Recovery

di SherlokidAddicted
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Londra sa cosa ha rischiato di perdere ***
Capitolo 2: *** Un forte legame ***
Capitolo 3: *** Latte e zollette ***
Capitolo 4: *** Cocci di vetro ***
Capitolo 5: *** Il capitano John Watson ***
Capitolo 6: *** Quindi siamo pari ***
Capitolo 7: *** Qualcosa che distrae ***
Capitolo 8: *** Maledetta meravigliosa creatura ***
Capitolo 9: *** Il mio Nord ***
Capitolo 10: *** Deduci me ***
Capitolo 11: *** Non sono cambiato ***
Capitolo 12: *** Il gioco è cominciato ***
Capitolo 13: *** Solo un medico e un detective ***
Capitolo 14: *** Il caso è chiuso ***
Capitolo 15: *** La matriosca ***
Capitolo 16: *** La polaroid ***
Capitolo 17: *** Hiram Brown ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Londra sa cosa ha rischiato di perdere ***


Londra sa cos'ha rischiato di perdere




Piove. Le gocce di pioggia battono sui freddi vetri della finestra mentre la mia fronte vi è poggiata contro. Con la bocca semiaperta osservo il mio respiro appannare la superficie. Il rumore dell’acqua all’esterno riesce a cacciare via per un po’ i miei pensieri negativi.
Fa freddo, sento le dita delle mani congelarsi, nonostante io le tenga all’interno delle tasche dei jeans, oltre il camice sbottonato.
Va avanti da questa mattina. Non ha smesso di piovere nemmeno un secondo. Le nuvole hanno iniziato a coprire il cielo fin dalle prime luci dell’alba, sembrava quasi che sapesse che giornata orribile sarebbe stata oggi. Di solito adoro la pioggia, mi piace sedermi sulla poltrona davanti al camino, leggendo un buon libro mentre il suono dall’esterno distende i miei nervi e mi rilassa. Ma adesso tutto sembra così insopportabile che non riesco a reagire a nulla.
Le auto all’esterno vengono parcheggiate nei pochi posti rimasti vuoti. La gente scende di corsa, chiudendo lo sportello in fretta, poi corre e arriva sana e salva sotto la tettoia. La pioggia è troppo fitta per permettermi di vedere altro, ma tutto sembra essere deserto. Vuoto, come quello che provo.

Londra sa cosa ha rischiato di perdere, perciò tutto è grigio.

Non riesco a muovere un muscolo, tutto si è intorpidito nel mio corpo perché sono ore che non mi muovo di qui.
“Dottor Watson, perché non si accomoda in sala d’aspetto? Lì c’è una stufa!” Le infermiere hanno provato a smuovermi dal mio stato di trance, ma io non ho mosso un muscolo. Come avrei potuto affrontare tutti quegli occhi puntati addosso? Mi avrebbero guardando con pena, avrebbero sussurrato un “povero John, non immagino cosa stia provando in questo momento”, avrebbero di certo cercato di offrirmi un tè che secondo loro sarebbe servito per distogliere i miei pensieri dalla negatività e dal dolore, tè che inoltre proveniva dal distributore, rivoltante come sempre. Ma tutto ciò di cui ho davvero bisogno in questo momento non sono gli sguardi ed i favori compassionevoli. Ma la solitudine. L’unica cosa che mi avrebbe mantenuto calmo, nonostante il freddo penetrasse nelle mie ossa, facendomi tremare sul posto… ma non tremo solo di freddo.

Ho forse paura?

Il mio cellulare continua a vibrare nella mia tasca da più di dieci minuti. Ho intuito si trattasse di Sarah, arrabbiata per aver lasciato l’ambulatorio all’improvviso e nelle sue mani. Mi ricordo di aver fatto cadere lo stetoscopio sul pavimento, forse si è anche distrutto mentre raggiungeva il parquet chiaro del mio studio. Il paziente è rimasto a fissarmi con quello sguardo inebetito mentre mi precipitavo fuori dalla stanza. Sarah mi ha visto correre via e ho notato la furia nei suoi occhi mentre era intenta a gestire la confusione della fila in sala d’aspetto. Ma non c’era alcun medico. Io me n’ero andato, ero corso via, seguito dall’infermiere che era venuto ad avvertirmi.
Ho ancora il camice addosso, il cartellino appuntato sul petto e dal riflesso della finestra posso vedere gli occhi diventare lucidi, riempirsi di lacrime e inondare le mie guance. Il cellulare vibra ancora e per la rabbia lo afferro e lo lancio bruscamente contro il pavimento con un roco urlo di rabbia.

Perché la gente non capisce?

Perché non ha un minimo di umanità?

Perché è così egoista?

Devo aver urlato troppo forte, dato che ho visto Mycroft raggiungermi a passo svelto. Quell’urlo, però, è riuscito a tirare fuori tutte le mie emozioni, tutta la rabbia e la paura che fino a poco fa cercavo di trattenere. Sono scivolato seduto sul pavimento e ho cominciato a piangere nervosamente con la testa fra le mani, gemendo a voce alta e convulsamente.
- John! – Si è abbassato alla mia altezza e ha cercato con tutte le forze di tirarmi su. Non l’ho respinto, stranamente, ma senza parlare è riuscito a farmi smettere di piangere, mentre con la coda dell’occhio lancia sguardi al mio apparecchio telefonico ormai in mille pezzi.
È rimasto accanto a me per tutto il tempo. Veglia su di me in silenzio, aspettando una qualche notizia, mentre con la calma che sono riuscito a raggiungere cerco inutilmente di rimettere insieme i frantumi del mio telefono.
Poco dopo Mycroft mi ha convinto ad entrare in sala d’aspetto, anche se ho preferito distaccarmi dal resto del gruppo e sedermi in un angolo, ricevendo ovviamente gli sguardi di compassione che speravo di evitare.
I singhiozzi della signora Holmes, non ce la faccio più a sopportarli.
- Siete voi i familiari? – Mi alzo velocemente quando sento la voce del medico. Lo conosco, ci siamo visti più volte in ospedale. – Oh, dottor Watson, sapevo che sarebbe venuto. – Ha esordito subito dopo. Io sono rimasto in silenzio. Ormai tutti sanno di me e Sherlock, perfino i colleghi dell’ospedale con cui non ho mai parlato.
- Mi dica, dottore, come sta? – La signora Holmes, con i suoi occhi gonfi di lacrime e un fazzoletto stretto fra le dita, si è avvicinata prendendo la parola. Il medico ha sospirato, ma non è un respiro di sollievo quello. È il sospiro di quando qualcuno sta per darti una cattiva notizia, il sospiro che io chiamo “campanello d’allarme”, quello che mi fa cedere le ginocchia.
- Purtroppo le sue condizioni sono gravi. Ha un braccio e quattro costole rotte. Siamo riusciti a salvarlo, nonostante l’emorragia alla testa… ma adesso è in stato comatoso. – La signora Holmes ricomincia a piangere disperata e Mycroft ed il marito sono costretti a reggerla per farla restare in piedi e per impedire che le sue gambe la facciano crollare. Io non voglio cedere, ma mi mordo l’interno delle guance, gli occhi mi bruciano e non riesco a fermare quella lacrima che scivola giù dalla mia pelle e raggiunge il mento. Trattenere un pianto come quello mi provoca sempre un’emicrania terribile e sono costretto a massaggiarmi una tempia con le dita. La terra sotto di me trema e quasi inizio a barcollare. Non può succedere davvero, non a lui. – Ciò che possiamo fare adesso è aspettare. Ma avrà bisogno del vostro aiuto, della vostra presenza. -   
Ciò che il medico dice dopo non riesco più a sentirlo. Nella mia testa cerco di vedere la scena che l’infermiere mi ha raccontato mentre visitavo il mio paziente.

Sherlock esce di casa.

Sherlock attraversa la strada.

Sherlock viene travolto da un furgone.

Io non c’ero. È accaduto tutto mentre io non c’ero. Avrei potuto essere lì, avrei potuto spingerlo sul marciapiede, avrei potuto difenderlo, essere travolto al posto suo. E invece ero qui a lavorare, ignaro di tutto.
- Che ne dici, John? – Vengo riportato alla realtà dal signor Holmes che mi poggia una mano sulla spalla. Si sono rivolti a me ma io non ho la minima idea di cosa stessero parlando prima che mi immergessi nei miei pensieri.
- Cosa? –
- Vuoi entrare per primo? Per noi non c’è problema, anche perché mia moglie ha bisogno di riprendersi prima di vederlo. – Dice indicando la donna che si era accasciata su una sedia a singhiozzare. Annuisco lentamente e il medico mi accompagna alla stanza.
Prima che possa aprire la porta, gli chiedo con un sussurro di aspettare un attimo. Non credo di essere pronto a vederlo disteso su quel letto in quelle condizioni, so che mi farebbe male, che inizierei a sentire il cuore battere per colpa del panico. Mi prendo qualche secondo, poi annuisco e oltrepasso l’uscio insieme al medico e lui è lì. Sherlock è steso sul letto, ha gli occhi chiusi, è intubato, il braccio ingessato e il torace bendato… per un attimo sembra quasi che dorma, che mi basti soltanto scrollare la sua spalla per fare in modo che si svegli.
Lo guardo senza dire nulla e l’emicrania si fa sentire in modo molto più acuto. So perché. Sto cercando di trattenere ciò che la signora Holmes non è riuscita a trattenere poco fa.
- La lascio solo. – Il dottore abbandona la stanza e mi ritrovo piombato nel silenzio più totale. L’unico rumore che odo sono le macchine che tengono in vita ciò che resta di mio marito. Fuori piove ancora, sento anche la pioggia, ma ogni suono circostante svanisce nel momento in cui mi soffermo a guardare il suo viso ferito e la sua pelle ricoperta di lividi bluastri.
Accanto al letto si trovano due sedie, ne prendo subito una e la sistemo in modo da poter essere il più vicino possibile a Sherlock.
È vero, sono un medico, ma non mi è mai capitato di vedere un uomo (soprattutto uno a cui tengo così tanto) in coma. Quando nell’esercito si verificavano casi in cui io ero chiamato sul campo come dottore, si trattava sempre di ferite d’arma da fuoco e le opzioni erano due: l’intervento medico immediato, o la morte sul colpo. Mai un coma.
- Non posso lasciarti solo cinque minuti… - Ho sussurrato in preda ai tremori. Volevo che la mia voce risuonasse sicura e decisa, ma quando ho aperto bocca è uscito solo quel tono distrutto. La mia mano si poggia delicatamente sulla sua ed emetto un sospiro che spero possa essere in grado di aiutarmi a mantenere la calma. Afferro quella mano tra le mie e la porto sulla mia guancia, lasciando che il labbro inferiore sfiori il suo pollice caldo in un delicato bacio, e quando percepisco quel tocco le lacrime escono a fiumi senza che io possa fermarle. – Adesso mi ascolti, brutto idiota che non sei altro. – Mormoro con un filo di rabbia nella voce. – Questa non sarà l’ennesima volta in cui rischio di perderti. – Già, perché ho rischiato di perdere quell’uomo più di una volta: bastava pensare al suo finto suicidio, al colpo di pistola di Mary, all’assassinio di Magnussen… non doveva succedere di nuovo. – Quindi vedi di svegliarti… o ti strangolo con le mie mani, hai capito? – Sto singhiozzando, non avrei voluto ma lo sto facendo. Il cuore mi palpita impazzito nel petto mentre mi lascio andare a quelle lacrime. La mia mano si sposta fino ai suoi ricci ribelli e li carezza con devozione, poi mi sporgo quel tanto che basta per lasciare un bacio sulla sua fronte.
 
***
 
- Offro io, John. – Lestrade poggia le monete sul piattino che mette in bella vista il conto del nostro pranzo veloce.
- Greg, non ce n’è bisogno. – Dico prendendo dalla tasca posteriore dei jeans il mio portafoglio. Il mio amico, però, poggia la mano sulla mia poco prima che io possa prendere le banconote.
- John, non è un atto di compassione, credimi. È solo che offri sempre tu, fammi ricambiare il favore. – Lo guardo per qualche secondo senza dire nulla, poi sospiro e lo rimetto al suo posto.
- Solo per questa volta. – Mormoro portando le dita sulle tempie, massaggiandole nella speranza che questo movimento circolare mi aiuti a calmare l’emicrania insopportabile.
- Torni da lui dopo, immagino. –
- Perché, non lo faccio sempre? – Chiedo ironicamente, accennando un sorriso triste. Greg assaggia un altro po’ di birra, poi si lecca le labbra e si gira a guardare fuori dalla vetrata. Oggi fa schifosamente freddo, il vento è gelido e forte, vediamo la gente correre verso le proprie auto e sgommare via dopo aver messo al massimo i riscaldamenti.

Dopo quello che è successo, tutti questi giorni sembrano grigi e tristi.

- Passerò stasera, dopo il lavoro. Donovan voleva accompagnarmi. – Lo guardo leggermente stupito a quell’affermazione.
- Il sergente Sally Donovan? –
- Sì, voleva sapere le sue condizioni e ho pensato che avrebbe potuto accompagnarmi questa sera. – Io scuoto la testa e mi lascio sfuggire una risatina nervosa mentre butto giù velocemente gli ultimi sorsi di vino.
- Buffo come per tutta una vita quella donna si sia divertita a torturare psicologicamente mio marito e tutto ad un tratto… -
- John, è preoccupata come tutti. – Distolgo lo sguardo dal mio amico. Negli ultimi giorni Greg era diventato il mio confidente, la persona più vicina che abbia mai avuto.
Di solito nei momenti più bui della mia vita era Sherlock a farlo. Mi stava vicino come nessun’altro. A volte, grazie al suo fantastico intuito riusciva a capire quando mi servisse sfogarmi e parlare a raffica dei miei problemi, senza alcun suo giudizio negativo, mentre altre volte capiva quando non volessi parlare e si limitava a starmi vicino. Sapeva sempre di cosa avessi bisogno quando non parlavo per giorni per via dei miei incubi sulla guerra, o della sua improvvisata sul tetto del Bart’s.

Per quello mi ha chiesto scusa non so quante volte. Ma il fatto che fosse lì con me bastava a perdonarlo.

Quando durante la notte mi agitavo mi serviva sentire il suo braccio attorno alla mia vita per calmarmi. Capitava che continuassi a dormire tranquillamente, ma anche che mi svegliassi in preda ai tremori e mi ritrovassi i suoi occhi color ghiaccio puntati nei miei, in grado di trasmettermi il calore e la sicurezza di cui avevo bisogno.
“Va tutto bene, John”, diceva con quella sua voce baritonale, poi aspettava mi calmassi grazie alle sue carezze appena accennate sulla mia guancia, ed infine mi baciava e in poco tempo riuscivo a prendere sonno con il sorriso sulle labbra e il suo odore addosso, le mani intrecciate e le nostre fedi che con tenerezza si sfioravano.
Dopo l’incidente, Mycroft e Greg sono stati gli unici ad aiutarmi. Con il maggiore degli Holmes non era quasi possibile sfogarsi come si fa con un amico, era fin troppo orgoglioso e fin troppo impegnato, anche se a modo suo dimostrava il suo affetto nei miei confronti e in quelli del fratello. Greg è stato quello con cui ho pianto e mi sono sfogato. La persona con cui cercavo di distrarmi dal peso dell’assenza di mio marito.
- Le dirò di non uscirsene con dei commenti inappropriati. – Dice lui cercando di attirare la mia attenzione. – Ma prova a fare questo sforzo anche tu. – Annuisco, lasciandomi scappare un sospiro rassegnato.
 
***
 
Alla fine, quel giorno, Sally venne in ospedale in compagnia di Greg. Rimase muta come un pesce a guardare Sherlock disteso sul letto. Non parlò per niente, tranne che per salutare e mormorarmi un sincero “mi dispiace” prima di andarsene insieme all’ispettore. Dalla sua espressione non traspariva nessuna emozione. Sembrava di guardare una di quelle bambole di porcellana inquietanti che ti mettono soltanto in soggezione. Lestrade doveva averle fatto la predica prima di entrare nell’edificio... e aveva funzionato… o forse era davvero dispiaciuta?

Sherlock lo avrebbe capito.

- Oh, caro, volevo proprio dirtelo ma me lo ero quasi dimenticata. Come mai non ha la fede al dito? – Violet Holmes mi ha appena portato un po’ di tè dal distributore qui fuori. Il bicchiere di plastica scotta, e nonostante la qualità scarsa di quella bevanda, ne bevo un piccolo sorso per dare sollievo alla mia bocca secca. Ho sempre la bocca secca quando sono nervoso, ansioso o preoccupato. Avrei bevuto di tutto pur di far passare il fastidio. Sono passate quasi due settimane ma lui non ha ancora aperto occhio... ma in compenso le fratture si stanno pian piano risanando.
Lo sguardo mi cade sull’anulare di Sherlock, prima di poter spiegare a mia suocera come mai l’anello non si trova lì.
- Dopo l’incidente sono andato a casa a cercare di capire come si erano svolte le cose e… la fede era in bagno, sul mobiletto accanto alla vasca. Sherlock non è mai stato uno che tiene particolarmente ai beni materiali, ma per quella fede aveva una specie di ossessione. Prima di fare il bagno la toglieva sempre, aveva paura di rovinarla. – Il pensiero mi fa sorridere. Riesco ad immaginarmelo nella vasca, con la sua pelle bianca e diafana, splendente per le piccole goccioline che la ricoprono, con i ricci umidi e il sorriso sulle labbra mentre si rigira l’anello tra le mani perfettamente asciutte. – L’ho messo nel suo cassetto. – Le mie dita scorrono dolcemente fra i suoi ricci scombinati, spostandogli piano quello sulla fronte. Violet mi guarda con un sorriso intenerito misto alla tristezza. Quando mi accorgo che i suoi occhi sono puntati su di me, ritiro piano la mano e tossicchio imbarazzato. Non eravamo soliti a mostrare il nostro affetto reciproco davanti ai suoi genitori.
Cala un silenzio imbarazzante nel quale mi premuro di finire la bevanda calda, tenendo gli occhi fissi sul viso rilassato di Sherlock. La signora Holmes gli ha preso la mano e adesso la accarezza con il pollice tremante.
Dopo il primo giorno non ha più pianto. Si stava trattenendo come mai aveva fatto prima. Diceva che con le lacrime non avrebbe risolto niente. Diceva che se fosse stata forte per lui allora si sarebbe svegliato prima o poi, solo che… riesco a vedere i suoi occhi pungere in ogni secondo della giornata, ogni volta che è qui a guardare il figlio steso su questo maledetto letto.
Siger Holmes e Mycroft, invece, preferivano esternare le proprie emozioni quando erano da soli con lui. Loro non piangevano davanti agli altri. Il maggiore doveva mantenere la sua reputazione da uomo di ghiaccio, mentre il padre… lui era ottimista. Preferiva sorridere e contagiarti con il suo ottimismo, invece di piangersi addosso. Forse era proprio il marito che riusciva a fare in modo che Violet non crollasse ancora una volta.
- Quando si sveglierà gliele suonerò! – Dice con un tono divertito e malinconico allo stesso tempo, tenendo ancora le sottili dita a contatto con quelle immobili del figlio. – Per avermi fatto prendere uno spavento così. – Come medico so che dal coma c’è una ben precisa percentuale di gente che si risveglia, e Violet sembra proprio leggermi nel pensiero mentre punta gli occhi lucidi su di me. – Ce la farà, John. – E poi non dice altro, la sua non è una speranza, è una certezza.

Quella certezza rassicura anche me.
 
***
 
Sono passati altri quattro giorni e io non mi sono mosso dall’ospedale se non per prendere abiti di ricambio a casa nostra o per pranzare e cenare in compagnia di Lestrade o dei signori Holmes. L’ambulatorio adesso è sotto la supervisione di Sarah, alla quale ho spiegato tutto il giorno dopo dell’incidente. Non immaginate quanto si sentisse in colpa per quelle telefonate. L’ho perdonata, in fondo non poteva saperlo.
Sono sempre qui, su questa cavolo di sedia accanto a quel cavolo di letto, e sopra di esso mio marito è ancora incosciente. Ci sono stati momenti in cui lo vedevo muovere le dita, cambiare espressione del viso… e una volta mi è capitato anche di vederlo piangere, di vedere le sue lacrime scorrere via dalle sue guance e finire sul cuscino. Normali reazioni di una persona in stato comatoso. Si dice che siano segnali del fatto che il paziente capisca e ci senta. Per questo non smetto mai di parlare con lui, ci parlo tutte le sere implorandolo di riuscire ad aprire gli occhi. Ma segni di risveglio… nemmeno uno.
Nella stanza con me c’è solo Mycroft. Poco fa è passata la signora Hudson, ha pianto tutto il tempo.
- Stavo pensando… - Dico, catturando l’attenzione di Mycroft, poggiato con tutto il peso sul suo fidato ombrello nero. – Che magari potrebbe andare a stare dai tuoi quando verrà dimesso. –
- Fuori discussione. – Lo guardo inarcando un sopracciglio, senza capire il perché di quella risposta. – Viste le sue condizioni attuali, sono sicuro avrà delle conseguenze negative, e tu sei un medico, John. Stare accanto a te tutti i giorni potrà aiutarlo, e tu sarai in grado di sapere cosa fare. –
- Ma sono soltanto un medico di base, non sono portato a seguire terapie post traumatiche di questa gravità! – Esclamo rivolgendo uno sguardo sorpreso al maggiore degli Holmes, che non ha smesso un secondo di guardare il fratello.
- Questo lo so. Ma ne ho parlato con i miei genitori. Tu sei suo marito e sei un medico. Hanno detto che si sentono più sicuri se sarai tu a badare a lui, e sinceramente sono d’accordo con loro. Potrai stare attento alle medicine che deve prendere, costringerlo a farlo, dato che è un testardo. Entrambi sappiamo quanto tu sia l’unico a cui dia ascolto senza batter ciglio. Inoltre braccia e costole rotte sono il tuo campo. – Cerco di dire altro per controbattere, ma lui mi interrompe prontamente. – Ci sarà anche un’infermiera se serve, e noi saremo disponibili tutti i giorni, passeremo al 221b per aiutare, se no perché avrei permesso che la mia tranquillità quotidiana venisse intralciata da quei due zoticoni? – Lo vedo sorridere divertito alla sua stessa affermazione rivolta ai genitori. Non lo pensa davvero, vuole solo smorzare la tensione tangibile, e per un attimo ci riesce, perché anche io mi ritrovo a sollevare l’angolo delle labbra.
La conversazione finisce qui per due motivi: il primo, è calato un silenzio imbarazzante. Mycroft non è un infallibile conversatore e non parla se non ne sente il bisogno o se non gli viene posta una domanda specifica. Il secondo, Sherlock ha appena mormorato qualcosa.
Ci giriamo verso di lui all’istante, con la stessa espressione speranzosa dipinta in volto. È un mormorio che nessuno dei due riesce a capire, ma poi le sue palpebre tremano appena prima di aprirsi lentamente e puntarsi sul soffitto. Mi avvicino e afferro saldamente la sua mano, mentre Mycroft si precipita fuori dalla stanza, probabilmente per chiamare un medico.
- Sherlock? – Chiedo con voce tremante mentre mi sporgo di più per far puntare il suo sguardo su di me. Lui mormora ancora qualcosa e riesce a far muovere leggermente il braccio sano. – Sherlock? – Dico ancora, finché il suo mormorio risulta comprensibile, nonostante il modo in cui sussurra faticosamente per riuscire a farsi capire.
- Dove sono? – Una lacrima sfugge dai miei occhi, e allo stesso tempo dalle mie labbra nasce un sorriso di puro sollievo, mentre mi abbasso a lasciare un bacio sulla sua fronte.
- Oh, grazie a Dio! – La mia voce è rotta dall’emozione mentre pronuncio quelle parole al soffitto, come a rivolgermi alla Divinità in persona, grato del miracolo appena avvenuto. – Sei in ospedale, Sherlock… andrà tutto bene, sta arrivando un medico e… -
- Tu chi sei? -

Il mondo mi crolla addosso, sono certo di non stare più sorridendo per l’immensa gioia.

Per un attimo mi sembra di capire male, insomma… sta parlando a voce troppo bassa perché qualcuno riesca a sentirlo, magari mi sono sbagliato.

Spero di essermi sbagliato.

- Cosa…? –
- Chi sei tu? E Sherlock… sarei io? È il mio nome? – Piange. Dai suoi occhi sgorgano lacrime incontrollate che bagnano la stoffa del cuscino.
Mi sembra di non capire più nulla. Sento le mura tremare attorno a me, e lo stesso fa il pavimento sotto ai miei piedi. Sento che sto precipitando nel vuoto e che non ho via di scampo, che l’unica cosa che incontrerò alla fine della mia caduta sarà solo il freddo suolo.
- Ti prego… dimmi che ci faccio qui. – Sta singhiozzando, anche se la sua capacità di parlare è scarsa. A malapena odo i suoni che escono dalla sua bocca. Ma è Sherlock. Lo capisco sempre. – Ti prego… che sta succedendo? – è spaventato a morte ed ha iniziato a stringere la mia mano con le sue poche forze.

È spaventato e non mi riconosce.

Ora posso confermare di star vivendo un altro dei miei incubi nella dura e cruda realtà.




Note autrice:
Vi avevo accennato al fatto che stessi lavorando a questa storia già dalle note della serie di "The side of the Angels".
Questa storia è nata dopo che ho visto un film di David Tennant (Recovery, appunto) che mi ha fatto piangere come una disperata, vi consiglio proprio di vederlo perchè è magnifico.
Le vicende trattate qui sono simili a quelle del film.
Spero che vi piaccia, ho impiegato molto a scriverlo.
Un bacio e al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Un forte legame ***


Un forte legame



 
“Amnesia retrograda totale. Il signor Holmes non è in grado di ricordare tutti gli eventi precedenti all’incidente. Di solito sono la normale causa di traumi cranici, ma nella maggior parte dei casi non ci si ricorda solo di alcuni avvenimenti. Nel caso corrente, la memoria è stata completamente compromessa. Il trauma è stato così forte da causargli un vero e proprio vuoto. Avete presente la formattazione di un computer? È andata così anche per il signor Holmes. Tutto è stato rimosso, a parte la memoria implicita, ovvero i comportamenti automatici…”

 
Il medico continua a parlare, ma io ho la testa altrove.
Dopo quell’episodio, hanno preferito fare degli esami per stabilire le sue condizioni. Noi abbiamo aspettato fuori. Lestrade ci ha raggiunti quasi immediatamente, dopo che gli ho telefonato con quel tono da funerale.
Davanti al medico ci siamo io, i genitori di Sherlock e Mycroft. Sembro prestare più attenzione al suo camice sgualcito che al resto delle sue parole.
Io so cos’ha Sherlock, semplicemente non ricorda più niente e la cosa mi ha ucciso. Vorrei tanto essere come Siger Holmes in questo momento. Vorrei avere la forza di consolare Violet e dirle che andrà tutto bene, che lui si ricorderà, ma sono come pietrificato. E mentre li guardo abbracciarsi per darsi sostegno, io abbasso lo sguardo sulla mia mano e inizio a carezzare dolcemente la fede al mio dito.
- Sarà confuso, spaventato, e potrebbe trovare difficile fare alcune cose all’apparenza molto semplici. È normale, e per quanto riguarda questo potete star certi che si riprenderà. – Fa un sospiro pesante, mentre si gira un attimo a controllare se nella stanza dove c’è Sherlock vada tutto bene. Ne esce un’infermiera molto carina dai capelli biondo cenere. Si limita a fare un cenno al medico e guardarmi con un triste sorriso. Mi conosce, l’ho vista un paio di volte durante il mio turno. Poi torna nella stanza. – Per la memoria… non sappiamo se sarà in grado di recuperarla. È raro che una persona dimentichi tutto della sua vita, ma ciò non toglie che può succedere. Potrebbe recuperarla come potrebbe anche non farlo e… -
- La recupererà. – Dico in tono freddo e distaccato mentre il dottore mi guarda come se fossi un cucciolo bastonato. – Lo so che lo farà. – Quella lacrima solitaria non è riuscita a rimanere al suo posto. Maledetti sentimenti, maledetta paura. – Mi dica solo cosa fare per aiutarlo. –
- Beh, una terapia di farmaci, delle sedute da uno psicologo, molta pazienza e ogni tanto cercare di portarlo indietro nel tempo a rivivere determinati momenti. – Sento la mano di Violet sulla mia spalla e mi asciugo immediatamente quell’altra maledetta lacrima arrivata sul mio zigomo. Annuisco e il medico sforza un sorriso, che non gli riesce affatto come sperava. – Cominceremo la terapia di farmaci subito, ma dopo il ricovero spetterà a voi continuarla. Vi scrivo una ricetta, intanto se volete vederlo siete liberi di entrare. – Lo ringraziamo con un cenno del capo e lui gira i tacchi.
Violet, Siger e Mycroft entrano per primi. Io aspetto fuori con Greg finché, dopo circa un’oretta, Mycroft non fa capolino e mi chiama a bassa voce.
- Come sta? –
- Bene, sembra in forze. – Faccio un sospiro di sollievo ed annuisco. – Purtroppo non si ricordava nemmeno di noi. Abbiamo risposto alle sue domande, nient’altro. Non abbiamo ancora parlato di te, ma gli ho detto che saresti entrato. – Lancio un’occhiata a Greg e con un leggero movimento della testa mi fa cenno di entrare e non perdere tempo. Guardo Mycroft con un sorriso incerto e lui si scosta dalla porta per farmi entrare.
Prima di fare un qualunque passo all’interno della stanza, vengo travolto dagli occhi di Sherlock che, lucidi e stanchi, si posano subito su di me. Non sa chi io sia, ma riconosce in me la prima persona che ha visto quando si è svegliato. I nostri sguardi si incatenano e non si lasciano andare un secondo, nemmeno quando a passo lento ho raggiunto il suo letto.
- Sherlock, tesoro, lui è John Watson. Ti ricordi di John? – Mormora Violet in tono amorevole, poggiando una mano sulla spalla di Sherlock, semi seduto sotto almeno tre cuscini comodi che fanno in modo di tenere dritto il suo busto, a causa delle fratture. Lui la guarda per un attimo, poi punta nuovamente le sue iridi chiare su di me. Deglutisce a vuoto un paio di volte prima di parlare. Ha la gola secca. Mycroft se ne accorge e si premura di riempire un bicchiere di acqua fresca. Glielo fa bere con discreta attenzione, evitando di farlo bagnare.
- Eri qui quando mi sono svegliato. – Dice a bassa voce mentre prendo posto su di una delle due sedie nella stanza. – Solo questo. – Gli altri bisbigliano qualcosa che io non capisco, ma sono troppo impegnato a cercare di capire dai suoi occhi se davvero non c’è traccia di un mio ricordo.
- Forse dovremmo lasciarvi soli. – è Siger a parlare, e prima che possa accorgermene la stanza si svuota, perfino le due infermiere sono uscite.

In tutto quel tempo nessuno dei due ha distolto lo sguardo dall’altro.

- Stai bene, Sherlock? – Sembra non sentire la mia domanda, ma poi si schiarisce la voce con una finta tosse ed inizia a giocherellare con l’orlo del lenzuolo bianco, osservando le proprie dita compiere quel gesto per evitare di guardarmi ancora.

Il fatto che si senta a disagio in mia compagnia fa male.

- Ho male alla testa, al braccio e al torace. Hanno detto che è normale. – Mentre parla mi soffermo sui suoi ematomi, sui graffi e sui punti.

Dio, Sherlock, che hai combinato?

- Dicono che un furgone mi è finito addosso e che sono vivo per miracolo. - Mentre parla mi chiedo che fine abbia fatto quella parte fredda e sicura di lui, e chi è questa persona impaurita che sto ascoltando.

Non dire nulla John, prova tu ad essere al suo posto in questo momento!

- Mi vedi cambiato? – Corrugo leggermente le sopracciglia mentre mi accomodo meglio sulla sedia in cui ho passato intere notti e intere giornate a pregare che si svegliasse, che puntasse i suoi maledettissimi occhi di ghiaccio nei miei e mi dicesse “Sono sveglio, idiota. Smettila con questo sentimentalismo!”. L’ho sperato con tutto il mio cuore… e adesso la persona che ho davanti è quella che ho sempre amato, ma non lo sa. – Intendo… da come ero prima. –
- Beh, un po’, ma è normale nel tuo caso. - Annuisce appena. Sembra che muoversi sia uno sforzo enorme per lui, e perfino annuire è doloroso. Non riesco a guardarlo mentre è in queste condizioni, e l’unica cosa che mi riesce meglio è quella di guardare un punto fisso dietro alla sua testa, quell’ammasso di riccioli in cui avrei tanto amato immergere nuovamente le dita, o il naso per inspirarne il profumo intenso.
- Ricordo la tua voce, mentre dormivo. – Il mio sguardo si solleva nuovamente verso i suoi occhi, in un barlume di speranza. Quelle meravigliose iridi lucide minacciano il pianto imminente. – Ovviamente non… non sempre, ma ricordo di aver sentito qualcuno pregare di svegliarmi. Non sapevo che stava succedendo, né chi fossi, né chi fosse la persona che mi stava parlando, ma la sentivo. Ho anche provato a rispondere. – Le lacrime sgorgano dai suoi occhi come un fiume in piena. Forse è una delle rarissime volte in cui vedrò Sherlock esprimere tutte queste emozioni. Non lo fa spesso, anzi… in realtà non lo fa mai. E ora che lo vedo così fragile, direi che avrei preferito non assistere al suo pianto disperato, considerato il dolore che mi fa provare. – Ho provato a svegliarmi e non ci riuscivo, volevo parlare, volevo dire a chiunque sentissi che io c’ero, che ero lì. E quando mi rendevo conto di non riuscirci iniziavo a piangere. Avevo paura, perché non capivo cosa stesse succedendo… –

È stato provato che a volte le persone in coma possano percepire la presenza di chi gli parla, che possano sentire, che possano reagire a certi stimoli esterni.

Sherlock piangeva mentre era incosciente, piangeva e singhiozzava perché ci sentiva.

- Sherlock, adesso è passato. – Mormoro a bassa voce mentre mi avvicino di più con la sedia, cercando di ricacciare indietro tutte le possibili lacrime. – E ti prometto che andrà tutto bene. – Adesso mi sta guardando. I suoi occhi sono gonfi e rossi, lucidi e scintillanti come diamanti, le sue guance rigate da lacrime calde e la punta del suo naso arrossata dalla crisi di pianto. – Io ti aiuterò. – Mi guarda ancora, fa vagare le sue iridi su ogni parte del mio viso, come a studiare le mie parole e a verificare se io dicessi la verità, se davvero sarei stato in grado di mantenere quella promessa.
- John, tu chi sei per me? – Si asciuga le lacrime con il palmo della mano. Mi sembra di guardare un bambino indifeso ed impaurito. E quel bambino indifeso ha bisogno di qualcuno che lo aiuti e che lo sostenga, ed anche se non mi riconosce voglio essere io quel qualcuno che lo prende per mano e lo guida. Accenno un sorriso ed abbasso lo sguardo sulla punta delle mie scarpe.
- Vuoi davvero saperlo? – Lui annuisce. Il velo di paura nei suoi occhi sta pian piano svanendo, sembra ricominciare a fidarsi di me. – Ci arriverai da solo, con calma. -

Cosa mi passa per la testa, dite?

Perché non ho semplicemente detto “Sherlock, io sono tuo marito”?

Non lo so. Ho come l’impressione che questo sia il modo giusto per affrontare la cosa. In fondo non sa chi sono, credo che avrebbe reagito male se avesse saputo già da subito la verità. E questo non è mentire! Semplicemente lascerò che sia lui a capirlo… o spero a ricordarlo.
- Mycroft ha detto che sono un investigatore privato. Questo sarebbe il mio caso? Scoprire chi sei? – Avrà anche perso la memoria ma le battute ironiche sono sempre lì, e la cosa non può che confortarmi. Sorrido divertito e lui fa lo stesso, rilassando lentamente le spalle. Sembra completamente tranquillo, nonostante gli occhi siano ancora velati dalle lacrime.
- Se proprio vuoi metterla così! – Non diciamo altro, ma i nostri sguardi continuano ad intersecarsi l’uno con l’altro, e le nostre labbra si sorridono a vicenda. Pare che andare avanti così non gli dispiaccia. La terapia sarebbe stata lunga e difficile, magari essere l’investigatore privato che cerca di scoprire chi è Sherlock Holmes può rendere il suo percorso più facile del previsto. E so che lui ne è d’accordo quasi quanto me. L’ho capito solo guardandolo, adesso riesco a percepire cose che prima non riuscivo ad interpretare, e tutto grazie ad alcuni trucchetti che lui stesso mi ha insegnato.
- Mi passeresti un altro bicchiere d’acqua? –
- Certo! -

Ce la possiamo fare, insieme.
 
***
 
Mycroft e gli altri hanno trovato il metodo che ho proposto abbastanza buono. Dicono che sfruttare la sua carriera per ricordare può essere un ottimo pretesto perché la sua memoria si metta in funzione. Tuttavia si sono chiesti perché non abbia accennato al fatto che io per Sherlock Holmes sono non solo il coinquilino, ma anche il fedele marito che per lui ha rischiato la pelle più di una volta.

Beh, anche lui l’ha rischiata per me.

Non ho trovato una spiegazione chiara e coincisa, ma si sono fidati di me e hanno accettato di stare al gioco.
Sono passati due giorni dalla nostra prima conversazione dopo il coma. In sole quarantotto ore non è possibile recuperare ricordi, ovviamente, ma ci siamo impegnati ad immagazzinare alcune informazioni che riguardano la sua vita nella sua memoria: il suo indirizzo, alcuni aneddoti della sua famiglia, il suo lavoro, i suoi amici, alcuni dei suoi casi… ognuno di queste informazioni in piccole pillole da ingerire con calma. Le informazioni in questo caso sono come le medicine: fanno bene, ma non bisogna abusarne o potrebbero danneggiare il suo stato attuale.
- Mi sento come se fossi nato ieri, John. La mia testa è vuota. – Mi ha detto mentre gli sistemavo il cuscino sotto alle spalle. Non immaginate minimamente il tuffo al cuore che ho sentito.
Domani verrà dimesso, ed io mi sono organizzato al meglio per imparare a memoria la tabella oraria delle sue medicine, ho preso appunti sulla quantità e sui nomi impronunciabili delle sostanze che dovrà assumere, scatole e scatole di pillole con cui io, medico di base, non ho mai avuto a che fare. Ci sono antinfiammatori per le fratture alle costole, antidolorifici per il braccio e la botta alla testa, soluzioni per rafforzare la memoria e altre ancora per la terapia di recupero, di cui non sono certamente un esperto. Oggi mi sono addirittura offerto al posto dell’infermiera per somministrargliele, così da essere pronto quando saremo solo io e lui.
Per quanto riguarda Sherlock… ho risposto sinceramente ad ogni domanda che mi ha posto in questo periodo di tempo. Perlopiù mi chiedeva “Qual è la tipica giornata di Sherlock Holmes?” o “Dimmi un po’ di te, solo poco, voglio sapere”. Ho sempre scemato ogni suo dubbio a dosi minime, e lui ne è stato contento.
- Quindi condividiamo un appartamento? – Mi chiede mentre mi premuro di riempire per lui il cucchiaio di brodo di pollo. Il suo braccio destro è quello che ha subito la frattura all’osso, Sherlock potrebbe utilizzare agevolmente la mano sinistra, ma noto alcuni tremori quando prova a sforzarsi, quindi per assaporare il brodo mi propongo di aiutarlo senza nessun problema. La signora Hudson lo aveva preparato con tanto amore e tanta aspettativa, sperando con tutto il cuore che potesse aiutarlo a sentirsi meno spossato e meno stanco. Ho avuto modo di assaggiarlo, lo prepara sempre quando uno dei due è malato e ci costringe a finirlo fino all’ultima goccia. Presumo lo abbia cucinato anche perché spera che Sherlock si ricordi di quello che la nostra gentile padrona di casa è in grado di fare.
- Sì, un piccolo appartamento. – Dico allungando il cucchiaio fino alle sue labbra dalla forma invitante e deliziosamente piena. Lui si sporge appena con il collo e riesce a gustarne il contenuto, per poi tirare fuori la lingua e leccare via quella goccia di brodo che minacciava di colare lungo il suo mento. I miei occhi si stanno soffermando troppo su quel semplice gesto, devo distrarre la mia attenzione perché non voglio che abbia paura di una qualche mia possibile intenzione. – La signora Hudson è la padrona di casa. Tu le hai fatto un favore tempo fa e per questo l’affitto non è così esorbitante. – Dico abbassando lo sguardo sul contenuto della ciotola sulle mie gambe, mentre ci immergo nuovamente il cucchiaio.
- Capisco. – Mormora lui in risposta. – Lestrade mi ha detto che hai un blog dove parli di me. – Dice, dopo diversi secondi di silenzio. Quando alzo lo sguardo i nostri occhi si tuffano in quelli dell’altro, ed io a stento riesco a trattenere il rossore sulle guance. Lo nascondo fingendo di sentire un improvviso prurito sulla guancia, grattandola poi con prepotenza. Sul blog non ho mai parlato specificatamente della nostra vita privata, e di certo non ho intitolato uno dei post con “Il mio matrimonio con l’unico consulente investigativo al mondo”, ma non nego di aver accennato a certi sentimenti nei suoi confronti, a certi momenti di puro romanticismo dimostrati dall’uomo che adesso sto imboccando. Se solo leggesse quelle cose… potrebbe avere paura di questa nuova informazione, potrebbe non voler tornare a casa con me, potrebbe volermi fuori dalla sua vita perché, mi duole ammetterlo, è come se non mi conoscesse. – Ed esattamente di cosa parli? –
- Beh… - Tossicchio leggermente prima di continuare, così da far tornare la mia voce al suo normale tono, e non a quello stridulo che mi era spontaneamente uscito. – Parlo delle avventure di cui sei protagonista, dei tuoi casi, di come prontamente riesci a capire la vita di una persona solo guardandola… queste cose, in sostanza. – Sherlock avvolge nuovamente la bocca attorno al cucchiaio d’acciaio che gli sto porgendo, poi lascia cadere stancamente la testa sul cuscino.
- Magari, se vuoi… cioè… se non è dannoso per me, potresti leggermene qualcuno. – La sua voce bassa e timida mi fa accennare un leggero sorriso. Mai è stato più impacciato di così. – Insomma… uno alla settimana, magari. – E i suoi occhi chiari e limpidi si posano sul mio viso. Non posso fare a meno di annuire e così di acconsentire alla sua richiesta. – Così forse potrò sforzarmi di ricordare. – Aggiunge poi mentre faccio roteare il cucchiaio all’interno della ciotola ancora tiepida.
- Non c’è fretta per questo, Sherlock. –
- Lo so. – Per un attimo, sentendo quel tono deciso e freddo mi sembra di avere davanti il vecchio Sherlock, quello che tutti detestano al primo approccio, ma che io al contrario amo più di me stesso. Ma poi i suoi occhi si inumidiscono e quel suo lato vulnerabile viene di nuovo a galla, distruggendo in mille pezzi la sua lucidità. – Lo so, John… ma odio non ricordare, odio non sapere, odio guardare la gente che apparentemente mi vuole bene e non sapere chi sia. Prendi i miei genitori ad esempio. – Abbandono il cucchiaio all’interno della ciotola in porcellana e lo guardo, distrutto. Aveva sempre accennato al fatto che la sua testa fosse vuota, ma non si era mai sfogato, e magari parlare gli avrebbe fatto bene, dopotutto. – So che sono i miei genitori solo perché sono stati loro a dirmelo. Quando sono entrati in questa stanza non avevo idea di chi fossero. Io li sento raccontarmi del loro passato, della famiglia da cui provengo e mi incanto ad ascoltarli parlare ma… sono i miei genitori! Chi di loro due mi ha insegnato ad andare in bicicletta? Chi di loro due mi accompagnava a scuola tutti i giorni? Avevamo un buon rapporto? Sono un buon figlio per loro? E Mycroft? Litigavamo spesso? Ci facevamo i dispetti? – Smette di parlare e tira su con il naso, ma nessuna lacrima sta fuoriuscendo da quella limpidezza che sono i suoi occhi. – Quando ti chiedono di pensare a tua madre sono sicuro che hai un ricordo vivido che ti viene in mente, magari te la immagini mentre fate insieme le cose che amate di più. Se mi dovessero dire di pensare a lei… io non riuscirei ad avere un’immagine specifica in testa. – Non ci sono parole per replicare ciò che ha detto. Ha dannatamente ragione, se mi metto nei suoi panni so che non è facile. Poggio il brodo di pollo rimasto sul comodino accanto al letto, poi non mi preoccupo di andare a stringere la sua mano fredda per confortarlo. Il gesto sembra gradito, perché non fa niente per evitare che io smetta di carezzarne il dorso con il pollice. – Ed io? Tutte le mie prime volte… vedo solo il vuoto, nessuna vita, solo il vuoto. –
- Ascolta, Sherlock… - Dico, senza staccare la mia mano calda dalla sua.

Il suo palazzo mentale, quello che a lui serviva per immagazzinare ricordi, informazioni utili, adesso era crollato come un castello di carte con una folata di vento. Le informazioni perdute, come incenerite dalle fiamme.

- Non è tutto perduto. Noi ti staremo accanto, finché nella tua testa rifioriranno quei ricordi che tanto brami di riavere indietro. Ti aiuteremo con tutti i mezzi possibili, e vedrai che a poco a poco quando farai qualcosa la troverai familiare, e ti ricorderai quando è avvenuta in passato. Ti prometto che la tua mente tornerà come prima, e che sarai ancora più brillante e lucido di quanto già non lo fossi. – Le sue iridi sono ricolme e straboccanti di speranza. So che ha capito che noi, e soprattutto io, ci faremo in quattro pur di aiutarlo, ma qualcos’altro lo attanaglia e me lo fa subito presente con la sua flebile voce.
- Mi merito tutto questo affetto? – La sua domanda mi stupisce e mi fa boccheggiare confuso. Vedo la sua tristezza dipinta in viso e non riesco a capire perché se ne sia uscito con questa assurda domanda.
- Certo, Sherlock, ovviamente! Perché dici questo? –
- Beh, da come ho capito… per alcuni sono un tipo insopportabile, lunatico e calcolatore, magari non me lo merito e… -
- William Sherlock Scott Holmes, questa è un’idiozia bella e buona! Tu te lo meriti, eccome. Molte persone grazie a te sono ancora vive, molti pericoli grazie a te sono stati scampati, e chi ti sta intorno… credimi… non può vivere senza di te. –

IO non posso vivere senza di te.

- Lo pensi davvero? – Annuisco convinto delle mie parole. Tutto ciò che gli ho detto è vero. Sul suo viso compare un minuscolo sorriso sollevato, poi annuisce e per la prima volta dopo tanto tanto tempo, io e Sherlock ci stringiamo la mano affettuosamente, dita intrecciate e palmi a contatto. Il mio cuore si scalda e un barlume di speranza si accende nei miei occhi.
- Chi ti ha detto che sei un calcolatore insopportabile, tanto per saperlo? - Chiedo poi, incuriosito e furioso allo stesso tempo per la tale mancanza di tatto di questo presunto individuo.
- Nessuno. –
- Nessuno? –
- L’ho capito da solo. Tutti, a parte te e i miei genitori, quando entrano in questa stanza si sentono in soggezione. Mi guardano tenendo la traiettoria visiva verso il basso e parlano a malapena, ma quando lo fanno hanno paura di aprire bocca, quindi deduco sia per una mia possibile sgarbata reazione. Non lo fanno per pena o compassione, la loro voce non tremerebbe in quel modo se così fosse, quindi è ovvio sia per questo motivo. Ero solito essere sgarbato e insopportabile! – Le parole escono dalla sua bocca come un fiume in piena. Non smette di fissare un punto fisso davanti a sé ed utilizza quel tono di voce che di solito ero abituato ad udire sulle scene del crimine, quando faceva le sue infallibili deduzioni e ci spiegava i dettagli in modo che anche noi comuni mortali potessimo capire.

Eccolo, c’è ancora il vecchio Sherlock in lui.

- Ho detto qualcosa che non va? – Mi chiede, dato che non ho accennato ad una risposta per un po’. Mi accorgo di avere la bocca spalancata solo quando la richiudo per risvegliarmi da quella sorta di trance. Gli occhi sbattevano quasi convulsamente dalla sorpresa.
- No, è solo che… eri così anche prima. Quando deducevi parlavi in questo modo, senza fermarti, con questo tono superiore, mantenendo quello sguardo indagatore e azzeccando ogni cosa… il vecchio Sherlock è ancora in te! Possiamo farlo tornare! – Lui ridacchia amaramente e, forse senza nemmeno accorgersene, inizia a carezzare le mia dita con il pollice in un gesto rapido e nervoso ma abbastanza piacevole per il sottoscritto, perché non ho intenzione di lasciare la sua mano.
- Quindi ho azzeccato, sono insopportabile. –
- No, Sherlock… - Dico scuotendo la testa con vigore. – Alla gente infastidisce sentirsi dire delle verità nascoste. Tu eri in grado di capire tutto, ma non sei insopportabile, d’accordo? – Mi rivolge quello sguardo impacciato, poi annuisce lentamente e torna a poggiare la testa sul cuscino fissando il soffitto.

Le nostre mani ancora unite.

- Vorrei dormire un po’ – Sussurra dopo un po’, socchiudendo gli occhi.
- Certo. Ti lascio riposare allor… - Mi sono alzato e sto per allontanarmi, ma le sue dita si stringono più forte attorno al mio polso, impedendomi di fare un qualunque passo. Quando guardo Sherlock, noto i suoi occhi sbarrati e spaventati che corrono lungo tutta la mia figura, il suo petto si alza e si abbassa velocemente e per un attimo ho paura che stia avendo un attacco di panico.
- Non andare… - Sussurra fermando le sue iridi nelle mie. – Non lasciarmi solo, aspetta che mi addormenti… ti prego. – Le mie dita si intrecciano nuovamente con le sue e non posso fare a meno di sorridere confortante mentre torno a sedermi su quella scomoda sedia.
- Non me ne vado. – Dico in un sussurro.
- Se passa la signora Hudson… dille che il brodo era squisito, e ringraziala. – Annuisco lentamente, e solo dopo Sherlock si lascia sfuggire un sorriso sollevato e chiude esausto gli occhi, dormendo profondamente e come un bambino.
Non lascio il suo capezzale, finché, dopo circa un’ora, sento un leggero bussare alla porta della stanza. Mio marito gira appena la testa, con un’espressione leggermente infastidita, ma la cosa sembra non toccarlo affatto, perché poi continua a dormire beatamente. Per non urlare un “avanti” che avrebbe rischiato di svegliarlo, mi alzo personalmente e vado ad aprire la porta. Mi sarei aspettato di vedere Mycroft, Lestrade, i signori Holmes, ma non Sarah, con il camice sbottonato e il fiatone.
- Sarah! – Esclamo a bassa voce. Lei si sistema prontamente le ciocche di capelli in disordine dietro le orecchie. Ovviamente ho preso delle ferie e so che si sta facendo in quattro per coprire il mio turno insieme agli altri colleghi. Gliene sono debitore.
- Ciao, John. Sono passata a vedere come vanno le cose. – Dice piegando la testa per lanciare un’occhiata a Sherlock che dorme ancora tranquillamente.
- Oh, è molto gentile da parte tua. – Questa è la seconda volta che lo viene a trovare, ed è la prima che lo vede fuori dal coma. Non aveva tempo per via del lavoro, ma vista l’ora di pranzo ha deciso di passare in fretta, prima di recarsi a mangiare un boccone.

John, piantala di dedurre anche tu adesso!

- Se la sta cavando bene? –
- Oh, sì. Oggi mi ha fatto la sua prima deduzione! –
- Beh, è un buon segno! – Dice, sinceramente felice per lui e per me. Io mi scosto per farla entrare, ma lei scuote la testa rassegnata. – Non ho tempo per restare, mi dispiace. – Io annuisco ed incrocio le braccia al petto. – Si ricorda qualcosa? –
- Niente… però ha sviluppato un certo attaccamento nei miei confronti, poco fa non voleva che uscissi dalla stanza per lasciarlo riposare. –
- Non ha sviluppato nessun attaccamento. – Dice lei, sollevando le sopracciglia. Io la guardo senza capire e lei si affretta a spiegare. – Tu sei stato la persona più importante della sua vita: il suo primo bacio, la sua prima volta, il suo primo vero amore. Anche se non si ricorda di te, il suo subconscio gli suggerisce che avete un forte legame ed istintivamente, forse senza nemmeno accorgersene, non può fare a meno di te. – Il mio sguardo cade su mio marito, disteso supino, con gli occhi chiusi e le labbra semiaperte, quell’aspetto fanciullesco e quel suo viso dalla pelle liscia, martoriato da graffi, suture e sofferenze dovute alle ossa rotte e al dolore alla testa.

Sarah potrebbe avere ragione.

Non riesco ancora a togliermi dalla testa quei suoi occhi terrorizzati quando ho cercato di allontanarmi per lasciarlo dormire senza distrazioni. Lui vede in me qualcuno di importante, sa che per lui sono importante… solo che deve ancora capire il perché.
- Come fai a sapere queste cose? – Le chiedo, tornando a guardarla con un sorriso triste sulle labbra.
- Quando mi hai detto della sua amnesia ho fatto qualche ricerca e degli esperti specialisti hanno proprio affermato ciò che ti ho spiegato. – La sua mano si poggia dolcemente sul mio braccio e il sorriso che nasce sulle sue labbra trasmette conforto e ottime aspettative. – Niente è perduto, quindi. –
Anche quando Sarah è andata via, anche mentre sono ancora seduto su questa sedia scomodissima, guardando il viso rilassato di Sherlock, non posso non essere contento di ciò che mi ha fatto capire.



