Les contes de La Princesse Saphir

di VeronicaFranco
(/viewuser.php?uid=394920)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Frontespizio, Prefazione, Cornice ***
Capitolo 2: *** XIII. Il castello delle rose ***



Capitolo 1
*** Frontespizio, Prefazione, Cornice ***


 

Image and video hosting by TinyPic

Les Contes de

La Princesse Saphir

 
Par André Grandier


IllustrÉ

par Eloise Aube Claire de La Lorencie

 
Image and video hosting by TinyPic

 A PARIS

Chez Pierre et Firmin DIDOT

MDCCXCII

***


Prefazione

 

 

Un secolo fa, quando la Francia viveva all’ombra del Sole, sorse un gusto particolare per i racconti per bambini, grazie a Monsieur La Fontaine, Monsieur Perrault, Monsieur Galland.

Il primo raccolse quanto d’antico e popolare i classici ci avessero tramandato, ridando vita a lupi, agnelli, favole d’animali misteriosamente capaci di usare l’umana favella. Traspose insieme alle storie anche delle morali utili a grandi e piccoli, perché ciò che è valido per i bambini può rinfrescare la memoria e la coscienza di chi, adulto, non riflette più su come vada il mondo.

Il secondo credette fermamente che era nel Nuovo che bisognava cercare le risposte alle domande presenti, in ciò che i Moderni possono offrire rispetto agli Antichi, a noi niente affatto superiori. Ciò che accade nei suoi racconti di Mamma Oca sono prodigi, eventi strabilianti, dove principesse dormono per cent’anni, uomini oscuri dalla barba blu insidiano povere mogli, bambine incaute vestite di rosso incontrano lupi famelici travestiti da nonne, e altre storie fantastiche. Alla fine, ecco giungere anche stavolta la morale necessaria, perché i bambini capiscano meglio il mondo in cui si troveranno ad abitare.

Il terzo ha condotto le fiabe agli adulti. Gli è bastato rifarsi all’Oriente misterioso, ai suoi geni, alle fate vestite da odalische d’impareggiabile bellezza, ai Sultani, alla Cina, all’India, all’Arabia sontuosa. Monsieur Montesquieu ha così potuto scrivere Lettere Persiane d’impatto straordinario, e perfino il nostro Voltaire ha voluto ricorrere all’Oriente per i suoi Racconti filosofici, carichi di umorismo e sorriso, dove l’elemento moralistico aleggia per contrasto tra l’ironia deliziosa della prosa.

Oggi, grazie all’Emilio di Jean-Jacques Rousseau, vediamo il bambino come una creatura nel pieno dei diritti, dedita al gioco per meglio imparare; in lui vive già l’uomo che sarà, dunque egli è degno di rispetto assoluto da parte di noi chiamati adulti, che pure amiamo indulgere, e i signori che ho citato lo dimostrano, in facezie infantili.

 

Questo libro nasce per incoraggiamento di Monsieur Nicolas e Madame Sophie de Condorcet, che mi onorano d’amicizia, consigli, insegnamenti. Mettendo a frutto il faticoso progetto di una nuova Scuola per i figli di Francia, ora che la Rivoluzione ha suonato l’inno dell’Uguaglianza, abbiamo concordato insieme che non fosse fuori luogo immaginare altre fiabe, moderne, con una morale nascosta ma presente per chi avrà voglia di scoprirla.

Abbiamo attinto alle fiabe dei signori succitati, al racconto popolare, alla tradizione cavalleresca (Voltaire amava l’italiano Ariosto, e anche noi), ai miti classici, alla nostra modesta inventiva.

Il mio ringraziamento non va solamente ai Marchesi Condorcet. Devo moltissimo alla fantasia dei miei allievi, che nel nostro percorso d’istruzione elementare mi hanno formato tanto quanto io ho formato loro; a mia nipote, Eloise de La Lorencie, cui sono da attribuire tutte le tavole illustrate che accompagnano i racconti; a Jacques Alaste, coltissimo primo lettore, cui devo correzioni, miglioramenti, suggerimenti; a Marie Grandier, che come tutte le nonne e le nutrici del mondo ha raccontato fiabe ai bambini di cui si prendeva cura, donando loro, con il latte e le carezze, sogni e consapevolezza.

Dedico questo libro a mia moglie e a mio figlio. La prima è la mia anima; il secondo, colui che la erediterà.

  

 

André Grandier

Arras, 25 dicembre 1791







***

Cornice

 

Una volta, nella lontana Terra d’Argento, nacque una principessa di nome Zaffiro.

Era una bellissima bambina, ma suo Padre, il Re, annunciò a tutto il popolo che era nato... un principe.

Fu una bugia necessaria, perché in quel Regno la Legge proibiva a una donna di diventare Re, e se non vi fosse stato un principe ereditario, avrebbe preso il potere il Granduca Geralamon, fratello del Re: un uomo davvero molto crudele. 

