Fish 'n chips.

di BlueWhatsername
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fish 'n chips. ***
Capitolo 2: *** Fish 'n chips; six years later. ***
Capitolo 3: *** Fish 'n chips; Pretending. ***
Capitolo 4: *** Fish 'n chips; Defying Gravity. ***



Capitolo 1
*** Fish 'n chips. ***


L’entrata in casa di soppiatto non era mai stata la sua specialità.
Non lo era stata da bambino, quando si divertiva a scorrazzare in giardino, tuffandosi tra l’erba e la terra, e la madre lo costringeva letteralmente a spogliarsi prima di essere riammessa sull’immacolato pavimento di marmo dell’abitazione.
Non lo era stata da ragazzo, quando tornava a notte fonda – pancia piena e umore allegro, abbastanza allegro – e c’era sempre qualcuno pronto ad attenderlo per la ramanzina settimanale del sabato sera.
Non lo era ora, da sposato, quando rientrare significava obbligatoriamente dover passare per la vista a raggi X della moglie, una vista così acuta che nemmeno Superman avrebbe potuto eguagliarla, tanto precisa da individuare anche gli acari sperduti agli angoli delle stanze.
Niall socchiuse l’uscio, attento a non fare rumore – come se poi sarebbe servito davvero – ed avanzò lentamente, gli stivaloni di gomma che gli lambivano le ginocchia ancora ai piedi, il suo impermeabile indosso, berretto, canna da pesca in una mano e secchio con le vittime nell’altra.
Sospirò, quando si rese conto che il primo passo era stato portato a termine con successo: almeno era riuscito ad entrare, di solito era costretto a denudarsi come un verme – tipo quelli che teneva come esca – prima di poter anche solo mettere il naso dentro casa.
Avanzò di qualche passo, la suola bagnata – ed infangata – dei suoi stivali strideva pesantemente sul pavimento, come se ogni passo gli preannunciasse il rumore che avrebbe fatto il suo collo semmai lei lo avesse scoperto in quello stato.
Zuppo, infangato, lercio, con tanto di stivali sudici da pesca.
E dentro casa, sul pavimento immacolato dell’ingresso.
Sospirò, togliendosi il cappello e poggiandolo sul divano, dopodiché depositò il secchiello con i pesci pescati a terra e la canna proprio contro il muro, stando ben attento a non fare rumore.
Si guardò attorno, notando l’immobilità dell’ambiente, il silenzio che regnava, ed anche il buio che proveniva dal piano di sopra, sintomo che Bessie non fosse davvero a casa.
Altrimenti chissà che sarebbe successo.
Dette un’occhiata all’orologio: le sette e mezzo, davvero aveva passato così tempo fuori casa?
Si passò la mano tra i capelli biondi e sudaticci, sbuffando.
E quando fece per togliersi l’impermeabile, immancabilmente perse l’equilibrio, rovinando addosso al divano, finendosi praticamente sopra.
<< Cazzo… >> gli scappò detto in un sussurro quando notò la trama bianca del tessuto che lo rivestiva completamente striata di un marrone poco consono nonché puzzolente e acquoso.
Si tirò in piedi, con una manica dell’impermeabile infilata e l’altra no, gli stivali che stridevano di acqua e fango, e corse in cucina, portandosi dietro una candida scia di orme per tutto il pavimento.
Cosa che era comunque già successo dal suo ingresso a casa fino a quel momento.
Acciuffò una pezzuola bagnata, catapultandosi a riparare il danno che aveva combinato, quasi rischiando di travolgere sia la canna appoggiata al muro sia il secchio con i pesci morti – ed anche abbastanza puzzolenti, che ricoprivano quasi del tutto il profumo di arancio che Bessie amava tanto spruzzare in casa ogni mattina.
Con fare goffo – e disperato – tento di ripulire le striature marroni sul divano, ma l’unica cosa che ottenne fu di intensificarne il colore, oltre che l’odore acquoso.
Ed a quel punto l’unica soluzione che gli venne in mente fu di tornare da dove se n’era venuto a passare la serata – tutta la vita – con i pesci, nel rigagnolo che scorreva poco lontano da casa e che gli permetteva quelle ore di svago senza il bisogno di stare a contatto con nessuno.
Ci era cresciuto in quelle campagne, in mezzo al verde, respirando l’aria fresca e profumata d’Irlanda , a contatto con la natura e con gli spiriti liberi come lui, gli animali e le piante.
E non era stata una novità sentirlo dichiarare, nei mesi di fidanzamento con Bessie, che gli sarebbe piaciuto – avrebbe preteso, meglio – vivere in campagna, con un rigagnolo d’acqua vicino che gli permettesse di coltivare il suo hobby – ed anche di mangiare a gratis, cosa che lui amava sopra ogni altra.
Ed ora, quello stessa scelta di vivere in campagna e di andare a pesca, gli stava costando il matrimonio.
Perché, certo, se Bessie l’avesse mai scoperto, l’avrebbe buttato fuori casa – nudo come i vermi che usava per pescare, tanto per essere precisi.
E gli stava costando quasi la vita.
Perché la stessa Bessie, prima ancora di divorziare, gli avrebbe tranciato di netto la testa, di sicuro con uno di quegli adorabili coltelli con cui puliva sempre il pesce che lui portava a casa.
Mugolò, infastidito, lanciando la pezzuola nell’angolo della stanza.
Lo avrebbe ammazzato, e stavolta sul serio.
L’ultima volta che l’aveva vista arrabbiata era stata al loro primo incontro, poi non erano mai andati oltre il ‘Hai ragione tu, amore’.
Un rapporto impeccabile, il loro.
 
 
 
 
Niall corre così veloce che le ginocchia potrebbero staccarsi e gli stinchi smontarsi di loro volontà.
Se non fosse sempre così in ritardo, sarebbe anche meglio.
Aveva un appuntamento, un dannato appuntamento.
Il suo amico Fred lo ha concordato settimane prima di andare a mangiare a quel dannato Fish ‘n chips che ha aperto da poco all’angolo della strada, dicono che faccia la miglior frittura della città, e che le patate siano arrostite in una maniera ottima, croccanti ma così tenere da sciogliersi in bocca.
Ha anche prenotato un tavolo, Fred, e ritardare è davvero da stronzi.
Beh, ma tanto ritardatario è sempre stato, dopotutto.
E se non fosse che adora il pesce – in ogni maniera ed in qualsiasi momento – non correrebbe certo così.
Niall Horan lo sa, di essere un pasticcione nato, ritardatario cronico – ma forse un po’ ci marcia su questo, lo sanno tutti – e anche un po’ sbadato.
E se non fosse che la cosa verso cui si dirige è quella che ama sopra ogni altra di certo non si scapicollerebbe così.
Sorpassa un bambino sul monopattino, svoltando di corsa all’angolo, quasi inciampando nei suoi stessi piedi, ma continuando a correre.
Ed ha anche piovuto, per cui la strada è bagnata e scivolosa, ed anche un po’ infangata, roba che scivolarci sarebbe come buttarsi a occhi chiusi in un porcile.
Aumenta la corsa, mentre sente il telefono vibrare in tasca, di sicuro è Fred che si chiede dove sia finito, ma lui non ha davvero tempo di rispondere, lui…
… Senza rendersene conto finisce contro il muro, sbattendo la spalla.
Strizza gli occhi, mentre i peggiori sproloqui gli passano per il cervello, e tenta di rimettersi in piedi senza sforzi, pure se il dolore è pungente.
Muove il braccio in modo circolare, mentre il fastidio si attenua a poco a poco, pure se ormai i pantaloni si sono sporcati all’altezza delle ginocchia, ed anche la maglia e bagnata.
Beh, lo faranno entrare comunque, no?
Non può di certo perdersi quel meraviglioso fish ‘n chips
<< Pezzo di idiota! >>
Si riscuote, voltandosi verso la strada, sicuro che quel gentile appellativo sia per lui.
Che è un po’ idiota se l’è sempre detto – e anche da solo – ma sentirselo dire così, fa tutt’altro effetto.
Un ragazzina è seduta a terra, gambe incrociate e capelli sugli occhi.
La salopette di jeans che ha indosso è completamente sporca, sia sulle ginocchia che sul davanti, come se si fosse rotolata a terra – Niall vorrebbe ridere ma si trattiene, non sa per quale strambo istinto di conservazione che gli suggerisce di starsene zitto – ed i suoi capelli biondi, di un lucido color cenere, hanno le punte intrise di marrone, e no… Non è tinta, quella.
Poco più in là, una bicicletta viola è riversa a terra, schizzata di marrone anch’essa.
Devono essersi scontrati, allora, è l’unica soluzione.
Niall muove qualche passo, con tutto l’intento di aiutarla, quando si sente dare uno spintone improvviso, che nemmeno lo fa ragionare.
Lei, chiunque sia, gli è così vicina che può contarle le poco lentiggini sulle guance, ed anche sulla punta del naso.
Lo scruta con i suoi occhi di uno strano color selce, pieni di pagliuzze verdi che sembrano galleggiarci, lì dentro, le labbra spianate e la mascella contratta.
<< Io… >> tenta di dire Niall scostandola, ma lei lo spinge di nuovo, inchiodandolo al muro.
Ma cos’è, una ragazza o uno spirito demoniaco?
Somiglia tanto a una Banshee, una di quelle donne spiritate di cui la mamma gli parlava sempre da bambino e…
<< Brutto idiota! >> gli urla ancora lei, a poco più di due centimetri dal naso << Guarda cosa hai combinato! Mi sei praticamente venuto addosso, ma dove avevi il cervello, eh? >>
Lui la scruta con un misto di confusione e sincera sorpresa.
Non si è nemmeno fatta male, di che si preoccupa?
<< Se è per la bici mi spiace, se è rotta… >>
<< … La bici?! >> esclama lei, tirandosi indietro e allargando le braccia, con fare ovvio << Ma guarda come sono ridotta io! >> e Niall la squadra da capo a piedi, notando nuovamente le varie macchie sparse sulla sua salopette di jeans, oltre che sulle punte dei capelli biondo cenere << Sono diventata una schifezza, e tutto per colpa tua! >> scandisce fermamente, puntandogli l’indice contro.
<< Veramente… >>
<< Cosa?! Tu, nanerottolo da circo, dovresti ripagarmi la lavanderia, lo sai?! >>
Niall si acciglia, non riuscendo a nascondere un sorrisetto scemo.
<< Che c’è?! >> chiede lei, minacciosa.
<< Se è per questo dovrei ripagarti anche il parrucchiere! >> risponde, sarcastico, mentre la ragazza spalanca la bocca, visibilmente contrariata e si afferra una ciocca di capelli, urlando alla vista delle punte intrise di fango.
I suoi capelli sono così lunghi, nota Niall, che quasi le toccano i fianchi.
<< Tu… TU… >> sibila lei, le guance abbottate e rosse di rabbia << …Oh, sparisci! Idiota! >>
E si volta, dirigendosi a passo spedito verso la sua bicicletta ancora riversa a terra.
Niall sospira, passandosi una mano tra i capelli.
Si riscuote, estraendo il cellulare dalla tasca, che ha ormai accumulato talmente tante chiamate perse da esplodere quasi.
<< Arrivo subito, Fred, io… >>
<< Niente da fare, amico! Dobbiamo rimandare! >>
<< Come mai? >> chiese un basito Niall, senza staccare gli occhi di dosso da quella ragazza, ancora ferma a qualche metro da lui: è in ginocchio – nella fanghiglia – e sta trafficando alacremente con la catena della bicicletta, deve essersi sfilata con l’urto che l’ha fatta cadere, e ogni tanto lancia qualche imprecazione al cielo e qualche occhiataccia a lui.
<< … Capito? Dobbiamo rimandare! Ti spiace? >>
<< Eh? >> borbotta, alla domanda del suo amico al telefono << N… No! Figurati, ci… Ci sentiamo Fred! >> e appende, mentre l’altro ancora sta parlando.
Sta fermo pochi secondi, prima di avvicinarsi a quella stramba tipa, che è ormai talmente sporca di fango da risultare quasi comica.
<< Che cazzo vuoi?! >> lo aggredisce infatti, quando la catena della bici le scivola di mano e quella cade di nuovo a terra, facendola imprecare di nuovo.
Ha anche le mani sporche, ora, è davvero un disastro.
<< Posso… >> prova Niall, frenandosi dal ridere, ma solo perché teme che lei possa prenderlo a pugni.
<< No, non puoi! E ora sparisci! >> lo apostrofa lei, alzandosi in piedi, e agguantando la bici.
<< Ma… >>
<< Oh senti, ma che cazzo… >> e la bici le scivola di nuovo di mano, finendo nel fango della strada, ormai è sporca e inzaccherata quanto la padrona.
Padrona che si è appena portata le mani al viso, in un gesto disperato.
Padrona che ora sta urlando, dopo essersi resa conto che aveva le mani sporche dell’olio della catena, e che ora quell’olio ce l’ha per tutto il viso.
E che puzza, ed è unto.
Niall non si trattiene più, scoppia a ridere, cogliendo a pieno la scintilla incendiaria di rabbia che le pervade gli occhi.
<< Oh, fanculo tutto, idiota! >>
E si volta, incamminandosi nella direzione opposta, senza manco raccogliere la bici.
Niall tenta di ricomporsi, mentre uno strano intreccio gli coglie lo stomaco.
La fame, sicuro.
Ed è per puro caso che le corre dietro, chiedendole come si chiama.
Non è proprio Banshee, ma ci va vicino.
Bessie suona bene.
Ed è sempre per puro caso se lei accetta di andare a quel fish ‘n chips con lui, dopo.
Tanto il tavolo è prenotato, no?
E pure se sono entrambi lerci e sporchi, il profumo di fritto coprirà tutto, persino gli insulti che lei gli sta ancora rivolgendo.
 
