non era riuscita a scoprire nulla su di lei, e aleggiava un velo di mistero su tutto quanto, come una leggera patina di condensa che bisognava far sparire, per poterci vedere in modo più chiaro.

Alla ragazza comunque fu offerta dell’acqua, e fu invitata ad accomodarsi un attimo su una sedia, ed io compresi che mia madre aveva intenzione di indagare sul serio quella volta, e di scoprire cosa volesse da mio padre, cercando di trattarla cortesemente e di farla sentire a suo agio, oltre che a trattenerla con qualche gentilezza.

‘’Davvero, devo proprio andare. Scusatemi’’, continuò a ripetere Stefania, come se fosse andata in fissa, per poi alzarsi dalla sedia.

A quel punto, mia madre, che tanto sciocca non era, fu costretta a fare il tanto temuto balzo in avanti, pur di non lasciare fuggire la preda dalla trappola della sua curiosità. Curiosità che, tra l’altro, spingeva anche me a fare presenza e a restarmene imbambolato in quella cucina che dava sempre l’impressione di essere stretta e soffocante, quando si sentiva l’odore di una qualche ipotetica discussione.

‘’Senti, cara Stefania, io non voglio apparire scortese ai tuoi occhi, ma vorrei solo farti una domanda, visto che questa è già la seconda volta che vieni a fare una scenata in casa mia, e che te ne vai pronunciando le tue frasette di rito e col viso in fiamme e in procinto di lasciarsi andare al pianto. Ecco, volevo chiederti se vuoi qualcosa da noi…’’.

‘’Non le ha raccontato nulla Sergio?’’, chiese a quel punto la ragazza, apparentemente sorpresa, sempre mantenendo il suo tono rispettoso ed educato.

‘’No, non mi ha detto nulla a riguardo. Se c’è qualcosa che possiamo fare per te, diccelo, ma in caso contrario smettila di venire a turbare la già troppo scarsa tranquillità di questa dimora’’, disse mia madre, con un tono leggermente seccato. Anche lei voleva giungere al punto, e pure io naturalmente, anche se lì facevo solo presenza in quel momento.

Stefania sospirò e tornò a sedersi.

‘’Non credo che non le abbia raccontato nulla, altrimenti sarebbe davvero un gran coniglio. Però, voglio crederle, e, poiché lei me l’ha chiesto, non ho problemi a raccontarle cosa voglio e cosa mi ha portato qui, a bussare alla vostra porta, quasi ad elemosinare l’attenzione di Sergio’’, esordì la ragazza, in modo parecchio sincero ma teso. Noi due presenti continuammo a guardarla, senza dire nulla.

Mi balzò solo all’occhio che mio padre avesse preferito nascondersi che affrontare la realtà, lasciandoci di fatto campo libero. Mi pareva lampante che avesse la coscienza sporca, per via di qualcosa che non conoscevo ma che mi stavo accingendo ad apprendere, dopo aver atteso tanto quelle possibili e probabili risposte ai miei interrogativi.

‘’Io… io, ecco, come sapete, mi chiamo Stefania, ed ho ventidue anni. Da tre di essi frequento l’Università di Bologna, ed è stato proprio durante i miei primi mesi di frequentazione che ho conosciuto casualmente Sergio. Non era un mio docente, avendo scelto la facoltà di Medicina, però ho avuto modo di fare la sua conoscenza una sera, in un bar poco distante dall’università, dove mi ero fermata a fare un piccolo spuntino, siccome, purtroppo, non sono affatto brava a cucinare, ed in più ero davvero spaesata.

‘’Ho vissuto nelle periferie di Carpi per tutta la mia vita, e quando sono finita inglobata dentro al caos della grande Bologna, per via della mia scelta di studio alla quale tengo molto, mi sono anche ritrovata a vivere in un minuscolo monolocale, e a dover affrontare ogni giorno tutte le mie necessità primarie. Insomma, in questo smarrimento iniziale, ho conosciuto… l’uomo che mi ha cambiato la vita, un po’ in tutti i sensi’’.

‘’Lui… è… il tuo… compagno?’’, chiese mia madre, balbettando.

Io, inarcando un sopracciglio, rimasi in silenzioso ascolto.

‘’Sì… o, almeno, lo è stato. Avevo diciannove anni, ero una ragazza sola e nella metropoli non conoscevo nessuno. Quando ho avuto la fortuna d’incontrare un uomo maturo e galante, che mi ha abbordato coi suoi modi gentili, offrendomi lo spuntino al bar e chiacchierando amabilmente con me, sfoggiando una grande cultura, ne sono rimasta colpita. Ci siamo promessi che ci saremo rincontrati, e da lì è iniziato un periodo di galanterie che mi hanno lasciato senza fiato. Ma sono stata soltanto raggirata, me ne rendo conto solo ora! Lui ha solo sfruttato la mia ingenuità…’’.

Fece una piccola pausa, iniziando a piangere sommessamente.

‘’Caspiterina…’’, sbottò mia madre, neppure tanto colpita dalle rivelazioni appena udite, mentre porgeva un fazzolettino di carta alla ragazza, che pareva davvero intenzionata a raccontarci tutto. Da quando si era aperta, era stata in grado di affrontare degnamente la sua timidezza, e non pareva più in nostra soggezione, ma soltanto disperata.

‘’Insomma, abbiamo cominciato a vederci. All’inizio i nostri incontri parevano quasi casuali, ma sapevamo che in fondo non lo erano, poiché cercavamo sempre di raggiungere gli stessi luoghi in cui c’incontravamo più di frequente. Poi, abbiamo cominciato ad uscire assieme alla sera, lui mi ha raccontato di essere single… e mi aveva mentito… non mi importava la sua età… anche se aveva quarant’anni in più restava ancora un bell’uomo… i miei ad un certo punto non hanno più potuto sostenere le mie spese, e se n’è fatto parzialmente carico lui… ho cominciato a passare il mio tempo libero a casa sua, mi insegnava tante cose, mi apprezzava, poi…’’.

Con la voce continuamente rotta dai singhiozzi, Stefania fu costretta a soffermarsi per riempire di nuovo d’aria i suoi polmoni.

‘’Poi mi ha baciato, un giorno, quasi a tradimento. Mi è piaciuta come cosa, lo ammetto, e ci ho preso gusto. Pensavo che mi amasse. Insomma, da quel momento è cominciato un periodo in cui vivevamo come una sorta di coppia clandestina… non ha mai voluto presentarmi a qualcuno, però mi cercava, mi telefonava, si curava di me come nessun altro stava facendo. Mi sentivo così sola, e le sue attenzioni colmavano il mio bisogno d’affetto. Pensavo di amarlo’’.

Mia madre a quel punto era davvero sbigottita, e cercava di non affrontare gli occhi della ragazza. Anch’io ero a bocca aperta, e pendevo dalle labbra di Stefania, che aveva una parvenza sempre più disperata. Ma lei aveva il diritto di venire in casa nostra per sputarci in faccia certe cose in quel modo?! Non mi era ben chiaro. Ma, d’altronde, eravamo proprio stati noi a cercare con avidità quelle risposte. In quel momento dovevamo solo accontentarci.

‘’L’ho amato e lo amo ancora. Nonostante tutto, abbiamo cominciato ad andare a letto insieme solo sei mesi fa, circa, e non mi vergogno a dire che gli ho davvero concesso tutto di me, corpo e anima. Sono stata sua. Ma da quando ha scoperto che…’’.

Altra pausa, mentre le lacrime ormai formavano fiumi lungo le sue guance.

‘’Hai scoperto che…?’’, la spinse mia madre, quasi brutalmente.

‘’Il mese scorso, ho scoperto che sono rimasta incinta. Pensavo che la notizia gli avrebbe fatto piacere, ma quando gli ho detto di legalizzare il nostro rapporto, e l’ho informato della gravidanza, lui è sparito ed ha fatto perdere le sue tracce’’.

‘’E’ per questo che è tornato qui, allora!’’, quasi gridò la mamma.

Non seppi mai se fosse rimasta colpita, o se provasse gelosia per quella ragazza, ma credo che non gliene sia mai importato più nulla di mio padre, dopo che l’aveva abbandonata. Invece, io ero allibito, e senza parole. Non riuscivo neppure più a battere le ciglia, dallo stupore e dal nervoso che stava generando dentro di me quel racconto.

‘’E’ scappato, ha lasciato tutto… si è assentato pure alcuni giorni dal suo posto di lavoro, non sapevo più come fare… dovevo assolutamente ritrovarlo e… quasi facevo appostamenti, quasi… poco tempo fa è tornato a riprendere a svolgere il suo ruolo, anche se non è ritornato a casa sua, e allora ne ho approfittato per pedinarlo e seguire la sua macchina e i suoi spostamenti, e così sono giunta fin qui…’’, continuò a raccontare la ragazza, che piangeva come una matta davanti ai nostri occhi e pareva non darsi tregua.

Io ero ancora senza parole, non avendo neppure compreso bene se quella giovane che avevo di fronte fosse in dolce attesa di un mio fratellastro o meno, ed ero in subbuglio non tanto meno di lei. Mia madre pareva voler mantenere la calma, nonostante tutto, e non faceva altro che passare fazzoletti alla nostra ospite in lacrime.

Fu in quel momento tanto delicato che mio padre ebbe l’idea di uscire dalla sua tana, finalmente, e di affrontare la situazione. Quasi fece irruzione in cucina, e quando entrò, portando con sé la sua notevole stazza e il suo solito fare deciso, tutti noi lo guardammo.

‘’Bene, il teatrino è concluso. Grazie per la bella sceneggiata, Stefania! Ti sei impegnata a dipingermi come un mostro, come un essere disgustoso, di fronte alla mia famiglia. Adesso però è ora che tu torni a casa’’, disse, con la sua voce dura e tonante.

La ragazza si alzò in piedi, e gli si avvicinò lentamente.

‘’Non è la tua famiglia, questa…’’, sentii sibilare mia madre, ma a bassissima voce. Nessuno la udì, a parte me.

‘’Non ti riconosco più, Sergio. Da quando sei fuggito da me, senza un motivo, non sei più l’uomo affascinante e maturo che mi ha tanto ricoperta di attenzioni, per quasi tre anni’’, gli disse Stefania, pacatamente.

Mio padre smollò un pugno sul lavabo.

‘’Un motivo c’è, e tu lo sai qual è. Se tu mi vuoi, e mi ami come dici, fai quello che ti ho detto l’ultima volta che ci siamo parlati, ed io tornerò com’ero prima; gentile, premuroso e sempre attento a te’’.

‘’Non pensarci neanche, non abortirò mai. Sappilo!’’, sibilò la ragazza, andando sulla difensiva.

A quel punto, anche mia madre era allibita e senza parole. Io, ancora ammaccato e dolorante, di fronte a tutte quelle novità e a sentir parlare d’aborto quasi mi sentii male.

‘’Te l’avevo detto un’infinità di volte, di continuare a prendere la pillola. Perché hai sospeso tutto senza dirmelo? Credevi di farmi una sorpresa? Ti sei sbagliata, invece. Ma hai ancora tempo per rimediare il tuo errore. Hai ancora un mese per farlo’’, aggiunse mio padre, lentamente e con tanta spietatezza.

Spalancai la bocca, totalmente preso da quel dibattito. Dal canto loro, i due litiganti parevano essersi eclissati dalla realtà, e non badavano ai presenti.

‘’L’ho fatto perché io ti amavo. Non sapevo che tu avessi già un figlio, non me l’avevi detto, ed io credevo…’’.

‘’Tu non credevi niente, stupida ragazzina! Non dovevi impicciarti di nulla, dovevi solo seguire quello che io ti dicevo di fare! Cosa vuoi saperne tu di gravidanze, di figli e di vita?’’, ruggì il mio genitore, ed io in quel momento mi vergognai tantissimo di lui. Come avesse fatto a mantenere la sua maschera e a fingere con Stefania non lo sapevo, ma in quella manciata di minuti stava mostrando il suo vero volto.

‘’Ora finalmente capisco. Mi credevi un tuo gioco, ecco cos’ero per te! Una ragazzina da circuire… dovevo essere una sorta di tuo passatempo, la tua sgualdrina personale e consenziente’’, disse piano Stefania, appoggiando poi una sua piccola mano sul tavolo, con poca lucidità.

‘’Io ti amavo, io ti amo ancora…’’.

E così dicendo, tra sé e sé, la ragazza riprese a piangere in un modo travolgente. I singhiozzi scuotevano il suo corpicino, che in confronto a quello di mio padre appariva davvero minuto, e s’immerse nuovamente nella sua più cupa disperazione.

‘’Non fare così, Ste… tutto tornerà come prima, se farai ciò che ti dico. Io ti amerò di nuovo, ma prima la piccola creatura deve proprio andarsene. Di figli ne ho già uno, e mi basta e avanza…’’, tornò a dire mio padre, questa volta con una dolcezza incredibile, avanzando verso la ragazza e posando le sue manone sulle piccole spalle di lei.

‘’Ho passato la sessantina, ormai. Come credi che io possa essere un padre presente, per nostro figlio? Non sarei un bravo genitore, anche perché verrei a mancare molto presto…’’.

‘’Smettila di dire sciocchezze. Le tue sono tutte ironiche scuse, che stai utilizzando come pretesto per farmi compiere quel gesto estremo che neanche vuoi comprendere fino in fondo. Quello che porto in grembo è una vita, ed è mio figlio! Nostro figlio, il frutto del mio primo amore serio!’’, quasi strillò Stefania, riscuotendosi dal torpore provocatole dal pianto isterico nel quale era immersa.

I lineamenti di mio padre tornarono improvvisamente a farsi duri e rigidi, mentre io sospiravo, in modo impercettibilmente colmo di dolore, perché proprio non ce la facevo più.

In quel momento, in cui potevo godere del piacere di avere tutte le risposte che mi servivano, e tra l’altro tutto spiegato in modo molto chiaro dai diretti interessati, avrei tanto desiderato sparire da quel mondo che mi stava menando fendenti un po’ da tutte le parti. Stavo male sia fisicamente che mentalmente, e non riuscivo a far altro che sospirare, di tanto in tanto, e restarmene imbambolato ad ascoltare quella sequenza di frasi che contenevano tanti sentimenti contrastanti tra loro.

Per un attimo sperai che mia madre sbattesse fuori entrambi. Era giunto il momento per farlo, le carte erano tutte sul tavolo; ma lei, invece, non lo fece. Restò immobile ed imbambolata, come me.

‘’Ma quale amore! Ma ti rendi conto di come stai parlando?! Cos’è l’amore per te, sentiamo? Rose e fiori, bambini a volontà… tutte cose infantili! Non sei la ragazza che credevo di avere di fronte, furba e scaltra. Sei solo una giovane donna con la mentalità da bambina!’’, tornò alla carica mio padre, calcando per bene le sue parole con rabbia. Ormai non palesava neppure più i suoi sentimenti astiosi.

Spossato e senza forze, quasi mi ritrovai a sorridere di fronte alla cattiveria realista di mio padre, osservando anche la reazione da debole della ragazza che mi era di fronte.

Quando mi accorsi di ciò, quasi mi feci schifo, comprendendo che stavo per sorridere di fronte all’estremo dolore altrui, e all’umiliazione. Era chiaro e lampante che, così come io ero stato tormentato ed umiliato per anni, Stefania era rimasta intrappolata nella rete che le aveva teso mio padre, che logicamente non l’amava, ma che l’aveva utilizzata per il suo personale piacere e in modo anche palesemente freddo, anche se lei non se n’era neppure accorta. Forse, la sua giovane età l’aveva resa più vulnerabile alle avance di un uomo più adulto e infingardo.

Notando il mio primo approccio alle affermazioni di mio padre, che stava per sfociare in un aperto sorriso, mi venne da chiedermi se in fondo anche dentro di me vivesse una parte di lui, spregevole e fredda, disposta a nascondersi dietro a muri di finta bontà e a mostrarsi nei momenti opportuni, quando si poteva ferire un’altra persona che ci stava vulnerabilmente davanti.

Oppure, se la mia involontaria reazione fosse stata spinta dal fatto che ero geloso, geloso di mio padre e di quella ragazza che aspettava un figlio suo, a quanto pareva, e non riuscivo ancora a comprendere chiaramente che quel bimbo, che mio padre voleva cestinare come un qualsiasi oggetto vecchio, era il mio fratellastro, un essere vivente in cui scorreva parte del mio stesso sangue.

Queste consapevolezze turbavano tantissimo il mio animo già inquieto.

‘’Io ti amavo, Sergio, io ti amo ancora! Non puoi parlarmi così, non puoi…’’.

‘’Ora basta! Taci e tornatene a casa. Sistemeremo la questione e prenderemo una decisione più avanti, ma mi farò vivo io, tu non tornare più a cercarmi’’, tornò a dire il mio genitore, sempre con aria severa.

Ma a quel punto, in un attimo, Stefania parve esplodere. Compì quei pochi passi che la separavano da mio padre in meno di un secondo, poi cominciò a dargli dei piccoli pugni sul petto.

‘’Non puoi trattarmi così! Non sono un tuo oggetto, noi due non siamo un tuo oggetto di cui ti puoi sbarazzare quando vuoi, per poi riprenderci. Non perderò il mio bambino e non permetterò che lui non venga al mondo per colpa di un capriccio di suo padre…’’.

La reazione impazzita e colma di rabbia di Stefania fu messa a tacere altrettanto in fretta, poiché mio padre le mollò due schiaffi sul volto a piene mani, facendola bruscamente ritrarre da lui e barcollare.

Mi venne spontaneo coprirmi gli occhi con le mani, mentre mia madre, che fino a quel momento era rimasta lì imbambolata come me, saltò su dalla sua sedia e cominciò a borbottare qualcosa, spaventata e innervosita.

‘’Non voglio che queste cose accadano mai più in casa mia! Se volete parlare del vostro futuro, e azzuffarvi in questo modo, andatevene a casa vostra! Anzi, andatevene subito, che dovete stare a fare in questa abitazione?! Fuori di qui!’’, disse infatti mamma Maria, fuori di sé e innervosita dapprima dalle rivelazioni di Stefania, ed in seguito dagli atteggiamenti e dalle parole di mio padre, che effettivamente l’avevano fatta arrabbiare talmente tanto che pure lei sembrava essere diventata una belva.

‘’E tu stai zitta! Cosa vuoi da noi? Se non vuoi ascoltare o vedere, vattene in un’altra stanza, invece di stare lì ad annusare l’aria come una cagna…’’.

‘’Ma questa è casa mia! Vattene tu e la tua prepotenza ignorante e vile!’’.

Mia madre non smollava di un centimetro, neppure di fronte alla rozzezza prepotente e schifosa di mio padre, e non voleva più sentire parolacce rivolte contro di lei in casa sua. Ma l’uomo, inferocito come non mai, spinse da parte Stefania, che gli bloccava il passaggio, e si avventò su di lei, cercando di smollarle uno di quei ceffoni che fino a quel momento aveva riservato alla ragazza.

La differenza di forza era chiara, e anche quella violenza sarebbe stata consumata, se non ci fossi stato io.

Senza che lui se l’aspettasse, Sergio si trovò un mio braccio a deviare la sua forte mano, mentre cercava di abbattersi su mia madre.

‘’La mamma ha ragione. Devi andartene di qui’’, gli dissi, incurante del dolore che mi aveva provocato la mia azione repentina, e dello spavento che stava generando su di me.

L’uomo infatti, furioso, dopo essersi concentrato sulle due donne, in quel momento stava rivolgendo i suoi occhi solo a me, sempre più schiumante di rabbia e totalmente fuori controllo.

Mio padre era un uomo prepotente, e talmente tanto vile da alzare le mani contro due donne inermi, e questo mi bastava a offrirmi la spinta necessaria per affrontarlo così apertamente, anche se non avevo idea di come fare a resistere ad un suo attacco. Era molto forte, nonostante l’età, ed evidentemente sapeva come fare per picchiare in modo doloroso.

Ero consapevole di avere di fronte a me un mostro, un violento contro le donne, un prepotente che faceva il signorotto in casa altrui, e la rabbia dentro di me cresceva, senza però avere una valvola di sfogo. Senza contare che forse le avrei prese pure io. Per la seconda volta in un giorno.

‘’Ora basta, sono io a dovermene andare. Scusate per il trambusto’’, disse mestamente Stefania, interrompendo il concitato momento e tornando in sé. Probabilmente, essendosi resa conto del patatrac creato dalle sue rivelazioni e dalla sua presenza in casa nostra, la sua timidezza era tornata a farsi strada e a scacciare quel pizzico di follia da ragazza in preda agli ormoni che l’aveva portata ad affrontare mio padre lì davanti a noi, quasi come un’eroina, sfidando la sua violenza per essere poi pubblicamente umiliata.

La giovane prese con sé la sua borsetta, con la quale si era presentata alla nostra porta, e poi si allontanò a passi veloci e a testa bassa, mortificata e piangente.

Nessuno la seguì o le disse nulla, e si ribatté la porta dietro di sé con un tondo sordo. E noi tre, ancora immobili, non c’eravamo ancora mossi dalla stessa posizione che avevamo assunto una manciata di secondi prima, quando la rabbia e il nervosismo l’avevano avuta vinta su ogni razionalità.

Mio padre, con una mano ancora alzata verso di me, assunse un’espressione corrucciata sul viso, ed increspando le labbra e corrugando la fronte, quasi come se anche il suo corpo stesse comprendendo ciò che aveva combinato fino a pochi istanti prima, si affrettò ad abbassare il suo arto, sbuffando sonoramente e dandoci in fretta le spalle, per tornare nella saletta del pianoforte senza dire null’altro.

Io e mia madre, improvvisamente soli, ci guardammo, e riconoscendo un pacato velo di disperazione all’interno dei nostri occhi, ci stringemmo in un caloroso e muto abbraccio, tacitamente sapendo che in quel delicato momento dovevamo restare uniti, almeno noi due. Avremmo continuato a sostenerci a vicenda, così come avevamo sempre fatto, senza lasciare che nulla potesse mai minare il nostro rapporto.

Questa consapevolezza silenziosa che aleggiava su noi due fu la nostra salvezza, alla fine.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Continuo a ringraziare tantissimo tutti i vari lettori e recensori. Siete sempre la mia forza!

Grazie di cuore per tutto e a tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Capitolo 28

CAPITOLO 28

 

 

 

 

 

Dopo il caloroso abbraccio ricambiato da mia madre, ricordo perfettamente che salii in camera mia.

Troppe le novità che erano state gettate su di me, e troppe anche le sberle subite durante quella giornata lunghissima, che pareva proprio non volere finire più. Sia il mio corpo che la mia anima erano letteralmente a pezzi.

Avevo lasciato mia madre in cucina, ancora triste e perplessa per poco prima, e mio padre rintanato nella mia saletta, come suo solito, quel codardo prepotente e violento. Avevo scoperto di lui un altro aspetto che non conoscevo, e che davvero non volevo vedere riaffiorare mai più.

Speravo solo che, ora che era stato rintracciato e che noi sapevamo tutto quello che ci stava nascondendo, se ne andasse prendendo su le sue poche cose, tornando così alla sua vita precedente. Non mi sarebbe affatto dispiaciuto se fosse andato via, per sempre quella volta.

Mia madre non aveva il coraggio di far nulla contro di lui, me ne stavo rendendo conto, e non potevo darle tutti i torti. Se fossero intervenuti i carabinieri a cacciarlo, quello magari si sarebbe ripresentato, prima o poi, anche solo per picchiarci. Era meglio non scherzare con un mostro del genere.

Il mio caro Roberto non l’avevo più rivisto, e questo mi faceva molto male. Sperai solo che non se la fosse presa con me, per avergli taciuto tante cose, e molto probabilmente doveva essere rinchiuso in camera sua.

L’aristocratica e il figlio non erano ancora tornati a casa, e pensai che fosse preoccupato per loro, anche se potevo capire facilmente che ciò non era vero, altrimenti non li avrebbe lasciati soli là in caserma.

Con il magone in gola, che mi costringeva anche a tossire di tanto in tanto, rientrai nella mia stanza da letto e mi fiondai di nuovo verso il letto, ma un oggetto colpì la mia attenzione. Infatti, notando il mio cellulare abbandonato sul comodino, mi affrettai a recuperarlo, dato che mi era tornato in mente che quella mattina l’avevo spento senza leggere il messaggio di Melissa. Inoltre, temevo che Jasmine mi avesse cercato durante quel pomeriggio, nel quale ero stato irrintracciabile.

Mi sedetti sul letto ed attesi pazientemente che il mio telefono si accendesse, per poi sentirlo subito produrre quel classico suono che avvisava dell’arrivo dei messaggi. Ero curioso, poiché quello di Melissa mi era già giunto, e quindi qualcun altro doveva avermi scritto.

Guardando nel display, riconobbi che i miei timori di poco prima erano fondati, e che Jasmine, la mia amatissima Jasmine, mi aveva scritto qualche ora prima, ed aveva tentato di telefonarmi più volte. Sapevo che non era una ragazza insistente, e che se aveva cercato di contattarmi incessantemente doveva essere accaduto qualcosa d’importante, forse a riguardo delle ricerche che stava portando avanti su Alice, e di cui io mi ero totalmente dimostrato disinteressato.

Sapendo quindi che con ogni probabilità la mia Jasmine voleva parlarmi di lei ed aveva qualcosa da narrarmi, preferii leggere prima ciò che mi aveva scritto Melissa quella mattina, anche perché ciò m’incuriosiva, ed inoltre era da un’infinità di tempo che attendeva una mia ipotetica risposta.

Mi ritrovai di fronte ad un messaggio di poche righe, scarno ma cortese, in cui la giovane mi invitava ardentemente ad andare a casa sua al più presto, poiché aveva bisogno di vedermi.

Perplesso, lì per lì non seppi che rispondere, tutto ammaccato com’ero, ma poi le scrissi che se tutto fosse andato bene, sarei andato da lei già il pomeriggio successivo, visto che era l’unico che avevo vuoto e senza impegni. Molto probabilmente, l’indomani mattina non sarei andato a scuola, e prendermi un pomeriggio di svago non sarebbe stato male. Inoltre, avevo davvero voglia di tornare a rincontrare la ragazza e quel branco di ochette chiassose, che a quanto pareva, a rigore di logica, dovevano essere le mie cugine.

Un brivido mi percosse dalla testa ai piedi, pensando che tutte quelle ragazze avevano lo stesso sangue di mio padre nelle vene, ma poi mi tranquillizzai comprendendo che pure io l’avevo, eppure non ero un mostro prepotente ed ottuso come lui. E poi ero curioso di scoprire cosa volesse da me, e il perché del fatto che avesse bisogno di vedermi.

Forse, mi dissi, aveva scoperto la mia identità. E il fatto che eravamo parenti.

Mi tolsi subito quell’idea dalla testa, e decisi di non pensarci su oltre, poiché mi giunse in quell’istante anche la puntuale risposta di Melissa, che mi diceva solo che mi aspettava l’indomani pomeriggio.

Con un profondo sospiro, dopo aver sistemato quella faccenda lì, mi accinsi ad affrontare il messaggio di Jasmine, ovvero quello che si preannunciava un po’ più duro da leggere, probabilmente.

Lo aprii senza tanti altri tentennamenti, e anche lì mi trovai di fronte ad un altro messaggio molto scarno, ovvero due parole in croce in cui la ragazza mi diceva che era riuscita ad avere notizie su Alice, e che quando esse avrebbero trovato conferma me le avrebbe dette, oltre che in quel momento era in viaggio coi suoi, siccome si stava facendo portare dall’amica, che a quanto pareva era riuscita pure a rintracciare.

Con inerzia, le risposi solo con un bene e buon viaggio, quasi una risposta non da me, ma io con Alice me l’ero egoisticamente presa e non riuscivo più a vederla come una buona amica, dopo ciò che era accaduto dopo il nostro ultimo incontro a casa sua. Tutto tra noi due pareva essersi guastato, e non avevo intenzione di perdere del mio tempo per cercarla, come stava facendo Jasmine con disperazione.

Più tardi, compresi che la mia Jasmine si stava comportando come una vera e leale amica, io un po’ meno, e di questo a suo tempo me ne pentii.

Insonnolito, spensi di nuovo il cellulare e spensi la luce, dopo aver chiuso a chiave la porta della mia stanza, ed andai a dormire così, addirittura senza mettermi sotto le coperte e lasciandomi andare semplicemente sul letto. Per fortuna, in casa c’era il riscaldamento acceso.

 

 

La mattina successiva, dormii fino a tardi.

Nessuno mi disturbò, e mia madre andò al lavoro senza svegliarmi. Voleva davvero che riposassi per bene, dopo tutto quello che era accaduto durante il giorno precedente.

Quando mi svegliai, erano all’incirca le dieci, se non ricordo male, e nel momento in cui cercai baldanzosamente di alzarmi dal letto, scoprii che tutte le botte che mi erano state rifilate il giorno prima stavano facendo sentire tutto il loro peso, considerando che mi sentivo tutto indolenzito e dolorante, più della sera precedente. Le mie articolazioni erano a pezzi più delle parti che avevano ricevuto le percosse più violente, ed avevo un bel po’ di lividi che facevano capolino ovunque. Ma ero vivo e stavo relativamente bene, e quello era l’importante.

Mi vestii in fretta e scesi al piano inferiore, pronto per fare la prima colazione.

Come al solito, una discreta ansia mi pervase mentre scendevo le scale, ma quella volta l’accantonai, consapevole che il giorno precedente doveva aver lasciato il suo indelebile segno su tutto. Erano finite le violenze di Federico su di me, e se avesse cercato di nuovo di farmi del male o di ricattarmi per qualcosa, non mi sarei fatto problemi a far scoppiare un altro casino, sfruttando l’onda d’urto da me generata meno di ventiquattr’ore prima.

Ero vagamente consapevole del fatto che il prepotente fosse tornato a casa, in tarda serata ed assieme alla madre, poiché il trambusto provocato dal loro rientro mi aveva fatto svegliare per un attimo, ma poi ero tornato subito a dormire profondamente. Poco male, la questione non m’importava più.

Quella mattina la casa giaceva in una tranquillità assoluta, di quelle quasi oppressive e strane, e mentre mi dirigevo in cucina lanciai un’occhiata alla porta della mia saletta, che era chiusa. Non mi chiesi se quel fellone di mio padre si stesse nascondendo al suo interno, ed entrai in cucina.

Scorsi la sagoma di qualcuno, in controluce, e per un attimo pregai che si trattasse di Roberto, con il quale non avevo più avuto modo di scambiare neppure una parola, ma invece mi trovai improvvisamente davanti a Livia, che, appoggiata al davanzale della finestra, mi stava guardando.

Quando misi a fuoco per bene il suo viso, dopo un attimo di smarrimento, poiché ero sempre abituato a non incrociarla quasi mai durante la mia vita quotidiana, notai che mi stava fissando quasi come se volesse incenerirmi.

Non ci fu bisogno che io provassi a fare una qualsiasi mossa, giacché ero rimasto lì impietrito per un attimo senza sapere come dovevo comportarmi, ed effettivamente con un moto di mediocrità ero stato quasi sul punto di salutare, come mio solito, ma i saluti non avevano più alcun valore tra quelle mura, sempre se ne avevano avuto in precedenza.

Livia infatti si smosse dalla sua postazione, e lasciando trapelare il suo disgusto per avermi incontrato, arricciando il suo nasino aristocratico e dedicandomi una smorfia tutta sua e snob, si accinse a lasciare la cucina.

Passandomi a fianco, diede due delicati colpi di tosse, senza mai smettere d’indossare quella sua aria schifosamente disgustata.

‘’Sarai contento ora, che sei riuscito a mettere fuori dai giochi mio figlio. Sappiamo che sei stato tu ad entrare anche nella sua stanza, mentre gli avevi tirato quel brutto scherzetto. Ma devi anche sapere che se hai vinto una battaglia, ne perderai altre, poiché noi entro un paio di giorni ce ne andiamo, e addio ai nostri soldi! Tu e quella buona a nulla di tua madre andrete assieme a sturare e a pulire dei gabinetti pubblici, pur di poter tirare avanti’’, mi disse la signora, tutto ad un tratto, quando ormai non mi aspettavo più un suo attacco.

Mi volsi lentamente verso di lei, visto che mi aveva già superato e le stavo volgendo le spalle, e fui io a guardarla in modo schifato, quella volta.

‘’Meglio sturare dei cessi che avere in casa propria degli spacciatori e dei bulli ricattatori e violenti’’, le sputai in faccia, ormai snervato da quella situazione.

La donna mi fulminò di nuovo con lo sguardo, ma non ribatté nulla e si volatilizzò in corridoio, dirigendosi verso le scale.

Logicamente, non la seguii, e non seppi neppure come ebbi fatto sul momento ad affrontare la mia timidezza e a tentare un affondo. Non ci riflettei su, ma mi soffermai solo a riconoscere che la signora di certo doveva sapere dell’esistenza della piantagione illegale in camera di suo figlio, e ne ero sempre più convinto, soprattutto dopo aver udito ciò che mi aveva appena detto.

Provai un brivido nel comprendere che forse quella donna voleva cercare di colpirmi lei stessa, ora che suo figlio navigava in cattive acque. Certo, non avevo immaginato che se ne sarebbero voluti andare da casa mia ma avrei dovuto, poiché ero già a conoscenza del fatto che la signora voleva andarsene già tempo addietro, ed in più la nostra convivenza forzata e basata solo su esigenze personali ormai non aveva più senso.

Era finita, alla fine, e anche molto prima del tempo. Non seppi mai perché avessero rilasciato il ragazzo, anzi, un secondo prima di addormentarmi, la sera prima, l’avevo immaginato in carcere, ma evidentemente non era andata così.

In ogni caso, in quel momento temevo Livia, che mi aveva quasi lasciato intendere, col suo sguardo schifosamente penetrante, che di certo prima di andarsene mi avrebbe tirato un brutto scherzetto. Avrei forse dovuto affrontare anche la donna, ma chissà come, siccome immaginavo che non mi avrebbe menato come invece avrebbe fatto il figlio. Mi attendevo un qualche attacco subdolo, magari rivolto verso mia madre.

Scossi la testa, cominciando a stare male solo a sfiorare quei pensieri, e mi rassicurai, comunque certo di aver vinto buona parte degli scontri finali. Se poi la donna voleva cercare un suo premio di consolazione, sarei sempre stato all’erta, e se mi fosse stata concessa l’occasione, avrei potuto di certo sconfiggere anche lei, così come avevo battuto il male, rappresentato da suo figlio.

Senza agitarmi o preoccuparmi oltre, mi misi a far colazione, sapendo che a breve avrei dovuto cominciare a prepararmi ad uscire poiché poi nel primo pomeriggio ero già atteso da Melissa, e chissà poi perché, dato che la ragazza dalle sue parole aveva lasciato trapelare quasi un secondo scopo. Mi chiesi di nuovo se fosse possibile che avessero scoperto chi fossi, ma poi ancora cercai di non farmi problemi, capendo che in ogni caso dovevo affrontare la realtà, così come avevo fatto con Federico, e solo in quel modo avrei potuto avere delle risposte.

Con risoluzione, quindi, completai il mio pasto e tornai di nuovo in camera mia, vestendomi a dovere e raccattando i soldi che mi servivano per acquistare i due biglietti del treno.

 

In quel giorno di fine novembre, uscii da casa mia e mi lasciai avvolgere dall’abbraccio gelido e umido della nebbia, l’unica presenza quasi costante del tardo autunno del mio paesino.

Avevo detto a mia madre che sarei uscito, chiamandola poco prima, e lei era parsa sospettosa, forse troppo, ed immaginavo che prima o poi le avrei dovuto dire esplicitamente e con sincerità dove mi recavo in treno. Di dirlo con mio padre, neanche a pensarlo; quell’essere volevo proprio tenerlo lontano dalla mia vita. E a lui, d’altronde, non importava davvero nulla.

Mentre mi muovevo lentamente verso la stazione, fui costretto a riconoscere che, durante quella mattinata, non avevo visto nessuno della famiglia Arriga, se non sporadicamente quell’antipatica della signora Livia, e questo era stato davvero strano, ma pensai che quasi di certo Federico doveva esser stato richiamato in caserma, e Roberto… beh, riguardo a lui non seppi darmi una risposta precisa.

Mi faceva male sentirlo distante da me, perché ormai lo era veramente, in fondo. Credevo fermamente che cercasse di evitarmi, o di stare chiuso in camera il più possibile per non incontrarmi, e questo stava rovinando il nostro rapporto. A rovinarlo ero stato io, coi miei silenzi, e con tutte le situazioni che sono stato bravo a creare, e questa consapevolezza mi faceva doppiamente male.

A Roberto mi ci ero affezionato, e sapevo che quando se ne sarebbe andato molto probabilmente avrei sofferto a causa della sua assenza. M’immaginai la vita in casa mia senza la sua figura positiva, in balìa di un padre tornato dopo anni d’assenza ed imbestialito e pericoloso, che si era pure involontariamente trascinato dietro una ragazza incinta di un figlio suo, e una madre sempre assente per via del lavoro, e totalmente incapace di condurre la nostra vita famigliare con risolutezza.

Quella non era una vita dignitosa, e riconobbi che l’Arriga forse era stato per me una sorta di salvezza. Era sempre stato a mio fianco nei recenti momenti di sconforto, e non volevo perderlo per un mio errore. Si era rivelato come una figura adulta di riferimento. Avrei dovuto parlargli, quindi, perché ci tenevo davvero tanto a farlo, e non me ne importava se non ero bravo con le parole, almeno ci avrei provato a riappacificarmi con lui.

Un'altra vicenda che mi preoccupava leggermente era Jasmine; quella ragazza selvatica e indomabile pareva aver perso la testa nella ricerca di Alice. Quel giorno non si era fatta sentire, ed io avevo provato a telefonarle poco prima ma il suo cellulare risultava irraggiungibile.

L’unico che si era fatto sentire ed era allegro era stato proprio Giacomo, ancora fiero della sua azione del giorno precedente, e mi ero affrettato a rassicurarlo sul mio stato di salute.

Con un sospiro, volli allontanare tutto quel miscuglio di pensieri dalla mia mente, poiché ero quasi giunto a destinazione, ed in perfetto orario. Acquistai due biglietti, uno per l’andata e l’altro per il ritorno, e non dovetti neppure attendere qualche minuto, poiché il mio treno giunse subito, stranamente puntuale.

Inutile dire che per tutto il viaggio fui tormentato dai pensieri, ma non dagli stessi di poco prima, bensì da quelli riguardanti Melissa, la mia parentela con lei e il suo pianoforte. Riconobbi che a spingermi fin lì non era la voglia di conoscerla meglio o altro, ma di suonare un po’ con quello strumento che a casa mia ormai era diventato intoccabile, poiché posizionato in territorio nemico, ed ero in piena crisi d’astinenza in quel momento.

Mi chiesi nuovamente il perché di quell’invito lampo e di quel bisogno di vedermi al più presto, ma ancora non volli concentrami su quelle domande, preferendo fantasticare ed immaginare le mie mani che si posavano di nuovo su quello splendido pianoforte che troneggiava in quella casa immensa, all’interno di quel villone di campagna davvero molto sfarzoso. E così il tempo del viaggio trascorse in un batter d’occhio.

Quando giunse il momento di scendere, il mio cuore batteva forte, e non appena vidi Melissa che mi veniva incontro, tutta sorridente, mi soffermai sui suoi lineamenti, quasi a voler cercare una qualche somiglianza con mio padre, che in effetti c’era, soprattutto nella fisionomia del volto, ma non aveva alcuna parvenza cattiva e stupida come quella del mio genitore. Non mi lasciai inquietare e smisi di tormentarmi con quei pensieri, cercando di rilassarmi un po’.

‘’Ciao, Antonio! Grazie per essere venuto’’, mi disse subito la ragazza, cordialissima, cominciando ad avviarsi verso la sua auto.

Io ricambia timidamente il suo sorriso, riconoscendo che non doveva aver di certo scoperto nulla sul mio conto e sulla mia identità, data la sua tranquillità, e mi approssimai solo a chiedermi se avessi dovuto sopravvivere anche quella volta a quel viaggio sul mezzo della mia amica e parente.

Già mi tremavano le gambe solo a pensarlo, ed ero certo che, se fossi stato sottoposto per l’ennesima volta a una guida così tesa, non sarei riuscito a stare zitto. Ma preferii mordermi la lingua, proprio mentre stavo salendo sull’utilitaria, poiché sapevo che io molto probabilmente al volante sarei stato ancor più pericoloso, anche perché non sapevo neppure guidare, e quindi la mia ragione mi riportò alla pazienza.

Allacciai per bene la cintura, e Melissa fu pronta a partire.

‘’Allora? Che mi racconti di bello?’’, mi chiese la mia interlocutrice, concentrandosi fin da subito sulla strada che stava placidamente affrontando.

‘’Niente di che. Tu?’’, mi limitai a risponderle, senza sbilanciarmi in alcun discorso. Non mi conveniva e non ne avevo voglia, attento com’ero alle mosse della guidatrice stessa.

‘’Oh, tutto come al solito, a parte qualche vicenda riguardante le mie cugine. Ah, sono sempre le solite, e questa volta si sono proprio messe nei guai. L’ho detto loro che frequentano troppi ragazzi! Sapessi… se ti va ti racconto’’.

‘’Ma certo’’.

‘’Sicuro che non ti annoio?’’, tornò a chiedermi Melissa, titubante.

‘’Assolutamente no, raccontami pure tutto quello che vuoi’’, le risposi nuovamente, cercando di mantenere un tono di voce possibilmente interessato.

La ragazza effettivamente partì subito col narrare le vicende delle cugine, e dato che a me proprio non me ne importava un fico secco, anche se sapevo che erano mie parenti, preferii lasciarmi scivolare passivamente addosso tutti quei racconti di adolescenti un po’ pazze e vittime dello scoppio ormonale, tentando di restare concentrato su me stesso, e scoprendo che non ero felice di essere lì.

Non mi chiesi allora cosa mi avesse spinto a tornare di nuovo in quel posto, poiché sapevo la risposta parziale, ma d’altro canto l’altra parte di risposta aveva un retrogusto troppo amaro per essere accettata. Ero spaventato dal fatto di dover riaffrontare quei visi ostili che mi ricordavano tanto mio padre, e quelle persone che avevano il mio stesso sangue.

Comunque, ormai ero lì in quel momento e dovevo essere contento della mia scelta, al di là di tutto, e ne presi atto.

Il viaggio che ci portò a casa della ragazza durò meno del primo, oppure ciò parse solo a me, come probabilmente accadde, dato che ormai mi ero abituato un po’ a quel percorso, e per fortuna giungemmo illesi e senza aver subìto particolari spaventi. Tutto regolare.

Giunti nel giardino della grande villa di campagna, ripresi a sentirmi come un pesce fuor d’acqua, ma per fortuna i calorosi sorrisi che mi rivolgeva Melissa erano in grado di tranquillizzarmi.

Subito, come la precedente volta, le cugine ci piombarono addosso come avvoltoi, curiose e chiacchierone come sempre, e a fatica riuscii a salutarle dignitosamente, sommerso dalle loro chiacchiere. Non ci capii molto, dato che come al solito le ragazze si parlavano l’una sopra l’altra, ed assieme sembravano una banda di pazze.

Fu Melissa a togliermi dai pasticci, come sempre ultimamente.

‘’Ragazze, non dovevate andare ad una festa questo pomeriggio?’’, chiese loro, titubante.

Mi sfuggì un sorriso, riconoscendo che anche lei forse voleva sbarazzarsi momentaneamente di quella banda scalmanata.

‘’E’ vero!’’, urlò Martina, dopo aver riflettuto per un attimo e battendosi una mano sulla fronte. Le altre tre, ricordando, sfoggiarono un’espressione stupita e quasi incredula.

‘’E’ tutta colpa tua, Giorgia! Ci fai sempre perdere tempo e poi alla fine dimentichiamo la metà delle cose che dobbiamo fare!’’, tornò a dire Martina, prendendosela con la sorella, che doveva avere un annetto in meno di lei.

Da quel momento scoppiò un putiferio, poiché presero a litigare lì davanti a me, e Melissa dovette metterci di nuovo lo zampino per riuscire a mettere tutto a posto.

‘’Se continuate a litigare, sarete ancora più in ritardo. È meglio che andiate a prepararvi’’, fece loro saggiamente notare.

‘’Macché preparare, siamo già pronte così!’’, si lasciò sfuggire con un singulto Martina.

‘’Ha ragione Mel, dobbiamo proprio andare. Ci attendevano mezz’ora fa, credo’’, fece notare Francesca.

‘’Andiamo, allora, che stiamo aspettando?! Papà! Papà!’’, prese a gridare Claudia, la più piccola del gruppetto, che dimostrava sì e no una quindicina d’anni.

Le cugine si allontanarono quindi in un batter d’occhio, continuando a battibeccare e a litigare, quella volta infuriate contro Claudia che voleva che fosse loro padre a portarle alla festa, mentre tutte le altre preferivano essere accompagnate dalla madre.

Lanciai un’occhiatina sarcastica a Melissa, che la ricambiò con imbarazzo, dopo aver distolto i suoi occhi dal gruppetto delle chiassose cugine che si stavano allontanando, girandosi di tanto in tanto per gridarmi un ciao e salutarmi.

‘’Ti ho già detto di non far loro troppo caso, si comportano sempre così quando sono insieme. Sono sorelle e sono molto legate tra loro, e dato che qui non abbiamo vicini di casa o altri coetanei, sono sempre cresciute assieme ed hanno avuto modo di instaurare un bellissimo rapporto. Però, a volte sono una vera scocciatura, quando si impegnano’’, ammise la ragazza, cominciando a muoversi verso casa non appena il gruppetto chiassoso fu sparito al suo interno.

‘’C’è un motivo per cui ti ho invitato con tanta fretta, Antonio’’, tornò a dirmi la mia accompagnatrice, questa volta con serietà e con il solito modo leggermente impacciato di chi è timido.

La fissai, bloccandomi con curiosità proprio sull’ingresso dell’immensa dimora, senza spronare la ragazza a dirmi qualcos’altro su ciò che l’aveva spinta a richiedere la mia presenza con così lieve ma evidente pressione. Per un attimo, quasi temetti chissà cosa, ma cercai di tranquillizzarmi, tentando di far leva sulla mia razionalità, che mi diceva che in ogni caso non avevo nulla da nascondere con troppa attenzione, o da temere.

‘’Ecco, mio nonno è rimasto molto colpito dalla tua bravura nel suonare al pianoforte. Mi ha chiesto di tornare ad invitarti al più presto possibile, poiché vuole udirti di nuovo suonare. Il motivo non lo conosco… so comunque che può sembrare maleducato averti invitato solo per farti suonare di fronte ad un anziano, e quindi ti chiedo di farlo solo se lo vuoi e se ti fa piacere, e magari di portare anche un pizzico di pazienza’’, mi disse la mia interlocutrice, cautamente.

Io pensavo chissà cosa, e quando udii quelle parole sorrisi apertamente e in modo sincero. Melissa era brava a parlare, e anche se aveva un solo anno in più di me, sembrava già un’icona di gentilezza e di cortesia, al contrario di tanti altri nostri coetanei. Si vedeva che era cresciuta in un ottimo ambiente.

‘’Non vedo l’ora di farlo, Mel’’, le dissi, realmente felice, poiché non vedevo davvero l’ora di tornare ad appoggiare le mie dita sui tasti di un pianoforte, interrompendo così la mia lunga astinenza, durata fin troppo. La presenza dell’anziano passava in secondo piano, dato il mio impellente desiderio di suonare.

La ragazza mi sorrise anch’essa, più serena, e con un breve cenno mi invitò a seguirla al piano superiore, dove risiedeva lo strumento musicale.

La seguii senza dire altro, ancora una volta in soggezione di fronte alla magnificenza della dimora di mia cugina, e un brivido freddo mi attraverso da capo a piedi non appena mi sfiorò il pensiero che forse quella era anche un po’ casa mia. Sapevo che mio padre era nato in una villa di campagna, e forse era proprio la stessa in cui stavo camminando in quel momento, anche se doveva di certo esser stata ristrutturata, nel frattempo.

Dopo aver quasi affiancato la mia accompagnatrice, varcammo pressoché simultaneamente la soglia della grande stanza del pianoforte, e ci trovammo di colpo davanti all’anziano. Il nonno era posizionato proprio a fianco dello strumento, e notando la posizione che stava assumendo, appoggiandosi leggermente sul suo bel bastone da passeggio, compresi che ci stava aspettando.

L’uomo non badò minimamente alla nipote, con una freddezza incredibile, e si mosse verso di me, lentamente, per poi lasciar trapelare un mezzo sorrisetto su quel volto glabro e gelido, ed io di fronte a lui e a quegli occhi così duri, scuri e profondi come quelli di mio padre, restai immobile, forse anche in modo non volutamente maleducato.

‘’Ben tornato, Antonio. Grazie per essere venuto di nuovo a farci visita’’, mi disse l’anziano, impettendosi, dopo essermisi avvicinato di un altro paio di passi.

‘’Grazie a Lei per l’ospitalità’’, gli dissi, formalmente e timidamente, quasi balbettando, non sapendo bene come relazionarmi. Il vecchio mi inquietava.

‘’Dammi pure del tu, ragazzo. Mi chiamo Aldo, nel caso che tu ancora non lo sapessi. Comunque, caro ospite, so che sei tornato su invito di mia nipote, e sono felice che voi due andiate d’accordo, ed ammetto che sono altrettanto felice di sapere che un giovane talentuoso come te frequenta la mia casa’’, tornò a dirmi il nonno, rigido. Era il nonno di Melissa, ma era anche il mio di nonno, anche se non lo sapeva, e questo mi fece provare altre emozioni contrastanti, subito sopite. Riconoscevo gli occhi di mio padre nei suoi, ed ero sempre più certo di aver ereditato anch’io qualcosa da lui.

‘’Grazie, troppo gentile’’, continuai a limitarmi a rispondere con serietà, sempre immobile nella posizione di poco prima. Non riuscivo davvero a sciogliermi.

‘’Grazie a te. E, se posso, vorrei chiederti un piccolo piacere, ritienila quasi una mia piccola richiesta di soddisfazione personale. Se ti farebbe piacere, mi piacerebbe che tu suonassi qualcosa per me, al pianoforte ovviamente. Non so se mia nipote ti ha già accennato qualcosa, comunque io ho già preparato alcuni spartiti, in modo che, questa volta, ciò che suonerai sia un po’ più ordinato, non come quella precedente, in cui mi sei parso sì colmo di talento, ma un po’ caotico. Mi piacerebbe ascoltare una sorta di tua… esibizione musicale, chiamiamola così’’.

Alle parole dell’anziano, fremetti nuovamente.

‘’Io… io lo farò volentieri, se ci tieni, però per correttezza devo anche dire che sono molto timido, e che difficilmente…’’.

‘’Non pensare alla timidezza, e non preoccuparti se farai qualche errore, sarò poi io a comprendere se si tratta di un piccolo timido errorino oppure un fallace erroraccio dovuto a qualche grave lacuna’’, mi disse Aldo, questa volta con più autorità del previsto.

Immaginai che in casa fosse lui a comandare, come una sorta di patriarca di un tempo, servito e riverito da tutti. Melissa stessa, la ragazza sempre piena di vita e chiacchierona che avevo conosciuto da un po’ di tempo, se ne stava quasi in un angolo, muta e silenziosamente attenta al nostro dibattito.

L’anziano, comprendendo di aver esagerato nei toni e nel modo di parlare, dato che tutto ciò che mi aveva detto pareva quasi un rigidissimo ordine, parve sul ciglio di dire altro per raddolcire le sue parole, ma si limitò a donarmi uno dei suoi alquanto rari sorrisetti.

‘’Suonerò… suonerò per… per te molto volentieri’’, dissi, balbettando. Ero già nella più totale soggezione e ci stavo facendo una figura vergognosa. Incapace di gestire le mie emozioni, mi chiesi come avrei fatto anche solo a scegliere una nota giusta.

‘’Grazie, Antonio, sei molto gentile con questo povero vecchio, le cui anziane orecchie vorrebbero trovare un po’ di ristoro tramite un po’ di musica. Se vuoi sederti e suonare qualcosa per me, lì c’è lo sgabello e il pianoforte. Logicamente, se vuoi farlo. Dopo, potrai tornare a chiacchierare con mia nipote’’, mi disse nuovamente il vecchio, continuando a rivolgermi un suo sorrisetto tiepido.

Compresi chiaramente che il suo insistente invito era più un ordine che altro, ma sapevo che se non avessi voluto suonare non se la sarebbe neppure presa troppo con me. Tuttavia, scelsi di suonare, anche perché ero davvero bisognoso di farlo e necessitavo assolutamente di tornare a sfiorare con le mie dita i tasti di un pianoforte.

‘’Va bene, suonerò’’, dissi, già con la mente altrove.

Mi avvicinai allo strumento musicale con grande fretta, quasi fossi un rapace affamato che ha individuato qualcosa di commestibile a terra, e presi immediatamente posizione.

La mia attenzione fu subito catturata dalla tastiera del pianoforte, e da quel momento in poi poco mi curai dei possibili spettatori, tanto ormai ci ero abituato a quel genere di situazioni, ed inoltre la mia voglia di suonare era troppo pressante per essere contenuta. L’unico mio interrogativo era quello riguardante a come avrei suonato, dato che era da un pochetto che non lo facevo, ed avevo davvero paura di essermi un po’ arrugginito.

In ogni caso, la mia frenetica voglia di tornare all’azione su quegli splendidi tasti vinse su tutto.

Gettai una rapida occhiata agli spartiti che l’anziano doveva avermi preparato con cura, ed ebbi un attimo di smarrimento, poiché essi erano ordinatissimi, ma mostravano solo parte dei componimenti che il padrone di casa aveva piacere che suonassi. Il tutto aveva il sapore di una prova a me ignota, quindi.

Non badai troppo alle formalità, e mi misi al lavoro, inizialmente posizionandomi al meglio e saggiando un po’ i tasti, con cura e con lentezza, cercando di riuscire a riattivare la mia familiarità con essi, e ci riuscii in un tempo relativamente breve.

Quando mi sentii pronto, decisi di cominciare a fare sul serio, e puntai i miei occhi sulle prime note mostrate in evidenza sullo spartito, e prima di cominciare a mettermi all’opera, riconobbi che mi era stata preparata in primis una parte, forse la più semplice, di un componimento di Yiruma, ovvero Love hurts.

Mi affrettai a far planare le mie dita verso la tastiera, ma per una frazione di secondo mi bloccai, poiché mi riapparve davanti la figura di Stefania, e il suo racconto del giorno prima, e questo mi turbò. Ero riuscito a scacciare dalla mente quello spiacevole ricordo per almeno metà giornata, lasciandolo involontariamente riaffiorare proprio in quel momento magico.

Chiusi gli occhi per un istante, e cercando di riprendere in mano la situazione, feci un profondo sospiro ed inspirai a pieni polmoni, immettendo talmente tanto ossigeno dentro di me e tutto d’un colpo quasi da provocarmi un leggero giramento di testa.

Stordendomi da solo, dopo un’altra frazione di secondo che non pareva passare mai, ripresi con decisione la padronanza di me e mi gettai sui tasti, quasi con fretta e con una pazza ed improvvisa ingordigia. Il nonno evidentemente voleva che io suonassi solo la parte da lui selezionata e propostami negli spartiti, ed anche se già conoscevo molto bene quel componimento, dovetti comunque seguire attentamente ciò che mi era stato proposto.

Mi scaldai senza problemi, e notando che non avevo fatto alcun errore, conclusi la parte di Love hurts consigliatami e proseguii col componimento seguente, prendendomi un secondo di pausa, mentre la mia musica aleggiava ancora per tutta la stanza, e il vecchio e Melissa, che doveva essere ancora lì, se ne stavano in profondo silenzio.

Cercando di non pensare alla loro presenza, mi trovai ad affrontare Divenire, di Ludovico Einaudi. Un altro componimento assolutamente alla mia portata e che conoscevo molto bene, e ne suonai una parte con decisione e scioltezza, anche se mi dispiacque interrompere nel punto stabilito.

Einaudi era ed è senz’ombra di dubbio il mio compositore italiano preferito, con un immenso talento e con le capacità più spiccate di ogni altro, a mio avviso, e quindi quasi mi spiacque abbandonarlo, per affrontare un’altra traccia. Esatto, poiché avevo compreso in quegli attimi che si trattava di tracce, e che all’anziano Aldo non importava che io suonassi tutto un componimento, poiché ciò avrebbe portato via molto tempo, ma gli interessava solo sentirmi suonare e scoprire in che modo affrontavo i vari elaborati e la mia maturità musicale.

A seguire affrontai The enchantress, di Alan Menken, altro componimento che conoscevo abbastanza bene, ma leggermente più difficile dei precedenti. Quella che era diventata ormai una sorta di colonna sonora del cartone animato La Bella e la Bestia fu anch’essa molto piacevole da suonare, e giunsi piacevolmente al test finale, trovandomi di fronte finalmente ad un classico.

Conoscevo bene alcuni classici, e Per Elisa di Beethoven non mi spaventava minimamente, ed ebbi quindi modo di sfoggiare una buona prestazione musicale anche in quel caso. Cominciavo comunque a stancarmi, ero fuori forma e ultimamente mi ero dilettato poco con quel mio amato strumento, e l’ansia cominciò ben presto a farsi spazio dentro di me, e desiderai ardentemente, ed incredibilmente, di concludere in fretta quella specie di prova.