Per fugare ogni dubbio sull’identità di Zaffiro, la Regina propose che nella culla della bambina fossero messi giocattoli da maschio: una trottola, un coltellino dal manico rosso, un pupazzo a forma d’orso e il burattino di un soldato. In tal modo si riuscì a ingannare il Granduca e nascondere la verità alla Corte e al popolo. Da allora, Zaffiro fu allevata come un maschietto, con la complicità del Dottore, della Nutrice e del Ciambellano. 

Le stagioni passarono: Zaffiro intanto cresceva, e le venivano concessi solo i giochi che erano caratteristici dei maschi. La verità veniva accuratamente tenuta celata; Zaffiro venne pian piano educata ad avere la mentalità di un bambino, con grande costernazione della Nutrice e di tutti coloro che si trovavano a tiro dei suoi dispetti. Perché il Regno d’Argento non cadesse un giorno nelle mani del malvagio Granduca, Zaffiro cresceva senza conoscere le piccole grandi gioie che fioriscono nell’animo femminile

 


Image and video hosting by TinyPic









_____________
Note!

- Grazie alla mia Pamina71 per la revisione del francese nel frontespizio! (spero di non aver fatto io ulteriori errori, gosh!)
Mi sono stati d'ispirazione alcuni frontespizi storici delle opere di Perrault e altri, risalenti alla fine del Seicento, inizi Settecento. Esempio:


Barbin

(I racconti delle Fate di Madame D**(D’Aulnoy), ill. di P. G. Eugene Staal, Paris, Claude Barbin 1698)

- I Didot furono una famiglia di stampatori parigini che fece la storia della tipografia europea. Dal 1789 la stamperia passò a Pierre e Firmin Didot, fratelli, figli di François-Ambroise. Mi risulta che furono loro a stampare la seconda serie degli assegnati, una sorta di banconote cartacee nate in corrispondenza alla vendita dei beni del clero, la cui emissione incontrollata portò in pochi anni la Francia rivoluzionaria all'inflazione.

- Istruzioni di lettura. Questa fanfiction, come è scritto nell'introduzione, è una specie di gioco: va letta come se fosse un oggetto, un libro, che vi potrebbe capitare tra le mani se viveste negli anni Novanta del Settecento, a Parigi o ad Arras, nel mondo immaginario dei racconti di Rivoluzione. Dopo queste prime pagine, ossia frontespizio, prefazione e cornice, saranno aggiunti altri capitoli di tanto in tanto (la pubblicazione sarà occasionale), corrispondenti alle puntate de La principessa Zaffiro di Osamu Tezuka, e che vanno interpretati come le diverse fiabe del libro. Ne potete già trovare una, la XIII, in tema con questa giornata! Nella finzione i disegni del libro sono di Loulou, ma nella realtà sono, ovviamente, del "Dio dei manga" Tezuka, che adoro.

- Il mio crossover con La Principessa Zaffiro è iniziato con la mia piccola long L'aria e il vino, al capitolo 9 (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3563265), che si incastra tra Rivoluzione-Ashiteru e Rivoluzione-Hikari to Kage. Come avevo accennato in quell'occasione, ci sarebbe stato modo di riprendere quello spunto, e questa fanfiction si propone proprio di continuarlo e approfondirlo. L'occasione mi è stata data dal contest in amicizia "A white rose for Christmas", rassegna di racconti, disegni e immagini sul tema Lady Oscar, promossa dal gruppo "La rosa di Versailles/Lady Oscar e André"; l'iniziativa è partita ieri, 23 dicembre, e si concluderà domani, il 25. Natale è un giorno speciale per tutti i fan della nostra Oscar, non c'è neanche bisogno di dirlo, e questo è il mio personalissimo regalo per chi capita tra le mie pagine e regala un po' del proprio tempo ai miei racconti. Una nevicata, anzi, una valanga di rose bianche a voi!!

Cuore di rose bianche






Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** XIII. Il castello delle rose ***



XIII.


Il castello delle rose


 

Un giorno di primavera, Zaffiro si annoiava terribilmente. Provò a svagarsi preparando uno scherzo a Garigorì, il Ciambellano, che con le sue clessidre tormentava tutti i cortigiani gridando “È tardi! È tardi!”: per lui, era sempre tardi! Così Zaffiro preparò un secchio pieno d’acqua, lo appese sopra la porta e lo legò accuratamente alla maniglia: attese un poco e, finalmente, sentì la voce stridula di Garigorì lungo il corridoio: “È tardi, Principe! È tardi!”.