 
 
 
Lo avrebbe riempito di insulti, poco ma sicuro.
E di sprangate.
Mai una litigata, dopo quella del primo incontro, certo, ma lo sguardo demoniaco da Banshee le era sempre e comunque rimasto.
Certo, ora non portava più salopette di jeans, né andava in giro in bicicletta, i suoi capelli erano più corti, ma sempre di quel biondo cenere strano che brillava, per certi tratti.
Non faceva più le cose di una volta, ma se c’era una sua caratteristica rimasta inalterata era la maniacale voglia di pulito.
Ed un divano bianco sporco di fango, un pavimento lercio, ed un secchio di pesci puzzolenti in salotto di certo non sarebbero mai rientrati nelle sue prospettive di pulizia.
Niall sbuffò, andando ad agguantare la canna da pesca vicino al muro – i suoi stivali che ancora stridevano rumorosamente sul pavimento – quando una mano si sovrappose alla sua, strappandogli l’oggetto da sotto gli occhi.
La luce dello sgabuzzino si accese, e con essa la luce poco cordiale degli occhi di sua moglie.
Si sentì deglutire, mentre questa lanciava la canna da pesca nello sgabuzzino, con ben poca grazia, e poi avanzava a passo lento nel salotto, studiando ogni minimo particolare.
I suoi occhi di selce intercettarono il pavimento imbrattato, spalancandosi pericolosamente alle chiazze sul divano, diventando contrariati alla vista dei pesci morti nel secchio.
Non fiatò, sollevando su di lui due occhi ammonitori ed esplicativi.
Sospirò, una, due, tre volte, deglutendo.
Niall aprì la bocca, rendendosi conto di non sapere che dire, quindi la richiuse al volo, mentre tentava di farsi venire una qualche buona idea per salvare il matrimonio.
E la sua testa, senz’altro.
<< Mi spieghi che significa, di grazia? >> fu la placida domanda di lei, velenosa quanto il morso di un serpente ed ammaliante quanto il suo sibilo.
<< Pensavo non fossi a casa… >> attaccò Niall, confuso, ma pentendosi subito dopo della risposta data.
Prima ammissione di colpevolezza e non era una bella cosa.
Gli occhi di Bessie scintillarono, furenti.
<< E quindi se non sono a casa puoi entrare ed imbrattare tutto a tuo piacimento, eh?! Tu, brutto idiota che… >>
<< … Il divano non è… >>
Seconda ammissione, e gli occhi di lei sempre più cupi: stavano per degenerare.
<< Niall James Horan, chi pensi che sono io, eh?! >>
<< Tesoro, il pavimento… >>
Terza ammissione, e lo scatto fulmineo di lei, con l’indice puntato.
<< E non chiamarmi tesoro, sai?! >> la voce di Bessie raggiunse qualche ottava sopra il naturale tono di voce, la mano quasi le tremava << Vattene al diavolo, tu, i tuoi pesci e la tua stramaledetta pesca! >>
Niall impallidì, vedendola così scossa.
<< Andiamo, Bes! >> esclamò, con quel nomignolo che usava sempre in situazioni particolari, e che a lei piaceva tanto per il modo in cui la voce roca di lui riusciva a farla fremere e tremare.
La donna gli si avvicinò ancora, l’indice puntato come un coltello davanti al suo viso, fece per parlare, ma tutto ciò che le uscì fu un verso inarticolato.
Si volse, mollando un calcio al secchio con i pesci, facendoli scivolare sul pavimento.
<< E cucinateli da solo! Strozzatici! >> esclamò, entrando in camera e sbattendosi la porta alle spalle.
Niall stette immobile, quasi incapace di respirare.
Oh beh, almeno aveva ancora la testa attaccata al collo.
Dire lo stesso del suo cuore attaccato allo sterno era fantascienza.
 
 
 
 
Ora capiva perché quel fish ‘n chips fatto in casa fosse così buono.
Perché Bessie puliva il pesce fin troppo bene, e lasciava cuocere le patate in una maniera tale per cui si scioglievano al contatto stesso con la forchetta.
Cosa che Niall non sapeva fare, viste le spine che aveva trovato nel suo piatto e le patate quasi crude con cui si era pelato lo lingua, al solo metterle in bocca.
Mollò la forchetta, abbattuto.
Sbuffò, poggiando il suo piatto mezzo vuoto nel lavandino, con la tentazione di buttarsi, a sua volta, dalla finestra.
Quel litigio l’aveva un poco destabilizzato, anche troppo.
Non era mai successo, non era preparato ad affrontare una tale situazione.
Come si faceva pace con qualcuno con cui non si aveva mai avuto un dissidio, nemmeno il minimo?
Due anni di frequentazione, tre di fidanzamento e due di matrimonio.
E quello era il loro primo litigio vero, escluso il primo incontro.
Sbuffò, acciuffando un piatto pulito e riempiendolo con quello che gli pareva il pesce cucinato meglio e con qualche patata cotta – almeno alla prima occhiata.
Prese un bel respiro, avanzando senza ripensamenti verso la porta chiusa della camera: adesso o mai più, si disse con convinzione, abbassando la maniglia.
Sbirciò nella stanza, trovandola raggomitolata sul letto, di spalle rispetto a lui, le ginocchia strette al petto e sommersa in una di quelle felpe giganti che le piaceva portare, quelle che profumavano sempre d’arancio o di detersivo.
<< Sparisci, tu e quella roba che puzza a chilometri di distanza. >> lo apostrofò lei, la voce sicura e decisa.
Almeno non aveva pianto, si consolò lui, posando il piatto sul comò e sedendosi accanto a lei, sul grande letto che sapeva di bucato fresco ogni volta.
Profumava, tutto odorava di piacevole con lei, tutto sapeva di buono.
<< Sono un pessimo cuoco, lo ammetto… >> ridacchiò lui, sentendosi stringere lo stomaco a vederla ancora ostinatamente voltata e silenziosa.
<< Bes, io… >>
<< Sei sempre il solito, Niall! >> esplose di scatto lei, sollevandosi a sedere, con gli occhi sbarrati << Te ne freghi sempre di quello che uno fa, te e vai a pesca per tutto il pomeriggio e poi arrivi e cominci a… >>
<< Oh andiamo, Bes, è stato un caso… >>
<< … Un caso?! >> rise lei, portandosi i capelli dietro le orecchie con stizza << Pensi sempre che io non ti dica niente solo perché in questi anni non abbiamo mai litigato, ma ciò non significa che io sia scema! Sai quanto ci tengo a certe… Cose! E tu… >>
<< Stiamo litigando per un pavimento sporco? >> proruppe lui, sentendosi irritato.
<< No, stiamo lit… Non stiamo litigando! >> ci tenne a correggere lei, con un tono di voce quasi isterico << E se anche lo stessimo facendo è perché tu sei un idiota! >> e si volse di nuovo di schiena, spostandosi di un po’, il più lontano possibile da lui.
In effetti, era a pochi centimetri dal bordo del letto, sarebbe potuta cadere senza problemi.
<< Bessie, spostati o finirai sul pavimento. >> la avvertì lui, serio, tentando di prenderle un polso.
<< Fatti i cazzi tuoi, e lasciami in pace! >> ribatté lei, scrollandoselo di dosso, quasi sbilanciandosi << E portati via quella schifezza che ha un odore così insopportabile da sembrare fiele! >>
Niall inarcò un sopracciglio, sempre più confuso.
<< Dai, vieni qua… >> tentò ancora, agguantandola per il gomito.
Lei scattò, in un rapido corpo a corpo, rischiando quasi di portarselo dietro, finendo per travolgerlo comunque.
E quando gli fu sopra, con le ginocchia ai lati dei suoi fianchi e le mani sul suo petto, Bessie si concesse un sorrisetto soddisfatto.
<< Sparisci, Niall. >> rimarcò, facendo per spostarsi.
Lui fu più veloce, la capovolse sotto di se, premurandosi di tenersi un poco sollevato per non pesarle addosso.
Bessie lo squadrò con sospetto, prima di mollargli un ceffone in pieno viso, con tutta la forza che aveva.
Lui se ne stette immobile, quasi senza respirare, mentre sentiva il sangue fluirgli alle guance, e non solo per il fastidio che avvertiva.
<< Me lo meritavo… >> concordò poco dopo, guardandola negli occhi.
Lei annuì, poggiando la fronte contro il suo petto, nascondendosi in lui.
<< Profumi… >> mormorò dopo un po’, soffocando uno sbadiglio.
<< Guarda che uso farmi la doccia, fino a prova contraria! >> scherzò lui, passandole una mano tra i capelli; rimase in silenzio, sentendola respirare verso le parti del suo collo << Non hai fame? Guarda che non fa poi così schifo, basta solo stare attenti alle spine… >> e rise ancora, sentendola fare lo stesso.
Avvertì le delicate mani di lei, risalirgli le spalle, dolcemente, poco prima che sollevasse il viso verso il suo, per guardarlo dritto negli occhi.
E Niall sentì di potercisi perdere davvero, come aveva sentito quella prima volta che erano stati a mangiare da quel nuovo fish ‘n chips sfruttando la prenotazione del suo amico Fred, quando l’aveva vista abbuffarsi di frittura e patatine come nulla fosse, il viso ancora sporco di olio di bici e gli occhi profondi e pensosi come in quel momento.
Si avvicinò lentamente, incastrando le sue labbra con quelle di lei, avvertendole morbide e bollenti come ogni volta, con quel retrogusto fruttato, colpa del suo lucidalabbra, quello che le faceva diventare la bocca ancora più rossa ed invitante.
Lasciò vagare le mani lungo la sua schiena, tratteggiando le pelle coperta dalla felpa, avvertendo il suo respiro farsi irregolare e così basso da confonderlo.
Era come una fucilata, un dannato colpo sparato dritto alla bocca dello stomaco, una fame che non avrebbe mai saziato in pieno.
Perché di lei non se ne poteva mai avere abbastanza.
<< Rimani comunque un idiota… >> gli sussurrò Bessie all’orecchio, quando Niall si chinò a lambirgli il collo e poi sfilarle la felpa, spargendo la sua massa di capelli biondo cenere sul cuscino.
E quello lo sapeva.
Ma pensare, in quell’istante, gli veniva difficile, più complesso del solito.
Specie se lei tratteneva le sue dita sulla pelle, se gli baciava il mento in quel modo, se lo chiamava così insistentemente da stordirlo.
E andava bene, dopotutto, per la cena ci sarebbe stato tempo.
 
 
 
 
Bessie si volse, incontrando il sorriso di lui.
Gli sorrise a sua volta, rannicchiandosi sotto il lenzuolo, una mano sotto la guancia ed una stretta nella sua.
Le dita di Niall erano state sempre molto più lunghe delle sue, e per questo adattissime a scaldarla dal freddo.
<< Lo pulisci tu quel casino di là, sia chiaro… >> ci tenne a precisare lei dopo un po’, alludendo al divano ancora lercio ed al pavimento.
Lui annuì, scoccandole un bacio all’altezza dello zigomo.
Bessie prese un bel respiro, storcendo il naso.
<< Quel coso puzza! >> sbottò, alludendo al piatto di pesce e patate ancora sul comò.
<< Sei solo paranoica! Guarda che se avessi provato… >>
<< Scherzi?! Non voglio che moriamo avvelenati! >>
Niall rise, divertito << Io sto benissimo, se è per questo… >>
<< Non parlo di te, difatti. >>
<< Ma hai detto… >>
<< Lo so quello che ho detto! >> lo frenò Bessie con un’occhiata decisa, leggendo l’indecisione negli occhi celesti del marito << Io… Io mi riferivo… >>
Niall deglutì, sentendo un nodo schifosamente piacevole formarsi al livello del suo stomaco.
<< Hai presente quel detersivo alla lavanda che non uso più? >>
Lui annuì, senza capacitarsi di cosa stesse dicendo.
<< Beh, ultimamente avevo notato che se lo usavo avevo una tossa che non finiva più e… Oh, ricordi quel sapone strano che… ? >>
<< Bessie, piantala e arriva al dunque. >> la interruppe lui, sull’orlo dell’isteria.
<< Penso che prossimamente avrò più panni da lavare e stirare. >> confessò lei, mordendosi un labbro.
Niall inarcò un sopracciglio, scettico << Tua madre viene a trovarci? >> chiese, senza interesse né felicità alcuna all’eventualità.
Lei dissentì, sentendosi un poco più sicura.
<< No, verrà a trovarci qualcuno che resterà con noi per molto tempo… >>
Il silenzio che seguì fu di quanto più surreale al mondo.
<< Cazzo! >> sibilò Niall di punto in bianco, sbiancando << Vuoi dirmi che lo zio Jonathan torna a trovarci?! Non posso crederci, io… >>
E Bessie si ritrovò inspiegabilmente a sbuffare, quasi sull’orlo dell’isteria.
<< Quando dico che sei un idiota, lo dico per davvero! Niall James Horan, sei un idiota! >>
<< Ma tu non parli e… >>
<< Mi chiedo come farà un bambino a vivere qui dentro con te che sei così… >>
E gli lanciò un’occhiata indecifrabile, mentre i suoi occhi celesti si scurivano, e poi si puntavano su di lei, quasi spiritati.
<< Tuo cugino di dieci anni viene per cas… ? >> scherzò a quel punto Niall, mentre sentiva il cuore esplodergli e non poté evitare di stringerla a sé, riempiendole i capelli di baci.
<< IDIOTA! >> rimarcò lei, ridendo e baciandolo a sua volta, sentendo quella piacevole pressione al basso ventre farsi sempre più intensa, e non solo per la rivelazione appena fatta.
Quando si separarono, fu lei la prima a parlare.
<< Dovrò insegnargli a lavarsi i denti, ci pensi? >>
<< E a lavarsi le mani… >> la assecondò lui, sorridendo.
<< E a fare tutto, e… >>
<< … Credi gli piacerà andare a pesca? >> domandò Niall, ridendo.
Bessie lo scrutò un secondo, scrollando il capo.
Se fosse nato uguale a suo padre, sarebbe stato davvero difficile fargli comprendere il limite di certe cose.
Scemenze comprese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
SPAZIO AUTRICE.
Sono una persona ignobile.
Solo ieri ho pubblicato il capitolo di una FF e stamani mi sono svegliata con questa idea.
Che poi, già ce l’avevo da mesi, l’idea… Ma solo stamani mi è venuto tutto bene nel cervello, chiaro e limpido (?).
Due cose:
1)la storia della bici la devo ad una simpatica donzella che io amo, lei capirà. Love you, Aitch. <3
2)la storia del pavimento sporco di orme, invece… AHAHAHAH lo devo a qualcun altro.
Tutto ciò, si è mescolato alle idee che già avevo ed eccoci qua :’)
ANCHE NIALL HA LA SUA OS.
*trombette*
Volevo troppo scrivere di lui, ve lo giuro *-*
Spero vi sia piaciuta.
Io ne sono decisamente soddisfatta <3 ed è tutto dire.
Io adoro quel biondino irlandese con tutto il mio <3 e boh… AMATELO.
Se vi fosse piaciuta, let me know.
:3
[Non la smetterò mai di intasare questo fandom, credo]
Byeeee :3

 

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Capitolo 2
*** Fish 'n chips; six years later. ***


