The young redhead

di MadAka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***



Capitolo 1
*** I ***


 

 

 

La pioggia scendeva copiosa da ore e secondo le previsione metereologiche avrebbe continuato ancora per giorni. Uscendo dalla fermata della metropolitana la ragazza sollevò il cappuccio e aprì immediatamente l’ombrello allo scopo di evitare anche la più insignificante delle gocce d’acqua.

La stazione di Baker Street era sorprendentemente trafficata, per motivi che lei non riusciva a comprendere. Doveva ancora abituarsi all’aria di Londra, così come al suo caos perenne, alla moltitudine di persone presente ovunque, al clima di insicurezza che aleggiava delicato ma costante nei luoghi più affollati.

Superato l’ingresso della stazione ed evitata la folla maggiore, la ragazza e il suo ombrello giallo proseguirono lungo Baker Street con passo insicuro per i cinque minuti che separavano la metropolitana dal numero 221B.

Appena ebbe raggiunto il noto indirizzo si bloccò, osservando la facciata e la porta d’ingresso oltre l’ombrello. Ripensò mentalmente a quello che avrebbe dovuto dire; aveva preparato un discorso che secondo lei poteva funzionare, eppure ogni volta che tentava di ripeterlo qualcosa cambiava e, soprattutto, le sembrava perdere di senso. Respirò a fondo, eliminò l’aria in eccesso e si abbassò il cappuccio. I capelli mossi, gonfi, rossi come ciliegie, le scivolarono sulle spalle del cappotto nel momento esatto in cui lei prendeva forza e colpiva la porta con il battente.

Aspettò un po’, sempre sotto la pioggia, con il cuore che le martellava contro il petto e la convinzione di non avere un’argomentazione sufficientemente valida a suo favore. Oltre quell’ingresso c’era Sherlock Holmes, qualsiasi cosa lei avrebbe potuto dire quell’uomo l’avrebbe sicuramente passata ai raggi X e resa traballante. Sapeva il suo modo di lavorare e sapeva anche alla perfezione che, quasi sicuramente, sarebbe stata allontanata da quell’indirizzo con un nulla di fatto.

Finalmente la porta si aprì. Davanti a lei comparve Mrs. Hudson, che aveva già avuto modo di intravedere alla televisione o sui giornali – oltre ad aver letto di lei sul blog di John Watson.

La signora la guardò, sorrise e chiese: «Hai bisogno di qualcosa?»

I suoi modi parvero immediatamente garbati alla ragazza. Era come l’amabile proprietaria di casa, quella che fa trovare il tè sempre pronto e ripiega sul caffè nel caso fosse rimasta senza. Tuttavia il suo cuore non ne voleva sapere di calmarsi, benché ad aprirle non fosse stato l’uomo per cui era andata fin lì.

«Ehm, sì, grazie. Mrs. Hudson, giusto?»

Attese il cenno affermativo della donna prima di ricominciare a parlare: «Mi chiamo Emily, Emily Price. Sono qui perché… ehm…»

La sua argomentazione cominciò a vacillare fin da subito. Come si poteva spiegare senza troppi problemi il perché lei era lì? Come poteva fare a illustrare a una signora come Mrs. Hudson quello che aveva intenzione di fare? Cercò di riordinare in fretta i pensieri e ci stava quasi riuscendo quando la donna si accorse che la sua interlocutrice era ancora sotto l’acqua.

«Oh, vieni dentro cara. Sta piovendo proprio forte. Entra, possiamo parlarne in casa mia.»

Fece accomodare Emily, che la ringraziò mentre chiudeva l’ombrello e lo posava accanto alla porta. La ragazza lanciò un’occhiata alle scale che procedevano verso il primo piano, immaginando Sherlock Holmes salirle, il cappotto lungo, suggestivo, ondeggiare a ogni gradino.

«Per di qua.»

Sentendo la voce della donna si ridestò dai suoi pensieri e seguì la signora Hudson fino alla sua cucina, piccola ma accogliente, sedendosi al tavolo, su indicazione della donna.

«Cosa ne dici se ti preparo un po’ di tè?»

Emily la guardò, piacevolmente colpita da quelle premure. Si sentiva umida per colpa della pioggia ed era anche piuttosto infreddolita, tuttavia non voleva abusare della cortesia di quella signora.

«Ah, no, non serve, la ringrazio» disse.

Mrs. Hudson parve non dar peso a quelle parole. Prese una tazza e vi versò dentro del tè appena fatto, lasciando al colino il compito di filtrarne le foglie.

«In casa mia c’è sempre del tè pronto» rivelò alla ragazza, strizzandole l’occhio.

Emily le sorrise, ispirando l’aroma che saliva dalla sua tazza. Rifiutò il latte e bevve subito un sorso di tè nella speranza di sentirsi rinvigorire. La signora Hudson si sedette di fronte a lei, la sua tazza fra le mani e diede una lunga occhiata a Emily prima di chiederle: «Sei qui per parlare con Sherlock, immagino.»

C’era una nota di affetto nel modo in cui lei pronunciava il nome del detective. La ragazza si sentì rincuorata dall’accoglienza che la donna le stava riservando. Tuttavia erano tornati alla conversazione iniziale, ovvero al perché lei si trovava lì in quel momento, al numero 221B di Baker Street.

«Sì, esattamente» cominciò Emily, cercando di capire da che parte le conveniva iniziare a spiegare la situazione alla sua interlocutrice. Decise di cominciare dal principio: «Vede, Mrs. Hudson, mi sono trasferita a Londra solo poche settimane fa. Mi sono laureata in criminologia e sono venuta fin qui per poter conseguire un master sempre in questo settore.»

La signora Hudson la guardò, sorpresa e incuriosita. «Fin qui da dove?»

«Newport.»

«Ho capito. Ma, tutto questo cosa c’entra con Sherlock? Per caso hanno ucciso uno dei tuoi professori?»

Emily la guardò confusa per un momento, aggrottando leggermente la fronte. Fortunatamente Mrs. Hudson non se ne accorse, troppo intenta a sorseggiare il suo tè.

«No, niente del genere. I miei professori stanno tutti bene. Perché… uno di loro sarebbe dovuto morire?»

La donna sollevò le spalle. «Oh non lo so. Altrimenti perchè avresti bisogno di parlare con Sherlock?»

Quella frase spiegò molte cose a Emily, come il fatto che, con tutta probabilità, ogni estraneo agli occhi della signora Hudson che entrava in quella casa lo faceva esclusivamente per portare lavoro a Sherlock Holmes, e anche sulla spiegazione del motivo per cui, nelle storie di John Watson, la donna parlava sempre tanto poco. Faceva tenerezza, ma non si poteva ignorare il fatto che fosse piuttosto ingenua.

«Ho bisogno di parlare con lui per i miei studi. Il master» precisò infine, a seguito dell’occhiata dell’altra. Capì che non sarebbe servito a molto continuare su quella strada e decise di arrivare subito al punto: «In poche parole, voglio scrivere la tesi di laurea per il mio master su Sherlock Holmes.»

Si zittì, in attesa di una reazione. Mrs. Hudson la guardò un momento, prima di dipingersi un’espressione dispiaciuta in volto, cosa che rese immediatamente incerta Emily.

«Ma cara, c’è già John che scrive di Sherlock.»

«Oh, no, no. Non voglio scrivere dei casi che risolve. Voglio scrivere della sua psicologia.»

«La sua psicologia?»

«Sì, esatto» replicò subito la ragazza, sentendosi rinvigorita. «Mrs. Hudson, io ho studiato psicologia criminale. Sono in grado di riuscire a comprendere e analizzare il modo in cui ragionano certi criminali. Anche il signor Holmes riesce a fare questo e ci riesce mille volte meglio di me. La sua mente è incredibilmente evoluta, lavora come un computer, forse addirittura meglio. È la sua psiche ad affascinarmi ed è di questa che vorrei studiare, di cui vorrei parlare nel mio master. Vorrei cercare di capire in che modo il suo cervello riesce ad assorbire ed elaborare in così poco tempo molteplici informazioni, di come riesca ogni volta ad analizzare la moltitudine di scenari che gli si parano davanti e di come sia in grado di trovare la soluzione giusta al problema. Ho affrontato la psiche criminale, ora vorrei affrontare quella dell’eroe. È per questo che sono qui.»

La sua interlocutrice rimase in silenzio per un po’. Emily bevve un altro sorso di tè nella speranza di alleviare quella strana atmosfera.

«Dovresti parlare con Sherlock di questa cosa, io non è che ne capisca molto» disse infine la signora Hudson.

«Lui non c’è, quindi?»

«No. È uscito questa mattina presto e non è ancora tornato. Ma non pranza quasi mai a casa, quindi non mi sorprende.»

Emily annuì leggermente con il capo, segnandosi in testa questa informazione.

«Perciò,» riprese la signora Hudson, «se vuoi studiare la mente di Sherlock dovrai venire qui spesso.»

La ragazza puntò immediatamente lo sguardo su di lei, con improvviso interesse. Erano giunte alla seconda parte del suo discorso, quella che le avrebbe dato il più importante dei suoi biglietti: quello per andare, o per restare.

«Sì» cominciò, cercando le parole migliori. Aveva già capito che girare intorno all’argomento non sarebbe servito, perciò decise di non farlo. «So che il signor Watson non vive più qui e che, quindi, c’è una stanza vuota.»

«Eh, già. John adesso vive con Mary. Credo che Sherlock ne abbia sofferto parecchio anche se si rifiuta di darlo a vedere.»

Emily segnò un altro appunto mentale a riguardo. Tuttavia si rese conto che la signora Hudson non aveva abboccato all’amo e, nuovamente, preferì dirle tutto subito.

«È stato il signor Holmes a informarmi della cosa. Della camera libera, intendo.»

«Sherlock? Credevo non lo conoscessi.»

«Infatti è stato Mycroft.»

«Ah, conosci Mycroft?»

Mrs. Hudson parve improvvisamente interessarsi alla cosa, notò Emily sorridendo.

«Già. È più corretto dire che lui ha conosciuto me. Quando sono arrivata a Londra con l’intenzione di scrivere su Sherlock Holmes non sapevo bene come muovermi. Mycroft, in un modo o nell’altro, è riuscito a sapere dei miei progetti e mi ha informato che al 221B di Baker Street Sherlock non aveva più il coinquilino, che viveva da solo e che quindi c’era una stanza libera. Mi ha anche detto che se dovesse servirmi aiuto con l’affitto mi avrebbe potuto dare una mano lui, purché tenessi d’occhio suo fratello.»

Sentirsi pronunciare quelle parole le fece uno strano effetto, ma mai come quello che le provocò la signora Hudson quando dimostrò di aver ignorato completamente tutta la faccenda chiedendole solo: «Vorresti trasferiti qui?»

Emily annuì. «Se c’è la possibilità, sì. Significherebbe stare a stretto contatto con l’argomento della mia tesi, riuscire a…»

Non terminò la frase. Mrs. Hudson scosse la testa. «Oh, cielo, vivere con Sherlock.»

Emily si preparò al classico discorso sul fatto che una ragazza non dovrebbe vivere sotto lo stesso tetto di un uomo, specie se sconosciuto e così via, ma a quanto pareva i discorsi convenzionali non erano il genere della donna che aveva davanti in quel momento.

«Dovresti vedere in che condizioni riduce sempre casa sua. Nel frigorifero ci sono pezzi di corpo umano.»

Emily inclinò leggermente la testa, prendendosi un nuovo appunto mentale.

«E il disordine, non ti dico. Sai che non mi permette nemmeno di spolverare? “La polvere parla”, dice, e non posso toccargliela.»

La donna era in procinto di continuare ancora quando, fuori dalla porta, si sentirono dei rumori. L’ingresso di Baker Street era appena stato aperto e richiuso e il rumore di passi lungo le scale non lasciavano adito a dubbi.

«È tornato. Ti conviene parlarne con lui. Ma io te lo sconsiglio» le sussurrò Mrs. Hudson.

«Mi sconsiglia cosa?» domandò Emily, improvvisamente preoccupata.

«Di trasferirti qui. Non fa bene ai nervi, credimi.»

La ragazza si alzò, lasciando il tè non ancora finito sul piano del tavolo. Seguì la signora Hudson lungo le scale, sentendosi sempre più insicura. Cominciò ad agitarsi molto più di prima, di quando era in strada davanti all’ingresso della casa. Contò i gradini, ascoltò il loro cigolio sommesso mentre li percorreva uno dopo l’altro. Arrivati in cima, davanti alla porta lasciata aperta, Mrs. Hudson bussò un paio di volte contro lo stipite.

«Si può, Sherlock?»

La donna entrò nel piccolo soggiorno, seguita dalla ragazza. L’uomo era in piedi davanti al camino, di spalle.

«È una cliente?» chiese all’improvviso, senza voltarsi.

Emily non rispose, fu la signora Hudson a farle capire che il detective parlava con lei.

«Non esattamente» disse poi la ragazza, quando ebbe capito che era compito suo dare la risposta.

A quelle parole Sherlock Holmes si voltò. Il loro primo contatto visivo fece fremere completamente Emily. L’uomo era di poco più basso di come se lo era immaginato, ma rimaneva il fatto che era decisamente più alto di lei. I capelli spettinati, scuri, facevano risaltare i limpidi occhi celesti, striati di verde, fissi sul volto di Emily.

Lei lo sapeva. Sapeva alla perfezione che quegli occhi chiari la stavano scandagliando alla ricerca di dettagli, informazioni utili, ogni possibile cosa che potesse svelare la sua presenza in quella stanza. C’era dell’interesse nel viso di Sherlock e lei intuì che doveva essere nato nel momento esatto in cui aveva dato la sua prima risposta.

«Lei dev’essere la ragazza con l’ombrello giallo1» affermò poi l’uomo.

Emily sorrise, annuendo.

«Mrs. Hudson di solito in queste circostanze si offre del tè» riprese a dire Sherlock, senza smettere di guardare Emily, mentre lei era troppo affascinata all’idea di vedere Holmes in azione per sentirsi a disagio dal modo in cui lui continuava a scrutarla.

«Gliel’ho già servito» lo informò la signora Hudson.

«Mi riferivo a me, infatti. Del tè, per favore.»

La donna si avviò lungo le scale borbottando qualcosa di molto simile a un “Per l’amor del cielo”, lasciando Emily da sola nella stanza con Sherlock.

«Galles, eh?» chiese lui.

La ragazza sorrise. «Esattamente.»

«Di dove?»

«Newport.»

«Avrei detto Cardiff.»

«Ho studiato là, in effetti.»

Sherlock distese leggermente le labbra. Invitò Emily a sedersi sul divano, cosa che la ragazza fece guardandosi intorno.

«Non ci siamo presentati» le fece notare Sherlock appena lei si accomodò.

«Mi chiamo Emily Price, Mr. Holmes.»

«E a cosa devo la sua presenza qui?»

«La prego mi chiami Emily. Odio tutta questa formalità, mi fa sentire vecchia.»

L’uomo acconsentì con un rapido cenno, ma prima che potesse fare altro la signora Hudson ricomparve nel soggiorno, il vassoio con il tè per Sherlock fra le mani. Lui si servì, infine si sedette sulla sua solita poltrona, mescolando accuratamente il contenuto della sua tazza.

«Dicevi?» incalzò poi la ragazza. Lanciò un’occhiata a Mrs. Hudson per farle intendere di lasciarlo solo con Emily, dopodiché tornò a concentrare la sua attenzione sulla giovane.

«Vuole sapere perché sono qui, quindi» esordì lei, cercando di mettere in fila le parole nel modo migliore.

«Non ci trovo niente di male. Sei a casa mia e penso che sia tuo dovere informarmi del perché.»

Emily respirò a fondo, cercando di riordinare le idee. Sapeva che quel gesto non era sfuggito al detective, ma non gli diede peso. Ricominciò dal principio. Spiegò a Sherlock della sua laurea in scienze criminologiche e della sua intenzione di conseguire un master lì, a Londra. Arrivata al punto cruciale si fermò di colpo, sentendosi improvvisamente in imbarazzo. Sherlock l’aveva osservata in silenzio per tutto il tempo; aveva sorseggiato un po’ il tè, poi l’aveva posato e aveva congiunto le mani davanti alla bocca. Emily lo aveva guardato fare tutto ciò con inquietudine sempre crescente e, con molta probabilità, tutto quello aveva contribuito notevolmente a renderla improvvisamente insicura.

Rimase in silenzio alla ricerca delle giuste parole. Il detective non le diede il tempo di trovarle, però.

«Perciò tu sei qui perché vuoi che ti aiuti a conseguire il master? Che ti dia una mano, magari parlandoti dei miei casi?»

Il tono della sua voce era serio, il suo volto impassibile. Emily lo guardò a lungo cercando di capire cosa si nascondesse dietro quell’apparente maschera di indifferenza, ma non riuscì a individuare un granché.

«No. Non voglio scrivere dei suoi casi, né di qualcuno degli assassini che ha aiutato a far arrestare» rispose lei, con sicurezza.

Quelle parole parvero confondere il detective. Abbassò le mani e sollevò un sopracciglio. «Allora di cosa vorresti parlare?»

«Di lei.»

Sherlock si bloccò, sorpreso. Schiuse le labbra ma non disse nulla; si puntellò con i gomiti sulle ginocchia, tornando a congiungere le mani.

«Di me» disse poi, come a soppesare le parole. «Mi risulta strano credere che tu non sappia che c’è già John Watson a farlo. Pare che il suo blog nutra di un notevole successo.»

Emily si strinse nelle spalle, con tranquillità. «Certo che conosco il suo blog. Lo seguo anche, se è per questo. Ma, come le ho già detto, non sono qui con l’intenzione di usare i suoi casi. Io vorrei poter scrivere di lei Mr. Holmes, della sua mente e del perché la sua psiche è in grado di elaborare una tale quantità di informazioni con simile rapidità e con una percentuale di esattezza costantemente elevata.»

«Spirito di osservazione e un buon intelletto. Se si impara a osservare e non solo a guardare si possono capire molte cose» replicò Sherlock, asciutto.

«Sappiamo benissimo entrambi che c’è molto di più » disse Emily, guardando Sherlock con improvvisa sicurezza. Era certa di aver scatenato il suo interesse, lo aveva intuito dal modo in cui il suo volto si era fatto più serio e il suo sguardo aveva cominciato a rimanere fisso nei suoi occhi. Era perfettamente a conoscenza, inoltre, che le prossime parole pronunciate da entrambi sarebbero state le più importanti.

«Hai detto di aver scritto la tua tesi di laurea sulla psicologia criminale, giusto? Su cosa, esattamente?» chiese Sherlock, senza apparente motivo.

«Ho analizzato la mente di alcuni dei più noti serial killer della storia. Da Jack lo squartatore fino ai giorni nostri, includendo anche Jim Moriarty.»

Emily lasciò cadere la frase, nella viva speranza che la cosa scatenasse una qualsiasi reazione nel suo interlocutore. Sherlock, infatti, strinse appena gli occhi sentendo il nome della sua nemesi e tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, cosa che la ragazza intese come un leggero disagio; quando non si è perfettamente padroni di sé significava che qualcosa ha turbato la proprio serenità.

«Moriarty non si può definire esattamente un serial killer. Non agiva mai direttamente, dava semplicemente agli altri gli strumenti necessari per mietere vittime» disse piano il detective.

«Ciò però sottintende che, se avesse voluto, lui avrebbe potuto essere a capo di ciascuno di quei delitti. Commissionarli, diciamo così, a qualcun altro non implica obbligatoriamente che lui non li abbia ideati.»

Prese una pausa, guardando attentamente l’uomo. «Una mente brillante, la sua. Per quanto insana, era assolutamente geniale.»

Emily si zittì, non sapendo come altro proseguire. Non c’era molto da aggiungere a quello che già aveva detto; non possedeva cose che le avrebbero garantito il libero accesso al numero 221B di Baker Street. Lodare la nemesi di Sherlock Holmes era stato il suo jolly, quello che l’avrebbe fatta vincere o l’avrebbe distrutta.

Fra i due calò il silenzio, che si propagò lungo e sospeso nella stanza. Sherlock continuava a tenere i propri occhi fissi su Emily mentre lei, consapevole che qualunque cosa stesse pensando l’uomo di certo non avrebbe potuto impedirglielo, prese a guardarsi intorno, soffermando lo sguardo con più attenzione sui soprammobili della stanza e sui dettagli della carta da parati. Dopo quella che le parve un’eternità il detective inspirò a fondo, accavallò le gambe e tornò a rivolgersi alla ragazza: «Dunque, Emily. Ammetto che mi hai incuriosito. Vuoi scrivere di me, quindi, della mia mente» disse, picchiettando un paio di volte con l’indice la propria tempia. «Potrebbe essere interessante.»

La ragazza spalancò gli occhi, sorpresa. «Sta dicendo che mi permetterà di farlo?»

«Sì» rispose lui, quasi annoiato.

Emily ebbe un’esitazione, una leggera incertezza. Come si ringraziava uno come Sherlock Holmes? Di certo non era uno da abbracci, ma strette di mano?

«Non so come ringraziarla, dico davvero» si decise a dire infine.

Sherlock sollevò una mano, senza dare importanza alle sue parole.

«Avrai bisogno di venire qui spesso» le fece notare lui.

«Beh, so che Watson non abita più qui. C’è…» ebbe una leggera indecisione, «c’è una stanza libera, no?»

Sherlock la guardò attentamente, fece lavorare il suo cervello in fretta, come da abitudine, dopodiché disse: «Questo appartamento non è esattamente a buon prezzo. Spero per te che Mycroft voglia aiutarti adeguatamente e pagare la tua parte d’affitto se decidi di restare.»

«Come sa di Mycroft?» domandò Emily, realmente sorpresa ora. Sapeva perfettamente di non aver accennato al fratello di Sherlock nemmeno una volta e benché il suo interlocutore fosse il famoso detective, le sembrava ugualmente impossibile che riuscisse a risalire a una tale informazione. Tuttavia l’uomo non si scompose. Sollevò impercettibilmente un sopracciglio e riprese a parlare: «Non sono molti quelli che sanno che John non abita più qui da un po’. Mycroft è uno di questi e sono piuttosto certo che per lui la studentessa intenzionata a scrivere la tesi su Sherlock Holmes fosse la più indicata a tenere sotto controllo il suo fratellino. Conclusione? Lui ti ha messo in testa l’idea di trasferirti qui, ma lo ha fatto in modo tale che tu ti convincessi che fosse un’idea totalmente tua fin dal principio, ed eccoti.»

Fece una breve pausa. «Perciò dimmi, si è offerto di pagare la tua metà dell’affitto?»

La ragazza lo guardò a lungo, sconvolta e sorpresa dalla capacità analitica di quell’uomo. Vederlo in azione le metteva i brividi e la intrigava al tempo stesso.

«Sì, lo ha fatto» rispose infine.

«Bene, ottimo. Questo potrebbe essere positivo anche per me. Ho diverse spese ultimamente che stanno prosciugando le mie finanze più del dovuto» disse Sherlock, rivolgendosi più a se stesso che alla ragazza. «Immagino tu sia abituata a vivere con degli uomini in casa, non dovresti sentirti troppo a disagio a trasferirti qui, sbaglio?» chiese poi.

Emily aggrottò la fronte, guardando Sherlock sempre più sorpresa. «Come lo sa?»

«Cosa?»

«Del fatto che vivo con degli uomini.»

Sherlock sollevò le spalle, con indifferenza. «Oh, beh, si capisce. Innanzitutto il tuo atteggiamento, il modo in cui ti sei seduta sul divano e il fatto che non hai mantenuto gli occhi esclusivamente su di me mi fanno capire perfettamente che sei abituata ad avere uomini intorno, persone che ti hanno permesso di acquisire una certa disinvoltura con l’altro sesso, quindi non fidanzati, no, qualcuno che hai più vicino, il padre, ma non solo, perciò hai dei fratelli, due almeno. Da cosa capisco che sono fratelli? Il tuo orologio. Stona completamente con il tuo look, con quella camicia e quei jeans non avresti mai messo un orologio con il cinturino in plastica e probabilmente non lo indosseresti effettivamente mai, eppure lo hai indosso in questo preciso momento e a giudicare dai graffi del quadrante e da quanto sia rovinato il cinturino vuol dire che tendi a indossarlo spesso, forse sempre. È impossibile che te lo abbia regalato una ragazza, ma un uomo, un uomo sì che potrebbe sbagliare così bene quello che voleva essere un presente importante. Potrebbe essere un regalo del tuo ragazzo, vero, ma non lo è, così come non può essere di tuo padre, che avrebbe certamente speso di più per un orologio da donare alla figlia. È più probabile che sia un regalo di uno dei tuoi fratelli, forse anche perché un ragazzo non lo hai. Ti sei traferita da Newport a Londra solo per un master, chi ha una relazione non farebbe un simile gesto, né tantomeno andrebbe a convivere di punto in bianco con un uomo più grande di lei. Se ti senti di farlo è perché non hai simili legami, hai una certa sicurezza e perché sai come comportarti con un uomo di cui non conosci il carattere. Quest’ultima cosa è proprio dovuta la fatto che hai avuto intorno maschi adulti a sufficienza per sapere come comportarti, quindi si torna alla questione iniziale: gli uomini in casa tua. Devono essere più di uno, perciò solo il padre e il fratello non bastano, quindi dico che di fratelli devi averne almeno due, ho indovinato?»

Emily rimase in silenzio, sorpresa. Aveva appena visto Sherlock Holmes in azione e non riusciva a crederci. Quell’uomo era sorprendente, non avrebbe saputo definirlo in modo diverso e gliene aveva appena dato la dimostrazione. Sorrise, eccitata come non si sentiva da tempo. Finalmente aveva incontrato qualcuno in grado di scatenare il suo interesse, e non uno qualunque, ma l’uomo per cui era venuta fino a Londra, l’uomo di cui avrebbe voluto scrivere e parlare.

«Incredibile, dico davvero» si complimentò.

Sherlock parve non fare caso al complimento. «Allora, ho indovinato?»

«Quasi. I fratelli che ho sono tre, io sono la figlia più piccola quindi sì, so cosa vuol dire avere degli uomini più grandi intorno e so come comportarmi con l’altro sesso, usando le sue parole.»

«Tre! Maledizione, avrei dovuto capirlo.»

Emily era sul punto di dirgli che non avrebbe potuto capirlo, ma lasciò perdere, limitandosi a sorridere nuovamente. Guardò l’uomo un momento e gli chiese: «Perciò, Mr. Holmes…» cominciò, ma lui non la lasciò finire.

«Sherlock» precisò.

Emily acconsentì, lievemente stupita. «Perciò… Sherlock… ho libero accesso al 221B di Baker Street?»

Il detective si alzò di scatto dalla poltrona, come se si fosse improvvisamente annoiato della conversazione. Afferrò il cappotto – il suo elegante cappotto, osservò Emily – e lo infilò in fretta.

«La signora Hudson ha una copia delle chiavi, chiedila a lei. Ti mostrerà sicuramente anche la stanza. Non stare ad ascoltare quello che dice sul disordine o presunti resti umani nel frigorifero, per favore. Fino a prova contraria questo appartamento è casa mia.»

Si avviò verso l’ingresso, mise la mano sul pomello della porta, poi parve ripensarci e tornò a rivolgersi alla ragazza: «Sarebbe grandioso se Mycroft ti desse in anticipo la tua metà dell’affitto di questo mese, diglielo stasera quando gli racconti cos’è successo. A più tardi.»

Non aspettò una risposta. Si chiuse la porta alle spalle e uscì di scena, lasciando Emily basita sul divano di quello che era appena diventato, in parte, il suo primo appartamento londinese.

 

 

 

 

Note:

1 la ragazza con l’ombrello giallo: sono piuttosto certa che quasi tutti abbiate compreso il riferimento. Nella mia vita – finora – ho amato realmente solo tre serie tv: Sherlock, Scrubs e How I met your mother. Quest’ultima è una delle mie preferite e mi ha letteralmente aperto il cuore. L’ho semplicemente voluta citare attraverso l’ombrello giallo, un po’ il simbolo di tutta la serie tv.

 

 

 

_______________

Ciao Sherlockian!

Ringrazio quanti di voi hanno letto questo primo capitolo di un mio nuovo lavoro. So che iniziare a pubblicare una fan fiction su Sherlock a cinque giorni dall’uscita della quarta stagione potrebbe essere un’idea da fuori di testa – più che altro perché, conoscendomi, so già che poi vorrò tanto inserire cose relative proprio alla quarta stagione – ma non ce l’ho fatta. Al momento sono presissima dalla stesura di questo racconto e non sono riuscita a resistere alla tentazione di ripresentarmi qui, su Efp.

A ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Essendo nuova nel fandom e non avendo mai scritto nulla del genere ci sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto. In quel caso vi prego di farmelo sapere, saprò farmene una ragione.

MadAka

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Capitolo 2
*** II ***


 

 

 

Erano trascorsi quattro giorni dal primo incontro fra Sherlock ed Emily e due dall’insediamento di quest’ultima al numero 221B di Baker Street. La ragazza aveva raggiunto Londra con solo un paio di valigie al seguito, per tale motivo le era risultato piuttosto semplice abbandonare il dormitorio in cui aveva temporaneamente prenotato una stanza e trasferirsi nel suo nuovo appartamento. L’idea di convivere con un uomo non la preoccupava più di tanto, al contrario. Era eccitata al pensiero di condividere le stesse stanze di Sherlock Holmes, così come di respirare la sua stessa aria e di averlo sotto gli occhi di continuo, con l’assoluta libertà di poterlo studiare, vederlo in azione e carpire il più possibile della sua psiche.

Quel mattino, intorno alle dieci, la ragazza era accoccolata sul divano, le gambe incrociate, il portatile in braccio. Teneva sotto controllo la piccola cucina di tanto in tanto, senza smettere di ascoltare i suoni prodotti da Sherlock che, con inforcati camice e occhiali, aveva preso dominio della stanza per effettuare alcuni dei suoi esperimenti.

Era bastato poco a Emily per capire che l’uomo con cui aveva deciso di convivere non era quello che si poteva definire esattamente un “tipo convenzionale”. La casa era indubbiamente sua, lo si capiva dai suoi oggetti sparsi praticamente ovunque in ogni stanza – fatta eccezione per la camera della ragazza al piano superiore – così come era evidente che per lui, avere un coinquilino, non implicasse automaticamente il fatto di dover modificare almeno in parte le proprie regole e il proprio stile di vita. Aveva dei modi di fare curiosi, notò fin da subito la ragazza, eppure le piaceva; si poteva dire che fosse unico nel suo genere, qualcuno che non si può incontrare facilmente in giro e che, e questa per lei era la parte più interessante, non fosse affatto semplice da analizzare. In soli due giorni, Emily era riuscita a capire che Sherlock Holmes non era molto ferrato nei rapporti umani e che preferiva circondarsi esclusivamente di poche persone che non lo intralciassero più del dovuto. Una volta capito questo per lei fu facile decidere come comportarsi; era comunque cresciuta con tre fratelli più grandi che erano stati tre adolescenti intrattabili e che necessitavano dei propri spazi e di non avere fra i piedi la sorella piccola, perciò sapeva come stare lontana da qualcuno facendo ugualmente parte della sua vita. Sherlock era come i suoi irascibili fratelli in piena pubertà.

Bevve un sorso di caffè dalla sua tazza – preparato in extremis prima che il detective monopolizzasse la cucina – e riprese a scrivere qualcosa sul portatile quando sentì dei passi salire lungo le scale. Sospettò si trattasse della signora Hudson, ma la velocità con cui stava percorrendo la rampa non era riconducibile alla donna. Si voltò verso l’ingresso nel momento esatto in cui questo veniva aperto, introducendo nella stanza John Watson. I secondi che seguirono quel primo momento furono notevolmente strani, per l’uomo molto più che per Emily.

«Buongiorno Dottor Watson» lo salutò infine la ragazza, sorridendo.

John la guardò basito per un momento, fece scorrere gli occhi sull’abbigliamento di lei – una normale camicetta da donna e un paio di pantaloni neri – e sollevò dubbioso la mano destra in un cenno di saluto.

Subito dopo Sherlock comparve dalla cucina, un vetrino da laboratorio in mano. Sollevò gli occhiali protettivi e osservò l’amico. «Buongiorno.»

Il medico lo guardò, mentre il detective scompariva nuovamente in cucina, dopodiché lo seguì nell’altra stanza. Lo fissò a lungo, in silenzio, indicando brevemente in direzione del soggiorno, dove Emily aveva ripreso a lavorare al pc.

«Sherlock, posso… posso parlarti un momento?» domandò infine John, riacquisendo pieno uso delle parole.

«Non ora, sono impegnato. Devo isolare questa particolare spora fungina evitando di contaminarla» replicò l’uomo, asciutto.

John si guardò intorno. Il caos regnava sovrano e si chiese come sarebbe riuscito l’altro a non contaminare una spora in quel marasma che era la sua cucina. Attese paziente che Sherlock ultimasse la sua impresa e quando questo ci riuscì, invece di complimentarsi, John gli si avvicinò ancora, abbassando ulteriormente il tono di voce.

«Possiamo parlare, ora?» domandò, lanciando veloci occhiate in direzione del soggiorno.

«Sì, possiamo» rispose Sherlock, posando occhiali e vetrino sul tavolo.

Senza troppe cerimonie John afferrò l’altro per il camice, sospingendolo verso la camera da letto di Sherlock e ignorando completamente le deboli proteste che l’uomo sollevò in quel breve tratto di strada.

«Non mi risulta di averti autorizzato a entrare in camera mia» sbottò il detective, sistemandosi il camice.

«Quanti anni ha, Sherlock?» domandò John, fissando serio l’altro da sotto in su. C’era una nota di severo rimprovero nella sua voce, che Sherlock ignorò completamente.

«Chi?» chiese in risposta.

John lo colpì alla spalla. «Non prendermi in giro, hai capito di chi parlo. Ora dimmi, quanti anni ha?»

Sherlock alzò gli occhi al cielo, senza preoccuparsi di farsi vedere dal medico. Alle volte John Watson gli pareva così ottuso da essere irritante.

«Venticinque.»

«Ven…» cominciò l’altro, allontanandosi dal detective e passandosi rapidamente le mani sul volto. «Venticinque, Sherlock? Fai sul serio?» esclamò, mantenendo controllato a fatica il tono di voce.

Il suo interlocutore inarcò un sopracciglio, leggermente infastidito, senza proferire altra parola. Rimase a guardare John che cercava di ricomporsi in fretta, andando avanti e indietro per brevissimi tratti nella stanza. Quando questi parve aver ritrovato una buona parte del suo controllo si stropicciò rapidamente gli occhi con la mano destra, espirò a pieni polmoni e tornò a fissare Sherlock negli occhi.

«Senti, io… posso capire che magari sono successe delle cose che…» esordì, cercando di collegare correttamente pensieri e parole fra loro. «Dopo Janine, immagino che, comunque…» si arrestò. Respirò a fondo ancora una volta e si decise a concludere: «Sei umano, dopotutto, e comprendo perfettamente che tu abbia degli… stimoli.»

Sherlock sollevò entrambe le sopracciglia, ora, decidendosi a parlare. Tuttavia John lo bloccò con una mano.

«Ma questo è troppo anche per te. Ha venticinque anni, Sherlock, venticinque!» urlò infine.

Il detective attese che John smettesse di vaneggiare quell’ultima volta, infine, con il suo consueto tono di chi è alle prese con qualcuno di veramente stupido disse: «Immagino che mantenere un basso profilo non fosse nelle tue intenzioni» gli fece notare, lanciando una rapida occhiata in direzione della porta socchiusa della sua stanza da letto, per far capire all’altro che la sua ultima esplosione non poteva certo essere sfuggita a Emily. «Ora, se vuoi calmarti, ti spiego per quale motivo hai sbagliato ancora una volta.»

«È una cliente?» chiese John, improvvisamente insicuro.

«Neanche. Le tue opzioni sono sempre così limitate, John. È una cliente, se non lo è allora è un’amante.»

«Senti smettila di girare intorno all’argomento. Vieni al punto. Chi è quella ragazza è perché è seduta sul nostro divano?»

«Sul nostro divano?» ripeté Sherlock. Tuttavia appena vide l’espressione dell’amico capì che era meglio arrivare subito al dunque. «Si chiama Emily ed è la mia nuova coinquilina.»

«Coinquilina?» esclamò John, più sorpreso di quanto si fosse aspettato da se stesso. Sapere che Sherlock aveva un nuovo coinquilino, per di più donna e così giovane, lo sorprese più di immaginare il detective alle prese con una relazione sentimentale dispari per età.

Sherlock diede un’ultima, lunga, occhiata a John poi, stancatosi improvvisamente di quella situazione, si avviò per superarlo e uscire dalla camera. Il medico lo fermò: «Fermo, pensi di non dovermi delle spiegazioni?»

Il detective aggrottò la fronte. «Senti, se ti preme tanto sapere perché si è trasferita qui chiedilo a lei. Io ho da fare.»

Conclusa la frase si liberò dalla presa di John e tornò in cucina. L’amico, invece, impiegò più tempo per ricomparire e lo fece solo quando la sorpresa iniziale per quella scoperta – a suo parere assurda – venne metabolizzata a sufficienza dalla sua mente. Tornato in soggiorno trovò Emily nell’esatta posizione in cui l’aveva vista la prima volta, con l’unica differenza che la sua tazza era vuota. La ragazza sollevò gli occhi su di lui e gli sorrise. Anche John le sorrise e andò a sistemarsi su quella che era sempre stata la sua poltrona, rimanendo a fissare a lungo Emily. Quest’ultima si grattò leggermente il naso, infine chiese: «Cosa vuole sapere?»

Lo domandò con voce calma, dolcemente, perfettamente consapevole che la sua presenza al 221B di Baker Street era un quesito enorme per coloro che conoscevano Sherlock Holmes. John si mosse a disagio sulla poltrona, distogliendo lo sguardo. La prima impressione che ebbe della ragazza fu quella di una persona tranquilla, perbene, qualcuno che, effettivamente, aveva davvero poco a che fare con Sherlock. Tornò a domandarsi cosa ci potesse fare lì lei e mentre continuava a non darsi pace per quella situazione non fu in grado di notare Emily che lo fissava con intensità, sorrideva divertita e appurava mentalmente quanto John Watson fosse sorprendentemente simile all’idea che lei si era fatta dell’uomo.

«Mi chiamo Emily Price, sono di Newport» esordì infine la ragazza, cercando di stemperare l’atmosfera. Il medico la guardò, ma ancora non seppe con esattezza cosa dire e ciò diede modo a Emily di continuare: «So che le può sembrare strano che sia venuta a vivere qui, ma le garantisco che ha molto più senso di quanto possa pensare.»

Si accorse che le sue ultime parole avevano completamente catturato l’attenzione di John e lo preso come il giusto pretesto per dirgli per quale motivo era venuta a Londra. Gli disse ciò che aveva già detto a Mrs. Hudson e a Sherlock, ma la reazione del medico fu la migliore che potesse sperare di ricevere. Si dipinse in volto un’espressione ammirata, colpita, come se lei gli avesse appena detto di aver conseguito una laurea in ingegneria aerospaziale. Tuttavia quando gli spiegò che aveva deciso di scrivere la tesi su Sherlock Holmes – motivando di conseguenza il suo trasferimento in quell’appartamento – l’espressione dell’uomo mutò nuovamente, divenendo indecifrabile agli occhi di Emily.

Alla fine la ragazza si zittì e quando lo fece non seppe esattamente quale reazione aspettarsi dall’altro. Rimase in attesa mentre il medico annuiva con la testa, per poi sospirare.

«Emily… posso?» cominciò, sottintendendo la sua intenzione di evitare formalità con una ragazza così giovane. Lei lo autorizzò con tranquillità, esibendo un rapido gesto.

«Tu sai, vero, del manicomio in cui hai deciso di infilarti?» le chiese alla fine, scandendo con cura tutte le parole.

Di risposta Emily lanciò un’occhiata in direzione di Sherlock, ancora nascosto in cucina, sorrise e si strinse nelle spalle. «L’ho intuito, sì. Ma non basterà a fermarmi. Sono cresciuta in mezzo a quattro uomini Dottor Watson.»

«John, per favore» precisò, ricevendo di rimando un gesto affermativo. «E vorrei sottolineare che quegli uomini non erano Sherlock Holmes» concluse, indicando dietro di sé.

Nuovamente la ragazza non si scompose, ma sorrise al suo interlocutore stringendosi per l’ennesima volta nelle spalle.

«Mi fa sentire lusingata il fatto che si stia preoccupando tanto per me, ma non serve. Posso sopravvivere a questo» replicò, indicando la stanza con un ampio cenno.

Rendendosi conto che continuare a insistere non avrebbe portato a niente, John decise di rinunciarvi, acconsentì, si alzò dalla poltrona e raggiunse Sherlock in cucina. Il detective lo guardò un momento. «Sei soddisfatto, ora?» domandò.

John annuì con il capo senza aggiungere altro.

«Come mai qui?» lo incalzò Sherlock poco dopo. John continuava a raggiungere Baker Street abbastanza spesso anche in seguito al suo matrimonio e alla nascita della sua primogenita, ma quella domanda se la sentiva dire ogni volta che rivedeva l’amico, come se Sherlock temesse di sentirsi dare improvvisamente una risposta inattesa.

«Ero di passaggio» rispose il medico, come ogni altra volta.

«Dovresti smetterla di lasciare Mary e la piccola da sole» lo rimbeccò subito l’altro.

«Oh è Mary che mi ha costretto a uscire. Dice che in casa sono insopportabile.»

Sherlock si esibì in un mezzo sorriso sentendo le sue parole e pensando alla donna che le aveva pronunciate.

«Congratulazioni Dottor Watson. Non sapevo fosse diventato padre» giunse dal soggiorno, con la voce femminile di Emily. John si sporse verso di lei, comparendo da dietro la parete.

«John» la corresse. «E grazie.»

L’uomo tornò a rivolgersi verso Sherlock. Era in procinto di dire qualcosa quando sentirono la porta aprirsi e la voce della signora Hudson introdurla nel soggiorno. «Si può, ragazzi?»

John ricomparve nuovamente nella stanza, salutò la signora e subito dopo l’uomo che era insieme a lei: Greg Lestrade.

«Dov’è Sherlock?» domandò Mrs. Hudson, mentre Emily prese a osservare con interesse quella situazione.

Sentendosi chiamato in causa anche l’uomo fece la sua comparsa nel soggiorno, guardò annoiato tutti i presenti, infine sentenziò: «Comincia a essere un po’ troppo affollata questa casa.»

Lestrade non si scompose. Si sistemò meglio il cappotto e chiese: «Sei impegnato ora o possiamo parlare?»

Gli occhi di tutti si spostarono su Emily, che per Lestrade altro non poteva essere se non una nuova cliente del detective; Sherlock, invece, posò i suoi sul becher che teneva in mano. «Possiamo parlare.»

Mrs. Hudson uscì dalla stanza sentendo quelle parole e tornò al piano di sotto, Emily, invece, chiuse il portatile, lo posò sul tavolino che aveva davanti e si mise più comoda sul divano. Né Sherlock, né Lestrade, né Watson si misero a sedere, ma rimasero tutti e tre fra soggiorno e cucina a guardarsi in un triangolo mal organizzato.

«Vorrei che venissi con me. Mi serve la tua opinione per un cadavere» cominciò l’ispettore.

«Se è come quello dell’altra volta risparmiamelo. Ci ho messo due minuti e trentotto secondi a capire come avevano fatto a provocargli quell’emorragia interna» replicò Sherlock.

«Questa volta è diverso.»

«Ogni volta è diverso, Glen» gli fece notare il detective con voce piatta.

Lestrade non si prese neanche la briga di correggere Sherlock per aver sbagliato il suo nome l’ennesima volta. Pensò che una volta terminati tutti i nomi che iniziavano per G avrebbe certo azzeccato il suo. Respirò a fondo e si decise a lasciar perdere, probabilmente non lo aveva trovato in un buon momento. Sollevò le mani in segno di resa e si apprestò a salutare tutti quando lanciò una rapida occhiata in direzione di Emily. Sherlock notò il suo gesto, osservò nuovamente il becher che teneva in mano e qualcosa nella sua mente scattò.

«A ripensarci potrebbe essere interessante» disse infine, posando il becher in cucina e togliendosi il camice. Prese il cappotto dall’attaccapanni e lo infilò, afferrando poi anche quello della ragazza.

Lestrade lo guardò sorpreso. Ormai conosceva Sherlock a sufficienza, eppure i suoi repentini cambi di idea no, quelli ancora non riusciva a spiegarseli.

«Forza, Emi, è ora» continuò Sherlock, lanciando il cappotto in direzione della ragazza e colpendola giusto in faccia. «Questo potrebbe rivelarsi molto importante per il tuo lavoro: la prima uscita sul campo.»

Emily riemerse da sotto il suo cappotto, alzandosi in piedi davanti a un confuso ispettore di polizia. Lui, infatti, la indicò. «Che significa?» chiese, rivolto a Sherlock.

«Significa che ho deciso di venire. Anche John, naturalmente. Noi prendiamo un taxi, lei sale in macchina con te» tagliò corto. Superò Lestrade e scese lungo le scale, lasciando questi visibilmente basito. Emily gli si avvicinò e gli tese la mano: «Emily Price, ispettore. Molto piacere» si presentò sorridendo.

Lestrade le diede la mano e rimase a guardarla mentre seguiva Sherlock lungo le scale. Infine fissò John, nella speranza di ricevere da lui qualche risposta utile.

«Sì, la situazione lascia tutti così» gli disse quest’ultimo, indicando poi la porta e invitandolo ad avviarsi, cosa che l’ispettore fece in modo decisamente incerto.

In strada i quattro si separarono come aveva stabilito Sherlock. Emily salì sull’auto della polizia insieme all’ispettore Lestrade, Sherlock e John, invece, fermarono il primo taxi che passò loro davanti. Una volta montati sull’auto nera dissero al conducente dove andare e si accomodarono per bene nei seggiolini. Per un po’ nessuno dei due parlò, tuttavia, alla fine, John non fu più in grado di trattenersi e decise che quella poteva essere una buona occasione per incalzare Sherlock e costringerlo a dargli qualche informazione aggiuntiva.

«Sii sincero» esordì, senza guardare l’altro. Il detective si voltò appena verso di lui.

«Davvero hai preso quella ragazza a vivere con te solo per via della sua tesi?»

«Dovrebbe esserci dell’altro?» domandò in risposta.

«Oh sì, potrebbe eccome» esclamò il medico.

Sherlock sospirò, rassegnato; alla fine si decise a dare qualche informazione aggiuntiva al suo amico, dopotutto si parlava di John Watson e, come se non bastasse, una parte di sé si sentiva ancora in colpa ripensando a quello che aveva dovuto passare il medico negli anni della sua presunta morte – anche se, dopotutto, in quel lasso di tempo aveva pur sempre conosciuto Mary. Costrinse la sua mente ad arrestarsi e diede finalmente qualche delucidazione aggiuntiva.

«Mycroft l’ha contattata appena ha messo piede a Londra. Inutile dire che sapeva già che lei era intenzionata a scrivere di me e l’ha informata del fatto che a Baker Street c’era una stanza libera. Sono certo che abbia rigirato l’argomento a sufficienza per far credere a Emi che sia stata una sua idea fin dal principio.»

«Emi?» chiese perplesso l’altro.

«Si chiama Emily, no? Lei mi ha detto di chiamarla così. Ti sorprende più questo della storia di Mycroft? Il tuo cervello è davvero un’oasi felice.»

John lo guardò di sbieco. «Mycroft perché lo avrebbe fatto?» chiese, fingendo di non aver sentito la provocazione che gli aveva rivolto Sherlock.

«Per lo stesso motivo per cui ti aveva offerto dei soldi appena saputo che eri diventato mio coinquilino» replicò con ovvietà l’altro.

«Ma Emily è solo una ragazza» esclamò sorpreso.

Sherlock si voltò verso di lui, guardandolo con intensità. «È qui che sbagli. È giovane, certo, ma molto intelligente e capace. È anche per questo che ho accettato di averla per casa: mi ha incuriosito. Sai che appena si è laureata è stata subito contattata dalla South Wales Police? Per via delle sue conoscenze, del suo lavoro di tesi. Voglio davvero vedere che cosa è in grado di mettere insieme su di me, sulla mia mente. Può essere la mia miglior sfida, vedere se esiste qualcuno in grado di decifrarmi nello stesso modo in cui faceva Moriarty.»

John rimase a fissare il detective senza dire nulla, mentre quest’ultimo tornava a rivolgere il suo sguardo sulla strada. Per un lungo istante parve completamente assorbito da qualcosa di invisibile agli occhi e tremendamente pesante.

«E poi avevo bisogno di qualcuno che pagasse per me parte dell’affitto, è questo che Mycroft si è offerto di fare per Emily. Probabilmente lui sapeva che la ragazza mi avrebbe incuriosito al punto di accoglierla in casa mia, per tale motivo ha orchestrato tutto questo teatrino. Anzi, lo conosco, posso affermare con certezza che le cose sono andate così.»

«E non ti disturba?» chiese con curiosità John, perfettamente conscio dei rapporti spesso tesi fra i due fratelli Holmes.

«Assolutamente no. Quella ragazza prepara il tè, non parla troppo e paga metà dell’affitto. Sotto certi punti di vista è una coinquilina migliore di quanto lo sia stato tu» concluse, strizzando l’occhio all’amico, il quale si limitò a sbuffare un po’ d’aria, per poi tornare a ignorare Sherlock, concentrando la sua attenzione fuori dal finestrino.

Quando giunsero a destinazione si ricongiunsero all’ispettore, intento a conversare amichevolmente con Emily. Sherlock li guardò di traverso, soffermando la sua attenzione sull’uomo.

«Vedo che non hai perso tempo» disse, sarcastico.

Lestrade non replicò, ma si zittì di colpo.

«Da questa parte» disse poi, facendo strada agli altri.

Emily si introdusse per la prima volta nel St. Bartholomew's Hospital, in cui Sherlock si recava più spesso. Si guardò intorno lungo i corridoi, memorizzò la strada, osservò attentamente la sicurezza con cui sia Sherlock sia John compivano i propri passi lì dentro, a dimostrazione che in quel posto erano soliti venirci di frequente. Al termine dell’ennesimo corridoio imboccato, mentre Lestrade varcava la porta, Sherlock si fermò, si voltò verso Emily e venne imitato da un confuso John.

«Come te la cavi a contatto con dei cadaveri?» chiese il detective alla ragazza, senza notevole curiosità o preoccupazione.

«Se sei preoccupato possa svenire o cose simili puoi stare tranquillo. Ho studiato alcuni degli omicidi più efferati della storia, posso garantirti di aver visto dei corpi ridotti in maniera a dir poco irriconoscibile» replicò lei, ferma.

«Le immagini di rado sono impressionanti quanto la realtà. Non credo tu possa capire se non hai mai respirato la loro stessa aria.»

«Non mi risulta che i morti siano in grado di respirare.»

Le labbra di Sherlock si incurvarono in un mezzo sorriso, dopodiché, senza dire nulla, tornò a rivolgersi alla porta e introdusse gli altri nella stanza.

All’interno dell’obitorio Lestrade era fermo accanto a Molly, gli occhi fissi sulla soglia da cui i tre avevano appena fatto il loro ingresso. John e Sherlock salutarono Molly, che dopo aver risposto di rimando finì anche lei con l’osservare incuriosita Emily. Sherlock e John si avvicinarono al lettino accanto a cui Lestrade e l’anatomopatologa erano fermi e su cui, al di sotto di un telo nero, era perfettamente percepibile la sagoma del corpo di un uomo.

L’ispettore non attese alcuna parola; sollevò il telo nero e rimase in silenzio a guardare Sherlock che faceva scorrere rapido lo sguardo sul volto del cadavere. Il detective lo analizzò in fretta in un primo momento, come era solito fare, ma poi i suoi occhi si spostarono involontariamente sul viso di Molly, ancora intenta a scrutare dubbiosa Emily.

«Molly, ti presento Emi» disse infine, pensando fosse meglio fare le presentazioni. Si rivolse a Emily: «Lei è Molly Hooper» concluse, tornando poi a dedicare la sua attenzione al cadavere.

Emily strinse la mano a Molly, scandendo silenziosamente il proprio nome per far capire alla donna che lei non era solo “Emi”. Nessuno ebbe tempo di dire altro, Sherlock parlò nuovamente: «Qualsiasi cosa vogliate chiederle, per favore, fatelo quando io non ci sono. Non voglio sentire per l’ennesima volta la storia sul perché lei si è trasferita qui» disse, senza guardare o rivolgersi a qualcuno in particolare.

Nell’obitorio non parlò più nessuno, ma Emily, Lestrade e Molly si scambiarono un’occhiata. John, invece, aveva raggiunto l’amico accanto al lettino e, insieme a lui, stava analizzando il corpo dell’uomo.

«È il giudice Walker» osservò John, appena gli fu accanto.

«Sì, esatto. Mi risulta avesse uno stile di vita sano, dubito abbia avuto un infarto» rispose Sherlock.

«Cosa pensi possa essergli successo?» gli chiese poi il medico.

Il detective si avvicinò ulteriormente al viso del morto, scrutandone il colorito della pelle. «Non è detto che io debba saperlo.»

«Allora perché ti avrebbero chiamato qui?»

Sherlock guardò l’altro, sollevò un sopracciglio, ironico e lievemente lusingato. Alle sue spalle Emily continuava a osservarlo attentamente, catturata; ne studiava i movimenti, la gestualità, il modo in cui sfiorava i particolari, perfino le oscillazioni del suo cappotto. Dentro di lei c’era un’emozione crescente, inestinguibile. Voleva registrare ogni possibile cosa riguardasse il detective per essere certa di non tralasciare neanche la più misera delle informazioni che le sarebbero potute servire per portare a buon fine il suo lavoro. Era convinta – fermamente convinta – che i segreti per riuscire ad afferrare veramente Sherlock Holmes fossero racchiusi nei dettagli, quelli più insignificanti per chi non era in grado di interpretarli.

«È morto affogato» informò improvvisamente Molly.

Sherlock si voltò a guardarla, tornando a erigersi in tutta la sua statura. «Affogato? Quando è successo?»

«Ieri. Il giudice era solito andare a nuotare in una piscina privata prima di recarsi a lavoro» disse Lestrade. «Ha fatto due vasche, alla terza è affogato.»

«Ha avuto un arresto cardiaco per caso?» volle sapere John.

Molly annuì: «Proprio così. L’annegamento ne è stata la conseguenza.»

«Com’è possibile? Avevo incontrato quest’uomo e sono certo che non corresse il rischio di avere infarti» precisò Sherlock, dubbioso ma serio.

«È per questo che ti ho fatto venire qui, Sherlock. Non chiedermi perché ho avuto questa idea, potrei non volerti rispondere, ma ho chiesto a Molly di svolgere specifiche analisi» riprese Lestrade.

«A che pro?»