La porta si aprì, e… ecco! Il povero Ciambellano finì zuppo fradicio!
Zaffiro si tenne la pancia per le gran risate; ma davanti all’occhiataccia di Garigorì le passò la voglia di scherzare. C’era poco da fare, era il momento di passare in rassegna le truppe, e Zaffiro si adeguò, suo malgrado, a quella nuova noiosissima funzione. Salì in sella al suo Opale e osservò i soldati sull’attenti, pronti a obbedirle al minimo cenno; ben presto non le piacque nemmeno tutto quell’onore, e stava per trattenere l’ennesimo sonoro sbadiglio, quando vide che il ponte levatoio era abbassato!

Zaffiro non ci pensò due volte: incitò Opale e si diede al galoppo, e presto fu lontana anche dai rimproveri di Garigorì. Era una giornata meravigliosa: il sole del mattino svelava tra i prati tocchi di fiori, i sentieri del bosco erano luminosi e popolati di uccelli canterini, e non sembrava possibile incontrare alcun pericolo. Quand’ecco che, all’imboccare della strada per il confine meridionale del regno, le venne incontro un drappello di soldati armati, guidati nientemeno che dal Granduca Geralamon, suo zio, e il suo viscido tirapiedi, il Barone Neelon.

– Salve, Altezza – disse il Granduca. – Dove state andando?

– Non sono affatto tenuto a dirlo a voi – replicò Zaffiro, sprezzante.

– Come volete, – rispose il Granduca, – spero solo che non abbiate in mente di andare nella Valle del Sud…

– Perché non posso andare là?

– Ci sono spesso frane, è pericoloso.

– Lo terrò presente! – concluse Zaffiro, e ripartì al galoppo di Opale.

Nemmeno a dirlo, la principessa decise che sarebbe andata proprio là dove le era stato detto di non andare; così infatti sono i ragazzi, quando si vieta loro qualcosa. Avrebbe potuto incontrare una frana, si dirà; e invece, cammina cammina, la Valle le apparve in tutto il suo splendore, con limpide sorgenti e formazioni rocciose che brillavano al sole. Per quanto ve ne fossero di molto alte, Zaffiro non trovò alcun segno evidente di frana. L’unica cosa che le parve strana e triste, fu di trovare nelle acque del fiume una scia di rose appassite, che galleggiavano debolmente alla corrente; decise così di indagare, e andò oltre.

C’era un comodo sentiero che costeggiava la collina più alta, alla cui sommità sorgeva un antico castello che pareva disabitato. Opale non ebbe difficoltà in quella salita, perché non era ripida. Ma cosa avrebbe detto Zaffiro se invece di salire in cima fosse rimasta ai piedi del colle, e avesse visto cosa accadde dopo? Il Barone Neelon, infatti, la stava spiando; e non appena Zaffiro fu salita in cima, ecco le pareti rocciose disfarsi: non come una frana normale, non cadde nessuna roccia; c’erano, invece, dei teli enormi che coprivano l’interno del colle. Il pendio era finto! Sotto i rivestimenti fittizi il colle nascondeva una serie di grotte, dentro le quali erano state posizionate catapulte e cannoni di lunga gittata. Erano puntati verso il confine Sud, oltre il quale si stendeva il pacifico Regno d’Oro. Il Barone Neelon gettò un grido:

– Sciocchi! Non siamo noi, il Granduca non c’è! Coprite immediatamente le feritoie!

E così fu fatto. I soldati al servizio del perfido Granduca azionarono un complicato sistema di carrucole, e pian piano i tendoni che proteggevano le grotte furono di nuovo intatti. Da lontano, nessuno avrebbe mai potuto dire che il colle nascondesse un simile segreto…

Ma torniamo a Zaffiro. Appena raggiunta la cima del colle, lei e Opale si trovarono proprio di fronte al castello; il portone sembrava socchiuso, e la principessa pensò di entrare a curiosare. Ma il cavallo non ne voleva sapere. Si imbizzarrì e si impennò più volte, mettendo Zaffiro in seria difficoltà: la cosa era tanto più strana, se si pensava a quanto coraggio avesse sempre dimostrato quel bianco destriero, e quanto affetto portasse alla sua padrona. Invece, quella volta arrivò perfino a disarcionarla!

Mentre Zaffiro giaceva per terra, stordita dalla caduta, sentì nell’aria un forte profumo di rose. Aprì gli occhi e vide chino su di sé un bellissimo giovane, dall’aspetto parecchio misterioso. Era alto e magro, e la fissava con enormi occhi a mandorla, verdi come un prato rigoglioso. Era verde anche la casacca che indossava, con grandi maniche a sbuffo a forma di foglie. Il giovane, inoltre, aveva capelli bianchi come la neve e un sorriso malinconico sulle labbra. Zaffiro si intimorì un poco.

– E voi chi siete? – gli chiese.

– Voi vi chiamate Zaffiro, non è vero? – le disse il giovane dai capelli bianchi.

– Esatto, e sono un Principe! – ribatté lei.

Il giovane stette un poco pensieroso. – Siete un vero Principe?