Note autrice:
Ci siamo, ecco il secondo capitolo!
Sono contenta che questa storia vi stia piacendo, spero che possiate continuare ad apprezzarla.
Volevo anche farvi gli auguri di Buon Natale in ritardo, spero che lo abbiate passato bene.
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 3
*** Latte e zollette ***


Latte e zollette
 


 
Siamo tornati a casa con l’auto di Mycroft.
Non è stato molto difficile portare Sherlock fino al parcheggio, dato che le sue gambe non avevano subito alcun danno, ma aveva comunque bisogno di sostegno perché le sue forze non erano del tutto tornate a dominare il suo corpo stanco.
Ho preferito che fosse Violet ad aiutarlo a vestirsi, non volevo si sentisse in imbarazzo sotto il mio sguardo, nonostante ciò che Sarah mi aveva fatto notare sul suo comportamento nei miei confronti. Ha indossato la camicia viola.

Quanto amo quella camicia… la indossava alla nostra prima volta, è stato bello sfilargliela furiosamente dalle spalle, mentre la mia bocca si dedicava alla pelle liscia del suo petto.

La manica del braccio destro era arrotolata fin sopra il gomito, per non intralciare il gesso. Per tenere su il braccio i medici gli avevano fornito un tutore. Il suo completo nero comprendeva la giacca che aveva lasciato appoggiata sulle spalle.
Durante il tragitto verso la macchina si era aggrappato al mio maglione con la mano sana e si era lasciato sfuggire un sospiro ogni volta che ci trovavamo sempre più vicini al veicolo scuro, con il quale di solito il maggiore degli Holmes viene a prendermi per comunicarmi qualcosa di urgente.
Dopo essersi accomodato sui sedili posteriori accanto a me, le sue dita non hanno smesso di stringere il mio indumento e quando mi sono girato per guardarlo i suoi occhi erano chiusi e riuscivo a vedere il suo pomo d’Adamo andare su e giù per il nervosismo. L’essere così spaventato non è da lui.
Adesso siamo arrivati all’appartamento, seguiti da Violet. La signora Hudson ci accoglie contenta e ci accompagna al piano di sopra, dove sono sicuro di trovare Siger e Mycroft. Avevano detto di voler preparare qualcosa di speciale per lui, non hanno specificato cosa, forse un pranzo particolare per rimetterlo in forza… mio suocero sapeva essere un ottimo cuoco quando voleva, e dubito che il maggiore degli Holmes si fosse disturbato di muovere un solo dito ai fornelli, quindi forse il suo contributo era supervisionare il tutto, la cosa che sicuramente gli riusciva meglio.
- Ho pulito la casa maniacalmente, e mi sono premurata di farvi la spesa in occasione del vostro ritorno. – Dice la nostra padrona di casa mentre ci fa strada su per le scale. Violet è davanti a noi, io preferisco stare dietro, accanto a Sherlock, tenendo una mano sulla sua schiena per aiutarlo a salire: le sue costole sono ancora fratturate e deve stare attento a come cammina.
- Grazie signora Hudson, è un angelo! Ma non doveva disturbarsi, avrei fatto tutto io da oggi in poi. – Dico mentre Sherlock si guarda incuriosito intorno, superando trionfalmente gli ultimi gradini.
- Oh, non diciamo idiozie! Prendersi cura di Sherlock porterà via del tempo e alle pulizie posso benissimo pensarci io! – Aggiunge poi mentre apre lentamente la porta che ci condurrà al salotto.
Non mi aspetto per niente quello che viene dopo. Ci sono tutti, urlano un allegro e festoso “sorpresa!” non appena io e Sherlock mettiamo piede nella stanza: Lestrade è appena tornato dal lavoro, di sicuro. Non ha perso tempo a raggiungere Baker Street. Molly indossa il suo adorato maglione colorato e un paio di jeans, ha lasciato i capelli sciolti lungo le spalle, adesso il suo viso è ben incorniciato… non ricordo delle volte in cui l’ho vista senza la sua coda di cavallo. Siger è sorridente e felicemente sollevato di vedere il figlio… e credo sia lo stesso anche per Mycroft, anche se sta in un angolino a cercare di contenere l’entusiasmo con l’accenno di un sorriso. C’è addirittura l’infermiera di cui Mycroft ci aveva parlato.
Si sente il rumore di una bottiglia di spumante che viene stappata e subito dopo gli applausi che fanno arrossire vistosamente il volto del mio consulente investigativo. Lo vedo accennare un sorriso di ringraziamento ed io sono felice che loro abbiano avuto questa meravigliosa idea per far sentire Sherlock a casa.
Dopo aver ricevuto il bicchiere di spumante ha iniziato ad ispezionare l’appartamento. Si è soffermato su tutti i dettagli, perfino i più futili: le due grandi finestre, il grande tappeto, le poltrone, le lampade, il caminetto, il teschio poggiato su di esso, il divano e poi… ha guardato con occhio critico lo smile giallo che lui stesso aveva disegnato per noia.
- Sei stato tu. – Mormoro con le labbra vicino al bicchiere mezzo vuoto, prima di mandare giù un lungo sorso.
- Davvero? – Mi chiede stupito, sollevando un sopracciglio.
- Già. –
- E questi? – Indica i buchi causati dalle pallottole.
- Sempre tu, ti annoiavi. –
- Fammi capire bene, io sparavo alle pareti quando mi annoiavo? – La sua voce è stridula, quasi non crede a ciò che era capace di fare. Sembra di scherzare su un’altra persona, non di Sherlock Holmes, ma di qualcuno che non è presente.
Lo vedo scuotere la testa con un sorriso divertito, poi sposta gli occhi sugli appunti, le cartine e le foto attaccate sopra al divano e cerca di decifrare il filo rosso che ha attorcigliato tempo fa alle puntine da disegno per collegare le foto tra di loro. Le x segnavano le facce di alcuni individui sulle immagini, alcuni segni con un pennarello tracciavano un percorso ben preciso sulla mappa.
- Stavi lavorando ad un caso prima dell’incidente. Non lo hai ancora risolto... non hai fatto in tempo. – Dico a voce bassa, facendo ondeggiare il liquido chiaro dentro il mio bicchiere. Lui fa scorrere lo sguardo sulla mappa che aveva messo insieme con le sue mani e il suo infallibile senso di deduzione, ma vede solo confusione adesso.

Sherlock Holmes che non capisce la mappa di un caso...

Si tratta di un furto alla banca del suo amico Sebastian, lo stesso del caso del banchiere cieco. Nessuno capiva come questo qualcuno fosse entrato nel caveau e come avesse fatto a prendere tutto quello che poteva senza lasciare tracce abbastanza importanti per incastrarlo. Il “furto perfetto” lo aveva chiamato Sherlock, mentre sistemava le foto dei sospettati. I percorsi segnati sulla cartina erano le possibili via di fuga che il ladro avrebbe potuto prendere quella notte. Le vie cerchiate in rosso erano invece quei luoghi che Sherlock credeva fossero possibili nascondigli.
So che aveva scoperto qualcosa il giorno dell’incidente, che aveva avuto un lampo di genio sul caso e che era così euforico della scoperta che aveva lasciato stare la mappa degli indizi per scappare al piano di sotto (almeno così mi ha raccontato la signora Hudson, che aveva assistito all’urlo entusiasta che aveva lanciato all’improvviso mentre studiava ogni singolo dettaglio di quel caso). La troppa felicità lo ha reso distratto mentre si addentrava sempre di più sulla strada per chiamare un taxi e poi… il furgone, e sapete tutti come è andata a finire.

Non sapremo mai cosa Sherlock avesse scoperto.

Le sue dita sfiorano delicatamente la scritta che aveva scarabocchiato lui stesso sulla cartina “il ladro invisibile”, prima di riprendere a parlare: - Le indagini stanno comunque proseguendo? – Nel preciso istante in cui pone quel quesito mi accorgo che Greg ci sta ascoltando, forse dall’inizio della conversazione.
- Alla cieca. – Dice infatti, addentando uno degli stuzzichini che la signora Holmes aveva preparato per l’occasione. – Non abbiamo prove sufficienti e stiamo brancolando nel buio, se non scopriamo qualcosa il caso potrebbe essere archiviato. – Sherlock annuisce, addolorato dalla notizia, poi abbassa lo sguardo e tossicchia appena per schiarirsi la voce. – Ma non devi pensarci adesso. Sei qui, stai bene e stai guarendo, conta questo. – Continua l’ispettore, accennando un sorriso confortante verso di lui, che però non ricambia. – Adesso, se non vi dispiace, devo cercare di corrompere tua madre per la ricetta di questi stuzzichini, sono ottimi! – E detto ciò si allontana verso la cucina.
L’espressione affranta sul viso di mio marito non è cambiata. Devo fare qualcosa per distrarlo e in fretta.
- Vorresti vedere la tua stanza? – Chiedo, riuscendo fortunatamente a smuoverlo da quella situazione.

Chissà come si sente inadeguato ed inutile in questo momento.

Oh, Sherlock…

Il mio Sherlock.

Subito dopo ci ritroviamo a camminare verso lo stretto corridoio, superando i nostri amici che se la ridono tra di loro, bevendo e smangiucchiando una delle ottime creazione di Violet, poi, arrivati davanti alla porta aperta della camera, Sherlock si ferma e comincia a guardarsi intorno curioso, deglutendo vistosamente, facendo quindi concentrare la mia attenzione sul suo nervoso pomo d’Adamo.
- Non dormi molto di solito, dicevi che ti rallentava e preferivi fare esperimenti sul tavolo della cucina fino a tardi. – Lui non risponde, si limita a compiere qualche passo verso l’armadio e spalanca una delle due ante. La sua mano scorre tra gli abiti perfettamente stirati e appesi alle apposite grucce, sfiorando camicie e giacche. I suoi occhi si soffermano sullo specchio appeso all’anta. La vista del suo viso leggermente tumefatto lo fa rabbrividire e preferisce distogliere lo sguardo e richiudere l’armadio con delicatezza. Subito dopo si siede sul letto ed accarezza la stoffa della trapunta verde, senza smettere di seguire con gli occhi il movimento della sua mano sulle pieghe delle lenzuola.
- Tu dove dormi? –

Dormo qui con te, Sherlock. Tutte le notti, incollato al tuo corpo snello, avvolgendolo con le mie braccia, poggiando la fronte contro la tua nuca, respirando il dolce profumo del tuo bagnoschiuma preferito, sfiorando la tua pelle liscia con la punta delle dita e guardandola rabbrividire al passaggio della mia mano. Dormo con te, in questo letto, stringendoti e lasciandomi stringere, come se avessimo paura di perderci, mormorandoti parole dolci che so che ti fanno scivolare via lo stress, dandoci la buonanotte con un bacio pieno di promesse. E non smettendo un attimo di cercarci, perché senza quel contatto reciproco e intimo non possiamo dormire sogni tranquilli e sereni. Sogni di cui entrambi siamo i felici protagonisti.

- La… la mia stanza è di sopra. – Dico poggiando il bicchiere vuoto sul comodino e prendendo subito dopo posto accanto a lui. Starò facendo la cosa giusta nel volergli lasciare i suoi spazi? – Ma dormirò sul divano, così che mi sarà più facile raggiungerti nel caso di un’emergenza. Dal piano di sopra potrei anche non riuscire a sentirti. –
- Su quel divano? Scherzi? Sembra così scomodo! –
- Figurati, ci ho dormito altre volte. –
- Non voglio che dormi su quel coso. –
- Perché no? –
- Perché non dormiresti. – I suoi occhi si puntano nei miei e li vedo lucidi mentre le sue pupille scattano velocemente sul mio viso. Deglutisce e si porta una mano sul torace, a tastare delicatamente le costole doloranti, in un inutile tentativo di alleviare l’incessante dolore. – In ospedale facevate i turni, tu e i miei genitori, su quella sedia malandata. Non vorresti un letto comodo? –
- Preferisco tenerti d’occhio più da vicino. – Dico osservando la sua mano che massaggia piano quel punto dolorante. – Credo sia ora del tuo antidolorifico. – Annuncio mentre mi alzo dal letto, facendo strusciare le gambe contro la trapunta ruvida.
- John… - Stavo per raggiungere il corridoio ma la sua voce mi ha fermato. Mi giro, in modo da poter essere faccia a faccia con lui ed aspetto una qualche reazione da parte sua, che non tarda affatto ad arrivare. – Mi chiedo quanto tu ci tenga a me per dover sopportare di dormire su una sedia e un divano scomodo. – Si aspetta una mia risposta, a giudicare dal suo sguardo indagatore… ma la realtà è che non ne trovo una adeguata e giustificabile. Non posso di certo uscirmene con un “perché ti amo”, o almeno non ancora.
Mi limito ad accennare un sorriso e me ne esco dicendo soltanto “prendo le pillole”.
La festa va avanti senza intoppi. Dopo aver dato gli antidolorifici a Sherlock, lui sembra aver dimenticato la conversazione che avevamo affrontato in camera da letto, ma non ho idea se ci stia ancora pensando senza farsi notare, se stia cercando da solo una risposta o se semplicemente lo abbia rimosso.
È stato comunque abbastanza felice di trascorrere quelle ore in nostra compagnia, tra aneddoti divertenti che lo riguardavano, abbuffate abbondanti di succulenti antipasti preparati con amore da Violet e bevute allegre, brindando alla sua salute.
L’argomento principale è stato il caso dello studio in rosa. Lestrade ed io siamo stati molto accurati nello spiegargli i dettagli, a partire dal ritrovamento del corpo e dal nostro primo incontro, fino alla morte (secondo Greg inspiegabile… beh, tutti sappiamo a chi sia dovuta quella morte) del tassista assassino che offriva alle sue vittime la scelta fra due pillole.
Poi abbiamo parlato del modo inquietante con cui Mycroft si era presentato a me, spaventandomi e prelevandomi con l’auto nera, facendomi credere che fosse un tipo con cattive intenzioni. Quando abbiamo raggiunto questo argomento, il diretto interessato non si è scomposto dal suo angolino, poggiandosi pigramente al manico dell’ombrello.
Sherlock mi ha chiesto se avessi scritto di questo caso nel blog e io gli ho promesso che glielo avrei letto, un caso a settimana, proprio come avevamo stabilito in ospedale, mentre lui era disteso su quel maledetto letto. In fondo è stato uno dei casi più seguiti e amati sul mio sito web!
Oh, gli ho detto che anche lui ha un blog tutto suo ed è rimasto incuriosito quando gli ho spiegato che i suoi argomenti trattavano i duecentoquaranta tipi di tabacco, i diversi tipi di terriccio e le proprietà tessili della lana. Soprattutto quando Mycroft mi ha corretto, esclamando “Duecentoquarantatré, John!”, facendo così ridacchiare il detective al mio fianco.
Ovviamente, dopo tutto questo baccano, la mia testa sta per esplodere, mentre Sherlock sembra soltanto un po’ stanco ma felice. Tutti sono andati via, lasciando quel tepore di serenità nell’aria. Lui è seduto sulla sua solita poltrona, ma non accavalla le gambe e non distende le braccia sui braccioli come faceva sempre, poggiandosi comodamente con la schiena. Al contrario, adesso è teso, la sua schiena dritta, le gambe piegate ed unite e la mano sana sul ginocchio.
- Ti piace qui? –
- Sì, è accogliente. –
- E gli altri come ti sembrano? –
- Sono stati gentili, mi sono divertito a sentire quella storia su Jennifer Wilson, solo che… - Il suo tono è felice all’inizio, ma poi si è fatto flebile e sussurrato mentre inizia a giocherellare con la stoffa ruvida dei suoi pantaloni, prendendola fra pollice ed indice per strofinarla. – Beh, non me lo ricordo, è stato come sentire una bella storia che ha vissuto qualcun altro, tutto qui. – Io annuisco con un sospiro pesante e mi accomodo sulla poltrona di fronte.
- Forse hai bisogno di passare del tempo sui luoghi in cui hai vissuto i momenti più importanti della tua vita. Quando starai meglio con le costole e il braccio ti ci porterò sicuramente. – Lui mi sorride sollevato, poi rilassa appena le spalle e si poggia con la schiena alla poltrona.
- John… -
- Sì? –
- Vorrei tanto una tazza di… - Esita, come se non si ricordasse cosa viene dopo, come se non avesse mai imparato il termine che aveva intenzione di usare. Vedo il panico nei suoi occhi farsi sempre più grande, fargli tremare le gambe. – Di… è caldo, la gente lo beve per rilassarsi… - Mormora quelle parole quasi incomprensibilmente, tanto che devo sporgermi per capire cosa stia dicendo. Il dottore aveva detto che ci sarebbero stati dei momenti di confusione, momenti in cui non si sarebbe ricordato nomi di cose semplici come queste. – Lo beve il pomeriggio… alle cinque… - Non dico niente perché vorrei che lo ricordasse, vorrei che ragionasse e che trovasse da solo quella parola… ma il suo sguardo smarrito e spaventato, lucido e pieno di imminenti lacrime mi dicono proprio che non ne è in grado. – John… - Mi guarda e sussurra il mio nome come una supplica, con la voce tremante e debole.
- Una tazza di tè? –
- Sì… sì, quella. – Sussurra, tirando su con il naso, mentre si passa una mano sotto all’occhio sinistro, nell’intento di asciugarsi una lacrima. – Con un po’ di latte e due… due… - Serra gli occhi e si sforza di pensare, ma so che è allo stremo e non ci riesce, quindi intervengo nuovamente.
- Due zollette? – Annuisce senza aprire gli occhi, continuando a stringerli, forse per cacciare indietro tutte le altre lacrime. Non voleva piangere, né sembrare debole davanti a me… o forse davanti a tutti. Le sue dita raggiungono immediatamente i suoi occhi chiusi e cominciano a stropicciarli, come a voler cacciare via il suo senso di inadeguatezza. Ma riesco comunque a sentire i suoi singhiozzi mentre mi avvicino al fornello per mettere il bollitore sul fuoco. Probabilmente ha sentito il mio sguardo addosso, cosa che purtroppo non ho potuto evitare, quindi si alza frettolosamente, con il rischio di provocarsi delle fitte alle costole, e si posiziona davanti alla finestra, prestando attenzione alla strada.
Mi soffermo sulle sue spalle, fasciate dalla camicia stretta, in grado di mettere in risalto ogni dettaglio di quella schiena perfetta. Si alzano e si abbassano lentamente al ritmo dei suoi respiri profondi.
Mi immagino le sue dita picchiettare nervosamente e le sue palpebre strette. Riesco addirittura a vederlo tremare, ma non capisco se per la rabbia o per la paura. Una volta, in questi casi, era meglio lasciarlo solo e fargli scaricare i nervi, non disturbarlo o ti avrebbe attaccato verbalmente senza alcuno scrupolo, insultando ogni cosa ti stesse a cuore pur di allontanarti, ma adesso… adesso non so come potrebbe reagire se solo mi avvicinassi per consolarlo.
Beh, di solito stava così quando era annoiato o quando non riusciva a risolvere un caso nei tempi che lui stesso si era prestabilito, stavolta il movente è decisamente più grave e significativo. Non dovrebbe respingermi, non dovrebbe attaccarmi, probabilmente accetterà di essere consolato.
Poco dopo, la sua tazza di tè fumante è pronta, con il latte e le zollette. Sherlock è ancora di fronte alla finestra, i respiri profondi e veloci non sono andati via e per un attimo ho paura si tratti di un attacco di panico… e sicuramente lo è. Mi avvicino, stringendo il manico della tazza e facendo passi ampi e lenti. Mi fermo proprio davanti alla sua schiena e sollevo lo sguardo verso il cumulo di ricci sulla sua nuca. All’improvviso non so cosa fare, perché non riesco ad immaginarmi la sua reazione se solo provassi a consolarlo com’ero solito fare prima che tutto questo casino accadesse. Ma era l’unico modo per calmarlo tempo fa, quindi prendo un respiro profondo e lascio la tazza calda sul tavolo poi, con mani tremanti, cingo i suoi fianchi. Lui sussulta, non aspettandosi un simile gesto da parte mia e per un attimo ho paura che possa scappare via, ma quello che fa dopo mi sconvolge positivamente. Con la mano libera cerca subito la mia sul suo fianco e fa in modo che le nostre dita si intreccino teneramente, e a quel punto, dopo aver capito che non ha alcuna intenzione di respingermi, avvolgo totalmente i suoi fianchi tra le braccia, facendo attenzione a non premere troppo. La sua mano si stringe ancora di più alla mia e il suo capo si abbassa, mentre io poggio timidamente la fronte contro la sua spalla tesa.
Vedo da sopra la sua spalla i suoi occhi chiusi e le pupille muoversi convulsamente sotto le sue palpebre, le goccioline di sudore scendere dalle sue tempie e riesco perfino a vedere quanto le sue palpitazioni siano aumentate dalla vena pulsante sul suo collo.

È decisamente un attacco di panico.

Mi sposto quel tanto che basta per finire davanti a lui, le braccia ancora attorno ai suoi fianchi e la sua mano adesso poggiata sul mio avambraccio. La fronte si scontra delicatamente con la sua, ma non accenna ad aprire gli occhi e le sue pupille non smettono di muoversi, né la sua bocca smette di reclamare ossigeno. Le mie dita si spostano quindi ad incorniciare il suo viso e a sollevarlo appena, i miei pollici carezzano piano le sue guance pallide di paura e solo a quel punto posso vedere le sue palpebre schiudersi, liberando più lacrime di quante me ne aspettassi.

Non sono abituato a vedere uno Sherlock così tanto fragile.

Adesso è il suo braccio che cinge il mio fianco e le sue iridi sono tuffate nelle mie, i nostri sguardi incatenati mentre io cerco di trasmettergli attraverso il linguaggio del corpo tutta la sicurezza e l’affetto possibile. Le mie mani che accarezzano sembrano dirgli “sono qui, non sei solo e non lo sarai mai”, i miei occhi invece dicono “va tutto bene, adesso passa”.
E il messaggio arriva forte e chiaro, perché dopo alcuni minuti Sherlock torna a respirare normalmente, non trema più e l’unico sintomo del panico rimastogli sono le lacrime che ancora non smettono di sgorgare.
- Vuoi una bella notizia? – Sussurro, attirando completamente la sua attenzione. Lui annuisce velocemente ed io accenno un minuscolo sorriso prima di riprendere a parlare. – Ti sei ricordato del tè con il latte e le due zollette. Tu lo prendevi sempre così. – Sembra sollevato dalla notizia, perché ricambia il sorriso e per poco non ridacchia fra le lacrime.
- Davvero? –
- Davvero. – Mormoro in risposta, asciugando con il palmo delle mani le sue guance rigate dalle lacrime. E ciò che fa dopo fa saltare un battito del mio cuore, perché ha immerso la testa all’incavo del mio collo e mi sta stringendo con forza. So cosa vuole dire, ormai ho imparato il linguaggio del corpo alle perfezione, soprattutto il suo. Mi sta chiedendo di non lasciarlo, e mi sta ringraziando per le mie ultime parole.
Quella sera arriva in fretta. Sherlock era così stanco e stremato emotivamente che si è addormentato non appena la sua testa ha toccato il cuscino del suo letto comodo, con l’aiuto di Janet, l’infermiera che ho avuto modo di conoscere alla festicciola. Mi ha dato tutte le indicazioni per le medicine da somministrare e poi è andata via.
Guardarlo mentre dorme così profondamente mi fa sentire piccolo ed insignificante e mi riporta indietro ai giorni del coma.

Ho forse paura che non si risvegli?

John, non pensarci.

Dovrei alzarmi da questo letto e raggiungere il divano, devo lasciarlo dormire e non posso perdermi a fissare il suo viso angelico e rilassato, sperando che la sua memoria riaffiori in quei momenti in cui su questo stesso letto ci coccolavamo prima di sprofondare nel mondo dei sogni.
Spengo l’abatjour sul comodino ed esco con passi leggeri dalla stanza, lasciando la porta leggermente socchiusa, così che possa sentire in caso di emergenze. Quando arrivo in salotto mi blocco a guardare il punto esatto in cui Sherlock si era lasciato andare a quel maledetto attacco di panico. Il solo pensiero di averlo visto così sofferente e fragile mi attanaglia e mi scava dento, creando un vuoto colossale nel mio cuore, un buco profondo e inquietante, pieno soltanto di paura e tristezza… e non posso trattenere le lacrime mentre mi raggomitolo sul divano.

Per quanto tempo ho cercato di trattenermi?

E per quanto speravo ancora di riuscire a mantenere la calma?

Questo pianto silenzioso contribuisce alla mia emicrania e, anche se vorrei dormire data la mia stanchezza, non ci riesco perché nella mia testa continuo a ripetere quella supplica, quella preghiera disperata quasi quanto il mio pianto irrefrenabile:

Ti prego, fai che stia bene.




Note autrice:
Sono stata più veloce questa volta, giusto perchè vorrei lasciarvi un capitolo in tempo per la prima puntata di Sherlock... ed anche perchè le feste mi terranno occupata. Per non parlare dello sclero per la quarta stagione.
Spero possa piacervi e che possiate apprezzare.
A presto!

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Capitolo 4
*** Cocci di vetro ***


Cocci di vetro




In questi giorni Sherlock ha scoperto il suo violino. Lo ha trovato sotto il tavolo del soggiorno e ha pensato fosse mio. Quando gli ho rilevato il vero proprietario è rimasto piacevolmente sorpreso. Ovviamente non può essersi dimenticato come si suona, ma la sua testa è confusa, piena di dubbi e piccoli sprazzi di ricordi insignificanti, ricordi che si accorge di avere solo nel momento in cui si ritrova a svolgere piccole abitudini che non lo hanno mai abbandonato: tenere gli occhi chiusi per concentrarsi, iniziare a preparare il tè anche per me (dopo avermi gentilmente chiesto come lo preferivo), sbuffare quando Mycroft veniva a trovarci per controllarlo, perché diceva che io ero abbastanza per prendermi cura di lui e che non c’era alcun bisogno della sua presenza… certe cose forse non potevano mai cambiare. E adesso pizzicare le corde con la mano sana, con le palpebre chiuse a concentrarsi su ogni nota.
È così che lo trovo quando esco da sotto la doccia e raggiungo il salotto, asciugando parzialmente i capelli con un asciugamano. Per un momento sembra lui, il vecchio Holmes che rimugina su un caso, ma quando guardo il suo braccio ancora ingessato sono costretto a tornare alla realtà.
- Sei ancora in pigiama! – Esclamo, notando che indossa ancora la sua vestaglia blu di seta. Apre gli occhi e li punta immediatamente su di me.
- Dobbiamo fare qualcosa? – Mi chiede, smettendo di pizzicare le corde e piegando leggermente la testa verso destra. Sembra un cagnolino quando è confuso, ed il solo pensiero mi fa sorridere appena mentre riprendo a strofinare l’asciugamano sulla mia testa.
- Oggi hai la prima seduta con lo psicologo. – Dico, ricevendo in risposta un’espressione sorpresa. Se lo era dimenticato forse, e in un certo senso me lo aspettavo, date le sue condizioni.
- Giusto… - Sospira e poggia il violino sotto la poltrona (un’altra delle abitudini), poi si alza e mi supera guardandomi di sottecchi. Lo sento indugiare quando mi passa accanto, sembra quasi imbarazzato… beh, non lo biasimo affatto dato che ho indosso solo una vestaglia. Ma mi è parso di vederlo anche arrossire, o forse sono io che sto dando di matto.
Il suo passo si velocizza e poco dopo si chiude in camera sua.
Ho il tempo di tornare in bagno e di cominciare a sistemarmi come si deve, dato che ho deciso di accompagnarlo ad ogni seduta, almeno finché non riprenderò il mio lavoro in ambulatorio. È una cosa del tutto nuova per lui, e vorrei di sicuro evitare che abbia un altro attacco di panico come l’ultima volta. Non potrei sopportarlo, e nemmeno lui potrebbe.
Indosso una camicia bianca, un suo regalo per l’anniversario. Sì, mi ha regalato un indumento ed è andato nel panico quando ho iniziato a spacchettarla. Ha cominciato a parlare a raffica, facendomi capire che non è un tipo che fa regali molto spesso e che non aveva idea di cosa sarebbe stato giusto per me. Poi ha accennato a quel cardigan:

“Ho visto quel cardigan che Harriet ti ha regalato al tuo compleanno, quello grigio. Così ho pensato che una camicia sarebbe andata bene per abbinarcela… o… non saprei, John. Ci ho pensato per giorni interi, ho chiesto consigli a Molly, e perfino a Sarah su quello che sarebbe stato un regalo perfetto. Sai cosa mi hanno risposto? Che qualunque cosa sarebbe andata bene, che ciò che conta è che ci metta il cuore. Sono andato nel panico. Non metto il cuore nelle cose che faccio se non si parla del mio lavoro e tu lo sai bene, ma se dovevo farlo per te allora ci avrei provato… e mi è venuto in mente il cardigan grigio che tieni in fondo al cassetto e che non metti mai perché sei ancora arrabbiato con tua sorella per il suo alcolismo, e quando ho visto questa insignificante camicia ho pensato che addosso a te sarebbe diventata una camicia speciale… ignorami, sono un completo idiota, non so cavarmela in queste…”

E l’ho fermato, ho interrotto il suo fiume di parole con un bacio. Un qualunque gesto del genere da parte sua per me significava tutto. So che tipo è, so che non ama fare regali, ma quella camicia è diventata la mia preferita da quel giorno, ed era bellissimo vedere il suo sorrisetto soddisfatto ed innamorato ogni volta che la indossavo.
Certo, quando l’ho indossata la prima volta per fargli vedere come mi stava… non nego che due secondi dopo è finita sul pavimento, insieme a tutti i vestiti, formando un percorso ben visibile fino alla camera da letto.

Chissà se lo ricorda.

Penso mentre metto il cardigan grigio in questione, abbottonando delicatamente i bottoni.
Indosso velocemente i jeans, quando vengo interrotto da ovattate imprecazioni che mi fanno corrugare le sopracciglia. Poi sento pronunciare il mio nome con voce irritata e mi affretto a raggiungere la camera di Sherlock, assistendo ad una scena comica per la quale mi costringo a trattenere le imminenti risate.
- Non stare lì impalato, aiutami! – La camicia azzurra che ha deciso di indossare si è incastrata al tutore che mantiene il suo braccio fermo. Con una sola mano non riesce ad afferrare la manica per poterla infilare cautamente dove c’è il gesso. Quindi ha iniziato a girare su sé stesso come una trottola nel tentativo di afferrare invano la stoffa.
- Se magari ti fermassi! – Dico con un sorriso divertito mentre mi avvicino alla sua schiena, individuando il punto d’incastro e facendo scivolare l’indumento da sotto la fascia del tutore per liberarlo. A questo punto potrebbe fare tutto da solo, perché non ha mai avuto problemi a vestirsi con una sola mano, ma stavolta decido che sarò io ad aiutarlo. – Forse prima di infilare la camicia sarebbe stato meglio togliere il tutore, che ne dici? – Dico mentre con cautela sfilo la fascia dal suo collo e rimuovo ciò che tiene sollevato il suo braccio. Lo toglieva sempre di solito, ma questa volta lo aveva dimenticato, come l’aver dimenticato il nome della sua bevanda preferita. I normali sintomi di un trauma cranico, quelli che provocano confusione e piccole distrazioni. Cerco di non farglielo pesare per evitare il suo panico, e ci riesco molto bene, perché si limita a deglutire rumorosamente, consapevole del fatto che aveva appena avuto un altro di quei problemi di memoria. – Non è successo niente, ok? – Dico con voce calda e gentile, e lui annuisce velocemente mentre mi lascia fare.
Mi cimento a sbottonare i suoi polsini, in modo da permettere al gesso di passare tranquillamente attraverso la manica, poi lo aiuto ad indossarla e sposto perfino le mani sul suo petto per allacciare pian piano ogni bottone, sfiorandolo pelle su pelle, ed osservandolo rabbrividire mentre lo faccio. Mi accorgo che le sue guance si sono imporporate e non posso fare a meno di chiedermi se si stia imbarazzando o se invece sia lusingato dalle mie attenzioni.
- Ce la fai a mettere giacca e cappotto da solo? – Annuisce velocemente una seconda volta, facendomi notare quanto in realtà il mio tocco lo abbia reso nervoso. Forse avrei dovuto osare un po’ di meno, penso mentre lui si gira dalla parte opposta per indossare la giacca. Riesce addirittura a rimettersi per bene il tutore e a lasciare il cappotto adagiato sulle spalle, con solo un braccio sistemato nell’apposita manica. – Vado a darmi una sistemata e possiamo andare. –
Circa cinque minuti dopo, Sherlock è già al piano di sotto a conversare con la signora Hudson. La porta d’ingresso è aperta e il taxi ci sta già aspettando.
Lo studio privato del dottor James Portman si trova nella sua graziosa casetta a Southwark. Ci accoglie una governante grassottella e con un gran sorriso che vorrebbe essere cordiale ma che mi fa solo accapponare la pelle per quanto è inquietante.
Veniamo fatti accomodare in un salone modernamente arredato, su un divano ad angolo bianco splendente, talmente tanto che ho paura di sporcarlo anche solo con la forza del pensiero.
- Avverto il dottor Portman. – Dice la donna mentre lascia la stanza.
Per scegliere uno psicologo abbastanza bravo ci siamo rivolti a Mycroft. Lui ha diverse conoscenze e ci ha fornito il numero di questo dottore, e dicono sia il migliore sulla piazza. Ci siamo fidati, se questo significava aiutare Sherlock con la sua memoria.
Lo sguardo mi cade sul vassoio ben sistemato sul tavolino di vetro di fronte a noi: è pieno zeppo di caramelle e cioccolatini. Accanto c’è una pila di riviste di vario genere e mi sorprendo di quanto quel vetro sia splendente e senza una minima impronta digitale.
Aspettiamo circa dieci minuti in totale silenzio e, sebbene io fossi stato attratto da quelle leccornie sul vassoio, ho resistito con tutto me stesso, perché l’idea di lasciare delle cartacce in un posto così pulito mi metteva in ansia. Alla fine il dottor Portman ci viene incontro, facendoci sussultare per via dell’improvviso rumore della porta. Ci siamo presentati e alla fine mi ha chiesto di aspettare lì mentre lui e Sherlock facevano la prima seduta. Mi ha detto di fare come se fossi a casa mia, ma in realtà casa mia non era mai stata così ordinata e pulita. È vero che io lo pregavo sempre di mettere un po’ di ordine, ma guardando il luogo in cui adesso mi trovo penso che non riuscirei a vivere senza il “disordine organizzato” di mio marito.
Mi ritrovo da solo, e non sapendo quanto avrei dovuto aspettare, inizio ad incamminarmi lungo la gigantesca libreria che fronteggia il divano in cui pochi minuti fa ero nervosamente seduto.
Sherlock diceva che la libreria di un uomo è il modo migliore per conoscerlo a fondo. Mi aveva insegnato qualche trucchetto e, nell’attesa, non esito a metterlo in atto.
Il dottor Portman possiede, come mi aspettavo, due scaffali pieni di libri sulla medicina. Noto poi alcuni libri su Freud, altri prettamente scientifici e altri sono biografie di medici e psicologi famosi. Quindi penso sia un tipo abbastanza legato al suo lavoro, tanto da leggere sull’argomento anche fuori dall’orario lavorativo. Ma cosa dire di James Portman che non riguardi la psicologia? Semplicemente lo si può notare dalla sua insolita collezione di libri fantasy. Chi lo avrebbe mai detto!
Non si possono escludere però i libri storici, quelli su vari autori importanti, le opere di Shakespeare, una raccolta di Enciclopedie molto costose ed infine un libro che ha catturato la mia attenzione come una calamita attratta da un’altra: Mozart e le sue opere. A Sherlock piaceva Mozart, avrebbe adocchiato quel volume con evidente apprezzamento se solo si fosse ricordato del suo passato e dei suoi interessi.

Chissà se anche sarebbe riuscito a suonare come una volta il suo preziosissimo violino.

Ci spero, perché mi manca sentirlo suonare anche fino alle tre del mattino.
La seduta dura quasi più di un’ora. Sherlock torna nel salone con la testa bassa, seguendo il dottor Portman e indugiando poco dietro di lui mentre quest’ultimo mi rivolge la parola.
- Dottor Watson, - mi dice con un sorriso soddisfatto – Tutto è andato molto bene. Direi che ci vedremo giovedì prossimo per fissare degli appuntamenti. Voglio vedere il signor Holmes una volta a settimana ed appuntare ogni suo progresso. -
- Perfetto, non c’è problema. –
- Per oggi ci siamo limitati a parlare, ma metteremo in pratica alcuni esercizi per allenare la memoria e poi vedrà che servirà a migliorarlo. –
Ci salutiamo cordialmente, mentre Sherlock accenna ad un movimento leggero con la testa come saluto. Sul taxi inizia a giocherellare con l’orlo del suo cappotto scuro, mantenendo quel timido silenzio a me nuovo da parte sua.
Poco dopo ho il coraggio di chiedergli com’è andata la seduta. Mi ha spiegato che Portman gli ha chiesto di parlare di ciò che ricordava. Ovviamente Sherlock aveva la testa completamente svuotata da ogni memoria e non ha saputo parlare di molto, ma poi ha raccontato di provare delle sensazioni che non gli erano del tutto nuove quando gli capitava di fare una determinata azione. Sensazioni che sapeva aveva provato prima di subire il trauma cranico. Quando gli ha chiesto di spiegare che cosa provava, però, Sherlock non ha saputo rispondere. Così Portman gli ha detto di tornare la settimana prossima e di fare caso alle circostanze avrebbero provocato di nuovo queste sensazioni. Avrebbero lavorato su quello. Le sensazioni sarebbero state il suo esercizio per la mente.
 
***
 
Oggi è sabato. Sono passati due giorni scarsi dalla seduta con lo psicologo, ed in questo periodo Sherlock mi è sembrato più sveglio ed attento. Sembra analizzare tutto ciò che gli sta intorno, e sembra che stia cercando di decifrare un minimo sbalzo d’umore, così da poterlo raccontare al dottor Portman. E come mi accorgo che lo sta facendo? Beh, semplicemente chiude gli occhi e rimane immobile. Se avesse avuto entrambe le braccia funzionanti avrebbe di sicuro portato le mani giunte davanti alle labbra.

Lavori in corso: starà ricostruendo il suo palazzo mentale?

Questa sera Lestrade ci ha fatto una sorpresa. Si è presentato a casa nostra con delle porzioni abbondanti di cibo cinese.
- Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere. – Ha detto con un sorriso sgargiante.
Le abbiamo spazzolate in pochissimo tempo, seduti sul tappeto del salone, con tre bottiglie di birra fredda e una pila di tovaglioli sulle gambe.
- Quindi, come sta andando la riabilitazione di tuo… di Sherlock? –

Marito, gli stava sfuggendo quella parola.

- Bene, bene… - Dico tossicchiando nervosamente, ricevendo delle occhiate di scuse dal mio amico ispettore. Però, quando mi soffermo a guardare Sherlock, lui sembra non essersi accorto di niente, dal modo in cui cerca di afferrare il cibo cinese con le bacchette, senza riuscirci come si deve. È troppo concentrato altrove, grazie al cielo. – Sì, sta facendo enormi progressi per essere solo all’inizio. –
- Magnifico! Quindi… ricordi qualcosa? – I nostri occhi sono tutti rivolti a lui. Sta masticando con piacere il suo cibo quando scuote la testa con vigore. Un movimento abbastanza brusco del capo da fargli scricchiolare l’osso del collo…

Oh, giusto, le sue pillole!

Mi ricordo all’improvviso, scattando in piedi e dirigendomi verso l’armadietto delle medicine, tutte ordinate in base all’orario in cui avrebbe dovuto prenderle.
- Ma ho come dei piccoli déjà-vu e delle sensazioni non del tutto nuove, sto lavorando su questo. –
- Beh, è un ottimo esercizio! – Esclama Greg mentre io riempio di acqua un bicchiere e tiro fuori una pillola dal barattolino di plastica. – Ho notato che non avete ancora rimosso la mappa del caso della banca. – Aggiunge, indicando con il mento gli appunti, le foto e le cartine appese alla parete sul divano.
- Sherlock vuole lavorarci su. – Dico io, passandogli la pillola ed il bicchiere mentre mi rimetto a sedere sul tappeto.
- So parlare da solo, John. – Afferra bruscamente il bicchiere di vetro e porta nervosamente la pillola fra le labbra. – Quello ricordo come si fa! – Non mi guarda nemmeno mentre sputa fuori quelle parole amare che riescono soltanto a farmi sprofondare mille metri sottoterra. Non aveva mai reagito così prima e non ho idea del perché adesso mi abbia parlato con quel tono seccato. Sono forse stato troppo assillante? Ho per caso esagerato in qualcosa? Non riesco a rispondere a tutto ciò mentre mi soffermo a guardare un punto indefinito della stanza.
- Scusa, stavo solo… -
- Parlando al posto mio! – Esclama rivolgendomi finalmente uno sguardo che, purtroppo per me, è abbastanza truce. – Ho perso la memoria, non la capacità di parlare. Ti creerebbe fastidio se rispondessi da solo alle domande di Greg? – Di due cose mi sono stupito: del suo tono sprezzante e accusatorio, e del fatto che abbia chiamato Lestrade col suo vero nome.
- John cerca solo di aiutarti, Sher… -
- IO SO PARLARE DA SOLO! – Il suo è un urlo improvviso che ci ammutolisce, mentre scaglia con forza il bicchiere ormai vuoto sul pavimento, rompendolo in mille pezzi. I suoi occhi sono furenti e sprigionano fiammate di rabbia che mai avevo visto da parte sua, mai così tanta. Per un attimo ho anche paura che possa prenderci entrambi a schiaffi, ma poi vedo i suoi occhi inumidirsi, si guarda intorno spaesato e con la paura dipinta in volto, deglutisce rumorosamente e si alza dal pavimento, raggiungendo velocemente la sua camera e chiudendosi a chiave nella stanza.
Piomba il silenzio, un silenzio assordante che mi è difficile sopportare. Greg si alza in piedi, con un’espressione comprensiva e dispiaciuta, e mi porge la mano per aiutarmi a fare lo stesso. Mi sollevo, sentendo soltanto dopo che le mie mani hanno cominciato a tremare.
- Forse vuoi rimanere da solo. – Mi dice portando le mani nelle tasche dei jeans e tenendo le spalle sollevate, come a voler infossare la testa fra di esse per nasconderla. – Ma posso darti una mano a ripulire. –
- Non ce n’è bisogno Greg, faccio da solo. – Dico con voce calma e tremante allo stesso tempo, mentre faccio vagare velocemente lo sguardo sui cocci di vetro sparsi nella stanza. Lui annuisce, poi poggia una mano sulla mia spalla e mi guarda incoraggiante.
- Sherlock è solo spaventato. – Sussurra, nella sua voce riesco a sentire quanto spera che quella frase mi tranquillizzi. Mi limito a sospirare per riprendere il controllo dei tremori del mio corpo, poi annuisco.
- Ti accompagno alla porta. –
Quando però torno nel salone mi sento mancare le forze, non riesco nemmeno a piangere per il dispiacere, quindi dopo aver poggiato la testa contro il divano, mi addormento profondamente, distrutto. I resti del cibo cinese e del bicchiere frantumato ancora sul pavimento.
Sogno di essere a letto con Sherlock. Sogno di fare di nuovo l’amore con lui, di immergere delicatamente le dita fra i suoi riccioli scuri e di toccare le sue labbra con le mie, di lapparle dolcemente con la lingua e di intrecciare le gambe con quelle chilometriche di mio marito. Sembra tutto vero quando la mia mano sfiora la sua pelle liscia e diafana, quando avverto il suo respiro caldo sulla pelle e quando tuffo i miei occhi nei suoi dalle varie sfumature chiare.

Oh, quegli occhi…

Quando ci ritroviamo abbracciati e silenziosi, con la sua testa comodamente sistemata sul mio petto, mi rendo conto che tutto è solo un sogno, ma ciò non mi impedisce di rivolgermi a lui come se fosse lo Sherlock di qualche mese fa.
- Sherlock… -
- Mh? – Mormora, tenendo gli occhi socchiusi e la voce bassa ed impastata dal sonno e la spossatezza.
- Mi faresti una promessa? – Chiedo mentre la mia mano inizia a giocare con il suo boccolo disordinato, quello che gli cade sulla fronte.
- Non smetterò di riempire il frigo di parti del corpo, se è questo che vuoi chiedermi. – Accenno una risata e scuoto la testa, sollevandomi appena per poterlo guardare meglio negli occhi. Finalmente ho la sua totale attenzione, e posso perfino notare una nota di preoccupazione sul suo volto stanco.
- Non è questo, anche se la cosa continua a darmi fastidio. –
- Allora cos’è? –
- Io so che tutto questo è solo un sogno, e so che tu non sei reale in questo momento. –
- Lo so che lo sai. –
- Sei la persona più intelligente e in gamba che conosca, sai sempre tutto. –
- John, arriva al punto. – Si è spostato su di me e mi sta fissando dritto negli occhi, sovrastandomi con il suo corpo statuario e piacevolmente caldo. Mi sembra di stare in paradiso, è sempre così con i bei sogni, in fondo.

È sempre così con lui.

- Hai probabilità di riacquistare la memoria? –
- Certo. –
- Allora mi prometti di ricordarti di me? – La sua mano si solleva fino al mio viso ed inizia ad accarezzare la mia guancia con devota dolcezza e delicatezza. Da quel tocco riesco a sentire tutto il suo amore, e sembra così reale che non riesco a trattenere una lacrima. I miei occhi si inumidiscono senza che io riesca a controllarmi. Il mio corpo mi tradisce.

Tranquillo, John, è solo un sogno, non è reale.

- Oh, John… - Mormora in un sussurro triste mentre poggia la sua fronte contro la mia. – Solo se mi prometti una cosa anche tu. –
- Qualunque cosa. – La mia voce trema, ma non ci faccio assolutamente caso.
- Voglio rivedere il soldato che eri una volta. La mia situazione ti sta distruggendo pezzo per pezzo e così non va assolutamente. Non lasciarti travolgere. Sii forte per me, io ho bisogno del tuo aiuto per recuperare, e vederti toccare il fondo di certo non mi farà stare meglio. – Le mie labbra accolgono ogni sua parola sussurrata disperatamente contro di esse. La sua non è una semplice richiesta, ma una preghiera.
- Se te lo prometto mi ricorderai? –
- Sì, John. –
- Allora ci proverò. –
- Non devi provarci, devi farlo e basta. – Mi sollevo quel tanto che basta per sfiorare le sue labbra umide in un bacio casto e languido.

Dio, quanto mi mancano quelle labbra.

- Lo farò, te lo prometto. –
Mi sveglio poco prima di baciare l’uomo dei miei sogni. Sono ancora sul divano con la testa poggiata sul cuscino, ma adesso ho una coperta addosso per fortuna, perché sembra esserci abbastanza freddo nella stanza. Mi sollevo lentamente con il busto e sbatto un paio di volte gli occhi per scacciare il sonno. Sul tavolino noto un vassoio con una tazza di caffelatte, dei biscotti, un succo d’arancia e un croissant fumante. Quel profumino sembra rianimarmi e senza pensarci afferro il bicchiere di succo e ne mando giù qualche sorso per dare sollievo alla mia bocca secca.
Poco dopo mi rendo conto che anche i cocci di vetro sono spariti dal pavimento, e che nel vassoio c’è un bigliettino bianco. Lo afferro e sul dorso vi è scritto solo un tremante “mi dispiace”. Mi sfugge un sorriso intenerito e quando sollevo lo sguardo, Sherlock è sulla porta che mi guarda preoccupato e soprattutto pieno di vergogna. Dietro di lui Janet sta già preparando le sue medicine. Non l’ho proprio sentita arrivare…
- John, io… -
- Non c’è bisogno di scusarti. –
- No, John, io devo scusarmi. – Mormora in risposta mentre si stringe nella vestaglia di seta blu. Emette un sospiro e si siede accanto a me, guardando intimidito le punte dei suoi piedi. – Non so cosa mi sia preso ieri sera. Non mi dà veramente fastidio che tu risponda per me e non volevo davvero accusarti di qualcosa. – La sua mano inizia a vagare fra i suoi ricci per scompigliarli ancora di più. – Io so che tu mi stai solo aiutando, e te ne sono grato perché è proprio quello di cui ho bisogno. Credo che la seduta col dottor Portman mi abbia innervosito più del solito, e non so se quella reazione sia dovuta a questo o dal fatto che il trauma cranico mi abbia fatto ammattire… -
- Non ti ha fatto ammattire. Tu sei solo spaventato, tutto qui. E magari io sono troppo assillante nei tuoi confronti… -
- Oh no! – Esclama lui poggiando una mano sulla mia coscia. – Tu sei perfetto. – Quelle parole scatenano il rossore sulle sue guance e un sorriso intenerito sul mio viso ancora assonnato. Lo vedo abbassare lo sguardo imbarazzato, senza togliere la mano dal mio ginocchio. – Lo sei davvero. – Sussurra con un filo di voce quasi impossibile da udire. In risposta lascio ricadere il bigliettino sul pavimento e mi permetto di circondare il suo busto con le braccia e poggiare il mento sulla sua spalla, stringendolo in un tenero abbraccio.
- Questo vuol dire che mi perdoni? –
- Certo che ti perdono, Sherlock. – E non c’è bisogno di dire altro, perché il fatto che anche lui mi stia stringendo mi fa capire che adesso è tutto apposto.




Note autrice:
Prima di dire altro... AVETE VISTO LA 4X01? AVETE SOFFERTO AMARAMENTE COME ME?
Chiudiamo questa dolorosa parentesi.
Il capitolo era pronto da un po' ma il dolore per la puntata non mi dava le forze di pubblicare (l'ho vista tre volte, capitemi). Non so quando arriverà il prossimo ma... volevo ringraziarvi per il successo che questa storia sta riscuotendo, cioè tipo 28 seguiti, MAI AVUTI TALMENTE TANTI. Grazie davvero tesorini!
Spero di poter pubblicare presto il continuo, e che questo vi piaccia.
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 5
*** Il capitano John Watson ***


Il capitano John Watson




Il tempo è volato. Non ho niente di importante su cui soffermarmi di quello che è successo in questa settimana… a parte forse la sera in cui Sherlock mi ha pregato di leggere ciò che io ho scritto sulla nostra prima avventura, Lo studio in rosa. È successo in tarda sera. Sherlock si era fatto trovare a letto con il mio portatile sulle gambe, sapendo che io sarei passato per la sua pillola serale. Non ho potuto resistere dallo sdraiarmi accanto a lui e cominciare a leggere.
Ha ascoltato con profondo interesse, interrompendomi con qualche quesito di tanto in tanto. Subito dopo ho posto la fatidica domanda: “Ti viene in mente qualcosa?”, alla quale lui ha risposto negativamente, si è addirittura scusato con uno sguardo dispiaciuto. Non posso pretendere troppo da lui, in effetti.
Oh, dimenticavo! Ha avuto un’altra seduta dal dottor Portman e ne è uscito abbastanza soddisfatto. Ovviamente sapevo che non me ne avrebbe parlato, ha detto che ciò che loro si dicevano durante le sedute doveva restare segreto, almeno per un po’… mi sembrava addirittura imbarazzato ogni volta che usciva fuori l’argomento “James Portman”, cercava in tutti i modi di deviare il discorso su qualcosa di più semplice. Ho seguito quindi il consiglio della vocina della mia testa:

Lascialo respirare, John!

Oggi è domenica. Sherlock ha sempre odiato la domenica, diceva che era il giorno in cui perfino i serial killer si prendevano una pausa dalle loro attività perché secondo lui morivano di noia. Di solito era il giorno in cui si divertiva a sparare al muro, a lamentarsi per le sigarette e delle regole “assurde” del Cluedo.

Spero che non si ricordi subito di quel gioco, su quello mi faceva sempre sclerare.

Le cose sono leggermente cambiate. Si annoia, come sempre, ma invece di attentare alla parete dell’appartamento si limita a stare seduto sul tavolino di fronte al divano, con le gambe incrociate e lo sguardo fisso alla mappa di Londra e alle foto segnate e attaccate dalle puntine da disegno. Chissà a che pensa mentre storce le labbra verso destra.
Una bella doccia è quella che di sicuro mi aiuterà a rilassarmi, quindi abbandono Sherlock ai suoi pensieri e mi lascio andare sotto il getto tiepido che rapido inzuppa i miei capelli. Ultimamente sono cresciuti abbastanza, dato che badare ad un consulente investigativo non mi ha permesso di dedicare un po’ di tempo a me stesso o per andare dal barbiere. Il ciuffo è abbastanza lungo da coprirmi gli occhi. Certo, sarei potuto uscire tranquillamente lasciando Sherlock nelle adorabili mani della signora Hudson… ma non me la sento di lasciarlo solo, non dopo quell’attacco di panico e d’ira nei miei confronti. Devo tenerlo d’occhio come se ne valesse la mia vita, ed è così in fondo.
Quando mi asciugo i capelli, allora, decido di pettinarli all’indietro, così che quel ciuffo sarebbe rimasto al suo posto. Mi accorgo anche di avere una leggera barbetta incolta sulle guance e sul mento e con questa pettinatura sembro addirittura tutt’altra persona. Potrei giurare di apparire anche più virile e giovane in questo stato. Adesso ho la fronte scoperta e i miei occhi risaltano maggiormente mentre guardo la mia figura allo specchio, penso mentre cospargo una piccola dose di gel sul lavoro appena finito. Sono soddisfatto del risultato.

L’importante è non farsi crescere quegli orribili baffi che Sherlock avrebbe di sicuro bocciato.