Quella macchia sul pavimento non era il massimo.
Anzi no, non era per niente fattibile.
Pensabile.
Accettabile.
Niall si torse le mani, valutando o meno l’idea di fare le valigie ed emigrare in quale desolata landa del Sahara.
Anche se dubitava fortemente che lei non l’avrebbe comunque trovato.
Scovato e poi ucciso brutalmente – a colpi di spazzolone, chiaramente.
Sospirò a lungo, mentre la sua mente gli proponeva varie opzioni al problema tra cui: emigrare, provare a togliere quella macchia con l’acqua, emigrare, gettarsi nel fiume, emigrare ancora, acciuffare qualche grandioso sgrassatore ed attaccare lo sporco… Che altro? Ah già.
Emigrare.
<< Cazzo… >> imprecò tra i denti, mentre vedeva la fanghiglia asciugarsi con malevola velocità sul pavimento immacolato e l’acqua gocciolare oltre il bordo della macchia, come a volergli ricordare che sì, anche se lui ci si fosse impegnato, lei avrebbe in ogni caso scovato quel che aveva combinato.
Lei lo scovava sempre, era questo il punto.
Afferrò al volo uno straccio dal lavandino, chinandosi sul pavimento per pulire quell’obbrobrio, ma involontariamente urtò la lampada all’angolo del salotto, facendola capitombolare per terra.
Per poco non la ricevette dritta in fronte, si chinò in avanti talmente in fretta da agganciare un cassetto con la tasca dell’impermeabile, quasi facendolo uscire dal mobile.
Cercando di tenersi in piedi e non imprecare troppo forte, lo rimise al suo posto, mentre con l’altra mano raccoglieva la lampada e la raddrizzava.
Qualche imprecazione tra i denti dopo e anche una leggera fitta alla schiena, Niall ritentò l’impresa.
Ciò che non aveva considerato però era che portava ai piedi ancora gli stivaloni di gomma che usava per immergersi nel fiume fino al ginocchio, stivali lerci ed infangati, ma cosa ancora più drastica ciò di cui non si era reso conto era che ad ogni macchia che puliva una si creava proprio dietro di lui, come in un circolo vizioso.
E vederlo era quanto mai buffo, dato che non si capacitava di dove provenissero quelle ripetute macchie sul pavimento.
<< Cazzo… >> sbottò nuovamente, irritato e con le guance rosse per lo sforzo, quando finalmente notò ciò che portava ancora ai piedi.
Ma fu il terrore a farla da padrone, non appena temette di aver sporcato più che il pavimento.
Si guardò attorno con attenzione e terrore insieme, e tirò un sospiro di sollievo senza precedenti quando non vide nulla di anomalo in giro.
Lentamente si tolse gli stivaloni, gettandoli fuori dalla porta ancora aperta, seguiti subito dopo dall’impermeabile e dal cappello.
Sorrise, finalmente, quando notò che ogni possibile motivo di morte era svanito fuori dalla porta – figurativamente e non – e si apprestò in cucina, dove il secchio con i pesci troneggiava nel lavandino.
La puzza era insopportabile.
Manco a dirlo, dopo lei ci avrebbe spruzzato sopra una bella dose di profumo all’arancio, come faceva ogni mattina prima di uscire di casa.
Niall si tirò su le maniche, con fare concentrato, dopodiché acciuffò un pesce – rischiando quasi di farselo scivolare dalle mani, e chissà che non sarebbe stato bene impigliato nel loro grazioso lampadario di cristallo – con una mano e con l’altra il coltello per pulirlo.
Con gli anni aveva anche imparato – che eufemismo.
Pure se lei era imbattibile in quello, senza dubbio, era precisa e sicura, mozzava la testa a quei poveri pesci con una precisione da far invidia ad Hannibal Lecter e poi li sventrava con una naturalezza glaciale, molto simile a quella con cui si getta una buccia di patata nella spazzatura.
Tirò un sospiro, pronto a colpire, quando un rumore sospetto lo fece gelare.
Un passetto, due passetti, tre
… Niall non fece nemmeno in tempo a pensarla, la giusta imprecazione per il momento, che due occhi celesti lo inchiodarono dov’era.
Poi un sorriso mezzo sdentato insieme a poche lentiggini su delle guance altrettanto rosse.
Sorrise, pure se avrebbe avuto voglia di urlare, quando suo figlio sollevò un secchiello da cui spuntavano delle teste di pesce.
Lo osservò attentamente, nel suo piccolo impermeabile verde, gli stivali che gli arrivavano oltre le piccole ginocchia, ed il capello da cui sbucava un ciuffo di capelli rossicci e disordinati, come quelli che aveva avuto egli stesso da bambino.
E oh, sì… Una canna da pesca nell’altra mano, fatta su misura per lui.
Un piccolo Horan in miniatura, insomma.
<< Papà! >>
E quella vocetta, così acuta da scuotere i timpani per qualche minuto buono.
Niall gettò il suo pesce nel secchio, ed il coltello nel lavandino, prima di raggiungerlo per togliergli dalle mani ciò che il piccolo teneva con tanto orgoglio.
E dovette faticare immensamente per non mettersi le mani nei capelli e – tirare – urlare: il pavimento che lui così faticosamente ripulito era pieno di piccole orme di fango, con tanto di gocce d’acqua verdastra e… Niall deglutì, mentre osservava anche il muro lievemente ombrato.
Si volse verso il figlio, mantenendosi serio quanto più poteva – come se fosse stato facile essere severi con un cosetto del genere – e lo scrutò intensamente.
Il piccolo piegò il visino di lato, mostrando nuovamente la sua bocca sdentata – gli erano caduti da poco gli ultimi due denti, poi avrebbe potuto finalmente mettere l’apparecchio ai denti, proprio come suo padre – ma non proferì parola.
<< Finn, non ti avevo detto di chiamarmi? >> lo interpellò l’uomo, togliendogli il capello e scompigliandogli i capelli rossicci.
Gli sfilò anche l’impermeabile e gli stivali, gettandoli nel lavandino della cucina, schizzando oltretutto le piastrelle e anche il pavimento.
Oh beh, tanto ormai il danno era fatto, macchia più o macchia meno, lei non avrebbe comunque fatto differenza, no?
E quand’era l’ultima volta che avevano litigato?
Ah già, quando lui era tornato a casa dalla pesca tutto infangato e lei gli aveva fatto quella sfuriata cosmica e poi gli aveva confessato di essere incinta.
Sembrava passato un secolo, o giù di lì.
 
 
 
 
Non ha mai dormito bene come in quel momento.
Senza pensarci, si rigira dalla parte fresca del cuscino, assaporando con la guancia il profumo di pulito che le federe emanano.
Giugno, eppure fa un freschetto particolare, un fresco che ti costringe a dormire con le lenzuola. Magari non fino alla testa, ma comunque che ti coprano fino sotto le ascelle.
Niall si posiziona meglio nel letto, avvertendo contro lo stinco due piedini che sbattono ripetutamente, quasi avessero un ritmo loro.
Sorride, senza voltarsi, mordendosi il labbro quasi a sangue.
L’occhio gli cade sulla sveglia che ha posizionata sul comodino: un aggeggio a forma di carpa gigante che Bessie odia e che definisce sempre da ‘cavernicolo’.
Sono le 4:30 del mattino, e conoscendosi non riprenderà mai più sonno, nemmeno con un mezzo litro di forte valeriana.
Si accuccia meglio dalla sua parte, tentando di resistere a quel fresco che giunge dalla tapparella abbassata a tre quarti, mentre gli viene anche da grattarsi il naso.
Che siano dannate le zanzare e le loro insopportabili punture
La prima zanzara deve essere stata davvero pessima, pensa, mentre solleva pigramente il dorso per grattarsi la punta del naso.
Un’imprecazione gli esce di bocca, nel momento esatto in cui i due simpatici piedini che prima ticchettavano contro il suo stinco ora spingono contro le cosce e poi contro la schiena, come se stessero facendo leva su qualcosa.
Gli scappa una risatina e si volta, afferrando al volo le piccole caviglie e tirandole verso di sé.
E poi urla, risate e anche abbracci.
Niall stringe a sé il suo piccoletto, quel minuscolo bambino di appena tre anni che ha dei capelli rossicci alquanto insoliti – tutto merito del suo sangue irlandese – ed anche un paio di guance rosse piene di lentiggini.
Come lui, da bambino, Finn pare un piccolo elfo dei boschi, uno di quegli essere misteriosi e magici che sanno sempre il fatto loro e vivono anche in un mondo tutto loro.
I dentini sono un po’ storti, non può fare a meno di notare, pure se nella penombra della stanza – illuminata solo dalla luce della luna – e quando sorride ha una fossetta proprio sotto al mento.
Gli somiglia, gli somiglia davvero tanto.
Più di quanto Bessie abbia mai immaginato, si trova a pensare, guardando dalla parte del letto della moglie, quella parte vuota dove invece ha dormito Finn.
Beh, ma si sa… Il venerdì è la loro serata.
Pesca al fiumiciattolo vicino casa, fish ‘n chips obbligatorio per cena, cartoni sul divano e poi letto matrimoniale solo per loro.
Così hanno festeggiato il suo primo compleanno, con Niall a pesca e Bessie che lo teneva in braccio mentre il piccoletto guardava il padre e si sbellicava alla vista di ogni pesce.
Al secondo compleanno, invece, ci sono andati da soli, loro due. Non che lei fosse particolarmente propensa ad acconsentire, ma quando la sera sono tornati con un bel secchio di pesci e anche due sorrisi umidi stampati in faccia – oltre a dei vestiti lerci e infangati, cosa per cui Bessie lo ha accusato di aver mandato un bambino di soli due anni in un fiume gelato – ogni preoccupazione è svanita, e sentire il piccolo Finn biascicare qualche parolina contorta e qualche frase smozzicata sui pesci è sembrato ancora più bello.
Ed ora eccolo, il suo terzo compleanno.
Il fish ‘n chips di quella sera non è mai stato così buono, e Niall gli ha perfino regalato una canna da pesca tutta sua, fatta su misura per lui, con tanto di impermeabile e stivaloni fino alle ginocchia. E cappello, oh sì, per proteggerlo dall’umidità.
Ed ha deciso, in cuor suo, che continuerà a regalargliene sempre, con l’andare avanti del tempo, così che abbia un ricordo, così che possa tramandare questa sua passione anche ad altri, così che si ricordi di come lo stia stringendo ora, contro il suo petto, mentre il piccoletto ridacchia, divertito.
<< La mamma? >> chiede Niall, accogliendo il figlio sul suo petto, permettendogli di salirgli addosso.
Conosce già la risposta, ma sentirlo parlare è sempre un qualcosa di nuovo e meraviglioso.
Le piccole manine indagano l’espressione del padre, poi sorride, mostrando due file di denti non completamente intere.
Niall sorride a sua volta, scompigliandogli i capelli.
<< Dorme nella mia cameretta! Prima è passata… >>
<< Cosa? >>
<< Sì… >> Finn conferma, strusciando il nasino contro il petto del padre << … Io ero sveglio e lei mi ha rimproverato e mi ha detto che se non dormivo venivano gli elfi e… >>
<< Gli elfi?! >> ride il padre, seguito dal piccoletto.
<< Sì! Tu li hai mai visti gli elfi, papà? >>
Oh sì, domanda facilissima, questa.
<< Beh… >>
<< Come sono, papà? Mamma dice che sono piccoli e… Col naso lungo e le orecchie… Tutte strane! >> Finn si rizza a sedere sul petto di Niall, gonfiando le guance, poi si sporge verso l’abat-jour sul comodino e la accende, ed ora sì che le sue lentiggini si vedono bene, così come i suoi capelli rossicci arruffati << E poi dice anche che hanno i poteri magggggici e… >>
<< Ok, campione! Ma ora rimettiti a letto o la mamma ti sgriderà di nuovo! >>
<< Ma lei ora dorme, papà! Come può sentirmi? >>
Niall lo squadra, nel suo adorabile pigiamino a quadri bianchi e verdi, poi lo afferra e se lo riporta addosso, stringendolo al suo petto.
Il bambino ride, portando le sue morbide manine al volto del padre, che lo morde giocosamente sui polpastrelli soffici.
<< La mamma è… Una Banshee! >> rivela allora Niall, in un sussurro.
Lo sente rabbrividire ed appiattirsi ancora più contro di lui.
<< Non avrai paura, eh, campione? >>
Il piccolo dissente, velocemente, ma afferra di scatto le lenzuola, tirandosele su fin sopra i capelli, per poco non acceca anche lui.
Il padre ride, abbracciandolo stretto.
<< Quindi la mamma ha i poteri? >> chiede il bambino, in un sussurro.
Guarda speranzoso il padre, con due occhi celesti e limpidi.
Hanno gli occhi uguali, loro, profondi e sinceri alla stessa maniera.
<< Mmh-mh… >> Niall annuisce, sorridendo << … Ha dei poteri fantastici! Non te ne sei mai accorto?! >>
Il piccolo dissente, mordendosi un labbro con apprensione.
<< Sa preparare una buonissima colazione, poi riordina sempre tutto… >>
<< … Con il pensiero?! >> lo interrompe il figlio, gli occhi che brillano d’eccitazione.
Niall annuisce << E odora sempre! Ha dei profumi speciali che usa per noi… >>
<< Davvero? >>
Annuisce, allungando una mano all’abat-jour, spegnendola.
<< E… Come fa a sapere sempre tutto? >> chiede ancora il bambino, avvicinandosi al volto del padre, quasi accecandolo con le piccole dita.
Lui lo accarezza, lisciandogli le guance.
Sorride, sospirando, ed è come se il bambino abbia anche smesso di respirare.
Si aspetta una bella risposta, una di quelle convincenti, sicure, una di quelle risposte che possano bastargli per la vita, perché il suo è il miglior pescatore e papà del mondo, su questo non si discute.
<< Perché lei è qui… >> Niall poggia una mano sul petto del figlio, all’altezza del cuore << … E ci sarà sempre! Sa cose che tu non conosci e… >>
<< Perché è grande? Come te, papà? >>
Lui annuisce, scoccandogli un bacio sulla punta del piccolo naso, cosa per cui il bambino ride, per poi ricambiargli il favore.
<< Mi vuoi bene, papà? >> chiede poi, con una vocina impastata di sonno.
Conoscendolo si sveglierà verso l’ora di pranzo, visto quanto ha perso per chiacchierare.
Piccola peste, Niall sa già che più passeranno gli anni e più diventerà impegnativo stargli dietro.
Ha solo tre anni eppure ragiona già come se ne avesse il doppio, sa stupirli in ogni cosa.
Tipo l’altro giorno che ha voluto a tutti i costi il coltello per tagliarsi la carne da solo, asserendo che la mamma era troppo stanca per il lavoro ed il papà troppo impegnato a tagliarsi la propria, di carne.
<< Papà! >> si sente richiamare Niall, quasi in un lamento.
E quando incrocia lo sguardo del piccoletto, lo vede serio come mai prima d’ora, così stramaledettamente serio che nemmeno a Natale potrebbe mai diventarlo, di fronte ai suoi regali ancora da scartare.
<< Certo, tesoro, ovvio che io… >>
<< Per davvero, papà! Dico davvero, io! >> insiste lui, perentorio.
Niall inarca un sopracciglio, prendendo un bel respiro.
<< Non vorrai mai bene a nessun altro bambino come vuoi bene a me? >>
<< Nessuno. >>
<< E non darai a nessun altro la parte più grande di torta, vero? >>
<< Nessuno. >> conferma ancora il padre, sentendosi spaccare in tante piccole parti ad ogni sillaba che esce da quella piccola bocca che sa più cose di tutti loro messi assieme.
E non che ci voglia poi tanto, ragiona lui, pensieroso.
<< E non porterai nessun altro a pescare con te, vero? >> pone l’ultimo quesito, il bambino, con voce calma e diretta, squadrandolo nella penombra con i suoi due fari celesti.
Scuote il capo, vedendolo sorridere, i denti mancanti che sono troppo buffi su quel viso di bambino.
Lo abbraccia stretto, baciandogli i capelli, cullandolo sul suo petto, avvertendo come odori di sandalo e muschio, il bagnoschiuma che usa ultimamente Bessie e che lascia questo profumo meraviglioso anche a distanza di ore.
Finn sbadiglia un paio di volte, mordendogli il collo, poi si acquieta, respirando piano.
E quando anche Niall chiude gli occhi, niente è migliore per riprendere sonno di quri sospiri lenti e cadenzati che lo cullano.
Lui, suo figlio, lo culla, e la cosa ha del grandioso.
 