L’ultima proposta da suonare era Alla turca, di Mozart.

Lì sbagliai qualche nota, ormai sfinito, ma nel complesso riuscii a suonare mediocremente, concludendo ciò che l’anziano aveva detto di voler udire.

Sospirai nuovamente, una volta concluso tutto, mentre una gocciolina di sudore scendeva lungo le mie tempie, per poi asciugarla con la manica della mia felpa e voltarmi lentamente verso il nonno, ritrovandolo in piedi e rigido, pochi passi più indietro di me. Melissa era a suo fianco, anche lei in piedi.

Aldo mi guardò con severità e serietà, storcendo un po’ le labbra prima di parlare.

‘’Nella mia lunga vita ho udito suonare tanti altri pianisti, mio caro Antonio, e devo ammettere che quasi tutti erano meglio di te. Ogni tanto commetti una qualche ingenuità, ma hai uno stile fluido, e secondo me potresti essere un ottimo compositore, considerando che mi sei piaciuto di più la scorsa volta, quando suonavi liberamente. Però, ti riconosco che hai tanto talento’’, mi disse l’anziano, riflettendo e col suo vocione, tanto simile a quello di mio padre, a tratti.

Rabbrividii.

‘’Grazie. Finora ho sempre suonato da solo, a casa mia, e quindi qualche lacuna ci sarà di certo’’, fu l’unica cosa che riuscii a dire.

Ero consapevole di non essere un pianista perfetto, però il giudice di casa Giacomelli a quanto pareva era davvero stato molto severo, in quel momento. Anzi, lo fu troppo, sono costretto a riconoscerlo anche ora, mentre tutto ciò ormai è solo un ricordo che ha soltanto voglia di sfocarsi all’interno della mia memoria, però in quell’istante non me la presi, e forse non lo feci mai. Ciascuno deve avere sempre il diritto di dire la propria opinione in libertà, in modo particolare se è anche il padrone di casa.

‘’Come avrai compreso, ti ho fatto affrontare una piccola prova, quasi a tua insaputa, per saggiare le tue potenzialità, e riconosco che ne hai parecchie, ma non puoi credere di fare della strada nel mondo musicale con quelle poche basi che hai, sempre se lo hai mai desiderato. Ecco, però mi hai colpito, e poiché sempre meno giovani suonano il pianoforte, se non ti spiace ho deciso di valorizzarti’’, continuò l’anziano, sempre rigido come una statua di pietra. Mi limitai a guardarlo con perplessità.

‘’Anch’io suonavo, da ragazzo. Quello è il mio strumento, che a suo tempo era stato di mia madre, ereditato a sua volta da suo padre. E’ molto antico. Comunque, ho ancora a disposizione parecchi amici e conoscenti, nel mondo della musica, e vorrei proprio consigliarti, e magari metterti tra le mani di un bravo insegnante, in modo che esso, con le sue capacità, possa limarti per bene e far di te un pianista perfetto, siccome, secondo me, potresti davvero riuscirci se ti impegnerai’’.

Non abbandonai la mia perplessità.

‘’Io, beh, dico grazie per l’offerta, ma non credo faccia al caso mio. Prima di tutto, non avrei neppure i soldi per pagarlo…’’.

‘’Per i soldi, non preoccuparti. Se ti interessa la mia offerta, dammi i tuoi dati e il tuo indirizzo, e entro breve farò venire a casa tua un bravo insegnante. Ci penserò io a stipendiarlo, e naturalmente lo interpellerò ogni tanto per capire se t’impegni e se fai progressi’’, m’interruppe l’anziano, quasi rudemente.

Abbassai lo sguardo. Nonostante tutto, riconobbi che non potevo accettare.

Casa mia era ancora in subbuglio, con l’ipotetica partenza degli Arriga e il caos e le prepotenze generate da mio padre, e sapevo che a breve, molto probabilmente, non sarei riuscito neppure a riavere sotto mano il mio strumento preferito.

‘’Non posso accettare, davvero. Sono all’ultimo anno delle superiori, e devo studiare molto… magari, potrei cominciare questa estate, ma in ogni caso non vorrei essere in debito con… con te’’, dissi, molto timidamente e in imbarazzo.

‘’Nessun debito, ragazzo. Sono ormai vecchio, e per mia fortuna ho un bel po’ di soldi da parte, e non mi spiacerebbe spendere qualche spicciolo per donare un buon futuro ad un giovane meritevole e talentuoso, visto le capacità che hai. Vedi tu; a te la scelta. Io sono sempre disponibile a realizzare il tutto, e comunque immagino che ci rivedremo spesso, dato l’amicizia che ha cominciato a legarti a mia nipote. Quindi, hai tempo e se vorrai mi farai sapere la tua risposta definitiva, quando preferirai. Pensaci un po’ su’’, concluse l’anziano, senza più insistere, per poi far sbocciare sul suo viso glabro e segnato dall’età l’ennesimo piccolo sorrisetto, di congedo quella volta.

Pensai che fosse tutto finito, e anche Melissa doveva pensarlo, dato che da parte sua mi donò un sorrisone rilassato, sempre in piedi e muta a fianco del nonno.

Poi, però, Aldo ci sorprese ancora. Impugnando il suo nobile e lucido bastone da passeggio, compì qualche passo verso di me, e mi allungò la mano, come a volermela stringere per siglare un patto, alla moda antica.

Io gliela allungai, in modo un po’ intimidito ed impacciato, e rimasi perplesso quando notai che il vecchio mi stava guardando intensamente nel viso, quasi studiandomi.

‘’Come ti chiami?’’, mi chiese, a bruciapelo.

‘’Antonio’’, risposi, perplesso.

‘’Questo lo so già. Ma di cognome?’’, tornò alla carica, severamente.

Spalancai leggermente la bocca, non sapendo come reagire. Avrei voluto rivelarmi in quel momento, e dirgli che ero suo nipote, un Giacomelli proprio come lui, ma decisi di non svelare il mio vero cognome, comunque. Non volevo che l’uomo credesse che mi fossi intrufolato in casa sua per approfittare abilmente delle sue gentilezze.

‘’Graziani. Antonio Graziani’’, risposi, dandomi un cognome a caso, e dopo un attimo di esitazione.

L’uomo mugugnò qualcosa, poi afferrò la mia mano saldamente, e dopo una rapida stretta la lasciò andare, continuando a guardarmi.

‘’Caro ospite, hai degli occhi molto profondi. Mi ricordano molto qualcuno, che ora non c’è più’’. E così dicendo, l’anziano mi diede le spalle ed abbandonò la stanza, silenziosamente.

Io, ancora imbambolato sul posto, spostai il mio sguardo su Melissa, l’unica rimasta presente nella stanza oltre a me.

‘’L’hai davvero colpito, Antonio. Non era facile’’, mi disse la ragazza, sorridendomi. Risposi al suo sorriso, e guardai l’orologio da polso; purtroppo, era già ora di andare.

‘’Piacere di averlo fatto, allora. Comunque, purtroppo…’’.

Non conclusi la frase, indirizzando il mio sguardo verso l’orologio. Melissa capì all’istante, riconoscendo anche lei che s’era fatto tardi ed era già ora di tornare in stazione.

‘’Hai ragione, andiamo’’, tornò a dirmi, facendosi mogia e smorzando la sua allegria. Compresi che avrebbe avuto piacere di passare un po’ di tempo con me, ma il pianoforte e il nonno mi avevano allontanato da lei, durante quel pomeriggio.

Fui in procinto d’invitarla a casa mia, nei giorni a seguire, certo che sarebbe venuta, ma mi morsi la lingua poiché ero perfettamente a conoscenza della disastrosa situazione che regnava tra le mura domestiche. Meglio evitare, momentaneamente.

La ragazza continuò ad essere amareggiata e silenziosa anche durante il viaggio verso la stazione, ma leggermente più rilassata alla guida, forse perché la sua mente non si stava più solo concentrando esclusivamente sulla strada.

Io, dal canto mio, non osai dire quasi nulla, poiché dentro di me mi sentivo veramente sporco. Mi sentivo esattamente come gli Arriga, che avevano cercato di nascondere più segreti in casa mia, e come mio padre, anch’egli prepotente e bugiardo, che aveva cercato di insabbiare le sue vicende amorose nell’ambiente familiare mio e di mia madre. Ecco, io stesso come questi soggetti avevo nascosto qualcosa a quelli che erano i miei parenti, tacendo la mia identità e mentendo spudoratamente, quando la situazione lo richiedeva.

Mi sentivo in colpa, e la mia coscienza era in tumulto.

Salutai Melissa senza troppo entusiasmo, e con un pizzico d’amarezza, della stessa provata da colei che mi stava di fronte, e ripresi il treno che mi avrebbe ricondotto a casa. Le sensazioni che provavo dentro di me erano contrastanti e confuse, un po’ come la mia triste situazione familiare, e per ammazzare un po’ il tempo mi misi ad ascoltare la musica del mio mp3, durante il viaggio di ritorno.

Quando scesi alla stazione del mio paesetto, e spensi l’mp3, mi sentii ancor più sporco, poiché molto probabilmente, una volta a casa, avrei dovuto mentire anche a mia madre, se lei mi avesse chiesto dove mi fossi recato durante quel pomeriggio. Ma purtroppo non avevo ancora intenzione di svelarle che casualmente avevo conosciuto le mie cugine e i miei parenti paterni, anche perché lei me ne aveva sempre parlato discretamente male e non sapevo come avrebbe potuto reagire constatando come mi ero comportato.

Forse, le sarebbe potuto apparire tutto quanto come una mia macchinazione, e che io in realtà fossi andato appositamente alla loro ricerca, ma non era così. Rischiavo il fraintendimento.

Misi a tacere la voce della mia coscienza, che ancora gridava, sempre più inascoltata, e cominciai a camminare frettolosamente verso casa mia, sotto una leggera pioggerellina.

Quando all’improvviso cominciò a squillare il mio cellulare, mi accinsi ad estrarlo dalla tasca destra dei jeans e a rispondere tranquillamente. Mi fermai un secondo e al riparo del mio ombrellino portatile e pieghevole, senza lontanamente immaginare che anche quella giornata aveva in serbo altre sorprese per me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Buongiorno a tutti, cari lettori e care lettrici, e grazie per continuare a seguire e sostenere questo raccontino.

Continuo a ringraziare infinitamente tutti i recensori che mi sostengono fedelmente, e chiunque stia leggendo.

Ci tengo a ringraziare, in modo particolare, la gentilissima GreenWind, che a suo tempo mi ha aiutato a scegliere i componimenti da far suonare ad Antonio in questo capitolo. Grazie, carissima Green, per avermi dato una mano e qualche importantissimo consiglio.

Grazie di cuore a tutti e per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Capitolo 29

CAPITOLO 29

 

 

 

 

 

 

Quando risposi frettolosamente al cellulare, mi ritrovai ad udire dei singhiozzi disperati, emessi certamente dalla mia Jasmine.

‘’Jasmine?’’, chiesi, preoccupato.

Lei continuò a piangere, colma di disperazione.

‘’Oh, Antonio, è così orribile la vita’’, mi disse, dopo un po’, mentre la mia perplessità cresceva.

Rielaborando mentalmente quella frase che mi aveva appena rivolto, mi venne subito da intendere che in quell’eccesso di disperazione ci fosse sicuramente qualcosa che riportava ad Alice.

Jasmine era sempre stata una ragazza molto tranquilla, forse anche fredda a volte, oltre che indomita e ottimista, e non avevo mai avuto l’occasione fino a quel momento di venire a contatto in modo così diretto con un grado di sconforto così elevato in lei.

‘’Non dirmi che Alice ti ha trattato male’’, sancii, dopo un attimo d’esitazione.

La frase mi uscì spontanea dalle labbra, e in modo leggermente infastidito ed irritato. Quella questione stava cominciando davvero a stufarmi.

‘’No, no… oh, se solo sapessi!’’, continuò lei, con un tono angoscioso.

‘’Non so nulla, infatti. Mi vuoi spiegare allora che ti è accaduto?’’, le chiesi, leggermente spazientito. La pioggia aveva cominciato a tamburellare con più insistenza sul mio ombrello, e preferii soffermarmi un attimo a fianco di una grande insegna pubblicitaria, dato che cadeva di vento. Quasi imprecai tra i denti.

‘’Vieni a casa mia. Vieni subito, te ne prego… poi ti spiegherò meglio’’, mi sussurrò, sempre dopo un attimo di pianto isterico.

‘’Va bene, sono già in strada. Dove abiti di preciso?’’, le chiesi, riconoscendo che non ero neppure a conoscenza del suo indirizzo, e di questo mi vergognai un po’.

‘’Circa duecento metri dietro casa tua. Verso la stazione… hai presente il viale della stazione? Ecco, abito al suo imbocco, nella prima casa gialla che avrai modo di vedere’’.

Il mio viso quasi s’illuminò quando Jasmine mi disse dove abitava, poiché allora non dovevo fare tanta fatica per raggiungerla. Ero già nel viale da lei citato, e quindi le ero davvero vicinissimo.

Abbandonai il mio pressoché inutile riparo e, rapidamente, mi mossi con decisione verso l’imbocco del viale che stavo percorrendo, sempre sotto la pioggia ma certo di essere praticamente già a destinazione.

‘’Sono lì tra un attimo, nel frattempo tranquillizzati. A tra poco’’, le dissi, interrompendo la conversazione.

Misi di nuovo il cellulare in tasca e, afferrando a due mani l’ombrello, quasi come se fosse stata la mia arma, cominciai a percorrere il più velocemente possibile quei pochi passi che mi separavano dalla mia meta.

Infatti, in un batter d’occhio, coprii quegli ultimi metri che mi separavano dalla casa di Jasmine, individuando subito la prima abitazione giallognola posta quasi all’imbocco del viale. La raggiunsi e con grande fretta mi attaccai al campanello, anche in modo molto scortese, ma d’altronde la pioggia aveva cominciato a cadere a catinelle e non mi andava di farmi un bagno, poiché anche se avevo l’ombrello a proteggermi tutto quanto stava cominciando a diventare più simile ad un diluvio universale che a una pioggerellina invernale.

Jasmine fu rapidissima a venire ad aprirmi, e subito, notando a distanza il suo viso, potei notare i segni della disperazione ben impressi su di esso.

Diedi un rapido sguardo all’esterno dell’abitazione, notando che anche la mia amata in famiglia non doveva cavarsela male; la casa aveva un bel giardinetto curato che dava sulla strada, come la maggior parte delle dimore del mio paesetto, ed aveva un aspetto molto elegante, quasi antico. Il grande ingresso dava un senso d’imponenza al tutto, che forse rendeva esagerata la prima impressione che si poteva avere del complesso, e quando mi trovai di fronte ai battenti di scuro ferro posizionati simbolicamente sulla porta che dava sulla strada, quasi fui in soggezione.

Accorgendomene, avrei voluto lasciarmi sfuggire un sorriso, riconoscendo che ormai ero sempre in soggezione davanti a tutti e ad ogni cosa, e questo era quasi ridicolo e che avrei dovuto davvero cominciare ad affrontare la mia innata e pressante timidezza, ma la scocciatura della pioggia e il fatto di trovarmi di fronte ad una Jasmine dal volto sconvolto dal pianto recente mi fecero rapidamente allontanare questa balzana e frettolosa idea dalla mente.

‘’Sei stato veloce come un fulmine!’’, mi disse la ragazza, scansandosi per farmi entrare.

Le rivolsi un sorrisetto mesto, mentre chiudevo l’ombrello fradicio e lo appoggiavo a fianco della porta, sul marciapiede.

‘’Ne dubitavi?! Appena ho sentito il tuo pianto, mi sono precipitato subito. Ma che è successo?’’, le chiesi, non indugiando oltre e cacciando dal mio viso ogni segno che poteva far nascondere la mia preoccupazione.

Entrai in casa dopo essermi pulito ed asciugato scrupolosamente le scarpe sul grande zerbino che dominava l’atrio, e mi trovai di fronte ad un corridoio per nulla ampio e spazioso, simile a quello di casa mia, ma tappezzato da grandi tele dipinte con i classici disegni africani, che donavano all’ambiente una discreta aura esotica. Restai piacevolmente sorpreso dallo stile di ciò che mi circondava.

Non ottenni alcuna risposta da parte di Jasmine, che riprese a piangere sommessamente, e fui costretto a richiudere la mia dannata boccaccia, ancora mezza spalancata per lo stupore causatomi da quell’insolito ambiente che mi ero trovato improvvisamente di fronte, poiché la ragazza piombò letteralmente tra le mie braccia.

Tra me e lei c’era sempre stato una sorta di feeling fisico, spesso ci eravamo tenuti per mano, o scambiati qualche bacetto quasi casto sulle labbra, insomma tutto era stato piuttosto freddo fino a quel momento, in cui il selvaggio cuore della mia amata doveva aver abbandonato ogni sua ultima resistenza, forse a causa di quella disperazione causatale da qualcosa ancora a me ignoto.

Sbalordito, ma per fortuna in modo piacevole, ne approfittai per stringerla anch’io tra le mie braccia, tra le quali lei si era fatta gentilmente spazio, senza imporsi ma facendomi capire che aveva bisogno di me. Ed io c’ero, ed ero tutto per lei.

Nel bel mezzo dell’ingresso di casa sua, mentre a pochi passi da noi una fitta pioggia invernale faceva da padrona indiscussa di quella giornata cupa e grigia, ma piena di sorprese per me, io e l’unica persona che amavo con tutto me stesso ce ne siamo stati abbracciati, quasi avvinghiati, per qualche minuto, che in quel caso valeva quasi quanto ore o giorni.

Jasmine continuò a piangere, e ricordo perfettamente come io cercai di infonderle calore col mio corpo, di stringerla in modo consapevole a me, così da non farle male ma da passarle tutti i miei sentimenti senza alcun bisogno di aggiungere futili parole a quella situazione che già parlava da sé. Poi, lei si ritrasse improvvisamente, e affrettandosi ad asciugarsi le lacrime, richiuse anche la porta d’ingresso.

‘’Non riesco a raccontartelo subito. Proprio non riesco. Ma dovrò farlo, prima o poi…’’, tornò a dire la ragazza, singhiozzando di nuovo in maniera disperata.

Il mio cuore era allegro ma a pezzi, non riuscendo a capacitarmi di fronte a tutto quel dolore, e anche in me crebbe una disperata impotenza, un sentimento troppo duro per essere trattenuto. Mi avvicinai a lei e le sfiorai gentilmente un braccio, per attirare la sua attenzione su di me e tentare di farla smettere di disperarsi, in un vano tentativo di riportarla alla ragione.

‘’E’ tutta colpa di Alice, giusto?’’, le chiesi, quella volta con maggior insistenza ed affondando il dito nella piaga, seppure inconsciamente. Dovevo comunque scoprire la causa di tutto quel dolore, e non sopportavo più il fatto che essa mi fosse celata dietro a quelle lacrime.

Jasmine, udendo le mie parole, spalancò gli occhi in maniera vistosa, e mi afferrò le mani, stringendomele tra le sue.

‘’Smettila, ti prego, di parlare di lei con questo tono. Non lo merita’’, tornò a dirmi, senza scomporsi. Avrebbe voluto dirmi altro, ma una coppia di persone adulte fece capolino da una delle stanze vicine, entrando a tutti gli effetti nel corridoio che fino a quel momento era stato l’unico e muto testimone del nostro incontro.

‘’Figliola, perché non fai accomodare il tuo ospite? Abbiamo atteso tanto per conoscerlo. Antonio, giusto?’’, disse l’uomo, gentilissimo, mentre faceva qualche passo verso di me, tendendomi maturamente la mano.

Compresi fin da subito che doveva trattarsi del padre di Jasmine, così come la signora doveva essere la madre.

‘’Sì, è così. Antonio Giacomelli’’, dissi timidamente, stringendo la mano dell’uomo, mentre Jasmine, che era stata rapidissima a lasciare le mie mani quando i genitori avevano fatto capolino nella scena, si ritrasse un po’ da me e si diresse verso la madre.

‘’Io mi chiamo Giorgio Camilletti, piacere di conoscerti, e sono il padre di Jasmine’’, mi disse nuovamente il genitore della mia amata, mentre mi stringeva calorosamente la mano.

Quello che mi stava davanti era un uomo alto, ma ancora slanciato, e maturo. Gli diedi più o meno cinquant’anni, anche se i capelli eccessivamente ingrigiti forse lasciavano intendere che avesse qualcosa in più. I suoi occhi erano gli stessi della figlia, di un castano molto scuro, ed era perfettamente rasato e ben vestito.

La donna che gli stava alle spalle, invece, riuscii solo a scorgerla di sfuggita in quel primo momento, e comunque anche lei era alta almeno tanto quanto il marito, e magra come uno spillo. La sua pelle era scura, nera ed esotica, quanto quella della figlia.

‘’Piacere mio’’, sussurrai, ancora timidamente e sentendo che la mia pelle pian piano si stava arrossendo sul viso.

‘’E questa è mia moglie, Claire’’, me la presentò Giorgio, sfruttando al massimo il momento delle presentazioni e tornando a lasciarmi la mano e ad indietreggiare di qualche passo.

La signora mi sorrise, e riconobbi che anche lei aveva una parvenza molto dolce. Pareva davvero una di quelle classiche signore di colore che apparivano nei film, di quelle buone e gentili, magari anche sfacciate quando la situazione poteva richiederlo, ma comunque con un certo charme e un animo pacato.

Io mi sono sempre affidato spesso alle prime impressioni, e in quel caso furono entrambe positive, e dovetti ammettere a me stesso che quel primo impatto non era stato male, e che i genitori della mia Jasmine mi erano apparsi fin da subito come due gran brave persone.

‘’Ma vieni, accomodati pure’’, tornò a dire il padre della ragazza, invitandomi ad entrare nella stanza dalla quale erano sbucati entrambi poco prima. Sorrisi timidamente, accogliendo il suo invito e seguendolo, seguito a ruota dalle due donne, per poi trovarmi nell’ennesimo ambiente arredato in stile africano.

Quella sorta di soggiorno non era molto spazioso, ma in quattro ci si stava bene, e c’erano più poltrone e un divano, con un televisore posizionato un po’ marginalmente all’interno della stanza. C’era un po’ di mobilia, tutta europea quella, ma sopra di essa ed ovunque regnava l’Africa, indiscussa regina di casa Camilletti. Non soltanto i muri continuavano ad essere tappezzati da carte da parati variopinte e ricoperte di disegni africani, ma come soprammobili c’erano decine e decine di statuette di legno intagliate in un legno scuro sempre proveniente dall’Africa.

Ero estasiato.

‘’Vivete in una casa molto bella, e molto ben arredata’’, mi azzardai, sempre timidamente.

Giorgio sorrise, mentre la moglie si accomodava a suo fianco sul divano, e Jasmine si avvicinava lentamente a me, che stavo prendendo posizione su una delle poltrone.

‘’Io sono nato in questo paesino, ma ho sempre lavorato in Africa. Sono un ingegnere, e per mia scelta ho deciso, a suo tempo, di dedicarmi a lavori e progetti molto ardui. Ho avuto modo di lavorare in Libia, Etiopia ed Eritrea, e sono totalmente innamorato dell’Africa, delle sue popolazioni e delle sue culture, come puoi vedere. Poi, mia moglie ha fatto il resto. Ha cambiato la mia vita, da quando l’ho conosciuta una ventina d’anni fa ad Addis Abeba’’, disse l’uomo, sempre con un sorrisetto stampato sul volto ed afferrando la mano della moglie.

‘’Non ascoltarlo, Antonio. È stato lui a cambiare la mia vita; ti basti pensare che prima d’incontrarlo ero sempre stata una straniera nel grande Continente Nero, ed ho vissuto una vita di fame e colma di dolore.

‘’I miei genitori erano appartenenti a nazionalità diverse, mia madre era ugandese e mio padre senegalese. Il mio genitore era un uomo che aveva studiato nel suo Paese, avendo avuto accesso ai primi aiuti internazionali, ma a causa delle guerre e dei disagi continui aveva dovuto abbandonare la sua casa, trasferendosi in Uganda, conoscendo poi mia madre, una ragazza povera del posto, i cui genitori erano pescatori, campando di ciò che il grande lago Vittoria poteva loro offrire.

‘’Non seppi mai il vero motivo del perché avesse scelto, un uomo come lui, di andare a vivere proprio in Uganda, un Paese così fragile, poiché morì di una malattia incurabile quando avevo pochi anni di vita. Mia madre lo raggiunse qualche anno dopo, ed io, che ero solo una ragazzina affamata, dovetti abbandonare il mio paesetto natale, a seguito dello scoppio dell’ennesima guerra tra etnie.

‘’Mi aggregai a migliaia di altri profughi, in marcia verso ogni possibile direzione, dato che l’importante era fuggire dalla guerra interna del nostro Paese, e siccome la vicina Etiopia pareva non voler cercare di bloccare il movimento dei profughi, riuscimmo a raggiungerla a piedi dopo alcune settimane passate pressoché senza cibo e solo con qualche goccio d’acqua, attraversando le savane dell’Africa centrale.

‘’Continuando la mia marcia verso nord tutta sola, forse nell’impossibile tentativo di tentare di raggiungere l’Egitto e quindi le coste del Mediterraneo, riuscii a fuggire dal campo profughi etiope costruito al confine con la Tanzania da alcuni volontari europei, e raggiunsi Addis Abeba grazie alla bontà della gente del posto, povera ma disponibile ad aiutare chi ha bisogno’’.

‘’E lì ci conoscemmo. Io ero un giovane ingegnere, come ti ho già detto, e quando ho incrociato per la prima volta gli occhi di questa splendida ragazza, in un vicolo povero della capitale etiope, decisi di darle una mano e di sostenere quella tacita richiesta di soccorso che brillava nel suo sguardo.

‘’E il resto puoi immaginarlo; ci siamo innamorati ed amati, fino a questo momento. Poi, stufo di questa vita vagabonda e molto dura, ho deciso di tornare in Italia, precisamente nel mio paesino natale, e ovviamente mia moglie mi ha seguito, in seguito scoprendo che era già incinta di Jasmine’’, aggiunse il marito, facendomi l’occhiolino e dando fiato alla moglie. I due apparivano come una coppia loquace ed affiatata, e questo quasi mi sorprese.

Sorrisi, avendo ascoltato tutta quella vicenda narratami per la maggior parte dalla voce dolce ed esotica di Claire, e guardando i due coniugi l’uno a fianco all’altro, mi parve evidente che la figlia dalla madre avesse ereditato solo la colorazione della pelle.

Infatti, Jasmine sul volto aveva ben impressi i lineamenti occidentali ed europei del padre, e mi meravigliai quasi di non essermene mai accorto. Ma, logicamente, fino a quel momento non avevo mai visto il padre, però almeno potevo cogliere qualcosa in quel bellissimo viso, che fino a pochi istanti prima mi era sempre parso molto esotico.

Ancora colpito dalla storia colma di coraggio appena narratami, dato che non avrei mai potuto immaginare una simile epopea nella vita di quella semplice signora, che doveva avere solo qualche anno in meno del marito, notando i suoi capelli ricci e striati leggermente di un grigio naturale, e continuando i miei ragionamenti sui lineamenti del viso della mia amata, quasi la mia mente si rilassò troppo.

‘’Siamo contenti che tu sia accorso a casa nostra, non appena nostra figlia ha avuto bisogno di una presenza amica a suo fianco, in questa giornata così triste per lei’’, riprese a dire Giorgio con grande serietà, mentre un piccolo singhiozzo truce di Jasmine tornava a risuonare nell’aria.

Ancora non ci avevo capito molto, e mi stavo accingendo a ringraziare e a chiedere ancor più esplicitamente le cause di tutto questo dolore, magari cercando di riformulare la domanda in modo molto cortese, ma la ragazza non me ne diede il tempo.

‘’Mamma, papà, ve l’ho già detto, Antonio non è un semplice amico… è il mio ragazzo’’, disse infatti Jasmine, a sorpresa.

Mentre i due coniugi si concedevano un altro sorriso, questa volta quasi commosso, io quasi mi strozzai deglutendo, essendo totalmente impreparato ad un annuncio di quel genere.

Dopo aver dato due colpi di tosse, mi volsi verso la ragazza che amavo, ma che fino a poco tempo prima era stata sì mia, ma anche molto fredda, e non mi sarei mai creduto fino a quel momento che lei potesse aver già parlato di me con i suoi, giungendo anche a presentarmi in quel modo.

Jasmine mi stava guardando con una dolcezza infinita, e pareva aver sospeso momentaneamente il suo disperato dolore, ed io non potei far a meno che sorriderle e rilassarmi, convinto che a quel punto noi due eravamo giunti ad una nuova fase della nostra relazione, non più quasi distaccata e distante, molto infantile, ma più matura ed adatta a ragazzi della nostra età.

‘’Ci sembri davvero un bravo ragazzo. Complimenti per aver conquistato il cuore di nostra figlia!’’, si complimentò il padre, anche lui molto emozionato.

Mi sentivo ironicamente quasi ad un passo dal matrimonio, vista l’emozione dei possibili futuri suoceri, e questo mi fece tornare a sorridere di nuovo, ma d’altro canto ero felice che pure loro fossero contenti della nostra giovanile e primissima relazione. Inutile dire che ero diventato bordò in volto dall’imbarazzo, ma comunque cercai di contenere la mia eccessiva ed innata timidezza.

‘’Però, Antonio, non ti ho chiamato qui solo per farti conoscere i miei e per farti ascoltare le loro storie, ma per un altro motivo molto più importante’’, tornò a dire Jasmine, oscurandosi di nuovo e preannunciando nuove lacrime.

Io la guardai, restando in silenzio, per spronarla a parlare. Ormai mi aspettavo di tutto.

‘’Vorrei che tu mi accompagnassi, assieme ai miei genitori, a trovare Alice’’, concluse, emettendo un piccolo singhiozzo finale.

Strabuzzai gli occhi, come se avessi appena ricevuto un pugno nel ventre.

‘’Guarda, vorrei davvero venire, ma ieri sono caduto e mi sono fatto male…’’, tentai di dire, cercando qualche scusa.

La mia amata non doveva essere a conoscenza del mio incidente del giorno prima, dato che io non l’avevo messa al corrente. Le avrei narrato tutto al momento opportuno.

‘’So che non vuoi venire perché credi che lei ce l’abbia con te, e che il suo repentino cambio d’umore e di comportamento nei tuoi confronti derivi da una qualche antipatia, o dalla gelosia per qualcosa, ma non è così!’’, trillò disperatamente Jasmine, con un vocino stridulo, cercando come sempre di farmi capire qualcosa che non voleva dire direttamente.

‘’Antonio, Alice è malata. Non era più in sé, ultimamente’’, mi disse pacatamente Claire, sempre seduta di fronte a me.

‘’In poche parole, la ragazza è malata da tempo, e forse è addirittura incurabile, dato che la sua malattia è stata scoperta troppo tardi… e con essa, ovviamente, anche la causa dei suoi disturbi. Alice ha un tumore al cervello’’, disse Giorgio, preferendo pochi giri di parole e andando direttamente al dunque.

Rimasi a bocca aperta, senza parole. Jasmine, a mio fianco, riprese a piangere udendo ciò che aveva detto il padre, come se fino a poco prima avesse lottato per rimuovere tutto.

‘’Vado a prepararmi. Antonio, conto sulla tua presenza’’.

E così dicendo, la mia amata lasciò la stanza, disperatamente scompigliata. Claire si scusò con un semplice sguardo e si precipitò ad inseguire la figlia, già lanciata probabilmente verso la sua stanza.

Rimasto solo con Giorgio, e ancora a bocca semi spalancata dall’incredulità, fissai l’uomo che avevo di fronte, impettito e serio.

‘’Ti prego di perdonare mia figlia, lei era molto attaccata ad Alice. Hanno sempre frequentato le stesse classi e le stesse scuole, fin dall’asilo, e si sono sempre incontrate a casa. Erano grandi amiche, e la sua improvvisa e strana scomparsa, seguita da questa notizia, l’hanno destabilizzata. Temiamo che possa compiere qualche sciocchezza, e sono due giorni che piange ininterrottamente.

‘’Ti prego quindi, con tutto il cuore, di venire con noi, perché lei vorrebbe farle visita all’ospedale in cui è ricoverata ed ha bisogno di avere a suo fianco ogni persona a cui tiene. E lei ci tiene molto a te, sapessi quanto ci ha parlato della tua timidezza, dei tuoi sguardi dolci, della tua gentilezza… ecco, non lasciarla proprio adesso.

‘’Stalle a fianco se ti va, altrimenti ti prego di fare un piccolo sforzo, rivolto a chi sta soffrendo tantissimo e ti ama con tutto il suo cuore. Conosco mia figlia, e so che non ha mai amato nessuno come ama te, e se anche questa sarà la vostra prima storia d’amore, una storiella tra ragazzi, avrà pur sempre una grande importanza per tutta la vostra esistenza. Fallo per lei, te ne prego, stalle a fianco in questo momento’’, disse il padre della mia amata, quasi commosso.

‘’Starò a suo fianco, lo farò di certo, costi quel che costi. Anch’io tengo molto a lei, e a dirla tutta devo molto anche ad Alice. Verrò con voi, sono già pronto’’, rassicurai l’uomo, in modo molto schietto e sincero. Era ciò che pensavo in quel momento tanto concitato e doloroso.

Quasi non riuscivo, o non volevo crederci a ciò che avevo appena saputo. Avevo accusato per un bel po’ di tempo Alice, non sapendo che essa stava covando un male di cui neppure lei era a conoscenza, e stavo davvero malissimo.

‘’Anche noi conosciamo bene i suoi genitori, sono davvero delle brave persone, e non meritano tutto questo, così come non lo sta meritando Alice. Oh, quanto mi dispiace! Queste sono davvero cose orribili, che non dovrebbero mai accadere, se il mondo fosse giusto…’’.

Smisi di ascoltare Giorgio e mi richiusi in me stesso e nelle mie paure.

Mi accorsi dopo un po’ che stavo tremando, quasi fremendo, e non ne comprendevo il motivo.

Non ascoltai più nessuno, e seppi solo sfiorare una mano alla mia Jasmine, quando essa si dichiarò pronta per partire, e salii in macchina assieme a lei e ai suoi genitori. Non avvisai neppure mia madre del mio possibile ritardo, dal tanto che ero mentalmente disastrato.

Dimenticai tutto ciò che mi era accaduto nei giorni precedenti e nelle ultime ore, e mi lasciai di nuovo trascinare verso un disperato abisso che sapeva anche di colpevolezza, poiché avevo attribuito tante colpe ad una ragazza gravemente malata e, a quanto pareva, in fin di vita. Anche se non lo sapevo nelle settimane precedenti, ero stato una canaglia a comportarmi così.

Stavo malissimo, su quel bel fuoristrada bianco che si stava approssimando ad imboccare l’autostrada.

 

Se fino a questo momento i miei ricordi sono sempre stati piuttosto vividi, e comunque in ogni caso sono riuscito a rimetterli assieme e a risistemarli in un ordine che forse non è perfetto, ma è sempre molto meglio del caos, ebbene, di quello che vorrei rimembrare in questo particolare istante non riesco a collegare nulla di concreto.

Forse è perché non voglio farlo per davvero, e il mio Inconscio sta cercando di nascondermi una parte della mia esistenza per non farmi rivivere un trauma, come direbbe di certo qualsiasi buon conoscitore di Freud in modo molto semplicistico, e credo che in fondo sia meglio così.

Per far luce sulla mia visita in ospedale ad Alice, beh, mi restano solo poche immagini sfocate, che assieme a qualche parola danzano liberamente nella mia mente, generando un’impietosa confusione all’interno della mia già provata scatola cranica. Mi accontenterò quindi di sfiorare qualche ricordo, come se tentassi di fare solo un timido assaggio di esso.

Insomma, dopo il viaggio in auto con i genitori di Jasmine e Jasmine stessa che piangeva e mi stringeva forte le mani tra le sue, giungemmo all’ospedale, penso fosse il Sant’Orsola, quello tanto legato alla mia vita prenatale. Non lo ricordo e non ci tengo a cercare dei dettagli, in questo caso.

La nostra visita fu breve, ricordo, e ripiena di dolore. Jasmine era disperata, e gli stessi suoi genitori con lei. Io ancora non volevo crederci.

Dentro la struttura, incontrammo casualmente i genitori di Alice, ma il padre ci deviò e la madre invece si lasciò avvicinare. Un trauma, per noi e per lei. Ci diedero il permesso di vederla, ma senza entrare in contatto con la ragazza, e potemmo solo scorgere il suo viso pallido e la sua testa calva e tutta bendata.

‘’Le hanno aperto il cranio, nel tentativo di rimarginare l’ammasso che si era creato al suo interno. Ora è ancora addormentata, ma non è detto che si svegli, e se quando si sveglierà sarà ancora come prima. L’intervento era quasi impossibile, dato lo stadio avanzato della massa tumorale’’.

Queste le uniche parole della madre di Alice, una donnina tutta tirata e dall’aspetto perbene che ormai pareva aver finito le lacrime da piangere. Queste sono le uniche parole che io ricordo e che ricorderò per sempre, e per l’eternità esse rimbomberanno nella mia mente ogni volta che addosserò qualche colpa a qualcuno senza avere la certezza che sia colpevole.

Alice era malata, e nessuno di noi se n’era accorto. I suoi frequenti mal di testa erano stati associati ad una forte propensione all’emicrania, molto comune nel periodo focoso dell’adolescenza a causa dello sviluppo ormonale, e le sue febbri e la sua debolezza erano passate per una semplice forma influenzale difficile da estirpare. Nessuno aveva fatto svolgere analisi del sangue o quant’altro, nessuno aveva neppure lontanamente immaginato una simile tragedia.

Quando la ragazza aveva cominciato pure a dare di matto e a comportarsi in modi inusuali, mostrando vari disturbi comportamentali mai mostrati fino a quei fatidici momenti, i genitori si erano preoccupati, scegliendo anche di farla frequentare da uno psicologo, ma poi non c’era stato il tempo per fare altro, poiché Alice una sera era svenuta e non aveva più ripreso conoscenza. La successiva corsa in ospedale aveva fatto chiarezza sul reale stato delle cose.

Stavo per mettermi a piangere anch’io in quegli istanti, la mia stessa vista era sfocata.

Alice, quella ragazza tanto dolce che avevo conosciuto, era stata monopolizzata da una malattia, e quella che per me si era dimostrata come una forma di schifosa gelosia in realtà era l’espressione più chiara del suo subdolo male. Ed io, invece di starle a fianco o di cercare comunque di comprendere meglio la sua reazione di quell’ormai lontano giorno in cui mi aveva praticamente sbattuto fuori da casa sua, mi ero allontanato da lei, lasciandola sola.

Lei mi era stata vicina quando non avevo neppure un cane a mio fianco, quando tutto pareva perduto e un bullo mi perseguitava ovunque, e mi aveva permesso di conoscere Jasmine e di avere più fiducia in me stesso. Io l’avevo ricompensata fregandomene altamente di lei.

Il mio castello di carta che mi ero costruito all’interno della mia mente collassò di nuovo, e tornai ad affrontare un altro momento buio, molto più meschino e coinvolgente dei precedenti, poiché quella volta si trattava di una battaglia contro me stesso. Mi sentivo da schifo, e forse ero davvero uno schifo di persona.

Sapevo che non avevo cause in tutto questo, però avrei potuto almeno stare vicino a quella ragazza che mi aveva dato tanto, senza allontanarmi da lei al primo incrocio, abbandonandola da sola. Lei non l’avrebbe fatto con me.

Convissi con le mie consapevolezze fintanto che non fui giunto di nuovo a casa mia, totalmente svampito ed incapace anche solo di riuscire a mettere assieme una frase dotata di senso logico, ma d’altronde non mi serviva questa facoltà, poiché certe situazioni non si possono davvero descrivere con immagini o parole, e si possono soltanto ed arduamente vivere sulla propria pelle.

Abbandonato l’ospedale e il capezzale di Alice, e una volta tornato al mio paesetto, schizzai fuori dalla macchina dei miei accompagnatori la prima volta che si fermarono ad un semaforo periferico, e tornai a casa a piedi, senza averli neppure salutati. Almeno, aveva smesso di piovere.

Spensi subito il cellulare, e una volta tornato a casa deviai mia madre, sfoggiandole un muso duro da spavento e correndo a chiudermi a chiave in camera mia, al buio e da solo.

Non badai a nient’altro, immerso nell’oscurità del mio dolore e nel baratro delle mie riflessioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno a tutti voi, cari lettori e care lettrici!

Ed ecco svelato il mistero che gravava su Alice… purtroppo è stata una scoperta molto dura.

Vi ringrazio per continuare a leggere e a seguire il racconto.

Grazie di cuore, e buona giornata a tutti! A lunedì prossimo.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Capitolo 30

CAPITOLO 30

 

 

 

 

 

 

I miei ricordi riprendono ad essere chiari a partire dal mattino successivo a quella mia tragica scoperta.

Mentre i lividi fisici lasciati dalle mie disavventure delle giornate precedenti cominciavano a dolere molto meno, facendo sentire il mio corpo in forma quasi smagliante, il mio animo invece era a pezzi. E la conseguenza di tutto ciò era che mi sentivo davvero mentalmente scarico. Un catorcio, in poche parole.

Appena mi svegliai, mi andai ad arenare su una delle tre piccole e scomode sedie posizionate nel salotto a fianco della cucina, dove c’era anche il televisore dotato dello schermo più grande di casa.  

Mi misi quasi in panciolle, dopo aver adeguatamente avvisato mia madre degli eventi del giorno precedente, più nello specifico quelli riguardanti ciò che era accaduto ad Alice.

La mia povera mamma doveva aver creduto che io fossi innamorato della ragazza, visto come ne parlavo, e scossa anche lei dalla notizia mi aveva prontamente perdonato per il mio comportamento della sera prima. Mi aveva di conseguenza perdonato anche per non averle aperto la porta della mia stanza quando lei bussava disperatamente, per informarsi di ciò che mi era successo, dato che ero rientrato in casa ad ora tarda e sconvolto, e naturalmente aveva approvato la mia proposta di stare a casa anche quel giorno da scuola. Era un sabato, quindi sarei rientrato al liceo solo la settimana successiva.

Con la consapevolezza che a scuola non avrei perso molto, e che comunque non ci sarei andato neppure per quel giorno, avevo poi acceso il cellulare e trovato decine di telefonate di Jasmine. Logicamente la richiamai e la rassicurai, siccome sia lei che i suoi genitori si erano preoccupati quando avevo abbandonato la loro auto durante il ritorno, ma cercai di chiudere la chiamata il più in fretta possibile. Ero troppo affranto per continuare a parlare di ciò che avevo scoperto il giorno prima.

Ero come affetto da una sorta di dolore primordiale ed ancestrale, come un grande senso di colpa opprimente, ma anche molto irrazionale e forse non troppo sensato. Mi sentivo quasi come se avessi la coscienza sporca, e dovetti riconoscere che forse un po’ l’avevo per davvero. E il problema era che non avevo la benché minima idea di come rimediare.

Potei soltanto ripromettermi che non avrei mai più giudicato una persona cara senza cercare di starle a fianco e di scoprire cosa l’affliggeva, in modo da non lasciarla mai sola, nonostante tutto quanto.

Devastato mentalmente e confuso, me ne rimasi quindi già da buona ora in una posizione strana, e seduto nella stanzetta più angusta di casa, fatta sistemare a dovere dai miei nonni un decennio prima, quando avevano deciso di sacrificare parte della cucina, siccome era un’ambiente troppo grande per tutti noi, per creare un piccolo spazio dedicato alla tv, in modo che chi volesse guardarla potesse anche non stare in mezzo agli odori della cucina o al chiasso di casa. Quella era una sorta di camera isolata e letteralmente stritolata tra quattro mura, ed era il posto migliore in cui andarmi a rifugiare in quel momento.

Con le gambe incrociate sotto il sedere, così come le posizionavo quando ero estremamente agitato, mi dondolai un po’ con la schiena e poi accesi la televisione, cercando di soffocare la mia insolita ansia e i miei problemi provando a seguire qualche trasmissione o film.

Fui fortunato, poiché non appena accesi l’apparecchio mi trovai subito di fronte ad una serie tv, di quelle poliziesche che continuano tutt’ora ad andare di moda, e che un paio d’anni fa impazzavano liberamente e grandiosamente un po’ su tutti i canali. Inutile dire che non seguii più di tanto la trama, ma almeno rimasi bloccato per un po’ davanti allo schermo televisivo senza darmi troppe noie.

Durante uno degli spazi pubblicitari, che sempre appaiono infinitamente lunghi, osservai alcune pubblicità come se fossi pietrificato. Erano pubblicità dei panettoni, dei regali natalizi e di festività.

Deglutendo, fui costretto a riconoscere che nell’ultimo periodo mi ero lasciato talmente tanto andare ai miei problemi personali da dimenticare addirittura l’imminente avvicinamento del Natale e delle vacanze natalizie, Natale che si sarebbe festeggiato tra poco più di due settimane. Ed io quell’anno ero così triste e provato da non riuscire neppure a realizzare tutto ciò.

Quelle pubblicità mi facevano davvero tanta pena, soprattutto quasi mi disgustava vedere quei babbi natale che spuntavano ovunque, con il loro sorriso mediocre che sarebbe dovuto apparire alla gente come un qualcosa di buono e di disinteressato, quando invece dietro a quelle lunghe barbe bianche e rigorosamente finte si nascondeva il volto di uomini che venivano pagati per fare tutto ciò, e che pubblicizzavano qualche prodotto.

Anche il Natale ormai era diventato un appuntamento col consumismo, non un qualcosa da vivere felicemente assieme, in famiglia o con gli amici, cercando tutti di volerci più bene e di essere più buoni con il prossimo. Era semplicemente la festa dei soldi spesi in cibarie e nei regali, tutto qui.

‘’Quella che era una delle festività più importanti del mondo cristiano è diventata solamente la festa dei pandori e dei panettoni’’.

Roberto, che parlò alle mie spalle, mi aveva quasi spaventato. L’uomo doveva avermi cercato, per poi prendere parola non appena mi aveva intravisto.

Mi volsi leggermente verso di lui, per poi distogliere subito lo sguardo dopo aver annuito leggermente con la testa. Era da due giorni che non mi parlava, ovvero da quando tra me e Federico c’era stato il confronto finale, e finalmente, non seppi mai il perché, aveva deciso di rompere volontariamente il velo di silenzio che era sceso tra di noi, quasi a dividerci per sempre.

Il mio inquilino se ne stette in piedi alle mie spalle, mentre l’ennesima pubblicità dei panettoni si snocciolava in tv ed io me ne restavo chiuso nel mondo cupo dei miei tristi pensieri e delle mie riflessioni forse fin troppo banali.

‘’E’ quasi uno scherzo del destino, se ci pensi un attimo su. Gesù Cristo è nato e morto per noi, ha dato la vita per salvare la nostra anima dal peccato e per concederci l’opportunità della vita eterna, e noi stessi come ricambiamo il suo sacrificio? Ma è ovvio, mangiando panettoni e pandori, e ricoprendoci a vicenda di regali. Viva l’egocentrismo nella sua massima espressione! Sono gli umani che vogliono trasformarsi in divinità, sfruttando la materia’’, continuò il mio interlocutore, leggermente divertito. Continuava a parlarmi per cercare di ottenere una risposta, e mi chiesi se si stesse comportando così perché mia madre gli avesse detto qualcosa a riguardo del mio stato d’animo del momento, ma questa mi parve fin da subito una sciocchezza.

‘’Non vedi mai nulla di positivo nell’essere umano’’, sbottai, senza aggiungere altro.

‘’Guarda Antonio, io mi ricordo le festività di Natale di tanti anni fa, quand’ero ancora un bambino o un ragazzo come te. Io e mio padre festeggiavamo il santo giorno organizzando assieme un bel pranzo con tutti i nostri parenti, e per tutto l’arco della settimana prima di quel momento stavamo assieme, ci preparavamo assieme ed io cercavo di offrire il mio contributo attivo nella preparazione dei pasti, nonostante che solitamente finissi per combinare pasticci. Ma durante quella settimana, e durante quella santa giornata, noi andavamo perfettamente d’accordo e non litigavamo mai. E sai che mio padre era un tipo tosto, te l’ho già detto tante volte!

‘’Il Natale quindi compiva un miracolo, ed io non vedevo l’ora che arrivasse. Poi, al pranzo partecipavano anche i parenti della mia defunta madre, a volte, e anche se mio padre non ci era mai andato d’accordo in gioventù, in quel giorno si sforzava di essere accogliente e buono, si sacrificava davvero per il bene comune. Ed io ero tanto felice! Non si scambiavano tutti questi regali come si fa ora, e non c’erano vagonate di pandori, panettoni e prodotti vari, ma si stava assieme, si mangiava e si beveva in compagnia, si parlava del più e del meno e si andava d’accordo. Questa era la magia del Natale.

‘’Oggi, invece, ci si ricopre di doni e via, non ci si sofferma più a stare assieme, a concedersi una pausa piacevole dalla frenesia del mondo e della vita quotidiana. Nessuno attende più questo santo giorno per stare in compagnia di persone che magari non vede mai durante l’anno, o per concedersi una pausa dalle diatribe e magari cercare attivamente una soluzione per tentare di andare d’accordo. La magia del Natale è svanita! Si attende solo il regalo, magari un bel paccone grande, e non la presenza altrui. Uno schifo, davvero’’, concluse Roberto, fin troppo esaustivo come sempre.

‘’Hai ragione, ma penso che non sia così per tutti’’, replicai, sempre cercando di attaccare la sua idea pessimista sull’umanità, che in parte condividevo silenziosamente.

‘’No, per fortuna no. Ma la maggior parte di voi ragazzi è così’’, obiettò il mio interlocutore, a sostegno della sua tesi.

Mi mossi leggermente sulla mia sedia e non risposi, facendo finta di non aver udito. L’ultima cosa su cui m’importava parlare in quel momento era proprio il Natale.

Fui sul punto di cercare di aprirmi con Roberto, e di parlargli dei miei tormenti interiori, spinto dalla sua voglia di avvicinarmi, ma non ci riuscii. Pensai che se l’avessi fatto forse sarei potuto star meglio, anche perché quell’uomo ormai era diventato un soggetto di cui mi fidavo, e sapevo che non avrebbe né riso né messo in giro chiacchiere.

Era saggio, e forse una parola per me o un consiglio avrebbe potuto averli. Ma la mia timidezza e l’agitazione di quel giorno m’impedivano davvero di aprirmi autonomamente a qualcun altro, quindi finii per restarmene muto e in rigoroso silenzio, mentre sullo schermo della televisione il break pubblicitario finiva e riprendeva la trasmissione della serie tv.

Sullo schermo riapparì il solito poliziotto americano con in mano una pistola carica, che si guardava attentamente attorno prima di chinarsi sul corpo senza vita di una ragazza, a quanto pareva uccisa nel suo appartamento inglobato all’interno di una grandissima e classica metropoli della East Coast, mentre Roberto non pareva affatto convinto di me e non aveva alcuna intenzione di abbandonare la stanzetta.

‘’Come fai a guardare quello schifo?! È assurdo!’’, sbottò, più tra sé e sé che con me.

Gli rivolsi uno sguardo provato.

‘’E perché mai?’’, gli chiesi, lentamente. Non che m’importasse di quella serie tv, che tra l’altro non avevo mai seguito assiduamente ma che conoscevo solo per la sua grande fama, ma forse interiormente m’interessava scoprire cosa aveva da ridire anche a riguardo di tutto ciò.

‘’Non per fare polemica eh, ma le serie tv di quel genere non fanno altro che rimbambire i ragazzi e instradarli sulla via del male. A parte il fatto che ormai sembrano tutte uguali, e che comunque stanno crescendo ed arricchendo il bagaglio utile per i criminali’’.

‘’Ma le fanno vedere in tv…’’, provai a dire, ingenuamente e superficialmente. Inutile che io stia qui a rievocare mentalmente il suo classico sospiro esasperato.

‘’In tv fanno vedere quello che fa comodo e ciò che fa guadagnare soldi, quindi ovviamente tutto ciò che ha molti telespettatori. Queste serie sono molto vivaci, non ne dubito, e chi le guarda rimane intrigato e segue attentamente le varie indagini, ma offrono indirettamente una visione del mondo errata’’, riprese a sancire il mio interlocutore.

‘’E sarebbe?’’, chiesi, un po’ incuriosito.

‘’Beh, tanto per cominciare in ogni episodio o puntata appaiono persone uccise. Un telespettatore che si piazza davanti alla televisione ogni giorno e alla stessa ora per seguirla con puntualità, pian piano viene assuefatto da quel mondo. Ci si affeziona ai protagonisti, e agli attori vari… mentre svanisce lentamente il timore reverenziale che si ha per il crimine e per la morte. Tutti seguono sbavando le varie indagini di poliziotti in gamba, capitani e commissari esperti, medici della scientifica e tanto altro, ma nessuno si preoccupa più della vittima in questione, che viene mostrata riversa al suolo e uccisa barbaramente. La morte, il crimine e l’omicidio diventano quindi una cosa ritenuta normale, mentre invece è anormale’’.

‘’Non ti seguo. Questa comunque è finzione, e quelli sono attori. Nessuno muore realmente, e nessun crimine è incentivato’’, osservai, perplesso.

‘’Va bene, è così e tu che sei una persona normalissima non perdi mai di vista questo punto chiave. Se tutti interpretassero ciò che vedono sullo schermo in questo modo, non ci sarebbero problemi! Ma sai quante persone con disturbi o con intenti omicidi seguono con attenzione alcuni punti di queste puntate, sempre più gestite in modo verosimile, per avere un’idea di come potrà reagire la polizia di fronte ad una possibile situazione simile e reale? E poi, non è forse vero che alcuni videogiochi violenti sono riusciti ad influenzare in modo diretto attentatori e criminali vari? Alla fine, tutto offre uno spunto a chi lo cerca. E in questo caso non è affatto positivo’’, considerò Roberto, sedendosi sulla seconda sedia a pochi passi da me.

Annuii senza pronunciarmi, considerando che tutto sommato ciò che stava dicendo l’uomo poteva avere una base comprensibile. Il tutto però mi appariva alquanto esagerato, nel complesso.

Mi volsi improvvisamente verso il mio interlocutore, e rimasi folgorato nello scoprire che anche lui mi stava guardando, con un leggero sorrisetto stampato sul viso. E cascai improvvisamente dal pero.

Compresi improvvisamente che Roberto aveva parlato fino a quel momento solo per farmi uscire dal mio muto e doloroso silenzio, anche cercando di farmi conoscere in modo diretto alcune sue idee, e dovetti constatare che era riuscito nel suo intento di allontanarmi anche solo per qualche istante da quella routine di pensieri cupi che affollavano la mia mente da ore ed ore.

Risposi al suo sorriso appena abbozzato con uno ancor più deciso.

‘’Ecco, un sorriso era proprio quello che ci voleva, anche se non ci sarebbe proprio nulla da sorridere…’’, disse l’uomo, sfoggiando un sorriso più sicuro e marcato.

‘’Non c’è davvero nulla da sorridere, ultimamente…’’, sospirai, tornando serio.

‘’Qualcosa non va?’’, mi chiese, debolmente e senza essere indiscreto.

‘’Direi proprio di sì. Ieri nel tardo pomeriggio ho scoperto che Alice, quella ragazza col caschetto che è venuta anche alcune volte in questa casa, è malata’’, dissi, a voce bassa e spegnendo il televisore.

‘’Spero non sia nulla di grave’’, mi disse di nuovo Roberto, sempre debolmente e con voce fioca e bassa. Stava parlando con cortesia, per non urtare i miei sentimenti e per non spronarmi ad andare dove io non avessi voglia di giungere.

‘’Ha un cancro al cervello’’, quasi gli sputai in faccia, senza mezzi termini. Sul momento non riuscii ad addolcire la tristissima verità, e non ritenevo neppure giusto ed opportuno farlo.

Notando la sua mancata reazione, immaginai che mia madre gli avesse già anticipato tutto. Mi chiesi nuovamente se fosse possibile che fosse proprio stata lei a chiedergli di cercare di parlarmi, conoscendo il fatto che lui era sempre stato abile a farmi aprire e che tutto sommato eravamo sempre andati d’accordo. In fondo, parlare con un uomo loquace e scaltro come Roberto si rivelava sempre un’avventura interessante.

‘’Mi dispiace. Di fronte a simili tragedie, purtroppo, anche le parole rischiano di diventare inutili’’, mi disse, quasi scusandosi per non poter confortare il mio dolore, ma leggermente sollevato per essere riuscito a farmi aprire.

‘’Fidati, anche i pensieri rischiano di diventarlo’’, aggiunsi, ben conoscendo il mio tormento, e realizzando in quel momento quanto in realtà fosse inutile.

Ormai la mia amica era malata, io non potevo far nulla per salvarla o almeno alleviare una qualche sua sofferenza e ciò che avevo pensato su di lei fino a qualche giorno prima era stato un mio grave errore, che avevo già riconosciuto e di cui mi ero ampiamente e profondamente pentito. Ma, nonostante questa nuova consapevolezza, non riuscivo davvero a star meglio, o almeno a tirarmi su un attimo il morale.