– Certo… – disse di nuovo lei, anche se di fronte all’insistenza del giovane misterioso cominciava a temere.

– Forse ci rivedremo ancora. – disse lui, tutto d’un tratto. – Ora vogliate scusarmi.

Non l’aveva nemmeno finito di dire, che il giovane era sparito; al suo posto era rimasto nell’aria un fortissimo profumo di rose.

 

Quella notte, mentre Zaffiro dormiva nella sua camera, qualcuno bussò alla sua porta. Una carrozza bianca era riuscita a entrare nel cortile del castello d’Argento, e tutti i guardiani dormivano profondamente: ai loro piedi erano state gettate rose bianche. Zaffiro balzò in piedi, afferrò la sua spada e gridò:

– Chi va là! Venite avanti!

La porta della sua stanza si aprì, e un uomo dai capelli bianchi, più anziano del giovane misterioso, si inchinò.

– Vengo a prendervi, Altezza, per portarvi al Castello delle Rose.

– Che nome magnifico per un castello!

E così Zaffiro salì sulla carrozza bianca.

La notte era limpidissima; la luna sembrava un disco d’argento perfetto, come fosse uno dei gioielli indossato dalla Regina sua madre; e Zaffiro sentiva sempre e soltanto odore di rose, mentre fuori dalla carrozza si snodava il paesaggio del mattino, quello che conduceva alla Valle del Sud. Quando però si affacciò, vide che il paesaggio era del tutto cambiato. Sotto un cielo oscuro, che nemmeno la luna riusciva a rischiarare, brillava un castello meraviglioso, fatto di torri alte e sottili; era talmente ricco che Zaffiro, che pure viveva in un palazzo reale, non ne aveva mai visto uno uguale.

La carrozza si fermò davanti ai cancelli, che erano ornati di file e file di rose, e la fanciulla fu invitata a scendere. Una scala saliva verso il portone del castello, con statue antiche di marmo a fare la guardia ai preziosi gradini.

Image and video hosting by TinyPic

Zaffiro era sbalordita. Si voltò per chiedere alla sua guida dove fosse, ma l’uomo era sparito, e con lui la carrozza e i due cavalli bianchi. Nello stesso momento, i cancelli si spalancarono, e i roveti che ostruivano il passaggio si ritrassero come vivi, per permetterle di passare. Zaffiro si fece coraggio e salì la scala, fino al portone.

Sopra il portone del castello, erano scolpite due rose intrecciate tra loro: una bianca, l’altra rossa. La bianca indicava la destra; la rossa era rivolta a sinistra. E quando Zaffiro arrivò sotto quelle effigi, anche il portone si spalancò per lei. C’era un grande atrio, sormontato da un’ampia volta azzurrina; i pavimenti erano di marmo, e in fondo all’atrio si formava un laghetto interno, con due piccoli moli. A ciascun molo erano attraccate due rose… o meglio, due grandissime rose che galleggiavano sulle acque, come se fossero barche. Zaffiro si avvicinò a quella di sinistra, la grande rosa rossa; ma una voce l’ammonì di scegliere la rosa bianca. Zaffiro ubbidì, salì sui petali accoglienti del fiore e ne fu avvolta; allora quella barca singolare iniziò a muoversi sulla corrente, e la condusse sotto la volta stellata del salone. "Un posto incantevole", pensava Zaffiro, "il pavimento è un lago e il soffitto sembra un cielo", dove fontane a forma di rose dorate facevano sgorgare cascate di luci.

Lungo il percorso di Zaffiro si pararono molti veli, lunghi come tende; e anche quelli furono schiusi da edere gentili, che si animavano al suo arrivo come creature vive e dotate di intelletto. Era attesa, decisamente; qualcuno la aspettava in fondo al lago del castello, e la fanciulla era impaziente di scoprire chi.

Infine, l’ultimo velo si sciolse, e comparve una porta ornata di rose bianche. Quando si aprì, Zaffiro vide, dall’altra parte… esatto, proprio il giovane dai capelli bianchi che aveva incontrato al mattino. Questi la salutò, con la massima cortesia e un profondo inchino:

– Benvenuto, Altezza.

– Ah! Siete voi – disse Zaffiro, e gli si avvicinò.

– Sì. Io sono il Duca delle Rose Bianche. – rivelò il giovane.

– Posso chiedervi perché mi avete fatto venire qui?

– È presto detto – disse il Duca delle Rose Bianche, triste – Parecchi secoli fa, i miei avi costruirono la dimora che vedete. La gente del mio casato ha sempre vissuto qui, una generazione dopo l’altra. Ma da qualche tempo qualcuno sta cercando di mandare via me e la mia famiglia. Io vi scongiuro, Principe Zaffiro, dateci una mano, cercate voi di aiutarci! Noi non vogliamo abbandonare la nostra antica dimora! Purtroppo, non potremmo vivere in nessun altro posto.