«Per capire se c’era qualcosa di sospetto oppure no. È comunque un giudice, non godono di buona fama fra molte persone. A ogni modo, gli esami che Molly mi ha consegnato prima che venissi da te confermano che Walker è stato avvelenato.»

«Avvelenato?» domandò John.

L’anatomopatologa acconsentì. «Botulino. È stata la causa del suo arresto cardiaco.»

Sherlock spalancò improvvisamente gli occhi, mentre gli altri, consapevoli, lo guardarono. Quello che il detective si trovava davanti era un omicidio, puro e semplice, eppure in quel delitto era racchiuso interamente il suo più recente passato. A Sherlock parve di essere riportato indietro a solo pochi anni prima, a quando i pezzi di un puzzle complicato avevano cominciato a incastrarsi fra loro con perfezione millimetrica, a quando la sua mente, la sua psiche, erano state spinte talmente al limite da aver sfiorato spazi per lui ancora inesplorati.

«Il grande gioco» mormorò Emily. Lo disse piano, fissando oltre il detective, sul lettino. Tuttavia la sua voce fu sufficientemente chiara da essere percepita alla perfezione da tutti. Sherlock la guardò, serio.

«Lo hai capito» disse piano.

Emily annuì con il capo, mentre il silenzio si era ormai impadronito in modo tetro dell’intera stanza. Fra i presenti aleggiava una consapevolezza impossibile da ignorare, poiché aveva toccato tutti quanti almeno una volta, Emily esclusa. Eppure anche lei lo sapeva, anche lei lo aveva capito. Le era bastato poco per intuire che il decesso di Walker non poteva essere solo una sorprendente coincidenza, ma che racchiudeva dentro di sé qualcosa di ben più grande e tetro. Vi era un legame fra quel nuovo omicidio e uno passato, un legame che tuttora era in grado di azionare ogni ricettore nella mente sempre reattiva di Sherlock Holmes. Quel legame era Jim Moriarty.

 

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Capitolo 3
*** III ***


 

 

 

Quella mattina John raggiunse il 221B di Baker Street intorno alle nove. Aveva spento la sveglia e si era riaddormentato prima di trovare la forza di alzarsi dal letto, cosa che lo aveva portato a essere in ritardo sulla sua tabella di marcia immaginaria.

La sua intenzione di raggiungere il suo ex appartamento era legata principalmente al giorno precedente, a quello che era avvenuto nell’obitorio e a ciò che ne era seguito. Dopo che Molly e Lestrade avevano informato i presenti di ciò che era accaduto al giudice Walker ben poche cose erano rimaste tranquille. Sherlock si era improvvisamente fatto serio, aveva raccolto quante più informazioni possibili e si era allontanato da solo, prendendo un taxi e dirigendosi da qualche parte, probabilmente con l’intenzione di rinchiudersi nel proprio Palazzo mentale il più a lungo possibile. John aveva quindi riaccompagnato a casa Emily – anche lei fattasi improvvisamente seria – solo per appurare che Sherlock non era rientrato nel proprio appartamento. Quando aveva lasciato il 221B due ore più tardi dell’amico non c’era ancora traccia. Non era rimasto sorpreso da quell’atteggiamento, conosceva Sherlock, tuttavia sapeva anche bene che le lunghe assenze dell’uomo erano legate a qualcosa in grado di tenere impegnata la sua mente e non sempre si trattava di un bene. In quel caso, poi, non poteva di certo esserlo. Erano trascorsi mesi dall’ultimo messaggio di Moriarty, dal video che aveva costretto Sherlock a fare ritorno a Londra meno di cinque minuti dopo il suo esilio, e l’omicidio di Walker poteva essere ben più serio e importante di quanto già non fosse.

John superò in fretta la porta d’ingresso, urlò un rapido saluto a Mrs. Hudson, dopodiché salì di corsa le scale ed entrò nel soggiorno di Sherlock. Trovò il detective fermo, seduto sulla sua poltrona, le gambe accavallate, le mani congiunte davanti alle labbra, gli occhi celesti fissi in un punto imprecisato; non spostò neanche lo sguardo quando sentì John e continuò a rimanere impassibile anche dopo. Il medico individuò Emily nella stanza, seduta sul divano con il portatile in grembo, intenta a scrivere qualcosa. Lei salutò l’ultimo arrivato con la mano, sorridendo. John le si avvicinò, sempre fissando Sherlock.

«È così da questa mattina» volle informarlo Emily, guardando il detective. «Quando mi sono svegliata era lì. Gli ho preparato del tè, del caffè, non ha preso niente.»

«È nel suo Palazzo mentale» le rispose John. «Quando avrai imparato a conoscerlo meglio questo suo atteggiamento non ti sorprenderà più. Piuttosto è strano che ti consenta di rimanere nella sua stessa stanza» osservò infine, incuriosito.

«Non gli ho parlato molto, l’ho solo guardato» precisò lei osservando Sherlock con rinnovato interesse. Il Palazzo mentale? Poteva essere ottimo materiale per il suo lavoro.

John acconsentì, perplesso. Trovava Emily sempre più curiosa. Ciò che lo sorprendeva di più era il fatto che la ragazza non pareva mai stupita o infastidita dagli atteggiamenti di Sherlock. Viveva sotto il suo stesso tetto da tre giorni, eppure sembrava già essere completamente assuefatta alle cose che rendevano Sherlock Holmes, Sherlock Holmes. Sotto molti punti di vista Emily si stava dimostrando una persona unica – forse addirittura preziosa.

Accanto a lui la ragazza chiuse il portatile, si voltò verso il medico e chiese: «John posso parlarti un momento?»

«Sì, certo» rispose lui.

«Non qui, però. Possiamo andare in camera mia.»

Si avviò al piano di sopra seguita dal medico. Lo introdusse in quella che per tanto tempo era stata la sua stanza e John poté osservare quanto fosse cambiata. Gli abiti, gli oggetti, la disposizione del mobilio, perfino la luce erano diversi.

«È così diversa da come la ricordavo» si lasciò sfuggire l’uomo, sorridendo.

«Devo ancora finire di sistemarla, ma c’è tempo» rispose lei, strofinandosi le mani sulle cosce, come imbarazzata. Guardò un momento il medico, dopodiché abbassò il tono di voce: «Tu sai cosa prende a Sherlock meglio di me, vero?» domandò dopo aver chiuso la porta della stanza.

«È più complicato di quanto si possa pensare» le disse lui, pensando si riferisse al Palazzo mentale del detective.

«Credimi, so cos’è successo fra lui e Moriarty, lo so molto bene. Ma qui non si tratta di lui, o sbaglio?»

John si bloccò a quelle parole. Prese tempo alla ricerca della cosa giusta dire e, soprattutto, su quanto poter dire.

«Emi è… è complicato.»

«E non posso saperlo, immagino.»

«Tu non sai cos’è successo dopo Magnussen. Dopo quello che ha fatto Sherlock.»

«So che potrebbe essere implicato nella sua morte» gli rivelò la ragazza, calma.

Nuovamente John si zittì, guardando a lungo Emily. Non gli importava sapere di come avesse fatto quella giovane a scoprire la verità, tuttavia una buona parte di lui si chiedeva che cosa avrebbe potuto rivelarle. Era pur sempre una sconosciuta, una ragazza giovane di cui lui sapeva pressappoco nulla. Tuttavia gli tornarono in mente le parole di Sherlock “È giovane, certo, ma molto intelligente e capace”; se il detective, che era in grado di conoscere chiunque anche solo trascorrendovi accanto cinque minuti, si fidava di lei al punto di prenderla nella proprio casa, perché lui non avrebbe dovuto? In fin dei conti l’ultimo con cui Sherlock aveva condiviso l’appartamento era stato lui e sapeva benissimo com’erano finite le cose: per quanto assurda la loro amicizia era innegabile.

«Ok, va bene, vuoi sapere come sono andate le cose? Ti accontento. In fin dei conti lui ha accettato di averti in giro per casa quindi immagino che un po’ di dietro le quinte sia giusto fartelo avere.»

Respirò a fondo prima di riprendere a parlare, sperando con tutto se stesso di non essere in procinto di complicare le cose. «Dopo ciò che è accaduto fra Sherlock e Magnusses, Mycroft ha pensato fosse una buona idea allontanarlo per un po’ da Londra. Lo avrebbe spedito nell’est Europa per qualche mese, poi chissà.»

Fece un’altra pausa, preparandosi a vuotare definitivamente il sacco: «Fatto sta che poco dopo la partenza di Sherlock è arrivato un messaggio, da Jim Moriarty.»

«Un messaggio da Moriarty?»

«Non lo hai visto? Era su ogni singolo schermo televisivo in tutto il Paese» le chiese sorpreso.

«Io ero a Newport1, impossibile che lo abbia visto.»

«Beh, il messaggio era chiaramente rivolto a Sherlock, per questo lui è tornato indietro, per cercare di capire cosa potesse significare. Tuttavia per mesi non ci sono stati altri segnali. Sherlock ha provato a cercarli ma non c’è stato niente, nessun movimento. Fino a ieri. Quel delitto, l’omicidio di Walker, non può essere una coincidenza.»

«John, questo non è possibile. Moriarty è morto» disse lei, fermamente convinta.

«Anche Sherlock lo era, eppure ora è di sotto in soggiorno» cercò di farla ragionare lui.

«Ma Moriarty si è sparato in testa. Ho letto il tuo blog, ho letto i giornali, so cosa è successo. Ho studiato la cosa a sufficienza per mesi.»

«E come puoi spiegare quello che è successo a Walker, allora?»

«Moriarty è morto. Emily ha ragione» intervenne Sherlock, comparso improvvisamente sulla soglia della porta. Sia Emily che John sussultarono al suono della sua voce: nessuno dei due lo aveva sentito avvicinarsi.

«Chiunque abbia ucciso Walker lo ha fatto a quel modo solo per richiamare Moriarty, ma non può essere stato lui» riprese a dire, scandendo accuratamente le ultime sei parole.

«Perché avrebbero dovuto farlo, allora?» chiese con enfasi John.

«Per provocarmi, ovvio. O forse per cercare di spaventarmi in qualche modo. Non so perché lo abbiano fatto, John, ma ho già elaborato qualche teoria.»

Detto ciò fece dietro front e uscì dalla stanza, avviandosi lungo le scale per poter tornare in soggiorno.

«Quando avresti iniziato a formulare queste teorie?» gli urlò dietro il medico, avviandosi seguito da Emily.

«Più o meno un minuto dopo che Molly mi ha detto il modo in cui si erano garantiti che Walker affogasse.»

«E a che conclusioni sei arrivato?» domandò Emily, curiosa come mai.

«Devo ancora affinare le mie ricerche, ma è chiaro che chiunque sia stato è legato sia a me che a Walker. Ho lavorato in più occasioni su casi che sono poi finiti a lui e lui si è sempre premurato di mettere in prigione ognuno di quegli indagati. È possibile che chiunque lo abbia ucciso, lasciando a me quel sottile messaggio, sia qualcuno di vicino a uno dei suddetti criminali.»

«Certo!» esclamò Emily. «Semplice.»

«Eppure così complesso» concluse per lei il detective. Si sistemò la giacca dell’abito e protese una mano verso la coinquilina. «Prestami il tuo portatile, Emi, servirà a John. Sarebbe grandioso se mettessi su anche un po’ di tè.»

Lei eseguì subito, entusiasta. La ricerca del possibile indiziato era appena cominciata e si trattava di un altro passo fondamentale per comprendere il più possibile della mente di Sherlock Holmes. Adorava quella casa.

«Guarda che Emily non è la tua cameriera» gli fece notare John, in piedi al centro del soggiorno, gli occhi fissi su Sherlock, seduto alla scrivania. «E non penso proprio che ti aiuterò questa mattina. Mary e la piccola stanno venendo qui a prendermi.»

Sherlock lo guardò, sollevò le sopracciglia, si esibì in un mezzo sorriso. «Mary potrebbe aiutarci eccome, invece. È intelligente, ne capisce di queste cose.»

Si concentrò poi sul computer, cominciando la sua ricerca. John lo fissò indispettito per un lungo momento, dopodiché, sbuffando, si sedette di fronte a Sherlock e avviò il portatile di Emily.

Appena fu pronto, la ragazza servì il tè ai due uomini e si fermò in piedi alle spalle del detective, a osservare ciò che stava cercando.

«Ricordi tutti quelli che hai mandato a processo da Walker?» gli chiese.

«Sì» rispose monosillabico l’uomo, bevendo un sorso del suo tè.

Per lunghi minuti non disse più nulla nessuno. Nella stanza si sentivano solo le dita dei due uomini battere sulle tastiere dei portatili in cerca di risposte e informazioni, mentre Emily, accanto a loro, continuava a fissarli con vivo interesse, concentrata.

Improvvisamente qualcuno bussò alla porta.

«Cucù» disse la signora Hudson, entrando nella stanza. Dietro di lei comparve Mary, che teneva in braccio un fagottino avvolto di rosa.

«Si può?» chiese la padrona di casa.

John si alzò dalla sedia, andò a salutare Mary e diede un bacio sulla fronte al contenuto del fagotto, sua figlia.

«È veramente una meraviglia, caro» osservò Mrs. Hudson, riferendosi alla bambina.

«La ringrazio.»

Mary si avvicinò a Sherlock, gli diede un bacio sulla testa appena lo ebbe raggiunto. «Troppo impegnato per salutarmi, eh?» lo rimproverò.

Lui sollevò lo sguardo e le sorrise. «Come sta?» chiese, indicando con un cenno la figlia, fra le braccia di John.

«Fin troppo bene» rispose ridendo Mary, dopodiché si voltò verso Emily. La guardò attentamente, mentre tutti i presenti assistevano alla scena. La ragazza si sentì inevitabilmente sotto esame mentre la donna la osservava. Tuttavia nello sguardo di Mary c’era un’evidente nota di dolcezza e il modo in cui tutti l’avevano guardata o le avevano rivolto la parola – Sherlock incluso – lasciavano perfettamente intuire che i sentimenti che si potevano provare verso quella donna era solo positivi. Quel primo sguardo che le due si scambiarono fu benaugurante per entrambe e diede loro modo di avere una buona impressione di chi avevano di fronte.

«Tu devi essere Emily. John mi ha parlato di te» disse infine Mary, avvicinandosi verso la ragazza con la mano tesa.

«Piacere di conoscerla signora Watson» rispose l’altra, sorridendo e stringendole la mano.

«Oh, ti prego, Mary. Chiamarmi “signora” mi fa sentire tremendamente vecchia.»

«D’accordo, Mary. Lei è la piccola, quindi. Cielo, guarda che piedini.»

Sherlock staccò solo in quel momento gli occhi da Emily, un leggero sorriso a solcargli il volto. Tornò a concentrarsi sulla sua ricerca mentre Mrs. Hudson offriva a Mary il tè appena fatto da Emily e quest’ultima era accanto a John a coccolare la bambina.

«Allora, Sherlock, si può sapere in cosa sei invischiato adesso?» chiese infine la signora Watson, mescolando il suo tè.

«Tuo marito non ti ha detto niente? Sorprendente» replicò il detective.

«Ha accennato qualcosa sull’omicidio del giudice Walker, ma ammetto che avevo altro a cui pensare.»

«Capisco» disse semplicemente. Inspirò un po’ d’aria e si voltò verso il suo blogger. «Beh, cosa ne dici di raccontarle bene le cose, allora?» gli chiese, un sopracciglio alzato.

John annuì e cominciò a raccontare tutto alla moglie, mentre Sherlock riprendeva a lavorare al pc. John non omise nulla, né su quello che era accaduto all’obitorio, né su quella stessa mattina. La cosa permise a Emily di intuire che, con molta probabilità, Mary era molto più che una moglie che comprendeva il lavoro del marito a contatto con Sherlock. Così come le permise di capire che per il detective lei era una persona fidata, una di quelle che non necessitavano di essere tenute all’oscuro nemmeno del più misero dettaglio.

Quando John ebbe finito di raccontare tutto, Mary aveva appena ultimato il tè. Non disse nulla finché non venne incalzata dal marito. A quel punto arricciò le labbra e si voltò verso il detective. «Penso che la pista di Sherlock sia quella giusta da seguire» sentenziò.

John fece per dire qualcosa, ma lei lo bloccò con un gesto. «Saltare a conclusioni affrettate può essere un grave errore, John. Non pensi che prima sia meglio accertarsi che nessuno dei vivi abbia ucciso Walker e, solo in un secondo momento, andare a vedere se la colpa è di un cadavere?» domandò, riferendosi chiaramente a Moriarty.

L’uomo replicò, ricordando alla moglie che Moriarty era comunque sufficientemente intelligente per rendere credibile perfino per Sherlock Holmes la sua ipotetica morte, eppure nessuno gli diede corda. Il fatto che la nemesi di Sherlock si fosse sparata in testa proprio sotto agli occhi inorriditi del detective giocava totalmente a favore di quest’ultimo.

Il medico non insistette più del dovuto, si arrese e si sedette sul divano, proprio mentre Mary si alzava dalla poltrona.

«Beh, avrai modo di rimanere aggiornato su tutta questa faccenda» disse lei, prendendo la figlia dalle braccia di John.

Sentendo quelle parole Sherlock si voltò verso di lei. Mary rispose al suo sguardo.

«Scusami, Sherlock. Ma la domenica mattina io e John siamo soliti andare a spasso insieme alla bambina. Non ti disturba, vero, se me lo porto via per qualche ora? In fin dei conti hai la tua nuova assistente che può aiutarti nella tua ricerca» disse poi, facendogli l’occhiolino.

Sherlock ed Emily si dipinsero in volto la stessa espressione stupita.

«Assistente?» dissero all’unisono.

Mary sorrise vedendo le loro facce e lo prese come il giusto via libera per andare. Invitò il marito a vestirsi, lanciò un bacio in direzione dei due inquilini di Baker Street e, appena John fu pronto, uscì dalla casa insieme al medico, alla bambina e alla signora Hudson, la quale si richiuse la porta alle spalle.

Emily rimase a osservare la porta dell’appartamento, in silenzio, le braccia conserte e la mente che lavorava in cerca di quanti più possibili segnali nascosti in ciò che era appena successo.

«Non fraintendere» le disse Sherlock di punto in bianco.

Emily si voltò. L’uomo la stava guardando, serio, i limpidi occhi celesti a scavarla nel profondo. I suoi occhi azzurri – più scuri di quelli di Sherlock – risposero allo sguardo, dopodiché lei si strinse nelle spalle. Era indubbio che quella casa le piacesse, che essere coinquilina del famigerato detective Holmes la eccitasse, tuttavia quei primi tre giorni le avevano anche fatto capire che da lì in avanti molte cose le avrebbe dovute scoprire da sola. Mezze parole, frasi all’apparenza senza senso parevano essere all’ordine del giorno al 221B. Eppure le importò poco.

«Non so neanche cosa dovrei fraintendere» fece infine notare a Sherlock.

Lui continuò a guardarla. Emily non poté fare a meno di sentirsi leggermente a disagio davanti a lui in quel momento. C’era una tale intensità nel suo sguardo che metteva quasi i brividi.

«Non ti ho accettata come coinquilina perché mi serviva un’assistente» disse lui, continuando a guardarla.

«No, lo so. Lo hai fatto perché avevi bisogno di una mano per le spese. Ciò non significa che non mi stia bene, tranquillo. Sono pur sempre dove volevo essere» replicò lei, calma.

Sherlock rimase a studiarla ancora, in silenzio. Emily resistette e analizzò quello sguardo per un po’, tuttavia alla fine non fu più in grado di reggere oltre.

«Ti aiuto con la tua ricerca» gli disse infine.

Il detective parve ridestarsi a quelle parole. La seguì con gli occhi mentre prendeva posto alla scrivania di fronte a lui, al proprio pc su cui, fino a pochi minuti prima, stava lavorando John. Oltre il computer, Emily lo guardò.

«Dimmi qualche nome» lo invitò la ragazza, le dita già pronte sui tasti.

 

*

 

Intorno all’una di pomeriggio dello stesso giorno le ricerche di Sherlock ed Emily erano ultimate. I due avevano raccolto quante più informazioni possibili sulle sette persone che, per merito di Sherlock, erano finite sul banco degli indagati prima e dietro le sbarre dopo a causa del giudice Walker. Secondo le teorie del detective quasi certamente l’omicida del giudice si trovava fra uno di quei nomi o in qualcuno a loro vicino.

Entrambi gli inquilini del 221B di Baker Street stavano pensando reciprocamente a chi potesse essere il maggior indiziato sulla base degli elementi raccolti.

Sherlock era concentrato, sovrappensiero; faceva avanti e indietro per il soggiorno suonando il violino, lo sguardo fisso sempre oltre ciò che aveva davanti.

Emily, invece, era sdraiata sul divano a pancia in su, le mani intrecciate in grembo, le gambe distese, i capelli rossi sparsi sul cuscino. Ragionava anche lei su quello che aveva raccolto, indecisa se esporre o meno al detective la propria opinione. Da qualche minuto lo stomaco le brontolava per la fame, ma l’idea di uscire di casa per andare in cerca di cibo non l’aveva ancora minimamente sfiorata. Ogni tanto lanciava qualche occhiata in direzione di Sherlock e si fermava a guardarlo per brevi attimi suonare. Le era sempre piaciuto il suono del violino e il modo in cui il detective lo suonava, seppur concentrato su altro, rendeva quel momento unico. Guardandolo si fermò a contemplarne i dettagli, ciò che aveva deciso di tenere sempre sotto controllo a contatto con l’uomo. Sherlock era in maniche di camicia, aveva arrotolato la stoffa fino ai gomiti con precisione millimetrica. Le dita della mano destra erano avvolte con delicata sicurezza intorno all’archetto, mentre quelle della mano sinistra si muovevano con rapida abilità sulle corde del violino. Emily stava osservando il modo in cui i tendini si tiravano per dare il compito di formare le note quando Sherlock si fermò. Fece stridere il suo ultimo sol, come se lo avesse appena ucciso, dopodiché si voltò rapido verso la ragazza.

La guardò, risoluto, indicandola con l’archetto del violino. «Secondo te chi può essere stato?» le chiese.

Emily fu presa alla sprovvista da quella domanda. Guardò il detective sorpresa, mettendosi a sedere.

«Vuoi davvero la mia opinione?» gli chiese, più lusingata che perplessa.

Sherlock incurvò appena l’angolo sinistro della bocca. «Sì, te l’ho appena chiesta. Vedi, mi piace sapere bene con chi ho a che fare e, soprattutto, vedere se è capace o meno di fare un ragionamento che possa essere definito tale.»

Le diede le spalle. «Hai studiato criminologia dopotutto e la South Wales Police ha espressamente domandato di te solo a poche settimane dalla tua laurea, perciò non dovresti sorprenderti se ora chiedo la tua opinione.»

«Beh, mi sorprende perché ero convinta che Sherlock Holmes fosse sempre piuttosto certo delle sue deduzioni» si motivò lei con tranquillità.

Il detective si voltò, lo stesso mezzo sorriso ancora sul volto. «Ti sto solo mettendo alla prova, Emi. Dimostrami che ciò che immagino tu sia è corretto» disse, fattosi improvvisamente serio.

Emily fu attraversata da un brivido a quelle parole; lo ignorò completamente, ma distolse ugualmente lo sguardo dagli occhi tanto chiari quanto intensi dell’uomo.

«Io sono propensa a pensare che chiunque ha ucciso il giudice Walker c’entri con Darrell Scott.»

«Perché?» la domanda uscì impassibile dalle labbra dell’uomo.

«Perché è l’unico a essere morto» replicò lei.

Notò il lieve movimento di sopracciglio di Sherlock e dedusse di aver fatto centro – o, per lo meno, di essere andata sufficientemente vicina a dare la risposta che si aspettava. Decise di non attendere che fosse lui a invitarla ad andare avanti. «Insomma, fra i sette che sono finiti in prigione per colpa di Walker lui è l’unico a essersi ucciso. La cosa mi lascia pensare che qualcuno a lui vicino, come la compagna o possibili figli, possano volerlo vendicare facendo fuori chi lo ha fatto rinchiudere, vale a dire il giudice, che lo ha fatto finire dentro e..»

«E me» concluse Sherlock per lei. Subito dopo fece un rapido movimento con l’archetto, annuendo con la testa. «Ottimo, i miei complimenti.»

«Era semplice» gli fece notare Emily.

Sherlock posò lo strumento musicale e la guardò. «Il fatto che per noi sia semplice non significa che lo sia per altri. Non dare mai le tue capacità per scontate.»

Lei lo fissò, perplessa. Non aveva capito bene se Sherlock le aveva appena fatto un complimento o l’aveva rimproverata, a ogni modo la cosa era stimolante.

«Quindi anche tu sei dell’idea di cominciare da Scott?» domandò infine la ragazza, seguendo con gli occhi il detective, che aveva cominciato a muoversi nella stanza in cerca di qualcosa.

«Naturalmente» rispose secco lui. «Lo hai detto tu, era una deduzione semplice da fare. So anche dove posso andare» disse poi. Scostò la tenda della finestra e guardò fuori, su Londra. Oltre i vetri, sulla città, nubi scure stavano scaricando grosse masse d’acqua. Il ticchettio delle gocce accompagnò i secondi di silenzio che si formarono fra i due. Sherlock guardò Emily di sottecchi; la ragazza era distratta, guardava il soffitto, sovrappensiero. L’uomo impiegò qualche altro secondo a decidere che cosa fare. Alla fine optò per portarla con sé. Non si trattava della tesi che lei stava scrivendo, ma del motivo principale che l’aveva spinto ad accettarla al 221B nonostante lei avesse contatti con Mycroft. Emily lo incuriosiva, notevolmente. Nei modi di fare tranquilli e rilassati della ragazza c’era sempre molta attenzione e la sua mente, quella, indubbiamente lavorava a pieno regime, proprio come la sua.

«Fuori piove parecchio, Emi. Faresti meglio a prendere l’ombrello» le disse infine, tornando a sistemare le tende e voltandosi verso di lei.

«Aspetta, cosa?» chiese la ragazza, sorpresa.

«Ho detto che fuori piove. Andiamo a fare un po’ di ricerca sul campo per vedere se la nostra idea è corretta, che ne dici?»

«Posso venire?»

Era davvero stupita dall’invito che aveva appena ricevuto. Di certo non aveva messo in conto di aiutare Sherlock anche nelle indagini sul campo, era sempre stata convinta che fosse John la sua spalla. A lei bastava poter raccogliere informazioni sul detective vivendo sotto il suo stesso tetto, ma addirittura accompagnarlo sul campo, quello era a dir poco pazzesco.

«Sì che puoi venire» rispose lui asciutto, come se non si spiegasse il quesito. «Ma vorrei che cominciassi a porre meno domande se ti fosse possibile. Delle volte sei irritante.»

Andò ad afferrare il cappotto e lo infilò, sempre sotto agli occhi di una stupita ed emozionata Emily.

«Non stare lì impalata, vestiti» la incalzò.

La ragazza si ridestò. Si alzò di gran fretta dal divano, si sistemò al meglio i vestiti, dopodiché andò a prendere il suo cappotto e lo mise rapidamente. Sherlock era già sulla porta.

«Muoviti, Emi, dobbiamo andare. Il gioco è iniziato» disse e si avviò lungo le scale.

 

 

 

 

 

Note:

1 Newport: ci tengo a fare una piccola precisazione. Nella serie tv, quando il video di Moriarty appare, dicono che si trovi su ogni schermo televisivo del Paese. Quando però Sherlock chiede a Mycroft chi ha bisogno di lui, questi gli risponde “L’Inghilterra”. Dato che per la Gran Bretagna Inghilterra e Galles sono come due nazioni a parte ho voluto circoscrivere il ritorno di Moriarty alla sola Inghilterra ed è per questo che Emily non sa nulla di quel video.

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Capitolo 4
*** IV ***


 

 

 

Cinque giorni. Tanto erano durate le ricerche di Sherlock nella speranza di riuscire a ottenere informazioni sul possibile assassino del giudice Walker. Sebbene avesse raccolto una moltitudine di informazioni, nonostante il suo cervello avesse srotolato quantità impensabili di possibilità, dopo cinque giorni si era trovato ad avere fra le mani un nulla di fatto. L’omicidio del giudice gli era parso fin da subito qualcosa di comprensibile; era convinto sarebbe giunto alla soluzione corretta in breve tempo, eppure così non era stato. Il suo primo sospettato, ovvero qualcuno vicino a Darrell Scott era stato un sonoro buco nell’acqua. Scott era praticamente solo al mondo e benché Sherlock avesse fatto il possibile per trovare dei legami fra lui e altre persone al di fuori della prigione, non aveva ottenuto nulla. Perfino la sua infallibile rete di senzatetto non gli aveva fornito risposte, il che diede all’uomo la sicurezza sufficiente per convincersi del fatto che, con tutta probabilità, il nome di Scott poteva venir depennato.

Eliminato il più probabile degli indiziati il detective aveva quindi spostato le sue ricerche sugli altri nomi che aveva a disposizione. Tuttavia anche gli altri sei indiziati avevano smontato le sue teorie come ghiaccio al sole. Pareva che nessuno di loro potesse essere adeguatamente sospettabile, molti, oltretutto, avevano alibi così di ferro da rendere intoccabili se stessi e i famigliari dei gradi più lontani pensabili.

Nel pomeriggio del sesto giorno di indagini inconcludenti Sherlock era seduto alla sua poltrona, al 221B di Baker Street, come ogni pomeriggio prima di quello. Era di umore intrattabile da ormai due giorni e quella mattina aveva sollevato la soglia dell’indagine da uno a due cerotti alla nicotina. Per qualche motivo che sfuggiva a tutti quelli vicini al detective, quella ricerca lo stava perseguitando. Per quanto fosse convinto che le modalità con cui Walker era stato assassinato fossero solamente un richiamo all’operato di Jim Moriarty, una parte di lui non si dava pace. Voleva sapere chi c’era dietro a quell’omicidio, a costo di perdere il sonno per altri giorni interi.

Ricominciò a leggere mentalmente tutte le informazioni che aveva raccolto per l’ennesima volta, scorse ogni indizio in cerca di qualcosa che potesse essergli sfuggito, ma nulla cambiava.

Frenò il suo cervello di colpo appena sentì dei passi farsi strada lungo le scale. Riconobbe lo scricchiolio tipico del settimo gradino della rampa. Puntò istintivamente gli occhi all’ingresso dell’appartamento che, una volta aperto, permise all’ispettore Lestrade di entrare nel soggiorno. I due uomini si guardarono.

«Non sei occupato, vero?» chiese l’ispettore, una leggera nota sarcastica nella voce.

«Cosa vuoi?» replicò Sherlock, senza scomporsi.

Lestrade sollevò le sopracciglia con fare infastidito. «Bel modo di accogliere gli amici.»

Sherlock era pronto a replicare, ricordando a Lestrade che i suoi amici erano un numero molto ridotto e che, con tutta probabilità, lui non era fra loro, quando vide l’uomo estrarre dalla tasca del cappotto un pacchetto di sigarette. Focalizzò la sua attenzione su quelle; l’improvvisa voglia di nicotina lo aggredì, al punto che l’inutilità dei cerotti divenne palese come non mai.

«Posso?» chiese Lestrade indicando la poltrona di Watson.

Sherlock gli diede il via libera con un gesto e si mise a fissare con intensità la sigaretta appena presa in mano dall’ispettore. Lestrade osservò il detective di rimando, capendo che aveva il permesso – oltre alla benedizione – di portare una ventata di fumo malsano nel piccolo soggiorno.

Per qualche minuto nessuno disse nulla. L’ispettore inspirava ed espirava lunghe boccate dalla sigaretta, sentendosi in pace almeno per quei brevi istanti; Sherlock, di fronte a lui, si inebriava il più possibile dell’odore acre che saliva lento nella stanza e si mescolava all’ossigeno presente.

«Sei qui per darmi qualche notizia che reputi “brutta”, lo so. Perciò fossi in te mi toglierei il dente subito» lo incalzò poi il detective, dopo essersi assuefatto a sufficienza al fumo argenteo espirato dall’altro.

Lestrade diede un colpetto alla sigaretta e guardò la cenere cadere.

«Lo hai capito dalla sigaretta?» chiese, retorico. Sherlock, infatti, non gli rispose e l’uomo riprese a parlare: «Dove hai messo Emily?» domandò, cambiando completamente argomento.

I muscoli facciali di Sherlock si tesero impercettibilmente, irritati. Non sopportava che si girasse intorno all’argomento apposta, specie se per farlo si tirava in ballo una questione di cui gli importava poco.

«È in facoltà, ha iniziato a seguire le lezioni per il master questa settimana. Fossi in te cercherei di sopprimere il prima possibile ogni eventuale desiderio di approfondire la conoscenza con quella ragazza, se capisci a cosa mi sto riferendo.»

Lestrade aggrottò la fronte a quelle parole. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma prima di farlo scosse la testa con fare incredulo.

«Sherlock, ha venticinque anni. Non mi passerebbe neanche per la mente di “approfondire la conoscenza”» disse, facendo segno di virgolette in aria. «Ti ho chiesto dov’è semplicemente perché mi è simpatica e perché non sarebbe stato male avere davanti qualcuno di socievole almeno per una volta, visto che non c’è neanche John. Credevo fossi più intelligente.»

Sherlock ignorò completamente le parole dell’ispettore. Si limitò a fissarlo infastidito, senza replicare. Lestrade, allora, prese l’ultima boccata dalla sua sigaretta e decise di accontentare il detective.

«Non hai scoperto nulla su Walker?» domandò.

Sherlock si sentì ulteriormente irritato da quelle parole. C’era della provocazione nella voce di Lestrade, non molta, ma sufficiente per farlo sentire improvvisamente un incapace. Non aveva scoperto molto, era vero, ma con che coraggio quell’uomo si presentava in casa sua per metterlo all’angolo a quel modo? Lo guardò per un lungo momento, austero. Lestrade, però, non si scompose.

«Non ho finito di indagare» disse infine Sherlock, gelido.

«Oh, non ne dubito. Ma questa volta mi permetto di dirti che certamente potresti impiegare ancora parecchio tempo.»

«Come fai a dirlo?»

L’ispettore si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe dirti che questa volta ti ho battuto, ma non ho tutto il merito.»

«Vieni al dunque» lo incalzò il detective, confermando a Lestrade di essere particolarmente intrattabile.

«L’assassino ha confessato.»

Sherlock si bloccò di colpo, fissando Lestrade. Nella sua testa qualcosa gli diceva che non poteva essere possibile.

«Chi ha confessato?»

«Un certo Erik Horvat, un croato che vive qui da un pezzo.»

Il detective si esternò dalla conversazione. Tornò con la mente all’elenco dei nomi raccolti in quei cinque giorni, li rilesse tutti, senza alcuna eccezione. Fra quell’elenco di nomi, fra tutte quelle persone che lui aveva considerato sospettabili poiché vicine a ognuno dei sette indiziati per l’omicidio di Walker nessun Horvat figurava.

«Per quale motivo lo avrebbe fatto?» chiese poi a Lestrade, nella speranza di capire qualcosa di più. Non gli sembrava possibile, si rifiutava di credere che davvero qualcuno di cui lui non conosceva neanche l’esistenza avesse commesso un simile omicidio.

«Conti in sospeso. Abbiamo indagato un po’ sui retroscena della vita del giudice. A quanto pare era molto bravo a tenere nascosto a tutti che aveva un giro di prestiti in nero. Pare che Horvat si fosse invischiato per bene in un grosso debito e non riuscisse più a ripagarlo. Droga e gioco d’azzardo. Al nuovo sollecito di Walker il croato ha pensato di ucciderlo» gli spiegò Lestrade.

Nuovamente Sherlock si rifiutò di credere a quella storia. Nei suoi brevi contatti con il giudice aveva avuto modo di capire che non era un uomo totalmente onesto, ma la cosa non gli era mai importata più di tanto. No, in quel caso non era il traffico illegale di soldi del giudice a innervosirlo, ma il fatto che fosse entrato in gioco qualcuno che lui non aveva previsto nonostante, come suo solito, avesse tenuto conto di una moltitudine di scenari.

«Sei venuto fin qui solo per dirmi questo, quindi. Per farmi vedere che, una volta tanto, Scotland Yard è riuscita a concludere qualcosa» disse Sherlock all’improvviso, il fastidio palpabile nella voce.

Lestrade lo guardò, più sorpreso del solito. «Non sei di buon umore, vedo. Non sono venuto qui per questo, sono venuto qui per chiederti di venire con me in centrale per interrogare Horvat.»

Il detective sollevò un sopracciglio. «Perché dovrei? Ha confessato, no? Sbattetelo in cella e prendetevi il merito.»

L’ispettore sospirò, prese quanta più forza possibile preparandosi a dire una cosa che non avrebbe voluto dover dire: «È stato troppo semplice, Sherlock. Pensala come vuoi ma io non credo alla storia di quell’uomo. Forse trascorro troppo tempo insieme a te, ma credo che se lo arrestiamo, sbagliamo. In centrale cominciano già a pensare che io sia pazzo e venendo qui ti dico subito che non sto facendo altro che alimentare le loro credenze.»

«Allora non dovevi venire. Se quell’uomo ha confessato c’è poco che possa fare.»

«Vieni almeno a parlare con lui. Ti basterebbe guardarlo per capire se mente o no.»

Sherlock si alzò dalla sua poltrona, improvvisamente irritato. Non c’era niente di positivo in quella giornata, assolutamente niente. Raggiunse la porta dell’appartamento, l’aprì e fece segno a Lestrade di andarsene.

«Non ho nessuna intenzione di venire con te» scandì accuratamente. «Se avete arrestato il reo confesso, per quanto mi riguarda, il caso è chiuso» concluse, rinnovando l’invito ad andarsene.

L’ispettore lo guardò a lungo, senza muoversi di un millimetro. Non credeva a Sherlock. La sua irritazione crescente mano a mano che lui gli raccontava come era evoluta la situazione era il chiaro segnale che il detective si era lambiccato il cervello inutilmente per giorni e che la cosa lo innervosiva.

I due uomini rimasero a osservarsi a lungo, entrambi seri, entrambi imperscrutabili. Fra loro si sollevò un silenzio ostinato, che venne interrotto dalla porta d’ingresso del 221B. Sentirono la chiave girare nella serratura, la porta venire aperta e le voci di Emily e John riempire lo spazio, un gradino alla volta, fino al soggiorno. Sherlock teneva ancora la porta aperta quando Emily raggiunse il pianerottolo; osservò confusa il detective e lo ringraziò, dopodiché entrò nel soggiorno e sorrise all’ispettore, salutandolo. John entrò dietro di lei e salutò a sua volta Lestrade.

«Che succede?» volle informarsi John.

«L’ispettore se ne stava andando» rispose Sherlock.

Lestrade si alzò. «Abbiamo preso l’assassino di Walker.»

«Davvero?» chiese Emily.

«Sì, esatto. Ho chiesto a Sherlock di venire con me per interrogarlo, ma pare non sia in una buona giornata.»

John e la ragazza si voltarono verso di lui, il quale sbuffò un po’ d’aria senza replicare.

«Perché non vuoi interrogarlo?» domandò John.

«Perché ha confessato. C’è veramente bisogno di porre altre domande a qualcuno che ha già detto tutto?»

Emily si rivolse a Lestrade: «Chi è stato?»

«Un certo Erik Horvat.»

La ragazza si voltò verso Sherlock; si accorse che l’uomo la stava già guardando e lesse nei suoi occhi il suo stesso pensiero. Lei era stata accanto al detective mentre raccoglieva informazioni e tesseva indagini; la parete alle spalle del divano si era riempita poco a poco di indiziati e sospetti, ma nessun Erik Horvat vi figurava. Si era confrontata con Sherlock in più occasioni nell’arco di quei cinque giorni, scoprendo con sua grande sorpresa che, più volte, il detective aveva considerato le sue osservazioni interessanti – benché lui ci fosse sempre arrivato svariati minuti prima di lei – eppure, entrambi, avevano sbagliato. C’era qualcosa di sospetto in quel risvolto e lei era certa che fosse sospetto anche per Sherlock. Eppure non capiva per quale motivo, ora, lui si rifiutasse di andare più a fondo nella faccenda.

«Cos’ha detto esattamente questo Horvat quando è venuto a confessarsi?» domandò infine, sempre rivolta all’ispettore.

Lestrade, non aspettandosi quella domanda, rispose in modo incerto, incuriosito, e non riuscì a notare l’improvviso bagliore d’interesse che si riaccese negli occhi di Sherlock. Lo notò John, invece.

«Gli ha appena chiesto quello che volevi sapere tu, vero?» gli domandò quest’ultimo, indicando in direzione di Lestrade. «Se ti premeva tanto sapere la risposta perché non glielo hai chiesto tu?»

Sherlock lo guardò. Sollevò le sopracciglia con fare sorpreso. «Oh andiamo, John. Non sono il tipo da perdere l’occasione di mettere in ridicolo per l’ennesima volta Scotland Yard solo perché non ho voglia di porre una domanda a Gavin.»

«No, invece sei proprio il tipo» replicò il medico, guardandolo di traverso.

L’ispettore non si scompose per l’ennesima storpiatura del proprio nome, ma rimase fermo a osservare gli altri uomini. Emily, invece, si sbottonò il cappotto e fece per sfilarselo quando Sherlock la bloccò: «Non toglierlo, Emi, dobbiamo uscire.»

Lei lo guardò, senza capire. Indicò dietro di sé con il pollice dicendo: «Sherlock sono appena tornata a casa. Ho bisogno di andare in bagno.»

Il detective afferrò il suo cappotto scuro e lo infilò. «Alla centrale di polizia hanno i servizi igienici, puoi usare i loro. John, anche tu sei dei nostri, ovviamente. Muoviamoci ispettore» concluse, facendo un cenno a Lestrade. Questi guardò gli altri due confuso, scosse la testa e borbottò sarcastico: «Quindi adesso viene. Grandioso.»

I quattro scesero in strada, dove ad attenderli c’era la berlina dell’ispettore. Montarono tutti in auto, diretti verso la stazione di polizia.

Una volta giunti all’edificio entrarono e seguirono Lestrade lungo i corridoi più interni. L’ispettore fece loro strada con passo sicuro e Emily non poté fare a meno di notare le occhiate che le persone lanciavano nella loro direzione, sicuramente per via di Sherlock. Da quando aveva scoperto dell’esistenza di quell’uomo e da quando aveva cominciato a interessarsi a lui, la ragazza non aveva potuto fare a meno di sospettare che per molti l’alta figura del detective – o consulente investigativo, per usare le sue parole – non poteva essere vista di buon occhio da tutti. Sherlock aveva la capacità di riuscire dove gli altri fallivano e questo, con il tempo, lo aveva portato a rendersi sgradito a molti, proprio come dimostravano le occhiate che continuavano a lanciargli. Tuttavia per qualche curioso e apprezzabile motivo ciò non valeva per Lestrade.

L’ispettore aprì un’altra porta e raggiunse una donna dalla carnagione mulatta e dagli indomabili capelli scuri.

«Non mi dica che lo ha portato qui per interrogare Horvat. Ha confessato, non abbiamo bisogno di lui» disse la donna, indicando irritata verso Sherlock. «E poi, cos’è? Ti sei portato dietro la scorta, chi è la ragazzina?»

Emily la guardò, impassibile. Non avrebbe stretto la mano a quella donna; le era bastato veramente poco per capire che non sarebbe stata mai ben vista da lei solo per via del suo legame con il detective.

«Donovan, per favore. Ho le mie ragioni per averlo portato qui» replicò secco l’ispettore. Scostò la donna e riprese a camminare lungo il corridoio, fermandosi poco prima della fine di esso. Davanti a loro un’ampia vetrata dava su una stanza piccola, grigia e spoglia. Dentro, seduto dietro un tavolino, un uomo li stava osservando. Lestrade lo indicò oltre il vetro. «Vi presento Erik Horvat, a quanto pare l’assassino di Walker.»

Sherlock, John e Emily lo osservarono, mentre Horvat ancora rispondeva al loro sguardo.

«Se vuoi entrare è tutto tuo. Dieci minuti dovrebbero bastarti» disse al detective l’ispettore.

«Sono anche troppi. John e Emi vengono con me» rispose Sherlock, senza guardare il suo interlocutore.

«Cosa? No. Non è un’amichevole rimpatriata, Sherlock, non possono entrare tutti.»

«Ho bisogno che ci siano entrambi» replicò l’altro calmo.

John guardò un momento Emily, cosa che fece immediatamente anche Lestrade. La ragazza era certa di porsi la loro stessa domanda, ovvero cosa potesse c’entrare lei in quella faccenda. Si sentiva lusingata di sapere che Sherlock la voleva, ma non riusciva a spiegarsi bene perché. Il detective rimaneva ancora un mistero, una delle persone che stava impiegando più tempo di tanti altri per riuscire a comprendere, anche solo nei tratti più rilevanti.

Lestrade sospirò, arreso. «D’accordo, entrate tutti, allora.»

Sherlock aprì la porta appena ebbe il via libera ed entrò nella stanza, seguito da John ed Emily. Dentro Horvat continuava a fissarlo, serio; lo seguì con lo sguardo mentre prendeva posto nella sedia libera davanti a lui, dopodiché incrociò le braccia e fece un cenno in direzione dell’unica ragazza presente.

«Lei mi piace molto» disse.

Sherlock lo guardò, serio. Portò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani. «Ti posso garantire che non ha alcuna voglia di condividere dell’LSD insieme a te.»

Horvat rise. «Sei bravo, davvero.»

«Parlando di cose serie. Tu, quindi, avresti ucciso il giudice Walker.»

«Sì, infatti.»

«E hai confessato.»

Horvat annuì semplicemente, senza staccare gli occhi dal detective.

«Perché lo avresti fatto?» domandò poi Sherlock, abbassando la voce.

L’altro si strinse nelle spalle. «Ero pieno di debiti con lui. Non sapevo come restituirgli i soldi e mi aveva detto che se non li avesse rivisti entro fine mese avrebbe chiamato la polizia.»

«Mi riferivo al perché hai confessato di averlo ucciso.»

Le ultime parole di Sherlock presero alla sprovvista Horvat; tuttavia si ricompose in fretta e rispose: «Oh, beh. Non è che goda di buona fama fuori da qui.»

«E passare un po’ di anni in prigione ti garantisce protezione, certo.»

«Finché sono qui dentro tutti quelli con cui ho conti in sospeso non possono farmi molto.»

«Una logica stringente, lo ammetto. Hai avuto questa idea solo dopo aver ucciso Walker?»

Horvat annuì.

«Ucciso con il botulino» mormorò Sherlock

«Proprio così» si limitò a dire l’altro.

Sherlock si appoggiò allo schienale della sedia, inspirando. Lanciò un’ultima occhiata all’indagato, infine si alzò, sistemandosi il cappotto. Si voltò verso gli altri due e sentenziò: «Abbiamo finito» dopodiché uscì dalla stanza con loro al seguito. Una volta fuori, oltre il vetro, Horvat continuava a fissarli.

«Ci hai messo solo due minuti» gli fece notare Lestrade appena Sherlock si fu chiuso la porta alle spalle.

«Te lo avevo detto che dieci erano troppi.»

L’ispettore guardò Horvat, poi tornò a rivolgersi agli altri: «Andiamo nel mio ufficio» disse, cominciando a fare loro strada.

L’ufficio di Lestrade era silenzioso e cominciava a essere avvolto dalla penombra. Dentro John ed Emily avevano preso posto sulle sedie disposte di fronte alla scrivania dell’ispettore, alle loro spalle Sherlock camminava avanti e indietro, come un leone in gabbia. L’ultimo a entrare fu proprio Lestrade, una tazza di caffè fumante in mano. La porse a Emily quando le passò accanto e lei lo ringraziò mentre l’uomo andava a sedersi al suo posto e si appoggiava allo schienale della sedia.

«Quindi, Sherlock, cosa mi puoi dire di Horvat?» chiese poi, di punto in bianco.

Il detective si fermò di colpo, il cappotto lo avvolse. «Mente, ecco cosa posso dirti.»

Lestrade si sentì leggermente sollevato al suono di quelle parole, ma anche se avesse voluto non lo diede a vedere.

«Bene. Vale a dire che non ti ho fatto venire qui inutilmente.» Si grattò un momento la testa e riprese: «Ora, però, come posso dimostrare che sta mentendo?»

Sherlock si avvicinò alla scrivania, posò entrambe le mani sullo schienale della sedia di Emily e si avvicinò ulteriormente. «Come? Oh, andiamo ispettore. È palese che sta mentendo. Lo dovresti aver capito perfino tu. John ed Emily lo hanno capito senz’altro.»

John lo guardò. «Cosa? Come fai a dire che l’ho capito anche io?»

Sherlock rispose alla sua occhiata. «Per favore, John. Mi rifiuto di credere che tu non abbia imparato niente da quando stiamo insieme.»

Il medico aggrottò la fronte su quel “da quando stiamo insieme”. Era pronto a replicare, ma il detective prese parola prima: «A ogni modo, John può anche non averlo capito, ma Emi sì.»

La ragazza smise improvvisamente di sorseggiare il suo caffè. Si sentì chiamata in causa, consapevole che tutti la stavano guardando: Lestrade davanti a sé, John accanto, Sherlock dietro. Posò la tazza sulla scrivania e guardò l’ispettore.

«Lo credo anche io, ispettore.»

Non aggiunse altro. Lestrade guardò prima lei, poi il detective e chiese: «D’accordo. Ma ho bisogno di poterlo dimostrare, perciò, come fate a dirlo?» scandì con cura.

«Come facciamo a dirlo? È evidente» replicò Sherlock.

«Oh, ti prego! Non fingere che sia chiaro per chiunque se lo è solo per te.»

«Anche per Emily.»

Calò il silenzio, improvviso. Lestrade tornò a rivolgere la sua attenzione sulla ragazza, che si sentì improvvisamente avvampare.

«Di’ un po’,» esordì poi, parlando con Emily, «hai voglia di dirmi tu quello che, a quanto pare, non ha voglia di farmi sapere Sherlock?»

La ragazza annuì. «Beh, non so se la motivazione sia la stessa di Sherlock ma, io penso che stia mentendo per il modo in cui confessa di essere il colpevole.»

«Il modo?» domandarono all’unisono John e Lestrade.

«Sì. Insomma, quello che dice di aver commesso è un omicidio molto articolato, ben studiato. Qualcosa per cui deve aver lavorato molto. A me viene difficile pensare che possa liquidare il suo lavoro con un semplicissimo “proprio così”.»

«Ma lui non ha inventato niente. Ha semplicemente copiato ciò che Moriarty ha fatto a Carl Powers» disse John, voltandosi verso Emily.

«È comunque più complicato di così» si intromise Sherlock. «Uno come Horvat non avrebbe perso tempo a informarsi sulle abitudini di Walker, a cercare il botulino e a fare in modo che lo ingerisse giusto in tempo per affogare alla terza vasca a nuoto.»

Riprese a camminare per la stanza. «Non avete notato le sue mani, o il suo naso? No, certo che no. Deve essersi rotto il naso e più di una volta mentre le sue mani, beh, quelle sono assuefatte a graffi, tagli e botte, il che cosa significa? Che è un uomo rude, abituato alla violenza fisica, che la pratica spesso e, sicuramente, dà più che ricevere. Ciò vuol dire che uno così se avesse voluto davvero uccidere Walker affogandolo gli avrebbe semplicemente tenuto la testa sott’acqua, non avrebbe architettato un’azione del genere.»

Si fermò. Guardò dritto negli occhi di Lestrade e si portò l’indice alla tempia. «Gli assassini, quelli seriali, quelli veramente pericolosi hanno bisogno di un pubblico, lo bramano. Qualcuno in grado di commettere un simile omicidio non avrebbe mai, mai, sminuito il proprio lavoro a quel modo. Horvat non può averlo ucciso, sono pronto a scommettere che qualcuno lo ha pagato per addossarsi la colpa.»

«A che scopo, scusa? Farsi sbattere in cella non è il modo corretto per spendere dei soldi» gli fece notare John.

«Ma è un posto sicuro per rimanere fuori dai guai per un po’. È probabile che il vero assassino abbia pagato Horvat per prendersi la colpa, garantendogli che una volta uscito di prigione – ovvero abbastanza presto in caso di buona condotta – avrebbe avuto a disposizione i soldi, oltre a essere dimenticato da buona parte delle persone con cui lui ha attualmente dei debiti. Tutto torna, ispettore.»

Lestrade lo stava guardando, in silenzio. Ripensò alle sue parole e dovette ammettere a se stesso che, anche quella volta, le cose si incastravano fin troppo bene. Tuttavia sospirò, sconsolato. «D’accordo, Sherlock, ti credo. Ma finché non abbiamo prove serie c’è poco che posso fare. Quell’uomo ha confessato.»

Sherlock lo guardò, lievemente irritato. «Allora perché mi hai fatto venire fin qui?»

«Perché speravo potessi aiutarmi.»

«E cosa ho appena fatto?»

Lestrade non rispose. Si strinse nelle spalle e sospirò nuovamente. «Mi spiace, Sherlock. Ti ringrazio per il tuo tempo, ma questa volta ho le mani legate.»

L’ispettore e il detective si guardarono a lungo, in un silenzio teso e palpabile. Alla fine Sherlock si ricompose, si lisciò il cappotto e uscì dall’ufficio di Lestrade senza aggiungere altro.

 

*

 

Il taxi accostò davanti all’ingresso del 221B. Sherlock ne scese di fretta e altrettanto in fretta girò la chiave nella serratura ed entrò in casa. Emily, ancora seduta sul mezzo accanto a John, guardò il medico. Quest’ultimo le sorrise. «È fatto così, lo avrai capito. Non gli piace perdere tempo e sono certo che sia convinto che Lestrade gli abbia proprio fatto perdere tempo.»

La ragazza lanciò un’occhiata in direzione dell’ingresso di casa aperto, ma deserto. «Sai, John, impiego sempre poco per capire chi ho davanti, ma con Sherlock… davvero non riesco ad afferrarlo, nemmeno nei suoi tratti più evidenti. Non credevo fosse così complicato» ammise.

«Si beh, è un tipo particolare. Ma tutto sommato è una brava persona. Solo un po’ arrogante, stronzo e saccente. Un po’ molto in verità.»

«Eppure sei suo amico» gli disse lei, sorridendo.

John rispose al suo sorriso. «Commettiamo tutti degli errori» scherzò. «Non preoccuparti, Emi. Con Sherlock puoi stare tranquilla. E imparerai a conoscerlo, vedrai.»

La ragazza ci pensò su, infine annuì. Salutò il medico – anche da parte del detective – e scese del taxi, che ripartì subito per accompagnare John a casa.