Almeno ero certo di aver imparato la lezione; mai sparare giudizi o farsi precise idee senza prima avere la certezza che tutto ciò sia fondato.

Stava di fatto che, in ogni caso, il dolore provocatomi per ciò che stava accadendo ad Alice era tanto, e il dispiacere immenso.

‘’Capisco. Se ti va di parlarne…’’.

‘’Non vedo cosa ci sia da parlarne’’, obiettai io alla cortese proposta del mio interlocutore.

‘’Parlare ad un altro dei nostri tormenti interiori a volte aiuta molto, e ci fa stare meglio. Se ti va, e se ti fidi di me, sai che io ti ascolterò sempre’’, aggiunse Roberto, pacatamente.

Sospirai.

‘’Il dolore per ciò che è accaduto ad Alice è immenso, forse troppo per essere razionalizzato. Lei mi ha salvato dalla mia solitudine, qualche mese fa, e mi ha aperto molte porte… aggiungendo che mi ha fatto anche conoscere Jasmine. Poi, però, tutt’a un tratto ha cambiato repentinamente comportamento nei miei riguardi, e subito io ho pensato a una qualche forma di gelosia provata nei confronti miei e di Jasmine, la sua migliore amica, poiché siamo sempre andati profondamente d’accordo fin da quando ci siamo conosciuti.

‘’Ammetto che per giorni, anche se solo le riservavo un pensiero, mi si metteva in subbuglio lo stomaco. Poi, ieri ecco la doccia fredda e l’amara scoperta… la mia amica non era cambiata per via della gelosia e dell’invidia, ma a causa di un male che le opprimeva il cervello. Ecco, ora puoi trarre da te le conclusioni, e capire perché non mi do pace da ieri sera’’, conclusi, dopo aver narrato tutti i punti principali della vicenda e del mio tormento interiore.

Roberto mi aveva ascoltato con la sua solita e matura impassibilità, e annuì alla fine del mio breve riassunto.

‘’Capita a volte di farci certe idee su qualcuno. Idee che alla fine si rivelano sbagliate e molto lontane dalla verità. Non tormentarti per un tuo errore! Siamo umani, e sbagliamo a volte. L’importante è che tu abbia compreso che hai commesso uno sbaglio e che ti sia pentito di tutto ciò. Il resto verrà da sé. E a riguardo della malattia della tua amica, beh… Alice non è ancora morta, quindi su col morale, e speriamo assieme che questo maledetto e subdolo male non l’abbia vinta su di lei! E so che anche quella ragazza combatterà duramente per riprendersi in mano la sua vita’’, mi disse il mio interlocutore, cercando di passarmi un po’ di speranza.

‘’E’ vero. Ora è incosciente, sotto l’effetto di potenti sedativi… ma credo che se si risveglierà, lotterà con tutta sé stessa. Il più sarà risvegliarsi dopo l’intervento dei giorni scorsi’’, dissi, ricordando le parole udite all’ospedale il giorno precedente e riconoscendo che effettivamente Roberto aveva ragione, in quello che mi aveva detto poco prima.

‘’Non perdere la speranza, mio caro e giovane amico. Non perderla mai. Alice era una brava ragazza e comprendo dalle tue parole che era una persona dall’animo gentile e piena di cortesia, e che ha fatto del bene anche te. Vedrai che Dio ne terrà conto’’.

Sobbalzai a quelle parole.

‘’Non dubito di ciò che hai detto e ti do ragione su tutto, ma… tu mi avevi detto che non credevi in Dio’’, gli feci notare, ancora leggermente stupito dalla sua affermazione a sorpresa di poco prima.

‘’Non credo in Dio come entità, così come lo vuole la religione, ma credo in Dio come bene e speranza. Non credo quindi che esista un Signore che sta in Cielo e che da lassù ci guarda, ci giudica, ci perdona e quant’altro… ma voglio credere che una scintilla primordiale di bene, molto potente e imparziale, viva qui tra noi, su questa Terra, e che non sia poi così tanto distante. Non so se mi sono spiegato bene’’, proseguì Roberto, tornando a elargire un piccolo e tirato sorriso.

Annuii, lasciando che il mio sguardo scivolasse lentamente verso il pavimento della stanza, di un bianco quasi accecante.

Incredibilmente, dopo quella conversazione mi sentivo davvero molto meglio, come se condividendo il mio tormento e ascoltando il parere di un uomo colto, intelligente e razionale come Roberto mi avesse aiutato ed illuminato. Infatti, in quell’istante nel mio cuore e nella mia mente si era fatta spazio la speranza, e davvero, io avrei creduto nella guarigione e nel sollievo di Alice fino all’ultimo, fin quando ce ne sarebbe stata la possibilità.

Le sarei stato mentalmente vicino, pensandola e sperando che tutto potesse andare bene. Non l’avrei mai più lasciata sola, neppure nei miei pensieri, che in fondo mi piaceva pensare che anch’essi avessero una loro forza, oltre ad avere un peso in grado di schiacciare il nostro povero mondo interiore.

‘’Grazie per queste belle parole. Mi hai illuminato’’, dissi all’uomo, poco dopo. Stavo davvero molto meglio.

Roberto sorrise ancor più apertamente.

‘’Grazie a te per avermi ascoltato, come al solito. Non ho fatto niente di che’’, mi rispose l’uomo, sincero.

A quel punto, tornai ad oscurarmi nuovamente.

‘’Temevo che te la fossi presa con me, poiché erano più di due giorni che non mi avevi rivolto la parola’’, dissi, esprimendo quei dubbi che mi avevano tormentato fin dai momenti successivi alla mia colluttazione finale con Federico.

Il mio interlocutore, udendo quelle parole, parve per la prima volta leggermente sorpreso, poi scosse leggermente la testa.

‘’No, non ero per nulla arrabbiato con te. Tu non hai alcuna colpa. È che purtroppo ormai mi sono rassegnato io… e vedere i frutti di tutto quello che ho cercato di fare negli ultimi vent’anni abbondanti è stato davvero tremendo. Non preoccuparti, sul serio, ero io che avevo bisogno di stare sulle mie, e mi scuso se ti ho tenuto poco in considerazione nei giorni scorsi’’.

A seguito di quel breve discorso, fu il mio turno di scuotere leggermente la testa.

‘’No, assolutamente… ciascuno di noi ha i propri problemi a cui pensare, e non devi scusarti di nulla. Volevo solo sapere se te l’eri presa con me per tutta quella vicenda oppure no… ma mi hai già risposto’’, conclusi, timidamente e in modo impacciato. Non volevo di certo che Roberto mi facesse da balia o mi stesse sempre dietro, d’altronde tra me e lui si era instaurato un buon rapporto, ma io non ero nessuno per lui, ed era pur sempre un estraneo che aveva anche una sua famiglia a cui pensare, tra l’altro piena di problemi.

‘’No, non ero arrabbiato con te, come ti ho già detto. Non dovevi nemmeno pensare ad una cosa del genere. Ora, comunque, vado a prepararmi un caffè… a più tardi’’, mi disse l’uomo, strizzandomi leggermente l’occhio destro some suo solito e dileguandosi con gentilezza.

Ed io, rimasto lì solo, non potei non lasciarmi scivolare di nuovo nel limbo dei miei pensieri, che questa volta erano più leggeri e meno opprimenti, poiché in essi aveva preso spazio anche la speranza. E si sa, la speranza quando radica è poi l’ultima a morire, dentro l’animo umano.

Rivolsi quindi un pensiero ad Alice e sperai con tutto me stesso che la vicenda non finisse in tragedia, ma che il sole potesse tornare a spuntare di nuovo su di lei, perché davvero non meritava tutto quello che stava passando.

 

Quel pomeriggio fu da incubo.

Ancora mi ricordo in modo perfetto ciò che accadde. Infatti, subito dopo pranzo, tornò a casa nostra Stefania, che dopo quel giorno in cui si era beccata una percossa da mio padre non si era fatta più vedere né sentire.

Non fui io a farla entrare in casa, bensì il mio stesso padre, forse convinto che la ragazza si fosse decisa a mettere fine alle ostilità seguendo i suoi consigli. Stefania, dal canto suo, doveva essere venuta in quell’orario inusuale per le visite proprio per non incontrare mia madre, che logicamente non era in casa, ma era al lavoro. Io avevo osservato l’ingresso dell’ospite dalle scale, stando attento a non farmi scorgere, ma tanto non corsi minimamente il rischio, giacché i due che fino a poco prima dovevano aver formato una coppia erano interessati solo l’uno all’altro.

Sergio le si avvicinò, quasi come volerle dare un bacio conciliatorio sulla guancia, ma lei si ritrasse con sdegno. Da quel momento in poi mi fu chiaro che la giovane era giunta fin lì per portare avanti la sua guerra personale.

I due si ritirarono silenziosamente in cucina, dove chiusero la porta dietro di loro, e cominciarono a parlare.

Io, ancora imbambolato sulle scale di casa, mi chiesi se per mio padre fosse un vizio quello di avvicinare donne molto più giovani di lui, magari seducendo ignare studentesse o ragazze che potevano apparirgli abbastanza ingenue da essere sottoposte al suo misero e vigliacco gioco. Pure la mia povera madre doveva aver vissuto, anche se magari in modo un po’ meno drammatico, ciò che stava vivendo Stefania in quel momento.

Scuotendo la testa da solo e senza saper offrirmi una risposta, mi chiesi dove dirigermi, e lì sul posto fui praticamente folgorato da una voglia assurda di suonare. D’altronde, mio padre aveva da discutere con la sua ex, e i due coniugi Arriga erano al piano di sopra, ritirati nella loro stanza, forse anch’essi a bisticciare come avevano cominciato a fare assiduamente nell’ultimo periodo, ed io avevo campo libero.

Col cuore in gola, e con una voglia assurda di riprendere possesso del mio strumento musicale, raggiunsi la mia saletta e mi tappai al suo interno.

Prevedendo che il mio genitore sarebbe stato occupato per un po’, mi feci forza e spalancai i vetri della finestra, facendo così uscire l’aria viziata rimasta intrappolata da settimane tra quelle quattro mura, quasi gelosamente custodita dal freddoloso Sergio, e poi, per la prima volta dopo più di un mese, mi avvicinai al mio pianoforte. Fu una sensazione strana, anzi, un mix di sensazioni differenti, ma in grado di rendermi piacevolmente inquieto.

Un leggero strato di polvere ricopriva tutto quanto, e facendomi coraggio ripulii tutto in un batter d’occhio e con il panno apposito, ancora conservato all’interno del mobiletto vicino. Poi, giunse il momento tanto atteso; quello di sedermi di nuovo lì, di fronte al mio amico di sempre, e tornare a dargli vita e voce.

Deglutii, senza più pensare a chi mi circondava su quel misero mondo, e con una ritrovata voglia di suonare mi misi a sfiorare i tasti del mio strumento preferito e tanto amato.

La sinfonia mi venne subito perfetta e accorta, ma soprattutto corretta e piacevole da udire, e in quegli istanti colmi di gioia mi lasciai un po’ andare, senza seguire alcuno spartito o altro.

Spartiti che, tra l’altro, avevo lasciato dentro al mobiletto, senza neanche tentare di estrarli, correndo quindi poi il rischio di dimenticarli e di farli individuare da mio padre, che magari per ripicca me li avrebbe pure rotti, e io non potevo proprio correre rischi del genere. Meglio che stessero al sicuro, e che io avessi la possibilità di sfogare ciò che avevo dentro in tutta libertà, ritrovando quindi quell’armonia che mi mancava da un bel po’ di tempo.

Suonai per un po’, innalzandomi finalmente libero nell’infinito splendore della musica, e lasciandomi scivolare addosso tutti i problemi che avevo accumulato negli ultimi mesi, sentendomi fin da subito davvero molto meglio e più felice e soddisfatto. Stavo ritrovando la mia pace interiore.

Dopo un po’, il mio ritmo s’allentò, anche a causa dei rumori che avevano cominciato a circondarmi con maggior insistenza e a disturbare la mia attenzione. I rumori in questione giungevano dal piano superiore, proprio sopra alla mia testa, dove i due coniugi Arriga avevano cominciato a litigare a voce più alta del solito, e dalla cucina dove Stefania e Sergio pareva che stessero per scannarsi a vicenda.

Quel pensiero violento mi bloccò definitivamente, lasciando che le mie braccia smettessero di muoversi assieme alle mie dita ad un ritmo da me voluto e ricercato.

Mi chiesi se fosse meglio che andassi a fare un giretto in corridoio, magari controllando che la situazione nella stanza attigua non degenerasse come durante la scorsa volta, dov’erano volati anche schiaffi, ma poi decisi di non muovermi da lì, tanto non avrei potuto davvero far nulla per calmare un probabile eccesso d’ira del mio genitore.

Udendo anche il litigio in contemporanea degli Arriga, mi sentii oppresso in quel luogo che un tempo era stato il mio rifugio dal mondo e dai suoi urti. Mi chiesi se anche Federico fosse in ansia per quello che stava accadendo tra i suoi genitori, ma logicamente lasciai perdere quella domanda, dato che colui che era stato il mio più acerrimo nemico ormai sembrava aver perso le forze anche per tirare avanti. Da due giorni era il fantasma di sé stesso, muto e sfuggevole, sempre rinchiuso nella sua stanza.

Aveva perso tutto, e anche lui stava affrontando una caduta, finalmente, e di certo del rapporto dei suoi genitori non doveva importargli molto, d’altronde non gli era mai importato troppo di loro, dalle impressioni che avevo sempre avuto.

La situazione effettivamente degenerò dopo poco, e quasi all’improvviso, quando mio padre urlò qualcosa e udii la porta della cucina che si spalancava.

Tremai, ancora seduto alla mia postazione, senza sapere come reagire. L’uomo non aveva ovviamente accolto l’appello mio e di mia madre ad andarsene, e continuava così a causarci problemi, sia lui che la sua amante.

Stefania un po’ mi faceva pena, però la sua ingenuità a tratti mi faceva innervosire e sorridere. Ed inoltre, anche se lei aveva dentro al suo ventre una sorta di parte di me, attendendo un mio fratellastro, non riusciva a convincermi della sua più totale buonafede nei confronti di mio padre. Chissà se tra i due c’era mai stato qualche sentimento sano, oppure se tutta la loro falsa relazione fosse stata instaurata per bisogno e necessità di entrambi, quasi mentendosi doppiamente e reciprocamente.

‘’Sei davvero un uomo schifoso! Non ti cercherò mai più, fidati, e non vorrò mai più rivederti!’’, urlò Stefania all’improvviso, nel bel mezzo del corridoio, poiché la voce mi giunse molto chiara e nitida alle orecchie.

Mio padre, dal canto suo, mugugnò qualcosa dalla cucina, per poi dirigersi anch’egli nel corridoio e sbottare un’orribile e irripetibile bestemmia disperata.

Schifato da tutta quella scenata, mi venne l’impulso di appoggiare le mie dita sulla vicina tastiera e di emettere qualche suono, e quasi involontariamente lo feci, come se anche il mio corpo in modo autonomo volesse proteggersi e tutelarsi da tutto quel violento e volgare pandemonio.

‘’E smettila di strimpellare con quel dannato coso, altrimenti poi lo spacco, porca…’’, ruggì l’imbestialito Sergio, udendo subito le mie note appena suonate, logicamente aggiungendo un’altra impronunciabile robaccia sul finale della frase.

Coprendomi le orecchie e cercando di salvarmi da quell’ambiente malato, potei soltanto udire altri rumori soffusi provenire dal piano di sopra, meno violenti di quelli prodotti dal mio genitore però, mentre le strida acute di Stefania rimbombavano ovunque attorno a me. La ragazza doveva essersi portata già davanti alla porta d’ingresso, pronta anch’essa a dileguarsi dopo le ennesime e brutali promesse che stava facendo al suo ex amante, poiché da quel che gli stava dicendo intesi chiaramente che non aveva più intenzione di cercarlo o di rinstaurare qualcosa con lui.

Mi venne spontaneo chiedermi le sorti del mio fratellastro, che in quegli istanti dovevano già essere state decise, ma davvero in quel momento non potevo preoccuparmi di altri o di altro se non di me stesso e della mia incolumità mentale, tentata da quegli orribili, volgari e violenti litigi. Intanto, un rapido tramestio provenne anche dalle scale, segnale che qualcun altro voleva andarsene da quella casa e uscire all’aperto.

Ormai dimentico pure del mio pianoforte, tornai ad agire come un pazzo, pur di fuggire da quel posto che puzzava di malsano e di male.

Sfruttando quindi la finestra aperta della stanza, per fortuna al piano terra, uscii frettolosamente in giardino e mi dileguai in fretta senza che nessuno se ne accorgesse, raggiungendo senza intoppi il cancelletto e lasciandomi alle spalle e con un sospiro di sollievo tutto quel patatrac. Volevo solo fuggire da lì, e in quei fatidici istanti pensai di poterci riuscire.

Ma in strada dovetti affrontare l’ennesimo ostacolo, prima di poter raggiungere una qualche sorta di piccola libertà.

Nulla, nella vita, è mai troppo semplice o scontato.           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Salve a tutti!

Continuo a ringraziare chiunque sia giunto a leggere fin qui, e tutti i gentilissimi recensori che mi seguono sempre con grande puntualità ed attenzione. Grazie, davvero!!

Grazie di cuore a tutti e per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Capitolo 31

CAPITOLO 31

 

 

 

 

 

Non appena varcai il cancelletto, pronto a riversarmi in strada assieme a tutta la mia voglia di lasciarmi quella casa alle spalle, m’imbattei quasi per caso in Livia.

La donna, tutta torva e agitata, si stava approssimando a salire sulla sua auto, ed io rimasi davvero molto sorpreso per essermela trovata di fronte così all’improvviso.

Molto probabilmente, lo scalpiccio nelle scale che avevo udito poco prima doveva essere stato prodotto da lei, che dopo l’ultimo e lungo litigio col marito si voleva allontanare di lì, proprio come stavo facendo io, ma quella volta senza il figlio. Doveva essere uscita direttamente, magari passando immusita davanti a mio padre e a Stefania, il cui dibattere potevo ancora udirlo pure da fuori.

L’aristocratica mi rivolse uno sguardo agghiacciante, mentre io ero rimasto come imbambolato di fronte a lei, senza neanche avere la forza per rimproverarmi per non aver prestato maggior attenzione mentre uscivo in strada. Se fossi stato più attento, magari l’avrei potuta notare, ed avrei avuto modo di soffermarmi una frazione di secondo in più nel mio giardino, attendendo che se ne andasse. Ed invece, purtroppo, anche quella volta mi ero lasciato andare ciecamente all’ansia frettolosa provocata dai miei sentimenti.

‘’Sei felice ora, che hai combinato tutto questo casino? E’ tutta colpa tua. Ma tu, nella tua stupidità e nel tuo egoismo, te ne stai lì ad addossare la colpa agli altri, e a fare la vittima. Contento del risultato?’’, mi pungolò incessantemente la signora, con perfidia, richiudendo lo sportello dell’auto e muovendo qualche passo verso di me.

Compresi solo in seguito che forse avrei fatto meglio ad ignorarla, invece di soffermarmi un attimo a ribattere, poiché non ne valeva davvero la pena. Ma, sul momento, ebbi un moto di stizza che non riuscii affatto a contenere.

‘’E’ tutta colpa mia, vero? Colpa mia se mio padre è una bestia, se ha messo incinta una ragazza che ora ci tormenta continuamente, se tuo figlio è uno schifoso e stupido bullo e te e lui avete avuto l’idea di mettervi a coltivare droghe in casa nostra?’’, le sputai con brutale decisione in faccia, mentre sentivo il mio volto che s’imporporava in fretta, quella volta soprattutto a causa della rabbia che provavo. Un nervoso eccessivo per essere riprodotto col semplice pensiero.

‘’Senti ragazzino, mi fai davvero schifo. Sappi che io ti odio con tutta me stessa, anche se sei solo una pulce e un verme umano, che non meriterebbe neppure di essere visionato dai miei occhi. Ti odio perché hai fatto del male a me e a mio figlio! Me la pagherai’’, mi sputò in faccia la signora, con una prepotenza assurda.

Ero allibito all’indescrivibile.

Sapevo che quella persona disgustosa che mi stava di fronte era una vera stronza, ma non mi aspettavo un assalto così violento da lei. Constatai in modo superficiale e frettoloso che l’aristocratica, nel corso degli ultimi giorni, pareva fosse cambiata davvero tantissimo, molto probabilmente per il fatto che il suo amato figlioletto era stato finalmente messo praticamente con le spalle al muro.

‘’E come, sentiamo?’’, quasi sussurrai, intimorito, anche se non volevo assolutamente mostrarlo.

La donna mi sorrise, e giuro che in quel momento mi parve davvero una strega indemoniata, con quei suoi occhiacci da arpia spalancati e spiritati più del solito ed un piccolo e curioso ghigno impresso sulle labbra.

‘’Un modo lo troverò, vermiciattolo. E allora, finalmente finirai schiacciato come uno scarafaggio, proprio come meriti. E non demorderò fintanto che non avrò avuto vendetta per mio figlio’’, disse quella maledetta, tornando verso la sua auto e allungando una mano verso lo sportello, già pronta ad aprirlo di nuovo.

‘’Io a tuo figlio non ho fatto nulla; al massimo è stato lui a fare del male a me’’, dissi, quasi in modo pietoso.

In quel momento mi ero davvero spaventato. Sarà stato che quella donnaccia perfida era riuscita abilmente ad inculcarmi una discreta dose di paura, nella mia povera mente frastornata.

‘’Poverino! Tu sei un santo, sei l’unico innocente della vicenda. Beh, allora la mia vendetta ti renderà un martire’’.

E così dicendo, non senza uno spicchio di schifosa ironia, Livia s’infilò nella sua Panda e la mise in moto, per poi andarsene in un attimo.

Io, ancora interdetto sul marciapiede, deglutii a fatica, chiedendomi come quella strega avrebbe cercato di colpirmi. Sapevo che se me lo aveva promesso l’avrebbe fatto. Non avevo idea di come tentare di difendermi, poiché quella volta nessuno avrebbe potuto aiutarmi e nessuno avrebbe accolto una mia richiesta d’aiuto. Non avevo neppure prove tangibili a mio favore.

Fui costretto a riconoscere con maggior convinzione che Livia era cambiata tantissimo, da quando ero riuscito a mettere in guai seri suo figlio, guai che tra l’altro si era ampiamente cercato. Sembrava che la donna, ferita nel fatto che uno sfigato come me avesse contrastato il suo amato pargolo, sangue del suo sangue e perfetto ai suoi occhi, mi odiasse davvero con tutta sé stessa e stesse follemente cercando per davvero un modo per colpirmi alle spalle, e per farmi del male.

Come avrebbe fatto, però, non lo sapevo, essendo più imprevedibile di suo figlio, immaginando che nel caso di quest’ultimo mi sarebbero aspettate solo delle botte. Infatti, era stata proprio quella prevedibilità e un pizzico di fortuna a salvarmi dalla vendetta di quel pazzoide. Ma la signora era totalmente impossibile da comprendere fino in fondo.

Sospirai e m’imbronciai, cominciando ad allontanarmi da casa mia e sempre seguendo il marciapiede, comprendendo anche che quella persona schifosa credeva per davvero che nella vicenda fossi io il cattivo e il mostro, quando in realtà lo erano lei, suo figlio e mio padre, quell’uomo che sapeva sempre farla sorridere quando mi urlava contro qualcosa o raccontava qualche particolare selezionato del mio passato.

Mi parevano soltanto loro i mostri, in tutta quella vicenda.

Forse quella donna perfida credeva di mandarmi totalmente in confusione, in modo da diventare una sua più facile preda, e magari farmi uscire di senno, ma quella strega si era davvero sbagliata, se credeva di facilitarsi ancor di più la vita in quel modo. O, forse, la pazza della situazione era lei.

Cercai di smettere di riflettere sulla discussione accesa affrontata pochi istanti prima, ma la rabbia era tale che non riuscivo davvero a sopirla. Dovevo sfogarmi, ma sapendo che questo forse mi avrebbe portato a farmi ancor più male, scelsi di cercare in modo concreto un po’ di compagnia.

Lì per lì rimasi perplesso dalla mia idea, che fino a poco tempo prima avrei considerato balzana vista la mia timidezza eccessiva e la mia totale chiusura interiore, ma sapevo che in quei giorni un po’ di amici ce li avevo, e potevo contattarli.

Decisi subito di lasciar perdere Melissa, e optai per non incontrare Jasmine, poiché le vicende e le scoperte del giorno prima erano ancora troppo fresche per essere rimestate, e ciò sarebbe di certo accaduto se l’avessi rincontrata.

Un po’ temevo pure di rovinare il nostro rapporto ormai ufficialmente dichiarato anche ai suoi genitori, dovetti ammetterlo. Pensai, sempre mentre camminavo lentamente verso una meta ancora imprecisata, che sarebbe stato cortese da parte mia fare chiarezza con mia madre, e farle conoscere quella che era per davvero la mia ragazza, la prima della mia vita, ma scartai quell’eventualità fin da subito. Tutto ciò non era caso di affrontarlo in quel momento troppo delicato.

Decisi quindi con risolutezza che avrei per davvero contattato Giacomo; erano giorni che non ci incontravamo, e non ci eravamo neppure visti a scuola. Mi mancava, in fondo, e la sua compagnia era sempre qualcosa di eccezionale.

Sorridendo tra me e me, estrassi il mio cellulare dalla tasca destra dei jeans e gli mandai un sms.

La risposta non si fece attendere più di un secondo, e sempre sorridendo mi incamminai verso un luogo che effettivamente conoscevo poco, ma che poteva rivelarsi piacevole per trascorrerci un pomeriggio in compagnia di un amico.

 

Incontrai Giacomo al parchetto pubblico, un piccolo spazio simile a quello che avevo a pochi passi dalla mia dimora, ma situato ancor più in periferia.

Non di molto, in realtà restava a dieci minuti di camminata sostenuta dalla mia abitazione, ma era posizionato proprio al confine con l’aperta campagna e con l’inizio dei campi coltivati, e lì si respirava per davvero l’odore di libertà tipico dei luoghi agresti, non essendo comunque infossato tra varie abitazioni e inquinato dalle strade e dalle auto. Era per questo, credo, che nonostante fosse ormai pieno inverno il mio amico aveva optato per recarci in quel posto pacifico e rilassante.

Quando lo raggiunsi, lo trovai in compagnia di Stefano, il ragazzo più volgare del liceo, e Francesco, uno dei più timidi. Avevano già in mano i loro telefonini, e i sorrisi impressi sui loro volti, uniti al fatto che Stefano stava narrando qualcosa con un tono di voce già piuttosto alto, nel complesso mi suggerirono che il più volgare dei tre avesse nuovamente cominciato a narrare qualcosa di ridicolo.

Non appena mi scorsero, però, mi salutarono e tutto finì lì.

‘’Antonio, sono già due giorni che manchi da scuola. Non è che hai intenzione di far buco anche il giorno dell’esame di maturità, vero?!’’, esordì Giacomo, sfoggiando un tono di voce petulante e l’espressione tipica della professoressa Carlucci.

Non riuscii a trattenere un sorriso, che sbocciò in fretta sulle mie labbra.

‘’No, no, tranquilli… e poi sai che cosa mi è accaduto poco più di un paio di giorni fa. Mi sto fisicamente rimettendo solo ora’’, dissi loro, parlando alla platea dei tre e accomodandomi sulla vicina panchina, non prima di aver passato una mano sulla sua superficie ed essermi accertato che non fosse bagnata.

Ricordo che una volta, cinque o sei anni prima di quello che sto ricordando ora, mi sedetti su un’altra panchina senza essermi accertato del suo stato, e rialzandomi in fretta mi ero ritrovato coi pantaloni tutti bagnati proprio nell’area del sedere. Stando poi in piedi e cercando di rimediare, l’umido aveva conquistato un altro pochino di terreno e pareva che mi fosse successo un imbarazzante incidente.

Da quel giorno in cui mi ero vergognato tantissimo, dato che ero in gita scolastica ed ero stato costretto a gironzolare in quello stato fintanto che il bagnato non si era asciugato, sono sempre stato attento alle panchine, analizzandole attentamente prima di utilizzarle.

‘’Sai vero che quello stronzo non è più tornato a scuola? Anche i suoi due amici… li abbiamo proprio messi nei guai! Mio zio poi mi ha anche detto che si cercherà d’indagare il più in fretta possibile, poiché ormai la questione è stata presa davvero a cuore dalla preside, che non vuole simili incidenti nel suo istituto. Poi quello che ti è accaduto è successo fuori dalla scuola, e a lei non resta altro che immaginare che le ostilità fossero cominciate proprio nel suo ambiente scolastico, e ciò è comunque un gravissimo reato.

‘’Nei prossimi giorni le scriverò un’altra lettera anonima’’, terminò Giacomo, serio.

‘’Una letterina d’amore?’’, domandò Stefano, non lasciandosi sfuggire l’occasione propizia per aprir bocca e tentare di fare lo sciocco.

‘’Sì, se vuoi la firmo a tuo nome però!’’, sbottò Giacomo, dapprima con sembianze irritate, per poi finire col ridere.

‘’Lascia perdere quella megera… utilizzatela per lanciarla contro quel pazzo scemo di Federico e dei suoi amichetti’’, tornò a dire il burlone dopo qualche risata, mentre tutti noi eravamo ovviamente d’accordo con lui.

‘’E’ proprio quello che intendiamo fare. Io, personalmente, mi lavorerò anche la Carlucci. È già molto irritata nei confronti del bullo, e sarà una missione facile. Anche la preside lo è, quindi non dovremmo riscontrare problemi nella nostra battaglia contro il nemico. Spero veramente che lo espellano’’, aggiunse poi Giacomo, come sempre molto risoluto quando si trattava di colpire Federico. Lo odiava e il suo astio era sempre più palpabile.

‘’Sai che in questi giorni non l’ho neppure visto in giro? Se ne sta sempre chiuso in camera sua, da quando è tornato dalla caserma… sembra davvero che sia molto giù di morale’’, dissi, riprendendo a pensare allo strano comportamento del nemico.

Fui costretto a pensare che forse si trattava di una qualche nuova strategia, dato che ormai era stato quasi del tutto smascherato e ben presto gli sarebbero piovuti addosso solo tanti altri problemi e guai.

Capii improvvisamente che, molto probabilmente, il suo atteggiamento da depresso che stava cercando d’indossare in quei giorni poteva anche trattarsi di una semplice tattica per far innervosire la madre nei miei confronti, e in quelli di chiunque lo aveva contrastato.

In effetti, Federico era sul punto di essere sconfitto, ed ormai era già nel bel mezzo di problemi con la Legge per quello che aveva fatto a me e in strada, e ben presto sarebbe potuta giungere un’altra mazzata dalla scuola e dalle forze dell’ordine a riguardo degli atti vandalici degli scorsi mesi. Quindi ciò che gli restava era proprio la madre, l’ultima carta da giocare e l’ultima difesa contro tutti, una sorta di scudo umano.

Livia infatti, grazie al suo repentino cambiamento, sembrava fuori di sé dalla rabbia, forse anche perché seguiva il suo istinto materno e protettivo, che le imponeva di difendere con tutta sé stessa il proprio figlio, prendendosela ovviamente anche con me.

‘’Bene, allora dobbiamo prepararci a dargli il colpo finale, legalmente s’intende’’, riconobbe Giacomo, sempre molto attento e riflessivo.

Riconobbi che la sua figura che fino a qualche mese fa mi era sempre parsa frivola in realtà nascondeva una personalità forte ed intelligente. Era davvero un bravo ragazzo e un buon amico.

‘’Solo che ora quella stronza di sua madre pare avercela con me e con chiunque sfiori il suo figlioletto anche solo con un pensiero malvagio. Si è messa in testa di farmela pagare…’’, quasi sussurrai alla platea.

‘’Cosa?!’’, dissero quasi all’unisono i tre ragazzi, pure il sempre muto e silenzioso Francesco, dal tanto che erano rimasti colpiti dalla mia rivelazione.

Feci una smorfia e poi, con rassegnazione, raccontai loro l’episodio di poco prima, e notando la loro attenzione ne approfittai anche per narrare ciò che copriva la madre, non nascondendo ai tre amici neppure la vicenda riguardante la marijuana.

Dopo qualche istante, a seguito della conclusione della mia narrazione, i tre ragazzi erano ammutoliti e sbalorditi. Chiesi cortesemente loro di non far chiacchiere e di tenere tutto quanto per sé.

Non mi avrebbe fatto piacere che tutti nel liceo sapessero ciò che accadeva in casa mia.

‘’Fidati, non ci tengo a raccontare in giro una storia del genere. Mi prenderebbero per matto! Ma sono quegli Arriga dei veri matti… devono finire in carcere! Sono un pericolo pubblico!’’, gridacchiò Stefano, con la sua solita enfasi.

Io sorrisi, sapendo che anche di lui mi potevo fidare. Se con Giacomo ero in una botte di ferro, lo ero anche col taciturno e silenzioso Francesco e col bonaccione casinaro di Stefano, che avevo imparato a conoscere un pochino, e sapevo della sua lealtà nei confronti di chi conosceva.

‘’Solo madre e figlio sono così. Il padre è una brava persona’’, dissi loro, nell’intento di far chiarezza.

‘’Senti Antonio, questi hanno traffici di stupefacenti, il figlio è un bullo che sta in giro tutta la notte a compiere atti vandalici e la moglie è visibilmente pazza e magari gli fa un sacco di corna… e lui non sa niente e non sospetta neppure nulla?! Non è possibile’’, negò Giacomo.

Mi ritrovai a non sapere che dire. Roberto mi era sempre parso limpido, gentile e corretto, e non riuscivo proprio a vederlo in un’ottica simile a quella dei suoi familiari. Eppure, anche a me tutto puzzava un poco, ma io volevo davvero riporre un’immensa fiducia in quell’uomo.

Sapevo che Roberto era una brava persona, ma che a volte peccava un po’ d’ingenuità, e volli attribuirgli questa causa alla sua mancata comprensione dei problemi interni alla sua famiglia. In realtà, magari sospettava qualcosa e non me l’aveva mai detto, ma io ero più che certo che quel brav’uomo non centrava nulla in tutta quell’orribile vicenda.

‘’Roberto, il signor Arriga, è una bravissima persona. Ha fatto tanto per me, e non mi sento di giudicarlo. Lui non è come loro’’, ribadii, quella volta con maggior sicurezza. Nessuno avrebbe potuto scalfire l’idea che mi ero fatto di quell’uomo, anche perché era sempre stato così attento, gentile e premuroso con me che io non potevo assolutamente neppure permettermi di fargli il torto di pensar male di lui e di sparlargli alle spalle con degli estranei, anche se essi erano miei amici. Restava quindi un’icona di perfezione, nella mia mente.

‘’Sarà… ma sta di fatto che devi liberarti di quei pazzi. Non devi lasciare che quella donnaccia ti calpesti a suo piacimento, soprattutto ora che siamo ad un passo dalla giusta fine del figlio’’, rincarò Giacomo, davvero molto arrabbiato nei confronti dei miei inquilini.

Non potei far altro che annuire, senza aggiungere altro.

Il mio amico aveva ragione; quella donna non doveva assolutamente neppure intromettersi nella mia vita o cercare di fare delle ripicche. Suo figlio era un gran prepotente e maleducato, di questo io non ne avevo colpa, e logicamente se sarebbe stato punito nessuno doveva punire me, tantomeno la madre di quello stronzo.

Tuttavia, il mio ragionamento logico e la mia voglia estrema di non finire vittima dell’aristocratica si scontrarono contro la realtà dei fatti, ovvero che non avevo la benché minima idea di come fare a premunirmi dal suo possibile e promesso attacco imminente.

Decisi quindi alla fine di non stare a pensarci troppo su in quel momento, e di godermi un po’ la compagnia dei ragazzi, svagandomi in quel posto che profumava di campagna. Al solo ricordare quest’ultima parola, mi torna ancora in mente la scampagnata al lago con Roberto, in quel giorno ormai parecchio lontano ma mai dimenticato, facendomi sfuggire un sorriso.

 

Inutile dire che m’impegnai per cambiare discorso.

I miei piccoli sforzi non furono inutili, poiché ben presto quasi ci scordammo di Livia, della sua perfidia e di suo figlio, e ci trastullammo in quel parchetto dicendo sciocchezze, di quelle tipiche che si dicono tra ragazzi coetanei, e lasciando che Stefano si scatenasse con le sue brutture e il suo baccano, che in fondo non era male e a tratti pure simpatico.

Poi, infine, quando già il sole cominciava a calare all’orizzonte, decidemmo di salutarci fermandoci un attimo al bar lì vicino, dove avremmo potuto fare una partitella a biliardino e acquistare qualche Goleador, le fantastiche e gustosissime caramelle gommose che ancora oggi sono amatissime da me e dai miei amici e conoscenti.

Nonostante tutto, il pomeriggio era passato in fretta ed io mi ero divertito un po’, forse meno il povero Francesco che se n’era sempre stato zitto, ma tuttavia sapevamo che lui era fatto così ed era sempre taciturno, e in fondo molto probabilmente era stato bene in compagnia.

Ci dirigemmo quindi mestamente verso il bar più vicino, che in realtà era l’unico nei pressi del parchetto. Il mio piccolo paese contava solo tre bar di numero, di cui uno nel piccolo centro, ed un altro in una viuzza laterale ad esso. Il terzo era proprio quello, quasi in periferia, il meno trafficato e quello anche più riservato e tranquillo.

Eravamo sfiniti, avevamo parlato tutto il tempo e neppure Stefano riusciva più ad aprir bocca.

‘’Sarà meglio che mi prenda anche un bicchiere d’acqua, altrimenti qui chissà come va a finire’’, continuava a ripetere il più casinaro e manesco dei quattro, mentre attraversavamo la strada che divideva il parchetto pubblico dalla nostra vicina meta.

Giungemmo in fretta al bar semideserto, come suo solito, ma per fortuna dotato di un biliardino all’aperto, che quel giorno era tutto umidiccio ma utilizzabile e libero. I più giovani, infatti, frequentavano quel locale solo saltuariamente ed esclusivamente per passare un po’ di tempo giocando con esso, che di certo era più utilizzato delle tazzine da caffè.

Il vecchio barista, un uomo oltre la settantina che faticava a portare avanti la baracca per via dei debiti, secondo quanto affermavano tutti, ci osservava attentamente di là dalla vetrata del suo locale, totalmente vuoto a parte una coppia di persone sedute ad un tavolo lontano dalla porta, un uomo adulto e una donna che ci dava le spalle.

Sapendo che giocare era gratuito, e che il vecchio era un vero tirchio, per cortesia prima di scatenarci mandammo Stefano a comprare Goleador per tutti e a bere un po’, così da non apparire almeno formalmente come scrocconi.

‘’Io e te stiamo in squadra assieme’’, mi propose Giacomo durante la breve attesa.

‘’Gestisco la difesa?’’, chiesi, già tacitamente accettando e informandomi.

‘’Portiere e difensori. Io proverò a far goal a Francesco’’, tornò a dire il mio amico, dando una leggera gomitata al ragazzo timido e taciturno, che anch’esso stava attendendo assieme a noi. Ci rivolse un sorrisetto impacciato.

Stefano interruppe le nostre macchinazioni in modo brusco, piombandoci addosso da dietro e facendo di nuovo baccano.

‘’Caramelle per tutti, bambini! Ah ah, mi sono ripreso, visto! Un sorso d’acqua ed eccomi come nuovo!’’, strillò il nostro compagno casinaro, donandoci una nuova ed indispettita occhiataccia dell’anziano barista, che pareva essersi calmato dopo aver visto che almeno uno del gruppo aveva comprato qualcosa, ma che era tornato all’erta non appena aveva udito quegli schiamazzi.

‘’Stefano, dai, smettila un po’… il vecchio altrimenti ci caccia’’, fece notare Giacomo, cercando di farlo rinsavire da uno di quei suoi soliti momenti di eccessiva euforia.

Il ragazzo se ne accorse anch’esso, notando lo sguardo irritato del barista disoccupato, che con un asciugamano tra le mani si era posizionato proprio a fissarci in modo diretto.

‘’Avete ragione. Ma non garantisco che riuscirò a stare calmo, durante la partita’’, disse poi Stefano, piombando sul biliardino, dopo aver frettolosamente consegnato un pacchettino da due caramelle a ciascuno di noi.

Io e Giacomo ci guardammo, e dopo aver scrollato la testa prendemmo anche noi posizione, mentre Francesco raggiungeva tacitamente il compagno di squadra.

All’improvviso però, il cellulare di Stefano squillò.

‘’Scusate, ragazzi’’, disse il nostro amico, imbronciandosi per un attimo e rispondendo.

Subito, una voce roca e squillante giunse fino alle nostre orecchie, che pareva stesse bruscamente sgridando il ragazzo, per poi riattaccare dopo un istante.

‘’Chiedo scusa, amici, ma ora non posso davvero più fermarmi qui a giocare con voi, neppure una partita. Mia madre si è incavolata perché le avevo promesso che entro le cinque sarei stato a casa, ed invece sono quasi le sei di sera… e il fatto che io ho tante materie sotto non mi aiuta affatto ad avere un po’ più di libertà, e vuole sempre che io studi qualche ora. Quindi, per evitare ulteriori casini in famiglia e a scuola, è meglio che io torni a casa’’, disse Stefano, sconsolato, non riuscendo neppure a guardarci e tenendo lo sguardo basso, verso terra. Poi, ci passò qualche altro pacchettino di caramelle, come per volerle aggiungere alle sue scuse.

‘’Capiamo, e ci dispiace. Sarà per un'altra volta, ora vai a casa’’, acconsentì in fretta Giacomo, comprendendo al volo la situazione.

‘’Lunedì ci vediamo a scuola, poi magari organizziamo un altro pomeriggio o un’altra serata in questo modo’’, aggiunse il nostro amico, che in quel momento era davvero molto mogio e senza entusiasmo, mettendosi in fretta il cellulare in tasca e già cominciando ad allontanarsi da noi a piedi.

‘’Sì, certo’’, rispondemmo io e Giacomo quasi all’unisono, per poi salutarlo a distanza.

Dopo un istante si era già volatilizzato nella penombra di quella gelida e prematura sera d’inizio dicembre.

‘’Ragazzi, mi sa che devo proprio andare anch’io’’, ci disse Francesco, prendendo la palla al balzo.

Per nulla sorpresi da quella sorta di forfait, lo salutammo e lo lasciammo andare, a quel punto non del tutto convinti che avesse passato un pomeriggio piacevole in nostra compagnia. Ma si sapeva che lui era un ragazzo fatto così.

Rimasti solo noi due, io e Giacomo, con un sorriso spento ci fissammo l’un l’altro.

‘’Non resta altro da fare che salutarci anche noi, immagino… che facciamo, altrimenti?’’, gli chiesi, tiepidamente.

‘’Una partitella in due, che dici?’’, mi propose, mentre una nuova scintilla d’interesse luccicava di nuovo nelle profondità dei suoi occhi.

‘’Mah, non mi va di stare qui, osservato dal vecchio irritato… meglio tornare a casa. Tra poco sarà buio’’, gli dissi accennando leggermente verso il barista, che pareva un mastino da guardia, e cercando di dileguarmi. In fondo, anch’io avevo ancora tutti i compiti da fare a casa, e da recuperare gli ultimi giorni in cui non avevo fatto un bel nulla per la scuola.

Giacomo annuì, un po’ rattristato per il fatto che alla fine tutti l’avevamo piantato in asso, ma non disse nulla e mi sorrise amichevolmente. Era giunto il momento dei saluti anche per noi.

‘’Ci vediamo lunedì, allora’’, mi disse il mio amico, mentre pian piano prendevamo le distanze dal biliardino e imboccavamo rapidamente il marciapiede.

‘’Sì, sì. Se tutto va bene, lunedì dovrei…’’.

Avrei voluto dire che lunedì ci sarei dovuto essere, ma non ci riuscii. Infatti, un qualcosa aveva attirato la mia attenzione, e quasi come se fossi stato sotto l’effetto di un antico sortilegio, non riuscii neppure a concludere la frase o a farfugliare qualcos’altro.

Ad avermi colpito era stato un qualcuno che dapprima avevo intravisto solo con la coda dell’occhio, mentre mi stavo allontanando col mio amico dal bar, e poi, girandomi e osservando meglio, ero riuscito a riconoscere una figura a me amaramente nota.

Sul marciapiede, una decina di metri dietro di noi, la signora Arriga stava parlando animatamente con un uomo, quello che avevo intravisto all’interno del bar poco prima, e riconobbi che Livia era la donna che mi aveva dato le spalle in lontananza, seduta allo stesso tavolino interno al locale, in compagnia del tizio.

Improvvisamente, lì vicino alla strada, i due si abbracciarono con uno slancio che aveva un che di amoroso.

Ancora inebetito a causa della sorpresa, cercai di tornare in me e non appena mi volsi verso Giacomo, notai che anche lui stava fissando la medesima scena con interesse.

‘’Ma quella non è la stronza che ti vuole creare dei problemi? La madre di Federico? L’ho intravista l’altro giorno quando usciva dall’ufficio della preside’’, disse il mio amico, splendidamente perspicace.

‘’E’ proprio lei. E quello non è suo marito…’’, annuii, confermando le sue ipotesi e lasciandomi sfuggire una piccola osservazione stupita.

Nel frattempo, i due non accennavano a sciogliere il loro abbraccio, e non parevano intenzionati a farlo, almeno nell’immediato.

L’uomo che Livia stava abbracciando appassionatamente era di tutt’altro aspetto del marito, poiché era alto, slanciato e con un fisico prestante, anche se doveva avere anche lui più o meno la stessa età di quest’ultimo, ed in più non aveva alcuna traccia di barba ed era dotato di  una folta chioma liscia ed ingrigita. Non ci misi molto a comprendere che i due stavano mettendo le corna al mio carissimo Roberto.

Ebbi paura di essere riconosciuto, e siccome non volevo aver problemi o dover dare spiegazioni alla signora, rischiando quindi di inasprirla ancor di più nei miei confronti, ammetto solo ora che fui sul punto di darmela a gambe.

Devo solo ringraziare la dea bendata, che in quel pomeriggio inoltrato mi aveva lasciato a mio fianco Giacomo, un ragazzo davvero intelligente, sveglio e sempre pronto all’azione, che non si fece affatto intimorire da ogni pronostico e, senza tanto titubare, strappò il mio cellulare dalla tasca dei miei pantaloni e si mise a paciugare per un istante, per poi dirigersi prontamente verso la coppietta affiatata, che non stava di certo badando ad un comune passante.

Non feci in tempo a dire nulla, non sapendo neppure cosa aspettarmi, e non avendo avuto neppure il coraggio di alzare la voce o di richiamare indietro il mio amico, m’imboscai in tutta fretta in una viuzza laterale poco distante. Ero atterrito, non sapevo che aspettarmi da Giacomo e non volevo essere riconosciuto da Livia ed essere ancor più in pericolo.

Sbirciando dalla mia sorta di compassionevole nascondiglio, nel quale mi sentivo davvero un verme, provando il classico miscuglio di sentimenti negativi che mi addossavo in ogni situazione simile, notai che i due pure si baciavano in quel momento, mentre Giacomo, che appariva un qualunque ragazzo intento a scrivere un messaggio col suo cellulare e totalmente assorbito dal suo oggetto tecnologico, passava a malapena a qualche passo da loro, con grande disinvoltura.

Alla prima traversa, la imbucò e scomparve alla mia vista, mentre anche Livia e il suo amante, poiché ormai ero certo che si trattasse di ciò, si lasciavano andare e scioglievano il caloroso abbraccio ricco di baci, per poi salutarsi vivacemente e riprendere ciascuno la propria strada.

La Panda della signora la scorsi in lontananza, non appena vidi che lei si stava muovendo verso di essa, per poi probabilmente tornare a casa e indossare di nuovo quella maschera da donna perfetta ed aristocratica che aveva la puzza sotto al naso. Mi fece quasi venire il vomito anche solo il pensiero che di lì a poco avrei dovuto rincontrarla tra le mura domestiche.

Ritornando rapidamente in me, e avendo via libera, pensai che l’unica cosa che potevo fare in quel momento era cercare di ritrovare quel burlone di Giacomo e farmi restituire il cellulare, per poi tornare alla mia dimora.

Imbucai quindi con decisione la direzione che mi avrebbe riportato di nuovo davanti al bar in cui avevamo sostato poco prima, col chiaro intento di mettermi sulle tracce del mio amico, anche un po’ infuriato nei suoi confronti, ma fu lui a sorprendermi, sbucandomi alle spalle col fiatone.

‘’Ah, caro Antonio, quanti sforzi mi costi! Possibile che debba essere sempre io a tirarti fuori dai guai?!’’, mi disse, sghignazzando e sorridendo, mentre riprendeva fiato. Doveva aver percorso quasi di corsa tutte le stradine laterali limitrofe, per non ripassare di fronte ai due amanti e per raggiungermi in fretta, col timore che io rovinassi tutto con la mia ingenuità.

‘’Perdonami, ma non capisco’’, gli dissi infatti, perplesso.

‘’Guarda cosa ho scattato col tuo cellulare. I due non mi hanno dedicato neppure uno sguardo, troppo concentrati sui loro baci per prestare attenzione ad un giovane passante che s’intratteneva col telefonino, ed io ne ho approfittato per scattare loro qualche primo piano, di cui uno in particolare non mi è venuto sfocato… ero in movimento, capisci che non potevano venirmi perfetti, e con questo cellulare vecchio poi è ancora peggio’’, mi disse Giacomo, realmente divertito, andando subito nella galleria del mio telefono e mettendomi sotto al naso alcuni primi piani in cui si vedeva e si riconosceva distintamente il volto di Livia, mentre baciava con passione e stava stretta al suo misterioso amante.

‘’Con queste in mano, puoi neutralizzare quella strega. Mostrale a suo marito, se cerca di crearti problemi, dato che hai detto che non sa nulla e non sospetta niente a riguardo. A lunedì, caro amico’’, proseguì colui che per l’ennesima volta mi aveva messo tra le mani una sorta di salvezza, che io avrei dovuto saper fare fruttare, mentre mi riconsegnava frettolosamente il cellulare e si dileguava nella penombra della sera, lasciandomi solo a fissare quelle foto compromettenti.

Restai un po’ lì imbambolato sul posto, come a voler cercare di far chiarezza nella mia mente, e alla fine decisi di spegnere lo schermo del telefono e di rimetterlo in tasca, per poi mettermi in movimento verso casa. Non sapevo che ne avrei fatto di quegli scatti clandestini, né se li avrei mai utilizzati, sempre nel rispetto di Roberto, siccome della moglie non me ne importava un fico secco, e mugugnando qualcosa senza senso ripresi a dirigermi verso la mia dimora.

Mi dispiaceva infinitamente per Roberto; lui non meritava tutto quello. Per giunta, era stato cornificato da un uomo davvero molto diverso da lui, sia nell’aspetto fisico che nel modo di fare.

La mia mente era di nuovo immersa in un’addolorata confusione, e decisi quindi drasticamente di non pensare più per un po’ alle foto appena scattate, alla signora Arriga e al suo orribile tradimento, ma solo ed esclusivamente allo studio e ai compiti che mi attendevano a casa, giacché quello era l’anno più importante delle superiori e nonostante tutto a giugno mi attendeva un tosto esame.

Se poi il destino mi avesse costretto, avrei potuto tentare di far fruttare ciò che avevo tra le mani, oppure di cancellare tutto e farlo sparire per sempre.

In quel momento non potevo di nuovo lasciarmi andare e distrarmi, e decisi stranamente di rincasare con un bel sorriso sicuro sulle labbra, cosa che per altro alla fine feci. Era come se avessi voluto cercare di dissimulare tutto ciò che avevo avuto modo di vedere fino a poco prima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici,

e grazie, come sempre, per continuare a seguire il racconto.

Forse alcuni di voi già immaginavano che Livia tradiva il marito… beh, spero che il capitolo che avete letto vi sia piaciuto comunque e anche questa volta.

Continuo a ringraziarvi tutti, e buona giornata. A lunedì prossimo!

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Capitolo 32

CAPITOLO 32

 

 

 

 

 

Mi accingo a ricordare una delle cose più disgustose che io abbia mai fatto nel corso della mia giovane vita, uno di quei gesti che restano impressi nella memoria per anni e anni, forse per sempre.

In realtà, più che di una cosa, si è trattata di un’azione infame, vile e orripilante, ma sfido chiunque a trovare una via d’uscita da quel mondo fatto di male, odio e malumore che mi circondava ormai da fin troppo tempo.

Sapevo che gli Arriga avevano intenzione di andarsene; la signora era stata chiara a riguardo. Aveva sottolineato a mia madre che al più presto avrebbero lasciato il paesino, non appena un altro istituto scolastico di Bologna avesse accettato Federico come studente. Non so se questo continuo viaggio del mio nemico tra vari ambienti scolastici fosse mai stato redditizio, ma non credo, visto e considerando i risultati.

Sapevo pure che l’aristocratica voleva assolutamente fuggire da quella piccola realtà, e anche alcune settimane prima avevo avuto modo di udire la sua discussione a riguardo col marito. In quei concitati momenti, Livia appariva atterrita e spaesata; le forze dell’ordine stavano indagando sui vari fattacci accaduti di recente, e la vicenda tra me e suo figlio non si era ancora chiusa, dato che comunque c’era una denuncia pesante e la preside aveva scelto di compiere l’ardua scelta di separarci, iscrivendo Federico all’altra e unica quinta del piccolo liceo a parte la mia.

Logicamente sua madre non l’aveva presa affatto bene. Inoltre il prepotente se ne stava sempre chiuso in camera, così a scuola proprio non ci aveva messo più piede dopo il giorno in cui avrei dovuto fargli copiare la verifica di matematica, e invece gli avevo giocato uno scherzetto ed avevo reagito.

Io quel lunedì sarei dovuto andare a scuola, ma i fatti del sabato ancora mi turbavano, così come pure soffrivo ancora per la questione riguardante Alice, e alla fine anche quella domenica tanto attesa era stata rovinata dai brutti pensieri, ma soprattutto dall’azione più sconsiderata che io abbia mai commesso.

Giuro tuttora a me stesso che non farò mai più una scelta simile, poiché tra moglie e marito nessun estraneo deve mettere il dito. È un detto vero, in fondo.

Ma quella volta fu una tragedia, e a causarla fui proprio io.

Che fossi realmente un mostro, come mi aveva detto quella donnaccia che gironzolava per casa mia? Non lo so, alla luce dei miei ragionamenti futuri mi verrebbe da dire di no, e che ho agito in quel modo orrendo e subdolo solo perché non ne potevo più e dovevo pur difendermi in un qualche maniera, ma sta di fatto che feci direttamente del male anche a chi volevo sinceramente bene.

Trascorsi il sabato sera in ansia, nonostante mi fossi inizialmente sforzato per mantenere un’ombra di un sorriso sulle labbra, e più volte le mie mani correvano verso il mio cellulare, riposto nella solita tasca dei jeans. Quell’oggetto conteneva ciò che mi faceva agitare di più, ovvero le foto scattate da Giacomo, quelle più compromettenti.

Più volte mi chiesi se fosse giusto che Roberto venisse ingannato in quel modo dalla moglie, e se sospettasse almeno qualcosa, ma in quel momento non sapevo davvero darmi risposta. Sapevo solo che gli ero debitore di tante cose, che per me era una persona saggia ed importante per la mia vita, avendo condiviso con me la parte più movimentata e dolorosa della mia esistenza, e che per me era ormai diventato un pilastro, al cui non temevo ormai più neppure di rivolgergli la parola, sfidando anche la mia timidezza eccessiva, siccome sapevo che nella sua infinita e onesta bontà era sempre pronto ad ascoltarmi e a tenere per sé ciò che io gli rivelavo.

Insomma, non sapevo ancora con chiarezza chi fosse, e sul suo passato ancora aleggiavano tante ombre, ma nei miei confronti si era sempre comportato nel modo migliore possibile, tenendo anche presente che restava pur sempre un estraneo alla nostra ben poco affiatata famiglia.

Ho paura, di nuovo, di ricordare, ma in questo momento mi serve; devo imparare a reggere questa sequenza di ricordi, a rievocarli e a soppesarli a dovere, perché a loro modo essi nascondono ciò che di più prezioso mi sto affannando a cercare, ed imparare ad esaminarli e a valutarli, in modo da individuare tutti i miei eventuali errori ed apprendere da essi, per tentare di cercare di non compierli mai più in futuro.

In poche parole, affrontando direttamente e di petto i miei ricordi più lineari, quel sabato sera non ressi lo sguardo della signora Livia, che secondo me era ormai definitivamente andata fuori di sé. Temevo davvero che quella pazza avesse serie intenzioni di commettere qualche follia in casa nostra o contro di me.

Ricordo che a tratti pure mi seguiva, in casa, puntandomi addosso quei suoi occhiacci leggermente fuori dalle orbite, irritati e sconvolti, ma ero certo che lo facesse per intimorirmi e per spaventarmi, conoscendo la mia indole molto fragile, e non sospettava di certo che io sapessi ciò che stava combinando quando usciva, come poi ebbi modo di trovare conferma in seguito.