 
 
 
Niall lo prese in braccio, correndo in bagno di gran carriera.
<< Papà, mollami! >> esclamò quello quando l’uomo aprì l’acqua della vasca e lo spogliò dei vestiti sporchi, gettandoli sul pavimento.
<< Papà! >> strillò ancora, quando si sentì sollevare e poggiare nell’acqua calda.
<< Andiamo, campione, oggi compi sei anni! Devi essere pulito e profumato o quando la mamma… >> tentò Niall, insaponandogli delicatamente i capelli e lavandoglieli con cura.
Il piccolo lo lasciò fare, acciuffando una paperella di gomma sul bordo della vasca e facendola sguazzare tra la schiuma.
<< Papà? >> chiese poi, mentre questo afferrava la spugna e la insaponava per ripulirlo per bene.
E la situazione era quanto mai comica, visto che Niall doveva stare in ginocchio per arrivare a lavare il figlio in maniera decente, ed inutile dire che gli stesse venendo un mal di schiena tremendo tra insaponatura, risciacquo, shampoo e quant’altro.
<< Dimmi… >> biascicò, schizzandosi con una generosa dose d’acqua quando il microfono della doccia gli scivolò di mano, bagnando anche i mobili.
Imprecò tra i denti, mentre il bambino rideva, il capo ancora completamente insaponato.
<< Papà, secondo te la mamma stasera vorrà vedere i cartoni sul divano con noi? >>
Niall sbuffò, per scostarsi un ciuffo di capelli – bagnati – da davanti agli occhi, poi agguantò nuovamente il microfono, azionando il getto d’acqua più morbido e delicato che ci fosse e ripulì i capelli del figlio dal sapone, sciacquando ogni singolo centimetro con un’accuratezza maniacale.
Se Bessie non l’avesse trovato lindo e pinto lo avrebbe trucidato, poco ma sicuro.
A parte che già rischiava, in ogni caso, solo per il casino che aveva lasciato in cucina…
… Chiuse d’istinto gli occhi, pregustando ciò che sarebbe accaduto.
<< Non lo so, tesoro… >> rispose frettolosamente, sollevando il bambino zuppo e avvolgendolo in un morbido asciugamano, frizionandogli i capelli con dolcezza.
Finn se lo scostò di dosso, sollevandosi in punta di piedi per guardarsi allo specchio.
Niall lo prese in braccio, ed entrambi si rifletterono nella superficie lustra al di sopra del lavandino.
Il piccolo gli sorrise, sistemandosi i capelli bagnati con le piccole dita, e poi passando a pettinare quelli del padre, con una delle spazzole – della madre – che era riuscito ad agguantare.
Stette ad osservarlo in silenzio, lasciandolo fare, studiando le piccole lentiggini sulle sue guance, sorridendo al modo concentrato che aveva di fare, al suo labbro inferiore tra i denti per la concentrazione.
<< La mamma sarà contenta! >> esclamò infine, lanciando la spazzola nel lavandino e ridendo, schioccando un bacio sulla guancia del padre.
Niall annuì, facendo per procedere verso la porta, ma bloccandosi subito dopo.
Per poco non ricadde nella vasca, con tutto il bambino appresso.
Bessie li osservava dalla porta, l’espressione seria di quando qualcosa poco le garbava.
<< Mamma! >> esclamò Finn, dibattendosi dalla presa del padre e quasi facendosi scivolare di dosso l’asciugamano che lo avvolgeva.
La donna avanzò di qualche passo, indagando con lo sguardo le condizioni del bagno, per poi puntare il marito.
Niall deglutì, leggendo in quello sguardo quello che aveva letto sei anni prima, durante la famosa litigata.
Sorrise con cautela, passando il figlio nelle braccia della moglie.
Finn le baciò una guancia, lei gli accarezzò i capelli.
<< Papà mi ha fatto fare la doccia! >> esclamò con orgoglio.
Quella sorrise, poggiandolo a terra e prendendolo per mano.
Rivolse al marito un’ulteriore occhiata, premurandosi che lui ricambiasse.
E quando lo vide impallidire, socchiuse gli occhi, esplicativa.
<< Ho notato qualcosa in cucina… >> alluse, mentre Finn le stringeva le dita con un sorriso che era tutto un programma << … Sei pronto a festeggiare, tesoro? >> chiese poi, ridendo alla faccia estatica del figlio.
Niall fece per muoversi ma lei lo bloccò con una mano sul petto.
<< Datti una sistemata o stasera ceni fuori. Mi sono spiegata? >>
Fu costretto ad annuire mentre la vedeva chiudersi – sbattersi – la porta del bagno appresso.
Era tanto se non gli avvelenava il fish ‘n chips, e ne sarebbe stata in grado, oh sì.
 
 
 
 
Due piatti di patate e tre di pesce dopo, Niall si ritrovò con Finn steso a gambe all’aria sul divano ed il dvd de ‘La Sirenetta’ che andava di gran carriera in tv.
<< Che bei pesci… >> sospirò il bimbo, osservando i protagonisti del cartone con occhi sognanti << … Possiamo prenderli, papà? >>
Niall sorrise, accarezzandogli la testa.
<< Non ci sono qui, sono lontani… Ma se vuoi, quando sarai più grande, potremo prenderci un acquario! >> promise, con fare serio.
Il bambino sembrò soppesare la questione.
<< E potrò tenerci tutti i pesci che voglio? >>
<< Tutti? >>
<< Anche quelli grandi che… >>
<< Oh no, quelli non possiamo tenerli! >>
<< E perché? >> domandò il piccolo, dispiaciuto.
Niall sospirò, facendo per rispondere, ma qualcuno lo precedette.
<< Perché quelli grandi vivono nell’oceano e… >> spiegò Bessie, sedendosi vicino al figlio e facendogli poggiare la testa contro il suo petto; gli toccò un poco i capelli, poi le guance, lisciandogliele con il palmo della mano.
Niall la stessa ad osservare, un enorme groppo in gola che rischiava di soffocarlo, e la voglia sfrenata di abbracciare entrambi.
<< Cos’è l’oceano, mamma? >> Finn sbadigliò, gli occhioni celesti lucidi di sonno e stanchezza.
<< Un posto immenso dove vivono tantissimi pesci! >> si intromise Niall, scambiando un’occhiata con la moglie.
Bessie gli sorrise, seppure di poco, mentre i loro occhi si incatenavano.
<< E possiamo pescarli, papà? >> chiese ancora Finn, mentre la sua voce si affievoliva sempre più.
Si alzò, prendendolo in braccio e cullandolo.
La moglie lo lasciò fare, osservandolo con attenzione, quasi adorazione.
<< No… >> fu la risposta sussurrata, quasi di ninna nanna alle orecchie del bambino.
<< E perché? >> la domanda che seguì, così fioca da essere a malapena udibile.
Niall non rispose, dirigendosi verso la camera da letto.
Fece per entrare, ma si volse, notando che Bessie ancora li fissava.
Ed il fatto che non lo avesse ancora ucciso per il macello che aveva lasciato – di nuovo – in giro non sapeva se rassicurarlo o meno.
Magari gliel’avrebbe fatta pagare l’indomani e…
<< Il tuo fish ‘n chips è sempre ottimo… >> le disse, ammiccando.
Lei sorrise, ironica.
<< Anche il tuo modo di fare macello per casa, idiota. >> rimbeccò, volutamente tagliente.
Niall ridacchiò, mentre lei si avvicinava, per lasciargli un bacio.
<< Buonanotte… >>
E fece per voltarsi, quando si sentì afferrare per un polso.
Squadrò il marito con sospetto, poi inarcò un sopracciglio, nel vederlo indicare la camera alle loro spalle.
<< Ma… Non è la vostra serata, questa? >> domandò, confusa e divertita.
Lui le sorrise e basta, spingendola all’interno, il bambino che dormiva beato tra le sue braccia.
Niente torta di compleanno, solo fish ‘n chips.
Sarebbe stata la serata di tutti, e per molto tempo ancora.
 
 
 
 
 
 
SPAZIO AUTRICE.

Mi è venuto un II capitolo, ed eccolo qua.
Ci stava tutto.
:D
Il nome del bambino è per Finn… Il mio dolce Finn, conosciuto anche come Cory. <3
Miss u. <3
Non c’entra col fandom degli 1D, ma fa lo stesso.
Quando avrò voglia di pensare a te, mi rileggerò questa OS.
Spero vi sia piaciuta.
:D
Byeeee <3

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Capitolo 3
*** Fish 'n chips; Pretending. ***


<< Hai preso tutto? >>
Finn per poco non inciampò sulla porta della cucina, a sentire la voce di sua madre con quel timbro aspro.
E solo di prima mattina.
Le sorrise, avvicinandosi e poggiandole un bacio su una guancia.
<< Buongiorno mamma, la tua premura mi sconvolge sempre! >> ammiccò, mentre lei borbottava qualcosa ed infilava le mani nell’acqua insaponata dei piatti della colazione con fare minaccioso.
Il ragazzo sorrise ancora, inspirando il buon profumo che sua madre emanava.
A soli diciassette anni la superava di una buona spanna e poteva quindi facilmente imporsi sull’esile figura di Bessie, rimasta comunque incantevole nonostante tutti quegli anni passati. Era la solita intemperante e puntigliosa, ma il suo cuore era rimasto grande come una volta; i suoi capelli biondo cenere splendevano ancora, ed i suoi occhi saettavano sempre e comunque quando vedeva qualcosa che poco le stava bene.
Quindi quasi sempre.
<< Non mangi niente? >> domandò la donna poco dopo, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi con uno sbuffo scocciato << Ci sono le frittelle e… >>
<< No, non ho molta fame, a dir la verità… >> rispose prontamente il ragazzo, rimangiandosi quel che aveva appena detto quando gli occhi della madre lo perforarono come due lame infuocate << … Cioè, intendevo dire che… >>
<< Finn Keith Horan, ma chi pensi di prendere in giro, eh? >> domandò Bessie, seriamente.
Il ragazzo deglutì, preso in contropiede: certo, considerato che non c’era attimo che non stesse masticando qualcosa – somiglianza alquanto accentuata con ‘quell’idiota di tuo padre’, come le diceva sempre la madre – dire che mancasse d’appetito non era proprio cosa furba.
<< Stanotte non mi son sentito molto bene e… >> buttò a caso, sperando di convincerla al volo.
<< … E cos’hai avuto? Perché non mi hai chiamato? >>
Finn sorrise << Solo mal di stomaco, niente di che… >>
Bessie sembrò soppesare la questione per un attimo, poi annuì, accettando un altro bacio da parte del figlio. Lasciò che la stringesse in un abbraccio giocoso, prima di intimargli di non fare tardi per pranzo e di ricordarsi di telefonare a quell’idiota di suo padre, tanto per informarlo che quella sera avrebbero avuto una cena importante a cui non potevano proprio mancare.
Finn rise, uscendo di casa, zaino in spalla e sciarpa attorno al collo.
L’arietta fresca della prima mattina rischiava di fargli diventare le guance più rosse del solito, pure se pareva impensabile. Camminò di fretta, le mani affondate nel giacchino blu che aveva rubato dall’armadio del padre ed una canzoncina tra le labbra, che usciva dalla sua bocca assieme a qualche sbuffo di condensa per il troppo gelo. Quando arrivò a destinazione, quasi inchiodò, sentendo il cuore che prendeva un’accelerata storica lungo il rettilineo che portava alla sua gola e che, stranamente, era diventato come un percorso da Gran Premio.
Tuffò il viso nella vetrina del negozio, controllando che non avesse niente di anormale in faccia. Che poi… Che c’era di strano? Era sempre lui, lo stesso Finn che ogni giorno si guardava allo specchio, sperando che quel dannato apparecchio che era costretto a portare per raddrizzare i denti fosse scomparso nella notte – da bambino aveva creduto nell’esistenza degli Elfi, quante volte aveva sperato che glielo sequestrassero nel sonno! Era lo stesso ragazzo con i capelli castani – il rosso dell’infanzia era svanito, lasciando il posto ad un colore più scuro, permeato di riflessi poco fulvi – e gli occhi celesti che si chiedeva ogni mattina come mai fosse costretto ad andare al liceo quando lui avrebbe voluto iscriversi ad una scuola di musica come si deve – perché sì, quella chitarra che aveva trovato in soffitta, quella chitarra rossa ed impolverata, lui aveva imparato a suonarla, forse a stento, ma… I primi accordi che era riuscito a fare erano stati la sua più grande soddisfazione, così come il riuscire a nasconderla alle grinfie di sua madre.
Deglutì, aggiustandosi i capelli con la mano ed entrando, facendo tintinnare lo scaccia pensieri appeso sopra la porta.
L’odore del pane e dei dolci lo colpì in pieno, il suo naturale appetito spropositato ruggì, non essendo stato appagato dalla colazione di sua madre.
Il locale era vuoto; vide solo un ragazzo al di là del bancone, intento a sistemate quelle che sembravano pagnotte di pane, ma non ci diede peso, sperando intensamente che nemmeno lui l’avesse notato. Fece per uscire, sconsolato, quando questi si volse, in cerca della fonte del rumore che aveva fatto muovere lo scaccia pensieri.
<< Finn! >> esclamò quello, cordiale; il ragazzo si irrigidì all’istante, simulando un sorriso convincente << Vai a scuola? Le brioche sono appena state sfornate, se aspetti un attimo… >>
<< No, no… >> rispose Finn, indietreggiando quasi per riflesso << … Mi sono appena accorto di essere in ritardo, credo tornerò più tardi – decantò, sapendo di mentire – per prendere il pane, magari… Non preoccuparti, Ibrahim… >>
<< Oh no! >> il ragazzo fece saettare i suoi occhi scuri, mentre si sistemava alla ben’e meglio il cappellino bianco sui capelli neri << Devi assolutamente assaggiarle! Sei un cliente affidabile, tu, Horan! Vieni qui e fidati del tuo fido panettiere tunisino… >>
Il ragazzo rise, avvicinandosi al bancone e facendo per prendere quello che l’altro gli stava porgendo in un fazzoletto di carta. Morse delicatamente, sentendo la pasta della brioche sciogliersi in bocca, e il sapore forte degli aromi invadergli la gola.
<< Allora? Com’è? >> domandò Ibrahim, con gli occhi che luccicavano.
Finn fece per rispondere, quando il boccone gli si bloccò in gola.
Da una porta al di là del bancone qualcosa si mosse, una tendina verde venne scostata ed una piccola figura avanzò, tenendo tra le braccia una cesta immensa, piena di quelli che parevano panini appena sfornati.
<< Oh, Raniya, poggiali pure là… >> le disse il fratello, sorridendo << … Allora Horan, che ne pensi? >> disse poi, tornando a rivolgergli un sorriso caldo.
Finn tentò di fare mente locale, cercando almeno di ricordare per quale motivo fosse entrate in quel negozio.
Sì, perfetto, l’unico problema era che l’unico motivo per cui ci fosse entrato era dall’altra parte del bancone a sistemare panini lungo i ripiani, con gli occhi bassi ed il labbro tra i denti. Ed anche con il solito camice bianco che usava per lavorare, i capelli scuri raccolti in una cuffietta e la solita ciocca impertinente che scivolava sul viso.
Ignorano l’attacco di cuore in corso, Finn annuì all’amico, scoccandogli un cinque divertito. Ibrahim incartò qualche altra brioche, ficcandogliela tra le braccia e imponendogli di riporre il portafogli, a meno che non avesse voluto scatenare un’altra crociata.
Risero entrambi, mentre la ragazza si era spostata nuovamente, prendendo le brioche dalle mani del fratello e riponendole ordinatamente in tanto piccole pile nella vetrina del bancone. I suoi occhi scuri rimasero fissi verso ciò che stava facendo, pure se Finn riusciva a vedere bene come le dita le stessero lievemente tremando e il labbro inferiore stesse per essere scalfito dai denti, tanto lo stava tenendo stretto.
<< Allora buona giornata, Horan! E saluta tuo padre e tua madre da parte nostra… >> si sincerò Ibrahim, cominciando a rovistare di nuovo tra le pagnotte di pane.
<< Sicuro, papà dice sempre che le vostre crostate sono le migliori in assoluto… >> rispose Finn, ridacchiando; si ricompose immediatamente, all’occhiata divertita dell’amico << Oh beh… Non dirlo a mia madre! Sai… >>
Ibrahim rise, mentre si spostava nuovamente, e stavolta la ragazza chiamata Raniya fu costretta a sollevare gli occhi, tanto per non cadere nell’espositore del bancone. Gli occhi di poco allungati, le ciglia lunghe, la carnagione olivastra, quasi del colore della terracotta levigata richiamarono immediatamente lo sguardo di Finn: ci fu un breve istante in cui i due si fissarono, prima che lei tornasse a contare le brioche.
<< Non preoccuparti, amico! E poi lei detiene il miglior fish ‘n chips del mondo, no?! Quella sera che ci invitasti a cena da te pensavo di poter morire d’indigestione… >>
Finn annuì ancora, mentre le immagini di quella particolare serata gli si rincorrevano nel cervello: conosceva Ibrahim da una vita, erano anche andati a scuola insieme, prima che lui decidesse di dedicarsi a lavorare nella panetteria di famiglia – tunisina, ma parlavano la lingua d’adozione meglio di altri; tutti loro erano cordiali e gentili, assolutamente impeccabili nei modi e nel comportamento.
Non poche volte Bessie li aveva avuti come ospiti a cena, sia per la felicità del figlio, sia per quella del marito – che non rinunciava mai a rimpinzarsi di fish ‘n chips fino a scoppiare.
Sorrise ancora, prima di aprire la porta e uscire nell’aria fredda, il tintinnio dello scacciapensieri si fece sentire per qualche passo mentre camminava lungo il marciapiede. Il profumo delle brioche bollenti che teneva incartate tra le mani fecero attrito col suo stomaco.
Stranamente, però, l’appetito gli era passato davvero.
 