Emily salì le scale fino all’ingresso dell’appartamento e, una volta lì, vide subito Sherlock intento a togliere con foga tutte le carte, le foto e gli articoli di giornale che i due avevano raccolto durante la loro ricerca sul possibile assassino del giudice Walker. Sentì una fitta al petto a vedere l’uomo che staccava con indifferenza e fretta i fogli, la carta che si lacerava di tanto in tanto. Le sembrava sbagliato ciò che Sherlock stava facendo; quella era la sua prima indagine insieme al detective, non voleva vederla sparire così, soprattutto perché non era realmente finita. Il vero assassino di Walker era ancora in libertà, Sherlock lo sapeva perfettamente, proprio come lei. Le sembrava irreale che l’uomo accettasse così l’esito di quel pomeriggio da Lestrade, che cancellasse con così tanta freddezza i dati di un caso che poteva essere ancora risolto. Quello non era lo Sherlock Holmes che lei immaginava e c’era qualcosa che la insospettiva. Perché non riusciva a capirlo? Perché continuava a essere un mistero?

«Che stai facendo?» gli chiese infine, guardandolo.

Lui si voltò. Sollevò le sopracciglia come se non comprendesse la domanda. «Hai sentito l’ispettore. Non possono fare niente. Horvat verrà processato e loro avranno il loro assassino. Per quanto mi riguarda il caso è chiuso.»

Riprese a staccare le carte dalla parete, tornando a ignorare la ragazza. Lei ebbe un fremito. Voleva impedirgli di cancellare tutto il loro lavoro così. Era certa, in un modo per lei incomprensibile, che anche per Sherlock quel caso non poteva definirsi “chiuso” e che lui si stesse comportando così solo perché irritato.

«Non te lo permetto» esclamò d’improvviso Emily, parandosi davanti al detective e impedendogli di proseguire nelle sue azioni.

Sherlock si fermò di colpo, guardandola. Un lampo di curiosità attraversò i suoi occhi mentre fissava Emily con intensità crescente. Lei fece del suo meglio per resistere allo sguardo dell’uomo, tentando di rimanere il più ferma possibile nella propria convinzione.

«Non me lo permetti?» mormorò Sherlock.

La ragazza annuì, lievemente incerta. Resistere agli sguardi di Sherlock le riusciva difficile molte volte e quel momento era una di quelli.

«Non voglio che tu distrugga tutto il lavoro che abbiamo fatto solo perché Lestrade ha deciso di lasciar perdere. Insomma, ci abbiamo lavorato a lungo no?»

Sherlock sorrise, lievemente. «Vero. Ma non ho alcuna intenzione di spendere altro tempo inutilmente su qualcosa che Scotland Yard ha deciso di ignorare, per cui considero questo caso chiuso.»

Emily lo guardò, senza sapere cosa pensare. Si sentiva confusa e incerta; sapeva solo che non voleva vedere tutto ciò sparire così, di punto in bianco, senza averle dato le risposte che sperava di ottenere.

«Beh, e se per me non fosse chiuso il caso?» domandò con forza, avvicinandosi di un passo al detective. Se ne pentì subito, però, poiché l’uomo era decisamente più alto di lei. Sherlock, infatti, dovette abbassare lo sguardo. Rimase in silenzio per quella che a Emily parve un’eternità, infine schiuse le labbra, respirò e disse: «Vorrei ricordarti che questa è una mia indagine. Non nego che tu mi abbia aiutato, ma se per me la faccenda è chiusa, allora è chiusa. Oltretutto vorrei anche sottolineare che questa è casa mia.»

La ragazza si sentì sotto accusa, tuttavia incassò l’affondo con eleganza e replicò subito: «Tecnicamente la casa appartiene a Mrs. Hudson. Noi due ne siamo ugualmente affittuari, il che vale a dire che siamo coinquilini. Ciò significa che questa casa è anche mia, così come lo è metà di questa parete… possibilmente quella senza lo smile» disse, indicando alle sue spalle. «Perciò ti proibisco di togliere le informazioni raccolte dalla mia metà del muro.»

Sherlock non replicò. Si limitò a stare in silenzio, un mezzo sorriso in volto e gli occhi fissi in quelli di Emily. Alla fine, dopo un gioco di sguardi all’apparenza infinito, annuì con il capo. «Come vuoi» concluse.

Riprese a staccare i fogli di giornale e gli appunti solo nella “sua” metà del muro, facendo ricomparire lo smile giallo sulla carta da parati, il tutto davanti a una perplessa e incredula Emily, che si sentì strana nell’aver vinto la sua prima faida contro Holmes. Quando il detective ebbe finito si spostò in cucina e la ragazza ebbe modo di vedere la precisione con cui la parete era stata divisa: metà spoglia, metà sovraccarica di carte. E nella sua metà, fra tutti gli articoli di giornale e i possibili indiziati, il nome di Darrell Scott, figurava ancora.

 

 

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Capitolo 5
*** V ***


 

 

 

I primi due mesi di convivenza fra Sherlock ed Emily erano trascorsi piuttosto in fretta e calmi. In quell’arco di tempo nulla di eclatante era accaduto e la cosa aveva dato modo ai due nuovi coinquilini di approfondire la propria conoscenza, per quanto possibile. In quei giorni, infatti, il rapporto fra la studentessa e il detective non aveva preso svolte decisive. Sherlock aveva avuto fra le mani cinque diversi casi a cui lavorare, cosa che gli aveva dato la possibilità di non mostrare troppo del suo lato da sociopatico iperattivo alla ragazza. Emily, invece, aveva seguito passo passo il detective nella corretta conclusione delle indagini con entusiasmo crescente, alternando le lezioni allo studio sui libri e all’analisi sul diretto interessato per la sua tesi. In quei mesi aveva avuto modo di immergersi nel mondo di Sherlock Holmes, qualcosa in continuo bilico fra l’intrigante, il misterioso e il deduttivo, un mondo che l’aveva sorpresa e che la esaltava sempre di più. Frequentando Sherlock aveva approfondito l’amicizia con John Watson – e che si era dimostrata una persona ancora più apprezzabile rispetto alle sue più rosee aspettative – con la moglie Mary – donna capace, intelligente e pratica - e perfino con Molly e Lestrade – che le piacevano di più a ogni nuovo incontro. La nuova vita della ragazza a Baker Street si stava dimostrando entusiasmante e ogni giorno che trascorreva in quelle mura si trovava sempre più desiderosa di passare lì dentro l’eternità. Per quanto Sherlock fosse instabile nell’umore, facilmente irritabile e anestetizzasse la noia con metodi discutibili lei era felice di averlo come coinquilino. Allo scadere del suo secondo mese si sentiva parte di quella casa e aveva notato, con sua piacevole sorpresa, che anche il detective sembrava considerarla in tale maniera. Non che le dedicasse attenzioni particolari, ma rispetto ai primi giorni di convivenza, Emily si era accorta che Sherlock aveva iniziato a vivere nella consapevolezza di condividere la casa con qualcuno. Una parte della ragazza – piuttosto piccola e insicura – avrebbe giurato che il merito fosse esclusivamente di quel primo faccia a faccia vinto da lei sull’uomo, quando il motivo della loro disputa era la parete ingombra di fogli di carta, riconducibili al “loro” primo caso.

Quella parete, da cui Emily pensava fosse iniziato realmente tutto, era tornata a essere spoglia solo poche settimane dopo quella sera. La metà del muro che la studentessa aveva strenuamente difeso – incrementando in quel momento l’interesse che il detective provava per lei – si era poi svestita poco a poco delle carte e degli articoli di giornale. Tuttavia non erano stati eliminati, ma riposti con cura dalla ragazza in una valigetta – nascosta sul fondo del suo armadio – come ricordo.

Fuori dal civico 221B il clima si era irrigidito in quei due mesi; aveva dato l’avvio a quello che pareva già essere un inverno freddo, mentre la pioggia, immancabile su una Londra novembrina, bagnava la città a intervalli regolari. Quel venerdì pomeriggio, dopo le quindici, l’acqua sembrava non volerne sapere di smettere di scendere sulla città. Un vento freddo sferzava l’aria e fra il via e vai di persone lungo Baker Street, il riconoscibile ombrello giallo di Emily si faceva strada accanto a uno grigio dalla trama scozzese. Nulla sarebbe sembrato insolito, se non fosse stato che l’ombrello giallo e la sua luminosa nota di allegria, erano fra le mani di Sherlock Holmes.

L’uomo si faceva largo lungo il marciapiede, cercando nella tasca del cappotto il mazzo di chiavi per poter rientrare e togliersi dalla strada – e dalle persone – il più in fretta possibile. Accanto a lui John parlava del più e del meno, senza aspettarsi esattamente una risposta dall’altro.

Entrarono al 221B, salutarono Mrs. Hudson e percorsero la rampa di scale fino in cima. Una volta dentro John si fermò, si guardò intorno e senza riuscire a trattenersi disse: «Mi sembra difficile credere che Emily ti permetta di lasciare questo casino ovunque.»

Sherlock lo guardò, confuso. «Non dovrebbe sembrarti strano. Non è molto diverso da quando vivevi qui tu.»

«Lo vedo. È solo che lei è una ragazza e mi pare tanto ordinata. Pensavo che almeno con una donna in casa avresti smesso di lasciare le tue cose in giro. Giusto per buona educazione.»

Il detective sollevò un sopracciglio, dopodiché con l’ombrello, indicò un punto del soggiorno. Accanto al tavolino una pila di voluminosi libri, dispense e fogli era ammonticchiata malamente, in un ammasso disordinato e traballante.

«Come puoi ben vedere neanche lei è molto ordinata. I suoi libri sono sparsi ovunque, ma da leggere sono interessanti. Ora capisci come mai non è ossessionata dall’ordine?»

«Almeno il frigorifero è sgombero da resti umani?» chiese John, incerto. L’ultima scoperta su Emily lo aveva lasciato un po’ confuso, soprattutto perché non aveva fatto mai caso prima alla cosa.

Sherlock fece una smorfia, borbottò qualcosa e, incrociando l’occhiata dell’amico, rispose rassegnato: «Al momento non ho cadaveri a disposizione.»

La risposta fu sufficiente a tranquillizzare un minimo John. Il fatto che qualcuno dovesse convivere in quella casa insieme a Sherlock non lo faceva stare sereno, soprattutto perché lui sapeva bene a cosa si andava incontro nel condividere lo stesso tetto del detective. Cominciò a sfilarsi la giacca quando sentì l’ingresso di casa aprirsi. Si trattava certamente di Emily, ma la foga con cui stava salendo le scale, per un momento, lo fece dubitare del fatto che si trattasse realmente di lei. Tuttavia dalla porta, nel soggiorno, comparve proprio la ragazza, il cappotto imbevuto d’acqua, i capelli zuppi e una luce furente negli occhi. Josh rimase sconvolto appena la vide. Rivoli rossi le rigavano il volto, scendendo dalle tempie. Anche Sherlock si accorse del rosso che macchiava il viso della coinquilina, ma la sua reazione fu decisamente più controllata di quella del medico, dato che aveva perfettamente capito cos’era successo a Emily.

La ragazza raggiunse il detective con un paio di falcate decise, gli strappò di mano l’ombrello che lui ancora teneva e lo guardò dritto in faccia. «Sono certa che uno come te fosse molto comico con un ombrello giallo per strada.»

«Emi che ti è successo?» chiese finalmente John, preoccupato.

Lei lo guadò, poi tornò a dedicare la sua attenzione al detective. «Sherlock sa benissimo cosa mi è successo» disse, prendendo ad agitare l’ombrello sotto al naso dell’uomo. «Questo è il mio ombrello, Sherlock. Non a caso lo tengo sempre in camera mia, per evitare che mi succeda questo!» tuonò, indicando la sua faccia.

Improvvisamente fu chiaro anche per John. I capelli di Emily erano tinti e quel rosso che le rigava il viso non era sangue come lui, in un primo istante, aveva temuto, ma la colorazione dilavata dai capelli.

Il detective non replicò – cosa positiva, pensò John, poiché c’era il rischio che lui volesse ugualmente aver ragione nonostante fosse nel torto – ma rimase a guardare Emily, in un gioco di sguardi teso. La ragazza, alla fine, si arrese; sbuffò infastidita e si avviò verso la sua camera annunciando: «Vado ad asciugarmi.»

Appena scomparve lungo la rampa di scale John si voltò verso Sherlock e lo guardò corrucciato. «Se lo sapevi, perché le hai preso l’ombrello?»

Il detective sollevò gli occhi al cielo. «John, per favore, evita di farmi la paternale. Se Emily voleva evitare di farsi scolorire i capelli in faccia poteva benissimo chiedere un ombrello a Mrs. Hudson.»

«Potevi chiederglielo tu.»

«E deviare la perfetta traiettoria lineare che porta dalle scale alla porta? Cielo, no. Hai visto che ombrello avevo quando siamo usciti e non hai detto niente, perciò parte della colpa è anche tua» concluse con indifferenza, svestendosi finalmente del cappotto.

John si irrigidì, represse il desiderio di dare un pugno in piena faccia all’amico e ispirò a fondo, tentando di calmarsi. «Senti, Sherlock, Emi è una brava ragazza e mi piace, molto. Almeno con lei, almeno per una volta, potresti cercare di essere meno te stesso del solito?»

«È la richiesta più sbagliata che tu possa farmi» rispose immediatamente l’altro in tono ovvio. «Emi sta scrivendo un tesi su di me. Chiedermi di “essere meno me stesso del solito” significherebbe falsare il suo lavoro.» Si sistemò la camicia, con fare vittorioso. «E noi non vogliamo che ciò accada» concluse.

John rimase a guardarlo, fortemente infastidito. Alla fine sbuffo e si arrese all'evidenza che Sherlock non avrebbe mai cambiato una sola virgola di sé pur di far felice qualcuno.

«Fa' come vuoi. Ma io adesso vado a parlarle. E sappi che lo faccio nella speranza di riuscire a parare il culo a te.»

«Ammirevole.»

Il medico ignorò la provocazione di Sherlock e si avviò lungo le scale, verso la sua ex stanza. Arrivato davanti alla camera di Emily, si fermò. Sentì il suono del phon e dedusse che la ragazza si stava asciugando i capelli nella speranza che questi non macchiassero ulteriormente il suo viso o degli abiti puliti. Provò a bussare ma non ricevette risposta, così optò per infilare la testa nella camera e dare un'occhiata. Emily era seduta sul letto, il volto coperto dalla vaporosa massa di capelli rossi, non più bagnati ma solo umidi. L'aria del phon li faceva muovere come fiamme in un gioco ipnotico. Il medico si schiarì la voce un paio di volte prima di ricevere l'attenzione della ragazza. Emily lo notò, spense il phon e gli sorrise.

«Si può?» domandò lui. Attese il via libera ed entrò nella stanza con tutto il corpo. La ragazza lo invitò a sedersi accanto a lei, battendo alcuni colpi leggeri sul copriletto. John la raggiunse, si sedette e sfregò un paio di volte le mani sulla superficie dei suoi jeans, pensando a cosa dire.

«Un manicomio vivere con Sherlock, visto?» si decise a dire infine, nella speranza che scherzare sull'avvertimento che lui le aveva fatto al loro primo incontro potesse servire a qualcosa.

Emily rise e la cosa aiutò molto John a distendersi. Non aveva ancora imparato bene a consolare una giovane che ne aveva bisogno, ma gli conveniva imparare se sperava di diventare un buon padre, un giorno.

«Non sono arrabbiata con Sherlock, John. Ma è molto dolce da parte tua voler mettere una buona parola su di lui.»

L'uomo si irrigidì. Guardò Emily perplesso e disse: «Io non sono venuto qui per mettere una buona parola su Sherlock. Anzi, se tu fossi arrabbiata ti darei perfettamente ragione.»

Ripensò un momento a quello che aveva appena detto, rendendosi conto di aver mentito su tutta la linea: era proprio per sperare che Emily non si arrabbiasse con Sherlock che l'aveva raggiunta.

«Beh ma anche se fosse? È il tuo migliore amico, è comprensibile che tu voglia prendere le sue difese.»

John fece per replicare, prese fiato e si apprestò a dire la sua. Borbottò qualche parola poi si bloccò di colpo. «Aspetta un momento» disse serio. «Li hai fatti tu questi?»

Il medico teneva gli occhi fissi sulla parete di fronte a loro. Due mesi prima non era così, avrebbe potuto giurarlo. In quell'arco di tempo la carta da parati era stata lentamente sostituita da foglietti di carta, localizzati in un unico punto ma che lasciavano già intendere di essere intenzionati a invadere anche lo spazio intorno a loro. Erano disegni. Piccoli acquerelli dipinti con pochi tocchi decisi; disegni a tratteggio fatti con pennino o penna a sfera su foglietti di carta improvvisati, angoli di articoli di giornale, retro di scontrini. I soggetti erano vari, persone principalmente e fra tutti spiccava l'immagine di Sherlock Holmes. Il detective era ripreso in diverse pose: mentre suonava il violino, leggeva, o guardava da qualche parte. Su di lui c'erano bellissimi acquerelli, ma anche rapidi lavori fatti a tratto. John li guardò tutti, finché un altro non attirò totalmente la sua attenzione. Era un acquerello eseguito con sicuri gesti di pennello, le figure contornate da inchiostro nero, l'atmosfera sospesa e l'amore palpabile: erano lui, Mary e la loro bambina.

«Ti piacciono?» chiese poi Emily.

La ragazza riportò John alla realtà. Lui la guardò colpito. «Quando li hai fatti?» domandò anziché rispondere.

«Oh, quando riesco. Di solito abbozzo i ritratti dal vero e poi li coloro la mattina, prima di andare a lezione. Mi piace molto farli. Ti piace quello di te e Mary? Puoi tenerlo se vuoi, ne sarei felice.»

«Sono tutti meravigliosi, Emi. Sei bravissima.»

La ragazza sorrise, raggiante. «Grazie.»

«Hai studiato arte?»

«No, nulla del genere. Sono solo appassionata.»

«E anche molto talentuosa» rispose lui, alzandosi e staccando il ritratto della sua famiglia. Emily gli aveva permesso di portarlo a casa e lui lo avrebbe fatto, gli piaceva troppo. Diede un'occhiata anche agli altri lavori; gli acquerelli su Sherlock erano altrettanto belli. Uno dell'uomo che suonava il violino, poi, gli parve un quadro miniatura.

«Sherlock sa che lo disegni?» domandò incuriosito.

La ragazza si strinse nelle spalle. «Sicuramente» rispose tranquilla. «Mi macchio sempre le dita quando lavoro con il pennino, dubito che Sherlock non l'abbia notato. Forse non gli interessa.»

John annuì appena a quelle parole, tornò a sedersi accanto a Emily, il disegno fra le mani.

«Sai, John» prese a dire poi la ragazza. «Sono piuttosto certa che Sherlock abbia già capito tutto di me, o per lo meno quasi tutto. Eppure io, in questi due mesi, sono riuscita a capire così poco di lui.»

Puntò lo sguardo sui suoi disegni, zittendosi. John riuscì a percepire una leggera nota di amarezza nel tono della sua voce. Cercò qualcosa da dire, ma Emily pareva non aver bisogno di essere consolata.

«Credevo sarebbe stato più semplice, lo ammetto. Mi sono illusa che sarei riuscita a raccogliere sufficienti informazioni su di lui solo perché sono stata capace di fare un buon lavoro scrivendo di altri geni – geni a modo loro, erano pur sempre assassini. Forse ci sono riuscita solo perché altri avevano già parlato di Jack lo squartatore o Ted Bundy, forse questa volta ho voluto esagerare nel cercare di afferrare una psiche come quella di Sherlock, una psiche mai affrontata prima.» Sospirò, scuotendo leggermente la testa. «Ho raccolto così poco materiale. Non credevo di sentirmelo dire, ma è una delle persone che mi riesce più difficile da comprendere, nonostante sia quello che desidero capire meglio di chiunque altro.»

John si voltò appena per osservare il profilo della ragazza. Non gli parve demoralizzata, solo pensierosa.

«Non so a quanto possa servire,» le disse infine, «ma sebbene conosca Sherlock da un po’ di anni e sia, assurdamente, il mio migliore amico, sono certo di non capirlo alla perfezione il più delle volte nemmeno io. Insomma, lo hai visto anche tu: cambia idea di continuo, a volte non parla per giorni, altre tende a essere monosillabico a meno che non debba mostrare a tutti quanto è intelligente e il più delle volte, anzi, sempre, spara le sue deduzioni brillanti senza ritegno e senza essere interpellato. Io, davvero, non capisco come tu riesca a essere ancora così adorabile pur vivendo insieme a lui» esclamò.

Come ebbe concluso si rese conto di aver deviato l’argomento e preferì rimanere in silenzio. Emily gli sorrise, dolcemente.

«Sono d’accordo,» rise appena, «però ti posso garantire che nonostante tutto, Sherlock mi piace.»

John la guardò, allibito. «Ti… piace?» balbettò.

La ragazza capì immediatamente la situazione. Spalancò gli occhi e rispose subito: «No. Non in quel senso lui… no» disse, aggrottando la fronte come per accertarsi della sua risposta. «Mi piace vivere con lui, indagare insieme a lui, ascoltarlo suonare il violino, saperlo in giro per la mia stessa casa» ammise serena, dopodiché tornò a rabbuiarsi leggermente. «È solo che non lo riesco a capire ancora bene. Mi sono sempre sentita brava nel riuscire a intuire con chi ho a che fare, ma con Sherlock mi riesce così complicato e non capisco perché. Eppure, per quanto questa cosa mi infastidisca, sono contenta di avere a che fare con lui.»

«Magari è proprio perché non sei riuscita ancora ad afferrarlo appieno che ti piace» propose all’improvviso John, senza sapere bene perché lo avesse detto.

Emily lo guardò nuovamente, incuriosita. «Vuoi dire che se mai riuscissi a comprenderlo veramente allora smetterebbe di piacermi?» chiese, sollevando un sopracciglio.

John si alzò dal suo posto, il disegno ancora in mano. Si passò una mano fra i capelli e si strinse nelle spalle. «O forse potrebbe piacerti di più» concluse lui, facendole l’occhiolino e ripensando a se stesso e ai suoi trascorsi con il detective. «Ti va di tornare di sotto? Possiamo preparare un tè» propose infine.

La ragazza rimase a guardarlo un momento, poi sorrise. Anche John Watson le piaceva, decisamente. E il fatto che la sua prima impressione sull’uomo si dimostrasse via via sempre più corretta la rassicurava. Non era lei che stava perdendo la sua capacità di intuire in fretta con chi aveva a che fare, era Sherlock Holmes che ogni giorno si dimostrava la sfida più intrigante che lei avesse potuto lanciare a se stessa.

Scese le scale seguendo il medico, rinvigorita: avrebbe fatto un ottimo lavoro, avrebbe capito perfettamente Sherlock e la sua mente geniale.

In fondo alla rampa i due si trovarono davanti proprio l'oggetto della loro ultima conversazione. Il detective era fermo al centro del soggiorno, rivolto verso di loro.

«I tuoi capelli sono nuovamente asciutti, Emi. Ottimo» disse con eccessivo – e decisamente sospetto – entusiasmo. «Usciamo» annunciò poi, un gesto della mano a far intendere che erano inclusi in quella gita fuori porta tutti, anche John.

«Bene, usciamo. E dove dovremmo andare?» chiese scettico quest'ultimo, consapevole che c'era ben altro in gioco; probabilmente un cadavere dato il luccichio eccitato negli occhi dell'amico.

« Al St. Bartholomew's Hospital. Molly ha qualcosa per me.»

 

*

 

John chiuse la chiamata proprio mentre stavano per varcare la soglia dell'ospedale. Il cielo si era rischiarato sopra la città e il blu del tardo pomeriggio cominciava a virare verso toni sempre più scuri.

«Non mi fermo a lungo. Mary deve uscire più tardi e non posso certo lasciare sola la bambina» informò il medico, affiancando Sherlock. Emi, un passo dietro ai due, li seguiva osservandoli.

Di nuovo il St. Bartholomew's Hospital, un posto che lei aveva imparato a conoscere fin troppo in fretta. Doveva esservi entrata come minimo sette volte da quando frequentava Sherlock.

«Molly ha cosa per te, esattamente?» chiese all'improvviso John, destando l'interesse di Emily. «Spero non qualche pezzo umano da lasciare nel frigorifero a marcire.»

Sherlock arricciò le labbra. «Sai, ho pensato di svolgere altri studi sui legamenti delle mani. Devo tenere aggiornato il mio sito anche sotto questo punto di vista» rispose con tono ovvio.

«Veramente non sono così sicuro che esista qualcuno seriamente interessato a questi tuoi studi» gli ricordò John per l'ennesima volta.

Il detective lo guardò, radioso. « E qui ti sbagli, di nuovo. Per il lavoro che Emily sta scrivendo su di me il mio sito è molto importante.»

John si voltò verso la ragazza. Quest'ultima si strinse nelle spalle e abbozzò un mezzo sorriso. «Ha ragione.»

Il medico sbuffò davanti alla nuova vittoria di Sherlock.

«Ok, ma non ci avrai fatto venire tutti solo per recuperare delle mani, spero.»

L'altro si fermò di colpo a quelle parole. John, abituato a questo genere di sceneggiate, si arrestò in tempo ma Emily, colta di sorpresa, per poco non finì addosso a entrambi.

«Non essere stupido, John. Siamo qui per qualcosa di meglio» lo rassicurò Sherlock.

La cosa non servì a tranquillizzare molto il medico, al contrario. Fu la conferma che c'era un cadavere di mezzo – con tutta probabilità la conseguenza di un omicidio – ovvero qualcosa che, più volte, era stato sinonimo di guai per loro due.

I tre ripresero a camminare e raggiunsero il laboratorio, dentro il quale Molly li stava aspettando. Sherlock fu il primo a entrare.

«Buon pomeriggio, Molly» disse varcata la soglia.

La donna si irrigidì appena nel vederlo. Lo salutò un po' impacciata, per poi estendere il saluto anche ai due che erano con lui. Sherlock si svestì del cappotto e lo lasciò nell'attaccapanni accanto alla porta, subito imitato da Emily. John, invece, si rivolse all’anatomopatologa: «Cos'avresti per Sherlock, quindi?»

Lo chiese con un po' troppa foga. Molly, infatti, lo guardò nervosamente. «Dei campioni di sangue di Horvat.»

Emily si avvicinò all'improvviso sentendo quel nome.

«Horvat? Il presunto assassino del giudice Walker?» chiese alla donna, sinceramente incuriosita e improvvisamente interessata.

«Sherlock non ci ha detto niente» intervenne John, sempre rivolto a Molly.

Il detective lo affiancò. «Eravate troppo impegnati a parlare di me quando sono stato informato. Non mi sembrava opportuno interrompervi. Ebbene, Horvat è stato ritrovato nella sua cella privo di vita.»

Sentendo quelle parole John si voltò e lo guardò di sbieco. Venne completamente ignorato.

«Quindi Horvat è morto» mormorò Emily, sovrappensiero.

«Già. Avvelenato anche lui a quanto pare. Pensano si tratti di suicidio» disse Molly.

La notizia fece scattare molte cose nella mente di Emily, prima fra tutte il fatto che quella, per lei, era una morte fin troppo sospetta. La faccenda di Horvat le era parsa dubbia fin dall’inizio e di certo quel “suicidio” le dava modo si pensare che dietro tutto ciò si nascondesse qualcosa di ben più grande. Nella sua mente qualcosa le disse che Horvat non si era affatto ucciso e che chiunque gli avesse somministrato il veleno era, con tutta probabilità, lo stesso che aveva ucciso il giudice Walker e pagato Horvat per addossarsi la colpa. Si accorse con la coda dell’occhio che Sherlock la stava guardando. Rispose al suo sguardo e lui rimase lì, a osservarla ancora, i limpidi occhi azzurri a indagare ben più in profondità di quanto chiunque altro riuscisse a fare.

«Ti ho preparato dei campioni di sangue, Sherlock. Sono sul tavolo, accanto al microscopio e ai reagenti» dichiarò Molly.

Il detective si rivolse a lei e la ringraziò.

«Credo dovremo stare qui per diverse ore» disse poi. «John fra poco dovrà andare via, ma tu rimani, non è vero, Molly? Ho bisogno di qualcuno che ci sappia fare.»

La donna annuì e a Emily non sfuggì il sorriso lievemente imbarazzato e il gesticolare febbrile delle mani, nascoste dalle maniche del camice. Capì che i suoi sospetti – formulati nelle settimane precedenti – erano fondati. Molly era interessata a Sherlock e il fatto di conoscerlo da anni non l’aveva ugualmente aiutata a rendere ininfluente i suoi sentimenti a contatto con lui. La cosa le fece tenerezza, oltre ad aumentare ulteriormente la simpatia che lei nutriva nei confronti del medico.

Sherlock non aveva finito di parlare, si sistemò al microscopio e prese in mano una delle provette contenente il sangue di Horvat. «Cerca di non disturbarmi, però. E se hai voglia di parlare c’è Emi. È molto socievole» concluse, con la sua consueta faccia tosta.

«Vuoi renderci partecipi della cosa, di grazia?» sbuffò John in direzione dell'amico.

«C'è poco di cui rendervi partecipi» replicò asciutto Sherlock. «Horvat è morto avvelenato. Ora analizziamo il suo sangue per cercare di capire cosa, esattamente, lo ha ucciso. Una volta ottenuta questa informazione iniziamo a fare delle supposizioni.»

Mise una goccia di sangue su un vetrino da laboratorio e lo spostò sotto al microscopio, cercando poi fra i reagenti la sostanza giusta per verificare la sua prima teoria.

«Lavoro così da sempre, possibile che tu senta ancora il bisogno di pormi certe domande?»

John lo ignorò completamente e si rivolse a Molly: «Non è stato ancora analizzato questo sangue, quindi?»

La donna scosse la testa. «No, non ancora. Hanno trovato Horvat questa mattina. La prima autopsia mi ha consentito di capire che è stato avvelenato ma non so ancora con cosa. Prima che potessi svolgere altre analisi l'ispettore Lestrade mi ha detto di contattare Sherlock.»

«Anche Lestrade sospetta un omicidio, allora» propose Emily, con una lieve incertezza.

Guardò l'anatomopatologa, che annuì. «Esatto, ma non può fare molto. In centrale sono tutti propensi a credere all'ipotesi del suicidio e lui sa già che se proponesse di indagare senza prove certe glielo impedirebbero.»

Emily si voltò verso Sherlock in cerca di una qualche possibile reazione da parte dell’uomo. Quello che Molly aveva appena detto loro lasciava intuire che Lestrade non solo si fidava del detective, ma era anche consapevole che lui fosse l’unico in grado di far luce su quella situazione. Era tutto decisamente più complicato di quanto apparisse. Tuttavia Sherlock non batté ciglio, ma continuò a osservare attentamente il campione di sangue e la sua reazione sotto al microscopio. La ragazza, allora, gli si avvicinò; si posizionò al suo fianco e rimase a guardarlo lavorare, in silenzio. Osservò i suoi occhi fissare con intensità il sangue attraverso le lenti dello strumento, la matita muoversi sul taccuino mentre prendeva appunti senza guardare ciò che stava scrivendo. Il detective era di nuovo nel suo elemento, dove dimostrava di sapersi destreggiare alla perfezione. Era impassibile, fermamente risoluto ed Emily sentiva, nel più profondo di sé, che lui aveva scoperto già molte più cose di quanto non volesse dare a vedere.

Quello dell’omicidio di Horvat non era un nuovo caso, ma solo un nuovo filo di una più vasta e intricata rete in cui lei, leggendolo nello sguardò di Sherlock, capì di essere appena rimasta incastrata.

 

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Capitolo 6
*** VI ***


 

 

Su Emily la notte aveva sempre avuto un fascino unico. Quando era piccola non aveva paura del buio, al contrario, era sempre stata attratta dalle strane ombre che si proiettavano sulla parete della sua camera al passaggio di una macchina. I suoi genitori erano convinti fosse stato proprio quella sua immotivata “non paura” a renderla la ragazza che era e a far sì che i lati più oscuri di una persona potessero avere tanto fascino su di lei. Il fratello più grande, addirittura, era stato certo per anni che, un giorno, la sua unica sorella sarebbe stata annoverata nel vasto elenco di pazzi che a lei piaceva tanto studiare. Per Emily, però, non era stato così. Nella notte lei stava bene per via del buio e del silenzio, perché solo in quelle condizioni i mille pensieri e le centinaia di fantasie che le riempivano perennemente la testa nell’arco del giorno, potevano essere ascoltate veramente. Si sentiva un’anima notturna, un puntino di rosso nel buio, incomprensibile a molti.

Aveva sciolto il suo sguardo nella Londra delle nove di sera quando il caffè riempì della sua aroma il cucinino in cui lei si trovava. Quell’ala del St. Bartholomew's Hospital era ormai deserta e con il cervello che lavorava a pieno regime in cerca di chiarezza sulle nuove scoperte, la ragazza versò due generose tazze di caffè nero, zuccherandone una come piaceva a lei e preparando l’altra per Molly. Le afferrò entrambe e tornò in laboratorio, dove Sherlock stava ultimando le sue ricerche sui campioni di sangue di Horvat. L’anatomopatologa lo stava aiutando mentre Emily, in disparte, aveva raccolto quante più sfumature possibili di quella sera, nella continua speranza di riuscire a carpire la mente del detective. John era andato via da un paio di ore e la sua assenza si sentiva nel laboratorio di ricerca.

Appena Emily rientrò sfilò accanto a Sherlock per portare la tazza di caffè a Molly. La donna la ringraziò e come la ragazza si voltò notò l’uomo con la mano tesa nella sua direzione, in attesa. Non la stava guardando, continuava invece a fissare il portatile, su cui varie formule chimiche si alternavano in cerca di una compatibilità.

«Cosa vuoi?» domandò infine Emily, dopo aver osservato a sufficienza la mano spalancata di Sherlock.

Lui si voltò e le lanciò un’occhiata di sufficienza. «Il mio caffè.»

Di tutta risposta la ragazza osservò la tazza, poi di nuovo l’uomo. «Questo è mio, Sherlock. Quando ho chiesto chi voleva un caffè non mi hai risposto, quindi non te l’ho fatto.»

«Noi due zuccheriamo il caffè esattamente alla stessa maniera. Due zollette. Non puoi essere certa che quello che tieni in mano sia proprio il tuo» concluse, in tono ovvio.

Emily lo guardò sbigottita per un lungo momento, infine alzò gli occhi al cielo, sbuffò e mise la tazza in mano al detective. «Spero si sia raffreddato» disse acida.

Non notò il sorriso sornione di Sherlock mentre si sistemava nello sgabello accanto a lui, proprio davanti al pc. Rimase a osservare varie formule chimiche che si accavallavano fra loro: i risultati di una ricerca lanciata poco prima dal detective. Anche Molly li raggiunse, si fermò alle spalle dell’uomo e fissò anche lei gli occhi sullo schermo.

Quello era l’ultimo atto di ore di analisi. Sherlock e l’anatomopatologa avevano eseguito diversi test sui campioni di sangue di Horvat e, una volta isolato quello che aveva tutte le probabilità di essere il responsabile del decesso del croato, il database informatico era stato avviato. Le indagini avevano portato a isolare una complicata molecola, appartenente alla famiglia dei terpeni, una famiglia sconfinata, che stava richiedendo molto tempo per essere scandagliata.

D’improvviso il detective si fermò. Posò la tazza e digitò rapidamente qualcosa sulla tastiera del portatile, bloccando la ricerca. Emily trattenne il respiro e si allungò sulla scrivania per vedere meglio lo schermo.

«Aconitina» mormorò, scandendo meglio che poteva la parola. Non aveva mai sentito nulla del genere, tuttavia la sua formulazione coincideva alla perfezione con quella che Molly e Sherlock avevano isolato.

«Si estrae da una pianta» disse poi Sherlock, senza rivolgersi a qualcuno di preciso. «É considerato uno dei veleni più potenti al mondo e non se ne conosce antidoto.»

Sentendo quelle parole la ragazza rabbrividì. «Volevano proprio essere certi che Horvat morisse, vedo.»

«Non è una neurotossina, però. Ero convinta che fosse morto a causa di un altro tipo di veleno.»

Molly posò la tazza di caffè con quelle parole. Si sentiva confusa. Il modo in cui l'uomo era morto, la paralisi che lo aveva colpito e il soffocamento come causa finale del decesso, l’avevano condotta a pensare che il veleno avesse intaccato il sistema nervoso e per tale motivo aveva seguito inizialmente quella pista.

«Hai ragione, non è una neurotossina. Tuttavia il principio è più o meno lo stesso. Anche questo attiva i canali del sodio» la rassicurò il detective.

Emily non ne capiva molto di tutto ciò, eppure quell'indagine la stava affascinando. Nuovamente vedere Sherlock fare supposizioni, ideare teorie e disegnare scenari l'elettrizzò. Sotto i suoi occhi c'era ancora una volta l'uomo per cui aveva raggiunto Londra, quello per cui aveva lasciato la propria città nella speranza di poterlo comprendere e di poterne raccontare le qualità.

«Pensi che sia stata una scelta o solamente un caso? In fin dei conti si estrae da una pianta, lo hai detto tu» propose la ragazza, sovrappensiero.

«Dubito che qualcuno abbia agito con casualità. Questo veleno si estrae dai fiori di aconito napello ed è pericoloso anche solo a contatto con la pelle. Oltretutto questa specifica razza cresce ad altitudini ben maggiori di quelle di Londra» la informò Sherlock, serio. Congiunse le mani davanti alle labbra e si mise a pensare, gli occhi fissi sui legami chimici della molecola, ancora disegnata sul portatile. «Può darsi che il colpevole volesse camuffare il veleno usato. Se a una prima occhiata appare una morte causata da una neurotossina forse voleva proprio che apparisse come tale» proseguì, rivolto più a se stesso che alle due donne che aveva accanto.

«Ma a che scopo? Se dalle analisi si scopre che è morto per avvelenamento da...aconitina,» lesse incerta Emily, «che senso ha fingere che abbia usato qualcos'altro?»

Sherlock la guardò. Era molto serio, concentrato. Nella sua mente si accavallavano mille ipotesi diverse fra loro, complicate, impossibili, inspiegabili. Alcune le scartò subito senza ritegno, sempre tenendo gli occhi fissi sulla ragazza.

«Era un criminale, Emi. Per quanto possa sembrare senza cuore da dire, non è il primo e non sarà l'ultimo a togliersi la vita in prigione. Casi come questo, che hanno tutto l'aspetto di un suicidio, sono destinati a finire nel dimenticatoio in fretta. Di rado ricevono le attenzioni che dovrebbero ricevere, ciò vale a dire che spesso non si va a indagare a fondo sulla reale causa del decesso.»

Lei si irrigidì alle parole del detective. Sapeva che lui aveva ragione, ma la cosa era comunque demoralizzante. Guardò un momento Molly, che rispose al suo sguardo.

«Lestrade, allora? Perché vi ha chiesto di andare più un fondo alla faccenda? Lui pensa si tratti di un omicidio, duplice a questo punto» propose poi, in cerca di conferme ai suoi sospetti.

«Beh, sì. Ma pare sia il solo in centrale» le rispose Molly.

«Per una volta sono d’accordo con l’ispettore» intervenne infine Sherlock. «Si tratta senz’altro di un omicidio, sicuramente collegato a quello del giudice Walker. Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna e mi hai appena fatto notare che non torna nemmeno a te, Emily.»

La ragazza spalancò gli occhi appena si sentì chiamata in causa. Incontrò lo sguardo del detective e si sentì improvvisamente nervosa. Sherlock la stava coinvolgendo di nuovo e le piaceva, Dio quanto le piaceva. Eppure in quella specifica situazione l’idea di essere coinvolta dall’uomo la agitava. C’erano troppe cose che non tornavano e lei non si sentiva sicura di voler indagare in tutto ciò, perché aveva capito che era qualcosa di sconfinato e oscuro. Due morti avvelenati chiaramente legati fra loro, un assassino che era riuscito a far passare entrambi gli omicidi sotto silenzio e che, cosa talmente impensabile da poter essere vera, sembrava voler dialogare direttamente con Sherlock proprio attraverso i suoi crimini. Per lei la morte di Horvat non poteva essere l’ultimo capitolo di un assassinio finito male, ma l’inizio di qualcosa di molto più ampio; era la superficie del lago più nero che avesse mai visto.

«Andiamo, sai la risposta» la incalzò Sherlock.

«Il fatto è che io non capisco perché se l’assassino è lo stesso abbia usato due veleni diversi » azzardò alla fine la ragazza. «Se invece gli assassini fossero due, beh, bella coincidenza, no? Il veleno sarebbe tornato di moda» concluse, sarcastica.

Sherlock distese lievemente le labbra. «Anche io non credo a una nuova primavera dei veleni. Dietro questi delitti c’è lo stesso uomo, potrei scommettere qualsiasi cosa.»

«Ok, mettiamo caso che sia lo stesso» disse Molly, introducendosi nella conversazione e osservando Sherlock dall’alto. «Allora perché usare due veleni diversi? Su Walker il botulino era stato efficace, perché non usarlo anche su Horvat?»

Emily annuì alla sua domanda. Anche quello era un altro fattore che non riusciva a spiegarsi. Aveva letto di molteplici omicidi nell’arco dei suoi studi e quando si parlava di assassini seriali praticamente tutti erano stati fedeli a una sola cosa nell’arco della storia: il metodo. Chi uccideva premeditando l'omicidio, senza lasciare nulla al caso, aveva nell'arma il proprio biglietto da visita. Sebbene nei casi in questione il principio della morte dei due uomini fosse lo stesso non lo era l'arma. Oltretutto si trattava di due casi studiati, non improvvisati, qualcosa che era stato preparato e poi messo in pratica con cura e nei tempi prestabiliti. Il fatto che il veleno usato non fosse lo stesso era decisamente sospetto per Emily. Doveva esserlo anche per Sherlock a giudicare dalla luce che aveva inondato i suoi occhi a seguito della domanda di Molly.

«Tu cosa ne pensi, Sherlock?» tentò di richiamarlo la ragazza. «Perché avrebbe usato un veleno differente questa volta?»

Il detective rimase in silenzio ancora, gli occhi nuovamente fissi sulla formula chimica dell' aconitina. Le mani erano ferme in una posa sicura a contatto con le labbra, il suo respiro aveva rallentato. Qualunque cosa fosse successa, Emily sapeva che non avrebbe dovuto interromperlo con nessuna domanda da quel momento in poi. Una delle poche certezze che aveva accumulato su Sherlock Holmes dal giorno in cui lo aveva conosciuto, era quella di aver imparato a capire quando l'uomo entrava nel suo Palazzo mentale. Ed era ciò che era appena accaduto. Emily si zittì di colpo, cercando di mantenere a freno anche i propri pensieri, con la bizzarra intenzione di non farli interferire con quelli del detective.

Tuttavia la sua permanenza all'interno del Palazzo durò poco. Sherlock si voltò verso la ragazza solo pochi attimi dopo essersi esternato, una scintilla faceva splendere i suoi occhi chiari di una strana, ma quanto mai determinata, luce.

«Perché sta cercando di dirci qualcosa» disse infine, affascinato.

 

*

 

La caffetteria dell'ala est della London Metropolitan University era affollata di gente. Il chiacchiericcio continuo si levava da ogni angolo dell'edificio, portato da gruppi di studenti intenti a conversare, persone al telefono e al continuo rumore di tazzine e piatti posati sul banco e sui tavoli. Fra questo caos tipico di persone, seduta sola a uno dei tavoli vicini alle ampie finestre che davano su uno dei cortili interni della struttura, il portatile aperto davanti, c'era Emily. Aveva appena terminato di bere il suo caffè delle quattordici e stava controllando alcune cose prima di tornare a casa, a Baker Street. Gli scompigliati capelli rossi erano acconciati in modo confuso sulla sua testa, alcune ciocche le ricadevano ostinate sugli occhi; era stretta nell'abbraccio di un maglione dolcevita, gli occhi assonnati di chi aveva ascoltato la notte ancora una volta.

Nei giorni precedenti non era riuscita a darsi pace in seguito al ritrovamento di Horvat e alla scoperta della causa del suo decesso. Esattamente come Sherlock, anche lei era convinta del fatto che i due più complicati omicidi in cui si era imbattuta da quando aveva conosciuto il detective – vale a dire quello del croato e quello di Walker – fossero non solo collegati fra loro, ma anche più articolati di quanto apparissero e con una mente invidiabile a tirarne i fili come a una coppia di marionette. Tuttavia negli ultimi due giorni non avevano scoperto altro. Sherlock era convinto di aver già avuto a che fare con un assassinio a base di aconitina, solo non riusciva a ricordare in quale circostanza e per lui, riuscire a risalire a quell’omicidio, poteva essere la chiave con cui iniziare a decifrare correttamente i nuovi casi.

Lestrade si era fatto vivo il giorno dopo le analisi sul sangue di Horvat. Aveva annunciato che il suo superiore aveva archiviato il caso, definendolo un banale suicidio, e che quindi c’era poco altro che si poteva fare. Aveva infine detto a Sherlock che poteva tranquillamente smettere di ragionare su tutta quella faccenda. Il detective, di tutta risposta, lo aveva ringraziato impassibile e aveva chiuso la chiamata; si era poi sistemato sulla sua poltrona, aveva impugnato il violino e si era messo a suonare, riempiendo delle note di Bach il soggiorno del 221B. Per Emily era stato il chiaro segnale che l’uomo non avrebbe chiuso tutto così, su due piedi. Se non lo avesse fatto per Scotland Yard allora avrebbe scovato l’assassino da solo e lei era intenzionata ad aiutarlo. Nonostante tutto, però, c’era qualcosa in tutta quella situazione che non la faceva stare calma. Dentro di sé, in punto profondo e lontano, c’era qualcosa che la rendeva nervosa. Tuttavia, in preda a un impeto di voglia di fare che solo lavorare con Sherlock Holmes riusciva a darle, la ragazza aveva avviato una sua personale ricerca nella speranza di poter aiutare il detective, anche solo dandogli qualche possibile ispirazione. Usando il suo consueto metodo di studio era partita con l'effettuare alcune ricerche, dai risultati, però, pressoché nulli.

Così, al termine della lezione del martedì mattina, si era rintanata nella caffetteria del college e lì aveva iniziato a rileggere per l'ennesima volta il blog di John, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa. Stava rileggendo Uno studio un rosa, che era uno dei suoi lavori preferiti scritti dal medico – oltre a essere un'indagine altamente intrigante – quando si sentì salutare da qualcuno. Sollevò lo sguardo, convinta che non si stessero rivolgendo a lei – in fin dei conti aveva a malapena conosciuto i suoi compagni di corso, dato che a ogni fine lezione scappava a casa per trascorrere più tempo possibile con Sherlock – ma quando si accorse che invece era proprio a lei che si stavano rivolgendo, ci mise un po' a riemergere dal mondo di John Watson. Davanti si trovò un ragazzo che doveva avere pressappoco la sua età, i capelli castani ben curati e i lineamenti del volto fin troppo marcati. Emily fece scorrere con rapidità gli occhi sulla felpa rossa che portava chiusa fino al collo, individuando lo stemma del club di calcio del suo college. Non erano compagni di corso, non riusciva a ricordarsi il suo viso nella sua stessa aula di lezione.

«Ciao» ripeté lui infine.

La ragazza gli sorrise, salutandolo di rimando. Decisamente non aveva mai incontrato quel ragazzo, ma forse lui l’aveva notata già più volte in caffetteria – in fin dei conti per lei quella era una tappa obbligatoria ogni giorno.

«Posso offrirti qualcosa?» le chiese poi.

Emily capì che i suoi sospetti erano fondati. Lanciò un’occhiata al portatile, poi di nuovo allo stemma cucito sulla felpa del giovane davanti a lei e si chiese per quale motivo ogni volta che qualcuno tentava di abbordarla sbandierava fin da subito alcune cose su cui, e lei lo sapeva, non sarebbero mai andati d’accordo. Suo padre e i suoi tre fratelli erano tutti giocatori di rugby, cosa che rendeva, nella sua casa e anche nella sua mente, il calcio come l’ultimo sport di possibile interesse, quello a cui ci si appassiona solo perché tutti gli altri sono scomparsi all’improvviso dalla faccia del pianeta. Non solo, forse per centinaia di ragazze quello che le aveva appena rivolto la parola era uno dei ragazzi più belli pensabili, ma non per lei, che aveva sempre trovato nei volti non convenzionali delle bellezze nascoste.

Tuttavia si rese anche conto che la sua vita sentimentale era da troppo tempo un autentico disastro e decise di lasciar perdere le sue eccessive convinzioni e di provare a non partire prevenuta verso un ragazzo almeno per una volta.

Sollevò il suo bicchiere di caffè ormai vuoto e sorrise imbarazzata al suo interlocutore. «Arrivi tardi, mi spiace. Non penso mi convenga farmi un’altra dose di caffeina, almeno per il momento. Ma se vuoi puoi sederti» concluse, indicando la sedia libera al suo tavolo.

Lui si sistemò nel posto appena indicatogli, un nuovo sorriso – fin troppo sicuro – a illuminargli il viso. Tese la mano a Emily sopra il tavolino. «Sono Eddie.»

«Emily, piacere.»

«Ti vedo spesso qui, in caffetteria. Cosa studi?» domandò Eddie, dimostrando una certa sicurezza; con molta probabilità, pensò la ragazza, la caffetteria doveva essere il suo terreno di caccia preferito.

«Criminologia. Sto seguendo il master» rispose lei, con sicurezza. Di solito tendevano a ignorarla una volta scoperto il suo corso di studi, perciò rimase in attesa di sentire che scusa si sarebbe inventata il ragazzo per girare i tacchi e andarsene. Tuttavia lui non lo fece.

«Criminologia, interessante. E stai leggendo qualcosa sull’argomento?» le chiese, indicando con un cenno il portatile.

Emily lanciò istintivamente uno sguardo al suo notebook, scorrendo in fretta le righe scritte del blog di John senza soffermare la sua attenzione su qualcosa di preciso. Nonostante la rapidità con cui guardò lo schermo, però, una parola attirò la sua attenzione, una su tutte. Era nell’ultima riga, una di quelle che, proprio per via dell’arrivo di Eddie, lei non aveva fatto in tempo a leggere. Quella parola era lì, in mezzo alle altre, apparentemente innocua ma, in quel frangente, decisamente fin troppo importante: aconitina.

Spalancò gli occhi come la lesse, mentre la sua mente le disse di andarsene, andare via da lì subito e riferire quello che aveva scoperto a Sherlock il più in fretta possibile. Scattò immediatamente, si alzò in piedi facendo quasi cadere in terra la sedia, dopodiché chiuse il portatile e lo infilò in fretta nello zaino, sotto agli occhi di un confuso Eddie.

«Scusami tanto, davvero» disse, raccogliendo le sue ultime cose e infilando il cappotto con una fretta sconsiderata. «Rimarrei volentieri con te a parlare del club di calcio del college, ma ho appena scoperto una cosa che non posso assolutamente ignorare.» Si fissò lo zaino in spalle e si abbottonò per bene. «Se mai la prossima volta.»

Concluse con un leggero sorriso e si avviò in gran fretta fuori dalla caffetteria, senza aspettare una risposta.

 

*

 

Sebbene il cielo su Londra fosse cristallino, Emily aveva con sé, come sempre, il proprio ombrello giallo. Con tutta probabilità con esso aveva infilzato diverse persone dato che, all’uscita della stazione metropolitana di Baker Street, si era fatta strada in fretta e in malo modo fra i presenti. Tuttavia non le importava; il suo unico pensiero, in quel momento, era raggiungere subito Sherlock Holmes.

Arrivata al 221B estrasse in fretta le chiavi ed entrò, urlo letteralmente un saluto a Mrs. Hudson e salì i gradini a due a due, fino a raggiungere il pianerottolo di casa. Spalancò la porta e si trovò subito davanti agli occhi Sherlock. L’uomo era seduto alla sua consueta poltrona, fra le mani teneva l’archetto del violino, su cui stava stendendo la pece.

La ragazza lo guardò, rapita per un momento. Aveva il fiato corto per via della fretta e delle scale ma per un breve istante quasi si dimenticò per quale motivo.

«Avresti potuto portarmene uno. Dicono che il caffè dell’università sia ottimo» disse l’uomo, con nonchalance.

Lei non capì come Sherlock fosse riuscito a intuire che aveva appena bevuto un – ottimo, quello sì – caffè, ma in quel momento la curiosità di sapere la risposta non poteva certo competere con il suo desiderio di informare immediatamente Sherlock di cosa aveva scoperto.

«Devi vedere una cosa» gli disse lei, ignorando le sue parole di poco prima.

Si avvicinò a lui, estrasse il notebook dallo zaino e lo posò sul tavolino accanto alla poltrona dell’uomo. Dopo un primo momento di indecisione il portatile si riavviò, caricando la pagina del blog di John Watson nel punto esatto in cui la ragazza lo aveva lasciato in standby. Sherlock posò lo sguardo sullo schermo e lesse rapidamente il titolo del blog.

«L'aconitina è lo stesso veleno usato dal killer di Uno studio in rosa1» lo informò Emily.

Il detective la guardò. «Lo so» rispose, calmo, dopodiché ricominciò a occuparsi del proprio archetto.

La ragazza aprì bocca per replicare, ma non le venne in mente nulla da poter dire subito.

Sherlock lo sapeva già? Quando era successo? Si sentiva stupita, addirittura sconvolta da quella recente scoperta.

«Lo sai?» domandò alla fine, con eccessiva foga. «E quando lo avresti capito? Appena terminate le analisi avevi detto che non ricordavi dove avevi già sentito questo veleno.»

«Vero, ma poi mi è venuto in mente. E prima che a te.» Si alzò dalla poltrona e posò l'archetto accanto al suo prezioso strumento. «Però alla fine ci sei arrivata anche tu, sei stata brava.»

Alla ragazza caddero visibilmente le braccia. Non poté fare a meno di sentirsi presa in giro. Aveva capito ormai da un po' che Sherlock era diverso sotto tanti punti di vista, ma lo apprezzava ugualmente anzi, le piaceva proprio. Tuttavia in quel momento lui fu in grado di irritarla come non le era mai accaduto prima. Certo, quei due assassinii erano una sua indagine, ma allora perché l'uomo la stava coinvolgendo ogni volta per poi non tenerla aggiornata sulle novità o sulle nuove scoperte? Non poteva neanche essere una questione legata alla sua tesi di laurea, tutto ciò che riguardava Sherlock era fondamentale per il suo lavoro e lei era certa che, non solo lui lo sapesse benissimo, ma non fosse neanche quello il motivo. Si trattava di altro, ma non capiva di cosa. Sebbene John le avesse detto più volte che il detective era decisamente particolare, lei non aveva mai pensato possibile lo fosse a tal punto.

«Perché non me lo hai detto?» chiese infine, arrendendosi all'evidenza che, con tutta certezza, non sarebbe stata l'ultima volta.