– E chi sarebbe questa indegna persona che sta cercando di mandarvi via?

– È il Granduca Geralamon!

Il Duca delle Rose Bianche si inginocchiò davanti a lei, le prese le mani e le rivolse un’accorata supplica.

– Promettetemi il vostro aiuto!

– Su, fatevi coraggio… Dannato Granduca! – sbottò Zaffiro, pensierosa. – Va bene. Ve lo prometto.

In quel momento, si udì un tuono. Nel salone comparve un altro giovane: bellissimo, aveva abiti rossi intessuti di striature nere e folti ricci castani, ma i suoi tratti erano meno gentili di quelli del Duca delle Rose Bianche e i suoi occhi, per quanto simili all’altro per colore e forma, erano cupi e ostili. Portava tra le mani una gabbietta.

– Sta’ a sentire, fratello, – disse al giovane dai capelli bianchi – io non mi fido di questo Principe.

– Potresti essere più cortese, fratellino – disse il Duca delle Rose Bianche, e si rivolse a Zaffiro. – Perdonatelo, Principe. Questi è mio fratello, il Duca delle Rose Rosse.

– Ho pensato al nostro problema. – disse il Duca delle Rose Rosse. – Per conto mio sono stanco di vivere in questa terra dove non crescono che erbacce, perciò propongo di lasciarla al Granduca Geralamon!

Il Duca delle Rose Bianche si infuriò con il fratello. – Oseresti tradire la memoria dei tuoi avi e la terra che ti ha dato i natali?

– Di’ ciò che vuoi, ma a me non importa niente! Ho già deciso di dare questa terra al Granduca! Noi ce ne andremo dove non ci saranno tutte queste erbacce, e staremo meglio!

– Sei uno sciagurato!

Il Duca delle Rose Rosse credeva di essere il più nobile di tutti e non gli importava nulla di chi era più umile. Il Duca delle Rose Bianche, al contrario, amava tutti i suoi compagni, e non li avrebbe lasciati soli di fronte al pericolo. Anche se erano fratelli, non potevano esserci al mondo creature più diverse; e ben presto vennero alle mani, pronti entrambi a sguainare la spada per far valere le loro ragioni.

Zaffiro non aspettò un minuto. Si frappose tra loro, gridando: – Smettetela di litigare, siete fratelli!

– Altezza – l’apostrofò il Duca delle Rose Rosse – voi fareste bene a non ficcare il naso negli affari nostri, o raccontiamo in giro il vostro segreto!

Zaffirò impallidì.

– Fratello, è davvero meschino rivelare i segreti altrui! – replicò il Duca delle Rose Bianche.

– Non me ne importa niente, – gridò il Duca delle Rose Rosse – tanto lo conosci anche tu il segreto del Principe! A noi è stato concesso il potere di scoprire tutti i segreti degli esseri umani!

– Di quale segreto state parlando? – disse Zaffiro, mettendo mano alla spada.

– Che siete una ragazza! – l’accusò, inesorabile, il Duca delle Rose Rosse.

A Zaffiro il cuore si fece piccolo, nello scoprire che quel giovane così bellicoso avrebbe potuto facilmente tradirla, e rivelare ai suoi nemici la sua vera identità; ma il Duca delle Rose Bianche prese le sue difese.

– Adesso basta. Anche se sei mio fratello, non posso tollerare che davanti ai miei occhi ci si comporti in modo così vile! In guardia!

E i due giovani incrociarono le spade. Il combattimento fu serrato, e Zaffiro, all’inizio, rimase a guardare piena di timori; ma quando il Duca Bianco ebbe la peggio, e stava per soccombere sotto i colpi del Duca Rosso, sguainò la spada anche lei, e con una poderosa stoccata disarmò l’avversario.

I guai, però, erano appena iniziati. Vedendosi messo alle strette, il Duca Rosso aprì la gabbietta che portava con sé. Da questa uscirono dei calabroni, pronti a pungere la povera Zaffiro e ucciderla. La ragazza combatté con tutto il coraggio che aveva in corpo, ma intorno a lei crebbero roveti aguzzi che le sbarrarono la strada; agitò la spada più veloce che poté, ma i calabroni la braccavano senza pietà: uno di loro riuscì a pungerla al braccio, e Zaffiro perse i sensi.

 

Si svegliò dopo qualche tempo, e scoprì di trovarsi dentro la stanza del suo palazzo, come se non ne fosse mai uscita. Il braccio le faceva male, e notò che era stato avvolto da un sapiente impacco di foglie. Dunque era vero, il calabrone l’aveva ferita davvero, non era stato un sogno; e chi poteva averla curata se non il Duca delle Rose Bianche, dal momento che sentiva sempre intorno a sé quell’aroma soave di petali?

