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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologue; *** Capitolo 2: *** [1] All The Stories are True; *** Capitolo 3: *** [2] Half Alive, Mostly Dead; *** Capitolo 4: *** [3] City of Desolation; *** Capitolo 5: *** [4] I'm coming for you; *** Capitolo 6: *** [5] The Darkness before Dawn; *** Capitolo 7: *** [6] Whither thou goest (I will go); *** Capitolo 8: *** [7] Knocking on Heaven's Door *** Capitolo 9: *** [8] Jonathan ***
Premessa. Questa storia è una what-if e si sviluppa a partire di Città delle Anime
Perdute. Incomincia durante il combattimento fra Shadowhunters
e Ottenebrati, durante la quale Clary vuole usare la
spada di Michele per dividere Sebastian e Jace. Le
parti in corsivo sono tratte direttamente da quella scena del libro. Ringrazio collega per la meravigliosa copertina!
«Perché
son caduti gli eroi
in mezzo alla battaglia?
Giònata, per la tua morte sento dolore,
l'angoscia mi stringe per te,
fratello mio Giònata!
Tu mi eri molto caro;
la tua amicizia era per me
preziosa
più che amore di donna.
Perché son caduti gli eroi,
son periti quei fulmini di
guerra?»
Davide - Antico Testamento. 2 Samuele
1, 25-27
City ofTradedSouls
Prologue;
«Aveva le mani
coperte di sangue misto a pioggia, la stessa pioggia che lavava il sangue dal
petto, rivelando la runa mentre cominciava a scolorirsi da nera ad argentea, trasformando
tutto ciò che aveva senso nella sua vita in nonsenso. Jem
era Morto.»
Will Herondale – Le Origini, La
Principessa. Cassandra Clare
Irlanda, The Burren
– Il Settimo Sito Sacro
La battaglia
infuriava, macchiando di sangue il terreno brullo del Burren.
Figure
nere e rosse cozzavano le une contro le altre, brandendo spadoni, colpendo per
uccidere.
Guerrieri
feriti continuavano a cadere a terra. Clary provò una
fitta di dolore, facendo scorrere lo sguardo sui tanti Shadowhunter
in nero riversi sul terreno.
Continuò
a correre, la Gloriosa che le ardeva in mano. Un fischio tagliò l’aria,
accompagnando una freccia dritta al cuore di un oscuro di fianco a lei. Clary promise a se stessa che, se mai fossero usciti vivi
da quello scontro, si sarebbe complimentata con Alec per la precisione e
l’efficienza dei suoi tiri.
Con
lo sguardo scrutò disperatamente la folla in cerca di Sebastian. Non lo vedeva,
ma sapeva che era dietro l’assembramento compatto di Shadowhunters
oscuri attraverso cui si era dovuta fare largo a pugni. Stringendo la spada, si
avvicinò al gruppo, ma trovò la strada sbarrata.
Da
Jace.
“Clary.”
La
ragazza slittò all’indietro, rabbia e urgenza a contendersi il suo volto.
La
spada divampava, scivolosa nella sua presa.
“Jace. Togliti di mezzo.”
Il
ragazzo si mosse verso di lei, con la stessa cautela di chi si trova davanti un
animale recalcitrante. I suoi occhi d’oro erano inespressivi,
impenetrabili. Il suo viso era livido e sporco di sangue.
“Dammi
quella spada, Clary.”
“No.”
Clary arretrò ancora, rinsaldando la
presa sull’arma. La Gloriosa illuminò lo spazio che stavano occupando,
l’erba calpestata e sporca di sangue attorno a Clary,
Jace che si muoveva verso di lei.
“Jace. Posso separarti da Sebastian. Posso ucciderlo senza
fare del male a te…”
“Ucciderlo?”
Il
viso di Jace si contrasse.
“Sei
impazzita?”
Qualcuno
si mosse dietro di loro. Clary ne percepì la presenza
ancor prima di vederlo. Aveva i capelli castani arruffati dal sudore e
un’espressione nuova, decisa e concentrata: Simon fissava Jace
con i canini scoperti, pronto ad attaccare alla prima mossa falsa del ragazzo.
Jace lo ignorò.
“Dammi
la spada” ripeté, rivolto a Clary.
Aveva
la mano tesa, il mento sollevato, e parlava con fare imperioso.
Clary alzò la Gloriosa, sostenendone il peso
con una mano sola, e si preparò a colpire.
Qualcuno
la travolse, scontrandosi contro le sue braccia.
Qualcuno
di rapido e inaspettato, ma forte, come un colpo di freccia.
Il
controllo sfuggì dalle dita di Clary e la Gloriosa
scivolò dalla sua presa, per finire tra le mani ferme e affusolate di un
ragazzo.
Si
voltò e Jace fece lo stesso, lo sguardo rapace di un
predatore che insegue la preda.
Lo
individuarono subito, nonostante ormai si stesse già facendo largo oltre la
calca di Ottenebrati, lo sguardo intriso di una decisione marcata: la
persona che le aveva sfilato la Gloriosa dalle mani di Clary
era Alec.
Jace scattò in avanti per seguirlo.
“Jace, no!”
La
ragazza gli corse dietro, aguzzando lo sguardo per non perdere Alec di vista.
Lo vedeva a stento, accerchiato da un gruppo di cacciatori che gli facevano da
scudo contro gli Ottenebrati. Cercava di raggiungere un punto preciso, al di là
della calca. Correva verso una macchia bianca e rossa, un puntino niveo simile
a un fiocco di neve caduto in una pozza di sangue: Sebastian.
Alec
era appena riuscito a liberarsi dalla presa di un Ottenebrato, quando Jace gli saltò alle spalle, buttandolo a terra.
La
Gloriosa gli scivolò di mano.
Alec
fece del suo meglio per riprendersela, scrollandosi l’amico di dosso.
Jace gli sferrò un pugno nel petto, mentre con la mano libera
tentava di appropriarsi della spada.
Alec,
i denti digrignati per lo sforzo, ne approfittò per scattare in avanti,
colpendolo con una testata.
La
sorpresa destabilizzò Jace per un istante e il
ragazzo lo lasciò andare.
Alec
rotolò di lato e allungò il braccio fino a impugnare l’elsa della Gloriosa, la
sofferenza del suo sguardo riflessa nel baluginio della lama.
“Jace!” gridò, echeggiando la voce di Clary,
che lo stava chiamando a sua volta.
Jace aveva sguainato la sua spada e adesso avanzava in direzione
di Alec. Affondò contro il suo braccio, ma Alec riuscì a parare il colpo: la
Gloriosa si accese come fuoco, nel momento in cui le due lame cozzarono.
“Jace, sono io!”
Alec
si abbassò per sfuggire a un secondo affondo, questa volta indirizzato alla gola.
Anche a quella distanza Clary riusciva a
distinguere l’orrore e la sofferenza nello sguardo di Alec ogni
volta che Jace spingeva la spada su di lui: senza
esitazione, senza rimorso. Mirando ad uccidere.
La
ragazza scattò in avanti, decisa a mettersi in mezzo. Se Jace avesse fatto del male ad Alec avrebbe vissuto nel
tormento, straziato dal senso di colpa, e non poteva permetterlo.
“Alec,
dammela, dammi la spada!”
Cercò
di separarli, ma Jace la spinse da parte.
Avanzò
di nuovo per colpire Alec e questa volta il parabatai
non riuscì ad evitare l’affondo: la lama gli penetrò nel fianco e, quando Jace la tirò fuori con uno strattone, il ragazzo sussultò,
cadendo in ginocchio di fronte a lui.
Clary gridò.
Alec
si premette una mano contro la ferita, per bloccare la fuoriuscita del sangue.
Aveva l’aria stanca, incredula, stordita. Come se il suo stesso braccio gli si
fosse rivoltato contro per ferirlo.
Lo
sguardo di Jace, al contrario, era impenetrabile.
Aveva il capo inclinato di lato, come se lo stesse studiando. Come se si stesse
sforzando di ricordare qualcosa: quel legame che li univa e che non sentiva
più.
Clary approfittò di quel momento per
separarli, mettendosi fra loro.
“Jace, ti prego!” lo implorò.
Alec,
dietro di lei, stava cercando di rimettersi in piedi.
“Non
ti perdoneresti mai se gli facessi del male.”
Jace sembrò studiare le sue parole; dal suo sguardo
continuava a non trapelare alcuna emozione.
“Gli
ho già fatto del male” rispose atono, la lama sporca di sangue a proiettare
ombre rossastre sulla sua pelle. “E pensa un po’? Mi sono perdonato. E comunque
non lo ucciderò, se mi darà la spada.”
Cercò
di scansare Clary, ma la ragazza si aggrappò a lui,
piantandogli le unghie nella carne.
“Tu
lo ami” replicò, lottando per trattenerlo. “Lo ami come ami Izzy…
Come amavi Max! Possibile che questo non significhi più niente, per te?”
“Dammi
la spada, Alec.”
Jace era insolitamente pallido, come se lo scontro con lei e
Alec gli avesse prosciugato ogni energia.
Era
bello come sempre, pensò Clary. Eppure, in quel
momento più che mai, le risultò lampante la differenza fra il vero Jace e quello che aveva di fronte: un Jace
completamente soggiogato alla volontà di Sebastian, proprio come gli
Ottenebrati che li circondavano.
“Oppure
muori. A te la scelta.”
Alexander
si era rialzato in piedi, la Gloriosa nuovamente in pugno.
Il
suo volto pallido, inumidito dal sudore e da qualcos’altro scivolato giù dagli
occhi, era una maschera di dolore e fragilità.
Respirava
a fatica, una mano rossa di sangue a premere sulla ferita e l’altra ben avvolta
intorno all’elsa della Gloriosa. Non l’avrebbe lasciata: Clary
lo capì nel momento in cui, guardandolo negli occhi, vi vide dentro il fuoco:
le stesse fiamme di determinazione che avevano danzato così tante volte nello
sguardo fiero di Jace.
Le
stesse fiamme all’interno delle quali era stato plasmato il suo cognome.
Alec
non avrebbe mai accettato di perdere l’unica arma in grado di restituire Jace alla sua vita.
Non
per lui e Clary o per Izzy
e i suoi genitori: ma per lo stesso Jace.
“Non
insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te” mormorò
all’improvviso, le fiamme della decisione a inombrare il dolore dei suoi occhi
chiari.“Perché dove andrai tu andrò anch'io. Dove morirai tu,
morirò anch'io e vi sarò sepolto. L’Angelo mi faccia questo e anche di peggio,
se altra cosa che la morte mi separerà da te.”[2]
Jace scosse la testa, la spada ancora tesa e puntata al petto di
Alec. Il suo volto aveva smesso di essere la maschera impassibile di poco
prima. Clary lesse nei suoi occhi qualcosa di
diverso, qualcosa che tuttavia non la rincuorò come aveva sperato.
C’era
rabbia, in quello sguardo: solo rabbia. Tizzoni ardenti di rancore a scurirgli
le iridi.
“Allora
ti sei deciso…” osservò ancora Jace,
facendo un passo verso di lui. “… Hai scelto la morte.”
Alec
scosse la testa, il respiro sempre più irregolare, le mani tremanti sotto il
peso della spada per via della ferita e del sangue perso.
“Non
voglio vivere se non combattiamo dalla stessa parte”[3] replicò, lo sguardo illuminato da un
lieve bagliore di speranza. “Guardami, Jace” lo pregò
un’ultima volta, gli occhi azzurri che spiccavano in quel volto spaventosamente
pallido. “Sono tuo fratello: il tuo parabatai.”
“Errore.”
Una
voce fredda, innaturale, eppure fin troppo familiare, coprì la risposta di Jace.
Sebastian
era sgusciato alle loro spalle, confondendosi con il rosso degli altri
Ottenebrati; repentino e silenzioso come un Fratello Silente. Come il serpente
che si muove sulla sabbia, la stessa creatura che macchiò Abramo ed Eva del
peccato, e letale come il suo veleno.
“Sono
io suo fratello.”
Un
sorriso aguzzo, trionfante, modellò le labbra di Sebastian.
Accadde
tutto così in fretta che Clary riuscì a scorgere solo
il guizzo luminoso di una lama e gli occhi di Alec che si sgranavano,
limpidi e sorpresi, come quelli di un bambino.
Sebastian
calò la spada su Alec con un movimento fluido del braccio, una maschera
di odio ad annerirgli completamente gli occhi.
La
lama squarciò il petto del ragazzo e lo trafisse da parte a parte, all’altezza
del cuore.
Un
grido acuto penetrò la notte e Clary trasalì quando
si accorse che a urlare era stata lei.
Si
portò le mani alla bocca, il tremore violento a percuotere le gambe,
rovesciandola a terra. Il suo grido aveva attirato l’attenzione dei combattenti
e, nel giro di pochi istanti, si fuse ad altre urla, altrettanto strazianti,
altrettanto pregne di dolore.
Nel
frattempo Sebastian rideva – un riso sguaiato e crudele, malcelato dagli
strilli laceranti di Isabelle, di Maryse…. Di Magnus.
Il
rosso delle tenute degli Ottenebrati le danzava attorno, quasi a schernire le
fiammelle che davano il nome ai Lightwood.
E
poi la vista di Clary si offuscò. L’ultima cosa
che sentì, prima di perdere conoscenza, fu l’ennesimo grido.
Un
urlo maschile, carico di orrore: l’urlo di Sebastian.
*
Jace crollò a terra quasi nello stesso momento in cui lo fece
Alec.
Un dolore acuto, lancinante, gli trafisse il
petto. Fu come essere stato colpito da una freccia. Una Una morsa opprimente, simile a una corda allacciata intorno al
suo petto, lo stringeva a punto tale da soffocargli il cuore. Non riusciva a
pensare ad altro che all’aria, a far entrare l’aria nei polmoni per respirare.
La corda si spezzò.
Qualcosa
di secco, come uno schiocco di frusta, lo colpì allo sterno, rubandogli il
fiato.
Una volta, Alec gli aveva parlato di una
sensazione del genere: gli aveva detto di aver percepito il momento in cui era
morto, di essersi sentito come se stesse cadendo nel vuoto, senza più appigli a
cui aggrapparsi.
Per un
istante, la vista di Jace venne offuscata da un
lampo. Si piegò sulle ginocchia, lo stomaco contratto dal bisogno di vomitare.
Qualcosa
di umido gli percorse le clavicole: sangue.
Con le mani bagnate afferrò i lembi della camicia e la aprì
strappandola. Nella luce fioca, vide che la runaparabatai
stava sanguinando.[4]
La
corda si recise del tutto. Jace si sbilanciò
all’indietro.
Il
suo sguardo si posò sul viso pallido di Alec, sul suo corpo immobile. Gli occhi
azzurri ancora aperti, eppure spenti. Non più limpidi, non più vivi.
Non
più.
Ma
cosa te ne importa?
La
runa di Lilith pulsava frenetica, in contrasto a
quella parabatai, che stava incominciando a
sbiadire. Le sue due nature stavano combattendo al suo interno per dominarlo,
per zittirsi a vicenda.
Rumori
affilati gli penetrarono la testa – la risata di Sebastian, le grida di Clary, di Izzy.
Jace non riusciva a condividere nessuna di quelle emozioni. Si
sentiva vuoto, stordito, intrappolato sul ciglio di un burrone.
Si
teneva aggrappato a un filo tenue, l’ultimo brandello sfilacciato di corda
rimasto a sostenerlo.
E
poi, con uno schiocco secco, anche l’ultimo filo si strappò. Il suo corpo vibrò
con violenza, poi tutto finì.
Alec era morto.
Jace incominciò a cadere nel vuoto.
Note Finali.
È con tanta, tanta
emozione che condivido finalmente il prologo di questa storia. Ho incominciato
City ofTradedSouls un po’ esitante, perché non mi era praticamente mai
capitato di portare a termine una long con più di cinque o sei capitoli. Questa
volta, però, ce l’ho (quasi!) fatta. Ormai mi mancano due capitoli per concludere
questa storia e undici sono già pronti, così mi sono fatta coraggio e ho deciso
di incominciare a pubblicare.
City ofTradedSouls
(o CoTS, come piace chiamarla a me) è una storia un
po’ atipica. È incentrata su Jace e sul viaggio che
intraprenderà per riavere indietro il suoparabatai.
Come molte storie è una storia nata per motivi particolarmente egoistici, lo
ammetto: ci tenevo ad approfondire il rapporto fra Jace
e Alec, che nei libri mi è sempre sembrato un po’ marginalizzato.
Il capitolo uno sarà
ambientato circa sei mesi dopo la morte di Alec (mi fa un po’ male scrivere
queste parole) e la storia riprenderà da lì. Nel corso della long faranno breve
comparsa diversi personaggi delle varie saghe (TMI, TID e TDA): vedremo Magnus,
Clary e perfino Jem.
In questo prologo,
come ho segnalato nelle note iniziali, c’erano diverse citazioni tratte dai
libri. Di solito non amo inserire passaggi estrapolati troppo lunghi, ma in
questa storia, e in particolare nel prologo, mi è sembrata una scelta necessaria:
pur essendo questa storia una what-if?
volevo riallacciarmi il più possibile alla storia madre e quindi ci saranno un
paio di parallelismi che rimanderanno ad alcune scene dei libri.
Credo di aver detto
tutto! Il prossimo capitolo sarà raccontato dal punto di vista di Clary e mostrerà il cambiamento di Jace
in relazione alla morte di Alec e il suo modo di affrontarla.
Grazie a chiunque sia
passato a leggere! Spero tanto che questo prologo possa avervi incuriosito!
«Non so come stare al mondo come Cacciatore, senza Will. Non credo
neppure di volerlo. Sono ancora unparabatai, ma la mia altra metà non c’è più. Non mi
sentirei mai completo.»
Jem Carstairs - Le Origini, La Principessa.Cassandra Clare
Sei
mesi dopo.
La
punta della matita scivolava leggera sul foglio, sporcando il bianco con linee
di diversa intensità.
Clary
abbozzò un volto e ne definì i lineamenti, marcando la profondità di un paio
d’occhi che, nella versione in carne ed ossa di quel viso, erano stati azzurri.
Quello
a cui stava lavorando non era il suo primo ritratto di Alec, tuttavia erano
trascorsi mesi dall’ultima volta che Clary aveva tirato fuori il suo album.
Da
quando aveva abbracciato la vita di Shadowhunter l’ispirazione si era fatta più
rada, quasi invisibile. Una volta Jace le aveva detto che la scintilla della
creatività apparteneva più ai Mondani, che non ai Nephilim. Nel corso degli
ultimi mesi, Clary si era sorpresa a domandarsi se la sua natura di cacciatrice
stesse incominciando a prendere il sopravvento sulle sue doti artistiche, ma
quella sera aveva cambiato tutto.
Nel
corso delle ultime ore aveva disegnato senza sosta, tramutando in carta i
ricordi più intensi e dolorosi dell’ultimo periodo: lo sguardo fiero di Amatis,
gli occhiali tondi del piccolo Max, l’elsa luccicante della spada di Michele.
E
poi Alec, nelle sue felpe informi e consumate.
Sapeva
che Jace avrebbe sofferto se l’avesse sorpresa con quei disegni, ma non poteva
farne a meno. Il bisogno di imprimere certi ricordi su carta era troppo forte
perché potesse ignorarlo. Non voleva correre il rischio di dimenticare, di piangere
dei morti senza più volto. Non voleva cancellare dalla mente i sorrisi o gli
sguardi che nessuna fotografia era mai riuscita a immortalare.
C’era
anche dell’altro altro che premeva contro i suoi polpastrelli per sgusciare
fuori dai suoi pensieri. Situazioni non ancora del tutto assimilate e spesso
dolorose, che avrebbe volentieri intrappolato in un foglio, per strapparsele
via dalla mente.
Momenti
come la battaglia del Burren e la colluttazione con Sebastian che l’aveva
preceduta; immagini come quella di Jace che cadeva sulle ginocchia, la divisa
sporca di sangue all’altezza della runa parabatai. O ancora la presa
salda di Simon sulla Gloriosa e il suo affondo per trafiggere Sebastian,
sfruttando il suo unico momento di distrazione.
Era
solo grazie a Simon che adesso aveva Jace di nuovo con sé: Simon era stato il
primo a recuperare il controllo dopo aver visto Alec accasciarsi a terra e Jace
crollare a sua volta.
Si
era gettato sulla spada di Michele, caduta a terra nel momento in cui le mani
che la brandivano avevano smesso di muoversi.
Sebastian
non aveva fatto in tempo a impedirglielo, né aveva avuto modo di difendersi,
ma Jace sì. Si era buttato in mezzo, facendo scudo a Sebastian col proprio
corpo, piegato al controllo demoniaco del marchio di Lilith.
La
Gloriosa li aveva trafitti entrambi, ma aveva salvato solo uno dei due.
Clary
ricordava ancora bene l’orrore lancinante che l’aveva avvolta nel momento in
cui Jace era caduto.
Solo
il sollievo di riconoscere il battito debole del suo polso era stato
altrettanto intenso.
E
così, mentre Jonathan Morgensten era morto – troppo corrotto dal sangue di
demone per poter sopravvivere alle fiamme celesti – con Jace le cose erano
andate diversamente. Era sopravvissuto e il fuoco della Gloriosa gli si era
insinuato sotto-pelle, bruciandogli incandescente nelle vene.
Per
mesi i Fratelli Silenti si erano affannati attorno a lui, cercando di trovare
un modo di estrarlo, ma senza successo. Le cose erano migliorate quando, per
errore, Jace aveva travolto fratello Zaccaria con le sue fiamme. Parte del
fuoco si era insinuata nel corpo del Fratello Silente, indebolendo il poco che
ne era rimasto nel ragazzo.
In
quanto a Zaccaria, si era ripreso in fretta. Clary aveva sentito dire che le
scintille celesti avevano bruciato qualcosa che si portava dentro – nel sangue
– da secoli: le conseguenze di un attacco demoniaco. Aveva smesso di essere un
Fratello Silente e aveva ripreso a farsi chiamare James, James Carstairs, come
il giovane Shadowhunter che era stato un tempo.
Clary
sospirò, fissando il suo disegno. Un rumore di pagine sfogliate attirò la sua
attenzione dalla stanza a fianco – la camera da letto di Jordan Kyle.
Trascorreva
parecchio tempo nell’appartamento che il licantropo condivideva con Simon,
perché era uno dei posti in cui Jace si ritirava più volentieri.
Jace.
Il
suo cuore sembrò accartocciarsi nel momento in cui suoi pensieri tornarono al fidanzato.
Ripose
l’album nella tracolla e andò a sbirciare oltre la porta socchiusa della stanza
di Jordan: Jace era lì ormai da qualche ora, sdraiato sul letto dell’amico, i
piedi sul cuscino e una mano a giocherellare distratta fra i capelli arruffati.
Sul
pavimento erano disseminati grossi libri dall’aria antica, alcuni dei quali
aperti e pieni di annotazioni.
Clary
s’intrufolò nella stanza e si rannicchiò sul letto contro di lui. Jace spostò
le gambe per farle spazio, ma non alzò lo sguardo. Sembrava assorto nella
lettura, il volto segnato dalle occhiaie.
Clary
adagiò la schiena contro il suo torace, la mano intrecciata alla sua come se
sperasse che, stringendogli le dita, avrebbe potuto infondergli anche solo una
flebile scintilla di vita.
Il
Jace che aveva riavuto indietro dopo la morte di Sebastian non era più vincolato
alla volontà di suo fratello, eppure nemmeno quella versione assomigliava al
ragazzo di cui era innamorata.
Jace
Lightwood – il vero Jace – aveva cessato di esistere nel momento in cui aveva
ripreso conoscenza dopo la battaglia al Burren. Sin da quando il suo sguardo
confuso aveva saettato ostinato per la stanza, in cerca di qualcuno.
Le
sue dita si erano aggrappate a quelle di Clary come temendo che, senza il suo
sostegno, sarebbe caduto nel vuoto.
“Dov’è?”, aveva urlato, deciso a scacciare il presentimento
che lo stava dilaniando. Voleva convincersi che ciò che ricordava era solamente
uno dei sogni maledetti con cui lo tormentava Lilith.
“Dov’è,
Clary? Dov’è? Alec!”
Aveva
chiamato il suo nome più volte, respingendo con violenza i tentativi dei
Fratelli Silenti di trattenerlo.
Non
aveva avuto bisogno di una risposta: gli era stato sufficiente voltare la testa
e cercare la sua runa parabatai, argentea e sbiadita.
La
consapevolezza nei suoi occhi fu tagliente quanto la lama della Gloriosa. Dolorosa
quanto gli strilli straziati di Isabelle, nel momento in cui si era appoggiata
la testa del fratello sulle ginocchia. Quanto le lacrime di Maryse che aveva singhiozzava
in silenzio, con il volto affondato nel petto immobile di Alec.
Quel
dolore non scomparve con il trascorrere dei giorni. Si acuì, invece, penetrando
in profondità: propagandosi come un cancro o un fungo velenoso, corrosivo come
il sangue di demone.
I
mesi successivi avevano trasformato il bel volto di Jace, riducendolo a una
maschera di dolore e apatia: le sue iridi avevano perso il brillio dorato che le
caratterizzava. Sembrava un fantasma, la vita estirpata dai suoi movimenti un
tempo eleganti, le ombre della stanchezza sempre marcate sotto gli occhi.
Da
mesi aveva smesso di vivere all’Istituto. Preferiva stare da Simon e Jordan o
intrufolarsi di nascosto in camera di Clary. Dormire nella sua stanza all’Istituto
gli era impossibile, con la consapevolezza che quella di fianco alla sua era
vuota e lo sarebbe stata per sempre.
“Che
leggi?”
Clary
cercò di attirare la sua attenzione, sbirciando le pagine del volume: erano
settimane che Jace non faceva altro che studiare.
C’era
qualcosa di tremendamente contraddittorio in quell’atteggiamento. Sì, Jace
aveva sempre amato leggere, ma non era da lui rintanarsi in realtà fittizie pur
di seppellire il dolore. Jace era la personificazione della reazione, era un
elastico che si fletteva da tutte le parti, impossibile da trattenere. Aveva
sempre preferito attaccare, invece che difendere: di certo, disprezzava la
fuga.
Da
quando Alec era morto, Clary si era aspettata in continuazione di vederlo
partire per qualche caccia solitaria contro i demoni, deciso a sotterrare i
ricordi e la sofferenza sotto icore, sangue e nuove cicatrici. E in effetti
qualcosa del genere era successo.
Jace
aveva trascorso il primo mese di lutto gettandosi in pasto alle missioni più
pericolose che riusciva a scovare, combattendo in solitario e sforzandosi di tornare
a casa il più ammaccato possibile – non senza prima aver, tuttavia, massacrato
qualsiasi demone o Nascosto disprezzante degli Accordi gli si fosse parato
davanti.
Ma
poi era soggiunta l’apatia e quell’insolita, quanto sospetta, sete di
informazioni. Clary stava incominciando a chiedersi se avesse qualcosa in
mente, ma preferiva non fargli domande: per il momento preferiva saperlo al
sicuro e immerso in strane letture piuttosto che intento a stuzzicare i demoni
superiori.
Finalmente,
Jace sollevò lo sguardo verso di lei. Le sorrise e, in quel momento, un brillio
solitario vivacizzò il suo sguardo. Nonostante il dolore degli ultimi mesi,
qualcosa del vecchio Jace era rimasto: lo si evinceva ogni volta che i suoi
occhi incrociavano quelli di Clary. Il suo amore per lei era evidente, ma non
era più l’unica cosa che portava scritta negli occhi. Adesso, quando lo
guardava, Clary intravedeva nel suo sguardo l’estremità sfilacciata di una
corda recisa: la perdita di qualcosa di importante, di una parte essenziale per
il suo funzionamento.
Jace
era diventato un meccanismo rotto: funzionava a scatti e non esistevano pezzi
di ricambio per l’ingranaggio mancante.
“Hai
mai sentito parlare di Tommaso il Rimatore?”
Clary
scosse la testa.
“Sembra
il nome di un personaggio per bambini” rispose, sbirciando nel libro.