Sherlock la guardò, imperscrutabile. Gli occhi celesti si misero ad analizzare Emily, ma in quel momento gli riuscì più semplice che mai; il suo respiro non si era ancora regolarizzato per bene, gli abiti scomposti, il cappotto ancora indosso, gli permisero di comprendere con troppa semplicità che lei era rientrata di fretta per riferirgli quello che aveva scoperto. Inoltre il modo in cui lo stava guardando, un misto di supplica e rabbia, lo aiutò a capire che lei non era John Watson e che, per quanto anche Emily fosse brava a convivere con lui, di tanto in tanto qualcosa di simile a delle scuse per via del suo comportamento se le meritava.

Distolse un momento lo sguardo dalla ragazza e prese fiato.

«Se può servire a consolarti, anche a John non dico sempre tutto. E lui fa molte più domande di te.»

«É una magra consolazione» gli fece notare la ragazza nonostante, in una zona piccola dentro di sé, si sentì rinfrancata.

Sherlock lo dedusse, poiché incurvò l'angolo destro della bocca in un mezzo sorrise e ricominciò a parlare: «Dai vecchi documenti di Scotland Yard che ho raccolto su quel caso – quello di Uno studio in rosa per citare il mio “blogger” – ho avuto effettivamente conferma del fatto che l'assassino usasse offrire pillole a base di aconitina e che quindi John, sul suo blog, non ha scritto una fesseria.»

Frugò in uno dei cassetti del tavolino in cerca di qualcosa e alla fine ne tirò fuori una piccola e stretta fiala, piena di polvere giallognola. «Inoltre la colorazione tipica di quel veleno è la stessa che era presente nelle microcapsule poste all'interno delle pillole che ho appena citato. Lo so perché ne ho tenuta in mano una anche io.»

Emily spalancò gli occhi e li fissò sulla fiala. «Dimmi che quello non è veleno» mormorò.

Sherlock, di tutta risposta, le sorrise. «Oh no, invece lo è. Ti sconsiglio di ingerirlo se vuoi continuare a vivere, ma sono certo che tu lo sappia perfettamente. È aconitina pura, l’ho presa al mercato nero. Se vuoi svolgere delle buone indagini devi sapere dove trovare ciò che ti serve. Ora, vedi il colore di questa polvere?»

«Non possiamo tenere del veleno in casa» gli fece notare la ragazza.

«Se eviti di farlo sapere a tutto il quartiere forse sì» replicò lui, con evidente stizza. «Senti, tralasciamo questa cosa. Ti basti sapere che questa è aconitina e che, sì, è il veleno usato dall’assassino di Uno studio in rosa. I miei sospetti erano fondati. Chiunque ci sia dietro questi nuovi omicidi sta cercando di dirci qualcosa.»

«Perciò ora che sappiamo questo, da che parte indirizziamo le ricerche?» domandò infine Emily, rendendosi conto che insistere sulla questione del veleno in casa non avrebbe portato a nulla. Oltretutto l’idea di ricominciare a svolgere delle ricerche era decisamente più allettante.

Tuttavia Sherlock non reagì come lei aveva sperato. Si fece serio di colpo, come se si fosse reso conto di qualcosa. Si diresse in cucina e lì mise la fiala con il veleno dentro una bustina a chiusura ermetica, scrivendo sopra di essa il contenuto con un pennarello indelebile.

«Aspettiamo» disse poi, senza guardare Emily.

«Aspettare?» esclamò lei. Lo raggiunse nella stanza e gli si parò davanti. «Non possiamo aspettare, Sherlock. E se dovessero esserci altre vittime?»

«So che non hai idea di come muoverti in questa situazione» rispose lui, guardando la ragazza con aria superiore e un’incomprensibile luce negli occhi, «e ti garantisco che al momento anche io sono un po’ bloccato. Non ho indizi sufficienti.»

«Non…» tentò di dire lei, ma non solo non seppe come proseguire, Sherlock non gliene diede neanche il tempo.

«Horvat e Walker sono due omicidi ben collegati fra loro, ma abbiamo analizzato ogni possibile pista intorno raccogliendo davvero poche informazioni. Al momento aspettare può essere la cosa giusta da fare.»

Mise la bustina con la fiala dentro una valigetta, accanto al tavolo, infine tornò a rivolgersi a Emily con evidente consapevolezza. «Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza. «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»

Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.

«E se fosse Moriarty?»

Le parve di essersi sentita dall’esterno mentre nominava la nemesi di Sherlock. Non aveva mai pensato che fosse possibile un’implicazione di Moriarty in quel caso, era sempre stata convinta del suo suicidio, tuttavia era tutto così strano, così confuso, che anche nella sua mente quell’ipotesi non veniva più scartata.

Notò Sherlock fermarsi lungo il corridoio, a pochi passi dalla porta della sua camera da letto. Si voltò appena, mostrando il profilo sicuro e subito guardò la ragazza. Emily si fece forza, ignorò l’angoscia che il possibile coinvolgimento di quell’uomo le stava portando e riprese a parlare: «Non puoi negare che tutta questa faccenda sia sospetta. I veleni usati in questi omicidi sono anche stati usati in delitti collegabili a Moriarty. E se fosse stato lui?»

Con grande sorpresa di Emily, Sherlock sorrise. «Proprio questo mi conferma nuovamente che Moriarty è morto. Lo hai studiato, dovresti sapere anche tu che uno come lui non commetterebbe mai degli omicidi fotocopia di quelli a cui ha già preso parte. Non lo farebbe neanche per me, non sarebbe nel suo stile.»

La ragazza incassò il colpo. Tentò di far ragionare la sua mente anche alla luce delle parole appena pronunciate da Sherlock, ma quell’improvviso dubbio si era appena istillato dentro di sé e si stava espandendo come una macchia d’inchiostro, annichilendo le opzioni più sensate.

«Sì, questo sì, è solo che…» farfugliò.

Il detective attese per qualche istante che la sua interlocutrice trovasse le parole. Alla fine, capendo che non sarebbe accaduto, tornò a darle le spalle, riprendendo a camminare.

«C'è qualcun'altro, Emi. E chiunque sia sono sicuro che sa già che lo sto aspettando» disse, prima di chiudersi la porta alle spalle.

 

 

 

Note:

1 Uno studio in rosa: nell’episodio in questione non viene mai citato il veleno usato dal tassista per uccidere le persone, così mi sono permessa un po’ di libertà – nel caso, invece, venisse nominato e io non me ne fossi resa conto chiedo venia e prometto che tornerò a guardarmi l’episodio per punizione. Ho scelto l’aconitina perché il colore della polvere è molto simile a quello del veleno nella serie tv e anche per via del fatto che provoca reazioni abbastanza simili a quelle che nomina John quando analizza il cadavere della donna in rosa.

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Capitolo 7
*** VII ***


 

 

 

Quel sabato mattina Emily si rigirò a lungo nel letto. Le nove erano prossime ad arrivare, ma lei non riusciva a trovare la voglia di mettere piede fuori dalle morbide coperte che teneva tirate fin sopra alla testa. I rumori della Londra mattutina entravano dalla finestra in modo ovattato, ma comunque incessante. Alla fine la ragazza riaffiorò da sotto le coperte e lanciò un’occhiata alla parete alla sua sinistra, dove era solita appendere i suoi acquerelli. Ne aveva fatti altri e aveva ulteriormente incrementato la parte di muro coperta dai suoi lavori. Fece scorrere gli occhi su di essi, dopodiché si decise ad alzarsi.

Il sabato mattina Sherlock era quasi sempre a casa, principalmente per il fatto che Molly non era mai al St. Bartholomew's Hospital e quindi non poteva autoinvitarsi al suo laboratorio per svolgere delle analisi su cose che sapeva solo lui. Emily decise quindi di trascorrere quelle ore insieme al detective, nel tentativo di ampliare ancora un po’ il suo lavoro di ricerca che, nelle ultime settimane, stava cominciando a prendere una forma maggiormente definita – sebbene rimanesse un’accozzaglia di appunti, note, post-it e indicazioni. Si vestì con una delle sue abituali camicette e un paio di jeans, si legò i capelli in un improvvisato chignon, e, infilate le proprio sneakers, uscì dalla camera. Appena fu all’inizio della rampa di scale, però, si accorse che in soggiorno Sherlock non era solo. Stava parlando con qualcuno, qualcuno che non ne aveva intenzione di alzare il proprio tono di voce. Quella che si stava svolgendo al piano di sotto era una delle conversazioni più mormorate che la ragazza avesse mai sentito, soprattutto perché non riusciva a comprendere una sola parola. Scese le scale cercando di fare abbastanza rumore, nel caso i due presenti stessero parlando di argomenti di cui lei avrebbe fatto meglio a rimanere all’oscuro e, sull’ultimo gradino, fu in grado di vedere chi aveva raggiunto il 221B quella mattina.

Mycroft Holmes era in piedi, in linea d’aria, proprio davanti alla porta. Era vestito con l’impeccabile eleganza riconducibile ai membri della sua famiglia e stava rivolgendo il suo sguardo al camino dove, immaginò Emily, si trovava di sicuro il fratello minore. L’uomo la sentì e si voltò verso di lei. Le fece un cenno con il capo e le diede il buongiorno.

«Salve, Mr. Holmes» lo salutò di risposta lei, entrando nella stanza.

Sherlock la stava già guardando e la ragazza gli rivolse un saluto. Mycroft aveva come suo solito la consueta aura di sicurezza e superiorità a rivestirlo e a Emily non servì molto tempo per intuire che in quel momento vigeva un’atmosfera piuttosto tesa nella casa. Sperò di poterla alleviare in qualche modo.

«Posso offrirle del tè?» domandò al più grande dei fratelli Holmes.

Quest’ultimo declinò l’offerta con un elegante gesto. «No, ti ringrazio. Mrs. Hudson ha già provveduto» rispose, per poi rivolgersi a Sherlock: «Per fortuna in questa casa continua a esserci qualcuno che sa cosa sono le buone maniere, a differenza di te, fratellino.»

La ragazza notò Sherlock irrigidire la mascella, lo sguardo fisso su Mycroft. A ben pensarci lei non era mai stata a contatto con entrambi contemporaneamente e le fu evidente la poca simpatia reciproca che provavano l’uno per l’altro – come John le aveva già detto tempo addietro. Eppure era certa che Mycroft volesse bene a Sherlock, altrimenti non sarebbe stata in grado di spiegarsi perché qualcuno fosse disposto a spendere soldi con l’intenzione di chiedere a una sconosciuta – lei, in quel caso – di sorvegliare il proprio fratello.

«Ha un incarico per Sherlock o è qui per una semplice rimpatriata» tentò poi Emily, respirando perfettamente il clima presente e chiedendosi se non fosse meglio scappare finché ne aveva il tempo.

«Nessuna delle due cose» intervenne il detective, lanciando un’occhiata torva in direzione di Mycroft. «Ho già detto al mio adorato fratello che può andarsene perché non ho alcuna intenzione di accettare il caso.»

L’interesse della ragazza esplose sentendo quelle parole. Un caso, non poteva chiedere di meglio. Considerando poi il ruolo ricoperto da Mycroft e le sue capacità deduttive – sempre John l’aveva informata della cosa – era certa che si trattasse sicuramente di qualcosa che valeva la pena approfondire. Un caso certamente delicato e complesso per Sherlock Holmes significava anche una raccolta di quante più nozioni aggiuntive possibili sul modo pensare del detective. D’improvviso il caso Horvat – come lei e Sherlock lo avevano denominato – che le aveva tenuto impegnata la mente per giorni passò in secondo piano.

«Un caso?» chiese, l’eccitazione palpabile nella voce.

Entrambi i fratelli Holmes la guardarono, le loro espressioni erano una l’opposto dell’altra. Mycroft sorrise a quell’improvviso interesse da parte della ragazza, mentre Sherlock si irrigidì ulteriormente.

«Emily, per favore, evita di porre domande a riguardo. Come ho già detto a Mycroft non sono interessato» la rimbeccò quest’ultimo, prendendo parola per primo.

«Suvvia, Sherlock, è solo curiosa. Cosa c’è di male a darle qualche informazione aggiuntiva sulla questione?»

Il detective guardò suo fratello esterrefatto; l’unico motivo per cui poteva comprendere che Mycroft raccontasse di cose che definiva egli stesso “top secret” era solo per via del fatto che Emily poteva, in qualche modo, convincerlo ad agire. A quanto pare al fratello importava relativamente poco dell’incolumità della giovane ragazza. A ogni modo Sherlock non aveva intenzione di accettare, non si sarebbe mosso da Baker Street per risolvere un caso che proprio il fratello stava cercando di propinargli.

«Quindi posso saperlo?» incalzò Emily, sempre più esaltata.

Sherlock alzò gli occhi al cielo di fronte all’improvvisa stupidità della sua coinquilina. Mycroft era sempre stato bravo a manipolare le persone, gli bastavano poche parole e una gestualità ben calibrata per riuscire a conquistare il proprio interlocutore. Nel caso della ragazza, invece, era bastato attirare la sua attenzione con qualcosa che bramava – nel suo caso uno Sherlock Holmes alle prese con delle indagini – per catturarla per bene.

«Si tratta del Vice Primo Ministro. Ha ricevuto una busta anonima contenente una minaccia di morte. Come comprensibile Scotland Yard brancola nel buio e io vorrei che il colpevole, chiunque esso sia, uscisse di scena il più in fretta possibile» disse Mycroft, rivolgendosi solo a Emily.

«Perché le stai dicendo queste cose?» intervenne Sherlock.

«Perché me lo ha chiesto.»

«No, non è vero. Tu glielo vuoi dire perché sei convinto che possa indurmi ad accettare» sibilò il detective.

La ragazza si chiese se aveva capito correttamente ciò che Sherlock aveva appena detto. Non aveva mai pensato di poter essere in grado di convincere l’uomo a fare qualcosa e quello che aveva sentito, in un certo senso, la lusingava.

«Vuoi veramente farmi credere che una ragazza come Emily può riuscire a farti fare cose che non vuoi?» domandò Mycroft, con finta sorpresa. Sherlock strinse gli occhi.

«A malapena John ci riusciva. Ma è pur vero che lui non ha mai scritto una tesi intera su di te» concluse poi il maggiore dei fratelli, sorridendo sornione.

«Mr. Holmes» prese infine parola Emily. Aveva visto abbastanza di quel bizzarro teatrino e non ne aveva capito molto. L’unica cosa di cui era sicura era che non voleva vedere i due fratelli battibeccare ancora, ne tantomeno rimanere in silenzio mentre il più grande umiliava il più piccolo. «Se Sherlock non vuole accettare il caso credo di essere l’ultima persona in grado di dissuaderlo, mi creda.»

L'uomo la guardò, facendosi improvvisamente serio. Il silenzio che si formò nella stanza durò diversi secondi e smise pochi attimi prima che Emily potesse convincersi di aver detto la cosa sbagliata.

Alla fine Mycroft sospirò. Guardò il fratello che, di tutta risposta, lo fissò con uno dei suoi sguardi più fermi.

«C'è in gioco la vita di un uomo, Sherlock» mormorò.

«Allora risolvi tu il caso dato che ti piace vantarti di essere più intelligente di me nel fare deduzioni» replicò gelido l'altro.

«Sai che non ho tempo.»

«Trovalo. Oppure cerca di indirizzare Scotland Yard nella direzione giusta.»

Si zittirono entrambi. Emily rimase a guardare i due studiarsi, impassibili e imperscrutabili. Si sentì in mezzo a uno scontro silenzioso, mentale, e proprio per quello ben più spaventoso.

Con tutta probabilità fu Mycroft il primo a cedere. Ispirò a fondo e distolse lo sguardo da Sherlock, infine recuperò il proprio cappotto, infilandolo senza dire nulla.

«Se dovessi cambiare idea sai dove trovarmi. Nel caso non volessi contattarmi direttamente anche Emily ha il mio numero» disse infine, avvicinandosi alla porta d'ingresso. Si fermò a un passo dalla ragazza e le sorrise. «Tu fammi sapere se dovesse cacciarsi nei guai, mi raccomando.»

«Conti su di me.»

L'uomo salutò i presenti avviandosi lungo le scale. Sherlock rimase in attesa di sentire la porta chiudersi, guardando Emily. Alla ragazza parve di trovare una leggera nota d'intesa in quello sguardo, ma cercò di non illudersi più del dovuto.

«Preparo un caffè» disse lei, decidendo anche di fare colazione.

Anche quel giorno la cucina era un disastro, tuttavia in quei mesi di convivenza la giovane aveva imparato bene a ritagliarsi un angolo salubre sul tavolo in cui poter inzuppare i biscotti in tutta tranquillità. Davanti ai fornelli, però, decise di prepararsi un tè. Mise sul fuoco il bollitore e rimase a guardarlo distrattamente, pensando. Sapeva che in soggiorno Sherlock si era sistemato sulla poltrona, con tutta probabilità intento a leggere il giornale del giorno. Appena il tè fu pronto Emily se ne versò una tazza fumante, lo zuccherò e prese dalla sua metà di credenza la confezione di biscotti, ben più sgonfia del giorno prima – probabilmente per opera del coinquilino.

Aveva appena addentato il primo biscotto quando Sherlock si presentò nella stanza. Rimase sulla soglia, a osservare Emily come se davanti a sé ci fosse un bizzarro, ma quanto mai interessante, animale. La ragazza sopportò quella situazione più a lungo che poté, poi, sull'orlo dell'esasperazione, sbuffò: «Cosa?»

L'uomo non si scompose. «Tu volevi che io accettassi il caso. Perché non hai dato manforte a Mycroft? Siete quasi amici dopotutto.»

Lei si strinse nelle spalle. «Non mi piace insistere con qualcuno quando ha già preso una scelta» disse, afferrando un altro biscotto.

Il detective le si avvicinò, calmo. Si sedette di fronte a lei e la guardò, un misto di divertimento e interesse negli occhi.

«Tu vuoi che io accetti» rivelò poi, consapevole.

Nuovamente Emily cercò mostrarsi indifferente. «Ovvio che vorrei tu accettassi. Sto scrivendo di te. Più casi risolvi e più vari sono questi, più informazioni articolate raccolgo io per il mio lavoro.»

Sherlock sorrise lievemente, stringendo appena gli occhi chiari.

«No, non è solo per questo» disse sicuro. «Una minaccia di morte anonima, Scotland Yard che brancola nel buio. Questo caso ti intriga come pochi altri. Tu vorresti che io accettassi anche perché vorresti indagare sulla situazione, non solo perché vuoi vedere come opero in una simile circostanza.»

La ragazza si sentì colta in flagrante. Forse un po' era così, anzi no, lo era. Non aveva affrontato mai direttamente un simile caso e nel momento in cui se lo era trovato davanti subito ne era rimasta rapita. Tuttavia era compito di Sherlock accettare, lei non aveva parola in merito e ne era consapevole. Si sforzò di fingere indifferenza alle parole del detective ma sapeva di non riuscirci. Lui la capiva troppo in fretta. Emily allora si concentrò sul biscotto, che inzuppò nel tè.

«Perché non svolgi tu l'indagine al posto mio?» domandò poi l'uomo, di punto in bianco.

Il plop del biscotto troppo imbevuto che cadeva nel tè fu piuttosto esaustivo per descrivere l'atmosfera del momento. Curiosità e consapevolezza per Sherlock e incredulità, pura e semplice, per Emily.

Quest'ultima imprecò sottovoce appena vide dove era finita la metà del suo biscotto e cercò di recuperarla con il cucchiaino. Appena fu riuscita nel suo intento guardò Sherlock, che aveva dipinta in volto ancora quella stessa, pacata, espressione di poco prima.

«N-non posso accettare un caso io, Sherlock. Con che scusa Mycroft me lo affiderebbe? E poi lui non mi conosce affatto, dubito che si fidi di me a tal punto.»

Il detective sbuffò un po' d'aria. «Mi deludi. Rinunciare così.»

«No, ehi» scattò subito lei «Non ho rinunciato, ti ho solo fatto notare che è impossibile che possa essermi affidato un caso. Quello, in particolare. Parliamo del Vice Primo Ministro, non può occuparsi di qualcosa che riguarda la sua incolumità l'ultima ragazza appena giunta da Newport. Non scherzare.»

L'uomo rimase a guardarla. Notò il leggero rossore affiorato alle sue gote, l'improvviso e debole tremolio che aveva colpito le mani e il suo sguardo che aveva cominciato a fissare con insistenza il contenuto della tazza. Emily si era innervosita, anche se, per lui, era ben più corretto dire che si era agitata. Aveva colto nel segno per l'ennesima volta e, oltretutto, era riuscito a farle dire ciò che si aspettava.

Alla fine si alzò da tavola. «Non lo dare così per scontato» le disse, tornando in soggiorno.

 

*

 

Nel pomeriggio, intorno alle diciassette, sia Emily che Sherlock erano in soggiorno, ognuno intento a trascorrere il tempo a modo proprio. L'uomo, seduto alla poltrona, alternava suonate al violino a momenti di assoluto silenzio mentre la ragazza, accoccolata sul divano, era concentrata su uno dei suoi voluminosi libri di psicologia, che aveva aperto dopo aver terminato di schizzare l'ennesimo ritratto di Sherlock sul retro di un vecchio foglio stampato.

Entrambi si misero sull'attenti quando sentirono l'ingresso del 221B aprirsi, ma Sherlock ignorò il tutto praticamente subito. Emily, invece, ascoltò felicemente i passi farsi strada lungo le scale e le voci dei nuovi arrivati farsi sempre più vicine. Con il suo caloroso e tipico sorriso, Mrs. Hudson entrò in casa, dietro di lei i coniugi Watson e la loro piccola bambina.

La ragazza chiuse immediatamente il libro quando li vide e sorrise verso di loro, salutandoli. John e Mary salutarono di rimando, provando anche a coinvolgere in quello scambio di convenevoli Sherlock. Quest’ultimo, come prevedibile, si rivelò piuttosto restio ai saluti, ma per Emily fu palese che la comparsa di John e Mary – e, perché no, anche di Mrs. Hudson – lo aveva ravvivato. Come prevedibile la signora Hudson si spostò in cucina, borbottò un paio di mezze preghiere una volta vista la situazione che vi aleggiava dentro e mise sul fuoco il bollitore per preparare del tè. Mary si sedette sulla poltrona che era sempre stata di John, la bambina fra le braccia e il marito in piedi dietro di lei.

«Allora Sherlock, ci sono novità?» domandò lei all’uomo che aveva di fronte.

Il detective la guardò aggrottando leggermente la fronte. «Sii più precisa, per favore» la invitò.

La donna si strinse nelle spalle. «In generale. Hai accettato nuovi casi, hai incontrato qualche possibile cliente? Cose del genere» disse. Non attese però una risposta, si voltò verso Emily, rivolgendosi a lei: «Ti sta facendo impazzire? Sai che, nel caso, a noi puoi dirlo.»

La giovane di risposta sorrise allegramente. «Sarete i primi a cui lo dirò, se dovesse succedere.»

Sherlock sbuffò leggermente dopo quel rapido botta e risposta e, alla fine, si decise a parlare. Da lì la conversazione si snodò in fretta, coinvolgendo tutti i presenti e arricchita dall’Earl Gray preparato da Mrs. Hudson.

Il gruppo continuò a chiacchierare per tutto il resto del pomeriggio, finché la sera non si affacciò alla finestra e Londra venne illuminata dalle migliaia di luci colorate che la caratterizzavano nelle ore notturne. Erano quasi le diciannove quando John e Mary annunciarono di dover andare. La donna si alzò dalla poltrona, stiracchiandosi per bene e andò a recuperare la figlia che dormiva tranquilla fra le braccia di Emily, la quale aveva chiesto di poterla tenere in braccio per un po’ e aveva finito per non volerla più lasciare.

«Penso che tu le piaccia molto» disse Mary alla ragazza, appena riprese la figlia.

Emily le sorrise, dolcemente.

«Chissà se lo stesso si può dire di Sherlock» ipotizzò John, guardando l’amico. Quest’ultimo sorrise ironico, senza rispondere, ma salutò sinceramente i coniugi Watson quando questi si vestirono e si avviarono lungo le scale.

Il silenzio che si formò subito dopo, piuttosto tipico al 221B, fu improvvisamente triste per Emily. Si avvicinò alla finestra, scostò le tendine e osservo la coppia avviarsi lungo la strada, John a sospingere il passeggino lungo il marciapiede, Mary accanto a lui, stretta al suo braccio. La ragazza li guardò allontanarsi finché non sparirono, sentendo una strana fitta dentro di sé; era un misto di amarezza e desiderio, qualcosa che non provava da mesi ma che, ripresentandosi così d’improvviso, non le lasciò scampo. Tornò a tirare le tende sulla finestra e si avvicinò al divano; lì prese il proprio libro di psicologia e il foglio di carta dove aveva abbozzato un ritratto di Sherlock e su cui, nelle ore precedenti, era anche comparso un disegno di Mary e della bambina. Emily non era riuscita a resistere al desiderio di disegnarla. Il ritratto raffigurava Mary intenta a osservare davanti a lei, la figlia stretta in braccio che la guardava con gli occhi luminosi di chi è profondamente innamorato e, alle spalle della donna, la sagoma di John era appena abbozzata. La ragazza non capì per quale motivo le riuscisse così semplice raffigurare quella purezza di sentimenti che caratterizzava la famiglia Watson, eppure era così. Le bastavano pochi tratti e un chiaroscuro accennato per caricare di amore i disegni che faceva su di loro perché di quello, fra loro, ce n’era molto ed era perfettamente percepibile. Si rese conto solo in quel momento che i suoi disegni di Mary e Sherlock erano stati fatti uno di fronte all’altro e sembrava quasi che la cosa fosse voluta. Senza farlo apposta Emily aveva disegnato una scena ben più ampia, sebbene lo avesse fatto involontariamente.

Sapeva di essere ferma in piedi a osservare il suo disegno da troppo, così, prima che Sherlock potesse definitivamente insospettirsi, disse: «Vado in camera mia.»

Salì le scale e subito si chiuse la porta alle spalle, cercando di ricomporsi in fretta. La spiacevole sensazione che l’aveva aggredita al piano di sotto sembrava non volersene andare, al contrario, con tutta probabilità stava crescendo. Raggiunse l’armadio, lo aprì e vi si inginocchiò davanti, afferrando dal fondo di esso la sua valigetta. Era una vecchia valigetta in cuoio, appartenuta a suo nonno. Le piaceva particolarmente e fin da quando l’aveva ricevuta – a tredici anni – vi aveva sempre riposto dentro alcune delle sue cose più preziose, tenendola ben chiusa a chiave. Aveva deciso di portarla con sé a Londra con l’intenzione di raccogliervi dentro le cose più rilevanti della sua presenza nella capitale ed era proprio lì dentro che aveva riposto tutti i documenti che lei e Sherlock avevano accumulato nella speranza di scoprire l’assassino di Walker; quello che l’uomo non aveva gettato via era ancora custodito lì.

Si sfilò dal collo la catenina a cui era legata la chiave che serviva per aprire la valigetta e che portava sempre con sé. Fece scattare la serratura e l’aprì, lanciando un’occhiata ai fogli ammucchiati dentro e alla consueta stoffa damascata che rivestiva l’interno. Vi posò il disegno che aveva fatto quel pomeriggio, sentendo dentro di sé che per quei ritratti il posto giusto non era la parete, ma quello e infine richiuse tutto.

Fu proprio mentre chiudeva la valigetta e la spingeva sul fondo dell'armadio che si rese conto di cos'era quella sensazione che l'aveva colpita: malinconia.

Aveva lasciato tutto a Newport, lontano da Londra, tuttavia in quel momento si chiese cosa, esattamente, ci avesse lasciato. A parte la sua famiglia, che per quanto le volesse bene non aveva mai nascosto di considerarla la pecora nera, c'era poco altro in quella città per lei. Di amici ne aveva sempre avuti pochi e nessuno di loro la considerava preziosa o insostituibile, lo aveva sempre saputo. La sua vita sentimentale, inoltre, era intralciata proprio perché lei era sempre, ed esclusivamente, se stessa. Delle volte, pensando a tutto ciò la sua innata gioia veniva spazzata via, proprio come in quel momento. Le si formò un nodo alla gola mentre infilava la collana al collo e nascondeva la chiave sotto alla camicia, come sempre. Intorno a lei il buio che entrava dalla finestra, per quanto sopraffatto dalla luce della camera, la costrinse, come sempre faceva, a pensare, pensare e basta, scavare nelle proprie profondità e cercare delle risposte. Sebbene lo facesse spesso e le sue ambizioni riuscissero sempre a vincere sulle incertezze e i dubbi, in quel momento non ci riuscì affatto. Semplicemente si sentì sola.

Il nodo alla gola le si strinse ulteriormente mentre lei, ancora inginocchiata in terra, fissava ostinatamente davanti a sé con gli occhi che le bruciavano. Non appena la prima lacrima riuscì a liberarsi, Emily non fu più in grado di frenare le altre. Si lasciò andare a un pianto silenzioso, raggomitolata contro al letto, le ginocchia strette al petto, per minuti interi, finché non si sentì svuotata di ogni possibile emozione. Soltanto allora prese una lunga boccata d’aria e si alzò da terra, sistemandosi meglio che poté i vestiti e decidendo di uscire dalla propria camera nonostante tutto, pur di non rimanere sola.

Arrivata al piano di sotto fece una deviazione in bagno, passando dalla cucina, così da evitare di incrociare Sherlock. Non voleva vedesse che aveva pianto, soprattutto perché non aveva voglia di rispondere a possibili domande o di dover resistere al silenzio consapevole di chi sa qualcosa ma a cui non importa.

In bagno si lavò il viso con acqua ghiacciata nella speranza di ridurre il rossore degli occhi. Quando questo le sembrò sufficientemente diminuito decise di tornare in soggiorno per riprendere a leggere il suo libro nella speranza che lo studio e la presenza di Sherlock – l’uomo che racchiudeva le sue ambizioni – potessero aiutarla a farla sentire meglio.

Era sulla soglia della cucina quando il detective la fermò. «Hai pianto» disse semplicemente.

Aveva il viso coperto dal giornale che ancora non aveva finito di leggere e non degnò la ragazza di uno sguardo. Eppure la sua era stata un’affermazione, non certo una domanda e per Emily fu inevitabile chiedersi come ci fosse riuscito ancora una volta. Tuttavia, in quel caso, la ragazza non aveva voglia di dirgli la verità e ripiegò su una delle scuse più efficaci in casi del genere. «No, mi sono solo data un collirio.»

«Uhm, beh, in tal caso ti consiglio di cambiare marca. Potresti esserne allergica dato che non solo ti ha fatto arrossare gli occhi ma te li ha anche fatti gonfiare» replicò lui, in tono piatto.

Emily non fu in grado di rispondere prontamente. Si zittì e rimase a guardare il profilo dell’uomo davanti a lei, concentrato sul suo quotidiano. Alla fine distolse lo sguardo, sospirando leggermente.

«Come lo hai capito?» chiese, anche se sospettava di conoscere la risposta.

Sherlock abbassò il giornale e si voltò verso di lei, un mezzo sorriso in volto. «Capire quando una persona ha appena pianto è fin troppo semplice. Spesso, poi, lo si intuisce più facilmente dal naso che dagli occhi.»

Sentendo quelle parole la ragazza si toccò istintivamente la punta del naso, smascherandosi definitivamente. Nuovamente nella stanza cadde il silenzio e alla fine Emily si avviò verso il divano, con l’intenzione di riprendere la lettura. Sherlock l’aveva scoperta, d’accordo, ma sperò con tutta se stessa che non volesse approfondire ulteriormente la cosa.

Prima che potesse sedersi, però, la voce del detective si sollevò di nuovo: «Perché?»

«Cosa?» domandò in risposta lei.

Sherlock sollevò impercettibilmente gli occhi al cielo. «Perché hai pianto» scandì.

«Non ti interessa saperlo veramente» gli rispose la ragazza, in tono piatto.

«No, infatti» disse l’uomo, sospirando e ripiegando il giornale. «Ma Mary e John vogliono che sia più... gentile con te. Ho detto loro di pensare prima alla propria vita, ma a quanto pare ne faccio parte anche io e trovano opportuno darmi "consigli". A ogni modo, se non vuoi dirmi niente, fa' pure» concluse con sufficienza.

Emily rimase a guardarlo a lungo, pensando. Alla fine si decise a dirgli cosa le era appena accaduto, aprendosi così a Sherlock. Puntò lo sguardo fuori dalla finestra prima di prendere parola, osservando la sera.

«Quello che hanno John e Mary... Lo vorrei anche io» ammise alla fine.

«Una figlia?» domandò l’uomo, sollevando un sopracciglio confuso.

Sentendo quella risposta Emily si lasciò sfuggire una leggera risata e tornò a guardare Sherlock.

«No, o meglio, non solo. Parlo dei sentimenti che ci sono fra loro, sono quelli che vorrei poter vivere anche io. Il loro legame, il loro conoscersi così bene. È questo che vorrei. Riuscire a trovare qualcuno che mi faccia sentire davvero speciale.»

Sherlock rimase a guardarla, in silenzio. Per un istante si pentì di aver chiesto a Emily per quale motivo avesse pianto. Lui non era pratico di queste cose, dei sentimenti. Li considerava solo dei difetti chimici e non aveva certo voglia di approfondirli o cercare di comprenderli. Tuttavia si rese conto che non poteva più tirarsi indietro in quel momento. «Credo ti convenga solo avere un po' di pazienza. Anche John ha impiegato diversi anni prima di incontrare Mary» disse infine, sperando fosse sufficiente per consolare la ragazza.

Lei si strinse nelle spalle, scuotendo debolmente la testa. «Non è questo, Sherlock. Gli uomini tendono a evitarmi quando capiscono come sono fatta. Hanno paura di me» informò Sherlock, sentendosi nuovamente triste come lo era nella sua stanza poco prima.

Fra di loro calò un nuovo silenzio, ben più pesante dei precedenti. Emily decise di riempirlo finendo di raccontare al detective quella che era la verità sui suoi rapporti umani: «Io sono in grado di capire quando qualcuno mi sta mentendo. Riesco a intuire con chi ho che fare in fretta. Questa cosa non va bene per nessuno, in pratica. All'inizio di una relazione si tende sempre a nascondere una parte di sé all'altro, per preoccupazione, per ansia. Ma se l'altro sono io, che riesco a intuire se il ragazzo che mi ha chiesto di uscire è sincero oppure no, allora la cosa diventa un problema e tutto finisce.»

Aveva alzato la voce sul finire della frase, ma tornò ad abbassarla subito. «Sono andata oltre il primo appuntamento solo due volte e solo in un caso mi sono innamorata» rivelò infine a Sherlock, senza sapere esattamente perché lo stesse facendo. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e ripercorse la linea della vita della mano sinistra con l’indice destro. «Di solito riesco a non pensarci, ma stasera è andata così» concluse. Tornò a guardare il detective e gli dedicò un sorriso abbozzato. «Scusa se ti ho fatto perdere tempo dicendoti queste cose, di certo avevi di meglio da fare. Però grazie per avermi ascoltata. Ti lascio finire di leggere il giornale.»

Si avviò verso la sua stanza senza aggiungere altro. Sherlock la sentì chiudere la porta e rimase a fissare l’inizio delle scale in silenzio, ripensando a quello che Emily gli aveva appena rivelato. In quel momento si sentì strano ed era certo di provare dispiacere per la ragazza. Cominciò a pensare ad altro abbandonando completamente il giornale.

 

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Capitolo 8
*** VIII ***


 

 

 

Il lunedì trovava sempre un modo per essere detestabile a qualcuno e ci riusciva puntualmente. In quello specifico caso era toccato a Emily.

La ragazza si era svegliata di buon’ora come era solita fare all’inizio della settimana. Si era fatta una doccia, aveva preparato il tè sia per lei che per Sherlock mettendo la sua parte di bevanda in un thermos e, afferrata una manciata di biscotti, si era avviata fuori di casa, l’ombrello giallo agganciato al gomito.

Arrivata alla London Metropolitan University, un sole pieno sopra la testa, Emily aveva raggiunto l’aula pronta per la lezione solo per scoprire che il suo professore era ammalato. L’università aveva avvertito tutti gli studenti dell’annullamento della lezione prontamente, tramite e-mail, ma nel caso della ragazza la sua mail era finita nello spam e lei non aveva avuto modo di visionarla. Terminato il lungo elenco di imprecazioni soffocate che Emily aveva recitato in seguito alla scoperta, la ragazza si era diretta verso la caffetteria del campus con l’intenzione di farsi una dose extra di caffè nelle speranza di poter essere sollevata nell’umore. Ottenuta la sua bevanda si era sistemata nel tavolino più isolato che aveva trovato e aveva affondato il naso in uno dei suoi libri di criminologia, pur non riuscendo ad afferrarne una sola parola.

Si sentiva giù di corda da un paio di giorni, esattamente dal sabato sera in cui aveva deciso di aprirsi a Sherlock Holmes. Da quella sera loro due non si erano quasi più rivolti parola, principalmente perché lei tendeva a evitare l’uomo. Era certa che Sherlock avesse capito ben più di quello che lei gli aveva detto, sebbene lui si ostinasse a dire che i sentimenti non erano il suo settore. Il desiderio di Emily di riuscire a vivere una storia come quella di John e Mary racchiudeva un significato ben più profondo, anche se era più corretto dire che nascondesse la sua paura più grande: la paura di rimanere sola. Le avevano sempre insegnato a essere se stessa e lei aveva fatto tesoro di quell’insegnamento, tuttavia, a venticinque anni, era arrivata a domandarsi perché essere sé fosse così sbagliato.

Scosse improvvisamente la testa, con forza, cercando di non pensarci più. Non si era mai trascinata così a lungo le sue tristezze e non avrebbe certo iniziato ora. Decise di smetterla di rimuginare sulla faccenda e dedicarsi allo studio, che l'aveva sempre fatta sentire realizzata, ricordandole qual era il suo scopo. Avrebbe lasciato da parte quella spiacevole sensazione di malinconia mista a tristezza che l'aveva pervasa nelle ultime ore – e che era stata poi arricchita dalla frustrazione per il suo viaggio a vuoto in facoltà – e sarebbe rientrata a casa per studiare e trascorrere nuovamente del tempo con Sherlock il quale, dopotutto, non aveva commesso niente di male e non meritava di essere evitato come gli era successo - sebbene, e Emily ci avrebbe giurato, la cosa pareva lasciarlo indifferente. Aveva raggiunto Londra con uno scopo ben preciso, che esulava completamente dalla propria vita sentimentale ma c’entrava esclusivamente con quello che era il suo desiderio: vivere facendo ciò che le piaceva di più. C’era tempo per trovare qualcuno con cui mettere su famiglia o con cui trascorrere in casa le piovose serate gallesi e non dubitava che un giorno, quel qualcuno, sarebbe arrivato.

Improvvisamente la ragazza si sentì rinata. Ringraziò mentalmente il caffè, che ingollò fino all'ultima goccia, guardò il limpido cielo che si affacciava fuori dalla finestra e si dipinse un sorriso in volto, pronta a rientrare al 221B.

Per lasciarsi dietro le spalle qualcosa di brutto niente era meglio di lavoro e amici ed entrambi – sebbene la seconda cosa forse valeva solo per lei – si trovavano a Baker Street.

Mise il libro nello zaino e si alzò dal suo posto. Appena fu in piedi si accorse di un giovane comparso accanto a lei. Lui la guardò e le sorrise. Non si trattava di Eddie – Emily non lo aveva più incrociato dopo la sua rocambolesca uscita di scena al loro primo incontro – ma di un altro ragazzo che lei non aveva mai visto. Doveva essere di poco più grande e, la ragazza non riuscì a non notarlo, era sorprendentemente affascinante. Aveva lineamenti sfuggenti e piacevoli, nascosti appena sotto una lieve barba incolta. Gli occhi scuri e limpidi e i capelli castani facevano risaltare notevolmente il suo sorriso.

Emily si ricompose subito, sorridendo appena.

«Stai andando via?» le chiese poi lui.

Lei ci pensò un momento. Non le sarebbe dispiaciuto trascorrere un po' di tempo con quel ragazzo, tuttavia la sua voglia di stare con Sherlock, in quel momento, era più forte. Qualcosa in lei le stava dicendo che se fosse rientrata a casa avrebbe avuto una bella sorpresa.

«Sì, stavo proprio andando» rispose alla fine, mettendosi in spalla lo zaino. Le parve di notare un leggero dispiacere negli occhi del ragazzo, ma capì di essersi sbagliata quando lui, di tutta risposta, abbozzò un sorriso e disse: «Ah, ok. Mi siedo qui allora, grazie.»

Prese posto al tavolino, con visibile disappunto di Emily. Veramente si era illusa che uno tanto carino volesse offrirle qualcosa? O che fosse dispiaciuto per la sua improvvisa uscita di scena? Dopotutto rimaneva pur sempre il fatto che lei non nascondeva il suo essere "diversa", perennemente concentrata su altro e con un’assurda fissazione per le deviazioni altrui e la cosa, a quanto pareva, teneva ben alla larga le persone, perfino quelle che non la conoscevano.

Sospirò leggermente, avviandosi verso l'uscita del campus.

Durante il viaggio di ritorno in metropolitana si ritrovò a pensare al ragazzo della caffetteria. Le fu innegabile dover ammettere di esserci rimasta un po' male per come erano andate le cose, con lui sì che avrebbe preso volentieri un caffè. Alla fine si costrinse ad arrendersi all'evidenza: non avrebbe trovato il ragazzo giusto in facoltà; con molta probabilità quello giusto per lei era mezzo matto e nascosto nel più impensabile dei posti – forse un parco divertimenti. Sorrise da sola a quel pensiero, sentendo il suo innato buonumore fare ritorno da lei. Quel lunedì poteva anche essere iniziato per il verso sbagliato, ma stava stranamente recuperando.

Si avviò lungo Baker Street una volta scesa dalla metro. Davanti alla porta di casa notò una berlina nera parcheggiata, ma non le diede il peso che avrebbe dovuto. Frugò nello zaino in cerca delle chiavi, tuttavia non fece in tempo a trovarle che la porta le si aprì davanti al naso. Da dietro l'ingresso comparve Mycroft Holmes, il quale si arrestò di colpo vedendo Emily. Quest'ultima collegò solo in quel momento l'uomo alla macchina.

«Buongiorno Mr. Holmes» lo salutò.

Lui uscì definitivamente dalla casa, salutandola di rimando.

«È per caso successo qualcosa?» volle sapere la ragazza chiedendosi per quale motivo Mycroft avesse raggiunto Baker Street.

L’uomo le sorrise, tranquillo. «Assolutamente niente. Diciamo che c’è stato un semplice scambio di favori fra me e il mio fratellino.»

Superò Emily, raggiungendo la berlina. Ne aprì la portiera prima di voltarsi verso la ragazza e farle un cenno con il capo. «Credo di doverti ringraziare, mia cara. Ci sei riuscita.»

Salì in macchina senza aspettare una risposta e scomparve dietro al vetro oscurato. Emily rimase a guardare l’auto allontanarsi, perplessa. Era riuscita a fare cosa? In preda alla più assoluta curiosità entrò in casa e salì in fretta le scale. Raggiunto il soggiorno aprì la porta e vi trovò Sherlock fermo in piedi, lo smartphone in mano. L’uomo alzò lo sguardo e la vide.

«Ah, eccoti qui. Stavo per scriverti» disse, posando il cellulare.

«Ho incrociato Mycroft di sotto. Cosa intendeva con “ci sei riuscita”? Tu lo sai vero?» domandò, consapevole che lo aveva appena chiesto all’unico che, oltre a Mycroft, poteva conoscere la risposta.

Sherlock corrugò la fronte sentendo quelle parole, infastidito.

«Mai una volta che Mycroft si tappi la bocca» borbottò, voltandosi per afferrare qualcosa dal tavolo alle sue spalle. Da sopra il caos di carte, lettere, fogli di giornale e altro che ricopriva la scrivania, sollevò una busta trasparente, contenente un foglio A4. Emily si avvicinò di un paio di passi, lo sguardo fisso su quel foglio.

Era una lettera scritta con ritagli di articoli di giornale, accostati fra loro a formare un messaggio: morirai nel sonno. Tre parole inquietanti se accostate così, per quanto quella combinazione apparisse scontata.

Contro ogni possibile previsione – tranne per quella di Sherlock – la ragazza sorrise. Capì subito cos'era quella lettera, così come capì cosa significava. Non poteva che essere la lettera che aveva raggiunto il Vice Primo Ministro, quella con la minaccia di morte che un paio di giorni prima Mycroft aveva sottoposto a Sherlock senza successo. Improvvisamente le parve di intuire cosa intendesse il maggiore dei fratelli Holmes con quello che le aveva detto, sebbene ancora non le era chiaro come potesse essere merito suo se Sherlock aveva accettato; probabilmente l'uomo lo aveva fatto solo perché si stava annoiando e, in tal caso, lei certo non ne aveva merito. Tuttavia quella questione passò completamente in secondo piano.

«Hai accettato il caso?» domandò radiosa, sorridendo in direzione del detective. Quella mattina stava decisamente recuperando alla grande.

Di tutta risposta, però, l’uomo fece una smorfia. «L’ho già risolto, in realtà.»

Emily, aprì bocca, attonita. «Cosa? Ma… subito non ti interessava e ora, non solo lo accetti, ma lo risolvi ancor prima che io possa venire a sapere che quella lettera è in casa nostra?» esclamò. «C-che ne è della mia tesi, Sherlock? Lo sai che ho bisogno di vederti lavorare per riuscire a scrivere qualcosa.»

Il dispiacere nella sua voce era palpabile. Non aveva fatto in tempo a essere felice per la notizia che l’uomo le aveva dato, che subito lui aveva detto qualcosa in grado di ribaltare completamente il suo umore. Ciò che, oltretutto, la faceva stare peggio era lo sguardo impassibile con cui Sherlock la stava guardando.

Quest’ultimo, come se non bastasse, sollevò un sopracciglio e inspirò. «È un caso banale e, te lo assicuro, anche noioso. Ci ho messo talmente poco a capire chi ha confezionato questo bigliettino che, posso garantirti, non avresti raccolto molto sul mio modo di lavorare. Era per questo che non volevo accettarlo quando Mycroft me lo ha sottoposto, non c’era gusto nel risolverlo.»

A quelle parole la ragazza aggrottò la fronte, confusa. Perché doveva essere sempre tutto così poco chiaro con Sherlock?

Sospirò. «Ok, non ci sto capendo niente» ammise alla fine, arrendendosi all'evidenza. «Perché, se era un caso tanto semplice, Mycroft voleva affidartelo a tutti i costi? Poteva risolverlo lui.»

«Il problema di mio fratello è che si sente superiore a queste cose. Le considera una perdita di tempo, ma visto le figure che vi sono in ballo non può tirarsi indietro, perciò viene da me. Se non ci fosse stato di mezzo il Vice Primo Ministro ti garantisco che non si sarebbe neanche mosso dal suo prezioso ufficio.»

Sentendo quelle parole Emily si ritrovò ancora più confusa. «Certo che voi due siete strani» disse infine, perfettamente consapevole del fatto che si era volutamente infilata in quella casa – anche se, nonostante tutto, la cosa continuava a piacerle.

«No. Mycroft è strano» replicò subito l'uomo, dopodiché agitò la busta trasparente che ancora teneva in mano. «Allora ti interessa o no?»

«Certo che mi interessava. Ma tu lo hai già risolto» sbottò.

«Il tuo ragionamento non fa una piega» disse Sherlock, sarcastico. «Tuttavia tu non sai chi abbia inviato questa lettera al Vice Primo Ministro.»

«Arriva al punto, ti prego.»

L’uomo le tese finalmente la lettera. «Ho accettato il caso per te.»

Emily si bloccò, incredula. Non aveva certo immaginato di potersi sentir dire una cosa del genere e non fu in grado di rispondere all’affermazione appena fatta dal detective – per quanto asciutta fosse stata.

Sherlock riprese parola: «So perfettamente quanto ti aveva incuriosita e non venirmi a dire che non è vero. Ho solo pensato che, dato che è un paio di giorni che mi sembri meno euforica del solito – e non per colpa mia, vorrei sottolineare – lavorare a qualcosa che fosse di tuo gradimento avrebbe potuto tirarti un po' su il morale.»

Lo disse con una tale disinvoltura da essere addirittura sorprendente. Emily, infatti, si sentiva proprio sorpresa. Quello che Sherlock aveva fatto per lei, per quanto al resto delle persone sarebbe potuto apparire insensato, era qualcosa di insolitamente premuroso e lei non poté fare a meno di provare un improvviso moto di gratitudine – e affetto – nei confronti del suo coinquilino.

«Non fraintendere,» riprese lui, davanti al silenzio vagamente imbarazzato della ragazza, «l'ho fatto solo perché vorrei che finissi di girare per casa come una specie di ameba. Mi deconcentri.»

La magia si ruppe proprio in quel momento. Tuttavia, alle parole di Sherlock, Emily sorrise radiosa. Il detective le stava dando la possibilità di indagare da sola al suo primo caso, qualcosa che, oltretutto, non aveva mai avuto modo di affrontare e che, proprio per tale motivo, la incuriosiva ancor più di quanto lei stessa aveva creduto possibile. Forse si stava sbagliando, ma lei volle credere che, nel gesto di Sherlock, si racchiudesse qualcosa di più.

«Posso indagare sul caso, quindi?» domandò poi, con entusiasmo crescente.

L'uomo si strinse nelle spalle. «Mycroft mi ha lasciato le cose apposta. E prometto di evitare di dirti chi è il colpevole.»

A quelle parole lei afferrò la lettera dalla mano di lui e gli sfilò accanto per raggiungere la scrivania. Si tolse zaino e cappotto e si mise seduta, gli occhi fissi sulle parole composte dai ritagli di giornale.

«C'è anche questo» le disse poco dopo Sherlock, indicando un plico di fogli puntati fra loro sulla scrivania. «Non per offenderti, Emi, ma senza non penso tu riesca a risolvere granché.»

«Come fai a dirlo?» domandò lei, fingendosi offesa.

«Ci sono i risultati delle analisi che hanno svolto sulla lettera. Ti serviranno, credimi.»

Detto ciò si allontanò in direzione della cucina. Emily afferrò il plico a quelle parole, cominciando a sfogliarlo. Rimase quasi sorpresa nel vedere la quantità di cose che erano riusciti a scovare sulla superficie di un foglio A4. Lesse alcune formule chimiche e azionò il suo portatile per poter iniziare la ricerca.

Era eccitata. Decisamente non c'era più traccia della tristezza che l'aveva posseduta per i due giorni precedenti e il merito di tutto ciò era di Sherlock Holmes.

 

*

 

Come Emily aveva già avuto modo di verificare, le modalità per combattere la noia usate da Sherlock erano a dir poco inusuali e, anche in quel momento, nulla le avrebbe permesso di dubitare della cosa. L’uomo, infatti, sebbene vestito di tutto punto come lo era nella mattina, era disteso sul divano da un paio d’ore. Mentre Emily continuava a studiare la lettere di minaccia inviata al Vice Primo Ministro come se fosse vitale riuscire a individuare chi fosse il mittente – nonostante, anche scoprirlo, non sarebbe più servito a molto dato che per merito di Sherlock questi era già stato certamente arrestato – il detective aveva prima letto più capitoli di uno dei più complicati libri di psicologia criminale della studentessa e poi, probabilmente stufo di nozioni che certamente già sapeva, aveva cominciato a borbottare che si stava annoiando e aveva preso a lanciare contro il muro una pallina da tennis comparsa come per magia fra i cuscini del divano.

Dopo quello che, con tutta probabilità, doveva essere il cinquantesimo rimbalzo della pallina contro la parete, Emily raggiunse il limite.

«Sherlock, ti prego» sbottò, abbandonando sul ripiano della scrivania i fogli e gli appunti che aveva messo insieme sul caso, anche grazie a internet.

L’uomo afferrò al volo la pallina al termine del suo rimbalzo e la bloccò nella mano.

«Ci sei sopra da tre ore, com’è possibile che ancora non hai capito chi è il colpevole?» le domandò, una leggera nota di nervosismo a condire la voce.

«Beh, non siamo tutti come te a fare intuizioni» rispose lei, acida. «Se tu ci sei riuscito in dieci minuti è solo perché sei tu.»

«Quello che hai appena detto non ha alcun senso.»

Di tutta risposta Emily sbuffò un po’ d’aria, tornando a dedicarsi alle sue carte.

«Ti stai concentrando sulla cosa sbagliata. Usa quei maledettissimi fogli che Mycroft ti ha lasciato e ragiona in senso più ampio. Immaginati gli scenari, osservali» riprese a parlare lui. Lasciò andare la pallina da tennis che cadde in terra e rotolò fino ai piedi della ragazza. Lei lo guardò, incuriosita. Sherlock stava cercando di darle qualche suggerimento o si era semplicemente stancato di non poter dire niente a riguardo perché lo aveva promesso lui stesso?

Osservò il suo profilo, gli occhi chiari fissi al soffitto. Lo vide sospirare sonoramente e passarsi le mani sul volto, dopodiché tornò a concentrarsi sul suo lavoro.

Tuttavia, solo pochi minuti dopo, qualcosa attirò nuovamente la sua attenzione. Era un suono metallico, uno scatto, qualcosa che aveva sentito un numero sufficiente di volte in film e documentari per capire che non era un buon segnale. Sollevò nuovamente lo sguardo su Sherlock e la sua paura si materializzò esattamente davanti a lei, con il volto annoiato e indifferente del suo coinquilino.

L’uomo teneva in mano una pistola calibro 22 semiautomatica – valutò rapidamente la ragazza – di cui lei ne aveva viste a bizzeffe durante i suoi studi. Il suono che aveva sentito poco prima le permise di capire che altro non poteva essere se non il caricatore che veniva incastrato al suo posto, pronto. Il suo cuore accelerò i battiti di colpo, mentre le sue sicurezze vennero meno.

«S-Sherlock» lo chiamò, incerta.

Lui si voltò a guardarla. Emily si accorse che nei suoi occhi non c'era nulla di simile al desiderio omicida e la cosa l'aiutò a tranquillizzarsi un po', ma comunque molto poco.

«Dove hai trovato quella pistola?» chiese, cercando di mantenere il proprio autocontrollo.

«Sotto il divano» rispose calmo l'altro.

«Sotto il divano?» ripeté sconvolta Emily, salutando il suo autocontrollo. «Perché tieni una calibro 22 sotto il divano?»

Nuovamente Sherlock non si scompose. «È di John. Probabilmente l'ha dimenticata qui un giorno in cui era di fretta.»

Sentendo il suo tono impassibile Emily si alzò, decidendo di fermarlo prima che potesse fare qualcosa di sconsiderato. Raggiunse il divano con fare sicuro e tese la mano in direzione di Sherlock «Ok, dammi la pistola» disse, cercando di apparire il più ferma possibile.

Di tutta risposta lui le lanciò un'occhiata infastidita. «Perché mai?»

«Vorrei evitare che ti metessi a sparare per casa, ecco perché. Non credere che mi siano sfuggiti i fori sparsi sulla parete. Ho capito che sono stati causati da dei proiettili e John non ha mai detto niente per convincermi del contrario.»