Se avesse anche solo immaginato che io ero in possesso delle prove schiaccianti, rese foto dal mio amato amico, penso proprio che in quegli istanti non si sarebbe fatta troppi problemi a farmi fuori lì, nel mezzo del corridoio della mia dimora, magari balzandomi alla gola come un’animale selvatico impazzito.

Lo so, stavo esagerando, ma la mia mente finì per andare in confusione, mi sentivo stressato e pedinato, oltre che in gravissimo pericolo. Chissà che poteva combinare una donna in quello stato confusionario! E fu proprio in quei concitati momenti che presi la mia decisione, molto affrettata e probabilmente errata.

Per Roberto quella doveva essere una serata come tutte le altre, lo vedevo molto tranquillo e rilassato mentre leggeva un giornale sportivo in cucina, subito dopo cena. Io, con apparente disinvoltura e con una buona dose di stronzaggine e di tremolante timore, gli passai sotto al naso il mio cellulare, con un bel primo piano della moglie che baciava l’amante.

Rendendomi subito contro del mio gesto sconsiderato, mi attesi che l’uomo si alzasse dalla sua postazione e mi desse una bella sberla, e quasi mi ritrassi, ma il mio inquilino restò per una frazione di secondo come di pietra, per poi afferrare dolcemente il mio telefonino e sfilarmelo dalle mani.

Se lo avvicinò al viso, come se non vedesse bene, ed io ammisi che mi attendevo che lo lanciasse contro il muro della cucina.

Invece, nulla.

L’uomo se ne rimase tranquillo, come se dentro di sé non vivessero emozioni ma solo amare e nuove consapevolezze, e dopo aver rimirato per un po’ le foto scattate da Giacomo, lasciò scivolare sul tavolo quel giornale che stava leggendo e si alzò definitivamente dalla sua postazione seduta, porgendomi il mio cellulare.

Non esitai un attimo a riprendere il mio oggetto e a spegnerne lo schermo, infilandolo subito nella mia tasca dei pantaloni, e tornando ad alzare lo sguardo rimasi molto scosso dall’espressione di Roberto. L’uomo che era sempre apparso sicuro di sé e sorridente in ogni situazione, oppure talmente tanto impassibile da apparire apatico a volte, aveva impressa sul viso un’espressione d’indecifrabile e cupo dolore.

Dopo un attimo, compresi il suo viso non lasciava trapelare solo dolore, ma soprattutto tanta rassegnazione.

‘’Dove le hai scattate?’’, mi chiese, lentamente e all’improvviso.

Gli spiegai rapidamente come e dove si era svolta la vicenda, a bassa voce e quasi tremando, ben sapendo che se la mia nemica pazza mi avesse scoperto mentre le commettevo quel torto non avrebbe di certo atteso oltre a colpire. Magari sarebbe pure impazzita definitivamente ed avrebbe commesso direttamente una qualche follia.

Ma, per fortuna, la signora se ne stette in camera sua e la sua presenza fisica non mi turbò assolutamente.

‘’Immaginavo… Livia è furba, non avrebbe potuto mettere in atto i suoi loschi e schifosi scopi in pieno centro cittadino. No, ha scelto come punto d’incontro il bar in periferia…’’, disse Roberto non appena smisi di parlare.

Poi, improvvisamente, la sua espressione da delusa e rassegnata tornò all’improvviso impassibile. Ed io restai immerso nella mia cupa consapevolezza di aver reagito in modo azzardato e pericoloso, nonché odioso nei confronti di una persona alla quale mi ero affezionato e a cui volevo bene.

Sapevo che in una situazione invertita lui mi avrebbe parlato, mi avrebbe spiegato per bene la situazione ed avrebbe cercato di proteggermi dall’urto della verità con la sua grande dose di bontà, sempre se avesse scelto di farmi del male raccontandomi una simile vicenda dopo avermi colpito a morte con delle foto da lui scattate.

Mi resi conto che un altro uomo mi avrebbe come minimo insultato, e dopotutto me la sarei anche meritata un’azione così, dopo aver involontariamente ficcanasato nella vita altrui, e poi sarebbero sorti nuovi guai con la moglie. Ma io avevo di fronte Roberto, una persona con una personalità tutta sua, e non reagì subito ed in nessun modo.

Dopo la sua amara constatazione, infatti, si allontanò da me, ma non andò dalla moglie, bensì si recò in giardino a fumare una sigaretta, ed io che lo guardavo da dietro le spalle, immerso nel buio sfidato dai lampioni della vicinissima strada, non riuscivo a notare alcuna traccia d’irrequietudine in lui. Questo mi permise di tranquillizzarmi, e di sperare in nessuna sua azione repentina o violenta, e non so più cosa provai dopo, perché l’ho dimenticato. O l’ho voluto rimuovere, dato che la mia coscienza per la prima volta si era macchiata in modo indelebile con quell’azione ignobile.

Adesso mi viene solo in mente che andai a letto turbato, ma che non udii alcun litigio proveniente dalla camera accanto. E la mia unica domanda fu se Roberto sapeva già che la moglie lo tradiva, considerando la sua reazione fin troppo contenuta e pacata.

 

Nel giorno immediatamente successivo al mio disgustoso misfatto, tutto era incredibilmente calmo e pacifico.

A sollevarmi momentaneamente dal pensiero di ciò che avevo commesso la sera prima, un peccatuccio assai pesante, era che i miei inquilini erano placidissimi anche durante quella domenica mattina. Federico non era uscito dalla sua camera, dove la madre ormai gli recapitava pure i pasti, però avevo sentito la tapparella alzarsi poco prima, quindi doveva essere già sveglio a continuare quella scenata che ormai perdurava da metà settimana. La signora Arriga, invece, l’avevo intravista uscire attorno alle otto, mattiniera come sempre, non senza avermi lanciato una delle sue classiche ed insopportabili occhiatacce.

Ero certo che Roberto non le avesse raccontato nulla a riguardo di ciò che gli avevo mostrato, altrimenti quell’arpia mi avrebbe di sicuro affrontato di petto. Avevo tanta paura di quell’essere adulto che ancora non avevo compreso del tutto.

Il fatto che Roberto non avesse fatto scoppiare un caos con la moglie mi insospettiva assai, ma allo stesso tempo mi faceva sentire più quieto.

A mente più lucida, rispetto alla sera precedente, mi ero preparato già di buonora ad attendere l’uomo, per approfittarne del fatto che la moglie era uscita per fermarlo e dirgli che avevo sbagliato a fare ciò che avevo fatto la sera prima, ed ero pronto pure a dirgli che quello che aveva visto era in realtà un fotomontaggio, che mi ero fatto preparare da un mio amico bravo in quel genere di cose, e tutto questo perché sua moglie a volte mi turbava coi suoi comportamenti un po’ strani. In ogni caso volevo dire che non si trattava di nulla di personale e che mi vergognavo per quell’azione insulsa che avevo messo in atto.

Insomma, sapevo che in ogni caso ci avrei fatto una figura pessima, e la mia mente in quel momento lavorava come una pazza e quasi per assurdo.

Anzi, direi totalmente per assurdo. Era l’imbarazzo estremo che provavo a farmi quasi sclerare, molto probabilmente a seguito della costante consapevolezza del pasticcio che avevo combinato. Nel frattempo, avevo già cancellato tutti gli scatti clandestini.

Mentre mio padre bofonchiava qualcosa dalla saletta del pianoforte, da solo e con un tono di voce basso e fastidioso che mi fece quasi irritare, rischiai di perdere la concentrazione sul mio obiettivo, ovvero intercettare Roberto e parlargli, poiché l’uomo aveva sceso rapidamente le scale e si stava dirigendo a tutta velocità verso la porta d’ingresso, la stessa che era stata varcata qualche decina di minuti prima dalla consorte.

Riuscii a intercettarlo solo in giardino, lontano dalle orecchie di mio padre e dopo essermi mosso con attenzione verso di lui.

L’uomo, notando che l’avevo seguito dall’interno fino a fuori, si piazzò di fronte a me con un sorriso frettoloso ben saldo sulle labbra, ed io involontariamente rabbrividii mentre mi avvicinavo a lui. Non comprendevo come fosse possibile che sulle sue labbra si mostrasse quel segno di evidente tranquillità e rilassatezza, ma il mio inquilino era un vero maestro in impassibilità e depistaggio del proprio stato d’animo da parte di occhi altrui.

Attesi fino all’ultimo per parlare, anche se sul viso dovevo avere impressa l’espressione di chi si accinge a dire qualcosa che gli preme dentro ed ha una gran voglia di uscire fuori a parole, ma la mia infinita timidezza, che a volte sa tramutarsi quasi in codardia, mi tenne bloccato fintanto che non poté più farne a meno, poiché colui con cui volevo interloquire mi stava fissando, ancora ben piantato sul posto e dall’apparenza sorridentemente rilassata.

‘’Senti, Roberto… a riguardo di ciò che ho fatto ieri sera… io non volevo… e me ne vergogno… e avrei qualcosa da dirti…’’.

Che scena penosa! Manco riuscivo a spiegarmi e a parlare con chiarezza. Inutile sottolineare che il mio viso era diventato rosso come un pomodoro ben maturo, tanto diventava quasi sempre di quel colore. Ma quella volta ne ero certo che fosse di una colorazione più marcata rispetto alle precedenti.

Roberto mi sorprese, come sempre, mantenendo la sua placidità ed allungando una mano verso di me, per poggiarmela sulla spalla destra, mettendo fine alla mia difficile farneticazione.

‘’Non devi scusarti di nulla, anzi, non ci crederai ma sono io a ringraziarti, perché mi hai aperto definitivamente gli occhi. Però, adesso sta a me dovermi scusare, perché devo proprio andare in un certo posto ed ho fretta… se vuoi dirmi qualcos’altro, me lo dirai più tardi, con calma. Ma non preoccuparti assolutamente per quello che mi hai mostrato ieri sera, e non pensarci neppure più! Non ti metterò in mezzo a questa questione con mia moglie, non temere, so quanto può essere pericolosa se provocata, soprattutto in questo periodo. A dopo’’, mi salutò, lasciando la sua debole stretta ed allontanandosi da me a passi molto decisi e con evidente fretta.

Io, ancora imbambolato nel mezzo del giardino, non potei fare altro che lasciarlo andare, per poi far cadere lentamente le mie spalle, quasi provenissi da una fatica immane. Non sapevo che attendermi dall’uomo, ma mi pareva che avesse trovato una qualche strategia, poiché il mio caro inquilino usciva di casa molto raramente durante l’arco delle giornate trascorse a casa nostra, e se lo faceva era per un motivo strettamente necessario, tipo andare a fare un po’ di spesa o a compiere qualche semplice ed ordinaria commissione.

Quel giorno andò via con la sua auto, e questo era ancora più strano, considerando che la utilizzava pochissimo.

Non volli continuare a stare a chiedermi cose di cui non avrei potuto avere un’immediata e soddisfacente risposta, e siccome non avevo affatto voglia di fasciarmi la testa inutilmente, visto che comunque me la fasciavo sempre spesso e volentieri, decisi di rientrare in casa e di andare a riprendere un libro in mano, o almeno provarci.

Da quando non dovevo più fare i compiti anche per il prepotente, la vecchia e malsana abitudine di lasciarli perdere stava ricominciando rapidamente a farsi strada in me, ma sapevo che dovevo continuare a darmi da fare con assiduità e costanza, se non volevo tornare ai livelli più mediocri degli scorsi anni.

Visto che Giacomo mi aveva mandato poco prima per messaggio ciò che era stato affrontato durante i giorni della mia assenza da scuola, avevo un po’ di nuovo lavoro su cui dovevo impegnarmi, e quindi decisi di cogliere al balzo quel mio raro momento caratterizzato da una decisa voglia di studiare, per andare subito in camera mia per tentare di prendere tra le mani i vari libri, e magari concentrarmi sullo studio e staccare un pochino dalla mia movimentata e continuamente dolorosa routine quotidiana.

 

Riuscii a studiare.

Col passare del tempo, ho avuto modo di avere la certezza che il problema più grande dell’essere umano è trovare l’ispirazione o la voglia per fare qualcosa. Una volta che si desidera davvero di inseguire un sogno, oppure di svolgere qualcosa d’importante e di più concreto, si è già a metà strada del percorso da compiere. E pareva che un po’ di voglia e di determinazione fosse tornata a vivere in me, dopo alcuni giorni parecchio scialbi, fatti solo di pensieri cupi e quant’altro.

Ricordo che dopo qualche ora di studio e nell’immediato primo pomeriggio telefonai a Jasmine, informandomi su Alice e scoprendo che versava ancora in uno stato d’incoscienza simile al coma, e che forse l’operazione non avrebbe dato alcun risultato utile, proprio come si temeva.

Ricordo anche che tagliai corto, dopo aver sentito quelle brutte notizie, e per nulla intenzionato ad incontrare la mia amata, ben sapendo che tra noi due in quelle giornate ci sarebbe stato solo spazio per una condivisione carica di dolore, la salutai quasi frettolosamente e in modo abbattuto, e forse passai un po’ per villano, ma in cuor mio sapevo che la mia Jasmine era una ragazza profondamente intelligente e mi avrebbe di certo saputo capire.

Telefonai brevemente anche a Giacomo, per raccontagli cosa ne avevo fatto delle sue foto e narrargli le mie preoccupazioni a riguardo, ma ricordo solo che rise, per poi dirmi che anche lui, se fosse stato al posto mio, avrebbe agito in quel modo, e di non preoccuparmi troppo per la sorte della famiglia Arriga.

Il mio amico sperava solo che gli Arriga se ne andassero, l’avevo capito da secoli ormai; ma io non sapevo ancora in cosa sperare. Sapevo solo che se Roberto se ne fosse andato, io sarei rimasto solo in quella casa maledetta in compagnia di mia madre, una donnina troppo fragile e indecisa, che lavorava sempre ormai, e di quell’essere volgare e disgustoso di mio padre, assieme alla sua petulante amante che di tanto in tanto si faceva viva, quando mia madre non c’era. Ed erano solo urlacci e parolacce.

Avrei voluto tenermi stretto Roberto, quindi, l’unico adulto in quel mondo in grado di capirmi e capace di starmi vicino in modo costante e gratuito. Se avessi perso pure lui, sarei impazzito.

Però, purtroppo, ero consapevole che in ogni caso del destino quell’uomo se ne sarebbe andato di casa mia, ma pregai solo che mi fosse concessa l’opportunità di averlo a fianco fintanto che quel periodo d’instabilità non si fosse finalmente stabilizzato. Prima o poi, il sereno sarebbe dovuto ritornare a trionfare su tutti quei nuvoloni cupi.

Salutai in fretta anche Giacomo, non condividendo il suo odio incondizionato riposto verso tutti e tre i membri della famiglia Arriga, poiché lui stava commettendo lo sbaglio di giudicare senza conoscere. Se Livia e Federico erano due gran stronzi folli, non era assolutamente necessario e conseguente che il marito e padre di famiglia lo fosse pure lui.

Purtroppo però non riuscivo davvero a far capire quel semplice concetto al mio amico, gasato per i grandi successi ottenuti contro il nemico e sempre in attesa della ciliegina sulla torta, ovvero il colpo di grazia, quello che avrebbe fatto espellere finalmente Federico dal liceo e magari fargli assicurare qualche pena pesantissima, poiché ormai si sapeva che almeno qualcos’altro di grave su di lui sarebbe emerso alle forze dell’ordine e alla preside. E tutto ciò si sarebbe aggiunto anche all’aggressione che mi aveva teso.

Il bullo in quel momento occupava l’ultimo dei miei pensieri, per fortuna, e quindi sorvolai su tutte le asprezze espresse da Giacomo, e dopo qualche minuto di sfogo congedai pure lui, pronto a tornare a riprendere i libri in mano dopo quella piccola pausa e a cercare di ripassare ciò che avevo affrontato nelle ore precedenti.

Dopo una manciata di minuti, però, qualcuno suonò al campanello.

Essendo solo in casa quel pomeriggio, naturalmente senza contare il prepotente che faceva la larva nella sua stanza, andai subito con due balzi al piano inferiore e mi affrettai a dirigermi alla porta, curioso di scoprire di chi si trattasse. Non aspettavamo alcuna visita, e credendo che si trattasse di uno di quei soliti venditori ambulanti già mi accingevo a prepararmi mentalmente le classiche frasi per declinare le loro offerte, senza contare che si sarebbe potuta trattare anche di una visita inattesa.

Infatti, non appena aprii la porta, notai che Melissa se ne stava proprio di fronte al mio cancelletto, con lo sguardo abbassato verso il citofono, senza sapere che esso ormai non funzionava più da anni e che mia madre non aveva voluto spendere soldi per farlo riparare.

‘’Mel! Che sorpresa!’’, mi lasciai sfuggire, attirando subito la sua attenzione.

La ragazza mi guardò e mi sorrise.

‘’Allora non ricordavo male! E’ proprio questa la tua casa’’, mi disse, evidentemente sollevata.

 La giovane non era mai venuta a trovarmi, e molto probabilmente doveva aver ricordato in modo blando la casa che le avevo indicato il primo giorno in cui ci siamo visti, ovvero quello in cui le avevo restituito il suo variopinto portafoglio ed era in compagnia delle cugine.

‘’Sì, non ti sei affatto sbagliata’’, le dissi, mentre le aprivo il cancelletto e la osservavo, notando che aveva gettato un ultimo sguardo all’indirizzo e al nome di mia madre, scritto sul campanello.

Mi venne per un attimo da chiedermi se avesse sospettato per un attimo che quello era il nome di sua zia, la moglie del fratello di suo padre, ma quasi sorrisi di fronte a quel pensiero insulso, riconoscendo che la ragazza non doveva sapere più di tanto sull’esistenza di quello zio mai presente nella sua vita, e probabilmente tenuto a distanza dai fratelli minori.

Smisi di pensare solo quando la mia cugina si piazzò davanti a me, con un sorriso delicato sulle labbra.

‘’A cosa devo questa tua improvvisa visita?’’, le chiesi, titubante. Non avrei mai immaginato di trovarmela alla porta.

‘’Mi mancavi. Dato che ti fai sentire tanto poco, e che sei sempre venuto tu a trovarmi, ho pensato di farti una sorpresa. Disturbo, forse? È una domenica, magari hai qualche programma…’’.

‘’Nessun programma, vieni pure in casa’’, le dissi, non lasciando che in lei sorgesse il dubbio di non essere la benvenuta, perché non era così.

Con un pizzico di pungente curiosità, la lasciai accomodare in cucina.

‘’Che casetta carina’’, mi disse gentilmente, guardandosi attorno.

Ridacchiai, ancora frastornato da quella presenza inattesa.

‘’Nulla in confronto a casa tua’’, mi limitai a dirle, mentre si sedeva.

‘’Mi hai detto che hai anche un pianoforte, qui a casa’’, quasi mi sollecitò Melissa, togliendosi il suo giubbotto scuro e sistemandosi leggermente con le mani la felpa rosa chiaro che indossava.

‘’Sì, sì. Vieni, se ti va te lo faccio vedere’’, suggerii, cogliendo al volo l’occasione per uscire un attimo dal silenzioso imbarazzo che stava prendendo piede dentro di me e sfruttando quel momento in cui mio padre non era in casa.

Avevo come il sospetto che l’uomo stesse tramando qualcos’altro che ancora mi era ignoto, ma non potevo neppure in quel caso supporre qualcosa di certo. Ciò che però m’insospettiva era che, ultimamente, non si assentava solo per recarsi al lavoro, ma lo faceva pure durante i giorni festivi.

La mia povera madre, invece, quella domenica era stata praticamente obbligata a svolgere dello straordinario, dato che c’era una palazzina intera da ripulire urgentemente entro il giorno successivo. Lei e le sue povere colleghe precarie erano state subito impiegate in quell’impresa che poteva apparire epica.

‘’Certo, mi farebbe molto piacere vederlo’’, rispose la ragazza, con tranquilla sincerità, dopo avermi sorriso per un attimo.

Allora la condussi nella mia saletta, dove il pianoforte troneggiava ancora al suo interno, nonostante il fatto che stesse nuovamente accumulando un po’ di polvere sulla sua superficie.

Mi sedetti sul mio piccolo sgabello, mentre la mia ospite ne sfiorava i tasti con le dita.

‘’E’ bello quanto quello di mio nonno’’, disse, con un sospiro, dopo aver osservato lo strumento per qualche istante, e allungando una mano per accarezzarne nuovamente la tastiera.

‘’Quello di… di tuo nonno è molto più bello, pregiato ed antico. Un pezzo di grande valore’’, dissi, titubante.

Su di me sentivo tutto il peso delle mie bugie. Avrei voluto saltare al collo della ragazza e stringerla forte, dicendole che ero quel cugino che lei non aveva mai conosciuto, e di cui magari non sapeva neppure della sua esistenza o non si era mai chiesta nulla a riguardo. Però, anche in quel caso dovevo tenere a freno ogni mia reazione e sentimento.

Avevo paura di interrompere quella farsa che stava continuando forse da fin troppo tempo, anche perché non avevo idea di quale reazione avrebbe potuto avere la ragazza di fronte alla mia rivelazione.

‘’Tu dici? Io sono dell’idea che uno strumento può avere anche un sacco di valore, ma solo se è utilizzato ed affidato ad una persona che ne abbia altrettanto’’, suggerì la ragazza, sapientemente.

‘’Uhm, può darsi. Comunque, io mi riferivo ad altro…’’.

‘’Anch’io lo stavo facendo, anche se indirettamente’’, quasi m’interruppe Melissa, a voce bassissima, allontanando le mani dalla tastiera.

‘’Non capisco dove volevi arrivare, allora…’’, tentai di dire, leggermente perplesso ed incrociando le braccia.

‘’Possibile che tu non l’abbia capito? Beh, volevo solo farti capire che tu vali molto, Antonio. A volte tendi a sottovalutare le tue capacità, ma fidati, tu sei davvero un ragazzo bravissimo, molto intelligente, gentile ed… ed è…’’.

‘’Ed è…?’’, chiesi, quasi sussurrando e fissando per la prima volta dopo qualche minuto il volto della mia interlocutrice.

Melissa pareva essersi inceppata, e con grande difficoltà e con un pizzico di imbarazzo riuscì a concludere la frase che già da un po’ stava cercando disperatamente di pronunciare.

‘’Ed è per questo che mi piaci. Molto’’.

Sussultai. Non me l’aspettavo davvero.

Quel molto nel finale del breve discorso aveva un suo peso, e rischiai di rimanerci intrappolato sotto, grazie anche al fatto che la mia timidezza scattò fuori dal nascondiglio dove si era momentaneamente rintanata per piombarmi addosso come una leonessa.

Arrossii tantissimo, e quasi fui lì per cominciare a borbottare qualcosa d’insensato, ma Melissa avvicinò bruscamente il suo volto al mio in un vago tentativo di baciarmi.

Prima che ciò avvenisse, riuscii a bloccare le sue labbra posando sopra di esse l’indice alzato della mia mano destra, fermando il gesto della ragazza a meno di un palmo dal mio volto.

‘’No’’, le dissi, sussurrandolo.

Lei mi guardò, inarcando leggermente le sopracciglia e allontanandosi leggermente da me, come se fosse tornata in sé dopo qualche secondo di follia. Mai e poi mai mi sarei creduto di trovarmi in una situazione del genere.

‘’Perché no?’’, mi sussurrò lei di risposta, arrossendo notevolmente.

‘’Perché io amo già un’altra ragazza’’, le risposi, debolmente.

‘’Certo. Io sono sempre la seconda, la più brutta, lo scarto che nessun ragazzo vuole…’’, disse improvvisamente Melissa, anche lei in modo debole, per poi lasciar scivolare alcune lacrime sulle sue guance.

‘’Smettila. Sei una bellissima ragazza, molto cortese…’’, tentai di dire, giustamente.

‘’Ok, ma a te non piaccio per nulla’’, mi sibilò tra i denti, nervosa.

Non capivo la causa di quel momento di teso nervosismo, o, almeno, non la capivo fino in fondo. La ragazza poi scoppiò a piangere, lasciandosi sfuggire singhiozzi sempre più decisi.

A quel punto, anch’io esasperato da quella situazione che da alcuni minuti tormentava entrambi, sfidai la mia timidezza e mi avvicinai cautamente a lei, per poi donarle un piccolo ma caloroso abbraccio.

‘’Non è questione di piacermi o meno. Noi due siamo cugini’’, le dissi, sputando fuori la mia rivelazione del secolo.

‘’Cosa… cosa stai dicendo?’’, mi chiese infatti Melissa, quasi sobbalzando e costringendomi a sciogliere l’abbraccio.

Fu così che vuotai il sacco. Posandomi una mano sulla fronte e sospirando, le raccontai tutto quello che avevo scoperto in quel mese abbondante in cui avevamo avuto modo di conoscerci.

‘’… ed io mi chiamo Antonio Giacomelli, e sono il figlio di Sergio, fratello maggiore di tuo padre’’, le dissi infine, come se volessi soltanto continuare a far chiarezza su quel concetto.

In realtà, a quel punto sapevo che era giusto che la mia cara cugina ed amica non avesse più dubbi a riguardo, e che smettesse di soffrire e di farsi delle storie inutili, quindi le mostrai anche la mia carta d’identità. Ma lei scosse ugualmente la testa.

‘’Ci sono tanti Giacomelli in Italia, non credo che tu sia proprio quel cugino che non ho mai avuto modo di conoscere’’, mi disse, cercando di non riconoscerlo a sé stessa. Capivo la sua sorpresa.

‘’Sono proprio io, te lo giuro’’, confermai, lasciandomi scivolare di nuovo sul mio sgabello, sfinito da quella conversazione.

‘’E se sei proprio tu… perché siamo dovuti giungere a questo punto, prima di conoscerci per davvero? A me sei piaciuto fin dalla prima volta in cui ci siamo visti, ed ho celato e custodito il mio amore per te, mentre tu mi hai nascosto la tua vera identità…’’, cercò di dire Melissa, lasciandosi poi sfuggire un nuovo singhiozzo.

‘’Quando ti ho conosciuta, non sapevo neppure io che ero tuo parente. L’ho scoperto solo dopo, ma… non ho mai avuto il coraggio per dire realmente chi ero. Avevo paura che tu e la tua famiglia mi aveste potuto prendere per approfittatore, o chissà cos’altro, perché nel frattempo ero già venuto a casa vostra a suonare il piano e ad incontrarti… beh, per te volevo restare un semplice amico. E poi, non sapevo neppure cosa ti avevano raccontato su di me’’, aggiunsi, con sincerità.

A me, sulla sua famiglia mi era sempre stato detto che erano persone fredde, a cui non era mai importato nulla di quel nipote generato dal figlio maggiore e più scapestrato. Immaginavo quindi che qualche freddura fosse circolata anche sui miei, almeno una volta in casa sua.

‘’Non so davvero cosa pensare’’.

‘’Ti giuro che non mi sono mai intrufolato in casa tua solo per mettere scompiglio, o per farmi gli affari vostri o per altri doppi fini. Io voglio restare ad essere per sempre un tuo amico, un tuo buon amico. Niente di più, niente di meno’’, conclusi, chiarendomi al meglio.

‘’Capisco. Grazie per avermi detto la verità, anche se un po’ in ritardo, e per avermi concesso l’opportunità di conoscerti senza alcun pregiudizio. Resterai per sempre il mio amico… e il mio unico cugino maschio. Sei un gran bravo ragazzo e una bella persona, Antonio’’, mi disse la ragazza, finalmente sciogliendosi e sfoggiando un sorriso tremolante.

Mi sentii rassicurato di fronte alla sua reazione, e proprio mentre ci rivolgevamo uno sguardo ed io stavo per ringraziarla per le belle parole che mi aveva rivolto e per dirle che le ricambiavo pienamente, ci trovammo a volgere all’improvviso lo sguardo verso la finestra della saletta, poiché tanti piccoli fiocchi bianchi avevano cominciato a cadere dal cielo con un’intensità incredibile.

Per qualche istante, ce ne stemmo entrambi così, a guardare la prima intensa nevicata della stagione, mentre i grandi fiocchi avevano cominciato in pochi istanti a cadere ancor con maggiore insistenza e rapidità, spinti dal vento che all’improvviso aveva cominciato a soffiare con violenza.

‘’Sembra una tormenta… sarà meglio che mi rechi in stazione e che prenda il primo treno, prima che tutto sia difficile da raggiungere e che ci siano dei disagi nei trasporti’’, disse la mia interlocutrice, rompendo il magico silenzio che era sceso tra noi.

‘’Sono d’accordo con te’’, fui costretto a riconoscere, notando che il tempo stava facendo le bizze, all’infuori della mia casa. Non avrei mai voluto essere nei panni della mia adorata amica e cugina, che avrebbe dovuto affrontare quel clima avverso.

Ci salutammo, lei mi diede un bacetto sulla guancia e mi disse che tra di noi era tutto a posto, e che era davvero felice di aver scoperto la mia vera identità. Non se la prese per il fatto che per lungo tempo le avevo praticamente mentito, ma forse aveva compreso davvero ogni mia motivazione e paura.

Forse, dentro di lei le condivideva.

Melissa è sempre stata una ragazza profondamente attenta ed intelligente, quindi so che su di lei ho sempre potuto far affidamento e che mi ha da sempre capito, perdonato ed amato, come un grande amico però.

Capì tutto, per fortuna, e fin quasi da subito. Sperai solo che non si stesse preparando per far del casino in casa sua, dopo quella scoperta, ma sapevo che lei era davvero una persona saggia e con la testa sulle spalle, quindi mi fidavo profondamente di ogni sua scelta. D’altro canto, in quel frangente ogni colpa era solo e solamente mia.

Melissa se ne andò così di casa mia, quasi improvvisamente come si era presentata, sotto ad una fitta e copiosa nevicata, mentre il gelidissimo vento della tempesta la sfiorava con decisione. Lei mi sorrise, prima di sparire dalla mia vista, ed ebbi come la consapevolezza che quel sorriso avesse molti significati, e che tra me e lei non si sarebbe mai concluso il nostro splendido rapporto. Quest’ultimo non sarebbe stato d’amore da coppia affiatata, bensì di rispetto e di parentale fratellanza.

Quando tornai in casa, dopo aver richiuso la porta d’ingresso alle mie spalle, mi sentii da subito come svuotato, come se mi fossi tolto un grandissimo peso di dosso, dopo aver fatto chiarezza su tutto quanto con la mia cugina. E pensai che molto probabilmente anche lei doveva condividere quel sollievo, almeno in parte, poiché le aveva permesso veramente di capirmi e di guardarmi dentro, senza più alcun velo. E forse questo era stato meglio del bacio che voleva darmi sulle labbra.

Tra me e Melissa finalmente era stata fatta chiarezza, e con un po’ di stanchezza salii nuovamente al piano superiore, soddisfatto anche del fatto che nessuno fosse stato in casa in quel momento a turbare la nostra conversazione privata, e mi sdraiai sul mio letto, osservando con indolenza i fiocchi candidi di neve che sfioravano il vetro della mia finestra, per poi miseramente sciogliersi.

Rapito dalla magia della neve, dopo un po’ mi addormentai, nonostante fosse pomeriggio inoltrato, mentre qualcuno al piano inferiore stava rincasando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici! Grazie, come sempre, per continuare a leggere, seguire e sostenere questo racconto.

Finalmente tra Melissa e Antonio è tutto più chiaro; la situazione, infatti, a lungo andare stava per sfuggire di mano ad entrambi.

Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento.

Continuo a ringraziarvi tutti di cuore, e vi auguro una serena giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


Capitolo 33

CAPITOLO 33

 

 

 

 

 

 

Dormii per un po’, nonostante che di tanto in tanto udissi un discreto tramestio proveniente dal piano di sotto. Ma mai avrei sospettato che sarebbe accaduto ciò che Giacomo prevedeva e desiderava da tempo.

Ricordo solo che, dopo un po’, mia madre entrò in camera mia e mi svegliò, con impressa sul viso un’espressione agitata e preoccupata.

‘’Cos’è successo, mamma?!’’, le chiesi, già in ansia e con la voce impastata e fioca.

‘’Ero appena rincasa quando hanno suonato il campanello, e… alla porta si sono presentati due carabinieri! Hanno chiesto di Federico, ed io l’ho chiamato giù. Il ragazzo, che tutto s’aspettava tranne questo genere di visita, non appena li ha scorti ha fatto delle storie, ma loro l’hanno voluto condurre immediatamente in caserma. Il motivo non lo so affatto, han detto che ne avrebbero potuto parlare solo con i membri della sua famiglia, per motivi di privacy. Ecco, ora mi chiedevo se fosse meglio contattare Roberto…’’, mi narrò mia madre con il classico impeto di chi è rimasto davvero colpito da ciò che è successo.

Deglutii, facendo scivolare un po’ di saliva all’interno della mia gola arida e lievemente arrossata, prima di riconoscere che sì, forse era davvero meglio telefonargli per avvisarlo.

Annuii senza dire nulla, ed alzandomi lentamente dal letto riconobbi che i due coniugi Arriga non dovevano ancora aver fatto ritorno a casa da quella mattina, e tutto ciò era sospetto. Mai entrambi erano stati fuori per tanto tempo, e lo stesso Roberto non aveva mai saltato un pranzo a casa.

‘’Mamma, chiamalo… faglielo sapere’’, le dissi poi, per confermare le mie idee. Roberto andava avvisato, e poi sapevo che la questione gli stava a cuore.

Fu il turno di mia madre ad annuire, per poi abbandonare la mia stanza, immersa in un turbato silenzio.

Io non riuscii a far altro che restarmene in camera mia, sveglio però, ad ascoltarla mentre telefonava a Roberto e l’avvisava dell’accaduto. Tutto sommato, devo riconoscere tuttora che non ero affatto dispiaciuto per Federico.

 

Il nulla.

Ci sono quei momenti, durante la propria esistenza, in cui una persona vorrebbe essere il nulla, mischiarsi abilmente con esso e sparire per un po’, volatilizzandosi come per magia.

Il voler uscire dai propri problemi, dalle situazioni scomode e il non voler sfiorare tasti dolenti a volte può dare questa impressione, che personalmente mi capita spesso di provare.

Quando ripenso ai concitati momenti successivi a quella sorta di arresto di Federico, non posso non provare un umiliante brivido. Umiliante, proprio così. Non tanto per me, ma per una persona che mi sta talmente tanto a cuore da farmi immedesimare nella sua drammatica situazione.

Ma procedo un passo per volta, altrimenti rischio d’ingarbugliarmi nel groviglio concitato e frenetico di questi ricordi.

Mia madre aveva avvisato Roberto, ovunque esso fosse, e l’uomo, da quel che lei aveva capito, doveva essersi recato dal figlio.

‘’Mi… mi sembrava che stesse piangendo!’’, mi disse però l’unico genitore di cui mi fidavo, sbottando la frase quasi in modo ingenuo ed incredulo.

Anch’io pensai che quella fosse stata solo una sua impressione, dovuta alla concitazione del momento. Ma sbagliai.

Roberto rincasò solo qualche ora dopo, seguito dalla moglie. Io e mia madre stavamo già cenando, dopo aver lasciato qualcosa da parte per quel fannullone di mio padre, che ancora non era tornato da chissà dove, ed eravamo in attesa di notizie da parte dei coniugi, se ovviamente avrebbero voluto condividere qualcosa con noi.

Mia madre sapeva che se Federico era nei guai era anche per causa mia, e temeva che questo avrebbe potuto guastare irreparabilmente i  rapporti con gli inquilini, lei che era tanto egoisticamente amante della pace, ma stava di fatto che ormai era tutto finito e le carte erano già tutte in tavola. Non si poteva fare più nulla per cambiarle.

Ci alzammo da tavola, sentendoli rientrare, e fui parecchio sorpreso di vederli rincasare assieme, ma immaginai che provenissero dalla caserma. Federico non era con loro. Roberto appariva livido in volto, più demoralizzato che arrabbiato, mentre Livia era furente.

I due entrarono nella cucina l’uno dopo l’altra, come furie, ed io e mia madre ce ne restammo in piedi a lanciarci a vicenda uno sguardo allarmato.

‘’Il nostro soggiorno in questa casa è terminato. Entro domani ce ne andiamo da questo tugurio e da questo paesino insignificante’’, esordì Livia, con un tono di voce molto deciso e tagliente.

Il suo chiaro intento era umiliare mia madre, con le sue parole e il suo insulto rivolto alla nostra dimora, ma lei non colse l’offesa, parve lasciarsela scivolare addosso. Notai che il suo sguardo era tutto dedicato a Roberto, rimasto ancora in silenzio in quel primo concitato momento, in cui la moglie pareva su tutte le furie.

‘’Parla per te e tuo figlio. Io resto, almeno per un po’ ‘’, disse l’uomo, e riconobbi che la sua voce era davvero incrinata. Sembrava che avesse pianto, anzi, ne ero quasi sicuro.

‘’Certo, ma chi ti vuole? Anche la nostra storia è finita qui, sempre se è mai esistita’’, ribatté l’aristocratica, facendo una smorfia di evidente disgusto ed afferrando un bicchiere pulito dal lavabo.

Io e mia madre eravamo allibiti, e la mia cara genitrice, preoccupata, si mise a servire l’ultima porzione della nostra cena, in modo che noi potessimo concluderla in fretta per poi lasciare spazio agli Arriga. Tornai quindi a sedermi.

I due coniugi, dal canto loro, parevano non aver voglia di uscire dalla stanza; mentre Roberto si era lasciato scivolare lentamente su una sedia libera posizionata a fianco del tavolo, la signora sembrava davvero intenzionata a sorseggiarsi in tutta tranquillità un po’ di succo di frutta, che si era appena versata nel bicchiere.

Riconobbi che forse sarebbe stato meglio se avesse sorseggiato un po’ di camomilla calda, visto il suo stato.

‘’Il nostro percorso assieme…’’, tentò di dire Roberto, subito interrotto brutalmente dalla risata stridula della moglie, che soverchiò ogni altro rumore.

‘’Il nostro percorso assieme! Il nostro percorso! Ma sei davvero ridicolo, Roberto. Ho sempre saputo che eri un uomo che non valeva nulla, ma almeno pensavo che tu ci arrivassi a comprendere almeno qualcosa di elementare. Non c’è mai stato nessun nostro percorso! C’è stato solo il mio’’, disse ad alta voce Livia, mentre io e mia madre continuavamo a mangiare. Il cibo quasi mi formava un nodo in gola di fronte a quelle orrende parole, tra l’altro pronunciate di fronte a noi due estranei alla loro famiglia, come se fossero cose di normale routine su cui chiacchierare.

‘’Antonio, finiamo di cenare dopo. Lasciamo che…’’, tentò di dire mia madre, ma l’ennesima risata isterica della signora la interruppe.

‘’No, potete ascoltare, state tranquilli! Ora chiedete il permesso, quando non avete fatto altro che origliare, spiare e controllarci per tutto il periodo in cui abbiamo soggiornato qui. Restate, vi prego! Questa è la resa dei conti, quel momento a cui avete partecipato attivamente per costruirlo negli ultimi mesi… ascoltate e guardate i risultati che avete ottenuto!’’, disse la donna, amaramente.

‘’Noi non abbiamo mai spiato nessuno’’, sussurrò mia madre, sconcertata dall’esagerata reazione dell’aristocratica.

‘’Ah no? No, ne sei proprio sicura? Tu, pulitrice di gabinetti e quell’infame vermiciattolo di tuo figlio non avete fatto altro che remarci contro dal primo giorno in cui ci avete visto. Bastardi! Lo so che odiate me e mio figlio, ma…’’.

‘’Livia, questa è una faccenda che riguarda noi due e Federico. Non tirare in ballo persone che non c’entrano nulla in tutta questa storia’’, la bloccò Roberto, quando ormai la moglie era totalmente e rabbiosamente scagliata contro di me e di mia madre, che da parte sua abbassò lo sguardo e non trovò la forza per replicare nulla.

A volte mi sento un po’ come la mia mamma, e devo riconoscere che neppure lei è mai stata una donna d’animo forte e sicuro. Quella fu una situazione in cui tutta la sua debolezza trasparì in un modo talmente tanto chiaro da farmi sentire male anche per lei.

Con quelle parole, Livia aveva umiliato entrambi, ma nessuno di noi due era riuscito a tener testa a quella che pareva un’ira repressa, venuta fuori lentamente e nel corso dei vari giorni precedenti a questo momento, per poi esplodere definitivamente tutta d’un colpo.

‘’Il fetente è entrato più volte in camera di mio figlio. L’ha provocato fino a farlo impazzire! E poi si lamenta se gli ha dato un qualche scapaccione! Ed ecco che il povero Federico è nei guai, guai grossi questa volta, e lui se ne sta qui dietro la sottana di sua madre, a fare il santo, solo perché ha ricevuto un calcino nel didietro… nei guai dovevi esserci tu, deforme mentale!’’, aggiunse la signora, rincarando comunque la dose.

Fui lì per rispondere qualcosa, ormai troppo nervoso per riuscire a stare zitto e a lasciarmi sottomettere dalla mia naturale timidezza, ma Roberto si alzò e in lampo si avvicinò a me, appoggiandomi una mano sulla spalla destra e chinandosi leggermente verso il mio volto.

‘’Non rispondere a questi insulti, Antonio. Non dar seguito alle parole di una donna che ormai ha perso tutto, anche la dignità di donna coniugata, ed è impazzita’’, mi disse, a voce bassa, ma non tanto da non essere udita dalla vicina moglie, che però quella volta non rise, anzi, strabuzzò gli occhi.

‘’Ecco, sono una pazza anche per te… questa è la ricompensa per quello che ho fatto per il tuo bene! Essere chiamata pazza, essere odiata…’’.

Livia era ancora furente, ma non aveva intenzione di schiodarsi dalla sua postazione, appoggiata leggermente con la schiena contro la bassa credenza della cucina, quasi avesse bisogno di un supporto fisico per restare in piedi.

‘’Ad aver sbagliato tutto e ad averci rimesso, in questa storia, sono stato proprio io. Fin dall’inizio. E per questo ritengo giusto che ogni rapporto tra noi due abbia immediatamente fine’’, mormorò Roberto, sempre affranto e senza commentare le parole della moglie, che dal canto suo appariva meno dispiaciuta e più fuori di sé.

‘’Non ti doveva neppure passare per l’anticamera del cervello di corteggiarmi! Di fissarti con me… tu dovevi lasciarmi in pace! In questo momento, io e Federico saremmo stati felici e lontani da qui, ancora a Bologna, a goderci la vita e non a roderci l’anima’’.

‘’Non capisci proprio nulla. Credi che senza di me tu e Federico avreste avuto una vita serena? I tuoi ti avrebbero costretto ad abortire, o a lasciare il bambino in ospedale. Ricordi quello che ti diceva tuo padre? Le brutte parole che ti rivolgeva, quando scoprì che eri incinta, e per di più…’’.

‘’Basta così. Non rigirare il coltello nella piaga. Ma penso che tu non abbia ragione, e a volte immagino di nuovo la mia vita libera, senza di te. E d’ora in poi sarà proprio così che vivrò! Non sono più una ragazzina, so esattamente quello che voglio’’, tagliò corto Livia, diventando pensierosa per un attimo.

Mia madre si preparò improvvisamente a lasciare la stanza, e lo fece, mentre quando io tentai di muovermi Roberto mi posò di nuovo le sue mani sulle mie spalle, quasi invitandomi a stare lì.

‘’Non lasciarmi solo proprio in questo momento, mio giovane amico’’, mi sussurrò infatti, con la voce sempre più incrinata.

Io ero pietrificato di fronte al suo dolore, e a ciò che stava accadendo. Avevo come una vaga idea del fatto che fossi stato io l’artefice dell’improvviso e repentino deterioramento del rapporto di coppia dei coniugi Arriga, e questo mi faceva stare ancora peggio.

Non volevo udire quella loro discussione, poiché prima di tutto non lo ritenevo giusto, e poi ne avevo sentite fin troppo durante la mia giovane vita.

Nonostante tutto, decisi di restare lì, accettando tacitamente la richiesta di quell’uomo che aveva fatto tanto per me, fino a quel momento, e che io avevo ricompensato distruggendogli la famiglia e rovinandogli l’esistenza. Ecco, interpretai quella mia scelta di non abbandonare la cucina come la voglia di scontare la giusta punizione per il grave peccato che avevo commesso la sera precedente, dove forse mi ero lasciato influenzare troppo dalle parole critiche dei miei amici e soprattutto di Giacomo, sempre troppo innervosito nei confronti degli Arriga.

Solo in seguito compresi che forse, in quei giorni, ero stato davvero troppo severo con me stesso. I due coniugi Arriga parevano essere giunti alla fine della loro relazione già da un po’; io e la mia scelta dissennata, molto probabilmente, eravamo stati solo la goccia che aveva fatto traboccare definitivamente il vaso.

‘’Sì, ragazzino, non lo lasciare solo! Da quando siamo giunti qui, non ha fatto altro che scodinzolarti attorno. Tienitelo, questo cane…’’, ribatté l’arpia, sempre pronta a ferire con la sua perfidia senza limiti.

‘’Adesso basta, stai esagerando. Falla finita e vai a preparare le cose… le tue cose e quelle di tuo figlio. Non voglio più né voi né nulla di vostro a portata dei miei occhi’’, sibilò Roberto, sempre vicino a me.

Mi sentivo davvero di troppo, volevo andarmene da quel luogo ormai pieno d’odio e di rancore covato per anni e anni, e poi schiuso tutto ad un tratto. Ma ricordavo sempre che avevo una pena da scontare e un amico da supportare.

Perché Roberto era un mio amico, nonostante fosse molto più grande di me; mi aveva passato molto, insegnandomi ad amare e a rispettare la natura, a riflettere prima di commettere scelte sciocche, a guardare le cose e gli eventi attraverso un’altra prospettiva, ovvero quella che poteva apparire sempre come la più interessante e quasi impensabile. Non potevo e non volevo lasciarlo solo, ma ammetto che, al solo ricordare le parole che Livia gli stava rivolgendo, mi ribolle ancora il sangue nelle vene.

Sul momento avrei voluto rispondere in qualche modo a quelle provocazioni, ma alla fine mi trattenni sempre, ben sapendo che quello che stava accadendo tra i due adulti non era assolutamente un affare mio. Erano persone grandi e vaccinate, e stava a loro regolare autonomamente i loro rapporti, anche se in modo scorretto e malato.

Io ero solo un ragazzino, e la mia missione era quella di supportare un amico grazie alla mia presenza fisica, e nient’altro.

‘’Certo, è proprio quello che ho intenzione di fare, ma prima voglio spiattellartene un po’ nel naso, e proprio di fronte a qualcuno che magari ti idealizza pure!

‘’Ti rendi conto?! Per più di vent’anni ho vissuto con un uomo come te, un verme insulso, inabile in ogni genere di lavoro e totalmente incapace… ho dovuto tirare avanti con le mie forze, ed ho dovuto instradare nostro figlio in un modo poco responsabile, per far sì che potesse anch’esso tirare avanti senza mai doverti chiedere troppo. E tutto questo perché?! Ma perché sei un fallito, è ovvio!

‘’Non hai mai concluso nulla durante tutta la tua vita, stando prima nascosto dietro la sagoma di tuo padre per poi venire allo scoperto e prendermi a tradimento… ti rendi conto che per quasi ventidue anni tu hai vissuto di buona carità? Tua moglie te l’ha fatta. Io avevo una sorta di debito con te, e l’ho ripagato a modo mio; ma tu sei sempre stato come un cane, proprio come ti ho detto poco fa.

‘’Sai, è stato come avere un pastore tedesco al posto di un marito; un uomo cupo, riflessivo, per nulla attivo e che mangiava solo. Un’incapace. Ti ho mantenuto così come tanti altri mantengono un animale domestico’’, proseguì Livia, imperterrita e sfoggiando per la prima volta un sorrisino soddisfatto, sempre contornato da quel nasetto leggermente aquilino e quelle labbra increspate e rosse come il fuoco, grazie al rossetto, con quei capelli ribelli come quelli del figlio e a quegli occhi sempre un po’ troppo spalancati e a tratti leggermente impressionanti.

‘’Antonio!’’, mi richiamò mia madre dal corridoio, per togliermi da quella situazione scomoda.

‘’E’ tutto a posto Maria, non temere… noi abbiamo già finito di discutere, non abbiamo proprio più niente da dirci’’, la rassicurò prontamente Roberto, alzando un po’ il tono della voce e cercando di non rispondere direttamente alle orribili provocazioni lanciategli dalla moglie. Livia era veramente una donna perfida e mediocre, e a quel punto e di fronte a quelle parole di una forza tremenda, mi veniva da chiedermi quale fosse stata la sua storia con l’uomo che aveva poi sposato.

Io ero sempre lì, pietrificato sulla mia sedia e mortificato per via dell’umiliazione pesante e a parole che stava venendo inflitta al mio caro inquilino. Inoltre, quel riferimento scorretto rivolto agli animali domestici mi aveva davvero lasciato allibito; Livia era davvero impazzita.

Si dice che chi non vuol bene agli animali non è neppure in grado di volerne alle persone. Ciò che Livia aveva tirato fuori spontaneamente, in quell’agitatissima sera, forse era una piccola conferma del più noto detto popolare.

Ora che ho avuto modo di imparare a convivere con gli animali domestici, posso assicurare a chiunque che essi sanno essere pure molto meglio degli umani. E di certo molto, ma davvero molto meglio di Livia.

‘’Sì, abbiamo finito di discutere, sguattera… vieni pure a sistemare questo schifo di tavola, tanto io non mi ci siederò più attorno ad essa’’, replicò Livia dopo aver udito le parole del marito e rivolgendosi a mia madre, che dal canto suo preferì non rispondere. Come al solito.

‘’Sei liberissima di insultare me e di far del male a me, ma non provocare e non tormentare le altre persone di questa casa. Ricorda che questa non è casa tua’’.

Roberto era inflessibile. Non pareva poi neppure più di tanto colpito dalle offese che gli erano state rivolte contro, ma sfoggiava ancora quell’espressione rattristata e demoralizzata di poco prima.

‘’Con tutti i soldi che mi hanno fregato, facendomi pagare un affitto spropositato per due camere, un bagno e una cucina condivisa, posso tranquillamente rivolgere offese verso chiunque’’.

‘’Il tuo è tutto rancore. Ti provoca bruciore interiore il fatto che non sei riuscita a prendermi in giro fino in fondo, ad abbindolarmi… ed ora ne approfitti per prendertela con chiunque. Non sei mai cambiata, Livia! Eri così da ragazzina, poi hai messo sul tuo viso quella maschera da donna distaccata e forte quando tutto ti appariva più propizio, per lasciarla cadere una volta per tutte quando la situazione ha preso una piega nuovamente a tuo sfavore… ora vattene, ti prego. Vai in camera. Prepara le tue cose’’, riprese a dire il consorte, con rassegnazione e facendo pressione per concludere quella discussione imbarazzante, condotta di fronte ad estranei e carica di offese umilianti.

‘’Sì, vado subito e non me lo faccio ripetere, stai tranquillo… ci tengo però a farti capire che non devi cantar vittoria, perché in tutto questo ho vinto solo io, mio caro; se non l’hai capito, ti ho tenuto a mio fianco fintanto che facevi comodo a me e a Federico, ed ora che non ci servi più, e che potrò avere un’altra alternativa parecchio più allettante, lascio che tu vada a quel paese! Mi sono proprio stancata di vedere tutti i giorni il tuo viso, di averti sempre tra i piedi… mi fai schifo, e me ne hai sempre fatto, se non è mai stato chiaro fino a questo momento!’’.

Livia, ormai abbandonata la sua maschera e quasi urlando, ci tenne a sottolineare per bene ogni concetto. Voleva averla davvero vinta su quel marito che non mi era mai parso così tanto debole e passivo.

Di certo, la signora era una donna molto forte, ma che quando si lasciava andare alle sue emozioni diventava una sorta di megera; ormai, come le aveva riconosciuto anche il marito, aveva lasciato cadere la sua mediocre maschera e si era rivelata per quella che era, concludendo quel percorso di cambiamento che era cominciato da quando Federico aveva iniziato ad avere problemi con me, per poi giungere a minacciarmi direttamente, qualche mattinata prima.

La farsa dell’aristocratica poteva dirsi finalmente conclusa, essendosi rivelata perfettamente per quello che era.

‘’E’ tutto molto chiaro. Vai a preparare le tue cose e vattene. Prepara anche quelle di Federico’’, tornò a ripetere Roberto, sempre senza rispondere in alcun modo alle offese rivoltegli contro.

Ero stupito dal fatto che l’uomo non volesse più vedere il figlio, quel ragazzo che pareva voler seguire sempre con pazienza e cercando di sforzarsi per andargli incontro in tutti i modi. Riconobbi sul momento che quella era una di quelle classiche situazioni molto dolorose, soprattutto per alcuni membri di una famiglia, e continuava a dispiacermi davvero molto per il povero Roberto.

Ero anche più che certo che da quella mattina qualche dinamica interna alla famiglia Arriga fosse stata stravolta.

Nel frattempo, Livia si distaccò dalla credenza, e, attentamente, cercò di riprodurre un andamento sicuro di sé mentre sfrecciava davanti ai nostri volti, dirigendosi finalmente verso il corridoio e le scale.

Mi venne quasi da tirare un sospiro di sollievo, mentre Roberto si lasciava sfuggire un profondo gemito. Fu così che capii che anche le parole appena dette avevano lasciato su di lui un indelebile segno.

Mentre l’uomo crollava su una sedia a fianco a me, e la moglie sembrava davvero intenzionata a chiudere lì il dibattito e a sparire al piano superiore, la porta d’ingresso si spalancò di colpo, facendo una botta che quasi mi spaventò.

Pensavo che si trattasse di mio padre, con uno dei suoi classici ingressi prepotenti e a sorpresa, ma dovetti ricredermi in fretta, poiché una frazione di secondo dopo la brutale entrata in casa apparve un trafelato Federico, ficcando per un istante il suo viso dentro la cucina, per poi tentare di tirare dritto verso le scale non appena ebbe notato che non era presente alcun viso amico per lui.

‘’Federico, figlio mio!’’, sentii singhiozzare Livia, ancora nel corridoio, dove aveva atteso l’amato figliolo, per abbracciarlo proprio a pochi passi dalla porta della cucina stessa. Potevo intravedere le loro sagome, e decisi di spostarmi.

Dato che il combattimento tra coniugi era finito, potevo anche bere qualcosa per riprendermi, e poi svignarmela.

Casa mia era diventata un inferno. Mentre mi alzavo dalla mia sedia, mi venne da gettare un’occhiata alla roba di mio padre, sistemata in un angolino e all’interno di due valigie ben chiuse, e solo quella breve visione seppe infondermi tanta nuova amarezza.

Sul momento ricordo che non stavo male; come ho correttamente ricordato poco fa, ero solo amareggiato dalla piega che aveva preso tutto quanto. Era comunque una piega che si sarebbe potuta prevedere, ma che io nella mia probabile stoltezza non ero riuscito a comprendere per bene. E quello che restava era, come ora, la mia voglia di mischiarmi col nulla e di trovare un po’ di pace e di sollievo da tutto ciò che stava accadendo.

‘’Mamma…’’, mugugnò il mio nemico, tra le braccia materne nel corridoio.

Decisi di temporeggiare un attimo, in modo da evitare d’incontrare madre e figlio nel corridoio, e di ammazzare qualche minuto bevendo, come mi ero ripromesso, e sperando che i due si levassero di lì. Immaginavo che non avessero affatto piacere di vedermi in faccia, e non mi andava proprio di sfilare sotto al loro naso.

Eppure, la sorte non volle offrirmi la chance di riuscire a dileguarmi, poiché Federico ebbe la balzana idea di tornare sui suoi passi, ed incredibilmente di entrare in cucina, forse perché aveva visto me e Roberto e ne aveva pensata subito una delle sue.

‘’Allora?’’, gli chiese il padre, lentamente, ancora seduto sulla sua sedia. Il ragazzo gli rivolse solo una semplice occhiata in tralice, prima di muoversi verso di me e verso il lavabo.

Mi feci subito da parte e mi diressi verso la finestra.

‘’Allora niente. Rischio un sacco di ripercussioni legali. Secondo loro, ora ci sono ufficialmente tutte le prove che servono per incastrarmi; sono io il vandalo che ha rovinato la facciata del liceo, sono io che ho rovinato la macchina di un insegnante, poiché sarei stato ripreso con chiarezza da una telecamera del posto recentemente visionata, sono io che ho ideato… e che ho picchiato e messo in atto azioni di violento bullismo in rete e nella vita reale. Insomma, sono proprio colpevole di tutto!

‘’Sarete pure contenti, adesso. Magari, han detto che se la preside si accanisce e le denunce continuano a fioccare, e se le vittime di questi gesti vorranno continuare ad andare fino in fondo, rischio fino ad un anno e mezzo di galera… senza contare i danni che dovrò risarcire. Al momento non sono stato arrestato, ma dovrò sempre fornire tutti i dati dei miei spostamenti e non posso abbandonare la provincia. Devo essere sempre rintracciabile, in attesa di quel che accadrà…’’, disse Federico, puntando il suo sguardo su di me. Io lo distolsi subito, ma sapevo che lo stava facendo per ferirmi e tentare per un’ultima volta di mettermi in soggezione.