 
 
Si sente euforico.
Anzi no, dire euforico è dire niente.
Si sente esaltato e esagitato, anche un po’ scosso, a dire la verità, ma comunque…
Felice.
Sembra strano dirlo, ma il primo bacio non se lo sarebbe mai aspettato così.
Un po’ umido, un po’ appiccicoso, un po’ impacciato. Una roba strana, a dir la verità, gli viene da ridere – e lui ride sempre, e per qualsiasi cosa – se pensa ai discorsi che fa spesso con i suoi amici, a scuola, quei discorsi molto stupidi su quanto possa baciare bene quella o quanto ci mette quell’altra per fare chissà che gioco strano con la lingua e cazzate così, il fatto è che… Nemmeno il migliore dei discorsi potrebbe spiegare realmente quello che gli viene in mente dopo aver baciato Raniya.
Ed il bello è che è successo tutto così in fretta che nemmeno sa spiegarselo, insomma… Un secondo prima erano a parlare lì, nel suo giardino, ed il momento dopo lei lo aveva afferrato per il colletto e lo stava baciando come se niente fosse.
Finn ride, pensando che deve esserle sembrato un vero idiota, visto quanto c’è rimasto di sasso, inizialmente, ma gli è bastato poco per prendere confidenza con lei.
Con le sue labbra speziate e soffici, con le sue mani timide che stringevano le sue quasi con disperazione, con il suo respiro profumato e poco aritmico.
Non ha mai baciato nessuna ragazza prima di lei, ma la cosa non gli dispiace poi tanto. Raniya è così speciale e particolare che… Beh, come non rimanerne colpiti?
Impossibile.
Suo fratello Ibrahim è stato suo compagno di scuola per molti anni, fino a che non ha deciso di lavorare nella panetteria dei suoi. Lei ha (forse?) un anno in meno, , non lo sa nemmeno con esattezza, l’unica cosa certa è che nelle poche volte che l’ha vista le è sembrata la ragazza più gentile e riservata del mondo. Quasi muta, a dire il vero.
E quando la sera prima sono venuti a cena da lui, lei… Non ha quasi parlato, sinceramente. Finn si morde un labbro, mentre attraversa la strada, quasi rischiando di farsi mettere sotto da un carretto.
Sua madre aveva cucinato il suo magnifico fish ‘n chips – sì, dopo aver urlato contro suo padre per le ennesime macchie verdastre sul pavimento – e quindi gli era parsa una buona idea dire loro di venire, anche solo per passare una serata un po’ diversa. Sì… Molto diversa.
Finn ridacchia ancora – l’euforia lo divora, è questa la verità, non si è mai sentito così e la cosa lo eccita e lo spavento allo stesso tempo – mentre pensa che trovarla seduta in giardino, subito dopo cena, con uno scialle addosso ed i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle anziché legati nel solito groviglio dietro la testa non era stato male, affatto. Né tantomeno sedersi vicino a lei, sorriderle e dirle che era proprio un ‘figata pazzesca essere tunisini’. Ma che cazzate aveva sparato?!
Ma lei aveva riso comunque, ricorda. Lo rammenta e sorride, quasi non prende in pieno un palo della luce. Una signora schiamazza nella sua direzione, lo ammonisce, ma a Finn basta scusarsi con un’alzata di mano perché dica ‘Ma perché gli Horan sono sempre così sbadati, si può sapere?!’.
E poi si erano baciati, appunto. Di slancio.
O lei aveva baciato lui, la cosa non faceva differenza.
Intonò una canzoncina che nemmeno ricordava di sapere, prima di imboccare il vicolo sicuro che si erano dati come appuntamento.
Inchioda sul selciato umido, l’odore di muffa è penetrante, quasi non lo fa starnutire.
Si guarda intorno, prima di vedere l’esile figura di Raniya che gli viene incontro, il giacchino viola che indossa fa a cazzotti con i pantaloni verdi, poco importa, si dice Finn andando da lei e stringendola di slancio in un abbraccio.
E poi non aspetta, quando si china di poco e incastra le sue labbra con quelle di lei. La sente sospirare contro la sua bocca, il fiato le si spezza, prima che inizi a stare al suo gioco, in maniera dolce e calcolata, proprio com’è lei.
Finn sorride, staccandosi piano e sorridendole. Gli fa strano una situazione simile: non che le ragazze  non l’abbiano mai interessato, ma c’è qualcosa in Raniya che è totalmente diverso. Loro sono diversi, forse proprio perché sono agli antipodi l’uno dall’altra.
Lui irlandese, lei tunisina.
Lui ha gli occhi celesti e limpidi, lei scuri e torbidi.
Lui ha la pelle chiara e le guance rosse, lei la carnagione olivastra ed il viso magro.
Lui è cristiano, lei musulmana.
Lui non sa gestire se stesso perché è davvero scapestrato e pasticcione, non riesce nemmeno a cucinare qualcosa da solo senza fare macchie ovunque – rischiando di scatenare le ire di ‘mamma Banshee Bessie’, per inciso – mentre lei è così… Sembra più grande degli anni che ha. I suoi silenzi parlano, i suoi sguardi urlano.
Proprio in quel momento pare gli stiano dicendo qualcosa che lui proprio non vuole capire.
<< Finn… >>
Lui non aspetta e la bacia ancora, stringendola forte a sé. Non sa cosa gli sta accadendo ma… Lo fa sentire bene. Il cuore gli va ad una velocità che avrebbe creduto possibile, tutto è migliore, è più colorato, è intenso a tal punto da agitargli lo stomaco e ribaltarglielo. Senza nemmeno rendersene conto schiude le labbra e morde quelle di lei; la sente spiazzata, il suo corpo è cedevole contro il suo, è leggero e delicato.
Ma è incisivo il suo tocco, quando gli poggia le mani sul petto e lo distanzia, rossa in viso. Le sue guance così colorite fanno un bell’effetto col suo incarnato quasi ambrato.
<< Finn… >> ripete, e lui riesce a leggerle nella voce una nota d’impazienza e di qualcos’altro che preferisce non soffermarsi ad analizzare << … Finn, noi… >> e scuote il capo, distaccandosi da lui.
Solleva una mano, portandosela agli occhi immensi e scuri.
Il ragazzo rimane immobile, pare tutto al rallentatore, pure se l’asfalto ha preso a vorticare sotto i suoi piedi.
<< Raniya, lo so che è successo tutto in fretta, ma… >> si fa coraggio, non sapendo nemmeno che dire.
Lei si volta, deglutendo.
<< Io… Capisci che non posso? >> scandisce, facendolo ammutolire; sospira, irrigidendo la postura e tentando di non correre via, è tutto ciò che vorrebbe fare: non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere da lui a tal punto, eppure è stata proprio lei a baciarlo << Io sono promessa, Finn. Ok? Tra qualche anno dovrò sposarmi e… >>
Il ragazzo sente il sangue sparirgli dalle guance, la testa sembra ruotare assieme al mondo, perché è diventato tutto improvvisamente grigio?
<< Dove siamo? >> domanda, la voce roca e in disappunto << In un film medievale, eh? Cosa… >>
<< Sono le leggi della mia religione, Finn. >> chiarisce lei, e la voce, invece, le trema in maniera spiacevole; è costretta a prendere un bel respiro per poter continuare come si deve << Mio padre ha concordato che… >>
<< Che… Che cazzo dici?! >> sbotta lui, gli occhi hanno smesso anche di percepirla, la realtà, è come trovarsi in un buco nero.
Non c’è suono, non c’è niente.
<< Ascolta, noi… >>
<< Ci siamo solo dati un bacio! >> scalpita Finn, sentendosi improvvisamente incazzato, disturbato, innervosito, scalfito da un sentimento che solo l’attimo prima l’ha portato in alto e che ora lo sta sgretolando << Un bacio, ok? Perché parli di… Tu… >> prende un bel respiro, le parole gli muoiono in gola se pensa che tutto ciò che vorrebbe dire è solo un vaffanculo al mondo e anzi, gli piacerebbe solo poterla baciare ancora perché, accidenti, sono solo due ragazzi, loro.
<< Non l’ho deciso io, ok? E… >>
<< Tu sei d’accordo? Tuo fratello lo è?! >>
Raniya sospira, abbassando gli occhi. E gli pare improvvisamente di roccia, incrollabile ed eterna, così dura da non poter essere scalfita da niente, nemmeno da quelle sue parole così stupide e incazzate.
<< Ma ti rendi conto di ciò che mi stai dicendo, mmh? Ci siamo solo baciati, abbiamo tutta una vita davanti e tu mi stai dicendo che non puoi perché… Tuo padre ha deciso che dovrai sposare uno che – magari – nemmeno ami?! >> scattò, scandalizzato dal suo stesso discorso e dalla rabbia che ci stava mettendo.
Raniya non gli rispose, facendo qualcosa passo avanti come per superarlo, ma lui la agguantò per un polso, costringendola a rivolgergli ancora l’attenzione necessaria.
<< Questo cosa è altamente idiota. >>
Lei rimase immobile, i suoi occhi scuri saettarono ma non fiatò.
<< Cosa c’è? Perché non dici a tuo padre che hai trasgredito alle sue regole e che hai baciato uno come me, mmh? >>
Ancora niente, ed il suo silenzio era peggiore di uno schiaffo.
Finn la lasciò, facendo qualche passo indietro, rinunciando a guardarla.
<< Ti è così difficile rinunciare a me? Lo hai detto anche tu, no? >> la ragazza incise il silenzio con quelle poche parole sussurrate << È stato solo un bacio, che ci vuole a seppellirlo sotto le innumerevoli esperienze della tua futura vita? >> concluse, sorpassandolo di corsa.
Finn sobbalzò, senza il coraggio di bloccarla.
Se ce l’avesse fatta anche col proprio cuore sarebbe stata una svolta.
 
 
 
<< Finn non è tornato a pranzo a casa, oggi, ha chiamato dicendo che aveva da fare in biblioteca. >>
Niall inarcò un sopracciglio, alla vista della moglie che usciva dal bagno con un orecchino in mano e l’altro semi infilato nell’orecchio.
Sorrise, poi, quando lei sbuffò, avanzando per prendere la sciarpa da mettersi al collo.
<< Non c’è da preoccuparsi… >> le rispose solo, sistemandosi la camicia allo specchio.
E non che quella cena – con suocera annessa – gli piacesse poi molto, ma…
<< Gli avevo anche chiesto di chiamarti per ricordarti della cena di stasera, lo ha fatto? >> chiese ancora Bessie andando a sistemargli il colletto di quell’affare che non voleva stare né su né giù.
Niall sobbalzò a quella domanda.
Fissò la moglie negli occhi, tentando di non farsi prendere dal panico: no, non l’aveva chiamato per niente, ma lui si era comunque ricordato solo grazie al post-it che aveva attaccato in macchina quella mattina, dopo che lei gli aveva detto che era ‘un povero idiota senza speranza che ancora era in grado di creare orme in casa come un bambino di quattro anni’ e che se avesse tardato avrebbe ‘ripulito il salotto con la lingua, alla prima buona occasione’.
Annuì, sperando che lei non notasse l’indecisione che ci stava mettendo, e sospirò, quando la vide voltarsi, in cerca della borsa.
La porta di casa sbatté in quell’istante, entrambi si scambiarono un’occhiata accigliata.
Bessie fu la prima ad uscire dalla stanza, andando incontro al figlio.
<< Tesoro, sei tornata! >> esclamò, vedendolo che lanciava lo zaino di scuola sul divano e si toglieva le scarpe all’entrata.
Il ragazzo mugugnò qualcosa, abbracciandola.
<< Ciao papà… >> disse poi, vedendo Niall comparire in corridoio, ancora intento a sistemarsi la camicia – la lotta coi polsini non sarebbe mai finita.
L’uomo ammiccò, mentre la moglie spariva di nuovo in camera, per gli ultimi ritocchi prima della grande serata.
<< Non avresti dovuto chiamarmi? >> sussurrò, poi, vedendo il figlio impallidire.
Scoppiò in una mezza risata quando Finn prese ad imprecare sottovoce, con tutta l’enfasi di questo mondo.
<< Mamma vuole uccidermi? >> chiese, allarmato.
Niall scosse il capo, divertito << Per cena c’è il fish ‘n chips che ti ha preparato prima, anche se ne ha fatto in quantità industriale… >>
Il ragazzo deglutì, mentre il nodo alla gola si andava facendo via via più stretto.
E doloroso.
<< Grazie… >> mormorò, assorto, facendo per sorpassare il padre, prima che questo lo bloccasse per una spalla.
Niall lo inchiodò coi suoi occhi celesti, scrutando a fondo nello sguardo del figlio, come per capire cosa ci fosse che non andava.
Finn era sempre stato un libro aperto, specie per lui, non capirlo gli risultava quanto mai inaccettabile.
<< Tutto bene, pa’? >> si sentì chiedere, infatti, lo sguardo di Finn era incerto.
Annuì, senza però mollargli la spalla.
<< E tu? Tutto bene? >> domandò, serio.
Attese qualche secondo, prima che l’altro annuisse, riuscendo a sgusciare dalla sua stretta.
<< Passa una buona serata con nonna… >> cantilenò, divertito.
Niall sbuffò, ridendo alla faccia divertita del figlio.
<< Anche tu! Perché non inviti qualcuno? Questo fish ‘n chips è davvero troppo… >> disse poi, visionando le molteplici teglie che la moglie aveva preparato per il figlio.
Finn si prese un bicchiere d’acqua, sorridendo lievemente al padre.
Lo vide scomparire dalla cucina, l’istinto di fermargli e dirgli tutto era quanto mai insopportabile.
Ingoiò il groppo, mentre resettava il cervello.
Fingere forse gli sarebbe riuscito meglio.
 