Si sentì improvvisamente come la sorella maggiore alle prese con il fratello piccolo e la cosa le procurò una strana sensazione.

«Non sai neanche se la pistola è carica» le fece notare Sherlock.

«Preferirei scoprirlo in un modo che non implichi necessariamente l'atto di dover sparare. Ora dammela.»

Il detective si puntellò sui gomiti, mettendosi poi a sedere, ma sempre rivolto verso la parete alla destra del divano. Guardò Emily con una sorta di sfida, senza muoversi, la pistola ancora in mano.

«Basta. Dammela» riprese a dire la ragazza. Si fece forza e afferrò il calcio dell'arma con la mano desta, con l'intenzione di strapparla all'uomo. Non si era, però, aspettata la sua presa salda, sicura, al punto che i due si trovarono reciprocamente a strattonare la pistola nella propria direzione finché, per colpa di chi non furono in grado di stabilirlo, partì un colpo. La deflagrazione spezzò l'aria, un suono sordo che fece sussultare Emily, terrorizzandola. Liberò la presa dall'arma è si lasciò sfuggire un urlo per lo spavento, allontanandosi inoltre da Sherlock e imprecando a gran voce per la paura. L'uomo, invece, era fermo al suo posto, impassibile come se non fosse successo nulla e ripercorse con lo sguardo la traiettoria del proiettile, individuando il punto esatto in cui esso si era conficcato nel muro.

«Sei impazzito?» urlò la ragazza in direzione di Sherlock.

Quest'ultimo sollevò le sopracciglia. «Prego? Fino a prova contraria tu hai cercato di strapparmi la pistola di mano. Se fossi stata ferma non sarebbe successo niente di tutto questo.»

Emily era pronta a replicare quando, dalle scale, sopraggiunse la voce di Mrs. Hudson: «Che sta succedendo lì sopra?» domandò, preoccupata.

«Niente Mrs. Hudson» risposero prontamente e all'unisono i due. Sentirono la donna chiudere la porta del proprio appartamento e capirono di averla fatta franca almeno per quel momento.

Si scambiarono un'occhiata, seri. Alla fine, sentendo l'adrenalina scivolare via insieme alla tensione, Emily scoppiò a ridere. Si lasciò andare a una delle risate più disinibite che ricordasse da tempo, al punto che non riuscì a notare lo sguardo perplesso lanciatole da Sherlock.

Quando si fu risistemata il detective sentenziò: «Poi sarei io quello strano.»

Si alzò dal divano e posò la pistola sul tavolino, borbottando un: «Tanto è scarica» davanti allo sguardo della ragazza.

La raggiunse alla scrivania – dove lei era tornata a sistemarsi – e osservò quello che aveva raccolto da quando aveva cominciato a indagare sul caso. Lesse gli appunti e i piccoli scarabocchi che lei aveva lasciato sugli angoli delle pagine, scoprendo che aveva cominciato ad andare nella direzione giusta. Con tutta probabilità avrebbe scoperto il colpevole entro sera.

Emily cercò di ignorare la consapevolezza di avere Sherlock fermo alle sue spalle, come se fosse stato il suo esaminatore dell'università. Si concentrò su quello che aveva, convinta di essere vicino alla soluzione: avrebbe finalmente risolto il suo primo caso da sola.

Tuttavia non fu così. L'ingresso del 221B venne aperto da qualcuno, qualcuno che sia Emily che Sherlock ebbero modo di poter identificare come John Watson non appena lo sentirono salutare la padrona di casa passando davanti alla sua porta. John salì le scale con calma, facendo cigolare a dovere i gradini e infine entrò nel soggiorno dove incontrò il detective e la ragazza.

«Ciao» li salutò.

Entrambi risposero in modo distratto, concentrati sul lavoro di Emily.

«Avete saputo l'ultima?» riprese poi John, provando ad avviare un discorso e sentendosi inspiegabilmente di troppo in quel momento.

«Quale ultima?» domandò la ragazza, improvvisamente incuriosita.

Il medico parve rianimarsi. «Del Vice Primo Ministro. La minaccia di morte gliel'ha scritta la domestica.»

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** IX ***


 

 

 

Nel soggiorno del 221B di Baker Street era calato il silenzio. Emily era impietrita, sconvolta dalla rivelazione che John le aveva fatto così, a bruciapelo. Si era lambiccata il cervello per tre ore, aveva sopportato uno Sherlock annoiato alle prese con una pallina da tennis e una pistola - una pistola! - e poi, proprio quando si sentiva vicina a ottenere un primo e meritato successo in un campo che l'affascinava sempre di più, il migliore amico del suo coinquilino rovinava tutto.

John, dal canto suo, non era in grado di capire cosa avesse bloccato così la ragazza, né tantomeno perché Sherlock lo stava guardando a quel modo. Aveva detto qualcosa di sbagliato, quella era la sua unica certezza.

«Ben fatto, John» si complimentò sarcastico Sherlock.

«Cos... Ho detto qualcosa che non dovevo dire, vero?»

Gli sguardi di entrambi gli uomini si posarono su Emily e lì rimasero, in attesa di una sua reazione. Lei si riprese dopo diversi, lunghi, secondi di silenzio.

«La domestica» esclamò. «Ovvio! Ecco com'è stato possibile che la lettera venisse recapitata. È talmente banale che è paradossale che Scotland Yard non ci sia arrivata» disse, tutto d'un fiato.

«Ah, allora convieni con me che Scotland Yard si trova in difficoltà su cose da nulla» cercò improvvisamente manforte Sherlock.

John continuava a guardarli senza capire bene cosa fosse accaduto. Dopo il suo lungo silenzio Emily si era ridestata e pareva essere più energica e coinvolta che mai. Oltretutto lo stava completamente ignorando, cosa che gli risultò improvvisamente strana, sebbene gli diede modo di convincersi del fatto che, forse, non aveva fatto uno sbaglio tanto grande.

«Posso… posso sapere cosa succede?» domandò infine, avvicinandosi ai due inquilini del 221B.

«Stavo lavorando a quel caso» rispose Emily, alzando serenamente lo sguardo sul medico. «Quello del Vice Primo Ministro» aggiunse poi.

«Come, scusa? Perché ci stai lavorando tu? Vuoi dire che in realtà non è stato risolto?»

«No, no, niente del genere. È stato risolto, è stato Sherlock.»

Il detective si esibì in un’espressione piuttosto esaustiva, come a ricordare a John che molto spesso c’era lui dietro a certi articoli di giornale.

«Io stavo semplicemente cercando di risolverlo da sola, giusto per la soddisfazione di poter dire di essere riuscita a risolvere un caso» proseguì la ragazza, sempre in direzione del medico. «Solo che, adesso, serve a poco.»

John si sentì a disagio a quelle parole. Era vero che non aveva smascherato il colpevole di proposito, così come non poteva sapere che Emily stesse lavorando a quel caso – anche se solo per il piacere di farlo – eppure non poté fare a meno di sentirsi in colpa, come se avesse sottratto la ragazza a qualcosa che la faceva stare bene.

Tuttavia, come spesso capitava, Emily era tranquilla, senza la minima traccia di irritazione in volto per quello che era appena accaduto. Era ancora seduta alla scrivania, le carte sparpagliate sul piano, i capelli rossi spettinati, malamente raccolti sopra la testa. Alle sue spalle Sherlock era in piedi, una specie di elegante protettore dietro di lei.

«Mi dispiace molto» si scusò infine John, realmente dispiaciuto.

La ragazza, di tutta risposta, gli regalò uno dei suoi sorrisi più dolci. «Ti perdono. Ma solo perché non potevi saperlo.» Gli puntò contro la matita e assunse un’espressione fintamente minacciosa. «La prossima volta, però, gliel’ha farò pagare cara dottor Watson.»

John le sorrise. Quella ragazza gli piaceva davvero molto, più la conosceva, più si convinceva di ciò.

Emily riprese a guardare i suoi appunti, rivolgendosi a Sherlock: «Come posso avere conferma del fatto che la colpevole sia stata la domestica? A parte per il fatto che ha aggiunto la lettera alla posta ordinaria ricevuta dal Vice Primo Ministro e questo spiega come sia riuscita a evitare la sorveglianza con tanta semplicità.»

Il detective cercò alcune informazioni sul plico di carte puntate fra loro e, trovato ciò che cercava, lo indicò alla giovane. Anche John si mise in ascolto, interessato.

«Questo» disse il detective. «Ammonium oleate. Lo hai cercato su internet?»

Emily frugò fra i suoi appunti, trovando ciò che cercava. «Vagamente» rispose, incerta.

«Beh, è uno degli elementi che sta alla base della stragrande maggioranza di prodotti per lucidare l’argenteria. È risaputo che il Vice Primo Ministro ha la bizzarra fissazione per i fermacarte in argento, ne ha una collezione intera.»

Indicò con l’indice sulla lettera, seguendo una scia invisibile. «Tracce di quella sostanza sono state trovate qui, lievi. Si riescono a intravedere a luce radente.»

«Un fermacarte pulito male» mormorò la ragazza sovrappensiero. «Deve aver lasciato tracce di quella sostanza sul primo foglio di un gruppo di carte, forse una risma, e quando la domestica lo ha preso non se n’è accorta e ha comunque usato quel foglio.»

«Molto bene» si complimentò Sherlock, davanti a un colpito John.

«E ora questo» proseguì, indicando un’altra cosa sul plico delle analisi.

«Amido di mais» lesse Emily. «Nella colla?» tentò.

«No. Il collante è di natura sintetica. L’amido di mais è stato trovato sparso solo in alcuni punti, quindi proveniva da un’altra fonte.»

La ragazza ci pensò, a lungo. Tuttavia non le venne in mente nulla di attendibile.

«Non saprei» si arrese infine.

«L’amido di mais è usato come polvere lubrificante nei guanti in lattice» le rivelò Sherlock. «Ne sono stati trovati pochi residui, in corrispondenza di alcuni punti di colla al di sotto dei ritagli di giornale. Considerando, però, che la colla è industriale non può essere amido presente nel legante, perciò viene da qualcos'altro, i guanti ad esempio.»

«Guanti che deve aver usato per evitare di lasciare impronte sul foglio» concluse la ragazza.

«Esatto. Peccato per lei che invece delle impronte abbia lasciato molti altri elementi per permettere di essere individuata. Alcune lettere, ad esempio, sono tratte da giornali costosi come dimostra la qualità della carta e della stampa, il che vale a dire che deve aver preso qualche pagina utile alla sua lettera direttamente dai giornali di cui il Vice Primo Ministro aveva deciso di sbarazzarsi.»

«Sorprendente, Sherlock» si complimentò Emily.

«Hai capito anche tu le cose più importanti. Se John non avesse sbandierato tutto ci saresti riuscita da sola. Te lo avevo detto che non era difficile» tagliò corto l'uomo, dirigendosi verso la cucina.

La ragazza lo guardò incuriosita, non capendo se aveva appena ricevuto – nuovamente nel giro di poche ore – un complimento da parte del detective. Decise da sola di sì, che le parole pronunciate da Sherlock in quell'ordine e con quel tono disinvolto, quasi annoiato, valevano come complimento.

Raccolse le carte che aveva sparpagliato in giro, ammonticchiandole in una piccola pila e lasciandole in vista affinché si ricordasse di conservarle. Infine si rivolse a John, che la stava guardando con un confortante sorriso paterno; gli sorrise di rimando, afferrando la calibro 22. «A proposito, John, temo tu abbia dimenticato questa, non so quando. Io e Sherlock abbiamo già avuto modo di appurare che funziona perfettamente, sebbene ora sia scarica.»

Lo disse tranquillamente, leggermente divertita a ripensare alla scena di poco prima, quando lei e Sherlock si erano contesi una pistola carica come due bambini si contendono una macchinina.

John afferrò la semiautomatica e la sfiorò delicatamente, guardando Emily con lo sguardo preoccupato di chi aveva capito tutto.

«Dimmi che non è successo niente» supplicò, nonostante fosse consapevole del fatto che fosse avvenuto il contrario.

Sherlock si affacciò dalla cucina, un paio di biscotti in una mano e uno rosicchiato nell'altra. I due amici si guardarono e il detective sollevò un indice per indicare un punto sulla parete accanto alla finestra. «Abbiamo inaugurato un altro muro» sintetizzò.

John rimase spiazzato da quella nuova rivelazione. Osservò il punto incriminato, dopodiché si concentrò su Emily. Gli parve sorprendentemente tranquilla, come se fosse abituata a spari, pistole e pareti. Continuò a guardarla senza che nessuno dei due dicesse nulla mentre Sherlock, in cucina, cominciava a lavorare con la sua attrezzatura scientifica. John si sentì confuso alle prese con tutto quell'insieme di elementi acquisiti dal suo ultimo arrivo nella casa. Sempre osservando Emily, che ancora rispondeva rilassata al suo sguardo, si pose una sola domanda: era il 221B di Baker Street a rendere inconsuete le persone o tutti loro si erano ritrovati in quel soggiorno proprio per il loro essere inconsueti?

 

*

 

Finire l'ultima lezione settimanale prima dello stop per le vacanze natalizie era sempre piaciuto particolarmente a Emily, ma non questa volta. Di solito, infatti, significava abbandonare le lezioni per concedersi un po' di sano ozio nella propria casa di Newport, senza bisogno di raggiungere ogni mattina la capitale Cardiff. Ora, invece, per la prima – e ultima, dato che si parlava del master – volta la sospensione delle lezioni stava lasciando dentro la ragazza un senso dolceamaro, legato non tanto al fatto di dover interrompere gli studi nel settore – dopotutto quando si scrive una tesi non si può mai parlare di interruzione – quanto più che altro all'idea di lasciare Londra, Baker Street, Sherlock Holmes e John Watson, sebbene per pochi giorni.

Il mattino seguente, infatti, sarebbe partita per tornare a Newport e trascorrere le vacanze natalizie insieme alla propria famiglia, lasciando Sherlock nella sua casa.

Aveva passato buona parte di quell’ultima mattina di lezione pensando a come trascorrere il tempo una volta rientrata a casa, stabilendo che avrebbe comunque proseguito con il proprio lavoro, magari cominciando a dare un senso compiuto a quell’ammasso di appunti di ogni genere preso nei primi tre mesi di convivenza con Sherlock.

Si avviò verso la caffetteria per concedersi anche un ultimo caffè prima delle vacanza – trovava incredibilmente buono quello del bar del campus – continuando a rimuginare sul da farsi.

Si trattava solo di due settimane, lo sapeva perfettamente, eppure non riusciva a fare a meno di dispiacersi della cosa. Adorava il 221B di Baker Street, adorava il suo caos, il disordine; adorava le persone che vi entravano e seguire Sherlock in giro per la città alla ricerca di qualcosa invisibile a tutti tranne a lui. Sapeva che tutto ciò le sarebbe mancato, ma si ricordò anche che si trattava pur sempre di poco tempo e che, tutto sommato, la sua famiglia le mancava.

Superò l’ingresso del caffè sempre pensando a tutto ciò, cercando di riordinare l’accozzaglia di sentimenti che le si accavallavano dentro. Arrivata al bancone si fermò, si sistemò un momento i capelli e prima che potesse guardare negli occhi uno del personale per poter ordinare, qualcuno la raggiunse. Istintivamente si voltò, trovandosi davanti il ragazzo che aveva incontrato in quella stessa caffetteria tempo prima, quando lei si era convinta che lui volesse fare conversazione mentre, invece, voleva semplicemente sedersi al suo posto. Da quel loro primo incontro Emily lo aveva intravisto con frequenza sempre maggiore nel locale e sempre da solo. Prendeva posto dopo che lei arrivava e non lo vedeva mai andare via prima. Le capitava di tanto in tanto di soffermarsi a guardarlo, al punto che era riuscita a registrare quasi perfettamente i suoi lineamenti sfuggenti, e la sfumatura di bruno dei suoi occhi, trovandolo ogni giorno sempre più carino.

Rimase spiazzata quando lui, in quel preciso momento, le sorrise, tendendole uno dei bicchieri di carta in cui venivano abitualmente servite le bevande in quel posto. Leggermente titubante – più per la sorpresa che per la diffidenza – la ragazza afferrò il bicchiere, sentendo il calore propagarsi fino alle sua mani. Dopodiché sollevò lo sguardo sul ragazzo e rispose al suo sorriso.

 

*

 

L’avvicinarsi del natale era da sempre un motivo di stress aggiuntivo per Sherlock. Era riuscito a declinare l’invito a trascorrere le festività con i propri genitori, tuttavia gli era stato impossibile impedire a Mrs. Hudson di mettere in ghingheri perfino il suo appartamento con ghirlande, lucine varie e fiocchi di neve.

Rannicchiato sulla sua poltrona, il detective teneva gli occhi fissi sulla porta di casa, in attesa del rientro di Emily. La ragazza era in ritardo rispetto al solito e lui si ritrovò a sperare che rientrasse in fretta giusto per avere qualcuno da analizzare, movimentando un po’ il proprio cervello. Erano giorni che non gli passava fra le mani un caso eccitante e la cosa cominciava a renderlo irascibile. Il caso Horvat era stato accantonato poiché non era accaduto nient’altro di riconducibile a esso e sebbene Lestrade gli avesse sottoposto un paio di volte qualcosa di succulento, appena trovato l’elemento discordante Sherlock aveva sempre risolto la questione con eccessiva semplicità. Perché doveva essere così difficile, ogni volta, riuscire a trovare qualcosa che non fosse scontato, prevedibile e banale? Cos’era successo ai criminali realmente interessanti?

Si mise a sedere sulla poltrona con un gesto fluido, tirando a sé la vestaglia e fasciandosi meglio il corpo, gli occhi sempre puntati verso l’ingresso. D'improvviso sentì la porta aprirsi. Vide nitidamente nella mente Emily varcare la soglia, avvicinarsi alla porta di Mrs. Hudson e salutare la padrona di casa: «Salve Mrs. Hudson» e avviarsi, infine, lungo le scale. Sherlock controllò l'ora, scorse mentalmente gli orari della metropolitana e formulò già una prima idea. Non appena Emily arrivò nel soggiorno salutò l'uomo, sorridendo e si sfilò il cappotto. Lui rispose monosillabico a quel saluto, continuando a scandagliare attentamente la sua coinquilina in cerca di elementi in grado di conformare i suoi sospetti. Prima ancora che lei potesse raggiungere le scale per salire in camera sua ne trovò diversi, ma non fu abbastanza rapido per individuare la prova definitiva. Emily, infatti, con la naturalezza di chi sa come muoversi, salì lungo le scale diretta alla sua stanza, sparendo alla vista di Sherlock.

Nel tempo che impiegò per tornare nel soggiorno l’uomo ebbe modo di far lavorare ulteriormente il proprio cervello, giungendo a una conclusione. Non poteva certo dire che fosse stata un'indagine avvincente, ma era arrivato a un tale livello di noia che qualsiasi cosa gli sarebbe andata bene, pur di tenere in moto la mente.

Appena Emily scese le scale e rientrò nel soggiorno Sherlock la raggiunse e le afferrò il polso destro, sollevandole la mano. Analizzò rapidamente le sue dita, infine guardò la ragazza con l'espressione di chi aveva già capito tutto.

«Come si chiama?» le chiese.

Lei guardò la propria mano, sollevando le sopracciglia. Era piuttosto certa di aver capito dove l'uomo volesse arrivare, ma dato che non ne era così convinta preferì evitare di esporre spontaneamente tutto quanto.

«Mano?» disse con tono incerto e poco convito, in risposta alla domanda di poco prima.

Sherlock alzò gli occhi al cielo, nella perfetta imitazione di un se stesso esasperato dalla stupidità umana – espressione che divertiva sempre molto Emily.

«Lui come si chiama. Non fare la finta tonta, per favore.»

Le lasciò andare il polso, erigendosi poi in tutta la sua statura, le braccia dietro alla schiena.

«Da cosa lo avresti capito?» chiese Emily, realmente incuriosita. Sherlock aveva indovinato – cosa scontata, dopotutto – tuttavia, come ogni altra volta, il come interessava terribilmente alla ragazza.

«Ti sei mai resa conto di avere un leggero tic nervoso quando ti senti in imbarazzo?» le chiese.

Con grande sorpresa della ragazza, la risposta era no.

«Tendi a tormentare con le unghie quello che hai fra le mani, indipendentemente da ciò che sia. Sotto le unghie della tua mano destra ci sono minuscoli residui di carta, il che mi lascia intendere che te la sei presa, appunto, con della carta. Non un foglio normale, ma con qualcosa che devi per forza esserti trascinata da sinistra verso destra. Sapevi che, se insisti sul punto di giunzione nei bicchieri di carta, questi si strappano? Direi di sì, perché è proprio quello che hai fatto prima. È da uno di quei bicchieri che vengono i pochi residui di carta che hai sotto le unghie.»

Si voltò, cominciando a passeggiare lungo la stanza. «Il punto è: perché hai tormentato un povero bicchiere di carta? Perché di fronte a te c'era qualcuno che era in grado di metterti in imbarazzo. Considerando, però, che sei una ragazza sicura delle proprie capacità e che si trova a proprio agio anche con gli uomini, la sola cosa che può averti creato imbarazzo in questa circostanza può essere un ragazzo che ti piace, nient'altro.»

Concluse voltandosi vittorioso in direzione di Emily, la quale, non volendo dargliela vinta tanto facilmente, incrociò le braccia e lo guardò con sufficienza. «E se avessi tormentato quel bicchiere per rabbia verso il mio docente di psicologia?» chiese, con una tale sicurezza da lasciar intendere che quella fosse la verità.

Sherlock rispose al suo sguardo alla stessa maniera, consapevole della sua farsa. «Hai anche un leggero rossore alle gote, che non può essere dovuto al fatto che sei rientrata di fretta. Sei arrivata qui otto minuti dopo l'arrivo della metro in stazione, il che significa che hai percorso il tragitto con molta calma, forse addirittura sovrappensiero.»

«Forse ho corso per prendere la metropolitana dall'università.»

Sherlock sollevò un sopracciglio, guardandola come si guarda un bugiardo quando si conosce la risposta. «Quando passa puntualmente ogni tre minuti? Per favore, non lo avresti mai fatto.»

Emily lasciò cadere il silenzio, colpita ed eccitata di fronte all'ennesima dimostrazione del genio che era l'uomo che aveva deciso di studiare.

«Ti stai annoiando, vero?» domandò poi, consapevole che lui aveva appena dato prova di sé proprio perché non lo faceva più da un po' e non perché fosse realmente interessato a sapere chi avesse offerto un caffè a lei e, soprattutto, se a lei quel chi piacesse o meno.

«Terribilmente» sbuffò in risposta il detective.

«Beh, ti tocca avere un po' di pazienza. Vedrai che ci sarà un bel omicidio di natale su cui potrai indagare, non disperare» cercò di consolarlo lei, in un modo abbastanza grottesco.

Sherlock la guardò con un sopracciglio inarcato, un leggero sorriso a solcargli il volto.

«Non cercare di deviare l'argomento, so di aver indovinato. Allora, chi ti ha offerto da bere?» la incalzò.

Emily si arrese. Sapeva che a Sherlock non importava niente del suo incontro in caffetteria, nonostante tutto, però, si ritrovò a sperare che in realtà lui continuasse a chiederglielo perché almeno un po' gli interessava.

«Richard» sospirò infine. «Si chiama Richard.»

Si scoprì a sorridere al pensiero del ragazzo, del caffè bevuto insieme e della loro conversazione, al punto da non accorgersi del fatto che Sherlock era diventato improvvisamente serio al solo sentire quel nome. Non avrebbe potuto sospettarne l’esatto motivo, non in quel momento, perciò quando lo guardò e lo trovò lì, pensieroso, si disse che la cosa, come aveva creduto, non gli interessava affatto.

«Comunque,» disse, cambiando argomento, «c'era questa sotto la porta. È indirizzata a te, sospetto siano auguri di natale. Da un’ammiratrice, probabilmente» concluse, sorniona.

Allungò a Sherlock una piccola busta in carta marrone, chiusa con un sigillo in ceralacca rossa. Non vi era scritto alcun indirizzo, se non il nome del detective con precisa calligrafia e inchiostro blu.

L’uomo afferrò la piccola busta che Emily gli stava tendendo, accigliandosi ulteriormente. Appena l’ebbe fra le mani la osservò attentamente in ogni sua angolazione, facendosi aiutare dalla luce affinché ogni possibile segreto racchiuso sulla carta potesse affiorare.

La ragazza si accorse dell’improvviso cambiamento di Sherlock. Da annoiato che era si era fatto improvvisamente taciturno, concentrato, addirittura cupo.

«Qualcosa non va?» gli chiese infine, improvvisamente preoccupata.

Lui si voltò a guardarla. Teneva ancora la busta in carta fra entrambe le mani, come se fosse vitale. Lei portò istintivamente gli occhi su di essa, costringendo il suo cervello a lavorare. Doveva esserci qualcosa in essa, anche solo un collegamento, qualcosa di infinitesimale ma ugualmente in grado di far scattare la mente del detective al punto di fargli recepire un messaggio impossibile da comprendere per chiunque altro. Emily continuò a fissare con insistenza quella busta, sentendo sempre lo sguardo vigile e serio di Sherlock su di sé.

Come se avesse letto nella mente della ragazza, all’improvviso l’uomo strinse con forza maggiore la busta marrone e lo fece nel momento esatto in cui lei capì quando Sherlock Holmes e John Watson avevano già incrociato qualcosa di simile.

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** X ***


 

 

 

Pioveva. Il cielo sembrava essere la perfetta fotocopia di quello che aveva accolto Emily il primo giorno al suo arrivo a Londra. Era come venir trasportati indietro nel tempo: la pioggia copiosa, il frettoloso via e vai delle persone, la stazione metropolitana di Baker Street, l’ombrello giallo sopra la testa. Emily si sentiva quasi strana a camminare in quel déjà-vu, se non fosse stato per il fatto che era ben consapevole che in realtà era tutto diverso rispetto a quella prima volta.

Camminando a passo sicuro, facendosi largo come era ormai diventata abitudine, la ragazza risalì Baker Street in fretta, raggiungendo il civico n° 221B. Si fermò di colpo, davanti all’ingresso, sentendosi emozionata. Non tornava in quella casa da due settimane e le era mancata moltissimo. Aveva trascorso un piacevole natale con la propria famiglia, capodanno con la sua ristretta cerchia di amici, tuttavia non aveva smesso di pensare per un solo giorno a quello che aveva lasciato a Londra, a quella casa.

Aprì la porta d’ingresso raggiante ed entrò, chiudendo l’ombrello.

Mrs. Hudson si affacciò e appena la vide la raggiunse per salutarla.

«Ben tornata, cara» le disse.

Emily l’abbracciò istintivamente. Non riusciva a capire bene nemmeno lei il perché di tutta quella sua felicità, fatto sta che non riusciva a tenerla a freno.

«Come sta Mrs. Hudson? È successo qualcosa durante la mia assenza?» le chiese.

La donna si strinse nelle spalle, preparandosi a rispondere. Alla fine, però, pensò fosse meglio invitare la ragazza in casa per un tè, come usava sempre fare.

Davanti a una tazza di Earl Grey fumante sia Emily che la padrona di casa si raccontarono a vicenda quelle che erano le novità delle ultime due settimane. In quel lasso di tempo non era successo molto a Baker Street e fu semplice per la ragazza capire che, con tutta probabilità, ciò significava anche ricongiungersi con uno Sherlock Holmes sull’orlo di una crisi.

Terminato il tè e i convenevoli, Emily si avviò verso il primo piano dell’edificio, quella che sentiva a tutti gli effetti come una casa. Si trascinò lungo le scale il piccolo trolley in cui aveva stipato quanti più vestiti possibili e raggiunta la porta che dava sul soggiorno, l’aprì sorridendo.

Dentro, tuttavia, non trovò nessuno. Controllò l’orario; erano le dieci del mattino, c’erano buone possibilità che Sherlock fosse in giro, eppure le sembrò strano non trovarlo lì, magari a sedere sulla sua poltrona a pizzicare annoiato le corde del violino, oppure a fissare intensamente un punto guardando, in realtà, ben al di là di esso.

«Sherlock» provò a chiamarlo.

Non ricevette risposta e questo le bastò per convincersi del fatto che il detective non fosse in casa. Istintivamente guardò la parete alla destra dell’ingresso, trovandola spoglia. Ciò significava che Mrs. Hudson aveva ragione, ovvero che nessun caso interessante era stato sottoposto al suo coinquilino. Si mosse nel soggiorno osservando attentamente intorno a sé, alla ricerca di qualcosa di diverso, inatteso. Sopra al camino tutta una serie di carte era, come da abitudine, infilzata da un lungo coltello a serramanico, da cui alcuni fogli pendevano oltre il bordo del ripiano. Fra quelle carte miste la ragazza individuò la busta marrone che aveva dato a Sherlock il giorno prima della sua partenza, quella che aveva trovato sotto la porta e che aveva ingenuamente scambiato per la lettera di qualche ammiratrice. Era lievemente sorpresa di vedere che il detective l’aveva tenuta, più che altro perché, nonostante quello che avrebbe potuto racchiudere, poteva essere stato solo uno strano scherzo.

Si avvicinò ulteriormente al camino e toccò il lembo della busta che sporgeva oltre la mensola.

Carte di cioccolatini e briciole di pane; quello era il contenuto della busta, un contenuto che appena lei e Sherlock avevano avuto modo di vedere li aveva immediatamente catapultati indietro, a un’avventura che Sherlock aveva vinto e che Emily aveva vissuto perfettamente grazie alle parole di John Watson: Le cascate di Reichenbach.

Avrebbe voluto rimanere con il detective per andare maggiormente a fondo sulla situazione, dato che il modo in cui l'uomo si era irrigidito alla vista della busta prima e del suo contenuto poi, le avevano fatto intendere che, forse, la cosa non andava presa con eccessiva leggerezza. Tuttavia aveva un biglietto per Newport il mattino successivo e per tale motivo era dovuta partire.

Ora trovare quella stessa busta ancora presente nella casa, in mezzo all'insieme di carte che componeva la serie di "lavori in sospeso" di Sherlock le fece intendere che, con molta probabilità, lui stava continuando a pensare a tutta quella situazione e che – e la cosa era bene non escludere assolutamente – c'erano buone possibilità che lui avesse già formulato molteplici scenari, fra cui si poteva celare anche quello esatto.

Tuttavia non avrebbe ottenuto risposte da sola. Se voleva sperare di sapere cosa pensava il suo coinquilino di quella storia doveva prima incontrarlo e di lui non c'era traccia nella casa.

Andò in camera sua per risistemare le proprie cose, optando anche per farsi una doccia. Liberò il trolley dei vestiti, li mise al posto giusto, dopodiché afferrò qualche abito e tornò di sotto. Mentre scendeva le scale sentì il telefono trillare, la nota suoneria di un messaggio e lo andò a prendere nella speranza che si trattasse di Sherlock. Non si erano sentiti molto in quel lasso si tempo, per lo più perché lui rispondeva di rado ai suoi messaggi e, se lo faceva, era vago, incomprensibile e sintetico. Aveva sentito molto di più John, che spesso rispondeva proprio a nome dell'amico.

Appena ebbe il telefono in mano Emily si accorse che il messaggio non era di Sherlock, ma di Richard e si trovò istintivamente a sorridere.

Loro due si erano scritti sempre più spesso a seguito del loro ultimo incontro in caffetteria dove si erano conosciuti a tutti gli effetti. Da quel giorno avevano cominciato a scambiarsi brevi messaggi, fino a sentirsi con frequenza maggiore ogni giorno. Tutta quella situazione stava generando dentro Emily un piacevolissimo stato e l'aveva convinta del fatto che il ragazzo fosse seriamente interessato a lei; non solo, Richard le piaceva molto. In solo due settimane si era ritrovata a pensarlo spesso e a scrivergli molte volte per prima.

 

Sei rientrata a Londra?

 

Emily rispose di sì, dopodiché domandò a Richard come stava per avere una valida scusa e cominciare una nuova conversazione. A ogni modo non attese impaziente la risposta, ma si diresse verso il bagno così da concedersi una doccia prima del rientro di Sherlock, con cui aveva una voglia matta di trascorrere del tempo.

Si infilò sotto la doccia non appena il getto divenne caldo, lasciando l'acqua libera di scorrere lungo il suo corpo.

Era tornata a Baker Street. Non riusciva a credere che una semplice casa le potesse mancare a tal punto, sebbene fosse chiaro che quello che le era mancato tanto non fosse stata la casa, ma chi vi era dentro. Da quanto era scesa alla stazione di Paddington, per poi andare a prendere la metropolitana per arrivare lì, non aveva potuto fare a meno di sorridere al pensiero di rivedere Sherlock, John e tutti gli altri. Non ne capiva esattamente il motivo, ma tutto ciò che ruotava attorno a Baker Street la faceva sentire speciale, come se a lei fosse dedicato un onore che nessun altro aveva.

Mentre si insaponava la porta del bagno si aprì all'improvviso. Sebbene fosse dietro la tendina della doccia si coprì istintivamente le zone più intime, sorpresa.

«Ciao Emi» fu la voce che riempì il piccolo bagno a seguito di quella invasione.

Fu inevitabile, per la ragazza, sentirsi ancora più in imbarazzo. Sherlock era atipico, lo sapeva, ma non si era mai spinto fino a quel punto.

«Sherlock, maledizione!» esclamò esasperata. «Mi sto facendo la doccia, sei impazzito?»

Il tono disinvolto con cui l'uomo le rispose ricordarono a Emily le cose più esasperanti che le erano accadute dalla prima volta che aveva messo piede nella casa.

«Suvvia, credi che non abbia mai visto il corpo di una donna? E poi non sto nemmeno guardando.»

La ragazza tentò di sbirciare appena, cercando di interpretare la sagoma del detective da oltre la tendina. In effetti le parve essere di spalle, fermo davanti allo specchio.

Lui non proferì altra parola.

«Senti, questo è il tuo modo di darmi il bentornata?» chiese, decisamente poco convinta della cosa.

«No» replicò monosillabico lui. «Lestrade mi ha sottoposto qualcosa di interessante e voglio che tu venga. Ci troviamo lì fra mezz'ora.»

Se ne andò senza aspettare una risposta, richiudendosi la porta alle spalle. Emily, ancora interdetta per l’improvvisata del detective non riuscì a fermarlo in tempo per ricordargli che se voleva che lo raggiungesse da Lestrade doveva anche dirle dove si trovava l’ispettore. Scostò la tendina della doccia titubante, accertandosi prima di essere effettivamente sola nella stanza.

Un sorriso divertito le uscì spontaneo quando si accorse che Sherlock era stato un passo avanti a lei ancora una volta. Sullo specchio, dove il vapore dell’acqua calda si era depositato, con evidente sicurezza era scritto un indirizzo: il luogo dell’appuntamento.

 

*

 

John Watson era fermo immobile accanto all’amico. Osservava a tratti il profilo di Sherlock, il cielo che si stava rischiarando lentamente, poi l’orario e di nuovo Sherlock. Quest’ultimo lo aveva informato che sarebbero entrati nel vecchio stabile solo dopo l’arrivo di Emily, che sarebbe giunta a breve. Dopo il ritorno in scena del detective sul luogo del ritrovamento del cadavere avevano atteso una quindicina di minuti, in silenzio.

«Sei sicuro che Emily stia arrivando?» domandò di punto in bianco il medico.

«Naturalmente» rispose asciutto l’altro, gli occhi fissi sull’ingresso al cortile della struttura.

«Le hai dato solo mezz’ora» gli fece notare.

Sherlock non replicò subito. Continuò a guardare avanti finché, a un certo punto, guardò l’orologio e sorrise, soddisfatto. Dal cancello la sagoma di Emily si avvicinava via via, facendosi più grande e definita. I capelli rossi risaltavano sul cielo ancora in gran parte grigio, l’ombrello giallo ben saldo nella mano destra.

«I mezzi pubblici londinesi sono molto puntuali, John. Oltretutto Emily è più veloce di tante altre a prepararsi.»

Detto ciò si avviò verso l’interno dell’edificio, lasciando John in attesa della ragazza. Quando questa lo raggiunse sorrise in direzione del medico e lo abbracciò come si abbraccia un vecchio amico.

«Sono molto felice di rivederti» gli disse, trattenendosi dal rivelargli che le era mancato.

John rispose allo stesso modo, chiedendole come avesse trascorso le festività.

Con quei brevi convenevoli – decisamente piacevoli per Emily in compagnia del medico – entrarono dentro il vecchio capannone dove Lestrade e la scientifica stavano lavorando.

«Sai già di cosa si tratta?» domandò Emily, camminando al fianco di John.

Quest’ultimo scosse la testa. «Solo Sherlock lo sa.»

Più o meno al centro dell’ampia sala di quella vecchia fabbrica in disuso un novero di uomini era intento a prendere misure, scattare foto e conversare. Grosse lampade erano appoggiate al terreno, i fari fissi su un unico punto, al loro incrocio esatto. Gli uomini della scientifica, con la loro caratteristica divisa bianca, si muovevano sicuri intorno a un corpo disteso a terra, parendo alieni approdati con un intento ben preciso. Leggermente distanti da quel gruppo di persone c’erano due figure note, entrambe ferme in piedi, sicure, i cappotti lunghi e scuri a dar loro un’aria austera.

Emily sentì l’eccitazione crescerle dentro alla vista di quella scena, degli esperti, dell’atmosfera, di Sherlock e Lestrade concentrati a parlare. Per molti poteva essere strano provare simili emozioni in una circostanza del genere, ma per lei non lo era affatto. Da quel punto di vista lei e Sherlock Holmes si assomigliavano.

Lestrade si accorse della ragazza e di John mentre i due si avvicinavano. Fece un cenno in direzione del medico e salutò Emily da vero gentiluomo.

«Posso chiederle di che si tratta, ispettore?» domandò lei al termine dei convenevoli di rito.

Lestrade sorrise, lanciò un’occhiata al detective e tornò a guardare la ragazza. «Un morto affogato» disse con semplicità.

Emily guardò istintivamente l’ambiente. Il capannone in cui si trovavano era nella parte di Londra più distante dal Tamigi, perciò escluse subito la possibilità che il fiume fosse in qualche modo implicato. La struttura era abbandonata da tempo – come il suo essere fatiscente testimoniava bene – e le parve improbabile che l’acqua fosse ancora collegata per consentire a qualcuno di riempire una vasca e affogarci dentro una persona; oltretutto il punto in cui si trovava il cadavere era decisamente isolato da qualsiasi cosa.

«Affogato?» mormorò incerta.

Non si accorse dello sguardo di Sherlock, né di quello di Lestrade, che, provando simpatia per la ragazza, trovava sempre semplice coinvolgerla. Si permetteva di farlo soprattutto perché Sherlock stesso gli aveva detto che poteva, sebbene glielo avesse confessato per vie traverse e facendogli intuire che non voleva fosse reso noto ad altri.

«Mi permetto di correggerti Gerard» si intromise Sherlock.

«Greg.»

Il detective non diede peso alla correzione di Emily; Lestrade invece parve gradirla particolarmente.

«Non c'è ancora l'effettiva certezza che la causa del decesso sia dovuta ad annegamento. Lo si sospetta perché il corpo del malcapitato lo lascia credere.»

«Sì, corretto» confermò l'ispettore, leggermente indispettito dal perfezionismo di Sherlock. Sebbene ormai sentiva che il detective fosse suo amico gli capitava ancora di venire esasperato dall'eccessiva conoscenza che spesso ostentava.

«Come Sherlock ci tiene a precisare» riprese poi parola l'ispettore, rivolgendosi non solo a Emily ma anche a John, «l'esatta causa del decesso non è stata ancora confermata, sebbene la scientifica sia abbastanza unanime nel sostenere che, date le condizioni del corpo, l'annegamento sia l’opzione più probabile.»

Sherlock si esibì in un'espressione tronfia alle ultime parole di Lestrade.

John guardò l'ambiente, il pavimento dell'ampia struttura rotto in più punti, in corrispondenza dei quali erba e terra stavano tornando a spuntare.

«È difficile credere che possa essere affogato in un posto simile» disse dopo aver analizzato l'area a sufficienza.

«Non rimane che scoprire se le cose sono andate effettivamente così» affermò poi Sherlock. Non attese nessuna reazione da parte dei presenti; si incamminò in direzione del cadavere, il colletto del cappotto nero sollevato e il passo di chi sapeva esattamente cosa cercare.

 

*

 

Tutta la possibile euforia di Sherlock Holmes si era esaurita intorno alle tre del pomeriggio. Verso quell’ora il detective si era alzato dalla poltrona, aveva attraversato l’ingresso ed era uscito dal 221B, lasciando Emily in casa da sola.

Il sospetto annegamento che Lestrade aveva sottoposto a Sherlock gli aveva dato, subito, quella carica che contraddistingueva il detective quando era alle prese con qualcosa di molto interessante e in grado di azionare quanti più ricettori presenti nella sua mente. Tuttavia proprio per tale motivo era stato in grado di analizzare la situazione e individuare le risposte invisibili ai molti in breve tempo. Emily aveva cercato di studiarlo al meglio mentre lui riconosceva dei leggeri segni sul collo – resi meno percepibili a causa del rigonfiamento del corpo – che lo portarono a ipotizzare una morte da strangolamento per mezzo di qualcosa di molto simile a una corda. Oppure mentre notava che da una delle grandi porte della struttura, fino al cadavere, la terra e l’erba erano state smosse da qualcosa, poiché gli steli verdi erano piegati, come soffiati con violenza.

Sherlock era arrivato alla conclusione che l’uomo era probabilmente stato ucciso strangolato, che il corpo era stato lasciato per giorni all’aperto, forse nel cassone di un camion – come aveva sospettato trovando piccole tracce di ruggine in diversi punti – dove l’acqua aveva avuto modo di sommergerlo – può darsi anche aggiunta dal colpevole – e che infine, sempre all’interno del cassone era stato portato fino a quella fabbrica dismessa, dove il contenuto era poi stato svuotato a terra senza ritegno. Il detective sosteneva che la cosa era in grado di motivare tutto. La massa d’acqua presente sul camion aveva spostato la terra e piegato l’erba, oltre ad aver trascinato il corpo del malcapitato nel punto in cui era stato ritrovato. Non solo, aveva anche rinvenuto dei solchi da pneumatico in alcuni punti dove l’asfalto aveva ceduto il passo alla terra a ulteriore supporto della sua ricostruzione.

Davanti all’incredulità generale aveva sostenuto talmente bene la sua teoria che nessuno era stato in grado di ribattere in alcun modo e Lestrade aveva convenuto con lui che, come al solito, la sua ipotesi poteva funzionare. Aveva comunicato in centrale di iniziare a cercare un camion che potesse essere passato in quella zona prima ancora di sapere se, effettivamente, ciò che Sherlock aveva immaginato fosse confermabile dai risultati delle analisi.

Terminato di esporre la propria teoria il detective aveva stretto a sé il cappotto e aveva annunciato che sarebbe rientrato a casa, seguito a breve distanza da John e Emily, che avevano prima salutato Lestrade e poi si erano incamminati. John era andato alla clinica dove Mary si trovava al lavoro – passando prima a recuperare la figlia dalla babysitter – mentre la ragazza era rincasata, trascorrendo solo pochi minuti in compagnia di Sherlock prima che questo si avviasse fuori dal 221B senza dare informazioni aggiuntive riguardo al luogo in cui era diretto.

Dal momento che Emily era ormai a conoscenza di quel genere di comportamenti non ne era rimasta né sorpresa, né infastidita. Aveva capito ben prima del suo ritorno a Newport per le vacanze che Sherlock stava soffrendo di una sorta di astinenza da casi intriganti al punto da riversare spesso il suo bisogno di indagare su di lei, analizzandola a fondo ogni volta che rientrava in casa. Proprio per questo riuscì a immaginare che il detective – in un primo momento chiaramente eccitato per il nuovo e, probabilmente avvincente, caso – era in realtà rimasto deluso nello scoprire che quello che poteva apparire un intrigante mistero era invece qualcosa che aveva trovato subito una spiegazione e in modo, per lui, fin troppo semplice. Era già accaduto in più occasioni e ogni volta Sherlock si era comportato all'incirca in quello stesso modo. Tuttavia per Emily era comunque interessante vedere i suoi comportamenti in simili circostanze, perché le avevano permesso di capire che uno come lui necessitava di stimoli continui, stimoli, però, di un certo spessore.

Stava appuntando distrattamente quei pensieri sul proprio portatile, chiedendosi anche quale fosse il comportamento di Sherlock una volta raggiunto il limite di sopportabilità per la mancanza di sproni, quando il suo cellulare trillò allegramente. Lo afferrò sperando che si trattasse del coinquilino, ma si rese conto che era un nuovo messaggio da parte di Richard. Troppo presa dall’indagine di Sherlock si era dimenticata di rispondere al suo ultimo messaggio e lui le aveva appena chiesto se fosse tutto a posto.

Si misero a scriversi, conversando del più e del meno, finché a un tratto la porta di casa si aprì. La ragazza tese l’orecchio per individuare chi potesse essere entrato – anche considerando che erano le sei del pomeriggio e Sherlock mancava da ore – e sentì la voce di Mary. Subito dopo i coniugi Watson entrarono nel soggiorno, la piccola stretta fra le braccia del padre.

«Ciao» li salutò Emily, abbandonando il portatile sul tavolino.

La donna la salutò di rimando, mentre John, dopo essersi guardato intorno, chiese: «Dov’è Sherlock?»

«È uscito poco dopo le tre. Non ho idea di dove sia.»

Il medico annuì distrattamente, sedendosi alla sua poltrona.

«Volete qualcosa?» domandò Emily.

«Oh no, grazie cara» rispose Mary.

I tre rimasero in silenzio per diversi secondi, sovrappensiero.

«Sapete cos’ha Sherlock?» chiese infine Emily.

John la guardò. «In che senso?»

«Beh, è da prima che io partissi che è più irascibile del solito.»

«Quello è semplicemente dovuto al fatto che non ha fra le mani qualcosa di avvincente da un po’. È normale» cercò di tranquillizzarla Mary.

«E se ci fosse altro? Insomma, io sto ancora pensando a Walker e Horvat. E poi c’è quella busta, quella che gli hanno recapitato prima di natale. È tutto così strano» ammise dopo un momento di silenzio la ragazza.

«Quale busta?» volle subito sapere John.

Emily lo guardò, sorpresa. «Sherlock non te ne ha parlato?»

«Non che mi risulti» rispose, mascherando a stento una nota infastidita.

La ragazza si alzò dal divano, raggiungendo il camino con pochi passi. Lì afferrò la busta marrone ancora infilzata sotto il coltello a serramanico e la portò al medico, lascandogliela in mano e prendendo lei in braccio la bambina. Anche Mary si avvicinò a John e guardò la busta con espressione dubbiosa. Lei, forse, non sapeva cosa potesse rappresentare quel normalissimo oggetto, ma Emily sapeva che la cosa non poteva valere per John. Quest’ultimo, infatti, rigirò fra le mani la carta, guardandola attentamente, soffermando la sua attenzione sul sigillo di ceralacca.

«Cosa c’era dentro?» domandò.

«Carte di cioccolatini e briciole di pane.»

John si irrigidì. Tornò a guardare Emily che rispose al suo sguardo, facendosi preoccupata.

«Potreste spiegare anche a me perché questa cosa sembra allarmarvi tanto?» domandò infine Mary, attirando l'attenzione dei due su di sé.

John le raccontò tutto, Le cascate di Reichenbach.. Mary conosceva la storia, ma lei non aveva collegato così chiaramente la busta da poco ricevuta da Sherlock con quelle che Moriarty gli aveva fatto trovare durante quel caso.

I tre passarono l'ora successiva a interrogarsi sulla situazione; a chiedersi se, e quanto, bisognasse preoccuparsi e a motivare il perchè la nemesi di Sherlock non potesse essere coinvolta – la sua morte era la giustificazione maggiore. Tuttavia più ne parlavano fra di loro più Emily sentiva che c'era qualcosa di sospetto, come se qualcuno di molto preparato e che sapeva esattamente come muoversi, stesse realizzando una specie di grande minaccia ai danni di Sherlock. Proprio per questo motivo il fatto che in quel periodo il detective fosse tanto instabile, irascibile e rimanesse solo per così a lungo non la faceva assolutamente stare tranquilla.

«Credete che Sherlock sospetti qualcosa a riguardo?» chiese infine Emily, sovrappensiero.

Mary la guardò e le sorrise, dolcemente. «Penso proprio di sì, lo conosco. Se sotto c'è qualcosa saprà scoprire cosa, a meno che non l’abbia già fatto.»

Emily annuì leggermente, solo in parte rinfrancata dalle sue parole. Non riusciva più a zittire una strana voce dentro di sé, qualcosa che continuava a ripeterle che c'era molto di più di quanto apparisse in superficie e che, qualunque cosa fosse, li aveva ormai condotti a sé.

«Piuttosto,» prese poi parola Mary, rivolgendosi a Emily. Quest'ultima si ridestò dai suoi pensieri e guardò la donna che ricominciò: «vuoi dirmi come si chiama?»

La ragazza rimase fortemente sorpresa nel capire che Mary aveva intuito che c'era un "qualcuno" in grado di distrarla anche in una simile circostanza. Era sicura che la donna avesse intuito la cosa perché lei non era stata in grado di resistere alla tentazione di rispondere immediatamente ai messaggi di Richard. Non solo Mary era capace e intelligente, ma era anche una donna e una simile circostanza non poteva certo esserle sfuggita.

«Come si chiama chi?» si intromise John, perplesso.

Mary lo guardò. «Lascia perdere» lo ignorò subito. «Allora, Emi?»

Per la ragazza fu inevitabile sorridere davanti al volto desideroso di informazioni della donna, così come le riuscì complicato trattenere quel sorriso ostinato che le si riproponeva ogni qualvolta pensava o parlava di Richard. Non le era mai capitato di invaghirsi tanto in fretta di un ragazzo, ma lui le sembrava diverso da qualsiasi altro.

Tornò a sistemare la busta marrone sul camino, trafiggendola nuovamente con il grosso coltello a serramanico. Dopodiché tornò a sedersi e si decise a raccontare la storia a Mary e John, accantonando per un momento la sua preoccupazione per Sherlock.

 

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Capitolo 11
*** XI ***


 

 

 

Nelle tre settimane successive all'ultimo caso interessante sottoposto da Lestrade a Sherlock – quello del presunto morto affogato rinvenuto nel vecchio capannone – l'umore del detective era sceso ulteriormente. Nell'arco del giorno si muoveva nervosamente per casa, parendo un leone chiuso in una gabbia troppo stretta, oppure suonava il violino per brevi istanti, osservando fuori dalla finestra con sguardo infastidito, come se ci fosse qualcosa di snervante proprio sotto casa. Negli ultimi giorni, poi, aveva anche cominciato a stare fuori di casa per ore, senza annunciare né dove andava, né chi incontrava.

Davanti al suo atteggiamento Emily – che nel mentre continuava a seguire le lezioni del master e a lavorare al suo scritto – si faceva via via più preoccupata. Sospettava che ci fosse altro oltre alla mancanza di casi interessanti che stava provocando un simile stato d'animo al proprio coinquilino e sentiva che non si trattava di un bene. Quando aveva riferito le sue preoccupazioni a John, il medico le aveva detto che anche secondo lui c'era sotto qualcosa e le aveva promesso con un sorriso che avrebbe fatto il possibile per scoprire di cosa si trattasse.

Consapevole che John poteva essere di vero aiuto all'amico, Emily si era quindi rilassata e aveva trascorso gli ultimi due giorni concentrandosi interamente sul proprio lavoro, facendo il possibile per ignorare la preoccupazione che le ore di assenza di Sherlock le procuravano.

Ogni sera, prima di prendere sonno, rimaneva in ascolto per cercare di percepire i rumori dell’uomo al piano inferiore, mentre la sua mente vagava alla ricerca di possibili spiegazioni per il suo comportamento. Pensava a ogni cosa possibile: all'omicidio di Walker, a quello di Horvat, alla busta con le carte di cioccolatini e le briciole di pane. Quei tre elementi erano gli unici a cui Sherlock ancora non aveva dato la giusta collocazione e lei sentiva che dietro di essi si racchiudeva qualcosa di ben più ampio. Il detective una volta le aveva detto che l'assassino “sta cercando di dirci qualcosa" e forse tutto ciò faceva parte del messaggio rivolto a Sherlock dal killer. Tuttavia lei non riusciva a trovare un nesso sensato fra quegli elementi.

Era probabile che, a differenza di lei, il detective invece ci fosse riuscito, ma per il momento non le stava dando quell'idea. L'unica cosa di cui era certa in tutta quella situazione era che non riusciva a togliersi dalla mente il fatto che – in qualche modo a dir poco assurdo – Moriarty vi fosse coinvolto.

Era seduta al tavolo della cucina quando, all’una di un nuovo sabato pomeriggio, il suo cervello rimuginava ancora su quella faccenda, impedendole di concentrarsi a dovere sul suo lavoro. Le sembrava di essere seduta a un campo di battaglia; fra il caos tipico mai sistemato da parte del detective e tutta la serie di libri e dispense che lei aveva ammonticchiato nel poco spazio libero, non c'era più un solo centimetro visibile della superficie del piano.

Guardò distrattamente ciò che aveva davanti. La sua mente era scostante da ore; faticava a rimanere concentrata su un'unica cosa per un tempo sufficiente e di tutto quello che aveva scritto da quando era davanti al portatile aveva tenuto ben poco, cancellato e riscritto innumerevoli volte. L'unico pensiero che le riempiva la testa e le impediva di focalizzare la concentrazione su altro, in quel momento, era Sherlock Holmes e il suo stato d'animo attuale, così palese eppure totalmente indecifrabile.

Alla fine, consapevole che non sarebbe stata in grado di scrivere una sola riga in più, si alzò da tavola e prese fra le braccia tutte le sue cose, riportandole in camera. Nella stanza non fu in grado di ignorare a lungo i morsi della fame tanto che decise di uscire per andare a comprare qualcosa. Il frigorifero al piano inferiore era desolatamente vuoto, occupato solo da misteriose fialette e vetrini pieni di organismi colorati collezionati da Sherlock. Era consapevole di quanto fosse pericoloso afferrare qualcosa da lì dentro e preferì non rischiare. Optò per la tavola calda che c'era sotto casa e che faceva ottimi sandwich.

Tornò in soggiorno dopo aver messo sterline a sufficienza nel proprio portafoglio e quando entrò nella stanza trovò Sherlock nella stessa posizione in cui era fermo da ore: sdraiato sul divano, gli occhi celesti fissi al soffitto, le mani congiunte adagiate alle labbra. Proprio per via della sua alta figura distesa Emily si era vista costretta a studiare in cucina, in mezzo al caos, anziché poter stare accoccolata comodamente sul divano come faceva ogni giorno.