In salotto, trovo ancora Sherlock immobile sul tavolino, solo che stavolta ci è salito in piedi e sta fissando con sguardo indagatore una foto posta al centro della sua mappa, c’è raffigurata una donna e lui l’aveva cerchiata con un pennarello rosso, mentre tutti gli altri individui erano stati segnati con una x. Probabilmente sta cercando di ricordare chi quella persona sia.
I miei passi devono aver fatto abbastanza rumore da farmi sentire, dato che adesso si rivolge a me, senza staccare gli occhi dai capelli biondi della ragazza catturata in quell’immagine.
- John, dici che dovrei riprendere ad indagare? –
- Beh, dovresti ricominciare da capo. Devi considerare che per te sarebbe un bello sforzo viste le tue condizioni. – Dico, affiancando il tavolino ed incrociando le braccia al petto.
- Sono giorni che ci lavoro su, nella mia testa. – Mormora muovendo lentamente le dita della mano, quella del braccio fratturato. Ogni tanto lo fa per alleviare il continuo formicolio. – Beh, solo che… ho paura di poter avere qualche piccola ricaduta se mi dedico al lavoro sul campo, forse dovrei continuare a lavorarci da solo. – I miei occhi sono puntati sulla sua alta figura. Il suo corpo guarisce in fretta, è la sua mente che fatica a riprendersi. Non ricorda, confonde facilmente i vocaboli, dimentica le frasi mentre le pronuncia, gli capita di dedurre Greg quando ci viene a trovare, e mi duole ammettere che per il 50% delle volte quelle deduzioni sono errate. Però ci sono degli esercizi che mette in atto, esercizi di cui non sono a conoscenza per via del dottor Portman, ma lui dice che lo stanno aiutando a stabilizzarsi, ad avere la mente lucida.
- Sherlock, sono contento che tu voglia metterti al lavoro e cercare di riprendere la tua vecchia vita, davvero… ma non credi di essere un po’ troppo frettoloso riguardo alla cosa? Insomma, sei ancora abbastanza confuso e non vorrei che tutti questi pensieri contribuissero a far peggiorare il tuo stato. – Abbassa la testa sconsolato. Si è accorto che ho ragione sotto un certo punto di vista, ed il fatto che io sia un medico lo aiuta a capire che i miei consigli sono anche strettamente professionali.
- Già, hai ragione. – Sospira profondamente. – Devo aspettare? –
- Lo preferirei per te, sì. Ma questo non vuol dire che non puoi più dedicartene. Magari una volta ogni tanto potresti lavorarci, ma solo una volta ogni tanto. – Il mio tono deve sembrare dolce e protettivo, perché mentre ancora lo osservo con il suo sguardo basso, posso notare il leggero sorriso fare capolino dalle sue labbra. È in quel momento che si gira e finalmente mi guarda. Il suo sorriso svanisce. Le sue labbra si schiudono leggermente e le sue pupille sono talmente dilatate e sorprese che per un attimo penso al peggio. Si umetta le labbra con la lingua mentre scende dal tavolino senza staccarmi gli occhi stupiti di dosso.
- Stai bene? – Chiedo dopo interminabili secondi di silenzio. Lui distoglie subito lo sguardo e lo fa vagare sul pavimento. Noto il suo nervosismo nel modo in cui cerca di evitare le mie attenzioni subito dopo la domanda che gli ho posto.
- Certo… - Mormora per poi tossicchiare e dirigersi a passo ampio e svelto verso la cucina. Non me la bevo, so che qualcosa non va da quando mi ha guardato in faccia.
- Sei sicuro? – Lo seguo e sto attento ad ogni suo movimento nervoso mentre riempie di acqua il bollitore, forse nel tentativo di prepararsi un tè caldo, l’unico che ho scoperto essere un calmante per lui.

Non va affatto tutto bene, in caso contrario non avrebbe bisogno di tranquillizzarsi con una tazza fumante.

Cosa ti turba Sherlock?

- Sì, insomma… perché non dovrei? – Rimango in silenzio mentre con mano tremante cerca a tutti i costi di accendere il fornello, perdendo la presa sulla rotellina dell’accendino ad ogni disperato tentativo. Mi affretto subito ad aiutarlo e porto la mano a poggiarsi sulla sua, bloccando i suoi tremori. Si gira verso di me e solo dopo svariati secondi, perso nelle sue iridi cangianti con quella particolare caratteristica di eterocromia, mi accorgo che siamo pericolosamente vicini e che i nostri respiri si mescolano l’uno con l’altro.
È vero, avrei potuto spostarmi, avrei potuto allontanarmi e lasciare che accendesse quello stupido fornello… ma non l’ho fatto. Sono rimasto lì, immobile a pochi centimetri dal suo viso, con gli occhi puntati nei suoi ed un leggero sorriso ad increspare le mie labbra sottili. Non gli ho ancora detto cosa ci fosse tra di noi, ma spero con tutto il mio cuore che lo capisca adesso, che i miei gesti e i miei segnali gli facciano intuire ciò che siamo stati in passato. Non saranno le mie parole a comunicargli il nostro stato, ma i gesti… voglio che lo capisca da solo, ed il fatto che io non mi stia allontanando deve essere uno degli indizi che dovrà analizzare a fondo per arrivare all’ovvia conclusione, ovvero che io amo l’uomo che ho di fronte, che l’ho sposato e che non avrei potuto fare scelta migliore nel mettergli la fede al dito.

Sono stanco di tenere segreto tutto questo.

Sta per parlare, la sua bocca si apre appena ma le parole gli muoiono in gola quando la sua mano si ritira di scatto lasciando cadere l’accendino sul ripiano della cucina, con un lamento di dolore. Era riuscito ad accenderlo a quanto pare, ma era talmente distratto dal mio sguardo che non si è accorto che la piccola fiamma lo stava per scottare.
- Stai bene? – Chiedo preoccupato mentre si porta il polpastrello fra le labbra per alleviare il bruciore.
- Sì… - Dice, poco convinto.
- Fammi vedere. - Quindi afferro la sua mano e la tiro verso di me, in modo da poterla controllare alla luce. – Mi piace come hai pettinato i capelli… - Mormora con evidente imbarazzo, dettato dalla voce tremante e dal modo in cui sento il suo cuore pulsare velocemente mentre la mia mano gli cinge il polso.
Se ho avuto un buon maestro (e l’ho avuto), posso finalmente capire a cosa è dovuto il nervosismo di Sherlock che è ancora immobile davanti a me a fissare i miei occhi stupiti.

A quanto pare la nuova pettinatura non piace solo a me.

Sherlock sembra decisamente apprezzare, e me lo ha dimostrato in una maniera abbastanza evidente.

Questo pensiero mi fa sorridere involontariamente.
- Insomma, ti stanno bene. Dovresti lasciarli così, ti donano. Cioè, a me piacciono… molto. – La sua parlantina balbettante e imbarazzata mi fa ridacchiare a bassa voce.

Dio, è così bello quando si imbarazza. Quegli zigomi arrossati sono adorabili.

Faccio ciò che nessuno dei due si aspettava accadesse: mi avvicino velocemente e le mie labbra si poggiano dolci e delicate sulla sua guancia maledettamente calda dall’imbarazzo. Riesco a sentire il suo respiro mozzarsi e le sue palpebre sbattere sorprese… e il suo profumo intenso solleticarmi le narici mentre allontano il viso dal suo, sussurrando un “grazie” al quale però lui non risponde, ancora intontito dalla mia recente azione.

Ti prego, Sherlock, ricorda. Questi episodi capitavano spesso.

Ti prego, ricordati.

- Janet passa più tardi per salutare, è il suo ultimo giorno. – Dice dopo secondi interminabili di silenzio. Ha preferito cambiare argomento e per il momento lo preferisco anche io, visto l’evidente imbarazzo che c’è fra noi.
- Era oggi? –
- Sì, le mie condizioni… le mie… quelle non mentali, quelle del mio corpo… - Sta accadendo di nuovo, non ricorda i vocaboli, si confonde. Non posso permettere che abbia un altro attacco di panico, ha già iniziato a far tremare le mani quando si è reso conto del baratro in cui sta per affondare.
- Le tue condizioni fisiche? - Lui annuisce affranto, ma è più tranquillo, ha smesso di tremare. Solo che riesco a leggere la delusione profonda nei suoi occhi. La mia mano che dolcemente va ad accarezzare il dorso della sua serve proprio a tranquillizzarlo ulteriormente, ed ogni contatto pelle su pelle sembra smuovere qualcosa in entrambi. Capisco con un unico sguardo che prova sollievo quando lo sfioro, quando gli parlo dolcemente e quando mi lascio andare a piccoli gesti con lo scopo di aiutarlo a riprendersi.
-  Sì, quelle… - Si schiarisce la voce con una finta tosse, poi riprende a parlare. – Le mie condizioni fisiche sono migliorate e ha detto che posso cavarmela da solo. –
- Chiederò alla signora Hudson di preparare qualcosa da offrirle… -
- Ci ho già pensato io mentre eri sotto la doccia. – Ci sorridiamo a vicenda, e solo dopo mi accorgo che la mia mano è ancora intenta a carezzare la sua.
 
***
 
Janet è stata veramente indispensabile in queste settimane. Mi è dispiaciuto il fatto che ci stesse lasciando, ma abbiamo il suo numero, possiamo chiamarla per quattro chiacchere ogni volta che vogliamo.
Ha detto che la mia esperienza medica è già abbastanza per Sherlock, e visti i suoi miglioramenti non c’è bisogno di una persona in più per prendersi cura di lui.

“Tu mi basti, John”, ha detto quando ha capito che mi sentivo abbattuto per lei.

In fondo aiutarlo non mi guastava mai. Mi prendo cura di lui come ho sempre fatto quando stava male, perché sì, signore e signori, anche a Sherlock capitava di avere brutti raffreddori ed influenze, e scordatevi la sua testardaggine in quei casi, perché di certo non se ne usciva con un “nemmeno un po’ di febbre riuscirà a farmi smettere di lavorare”. Quando William Sherlock Scott Holmes si ammalava prima dell’incidente sembrava una sottospecie di zombie. Nessuno riusciva a tirarlo giù dal letto, e per il resto della giornata passava dall’essere insopportabilmente irritabile ad estremamente dolce ed in cerca delle sue coccole… prendersi cura di Sherlock era come avere a che fare con un bambino indifeso, ma io lo amavo e lo amo ancora. Avrei sopportato le pene dell’inferno pur di vederlo stare bene.
Adesso che non si ricorda non è molto irritante, non si lamenta quasi mai e, purtroppo per me, la sera non cerca le coccole del sottoscritto per addormentarsi.

Non avete idea di quanto tutto questo mi manchi.

Nelle giornate seguenti ha tolto il gesso in ospedale, e dopo delle accurate radiografie, siamo stati felici di poter dire che adesso il braccio e le sue costole stanno molto meglio. Ora porta una fascia elastica perché nonostante lui possa muoversi liberamente, il suo osso deve ancora stabilizzarsi del tutto. Non dovrà più portare il tutore, questo lo rende abbastanza felice.
Per quanto riguarda i suoi ricordi siamo ancora nella stessa situazione. Continua a dire di provare delle sensazioni strane e familiari, così il dottor Portman gli ha procurato un quadernetto dove lui appunta ogni cosa che possa sembrare un indizio in grado di riportarlo alla sua vecchia vita. Lo tiene sempre con sé, anche quando siamo in giro, e capita che ogni tanto si fermi a scribacchiare qualcosa con la sua penna nera. Quando tornava dalle sedute comparivano nuove didascalie in quel diario, scritte in penna rossa dallo psicologo. Pare ci lavorassero abbastanza seriamente. Non mi sono mai azzardato a leggerlo… insomma, non mi sembrava il caso, e di certo non volevo intromettermi nei suoi esercizi di recupero.
A volte mi ricapita di pensare al sogno che ho fatto, quello dove Sherlock mi chiedeva (anzi, pregava) di essere forte per lui. E ci penso tutt’ora, mentre lo guardo affiancarmi e camminare a passo lento accanto a me, tenendo le mani nelle tasche del cappotto. Abbiamo avuto l’idea di uscire e camminare un po’, convinto che ciò avrebbe potuto fargli solo del bene. Poco dopo siamo seduti su una panchina di Hyde Park ad ingurgitare fish and chips.
- Che ne pensi? –
- Di cosa? –
- Del cibo, ovviamente – Quella domanda è ricolma di speranza, perché è stato questo che abbiamo mangiato nel nostro primo vero appuntamento, quello avuto dopo aver esternato i nostri sentimenti. Quel giorno mi ero sorpreso del fatto che lui stesse sorridendo per tutto il tempo, era così spensierato, così felice… ed anche affamato, dato che ha mangiato tutto con evidente appetito senza fare storie.
- Beh… è buono. – Annuisco, deluso da quella risposta, ma il fatto che stia pian piano migliorando non rende la mia reazione del tutto indifferente ai suoi occhi. – Oh, intendevi… - Il suo sguardo si sposta sui tovaglioli e sul piatto vuoto che ha sulle gambe, lo fa scorrere su ogni elemento velocemente. – è collegato ad un qualche mio ricordo? –
- In effetti sì. – Dico finendo l’ultimo boccone e pulendomi subito dopo le mani con uno dei tovaglioli.
- Non ho… non ho niente in mente. – Dice mentre appallottola uno dei tovaglioli e lo lascia ricadere sulle ginocchia.
- Non importa. – Dico con un sorriso che vuole sembrare rassicurante. Non devo sembrare debole, non devo disperarmi se non ricorda, perché gli ho promesso che sarei tornato ad essere il soldato coraggioso che tanto amava, quello che non crolla davanti alle difficoltà e che non si lascia abbattere.
Delle improvvise urla ci distraggono dalla nostra chiacchierata ed in lontananza vediamo la folla accalcarsi attorno ad una panchina. Sto per dire qualcosa mentre concentro lo sguardo sulla scena, ma mi accorgo di parlare da solo, perché Sherlock si è già alzato per andare a controllare in mezzo alla folla, ed io sono costretto a seguirlo per evitare che succedano imprevisti, lasciando piatti di plastica e tovaglioli sporchi sulla panchina.
- Fatemi passare! – Dice facendosi spazio tra la gente.
- Sherlock! – Sembra però non sentirmi, si limita a spingere a destra e a manca per poter avere una visuale più ampia. Ciò che ci ritroviamo davanti è il corpo di una donna collassata su quello che sembra un marito addolorato e piangente.
- Margaret, ti prego svegliati! – L’uomo le stringe la mano e cerca di risvegliarla scuotendole una spalla. Piange ininterrottamente osservando gli occhi sbarrati della ormai morta Margaret.
- Fatemi passare, sono un medico. – Dico mentre Sherlock è immobile ed in piedi davanti al corpo inerme della povera donna. Riesco a percepire i suoi occhi slittare sulla coppia con quello sguardo indagatore mentre io mi cimento di capire la causa della morte. Le condizioni della donna sono decisamente inquietanti: gli occhi sono sbarrati dallo spavento, le braccia rigide al tatto e la bocca spalancata con una schiuma bianca che piano piano si fa strada dalle labbra al mento, colando sul mento e sul collo. Non c’è altra spiegazione per capire la causa del decesso, è talmente ovvio. – Avvelenamento, non ho dubbi. – Dico prendendo il cellulare dalla tasca per chiamare i soccorsi ed evidentemente anche la polizia. Mi sembra di vedere la povera Margaret scossa da violente convulsioni poco prima di morire, non riesco a trattenere i brividi sulla pelle al pensiero che il povero marito non ha potuto fare niente per salvarla, a parte guardarla spegnersi.
- Ma come è possibile, è stata con me tutto il tempo! – Esclama l’uomo con le lacrime agli occhi ed un evidente stupore dipinto in faccia.
- Questo sarebbe possibile stabilirlo dopo un’autopsia e… - non finisco la frase per due motivi: il primo, al telefono hanno appena risposto, il secondo, Sherlock si è appena abbassato sul corpo e lo sta annusando come un segugio alla ricerca del suo osso da masticare, sotto gli occhi sconcertati del marito e dei presenti che ancora ci stanno accerchiando.
- Lo ha ingerito pochi minuti prima di morire… - Mormora a bassa voce, attirando la mia attenzione poco dopo aver messo giù con la polizia, sarebbero arrivati a breve.
- Che cosa? – Chiedo seguendo con lo sguardo cosa sta afferrando dal terreno sotto alla panchina: è uno stampino rosa di carta, come quello per i muffin. Lo annusa con attenzione prima di spalancare gli occhi sorpreso.
- Un muffin al cianuro, interessante. –

Vedo la scintilla di eccitazione nei suoi occhi. Sembra che stia per risolvere un caso, come una volta.

- Dove li avete comprati? - L’uomo guarda Sherlock come se fosse smarrito, per un attimo sembra in balia di una specie di trance, ma alla fine riesce a rispondere alla domanda.
- Proprio qui, al parco. C’è un chioschetto che li prepara. – L’uomo fa saettare lo sguardo dallo stampino di carta alla moglie deceduta al suo fianco, poi scuote la testa velocemente e si porta le mani alla fronte. – Quei bastardi, quei bastardi hanno avvelenato la mia povera Margaret! – Sherlock lascia ricadere sulla seduta della panchina il contenitore del muffin, poi si rizza sulla schiena e comincia a studiare l’uomo dall’alto in basso, passando poi a scrutare Margaret.
- Non è così. – Dice ad un certo punto, facendo alzare di scatto la testa al marito della povera vittima. – Siete andati al chioschetto e lei era nervoso mentre Margaret ordinava il suo muffin. I segni che ha sul collo lo dimostrano, non smetteva di grattarsi per l’agitazione. Lei lavoro in un laboratorio che fa ricerche scientifiche, è ovvio, guardi le sue mani. Alcune chiazze di pelle sono di una tonalità diversa dalla sua normale carnagione, questo vuol dire che è in continuo contatto con sostanze chimiche. Certo, ci sono altri lavori che prediligono l’uso di queste sostanze, ma lei è riuscito a procurarsi del cianuro liquido ed è più probabile procurarselo in un laboratorio. Ha nascosto la siringa in tasca per tutta la vostra romantica passeggiata, poi ha aspettato che Margaret si distraesse per iniettare la soluzione nel muffin… -
- Come diavolo…? – Chiedo, incuriosito da questa sua ultima supposizione improbabile.
- Le mani di sua moglie profumano di sapone neutro di bassa qualità, tipico dei bagni pubblici. Margaret è andata in bagno e il marito ne ha approfittato per avvelenare il suo spuntino. Come faccio a dirlo? – Sherlock si allontana appena dalla panchina e raggiunge il cestino dell’immondizia, al suo interno, proprio in cima al resto dei rifiuti, si trova una siringa a cui lui stesso dà una rapida annusata. – Cianuro. Le impronte sporche di fango che raggiungono il cestino corrispondono al suo numero di scarpe, e guardando la suola sporca non posso dubitare a chi quelle orme appartengano. – Mormora avvicinandosi con la sospetta arma del delitto, sventolandola davanti agli occhi dell’accusato. Quest’ultimo sta iniziando a sudare freddo, lo vedo tremare e boccheggiare.
- Perché mai dovrei uccidere mia moglie? –
- Non c’è che dire, lei è un fantastico attore. Stava quasi per convincere anche me con tutte quelle finte lacrime, ma no! – A questo punto si gira verso di me. Devo avere una faccia abbastanza sconvolta, visto il modo in cui mi guarda. – John, osservala attentamente. Guardiamo il telegiornale la mattina, qual è stata l’ultima notizia sconvolgente a Londra? – Boccheggio, incapace di parlare o ragionare, convinto in un primo momento che Sherlock stia solo delirando per colpa del trauma cranico, ma appena punto gli occhi sulla donna mi accorgo che quel viso non mi è del tutto sconosciuto.
- Margaret Taylor! – Esclamo all’improvviso, ricevendo un sorriso soddisfatto dal mio compagno.
- Margaret Taylor, la figlia di Jacob Taylor, l’imprenditore scomparso. Lo hanno trovato due giorni fa in Canada, morto. Il suo testamento diceva che avrebbe lasciato settecentomila sterline alla figlia. Una somma abbastanza imponente! Lei avrebbe voluto usufruire di una buona parte dei soldi ma Margaret non era affatto d’accordo e avrebbe tenuto l’assegno per aprire quel centro per disabili che tanto desiderava, lo ha detto all’intervista con i giornalisti, ricordi John? Ottenere i soldi uccidendola sarebbe stato più facile, quindi è ricorso al suo lavoro. Si sarebbe appropriato dell’assegno senza scrupoli e sarebbe fuggito. – L’uomo è immobile, riusciamo a vedere soltanto il suo pomo d’Adamo fare su e giù nervosamente, mentre il suo sguardo sconvolto si alterna su di me e poi su Sherlock. Non abbiamo il tempo di dire o fare qualcosa che il nostro furfante si alza e comincia a correre come un forsennato.
- Dannazione! – Impreca Sherlock, per poi prepararsi ad un inseguimento che sarebbe stata la rovina delle sue ossa ancora doloranti e che, per colpa delle sue poche forze, non avrebbe mai avuto una fine decorosa. Lo fermo subito, afferrando il suo polso, poi metto una mano nella tasca interna della giacca e tiro fuori una pistola, quella pistola che Sherlock una volta sapeva avessi sempre con me, che portavo sempre per qualsiasi evenienza. Questa volta però, mi guarda stupito come se non si aspettasse che io avessi con me un’arma.

In fondo non si ricorda le nostre avventure passate, non può saperlo.

- Che stai facendo? – Mi chiede preoccupato per una mia possibile mossa azzardata.
- Oh, non ti preoccupare! – Dico chiudendo un occhio e prendendo la mira. – Voglio solo bucare una gomma alla nostra Ferrari. – Poi sparo un colpo che prende di striscio la gamba del fuggitivo. Si accascia dolorante sul terreno, urlando imprecazioni strazianti e contorcendosi. Proprio come volevo. Un unico colpo in grado di non ferirlo gravemente ma di fermarlo.

Percepisco Sherlock sorridere al mio fianco.

Lestrade è arrivato poco dopo e hanno portato via l’assassino ed il corpo della povera donna.
Sono accadute due cose incredibili oggi all’Hyde Park: Sherlock ha azzeccato ogni cosa con le sue deduzioni, nessun intoppo, tutto è andato liscio, neppure una piccola esitazione e ne sono assolutamente fiero. Ho rivisto quell’eccitazione da parte sua che non vedevo da tempo (ha anche appuntato qualcosa sul suo diario mentre Lestrade si occupava dell’omicida). La seconda cosa? Ho agito come il soldato coraggioso che temevo di non essere più.




Note autrice:
Hola people! Avevo questo capitolo pronto ma non sapevo se pubblicarlo oggi o meno, dato che stasera ci sarà la seconda puntata di Sherlock. Ma poi ho pensato "potrei rimanere sotto shock per mezza settimana e loro potrebbero restare senza capitolo per colpa del mio cervello scandalizzato, meglio pubblicare adesso".
Per questo non aspettatevi un prossimo aggiornamento veloce, dovrò riprendermi dal possibile dolore.
E niente... siamo a 35 seguiti e a quattro pucciosissimi recensori. Vi adoro c.c
Alla prossima, un bacio!

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Capitolo 6
*** Quindi siamo pari ***


Quindi siamo pari



 
Sherlock non ha più dolori fisici. Le sue ossa stanno bene e mi accorgo dei suoi miglioramenti quando lo vedo salire o scendere agilmente le scale, quando si allunga con le braccia per afferrare oggetti in alto, sugli scaffali della cucina, quando si sdraia scomposto sul divano o sulla sua poltrona. Non ha più bisogni del mio aiuto per sdraiarsi sul letto, né per sforzi fisici che prima gli risultavano difficili. Devo comunque andargli incontro quando si tratta delle medicine che deve prendere. Niente più antidolorifici, solo ciò di cui la sua memoria ha bisogno.
Ho fatto la spesa oggi. È la prima volta che la faccio io invece della signora Hudson. Non avrei voluto lasciare Sherlock da solo, ma lui ha insistito che prendessi un po’ d’aria e non ho potuto rifiutare.
Quando torno a casa e inizio a salire i primi gradini dell’appartamento, mi accorgo che esso non è del tutto silenzioso. Nell’aria riecheggia una melodia altamente familiare proveniente da uno strumento altrettanto conosciuto. Chiudo gli occhi e mi rendo conto di aver passato interminabili secondi immobile ad ascoltare in silenzio quelle note senza un minimo cenno di reazione. Nella mia testa scorrono tutte quelle immagini, tutti quei ricordi passati, dolorosi e non… ma… un attimo! Sherlock sta suonando il violino!
Inizio a correre su per le scale come un forsennato e mi fermo appena in tempo sulla porta per vedere uno Sherlock intento a suonare davanti alla finestra, ha gli occhi chiusi e muove quell’archetto come se sapesse fare solo quello, intonando con maestria il walzer che aveva composto lui stesso, quel walzer che io e Mary avevamo danzato al ricevimento di nozze. La musica finisce e lui lascia ricadere lentamente il braccio lungo il fianco, ma tiene gli occhi chiusi.
- Ho fissato questo violino tutta la mattina. – Dice senza muovere un muscolo, le palpebre ancora abbassate sulle iridi chiare. – Volevo fare qualcosa di diverso dal solito, dall’annoiarmi, dal cercare di rimettermi in pari con la mia vita, così l’ho preso e quando ho iniziato a stringere l’archetto e ho posizionato questo strumento sulla spalla mi sono reso conto che sapevo suonarlo. – Parla a bassa voce, lentamente, mentre io poggio con delicatezza le buste della spesa sul pavimento e non smetto di fissarlo. – Ho iniziato a suonare questa canzone. Non so come è successo, ho poggiato l’archetto sulle corde ed è uscita fuori questa canzone, l’ho fatto senza pensarci. L’ho provata e riprovata per ore, chiedendomi il perché l’avessi scelta, il perché avessi deciso di suonare proprio questa. – I miei passi leggeri fanno in modo che io possa avvicinarmi di qualche metro, per poi farmi fermare in mezzo alla stanza, accanto alla sua poltrona di pelle.
- Sei giunto ad una qualche conclusione? –
- No… non ricordo nulla, John. – Io annuisco, consapevole del fatto che adesso che ha aperto gli occhi può vedere il mio riflesso sul vetro della finestra. – Ma se è una canzone allegra, perché mi fa sentire così triste? – La sua voce trema ed io mi affretto a raggiungerlo, poggiando una mano sulla sua spalla. – John… perché sento questo dolore montarmi dentro? Perché mi sento così abbattuto e perché ho solo voglia di piangere? – Le sue parole mi trafiggono come un pugnale dritto al cuore. Io so perché prova tutte queste cose, ma non so se voglio che lo sappia. Lui non era felice quando ho sposato Mary, quella volta non lo avevo capito, ma dopo aver iniziato questa relazione con lui, me lo ha confessato. Mi ha rilevato chiaro e tondo quanto si sentisse “morire” durante quel ricevimento.

Morire, ha proprio usato questo termine.

Perché credeva di aver perso “la sua ragione di esistere”, mi ha detto.

- Sherlock… -
- John, tu lo sai. Dimmi perché questa cosa mi fa sentire così. – Si è girato verso di me e adesso il suo sguardo puntato nei miei occhi è implorante, non desidera altro che la verità.
- L’hai composta tu. – Confesso evitando il suo sguardo.

Grave errore.

- Questo lo avevo capito. In che occasione? –
- L’hai suonata al… al mio matrimonio. Il mio matrimonio con Mary. – La sua espressione diviene stupita, e le sue iridi continuano a saettare velocemente alla mia mano mentre noto la sua gola andare su e giù nel tentativo di deglutire.
- Eri sposato. – Mormora, ma non è una domanda. È più che altro un’affermazione, sembra quasi se lo stia dicendo per autoconvincersi di questa nuova informazione. – Che cosa le è successo? –

Incredibile come uno Sherlock privo di ricordi possa intuire comunque tutto.

- Cosa…? –
- Porti ancora la fede al dito, ma di una donna al tuo fianco nemmeno l’ombra, quindi le è successo qualcosa. Mi chiedevo da un po’ perché ne avessi una in effetti. – La sua voce e piatta, sembra quasi deluso, ma appena fa riferimento alla mia fede mi rendo conto del grande fraintendimento.

Pensa che la fede sia del mio matrimonio con Mary e non di quello con lui.

Non hai capito nulla, Sherlock.

Ma soprattutto… come diavolo ho fatto a dimenticarmi di togliere la fede? Avrei dovuto immaginare che avrebbe nutrito qualche sospetto, ma perché non l’ho fatto?

Perché era diventata una parte di me ormai.

- Cosa è successo a Mary? – Chiede quando capisce che non gli avrei risposto, troppo intento a toccare in punta di dita l’anello in questione.
- Se n’è andata. – Dico la verità, non glielo nascondo perché è proprio questo che è successo. – Aspettava un bambino da me. Lo ha perso e la cosa ha devastato entrambi. – Sospiro al solo pensiero. Non parlavo di questo argomento da qualche anno ormai, Sherlock in quel periodo era stato una delle cose che era riuscito a farmi dimenticare tutto il dolore e le settimane passate chiuso in me stesso. In quell’arco di tempo mi sono reso conto di provare qualcosa, proprio in quei momenti terribili, quando mi rendevo conto che lui era l’unico a starmi vicino. Proprio quella volta ho capito di averlo sempre amato. Certo, tenevo a Mary… ma lei non era Sherlock. – Non parlavamo più, non avevamo più il rapporto di prima, ci evitavamo… non siamo riusciti a superare la cosa. Così abbiamo rotto la promessa. Il divorzio è stato veloce. – Sherlock non mi guarda negli occhi, sta ancora fissando la fede che ho al dito, ma non riesco a decifrare la sua espressione. – Poi il suo passato ha iniziato a tormentarla. Lei era una sorta di spia, non so… non l’ho mai capito né l’ho mai voluto sapere. Una mattina ho trovato un biglietto qui al 221b, indirizzato a me. Era da parte sua. Diceva che l’avevano trovata e che doveva andare via, allontanarsi il più possibile per far perdere le sue tracce. Non so più nulla di lei da quel giorno. – Il mio racconto finisce con una mia finta tosse, che serve per scacciare via quell’improvviso groppo in gola. Lui annuisce lentamente e distoglie finalmente lo sguardo dalla mia mano.
- Tu sai il motivo per cui questa cosa che ho composto per voi mi faccia sentire così? – Chiede poi, sistemando il violino nella sua custodia con accuratezza, per paura che possa rompersi come se fosse di cristallo.

Sherlock Holmes e il suo violino. Una vera e propria storia d’amore.

- Beh, io… -
- Fa niente! – Mi interrompe lui, sistemando la custodia ormai chiusa sotto alla sua poltrona di pelle. – Credo di averlo capito da solo. – Mormora poi a bassa voce mentre prende comodamente posto nella seduta in pelle, poi tira fuori il diario del dottor Portman e comincia a scriverci sopra qualcosa. Un'unica e veloce frase di due righe che però non riesco a leggere, perché è talmente veloce che i miei occhi non riescono a percepire il movimento della penna e l’inchiostro sulla pagina. Lo chiude di nuovo e lo poggia sul tavolino, mentre io sono in piedi ed immobile, indeciso sul come reagire a quella sua inaspettata risposta.
La discussione finisce qui, con questo imbarazzante silenzio.
 
***
 
- Che cosa ci faccio qui, Mycroft? – Mi sono ritrovato nello studio del maggiore degli Holmes, questo pomeriggio. La sua auto nera mi aspettava davanti al 221b, mentre Sherlock si trovava in compagnia della signora Hudson, non ho avuto scelta che seguirlo.
- Ti prego, prendi una caramella dal vassoio. – Il suo finto sorriso cortese mi inquieta alquanto, in più la sedia scomoda su cui sono seduto comincia a darmi fastidio.
- Non prendo nessuna… caramella. – Dico scuotendo la testa, ridacchiando per questa sua assurda ed improvvisa gentilezza. – Perché mi hai prelevato? – Mycroft prende posto alla scrivania ed intreccia le dita delle mani su di essa, continuando a rivolgermi quel sorriso inquietante.
- Credevo che voi faceste così per essere… gentili. –
- Noi…? –
- Voi umani. – Alzo un sopracciglio e riesco a stento a trattenere le risa, ma ciò che mi preme sapere in questo momento è il perché di tutta questa messa in scena.

Vuole che faccia qualcosa per lui, me lo sento.

- In questi ultimi giorni, quando vi ho fatto visita insieme ai miei genitori ho notato che Sherlock è… strano. –
- Beh, ha perso la memoria, ha avuto un trauma cranico, è molto fragile e sembra di avere a che fare con un bambino, penso che la sua stranezza sia del tutto giustificata. –
- Non intendevo questo. – Mycroft si alza dalla sedia e si rivolge ad Anthea, ferma sulla porta col suo dannato smartphone tra le mani. Le fa un cenno con la testa e ci lascia soli, la porta adesso è chiusa, nessuno può vederci o sentirci, a parte il Governo in persona che si trova proprio in piedi davanti a me. Lo osservo con curiosità mentre si abbassa ad aprire un cassetto per tirarne fuori un taccuino. Lo tiene elegantemente aperto con una mano e si schiarisce la voce prima di leggere ciò che esso contiene. – “Nervosismo, provo questo. Quando sono solo non faccio altro che provare nervosismo.” – Corrugo la fronte senza capire mentre lui si cimenta a voltare pagina. – “Paura. Ciò che voglio per me stesso non è con me, ciò che desidero è irraggiungibile”. Oh, e la mia preferita: “Nessuno sa e nessuno deve saperlo ma credo di non riuscire a farcela. La sua continua presenza mi rende nervoso. Ho saputo delle cose, sono venuto a conoscenza di fatti che mi hanno reso più fragile di quanto pensassi. A volte preferirei solo scappare e non farmi trovare. Loro credono in un miglioramento, io credo di precipitare in un abisso.” – Richiude il taccuino e lo lascia ricadere con un sonoro tonfo sulla scrivania perfettamente pulita, poi mi guarda in attesa… di cosa però non so.
- Che roba è? –
- Dopo aver notato la stranezza di mio fratello ho contattato personalmente il dottor Portman per chiedere spiegazioni. Segreti professionali, figuriamoci se si è azzardato a parlarmene! Però mi ha offerto un’alternativa e mi ha fornito un po’ delle “poesie” che il nostro caro Sherlock scrive sul suo diario. – Mi raddrizzo sulla schiena ed apro appena la bocca per dire qualcosa. Non avrei mai immaginato che lui scrivesse tutto ciò in quelle pagine. – Mi ha fornito soltanto queste tre strofe, le più enigmatiche, appunto. – Senza aspettare il suo permesso, mi allungo con un braccio e afferro il taccuino per rileggere le frasi che avevo da poco sentito, quasi per accertarmi che siano vere e che Mycroft non se le stesse inventando soltanto per attirare la mia attenzione. Ma devo ricredermi perché sono proprio scritte lì, per filo e per segno.
- Non capisco… -
- Cosa non capisci? –
- Beh, tutte queste sensazioni da parte sua e nel suo stato sono comprensibili, ma… -
- Chi lo rende nervoso? Cosa desidera che non può raggiungere? – Mycroft mi toglie le parole di bocca. Io mi mordo il labbro, decisamente più ansioso di quando ho messo piede in questa piccolo ufficio per soddisfare le manie di protagonismo del Governo inglese. I miei occhi tornano a sfrecciare sulle parole che mi hanno sorpreso e nella mia testa iniziano a venire a galla miriadi di dubbi a cui non riesco a dare una valida risposta. – Lo hai mai osservato quando è da solo? – Mi chiede poi, prendendo il suo ombrello e poggiandoci sopra entrambe le mani. – Non intendo la solitudine quella in cui è consapevole che lui possa essere visto da qualcuno, intendo la solitudine vera e proprio, quella che gli fa credere di non avere gli occhi di nessuno puntati addosso. Lo hai mai osservato? – Ci rifletto un po’ su e mi rendo conto che… no, non ho mai osservato Sherlock quando è del tutto solo. Se mi capitava di farlo lui era sempre consapevole della mia presenza, ma cosa succedeva quando nessuno era con lui?
- Tu sì? – Ora gli occhi chiari del maggiore degli Holmes sono puntati nei miei. Ha sempre quella espressione seria e composta, ma mai avevo letto così tanta preoccupazione in quelle iridi.
- Ero da voi quando l’ho visto. Noi tutti eravamo impegnati ad ascoltare i racconti “entusiasmanti” di mio padre e secondo Sherlock nessuno si premurava di prestargli attenzione. È stato allora che ho notato il suo atteggiamento mentre raggiungeva la sua stanza. –
- Freddo e distaccato? Andiamo, Mycroft, è sempre freddo e distaccato… -
- No! Non in quel modo. So riconoscere le reazioni di chi ha perso la memoria da altre. So per certo che c’è qualche altro fattore che turba mio fratello. – La sua voce si è fatta decisa e severa. Mi guarda e riesco a notare quanta speranza ci sia nella sua espressione, la speranza che io capisca il problema e che agisca per lui. – Riuscivo a vedere il suo dolore, riuscivo a percepirlo. –
- Vuoi che io lo scopra? – Lui tace e solleva il mento con atteggiamento di superiorità e con l’intenzione di darsi un contegno, perché… sì, si era un po’ lasciato andare. – D’accordo. – Dico poggiando il taccuino sulla scrivania, poi mi alzo e con un cenno della testa lo saluto. Sto per uscire dalla stanza, ma la sua voce mi interrompe ancora una volta.
- So cosa stai pensando. – Mi fermo e rimango di spalle mentre lo ascolto. – Ti recluto sempre quando si tratta di Sherlock e la cosa inizia a scocciarti, perché sei convinto che io possa agire da solo. Ti ricordi cosa ti ho detto la prima volta che ci siamo visti? – Mi giro e mi accorgo che continua a mantenere il mento sollevato, nonostante il suo tono suoni tutt’altro che superiore.
- Che ti preoccupi per lui costantemente. –
- E così anche tu. Ci preoccupiamo entrambi della stessa persona allo stesso modo. A chi altro potrei rivolgermi? – Quella celata dimostrazione di affetto verso il fratello fa capire quanto Mycroft sia realmente legato al più piccolo degli Holmes. Il fatto che ci preoccupiamo allo stesso modo di lui vuol dire che entrambi lo amiamo allo stesso modo. In effetti, solo chi prova lo stesso tipo di affetto potrebbe essere una persona fidata a cui rivolgersi in casi come questi. Solo ora riesco a comprendere il vero motivo per cui Mycroft Holmes ricorre sempre a me quando Sherlock ha qualche problema, ed è che abbiamo una cosa in comune, e questa cosa è quel consulente investigativo riccioluto.
- Ti faccio sapere. – Lui annuisce, mantenendo quell’espressione seria e distaccata di sempre, poi oltrepasso la porta e la chiudo dietro di me.

Se Sherlock si lascia andare quando pensa che nessuno lo guardi… chissà se succede lo stesso anche con Mycroft, chissà se anche lui si lascia andare alle emozioni che tanto si premura di non manifestare.

È una di quelle cose che non sapremo mai.
 
***
 
- Potresti almeno descrivermela? – Sherlock sta animatamente sbraitando al telefono quando torno a casa. La signora Hudson è seduta sulla mia poltrona e guarda il diretto interessato con la preoccupazione e il terrore negli occhi, stringendo le mani fra di loro. – Lo so, ma… LASCIAMI PROVARE, ALMENO. – Girato dalla parte opposta, non credo si sia reso conto della mia presenza, in più non ho ancora capito cosa stia succedendo. Il mio sguardo incontra quello della nostra padrona di casa, che in risposta fa spallucce e torna a fissare spaventata la schiena rigida di Sherlock. – Ascoltami bene, Lestrade! –

Bene, abbiamo il destinatario della chiamata.

– Non mi importa niente delle mie condizioni, io ho scoperto qualcosa quella volta, ho bisogno di parlare con quella donna, di guardarla, di leggerla e di capire! Devi portarmi da lei! – C’è un momento di silenzio in cui mi siedo comodamente sul bracciolo della poltrona, accanto alla signora Hudson. Il discorso di Greg dura il tempo giusto per lanciare un’occhiata furtiva sul tavolino e notare il fidato diario di Sherlock.

Tra quelle pagine ci sono tutti i suoi pensieri, tutte le sue sensazioni.

- PER L’AMOR DEL CIELO! Non mi importa nulla di quello che dice John, non sono il suo bambino e lui non è mio padre! – La mano della signora Hudson si sposta sulla mia gamba, aveva già intuito quanto quelle parole avrebbero potuto farmi male. E lo fanno, mi uccidono.
Sherlock si gira proprio in quel momento e rimane immobile non appena mi vede lì seduto, con le braccia incrociate e il pomo d’Adamo torturato da continue deglutizioni. Il mio sguardo è severo, non è triste, né furioso, solo severo… mentre il suo somiglia tanto a quello di un bambino beccato a rubare le caramelle. Il telefono gli scivola dalle mani e finisce intatto sul pavimento. Riesco a sentire la fioca vocina di Lestrade che chiama il nome di Sherlock, poi la chiamata termina ma nella stanza c’è ancora un silenzio assordante.
- Vi preparo una tazza di tè. – Informa la donna seduta accanto a me, poi si allontana verso la cucina in modo da lasciarci lo spazio adatto per chiarire.
- Credevo che avessimo già discusso di questa cosa, che il fatto che finissi le tue frasi non fosse un problema per te. Tutto ad un tratto ti tratto da bambino? – Sherlock abbassa la testa e comincia a grattarsi piano il braccio ancora ricoperto dalla fascia elastica.
- No, no… hai frainteso. –
- A me sembra di aver sentito bene. –
- Non lo penso davvero. – Lo sento sospirare ed avvicinarsi a me a passi lenti, infilando poi le mani nelle tasche della vestaglia blu. – L’ho detto solo per convincere Lestrade a lasciarmi seguire il caso. Diceva che tu, essendo un medico, avresti pensato che non era ancora il momento adatto e… - Sospira e si porta le mani fra i capelli per scompigliarli. – Quella foto cerchiata lì mi sta facendo uscire di testa, voglio sapere perché l’ho cerchiata. – è vero che le sue parole mi avevano ferito, ma capisco il suo movente. Non passava un giorno che non si soffermasse a guardare le foto sparse sulla parete. Sherlock poteva anche perdere la memoria, ma quelle sue abitudini erano automatiche. Il suo cervello sa ancora quali sono le sue ossessioni.

Cosa sarebbe Sherlock Holmes senza un caso?

- Voglio solo andare a parlare con quella donna. – è più vicino adesso, riesco a vedere la speranza che traspare dalla sua espressione, e perfino a contare la minima distanza tra di noi. – Solo parlarle, mi accompagneresti tu e se dovessi avere una ricaduta so che ci sarai tu ad aiutarmi. – Percepisco la signora Hudson che poggia il vassoio del tè sul tavolino, con un sorriso complice in viso, poi la sento abbandonare la stanza e recarsi al piano di sotto senza emettere alcun fiato. – Farò con calma, te lo prometto. – La sua voce è implorante ed io non posso fare a meno di sospirare, sconfitto da quell’atteggiamento che riesce sempre a farmi cedere.
- Non ti vieterei mai di fare ciò che ami. – La mia mano si ancora saldamente alla sua in una dolce e rassicurante stretta che non tarda ad essere ricambiata con lo stesso entusiasmo.

Mycroft.

- Ma… ho una condizione. – Mormoro, tenendo ancora stretta la sua mano, ricevendo in risposta un veloce movimento di assenso della testa.

Cosa dire adesso? Un giro di parole assurdo o arrivo dritto al punto? Mi invento una bugia o dico la verità?

- Devi dirmi la verità, Sherlock. Chi ti rende nervoso e perché ti senti precipitare in un abisso? Cosa desideri che non puoi avere? – Ho deciso che la versione diretta fosse la più adatta ad uno che ha sempre odiato i giri “inutili” di parole. Per un attimo lo vedo sbiancare, sembra un lenzuolo appena steso alla luce del sole. L’intreccio delle nostre mani si scioglie e mi guarda smarrito.
- Hai letto il mio diario? – Chiede con voce tremante.
- Mycroft. – Dico soltanto, e lui sospira scuotendo la testa. Ormai ha capito, anche senza ricordarsi di lui, quanto costantemente suo fratello lo controlli, anche utilizzando mezzi improbabili e assurdi.
- Maledizione a quel ficcanaso! – Mormora prendendo posto alla sua poltrona e muovendo nervosamente le gambe chilometriche.
- Rispondimi. Chi ti rende nervoso? – I suoi occhi si ancorano ai miei, sembra quasi abbia paura di dirmelo, di rilevare ciò che lo attanaglia nel profondo, talmente tanto da rendere ciò un argomento di discussione con il dottor Portman. Quella reazione mi fa capire tutto ed io scatto in piedi sconvolto.
- Io ti rendo nervoso? –

Hai di nuovo la voce stridula, stai calmo, John!

- John… -
- Perché mai dovrei renderti nervoso? E l’abisso in cui stai precipitando? –
- John, lasciami parlare… -
- No, lasciami parlare tu! – Alzare la voce ha contribuito a far chiudere la bocca al consulente investigativo, seduto con la coda fra le gambe di fronte a me. Ora sono proprio arrabbiato, non solo perché io sembro essere il motivo del suo nervosismo, ma perché con questa celata confessione ho capito che Sherlock mi ha raccontato un sacco di frottole. Quante volte gli avevo chiesto come si sentisse e in risposta avevo ottenuto quel “Benissimo, John”. Erano tutte fandonie. Sherlock sta male proprio come Mycroft aveva intuito.
- Perché non mi hai detto che stai ancora male? – Non ottengo ancora risposta. Lo vedo solo incrociare le gambe e fare di tutto per evitare il mio sguardo. Forse sto esagerando, attaccarlo in questo modo non lo aiuterà per niente. Prendo un lungo respiro a pieni polmoni e cerco di portare il tono della mia voce ad un volume più basso e calmo. Non voglio spaventarlo ulteriormente. – Io ti ho sempre chiesto se ci fosse qualcosa che ti dava problemi. Hai sempre detto che non avevi problemi di nessun tipo. Mi hai mentito, Sherlock. Perché? – Sta ancora fissando il caminetto acceso, ma non accetto il suo silenzio ancora una volta, così ostruisco la sua visuale, piazzandomi proprio sulla traiettoria del suo sguardo, ricevendo finalmente la sua attenzione.
- Quindi siamo pari. – Dice con voce ferma e cauta. Io alzo un sopracciglio senza capire. – Mary era un uomo? – Chiede ad un tratto, lasciandomi interdetto.
- Cosa stai dicendo? –
- Rispondimi, John. Mary era un uomo? – Adesso anche lui ha assunto quel tono che non ammette altro che la verità.
- Certo che no. – Lui annuisce, la sua espressione seria non cambia mentre si alza dalla poltrona. Siamo faccia a faccia e riesco a percepire la delusione che aleggia verso di me, ma io continuo a non capire… almeno finché non si premura di lasciare qualcosa nella mia mano, facendomela stringere a pugno.
- C’è il tuo nome inciso all’interno… è troppo grande per una donna. Se Mary non era un uomo allora questa di chi è? – Quando apro la mano e faccio cadere lo sguardo sulla mia mano, la fede di Sherlock luccica alla luce delle fiamme del caminetto.




Note autrice:
Questo capitolo mi piace più del solito. Non chiedetem perchè lol
Dovete anche capire che la 4x02 mi ha sconvolta nel profondo.
Ho pubblicato in anticipo perchè il prossimo capitolo voglio scriverlo con impegno e forse avrò bisogno di tempo.
Spero vi piaccia (44 seguiti, 16 preferiti, e voi recensori aaaaaaa, vi amo)
A presto!

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Capitolo 7
*** Qualcosa che distrae ***


Qualcosa che distrae




- Da quanto ce l’hai? – Chiedo continuando a fissare il cerchio dorato poggiato sul palmo della mia mano. È vero, avevo iniziato a ragionare sul fatto che gli avrei detto tutto, che avrei preso la fede da quel dannato cassetto, che avrei preso Sherlock da parte e che avrei cominciato a parlargliene come si deve. Avrei utilizzato parole dolci, un tono calmo e avrei dato una spiegazione adeguata sul perché io glielo avessi nascosto, sperando ovviamente che avrebbe capito il perché del mio gesto. Ma mi ha anticipato, come sempre. Quel furbo e dannato detective non riusciva a farsene sfuggire una neanche con un’amnesia totale retrograda.
- Dal giorno in cui mi hai parlato di Mary. – Dice con tono stranamente pacato. Io resto in silenzio. Non so cosa dire mentre mi rigiro quell’oggetto fra le mani.

È da tanto che non lo vedo, mi sto soffermando su tutti i dettagli, lo sto immaginando attorno al suo anulare, e sto immaginando me mentre lo sistemo al suo dito, me in quel giorno.

Lui sospira e si dirige nuovamente alla poltrona, sedendosi sopra di essa e piegando le gambe, la sua testa poggiata sulle ginocchia come i bambini.
- La fascia elastica si era rotta, così ho frugato nel cassetto per cercare quella nuova. Ho sentito qualcosa scivolare sul fondo e ho allungato il braccio per afferrarlo, mi sono ritrovato con quell’anello sotto gli occhi. – Sta di nuovo evitando il mio sguardo, e nonostante lui stia in silenzio, quella delusione riesco a percepirla sotto ogni aspetto.
- Perché non mi hai detto di averlo trovato? –
- Volevo dedurlo da solo. – C’è un attimo di silenzio prima che lui riprenda a parlare - Sei stato anche con un uomo? –

Oh Sherlock, davvero non ci arrivi?

- Sherlock… -
- No, John, ascoltami. Vorrei che non ci fossero più bugie tra di noi, quindi… chi è lui, lo conosco? – Mi sfugge un sorriso. Il mio angolo delle labbra si solleva appena quando mi pone quella timida domanda.
- Lo conosci. – Confesso, facendo qualche passo verso la sua poltrona e fermandomi proprio davanti a lui, guardando dall’alto quello che per il momento appare come un bambino indifeso.
- Oh… - Dice annuendo appena. – Beh, è bello? – Non riesco a trattenere una risata a quel quesito posto con quel tono imbarazzato, così mi abbasso quel tanto che basta per essere faccia a faccia con lui, puntellandomi con le ginocchia sul tappeto morbido.
- Non è bello. È solo la meraviglia più grande io abbia mai visto. Ha due occhi che contengono l’intero universo, e quando mi ci perdo… oh non hai idea, mi sembra di viaggiare nello spazio-tempo, di vedere tutto ciò che di bello si possa mai immaginare. – Ci stiamo guardando adesso, lo scruto intensamente mentre scandisco ogni parola… e lui è immobile, per un attimo ho l’impressione che stia trattenendo il respiro. – E per quella meraviglia io darei la vita. Ho ucciso per lui, ho rischiato la pelle pur di saperlo al sicuro. L’ho perso, ritrovato, poi perso di nuovo, ma mai ci siamo abbandonati. Sposandolo gli ho fatto una promessa. – Lui continua ad ascoltarmi con quello sguardo smarrito, e lo sento sussultare appena quando afferro la sua mano sinistra ed inizio ad accarezzarne il dorso con il pollice. – In salute… ed in malattia. – E poi lo faccio, infilo l’anello al suo anulare e, come mi aspettavo, calza a pennello. Mi sembra di rivivere il nostro matrimonio e solo per un momento mi è sembrato di essere circondato da tutti i nostri invitati mentre, con voce tremante ed emozionata, pronunciavo i miei voti e lei mie promesse all’uomo che amo.

Ecco cosa mancava, adesso sì che Sherlock Holmes è completo.

- Oh, John… - Quando sollevo lo sguardo, distratto da quella voce rotta dai singhiozzi, non posso fare a meno di notare le sue lacrime che rigano imperterrite le sue guance, i suoi occhi lucidi e limpidi che mi fissano stupiti. – Davvero…? - Lo ha capito, lo ha capito perfettamente, ma sembra non crederci data la sua reazione. Ma guardandolo posso vedere che non ha paura, che non è triste e che la notizia appena appresa non lo sconvolge affatto.

Sono fottute lacrime di gioia, quelle.

Adesso non c’è bisogno di un genio come Sherlock Holmes per dedurre il motivo delle sue domande timide, della sua delusione nei miei confronti.
- Non te l’ho detto perché avevo paura che la cosa ti sconvolgesse. In ospedale, quando mi hai chiesto chi sono io per te… avrei davvero voluto dire la verità. – Prendo un respiro profondo e, con un gesto completamente involontario, mi accingo ad asciugare le lacrime di Sherlock con i pollici. – Ma il pensiero che quest’informazione ti avrebbe spaventato o magari allontanato da me… mi uccideva. – Le ultime due parole sono spezzate dalle lacrime.

Per la miseria, non ho mai pianto davanti a lui.

Non riesco a trattenermi mentre esse scivolano velocemente fino al mento, per poi precipitare sul tappeto del salone. – Ho avuto così tanta paura di perderti, ti avevo già perso troppe volte, anche se tu magari non ricordi… e… - Tiro su con il naso e mi rendo conto che neanche lui ha smesso di piangere, diversamente da come mi aspettavo. – Non volevo stare in una dimensione in cui tu mi disprezzavi e avevi paura delle mie azioni nei tuoi confronti, in un mondo in cui io ti facevo paura. – Sherlock si stacca leggermente dallo schienale della poltrona e si avvicina appena. – Avrei preferito morire, piuttosto. – Non ho il tempo di fare nulla, perché mi sento avvolto dalle sue braccia accoglienti e forti. Una delle sue mani è ben ferma sulla mia nuca, mentre l’altro braccio circonda il mio busto. – Avrei preferito morire… - continuo ripetere travolto dai singhiozzi, mentre le mie mani si aggrappano alla sua vestaglia, stringendola all’altezza delle spalle, il mio viso affossato nell’incavo del suo collo.
E passa così tanto tempo prima che entrambi ci calmiamo del tutto. È stato così difficile contenere i singhiozzi, sia per lui che per me. Quella stretta sembra non finire mai, le sue braccia attorno a me sono un sollievo per i miei nervi tesi. Il calore del suo corpo a contatto con il mio sembra essere un antidoto a tutta la pressione che mi stava gravando addosso fino a poco fa. Lo ammetto, nascondere un avvenimento come il nostro matrimonio non è stato affatto facile, e vivere con questo segreto ancora per molto mi avrebbe di sicuro distrutto. Sono contento che adesso lui sappia, è stato come togliersi un grande peso, ed il fatto che abbia reagito in modo positivo non può fare altro che tranquillizzarmi ancora di più.
- Niente più segreti hai detto? – Mormoro poco dopo, sollevando appena la testa dalla sua spalla.
- Sì. –
- Allora dimmi perché ti rendo nervoso. – Siamo perfettamente faccia a faccia, le braccia ancora aggrovigliate attorno al corpo dell’altro. Noto i suoi occhi saettare su ogni parte del mio viso e solo dopo mi accorgo di quanto siamo spaventosamente vicini.
- Io… - Mormora lui, senza riuscire a trovare le parole giuste. Ovviamente l’ho capito… ed è strano quanto in questo periodo io mi stia trasformando in Sherlock più dello stesso Sherlock. Deduzioni… essere suo marito mi rende decisamente un individuo dal QI nettamente superiore alla massa.

