Lo spazio tra ogni punto

di DaniNTI
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


“Una pessima idea”, pensavo.
E’ il momento di farsi venire una pessima idea.  Sì dai, una pessima idea, una di quelle che ti frullano nel cervello così dal nulla, dopo che sei rimasto a ciondolare nel letto un tempo sufficiente per rendere nulla ogni residua possibilità di combinare qualcosa nella tua giornata.
Dicono che il nostro organismo abbia bisogno di riposare almeno 8 ore al giorno per essere efficiente. Chissà se ciondolare può essere considerato un buon sinonimo di riposare. Mi sentivo stanco.
Da bambino dicevo che stare nel letto senza far nulla è per i vecchi, lo dicevo sempre mentre osservavo mia madre che guardava la tv: lei ricambiava lo sguardo per qualche secondo con aria spiritosa, poi tornava a fare quello che stava facendo. Anche da bambino amavo stare per i cazzi miei, non mi piaceva essere disturbato, non sentivo l’esigenza di spiegare o raccontare le cose . “Cosa mai potranno capire gli altri”, pensavo.
Io ed Elaine abbiamo scopato per la prima volta tre anni fa. Brandon ai tempi aveva iniziato a lavorare in un posto: “do una mano lì al Lion”,  diceva lui. Mi aveva invitato a passare una serata lì con alcuni colleghi, una cosa tranquilla. Così iniziai a frequentare anch’io il locale.
Brandon è un coglione, ma ci passi il tempo.
Uno spiffero proveniva dalla finestra. 
Avevo trovato qualcosa  da fare. E in un lampo balzai via dal letto, come avessi avuto l’illuminazione. Girovagavo per casa con fare ansioso, quasi correndo, in cerca di attrezzi mai visti e mai usati. “Dovranno essere da qualche parte”, pensavo.
Ogni casa, anche la più triste, ha il suo angolino per gli attrezzi.  Mi piace fare i lavoretti, da sempre ho la convinzione che gli oggetti riparati acquistino valore, come le persone con l’esperienza.  Presi tutto ciò che trovai e camminai a passo svelto verso la stanzetta, mi cadevano dei chiodini dalle mani e in un attimo finirono ovunque sul pavimento.  Mi affrettai a raccoglierli prima che a Salice venisse in testa di giocarci. Poi presi le mie cose e iniziai a fare un gran casino, era già buio ma non saranno state nemmeno le 20, era inverno e tramontava presto.
Ero scalzo, ancora in pigiama, lì davanti alla finestra semiaperta a maneggiar cose, cercando di farmi venire in mente qualcosa . Impugnai il martello. Si gelava ma non penso che mi importasse più di tanto. Ero lì con un martello in mano a combinare chissà cosa, ma in fondo mi concentravo davvero.
Stavo lavorando.
Mi piaceva la sensazione del parquet sui piedi nudi. Iniziavo a sentire freddo, ma non avevo voglia di cercare anche i calzini quindi mi affrettai per finire il mio lavoretto. Immaginavo già i piedi al caldo nel letto, e la soddisfazione sul mio volto.
Continuavo a dar martellate da un minuto circa, i piedi erano ormai di ghiaccio, e al contempo mi sudava la fronte.
Posai quindi il martello e mi asciugai il sudore, poi mi girai all’improvviso e vidi Salice che mi fissava incuriosito, con quel suo sguardo da gatto di merda. Sanno tutto loro.
Si avvicinò verso di me, ma senza mai smettere di fissarmi; saltò sullo sgabello e annusò il sudore sul mio viso: pareva piacergli. Anche ad Elaine piaceva il mio sudore, me lo diceva sempre. E’ da queste stronzate che capisci quando una donna è presa di te. Lo spiffero non c’era più, avevo fatto il mio dovere. Andai in cucina in cerca di qualcosa da sgranocchiare e al mio ritorno Salice era ancora lì sullo sgabello che continuava a guardarmi, ma con aria più sorpresa del solito. Forse era fiero di me, o forse a lui quello spiffero piaceva, chissà.
Presi una sedia dalla cucina e mi sistemai vicino a lui. Iniziai a coccolarlo. Salice guardava tutte le stelle, una per una, e poi ancora guardava me, come se dovessi spiegargli qualcosa. 
Il bello del rapporto tra uomo e animale è che non è fatto di parole. Le parole servono a chi vuole complicarsi la vita o a chi ha qualcosa da nascondere:  le parole nascono come intermediario tra le nostre emozioni e quelle di un terzo, ma finiscono quasi sempre per diventare uno dei tanti inutili filtri che, a seconda della circostanza e della necessità, distorcono, romanzano o rendono più “innocue” sensazioni in origine sincere e pure. Insomma, stronzate: non è roba per me.
La mia giornata stava per finire. Ero al buio, il gatto ormai si era accovacciato per terra da un po’ e io ero ancora seduto a fissare la finestra chiusa.  Mi sentivo realmente solo: una solitudine diversa dalla solita, più intima, più consapevole forse.  Ero scalzo e ancora in pigiama.
“Forse dovrei farmi una doccia”, pensavo tra me e me. Riempii la ciotolina del gatto d’acqua e tornai a letto.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Cinque confezioni di carne in scatola, tre pacchi di crackers, succo di pompelmo, fagioli e cipolle. Avevo appena fatto la spesa. La gente si stupisce quando sa che a casa non ho un frigorifero. “Non ne ho bisogno”, rispondo sempre.
26 aprile, fuori c’era il sole e la temperatura era gradevole. A terra pieno di pozzanghere, il giorno prima aveva diluviato. Ero arrivato a casa, il gatto faceva finta di niente. “Sarà arrabbiato”, pensavo.  In quel periodo in effetti lo stavo ignorando più del solito.
Mia madre rompeva i coglioni in quei giorni, diceva che era ora di trovarmi un lavoro serio.
Mi mantenevo facendo quel che potevo.  Lavoravo come imbianchino,  non regolarmente ma neanche troppo raramente. Il passaparola è una cosa che funziona per davvero. Strano che ora sia io a dirlo, non ci speravo in queste robe.
Duke voleva imparare il francese e mi aveva chiesto aiuto. Mi sentivo una merda a far pagare un amico, ma lui insistette e io avevo bisogno di soldi quindi ammetto di non aver fatto troppe storie. Tre ore al giorno, quattro giorni a settimana.  Tutto questo per una francesina conosciuta su Internet. Non penso che gliel’avrebbe mai data. Povero Duke, un po’ mi dispiaceva. 
Lui mi voleva bene davvero, molto più di quanto gliene volessi io: Duke è l’amico perfetto, ma ci è sempre stato qualcosa che mi ha frenato nel rapporto con lui, non sono mai riuscito ad andare oltre. Insomma, non ci è mai stato un rapporto di vera fratellanza, almeno da parte mia. Lui invece mi adorava, ero un mito per lui e a dire il vero non ho mai ben capito il perché.
Duke è un imbranato, ma ha una mente brillante: mi piaceva parlare con lui di cinema, anche se ne sapeva molto più di me. Lui è uno di quelli che ama quei film per scoppiati dove non si capisce una sega: ho sempre pensato che la gente che guarda quei film lo faccia per darsi l’aria da intellettuale, per crearsi un personaggio.
“Non può esserci gente a cui sta roba piace sul serio”, ho sempre pensato.
 Cazzo, a Duke invece sì. Gli brillavano gli occhi quando ne parlava, e non gli è mai importato nulla di ostentare i suoi gusti ricercati alle altre persone. Ne parlava solo con me, anche se io di cinema non capisco un cazzo.
Una volta la combinai grossa.
Aveva appena finito gli esami della sessione e mi aveva invitato da lui a passare la serata. Non ero troppo di buon umore, ma glielo dovevo.  Eravamo stati un paio d’ore lì tranquilli, giocando a carte e parlando del più e del meno. Poi ci era venuta fame: ordinammo due pizze, ci svaccammo sul divano e iniziammo a guardare uno dei suoi film. Passò quasi un’ora ma niente.
 Mi girai verso lui e dissi:
“Oggi è martedì?”.
 Lui annuì, un po’ stupito del fatto che non sapessi che giorno fosse.
“Oh cazzo”, continuai,
“Oggi consegna il fattorino coglione, ecco spiegato il ritardo”.
Duke mi guardò con la faccia di chi non sa cosa dire,  probabilmente perché lui era così preso dal film che della pizza non gliene fregava più di tanto. Passarono un paio di minuti mentre ci incastravamo nel reciproco silenzio, io continuavo a guardare lo schermo del televisore con l’aria un po’ imbronciata, mentre Duke era con la birra tra le mani a fissare il pavimento. All’improvviso aveva smesso di seguire il film.
Qualcosa era nell’aria, l’avevo intuito facilmente.
“Posso chiederti una cosa?”, esordì timidamente lui.
“Certo, bello”, dissi con tono rassicurante.
“Dimmi tutto”.
Lui stette in silenzio ancora per un po’ e poi mi fece: “Ecco…sai, volevo chiederti… sì ecco, una ragazza no? Ecco, come faccio a baciarla bene? Cioè, aspetta cazzo, non sono un deficiente, non devi spiegarmi certe cose ehehe però ecco, come si fa a farlo davvero bene?”.
E continuava a parlare senza mai prendere fiato: “Perché ecco, beh sai, alcune amiche di Jarrett ne parlavano ieri eheh, parlavano di tipi con cui erano uscite che non le baciavano come volevano e io, beh sai, non capivo troppo bene”.
Io intanto continuavo a guardare quel film che diventava sempre più assurdo di pari passo col suo monologo, finché la sua vocina tremolante, condita di giocosità mista a un po’ di imbarazzo , divenne insopportabile alle mie orecchie ed ecco che la mia mano sbattè sul tavolo prepotentemente.
“Cristo, Duke”.
Mi fermai un attimo ma la mia testa di merda non mi suggerì di abbassare la voce.
“Che cazzo di domande sono, sei impazzito eh?”, continuai gridando.
“Una tipa la baci e basta, punto. E’ un cazzo di bacio, non una scopata. Cazzo. Sul serio ascolti le amichette troie di Jarrett?”, e lo fissai con aria interdetta, ma al tempo stesso con quel fare tipico di chi vuol rimproverare e peggio ancora far sentire inadeguato l’interlocutore.
Le pizze erano arrivate, il fattorino coglione mi guardava con la faccia da culo di chi non è a suo agio, la stessa con cui mi stava fissando timidamente Duke sul divano prima che mi alzassi per aprire la porta. Probabilmente il fattorino coglione aveva sentito le urla. Presi le pizze, pagai e feci sbattere la porta.
Quella volta la combinai grossa. Mangiammo le pizze in silenzio, Duke non mi ha mai detto nulla riguardo a quell’accaduto, né sul momento né successivamente. Forse quello che ancora oggi mi fa più male nel ripensarci è proprio il fatto che lui non ebbe mai il coraggio di incazzarsi. Né tanto meno fece più alcun riferimento, neppure velato, a questa storia.
L’avevo fatto sentire inadeguato, e una persona che si sente inadeguata vorrebbe soltanto morire. Mi ero macchiato di una vittoria crudele: l’avevo fatto sentire colpevole di star parlando in modo disinibito e sincero. Quello che dovrebbe essere un traguardo per due amici.
Sentirmi inadeguato è un qualcosa che non provavo da quando mio padre mi portava a giocare a tennis da bambino e io le mancavo tutte, ma forse riesco a immaginare di cosa si tratti: penso che sia qualcosa che ti laceri profondamente, è un livello più profondo di sofferenza in cui qualsiasi cosa ti passi per la mente deve superare l’enorme scoglio di essere accettata prima da te stesso, e una volta accettata da te stesso deve superare lo scoglio ancora più grande di essere accettata dagli altri. Se anche uno solo dei due scogli non viene superato allora la cosa che ti era passata per la testa non aveva senso di esistere, e quella piccola cosetta, che magari era solo un pensiero qualunque apparentemente innocuo, fa di te una nullità. Tale si sentiva probabilmente Duke.
Lui aveva compiuto lo sforzo enorme di accettare ciò di cui sentiva il bisogno di parlare. Primo scoglio superato. Il secondo ero io, e lo stroncai, in modo spietato.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Brandon è un coglione, ma ci passi il tempo. L’avevo già detto forse?