Rimase a guardare il detective a lungo, in silenzio, mentre i suoni di Londra entravano ovattati dalle finestre, unendosi al rumore di stoviglie nell'appartamento di Mrs. Hudson. Rimuginò sul da farsi per altri secondi, finché non si rianimò, decidendo di invitare Sherlock a mangiare qualcosa insieme a lei. Per quanto lui fosse sociopatico non poteva continuare in quel modo, ignorando lei e ciò che c'era al di fuori di quel soggiorno. Per via del lavoro e della vita genitoriale John non riusciva a passare spesso al 221B ed Emily sentiva che avrebbe fatto bene a tentare di risollevare da sola il morale di Sherlock in qualche modo. Sapeva non sarebbe stato semplice – si trattava pur sempre di un personaggio unico nel suo genere – ma determinazione e cocciutaggine erano sufficientemente radicati nel suo DNA da farla provare ugualmente.

«Sherlock» lo chiamò. Attese una risposta, ma l'uomo pareva non averla sentita.

Emily gli diede tempo per riflettere, andò a infilarsi il cappotto e, dall'attaccapanni, prese anche quello del detective, dopodiché tornò da lui.

«Sherlock che ne diresti di andare a mangiare qualcosa?» tentò nuovamente, alzando anche il tono della voce.

Di nuovo l'uomo non si scompose, continuando a fissare il soffitto anche mentre rispondeva: «Non ho fame» in modo asciutto.

«Oh andiamo. Non tocchi cibo da ieri a pranzo. Devi mangiare qualcosa.»

«Non hai altro di meglio da fare che disturbarmi? Sto pensando» la bacchettò, allontanando le mani dalle labbra e allargandole in un gesto di stizza.

«Non sei nel tuo Palazzo mentale. Ormai capisco quando ci sei» sottolineò di tutta risposta la ragazza, servendosi dello stesso tono ovvio spesso usato da Sherlock.

«Il mio cervello pensa in continuazione.»

«D'accordo. Fatto sta che quando non sei nel tuo Palazzo mentale posso disturbarti.»

A quelle ultime parole il detective si voltò a guardarla, infastidito. Si trovò davanti Emily che gli tendeva il cappotto, mentre lei era già ben fasciata nel suo.

«Scendiamo a prendere un sandwich. Prometto che non ti costringerò a interagire con le persone e che ascolterò ogni tua possibile frecciatina.»

Lui continuò a guardarla senza dire nulla.

«Ti prego, Sherlock. Sono giorni che non facciamo qualcosa insieme.»

«É stato John a dirti di farlo, vero? A dirti di insistere tanto.»

Di tutta risposta la ragazza scosse la testa. «No. Lui mi ha detto che quando fai così devo mandati al diavolo. Ma prima di farlo voglio almeno provare a vedere se riesco a farti muovere da quel divano.»

A quelle parole il detective aggrottò ulteriormente la fronte, senza replicare.

I due rimasero a guardarsi ancora, in silenzio. Sherlock analizzò a lungo Emily, facendo ragionare la sua mente come sempre, osservando anche i dettagli più insignificanti, forse sconosciuti perfino a Emily stessa. Alla fine, però, con sorpresa della ragazza l'uomo si alzò dal divano, sbuffando sonoramente nel compiere quel gesto. Raggiunse Emily e afferrò il cappotto che continuava a tendergli.

A lei parve ancora contrariato per l'iniziativa che aveva avuto il coraggio di prendere, tuttavia le importò poco, sentendo di aver ottenuto – per quanto insignificante – una nuova vittoria sul detective.

Sherlock si sistemò il cappotto con un paio di gesti decisi, infine guardò Emily con superiorità «Però paghi tu.»

Lei sorrise, acconsentendo con il capo e avviandosi lungo le scale seguita dall'uomo.

La tavola calda sotto il 221B era piuttosto piena, come spesso capitava durante l'ora di punta. I due coinquilini entrarono, prendendo posto in fila per poter effettuare l'ordine. Mentre aspettava il suo turno Emily lanciava di tanto in tanto brevi sguardi di sottecchi a Sherlock, tentando di interpretarlo. Era serio, imperscrutabile; i suoi occhi chiari scrutavano severi e impassibili le persone nel locale, mentre la sua mente lavorava come sempre a gran velocità, elaborando più volte tutto ciò che captava. La ragazza non avrebbe potuto sapere cosa c'era nella testa del detective in quel preciso momento, né che ciò che lo circondava lo stava, in realtà, coinvolgendo molto più di quanto dava a vedere.

Sherlock era ancora perfettamente ricettivo quando lo speaker radiofonico della stazione che tenevano sempre accesa come sottofondo nel locale annunciò il titolo della canzone che stava per lanciare. Fra il chiacchiericcio continuo e il disinteresse generale dei presenti probabilmente nessun altro oltre al detective sentì le note incalzanti di StayinAlive levarsi. Sentendo quella canzone Sherlock si irrigidì ancor più di quanto già non fosse, affondando le mani nelle tasche del cappotto e tendendo i muscoli come in attesa di un imminente attacco a sorpresa.

Era irrequieto; non c'era solo la canzone a rimescolargli i pensieri nella mente in quel momento, ma anche altro. Alla sua destra, inconsapevoli di quello che stavano scatenando nelle profondità di Sherlock Holmes, due giovani ragazzi, la divisa della tavola calda indosso, erano chini su un grosso borsone nero, incerti.

«Pensi che dovremmo chiamare la polizia?» chiese uno dei due, probabilmente da poco assunto, notò istintivamente Sherlock guardando il suo atteggiamento.

«No, non penso. Forse qualcuno l'ha semplicemente dimenticata. Proviamo ad aprirla» replicò l'altro, chiaramente più affascinante che intelligente.

Mentre la canzone continuava a risuonare silenziosa ai più, ma non al detective, i due aprirono titubanti il borsone, lanciando uno sguardo preoccupato al suo interno. Subito dopo, uno di loro ne estrasse una bomboletta di vernice spray.

«Non capisco,» lo sentì dire Sherlock, «è piena di bombolette gialle.»

A quelle parole l'uomo si voltò verso di loro, ma venne subito ricondotto alla realtà da Emily, che posò una mano sul suo braccio per ottenere la sua attenzione.

Era arrivato il loro turno. Dietro il bancone un giovane un po' allampanato era in attesa, sorridente.

«Tu cosa prendi?» gli chiese lei.

Teneva gli occhi fissi sul menù, senza guardare in volto il proprio coinquilino. Se invece lo avesse fatto, con tutta probabilità, si sarebbe accorta di quanto Sherlock fosse teso in quel momento. Quel posto gli stava andando stretto, lo rendeva nervoso e stava portando la sua mente al limite.

Guardò Emily, che non rispose al suo sguardo, infine puntò gli occhi sul ragazzo di servizio, facendoli scorrere rapidamente sul volto, la divisa, le mani, guardando infine il cartellino con il suo nome: James.

Prima ancora che il collegamento potesse scattare nella testa dell'uomo, la porta d'ingresso nel locale si aprì; non sapeva chi l'aveva varcata, ma lo sentì bene mentre, chiaramente rivolgendosi a qualcun altro, esclamò: «Ti sono mancato?»

Quella fu la molla che fece scattare irrimediabilmente Sherlock. Sentì ogni muscolo del proprio corpo, anche il più infinitesimale, irrigidirsi per la tensione. Serrò la mascella, ispirando forte l’aria dal naso, dopodiché, con voce ferma e severa, in grado di camuffare il suo stato d’animo attuale, sentenziò: «Dobbiamo andarcene.»

Emily a quelle parole si volse verso di lui. «Cosa?» domandò.

Appena incrociò lo sguardo dell’uomo capì che qualcosa in lui non andava, ma non fu in grado di identificare quale fosse il problema. Non era ancora così brava nel capire cosa turbasse Sherlock, sebbene avesse ugualmente capito che qualcosa lo stava turbando.

L’uomo prese la via della porta prima ancora che lei potesse formulare quei concetti.

«S-Sherlock» cercò di fermarlo lei, ma era già uscito.

Emily si scusò in gran fretta con il ragazzo che ancora attendeva il loro ordine e uscì dal locale per seguire subito il coinquilino. Appena fu fuori notò la porta del 221B ancora aperta e capì che Sherlock doveva essere risalito in casa. Vi entrò anche lei, salendo le scale in fretta e raggiungendo il soggiorno. Dentro trovò il detective, fermo nella sua alta figura, le mani fra i capelli, gli occhi chiusi. La ragazza sentì una fitta attraversarla a quella visione e si sentì improvvisamente impotente. Ne era certa, qualcosa in lui non andava, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse.

Si avvicinò incerta all’uomo, che ancora non dava segni di averla sentita entrare.

«Sherlock» lo chiamò, piano.

Dopo alcuni secondi di silenzio, lui scattò. Spalancò gli occhi e li puntò immediatamente in quelli della ragazza, tendendo una mano verso di lei come a volerla allontanare.

«Esci» le disse.

Il suo tono non ammetteva repliche, così come la severa – e quasi minacciosa – luce che aveva da poco inondato i suoi occhi chiari.

Emily lo guardò, incredula. Non riusciva a capire cosa gli stesse prendendo, prima di allora non le aveva mai dato un simile ordine. Aprì bocca per parlare ma non le riuscì di dire nulla. Si guardò intorno, incerta, infine tornò a rivolgersi al detective: «Si può sapere che ti prende?» domandò, cercando di essere il più ferma possibile. Le riuscì complicato, nonostante tutto. Lo scatto di Sherlock di poco prima l’aveva spaventata; non lo aveva mai visto rivolgersi a lei in quella maniera, tanto che ogni sicurezza che nutriva sul loro rapporto cominciò a vacillare improvvisamente.

Lui non diede minimamente peso alla domanda che la ragazza gli aveva posto. Aggrottò la fronte come gli capitava di fare spesso in presenza di qualcuno che lo innervosiva, infine alzò la voce: «Esci. Devo rimanere solo!»

Emily sussultò al modo in cui Sherlock le si era appena rivolto. Irrigidì il corpo, nervosa.

Lui continuava a osservarla, austero, in un modo in cui non aveva mai fatto prima.

Davanti a quello sguardo Emily capì che avrebbe fatto bene a non contraddirlo e che forse – almeno così sperava lei – Sherlock potesse avere i suoi buoni motivi per ordinarle di uscire di casa senza un'apparente ragione.

Si sistemò il cappotto, cercando di trovare la sua consueta sicurezza, infine acconsentì con un gesto del capo. -«D'accordo, ti lascio solo» disse.

L'uomo non replicò in alcun modo, rimase fermo a seguire Emily con gli occhi mentre lei si avvicinava alle scale.

«Però, se dovessi avere bisogno di qualcosa, fammelo sapere, ok?» domandò lei, facendo così un ultimo tentativo. Consapevole che non avrebbe ottenuto una risposta non l'attese nemmeno; si chiuse la porta alle spalle e scese le scale, uscendo infine dal 221B di Baker Street.

Sherlock continuò a rimanere immobile nel soggiorno, rivolto alla porta. Sapeva che Emily non sarebbe rientrata per pregarlo di dirle cosa c'era che non andava e non ne rimase né sorpreso né dispiaciuto. Una delle differenze maggiori fra lei e il suo migliore amico era che Emily capiva quando era ora di smetterla di insistere. Tuttavia, ciò, non sempre era una buona cosa.

 

*

 

Emily aveva vagato per una buona mezz'ora prima di decidere di chiudersi in una caffetteria e tentare di calmare i nervi con del tè. La fame le era completamente passata e non degnò di attenzione neanche il più invitante dei biscotti che le avevano portato insieme all'infuso.

Soffiava distrattamente sul contenuto della tazza, guardando solo il fumo argentato che si muoveva in spirali caotiche salendo dalla bevanda. La sua mente era da un'altra parte, in un altro tempo; era ancora davanti a Sherlock a Baker Street, alla sua figura ferma di fronte a lei, ferrea, all'ordine che le aveva dato e a come lo aveva fatto.

Lui non si era mai comportato a quel modo nei suoi confronti e quel pensiero le fece male. Ripensò inevitabilmente al modo in cui le aveva detto di andarsene, alla luce severa, addirittura minacciosa, che aveva pervaso i suoi occhi. Non riusciva a togliersi quell'immagine da davanti, come se la stesse vedendo ancora.

Cercò di non pensarci e fece il possibile per cacciare tutto ciò dalla sua testa, ma non ci riuscì: più si sforzava di non pensarci, più tutto le si ripresentava davanti inesorabilmente.

Si chiese nuovamente cosa avesse potuto scatenare un simile atteggiamento in Sherlock e non si diede alcuna risposta attendibile. Era convinta di conoscerlo, ormai, o perlomeno di aver capito le situazioni che lo facevano scattare e il modo in cui queste si ripercuotevano su di lui. Aveva capito che la mancanza di casi stimolanti lo rendeva irrequieto, così come l'assenza di risposte certe, eppure le sembrava impossibile che un simile fattore potesse scatenare in lui un livello di frustrazione mista a rabbia tale da farlo esplodere contro chi non ne aveva colpa.

Si chiese anche se si fosse mai comportato così con John e, a quel pensiero, decise di provare a chiamare il medico per potersi confrontare con lui.

Estrasse il cellulare e cercò il numero dell'uomo. Si scoprì delusa quando si accorse che il messaggio che le era da poco arrivato era di Richard e non di Sherlock e lo ignorò.

Chiamò John e rimase in attesa mentre il suono tipico dello squillo a vuoto le rimbalzava nella testa. Era tesa, nervosa; desiderava che il medico rispondesse, sperando che lo facesse in fretta e che le potesse consigliare cosa fare – o che le dicesse che avrebbe raggiunto subito Baker Street.

Tuttavia gli squilli si susseguirono senza sosta, uno dopo l'altro. Mano a mano che questi si protraevano Emily si sentiva sempre più persa.

Allontanò il telefono dall'orecchio quando la segreteria rispose per John e rimase a guardarne lo schermo finché questo non diventò nero.

Cosa poteva fare?

Sherlock non voleva il suo aiuto e pareva quasi che in quella situazione non volesse proprio averla fra i piedi. Eppure lei voleva aiutarlo. Sentiva che Sherlock aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto in una simile situazione ed Emily si disse – con quanta più convinzione possibile – che se John al momento non poteva aiutare né lei né il detective, allora lei stessa avrebbe dovuto fare qualcosa.

Si alzò dal tavolino e sorseggiò in fretta un lungo goccio di tè caldo, dopodiché abbandonò il corrispettivo in sterline della bevanda sul tavolo – come aveva visto spesso fare nei film – si rivestì in fretta e uscì, diretta verso casa.

Volente o nolente Sherlock si sarebbe dovuto arrendere all'idea di avere Emily accanto, così come avrebbe dovuto accettare il fatto che lei era intenzionata ad aiutarlo. Non gli avrebbe concesso di cacciarla di casa una seconda volta, lo avrebbe costretto ad arrendersi al fatto che, ormai, lei faceva parte del 221B e della sua vita.

Percorse rapidamente le vie di Londra, facendo a ritroso il tragitto che l'aveva portata alla caffetteria. Quando svoltò in Baker Street accelerò ulteriormente il passo, pensando mentalmente a cosa dire in presenza di Sherlock per potersi imporre alla volontà del detective.

Si fermò solo un momento davanti all'ingresso di casa, dove prese una lunga boccata d'aria prima di girare la chiave nella serratura ed entrare. Mentre saliva le scale tese l'orecchio, cercando di captare possibili rumori o movimenti dell'uomo, ma non sentì nulla finché non arrivò davanti alla porta. Aprì quest'ultima dopo una leggera indecisione, raggiungendo così il soggiorno.

In un primo momento la stanza le parve completamente deserta, ma si accorse che non era affatto così. Sherlock era disteso in terra, su un fianco, la giacca dell'abito abbandonata malamente sul pavimento accanto a lui.

Emily si sentì gelare il sangue vedendolo così. Capì subito che qualcosa non andava, che l'uomo non avrebbe dovuto essere lì, immobile. Con il cuore che le batteva all'impazzata contro lo sterno cercò di riacquistare il controllo di sé, ricacciando indietro la paura e raggiunse subito Sherlock, inginocchiandosi accanto al suo corpo. Guardò il suo petto alzarsi e abbassarsi seguendo il respiro dell'uomo. Si tranquillizzò appena, ma la mano le tremava ancora quando la sollevò per posarla sulla spalla di lui.

«Sherlock.»

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Capitolo 12
*** XII ***


Emily non aveva mai provato tanta angoscia come in quel momento, inginocchiata accanto al corpo all'apparenza incosciente di Sherlock.

Guardava il suo volto, gli occhi chiusi, mentre la sua mano ancora posata sulla spalla dell'uomo seguiva il lento moto del suo respiro. Per un lungo momento temette di non rivedere mai più il limpido sguardo celeste del detective e prima di alzarsi e chiamare un'ambulanza – o chiedere aiuto a Mrs. Hudson – fece l'ultimo tentativo per richiamare Sherlock.

«Sherlock. Andiamo svegliati!»

Lo percosse maggiormente pronunciando quelle parole, alzando anche il tono della voce. Passarono attimi che le parvero eterni, finché non sentì sotto il proprio tatto il corpo dell'uomo scuotersi debolmente. Sherlock aprì gli occhi, puntandoli vacui davanti a sé. Emily ai ritrasse per lasciargli spazio sufficiente affinché potesse muoversi, rimanendo però sempre inginocchiata sul pavimento.

L'uomo si puntellò sui gomiti, ruotò il corpo e guardò la ragazza. Non disse nulla.

Lei rispose al suo sguardo, preoccupata. Il detective aveva gli occhi lucidi, la fronte imperlata e sembrava completamente privo di forze. Emily lo stava vedendo sotto una luce a lei sconosciuta.

«S-stai bene?» gli chiese poi, incerta.

«Ti avevo detto di lasciarmi solo» disse lui, gelido. Aveva la voce bassa e roca.

La ragazza trattenne il fiato a quelle parole, preoccupata. Non riusciva a capacitarsi di ciò che stava accadendo, né di come avrebbe dovuto comportarsi. L'uomo che aveva davanti non le sembrava nemmeno lo Sherlock che aveva imparato a conoscere.

«Volevo solo... Ero preoccupata per te» gli rivelò, sperando che potesse servire in qualche modo.

Lui la guardò, austero. «Non è necessario. So badare a me stesso» replicò freddo.

Emily era in procinto di rispondergli, dirgli che da soli non si può neanche sperare di riuscire a risollevarsi da quell'umore nero in cui lui pareva essere sprofondato. Tuttavia non fece in tempo. Sherlock si mosse per potersi alzare in piedi, sollevando maggiormente il busto. In quel frangente la ragazza si accorse di qualcosa che risplendeva leggermente alle spalle dell'uomo. Si sporse appena, quel tanto che bastava per permetterle di identificare l'oggetto. Era una sottile siringa da insulina, usata e vuota.

Istintivamente tese la mano verso di essa, totalmente pervasa dalla curiosità.

Sherlock fu più veloce di lei. Intuì subito cosa stava per fare e la fermò. Afferrò il colletto del cappotto che la ragazza ancora indossava e l'avvicinò a sé.

«Non toccarla» le disse.

Emily non replicò. Spalancò gli occhi quando vide il volto del detective tanto vicino al suo, il cuore che le batteva all'impazzata mentre viveva una situazione che non avrebbe mai potuto immaginare.

«Cos'è?» chiese infine, quando si fu ripresa da quel momento di shock.

Sherlock non le rispose. Lasciò la presa dal cappotto, allontanando la ragazza e si alzò in piedi afferrando la siringa. Emily riuscì a notare il leggero barcollare dell'uomo nel compiere quel gesto e non le sfuggirono nemmeno il colorito pallido della pelle e la strana tensione dei muscoli. Si alzò anche lei, rimanendo a guardare l'uomo con crescente ed evidente preoccupazione.

«Si può sapere che ti prende?» esplose infine, non riuscendo a trattenersi oltre. Il modo in cui lui la stava ignorando le era insopportabile.

Sherlock si voltò a guardarla, ma ancora una volta non disse nulla, rimanendo a fissare Emily con intensità.

«Sto cercando di aiutarti. O meglio, vorrei poterlo fare» proseguì lei, facendosi forza.

«Vuoi aiutarmi? Allora porta questo a Mycroft» rispose lui, estraendo un piccolo bigliettino dalla tasca dei pantaloni e tendendolo sbrigativamente a Emily. «Che dica ciò che vuole, ma non che non mantengo la parola data.»

Prendendo il foglietto la ragazza non riuscì a resistere alla tentazione. Lo aprì con foga, sotto agli occhi del detective, nella speranza di ottenere delle risposte sul momentaneo stato d'animo di Sherlock.

Lesse l'unica parola che l'uomo vi aveva annotato e si sentì mancare il fiato.

«Dimmi che non è vero» mormorò, gli occhi spalancati per l’incredulità.

Teneva lo sguardo sulla parola riportata su carta, a cui non voleva credere: eroina.

Si rifiutava di concepire l'idea che Sherlock fosse arrivato a tanto, tuttavia l'aspetto e l'atteggiamento dell'uomo – ora che ne aveva avuto conferma – lasciavano intendere abbastanza bene che quella fosse la realtà.

«Per quale motivo ti sei fatto questo?» esclamò Emily in direzione di Sherlock, ancora sconvolta.

«Perché ti dovrebbe premere tanto saperlo?» replicò lui, impassibile.

«Perché credevo fossimo amici. O qualcosa di molto vicino all'essere amici! Potevo aiutarti.»

«Oh. Per favore! Non mi conosci affatto, come puoi sperare di aiutarmi?» ribatté lui, una forte nota infastidita nel tono di voce.

«Questo non è vero. Forse non alla perfezione, ma ti conosco ormai» insistette lei, certa che fosse la realtà.

«Ah sì? Io non credo proprio. Non sai cosa c'è qui dentro, non puoi capire tutto quello che quotidianamente ho in testa!» tuonò, picchiettandosi la tempia con l'indice. I suoi occhi celesti erano inondati di una luce furente, come lei non aveva mai visto.

Alla fine, in preda alla frustrazione e all'irritazione, Emily sentì un modo formarsi in gola.

«No invece,» urlò prima che la sua voce si rompesse definitivamente, «ora lo capisco fin troppo bene!»

Non attese alcuna replica. Diede le spalle al detective e si avviò in gran fretta verso la sua stanza, salendo i gradini di corsa e sbattendosi la porta alle spalle.

Sherlock, sempre immobile, rimase in ascolto dei rumori che provenivano dalla stanza della ragazza. La sentì camminare avanti e indietro, finché non si fermò, con tutta certezza sedendosi sul letto.

Il suo umore era nero, adirato e nervoso come non lo era da tempo. Abbassò gli occhi sulla mano che stringeva la siringa e la guardò a lungo. Sentì la rabbia crescere, mescolarsi ad altre sensazioni contrastanti dentro di sé. D'improvviso, con il montare di un nuovo impeto di rabbia, lanciò la siringa contro la parete, guardandola scontarsi contro la carta da parati e cadere al suolo.

 

*

 

Volendo stare lontana dal 221B – il più lontana possibile – Emily non aveva trovato altro posto se non il campus universitario in cui, sapeva, fra il via e vai di persone lei e il suo stato d'animo sarebbero passati inosservati.

Sebbene fosse sabato pomeriggio molti studenti stavano affollando la zona universitaria, approfittando della biblioteca e delle aule studio sempre aperte.

La ragazza era seduta su una delle panchine del cortile interno, quella maggiormente esposta al sole, stretta nel proprio cappotto più per la ricerca di un conforto che per il freddo.

Dopo la lite con Sherlock la ragazza era rimasta una buona mezz'ora nella propria stanza, sopprimendo a fatica il desiderio di gridare per la rabbia, così come aveva fatto il possibile per reprimere le lacrime, naturale conseguenza dello stato in cui si trovava. Prima di crollare definitivamente era corsa fuori di casa, scendendo le scale senza neanche degnare il soggiorno di una veloce occhiata.

Tuttavia, una volta essere giunta al campus e aver preso posto sulla panchina, lontano dagli sguardi e dall'interesse delle altre persone, era crollata. Aveva cominciato a piangere, soffocando il più possibile i singulti nel tentativo di non attirare nessuno.

Sebbene si fosse calmata, anche in quel momento la sua mente continuava a riproporgli in continuazione lo screzio avvenuto con Sherlock, come un film trasmesso in loop. Rivedeva tutto in modo nitido, rivivendo ogni istante e provando una morsa continua allo stomaco, un senso di dolore e sofferenza.

Nelle ultime ore aveva ignorato completamente i messaggi di Richard e le telefonate di John, così come aveva evitato di raggiungere Mycroft per dargli il biglietto su cui il detective aveva appuntato il nome di ciò che si era iniettato in vena.

Emily si sentiva confusa, oltre ad avere il morale a terra. Non capiva come potesse un uomo come Sherlock, dotato senza dubbio di un intelletto superiore, sottoporsi volontariamente a sostanze in grado di distruggere le percezioni e alterare la conoscenza. Ancora peggio era la consapevolezza che avesse sottoposto il suo corpo a qualcosa che lo avrebbe potuto uccidere in qualsiasi momento.

Ripensando a tutto ciò si sentì nuovamente mancare. Si portò una mano alla bocca, cercando di arrestare il tremore che aveva cominciato a scuoterle debolmente le labbra; gli occhi tornarono a bruciarle e lei si strisce ulteriormente al proprio corpo, tentando di resistere.

Vide il marciapiede su cui teneva gli occhi fissi farsi via via più indefinito e appannato; sapeva di essere sul punto di scoppiare a piangere un'altra volta, ma qualcuno la chiamò prima che fosse troppo tardi.

«Speravo di trovati qui.»

Emily si voltò verso quella voce, riconoscendo la figura di Richard.

Provò una fitta al cuore quando incrociò il suo sguardo. Richard era fermo in piedi e lo stava guardando, tranquillo. Tuttavia in quel momento, per quanto una parte della ragazza fosse felice – addirittura emozionata – per aver incontrato il ragazzo, non fu in grado di mantenere gli occhi su di lui. Li fece vagare per lo spazio intorno, senza dire nulla. Non sapeva come comportarsi, non aveva idea di che cosa poter dire a Richard senza smascherare in alcun modo quello che era successo con Sherlock e tutto il dolore che provava dentro di sé per com’erano appena andate le cose. Fece il possibile per farsi forza, sperando di riuscire a nascondere tutti quegli elementi in grado di testimoniare come si sentiva. Tuttavia sapeva che non sarebbe stato facile e che, con tutta probabilità, non sarebbe riuscita a nascondere assolutamente niente a Richard. Da quando lo aveva sconosciuto aveva capito che era un ottimo osservatore, in grado di notare i dettagli.

Lui, infatti, non ebbe troppi problemi a capire che nella ragazza qualcosa non andava. Emily lo stavo ancora guardando quando si fece improvvisamente serio.

«Ehi, è tutto a posto?» le chiese.

La ragazza non poté fare meno di annuire sebbene nulla, in quel momento, stesse andando bene.

Non ebbe il coraggio di guardare ulteriormente negli occhi il ragazzo. Sì volto tornando a fissare il marciapiede sotto di sé. Poco dopo sentì Richard sedersi accanto a lei sulla panchina.

«Si può sapere che succede?» insistette lui.

Ancora una volta Emily non fu capace di rispondergli. Sentì nuovamente formarsi nei suoi occhi delle lacrime, mentre la mente tornò a riproporle la lite con Sherlock.

«Va tutto bene» disse infine, la voce leggermente incrinata. «Ho soltanto avuto una piccola lite con il mio coinquilino. Niente di grave, è solo che non era mai successo prima» mentì.

Sapeva che quella non era la realtà e che la lite con Sherlock era avvenuta per motivi seri. Tuttavia una parte di sé sentiva che raccontare a Richard com’erano andate le cose non era la soluzione migliore. Sebbene quel ragazzo le piacesse e lei si fidasse di lui, qualcosa dentro le diceva che era meglio non raccontare della sua convivenza con Sherlock, così come della situazione che l'aveva portato a rovinarsi con le sue mani solo poche ore prima. Si trattava di faccende troppo personali, di qualcosa che lei sentiva suo e di cui, forse, era troppo gelosa per volerlo condividere con altri. Nonostante la lite con il detective, Emily era ancora profondamente legata a lui e sebbene lo screzio l'avesse ferita rimaneva il fatto che la ragazza non riusciva a ignorare l'affetto che sentivano nei suoi confronti.

A parte la sua famiglia e le persone vicine a Sherlock, nessun altro era a conoscenza del fatto che lui, proprio lui, fosse il suo coinquilino.

«Mi dispiace» disse poi il ragazzo, risvegliando Emily dai suoi pensieri.

Lei lo guardò. Le parve realmente dispiaciuto, come se soffrisse nel trovare la ragazza in quello stato d’animo. Se non avesse avuto un tale subbuglio dentro, probabilmente, Emily si sarebbe sentita lusingata a quell’idea.

«Se c’è qualcosa che posso fare…» si offrì Richard, lievemente incerto.

Sembrava quasi avesse paura di dire la cosa sbagliata, di ferire ulteriormente Emily. Quest’ultima si voltò verso di lui, abbozzando un sorriso. Quel ragazzo le piaceva veramente e dal modo in cui si erano evolute le cose fra loro nell’ultimo periodo era addirittura arrivata a sperare che potesse nascere qualcosa di ben più serio dell’amicizia che si stava via via rafforzando. Non le capitava più da tempo di sentirsi apprezzata da qualcuno sotto tutti gli aspetti – fisico e mentale – specie da uno poco più grande di lei.

Si fece forza per scacciare dalla sua mente tutto quello che era avvenuto prima a Baker Street, dicendosi che non valeva la pena di farsi rovinare l’occasione di trascorrere del tempo con Richard tornando a rimuginare su qualcosa che le procurava solo del gran dolore.

«Sei molto dolce,» gli rispose, «ma non penso tu possa aiutarmi con il mio coinquilino, non in questo caso» concluse, amareggiata. «Sistemeremo tutto, non preoccuparti. È stato solo un piccolo screzio.»

Sorrise con convinzione in direzione del ragazzo, che rispose allo stesso modo. Parlare con lui la stava aiutando, facendola sentire meglio. Trovò sorprendente come la compagnia di una sola persona potesse influire tanto positivamente sull’umore.

«Non… non sapevo convivessi con un ragazzo» disse poi Richard, guardandola con i suoi occhi scuri.

A Emily parve leggermente imbarazzato.

Lei si strinse nelle spalle, sempre decisa a non raccontare l’esatta verità. «È così, invece. Non te l’ho mai detto ora che ci penso.»

Lui si tormentò un momento le mani, distogliendo lo sguardo. «Devo esserne geloso?» chiese.

La ragazza si lasciò sfuggire un sorriso, abbassando gli occhi con un leggero imbarazzo. Ripensò a Sherlock, allo Sherlock che a lei piaceva di più, quello delle indagini, delle deduzioni, quello che suonava il violino e la guardava con i suoi ammalianti occhi celesti.

Si strinse nelle spalle. «Non è il tipo a cui piacciono le ragazze come me» rispose infine, convinta fosse la verità.

Per Sherlock, con tutta probabilità, lei altri non era se non una semplice coinquilina; la snervante ragazza che dormiva al piano di sopra, preparava il tè ogni mattina e pagava metà dell’affitto. La lite di prima gliene aveva dato la conferma. Si sentì nuovamente avvolgere dalla tristezza a quel pensiero, ma Richard prese parola prima che le sensazioni peggiori potessero tornare ad assalirla definitivamente.

«Beh» esordì. Emily si voltò a guardarlo. «Non sa quello che si perde.»

Detto ciò si avvicinò con sicurezza alla ragazza e la baciò. In un primo momento Emily non fu in grado di capire se tutto ciò stesse avvenendo realmente o solo nella sua testa, tuttavia alla fine si rese conto che era reale. Si sentì fremere, scaldare completamente. Chiuse gli occhi e si concentrò solo su quel bacio, quel momento, mentre tutto il resto passava in secondo piano.

 

*

 

John affrettò il passo appena imboccò Baker Street, schivando in maniera impeccabile tutti coloro che gli passavano vicino o gli venivano incontro. La sua espressione risoluta e determinata e la luce presente negli occhi avrebbero permesso a chiunque di capire che qualcosa lo stava rendendo irrequieto.

John, infatti, stava procedendo ad ampie falcate verso la sua ex residenza mosso dalla strana sensazione che qualcosa non stava andando per il meglio. Si era trovato sul cellulare la chiamata di Emily – cosa che non gli garantiva l'avesse cercato proprio lei, dal momento che Sherlock usava spesso il telefono di altre persone – tuttavia quando lui l'aveva cercata per sapere se c'era qualcosa di cui doveva essere messo al corrente – e non si era limitato a un solo tentativo – non aveva mai ricevuto risposta. Un simile atteggiamento da parte di Emily, unito al suo protratto silenzio, lo avevano convinto che doveva essere accaduto qualcosa e per cercare di capire cosa si era spinto fino a Baker Street.

Raggiunto il civico 221B il medico aprì la porta con la copia delle chiavi che Sherlock gli aveva impedito di restituire e si avviò lungo le scale dopo aver salutato la padrona di casa.

Raggiunto il soggiorno, davanti alla porta aperta, si fermò. Vide subito Sherlock a sedere sulla sua poltrona, immobile e imperscrutabile come spesso gli capitava di trovarlo. In un primo momento si convinse che fosse nel suo Palazzo mentale, ma il detective gli diede immediatamente conferma del contrario, puntando gli occhi nella sua direzione.

I due amici si guardarono per il tempo sufficiente a convincere John che, effettivamente, qualcosa non andava.

«Ciao» provò a salutare.

Il detective non si scompose, limitandosi a guardare il medico con sufficienza.

John sospirò, strofinando nervosamente le mani sulle cosce. Si sarebbe dovuto impegnare per l'ennesima volta nella speranza di riuscire a capire cosa non andava. Sebbene ci fosse passato abbastanza spesso da sapere come agire, la cosa era ugualmente snervante. Partì guardando attentamente Sherlock, i lineamenti stanchi, gli occhi lucidi, i bei vestiti più sciupati del solito. I sospetti di John vennero definitivamente confermati.

«Dov'è Emi?» domandò, sperando di riuscire a parlare almeno con la ragazza.

Il fatto che lei lo avesse chiamato sul cellulare gli suggerì che lo avesse cercato proprio per discutere dello stato attuale del coinquilino. Sherlock stava certamente affrontando una di quelle crisi che lo colpivano ogni volta che si trovava in una sorta di astinenza da casi interessanti. Diventava intrattabile, irascibile e scontroso, oltre a trascorrere le proprie ore chiuso in se stesso. John aveva già vissuto quelle situazioni, ma sapeva che per Emily era la prima volta, per cui non si sarebbe sorpreso nello scoprire che lei lo avesse cercato proprio per discutere di quella situazione.

«Fuori» rispose asciutto l’interpellato.

«Fuori dove?»

Sherlock si limitò a fare spallucce, apparentemente non interessato.

Quell’atteggiamento da parte del detective fece insospettire ulteriormente John. «C’è qualcosa che dovrei sapere?» lo incalzò.

«Non so, c’è?» replicò l’altro stizzito.

John perse la pazienza. «Sherlock piantala di fare l’idiota. Cos’è successo?»

Il detective sbuffò. «Emily è uscita di casa senza dire nulla. Ma ti posso garantire che anche se fosse qui se ne starebbe certamente chiusa in camera sua.»

«Cosa le hai fatto?» domandò subito il medico.

Sherlock lo guardò, un misto di stupore e fastidio nell’espressione. «A lei? Assolutamente niente.»

A quelle parole John corrugò nuovamente la fronte, distogliendo lo sguardo da quello infastidito e irritante dell’altro. Mentre lo faceva vagare per il soggiorno si accorse della siringa abbandonata sul pavimento, accanto alla parete. Si avvicinò all’oggetto, raccogliendolo da terra prestando particolare attenzione all’ago. Appena l’ebbe in mano lo analizzò un momento, dopodiché tornò a rivolgersi al detective: «Dimmi che non è ciò che penso.»

Sherlock fece scorrere lo sguardo dalla siringa all’uomo, esibendosi poi in un’espressione di ovvietà. «Non so a cosa tu stia pensando, allora, perché quella è chiaramente una siringa.»

«Ti ha trovato. Ti ha trovato mentre eri sotto l’effetto di droghe. Come hai potuto permettere che accadesse? Credevo ti fossi deciso a ripulirti dopo che sei quasi morto!»

Il medico non riusciva a credere a quello che Sherlock aveva appena ammesso né, soprattutto, al modo in cui lo aveva fatto. Ripensò al giorni in cui lo aveva trovato in quel covo di tossicodipendenti, di tutto quello che era avvenuto con Magnussen, dell'overdose che aveva quasi rischiato sul jet privato. Infine pensò a Emily e al modo in cui si doveva essere sentita.

Lanciò a terra la siringa, con forza.

«Quando smetterai di comportarsi così?» ringhiò in direzione di Sherlock il quale sollevò un sopracciglio con fare infastidito. «Non pensi mai alle conseguenze, non è vero? Se di te stesso ti importa così poco da accettare di iniettarti in corpo questa merda, almeno pensa a come fai stare gli altri ogni volta che lo fai.»

«Gli altri?» scandì con cura il detective. «So che parli di Emily, quindi chiamala per nome.»

John corrugò la fronte, un misto di rabbia e stupore in volto. «Allora se sai quanta ammirazione prova per te perché diavolo ti comporti così?»

«Ne abbiamo già discusso una volta, John. Gli eroi non esistono e anche se fosse io non sarei uno di loro. Se Emily mi ha elevato a suo eroe ha sbagliato e sbagliava sapendo esattamente di farlo, te lo posso garantire» replicò freddamente l’altro.

John allargò le braccia. «Però è successo. Anche se non avesse voluto alla fine è successo! Sherlock, quella ragazza ti vuole veramente bene. Anche se inizialmente non era così, lo è ora. Non puoi ignorare questa cosa, ne tantomeno sperare che la ignori lei.»

«E con questo cosa vorresti dire?»

Il medico sbuffò, infastidito dalla domanda.

«Voglio dire che non puoi fingere di non averla intorno. Non puoi fingere che le tue azioni non condizionino lei e i suoi sentimenti» rispose infine.

A quelle parole Sherlock si alzò di scatto dalla poltrona, palesando tutta la sua irritazione.

«Non le ho chiesto io di provare sentimenti per me» sbottò, scimmiottando la parola “sentimenti”. «Per quale motivo ora dovrei preoccuparmi di non ferirla?»

A quelle parole John si bloccò di colpo, corrugando di nuovo la fronte in quell’espressione che Sherlock gli aveva visto fare un’infinità di volte. Il medico posò le mani sullo schienale della sedie che si trovava in mezzo al soggiorno, tentando di mantenere la calma e prese parola dopo aver inspirato a lungo: «Io non posso credere che tu sia veramente così ottuso. Le persone che ti vogliono bene si preoccupano per te. Soffrono se ti vedono buttare nel cesso la tua vita per tua stessa mano. Emi ne soffre. Io e Mary ne soffriamo. Mrs. Hudson, tuo fratello ne soffrono.»

«A Mycroft non è mai importato niente di me» mormorò gelido Sherlock.

A quelle parole John perse definitivamente la calma. Sbatté con foga la sedia, guardando il detective adirato. «Solo perché a te non importa di lui non significa che valga lo stesso per Mycroft! Dio, come fai a non capire? Il mondo non è come lo vedi tu, Sherlock! Solo perché per te una cosa non funziona in una certa maniera non vuol dire che valga anche per gli altri! Cosa c’è di così incomprensibile in questo concetto che la tua mente superiore non è in grado di afferrare?» tuonò.

Nel soggiorno calò un silenzio teso, palpabile al punto di rendere la stanza ancora più piccola. I due ex coinquilini rimasero a guardarsi a lungo, nessuno dei due aveva intenzione di cedere per primo.

Alla fine Sherlock prese fiato e parlò: «Non capisco perché insistete tanto a farvi problemi sulla mia vita se la cosa vi fa soffrire quanto dite. Io non ve l’ho mai chiesto.»

Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole era tagliente come una lama. Nei suoi occhi chiari non si riusciva a leggere alcuna sfumatura, mentre i lineamenti si erano fatti duri.

A quelle parole John lasciò lo schienale della sedia. Guardò l’altro con sguardo severo, di rimprovero, infine sollevò le mani in segno di resa. «D’accordo, fa’ come vuoi. Ammazzati da solo e muori da solo» disse, scandendo con cura le ultime tre parole. «Mi sono stancato di litigare con te.»

Non attese alcun tipo di replica. Lanciò un’ultima occhiata a Sherlock, il quale rispose impassibile a quello sguardo, senza scomporsi. Infine il medico gli diede le spalle e si avviò lungo le scale, senza voltarsi.

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Capitolo 13
*** XIII ***


 

 

 

Era un cielo serale plumbeo quello sotto al quale Emily era ferma in attesa, l'ombrello giallo piantato a terra usato come sostegno sebbene non ve ne fosse alcun bisogno. Davanti a lei l'ingresso di casa della famiglia Watson, a cui aveva appena suonato.

Dopo tre giorni di allontanamento volontario dal civico 221B – da cui usciva al mattino e rientrava la sera tardi, salendo direttamente in camera sua e senza degnare di attenzione il soggiorno – la ragazza aveva deciso di raggiungere la casa di John e Mary, pronta finalmente a parlare di ciò che era accaduto con Sherlock. Nei giorni precedenti il medico le aveva scritto tutta una serie di messaggi in cui la pregava di farsi viva, dicendole che aveva discusso con il detective per ciò che aveva fatto ed evidenziando anche quanto, sia lui che la moglie, fossero preoccupati per il suo improvviso allontanamento.

Emily, dal canto suo, non aveva mai risposto, continuando a studiare in facoltà e trascorrendo quanto più tempo possibile con Richard. Quest'ultimo era da ormai tre giorni l'unica cosa in grado di farla sentire bene. Insieme a lui non pensava a Sherlock, a quello che si era fatto e alla lite che avevano avuto. Richard la faceva stare bene anche se, nonostante tutto, lei non l'avesse ancora informato della sua convivenza con il detective, ne tantomeno delle reali motivazioni per cui lei e il suo coinquilino avevano litigato.

Tuttavia, allo scadere del terzo giorno, Emily aveva deciso che non poteva continuare a tenersi tutto dentro.

Attese pazientemente che la porta si aprisse e appena avvenne si trovò davanti Mary. Il viso della donna si distese in un sorriso quando incrociò gli occhi di Emily e subito dopo l'abbracciò affettuosamente.

«Grazie per essere venuta» le disse poi, invitandola a entrare.

La ragazza la seguì dentro casa, osservandosi intorno. Rivedere Mary le aveva fatto piacere, non avrebbe potuto essere altrimenti, così come sapere che a breve avrebbe anche rincontrato John la caricò di nuova euforia. Non poté mentire a se stessa per l'ennesima volta: John e Mary le erano mancati anche solo in quei tre giorni e, nonostante tutto, anche Sherlock le mancava.

Il medico era in soggiorno, intento a leggere alcune carte a sedere su una poltrona. Si alzò in piedi quando vide entrare Emily e le andò in contro.

«Grazie al cielo ti sei decisa a farti viva» la rimproverò pacatamente.

«Mi dispiace» rispose lei, senza aggiungere altro.

Mary le fece cenno di sedersi e la ragazza si sistemò sul divano dopo aver lasciato ombrello e cappotto su una sedia lì vicino. Si sentiva nervosa per motivi che le sfuggivano.

Mary e John se ne accorsero, capendolo dal modo in cui Emily evitava accuratamente di guardarli.

«Vuoi qualcosa, Emi?» si offrì Mary, cercando di stemperare un po' l'atmosfera.

«No, grazie» rispose prontamente l'altra.

A quel rifiuto i coniugi presero posto di fronte a lei.

«Come stai?» domandò John dopo un breve silenzio.

La ragazza si strinse nelle spalle. «Fisicamente sto bene» rispose, dopodiché un lampo di determinazione attraversò i suoi occhi azzurri. «John, non girare intorno all'argomento, ti prego. Tu sai perché Sherlock si è comportato a quel modo? Sapevi che faceva uso di droghe?»

La nota di dolore era perfettamente intuibile nella sua voce. John e la moglie si guardarono per un momento.

«Te l'avevo detto di arrivare subito al punto» disse infine Mary al marito, sorridendo. Subito dopo si rivolse alla ragazza, posandole una mano sul ginocchio, cercando di confortarla. «Lo sapevamo» ammise infine.

Emily spalancò gli occhi a quella notizia. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non le venne in mente niente.

«Sherlock» prese parola John, «ha delle debolezze. Come tutti gli uomini» disse, senza però guardare Emily.

Ormai conosceva la ragazza abbastanza da avere la certezza che di lei ci si poteva fidare, totalmente. Così, alla fine, decise di raccontarle tutto quello che non le aveva ancora detto sulla storia di Magnussen. Le disse del ritrovamento di Sherlock in quella casa abbandonata frequentata dai tossici, di quanto lui sostenesse che si trattava di un'indagine e di tutto quello che ne era conseguito, evitando comunque di dichiarare che proprio il detective era la vera causa della morte di Magnussen.

Emily lo ascoltò incredula, indecisa se credere o meno a quello che il medico le stava dicendo ma perfettamente consapevole fosse la realtà.

«Tuttavia,» proseguì John, «ti posso garantire che nonostante ciò, nonostante tutto, Sherlock rimane uno degli uomini migliori in cui io mi sia mai imbattuto. Non esiterei un solo attimo a mettere una buona parola su di lui.»

Mary sorrise sentendolo pronunciare quelle parole e tanto bastò a Emily per capire quanto valessero anche per la donna. Dal canto suo, invece, continuava a sentirsi insicura sul modo in cui potersi rapportare con il detective dopo quello che era accaduto fra loro. Temeva che qualcosa si fosse definitivamente incrinato, che dopo quella lite nulla sarebbe più tornato a essere lo stesso. Aveva paura – sì, era paura – di incontrare di nuovo Sherlock Holmes.

Si fece forza, decidendo di affrontare la questione con Mary e John, sperando che potessero aiutarla a chiarire quella situazione e, perché no, riunirsi al detective.

«Io volevo solo provare ad aiutarlo» disse infine, cercando di motivare così le sue intenzioni.

«Non lo stiamo mettendo in dubbio» la rassicurò Mary. «Ma dovresti aver capito che per uno come Sherlock questo genere di intenzioni passano spesso in secondo piano.»

«Emi» intervenne John, risoluto, «io ho bisogno di sapere perché avete litigato. Perché so che lo avete fatto.»

«I-io...non lo so» rispose affranta la ragazza, abbassando lo sguardo. «Era intrattabile da giorni, non usciva mai. Sono riuscita a convincerlo a venire con me a prendere qualcosa da mangiare alla tavola calda sotto casa, ma una volta là dentro è esploso» raccontò, rivivendo con la mente quei momenti. «Ho cercato di capire cosa non andasse ma si è rifiutato di dirmelo e mi ha cacciata via.»

Sentì la gola chiudersi a parlare dell'argomento. Ignorò quella dolorosa sensazione e riprese a parlare: «Quando sono rientrata, un'ora dopo più o meno, l'ho trovato disteso a terra, incosciente. Ho avuto così tanta paura» si lasciò sfuggire davanti allo sguardo premuroso di John.

«Quando Sherlock si è ripreso e ho capito cos'aveva fatto abbiamo iniziato a discutere. Gli ho detto che volevo aiutarlo, che credevo fossimo amici. Mi ha urlato in faccia che non so niente di lui, che non so cosa continuamente ha in testa.»

La sua voce si fece improvvisamente più debole. Prima che potesse rompersi del tutto Emily guardò Mary. «E me ne sono andata.»

Si zittì, distogliendo nuovamente lo sguardo. Nonostante il nodo alla gola sapeva che non avrebbe pianto, tuttavia stava ugualmente male. Non riusciva a darsi pace al pensiero di ciò che era accaduto con Sherlock.

«Primadonna» borbottò poco dopo John.

Emily lo guardò, confusa. «Come?»

«Sherlock è una primadonna. Deve essere sempre al centro dell'attenzione, si deve sempre parlare di lui. È anche per questo suo modo di fare che ti avevo detto che viverci insieme è un manicomio.»

Con sua stessa sorpresa, a sentire quelle parole Emily scoppiò a ridere. Si ricompose subito, però, tornando a prestare attenzione al medico.

«Lo penso davvero» insistette l’uomo a sostegno della sua teoria.

«Il punto è, Emi,» prese poi parola Mary, «che nonostante ciò che è successo a Sherlock e con Sherlock non devi temere che sia ancora arrabbiato con te. John ci ha litigato un’infinità di volte.»

«Confermo.»

«Eppure sono molto uniti. Certo, voi due avete avuto uno screzio, ma sono sicura che lui è disposto a fare pace con te. Anche se non lo ammetterà mai di sua spontanea volontà.»

La ragazza si sentì in parte rincuorata dalle parole della donna, ma solo per poco.

«Non è tanto per questo, Mary. Ha assunto droga. È questo che mi fa stare peggio.»

I coniugi non replicarono. Rimasero in silenzio, scambiandosi uno sguardo veloce.

«A voi non importa?» domandò stupita Emily davanti al loro silenzio.

«Non è che non ci importa. Cielo, non potremmo mai rimanere indifferenti davanti a una cosa del genere. Ne soffriamo, devi credermi» replicò Mary.

«Quella di Sherlock non è dipendenza, nel caso ciò ti preoccupasse» intervenne John. «Le sue sono ricadute. Ricadute in qualcosa che non è propriamente un vizio, ma una debolezza. Sherlock non ne ha bisogno veramente.»

«Come puoi definirla debolezza?» chiese Emily subito, sbalordita dalle parole di John.

«Perché lo conosco. Molto bene» replicò serio il medico. Nei suoi occhi c'era determinazione, l'intenzione di voler far prendere sul serio ciò che lui stava fermamente sostenendo.

La ragazza rimase a guardare John, senza dire nulla. Sapeva che lui aveva ragione, che qualsiasi cosa potesse sostenere l'uomo su Sherlock era certamente reale dato che in pochi potevano conoscerlo bene quanto lui. Tuttavia una parte di lei continuava a soffrire per quello che era avvenuto con il detective al punto di impedirle di provare ad andare immediatamente a cercare di riappacificarsi con lui.

Il silenzio che si era formato nel soggiorno venne improvvisamente interrotto. Da una delle stanze si sollevò un pianto, quello della piccola Watson. Mary fece per alzarsi, così da andare a calmare la bambina, ma il marito la fermò con un gesto.

«Vado io» disse e si allontanò.

Le due donne rimaste sole si scambiarono un lungo sguardo, in silenzio. Mary fu perfettamente in grado di intuire come si sentiva Emily: i sentimenti femminili erano il suo forte. Capì che la giovane provava certamente un senso di impotenza davanti ai fatti che le avevano da poco scombussolato ogni certezza. Per lei Sherlock era sempre stato una garanzia, un uomo forte, spinto da convinzioni sicure, qualcuno in grado di muoversi in qualsiasi ambiente con la più totale sicurezza. Scoprire che, invece, proprio la sua mente era la sua più grande fragilità l'aveva senz'altro stravolta. Non si trattava del suo lavoro di tesi, non in quel caso. Per la ragazza era diventata una questione personale. Non aveva solo scoperto che l'uomo che stava studiando e analizzando aveva una simile debolezza, ma aveva capito che era un suo amico ad averla.

Pensò che Emily avesse bisogno di informazioni aggiuntive, fornitele da qualcuno che non avrebbe voluto mentirle.

«Le uniche volte che ha assunto droga da quando lo conosco io hanno sempre coinciso con periodi difficili per lui. Senso di solitudine, frustrazione. Non voglio giustificarlo, non sia mai, ma una volta che lo hai conosciuto ti rendi anche conto di quanto delicato sia il suo equilibrio e di quanto abisso ci sia nella sua mente. Tu lo stai studiando, dovresti capire questo concetto perfino meglio di me» le disse poi, il tono materno e dolce.

La ragazza la guardò, soppesando le sue parole. Stava per dire qualcosa ma fu preceduta dalla voce di John.

«Ha bisogno di aiuto.»

L'uomo era in piedi sulla soglia del soggiorno, la figlia, fra le sue braccia, si era completamente chetata. Guardò Emily e fece una smorfia, consapevole. «Dopotutto è pur sempre un essere umano, anche se si rifiuta di crederlo. Domani andrò a parlare con lui.»

Concluse la frase come un'ammissione, come a voler rivelare di aver preso una scelta importante.

L'attenzione di Emily fu nuovamente attratta da Mary, davanti a lei, che le sorrise con fare astuto.

«Promettimi che farai pace con lui» disse la donna, rivolgendosi alla ragazza. «Non siete fatti per tenervi il broncio voi due. Andate troppo d'accordo.»

Emily non seppe come replicare, nell'immediato. Si chiese se davvero lei e Sherlock andavano tanto d'accordo o se fossero solo molto bravi a deviare la realtà dei fatti in presenza di altri.

Fatto sta che le parole pronunciare da Mary avevano animato qualcosa in lei. Per la prima volta si fermò a immaginare Sherlock Holmes alle prese con i suoi tormenti interni, tormenti che lei non aveva mai pensato potessero provarlo fino a tal punto. Capì che nonostante la sua mente brillante e i suoi modi di fare unici e taglienti dentro di lui si celavano paure e insicurezze come in ogni altro essere umano. Si sorprese del fatto che proprio a lei – che aveva raggiunto Londra con il preciso intento di capire quell' uomo – fosse sfuggita la natura più umana del detective.

Riflettendo su tutto ciò, nell'assoluto silenzio do casa Watson, capì che comportandosi così non lo stava di certo aiutando come aveva detto di voler fare e, ancora di più, capì quanto in realtà Sherlock le mancasse. Erano passati solo pochi mesi, ma già non era più in grado di accettare una vita senza la consapevolezza che il detective ne facesse parte.

Inspirò a fondo e annuì silenziosamente con la testa.

«Credo tu abbia ragione, Mary» sentenziò infine. «Anzi, sicuramente hai ragione.»

«Non dimenticarti di John» le disse la donna sottovoce, facendole l’occhiolino.

Emily sorrise, dopodiché si rivolse al medico: «Grazie John» disse semplicemente.

L’uomo si strinse nelle spalle, abbozzando un sorriso.

Davanti alla famiglia Watson Emily riusciva sempre a sentirsi meglio. Si sentì spronata da una forza nuova, una determinazione che aveva quasi dimenticato di possedere. Caparbia com’era da sempre quasi si sorprese di aver attraversato quel periodo di incertezza – per quanto breve.

Avrebbe dovuto cambiare un po’ quello che aveva scritto fino a quel momento nella tesi su Sherlock di fronte alle sue ultime scoperte che aveva fatto in quei pochi, tremendi, giorni, ma la cosa positiva dei programmi di scrittura dei computer era che spostare e risistemare le cose richiedeva relativamente poco tempo.