Il
sorriso di Jace si fece più vispo.
“Era
un cantore scozzese del tredicesimo secolo” spiegò. “Pare che alcuni Mondani lo
credessero addirittura un indovino. Una delle sue ballate parla di un uomo che
viene rapito dalla Regina delle Fate. Lei lo condusse in un punto dal quale si
diramavano tre strade…”
Voltò
pagina, mostrando a Clary una delle illustrazioni. Raffigurava una grande
grotta, all’interno della quale si aprivano tre sentieri. “Gli disse che una
portava al Paradiso, una nella terra delle Fate e una all’Inferno.”[1]
Clary
spostò lo sguardo dal disegno a Jace: la sua frase le aveva trasmesso un’insolita
punta d’inquietudine.
“E
l’uomo scelse una di queste strade?” chiese, appoggiando il capo sulla sua
spalla.
Jace
scosse la testa.
“Fu
la regina a scegliere per lui: lo condusse nel regno delle Fate.”
Clary
chiuse gli occhi; il tocco leggero di Jace fra i suoi capelli e la sua voce
tranquilla, mentre raccontava, riuscirono a spazzare via un po’ della sua
preoccupazione.
“Tornò
mai indietro?” chiese, portandosi una mano di Jace in grembo, per
giocherellarci. “Questo ragazzo, dico. Perché io me lo immagino come un
ragazzo piuttosto giovane.”
Jace
rimase in silenzio per qualche istante, come se stesse scegliendo le parole
migliori per risponderle.
Infine,
il suo sguardo tornò sul libro.
“And
till seven years were gane and past” lesse con un tenue brillio nello
sguardo che Clary non fu in grado d’interpretare. “True Thomas on earth was
never seen.”
E benché sette
anni siano ormai passati,il
buon Thomas in terra mai più si è visto.
In
quel momento accadde qualcosa. Un’immagine si disegnò nella testa di Clary,
rapida e accecante, come un lampo di luce: una runa.
Svanì
prima che la ragazza avesse il tempo di riconoscerne i tratti, ma la visione
le impresse addosso una strana sensazione.
La
sensazione di aver avuto fra le mani, anche se solo per qualche istante,
qualcosa di terribile e di maestoso al tempo stesso: un potere secondo solo a
quello degli angeli, terrificante e celestiale come la figura dello stesso
Raziel.
Infine,
fugace com’era arrivata, anche quella sensazione svanì.
*
Londra, Covent Garden.
Il
portale si chiuse alle spalle di Jace, sprizzi di luce azzurra a disegnare
ghirigori sulla strada acciottolata.
Il
quartiere in cui era capitato aveva l’aria elegante e un po’ all’antica,
piuttosto discordante dall’atmosfera New-Yorchese in cui era cresciuto.
Suonò
il campanello del portone che aveva di fronte, una pioggerella fine a tenergli
compagnia.
La
donna che venne ad aprirgli doveva aggirarsi attorno alla ventina e il suo
volto non gli era nuovo: ricordava quel viso ovale, i lunghi capelli castani,
la dolcezza della sua espressione.
Tuttavia,
non era lei la persona che si era aspettato di trovare ad accoglierlo.
Anche
la giovane sembrava sorpresa: per un attimo sembrò a corto di parole, mentre i
suoi occhi chiari lo studiavano incuriositi.
Jace
si strinse nelle spalle.
“Beh,
mi ero preparato a trovarti un tantino cambiato, Magnus…” commentò, incrociando
le braccia sul petto. “… Ma non pensavo così tanto.”
Un
sorriso spazzò via lo stupore dal volto della ragazza.
“Sono
un’amica di Magnus: lui è di sopra… non mi ha detto che aspettava visite.”
“Non
le aspettava, infatti” precisò Jace, sbirciando oltre l’ingresso. “Io e te ci
siamo già incontrati, vero?”
La
giovane annuì, mentre si faceva da parte per lasciarlo entrare.
“Al
matrimonio di Jocelyn Fairchild” rivelò, studiandolo con attenzione: sorrideva,
ma i suoi occhi sembravano malinconici. “Mi chiamo Tessa, Tessa Gray. Mio
marito Will era un Herondale, proprio come te.”
Finalmente,
Jace ricordò.
“Il
Will di Fratello Zaccaria?”
Ripensò
a una delle prime conversazioni che aveva avuto con James Carstairs, alla runa
cicatrizzata che aveva notato sulla sua spalla; all’affetto che si disegnava
sul suo volto ogni volta che menzionava il nome del parabatai.
Lui
invece, quando pensava ad Alec provava solo dolore.
“Il
Will di Jem, sì” rispose Tessa con un sorriso sorpreso. “Sai, sono contenta che
tu sia qui: ho qualcosa per te. Volevo dartela al matrimonio, ma non sono
riuscita…”
S’interruppe,
una punta di apprensione a velarle gli occhi.
“…
Non mi sembrava il momento giusto.”
Le
nozze di Luke e Jocelyn erano state celebrate due mesi prima: allora ne erano
trascorsi solo quattro, dalla notte del Burren.
Jace
vi si era trascinato a forza, per Clary. Aveva trascorso la serata sullo sfondo
– cosa insolita per lui. Si era tenuto impegnato tenendo d’occhio Izzy, che
aveva trovato nell’arte dell’insulto un ottimo anestetizzante contro il dolore.
Durante la cerimonia si era sentito addosso lo sguardo di Jem, che sembrava
deciso a ricambiare il favore nei suoi confronti facendogli da baby-sitter.
Magnus
non si era fatto vedere nemmeno quella volta.
Jace
si riavviò i capelli umidi di pioggia.
“Tutto
questo mistero mi sta tentando, davvero, ma non sono qui per i regali. Devo
vedere Magnus.”
Tessa
sospirò: lo stava ancora fissando, lo sguardo triste, ma consapevole, di chi si
trova a rivivere qualcosa di doloroso.
“Ognuno
di noi vive il lutto in maniera diversa” rivelò, parlandogli con dolcezza. “Ma
il dolore, la sofferenza che si prova quando una parte così grande di te viene
strappata via dal suo insieme, quello lo conosco bene. Perciò ti chiedo di
credermi quando dico che ti capisco, Jace.”
Gli
accarezzò una guancia, guidata da un istinto materno mai assopito.
“So
cosa si prova nel toccarsi il petto e non sentirsi più l’anima. So cosa vuol
dire sentirsi a metà, avere un vuoto dentro che non riesce a colmare.”
Qualcosa
si spezzò.
Il
filo sottile in cui, per giorni, Jace si era tenuto in equilibrio precario,
cedette sotto al suo peso.
“No,
non puoi capire.”
Il
suo tono di voce era tagliente e i suoi occhi scuriti dalla collera. Si chiese
se specchiandosi in quell’istante avrebbe riconosciuto qualcosa di Valentine
nel suo sguardo.
O
addirittura Sebastian.
“Avrai
anche perso tuo marito, ma non l’hai ucciso tu. Non ti sei sporcata del suo
sangue o di quello dei tuoi figli.”
Tessa
scosse la testa.
“Jace,
nemmeno tu hai…”
“Dov’è
Magnus?”
La
sua voce era affilata come una minaccia.
Jace
scansò Tessa e si scagliò verso le scale.
Fu
come camminare su una superficie oleata. Scivolò all’indietro, un tenue
scintillio azzurro ad accompagnare la sua caduta: evidentemente Magnus non
aveva voglia di farsi trovare.
Imprecò,
rialzandosi in piedi. I pugni serrati lungo i fianchi erano roventi e le tempie
gli bruciavano.
“Piantala
di nasconderti!” sbraitò, dando un calcio all’ultimo gradino. Si aggrappò alla
ringhiera per riprovare a salire e un calore insopportabile gli esplose sotto
pelle. “Esci fuori!”
“Jace!”
Tessa lo fissava spaventata, gli occhi grigi sgranati per lo stupore. “Le tue
mani!”
Il
calore sprigionò fiamme e le fiamme generarono fumo.
Jace
arretrò di scatto, fissandosi le dita: erano sporche di nero.
Il
legno della ringhiera era bruciacchiato in più punti e una piccola porzione
sembrava essersi carbonizzata.
“Mi
dispiace.”
Jace
scosse la testa, combattendo contro il fiato corto: il fuoco celeste gli
scoppiettava sottopelle, alimentato dall’eccesso di collera.
“Mi
dispiace, non riesco a controllarlo” ammise, voltandosi verso Tessa.
La
ragazza scosse la testa. Gli posò una mano sulla spalla e Jace tentò di
scansarsi, spaventato al pensiero di scottarla. Non ci riuscì: quelle dite
esili dovevano nascondere molta forza, si disse. O molta magia.
Tessa
riprese a studiarlo: sembrava più vecchia, adesso. Aveva un volto intaccata dal
tempo, ma dai suoi occhi trapelavano ricordi vecchi di secoli.
“Hai
gli stessi occhi di Jamie…” mormorò, sorridendo malinconica. “… Mio
figlio: sei diverso da lui, eppure me lo ricordi.”
Jace
non rispose; continuò a fissarsi le mani brucianti fino a quando Tessa non gli
passò davanti.
“Vieni”
lo esortò, salendo i primi gradini: lo scintillio azzurro di prima era
scomparso. “Ti porto da Magnus.”
Note Finali.
Buongiorno e buona pre-vigilia di anno
nuovo!
Ci tenevo a lasciare il primo capitolo
prima dell’arrivo del 2017 (e della Season 2!) e così eccomi qui! Sto pensando
di aggiornare sempre di venerdì, ogni due settimane, in maniera da essere
regolare con l’arrivo dei capitoli!
Questo capitolo è ancora molto
introduttivo; la prima parte, dal punto di vista di Clary, serve a spiegare
come si sono svolti i fatti dopo la morte di Alec. Scopriamo così che in questa
versione della storia Sebastian muore già nella battaglia del Burren. Anche
Jace è stato trafitto dalla Gloriosa ed è per questo che, ha in corpo il Fuoco
Celeste.
Nella seconda parte del capitolo Jace si
fa un viaggetto a Londra, dove Magnus si è momentaneamente trasferito. Se qui,
tuttavia, ha parlato solo con Tessa, il prossimo capitolo sarà incentrato
proprio sull’incontro fra Jace e il nostro stregone preferito. La storia
incomincerà un po’ a delinearsi e si scoprirà come mai Jace abbia così tanto
bisogno di parlare con Magnus. Inutile aggiungere che è in arrivo una vagonata
di angst, ma prometto che prima o poi mi farò perdonare. L’angst è essenziale
per poter raccontare la storia ma, per citare Ron Weasley, “…Soffrirai ma poi
ne sarai felice…” … o almeno lo spero!
Ringrazio davvero tantissimo le persone
che hanno scelto di dare fiducia a questa storia, inserendola fra le seguite:
spero anche questo nuovo capitolo vi sia piaciuto! Un grazie in particolare a mafiaromano
e al suo meraviglioso commento!
Un abbraccio e ancora buon anno!
Laura
[1] Di Tommaso il Rimatore e della sua
ballata se ne accenna in “Città del Fuoco Celeste”. Grazie alle tre strade,
Jace e compagnia accedono alla dimensione demoniaca di Edom.
«A volte le persone ti
vengono strappate, che tu lo voglia o meno. E a volte fa così male che
dimenticare sarebbe più facile.»
Isabelle Lightwood –Le Cronache dell’Accademia Shadowhunter. Cassandra
Clare
La
soffitta in cui Tessa l’aveva accompagnato era piuttosto buia, nonostante
l’ampia finestra sul fondo. Jace resistette all’impulso di tirare fuori la
stregaluce e si dette un’occhiata intorno.
Si
era sempre immaginato le soffitte come posti polverosi e pieni di
cianfrusaglie, ma quella era pulita e completamente sgombra. Gli unici oggetti
che sembravano occuparla erano una poltrona paffuta color avorio, un lampadario
rigorosamente spento e, in un angolo, un vecchio mappamondo.
La
poca luce che proveniva dalla finestra era filtrata dalla figura di un uomo che
guardava fuori. La sua postura era immobile – la schiena ben dritta e le mani
incrociate dietro la schiena.
Era
vestito in maniera semplice – una maglietta spiegazzata e un paio di jeans,
entrambi bianchi – e i capelli scuri gli ricadevano spioventi sulle spalle.
Jace
sbatté più volte le palpebre, quasi stesse cercando di metterlo a fuoco: lo
conosceva, ma sembrava diverso. Il suo aspetto aveva qualcosa di immobile, di spento,
che non ricordava di avergli mai attribuito prima di quel momento.
“Jace.”
Il suo
nome echeggiò atono per la stanza.
Magnus
smise di guardare fuori dalla finestra e si voltò, appoggiandosi al davanzale.
“Vorrei
poter dire che sono contento di vederti, ma le bugie non mi sono mai piaciute.
”
Il viso
stanco di Jace ospitò un sorriso.
“Mi
ferisci, Magnus.” ironizzò, appoggiandosi a una colonna con la spalla. “Che
fine hanno fatto i nostri timidi tentativi di amicizia?”
Lo
stregone lo ignorò: aveva l’aria assorta, come se avesse appena ricordato
qualcosa e si stesse sforzando di ricostruirne i dettagli.
D’un
tratto, la sua attenzione tornò su Jace.
“Che ne
pensi dell’Inghilterra?” chiese, indicando fuori dalla finestra. “In fondo, la
tua famiglia ha origini inglesi: gli Herondale hanno gestito l’Istituto di
Londra per generazioni.”
Jace si
strinse nelle spalle.
“Le
uniche attrazioni in cui mi sono abbattuto venendo qui sono un paio di gatti
rossi e una cassetta delle lettere rovesciata, quindi non credo di poter essere
obbiettivo” ammise, mettendosi a braccia conserte. “Ma a te deve senz’altro
piacere molto, vista la fretta con cui sei sparito dalla circolazione per
venire qui.”
L’ultima
volta che aveva visto Magnus era stata al funerale, sei mesi prima.
Già
da allora lo stregone aveva fatto del suo meglio per mantenere le distanze, il
silenzio a fargli da scudo e il mento affondato nel collo di un maglione bianco
e un po’ consunto – il maglione di Alec.
Se
ne stava immobile fra Tessa e Jem, una mano in quella dell’amica e l’altra stretta
a pugno lungo il fianco. Jace era riuscito a intravedere le lacrime che
solcavano il suo volto anche a quella distanza: l’aveva fissato a lungo,
specchiandosi in uno dei pochi sguardi che riusciva a riflettere alla
perfezione lo smarrimento e la disperazione che provava.
Si
era avvicinato solo al termine della funzione, per abbracciare Izzy e Clary.
Studiandolo da più vicino, Jace si era accorto che c’era qualcosa che non
tornava nel suo aspetto: aveva gli occhi insolitamente spenti, privi del brillio
felino che li caratterizzava di solito.
Mai
gli erano apparsi così umani – umani e sofferenti – quanto in quel momento.
“Onestamente
se avessi potuto scegliere avrei preferito il Perù, ma mi ci hanno bandito.”
Le
voce di Magnus – piatta e monocorde – lo riagganciò al presente.
“Come
mai?” chiese Jace, incuriosito.
Lo
stregone arricciò il naso.
“Non
ne sono sicuro, ma potrebbero c’entrare le mie scarse attitudini musicali…”
rivelò, allargando le mani. “… O lo sterco di uccello. Forse tutte e due le cose
assieme.”
Jace
era ancora più confuso di prima, ma decise di non fare domande.
“Come
sta Isabelle?” chiese ancora Magnus, la voce leggermente meno atona. “I primi
mesi mi scriveva spesso, poi non si è più fatta sentire.”
“Non
sono stati dei mesi facili, per lei” rivelò Jace. “Sta prendendo in
considerazione l’idea di unirsi alle Sorelle di Ferro.”
Ebbe
l’impressione che quelle parole gli bruciassero in bocca, dolorose quanto il
fuoco che gli scorreva sottopelle.
Erano
settimane che lui e sua sorella litigavano per quella storia: l’idea di perdere
Isabelle, dopo Alec e Max era talmente dolorosa da risultare inconcepibile.
Aveva trascorso giorni interi a gridarle contro e poi a consolarla, a calmarsi
e a tornare da lei per farla ragionale.
Izzy,
tuttavia, incominciava ad apparire convinta di quella decisione: credeva che la
vita spenta e solitaria delle Sorelle di Ferro avrebbe tenuto alla larga anche
il dolore.
“Ah.”
Lo
sguardo di Magnus si accese per un istante, attraversato da un lampo di
compassione.
“Capisco.
Perdere due fratelli nel giro di un anno…”
La
sua voce s’incrinò, sfuggendo al suo controllo per la prima volta in quel
pomeriggio.
Il
dolore era intessuto nei suoi occhi come dei sottili fili di ragnatela: la poca
luce cercava di tenerglielo nascosto, ma in momenti come quello era impossibile
non notarlo.
“Ma
immagino che tu non sia venuto qui per parlarmi della tua famiglia…” osservò lo
stregone, tornando a guardare fuori dalla finestra. “… Né per una visitina a sorpresa.”
“Non
ti sbagli.”
Jace
si avvicinò, la determinazione a coprire i segni della trascuratezza sul suo
volto.
“Sono
qui perché ho bisogno del tuo aiuto.”
“Ma
davvero?”
Un
sorriso ironico affilò l’incurvatura delle labbra di Magnus.
“Quale
novità. Beh, ho delle brutte notizie per te: ho smesso di essere il vostro
Nascosto di compagnia. Se hai bisogno di una consulenza magica ti consiglio il
sommo stregone di Helsinki: pare che sia piuttosto economico …”
“No,
non hai capito.”
Jace
scosse la testa, stringendo i pugni fino a far impallidire le nocche.
“Si
tratta di Alec.”
Lo
stregone s’irrigidì. Qualcosa del suo aspetto sembrò mutare, come se le parole
di Jace avessero avuto un impatto fisico su si lui.
Lo
scintillio ironico del suo volto, la magia che emanava, l’aura d’immortalità
che gli veleggiava attorno: si prosciugò tutto, restituendo allo sguardo di
Jace la figura fragile di un diciannovenne qualunque.
“Voglio
riportarlo indietro” riprese Jace, incoraggiato dalla sua reazione. “E credo di
aver trovato un modo per farlo.”
Un
lampo improvviso, netto e lampante, accese gli occhi felini di Magnus e quella
fu l’unica traccia di vitalità che il ragazzo riuscì a individuare nel suo
aspetto: conosceva bene quella luce. Era la fiamma del dolore più vivo,
talmente vorace da inghiottire qualsiasi tentativo di soffocarla.
Era
il genere di dolore che provoca rabbia e non apatia.
Era
la stessa sofferenza che ardeva dentro Jace, mescolata al fuoco celeste.
Sul
volto di Magnus si aprì un sorriso amaro, il più triste che Jace gli avesse mai
visto abbozzare.
“Sei
uno stupido” mormorò, gli occhi beffardi e compassionevoli al tempo stesso.
“Stupidi, stupidi mortali: durano meno di un soffio e non conoscono nulla,
eppure credono sempre di poter trovare una soluzione a tutto.”
“Non
saprò molte cose, ma conosco questa” si scaldò Jace, squadrandolo deciso: la
collera aveva ripreso a dimenarsi sotto la sua pelle. “C’è un passaggio nel
Regno Fatato: un crocevia che collega le terre sotto la collina a tre
dimensioni diverse. Tommaso il Rimatore era convinto che due di queste
conducessero all’Inferno e al Paradiso. La seconda, in realtà, si collega al
mondo dei Mortali, ma la terza…”
Si
schiarì la voce, rauca dal tanto parlare dopo mesi di conversazioni ridotte
all’osso.
“…
La terza attraversa le Dimensioni Infernali: la terza conduce al regno dei
morti.”
“È
solito una stupida leggenda” replicò Magnus, gli occhi ridotte a due fessure.
“I Regni Infernali sono le dimensioni dei demoni: non esistono scorciatoie o
passaggi segreti per il regno dei morti, se non la morte stessa. Le anime di
chi ci lascia potrebbero trovarsi ovunque, perfino nel nostro mondo. Mai
sentito parlare di fantasmi?”
“Alec
non è un fantasma” ribatté freddo Jace. Le sue dita corsero a tastare la runa parabatai
ormai sbiadita. “Se lo fosse, se qualcosa di lui – qualsiasi cosa – fosse
rimasta in questa dimensione, lo saprei.”
Magnus
sorrise amaro.
“La
morte è piena di sfumature” commentò, riesumando il tono di voce piatto di poco
prima. “Come la vita. La strada in cui si snoda non è come i tasti del tuo
pianoforte: non ci sono solo il bianco o il nero – il paradiso e l’inferno, i
fantasmi e le anime che vanno avanti. Ci sono vari stadi, luoghi di stallo dove
i morti risiedono prima di migrare altrove. Non sono luoghi fisici, né sono
rintracciabili dai vivi.”
“Devo
comunque provare” ribatté Jace, squadrandolo insofferente. “Le proverò tutte:
ogni teoria trovata in quei vecchi libri polverosi. Non ci viene sempre detto
che tutte le storie sono vere?”
“Oh,
a voi Nephilim vengono raccontate tante cose, ma questo non le rende più
verosimili.”
Magnus
aveva le dita poggiate sulle tempie: tutto in lui esprimeva sofferenza, fatta
eccezione per gli occhi, luccicanti di collera.
“La
morte è irreversibile” tuonò, la compostezza spazzata via in pochi istanti.
“Non si gioca con i fili recisi alla vita: il prezzo da pagare è troppo alto,
perfino uno sbarbatello come te dovrebbe saperlo. Nemmeno la negromanzia è in
grado di riportare indietro un morto, non del tutto: può restituirti solo
l’ombra della persona che hai perso. Un guscio vuoto, senza volontà, né anima.
È questo che vuoi fare ad Alec?” chiese, ignorando le ciocche di capelli che
gli erano cadute sugli occhi. “Privarlo dell’anima? Legarlo a un’esistenza a
metà che nessuno vorrebbe vivere?”
“Mai.”
Jace
scosse la testa.
“Mai…
Ma la magia infernale non può essere l’unica opzione. Perfino io sono morto, un
anno fa. Valentine mi ha ucciso, eppure sono di nuovo qui e non è cambiato
niente, in me.”
“Sei
un raccomandato, che ti devo dire?” replicò Magnus, visibilmente spazientito.
“Solo gli angeli hanno il potere di compiere magie simili e Raziel è stato
piuttosto chiaro l’ultima volta che l’abbiamo evocato: non intercederà mai più
nelle questioni che riguardano i Nephilim. E comunque, nessun angelo si
scomoderebbe mai per la morte di un umano qualunque.”
Il
dolore nello sguardo di Jace lo spinse a rettificare.
“Qualunque
per lui.”
“Hanno
aiutato Simon in cambio del marchio di Caino” insistette Jace, guardandosi le mani:
riusciva a intravedere le scintille che gli scorrevano sottopelle. “A Raziel
non piace quando gli umani s’invischiano in qualcosa di divino e io ho il fuoco
celeste. Se gli offrissi uno scambio…”
“…
Moriresti ancor prima di aver completato il rituale di evocazione” lo
interruppe Magnus, con aria di sufficienza. “… Ma forse è proprio questo il tuo
scopo.”
Si
studiarono per qualche istante, fino a quando il familiare sorriso obliquo non
accarezzò le labbra di Jace.
“Mi
stai chiedendo se voglio morire?”
Magnus
allargò le braccia.
“Le
tendenze autodistruttive sono nei geni degli Herondale da secoli: non saresti
il primo della tua famiglia a scambiarmi per un’analista.”
Jace
si scostò dalla colonna; l’ironia nel suo volto svanì, cedendo il posto alla
stanchezza.
“L’ho
ucciso” mormorò, il tono di voce insolitamente calmo. “Ho ucciso il mio parabatai:
ho commesso l’azione più deplorevole che ci si possa aspettare da uno
Shadowhunter.”
“È
stato Sebastian” lo corresse Magnus, irrigidendosi al ricordo. “Sebastian ha
ucciso Alec: è stato lui a trafiggerlo con…”
“È
la stessa cosa!”
Il
pugno di Jace si avventò sul muro – forza e fiamme ad aggredire la parete.
“Stavamo
lottando quando è successo. Probabilmente l’avrei ucciso io stesso se Sebastian
non si fosse messo in mezzo. E quando l’ho visto affondare, quando ho capito
che stava mirando al cuore, non ho mosso un muscolo per impedirglielo. Gliel’ho
lasciato fare.”
Un
altro pugno.
Il
sangue inumidì le dita di Jace, mescolandosi al dolore.
Magnus
attutì l’impatto con la magia, soffocando le fiamme con uno scintillio
azzurrino.
“Questa
carta da parati mi è costata un occhio della testa” borbottò, sorvegliando il
ragazzo a distanza.
Jace
lo ignorò.
“Ho
sentito uno squarcio, quando è successo: era la sua anima che mi veniva
strappata via. Per un po’ ho pensato che non esistesse un dolore più crudele di
quello, ma mi sbagliavo. La cosa peggiore è non poter dimenticare: a volte mi
sveglio e risento quello strappo, le ferite interne riprendono a sanguinare. È
come se Alec morisse ogni giorno, come se fossi condannato a perderlo in
continuazione. Sono sopravvissuto a tante cose, ma a questo no: a questo non
voglio sopravvivere.”
Cercò
Magnus con lo sguardo e lo trovò di fronte a lui, le mani ancora avvolte da un
cerchio di scintille azzurre. Riuscì a riconoscersi nel suo sguardo stoico
eppure velato di sofferenza. Il sollievo gli stuzzicò il petto, quando
riconobbe una venatura di comprensione in quegli occhi felini: lo capiva,
adesso ne era certo. Magnus lo capiva.
“Lo
rivoglio” riprese, con il tono cocciuto dei bambini. “Voglio indietro mio
fratello e non m’importa se per riaverlo dovrò smuovere l’Inferno e i Regni
Celesti, o se mi farò ammazzare nel processo: glielo devo.”
Le
scintille azzurre scomparvero con uno schiocco; Magnus gli posò una mano sulla
spalla.
“Mi
dispiace” mormorò, un’insolita sfumatura di dolcezza nel tono di voce.
“Credimi, mi dispiace davvero: ma non posso aiutarti.”
Jace
si ritrasse.
“Tu
lo amavi” sbottò, aggredendolo con lo sguardo: proprio non riusciva a capire.
“Lo amavi, e ti rassegni così?”
Magnus
inspirò con forza, la stanchezza sempre più marcata nei suoi lineamenti.
“Jonathan
Herondale” pronunciò poi, tornando a voltarsi verso la finestra. “Sei così
arrogante da crederti sempre un gradino sopra gli altri, ma nemmeno tu puoi
pensare di conoscere il mondo meglio di un immortale. Sono su questa Terra da
più di quattrocento anni e ho amato e perduto molte volte. Dicono che il primo
amore sia il più doloroso – io stesso dissi a Tessa qualcosa di simile, anni fa
– ma adesso so che non è così: è l’ultimo quello che ti strazia di più. Alec
per me era questo; l’ho avuto a fianco per così poco, eppure è riuscito a
cambiarmi in modi che prima del suo arrivo non avrei mai creduto possibili. Non
era solo il ragazzo che amavo, era anche l’ultimo: non volevo più amare dopo di
lui.”
Un
sorriso nostalgico gli piegò appena le labbra, in aperto contrasto con il
dolore nei suoi occhi.
“Ho
sofferto e soffrirò sempre per averlo perso, eppure sì, ho accettato la sua morte:
mi sono imposto di farlo. Perché so cosa succede a un’anima quando i vivi non
si rassegnano a lasciarla andare: le si impedisce di andare avanti. Le si vieta
di lasciarsi alle spalle ciò che ha perso.”
Jace
scosse la testa; un brivido di tensione gli avviluppò lo sterno.
“Io
non voglio che Alec mi lasci indietro.”
Magnus
tornò a voltarsi verso di lui.