 
 
 
But I hold on, I stay strong,
Wondering if we still belong,
will we ever say the words we’re feeling,
reach down underneath and tear down all the walls,
will we ever have a happy ending
or will we forever only be pretending?

 
 
 
 
 
SPAZIO AUTRICE.
Salve fanciulle.
Sì, lo so. Non ve l’aspettavate. Ma… Siccome ultimamente sono un po’ in fase drastica con tutta la storia Finn/Cory (ancora, non mi passerà mai a dire il vero), quindi…
… Siccome il figlioccio(?) di Niall e Bessie si chiama appunto Finn
… Beh, mi son detta che era il mio modo per averlo ancora qui, vicino. Se avete visto Glee sapete di che parlo.
Ergo… Boh, è uscita così. Spero vi piaccia.
Non ho molto da dire, in realtà.
Byeee :) xxx

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Capitolo 4
*** Fish 'n chips; Defying Gravity. ***





 
Defying Gravity





" Something has changed within me
Something is not the same
I’m through with playing by the rules of
Someone else’s game
Too late for second-guessing
Too late to go back to sleep
It’s time to trust my instincts
Close my eyes and leap... "
 
 
 
 
 
 
 
Finn sorseggiò il vin brulè che il suo migliore amico gli aveva offerto al chioschetto di bevande calde poco prima: Matt non gli aveva permesso di pagare anche quello dopo che gli aveva lasciato prendere gli hot dog per entrambi.
E a loro andava bene così, dopotutto, la loro amicizia aveva resistito a tutto, si sarebbe salvata anche durante una serata in giro per la città.
Finn aveva pensato di essere entusiasta di essere tornato a casa dopo tutto quel tempo, ma la verità era che si sentiva più malinconico e pessismista ad ogni secondo che passava e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era riprendere l’aereo e tornarsene al campus. A New York, dove la sua stanzetta accogliente l’aspettava come ogni sera e dove poteva vedere le partite di football con Matt, sbronzarsi, flirtare con qualche ragazza carina, strimpellare la sua chitarra rossa che non aveva voluto assolutamente lasciare quando aveva iniziato l’università.
Vinta quella borsa di studio a diciotto anni, gli era parso assurdo allontanarsi così tanto da casa, lasciare la sua adorata cameretta tappezzata di disegni di supereroi, le sue canne da pesca (che papà Niall gli aveve regalato durante i vari compleanni); gli era parso ridicolo dover rinunciare al meraviglioso fish ‘n chips di mamma Bessie e ancor più non aveva voluto accettare di doversi distaccare dalle sue abitudini, il risveglio la mattina, la brioche calda presa al forno di fiducia del suo amico Ibrahim, il cielo azzurro della sera che rischiarava la sua profumata Irlanda.
Cosa ci andava a fare lui, un ragazzo di campagna pasticcione ed imbranato, in un campus a New York in mezzo a ragazzi sicuramente più ricchi e svegli di lui? In mezzo a tutta quella gente che non avrebbe avuto niente a che spartire con lui, che magari l’avrebbe anche deriso, allontanto, che di sicuro lo avrebbe riconosciuto dal suo accento rozzo e deciso.
Ricordava ancora quando aveva fatto la valigia (dopo una nottata intera passata a piangere) ed aveva preso quell’aereo, un paio di sciarpe appese al collo e la sua chitarra in spalla. Mamma Bessie non aveva pianto, gli aveva solo infilato in valigia qualche pacco di dolcetti tipici, stampandogli un bacio in fronte che ancora conservava nel cuore e che negli anni futuri gli avrebbe ricordato il suo tipico profumo di pulito, aroma di arancio e sandalo.
Suo padre Niall lo aveva racchiuso in un abbraccio ferreo, gli aveva dato qualche raccomandazione e poi aveva sorriso. Si erano stretti la mano, da veri uomini. Finn si era sentito un adulto in quell’istante, quando aveva sentito l’aereo decollare e distaccarsi da terra.
Stava sfidando la gravità, proprio come quel possente mostro del cielo. Stava cambiando pelle, lottando coi suoi limiti e gettandosi, sempre più in alto.
New York non era stata così terribile come aveva pensato, anzi. Il suo compagno di stanza, Matt, veniva dal Canada e suonava la batteria. In poco tempo erano riusciti a metter su un bel gruppetto e suonavano alle feste studentesche. Matt sarebbe diventato da quel momento il suo miglior amico, confidente, compagno di bevute e accompagnatore alle partite di football. Dopo ben tre anni potevano dirsi fratelli aquisiti, motivo per cui lo aveva invitato a tornare con lui a casa per quel Natale: mamma Bessie sarebbe stata felice di avere un figlio in più per cui cucinare e papà Niall avrebbe adorato raccontare aneddoti di famiglia mentre sorseggiava dell’ottima birra irlandese.
Finn sospirò, mandando giù dell’altro vin brulè ed accettando di buon grado una sigaretta che Matt gli stava offrendo. Se l’accese, aspirando piano.
Era un vizio che aveva preso all’università: aveva imparato ad amare il lieve intorpidimento che gli dava il tabacco così come aveva imparato ad amare l’aria newyorkese, l’accento dei ragazzi, il loro modo di farlo sentire parte di un qualcosa di nuovo. Le prime lezioni che aveva frequentato erano state quelle del professor Collins, storia dell’Europa medievale. Ricordò che gli era parso inizialmente strano sentir parlare quel vecchietto raggrinzito con quel fare clinico e distaccato di qualcosa che gli era tanto vicino e familiare, come se lui non fosse uno studente ma un pezzo di arredamento. Col tempo aveva capito che nessuno si curava di lui o di cosa pensasse, ma che quello era un mondo nuovo in cui ambientarsi e trovare il proprio posto.
Poteva spezzare davvero quella gravità che voleva farlo rimanere attaccato al terreno.
Alla fine del primo anno era entrato tra i migliori cinquanta studenti, ricevendo anche un riconoscimento ufficiale. L’anno successivo aveva iniziato a collaborare col giornale radio universitario, occupandosi di servizi sportivi. Al terzo anno era presidente del circolo del cinema ed aveva organizzato molti eventi a favore dell’intregrazione studentesca tra i diversi campus della città.
Si era creato una posizione, aveva iniziato a lavorare in un supermarket nei giorni festivi, andava ai balli ed alle feste, prevedeva di conseguire una specializzazione dopo la laurea.
Non aveva mai pensato di poter amare New York, eppure non gli dispiaceva poi tanto considerarla come una nuova casa. L’unica cosa che quella caotica e complicata città non era riuscita a imprimergli era stato l’accento: Finn non era mai riuscito a liberarsi della sua inflessione irlandese, di quel tono schietto e genuino di parlare, di quei modo di dire che a volte non riusciva proprio a trattenere.
Aveva l’Irlanda dentro di sé, molto più che nel cognome o nei suoi occhi celesti. E di questo era felice.
«Che ne dici se comprassi a tua madre qualcosa? Sono stato un idiota a non prendere niente quando eravamo ancora a New York…» borbottò Matt, gettando il mozzicone sotto ai piedi e pestandolo con la punta della scarpa.
Finn gli lanciò un’occhiata bieca, ridacchiando sotto i baffi.
«Stai tranquillo, è già tanto se quando arriveremo a casa non avrà cucinato per tutto il campus. È contenta che ci sia anche tu, non stare a preoccuparti, davvero».
Matt rivolse uno sguardo alle strade illuminate, i bambini schiamazzanti sulla pista di pattinaggio al centro della piazza, l’albero acceso di mille luci. Sorrise, respirando quell’aria a lui straniera ma che rivedeva perfettamente negli occhi dell’amico, nel suo modo di parlare e di gesticolare. E comprese come aveva fatto ad affezionarglisi così tanto: era genuino, una persona vera.
«Sembra simpatica».
«Lo è» convenne Finn, ridacchiando. Prese un bel respiro, dirigendosi verso un negozio di articoli casalinghi: la vetrina era piena di barattoli di ceramica racchiusi con nastri dalle fantasie natalizie, c’erano vari cuscini di velluto, stoffe ripiegate a formare motivi ornamentali. Nell’angolo della vetrina c’era una bella lampada bassa poggiata su mobiletto e da cui pendeva un piccolo Babbo Natale che ghignava verso i passanti in strada.
Matt gli si avvicinò, mentre immergeva le mani guantate nelle tasche della giacca pesante.
«Trovato qualcosa che ti interessa?» chiese, divertito, sbuffando per togliersi dalla faccia una ciocca di capelli scuri che insisteva a voler sbucare dal berretto di lana ad ogni costo «Sai, credo che quella starebbe da Dio nella nostra stanzetta a New York» e rise, seguito dall’altro.
Finn trattenne uno starnuto ed entrò, facendo tintinnare lo scacciapensieri della porta a vetri. Venne investito da un acceso sentore di spezie misto a qualcosa che non seppe ben identificare, fiori forse ma non ne era propriamente sicuro. Si guardò intorno, indagando gli scaffali pieni di stoffe ben ordinate secondo la scala di colore, i vari articoli casalinghi fasciati da nastrini natalizi, le luci sulle mensole.
«C’è nessuno?» chiese Matt mentre faceva dondolare stupidamente una bambola di pezza che se ne stava appesa vicino alla porta.
«Vedi di non rompere niente o ti lascio qua a saldare il conto e ti perderai la meravigliosa cena di mia madre» lo avvertì Finn, puntandogli un indice contro. Sospirò, poi, vedendo l’altro alzare le mani con fare innocente e mimare un cuore contro il petto.
«Buonasera a voi, scus-»
Una voce femminile li interruppe entrando da una porticina laterale vicino agli scaffali. Impettita, si diresse dietro al bancone, dava quasi l’impressione di non essersi nemmeno accorta di loro due, nonostante li avesse salutati.
Finn indagò il cardigan rosso sopra ad un colletto di camicia bianco, jeans azzurri aderenti alla sua figura bassa ma scattante. I capelli scuri erano sciolti sulle spalle, splendevano come velluto modellando la luce a seconda dei movimenti di lei. Si schiarì la voce, cercando di attirare lo sguardo della ragazza, presa a sistemare della buste natalizie sul bancone.
«Ehm, buonasera. Cercavamo qualc-»
«Sì?» lo interruppe lei alzando finalmente gli occhi e puntandoli in quelli di lui.
A Finn parve di vedere un fantasma. Sentì il proprio corpo irrigidirsi, ed il cuore mancare qualche battito di troppo. Lei lo fissò per qualche secondo di rimando, prima che la bocca le tremasse leggermente. Si erano capiti.
Matt, che era rimasto fino a quel momento ad osservare la scena in silenzio, si fece avanti accanto all’amico, dandogli una leggere gomitata. Quando i suoi occhi si posarono sulla ragazza dietro al bancone sorrise, cercando di simulare indifferenza di fronte a quella scena imbarazzante.
«Salve. Eravamo entrati per dare un’occhiata, quella lampada è davvero bella» disse, indicando l’oggetto che troneggiava in vetrina.
Lei parve guardarlo per pochi secondi, poi i suoi occhi scuri proseguirono a fissare Finn, ancora immobile.
Ancora silenzioso, stranamente rigido.
Gli occhi di quella ragazza erano scuri, quasi neri, e di forma allungata. Risplendevano sul suo viso dalla pelle olivastra, con tratti che si sarebbeero detti esotici.
Matt le rivolse un’occhiata conciliante, sentendo l’imbarazzo crescere col passare dei secondi.
«Oh, sì. Se vi interessa posso mostrarvela, ci met-» e lei fece per aggirare il bancone, ma Matt la bloccò con una mano. Si schiarì la voce, prendendo l’amico per un gomito e trascinandolo verso la porta.
La ragazza si bloccò, socchiudendo le labbra sottili dipinte di un tenue rosso. Poi abbozzò un sorriso, senza comunque staccare lo sguardo dal quello Di Finn, che ora aveva voltato gli occhi al pavimento come in preda ad un disagio evidente.
«Non si preoccupi. Ripasseremo domani, magari. Buon Natale» cantilenò Matt, facendo tintinnare lo scaccia pensieri alla porta e richiudendosela delicamente alle spalle.
«Buon Natale» furono le ultime parole che sentì anche Finn, e quella voce non l’aveva dimenticata in tutti quegli anni.
Così come non aveva dimenticato quegli occhi. E quelle labbra.
 