– No, non è stato solo un sogno. – si disse, e si preparò a mantenere la promessa che aveva fatta al bellissimo giovane dai capelli bianchi.

Salì in sella a Opale e galoppò verso Sud finché il sole non fu sorto.

Lì, in cima al colle dove sorgeva l’antico castello, erano in corso alacri lavori di smantellamento. Pietra dopo pietra, i soldati di Geralamon stavano distruggendo le antiche rovine coperte di rose; e nello stesso momento altri uomini falciavano i prati, devastando a un tempo fiori di campo, erba e gramigna, senza alcuna distinzione.

Il barone Neelon e il Granduca Geralamon in quel momento stavano testando la portata delle armi da fuoco nascoste nel pendio del colle, ed erano parecchio soddisfatti. Da una simile postazione sarebbe stato uno scherzo bombardare il territorio vicino costringendolo alla resa. Proprio in quel momento, una sentinella lanciò l’allarme. – Barone Neelon! Sta arrivando il Principe Zaffiro!

Il Barone corse ai ripari. – Soldati! Tutti ai vostri posti per l’Operazione di Mimetizzazione! Non dobbiamo farci vedere!

Furono azionati tutti gli ingranaggi necessari e in pochissimo tempo, come per magia, le grotte furono coperte dai vecchi tendoni e mimetizzate alla perfezione, senza traccia di armi, catapulte o cannoni.

Appena in tempo per l’arrivo di Zaffiro! La principessa fu accolta dal Granduca Geralamon in persona, che cercò di trattenerla.

– Cosa fate qui? – domandò Zaffiro.

– Buongiorno Principe. Ho appena avuto notizia che c’è stata una frana…

– Non vedo frane. Piuttosto, cosa state cercando di fare? So tutto delle vostre malefatte! Voi vorreste cacciare da questo territorio il Duca delle Rose Bianche, che ne è il legittimo proprietario!

Di fronte a quell’accusa, il Granduca apparve molto stupito, e per un attimo anche la sicurezza di Zaffiro vacillò.

– Cosa dite, Principe? In quel vecchio castello non abita nessuno, dovete aver sognato questo vostro Duca delle Rose Bianche.

– Eppure mi era sembrato… – mormorò Zaffiro, e si avviò verso la cima del colle.

– Ben fatto, Granduca – disse il Barone Neelon, comparendo al fianco del suo superiore. – Riuscite sempre a ingannarlo… oh, no!

– Perché gridate! – urlò il Granduca.

– Perché Zaffiro sta salendo per il pendio, e lì sopra stanno ancora lavorando per demolire il castello…

– Idiota! Scoprirà il nostro piano!

E fu proprio così. Una volta in cima, Zaffiro trovò i soldati all’opera. Il castello era ormai sfregiato da colpi di piccone e furti di mattoni. Non era lo stesso che Zaffiro aveva visitato durante la notte, sembrava come al mattino, una dimora in rovina; ma il passato è importante e va onorato, così quella demolizione la fece infuriare come poche volte. Come se non bastasse, nei prati profumati attorno al castello era stata compiuta un’indegna strage di rose e fiori.

– Cosa state facendo! – tuonò Zaffiro ai lavoranti.

– Demoliamo il vecchio castello per costruire una fortificazione più solida – rispose uno degli interpellati.

– Cosa? Una fortificazione? Allora Geralamon sta preparando un attacco al paese confinante! – comprese Zaffiro. – Vi ordino di fermarvi e di non recidere i fiori! Non dovete rovinare questo paese per preparare la guerra, non vi permetto di farlo!

Il Barone Neelon ascoltò l’arringa di Zaffiro ai lavoranti, e vide che tutti loro si fermavano e buttavano via gli strumenti. – Preferisce i fiori alla guerra, quel dannato! – ringhiò. La fortuna, però, fu dalla sua; dai merli delle mura i soldati che erano fedeli al Granduca continuarono la loro opera; dall’alto si staccarono pietre pesanti, che caddero di sotto proprio mentre Zaffiro stava passando di lì .

La frana si abbatté contro la fanciulla e la sbilanciò, facendole perdere l’equilibrio. Cadde dal bordo del colle, rovinando lungo il pendio.

Quando riaprì gli occhi, era tornata la luna abbagliante nel cielo nero, e si trovava nel castello misterioso che aveva visitato durante la notte, vegliata dal Duca delle Rose Bianche.

– Meno male, vi siete svegliato, Principe. – disse il giovane dai capelli bianchi, sorridendo con dolcezza. Poi le mostrò il salone. – Se vi guardate intorno, vedrete i miei compagni sconfitti dal Granduca.

Il salone luccicante, infatti, era diventato un lazzaretto. Vi giacevano in ogni angolo uomini e donne feriti e stanchi. Molti di loro trovavano sollievo in grandi tinozze piene d’acqua limpida; altri venivano annaffiati dai compagni più in forze, e si rinvigorivano così.