“Dovrai
imparare ad accettarlo” replicò, gli occhi improvvisamente lucidi. “Quello che
stai facendo per Alec non è amore: è egoismo. Finché continuerai a cercare modi
per trattenerlo qui, finché non gli permetterai di andare avanti, Alec non sarà
mai libero di vivere qualsiasi cosa stia affrontando.”
“Non
posso lasciarlo andare.”
Jace
aveva recuperato il solito cipiglio deciso.
“Andrò
avanti con le ricerche, con o senza il tuo aiuto. Non è una questione di
scelta” aggiunse, sfiorando con i polpastrelli la parete annerita dal fuoco.
“Perché io non ho scelta.”
Gli
diede le spalle, lasciandosi scivolare in tasca le dita sporche.
“Ti
farò avere delle nuova carta da parati” promise a mo’ di saluto, avvicinandosi
alla porta.
Magnus
lo stava ancora fissando, ciuffi di capelli a coprirgli disordinatamente gli
occhi.
“Sono
immortale” dichiarò improvvisamente. “Per giorni, da quando Alec è morto, ho
riflettuto sul significato di questa parola: che senso ha la promessa di una
vita eterna se hai scelto di trascorrerla senza più amare?”
Jace
lo ascoltava a stento, impaziente di tornare a casa: si era convinto che
parlare con Magnus l’avrebbe aiutato, che avrebbe trovato in lui un alleato, ma
quell’incontro non aveva fatto altro che alimentare il suo bisogno di risposte.
“Più
volte, prima di venire a Londra, ho pensato di chiuderla qui” rivelò ancora
Magnus con semplicità. “Ho vissuto tanti anni e la stanchezza, il dolore per le
perdite, incominciavano a farsi sentire. Presto inizierò a fossilizzarmi, a
vivere a metà come è accaduto a tanti stregoni prima di me. Poi, però, ho
ripensato ad Alec: a quello che è riuscito a insegnarmi nei pochi mesi che ci
hanno concesso. Ho pensato a come ha affrontato la morte di Max, a come ha
lottato fino all’ultimo per trovarti. Era così piccolo, il mio Alexander: poco
più che un bambino.”
La
sua voce tremò, ma l’orgoglio nel suo sguardo era stabile quanto il passo di un
guerriero.
“Vacillava
e soffriva di continuo, ma non si è mai lasciato piegare dal dolore. Grazie a
lui ho accettato quello che, andandomene, mi sarei rifiutato di accettare: ho
sofferto.”
Jace
tornò a serrare i pugni, i muscoli insolitamente contratti: faceva male, sentir
parlare così di suo fratello. Faceva male ricordare quanto avesse amato, e
combattuto, e perso, spesso a causa sua.
“E
soffro ancora, tutti i giorni, proprio come te e Isabelle. Ma se soffro è
perché sono vivo.[1]”
Il
volto di Magnus, adesso, non aveva più maschere: era antico e sincero, dolore e
rimpianto mescolati ad affetto e all’orgoglio.
“Spiega
questo a tua sorella” concluse, scostandosi una ciocca dagli occhi. “Dille che
una vita spezzata non si rigenera rompendone un’altra. Di’ a Isabelle di vivere
il doppio, il triplo, affinché anche i fratelli che ha perso possano avere una
possibilità attraverso di lei. Non sprecate il tempo che vi è rimasto facendovi
del male.”
Una
luce azzurrina illuminò la stanza, attirando l’attenzione di Jace; un portale
si disegnò in mezzo loro, proiettando riflessi azzurri sul volto di Magnus.
“Alec
non lo vorrebbe.”
Note Finali.
Buongiorno!
È venerdì e questo significa ‘nuovo
capitolo’! La storia riprende da dove si era conclusa con quello precedente ed
ecco che Jace incontra finalmente Magnus. Il loro dialogo è stato forse uno di
quelli più dolorosi da scrivere, ma la storia non mi sarebbe sembrata completa
senza una comparsa di Magnus, vista la sua importanza nella vita di Alec. Magnus
e Jace sono due persone molto diverse e Magnus ha alle spalle anni di vita,
saggezza e conoscenze che Jace invece non possiede: questo si riflette nel modo
così diverso che hanno di affrontare la morte di Alec.
Jace si trova dunque di nuovo a un punto
di partenza, ma come sappiamo non si lascia abbattere facilmente. Nel prossimo
capitolo tornerà alla carica con le sue ricerche e le sue teorie e tenterà di
strappare qualche risposta a un certo, bellissimo, Fratello Silente a
caso. Un Fratello Silente che sa benissimo quanta dolore comporti la perdita
del proprio parabatai. Il prossimo
capitolo se la batte con questo per il livello di angst, ma prometto che dal
quarto in poi l’atmosfera si alleggerirà (giusto) un tantino.
Ringrazio tantissimo le persone che
hanno commentato lo scorso capitolo e quelle che hanno aggiunto la storia alle
seguite! Spero tanto di sentire un vostro parere su questa nuova parte!
A presto
Laura
[1] Questa frase di Magnus si ispira a un
dialogo del film “Charlie St. Cloud”. Me ne sono accorta a posteriori quindi
spero di ricordare correttamente!
«Provò immediata
simpatia per Fratello Zaccaria, immaginandosi se stesso senza Alec, con quella
runa stinta come unica memoria del tempo a cui era stato legato a qualcuno che
conosceva tutte le parti migliori e peggiori della sua anima.»
Jace Herondale – Città del
Fuoco Celeste. Cassandra Clare
L’anello era
di un argento un po’ spento e ospitava un motivo di uccelli in volo.
Jace se lo
rigirò fra le dita, riconoscendo il simbolo degli Herondale.
“Apparteneva
a James, il figlio di Tessa e Will” gli stava spiegando Jem Carstairs, un
sorriso malinconico a piegargli le labbra. Aveva chiesto a Jace di incontrarlo
all’Istituto e il ragazzo aveva acconsentito, seppur con riluttanza.
“È un anello
molto antico: gli Herondale se lo scambiano da generazioni e Tessa insiste che
l’abbia tu. Avrebbe voluto dartelo di persona, ma l’ultima volta che vi siete
visti non ne ha avuto modo ed io ero di passaggio qui a New York, così…”
Jem si
strinse nelle spalle: tutto a un tratto sembrò davvero giovane, appena poco più
grande di Jace.
Era strano
vederlo parlare e comportarsi come una persona qualunque. In passato, Jace
aveva creduto che vedere un Fratello Silente senza la classica tonaca color
pergamena sarebbe equivalso a vederlo nudo, ma Carstairs – con quegli occhi
vividi e la voce gentile – non ricordava un membro della fratellanza più di
quanto non lo sembrasse lui.
“C’è un
motivo se hai voluto incontrarmi qui?” domandò, giocherellando con l’anello.
“L’Istituto non è esattamente il mio posto preferito, al momento.”
“Sì, Clary
me l’ha detto” rispose Jem, sollevando la custodia di violino che aveva con sé.
“Ma so anche che qui avete una Stanza della Musica davvero bella: vorrei
vederla, se per te va bene. Suonare è proibito ai Fratelli Silenti, ma adesso
che non lo sono più intendo recuperare tutta la musica che mi sono perso.”
Jace gli
rivolse un’occhiata distaccata.
“Ti ci può
portare Clary: sta disegnando in camera di Izzy.”
La sua
tensione si attenuò, quando pronunciò il nome della fidanzata.
Era
stata Clary a convincerlo ad accettare l’incontro con Jem: negli ultimi mesi si
era tenuta in contatto con lui e Tessa, e sembrava aver instaurato un buon
rapporto con entrambi. Era convinta che parlare con Jem avrebbe aiutato Jace.
Dopotutto, anche lui aveva perso il suo parabatai e da quando era
tornato uno Shadowhunter il dolore della perdita sembrava essersi amplificato.
Jem gli
sorrise.
“In
realtà speravo di sentirti suonare” ammise, sfiorando la custodia del violino.
“Ho sentito dire che sei molto bravo.”
“Lo
sono” confermò Jace, l’aria compiaciuta a spazzare un po’ della stanchezza dal
suo volto. “In effetti sono davvero poche le cose che mi riescono male: una di
questa è apparire brutto.”
Il
sorriso di Jem si allargò.
“Credo
che questo sia un tratto comune a tutti gli Herondale” commentò. Un guizzo di
allegria si accese nel suo sguardo; a Jace ricordò lo scintillio che animava
gli occhi di Alec quando si perdevano in conversazioni tutte loro.
Il
ricordo sembrò scaldarlo per un istante, ma divenne in fretta doloroso.
“Allora
è per questo che sei venuto qui” asserì, sorridendo tagliente. “Non è per la
musica: vuoi giocare a ‘trova le differenze’ fra me e il tuo parabatai.”
Jem
scosse la testa, per nulla turbato dal cambio di tono nella conversazione.
“E se
invece parlassimo del tuo?” chiese.
Jace si
irrigidì.
“Cosa
vuoi sapere di Alec?” ribatté con freddezza. Che Magnus gli avesse
spifferato tutto?
“Qualsiasi cosa tu abbia
voglia di raccontarmi” disse Jem, tornando a stringersi nelle spalle. “Certe
volte parlare è l’unico modo per ricordare; e ricordare aiuta a guarire, quando viene
fatto nel modo giusto.”
Parlava
con la pacatezza di un anziano, ma il suo sguardo rifletteva la sicurezza di una
persona molto forte: adesso sì che sembrava centenario.
“Parlami
di lui” insistette Jem, posandogli una mano sulla spalla. Il suo era un tocco
leggero, a malapena percepibile.
Jace esitò: il no
con cui avrebbe tanto avrebbe voluto rispondere gli morì in gola.
La
verità era che aveva davvero voglia di parlare di Alec. Solo, non se ne era mai
accorto.
“Perché?”
insistette, aggrottando le sopracciglia. “Perché t’interessa così tanto
aiutarmi?”
Jem
fissò con fare distratto l’anello degli Herondale.
“Perché
tu mi hai salvato la vita” rispose infine, tornando a rivolgere la sua
attenzione al ragazzo. “Il minimo che possa fare è provare a salvare la tua.”
***
“C’è
stata una volta…”
Jace
aveva i gomiti appoggiati sul piano, gli occhi socchiusi nel tentativo di
abbandonarsi completamente al ricordo. Jem l’ascoltava in silenzio, il violino
sulle ginocchia.
“…
L’unica volta in cui credo di essermi davvero affidato qualcuno, prima
dell’arrivo di Clary. Avrò avuto undici anni. Era l’anniversario della morte di
mio padre, o almeno così credevo” aggiunse, con una punta di durezza. “Avevo
voglia di stare per conto mio, così me ne andai a nella serra: era uno di miei
posti preferiti, ma gli altri non ci andavano quasi mai. Alec mi trovò comunque.”
Sorrise
appena, giocherellando con il suo anello.
“Lui mi
trovava sempre.”
Anche
Jem sorrise; sembrava volesse dire qualcosa, ma non lo interruppe e Jace gliene
fu grato.
“Quel
giorno mi sentivo stanco, confuso: stando con i Lightwood avevo incominciato a
rendermi conto che c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui mio padre si era
preso cura di me. Mi aveva cresciuto con la durezza che si riserva ai soldati,
non ai figli, eppure trovavo insopportabile l’idea di metterlo in discussione. L’amore
indebolisce, mi dicevo, per questo sto male; per questo sento così tanto la sua
mancanza: aveva ragione lui.”
La voce
gli tremò appena. I pensieri della sua infanzia erano una ferita aperta e
stavano bruciando di nuovo, a distanza di tutti quegli anni.
“Quando
Alec mi ha trovato avevo le dita affondate nel terriccio. Cercavo delle radici
a cui aggrapparmi, qualcosa che mi desse stabilità. Mi sentivo stanchissimo,
come quando si piange per delle ore, ma i miei occhi erano asciutti. Ho questo
ricordo di Alec che mi guarda senza dire nulla e poi si siede vicino a me;
sento la sua mano sulla mia spalla. Lo ricordo così bene…”
Si portò una mano poco sopra la clavicola, a
sfiorare la runa parabatai.
“… Riuscivo a sentire il suo calore. Non
fisicamente: era qualcosa di diverso. Percepivo il suo abbraccio, eppure mi stava
a malapena toccando; non aveva bisogno di farlo. Ci parlavamo a sguardi, io e
lui, a gesti. Sentivo le sue parole di conforto anche quando non parlava e quel
giorno il suo silenzio deve avermi raccontato qualcosa di veramente importante,
perché le mie barriere crollarono. S’indebolirono a punto tale da spingermi ad
affidarmi a lui, a un ragazzo poco più grande di me. Ricordo di aver tirato via
le mani dal terreno e di avergli appoggiato la testa sulle gambe, come un
bambino piccolo.”
Sorrise ancora, divertito da quel
ricordo.
“Era una cosa così terribilmente
da Max, quella, che pensai di essere ammattito. Ad Alec non piacque” ricordò,
stringendosi nelle spalle. “Sentii che si irrigidiva, che si sforzava di
restare immobile. Aveva tredici anni: eravamo in quell’età in cui si cerca di
cancellare il bisogno di tenerezza, ma Alec alla fine cedette. Mi lasciò fare.”
Incrociò lo sguardo di Jem e si
stupì nel riconoscervi dentro del dolore. Si chiese se le sue parole stessero
riportando a galla qualche suo ricordo su Will. Anche loro, si disse, dovevano
essersi conosciuti da bambini:la maggior parte dei parabatai stringevano
amicizia durante l’infanzia.
“Ricordo che a un certo punto
aveva incominciato ad accarezzarmi i capelli. Aveva le dita sottili” riprese,
una fitta improvvisa di nostalgia a premergli contro il petto. “Da bambino. Ma
c’erano già delle cicatrici.”
Se le ricordava bene quelle
carezze goffe, le mani incerte di Alec che gli solleticavano il collo.
Ricordava la sensazione bellissima e dolorosa al tempo stesso di una prima
volta: i polpastrelli di Alec gli avevano tracciato addosso un affetto mai
provato, marchiandolo con segni invisibili.
“Quella è stata la prima volta, da
quando avevo sei anni, in cui mi sono mostrato debole a qualcuno senza
vergognarmene. La prima volta in cui mi sono sentito amato per davvero”
riprese, lasciandosi scivolare l’anello in tasca. “È questo il ricordo che
salverei se qualcuno minacciasse di cancellare via tutti gli altri.”
Jem annuì, dolore e malinconia a
mascherare la mitezza del suo volto. Mentre Jace parlava aveva messo il violino
in posizione e adesso teneva l’archetto sollevato, la schiena dritta e la testa
inclinata di lato.
Chiuse gli occhi e inspirò.
Infine, lasciò che l’archetto accarezzasse le corde del violino e i primi suoni
s’insinuarono nell’aria.
Jace serrò a sua volta le
palpebre, lasciandosi sfiorare dalle prime note: assomigliavano alla risacca.
Lo inondavano fino a inzupparlo e poi tornavano indietro, lasciandolo solo e
fradicio di ricordi.
Una volta, Hodge gli aveva parlato
di un’antica storia cinese, una favola di amicizia e di musica. Era la storia
del musicista Yu Boya e del suo amico Zhong Ziqi, l’unico in grado di leggere
il suo cuore, di visualizzare le immagini scaturite dalla sua musica: era stato
grazie a Zhong Ziqi che Yu Boya aveva iniziato a suonare il Qin. Quando Zhong
Ziqi morì, Yu Boya suonò il dolore e la nostalgia della perdita sulla tomba
dell’amico e poi distrusse il Qin.
Zhi Yin: era così
che Yu Boya chiamava Zhong Ziqi. Significava capire la musica, ma anche essere
legati da qualcosa di incondizionato, qualcosa di più forte dell’amicizia.[1]
Jem Carstairs questo doveva
saperlo: perché con le sue note – un concerto di vibrazioni eleganti e dolorose
– aveva incominciato a raccontare Alec.
Suonava suo fratello – il suo zhi
yin – e gli anni della loro vita assieme, così come Jace glieli aveva
raccontati.
Suonò due ragazzini seduti vicini
nella serra, il più piccolo dei due con la testa sulle ginocchia dell’altro.
Suonò la cerimonia parabatai: il fuoco e i voti e le rune ardenti[2].
Suonò due adolescenti nelle sala delle esercitazioni, uno che leggeva ad alta
voce e l’altro che riposava al suo fianco, dopo ore di allenamenti. E poi le
notti trascorse a parlottare e quelle in cui si sorvegliavano a vicenda dalle
soglie delle rispettive camere, per tenere lontani gli incubi.
Le mani di Jace si mossero d’istinto,
guidate dai ricordi. Le sue dita si alternarono sui tasti del pianoforte,
rincorrendo una melodia che parlava di Alec: della gioia nell’averlo trovato e
della sofferenza per averlo perso.
Suonò assieme a Jem la sicurezza
emanata dalle loro strette di mano e la luce tiepida nello sguardo di entrambi,
quando ridevano assieme.
Raccontò il terrore provato quando
se l’era trovato ferito fra le braccia per la prima volta e la rabbia, il
tradimento che gli avevano graffiato l’anima durante le loro litigate.
Suonarono il loro primo abbraccio
e anche l’ultimo; ogni gesto d’affetto che si erano scambiati, ma anche le
parole che non erano mai riusciti a dirsi. Suonarono la piccola frattura che
l’ultimo anno aveva insinuato fra loro con l’arrivo di Clary e la volontà di
Sebastian a premere sulla sua.
Suonarono la gelosia di Alec e il
senso di colpa di Jace e mai erano parsi tanto belli – e delicati, eppure
struggenti – quanto in quel momento.
Le ultime note riempirono l’aria
di azzurro – lo stesso colore intenso dello sguardo di Alec.
E quando la musica terminò, e Jem
ebbe riposto di nuovo il suo strumento nell’astuccio, gli occhi del violinista
erano ancora chiusi, ma quelli di Jace erano pieni di lacrime[3].
Il silenzio dondolò loro intorno
con la lentezza della neve; Jace sentì che gli si depositava addosso,
soffocando il dolore come una benda sulle ferite aperte.
Si sentiva come doveva essersi
sentito Yu Boya sulla tomba di Zhong Ziqi: come qualcuno che dice addio alla
metà migliore di se stesso.
Come qualcuno che si rassegna.
“Non voglio.”
Le parole erano sfuggite al suo
controllo, fievoli e incerte: non sapeva nemmeno cosa significassero.
“Lo
so.”
Jem
tornò a posargli una mano sulla spalla.
“Conosco la tua
sofferenza. Ti ho ascoltato suonare, Jace Herondale, e ho visto il tuo Alec, ho
ascoltato la vostra storia: ho sentito il tuo dolore e l’ho suonato assieme a
te.”
“Come?” replicò atono
Jace, distogliendo lo sguardo. “Non lo conoscevi nemmeno.”
“Ho visto i
fantasmi evocati dalla tua musica” rispose Jem. “I fantasmi sono
ricordi, e noi li conserviamo perché coloro che amiamo non lascino il mondo.
Finché ci sono l’amore e il ricordo, non ci sono vere perdite.”[4]
“L’amore
e il ricordo non mi bastano” ribatté secco Jace, sfregandosi gli occhi con una
mano: erano tornati asciutti.
“A
nessuno bastano” ammise Jem, e Jace ebbe l’impressione che in quelle parole echeggiasse una
tristezza secolare. “Ma a
volte non si ha che questo, oltre al tempo. E il tempo sa essere indulgente,
quando si affronta una perdita.”
“Non
voglio indulgenza.”
Jace
scosse la testa, le braccia incrociate sul petto.
“Hai
detto di essere in debito con me. Dici di volermi aiutare, ma non sto cercando
tecniche alternative per processare un lutto: mi serve un piano.”
Il suo
sguardo tornò ad accendersi: il dolore e le lacrime erano solo più un’ombra, un
ricordo appena accennato intorno agli occhi.
“Un
piano per cosa?” Jem rimase impassibile. “Per riportare indietro il tuo parabatai?”
Jace si
sforzò di sembrare altrettanto calmo.
“Un
anno fa sono morto” rivelò, guardandosi le mani: il fuoco celeste s’intravedeva
appena, formando strane ombre sulla sua pelle. “Grazie a Clary mi è stata data
una seconda possibilità ed io l’ho sprecata.”
“Non
è dipeso da te” cercò di contestare Jem.
“Non
importa” lo ignorò Jace. “Adesso è il turno di Alec.”
“Ascoltami,
Jace....”
Per
la prima volta in quel pomeriggio, Il viso Jem si corrugò in un’espressione
contrariata.
“…
Non sono anziano come Magnus, ma sono stato un Fratello Silente a lungo e ho
assistito a diversi tentativi di resurrezione. Persone più grandi ed esperte di
te hanno giocato con la negromanzia, causando la morte di tanti. Ogni magia ha
un prezzo, spesso caro. E in cambio di cosa, poi? Chi tornava in vita non era
mai interamente se stesso.”
“Questo
lo so” ribatté secco Jace. “Ma a me non interessa la negromanzia. Un corpo
vuoto non mi serve: rivoglio indietro la sua anima.”
Il
suo sguardo, adesso, non aveva più niente del ragazzino arrogante e tormentato
di poco prima. Gli occhi di Jace rilucevano di una luce fulgida, come quelli di
un angelo vendicatore.
“Ci
sono strade, nel regno delle fate, che conducono all’Inferno” spiegò, facendo
un passo avanti. “A Edom e alle altre dimensioni demoniache. E se anche il
Paradiso non fosse altro che un insieme di dimensioni parallele?”
Jem
tacque per qualche istante, limitandosi a studiarlo con sguardo grave.
“Nella
Città di Ossa, i Fratelli Silenti hanno accesso ad alcuni testi proibiti molto
antichi” ammise infine, con un sospiro. “Si dice che siano stati scritti dai
primi Nephilim – David, Jonathan e Abigail – sotto dettatura dello stesso
Raziel. Parlano dei Regni Celesti e delle leggi che li governano. Ma come ho detto
prima, sono pagine proibite: ciascun membro della Fratellanza è votato al
silenzio, pena la morte.”
“Ma
tu non sei più un Fratello Silente” osservò Jace, l’impazienza che gli scorreva
sottopelle. “Non possono costringerti al silenzio.”
Ancora
una volta, Jem non rispose subito. Frugò nello sguardo di Jace alla ricerca di
qualcosa e probabilmente la trovò, perché qualche istante dopo riprese a
parlare.
“Non
abbiamo prove…” incominciò, sedendosi di fronte al pianoforte. “… Ma in questi
testi il Paradiso viene descritto come un’insieme di dimensioni concentriche:
Jonathan le chiamava Dimensioni Celesti. Le anime dei morti migrano di cerchio
in cerchio, secondo regole a noi sconosciute. C’è una sola dimensione celeste
di cui si sa qualcosa, il cerchio più esterno. I Mondani gallesi la chiamano
Annwn” aggiunse con un’improvvisa sfumatura malinconica nello sguardo. “Alcune
leggende la descrivono come un luogo fertile e dal clima sempre sereno, dove le
persone non invecchiano, il cibo abbonda e le malattie non esistono. Altre
hanno una connotazione più negativa: qualcuno crede che Annwn sia il luogo dove
vengono tenute prigioniere le anime in sospeso fra i due mondi.”
“E
queste scritture di Jonathan, questi testi proibiti…” lo interruppe Jace, appoggiando
i gomiti al pianoforte. “… Spiegano anche come raggiungere una di queste
dimensioni?”
Jem
scosse la testa.
“Le
leggi del Paradiso sono molto ferree” spiegò, appoggiandosi il violino sulle
ginocchia. “Nessun vivente può accedervi.”
“Ma
se qualcuno ci riuscisse…” insistette il ragazzo, protendendosi in avanti. “…
Se qualcuno trovasse il modo… Allora sarebbe anche possibile trovare Alec.”
“Non
è così semplice” lo contraddisse Jem, scuotendo la testa. “L’equilibrio che mantiene
legate le Dimensioni Celesti è fragile ed è regolato dal Principio dello
Scambio Equivalente.”
“Lo
conosco” mormorò Jace, una luce di consapevolezza nello sguardo. “È il concetto
su cui si basa l’alchimia: senza sacrificio, l'uomo non può ottenere nulla” recitò poi,sfiorando distratto la runa della memoria.“Per ottenere qualcosa,
è necessario dare in cambio qualcos'altro che abbia il medesimo valore.”
“Ti intendi di alchimia mondana?” domandò Jem, visibilmente
sorpreso.
Jace abbozzò un sorrisetto.
“Nah... È la frase di un cartone
che ho visto con mio fratello” confessò, avvertendo un improvviso moto di
malinconia: c’erano dei giorni in cui la perdita di Max gli gravava addosso
quasi quanto quella di Alec. “Due bambini cercavano di riportare in vita la
madre morta, ma senza riuscirci: non esiste merce di scambio che abbia lo
stesso valore di un’anima.”
“Proprio così” confermò Jem. “I Regni Celesti sono dominati
da questo principio: quando si vuole ottenere qualcosa bisogna rendere qualcosa
in cambio – qualcosa che abbia lo stesso valore. Per ogni anima strappata alla
morte, un’altra va sacrificata.”
“In
pratica stai dicendo che per riavere indietro Alec dovrei morire al suo posto”
tradusse Jace con voce insolitamente asciutta.
“A
livello teorico sì” fu costretto ad ammettere Jem. “Ma dimentichi che è
impossibile accedere alle Dimensioni Celesti. E anche se così non fosse, non è
detto che chi le governa si presterebbe a uno scambio di anime.”
Il
silenzio tornò a permeare la stanza, intervallato dal tamburellare delle dita
di Jace sul piano.
“Troverò
il modo” mormorò infine il ragazzo, la luce della decisione ad accendergli gli
occhi.
Jem
sorrise: il suo era un sorriso paterno, indulgente, eppure il suo sguardo si
era fatto improvvisamente risoluto.
“Non
lo farai” rispose, fissandolo con intensità. “Ti ho parlato dei Regni Celesti
perché ero certo che, se non l’avessi fatto, avresti cercato di procurarti
quelle informazioni in altri modi – mettendoti nei guai, probabilmente. Ma non
mi limiterò a guardare mentre ti lanci in una missione suicida.”
“Il
tuo Will avrebbe capito” ribatté Jace, concedendosi una punta di sarcasmo nel
pronunciare quel tuo. “Ti direbbe di lasciarmi provare: qualunque parabatai
lo farebbe.”
“E
la tua famiglia cosa direbbe, invece?” esordì Jem, scuro in viso. “Cosa penserebbe
Isabelle, che di fratelli ne ha già persi due? E Clary? Pensi che si meriti la
sofferenza che stai pensando di infliggerle?”
Il
fuoco celeste si animò, ustionandolo dall’interno. Jace chiuse gli occhi,
boccheggiando per il dolore, ma quando Jem cercò di toccarlo si ritrasse.
“Clary
è la ragione per cui continuo ad alzarmi la mattina” disse, allontanandosi dal
piano: non era il caso di trasformarlo in un falò. “Forse prima o poi, con lei
al mio fianco, potrei tornare ad essere felice, ma la mia resterebbe comunque
una mezza vita. Non posso andare avanti così, con il senso di colpa a
contaminare ogni brandello di felicità che mi è rimasto. Malo mori quam foedari[5]” concluse in latino, un sorriso amaro ad
arricciargli le labbra. Meglio morire che il disonore.
Qualcosa di simile alla tenerezza smorzò la
tensione nel volto di Jem.
“Gli Herondale” mormorò, scuotendo la
testa. “Me
n’ero quasi dimenticato. Nessuna famiglia fa tanto per amore, o prova un così
grande senso di colpa.”[6]
Jace
abbozzò un sorriso.
“Mi
aiuterai” intuì, guardandolo negli occhi: erano più scuri dei suoi, ma limpidi
come un tempo lo erano stati quelli di Alec. Poteva leggerci attraverso e
quello che vi trovò dentro gli piacque.
“Mi
rendo conto che non c’è modo di ostacolarti” ammise Jem, stringendosi nelle
spalle. “Tanto vale rendermi utile: dopotutto i Carstairs hanno un debito in
sospeso con gli Herondale.”
“Che
cos’altro puoi dirmi?”