Non mi sto vantando, sia chiaro.

Ho solo rinvangato una frase che lui stesso mi aveva detto, precisamente dopo aver dedotto l’assassino di un caso del tutto banale (che lui aveva già risolto, ovviamente). Eravamo a letto quando ho esposto le mie conclusioni e lui mi ha fatto quell’insolito complimento.

Mh, non c’è motivo di essere ingenui e né di fare i finti ambigui, avevamo appena… fatto l’amore. Non nasconderò più niente da oggi in poi.

Certo, il fatto che abbia sottolineato che l’essere “SUO marito” mi rendesse così confermava il suo incontenibile ego.
La sua fronte si poggia sulla mia e i suoi occhi si stringono forte, poi mi guarda di nuovo e schiude le labbra per dire qualcosa, ma ciò che esce dalla sua bocca è un respiro pesante che mi fa rabbrividire non appena raggiunge la mie pelle calda. Basterebbe sporgersi di un altro centimetro e potrei toccare quelle labbra, potrei farle mie come ero solito fare… e quando Sherlock si sofferma con le sue iridi penetranti sulla mia bocca sottile, allora capisco che anche lui lo vorrebbe, che non avrebbe alcuna esitazione se solo ci provassimo.
Decido di fare la prima mossa e mi sporgo appena, sentendo il suo respiro accelerato pericolosamente vicino. Siamo sul punto di sfiorarci, di rendere questo momento speciale.
- Sherlock! – La magia si interrompe bruscamente ed entrambi ci allontaniamo di scatto l’uno dall’altro. I passi pesanti sulle scale confermano l’arrivo di Greg.

Proprio un eccellente tempismo, Lestrade!

Sono finito seduto sul tappeto e Sherlock si è lasciato ricadere di peso sulla poltrona. Tutto giusto in tempo per l’entrata frettolosa ed evidentemente preoccupata dell’ispettore.
- Va tutto bene? – Chiede alternando lo sguardo sui nostri visi imbarazzati. Io mi schiarisco la voce con una finta tosse mentre mi alzo dal pavimento, strofinando poi le mani per scacciare via la polvere.
- Sì, perché? – Chiedo, chiaramente confuso dal suo comportamento. Sì, mi ha trovato seduto sul pavimento, ma era preoccupato ancora prima di arrivare nella stanza e poter appurare lo stato in cui io e Sherlock eravamo.
- Per l’amor del cielo… - Dice sollevando la testa verso il soffitto e lasciandosi sfuggire un sospiro pesante. – Ho pensato che avesse avuto una ricaduta dopo la litigata al telefono, io ti chiamavo e tu non parlavi, ho creduto fossi svenuto o chissà cos’altro! – Lo dice con tono arrabbiato, attaccando entrambi con preoccupata ira, poi emette di nuovo un sospiro e solleva appena le mani davanti a sé per calmarsi.
- Scusami, Greg. – Mormora Sherlock incrociando le dita e mettendo su una realistica espressione dispiaciuta. – Non riuscivo a sentirti, probabilmente è caduta la linea… - Greg distoglie lo sguardo da entrambi, puntandolo in un punto indefinito del tappeto.
- Mh, sicuramente. – Solo dopo mi rendo conto che sta fissando il telefono di Sherlock abbandonato sul pavimento. Ovviamente non crede alla nostra versione ma, vedendo che è tutto apposto, ha deciso di non insistere. – Beh, allora io andrei… - Ci fa un cenno con la testa e oltrepassa la porta, ma la mia voce lo ferma appena in tempo.
- Greg, c’è una cosa di cui vorrei parlarti. – Dico, ottenendo l’attenzione dell’ispettore e perfino del consulente investigativo, che non si aspettava affatto questa mia iniziativa. – Vorrei che ci fornissi di nuovo l’indirizzo della donna coinvolta nel caso della banca. – Con l’indice faccio in modo che Lestrade si accorga della foto cerchiata in rosso attaccata alla parete. Lui segue la traiettoria del mio dito, poi mi rivolge un’occhiata sconcertata.
- Sei sicuro? –
- Sherlock è perfettamente in grado di farcela, posso assicurartelo. –
- E se… -
- Non ci sono problemi, io lo accompagnerò e sarò presente in caso di problemi. – Lo vedo soffermarsi su Sherlock ed emettere un profondo sospiro rassegnato. Forse avrebbe voluto negarlo, ma l’espressione speranzosa sul viso di mio marito avrebbe convinto chiunque.
- Va bene, d’accordo. – Annuncia alla fine, ricevendo in cambio una scintilla di felicità da parte dell’uomo ancora seduto sulla poltrona. – Ti manderò l’indirizzo via e-mail. – L’indice di Greg si punta su di lui e gli rivolge uno sguardo severo e deciso. – Cerca di stare attento, hai già fatto prendere abbastanza spaventi a tutti quanti! – Sherlock annuisce velocemente, con un sorriso da un orecchio all’altro. Anche a Greg ne scappa uno, ma dubito sia per quella reazione, perché ho visto le sue pupille saettare sulla sua mano.

Ha notato la fede al suo dito.

- Beh, ci sentiamo! – E poco dopo l’ispettore ha già lasciato l’appartamento. Sherlock mi ha dimostrato la sua gratitudine con un ringraziamento sincero, e vederlo così felice mi ha scaldato il cuore a livelli indicibili.
Quella stessa sera siamo entrambi a letto nella sua stanza, gli sto leggendo del caso con Moriarty, quando si è servito di altre persone per “giocare” con Sherlock, usando le loro voci e fornendogli piccoli enigmi da risolvere entro un determinato arco di tempo.
Quando finisco richiudo il portatile sulle mie gambe e lo guardo in attesa.
- Ti ha preso in ostaggio, quindi. – è disteso sul fianco e mi guarda dal basso, i capelli leggermente scompigliati sul cuscino e la mia voglia irrefrenabile di poter passarci le dita in mezzo… ma riesco a trattenermi.
- Già… - Dico annuendo mentre scosto le coperte in modo da potermi alzare.

È l’ora della sua pillola.

- Quante ne hai passate per me… - Mormora facendo cigolare appena il letto, forse per mettersi in una posizione più comoda. Io accenno un sorriso, sollevando l’angolo destro delle labbra mentre riempio di acqua un bicchiere di plastica.
- Abbastanza. – Mormoro con una leggera risata. Mi avvicino a lui e adesso è disteso sulla schiena, ma si affretta a sedersi mentre gli passo la pillola e il bicchiere. La manda giù in un attimo.
- Anche io per te, immagino. –
- Sì, ma di quello ne parleremo con calma. –

“Sai, Sherlock, ti sei buttato da un tetto e ti sei finto morto per due anni”

Nah… non così.

- Quello che hai scritto sul diario… - Dico ad un certo punto, mentre lascio il bicchiere vuoto sul comodino. – Puoi spiegarmi? – La parete davanti a lui sembra essere abbastanza interessante, visto che non distoglie la sua attenzione da essa. È evidente il suo imbarazzo, anche perché ha iniziato a giocherellare con il lenzuolo, attorcigliandolo goffamente alle dita. – Avevamo detto niente più bugie. – Il suo sospiro riecheggia nella stanza, quest’ultima mia affermazione lo convince a parlare.
- Credevo pensassi ancora a Mary, che portassi la fede perché ancora la sua mancanza ti tormentava… solo questo. – Questa risposta è in grado di spiegare tutto, e non esito a farglielo notare.
- Ti rendo nervoso, c’è qualcosa che desideri, che non puoi raggiungere, ti senti precipitare in un abisso… - Elenco ogni cosa, tenendo il conto sulle dita, poi mi lascio sfuggire un sorriso. – Eri geloso! – Arrivo alla conclusione con una sensazione di soddisfazione alla bocca dello stomaco, e lui arrossisce spaventosamente.
- Non essere assurdo, John! – Vorrebbe sembrare fermo e deciso, ma la sua voce trema e conferma il contrario.
- Oh, non sono io l’assurdo qui. – Dico ridacchiando mentre recupero il portatile da sopra le lenzuola e lo sistemo sottobraccio. Non risponde, forse sta solo sprofondando dalla vergogna e l’imbarazzo, non volendo ammettere l’ovvia verità. – Cerca di dormire, Sherlock. –
- John! – Non faccio il tempo a raggiungere il corridoio quando mi sento richiamare.
- Sì? –
- Il divano è scomodo, sono settimane che ci dormi e noto dalla tua postura e dagli scricchiolii della tua schiena che non riposi affatto bene e... per l’amor del cielo, odio i giri di parole. – Dice lasciando ricadere la testa sul cuscino con un tonfo rumoroso ed esasperato. – Dormi qui con me… - Riprende con tono più dolce mentre lascia che i suoi occhi si soffermino sulla mia figura e sul mio viso stupito.
- Sei sicuro? – Chiedo poggiando il portatile sul comodino, senza staccare gli occhi dai suoi.
- Per favore. – Aggiunge scostando nuovamente le lenzuola dalla parte opposta alla sua, un tacito invito a raggiungerlo sotto le coperte. Non riesco ad avere una neutra reazione, perché il solo pensiero che lui mi stia chiedendo di passare la notte nello stesso letto è abbastanza per farmi sorridere come un ebete, ma non me ne faccio un problema, perché anche il suo timido sorriso è goffo quasi quanto il mio.
Non me lo faccio ripetere una seconda volta. Quando mi ritrovo steso e con le lenzuola fin sopra il mento, Sherlock non esita a poggiare la testa contro la mia spalla. Il suo respiro mi fa rabbrividire, nonostante si scontri con la stoffa del mio pigiama e non direttamente sulla mia pelle. Quei contatti più intimi del solito erano aumentati nell’ultimo periodo, forse il suo stato lo portava a cercare sostegno in questi piccoli gesti: abbracci, carezze, parole dolci.

No, John. È puro e profondo affetto. Non vuole sostegno, vuole affetto. Il mio affetto.

Rimango in silenzio mentre allungo un braccio per spegnere la luce, ma non mi aspetto affatto l’improvviso calore sulla mia mano, quello emanato dalle dita di Sherlock che con devozione e dolcezza mi accarezzano. Non vede il mio sorriso quando ricambio il suo gesto, ma so che lo percepisce, perché adesso le sue stesse dita si intrecciano alle mie.

Mi addormento con il suono delle nostre fedi che tintinnano nello sfiorarsi.
 
***
 
La mattina dopo mi sveglio ricoperto per la metà dal corpo di Sherlock, ed è leggermente difficile per me alzarmi senza svegliarlo. Ridacchio quando lo sento farfugliare qualcosa di incomprensibile nel tentativo di girarsi dalla parte opposta e continuare a dormire. Quando arrivo in bagno per lavarmi e cambiarmi mi rendo conto di avere il suo odore addosso, e un po’ mi dispiace toglierlo via con acqua e sapone.
Finita la doccia, Sherlock ha già preparato la colazione per entrambi. Il mio caffè, quello che piace tanto a me, è fumante sul tavolo ad attendermi, lui mi stava aspettando e ha cominciato a mangiare solo quando io sono arrivato a tavola.
Quel pasto viene consumato tra risate, battute e chiacchiere, finché l’argomento non cade sulla donna della foto, che ormai è diventata un chiodo fisso per mio marito. È determinato a mandare avanti le indagini, dice, che ha bisogno di vederla dal vivo per leggerla e capire il motivo per cui non è stata lei ma in qualche modo è legata alla sparizione dei soldi. La sua casa, anche quella sarebbe stata d’aiuto per la sua memoria. Io ricordo la prima volta che l’abbiamo visitata, quel giorno Sherlock si sentiva strano passando da una stanza all’altra. “Qualcosa mi distrae” diceva, ma non riusciva a capire cosa.

Sarebbe stata la volta buona?

A questo punto non mi resta che andare a recuperare l’indirizzo di Ellen, la donna in questione, Lestrade non ha esitato a mandarmelo via e-mail.
Partiamo con un taxi poco dopo la colazione. Mentre siamo in viaggio lo vedo appuntare qualcosa sul diario e la mia unica reazione è osservare il movimento della sua penna di sottecchi, con la speranza che non mi veda.
- Non ti nasconderò più nulla, John. Puoi anche sbirciare. – Mi legge nel pensiero, e per farlo non ha avuto bisogno di guardarmi. Io sorrido e mi sporgo un po’ di più per guardare le parole che sta buttando giù su quel foglio bianco.

 
“Sento l’adrenalina scorrere nelle vene. Non mi è nuova questa sensazione, l’avevo già provata, ma non parlo del caso che ho risolto ad Hyde Park, piuttosto mi riferisco a qualcosa accaduta prima. Forse nella mia vecchia vita era di routine sentirsi così”.

- Ti sembra familiare? – Lui annuisce e richiude il diario, sistemandolo all’interno del cappotto insieme alla penna.
- Nella mia mente sono riaffiorate delle immagini, vedevo noi due in un taxi, solo questo. E ricordavo la sensazione, l’eccitazione, la gioia. –
- Solo questo? – Lui annuisce di nuovo, abbassando lo sguardo sulle sue mani, puntando gli occhi chiari sulla fede al proprio dito e lasciandosi sfuggire un sorriso.
- Se stiamo parlando del mio lavoro sì. Poi ci sei tu… -
- Che vuoi dir… -
- Provavo certe cose in tua presenza, cose che sembravano familiari, per questo mi rendevi nervoso, non ero solo geloso. Non capivo di che si trattasse, visto che credevo fossi sposato con qualcun altro, ma poi mi hai detto di essere mio marito e ho capito… - Non so se essere intenerito da ciò che ha detto o semplicemente stupito, ma dalla mia bocca non esce un suono, e ciò non solo perché mi ha lasciato senza parole, ma anche perché il tassista ha brutalmente interrotto la nostra conversazione con un’improvvisa frenata che ci ha fatti ballonzolare sui sedili.
- Siamo arrivati! – Annuncia, masticando rumorosamente una gomma alla fragola, riesco a sentirne l’odore che è diventato quasi nauseabondo. Cristo, non si meriterebbe neanche il denaro! Il giro che ci ha fatto fare è stato immenso e per un attimo ho creduto che avesse trovato la patente in una confezione di patatine.
Ci ritroviamo proprio di fronte al piccolo appartamento di Ellen. Me lo ricordo bene, ma erano mesi che non ci mettevo piede.
- Te la senti ancora? –
- Assolutamente! –
Ad aprirci è proprio lei, e sembra stupita nel vederci, ma ci fa accomodare senza storie. Ci invita a sederci ma Sherlock decide di rimanere in piedi per guardarsi intorno e studiare sia la donna che la stanza in cui ci troviamo.
- Mi sembra di avervi già detto che non ne so niente di quella storia. –
- Lo sappiamo. – Dice Sherlock mentre si sofferma a studiare la parete gialla che fronteggia il divano su cui Ellen si è seduta.
- Allora a cosa devo questa visita? – Sherlock non risponde, sembra piuttosto attratto dalla libreria a muro e dai libri che essa contiene, riesco a percepire il suo sguardo saettare su ogni volume, così rispondo io alla domanda della donna.
- Sherlock ha avuto un incidente che gli ha causato un’amnesia retrograda totale… -
- Oh, mio Dio, è terribile! –
- Già… lo scopo della nostra visita e di riavvolgere il filo della situazione, gli serve osservare alcuni dettagli per poter riprendere a lavorare sul caso. - Ellen annuisce, ma entrambi veniamo interrotti dai respiri accelerati di Sherlock che ha iniziato a traballare sulle sue stesse gambe, reggendosi la testa con le mani e gemendo come se stesse subendo un dolore esageratamente acuto. Ovviamente non perdo tempo ad alzarmi e a raggiungerlo così da poterlo reggere e afferrargli il viso fra le mani.
- Sherlock! – La sua smorfia di dolore mi fa pensare al peggio, ma cerco di contenermi perché non voglio spaventare nessuno dei due. – Sherlock, dimmi cosa senti. –
- La testa… - mormora lui stringendo talmente forte gli occhi da procurarsi dolore.
- Ti fa male la testa? –
- No, mi gira… mi gira la testa… - Le sue gambe cedono ed io mi faccio in quattro per evitare che cada e farlo sedere sul divano, aiutato stavolta da Ellen, che allarmata aveva cominciato a tremare. Probabilmente non era abituata ad assistere in situazioni del genere.
- Chiamo un’ambulanza? – Chiede con un filo di voce.
- Non ce n’è bisogno, mi chiami un taxi, noi torniamo a casa. – Dico mentre porto le dita a controllare il battito del suo cuore. È accelerato, la cosa non mi tranquillizza affatto. Ellen corre subito nell’altra stanza ad eseguire il mio ordine, io invece cerco di far calmare Sherlock.
- John… -
- Sono qui. –
- John, ho visto qualcosa. – Allarmato mi giro verso la libreria… cosa avrebbe potuto spaventarlo così tanto? Perché quella libreria lo ha sconvolto così tanto. In effetti… anche l’ultima volta che siamo stati qui per ispezionare la casa si era soffermato su quel preciso punto della casa, ma non ne aveva più fatto parola, a parte quel “qualcosa mi distrae”.
- Cosa hai visto? Non noto niente di strano! –
- Non lì! – Non riesco a capire, ma sono sollevato dal fatto che il suo respiro si sia regolarizzato. – Nella mia testa… un ricordo. -




 
Note autrice:
No no, non ho affatto preso spunto dall'abbraccio Johnlockoso della quarta stagione, ma scherzate? Sono totalmente innocente!
A parte questo... volevo pubblicare prima di stasera, prima del grande finale, del problema finale. Sono stata più veloce di quanto mi aspettavo. Sono triste e felice allo stesso tempo, sia perchè cavolo, la puntata nuova, sia perchè, CACCHIO, L'ULTIMA!
Vi volevo ringraziare perchè aumentate a dismisura e davvero non mi era mai successo, sono felice che vi piaccia, e spero che questo capitolo possa farvi lo stesso effetto.
Ci sentiamo quando mi riprenderò dalla 4x03, baci!

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Capitolo 8
*** Maledetta meravigliosa creatura ***


Maledetta meravigliosa creatura



 
- Perché c’è anche Mycroft? –
- L’ho chiamato io. – Dico mentre Sherlock si siede barcollante sulla poltrona di pelle nera. Io e Mycroft siamo in piedi davanti a lui, in attesa che finisca di strofinarsi gli occhi per via della confusione… in attesa che parli.
- Era necessario? –
- Io e John abbiamo fatto un accordo, Sherlock. – Dice lui mentre si poggia con le mani al manico del suo fidato ombrello. – Se ci fossero state novità mi avrebbe avvertito. – Il minore degli Holmes si sta ancora strofinando gli occhi, quindi mi avvicino in modo da potergli togliere la sciarpa ben annodata al collo. – Mi ha detto che ti sei ricordato qualcosa, quindi vorrei che ne parlassi. – Mi rigiro la sciarpa di Sherlock fra le mani e torno ad affiancare mio cognato, che non la smette di battere nervosamente il piede sul tappeto. Mio marito è ancora troppo scosso e confuso per parlare, vorrei proprio che Mycroft ci andasse piano con questa sua impazienza, non vorrei che ciò turbasse ancora di più l’uomo che ci sta di fronte. – Sherlock… -
- Non dire altro, Mycroft! – Lo rimprovero, puntandogli contro il dito e ricevendo in cambio un’occhiata sconcertata.

Al Governo inglese non piace che lo si contraddica?

- Non vedi in che stato è? Deve riprendersi un attimo! Quindi se vuoi che lui parli ti siedi e aspetti. – Mycroft apre la bocca contrariato, ma il mio sguardo truce è abbastanza per fargli morire le parole in bocca, tanto che si accascia rassegnato sulla mia poltrona e accavalla le gambe in attesa.
Soddisfatto di aver zittito Mr Perfettino, mi dirigo subito da Sherlock e mi abbasso alla sua altezza mentre ancora si sta massaggiando le tempie. Avverte la mia presenza perché apre gli occhi e si perde quasi subito nei miei.
- Stai bene? – Chiedo con tono pacato e paziente, praticamente l’opposto di quello che Mycroft aveva utilizzato. Le mie mani si poggiano delicatamente sui suoi polsi per carezzarli (e sì, ho anche intenzione di controllare il suo battito). Vedo le sue pupille dilatarsi appena, poi annuisce piano.
- Mi gira solo un po’ la testa. – Falso allarme. Nessun attacco di panico, semplicemente ha avuto un flashback e la sua mente debole si è sforzata troppo nel ricevere tutte quelle informazioni all’improvviso.
- Quando te la senti di raccontare, io sono qui, va bene? – Lui annuisce, ancora perso nelle mie iridi, poi fa in modo che le sue dita si intreccino alle mie.
- Credo di potercela fare anche adesso. – Gli sorrido rassicurante e lui fa lo stesso, quasi quasi ci scordiamo della presenza di Mycroft, che di sicuro starà roteando gli occhi, disgustato da tanta sdolcinatezza. – Però resta qui. – Aggiunge in sussurro, con voce timida e tremante. Per risposta mi accomodo sul bracciolo della sua poltrona, e lui fa scivolare la mano sul mio ginocchio. Non la sposta da lì nemmeno quando Mycroft si accorge della fede al dito, che in questo modo è completamente in bella vista. Però sembra non avere reazioni al riguardo, piuttosto è ansioso di sentire cosa Sherlock abbia ricordato.
- Con calma. – Dico notando i suoi occhi stringersi per un momento, così poggio il palmo aperto sulla sua mano per dargli maggiore conforto, e ciò sembra restituirgli un po’ di pace.
- Ho iniziato a provare una strana sensazione già mentre raggiungevamo l’ingresso. Dapprima non ci ho fatto caso, né ci ho prestato particolare attenzione, ho solo pensato fosse una normale reazione dovuta al fatto che stessi cercando di risolvere un caso che mi perseguitava da settimane. – I suoi occhi si posano sulle nostre mani unite e sembra stia cercando le parole adatte per continuare. – La libreria. È successo appena ho posato lo sguardo sulla libreria. –
- Cosa hai visto? – Mycroft è insistente, ma capisco dal suo tono di voce che sta cercando in tutti i modi di risultare rassicurante.
- Ho visto me e John. Stavamo entrando in casa di Ellen. – Mi sta guardando adesso, si sta totalmente rivolgendo a me. – Tu hai esclamato un “bizzarro!” quando sul tavolo hai notato della biancheria intima maschile, ed Ellen stava morendo di imbarazzo. –

Sì, qualcuno lassù mi ha ascoltato. Si ricorda.

Una piccola cosa, ma se la ricorda!

Io gli sorrido felice e lui solleva appena l’angolo delle labbra, voltando la mano e stringendo la mia. Sono così entusiasta che sento gli occhi pungere, probabilmente potrei iniziare a piangere di gioia, ma non voglio farlo davanti a Mycroft.
- E poi ricordo… di aver passato il tempo a soffermarmi su quella libreria, dicevo che mi distraeva, avevo notato qualcosa che non riuscivo a vedere. È la stessa cosa che ho sentito quando l’ho osservata oggi. –
- Credi sia inerente al caso? – Gli chiedo io.
- Sì… se solo avessi scattato delle dannate fotografie! – Mormora scuotendo la testa, lasciandola poi ricadere esasperato sullo schienale della poltrona.
- Ci ho pensato io. – Lui mi guarda sorpreso, i suoi occhi strabuzzati mi fanno sfuggire una leggera risata mentre prendo il cellulare dalla tasca. Apro la galleria con le ultime foto scattate e gliele mostro immediatamente, con una nota di soddisfazione in viso. – Sapevo che ti avrebbe fatto piacere. – Lo vedo scorrere tra le immagini e mi sento completamente bene quando mi guarda con quegli occhi colmi di riconoscenza.
- John Watson, sei un genio! –
- Bene, fratellino. Credo che il dottor Portman sarà soddisfatto di questi tuoi miglioramenti. – Mycroft si alza e mi rendo conto che anche lui è presente nella stanza. Il suo silenzio e la mia attenzione sul fratello minore mi aveva quasi fatto dimenticare di lui.
A quel punto Sherlock lascia, con mio disappunto, la mia mano e si alza rivolgendo uno sguardo furioso al maggiore.
- A proposito di questo! – Esclama recuperando il prezioso diario poggiato ordinatamente sul tavolino. – Tu hai ficcanasato nella mia terapia, hai esplicitamente voluto sapere cosa scrivessi! – Gli dice con la rabbia straripante da ogni poro mentre gli sventola quel diario sotto al naso, come a sottolineare ciò che lui aveva fatto di nascosto. Mycroft non batte ciglio, anzi, segue con lo sguardo il movimento della mano di Sherlock… e lo trovo talmente buffo che mi ritrovo a ridacchiare fra me e me. Sembra un cagnolino che fissa intensamente l’osso che il padrone è pronto a lanciargli. – Non sarebbe stato meglio chiedere a me, invece di agire senza farmelo sapere? –
- Non vedo perché ti scaldi così tanto! –
- Sono faccende private! –
- Beh, non dovresti prendertela, visto che le mie azioni ti hanno solo giovato. – Sherlock rimane in silenzio per un attimo, con un sopracciglio sollevato.
- Giovato? –
- Beh, a quanto pare ha risolto un paio di cose fra te e John, o mi sbaglio? – Il rossore che affiora sugli zigomi di Sherlock mi rimarrà impresso in testa per sempre, come una bella fotografia che non smetterei mai di guardare. Mycroft fa riferimento alla fede, che poco dopo non esita ad adocchiare con un sorrisetto vincitore. Il minore non riesce a dire altro per due motivi ben precisi: è fin troppo imbarazzato, ed in più Mycroft ha appena lasciato la stanza con un cenno di saluto.

E così anche lui ha capito che il matrimonio è venuto a galla.

Non smetto di ridacchiare nemmeno quando Sherlock va a sedersi sul divano con evidente disappunto, guardandomi di sottecchi e fulminandomi. Se avesse potuto sparare laser sarei di sicuro un cumulo di cenere sul tappeto che la signora Hudson avrebbe fatto fatica a pulire.
- Che ci trovi di divertente? –
- Oh, non so… - Dico passandomi una mano fra i capelli per sistemarli meglio all’indietro. Il gesto non passa inosservato, perché lo vedo deglutire nervosamente non appena lo compio.

A quanto pare potrei usarlo come arma di seduzione… se mai lo volessi.

- Mi ha sempre divertito vedervi battibeccare. – Confesso recuperando il mio telefono dalla sua poltrona e prendendo poi posto accanto a lui.
- Era frequente? –
- I battibecchi? Beh, in un certo senso… - Lui annuisce e si lascia sfuggire un sospiro, poggiando la testa sullo schienale e guardando il soffitto. – Ti mando le foto allora… così puoi lavorarci sopra quando vuoi. – Lui annuisce senza smettere di guardare l’intonaco che ci sovrasta. – Ma promettimi che ci andrai piano… -
- Oh, sì tesoro, lo prometto! – Il suo tono risulta ironico e divertito mentre pronuncia quelle parole. Giocare sulla nostra relazione non mi dispiace affatto, data la situazione di stallo in cui ci siamo ritrovati.
- Benissimo, caro. Cosa vuoi per pranzo? – Chiedo, nascondendo un sorrisino e stando volentieri al gioco.
- Tutto ciò che le tue adorabili mani sono in grado di preparare, pasticcino. – L’ultimo appellativo mi fa sfuggire una risata che contagia anche lui.

Dio, la sua risata. Potrei voler sentire quel suono per tutta la vita e non esserne mai stanco.
 
***
 
Sono passati due giorni. Continuo a dormire nel suo letto… beh, il nostro letto. Il divano non ospita più i miei sogni perché Sherlock sembra sentirsi più sicuro con me accanto, e non posso nascondere che la cosa non mi piaccia, perché per tre volte di seguito mi sono risvegliato avvolto dalle sue braccia, ed è una sensazione così bella che al mattino mi risulta un’impresa impossibile voler abbandonare le lenzuola.
Oltre agli abbracci e le carezze durante la notte il nostro rapporto non è cambiato. Dentro di me so già che lui prova lo stesso che provo io. Sento ogni forma di affetto che è in grado di dimostrarmi e ne sono fottutamente felice. Io sono determinato a mantenere la parola che ho dato, ovvero quella che non voglio assillarlo, quindi se non se la sente di fare un passo avanti non sarò di certo io ad imporglielo.
Invece abbiamo continuato a scherzare coi nomignoli sdolcinati. Quando mi ha chiamato “cucciolotto” per poco non ho perso tutta l’aria dei miei polmoni.
Nemmeno prima eravamo soliti darci nomignoli, (il massimo forse era “amore”), i nostri nomi di battesimo bastavano, e per me è sempre stato bellissimo quando lui lo pronunciava. Sembrava quasi stesse pronunciando il nome di un angelo, perché il tono che utilizzava era dolce, sereno, pieno di amore… e quando lo diceva in determinate situazioni fra le lenzuola, per l’amor del cielo! Sembrava talmente erotico, con quella voce spezzata e piena di piacere somigliava a una supplica, ad un sussurro devastante in grado di farmi rabbrividire come un bambino. Non lo pronunciava neanche tanto bene mentre era travolto dalla passione, dal normale John si passava ad un dolcissimo “Jawn” che mi faceva impazzire. Di sicuro lo preferisco a tesorino, pasticcino e cucciolotto.
Scherzarci su era comunque divertente, soprattutto quando lo facevamo davanti agli occhi sorpresi dei signori Holmes e davanti a Lestrade.
A proposito di quest’ultimo! La stampa lo ha torturato per sapere delle condizioni di mio marito. La sua fama è cresciuta abbastanza dopo il salto dal tetto, quindi la notizia del suo incidente e della sua amnesia si è diffusa a macchia d’olio. Adesso tutti vogliono sapere come sta, tutti vogliono le sue dichiarazioni dal vivo. Greg non ce lo aveva mai rivelato perché aveva paura che questo potesse turbare Sherlock, ma adesso i giornalisti sono arrivati al punto di seguirlo fino a casa e, esasperato, ci ha detto tutto.
Sherlock ha accettato di parlare con uno di loro, nonostante io sia contrario e dell’idea che è ancora troppo presto per rilevarsi alla stampa. Ha insistito, dicendo che non avrebbe permesso che per colpa sua i suoi amici venissero torturati.
Infatti adesso siamo qui, davanti al giornalista e al suo cameraman, alla stazione di polizia, con Lestrade che guarda uno Sherlock stranamente tranquillo. Prima che potessero iniziare, ho chiesto all’intervistatore di non fare domande sul suo passato inerenti a qualche caso, l’ho quasi pregato in ginocchio e lui è stato talmente gentile da approvare la mia richiesta.
Alla fine, non sono poi così invadenti. Il succo della questione è soltanto sapere il suo stato di salute. Ovviamente sono ancora contrariato, ma Sherlock ha saputo gestire ogni cosa ed è riuscito a mantenere la calma, rispondendo sinceramente e senza esitazioni.
Ci sono state anche domande su di me. Gli hanno chiesto come avevo reagito alla sua condizione e la sua risposta mi ha fatto sorridere e saltare un battito:

“John, lui… di certo all’inizio non l’ha presa benissimo, era sconvolto. I primi momenti era l’unica cosa che di lui riuscivo a notare. Sapevo si sentisse perso ma non gliel’ho mai detto perché aspettavo che si riprendesse da solo. Quando mi sono svegliato dal coma è stata la prima persona che ho visto e anche se non l’ho riconosciuto io sapevo che qualcosa ci legava, per questo riuscivo a leggere i suoi sentimenti. Adesso è forte, è la mia roccia, si comporta come il marito che tutti vorrebbero e non sarei qui senza di lui.”

Anche Lestrade ha sorriso, intenerito da quelle parole… perfino quella vipera di Sally Donovan!
Poi gli hanno chiesto se stesse seguendo un caso e lui ha risposto che avrebbe dovuto andarci piano ma che, sì, stava lavorando a qualcosa, ma non ha aggiunto altro, anche perché l’intervista stava già durando abbastanza, e poi Sherlock ha la visita dal dottor Portman oggi e mi ha chiesto di accompagnarlo. Di solito non me lo chiede, si era abituato ad andare da solo, ma oggi ha insistito abbastanza.
Quando mi sono ritrovato nella stanza in cui Sherlock e lo psicologo erano soliti parlare sono rimasto spiazzato. Credevo volesse soltanto che lo accompagnassi, ma a quanto pare voleva anche che fossi presente alla seduta.
Sherlock si accomoda sulla poltroncina, mentre io faccio lo stesso quando noto il divanetto in pelle bianca (maledettamente pulito come quello in salotto). Mio marito si sporge quel tanto che basta per consegnare il diario nelle mani del suo terapista, che non esita a leggere e ad appuntarci sopra qualcosa con una penna rossa, ricopiando poi il tutto nel suo taccuino.
- Quindi ha avuto un ricordo abbastanza importante che riguarda il suo lavoro… - Mormora giocherellando con la penna che stringe fra le dita. – Vuole parlarne? – Sherlock rimane un attimo in silenzio, poi mi guarda come a cercare sostegno ed io annuisco con un sorriso rassicurante che basta a dargli la forza di rispondere.
- Ho visto delle chiare immagini, si sono risvegliati dei momenti ben specifici. Le ho già parlato del caso, ma quando ho visto quella libreria sono andato in confusione e ho avuto questo flashback. – Portman sistema le mani al grembo e continua ad ascoltarlo. – Ho capito subito che è un elemento importante per le indagini. –
- Signor Holmes, come mai ha lasciato che il dottor Watson assistesse alla seduta? – A quel punto apro bene le orecchie anche io. Non me lo ha spiegato e non ho saputo che avrei dovuto assistere se non nel momento in cui sono entrato nella stanza. Sherlock punta lo sguardo su di me per dei momenti che sembrano interminabili, poi picchietta le dita sul bracciolo della poltrona e si volta nuovamente verso di lui.
- John è mio marito, la mia famiglia. Ho pensato che gli avrebbe fatto piacere, visto che parleremo anche di lui. Ed in un certo senso la sua presenza mi tranquillizza. – Ed anche questa volta le sue parole riescono a sorprendermi e a farmi sorridere come un ebete.

Dio, quanto ti amo.

Quanto vorrei dirtelo.

- Per caso è un problema? –
- Affatto, questo vuol dire che si ricorda del legame che ha con suo marito ed è una cosa del tutto positiva. Il fatto che voglia coinvolgerlo potrebbe aiutarla molto. –
La seduta prosegue ed il loro argomento slitta su di me un bel paio di volte, ma non ho niente di cui sorprendermi perché ormai Sherlock mi racconta tutto e non esita a dirmi la verità sui suoi sentimenti e sulle sensazioni che spesso gli risultano familiari. E quelle sensazioni, per la gran parte delle volte sono provocate da me, sensazioni belle e felici.
Alla fine il dottor Portman mi ha coinvolto in una sorta di terapia di recupero. È stata una mia idea: dato che vedere quella libreria gli aveva fatto tornare in mente qualcosa, allora io avrei voluto portare Sherlock in posti familiari, in luoghi in cui sono successi i momenti più significativi della sua vita. Avrei voluto anche parlare, fare riferimento a dei dialoghi passati, sperando che qualcosa nella sua testa si potrà accendere.
Portman ha accettato con grande orgoglio la mia idea, e sarò pronto a metterla in atto in qualunque momento.
Quella stessa sera mi sono ritrovato a lavare i piatti con il sottofondo del suo violino. Non ricorda altre melodie a parte il walzer che aveva già avuto modo di far riaffiorare, si limita a suonare i classici di Bach o Mozart, classici che ho imparato ad amare anche io grazie a lui.
Sono così assorto dalla macchia di sugo su questo dannato vassoio che non mi rendo conto che il dolce suono dello strumento di Sherlock è cessato, e forse anche da un bel po’. Quando me ne accorgo mi giro subito per controllare e lo vedo seduto sulla sua poltrona. Sulle gambe ha un album aperto che riconosco subito. Riesco ad intravedere la foto su cui non riesce a staccare gli occhi e mi mordicchio le labbra quando capisco cosa sta guardando. Mi asciugo le mani e lo raggiungo in poco tempo, aspettando una qualche reazione da parte sua, ma non ha ancora mosso un muscolo. Quell’immagine ci ritrae al nostro matrimonio, una meravigliosa foto di un bellissimo bacio mentre siamo seduti al nostro tavolo, felici e con la mia mano stretta nella sua sulla tovaglia, le fedi scintillanti che risaltano agli occhi.
Tenevamo quell’album proprio nella nostra libreria ma sembrava non averlo mai notato, almeno fino ad ora.
Quando una piccola goccia cade sulla foto, mi affretto ad abbassarmi alla sua altezza, notando che i suoi occhi sono pieni di lacrime.
- Sherlock… -
- Dovremmo farla ingrandire. – Mormora con la voce rotta dal pianto. – Mi piace molto, dovremmo appenderla in camera… -
- Sai, è stata la stessa cosa che hai detto quando l’hai vista la prima volta. – Confesso portando le dita ad asciugare quelle maledette lacrime dalle sue guance calde e lisce. A quel punto lui mi guarda ed è come se volesse parlare, come se volesse dire qualcosa di importante ma non ci riesce.
- Perché piangi? – Chiedo, aspettandomi una risposta che probabilmente mi avrebbe spezzato il cuore, dato il dolore che riesco a leggere nei suoi occhi.
- Mi sembra così strano vedermi mentre ti bacio. – Mormora incontrando il mio sguardo preoccupato e portando una mano a carezzare piano la mia.
- Perché? –
- Perché io non me lo ricordo, John. Sembra di vedere qualcun altro in questa foto, sembra che non sia io. – A quel punto mi accingo a chiudere l’album e a poggiarlo sul tavolino, poi mi alzo e trascino anche Sherlock con me, accogliendolo fra le braccia e cullando la sua evidente disperazione. Lui ricambia il mio abbraccio con forza, stringendosi a me come se ne valesse la sua vita. Il suo viso è poggiato sulla mia spalla e riesco a sentire chiari e tondi i suoi singhiozzi. – John, tu sei l’unica cosa che vorrei ricordare. – Mormora tra una lacrima e l’altra, mentre stringe possessivamente il maglione che ho addosso. – Lo capisci, vero? – Mi chiede poggiando poi la fronte contro la mia, per poi fare un respiro profondo che vorrebbe servire a placare la sua disperazione. – Io mi sono innamorato di te ancora prima di sapere che fossi già mio. – Lo avevo capito, certo, le sue azioni parlavano… ma adesso lo ha detto, lo ha esplicitamente confessato a cuore aperto e per un momento sento le gambe cedere, mi aggrappo ad ogni briciolo di forza che mi è rimasta per continuare a restare in piedi. Stare incollato e allacciato al suo corpo mi aiuta abbastanza. – Capisci perché è così importante per me? – Viene improvvisamente bloccato da alcuni singhiozzi incontrollati che mi trafiggono il cuore.
- Lo capisco Sherlock, certo che lo capisco. – Mormoro prendendo il suo viso fra le mani e guardando i suoi meravigliosi occhi azzurri e lucidi. – Anche io voglio che tu lo ricordi… -
- Tutti i nostri momenti, John, le nostre prime volte! –
- Lo so, lo so. Ma tu ricorderai ogni cosa. – Non è una frase detta tanto per tranquillizzarlo, io so che lui ricorderà, so che la sua memoria tornerà come prima e che in essa ritroverà ogni sorta di bel momento passato, ne sono sicurissimo. – Quando andremo sui luoghi del tuo passato inizierai a ricordare. –
- E se non fosse così, John, se non ricorderò nulla? – Io continuo a scuotere la testa e ad accarezzare le sue guance umide. Sono convinto di ciò che dico. – Ti stancherai di me… - Mormora poi con un filo di voce, scioccandomi ancora una volta e facendo fermare il movimento dei miei pollici sulla sua pelle.

Oh, Sherlock…

Maledetta meravigliosa creatura che non sei altro.

- Non dirmi che è questo che ti preoccupa… - Sussurro ricevendo in cambio uno sguardo pieno di timidezza, le sue guance diventano adorabilmente rosse e non riesce affatto a mantenere gli occhi su di me, quindi poco dopo essi sono puntati su un punto indefinito della parete. – Oh, sei proprio un idiota. – Dico facendo combaciare le nostre fronti e stringendo forte gli occhi. – Neanche in un universo parallelo sarei in grado di lasciarti, nemmeno sotto tortura. – Non lo sento reagire minimamente e allora non smetto di parlare. – Tu hai ragione, so come ti senti… perché vivendo ogni giorno al tuo fianco ho capito cosa ti passa per la testa, Sherlock. Tutte le nostre prime volte e i nostri bei momenti… so che li rivorresti indietro, ma non hai calcolato che se anche quei ricordi non dovessero tornare, noi due avremmo tutto il tempo per costruirne di nuovi, per riavere le nostre prime volte e i nostri bei momenti. – A quel punto apro gli occhi e noto il suo labbro inferiore incastrato fra i denti e gli occhi ancora velati dal pianto. Asciugo dolcemente i suoi zigomi e accenno un piccolo sorriso. – Posso portarti fuori a cena ed organizzare un primo appuntamento formale come si deve, posso portarti al cinema o farti conoscere di nuovo Angelo. – Accenno una risata, ma lui non ha ancora aperto bocca. – Posso farti i primi regali sdolcinati, come una volta e… -
- Sei maledettamente romantico. – Sta accennando un sorriso anche lui e la cosa non fa altro che sollevarmi il morale.
- Lo dicevi sempre. – La sua risposta è la cosa migliore che potessi desiderare: le sue labbra carnose si poggiano con delicatezza sulla mia fronte e da lì non si staccano finché non sono proprio io ad interrompere quel dolce contatto. – Sottolineiamo questo concetto. – Mormoro poi spostando le braccia attorno ai suoi fianchi. Poco dopo i miei movimenti ricordano un lento scoordinato, ma Sherlock non mi segue ancora, anzi… mi guarda piuttosto confuso.
- Che stai facendo? –
- Sto ballando con te. – La sua leggera risata arriva come una dolce melodia alle mie orecchie, mentre le sue braccia si allacciano al mio collo. Ora sta seguendo i miei movimenti ed io ho poggiato la tempia contro la sua guancia liscia. Il suo profumo inonda le mie narici e potrei benissimo morire qui, in questo momento, ne sarei felice.
- Senza musica? –
- Ne abbiamo bisogno? – Lui scuote deciso la testa ed io sorrido mentre un mio braccio va a circondare del tutto il suo busto.
- Questo me lo chiami ballare? – Il suo sussurro arriva al mio orecchio e per un attimo rabbrividisco.
- Non fare storie, mi hai insegnato tu a ballare! –
- Beh, o sono un pessimo insegnante o tu sei un pessimo allievo. – E andiamo avanti ancora, forse per minuti, forse per ore, ridacchiando per qualche battuta di tanto in tanto, e restando in silenzio per sentire il battito del cuore altrui.




Note autrice:
Bene, siamo tutti sopravvissuti al finale di stagione? Io ci provo a sopravvivere.
Questo capitolo è stato scritto durante una settimana intensa di lavoro della sottoscritta, per questo è arrivato un po' tardi, ma alla fine eccolo qui.
Ho deciso di cambiare anche da "sentimentale" a "fluff", perchè ammettiamolo... c'è molto fluff qui lol
Spero possa piacervi, cercherò di essere puntuale, ma vedremo.
Alla prossima ragazzi, un bacio!

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Capitolo 9
*** Il mio Nord ***


Il mio Nord



 
Continuo a raccontare le sue avventure ogni sera, prima di addormentarci. Di solito mi ritrovo con la sua testa poggiata interamente sulla spalla, il mio mento che delicatamente si immerge nei suoi ricci mentre tengo il computer ben aperto sulle gambe. Il suo braccio mi circonda fino a raggiungere il mio fianco che accarezza delicatamente con il pollice. A volte si addormenta prima che io finisca, perché avverto il suo respiro più pesante e la sua mano che smette di prendersi cura del mio fianco… e allora sorrido, sorrido nell’osservare una creatura così bella compiere un gesto tanto semplice.
Sono arrivato al punto cruciale della sua storia, questa sera devo raccontargli del salto dal tetto. Ho iniziato a leggere con calma e lui sembrava aver notato da subito il tono teso che stavo usando, perché continuava a lanciarmi occhiate furtive. Certo, gli avevo anticipato che ci sarebbe stata una parte della storia molto poco piacevole, ma forse non si aspettava questo. Infatti la sua reazione subito dopo è sconvolta. Quasi non crede di essere stato lui a compiere ogni singola azione di quel racconto, ma poi, quando ho chiuso il pc con quella faccia da “funerale”, Sherlock ha dovuto ricredersi.
- Due anni… - Ha mormorato poggiando il mento sul mio petto, guardandomi con quell’aria fanciullesca e triste mentre mi diletto a passare la mano fra i suoi ricci scomposti.
- Due lunghi anni. – Confermo, soffermandomi con lo sguardo sulla particolare rotondità del ciuffo che continuo a cadere ribelle sulla sua fronte.
- Conoscendoti devi avermi picchiato. – Mi sfugge una risata ed annuisco appena mentre la mia mano si sposta a carezzare la sua guancia.
- Ti ho spaccato il labbro e ti ho quasi rotto il naso. – Lui accenna un sorriso, un leggerissimo sorriso che però svanisce all’istante. Io sollevo confuso un sopracciglio e mi premuro di sollevare meglio la coperta su entrambi. Siamo a dicembre, fra poco sarà Natale, quindi il freddo è pungente e posso provare sollievo solo se sono ben coperto o solo se ricevo il calore corporeo dell’uomo che adesso sta evitando il mio sguardo. – Non cercare di sentirti in colpa. – Dico catturando nuovamente la sua attenzione. – Ok, sì… sei stato un vero stronzo, perché gente attorno a me era a conoscenza della verità, perché ho vissuto nel lutto per due anni e perché sei sbucato fuori proprio quando stavo iniziando a riprendermi, ma… - Emetto un lungo sospiro e continuo a parlare. – Lo hai fatto per salvare delle vite… tra cui la mia, quindi non è stata poi così tanto una sciocchezza. – Lui annuisce ma la sua espressione non muta mentre il suo indice comincia a disegnare ghirigori immaginari sulla mia maglia.
- Lo rifarei… - Lo dice in un tono così basso che non riesco a capire quasi nulla delle sue parole, tanto che sono costretto a chiedergli di ripetere.
- Come? –
- Ho detto che lo rifarei. Se dovessi tornare indietro e se sapessi che sarebbe l’unico modo per salvarti, allora… lo rifarei. – Non riesco a trattenere un sorriso ed inizio a sfiorare il suo zigomo con le dita, gesto che gli provoca un adorabile rossore sulle guance.
- Proviamo a dormire? – Chiedo, ricevendo in risposta un movimento di assenso della sua testa. Mi allungo quindi per spegnere la luce, e subito dopo mi ritrovo ricoperto per metà dal suo corpo caldo, stringendosi a me come un bambino stringe il suo orsacchiotto durante la notte.
- John? – Dice dopo qualche minuto di silenzio in cui credevo si fosse addormentato. Quando riapro gli occhi la stanza è completamente al buio, ma il respiro di Sherlock sfiora la mia pelle, solleticandomi, in attesa di una mia risposta.
- Sì? –
- Fra poco è Natale. –
- Già, fra otto giorni, precisamente. – Sussurro muovendo piano le dita che ho incastrato fra i suoi capelli morbidi.
- Faremo qualcosa? –
- Mh… credo la solita cena fra amici. Non organizzavamo nulla di che, tu eri solito accontentarmi perché non ti è mai piaciuto il Natale, anche se negli ultimi anni sembravi essere felice in questo periodo. –
- Oh… - Mormora a bassa voce. – Non so se adesso mi piaccia il Natale. –
- Non lo sai? –
- No, cioè… non ricordo i Natali passati, di conseguenza non saprei. – Mi giro verso la sua testa riccioluta, ed anche se non riesco a vederlo per colpa dell’oscurità, io so di aver incrociato il suo sguardo, me lo sento… percepisco i suoi occhi come l’ago della bussola percepisce il Nord.
- Allora facciamo così. Organizziamo una bella cena, come al solito. Passiamo una bella serata tutti insieme e dopo mi potrai dire se il Natale ti piace o no, che ne pensi? –
- Penso che va bene. – La sua voce arriva soffice alle mie orecchie, con una nota di dolcezza che poco prima non c’era. Questo perché sta sorridendo, riesco a percepire anche quello.

Di certo il buio non mi ferma dal riconoscere l’uomo che ho sposato.

Lui è il mio Nord.

- Adesso dormi. –
 
***
 
Il giorno dopo lo trovo in salotto, sta armeggiando con il telefono, e solo quando passo dietro di lui per lasciargli un bacio fra i capelli, augurandogli così il buongiorno, capisco cosa sta facendo. Non reagisce alla mia presenza, a parte forse per quel bacio per il quale lo sento trattenere il fiato, perché è troppo impegnato a far scorrere le foto della libreria. Riesco a sentire le sue spalle tese non appena ci poggio le mani.
- Trovato niente? – Chiedo iniziando a massaggiarle delicatamente, sentendole abbassarsi all’improvviso, in preda al relax più totale. Per un attimo ho l’impressione che stia perdendo la presa al cellulare, e i suoi sospiri profondi mi fanno capire quanto il movimento delle mie mani sia gradito ai nervi tesi di Sherlock.
- Qualcosa, forse… - Mormora con tono assorto, tenendo gli occhi chiusi e le labbra semiaperte.
- Qualcosa del tipo? – Smetto di massaggiare le sue spalle, e su una di esse ci poggio il mento. Lui sembra essere deluso dal mio gesto, ma anche grato del fatto che avessi deciso di fargli riprendere la concentrazione. Si schiarisce la voce con una finta tosse, poi solleva lo schermo del telefono davanti ai miei occhi. La foto è zoomata in un punto ben preciso, ovvero quello tra una mensola e l’altra.
- Guarda la parete dietro alla libreria, non ti sembra ci sia qualcosa che stoni? – Mi sussurra, dato che la nostra vicinanza è talmente tanta che non c’è nessun bisogno di alzare la voce. Mi soffermo a guardare la parete in questione ed inizio a storcere confuso le labbra. Ora che me lo fa notare, sì… qualcosa stona completamente con il resto della foto, qualcosa distrae la mia attenzione, ma non riesco a capire cosa.
- L’improbabile colore giallo acceso della carta da parati? – Chiedo in un mormorio, strappandogli una piccola risata divertita, poi si gira verso di me con la testa e continua a mantenere un leggero sorriso che mi fa sciogliere il cuore.
- A parte quello. – Sussurra, poi mi porge il cellulare ed io mi accingo a studiare meglio la foto.
- Tu lo hai capito? –
- Ovviamente! –
- Allora perché vuoi farmi indovinare? –
- Voglio vedere quanto sei sveglio! –

Non cambia mai.

Mi soffermo ancora sui dettagli: la libreria altro non è che una serie di mensole fissate alla parete, i libri non hanno nulla di strano, ma Sherlock mi ha detto di soffermarmi sulla parete. Inizio dalle mensole in basso e la parete sembra perfettamente normale, ma quando arrivo alle ultime due in alto mi accorgo che c’è qualcosa di diverso.
- Lo hai notato! – Esclama lui portando le ginocchia al petto, sorridendo con entusiasmo nell’aver capito che ho compreso il dettaglio importante.
- Sì, credo di sì… a partire dalla seconda mensola in alto la carta da parati è simile, ma non è la stessa di quella del resto della stanza. – Ingrandisco la foto e comincio a spiegare meglio la mia teoria. – Vedi, la carta da parati qui non ha lo stesso motivo floreale, perfino il giallo dello sfondo sembra più pallido. Non si nota quasi se non ci si fa molta attenzione. – Gli passo nuovamente il telefono e gli sorrido soddisfatto. – Ho indovinato? –
- Sì, John, hai indovinato. – Anche il suo di sorriso è soddisfatto.
- Cosa credi che sia? –
- Non ne ho la più pallida idea! – Esclama con finto entusiasmo. – Ma potrei avere altre teorie per cui dovrei tornare in banca per annusare i dipendenti. – Dapprima non faccio caso alla sua affermazione, anche perché il fatto che si sia alzato mi ha distratto dai miei pensieri, ma il verbo che ha usato mi fa corrugare le sopracciglia con evidente confusione.
- Annusare? –
- Sì, proprio annusare. – Conferma lui come se stesse dicendo la cosa più normale del mondo. Io continuo a non capire e boccheggio per trovare la domanda adatta, ma lui poggia un dito sulle mie labbra per zittirmi. – Non sprecare energia cerebrale per trovare una risposta, capirai quando mi accompagnerai. –

Eh, sì… non cambia nemmeno in questo stato!

