Sunshine

di Pleasantville
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


SUNSHINE


-Prologo

Da bambini è tutto diverso. Hai delle aspettative che non ti sembrano mai troppo esagerate o assurde, tanto che se ti chiedono dove ti vedrai tra 10 anni si risponde senza neanche pensarci "Andrò sulla luna!" o "Sarò presidente degli Stati Uniti!". Tutto sembra possibile. Il problema è dopo, quando cresci e ti accorgi che non è poi così facile, che la vita cerca di fregarti in qualche modo, di farti lo sgambetto, e che tu devi essere abbastanza abile nel prevederla e non farti mettere nel sacco. Che alla gente non importa di te, non importa quanto potenziale hai e dove potresti arrivare, non ti regalerà niente nessuno. E se riesci o se qualcuno sarà buono con te, ci sarà sempre un secondo fine sotto in cui tu partecipi ignaro, magari pensando "Oh, finalmente qualcuno mi sta aiutando" e in realtà quella persona sta aiutando soltanto se stessa. Quando cresci ti scontri con la realtà ed è lì che muoiono i sogni, in quel preciso istante.
Io, dal canto mio, non ho mai preteso molto. Ho capito come funzionavano le cose da molto prima, diciamo dal giorno in cui ho emesso il mio primo vagito. Non appartenevo a quella cerchia di bambini con famiglie perfette, i vestiti sempre nuovi e ben stirati, così come non mi appartenevano le loro aspirazioni. Se qualcuno avesse chiesto a me cosa volevo fare da grande non avrei mai risposto "L'austronata" o "La ballerina". A dir la verità non sapevo cosa volevo diventare, ma all'età di 5 anni sapevo già benissimo cosa non volevo diventare; spiegarlo all'insegnante o ai compagni di classe, però, sarebbe stato complicato e noioso, così a quella domanda puntualmente rispondevo con "Lontano da casa", perché era così che mi vedevo da grande. Già, lontano da casa, con un lavoro, non importava quale, mi bastava essere indipendente.
Fu così che appena mi diplomai, a 18 anni, lasciai casa. Avevo solo uno zaino con le mie cose essenziali e qualche dollaro in tasca, sufficienti forse per passare un paio di notti in qualche motel e permettermi qualche pranzo in un fast food. Da qualche parte dovevo pur iniziare, mi dicevo. Se volevo andare lontano, se volevo cominciare a vivere davvero e cercare di far qualcosa di buono, iniziare col lasciare casa, che di buono non lo era mai stata, mi sembrava la cosa più sensata. Certo, all'epoca non potevo immaginare che presto sarei diventata tutto ciò che per anni avevo odiato, da cui stavo scappando e credevo di starmi lasciando alle spalle per sempre.
Così nasce la mia storia: un susseguirsi di scelte sbagliate, tristezza, attimi di gioia infita e speranza. Il mio percorrere un cammino pieno di ostacoli e vicoli ciechi, cercando di trovare alla fine il più bel panorama che si possa dire d'aver mai visto.
Perché questa in fondo è solo la storia di una ragazza qualunque, dall'inizio buio e dal finale incerto. Una ragazza che dovrà farsi strada a pugni, nonostante tutto, nonostante tutti, contro i pregiudizi di una società e le difficoltà che la vita ha deciso di imporle.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Guardavo l'olio scoppiettare sul fondo della padella, in attesa di ricevere le uova e poi il bacon che con il suo grasso avrebbe alimentato quell'ira bollente. Quella era la colazione, ma non di ogni mattina, era la colazione degli avvenimenti speciali. Quel giorno, infatti, era il mio compleanno. Non che me ne importasse qualcosa, non che mi rendesse felice, anzi tutt'altro: mi ricordava che un altro anno era passato e che io invecchiavo. Quella mattina mi ero svegliata con i miei 24 anni appena scoccati. Certo, ancora non potevo definirmi vecchia. Ero nel fiore della mia giovinezza, ma non sarebbe durata per sempre ed io, nel frattempo, non riuscivo a combinare nulla di buono.
Sentii dei passetti pesanti precipitarsi verso l'angusta cucina. Cucina... si, bè: un piano cottura che ormai aveva visto decisamente tempi migliori e che ringraziavo ogni giorno per permettermi di cucinare qualcosa, quattro armadietti di cui la metà quasi sempre vuoti e uno privo di anta, mentre i cardini delle altre superstiti erano un continuo cigolio. Un tavolino tondo, con un piede più corto degli altri tre, così che usavo delle vecchie riviste per non farlo traballare, ed infine due sedie. Il tutto circondato da una tristissima, quanto vecchia carta da parati a fiori, che un tempo forse dovevano essere rosa, ma ora erano solo un accumulo di grigio. Insomma era una cucina, lì si mangiava e si cucinava, non era di certo delle migliori e delle più belle, ma era la mia cucina.
Il resto della casa si manteneva sullo stesso livello: c'era un bagno dalle odiose mattonelle azzurre, di cui molte crepate; un piccolo soggiorno con un anonimo divano a due posti, una poltroncina costellata da bruciature di sigaretta e una TV obsoleta per i tempi moderni che correvano, ma ancora funzionante ed era ciò che contava; infine la camera in cui dormivo insieme al mio ometto, che puntualmente la riempiva con i suoi giochi.
Arrivò nel suo pigiamino azzurro tempestato di macchinine, una mano a stropicciarsi ancora gli occhi assonnati, i capelli castani spettinati. Alzò la testa e mi guardò con gli occhioni verdi, come se tutto d'un tratto il sonno fosse svanito, poi sorridendomi si avvicinò ed io istintivamente mi abbassai < Buon Compleanno, mamma! > trillò dandomi un bacio sulla guancia e buttandomi le mani al collo.