“Ti
ho parlato di Annwn” proseguì Jem, alzandosi dallo sgabello. “La dimensione più
esterna dei Regni Celesti. Non mentivo quando ho detto che nessun vivente può
accedervi, ma esiste un popolo – uno solo – a cui è consentito transitare sul
suo confine.”
Indugiò
ancora, lo sguardo improvvisamente stanco.
“Hai mai sentito parlare della Caccia Selvaggia?”
chiese infine, rivelando ciò che fino a quel momento si era sforzato di
nascondergli.
Un brivido di esaltazione risalì la
schiena di Jace. Annuì: tutti gli Shadowhunters conoscevano la Caccia.
“Fate
che non rispondono a nessuna delle Corti terrene” snocciolò,ricordando
ciò che aveva letto sul Codice. “Sono cacciatori e cavalcano in cielo, guidati
da Gwyn ap Nudd. La gente pensa che a seguirli possano condurti nel regno
delle fate o… nella terra dei morti[7]”
concluse, con un fremito.
La
terra dei morti.
“I
membri della Caccia non hanno sovrani e disdegnano le leggi. Cavalcano rasente
la morte e la devastazione, presenziando alle battaglie più sanguinarie per prelevarne
i caduti. Alcune vittime vengono scelte perché si uniscano alla Caccia. È magia
nera, la peggiore. Ma se li segui…” inspirò con forza, come se proseguire gli
stesse costando fatica. “… Potrebbero condurti al confine con Annwn.”
“Forse
Gwyn ap Nudd conosce un modo per accedere alle Dimensioni Celesti” si animò
Jace, stringendo l’anello degli Herondale fino a far impallidire le nocche. “La
Caccia custodisce segreti secolari, proprio come la Fratellanza. Potrei cercare
di unirmi a loro: so che reclutano mortali una volta l’anno.”
“Chi
si unisce alla Caccia ne farà parte per sempre” lo ammonì Jem. “L’unico modo
per uscirne è ottenere il permesso di Gwyn ap Nudd.”
“Non
importa” replicò deciso Jace, il familiare sorriso obliquo a piegargli le
labbra. “Non ho in programma di tornare indietro.”
Jem
lo stava fissando con fare preoccupato, ma c’era anche dell’altro nel suo
sguardo: nostalgia, forse. L’attaccamento al ricordo di qualcuno che non c’era
più.
“Quel
che mi interessa è riuscire a trovare il modo per entrare ad Annwn” proseguì Jace.
“Stando
ai testi proibiti, se anche un essere vivente riuscisse ad accedere a una Dimensione
Celeste, morirebbe subito” spiegò Jem, scuotendo la testa. “Annwn è un regno di
sole anime, ma tu hai il fuoco celeste. Hai in corpo qualcosa che scorre
soltanto nelle vene degli angeli.”
Jace
inspirò con forza, gli occhi chiusi nel tentativo di concentrarsi.
“Tutto
ciò che mi occorre è un portale” mormorò infine, tirando fuori il suo stilo. “O
una runa di apertura: qualcosa che sblocchi l’accesso ad Annwn.”
Jem
gli rivolse un’occhiata pensosa.
“I
sigilli che bloccano l’accesso ai Regni Celesti sono il frutto di potere
angelico: non esiste magiaterrena– né una runa– in grado di contrastarla.”
“Forse
no” convenne Jace, tornando a sorridere. “Ma conosco qualcuno che può farlo.”
*
Clary
non ricordava per quanto a lungo avesse dormito, né che cosa l’avesse spinta ad
accasciarsi a quel modo sul suo album da disegno, le palpebre tutto a un tratto
pesanti.
Si
trovava in camera di Izzy quando era successo: aveva gli occhi pieni di
lacrime, commossa dalla melodia malinconica che proveniva dalla stanza della
musica.
Il
brano eseguito da Jace e James Carstairs non le aveva parlato solo di Alec, o
di Will, e della sofferenza provata dai rispettivi parabatai. Le aveva sussurrato
di Simon e dello smarrimento che avrebbe avvertito lei, se qualcuno gliel’avesse
portato via. Le aveva raccontato cosa significava sentirsi mutilati, tranciati
in due, privi di una metà fondamentale.
Aveva pianto pensando a Jace, alla luce fievole
che di tanto in tanto la illudeva, facendo capolino nei suoi occhi. C’erano delle
volte in cui sembrava sereno, giorni in cui non la smetteva più di fare
battute. C’erano stati dei pomeriggi trascorsi a sorridere e a baciarsi, a
sussurrarsi poche parole all’orecchio.
Tuttavia, nonostante i tentativi di entrambi di
riemergere dal dolore, nonostante Clary si sbracciasse più che poteva per
riportare Jace in superficie, il ragazzo continuava a sprofondare.
Bastava poco: una foto, qualche frase formulata
male, un brutto sogno e i suoi occhi tornavano a spegnersi, il sorriso spariva.
Il dolore gli rubava la voce e lui scivolava più in basso, lasciandosi
affondare senza nemmeno cercare di liberarsi.
Clary stava pensando a questo, quando si era
addormentata.
La musica di Jem e Jace c’era ancora, anche se
in sordina, ma non riusciva a capire da che direzione provenisse. Si sentiva
galleggiare – un corpo vuoto trascinato dalle correnti marine – ma non aveva
paura.
Aveva alzato la testa e un senso
di vertigine l’aveva travolta: era sospesa in una distesa color notte,
circondata da puntini simili a stelle.
Un fiotto di luce era apparso di
scatto, costringendola a coprirsi gli occhi con le braccia. Quando li aveva
riaperti, si era trovata di fronte la figura sfocata di Ithuriel, splendida e
dorata come nei sogni precedenti.
Clary ricordava di aver aperto
bocca per parlare, ma non era fuoriuscito alcun suono. Ithuriel, tuttavia,
sembrava aver capito lo stesso. Aveva spiegato le ali, per poi unirle di fronte
a sé, come se stessero formando uno scudo. Gli occhi disegnati sulle piume erano
svaniti e al loro posto era comparso un nuovo disegno, lungo e sinuoso.
I tratti neri dell’immagine
avevano preso fuoco e la violenza di quelle fiamme aveva fatto trasalire Clary,
che si era vegliata di scatto, pallida e tremante.
Adesso la ragazza era in ginocchio
sul letto di Izzy, il fiato corto e il corpo percorso dai fremiti.
Una mano era impegnata a tenere
fermo l’album da disegno e l’altra si sforzava di reggere la matita, che
continuava a cadere.
Il disegno del suo sogno, quello
tracciato sulle piume di Ithuriel, fece lentamente comparsa sul foglio: due
dentini appoggiati a un tratto verticale che si curvava verso il fondo,
ricordando l’attaccatura di un ala. Assomigliava a una chiave.
Clary era certa che ci fosse qualcosa
di profondamente sbagliato nel suo disegno. Più volte fu tentata di staccare la
matita dal foglio, ma l’impulso a proseguire era talmente forte che non riuscì
a smettere fino a quando non arrivò all’ultimo tratto.
Si alzò in piedi, l’album da disegno
che vibrava per via della sua presa tremula.
Aveva tra le mani una nuova runa:
la più potente che avesse mai creato.
Note Finali.
Buonasera
(notte?)
Ecco
qui, in super ritardo, il nuovo capitolo. Mi spiace di non essere stata
puntuale con l’aggiornamento, ma ultimamente tendevo sempre a rimandare, vuoi
la scuola vuoi un po’ di sconforto per l’esito della storia in sé. Spero che a
lungo andare possa incominciare a leggerla qualcuno! Intanto cerco di non
demordere e ringrazio tantissimo mafiaromano che continua a seguire gli
aggiornamenti! Sei gentilissima!
Questo
capitolo, come avevo anticipato nello scorso, è forse quello in cui si tocca il
fondo a livello di angst; è anche uno di quelli che per me significa di più, perché
si entra un po’ in profondità per quanto riguarda ciò che sta provando Jace e
anche perché ho un debole per Jem e per loro due nelle vesti di musicisti.
Questo è anche il capitolo in cui compaiono più citazioni/parallelismi con i
libri! Spero che non abbiano appesantito troppo la lettura o infastidito, ma ci
tenevo proprio a creare una sorta di legame fra le due coppie di parabatai. E,
al tempo stesso, volevo riprendere alcune cose di Città del Fuoco Celeste
(alcuni frammenti di una conversazione fra Jem e Tessa e altre cose che Jem
dice a Jace nel libro) in maniera da far coincidere, in qualche modo, i due
futuri: quello della saga e questo.
Nel
prossimo capitolo per Jace avrà inizio il viaggio vero e proprio. Ma,
soprattutto, ritroveremo finalmente qualcun altro: qualcuno che in questa
storia comparirà meno rispetto a Jace, ma che resta comunque uno dei protagonisti
indiscussi. Ovviamente sto parlando di… Church! E va bene, parlavo di Alec
anche se Church una comparsata intorno a metà storia la fa!
Spero
tanto che questa parte possa esservi piaciuta, nonostante la lunghezza!
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1] La leggenda di Zhong Ziqi e Yu Boya
viene raccontata nella trilogia delle Origini di Cassandra Clare.
[2] Citazione tratta da “La
Principessa" di C. Clare.
[3] Citazione tratta da “La Principessa” di
Cassandra Clare.
[4] Riferimenti ad alcuni passaggi di Città
del Fuoco Celeste, tratti da alcune conversazioni fra Jem, Tessa e Clary.
[5]Un
vecchio motto romano: Jace deve averlo trovato passando in rassegna decine di
libri antichi, durante le sue ricerche, e gli è rimasto impresso.
[6] Citazione tratta da Città del Fuoco
Celeste: Jem pronuncia quella frase allo stesso Jace.
[7]Sono sicurissima che anche questo
passaggio sia tratto dai libri, ma ho scritto questa scena quasi un anno fa e
non riesco più a trovare il riferimento! Se vi viene in mente fatemelo sapere,
così inserisco i crediti!
«Mi sembrava di avere un
uncino piantato sotto le costole, con qualcosa che tirava in senso opposto.
Come se fossi fisicamente legato a te, a prescindere dalla distanza.»
JulianBlackthorn
– Signora della Mezzanotte. Cassandra Clare
Jace sfiorò ammirato il manubrio della moto.
Ne
aveva visti tanti di quegli aggeggi, e l’anno prima ne aveva perfino guidato
uno, ma non si era mai sentito tanto eccitato al pensiero di possedere un mezzo
come quello.
Il
suo sguardo passò in rassegna la figura snella e lucida della moto e i tubi
sporchi di qualcosa che sembrava grasso, ma che Jace
supponeva fosse icore: dopotutto, le moto dei vampiri erano state truccate per
funzionare con motori demoniaci.
Era
per quello che Jace se n’era procurata una,
soffiandola a un imbecille dall’aria assonnata del clan di Raphael.
Nessun altro mezzo facilmente reperibile era in grado di volare così in alto. E
poi, aveva sentito dire che alcuni membri della caccia volassero con delle
motociclette anch’esse impregnate di magia nera. Probabilmente il mezzo dei
vampiri non avrebbe retto il confronto: presto o tardi Jace
non sarebbe più riuscito a stare al passo e sarebbe stato costretto a
rivelarsi, nella speranza che la Caccia lo prendesse con sé. Per il momento,
tuttavia, quella moto era più che sufficiente.
Sorrise
fra sé, prima di alzare la testa: la finestra della camera di Clary era socchiusa.
La
tristezza imperlò il volto del ragazzo, mentre le sue mani correvano a cercare
degli appigli: la sinistra accarezzò l’anello degli Herondale,
mentre quella destra si richiuse attorno a un foglietto piegato in quattro.
Era
un disegno che aveva trovato nell’album di Clary, la
runa che lei aveva tentato di nascondergli per giorni, senza tuttavia trovare
il coraggio di sbarazzarsene.
A
Jace era bastata una breve occhiata per intuirne il
significato, per percepire la forza e il pericolo sprigionati da quei tratti.
Non
avrebbe voluto rubarle qualcosa. Non era così che Clary
avrebbe dovuto ricordarlo: come qualcuno che aveva tradito la sua fiducia.
Ma
Jace sapeva che se gliene avesse parlato, se le
avesse spiegato i suoi piani, Clary non gli avrebbe
mai permesso di andarsene. Una parte di lui era certa che sarebbe comunque
riuscito a partire, ma l’altra non aveva dubbi sul contrario. In fondo, Clary era tanto cocciuta quanto lui. Probabilmente
avrebbero trovato il solito compromesso, pensò con un lieve sorriso: sarebbero
andati assieme. E Jace aveva già abbastanza colpe
sulle spalle, senza doversi addossare anche il rischio di perdere l’unica che
persona che fosse mai riuscita ad appropriarsi del suo cuore per intero.
Così
avevano dormito insieme un’ultima volta, mano nella mano, come i bambini
delle favole[1].
Senza toccarsi troppo, per non stuzzicare il fuoco celeste. Jace
l’aveva guardata a lungo, impegnandosi per mandare a memoria ogni dettaglio di
quel viso addormentato: il naso puntellato di lentiggini, le labbra sottili e
un po’ screpolate, le ciocche di capelli appiccicate al volto per via del
caldo.
Era
così minuta; così ordinaria. Eppure, mentre le diceva addio, era certo di non
aver mai visto nulla di più bello.
Era
la cosa più importante – l’unica in grado di giustificare ogni suo gesto più
avventato, gli sbagli commessi, i rischi che aveva preso.
L’amava
così tanto che il pensiero di perderla di nuovo gli lacerava il cuore – proprio
come la perdita di Alec gli aveva strappato via metà dell’anima – ma ormai
aveva preso la sua decisione.
Così
le aveva baciato la fronte un’ultima volta, e poi le labbra, soffermandosi a
sfiorarle una guancia.
Al
suo risveglio Clary avrebbe trovato una lettera sul
comodino, proprio come quella volta ad Alicante, quando l’aveva cercato per
ore, temendo di averlo perso.
Solo
che, questa volta, avrebbe dovuto aspettato in eterno: Jace
non sarebbe più tornato.
Inspirò
con forza, prima di appoggiarsi al fianco della moto. Notò che qualcuno vi
aveva dipinto sopra una scritta: NOX INVICTUS.
“Notte
vittoriosa” tradusse, ricordando di aver letto la stessa frase su un’altra
moto, un anno prima. Sorrise, ricordando la faccia furibonda del proprietario
quando aveva scoperto il suo scherzetto dell’acqua santa nel serbatoio. Jace l’aveva resa inutilizzabile, quindi quella doveva
essere un’altra moto, ma l’idea che potesse appartenere sempre allo stesso
vampiro lo fece ridere.
NoxInvictus, ripeté fra sé, salendo sulla moto.
Sarebbe stata una lunga notte.
Estrasse
lo stilo e lo infilò nell’avviamento: il motore rombò con furia e la vettura
incominciò a vibrare.
Un
brivido di esaltazione gli percorse la schiena. Sotto pagamento era riuscito a
farsi dare alcune coordinate dal sommo stregone del Bronx – un hippie sulla
quarantina che ricordava più un barbone che non un Nascosto – ma quello gli
aveva solo permesso di restringere il campo di ricerca. Avrebbe dovuto
setacciare ogni campo di battaglia di quella zona, ogni villaggio che si
preparava a combattere, ogni regione che puzzava di sangue ancora da spargere. Per
rintracciare la Caccia avrebbe impiegato diversi giorni, ma non gli importava.
Si
sentiva addosso l’adrenalina che precedeva ogni scontro e, quando diede gas e
la moto schizzò in avanti, il suo stomaco fece una capriola.
La vettura prese velocità, alimentando il
frastuono del motore e delle ruote, mescolati al frullio dell’aria.
Un urlo selvaggio sfuggì alle labbra di Jace nel momento in cui le ruote si staccarono da terra: la
moto prese quota, accelerando. Ormai Jace era
praticamente in verticale, così fu costretto a rinsaldare la presa sul
manubrio, piegandosi in avanti.
“Manca poco, Alec” gridò al vento, le
orecchie tese nella speranza di captare uno scalpitare di zoccoli e il suono
dei corni da caccia il prima possibile.
La runa parabatai
– ormai ridotta a una cicatrice – vibrava al contatto con l’aria
fredda, insinuatasi attraverso giubbotto di pelle: per un attimo, fu come se
fosse tornata in funzione. Come se Alec fosse ancora lì da qualche parte,
ancorato a lui attraverso il marchio. Come se potesse sentirlo.
“Sto arrivando.”
*
«Ero nel buio, aveva detto. Non
c’erano che ombre, io stesso ero un’ombra, e sapevo che ero morto e tutto era
finito, tutto quanto. Poi ho sentito la tua voce.»
JaceHerondale -
Città delle Anime Perdute; Cassandra Clare
Alec
sbatté le palpebre più volte, confuso e frastornato da tutto quel buio.
L’oscurità
aveva tolto peso e identità al suo corpo a adesso giaceva nel nulla, leggero,
come se non fosse altro che una proiezione.
Non
c’erano indizi, intorno a lui. Non c’erano luci, né colori.
Ogni
tanto intravedeva qualche ombra – lui stesso ne era una – ma svanivano in
fretta, così come i pensieri.
Era
come emergere da un lungo sonno, come avere l’impressione di cadere nel vuoto e
svegliarsi di soprassalto, sfuggendo al torpore dell’incoscienza.
Poi
arrivava la confusione, lo stordimento di chi si trova a metà fra il sogno e la
veglia.
Infine,
si giungeva alla consapevolezza: era stato tutto un sogno, una reazione
involontaria del proprio corpo.
A
poco a poco, Alec realizzò cosa gli stava capitando: se lo sentì fluire dentro
con la morbidezza di un fruscio d’ali.
Era
tutto finito, tutto quanto. Il buio era la sua nuova casa.
E
in quanto a lui… lui era morto.
Il
suo corpo – o l’ombra di quello che un tempo era stato un corpo – trasalì, ma
questa fu l’unica reazione che riuscì a ottenere.
Cercò
di spaventarsi, di ricordare, di provare tristezza per ciò che gli era
capitato, ma era come se le normali funzioni che l’avevano caratterizzato da
vivo fossero fuori uso.
Rimase
nel buio – solo ed immobile – per quelli che gli parvero secondi, o forse ore:
aveva perso anche la concezione del tempo.
E
poi udì una voce.
Sembrava
giovane e chiaramente maschile: lo stava chiamando, e più parlava più il buio
intorno ad Alec incominciava a svanire e il suo corpo prendeva consistenza.
“Jace?” mormorò, strizzando gli occhi.
Fu
come se, tutto a un tratto, l’alba si fosse ricordata di spuntare.
Perfino
il silenzio si attenuò, lasciando spazio ai primi rumori di sottofondo: il
fruscio dei vestiti, lo strisciare dei suoi talloni contro il pavimento, un
rumore di passi in lontananza.
Un’ombra
emerse dalla semi-oscurità, avvicinandosi fino a raggiungere sembianze umane:
era la figura di un ragazzo, in apparenza poco più grande di lui.
Gli
assomigliava perfino, si sorprese a pensare non appena il giovane lo raggiunse.
Aveva i suoi colori – capelli neri un po’ arruffati e vivaci occhi azzurri – ma
c’era qualcosa di completamente diverso nella sua espressione. Aveva un sorriso
allegro e canzonatorio, zigomi alti e ciglia lunghe. Come se tutto questo non
bastasse, gli aleggiava attorno un’aura di distratta eleganza che lo rendeva
incredibilmente attraente – e, a giudicare dalla sua espressione, sembrava
esserne consapevole.
“Sbagliato”
esclamò il ragazzo, rivolgendogli un sorriso sghembo. “Ma ci sei andato
vicino.”
Alec
aggrottò le sopracciglia, studiandolo circospetto. C’era qualcosa di lui che
gli era familiare, ma non riusciva a ricondurlo a nessuna persona di sua
conoscenza. Forse erano gli occhi: avevano la stessa tonalità dei suoi.
Magari
il ragazzo era un antenato dei Trueblood, oppure un Lightwood: dopotutto, anche i suoi genitori avevano gli
occhi azzurri.
“Sei
in vena di insulti, ragazzino?”
La
voce dello sconosciuto s’inasprì.
“Certo
che non sono un Lightworm!”
Alec
trasalì.
“Puoi
leggermi nella mente?” farfugliò, prima di rivolgergli un’occhiata confusa.
“Aspetta, hai detto Lightworm?”
“Chiunque
potrebbe farlo” ribatté il giovane, le labbra increspate in un sorrisetto
beffardo. “I tuoi pensieri sono di pubblico dominio, adesso: le anime non hanno
un corpo, quindi i loro pensieri svolazzano qua e là.”
“Perché
allora io non posso leggere i tuoi?” osservò Alec, un po’ seccato.
“Per
poterlo fare dovresti trovarti dove mi trovo io” spiegò il ragazzo,
indicandosi. “Quello che stai vedendo – e apprezzando, senz’altro – in realtà
non è altro che una proiezione. La mia anima si trova in una delle Dimensioni
Celesti più interne, ma quelle come la tua non possono superare i confini di
Annwn, che è il cerchio più esterno del Paradiso.”
Alec
si portò le mani alle tempie, sempre più confuso. Era davvero a un passo dal
Paradiso? E dove diamine si trovava Annwn? Forse non aveva più un cervello,
ma lo sentiva comunque sovraccarico.
“Le
anime come la mia?”
Lo
sconosciuto annuì.
“Quelle
che non sono libere di andare avanti.”
Alec
scosse la testa.
“Chi
sei?” scelse di domandare, mettendo da parte gli interrogativi più complicati.
Il
ragazzo tornò a sorridere compiaciuto.
“Mi
chiamo Will” rivelò, mettendosi le mani in tasca. “Will Herondale:
suppongo che tu abbia sentito parlare di me. Tutte cose belle, ovviamente.”
Alec
avvertì un fiotto di calore all’altezza delle guance. E così era quello, il
famoso Will. Con tutte le persone che avrebbe potuto incontrare da morto,
proprio lui doveva capitargli?
“Un
Herondale” ripeté, rimuginando sul suo cognome: lui e
Jace erano parenti, seppur distanziati da diverse
generazioni.
Will
allargò le braccia.
“Certo, non si vede?” esclamò,
sistemandosi il colletto della camicia. “Bellezza illegale, capelli perfetti…”
Alec
sbuffò; un moto di rabbia, mista a invidia lo attraversò, mentre lo esaminava
con maggiore attenzione: di certo non poteva negare che fosse bello.
Il
sorriso di Will si estese.
“Così
mi lusinghi” lo beffeggiò, facendolo arrossire ulteriormente. “Immagino che
competere con il fascino degli Herondale non sia
facile.”
“Sei
proprio come Jace” sbottò Alec, mettendosi a braccia
conserte. Una fitta di dolore gli percorse il petto, nel momento in cui
pronunciò quel nome. D’istinto si scoprì l’avambraccio, per cercare la runa parabatai: non c’era più. Era svanita, così come gli
altri marchi.
Un
vuoto improvviso gli echeggiò dentro, facendolo rabbrividire.
“Jace…” mormorò ancora, premendosi l’avambraccio: fu come
morire una seconda volta.
Jace non era più il suoparabatai.
Will
lo studiò per qualche istante, lo sguardo insolitamente comprensivo.
“Lo
vedrai ancora” promise, portandosi a sua volta una mano dietro la schiena. Alec
non ebbe bisogno di leggergli la mente per intuire che in quel punto, un tempo,
doveva esserci stata la sua runa parabatai.
“Prima o poi, arriveranno tutti. Jem e Jace, la mia Tessa… E anche il
tuo Magnus.”
Ancora
una volta, il dolore travolse Alec. Le ginocchia gli cedettero, schiacciate dal
peso improvviso dei ricordi.
“Magnus”
ripeté in un sussurro, gli occhi umidi di lacrime.
Sentì
mormorare il suo nome dal nulla che li circondava: erano i suoi pensieri che
echeggiavano. Il dolore gli bruciò dentro ancora per qualche istante, poi si
allontanò, così come avevano fatto i suoi ricordi.
Fu
un sollievo realizzare di non poter provare nulla di troppo intenso troppo a
lungo: non quando non aveva più un corpo, né una mente in cui contenerli.
Will
lo fissò per qualche istante, le braccia conserte e l’aria pensosa.
“Se
può farti stare meglio…” incominciò,“…Non credo che tu ti debba crucciare per chi ha occupato il
suo cuore in passato. O per chi potrebbe occuparlo in futuro.”
Alec
lo guardò con gratitudine: era sorpreso da quell’improvviso cambio di tono.
“Grazie”
mormorò, abbozzando il primo sorriso.
Will
minimizzò con una scrollata di spalle.
“Sei
un Lightworm, ma hai gli occhi di Cecy” rispose, scrutandolo attento. “E il tuo parabatai è un Herondale:
dubito che sarai mai alla nostra altezza… Ma non
posso odiare più di tanto uno così.”
Un
po’ più rilassato, Alec incominciò a guardarsi intorno: si trovava in una
stanza piuttosto ampia, decorata in stile gotico. Il soffitto era intervallato
da archi e una serie di travi era stata affissa ad almeno sei metri dal
pavimento. Un sorriso accarezzò le labbra di Alec: era una delle tante sale di
addestramento dell’Istituto. Che si trovasse ancora a New York, in fin dei
conti?
“Dici
che non posso andare avanti” ricordò, voltandosi verso Will. “Significa che
sono un fantasma?”
Tutto
a un tratto si sentì speranzoso.
“Non esattamente” rispose Will, tornando
a mettersi le mani in tasca. “I fantasmi sono quelle anime che rimangono sulla
Terra, a volte per via di faccende in sospeso, altre perché sono terrorizzate
dall’idea di andare oltre. Ma tu sei uno Shadowhunter:
ti hanno cresciuto insegnandoti che la morte va affrontata con onore. No, se sei
bloccato ad Annwn è perché qualcuno ti sta trattenendo: un vivente che non è
pronto a lasciarti andare e che sta cercando in tutti i modi di riportarti
indietro.”
“Magnus?”
azzardò istintivamente Alec.
Will
gli sorrise.
“Magnus è immortale: ha vissuto a lungo
ed è più saggio di quanto lui stesso non creda” spiegò, con un’improvvisa
sfumatura di dolcezza nella voce. “Sa quanto dannoso potrebbe essere per la tua
anima, se si ostinasse a trattenerti. No, si è imposto di lasciarti andare”
rivelò, la tristezza a coprire un po’ della vivacità nei suoi occhi. “Non è
stato facile e di certo non posso dire che stia bene…
Ma non è lui che ti tiene bloccato.”
Alec esitò, il dolore improvvisamente
presente mentre ricordava i volti elle persone a lui care.
Pensò a Isabelle, a come perdere Max
l’avesse distrutta: non poteva nemmeno immaginare quanto stesse soffrendo.
Tuttavia, non fu il suo nome a sgorgargli
dalle labbra.
“Jace” mormorò,
senza più incertezza. Non aveva bisogno di conferme: non poteva essere che lui.
Solo Jace non
si rassegnava mai di fronte all’evidenza; specialmente quando si sentiva
responsabile per qualcosa.
Will annuì.
“I
tuoi pensieri nei suoi confronti non sono particolarmente lusinghieri” osservò
poi, inclinando appena la testa.
Ancora
una volta, Alec si sentì arrossire. Si chiese se fosse normale, per i morti:
non erano sempre pallidi e freddi?
“Forse sono un po’ arrabbiato con lui”
ammise, sfiorandosi l’avambraccio: non si era ancora abituato all’assenza della
runaparabatai. “Mi rendo conto di essere
ingiusto e so che non è stata colpa sua, però…”
Un dolore sordo gli pervase il petto:
aveva provato la stessa sensazione poco prima di morire. Era come se qualcuno
lo stesse strattonando dall’interno, come se Jace stesse
cercando di strappargli via la parte di anima che gli aveva affidato.
“Quando sono morto lui era lì” ricordò,
vergognandosi del risentimento che avvertiva. “Ha cercato di uccidermi.”
“È una conseguenza del legameparabatai” spiegò Will, sedendosi su una delle panche.