– Come mai versate acqua sulle loro ferite? – chiese Zaffiro.

– L’acqua è la migliore medicina, per noi.

Zaffiro notò che per molti era così. Ma proprio accanto a loro un uomo lanciò un lamento, e sotto gli occhi addolorati del Duca delle Rose Bianche si tramutò in fiore e appassì…

– Ho capito. – disse Zaffiro, rattristata. – Allora voi tutti siete gli spiriti dei fiori.

– È così. Siamo gli spiriti dei fiori della Valle del Sud. Io sono lo spirito della Rosa Bianca, e i miei sudditi sono erbacce e fiorellini di campo. Abbiamo preso sembianze umane per parlare con voi e chiedervi aiuto. Molti di noi sono calpestati ogni giorno dal Granduca Geralamon e all’assurda ambizione di fare la guerra.

Zaffiro non aveva bisogno di altre parole. – Chiamate a raccolta tutti i fiori! Dobbiamo fare qualcosa!

A quelle parole, nella sala rimbombò lo squarcio di un fulmine, e comparve il Duca delle Rose Rosse.

– Principe Zaffiro, ascoltate bene. Io, spirito della Rosa Rossa, ho deciso di stabilirmi nella dimora del Granduca. Lì mi godrò la pace del suo giardino assolato.

– Come potete dire questo? – lo rimproverò Zaffiro. – Non vi importa di quello che succederà agli altri?

– Se le erbacce saranno distrutte, avrò più terra per me!

– Traditore!

Zaffiro era furiosa. Si scagliò contro il Duca Rosso con la spada sguainata, ed ebbe inizio un nuovo combattimento. Non c’era nessuno che potesse tenere testa a Zaffiro, nemmeno le spine della Rosa Rossa. Lo spirito perse la spada, ma aveva ancora un asso nella manica: erano i suoi terribili calabroni, che si avventarono su Zaffiro con l’ordine di pungerla a morte.

La fanciulla li affrontò per la seconda volta, col cuore che le batteva forte dal terrore. Ma quando si vide incalzata in modo irresistibile, e i calabroni stavano per posarsi sul suo esile corpo, chiuse gli occhi. Prese un gran respiro e ascoltò il loro ronzare, facendosi guidare solo da esso. Attese fino all’ultimo istante, poi… colpì. Uno dei calabroni cadde a terra, diviso in due.

A quella vista, lo spirito della Rosa Rossa dovette ricorrere alla sua ultima speranza. I calabroni lasciarono stare Zaffiro per riunirsi davanti al loro padrone. E pian piano, ronzando in cerchio, crearono una tremenda magia. Si trasformarono, sotto gli occhi orripilati di Zaffiro, in un calabrone tre volte più grande di lei.

Contro un nemico simile non c’era speranza. D’un tratto, Zaffiro si sentì tirare per un braccio. Era lo spirito della Rosa Bianca, che la traeva in salvo sulla sua candida carrozza!

– Dobbiamo fuggire! – gridò il giovane dai capelli bianchi. – Tenetevi forte!

Ma nonostante la corsa velocissima della carrozza, il calabrone era sempre più vicino. Volava con un ronzio assordante, mentre dietro di lui lo spirito della Rosa Rossa lo incitava, lanciato all’inseguimento in sella a un nero destriero. – Uccidi Zaffiro!

La luna era sparita dal cielo. Tutto intorno era buio, e tutto il Regno dei Fiori era immerso in una tempesta di fulmini. La discordia tra le due Rose aveva creato, purtroppo, anche questo effetto; non bastava la guerra di Geralamon, che veniva dall’esterno; il mondo tremava perché due fratelli erano arrivati a combattere tra loro.

Uno dei fulmini, all’improvviso, si abbatté sulla carrozza guidata dallo spirito della Rosa Bianca, e colpì anche il calabrone e l’inseguitore, lo spirito della Rosa Rossa. Zaffiro fu sbalzata a terra per l’ennesima volta. La carrozza prese fuoco insieme al corpo mostruoso del calabrone, mentre i due giovani, feriti e svenuti, giacevano al suolo; sotto gli occhi attoniti di Zaffiro, mutarono in due bellissime, profumatissime rose.

Allora in quel regno sorse l’alba. Lentamente, la lontana sagoma del castello prese un’altra forma, e Zaffiro si rese conto che il Castello delle Rose era, in realtà, il vecchio castello sopra il colle, anche se il tempo l’aveva portato in rovina e non vi si ravvisavano più gli antichi fasti. C’erano come due mondi: uno magico, dove gli spiriti dei fiori avevano voce e corpi, e uno umano, dove le sembianze dei fiori erano quelle che lei aveva sempre conosciuto, e il loro unico linguaggio era fatto di colori e profumi. Quando nel mondo magico dei fiori sorgeva il sole, nel mondo umano questo tramontava.