 
 
 
Quando Raniya chiuse il negozio, quella sera, notò che le strade erano ancora affollate nonostante fosse la vigilia di Natale. Nella sua religione, Gesù era considerato un profeta inviato da Dio sulla terra a portare il suo messaggio ed era venerato come tale. Non ricordava, però, di aver mai festeggiato come gli altri ragazzi a scuola o di aver mai addobbato casa con un albero scintillante.
Si strinse la sciarpa al collo, proseguendo a testa bassa lungo la vie luminose e profumate del sapore delle vivande che quella sera avrebbero riempite le tavole di tutti. Strinse le labbra, pensando alla cena che avrebbe preparato Amal, la moglie di Ibrahim: se si immaginava i suoi felafel le veniva l’acquolina in bocca all’istante. Tanto valeva affrettare il passo.
Amal ed Ibrahim si erano sposati da tre anni, ed avevano preso una casetta in affitto vicino alla panetteria che suo fratello ancora gestiva. Raniya aveva smesso di lavorare lì dopo che aveva rotto con suo padre, quando si era rifiutata di sposare quel tizio che lui avrebbe voluto.
Fu costretta a reprimere un gemito a quei ricordi, al modo in cui lo sguardo di suo padre l’aveva trafitta e poi umiliata, facendola quasi sentire una pessima figlia. Raniya non lo odiava, non l’aveva mai fatto: sapeva che quelle erano le regole, e aveva sempre creduto che un giorno sarebbe riuscita ad accettarle, ci aveva sempre sperato.
Ma poi era arrivato Finn ad incasinare le cose.
Finn.
Non poteva credere di averlo rivisto, solo poche ore prima. Di non essere stata in grado di parlargli, dirgli quanto le fosse mancato, quanto l’avesse distrutta il non aver avuto suo notizie per così tanto tempo. Nella sua mente gli eventi si accavallarono, era talmente sovrappensiero che per poco non calpestò un cagnolino tenuto a guinzaglio da una vecchia ingioiellata. Si scusò, proseguendo a passo spedito.
Quando aveva detto a Finn che non potevano stare insieme, le cose avevano iniziato a precipitare. Suo padre era diventato ancora più insistente con quel matrimonio e nello stesso momento suo fratello Ibrahim aveva deciso di fidanzarsi con Amal. Lei si era ritrovata sempre più sola: non vedeva più Finn in panetteria, né in giro quando riusciva ad andare a fare qualche acquisto, di suonare al campanello di casa sua non se n’era mai parlato e la vergogna per averlo rifiutato era stata troppa da permetterle di cercarlo ancora. La sua vita era diventato un vortice di doveri e rassegnazione, si era sentita soffocare a tal punto che parlarne con suo fratello gli era sembrata la cosa più azzardata ma anche la più disperata da fare. E mai avrebbe dimenticato l’abbraccio consolatorio di Ibrahim e le sue lacrime quando lei gli aveva aperto il proprio cuore.
Quando lui e Amal si erano sposati era andata a stare da loro, si era cercata un lavoretto per poter contribuire all’affitto, dava una mano in casa. In questo modo aveva costretto anche suo fratello a rompere col padre, ma almeno poteva dirsi soddisfatta. Aveva una sua vita e poteva gestirla.
Il suo carattere mite e delicato si era mutato come una farfalla appena uscita dal bozzolo, diventando solido e gentile.
E poi Finn era scomparso. Aveva saputo che era andato a studiare in America, e la disperazione iniziale si era tramutata presto in rassegnazione e giudizio: col tempo aveva imparato a dimenticarlo, convincersi che stavano vivendo ognuno la propria vita serenamente, che avrebbero costruito qualcosa, benchè separati.
Poche ore prima l’aveva rivisto dopo anni di silenzio, di lacrime trattenute, di parole mai dette.
Aveva letto nei suoi occhi celesti tutto quello che avrebbe voluto sentirsi dire, ma che allo stesso tempo non aveva il coraggio di chiedere.
Ma qualcosa era cambiato in lei, non si sentiva più la stessa da un po’. Era stata per una vita appesa ad un filo invisibile di una prigione incorporea, sentiva la necessità di liberare i propri istinti e buttarsi.
Infrangere la barriera della gravità perché nessuno avrebbe potuto fermarla.
Infilò la chiave nella toppa di casa, sorridendo al calore che proveniva dalla cucina.
Pose la giocca e la borsa su una sedia, correndo ad abbracciare la cognata. Amal stava sistemando le salse per mangiare i felafel in delle terrine di vetro colorato, le sorrise non appena la vide.
La gravidanza le faceva bene, era ogni giorno più bella; Raniya non vedeva l’ora di stringere tra le braccia la sua nipotina: Aisha l’avrebbero chiamata, colei che vive, vita. Ed era ironico perché il nome di Amal significava speranza ed era risaputo che solo la speranza potesse generare qualcosa di vitale, autentico.
«Habibti!» Tesoro mio. Amal le diede un bacio su ogni guancia, sorridendole «Avrai fame, immagino! Tuo fratello arriva tra poco. Com’è andata la giornata?»
Raniya sorrise, massaggiando delicatamente il ventre gonfio della cognata. Ingoiò il groppo che le si era inastrato in gola, archiviando in un angolo della mente quegli occhi celesti che la tormentavano da qualche ora a quella parte: non solo era stata distratta per tutto il tempo in negozio ma ora anche a casa doveva perdersi in pensieri difficili da maneggiare.
«Tutto bene, ma’shallah» Con la grazia di Dio.
Afferrò le cose da portare in tavola e si diresse in salotto, sentendo lo sguardo indagatore di Amal sulla schiena. Quando si volse la trovò alla porta, assorta, una mano sul ventre e l’altra a grattare pigramente una guancia.
Raniya sorrise, tirata. «A te com’è andata la giornata, habibti?» chiese poi, sedendosi sul divano.
Amal continuò a squadrarla senza dire nulla, spostò una sedia dal tavolo e si lasciò andare contro lo schienale: pure se mancavano ancora parecchi mesi al parto, il suo giovane fisico era affaticato e non poche volte Raniya aveva onvenuto fosse meglio sospendere il suo lavoro al negozio per aiutarla in casa – senza ovviamente trovare approvazione da nessuno.
Avvertì il peso degli occhi scuri della cognata addosso e la sue pelle olivastra arrossì di riflesso.
«Che c’è?» chiese infine, sentendosi a disagio.
Amal inarcò un sopracciglio, passandosi la lingua sulle labbra rosate. Non portava l’hijab anche se aveva preso in considerazione molte volte l’idea di indossarlo e Raniya soffriva a pensare a tutti i suoi ricci scuri intrappolati sotto la stoffa. Se Dio aveva creato una cosa tanto bella, perché nasconderla?
E l’altra pareva la pensasse allo stesso modo, visto come giocherellava con le lucide ciocche di ebano.
«Sai, anche se sono sposata non sono vecchia. Lo capisco quando nascondi qualcosa. E sono una ragazza, sai che abbiamo un sesto senso per certe cose, vero? Spara, habibti!»
Raniya socchiuse la bocca, incredula. Fu per mero istinto se si portò una mano al viso, scacciando una lacrima involontaria che le era scivolata lungo la guancia. Sospirò, alzandosi dal divano e passandosi le mani sudate lungo le cosce.
Volse il suo sguardo alla cognata, trattenendo un labbro tra i denti.
Emise un gemito sottile e nello stesso istante la porta sbatté, decisa.
«Sono a casa!» Ibrahim comparve sulla porta del salotto, il cappello storto in testa ed il naso rosso per il freddo. Corse dalla moglie, dandole un bacio in fronte. Quando vide la sorella, fece per andare da lei, poi si arrestò, studiandole il viso teso.
Raniya strinse la mascella, distendendo le labbra tirate in un sorriso aperto.
«Bentornato habibi» Tesoro mio. «Fame?» domandò, prendendo per mano Ibrahim e facendolo accomodare a capotavola.
Gli sedette accanto, mentre lo sguardo acuto di Amal non la lasciava nemmeno per un secondo: le due donne si guardarono per una frazione minima di tempo, stipulando un tacito accordo di silenzio e reciproca comprensione.
Quando l’altra le sorrise, Raniya poté finalmente respirare bene, servendosi dell’insalata mista con una salsa piccante. Non appena il sapore del peperoncino le si sciolse sulla lingua, sentì la fame investirla prepotentemente, costringendola a riempirsi il piatto con abbondante pane e lenticchie.
Ibrahim la osservò mangiare voracemente e scoppiò in una risata divertita, dandole dei colpetti sulla schiena.
«Ehy, calma! Non hai pranzato, oggi?» le chiese il fratello, passandole del couscous ancora caldo.
Amal li osservava, gli occhi scintillanti di soddisfazione e d’amore.
Quando il suo sguardo raggiunse Raniya, si aprì in un sorriso caldo, protettivo. Sarebbe stata un’ottima madre, considerata la splendida amica che si dimostrava sempre.
«Oggi la signora Horan è passata in negozio».
Le parole di Ibrahim si infransero nell’aria come uno scoppio di tuono.
A Raniya tremò la mano con la quale stava tenendo il bicchiere ma riuscì comunque a portarselo alle labbra per bere, dopodiché si prese qualcosa dal vassoio di halawiyāt, i dolcetti tipici con mandorle, miele, noci e spezie.
«Ah sì? E come sta?» domandò Amal, sorseggiando da una tazza colma di tè fumante.
«Bene! Si è fermata un po’ a chiacchierare, ha detto che oggi arrivava Finn da New York per passare le vacanze di Natale qua» Ibrahim ingoiò il boccone di couscous «Non lo vedo da anni! Mi ricordo ancora quando passava da noi prima della scuola per prendersi le brioche!»
E ad ogni parola Raniya avvertiva lo stomaco annodarsi sempre più, gocce di sudore freddo le stavano imperlando le tempie. Gli occhi le bruciavano.
«Forse vi incontrerete». Amal accarezzò con premura il braccio del marito, ed egli le strinse la mano di rimando.
Raniya ebbe un tuffo al cuore, mentre un pizzico di invidia gli pungeva lo stomaco: era in quei momenti che capiva quanto lei avrebbe avuto difficoltà a condividere la propria vita con qualcuno. Amal ed Ibrahim si amavano, erano così perfetti l’uno per l’altra da non aver bisogno delle parole per intendersi.
Tacque, aspettando che la conversazione tra i due continuasse: voleva sapere altro – tutto – ma allo stesso tempo avrebbe voluto nascondersi per non dover riaprire quel cassetto doloroso della sua vita.
«Lo spero proprio!» esclamò Ibrahim sgranocchiando un dolcetto di noci e mandorle «Era un bravo ragazzo ed a sentire sua madre è andato alla grande negli studi! Chissà…» e sospirò, accarezzando debolmente il ventre gonfio della moglie, ventre in cui era celato la promessa di un futuro ricco e felice.
«E tu, Raniya? Ti ricordi di Finn?» la domanda del fratello le bruciò sulle guance, visto il modo violento in cui presero fuoco.
La ragazza chiuse gli occhi, scuotendo la testa; sorrise ad Ibrahim, annuendo mestamente.
Lo sguardo di Amal si era fatto di nuovo acuto ed indagatore e Raniya non stentava ad immaginare che la cognata avesse già capito tutto: se avesse notato il tremolio lieve dei suoi polsi o le sue labbra esangui avrebbe sicuramente inteso cosa stava per rivelarle prima dell’arrivo di Ibrahim.
«Certo, lo ricordo eccome. Suo padre ordinava sempre una dozzina di crostate al mese» rispose prontamente, stupendosi della freddezza che ci aveva messo.
Nella sua mente già si era immaginata di dare una testata al muro per non vomitare all’istante.
«Se capita l’occasione potremmo invitarlo qui, che dici?» propose ancora Ibrahim cercando con gli occhi anche l’approvazione della moglie.
Amal sorrise, annuendo con vigore, poi le rivolse uno sguardo ambiguo a cui Raniya rispose con un paio di labbra serrate e due occhi fissi.
«Io cred-… Penso possa andare» balbettò, incerta.
Poi si alzò da tavola, strusciando la sedia con un po’ troppo vigore del solito. Prima che uscisse dalla stanza le iridi scure del fratello la stavano studiando da capo a piedi, un’ombra incerta sul giovane viso e sulle labbra secche una domanda che non avrebbe trovato risposta.
 
 
 