“La confusione che provi. Sai perfettamente che Jace
non aveva scelta, quando ti ha attaccato: la sua volontà era legata a quella di
Sebastian. Ma due parabatai non dovrebbero mai
combattere su due fronti opposti, ed è per questo che la tua anima si sente
tradita.”
“Jace non mi ha tradito” ribatté risoluto Alec, prima
di indirizzargli un’occhiata sorpresa. “Aspetta… Hai
detto era?”
Will annuì.
“È tornato se stesso” rivelò, guardandosi
le dita affusolate. “La Gloriosa ha reciso il loro legame e Sebastian è morto
per via del fuoco celeste.”
Il sollievo cancellò le poche tracce di
risentimento rimaste in Alec, incuneandosi fra gli spazi lasciati vuoti dalla
confusione. Immaginare i suoi fratelli insieme e al sicuro da Sebastian riuscì
a rincuorarlo almeno in parte.
“Non tormentarti per quello che ha
fatto quando non era in sé” proseguì Will, intrecciando le dita dietro la nuca.
“Piuttosto, pensa a ciò che sta facendo ora: le sta provando davvero tutte per
riportarti indietro.”
“Ma non si può” osservò Alec, aggrottando
le sopracciglia. “Voglio dire, a lui è successo, ma era una cosa diversa: Raziel l’ha riportato in vita. Non è una cosa che può
succedere una seconda volta.”
“Mai dubitare di un Herondale,
Lightworm…” commentò Will, un sorriso
compiaciuto ad arricciargli gli angoli delle labbra.
“Smettila di chiamarmi Lightworm!” sbottò Alec, prima
di scivolare giù dalla panca, gli occhi improvvisamente serrati: si aggrappò al
braccio destro, travolto dal dolore.
“Fa male…”
gemette, curvandosi su se stesso.
Will si accovacciò al suo fianco.
“Adesso passa” mormorò, con lo un tono di
voce morbido che ricordava quello con cui ci si rivolge ai bambini. Solo che, sulle
sue labbra, suonava quasi di scherno.
Aveva ragione, tuttavia: il dolore
attanagliante sparì nel giro di pochi secondi.
Lentamente, Alec si tirò a sedere,
inspirando a fatica.
“Dove l’hai sentito?” domandò incuriosito
Will. “Ogni anima sente male in un punto diverso.”
Alec gli rivolse un’occhiata cauta, prima
di tastarsi l’avambraccio destro.
“È dove avevo la runa” mormorò, senza
specificare a quale marchio si stesse riferendo; Will sembrò capire lo stesso.
“Ha senso” replicò, tornando ad alzarsi. “Quello
che hai provato non è altro che il tentativo disperato di un vivente di
ancorarsi a te. Qualcuno, là sotto, sta cercando di riportarti in vita.”
“Jace” chiamò
apprensivo Alec, la mano ancora avvolta intorno all’avambraccio. D’istinto si
guardò intorno, come se sperasse di vederlo spuntare fuori da un momento
all’altro. “Quello che sta facendo è pericoloso?” chiese, tornando a fissare
Will. “Rischia di farsi del male?”
“Tutto quello che ha a che fare con la
morte è pericoloso” rispose lui, stringendosi nelle spalle.
Alec
tornò a inspirare con forza, le ginocchia strette al petto.
“Voglio
tornare a casa” pronunciò con un filo di voce, scuotendo la testa. “Voglio la
mia famiglia al sicuro.”
“Non hai più una casa” gli ricordò Will.
“Allora voglio andare da mio fratello” replicò
Alec, alzando il tono di voce. “Voglio vedere Max. Anche lui è qui, no?”
Ancora una volta, Will scosse la testa.
“Il piccoletto è andato avanti” rivelò,
sorridendo appena. “Tu non puoi raggiungerlo, ma lui può venire da te, così
come ho fatto io.”
Un barlume di speranza tornò a illuminare lo
sguardo di Alec.
“Quando posso vederlo?”
Will indicò il corridoio con un cenno del capo.
Da quella parte – Alec lo sapeva – l’Istituto ospitava le camere dei Lightwood.
“Anche adesso” rivelò il giovane Herondale, guidandolo verso la porta. “Vieni con me: ti sta
aspettando.”
*
Il rombo del motore
accompagnava le sue orecchie ormai da qualche giorno, abbracciato dal turbinio dell’aria.
Jace volava senza sosta,
interrompendosi solo per mangiare e, di tanto in tanto, per dare un’occhiata
alle coordinate lasciategli dallo stregone.
Aveva attraversato vari
continenti, inseguendo la scia della battaglia e della devastazione. Nel corso
degli ultimi giorni aveva osservato la morte in ogni sua sfaccettatura: soldati
sporchi di sangue nemico e di quello dei compagni di squadra, civili indifesi,
attentati, clan di Nascosti in combutta gli uni con gli altri.
Nulla lo scalfì a tal
punto da spingerlo a cambiare idea: l’adrenalina della ricerca, la velocità, la
sensazione di non appartenere più a nulla e a nessuno se non alla missione che
si era scelto… Ogni dettaglio di quei momenti aveva
il potere di azzerare i pensieri, aiutandolo a focalizzarsi sull’unica cosa
veramente degna della sua concentrazione.
Dopo cinque giorni di
ricerca, quelle scorribande sul filo della morte diedero finalmente i loro
frutti.
Jace, che si era concesso un
paio d’ore di riposo, era stato svegliato da uno scalpitare di zoccolo: Era
lontano e ricordava più un lento scrosciare, come il suono di una cascata.
Pochi secondi più tardi
era già in piedi, lo sguardo rivolto verso il cielo annerito: un esercito di
puntini luminosi cavalcava tra le nuvole, accompagnati da grida esultanti. Il
suono di un corno annunciò l’avvicinarsi dei Segugi di Gabriel, mentre le
stelle impallidivano e il cielo sembrava contorcersi, deformato dall’irruenza
delle figure a cavallo.
Si muovevano in fretta,
ma Jace non se ne preoccupò: era certo di poterli
raggiungere.
Un sorriso appagato si
arrampicò sulle sue labbra, mentre tornava in sella e tirava fuori lo stilo.
Infine mise in moto,
l’adrenalina che gli bruciava in corpo.
Presto avrebbe cavalcato
il vento fino a raggiungere i confini del mondo.
Presto si sarebbe unito
alla Caccia Selvaggia.
Note
Finali.
Buongiorno
e buona domenica! Con il ritardo che mi caratterizza arrivo finalmente a pubblicare
il nuovo capitolo! In questa parte ho un sacco di cose da dire, in particolare
per quanto riguarda il dialogo fra Alec e Will! Will qui ha l’aspetto di un
giovane, anche se noi sappiamo che in realtà è morto da anziano. Mi piaceva
l’idea che la sua anima avesse assunto le sembianze del Will giovane anche
perché mi sembra di ricordare che Tessa diceva che, pur invecchiando, lei lo
vedeva sempre come un ventenne o giù di lì. Per quanto riguarda il signorino Herondale, so che lo troviamo un po’ diverso – e fin troppo
gentile con Alec xD – rispetto a come abbiamo
imparato a conoscerlo nei libri, ma mi sono basata un po’ di più sul Will
adulto che ci viene mostrato nelle Cronache dell’Accademia piuttosto che su
quello delle Origini. Inoltre, confido che la morte e queste centinaia di anni
trascorse a sbirciare le vite di chi è rimasto lo abbiano cambiato almeno un
tantino!
Un’altra
cosa che ci tengo a sottolineare è la questione del legame parabatai:
Alec non è davvero arrabbiato con Jace. Tuttavia,
poiché le loro anime sono vincolate assieme dal giuramento di morire l’uno per
l’altro, quella di Alec si è sentita in un certo senso tradita nel momento in
cui Jace si è schierato contro di lui, nel momento in
cui Sebastian l’ha attaccato. Il risentimento provato da Alec, è irrazionale ed
è una conseguenza del meccanismo parabatai,
ma ha vita breve: già dal prossimo capitolo verrà sottolineato quanto il
legame fra Alec e Jace sia ancora forte, nonostante
la morte li abbia separati.
Il
prossimo capitolo è un altro di quelli a cui tengo di più e avrà parecchi
riferimenti a Lady Midnight. Si parlerà molto della
Caccia Selvaggia Di nuovo, come nel capitolo scorso, ci saranno parecchi
parallelismi con la trama originale. Faranno comparsa alcuni personaggi che
conosciamo già e rivedremo ancora Alec!
Volevo
ringraziare infinitamente le tre persone che hanno recensito lo scorso
capitolo! Mi avete resa felicissima, non so come ringraziarti! Questa storia
significa tanto per me e sono davvero contenta che qualcuno la stia
condividendo con me! Grazie ancora! A breve passerò a rispondervi!
A fra due settimane per il prossimo capitolo!
Laura
[1] Riferimento a Città di Vetro e alla prima
volta che Jace e Clary
dormono vicini, mano nella mano, a casa di Amatis.
[2] Questo è un parallelismo sia al “Alec,
Alec sei tu?” di Jace in “Città di Ossa” che al “Jem? Jem, sei tu?” di Will nel
primo libro delle Origini.
«Fortunati coloro che
conoscono il nome del proprio cuore. Sono coloro il cui cuore non si perde mai
veramente. Possono sempre richiamarlo e farlo tornare a casa.»
Mark Blackthorn– Le Cronache
dell’Accademia.Cassandra Clare
La
brughiera che avevano incominciato ad attraversare quel mattino era piatta e
desolata, affatto adatta a nascondersi.
Per
questo Jace non si stupì, quando due paia di mani lo
sollevarono con violenza, rivelando la sua presenza dietro l’unico ammasso
roccioso nel raggio di un chilometro.
Un
sorriso obliquo gli accarezzò le labbra; non oppose resistenza, mentre i due
membri della Caccia lo trascinavano verso la grotta in cui riposava il resto
dell’esercito. Gli era stato alle calcagna per due giorni senza che nessuno se
ne fosse accorto: niente male.
Uno
dei due cavalieri – una fata dalle braccia massicce e lunghi capelli viola –
gli tirò indietro la testa per osservarlo.
“Nephilim” osservò con disgusto, mentre i suoi occhi
passavano in rassegna le rune lungo il suo corpo.
Il
sorriso di Jace si allargò.
“Fata”
lo schernì, imitando il suo tono nauseato.
Il
cavaliere sollevò una mano artigliata. Il compagno gli trattenne il braccio.
“Non
lasciarti provocare, Saiin” gli intimò, spingendo Jace in avanti. “Sai che a Gwyn
non piace quando giochiamo con gli intrusi prima che li abbia visti.”
Saiin assentì con un grugnito. Si consolò
mollando una ginocchiata al ragazzo, per farlo procedere.
Giunti
nella grotta i due cacciatori gettarono Jace a terra,
ai piedi di quello che doveva essere il loro capo.
Un
miscuglio di voci rozze e profonde si sollevò, mentre gli sguardi dei presenti
si concentravano su di lui.
Jace si alzò in piedi con calma, senza tradire il nervosismo che
gli pulsava nel petto.
Il suo
sguardo incrociò quello del colosso di fronte a lui, che lo fissava con sguardo
rapace: aveva gli occhi di due colori diversi – uno nero e l’altro di un
azzurro pallido – le orecchie a punta tipiche della sua specie e un elmo
decorato con corna di cervo. Una lunga spada di metallo, annerita e contorta,
era appesa alla sua cintura.
Jace lo riconobbe subito: prima di partire
aveva letto parecchi libri sulla Caccia e in ognuno di essi si parlava di GwynapNudd,
il suo condottiero.
“Chi sei,
Shadowhunter?” domandò il cacciatore, una mano
sull’elsa della spada: la sua voce ricordava il frusciare degli alberi al
vento. Non aveva parlato con il disgusto di Saiin, né
la sua espressione aveva lasciato trapelare alcun tipo di emozione.
“Mi chiamo JaceHerondale” rispose il
ragazzo, senza distogliere il contatto visivo. “Sì, sono un Nephilim, ma non vi stavo
seguendo per conto del Conclave. Sono qui di mia iniziativa.”
Qualcuno
alla sua sinistra incominciò a lamentarsi in una lingua sconosciuta – il suono
ricordava lo schioccare di rami morti.
“Scuoiamolo
vivo” sbottò in inglese un altro cacciatore, facendosi strada fra i compagni
per raggiungere la prima fila. “Strappiamogli quella corazza di disegnini.”
Gwyn alzò una mano per zittirli.
“Spiegati”
ordinò poi, rivolto a Jace.
Il
ragazzo allargò le braccia, come a voler dimostrare di non essere armato.
“Voglio
unirmi alla Caccia Selvaggia” rivelò, guardando Gwyn
dritto negli occhi. “Voglio diventare un Segugio di Gabriel.”
Un boato
di proteste si sollevò fra i presenti: qualcuno sputò verso Jace,
altri sembravano sul punto di aggredirlo.
Ancora
una volta, Gwyn li fece tacere con un cenno della
mano.
“I Nephilim
non sono i benvenuti, fra noi” replicò con freddezza, tornando a sfiorare
l’elsa. “Specialmente dopo la Pace Fredda. ”
“La
Pace Fredda vincola i rapporti con le Corti Terrene” l’informò Jace con un sorriso obliquo. “Voi le disdegnate e non avete
preso parte agli Accordi: ergo, nulla ci vieta di diventare migliori amici.”
Gwyn lo freddò con lo sguardo – nero e azzurro a graffiargli il
volto.
“Ci
hai seguito per giorni” osservò, esaminandolo: sembrava alla ricerca di
qualcosa. Un’arma nascosta, forse? “Se avessi davvero avuto intenzione di
unirti alla Caccia ti saresti mostrato subito.”
“Volevo
essere sicuro che mi avreste accettato” spiegò Jace.
“So che reclutate i mortali solo una notte all’anno: temevo di essermela
persa.”
“Non
possiamo fidarci di un Nephilim” intervenne Saiin,
spingendo un compagno da parte per avanzare: stava facendo dondolare il machete
in maniera preoccupante. “Specialmente questo qui: l’ho riconosciuto, è
amichetto stretto dell’Inquisitore.”
“Quello
a cui sono morti tutti i figli maschi?” ribatté un altro, sorridendo maligno.
Jace lo squadrò con disgusto; le parole del Nascosto lo
graffiarono più di quanto avrebbero potuto fare i suoi artigli.
“Non
tutti” ribatté glaciale, la tensione trasformata in un nugolo di scintille
sottopelle. “Ci sono ancora io. E il prossimo che oserà pronunciare anche solo
una parola sui Lightwood rimpiangerà di non essere
protetto dalla Pace Fredda.”
Il
ragazzo non ottenne risposta, perché nessuno dei presenti lo stava più
ascoltando: le sue minacce avevano eliminato anche i rimasugli di autocontrollo
rimasti in Saiin, che si era lanciato contro di lui,
brandendo il machete.
Un
paio di cacciatori lo imitarono, accerchiandolo. Jace
non poté fare altro che schivarli, frugandosi nei pantaloni alla ricerca dello
stilo.
La
rabbia gli arrovellò gli organi interni, e poi la pelle, diventando
incandescente.
Una
fata dai capelli color corteccia affondò con la spada, mentre due compagni lo
trattenevano per le braccia.
Un
grido di dolore penetrò l’aria: nugoli di scintille schizzarono verso l’alto e
le fiamme disegnarono un cerchio protettivo intorno a Jace,
aderendo alla sua pelle.
La
spada che l’aveva colpito cadde a terra, completamente annerita. Il suo
proprietario si stava reggendo la mano ustionata con quella sana, una smorfia
di dolore a deformargli il viso.
Finalmente,
i membri della Caccia si costrinsero ad arretrare.
Jace studiò i loro volti con aria imperscrutabile, leggendoci
dentro – per la prima volta – un principio di paura, oltre alla diffidenza.
Avvertì qualche sussurro indistinto – la parola mostro, rimbalzata qua e
là – ma il primo a parlare ad alta voce fu un ragazzo che fino a quel momento
era rimasto in disparte.
Stava
vicino a Gwyn – che era ancora immobile, quasi
incuriosito dalla maniera in cui gli eventi erano precipitati – e sembrava
piuttosto giovane. Era di bell’aspetto – zigomi alti, lineamenti principeschi,
un corpo snello e aggraziato. Aveva i capelli scuri, con uno strano riflesso
blu, e l’eterocromia tipica dei membri della Caccia: un occhio nero e l’altro
grigio scuro.
“Non
è un semplice Nephilim” osservò, studiandolo attento:
non sembrava spaventato quanto gli altri. Il suo sguardo era per lo più
incuriosito. “Quello è il fuoco degli Angeli: gli scorre dentro come sangue.”
Si
voltò verso GwynapNudd, che aveva ancora la mano avvolta intorno all’elsa
della spada.
Il
condottiero si avvicinò a Jace, ignorando la reazione
apprensiva degli altri cacciatori.
“Perché
sei qui, mezz’angelo?” chiese, la voce distante e controllata. “Perché vuoi
unirti alla Caccia?”
Jace strinse i pugni fino ad affondare le unghie nella carne.
“Sei
mesi fa ho perso il mio parabatai in
battaglia” rivelò, tornando a ricambiare il suo sguardo. “Affidarmi alle leggi
del Conclave e rischiare la vita nel nome di Raziel
non m’interessa più, non senza di lui. Intendo servire una causa che meglio si
adatti al mio spirito” mentì, sforzandosi di modellare al meglio le sue parole:
le fate andavano matte per i discorsi poetici. “Nei giorni scorsi ho cavalcato
con voi, vi ho seguiti e ho imparato a nutrirmi di libertà, a vivere del vento,
e del mare, e delle montagne. È a questo che ambisco” concluse, allargando le
braccia. “Non potrei chiedere di meglio.”
Gwyn lo fissò ancora per qualche istante, prima di annuire brevemente.
Quel
piccolo gesto, in apparenza da niente, seminò lo sconcerto nei volti dei
presenti. Tuttavia, nessuno fiatò.
“Molto
bene” acconsentì infine Gwyn, levando la spada. I
presenti arretrarono. “Se è questa la tua scelta, inginocchiati.”
Jace eseguì, la tensione che gli martellava nel petto. Sapeva di
trovarsi a un punto di non ritorno: se avesse accettato di unirsi a loro,
sarebbe appartenuto per sempre alla Caccia.
Non
c’erano vie d’uscita, ma Jace non si sforzò di
trovarne: la decisione era presa.
“Ricorda,
ragazzo” lo ammonì improvvisamente Gwyn con sguardo
severo. “Ti sto accettando solo perché la tua natura potrebbe rivelarsi utile:
non sono in molti a potersi vantare di avere dentro il fuoco degli angeli.”
Jace rimase in silenzio, mentre il cacciatore si incideva il
palmo della mano. Gwyn piegò il polso per far colare
il sangue e il ragazzo si sporse in avanti per berlo, raccogliendolo sulla
lingua: sapeva di foglie e metallo.
“JaceHerondale” annunciò a quel
punto il Cacciatore, rifoderando la spada. Un bruciore improvviso impregnò
l’occhio destro di Jace, facendolo lacrimare: stava
cambiando colore, come a simboleggiare una frattura nella sua anima[1]. Parte di
sé aveva smesso di appartenergli. “Adesso fai parte della Caccia. Alzati e
unisciti a noi.”
*
I
giorni si rincorrevano inarrestabili, a volte in fretta, altri con la lentezza
dei fiocchi di neve.
Jace non aveva idea di quante notti avesse
trascorso a cavalcare: forse dei mesi, forse appena un paio di giorni. Il tempo
scorreva in maniera diversa quando si stava con la Caccia.
La sua
unica certezza era che quelle cavalcate lo stavano cambiando: i suoi sensi si
erano acuiti e il suo fisico si stava abituando a resistere alla fame e alla
stanchezza, per via di tutte le nottate trascorse a digiuno, senza mai
riposare. Jace non aveva uno specchio in cui
guardarsi, ma era certo che anche il suo aspetto fosse diverso. I mutamenti
principali che sentiva, tuttavia, non erano fisici. Incominciava ad esserci
qualcosa di selvaggio nel modo in cui si comportava, si muoveva, rifletteva.
Perfino il suo modo di parlare stava incominciando a ricordare i toni fiabeschi
delle fate.
Si era
adattato alla Caccia al punto tale da ospitarne una parte dentro di sé.
Il
pensiero di Clary e quello della sua famiglia
diventavano ogni giorno più offuscati: la sua vita di prima era sul fondale di
un fiume e lui continuava a immergervi la mano per afferrarla, ma l’acqua era
troppa e qualche volta gli sfuggiva.
Tuttavia,
non aveva dimenticato: ogni mattina, quando riposava da solo sulla terra
fredda, stringeva il suo anello fino a far impallidire le nocche e ripeteva fra
sé i nomi delle persone che aveva amato.
“Mi
chiamo JaceHerondale” ricordava in un sussurro,
rannicchiandosi per proteggersi dall’aria gelida. “Ero uno Shadowhunter… Sono ancora uno Shadowhunter.
Il mio cuore appartiene a ClaryFairchild.
E ai Lightwood, la mia famiglia adottiva: Robert, Maryse, Isabelle, Max… E Alec.”
Ogni notte,
le sue labbra tornavano a chiudersi al suono delle stesse parole.
“Salverò
il mio parabatai: mi riprenderò mio fratello.”
Per
giorni Jace continuò a cavalcare in solitudine, in
groppa a un destriero dal manto dorato. Fra gli altri cacciatori non era il
benvenuto: era stato chiaro fin da subito e il disprezzo dei suoi compagni non
scemò con il trascorrere dei giorni.
Per
assurdo, tuttavia, il loro condottiero sembrava intrigato da lui. Era stato Gwyn a offrirgli la cavalla dorata e a insegnargli i
rudimenti della Caccia: l’aveva addestrato a usare le stelle come una bussola e
a individuare i segnali di una battaglia sul punto di scoppiare. Gli aveva
perfino dato un’ arma: Jace non aveva più uno stilo –
gliel’avevano spezzato subito dopo il rituale – ma Gwyn
gli aveva donato uno dei suoi archi. A Jace non
dispiaceva usarlo: era il promemoria costante della sua missione. Gli ricordava
il motivo per cui cavalcava con la Caccia, la persona per cui ne aveva preso
parte.
Oltre a GwynapNudd
c’era un'altra fata che non sembrava disgustata da lui quanto gli altri: era il
ragazzo dai capelli blu.
Jace aveva sentito dire che era un principe
della Corte Unseelie; si chiamava Kieran
ed era stato consegnato alla Caccia poco prima che arrivasse lui.
Anche
il principe, come Jace, se ne stava spesso per conto
suo. Cavalcava in silenzio, montando un destriero nero e scheletrico con una
regalità e un’eleganza che nessuno dei membri più anziani era in grado di
eguagliare. Parlava poco e il suo sguardo era sempre fisso di fronte a sé, ma
qualche volta Jace l’aveva sorpreso a fissarlo.
Sembrava tenerlo d’occhio, specialmente nei momenti in cui gli altri si
divertivano a tormentarlo. Un paio di volte, vedendolo in difficoltà durante le
battute di caccia, si era offerto di aiutarlo, ma Jace
aveva sempre rifiutato.
Fino
a quel momento avevano avuto un solo scambio di battute abbastanza lungo da
poter essere considerato tale. Non doveva essere trascorso molto tempo dal
rituale del sangue e Jace stava cercando il suo riflesso
in una pozzanghera, con scarso successo.
Kieran gli si era avvicinato con passo
silenzioso, spuntando alle sue spalle.
“È
azzurro” l’aveva informato, mentre Jace si voltava di
scatto, colto di sorpresa. “Il tuo occhio destro” aveva precisato Kieran, indicando l’occhio che gli bruciava. “È una bella
tonalità.”
Jace l’aveva fissato con fare cauto, prima di tendere una mano.
“Potresti
prestarmi la spada?” aveva chiesto, notando l’impugnatura d’avorio intarsiato
che pendeva dalla sua cintola. “Vorrei guardarmi.”
Il
riflesso della lama avrebbe funzionato meglio della fanghiglia.
Le
labbra del giovane si erano incurvate appena verso l’alto.
“Non
abbiamo specchi, noi della Caccia” aveva risposto, mostrandogli la spada. “Le
nostre lame non riflettono immagini, ma se guardi attentamente nei miei occhi
non avrai bisogno di farlo. Le iridi, a volte, sono uno specchio migliore
dell’acqua.”
Jace l’aveva scrutato con diffidenza per qualche istante, ma
alla fine si era lasciato convincere.
Gli
occhi di Kieran erano grandi e ben distanziati, fissi
come quelli di un rapace notturno. L’iride destra era talmente scura che si
confondeva con la pupilla, ma l’argento di quella sinistra era chiaro a
sufficienza da permettere a Jace di poterci scorgere
dentro qualcosa.
Era
un’immagine appena accennata, una bozza a colori del ritratto che Clary gli aveva regalato una volta. Aveva colto qualche
ciocca di capelli spettinata e un paio di sopracciglia aggrottate per la
concentrazione sopra un paio d’occhi bicolore.
Quello
sinistro era dorato come sempre, ma il destro spiccava per l’azzurro intenso
dell’iride.
Jace aveva sorriso, sfiorandosi la parte alta dello zigomo: non
era un azzurro qualsiasi, quello. Non per lui.
“Lo
vedi?”
Kieran l’aveva studiato con fare attento,
specchiandosi a sua volta negli occhi di Jace.
Il
ragazzo aveva annuito. Ricordava cosa gli aveva detto Gwyn
subito dopo il rituale: nel momento in cui aveva bevuto il suo sangue, parte
della sua anima era diventata leale alla Caccia e l’eterocromia era il simbolo
di quella frattura.
Per
lui, tuttavia, quell’occhio azzurro rappresentava la sua fedeltà ad Alec:
presto o tardi, se lo sentiva, l’avrebbe condotto da lui.
*
Quella
sera il brusio concitato delle fate era più insistente del solito.
Jace si rannicchiò su un fianco e cercò di riposare, ignorando
l’aria pungente e i fiocchi di neve che si insinuavano dentro i vestiti.
Tentò
di bloccare fuori anche le voci dei compagni, ma c’era qualcosa nel loro
atteggiamento – nel modo in cui lo fissavano – che lo rendeva circospetto.
Sapeva
di cosa stessero parlando: quel pomeriggio si era sparsa la notizia che il
Conclave avesse fatto giustiziare un gruppo di fate. Le cause erano incerte, ma
molti credevano che i Nephilimavessero piegato gli eventi a loro favore per giustificare quel bagno di
sangue. Meditavano vendetta e Jace, ai loro occhi,
era il mezzo migliore che avevano per farsi giustizia.
Per
questo il ragazzo non si sorprese quando un gruppo di cacciatori lo attorniò,
bloccandogli ogni via di uscita. Scattò a sedere, allungando le mani nella
penombra per prendere l’arco.
“Capisco
che non siate abituati a tutta questa bellezza…”
commentò, sorridendo affabile. “… Ma ho solo due occhi: non riesco a ricambiare
lo sguardo di tutti.”
Uno
scricchiolio sinistro echeggiò alle sue spalle: Saiin
aveva trovato l’arco – o, meglio, l’avevano trovato i suoi stivali.
Jace era disarmato.
Cercò
di alzarsi, ma i calci dei compagni glielo impedirono.
“Inginocchiati”
ordinò una delle fate, pungolandolo con il coltello.
Jace cercò di scansarsi, ma altri due lo sollevarono per le
braccia.
“Ho
detto inginocchiati!” tuonò ancora la prima fata, colpendolo in fronte con
l’impugnatura del coltello. Jace si divincolò dalla
presa dei compagni e cercò di sferrargli un calcio; il fuoco celeste
scalpitava, scaldandogli la pelle. Cercò di sfruttarlo, si concentrò per farlo
emergere, ma le fate erano troppe e il suo corpo doveva occuparsi di attutire
colpi e di scansarne altri.
“Adesso…” riprese la fata a capo del gruppo, appoggiandogli
la lama sotto il mento. “… Voglio che tu dica di non essere uno Shadowhunter. Voglio sentirtelo urlare e voglio avvertire
il tuo disprezzo ad ogni sillaba.”