Roberto era rimasto sbalordito, nel frattempo, e di fronte a quelle parole pure sua madre era tornata silenziosamente ad affacciarsi alla porta della cucina, con le mani unite a mo’ di preghiera al di sotto del mento.

‘’Quei tre stronzetti che avevo conosciuto al liceo sono colpevoli, ma invece di confessare semplicemente, a quanto pare si sono messi ad infierire, giurando che li ho strumentalizzati. È colpa mia se a loro andava di far atti vandalici e pestaggi! Avrei dato loro dei soldi e il sostegno per compierli.

‘’Ma forse sono stato io ad essere stato strumentalizzato da loro. E comunque, io sono innocente ed estraneo a tutto ciò, e mi ritengo tale. Mi sono solo trovato nei posti sbagliati in momenti sbagliati, tutto qui’’, concluse il ragazzo, sempre fissando me.

Mi sentivo addosso tutto il peso del suo sguardo, e non so ancora il perché del fatto che la sorte volle che dovessi assistere a tutta quella sequenza di situazioni non di certo linde degli Arriga. Mi sentivo davvero impotente e sfortunato, e non avevo neppure più il coraggio di uscire da lì, poiché Livia l’avvoltoio se ne stava appollaiata nel bel mezzo della porta della cucina, riprendendo a sgranare nervosamente i suoi occhiacci dopo qualche secondo di normalità.

‘’Posso testimoniare io, che tu sei innocente! Ti giuro che te la caverai…’’, sussurrò la madre, muovendo qualche passo verso il figlio, che la mantenne a debita distanza solo alzando una mano.

Federico era tetro ed appariva stanco, ma manteneva un certo comportamento austero e freddo, nonostante tutto.

‘’Livia, è possibile che non capisci? Ha sbagliato, e…’’.

‘’E un corno! Lo so che mi odi, sei un fottuto stronzo come tutte le persone che ho incontrato durante la mia vita. Dai, comincia a remarmi contro anche tu! Vai a sporgere una denuncia immaginaria, su!’’, sbottò freddamente il ragazzo, interrompendo il padre.

‘’E non osare mai più tentare di parlarmi’’, ribatté Livia, indirizzando la frase al marito, che dal canto suo si limitò ad alzare le braccia in segno di disinteressata resa.

‘’Mamma, sono in guai grossi. Mamma, sono nei casini questa volta…’’, cominciò improvvisamente a mormorare il mio nemico, per poi finalmente vacillare. La sua espressione tesa ma distante scomparve in un battito di ciglia, e il giovane cominciò all’improvviso a piangere a dirotto.

La madre, pronunciando parole di conforto, si avventò subito su di lui, avvolgendolo in un caldo abbraccio.

Abbassai lo sguardo, imbarazzato, e approfittando del momento tentai di dirigermi verso la porta.

Mentre mi muovevo, già sentivo la ventata d’aria di libertà che avrei trovato nel corridoio, in quel momento lontano da quegli estranei delinquenti e litigiosi, ma le carte in tavola furono nuovamente rimescolate dall’ennesimo attacco di Roberto, ormai allo stremo. L’uomo pareva essersi racchiuso nel suo mondo cupo e indifferente, freddo e passivo, nonché doloroso; mai fino a quel punto l’avevo notato così scoraggiato e distante, lui che era sempre vicino a tutti e caldo come il sole dell’estate.

‘’Federico, sei un uomo ormai! È mai possibile che tu non ti sia accorto che stavi sbagliando, e che continuavi a seguire la via sbagliata mentre io mi sgolavo a ripeterti che così non andava affatto bene... insomma, in fondo è questione di maturità saper rendersi conto dei propri errori, e accusarne le ripercussioni senza tante manfrine’’, disse infatti il padre di famiglia, mentre già il figliolo scattava di fronte a questo discorso pesante ma veritiero.

‘’Adesso basta. È da quando sono nato che mi giudichi, che mi costringi ad indossare le tue idee, che vuoi che io faccia solo ciò che vuoi tu… ma chi sei tu per potermelo dire? Eh?’’, sbottò arrogantemente il giovane, smettendo di frignare ed allontanando la madre da lui.

Io raggiunsi la salvezza, ovvero il corridoio, e mi chiesi se quello fosse il modo corretto di rivolgersi ad un genitore. Mi chiesi anche se il caro Roberto avesse ancora avuto bisogno di una presenza amica a suo fianco, in quegli istanti così lugubri e oscuri, ma non mi feci problemi a pensare che quelli erano strettamente affari suoi, e la presenza di altri avrebbe solo rischiato di far inasprire ulteriormente la situazione, come d’altronde pensavo che fosse già accaduto.

In effetti, madre e figlio quando avevano calato gli affondi più decisi avevano anche spostato lo sguardo su di me, forse per valutare se anche su un estraneo alla vicenda quelle frasi avessero fatto l’effetto desiderato.

In quei concitati momenti, Livia e Federico volevano dimostrare la loro superiorità, nonostante tutto, seppur constatando di aver perso un po’ su tutti i fronti. Il voler schiacciare prepotentemente Roberto pareva quasi un ultimo tentativo in corner per cercare di avere almeno una piccola vittoria, anche se piccolissima in confronto all’amarezza, sicura e unica vincitrice dello scontro. Stavano cercando una sorta di contentino, che potesse minimamente alleviare tutta la loro delusione provocata dalla vicenda.

‘’Sono… tuo…’’, tentò di dire Roberto dall’interno della cucina, intanto.

‘’Tu non sei nessuno per me’’, tagliò corto Federico, per poi rimettersi a piangere.

Io mi allontanai, e raggiunsi mia madre, che nel frattempo si era seduta sui gradini delle scale, senza altro posto in cui andare. Mi fece un po’ di spazio, quando mi vide arrivare, ed io mi accomodai a suo fianco.

‘’Ho sbagliato, Antonio. Mi perdonerai mai?’’, mi chiese, quasi all’improvviso.

Io mi volsi verso di lei, giusto in tempo per notare la sua espressione realmente dispiaciuta.

‘’Non so perché dici così…’’, dissi, un po’ frastornato. Mia madre non mi aveva mai chiesto scusa per qualcosa, fino a quel  momento.

‘’Ho lasciato che degli estranei entrassero in casa e spadroneggiassero ovunque. Guarda ora come siamo ridotti; tu sei stato malmenato da un bullo, io non ho neppure più una stanza in cui stare liberamente… mi piaceva la cucina, cucinare e preparare i miei pasti… ed ora quei pazzi se la sono presa, per litigare per l’ennesima volta ed insultarmi! Tu non hai neppure più la tua saletta e il tuo pianoforte, e questo perché ho permesso a quel prepotente di tuo padre di riappropriarsene. Insomma, questa è casa mia, casa nostra e di noi due, ed io ho lasciato che tutta questa… gentaglia si prendesse ogni cosa! Ora non ci resta altro che la disperazione’’, rispose mia madre, facendo piccole pause quando le emozioni e le parole si facevano più difficili da esprimere liberamente.

‘’Mamma, so che le tue intenzioni iniziali erano buone. I soldi degli Arriga ci facevano assolutamente comodo, e Sergio era tornato come un profugo… quindi, ripeto che ho compreso che ciò che è poi accaduto e che sta accadendo non si è sviluppato volutamente. Il resto non importa’’, minimizzai, comunque facendo leva sul fatto che mi era molto chiaro che mia madre non aveva mai pensato che le sue piccole ed accorte scelte avessero potuto sconvolgere le nostre esistenze in quel modo.

‘’Davvero? Quindi non ti fa senso il fatto di aver perso tutto in quella che era casa nostra, dalla serenità…’’.

‘’No, mamma, no. Credo che ormai sia solo questione di poche ore prima che tutto si concluda, e poi non dovremo più piangere sul latte versato’’, le risposi, tagliando corto, e forse con un po’ troppa foga. Ma avevo espresso una delle mie più concrete sensazioni interiori.

Con un po’ di fortuna ci saremmo potuti liberare di mio padre, e quindi anche della rottura della sua ragazza, mentre Livia e Federico molto probabilmente se ne sarebbero andati entro ventiquattro ore. Roberto, poi, non era assolutamente un problema.

Mia madre annuì alle mie parole, ma non mi parve interamente convinta.

‘’Questa gente ci ha influenzato troppo. Da quando sono venuti a contatto con noi, hanno saputo cambiare le nostre vite’’.

Quelle parole appena pronunciate non avrebbero fatto effetto su di me se non avessi notato un retrogusto di ignoto dietro ad esse. Non volli comunque indagare più a fondo con mia madre a riguardo, e mi limitai a parlare per me, senza tentare di approfondire o di cercare aghi in un pagliaio in quel momento tanto agitato e doloroso. Il momento delle verità e delle scuse.

‘’E’ vero’’, dissi.

Mi limitai solo ad accettare il significato più superficiale di quelle frasi, sistemandomi meglio sullo scomodo gradino di granito. Avrei voluto andarmene al piano superiore, e già mi accingevo ad alzarmi, poiché avevo bisogno di stare un po’ di tempo da solo e magari rimuginare sugli ultimi eventi, ma neppure quella volta tutto ciò mi fu concesso dal destino.

Non seppi mai cosa fece tracimare il vaso della razionalità a tratti infantile di Federico; a suo tempo mi è bastato udire un grido raggelante, emesso da Livia, che risuonò per tutta casa e forse anche in quella dei vicini.

Io e mia madre ci guardammo e scattammo in piedi, pronti a dirigersi verso la cucina per scoprire ciò che era successo. Eravamo fin dal primo momento convinti che si trattasse di qualcosa di realmente orribile, poiché l’aristocratica non aveva mai cacciato un grido simile prima di quell’istante.

Con la pelle accapponata, e, povero me, nascosto parzialmente dietro a mia madre, facemmo in fretta capolino sulla soglia della cucina, dopo che il mio unico genitore ragionevole mi aveva rapidamente mostrato tutte le sue paure con un rapido sguardo. Anche lei temeva una pazzia di quegli scellerati inquilini, date le circostanze, e purtroppo non ci sbagliavamo affatto.

Non appena ci affacciammo quasi nello stesso istante alla porta della stanza, notammo fin da subito che Federico era in piedi, nel bel mezzo della camera, mentre tra le mani impugnava saldamente un lungo coltello da cucina, prelevato da uno dei cassetti di mia madre. Livia era a pochi passi da lui, con le mani sulla bocca come per sopprimere l’ennesimo grido bestiale, e l’impassibile Roberto se ne stava ancora seduto sulla sua postazione, con gli occhi abbassati e non rivolti direttamente alla scena.

Ciò che era più inquietante era che il ragazzo rivolgeva la punta dell’oggetto tagliente verso il suo petto, e pareva deciso a non abbassarlo affatto e a non lasciarne la presa.

‘’Se quelli mi fanno qualcosa, o mi mandano in tribunale a causa di tutto quello che è successo, io mi ammazzo. Mamma, ho paura! Troppa paura! Mi ammazzo. E tu guardami, imbecille! È anche per colpa tua se mi sono ridotto così! Io mi ammazzo, mi ammazzo. Se mi danno una condanna, mi ammazzo…’’. E così dicendo, Federico scoppiò di nuovo in lacrime.

Io e mia madre eravamo a bocca spalancata, senza aver avuto la forza neppure per respirare, ancora troppo stupiti da quella scena. Poi, all’improvviso, tutto si concluse così com’era iniziato, ovvero con incredibile fretta.

Ancora in lacrime, Federico gettò via il coltello verso un angolo della cucina, per poi correre rapidamente verso la porta. Io e la mamma ci spostammo per lasciarlo passare, mentre anche Livia si riscosse e si mise ad inseguirlo, passandoci a fianco sussurrando qualche parolaccia di difficile comprensione rivolta verso il marito, che fu l’unico a restarsene ancora placidamente immobile e pietrificato.

Il coltello, intanto, continuava a tintinnare al suolo nel punto in cui era caduto, mentre la sua lama mandava qualche bagliore verso il soffitto, colpita dalla luce.

‘’E’ un pazzo squilibrato e viziato, è da tempo che lo dico a sua madre. Va aiutato… o meglio, andava aiutato. A questo punto, è già rovinato. Ma questo non è più un problema mio…’’, mormorò con tono rassegnato l’uomo, dedicandoci un rapido sguardo, per poi riabbassare nuovamente gli occhi.

Come ci eravamo ridotti, in quel momento! Sembravamo davvero una banda di pazzi. Per fortuna non c’era mio padre, altrimenti lui avrebbe potuto essere l’ennesimo folle della serata.

Io mi allontanai subito da lì, mi riscossi e giunsi quasi di corsa fino in camera mia, senza pensare a mia madre che invece doveva essersi diretta verso Roberto.

Non feci caso a nulla e non pensai a nulla, se non pregando di dimenticare in fretta quella scenata a cui ero stato costretto dalle circostanze ad assistere. Aveva ragione mia madre, quando diceva che quei tre inquilini avevano cambiato la nostra vita. Più che altro, l’avevano scombussolata.

E dentro di me restava solo un’infinita amarezza.

Non provavo dispiacere per Federico; passati quegli istanti di spavento e di incredulità, mi era parso subito ovvio che stesse continuando, con la sua solita irrazionalità, a giocare a fare la vittima e l’innocente. La scena drammatica e quasi teatrale di poco prima forse l’aveva pure pianificata da tempo, per far inasprire ulteriormente la madre, che stava utilizzando abilmente come scudo umano e ultima difesa.

E Livia ormai era definitivamente impazzita; il figlio doveva essere l’unica persona al mondo al quale voleva bene, e lui, utilizzando quel pizzico d’amore genitoriale malato, stava inscenando tutto per farla uscire definitivamente di senno, e magari per cercare di lanciarla contro chi lo stava per mettere davvero alle strette, anche se sarebbe valso a poco il suo intervento.

Riconobbi sul momento di aver analizzato tutto con estrema freddezza, e che forse non era così, ma più semplicemente quell’ultima reazione si trattava della dimostrazione della follia più genuina e del disagio interiore che stava vivendo quel ragazzo prepotente ed emarginato.

Ma misi un paletto ai miei pensieri. Avevo assolutamente bisogno di staccare un attimo la spina. Quella mostruosa realtà mi stava lasciando cadere in un baratro oscuro.

Senza pensarci due volte, afferrai il mio cellulare e telefonai alla persona che più amavo a quel mondo… in quegli istanti colmi di agitazione e di tensione non sognavo altro che rivederla, poterla stringere a me e chiacchierare con lei.

Il timore di affrontare l’argomento Alice era stato superato in fretta grazie agli eventi traumatici a cui avevo appena assistito, ed avevo bisogno assolutamente di stare un po’ con una mia amata coetanea.

Ne avevo necessità, e sperai con tutto il cuore che lei fosse disponibile a venirmi incontro, quella volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Salve a tutti!

Come avrete notato, questo è uno dei capitoli più forti dell’intero racconto. Spero di essere riuscito a ricostruire per bene questa follia collettiva, che ormai sta travolgendo il povero protagonista…

Spero che il capitolo, nonostante tutto, abbia saputo intrattenervi piacevolmente per un po’. Ripeto e ribadisco che tutto ciò che accade in questo racconto è totalmente frutto di fantasia, ma credo che questo si noti chiaramente, anche se ho cercato di ricostruire tutto in modo verosimile.

Vi ringrazio tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


Capitolo 34

CAPITOLO 34

 

 

 

 

 

Lei venne da me, senza titubare neppure per un secondo.

Come le avevo detto, la attendevo nel mio giardino, e il mio cuore quasi esplose dalla gioia quando la vidi avvicinarsi col suo solito passo sicuro.

Quando Jasmine fu ufficialmente entrata nel mio giardino, le feci cenno di venirsi a sedere vicino a me, ovvero su quel vecchio, piccolo ed arrugginito dondolo che se ne stava a disintegrarsi a pochi passi dalla nostra porta d’ingresso, a metà strada tra l’entrata di casa nostra e il capanno utilizzato come garage. Era l’unico oggetto che era posizionato nella nostra piccola sorta di cortile, a parte un paio di misere sedie di plastica lasciate sul ristretto marciapiede, ed era anche il più anonimo, quello a cui non ci prestava caso mai nessuno.

Quando i miei nonni erano ancora in vita, essi ci si sedevano sopra e osservavano la strada e i passanti, applicando uno dei classici passatempi tipici degli anziani, ma dopo la loro scomparsa nessuno l’aveva più utilizzato.

Che fosse stato per davvero un caso che io fossi finito per appollaiarmici sopra? Chissà. Stava di fatto che l’intelaiatura fatta di plastica dura e resistente era pure umida, pregna di quelle gelide goccioline di rugiada che durante le notti invernali tendono a congelare, diventando brina gelida entro il mattino successivo.

Io sentii che quella gelida umidità trapelava fin sotto ai miei vestiti, ma non m’importava molto. Ero così immerso nei miei pensieri che il resto del mondo passava in secondo piano, ai miei occhi.

Almeno, ciò accadde fintanto che non rividi chiaramente Jasmine.

La ragazza, quella volta a passi leggermente titubanti, si mosse lentamente verso di me, avendo individuato la mia sagoma posizionata nella penombra sul dondolo, quasi nella totale oscurità.

‘’Antonio? Che è successo?’’, mi chiese prontamente, con una sfumatura di preoccupazione nella voce.

‘’Un po’ di tutto, Jasmine. Un po’ di tutto’’, mi limitai a risponderle, sospirando tra la prima e la seconda frase. Se ad averla contattata mi aveva spinto una primordiale voglia di aprirmi e di parlare con qualcuno di fidato dei miei problemi e degli ultimi eventi, in quel momento quasi mi sentivo voglioso di restare chiuso in me stesso, di non parlare e di cercare di dondolarmi leggermente su quell’oggetto, i cui semplicistici e basilari componenti erano ormai preda della ruggine.

Però, poi, dopo un primo impatto da scorbutico, all’interno della mia mente fu sottolineato chiaramente il fatto che ero stato proprio io a contattare e a far preoccupare la ragazza, e quindi, giustamente, dovevo trattarla con grandissimo rispetto e gentilezza. E fu quello che feci.

È incredibile come le emozioni sappiano sempre donarci momenti altalenanti ed estremamente contrastanti, negli istanti difficili della nostra vita.

Jasmine, dal canto suo, parve per un attimo decisa a prendere posizione a mio fianco, dato che c’era posto, ma dopo aver sfiorato la superficie di plastica ritrasse in fretta il suo arto.

‘’Ma come fai a stare seduto lì sopra, in una serata del genere?! È anche tutto umido…’’, disse poi, allontanandosi di qualche passo da me.

Effettivamente, la tormenta di quel pomeriggio non aveva dato alcun esito in quanto accumulo nevoso; per un’oretta circa era caduta dal cielo talmente tanta neve che pareva dovesse formarsi un ghiacciaio di lì a poco, ed invece poi col giungere della sera aveva smesso di nevicare e ciò che era presente al suolo si era sciolto in fretta, quasi come se si fosse trattato di una burla. Tutta colpa del cambiamento climatico, avrebbe detto la mia prof di scienze, magari anche in modo leggermente ironico.

Un attimo dopo, la mia amata era di nuovo vicino a me, e notai che era andata a prendere una delle sedie di plastica asciutte, per poi sedersi lì sopra, infagottata come se si fosse trovata in Lapponia.

Non potevo darle torto, ovviamente, poiché nonostante il fatto che la neve del pomeriggio si fosse rapidamente tramutata in misere pozze al suolo, il cielo restava nuvoloso e di un rossore quasi infuocato, come a voler rabbiosamente promettere a noi miseri umani che la tempesta non era finita lì, e che altra neve sarebbe tornata ad avvolgere le nostre case, al momento più propizio. Non soffiava vento né altro, ma l’aria si faceva sempre più gelida ed immaginai che nel corso della notte molto probabilmente sarebbe caduta nuova neve, e che quella volta si sarebbe conservata fino al mattino e si sarebbe tramutata in duro ghiaccio.

‘’Nevicherà ancora questa notte, se è quello che ti stai chiedendo’’, mi disse la mia invitata, parlando dolcemente e con un tono molto controllato. Doveva aver notato il mio sguardo perso verso l’alto.

‘’Chissà’’, mi limitai a risponderle.

Per un attimo, fui in procinto di chiederle di entrare in casa. Ma mi accorsi, seriamente, di non riuscirci; non potevo tornare ad affrontare quella situazione perfida e caotica. Sapevo che stavo facendo congelare sia il mio corpo che quello della mia paziente amata, ma in fondo era come se stessi proteggendo la nostra integrità psichica, evitando ad entrambi di raggiungere l’interno riscaldato.

Era come se ormai ritenessi stregata la mia casa. Come se essa si fosse tramutata in un vero e proprio inferno. Per un attimo, mi lasciai percorrere da un brivido, che però non mi fu provocato dal clima rigido che avvolgeva il mio corpo, bensì dal fatto che la mia mente fu attraversata di nuovo dal pensiero dell’imminente partenza degli Arriga, e delle ripercussioni che ciò avrebbe avuto sulla mia vita.

Mi pareva scontato stare a ripetermi che l’allontanamento da me da parte della signora e di suo figlio si sarebbe potuto rivelare un vero e proprio toccasana per il mio animo e la mia salute, sia fisica che mentale, ma a terrorizzarmi era proprio la probabile partenza di Roberto. Anche se aveva lasciato chiaramente intendere che non se ne sarebbe andato fin da subito con moglie e figlio, data la frattura all’interno della sua famiglia, era tuttavia lampante che non se ne sarebbe rimasto con noi per molto. E questo continuava a farmi davvero molto male, e a ferire e a straziare la mia povera mente.

Mi sentivo come quando ero un bambino, ed avevo bisogno del supporto degli adulti. Roberto era diventato in fretta per me quasi una sorta di secondo padre, addirittura anche primo, dato il comportamento del mio vero genitore, e perderlo sarebbe stato davvero un trauma.

E poi, la vita di me e mia madre dopo la partenza degli Arriga era ancora tutta da decidere, vista la perdita di un’importante sostentamento economico e il fatto che non ci fosse alcun altro che fosse interessato a prendere il loro posto. Prevedevo un nuovo momento di gravi ristrettezze economiche in casa mia, e quindi addio università per me e addio pause e ferie per mia madre.

Entrambi ci saremmo dovuti rimboccare le maniche, e non riuscivo neppure a prevedere se avessi potuto concludere quell’ultimo anno di superiori in modo sereno.

Mio padre aveva vissuto a sbafo in casa nostra durante l’ultimo mese, e di certo avrebbe potuto mettere qualcosa anche lui per risollevare la nostra situazione che si preannunciava già gravissima, ma ero più che convinto che mia madre non gli avrebbe mai chiesto nulla, dato che da ciò dipendeva la sua ultima e rigida forma d’orgoglio, e d’altronde quell’uomo infame ed ingrato non avrebbe mai sborsato niente in ogni caso.

Neppure a me piaceva l’idea di chiedere denaro a mio padre per tirare avanti, e al solo pensarci mi sembrava un’infamia. Mai mi sarei chinato di fronte a lui, neppure per chiedergli un centesimo, un tozzo di pane o un passaggio in auto. Tutti i possibili ponti tra noi erano già pressoché crollati irrimediabilmente.

Insomma, in quegli istanti prevedevo solo guai e pasticci, e mi sembrava davvero tutto nero.

Ad un certo punto, mi accorsi che stavo parlando; stavo raccontando tutto, ogni mio pensiero, ogni mia paura e sofferenza a Jasmine, narrando a voce molto bassa come se quasi avessi voluto sussurrare tutto a me stesso, e la ragazza mi stava attentamente ascoltando, senza minimamente importarsene del freddo che ci stava avvolgendo e quasi congelando.

Vidi il suo viso come se si fosse trattato della prima volta in cui lo scorgevo, e tra l’altro potei osservarlo nella più debole penombra, siccome era marginalmente illuminato dalla luce di un lampione che dalla strada tentava di scacciare il buio della prematura notte invernale fin attorno ad ogni casa del paese, come se avesse avuto un grande coraggio e fosse stato un prode combattente.

Non mi fermai, né smisi di parlare e di riflettere, e non controllai neppure il flusso di frasi che stavo pronunciando, lasciandomi andare per davvero. La mia mente era assonnata e provata, e non volevo sottoporla ad altre prove o fatiche, e visto che la mia amata era una ragazza gentilissima, disponibilissima ed altruista, sapevo che mi avrebbe ascoltato e consolato senza andare a spifferare tutto in giro o ridere sui miei problemi.

Jasmine era un tesoro, ed io ero fortunato ad averla accanto e ad averla conosciuta.

Le raccontai tutto, lentamente e col giusto tempo, quasi vuotando il sacco ed andando ancor più in profondità di quello che avevo detto ad ogni altra persona o amico del mio mondo. Parlare mi fece molto bene, soprattutto con una mia coetanea interessata ed amorevole come lo era la mia amata, pure molto intelligente e comprensiva.

Non so neppure ora quando conclusi la mia narrazione; forse ci misi una manciata di minuti, o forse addirittura più d’un ora. Mi lasciai semplicemente trasportare dalla forza delle mie parole fintanto che ebbi fiato, e la mia gola divenne un inferno bruciante.

Solo allora mi fermai, quando neppure più il naturale deglutire della saliva mi riusciva nel modo più normale ed indolore. E Jasmine a sorpresa si allungò e mi prese la mano tra le sue, caldissime nonostante il gelo che ci avvolgeva.

‘’Hai davvero passato tutto questo, negli ultimi mesi? Sei un eroe’’, mi disse poi, indirizzandomi quelle parole con un filo di voce.

‘’Non è così. Ho traballato tante volte, e traballerò ancora. Se Federico se ne andrà per sempre, credo che eviterò di tornare ad infierire penalmente, d’accordo anche con mia madre… e tutto tornerà come prima. Temo che resteremo con mio padre…’’, dissi, semplicemente senza seguire un filo logico.

Ammisi a me stesso che, dopo aver parlato tanto, nella mia povera mente aveva cominciato grandemente a scarseggiare l’attenzione. Difficilmente, da quel momento in poi, sarei riuscito a pronunciare un altro lunghissimo discorso coscientemente coerente.

‘’In ogni caso, io ci sarò, e tu resterai il mio eroe’’, replicò altrettanto semplicemente Jasmine, col suo solito piglio facile e spontaneo.

Avrei voluto sorridere, ma non lo feci; avevo davvero dato tutto, per quella giornata.

‘’Avrei voluto vedere le stelle, questa sera. Sarebbero state una bella presenza, sopra di noi, dopo questa lunga ed imprevista chiacchierata’’, tornò a dire la mia amata, dopo aver incassato qualche attimo di mio pensieroso silenzio e un’espressione impassibile e stanca impressa sul mio viso.

‘’Invece ci sono solo le nubi compatte, un po’ come sulla mia vita’’.

Quasi la corressi, con la mia frase rapida e diretta.

‘’Non dire così, perché sono certa che il sole tornerà a splendere anche su di te, e splenderà ancora di più su di noi. Più ci penso e più la vita mi sembra un’altalena! Ci sono periodi bui e tristi, magari anche molto lunghi, e altri così pacifici che si rischia davvero di annoiarsi e di lasciarsi sfuggire del tempo, come se fosse inutile pure esso… la vita è strana’’, disse Jasmine, dopo aver soppesato per un secondo le mie parole.

‘’La vita è come un gioco, ragazzi. Potete scegliere se giocarla bene, oppure se giocarla male… ma diciamo che, insita nella sua essenza, c’è anche una buona dose di fortuna o di sfortuna. Proprio come nel gioco vero e proprio, dove non basta sempre la grande bravura del giocatore e la sua esperienza per vincere ogni gara o ogni partita’’.

Roberto, uscito silenziosamente da casa mia, si avvicinò a noi, lasciandosi immergere nella penombra e non perdendo l’occasione per dire qualche parola.

‘’E’ proprio vero! Lei ha ragione’’, riconobbe prontamente Jasmine, per nulla in soggezione a causa del nuovo arrivato.

‘’Disturbo, ragazzi? Scusate, ma avevo bisogno di un po’ d’aria fresca. In casa, si sa… il riscaldamento acceso a volte dà fastidio alla testa’’, disse l’uomo, cautamente e avanzando di qualche passo verso la strada, puntando il suo sguardo oltre la recinzione metallica del mio giardino. Colsi comunque un certo doppio senso in quelle parole.

Dubitavo che fosse uscito per prendere una boccata d’aria fresca, come d’altronde fui costretto a riconoscere che faceva molto spesso. Mi balzò alla mente anche l’idea che fosse venuto per darmi un’occhiata e comprendere se in me fosse tutto a posto, dopo l’orribile e violenta discussione a cui ero stato costretto ad assistere.

Mi pareva incredibile che il mio inquilino fosse ancora così tanto di buon cuore da cercare di dimenticare quello che stava vivendo all’interno della sua famiglia, per venire fuori a controllare me.

Roberto mi faceva sentire caldamente protetto, mi faceva sentire importante per qualcuno, così come stavano facendo anche Jasmine e mia madre, anche se quest’ultima lo stava continuando a fare più a modo suo che altro, e di questo ero davvero molto grato a loro.

Ma sia Jasmine che mia madre avrebbero continuato a far parte della mia vita in ogni caso, sperando in un pizzico di buona sorte, mentre lui ero condannato a perderlo. E questa vaga consapevolezza mi trafiggeva brutalmente il cuore.

‘’Assolutamente no’’, rispose educatamente Jasmine, dopo un sospiro, e di fronte alla domanda del nuovo interlocutore adulto.

Sospirai pure io, appoggiandomi allo schienale del dondolo, mentre Roberto raggiungeva la recinzione e si accendeva una sigaretta.

‘’Sembra una persona a posto e a modo’’, mi disse a bassa voce Jasmine, dandomi una leggera gomitata ed approfittando del fatto che l’uomo si fosse allontanato di qualche passo.

‘’Oh, lui sì. Come ti ho già detto, i pazzi sono gli altri due…’’.

Non dissi altro, non ce n’era bisogno. Un qualcosa cadde dal cielo, quasi all’improvviso ed inaspettatamente; si trattava di un piccolo fiocco di neve.

‘’Riprende a nevicare. La neve di questo pomeriggio e quella sorta di tormenta saranno nulla in confronto a quello che accadrà questa notte’’, suggerì tranquillamente Roberto, sempre un po’ fisicamente distante, notando anch’egli un fiocco. A dicembre inoltrato, ormai, era comunque il tempo del clima più rigido, e non ne eravamo stupefatti nessuno.

‘’Antonio! Antonio, sei lì fuori?’’, chiese mia madre, cautamente, venendo anche lei in giardino.

‘’Sì, mamma’’, le risposi, tornando a sospirare.

Per un istante, provai un improvviso e discreto timore; quello che la mia cara mamma notasse Jasmine, e facesse delle domande a riguardo. Ma poi, riflettendo un attimo, compresi che tutto ciò a cui stavo pensando erano semplicemente sciocchezze.

Avevo chiaramente intenzione di far capire al mio unico genitore decente che non era Alice che mi attraeva, o altre ragazze, bensì Jasmine, la ragazza tanto gentile e decisa che già aveva trovato il modo più diretto per farmi conoscere alla sua famiglia e farmi interagire con i suoi. Il mio ambiente familiare era totalmente diverso dal suo, e questo un po’ m’imbarazzava, ma non avevo intenzione di nasconderla o di tenerla celata come se io mi stessi vergognando di lei, quasi facendomi beffe della sua gentilissima e cortese apertura nei miei confronti.

‘’Chi è questa bella ragazza? E’ quella Jasmine, vero, la stessa che una volta è venuta a cercarti?’’, tornò a chiedere mia madre, quasi all’improvviso, riscuotendomi dai miei pensieri e rendendoli fondati.

Le sorrisi, nel buio. Mamma Maria era sempre stata una persona cordialmente curiosa, e si stava avvicinando a noi, decisa ad indagare. Forse, voleva vedere pure lei come stavo reagendo all’orribile scenata di poco prima, ma credevo sfuggisse a tutti il fatto che non ero più un bambino, e che le fughe di fronte alle scenate facevano parte dell’infanzia, di fatto.

A quei pensieri, quasi scoppiai a ridere da solo; la verità era che ero una persona debole e fragile, e che dopo la scorsa scenata, in cui ero stato coinvolto in modo ancor più diretto poiché era stata gestita da mio padre, che mi aveva deriso davanti a tutti, mi ero comportato come un folle. O come un bambino.

Gli adulti facevano quindi bene ad avere un dubbio su di me, e ciò era fondato.

‘’Mamma, sì, lei è Jasmine. È una grande amica di Alice, come sai già… ed è la mia ragazza’’, le buttai lì, senza aspettare troppo e concedendomi solo un attimo di riflessione.

Quasi mi mangiai la seconda metà della seconda frase, ma non potevo rischiare di perdermi in un qualche discorso, prima di arrivare al punto, così come avrebbero fatto tutti ed ogni persona normale. Mi conoscevo ormai, e sapevo che se non avessi fatto chiarezza in quel momento, avrei rischiato di non farla mai per via della mia timidezza e del mio carattere difficile.

Mia madre parve rimanerci di stucco, per qualche secondo, e anche ciò era perfettamente comprensibile dato il mio poco tatto, ma poi prontamente si sciolse, e si avvicinò rapidamente a Jasmine.

‘’Oh! Immaginavo che il mio figliolo fosse innamorato di qualche ragazza! E mi fa tanto piacere scoprirlo ed avere di fronte questa persona speciale! Lasciati abbracciare, cara!’’, disse in fretta, avvicinandosi alla mia amata, che velatamente imbarazzata ed impacciata si alzò dalla sua sedia e si lasciò travolgere dall’abbraccio caloroso e sincero di mia madre, che da parte sua aveva improvvisamente cominciato a piangere, evidentemente emozionata.

Le due donne si scambiarono un abbraccio fraterno ed estremamente caloroso, e mi venne da distogliere gli occhi per un attimo da quella scena così dolce per puntare il mio sguardo nomade su Roberto, e notare che anche l’uomo stava guardando la scena, ma non riuscii a scorgerne con chiarezza il volto, nascosto dalla semioscurità. Mi piacque immaginare però che ci avesse ben impressa un’espressione di compiacimento, come suo solito durante gli istanti più commuoventi.

Il rumore del cancelletto che si apriva mi costrinse a gettare una rapida occhiata a mio padre che rincasava, e che notando la moglie abbracciata con la ragazza di colore per un istante si soffermò a guardarle, poi riprese a camminare mugugnando qualcosa.

‘’Una nera. Pure una nera abbraccia… pure…’’, riuscii a comprendere, il tutto pronunciato con nervosismo, e per fortuna mia madre e Jasmine non udirono.

Avrei voluto dire qualcosa, ma non ne valeva la pena; avrei rischiato solo di generare un’altra scenata inutile, che sarebbe finita per causare qualche problema alla mia relazione con la ragazza. Feci quindi uscire quelle parole subito dall’orecchio opposto a quello che le aveva udite, ma mi soffermai ad osservare il mio genitore che rientrava in casa, e quando aprì la porta d’ingresso e fu investito in pieno dal fascio di luce del corridoio illuminato, notai chiaramente la sua espressione disgustata.

Quell’uomo mi faceva davvero schifo. Non aveva un minimo di rispetto per nessuno.

Mia madre e Jasmine parlarono per qualche minuto, dopo aver sciolto quell’impetuoso abbraccio, e tutto pareva andare a gonfie vele, ed io ero davvero felice in quegli istanti. Ormai, pareva che ogni problema o scenata appartenessero ad un passato remoto e distante.

Ma non era così, purtroppo.

‘’Maria! Maria, vieni a scaldare immediatamente questa sbobba! Non pretenderai mica che io mangi della schifezza del genere’’, disse di lì a poco mio padre, aprendo la finestra della cucina per farsi sentire meglio. Doveva essere davvero geloso ed innervosito per il fatto che mia madre stava intrattenendo una relazione sociale ed umana con qualcuno, e pareva che lui dovesse sempre isolarla da tutti e smontarla, offendendola e trattandola pubblicamente come una serva.

La mamma Maria, udendo quelle parole, si congedò frettolosamente ma educatamente da Jasmine, invitandola tante volte a casa nostra, ma non chiedendole di entrare in quel momento.

Non era del tutto una sprovveduta e doveva immaginare che mio padre, l’aristocratica e il pazzo avrebbero potuto irreparabilmente ferirla, durante quella serata, se l’avessero scorta in un ambiente a loro favorevole.

L’avrebbero fatto per far del male a me, alla ragazza che amo e alla mamma. Perché loro erano persone cattive, e di questo ne ero e ne sono certo.

Maria avrebbe voluto cercare di rispondere a tono al marito, quella volta, ma compì la saggia scelta di non dire nulla di fronte a Jasmine, e ciò l’apprezzai, perché in fondo anche se la ragazza già sapeva che eravamo sommersi dai problemi familiari, sarebbe stato ingiusto renderla partecipe di uno scontro verbale poco educato.

Un altro rumore molto forte, quella volta proveniente dal piano superiore, fece sobbalzare anche Roberto, ed i due adulti si dileguarono e si congedarono molto rapidamente da noi, rientrando in casa ed andando a controllare che ambo le situazioni problematiche fossero almeno sotto un minimo controllo.

Inutile sottolineare che stavo male sia per Roberto che per mia madre, sapendo che entrambi non meritavano tutto ciò che stava accadendo loro, ma i due adulti si stavano comportando decentemente, a tratti in modo molto maturo. Sentivo che avevo molto da imparare dal mio inquilino, soprattutto nel modo che aveva di riuscire a dominare le sue emozioni.

Non capivo, in quei movimentati momenti, se l’uomo stesse soffrendo per ciò che stava accadendo all’interno della sua famiglia e stesse cercando di mettere sul suo viso una maschera, nel tentativo di insabbiare agli occhi degli altri il suo turbamento e la sua tensione, oppure se fosse come se avesse già più volte meditato su quella situazione, come se la situazione stessa e complicata che si era mostrata all’improvviso in realtà fosse qualcosa di poi non così tanto impensabile o lontano anni luce.

In ogni caso, per me Roberto era un vero duro, nonostante la sua parvenza esteriore da debole e passivo. Era un filosofo, semplicemente, e la sua mente era tutta da scoprire, e di certo non era chiusa e limitata. Era una sorta di miniera a tratti oscura, ma tutta da esplorare.

Mia madre e lui, sotto certi aspetti, erano molto simili, oltre ad essere accomunati da una discreta sfortuna famigliare.

‘’Hai notizie di Alice?’’, chiesi a Jasmine, non appena gli adulti si erano dileguati. Deglutii, prima di porre la domanda, perché avevo timore di sentirmi dire altre brutte notizie, ma d’altronde era certo che fosse così.

Tuttavia, dovevo e volevo affrontare l’argomento, perché mi stava a cuore e ancora mi sentivo un po’ in colpa. Tutto il resto, in quegli istanti, non contava più nulla.

‘’Sì, i miei si stanno costantemente tenendo in contatto con la madre, senza essere indiscreti e cercando di non disturbare. A quanto pare, la situazione è ancora invariata, e la nostra amica è ancora incosciente, immersa in un sonno indotto. Ma da quel che ho capito, presto tenteranno di farla risvegliare… e lì… chissà… se…’’.

Jasmine scoppiò in lacrime, all’improvviso, ed ecco che cominciai a star doppiamente male.

L’avvolsi subito in un tenero abbraccio, volevo che sapesse chiaramente che le ero vicino, fisicamente e mentalmente a lei e mentalmente alla povera Alice.

‘’Io… io spero solo che alla fine possa andare tutto bene’’, dissi, semplicemente.

So che forse non era la frase più confortevole che potessi pronunciare sul momento, ma almeno conteneva tutta la mia miglior speranza. Speranza in un miracolo, in pratica.

‘’Anch’io’’, mi rispose flebilmente la mia amata, tra le mie braccia ed annuendo debolmente.

Era così fragile! Mentre la cingevo con le mie braccia, me ne rendevo perfettamente conto. E l’amavo ancora di più. Dentro di me, io bruciavo per lei, e non sopportavo vederla piangere, anche se conoscevo il motivo di quel gesto che faceva soffrire anche il mio debole animo.

‘’Ora non piangere più, però. Non voglio vederti così disperata, perché mi piacerebbe che in cuor tuo vivesse la speranza, fino all’ultimo. Sono certo che la nostra Alice, quella che abbiamo avuto modo di conoscere prima che fosse troppo contaminata dalla malattia, avrebbe approvato queste parole’’, le dissi, cercando di farle forza. La sentivo così spossata e debole, mentre era quasi abbandonata tra le mie braccia, e stavo davvero in pena per lei.

‘’Hai ragione’’, acconsentì la ragazza dopo un sospiro, per poi staccarsi in fretta da me per asciugarsi le lacrime e soffiarsi il naso.

Mentre Jasmine continuava a risistemarsi, cercando di nascondere ogni traccia evidente del recente pianto, cominciò a nevicare di nuovo in modo fitto, e all’improvviso.

‘’Oh, ci risiamo’’, mormorai, mentre la mia interlocutrice alzava per un attimo gli occhi verso il cielo rossastro. Nuovamente, assieme ai primi copiosi e grandi fiocchi, cominciò ad alzarsi un vento gelido e tagliente.

‘’Eh, pare proprio di sì. Temo che farà bufera per tutta questa notte… e forse è meglio se vado a casa’’, riprese a dire Jasmine, ed io subito la incoraggiai a farlo.

Era già sera inoltrata, il paese era avvolto in più punti dal buio totale e la nevicata copiosa e il vento stavano rendendo il luogo spettrale e silenziosamente pericoloso, quindi la invitai caldamente ad andare a casa, anche se avrei tanto voluto che stesse ancora lì con me, ma non volevo mettere in nessun modo a rischio la sua incolumità o crearle problemi dovuti al mio egocentrismo.

La mia ragazza, ovviamente, capì che i miei caldi consigli erano fondati, e così ci salutammo sotto una fitta nevicata, dandoci appuntamento per i giorni successivi, anche se poi le avrei scritto un messaggino per augurarle la buona notte, com’era mio solito fare.

Mi tornò in mente anche il mio ultimo incontro con Melissa, avvenuto proprio durante quello stesso pomeriggio, e quel giorno mi parve il più strano della mia vita e mi è rimasto impresso nella memoria in un modo incredibilmente approfondito, forse proprio perché il ritmo dei miei più importanti saluti fu dettato da quella neve strana, pacata e copiosa.

In cuor mio, speravo che quella neve potesse seppellire anche il mio costante tormento interiore, una volta per tutte, dato che da troppo tempo soffrivo.

Speravo davvero in una svolta, e si vede che quella nevicata magica mi portò davvero un poco di fortuna, poiché dal giorno successivo tutto cominciò rapidamente a cambiare.

L’attesissima e profonda svolta era lì, finalmente ad un passo, ed ora già fremo per ricordarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ciao a tutti!

Carissimi amici lettori, solo quattro capitoli ci separano dall’epilogo e dalla fine di questo racconto. Spero davvero che la storia continui ad essere di vostro gradimento, e che possa piacervi fino all’ultimo.

Ringrazio tutti coloro che continuano a sostenere con grande fedeltà e gentilezza questo racconto! Siete di una gentilezza infinita, e il vostro sostegno mi ha infuso davvero tanta forza e voglia di mettermi in gioco con questa vicenda.

Grazie di cuore per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


Capitolo 35

CAPITOLO 35

 

 

 

 

 

Sono sempre stato dell’idea che l’uomo, l’umano maschio, col passare degli anni possa evolvere il suo comportamento sempre in due o tre modi piuttosto statici.

Se le donne in generale sono sempre meno prevedibili, più ingegnose e propositive, nonostante il passare degli anni, per gli uomini non è così, secondo me.

Ho da sempre avuto modo di notare il che il maschio umano, in genere, fino ai quarant’anni può presentarsi mentalmente attraente e propositivo, ingegnoso e positivo. Ma nella fascia d’età che va dai quarantacinque ai sessantacinque anni, esso tende a diventare noioso, insopportabile ed isterico.

Oltre i sessantacinque, ognuno di noi maschietti di solito tende a perdere quel vigore di mezza età che ci conduce alla vecchiaia, e allora, di solito e in generale diventiamo bravi nonni, mariti coscienziosi e persone senza più eccessivi vizietti o cattiveria in corpo. Però, nella fascia d’età più a rischio, c’è la tendenza contraria.

Ho avuto modo di notare che, nel corso di quella fascia d’età ritenuta da me critica ed appena citata, ci sono uomini che cominciano a comportarsi male, sia con le mogli che coi figli, ad essere insopportabili tra le mura domestiche e magari invece tentare di essere i più bei damerini per le gentili dame più attraenti che si incontrano durante il corso della propria vita. In casa si litiga, fuori se ne capita l’occasione si tradisce la partner.

Questo gruppo di uomini è quella più vasta, ne fa parte anche mio padre, anche se lui comincia ad essere un caso estremo, e può contare milioni di soggetti simili tra le sue fila.

All’opposto, ci sono quegli uomini di mezza età pieni d’amore per il prossimo ed incondizionato, che ascoltano chi li circonda e sono dotati di una sensibilità strabiliante, e possono essere un vero tesoro per chi li circonda.

Essi sono sempre curiosi, propositivi ed intelligenti. Roberto fa parte di questo gruppo, e con lui pochi altri.

Loro sono una sorta di retti angeli contrapposti alle orde delle altre categorie maschili.

La terza ed ultima categoria, o genere maschile, è quella composta dagli uomini che diventano improvvisamente cialtroni, noiosi, scioccamente pestiferi, logorroici e ripetitivi. Magari essi prendono anche il vizio di sparlare, come le vecchie comari, e non hanno neppure tanto cervello ed arguzia, sfoggiando uno stile da babbeo, meritandosi quindi solo una risata in faccia dal prossimo. Magari, si ubriacano anche, e più volte alla settimana.

Questa, assieme con la prima, sono le categorie maschili peggiori.

Per mia esperienza, ho potuto constatare che queste situazioni e descrizioni possono applicarsi in un’infinità di casi, e a dirla tutta spero veramente che questi miei pensieri siano frutto solo delle mie esperienze, e che in realtà i maschietti siano tutti un po’ meglio di come tendo a categorizzarli. Anche perché, per fortuna, qualche uomo che esce da questo schema fisso pare esserci. Forse sono solo io che ho da sempre cercato di razionalizzare troppo un po’ tutto.

Ma, venendo al sodo, questi pensieri mi hanno frullato per una frazione di secondo all’interno della mia mente solo ed esclusivamente perché mi sto accingendo a ricordare la fine della mia ultima brutta esperienza con mio padre, e la sua nuova scomparsa.

Proprio così; a sorpresa, il mattino dopo la copiosa nevicata serale e notturna, io e mia madre non ritrovammo più il mio genitore. Le sue cose erano totalmente sparite, il suo fuoristrada scuro non era più parcheggiato nel suo posteggio, ed il suo mazzo di chiavi di casa nostra era stato miseramente abbandonato sul tavolo della cucina. Così, era finita l’avventura di Sergio nella nostra dimora, conclusa in fretta e praticamente nello stesso modo sorprendente con la quale essa era iniziata, qualche mese prima.

Durante la notte poi aveva continuato a nevicare, e quella mattina al suolo c’erano una ventina di centimetri di manto bianco e candido, ma almeno la nostra strada mi appariva abbastanza percorribile, grazie all’azione perfettamente organizzata dei mezzi spazzaneve, e il mio fuggiasco padre doveva aver deciso che quello era il momento giusto per darsela di nuovo a gambe, nel più totale silenzio.

Il fatto che la sua auto avesse lasciato la sua sagoma ben impressa sull’asfalto del posteggio davanti a casa ci fece subito capire che l’uomo doveva essersene andato di prima mattina, forse all’alba, quando dormivamo profondamente, dopo aver fatto attenzione a caricare i suoi pochi bagagli in fretta. Chissà, magari se n’era tornato nella sua casa, quella per cui versava l’affitto ogni mese, situata a Bologna e vicina al lavoro.

Quella era stata una brutta esperienza che, a quanto pareva, si era conclusa, e sia io che mia madre eravamo certi che l’uomo non sarebbe tornato da noi, non dopo averci lasciato pure le chiavi della porta d’ingresso.

Lo conoscevamo un pochino ormai, e sapevamo che quel gesto aveva un senso dispregiativo nella sua mente, ma anche un qualcosa che lasciava presagire che non sarebbe tornato mai più, o almeno non tanto presto. Doveva aver pianificato meticolosamente tutto, nei giorni precedenti, considerando anche le sue continue e strane assenze. E, comunque, nel caso si fosse ripresentato alla nostra porta, di certo non l’avremmo fatto rientrare, ben sapendo come si era comportato l’ultima volta in cui era stato riammesso momentaneamente al suo interno.

Io e mia madre, quella volta, fummo perfettamente d’accordo su tutto. Ma quello non fu l’unico addio di quella giornata.

 

Ero ancora molto preso dalla fuga di mio padre, quando anche i due nemici Arriga si accinsero ad andarsene. A quanto pareva, la loro promessa d’addio era stata freddamente mantenuta.

In una quindicina di minuti, la signora Livia e il figlio portarono al piano terra i loro pochi bagagli, già preparati con cura durante la sera precedente, e senza troppe difficoltà caricarono e sistemarono tutto all’interno della Panda della donna.

Il tutto si svolse molto in fretta, mentre il gelo di quella mattinata di ghiaccio e neve giungeva fin dentro alle ossa.

Ricominciarono a cadere nuovi fiocchi bianchi, mentre il cielo restava cupissimo e le altre strade del paese dovevano risultare a tratti difficilmente percorribili, poiché mia madre aveva telefonato in segreteria del mio istituto scolastico e le era stato detto che per quel giorno a causa del maltempo non ci sarebbe stato il regolare svolgimento delle lezioni.

Quella giornata quindi aveva un retrogusto speciale; non so se ad altri, come è capitato a me, siano rimaste impresse quelle giornate piacevolmente strane, che solo durante quella precedente dovevano risultare di ordinaria frenesia, mentre poi all’ultimo si rivelavano tutt’altro.

La neve per me ha sempre avuto un significato magico, poiché essa è sempre stata in grado di modificare le abitudini umane, di dare un colpo di freno alla quotidiana frenesia e di concedere dei momenti tranquilli in famiglia. Ma, a quanto pareva, in casa mia quel giorno si era rivelato propizio per compiere la fuga generale.

Educatamente preoccupata, mia madre volle farsi avanti, mentre io me ne stavo in disparte a guardare quella che doveva essere la fine di un lungo incubo.

‘’Signora, lei e suo foglio potreste anche fermarvi per questo giorno. Con questo tempo da lupi non è consigliabile mettersi in marcia…’’, tentò di dire a Livia, con infinita cortesia. Scossi la testa di fronte al suo bel gesto, sapendo fin dal principio come sarebbe andata a finire.

‘’E restare un giorno in più in questa lurida bettola, in compagnia di gente così schifosa?! Ma si figuri! Arrivederci’’, le sbottò in faccia l’aristocratica, in modo orribilmente maleducato e allontanando la mia povera mamma.

Sapevo che la mia povera Maria aveva tentato di offrire cortesemente il suo tetto a quelle due persone disgustose solo per evitare che corressero rischi per la strada, poiché se per mio padre lei era certa che se la sarebbe cavata, in un modo o nell’altro, non ne era sicura che se la potesse cavare la signora. E’ sempre stata di buon cuore, la mia cara mamma. Forse anche troppo.

In fondo, se una persona come Livia si fosse schiantata ed avesse lasciato questo mondo, non sarebbe poi stata una grave perdita per l’umanità intera. A quel punto, riconobbi che ero io ad esagerare, però, e mi frenai.

Restai ad osservare la scena dalla finestra della mia saletta, il mio territorio appena riconquistato, e vidi il grande momento della partenza di quei due mostri.

Livia era già salita in macchina ed aveva già acceso il motore, pronta a partire, mentre il mio prepotente nemico stava caricando il suo ultimo e piccolo bagaglio, appoggiandolo sul sedile posteriore del mezzo.

Prima però di prendere posizione a fianco della madre, lo vidi chinarsi all’improvviso, e per un attimo non capii la sua intenzione.

Poi, lo vidi lanciare qualcosa, e alcune urla si alzarono dalla casa dei vicini, mentre il ragazzo s’infilava precipitosamente all’interno dell’abitacolo e chiudeva lo sportello.

La madre si affrettò a partire, mentre le catene dell’auto rumoreggiavano in modo impressionante, ed il prepotente ne approfittò anche dell’ultimo secondo disponibile, abbassando il finestrino ed urlando un paio di parolacce rivolte a tutti.

Ricordo molto bene che la permanenza di quelle due brutte persone si concluse con quel gran vaffanculo a tutti che Federico urlò dall’interno dell’auto di sua madre, mentre il veicolo già si allontanava forse in modo troppo veloce, date le condizioni climatiche e della strada.

Continuando ad udire delle grida di dolore, provenienti dalla casa di Ottaviano, mi affrettai ad uscire dalla mia abitazione per andare a vedere cosa potesse essere accaduto, e cosa poteva aver combinato quel pazzo durante i suoi ultimi secondi di permanenza nella nostra strada e nella nostra vita. Ancora non mi capacitavo che se ne fosse finalmente andato, e che quello fosse un vero e proprio addio.

Affacciandomi alla porta d’ingresso, rimasi sbalordito nel ritrovarmi di fronte ad una scena che quasi mi fece piangere.

Infatti, Federico doveva aver visto l’anziano Ottaviano che, accompagnato dalla badante, si era lasciato portare un attimo fuori per vedere la neve e la nevicata in corso, e ne aveva approfittato per lanciargli addosso e a sorpresa una grossa manciata di ghiaccio e neve, infradiciandolo e sporcandolo tutto.

L’anziano gemeva dal dolore e dal freddo, sulla sua sedia a rotelle, mentre Ludmilla, la badante, cercava di gettare via i frammenti di ghiaccio rimasti appiccicati sui vestiti del vecchietto, che per fortuna era adeguatamente coperto.

Quasi fui spinto via da Roberto, che da dietro di me si precipitò prontamente nel giardino dei vicini, correndo ad aiutare Ludmilla, e vedendo la pronta azione dell’uomo pure io mi riscossi e corsi a dargli una mano.

Non appena mi catapultai pure io a soccorrere il povero Ottaviano, mi ritrovai di fronte al vecchietto atterrito, e alla badante stupefatta e senza parole, ancora scossa dall’accaduto.

‘’… eravamo qui, in giardino. L’avevo portato un attimo fuori, ma l’avrei riportato subito dentro! Ed invece, guardi qui. Ma le sembra normale che un ragazzo si comporti così?’’, stava dicendo Ludmilla, arrabbiata.

La donna era da sempre un’icona di calma e moderatezza, ma quando si innervosiva cominciava a fare gesti eloquenti e non aveva peli sulla lingua, e in quel caso neppure si fece scrupolo di sottolineare la maleducazione e la perfidia gratuita di Federico di fronte a suo padre, anche se non lo conosceva, parlando con quel suo italiano quasi perfetto, ormai senza più alcuna cadenza straniera, dopo quasi vent’anni di permanenza in Italia.

‘’Io, per fortuna, non ci ho più nulla a che vedere con quel tipo lì. Spero voglia rinunciare anche al mio cognome’’, sbottò Roberto, proprio mentre compivo gli ultimi passi che mi separavano dall’agitato gruppetto.

Il fatto che l’uomo fosse così certo e sicuro di voler allontanare il ragazzo dalla sua vita quasi mi spaventava; era come se… non lo ritenesse per davvero figlio suo.

Turbato da quel tale e violento pensiero, che ultimamente aveva più volte fatto capolino nella mia mente, preferii accantonare tutto quanto, pure i pensieri, per mettermi a disposizione degli adulti, facendomi prontamente avanti e cercando di aiutare Roberto e Ludmilla, che stavano finendo di gettare a terra i vari frammenti di freddo ghiaccio rimasti appiccicati agli abiti dell’anziano, che ancora a tratti si dimenava e gemeva, in preda ad una turbatissima incoscienza.

‘’Antonio, grazie, sei sempre tanto caro! Tuo nonno sarebbe stato fiero di te. Ma non preoccuparti, e neppure tu signore, è tutto a posto. Ora riporto Ottaviano in casa, e gli do una cambiata…’’, disse prontamente la badante, rivolgendomi uno dei suoi soliti sorrisi sinceri e caldi, e calmandosi per un attimo, per poi tornare a prendere le redini del destino dell’anziano affidatole e accingendosi a portare di nuovo l’uomo e la sua sedia a rotelle verso l’abitazione.

‘’Se ha ancora bisogno di aiuto…’’.

‘’Stia tranquillo, come ho appena detto ora lo cambio e poi lo asciugo per bene. Per fortuna non è successo nulla di eccessivamente grave, ma è stato il gesto ad aver fatto più male a me e ad aver spaventato il povero signor Ottaviano. La ringrazio molto per aver proposto un aiuto’’, disse la donna, mentre il suo viso s’imporporava a causa della recente rabbia provata.

‘’Quell’infame. Io… io non l’ho cresciuto perché si comportasse così’’, mormorò Roberto, rivolgendosi a me, dopo aver osservato la badante che riportava in casa l’anziano, per asciugarlo per bene ed evitare che prendesse freddo. L’uomo semiparalizzato era ancora agitatissimo e spaventato, e questo mi faceva davvero stare male.