Quella mattina era incredibilmente riuscito a convincermi a uscire in bici. Non l’avrei detto.  Quando mi aveva telefonato per propormi la cosa non ne avevo alcuna voglia, pensavo che sarei stato io ad averla vinta. E invece no, ha vinto il volpone.
Tirai fuori quell’affare mezzo arrugginito che mi ritrovavo nel ripostiglio e, per la prima volta dopo 9 anni, rieccomi in bici.
“Che bello andare in bici”: è una frase che si sente spesso, insieme a tante altre cazzate. Ma devo ammettere che tutto sommato è stato divertente: è un po’come scopare, dopo che passa un po’di tempo pensi di non esserne più capace, all’inizio quasi non sai dove metter mano, ma magicamente dopo pochissimo ricordi tutto e vai di nuovo alla grande. Avevamo fatto un bel giro.
Nel pomeriggio dovevo fare francese con Duke, non avevo assolutamente voglia.
Iniziavo ad avere l’impressione che il nanetto della ferramenta sotto casa mi fottesse alla grande. Non era la prima volta: arrivato a casa, avevo lasciato il resto nella scatola degli spiccioli e i conti non tornavano.
“Ci penserò un'altra volta”, dissi tra me e me.
Era da tanto che non vedevo Elaine. Ma non mi mancava, o almeno non tanto.
Avevo ritrovato, incastrata dietro alla scrivania, la vecchia pallina di Salice, una di quelle palline gialle di spugna, ormai malridotta, che perdono pezzi fino a ridursi a un inutile aggregato informe di bricioline tenute assieme chissà come. Amava giocarci, e io provavo un senso di sincera soddisfazione per lui ogni volta che lo vedevo scorrazzare per casa felice.
Mi piaceva vivere in mansarda, la considero un ambiente intimo ma accogliente: tutto ciò che è richiesto ad una casa che si rispetti.
I miei genitori avevano risparmiato tutta la vita per comprare la villa fuori città dove ancora oggi marciscono in santa pace, lontani dai miei occhi. Quella casa non sa di niente. Ma loro erano entusiasti dell’acquisto.
Ricordo benissimo la prima volta che andai a trovarli dopo il trasloco: mia madre aveva un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, trovavo la cosa piuttosto fastidiosa. Mio padre invece era lì con il suo solito fare fiero e orgoglioso, come se l’avesse costruita lui quella casa. Mi trascinavano qua e là, mostrandomi mobili antichi e quadri da collezione, mentre io mi limitavo a impegnarmi affinché il mio disinteresse non trasparisse in modo troppo palese. Mia madre portava i tacchi quel giorno e camminava a passo svelto nella foga, facendo un gran casino e risultando un tantino impacciata.
Mia sorella l’avrebbe trovata tenera. Avrei dovuto trovarla tenera anch’io, forse. Non ci riuscivo.
Mio padre, invece, camminava tranquillo al mio seguito con le mani in tasca, e con lo sguardo che seguiva uno per uno tutti quegli oggetti che mamma mi indicava l’uno dopo l’altro con frenesia. I miei avevano deciso di mettere il bagno al primo piano e la camera da letto al pianterreno.
“Si può essere così stupidi? Per quanti anni ancora credete di essere in grado di salire quelle scale?”, pensavo tra me e me. Non volevo essere cinico, lo giuro. Avrei voluto essere contento per loro: avevano fatto i loro progetti per anni, com’è giusto che sia per delle persone di quell’età. Ma in cuor mio le consideravo persone lontane da me, da troppi punti di vista.
Non ho mai parlato con mio padre di donne. Lui non è mai stato curioso, non mi ha mai chiesto niente. Quando avevo 14 anni mia madre si era accorta che per la prima volta uscivo con una ragazza, e faceva battutine in continuazione. Mi infastidiva molto all’epoca, ma ripensandoci a distanza di anni ora la trovo quasi una cosa simpatica: in un certo senso penso che lo avrei fatto anch’io, se fossi stato io il genitore. Mio padre dal canto suo sapeva anche lui , ma voleva, o forse semplicemente riteneva più opportuno, far finta di niente.
Chissà se i miei genitori scopano ancora. Chissà se in genere le coppie di anziani scopano o no. Non so perché, ma trovo la questione molto divertente. Ne parlavo una volta con Brandon, e a dirla tutta era questo il livello delle nostre ordinarie discussioni.
Chissà se i miei genitori si amano ancora e chissà se si sono mai amati. Ho sempre percepito un’ipocrisia di fondo che mi turbava molto nella vita di routine della mia famiglia, ma non ho mai capito fino a che punto poter estendere la cosa. Magari era un problema mio.
La loro principale preoccupazione da sempre è stata darci l’impressione che andasse tutto bene, specialmente da parte di mia madre. Volevano rassicurarci in qualche modo, sempre.  Ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza piene di pic-nic e gite in montagna: in effetti i miei si sono sempre dati un gran da fare. Ma non so, pareva quasi che lo facessero perché l’avevano trovato scritto in uno di quei farlocchi manuali del buon genitore. Non me la bevevo io.
Quando Salice si accorgeva che un pezzo della sua pallina di spugna si era staccato, ritirava la zampa deluso e smetteva di giocarci per un po’: probabilmente  non voleva che la pallina diventasse definitivamente inutilizzabile troppo presto. Un gatto diligente ha cura delle sue cose e sa gestire bene i suoi spazi. Io e Salice siamo sempre andati molto d’accordo.
Ero uscito da casa di Duke alle 19. Duke sta migliorando molto e in fretta, pensavo che questa situazione mi avrebbe messo molto più a disagio. Invece stavo scoprendo di essere un discreto insegnante.
Quel giorno, in particolare, ci fermammo una mezz’ora abbondante a discutere dell’arte in Francia. Intendo arte a trecentosessanta gradi.
“I francesi hanno la mente malata”, diceva lui. E, con quella passione che caratterizzava ogni suo discorso, osservava:  
“Loro sì che sono un popolo che ha capito il senso dell’arte: qualsiasi cosa facciano, in qualsiasi ambito, ti lascia sgomento, ti cambia la giornata”.
E aveva proprio ragione il buon Duke: il tocco francese è inimitabile.  Loro amano spingersi oltre e lo sanno fare bene, bisogna riconoscerglielo.
Io non sono un artista. Non mi sono mai sentito tale. Mi piacerebbe esserlo però, peccato che non sia nato con la testa adatta: immagino che il processo di realizzazione di un’opera d’arte, qualunque essa sia, sia qualcosa di molto complesso e intricato. Nessuno ci fa mai caso quando giudica l’arte altrui, ma ogni opera nasce da zero. Nulla totale. Quello che vedi o ascolti può non essere di tuo gradimento, siamo tutti d’accordo su questo, ma nessuno mai puntualizza un aspetto che merita attenzione: eliminando il prodotto finito, che magari ti fa così tanto schifo, rimane il nulla, il vuoto. Molte persone mi risponderebbero dicendo che il vuoto è effettivamente preferibile ad un qualcosa di malriuscito. Ma ne siamo davvero sicuri?
Io rispetto gli artisti, a prescindere dal valore che per me hanno le loro opere, li rispetto perché hanno il coraggio di riempire il vuoto. Io apprezzo il tentativo.
Rispetto l’artista e rispetto chiunque viva la sua vita sentendosi realmente tale, e in cuor mio li invidio molto. Dico davvero.  Ci vuole forza. E determinazione.
“La mia vita è vuota da troppo tempo”, riflettevo guardando Salice giocherellare con le bricioline che la palla aveva lasciato sul pavimento. Non mi ero mai curato di riempire il vuoto delle mie giornate; il senso di dispersione che provavo era da troppo tempo diventato talmente grande da rendere vana ogni possibilità concreta che avevo di metterci del mio nelle cose.
“Forse dovrei iniziare ad andare regolarmente in bicicletta”, pensavo. Non era stata così male in effetti quella mattinata; migliore delle altre, perlomeno.
Ma le mie idee, come sempre, lasciavano il tempo che trovavano: passavo gran parte delle mie giornate a rimuginare sulle cose e su me stesso, ma senza mai assumere un atteggiamento propositivo. Pensavo e basta, perché altro non volevo fare.
Era quasi mezzanotte e me ne stavo lì seduto al tavolo della cucina, impegnato a  leggere gli ingredienti del succo di pompelmo.
“C’è una gran quantità di merda qua dentro”, pensavo tra me e me. E improvvisamente mi sentivo quasi in colpa per bere quella roba. Come se me ne fosse mai fregato qualcosa della mia salute.
Salice più pimpante del solito salì sul tavolo e iniziò a strofinare la zampa sulla mia barba. Era quasi piacevole a tratti. Poi prese a odorare il succo di pompelmo ancora nel bicchiere assumendo un’espressione un po’ incuriosita, ma molto diffidente. Iniziò a leccare il bordo superiore del bicchiere. Di solito non glielo consentivo, ma decisi di fare uno strappo alla regola.
Qualcuno bussò alla porta.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


“Perché non mi hai mai portata a cena fuori?”, esordì lei dal nulla togliendosi la coperta di dosso e rivolgendosi a me con fare un po’ provocatorio, ma comunque scherzoso.
“Vuoi essere portata a cena fuori?”, rispondo io con quel mio solito sorrisetto sarcastico che la faceva bagnare come una fogliolina con la rugiada.
“Certo che no”, ribadì lei.
“Ti sei risposta da sola”, e il mio sorrisetto diventava di colpo una risata vera e propria.
Lei si alzò dal letto e andò in bagno, forse infastidita, forse divertita. Ma non me ne curavo. Osservavo quel culetto perfetto con sguardo soddisfatto.
Salice mi fissava, come per rimproverarmi. Dal letto sentivo lo scrosciare del rubinetto e il rumore dello spazzolino.
“Non vuoi mangiare qualcosa?”, chiedo con aria sorpresa alzando un po’ la voce affinché lei mi sentisse dall’altra stanza.
“No, faccio colazione fuori”, risponde prontamente lei.
“Hai trovato un fidanzato?”, ribatto sorridendo tra me e me.
Lei sul momento non rispose. Sento uno sputo, il rubinetto che viene chiuso e rumore di passi.
Non sapevo che aspettarmi: forse si era offesa. Ammetto che sarei stato un po’ dispiaciuto in quel caso. Lei entrò nella mia stanza, guardandomi con quella finta faccia seccata che amano fare le donne quando un uomo le prende per il culo: assunse un’espressione divertita e a tratti ammiccante, guardandomi con lo spazzolino in mano mentre io ero ancora nel letto in mutande nell’attesa di una sua risposta.
“Coglione”, risponde ridendo.
“Bettie è in città, prendo un caffè con lei”.
Mi salutò con un bacio sulla guancia: non lo faceva sempre, solo ogni tanto. Probabilmente quando scopavo meglio del solito. Salice la seguì fino alla porta, forse si aspettava anche lui un saluto. Ma lei andava di fretta quella mattina. Io ero ancora impalato nel letto.
Elaine era bassina ma non troppo: quanto bastava per farmi sentire a mio agio con lei. Non sopporto le ragazze molto alte, mi mettono in soggezione. Capelli lunghi, castani e liscissimi. Mi piacevano molto. Ogni tanto mi diceva che pensava di tagliarli molto corti, così, per cambiare.
“Non so, è che vorrei provare qualcosa di diverso”, diceva.
Probabilmente avrei smesso di frequentarla se lo avesse fatto per davvero.
Una volta, nel mezzo di un discorso che riguardava relazioni, esperienze passate e robe simili, lei mi chiese se la leccassi solo a lei e ad altre in particolare, o se invece fosse una cosa che facevo con tutte.
“Lo faccio con tutte”, risposi con quel tono di chi vuol far capire che la risposta era scontata. E aggiunsi con tono fiero: “Se devo scopare lo faccio per bene”.
“Giusto”, concordò lei con tono non particolarmente enfatico.
In realtà speravo maliziosamente che lei rimanesse delusa dalla mia risposta, ma il suo viso assunse un’espressione enigmatica tale da non farmi capire bene cosa stesse pensando in quel momento. 