 

*

 

Emily scesa dall’auto proprio davanti all'ingresso di casa. John aveva insistito per chiamarle – e pagarle – un taxi perché non voleva che tornasse a casa sola alle otto di sera, soprattutto dal momento che Baker Street non era proprio dietro l'angolo.

Durante il tragitto la ragazza aveva avuto modo di ripensare a quello che le era stato detto da John e Mary riguardo Sherlock, sentendosi sempre più sicura di sé mano a mano che scendeva in profondità nella sua analisi.

Se quello che le avevano detto era vero – e visto chi glielo aveva detto, perché dubitare? – il modo per impedire al detective di farsi del male era stimolarlo, dargli qualcosa per impedire alla sua mente di sprofondare ancora.

Emily infilò la chiave nella serratura solo dopo aver preso una lunga boccata d'aria. Sentiva di averne bisogno e le parve che la cosa la potesse aiutare. Nella sua mente si affacciarono una miriade di frasi fatte riguardo a cosa dire a Sherlock nel momento in cui avrebbe nuovamente incrociato il suo sguardo.

Una volta dentro superò la porta d'ingresso di Mrs. Hudson, iniziando a salire le scale. A ogni gradino sentiva l'ansia crescere sempre di più, mentre i saluti e le possibili parole di riconciliazione venivano scartate una dopo l'altra, parendo sempre superflue, insensate o prive di importanza.

Raggiunti gli ultimi gradini sentì lo stomaco chiudersi definitivamente, mentre il suo cuore accelerò tremendamente i battiti. Come accadeva spesso, la porta era aperta ed Emily la oltrepassò titubante. Nel soggiorno non vide nessuno, se non il mobilio silenzioso, disposto al solito modo. Sparse sopra il tavolo e i vari piani c'erano una moltitudine di carte, molte più di quante, la ragazza ne era certa, ne avesse viste nell’ultimo periodo.

Al centro della stanza Emily rimase in ascolto di rumori in grado di smascherare la possibile presenza di Sherlock, tuttavia non sentì nulla. Non provò a chiamarlo, consapevole che non avrebbe ricevuto risposta. Le bastò guardare l'attaccapanni accanto alla poltrona di John per avere conferma dell'assenza del detective. Lì, infatti, il suo cappotto non c'era.

Si sentì stranamente sollevata dal fatto di essere riuscita a ritardare l'incontro con Sherlock. Nonostante tutto, però, la cosa le dispiacque. Guardò il violino del detective, adagiato sopra il ripiano del camino, desiderando di rivedere Sherlock mentre lo suonava. Ripensare al male che l'uomo si era fatto da solo la faceva soffrire, ma animò ulteriormente in lei l'intenzione di stargli vicino. Emily sapeva che John e Mary avevano ragione e per tale motivo era decisa a chiarirsi con il detective.

Si svestì del cappotto e andò in cucina. Erano quasi le nove e sebbene la ragazza si sentiva ben più in forma rispetto agli ultimi giorni, non aveva ugualmente molta fame. Mise sul fuoco il bollitore dell'acqua, riempiendolo a sufficienza per due persone: lei e Sherlock. Sentiva che sarebbe tornato a breve e voleva aspettarlo con il tè pronto come faceva sempre.

Una volta che la bevanda fu pronta si sedette in cucina, portando con sé anche il suo pacco di biscotti. Si sentì scaldare dal tè a ogni sorso più del precedente, mentre placava la poca fame che aveva con i suoi biscotti preferiti.

Il 221B di Baker Street non le era mai parso tanto vuoto. Aveva bevuto spesso un tè da sola al tavolo della cucina, ma in quel momento la mancanza di certezze – certezze sul suo legame con il coinquilino, principalmente – la facevano sentire strana, come se fosse arrivata in quella casa per la prima volta e non fosse ancora riuscita ad ambientarsi.

Fra un biscotto e l'altro ebbe modo di rispondere all'ultimo messaggio di Richard e, appena si sentì sazia e scaldata, andò a sistemarsi sul divano.

Si sdraiò, aspettando, gli occhi fissi prima al soffitto e poi alla parete a cui lei e Sherlock avevano accidentalmente sparato tempo prima. Si lasciò sfuggire un sorriso a quel pensiero e si ritrovò a ripercorrere alcune delle cose più bizzarre, avvincenti e interessanti che le erano accadute dal giorno in cui aveva conosciuto il detective. Provò a delineare il profilo psicologico dell’uomo anche alla luce delle parole di Mary. Era quasi strano pensare a Sherlock sotto quella luce, eppure contribuiva a renderlo più vero, più umano.

Chiuse gli occhi pensando a ciò, desiderando di sentire il detective rientrare in casa presto. Le mancava, non poteva negarlo e tanto le bastò per capire che avrebbe accettato Sherlock qualsiasi fosse stato il suo difetto peggiore.

 

*

 

Fu il suono di un clacson quello che riuscì a svegliare Emily, strappandola a un sonno profondo e privo di sogni.

Quando la ragazza aprì gli occhi ci mise un po' ad ambientarsi e a riconoscere il posto in cui si trovava. Vide davanti a sé la moltitudine dei suoi piccoli lavori ad acquerello, disposti sulla parete accanto alla finestra e ne dedusse di conseguenza che si trovava nella sua stanza.

Si mise a sedere e il suo abbigliamento colpì la propria attenzione. Portava gli stessi vestiti della sera prima, quando era tornata a casa e aveva deciso di aspettare il rientro di Sherlock. Con tutta probabilità doveva essersi addormentata prima di riuscire a rivedere il detective. La cosa motivava perfettamente perché lei fosse ancora vestita, sebbene non spiegasse come mai si trovasse in camera.

Scivolò sul bordo del letto, posando i piedi a terra. Portava le scarpe. Lei non si sarebbe mai messa a dormire con le scarpe, anche se fosse tornata da sola nella sua stanza sopraffatta dalla più assoluta incoscienza. Capì che l'unica spiegazione sensata doveva per forza essere che Sherlock l'aveva portata in camera, dopo averla trovata addormentata sul divano.

Alla luce di quel pensiero si sentì rincuorata e le parve di riuscire a sentire ancora il profumo dell'uomo sul proprio corpo. Il gesto che Sherlock aveva compiuto, per lui forse spontaneo, significava molto per Emily.

Si alzò con un gesto deciso, pronta come non mai a chiarire finalmente le cose con il detective. Pronta anche ad assumersi le sue responsabilità e a scusarsi per il suo comportamento.

Scese le scale, lisciando con le mani i vestiti mentre superava in fretta gli scalini. Raggiunto il soggiorno, però, si fermò di colpo. La stanza era vuota, illuminata dal sole che entrava dalle finestre, ma deserta. Dal resto della casa non saliva alcun rumore e il cappotto del detective non si trovava sul l'attaccapanni nemmeno in quel momento.

«Sherlock» provò ugualmente a chiamarlo.

Come sospettava non ricevette alcuna risposta di rimando. Fece un secondo tentativo lungo il corridoio che portava alla sua camera, ottenendo solo nuovo silenzio. Si guardò intorno, dispiaciuta. Sherlock non c'era e la sua assenza la fece sentire ferita. Tuttavia si fece forza, consapevole che prima o poi l'uomo sarebbe rientrato a Baker Street e che, quando fosse avvenuto, lei si sarebbe fatta trovare vigile, sveglia e pronta a far pace.

Controllò l'orario, scoprendo che le dieci di mattina erano ormai trascorse da una ventina di minuti. Fece mente locale, ricordandosi che la lezione del mercoledì sarebbe stata solo nel pomeriggio quella settimana, ma si disse che valeva la pena perderla nel caso Sherlock non fosse rientrato in tempo.

Si avviò verso l'ingresso di casa di Mrs. Hudson, intenzionata a chiedere alla donna da quanto il detective era uscito di casa. Davanti alla porta bussò un paio di volte, senza ricevere alcuna risposta. Nel modo più educato possibile girò la maniglia ed entrò. Si guardò intorno, trovando la stanza vuota e perfettamente ordinata – tutto il contrario della casa che condivideva con Sherlock – e provò a chiamare la donna. Anche da lei non ricevette alcuna risposta e la cosa, in un certo senso, la sorprese.

Scoprendo di essere rimasta sola in casa, Emily pensò che non poteva fare altro se non tornare di sopra e mettersi in attesa. Pensò anche che una tazza di tè potesse essere il modo migliore di iniziare una nuova giornata.

In cucina afferrò il bollitore – trovandolo vuoto, a differenza di quanto si era aspettata – e si preparò una generosa dose di tè verde.

Aveva appena versato l'acqua nella tazza – guardandola cambiare colore mentre incrociava delicata le foglie di tè – quando qualcuno suonò alla porta d'ingresso al 221B. La ragazza si avviò dopo il primo trillo del campanello, accelerando il passo lungo le scale quando al primo seguì un secondo scampanellio. Aprì la porta quel tanto che bastava per permetterle di vedere chi fosse e sorrise al suo interlocutore. Anche quest'ultimo le sorrise, ma a quel gesto il sangue di Emily si congelò completamente.

La ragazza aveva insegnato alla sua mente a ragionare il più in fretta possibile, riportando nella realtà tutte le nozioni che aveva imparato in anni di studio, di osservazione e di analisi. Per tale motivo, prima ancora che il nuovo arrivato potesse compiere il minimo gesto, prima ancora di riuscire a reagire, il suo cervello le disse che si trovava in pericolo.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** XIV ***


 

 

 

La luce dei lampioni la faceva da padrona; insieme ai fari delle auto in transito illuminava una nuova sera londinese, le sette trascorse da poco.

Ai lati opposti, le ombre allungate proprio da quella luce, le due figure fra loro tanto differenti di John Watson e Sherlock Holmes si stavano andando incontro, ciascuno a passo fermo, lo sguardo fisso davanti a sé. Come se avessero perfettamente progettato quel momento, i due uomini incrociarono le proprie strade esattamente davanti al civico 221B lì, in Baker Street.

Si fermarono entrambi, guardandosi in silenzio per diversi secondi.

Il medico osservò attentamente il detective, in cerca di qualche segnale che potesse smascherare la continua assunzione di sostanze stupefacenti da parte dell'uomo. Tuttavia non ne vide traccia. Il suo sguardo era fermo, attento; il colorito della pelle sano, i muscoli rilassati. Sherlock era indubbiamente in forma e a John non serviva alcun tipo di conferma ulteriore per dirsi certo della cosa.

Dal lato opposto il detective analizzò rapidamente l’amico, la fronte leggermente aggrottata, le mani nelle tasche, le labbra tirate. Aveva avuto spesso a che fare con John in quello stato, quando era pronto a chiarire una determinata situazione ma anche intenzionato a piantare per bene dei paletti su ciò che era disposto ad accettare ma solo per una volta. A quel pensiero un leggero sorriso affiorò sulle labbra di Sherlock, il quale fece un cenno leggero con il capo per salutare l'amico.

«Sei qui per scusarti dell'altra sera, non è così?»

John, di tutta risposta, sollevò le sopracciglia. «Non penso che debba essere io quello che si deve scusare. Non hai fatto un esame di coscienza in questi giorni?»

«Superfluo» sbuffò l'altro.

Il medico alzò gli occhi al cielo, consapevole di essere davanti al solito Sherlock di sempre. Fece per replicare ma il detective glielo proibì con un gesto. Sollevò la mano sinistra e senza dire nulla indicò l'ingresso del 221B. Era il sottile messaggio con cui invitava l'amico a entrare per chiarirsi, magari anche in compagnia di Emily. John acconsentì in silenzio, rimanendo dietro a Sherlock mentre questi estraeva le chiavi di casa e faceva scattare la serratura.

Tuttavia, appena il detective ebbe varcato la soglia si fermò, ricettivo. Si osservò attorno con attenzione, respirando l'aria, decifrando la polvere. John si portò accanto a lui e lo guardò, in un primo momento dubbioso, poi capì dallo sguardo dell'amico che qualcosa non andava.

«Mrs. Hudson» chiamò d'improvviso Sherlock, la voce ferma, decisa.

La donna si affacciò da casa sua poco dopo. Guardò i due uomini e sorrise a entrambi.

«Oh, buonasera John, car-»

«Dov'è Emily?» la interruppe Sherlock.

La donna parve sorpresa da quella domanda.

«Di sopra» rispose «Non l'ho sentita uscire, che io sappia. A meno che non sia andata via questa mattina mentre ero a fare la spesa, ma sono rimasta fuori così poco che-»

Nuovamente il detective non la lasciò finire. Percorse a grandi passi gli scalini che lo separavano dal proprio appartamento, scomparendo. Mrs. Hudson lo guardò confusa, ma John capì che avrebbe fatto meglio a seguirlo in fretta.

Raggiunse il piano superiore, trovando il detective intento a mettere sottosopra il soggiorno. Lo vide spostare fogli, oggetti, vestiti, nervosamente, facendo scorrere gli occhi anche nei punti più nascosti.

«Che succede?» domandò fermo John, intenzionato a far capire all'altro che voleva essere reso partecipe della situazione.

«Emily» disse solo il detective, continuando a frugare in giro.

Il medico intuì che quello non poteva essere un buon segnale. Sentì una stretta allo stomaco quando comprese che poteva essere successo qualcosa alla ragazza. Si guardò intorno anche lui, in cerca di qualcosa – sebbene non sapesse cosa. In cucina trovò solo disordine, insieme a una tazza piena di tè. Si girò appena in tempo per vedere Sherlock avviarsi verso la camera di Emily, salendo le scale con la stessa fretta di poco prima. John lo seguì immediatamente, fermandosi oltre l'ingresso della camera da letto. Il detective era fermo immobile poco oltre la porta.

Il medico ebbe modo di constatare come nulla nella stanza della ragazza fosse fuori posto. Era tutto come lo ricordava, i disegni alla parete, alcuni abiti disposti su un paio di sedie, i libri universitari, gli acquerelli, alcune foto. Non riuscì a notare l'unica cosa realmente importante solo perché l'alta figura di Sherlock vi si trovava proprio davanti. Quest'ultimo fece un paio di passi, portandosi al centro della camera e consentendo di conseguenza a John di notare l'oggetto della sua improvvisa attenzione. Appesa al soffitto, legata a dello spago prima e a una lunga e sottile catenina argentata, pendeva una piccola chiave.

«Che significa?» chiese John, consapevole che se esisteva una risposta poteva provenire senz'altro dalla voce del detective.

Sherlock, infatti, non lo deluse. «É di Emily. La porta sempre al collo. L'ho notata pochi giorni dopo il suo arrivo.»

Il medico si avvicinò. Guardò la piccola chiave tenuta in mano dall'amico, sempre più preoccupato.

«Ci dev'essere altro» lo sentì mormorare mentre osservava l'oggetto sempre più concentrato. Gli occhi chiari scorsero a più riprese la sottile superficie metallica, i lineamenti tesi per la concentrazione.

D'improvviso scattò. «Una scatola. No, no, è più facile una valigetta, qualcosa di molto simile a una ventiquattrore» disse risoluto, iniziando a guardarsi intorno.

«Una valigetta?» domandò John incerto, sebbene si ritrovò anche lui a ispezionare con gli occhi la stanza.

Sherlock gli si avvicinò con un paio di falcate decise, mostrandogli la chiave. «Non è un ciondolo, John, è una chiave. Questa apre qualcosa, forse una valigetta a giudicare dalla forma. Li vedi i segni sulla sua superficie? Vuol dire che è stata usata spesso per quello che è: una chiave.»

Ricominciò a osservarsi intorno in modo febbrile. «Chiunque ha portato via Emily ha lasciato l'ultimo indizio all'interno di ciò che questa chiave apre» concluse.

Alle parole di Sherlock il medico si sentì gelare. Il sospetto si era insinuato in lui già da prima, ma sentire la voce del detective dare conferma alla questione lo spiazzò. Una moltitudine di domande si affacciò nella sua mente, una fra tutte si domandava perché qualcuno avrebbe dovuto coinvolgere la ragazza. Guardò in direzione del detective, intuendo che Emily fosse stata trascinata in qualcosa ben più grande di lei. Era diventata l’esca.

«Controlla sul fondo dell'armadio» ordinò il detective. «Conoscendola se vuole tenere qualcosa nascosto può averla sicuramente messa lì.»

John si ridestò, accantonando la preoccupazione. Se Emily era in pericolo avrebbe fatto il possibile per aiutarla.

Aprì le ante dell'armadio, si chinò sul pavimento e sporgendosi verso il fondo del mobile tastò fino a scovare una valigetta di poco più grande di una moderna ventiquattrore.

«Eccola» esclamò, estraendola.

La posò sul letto, dandole una rapida occhiata, mentre Sherlock lo affiancava, infilando la chiave nella serratura della valigetta. Questa scattò, consentendo all'uomo di aprirla. Lo fece con calma, quasi con timore reverenziale, svelandone il contenuto. Dentro vi erano una moltitudine di fogli di carta di varie dimensioni, impilati l'uno sull'altro. Sopra a tutti, però, ne spiccava uno. Era un disegno a penna realizzato chiaramente da Emily, raffigurante Mary e la piccola Watson a un estremo e Sherlock all’altro. Sopra di esso con un pennarello nero indelebile erano state disegnate due figure stilizzate. Una, di tipo maschile, sorrideva, puntando una pistola alla testa dell'altra, rappresentata con sottili e lunghi capelli e il volto spaventato. Nella parte superiore del foglio con una calligrafia tagliente era scritto a lettere maiuscole: "Ricordi la piscina?".

Sherlock si bloccò, sollevando prima lo sguardo, poi erigendosi in tutta la sua statura, consapevole. John rilesse quelle parole un paio di volte, analizzando il disegno e sentendosi rabbrividire. Fuori dalla stanza il buio sembrava essersi fatto più intenso mentre all'interno regnava un silenzio di ghiaccio.

«Dobbiamo andare» disse infine il detective, con il suo tono più austero. Si avviò fuori dalla porta senza aggiungere altro, consapevole di essere seguito dall'amico. Quest'ultimo, infatti, era proprio dietro di lui e lo stava letteralmente tallonando.

«Vuoi spiegarmi cosa sta succedendo? Se Emily è in pericolo esigo di saperlo» ordinò, urlando quasi nell'orecchio di Sherlock.

Questi, di tutta risposta, si voltò appena verso di lui. «Lungo il tragitto. Ora dobbiamo muoverci, non c'è tempo da perdere.»

In strada il detective cercò un taxi, spostandosi lungo Baker Street dal momento che non ne passarono nell'immediato. Poco più avanti John fu in grado di attirarne uno che procedeva in senso opposto. Appena si fu fermato i due uomini vi corsero dentro e Sherlock diede immediatamente al conducente l'indirizzo di destinazione, aggiungendo di fare in fretta.

Per qualche secondo nessuno disse niente poi, mentre le case di Londra sfilavano nei finestrini, John si voltò verso Sherlock.

«Chi è? E, soprattutto, perché ha rapito Emily?»

«Da lei non vuole niente. L'ha solo usata come esca per fare in modo che io vada da lui» rispose, serio. Il suo tono di voce non tradiva alcuna emozione, ma negli occhi celesti era ben visibile un bagliore di determinazione.

«Lui chi?» incalzò il medico.

«L'assassino di Walker e Horvat, lo stesso che mi ha recapitato la busta. Ma non sono così sicuro di aver capito esattamente di chi si tratta. Ho un sospetto, ma finché non lo incontro non posso essere certo di avere ragione.»

Il medico spalancò gli occhi, sorpreso. Che tutti quegli avvenimenti fossero collegati fra loro non lo sorprese più di tanto, ma quello che gli diede maggiormente da pensare fu scoprire che erano arrivati per chiedere il conto al detective attraverso il rapimento della sua coinquilina. Ripensò a quello che stava accadendo in quel preciso momento. Era successo tutto talmente in fretta che si sentì quasi spaesato, sorpreso soprattutto dal fatto che meno di mezz'ora prima aveva raggiunto Baker Street senza neanche immaginare che si sarebbe trovato lì, seduto su un taxi accanto a uno Sherlock pronto ad agire, con la mente che gli proponeva scenari su scenari e una gran rabbia dentro al pensiero che una ragazza innocente era stata coinvolta.

«E la piscina...» disse poi John, come a voler dare l'abbrivio a Sherlock.

«Sì» confermò questi «È la stessa in cui abbiamo incontrato Moriarty.»

A quell'affermazione il medico si fece visibilmente incerto e preoccupato. Già da tempo – dall'omicidio del giudice Walker – nella sua testa si era istillato il dubbio che, in qualche modo, la nemesi di Sherlock fosse riuscita a camuffare la sua morte con la stessa maestria del detective. Ciò che stava accadendo in quel momento contribuì ad accrescere in lui tale incertezza.

«Tu continui veramente a essere tanto convinto che Moriarty non c'entri nulla?» domandò John in direzione dell'amico.

Per la prima volta da quanto Moriarty veniva tirato in ballo in quella faccenda, Sherlock non sbuffò. Si volse verso il medico, guardandolo serio, impassibile.

«No. È morto. Non ho alcun dubbio.»

Posò lo sguardo davanti a sé inspirando. «Chi ha architettato tutto questo si è servito di ciò che Moriarty ha fatto a me. L'omicidio di Walker, quello di Horvat, la busta con le carte dei cioccolatini, tutto. Era tutto studiato nel dettaglio per mandarmi costantemente un ricordo, un richiamo, decontestualizzandolo però ogni volta. Voleva costringermi a ricordare Moriarty, a sospettarlo vivo. Voleva spingere la mia mente al limite togliendomi la certezza delle mie convinzioni» disse tutto d'un fiato. Vomitò fuori la sua frustrazione, sebbene una leggera nota eccitata era evidente nella sua voce per uno che lo conosceva bene quanto John.

«Però non ha funzionato» ipotizzò il medico, leggermente incerto.

«No. Anche se devo ammettere che per un periodo ci è andato molto vicino» rivelò Sherlock, cogliendo impreparato John. «Tuttavia a un tratto ha sbagliato mossa e lì è stato sufficiente indirizzare la mia rete di senza tetto nella direzione giusta.»

Chiuse gli occhi, riflettendo.

«Ma è furbo, sai? Molto» ammise, riaprendo gli occhi e puntandoli in quelli dell'amico. «Ho dovuto agire con cura per farlo uscire allo scoperto, oggi. Emily però ne è rimasta coinvolta.»

A sentire quelle parole John lo fissò esterrefatto. «Tu l'hai coinvolta?» esclamò.

Stava per continuare, ma Sherlock lo fermò prima. «Era già stata coinvolta e non da me» replicò.

«Cos...» mormorò il medico, che cominciava a capirci sempre meno.

«Era solo questione di tempo prima che si arrivasse a questo. Io ho semplicemente fatto in modo di accelerare i tempi.»

«Vale a dire?»

Il detective si limitò a guardare l’amico, senza rispondere. John vide nel suo sguardo una sfumatura insolita, quasi nuova e ne rimase sorpreso. Istintivamente capì a cosa si stava riferendo Sherlock.

«La tua assunzione di eroina» mormorò, senza notare l’occhiataccia che il conducente gli lanciò nel sentire l’ultima parola. «Hai finto quindi? Non hai preso niente» concluse, consapevole fosse la verità.

Il detective si strinse nelle spalle. «Forse» disse solo, senza esporsi più del dovuto.

John era pronto a incalzare nuovamente per ottenere altre informazioni, ma il taxi accostò sul ciglio della strada, fermandosi. I due scesero dal mezzo e dopo aver pagato l’autista proseguirono per entrare nell’edificio.

Il medico si sentì strano nel ritrovarsi nuovamente in quel posto. Gli parve di rivedere davanti a sé quello che era avvenuto anni prima, quando si era ritrovato vestito di esplosivo, fermo fra il suo migliore amico e quello che, in brevissimo tempo, sarebbe diventata la nemesi di Sherlock. Ancora più strano fu l’effetto che gli fece la consapevolezza di essere tornato lì per tirare fuori dai guai Emily, ovvero ritornare in un posto per la seconda volta e sempre per affrontare qualcosa di pericoloso e determinato a fare del male a qualcuno.

L'edificio in cui si trovava la piscina era collegato con una palazzina al cui interno vi erano uffici e una palestra, facenti tutti parte del medesimo complesso. I due uomini varcarono la soglia insieme, trovando il posto deserto e silenzioso, avvolto da una minacciosa penombra. Sherlock analizzò il posto con attenzione, scorrendo le differenze che vi erano fra quel luogo ora rispetto alla prima volta che vi aveva messo piede dentro, alla ricerca di Moriarty. John, invece, riacquistò il pieno controllo di sé, determinato a salvare Emily.

«Da che parte?» domandò poi al detective.

«Dobbiamo dividerci» rispose Sherlock.

«Dividerci?»

Il detective si voltò a guardare negli occhi l'amico. John riconobbe lo Sherlock Holmes pronto all'azione che aveva visto spesso e capì che, qualunque fosse stato il suo piano, avrebbe fatto meglio a seguirlo.

«Lui ed Emily non si trovano insieme. Tu andrai a recuperare la ragazza, io mi occupo dell'assassino.»

«Non possiamo prima occuparci di Emily e poi dell'omicida insieme?»

«No» rispose categorico Sherlock. «Se andiamo insieme Emily rischia di morire. A lui non importa niente della ragazza e sono certo che non sta agendo da solo. Ha un collaboratore, qualcuno che ora sta tenendo Emily in ostaggio. Se andiamo insieme a salvarla la ucciderà sicuramente e lo stesso vale se raggiungiamo l'assassino insieme. Devo andare da lui solo.»

«Ma perché non avvertiamo Lestrade?» esclamò John, il volto contratto per l'angoscia.

«Non possiamo per lo stesso motivo» replicò secco il detective. «Chiamando la polizia non faremo altro che peggiorare la situazione.»

Il medico si bloccò, sconvolto nell'appurare che se lo scenario era quello che Sherlock aveva appena delineato c'era davvero poco che si potesse fare. Rimase a guardare l'altro che infilava la mano nella tasca destra del cappotto, estraendone una calibro 22, la sua calibro 22.

«Prendi questa. Usala con moderazione, l'unico caricatore compatibile che avevo in casa era quasi vuoto» disse il detective, allungando l'arma all'amico.

John l'afferrò, stringendo saldamente la presa intorno al calcio. Respirò a fondo. Il soldato era nuovamente chiamato all'azione.

«Perciò Emily è alla piscina?»

«Sì.»

«E tu dove te ne andresti?»

Sherlock lo guardò. Un leggero sorriso animò il suo volto e i suoi occhi si illuminarono.

«Sul tetto» rispose, tranquillo.

John analizzò la sua espressione per un breve momento, infine sospirò.

«La piscina e il tetto...» mormorò.

«Già» continuò per lui Sherlock. «Il mio primo scontro con Moriarty e quello che doveva essere l'ultimo, riproposti tutti in un unico posto, in un'unica sera. Affascinante, non trovi?»

Sherlock pensava davvero che tutto ciò avesse il suo fascino. Quando aveva cominciato a intuire in che direzione stavano conducendo gli ultimi avvenimenti si era scoperto via via sempre più intrigato dalla figura che vi si celava dietro. Trovava in un certo senso geniale e diabolico che qualcuno riuscisse a destrutturare e riaccorpare in modo così fluido, naturale, avvenimenti distaccati – in un certo senso – fra loro per poi giungere a un apice, un gran finale di quel livello. In un'unica notte, in un unico edificio, Il grande gioco e Le cascate di Reichenbach si univano l'una all'altra, mettendo alla prova la mente, i nervi e il sangue freddo di Sherlock come nessuno era riuscito a fare da tempo.

Si sentiva quasi lusingato della cosa, di sapere che qualcuno aveva scavato nell'operato di Moriarty così bene e così a lungo solo per dare a lui la possibilità di mettersi nuovamente alla prova. Si sentiva fremere come ogni altra volta in cui era davanti al confronto finale con qualcuno che lo aveva così magistralmente condotto a sé.

«Chiunque ci sia dietro tutto questo deve odiarti parecchio» affermò il medico, controllando il numero di munizioni presenti nel caricatore. «Ma non so se dargli torto o meno» concluse, sorridendo il direzione dell'amico e incastrando nuovamente il caricatore al suo posto.

Anche Sherlock gli sorrise di rimando, facendosi poi nuovamente serio. «Quando hai salvato Emily chiama Lestrade.»

Il medico annuì.

«Fa' attenzione, John.»

«Dovresti farne di più tu» replicò sicuro questi. Lanciò un ultimo sguardo all'amico e gli diede le spalle, avviandosi cauto verso l'ingresso della piscina.

Il detective non rimase a guardare John allontanarsi; si diresse in fretta verso le scale, percorrendole fino in cima. Raggiunta la porta che lo avrebbe condotto fuori, sul tetto, ispirò una lunga boccata d'aria e spinse la maniglia antipanico.

L'aria della sera lo accolse, insieme ai rumori della città. Dal tetto era possibile vedere buona parte di Londra, che si estendeva orgogliosa ben oltre l'orizzonte.

Il detective si guardò intorno, guardingo. Tese l'orecchio in cerca di qualche rumore, un segnale. Sentì un movimento poco più avanti e dedicò tutta la sua attenzione su quel solo, unico, punto. Da dietro uno dei condotti di ventilazione comparve la figura di un giovane; il corpo forte, i lineamenti sfuggenti, gli occhi scuri puntati dritti e senza timore –carichi di collera – in quelli di Sherlock.

Quest'ultimo rispose allo sguardo impassibile, scoprendo ancora una volta che i suoi sospetti fondati.

Sorrise leggermente in direzione dell'altro, facendogli un breve cenno con il capo come per salutarlo.

«Lasciami indovinare» gli disse. «Tu devi essere Richard.»

 

 

 

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Capitolo 15
*** XV ***


 

 

 

«Ti dirò, per una come Emily avrei preferito un ragazzo più alto.»

La voce di Sherlock spezzò l'aria dopo quello che a lui parve un tempo sufficientemente lungo, nel quale i due presenti si erano reciprocamente studiati a sufficienza. Il detective puntò sull'umorismo per fare la presentazione finale, ma notò con disappunto che al giovane la cosa non parve fare alcun effetto.

Quest'ultimo, infatti, rimase impassibile a osservare l'altro senza tradire alcuna emozione. Per Sherlock quello fu il sottile messaggio con cui intese che il ragazzo non voleva servirsi del palcoscenico che il detective gli stava fornendo e che l'atto finale era proprio lui.

Richard – o qualunque fosse stato il suo vero nome – lasciava trapelare totalmente dal suo sguardo e dal suo atteggiamento l'intenzione di uccidere Sherlock e il detective capì che per farlo confessare – constatando di conseguenza se le sue supposizioni erano esatte o meno – avrebbe dovuto lavorare di fino.

«Speravo di poter fare un po' di conversazione. È una così bella sera» disse poi, dando così il via alla sua tattica.

A quelle parole l'altro sorrise. La luce che gli inondò il volto era tutto fuorché rassicurante e se Sherlock non fosse stato consapevole di ciò a cui stava andando in contro avrebbe potuto rimanerne scosso anche lui.

«So cosa vuoi fare Holmes» rispose il ragazzo con il suo tono più tagliente. «Non sono qui per parlare di me, quindi risparmia il fiato.»

Sherlock lo vide infilare la mano destra nella tasca della sua giacca a vento nera, serrare la presa intorno a qualcosa; dal modo in cui la stoffa si era rigonfiata in corrispondenza della mano il detective dedusse che il giovane aveva appena stretto con forza un oggetto non tanto grande, probabilmente un coltello a scatto date le ridotte dimensioni delle tasche.

Tornò a focalizzare l'attenzione sul ragazzo, capendo che non sarebbe stato semplice ritardare l'effettivo attacco finale. Preda e cacciatore erano uno di fronte all'altro e il secondo aveva quanto mai voglia di attaccare.

«Almeno una cosa me la devi, dato che hai prima sedotto e poi rapito la mia coinquilina, rendendo la mia convivenza nell'ultimo periodo piuttosto ostica. Il tuo nome.»

«Quello vero» aggiunse, davanti all'espressione sprezzante subito assunta dall'altro.

Quest'ultimo sorrise, stringendosi nelle spalle.

«Nathan Scott.»

 

*

 

Il cuore di John batteva a volumi spropositati per la tensione del momento, mentre un passo dopo l'altro procedeva in direzione della piscina. Era teso come una corda di violino, pronto a scattare in qualsiasi momento. Teneva la semiautomatica nella mano destra, sollevata e pronta a sparare.

Appena ebbe raggiunto la soglia oltre cui si intravedeva la vasca di limpida acqua celeste si fermò. Respirò a fondo e si sporse oltre il muro, cercando di vedere nell'ampia stanza. Anche lì vi era molta penombra, le poche luci accese erano alti fari puntati sugli ingressi e illuminavano poco il resto dello spazio circostante. Nonostante ciò, però, a John non sfuggì affatto la nota figura di Emily.

Era seduta su uno dei blocchi di partenza della vasca. Teneva le braccia dietro la schiena, le caviglie ravvicinate. John capì che era senz'altro legata e, aguzzando la vista, riuscì a notare alcune fascette da elettricista a stringerle le caviglie. Alle sue spalle un uomo robusto e dall'aspetto indiscutibilmente burbero, faceva avanti e indietro nervosamente, la pistola in mano.

Il medico si ritrasse dietro il muro, pensando a cosa poter fare. Gli tornarono in mente le parole di Sherlock; se di Emily non importava nulla a chi c'era dietro a tutta quella storia, significava anche che la pistola dell'uomo che la stava sorvegliando era carica e pronta a sparare. A quel pensiero un piano si delineò nella mente di John. Avrebbe dovuto essere veloce e non commettere il minimo errore per far funzionare tutto alla perfezione, consapevole che il minimo sbaglio avrebbe potuto costare caro a Emily.

Respirò a fondo un paio di volte, contò fino a tre e si sporse oltre il muro quel tanto che gli bastava per riuscire a stendere il braccio armato. Individuò l'uomo che stava sorvegliando la ragazza e lo puntò.

«Emi» urlò.

A sentire la sua voce Emily alzò immediatamente lo sguardo, sentendosi inondare di speranza.

«John» chiamò, appena ebbe riconosciuto la voce del medico.

Il secondo che seguì quel momento fu uno dei più lunghi e adrenalinici che John Watson ricordasse dai tempi della guerra. Vide distintamente l'uomo alle spalle di Emily puntarle alla testa la pistola, pronto a far fuoco. Dal momento che aveva tenuto in considerazione quella agghiacciante eventualità, John reagì subito. Avendo già preso la mira sull'altro sparò per primo. Il proiettile fendette l'aria con un sibilo, mancando il suo destinatario di pochi centimetri. Tuttavia la cosa bastò per fargli perdere il proprio autocontrollo, come il medico aveva sospettato e sperato. Si concentrò su John, sparando un paio di colpi nella sua direzione, che lui riuscì a schivare nascondendosi dietro alla parete. Prima che John potesse riemergere, solo poche frazioni di secondo dopo, l'avversario spinse Emily in acqua dandole un calcio al centro esatto della schiena.

La ragazza si sentì mancare completamente ogni possibile appiglio. L'acqua fredda l'avvolse completamente entrandole in parte anche nei polmoni. Tentò di rimanere a galla, ma con braccia e gambe legate le era impossibile. La paura si impossessò totalmente di lei mentre la gravità continuava a trascinarla verso il fondo.

Appena il medico vide la ragazza annaspare nel liquido cristallino si rese conto che non poteva perdere altro tempo. Non sapeva per quanto tempo Emily avrebbe resistito in apnea, tuttavia non doveva sprecare nemmeno un secondo. Raccolse le forze con un lungo respiro, prese rapidamente le misure e uscì dal suo nascondiglio, avventandosi sull'uomo.

 

*

 

I due presenti continuavano a studiarsi attentamente, in attesa che uno di loro facesse la propria mossa.

«Nathan Scott» disse Sherlock, soppesando attentamente quel nome mentre usciva dalle sue labbra.

Era quella la vera identità di Richard. Il ragazzo che aveva conquistato Emily non era affatto ciò che la ragazza aveva creduto. Il detective si sentì soddisfatto di sé, come capitava sempre quando appurava che le proprie supposizioni su un caso stimolante erano esatte. Aveva cominciato a nutrite dei sospetti su di lui da un po' di tempo, ben prima di giungere alla conclusione che l’assassino che continuava ancora a cercare era il ragazzo che stava frequentando Emily. Quell'ultima intuizione, invece, era arrivata troppo tardi; lo aveva sopraffatto solo nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, quando già aveva fatto in modo di portare a sé il colpevole. Se avesse indirizzato le indagini meglio fin da subito Emily sarebbe stata al sicuro. Purtroppo, però, per lunghe settimane Nathan gli era stato parecchi passi avanti.

«Lasciami indovinare. Figlio di Darrell Scott, esatto?»

Sherlock espose la domanda con semplicità, consapevole che gli avrebbe consentito di guadagnare tempo a sufficienza per elaborare una possibile via di fuga. Non solo, voleva anche avere tutte le conferme che stava cercando, accertarsi di aver capito esattamente ciò che aveva spinto il giovane a commettere quegli omicidi e, soprattutto, per quale motivo architettare un piano così ben strutturato e studiato sul lungo termine.

Il detective si era appena addentrato nel sentiero più accidentato, consapevole di dover agire con fine e calibrata astuzia.

Il ragazzo estrasse definitivamente di tasca il coltello, che Sherlock ebbe modo di vedere: un coltello a scatto dalla lama di almeno quindici centimetri, valutò.

Tuttavia Nathan aveva abboccato all'esca e glielo dimostrò con il suo commento successivo: «Non provare a parlare di mio padre. Se lui si è tolto la vita è solo colpa tua e di Walker. Il giudice è già morto e ora tocca a te» ringhiò, facendo scattare la lama del pugnale.

Il suo odio nei confronti di Sherlock era più che evidente. Era chiaro che lo considerasse l'unico responsabile della morte del padre e che avesse nutrito un tale desiderio di vendetta da portarlo a voler uccidere il motivo del suo odio con le sue stesse mani. Tuttavia riuscire a usare la rabbia di qualcuno a proprio vantaggio non era certo cosa nuova per uno come Sherlock.

«Mi risultava che Scott non avesse figli» disse, calibrando accuratamente il tono della voce.

«Questi non sono affari tuoi» ribatté immediatamente l'altro.

«Eppure vuoi uccidermi a suo nome, per vendicarlo. Come puoi dire che non sono affari miei?» chiese, retorico. Non diede tempo al giovane di prendere parola, decidendo di fare il suo affondo. «Sai cosa penso? Penso che tu abbia elevato quell'uomo così in alto per il semplice fatto che non hai mai avuto accanto una figura paterna. Lui non c'è mai stato per te e non penso neanche volesse esserci. In fin dei conti come dargli torto? La sua vita è sempre stata notoriamente circondata da traffici illeciti e persone poco raccomandabili, l'unica cosa buona che poteva fare per te fin da quando eri un bambino era tenerti lontano da tutto ciò, lasciandoti al sicuro con tua madre.»

«Mia madre era un'alcolizzata!» esplose Nathan, con una tale rabbia che per un momento Sherlock temette che gli si scagliasse contro senza dargli il tempo di elaborare una contromossa.

«Con lei in casa non sarei mai potuto essere al sicuro. Quando anni fa la portarono via in pieno coma etilico ne fui solo contento.»

Fu agghiacciante la freddezza con cui il giovane ammise tutto ciò. Per chiunque altro le parole di Nathan avrebbero potuto suscitare pena, compassione per il suo passato, rabbia o paura, ma non per Sherlock. Il detective era una maschera. Continuava a osservare il ragazzo impassibile, la mente che lavorava a gran velocità in cerca delle parole giuste da dire per continuare a trascinare il suo rivale nella strada che aveva così magistralmente aperto. Nathan stava dichiarando tutto, ammettendo per sua stessa voce che la teoria elaborata da Sherlock in quei mesi – iniziata con l'assassinio di Walker e terminata solo pochi minuti prima, faccia a faccia con il killer – era corretta.

«Allora è per questo che hai cercato tuo padre tanto a lungo» continuò il detective, consapevole di dare così nuovo abbrivio alla dichiarazione dell'altro.

«Lui non mi aveva riconosciuto» ammise con rabbia Nathan. «Ho scoperto chi fosse facendo ammettere tutto a mia madre una sera che era ubriaca.»

Quelle parole permisero a Sherlock di capire per quale motivo avesse impiegato tanto a procedere nella direzione corretta. Nathan aveva il cognome della madre, nonostante lui si ostinasse a usare quello del padre. Per tale motivo le sue prime ricerche erano state un buco nell'acqua al punto di portarlo a escludere Scott dagli indiziati principali. Se avesse tenuto in considerazione maggiore quell'eventualità, forse, avrebbe potuto giungere a quelle conclusioni ben prima.

«Mi stavo riavvicinando a lui, Holmes. Era disposto a incontrarmi, a conoscere finalmente suo figlio. Ma tu e Walker avete rovinato tutto. Dopo che lo avete fatto incarcerare si allontanato nuovamente da me. E alla fine si è impiccato» esclamò, caricò d'ira, muovendo nervosamente la mano che impugnava il coltello.

«Come hai potuto elevare quell'uomo a tal punto, Nathan. Guardati. Ti ha fatto diventare un assassino. E pensare che un ragazzo intelligente quanto te avrebbe potuto fare qualsiasi cosa» rispose il detective, consapevole di essere agli atti finali.

L'umore del giovane era diventato nero, vicino al limite e pronto allo scoppio finale. C'era poco altro che Sherlock poteva fare, ma aveva ancora del tempo.

«Su questo non posso darti torto, Holmes, devo ammetterlo» disse Nathan, sorridendo con arroganza. «Avrei potuto fare qualsiasi cosa. Per questo ho scelto di vendicarmi con tanta cura proprio di te, l'infallibile Sherlock Holmes.»

«Non ti sei ancora vendicato. Come vedi sono ancora qua» replicò con calma l'uomo, indicando la sua slanciata figura con un esaustivo gesto della mano.

«Trovi? Eppure dovresti aver capito anche tu di cosa sto parlando» disse, portando l'indice sinistro a contatto con la tempia. «Tutti i rimandi all'opera di Moriarty, tu che litighi con Emily, lei che si allontana da te, la tua assunzione di droga. Ti ho colpito laddove sei più debole, su quel sottile confine che separa la tua mente dalla follia.»

«Perciò mi hai tenuto d'occhio da ben prima dell'omicidio di Walker» affermò consapevole il detective.

«Oh, certo, da molto prima. Ogni mossa era perfettamente calcolata nel tempo, fino all'atto finale» ammise il giovane, sorridendo di puro piacere. «I due omicidi, la busta, perfino il nome che ho usato con Emily. Tutto quanto, fino a portarti al gran finale.»

«La tavola calda» concluse per lui Sherlock.

Nathan sollevò le sopracciglia, colpito. «Proprio così. Ti è piaciuto? Personalmente lo considero uno dei miei lavori meglio riusciti» disse, prendendo posto al centro esatto del palcoscenico che Sherlock gli aveva preparato minuti prima.

«Mi hai portato a vivere contemporaneamente parte dei miei trascorsi con Moriarty. Allo scopo di disorientarmi, di convincermi che lui fosse coinvolto in tutto questo. Volevi che ne avessi paura.»

«La mia intenzione è sempre stata quella di distruggerti. Prima mentalmente e ora sto per farlo fisicamente» replicò secco Nathan. La rabbia e l’odio si ripresentarono violente nella sua voce.

«Pensi davvero di essere riuscito a scalfire la mia mente?» domandò il detective, alzando impercettibilmente un sopracciglio davanti alle parole del giovane.

«So di averlo fatto. Perché credi che Emily ti avesse lasciato solo nell'ultimo periodo? Era con me. Non mi ha mai detto niente di quello che era successo fra voi ma mi importava poco. Sapevo del vostro litigio, sapevo tutto. Tenendola lontano da te non ho fatto altro che accrescere quel senso di rabbia e frustrazione che ti ha colpito dopo l'episodio della tavola calda.

«Ho vinto io, Holmes. Sono riuscito a metterti in ginocchio e non intendo lasciarti andare via di qui vivo» replicò sprezzante, un nuovo fremito percosse tutto il suo corpo.

«È qui che sbagli. Sapevo che c'eri tu dietro a tutto questo. Anche se, lo ammetto, l'ho scoperto piuttosto tardi.»

Nathan si bloccò, sorpreso per un lungo momento. Prima che potesse riacquistare il pieno controllo di sé e del suo odio, Sherlock riprese a parlare: «Ho un'ottima rete di senzatetto qui a Londra. Efficaci ancora di più se sai dove indirizzarli. Hai compiuto un passo falso nell'elaborazione del tuo progetto, sai? Ed è stato proprio quello di coinvolgere Emily.»

Il ragazzi si irrigidì, compiendo un leggero scatto con il corpo, come a voler fermare l'impulso di scattare.

«La ragazza una sera si è aperta con me. Mi ha rivelato che molti ragazzi tendono a evitarla. Che hanno paura di lei.» Per un istante si sentì strano nel pronunciare quelle parole. «Davvero credi che non abbia voluto capire chi l'aveva avvicinata e perché? Ammetto che inizialmente non sospettavo che tu fossi il figlio di Scott, non voglio negarlo. Tuttavia raccogliere informazioni su Richard è stato fondamentale per farmi capire chi c’era dietro tutto questo. Se non avessi coinvolto Emily forse non sarei riuscito a capire nulla e invece non è stato così. Hai commesso un passo falso e quello mi ha permesso di muovere le carte a mio favore.»

«Non ti aspetterai che ci creda?» domandò con arroganza il giovane. Nel suo tono, però, si percepì una lieve sfumatura di incertezza.

Sul volto del detective si dipinse un sorriso sicuro. «Eppure eccoci qui.»

 

*

 

John non aveva preso in considerazione neanche per un istante il fatto che avventarsi su un uomo ben più grosso di lui potesse essere una pessima idea. A quanto pareva, invece, lo aveva fatto l'altro dal momento che era rimasto visibilmente spiazzato dall'improvvisata del medico da non riuscire a reagire – o sparare – prima che John gli fosse addosso.

I due iniziarono un corpo a corpo ravvicinato, sul ciglio della piscina nella quale Emily, più spaventata che mai, tentava invano di rimanere a galla.

Appena il medico fu sull'uomo gli bloccò immediatamente il polso destro, puntando verso l'alto il braccio così da non poter mai essere a tiro dell'arma da fuoco. L'idea funzionò per i primi istanti, ma cominciò a vacillare quando il loro corpo a corpo si trasformò in una vera e propria colluttazione.

L’altro, infatti, colpì subito John al volto, assestandogli un sinistro preciso allo zigomo. Questi fece il possibile per mantenere ben salda la presa intorno al polso e ci riuscì a malapena. Tentò di replicare al colpo di poco prima in qualche modo, avendo entrambe le mani impegnate, ma l'uomo lo schivò, abbassandosi e sferrando un altro sinistro all'altezza dello stomaco. Il medico fece in tempo a evitarlo, allontanando di poco il bacino e sentendo il pugno del rivale fendere l’aria al suo passaggio. Quel gesto, però, gli fece anche perdere la presa ferrea dal polso.

Non si sentiva in una bella situazione, né in vantaggio sullo sconosciuto che aveva appena cercato di ucciderlo. Il cuore gli batteva all'impazzata, sentiva l'adrenalina pompata in circolazione, il fiato cominciava a farsi via via più corto. Nelle orecchie continuava a udire lo sciabordio dell'acqua smossa convulsamente da Emily. Aveva sempre meno tempo, lo sapeva.

Si fece forza, stringendo i denti. Riuscì finalmente a dare una ginocchiata allo stomaco del suo rivale, ma non fu sufficientemente forte da consentirgli di rimontare sull'altro. Quest'ultimo, infatti, approfittando della sua forza stava riuscendo a liberare il braccio destro dalla presa di John, così da poter nuovamente avere controllo sulla propria pistola. Quando ci riuscì non ci pensò due volte a sparare. Tuttavia non aveva tenuto in conto i riflessi del medico, scattanti e rodati dall'esercito prima e dalla lunga convivenza con Sherlock dopo. John, infatti, intuì le intenzioni dell'avversario prima che questo riuscisse a premere il grilletto. Con tutta la forza che aveva in serbo e appoggiandosi alla sua velocità, John afferrò nuovamente il polso destro dell'uomo, puntando la sua mano verso l'angolo inferiore sinistro, in modo che lo sparo venisse scaricato sul pavimento.

La deflagrazione partì, secca, con un suono sordo. Solo una frazione di secondo dopo si sollevò il grido di dolore dell'uomo contro cui il medico continuava a lottare. Questi allentò improvvisamente la sua forza, abbassando lo sguardo.

John capì che lo sparo doveva averlo colpito, lasciando però lui totalmente illeso. Analizzò rapidamente la situazione, il cuore che martellava sempre più forte contro lo sterno. Notò una leggera macchia scura allargarsi maggiormente all’altezza dell’addome e capì che lo sparo appena esploso doveva aver colpito l’uomo. Quest’ultimo, incredulo dall’andamento degli eventi – che forse aveva immaginato completamente differenti – ignorò istintivamente John per concentrarsi sulla propria ferita. Fu l’errore peggiore che potesse compiere in quel momento. Accadde tutto talmente in fretta che perfino il medico si sorprese della rapidità con cui la sua mente aveva ordinato al suo corpo di eseguire i comandi. Lo scoppio dello sparo riverberava ancora nell’alta stanza quando John, perfettamente a conoscenza di quelli che erano i punti deboli del corpo umano, sferrava un colpo secco con il calcio della pistola alla nuca del suo avversario, facendogli perdere immediatamente i sensi.

Tuttavia non ebbe tempo di esultare per la sua vittoria o concentrarsi su quell’individuo per valutare la gravità della sua ferita. Emily era ancora in acqua e a giudicare dei rumori sempre minori, non stava affatto bene.

L’uomo si tuffò subito in acqua, nuotando verso il fondo per raggiungere la ragazza. Quando riuscì a stringerla a sé si sentì incredibilmente sollevato nel constatare che era ancora cosciente e risalì in fretta verso la superficie. Appena Emily riuscì a mettere la testa fuori dall’acqua inspirò una lunga boccata di ossigeno, riempiendo completamente i polmoni.

«Tutto bene? Stai bene?» le chiese John, mentre nuotava verso il bordo della vasca tenendo saldamente la ragazza.

Lei annuì ripetutamente con la testa, scossa come non era mai stata in vita sua. Il cuore le batteva così forte da sembrare intenzionato ad abbandonare il suo corpo, respirava a fatica e la sua mente sembrava rifiutarsi di voler comprendere quello che era avvenuto nelle ultime ore.

Il medico aiutò Emily a uscire dalla piscina, non senza qualche difficoltà. Una volta fuori, la ragazza rimase inginocchiata sul pavimento, tremante per il freddo improvviso e lo shock. I capelli le avevano macchiato il viso di rosso ancora una volta, mentre i suoi occhi continuavano a rimanere fissi sul pavimento davanti a lei.

Era sconvolta, John lo capì immediatamente. Prima di poterla consolare in qualche modo, però, voleva liberarla dalle fascette da elettricista che ancora le imprigionavano polsi e caviglie. Si mise alla ricerca di un paio di forbici o di qualcosa in grado di lacerare la plastica. Riuscì a trovare un coltellino nelle tasche dell’uomo che aveva da poco steso e tornò dalla ragazza per poterla finalmente liberare.

«Stai bene Emi? Sei ferita?» domandò, mentre con forza calibrata tagliava le fascette.

«Sto bene» rispose lei, dopo diversi secondi.

Il suo tono di voce diede modo a John di intuire che non stava affatto bene. Tremava visibilmente e non era colpa del fatto che i suoi abiti erano bagnati. Anche lui era fradicio, ma non sentiva alcun brivido. Inoltre anche la voce di Emily lasciava perfettamente intuire quanto la ragazza fosse sull’orlo delle lacrime per la paura. La sua compostezza, nonostante tutto, rimaneva notevole.

Una volta tagliate tutte le fascette da elettricista, John sollevò lo sguardo su di lei. Emily non gli rispose, continuava a tenere gli occhi bassi, fissi al pavimento. Il medico si accorse di una macchia di rosso più scura all’altezza della tempia sinistra della ragazza. Sollevò lentamente la mano, ma quando si avvicinò al volto di Emily, lei si ritrasse.

«Non è niente» mormorò, guardando finalmente l’uomo.

«Sei ferita» le fece notare quest’ultimo.

«Sì. Ma sto bene, ora» rispose lei, ostentando sicurezza.

I due si guardarono in silenzio a lungo, ancora inginocchiati sul pavimento a bordovasca. Fu Emily a interrompere quel silenzio: «Mi hai salvato la vita, John. Grazie.»

Il medico le sorrise. «Non potevo certo lasciarti affogare.»

Riuscì a strappare un leggero sorriso alla ragazza con quelle parole, ma durò poco. Emily portò lo sguardo sull’uomo ancora svenuto alle spalle di John, ricordandogli che in quell’edificio Sherlock poteva ancora avere bisogno di aiuto. A quel pensiero si ridestò subito, riacquistando la sua risolutezza. Si alzò, raggiungendo l’uomo a terra. Frugò nuovamente nei suoi vestiti, senza trovare un solo dato utile; controllò la sua pistola, una calibro 9 e le poche munizioni rimaste nel caricatore, infine la mise in tasca per poterla portare con sé. Diede anche un’occhiata alla ferita che l’uomo si era provocato sparando, constatando che si trattava solo di una bruciatura superficiale e che aveva già smesso di sanguinare.

Sotto agli occhi di una Emily che non riusciva a far lavorare degnamente il cervello per colpa dello shock, John si caricò in spalla il corpo dell’uomo – trascinandolo poi per gran parte del tragitto – e lo chiuse dentro uno degli spogliatoi adiacenti alla vasca della piscina. Fece il possibile per bloccare la porta affinché l’altro, nel caso fosse rinvenuto, non fosse in grado di uscire.

Quando riuscì nella sua impresa, si voltò verso Emily, il fiato corto. «Devo andare da Sherlock. Potrebbe avere bisogno di me» disse con sicurezza, stringendo in mano la sua semiautomatica. «Tu resta qui, d’accordo. Ora che sei al sicuro chiamo Lestrade.»

Estrasse il telefono di tasca, constatando solo in quel momento che il bagno in piscina non aveva fatto bene al suo smartphone. Imprecò fra i denti, decidendo di chiamare da uno degli apparecchi sparsi per la struttura durante il tragitto.

Aveva compiuto solo il primo passo in direzione dell’uscita quando venne fermato da Emily: «No ti prego. Non voglio più stare sola» esclamò lei.

Le sue parole parvero a tutto gli effetti una supplica e a John si strinse il cuore nel vedere la ragazza in quello stato. L’aveva conosciuta fin da subito come una persona solare, innamorata della vita e ottimista. Ora nella sua voce si sentiva la preoccupazione, nei suoi occhi si percepiva la paura e sul suo corpo era visibile il dolore.