L’addio di Federico era stato un addio amaro, cattivo, proprio come la sua essenza. Perfido e crudele fino in fondo.

‘’Non è colpa tua, noi tutti sappiamo che sei una brava persona, a contrario di quel… di quel mascalzone’’, gli dissi, dopo aver riflettuto sulla parola giusta con cui chiamare quel prepotente, poiché in quel momento mi saliva alla bocca solo il vocabolo stronzo, ma non ritenevo fosse appropriato dirlo. Ho sempre e profondamente odiato la volgarità, ed ho da sempre cercato di limitarne l’uso il più possibile.

Roberto non replicò nulla, ma si sfiorò il volto con le mani e prese le distanze da me, come a voler reclamare un attimo di solitudine, ed io ne assecondai la scelta, lasciandolo solo sul marciapiede davanti al nostro giardino, mentre rincasavo.

Purtroppo, non c’erano parole per descrivere il quoziente di barbarità che Federico aveva nel sangue, ed ero sempre convinto che il suo comportamento deviante fosse qualcosa di anomalo, qualcosa che richiedesse quell’aiuto che la madre aveva sempre impedito che giungesse a destinazione.

Quel prepotente era solo, aveva dei problemi ed andava seguito, in qualche modo, cosa che invece la madre non faceva in alcun modo, anzi, pareva lo spronasse a far peggio. Anche poco prima aveva atteso che il figlio entrasse nell’auto per poi andarsene, dopo che quest’ultimo aveva commesso la sua atrocità, senza minimamente riprenderlo o fermarsi a chiedere scusa e cercare di rimediare un po’.

Madre e figlio erano della stessa pasta, e a volte mi veniva da chiedermi se fosse stato un po’ anche a causa di Livia se quel ragazzo era venuto su in quel modo perverso e malato. Ed in quel momento immaginavo che, dopo essere rimasti una volta per tutte loro due da soli, la situazione avrebbe seriamente rischiato di peggiorare. Federico avrebbe potuto davvero diventare un soggetto ancor più pericoloso.

Scuotendo la testa, rientrai in casa mia, cercando di lasciare fuori da quelle mura quei miei foschi pensieri, nel vano tentativo di tornare a rilassarmi, dopo quegli ultimi avvenimenti.

 

Avevo paura che anche Roberto fosse in procinto di andarsene.

Mi aspettavo che, non appena sarebbe rientrato, avrebbe cominciato a fare i suoi bagagli, per lasciarci per sempre. Anche lui.

La nostra casa si era svuotata, e anche se ciò che se n’era andato quasi all’improvviso era solo il maltempo, ammetto che in quel momento mi ci ero quasi abituato, e anche se i nuvoloni neri parevano lontanissimi ormai, sentivo un certo vuoto dentro, una sorta di amarezza che mi portava, e a tratti mi porta ancora, a pensare che se il destino fosse stato più clemente con me e con mia madre forse tutto sarebbe stato molto diverso.

Magari, in quegli istanti mi sarei trovato davanti al mio pianoforte con a fianco un padre che mi ascoltava pazientemente e che mi voleva bene, mia madre avrebbe avuto un marito che la amava e la ricopriva d’attenzioni, Federico si sarebbe potuto rivelare un ottimo amico per me e Livia una buona amica per mia madre, mentre Roberto sarebbe stato sorridente al fianco di un bravo figliolo. Ma lo so, la semplicità e la bontà non fanno parte della vita quotidiana di noi umani, dove sempre regna la precarietà, la paura e l’odio, oltre che i conflitti di ogni sorta.

Se c’è una cosa che il genere umano sa fare egregiamente da sempre è proprio quella di complicarsi l’esistenza, e quasi di rovinarsela da solo.

Se tutte le mattine ci alzassimo col sorriso sulle labbra, nonostante tutto, e pronti a cercare di migliorare la nostra condizione con positività, tutto sarebbe di certo migliore. Ma questo è solo uno stupido ed infantile sogno, che ancora oggi mi passa per la mente, di tanto in tanto.

La realtà è che il senso di profonda negatività in quegli istanti mi pervase e mi stritolò quasi come se fosse stato un serpentone dell’Amazzonia, e nonostante tutto continuavo a non stare bene mentalmente. Non avevo una pace interiore, e dovevo ritrovare un equilibrio, ma purtroppo ciò ormai pareva anch’esso un sogno lontano, dopo tanto tempo che lo cercavo.

Mi recai in cucina, varcando la soglia in modo mesto, trovando mia madre seduta al tavolo, sola e mogia, mentre sorseggiava un po’ di caffè caldo dalla sua solita tazzina dipinta a mano. Capivo il suo nervosismo, ed immaginavo che fosse rivolto verso tutto.

Sapevo anche che purtroppo aveva avuto la consapevolezza di non essere stata in grado di gestire al meglio ogni situazione, e questo le faceva male, talmente tanto che aveva deciso di restare a casa per un giorno dal lavoro, il secondo in pochi mesi. Questa decisione la diceva lunga sul suo stato emotivo e psicologico.

Non trovai la forza per dirle qualcosa e semplicemente mi avvicinai alla finestra, gettando uno sguardo fuori, mentre il bagliore candido di quel giorno nevoso era qualcosa di abbagliante, e di magico, allo stesso tempo.

Ricordo ancora, e ricordai anche in quel momento, che quando ero più piccolo e nevicava uscivo a fare il classico pupazzo di neve, e siccome nel mio paesino si creava molto spesso un bell’accumulo di materiale a me utile per la mia opera, mi divertivo un sacco a costruirla. Un piccolo sorriso fece involontariamente capolino sulle mie labbra, ma lo nascosi, e quando ne ebbi la più totale consapevolezza di essermi lasciato andare per un attimo, mi affrettai solo ad indossare di nuovo la mia classica maschera triste.

E, a quel punto, Roberto rientrò in casa e si diresse direttamente verso la cucina, entrando a piccoli passi, dopo aver bruciato il tragitto che lo separava dalla stanza in un paio di secondi.

Entrando, e trovandosi di fronte a mia madre rattristata e a me, che stavo mostrando il mio viso imbronciato, preferì dirigersi verso la mia mamma.

‘’Maria, pagherò di mia tasca l’affitto dei prossimi sei mesi, come d’iniziale e consensuale accordo’’, disse l’uomo, forse non comprendendo quello per cui la donna era rattristata. Io la conoscevo bene, e sapevo che i suoi pensieri andavano molto al di là dei soldi, in quel momento.

‘’No, non li voglio, Roberto. Non preoccuparti per soldi e accordi, è tutto a posto così’’, disse infatti mia madre, prontamente. Me l’aspettavo.

‘’Allora cos’è che ti tormenta? O, meglio, cosa vi tormenta? Livia e Federico vi hanno insultato ed offeso per tutto il periodo della loro permanenza, così come ha fatto Sergio… non penso che dobbiate sentire la loro mancanza. Non sarebbe giusto’’, disse mestamente l’uomo, rivolgendosi a noi due, ma lasciando trapelare un po’ di commozione. Il suo cuore era in subbuglio, quasi potevo sentire i suoi battiti più accelerati del normale e vedere quei pensieri che forse non erano tutti cupi.

‘’Sai cosa mi tormenta? Che ho fallito. Mi sento una fallita. Ho lasciato che tutti facessero quel che pareva loro con me e con mio figlio, ed ora mi sento uno zerbino, anche se è tutto finito, a quanto pare. Ed è finito tutto nel peggiore dei modi’’, disse mia madre, senza neanche darmi il tempo per fiatare.

Era agitata, si tormentava le mani, strusciandole con forza l’una contro l’altra.

‘’Ed io come dovrei sentirmi? Mia moglie ha appena finito d’insultarmi, e quella squallida creatura di suo figlio ha combinato un’altra violenza. Quel matto avrebbe bisogno di finire in carcere e di essere condannato all’ergastolo’’.

Ascoltando le parole arrabbiate di Roberto, mai e poi mai mi venne da chiedermi il perché non chiamasse Federico suo figlio. Credevo si trattasse di semplice livore nei suoi confronti. Se solo penso a tutto ciò, fremo per arrivare al punto, ma prima di giungerci so che devo sfiorare altre parti del discorso, altrimenti farei solo confusione nella mia mente.

Mia madre, sul momento, sogghignò.

‘’Non è colpa tua. Quei due sono proprio cattivi dentro, non c’è modo di migliorarli. Piuttosto, però, mi dispiace per voi. Mi sembra di aver partecipato attivamente alla fine del vostro rapporto, e questo…’’.

‘’Ma non dirlo neanche per scherzo; quello che legava me a Livia era già finito da secoli, ormai. Ed è stato grazie a tuo figlio se sono riuscito definitivamente ad aprire gli occhi e ad allontanare quella pazza da me’’, intervenne Roberto, interrompendo il flebile discorso mortificato della mamma, che da parte sua a quel punto mi rivolse uno sguardo interrogativo.

Non sapendo proprio che dire, scrollai leggermente le spalle, nel vago tentativo di farle capire prontamente a gesti che non avevo idea di cosa si stesse riferendo il nostro interlocutore. In realtà ne avevo una ben precisa, ed avevo proprio tanta paura che l’uomo la narrasse al mio genitore.

‘’Ha scattato delle foto a Livia, di nascosto, e poi me le ha consegnate. Lei mi tradiva, e neppure tanto in modo nascosto, ma Antonio mi ha scosso. Mi ha aperto gli occhi’’, disse però Roberto, sorridendo per la prima volta, senza sapere che a quel punto rischiavo la lapidazione. Mia madre, infatti, volse di nuovo lo sguardo verso di me a quelle parole, lanciandomi una di quelle occhiatacce penetranti che promettono tante cose, ma nessuna positiva.

Ero certo che in quel momento, se le fossi capitato a tiro, me lo avrebbe mollato un ceffone. Mi aveva sempre detto di farmi gli affari miei, di stare sulle mie e di comportarmi con gentilezza, non di fare il guardone per poi far la spia ai mariti traditi, anche se tutto non era farina del mio sacco, ma c’era stato pure l’importante zampino di Giacomo, in quel momento non citato.

Ero pietrificato, non mi sarei mai aspettato di trovarmi in una situazione tanto complessa, ed ammisi che mi sarebbe parso più probabile un qualche insulto di Roberto durante il giorno prima, che sottostare allo sguardo di un genitore inferocito e molto probabilmente deluso da me, che non mi aveva mai sfiorato con un dito ma che forse in quegli istanti avrebbe potuto farlo.

Mi aspettavo un ceffone supersonico di lì a poco, ma l’uomo si accorse del pasticcio che aveva combinato, e si affrettò a tentare di rimediare.

‘’No, Maria, non prendertela con lui. Antonio è un ragazzo di cuore, e se mi ha mostrato quelle foto era per il mio bene.

‘’Devi sapere che ha fatto la scelta giusta, e che mi ha solo offerto su un piatto d’argento le prove di ciò che io non avevo mai avuto il coraggio di vedere e di constatare in tutti questi anni. Capisci quindi che è stato il mio effettivo salvatore? Non voglio che tu lo rimproveri per non essersi fatto gli affari suoi’’.

In realtà, me li ero fatti abilmente.

Ero riuscito a togliere di mezzo sia Livia che Federico, quelle due creature perfide, cattive e senza cuore.

‘’Si è fatto gli affari vostri, e non doveva. Io sono molto delusa dal suo comportamento’’.

Mi sentivo già pressoché fritto. Mia madre non ragionava ed io la capivo.

‘’Mi ha salvato dalla schiavitù dei miei pensieri. Ero come cieco, ed incatenato. Ma lui mi ha liberato, mostrandomi abilmente e senza farsi scrupoli proprio ciò che dovevo assolutamente vedere, dopo tanto tempo’’, continuò Roberto, a quel punto volenteroso di scagionarmi ed utilizzando il suo solito approccio filosofico, ma mia madre pareva irremovibile, così come lo era il suo sguardo irritato puntato su di me.

‘’Ascolta, Livia mi tradiva. E lo sai con chi lo faceva? Proprio con il suo amore giovanile. E chissà per quanto mi ha tradito… forse da sempre. Oppure, solo da un po’, non ne ho idea… sta di fatto che questa mattina l’ho seguita, e l’ho scoperta mentre se la spassava con un altro.

‘’Lei non aveva alcun lavoro, e si faceva passare soldi da quell’uomo, ritornato da non so quanto tempo nella sua vita, e veniva pagata da lui per fare chissà cosa… sempre con lui e in sua compagnia. Livia si è presa gioco di me per tanto tempo, ed io mi vergogno solo a pensare che mai ho avuto il polso o la forza di seguirla fino a questo momento. Il gesto di tuo figlio me l’ha data’’.

A quel punto mia madre tolse il suo sguardo da me e lo indirizzò verso il nostro caro interlocutore, un pochino sorpresa da quella rivelazione.

‘’Il nostro rapporto si è da sempre basato sulla falsità. Non mi faccio più scrupoli adesso a parlarvi, tanto è ora che scopriate la verità sul nostro rapporto coniugale, poiché esso si è concluso e tali rivelazioni non possono più ferire o ledere nessuno, neppure Federico… ed io che mi facevo mille scrupoli per lui. Ma lui sapeva… sapeva… e di me rideva… non meritava nulla’’.

Roberto aveva continuato a parlare, fin quasi a singhiozzare in quel momento.

La sua delusione esplose fuori tutta d’un colpo, neppure io e la mamma ci attendavamo una simile reazione. Ad un tratto, l’uomo ci parve disperato, e bisognoso di sfogarsi, anche se le sue ultime parole confuse non sapevamo proprio come collegarle ed interpretarle.

‘’Livia non è sempre stata così. Un tempo era una ragazza piena di vita, e solare. A vent’anni aveva già un lavoro, era praticamente indipendente e i suoi genitori, persone molto ricche e benestanti, le volevano molto bene e la viziavano tantissimo. La prima volta che la conobbi, accadde casualmente; a Cento, durante i festeggiamenti del carnevale del ’92, m’imbattei in lei e nella sua piccola comitiva di amiche, e scoprii con piacere che tutte loro venivano da Bologna proprio come me.

‘’Insomma, io mio ero recato fin lì con due amici per seguire per un giorno e con scarsa curiosità la sfilata dei carri, ed invece mi sono ritrovato ad aver conosciuto la ragazza che più ho amato durante la mia gioventù. Lei era una giovane alla moda, spigliata con le parole e di certo molto intraprendente, bella ed interessante, e mi colpì fin da subito.

‘’Una volta tornati a Bologna non perdemmo mai i contatti, e tornai a rivederla più volte, ma c’era un problema; lei era fidanzata. Aveva un ragazzo, esatto, un ventenne come lei, conosciuto nel suo posto di lavoro. In breve, compresi che non avevo alcuna chances con Livia; il suo ragazzo per lei era tutto e lo amava, trasportata da quelle passioni che si possono provare con tale intensità solo in età giovanile. E ciò anche se suo padre non voleva che lei passasse del tempo con lui, molto geloso della figlia…’’.

Roberto prese un attimo fiato, mentre io ascoltavo la narrazione in modo attento, e mia madre pure.

‘’Accadde che Livia rimase incinta. Non di me, ovviamente, ma di questo ragazzo. E fu la fine. Lei credeva che il giovane l’avrebbe sposata, e magari l’avrebbe portata a casa sua dai suoi, e assieme avrebbero vissuto una vita felice anche se suo padre non l’avrebbe più voluta rivedere, dato che non aveva mai assecondato la relazione della figlia, che riteneva troppo prematura per quel genere di cose.

‘’Nonostante lei amasse la creatura che aveva in grembo, e fece di tutto per non far trapelare la notizia della sua gravidanza, nella vana speranza che il suo ragazzo avesse potuto trovare un posto per entrambi prima che comparisse il pancione, un luogo dove piantare il seme della loro futura famiglia, ma non fu così. Infatti, tutto precipitò nel giro di pochi mesi, e quando la vicenda si fece evidente, assieme alle piccole difficoltà del caso e normali, la giovane perse il lavoro e il supporto della sua famiglia, ed incredibilmente anche il suo ragazzo, che in modo evidente decise di non prendersi a carico troppe responsabilità e sparì nel nulla.

‘’Sola e senza più nessuno, senza più neppure la sua indipendenza da poco guadagnata, la ragazza invocò la pietà del padre, che si decise a riprenderla in casa, ma con disgusto. Da quel momento in poi, per Livia furono solo dolori, ritrovandosi in una casa dove ormai i suoi familiari non potevano neppure più vederla, in attesa di veder nascere un bimbo che tutta la società per bene non avrebbe mai potuto accettare tranquillamente. I suoi genitori le avevano detto un’infinità di volte non frequentare quel tipo, ed erano molto arrabbiati.

‘’Tutti avrebbero riso per sempre di lei, la ragazza stupida che credeva nel suo principe azzurro, ed abbandonata da lui all’ultimo e pure incinta’’.

Mia madre, mentre ascoltava quelle parole annuiva. Anche lei aveva vissuto un’esperienza simile, ma almeno noi due eravamo sempre stati ben accetti dalla sua famiglia, se pure a Sergio non importava più di tanto delle nostre esistenze, giungendo poi a scomparire, in seguito.

Forse, eravamo stati pure un pizzico più fortunati dell’aristocratica e di suo figlio, a suo tempo.

‘’Quasi depressa, la giovane Livia aveva perso anche i contatti con le sue amiche, si vergognava a mostrarsi e non usciva praticamente più di casa, e i suoi genitori a malapena le rivolgevano la parola. Fu lì che entrai in scena io, commettendo una delle più grandi sciocchezze della mia vita, ma che sul momento mi parve la scelta più giusta da fare.

‘’Cominciai a recarmi a casa loro in visita, e fui ben accetto dalla famiglia di lei, e perdutamente innamorato della ragazza ad un certo punto mi sorsero strane idee nella mente. La vedevo sfiorita, sofferente, e mi rivolgeva solo sguardi apatici, nelle rare volte che accettava di trascorrere un paio di minuti assieme a me.

‘’Di fronte a quell’orribile situazione, suo padre cominciò a temere che la ragazza si sarebbe fatta del male da sola, visti i suoi sentimenti feriti, il suo viso cupo e la gravidanza che stava procedendo già verso l’ottavo mese, evidente e un po’ problematica, e poco custodita dalla giovane, che effettivamente si lasciava spesso andare senza neppure stare un po’ attenta al suo stato. In più, i genitori dovevano stare attenti a non far trapelare nulla di quella situazione al di fuori delle mura domestiche; sarebbe stato una vergogna, qualcosa che avrebbe meritato derisione. Forse, qualcuno stava pensando di farle abbandonare il bambino in ospedale, appena nato, pur di evitare ogni pettegolezzo.

‘’E fu così che, in quella situazione complessa, suo padre mi fece una proposta, notando che ero rimasto ormai l’unico a continuare a cercarla, nonostante la freddezza e l’astio che mi riservava, e che a me continuava a piacere comunque. Ero davvero cotto di lei, nonostante tutto’’.

Altra piccola pausa, e ancora il mio stupore non si celava più dietro a nulla. Ero troppo curioso di continuare ad ascoltare quel racconto che sapeva di sfogo, e fortunatamente il mio desiderio fu esaudito.

‘’Mi offrì dei soldi’’, e così dicendo, Roberto alzò improvvisamente gli occhi da terra e li puntò verso il soffitto, ‘’dei soldi, una sorta di eredità anticipata di Livia, che valevano anche come dote. Bastava che me la sposassi, e che mettessi la parola fine ad ogni voce, tanto i parenti della giovane e chi la conosceva non avevano mai neppure visto il suo fidanzato e non era a conoscenza dell’intera vicenda, dato che tutto era rimasto in famiglia e nulla era trapelato al di fuori di quelle mura, nel corso dei precedenti mesi.

‘’Io, povero ragazzo di campagna, potevo avere tutto; la ragazza che amavo, denaro, e potevo continuare a studiare, dato che ormai avevo solo rimasto da affrontare l’ultimo anno di università, ed ero pure in difficoltà economiche, poiché mio padre navigava in cattive acque. Avrei risolto ogni mio problema, ed avrei risolto anche il problema dei genitori di Livia, che non volevano accollarsi in casa una giovane con un bambino, con vergogna e totalmente dipendente da loro, oppure costringere la figlia ad applicare qualche soluzione spiacevole per tutti ed estrema.

‘’In cuor mio mi venne da pensare che avrei risolto anche i problemi di Livia, giacché l’avrei sposata, ed avrei cancellato ogni voce sul suo conto. L’unico interrogativo era il bambino che aveva in grembo, ma Giovanni, il padre di mia moglie, promise altro denaro in futuro purché lo crescessi per sempre come mio. Non ero proprio senza cuore, nonostante fossi giovane ed arrivista, e non c’era bisogno della promessa di altro denaro per crescere il bambino non mio, poiché amavo davvero Livia, e credevo che lei avrebbe imparato a provare la stessa passione che provavo nei suoi confronti, rivolta verso di me, col tempo.

‘’Fu così che incassai tacitamente sessanta milioni di vecchie lire e scelsi il compromesso con Giovanni, e questo è stato il più grande errore della mia vita’’.

La mia mandibola era a penzoloni. Ero senza parole, e mia madre con me.

‘’Non so come fece l’uomo a convincere la figlia, so solo che dopo un mese e mezzo ci sposammo. Mancavano venti giorni, all’incirca, alla nascita del bimbo, e la cerimonia avvenne in fretta, solo con pochi invitati, tutti parenti, e con mio padre allibito e sconvolto. Ha continuato ad odiarmi per tutto il resto della sua vita, per questo mio errore, e non gli do torto, ma sul momento in modo egoista io credevo davvero che tutto potesse funzionare.

‘’Sposai una muta Livia, abbandonata da una famiglia che non aveva bisogno di lei, visto che suo padre aveva già due figli maschi più grandi ed erano gli eredi adatti e preferiti per portare avanti tutti i possedimenti familiari. La ragazza forse era riuscita ad accettare il compromesso solo per fuggire da quella casa che ormai le faceva da prigione.

‘’Dopo il matrimonio, ci fu un ristoro molto frugale, e poi andammo a vivere a casa mia, per qualche settimana, fintanto che le occhiatacce di mio padre non ci spinsero ad andarcene. Federico è nato due giorni dopo che noi ci eravamo trasferiti in un minuscolo appartamento, alle periferie di Bologna, e fino ad allora noi due novelli coniugi non ci eravamo mai parlati.

‘’Robe da non crederci! Io cercavo di parlare con lei, ma lei mi odiava. Aveva ragione a farlo!’’.

Dovevo bere. Quel racconto mi stava uccidendo.

Quando portai il mio bicchiere alle labbra, mi parve di sorseggiare assenzio.

‘’Insomma, potete immaginare come fu la nostra vita in seguito. Poco dialogo, mal sopportazione, litigi di tanto in tanto e molta frustrazione. Ammetto che noi due abbiamo fatto l’amore, più di una volta dopo la nascita di Federico, ma forse più che farlo per passione o per concepire qualcosa lo facevamo solo di notte, avvolti nel buio della nostra stanza che, per obbligo di cose, condividevamo, dato che l’altra stanzetta era stata riservata al bambino, e lo facevamo solo perché ci sentivamo tanto soli al mondo.

‘’Avevamo sbagliato entrambi, lei a fidarsi di un ragazzo ed io a scendere a compromessi, quasi comprandola come un oggetto al mercato. A quel punto eravamo soli e sulla stessa barca, con un po’ di soldi da parte ma anche con tanti problemi.

‘’Federico crebbe abbastanza sereno, per lui ci sforzammo di mantenere una schermata da bravi ed affiatati genitori, anche se fu difficile, e per ben due volte, nei nostri primi tre anni di vita assieme, Livia ha concepito un figlio nostro, ed entrambe le volte ha scelto di abortire. Di nascosto da me, me l’ha poi rivelato anni dopo.

‘’Le facevo schifo, non voleva perdere il suo tempo a crescere qualcosa che discendeva anche da me, e per lei il bimbo concepito dal suo primo amore era tutto ciò che la faceva star bene e la faceva continuare a vivere. Io ero solo il suo scudo, lo schermo che narrava una frottola e che teneva in piedi la parvenza perbene e normale della nostra famiglia, che vista da fuori era perfetta’’.

Mi appoggiai al lavabo. Quasi tremavo, come se avessi avuto la febbre. Avrei voluto scuotere quell’uomo che parlava, e dirgli di starsene zitto e di tenersi simili storie per sé, ma la realtà era che finalmente stavo capendo chi erano Livia e Federico.

‘’Negli ultimi anni Livia è cambiata. Il suo odio e il suo disprezzo nei miei confronti sono solo aumentati, e tutto è sfociato in ciò che è successo negli ultimi giorni.

‘’Livia non è mai più stata la ragazza serena di cui mi ero innamorato, e questo poteva starci in un primo periodo, ma poi si era tramutata in un mostro, in una persona cattiva fin dentro all’anima, e desiderosa di ferire chi le stava attorno. Federico è cresciuto così, assieme a lei, che gli ha passato tanta cattiveria, ed ora i risultati si notano. Io non ho mai avuto il polso per far qualcosa.

‘’Ho voluto bene a Federico come ad un figlio, ma lui non ha più ricambiato il mio interesse paterno, da quando sua madre, a quindici anni, gli ha rivelato e spiegato che non era figlio mio. Da allora ha cominciato a mostrare comportamenti devianti, a non rispettarmi più, e da quel momento in poi è iniziata la nostra fuga da un quartiere all’altro, da una cittadina limitrofa all’altra, da una scuola all’altra, fintanto che qui è giunta la fine.

‘’Sono giunte anche un paio di bocciature, e un bel paio di corna per me, dato che… dato che ieri ho seguito Livia e l’ho proprio trovata in un bar con… con…’’.

Roberto s’interruppe, dopo una valanga di parole.

Piangeva, si era aperto. Era come se stesse rigettando quella parte di vita sua, di sua moglie e di suo figlio, che noi tutti non conoscevamo affatto.

‘’Con quello che doveva essere il ragazzo da lei amato, che poi l’ha abbandonata. Non so come abbiano fatto a ritrovarsi, a riappacificarsi, a ritornare ad amarsi… non so nulla! Credevo che lei andasse a lavoro, non mi sono mai interessato troppo della sua vita per non metterle pressioni inutili… ed invece lei aveva ritrovato la sua stabilità.

‘’Ora, assieme a suo figlio, potrà correre tra le sue braccia. Federico avrà ritrovato un padre, Livia la felicità, e ci mancherebbe, sono felice per me, ma posso sentirmi preso in giro? Ma no, non devo neppure pensarci ad una cosa così. Mi sono meritato tutto’’, concluse l’uomo, a quel punto disperato.

Solo allora tornai a guardare mia madre, incrociando il suo sguardo stupefatto e sconvolto. Entrambi non avevamo neppure una parola da dire, in quel momento, e noi due non avremmo mai immaginato una simile situazione.

Potevo quindi comprendere meglio la figura cattiva di Livia, della madre iperprotettiva e sconsiderata, a tratti mascherata da persona impassibilmente elevata, sempre tentando di insabbiare il suo dolore. E comprendevo un poco anche Federico, bimbo indesiderato, forse mai capito e reso deviante da una madre che non aveva mai conosciuto la felicità.

Ciò però non giustificava minimamente i loro comportamenti folli.

Da quel che avevo inteso, il prepotente aveva anche un paio d’anni in più di me, ed immaginavo la sua rabbia e quel suo nascondersi dietro alla violenza per non far scoprire nulla di sé, ma anche ciò non riusciva a dare una ragione valida alla sua sorta di perdizione.

Accadde, a quel punto, qualcosa che non mi sarei mai aspettato; infatti, mia madre allungò le mani verso quelle di Roberto, sul tavolo, e gliele prese, stringendole tra le sue, quasi a voler placare quel dolore interiore che in quel momento l’aveva fatto davvero crollare.

‘’Capita a tutti di sbagliare, e poi di cadere. L’importante però è comprendere che abbiamo sbagliato, e soprattutto come abbiamo sbagliato, per poi rialzarci’’, disse infatti mamma Maria, che pure lei dallo stupore estremo era passata alla commozione.

In quel racconto appena udito doveva aver percepito una minuscola parte di somiglianza a sé e alla sua storia personale, ed infatti ne narrò qualcosina al suo interlocutore, ed io che ascoltai non potei far altro che trovare maggior fondamento in tutto quello che mi avevano raccontato sulla vicenda sua e riguardante lei e mio padre.

‘’Una piccola soddisfazione è che al giorno d’oggi tutte queste scemenze e queste idee idiote sono quasi scomparse. Forse però, c’è un po’ troppo liberalismo da parte dei ragazzi e delle famiglie, per quanto riguarda le relazioni amorose. Fino a vent’anni fa i genitori erano opprimenti, controllavano tutto e davano troppi giudizi, oggi non ne danno nessuno, e rischiano di prenderle dai figli. Però, almeno, nessuno più si fa dei problemi o prende in giro una mamma single, se la vede.

‘’Tempo addietro si cercava molte volte il matrimonio anche a costo di rovinare i figli, solo per mantenere le apparenze della buona famiglia d’appartenenza, mentre oggi… beh, oggi si esagera, i ragazzi sono davvero sguinzagliati in un modo totalmente differente e spesso ingestibile’’, concluse Roberto, dopo aver ascoltato parte della storia di mia madre, smettendo effettivamente di disperarsi e tornando ad indossare la sua solita maschera impassibile sul viso, anche se quella volta gli occhi arrossati e la voce un po’ tremolante tradivano il suo effettivo stato d’animo.

Mi trovavo d’accordo con l’uomo, tuttavia, poiché pure io pensavo che fosse totalmente cambiata l’idea dell’amore e del sesso, all’interno della società, soprattutto ascoltando quei racconti di vita che per un giovane come me erano difficili da comprendere, e apparivano come storie da paleolitico.

Nonostante tutto, il contatto ricercato da parte di mia madre mi lasciò qualche attimo basito, poiché sapevo che il mio genitore in genere tentava di evitare i contatti fisici, seppur minimi. Però, diedi la colpa alla situazione in cui ci trovavamo, che non poteva essere considerata normale.

Io fino a quel momento non avevo aperto bocca, limitandomi ad ascoltare con attenzione, e non avevo intenzione di farlo. Di fronte a simili storie, tra l’altro non mie e di cui non avevo esperienza alcuna, non potevo permettermi di dire qualcosa, perché tutto era già stato detto.

Avevo quindi intenzione di stare ad ascoltare ancora i due adulti, ormai concentrati l’uno sull’altra, ma improvvisamente ad interrompere quella sorta di momento catartico fu il mio cellulare, che suonò per segnalarmi l’arrivo di un messaggio.

L’estrassi subito dalla tasca ed andai ad accertarmi di chi si trattasse, trovandomi di fronte ad un piccolo scritto di Melissa, contenente un invito molto speciale. Talmente tanto speciale che avrei dovuto parlarne con mia madre.

Rimettendo il cellulare in tasca, e smettendo di ascoltare i due adulti, compresi che era giunto il momento per svelare il mio incontro inizialmente casuale con i miei parenti, e parlarne finalmente con lei, d’altronde non avrei potuto nascondere per sempre ciò che mi era capitato, e che poi avevo assecondato.

Non sapevo come avrebbe reagito, ed era proprio quell’incognita a crearmi un vago nodo alla gola, ma ero sicuro che avrei dovuto parlarle a riguardo, ed anche a breve. Non potevo più rimandare.

E, quella volta, mi sarebbe piaciuto non mancare a quell’invito gentile che in sé non aveva tanta importanza, forse per altri, ma che per me valeva già davvero tanto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Buongiorno a tutti, carissimi lettori e carissime lettrici!

Bene, questo capitolo segna una svolta importante nel racconto. In più, abbiamo scoperto tutto ciò che non sapevamo sugli Arriga e la loro strana famiglia…

Spero che tutto sia stato di vostro gradimento, e che il capitolo vi abbia offerto una piacevole lettura, nonostante tutto.

Continuo a ringraziare senza sosta chiunque continua a leggere e a sostenere questo racconto.

Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A presto!

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


Capitolo 36

CAPITOLO 36

 

 

 

 

 

 

‘’Tu non ci andrai.

‘’Mi meraviglio di te, Antonio, ad andarti a impelagare con quella gente lì! Non ne hai avuto a sufficienza di tuo padre?! Guarda come si è comportato nei nostri confronti, quell’infame. Non hai visto la sua prepotenza? E tu ora vuoi correre tra le braccia di quelle persone che sono come lui, hanno il suo stesso sangue… sul volto si mettono una maschera impeccabile, e poi ti accoltellano da dietro!

‘’Ho sbagliato con te, non dovevo permetterti di gironzolare così tanto ultimamente, senza controllare i tuoi spostamenti’’.

Mia madre, dopo che avevo deciso di vuotare il sacco sulla mia casuale scoperta dei miei parenti paterni, era come se fosse diventata pazza, e si stava sfogando con tutta sé stessa.

Io avevo atteso la sera di quel giorno nevoso per parlargliene, quando Roberto era uscito in giardino a fumarsi una sigaretta e ci aveva lasciato momentaneamente soli, prendendo la palla al balzo. La mamma mi stava facendo la paternale, e anche se era rimasta ad ascoltare tutta la vicenda riguardante me e i parenti, fin dagli albori e dal primo contatto, avevo avuto come la netta impressione che non mi stesse affatto credendo.

Lei mi parlava con astio represso per anni, e con un’enfasi tipica della rabbia, ma i suoi occhi mi fulminavano. Non credeva assolutamente che io avessi avuto l’occasione di aver preso contatto con Melissa e i familiari di mio padre in quel modo così innocente e casuale come le avevo spiegato, ma in quegli istanti era follemente convinta che io fossi andato a cercarli, quasi ad elemosinare la loro attenzione.

Il fatto che Melissa, tramite quel messaggio che mi aveva mandato durante il pomeriggio, mi avesse invitato a festeggiare il Natale a casa loro, mi aveva impedito di continuare a tenere nascoste le mie frequentazioni e di raccontare tutto al mio unico genitore rimastomi, prima che essa avesse potuto scoprirlo da sola.

La ragazza, la mia coetanea cugina, mi aveva detto di non aver detto niente sulla mia reale identità con i suoi familiari, però le avrebbe fatto tanto piacere avermi al loro tavolo durante il pranzo di Natale, a cui ormai mancava solo una settimana scarsa, se non avessi avuto altri impegni in famiglia.

Ma la verità era che, me ne stavo accorgendo solo in quel momento, io di famiglie non ne avevo proprio.

Avevo passato ogni Santo Natale in estrema solitudine, pranzando con mia madre, e nonostante lei si sforzasse tanto per prepararmi buoni manicaretti e rivolgermi qualche attenzione in più, dopo la continua assenza che la caratterizzava per tutto l’anno, restava un giorno buio e cupo, nel quale dalle altre case potevo udire la felicità dei miei vicini, che ridevano e passavano assieme quella festività riunendo le loro famiglie sotto lo stesso tetto, e potevo percepire l’amore, o almeno l’apparenza di esso, che si manifestava un po’ dappertutto.

Fintanto che c’erano stati anche i nonni, non c’era stato malaccio, ma da quando io e mia madre eravamo rimasti soli al mondo, tutto era diventato così deprimente da spingermi ad odiare il Natale. Mi chiedevo perché io ero diverso dagli altri, mi domandavo perché nelle altre abitazioni tutti in quel giorno si scambiavano auguri e attenzioni, mentre invece in casa mia regnava una freddezza quasi da obitorio, una noia che durante quel giorno si rendeva evidente talmente tanto da farmi sentire un marziano.

Col passare di qualche annetto, ho poi compreso che ciò accadeva perché in fondo di me e di mia madre non importava davvero a nessuno. Era come se fossimo solo persone in più, solo numeri e una sequenza di lettere, e nient’altro.

Della nostra umana vita non se ne fregava nessuno.

In quegli attimi colmi di acuti ricordi mi venne da provare un pizzico di rabbia profonda, non rivolta verso mia madre, bensì verso Melissa stessa, e quelle oche delle sue cugine. Se a lei e alla sua famiglia fosse importato qualcosa di noi, avrebbe potuto cercarci prima, oppure compiere un qualsiasi passo avanti, e non aspettare che fosse il caso a spianare la strada.

Ero certo che pure a lei non fosse mai importato nulla di me fino al nostro casuale incontro, e che non si fosse neppure mai chiesta se fossi vivo o meno, pur essendo a conoscenza della mia esistenza.

Per una frazione di secondo fui in procinto di afferrare il mio cellulare e di rispondere a quel gentile messaggio con un altro un po’ meno gentile e più freddo e distaccato. Mi sembrava giusto farlo, come se così facendo avessi potuto rivolgere una piccola ripicca a chi di me si era proprio disinteressato da sempre.

Poi, però, rinsavii in fretta, riconoscendo che comunque stavo ragionando da vero egoista. Melissa mi era sempre sembrata una ragazza gentile e a posto con la testa, così come anche il nonno. Mi stavo quindi facendo influenzare troppo dalle parole rancorose di mia madre, e dal ricordo che avevo di mio padre.

La mamma era una donna ferita nell’orgoglio e nell’animo, e come tale stava parlando, senza essere troppo razionale e trasportata solo dalle sue emozioni travolgenti, e mio padre era semplicemente un uomo strano, diverso, e non era di certo la fotocopia di suo padre o delle mie cugine. Io le avevo conosciute, al contrario di mia madre, che stava parlando attaccandosi solo ad alcune sue idee e a pregiudizi infondati, ed ero certo che non fossero assolutamente così come voleva cercare di dipingermele lei.

Sospirando, quindi, riconobbi che quella volta la scelta doveva essere tutta mia. Si trattava di una scelta importante per me, anche se qualcuno estraneo alla vicenda avrebbe potuto crederlo solo marginalmente, ed avrei dovuto decidere con la mia testa e seguendo il mio cuore, punto.

‘’Mamma, stai facendo un gran caos per niente. Ti giuro che quelle ragazze le ho conosciute di persona, così come mio nonno, e non sono come mio padre… riguardo all’invito, deciderò nei prossimi giorni se accettarlo o no’’, dissi a mia madre, dopo aver riflettuto un po’ e cercando di mostrare un briciolo di motivazione.

Ma Maria non aveva alcuna intenzione di credermi; era davvero troppo agitata ed emozionata. Avevo come la vaga sensazione che non si sarebbe mai attesa che quel momento potesse giungere tanto presto, e forse credeva che non sarebbe giunto mai.

‘’Ti rendi conto di come stai parlando? Hai chiamato mio nonno una persona che non si è mai importata di te! Un vecchio balordo che ha coperto il figlio a suo tempo, e che non ti ha mai e poi mai cercato né voluto vedere!

‘’Ma tu accetta questo invito, sono io a questo punto a spingerti ad accettare e ad andare là. Così, finalmente, potrai aprirti gli occhi! Perché quelli non ti hanno invitato per nulla. Quando sarai lì, ne approfitteranno del momento opportuno per svelare la tua identità, dato che mi hai detto che solo una di loro sa, e per darti un calcio nel sedere e sbatterti fuori. Resterai ferito, e quello che accadrà ti segnerà per tutta la vita, ma almeno non potrai dirmi che sono stata io a privarti di un’opportunità così importante per te. Accetta, dai’’, replicò mia madre, quasi sibilando.

‘’Mamma…’’, tentai di dire, troppo scosso dal comportamento anomalo del mio genitore.

‘’Credevo di averti cresciuto nel miglior modo possibile, e che il caso ti avesse preservato dal dolore di avere a che fare con certa gente… ed invece, ecco la scoperta. Vai, vai da loro, dalla tua nuova e ritrovata famiglia’’, sussurrò mia madre molto amaramente, per poi quasi scoppiare a piangere.

Ad un tratto mi fu tutto più chiaro, e compresi un altro motivo che la stava spingendo a comportarsi così; la paura di restare sola.

Lei aveva solo me, poteva contare solo su di me al mondo, non aveva più nessun altro, e il timore che io potessi restare ferito da qualche incontro oppure allontanarmi da lì la spaventava, lasciandola effettivamente e totalmente immersa nella sua solitudine, in quel mondo fatto ormai solo di fantasmi. Fantasmi di un amore adolescenziale che l’aveva portata a perdere i suoi sogni, mandandoli in frantumi, fantasmi dei suoi genitori ormai defunti da anni, eppure ancora in grado di rispecchiarsi nei miseri oggetti che erano posizionati ovunque nella nostra dimora, e fantasmi di ricordi lontani e dalla parvenza felici.

In quel momento compresi appieno mia madre e presi subito la decisione definitiva, in modo rapidissimo.

La mamma mi aveva voluto bene, aveva accantonato i suoi sogni per me, aveva risparmiato sui suoi beni necessari per sfamarmi, si spaccava da quasi vent’anni la schiena per otto ore al giorno solo per me, e il tutto senza sosta. Giustamente, non mi aveva mai chiesto nulla in cambio dei suoi immensi sacrifici, ma capivo che quello era il momento mio di fare un sacrificio per lei. D’altronde, quello forse era solo un mio capriccio.

‘’Mamma, smettila di disperarti e di fare così. Non ci andrò, questa sera scrivo a Melissa per dirle che non mi aspetti, e che ho altri progetti per il Natale’’, replicai, non appena la donna mi diede modo di parlare.

Mi attesi che lei smettesse di disperarsi, e che fosse felice di aver udito quelle mie parole, ma mi resi conto fin da subito che non era così. Infatti, la mamma sembrò rabbuiarsi ancora di più, per poi scuotere la testa con un cenno d’insicuro diniego e darmi le spalle, uscendo nel corridoio e lasciandomi solo.

Mi morsi il labbro inferiore con rabbia, non capendo cosa avessi sbagliato, ma sapevo che tutto, sul momento, pareva sempre più difficile da capire e da comprendere a fondo e con attenzione. I sentimenti dentro di me erano in subbuglio e non potevo venire in contatto con la mia parte più razionale, quindi decisi mestamente di prepararmi una tisana calda e di restare lì in cucina, a rimuginare e a tentare di calmarmi interiormente.

Avevo sempre avuto il timore di fare quella rivelazione, e a quanto pareva non mi ero affatto sbagliato nella previsione.

 

A venire a risvegliare la mia razionalità fu Roberto, come al solito.

Non so il perché, ma pare che quell’uomo sia sincronizzato col mio animo, ed ogni volta che ho avuto bisogno di un sospiro filosofico e ragionevole, lui è sempre comparso quasi all’improvviso, e devo ammettere che ciò accade tutt’ora, e quasi per magia. Forse, da quando l’ho incontrato per la prima volta, è diventato il mio angelo custode.

L’uomo fece il suo ingresso in cucina poco dopo quella sorta di fuga di mia madre, e lì per lì manco avevo capito cosa l’avesse portata a compiere quella scelta invece di continuare a stare con me a parlare decentemente della vicenda, visto che finalmente mi ero deciso a vuotare il sacco.

Roberto si diresse a passi stanchi verso di me, strisciando con forza le mani sui vestiti che sul ventre si erano spiegazzati, per il fatto che poco prima era stato fuori ed aveva indossato quel suo solito giubbotto che pareva andargli un po’ stretto, e si accomodò su una sedia. Io restai impassibile, mentre mettevo sui fornelli un tegamino con un po’ d’acqua.

‘’Ti va un po’ di tè?’’, gli chiesi dopo qualche attimo di silenzio, cortesemente.

L’uomo mi rivolse uno sguardo provato ed annuì, restando sempre in silenzio. Aggiunsi un po’ d’acqua a quella che stavo già scaldando.

‘’E’ dura la verità, eh?’’, m’interpellò all’improvviso, rompendo il silenzio che ci sovrastava. Nel frattempo, l’unico rumore che le mie orecchie potevano udire era proprio quello delle fiamme del fornello del gas, che parevano flagellare l’acciaio del tegamino.

‘’Sì, direi proprio di sì. Ed il bello è che è sempre dura da accettare, in ogni caso…’’, mormorai, continuando a stare sulle mie.

‘’Anche tu sei nei guai con tua madre… per una cosa un po’ futile. Mi dispiace che se la sia presa così, quando ne ha avuto la conferma’’.

‘’La… conferma di cosa?!’’, dissi, risvegliando improvvisamente i miei sensi e non capendo.

‘’Che avevi avuto modo di conoscere e di frequentare la famiglia di tuo padre’’.

Una sola frase, schiacciante e sconvolgente.

‘’Lei… lei non lo sapeva’’, mormorai, sbalordito. Ero frastornato, sul serio.

‘’Un genitore le sa certe cose. Più o meno un mesetto fa le hai chiesto il nome del fratello di tuo padre, ed hai iniziato ad indagare… poi non hai lasciato trapelare più nulla, ed hai cominciato a prendere il treno. Per andare dove, poi? Ma a Bologna, dai tuoi parenti. Su questo, tua madre non aveva dubbi. Però, in cuor suo sperava che non fosse così, che il suo fosse solo una di quelle certezze destinate ad essere sfatate. Ma non avevi altre motivazioni logiche, secondo lei, per andare fin là’’.

‘’Ma tu queste cose come fai a saperle?!’’, dissi, ancora sorpreso da quelle parole.

‘’Maria mi parla spesso di te. Ultimamente capita che ci siamo trovati in casa assieme, tutti soli… e di cosa vuoi che parli, una madre preoccupata? Ma di suo figlio, ovvio’’, mi rispose l’uomo, sorridendomi bonariamente.

‘’Per fortuna non mi avete fatto pedinare. Oppure mia madre ha pagato qualcuno per farlo, ma voglio sperare che non sia giunta a questo punto. Però, devo riconoscere che, in ogni caso, è una brava detective’’, risposi, scrollando la testa. Effettivamente, avevo lasciato dietro di me tanti piccoli indizi, e la mamma li aveva saputi cogliere, confermando la certezza che non fosse affatto una stupida.

‘’Sono brave persone, almeno, o è come sospetta lei?’’, chiese poi Roberto, un po’ titubante.

Era di certo curioso, e questa sua curiosità per un attimo m’infastidì, ma quando mi volsi a guardarlo mi venne quasi da sorridere, riconoscendo che non lo faceva per farsi gli affari miei, ma semplicemente perché era fatto così. Doveva preoccuparsi per tutti quelli che lo circondavano.

‘’Potete stare tranquilli, sono persone a posto, o almeno così mi è parso’’, risposi, con sincerità e dicendo la verità.

‘’Non è solo questione di questo, Antonio… è questione di scelte. Guarda me e tua madre, ora; due adulti frustrati, emarginati dalla realtà e dalla società. Ciò è accaduto in seguito ad alcune nostre scelte, anche se in questo caso molto diverse dalle tue, ma volevo solo sottolinearti, in questo momento, che ogni volta che compirai un passo in questo mondo dovrai stare attento. Non ti consiglio di farti delle fobie, figurati, ma solo di prestare attenzione a tutto e a tutti, quando necessario, e di non comportarti in modo ingenuo o superficiale.

‘’Noi siamo due persone adulte, che vedendo in te un ragazzo così giovane e retto, ma anche così fragile a volte, e desideriamo solo che tu apra gli occhi e che cammini consciamente per la tua strada, stando attento ai sassolini o ai massi che incontrerai. Stai sempre con gli occhi ben aperti’’, disse il mio interlocutore, premurosamente.

Scossi nuovamente il capo.

‘’Non penso di aver commesso così tante scemenze, fino ad ora, per meritarmi una sorta di paternale di questo genere…’’.

‘’No, allora non hai capito. Il mio era solo un consiglio, che sarà per sempre valido, e non solo in questo frangente o a riguardo di ciò che hai già fatto.

‘’Ricorda una cosa; come ti ho detto la sera scorsa, la vita è un gioco, e in virtù di ciò va giocata. Ogni scelta, ogni incontro, ogni giorno, ogni ora è come se fosse una grande, lunga ed avvincente partita, in cui si deve cercare di far bene la propria parte. Ma, come in ogni gioco, non importa solo la bravura e la sicurezza con cui affronti tutto, a volte serve anche un pizzico di fortuna e di raziocinio.

‘’Non esistono vincitori o perdenti, alla fine di tutto, ma l’importante è solo tenersi stretto il magico dono che è la vita stessa, e stare sempre con gli occhi aperti. Anche quelli della mente’’.

E così dicendo, Roberto s’interruppe.

Rivolgendogli un altro sguardo, lo vidi smarrito e sofferente, e molto probabilmente era ancora ferito per poco prima, ed io stesso non riuscivo neppure a ricordare ciò che ci aveva narrato nell’oretta precedente senza avere un brivido di panico. Quella era stata una giornata davvero molto difficile per tutti.

Per fortuna, il tè era pronto. Lo servii con attenzione, ma né io né l’uomo tentammo di intavolare un altro discorso, troppo persi nei nostri pensieri per poter cercare di aggiungere altro a parole.

 

Pranzammo tutti in silenzio, sempre assorti nei nostri pensieri. Pareva che le rivelazioni e gli eventi di quel lungo giorno avessero lasciato un segno indelebile su di noi, rendendoci chiusi e statici in un modo anormale.

Io, da parte mia, non avevo il coraggio di tornare a parlare con la mia provata e scarmigliata madre, che, nonostante tutto, si era impegnata ed aveva cucinato un buon pranzetto, anche se meno elaborato dei precedenti. Roberto, poveretto, non aveva altro da dire, e quindi restammo in risoluto silenzio fino alla fine del pasto, quando l’uomo prontamente si ritirò in camera ed io ne approfittai per svignarmela e per tornare nella mia saletta, da poco riconquistata.

Entrare al suo interno mi faceva un certo effetto; l’aria aveva ancora quello strano odore di chiuso e di viziato che aveva regnato ovunque fintanto che mio padre era restato a casa nostra, e mi pareva che tutto ancora risuonasse delle sue parole, e di quelle di Federico, quando lì dentro mi aveva preso per il collo e mi aveva fatto male, un paio di mesi prima.

Mi sembrava che ancora tutte quelle vicende si stessero svolgendo all’interno di quelle quattro mura, in altre realtà parallele, poiché ciò che stavo ricordando mi riportava alla mente un’infinità di ricordi, tutti spiacevolmente collegati tra loro.

Non mi mossi subito verso il mio pianoforte, impolverato e richiedente di pulizie e di cure, ma mi diressi dapprima verso la poltroncina di mio padre, che da un lato della stanza pareva fissarmi con astio, quasi come se fosse stata felice di ospitare per tante ore sopra di essa quell’uomo losco che non sopportavo. Non so il perché, ma mi avvicinai a quell’oggetto con infinita lentezza, e forse per un attimo fui tentato di sedermi lì, ma non lo feci, ovviamente.

Però, quando stavo per tornare sui miei passi, qualcosa attirò la mia attenzione.

Infatti, a terra e leggermente sporgente da sotto la poltroncina, faceva capolino una parte di un segnalibro. Mi affrettai a recuperarlo, e, con un tuffo al cuore, lo riconobbi; si trattava di quel segnalibro verdognolo che mio padre portava sempre con sé, e che utilizzava per tenere il segno in tutto ciò che leggeva. Riconobbi che doveva essergli scivolato e caduto, e nella fretta notturna di sistemare le sue poche cose doveva averlo dimenticato.

Sfiorai quell’oggetto che il mio genitore aveva tenuto un’infinità di volte tra le sue grandi e forti mani, e che doveva aver vissuto con lui tante avventure letterarie e non, seguendolo anche sul suo posto di lavoro e nei momenti di relax a casa.

Quel segnalibro aveva conosciuto meglio di me mio padre, e per un momento i miei occhi si offuscarono bruscamente. Mi veniva da piangere.

Dio solo era a conoscenza di quanto avrei voluto avere la possibilità di conoscerlo meglio, di stare un po’ con lui, ma solo se si fosse comportato in maniera più decente.

Sembrava che i ricordi brucianti di tutto quello che mi aveva fatto sopportare fossero già infinitamente distanti, quando in realtà lo erano solo di meno di dodici ore. Capii che, in fondo, la mia mente aveva già scelto di voltare pagina, e che tutto era concluso, ma che essa non voleva terminare la vicenda con odio e rancore, ma solo con quel retrogusto amarognolo tipico di quelle vicende finite in modo brusco e non chiaro fino in fondo.

Mi resi conto improvvisamente che io avrei voluto essere quel segnalibro, per poter saggiare le lontane attenzioni di un genitore troppo freddo, troppo sbagliato. Ero geloso di un oggetto.

Avrei voluto distruggerlo, in un primo istante, per farne mille pezzettini da gettare fuori dalla finestra, e da lasciar cadere su quel ghiaccio infame che si estendeva dappertutto, ma alla fine non lo feci. Mi limitai ad osservarne per qualche secondo le piccole pieghe che l’usatissimo pezzettino di cartoncino aveva accumulato, leggendone la sbiadita e piccola frase filosofica che gli era stata impressa sopra anni addietro, di cui tra l’altro alcune parole si erano cancellate, e poi lo piegai e me lo misi in tasca.

Decisi improvvisamente che l’avrei tenuto sempre con me. Sapevo che mio padre non sarebbe mai più tornato a riprenderselo, e che forse non l’avrei neppure più rivisto per anni e anni, ed io me lo sarei tenuto stretto.

Quello sarebbe stato per me una sorta di trofeo, in grado di ricordarmi sempre che anche se il nostro rapporto padre-figlio era andato a rotoli, l’odio non aveva vinto all’ultima battuta. Nonostante tutto, non odiavo nel profondo il mio genitore, anche se ne biasimavo tanti suoi atteggiamenti.

Se lui mi avesse odiato, sarebbe stato lui il perdente della vicenda, senza aver compreso il senso della vita, ma ero certo che dall’alto dei suoi sessant’anni avrebbe compreso, anche se il suo animo era in preda al male.

Con un rapido slancio, andai a spalancare i vetri della finestra, facendo subito entrare tanta aria fredda e pura, per ricambiare quella che, all’interno della stanza, sapeva di ricordi amari. Era cominciata una nuova epoca, mentre mio padre e i nemici Livia e Federico dovevano già essere molto distanti da lì, e quella volta per sempre.

Era tutto finito, alla fine. Tutto era venuto a galla e tutto era stato spiegato e motivato.

Mi appoggiai lentamente sul davanzale della finestra, col vago intento di inspirare una boccata di quella tagliente aria gelida, ma quella volta la mia attenzione fu attirata da una persona che si avvicinava a casa mia, e che si accingeva a suonare il campanello. La conoscevo bene, si trattava proprio di Stefania.

Allibito, mi chiesi se fosse stata lei a proseguire l’incubo a cui ero stato sottoposto negli ultimi mesi, ma guardandola attentamente compresi che no, non sarebbe stata lei. Pareva disperata, mentre con un gesto tremolante si toglieva la sciarpa.

Mia madre l’aprì, e seppur con disappunto, la lasciò entrare, ed udii distintamente i loro passi che si dirigevano verso la cucina, mentre la più giovane delle due rivolgeva parole di scuse e chiedeva solo di essere ascoltata. Maria doveva aver accettato di farlo.

Dopo qualche istante, non resistetti oltre e decisi, con la mia solita e pestifera curiosità, di andare ad ascoltare ciò che aveva da dire la ragazza. Immagino che se qualcuno avesse modo di leggere i miei pensieri, in questo momento, penserebbe di certo che ero stato educato molto male; infatti, ero un portento quando si trattava di cercare di ficcanasare e di origliare di nascosto.

In realtà mi è sempre stato detto di badare agli affari miei, ma a volte pensare solo a quelli mi annoiava assai, e rischiava di mandarmi in cupa paranoia, così finivo sempre a cercare di origliare qualcosina. Però devo riconoscere, a mia discolpa, che tuttavia non facevo nulla di male, e in fondo quelle conversazioni che avevo origliato trattavano pur sempre di vicende che coinvolgevano me, direttamente o indirettamente, proprio come quella volta che mi sto accingendo a rimembrare con attenzione.

Infatti, mi mossi verso la cucina, raggiungendone la prossimità della porta dopo solo quattro passi, e mi misi ad ascoltare la conversazione tra le due donne, che aveva già avuto inizio.

Nessuna delle due, per fortuna, aveva badato al basso tramestio prodotto da me mentre mi avvicinavo mestamente alla porta.

‘’Te l’ho detto, se n’è andato questa notte. Non tornerà mai più qui, e se vorrai cercarlo potrai trovarlo nell’abitazione dove viveva prima di tornare a piombare in questa casa. Penso proprio che sia tornato al suo covo, ne sono quasi certa’’.

Mia madre si stava di certo riferendo a mio padre.

‘’E’ inutile che io continui a cercare di elemosinare da lui, non mi darà mai nulla. Non vuole questo bambino e pensa solo a volermi costringere a fare ciò che mi ordina, ma non sarà così. So che può sembrare maleducato e sfacciato il fatto che io sia venuta a piangere e a chiedere conforto in questa casa, dove vive la sua legittima moglie e il suo primo figlio, ma davvero, io non so più come fare!

‘’Maria, la prego di capirmi. Sono giovanissima ed inesperta, e non ho la più pallida idea di come rivolgermi a qualcuno che possa aiutarmi. I miei genitori, dopo aver scoperto tutta la vicenda, siccome non potevo nasconderla più se volevo ricevere un sostegno completo, non mi vogliono più vedere e mi hanno praticamente sbattuto fuori dalla loro casa. Pensano che io abbia spillato finora dei soldi a loro solo per venire a fare ciò che più mi pareva a Bologna, e a fare la poco di buono con un vecchio pervertito… io sono disperata!