Era una ragazza molto intelligente. Le piaceva tanto scopare, era una di quelle donne affascinate dal sesso in tutte le sue forme ma al tempo stesso sufficientemente sveglie per superare il tabù che la società impone loro, e cioè di non far trasparire questa cosa.  Ne abbiamo combinate parecchie insieme, le abbiam provate proprio tutte, ma ciò non mi ha mai portato a considerarla una puttana. E sarei sinceramente dispiaciuto se venissi a sapere che qualcuno si è fatto questa idea di lei. Non mi sono nemmeno mai vantato delle nostre scopate con i miei amici.
Brandon diceva che saremmo stati una bella coppia: me lo disse in uno di quei rari discorsi seri che abbiamo fatto insieme;  ma non era il caso, non ci ho voluto mai nemmeno pensare. Ci facevamo delle grandi scopate, e questo mi è sempre bastato. Non sentivo l’esigenza di aggiungere altro.
In cuor mio ho sempre avuto una gran considerazione di lei come persona ancor prima che come donna, ma non gliel’ho mai fatto notare: semplicemente perché non sarebbe stato coerente con l’immagine che volevo lei si creasse di me.
L’immagine che le altre persone devono crearsi di me è una cosa che curo con dedizione. Le persone comuni penserebbero che sono una persona falsa, che bado all’apparenza, ma in realtà è solo il minimo che io possa fare per sentirmi al sicuro. L’immagine che gli altri si fanno di te è una cosa che lascia il tempo che trova, è così, ma può portare vantaggi oggettivi. Chiunque sia abbastanza sveglio da aver capito che la vera vita è quella con sé stessi non giudica negativamente chi cura la propria immagine. Se curi la tua immagine ma non vivi in funzione di essa non fai niente di male.
E’ questo il trucco. Non me ne fotte un fico secco di quello che gli altri pensano di me: faccio in modo che ognuno abbia una visione di me diversa, modellata su misura per la persona in questione, è vero, ma lo faccio perché mi fa comodo, non perché ne abbia effettiva necessità. Non ho bisogno di essere accolto dalle persone, non ho bisogno della loro stima, non è per questi motivi che curo la mia immagine. Noi siamo soli, sempre. La vera vita è quella con noi stessi, l’esterno è solo un teatrino, una messa in scena. Una farsa. Vi spaventa la cosa?
Non vivo in funzione dell’immagine che voglio gli altri si facciano di me, e questo basta a rendermi tranquillo per il momento . Riconosco però che mi piacerebbe un giorno essere totalmente scevro dall’idea altrui della mia persona, come faceva Duke ad esempio, ecco. Ma a quale prezzo? Lui ne sapeva a pacchi di cinema, ma non ha mai voluto sbandierarlo, non lo riteneva necessario evidentemente. Ne parlava con me ma chissà perché, forse perché mi vedeva come un fratello. E in più lui non beccava figa neanche a pagarla, chissà quanto soffriva poveraccio.  Ma occorre essere dei figli di puttana, e andrà alla grande il ragazzo quando lo capirà. I mezzi ce li ha e li ha sempre avuti.
 Forse avrei dovuto aiutarlo di più ai tempi. Ma non mi sentivo ancora pronto per farlo, non so perché. Non ho mai nemmeno voluto chiedere a me stesso il perché di questo blocco. Forse semplicemente non mi sentivo pronto per coltivare una vera amicizia. Non potevo capirne i vantaggi. Non sono ovvi, non è come eliminare uno spiffero dalla finestra.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


“Chi cazzo sarà mai?”, pensavo.
“E’ quasi mezzanotte”.
Vado ad aprire, ero un po’ diffidente. C’erano due ragazzi e una ragazza, avranno avuto tutti vent’anni, non di più.
“Ciao amico, cazzo. Scusa il disturbo”, disse il ceffo al centro.
“Ditemi.”, risposi in maniera pacata ma non tanto amichevole.
Salice intanto li fissava tutti e tre, uno per volta, mentre era sul tavolo a leccarsi i baffi.
“Eh, un gran casino amico. Siamo del quarto piano, abbiamo fatto una festicciola stasera. Niente di grosso, ma sai beh siamo un po’ sbronzi si vede no? Ehehe. Beh non so come sia potuto succedere, giuro, ma c’è salsa di mirtilli sulle pareti, e cazzo i genitori di Brian tornano domani sera ed è un gran puttanaio se non risolviamo sto casino. E quindi niente, ci han detto che tu nella vita sei un…come si dice? Beh insomma, fai cose con la vernice no?”
“Non faccio solo quello nella vita”, rispondo irritato tenendo la mano sulla porta semichiusa.
“Dai capo, non voleva insultarti. Guardalo com’è ridotto. Ti prego, ci serve una mano o siamo nella merda. Quanto vuoi per sistemarci tutto ora?”, disse l’amico.
“200”, dissi io rispondendo in modo secco senza pensarci troppo.
“200? Ma cazzo, è tantissimo amico. Non puoi stringere un po’?”.
“No. Ho gli attrezzi nel deposito, non ho una macchina e per arrivarci devo andare con i mezzi. E’ mezzanotte e ci sono pochi bus a quest’ora, devo aspettare al freddo e non ho un cazzo di voglia. E voi non mi siete nemmeno troppo simpatici. Quindi 200, prendere o lasciare”. Ero proprio fiero della mia risposta. Pareva pensata a tavolino.
“Dai amico, aspetta un attimo. Facciamo così. Noi ti diamo 150, e in più Jane te lo succhia. Che ne dici?”, rispose il tizio al centro sghignazzando e indicando la ragazza al suo fianco.
“Ehi, schifoso figlio di puttana!”, gridò lei mortificata, guardando il tipo con occhi di fuoco e spingendolo in maniera goffa. In realtà, però, il suo mostrarsi così umiliata durò solo per pochi secondi, visto che subito dopo si mise a ridere anche lei annullando del tutto la sua già scarsa credibilità.
“Tanto glielo avresti succhiato comunque!”, aggiunse l’altro ragazzo scatenando una risata generale.
Che situazione, mi sembrava di essere tornato al liceo!
Per un attimo mi feci trascinare dall’idiozia di quelle tre teste di cazzo, che riuscirono per davvero a strapparmi un sorriso di bocca. Ma poi tornai serio.
“No, me lo succhiano domani”, rispondo assumendo un’aria disinteressata e un po’ spocchiosa.
I tre, come prevedibile, risero ancora di più, in modo sguaiato, e la situazione iniziava a sfuggire di mano. I due tipi parevano essersi dimenticati il motivo per cui avevano bussato e la tipetta, che iniziava a barcollare, mi si appoggiò sulle spalle cercando il mio sguardo.
“200, e Jane per oggi lo succhia solo a voi due. Allora, cosa facciamo?”, dico sorridendo. Guardo prima i due ragazzi e poi la tipa, che a quanto pare ora giocava di nuovo a fare la donzella umiliata: di colpo si allontana da me.
I ragazzi tornarono improvvisamente seri e si guardavano tra di loro non sapendo bene cosa fare e cosa dire.
“Potete darmi 150 oggi, e gli altri 50 quando volete”, propongo io vedendo come si stavano mettendo le cose.
I due ragazzi ora sembravano più convinti, mentre Jane aveva abbandonato la discussione e cercava di salire le scale da sola barcollando sempre più.
“Va bene amico, grazie dell’aiuto”, risponde uno dei due ragazzi grato del compromesso a cui ero sceso.
“Spero di essere da voi entro un’oretta. Non fatela bere ancora”, dissi indicando Jane, che dava segni sempre più evidenti di cedimento.
I due mi risposero ridendo, ma io prontamente li guardai con sguardo fulminante. Allora subito dissi, con aria molto infastidita: “sono serio, non voglio casini”.
“Ma capo, pensavo fossi uno di noi. Prima eri stato al gioco, insomma pensavo avessi capito di che tipo di personaggio si tratta”, disse uno dei due mentre l’altro gli dava corda annuendo ad ogni sua parola come un perfetto idiota. Due teste di merda in sincronia.
“Non m’importa”, dissi freddamente.
Mi stavo scaldando.
Abbassai lo sguardo e mi diressi verso Jane. I due ragazzi non capivano, sembravano spaesati. Reazione comprensibile.
Mi avvicino a lei, che mi guarda accennando un sorriso questa volta sincero, un po’ timido, come quello dei bambini, accompagnato però da uno sguardo riconoscente, che invece sembrava quasi quello di una persona matura. La prendo in braccio senza farmi troppi problemi e scendo le scale. Tiro un calcio alla porta di casa ancora semichiusa, la stendo sul mio letto e vado in cucina. Riempio d’acqua una bottiglia vuota che stava sul lavandino e mi dirigo nuovamente verso la mia camera. Poggio la bottiglia sul comò e tiro fuori dallo scaffale una bacinella. La metto per terra, a fianco al letto. Esco di casa, chiudo la porta a chiave e mentre camminavo a passo svelto guardo in modo sfuggente i due ragazzi, che avevano seguito la scena per intero. Parevano increduli.
“A tra poco”, dissi poi con un tono quasi allegro, come se non fosse successo niente.
Era il caso di sciogliere la tensione, pensavo, altrimenti chissà cosa avrebbero pensato quei due.
“A tra poco”, risposero loro lasciando trasparire il loro stupore, ma senza aver nulla da ridire.
E’ chiaro che qualcosa oggettivamente non quadrava in me, non me lo sono riuscito a spiegare nemmeno a posteriori. Tutt’oggi non so cosa mi fosse saltato in mente esattamente, non so perché presi le difese della ragazza in maniera così marcata e improvvisa dopo averle praticamente dato della troia insieme a quei due coglioni. E non so perché io mi sia voluto prendere cura di lei, non mi è mai fregato un cazzo di fare la parte della persona responsabile. Né tantomeno volevo scoparmela, ovvio, era praticamente una bambina.
Avevo scoperto improvvisamente di essere in mezzo a un branco di ragazzini e soprattutto di non essermi fatto alcun problema nell’abbassarmi al loro livello. D’accordo, è evidente che il mio improvviso cambio di posizione non aveva senso , ma il fatto che quelle due teste di cazzo si illudevano di avere in mano la situazione e parlavano di me come “uno di loro” mi aveva infastidito parecchio. Mi sentivo toccato dalla cosa. Non l’avrei mai detto.
“Pensavano che io avessi capito di che tipo di personaggio si trattava”, riflettevo riportando alla mente le loro parole, mentre mi dirigevo verso la fermata del bus.
“Ma che cazzo significa?”, dissi tra me e me.
“E loro non sarebbero dei personaggi? Per come parlano sembrano usciti da un cartone animato”.
Mi accorsi di star parlando ad alta voce.
Un ragazzino che si trovava alla fermata del bus aveva ascoltato e sorrideva. Non ci feci troppo caso.
Presa la vernice e tutto ciò che mi occorreva per lavorare tornai a casa. Jane dormiva, decisi di lasciarla lì in pace. Salgo al quarto piano e busso all’appartamento dei ragazzi.
I due mi aprono e mi offrono una birra. Ringrazio e la prendo.
Impiegai qualche ora per sistemare tutto, c’era un merdaio. Tutto sommato però sono stati dei soldi più che facili, devo ammetterlo. Brian e Sam sarebbero passati da me entro un paio di giorni per darmi la somma rimanente, ci scambiammo i numeri di cellulare. Avevo anche pensato di dire loro che non ci sarebbe stato bisogno di darmi altro a parte i 150, ma quei soldi in più mi facevano comodo.
Alle 6 e mezzo di mattina ero appena uscito dal loro appartamento.
Brian, Sam e gli altri loro amici mi salutarono dandomi il pugno come fossi uno della cerchia. Branco di rincoglioniti. Chiesi loro se Jane sapesse come tornare a casa e mi risposero dicendo che abitava nei dintorni.
Quando entrai in casa, lei era già in piedi. Le feci un cenno con la testa, senza dir nulla.
“Ciao”, disse lei con tono pudico.
 “Volevo prepararti la colazione, ma non ho trovato nulla in giro. Dov’è il frigorifero in questa casa?”.
“Non ce l’ho”, risposi.
“Non ne ho bisogno”.
“Ah”, replicò lei sorridendo teneramente a testa bassa.
“Ascolta, io…”, disse lei dopo un po’ come per iniziare un discorso.
“Tranquilla”, risposi io interrompendola prontamente.