Annuisco, roteando appena gli occhi, ricevendo in cambio un minuscolo sorriso ed una leggera carezza al mento.
- Ma sarà per un’altra volta, magari. Mi gira la testa… non sono ancora pronto per dei ritmi regolari. – Il suo tono è decisamente cambiato, sembra più triste, più malinconico, e ciò mi spinge a poggiare la mano sulla sua mentre si è spostata ad accarezzare con devozione la mia guancia.
- Hai fatto un ottimo lavoro comunque. – Sussurro. – Ma hai ancora bisogno delle tue pillole se vuoi riprenderti. –
- L’ho già presa. – Il mio sopracciglio si alza impercettibilmente verso l’alto, lui mi sorride, portando entrambe le mani nelle tasche della lunga vestaglia di seta blu. – Quelle nella scatola verde, giusto? – Io annuisco e sul mio viso si può leggere del puro sollievo. Non lasciavo che prendesse le pillole da solo perché con tutto ciò che aveva passato avevo paura si confondesse ed ingoiasse quelle sbagliate, ma a quanto pare mi aveva osservato in questi mesi, e aveva imparato la tabella oraria delle sue medicine semplicemente dai miei movimenti.

Posso essere più fiero di così?

- Hai mangiato? – Lui scuote la testa. – Preparo la colazione. – Dico allontanandomi verso il fornello per preparare il tutto. Poco dopo lo vedo strimpellare le corde del violino sulla sua poltrona, gli occhi chiusi e rilassati… per un attimo mi immagino mentre mi prendo cura di quella pelle bianca e nivea, ricoprendola di baci e succhiotti. Scuoto la testa al pensiero e mi lascio sfuggire un piccolo sorriso. Se dovessi spingermi oltre per lui sarebbe come la prima volta. E… pensandoci bene non siamo partiti dall’inizio come una vera coppia, siamo partiti da un matrimonio, un matrimonio che… adesso non sembra affatto un matrimonio, date le circostanze. Sì, siamo intimi, sì, siamo fottutamente innamorati l’uno dell’altro, ma a parte questo le coppie non iniziano a frequentarsi con un matrimonio.

Sarebbe il caso di ricominciare da capo?

Di iniziare dal principio?

- Sherlock, mi stavo chiedendo… -

Bene John, non nascondi più nulla!

Sputa subito il rospo.

- Insomma… - Dico poggiando il vassoio con la colazione proprio sul tavolino accanto alla sua poltrona. Lui apre gli occhi e mi segue curioso con lo sguardo, senza smettere di muovere le dita sulle corde tese del violino. – Volevo farti una proposta. – Mi siedo davanti a lui ed incrocio le mani davanti a me, guardandolo ancora mentre piega la testa da un lato, come i cuccioli confusi, quelli che vorresti coccolare per tutto il giorno.
Non riesco quasi a continuare con le parole, sembra siano morte in gola, che non abbiano la forza di uscire.

John, ricordati che dovete ricostruire dei ricordi.

Per l’amor del cielo, dillo.

- Ti andrebbe di cenare insieme stasera? – La mia voce risulta calma e pacata, diversamente da come mi aspettavo. Sono troppo nervoso, troppo ansioso mentre gli pongo questa domanda… proprio come se gliela stessi ponendo per la prima volta.
- Ceniamo sempre insieme, John! –

Dio, che ingenuo.

- Non quel tipo di cena. – Dico accennando una piccola risata, ma lui non cambia la sua espressione confusa. – Intendo… andiamo in un bel posto, solo io e te, un posto elegante e… -
- Mi stai chiedendo di uscire? – I suoi occhi brillano, hanno iniziato a brillare non appena ho iniziato a specificare per filo e per segno la mia proposta. Brillano dalla gioia, dall’aspettativa e dalla speranza che la sua deduzione sia esatta. Sono lucidi, le pupille sono dilatate e io, maledetto me, non riesco a fare a meno di sentire il battito esagerato del mio cuore che arriva a riecheggiare rumoroso nelle mie orecchie. Ho provato la stessa cosa quando glielo chiesi la prima volta. Non solo sto cercando di costruire nuovi ricordi, ma sto anche risvegliando delle sensazioni provate anni prima, sensazioni meravigliose che mi fanno tornare indietro nel tempo, questa cosa mi rende così dannatamente felice.
- Beh, in effetti sì. – Confesso, abbassando di poco lo sguardo sul suo violino ben lucidato (lo puliva ogni volta che ne aveva l’occasione, lo faceva anche prima. Sono vizi che non vanno mai via.)
- Stai arrossendo. – Dice lui, sorprendendomi con quel tono che solitamente usava per sfottermi, da buon Sherlock di sempre. I miei occhi si puntano nei suoi e solo dopo mi accorgo che quella frase non è solo un pretesto per prendermi in giro. La sua espressione è dolce, intenerita.
- Oh, sta’ zitto! – Il suo sorriso si allarga soddisfatto, e mi rendo conto del perché quando sento le guance bruciare, confermando la sua teoria. – Rispondi alla mia domanda e basta. –
- Chiedimelo di nuovo. – L’interesse per il suo violino adesso è del tutto su di me. Quello strumento è soltanto qualcosa a cui lui si sta reggendo per darsi sostegno dalla conversazione che è in corso.
- Sherlock, vorresti uscire con me stasera? – Chiedo dopo aver preso un lungo respiro profondo.
- Ne sarei davvero felice, John. –
 
***
 
Non l’ho più visto per quasi tutto il pomeriggio. “John, ci vediamo stasera al ristorante”, ed è uscito senza nemmeno dirmi cosa avesse in mente. Mi ha detto che avrebbe avuto da fare, che se non avesse risposto alle mie chiamate o ai miei messaggi sapevo il motivo.
Mancano due ore alla nostra uscita e lui non è ancora tornato a casa. Per un attimo ho paura che possa darmi buca, che il mio invito probabilmente è stata un’azione del tutto affrettata, che magari lui è spaventato. Poi però decido di darmi una calmata e di prepararmi come si deve: un bagno caldo, gel… quanto basta per tenere il ciuffo all’indietro, cosa che Sherlock apprezza, a quanto pare. Poi metto la camicia grigio chiaro e il completo nero. Non mi vesto così di solito, mi piace stare comodo con i miei maglioni e i miei jeans scuri… ma tengo sempre qualche chicca da parte per le occasioni speciali, e questa è decisamente una di quelle.
Sono ancora davanti allo specchio a cercare di domare i capelli, quando il cellulare vibra dalla mia tasca. Lo prendo distrattamente, senza staccare gli occhi dalla mia immagine riflessa, poi mi rendo conto che si tratta di un sms:

Ci vediamo direttamente al ristorante.
SH

Quando mi rendo conto che è lui mi sfugge un sorriso involontario e totalmente ebete. La mia reazione stupida è quella di portarmi il cellulare sul petto e sospirare innamorato, come fanno i sedicenni quando ricevono un messaggio dalla persona amata.

Mi sento così idiota!

Manca mezzora, quindi decido di uscire per raggiungere il luogo dell’appuntamento precipitandomi di corsa giù per le scale, scontrando la signora Hudson intenta a spazzare davanti alla sua porta.
- Sta uscendo? – Chiede distrattamente mentre mi infilo il cappotto (ho anche un cappotto per le occasioni speciali).
- Sì, torno sul tardi, le serve qualcosa? – Chiedo mentre la vedo alzare gli occhi su di me. In un attimo ha fatto nascere un sorriso meravigliato e stupito, squadrandomi da capo a piedi, abbandonando letteralmente la scopa contro il muro.
- John, è davvero uno schianto! – Dice portandosi le mani davanti alla bocca, in un’espressione che trovo abbastanza comica. – Esce con Sherlock? – Annuisco mentre metto le chiavi nella tasca dei pantaloni, poi mi si avvicina e con mani amorevoli inizia a sistemarmi il colletto della camicia. – Aveva un completo simile quando siete usciti seriamente la prima volta, però indossava anche una cravatta orribile. Sono felice che oggi se la sia risparmiata. – Ha ragione. Quella stupida cravatta che Sherlock ha preso in giro per tutta la serata, è stato imbarazzante… tranne quando siamo tornati a casa ed ha usato proprio quella per tirarmi a sé e baciarmi. È stata l’unica utilità di quell’accessorio.

“Ti preferisco senza.”

Non ne ho quasi più indossate.
Beh, eravamo vestiti di tutto punto quella volta, ma poi ci siamo accorti che il ristorante era chiuso proprio quando siamo arrivati sul posto… e siamo finiti a mangiare fish and chips in uno squallido pub. Non il massimo del romanticismo, ma a noi bastava così.
- Dice che è troppo? – Allargo le braccia per farmi vedere meglio dalla mia padrona di casa, ma lei continua a sorridermi.
- A Sherlock piacerà. – Dice, poi spolvera via qualcosa dal mio cappotto ed indietreggia per recuperare la scopa ancora abbandonata contro la parete. – E stanotte chiuderò bene la porta, non voglio sentire le vostre urla. – Non mi dà il tempo di rispondere che è già sparita nel suo appartamento, ed io mi ritrovo a scuotere esasperato e divertito la testa.
In poco tempo, grazie ad un taxi, arrivo al Landmark… un meraviglioso e piccolo ristorantino intimo al centro di Londra. Sì certo, un po’ costoso, ma Sherlock tempo fa aveva “sistemato un paio di scaffali” ai proprietari e adesso il menu è quasi gratis per noi. A volte il suo lavoro, oltre a procurarci del sano divertimento, serviva anche a procurarci del sano e gratuito cibo.
Sono davanti alla porta del locale e per un momento rimango immobile con la mano sulla maniglia, poggiata lì senza il coraggio di spingermi all’interno di quel dannato ristorante. Nella mia testa frullano tutti i tipici dubbi da primo appuntamento, l’ansia, il terrore, ma ciò di cui non mi rendo conto è che questo non è un fottuto primo appuntamento, ne abbiamo già avuti, quindi perché mi sorprendo? Una donna che esce dalla sala mi risveglia dai miei pensieri, andandomi a sbattere contro, scusandosi poi mortificata.
La porta è rimasta socchiusa e riesco perfettamente a vedere l’interno: il locale è sobrio ed elegante proprio come lo ricordavo, con i tavolini tondi ricoperti da una tovaglia bianca. Riesco a vedere Sherlock seduto ad uno di essi, intento a spostare il centrotavola per trovargli una sistemazione adatta. Fa lo stesso anche con la candela… è come se stesse cercando di mettere in perfetto ordine ogni cosa, anche se non c’è niente di sbagliato nella posizione di quegli oggetti, quindi è nervoso. Lo percepisco anche da come beve a piccoli sorsi l’acqua del suo bicchiere.
Mi decido ad entrare e ad avvicinarmi lentamente al tavolo. Lo vedo diverso: da quando è uscito dall’ospedale non si era mai premurato di andare dal barbiere e farsi sistemare quella matassa di riccioli scuri, quindi gli erano cresciuti abbastanza, solo che adesso sembrava li avesse appena tagliati, sono più ordinati, più composti. Le guance sono lisce e appena sbarbate… in più indossa un meraviglioso completo nero, con una camicia del medesimo colore.

Non so se ricorda l’effetto che mi fa in total black.

Dio, dammi la forza.

Sono a due passi da lui e sta ancora sorseggiando la sua acqua quando poggio la mano sulla sua spalla per farmi notare. Lui sobbalza dalla sedia e per poco non si soffoca. Mi precipito subito a battere un paio di volte la mano sulla sua schiena, per fare in modo che si riprenda dalla tosse incessante, e quando succede i suoi occhi sono puntati intensamente nei miei, guardandomi come se stessero scrutando una non so quale meravigliosa creatura.
- Stai bene? – Non mi risponde subito, perché i suoi occhi vagano su di me ed è troppo concentrato a far notare quanto ciò che ho indossato gli piaccia.

Bel colpo, John!

Annuisce quasi meccanicamente e si raddrizza sulla sedia, stirandosi la camicia nera con entrambe le mani. Ha messo un po’ di colonia, riesco a sentirla perché il suo movimento ha causato uno spostamento d’aria che ha raggiunto le mie narici.

Non dirmi che si è assentato tutto il pomeriggio solo per prepararsi…

- Dove sei stato? – Chiedo mentre prendo posto al tavolo, proprio di fronte a lui.
- Ero… - La sua voce risulta agitata, quasi ansiosa. Con un colpo di tosse cerca di darsi un contegno e allo stesso tempo il suo sguardo si posa su ovunque tranne che su di me. – Ero da Lestrade. Mi serviva per il caso. Poi sono passato dal barbiere e… -
- Stavi lavorando al caso? – Chiedo sorpreso, dato che ero convinto avesse smesso per oggi. Insomma… diceva di essere stanco.
- No no, mi sono solo fatto dare il numero di una persona che potrebbe aiutarmi e che contatterò in seguito. –
- E chi sarebbe? – Era raro si facesse aiutare da qualcuno, soprattutto non ammetteva mai di volerne se si trovava in difficoltà, ma nel suo caso è particolarmente normale. Sono proprio curioso di sapere, ma lui emette un sospiro e porta la mano a poggiarsi con lenta delicatezza sulla mia, guardandomi con una dolcezza che poche volte avevo visto su quel viso.
- John, non ho impiegato mezza giornata per prepararmi solo per parlare di lavoro. – Ammette, mentre le sue guance pian piano si imporporano deliziosamente. – Possiamo pensare solo a noi? – La sua richiesta mi fa sorridere, ed in un attimo mi ritrovo a stringere la sua mano nella mia.
- Certo, scusami. – Sussurro muovendo il pollice sulla sua pelle liscia.
- John… -
- Sì? –
- Sei un incanto. – Non c’è imbarazzo nelle sue parole, né esitazione, solo un’espressione quasi sognante che non fa altro che farmi arrossire lusingato… e so che se ne accorge quando noto il suo sorriso ampliarsi sul suo bellissimo volto.
- Anche tu. -




Note autrice:
Hola people. Come state? Spero bene.
Non ho niente da aggiungere, a parte il fatto che volevo inserire una piccola nota: Landmark... non so se ci sia un ristorante con questa descrizione o questo nome a Londra, ma l'ho letto da qualche parte (non ricordo dove) e ho voluto chiamare il ristorante così.
Bene, allora alla prossima
Spero vi piaccia!

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Capitolo 10
*** Deduci me ***


Deduci me



 
La serata procede per il meglio. Come lui ha voluto non abbiamo parlato per niente del suo lavoro. Il discorso procede su azioni passate, sul cibo ottimo e racconti del nostro primissimo e serio appuntamento, di cui lui, purtroppo non ha ancora memoria. Certo ciò non mi entusiasma, ma ultimamente sto imparando ad accettare certe situazioni come queste.
- Non è proprio tutto rimosso. - Mi dice ad un certo punto, sorprendendomi mentre mi occupo di quel boccone di arrosto. – Nel senso… mi sembra di aver già vissuto questo momento, in un modo o nell'altro. Una specie di déjà-vu. –
- È una cosa buona. – Dico mentre poggio la forchetta nel piatto. Lui sta sfiorando il cibo con la sua posata, l’angolo delle sue labbra si solleva mentre guarda il proprio piatto. Poco dopo decido di mettermi in gioco e di sorprenderlo, voglio ravvivare questa cena e renderla interessante più che mai, in un modo che a lui sarebbe piaciuto tanto. – Vedi la ragazza seduta al tavolo accanto al nostro? – La mia domanda è talmente tanto sussurrata che fa fatica a sentirmi, è costretto a sporgersi verso di me.
- La vedo. – Mormora in risposta.
- Sto per fare una deduzione. – Lui accenna un sorrisetto e porta le mani giunte davanti alle labbra.
- Illuminami, dottore. –
- Tu hai già capito ogni cosa di lei, vero? –
- Ovviamente! – Il suo tono sfacciato mi fa ridacchiare. Da qualche tempo a questa parte le sue deduzioni sono davvero migliorate, stavolta non ne sbaglia una.
- Bene, allora. – Mi giro appena con la testa e mi soffermo sulla brunetta che picchietta le dita sul tavolo, guardandosi intorno. – Sta aspettando qualcuno, questo è ovvio. Non un’amica, probabilmente il marito… no, non il marito, il fidanzato o il ragazzo che frequenta, dato che non porta nessuna fede. Lui è in ritardo, lei è ansiosa, quasi sul punto di piangere, a quanto pare. – Vedo Sherlock annuire, chiudendo appena gli occhi. – Sarà qui da circa un’ora, la bottiglia di vino è piena e non è ancora stata aperta, ma anche il bicchiere è pieno, quindi ne ha ordinata una seconda perché l’ansia la porta a bere. – Per un attimo non so cosa dire mentre studio la donna accanto a noi. Sherlock si accorge del mio silenzio ed apre gli occhi per vedere la mia espressione pensierosa.
- Sei stato bravo, John! – Esclama guardandomi e poggiando la schiena contro la sedia.
- Dici davvero? –
- Certo. – Prende il bicchiere di vino come se niente fosse e lo porta alle labbra, mandando giù un lungo sorso.

So dove vuoi andare a parare, birbante che non sei altro.

Emetto un lungo sospiro e lascio ricadere il tovagliolo sul tavolo.
- D’accordo, cosa ho dimenticato? – Il suo sorriso si allarga mentre poggia nuovamente il bicchiere sulla tovaglia bianca.

Lo sapevo! Sapevo che voleva arrivare a questo.

- Ciò che hai detto è giusto, la cosa della bottiglia mi ha sorpreso, sei stato in gamba, ma ci sono dei piccoli appunti sul quale vorrei correggerti. – Dice, facendomi roteare divertito gli occhi. – Hai ragione, è qui da un’ora. Beve e guarda in continuazione il cellulare, è ansiosa perché lui è in ritardo, non è il suo fidanzato, è la persona che lei frequenta da poco. Guarda com’è vestita. Il tubino nero, corto e stretto con la scollatura prorompente, la gonna che lascia intravedere le lunghe gambe, i tacchi alti a spillo, l’acconciatura ai capelli ben fatta proprio oggi dal parrucchiere, il trucco che mette in risalto la forma delle labbra e gli occhi azzurri, che per inciso ha rifatto tre volte, dato che piangendo se lo è rovinato, e per non parlare dell’odore nauseabondo del suo profumo. – D’istinto inizio ad annusare e mi rendo conto che quel profumo è troppo forte, nauseabondo proprio come dice lui, fa venire il mal di testa e mi sfugge un’espressione disgustata mentre ne parla. – Anche per come si presenta si può dire che è nervosa, non si veste mai in questo modo, lo ha fatto per piacergli, infatti i tacchi le danno fastidio e continua ad abbassare l’orlo della gonna ogni volta che cambia posizione, e a sollevare la scollatura che si è resa conto essere troppo esagerata. È la tipica ragazza che ama stare comoda in tuta e scarpe da ginnastica, ma non è il tipo che cerca di mettersi in mostra solo per farsi piacere, si mette in mostra in questo modo perché è molto attratta dalla persona che sta per vedere e perché sa che questa persona fa il cascamorto con qualunque bella donna gli passi davanti, quindi il suo vestiario fa pensare che vuole fare colpo al di sopra di chiunque altro. Piange, tu hai detto per il nervosismo, ma io credo invece che la persona che sta aspettando in questo momento è con un’altra donna, ciò lo si può capire anche dal fatto che ha mandato diversi messaggi e guarda in continuazione il telefono sbuffando e lasciandosi andare alle lacrime, questo perché lui forse se la sta spassando con qualcun altro e non ha il tempo di rispondere? – Lo guardo senza parole, dato che lui me le ha tolte del tutto dalla bocca. Il suo parlare ininterrottamente mi è mancato da morire, e mi accorgo che riesco a rimanere scioccato anche a distanza di anni da questo suo dono. Se i miei occhi adesso potessero parlare direbbero solo “fantastico, straordinario”.
- Quindi avevo ragione, o almeno… ciò che ho detto io era giusto. – Lo vedo sollevare gli occhi e guardare un punto indefinito dietro di me, poi solleva nuovamente l’angolo delle labbra (il che mi porta a fissarle intensamente, ed ho paura che in questo momento la gente mi consideri un maniaco).
- Hai sbagliato solo una cosa. – Io sollevo un sopracciglio.
- Sarebbe? –
- Hai detto che sta aspettando il fidanzato, l’uomo che frequenta da poco. –
- Beh, sì… -
- Aspetta una donna. –
- Te lo stai inventando. – Sbotto io con aria divertita, ma lui mi fa cenno con la testa verso la ragazza ed io mi giro ad osservare la scena. Al tavolo si avvicina una donna che ha l’aria totalmente annoiata, quasi come se non voglia essere qui in questo momento. Si siede all’altro capo del tavolo e a quel punto la donna soggetto delle nostre deduzioni, inizia la sua sfuriata. Dopo qualche “vaffanculo” e qualche “stronza”, quest’ultima afferra la borsetta e, togliendosi i tacchi a spillo, corre via dal locale.

C’è sempre qualcosa!

Oh Dio, sto iniziando a parlare come Sherlock.

Io ridacchio e scuoto la testa al solo pensiero, tenendo lo sguardo fisso sul piatto che ho di fronte. L’arrosto che vi è servito sarà ormai freddo.
- Sai, questo mi fa pensare a quando tu avevi sbagliato riguardo a… -
- Harriet… - Lo dice insieme a me, pronunciamo il nome di mia sorella nello stesso momento ed io alzo stupito il viso verso il suo. Quando incontro i suoi occhi li trovo confusi che sfrecciano da una parte all’altra. Deglutisce più e più volte, stringendo le mani a pugno sulla tovaglia.

Ha appena ricordato!

Un dettaglio, seppure insignificante, ma lo ha appena ricordato!

- Tua sorella Harry, credevo fosse un uomo. – Continua in sussurro mentre chiude gli occhi e abbassa appena la testa, sfiorandosi le tempie con le dita.
- Sherlock, cerca di respirare, ok? – Dico preoccupato. Lui annuisce e solleva il capo, emettendo due o tre respiri profondi. Ma noto dalle mani ancora strette a pugno che non si è ripreso, quindi mi alzo e lo raggiungo, inginocchiandomi e poggiando la mano sulla sua. Sussulta al mio tocco perché ha ancora gli occhi chiusi, ma poi li punta nei miei e ricambia dolcemente la stretta. In poco tempo, grazie a questo semplice gesto, riesce a calmarsi quasi del tutto. – Sono fiero di te. – Sussurro, ricevendo in cambio un sorriso nervoso. – Sono così fiero di te. – Continuo, portando l’altra mano ad accarezzare il suo zigomo arrossato. La sua reazione mi fa sorridere, perché in un attimo mi ritrovo stretto fra le sue braccia possenti, il viso teneramente infossato nel mio collo e le dita che strattonano delicate i miei capelli sulla nuca.

È tutto così fottutamente perfetto.

- Grazie, John. –
Adesso stiamo camminando, dopo la cena abbiamo deciso di prendere una birra per berla durante il tragitto. Niente taxi, solo noi due a camminare sui marciapiedi, l’uno accanto all’altro a ridacchiare di tanto in tanto.
- Vogliamo continuare il gioco del ristorante? – Mi chiede poco prima di prendere un lungo sorso dalla sua bottiglia.
- Vuoi dedurre i passanti? – Chiedo mentre guardo davanti a me, lui invece ha gli occhi puntati sul mio viso, non li scosta un attimo.
- No, tu vuoi dedurre i passanti. – Mi risponde, marcando la voce sul “tu”. Facile capire che voglia che io inizi a giocare, e il pensiero che voglia coinvolgere anche me mi lusinga… non che prima non lo facesse, ma adesso sembra una chiara ricerca di attenzioni, e non le attenzioni di chiunque ma proprio le mie. Ne ho la conferma proprio poco dopo, quando sento la sua mano afferrare la mia. Sento le pulsazioni aumentare quando le sue dita con titubanza si intrecciano, lentamente e con dolcezza mi stringono la mano. Ha paura che io rifiuti quel gesto, è in attesa di una mia reazione, forse ci ha pensato per tutto il giorno ed ha avuto il coraggio soltanto adesso. Mi decido a ricambiare quella dolce stretta e a prendere un sorso di birra, così da poter dare la colpa alla bevanda per il rossore sulle mie guance… anche se so che ad un occhio così esperto non sarebbe sfuggito un particolare del genere. Ma oggi non ha nulla da ridire sui piccoli dettagli.
- Così tu puoi correggermi subito dopo? – Chiedo mentre il mio pollice si muove in una piccola carezza sul dorso della sua mano.
- Ovviamente, non mi divertirei se no. –
- Beh, scegli qualcuno. – Dico dopo una leggera risata. Lo guardo intento a decidere chi sarebbe passato sotto il mio esame, quando decido di azzardare una mossa decisamente più intima del tenersi per mano mentre si cammina. Lo lascio andare e noto subito la sua delusione, ma ciò dura poco, perché quando circondo i suoi fianchi da sotto il cappotto lungo lo vedo deglutire. Non si muove e trattiene il respiro per un attimo, ma poi anche il suo braccio è pronto a circondarmi e a spingermi maggiormente accanto a lui, contro il suo fianco caldo. – Chiunque, forza. – Lo incito mentre getto via la bottiglia in uno dei cassonetti durante il tragitto.
- Non saprei, sono tutti prevedibili. – La sua voce non è molto sicura, è nervoso mentre le sue parole abbandonano flebilmente la sua bocca. Quando mi giro per guardarlo lo vedo con la testa bassa fissarsi i piedi mentre cammina, trattenendo la bottiglia di birra vuota con la mano libera. – Però… c’è qualcuno che potresti dedurre. – Mi guardo intorno e mi rendo conto che siamo arrivati a Baker Street, e che il 221b è veramente vicino, in più la strada è deserta ed è quasi mezzanotte. Non c’è nessuno da dedurre, ed io non capisco perché Sherlock sia così nervoso adesso.
- E chi sarebbe? – Ci fermiamo proprio davanti al nostro appartamento e Sherlock si sposta in modo da poter essere faccia a faccia, senza spostare la stretta dal mio fianco, e non lo faccio nemmeno io di conseguenza. I miei occhi adesso sono incatenati ai suoi, ma lui non riesce a reggere il mio sguardo che è decisamente più languido del solito, e sicuramente gli fa un certo effetto dato che il suo pomo d’Adamo non smette di fare su e giù.
- Deduci me. – Dice dopo un momento di silenzio. All’inizio non so dove voglia andare a parare, né riesco a capire perché abbia scelto proprio sé stesso per farmi fare questo gioco, ma poi penso che probabilmente vuole farmi capire qualcosa di cui io non mi sto accorgendo, quindi ne approfitto per soffermarmi meglio su ogni piccolo particolare che apparentemente non significa nulla.
È nervoso, su questo non ci piove, non ci vuole un genio o un QI elevato per capirlo. Ciò che devo capire è perché. Sì, ci stiamo guardando, siamo vicini, ci stiamo stringendo l’uno con l’altro ed ha le pupille dilatate, ma non è la prima volta. Succedeva sempre quando a letto gli leggevo le sue avventure. Si accoccolava su di me, mi stringeva, mi guardava con quegli occhi inteneriti e mi sorrideva sgargiante ogni volta che mi lasciavo sfuggire una qualche dolcezza.

Cosa c’è allora Sherlock?

Si lecca le labbra, una, due, tre volte.

Salivazione azzerata?

SI SENTE MALE?

No no, non sta male, nessun attacco, sta bene. Allora cosa diav-oh… oh, ma certo! Avrei dovuto capirlo subito ma sono troppo lento. Non ho il suo cervello, né la sua intuizione geniale, ma avrei dovuto capirlo nel momento esatto in cui ho visto slittare i suoi occhi alle mie labbra.

Oh, Sherlock…

Mi lascio sfuggire un sorriso a quel pensiero e faccio in modo che anche l’altra mano si posizioni sul suo fianco. I miei pollici cominciano a carezzare la sua pelle da sopra i vestiti e il suo respiro si fa pesante. Se in questo momento fosse nudo (maledette le mie fantasie) potrei benissimo vedere la sua pelle che pian piano si ricopre di brividi. Lo so, perché io conosco l’uomo che ho sposato.
- John… - Sussurra con un filo di voce non appena mi vede abbassare il capo verso le nostre scarpe. La mia fronte si poggia contro il suo petto ampio ed io non smetto di sorridere mentre le mie narici vengono riempite dal suo profumo naturale mischiato all’acqua di colonia che ha deciso di mettere per l’occasione.
- Non c’è bisogno che io lo deduca. – Sussurro, sentendo le sue pulsazioni aumentare contro la mia fronte. Io sollevo lo sguardo e incrocio il suo quasi immediatamente. – Giusto? – C’è silenzio, un lungo momento di silenzio in cui sono solo i nostri occhi a comunicare.
- No, hai ragione. – Sussurra poi, e il suo respiro finisce proprio contro le mie labbra… non mi ero accorto fossimo così vicini, non mi rendo nemmeno conto, né realizzo che adesso Sherlock si è abbassato per poggiare quelle carnose, piene, meravigliose labbra sulle mie, dalle quali sono stato attratto come una calamita.

Cristo, finalmente.

Sono proprio come le ricordavo, così soffici, così calde, dolci nonostante il sapore della birra. Tutto intorno a noi sparisce, io non riesco più ad udire i suoni all’esterno, non mi rendo nemmeno conto della bottiglia che Sherlock ha lasciato scivolare dalle mani nel momento esatto in cui le nostre labbra si sono toccate. Entrambe finiscono ad incorniciare il mio viso, che sorretto da quelle lunghe falangi sembra così piccolo. Ma le sue dita mi carezzano gentilmente mentre io mi permetto di lambire il suo labbro inferiore e tirarlo con delicatezza. Lui si lascia sfuggire un sospiro roco e sensuale che riesce a farmi tremare sul posto, per poco ho paura che le mie gambe cedano e sono costretto a reggermi afferrando il braccio di Sherlock. Ci stacchiamo per poco, ancora scossi da questa sensazione magnifica, da questo contatto per lui nuovo ma che a me è mancato come l’aria, ma ho bisogno ancora di quelle labbra sulle mie, come se dipendessi da loro, come se mi aiutassero a respirare, a vivere, quindi mi ci incollo nuovamente, sperando con tutto il cuore che anche lui voglia spingersi oltre e non lasciare che questo sia soltanto uno sfiorarsi di labbra incessante. Voglio di più. Voglio sentire la sua lingua calda che sfiora la mia, voglio mettere su una coreografia passionale insieme alla sua dannata lingua, voglio giocarci finché non sentirò le labbra intorpidite. Tutto ciò avviene un paio di istanti dopo, quando azzardo la mia mossa e faccio in modo che le sua bocca si schiuda sulla mia. All’inizio si irrigidisce del tutto, spaventato da questa nuova situazione. Mi premuro di spostare le mani sul suo petto per accarezzarlo delicatamente, così da tranquillizzarlo il più possibile. Ciò funziona, perché poi mi asseconda e le nostre lingue iniziano a danzare insieme, intrecciandosi e sfiorandosi come mai avevano fatto prima, mentre le nostre mani si cercano, vagano sui fianchi scolpiti di Sherlock, e le sue si incastrano fra i capelli sulla mia nuca, tirandoli leggermente e facendomi sospirare pesantemente sulle sue labbra.
Potrei passare oltre, sfilargli la camicia, accarezzare la sua pelle, farlo mio del tutto… ma so che per questo non è ancora pronto, e forse non lo sono neanche io. In più siamo ancora sul marciapiede, e questo bacio è già abbastanza spinto così.

Chissà cosa hanno pensato i passanti nel vederci…

Giusto, chi se ne frega dei passanti! Pensassero ciò che vogliono.

Ci stacchiamo l’uno dall’altro e rimaniamo vicinissimi e a labbra schiuse, cercando di reclamare ossigeno. Sento ancora il suo sapore, percepisco ancora il tocco della sua lingua che cerca la mia.

Dio, dammi la forza.

Ha gli occhi chiusi mentre la sua fronte si poggia contro la mia, poi le sue dita iniziano a carezzarmi la nuca mentre affievoliscono la stretta per niente spiacevole sui miei capelli. Solo dopo mi accorgo di aver afferrato la sua camicia nera dal petto, di averla stretta con forza tra i miei pugni, travolto dalla passione di quel bacio rovente. Distendo subito le dita per poi spostarle a stringere le sue braccia.
- Non sai da quanto volevo farlo… - Mi confessa lui in un sussurro. – Aspettavo… il momento giusto. –
- Credo che questo sia stato il migliore. – Mormoro a pochi centimetri dalle sue labbra, facendolo ridacchiare a bassa voce, poi finalmente i suoi occhi sono puntati nei miei e mi accorgo che non può fare a meno di mordicchiarsi il labbro inferiore. – Vogliamo entrare? – Sherlock annuisce ed io afferro distrattamente le chiavi dalla tasca per inserirle nella serratura. Ci dirigiamo al piano di sopra, lui mi segue a testa bassa fino a che non varchiamo la soglia del salone.
- Sei stanco? – Mi chiede, e solo in quel momento capisco che la lunga camminata fino a qui mi ha fatto intorpidire le gambe, non vedo l’ora di stendermi e di farmi una lunga dormita.
- Un po’. – Dico mentre mi sfilo la giacca e la appendo alla spalliera della sedia in cucina. Lui non dice nulla, si limita ad accomodarsi sulla sua poltrona con ancora il cappotto addosso, poi tira fuori il suo diario e la sua penna. Quando lo apre, comincia a scrivere sulla pagina senza sosta ed io mi soffermo un attimo a guardare la sua fronte corrugata e concentrata.
- Sei ancora qui? – Mormora con tono serio senza spostare lo sguardo dal diario.
- Come? –
- Vai a riposarti, John. – Mi dice, poi solleva la testa ed accenna un dolce sorriso, totalmente in contrasto con la sua voce decisa che fino a poco fa stava usando per parlarmi. – Ti raggiungo fra un attimo. Devo trascrivere gli sviluppi della giornata. – Io sollevo leggermente l’angolo delle labbra ed annuisco.
- Su noi due o sulla tua memoria? – Sta decisamente arrossendo, cerca di nasconderlo evitando il mio sguardo e puntando il proprio sulla penna.
- Forse entrambe le cose. – Accenno una risata e comincio a camminare verso camera sua… ehm, nostra. Quando la raggiungo il letto sembra chiamarmi a tuffarmi tra le sue morbide coperte, è tanto invitante che non aspetto un attimo prima di sfilarmi la camicia, i pantaloni e di mettermi il pigiama. Ma avverto una strana sensazione proprio nel momento esatto in cui ripongo i vestiti della nostra cena dentro il cassetto, e capisco di cosa si tratta subito dopo, quando mi rendo conto che ho lasciato la porta aperta per tutto questo tempo, e che Sherlock ha assistito in silenzio al mio “spogliarello”. Quando si accorge della mia attenzione su di lui, abbassa subito gli occhi ed emette una finta tosse per cacciare via l’imbarazzo. Mi ha appena visto, mezzo nudo, mentre mi sfilavo la camicia.

Chissà cosa ha pensato…

Chissà se si è soffermato su qualche particolare, se il mio corpo suscita in lui ancora quel fremito, se vorrebbe avvicinarsi e toccarmi, anche solo sfiorarmi la pelle con le sue lunghe dita, o poggiarci sopra le labbra per farmi rabbrividire.
Mentre mi lascio andare a quel fiume di pensieri decisamente poco casti sul mio compagno, mi lascio ricadere sul letto e mi sistemo sotto le coperte. La sveglia poggiata sul comodino segna “00.28” e mi lascio andare ad un lungo sospiro quando mi rendo conto che il Natale si sta avvicinando e che per la prima volta non ho la più pallida idea di cosa regalare a Sherlock. Gli anni prima il suo regalo era già messo da parte qualche settimana prima, ma questa volta mi sarei ridotto a cercare qualcosa da comprargli forse il 23 dicembre. E tutto ciò mi fa sentire un vero idiota. Devo avere le idee chiare, forse dormirci su potrà essermi d’aiuto.
E lui? Insomma… mi ha comprato qualcosa? Magari questo pomeriggio, durante la sua lunga ed estenuante assenza. Forse lo ha comprato in questi ultimi giorni o forse non lo ha comprato. Magari anche lui ha dei dubbi su cosa comprarmi o semplicemente non mi comprerà niente.
In fondo che m’importa! Non ho mai chiesto nulla da lui, né mai lo farò, dato che Sherlock mi basta per essere felice.

Andiamo, John! Adesso non dirmi che quando negli anni passati eri l’unico essere umano a cui comprava un regalo non ti sentivi un ragazzino alla prima cotta!

I miei pensieri vengono interrotti proprio da lui che, già in pigiama, entra nella stanza e si dirige spedito verso le pillole poggiate sul comodino, mandandone immediatamente giù una grazie a qualche sorso di acqua.

Le prende da solo, adesso… ma io non smetto di controllarlo.

Si infila sotto le coperte e rimane immobile a fissare il soffitto, poco dopo aver spento la luce. Siamo al buio più totale ed entrambi guardiamo sopra di noi. L’imbarazzo aleggia su entrambi rendendoci muti ed impacciati mentre ci limitiamo a scrutare il nulla.
- John… - La sua voce insicura spezza il silenzio.
- Sì? –
- Stasera è stato un primo appuntamento fantastico. – Mi sfugge un sorriso e allora mi azzardo a girare la testa per guardarlo. L’unica luce nella stanza è quella dei lampioni che penetra fioca dalla finestra, cadendo sul suo viso spigoloso ed angelico. Riesco a vedere i suoi contorni e l’unica cosa che mi viene da pensare è quanto sia bello. – Mi sono divertito. – Continua mentre io sussulto quando la sua mano raggiunge la mia sotto le lenzuola.
- Anche io. – Mormoro intrecciando le dita alle sue. Lui sembra sciogliersi del tutto e si gira sul fianco, avvicinandosi il più possibile a me e poggiando delicatamente la testa sulla mia spalla. Il suo braccio mi circonda subito ed io non perdo tempo ad immergere il naso fra i suoi ricci scomposti. – Te lo avevo detto che avremmo ricostruito tutti i nostri momenti. – Lui non risponde e continua a muovere il pollice sul mio braccio. – Cerca di dormire adesso. – Sussurro, ma lui non mi ascolta, perché poco dopo vedo la sua testa fronteggiare su di me, i suoi occhi profondi e luminosi a scrutarmi e la sua bocca dischiusa che trema appena mentre, con estrema lentezza, si avvicina. Mi ritrovo di nuovo con le labbra incollate alle sue mentre la sua mano si sposta goffamente sul mio petto, e la mia finisce proprio sulla sua. Non è un bacio lungo e passionale, piuttosto è lento, veloce, a stampo, ma incredibilmente languido dato il modo in cui avidamente ha preso il mio labbro inferiore fra le sue… e quell’adorabile schiocco non appena ci siamo staccati risuona ancora nella mia testa come una dolce melodia, una meravigliosa ninna nanna che mi accompagnerà per tutta la notte al solo pensiero.
- Buonanotte, John. –
- Notte, Sherlock. – E la sua testa torna sulla mia spalla, il suo respiro torna a scontrarsi contro la stoffa del mio pigiama, e la sua mano tiepida continua a carezzarmi fino a quando i suoi occhi non chiedono una tregua e si addormenta con il sorriso sulle labbra.
L’indomani, quando mi stiracchio sul materasso, mi rendo conto che la sua metà del letto è vuota e fredda. Si è alzato già da parecchio tempo e, visto il rumore che proviene dall’altra stanza a quanto pare non è uscito. Mi alzo goffamente e ancora assonnato, traballo un po’ prima di mettermi in piedi, infine lo raggiungo in cucina e lo trovo vestito di tutto punto mentre sfoglia delle cartine che ha in mano. Da dove diavolo provengano però non ne ho idea.
- Buongiorno! – Esclama con un enorme sorriso, guardandomi solo per un secondo. Io sto per dire qualcosa, ma lui mi interrompe quasi subito. – Sbrigati a vestirti, dobbiamo uscire! – Mi gratto confuso la testa e mi poggio allo stipite della porta del corridoio.
- Perché, dove andiamo? –
- Ricordi? Dobbiamo annusare i dipendenti della banca. – E lo dice così… come se fosse la cosa più normale del mondo.




Note autrice:
Buonsalve gente. Perdonate il ritardo ma adesso sono qui.
Questo capitolo fluffoso è finalmente uscito, credo fosse una delle cose che aspettavate con trepidazione, o sbaglio?
Spero di aver reso l'idea e che sia rissultato dolce proprio come volevo farlo sembrare.
Ora ho un annuncio da fare.
Ho creato una simatica iniziativa sulla mia pagina (Citazioni improbabili di Benedict Cumberbatch) riguardante i nostri Johnlock. Si tratta di una specie di "fanfiction interattiva", se così vogliamo chiamarla... di cui anche voi potete essere i creatori attraverso un'intervista alla coppia. Detto così forse non è chiaro, ma vi lascio il link della rubrica #askJohnlock in cui sarà proprio Sherlock a spiegarvi cosa fare per partecipare.
Bene, detto ciò io vi abbandono e ci sentiamo la prossima settimana per un altro capitolo.
Baci, a presto!

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Capitolo 11
*** Non sono cambiato ***


Non sono cambiato



 
Siamo seduti l’uno accanto all’altro sul taxi che ci condurrà alla banca. Sherlock ha ancora quelle cartine e le sta studiando meticolosamente, ma quando si accorge della mia curiosità, si avvicina maggiormente e poggia tutti i fogli sulle mie gambe. Davanti a me c’è la planimetria di una casa e per un attimo, mentre guardo ogni dettaglio, non riesco proprio a capire di che cosa si tratti, poi la struttura del salone comincia a sembrarmi familiare e sollevo sorpreso le sopracciglia.
- Questo è il salotto di Ellen! – Esclamo, ricevendo in cambio un sorrisetto soddisfatto. – Come hai fatto a procurarti le planimetrie? – Sherlock sorride ancora mentre incrocia le dita sul grembo e comincia a scrutare fuori dal finestrino, togliendo la sua attenzione visiva dal sottoscritto.
- Ti ricordi quando ieri ti ho detto che mi ero procurato il numero di una persona che mi avrebbe aiutato? – Io rispondo di sì, mentre ripiego con cura uno dei fogli che sto sfogliando. – Bene, il numero apparteneva all’ex proprietario della casa, gli ho chiesto le planimetrie ma non mi aspettavo affatto la risposta che mi ha dato. –
- Cosa ti ha detto? –
- Che me le aveva già procurate, ma io non lo sapevo, cioè… non lo ricordavo. – A questo punto si gira e mi guarda, accennando un minuscolo sorriso imbarazzato, poi sospira pesantemente e riprende il suo racconto. – Così l’ho ringraziato e ho cominciato a mettere a soqquadro l’appartamento per trovarle. –
- Tutto questo mentre io dormivo? –
- Sì. –
- Perché non mi hai svegliato? Insomma… potevo aiutarti. – Chiedo rivolgendogli un’occhiata dolce ma severa allo stesso tempo. Lui scuote la testa e si mordicchia nervosamente le labbra prima di rispondermi.
- Non volevo svegliarti, dormivi così bene. – Lo dice accennando un piccolo sorriso e allora capisco che ogni tanto è passato a controllarmi mentre dormivo. Forse si è soffermato più del solito, forse su ogni mio minimo e apparentemente insignificante particolare.

Forse ha pensato al nostro bacio mentre lo faceva.

- Ho chiesto alla signora Hudson. Mi ha detto che mentre ero in ospedale ha messo un po’ di ordine e che aveva visto le planimetrie sul tavolino del soggiorno. – Il suo riprendere a raccontare mi distrae dalle possibili fantasie riguardo a questa mattina, poi lascio storcere le labbra mentre sto attento al suo discorso ed improvvisamente mi illumino.
- Se erano sul tavolino allora vuol dire che quel giorno avevi davvero scoperto qualcosa! – Lui annuisce ed io abbasso nuovamente lo sguardo sulla rappresentazione della casa di Ellen, senza però capire cosa può esserci di importante su questi fogli da farlo eccitare quella volta, tanto da essere travolto da un… maledetto furgone.
- John, guarda con attenzione! Non noti nulla? – Nella mia testa rivedo la stanza in cui io e Sherlock abbiamo scrupolosamente osservato i dettagli. Riconosco la parete dominante sulla cartina, la porta d’ingresso e la grande finestra, poi riconosco la porta che dà sul corridoio e… aspetta, questa porta non l’ho mai vista. – L’hai notata? –
- Che diavolo è? –
- La libreria, John! – Continuo però a non capire. Lui sospira esasperato, poi si gira quasi del tutto verso di me e comincia a spiegarmi. – Le due diverse carte da parati, quasi simili ma di cui si riconosce quando finisce una e quando comincia l’altra. All’inizio credevo si trattasse di una ristrutturazione, ma quando ho richiamato l’ex proprietario mi ha spiegato che all’epoca la casa era stata costruita durante il periodo della seconda guerra mondiale. I bombardamenti erano quasi all’ordine del giorno e i suoi nonni avevano fatto costruire un rifugio sotterraneo. –
- Aspetta, frena! – Esclamo, stirando per bene il foglio sulle mie gambe, poi poggio il dito su quello che sembra un corridoio con delle scale, oltre la porta che poco prima mi era sembrata sconosciuta. – Mi stai dicendo che la libreria è in realtà un ingresso segreto al rifugio? –
- Ne sono sicurissimo. –
- Ma… perché questo dovrebbe essere importante per il caso? – Chiedo confuso mentre passo nuovamente a Sherlock le planimetrie della casa. – Cosa c’entra il rifugio sotterraneo con la sparizione dei soldi alla banca? –
- Oh John, davvero non ci arrivi? – Mi chiede con disappunto mentre io mi fermo un attimo a riflettere. D’un tratto tutto mi sembra più chiaro, e lo è perché ho imparato a pensare e riflettere come mio marito, grazie ad i suoi utili e vecchi insegnamenti sulla deduzione, e… ok, anche perché forse sono molto più intelligente di quanto io creda.
- Pensi che siano nascosti lì? –
- Credo di sì. –
- Quindi è stata Ellen a rubarli! – Esclamo, ricevendo in cambio un’occhiata insicura. Raro da lui se si tratta di un caso.
- Non ne sono sicuro. È casa sua, quindi è la sospettata numero uno, ma ho come la sensazione che lei non ne sappia niente. Forse non sa nemmeno dell’esistenza del rifugio. Come hai visto per noi è stato difficile capire si trattasse di un passaggio. Lei lavora tutto il giorno, è sempre fuori di casa, può anche darsi che non se ne sia accorta, che non ci abbia prestato molta attenzione. – Io annuisco, rendendomi conto che il suo ragionamento non fa una piega. Il lavoro a tempo pieno distrae, probabilmente non se n’è accorta. – E lei non mi sembra il tipo da rubare tutti quei soldi e nasconderli in un posto così ovvio e prevedibile, avrebbe trovato un altro luogo. –
- Quindi pensi sia stato qualcun altro e che li abbia nascosti a casa sua? – Sherlock annuisce ed io punto per un attimo lo sguardo fuori dal finestrino. Mi rendo conto che siamo quasi arrivati, quindi metto le mani in tasca ed afferro il portafoglio per recuperare la mancia da consegnare al tassista. – Qualcuno che conosce bene, allora, se Ellen gli permette da restare tanto tempo a casa sua per studiarla e per scovare nascondigli. –
- Magari anche mentre lei è al lavoro e lui ha il campo libero. – L’auto si ferma ed io mi sporgo per consegnare i soldi al cinquantenne seduto al posto di guida. Lo salutiamo e lo ringraziamo della corsa, poi scendiamo insieme dalla macchina e raggiungiamo l’entrata della banca.
- Un uomo? –
- Ti ricordi quando siamo andati da lei la prima volta? Io mi sono ricordato di quella volta. Mi sono ricordato della biancheria maschile sul tavolo, della tua affermazione che ha fatto arrossire Ellen e del forte odore di acqua di colonia. – Raggiungiamo le scale mobili ed aspettiamo che ci portino fino al piano superiore. Siamo uno accanto all’altro e le sue parole mi fanno sorridere mentre porto le mani dietro alla schiena.

Certo, adesso è chiaro!

- Devi annusare i dipendenti. – Mormoro con tono divertito, al quale lui risponde con una risata prolungata e baritonale che mi fa rabbrividire. Ho sempre amato il suono della sua risata.
Poco dopo ci ritroviamo nell’ufficio di Sebastian ad aspettare il suo arrivo. Sherlock guarda la sua foto poggiata sulla scrivania, tenendo le lunghe gambe accavallate e sollevando di tanto in tanto le sopracciglia. Lo studia come se fosse la prima volta che lo vede… ed in fondo è proprio così, date le circostanze.
- Te ne ricordi? –
- No, per niente. – Io sospiro rassegnato, mentre mi sistemo meglio sulla poltrona su cui sono seduto, in attesa. Non abbiamo il tempo di dire o fare altro, perché il diretto interessato giunge all’interno del suo ufficio con una camminata indecisa e titubante. Entrambi ci alziamo e Sebastian si dirige subito da mio marito, quasi non fa caso alla mia presenza. Gli stringe forte la mano e lo guarda con sorpresa.
- Sherlock, non mi aspettavo il tuo arrivo. – Confessa poi, senza lasciare la sua mano e continuando a guardarlo come se fosse un alieno di un altro pianeta. – Ho saputo quello che ti è successo, credevo che non avresti ripreso le redini del caso. – Alla fine, grazie ad una mia finta tosse, l’uomo si accorge di me e si premura di stringermi cordialmente la mano con uno sguardo di scuse.
- Lo so, Sebastian, ma ho delle novità. –
- Tu… ti ricordi di me? – C’è un attimo di silenzio in cui Sherlock alterna lo sguardo da lui a me con un’espressione dispiaciuta, poi sospira e scuote la testa.
- Mi dispiace, no. –
- Oh… - Sembra quasi deluso. Mi ricordo la prima volta in cui siamo venuti qui e dei racconti sulla sua esperienza universitaria con Sherlock, aveva parlato del modo in cui lui deduceva qualunque cosa gli passasse sotto il naso e ne aveva fatto riferimento con una certa punta di fastidio e di falsa ironia nella voce. Ora che Sherlock non si ricorda, Sebastian sembra provare pena per lui.

Vorrei prenderlo a schiaffi.

Non me ne rendo conto subito, ma quando mi sono accorto della “delusione” del vecchio compagno di università di mio marito, mi sono messo involontariamente sull’attenti, ho fatto un passo avanti e l’ho guardato con aria superiore.

Prova a dire altro o ti vomito addosso tutti i miei anni di addestramento.

Sembra capire l’antifona, perché quando nota il mio comportamento cambia subito discorso.
- Beh, ehm… che cosa ti serve? –
- Nulla di molto specifico, devo solo dare un’occhiata in giro tra i tuoi dipendenti, me lo lasci fare? – Sebastian annuisce quasi rassegnato, poi ci fa cenno di accomodarci all’esterno per procedere.
Io e Sebastian siamo dietro a Sherlock, e lui inizia ad aggirarsi tra le scrivanie dei dipendenti come un segugio in cerca del suo osso prelibato. Notiamo che c’è anche Ellen che ci guarda confusa dalla sua postazione. Sta lavorando a dei documenti ed ogni tanto lascia scivolare furtivamente il suo sguardo su di noi. Gli altri dipendenti guardano mio marito come se fosse pazzo, ma non è la prima volta che succede, ed io non ho reazioni esagerate al riguardo. Sono riuscito a trattenermi e a restare immobile nel mio angolo, a vederlo svolgere il suo lavoro.
Ci intrufoliamo in ogni ufficio ed in ogni angolo dell’edificio, poi Sherlock ci si avvicina e va a stringere la mano a Sebastian.
- Ti ringrazio del tuo aiuto, Sebastian. –
- Cosa…? È tutto qui? –
- Sì, dovevo solo verificare una cosa. Ti farò sapere. – Poi si gira e si allontana spedito verso le scale mobili.
- Beh, arrivederci. – Mormoro imbarazzato, infine raggiungo Sherlock e lo guardo di sottecchi mentre la scala ci conduce al piano di sotto. – Che succede? –
- Il rapinatore non è qui. –
- No? –
- L’unica persona ad avere addosso quell’acqua di colonia è Ellen. – La sua voce è piatta, sembra deluso da ciò che ha appena scoperto, e me ne rendo conto anche quando varca la porta d’ingresso con un leggero ringhio di frustrazione.
- Sherlock! – Lo chiamo poco prima di raggiungerlo mentre lo vedo fare avanti e indietro sul marciapiede. – Aspetta, quindi è stata Ellen? –
- No, no, Ellen è innocente, io lo so! –
- Magari ti sbagli! –
- Io non mi sbaglio, John! –
- Oh, Sherlock, per l’amor del cielo… forse il fatto che quel giorno c’era della biancheria maschile in casa di Ellen non vuol dire che appartenesse ad uno dei dipendenti. E magari il profumo era proprio il suo. – Lui scuote nervosamente la testa e continua a camminare avanti e indietro allo stesso modo, battendo i piedi con furia.
- No, io so che lei non c’entra. –
- Sherlock… - lo fermo dalla sua camminata prendendolo per il gomito e ricevendo in cambio una vera e propria sfuriata che fa voltare tutti i passanti verso di noi.
- IO HO RAGIONE! – Forse aveva proprio bisogno di quell’urlo liberatorio, perché adesso sta respirando lentamente e profondamente con l’intento di riprendersi, mentre il mio sguardo verso di lui si fa duro e severo.
Lo sapevo, lo sapevo che sarebbe successo. È troppo presto per stare dietro ad un caso. Sembrava andare tutto bene, ma la continuità di questa situazione lo sta facendo indebolire, in più ha appena avuto uno dei suoi momenti d’ira, proprio come quella volta quando ha frantumato il bicchiere di vetro sul pavimento del soggiorno.
Deve rallentare il ritmo.
- Devi andarci piano. – Dico dopo qualche secondo di silenzio, la mia voce è decisa, è quasi arrabbiata, ma la mia rabbia non è dettata dalla furia, perlopiù è dettata dalla preoccupazione, perché mai permetterò che abbia un’altra ricaduta. – Stai facendo tante cose in troppo poco tempo, ti devi dare una regolata. Non sei pronto per riprendere i ritmi di una volta. – Nel frattempo la mia mano è scivolata fino al suo polso e riesco a sentire le pulsazioni esageratamente accelerate del suo cuore.