< Grazie, tesoro > risposi, ricambiando l'abbraccio.
Lui era Liam, mio figlio. Aveva 5 anni ed in quella casa vivevamo solo io e lui. Il padre, Ed, ci aveva lasciati quando aveva solo un anno. Ed era uno stronzo, il problema era che l'avevo capito troppo tardi. L'avevo conosciuto una sera, poche settimane dopo essere andata via di casa. Avevo trovato un lavoretto saltuario come cameriera in un pub; quando la cameriera effettiva era impossibilitata ad andare, chiamavano me. Fu così che la sfortuna si era abbattuta su di me. Quella sera c'ero io e lui era lì, a bere una birra con i suoi amici. Pensai che era un bel ragazzo, ma nulla di più, se non che prima di andarsene si era avvicinato. Mi fece dei complimenti, niente di volgare, anzi fu molto educato e carino, poi mi lasciò la mancia insieme al suo numero di cellulare. La sera seguente lo chiamai per uscire. Mi sentivo sola e volevo un amico, qualcuno a cui affidarmi. Peccato che di lì a poco mi innamorai: Ed era un così bravo ragazzo, mi dava sicurezza, era premuroso, gentile, mi faceva sentire come se contassi qualcosa. I primi mesi del nostro fidanzamento furono felici, poi però, quando scoprii di essere incinta tutto cambiò radicalmente. Ed non voleva impegnarsi a trovare un lavoro, trascorreva le notti al pub a ubriacarsi e quando tornava a casa era facilmente irritabile. Il giorno dormiva o stava davanti alla TV, mentre io incinta andavo a lavorare ovunque per cercare di portare qualche soldo a casa e non farci sfrattare per l'ennesima volta. Quello era stato un pessimo periodo: ero depressa, stressata. Ero scappata da casa mia per trovare qualcosa di meglio e invece ero finita nella stessa situazione, mi ero fatta ingabbiare come un'idiota e stavo per mettere alla luce una povera creatura che sarebbe stata il mio riflesso da bambina; sempre arrabbiata, triste perché la mia famiglia era un disastro e adesso stavo creando un altro disastro di famiglia.
Fu così che Liam nacque prematuro, a sette mesi. Quel giorno ero a lavoro, facevo la donna delle pulizie presso un motel che si affacciava all'inizio dell'autostrada. Perlopiù i clienti erano camionisti di passaggio che trascorrendo la notte lì, si portavano qualche prostituta, lasciando il caos il mattino dopo. I crampi mi colpirono all'improvviso. Ricordo di non aver provato tanto dolore fisico in vita mia. La mia fortuna fu una collega che sentì le mie urla e che mi portò d'urgenza in ospedale. I seguenti due mesi furono l'inferno in terra: passavo le giornate da sola, accanto all'incubatrice di Liam, ad osservarlo piccolo, fragile com'era, che pure nel sfiorarlo avevo paura di fargli male, mentre mi dicevo di aver fallito come madre già prima di aver iniziato.
Ed non venne neanche una volta a vederlo e quando tornavo a casa non perdeva occasione per rimproverarmi, per dirmi che lo trascuravo, che ero esagerata, ma in realtà a lui interessava solo che qualcuno gli preparasse la sua dannata cena.
Neanche quando Liam fu a casa, in quell'anno prima che Ed se ne andasse, fu un buon padre. Quando andò via tirai un respiro di sollievo, fu la cosa migliore che potesse fare. Non lo aveva voluto fin dal primo momento, non nutriva nessun tipo d'attaccamento paterno nei suoi confronti, quindi era meglio che ci lasciasse soli. Meglio non l'avesse avuto sin dal principio un padre, che vedere quella presenza lì, girovagare per la casa, ignorandolo. Lo sapevo, l'avevo vissuto sulla mia stessa pelle.
Da allora vivevamo in un tugurio di casa e mi si stringeva il cuore non poter dare a Liam una casa più grande, in cui avrebbe avuto una camera tutta per sé. Per il resto, però, cercavo di dargli il meglio che potevo permettermi, di non fargli mancare nulla, soprattutto dal punto di vista affettivo. Cercavo di essere una madre e un padre al contempo.
Misi la colazione in un piatto di ceramica bianco dal bordino blu e lo servii a Liam che già si era seduto.
< Buon appetito > gli dissi.
< Tu non mangi? > mi chiese prima di addentare un pezzetto di bacon.
< Ho già fatto colazione prima > mentii. In realtà non avevo mangiato nulla. A casa c'era ben poco di cui cibarsi e quel poco l'avevo dato a lui. Io potevo sopravvivere senza colazione.
< Quando hai finito và subito a vestirti. Non posso far tardi a lavoro di nuovo > lo esortai.
Già, il lavoro...
Facevo la commessa full time in un supermarket, spesso con straordinari che non mi venivano retribuiti, mentre lo stipendio era una miseria. Per arrivare a fine mese facevo i salti mortali. Oltre al fatto che il mio capo era un vero stronzo! L'essere più viscido e tirchio che se ci fosse stata una gara del tipo "Il più tirchio dell'anno" avrebbe vinto lui il primo posto e non solo quello, ma anche tutte le edizioni a venire fino al giorno della sua morte.
Odiavo quel lavoro, ma non potevo lasciarlo. Non avrei trovato altro. Difficilmente offrivano un lavoro decente ad una ragazza madre.
Ed era difficile scontrarsi ogni giorno con la realtà. Avere la consapevolezza di dover accantonare i propri sogni, di non poter provare a realizzarli perchè ormai non c'eri più solo tu, ma c'era un'altra vita che dipendeva totalmente dalla tua, dalle tue scelte. Dovevo accontentarmi, non importava più ciò che provavo io, ora contava solo quello che provava Liam.

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