Lei a quel punto si avvicinò, mentre Salice interessato aveva capito che qualcosa di strano era nell’aria.
Jane prese a guardarmi negli occhi in modo insistente. Io avevo capito subito le sue intenzioni. Penso però che avrebbe voluto solo baciarmi, senza andare troppo oltre.
“Al massimo posso darti un bacio in fronte”, dissi io con aria scherzosa.
E così feci.
Mi piace pensare che io le abbia insegnato qualcosa, anche se non saprei bene dire cosa. Ma non era il caso di rifletterci su: nel momento in cui certe situazioni mi hanno lasciato scosso, ho sempre preferito ignorarle e lasciare che il tempo facesse il suo dovere. Non avevo voglia di capire il motivo dei miei comportamenti, non avevo voglia di capire perché, quando voglio, riesco a fare le cose con criterio. Mi sentivo utile come poche altre volte, era una sensazione strana. Avevo fatto una cosa giusta e me ne ero reso conto. Di solito non mi pongo il problema, piuttosto faccio quello che mi conviene sul momento senza andare a fondo nelle questioni. Ma quella volta era andata un po’ diversamente e l’avevo realizzato abbastanza presto.
C’era ancora del succo nel bicchiere sul tavolo. Lo bevo, lavo il bicchiere e lo metto a posto.
La mia giornata era finalmente terminata.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Ero andato al parco, in bicicletta. Da solo. Brandon di merda.
Mi dava un gran fastidio aver iniziato a fare qualcosa per merito suo. Non mi piace fare qualcosa di nuovo nella mia vita solo per merito di qualcuno, figuriamoci per merito di uno come lui.
Non esco quasi mai di casa senza che ci sia un motivo per farlo, non mi piace molto. Infatti c’era un motivo se ero al parco: dovevo vedermi con Elaine, a casa sua, ma lei aveva avuto un imprevisto al lavoro ed ero già uscito di casa quando lei l’aveva saputo, per cui avevo un paio d’ore da trascorrere in giro. Vicino al suo appartamento c’era un parchetto e mi ero seduto su una panchina a far nulla. Come se fossi a letto in mansarda in una delle tante mie giornate insipide, insomma. Solo che questa volta ero al parco.
Forse avrei potuto dire ad Elaine di vederci direttamente lì, al parco, e fare un giro assieme, per una volta, così. Ma non era il caso. E poi avevo voglia di scopare.
Mentre avevo lo sguardo perso nel vuoto mi accorgo che proprio alla mia sinistra , a distanza di qualche centimetro dal mio piede, c’era un enorme formicaio. Era inquietante.
Era stata la prima cosa in grado di catturare realmente la mia attenzione in quella giornata. Le formichine si muovevano in modo armonioso, entravano ed uscivano dal buco in continuazione, non si fermavano mai, erano coordinate alla perfezione. Parevano realmente indaffarate: si davano un gran da fare. Provai un forte senso di stima. 
“Sto provando stima per delle formiche”, realizzai subito dopo. Mi divertiva la cosa.
“Chissà perché noi umani non siamo nati con lo stesso spirito di collaborazione delle formiche”, pensavo.
In effetti, uno potrebbe legittimamente supporre che la capacità organizzativa, la cooperazione, la destrezza nel dividersi ruoli e compiti, la perizia nel processo che porta ogni singolo contributo a essere determinante ai fini del valore dell’insieme, siano tutte qualità direttamente collegate all’intelligenza. Sarebbe logico. E invece no.
Cos’è che ci frega quindi?
Evidentemente è la tensione individuale: l’illusione che il distacco da un gruppo coeso possa portare all’apertura di nuovi orizzonti, nuovi scenari.
Ancora una volta, il punto è quello. E cioè: se l’uomo all’alba dei tempi avesse realizzato che la vera vita è quella con sé stessi , all’interno di noi e non nella realtà al di fuori, forse non si sarebbe fatto problemi ad interfacciarsi con il mondo esterno non come ente individuale, ma come facente parte di un gruppo. E’ nel mondo interno a noi che vanno ricercati i veri obiettivi individuali, non altrove.
 Crediamo con squallida convinzione che perseguire nella realtà esterna a noi obiettivi egoistici che si distaccano dalle comuni esigenze sia un’opportunità, una porta in più che deve essere aperta a tutti i costi. Come se il potere ci consentisse di passare oltre.
La stronzata del secolo.
Del potere ci si ubriaca soltanto. E il potere in sé e per sé è come una sbronza: sei un leone, ridi, ti sballi, bevi ancora di più, va tutto alla grande, e ancora, ancora di più bevi, godi delle immagine offuscate davanti ai tuoi occhi, godi della confusione e del delirio, e ti prendi bene, ti prendi bene per tutto ciò che ti circonda, come mai hai fatto da sobrio, perché non ci riusciresti.
E poi collassi. Di colpo. Sei di nuovo a zero. E non solo: la mattina dopo ancora peggio. Sei sottozero. Contento?
Coglioni tutti.
Mi alzai soddisfatto da quella panchina, contento di quei pensieri folli che mi frullavano nella testa.
Sento rumore di passi. Poi risate, tante risate, e pestoni. Mi volto per capire cosa fosse: un bambino stava tappando il formicaio, armato di un secchiello pieno di terra. La mamma lo osservava e gli diceva che era tardi e papà li stava aspettando. Non avrei mai pensato di poter provare tanta rabbia nei confronti di un bambino, che tra l’altro non poteva nemmeno capire quello che stava facendo.
Squillò il cellulare: Elaine si era liberata. Niente di particolare quella volta, sesso tranquillo. Passionale, ma tranquillo. Ogni tanto lo facevamo così. Ci piaceva anche quello.
Le piaceva tanto guardarmi negli occhi quando scopavamo. E’ una cosa che fanno tutti, direte, lei però mi guardava con insistenza. Voleva che io capissi a pieno quello che provava, quello che sentiva, voleva farmi entrare nel suo mondo oltre che nel suo corpo. E anch’io volevo, esploravo quegli occhioni, mi ci specchiavo. Ritrovavo in essi quella passione che avevo perso, quella passione che volevo mettere in tutto ciò che facevo. Ma quasi mai ci riuscivo. Da tanto. Troppo, forse.  Indagavo la sconfinatezza di quegli occhi, non mi accontentavo di apprezzarne il colore e la forma, volevo vedere altro, volevo coglierne i particolari più profondi e poi fissare tutto nella mia mente.
Pranzai da lei quel giorno. Avrei evitato, ma lei  insistette: voleva sdebitarsi per avermi fatto girare in città a vuoto.
“Non preoccuparti”, le dissi sorridente.
“Cos’hai fatto di bello al parco?”, disse lei interessata mentre mi dava in mano il piatto fumante.
“Ho guardato le formiche”, risposi in maniera disinvolta.
E poi aggiunsi: “Hanno tanto da insegnarci, sai?”
Lei scoppiò a ridere: “Tu sei scemo!”, disse scherzosamente.
“Forse”, risposi sorridendo con il boccone ancora in bocca.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Ne avevo dette quattro al nanetto della ferramenta, finalmente.
Il trucco, quando qualcuno ti fa incazzare, è aspettare che combini qualcosa che ti faccia incazzare di più. Finché ti fa incazzare all’inverosimile. 
E poi arriva il bello: proprio quando il tuo avversario è giunto alla conclusione che tu sia stupido o in alternativa che tu sia un senza palle, lo finisci. In malo modo. Le maggiori soddisfazioni nella mia vita provenivano da piccolezze di questo tipo: appena uscito dal suo negozietto del cazzo ero felice come un bambino.
Elaine mi aveva lasciato cinque pacchi di caramelle morbide al mango, che le erano a sua volta stati regalati da un collega di lavoro. Le facevano schifo, quindi me le aveva rifilate. Ovviamente a me piacevano. Insaporivano le mie giornate.
Storia strana: avevo iniziato a scrivere cose sulle pareti della mia camera da letto.
Tutto era cominciato perché qualche giorno prima stavo parlando al telefono con Duke mentre ero spaparanzato sul letto, ci stavamo mettendo d’accordo per le lezioni di francese e dovevo appuntare gli orari della lezione: il pennarello era lì sul comodino a fianco al letto, come sempre, ma mi accorsi che avevo dimenticato i post-it in cucina.
Quindi, senza pormi troppi problemi,  scrissi un bel “17.30 – 20.30”  sul muro.
Salice guardava la scritta con aria stupita.
Terminai la telefonata e, riguardando la scritta, non la trovavo poi così antiestetica. In quel momento sapevo già come sarebbe andata a finire.
Non rispondevo alle chiamate di mia madre da una settimana: non mi andava più di dirle che tempo faceva, come stava Salice e cercare di spiegarle perché non volevo comprarmi un frigorifero.
Io, dal canto mio, non le chiedevo nulla. A parte chiederle come stesse, ma solo perché era lei a chiederlo a me per prima. Quando ci riflettevo razionalmente, mi dispiaceva un po’ del mio comportamento. Ma se non ero io a pensarci di mia spontanea volontà, non era un pensiero ricorrente nella mia mente. Non mi turbava insomma, quindi non mi ponevo il problema. Lei ci teneva molto a me, non aveva la forza di lasciarmi perdere. Pazienza, avrebbe dovuto capire il mio disinteresse e farsene una ragione. Io lo palesavo sufficientemente, e lei non era così stupida da non rendersene conto. Quindi era un problema suo. I rapporti obbligati sono i peggiori.
L’ipocrisia di quelle telefonate era quasi comica per certi versi.
Decisi di andare al negozio di articoli per animali, erano giorni che la pallina di spugna era ormai inutilizzabile. Il pavimento era pieno di briciole gialle, era proprio il caso di dare una pulita.
“Ho bisogno di una pallina per il gatto”, dissi alla commessa.
“Che non si sbricioli e che non faccia rumore”, aggiunsi poco dopo.
Mentre ero per strada pensavo a Duke, così, senza un motivo preciso, mentre lanciavo la nuova pallina di Salice e me la passavo da una mano all’altra in maniera quasi compulsiva. Stavo pensando di invitarlo a casa mia, per passare una serata tranquilla. Ci vedevamo sempre da lui e magari per una volta potevo prendere io iniziativa. Ma no, non era il caso, cambiai idea quasi all’istante:
“Meglio evitare”, pensavo tra me e me. E poi improvvisamente mi ero ricordato che la casa era piena di briciole per terra. Avevo dunque un motivo in più per abbandonare del tutto l’idea.
Quelle rare volte in cui sono io ad ospitare delle persone, quasi sempre mi vien voglia di cacciarle dopo poco tempo.
Mi ha sempre infastidito il fatto che gli ospiti lascino il loro odore in giro per casa. E più tempo rimangono, peggio è. Il loro odore mi turba particolarmente, ma mi infastidisco anche per qualsiasi loro traccia, di qualunque tipo: un pacco di sigarette vuoto, la carta della caramella che mi hanno offerto, tutte cose che sembrano star lì per dire: “ah, comunque io sono stato qui”. Che fastidio.
Dopo che gli ospiti se ne vanno e io sono di nuovo in casa da solo, mi sento come spaesato, percepisco il mio ambiente in modo diverso, come se la casa avesse assorbito l’essenza di quelle persone per poi sventolarmela sotto il naso, quasi a farmi un dispetto. Mi sento sempre sinceramente disorientato in questi casi, alcune volte quasi tormentato.
Tornai a casa e incontrai la signora Hawley al portone. Salimmo in ascensore insieme. E’ assurdo come cercasse disperatamente di riempire i miei sacrosanti e leciti silenzi ogni cazzo di volta che la incontravo.
 “Vorrei andare in vacanza in Francia, lei che ci è stato me la consiglia?”, “Pare che pioverà stasera, vero? Ci mancava solo questa”, “Come sta il gatto?”, “E tu tesoro? Come ti va la vita?”. 
Ma porca troia. Due estranei sono estranei per un motivo. Se lei mi avesse invitato a prendere un tè da lei non avrei rifiutato, sono una persona educata e in più non mi faccio problemi a conoscerle le persone, ma allora mi inviti a prendere un tè se le diverte così tanto parlare con me. Che senso ha limitare il rapporto con una persona a quei cinque ridicoli minuti buttati lì da quegli incontri fortuiti che tra l’altro non dipendono nemmeno dalla tua volontà? Perché far finta che esista un rapporto, anche se minimo, quando invece c’è il nulla?