Sì, deve proprio calmarsi.

- Domani, facciamo tutto domani. Per oggi ti devi riposare, ordini del medico. – Lo sento tremare sotto la mia presa ferrea, ma poi mi rendo conto che sta piangendo e mi affretto a prendere il suo viso tra le mani.

Sbalzi d’umore, la cosa non va bene.

- Scusa… scusa, non avrei dovuto urlare… - Mormora con un filo di voce, mentre porta le sue lunghe falangi a circondare le mie braccia. Le lacrime rigano le sue guance infossate e i suoi zigomi spigolosi. Si è appena reso conto di ciò che gli è successo. Ha capito che ha superato il limite e che deve riposarsi. Si sente in colpa.
- Non importa. –
- Sì, sì invece… -
- Ascolta, torniamo a casa. Domani vedremo cosa fare, ma intanto voglio che torniamo a casa e che ci rilassiamo. – Lui annuisce velocemente, ma il fatto che sia ancora così spaventato mi spinge ad avvicinarmi e a poggiare le labbra umide sulla sua bocca, un piccolo e rapido tocco che sembra tranquillizzarlo in un lampo.

Era proprio quello che volevo.

Arrivati a casa, Sherlock sparisce subito oltre il corridoio, probabilmente sta andando a stendersi. Io resto nel soggiorno ed afferro il mio cellulare che ha iniziato a squillare senza tregua. Sullo schermo compare il nome di Lestrade ed io mi lascio sfuggire un sospiro prima di rispondere.
- Pronto? –
- Ciao John, tutto bene? – Io sollevo un sopracciglio e lascio cadere le chiavi sul tavolino con un tintinnio sordo che riecheggia nella stanza, poi mi accomodo sulla poltrona di Sherlock.
- Sì, perché? –
- Donovan era di pattuglia e ha assistito alla sfuriata di Sherlock. – L’ennesimo sospiro pesante abbandona le mie labbra e chiudo gli occhi per un attimo.

Quella vipera era presente ed io non l’ho notata… benissimo.

- John, ci sei? –
- Sì, sì, sono qui. –
- Lui sta bene? –
- Sì, sta bene, si è solo sforzato un po’ troppo, adesso credo stia dormendo. – C’è un attimo di silenzio in cui io mi sporgo dalla poltrona per guardare oltre la porta del corridoio, notando la porta della sua camera semichiusa.
- Oh, d’accordo. Mi ero preoccupato. Beh, fammi sapere se hai bisogno di una mano. –
- Certo, Greg, grazie mille. – E poi mette giù, facendomi sfuggire un altro lungo sospiro. Mi strofino gli occhi con due dita con l’intento di scacciare via la tensione, poi decido che è meglio sciacquarmi il viso e sentire la freschezza dell’acqua sulla mia pelle. Mi alzo e spedito raggiungo il bagno, immergendo finalmente la faccia nell’acqua che ho preso fra le mani, ed è subito sollievo. Lo faccio più volte e quando sollevo il viso per guardare lo specchio, vedo che dietro di me Sherlock è nella vasca da bagno. Rimango immobile e stupito a, e lui ha la mia stessa reazione. La schiuma non lascia intravedere il suo corpo nudo, riesco solo a vedere le sue spalle lucide e scintillanti dalle quali non riesco a staccare subito gli occhi. Mi limito a boccheggiare e a distogliere lo sguardo mentre usufruisco dell’asciugamano.
- Scusa… credevo fossi a letto. – Dico mentre la rimetto a posto.
- Non… non fa niente. Non sarà di certo la prima volta per te vedermi così. – Accenno un sorriso e mi giro verso di lui per guardarlo in viso, ma sembra evitarmi quasi subito. – Non riesco a rilassarmi. –
- Quindi hai pensato ad un bagno caldo? –
- Sì, ma non funziona. – Sospira pesantemente e lascia ricadere la testa all’indietro, poggiandola sul bordo della vasca.
- Non era così che riuscivi a rilassarti un tempo. – Mi sfugge all’improvviso. Mi pento immediatamente di quello che ho detto, perché so che quello che sto per proporre non sarebbe una cosa per cui lui si sentirebbe pronto.

Fermi tutti, non saltiamo a conclusioni affrettate! Non parlo di sesso.

- E come? – Bene, e adesso? Mi conviene parlargliene o raccontare una balla? Solo che… gli ho promesso che non avrei più mentito, e ormai il dado è stato lanciato, tanto vale sputare il rospo.
- Beh, io te lo dico, ma se vuoi troviamo un altro modo. – Lui annuisce e mi incita a parlare. In cosa consiste il metodo di rilassamento, dite? - Di solito preferivi… farlo insieme a me il bagno. – Mormoro senza guardarlo, mentre gioco con l’orlo della mia camicia blu a quadri.
- Oh… - Dice lui fissando un punto indefinito davanti a sé. I miei occhi sfrecciano sul pavimento tra i suoi vestiti raggomitolati e sparsi su di esso.
- Posso prepararti una camom… -
- No, va bene. – I nostri sguardi si incatenano ed io sono stupito totalmente dalla sua affermazione.
- Come? –
- Il bagno va bene. La camomilla non mi fa effetto. -
- Sherlock, è… un passo importante, sei sicuro? –
- Mi fido di te. – Cala un silenzio imbarazzante che sembra non finire mai, in cui io non so se agire e cominciare a spogliarmi o semplicemente rifiutare e lasciarlo in balia del tepore dell’acqua calda all’interno della vasca. Ho l’impulso quasi immediato di rinunciare, ma i suoi occhi sono supplichevoli, e non perché abbia fretta di vedermi nudo, ma perché vuole farsi scivolare di dosso quel nervosismo e rilassarsi, e avrebbe provato di tutto, perfino questo.
- Va… va bene. – Dico infine mentre raggiungo con le dita i bottoni della camicia. – Se vuoi puoi tenere gli occhi chiusi finché non entro. – Lui annuisce, totalmente d’accordo con me, quindi chiude gli occhi ed io ho la conferma che ha bisogno soltanto di rilassarsi, non di vedere il mio corpo.
In poco tempo i vestiti sono sul pavimento accanto ai suoi. Sono del tutto esposto mentre mi immergo nella vasca, al lato opposto al suo. Mi poggio alla porcellana fredda e mi assicuro che ci sia abbastanza schiuma da coprirmi.
- D’accordo, puoi aprirli se vuoi. – I suoi occhi si schiudono titubanti e si puntano quasi subito nei miei, non si spostano neanche un attimo per guardare altri dettagli. – Tutto ok? – Lui annuisce.
- E tu? –
- Mi sento strano. È da tanto tempo che non capitiamo in una situazione del genere. –
- Ti senti a disagio? –
- No, non è disagio. – Mormoro abbassando lo sguardo su un cumulo di schiuma accanto a me. – Ma non so neanche descrivere cosa sia. – Gli scappa una risatina che mi contagia quasi subito, mentre la mia mano si sposta quasi subito ad accarezzare la sua sul bordo della vasca, ed entrambi non possiamo fare a meno di osservare il movimento delle nostre dita che si intrecciano dolcemente.
- Sai… va già meglio. – Dice dopo qualche minuto di silenzio.
- Oh, bene. –
- Ti dispiace se mi avvicino? – Forse ha capito che è proprio il contatto con me che riesce a farlo rilassare… o semplicemente, come me d’altronde, non vede l’ora di sfiorare la mia pelle o di starmi vicino. Non gli chiedo nemmeno se ne è sicuro e, mentre le sue spalle bagnate catturano la mia attenzione, facendomi soffermare su ogni poro di pelle, scivolo in avanti in modo da essere più vicino, e lui fa lo stesso subito dopo. Ci ritroviamo con le gambe che circondano l’altro, e Sherlock non esita a portare la sua mano sulla mia guancia, mentre le mie dita percorrono delicatamente il suo polso. Se potessi guardare questa scena da lontano potrei vedere i nostri occhi languidi che non si staccano da quelli dell’altro. – Mi sorge spontanea una domanda. – Mormora poi muovendo piano i polpastrelli sul mio zigomo.
- Che tipo di domanda? –
- Prima che stessimo effettivamente insieme avevamo mai raggiunto livelli così intimi? – Scuoto la testa quasi subito, con una risata divertita alla quale lui risponde con un altrettanto sorriso. – Oh, è come quella stupida regola del “niente sesso prima del matrimonio”? Per noi cos’era… un “niente bagni rilassanti insieme prima di una cosa ufficializzata” o qualche altra cazzata simile? –
- Diciamo che accettare il fatto che ti stessi innamorando è stato un percorso arduo per te. Non volevo fare mosse azzardate e farti scappare via. Continuavi a definire i sentimenti come una perdita di tempo e una distrazione inutile. – Entrambe le sue mani allora si spostano ad incorniciare il mio viso con una delicatezza immane. Sembra stia prendendo fra le sue lunghe falangi un uccellino incapace di volare ed infreddolito, che stia toccando la cosa più preziosa del mondo.
- Avevo ragione, allora. I sentimenti sono una perdita di tempo, un errore umano, una distrazione inutile della parte che perde. – Credo di aver sentito male per un attimo ed inarco le sopracciglia dalla confusione. – Ma per te, John Watson… per te… ne vale fottutamente la pena. – Le mie mani raggiungono quasi subito i suoi polsi, ed i miei pollici li accarezzano con dolcezza mentre mi lascio sfuggire un sorriso.
- Me lo avevi già detto una volta, non sei cambiato affatto. –
- John, io non sono cambiato. Sono io, sono sempre quello Sherlock che hai sposato. Devi solo dargli il tempo di riemergere. –

Ha maledettamente ragione.

Mi sento uno stupido a doverlo affermare dopo tutto questo tempo in cui la risposta che cercavo era palese davanti ai miei occhi. Io non ho perso mio marito, questa persona che ho davanti non è cambiata, è sempre quell’idiota che ho scelto di sposare, solo con qualche difficoltà in più. Ma è sempre il mio Sherlock.
Non spreco fiato inutilmente per rispondere, mi limito a sporgermi quel tanto che mi basta per far combaciare le nostre labbra e a far trasformare questo tocco in qualcosa che di casto non ha proprio niente, a partire dal suono indecente dello schiocco delle nostre bocche, dallo sfiorarsi e l’intrecciarsi disperato delle nostre lingue, dall’impeto delle nostre mani che afferrano, tirano ed accarezzano i capelli dell’altro, fino ai sospiri al limite dell’eccitazione che abbandonano le nostre labbra, rosse per colpa dei piccoli morsi che ci scambiamo durante quell’incontro focoso di bocche affamate.
Ci stacchiamo senza fiato, e lui poggia quasi subito la fronte contro la mia spalla, con un sorriso a solcargli il viso già del tutto rilassato. Ne approfitto per prendere la sua mano e stringerla nella mia, e solo allora mi accorgo che non porta la fede, che l’ha poggiata sul mobiletto accanto alla vasca, come faceva sempre una volta.




Note autrice:
Salve gente! Lo so, è passato troppo tempo, ma in questi giorni mi sono ammalata e non avevo le forze per scrivere l'ultima pagina di capitolo. Ci  sono riuscita solo ieri, quando finalmente la febbre è andata via. Sia lodato il cielo, mi sento rinata ahahaha
Beh, a parte ciò, spero di farmi perdonare con questo capitolo e con il prossimo per il quale non impiegherò tutto questo tempo, tranne per casi estremi come questi.
Spero vi piaccia... io lo adoro, è uno dei più fluffosi.
Un bacio!

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Capitolo 12
*** Il gioco è cominciato ***


Il gioco è cominciato
 



Ho avuto un’idea malsana questa mattina. È proprio vero che la notte porta consiglio, perché ho sognato di fare tutto questo e adesso lo sto mettendo in atto. Forse è la cosa più smielata che avessi mai potuto fare ma devo ammettere, non per vantarmi, che è a dir poco geniale.
Mi sono alzato prima di lui. L’odore forte del bagno schiuma a ricordarmi del nostro bagno insieme, ciò mi fa sorridere. Era presto, non si è alzata nemmeno l’alba. Ho subito pensato: “Mi serve Mycroft Holmes”, e non ho esitato a chiamarlo. Mi ha preso per pazzo per l’orario ma poi, visto che si trattava di suo fratello, ha acconsentito al mio piano e siamo diventati immediatamente complici. Ma non c’è solo lui ad aiutarmi: la signora Hudson, Molly, Lestrade, perfino Angelo e Anderson… tutti al seguito di questo povero, sciocco innamorato.
Ho preparato tutto nell’arco della giornata. Sherlock ha deciso di non spremersi le meningi sul caso e di prendersi un’intera giornata di pausa, così, con la scusa di una rimpatriata al lavoro per decidere quando ricominciare con i miei turni, ho sistemato ogni cosa.
Il piano consiste nel fatto che io debba restare con Mycroft, nel suo studio, accanto a lui, di fronte agli schermi che ha preparato per me. Il mio telefono deve stare immobile sulla scrivania e deve essere toccato soltanto nel caso io veda il suo nome sullo schermo. Sono le 9.30 del giorno dopo quando succede ed io ho le gambe tremanti mentre mi precipito a rispondere.
- Pronto? – Mycroft accanto a me non dà segni di interessamento.
- Dove diavolo sei, e che vuol dire questo biglietto? – Sorrido silenziosamente e nella mia mente si ricrea l’immagine di me stesso che lascia quell’appunto proprio sul cuscino accanto a lui.

 
Buongiorno. Sai… mi annoiavo.
Vuoi metterti alla prova con me?
Il gioco è cominciato.
Chiamami se puoi.
Se non puoi chiama comunque.

 
- Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere fare un gioco. –
- John, non mi piace svegliarmi da solo. – Ed eccola, la batosta che per un attimo mi fa sentire in colpa, ma il suo tono è scherzoso e so che non è sua intenzione, quindi continuo a raccontare.
- Lo so, ma so anche che vuoi ricordare. –
- Non voglio ricordare tutto, voglio solo ricordare te. –
- Bene, è quello che faremo oggi. Non posso farti ricordare tutto Sherlock, il tuo cervello non reggerebbe. Ma ti farò rivivere passo passo ogni nostro momento e volevo trovare un modo originale. – Non sento niente per dei secondi che sembrano interminabili, nei quali io faccio silenzio e mi limito a fissare un punto davanti a me, sentendo lo sguardo indagatore di Mycroft addosso.
Deglutisco rumorosamente quando ciò succede, poi mi decido a reclamare la sua attenzione.
- Sherlock, sei ancora lì? –
- Sì… -
- Dì qualcosa! – Ancora silenzio, poi un sospiro e il rumore delle coperte e del letto cigolante.
- Grazie, John, davvero. – non dico niente, ma so che ha già dedotto il mio sorriso, perché ha imparato a conoscermi, sa che sto sorridendo e non ho bisogno di aggiungere altro. – Cosa devo fare? –
- Adesso la nostra conversazione finisce qui, devi vestirti e andare in cucina, li capirai subito cosa devi fare. –
- Va bene ma… John, come hai fatto ad organizzare tutta questa cosa? –
- Ho i miei collaboratori. – La mia affermazione lo fa ridere, forse anche perché ho usato un tono fintamente misterioso, poco credibile e poco convincente per lui, ma decide di lasciarmelo passare. Mette giù e la chiamata finisce. A questo punto il telefono mi serve per i messaggi, quindi lo posiziono di nuovo al centro della scrivania mentre, dietro di me, Anthea mi sistema con cura il microfono e l’auricolare. Davanti a noi gli schermi proiettano Baker Street, precisamente l’entrata del 221b. Mi sono ricordato della prima volta in cui Mycroft ha tentato di spaventarmi, quando ha iniziato a manovrare le telecamere pubbliche per scoraggiarmi. Quindi perché non usufruire del suo stesso potere?
- Hai capito come manovrare le telecamere? –
- Sì, è piuttosto facile. – Rispondo mentre Mycroft si alza dalla sua sedia e compie il giro attorno alla scrivania.
- Direi che per me è il momento di andare. Non voglio assistere alla vostra smielata caccia al tesoro. –
- Non ti interessa? – Chiedo leggermente contrariato dalla sua improvvisata. Lui mi lancia un sorrisetto ironico e afferra l’ombrello poggiato alla parete, stringendo possessivamente il manico.
- Questa è una cosa che dovete fare da soli. In più se ci saranno progressi me lo farai sapere. – Dice con sciolta naturalezza mentre si avvia a passo lento verso la porta, con un cenno dell’ombrello richiama l’attenzione di Anthea che, dopo avermi sistemato per bene, lo raggiunge. – La macchina di sotto è arrivata, quando sei pronto… - Lascia la frase in sospeso ed io annuisco deciso, poi la porta si chiude ed io sono finalmente solo nell’ufficio del Governo inglese. Sono seduto al posto di Mycroft Holmes e non posso fare a meno di sorridere fiero della mia posizione, anche se temporanea.
So che lui si preoccupa per Sherlock, che finge di provare disinteresse verso questo piano di riabilitazione che ho messo in atto, ma con me non attacca più. Gli Holmes sono diventati la mia famiglia, li conosco molto bene ormai e sono capace di leggerli come un libro aperto. Uscendo dalla stanza ha solo fatto in modo che io e mio marito avessimo la privacy che ci spetta. Gliene sono grato, sotto un certo aspetto… anche perché non avrei voluto lasciarmi sfuggire delle smancerie in sua presenza e vederlo quindi roteare gli occhi dal disgusto.
Passa qualche minuto prima che senta effettivamente la voce di Sherlock provenire dal mio auricolare, e ciò che sento sono una serie di imprecazioni che mi fanno ridacchiare sommessamente.
- Hai trovato tutto, a quanto pare. –
- Non riesco a mettere questo dannato microfono. –
- Devi appuntarlo alla giacca. – Sento il frusciare dei vestiti e il tintinnio della molletta del microfono, poi ancora altre imprecazioni, infine un sospiro di sollievo.
- Non era meglio continuare a stare al telefono? – Mi chiede poi, io sto per rispondere ma lui mi deduce infallibilmente. – No, giusto, devi parlare con i tuoi complici. –
- Esatto. –
- Avevi detto che non ero ancor pronto per sforzare il mio cervello con degli enigmi. – Io inizio a tamburellare con le dita sul legno chiaro della scrivania, mentre i miei occhi non si spostano un attimo dalla telecamera che inquadra alla perfezione il nostro appartamento.
- Questa è la tua riabilitazione, e gli enigmi sono facili. –
- Certo, li hai fatti tu. – C’è qualche secondo di silenzio, ma temendo di avermi offeso non esita a correggersi. – Nel senso… non sei una mente criminale folle, quindi i tuoi enigmi non sono… John, insomma. –
- Tranquillo, Holmes, ho capito. – Dico con un sorriso di circostanza, riuscendo a vedere perfino da qui la sua espressione mortificata. – Hai trovato il biglietto? –
- Sì, l’ho trovato. –

 
Per scrivere una buona storia è necessario un prologo.
Un punto d’inizio.

 
Bene, lo ammetto, molte delle frasi non sono mie. Certo, alcune vengono dal mio cuore, dalla mia testa, dalla mia “infallibile” mente contagiata dal genio di Sherlock, ma per rendere il tutto ancora più enigmatico ho preferito rivolgermi al maggiore degli Holmes, che a mistero ed enigmi non è poi del tutto nuovo. Questa frase è sua, niente da nascondere. Il fatto è che non riuscivo a trovare un modo adatto per suggerirgli la prossima mossa in modo misterioso, come piace a lui.
- Un prologo... –
- Non posso suggerirti niente. –
- Lo so che non puoi, sto pensando. – Incrocio le dita sul mio grembo e poggio comodamente la schiena alla spaziosa ed accogliente sedia di Mycroft.

Mi sento potente seduto qui, lo ammetto.

- Se si parla di noi allora il prologo si riferisce al nostro primo incontro… -
- Mh… -
- Me ne hai parlato, del nostro incontro. – Rimango ancora in silenzio, perché mi rendo conto che sentire la sua voce mi rilassa e mi fa sentire bene, sentirlo dedurre e ragionare è ciò di cui non riesco a fare a meno. La sua mente indebolita che si cimenta a risolvere i miei enigmi da quattro soldi. Prima avrebbe capito al volo, senza esitare, ora ha bisogno di più tempo ma riesce comunque ad affascinarmi e a farmi venire voglia di essere lì con lui a guardarlo, ad osservare le sue rughette di concentrazione, a guardare i suoi occhi mentre sfrecciano sull’elemento sotto esame. Guardarlo mentre deduce è come vedere gli ingranaggi della sua mente lavorare, è come vedere lo schermo del computer mentre elabora ed analizza i dati, come osservare un treno che sfreccia e squarcia la tranquillità di una stazione vuota, un uragano in un’oasi tranquilla. Lui è la potenza, la meraviglia, la forza, il fascino in questo mondo così banale.

Lo ammetto, fin dalla prima volta le sue deduzioni lo rendevano estremamente attraente ai miei occhi.

Già, non l’ho mai detto.

- Mi hai detto che ti ho scioccato quella volta. –
- Sapevi già chi fossi, mentre io non sapevo niente di te. –
- Ho capito. –
- Cosa? –
- Ho capito cosa vuoi che faccia. Devo andare al laboratorio. – Io sorrido e non rispondo, ma so che ha percepito l’incurvarsi delle mie labbra alla sua affermazione, e che ha quindi capito di aver dato la risposta esatta. Lo guardo uscire dall’appartamento mentre rispondo ai messaggi sul cellulare ed avverto Molly dell’arrivo di Sherlock. Le ho detto di mettere il rossetto, perché mi è rimasta impressa la scena in cui Sherlock si lamentava delle labbra troppo piccole della nostra amica. Un particolare futile, forse, ma i minimi particolari sono importanti, perché possono essere quelli a fare la svolta positiva nella vicenda. Lei ovviamente ha trovato la cosa buffa, ma ha acconsentito alla mia idea.
- Hai già chiamato il taxi… -
- Certo che ho già chiamato il taxi. Ti aspetta lì da quasi quindici minuti. –
- John Watson, sei proprio una sorpresa. – Sorrido di nuovo mentre lo vedo salire sulla macchina, facendo svolazzare elegantemente il suo cappotto lungo. – Scommetto anche che riesci a vedermi. –
- Sì, ti vedo. – Non risponde, non dice altro fino a quando non arriva al Bart’s, dove mi è fortunatamente possibile osservare l’esterno grazie alla telecamera sulla quale riesco ad ingrandire la visuale, permettendomi di vederlo scendere dalla macchina. Quando entra nell’edificio cambio subito telecamera e mi concentro su quella che ho fatto indossare a Molly, appuntata fedelmente al camice bianco. Ho calcolato tutto in una sola giornata ma avevo l’aiuto specifico del Governo inglese. Con lui tutto è possibile nel giro di un attimo.
Sherlock si avvicina a lei, che è proprio dove le avevo chiesto di essere, ovvero davanti alla porta del laboratorio.
- Ciao Molly. – Le dice con un leggero sorriso mentre porta le braccia dietro alla schiena. Purtroppo non sento nessun commento sul rossetto che le ho detto di indossare, ma in fondo non posso aspettarmi chissà cosa.
- Ciao… sono gli occhi di John. Tu devi solo entrare e osservare. – Gli comunica Molly, indicando la piccola telecamera con un dito, oscurandola per un attimo. Sherlock annuisce titubante, poi attraversa la porta e vedo che Molly lo segue all’interno della stanza, ma si ferma vicino all’ingresso come da istruzione, in modo che io possa avere la visuale della stanza.
- Quindi è qui che… -
- Già, è qui. – Si guarda intorno come se vedesse quel posto per la prima volta ed io mi mordicchio le labbra. Finalmente nota ciò che ho fatto lasciare sul bancone al centro della stanza. C’è un microscopio, accanto ad esso una tazza nera e ancora fumante di caffè, nero con due zollette. Poggiato poco più in là c’è il mio vecchio telefono, quello con cui Sherlock era riuscito a leggere tutta la mia vita. Col tempo avevo cambiato sia il cellulare che la scheda telefonica. Tutto ciò che ero io in quel periodo si trova all’interno di quell’apparecchio.
C’è una sedia poco vicino, Sherlock cerca di afferrarla senza guardare e la avvicina in modo da potersi sedere.
- Questo è… quel telefono? –
- Sì, è proprio quello. – Lo vedo annuire ed io mi permetto di zoomare sulla sua figura confusa e persa.
- E questo è il caffè che prendo di solito. – Io annuisco, ma poi mi rendo conto che non può vedermi e mormoro un sussurrato sì. – Lo bevevo anche quella volta? –
- Sì. – Dico di nuovo, e mi sembra di essere la voce preregistrata di una segreteria telefonica che continua a dire sempre la stessa cosa. – Bevilo, se vuoi. – Lui mi prende alla lettera e afferra la tazza, mandando giù qualche piccolo sorso, prima di soffermarsi finalmente sul telefono. Il caffè viene di nuovo abbandonato sul bancone, riesco a sentire il rumore della porcellana che tocca la superficie bianca. Ha degli attimi di esitazione prima di toccare quell’oggetto, ma poi finalmente lo prende e lo tiene sul palmo della mano come se fosse fatto di cristallo, con la paura folle che possa rompersi o danneggiarsi. So che non dedurrà nulla da quel telefono, perché io gli ho già raccontato tutto quello che aveva dedotto quella volta su questo apparecchio, del modo in cui mi aveva stupito, ma riesco a vedere il suo sorriso soddisfatto dallo schermo.
- Sì, sono stato bravo a capire tutte quelle cose. – Dice mentre se lo rigira fra le mani, studiando la scritta sul dorso, i graffi vicino alla presa del caricabatteria, e i segni dovuti alle monete e alle chiavi nelle tasche. Poi lo apre facendo scorrere lo schermo verso l’alto e scoprendo la tastiera. Prova a premere i tasti e si lascia sfuggire un sospiro. – Bene, direi che non lo usi più da molto tempo ormai, i tasti sono duri ed inutilizzati, direi ormai da quasi quattro anni. Lo hai cambiato quando il lavoro in ospedale ha dato i suoi frutti e sei riuscito a permetterti un telefono più costoso e funzionale. Questo lo hai spento, gettato sul fondo di un cassetto e mai più toccato. Buttarlo non ti sembrava una cosa carina da fare, dato che apparteneva a tua sorella e, nonostante provi ancora rabbia nei suoi confronti, hai preferito tenerlo come ricordo. –

Non ci credo.

Quest’uomo è una macchina pensante, non si riesce a tenerlo a bada in nessun modo, ogni cosa che vede deve dedurla.

Lo amo da morire.

- Ho ripulito quasi del tutto il telefono. – Dico dopo un momento di silenzio. – Ho lasciato solo qualcosa all’interno. –
- Quindi dovrei accenderlo. – Afferma più a sé stesso che al sottoscritto. Lo fa, lo accende e data la sua faccia so che si è accorto che in effetti il telefono è vuoto. Non capisce subito a cosa io mi stessi riferendo, almeno finché non vedo la sua espressione cambiare in sorpresa, allora capisco che è andato a controllare nella casella dei messaggi inviati, o almeno lo spero.
- Cosa vedi? –
- Un messaggio. Solo uno. –
- Leggilo. –
- Se il fratello ha una scala verde arresta il fratello. – Io non dico nulla ed aspetto di vedere la sua espressione indecifrabile cambiare nuovamente, e non devo aspettare molto perché lo faccia. Il telefono scivola sulla superficie del bancone e vedo la telecamera sobbalzare: probabilmente Molly si è preoccupata di quella reazione, e lo stesso faccio io nel vederlo tremare.
- Sherlock? Tutto ok? –
- L’ho scritto io. – Mormora dopo un po’ di tempo, poi si alza e fa il giro completo del bancone, raggiungendo il lato opposto e fermandosi in un punto preciso, ad osservare il microscopio che troneggia sugli altri oggetti presenti.
- Stai ricordando? – Chiedo speranzoso, sollevandomi dalla sedia e portando le mani a puntellarsi sulla scrivania.
- Sì, cioè… è molto confuso ma… ricordo quel caso. – Dice, balbettando ancora e senza staccare gli occhi da quello strumento. – E ricordo quando l’ho inviato, ero proprio qui. Tu eri dietro di me. – I miei occhi sono diventati inavvertitamente lucidi e sento le palpitazioni aumentare per la gioia che sto provando in questo preciso momento.
- Mi hai chiesto… -
- Afghanistan o Iraq? – Dice, finendo la frase per me, ed io allora mi lascio sfuggire una piccola lacrima che velocemente percorre la mia guancia fino a raggiungere il mento e precipitare sulla scrivania di legno di Mycroft. Gli avevo già parlato del nostro primo incontro ma non avevo mai specificato cosa ci fossimo detti, né gli avevo mai parlato della domanda che mi pose quel giorno. “Beh sai, hai capito subito tutto del mio passato militare”, avevo detto solo quello, mai avevo accennato a quel quesito. – John… - Non dico nulla, non riesco a trovare le parole perché una delle mie mani raggiunge il mio occhio ed asciuga quell’altra lacrima che solitaria stava per sfociare lungo il percorso della precedente. – John, ci sei? –
- Sono qui. – Mormoro dopo essermi schiarito la voce con una finta tosse.
- Stai piangendo. –
- No. –
- Sì che stai piangendo. – Mi sfugge l’ennesimo sorriso.
- Ricordi altro? –
- No, niente. –

Va benissimo così Sherlock, stai andando comunque benissimo.

Il dottor Portman aveva ragione: fargli rivisitare i luoghi dei suoi momenti più importanti aiuta la sua memoria ad elaborare i suoi ricordi.
- C’è un post-it qui, non l’avevo visto. – Guardo nuovamente lo schermo e torno a sedermi mentre mi concentro sulla figura slanciata di mio marito che stacca il bigliettino dal microscopio.

Oh sì, mi ricordo quando ho fatto quello. Mi sento un po’ un idiota perché a disegnare sono veramente pessimo.

Il foglio è di un’improbabile tonalità di rosa, sopra c’è disegnato malamente un bastone. Lui lo studia per un attimo, ed ancora riesco a vedere i suoi ingranaggi mettersi in funzione.

Su Sherlock, pensa.

- Lo studio in rosa, ovvio. Ma perché il bastone? – Dice mentre si rigira il post-it tra le falangi magre e lunghe. – Che tra l’altro non sei capace a disegnare. –
- Finiscila. – Dico ridacchiando, riuscendo a farlo sorridere leggermente.
- So che quel giorno hai dimostrato di non averne bisogno solo perché me lo hai detto tu, quindi vuoi dirmi di raggiungere il luogo in cui lo hai abbandonato senza nemmeno accorgertene, vero? – Oh, quest’uomo non smette mai di stupirmi!
- Perché non lo verifichi? – Lui sorride e non risponde, lancia uno sguardo di sfida alla telecamera che Molly ha appuntata sul camice, poi la raggiunge mettendo il mio vecchio telefono nella tasca del lungo cappotto.
- Ti sta bene il rossetto, Molly. – Aggiunge prima di uscire dalla porta. – Le tue labbra non sembrano così piccole adesso! – Mi lascio sfuggire una risata, e sono contento del fatto che Molly non mi senta, perché non è carino ridere così di lei… quando me ne rendo conto faccio di tutto per sforzarmi di smettere, riuscendoci con successo. Sullo schermo Sherlock è scomparso oltre l’angolo.

Ha detto la stessa cosa di quella volta, ma probabilmente, anzi sicuramente, non la ricorda davvero.

Mando un sms a Molly e la ringrazio, dicendole che ha fatto tutto alla perfezione. Con lei ho finito per oggi, adesso devo contattare un altro mio amico. Ma prima ho bisogno di vedere mio marito uscire dall’ospedale e vedere la sua faccia quando si renderà conto che un secondo taxi lo aspetta quasi davanti alla porta.
Ovviamente si lascia sfuggire l’ennesimo sorrisetto, ma non dice nulla e sale semplicemente in macchina. Non ha bisogno di comunicare la destinazione, il tassista sa già dove dirigersi.
- John! – Mi chiama dopo un po’, distraendomi mentre mi cimento ad inviare i messaggi al mio prossimo complice.
- Sì? –
- Perché piangevi? – Lo schermo del telefono si spegne perché sono rimasto immobile ed in silenzio per troppo tempo, poi mi schiarisco di nuovo la voce ed accenno un sorriso, riuscendo finalmente a trovare le parole adatte per rispondere alla sua domanda.
- Perché sono fiero di te. –
- John… - Dice poi, dopo un interminabile manciata di secondi, riempiti solo da un silenzio assordante ed insopportabile.
- Sì? -
- Io ti… - Non riesce a finire la frase perché il tassista ha annunciato l’arrivo al posto, e finalmente anche io posso vederlo sull’immagine proveniente da un’altra telecamera.

“Io ti”?

“Io ti” cosa, Sherlock?

Lo penso ma non lo dico, forse non voleva davvero comunicarmi qualcosa, dato che non si è affrettato a terminare la frase nemmeno dopo che è sceso dal taxi, aggiungendo solo un “quindi è questo Angelo’s!”.
Non ci mette molto ad entrare, e dalla telecamera poggiata sul tavolino riesco finalmente a vederlo mentre prende posto davanti alla vetrata, proprio come quella volta, proprio come quella “prima” volta.
Sulla panca dove ero seduto io ho fatto mettere il mio bastone. Lui lo nota perché adesso sta sorridendo. Angelo (il mio complice), ha subito portato la candela e… sì, forse riderete per questo, un palloncino rosso attaccato ad una cordicella su cui mi sono divertito a disegnare una faccina che secondo me mi somiglia. Il ristoratore nostro amico lo poggia proprio sulla panca accanto al bastone come da istruzione, poi se ne va ed io mi godo, con una fragorosa risata, la faccia basita di Sherlock quando incrocia lo “sguardo” del mio amico fatto di elio.
- John, che diavolo è? –
- Un palloncino. –
- Questo lo avevo capito anche io. –
- Il mio sostituto. –
- Cosa? –
- Già. –
- Non potevi venire tu? –
- E chi dirigerebbe il gioco se fossi lì? – La risposta lo stupisce positivamente, perché posso sentirlo ridere e vederlo scuotere la testa.
- Ora capisco perché ti ho sposato. -




Note autrice:
Hola ragazzi. Una settimana esatta e sono di nuovo qui! Che ve ne pare dell'idea di John? Abbastanza creativa?
Non ho altro da aggiungere ma vi volevo almeno ringraziare perchè in poco tempo siamo divenati in tantissimi. Perchè signori e signore siamo a 83 seguiti e 26 preferiti. Grazie davvero.
Spero che questo capitolo vi piaccia.
Un bacio!

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Capitolo 13
*** Solo un medico e un detective ***


Solo un medico e un detective
 

- Definisci imbarazzante. - Sherlock si rigira il biglietto rosa fra le dita mentre guarda le proprie lunghe falangi compiere quel gesto meccanico. Io sono ancora seduto nello studio di Mycroft, fingendo di avere mio marito proprio di fronte, seduto dall'altra parte della scrivania. Per un attimo ho l'impulso di togliere il microfono e correre da lui in macchina ma non fa parte del piano. Ciò che devo fare è restare fermo e parlare con lui.
- Beh, Sherlock c'è un modo per definire la parola imbarazzante? - Lui accenna una risata e il suono della sua voce mentre ride mi fa rabbrividire di eccitazione. - Abbiamo iniziato un discorso e tu hai frainteso le mie intenzioni. Per questo dico che è imbarazzante. - Lui si morde le labbra e vorrei tanto che la smettesse di rigirarsi quel foglietto tra le dita e che alzasse gli occhi sulla telecamera ma non lo fa.
- Io non ricordo. -
- Lo so per questo siamo qui. - Lui annuisce e si schiarisce la voce prima di parlare.
- Che discorso? - Emetto un leggero sospiro e distolgo lo sguardo dallo schermo per poggiarlo su un punto indefinito della stanza, arrivando con la memoria fino a quel giorno, fino a quelle parole imbarazzate dette ad un uomo che allora conoscevo appena.
- Stavamo aspettando una mossa dell'assassino e dovevamo ammazzare il tempo in qualche modo, così ti ho chiesto se avessi una fidanzata. - Sto sorridendo al pensiero, e quando fisso lo schermo noto che anche lui ha sollevato l'angolo delle labbra, ma continua a non guardare la telecamera.

Sbaglio o sembra imbarazzato?

Timido?

Lusingato?

Innamorato?

- Mi hai detto che le ragazze non erano il tuo campo, così ti ho chiesto se avessi un fidanzato e mi hai risposto di no. -
- Davvero? -
- Ovviamente hai frainteso. - Lo sento ridere di nuovo ed io mi poggio comodamente alla sedia, osservando il suo viso rilassato attraverso quel televisore che ogni tanto fa saltare l'immagine. - Hai detto che eri lusingato del mio interessamento ma che purtroppo ti consideravi sposato con il tuo lavoro. -
- Credevo che stessi flirtando? - Io rido e mi ritrovo ad annuire, consapevole che né lui né nessun altro mi avrebbe visto compiere quel movimento, quindi mi affretto a dire un sì.
- Ho subito cercato di rassicurarti, ma il punto non è questo - Adesso anche io, come lui, ho lo sguardo basso, e per un attimo sono felice che lui non possa vedermi perché so che capirebbe subito che c'è qualcosa che non va, ed è anche uno dei tanti motivi per cui ho deciso di non essere presente per questa sorta di esperimento a parte ovviamente il fatto che tutto ciò che ho escogitato si sta rivelando abbastanza divertente. Dall'altra parte c'è il silenzio per un momento che mi sembra infinito, non so proprio cosa dire per confessare ciò che non gli ho mai svelato, nemmeno quando tutti i suoi ricordi erano a posto nella sua testa. Non lo ha mai saputo, ma adesso niente bugie, giusto?
- Qual è il punto, allora? - Gli sono grato per aver spezzato il silenzio, perché mi ha spronato a buttarmi.
- Non sei qui solo per rivivere i nostri momenti, ma anche per sapere cose che non ti ho mai fatto sapere forse per vergogna, forse per orgoglio. Ma c'è stata una cosa che non ti ho mai detto, Sherlock. - Adesso il foglietto rosa è immobile fra le sue dita, non ci gioca più, si limita solo a fissarlo in attesa della mia confessione ed io deglutisco. - Ecco, io stavo davvero flirtando con te. - Finalmente il suo sguardo sta fissando l'obiettivo, ed ora che incrocio i suoi occhi sullo schermo sembra quasi che ci stiamo guardando davvero. - Ti avevo detto che era solo per conversare ma la verità è che ti ho trovato quasi subito attraente. Ci ho voluto provare, volevo vedere se anche a te sarebbe interessato qualcosa di me, ma tu sembravi totalmente distratto dalla tua solita vita e dal tuo lavoro che quando mi hai fatto capire che non avresti perso tempo con me, ho preferito farti credere che avessi frainteso le mie intenzioni. - I suoi occhi sorpresi continuano a fissare la telecamera ed io deglutisco rumorosamente mentre inizio a giocherellare con uno dei documenti che si trovano sulla scrivania.
- John -
- Non riuscivo a smettere di guardarti, eri così bello. I tuoi occhi, le tue labbra, i tuoi maledetti zigomi appuntiti e il tuo portamento principesco. Nessun uomo aveva mai suscitato un tale interesse per me. Sei sempre stato l'unico Sherlock, l'unico. Ed io questo non te l'ho mai detto. - Dico tutto ad un fiato mentre sento scorrere sulle mie guance quelle che sembrano silenziose lacrime, segno di un senso di colpa che mi porto dentro da quel preciso giorno.
Ancora silenzio, riesco solo a sentire il rumore della sedia di Sherlock che viene spostata più in avanti. Lui si siede più comodo e diritto sulla schiena mentre tossisce fintamente contro il palmo della mano.
- Non so ecco, non so se lo avessi già capito da solo quel giorno tramite le tue deduzioni infallibili, ma mi sento di dirtelo adesso, perché ho preso l'impegno di farti stare bene e di non nascondermi più. -
- John, non c'è bisogno che tu dica altro. - Dice lui mordicchiandosi subito dopo e nervosamente il labbro inferiore. - Anche se non ricordo conoscendomi l'avevo sicuramente capito, ma non ti ho detto nulla. Probabilmente anche io mi sono sentito attratto da te quel giorno e non ti ho mai detto nulla. Chi lo sa, è possibile. Ma so come sono e come ero fatto, quindi lo avevo capito, ergo non hai motivo di sentirti in colpa per questo, perché so che ti stai sentendo in colpa adesso. - Le sue parole mi spiazzano quasi, ed ho l'istinto di abbandonarmi sulla poltrona e piangere per non so quale apparente motivo, ma non lo faccio. L'unica cosa che mi permetto di fare è un minuscolo sorriso che serve a cacciare via ogni mia preoccupazione, perché sentire le sue parole mi ha sicuramente fatto sentire meglio. - Quindi mi trovavi un bell'uomo? - dice dopo un po, cercando invano di nascondere un sorrisetto compiaciuto.
- Oh, ma ti sei visto allo specchio? Sei uno spettacolo della natura. -
- Quindi ti reputi fortunato ad avermi? -
- Fortunato? Mi sembra di vincere alla lotteria tutti i giorni con te. - Lui ride, di cuore, portandosi una mano sulla bocca e inarcando il collo all'indietro e l'unica cosa a cui riesco a pensare è che ho voglia di toccare quella parte di pelle, di mordere e torturare quella meravigliosa parte anatomica di cui lo schermo mi dà piena visione libera.

Tieni a freno gli ormoni, John. Non sei qui per questo.

- Ma se credi che quel giorno avevi intuito tutto, allora secondo te perché non me lo hai detto? - Lui pare pensarci per un po, ma la sua risposta arriva prima di quanto me l'aspetti.
- Forse volevo salvarti da quello che ero. - Deglutisco rumorosamente.
- Perché dici questo? -
- Dai vostri racconti so che non era molto gradita la mia compagnia, e forse non trovavo il mio comportamento insensibile adeguato ad una persona magnifica come te, ecco. -

Smettila, smettila o giuro che mi precipito lì e ti spiaccico contro la prima parete per baciarti come se ne dipendesse la mia insulsa vita.

- Forse ti stavo proteggendo. -
- Sei un idiota. - Lui accenna ancora un sorriso ed il mio cuore fa fatica a battere regolarmente quando vedo gli angoli delle sue labbra sollevarsi in quell'espressione intenerita.
L'atmosfera viene interrotta bruscamente da Angelo. Per un momento ho l'istinto di strozzarlo attraverso lo schermo, ma poi mi ricordo che sono stato io a dargli quelle istruzioni e cerco di darmi un contegno nel momento preciso in cui poggia davanti a Sherlock un piatto, dentro al quale avevo fatto mettere una busta da lettere.
- Immagino questo sia un altro indizio. - Dice lasciando scorrere lo sguardo sulla carta bianca. - Posso? - Chiede indicandola, forse per sapere se effettivamente può aprirla, quindi io annuisco e porto le mani in grembo in attesa della sua reazione. - Quante altre tappe ci sono? - Mi chiede mentre si cimenta a tirare fuori il bigliettino dalla busta.
- Altre tre. Ho deciso di farti rivivere le cose più importanti. - Dico mentre inizio a giocherellare con una penna che ho trovato poggiata in modo perfettamente allineato sulla scrivania. Sollevo lo sguardo su di lui e noto che è intento a leggere la frase sul cartoncino bianco. È confuso.

La guardiana della notte risplendeva.
Il rumore assordante, il fischio a squarciare il silenzio, la terra che trema.
Nessuno intorno.
Solo un medico e un detective.

- Mi stai mettendo in assurda difficoltà, ne sei a conoscenza? - Dice lui emettendo un sospiro pesante. - Bene, allora visto che sono tappe più o meno importanti della nostra vita insieme, presumo siano tappe che anche qualunque altra coppia possa passare, quindi se abbiamo fatto il primo incontro, la prima cena insieme, questa cos'è? Il primo bacio, presumo. - Tutte quelle parole le dice come un tornado, di fila. Se non avessi imparato nel tempo a seguire i suoi discordi a raffica, probabilmente oggi non avrei capito nulla.
- Ti lascerò nel dubbio. - Dico, accennando una risata divertita.
- Sei un pezzo di merda. - E la mia risata aumenta, seguita dalla sua.
- Immagino che per sapere il posto devo leggere fra le righe. - Mormora concentrandosi sulle parole. - La guardiana della notte è la luna, ovviamente, avrebbe potuto essere una stella, ma hai parlato al singolare, quindi è molto improbabile. Non ho dubbi. -
- Bene, poi? - Chiedo, ritrovandomi senza quasi accorgermene a giocherellare anche con il tappo della penna facendolo rimbalzare sul ripiano in legno.
- Rumore assordante, il fischio, la terra che trema - è pensieroso mentre solleva lo sguardo verso un punto indefinito, intento a trovare l'ispirazione adatta per una risposta adeguata al mio indovinello. - I treni fischiano, fanno rumore quando passano e la terra trema se sei vicino ai binari una stazione? -

Va bene, la prossima volta mi cimenterò in indovinelli più difficili, anche se dubito che lui non li capisca al volo.

- Cavolo, ci sono tante stazioni a Londra. - Dice disperato mentre si porta le mani sulla fronte e fra i capelli. La sua improvvisa reazione mi preoccupa, non voglio che abbia un attacco di panico, non è lo scopo principale del mio gioco.
- Ehi, non è molto difficile se ci pensi, Sherlock. - Lo vedo abbassare la testa e stringere gli occhi, poi lascia cadere il biglietto sul tavolo e in quel momento temo il peggio, perché non ricevo alcun movimento dalla telecamera, e per un attimo ho paura che si sia bloccata l'immagine, e non lui. Devo ricredermi quando lo vedo sollevare la testa lentamente, lasciando che scopra la sua faccia smarrita. - Sherlock stai bene? -
- Un flashback. - Non lo capisco all'inizio, lo dice a voce così bassa che non riesco a capire del tutto la sua voce.
- Come? -
- Ho visto qualcosa, un flashback. -
- Davvero? -
- Sì so dove andare. - Non mi dà il tempo di replicare, si alza come sospinto da una molla e abbandona il locale in un batter d'occhio. Sento il rumore della portiera del taxi e poi la sua voce che dice all'autista il nome della stazione, quella in cui accadde tutto.
Certo, non aveva bisogno di dirlo. L'autista era già stato informato su tutte le tappe da percorrere. Ma forse Sherlock voleva solo sorprendermi. E ci è riuscito con successo, perché adesso non riesco a smettere di sorridere.
In stazione non ho potuto mettere delle telecamere, Mycroft, seppur fosse immischiato in queste agenzie di spionaggio, non avrebbe fornito tutto il suo materiale ad un semplice ex soldato. Ho dovuto quindi rinunciare a qualche location. La mia unica chance di parlare con lui sarebbe stata solo il microfono.
Capisco che è arrivato quando sento la portiera e i suoi passi veloci. Un treno è appena passato fischiando rumorosamente. Sono costretto ad allontanare l'auricolare per non stordirmi.
- Ho visto questo binario. Avrei potuto sbagliarmi con qualche altra stazione ma ho immaginato fosse quella più vicina a casa. - Dice ad un certo punto. Non sta più camminando, il venticello sbatte sul piccolo microfono e si mischia alla sua voce pensierosa.
- Hai visto altro? -
- Solo che tu avevi una ferita al fianco. Cioè non ho visto la ferita, era decisamente coperta dal tuo improbabile maglione grigio a fantasie orripilanti. Però ho capito che eri ferito da come ti muovevi. - Mi sfugge una risata e scuoto appena la testa.
- Solo questo? -
- Ricordo la sensazione di agitazione e paura che provavo. E sì, solo questo. - Ripensare a quel giorno mi fa provare una stranissima malinconia inspiegabile. Sherlock era davvero agitato e spaventato. - Me ne parli, John? - Chiede, quando si rende conto del mio silenzio.
- Era un caso pericoloso. L'assassino voleva fermarci, mi ha ferito. - Dico a voce bassa mentre il mio sguardo finisce a scrutare un punto indefinito dell'ufficio di Mycroft. Sherlock non parla. Si limita ad ascoltarmi, ma non sapere a cosa stia pensando adesso mi fa sentire un leggero senso di ansia. - Mi ha sparato. Mi ha preso di striscio ma faceva comunque male. Sei riuscito a fermarlo. Gli hai preso la pistola dalle sue mani, sei stato così veloce che lui non ha avuto il tempo di reagire. Due proiettili piantati ai polpacci e l'hai messo fuori gioco. Non so come avessi fatto né quando ma avevi già chiamato Lestrade. - La sua leggera risata mi fa smettere per un attimo di raccontare e mi ritrovo a mordermi il labbro nel tentativo di mascherare la risata che sfugge anche a me. Anche se avessi voluto non avrei comunque ingannato l'orecchio vigile di mio marito. - Non hai badato ad altro e sei corso ad aiutarmi. Volevi picchiarmi quando ti ho detto che non volevo andare in ospedale, e siamo tornati a casa. I sobbalzi dei binari mi facevano contorcere dal dolore e tu eri preoccupato. -
- Sei stato testardo. -
- È vero ma volevo dimostrarmi forte. -
- Conoscendomi non ho abboccato. - Scuoto la testa con decisione e ridacchio, portando una mano alla mia guancia, le dita a grattare velocemente una striscia di pelle.
- No, e mi hai espresso tutta la tua preoccupazione. E sembravi così umano e mi hai fermato nel bel mezzo della stazione. - Resto un attimo in silenzio con la speranza che lui si ricordi, che continui da solo il racconto, ma non succede. La sua mente è ancora confusa. Gli stralci dei suoi ricordi, quei momenti che può tranquillamente raccontare non comprendono la scena che si è svolta in quella stazione. Quel momento così importante e decisivo per uno come lui svanito nei remoti ed irraggiungibili meandri del suo cervello. - Hai detto che ti sei sentito perso e che per un attimo hai immaginato il tuo futuro senza di me. - Sento le palpitazioni accentuate e ho quasi paura possano essere udibili anche a lui attraverso il microfono. - Non hai pianto ma la tua voce tremava quando lo hai detto. Avevi le mani sporche del mio sangue perché avevi fatto pressione sulla mia ferita per aiutarmi, ma quando mi hai circondato il viso per baciarmi non mi è importato. - Guardo l'orologio al mio polso e decido che è il momento di andare. Afferro il telefono ed esco dall'ufficio semibuio di mio cognato.
- Sentimentale - Dice Sherlock, il suo tono non è di disprezzo però, sembra piuttosto intenerito o rassegnato al fatto di essere molto più umano di quanto vuole dimostrare.
- Sì, diciamo che lo sei stato. - Affermo con un leggero sorriso mentre raggiungo l'uscita. Fuori vedo che Mycroft è poggiato all'auto nera. Le mani elegantemente sistemate sul manico del suo ombrello, il mento sollevato con aria di superiorità. Quando mi vede apre semplicemente la portiera e si accomoda sui sedili posteriori, aspettando che io faccia lo stesso. Ha capito che sono pronto ad andare. - Riesci a ricordarlo? - Chiedo infine mentre mi accomodo in auto e faccio scattare la portiera. La macchina parte poco dopo, Mycroft sembra non preoccuparsi della mia presenza, ma le sue orecchie sono ben rizzate perché so che vuole sapere come sta suo fratello, che vuole capire se la mia sottospecie di terapia lo sta aiutando.
- Vorrei ricordarlo vorrei tanto. Ma per me il nostro primo bacio è stato quello che ti ho dato sul marciapiede a Baker Street. - Emetto un sospiro profondo e dalla parte opposta odo il silenzio, probabilmente non trova le parole e il suo biascicare mi conferma ogni cosa. - John io -
- Non dispiacerti, Sherlock, ti capisco. Non è detto che tu ricorderai ogni cosa, ma sono fiero dei tuoi progressi. - Mycroft mostra un cipiglio di interesse solo quando mi sente pronunciare queste parole, ma si limita a guardarmi e ad attendere qualche altra informazione interessante. - Sei pronto per proseguire? - Chiedo a Sherlock, che mi risponde con un sì deciso ed entusiasta. - Bene, torna in macchina. -
- In macchina? - Un treno passa lungo i binari e posso sentirne il rumore assordante e il vento che esso ha trascinato con sé, sbatte sul microfono e mi costringe ad indossare la mia peggior espressione infastidita da tanto frastuono. La sua voce torna subito dopo, quando sento il farfugliare della folla che è appena scesa dal treno.
- Sì, se vuoi arrivare alla prossima tappa. -
- Ma così? Senza nessun indizio? -
- Per questo non hai bisogno di indizi, e nemmeno di me. Dobbiamo chiudere il collegamento. -
- Cosa? John non possiamo, potrei non ricordare nulla non appena arriverò. - La macchina fa un sobbalzo, poco dopo si ferma e guardando fuori dal finestrino posso ritenermi soddisfatto.
- Ti fidi di me? -
- Ciecamente. -
- Allora credimi se ti dico che saprai cosa fare non appena arriverai. - Per un attimo sento solo il silenzio, poi un sospiro rassegnato e dei passi decisi. Si sta incamminando verso l'uscita ed istintivamente mi faccio sfuggire un sorriso.
- Non deludermi, Watson. - Non aggiungo altro, mi limito a togliere l'auricolare ed il microfono e consegno tutto nelle mani di Mycroft. Lo vedo più sollevato rispetto a come era poco prima, ma il suo volto è ancora serio e freddo. Quell'espressione non lo abbandonerà forse mai.
- Allora noi due ci vediamo domani, John. Spero che le cose vadano al meglio. - Io annuisco deciso. So che le cose andranno meglio, ma se così non fosse adesso ho la certezza di aver tentato tutto il possibile, e la soddisfazione di aver fatto rivivere momenti meravigliosi all'uomo che amo. Momenti che questa volta dubito che Sherlock dimenticherà tanto facilmente.
- Grazie dell'aiuto Mycroft. - Ovviamente non risponde al mio ringraziamento mentre io scendo dall'auto. Si limita ad un misero buona giornata che per me è abbastanza perché so cosa vuol dire se a dirlo è il Governo inglese. Mi è grato, ci scommetterei tutti i miei maglioni di lana, ma è fin troppo Holmes per ammetterlo.
Chiudo la portiera con un gesto deciso, poi guardo la macchina che si allontana e si inoltra nel tipico traffico londinese. Emetto un sospiro profondo prima di girarmi ed osservare l'edificio. Non esito oltre e decido di farmi strada all'interno. Apro la porta e cominciò a salire i gradini a due a due fino a raggiungere la stanza dove ho mandato Sherlock inconsciamente. Mi metto comodo ed accarezzo la stoffa del piumone blu, poi attendo in silenzio finché non sento la porta aprirsi al piano di sotto e i passi svelti di mio marito che corrono fino al piano in cui mi trovo. Non so se ha capito perché ho deciso di riportarlo al 221b, ma il cuore inizia a martellare incontrollato al mio petto.
Ha girato il salotto e la cucina fino a raggiungere la camera da letto. Si ferma sulla porta e mi guarda, piegando leggermente la testa da un lato ed inarcando le sopracciglia, un po' come fanno i cagnolini quando sono confusi.
- Non pensavo che mi avresti raggiunto. - Dice poco dopo, sfilandosi con un gesto fulmineo la sciarpa dal collo e lasciandola cadere sulla poltroncina accanto al letto. Io sono ancora seduto e lo guardo con un mezzo sorriso. - Avevi detto ci sarebbero state altre due tappe. -
- Lo so. Infatti questo fa parte del gioco. - Dico indicando con un gesto circolare del dito l'intera stanza e poi puntando alla fine l'indice su di me. - Questa è una tappa, Sherlock. - Mi guarda con un cipiglio confuso, ma io non dico nulla, voglio che capisca da solo e so che può farlo. Si guarda intorno un'ultima volta prima di schiudere la bocca, l'espressione sorpresa di uno che aveva compreso di che tappa si tratta.
- Quindi - Dice mentre prende posto accanto a me. - Mi stai dicendo che è successo in uno dei posti più scontati del mondo? - Lo guardo e noto il suo sorriso divertito, dal quale non posso fare altro che venire contagiato, poi inizio a ridacchiare e gli pianto una leggera gomitata sul fianco che lo fa mugolare infastidito. - Credevo fossimo più creativi io e te. - Roteo gli occhi, mantenendo quell'espressione. - Che so, la doccia il tavolo della cucina o al massimo, se proprio non volevamo trasgredire troppo andava bene il divano. -
- Oh, finiscila. - Dico ridendo, per poi osservare uno Sherlock sogghignare, ma poco dopo la sua mano raggiunge la mia sul piumone e mi ritrovo a rabbrividire per quel contatto. - Con la foga del momento non abbiamo preso qualche minuto di tempo per decidere dove farlo. È stato automatico venire qui. -
- La tipica scena da film? Quella dove inciampiamo sui nostri stessi piedi e ci spogliamo per le scale? -
- Già. -
- Mi sta venendo la carie. - Un'altra gomitata parte automaticamente e colpisce piano una sua costola, ma lui ride mentre poggia il mento sulla sua spalla. Cala il silenzio per qualche secondo, tempo adatto per permettere ad entrambi di smettere del tutto di ridere. - Questo è uno dei momenti che vorrei ricordare. - Le sue parole mi lasciano sfuggire un sorriso triste, poi giro la testa verso di lui e gli lascio un bacio sulla tempia, perché anche io vorrei ricordasse, lo vorrei con tutto il mio cuore. Lo vedo chiudere gli occhi e mordersi le labbra mentre le sue dita si intrecciano dolcemente alle mie. - Aiutami, John. Magari non riuscirò a riportare alla mente questo ricordo, ma ne creerò uno nuovo che non dimenticherò mai. - Ammetto che la sua affermazione mi lascia stupito e lo guardo, cercando di capire se veramente ha pensato quello che ho intuito. I miei dubbi svaniscono all'improvviso quando percepisco il contorno delle sue labbra sul mio collo a suggellare un lembo di pelle, facendomi venire la pelle d'oca. È bastato questo semplice gesto per accendermi come un fiammifero, ma allo stesso tempo sento un certo disagio che non riesco a cacciare via.
- Sherlock non credo tu sia ancora pronto per questo. -
- Non starei qui a provocarti se non lo fossi. - Mormora spostandosi a cavalcioni sulle mie gambe, poi porta una mano sul mio petto e mi costringe a stendermi sul morbido piumone blu. - Voglio ricordare e soprattutto voglio te. E sono pronto, John, fidati di me. - Le sue parole sono rassicuranti, carezzevoli come il velluto, mi fanno desiderare di rivivere quel momento ancora e ancora fino a sentirmi esausto. Non dico nulla, mi limito a sporgere la testa e a catturare le sue labbra in un bacio focoso, e seppur tenga gli occhi chiusi percepisco il sorriso di Sherlock sulla mia bocca.
Adesso esistiamo solo noi, nessun problema sembra ostruire le nostre azioni, niente ci circonda, solo amore, solo quel fuoco che ribolle dentro e che riscalda la stanza.
Solo un medico e un detective.