Zaffiro cercò Opale. Anche il bianco destriero la stava cercando. Tutti erano andati via, forse credendola morta, o almeno sperandolo. Invece non solo Zaffiro era viva, ma era pronta a mantenere la sua promessa allo spirito della Rosa Bianca.

Tornò al suo palazzo più in fretta che poté. Lì corse subito agli appartamenti del Granduca Geralamon e vi entrò di furia, piena di amarezza.

Che sorpresa per lei, quando lo trovò in compagnia dello spirito della Rosa Rossa! Il giovane era malconcio, indubbiamente debole e ferito, ma negli occhi verdi recava una luce determinata, e il Granduca Geralamon sembrava parecchio contento di quella visita.

– Principe, che combinazione. – la salutò, sogghignando. – Questo ragazzo mi stava raccontando qualcosa di molto strano… qualcosa che riguarda voi.

Zaffiro fece un passo indietro, spaventata.

– Già. Questo ragazzo mi stava appunto dicendo che sarebbe disposto a testimoniare in pubblico che voi, Principe… siete una ragazza! E state pur certo che lo farà, a meno che… su, giovanotto, ditemi le vostre condizioni.

Lo spirito della Rosa Rossa chinò il capo, triste e dimesso; estrasse dalla casacca una rosa rossa cui erano rimasti pochi petali spiegazzati e la porse al Granduca. – Siccome non posso vivere più a lungo, vorrei che piantaste questa rosa nel vostro giardino, cosicché la mia famiglia possa sopravvivere.

A quelle parole il Granduca strabuzzò gli occhi, come se non avesse sentito bene. Poi, vedendo che l’altro non scherzava affatto, anzi, lo fissava con supplichevole dolcezza, diventò rosso di collera. Agitò il fiore in mano e inveì contro il giovane. – Che razza di richiesta è questa?! Comincio a credere che mi stiate prendendo in giro! Non sapete chi sono io? Io sono il fratello minore del Re della Terra d’Argento, nonché ministro della guerra e di polizia! E dovrei piantare nel mio giardino questo misero fiore? – così dicendo, scagliò la rosa rossa per terra e la calpestò.

Lo spirito della Rosa Rossa lanciò un grido terribile, come se fosse stato trafitto a morte. Cadde per terra, e con le ultime forze si trascinò verso quel fiore. Prima che potesse toccarlo, però, gli si chiusero gli occhi; e morì. Il suo corpo svanì poco a poco come nebbia.

Il Granduca, costernato, si gettò sulla rosa rimasta al suolo. – Dove diavolo è sparito il mio testimone?!

Zaffiro strinse i denti e si fece forza, anche se una grande commozione si stava facendo strada nel suo cuore.

– Granduca, esigo spiegazioni per la fortezza della Valle del Sud.

– Principe… ho costruito quella fortezza per difendere questa terra, cioè il vostro Regno!

– Otterrò da mio padre il permesso di distruggerla. Questa terra non ha bisogno di fortezze.

E così dicendo, Zaffiro uscì a testa alta dagli appartamenti del Granduca. Il suo amico, lo spirito della Rosa Bianca, la aspettava fuori e le sorrideva radioso. Lei gli corse subito incontro.

– Mio caro Duca, almeno voi state bene!

– Certo. Che cosa è successo a mio fratello?

Zaffiro chinò il capo, senza trovare le parole. Gli porse la rosa quasi sfiorita. Il giovane comprese, la raccolse e si rattristò.

– Ora capisco. Purtroppo, era inevitabile…

– Fatevi coraggio, caro Duca. Vi prometto che distruggerò quella fortezza, e voi e i vostri sudditi potrete vivere felici.

 

Zaffiro mantenne la promessa. Da quel giorno in poi, la Valle del Sud diventò il paradiso dei fiori. Ce n’erano d’ogni tipo, profumo e colore; ma più nobili di tutti, fragili e imperiose come regine, erano le rose; e tra tutte le più fragranti, le rose bianche.

 

 

 

 

 

 

Image and video hosting by TinyPic

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_____________

Note.

- Soggetto e dialoghi vengono dalla puntata 13 dell’anime della Principessa Zaffiro, con piccoli ritocchi e variazioni con cui l’ho personalizzata. Per un fan di VnB c’è un intero mondo di rimandi da scoprire, e ricordo molto bene il mio stupore e la mia gioia quando l’ho (ri)scoperta! Per esempio, pensiamo a una certa sigla di apertura giapponese, che canta:
"Se io fossi un fiore senza nome
Che cresce in mezzo ai campi
Mi accontenterei di ondeggiare
Investita dal vento
Ma sono nata con il destino delle rose
un destino di gloria e passione
le rose, le rose appassiscono in bellezza..."

- Questa storia partecipa alla rassegna A white rose for Christmas (vedi primo capitolo)!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3602677