Mi parlava come se si sentisse in dovere di farlo, come se fossimo due amici che non si vedono da anni, come se mi avesse fatto un torto e volesse riparare in qualche modo. Non capivo.
La gente ha paura della non-interazione. La gente è intimorita dal reciproco silenzio. Come se le nostre parole fossero degne di sostituirlo. In alcuni casi forse lo sono, ma perché considerare la cosa come una prassi?
Al contrario, credo che nella maggior parte dei casi le parole inquinino il silenzio, lo intorpidiscono: non aggiungono nulla di nuovo, ma portano nell’aria quel qualcosa che puzza di superfluo e inopportuno, e che vorresti tanto poter ignorare, vorresti far finta che non sia stato detto, ma non puoi farci niente perché invece...Già, è stato detto, l’hai ascoltato.
Salice guardava la sua pallina nuova: credo impazzisse di felicità dentro di sé, ma era restio a giocarci , sembrava quasi interdetto. Pareva avesse paura che finisse in mille pezzi come quella vecchia: quando cercava di agganciarla con le unghie e queste non sprofondavano in essa non capiva, sembrava quasi affascinato.
In quel momento ero contento: sapevo che entro qualche ora avrebbe realizzato che la nuova pallina, al contrario della vecchia, non sarebbe mai finita in mille pezzi, e pregustare la sua imminente felicità mi rendeva parimenti felice.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Appoggiai le mie labbra sulle sue in modo rapido e sfuggente. Lei pareva un po’ sorpresa ma rispose accompagnando il gesto ed io, ottenuta la conferma che speravo, presi a sfiorare con la punta della lingua le sue labbra rinsecchite dal freddo. Continuai a giocherellarci teneramente fino ad umidificarle tutte e con perfetta sincronia la afferrai stringendo il mio braccio attorno alla vita, mentre la mia lingua si addentrò nella sua bocca con un movimento deciso, ma non tale da risultare brusco. Accompagnai il tutto con un respiro intenso.
Lei, ormai semidistesa sul divano, stava al gioco inseguendo la mia lingua con la sua mentre cercava in modo un po’ maldestro ma simpatico di accennare un sorriso. Era un gesto molto tenero, ma non potevo permettermi di fermarmi proprio quando quella magica sensazione di inebriamento stava finalmente prendendo il sopravvento su di me.
Puntai quindi il collo, volevo assaporare quella pelle pallida e liscissima, mi ci avvicinai mentre lei, rispondendo ai miei movimenti, alzava le spalle e faceva quindi in modo che la mia testa si incastrasse perfettamente tra la sua guancia e la parte superiore del petto. La baciavo sul collo in modo quasi impetuoso mentre annusavo i capelli che cascavano sul mio viso.
Mi concentrai a seguire il suo respiro affannoso, che si bloccò per un istante nel momento in cui la afferrai all’altezza del seno, stringendolo come se avessi paura che potesse scapparmi di mano da un momento all’altro.
Lei indossava un maglioncino di lana sottile. Mi piaceva la sensazione del materiale al contatto con la mia pelle.
Ad un certo punto alzai di colpo la testa e poggiai entrambe le mie mani sui suoi fianchi, spostando tutto il suo corpo in avanti e facendo in modo che lei poggiasse la testa sul bracciolo del divano.
Ero in ginocchio con le mie gambe incastrate tra le sue e le tolsi le scarpe; subito dopo le sfilai i jeans e la fissai con sguardo serio godendomi la sua reazione.
 Poggiai i suoi pantaloni per terra con cura e subito dopo, come per rimediare a quest’ultimo mio gesto insolitamente pacato, mi lanciai su di lei con veemenza, quasi come un leone sulla sua preda.
La assaporavo inebriato dalla sua profumata umidità, mentre lei cercava di seguire con lo sguardo ogni mia mossa.
Mi sembrava quasi di conoscerlo già quel corpo, mi sentivo a mio agio e avevo capito subito da ogni sua reazione come variare l’intensità dei miei movimenti.
Lei pareva fidarsi di me. Mi afferrò la nuca e iniziò ad accarezzarmela, sfregando il palmo della sua mano sui miei capelli rasati e accompagnando tutti i miei gesti.
Mi distesi del tutto e mi avvicinai al suo viso sino a toccare la mia fronte con la sua.
Tutt’a un tratto mi sembrò che lei non si sentisse più a suo agio , pareva non riuscire a gestire il piacere, come fosse sopraffatta da esso.
Allora la fissai con sguardo penetrante ma rassicurante al contempo, mentre le nostre fronti erano ormai praticamente incollate grazie al sudore di entrambi.
I nostri respiri entrambi affannosi vivevano in sincronia e parevano dipendere l’uno dall’altro. Mi fermai del tutto per qualche secondo e la baciai intensamente; poi le tolsi il maglione che ancora indossava e il reggiseno. I suoi seni non erano grandi, ma avevano una bella forma ed erano in perfetta armonia con la sua corporatura. Mi piacevano molto. Lei era ora completamente nuda, e io ancora completamente vestito, al che lei mi guardò per un momento con quel suo sguardo furbesco ma tenero, come per farmi capire che ero ormai ancora vestito da troppo tempo e che non era il caso che lei fosse la sola ad esser nuda. Quindi poggiò le labbra sul mio collo, mentre mi slacciava i pantaloni con delicatezza: io la osservavo scrupolosamente curandomi di “annotare” nella mia mente tutte le sue mosse e tutti i suoi modi di fare.
Mi è sempre piaciuto dedicare una certa attenzione al modo in cui le donne si comportano a letto. Ogni volta è diverso. Mi piace cercare in una partner la perfetta combinazione di finezza e spirito d’iniziativa, con quel pizzico di maliziosità che può diventare la ciliegina sulla torta nel momento in cui la donna stessa la intende come esaltazione della propria femminilità e non come mero strumento da utilizzare ai fini di un facile controllo del proprio uomo.
Fino a quel momento nessuna partner aveva avuto con me quell’atteggiamento ideale che forse esisteva solo nella mia mente, e neanche oggi saprei dire se Elaine lo avesse o meno, ma certo è che lei mi intrigava molto: nei modi, negli sguardi, persino nei silenzi. Elaine sapeva quando non parlare, e la sua abilità stava appunto nel riuscire sempre a trovare quel qualcosa con cui sostituire la parola. Elaine non lasciava vuoti. Riempiva sempre tutto, e nel modo più adeguato, semplicemente nel modo che la situazione del momento richiedeva, nulla di più.
Ed era lì a baciarmi sul petto, mentre mi accarezzava sulla schiena per arrivare poi alle spalle ossute e spigolose e alle braccia. Io avevo gli occhi sempre fissi su di lei, e quando lei alzò lo sguardo e si accorse che esaminavo ogni suo movimento si sentì forse come messa alla prova: era un po’ imbarazzata. Le lanciai quindi un sorrisino simpatico, come per scusarmi della mia invadenza. Lei rispose con un’espressione simile alla mia, ma leggermente più ironica, per poi riprendere a baciarmi dappertutto senza sosta con una passione sincera e autentica.
Morivo dalla voglia di entrare dentro di lei, e credo per lei fosse lo stesso, ma eravamo entrambi intenti a procrastinare quel momento in modo da pregustarlo e da goderne del solo pensiero il più possibile.
E quando il momento era arrivato, riuscimmo a capirlo entrambi, bastò uno sguardo come per tutto il resto.
Fu tutto molto bello. I nostri gesti nascevano e si alimentavano da soli, tutto ciò che facevamo non doveva fare i conti con i filtri della nostra coscienza, non necessitava della sua approvazione e della sua supervisione perché veniva da sé: era tutto genuino e spontaneo. Non c’era bisogno di chiedersi nulla o di pensare a nulla. I nostri gesti erano vita.
Negli ultimi istanti lei era in estasi. Ricordo ancora il sorriso sul suo volto in quel momento. Io però non permisi che la mia serietà venisse turbata, nonostante il forte coinvolgimento di quegli attimi.
Ricordo ogni cosa di quella notte. Non mi va di chiedermi perché se mi concentro riesco persino a riportare alla mente le esatte emozioni di quei momenti. Ma in fondo mi fa piacere non saperlo, mi affascina quasi per certi versi.
Non riesco a credere che siano già passati tre anni.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Vigilia di Natale. I termosifoni erano guasti.
Erano le 19.30 circa ed ero sulla sedia, con il gomito poggiato sul davanzale.
Salice era appollaiato su di me da mezz’ora circa e faceva le fusa ininterrottamente.
Avevo tre coperte addosso, una sciarpa e un cappello di lana nero. Pensavo al fatto che il giorno prima Brandon mi aveva invitato a passare la vigilia da lui, assieme ai suoi amici, quelli del Lion, e io avevo rifiutato perché pensavo che non ne avrei avuto voglia. E in effetti non ne avevo voglia neanche in quel momento, ma sicuramente avrei preferito andar lì piuttosto che gelare.
Decisi che volevo fare una passeggiata.
“Gelare per gelare, tanto vale uscir fuori e combinar qualcosa”, pensavo.
Con dispiacere diedi un colpetto al sedere a Salice e mi alzai dalla sedia. Presi il giubbotto ed in un attimo ero già giù per strada. Non c’era nessuno in giro, mi sentivo come se il mondo fosse mio e potessi farne quel che volevo.
All’improvviso mi venne voglia di una cioccolata calda.
“Non ho mai voglia di nulla durante tutto l’anno, e mi vien voglia di comprare una  cioccolata calda il giorno della vigilia”, pensai tra me e me subito dopo. Mi ricordai di quel posticino dalle parti di Duke che era sempre aperto nei giorni più improbabili, e decisi che valeva la pena tentare. Non avevo nulla di meglio da fare, in fondo.
Mi incamminai verso il posto in mezzo alle strade deserte e silenziose, immerso in quel grigiore tipico di un tardo pomeriggio d’inverno. D’altronde, cos’è la vigilia di Natale se non un cupo giorno invernale qualunque?
Odio il Natale perché, per quanto sia nel mio caso una giornata uguale alle altre, sento quel qualcosa di diverso nell’aria, che io lo voglia o meno. E cerco sempre di ignorare questa cosa, perché ogni anno mi porta a riflettere sul vuoto che volontariamente sono solito creare attorno a me, senza pormi alcun problema.
Ne avrei di cose da dire, ne avrei tante, così come ne ho tante di idee che mi frullano nel cervello e che non aspettano altro che essere buttate lì fuori, ma ho paura di farlo, ho paura della concretezza, ho paura del fatto che ciò che ho in mente possa diventare  realtà. Sì, ho paura che possa diventare realtà,  perché questo porterebbe ogni cosa che ho nella testa a non dipendere più soltanto da me, ma da troppe altre cose, molte delle quali sarebbero inevitabilmente fuori dal mio controllo. Fin quando le cose rimangono dentro di me invece mi sento al sicuro.
Dopo circa trentacinque minuti di cammino, ero finalmente arrivato al bar.
Era aperto, lo guardai facendo un cenno con la testa, accompagnato da un mezzo ghigno di soddisfazione. Era un posto molto rustico, ma ben curato: un ambiente accogliente insomma. Non mi sarebbe dispiaciuto se ci fosse stato un posto del genere dalle parti di casa mia.
Entrai un po’ timidamente, il locale era vuoto. C’erano soltanto due clienti al bancone che mangiavano le loro brioches, mentre il barista era impegnato a lavare le tazzine. Mi salutò sorridendo e rivolgendosi a me con tono molto educato. Ricambiai il saluto con cortesia avvicinandomi al bancone e ordinai la cioccolata calda.
“Senza zucchero”, dissi.
Mentre aspettavo fui attirato dalle stronzate di cui parlavano i due clienti al bancone. Soliti discorsetti del cazzo da gente di mezz’età, quelle classiche robe sconclusionate farcite di luoghi comuni e svariati riferimenti al passato, perché beh, si sa, un tempo le cose andavano molto meglio no?  Non capivo bene di cosa stessero parlando esattamente, ma poco importava: sempre della solita solfa si trattava.
Erano convinti di sapere tutto, erano convinti di aver trovato la chiave, la soluzione a ogni problema.