Jace non riuscì a reprimere un ghigno.
“Ma
io sono uno Shadowhunter” replicò.
Uno
del gruppo – un elfo – piegò il polso con un movimento agile. L’attimo dopo,
aveva calato la frusta su Jace, colpendolo alla
schiena.
Il
ragazzo si piegò in avanti, boccheggiando per il dolore e la sorpresa.
“Dillo,
mezz’angelo” lo imbeccò ancora la prima fata, premendogli il coltello contro la
pelle. “Io non sono uno Shadowhunter.”
“No.”
Jace rise, il respiro frammentato per via del calore e della
foga con cui stava cercando di liberarsi.
Continuò
a opporsi anche quando i due che lo tenevano gli strapparono la maglietta,
arrotolandola per usarla come frusta. I colpi gli aprirono la pelle come vetro,
ma l’atrocità di quel dolore piovve sulla rabbia, facendo germogliare il fuoco.
Le
fiamme celesti irradiarono la pelle di Jace e
lambirono le mani delle due fate che lo stavano trattenendo.
Incendi
di urla vennero appiccati in vari punti del capannello di aggressori, mentre il
fuoco si propagava, ustionando chiunque si avvicinasse.
Alcune
fate, oltraggiate dal quell’impedimento, incominciarono a servirsi delle
pietre.
Le
scagliarono contro Jace fino a quando non lo videro
accasciarsi – la schiena un mosaico di sangue e cenere. A quel punto gli
sputarono addosso, ridendo dei suoi maldestri tentativi di rialzarsi in piedi.
Distrutto,
lo abbandonarono sotto un albero in mezzo a un campo innevato, dove il suo
sangue tinse di rosso i fiocchi bianchi.[2]
Finalmente
il gruppo di fate si ritirò per riposare, i volti affilati adornati da un
sorriso maligno.
Isolato
dai compagni, solo e senza nemmeno una coperta, Jace
si raggomitolò sul terreno gelido, dolore e umiliazione a pulsargli contro la
pelle lacerata.
Si
sentiva vuoto; un guscio rovinato, in balia del freddo che gli premeva contro.
La
sicurezza cieca che gli aveva lottato dentro per mesi, guidandolo lungo il
percorso accidentato che si era scelto, si stava affievolendo.
Cercò
di riaccenderla, di riscuotersi facendo perno sui ricordi, ma stavano
incominciando a sbiadire. Il suo passato da Shadowhunter
era frammentato, a volte confuso, e i nomi delle persone che aveva amato si
sovrapponevano gli uni agli altri senza criterio.
Ne
pescò uno a fatica, strappandolo via dagli altri. Se lo appoggiò sulle labbra e
lo sussurrò nella neve, deciso a non dimenticarlo.
“Alec…”
I
fiocchi di neve ripresero a scendere, dondolandogli attorno come ricordi. Erano
vicini, ma quando finalmente lo sfioravano, adagiandosi contro la sua pelle, si
scioglievano. Il pensiero di Clary e quello della sua
famiglia si affievolirono, allontanandosi dalla sua presa.
“Lo
faccio per Alec.”
Le
sue ultime parole suonarono più decise, anche se appena mormorate.
Chiuse
gli occhi, stravolto dal dolore e dalla stanchezza; cercò con la mano il punto
della clavicola in cui s’intravedeva la runa parabataie lo coprì con le dita, come a volerlo riparare dal freddo.
Per
Alec questo ed altro.
*
La
luce della luna rischiarava l’interno della serra, evidenziando le sagome dei
due fratelli sdraiati sul pavimento.
Alec
fece scorrere il dito lungo le vignette del manga che stavano sfogliando,
mentre Max sbirciava da sopra la sua spalla.
“Pensa
che io, che sono senza corpo, non posso nemmeno provare la sensazione dell'acqua
che colpisce la mia pelle” lesse, indicando un bambino dalle sembianze di
robot. Passò alla vignetta successiva, dove a parlare era il fratello maggiore
del ragazzino. “Questo mi rattrista molto. È dura” recitò.
Sorrise
a Max, che si sporse per proseguire con la lettura.
“Fratellone,
io di una cosa sono sicuro” pronunciò il bambino, prestando la voce al
piccolo robot. “Voglio tornare come prima! Anche se questo significasse
andare nella direzione opposta allo scorrere del mondo.”[3]
Il
sorriso di Alec si spense appena, mentre ascoltava il fratello leggere.
Gli
era mancata la sua voce. Gli erano mancati l’entusiasmo e la curiosità che
catturavano così spesso i suoi occhi, la semplicità con cui riusciva a farlo
ridere.
La
compagnia di Max lo stava aiutando ad abbandonare l’attaccamento per le
emozioni umane. Ormai sentiva sempre meno: il dolore era una puntura leggera e
la paura un respiro di troppo. Aveva dimenticato la vergogna e il senso d’inadeguatezza,
ma ricordava l’amore. Riusciva a percepirlo solo a volte, ma gli era rimasto e
lo custodiva con cura.
Spesso,
lui e Max giocavano a descrivere i volti dei loro familiari: li aiutava a
trattenerne il ricordo, a rimandare il giorno in cui avrebbero smesso di
sentire la loro mancanza.
Ogni
tanto, c’erano anche dei momenti di buio improvviso. Istanti di consapevolezza
che duravano pochi secondi, ma che facevano ugualmente male.
In
quei brevi attimi, Alec ricordava che Max aveva solo nove anni e che non ne
avrebbe mai compiuti dieci. Realizzava che era morto – che lo erano entrambi –
e che non c’era modo di assicurare a Izzy e ai loro
genitori che stessero bene, che fossero insieme.
Nel
corso dell’ultimo periodo, Alec aveva vissuto quei momenti di consapevolezza
più spesso del solito.
Era
come se la sua coscienza stesse cercando di suggerirgli qualcosa, come se
qualcuno lo stesse tirando verso il suo passato, i suoi ricordi, la sua vita di
un tempo.
“Alec?”
Max
gli picchiettò sulla spalla, fissandolo incuriosito.
Alec
sbatté le palpebre un paio di volte.
“Cosa?”
Max
si strinse nelle spalle.
“Sembravi
incantato” spiegò, voltando pagina al fumetto.
Alec
scosse la testa. D’istinto, si coprì l’avambraccio destro con una mano: aveva ripreso
a fargli male.
“C’è
qualcosa che non va” ammise, facendo scorrere il pollice lungo il punto che un
tempo ospitava la runa parabatai. “Non so in
che modo, né perché, ma sento che c’è qualcosa di diverso.”
Max
gli rivolse un’occhiata confusa attraverso le lenti tonde degli occhiali.
“Magari
stai cambiando Dimensione Celeste” ipotizzò, tirandosi a sedere. “Forse stai
entrando nella mia.”
“A
me sembra più il contrario” rivelò Alec, facendo più pressione con la mano. “È
come se avessi una corda intorno al braccio e qualcuno stesse tirando l’altro
capo: qualcuno di vivo.”
“Jace?” azzardò Max, una punta di speranza a ravvivargli lo
sguardo.
In
quel momento accadde qualcosa: la pelle dell’avambraccio di Alex prese a
formicolare, come toccata da uno stilo invisibile.
Alec.
Il
suo nome gli risuonò nelle orecchie: fu un mormorio sottile, simile al vento
che s’intrufolava fra le foglie.
La
corda invisibile diede un altro strattone, ma questa volta fece meno male:
sembrava si stesse allentando, come se chiunque fosse legato all’altro capo si
stesse avvicinando.
Alec!
Il
ragazzo scattò in piedi, manovrato da un’energia improvvisa. Per un attimo si
sentì come se avesse di nuovo un cuore: lo sentiva battere rapido, a grancassa,
sollevato e irrequieto al tempo stesso.
“Jace!” chiamò, stringendosi il braccio al petto. “Jace!”
“Riesci
a sentirlo?” l’interrogò Max, balzando a sua volta in piedi.
Alec
annuì.
“Ho
sentito la sua voce” rivelò, passandosi una mano fra i capelli. “Nella mia
testa, ma era come se fosse… Si sta avvicinando,
credo.”
Tornò
a toccarsi l’avambraccio: la pelle formicolava ancora.
Max
lo sfiorò con l’indice, lo sguardo tutto a un tratto preoccupato.
“Non
è morto, vero?” sussurrò, cercando conforto negli occhi del fratello.
Alec
scosse la testa.
“È
vivo – vicino a questa dimensione, ma vivo. Però non sta bene” ammise,
mordendosi un labbro; la corda invisibile gli aveva rovesciato addosso del
dolore nuovo, che non gli apparteneva. Concentrandosi, riusciva a percepire lo
sconforto e l’umiliazione di Jace, la sua stanchezza.
Perfino il freddo che gli vorticava intorno.
Inspirò
con forza, la mano a proteggere il fantasma di quella runa che lo teneva
ancorato a lui.
“Sono
qui” mormorò nella speranza che Jace riuscisse a
sentirlo. “Non ti lascio.”
Chiuse
gli occhi, ogni brandello di concentrazione impegnato a mantenere quel
contatto. Le dita di Max gli sfiorarono l’avambraccio, mentre la sua voce
sottile affiancava quella di Alec.
“Resisti,
Jace!” mormorò il bambino, serrando le palpebre.
“Jace” lo chiamò ancora Alec, sollevando la testa: il cielo
era limpido e trapuntato di stelle e là da qualche parte, in mezzo a tutto quel
buio e a qualche spiraglio di luce, c’era suo fratello.
Continuò
a chiamarlo, il suo nome ridotto a un mormorio fiducioso intrappolato nella sua
testa. Non disse altro: sapeva che quello sarebbe bastato.
Jace!
*
C’era un momento, poco prima dell’arrivo
dell’alba, in cui la notte sembrava raggiungere il suo apice. Gli occhi umani
smettevano di funzionare e l’oscurità si anneriva fino a inghiottire ogni cosa:
le stelle, la luna, le ombre proiettate sul terreno.
Faceva così buio che era difficile anche
solo realizzare di esserci, di esistere ancora: il nero graffiava via i
contorni fino a quando non arrivava l’alba a ridisegnarli e, solo allora, chi
era sveglio poteva tirare un sospiro di sollievo.
Quando Jace
aprì gli occhi, tremante e indolenzito per via del freddo, si trovava proprio
in quel momento della notte.
Era troppo buio perché potesse mettere a
fuoco qualcosa, ma non gli importava: non era stata la notte a svegliarlo, ma
una voce.
Si alzò a sedere a fatica, il cuore che
gli recalcitrava nel petto come una preda che tenta di sfuggire al cacciatore.
Jace.
Il suo nome gli risuonò dentro ancora una
volta, rischiando di confondersi con il turbinio del vento.
“Alec!”
La sua mano corse istintivamente verso la
clavicola, a tastare l’unico punto in cui la sua pelle era rimasta calda; la
presenza di Alec gli vibrò dentro come una nota del suo pianoforte,
propagandosi fino a fargli da scudo contro il freddo.
Era la prima volta, da quando era morto,
che lo sentiva così vicino; la prima volta che sentiva la sua voce.
Sono qui. Non ti lascio.
Qualcosa dentro di lui sembrò contrarsi,
come se qualcuno lo stesse tirando: non era una brutta sensazione. Era come se,
dopo aver precipitato nel vuoto per mesi, avesse finalmente trovato un
appiglio.
“Sei vicino…”
mormorò fra sé, guardandosi intorno. I contorni incominciavano ad apparire più
precisi. Si accorse di avere qualcuno seduto a pochi passi di distanza da lui,
qualcuno che lo fissava, ma era troppo stanco per indagare.
L’unica cosa davvero importante era la
voce di suo fratello.
“Sto arrivando, Alec” mormorò, tornando a
raggomitolarsi sulla terra fredda. Un sorriso si fece strada sulle sue labbra
screpolate, resistendo ai denti che battevano. “Ci sono quasi.”
Sono qui, Jace.
Jace!
*
C’era un momento, poco prima dell’alba,
in cui la notte sembrava raggiungere il suo apice. Gli occhi umani smettevano
di funzionare e l’oscurità s’anneriva fino a inghiottire ogni cosa.
Faceva così buio che era difficile anche
solo realizzare di esserci, di esistere ancora.
Quando Jace
guardò in alto, alla ricerca di stelle che non c’erano, quel momento era ormai
superato: la notte aveva incominciato a schiarirsi, diluita dai primi raggi di
sole.
Ai suoi occhi, tuttavia, il buio se n’era
già andato da un pezzo: l’aveva scacciato il bagliore che si era intrufolato
dentro di lui al suo risveglio, scuotendolo fino al midollo. Quella stessa luce
che gli aveva scrollato l’incertezza di dosso, rimettendolo in piedi e
indirizzandolo sul suo cammino.
E quella luce era suo fratello.
Even
when it's dark before the dawn
I will
feel your grace and carry on
And
with every breath of me
You'll
be the only light I see
EveryBreath.Boyce
Avenue
Note
finali.
Buongiorno! Dopo un mese e
mezzo circa di assenza, mi sono decisa ad aggiornare questa storia; vedermi
accumulare settimane e settimane di ritardo mi irritava, ma sto passando un
periodo di grande blocco e sconforto con la scrittura e lo stimolo a pubblicare
è svanito assieme all’ispirazione. Spero che con l’arrivo della pausa universitaria
riesca a mostrarmi un po’ più costante.
Questo capitolo è forse quello
a cui tengo di più, come credo di aver accennato alla fine dello scorso. Ci
sono tantissimi riferimenti a Lady Midnight, avendo
parlato di Caccia Selvaggia e chi l’ha letto avrà sicuramente notato qualcosa
che si ripete, ma in maniera diversa. In questo universo alternativo, infatti,
Mark Blackthorn non è mai diventato un cacciatore.
Sebastian è morto prima, in confronto a ciò che accade nei libri, e per questo
non ha mai attaccato l’Istituto di New York e Mark non è mai stato reclamato
dalle fate. Jace va un po’ a sostituire il ruolo che
ha avuto lui fra i cacciatori, anche se vedremo che la sua permanenza con le
fate sarà più breve. Nel prossimo capitolo, tra l’altro, lo vedremo conversare
un po’ più a lungo con Kieran - un personaggio, tra
l’altro, che mi affascina moltissimo. Sono un po’ esaltata all’idea di un Jace membro della Caccia – ammetto che fantasticavo su una
cosa simile da quando ho notato l’eterocromia di Dom
Sherwood.
In questo capitolo fa una breve
comparsa anche Max – che è riuscito a procurarsi dei manga anche in paradiso - e
che rivedremo brevemente anche nel prossimo. In quel passaggio scopriamo anche
che Jace è in qualche modo sempre più vicino a
raggiungere Alec.
Spero di riuscire ad aggiornare
in tempi un po’ meno biblici, la prossima volta.
Grazie, come sempre, a mafiaromano, e alla sua gentilezza nel lasciarmi
sempre un commento! Visti i brutti rapporti che sto vivendo con la scrittura in
questo periodo ti assicuro che significa molto per me!
[2] Citazione tratta da Lady Midnight: l’episodio fra Jace e
le fate va tecnicamente a sostituire quello che è accaduto a Mark Blackthorn, che in questa versione dei fatti non ha mai
fatto parte della Caccia.
[3] I passaggi in corsivo sono tratti dal
manga “Full Metal Alchemist”.
Capitolo 7 *** [6] Whither thou goest (I will go); ***
6 |Whither thou goest (I will
go);
«Non lasciare che sia
qualcun altro a dirti chi sei. Tu sei la fiamma che non può essere estinta.
Sei
la stella che non si può smarrire. Sei chi sei sempre stato, e questo basta e
avanza.»
James Carstairs –Le Cronache dell’Accademia.Cassandra Clare
Quando
Jace si svegliò rimase sorpreso, accorgendosi che aveva smesso di tremare.
Si alzò
sui gomiti, cercando di non fare perno sui punti in cui era ferito; qualcosa di
morbido e pesante gli cadde dalle spalle, lasciandogli esposto il torace nudo.
Era una coperta magica, di quelle che usavano le fate. Doveva averci dormito
dentro per almeno qualche ora, perché l’intorpidimento dovuto al freddo era
cessato.
Si
chiese da dove arrivasse: la maggior parte dei suoi compagni lo detestava –
l’aggressione della sera prima ne era la prova – e perfino i pochi che lo
tolleravano non si sarebbero privati di qualcosa di così prezioso.
Ma
forse c’era un’eccezione: ne ebbe la conferma quando riconobbe i passi leggeri
di Kieran alle sue spalle.
Il principe Unseelie si accovacciò al suo fianco, l’occhio più chiaro nascosto
da una ciocca di capelli blu.
“Bevi”
ordinò, porgendogli dell’acqua.
Jace
accettò la borraccia senza protestare. Mentre beveva, il suo sguardo ricadde
sul fuoco che scoppiettava in lontananza: le fiamme proiettavano ombre distorte
sui cacciatori che gli riposavano intorno.
Una
smorfia di dolore gli contrasse i lineamenti, mentre stendeva il braccio per
restituire la borraccia. Non aveva più freddo, ma le ferite gli pulsavano
ancora.
Kieran
gli sfiorò una spalla.
“Credo
che fra la tua gente esistano rune capaci di guarire[1]” osservò, indicando
un’escoriazione che gli attraversava la clavicola.
Jace
azzardò un sorriso obliquo.
“Solo se hai qualcosa con cui disegnarle” replicò, frugandosi nelle tasche ed
estraendo ciò che rimaneva del suo stilo: due estremità affilate e
perfettamente inutili. “Qualcosa di intero, magari.”.
Kieran
annuì: aveva lo sguardo distante di chi ha la mente impegnata in riflessioni tutte
sue.
“La
neve ha aiutato” mormorò dopo qualche istante. “A Nord di qui c’è una sorgente
con dei poteri curativi” aggiunse, fissandolo con intensità: l’occhio argentato
brillava come adamas. “Ma è oltre i confini del Santuario. Noi della Caccia non
possiamo accedervi.”
Jace lo
squadrò guardingo.
“Che
intendi dire per Santuario?” chiese, guardandosi intorno: si trovavano in cima
a una collina e il paesaggio era spoglio e innevato. Tuttavia, guardando in
basso, si accorse che erano circondati dal verde. Una striscia di brughiera
separava l’altura da una zona più rigogliosa, che ospitava un boschetto di
abeti. Il paesaggio sottostante era tagliato in due da un fiume e, in lontananza,
il sole era alto nel cielo, nonostante sulla collina l’alba fosse appena
spuntata.
Era
come se il circondario si fosse diviso in due: da una parte nevicava e il
mattino stava ancora sorgendo. Sotto la collina, invece, il paesaggio ricordava
più quello di un tiepido pomeriggio primaverile.
Il
principe indicò la brughiera con un cenno del capo.
“Quella
è la terra sotto la collina”rispose, giocherellando con la punta di freccia che portava al collo.“La
dimora dei teneri e dei cuori nuovi: nessuno vi invecchia, né conosce dolore e
stenti.”[2]
Jace
si sentì attraversare da un brivido: ricordò le parole di Jem Carstairs a proposito
di Annwn.
Alcune
leggende lo descrivono come un luogo fertile e dal clima sempre sereno, dove le
persone non invecchiano, il cibo abbonda e le malattie non esistono.
“I viventi non possono attraversarla”
proseguì Kieran, “Ma i membri della Caccia hanno il permesso di sostare nella brughiera,
che noi chiamiamo Santuario. Lì, le protezioni Angeliche non hanno effetto. Possiamo
percorrerla per trovare anime erranti, affinché si uniscano al nostro esercito.”
Jace
processò ogni parola con attenzione, affamato d’informazioni. Per la prima
volta si
chiese quanto tempo fosse trascorso dalla sua partenza: gli sembrava di essere
in viaggio da mesi, e il fatto di trovarsi così vicino alla terra sotto la
collina lo confermava, ma sapeva anche che il tempo scorreva in maniera diversa
quando si cavalcava con la Caccia.
I suoi pensieri si spostarono verso Clary e il
senso di colpa lo travolse.
C’erano
giorni in cui la sua mancanza si faceva così acuta da ricordargli che in fondo
era ancora uno Shadowhunter. La natura selvaggia della Caccia, tuttavia, tornava
in fretta a prendere il sopravvento.
“Quindi
è questa, Annwn…” annunciò, fasciandosi il torace con le braccia: aveva ripreso
a nevicare. “… La prima Dimensione Angelica.”
Kieran
sorrise.
“La
chiamano in tanti modi” ammise, tornando a toccare il ciondolo a forma di
freccia. “La parola Annwn deriva dalla mitologia Mondana: secondo i Gallesi, la
porta per accedervi è nascosta presso le sorgenti del fiume Severn.”
“Ed è
così?” lo interrogò Jace, pur conoscendo già la risposta.
Il principe
scosse la testa.
“No, ma
non erano lontani dalla verità: il portale che regola l’accesso alle Dimensioni
Celesti si trova davvero sotto un fiume.”
Indicò
ancora il paesaggio sottostante, soffermandosi sul corso d’acqua che lo
divideva a metà.
“Ma se
un vivente cercasse di attraversarlo morirebbe sul colpo.”
Un
sorriso arrogante si arrampicò sulle labbra di Jace.
“Beh, io
non sono un vivente qualunque” commentò, lo sguardo terso di
determinazione. La stanchezza, il dolore e lo sconforto del giorno prima sembravano
scomparsi.
Piegò in
quattro la coperta e la porse a Kieran.
“Questa
è tua” affermò, prima di recuperare da terra la maglietta macchiata di sangue.
“Perché mi hai aiutato? Di questi tempi le fate preferirebbero beccarsi la
sifilide demoniaca, piuttosto che avere a che fare con uno Shadowhunter.”
Il
principe Unseelie rimase in silenzio per qualche istante; i suoi capelli sembravano
più chiari, adesso – di un blu slavato, che ricordava l’alba sopra di loro.
“Ti
ho sentito parlare, ieri sera” rivelò infine, piegandosi la coperta sul
braccio. “Continuavi a ripetere un nome e più mormoravi, meno tremavi: chiunque
stessi invocando ti stava aiutando a superare il dolore.”
S’interruppe
– il suo sguardo, nuovamente distante, abbracciava la terra oltre la brughiera.
“C’è
un motivo se hai scelto di unirti alla Caccia” dichiarò infine.
Jace
diede una scrollata di spalle.
“Dicono
che andarsene in giro per il cielo a derubare i morti sia all’ultimo grido in
fatto di moda.”
“Lo
fai per amore” replicò Kieran, tornando a fissarlo con intensità.
“Alec
non è il mio fidanzato” ribatté Jace, scoccando un’occhiata cauta ai compagni
di Caccia: stavano ancora riposando. “È il mio parabatai.”
“C’è
differenza?” domandò Kieran, allargando le braccia. Aveva perfino le movenze
eleganti dei principi, ma gli abiti consunti e gli occhi bicolore gli conferivano
qualcosa di indomito, in contrasto con il suo aspetto regale.
“I parabatai sono compagni d’armi” spiegò
Jace, inarcando un sopracciglio. Immaginò che i membri del popolo fatato
fossero piuttosto estranei ai rituali Nephilim. “Sono legati l’uno all’altro da
un giuramento, votati a proteggersi fino alla morte. In battaglia, i loro
cuori battono all’unisono” aggiunse, ricordando di aver detto qualcosa di
simile a Clary, una volta. “Quando uno dei due muore…”
Il dolore lo punzecchiò con insistenza. Si toccò
la clavicola, cercando la cicatrice della sua runa. “…Parte dell’altro muore
assieme a lui.[3]
È come se la tua anima venisse strappata a metà, come se un pezzo di te
smettesse di funzionare.”
Kieran lo ascoltava attento, ignorando i fiocchi
di neve che avevano preso a depositarsi sulla sua tunica.
“E questo non è amore?”
Jace tornò a stringersi nelle spalle.
“Non nel senso romantico del termine. Hai dei
fratelli?”
Kieran annuì.
“Nessuno con i quali andassi d’accordo.”
Jace ripensò alla crudeltà con cui i suoi
famigliari l’avevano venduto alla Caccia. Tutto a un tratto provò compassione
per lui; si chiese se qualcuno gli avesse mai serbato l’affetto incondizionato
che provava per Alec e Izzy.
“Diciamo che non ho mai immaginato di rotolarmi
fra le lenzuola assieme a lui” tentò di spiegare, sorridendo malandrino. “Cosa
che invece farei volentieri con Clary, se solo fosse qui.”
Ancora una volta, il dolore lo travolse:
erano giorni che non pensava così spesso a Clary. Settimane, forse, che non
soffriva così tanto al pensiero di averla lasciata andare.
Forse quella consapevolezza dipendeva
dalla sua vicinanza ai Regni Celesti: non erano mai stati così lontani l’uno
dall’altra – nemmeno prima di essersi conosciuti.
“Quindi si tratta di una questione
carnale?” chiese Kieran, restando impassibile. Sembrava sinceramente
incuriosito da quella conversazione. “Noi fate preferiamo la fedeltà del cuore
a quella del corpo, ma per voi umani è spesso il contrario: vi concedete
fisicamente a una persona sola e siete convinti di essere nel giusto anche se
il vostro cuore è diviso in due. Non lo concepisco” ammise, prima di scuotere
appena la testa. “Ma in fondo, suppongo che nessuno sappia davvero cosa sia
l’amore.”[4]
“Tu cosa pensi che sia?” lo interrogò
Jace, aguzzando lo sguardo per frugare il fiume: a quella distanza era
impossibile scorgerne la sorgente, ma sapeva che era lì che doveva dirigersi.
Kieran sorrise; per un istante ricordò un
adolescente qualunque, fatta eccezione per i capelli bluastri e le orecchie a
punta.
“L’amor che move il sole e l’altre stelle”
pronunciò, con la sua
voce musicale.
Jace gli rivolse un’occhiata sorpresa, ma
sorrise a sua volta.
“Non sapevo che le fate leggessero
Dante.”
“Alla corte Unseelie studiamo molto. Ritengo davvero che l’amore sia questo: –
una forza indomabile che spinge chi l’avverte a soverchiare i limiti, a
ribaltare i princìpi e l’ordine delle cose. L’amore plasma l’impossibile fino a
renderlo reale.”
“Ne parli piuttosto bene, per uno che
dice di non sapere cosa sia l’amore” osservò Jace, continuando a sorridere.
Kieran tornò a fissare le terre oltre la
brughiera.
“Non so nemmeno cosa accada dopo la
morte, ma questo non mi impedisce di avere delle idee a riguardo” rispose, sfilandosi
la neve dai capelli. “E a quanto pare non lo impedisce nemmeno a te” aggiunse,
affondando le mani nella coperta. “Hai intenzione di ritrovare l’anima del tuo
compagno d’armi.”
Jace si limitò ad annuire.
“So di poter accedere alle Dimensioni Celesti”
rivelò, scoccando un’occhiata cauta ai compagni di intorno al fuoco. “Ho un
piano che fa acqua da tutte le parti, ma non m’importa: attraverserò quei
cancelli.”
Era certo che ce l’avrebbe fatta, perché
non aveva scelta.
Kieran lo fissò per quella che parve una
sequenza interminabile di secondi, prima di annuire.
“Hai tre quarti d’ora” lo avvertì,
voltandosi verso il falò. “Gwyn vorrà riprendere la Caccia alle sei. Se parti
adesso puoi raggiungere la sorgente del fiume prima che gli altri si accorgano
della tua assenza: lì troverai i cancelli” aggiunse, sfilandosi la catenella
con la punta di freccia.
“Prendi questa” aggiunse, mettendogliela
nel pugno. “Non sarà un arco, ma all’occorrenza può trasformarsi in un’ottima
arma.”
Jace ricambiò il suo sguardo con
gratitudine, stringendo le dita intorno al ciondolo.
“Non so cosa accadrà una volta
attraversato quei cancelli” dichiarò, legandoselo al collo. “Ma una cosa è
certa: sarò ancora in debito con te.”
Kieran scosse la testa.