‘’Un’amica non ce l’ho, i soldi da pagare l’affitto del prossimo mese non li ho, un lavoretto non lo si trova manco a inventarselo, l’università va malissimo ed ormai mi ritrovo solo a rimandare gli esami… e il frigorifero dell’appartamento contiene viveri solo per meno di altri quattro giorni. Ma tanto, tra meno di una settimana sarò sfrattata.

‘’A questo punto, non ho una soluzione! O abortisco, dato che sono ancora in tempo, e corro tra le braccia di chi mi ha messo anche le mani addosso, o mi ammazzo. Ma non ucciderò mai la mia creatura, sono disposta solo a morire assieme ad essa, per scappare da questo mondo schifoso’’.

Ero allibito. Ancora quelle parole, in casa mia.

Stefania era scoppiata in un pianto violento, sincero e profondamente disperato, e stavo per mettermi a piangere anch’io. Il suo discorso effettivamente era stato veementemente fortissimo, e d’altro canto se mi fossi trovato io nella sua situazione non avrei proprio saputo che fare.

‘’Io non voglio sentirli mai più questi discorsi, Stefania. Hai ventitré anni se non ricordo male, e non si può parlare così alla tua età’’, disse mia madre, dopo essere stata in silenzio per un po’ di tempo e in modo serio.

La mia amata mamma aveva assolutamente ragione; la sua interlocutrice era una ragazza ormai adulta ma ancora molto giovane, con un’intera vita davanti, ed era una persona onesta che si era comportata in modo un po’ disattento, ma che voleva bene al frutto di quel suo amore non ricambiato.

Un brivido mi trafiggeva dalla testa ai piedi se pensavo che quella creatura minuscola e in formazione era il mio fratellastro, sangue del mio sangue, e per un certo verso non potevo sopportare l’idea che quella vita innocente fosse spazzata via a causa delle stesse persone che l’avevano concepita. Dall’altro però non potevo farci nulla, davvero nulla.

‘’Chiedo scusa se sono venuta qui, per l’ennesima volta, a frignare come una bambina. Non tornerò mai più ad assillarla, e nel frattempo la ringrazio per non avermi cacciata…’’.

Senza concludere la frase, e con imbarazzo, la ragazza si mosse dalla sedia e fece per spostarla ed alzarsi. Però, a bloccarla probabilmente fu mia madre. Anzi, sono certo che fu così.

‘’A me dispiace tantissimo per te. Hai fatto bene a venire qui. Sai quante storie simili alla tua ho avuto modo di conoscere? Tante. Anche la mia lo è. Sergio è un mostro… ma non devi più preoccuparti, perché mi sembri sincera e questa volta ho deciso di aiutarti, basta che tu non me ne faccia pentire di averlo fatto. Ma sono certa che non lo farai’’.

Ero tutt’orecchie. Mi pareva incredibile di aver sentito quelle parole così premurosamente e cortesemente pronunciate. Anche Stefania era rimasta ammutolita, mentre io mi comprimevo ancor di più contro al muro. La porta della cucina era aperta e non avevo difficoltà ad ascoltare tutto, tuttavia avevo il timore di essere scoperto e di interrompere così un momento molto importante per la nostra ospite.

‘’Ho una stanza libera, in questa casa. I miei inquilini se ne sono andati oggi, e non ne troverò di certo fino all’estate prossima. Sono disposta ad ospitarti, quindi, e a darti vitto e alloggio fintanto che le cose non andranno meglio, e miglioreranno, fidati. Nel frattempo, avrai un tetto sicuro sulla testa’’.

‘’Signora! Signora! Lei sta scherzando… io non ho…’’.

‘’Non hai bisogno di nulla. Prima di essere sfrattata, porta qui le tue cose, ma non farlo prima di due giorni, perché quel maiale dell’inquilino che ha usufruito della stanza prima di te ha lasciato tutto a soqquadro, e dovrò risistemare l’ambiente… e non preoccuparti di altro, né di soldi né di disturbo, né di vitto né d’alloggio’’.

‘’Io… io non voglio essere in debito… non so quando potrò risarcire… temo di disturbare…’’.

Stefania era sorpresa ed emozionata quanto me, in quel momento. Giuro che pure io ero commosso di fronte alla bontà e alla generosità della mia mamma.

‘’Non devi preoccuparti assolutamente di nulla, te l’ho appena detto, al massimo se proprio ci tieni ne riparleremo in futuro. Ma nell’immediato mi farebbe piacere darti una mano, e spero che tu accetti questo aiuto che ti porgo proprio con tutto il mio cuore. Voglio davvero aiutarti.

‘’Inoltre, in seguito potremmo anche provare a rivolgerci a qualche avvocato, assieme, e tentare di trovare una qualche soluzione a riguardo di Sergio… io, fino ad ora, non l’ho mai fatto. Ma tu attendi un figlio suo e lui deve prendersi le sue responsabilità; non certo di starti accanto, ma almeno di versarti mensilmente un mantenimento. Non sono un’esperta in vicende legali, ma penso che questa sia la scelta giusta… e poi, vorrei anche cercare di ricontattarlo in qualche modo lecito e legale, senza che sia lui poi a denunciarmi per qualcosa di assurdo, perché penso sia giunta l’ora di divorziare e di lasciarmi finalmente libera…’’.

Avevo sentito abbastanza. Il mio cuore martellava dentro al mio petto, e la dolcezza che stava mostrando mia madre era davvero talmente tanto zuccherosa e calda da far sciogliere ogni mio sentimento.

Dovetti quindi tornare nella mia saletta, silenziosamente, per lasciarmi andare ad un pianto liberatore, ma quella volta assolutamente privo di dolore. Nonostante tutto quello che avevamo passato, mia madre si era dimostrata una donna con la testa sulle spalle e lodevole, e in quel momento di bisogno non si era mai piegata, anzi, cercava soluzioni. Anche lei era maturata un po’ dopo quell’ennesima e lunga serie di disavventure familiari, e mi ero finalmente ritrovato a fianco una persona rinata dalle sue ceneri.

Mamma Maria doveva essere un esempio per me, e la mia gioia di avere una madre così era infinita. La vicenda riguardante Melissa e i parenti era già praticamente dimenticata.

Mentre continuavo a piangere, ringraziavo il Cielo per avermi fatto il dono di avermi fatto nascere da una donna così, e la prova di quel giorno era la dimostrazione che avevo un genitore speciale. Almeno uno dei due lo era, ed immensamente.

 

Quella sera, mentre ero a letto, mia madre entrò nella mia stanza.

Il fascio di luce che colpì il mio volto, proveniente dal corridoio, risvegliò subito i miei sensi, ma lasciai che fosse il mio genitore a fare il suo primo passo avanti.

Ero un po’ stupito, poiché la mamma non si era mai comportata così, e immaginai che avesse qualcosa d’importante da dirmi. Infatti, socchiuse leggermente la porta e si avvicinò al mio letto.

‘’Sei sveglio?’’, sussurrò, mentre si sedeva delicatamente sul bordo del mio giaciglio.

‘’Sì’’, le risposi, nonostante tutto.

‘’Volevo chiederti scusa per come mi sono comportata questa mattina. Tu ormai sei grande ed hai il diritto di scegliere di fare ciò che vuoi. Ad aver parlato è stata la mia materna gelosia, e la paura di vederti ferito, ma se tu che hai conosciuto quelle persone mi dici che non hai nulla da temere, e neppure io, sarò dalla tua parte’’, cominciò a dirmi, sempre a bassa voce.

‘’Capisco’’.

‘’Non voglio che tu diventi un adulto frustrato come lo sono io. Voglio solo il meglio per te, e vorrei proteggerti da ogni urto della vita, ma non posso, non voglio e non devo impedirti di fare le tue esperienze, giustamente. Quindi, davvero, te lo dico col cuore in mano; se tu te la senti, e se lo vuoi, accetta quell’invito. Vacci’’.

Mia madre parlava con sincerità, e in quel momento non era più arrabbiata. La sua voce bassissima e melodica quasi mi cullava.

‘’Non voglio lasciarti sola, mamma. Avevo capito fin dall’inizio le tue intenzioni e perché mi parlavi in quel modo, ma poi mi sono anche reso conto che, durante una festività speciale come il Natale, io ti avrei lasciato sola. Tu non l’hai mai fatto con me, e non vedo perché dovrei farlo io, soprattutto in favore di persone che non hanno nemmeno mai considerato la mia esistenza fino a qualche settimana fa…’’.

‘’Non preoccuparti per me, io non sarò mai sola. Ho sempre il tuo affetto di figlio, a camminare a mio fianco’’, m’interruppe, sorridendomi nella semioscurità.

‘’Va bene mamma, domattina dirò a Melissa che andrò da lei, allora. Però, un po’ mi sento in colpa’’, ammisi.

‘’Non farlo assolutamente, hai tutto il mio sostegno. E ricorda che, anche se delle volte ti sgrido, oppure litighiamo, io non potrei mai volerti male… sei mio figlio ed io ti sarò accanto per sempre. Anche quando avrai cinquanta o sessant’anni, resterai per sempre il mio bambino, e non farò mai nulla contro di te o per impedirti qualcosa con cattiveria’’, aggiunse mia madre, sempre dolcemente.

Non riuscii a rispondere a quelle parole, ed ammetto che ero parecchio emozionato. Preferii quindi starmene in silenzio ad ascoltare.

‘’Bene, discorso chiuso allora. Però, avrei da dirti un'altra cosa…’’, aggiunse la mamma, notando il mio mutismo.

‘’Spara’’.

Immaginai mia madre leggermente divertita, dopo il mio invito molto giovanile ed informale a proseguire.

‘’Ecco… è difficile da spiegare. Oggi pomeriggio, si è presentata alla nostra porta Stefania, la ragazza… quella che è stata la ragazza di tuo padre. Era disperata, mi ha raccontato tante cose molto forti… ed ho deciso di darle ospitalità, poiché dopo che ha litigato con i genitori si trova in grandi difficoltà.

‘’Avevo pensato di metterle a disposizione la stanza lasciata vuota da Federico, dopo che avrò finito di risistemarla per bene. Questa mia scelta… ti disturba?’’, tornò ad interloquirmi, con titubanza. Non mi aveva spiegato la storia nei minimi dettagli, però io la conoscevo ugualmente.

Sorrisi nel buio e mi affrettai a rassicurarla.

‘’No, assolutamente no. E grazie…’’.

‘’Di cosa?’’.

‘’Per la tua umanità. Non è da tutti non essere gelosi come lo sei tu, d’altronde quella è una ragazza che in grembo porta il frutto di tuo marito…’’, dissi, questa volta titubando io, senza sapere come esprimermi per bene.

‘’Non preoccuparti neppure di questo. Sergio non è mio marito e non lo è mai realmente stato, e figurati se io sono gelosa di quella ragazza e del piccolo innocente che porta dentro di sé.

‘’Sergio è stato la mia prima sorta di amore, e l’uomo con cui ho concepito il dono più bello che la vita avesse mai potuto darmi, ovvero un ragazzo sensibile, di buon cuore, sempre gentile. Ma con lui io non ho davvero più nulla da spartire! È solo un estraneo qualsiasi, per il mio cuore’’, aggiunse Maria, quasi facendomi imbarazzare con quelle parole.

La mia mamma di certo mi voleva molto bene, ed io ne volevo molto a lei.

‘’Non c’è nessun problema, mamma. Ora però vorrei dormire… sono stanchissimo’’, le dissi ad un certo punto, cercando di mettere fine a quella serena discussione. Avevo trovato quel dibattito così idilliaco che avevo paura anche solo al pensiero di doverlo continuare, correndo così il rischio di pronunciare qualche parola fuori posto e di fare incrinare tutto quanto.

‘’Certo. Buonanotte, allora’’.

E dopo avermi sfiorato una mano con la sua, caldissima tra l’altro, la donna se ne andò mestamente così come si era presentata.

Ed io, rimasto solo e immerso nel buio completo, non potei far altro che socchiudere le palpebre e sospirare, cercando di addormentarmi mentre mettevo in ordine i miei pensieri e gli eventi di quell’ennesima giornata dalla parvenza infinita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno a tutti, e grazie per continuare a seguire questo racconto.

Sono molto affezionato a questo capitolo, e spero che vi sia piaciuto.

Continuo a ringraziare tantissimo tutti i gentilissimi recensori!

Grazie di cuore a tutti e per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 ***


Capitolo 37

CAPITOLO 37

 

 

 

 

 

 

I giorni che mi separavano dal Natale passarono in fretta.

Roberto aveva scelto di fermarsi ancora un po’, senza alcuna voglia di tornare in pieno inverno nella sua abitazione in campagna, che necessitava pure di qualche ristrutturazione a suo dire, e mia madre era sempre con lui. L’arrivo delle festività era stata una manna per la mia povera mamma, gran lavoratrice, che aveva bisogno di riposare un po’, e per fortuna il calendario le offriva qualche giorno davvero libero, finalmente.

I due adulti parevano andare molto d’accordo, sempre di più, talmente tanto da spingermi a pensare che effettivamente sembravano due migliori amici, inseparabili com’erano diventati. Gli eventi drammatici dell’ultimo mese li avevano avvicinati molto, tantissimo.

Nonostante che tra loro esistesse già un dialogo informale, i due avevano ormai imparato a chiacchierare del più e del meno, cosa che prima accadeva di rado, parlando solo tramite classiche frasi sempre simili, e la mamma pareva aver ricominciato a sorridere, dopo qualche giorno buio in cui mi ero preoccupato seriamente per lei. Ero felice che avesse trovato nel suo quasi coetaneo Roberto un buon amico, anche perché lui, con le sue parole, sapeva farla riflettere e sorridere allo stesso tempo. Era una brava persona, e l’ammiravo molto.

A dirla tutta, quel giorno avevo scelto di prendere l’unico treno diretto da Melissa a cuor leggero, poiché avevo lasciato il mio genitore buono e corretto con quell’uomo così cortese e caloroso, e che assieme si stavano divertendo a preparare un pranzo di Natale, che logicamente sarebbe stato poi consumato da loro due stessi. Non avevano nessun altro a quel mondo, e per fortuna stavano bene insieme.

Stefania si era poi traferita da noi, momentaneamente aveva specificato, ma non ci credevamo poi più di tanto. Tuttavia la ragazza era sempre rimasta sulle sue, comportandosi correttamente e con grande discretezza, sempre silenziosa e amabilmente pacata. Avevo avuto modo di conoscerla meglio e mi stava simpatica, era sempre dolce e sorridente in ogni momento della giornata, nonostante tutto.

La nostra convivenza era estremamente pacifica, e nessuna tensione regnava più tra le nostre mura domestiche. Il nemico pareva davvero sconfitto per sempre su tutti i fronti, e definitivamente allontanato.

Anche se noi quattro eravamo così diversi, non c’era voluto molto a comprendere che non avremmo mai potuto litigare o discutere per nessun motivo. Anzi, in quel momento ero leggermente sovrappensiero, poiché pensavo sempre a Stefania, che in quel santo giorno avrebbe ritentato di mettere in piedi il rapporto con la sua famiglia e i suoi genitori. Speravo davvero per lei che tutto potesse andare per il verso giusto, come meritava.

Non era una giovane cattiva, oppure desiderosa di soldi, potere o vecchi da spennare, ma era soltanto un po’ superficiale e distratta, a volte, e dall’animo puro ed innocente, a tratti simile al mio per quanto riguardava l’ingenuità. Mi ero già affezionato a lei e ai suoi sorridenti silenzi, mai troppo cupi per fortuna, e a quella piccola vita che cresceva ogni giorno nel suo grembo, mia consanguinea.

Ero quindi riuscito a trovare una parvenza di pace e di tranquillità, e il mio caro Giacomo era sempre presente, con la sua simpatia, un po’ come lo era naturalmente anche Jasmine, ma con lei era tutto un altro discorso, decisamente più profondo.

Quella ragazza stava cominciando a dar sfoggio del suo calore e della sua bontà, in modo più aperto rispetto all’inizio della nostra relazione, ed io l’amavo sempre più e tutto andava a gonfie vele tra noi.

Quella stessa sera, tra l’altro, l’avrei rivista, poiché mi aveva invitato a cena da lei, assieme ai suoi genitori. Era l’ennesima occasione per conoscere meglio la sua famiglia, un’occasione che non volevo farmi sfuggire per nessun motivo, ed infatti prevedevo di prendere l’ultimo e unico treno delle diciotto per tornare a casa, ed essere da lei entro le diciannove e trenta.

Per quanto riguardava la mia trasferta da Melissa, non ero turbato per nulla; ero certo che la ragazza non avesse in alcun modo parlato di me e del mio grado di parentela con i suoi e miei parenti, e che se ne fosse stata zitta, come promesso. Avrei trascorso un mezzogiorno assieme a loro ed avrei avuto modo di passare un po’ di tempo in loro compagnia, cosa che non mi era mai capitata in modo così diretto e coinvolgente, ed avrei potuto farmi una precisa idea su tutto e su tutti.

Ma sarei sempre stato un semplice amico, un terzo soggetto che, da fuori delle dinamiche familiari, osservava attentamente ogni cosa ed ogni comportamento. Non sarei stato nulla di più, e ciò mi dava un senso di beatitudine e una sensazione di dolore allo stesso tempo.

Avrei tanto voluto avere il coraggio di presentarmi a loro per quello che ero e per chi realmente ero, ma sapevo che rischiavo di passare per un pazzo che li aveva seguiti in incognito mentendo anche sulla mia reale identità, per poi svelarla in un momento in cui il mio ipotetico subdolo piano avrebbe dovuto cominciare a prendere piede.

Avrei rischiato di passare per approfittatore, o di essere allontanato, ma di certo sarei stato frainteso, assieme alle mie probabili intenzioni, che in realtà non c’erano, se non semplicemente avere un contatto con loro, anche a distanza. Nessuno avrebbe mai creduto nella casualità dell’evento, un po’ come aveva fatto inizialmente mia madre.

Restavo, ripeto, tuttavia tranquillo, e credevo fermamente nella mia copertura e sulla buona fede di Melissa, che in fondo era sempre stata molto corretta con me e nel rispettare le mie volontà.

Quando scesi dal treno, me la ritrovai di fronte tutta sorridente, e ci scambiammo un abbraccio d’impeto, chiamandoci per la prima volta cugini.

 

Non credo che Melissa avesse realmente provato qualcosa per me. Sono più propenso a credere che essa l’avesse scambiato con quella primordiale curiosità che pure io avevo provato per lei la prima volta che l’ho incontrata, pensando ingenuamente che fosse amore.

Ah, la mia cugina appariva davvero ancora molto inesperta, a riguardo delle vicende amorose, forse ed addirittura molto più di me, che nonostante tutto ci stavo provando con Jasmine. Lei, invece, non aveva nessuno ed era single.

Mentre mi stava portando a casa sua, guidando la sua auto, mi dedicò qualche sporadico sorriso e qualche parola cortese, niente di più sciolto. Pareva tesa, e questo mi dava nell’occhio e rischiava di strapparmi di dosso quel velo di tranquillità che avevo scelto d’indossare quella mattina.

Mi voleva bene, ne ero certo, ma pareva non proprio a suo agio.

‘’Allora, cugino… che mi racconti di bello?’’, mi chiese dopo un po’, titubante a parole ma un po’ più sicura nella guida.

Scrollai istintivamente le spalle.

‘’Ah, guarda… ne sono successe un bel po’… se vuoi ti racconto qualcosa’’.

‘’Certo. Manca ancora un po’ prima di giungere a destinazione, quindi raccontami pure ciò che ti è accaduto. Spero che quel pazzo che ti tormentava abbia smesso di farlo’’.

Così dicendo, la mia cugina coglieva la palla al balzo per far parlare me.

Non mi scomposi, né mi mostrai ulteriormente inquieto, tanto non avevo nulla da nascondere e neppure da temere, almeno speravo in quest’ultimo caso, e le narrai tutto ciò che ancora non sapeva su di me e sulle mie recenti esperienze. Aveva avuto modo di conoscerle quasi nella loro totalità dopo la visita a casa mia, circa due settimane prima, ma le mancavano da ascoltare solo gli ultimi sviluppi di quelle varie vicende.

A furia di narrare ad altri le mie vicende personali, non mi sorprende il fatto che tutti i punti più salienti di esse mi siano rimaste impresse in modo così vivido e reale, quasi tangibile ancora adesso. Insomma, per tutto il resto del breve viaggio fui io a parlare, e finii proprio quando Melissa cominciò a percorrere il vialetto che l’avrebbe portata di fronte a casa sua.

Lei si limitò ad annuire e a sorridermi, come a volermi dare la prova concreta che mi aveva ascoltato attentamente anche se non aveva mai fiatato, e cominciò a fare le sue solite piccole manovre per parcheggiare la macchina sullo spazio coperto da una sorta di porticato, dal nudo suolo ricoperto da uno spesso strato di bianco ghiaino, il tutto ben dedito ad ospitare al meglio un buon numero di macchine.

Tra l’altro, mi sorpresi nello scorgere una bella Lamborghini parcheggiata anch’essa lì, a pochi passi dalla misera macchina di Melissa, e mi venne da sorridere pensando a quanta fiducia potevano riporre in lei i suoi genitori, dato che loro viaggiavano solo su auto fantasticamente costose e alla figlia avevano riservato un’utilitaria qualsiasi, comunissima.

Tuttavia, era vero che per i primi tempi di guida andava benissimo anche quella, siccome non riuscivo neppure ad immaginare mia cugina alle prese con un’altra macchina, magari più voluminosa ed accessoriata.

Quando scesi dall’auto, una volta uscito da quel porticato-tettoia, mi ritrovai immerso nel freddo sole invernale, che era riuscito misteriosamente a far capolino dal bel mezzo della classica nebbia padana, padrona indiscussa dell’autunno e dell’inverno della mia zona. Sembrava che, per quel Santo giorno, il nostro amato astro volesse farci anche lui i suoi migliori auguri.

Io e Melissa non scambiammo più neppure una parola, da quel momento in poi. Lei mi sorrideva e m’invitava tacitamente a seguirla, ed io le andavo dietro a ruota, da bravo ospite, e appena potemmo entrammo in casa, mentre mi sentivo sempre più a disagio.

Se il grande giardino del villone era totalmente spoglio, come sempre, e poteva apparire lo stesso che avevo visto durante la mia prima visita, l’interno della vasta dimora era adibita a festa; ovunque, i festoni regnavano sovrani, soprattutto lungo le scale, mentre un bell’abete di una notevole dimensione e ben agghindato pareva voler dare il suo benvenuto ad ogni ospite in entrata, vista la posizione centrale in cui era stato posizionato.

Il mio cuore cominciò ad accelerare i battiti, ed io per qualche istante credetti di svenire.

La grande porta d’ingresso si richiuse dietro di me, lasciandomi avvolto da un potentissimo profumo di cibarie, dalla luminosità prodotta dalle varie lucine che parevano lampeggiare dappertutto, dai bagliori festosi prodotti da ogni oggetto agghindante e natalizio e da un piacevole chiacchiericcio di sottofondo, davvero tranquillo.

Però, nonostante la parvenza calma che regnava ovunque in quell’ambiente che non avevo mai scorto in quel modo, il mio animo prese a non darmi tregua, e pure quel barlume di tranquillità che da quella mattina aveva vissuto dentro di me parve sparire. Scoprii che essa si era quindi rivelata effimera, e cominciai a sudare freddo.

Ero una persona timidissima, e non sapendo cosa mi avrebbe aspettato di lì a poco, ero diventato improvvisamente tesissimo e faticavo pure a deglutire o a respirare normalmente.

Per una frazione di secondo, pensai che forse avrei fatto meglio se me ne fossi stato a casa, con mia madre e Roberto, invece che recarmi ad assecondare quella sorta di trasferta.

Tutti i peggiori pensieri cominciarono a frullare vorticosamente per la mia mente, spaventandomi ad un tratto, e non permettendomi più di ragionare. Melissa parve non notare nessun cambiamento in me, ma ero sicuro di aver perso anche l’ultimo barlume di sorriso, assumendo un’espressione tesa. Lei fu gentile a non farmi notare nulla, ma ero certo di stare sfoggiando un volto dall’espressione incredibilmente tirata, forse persino considerabile ridicola, da alcuni. Ma lei, la mia speciale cugina, forse mi comprendeva davvero fino in fondo.

Passando da fianco al grande alberello di Natale tutto agghindato, dato che la padrona di casa non mi aveva condotto subito al piano superiore dell’abitazione come aveva fatto tutte le altre volte precedenti, notai con stupore un calzino nero e sgualcito che pendeva da un ramo. Per una frazione di secondo, tutta la mia attenzione fu incentrata su quell’oggetto, che fortunatamente me la distolse un attimo dai miei intimiditi e timorosi pensieri.

‘’E’ stata Giorgia… l’ha già messa lì in previsione dell’Epifania. In attesa della befana, insomma. Sai che le cugine a volte sanno essere strane, anche senza bisogno d’impegnarsi troppo’’, sogghignò Melissa, notando l’attimo in cui i miei occhi avevano indugiato su quell’oggetto logorato e decisamente fuori posto, al momento.

Scossi leggermente la testa, col vago intento di farle tacitamente intuire che avevo compreso, e mi limitai a continuare a seguirla, fintanto che, dopo a malapena altri sette o otto passi, ci trovammo direttamente ad entrare in un bel salone, sempre in stile ottocentesco.

Il fiato mi si mozzò all’improvviso, e dei momenti immediatamente successivi ho solo un ricordo molto confuso.

 

Piatti, posate, cibo che veniva servito.

Un discreto rumorio prodotto da parecchie persone che chiacchieravano animatamente, ma sempre in modo educato e rilassato, ed io stretto tra Melissa e Francesca, una delle mie cugine più piccole, solo a tratti interessata a me. Tutti, però, di tanto in tanto mi fissavano.

Il pranzo era cominciato poco dopo al mio arrivo, ritenuto puntualissimo; nessuno dei presenti, che tra l’altro in un primo momento non conoscevo, mi aveva posto domande. Si erano limitati a salutarmi cortesemente, e a lanciarmi qualche profonda ed attenta occhiata.

Al tavolo avevo avuto modo di fare una rapida conoscenza con i miei zii, che mi erano stati presentati da Melissa; in realtà, li avevo già visti la prima volta che avevo suonato il pianoforte in quella casa, durante la mia primissima visita, ma non ero riuscito a studiarmeli per bene. Quella volta sì, però.

Lo zio Piero, padre di Melissa, era un uomo discretamente simile a mio padre, più nell’aspetto che nel modo di fare. Appariva infatti pacato un po’ con tutto, anche se manteneva una parvenza sempre molto formale. Non doveva essere un pessimo genitore, o un uomo simile al fratello maggiore.

Sua moglie era invece una donnina timidissima, quieta, sempre silenziosa, di quelle che ti aspetti che siano sempre succubi del marito, ed invece al contrario di ciò i suoi occhi emanavano lampi di vita e di resistenza. Non riuscii a capirla fino in fondo durante quel breve contatto, però mi sembrava addirittura più chiusa dalla figlia, più rassomigliante ai componenti della famiglia Giacomelli, ma non una donna sempliciotta o succube.

Lo zio Ludovico invece, padre delle altre quattro cugine, spiccava nella tavolata, sia per via di una capigliatura parecchio scompigliata e mossa, lasciata leggermente allungare, sia grazie alla sua continua voglia di far battute sciocche o di sottolineare qualcosa che potesse far ridere i commensali. A lui non mi ero avvicinato, era troppo sciolto per i miei gusti.

Ebbi quindi modo di comprendere da chi avevano preso le quattro ragazze, figlie tra l’altro di una donna piuttosto robusta ed anch’essa dall’aspetto più frivolo della madre di Melissa, quest’ultima decisamente più composta della cognata.

Ogni tanto, quando il figlio più piccolo alzava un po’ troppo il gomito, il nonno gli lanciava un’occhiataccia fredda, di quelle in grado di mettere a tacere chiunque, e allora Ludovico si quietava per un attimo. Ma tra lui, sua moglie e le sue figlie, pareva che dovessero ribaltare la casa solo col loro baccano.

Il nonno era seduto a capotavola, e da lì osservava silenziosamente tutti quanti. Mai lo vidi proferire più di un paio di parole e per di più sottovoce, ed i suoi occhi si muovevano implacabili su di tutti.

Prima del pasto, aveva effettuato una piccola preghiera di ringraziamento, e poi aveva preferito restare a guardare e a mangiare a tratti, senza interagire direttamente quasi con nessuno.

Oltre a me, ai miei zii, a mio nonno e alle mie cugine, si erano recati a pranzare lì anche qualche amico stretto di famiglia, tutti più che altro avanti con l’età, e qualche vicino, ma erano stati posizionati tutti marginalmente, verso il fondo della tavolata. Io, invece, ero a stretto contatto con quella parentela che sì mi guardava, ma che credevo non sapesse neppure chi fossi.

Pensavo che tutti avessero frainteso, e poiché Melissa mi aveva superficialmente presentato come un amico carissimo essi pensassero che fossi il suo fidanzato o chissà chi altro. Mi sentivo infatti osservato continuamente, anche se i presenti parevano concentrati sempre su altro.

Non potei non notare chiaramente tutto ciò che accumunava mio padre a quella gente; lo zio Ludovico appariva a volte un gran cialtrone ciarlone, così come il mio genitore si faceva lagnone ed insopportabile, lo zio Piero aveva il suo stesso sguardo austero, così come lo aveva il nonno, le mie cugine erano una sintesi dei comportamenti dei loro genitori e di quelli generali dei Giacomelli, e Melissa si assomigliava fisicamente al ramo paterno della famiglia, ma anche a me, mostrando quel comportamento timidamente riservato che è stato tipicamente mio.

Io mangiai pochissimo, tenni spesso la testa abbassata sul mio piatto e partecipai a malapena ad una conversazione con la mia cugina più grande, tra l’altro non più lunga di tre semplici frasi.

Durante i primi venti minuti del pranzo la mia povera testa era in tilt, e la mia timidezza mi impediva di sfoggiare qualcosa che non fosse il mio solito sorrisetto forzato e tirato, ma poi per fortuna riuscii a rilassarmi un po’ di più e a comportarmi in modo più sciolto e meno visibilmente impacciato, in mezzo a tutte quelle persone che in fondo erano puri e meri sconosciuti. Tuttavia, non entrai mai realmente in partita, come avrebbe potuto sancire un qualsiasi commentatore calcistico.

Almeno, fino ad un certo punto.

Il pranzo parve volersi concludere in fretta, con l’apertura e la distribuzione di classici dolci natalizi, perlopiù pandori e panettoni, e mentre gli adulti brindavano e le ragazze si scattavano foto da postare sui social, io me ne rimasi sempre più in disparte.

Solo a quel punto compresi che, fino a quel momento, io mi ero sentito stranamente in più, e non riuscivo a capacitarmi del motivo ben preciso per cui Melissa mi avesse invitato a quel pranzo tanto importante e da trascorrere in famiglia. Certo, io in fondo ero un loro famigliare, ma mi sentivo troppo freddamente distante dalla loro dimostrazione di unità e di gioiosità, oltre che dai loro sfarzi, avendo assunto un paio di cuoche in più per l’occasione e mostrando anche la bellezza di sei inservienti, sempre pronti a precipitarsi su chiunque avesse desiderato una seconda porzione di qualcosa e logicamente soddisfare ogni esigenza a tavola.

Il senso di disagio sorse quindi con nuovo impeto nel finale del pasto, dove non riuscii più ad ingerire nulla e lasciai che il mio sguardo girovagasse distrattamente ovunque, senza più badare a nulla. Volevo solo tornarmene a casa mia, non so il perché.

Però, poi, qualcosa improvvisamente cambiò, e quello statico equilibrio che fino a quel momento aveva caratterizzato quella mia partecipazione alla festività s’interruppe. Mia cugina Melissa, infatti, tutt’a un tratto mi posò una mano sulla spalla, facendomi quasi sobbalzare.

‘’Antonio, potresti venire un attimo con me?’’, mi chiese, ma sempre in un modo un po’ troppo rigido.

Naturalmente acconsentii a seguirla, e lei si diresse prontamente fuori dal salone.

‘’Seguimi al piano superiore, per favore’’, tornò a dirmi la ragazza, mentre mi precedeva e di tanto in tanto si volgeva indietro a lanciarmi un tremolante sorriso che doveva avere la funzione di rassicurarmi.

Continuavo a notare un certo disagio in lei, ed esso crebbe leggermente anche dentro di me, non comprendendo perché fossi stato richiamato fuori e mia cugina mi stesse portando verso il piano superiore, tra l’altro molto silenzioso.

Dal salone vicino continuava a provenire il soffuso schiamazzo che fino a pochi istanti prima mi aveva circondato ed oppresso, ogni passo più lontano da me. Quando cominciammo a percorrere la bella scalinata interna addobbata, provai nuovamente un po’ d’ansia, non riuscendo proprio a capire il motivo di quella sequenza di scelte della mia cugina ed amica, ma ormai mi sentivo come spossato, stanco come se anche le mie emozioni nelle scorse due ore avessero già dato il meglio di loro, restando presenti ma solo di sottofondo, senza più forze.

Una vaga inquietudine mi pervase fino al piano superiore, per poi quasi scomparire non appena Melissa accennò a farmi entrare nella grande stanza dov’era riposto il pianoforte.

Pensando che volesse farmi suonare di nuovo, mi tranquillizzai per una frazione di secondo, fintanto che non feci capolino dentro la camera. E allora sussultai, poiché mi trovai di fronte non solo al pianoforte che tanto apprezzavo, ma anche a mio nonno, che era seduto di fronte ad esso. Non mi ero neppure accorto che si fosse eclissato dai festeggiamenti e dal pranzo dal tanto che era stato taciturno e silenzioso, immerso nella baldoria, e non seppi cosa pensare in quel delicato momento.

Capii lestamente che sia lui che Melissa dovevano essersi accordati, per farmi quel genere di sorpresa.

Non sapendo che altro pensare, tentennai un attimo sulla soglia, mentre la mia cugina si faceva silenziosamente da parte, come se lei avesse concluso la sua missione, e il vecchio mi rivolgeva un’occhiata pesante e penetrante.

‘’Vieni avanti, Antonio’’, mi disse l’uomo anziano, invitandomi ad andare verso di lui.

Mi mossi in sua direzione, senza stare a pensare troppo. Non riuscivo a comprendere. Poi, mi baluginò per la mente l’idea che la mia identità fosse stata scoperta.

Il vecchio non attese che io mi avvicinassi troppo a lui; quando notò che ero alla sua portata, si alzò di colpo con uno scatto indicibilmente arzillo e posò attentamente una mano sul mio viso. Istintivamente chiusi le palpebre, chissà perché, ma l’uomo era proprio interessato ai miei occhi, ed infatti col suo pollice cercò di forzarle, ma sempre con grande dolcezza e delicatezza.

‘’Fatti vedere, dai. Apri gli occhi’’, mi disse, stranamente tranquillo e ritraendo la mano. Io riaprii le mie palpebre e lo guardai, mentre anch’esso fissava me e negli occhi.

Quello sguardo profondo e carico di significato durò qualche istante lungo una vita. Mi sentivo come se lui stesse frugando dentro di me, cercando di raggiungere il mio animo.

‘’Ne ho la certezza, hai i suoi stessi occhi. E poi mia nipote non mente, e neppure tu sei bravo a farlo. Hai lo stesso sguardo limpido di tua nonna, Antonio. Quella moglie che ho amato con tutto il mio cuore, e che purtroppo è venuta a mancare da alcuni anni’’.

Stupito, di fronte all’anziano sorridente, cercai di dire qualcosa, anche se non so bene cosa. Ero molto sorpreso, ed ormai certo che fosse venuto fuori tutto quanto.

‘’Non inquietarti così. In casa nostra ormai sappiamo tutti chi sei; altrimenti credi che avresti meritato un posto d’onore a nostro fianco, in questo bel pranzo? Io, i miei figli, le mie nuore e le mie nipoti sappiamo tutto, Melissa ce l’ha raccontato’’.

Mi volsi ad incenerire con un rapido sguardo sorpreso la mia cugina, dato che mi aveva promesso il silenzio assoluto su ciò che le avevo narrato, e per un attimo mi sentii profondamente tradito e sconfortato.

Melissa non reagì al mio sguardo, tenendo la testa abbassata. Solo in quel momento comprendevo la sua tensione.

‘’Non c’è bisogno che tu osservi tua cugina in quel modo, tanto tutto prima o poi sarebbe venuto a galla…’’, tentò di dire il nonno, severamente, ma la ragazza non seppe  più stare in silenzio.

‘’Antonio, appena tu mi hai fatto quelle rivelazioni, ed io le ho potute ritenere fondate, non ho saputo stare zitta. Sono andata dal nonno, solo dal nonno, e gli ho rivelato tutto; poi lui ha scelto di parlarne alla famiglia riunita.

‘’Ma voglio che tu capisca che se io ho tradito il tuo desiderio di restare in anonimato, l’ho fatto solo perché ti voglio bene e ti ritengo un ottimo amico e una brava persona. Tu meriti di far parte della nostra famiglia, ed io lo voglio con tutto il mio cuore’’, proruppe la ragazza, interrompendo per la prima volta l’anziano della famiglia, che non se la prese affatto per quell’intervento brusco. Anzi, mi offrì uno sguardo raddolcito, di quelli che, su quel viso ormai scolpito dal passare degli anni, potevano sembrare un arcobaleno dopo un violento temporale estivo.

‘’Mia nipote ha perfettamente ragione. Noi tutti qui siamo desiderosi di conoscerti, di avere a che fare con te. Mi spiace che durante il pranzo tu sia rimasto molto isolato, ma purtroppo con quel cialtrone di Ludovico seduto allo stesso desco a volte resta poco da dire agli altri. Ma noi tutti siamo fieri di te, ed io più di tutti, poiché conosco ogni cosa sul tuo conto, siccome Melissa non fa altro che parlare di te’’, tornò a dire il nonno, sempre con grande dolcezza.

Io chinai lo sguardo, mi sentii spossato, debole, mentre non sapevo che dire o che fare.

‘’Non so cosa ti hanno raccontato su di noi. Crederai che non ci sia mai importato nulla di te, ma io ogni sera rivolgevo un pensiero a quel nipotino, l’unico maschio generato finora dalla mia prole, che non avevo mai conosciuto.

‘’Abbiamo avuto degli screzi molto gravi con tuo nonno materno, ed io per primo non ho mai ritenuto opportuno cercare di entrare nella vostra vita, la tua e quella di tua madre. So che mio figlio maggiore è un essere disonesto, che ha messo incinta di nuovo un’altra sua studentessa e che poi l’ha lasciata, e che tutti state soffrendo a causa sua, e anche a causa mia e nostra.

‘’Ma ora io vorrei farti entrare a pieno titolo in questa famiglia, e dirti che noi, per te, ci saremo sempre. E per sempre’’.

Alle parole del nonno continuai a tenere lo sguardo abbassato, non sapendo che dire o che pensare. In me viveva un antico astio che ardeva come un focolare furioso, ma sopra di esso veniva gettata della sabbia e dell’acqua, ovvero un nuovo sentimento simile al perdono.

L’anziano e la mia cugina mi stavano parlando apertamente e correttamente, con sincerità, almeno apparente, e decisi di fidarmi.

‘’Non abbracci il tuo anziano nonno, nipote?’’, disse l’uomo, con una saggezza infinita mista a commozione, nata durante il mio frastornante e timido silenzio.

Alzai lo sguardo, e trovandomi di fronte all’anziano con gli occhi lucidi e con le braccia già semiaperte, mi ci fiondai come un bambino, seguendo un istinto innato.

Venni a contatto col corpo del vecchio, coi suoi vestiti e col suo odore di dopobarba, tanto simile a quello di mio padre, e lasciai che lui mi stringesse forte e calorosamente a sé, cominciando a singhiozzare. Anch’io ero più che commosso, ma trattenni ogni espressione che avrebbe potuto lasciarlo trapelare fuori.

Melissa lanciò un gridolino felice, anch’esso commosso e gioioso, e restammo così per qualche minuto. Poi, il nonno sciolse l’abbraccio, e ancora con gli occhi lucidi mi afferrò una mano e se la mise sul petto.

‘’Voglio che tu mi giuri una cosa, ovvero che accetterai il mio sostegno in ogni cosa che sceglierai di fare. Innanzi tutto, se vorrai continuare a suonare il pianoforte, mia vecchia passione, mi faresti davvero un regalo se tu accettassi un insegnante privato stipendiato da me, come ti avevo detto qualche settimana fa.

‘’E’ mio desiderio che tu mi prometta che accetterai ogni mio aiuto; fai contento un vecchio, per favore. Manca poco alla fine della mia vita, credi che non lo sappia? Tra qualche giorno, settimana, mese o al massimo un paio d’anni mi ricongiungerò con mia moglie, morta sei anni fa, e che anch’essa sarebbe stata felicissima di conoscerti. Lascio al mondo tre figli totalmente indipendenti e benestanti, con poca testa purtroppo, ma questo non c’entra, e voglio essere presente nella vita tua, dandoti anche un supporto economico e contribuendo attivamente a farti diventare ciò che vuoi.

‘’Sono disposto a dare una mano anche a quella giovane che ha lasciato tuo padre, sola e incinta, da quello che mi ha raccontato mia nipote. Puoi dirlo anche lei…’’.

‘’Stefania la stiamo già ospitando io e mia madre… è in gravi difficoltà…’’.

‘’Tu e tua madre siete persone di buon cuore. Vorrei tanto conoscere meglio anche lei; pensi che me ne darà la possibilità?’’, chiese il nonno, lentamente.

‘’Non lo so’’, lasciai scivolar fuori dalle mie labbra. Sapevo ciò che il mio genitore pensava di quelle persone, e un contatto lo credevo davvero difficile.

‘’Non importa. Io desidero esserci nelle vostre vite, e se non volete vedere me almeno accettate un mio aiuto economico. Mi sento in colpa per tutto, per ogni cosa…’’, singhiozzò il vecchio, ed allora capii chiaramente che era pentito davvero di averci sempre lasciati soli, di averci indirettamente isolati.

‘’Mi vergogno di mio figlio, di ciò che ti ha fatto passare… odiava il pianoforte perché era il mio strumento preferito, e per questo ha tentato di privartene mentre se ne stava a sbafo a casa vostra… fellone! Bestia! Mi dispiace per tutto, io devo…’’.

‘’Non devi nulla, nonno. Io non voglio nulla da te se non il tuo affetto e la tua vicinanza. Niente di più’’, gli dissi, semplicemente, ed allora lui premette ancora più forte la mia mano contro il suo petto. Sentivo il suo cuore che batteva all’impazzata, e il suo volto ormai arrossato dalla commozione mi lasciava senza parole.

‘’Promettimi e giurami che lascerai che l’insegnante che ti sceglierò possa darti una mano al pianoforte. Hai tanto talento, sarebbe un peccato sciuparlo! Ci tengo, davvero’’.

‘’Lo prometto, nonno’’, cedetti, comunque felice della mia scelta, anche senza tener conto delle possibili reazioni di mia madre. Ero certo che lei avrebbe compreso.

Il nonno mi lasciò la mano e tornò a donarmi un rapido abbraccio, ancora una volta colmo di sentimento.

‘’Sei un ragazzo sensibile, buono e dal cuore d’oro. Non cambiare mai, mio caro nipotino, mai… non lasciare che la vita t’inaridisca… tu sei speciale, ricordalo per sempre’’, mi sussurrò all’orecchio, e a quelle parole il mondo parve perdere di significato, per me. Ero troppo felice, e pure io mi lasciai andare ad un pianto liberatorio.

Noi tre presenti in quella stanza lasciammo così defluire ogni nostro sentimento, assieme ed uniti.

Per sempre.

 

Dopo esserci calmati un po’, rientrammo nel salone assieme agli altri.

Tutti smisero di parlare e di chiacchierare, non appena mio nonno troneggiò su tutti, impettito e con un ritrovato sguardo severo, aspettando il più assoluto silenzio prima di cominciare il suo importante ed elegante discorso.

‘’Oggi è un giorno speciale e santo, non solo perché è il Natale, ma anche per il fatto che Nostro Signore e Suo Figlio hanno voluto farmi il più bel regalo della mia vita, ovvero quello di ritrovare un nipote e di poter scoprire tutto il buono che c’è in lui, avendo la certezza che è un bravissimo ragazzo. Che Dio sia lodato, e che Antonio possa per sempre essere trattato da tutti noi presenti come uno di famiglia, e dai miei figli come se fosse un loro stesso figlio’’, esordì e concluse l’anziano, tornando a commuoversi di fronte a tutti ed inaspettatamente.

La commozione quella volta fu generale, ed ebbi modo di essere baciato ed abbracciato da tutti i componenti della mia famiglia paterna.

Quello fu uno dei momenti più belli della mia giovane vita. Un momento che mai e poi mai dimenticherò.

E da quegli istanti in poi esistette solo la felicità, nonostante tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Buongiorno a tutti, carissimi lettori!

Questo è stato un capitolo colmo di belle sorprese, in vista del finale imminente. Spero che vi sia piaciuto!

Il prossimo capitolo che pubblicherò sarà l’ultimo, poi ci attenderà un epilogo conclusivo.

Grazie per continuare a seguire e a sostenere il racconto, vi sono davvero grato per tutto.

Grazie di cuore, per tutto, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 ***


Capitolo 38

CAPITOLO 38

 

 

 

 

 

 

Quella santa sera, quando feci ritorno al mio paesino, decisi di fare prima di tutto un saltino a casa, invece di recarmi subito da Jasmine. L’ultimo e unico treno era stato puntualissimo quella volta, e mi erano rimasti una ventina di minuti liberi prima dell’orario dell’appuntamento.

In quel giorno di festa, le strade erano vuote e i mezzi pubblici erano tutti praticamente fermi, e pure il mio paesino assumeva quell’aria spettrale che avrebbe saputo intimorire chiunque, se almeno non si fossero udite le voci festose che di tanto in tanto trapelavano fuori dalle abitazioni.

Solo in strada, ed immerso già nel buio, sfrecciai poco distante dalla casa di Jasmine, dirigendomi verso la mia, per poi raggiungerla in modo velocissimo.

Rincasai quindi quasi improvvisamente, e varcando la porta d’ingresso, quella che oltrepassavo ormai da tempo immemore, provai un discreto disagio. Avevo come il timore di trovarmi di fronte ad una madre dal muso lungo, o ad un Roberto depresso, oppure ad una problematica Stefania.

Avevo paura che quella dose incredibile di felicità che mi era stata innestata nella villa dei miei parenti paterni potesse sfumare tutta all’improvviso, per via della vita che si conduceva in casa mia, sempre se quella poteva chiamarsi più vita, a favore di ricordi degli anni passati e del bel tempo che fu, anche se magari sul momento era parso tutto cupo. Insomma, pareva che si fosse stato meglio quando si stava molto peggio.

Avevo ancora addosso la pura felicità dei miei parenti, che non mi aveva per nulla lasciato in dubbio su qualcosa, e mi ero deciso a fidarmi di loro, che grazie alle parole di Melissa e del nonno parevano già aver cominciato ad apprezzarmi e a considerarmi uno di famiglia, ed io ero ancora contentissimo. Ma in cuor mio fremevo e qualche pensiero mi faceva offuscare leggermente, di tanto in tanto.

Mi mossi istantaneamente verso la cucina, senza titubare oltre, poiché vidi fin da subito la luce accesa e potei udire alcune parole pronunciate da Roberto.

Appena mi affacciai sulla porta, trovai mia madre tutta sorridente e seduta sullo scomodo e vecchio divano che aveva fatto da letto a mio padre durante la sua clandestina permanenza in casa nostra, mentre il nostro inquilino si stava affaccendando attorno al tavolo, raccontando qualcosa che io, col mio ingresso, interruppi. Infatti, non appena varcai leggermente la soglia e i due mi intravidero, si stopparono immediatamente e rivolsero subito i loro sguardi verso di me.

‘’Roberto, così la vizi troppo. Lascia che sia lei a mettere i piatti in tavola!’’, sogghignai ironicamente, per cercare di far ritornare tutto come poco prima. Mia madre rise a quelle parole, e l’uomo sorrise, mentre continuava il suo lavoro.

‘’Oh, Antonio dovresti vedere quello che abbiamo cucinato! Abbiamo un inquilino bravissimo ai fornelli, e non lo sapevamo. Abbiamo preparato una cena coi fiocchi!’’, disse mia madre, tornando a sciogliersi.

‘’E’ bravo in tutto, credo’’, mi limitai ad aggiungere, titubando.

Roberto era stato fin troppo bravo anche a far tornare felice la mia mamma, nonostante il fatto che anche per lui quello fosse stato un periodo molto duro, ed io gli ero grato per averle risollevato il morale.

‘’Dai, non esageriamo’’, disse l’uomo, lusingato.

Solo in quel momento a mia madre parve tornare alla mente che io quella giornata non ero stato a casa, bensì mi ero recato a pranzare dai miei parenti.

La donna si oscurò profondamente, e poi mi guardò con uno sguardo preoccupato, molto turbato. Non ci fu bisogno che mi chiedesse a voce cosa aveva fatto, per rabbuiarsi così, e non vidi il motivo per farle esprimere i suoi dubbi e fingermi sciocco.

‘’E’ andato tutto bene, mamma. Si sono comportati nel migliore dei modi, sono persone molto cortesi’’, le dissi, subito.

‘’Loro… sanno…’’.

‘’Lo sanno. Lo sanno tutti chi sono’’, sospirai.

‘’Mi avevi detto che non lo sapevano! Tu mi riempi di bugie, ti sembra questo il modo…’’, cominciò a sbraitare mia madre, alzandosi improvvisamente dal suo posto e cominciando a disperarsi.

Non sapevo che dire e neppure che fare; il suo modo di approcciarsi alla verità era catastrofico, e mi chiesi se forse fosse stato meglio dirle solo una mezza verità. O una mezza bugia.

Ad intervenire prontamente fu Roberto, che si avvicinò rapidamente a lei e le posò le sua mani sulle spalle, fissandola in modo quasi paterno.

‘’Maria, non devi preoccuparti. Devi lasciare che Antonio impari a cavarsela da solo, in certe situazioni. Non ha importanza se loro sanno o meno, ed in ogni caso prima o poi avrebbero scoperto tutto, ma l’unica cosa importante è che tutto sia andato per il meglio e che nessuno ne sia uscito ferito. Ferito nell’animo’’, disse l’uomo, calmo e pacato come sempre, senza lasciarsi sconfortare dalla reazione esagerata della donna, che dal canto suo parve calmarsi subito, dopo aver leggermente scosso il capo con un cenno affermativo.

Scoprii quindi che, nonostante tutte le difficoltà e le situazioni differentemente complicate che avevamo superato egregiamente nell’ultimo periodo, ed assieme, la mamma non era ancora riuscita a cacciar via o a mettere in un angolo quel suo lato così debole ed impressionabile. La grande vicinanza di Roberto si stava rivelando fondamentale per lei, lo potevo notare in modo chiaro, ma anche se l’apparenza ormai poteva ingannare, forse dentro di sé Maria era sempre rimasta la stessa.

‘’Hai ragione. E’ vero’’, mugugnò poi la mamma, tornando a sedersi sul divanetto, mentre il nostro inquilino tornava ad occuparsi delle faccende che aveva abbandonato qualche istante prima, certo che si fosse già tutto risistemato.

‘’Non devi preoccuparti, è tutto a posto’’, la rassicurai ulteriormente, mostrandole un timido sorriso.

‘’Questa sera…’’, tornò a chiedermi il mio genitore, cercando subito di passare sopra a ciò che era appena accaduto, senza voler continuare a pigiare su quel possibile screzio della sera di Natale.

In realtà anche quella volta non mi chiese nulla, ma cominciò la frase e mi lanciò un altro suo sguardo profondamente interrogativo.

‘’Devo andare da Jasmine. Sono a cena da lei, te l’avevo detto’’, risposi, senza attendere inutile tempo. Non avevo nulla da nascondere.

‘’Oh, giusto. Salutamela tanto’’, rispose la mamma, sfoggiando anche lei un tiepidissimo sorriso.

Feci poi due passi indietro, tornando sulla porta, ed accorgendomi che era praticamente quasi l’ora di andare dalla mia carissima ragazza, mi accinsi a svignarmela da quella casa, e a lasciare che i due adulti tornassero alla loro routine.

‘’Ora devo proprio andare. Buona serata, ci vediamo tra un po’ ‘’, salutai, accennando a muovermi verso la porta d’ingresso e il corridoio.

‘’E’ un peccato che tu non ti fermi con noi! Io e Roberto abbiamo preparato tanti manicaretti, ma davvero tanti’’, disse mia madre, ancora dal divano.

‘’Non ti perdi nulla, Antonio. Si tratta di una frugale cena qualsiasi, non c’è bisogno di continuare ad esagerare. Aspetta, ti accompagno fuori’’, mi disse invece l’uomo, lasciando di nuovo da parte le sue faccende e muovendosi verso di me, raggiungendomi con soli pochi passi. Non sapevo il motivo di tanta cortesia, ma decisi di lasciarlo fare.

Appoggiandomi amichevolmente una mano sulla spalla, mi seguì fino alla porta d’ingresso, per poi avvicinare il suo volto al mio orecchio sinistro.

‘’Non prendertela per quello che ti ha detto tua madre. Lei ti vuole bene, e penso che ultimamente sia diventata iperprotettiva e un po’ gelosa. Sei il suo unico figlio, comprendila; ma non lasciarti ostacolare troppo dalle sue parole. Se una cosa ti senti di farla, falla e basta. Se sbagli, avrai poi modo o di rimediare o di imparare la lezione. È così che funziona il mondo degli adulti, e mi sembra giusto che anche tu cominci a fare le tue esperienze’’, quasi mi sussurrò, facendomi poi l’occhiolino quando gli dedicai un breve sguardo.

Gli rivolsi un sorriso.

‘’Ma certo, lo so. È solo che la mamma è sempre stata fatta così… da quando siamo rimasti soli al mondo, mi è sempre stata un po’ col fiato sul collo, quando poteva… anche in modo ingiusto a volte. Però ultimamente a tratti è peggiorata, devo dire’’, mi limitai ad aggiungere, sempre a voce bassissima, mentre mi preparavo ad aprire la porta d’ingresso.

‘’E’ solo un momento così… il problema è che ha ricevuto qualche batosta, di recente, e deve ancora riprendersi. In questi giorni la vedo già meglio, molto più tranquilla…’’.

‘’E questo grazie a te. Da quando siete soli assieme, ho notato che avete instaurato un bel rapporto’’, volli dire, proprio per affinare una mia curiosità e cercare una possibile reazione dell’uomo.

Roberto spalancò leggermente gli occhi, se ne stette un secondo in silenzio e, togliendosi gli occhiali, quasi come per voler guadagnare secondi preziosi, li pose delicatamente nella loro custodia, per poi rimettere tutto in tasca.

‘’E’ una brava donna. Stare in sua compagnia, e parlare del nostro passato e dei nostri problemi mi sta aiutando tantissimo. Mi sta aprendo un mondo nuovo, a me sconosciuto’’, quasi sospirò, per poi umettarsi le labbra e distogliere lo sguardo da me, puntandolo verso un punto indefinito.

Io lo guardai, leggermente sorpreso, poiché avevo inteso che tra i due forse stava cominciando a crearsi un legame più solido e profondo di quello che poteva esserci tra un inquilino e la padrona di casa, tra due semplici conoscenti quindi, e lì sul momento non seppi che altro dire.

Fu proprio Roberto a togliermi dall’impiccio dei miei perspicaci pensieri, che forse stavano andando decisamente oltre e potevano essere ritenuti fuori luogo, considerando tutti i drammatici eventi degli ultimi mesi, dato che l’uomo che avevo di fronte non è mai stato un sciocco. Il mio interlocutore, furbo come sempre, aveva previsto i miei ragionamenti logici, e con risolutezza e dolcezza, allo stesso tempo, tornò a guardarmi.

‘’Ehm, non dovevi andare?’’, mi chiese, impacciatissimo.

Gettai uno sguardo allo schermo del cellulare e gli diedi ragione.

‘’Ehm, sì’’, dissi, sorridendo in modo tremolante.

Pareva una di quelle scene da telefilm comico, di quelle che sempre più pullulano in tv.

Se non si fosse trattato di Roberto, ma di un qualsiasi altro soggetto, avrei pensato che stesse cercando di buttarmi fuori da casa mia, con tanto di battutina apparentemente ingenua e maleducata, ma dato che si trattava del mio ormai ben conosciuto inquilino non me la presi affatto. Anzi, la presi sul ridere.

‘’Buona serata. E fate i bravi’’, dissi, congedandomi con ironia ed uscendo effettivamente di casa.

L’uomo tornò a sorridere di nuovo.

‘’Non siamo più bambini, abbiamo una certa età. Fidati se te lo dico’’, rispose allo sberleffo, posizionandosi nel mezzo della porta d’ingresso spalancata.

‘’Eh, ma con l’avanzare dell’età possono insorgere tante patologie che rendono le persone meno affidabili. Basti pensare alla demenza senile…’’.