Note autrice:

Vi do il permesso di uccidermi, giustiziarmi e tutto il resto, perché da febbraio a novembre so che è proprio un sacco di tempo. Ma come alcuni di voi che conosco sanno, sono una persona abbastanza... in difficoltà ecco. Perciò non vi assicuro un prossimo capitolo pubblicato in un arco di tempo breve, ma lo farò, perché tengo a questa storia nonostante tutto. Sappiate però che non vi ho abbandonati, quindi ci vediamo SICURAMENTE al capitolo successivo.
Spero che questo vi piaccia.

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Capitolo 14
*** Il caso è chiuso ***


Il caso è chiuso
 

Quando apro gli occhi le mie narici vengono invase dall'odore pungente di fumo. Mi ritrovo una testa piena di riccioli poggiata sul petto. Sherlock è disteso orizzontalmente, i piedi escono fuori dal bordo del letto ma è ancora semicoperto dalle lenzuola e dal piumone, posso intravedere che è ancora nudo e mi sfugge un sorriso. Non si è ancora accorto che mi sono svegliato, perché mentre fuma la sua sigaretta guarda il soffitto e dalle sue labbra fuoriescono piccoli cerchi di fumo, tutti uno dopo l’altro.
- Non mi è mai piaciuto che fumassi. – Mormoro con voce ancora impastata dal sonno, facendolo sussultare appena, ma si gira con la testa e mi guarda solo per un momento prima di tornare con l’attenzione rivolta al soffitto, con un minuscolo sorriso sulle labbra.
- Lo immaginavo. – Si limita a dire, ma questa volta non lo rimprovero e lo lascio continuare, seppure io detesti l’odore delle sigarette.
- Come riesci a farlo? – Chiedo dopo l’ennesimo cerchio di fumo che abbandona le sue labbra e sale lentamente verso l’alto.
- Non lo so, non credevo nemmeno di saperlo fare. Lo facevo anche prima? – Chiede invece lui, facendo spegnere il mozzicone contro il posacenere che aveva poggiato momentaneamente sul letto. La sua mano adesso vuota si poggia sul suo fianco, ed io non riesco a fare a meno di guardare quelle lunghe falangi poggiate sulla sua pelle chiara e diafana. Ho l’istinto di allungare la mano per poggiarla sulla sua, per accarezzarlo e guardarlo mentre si riempie di brividi, ma non lo faccio e lascio quella piccola scena nei meandri della mia immaginazione. In fondo ho avuto modo di vederlo rabbrividire mentre facevamo l’amore… e non solo. Quei gemiti mi hanno mandato fuori di testa.
- Non quando ti vedevo io. Probabilmente quando fumavi di nascosto lo facevi. – Lui ridacchia, facendo uscire dalle labbra carnose le ultime nuvolette di fumo, poi si gira sul fianco, in modo da poter essere completamente faccia a faccia con me. Si mordicchia il labbro inferiore. È come se volesse dirmi qualcosa, ma alla poi tace e non fa altro che guardarmi, infine parla, ma è come se avesse cambiato argomento, non è proprio quello che aveva intenzione di dire, ma io lo ascolto comunque.
- Hai dormito tutto il pomeriggio. – Mi comunica lui, portando due dita a carezzare con dolcezza il mio petto, facendomi rabbrividire visibilmente, al che lui solleva leggermente l’angolo delle labbra, ma non è malizia quella che vedo nei suoi occhi.
- Tu no? –
- Cavolo, no! – Dice guardandomi come se fossi impazzito, io sollevo confuso un sopracciglio in risposta e lui si limita a scuotere la testa divertito, poi inizia a fissare un punto indefinito del cuscino, mordicchiandosi ancora il labbro inferiore. Prima dell’incidente non lo faceva così spesso. È adorabile. Istintivamente una delle mie mani si immerge fra i suoi ricci per accarezzarli. – Dopo quello che abbiamo fatto non so come tu sia riuscito a dormire. Io continuavo a pensarci… - Sul suo viso compare immediatamente un sorriso, ma stavolta non è divertito, né nervoso, piuttosto è rilassato, felice, intenerito. – Tutte quelle… sensazioni. Come fai a reggerle? Ora capisco perché ne stavo lontano. – Mormora senza spostare lo sguardo dalla stoffa della federa, un po’ come se stesse rivivendo tutto quello che ha passato questo pomeriggio con me.
Io sorrido, non posso farne a meno quando vedo il modo in cui sembra estremamente rilassato.
- Dalla tua faccia deduco ti sia piaciuto. –
- Non era ovvio? – Inizio a ridacchiare, seguito da lui che solleva il busto e si avvicina quanto basta per poggiare le labbra sulle mie. Dapprima mi ci vuole un po’ per rendermene conto, ma alla fine non riesco a fare altro che ricambiare quello sfiorarsi di labbra, la mia mano che va pian piano ad accarezzare il suo viso, il sorriso che inevitabilmente mi procura quella sensazione. Ci baciamo a lungo e a fondo, le nostre lingue si rincorrono e ci fanno perdere il respiro man mano che continuiamo. Non credo riuscirò mai a farne a meno, e mentre lui si stacca da me d’istinto seguo le sue labbra che si allontanano e lui ride quando afferro quello inferiore fra i denti e lo tiro leggermente. – Non mi ha risvegliato dei ricordi, però è stato… incredibile. – Mormora ancora, il suo fiato mi provoca brividi incontrollati quando mi sfiora la pelle. – Quando lo rifacciamo? –
- Mh? – Mormoro ancora preso da quel bacio, le labbra ancora mi formicolano.
- Intendo il sesso, quando lo rifacciamo? – La mia risata che segue la sua domanda lo lascia confuso, ma mi affretto a lasciargli un bacio sulla guancia per tranquillizzarlo e fargli capire che in quella richiesta non c’è nulla di male, a parte il fatto che Sherlock è sempre stato un tipo molto diretto e coinciso, perfino dopo quello che gli è accaduto.
- Quando vuoi. – Dico io, facendolo sorridere ampiamente, poi sento le coperte spostarsi e mi rendo conto che è Sherlock a farle muovere proprio perché si sta spostando su di me e mi sta sovrastando con il suo corpo statuario e snello. Le mie mani si spostano automaticamente sui suoi fianchi, accarezzandoli con i pollici e sentendo la pelle sottostante ancora calda per via del piumone. Ma anche lui sta rabbrividendo, e mi lusinga il fatto che provi le stesse cose che provo io quando lo sfioro.
- Ma la prossima volta… - Sussurra contro la mia bocca schiusa. – Sto io sopra. – E lo dice con un sopracciglio sollevato, come se non ammettesse che io contraddicessi il suo volere, ma anche il mio sopracciglio si solleva quasi stupito da quella richiesta.
- Tu? – Chiedo divertito.
- Cos'è che ti sconvolge? – Il suo tono è infastidito, oserei aggiungere che lo sta facendo apposta.
- Tu che stai sopra? Vorrei proprio vedere… -
- Infatti. Voglio imparare. - Non riesco a non trattenere una risata, anche se la sua bocca mi impedisce di continuare perché poco dopo non esita a baciarmi ancora e ancora finché non manca il respiro ad entrambi e siamo costretti a separarci. Quello che ci distrae dalle nostre effusioni e il suono del telefono di Sherlock che inizia a vibrare dalla tasca dei pantaloni che si trovano sul pavimento. Lui mugola controvoglia e si accuccia contro il mio corpo, come a farmi capire che non ha alcuna intenzione di rispondere.
- Sherlock? –
- Non voglio. –
- Potrebbe essere il medico. – Lo sento sbuffare contro la mia pelle prima di sollevare il viso e guardarmi scocciato. Lo incito con un’occhiata severa e finalmente si decide a sollevarsi dal mio corpo e raggiungere i pantaloni sul pavimento. Mentre è alla ricerca del suo telefono ne approfitto per stiracchiarmi e sollevarmi appena a sedere, passandomi una mano fra i capelli spettinati, cercando di dar loro una forma che non sia del tutto incasinata come lo è adesso.
- Cosa vuoi, Lestrade? – Dice lui non appena risponde. Non era il medico come ho pensato. Non riesco a sentire cosa gli comunica, ma dall'espressione di Sherlock che cambia all'improvviso posso capire senza problemi che è accaduto qualcosa, qualcosa che lui non si aspettava affatto. – Quando? – A quel punto, incuriosito dalla faccenda, mi metto del tutto seduto e lo guardo in attesa. – Va bene, sto arrivando. – Dice mentre si catapulta fuori dal letto e afferra i vestiti dal pavimento per indossarli, nel frattempo chiude la chiamata e lascia scivolare il telefono dal letto, cercando di abbottonare velocemente i pantaloni. Dalla fretta non riesce nemmeno a trovare la zip.
- Che è successo? –
- Ellen è stata arrestata. – Risponde mentre si infila la camicia e comincia ad abbottonarla. Io corrugo la fronte confuso e scosto il piumone dalle gambe per potermi alzare, così da vestirmi molto lentamente rispetto a lui. – I filmati di sorveglianza, li hanno revisionati con più attenzione della prima volta. Stupidi come sono si erano appunto lasciati sfuggire un dettaglio. – Quelle sue parole mi fanno sorridere divertito mentre mi infilo la cintura ai jeans e lo guardo cercare inutilmente di far entrare i bottoni nelle asole. Le emozioni forti lo confondono e di certo non voglio che abbia un attacco isterico dei suoi dovuto a quel maledetto trauma cranico che ancora ha conseguenze sul suo stato di salute. Mi affretto a raggiungerlo e a poggiare le mani sulle sue. Lui si ferma e mi guarda negli occhi mentre sposto le sue mani tremanti e le sostituisco con le mie per aiutarlo a sistemarsi la camicia. Emette un sospiro come a riprendersi e sento il suo cuore pulsare all'impazzata da sotto le dita.
- Va tutto bene, continua. – Gli dico per tranquillizzarlo mentre passo a sistemargli con cura il colletto della camicia. Lui annuisce grato del mio aiuto, poi deglutisce e riprende a parlare solo quando sente di essersi calmato un po’.
- Si sono accorti che dalle sette di sera fino alle otto il video andava in loop, ma hanno controllato i filmati delle videocamere stradali e hanno tracciato un furgoncino bianco che partiva dalla banca fino ad arrivare a casa di Ellen. – A quelle parole sollevo le sopracciglia mentre afferro la sua giacca e lo aiuto ad infilarsela.
- Così è stato facile per loro accusarla ed arrestarla. – Concludo mentre torno a finire di vestirmi. Lui annuisce e prende il portafoglio ed il telefono, infilando tutto in tasca.
- Esattamente. - Dolcemente allontana le mani dalla sua giacca così da poter continuare da solo, nonostante la sua mano destra tremi ancora. - Sono ancora a casa sua, stanno esaminando il bottino nel nascondiglio. Ellen è in custodia in una delle volanti, ammanettata. Lestrade ha pensato che convocarmi sul posto mi avrebbe aiutato. - Non dico nulla e mi limito a portare le mani ai fianchi e a guardarlo sovrappensiero. - Che c'è? - Mi chiede confuso mentre si allaccia l'orologio al polso.
Ho pensato spesso a come sarebbe andata la situazione dopo un eventuale arresto in questo dannato caso. Sherlock crede non sia stata Ellen ma il suo presunto fidanzato che non si sa ancora bene dove sia. Gli credo, gli ho sempre creduto, una prova del fatto che lui abbia ragione è il comportamento che ha avuto pochi attimi prima di venire investito da quel camion: la gioia inaspettata, l'entusiasmo di aver capito qualcosa di nuovo, la corsa giù per le scale e sicuramente quella scintilla negli occhi che solo in quei momenti si impossessava di lui. Ma ora mi chiedo se ci siano abbastanza prove per scagionare Ellen, o semplicemente se è una ladruncola così furba da far credere a Sherlock che una seconda persona sia coinvolta. Poteva aver scoperto questo quel giorno, Sherlock, no? Ovvero che Ellen stava facendo il doppio gioco per depistarci.

 

Non oso immaginare la reazione di Sherlock nel caso in cui tutto dovesse andare a rotoli.

 

Dovrei portarmi dietro dei tranquillanti.

 

- Nulla, ripercorrevo le tappe del caso nella mia testa. - Mi giustifico, facendo un gesto di noncuranza con la mano. Lui annuisce e sembra credere alle mie parole, perché distoglie lo sguardo da me e si guarda intorno come per vedere se ha dimenticato qualcosa.
- Bene, credo che possiamo andare. - Dice poco prima di oltrepassare la porta, ma poi si ferma poco oltre lo stipite e si gira a guardarmi con un leggero sorriso sulle labbra. - Mi farai vedere l'ultima tappa del nostro gioco un'altra volta. - Non riesco a non trattenere un sorriso, poi annuisco e lo guardo andare via. Non ci metto molto a finire di prepararmi, ma prima di seguire Sherlock apro il cassetto del comodino e afferro il piccolo barattolo arancione di pillole, poi lo infilo in tasca sperando di non dovervi ricorrere.
Ci mettiamo poco a raggiungere l'abitazione di Ellen. Ci sono quattro volanti della polizia con le sirene che illuminano la strada ormai quasi buia. Il sole sta calando e sta lasciando spazio alle tenebre. Lestrade sta parlando con il sergente Donovan, entrambi si trovano accanto a un'auto che come mi aspettavo contiene la povera Ellen.
Mi giro automaticamente verso Sherlock mentre il taxi pian piano si avvicina e cerca un posto dove fermarsi. Sta cercando di sembrare tranquillo ma si sporge continuamente per controllare la situazione, come se non vedesse l'ora di scendere e di entrare in azione.
Greg ci vede da lontano e fa un gesto della mano per salutarci che io ricambio ma che mio marito ignora, come d'altronde mi aspettavo. Finalmente il taxi si ferma e Sherlock si fionda subito giù dalla macchina mentre io lascio i soldi al tassista. Quando ci incamminiamo verso l'ingresso della casa è Lestrade stesso che ci viene incontro con le mani nelle tasche del cappotto.
- Sherlock, è bene che tu sappia una cosa... - Dice Greg con tono calmo, ma Sherlock non ci mette molto a interromperlo.
- I soldi erano nel nascondiglio dietro alla libreria? -
- Sì, erano lì ma... -
- Vado a vedere. - Lestrade non ha nemmeno il tempo di fermarlo che Sherlock si è già precipitato giù per le scale con me e l'ispettore a seguirlo. La rampa è talmente stretta che in due non ci si può passare, questo posto sarebbe l'incubo di ogni claustrofobico. La scalinata conduce a una piccola stanza di circa cinque metri quadrati, ma è piena di valigette aperte e traboccanti di denaro, ce ne sono talmente tante da arrivare fino al soffitto del nascondiglio. Non ci sono interruttori della luce ma la polizia ha installato temporaneamente una grossa lampada in grado di illuminare ogni angolo. Stare lì al buio doveva essere proprio un incubo.
- Però! - Esclamo io sorpreso, per poi osservare Sherlock che accenna un sorrisetto soddisfatto per aver indovinato il luogo in cui i soldi sono nascosti.
- Una donna come Ellen non avrebbe potuto portare tutta questa roba qui dentro. Quanti viaggi avrebbe dovuto fare? Sono pesanti, quindi il vero rapinatore ne ha trasportati più di uno per volta, per questo ci ha impiegato di meno. - Mentre parla sento Greg emettere un sospiro in attesa che Sherlock gli dia retta, ma alla fine decide di interromperlo e di parlare lo stesso.
- Abbiamo ispezionato la stanza e non c'è traccia di impronte. -
- Sicuramente lui ha usato i guanti. -
- È stata Ellen, Sherlock! - Lui ride e scuote la testa, poi si gira e fronteggia Greg. Sono faccia a faccia adesso ed io resto volontariamente in disparte, tenendo comunque le orecchie ben tese.
- Solo perché il bottino è qui non vuol dire che sia stata lei. -
- Lo so, ma lei ha confessato non appena l'abbiamo presa. - Sherlock fa sbattere le palpebre più volte confuso, ed io porto istintivamente una mano in tasca dove ho conservato il barattolo di tranquillanti convinto che di lì a poco avrei dovuto tirarli fuori. I miei dubbi si sono avverati e sento il cuore in gola. Ero davvero fiducioso sul caso e sulle probabilità che aveva Sherlock di risolverlo. Adesso riesco quasi a vedere tutte le sue speranze e le sue convinzioni andare in frantumi come il bicchiere che una volta Sherlock ha scaraventato sul pavimento del soggiorno del 221b.
Non ho il tempo di tranquillizzarlo che è già corso su per le scale ed io mi premuro di seguirlo di corsa senza aspettare che Greg faccia lo stesso. Ho paura possa fare qualcosa di stupido, che possa avere un attacco di panico talmente devastante da distruggerlo. Quando però arrivo fuori casa lo vedo camminare a passo deciso verso l'auto in cui Ellen è sotto custodia. Quasi alza le mani all'agente davanti alla portiera prima di aprirla. Mi avvicino del tutto e finalmente posso capire quali sono le sue intenzioni.
- Ellen, ha confessato la rapina all'ispettore Lestrade? - La donna è in manette, ha i capelli scompigliati e il viso stravolto, contornato da occhiaie spaventosamente evidenti. Indossa un paio di jeans e una maglietta azzurra, il tutto abbinato ad un paio di scarpe da ginnastica. Guarda Sherlock come se lo vedesse per la prima volta ma non ci mette molto ad annuire alla sua domanda. - Che idiozia è mai questa? Chi sta tentando di coprire? - A quel punto io stesso cerco di allontanare Sherlock dall'auto ma lui protesta e torna con l'attenzione rivolta alla povera Ellen. - Risponda. Sto cercando di aiutarla e di evitare il suo arresto, deve dirmi la verità. -
- Ho già detto tutto, signor Holmes. - Dice portandosi il dorso della mano ad asciugare quella lacrima che prepotente minaccia di colarle lungo la guancia a bagnare i sedili dell'auto in cui si trova.
- Ellen... -
- Non ho altro da aggiungere. Me ne pento come non mai. Ma... avevo dei debiti, avrei perso la casa presto se non avessi fatto qualcosa. - Sherlock raddrizza la schiena e si regge con entrambe le mani al tettuccio della macchina prima di chiudere gli occhi e fare un respiro profondo. Ellen dopotutto sembra convincente, e perfino lui adesso crede che lei sia l'unica sospettata e colpevole in questo caso.
- Debiti? - Chiedo io confuso, avvicinandomi in modo che lei possa vedere anche me. - Se non mi sbaglio ha un posto fisso in banca. -
- Sono una semplice segretaria, dottor Watson, il mio stipendio è misero. - Mi mordo la lingua e cerco di ragionare a quella risposta. Anche le mie convinzioni adesso si stanno sgretolando come quel dannato bicchiere. - Così ho hackerato le videocamere di sorveglianza e ho preso il furgoncino dei miei genitori. Sapevo del nascondiglio e li ho messi lì... ma il senso di colpa mi divorava. - Mi ritrovo a imprecare mentalmente, poi osservo Sherlock che ha staccato le mani dall'auto e adesso le tiene ben ferme lungo i fianchi. Guarda un punto indefinito di fronte a sè e non dice una parola. Cerco di confortarlo portando una mano sulla sua schiena, ma non appena lo tocco mi rendo conto che sta tremando. - Così appena hanno tracciato il furgoncino e mi hanno trovato a casa ho deciso che dire la verità sarebbe stata la cosa giusta, e che finalmente mi sarei tolta questo grosso peso dallo stomaco. - Quasi non faccio caso alla sua spiegazione. Sherlock è la priorità in questo momento, e quando stringe le palpebre fino a farsi quasi male mi rendo conto che non sta affatto bene.
- Mi scusi, Ellen. - Dico allontanando mio marito dallo sportello, prima di chiuderlo, poi gli prendo la mano e cerco di portarlo fino al marciapiede ma dai suoi occhi percepisco un'improvvisa e furiosa rabbia, ed è difficile per me trattenerlo prima che si lanci a capofitto contro l'auto. Per fortuna Greg e alcuni agenti vengono in mio soccorso per trattenerlo mentre si dimena.
- Lei è una sporca bugiarda, Ellen! - Urla lui, mentre la donna lo guarda terrorizzata da dietro il finestrino. - Capirò chi sta coprendo, dovessi morire nel farlo! -
- Sherlock! - Il mio richiamo non serve a nulla, continua a divincolarsi con tutta la forza che ha in corpo nonostante stiamo tentando di trascinarlo lontano.
- Bugiarda, bugiarda! - Continua a urlare.
- Sherlock, smettila, è finita! - Dico con tono più severo, al che lui smette di dimenarsi, ma continua comunque a gridare insulti alla povera donna rinchiusa nella macchina. - Sherlock, è stata lei, non ci sono dubbi! Smettila! - Urlo infine, zittendolo all'istante. Poi punta i suoi occhi di ghiaccio su di me, mi guarda per un tempo che mi sembra infinito e sento le sue braccia tremare. Non dice altro e i suoi occhi si riempiono di lacrime che lentamente rigano i suoi zigomi appuntiti. - Mi dispiace... - Mormoro senza ricevere niente in risposta.
- John, è meglio se ve ne andate. - Dice Greg che non si è allontanato da noi nemmeno un secondo. Io annuisco, ma Sherlock non sembra essere d'accordo, infatti si asciuga bambinescamente le lacrime con il palmo della mano e protesta immediatamente.
- Questo è il mio caso! -
- Il caso è chiuso, Sherlock. Torna a casa, vai a riposarti. -
- Non avete abbastanza prove! -
- Ha confessato, a noi basta questo. - Sherlock boccheggia incapace di rispondere a quest'ultima affermazione. - Tornate a casa. -

 

Il suo viso sconvolto e distrutto mi fa sentire una schifosa nullità.

 

Greg lo guarda dispiaciuto, consapevole di non poter fare nulla per andargli incontro. Forse anche lui si sente in colpa, ma sa di non avere scelta. Alla fine fa dietro front e si allontana insieme agli altri agenti. 
A quel punto mi sposto davanti a mio marito e gli prendo il viso fra le mani. In quelle iridi leggo la sua delusione. Ci credeva troppo, era convinto che la sua mente fosse pronta ad affrontare di nuovo il suo lavoro, ma a quanto pare è ancora troppo scosso, non si è ancora ripreso dai problemi causati dell'incidente e quella sua convinzione su Ellen ne era la prova tangibile.
- Mi dispiace tanto, Sherlock. - Gli dico, anche i miei occhi si riempiono di lacrime, ora sono lucidi e particolarmente arrossati. Lui si limita a nascondere il viso contro il mio collo e a quel punto scoppia in un pianto disperato. So cosa vuol dire quella reazione: si è reso conto di aver sbagliato.

 

Sta perdendo le speranze sulla sua salute mentale e questo uccide anche me.

 

Lo abbraccio così forte che ho paura perda il respiro, ma lui fa altrettanto, bisognoso di quel contatto, di appigliarsi a qualcosa e lasciarsi andare completamente. Decido di non ricorrere ai calmanti in tasca, forse ha bisogno solo che qualcuno lo compatisca ed io sono pronto a farlo in ogni modo possibile.
- Torniamo a casa. - Dico dopo un po'. Lui annuisce e si stacca da me, cercando di evitare il mio sguardo a tutti i costi per non doversi mostrare fragile ai miei occhi, poi porta un braccio attorno al mio corpo e lentamente ci incamminiamo alla ricerca di un taxi che possa riportarci al nostro appartamento.





Note autrice:

Come ho specificato nello scorso capitolo, ci sono vari motivi per cui vi ho fatti aspettare così tanto, motivi seri che non sto qui a spiegarvi, ma comunque dopo un bel po' di tempo ho deciso finalmente di graziarvi con un nuovo capitolo, sperando che possa piacervi.
Sappiate che comunque mancano pochi capitoli alla fine.
Cosa ne pensate di questa nuova svolta nella storia.
Fatemi sapere nei commenti.
Vi prometto che posterò fino alla fine della storia, dovessero passare mesi, non lascerò che questa long resti incompleta.
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 15
*** La matriosca ***


La matriosca

 

Sherlock ha passato i giorni dopo quell'evento seduto sul tavolino del salotto con le gambe incrociate, lo sguardo fisso sulla mappa del caso appesa sopra al divano. La sua espressione vuota, nessuna emozione a trapelare sul suo viso.
In più credo sia peggiorato. Si confonde spesso, dimentica le cose e i suoi attacchi di panico sono aumentati, così come quelli d'ira. L'ultima volta che ne ha avuto uno stava suonando il suo violino. Si è dimenticato le note e continuava a sbagliarle. Ha provato e riprovato così tante volte che alla fine ne ha avuto abbastanza. Lo ha scaraventato sul pavimento con tutta la forza che aveva e lo ha praticamente distrutto, facendomi sobbalzare dallo spavento mentre ero intento a preparare la cena. Subito dopo si è lasciato andare a un pianto disperato. Quella scena mi ha spezzato il cuore in mille pezzi.

 

Io non l'ho mai lasciato solo.

 

Quel caso significava molto per lui, avrebbe dimostrato che poteva guarire, che la sua mente non era del tutto danneggiata. Invece le sue speranze si sono sfumate in un attimo, e ora credo che quelle speranze le abbia perse definitivamente.
Ma lui non è l'unico a sentirsi uno straccio. Io, dal mio canto, mi sento il marito più inutile sulla faccia della terra. Certo, riesco a calmarlo, a rilassarlo quando non è del tutto in grado di controllare i suoi sbalzi d'umore, ma a parte questo resta il fatto che non posso fare di più, e darei la mia vita perché lui si senta meglio.
A volte mi ritrovo sveglio durante la notte a osservarlo. Si addormenta tardi perché non ci riesce, e il suo volto è sempre stanco e spossato, e nel vederlo in quelle condizione non riesco a trattenermi. Piango per lui, gli accarezzo i capelli pieni di riccioli ribelli e continuo a ripetere a bassa voce:
"Andrà tutto bene, sistemeremo tutto."

 

Ma cerco di convincere più me stesso che lui.

 

Oggi è la vigilia di Natale, e anche se so che questo evento non servirà a tirarlo su più del dovuto, spero solo che riesca a dimenticare i suoi problemi almeno per qualche ora. Abbiamo invitato a cena tutti i nostri amici e la sua famiglia. Mycroft ha stranamente accettato di venire, seppure odiasse il Natale tanto quanto lo faceva suo fratello, e immagino abbia accettato per controllarlo più da vicino. Avere un cognato che gli passa le informazioni tramite SMS non gli basta di certo.
Ho scelto un posto speciale, e quando l'ho detto agli altri non hanno esitato un momento a dare la loro approvazione. Di fatto, tutti hanno notato il repentino calo di umore e autostima di Sherlock e la mia idea, hanno detto, potrebbe aiutarlo a stare bene. Lui non sa niente e spero solo che con le sue doti deduttive non riesca a scoprirlo, seppure non siano funzionanti come ogni volta al cento per cento.
Quando mi sveglio non lo trovo accanto a me, e per un momento mi viene il panico perché nelle sue condizioni non so mai cosa potrebbe fare. Indosso una vestaglia e raggiungo il salotto, sbattendo gli occhi per la troppa luce improvvisa, tanto che sono costretto a portare una mano davanti agli occhi per non accecarmi. Non appena metto a fuoco riesco a vederlo: in mano ha una cartellina di plastica, si trova in piedi sul divano e con una lentezza disumana sta staccando dalla parete tutti gli indizi inerenti al caso per conservarli all'interno. A quanto pare ha deciso di darci un taglio, o almeno di provarci.
Annodo il laccio della vestaglia alla vita, poi mi passo una mano fra i capelli arruffati e mi avvicino solo di qualche passo. Sta osservando la foto di Ellen e la mano gli trema appena mentre la mette via.
- Tutto bene? -

 

Ovvio che non va tutto bene, che domande inutili fai, dottor Watson?

 

È colto di sorpresa, infatti sobbalza poco prima di voltarsi e guardarmi. Emette un sospiro e si limita ad annuire mentre si stropiccia gli occhi con il pugno chiuso.
Non faccio domande, non voglio chiedergli perché ha deciso di mettere via tutto proprio adesso, allora mi limito a raggiungerlo. Mi posiziono in piedi accanto a lui e comincio a staccare le foto dalle puntine, conservandole una ad una nella sua cartellina di plastica trasparente.
Sento il suo sguardo addosso per un paio di secondi, ma poi riprende da dove si è interrotto, facendo scivolare le puntine usate in un contenitore di vetro sul tavolino.
- Prima ha chiamato Lestrade e ha dato la conferma per stasera. - Mi dice ad un certo punto, dopo qualche secondo di assoluto silenzio.
- Bene! - Rispondo mentre metto via l'ultima foto. Adesso la parete è occupata soltanto dalla mappa di Londra. Lui getta via la cartellina, mancando il tavolo e facendola finire sul pavimento. Conoscendo il suo stato attuale, per un attimo ho creduto se la prendesse anche per questo, ma mi stupisce restando calmo e facendo come se non provasse alcun interesse su dove sia finita. - Dovrai dare una mano a me e alla signora Hudson con la cena, o credo che quella donna ti lascerà a digiuno. - Riesco a strappargli un piccolo sorriso, e per me significa già tanto. La stanza è piena di addobbi natalizi che ho in parte messo da solo. Lui non se la sentiva, a volte non riusciva nemmeno ad alzarsi dalla poltrona. Sta perfino evitando le sue sedute dallo psicologo, dice che non gli servono a nulla per il momento, che vuole stare per conto suo senza raccontare i suoi disagi a un tizio il cui unico scopo è infastidirlo con i suoi tic nervosi con la penna, almeno è così che ha detto Sherlock.
- Il digiuno è l'ultimo dei miei problemi ma... potrebbe anche rifiutarsi di prepararmi il tè. - In effetti non mangia molto, lo fa ma non quanto dovrebbe. Non è una novità per lui, ha sempre detto che mangiare lo rallenta, ma questo caso è diverso, non è un suo solito capriccio.
- Oh, non sia mai! - Esclamo, facendolo ridacchiare. Sento la sua mano nella mia e la stringo con dolcezza, poi mi decido a girarmi verso di lui. Mi guarda come se volesse dirmi qualcosa ed io sollevo confuso un sopracciglio. Apre la bocca, come per iniziare a parlare, ma poi sospira e poggia la fronte contro la mia spalla, chiudendo gli occhi e leccandosi piano le labbra. - Tutto ok? -
- Sì, io... ti volevo ringraziare. - Mi dice senza muoversi di un millimetro.
- Per cosa? -
- In questi giorni non sono in me, ti sto facendo uscire di testa e continui a sopportarmi comunque. - Quella sua affermazione mi fa sorridere intenerito, poi decido di girarmi verso di lui completamente, e di conseguenza lo costringo a sollevare la fronte dalla mia spalla e a nascondere il viso nell'incavo del mio collo. È alto, ed io sono basso, lo ammetto, ma non perde ugualmente l'occasione di farlo, incurvando la schiena quanto più possibile. Le mie dita si immergono fra i suoi ricci corvini e lo sento sospirare automaticamente, come se si stesse rilassando.
- In salute e in malattia, l'ho giurato. - Dico a bassa voce, e subito dopo la sua mano si sposta sulla mia schiena e stringe la mia vestaglia. Quel semplice gesto mi fa capire quanto mi consideri la sua roccia in un periodo del genere. - E non mi stai facendo uscire di testa. -
A quel punto solleva del tutto il viso e mi guarda negli occhi, la fronte pian piano si poggia contro la mia e dopo neanche qualche secondo le sue labbra sono sulle mie. È un bacio a stampo, e le nostre bocche premono fra di loro fino a quasi farmi male, trasmettendomi tutta la frustrazione, la rabbia, la tristezza che Sherlock ha provato in questi giorni, ma anche l'amore, quello che sta provando e che non si è mai affievolito, poi tanta gratitudine, come se fosse un altro modo per ringraziarmi, e mentre le nostre labbra si schiudono lentamente e avverto la sua lingua chiedermi il permesso di procedere, le sue mani affusolate mi incorniciano il viso con dolcezza.
L'impeto e la passione di quel bacio mi fanno indietreggiare di un passo e per poco non precipito sul pavimento, Sherlock però ridacchia e mi afferra appena in tempo dal laccio della vestaglia, impedendomi di cadere. Mi stacco dalla sua bocca con una risata e sposto le braccia attorno al suo collo, poi ci stringiamo e in questo momento non abbiamo bisogni di fare altro se non chiudere gli occhi e godere del calore del corpo dell'altro.
Il resto della giornata lo passiamo a preparare ogni sorta di leccornia per la serata. O meglio... io e la signora Hudson, Sherlock ha preferito "supervisionare". Ci ha provato a fare qualche piccolo passaggio da solo, come tagliare le verdure o preparare il tacchino. La cucina non fa proprio per lui, alla fine si è limitato a passarci qualche utensile, a fare domande sull'improponibile colore del maglioncino a fantasie natalizie della signora Hudson e ad assaggiare per verificare la "commestibilità".
Quando abbiamo impacchettato tutto il cibo ci ha guardati come se fossimo pazzi.
- Mangeremo fuori. -
Gli ho detto io con un'alzata di spalle non curante. Lui è sembrato all'inizio abbastanza offeso per non averlo saputo prima, ma poi ha deciso di mettersi addosso qualcosa di decente, invece dei pantaloni della tuta e quella t-shirt larga che non toglie da un pezzo.
L'ho aiutato con la doccia. In realtà l'abbiamo fatta insieme ma Sherlock aveva davvero bisogno d'aiuto. Era determinato sul fatto che volesse cavarsela da solo, ma quando per l'ennesima volta ha sbagliato bottiglietta del sapone o ha rovesciato sul pavimento di ceramica della doccia tutto il bagnoschiuma, mi ha chiesto con occhi lucidi e voce tremante e frustrata di aiutarlo.

 

Non mi abituerò mai a vederlo in questo stato.

 

L'ho aiutato a vestirsi, con il suo bel completo nero abbinato alla camicia bianca. Io ho voluto far contenta la signora Hudson e ho indossato il maglione che lei stessa aveva passato la settimana a fare. Sherlock mi ha guardato con un'aria divertita per tutto il tempo ma ha preferito non dire nulla durante il tragitto in taxi.
Ci saremmo ritrovati tutti quanti lì. Ho anche invitato mia sorella Harriet ma, come mi aspettavo e come sempre, ha rifiutato. Si è inventata una scusa, una di quelle che non reggono per niente, ma dalla sua voce avevo capito quanto fosse ubriaca. Sarebbe stato bello averla qui questa sera. L'unica ricorrenza in cui siamo stati tutti insieme è stato il mio matrimonio, Sherlock l'ha conosciuta quello stesso giorno e ogni volta che ci ritrovavamo insieme c'era così tanto di quell'imbarazzo che perfino mio marito trovava scuse banali per allontanarsi, dato che conoscendolo non mi avrebbe mai chiesto di ballare così tante volte per evitare di interloquire con lei. Adesso lui nemmeno se lo ricorda, ma mi chiedo davvero se stesse cercando di allontanarsi per evitarla o se stesse cercando di non vedermi con quell'aria delusa per il comportamento sbagliato di Harry durante un avvenimento così importante per me.

 

Immagino la seconda opzione, eh?

 

Anche se fosse, non potrei chiedergli una conferma.

 

Siamo arrivati in una manciata di minuti e ci siamo ritrovati davanti a una villa incantevole, con un giardino esterno, una maestosa fontana all'ingresso e delle rose bianche che adornavano il portone di legno. Una lunga scalinata ci separa dall'entrata e io afferro la mano di mio marito, sperando che la vista di quel luogo faccia riaffiorare qualcosa nella sua memoria, ma quando lo guardo in faccia vi trovo solo uno sguardo confuso.
Non dico nulla e mi limito a sospirare mentre iniziamo a salire i gradini a due e due.
- Non pensavo che avremmo festeggiato il Natale in grande stile. - Mi dice non appena apro la porta. Ad accoglierci è un'ampia sala sui tenui colori dell'azzurro. Al centro per l'occasione era stato sistemato un grande albero di Natale, così altro da toccare il soffitto con la punta della stella in cima. Attorno a esso, una decina di tavoli bianchi, con tanto di sedie abbinate. Sono tutti vuoti, meno uno, dove seduti ai rispettivi posti ci sono Molly, la signora Hudson, i genitori di Sherlock, Mycroft, Lestrade e perfino Mike Stanford e Sarah.
Sherlock ha un sopracciglio sollevato nell'osservare tutta la scena, poi mi lancia un sguardo un po' smarrito quando tutti si alzano dalle rispettive sedie e ci guardano con un sorriso smagliante, a parte Mycroft che non si è nemmeno degnato di mettersi in piedi.
- Benvenuto all'ultima tappa del gioco! - A quel punto realizza immediatamente e si guarda intorno con aria sorpresa, mentre io e gli altri lo guardiamo con la speranza dipinta in volto.
Rimane un attimo in silenzio, poi mi rivolge un'espressione delusa e triste che non fa altro che allarmarmi.
- Avrei dovuto riconoscerlo dalle foto. - Mormora abbassando la testa per guardarsi la punta dei piedi. - Ho guardato le foto del nostro matrimonio quasi ogni giorno e non ho riconosciuto il posto... - Mi si stringe il cuore e tutti gli altri adesso hanno smesso di sorridere, ma io mi faccio coraggio e mi sposto davanti a lui. Le mie mani si poggiano sulle sue spalle e la sua fronte si poggia contro la mia mentre la sua testa è ancora rivolta in basso.
- Va tutto bene, ok? Quando ci siamo sposati era mattina, la sala era illuminata dal sole, c'era un'altra luce, era tutto diverso. - Al posto della luce del sole avevamo messo dei magnifici candelabri su ogni tavolo, la luce era certamente diversa... no? - I tavoli erano disposti diversamente e non c'era l'albero di Natale. - Finalmente i suoi occhi incontrano i miei e sono felice di notare che ha una luce diversa. - Va bene? - Chiedo per averne la conferma. Lui annuisce e si lecca le labbra per un momento, e mentre spolvero le sue spalle con le mani e riaggiusto la sua giacca nera, Sherlock si rimette dritto sulla schiena e cerca di accennare un leggero sorriso.
Poco dopo siamo tutti attorno al tavolo, ad assaggiare felici gli antipasti che avevamo preparato insieme alla signora Hudson. L'episodio di poco fa sembra non essere più tra i pensieri di Sherlock, perché lo vedo felice e non smette di sorridere. Il fatto che però abbiamo affittato la sala non ci ha permesso di avere dei camerieri questa sera, quindi dobbiamo fare tutto da soli, e sono disposto anche a raccogliere i piatti vuoti per riportarli in cucina, così da prendere quelli puliti per la prossima portata. In realtà l'ho voluto io, volevo che la serata fosse una cosa intima, fra amici, che nessun cameriere ci venisse a disturbare durante la cena. E forse così Sherlock si sarebbe sentito un po' più a suo agio.
Sì, è vero. Quale sala ricevimenti potrebbe lasciare tanta libertà a dei semplici clienti? In realtà, beh... i proprietari avevano un debito con Sherlock per un caso che lui gli aveva risolto tempo fa.
Sto portando una pila di piatti vuoti verso la cucina, e quando accendo la luce quasi non rovescio tutto sul pavimento dallo spavento. 
Mycroft era in piedi, appoggiato con le gambe al bancone e con le mani al fidato ombrello.
- Cristo! - Mi sfugge mentre la sua espressione non cambia di un filo. Ha sempre quell'aria fastidiosamente annoiata, mi verrebbe voglia di spremerlo come una spugna fino a fargli uscire anche un semplice sorriso, chiedo troppo? - So che ami le entrate a effetto, ma cavolo! Potevi semplicemente avvisarmi. - Dico con una mano sul petto all'altezza del cuore, poi prendo un respiro profondo e quando mi riprendo abbandono i piatti accanto al lavello.
- Volevo solo parlarti in privato. -
- Di solito questo non include il rischio d'infarto. - Lui non ha reazioni alla mia accusa, allora mi limito a sospirare. - Che succede? -
- Mi chiedevo solo come stesse andando la sua ricaduta. - Cerco di leggere il suo sguardo. La sua espressione seria e tranquilla mi ricorda una di quelle matriosche, perché so che dentro di lui ci sono mille emozioni che in tutti i modi cerca di nascondere, il problema è forse cercare di capire quali siano. Rabbia? Frustrazione? Illusione? Malinconia? Nostalgia? Tristezza? Di sicuro una di queste, ma è ostinato a tenerle dentro di sé. Mi chiedo anche se mai qualcosa lo farà crollare.
Però lo vedo il modo in cui deglutisce appena, il modo in cui le sue palpebre tremano leggermente quando le sbatte.
- Come procedeva la prima volta, Mycroft. È stato lo shock, e per colpa di questo la confusione è tornata... ma immagino che ci vogliano un altro paio di mesi perché tutto torni come prima, come quando stava migliorando. - Dico con un sospiro. Mycroft non cambia espressione e dal suo sguardo sento che deve dirmi qualcosa che sa che io non approverei, ormai lo conosco abbastanza bene da capirlo. Le sue mani torturano il manico dell'ombrello, poi lo sento schiarirsi la gola.
- Se Sherlock non riacquista velocemente il suo solito potenziale, vorrei portarlo in una struttura che si occuperà di lui per farlo stare meglio. - Il mio sguardo si incupisce e c'è un momento di silenzio prima che il maggiore degli Holmes riprenda a parlare. - Una struttura in America. - Stringo forte il pugno quasi rischiando che le unghie mi penetrino nella pelle, e le sento, mi fanno male, probabilmente avrò quattro piccole mezzelune rosse non appena rilasserò le dita, ma al momento non m'importa, non dopo l'assurdità che ho appena sentito.
- Che cosa? -
- È un'ottima struttura, recupererebbe velocemente, e dato che la prima volta non ce n'è stato bisogno... - Lo interrompo alzando una mano e lui smette di parlare.
- La prima volta? - Chiedo confuso, ma sentendo il sangue ribollire nelle vene. - Fammi capire bene, signor Governo inglese, da quanto tempo lo volevi spedire in America? - Lui sospira e non si affretta a rispondermi, il che mi rende ancora più nervoso e impaziente mentre inizio ad avere un insistente tic al piede destro.
- Da subito dopo l'incidente. - La sua risposta mi stravolge a tal punto che mi giro di spalle e poggio le mani segnate dalle unghie sul bancone nel tentativo di calmarmi. Essere di spalle mi aiuta a non volergli mettere le mani intorno al collo per strangolarlo. - Ho temporeggiato, per vedere se avrebbe davvero recuperato, e ho cancellato la totale possibilità di trasferirlo quando ha iniziato a stare meglio, ma poi si è fissato con quel caso e quando non l'ha risolto e si è di nuovo smarrito... -
- I vostri genitori lo sanno? - Chiedo senza neanche farlo finire di parlare, interrompendolo nuovamente.
- Come? -
- I signori Holmes, loro lo sanno? - Io sono ancora di spalle, non voglio veda la rabbia trasparire dai miei occhi, dato che immagino già la risposta a questa domanda.
- No, non lo sanno. - Scuoto la testa e mi lascio sfuggire una risata amara e rabbiosa prima di voltarmi verso il suo viso che è ancora fastidiosamente calmo. - Quindi tu volevi dirlo prima a me così che io li avrei convinti a lasciarlo partire per la tua stramaledetta struttura! - Esclamo, e dato che non ricevo alcuna reazione in cambio deduco che la mia affermazione sia esatta, tremendamente esatta. Mycroft sapeva che i signori Holmes, e nemmeno Sherlock stesso, avrebbero voluto lasciarlo partire. Era questo il suo scopo dal principio? Mandarlo in un luogo senza la sua famiglia e lasciarlo impazzire da solo circondato da dottori che lo avrebbero ritenuto solo uno fuori di testa? - Stammi a sentire, Mycroft! - Dico, e facendolo mi avvicino pericolosamente a lui, e solo così mi rendo conto che gli occhi di mio cognato sono lucidi, ma ciò non mi addolcisce affatto la pillola. - Sherlock non va da nessuna parte, e come ha recuperato prima recupererà anche adesso, sono stato chiaro? -
- Credeva di aver recuperato ma quel caso... -
- Qui non stiamo parlando del caso! - Sbotto a voce più alta, facendogli morire le parole in bocca. La tiene leggermente schiusa, ma poi serra le labbra e mi guarda quasi indispettito. - Stiamo parlando del fatto che tu vuoi chiudere Sherlock in una struttura in America, lontano da me e dai suoi amici, credi gli farebbe bene? Fin'ora è riuscito ad andare avanti solo con il nostro appoggio e tu glielo vuoi strappare dalle mani. Ma ti senti quando parli? Sherlock resta qui, e quando starà meglio ti sbatterò il resoconto del dottor Portman in faccia. - E sono le mie ultime parole prima di fare retro front, prendere i piatti puliti che avevamo portato da casa, e dirigermi all'uscita della cucina.
- Voglio solo che stia bene. - Parla all'improvviso e io mi fermo poco fuori dalla stanza senza girarmi. Sono quasi sicuro di aver sentito tremare la sua voce. - Non ce la faccio a vederlo così e mi sto solo occupando di lui. Ti sembra davvero che io voglia portarlo in America di punto in bianco? Perché avrei chiamato il dottor Portman, secondo te? Io volevo restasse qui fin dal principio, per questo ho chiamato lo psicologo migliore di Londra, perché volevo evitare quell'opzione! - Fa una pausa, ha alzato la voce per dirmi quelle cose, e in quel momento di silenzio mi giro a guardarlo con un'espressione severa e di rimprovero. Seppure le sue intenzione fossero buone io non smetto di pensare a come avrebbe reagito Sherlock nel sapere che suo fratello voleva allontanarlo. - Ma poi è peggiorato... - Mycroft fa un sospiro pesante e tremante che mi lascia senza parole.

 

La matriosca ha tolto il primo strato, poi il secondo, il terzo... è venuta allo scoperto.

 

- Voglio il meglio per lui. - Detto ciò smette di parlare e evita il mio sguardo, lo fa vagare piuttosto su ogni cosa futile in quella stanza meno che sul sottoscritto.
- Ha già il meglio. - Dico io, improvvisamente calmo nel notare che sta facendo di tutto per non esplodere. I suoi occhi lucidi e sofferenti mi hanno un po' ricordato Sherlock. - Per questo ti prometto che starà bene. - Mi guarda senza dire nulla, io annuisco in sua direzione per rassicurarlo delle mie parole, poi mi giro e lascio la stanza, sentendo il palmo delle mani prudere dove le unghie vi si sono conficcate.
Non so per quanto tempo Mycroft rimane da solo in cucina, ma mi accorgo che è di nuovo al tavolo quando arriviamo al dolce, e la sua espressione è tornata quella di sempre, anche se mi accorgo che guarda suo fratello continuamente, studiando ogni sua reazione, proteggendo il sangue del suo sangue solo con lo sguardo.

 

Le sue intenzioni erano buone e nobili. Solo non ha considerato cosa ne avrebbe pensato Sherlock.

 

La serata passa velocemente, a un certo punto Molly ha deciso di mettere su un paio di canzoni al vecchio stereo nella sala, così mi sono alzato e ho chiesto a Sherlock di concedermi un lento. Ha protestato un paio di volte, diceva che non si sarebbe mai messo in ridicolo davanti a tutti in questo modo, che certe cose con me le avrebbe fatte solo se fossimo stati da soli, io e lui nel salotto del 221 B, come la prima volta che abbiamo improvvisato quel lento dopo uno dei suoi attacchi di panico.
Mi ha ricordato il giorno del matrimonio. Anche allora era un po' contrariato, ma era il nostro matrimonio, si è sentito costretto, così come oggi che ha afferrato la mia mano con un sospiro e si è diretto al centro della sala con me.
- Questa me la paghi. - Mi sussurra facendomi ridacchiare, portando le braccia attorno al mio collo. Io le porto sui suoi fianchi e faccio spallucce, accennando un sorriso innocente al quale lui scuote la testa volendo apparire arrabbiato ma lasciandosi ingannare da una risatina.
- Allora? - Chiedo a un certo punto. - Non ti ricorda nulla? -
- No... - Mi risponde leggermente deluso mentre porta la fronte contro la mia, ma poi sospira. - Ma qui e ora è tutto perfetto. -

 

E non posso che esserne d'accordo.

 

Nota autrice:

Buonaseraaaaa. Ve lo aspettavate questo ritorno?
Nemmeno io... ma eccomi qui, non solo con questo capitolo ma con il piacevole annuncio che gli ultimi capitoli di questa storia usciranno nell'arco di questa settimana. Non aspetterete secoli, promesso.
Intanto godetevi questo capitolo, noi ci risentiremo prestissimo.
Baci!