Mi spaventa la gente che crede di avere in mano ogni cosa: non parlo di quelli che agiscono come se avessero capito tutto pur sapendo di essere in alto mare, intendo proprio quelli che ci credono davvero, con convinzione.
 Chissà come ci si sente.
Arrivata ad una certa età la gente sente il bisogno di dimostrare al mondo di essere giunta a qualcosa, di essere arrivata da qualche parte grazie ad una presunta maturità conseguita chissà quando. Di aver trovato la propria strada. Quindi parla di stronzate. Stronzate che però suonano bene, all’orecchio del proprio interlocutore quantomeno. Il quale è quasi sempre ben disposto ad ascoltarle. Ci si rassicura a vicenda, via.
“La logica è un bel cazzo nel culo”, pensavo tra me e me riflettendo a mente libera e guardando i due signori mentre sorseggiavo soddisfatto la mia cioccolata calda.
La logica è uno strumento potentissimo, forse il più potente tra quelli a nostra disposizione. Basti pensare alla matematica: la matematica nient’altro è che una struttura logica in grado di aprirsi infinite strade da sé partendo dal nulla, grazie semplicemente ad una continua coerenza con sé stessa. Grazie alla matematica si costruiscono ponti che non cadranno mai, per citare l’esempio più scontato e banale che possa saltare in mente. Ma ci sono tante altre cose meno ovvie, sconosciute alla maggior parte di noi.
Lo sapevate per esempio che tutto il sistema attuale della sicurezza bancaria è basato sui numeri primi? Pare che ogni volta che si opera una transazione vengano utilizzati i numeri primi per criptare i dati delle nostre carte di credito. La sicurezza di tutto il sistema, infatti, è basata sulla difficoltà di decriptare il numero della carta attraverso i numeri primi che lo compongono. Infatti, il numero presente sulla nostra carta di credito è ottenuto moltiplicando tra di loro due numeri primi e l’unico modo per decifrare il numero sulla carta è conoscere i due numeri primi che lo compongono. Per farla breve, il sistema è così sicuro perché l’uomo ancora non conosce abbastanza bene i numeri primi per poter prevedere, dato un qualsiasi numero primo, quale sarà quello successivo ad esso.
Se qualcuno scoprisse come fare, saremmo tutti fottuti insomma. E probabilmente un giorno qualcuno ci riuscirà, e allora andrà inventato un nuovo sistema di sicurezza.
Dunque la logica non è fine a sé stessa, ma può di fatto portare a dei riscontri effettivi, riscontri che esistono al di fuori della nostra mente. Potrebbe quasi essere considerata il motore dell’universo, almeno per certe cose.
 C’è un grosso problema però: ogni elaborazione logica naturalmente non può partire da presupposti sbagliati. Ed è un po’ il caso dei due signori al bancone, entrambi uomini sicuramente intelligenti e acculturati, i cui discorsi suonavano bene proprio perché dallo spunto di uno derivava il contributo dell’altro, il tutto in maniera assolutamente logica e lineare.
 Il problema erano i presupposti. E cioè le loro convinzioni radicate, i preconcetti, la chiusura delle loro menti, la paura di allontanarsi da ciò che da sempre era stato loro insegnato essere giusto, la paura di ripartire da zero. Ripartire da zero, esatto. Nulla totale. Come quando l’uomo, per la prima volta, con una banana in una mano e una banana nell’altra, si rese conto di avere in tutto due banane. E da lì riuscì ad aprirsi un mondo da solo, partendo dal nulla.
Alla gente è stato insegnato a ragionare sì, ma ragionare al contrario, e cioè a trarre le proprie conclusioni in maniera logica, ma partendo da ciò che è stato insegnato, ripetuto alla nausea e inculcato nella mente fino a non poter far altro che considerarlo come qualcosa da dare necessariamente per scontato, scontato come il fatto che una banana sommata all’altra facciano due banane. Ma a differenza delle due banane, le nostre convinzioni e i nostri preconcetti non sono davanti ai nostri occhi, non sono realtà, ma anzi sono ingabbiati in quel velo di superficialità e di profonda, radicata ipocrisia che offusca le nostre menti.
Occorre avere le palle di mettere in discussione tutto in questo mondo. Solo così si può essere certi che una propria convinzione sia effettivamente dotata di un valore intrinseco, traducibile in qualcosa che un giorno potrà essere davanti ai tuoi occhi, e non invece una stronzata bella e buona che si è infilata nella tua mente divorandoti il cervello.
Bevvi l’ultimo sorso di cioccolata e consegnai la tazza al barista. Lo salutai e lo ringraziai, augurandogli un buon Natale.
Continuai a girare per un paio d’ore godendomi la città deserta, feci un bel giro fin quando all’improvviso mi fermai per un secondo, a causa della stanchezza e del freddo.
Era tardi e non ce la facevo più, mi voltavo disorientato cercando di fare mente locale e di capire esattamente dove fossi. Sul marciapiede opposto al mio c’erano diverse persone affollate davanti a una chiesa: evidentemente stava per iniziare la messa di Natale.
Ero troppo stanco per camminare un’altra ora, avevo bisogno di fermarmi e al tempo stesso stavo davvero patendo il freddo. Entrare in chiesa e seguire la messa mi parve la soluzione più logica in quel momento.
Erano almeno 10 anni che non entravo in una chiesa, l’ultima volta ci ero andato per il funerale del nonno. Fino a qualche tempo prima nutrivo un odio profondo verso qualunque forma di religione, in quel periodo invece me ne fregavo abbastanza, ero semplicemente disinteressato alla cosa. Non era più tra i miei bersagli preferiti insomma.
Ascoltai le parole del prete con distacco, ma cercando di seguirlo e di immedesimarmi nei fedeli. A tratti ero quasi affascinato dalla situazione, è difficile da descrivere. Un po’ come quando per caso dopo tanti anni ti capita di rileggere il libro di fiabe che da bambino la mamma ti leggeva prima di andare a dormire. Leggendo ricordi tutto, ma ogni dettaglio del racconto viene recepito dalla tua mente diversamente da come avveniva in passato, e la cosa ti lascia piacevolmente stranito.
Al termine della messa ero circondato di persone che si abbracciavano scambiandosi gli auguri di Natale. Alla mia destra una bella famigliola, dietro di me una coppia. Alla mia sinistra però c’era una signora, anche lei sola come me. Avrà avuto una sessantina d’anni al massimo. Mi guardò in modo sinceramente benevolo e amichevolmente mi sorrise. Poi mi fece gli auguri, facendo capire che mi avrebbe voluto abbracciare volentieri. Non mi feci alcun problema, non c’era nulla di male in fin dei conti.
“Che Dio ti benedica!”, disse lei con enfasi dopo avermi abbracciato, mentre gli occhi  le brillavano di gioia.
La sua affabilità era stata così spontanea e pura che non me la sentivo di far finta di niente.
“Ecco…In realtà non sono credente”, dissi io.
“Ma come, non ci credi in Dio? E allora che ci fai qui, giovanotto?”, disse lei con aria un po’ sorpresa ma senza volermi rimproverare.
“Beh, in effetti non lo so”, risposi dopo qualche secondo passato a pensare a cosa dire.
“Forse significa che senti il bisogno di credere allora”, disse la signora tornando a sorridere.
“No signora, non penso sia quello”, risposi cortesemente ma con tono un po’ più distaccato, vedendo la piega che la conversazione rischiava di prendere.
“Va bene figliolo…In fondo chi sono io per insegnarti qualcosa?”, disse lei con aria un po’ sconsolata.
“Siamo tutti sulla stessa barca”, aggiunse poco dopo.
Negli occhi di quella signora era possibile scorgere la sua fede: si vedeva che lei ci credeva davvero in Dio, e che non era una di quelle vecchiette che vanno a messa la domenica solo per spettegolare tra di loro. Leggevo in quegli occhi la sua paura, il suo dolore, ma anche la voglia di reagire, la voglia di credere in qualcosa. Che fosse Dio la cosa in cui lei voleva credere mi importava poco in quel momento.
“No no, signora, non è questo il punto. Anzi, lei può insegnarmi molto”, dissi dopo aver riflettuto un po’.
“Che intendi tesoro?”, chiese lei.
“Beh ecco, non mi interessa sapere perché lei crede in Dio, io non ci crederò in ogni caso, però se ne ha voglia può spiegarmi come fa a crederci così fortemente”, dissi.
“Scusami caro, ma non riesco bene a capire”, disse lei un po’ in difficoltà.
“La sua devozione, ecco, la devozione, da cosa scaturisce?”, e poco dopo aggiunsi:
“Come fa la fede a riempire le sue giornate?” 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


E correvo all’impazzata.
Davanti a me un’infinita distesa di nulla che mi appariva così maestosa e imponente, forse proprio per la mancanza di un qualche punto di riferimento che spiccando sugli altri potesse attirare l’attenzione su di sé: solo umidicci granelli di sabbia, qualche pianta selvatica qua e là e poi il mare, che pur nella sua placidità faceva da arbitro di tutto il resto.
Scappavo chissà da cosa, concentravo tutta la mia forza nelle gambe muovendo i piedi nel modo più veloce possibile, così da annullare ogni possibile sensazione di dolore causata dai graffi che la sabbia ghiaiosa mi stava procurando. Tremavo. Faceva freddo. Avevo tanta paura.
La radiosa luce del faro in lontananza mi consentiva di orientarmi e quantomeno di schivare gli scogli che di tanto in tanto incontravo davanti a me.
Iniziai a sentire forti dolori ovunque, ma non volevo demordere, e allora presi a correre ancora più velocemente e a urlare come un forsennato per darmi la forza di continuare, spalancando la bocca a più non posso. Di colpo il pallore del mio corpo fu compensato da un forte arrossamento sul viso, con le vene sulla fronte e sul collo che si ingrossavano in modo spaventoso.  
Continuai a scappare gridando fin quando la mia voce venne meno e dalla mia bocca non uscì più alcun suono, se non occasionali gemiti striduli e soffocati, oltre che vari colpi di tosse.
Le mie gambe cedettero anch’esse dopo poco tempo e allora sopraffatto dalle limitazioni imposte dal mio corpo mi lasciai cadere, come per rendere palese a me stesso la mia resa.
In ginocchio, fronte appiccicata sulla sabbia.
Ero lì tremante, ma non volevo ancora rialzarmi, riflettevo e metabolizzavo ciò che era successo in quegli istanti di fuoco e di follia. I brividi di freddo e i graffi su tutto il mio corpo facevano male, non tanto per il dolore e il disagio fisico che procuravano, ma perché erano lì a testimoniare il mio patetico tentativo di reagire, inesorabilmente conclusosi in quel modo ridicolo.
Ero ancora accovacciato sul terreno sabbioso, e osservavo con sguardo perso la mia stessa ombra.
Il faro era ora esattamente di fronte a me, e illuminava tutta la mia figura, quasi come stesse lì per mettere in primo piano il protagonista di quel merdoso teatrino.
Mi rimisi in piedi lentamente, sollevando prima un ginocchio e poi l’altro.
Si era improvvisamente alzato un ventaccio e il mare incominciava ad essere piuttosto mosso.
Le onde sembravano voler minacciarmi, come se si apprestassero ad inghiottirmi sancendo la mia fine.
I miei occhi si scontravano con la luce del faro, e subito dalla sua potenza venivano annientati, annichiliti.
Ne ero abbagliato, dunque distolsi lo sguardo spostando la testa a sinistra, ma questa ritornò da sola in posizione centrale, come se fosse spinta da una forza opposta che non potevo controllare.
 Non capivo cosa stesse accadendo, dunque provai a spostare il capo verso destra. Ma accadde nuovamente la stessa cosa.
Mi prese il panico.
Cercai dunque in modo frenetico di muovere il capo in ogni direzione, ma inevitabilmente esso tornava sempre in posizione centrale, mentre la luce del faro penetrava impietosa nei miei occhi e si addentrava nella testa divorandomi il cervello.
A seguito dello sgomento che mi tormentava e dell’ormai totale cedimento fisico, la mia lucidità mi stava abbandonando e alle onde sempre più minacciose davanti a me si sovrapponevano pezzi di luce che man mano divenivano sempre più grandi, finché non riuscivo a vedere più né il mare né il cielo, ma solo un fascio luminoso continuo che ondeggiava in modo confusionario e sincronizzato con il tremore sempre più incontrollabile del mio corpo.