Non finii la mia ultima derisione, poiché non riuscii a trattenere una risata quando Roberto fece uno spergiuro, ovviamente anche lui ridendo.

‘’A dopo’’, conclusi, salutando.

Stavo seriamente rischiando di arrivare tardi al mio appuntamento, e fui costretto a spicciarmela per non dovere correre. Ho sempre odiato le persone non puntuali, quelle che fanno aspettare più di mezz’ora chi li attende, ogni volta.

Un ritardo di dieci minuti ci sta, ma più di mezz’ora è pari ad un’offesa, soprattutto se il ritardo così evidente viene più volte ripetuto e senza validi motivi. Non era quello il mio caso, naturalmente, ma me la spicciai lo stesso. Volevo spaccare il secondo, quella sera.

Roberto richiuse la porta dietro di sé, quasi sigillando quella parvenza di oasi felice che si era instaurata a casa nostra dopo la partenza dei più perfidi, mentre io uscivo dal giardino e mi riversavo in strada, dando un’altra occhiatina allo schermo del cellulare.

Inutile dire che quasi finii addosso ad un passante, che s’accingeva a ripercorrere i miei passi.

Sussultando, e fortunatamente evitando lo scontro all’ultimo, mi ritrovai davanti a Stefania.

‘’Antonio, sei ubriaco?! Procedevi a zig zag e a momenti mi finivi addosso’’, mi chiese, tra l’ironico e il serio.

‘’No, tranquilla… ero perso nei miei pensieri e stavo guardando il cellulare’’, le risposi, facendo definitamente scivolare il mio oggetto tecnologico nella tasca dei jeans.

Che figuraccia! Effettivamente, quando mi mettevo a paciugare col telefonino difficilmente stavo attento a ciò che mi circondava o a come camminavo, e questo non era affatto un bene.

Stefania mi sorrise, e tentò di superarmi per poi rincasare, quasi di certo. Mi tornò prepotentemente alla mente ciò che la ragazza avrebbe dovuto fare durante quel santissimo pomeriggio, e non potei non tornare a volgermi verso di lei, soffermandomi un istante in più.

‘’Com’è andata, poi?’’, le chiesi, educatamente. Ci stava, non potevo fare proprio la figuraccia del disinteressato, anche se sarebbe stata l’ennesima nel giro di un minuto.

Non c’era bisogno che chiedessi altro; la mia interlocutrice aveva capito tutto al volo. D’altronde, era pressoché impossibile che non avesse potuto capire subito.

Si volse di nuovo verso di me, bloccando la sua camminata maestrale verso il vicinissimo cancello di casa mia, a ormai sei o sette passi da lei, e mi rivolse uno sguardo rilassato, con le labbra leggermente piegate ai lati all’insù. L’abbozzo di un tremolante sorriso.

‘’Sono tornata dai miei, ho scelto di far… di far loro una sorta di sorpresa di Natale. Mia madre si è sciolta, mio padre è rimasto un pezzo di ghiaccio, ma alla fine hanno detto che sono stati… sono stati felici che io mi sia ripresentata a casa loro. Mi hanno trattato malissimo, un mesetto fa, ed ho dovuto calpestare un po’ la mia dignità di giovane donna pur di tornare a compiere questo passo. Ma ci sono riuscita.

‘’Tra di noi nulla è come prima, ma credo che ci siano buone possibilità che i miei accettino le mie scelte. In primis, quella di tenere il bambino anche se sono senza un uomo accanto e se ciò metterà di molto a rischio i miei studi’’, disse, quasi tutto d’un fiato, molto emozionata.

La ragazza pareva contenta mentre mi raccontava tutto ciò, i suoi occhi le brillavano, ed io intesi che tra lei e i genitori lo screzio si stava già appianando. A quelle parole, non potei far altro che mostrare un sincero sorriso.

‘’Che bello! Spero davvero che tutto tra voi possa tornare a posto. E credo che sarà così’’, le dissi, rasserenato. Finalmente, sembrava che un po’ tutto stesse ricominciando a prendere il giusto corso, come se dopo la partenza di Federico, di sua madre e di mio padre tutto potesse per davvero risistemarsi, e anche in un buon modo.

A quel punto anche Stefania si sciolse anch’essa in un dolce sorriso.

‘’Io lo spero, con tutto il mio cuore. Ho passato un periodo molto buio, ho avuto il timore di finire per commettere una pazzia, eppure ora sono già più serena. Sono serena anche senza Sergio, senza uomini a fianco. Mi sono sentita tanto sola, ma ora non più!’’, mormorò la mia interlocutrice, realmente sollevata.

Mi ricordai delle parole del nonno, pronunciate solo alcune ore fa, e i miei sentimenti presero a far capolino dentro di me, quasi vorticando.

Ci abbracciammo improvvisamente e in modo spontaneo, come fratello e sorella, sotto il cielo scuro e cupo di quella nottata sempre un po’ magica; io non provavo astio verso di lei, non la vedevo come una nemica, e le volevo sinceramente bene, così come penso che anche lei ricambiasse.

‘’Non sei sola. Non sarai mai più sola’’, le sussurrai, sicuro delle mie parole, prima di sciogliere il leggero abbraccio che ci eravamo donati a vicenda.

Entrambi ci stavamo liberando di alcuni pesi e di alcune paure, e nonostante il fatto che sapessimo che il peggio sarebbe ancora potuto venire, almeno in quel momento stavamo relativamente bene. E questo, in fondo, era importante, così come lo era gustarsi il presente.

‘’Grazie… grazie…’’, continuò a dire la ragazza, commossa. Gli occhi le brillavano.

Stefania stava tornando a vivere in modo più sereno, com’era giusto che fosse, mentre il suo ventre pareva crescere leggermente ogni giorno in più. Lei e la vita che portava in grembo erano davvero molto forti.

Ci salutammo poi, e ripresi a procedere rapidamente per la mia strada, consapevole di rischiare il ritardo. Ed io ho sempre odiato giungere in ritardo ad un appuntamento importante, come mi ripetevo continuamente. Quindi, cercai di togliere la commozione da dentro alla mia mente, e di spingermi invece a camminare più spedito; la mia Jasmine mi stava aspettando.

 

Ci sono giorni che sono destinati ad essere realmente speciali e a restare fissati nel cuore e nella mente per tutta la vita. Quel Natale fu uno di quelli, per me.

Giunsi da Jasmine in perfetto orario, per fortuna, e lei e i suoi genitori già mi attendevano per la cena. Non avevano parenti, ed erano felicissimi che io mi fossi aggregato a loro per quella santa festività.

Personalmente non avevo ricevuto regali, ma ero felicissimo così, d’altronde era stato mio desiderio non riceverne affatto, però notai fin da subito che la mia amata invece ne aveva ricevuti parecchi. Scarpe e magliette a volontà, e persino una cover nuova tutta brillante. Ero davvero felice per lei. Ma io, personalmente, avrei voluto donarle solo tutto il mio affetto.

Mangiammo e cenammo assieme, noi quattro, e fu davvero come se fossimo stati una grande famiglia, passando una gran bella serata.

Ammetto che non parlammo molto io e Jasmine, ma più che altro i suoi genitori, che raccontarono un gran sacco di loro ricordi, ma non fu affatto sgradevole ascoltarli, anzi. Entrambi avevano fatto tante esperienze diverse, e soprattutto in realtà differenti, e stare ad udire come rievocavano il Natale più speciale della loro vita era un vero piacere, di quelli anche dal retrogusto esotico e lontano.

Io non avevo assolutamente nulla da aggiungere, poiché il mio Natale più importante e speciale lo stavo vivendo proprio in quel momento.

La mamma di Jasmine aveva preparato un pasto a base di pesce, tutto condito e preparato in modo da rispettare almeno in parte i sapori dell’Africa subsahariana, e il sapore di spezie e l’odore di condimenti a me ignoti e sconosciuti seppe avvilupparmi ed incuriosirmi. Inutile dire che tutto quanto era buonissimo e gustosissimo, un mix unico di più culture.

Dopo un’oretta e mezzo circa, non appena concludemmo la cena, neppure la mia innata e ancora ben radicata timidezza poté impedirmi di fare i miei più sinceri complimenti alla cuoca, che li accettò con umiltà unica, e quasi si emozionò troppo. Ma a quel punto, temevo che fosse già tutto finito, e che quella giornata magica avrebbe avuto termine.

Magari sarei dovuto rincasare, proprio come ben sapevo che avrei dovuto fare prima o poi, ma in quel momento proprio non mi andava e non volevo neppure pensarci a quell’opzione. Non avevo altre alternative, però.

Per fortuna a togliermi da quel problema fu proprio Jasmine, la mia amata, che poco prima che mi decidessi a congedarmi si allungò verso di me e mi afferrò il polso, dolcemente.

‘’Ti va di fermarti ancora un po’? O sei stanco?’’, mi chiese, tentennante.

‘’Posso fermarmi. Lo farò con grande piacere’’, le dissi, indicibilmente sollevato.

Non sapevo cosa attendermi da lei; so solo che ad un certo punto si congedò definitivamente dai suoi genitori, e mi fece cenno di seguirla. Lo feci, e mi portò al piano superiore della sua dimora, dove non avevo mai messo piede fino a quel momento. Ma non si fermò.

Jasmine cominciò a percorrere una ristrettissima scala a chiocciola che portava ancora più un altro, ma chissà dove; ero certo che la casa, almeno vista da fuori, dimostrasse di possedere solo due piani, e non volevo proprio credere che la ragazza mi volesse portare in soffitta, così, senza alcun motivo.

 

Dal lucernario entrava la luce della luna.

Quella era una delle rarissime sere invernali in cui la nebbia non offuscava ed avvolgeva tutto.

Io e Jasmine eravamo sdraiati, l’uno a fianco dell’altra. Non c’eravamo scambiati altro che un bacetto, fino a quel momento, e pure casto, e l’unica cosa che avevamo fatto era stato sdraiarci sulla pavimentazione in legno di quell’angolo di soffitta, bassa ma ampia.

‘’Vengo spesso, qui, la sera. D’estate fa troppo caldo, si soffoca, ma durante l’inverno, quando non ci sono nubi o nebbia, e il cielo è terso, si possono vedere tante stelle, e la luna…’’.

Jasmine aveva lo sguardo perso al di là di quel vetro che non era poi più di tanto distante dalle nostre facce, ma che pareva volerci separare irrimediabilmente dalla volta celeste, come volesse creare una barriera invalicabile. L’imperscrutabile era sopra di noi, e ai miseri umani restavano i sogni per potersi aggiudicare una parte di esso, seppur in modo fantasioso.

‘’E’ un bel posto’’, mentii relativamente. Non mi ero ancora rilassato lì, come invece era accaduto alla mia amata, che sembrava così tanto persa nei suoi pensieri e con lo sguardo da non riuscire neppure più a vedermi. Mi dava quell’impressione strana.

‘’Non è un bel posto, so che mi stai mentendo. Ti conosco un po’ ormai, e so quando dici una bugia solo per farmi contenta. Non sei bravo per nulla a dirle’’.

Sorrisi, alle parole per nulla adirate della mia cara interlocutrice.

‘’Non essere così…’’.

‘’Non ha importanza, non devi scusarti di nulla. Capisco’’, si limitò ad affermare di nuovo, non lasciandomi dire nulla.

Per un attimo, credetti che da lì a poco avremmo avuto il primo screzio della nostra relazione, e lasciare che tutto s’incrinasse solo per una situazione sciocca di quel genere mi fece quasi innervosire. Poi, però, decisi di lasciarmi andare anch’io, come se la magia del Natale fosse riuscita ad entrare dentro di me e a farsi uno spazio tutto suo.

L’imperscrutabile, ciò che si nascondeva dietro a quell’invernale volta celeste, forse si stava manifestando anche dentro di me.

‘’Sono così stanca, Antonio’’, sussurrò Jasmine, dopo parecchi minuti di fragoroso silenzio.

‘’Di cosa?’’.

Temetti quasi che stesse parlando di me.

‘’Di tante cose. Non mi va più nulla, ultimamente. Sono sempre un po’ triste, ma per fortuna molte volte ci sei tu. Anche solo se ti penso mi sento nuovamente piena di energie, non so se mi capisci’’.

‘’Ti capisco. Giuro’’.

‘’Grazie per esserci sempre. So che fino ad ora sono stata spesso molto fredda con te. Mi dispiace, ma proprio faccio fatica a sciogliermi, forse l’amore non fa per me. Però so cosa provo per te, e so che è amore. Sei un ragazzo eccezionale’’.

Tutti quei sussurri erano stati pronunciati lentamente, mentre la ragazza continuava a tenere lo sguardo fisso verso l’alto, senza mai roteare il volto o gli occhi verso di me. Era totalmente assorbita dall’infinità profonda del cielo.

‘’Grazie per queste belle parole’’, mi limitai a dirle, impacciatamente, senza avere il coraggio per aggiungere altro.

‘’A volte sogno di diventare una scrittrice’’.

‘’Cosa?!’’, quasi sobbalzai, sorpreso da quella frase pronunciata quasi con circospezione, ma comunque con sicurezza.

Stavamo parlando di tutt’altro ed ecco che la mia Jasmine decise di cambiare repentinamente argomento. Fu come se lei mi stesse cercando di dimostrare che aveva voglia di parlare del suo futuro, dei suoi sogni, e questo mi spinse a desiderare che continuasse ad esprimersi, magari con maggior chiarezza.

‘’Non stupirti. È un mio sogno, e ringraziami per il fatto che te l’ho svelato’’, mi riprese, subito dopo.

Mi rilassai e sorrisi, tra me e me. La mia solita Jasmine sapeva essere una dolce caramellina e un pezzo di ghiaccio allo stesso tempo, quando voleva.

‘’Rilassati. E grazie per avermi detto qualcos’altro di te’’, le dissi, dolcemente, afferrandole una mano con delicatezza.

Di fronte a quel gesto, la ragazza parve sciogliersi e rilassarsi.

‘’Solo chi scrive può conoscere la libertà, a questo mondo’’, quasi sospirò, gli occhi opachi e velati sempre puntati verso l’altro e le stelle.

Non dissi nulla ma le strinsi con più calore la mano tra le mie, sempre con dolcezza. Le nostre mani erano così diverse, parevano destinate a non sfiorarsi mai. Eppure, ciò era ugualmente accaduto; non aveva avuto importanza che le sue fossero più scure delle mie, che le sue dita fossero più affusolate, che le sue unghie fossero ben fatte e più curate, mentre le mie erano schifosamente larghe e in alcun modo belle alla vista.

Il nostro contatto era splendido, perché a sfiorarsi non era solo qualche dito o due mani, ma la diversità e la voglia estrema di conoscersi meglio. Tutto ciò mi sembrava magnifico.

‘’Se scrivi, puoi crearti il tuo mondo. Insomma, ti rendi conto del potere della scrittura? Lo scrittore diventa una sorta di divinità implacabile per i suoi personaggi e protagonisti, e può addirittura deciderne la vita o la morte. La sua scrittura diventa una sorta di mondo parallelo dove anche altri possono entrare in punta di piedi, e con il più grande strumento che sia mai stato offerto all’essere umano, ovvero la mente e la sua fantasia’’, proseguì Jasmine, notando il mio evidente silenzio.

‘’Anche la scrittura in fondo è un gioco, come la vita reale’’, mi venne da buttare lì, senza riflettere troppo.

‘’Come?’’.

Non mi sarei mai aspettato che lei fosse così curiosa di approfondire quella mia frase. Mi misi a riflettere, per non fare la figura dello sciocco.

‘’La vita è come un gioco, se ci pensi, in fondo. Come ci ha fatto superficialmente notare più volte Roberto, il mio inquilino! Ciascuno di noi è quasi una sorta di pedina, che si muove su una scacchiera grande come il nostro mondo, e nel suo piccolo, perché sarà sempre immerso nel suo piccolo, sarà costretto a fare scelte per condurre al meglio la propria vita. Non so se mi hai compreso. E lo scrittore fa la stessa cosa coi suoi personaggi; li schiera, li mostra al lettore, li fa entrare un po’ per volta nello scacchiere del racconto, e poi magari li fa uscire in qualche modo… insomma, scrittura e vita reale sono molto simili’’, tentai di dire, sfruttando la mia profondità del momento.

‘’E’ la vita che si riflette nella scrittura. Siamo umani, no? E allora… l’uomo copia il vero gioco della vita all’interno delle sue opere’’, aggiunse la ragazza, facendosi ancor più pensierosa e riflettendo amabilmente su ciò che le avevo appena detto.

‘’Tu saresti un’ottima scrittrice. Lo vedo dai tuoi occhi, così presi da tutto ciò che li circonda, così attenti. E poi serve molta interiorità e forza di volontà, per portare a termine un libro o un racconto scritto; e tu, fidati, le hai. Hai tutte le carte in regola’’.

La mia amata sospirò alle mie parole, e prese a ricambiare la mia gentile stretta sulle sue mani. Anche i prolungamenti dei nostri arti si stavano intrecciando un po’ come la trama di un racconto, mentre le nostre dita giocherellavano le une contro le altre.

‘’Tu vedi sempre l’aspetto positivo di tutto. Sarò mai all’altezza? Finora ho scritto solo qualche poesia, ma vorrei scrivere un racconto vero e proprio. Di quelli articolati, a più capitoli, e con un inizio e una fine’’.

‘’Ce la puoi fare. Sul serio, sei in gamba’’.

Guardai il suo viso, illuminato dal chiarore della luna, e notai che la mia interlocutrice stava sorridendo.

‘’Sarebbe un sogno’’.

‘’Il bello dei sogni è che, se lo vuoi davvero, essi sanno diventare realtà’’, quasi completai la frase.

‘’Per me sarebbe davvero stupendo realizzare questo sogno, ma prima vorrei andare all’università, una volta finite le superiori. Così potrei approfondire le mie conoscenze! E poi…’’.

Jasmine non riuscì mai a completare quella frase. Il suo cellulare emise bruscamente uno squillo, ed interruppe irrimediabilmente il nostro momento di catarsi interiore. Mi dispiacque tantissimo, anche perché non eravamo mai giunti ad avvicinarci così tanto, quasi riuscendo ad afferrare a vicenda le nostre agitate anime.

La ragazza non attese tempo, ovviamente, e con grande curiosità lanciò la sua mano alla ricerca dello strumento tecnologico.

‘’Non ho idea di chi possa essere. Questa sera non doveva farsi sentire nessuno, tantomeno mandarmi messaggi. Chi mi abbia scritto, proprio non lo so’’, quasi si scusò, cercando di mantenere una parvenza quieta mentre le sue mani agitate la tradivano, dopo essere fuggite improvvisamente dalla mia pacata stretta.

Non appena afferrò il cellulare, estraendolo dalla tasca laterale dei suoi classici jeans attillati e femminili, fece illuminare subito lo schermo e s’irrigidì.

Non potendo sapere altro, io mi limitai a restare ad osservarla, mentre lei, sempre più pensierosa ed agitata, leggeva quello che doveva essere un lungo messaggio scritto. Mi limitai ad attendere pazientemente e cortesemente che lei avesse finito, poi mi capitò d’incrociare fin da subito il suo sguardo, per la prima volta volto verso di me da quando eravamo in quel lucernario, e mi donò un sorriso, di quelli quasi increduli.

Io sostenni il suo sguardo ed assunsi un’espressione interrogativa, di fronte a quella reazione non proprio consona al momento.

‘’Oddio, Antonio. Mi viene quasi da piangere dalla gioia’’, disse all’improvviso, lasciando trasparire ancor più evidentemente le sue emozioni.

‘’Ma… cos’è successo?!’’, sussurrai, cominciando ad agitarmi senza motivo.

‘’Alice, Antonio. Alice. Sua madre mi ha appena mandato un messaggio in cui m’informa che la ragazza si è risvegliata e sembrerebbe stare bene. È sotto osservazione e resterà ancora per un bel po’ ricoverata in ospedale, ma parrebbe che tutto abbia intenzione di rimediarsi, almeno in parte.

‘’Da quel che ho capito si è risvegliata alcuni giorni fa, ma il suo stato era molto precario, e solo ora i medici hanno fatto sapere che ci sono ottime possibilità che la ragazza possa riprendere, nei prossimi mesi, a vivere normalmente… ed inoltre pare, al momento, fuori immediato pericolo. Certo, per lei sarà comunque un’esistenza dolorosa, purtroppo, e le difficoltà ci saranno, ma almeno… almeno si è risvegliata. La nostra cara amica lotterà con tutte le sue forze per vincere questa grande battaglia, ne sono certa!’’, e dopo quella lunga serie di parole colme di speranze e di felicità allo stato puro, Jasmine si rotolò in un attimo verso di me e mi abbracciò forte, stringendomi a sé.

Senza parole, felice anch’io e speranzoso, ricambiai la sua stretta euforica.

‘’Sono certo che ce la farà. Quando tornerà a casa andrò a trovarla ogni giorno, non la lascerò mai più sola. Mai più…’’, continuò a ripetere la ragazza, mentre ancora ci abbracciavamo.

‘’Ne sono certo’’, le assicurai, sfiorandole i capelli ricci ed ispidi con le mie mani, per poi tornare a stringerla con vigore a me e a darle un rapido bacio sulle labbra. Ma la mia amata era perduta nella sua felicità. La felicità offertale dal fatto che forse la sua amica si sarebbe potuta salvare da quel male che l’aveva condotta a pochi millimetri dalla morte.

Anch’io ero molto felice, per quella notizia. In un certo senso, mi sentivo un po’ sollevato da quel peso opprimente che dalle settimane precedenti pareva non avere intenzione di darmi tregua.

Sono tutt’ora convinto che quel Natale fosse stato davvero magico, impregnato di forze benigne, e lo ricordo ancora in un modo molto nitido.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Carissime lettrici e carissimi lettori, siamo giunti quasi alla fine!

Come ormai ben saprete, lunedì prossimo pubblicherò l’epilogo di questo racconto.

Personalmente, non so ancora cosa pensare di esso. So solo che a modo suo è stato una sorta di amico, che mi ha fatto compagnia nei momenti vuoti e smorti di questi ultimi nove mesi.

Spero solo che a voi, che mi avete seguito fino a questo punto(e non era facile farlo, quindi mi complimento davvero tantissimo con chiunque sia giunto fin qui), la vicenda abbia saputo offrirvi un modesto intrattenimento, e che abbia saputo passarvi un pizzico di speranza. In fondo, lo scopo ufficiale dell’intero racconto era proprio questo, ovvero tentare di mostrare che, anche quando sembra che si stia toccando il fondo, esiste pur sempre un domani. E in un domani, anche imminente, il sole tornerà sempre a sorgere di nuovo.

Grazie a chi ha continuato a sostenermi fino a questo punto! Lunedì prossimo vi ringrazierò ancor più approfonditamente.

Grazie di cuore a tutti, e buona giornata! A lunedì prossimo.

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Capitolo 39
*** Epilogo ***


Epilogo

EPILOGO

 

 

 

 

 

 

I miei ricordi si fermano qui. Tutto il resto, poi, è venuto da sé.

Non so cosa mi abbia spinto a ripercorrere questo mio percorso di vita, iniziato un anno e mezzo fa, ma sono a conoscenza del fatto che rievocare questi momenti mi sia stato di grande aiuto, in questo preciso istante.

Tremo come una foglia, ho paura. E allora sospiro di nuovo, socchiudo gli occhi e lascio che il mio pensiero torni di nuovo a sfiorare l’integrità di quel grande quadro che i miei ricordi sono appena riusciti a formare e a dipingere con colori sgargianti, come se avessi appena vissuto quelle situazioni solo due ore prima, quando invece ormai è trascorsa un’eternità relativa di tempo.

Ho paura, e la paura vuole offuscare ciò che è in me e attorno a me, e la percezione che ho del mondo che mi circonda, ma non devo lasciarmi influenzare da essa, mi è stato detto più e più volte.

Non sono più il ragazzo timido all’inverosimile, ed è vero che un po’ sono maturato nell’ultimo anno, ma comunque ogni volta che devo affrontare anche solo una piccola prova, ecco che torna a galla tutta la mia stressante fragilità.

È brutto dover lottare sempre con sé stessi, e a volte sogno di avere un carattere forte e motivato, uno di quelli dei soggetti che sono sempre sicuri e pronti a compiere ogni genere di scelta in modo incredibilmente calcolatore e consapevole, nonostante considerando anche che magari la situazione è a loro avversa. Ma le persone che hanno un carattere del genere o sono stupide o sono eroi, oppure stanno recitando in un film d’azione, ed io non credo di appartenere ad una di queste categorie.

Ora, d’altronde, mi è stato solo richiesto di mettere pubblicamente in mostra ciò che ho avuto modo di imparare e di perfezionare gli ultimi quattordici mesi della mia vita, e siccome mi è stato pure detto che sono ritenuto già abbastanza capace, tutti si aspettano molto da me. Forse troppo.

Su questo palco, che tra poco s’illuminerà, sarò fissato da mia madre, e da tutta la mia famiglia, ed io, concentrato e quasi abbagliato, non farò più alcun caso alle loro presenze. Ma forse non sarà così. Chissà.

Il verme del dubbio tarla il mio cuore, e la paura stritola implacabilmente la mia mente.

E allora, che posso fare?

Mancano solo due minuti prima dell’inizio di tutto, ed ho già preso posizione. Mi han fatto provare sei o sette volte tutto quanto, in modo da non farmi trovare in alcun modo spaesato quando sarebbe giunto questo momento, eppure io lo sono ugualmente.

Credo che resterò rigido, pietrificato su questo scomodo sgabello e di fronte a questo pianoforte. E quando le luci si accenderanno e il sipario si alzerà, gli spettatori potranno vedere solo una statua immobile, un essere umano irrigidito che ha il terrore di muoversi e che non sa che fare.

Che figuraccia immensa. Tradirei la fiducia di tutti.

Ora mi restano quindi all’incirca centottanta secondi per salvarmi da me stesso e dalle mie paure. Per allungare un braccio metafisico alla mia coscienza vacillante e risollevarla, per non lasciarla mortificare. E quindi mi lascio nuovamente scivolare in quella marea di ricordi che ho appena finito di riportare alla luce, trovando di nuovo la forza di rivivere quei momenti che mi hanno fortificato e che mi hanno aiutato a capire tante cose e a crescere. Prima fra tutte, ho compreso che la speranza non deve morire mai.

Ormai ci ho fatto un bagno, in quei ricordi; negli ultimi minuti, ho ripercorso una parte del mio passato in modo attento e peculiare, senza tralasciare nulla, neppure le parti più dolorose per me, ma tutto questo l’ho fatto per farmi coraggio e fortificarmi. Nulla sarà più come prima. Voglio voltare pagina.

In realtà, l’ho già voltata; sento il piacevole calore che comincia a riscaldare il mio cuore, e anche la mia mente, poiché mi è venuto istantaneamente da pensare alla mia nuova famiglia. Esattamente, la mia nuova famiglia.

Se solo ricordo il giorno in cui mia madre mi ha riferito, cinque mesi dopo la partenza di Livia da casa nostra e a seguito della successiva separazione tra Roberto e l’aristocratica, che lei e il nostro caro inquilino avevano cominciato ad avere una relazione, ancora mi emoziono.

Mi emoziono perché avevo previsto tutto ciò. I due avevano legato sempre di più, dopo il definitivo scatafascio di entrambe le loro famiglie, e mamma Maria pareva sentirmi sempre più distante, anche perché passavo meno tempo tra le mura domestiche. Ma non ha più cercato di impedirmi di vedere i miei parenti, né ha più indagato a riguardo.

So solo che, come una benedizione del Cielo, qualche giorno dopo questa rivelazione giunse a casa una lettera, scritta da un qualche avvocato pagato da mio padre, che la invitava, se voleva, ad andare a firmare gli atti per la separazione, e poi in seguito per il divorzio. Per lei era stata la fine di un incubo, tutto ciò, e, a piccoli passi aveva cominciato a prendere in mano le redini della sua vita e del suo nuovo amore, che io non avevo mai osato tormentare. Maria e Roberto, dopo tutto quello che avevano sopportato e il loro passato, meritavano di riuscire a ricostruire qualcosa di umano, nonostante l’età ormai matura.

La proposta di mio padre parve a tutti quasi un regalo, e la mamma la colse al volo. Nel minimo tempo necessario, tra lui e mia madre non c’era più alcun vincolo.

Mamma Maria poi ha compiuto la sua scelta, ovvero quella di stare a fianco del suo Roberto, anch’egli libero, ed allora la mia famiglia si è ritrovata ad essere riformata.

Tutto è poi cambiato nella mia vita, nella mia e in quella di Jasmine, dato che io mi sono trovato a seguire mia madre e il suo nuovo compagno, e la mia amata invece, dopo aver concluso le superiori, ha scelto di cominciare a frequentare l’università, ed ha lasciato anche lei il nostro paesetto.

Io ora vivo in campagna, nella grande casa di proprietà di Roberto, dove c’è tanto spazio per tutti e anche tantissimo lavoro da fare, tra animali e terre da coltivare, mentre Jasmine vive a Bologna quasi in pianta stabile.

Dopo il nostro trasferimento, alla fine del mio quinto anno di liceo, tra l’altro conclusosi in modo brillante e con un’ottima valutazione finale, ho deciso di seguire il mio cuore e mia madre, e non il mio orgoglio, che magari mi spronava a cercare di voler continuare il mio percorso scolastico e di completarlo al meglio.

Non so se ho sbagliato a non farlo, però so con chiarezza che, da quando vivo in campagna, sto molto meglio, e, tramite i lavoretti che ci sono da fare, ho trovato anche una maggior pace con me stesso e con il mondo che mi circonda. Ho imparato a volermi più bene, e anche che per crescere e diventare autonomi serve pure una buona dose di lavoro, e qualche piccola responsabilità.

Ho imparato ad apprezzare lo sforzo fisico, sempre comprendendo che esso sa dare ottimi risultati, anche se magari sa costare molto, in ambito di forza e di fatica.

Così, lavorando presso quella sorta di fattoria di Roberto, tornata lustra e perfettamente funzionale come un tempo, sto mettendo da parte un po’ di soldi e sto alimentando una parte di me che fino a qualche tempo prima mi era totalmente sconosciuta, ma che ora mi fa stare meglio.

Sono sempre più rilassato, e più tranquillo, anche perché pure mia madre e il padrone di casa lo sono, talmente tanto che all’età di quarantadue anni mia madre è rimasta nuovamente incinta. Ma questo è tutto un altro discorso.

Con la mia Jasmine continuiamo a vederci assiduamente, quando possiamo; cerchiamo di organizzarci e di trovare tempo per tornare entrambi e allo stesso momento in paese, e per passare così un paio d’ore assieme.

Lei, naturalmente, non ha mai messo in un angolo quel suo sogno, di cui mi parlò in quel Natale magico e ormai distante, ma continua a sostenere la sua passione per la scrittura tramite lo studio. Poi, tutto il resto verrà da sé, mi dice sempre, ed io non posso far altro che essere totalmente d’accordo con lei. E’ molto brava ed ha risultati brillanti in tutto quello che fa, e sono certo che ha un futuro raggiante davanti a sé, se lo vorrà e lo asseconderà.

La nostra relazione continua a restare ancora molto casta, per ora, ma ha basi solidissime, e senza fare quattro chiacchiere ogni giorno noi non viviamo in pace. Siamo sempre in contatto, costantemente, ed abbiamo bisogno l’uno del supporto dell’altra, e viceversa, perché noi due ormai siamo uniti da un filo invisibile, che ci tiene sempre vicini nonostante le notevoli distanze geografiche.

È vero che ormai ho anche la patente e la mia auto, una piccola utilitaria di seconda mano ma ben funzionante, ma non mi arrischierei mai di mettermi nel traffico di Bologna con un macinino del genere, quindi tutt’ora preferisco il treno, anche se poi da lei ci sono andato raramente, a trovarla nell’appartamento che ha preso in affitto assieme ad un’altra studentessa.

Per fortuna esistono telefoni e incontri a metà strada.

Il mio amore per lei non è mai diminuito nell’ultimo anno, e penso che anche per lei stessa sia così.

La nostra casa in paese abbiamo preferito affittarla regolarmente e nel rispetto di tutte le leggi a Stefania, che ora, nonostante tutto, ha saputo rimettere egregiamente in piedi la sua vita, e anche se c’è l’accordo che io posso andare ad utilizzare la mia stanza quando sono lì di passaggio, l’unica di cui l’inquilina non può varcare neppure la soglia, grazie ai nostri accordi, questo non la turba e non turba neppure me.

La ragazza ha partorito una bellissima bambina, chiamata Veronica, che ha ormai un anno e mezzo e che è piena di vita. È sempre un piacere per me vedere la mia sorellina, che tra l’altro la trovo molto somigliante a mio padre, nell’aspetto fisico.

Stefania alla fine è riuscita a trovare un lavoro, anche se a suo dire è parecchio sfiancante, presso un call center, dove per otto ore al giorno è impiegata per compiere telefonate a scopo pubblicitario per una nota azienda della zona. Lei se ne lamenta, e un po’ la capisco, però lo stipendio è buono e dignitoso, quindi basterebbe che al momento si accontentasse di tutto ciò, vista anche la crisi e i problemi economici di tutti.

Nel tempo, è pure riuscita a riallacciare per bene i rapporti con i suoi genitori.

È riuscita anche, con parecchia fortuna, a trovare un ragazzo che vuole molto bene sia a lei che a sua figlia; costui si chiama Daniele ed è un vero fior di giovane, di quei galantuomini che al giorno d’oggi non si trovano più, dotati di quella pacatezza e di quella gentilezza sempre più rare. Ho come la vaga impressione che ben presto ufficializzeranno e regolarizzeranno, tramite matrimonio, la loro relazione, e questo mi fa piacere pensarlo.

Entrambi versano un piccolo affitto a mia madre, che si accontenta di poco, e la nostra casa in paese ora è praticamente e quasi totalmente a loro completa disposizione, tranne la mia stanza, come già ricordato, che utilizzo comunque davvero pochissimo e senza disturbare la quiete e l’intimità della novella coppia.

So per certo che mio padre è tornato a farsi vivo da Stefania, così come ha cercato di farlo pure con me, ma ha trovato tutte le porte sbarrate.

Mio padre sembra volerci dire costantemente che è cambiato, che nell’ultimo periodo ha capito ciò che vuole davvero dalla vita, e l’ha capito poco dopo la sua ultima fuga da casa nostra, durante quella nevosa notte di pieno inverno. Il suo segnale d’apertura sarebbe stato la sua volontà di voler sciogliere il legame che l’univa alla moglie, in modo da lasciarla libera, e il desiderio di vedere la piccola Veronica e me.

Stefania si appellerà ai migliori avvocati, assieme al suo compagno, per impedire che ciò avvenga fintanto che la bambina è troppo piccola, in quanto certa di poter dimostrare che l’uomo è da sempre stato scorretto e violento con lei, e senza rispetto per la sua gestazione, mentre io… beh, per quanto mi riguarda, con lui ho chiuso. Non è tanto il fatto che sia il suo volto a farmi paura o altro, ma ho il panico che possa aprire la sua bocca per ferirmi, per deridermi, così com’è accaduto tante altre volte.

Ecco, un brivido freddo mi percorre dalla testa ai piedi anche al solo pensiero che ciò possa di nuovo accadere, e quindi non lo voglio tra i piedi.

Gliel’ho detto chiaramente, rispondendo ad uno dei tanti messaggi che nell’ultimo periodo mi ha inviato sul cellulare, e chissà come ha poi fatto ad avere il mio numero. Dev’esserselo copiato da solo dalla rubrica telefonica di mia madre, quand’era ancora in casa nostra. So solo che deve starmi lontano, di lui non mi fido più.

So che è brutto da pensare, e di certo una parte recondita del mio animo si sta agitando, in preda al rimorso per la mia cattiveria, ma non riesco più a vedere Sergio come un genitore o come una persona che si preoccupa per chi gli sta al fianco. Sa solo ferire.

Questo invece non lo sa fare Melissa, sua nipote e mia cugina, che invece mi è sempre stata a fianco. E’ venuta più volte a casa nostra, in seguito, e incredibile a dirsi ma eppur vero, è andata parecchio d’accordo con mia madre, che pare apprezzarla molto. E questo mi fa piacere, anche perché sento spesso pure le altre cuginette, e anche con loro pare essere tutto a posto.

Il nonno ha mantenuto la sua promessa, ed io la mia, alla fine; ora, anche se purtroppo non sta molto bene ultimamente, continua a far sì che un ottimo maestro di piano non smetta di darmi lezioni e di perfezionarmi, ed io ho accettato ben volentieri questa situazione.

Mi piace continuare ad apprendere e migliorarmi. Forse, come mi dice sempre quell’uomo stipendiato da mio nonno, un giorno potrò davvero diventare qualcuno, e ogni passo avanti per me sarà fondamentale… ma queste non sono cose a cui devo pensare adesso. Ora posso permettermi solo di stare concentrato sul presente, e non devo pensare ad altro.

Manca un minuto all’inizio di tutto. O alla fine di tutto. È relativo.

È incredibile comprendere quante cose si possano pensare in un minuto, all’interno della nostra mente; in sessanta secondi si può trovare il coraggio dentro di sé, che fifone, contrariamente a quel che si dice, si è andato a nascondere nell’angolo più remoto del nostro essere. E sta a noi ritrovarlo, per poi metterlo con le spalle al muro e scuoterlo, gridandogli che non deve lasciarci soli, per poi rimetterlo al suo posto.

Lui non può e non deve lasciarmi solo, sempre se un po’ di coraggio ne ho mai avuto. Tuttavia, sono sopravvissuto a diverse situazioni, anche grazie all’aiuto provvidenziale di qualche amico importante, quindi credo che potrò comunque cercare di superare questa prova tanto importante per me, in un modo o in un altro.

Grazie a Giacomo, quel ragazzo che per tanti anni avevo ritenuto diverso e distante da me, avevo scoperto il valore dell’amicizia più profonda, e mi aveva salvato quella volta in cui stavo per soccombere, quando quella banda di prepotenti mi stava legnando per strada.

Senza il mio caro Giacomo, non sarei di certo giunto qui illeso. Anzi, qui non ci sarei mai arrivato, perché Federico e la sua banda mi avrebbero portato via tutto, strappandomi anche l’ultima briciola di dignità che mi portavo addosso. Non sapevo fin dove si sarebbero spinti, e chissà, magari mi avrebbero reso solo un ammasso di poltiglia, sotto i colpi di quella sbarra di ferro che possedevano… ma ecco, ora sto tornando ad esagerare. E devo tenere i piedi ben saldi al suolo.

L’irrazionalità dettata dalla paura è un nemico perfido, che ti fa vagheggiare e che poi ti lascia di stucco. Io devo assolutamente controllarmi, e quindi mi concedo gli ultimi quaranta secondi di tempo per ripensare ai miei amici, e in modo del tutto particolare ed esclusivo al mio Giacomo, che ancora frequento, contrariamente a tutti gli altri miei compagni di liceo, ormai tutti partiti per Bologna e occupati in altre situazioni, in genere universitarie.

Lui all’università non c’è andato, proprio come me, ed ora è un apprendista meccanico presso le officine di suo padre. Si è fidanzato anche lui, e con… Alice.

Alice, la mia lottatrice, che pian piano ha saputo mettere in difficoltà un male più grande di lei, grazie alla sua motivazione e alla sua riscoperta voglia di vivere.

La ragazza, dopo essersi risvegliata, lentamente aveva saputo riprendere le forze. Jasmine le è stata molto a fianco, io pure, e in questo modo è venuta anche in contatto con Giacomo. E tra i due c’è stato feeling fin da subito. E’ solo un mese che si sono messi ufficialmente insieme, e anche se tutto è davvero complicato e la ragazza deve ancora seguire delle cure intensive e un lento percorso di ritorno alla normalità, sembra che la loro storia, in fin dei conti, funzioni.

Mi viene quasi da sorridere, bonariamente s’intende, se ripenso a quando, qualche giorno fa, ho rinvenuto casualmente l’accendino della ragazza, all’interno dell’unico cassetto del mio comodino, che apro raramente.

Se mi vengono in mente le circostanze in cui mi era finito tra le mani, però, mi rabbuio. So solo che mi ero totalmente scordato della sua esistenza, dopo che tutto il patatrac che accadeva in casa mia e attorno a me pareva avermi letteralmente assorbito in un turbinio caotico, e ritrovarmelo di fronte e per caso mi aveva lasciato allibito.

Mi aveva ricordato quei giorni in cui avevo preferito allontanarmi da lei, preferendo la mia autostima ad un tentato approfondimento o aiuto, quand’anche io non fossi nessuno, e come in quel lontano periodo stessi perdendo tutta la mia dignità per via delle prepotenze schiaccianti di quel mostro di Federico… non voglio ricordare. Non voglio ora, e non ho voluto un paio di giorni fa. Per me quello è un capitolo chiuso, che ho voluto sfogliare nella mia mente qualche istante prima, ma che non voglio tornare a renderlo mio.

Comunque, alla fine quell’accendino l’ho cestinato.

Volevo dimenticare, nella mia umana voglia di non voler avere più rimorsi a riguardo di nulla.

Riguardo a quel pazzo prepotente, non ho saputo più nulla direttamente; sono solo venuto a conoscenza da Roberto che sia lui che sua madre hanno avuto grandi problemi con la Legge.

Alla fine, Federico è finito in carcere, e a quanto parrebbe per ora sarebbe stato destinato ad un anno e mezzo di detenzione. Nulla, in confronto a tutto il male che ha fatto, ma è pur sempre qualcosa.

Livia, da quel che sappiamo, è ricoverata presso una clinica psichiatrica di Bologna ed ha perso la ragione, poiché quell’uomo che aveva sempre amato e che era stato per un certo periodo di tempo il suo amante, e che l’aveva spinta come un caterpillar a rompere con Roberto, l’aveva lasciata. Di nuovo.

Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, dovresti saperlo ormai, cara aristocratica.

Così, la donna, rimasta senza figlio e senza amore, impotente e sola, è mentalmente crollata in modo definitivo.

Dei loro amichetti Davide, Giulio e Luca, beh, non so quasi nulla neppure su di quelli. Sono solo venuto a sapere tramite Giacomo che Giulio e Luca si sono trasferiti in un altro paese con i loro genitori, alla fine delle superiori, e Davide invece è rimasto, e dopo aver avuto anche lui numerosi problemi con la Legge, alla fine è riuscito ad essere assunto dallo zio calzolaio, dove cerca di imparare, con scarsi risultati, quel mestiere ormai sul ciglio di sparire per sempre. Quella d’altronde è l’unica chance dignitosa che il destino gli ha offerto.

Tutta questa gente non l’ho vista più, per fortuna, ed oggi… oggi, beh, io sono libero. Ma non potevo non ricordare.

E la mia mente mi tormenta! A tratti non riesce proprio a non sottolinearmi di nuovo che è pressoché impossibile credere che in pochissimi secondi si possono pensare un’infinità di cose. In questo caso, rievocare.

Tic tac, so che ormai ho consumato tutto il mio tempo disponibile, quello che mi ha permesso di stare chiuso in me per ore, prima di questo momento, in modo da non cercare di stressarmi troppo a livello psicologico e di ripercorrere, tentando di restare rilassato, il cammino che, in un modo o in un altro, mi ha portato fin qui.

In fondo, tutto quello che è accaduto mi ha fortificato, e mi ha aiutato tantissimo a comprendere che ogni giorno il bene si mescola con il male, ed abilmente, e sta a noi stessi cercare di sezionarlo e di riconoscerlo, stando attenti.

Le botte e gli insulti di Federico, uniti alle sue oppressioni fisiche e mentali, sono ormai acqua passata, ma se un giorno mi riaccadrà di trovarmi in una situazione del genere, sono certo che agirò fin da subito, in un qualche modo possibile. Non subirò più così, non starò più con le mani in grembo e in assoluto silenzio a soffrire. Una soluzione rapida c’è sempre, per tutto, anche se potrà avere un suo costo; basta sapere far bene i propri conti.

Io ho avuto modo di cominciare a farli in modo traumatico, e sono riuscito ad ottenere qualche risultato grazie all’aiuto di un caro amico, ma questo in fondo è solo l’inizio. Sono giovane, e la vita mi attende come una madre paziente, aspettandosi da me il meglio. Devo solo vivere come meglio posso, mettendo sempre il cuore in tutto quello che faccio. Il resto, si spera, verrà da sé.

Il cammino umano è sempre lastricato in modo a volte disconnesso, con buche ed avvallamenti, a sorpresa purtroppo, e una persona può pure cadere a volte. L’importante è sapersi rialzare, sempre e comunque, anche se sporchi ed impolverati.

I panni si lavano, la coscienza no. Basta ricordarlo…

Con un profondo sospiro, comincio ad odiare l’ultima manciata di secondi che mi separano dall’inizio di tutto.

Voglio che tutto inizi e voglio giocarmela, questa occasione unica. Il mio maestro privato mi ha preparato per un anno per questo evento, ovvero un piccolo concerto musicale del paese, nulla di che, ma sempre qualcosa, dove tutti i giovani musicisti della provincia si radunano ogni anno per fronteggiarsi ed aggiudicarsi il primo premio.

Quest’anno, si è fatto incetta di pianisti, ma alla fine si sono presentati davvero in pochissimi… e questo mi dispiace.

Ma la gara è comunque entusiasmante.

Io sono l’ultimo ad esibirmi. L’ultimo per cui il sipario del teatro del paese si alzerà, l’ultimo che riceverà qualche applauso.

È notte fonda e la mia testa naviga verso i miei ricordi, verso il mio passato, ma l’ora di rimembrare è conclusa e comincia il momento di mettersi alla prova. Questa, ne sono certo, sarà solo e soltanto la prima, minuscola sfida che voglio affrontare, nel mio percorso musicale.

Se andrà bene, il prossimo anno mi iscriverò ad un conservatorio a Bologna e lì potrò ancor più affinarmi. Anzi, mi iscriverò ugualmente, vada come vada, ormai ho deciso.

Ho preso una decisione così, su due piedi, confrontandomi con una proposta del mio insegnante e senza pensare o riflettere. Son messo bene! Ma la mezzanotte incalza, così come il sacrosanto momento che sto aspettando.

Ed ecco che… alla fine il sipario si alza, ed io accantono subito i miei pensieri!

Per carità, essi mi assillano. È come se non volessero proprio concedermi una tregua, mai. Ma ora lo so che finiranno accantonati.

Ormai alzato, in un lampo, il siparietto che mi divideva dal pubblico, mentre attentamente cerco di concentrarmi e di rilassarmi, mi appare di fronte e per un attimo tutta la platea. Nonostante l’ora ormai tarda, il teatro storico del paese è ancora pieno, ricolmo di gente.

A me non importa vedere chi c’è, ma con una rapida occhiata, prima che l’oscurità risucchi i miei osservatori per tutto il mio momento di attività, riesco a scorgere, seduti nelle prime file, tutti coloro a cui voglio bene. C’è mia madre assieme con Roberto, proprio al di sotto del palco, e Giacomo e Alice, seduti a fianco di una Jasmine tesa quanto me.

Mio nonno ha fatto uno straforo per me, ed è in seconda fila assieme a Melissa, che l’ha accompagnato fin lì, e apprezzo il fatto che sia voluto venire lo stesso a vedere quella mia sorta di minuscolo debutto, nonostante non stia tanto bene.

So che Stefania non c’è, nonostante l’avessi invitata; la bambina durante la sera ha bisogno di molte attenzioni, e non poteva lasciare a casa la piccola e neppure portarsela dietro.

Sono tesissimo, mentre la luce forte e quasi abbagliante si accende sopra di me, quasi schiacciandomi sotto di essa. Ma, una frazione di secondo prima che ciò accada, riesco a vedere una figura strana, che spintonandosi con altre persone e facendosi largo tra le varie file di poltroncine, avanza per guadagnarsi un posto per vedermi meglio all’opera, in modo molto maleducato.

Non stento a riconoscere mio padre.

Mi mancano improvvisamente un paio di battiti cardiaci; ho paura di sentirmi male. No, quell’uomo non lo volevo lì.

Mi giudicherà, e di certo si è presentato solo per farmi del male o per deridermi.

Questi sono i miei primi pensieri, che poi lasciano posto a quelli poco più positivi, e già vedo il mio genitore orgoglioso di me. No, non è così, sto mentendo a me stesso e sono certo che lui non è qui per qualcosa di buono; per un istante, nella mia mente tornano a scorrere le scene in cui lui mi derideva, e quella volta in cui ha schiaffeggiato Stefania e ha quasi picchiato pure me e mia madre. Lui è un mostro, e i mostri non cambiano mai.

Incredibilmente turbato da quei ricordi e da quella scoperta, mi ritrovo di fronte al mio pianoforte, solo, mentre tutti già si aspettano che io inizi a darmi da fare. Ma ne sono capace? Ci riuscirò? Non lo so proprio.

Sta di fatto che la presenza di mio padre è molto demotivante per me, mi terrorizza. Per un altro attimo provo astio. Poi capisco.

Sia che lui ci sia o meno, devo impegnarmi per fare bene. Sono giunto fin qui dalla mia nuova residenza in aperta campagna solo per mostrare a tutti ciò di cui sono capace e per cui mi sono preparato, e non ho intenzione di deludere nessuno. La presenza del mio perfido genitore dev’essere per me un incentivo in più per fare ancora meglio ed impegnarmi oltre misura.

Devo ricordare che vengo da anni terribili, da un doloroso trasloco, perché lasciare la casa dei miei ricordi per trasferirmi è stato un grande dolore, e che mia madre è lì che mi osserva, al sesto mese di gravidanza. Lei, a quarantadue anni ormai, con quel pancione… è venuta nonostante sappia che è tutto rischioso per la sua condizione delicata.

Essere rimasta incinta alla sua età è stata una scelta quasi scellerata, ma fortemente voluta. Roberto quel bambino se lo merita, nonostante si faccia un sacco di problemi sulla sua età.

Questo mi fa sorridere, perché forse non ha inteso che il suo fratellone, il suo fratellastro maggiore, non lo lascerà mai solo, qualunque cosa accada. Nonostante il fatto che ormai la mia sia una famiglia allargata, in pieno rispetto con l’evoluzione della famiglia del periodo, io voglio bene a tutti e mi riprometto sempre che, per i miei consanguinei, anche solo da parte di un genitore, ci sarò sempre. Sempre.

Con questi pensieri, mi sento ulteriormente orgoglioso di me.

E’ normale per ogni essere umano, alla fine di ogni vicenda, pensare a chi ha vinto e a chi ha perso. Ma devono esserci per forza ed ogni volta dei vinti e dei vincitori? No, nella mia esperienza personale non posso dire ciò.

Chi ha vinto? Chi ha perso? Beh, di certo Federico, Livia e mio padre hanno sicuramente perso qualcosa, mentre Alice sta cercando di vincere una battaglia sovrumana.

Posso solo aggiungere che, almeno secondo me, vince sempre chi ama. Gratuitamente.

Quanto è bello l’amore? Amare Jasmine mi ha aperto un mondo. Alice dice lo stesso di Giacomo e Giacomo dice lo stesso di Alice.

Amare è la cosa che più dà forza all’essere umano e che più lo spinge a voler bene anche a sé stesso. Quando si ama, nessun ostacolo pare impossibile da superare. L’amore è forza interiore.

In conclusione alla mia frettolosissima riflessione, forse anche banale e scontata sotto certi aspetti, posso solo aggiungere che io, personalmente, del profondo odio non ne sto rivolgendo a nessuno e mai lo farò. Anche alla fine di quei cinque mesi orribili io non odiavo nessuno, e non ho intenzione di provare continuamente rancore né per mio padre né per altri.

L’odio sa essere come una droga, può far sentire potenti, ma mai quanto l’amore. Chi odia lo fa perché non ha mai assaggiato il più profondo, vero e puro amore.

Ebbene, la tastiera ora è di fronte a me e mi reclama davvero; non ho più scuse.

Non posso più fermarmi a riflettere, pensare o altro. Devo solo suonare.

Muovo le mie dita ma non suono, e già sento su di me gli sguardi pressanti di tutti, come se già molti di essi pregustassero un qualcosa di vergognoso per me, ovvero che io non riuscissi a combinare nulla.

La mia timidezza riesplode, in un attimo la sento per tutto il corpo, m’impaccio da solo… eppure, ecco, un po’ di forza l’ho trovata, mentre un piccolo applauso d’incoraggiamento lascia spazio al silenzio più assoluto degli spettatori.

Sono riuscito a scovare un pizzico di coraggio, proprio dentro di me, e utilizzandolo come alleato mi getto finalmente sui tasti, con decisione, così come facevo tempo addietro quando, dopo essere tornato a casa dal liceo, mi mettevo a suonare per rilassarmi.

Ora so, con certezza, che devo giocare la mia chance.

Come mi sussurrerebbe Roberto all’orecchio, questa è la mia occasione per mostrare a tutti che io, nel gioco della vita, voglio partecipare con attenzione e voglio giocarmela, in ogni caso. Anche se in realtà si tratta di una piccola cosa. Ma è spesso dalle piccole cose che tutto ha inizio…

E allora tutto nella mia mente viene dimenticato, mi lascio trascinare dalla mia voglia di suonare, ritrovata in un angolo sperduto del mio animo, in compagnia del codardo coraggio, sempre intento a nascondersi quando serve, e non mi fermo più.

Non mi fermo, mi rilasso e suono, dando un’occhiata allo spartito che ho di fronte, e vada come deve andare. È giusto così, e l’indomani per me sarà sempre e comunque un nuovo giorno, che mi ritroverà più forte ed esperto del precedente.

È ora di dire momentaneamente addio ad ogni mio pensiero o ricordo, alla mia intera coscienza, e di lasciare spazio solo e soltanto alla musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Carissimi, eccoci alla fine di questo lungo viaggio, durato la bellezza di… nove mesi. Nove mesi! Se ci penso, stento a crederci.

Il racconto doveva essere solo una OS; ricordo di aver scritto il primo capitolo della vicenda a metà d’ottobre dello scorso anno. Non avevo alcun progetto particolare per lui.

Ed invece, a sorpresa, ne è venuto fuori un racconto articolato, e spero anche decente.

Questo racconto ha passato tanto a me, come ho già detto ha saputo essere un fedele compagno di viaggio, in un anno che, sicuramente, non è stato molto positivo e ricco di buone notizie. Nonostante tutto, lui mi ha dato forza, sostenendomi. Scrivere mi rilassa da sempre, e per me è sempre una gran gioia farlo.

Questo racconto doveva offrirmi il tempo per prepararmi ad uno più impegnativo, ed invece si è rivelato davvero come una rivelazione inaspettata.

Non chiedetemi perché è ambientato in Emilia; sinceramente, è l’unica cosa che non so. Bologna e i suoi paesini circostanti non sono il luogo in cui vivo, ma sicuramente mi hanno colpito a suo tempo e mi hanno saputo ispirare.

Riguardo alla trama, beh, essa mi ha permesso di sfogare la mia creatività, cercando sempre di restare nella verosimiglianza, almeno spero. Inoltre, il racconto ha saputo offrire anche a me stesso un po’ di positività, un po’ di forza per guardare il futuro in modo più positivo.

Bene, questa allora è la fine di questo lungo viaggio; lasceremo Antonio alle prese col suo presente e col suo futuro, com’è giusto che sia. E, a questo punto, non posso far altro che ringraziare chiunque ha creduto in questo racconto, e mi ha seguito fin qui!

Sono rimasto piacevolmente e parecchio stupito dal seguito che ha avuto la vicenda. Voglio ringraziarti, caro lettore e cara lettrice, per tutto il supporto che mi hai offerto. Io e tutti i vari personaggi del racconto ti ringraziamo tantissimo e all’infinito per tutto!

Grazie anche per aver letto questo racconto. So di non essere un autore facile da seguire, e di certo comporta un bel sacrificio leggere i miei capitoli forse un po’ troppo articolati. Comunque, tutte le parole positive e i complimenti che ho ricevuto mi hanno fatto sentire fiero del lavoro svolto, e poi… mi sono reso conto che tanti di voi mi hanno passato qualcosa, e che questo è stato un viaggio condiviso. C’è stato qualcuno che mi ha parlato del mio racconto vedendolo già come una serie tv, chi mi ha narrato esperienze personali… insomma, seriamente, è stato un viaggio condiviso che mi ha passato tantissimo e che mi ha interiormente arricchito.

Bene, io continuo a ringraziarvi tutti quanti e per tutto, e vi chiedo scusa per queste note lunghissime, ma mi sembrava giusto spendere due parole in più sull’intero racconto, sperando di non avere annoiato.

Vorrei soltanto aggiungere che questa non è stata l’ultima avventura che sarà pubblicata da me qui sul sito. Dal prossimo lunedì, cercherò di cominciare a pubblicare un altro racconto, di tutt’altro genere però. Il destino e la speranza, questo il suo titolo, è una storia che sto scrivendo da più di un anno e mezzo e che, purtroppo, non ho ancora concluso, ma che mi ha portato a studiare e a prepararmi a dovere. Spero che possa rivelarsi un viaggio interessante per un qualche lettore, e se qualcuno di voi vorrà continuare a seguirmi, sarò felicissimo di ringraziarlo.

Grazie di cuore a tutti, e a presto, carissimi lettori! J

 

 

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