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Capitolo 16
*** La polaroid ***


La polaroid



La serata alla fine è andata abbastanza bene. Siamo rimasti alla villa fino a oltre la mezzanotte. Ci siamo tutti spostati sulle scalinate a osservare i fuochi d'artificio che alcuni del ristorante vicino avevano deciso di sparare in cielo. Sui nostri visi risplendono le luci dei fuochi, risaltando la lucentezza dei nostri occhi felici per la serata appena trascorsa.
Ci siamo salutati tutti e poi ci siamo ridiretti a casa. Sherlock è particolarmente silenzioso sul tragitto verso il 221 B. Quando mi giro a guardarlo lo trovo intento a giocherellare con uno dei bottoni del suo lungo cappotto, anche se il suo sguardo è perso a guardare qualcosa fuori dal finestrino. Non so bene a cosa stia pensando ma non riesco ad attaccare un argomento così delicato con il tassista e la signora Hudson seduta accanto a noi.
Scendiamo davanti all'ingresso ed io lascio una considerevole mancia prima che il taxi parta. La nostra padrona di casa sbadiglia stancamente mentre cerca le chiavi nella sua borsetta di pelle. Quando le trova e apre la porta, si limita a un "buonanotte cari", prima di sparire all'interno del suo appartamento. Io e Sherlock raggiungiamo il nostro salotto e mio marito si lascia subito dopo cadere sul divano, senza togliersi né il cappotto e né la sciarpa blu elegantemente allacciata intorno al collo.
- Ti ricordi cosa avevamo detto? Quando ti ho chiesto se ti piaceva il Natale mi hai risposto che ne avresti avuto la conferma solo oggi. - Inizio io mentre mi accorgo di come di sfuggita abbia lanciato un'occhiata alla mappa di Londra ancora appesa sopra al divano.

 

La delusione è per un momento nei suoi occhi.

 

- Perciò cosa puoi dirmi adesso? - Chiedo mentre mi sfilo la giacca e la appendo all'attaccapanni, lasciandomi ricadere di peso sulla mia poltrona. Il contatto con il cuscino morbido è un grazie da parte della mia schiena dolorante.
- La trovo una festa inutile. - Dice mentre con uno strattone deciso della mano la sua sciarpa scivola sul tappeto. - Però ho passato una bella serata. - L'angolo delle mie labbra si solleva per un momento e poggio comodamente la nuca alla spalliera della poltrona, chiudendo gli occhi rilassato. - Tranne il momento in cui ho sentito te e mio fratello parlare dell'America. Ecco, lì non è stato poi il massimo. - Alle sue parole sbarro gli occhi e raddrizzo la schiena, rivolgendogli uno sguardo dispiaciuto e terrorizzato allo stesso momento. - Ah, non fare quella faccia. - Dice lui mentre si sfila il cappotto e lo lascia ricadere sul pavimento assieme alla sciarpa.
- Ci hai sentiti? -
- Ogni parola. - Deglutisco, forse troppo rumorosamente dato che attiro la sua attenzione verso il mio pomo d'Adamo.
- Sherlock, io... -
- Non devi giustificarti, John. Mycroft è assillante e ha questo strano modo di proteggermi, lo capisco. Certo, io non sarei mai voluto andare in America senza di te. - Il modo in cui mi parla e calmo, anzi accenna un sorriso, anche se piccolo, che mi porta ad appoggiare nuovamente la schiena alla poltrona, un po' più rilassato questa volta. - E il modo in cui gli hai risposto è stato... -
- Intimidatorio? - Dico, cercando di andare a indovinare. Mi aspetto mi dica qualunque cosa, del come "tosto", "forte", "convincente", ma mai quello che dice in realtà, rivolgendomi subito dopo un sorrisetto che la dice lunga.

 

Sexy.

 

Sì, ha detto proprio sexy.

 

- I tuoi atteggiamenti da bravo soldatino sono il mio punto debole. - La sua affermazione mi rende stranamente imbarazzato e il mio istinto mi spinge a spostare lo sguardo sulla poltrona di Sherlock, come se la vedessi per la prima volta e prestandovi talmente tanta attenzione da notare particolari che prima d'ora non avevo mai notato. Sento gli occhi di Sherlock addosso e so che ancora sta accennando quel sorriso malizioso.
- Ricordamelo la prossima volta che vorrò provocarti. - La sua risata affettuosa e spontanea arriva alle mie orecchie come fosse musica, una dolce musica che mi costringe a guardare il suo viso rilassato mentre si lascia andare a quell'emozione liberatoria.

 

È bellissimo.

 

- Lo dirai a Mycroft? - Gli chiedo a un certo punto, mentre guarda fisso il soffitto sopra di sé. In risposta fa spallucce e porta elegantemente un braccio sotto alla nuca per stare più comodo.
- Che so del suo malefico piano? Nah! In fondo il primo a non volermelo dire è stato lui. - Il mio sorriso è soddisfatto, volevo proprio rispondesse in questo modo. Non mi aspettavo che la prendesse così, come se non gli importasse, non dopo i comportamenti dell'ultimo periodo. Mi aspettavo piagnucolasse, che avesse qualche sbalzo d'umore seguito da un attacco di panico. Ma non è questo il caso. È così tranquillo che quasi mi fa paura. Sarà che la serata e l'ultima tappa del nostro "gioco" lo hanno rasserenato a tal punto? Non posso che essere felice del fatto che io sia in grado di farlo sentire così, la mia autostima stasera non è ai livelli pietosi delle ultime settimane.

 

A proposito di questa sera!

 

- Oh, quasi dimenticavo! - Dico alzandomi di scatto dalla poltrona. A passo svelto mi avvio verso la cucina sotto il suo sguardo confuso. Apro uno degli armadietti sopra al lavello e recupero un pacco regalo dalla carta dorata e il fiocco rosso, poi torno in salotto, dove Sherlock si è messo seduto e mi guarda con un sopracciglio sollevato finché non gli sono proprio di fronte. Con un'alzata di spalle gli porgo il regalo e lui lo fissa per dei secondi che sembrano interminabili, con un'aria smarrita e decisamente adorabile per i miei gusti. Lo afferra con entrambe le mani e lo poggia sulle sue gambe, infine solleva lo sguardo verso di me.
- Mi hai fatto un regalo... - Dice, e per un po' mi stupisco sia lui stesso, Sherlock in persona, ad affermare l'ovvio. In risposta mi faccio sfuggire una risatina.
- Buon Natale, Sherlock. - Lo vedo accarezzare la carta lucente con entrambe le mani, e spero che dalla forma del pacco non abbia già intuito che cosa ci sia dentro.
Fargli delle sorprese è sempre stata un'impresa. Negli ultimi anni ha sempre indovinato tutti i miei regali, perfino quando decidevo di cambiare scatola per confondergli le idee. Mi sono sempre chiesto come diavolo facesse. Una volta gli ho anche chiesto di fingere almeno di non sapere, ma il risultato era stato pessimo. Quando li scartava e fingeva di essere sorpreso, con la sua scarsa capacità di esprimere sorpresa, veniva voglia di strangolarlo.

 

"Oh, ma che bello, John. Ti ringrazio, non me lo aspettavo."

 

Insopportabile.

 

- Prima che arrivi il prossimo Natale. - Dico a un tratto, risvegliandolo da quello stato di trance. Lentamente le sue mani iniziano a strappare la carta dorata, lasciandola ricadere sul pavimento, fino a che non è a stretto contatto con una custodia di pelle nera che apre, con le mani quasi tremanti. Rimane pietrificato quando ne capisce il contenuto e finalmente posso notare della reale sorpresa nei suoi occhi, non sta fingendo per farmi contento.
Prende il violino fra le mani come fosse fatto di vetro e lo osserva finché per necessità non sbatte le palpebre e solleva la testa per guardarmi.
- Allora? - Chiedo, ansioso di una risposta plausibile che mi faccia capire cosa vuol dire quello sguardo smarrito sul suo volto.
- Io... John, è... bellissimo, non so che dire. - Dice sinceramente commosso mentre afferra l'archetto e lo scruta attentamente. 

 

Non è cosa di tutti i giorni lasciare Sherlock Holmes senza parole.

 

- Mi dispiaceva non sentirti più suonare dopo che hai distrutto il tuo. - Un leggero sbuffo ironico gli sfugge dal naso mentre ripone tutto nella custodia, senza però chiuderla, cercando di godersi con lo sguardo ogni particolare del nuovo strumento che ho scelto meticolosamente con l'aiuto del commesso del negozio di musica. Un negozio che Sherlock frequentava spesso quando ancora se lo ricordava. Mi aveva detto fosse uno dei migliori della città e nonostante ci volesse un bel po' per raggiungerlo con la metro, per lui l'ho fatto senza esitare.
- Credevo non sopportassi il violino. -
- No no, non mettermi in bocca parole che non ho mai detto. Non sopporto che tu lo suoni a ore improponibile della notte, quello sì. - L'angolo delle sue labbra si solleva appena divertito, poi sposta la custodia dalle sue gambe al divano e si alza in piedi per poter essere faccia a faccia con me.
- Grazie, John. Grazie davvero. - Non faccio nemmeno in tempo a rispondergli "Figurati!" che vengo letteralmente travolto dal suo bacio candido e lento. Le sue labbra carezzano le mie con dolcezza e la sua mano stringe in un pugno il mio maglione fatto a mano, proprio all'altezza del fianco, sgualcendolo. La sua bocca sa di mele per colpa del dolce che aveva preparato la signora Hudson, e di champagne. È piacevole e rilassante il movimento della sua lingua contro la mia, tanto che sto quasi per approfondire il tutto, quando improvvisamente non lo sento più sulle mie labbra. Si è allontanato da me come se lo avessi scottato, e ora mi guarda con terrore.
- Cosa... che c'è? - Chiedo improvvisamente preoccupato.
- Mi hai fatto un regalo di Natale. -

 

Di nuovo afferma l'ovvio.

 

- Sì, e allora? -
- Io non ti ho preso nulla. - I suoi occhi trasmettono una nuova consapevolezza, trasmettono delusione, ma non nei miei confronti, piuttosto nei suoi. Si sente, oserei dire, preso alla sprovvista da quella nuova informazione. Le sue palpebre iniziano a tremare e così fanno anche le sue mani mentre sono poggiate ai miei fianchi. Vedo le sue iridi riempirsi di lacrime, lucidi come una superficie di ceramica. - Ecco cosa avevo dimenticato. - Dice, anche la sua voce subisce le conseguenze di quel tremore improvviso.
- Sherlock. - Cerco di richiamarlo con calma, ma dà ancora segni di panico, perché abbassa la testa e la scuote in un cenno negativo.
- Volevo farlo ma l'ho dimenticato. - Continua cercando di divincolarsi dalla mia presa ai lembi della sua giacca nera. - In questo periodo sentivo che... che dovevo fare qualcosa ma... -
- Sherlock, non fa niente. - Una lacrima sgorga dal suo occhio destro e finisce oltre il mento, rigando perfettamente il suo zigomo spigoloso e subito dopo la sua guancia liscia.
- No, John io... io non sono uno di quelli bravi, io... - Sento che sta per avere un attacco anche dal modo in cui respira nervosamente, come se stesse per perdere la capacità di farlo, in più sembra quasi si sia dimenticato il vocabolo che avrebbe voluto usare.
- Cosa non sei? - Chiedo immobilizzando le sue braccia, tenendo stretti i suoi polsi con le dita e riuscendo a impedirgli di muoversi.
- Non sono un buon... un buon... - Strizza gli occhi, come se facendolo quella parola sarebbe fuoriuscita dalla sua testa per dare senso alla sua frase.
- Sherlock, respira. Non è successo nulla. - Gli dico con voce carezzevole, nel disperato tentativo di calmarlo. Lui emette uno, due, tre sospiri profondi ma non accenna a voler sollevare la testa, continua a guardarsi la punta delle scarpe. Quando mi assicuro che è più tranquillo gli prendo il viso fra le mani e carezzo con dolcezza le sue guance. - Cosa volevi dirmi? Non sei un buon...? -
- Io non... - Cerco di sforzarmi in tutti i modi, voglio proprio capire a cosa si stia riferendo, voglio dire quel vocabolo in modo che si tranquillizzi. Allora mentre gli accarezzo piano le braccia ci penso e a un certo punto ho un'illuminazione. La più terribile delle illuminazioni.
- Marito... - Dico a bassa voce, e lui smette di tremare. - Non sei un buon marito? - Chiedo a bassa voce, mentre finalmente solleva lo sguardo verso il mio. Le sue pupille si muovono velocemente sul mio viso fino a fermarsi in direzione dei miei occhi, poi annuisce e sospira.
- Sì, quello... - Dice con voce ancora turbata. Io scuoto la testa in risposta e gli prendo il viso fra le mani. - Sono un pessimo marito. - Continua lui imperterrito.
- Un regalo mancato non ti rende un pessimo marito. - Gli dico, e c'è un attimo di silenzio in cui mi osserva ancora impaurito dalle reazioni del suo corpo al precedente attacco di panico che ora andava scemando pian piano. - Ci vuole ben altro per esserlo e tu non lo sei. Non fa niente se non mi hai preso un regalo, davvero. - Ed è così vero, il mio unico pensiero al momento è solo che lui stia bene, non desidero altro. Questo sarebbe un regalo di Natale perfetto.
- Avrei dovuto ricordarmelo, è questo il punto. -
- Sherlock, è tutto a posto. - Adesso è tranquillo, i suoi occhi sono lucidi ma almeno ha smesso di balbettare, di tremare e di dimenarsi dalla mia presa. L'unica sua risposta è un sospiro frustrato e pesante mentre si raddrizza sulla schiena. - Per me non fa differenza, credimi, non sono uno che si sofferma su queste cose - Gli dico, sistemandogli la giacca, stirando le pieghe visibili con le dita. Lui annuisce e accenna un sorriso sollevando solo un angolo delle labbra.
- Già... è anche per questo che ti amo. - Quelle parole stupiscono Sherlock stesso, non si è reso subito conto di averlo detto finché non mi ha guardato negli occhi e ha notato il mio sguardo sorpreso. È la prima volta che lo dice da dopo l'incidente, ed è sembrato come trattenere il respiro fino a questo esatto momento, forse per entrambi. Avrei voluto dirglielo per primo ma credevo che non fosse ancora pronto, che una confessione del genere lo avrebbe spaventato o chissà che altro.

 

Mi faccio solo troppe paranoie, vero?

 

Me lo ha appena detto ed è tranquillo, ma cosa vado a pensare?

 

Sulle mie labbra spunta un leggero sorriso che lui non ricambia, ancora insicuro su quello che io posso dire in risposta.
- Sherlock Holmes, l'uomo privo di sentimenti che ama qualcuno? - Dico cercando di prenderlo in giro, lui scuote la testa divertito e si permette di pizzicarmi un fianco per dispetto al quale fingo un'espressione sconvolta.
- Finiscila, non sai quante ho volte ho pianificato di dirtelo. - Dice lui poggiando la fronte contro la mia e ridacchiando. - Ma non dovevo pianificare nulla, per questo non riuscivo a dirtelo. Dovevo solo essere spontaneo, credo. - Mi dice con voce più ferma.
- Ti amo anch'io. - Dico nell'esatto momento in cui Sherlock sta per continuare a parlare. Rimane con le labbra schiuse, poi sorride quando si rende conto di ciò che ho detto, e non perde un momento per avvicinarsi e baciarmi. Mi aggrappo ai suoi fianchi e stringo la stoffa nei pugni, mentre lui mi incornicia il viso con le mani. All'inizio è solo un toccarsi di labbra, ma poi quel bacio si trasforma in qualcosa di più intenso e deciso. Le nostre lingue si cercano con fare quasi disperato, la foga è così tanta che non mi rendo conto di essere stato spinto contro la parete, me ne accorgo solo quando la mia schiena ci si poggia contro in un modo... non molto delicato, ecco.
Fra un bacio e l'altro riesco a percepire Sherlock che si sfila la giacca e la lancia contro una delle due poltrone. Sinceramente non so se l'abbia beccata o se sia finita sul pavimento.
Sta per mettere le mani sul mio maglione, quando si stacca all'improvviso dalle mie labbra e si porta il palmo aperto sulla fronte con un'imprecazione a denti stretti. Stringe gli occhi ed io mi lascio sfuggire un sorriso rassegnato. È stanco, vorrebbe riposarsi, non l'ha fatto per giorni e adesso ne sta subendo le conseguenze.
- Dovresti andare a letto. -
- No, no... sto bene. - In risposta sollevo entrambe le sopracciglia mentre i miei occhi si posano sulle sue occhiaie evidenti e sul suo viso spossato e letteralmente esausto.
- Oh, certo, come no! Vai a letto, ordini del medico. - Si limita ad aprire gli occhi e a guardarmi, forse per vedere se sono realmente serio, infine sospira e si strofina un occhio con un pugno chiuso prima di lasciarmi un leggero bacio a stampo sulle labbra. Quando si stacca, però, è ancora a pochi millimetri da me, e nei suoi occhi oltre alla stanchezza c'è un leggero accenno di malizia che per un attimo mi fa tremare.
- Va bene, ma non ho finito con te. - Mi sussurra, lasciandomi poi contro la parete con lo sguardo perso per quel suo tono di voce sensuale e quel suo respiro che mi ha sfiorato la pelle, facendomi rabbrividire sul posto.

 

Dannazione, dovrò farmi una doccia fredda prima di andare a letto.

 

***

 

Quando apro gli occhi, accanto a me non c'è nessuno. Il sole mi ha accecato nel sonno e mi ha svegliato con cautela, facendomi mugolare ancora assonnato. A poco a poco riesco a percepire anche i rumori nell'ambiente, e la prima cosa che sento è il rumore del getto della doccia che proviene dal bagno. Sorrido al pensiero che Sherlock oggi sembra essersi svegliato di buonumore, poi finalmente apro gli occhi e la prima cosa che vedo è il soffitto, più i granelli di polvere che luccicano alla luce del sole.
Mi metto seduto e mi stiracchio, poi mi passo una mano sugli occhi per stropicciarli e mi alzo dal letto per recuperare la mia vestaglia e indossarla. Con uno sbadiglio mi reco in salotto. Rimango fermo sullo stipite della porta quando noto il pacchetto regalo sul tavolino. C'è un biglietto poggiato sopra e la carta che ricopre il regalo non è stata messa nel migliore dei modi, il che mi fa sorridere come un imbecille non appena mi avvicino per afferrarlo.

 

"Ho improvvisato. Meglio tardi che mai."

 

Dice il biglietto.
Curioso mi metto seduto sul divano e inizio a scartare il pacchetto, rivelando quello che sembra un piccolo diario. Somiglia molto a quello che utilizza per le sedute con Portman, ma so perfettamente che non si tratta di quello, perché la copertina di pelle è di un altro colore ed è leggermente più grande rispetto all'altro. Me lo rigiro confuso fra le dita per cercare di intuire di cosa si tratti, ma sono ancora intontito dal sonno e per capire non mi resta che aprirlo.
La scrittura è quella di Sherlock, la riconoscerei ovunque.

 

GIORNO 1

 

Mi sono risvegliato solo due giorni fa ed è strano, è come se fossi nato proprio nell'esatto momento in cui ho aperto gli occhi. Sono consapevole di aver avuto una vita prima che tutto questo accadesse, ma la cosa straziante è non sapere quale vita io abbia vissuto.
Il mio trauma deve essere stato più grave del previsto.
C'era una persona accanto a me, quando ho aperto gli occhi, dice di chiamarsi John. Era piuttosto sconvolto quando ha capito che non mi ricordavo di lui. Ha detto di essere un amico, il mio coinquilino, ma ho notato nei suoi occhi che mi nascondeva qualcosa.
È stato naturale per me parlare con lui, sfogarmi. Era come se qualcosa ci legasse.

 

Leggo il tutto trattenendo il fiato. Sono incredulo perché non avevo idea stesse tenendo un diario dal momento in cui si era svegliato in ospedale. Forse ne aveva bisogno, in effetti, forse doveva parlare con qualcuno e ha pensato che il modo migliore per farlo fosse scriverlo. Certe cose in fondo non puoi spiegarle a uno psicologo, altre sono difficili da raccontare.
Giro la pagina, poi le altre per dare un'occhiata veloce, e la parola più frequente tra quelle scritte dalla sua calligrafia tremante è "John".
Sono convinto di sentire gli occhi pungere.

 

È il miglior regalo che mi abbia mai fatto.

 

A un tratto vengo colto di sorpresa da un rumore alle mie spalle. La mappa di Londra era rimasta attaccata alla parete per tutto questo tempo, ma adesso è scivolata dietro il divano. Le puntine da disegno non avevano più retto il suo peso e la carta era troppo bucherellata.
Poggio il diario sul tavolino e mi alzo in piedi, poi sposto il divano e vedo la mappa sul pavimento. Quando la afferro mi accorgo che non è l'unica cosa che giace lì dietro. Assottiglio lo sguardo e mi rendo conto che si tratta di una polaroid. I buchi sulla parte superiore mi fanno intuire che nemmeno per quella le puntine avevano retto. La afferro, credendo sia sfuggita a Sherlock quando aveva deciso di mettere via tutto, ma quando guardo meglio di cosa si tratta, la mappa mi sfugge dalle mani per la sorpresa e cade nuovamente sul pavimento freddo.
L'immagine ritrae un uomo brizzolato sulla quarantina, Sherlock lo ha cerchiato con un pennarello rosso, sotto a caratteri cubitali aveva scritto "BECCATO!". E solo leggendolo mi rendo conto che ha avuto ragione per tutto questo tempo. Sherlock non sta impazzendo. Ellen non c'entra davvero.

 

Sto stringendo tra le dita tremanti la foto del vero colpevole.

 

Nota autrice:

Visto? Ve l'avevo detto che in settimana avrete avuto altri capitoli.
Vi volevo informare che comunque il prossimo sarà l'ultimo, e successivamente ci sarà un breve epilogo per concludere la storia.
Che ve ne pare del finale di questo? Ve lo aspettavate?
A prestissimo!

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Capitolo 17
*** Hiram Brown ***


Hiram Brown
 

Quando Sherlock ha visto la foto, dopo essere uscito gocciolante dal bagno con un asciugamano intorno alla vita, non ha capito subito di che cosa si trattava. Poi, dopo la mia spiegazione, i suoi occhi si sono inumiditi e per tutto il tempo non ha fatto altro che dire "avevo ragione, John".
La foto era rimasta dietro al divano probabilmente dal giorno dell'incidente. Rare volte lo spostavamo, la signora Hudson non ci riusciva, era troppo pesante per lei, e a me e a Sherlock non era mai venuto in mente di farlo. Cosa potevamo saperne in fondo?
Adesso siamo su un taxi. È Natale e non è facile trovarne, ma per una cosa del genere abbiamo deciso di partire in quarta verso casa di Lestrade. Non so esattamente che programmi abbia oggi, non ce ne ha parlato ieri sera, non ha nemmeno accennato a cosa avrebbe fatto tutto il giorno, ma è ovvio non si trovi a Scotland Yard in un giorno come questo.
Sherlock continua far tamburellare le dita sul sedile da quando il taxi è partito, e anche se lo amo con tutto il cuore non posso far altro che trovare insopportabile quel tic nervoso, così porto una mano sulla sua e la stringo, riuscendo a fermare le sue dita e facendogli sfuggire anche un lungo sospiro nervoso.
- Non agitarti. - Gli dico senza spostare lo sguardo dal suo viso teso. - Greg è sicuramente a casa. - Continuo mentre con la mano libera tengo ancora stretta quella foto fra le dita.
- Conoscendo la sua vita sociale probabilmente sì. - Dice lui in risposta mentre si allarga la sciarpa che porta al collo, quasi come se gli desse fastidio e fosse sul punto di soffocare. - Ma se non ci fosse? Dovrei aspettare la fine di questa giornata, rimandare tutto a domani? Io rimarrei con questo pensiero fisso e non sarei per nulla tranquillo, John. - Guarda fuori dal finestrino con attenzione, è come se stesse cercando l'uomo della foto tra la gente comune in giro per Londra.
L'unico dubbio che è sorto dopo aver capito la verità è stato uno solo. Perché Ellen avrebbe dovuto difendere questo tizio al punto da farsi incarcerare al suo posto? Ci teneva così tanto a quest'uomo da spingerla a un gesto così folle? E poi cos'era? Un fratello, un amico, un fidanzato, un marito... poteva essere chiunque, e sicuramente Sherlock lo sapeva prima dell'incidente, mentre adesso non ne ha la più pallida idea.
- Andrà tutto bene, vedrai. Tu rilassati. - Il pollice inizia ad accarezzargli il polso con dolcezza e il sospiro che gli sfugge questa volta sembra più rilassato, guardandolo mi sembra anche di aver notato che ha chiuso gli occhi per godersi quella piccola attenzione al meglio. - Ehi, per il regalo... - Dico, approfittando di quel momento di silenzio per tirare fuori quell'argomento di cui non avevamo avuto il tempo di discutere. Lui mi interrompe quasi subito.
- Una sciocchezza, lo so... -
- No, affatto. È bellissimo, il miglior regalo che tu mi abbia mai fatto. - Sul suo viso compare un sorriso riconoscente, poi abbassa lo sguardo, guardando le nostre mani unite sul sedile. In poco tempo afferra la mia e la stringe, lasciando che le dita si intreccino. - Ma il fatto che tu non mi abbia parlato di questo diario... - Lasciò la frase in sospeso e ridacchio leggermente, scaturendo la stessa reazione anche a Sherlock, che scuote appena la testa.
- Meglio tardi che mai, no? - Io sorrido e annuisco, sembra più tranquillo e questo mi rasserena. Se fosse arrivato da Lestrade sull'orlo di una crisi di nervi non voglio nemmeno immaginare come sarebbero andate le cose.
Il taxi si ferma davanti all'abitazione di Greg. La sua auto è parcheggiata lì, quindi è a casa, per fortuna. Sherlock non perde tempo e raggiunge la porta d'ingresso a grandi falcate, lasciandomi indietro come sempre pagare il tassista, con una somma considerevole di mancia per averlo disturbato nel giorno di Natale. Bussa freneticamente e di continuo, cosa che mi fa roteare gli occhi. Smette solo quando sente dei passi avvicinarsi e ad aprire la porta è proprio Lestrade, vestito di tutto punto e con un odore di colonia così nauseante che entrambi ci lasciamo sfuggire una smorfia infastidita. Ha perfino il gel ai capelli, e dal suo sguardo scocciato intuisco che abbiamo interrotto qualcosa. Infatti, dietro di lui scorgiamo il tavolo da pranzo abbellito a festa, delle candele accese al centro color rosso fuoco, e infine una donna seduta a un capo della tavola con un vestito verde e una lunga chioma bionda che arriva fino a sotto la schiena. Ci guarda confusa, ma resta composta al suo posto senza fiatare. Questa è una novità, sia per me che per Sherlock, che sembra altrettanto sconvolto.
- Che cosa volete? - Chiede quasi bruscamente. Sherlock mi strappa la foto dalle mani, noncurante di aver disturbato quello che sembra un pranzetto molto intimo, e la mostra a Lestrade che corruga la fronte senza capire. Mio marito sospira e si affretta a spiegare.
- È l'uomo che Ellen sta difendendo. - Dice infine. Greg afferra la foto e la osserva con attenzione, poi scuote la testa mentre guarda il tizio raffigurato in essa.
- Sherlock, mi sembra che ne abbiamo già discusso il giorno dell'arresto. Perché continui a insistere? -
- Stavolta ha ragione. - Mi affretto a dire. - È la foto per cui quel giorno Sherlock si è quasi fatto ammazzare da quel camion. - Il mio tono deciso sembra averlo convinto, almeno un po'. Si gira a guardare la donna seduta al suo tavolo, che in quel preciso momento sembra non fare tanto caso a noi, ma piuttosto al suo cellulare.
- Ragazzi, ascoltatemi. Una foto non può provare niente. Mi servono delle prove più concrete. - Dice mentre restituisce la polaroid a Sherlock. - Insomma, sai come si chiama? Sai perché hai capito si tratti di lui e non di Ellen? - Quelle parole zittiscono mio marito, che fa saettare nervosamente gli occhi su ogni dettaglio della polaroid. Deglutisce rumorosamente e mi soffermo a guardare il suo pomo d'Adamo andare su e giù per un attimo. La sua fronte è già imperlata di sudore e la sua mano trema.
- No... non me lo ricordo. - Dice dopo un po', facendo sfuggire a Greg un sospiro pesante.
- Per questo ho le mani legate, ragazzi. Ne riparliamo domani, va bene? Come avrete notato sono un po' occupato adesso. - Lestrade sta per chiudere la porta, ma prontamente Sherlock la blocca con il piede e afferra la manica della giacca elegante dell'investigatore per trattenerlo. I suoi occhi sono imploranti e supplichevoli. Stavolta so che non si lascerà convincere a lasciar perdere perché sa di aver ragione.
- Lasciami interrogare Ellen. - Gli dice affievolendo la presa sulla sua manica, ormai sgualcita per quel gesto inaspettato. Greg guarda prima lui, poi me, come a cercare una conferma nel mio sguardo. Io annuisco leggermente in risposta. - Ti prego. -
- Diamine, va bene! - Esclama portandosi una mano in tasca e tirandone fuori un mazzo di chiavi, lo lancia verso di me e io lo afferro con i miei riflessi pronti. - Aspettatemi in macchina, vado a spiegare a Samantah cosa sta succedendo. -
- Grazie Greg. - E finalmente Sherlock lo lascia andare, facendo in modo che la porta si chiuda alle spalle dell'ispettore.
Pochi minuti dopo siamo già in viaggio sui sedili posteriori dell'auto di Greg. Non so di preciso cosa abbia detto a Samantah per andare via, ma non sembrava tanto arrabbiata quando è uscita di casa, stampandogli un bacio delicato sulla guancia sbarbata. Sembrava una donna molto paziente e comprensiva. Magari questa è la volta buona che Greg si sistemi e sia felice una volta per tutte.
Per tutto il tragitto Lestrade non ha fatto altro che ripeterci che gli dovevamo un favore, e non lo biasimo affatto, soprattutto nel giorno di Natale.
Adesso Sherlock si trova nella stanza degli interrogatori insieme a Lestrade, io sono dietro al vetro e aspetto che Ellen faccia il suo ingresso, accompagnata dagli agenti. Indossa la divisa arancione e porta le manette ai polsi. Il suo viso non è per niente contento mentre si siede di fronte all'ispettore.
- Credevo avessimo già fatto questo. - Dice lei dopo che i due agenti hanno lasciato la stanza. Probabilmente si riferisce all'interrogatorio, dove lei ha confessato il falso per proteggere un uomo come quello.
- Ellen, ti ricordi di Sherlock Holmes, vero? - Sherlock inarca un sopracciglio. Probabilmente si sta chiedendo il perché di quella domanda assurda di cui la risposta è così ovvia.
- Certo. - Dice lei, e dal suo viso non trapela alcuna emozione.
- Beh, lui... - Sherlock sospira pesantemente e interrompe Greg lasciando scivolare la foto sul tavolo in direzione della donna, che mi è sembrato di vedere deglutire.
- Perché lo sta coprendo? - È la domanda che le rivolge mio marito, suscitando l'esasperazione di Lestrade che voleva arrivare pian piano a quella domanda per fare in modo fosse più collaborativa. Ma Sherlock è fatto così, lo sanno anche i muri, soprattutto quelle quattro pareti in cui adesso è chiuso, che ne hanno visti già tanti dei suoi interrogatori.
- Io... - La sua voce sembra tentennare, ma con un finto colpo di tosse ritorna alla normalità.

 

Credo sia un elemento che Sherlock ha trovato sospetto.

 

- Non ho idea di cosa lei stia parlando. - Dice infine, allontanando con un dito la foto e poggiandosi con naturalezza sullo schienale della sedia.
- La sua esitazione mi dice il contrario. - Ellen distoglie lo sguardo verso il vetro, sembra quasi mi stia guardando ma non può vedermi, solo che io posso notare lei e i suoi occhi che mascherano un'improvvisa nuova realtà, probabilmente sul fatto che era stata appena smascherata da un individuo affetto da amnesia totale retrograda.
- Le ho già detto come sono andate le cose, signor Holmes. Avevo bisogno di quei soldi per i debiti così li ho presi. Non so chi sia quell'uomo. - La sua voce è fastidiosamente calma. - Sono stata io. - Tutto ci saremmo aspettati, ma non quella reazione da parte di Sherlock. Nel giro di pochi secondi ha sbattuto i pugni sul tavolo così forte da farlo tremare e far sobbalzare Lestrade, che ha strisciato la sedia all'indietro dallo spavento. Ellen ha solo sgranato gli occhi e spostato le braccia dal tavolo.
- Mi stia bene a sentire. - Nemmeno il suo tono è tanto calmo. - Ne ho abbastanza di sciocchezze, mi hanno ritenuto un pazzo con una ricaduta per colpa sua, quest'uomo è il responsabile, non so come, non so perché, non me lo ricordo, ma è per colpa sua se mi sono fatto investire, mia cara Ellen. - So cosa sta facendo, sta giocando sul punto debole di Ellen, la sua sensibilità. Sa che se tira fuori questioni come la sua condizione e tutto ciò che ha passato per colpa di quel maledetto caso lei si sentirà in colpa, e non posso far altro che pensare che quella sia un'ottima mossa, una geniale.
- Sherlock... -
- Sta' zitto, Lestrade! - Esclama senza nemmeno girarsi a guardarlo. - Lei adesso mi dirà chi diavolo è quest'uomo e perché lo sta coprendo. - C'è un momento di silenzio che che sembra durare un'infinità, poi tutti si accorgono che Ellen ha silenziosamente iniziato a piangere.
- Io... - Cerca di dire, mentre Lestrade intima a Sherlock di allontanarsi un po' da lei per non metterla ancora in soggezione, infatti teneva ancora i pugni sul tavolo così come li aveva sbattuti. Io sento lo stomaco in subbuglio e so che non è per la fame, ma perché finalmente stiamo per sapere tutta la verità di quel dannato caso che ci perseguita da mesi, da quel terribile giorno. Ellen si lascia andare a un pianto disperato, scuotendo più volte la testa. - Ho dovuto coprirlo. - Dice disperata. - Ha minacciato la mia famiglia. - Sherlock a quella nuova consapevolezza assume un'espressione quasi sorpresa. - Lui ha detto che... che se lo avessi accusato avrebbe fatto in modo che la mia famiglia finisse nei guai. - E poi si lascia andare a una serie di singhiozzi, portandosi le mani sulla fronte e facendo tintinnare le manette.

 

Sento una fortissima stretta al cuore. Forse tutti la sentiamo.

 

- Ellen, deve stare tranquilla, non succederà nulla alla sua famiglia, ha la mia parola. - Dice Lestrade con voce calma e rassicurante. La donna prende qualche respiro profondo e Sherlock prende posto accanto a Greg, non è più arrabbiato, ma vuole sapere e non esita a comunicarglielo.
- Ci dica chi è. - Dice infatti.
- Si chiama Hiram Brown. - Lestrade le passa un pacco di fazzoletti e lei ne estrae subito uno per asciugarsi le lacrime. I suoi occhi sono rossi adesso, e lucidi. - Era il mio fidanzato. Ma vi giuro che non avevo idea dell'uomo che era finché non ha fatto quello che ha fatto. Quando l'ho scoperto mi ha messo le mani addosso. Mi ha picchiata così forte che... - Non riesce a trattenersi e singhiozza di nuovo. Io ho bisogno di sedermi per non crollare esausto sul pavimento. - Dopo mi ha detto che avrebbe fatto del male ai miei genitori, e sono arrivata al punto di credergli dopo quello che mi aveva fatto. Ha sistemato il bottino nel mio scantinato, poi è come sparito. Da un giorno all'altro non si è più fatto vedere. Si è limitato a telefonarmi un paio di volte, per ricordarmi che dovevo tenere la bocca chiusa e per dirmi che prima o poi sarebbe passato a prendersi i soldi. Dovevo tenerli sotto controllo, diceva. - Sherlock si fa più avanti con il busto e la guarda dritto negli occhi.
- Ha detto dove è andato? - Le chiede con calma e scandendo bene le parole. Lei scuote la testa in un segno di negazione, per la quale sia io che Lestrade ci portiamo una mano sulla fronte. - Ma lei lo sa, non è così? - Ellen lo guarda in silenzio, sentendosi gli occhi speranzosi di tutti su di sé, probabilmente riesce a percepire anche i miei.
- Sì, lo so. -

 

***

 

- Andremo io e John. - Dice Sherlock quando scende dalla macchina. Ellen è stata in grado di fornirci l'esatto indirizzo, e subito dopo l'interrogatorio ci siamo precipitati sul luogo da lei indicatoci. Si trova un po' fuori dalla città, per non dare nell'occhio. E quando vediamo l'abitazione e ci rendiamo conto che si tratta di una lussuosa villa. Inizio a pensare che il tipo in questione sia abbastanza ricco. - Tu stai pronto con le manette, e nasconditi. - Lestrade si limita a sospirare e ad annuire, ormai credo senta di non avere più voce in capitolo per questa situazione.
Il cancello che precede il viottolo verso l'entrata è aperto, noi lo attraversiamo con calma. Il piccolo giardinetto che vediamo è ben curato, perfino le siepi sono simmetriche e tagliate in modo da creare diverse figure geometriche. C'è perfino una fontana sulla destra che ritrae un delfino.
- Se la passa bene, questo tipo. - Dico mentre arriviamo davanti alla porta d'ingresso.
- Non è casa sua. - Dice Sherlock dopo aver dato una breve occhiata attorno a sé.
- Ah no? - Lui scuote la testa deciso.
- C'è una finestra rotta al piano di sopra, mentre la porta è rovinata all'altezza della serratura.

 

Sorrido, perché sembra essere tornato in perfetta forma.

 

- E i veri proprietari? -
- È una casa affittata per le vacanze, la posta nella cassetta delle lettere si è accumulata troppo per essere stata imbucata in un giorno solo. - Non ho nemmeno notato la buca delle lettere al cancello, non credo di avere lo stesso radar così attento di mio marito in questo momento. Lui è sempre stato più bravo, e in più sono curioso di sapere se questo Hiram sia in casa.
- Bussiamo? - Chiedo. Lui nemmeno risponde e lo fa al posto mio, battendo il pugno ricoperto dal guanto nero sulla porta di legno. Ci vuole circa mezzo minuto prima che essa si apra, rivelando lo stesso uomo che avevamo visto sulla polaroid, solo un po' più trasandato, con le occhiaie ben marcate e i capelli spettinati. Ci guarda dubbioso per un attimo, poi indietreggia di un passo, come per mettersi sulla difensiva.
- Che volete? -
- Hiram Brown? - L'uomo strabuzza gli occhi, poi il mio sguardo cade per un attimo sulla sua mano e vedo che sta stringendo il pugno fino a far diventare bianche le nocche. Quando presto nuovamente attenzione ai suoi occhi sono furiosi.
- Ho detto... cosa volete? -
- È bella la sua casa, signor Brown. Da quanto tempo si è intrufolato? - Guardo Sherlock con stupore. Perché probabilmente non si è reso conto di quanto abbia azzardato con quelle parole. Infatti non ci vuole molto prima che l'uomo diventi rosso dalla rabbia.
Nel giro di soli pochi secondi, Hiram è scappato dentro casa e Sherlock è partito immediatamente all'inseguimento. Cerco di fermarlo in tutti i modi, chiamandolo a gran voce, ma lui non mi sente e l'unica cosa che posso fare è avvertire Lestrade con un cenno. Con quel gesto gli dico esattamente di correre dietro alla casa e di vedere se ci sono uscite secondarie. Poi inizio a correre anche io.
Si precipitano su per le scale e mentre raggiungo il corridoio al piano di sopra sento una porta di una delle stanze spalancarsi e sbattere rumorosamente contro la parete. La raggiungo e Sherlock e lì, sta per uscire dalla finestra per inseguirlo fuori, sul terrazzo.
- Fai il giro! - Mi urla poco prima di sparire dal mio campo visivo. Borbotto un paio di maledizioni prima di raggiungere un'altra stanza che affaccia sullo stesso terrazzo. È una cameretta, tutta sui toni del rosa, con decorazioni principesche e un maledettissimo giocattolo a forma di carrozza sul pavimento che quasi mi fa ruzzolare per terra. Apro la finestra di colpo, facendomi spazio fra la tenda fastidiosamente rosa, poi esco sul terrazzo e la scena che mi ritrovo davanti ha come protagonista Hiram, intento a scavalcare la balaustra mentre mio marito gli si avvicina con cautela. Mi sporgo un po' e noto Lestrade, nascosto dietro un muro nel giardino di sotto, la pistola ben tesa e pronto a intervenire non appena Hiram avesse toccato il terreno. - Arrenditi, Brown! - Nella corsa deve essersi ferito, perché Hiram non riesce a scavalcare con facilità e si tiene forte un punto della gamba. - Non puoi fare più niente adesso. - L'uomo guarda dall'altra parte, giù nel giardino, mentre io mi avvicino lentamente, ricevendo però un'occhiataccia da mio marito che mi intima di stare indietro con un cenno della mano. - È finita, Hiram! -
Succede tutto così velocemente che non ho il tempo di capire cosa stia realmente accadendo. Hiram porta una mano dentro alla giacca ed estrae una pistola. La punta dritta verso Sherlock e il cuore mi si ferma in gola, mentre sopra di me sento un elicottero avvicinarsi e un agente al megafono urlare all'uomo di mettere giù la pistola.

 

Lestrade ha chiamato i rinforzi.

 

Inizio ad avvicinarmi velocemente, ma mentre quell'uomo con le braccia tremanti tiene ancora l'arma sollevata, Sherlock non demorde e mi urla di stare indietro.
- Metti giù la pistola! - Dico io, ma in tutta risposta non fa altro che togliere la sicura e puntare proprio verso di me. Il colpo parte e io lo guardo come se stesse arrivando a rallentatore. In un attimo mi sembra di essere stato catapultato al giorno in cui mi hanno sparato in guerra. Mi ricordo il dolore del foro di una pistola, mi ricordo ogni cosa, le mie mani tremano al solo pensiero, e chiudo gli occhi, pronto a ricevere quella tortura per la seconda volta.
Vengo strattonato via, mi ritrovo catapultato sul pavimento e sento le orecchie fischiare, mi fanno perdere l'orientamento per un po' ma poi sento il suo urlo, sento Sherlock gemere di dolore e quando mi giro è disteso sul pavimento del terrazzo con un buco sulla spalla. Non faccio caso a quello che sta succedendo intorno a me, sento solo dei frammenti confusi.

 

"Hiram Brown, ti dichiaro in arresto per..."

 

Sherlock...

 

Mi precipito su di lui e faccio pressione sulla ferita con entrambe le mani. Sembra grave, e io no... non posso perderlo ancora.
- Non ci provare, Sherlock, non di nuovo! - Urlo mentre lui mi guarda smarrito, ha perfino smesso di urlare e la cosa non fa altro che spaventarmi. Si aggrappa a me con il braccio sano e mi guarda disperato. Io sollevo lo sguardo. Un paio di agenti stanno portando via Hiram, non so nemmeno da dove siano sbucati. Greg è al telefono, sta chiamando un'ambulanza mentre guarda la scena sbigottito. - Continua a guardarmi, hai capito? - Gli dico mentre continuo a fare pressione e sento il suo corpo iniziare a tremare.
- John... -
- No, non dire nulla. - Una lacrima scorre fino alle mie labbra, e solo in quel momento mi rendo conto di aver iniziato a piangere
- John... io non ti lascio più... - Mi dice prima di chiudere gli occhi lentamente.

 

Nota autrice:

Ebbene sì, questo è l'ultimo capitolo. Ci credete?
Wow, non ci credo sia già finita, ma vi ringrazierò a dovere all'epilogo, perché state tranquillissimi, c'è un epilogo, che pubblicherò anche questa volta molto presto.
Che ne pensate?
Fatemelo sapere.
Baci!

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Capitolo 18
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Il legame che ho con John si è spiegato solo adesso, dopo tanto tempo a rifletterci su e a sviluppare teorie su teorie. L'anello che ho trovato nel cassetto è il mio. È stato nel mio dito prima che io venissi investito. John lo ha messo al mio dito il giorno del nostro matrimonio, e io ho fatto lo stesso con lui.
Come ho fatto a non capirlo prima?
L'uomo che si è preso cura di me per tutto questo tempo... non poteva essere solo il mio coinquilino. Forse non volevo crederci, ho pensato che, da come mi descrivono tutti, siccome non ero una persona tanto amichevole allora lui non mi avrebbe mai visto sotto quel punto di vista.
Mi sbagliavo.
Ma sono felice di essermi sbagliato.

 

Sollevo lo sguardo dal diario e guardo Sherlock disteso sul letto di ospedale. La pallottola lo ha preso alla spalla.

 

La stessa in cui in guerra hanno sparato a me.

 

Ha perso molto sangue ma i medici hanno detto che è stabile. Aspetto solo che si svegli mentre sono seduto accanto al suo letto. L'operazione è andata bene e non dovrebbe volerci molto. Ero così sollevato quando mi hanno detto che si sarebbe ripreso senza problemi, per un momento ho temuto il peggio. 
Le sue parole prima di chiudere gli occhi...

 

"Io non ti lascio più"

 

Le ho ripetute nella mia testa finché non ho saputo che non era nulla di grave.
Hiram, comunque, è stato arrestato. Greg è ancora a Scotland Yard a occuparsi di lui, ma al telefono mi ha detto che è crollato poco fa. Non ce l'ha più fatta e ha confessato tutto, incluso il piano che aveva escogitato per rubare tutti quei soldi. La povera Ellen non c'entrava nulla, era solo una sua pedina, ma anche lei dovrà rispondere delle sue azioni. Sapeva dei soldi in casa, ha dato false informazioni alla polizia, ma resterà dentro solo per qualche altro mese. Spero che dopo riuscirà a trovare un uomo che la ami e soprattutto la rispetti, ognuno se lo merita.
- La mia testa... - Quelle parole mi distraggono dai miei pensieri. Sherlock si è svegliato e si sta massaggiando le tempie con le dita, gli occhi chiusi e stretti dal fastidio, i capelli scompigliati dal cuscino e le mani tremanti.
- La morfina sta finendo, dovrebbero cambiarti la flebo a momenti. - Dico alzandomi e prendendo posto sul letto accanto a lui. Sherlock mi guarda confuso, ha un sopracciglio alzato e le dita si sono spostate dalla sua fronte, adesso le tiene a mezz'aria. - Sherlock Holmes, non provare mai più a farmi prendere spaventi del genere, sono stanco di vederti in queste condizioni. - Continua a guardarmi confuso, e a quel punto la mia testa si riempie di dubbi.

 

Cosa c'è che non va, adesso? Ho messo il maglione alla rovescia? No no, è a posto. Probabilmente non capisce cosa ci fa lì, forse...

 

- Sherlock chi? Scusi, lei chi è? - Quelle parole mi fanno boccheggiare incredulo. Lo guardo dall'alto e i suoi occhi smarriti mi fanno tremare. Mi alzo di scatto e mi porto una mano al petto. Il cuore mi batte all'impazzata.

 

No, non può succedere di nuovo...

 

- Cosa...? - Riesco a dire dopo dei secondi che sembrano interminabili, la mano ancora immobile sul petto, all'altezza del cuore. Lo sento pompare ad una velocità impressionante.
- Cavolo, John, stavo scherzando, non fare questa scenata! - La mia reazione è immediata, se avessi potuto lo avrei preso a pugni lì su quel letto, ma per mantenere la calma mi sono limitato a sfilargli il cuscino da sotto alla testa e a colpirlo ripetutamente in faccia (evitando la spalla, questo è ovvio).
- Fanculo. - Gli dico dopo un'ultimo colpo per il quale lui ride sonoramente. I miei occhi sono rossi di rabbia e dalle mie orecchie potrebbe uscire fumo, ma poi Sherlock mi guarda, quella risata ancora lì che non si affievolisce, e riesce a strapparmi un sorriso appena accennato, un po' come quando ha finto di non sapere come disinnescare la bomba nella carrozza del treno, facendomi credere che saremmo entrambi morti.

 

Non se lo ricorda, ma il modo in cui adesso sta ridendo mi fa ripensare a quella volta.

 

È bellissimo quando ride.

 

- La tua faccia, avrei dovuto scattarti una foto. -
- Non è divertente! -
- Perché sorridi, allora? - Scuoto la testa rassegnato e prendo nuovamente posto sul letto, raggiungendo la sua mano e stringendola.
- Sbruffone. - Mi sorride soddisfatto, poi si porta la mia mano alle labbra e ne bacia ogni dito prima di stringersela sul petto, all'altezza del cuore.
- Mycroft è qui, immagino. -
- Già, è fuori. - È arrivato di corsa, quando l'ho chiamato. Era molto arrabbiato e frustrato dalla notizia di quella sparatoria, mi ci è voluto un po' per tranquillizzarlo senza che andasse su tutte le furie. Si è calmato solo quando l'infermiera ci ha detto che era andato tutto bene.
- John... -
- Sì? -
- Io non ti lascio più davvero. - Lo guardo negli occhi, non ride più, è serio e soprattutto sincero mentre stringe la mia mano possessivamente. - Non ricorderò più niente di prima, questo è un dato di fatto, ma... posso superare tutto se ci sei tu. E alla fine, mi va bene anche così. - Sorrido, stavolta non per il divertimento, ma per il fatto che riesco a vedere che nonostante tutto ha accettato la sua condizione, che vuole andare avanti, che anche se ha dimenticato tutto, Sherlock non è cambiato. È lo stesso che la mattina mi sveglia con il suo violino a orari improponibili, lo stesso che ritiene stupida la gente normale, lo stesso che per salvarmi la vita farebbe di tutto, lo stesso uomo che ho sposato e che mi ama.

 

Lo stesso Sherlock Holmes di sempre.

 

- Lo so. - Dico, poco prima di abbassarmi per lasciargli un delicato bacio sulla fronte. Nello stesso istante la porta si apre. Greg è lì e ci guarda sollevato... ma come sempre ha un tempismo perfetto.
- Scusatemi, non volevo interrompervi, mi avevano detto che Sherlock dormiva ancora. - Dice lui, scostando lo sguardo da noi per l'imbarazzo e puntandolo su qualsiasi altra cosa. Mi rassegno, avrò un momento da solo con mio marito più tardi, immagino. Sospiro e scuoto la testa in risposta alle sue parole.
- Tranquillo, Greg. - Gli dico. Lui annuisce e sposta l'attenzione su Sherlock.
- Sei bravissimo a cacciarti nei guai, dovresti ricevere un premio. - Esordisce facendomi ridacchiare, mentre Sherlock si limita a roteare gli occhi esasperato.
- Com'è andata? - Chiedo.
- Hiarm è dove dovrebbe stare. Ho dovuto lasciare il caso a un mio collega, mi hanno contattato per un suicidio e stavo giusto per andare a controllare... diamine, penavo avrei vissuto le feste in un altro modo. - Sherlock drizza le orecchie come un cane non appena sente il fischio del padrone. So cosa ha appena pensato. Un nuovo caso fra le mani, e so già che vorrebbe mettervi il naso per risolverlo al più presto.
- Chiamano la polizia per un suicidio? - Chiedo confuso, cercando di ignorare le frecciatine che mi lancia Sherlock.
- La vittima è stata trovata in una piscina, ma non c'è acqua nei suoi polmoni secondo Molly Hooper, quindi... -
- L'assassino ha inscenato un suicidio... interessante. - Dice Sherlock, portando le mani giunte davanti alle labbra e guardando Greg di sottecchi, lui scuote deciso la testa.
- Non ti faccio collaborare ad un caso dopo quello che ti è successo, sei in ospedale, per diamine! -
- Oh certo, lo capisco. - Dice lui poggiando la testa sul cuscino che fino a quel momento era rimasta dritta e sull'attenti. - Non preoccuparti, ero solo curioso. Sono sicuro che lo risolverai da solo. - Lui chiude gli occhi e io e Lestrade ci scambiamo un'occhiata insicura. Quel momento di silenzio sembra eterno e io so già cosa passa nella testa di entrambi, quindi mi lascio andare a una leggera risata quando noto come Greg cerca di ignorare il disinteresse di mio marito. Alla fine però sbuffa frustrato.
- E va bene, ti farò avere i fascicoli. - Sherlock resta con gli occhi chiusi, ma sulle sue labbra compare un sorrisetto soddisfatto.
- Eccellente. - Dice, poi Greg scuote la testa e con un gesto di noncuranza lascia la stanza. Non riesco a trattenermi oltre. Scoppio a ridere e lui fa lo stesso, tenendosi la pancia con il braccio sano.
- Per l'amor del cielo, sei proprio un idiota. -
- Nah! - Esclama guardando la porta da dove l'ispettore è appena uscito. - Solo uno sbruffone. -

 

Nota autrice:

Ebbene sì, gente. La storia è ufficialmente finita.
Non posso credere di essere arrivata a questo punto, e invece eccomi.
Adesso partono i ringraziamenti e le comunicazioni, quindi tenetevi pronti e sorbitevi queste ultime parole.
Innanzitutto ringrazio chiunque mi abbia fatto sapere con le recensioni quanto questa storia sia piaciuta. È la prima volta che ricevo tutto questo sostegno per una storia per cui purtroppo vi ho anche fatto attendere molto (sorry for this).
Poi vorrei ringraziare il bellissimo film "Recovery" di David Tennant, che mi ha ispirato tutto questo. È grazie a lui che ho scritto questa storia.
Infine passiamo alle comunicazioni:
So che la storia è finita ma ho in mente di scriverne un'altra, completamente diversa da questa, ambientata in un universo alternativo, con i nostri Johnlock protagonisti. È un'idea che ho in testa da tantissimo tempo ma che non ho iniziato a scrivere per evitare di accavallare tutti questi lavori, ma ora che Recovery è conclusa potrei farci un pensierino, quindi restate connessi (?) che probabilmente arriverà altro.
Ancora grazie di tutto per la vostra pazienza.
Un bacio grandissimo.

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