Provavo un senso di disperazione indescrivibile, mi sentivo svilito e privato ormai anche del controllo di me stesso e del mio corpo, cosa da me considerata fino a quel momento un punto saldo.
Nonostante avessi capito abbastanza presto che non potevo oppormi a questa situazione insopportabilmente angosciante continuavo imperterrito a muovere la testa, e razionalmente prendevo atto di ciò che accadeva ad ogni mio singolo tentativo di spostarla, come se quel briciolo residuo di coscienza che mi era rimasta sentisse il bisogno di testimoniare la follia che aveva preso il sopravvento su di me.
La luce diventava sempre più bianca , sino a che i colori scomparvero e si trasformarono in pure sensazioni: delirio e rassegnazione.
Sentivo gravare su di me il peso della mia impotenza e desideravo con tutto me stesso che quel martirio avesse fine.
Mi svegliai.
Sudore freddo su ogni angolo del mio corpo e occhi lucidi.
Mi ritrovai gli occhioni di Elaine davanti. Aveva i capelli legati e indossava solo la sua canotta da letto.
“Tutto bene?” Disse lei con tono agitato.
La guardai impietrito non sapendo bene cosa dire.
“Ti ho visto sbracciare e muovere la testa continuamente e mi sono preoccupata, hai fatto un incubo?”
“Mhhhh no…Cioè sì…Ma niente di che va tutto bene tranquilla”.
Lei mi guardò un po’ stupita cercando dal mio sguardo una conferma del fatto che  andasse davvero tutto bene, visto che le mie parole non erano affidabili.
“Sono tutto sudato, è meglio che vada a farmi una doccia altrimenti non mi riaddormento più”, risposi improvvisando in qualche modo un finto sorriso, cercando di mascherare il panico del momento ma risultando invece scarsamente credibile.
Scesi immediatamente dal letto e mi precipitai nella vasca da bagno, mi feci subito una doccia come per cancellare ogni residuo di quell’incubo terribile.
Mentre cospargevo il mio corpo col sapone piansi come non facevo da anni.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Duke e Brandon non si conoscevano.
Eppure trascorrevo una parte non indifferente del mio tempo con entrambi e ciascuno sapeva ovviamente dell’esistenza dell’altro, ma cercavo di evitare che avessero a che fare tra di loro. Non so bene perché.
In un certo senso temevo che potessero non andare d’accordo, quindi forse volevo evitare casini e rotture di cazzo di qualsiasi tipo. Ma la situazione era arrivata ad un punto tale che il fatto che non si fossero mai visti stava iniziando davvero a sembrare una cosa ridicola, pareva quasi che io avessi qualcosa da nascondere. Dunque stava diventando un problema.
 Non credevo che potesse esistere qualcosa che accomunava quei due tipi, erano entrambi molto particolari ma estremamente diversi.
Fin quando non mi ricordai degli scacchi.
Già cazzo, gli scacchi. Duke ci giocava sin da quando era bambino, aveva iniziato con suo padre, che tra l’altro gli aveva trasmesso anche la passione per il cinema e in generale aveva influenzato una buona parte del suo modo di essere.
Avevo conosciuto il padre di Duke qualche anno fa, ed ebbi l’occasione di parlarci diverse volte. Lui e il figlio erano in effetti due personaggi molto simili, ma il padre mi dava l’idea di essere ancor più “perso nel suo mondo” rispetto a Duke. Duke era ugualmente particolare, ma più lucido, per così dire: era ben cosciente del suo essere strano e aveva una discreta padronanza della realtà esterna, nonostante il suo modo particolare di affrontarla e in generale il suo essere schivo verso un certo tipo di cose e situazioni.
Il padre invece reagiva con timore a qualsiasi cosa gli si presentasse davanti. Non che lo desse a vedere esplicitamente, ma beh, ecco, mi dava questa sensazione insomma. Il padre di Duke era una persona molto buona e pacata, difficilmente si infastidiva.
Era divertente vederli dialogare, lui e Duke. In generale quando Duke parlava con la gente assumeva di colpo un atteggiamento davvero strano, quasi come se avesse qualcosa da nascondere. Anche se si parlava di stronzate, e lo faceva davvero con tutti, anche con me. Tranne che col padre. Col padre lo vedevo parlare con disinvoltura, e la cosa mi divertiva non poco, era una situazione davvero surreale.
Brandon invece chissà perché cazzo giocava a scacchi. Non me lo ricordo, e a dire il vero pensandoci tutt’oggi gli scacchi non mi sembrano per niente una “cosa da Brandon”. Non è una persona paziente,  è più un tipo da attività frenetiche, ma a quanto pare gli scacchi gli piacevano, e non se la cavava poi così male.
Dunque una sera li invitai entrambi da me, dopo aver riesumato la vecchia scacchiera ereditata da mio nonno che giaceva da anni inutilizzata e impolverata nel ripostiglio.
Era agosto e faceva un caldo insopportabile, Brandon era stato mollato dalla tipa una settimana prima. Conosco a memoria i modi di fare di Brandon quando qualcosa va storto, e in quei giorni lui era in quella sua classica fase nella quale stava evidentemente male, ma cercava di fare di tutto per non darlo a vedere assumendo un atteggiamento particolarmente fastidioso che consisteva nel fare battute in continuazione, con quell’aria scherzosa un po’ da buontempone. E a dire il vero risultava anche essere abbastanza credibile: chi non lo conosceva poteva facilmente cascarci.
Mi seccava particolarmente la cosa, e se fossimo stati da soli gliel’avrei tranquillamente detto, ma data la situazione preferii evitare.
Non sapevo perché la tipa l’avesse mollato, e a dire il vero non sapevo né mi interessava sapere nulla delle sue relazioni, conoscevo il suo modo di fare e di gestire le cose e questo mi bastava. Ricordo solo che a Brandon bastava che una tipa fosse “figa e matta a sufficienza”, così amava dire lui. 
Per Brandon è tutto un gioco. Ma la spensieratezza, la leggerezza e la scherzosità con cui prendeva le cose nascondevano una più profonda e radicata ipocrisia. Lui si serviva del suo modo di fare da mattacchione affinché gli altri si ficcassero nella testa un’immagine innocua della sua persona. La sapeva lunga.
Le relazioni di Brandon erano spicciole. Era palese che sin dal principio si fondassero sul nulla, ma alla fine non frega un cazzo a nessuno di analizzare il come e il perché di certe cose. Si scopa e si ride, e va bene così.
Perché allora fingere che ci sia altro dietro alle scopate e alle risate?
Non nego che possa esserci, ma di certo non c’era nulla a parte quello nelle relazioni di Brandon. I suoi “ti amo” erano un modo come un altro per colmare un vuoto più profondo, per scacciar via quella zecca della verità sempre in agguato: subdola ma giustiziera, la zecca della verità altro non aspetta che saltare su di te spiaccicandoti addosso le favole su cui hai costruito le cose e i paradigmi mentali di cui inconsciamente sei stato autore, di cui ti sei servito giorno dopo giorno per convivere con una bugia inaccettabile. Fin quando le cose vengono a galla. E vengono quasi sempre a galla, non soltanto nelle relazioni di Brandon, ma anche in quelle della maggior parte delle persone. E magari si usa un espediente, come un litigio o una delusione, per buttare via tutto e liberarsi da un peso, regolarmente alleviato da scopate e risate ma sempre presente, giustificando a noi stessi mesi, a volte anni di un atroce teatrino di cui costantemente siamo al tempo stesso protagonisti e spettatori.  
Questo squallido teatrino che tutti voi figli di puttana vi ostinate a voler mettere in scena non fa altro che macchiare la purezza dell’amore, quell’amore che se evitaste di bramare e sputtanare magari sperimenterete per davvero una volta nella vostra vita. E poi ne finirete pugnalati, essendo un sentimento concettualmente sbagliato se non del tutto insensato, ma almeno avrete sperimentato qualcosa di puro e autentico, potete starne certi.
Duke si passava le dita sulla fronte corrugata e si concentrava guardando la scacchiera mentre rifletteva sulla prossima mossa; Brandon intanto fissava con sguardo perso un soprammobile posizionato sullo scaffale a fianco al televisore. Aveva gli occhi lucidi. Io ero un po’ interdetto ma feci finta di niente e mi spostai nel cucinino per prendere gli altri pacchi di patatine dalla dispensa.
Salice dal canto suo osservava la scena mentre si leccava i baffi.
Il mio turbamento e l’esasperazione di Brandon non venivano assolutamente percepiti da Duke ignaro, in quel momento tutt’uno con la scacchiera, ma l’aria puzzava di inquietudine e diventava sempre più irrespirabile. Io ingurgitavo patatine una dopo l’altra, masticandole in modo volutamente molesto e con i rumori della mia bocca riempivo quel silenzio altrettanto incomodo.
Ad un certo punto Duke si mosse improvvisamente facendo cigolare la sedia, io smisi di masticare e lo guardai mentre Brandon voltò il capo in modo brusco, quasi come quando ci si riprende da un colpo di sonno.  Duke un po’ impacciato allungò la mano sulla pedina.
“SCACCO MATTO”, disse.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


“Ho bisogno di qualcosa che nessuno può portarmi via”, rispose lei.
“La capisco”, dissi io.
E lei:
“La fede è il modo migliore che ho per mettere tutta me stessa in qualcosa, ed è per questo che mi fa stare così bene”.
Non sapevo più cosa dire.
Frugai nelle mie tasche facendo finta di cercare qualcosa in modo da mascherare il silenzio, poi alzai lo sguardo e mi rivolsi a lei:
“Ancora tanti auguri di buon Natale, signora”, risposi io accennando un sorriso.
“Purtroppo ora la devo salutare, sono in ritardo”.
Mi incamminai verso casa.
 Le strade erano buie, illuminate solo di tanto in tanto da qualche lampione sparso qua e là.
Il freddo mi penetrava nelle ossa, lo sentivo entrare dentro di me mentre si diramava in ogni singolo pertugio del mio corpo. Quel freddo secco e pungente, non avevo quasi voglia di ripararmi da esso per quanto lo sentissi mio.
Squillò il cellulare, era Elaine. Mi fece gli auguri, e poi parlammo del più e del meno: voleva sapere come stessi.
Le raccontai la mia serata mentre lei rideva come una scema e ironizzava su di me giocosamente.
Il mio rapporto con Elaine è sempre stato molto strano.
Inizialmente eravamo di fatto due estranei a letto insieme, ma dopo pochissimo tempo avevo già imparato a conoscerla molto bene, a tal punto da riuscire a prevedere le sue risposte alle mie domande e le sue reazioni a quasi ogni situazione che le si presentasse davanti.
Anche lei col tempo aveva saputo capirmi molto bene, probabilmente anche meglio di quanto io stesso sia mai stato in grado di fare.
E soprattutto aveva individuato le mie debolezze: spesso le metteva a nudo in un modo un po’ difficile da spiegare a parole. In un certo senso è come se con discrezione ma decisione allo stesso tempo sapesse sempre trovare quella parolina o quello sguardo che in maniera incontrovertibile riuscivano a palesare il fatto che io fossi una testa di cazzo. Io dal canto mio ho stranamente sempre apprezzato questa cosa, lo faceva per il mio bene.
Di solito odio la gente che cerca di insegnarmi qualcosa, ma lei evidentemente era in grado di farlo davvero, dunque inconsciamente forse è per questo che le sue frecciatine non mi hanno mai fatto incazzare.
Le chiacchierate nudi a letto dopo il sesso erano i momenti più sinceri e alti del nostro rapporto: raccontavamo le nostre storie e ci scoprivamo a vicenda senza freni alcuni. Lei era profondamente affascinata dal velo di mistero e di cinismo dal quale la mia immagine era costantemente offuscata e amava la mia imperscrutabilità.
 Ma amava ancora di più quando lasciavo da parte queste stronzate e parlando in modo spontaneo mi lasciavo andare, concedendomi a lei in tutta la mia autenticità: adorava scrutare il mio inconscio e portarlo a galla con quel suo sarcasmo pungente, ma sempre raffinato.
Il mio rapporto con Elaine è stato davvero tanto strano. E lo è sempre stato, anche agli inizi.