“Sei fortunato, Jace Herondale” mormorò, sfiorandogli una guancia:
aveva le dita stranamente calde, nonostante tutto quel freddo. “Conosci il nome del tuo cuore. Quelli
come te non si perdono mai veramente: possono sempre richiamarlo e farlo tornare a casa.”[5]
La luce della determinazione tornò ad
accendere lo sguardo di Jace.
“Non
tornerò a casa” rispose, prima di battersi una mano sulla coscia: il suo
destriero riconobbe il suono e gli trottò incontro, pronto a rimettersi in
marcia. “Ma Alec forse sì.”
*
Jace azzardò un passo in direzione dei primi
alberi: la brughiera terminava in quel punto e con essa il Santuario.
Stando alle parole di Kieran, per i viventi era
impossibile accedere al boschetto che costeggiava il fiume Annwn. Jace capì che
aveva detto la verità quando il suo destriero incominciò a scalpitare,
scuotendo innervosito la testa. Cercò di farlo avanzare, ma senza successo:
sembrava trattenuto da una forza invisibile.
Jace gli sussurrò qualche parola all’orecchio per
calmarlo e lo salutò con una carezza sul muso, prima di riprendere il cammino.
Superò i primi alberi senza che accadesse nulla:
i suoi piedi procedettero senza impedimenti, guidandolo verso il rumore del
fiume. La sua pelle incominciò a irradiare un bagliore insolito, che sembrava
provenire dal fuoco celeste. Immaginò che fosse quello a consentirgli di andare
avanti: le fiamme del paradiso avevano ingannato le protezioni degli angeli,
nascondendo la sua umanità.
Impiegò più di un’ora a raggiungere il fiume, ma
gli bastò uno sguardo per intuire che non era un corso d’acqua qualunque. La
sua superficie era lucida come uno specchio, di un argento che ricordava il
metallo fuso. Quando Jace si chinò per toccarla, una nuvola di vapore bianco si
sollevò, avviluppandogli il braccio. Il ragazzo avvertì un pizzicore piacevole
dalle dita alla spalla e un fresco improvviso, poi il vapore svanì. Quando tirò
fuori la mano dall’acqua, si accorse che i tagli e gli ematomi superficiali
erano svaniti. Quelli più profondi si erano cicatrizzati e perfino il dolore se
ne era andato.
“Però!” mormorò fra sé, non riuscendo a
trattenere un sorrisetto. “Com’è che le cose più interessanti ve le tenete
tutte a casa vostra?” commentò, rivolto agli angeli.
Avrebbe voluto giocare con quell’acqua ancora per
un po’, ma sapeva di non poter perdere tempo. I membri della Caccia non
potevano proseguire oltre la Brughiera, ma non era da escludere che chiunque
governasse Annwn gli fosse alle calcagna.
S’incamminò lungo il fiume, seguendo la
direzione indicatagli da Kieran; più proseguiva e più il rumore dell’acqua
s’intensificava, come se si trovasse vicino a una cascata. Dovette percorrere
ancora un paio di chilometri prima di scoprire la fonte di quello scroscio.
Giunto alla sorgente, Jace sbatté più volte le
palpebre, impressionato dalla visione che gli si parò di fronte: il fiume
terminava davvero con una cascata, ma invece che rovesciarsi verso il basso
l’acqua zampillava all’incontrario, rimbalzando contro il cancello più grande
che il ragazzo avesse mai visto.
Fu costretto a inclinare la testa all’indietro
per poterlo esaminare meglio: era alto più o meno quanto l’Istituto di New York
e sembrava estendersi per almeno una cinquantina di metri. Le merlature avevano
un che di gotico e le estremità erano delimitate da colonne sormontate da
guglie a spirale. Sembrava fatto di Adamas – celeste e traslucido – e l’acqua
che s’infrangeva contro le sue porte rifletteva la luce del sole, facendolo
brillare.
Jace lo contemplò immobile per qualche istante,
prima di riuscire a distogliere lo sguardo. Un brivido, simile a una scossa,
gli percorse la schiena e i peli gli si rizzarono lungo le braccia: c’era
qualcosa di quel cancello che gli faceva suonare dentro un campanello
d’allarme. Era come se il suo corpo stesse cercando di suggerirgli che lui e
quel cancello non erano compatibili e che attraversarlo non sarebbe stata una
buona idea.
Inspirò con forza, toccandosi la punta di
freccia che portava al collo: quel ciondolo inusuale non lo fece pensare al
principe che gliel’aveva donato, ma ad Alec.
“Sei qua dietro, fratello?” mormorò, sollevando
la testa per inseguire i contorni del cancello; il rumore dell’acqua
scrosciante coprì le sue parole.
Jace infilò le mani in tasca e ne estrasse un
foglio sporco di terra: era la runa sconosciuta che aveva disegnato Clary.
“Non che possa farci molto senza stilo…”
commentò fra sé, tirando fuori le due estremità che si era portato dietro. Le
tenne unite con una mano e provò a incidere una runa sul terreno, ma non
funzionò.
Un’idea gli balenò alla mente, strappandogli un
sorriso. Si chinò sull’acqua e provò ad immergervi le due metà dello stilo, brandendone
una per mano. Ancora una volta il vapore argenteo si sollevò dalla superficie
del fiume, ma quando scomparve le due estremità erano ancora separate.
Jace roteò gli occhi, passandosi una mano umida
fra i capelli; i graffi che aveva sul volto sparirono, ma non se ne accorse
nemmeno.
Tornò a esaminare la runa di Clary, spiegando il
foglio sull’erba. Mentre lo lisciava con le mani, notò nuovamente i bagliori
emanati dalle sue dita.
Era come se il Fuoco Celeste stesse lottando per
emergere, avvertendo la vicinanza con il suo luogo di provenienza.
Jace si guardò le mani: una scintilla di
consapevolezza gli illuminò gli occhi.
Lentamente immerse i piedi nell’acqua, puntando
a raggiungere la cascata. Il suo cuore batteva con violenza, protestando contro
la sua decisione. Anche le sue gambe funzionavano e male: si muovevano a scatti
e sembravano stranamente pesanti. Quando infilò la testa sotto il getto d’acqua
i suoi muscoli ebbero uno spasmo violento e non smisero di pulsare fino a
quando non raggiunse i piedi del cancello. Il suo corpo stava cercando di
ribellarsi, come se ogni cellula avesse innescato un principio di
autoconservazione e volesse impedirgli di farsi del male.
Jace distese le mani di fronte a sé, la runa di
Clary bene a fuoco nella sua testa: gli tremavano le dita. Aveva paura – tutto
ciò di cui era fatto gli ordinava di averne – e le certezze che l’avevano
guidato fino a quel cancello non gli erano mai sembrate tanto ridicole.
Fece un rapido calcolo, tenendo d’occhio le
scintille che gli pulsavano sottopelle: le probabilità di morire sul colpo,
toccando quel cancello, si aggiravano intorno al novantacinque per cento.
Sospirò
ancora, gli occhi chiusi alla ricerca di concentrazione.
Alec
si meritava che combattesse per quel cinque per cento.
Le
dita incominciarono a scottargli, mentre si sforzava di guidare tutto il fuoco
che aveva in corpo verso le mani.
“Dove
andrai tu, andrai anch’io” mormorò, riconoscendo il tepore delle fiamme che
fuoriuscivano dai suoi palmi. Si appoggiò al cancello e una scossa violenta gli
penetrò sottopelle, facendolo gemere dal dolore. Jace non mollò la presa. “Dove
morirai tu, morirò anch’io, e vi sarò sepolto…” proseguì a fatica,
incominciando a muovere le mani sulle porte.
Incise
i contorni della runa con il fuoco, bruciando la superficie di Adamas su cui
era appoggiato: incominciò con due tratti brevi in verticale, che poi andò ad
appoggiare a una lunga linea orizzontale, curvata verso il fondo.
Quando
il disegno terminò, Jace scostò le mani dal cancello e aprì gli occhi – le mani
che gli bruciavano.
“L’angelo
faccia a me questo e anche di peggio…” riprese, respirando a fatica: la
runa aveva preso fuoco e una volata di fumo argenteo si era sollevata intorno a
lui, troncandogli il respiro.
Si
udì uno scricchiolio, poi un tonfo violento: le porte del cancello vibrarono.
Lentamente,
incominciarono ad aprirsi.
La
terra tremò sotto i piedi del ragazzo, che cadde in avanti, picchiando la testa
contro un tratto d’inferriata.
Stordito,
cercò di ritrarsi dalle fiamme; il terreno incominciò a sgretolarsi, provocando
delle spaccature intorno a lui.
Jace
saltò in avanti, aggrappandosi al cancello.
“…
Se altra cosa che la morte mi separerà da te.”
Il
suo sguardo s’insinuò attraverso le porte, e quello che vide lo riempì di
orrore: oltre ai cancelli il vuoto si estendeva in ogni direzione, come un
massiccio buco nero.
Cercò
di tornare indietro, ma il terreno continuava a spaccarsi, creandogli attorno
delle voragini.
Il
fuoco divampò all’improvviso, accecandolo.
Uno
strattone improvviso lo spinse in avanti.
Jace
venne risucchiato dal vuoto.
*
Alec aprì
gli occhi di scatto, alzandosi a sedere.
La
serra in cui si era addormentato la sera precedente era scomparsa, così come le
altre stanze dell’Istituto; adesso si trovava in riva a un lago e le prime luci
dell’alba ne accarezzavano timidamente la superficie. Non era un luogo sconosciuto;
ad Alec ricordava il lago vicino alla fattoria di Luke. Max dormicchiava al suo
fianco, il fumetto aperto sulla pancia e gli occhiali storti sul viso sereno:
non era stato lui a svegliarlo.
Alec
scoprì l’avambraccio destro, sentendolo pulsare: la pelle in quella zona
scottava e pungeva. Un disegno incominciò a prendere forma, bianco e in
rilievo, come una cicatrice: la runa parabatai.
Un
fremito di eccitazione accarezzò la schiena di Alec.
“Jace…”
mormorò, scattando in piedi. Premette la mano contro il marchio e lo sentì
vibrare contro le dita. Riusciva a sentirlo per intero, adesso, e non più in
maniera frammentata. Jace era lì – in quella runa, sotto la sua pelle, come se
gli scorresse nel sangue.
Come
se ci fosse sempre stato.
“Jace!”
Gridò
di nuovo il suo nome, guardandosi intorno con impazienza. Max, destato dalle
sue urla, si alzò a sedere con uno sbadiglio.
“Che
succede?” farfugliò, stropicciandosi gli occhi.
Alec
continuò a camminare lungo la riva, una mano ancora premuta contro l’avambraccio.
“Ci
ha trovati” spiegò, frugando con lo sguardo la sponda opposta. “Non so come, né
se sia possibile, ma è arrivato fino a qui. Will!” gridò all’improvviso,
facendo sobbalzare Max. “Will!”
Will
Herondale arrivò subito, come se stesse già gironzolando da quelle parti.
Era
vestito come la prima volta in cui si erano incontrati – camicia bianca con le
maniche arrotolate all’altezza del gomito e pantaloni neri. Alec si sorprese a
notare che nemmeno lui e Max cambiavano mai di abito.
“Cerchi
ancora me, Lightworm?” chiese, andandogli incontro con le mani in tasca. “Non
che la cosa mi stupisca: la mia presenza dà assuefazione.”
“È
successo qualcosa…” tagliò corto Alec, mostrandogli il braccio. “… Mi sono
svegliato e la runa parabatai si stava riformando. È come se fossimo di
nuovo legati” specificò, non riuscendo a trattenere un sorriso. “Io e Jace.”
L’aria
scanzonata di Will sfumò, lasciando il posto alla tristezza.
“Forse
lo siete” mormorò con cautela, soppesando ogni parola. “Ma non nel modo in cui
speravate.”
I
due Lightwood lo squadrarono con espressione confusa.
“Che
significa?” lo interrogò Alec, allarmato dalla tensione nel suo volto. “Che sta
succedendo? Dov’è Jace?”
Will
posò due dita sulla runa parabatai del ragazzo.
“Atque
in perpetuum, frater” mormorò, chinando la testa.
Il
panico incominciò a irradiarsi dentro Alec.
“Smettila”
ordinò, allontanando la sua mano con un gesto brusco.
Will
fece scorrere il suo sguardo da lui a Max. I suoi occhi, tutto a un tratto,
sembravano riflettere la vastità del lago che li circondava. Non era
un’impressione piacevole: guardandoli, Alec vi vide riflesso il suo smarrimento
e provò un senso di vertigini.
“Mi
dispiace, Alec” mormorò ancora Will: la distesa d’acqua dentro i suoi occhi lo
inghiottì.
Alec
si aggrappò alla spalla del fratellino. Fu come perdere l’equilibrio: come
cadere nel vuoto e andarsene una seconda volta.
“Jace
è morto.”
*
Non
tutti i tipi di buio sono uguali.
Ci
sono quelli più spessi, che non riesci a grattare via nemmeno con la luce di
una torcia, e quelli che svaniscono da soli, gradualmente, man mano che gli
occhi si abituano all’oscurità.
C’è
il nero della notte che precede l’alba e quello che segue il tramonto, ma c’è
anche un altro tipo di buio.
Quello
che ti inghiotte all’improvviso, accompagnato da un giramento di testa, e che
ti avvolge come un mantello, premendo contro il tuo corpo, soffocandoti gli
occhi.
Jace
si trovava in quel tipo di buio, quando rivenne.
L’oscurità
era talmente piena che dovette farsi scorrere le mani lungo il corpo per
assicurarsi di averne ancora uno. Si schiarì la voce, ribellandosi al silenzio
nero quanto il buio.
Stava
incominciando a domandarsi se per caso il fuoco celeste non gli avesse messo
gli occhi fuori gioco, quando una luce improvvisa gli graffiò le iridi. L’aria
si riempì di bagliori dorati e Jace si coprì il volto con le braccia, le
palpebre strizzate.
Tutto
a un tratto c’era troppa luce e faceva male, proprio come il raggio bollente di
un laser. Si rannicchiò a terra, i denti digrignati in una smorfia di dolore.
Una
voce gli riempì la testa, profonda e maestosa come lo sciabordare degli oceani
e il crepitio del fuoco al tempo stesso.
“Nephilim.”
Quella
parola gli rimbombò fin dentro alla cassa toracica, riscuotendolo con la stessa
intensità di un’onda sismica. Era come se tutto il suo corpo stesse vibrando,
come se qualcuno gli avesse infilato un impianto stereo sotto pelle.
Jace
si costrinse a socchiudere gli occhi; la luce dorata aveva assunto le sembianze
di qualcosa, qualcosa di talmente imponente da
sovrastarlo per decine di metri.
Le
sue iridi, ancora frastornate, arraffarono qualche dettaglio qua e là: un
turbinare di piume dorate, occhi grandi e inumani e rune che sembravano avere
vita propria, disegnate sulla pelle della creatura che gli occupava la visuale.
“Nephilim!”
La
voce lo invocò di nuovo, magnetica e terrificante al tempo stesso.
Un
sorriso accarezzò le labbra di Jace.
“Salute
anche a te…” esclamò, mettendosi in ginocchio.
I
suoi occhi, che stavano incominciando ad abituarsi alla luce, si aprirono di
scatto: oro e azzurro si accesero, foderati da un luccichio di trionfo.
“…
Angelo Raziel.”
«Non mi interessa. Lui
per me lo farebbe, non puoi negarlo. Se io scomparissi…»
«Brucerebbe il mondo
intero fino a tirarti fuori dalle cenere, lo so.»
Clary Fairchild & Alec Lightwood – Città
delle Anime Perdute.Cassandra Clare
Note Finali.
Buongiorno
e buona domenica!
Con
estrema lentezza, come sempre, arrivo finalmente con il nuovo capitolo! Con “Whither
thou goest” si conclude, in un certo senso, la prima parte di storia. Jace
sembra essere finalmente molto vicino ad Alec, ma per raggiungerlo ha pestato
un bel po’ di piedi angelici. E, soprattutto, quelli di un angelo particolare,
che di certo non si contraddistingue per bonarietà e gentilezza! Nel prossimo
capitolo vedremo quali saranno le ripercussioni del suo gesto e faremo la
conoscenza con un paio di personaggi spesso citati da Cassandra Clare, ma che
non abbiamo mai incontrato nei suoi libri.
Tornando
a questo capitolo, anche qui ritroviamo un polpettone di citazioni e
riferimenti alla storia di Mark e Kieran: ci tenevo a coltivare il parallelismo
che avevo costruito nel capitolo scorso, con Jace che va a sostituire il ruolo
di Mark. Ovviamente il rapporto che va a crearsi fra Jace e Kieran non ha nulla
a che vedere con il Kierark, ma mi piaceva l’idea che fosse proprio
Kieran ad aiutare Jace: mi sembrava il più adatto e, inoltre, mi sono divertita
molto a scrivere il loro dialogo. Le fate hanno idee molto diverse rispetto ai
Nephilim su concetti come l’amore, la famiglia o la morte e mi piaceva l’idea di
un confronto. Kieran fatica a mettere a fuoco il concetto di parabatai
proprio per via di questa diversità, ma ne coglie l’importanza e decide dunque di
aiutare Jace.
Con
il loro dialogo si chiude anche la parte di storia dedicata alla Caccia
Selvaggia: dal prossimo capitolo in poi migriamo anche noi nei Regni Celesti!
Colgo l’occasione per
ringraziare le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, significa
davvero moltissimo per me! Spero di riuscire a postare presto il prossimo
capitolo, che è già pronto da mesi e sta lì a prender polvere!
A presto!
[1] Citazione tratta da “Lady Midnight”: lo
stesso Kieran, in un passaggio del libro, rivolge queste parole a Mark
Blackthorne.
[2][2] La descrizione che Kieran fa della terra
sotto la collina è un rimando a ciò che dice Mark Blackthorne a Simon Lewis nel
settimo volume delle Cronache dell’Accademia Shadowhunters.
[3] Riferimento alle spiegazione sui
parabatai che Jace rivolge a Clary nell’episodio 1x3.
[4] Riferimento a una frase che pronuncia Mark
Blackthorn in Lady Midnight: mi piace immaginare che il commento che fa Mark
sull’amore possa essere nato da qualche riflessione condivisa con Kieran. Così,
ho deciso di riprenderlo anche qui.
[5]
Riferimento a una frase che Mark rivolge a Simon nel settimo volume delle
Cronache dell’Accademia Shadowhunters: “Fortunati
coloro che conoscono il nome del proprio cuore. Sono coloro il cui cuore non si
perde mai veramente. Possono sempre richiamarlo e farlo tornare a casa”.
«E con la grandine l'Angelo sorse dalle acque del lago.
Questo era un Angelo nel pieno della sua gloria. Quando sorse dalle acque, i
suoi occhi iniziarono ad ardere. E fu come guardare nel sole.»
Clary
Fray – Città di Vetro. Cassandra Clare
Jace fece un
passo avanti per rimirare l’angelo. I suoi occhi si stavano abituando alla
luce, ma c’era talmente tanto da vedere che si sentiva sopraffatto. Tuttavia,
non riusciva a distogliere lo sguardo.
Raziel aveva
i piedi scalzi e il torace nudo – la pelle nivea puntellata di rune che si muovevano
come fiamme. Le sue ali erano ricoperte di piume dorate e ognuna di esse era
decorata da un occhio aperto. Non portava vestiti, né armi o gioielli, ma la
sua figura emanava una maestosità che incantava e inorridiva al tempo stesso.
Quando
parlò, Jace sentì il suo fiato turbinargli contro come un vento caldo:
profumava di spezie, di legna e di qualcos’altro che non riuscì a riconoscere.
“Jonathan Herondale.”
Il suo nome
risuonò nella luce come un canto e un grido uniti insieme.
“Come osi
superare i confini dei viventi, quando io stesso ti avevo graziato dalla morte?
Come può un semplice Shadowhunter violare i Cancelli Celesti?”
Questa
volta, oltre alla rabbia, nelle sue parole risuonò una punta di stupore.
Jace si
coprì il viso per ripararsi dalla violenza del suo alito. Solo in quel momento
si accorse di aver perso tutte le rune: la sua pelle era nuda e immacolata come
quella di un bambino. Varcare i cancelli della morte l’aveva reso un Mondano
come un altro.
“Mi sono
unito alla Caccia Selvaggia” rivelò, indicandosi il volto; si chiese se i suoi
occhi riflettessero ancora la frattura della sua anima. “Ho cavalcato con loro fino
ai confini di Annwn: il fuoco celeste mi ha permesso di oltrepassare le terre
del Santuario.”
“La runa che
hai tracciato…” riprese Raziel, spiegando le ali. Un marchio sul suo torace brillò
con maggiore intensità, attirando a sé tutte le altre rune: i simboli si
unirono a formare la chiave alata che Jace aveva tracciato sui cancelli. “…Non
è contenuta nel libro Grigio. Possono adoperarla solo gli angeli.”
“Clary
Fairchild ha il potere di creare nuove rune” rispose Jace, serrando i pugni: sentiva
la pressione dell’anello degli Herondale contro la pelle e quel contatto gli
infondeva sicurezza. “Ma non sapeva a cosa servisse quella” aggiunse, indicando
il marchio sul petto dell’angelo. “L’ha disegnata per me senza conoscerne il
significato. Se devi punire qualcuno, quel qualcuno sono io.”
“Punirti?”
Lo sguardo di
Raziel era freddo come il marmo.
“Quello che
hai fatto meriterebbe ben altro, Shadowhunter – la dannazione dell’anima. Molti
Nephilim mi hanno evocato nel tuo mondo e gran parte di essi hanno pagato con
la vita. Il tuo compagno Diurno si è salvato solo grazie al marchio di Caino,
ma tu… Tu sei andato ben oltre le loro sciocche presunzioni. Nessun vivente ha
mai tentato di raggiungermi nei Regni Celesti, prima d’ora. Nessuno mi aveva
mai oltraggiato a tal punto.”
“Domando
scusa se le mie azioni ti hanno insultato” rispose Jace, sforzandosi di frenare
l’impulso a essere caustico. “A quanto pare lo fanno spesso. Puoi… Dannare la
mia anima, se questo può farti sentire meglio – dalla in pasto a Cerbero, facci
quello che vuoi – ma prima devo chiederti una cosa. Non sono qui per me, ma per
il mio parabatai.”
Il volto
austero dell’angelo rimase impassibile.
“So cosa
cerchi” replicò Raziel. “E non ho motivo di accontentarti. Gli angeli non
intervengono nelle questioni dei Nephilim: noi siamo il Cielo e al Cielo
rispondiamo.”
“Ma avevi
ragione” insistette Jace, azzardando un passo avanti. “Mi hai graziato dalla
morte: sei intervenuto per salvarmi ed io ho svilito il tuo gesto tradendo il
mio parabatai. Ho voltato le spalle ad Alec” il suo intero corpo s’irrigidì
mentre parlava, come se confessare le sue colpe al cospetto di Raziel gli
stesse provocando del dolore fisico. “Sono qui per chiedere uno scambio” rivelò
infine, tremando. “Conosco la legge che regola l’assetto delle Dimensioni
Celesti – il Principio dello Scambio Equivalente. Per ogni anima strappata alla
morte, un’altra va sacrificata” recitò, citando le parole di James Carstairs. La
paura gli strisciava addosso come le rune sulla pelle dell’Angelo, ma il
ragazzo la ricacciò indietro. “Voglio offrire la mia anima in cambio di quella
di Alec Lightwood.”
Raziel
rimase in silenzio per qualche istante; gli occhi incastonati nelle sue ali erano
fissi su Jace.
Quando
l’angelo tornò a parlare, la sua voce aveva perso ogni sfumatura umana: le
parole che pronunciò erano musica e cuori che battevano al tempo stesso e non
sembravano più provenire da Raziel. Echeggiavano dall’alto, oltre il nulla che
si estendeva incorporeo sopra d loro.
“Ed
avvenne che, quando Davide ebbe finito di parlare a Saul, l'anima di Gionata
si legò all'anima di Davide, e Gionata l'amò come se stesso.”
Jace annuì,
un’improvvisa punta di conforto a scoraggiare la tensione che avvertiva:
conosceva quei versi della Bibbia. Tutti i parabatai avevano letto la
storia di Davide e Gionata.
“Quindi, Gionata fece un
patto con Davide, perché lo amava come se stesso” pronunciò, rinnovando
la decisione nel suo sguardo.
L’espressione di Raziel
mutò per qualche istante; a Jace parve perfino di vederlo sorridere.
“La morte è caparbia,
Jonathan Herondale” pronunciò, avviluppando le ali intorno al proprio corpo. “E
lo sei anche tu: ti aveva trovato e perduto, ma adesso sei tu a rincorrerla.”
“Qualsiasi cosa per
Alec” ribatté sfrontato Jace.
Raziel scosse la testa.
“Non interverrò”
dichiarò. C’era qualcosa di risolutivo nelle sue parole, come se con quella
frase la loro conversazione dovesse ritenersi conclusa. “L’ho detto al tuo
amico Diurno, una volta, e adesso lo ripeterò a te: la misericordia del Paradiso è per chi se la merita. Non per chi infrange
le nostre Leggi dell’Alleanza.”
Jace sentì del dolore
nuovo bruciargli addosso – qualcosa che non aveva nulla a che vedere con le sue
ferite.
“E allora continuerò ad
insistere” ribatté, sostenendo lo sguardo rabbioso dell’Angelo. “La mia anima è
vincolata a un rituale creato dai tuoi primi Nephilim. Li hai aiutati tu a
farlo, e se sono qui è perché non posso venir meno al vostro giuramento.”[1]
La luce in cui era
avvolto Raziel si fece ad un tratto tagliente, dolorosa.
“Bugiardo” tuonò
l’angelo, sollevando una mano verso di lui. La sua voce esplose con violenza
dentro la testa di Jace, facendolo cadere in avanti. “Il giuramento parabatai
non impone obblighi dopo la morte. Con che coraggio accusi le nostre Leggi per
le tue azioni sconsiderate?”
“Ma li impone prima!”
Jace si premette le mani
contro le tempie, digrignando i denti per il dolore: le parole di Raziel
continuavano a esplodergli in testa, facendogli male.
“L’Angelo faccia a me
questo e anche di peggio se altra cosa che la morte mi separerà da te” recitò,
lottando per sostenere il suo sguardo nonostante la luce accecante. “La volontà
di Sebastian si è intromessa fra me e Alec: ho combattuto contro di lui invece
che al suo fianco ed è stato questo a ucciderlo. Lasciarmi rimediare...”
insistette, alzandosi in piedi a fatica. “… Lasciami prendere il suo posto.”
La rabbia nel volto di
Raziel era talmente intensa da sembrare viva. Fiamme dorate gli avvolsero una
mano – quella tesa verso Jace.
Una voce li raggiunse
dal basso, mescolandosi al crepitio del fuoco. Era un sussurro leggero: un
tintinnio di campanelli nel vento. La ninnananna mormorata a un bambino
addormentato.
Davide giurò
ancora e disse: “Ma com'è vero che Yahweh vive e che vive l'anima tua, fra me e
la morte c'è soltanto un passo” pronunciò, insinuandosi nella testa di
Jace.
La voce
sconosciuta sciolse il dolore provocatogli dalle urla di Raziel. Una luce
fioca, ma tiepida, lo avvolse come un abbraccio; Raziel lo fissava turbato, gli
occhi inumani spalancati per l’incredulità.
Allora
Gionata disse a Davide, proseguì il sussurro docile nella sua testa, «Qualunque
cosa tu desideri, per te io la farò[2].»
L’abbraccio
di luce prosciugò ogni traccia di sconforto o di paura dalla mente di Jace. Percepiva
una presenza intorno a lui, qualcuno di distante, ma familiare in una maniera
che non riusciva a spiegarsi.
Fu Raziel a
sciogliere i suoi dubbi.
“Ithuriel”
pronunciò con voce insolitamente docile: le urla svanirono dal suono delle
sue parole.
Jace
aggrottò le sopracciglia, guardandosi le mani inondate di luce: era di Ithuriel
l’abbraccio che avvertiva?
Raziel.
Il sussurro
dell’Angelo sfiorò i pensieri di entrambi con la morbidezza di una piuma.