John la raggiunse. Si sfilò la giacca e gliela mise sulle spalle, pur consapevole che fosse bagnata quanto lo era Emily. Eppure lei parve scaldata da quel gesto, al punto di stingere a sé l’indumento come se fosse vitale.

«Sei sicura di voler venire? Potrebbe non piacerti quello a cui andremo incontro» disse poi il medico, con tono calmo e paterno.

La ragazza lo guardò, dopodiché annuì debolmente con la testa. Le si era chiusa la gola, stretta da un nodo doloroso. Quello che avrebbe potuto incontrare seguendo John la preoccupava, certo, ma rimanere da sola dopo quello che le era accaduto in una sola giornata la terrorizzava totalmente. Le sembrava che dietro ogni angolo si potesse nascondere una minaccia.

«Va bene, allora» riprese parola John, aiutando Emily ad alzarsi. «Andiamo a dare una mano a Sherlock.»

 

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Capitolo 16
*** XVI ***


 

 

 

Sulla Londra di quella sera si era alzato un freddo vento di inizio febbraio. Le brevi e frequenti folate sferzavano il volto, i capelli e gli abiti dei due presenti, ancora uno di fronte all’altro, separati solo da pochi metri di pavimentazione.

Nathan era impietrito, sovrastato dal dubbio che le ultime parole pronunciate da Sherlock avevano istillato in lui. Si rifiutava di credere che il detective avesse capito il suo piano al punto di sapere perfettamente a cosa stava andando incontro. Lo aveva studiato talmente bene, lavorando con cura per poter rimanere nascosto pur operando alla luce del sole in un modo che neanche il famigerato Sherlock Holmes avrebbe potuto immaginare. Era certo che stesse bleffando.

Tornò a tendere i muscoli per la rabbia, improvvisamente stancatosi di quella loro conversazione. Il detective lo aveva fatto ugualmente parlare nonostante lui si fosse ripromesso di non farlo. Tuttavia gli importò poco dal momento che non gli avrebbe fatto lasciare quel tetto vivo.

«Poco mi importa» disse infine Nathan, scandendo con rabbia quelle parola. «Mi sono stancato di parlare con te.»

Detto ciò passò immediatamente all’azione. Si avventò su Sherlock, la lama del pugnale tesa davanti a sé. Il detective riuscì a schivare il primo affondo solo per un soffio, facendo affidamento sui suoi riflessi.

I due ingaggiarono subito un corpo a corpo. Nonostante Sherlock fosse piuttosto efficace nei combattimenti ravvicinati e a mani nude, dovette ammettere a se stesso che anche Nathan ci sapeva fare. Il giovane era scattante, riusciva a schivare con cura ogni pugno, colpo o affondo a cui era soggetto. Anche il detective non era da meno, sebbene dovesse fare particolare attenzione alla lama del pugnale. La sentì un paio di volte fischiare vicino al suo orecchio, mentre si rendeva sempre più conto di essere in leggero vantaggio sull’altro. Il ragazzo, infatti, stava indietreggiando verso il cornicione per poter parare i nuovi colpi sferrati da Sherlock.

Forse sentendosi alle strette Nathan riuscì a rimontare sull’uomo. Gli assestò un paio di mosse decise, che Sherlock riuscì a parare con il braccio, tuttavia, d’improvviso, l’altro cambiò obiettivo, puntando il coltello al ventre del detective. Quest’ultimo fece a malapena in tempo a schivare il fendente; si spostò verso destra in fretta, ruotando il busto, ma sentì ugualmente la lama conficcarsi nella sua carne. Non andò in profondità, ma percepì perfettamente il freddo metallo lacerare la pelle, tagliando i vasi sanguigni più superficiali.

L’improvvisa ferita gli fece perdere la concentrazione nei secondi sufficienti a Nathan per consentirgli di far perdere l’equilibrio a Sherlock, portando quest’ultimo a rovinare a terra.

Il detective si puntellò sui gomiti, portando una mano i corrispondenza del sangue che stava sgorgando dal suo fianco e alzando lo sguardo per valutare la mossa successiva del suo rivale.

Nathan era esattamente sopra di lui, ora. Sherlock continuava a tenere premuta la ferita al fianco, benché questa sanguinasse poco. Sapeva di dover fare qualcosa in fretta e la sua mente cominciò subito a contare le alternative possibili. Tuttavia non c’era più tempo. La lama del pugnale si era sollevata alta sopra la testa del suo aggressore, scintillante anche alla luce artificiale laddove il sangue non ne increspava la superficie.

Sherlock guardò Nathan, ormai certo di non avere più via di scampo, mentre la divertita, folle, luce negli occhi dell’altro quasi gli impediva di poterli guardare.

Quando si preparò alla fine, però, il colpò tardò. Un suono sordo si sollevò nell’aria: uno sparo. Il detective non sentì alcun dolore e comprese che il colpo non era stato diretto verso di lui. Istintivamente guardò meglio il corpo del ragazzo. Quest’ultimo aveva cambiato espressione; sul suo volto non c’era più il desiderio di uccidere, ma una smorfia di dolore. Sherlock seguì lo sguardo dell’altro che si abbassava lungo il suo braccio destro, mantenendo salda la presa intorno al pugnale solo per inerzia. Una macchia rossa scura cominciò a farsi strada fra sterno e clavicola, allargandosi rapidamente.

Fu in quel preciso istante che Sherlock reagì. Piegò la gamba fino a farla aderire al proprio petto, caricandola come fosse stata una molla; poi, dopo avere appoggiato il piede nel centro esatto dell’addome di Nathan, spinse per toglierselo di dosso.

Il corpo del giovane venne respinto indietro, Sherlock cercò di alzarsi, rimase in ginocchio a guardare l’altro, guardarlo mentre indietreggiava di un passo di troppo, fino al cornicione che delimitava la fine del tetto dell’edificio. Inciampandovi contro il ragazzo perse l’equilibrio e cadde all’indietro senza neanche gridare, lasciando che fosse il suono ottuso del proprio corpo, tre piani più in basso, a far intendere cos’era appena accaduto.

Sherlock continuava a fissare incredulo il punto in cui Nathan era appena precipitato, il vento che gli sferzava i capelli, i rumori della colluttazione di poco prima ancora nelle orecchie.

Questo non lo aveva previsto. Nemmeno Nathan l’aveva previsto.

Che l’esito del loro incontro fosse stato inaspettato per quest’ultimo, Sherlock lo aveva capito. Aveva visto il suo sguardo nei secondi finali prima di volare oltre, di sotto. Aveva notato l’incredulità, la sorpresa, lo shock che si poteva provare constatando che qualcosa era appena andato nel modo sbagliato, nel modo in cui non ci si era aspettati. Nathan non aveva previsto la sua morte, non l’aveva calcolata neanche nelle possibilità, eppure era avvenuta nelle circostanze più probabili: un colpo inatteso, una reazione, la fine.

L’uomo si alzò finalmente in piedi, ricostruì mentalmente quella che era stata la traiettoria dello sparo che gli aveva salvato la vita e fu infinitamente grato a John Watson per essere stato tanto veloce.

Quando si voltò verso l’amico lo vide nel punto esatto in cui sapeva lo avrebbe trovato, gli occhi fissi su di lui, la pistola abbandonata su un fianco, il fiato corto. Accanto all’amico c’era Emily, bagnata fradicia quanto il medico, tremante, sconvolta, ma illesa. L’acqua che le aveva bagnato i capelli aveva striato di rosso il suo volto, come Sherlock aveva già visto accadere più volte.

No. Non quella volta. L’acqua aveva, sì, dilavato i suoi capelli, ma non era solo quello il rosso presente sul suo viso. C’erano parti più scure, di rosso cupo, che lentamente rilasciava il suo colore più intenso e brillante rispetto alla tinta ciliegia dei capelli della ragazza. Quello era sangue, incrostato all’altezza della tempia, dove certamente Emily era stata colpita quella mattina al momento del suo rapimento.

Sherlock corse verso gli amici, il cappotto che ondeggiava al vento come il mantello di un supereroe. Quando raggiunse Emily le posò entrambe le mani sulle spalle, ma non appena lei sentì il suo tocco su di sé, caldo e rassicurante, si inginocchiò sul pavimento, coprendosi il volto con le mani.

«Mi dispiace» prese a dire, la voce rotta. Era sconvolta e sull’orlo delle lacrime. «Mi dispiace così tanto.»

Sherlock si inginocchiò di fronte a lei. Sapeva che la ragazza si sentiva responsabile della loro presenza lì. Sapeva che era convinta che se Nathan non l’avesse rapita, se lei non si fossa fatta ingannare dal ragazzo, lui non avrebbe rischiato di morire, così come anche John non avrebbe corso alcun rischio. Tuttavia quello che Sherlock sapeva con assoluta certezza era che, indipendentemente da ciò che Emily avrebbe potuto fare, Nathan avrebbe ugualmente trovato il modo di portarli tutti in quell’edificio.

L’uomo le prese il volto fra le mani, avvicinandosi di più alla ragazza. «Ehi» cercò di farle forza. «Guardami, Emi, guardami.»

La costrinse a guardarlo negli occhi. La ragazza era fragile, gli occhi azzurri pieni di lacrime, qualche leggera riga di rosso ancora visibile sul volto.

Sherlock abbassò il tono della voce: «Non è stata colpa tua, ok? Non è stata colpa tua» scandì accuratamente.

Lei rimase a osservarlo, senza dire nulla.

L’uomo le sorrise e con lo stesso tono di pochi istanti prima continuò: «E sono grato che tu sia salva.»

Emily si sentì cedere a quelle poche parole. Sorrise di rimando all’amico, ma poi non fu più in grado di mantenere l’autocontrollo. Le lacrime cominciarono a sgorgare, la voce le si ruppe e lei si lasciò andare al pianto, stringendosi al petto di Sherlock. Lui ebbe un attimo di esitazione ma si ricompose in fretta. Si sfilò il cappotto e lo avvolse intorno alle spalle della ragazza, ancora zuppa di acqua, dopodiché, una mano sulla sua nuca, la lasciò libera di sfogarsi.

Era andato tutto per il meglio; sia lui che Emily erano salvi e non aveva dubbi su chi fosse il responsabile di un tale successo. Sollevò lo sguardo alla sua sinistra, quel tanto che bastava per incrociare gli occhi del suo amico più fidato. John era immobile accanto a loro, intento a guardarli. Rispose immediatamente all’occhiata del detective, lasciandosi sfuggire un sorriso di sollievo, che si allargò via via a tutto il suo volto. Guardandolo, Sherlock non poté fare a meno di replicare alla stessa maniera.

 

*

 

Era un continuo baluginare di luce blu quello che stava illuminando la struttura della piscina e i palazzi confinanti con essa. I lampeggianti delle volanti della polizia e le due ambulanze quasi illuminavano a giorno il cortile.

Sherlock aveva già avuto modo di parlare con Lestrade, di raccontargli quello che era successo e l'identità dell'assassino del giudice Walker e di Horvat.

Nathan West, quello era il cognome esatto del ragazzo, il cognome della madre. Lestrade aveva detto al detective che Scotland Yard lo stava tenendo sotto osservazione da diversi anni, più o meno da quando avevano cominciato a sospettare che, nonostante l'età, il ragazzo fosse invischiato in traffici illeciti di droga e riciclaggio di soldi sporchi. Tuttavia era sempre riuscito a farla franca, forse anche grazie al fatto che nella Londra di tutti i giorni aveva davvero pochi contatti e, di conseguenza, poche persone in grado di complicare i suoi alibi.

L'ispettore aveva poi concluso dicendo a Sherlock che la sua morte sarebbe passata come un incidente – come poi sembrava essere – dal momento che i primi rilievi della scientifica avevano informato che il colpo sparato da John non era stata la causa della sua morte. Nathan era morto in seguito alla caduta dal tetto dell'edificio.

Dopo aver parlato con Sherlock Lestrade si era fermato da Emily, alla quale stava chiedendo tutta l'evoluzione del suo rapporto con il killer. Consapevole di dover trattare con una persona in evidente stato di shock, l'ispettore si era accuratamente preparato. Aveva fatto in modo che venisse recapitato a Emily un tè caldo, nella speranza di calmarle i nervi. La bevanda aveva sortito un effetto ridotto, ma stava comunque funzionando. Dopo un primo momento di impossibilità, più per la paura ancora radicata in sé che per altro, la ragazza era riuscita ad aprire bocca, cominciando a rispondere alle domande incalzanti ma calibrate che Lestrade le stava sottoponendo con tutta la delicatezza di cui era capace. Mano a mano che raccontava come si erano svolte le cose all'ispettore, senza omettere alcunché, dichiarando di aver creduto a ogni parola che usciva dalle labbra di Nathan – per lei Richard – la ragazza si sentiva sempre più stupida. Pensare a quanto aveva permesso che le venisse fatto, che accadesse, al coinvolgimento di Sherlock e John che aveva consentito. Tutto la faceva sentire inadatta, soprattutto per una che aveva sempre sostenuto di essere in grado di capire con chi aveva a che fare. Dovette farsi forza per non scoppiare in lacrime davanti a Lestrade mentre lui, ogni volta che si rendeva conto di come lei fosse vicina al limite, le dava tutto il tempo di cui aveva bisogno, aspettando che riprendesse parola.

Distante da loro, ma nella perfetta linea d'aria dell'ispettore e della coinquilina, Sherlock era seduto su un muretto, intento a osservare i due. Guardava con attenzione Emily, avvolta nella coperta arancione fornitale dall'autoambulanza, il bicchiere di carta contenente la bevanda calda fra le mani. Sembrava ancora più piccola di quanto fosse e fragile come Sherlock non l'aveva mai vista.

Si sentiva strano. Avrebbe tanto voluto che lei non avesse dovuto vivere niente di quello che le era appena accaduto; non lo meritava.

Qualcuno si fermò alla sua destra. Sollevando lo sguardo ebbe modo di notare John, anche lui avvolto nella coperta arancione, che teneva però aperta come fosse un mantello.

I due si guardarono senza dire nulla, infine Sherlock tornò a rivolgere la sua attenzione sulle figure di Emily e Lestrade.

«Il figlio di Darrell Scott, quindi?» prese parola John.

«Già» rispose il detective, dopodiché, senza aspettare altre domande, raccontò tutto a John. Gli disse ogni cosa avvenuta sul tetto dell’edificio solo poche ore prima, ogni parola che lui e il killer si erano scambiati. Gli descrisse le indagini che aveva iniziato a svolgere, di come non avesse mai accantonato a possibilità che qualcuno vicino a Scott fosse coinvolto in tutti quegli avvenimenti. Raccontò al medico di come aveva voluto accertarsi di chi fosse Richard nel momento in cui Emily gli aveva parlato di lui e di come aveva capito, anche grazie alla sua rete di senzatetto, che Scott aveva un figlio e che lui era il responsabile degli omicidi.

Non riuscì, però, a dirgli che gli era servito tempo ulteriore per collegare i due ragazzi che lui credeva essere due persone distinte quando invece non lo erano affatto.

«Perciò tu sapevi che lui e Richard erano la stessa persona?»

Sherlock sospirò di fronte a quella domanda.

«No» ammise. Quella sillaba parve rimbombare a lungo nell'aria. «Tenevo d'occhio Emily perché trovavo sospetto quello che le stava succedendo. Non chiedermi perché, non lo so con esattezza, me lo sentivo e basta. Sapevo che l’assassino che stavamo cercando era il figlio di Scott, ma ho capito che si trattava anche di Richard solo questo pomeriggio, quando era già troppo tardi. Ho collegato tutti gli avvenimenti tardi» concluse, abbassando la voce sul finire della frase.

«Ma tu avevi detto di "avere un sospetto", così hai detto, quindi dovevi averlo capito. Quando Sherlock Holmes ha un sospetto è sempre quello esatto» insistette il medico.

«Io avevo intrappolato il figlio di Scott, era a lui che puntavo. Non ho litigato con Emily perché lei lo dicesse a Richard, l'ho fatto perché volevo convincere Nathan che era riuscito a destabilizzarmi psicologicamente.»

Sospirò a quel pensiero, sentendosi nuovamente strano. Era dispiaciuto. Davvero era quello il sentimento che stava provando al pensiero di cosa era accaduto a Emily perché lui non aveva fatto il collegamento corretto in tempo? Odiava quella sensazione, lo faceva sentire oppresso.

John notò la frustrazione nella voce di Sherlock, una nota leggera ma pur sempre presente. Il detective aveva individuato l’assassino anche quella volta, eppure sapeva che la sua non era stata una vittoria degna di quel nome. Con molta probabilità ciò era legato a Emily. Il medico capì che Sherlock non sentiva di aver vinto proprio perché la sua coinquilina era stata tanto dolorosamente coinvolta in quella storia. John sapeva che il cruccio del suo amico, in quel momento, era legato al fatto che se lui avesse capito prima che il vero pericolo era Richard, e lui soltanto, avrebbe potuto impedire una simile sofferenza a una ragazza totalmente innocente e tanto sensibile quale era Emily.

John abbassò lo sguardo su Sherlock, ancora immobile a osservare la coinquilina. Sorrise leggermente rendendosi conto che il suo migliore amico, notoriamente un uomo distaccato, cominciava a non esserlo più così tanto.

Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui ciascuno dei due presenti ebbe modo di far lavorare il cervello per conto proprio, Sherlock riprese parola: «Come sta?» chiese al medico, indicando con un cenno del capo in direzione della ragazza.

«L’hai vista anche tu, tutto sommato è illesa» rispose calmo l’altro, consapevole che la ferita alla testa di Emily non era niente di veramente grave.

A quell’affermazione seguì un nuovo silenzio, che durò solo pochi secondi.

«No, voglio dire… come… come sta?»

John si voltò verso Sherlock, senza capire a cosa si stesse riferendo. Fece vagare confuso lo sguardo dal suo amico alla sua coinquilina, intuendo solo in quel momento a cosa si stava riferendo.

«Oh» esclamò. «È un po’ sotto shock, ma è normale. Starà benone, vedrai.»

I due si guardarono intorno, a metà fra l’imbarazzo e il nervosismo. Era un clima curioso quello che si respirava fra di loro, uno di quei momenti in grado di far sentire le persone impreparate.

Fu nuovamente Sherlock a spezzare l’atmosfera: «Come ci riesci, John?» domandò.

Non stava guardando il medico, avevano nuovamente posato lo sguardo davanti a sé, fisso.

«A fare cosa?» chiese in risposta l’interpellato, non capendo quale fosse l’argomento.

«A convivere con questo ammasso caotico e privo di senso dentro di te. Come fai a resistere alla tentazione di metterlo a tacere per sempre, pur di non sentirti uno stupido?»

Nuovamente il medico impiegò un po’ per intuire perfettamente di cosa stava parlando l’amico. Ci riuscì dopo aver dato una lunga occhiata a Sherlock, che sembrava essersi irrigidito più del necessario. Era infastidito da qualcosa e c’era una sola cosa in grado di urtare a tal punto il detective. «Parli dei sentimenti?»

«Sì, quelli» replicò con fare scocciato.

John si ritrovò a ridere leggermente, curiosamente divertito dalla piega che stavano prendendo gli avvenimenti. «Imparerai. Tutti li abbiamo e tutti impariamo a conviverci» rivelò.

«Stronzate. Stavo molto meglio prima.»

Nuovamente il medico si lasciò sfuggire un sorriso. «Non ne sarei così sicuro. I sentimenti non sono male se accetti di provarli, prima o poi ti dovrai arrendere a questa idea.»

«Mai» esclamò Sherlock, categorico.

«Eppure eccoti qui, a provarli» riprese con calma l’altro. Il detective sollevò lo sguardo, puntandolo sull’amico.

«Ti è capitato, Sherlock. Hai incontrato persone che sono riuscite a toccarti più di altre. Succede così di solito. Conosci amici, colleghi, qualcuno che per un motivo o per l’altro fa scattare qualcosa di diverso in te. Può essere un coinquilino, la donna giusta, o la studentessa che vuole scrivere la tesi sul più improbabile degli eroi» a quelle parole entrambi guardarono Emily. «Ed è così che si finisce con il provare sentimenti.»

Sherlock non replicò, limitandosi a un sonoro verso di stizza.

«Ma stai tranquillo» lo rassicurò il medico. «Il fatto che tu abbia appurato di avere un cuore non significa che non continuerai a essere lo stronzetto arrogante, saccente e dall’ego smisurato che eri il giorno in cui ti ho incontrato la prima volta.»

Un leggero sorriso increspò le labbra di Sherlock, ma si rifiutò di darlo a vedere proprio a John.

Il detective si alzò in piedi, sancendo così la fine di quel botta e risposta. Si sistemò gli abiti e il cappotto, facendo scivolare istintivamente la mano destra sul tessuto strappato della sua camicia, sentendo poi la ferita che Nathan gli aveva procurato. Il sangue si era coagulato sulla carne; il taglio non bruciava più ma faceva comunque abbastanza male. Sapeva che sarebbe guarito nel giro di pochi giorni, come per ogni altra ferita fisica. Guardò Emily ancora una volta, chiedendosi quanto sarebbe servito a lei per cancellare dalla sua mente tutto quello che era successo.

I sentimenti. Fastidiosi difetti chimici. Lui era in grado di manipolare la chimica, allora perché non riusciva a riordinare lo snervante caos che aveva dentro e darlo in pasto alla sua gelida ragione?

Si spettinò i capelli così da poter riavere controllo di sé. Fissò Lestrade sfiorare con delicatezza le mani di Emily, abbassare il volto per guardarla negli occhi e sorriderle prima di allontanarsi da lei. La ragazza rimase seduta sul retro dell'ambulanza, sola e Sherlock capì che avrebbe dovuto fare qualcosa. Dopotutto era la sua coinquilina.

La raggiunse con passo sicuro, sotto allo sguardo affabile di John, rimasto in disparte. Appena fu da lei le si sedette accanto, nello spazio rimasto libero sul retro del mezzo.

Emily osservò il profilo di Sherlock, ma prima che lui potesse rispondere al suo sguardo, lei tornò a voltarsi. Si strinse maggiormente nella coperta, serrando anche la presa intorno al bicchiere di carta ormai vuoto.

«Lestrade è stato gentile con te?» domandò senza apparente motivo il detective. Forse lo fece più per stemperare l’atmosfera che per vera curiosità.

«Sì» rispose semplicemente la ragazza.

Fra i due piombò un silenzio pesante, uno di quelli che non avevano mai vissuto neanche nel loro periodo più teso fra le mura del 221B di Baker Street. Sherlock si lambiccò il cervello fin da subito nella speranza di riuscire a dire qualcosa in grado di far sentire meglio Emily, ma tutto era per lui troppo complesso. Provò a pensare a cosa avrebbe potuto dire John, o Mary in una situazione del genere, ma la cosa contribuì a confonderlo ulteriormente.

«Mi sento una stupida» mormorò all’improvviso Emily. Lo disse piano, come arrendendosi. «Avrei dovuto capirlo. C’erano gli elementi per capirlo e non l’ho fatto. E pensare che sono sempre stata convinta di intuire subito con chi ho che fare, forse non sono poi così brava.»

Il detective capì finalmente qual era il problema della ragazza: il senso di inadeguatezza. Quello, misto alla frustrazione e allo shock ancora presente in lei, la stavano facendo sentire impotente. Una volta intuito ciò fu piuttosto semplice per lui capire in che direzione procedere. Dopotutto sedeva accanto a una ragazza intelligente di cui conosceva ormai bene le qualità e sapeva che tutto poteva essere, tranne inadatta.

«Non devi sentirti in colpa. Nathan ha lavorato bene e ha agito quando tu eri più vulnerabile. Conosceva bene la psicologia delle persone ed era molto intelligente. Semplicemente ha saputo come comportarsi con te per non destare alcun sospetto.»

Alle parole del detective seguì un nuovo, lungo, silenzio. La mente di Emily tornò inevitabilmente a tutti i momenti che aveva trascorso con Nathan, quando era convinta che si trattasse di un’altra persona e, soprattutto, di una buona persona. Cercò di allontanare quei pensieri ma non ci riuscì; erano lì e lì sarebbero rimasti a lungo, insieme all’ammasso di sentimenti caotici che le vorticavano dentro ogni volta che ci ripensava, sentimenti forti, per lo più negativi. Si disse che avrebbe superato quel momento, ma sentendo la gola chiudersi nuovamente capì che le sarebbe servito davvero tanto tempo per riuscirci.

«Emi, mi dispiace.»

La voce di Sherlock si sollevò leggera come una carezza. Colse Emily impreparata e fu in grado di scacciare in un solo istante tutti i fantasmi e i ricordi che avevano affollato la sua mente.

Si voltò immediatamente a guardarlo, convinta di aver capito male. «Come?» chiese.

«Ho detto che mi dispiace.»

La ragazza spalancò gli occhi, sorpresa. Sherlock rimase fermo nella sua posizione, riprendendo parola: «Tu non mi hai mai chiesto niente in tutto questo tempo. Tuttavia l’unica volta in cui avevi bisogno di me mi sono comportato nel peggiore dei modi. Sono stato molto, molto più stronzo del solito e mi dispiace. Non meritavi niente di tutto questo.»

Emily si ritrovò a ripetere quelle parole nella propria mente, sensibilmente colpita. Non era tanto il fatto che Sherlock si fosse scusato, bensì il modo in cui si era scusato. Con quelle parole il detective non aveva fatto altro che assumersi la responsabilità di tutto, dichiarando che avrebbe potuto evitarlo in qualche modo. La ragazza si sentiva terribilmente in colpa per il modo in cui si era lasciata ingannare da Nathan, ma le scuse che Sherlock le aveva appena rivolto le permisero di intuire che lui non la considerava responsabile. Si erano trovati di fronte a una persona intelligente ed organizzata, qualcuno che aveva lavorato così bene da riuscire a prevederli; nessuno poteva averne colpa.

Emily si sentì scaldata dalle parole di Sherlock, rassicurata. Stavano facendo pace, parlando di quello per cui lei, la sera prima, aveva aspettato invano il detective. Per quanto assurdo potesse apparire, quella spaventosa avventura stava diventando il modo per rafforzare un legame allentato.

I limpidi occhi celesti di Sherlock continuavano a guardare la ragazza, mentre quest'ultima ritrovava parte della sua sicurezza. Avrebbe dovuto farsi forza, molta forza, per riuscire a superare quello che le era accaduto, tuttavia capì che non avrebbe dovuto farlo da sola e, soprattutto, che aveva accanto qualcuno che non l'avrebbe abbandonata.

Davanti a quella consapevolezza, Emily non poté fare a meno di sorridere.

«Grazie Sherlock. Mi hai salvato la vita» gli disse poi.

«Tecnicamente è stato John» le fece notare l’uomo.

Lei si strinse nelle spalle. «Ho già ringraziato John per quello che ha fatto. Più volte. Però, francamente, credo sia stato tu a capire di dover venire fin qui. Voglio bene a John, ma non si può negare che impieghi qualche minuto in più a capire questo genere di cose» concluse, con dolcezza.

«Sono d’accordo.»

«Poi, un giorno, mi spiegherai come hai fatto a capire chi c'era dietro a tutto questo e di come sei riuscito a scoprire così tante cose sul suo conto» proseguì la ragazza, ripensando appena a tutta quella storia. «Mi servono per la tesi. E poi sono curiosa» aggiunse, davanti all'occhiata di Sherlock.

«Per la tesi» ripeté lui. «Sì, qui c'è del materiale che può esserti utile.»

«Lestrade mi ha già detto un po' di cose. Quelle importanti, per lo più» rivelò Emily.

Il detective fissò torvo in direzione dell'ispettore, concentrato a raccogliere la testimonianza di John.

«Beh, Greg non sa tutto. Io invece sì.»

La ragazza guardò Sherlock sorpresa. «Lo hai chiamato Greg» esclamò.

«E allora? Si chiama così» replicò in tono ovvio l'altro.

«Sì, esatto. Te ne sei ricordato.»

Sherlock si alzò, cercando accuratamente di non mostrare il sorriso divertito che gli aveva arricciato le labbra. «So che si chiama Greg, per chi mi hai preso? Però tu evita di dirglielo.»

Emily rise, portandosi una ciocca di capelli rossi dietro l'orecchio. Per il detective quello fu un segnale. La ragazza stava meglio, lo shock era passato e il suo innato buonumore era pronto a fare ritorno da lei. Si sentì rincuorato dalla cosa, ma non lo diede a vedere. Ora che tutto era finito voleva solo tornare a casa, suonare il suo violino, fare due chiacchiere con John, magari davanti a un tè e archiviare il caso in uno dei punti più sicuri della sua mente, portando Emily con sé.

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** XVII ***


 

 

 

Le era servito un anno. Tutto quel lungo lasso di tempo era stato necessario per mettere insieme le duecentocinque pagine della sua tesi, allo scopo di raggiungere il fatidico giorno del Master.

Ottobre era prossimo ad arrivare su Londra, mentre gli ultimi giorni di settembre stavano trascorrendo piuttosto miti e soleggiati.

Emily si era ricongiunta con la propria famiglia all’ombra della London Metropolitan University, la toga nera bordata di viola e il tocco in testa. Il suo grande giorno era finalmente arrivato. Aveva discusso1 la tesi di Master quella stessa mattina, per poi attendere l’esito della commissione e la celebrazione ufficiale insieme agli altri studenti laureatisi in quella stessa sessione.

Nel momento in cui aveva dovuto esporre i propri mesi di lavoro, stesi su una moltitudine di fogli bianchi ben impaginati e rilegati, la ragazza si era mostrata sicura e capace, mostrando che tutti i suoi mesi di lavoro avevano portato i propri frutti.

Come da intenzione, nel momento in cui aveva deciso di iscriversi al Master, era riuscita a scrivere ciò per cui aveva voluto continuare gli studi. La sua tesi era un perfetto approfondimento sulla psiche complessa ma quanto mai affascinante di Sherlock Holmes, una mente che la ragazza aveva studiato e analizzato per mesi, nella speranza di riuscire a scrivere accuratamente della sua complessità. Sentiva di esserci riuscita e di essere anche riuscita a presentarla alla commissione per quello che era veramente: eccelsa. Ne aveva descritto le qualità, le capacità, la rapidità e la fredda dote calcolatrice, concludendo che solo in un uomo dotato di umanità, buonsenso e buone qualità, tutte quelle peculiarità potevano convivere e lavorare per il bene comune.

Quel disegno di sé aveva lasciato leggermente perplesso il diretto interessato; per sicurezza, infatti, Sherlock aveva cominciato a rispondere torvo alle occhiate dei presenti che lo avevano riconosciuto.

Tuttavia, nonostante la perplessità con cui il detective aveva accolto le considerazioni della ragazza, Emily credeva fermamente nelle sue parole. Non aveva dimenticato niente di quello che Sherlock aveva fatto per lei dopo essere stata salvata da lui e John alla piscina. Il detective non aveva mai fatto niente che lasciasse trapelare l'intenzione di voler aiutare la ragazza, ma lei aveva imparato a leggere i gesti e gli sguardi mano a mano che procedeva nell'approfondire la personalità e la mente dell'uomo con il quale conviveva.

Le era servito tempo, molto tempo per riuscire a superare la vicenda di Nathan Scott, per riuscire a non sentirsi ingenua e frustrata ogni volta che tornava con la mente a quei momenti. Molte cose le ricordavano il ragazzo: il campus, la caffetteria, la tavola calda sotto casa, perfino Sherlock e John. Riuscire ad andare avanti quando così tante cose la riportavano indietro non fu affatto semplice per la ragazza, ma ci era riuscita solo grazie alle due cose in grado di aiutare chiunque nei momenti peggiori: il lavoro e l'amicizia. Si era buttata a capofitto nella stesura della propria tesi, lasciando fuori tutti i possibili rimandi alla vicenda di Nathan. Aveva fatto il possibile per non rimanere mai sola, appurando con piacere che nessuna delle persone a lei vicine a Londra sembrava intenzionata a fare lo stesso. John e Mary passavano a trovare gli inquilini del 221B di Baker Street spesso, portando sempre la piccola con loro. Mrs. Hudson invitava ogni giorno Emily a prendere un tè nel suo appartamento e se non scendeva la ragazza allora saliva lei, sfidando il caos tipico di un'abitazione vissuta da Sherlock Holmes. Quest'ultimo, poi, nonostante la sua ostentata indifferenza era quello l'aveva aiutata più di chiunque altro. Il giorno dopo l'accaduto aveva raccontato tutto a Emily, senza omettere il minimo particolare. Aveva soppesato le parole affinché l'oggettività della sua esposizione non facesse sentire la ragazza inadatta e c'era riuscito perfettamente. Alla fine del suo racconto Emily si sentiva frustrata, certo, ma il sentimento che più la riempiva era l'ammirazione per la mente brillante di Sherlock e per il modo in cui l'aveva fatta funzionare ancora una volta.

Da quel momento in poi le cose fra loro erano tornare a essere le stesse. Emily continuava a studiare Sherlock; l'uomo, invece, accettava i casi sottoposti a lui da Lestrade e coinvolgeva la ragazza nelle indagini. Quando non aveva nulla su cui lavorare allora si dedicava alle sue ricerche, al suo blog o suonava lunghe melodie al violino. Quest'ultima cosa, soprattutto, aveva iniziato a farla perlopiù a tarda sera, spesso quando Emily si era appena coricata. Dal momento che non lo aveva mai fatto prima, la ragazza aveva sospettato che l'uomo lo facesse per lei, che suonasse meravigliosamente le lunghe composizioni di Bach solo per consentirle di addormentarsi mentre la sua mente viveva qualcosa di bello. Non glielo aveva mai chiesto, più per paura di sentire la vera motivazione che per altro e aveva trascorso i giorni successivi a crogiolarsi in quell'idea confortante.

Alla fine, uno dopo l'altro, i mesi erano trascorsi, gli appunti avevano cominciato a divenire capitoli, le deduzioni di Sherlock materiale nuovo. Una volta aver individuato il bandolo della matassa Emily aveva cominciato a scrivere senza sosta, sostenendo gli esami con rinnovato entusiasmo e senza perdere neanche un giorno utile così da conseguire il suo più grande successo con la consapevolezza di aver dato tutta se stessa.

Quel successo era arrivato. La ragazza si sentiva elettrizzata come non mai sotto al sole di ottobre, in quella città, Londra, che aveva imparato in gran fretta ad amare. Teneva il tocco fra le mani mentre continuava a parlare con i propri genitori, i suoi tre fratelli intorno come robuste guardie del corpo.

A poca distanza John, Mary e Mrs. Hudson osservavano quella piacevole scena familiare insieme a uno Sherlock che ostentava indifferenza, sebbene il suo sguardo chiaro fosse ben fisso sul volto della sua coinquilina. Lo fece deviare per un solo, breve, momento oltre la ragazza, iniziando poi a pensare.

«Trovo che sia stata così brava» disse d'improvviso Mary. Aveva mostrato fin da subito di avere un debole per Emily e quel giorno non aveva potuto fare a meno di sentirsi come un'orgogliosa sorella maggiore davanti alla ragazza in toga. John le sorrise, mentre Mrs. Hudson le dava ragione.

I quattro continuavano a stare a distanza dalla famiglia Price per dare loro modo di stare insieme. Con il trasferimento di Emily a Londra, sebbene Newport non distrasse che qualche ora di treno, i sei membri di quella famiglia avevano sempre meno tempo per ritrovarsi riuniti insieme. Davanti allo scambio di lunghi abbraccia fra la ragazza, i genitori e i fratelli, le amicizie londinesi di Emily avevano avuto modo di capire quanto fossero uniti fra di loro. La ragazza aveva poi presentato ogni parente ai suoi nuovi amici, stendendo un breve elogio per ciascuno a ogni stretta di mano. Aveva descritto John, Mary e Mrs. Hudson con estrema dolcezza, tenendo un occhio di riguardo per Sherlock, il reale motivo per cui lei si trovava lì. I suoi genitori avevano poi conversato con il medico e con un monosillabico detective, ringraziandolo di cuore per aver salvato la loro unica figlia mesi indietro. Non avevano fatto loro regali, avevano semplicemente mostrato il riconoscimento più sincero di cui fossero stati in grado e la cosa, ai due uomini, aveva fatto molto più piacere di quanto avevano dato a vedere.

A tutto ciò era seguita la discussione della tesi e l'attesa della proclamazione. L'ultima cosa era ancora in corso, ma tutti sembravano essere piuttosto certi del successo della studentessa.

Emily si staccò dalla sua famiglia, avviandosi in direzione del gruppo di quattro amici che se ne stava ancora in disparte. Lo raggiunse sorridendo e incassò radiosa i complimenti delle due donne presenti, che elogiarono anche il modo in cui la toga le ricadeva.

«Non credevo che qualcuno potesse essere capace di parlare tanto bene di Sherlock» osservò Mrs. Hudson, strappando un sorriso a Emily.

«Ho dovuto lavorare molto per riuscirci, infatti» rispose la ragazza.

«Stai per conseguire un Master in criminologia, Emi, ci pensi?» domandò Mary.

«Lo so! Ancora non mi sembra vero» esclamò lei, entusiasta.

«Hai pensato a cosa fare dopo?» chiese John.

La ragazza rifletté un momento. Non aveva ancora deciso cosa fare. Non aveva neanche pensato se tornare a Newport o rimanere lì, a Londra, dove ormai sentiva di essersi costruita una casa. Aveva cercato spesso di prendere una decisione, ma la rinviava sempre perché sentiva quel giorno ancora lontano. Ora che il momento di decidere era arrivato lei davvero non sapeva cosa fare. Pensò fosse una buona idea rifletterci su ancora alcuni giorni, ma si trovò a chiedersi se per farlo correttamente sarebbe dovuta tornare a casa, in Galles, o rimanere lì.

Capì che l'unica risposta giusta da dare a John era anche la più ovvia.

«Mi cercherò un lavoro.»

Il medico sorrise, come consapevole del fatto che avrebbe ricevuto una simile risposta.

«È quello che sperava di sentirti dire Lestrade» disse, lasciando perplessa la ragazza. «Mi ha dato questo per te. Si scusa di non essere potuto venire qui oggi, ma era di servizio.»

Dalla tasca della giacca estrasse un foglio di carta A4 ripiegato su se stesso. Lo tese a Emily, la quale lo afferrò, lo dispiegò ed ebbe modo di notare immediatamente il logo di Scotland Yard in alto a destra, insieme a un’altra serie di stemmi della città e del servizio d’ordine.

Era una domanda di lavoro, in parte già compilata dall’ispettore in persona. Emily intuì che, proprio come per la South Wales Police, Scotland Yard avesse valutato l’ipotesi di arruolarla come psicologa criminale. Si trattava ovviamente di un periodo di apprendistato – lungo anni, sicuramente – ma era una prospettiva e alla ragazza piacque particolarmente sapere che l’idea era nata da Greg Lestrade in persona.

«Sono certo che l’ispettore è più che disponibile a scrivere una lettera di raccomandazione per te» le rivelò John, osservando soddisfatto il modo in cui Emily continuava a far scorrere gli occhi sulla scheda in parte compilata.

La ragazza non riuscì a fare a meno di immaginarsi nelle vesti di psicologa criminale per Scotland Yard. Si immaginò alle prese con casi emozionanti e misteriosi come alcuni di quelli che aveva già affrontata stando accanto a Sherlock. Solo l’idea l’aveva elettrizzata.

«Dirò a Lestrade che penserò alla sua offerta. Ringrazialo se dovessi vederlo prima di me» disse infine, rivolgendosi al medico.

Quest’ultimo acconsentì con il capo, ma non riuscì a dire nulla prima che la voce di Sherlock si levasse: «Non vorrai davvero lavorare per Scotland Yard, spero. Quello sarebbe buttare al vento le tue capacità» disse in tono piatto.

Emily si voltò a guardarlo. Analizzò attentamente l’uomo in cerca di una sfumatura nei suoi occhi. Sebbene in quell’anno avesse imparato a conoscerlo continuava ugualmente a non essere semplice riuscire a decifrare i suoi modi di fare.

«Lo prendo come un complimento, Sherlock» rispose al detective, regalandogli un sorriso.

In cambio ricevette solo un’alzata di sopracciglio, ma il resto dei presenti rise a quel veloce scambio di battute fra una coppia di amici che aveva imparato a convivere con il tempo. Senza dire nulla, ma intuendo ciascuno le intenzioni dell’altro, John, Mary e Mrs. Hudson cominciarono a conversare fra loro, tenendosi in disparte e lasciando i coinquilini del 221B uno accanto all’altra.

Sherlock guardò gli altri tre leggermente irritato; non sopportava che lo ignorassero a tal modo o, meglio, che usassero simili trucchetti con uno come lui, che li prevedeva tutti ma ne rimaneva sempre ugualmente infastidito.

«Cosa te n’è parso della tesi?» domandò di punto in bianco la ragazza, nonostante avesse già sottoposto svariati capitoli al giudizio severo del detective.

«L’analisi psicologica è ben strutturata» rispose impassibile. «La conclusione non l’avrei assolutamente fatta così.»

«Ma è la parte più importante, quella in cui spiego che non sei un serial killer per il semplice fatto che hai buone qualità che ti rendono umano» ribatté subito lei, stupita.

«Appunto per questo.»

Emily notò Sherlock sorriderle, sebbene leggermente. Rimase a guardarlo un momento, alla fine sospirò.

Pensò che tornare a Newport significava allontanarsi da Sherlock, dal 221B di Baker Street e da tutto quello che ruotava intorno a quell’uomo e a quella casa. Non voleva che avvenisse. Quando un anno prima aveva raggiunto Londra non poteva immaginare che si sarebbe legata tanto a un soggetto che aveva intenzione di studiare, né che sarebbe rimasta toccata tanto profondamente dai suoi amici e dalla sua città. Forse era Londra il suo posto; forse il fatto che Sherlock l’avesse accettata sotto il suo stesso tetto era stato il momento di svolta della sua intera vita.

Avrebbe sentito sempre la mancanza di Newport e della sua famiglia, tuttavia in quel momento si ritrovò a sentirsi quanto mai spinta a rimanere sotto il cielo londinese per il resto dei suoi giorni.

Stropicciò leggermente la domanda di lavoro di Scotland Yard che ancora teneva in mano e le parve che perfino la carta la stesse chiamando a sé. Aveva una tale amalgama di sentimenti dentro che per un momento sperò di non provarne più nessuno.

«Penso che ci sia qualcosa che possa interessarti» riprese parola il detective. Risvegliò Emily dai suoi pensieri e la ragazza si voltò a guardarlo, incuriosita.

«Tipo?» domandò. Il modo in cui lui riusciva a coinvolgerla in fretta non era paragonabile a quello di nessun altro.

Sherlock indicò con un cenno più avanti, in mezzo a un gruppo di persone accanto a una delle porte d’ingresso che portavano all’ampia aula magna. Indicò con estrema discrezione, tanto che la ragazza non capì dove doveva guardare.

«Lo vedi quel ragazzo con il maglione nero?» la incalzò l’uomo, lievemente infastidito dalla scarsa reattività a percepire con esattezza le nozioni della sua coinquilina.

Emily individuò il giovane che Sherlock le aveva indicato. Era un ragazzo alto, robusto, dai lineamenti morbidi e molto belli. Stava in piedi vicino ad altre persone ma era chiaro che non fosse insieme a nessuna di loro. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre una lingua di sole che era riuscita a sfuggire alla morsa delle pareti evidenziava le sfumature ambrate dei suoi capelli castani.

«E allora?» chiese la ragazza, non capendo dove volesse arrivare il detective. Ecco cosa aveva omesso nella sua tesi, il fatto che spesso – troppo spesso – Sherlock desse per scontato l'argomento di una conversazione o ciò a cui si doveva dedicare l'attenzione.

«Allora,» attaccò, sbuffando, «ha seguito tutta la discussione della tua tesi senza toglierti gli occhi di dosso un solo attimo, totalmente catturato da quello che stavi dicendo.»

«Sul serio?»

«Oh sì, non vorrai mettere in dubbio la mia dote analitica, spero. Hai appena esposto centinaia di pagine in cui continuavi imperterrita a elogiarla» replicò immediatamente lui, punzecchiando la ragazza.

«Io... No, che c'entra? Volevo solo... lascia perdere» borbottò Emily.

Non notò il sorrisetto affiorato sulle labbra di Sherlock, il quale riacquisì lo stesso tono impassibile di pochi istanti prima e riprese a parlare: «Francamente penso possa essere interessato a te.»

La ragazza ebbe un leggero fremito al suono di quelle parole. La sua forza interiore le impedì di pensare a Nathan, ma c'era una leggera incertezza nella sua voce quando domandò: «Come puoi esserne sicuro?»

«Sono Sherlock Holmes» disse l'uomo con ovvietà.

Emily scoppiò a ridere, ma si ricompose in fretta.

«L’ho osservato» disse il detective. «Ho analizzato i suoi gesti e gli sguardi. Ti garantisco che è rimasto colpito da quello che hai detto, realmente colpito. Ha mostrato subito interesse per come sei.»

La ragazza si sentì strana mano a mano che l'uomo al suo fianco pronunciava quelle parole. Si chiese addirittura perché lo stesse facendo, sebbene una parte di lei continuava a ripeterle che era quello il modo in cui Sherlock aveva deciso di aiutarla. Le lanciava sfide, le dedicava piccole attenzioni all'apparenza insignificanti. Anche in quel momento stava cercando di aiutarla, spronandola a incontrare qualcuno che, forse, avrebbe potuto significare molto nella propria vita.

«Ne sei sicuro, quindi» disse Emily.

«Naturalmente. Ha molte qualità che potrebbero andarti bene. Prima fra tutte: è un giocatore di rugby.»

A quelle parole l’attenzione della ragazza si fece maggiore, per quanto possibile dal momento che aveva dedicato già tutto il suo interesse in ciò in cui Sherlock l’aveva appena coinvolta. Sapeva che l’uomo aveva affermato ciò poiché lo aveva dedotto, ma Emily era molto curiosa di sapere da cosa lo avesse dedotto, come sempre del resto.

«Se lo hai capito dalla stazza non vale. Ha le spalle larghe, questo ti ha aiutato» lo provocò la ragazza, consapevole che agendo il quel modo il detective avrebbe svuotato il sacco subito. Pungerlo nell’ego era l’arma più efficace.

«Non l’ho capito dalle spalle» replicò stizzito. «Guarda la sua postura, è ferreo, sicuro di sé. Quella è una postura da atleta. Si capisce che è abituato ad allenarsi e ad allenare proprio la postura. Il suo fisico poi mi permette di capire non solo che è un giocatore di rugby, ma anche il suo ruolo di gioco. È una terza linea. Ha diversi graffi e varie cicatrici - lo so perché sono riuscito a intravedergli le braccia - e la cosa mi permette di intuire che deve fare spesso delle mischie e delle ruck ma a giudicare dalla stazza non può essere né un pilone, né una seconda linea. Rimane poco altro che possa fare, non trovi?»

Emily guardò il ragazzo, sovrappensiero. Cominciava a essere particolarmente incuriosita da lui, soprattutto dopo quello che le aveva detto Sherlock.

«Oltretutto ha anche un cane. Di taglia media a giudicare dai punti in cui ci sono peli sui pantaloni. Probabilmente non è neanche di razza, ma di certo è a pelo lungo. Ti piacciono i cani, no?»

La ragazza lo guardò, perplessa. Di tanto in tanto Sherlock faceva qualcosa in grado di spiazzarla. Osservò nuovamente il giovane giocatore di rugby. Certo, era carino e se il detective aveva ragione e lui era rimasto colpito dalle sue qualità di studentessa di criminologia – qualità che invece sembravano spaventare le altre persone – poteva essere un segnale positivo. Prima che la sua immaginazione potesse spingersi troppo oltre, però, la ragazza la frenò bruscamente.

«Potrebbe avere la ragazza» disse, sebbene le uscì più come un borbottio che altro.

Non notò Sherlock sollevare gli occhi al cielo, esasperato da se stesso per essersi volutamente messo in quella situazione.

«No, non ce l’ha, fidati. Intanto perché non è di certo venuto a sentire la sua proclamazione. A giudicare dall’abbigliamento è sicuramente qui per qualche figura maschile, probabilmente il fratello, oppure un amico. Non è stato vicino ad alcuna ragazza.»

«Magari lei non è qui.»

Il detective non riuscì a resistere oltre. Sbuffò infastidito e guardò Emily come a dirle di piantarla di fare i capricci. «Senti, a me non importa se non hai alcuna intenzione di andare a parlare con lui» tagliò corto, ponendo fine alla questione.

Emily lo riconobbe immediatamente, lo Sherlock Holmes un po’ burbero, che si rifiuta di dare a vedere le reali motivazioni che lo spingono a compiere qualche gesto premuroso nei confronti di altri. Era la versione che la ragazza preferiva e, soprattutto, quello che non avrebbe mai voluto deludere.

Per tale motivo si avviò con passo sicuro in direzione del ragazzo, ancora solo sotto uno spicchio di sole sempre più insistente.

Lui non la stava guardando, infatti si accorse di lei solo quando si fermò lì accanto.

La guardò, lasciando trapelare la sorpresa, anche se per un solo istante.

«Ciao» esordì Emily, usando il tempo impiegato dal ragazzo per riprendersi dalla sorpresa per poterlo osservare più attentamente. Aveva gli occhi di una delicata sfumatura di verde, che si intonava alla perfezione con i lineamenti morbidi del viso. La ragazza riuscì anche a notare una cicatrice sullo zigomo sinistro, cosa che contribuì ad accrescere in lei il sospetto che Sherlock potesse avere ragione.

«Ciao» le rispose infine lui, regalandole un sorriso e rilassando visibilmente le spalle.

«Scusa se ti ho disturbato» riprese parola Emily, senza sapere esattamente cosa dire. Avrebbe dovuto prepararsi meglio l'ipotetico abbordaggio che stava tentando, ma per qualche ragione che le sfuggiva aveva agito più per impulso che altro. Capì che la colpa era di Sherlock e del suo sottile gioco di mente con la quale era riuscito a provocarla e lanciarle una sfida senza che lei fosse stata in grado di capirlo.

«Ti avevo visto qui da solo» proseguì poi, scoprendosi leggermente imbarazzata.

«Ah, sì» rispose lui. Sorrise di nuovo e si passò una mano sul mento, sfregando con il palmo la chiara barba di pochi giorni. «Volevo prendere una boccata d'aria. Sono rimasti tutti dentro, per la laurea di mio cugino.»

Emily corresse mentalmente Sherlock. Aveva sbagliato: era il cugino, non il fratello. Stava ancora rimuginando sulla frase con cui avrebbe rinfacciato tutto al detective che il ragazzo prese nuovamente parola: «Ho sentito la tua discussione prima. Davvero interessante il tuo lavoro, sul serio. Non credevo fosse possibile riuscire ad analizzare a tal punto la mente umana. Sono rimasto molto colpito.»

Questa volta Emily arrossì visibilmente mentre lo ringraziava per il complimento. Automaticamente i due intavolarono una conversazione sugli studi che aveva ultimato la ragazza la quale rimase positivamente colpita dal giovane e dal fatto che fosse realmente interessato a quello che lei gli stava dicendo. Fu una bella sensazione per Emily.

A un tratto lui distolse lo sguardo, annuendo. La ragazza capì che stava parlando con qualcuno alle sue spalle, infatti quando il giovane tornò a dedicarle l'attenzione disse: «Scusami, tocca a mio cugino. È stato un piacere.»

Le tese la mano. «Non ci siamo neanche presentati, mi chiamo Daniel.»

«Emily» rispose lei, stringendogli la mano.

«Beh, allora alla prossima, se dovesse essercene occasione» concluse lui.

Stava per incamminarsi quando la ragazza lo fermò, di istinto. Sentiva che quella poteva essere la sua unica occasione per poter avere nuovamente a che fare con Daniel e che, forse complici le parole di Sherlock, non voleva sprecare quell'opportunità.

«Potremmo prendere un caffè un giorno. Prometto che non parlerò solo io. Se ti va, ovviamente» aggiunse infine, davanti al silenzio improvviso del ragazzo.

Daniel sorrise. «Sì, volentieri.»

Infilò le mani in tasca, come alla ricerca di qualcosa. «Ti... Ti lascio il mio numero» concluse.

I due si scambiarono i numeri di telefono, infine si salutarono definitivamente. Daniel entrò nell'aula magna, Emily invece tornò da Sherlock. L'uomo la stava osservando con un'espressione a dir poco indecifrabile.

«É qui per la tesi del cugino» disse la ragazza, sperando di spezzare la curiosa atmosfera.

Il detective sollevò un sopracciglio con fare ovvio. «Visto che non si tratta della ragazza?»

Emily evitò attentamente di dare soddisfazioni all'uomo. «Questo non vuol dire che non l'abbia.»

«Vero, infatti ha preso subito il tuo numero.»

La ragazza arrossì, pensando a cosa poter dire per mettere a tacere il detective. Da lontano i suoi genitori le fecero cenno di raggiungerla.

«Che ne dici di venire anche tu? John, Mary e Mrs. Hudson sono là. O vuoi fare l'asociale anche con la mia famiglia?» domandò poi, osservando l'uomo.

Lui non rispose, si limitò a guardarla con sufficienza, dopodiché si incamminò al fianco della ragazza. Quest'ultima gli lanciò una breve occhiata, sorridendo. Si sentiva felice come non le capitava da tanto; sentiva dentro di non essere mai stata tanto soddisfatta prima del suo arrivo a Londra. Strinse con forza maggiore il foglio che ancora teneva in mano, la domanda per Scotland Yard. Ripensò a Daniel e lanciò un nuovo sguardo a Sherlock, sempre impassibile al suo fianco, dopodiché guardò davanti a sé, su tutte le persone che gravitavano intorno al 221B.

In quel preciso attimo prese la sua decisione: sarebbe rimasta. Le sarebbe mancata la sua famiglia, non ne aveva dubbi, ma in cuor suo sentiva che quella era la decisione migliore per sé e per il suo futuro. La sua vita ormai era lì, dove avrebbe voluto rimanere: a Londra e a Baker Street.

 

 

 

Ciao Sherlockian!

La mia prima fan fiction su Sherlock è finita. Spero vivamente vi sia piaciuta e che sia stata in grado di intrigarvi. Mi auguro anche di essere riuscita a caratterizzare i personaggi nel modo migliore, permettendovi di immaginare senza troppi problemi quelli della serie tv.

Ringrazio molto chi ha usato parte del suo tempo per lasciare una recensione, davvero grazie di cuore.

 

MadAka

 

 

 

 

Note:

1 discusso: faccio una precisazione dal momento che qui mi sono concessa una “licenza poetica”. Mi sono voluta informare sul funzionamento di un Master nel Regno Unito e ho scoperto che non prevede alcuna discussione. L’elaborato, infatti, viene valutato per i suoi contenuti e anche per il modo in cui è scritto. Volevo soltanto rendere nota questa cosa.

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