Era fatto di scopate e di piccole cose, ma eravamo entrambi consapevoli della spiccata affinità che c’era tra di noi e probabilmente proprio il fatto che il nostro non fosse un rapporto ambizioso permetteva ad esso di essere così puro e incontaminato.
Ad essere innamorati si finisce in balia di qualcosa di più grande di noi.
E noi non eravamo ancora pronti.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Questo limbo è il peggior inferno che possa esistere.
Non ho chiesto di nascere, non ho scelto quali emozioni provare e non ho scelto quando e perché provarle. Non so e non mi è dato sapere perché continuo a incazzarmi di fronte a certe cose e a fottermene con nonchalance di altre, magari  molto più importanti. Non scelgo io come reagire alle situazioni che mi si pongono davanti. Reagisco e basta.
Ho smesso di credere di avere voce in capitolo.
Questo limbo è il peggior inferno che io riesca a concepire.
Angoscia, disperazione, inerzia.
Le farfalle nello stomaco, il marcio dentro di me.
 La sento la coscienza, la sento. Voi la sentite? E’ lì che continua imperterrita a ricordarmi ciò che io davvero vorrei essere ma che non sono e mai potrò diventare, semplicemente perché non lo sono e basta. Punto. Fine dei giochi.
Non lo sono mai stato. Potrei perdere le giornate a cercare di fingere di esserlo, ma poi le sentirei ancora di più, quelle farfalle nello stomaco, sempre lì a ricordarmi chi sono io davvero. Voi le sentite? E’ una continua pulsione incontrollabile che mi fa tendere a quello che sono: una persona insensata.
 Io ho accettato ciò che sono e ho deciso di conviverci. Ma fa male.
 Purtroppo so chi sono, e sento di non appartenere a me stesso.  E la mia rabbia non può fare davvero un cazzo per porre rimedio.
 Ho smesso di credere di avere voce in capitolo. La mia indole, non me la sono scelta io la mia indole.
La mia quotidianità stantia è il limbo che mi spetta, e chissà chi l’ha deciso.
 Ho smesso di aver voglia di lottare per diventare ciò che non sono. Non porterebbe a nulla e la ragione è molto semplice: la mia coscienza è incredibilmente lucida, ma fottutamente debole. O forse sono le turbolenze con cui conviviamo ogni giorno nella nostra segreta interiorità ad essere troppo forti per chiunque provi a contrastarle.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


La prima cosa che avevo detto a Brandon quando gli chiesi se potessi portare Elaine alla festa era specificare che lei non era la mia ragazza.
E a lei avevo detto che quell’invito non rappresentava un’evoluzione del nostro rapporto. Lei rispose ridendo, avendo trovato probabilmente ridicola quell’affermazione effettivamente un po’ pseudo-seriosa. Non si aspettava niente da quell’invito ovviamente, né tantomeno si aspettava e voleva nulla in generale, forse.
“Domenica Elaine 21”, scrissi in rosso con debito anticipo su un angolo della parete a fianco alla porta, di modo che la scritta mi risultasse visibile ogni volta che uscivo dalla stanza.
Dopo aver dato da mangiare a Salice, passai a prenderla da casa e poi prendemmo il bus insieme. Avevamo appuntamento con Duke alle 21:30 alle Orchidee; non era il caso di trovarsi direttamente da Brandon, dato che loro due non avevano ancora tanta confidenza, dunque avevamo deciso di incontrarci a metà strada mezz’ora prima per poi salire tutti insieme a casa di Brandon.
“E così tu saresti Duke!”, esclamò Elaine col tono di chi aspettava quel momento da tanto tempo.
“Piacere!”, rispose Duke con pari entusiasmo ma con un pizzico di goffaggine, allungando il braccio per darle una stretta di mano, ma in modo quasi robotico e forzato. Quel gesto mi ricordò quando da piccolo i tuoi ti ripetono  in continuazione che devi dire “grazie” quando ti viene regalato qualcosa da un’altra persona, e te lo ripetono a tal punto che prima o poi arrivi a farlo in automatico, come fosse un riflesso incondizionato; la persona che ha fatto il regalo, però, in un certo senso riesce sempre a percepire che quel ringraziamento in realtà proviene dalla bocca dei genitori.
Con ciò non intendo dire che Duke faceva le cose controvoglia, semplicemente la sua timidezza lo portava, nel momento in cui si rapportava con un estraneo, a non compiere le azioni in maniera naturale, ma anzi è come se le “ripescasse” al momento necessario da una la lista pre-stilata di cose che vanno fatte in una certa occasione.
Che fatica vivere così.
“Quindi vuoi imparare il francese eh?” Beh ,se vuoi sapere la mia, anche la peggiore guida online è migliore di questo ciarlatano”, e mi indicò col dito guardandomi con gli occhi di chi ti prende per il culo pur essendo in qualche modo tuo complice.
E ci gettammo tutti e tre in un’ipocrita risata.
Ipocrita per Elaine, ipocrita per Duke, e ipocrita anche per il sottoscritto.
Per tre motivi diversi.
Elaine sapeva che la sua battuta non era divertente, ma semplicemente non vedeva l’ora di sfoderare la sua risatina. Da quando una volta le dissi che mi piace molto il modo in cui ride ha sempre cercato di cogliere ogni buona occasione per farlo.
Io dal canto mio ridevo perché mi toccava farlo, pur trovando la battuta del tutto fuori luogo. Se non l’avessi fatto, sarei risultato agli occhi degli altri come quello che non sa ridere di sé stesso. E a inizio serata non è certo il massimo.
Duke rideva non perché trovasse la battuta particolarmente simpatica, ma perché obiettivamente ridere era meglio che provare a rispondere qualsiasi cosa. D’altronde, per quanto una risata possa suonare strana, è sempre meglio di una parola fuori posto.
Mentre ci incamminavamo in direzione di casa di Brandon, Elaine chiese a Duke perché volesse imparare il francese e uscì fuori il discorso della tipa.
Elaine provava molta simpatia per Duke, e iniziò da subito ad assumere un atteggiamento quasi da “sorella maggiore” nei suoi confronti, ma senza quel fare eccessivamente zelante di chi ti vuole insegnare a vivere. E’ solo che percepiva in lui della tenerezza e ciò la rendeva ben disposta. D’altronde, devi essere uno stronzo per non voler bene a Duke.
Giunti a casa di Brandon, arrivò l’incomodo momento di presentargli Elaine. Era quasi matematico che avrebbe fatto il cazzone, io avevo già preso le contromisure e l’avevo ovviamente avvertita.
“Elaine! Finalmente! Piacere! Toglimi una curiosità, sai com’è... il socio come credo saprai non ama troppo raccontare le cose e non è stato troppo chiaro. Come funziona, scopate soltanto o c’è dell’altro? Perché, beh, se ci fosse dell’altro lui non me lo direbbe a prescindere”. E accompagnò il tutto con un sorrisino che ambiva probabilmente ad un qualcosa di simpatico e colorato da una punta di sarcasmo, ma io dal canto mio percepivo solo maleducazione e spocchia.
“Ahahaha, confermo…va grossomodo come ti è stato detto”, rispose Elaine con aria divertita. Non saprei davvero dire se lo fosse realmente o meno. La osservavo.
Elaine non si faceva mettere in imbarazzo dalle altre persone. E sapeva quando non era il caso di prendere le cose seriamente, riusciva sempre a capire bene chi aveva di fronte a sé e cercava di agire nel modo che la situazione del momento richiedeva.
Detto ciò, Brandon si sarebbe meritato un paio di schiaffi.
“Ehilà campioncino, io non mi sono ancora scordato dello scacco dell’altro giorno”, disse poi puntando la preda apparentemente più debole, Duke, che però paradossalmente accennando un mezzo sorriso mise a tacere Brandon, il quale, rimasto spiazzato da quell’espressione a metà tra il divertito e l’imbarazzato, non sapeva bene come proseguire il suo show.
Dunque presi la parola io, lo ringraziai dell’invito e tirai fuori la bottiglia di amaro.
“Oh, ma non dovevi amico, ho già provveduto a tutto io”, disse lui.
Brandon è un coglione, ma ci passi il tempo.
Alla fine lo faceva in modo bonario, la cosa migliore era non dare peso al suo fare a volte inopportuno, come aveva fatto Elaine.
Ci invitò a entrare e ad accomodarci. Ci sedemmo sul divano.
Gli altri amici di Brandon sarebbero arrivati mezz’ora dopo, a quanto ci disse.
Brandon aveva precisato che non dovevamo farci particolari aspettative su quella serata, dal momento era stata organizzata su due piedi. Dunque nessuno di noi si aspettava nulla, ma la serata andò in realtà piuttosto bene.
Forse dovremmo tutti avere meno aspettative sulle cose.
Le nostre vite sono a tutti gli effetti un flusso misterioso, insensato e inspiegabile di eventi sconnessi tra di loro. E nonostante ciò chissà perché continuiamo a vivere come se la via più logica fosse che le cose debbano prendere la direzione che desideriamo. Lottiamo affinché ciò succeda. E quando non succede ci sentiamo presi per il culo e veniamo sopraffatti dallo sconforto, come se all’origine di tutto ci fosse stato promesso altro. Non è così.
E alla fine la vita è un po’ una presa per il culo probabilmente, e forse vivremmo un po’ tutti meglio se partissimo da questo presupposto. La vita è solo esperienza. E l’esperienza a volte può generare valore. Come gli oggetti rotti una volta che vengono riparati. Le emozioni che sperimentiamo nel corso della vita, e che ci formano, in effetti forse hanno un valore intrinseco, belle o brutte che siano.
Gli amici di Brandon erano dei simpatici cazzoni, come prevedibile. Ci eravamo divertiti.
Terminammo la serata tutti più o meno brilli. Si erano formati piccoli gruppetti di varie persone. In quel momento io ed Elaine eravamo soli, e parlavamo del più e del meno.
Era rimasta ancora una bottiglia di spumante. A breve l’avremmo aperta, per una sorta di brindisi conclusivo della serata.
Ad un certo punto, preso probabilmente dall’alcool, iniziai a fare un discorso particolarmente strano ad Elaine:
“Hai mai notato che gli istanti in cui bevi il primo sorso di spumante sono sempre più lunghi di quelli in cui fai cin con gli altri?”, dissi di punto in bianco.
“Ma che cazzo stai dicendo? Merda se sei ubriaco!”, disse lei sganasciandosi dalle risate.
“Ti spiego una cosa”, le dissi cercando fiducioso di catturare il suo interesse.
“Ho realizzato questa cosa molto tempo fa” , aggiunsi sorridendo e gesticolando un po’.
“Sentiamo, dimmi cosa hai realizzato molto tempo fa”, disse lei aggiustandosi i capelli mentre continuava a ridermi in faccia a più non posso.
“La legge più antica del mondo dice che, quando un gruppo di persone brinda, ogni persona accompagna il suo primo sorso con una riflessione ”, esclamai.
Lei continuava a ridere ad ogni singola parola pronunciata dalla mia bocca.
Allora cercai di assumere un’espressione più seria argomentando al meglio il mio discorso, da lei preso sempre meno seriamente a causa del mio evidente stato confusionale:
“Avanti, non pensi mai a niente quando butti giù il primo sorso? E’ il primo vero momento di intimità con sé stessi dopo una serata passata ad interagire con la gente, come si fa a non pensare a nulla? Viene spontaneo farlo!”, dissi cercando in tutti i modi un suo consenso.
Mi lanciò un sorriso tenero e non disse nulla.
 Subito dopo Brandon chiamò tutti attorno al tavolo e aprì la bottiglia di spumante.
Brindammo.
Elaine, ormai presa dall’alcool anche lei, improvvisamente abbassò la musica dallo stereo e chiese a tutti un attimo di attenzione. Le persone la guardavano, incuriosite dalla situazione. Tutti fecero immediatamente silenzio, assecondando la sua richiesta.
E lei disse:
“Signori, la legge più antica del mondo dice che, quando un gruppo di persone brinda, ogni persona accompagna il suo primo sorso con una riflessione. Ora vi dirò con sincerità cosa ho pensato io in quel momento, e subito dopo ognuno di voi farà lo stesso”.
Eravamo tutti imbarazzati.

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