Fratello
mio.
Qualcosa di
simile alla commozione sembrò contrarre i lineamenti angelici di Raziel: tutto
a un tratto sembrò più umano, meno maestoso e ultraterreno.
Un fiotto
improvviso di dolore attraversò Jace come un raggio; il ragazzo impiegò qualche
istante per accorgersi che non era suo il sentimento che avvertiva. Doveva
essere Ithuriel che, avvolgendolo in quell’abbraccio protettivo, gli stava trasmettendo
la sua sofferenza: l’angelo era addolorato per Raziel, che non poteva vederlo,
né avvertire il calore della sua luce.
“Pensavo che
Ithuriel fosse morto” mormorò, ricordando il momento in cui lui e Clary
l’avevano trovato, incatenato e sofferente, nella tenuta dei Wayland. “Ero lì
quando è successo.”
Lo sguardo
di Raziel tornò a posarsi sul ragazzo: Jace si sforzò di sostenerlo, nonostante
i suoi occhi bruciassero per la troppa luce.
“Tu hai
liberato mio fratello da una condanna ben peggiore della morte” disse. Gli
occhi sulle sue ali sfavillavano come pietre preziose. “Ne sono consapevole.
Ithuriel te ne è grato ed è per questo che l’eco del suo spirito si sta manifestando.”
Gli Angeli,
come i Demoni, non possono morire del tutto, sussurrò la voce di Ithuriel
nella sua testa, diventiamo soltanto qualcos’altro.Luci e ombre
senza più pesi da sostenere, né un corpo, che osservano in silenzio.Tu
e Clarissa mi avete fatto dono di questo, Jonathan: adesso sono libero e in
pace. La mia unica sofferenza è il pensiero di non potermi ricongiungere ai
miei fratelli. Per questo ho mandato quella Runa in sogno a Clarissa.
Raziel chinò
la schiena per avvicinarsi al baluginio che circondava Jace.
“Sei stato
tu a condurre qui il ragazzo” realizzò, visibilmente sorpreso.
Il suo cuore
l’ha condotto qui, rispose Ithuriel, Io gli ho solo fornito la chiave per
liberarsi: anche lui era schiavo di prigionia e tormenti.
Ci fu una
pausa: l’abbraccio di luce si stava infiacchendo, come se Ithuriel faticasse a
mantenerlo.
Jonathan può
riportarmi indietro, sussurrò infine l’angelo.
La figura di
Raziel sembrò rifulgere di una luce nuova.
“Come?”
gridò, spalancando le ali.
Raffiche di
vento caldo turbinarono addosso a Jace, che si affrettò a ripararsi con le
braccia. L’unica cosa che gli impediva di venire sbattuto a terra era
l’abbraccio di Ithuriel.
Ancora una
volta il silenzio si insinuò fra loro, intervallato solo dal crepitio delle
rune di Raziel. Quando Ithuriel tornò a parlare, la sua voce era diventata
ancora più sottile.
La mia
prigione, un tempo, era il luogo che chiamava casa: entrambi vi abbiamo
coltivato per anni dolore e solitudine. Ma allora ero ancora in forze.
La luce,
così come la stretta rassicurante che circondava Jace, si fecero intermittenti.
Sparirono per quella che parve una sequenza interminabile di secondi, prima di
tornare un’ultima volta.
Se Jonathan
mi liberasse durante gli anni che abbiamo condiviso…
Un bisbiglio
sottile – un trillo lieve e solitario – vibrò per un istante nell’aria.
… Potrei
tornare a casa.
Il tocco
docile e materno di una carezza si posò su una guancia di Jace, accompagnato
dall’ultimo filo di luce.
A quel
punto, anche quel poco che era rimasto di Ithuriel svanì.
Jace perse
l’equilibrio e rovinò in avanti, privato della forza invisibile che l’aveva
sostenuto fino a quel momento.
Si sentiva
frastornato e gli occhi gli bruciavano, ma era anche stranamente fiducioso: era
come se parte della luce di Ithuriel gli fosse scivolata sottopelle, come se
quell’ultima carezza gli avesse infuso addosso la fede incrollabile degli
angeli.
Non aveva
idea di cosa significassero le ultime parole di Ithuriel, ma era certo che, in
un modo o nell’altro, l’avrebbero condotto da Alec.
“Lo faresti,
Shadowhunter?”
La voce di
Raziel – potente e risoluta, in confronto al sussurro musicale del fratello –
lo spinse ad alzarsi nuovamente in piedi.
“Riconsegneresti
mio fratello Ithuriel ai Regni Celesti se ti offrissi gli strumenti per farlo?”
Jace
sorrise.
“E tu
lasceresti andare il mio?”
Raziel
sembrò riflettere per qualche istante.
“Acconsentirò
a scambiare le vostre anime, se è davvero questo ciò che vuoi” promise infine,
facendo frusciare le ali.
Jace annuì.
“È quello
che voglio.”
Raziel
sorrise: Jace provò dolore nel guardarlo, come se stesse puntando gli occhi contro
il sole.
“Sei
coraggioso, Jonathan Herondale” osservò l’angelo. “Tutti gli Shadowhunter lo
sono, ma in te c’è qualcosa di diverso: riesco a percepire il fuoco celeste e
la benedizione di Ithuriel nel tuo sangue. Forse è per questo che le tue
emozioni sono così intense.”
“Ho perso
due fratelli nel giro di pochi mesi” rispose Jace, scrutandolo perplesso. “E
fino a poco tempo fa ero lo schiavetto personale del pazzo che li ha uccisi
entrambi: certo che le mie emozioni sono intense. Dovresti capirlo meglio di
chiunque altro, visto quello che stai facendo per Ithuriel.”
Lo sguardo
di Raziel tornò a farsi collerico.
“Non esiste
confronto tra i sentimenti di un umano e quelli di un angelo” tuonò, puntando
l’indice contro di lui. “Gli angeli si amano l’un l’altro di un amore inconcepibile
ai viventi. È una forza in grado di rovesciare i cieli e di mandare a fuoco le
acque.”
Ancora una
volta, Jace si sorprese a sorridere.
“L’ amor
che move il sole e l’altre stelle” mormorò fra sé.
Non a caso,
si disse, Dante aveva scelto quelle parole per chiudere l’ultimo canto del
Paradiso: aveva cercato di descrivere l’armonia universale di Dio. E parte di
quell’armonia, di quella forza indomabile, sembrava risiedere nell’amore dei
suoi angeli.
Raziel sembrò
apprezzare le sue parole – o forse poteva leggergli nella mente – , poiché la
rabbia nel suo volto sembrò sfumare.
“Ora va’, Nephilim”
concluse, tornando a flettere le ali: una nuova corrente d’aria calda s’insinuò
fra loro, ma questa volta Jace non si sentì spazzare via. “Per raggiungere Ithuriel
avrai bisogno di una breccia spazio-temporale. Nei Regni Celesti abbiamo
portali che permettono di muoversi nello spazio e nel tempo: trova Ithuriel
nella casa del tuo passato e liberalo prima che la prigionia lo consumi.”
Jace tornò a
sentirsi frastornato.
“Queste
brecce…” domandò, sforzandosi di tenere gli occhi aperti: la luce dell’angelo
si stava facendo più intensa. “… Che cosa sono, esattamente?”
Quando
Raziel rispose, la sua voce suonò bassa e distante, come un segnale radio
disturbato: Jace riuscì a cogliere solo parte della sua frase.
“…
Dimensioni parallele” concluse l’angelo, sbattendo con violenza le ali. La sua
figura si offuscò, mentre i suoi piedi si staccarono da terra.
“Aspetta!”
esclamò Jace, camminandogli incontro. “Come faccio a trovare un portale?”
Un lampo di
luce squarciò l’aria.
Finalmente
Jace cedette all’impulso di serrare le palpebre e, quando riaprì gli occhi,
l’immagine di Raziel gli apparve appena distinguibile in mezzo a volute di
fiamme e a piume in movimento.
La sua voce
gli risuonò nella testa dopo qualche istante, più attutita.
Sto per
condurti da due dei miei angeli.
Gli occhi
sulle ali di Raziel sbatterono le palpebre all’unisono: il crepitio delle
fiamme aumentò d’intensità.
Saranno loro
ad accompagnarti.
Jace avvertì
qualcosa di morbido e leggero – come una piuma – che gli accarezzava la pelle e
poi più nulla.
I suoi occhi
smisero di vedere e il suo corpo svanì, inghiottito dal buio.
Note Finali.
Buondì e buona Domenica!
Dopo mesi di ritardo mi sono finalmente decisa a recuperare un po’ di tempo per
revisionare questo capitolo! Chiedo scusa se sono sparita per così a lungo, ma
il tempo scarseggia e il blocco dello scrittore è una brutta bestia. Sono mesi
che ho il penultimo capitolo di questa storia abbandonato a metà e non sono
ancora riuscita a riprenderlo. Spero che tornando a pubblicare riesca a trovare
l’ispirazione per concluderlo!
In questo capitolo Jace raggiunge
finalmente il suo obiettivo: riesce a patteggiare con qualcuno per riportare indietro
Alec, e quel qualcuno non è altro che il burbero e potente Raziel. Non penso
che l’avrebbe passata liscia se non ci fosse stato Ithuriel, ma per fortuna
l’angelo è intervenuto a rabbonire il “fratello”. Così, Jace ha stretto un
patto per scambiare la propria anima con quella di Alec, e per farlo dovrà
trovare il modo di salvare Ithuriel prima che le sue condizioni diventano
irreversibili. Nel prossimo capitolo scopriremo chi sono i due angeli che
accompagneranno Jace lungo la sua missione e non vedo l’ora di farveli
conoscere!
Con questo capitolo siamo
ufficialmente entrati nel vivo della storia, e ci stiamo avvicinano sempre più
alla risoluzione del viaggio di Jace.
Grazie mille alle persone che hanno
recensito lo scorso capitolo. È passato molto tempo, quindi spero che non
abbiate abbandonato la storia! Prometto che farò del mio meglio per finirla il
prima possibile (mi mancano solo due capitoli) e mal che vada ho i prossimi 5 già
pronti da pubblicare!
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1] Non che Jace senta realmente i vincoli
dell’essere un parabatai come un peso: sta cercando di far peso sulle regole
imposte dallo stesso Raziel per convincerlo a collaborare.
[2] I passaggi su David e Jonathan sono
tratti dalla Bibbia (Samuele)
«La tradizione dei
Parabatai risale alle origini degli Shadowhunters; i primi Parabatai furono lo
stesso Jonathan e il suo compagno David.»
Il
Codice.Cassandra Clare & Joshua Lewis
Un suono
ritmico, di mani che si destreggiano su una trave, scaraventò Jace nuovamente nella
realtà.
Il ragazzo si
portò le mani alla testa, le tempie che gli pulsavano: impiegò un po’ a
riprendersi dall’acquazzone di luci che gli avevano tormentato gli occhi
durante il colloquio con Raziel.
Si trovava
in una stanza ampia, dal cui soffitto pendeva un’intelaiatura di travi in
legno. Jace la riconobbe subito: era una delle sale di addestramento
dell’Istituto. La palestra in cui lui, Alec e Izzy si esercitavano da piccoli,
sotto lo sguardo vigile di Hodge.
La stanza
era vuota, fatta eccezione per due ragazzi in apparenza poco più grandi di lui.
Il primo si stava allenando con le travi, mentre il secondo sembrava totalmente
assorto nella lettura del Codice. Non li conosceva, ma dovette ammettere che
nell’ultimo periodo si era fatto vedere ben poco all’Istituto. Che Raziel l’avesse
riportato a New York? Eppure, prima di sparire, l’angelo aveva parlato di
Idris e della Tenuta dei Wayland.
Il ragazzo
sulle travi si lasciò cadere a terra con una capriola. Atterrò in ginocchio,
poco distante da Jace, che ne approfittò per esaminarlo meglio: aveva la
carnagione olivastra, l’aria concentrata e ciocche di capelli neri che gli
ricadevano disordinate sugli occhi. Furono proprio le sue iridi a destare i
primi sospetti in Jace: assomigliavano a quelle degli angeli – dorate e
cangianti – del tutto prive di pupilla.
“Tu sei un…”
incominciò.
Lo
sconosciuto incrociò il suo sguardo per un istante, prima di voltarsi verso il
ragazzo che stava leggendo.
“N-Non mi
piace questa nuova edizione” stava commentando l’altro, sfogliando il Codice.
Era insolitamente mingherlino per essere uno Shadowhunter, ma la sua pelle era
cosparsa di rune. Aveva lo sguardo da ragazzino come Alec, le lentiggini di
Clary e una matassa di arruffati capelli color sabbia. Anche lui, osservò Jace
avvicinandosi, aveva gli occhi dorati, sormontati dalle ciglia più lunghe che
avesse mai visto in un maschio.
“È piena di
imprecisioni: ormai non è rimasto quasi nulla di quello che ci ho scritto
dentro io.”
Le sue
parole suscitarono ulteriormente la curiosità di Jace: quel ragazzo aveva collaborato
alla stesura del Codice? Doveva essere più vecchio di Magnus.Non
che fosse mai riuscito a capire quanti anni avesse Magnus.
“Scusate…”
tentò di attirare la loro attenzione, rivolgendosi a quello con i capelli
scuri. “… Potreste dirmi dove siamo? Ho l’impressione di trovarmi all’Istituto
di New York, ma mi sembra improbabile.”
Ancora una
volta, il giovane sembrò ignorarlo.
“Alla gente
piace dare ritocchini alle cose, Dave. Modernizzano sempre tutto”
commentò, sfogliando il libro dell’amico. Jace si chiese se i due ragazzi
potessero vederlo. “E anche gli angeli, a quanto pare: guarda Raziel. Un solo
Jonathan non gli bastava più, ha deciso di portarne qui un altro.”
“Ehi! Stai
parlando di me?” intervenne ancora Jace.
Finalmente,
lo sguardo dello sconosciuto tornò a posarsi su di lui: gli occhi dorati
abbagliarono Jace, mentre incassava un’occhiata che di angelico non aveva
proprio nulla.
“Sto
parlando di te, ma non con te” replicò il ragazzo, rivolgendogli un sorriso
obliquo. “In realtà mi stavo divertendo a ignorarti.”
Suonava
seccato e arrogante, una combinazione che Jace apprezzava soltanto quando era
rivolta a se stesso.
“Non mi
capita spesso di venire ignorato.”
Il ghigno
del giovane si fece più marcato.
“Posso capirlo”
ribatté, inclinando appena il capo verso destra. “Quell’eterocromia salta
all’occhio… Scusa il gioco di parole. Ad ogni modo non ti dona per niente.”
“Ma se sono
bello come il sole!” replicò Jace, inarcando un sopracciglio.
“Ti prego di
s-scusare Jonathan” intervenne il ragazzo lentigginoso, sorridendo
conciliatore. “Non capitano spesso distrazioni da queste parti… V-voleva solo
divertirsi un po’. Io sono David, comunque.”
Gli tese la
mano e, mentre allungava il braccio, Jace notò la sua runa parabatai,
poco sotto il gomito. Aveva altri marchi, ma non provenivano dal libro grigio:
erano dorati e si muovevano, proprio come quelli di Raziel.
Anche
Jonathan li aveva – Jace si stupì di non averli notati prima. L’osservò mentre
si infilava la maglietta e individuò la sua runa parabatai – l’unico
marchio immobile in mezzo a tutti quei baluginii dorati – sul fianco sinistro.
“David e
Jonathan” pronunciò, stringendo la mano di David. “Quei David e
Jonathan? I primi Nephilim?”
“E tu sei il famoso altro Jonathan”
ribatté il suo omonimo, improvvisando un inchino beffardo. “Da queste parti si
è parlato spesso di te: il bambino Nephilim protetto dal sangue di Ithuriel …
Lo Shadowhunter con il fuoco celeste, il pazzo che è stato graziato dalla morte
e ha deciso di tornare a farle visita, blablabla…”
“Jonathan Shadowhunter che fa il
riassunto della mia vita…” commentò Jace, scuotendo divertito la testa. “…
Potrei farmela addosso dall’emozione.”
“Non ho mai capito il perché di quel
cognome” rivelò Jonathan, indirizzando un’occhiata perplessa a David: l’amico
si limitò a fare spallucce. “È un tantino ridondante. Raziel me ne diede uno
diverso, ma a quanto pare si è perso tra le varie traduzioni.”
“Raziel vi ha resi degli angeli?” lo
interruppe Jace, voltandosi verso David.
Il giovane annuì.
“Angeli custodi” specificò,
sfiorandosi la runa sotto il gomito. C’era qualcosa, in lui, che lo faceva
pensare a Jem Carstairs. La sua aria da bravo ragazzo e i toni pacati gli
ispiravano fiducia.
“Abbiamo il compito di proteggere
quelli come te” proseguì Jonathan, indicandolo con un cenno del capo.
Jace sorrise sghembo.
“I bei ragazzi?”
“I
parabatai” specificò Jonathan, guardandolo in tralice. “Raziel ci ha detto
che hai appiccato fuoco ai Cancelli Celesti per venire a riprenderti il tuo: è
la prima volta che mi capita di sentire una cosa simile.”
“Alec
è qui?” domandò Jace, speranzoso: avrebbe avuto senso. “Questo posto sembra
l’Istituto di New York.”
“New York, Hong Kong…”,
Jonathan si strinse nelle spalle, “… Qualcuno una volta mi ha parlato di una
certa Narnia: mai capito. Il punto è che l’aspetto di questo Istituto si trova
nell’occhio di chi guarda. Chiunque ci vede casa sua, ma in realtà siamo nei
Regni Celesti.”
“E
come mai Raziel mi ha portato qui?” incalzò Jace. Solo in quel momento si
accorse che David stava lasciando la stanza: forse non era più un Fratello
Silente, ma si muoveva ancora senza produrre il minimo suono.
“Non
puoi andartene a spasso tra le brecce spazio-temporali senza un’arma” rispose
Jonathan, inseguendo David con lo sguardo. “E le armi di un angelo – come
quelle degli Shadowhunters – si trovano principalmente in due posti: luoghi
consacrati e Istituti. David sta andando a prendere delle spade.”
“Balbetta
parecchio, vero?” domandò Jace, più per fare conversazione non che per un vero
e proprio interesse. “Adesso capisco tutta questa voglia di diventare un
Fratello Silente.”
Lo
sguardo di Jonathan si fece furente.
“Ti
stai prendendo gioco del mio parabatai?” sibilò, afferrandolo per la
maglietta. Scintille ardenti gli strisciarono intorno alle dita e Jace gemette
per il dolore.
“Io
non… Non è così…” si affretto a rispondere, cercando di sfuggire a quella presa
rovente.
Quando
finalmente Jonathan si convinse a lasciarlo andare, Jace scottava come se fosse
stato per ore sotto il sole.
“Per
l’Angelo…” mormorò, massaggiandosi la pelle sotto il colletto. “… Ed io che
pensavo che fosse Alec quello iperprotettivo.”
Un
tempo pensava anche che Jonathan e David avessero infranto il loro legame parabatai:
dopotutto, era quello che accadeva quando uno dei due diventava Fratello
Silente. Ma in fondo anche James Carstairs e William Herondale avevano subito
lo stesso trattamento e, a giudicare da come Jem parlava di Will, non si erano
mai divisi del tutto.
“Quando
il legame di due parabatai è talmente forte da contrastare qualsiasi
distacco, la morte li riunisce” spiegò all’improvviso Jonathan, fissandolo con
intensità. “Sì, posso sentire i tuoi pensieri” aggiunse, sorridendo beffardo in
risposta al suo sguardo sorpreso. “Quando David mi ha raggiunto nei Regni
Celesti, Raziel ha ricongiunto le nostre anime e ci ha resi Angeli Custodi. Ci
prendiamo cura delle anime parabatai – le aiutiamo a migrare verso le
dimensioni celesti superiori. È la sorte che toccherebbe anche al tuo Alec, se
solo fosse libero di andare avanti.”
“Che
significa?” lo interrogò Jace, d’un tratto allarmato. “Dov’è Alec?”
Jonathan
si strinse nelle spalle.
“Là
fuori da qualche parte, nella Dimensione Celeste più esterna, probabilmente”
spiegò, indicando una delle finestre con un cenno del capo. “Non può andare
avanti, perché ci sei tu che lo vincoli alla vita: lo stai trattenendo.”
Jace
ripensò alla notte precedente, al suolo freddo e innevato della terra sopra la
collina. Era stato allora che aveva sentito per la prima volta la voce di Alec.
Suo fratello era stato a un soffio di distanza da lui, intrappolato entro
confini di Annwn.
“Presto
sarà libero” dichiarò sfrontato, quasi volesse sfidare Jonathan a dire il
contrario. “Potrà tornare da Izzy… E da Magnus.”
L’aria
schiva dell’angelo custode sembrò sfumare per un istante, sostituita da uno
sguardo più indulgente.
“Questa
è la tua scelta” replicò infine. “Ma quale sarà la sua?”
Jace
fece per ribattere, ma venne interrotto dalla voce di David.
“Ci
siamo!” esclamò l’angelo, facendo loro segno di seguirlo.
Si
spostarono nella Sala delle Armi – una copia perfetta di quella dell’Istituto
di New York.
Lo
sguardo di Jace venne subito attratto dal portale più insolito che avesse mai
visto: occupava gran parte della parete di fronte a lui e l’intelaiatura dorata
– intarsiata da rune angeliche – incorniciava un tripudio di luci rosse.
“È
con quello che libererò Ithuriel?” chiese, rivolgendosi a David.
L’angelo
annuì.
“Dovemo
andare a ritroso di parecchi anni per fare in modo che Ithuriel sia ancora
sufficientemente in forze” spiegò, dirigendosi verso un tavolo pieno di lame
angeliche. “Una decina dovrebbero andar bene.”
“Come
funziona?”
“P-pi-più
o meno come i vostri portali. È necessario avere un’immagine mentale del luogo
che si vuole raggiungere. Anche il periodo è importante: s-sarebbe impossibile
trasportarti nella Idris dell’Ottocento, per esempio, perché non hai vissuto in
quell’epoca.”
“Ed
è un peccato: Ithuriel se la passava decisamente meglio, allora” intervenne
Jonathan.
David
non sembrava convinto.
“S-sei
sicuro? Era prigioniero di una c-collanina…”
“Angeli…”
replicò Jonathan, alzando gli occhi al cielo. “…Passano sempre le pene
dell’inferno.”
“Quindi
per attraversare il portale mi basterà pensare alla tenuta dei Wayland?” li
interruppe Jace.
“Non
esattamente” replicò David. “Dovrai ricordare la tenuta della tua infanzia, nel
modo in c-cui la percepivi da bambino. Più intenso è il ricordo e pi-più p-precisa
sarà la localizzazione.”
Jace
annuì; pagine stropicciate della sua infanzia si spiegarono di fronte ai suoi
occhi, evocando il fantasma di un bambino pallido e magro – un bambino
piuttosto solo.
“Le
persone del passato potranno vedermi?” chiese, spostando la sua attenzione
verso le spade angeliche.
“Sì,
fatta esclusione per l’altro te stesso. Io e David cercheremo di tenere alla
larga gli scocciatori, tu pensa solo a liberare Ithuriel.”
“Quindi
verrete anche voi?”
“Qualcuno
dovrà pur tenere a bada i demoni viaggiatori, mentre tu giochi a fare il super-eroe”
spiegò Jonathan.
Jace
inarcò un sopracciglio.
“I
che?”
“Quando
è in funzione, il p-portale crea delle spaccature nell’arco spazio-temporale”
disse David. “Le cosiddette brecce: attraversandole, c-ci si può muovere da
un’epoca all’altra e da un posto all’altro. Ma q-qu-queste brecce
c-compromettono la linea temporale e i demoni viaggiatori sono il f-frutto di
questi squilibri.”
“Sono
demoni diversi da quelli che conosci tu” specificò Jonathan, incrociando le
braccia sul petto. “Possono apparire ovunque, perfino dentro ai territori
consacrati. Penetrano nelle brecce e attaccano chiunque si trovino davanti.”
“Quindi,
ogni volta che attraversate quel portale, nascono dei nuovi demoni?” riassunse
Jace.
David
annuì.
“Qu-qu-Questo
è uno dei motivi per cui viaggiare nel tempo è quasi sempre v-vietato.”
“Raziel
potrebbe finire nei guai per aver approvato questa missione” aggiunse Jonathan,
stringendosi nelle spalle. “Ma perfino gli angeli, a volte, chiudono un occhio
quando si tratta dei loro fratelli: l’amore, per un angelo, è la legge che
sovrasta tutte le altre.”
Jace
abbozzò un sorrisetto: stava incominciando a credere che gli angeli avessero
parecchio in comune con gli uomini.
Guardò
Jonathan, che stava saggiando due spade angeliche con sguardo critico.
“Prendi
questa” ordinò infine l’angelo, porgendogli quella più corta: aveva qualcosa di
diverso dalle spade a cui era abituato. Era fatta di adamas, ma era dorata e un
occhio aperto, simile a quelli sulle ali di Raziel, era stato scolpito al
centro dell’elsa. “Non è come quelle deiNephilim: puoi chiamarla come
un angelo o darle il nome di un defunto. Più forte sarà il legame con l’anima
che invocherai e meglio ti risponderà la spada.”
Jace
la rimirò affascinato, prima di riporla nella cintura. David gli consegnò anche
uno stilo e una pietra di stregaluce. Per la prima volta da quando
quell’assurdo viaggio era iniziato, Jace si sentì totalmente a suo agio: era
tornato a essere uno Shadowhunter.
“Il
piano è semplice” riprese Jonathan, lanciando una terza spada al parabatai.
David la prese al volo e se la fece roteare fra le mani per qualche istante,
prima di infilarla nel fodero. “Una volta attraversato il portale arriveranno i
demoni viaggiatori. David ed io ci occuperemo di loro e terremo a bada
Morgerstern, se necessario, mentre tu andrai a cercare Ithuriel. Lo liberi,
torni indietro e noi ti riportiamo a casa. Semplice, no?”
Jace annuì, avvicinandosi al portale; la nebbia
giallo-oro produceva un brusio sinistro – una via di mezzo fra lo scroscio di
un torrente in lontananza e il bisbiglio di più voci.
“Sono pronto” dichiarò, serrando la mano con
l’anello degli Herondale; il fuoco celeste si agitò inquieto dentro di lui,
comunicandogli impazienza.
David e Jonathan si posizionarono ai suoi lati.
“Adesso
ricorda” mormorò David, posandogli la mano destra sulla spalla. Quella sinistra
era appoggiata al cornicione del portale e la runa che aveva sul suo dorso stava
brillando a intermittenza. “Ricorda un pomeriggio qualunque di dieci anni fa e
i tuoi pensieri di allora. Ricorda la tua prima casa” proseguì, senza mai
inciampare nelle parole. “La tenuta dei Wayland.”
E
Jace ricordò.
Note finali.
Buongiorno a tutti.
Dovrei vergognarmi, visto che è quasi due mesi
che non aggiorno, ma purtroppo la battaglia contro il blocco continua
inesorabile. Il che è piuttosto stupido, se penso che questo capitolo è stato
scritto l’anno scorso, ma Efp – o il mondo della scrittura in generale – ed io
non andiamo più molto d’accordo e temporeggio in maniera imbarazzante. Se sono
tornata a pubblicare è soprattutto grazie alla pazienza di heartbreakerz, che
ha affrontato l’impresa titanica di leggersi tutta CoTS in pochi giorni,
tirandomi su il morale e ricordandomi come mai tenessi tanto a questa storia!
Perciò grazie, grazie davvero! E grazie anche a Lu Bche mi ha
lasciato un commento dolcissimo!
Con il prossimo capitolo Jace e i suoi due
angioletti custodi faranno un nel passato – letteralmente – e non solo loro! Ma
non anticipo altro. Non ho nemmeno la faccia tosta di sperare che qualcuno si
ricordi di questa storia, mi limito a incrociare tutte le dita che ho e a
stritolarmi Jace in un abbraccio perché nel prossimo capitolo avrà bisogno di
tutte le coccole possibili!