 
Finn si chiuse la porta di casa alle spalle, lasciando i genitori col nuovo ospite davanti il camino a chiacchierare e bere.
La cena era andata bene, il fish ‘n chips di mamma Bessie era piaciuto e gli aneddoti di papà Niall avevano riscosso un gran successo a tavola. Matt si era ambientato bene, aveva perfino provato ad imitare l’inconfondibile accento irlandese dei suoi ospiti ed il risultato era stato esilarante.
Aspirò la prima boccata di sigaretta, mentre timidi fiocchi di neve cominciavano a cadere sulla strada illuminata dai lampioni e dalla luci della case vicine. Li vide ondeggiare nell’aria come frammenti di carta leggeri e sottili, impalpabili. Allungò una mano per prenderne qualcuno e subito gli venne in mente quando da bambino usciva all’aperto a fare pupazzi di neve molto poco tradizionali: al posto delle braccia avevano vecchie canne da pesca e in testa portavano sempre un cappello pieno di toppe di quelli vecchi di suo padre. E poi gli immancabili stivali di gomma, posti di traverso sulla neve, come se il pupazzo fosse seduto.
Finn sorrise, aspirando l’aria del Natale d’Irlanda.
La sua casa era rimasta come l’aveva lasciata, compresa la sua cameretta. I suoi litigavano come ai vecchi tempi – se non di più – e suo padre era ancora il pasticcione che era stato una volta.
Niente era cambiato, nella sua piccola città, nemmeno gli occhi che prepotentemente lo stavano fissando dal fondo della sua mente e che chiedevano di essere ascoltati. Potevano degli occhi avere la parola?
Quelli di Raniya senza alcun dubbio.
Quando si era accorto di averla davanti, in quel negozio, avrebbe voluto andare da lei, abbracciarla, stringerla a sé, fare come se avesse avuto ancora diciassette anni e il cuore un po’ meno pesante di quel momento.
Baciarla ancora, dirle che sarebbe andato tutto a posto, che avrebbero potuto frantumare insieme quella gravità che voleva a tutti i costi inchiodarli a terra e che se quello tra di loro somigliava vagamente all’amore tanto valeva quel duro lavoro.
In realtà non l’avrebbero mai saputo cos’era quella cosa tra di loro, se sarebbe mai potuto sbocciare in amore o rimanere soltanto un’appassita attrazione.
Finn scosse il capo, osservando alcuni ragazzini che avevano iniziato a giocare a palle di neve dall’altra parte della strada: andare da loro ed ingaggiare una battaglia lo entusiasmava troppo, gli faceva venir voglia di tornare ad essere quel bambino impacciato dai capelli rossi che cadeva un giorno sì e l’altro pure dalla bici o passava i pomeriggi ad imparare gli accordi alla chitarra, che andava a pesca con suo padre e poi trascorreva la sera sul divano a guardare i cartoni, che credeva nell’esistenza degli elfi.
“Gli elfi sono creature magiche che lavorano tutto l’anno, specie a Natale quando aiutano ad impacchettare i regali per i bambini del mondo!”
Una parte di sé voleva tornare ad essere quel bambino che decorava l’albero in salotto e mangiava i biscotti con la glassa fino a sentirsi male. Voleva tornare ad essere quell’adolescente timido che quando entrava in panetteria non sapeva guardare Raniya dritta negli occhi per paura di arrossire.
Gettò il mozzicone della sigaretta, seppellendolo sotto la neve rada, e sperò intensamente che sua madre non se ne accorgesse.
«Tranquillo, non glielo dirò» una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare: suo padre era comparso con uno scialle che gli mise velocemente sulle spalle. Si chiuse la porta dietro di sé e gli si pose vicino, le mani nelle tasche del giacchetto verde.
Finn rabbrividì sotto al tessuto, mentre ringraziava il padre con poche parole sussurrate di fretta.
Niall non era cambiato molto in quegli anni: i suoi occhi celesti tradivano ancora la sua anima vivace ed il suo animo indomito non era stato addomesticato affatto. Conservava ancora tutte le caratteristiche che aveva Finn ricordavo e di questo non poteva che essere soddisfatto.
«Grazie, già temevo di dover ripartire senza qualche arto»
Niall lo guardò di bieco, accennando un ghigno.
«Già desideroso di partire?»
Sì.
«No, penso solo a quello che potrebbe farmi mamma Banshee Bessie se becca il mozzicone della mia sigaretta ai piedi delle sue scale»
Scoppiarono a ridere di gusto, mentre attorno a loro la neve scendeva ancora più copiosa. Fitti fiocchi avevano coperto del tutto il viale, e in lontananza ormai il paesaggio era completamente bianco.
«Sai, mi mancava averti qua per Natale» disse Niall dopo qualche istante, voltandosi a guardarlo negli occhi. Gli pose una mano sulla spalla, poi sorrise, rivelando dei denti perfettamente allineati.
Anche lui, come il figlio, aveva dovuto portare un apparecchio da ragazzo e Finn ricordò di aver tolto il proprio poco prima di partire per l’università.
Un sospiro amaro lasciò le sue labbra screpolate.
«Anche a me mancava, papà» si lasciò poi sfuggire in un sospiro stanco «Credevo mi sarei trovato fuori posto qua, abituato come sono a New York. La vita ha tutto un altro ritmo, anche le cose che fac-»
«Sembrava ieri che mi piantavi i piedi nella schiena mentre dormivi ed eccoti qua a parlarmi di quanto sia movimentata la tua vita cittadina!» ridacchiò Niall, con una punta di orgoglio.
«Non credere sia facile».
«Non lo penso, Finn». Padre e figlio si scrutarono negli occhi, la stessa tonalità di celeste limpido, nessuna screziatura a deturpare quel colore puro «Ma credo che tu sappia quanto tua madre senta la tua mancanza. In questi anni ho sempre pensato che ci fosse qualcosa che ti tenesse forzatamente lontano da qua, come se avessi deciso di non voler tornare per un qualche motivo» Niall prese un bel respiro, rilassando l’espressione tesa e, vedendo il figlio fare lo stesso, gli diede un buffetto su una guancia «Quando sei partito avevo capito quanto ti dispiacesse lasciare tutto e-»
«Ed era così».
«… Ma allo stesso tempo vedevo che in te c’era il desiderio di andartene. Ai miei occhi eri come un cucciolo curioso di volare che si chiede come sia rompere la gravità che lo tiene a terra» Niall inclinò il viso di lato, pensieroso «Dimmi se sbaglio, figliolo».
Finn si morse un labbro, trovando perfetto quell’istante per gettarsi tra le braccia di suo padre. Poteva anche essere cresciuto, ma aveva pur sempre ventuno anni e sentiva il cuore rimpicciolirsi sempre più.
«Scusami, papà» mormorò più a se stesso che non a lui.
Niall scoppiò a ridere, baciandolo sulla testa. Gli scompigliò i capelli castani che col tempo erano diventati più fulvi, mentre con la mano indicava davanti a sé.
L’Irlanda sotto la neve, nell’aria le canzoni di Natale.
«Sai, Finn, per quanto uno possa andare lontano e per quanto voglia fare in modo di non tornare indietro, alla fine c’è sempre qualcosa che pareggia i conti. Chiamalo destino, karma, sfortuna o quello che vuoi, ma… Decisamente, è così. Può non andarci a genio, magari, ma non possiamo farci niente».
«Un po’ come tentare di fuggire dalla mamma che cerca le tracce di sporco sui vestiti…» osservò Finn, ridacchiando.
«Hai capito al volo, vedo! Impresa quanto mai impossibile» convenne l’altro con uno scintillio divertito negli occhi furbi. Niall sospirò, grattandosi il naso e rabbrividendo nel cappotto verde che indossava.
«Tra poco mamma servirà la sua torta, mi raccomando» lo ammonì, avvicinandosi alla porta e infilandosi dentro casa in modo fulmineo.
Quando la sentì chiudersi, Finn si strinse nello scialle ed emise uno sbuffo che si condensò in uno sbuffo grigiastro.
Fece per prendersi un’altra sigaretta quando notò una macchiolina nera in lontananza farsi sempre più vicina. Aguzzò lo sguardo, ma non distinse molto finchè quella strana cosa non arrivò a una ventina di metri di distanza. Il fiato gli si mozzò in gola, mentre gli occhi gli si gonfiavano di lacrime.
Pensò di stare sognando, che magari Raniya fosse venuta da lui solo per prenderlo a botte o per dirgli quanto lo trovava brutto dopo tre anni di lontananza.
Che pensiero stupido.
Le corse incontro, noncurante della neve che stava cadendo e del fatto che avrebbe potuto rompersi l’osso del collo. Chi se ne importava se non vedeva dove metteva i piedi e le poche luci della sera erano ormai quelle delle stelle e quelle delle casa. Chi se ne importava se magari lei era venuta lì solo per dirgli quanto lo riteneva uno stronzo maleducato per non averla salutata al negozio.
«Sei sola?» le chiese quando la raggiunse. Finn si fermò a qualche passo da lei, il fiatone che gli impediva di respirare bene e i pantaloni inzuppati per metà: avrebbe avuto i piedi congelati in meno di dieci minuti ma si impose di non pensarci.
Ce l’aveva lì, proprio davanti. Dopo anni erano di nuovo l’uno di fronte all’altra, e magari quella era una semplice allucinazione natalizia dovuta al vino che aveva bevuto a cena – ne dubitava – ma non gli importava di fare la figura dell’idiota se era per lei.
Erano passati tre anni ma in verità non era passato nemmeno un secondo.
Raniya era lì e lo fissava, gli occhi neri lucidi per il freddo e le mani tremanti. Finn si perse a studiarla per qualche secondo e notò che non aveva niente di pesante addosso, solo il cardigan rosso col quale l’aveva vista al negozio qualche ora prima.
«Sei pazza? Vuoi prenderti una polmonite?» si infiammò immediatamente, togliendosi lo scialle e infilandoglielo sulle spalle.
La ragazza lo lasciò fare, scostandosi una ciocca di capelli neri dagli occhi. Alla luce della luna erano di una strana tonalità scura che pareva blu, era così lisci e lucidi che volerci passare le dita in mezzo era automatico. Finn deglutì, senza sapere bene che dire.
«Perché sei qui?» gli domandò lei di punto in bianco, spiazzandolo.
I suoi occhi esotici scintillarono come gemme, le sue labbra rosse erano serrate.
«Sarebbe casa mia…» mormorò, alludendo alla casa alle sue spalle.
Raniya fece saettare il suo sguardo in un misto di incredulità e indecisione, ma si mantenne seria a fissarlo.
Il ragazzo alzò una mano, indeciso su che fare. Poi emise un gemito, frustrato.
Deficiente.
«È Natale, no?» rispose, alzando le spalle con ovvietà. Distese le braccia lungo il corpo, con quel freddo sarebbe stato tanto non prendersi una bella influenza «E tu perché sei qui?»
Ma che conversazione strampalata era quella?
Raniya non se l’era immaginata in quel modo quando era uscita di casa dopo cena. Aveva preso le chiavi del negozio del fratello ed era scesa in strada, noncurante di Ibrahim che la chiamava alla finestra, sicura che lui non l’avrebbe mai seguita. Si fidavano l’uno dell’altra.
Aveva pensato che sarebbe stato facile andare da lui, parlargli, dirgli tutto quello che le era passato per la testa vedendolo nel negozio. Sarebbe stato un gioco da ragazzi dargli cosa gli aveva preparato in meno di un paio d’oro nel silenzio notturno del negozio, con la speranza che gli piacessero ancora.
Lentamente immerse una mano nella borsa che portava a tracolla ed estrasse una busta bianca che porse a Finn in silenzio. Lui la prese sentendo al tatto come scottava.
Chiuse gli occhi, avvicinandola al viso ed inspirando il dolce aroma delle spezie e del miele.
«Mio fratello prepara sempre l’impasto delle brioche per il giorno dopo e così ho pensato che non potessi presentarmi a mani vuote» spiegò lei, sorridendo appena, le mani che le tremavano ed era difficile capire se per il freddo o l’emozione «È Natale, no?» e pareva quasi volesse scimmiottarlo, invece Raniya tirò su col naso, evitando lo sguardo celeste dell’altro «Ci voleva un regalo e sp-»
La neve stava cadendo così fitta che era quasi impossibile vederci a distanza di un paio di metri.
Eppure Finn distingueva bene i contorni del viso di Raniya, percepiva i tratti delle sue labbra anche se non li stava toccando e assorbiva i toni della sua voce anche se non l’aveva ascoltata per anni.
Erano amici, o estranei, o anime solitarie. O erano semplicementi pazzi e stavano bene col loro modo di essere.
«Li hai preparati tu? Per me? Prima di venire qua?» la interruppe il ragazzo facendo un passo verso di lei: sembrava contrariato e Raniya non capiva se doveva andarsene o rimanere e portare avanti quella conversazione senza il minimo filo logico.
Sarebbe dovuta restare a casa, farsi scivolare addosso quella sensazione di malessere e dormirci su. L’indomani mattina – forse – sarebbe stata pronta a dirgli di nuovo addio.
«Non ti sei sposata? Tuo marito ti ha lasciata uscire da sola a quest’ora?» le chiese ancora senza lasciarle il tempo di rispondere.
Quella domanda parve bruciargli in fondo alla gola, fin dentro agli occhi visto come il celeste delle sue iridi divenne incandescente. Era – ancora – arrabbiato. Deluso.
Forse quello che voleva sapere lo leggeva dai suoi occhi, pensò Raniya, mentre gli si faceva più vicina: se fosse riuscita a carpire la tonalità del suo sguardo forse avrebbe trovato lo scopo di quella sua visita.
«Non sono sposata» ribatté, risoluta, afferrandogli finalmente una mano e stringendola con tutte le forze «Non mi sono mai sposata».
Finn sbatté le palpebre, confuso, deglutendo a vuoto. Sentiva di stare per piangere e avrebbe tanto voluto farlo, mentre le lasciava la mano e suoteva il capo.
«Perché non… Tu, non…» tentò di dire, frastornato.
Raniya ignorò l’imbarazzo, sollevando una mano a sfiorargli il viso.
Ed in quel momento seppe di credere davvero in Dio, in quel qualcuno che dà forza, che è in noi sotto forma di coraggio per ciò che compiamo. Sorrise, nascondendo le lacrime dietro ad un misto di parole confuse.
«Mi spiace che sia finita così» sillabò Finn, indietreggiando. La busta di brioche calde gli cadde di mano, il tonfo sordo si perse tra il soffice ondeggiare dei fiocchi di neve nell’aria.
Raniya si asciugò le lacrime, avanzando di nuovo. Non poteva lasciarlo, non ora che ce l’aveva così vicino e poteva dirgli tutto quello che non aveva potuto dirgli in quegli anni.
Non aveva mai pensato che Dio esistesse, specie il Dio che suo padre le diceva di temere, ma in quell’istante si convince ancora di più che qualcuno la stesse guidando in quello che faceva.
«Ho sempre pensato di stare giocando con le regole di altri nella mia vita. Poi sei arrivato tu e qualcosa è cambiato in me, mi hai insegnato che sfidare i limiti non è un male. È bello, è come sfidare la gravità, e non è detto che non possiamo volare… » Raniya prese un bel respiro, approfittando del fatto che Finn non rispondeva «… Ci sono cose che non si possono cambiare, forse, ma finché non proviamo come possiamo saperlo? Ho imparato che nessuno può buttarmi giù se io non voglio. Ho imparato che essere affranti perché si pensa d’aver perso l’amore non è uno spreco, a volte si perde davvero ma anche questo serve, no? Io ti ho perso, Finn… » la voce le si ruppe, ma qualcosa la spinse a continuare « … Ho perso te, ma non  ho perso me stessa. Quindi se questa cosa che ora mi sta quasi uccidendo è amore o chissà che altro che si faccia avanti, penso di poterla affrontare! Se non te la senti di buttarti, dillo ora, perché io credo di poterlo fare, Finn». E si zittì, reprimendo un singhiozzo.
La neve cadeva fitta, talmente bianca e soffice da sembrare la tempera pura di un pittore su una tela inviolata. L’indomani mattina ci sarebbe stato un be da fare per toglierla dalle strade, ma per ora era come se volesse inglobarli nella sua aura protettiva.
Finn continuava a non rispondere, sembrava come instupidito. Solo ad un certo punto scosse il capo, guardandola di sbieco, un sopracciglio alzato.
«Fai sul serio, mh?» le strinse il viso tra le mani ghiacciate, facendola sussultare. La guardò in silenzio, scuotendo il capo. Ridacchiò, e Raniya pensò che stesse per spingerla via «Ti amo anche io, se non l’avessi capito» e la baciò di slanciò.
Le sue labbra trovarono subito quelle della ragazza, i loro respiri si fusero, le loro menti si allacciarono.
Le ginocchia di lei cedettero sotto il freddo pungente, ma parve non rendersene conto presa com’era ad aggrapparsi a Finn. Ora che ce l’aveva di nuovo tra le mani non poteva lasciarlo andare di nuovo.
Ora che avevano spiccato insieme il volo, non valeva la pena tornare coi piedi a terra.
Finn sentì le lacrime trattenute sciogliersi tra le ciglia chiuse, le sentì sulle labbra mentre baciava la ragazza che amava, le avvertì scendere tra le dita mentre le lisciava le guance e il collo ghiacciato.
Quando l’avvertì tremare forte comprese quanto fosse freddo. Controvoglia, la lasciò libera di respirare, ed il contrasto tra il ghiacco della neve e il calore che sentiva in corpo gli avrebbe causato un qualche malore a breve se Raniya non gli avesse sorriso, incoraggiante.
Aveva un così bel sorriso, come aveva potuto dimenticarselo a New York.
«Scusami». Le sillabò all’orecchio senza più fiato, con la neve sulle ciglia e le mani intorpidite.
Lo disse in un tono così flebile che non si aspettava una risposta, eppure quando Raniya lo prese per mano capì che forse tornare per Natale non era stata un’idea così malvagia.
Forse sua madre se l’era presa che aveva tardato per la torta, ma almeno avrebbe avuto delle brioche calde ogni mattina.
O almeno, un passo alla volta forse sarebbero riusciti a recuperare quello che avevano perso.
A spezzare la gravità e volare.
Insieme.
 
 
 
 
 
 
"... I’m through accepting limits
Cause someone says they’re so
Some things I cannot change
But till I try I’ll never know
Too long I’ve been afraid of
Losing love I guess I’ve lost
Well, if that’s love
It comes at much too high a cost... "
 
 
 
 
 
 
 
Spazio autrice.
Salve gente *fa ciao con la manina* come va? Come sono andate queste feste?
Per l’appunto, BUON NATALE! <3
E come ogni anno eccomi qua con una OS NATALIZIA, non siete felici?
*basta, sono il disagio*
A parte tutto, non vedevo l’ora di riscrivere di questo bimbo che io amo profondamente, Finn dolcino :3 avete visto? È cresciuto ç_ç piango, il mio bambino.
La canzone da cui ho preso spunto è Defying Gravity /se non la conoscete andate a sentirvela, se la conoscete ben per voi/ ed il questa versione bellissima ->  https://youtu.be/ol2xdxQg2Fw
Se non la doveste riuscire ad aprire, cercatevi la cover che Chris Colfer/Kurt Hummel fa in Glee. Mi troverete lì, a piangere tutte le mie lacrime.
 
E quindi, vorrei ringraziare una persona in particolare per questa OS, perché grazie al suo arrivo nel fandom ho rispolverato il mio amore per Glee ed il nome di Finn mi sé subito balenato il mente. <3
Lei capirà. <3
 
Spero vi sia piaciuta, io ho fatto del mio meglio.
A presto, S.
xxx

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